Dirupisti Vincula Mea (In Revisione)

di Hoel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Todeschi vol omnino Trevixo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Primo: 26-27 agosto 1511 ***
Capitolo 3: *** Capitolo Secondo: 27-31 agosto 1511 ***
Capitolo 4: *** Capitolo Terzo: 31 agosto 1511 (18 agosto 1496) ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quarto: 1 -2 settembre 1511 ***
Capitolo 6: *** Capitolo Quinto: 2-3 settembre 1511 ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sesto: 4 – 5 settembre 1511 ***
Capitolo 8: *** Capitolo Settimo: 5-6 settembre 1511 ***
Capitolo 10: *** Capitolo Ottavo: Confiteor ***
Capitolo 11: *** Capitolo Nono: 7 settembre 1511 ***
Capitolo 11: *** Capitolo Decimo: 8 settembre 1511 ***
Capitolo 12: *** Capitolo Undicesimo: 9 settembre 1511 ***
Capitolo 13: *** Capitolo Dodicesimo: 10 settembre 1511 ***
Capitolo 14: *** Capitolo Tredicesimo, parte prima: Confiteor ***
Capitolo 15: *** Capitolo Tredicesimo, parte seconda: Confiteor ***
Capitolo 16: *** Capitolo Quattordicesimo: 11-12 settembre 1511 ***
Capitolo 17: *** Capitolo Quindicesimo: 13-14 settembre 1511 ***
Capitolo 18: *** Capitolo Sedicesimo: 14-15 settembre 1511 ***
Capitolo 19: *** Capitolo Diciassettesimo: Confiteor ***
Capitolo 20: *** Capitolo Diciottesimo: Confiteor ***
Capitolo 21: *** Capitolo Diciannovesimo: Confiteor ***
Capitolo 22: *** Capitolo Ventesimo: Confiteor ***
Capitolo 23: *** Capitolo Ventunesimo: 16-17 settembre 1511 ***
Capitolo 24: *** Capitolo Ventiduesimo: 18-19 settembre 1511 ***
Capitolo 25: *** Capitolo Ventitreesimo: 20-21 settembre 1511 ***
Capitolo 26: *** Capitolo Ventiquattresimo: 22-24 settembre 1511 ***
Capitolo 27: *** Capitolo Venticinquesimo: Confiteor ***
Capitolo 28: *** Capitolo Ventiseiesimo, parte prima: Confiteor ***
Capitolo 29: *** Capitolo Ventiseiesimo, parte seconda: Confiteor ***
Capitolo 30: *** Capitolo Ventiseiesimo, parte terza: Confiteor ***
Capitolo 31: *** Capitolo Ventisettesimo: 25 settembre 1511 ***
Capitolo 32: *** Capitolo Ventottesimo: 26 settembre 1511 ***
Capitolo 33: *** Capitolo Ventinovesimo, parte prima: 27-28 settembre 1511 ***
Capitolo 34: *** Capitolo Ventinovesimo, parte seconda: 27-28 settembre 1511 ***
Capitolo 35: *** Capitolo Trentesimo, parte prima: 28 settembre 1511 ***



Capitolo 1
*** Prologo: Todeschi vol omnino Trevixo ***


ANNUNCIO

Questa storia è stata revisionata nelle seguente parti:

- Dialoghi: le frasi in dialetto sono rimaste solo tra i popolani. Il resto dei personaggi userà esclamazioni in lingua e basta. Per ricreare un veneto più "antico" rispetto a quello parlato oggigiorno, ci siamo basati sulle produzioni letterarie dell'epoca.

- Legami famigliari, riveduti e corretti laddove necessario.

- Termini tecnici che hanno sostituito quelli più generici.

- Piccole precisazioni e/o variazioni degli eventi, tuttavia non importanti da sconvolgere l’intera trama.

- Suddivisione e layout della storia.

Ogni aggiornamento verrà segnalato con la data di pubblicazione del capitolo aggiornato.  

Ringrazio tutti i miei recensori che fino ad oggi mi hanno seguito: Alessandroago_94, Semperinfelix, Sagitta72, Mrosaria e Vanya Imaryek.

Un ringraziamento in particolare a Sagitta72 per avermi largamente assistito durante la revisione di questa storia.

 

PREMESSA

 

Metto già in avanti le mani, dichiarando che quanto mi appresto a narrare è un misto tra vicende storiche con personaggi storici e al contempo romanzate con personaggi all’occasione inventati per motivi di trama.

Per quanto dettagliati, i “Diarii” di Marin Sanudo il Giovane non riescono a ricostruire passo per passo ogni evento, sicché laddove le fonti svaniscono, la fantasia (pur con giudizio) supplisce. Soprattutto, dell’infanzia e della giovinezza del protagonista non si sa quasi niente e dunque, usando le biografie dei suoi parenti, le pochissime fonti disponibili nonché i saggi sulla vita dell’epoca, ho compiuto un’operazione di “ricostruzione” della sua esistenza pre-1511, l’anno in cui è ambientata questa storia. Non solo. Nessuno è mai riuscito a capire al 100% cosa sia successo realmente al protagonista di questa vicenda, neanche “L’Anonimo” suo primo biografo e grande amico e confidente, né il Sanudo tramite i funzionari che lo interrogarono e che scriveranno per ben tre volte dell’accaduto e per tre volte invece di chiarirlo lo complicheranno ulteriormente, riempiendo il lettore di dubbi. Né tantomeno ci sono d’aiuto le narrazioni postume, infarcite di elementi un po’ troppo soprannaturali nonché d’incongruenze spazio-temporali, considerando le più oggettive cronache del Sanudo. Perfino gli storici moderni si contraddicono tra di loro. Quindi, tra verità, agiografia e ricostruzione romanzata, sperando senza troppe licenze, proveremo a raccontare il mese più lungo (dal 27 agosto al 27 settembre 1511) e punto di svolta di questo giovane patrizio veneziano che aveva all’epoca appena venticinque anni.

Vorrei inoltre sottolineare che nelle cronache i personaggi “bassi” non venivano quasi mai considerati, sicché s’ignora il nome di quei contadini, soldati, religiosi, famigli, etc., che animarono i fatti qui esposti, tranne in caso si siano distinti in maniera particolare. Di conseguenza, poiché non mi piace presentarli soltanto tramite la loro, per così dire, professione, ho dato a quasi tutti un nome e una storia personale.

Mi pare superfluo – ma non si sa mai nella vita – ricordare che ci troviamo nel XVI secolo, ergo che la mentalità dell’epoca sicuramente non era quella del XXI secolo, quindi per cortesia usiamo giudizio prima di offenderci inutilmente.

Infine, riguardo alla struttura del racconto, si dividerà in tre parti e sarà un misto tra riflessioni e narrazione d’eventi, pertanto sia pronto il lettore a “tuffarsi” nel passato del protagonista.

Vi lascio quindi alla lettura del prologo, necessario per capire il contesto delle vicende – incontreremo il “nostro” nel prossimo capitolo.

Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato 02.07.2021

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DIRUPISTI VINCULA MEA

 

A che giova a un uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? E che cosa potrebbe mai dare un uomo in cambio della propria anima?

(Marco 8, 36-37)

 

 

 

 

Prologo

Todeschi vol omnino Trevixo

 

 

 

Sin dal momento in cui i Collegati avevano firmato quel loro Trattato nel 1508, sotto la falsa pretesa di combattere il Signor Turco,  l’Imperatore Maximilian I. aus dem Haus Habsburg non aveva mai fatto mistero su quanto scalpitasse d’impadronirsi oltre dei vari territori veneziani anche della città di Treviso e della sua Marca [1].

Primo, perché essa era la chiave per Venezia: caduta Treviso, i Collegati non avrebbero avuto più grandi ostacoli alla loro avanzata almeno fino alla laguna, costringendo così la Serenissima ad arroccarsi sulle sue isole melmose e terminando l’impresa con un bell’assedio marittimo.

Secondo,  perché tra i Domini di Terraferma guarda caso Treviso era la seconda per prosperità dopo Brescia e in data 1511 dopo due anni di guerra, incredibilmente, era ancora pulzella di conquista e saccheggio, mantenendo intatte le sue ricchezze e perciò preda golosa.

Terzo, per una questione di principio.

Infatti, se in nome di antiche pretese mai assopite in cui l’Impero si vedeva in diritto come detentore dell’eredità carolingia sui territori veneti e che di conseguenza portava il Re dei Romani a considerarsi il loro legittimo signore e padrone, ebbene la Marca Trevigiana Maximilian la considerava doppiamente sua per questioni d’eredità familiare, essendo stato il suo bisnonno, Leopold III. von Habsburg ritrovatosi per merto o per caso Marchese di Treviso nel 1381. Peccato che l’Imperatore si fosse scordato del piccolo, insignificante dettaglio che il suo avo stesso aveva tre anni dopo venduto ai Carraresi la Marca, quando s’era reso conto d’aver fatto un pessimo affare a divenirne suo proprietario, stritolato infatti dalle ambizioni e dai rancori delle potenze confinanti.

Anche il suo prozio di parte materna di Maximilian, il Duca di Coimbra Infante Don Pedro d’Avis, lo era stato in via nominale nel 1418 e forse per soddisfare una sua curiosità di conoscere queste terre che nel 1452 la nipote di Don Pedro, l’Imperatrice D. Leonor d’Avis, durante il suo soggiorno a Venezia aveva chiesto al suo carissimo amico Carlo q. sier Nicolò Morexini dalla Sbarra di Santa Ternita, soprannominato “da Lisbona” per i lunghi anni presso la corte portoghese, di accompagnarla a Treviso risalendo il Sile. Il Morexini, della cui figliola neonata l’Imperatrice era stata madrina [2], aveva accettato di buon grado, accompagnandola nella capitale della Marca assieme a cento cavalieri.

Per questi motivi dunque Maximilian, di D. Leonor il figlio, considerava sua e soltanto sua Treviso e i suoi territori, più ancora del resto del Veneto e della Patria del Friuli. E credeva che tal sentimento d’appartenenza lo condividessero anche i trevigiani, sicché ci si può immaginare la sua sorpresa dinanzi all’inaspettata ostinatezza di Treviso e il suo categorico rifiuto d’annettersi all’Impero, checché ne dicesse lui, il Re di Francia, il Papa e Venezia stessa, che liberandola dai vincoli di fedeltà non la voleva distrutta e saccheggiata.

Pertanto, in quel mese orribile dopo la disfatta di Agnadello avvenuta il 14 maggio 1509, in cui una stordita Serenissima brancolava nel buio, incapace di reagire nel frattempo che uno dopo l’altro dei suoi Domini di Terraferma o cadeva o si consegnava ai Collegati, assistendo impotente e  rassegnata al generale gongolare della Lega che già vedeva conclusa la partita e si preparava a spartirsi il ricco bottino; ecco che l’unico caposaldo rocciosamente resistente nello sfasciume generale rimaneva Treviso, solitaria nella sua ferrea volontà di rimanere fedele fino alla morte a San Marco, l’unica città ante-lagunare ad aprire le sue porte agli sbandati soldati veneziani in fuga dal nemico.

Come nel passato, tale decisione venne presa più dal popolo che da chi la governava.

Nel giugno del 1509, a Porta Santi Quaranta si presentava infatti l’ambasciata da parte di Leonardo Trissino da Dresano, capitano dell’Impero, domandando la resa pacifica di Treviso e la sua sottomissione alla potestà imperiale come avevano saggiamente scelto di fare le altre città venete. All’inizio, grazie al sostegno dei nobili trevigiani, la questione era già risolta a favore di Maximilian, poiché la città pareva ben disposta all’annessione e così il Trissino, rassicurato, tardò la sua entrata ufficiale in città anche per aspettare i rinforzi tedeschi, senza i quali non osava entrare a Treviso per timore della vicina guarnigione veneziana a Mestre.

Tuttavia, malgrado l’arrivo e le garanzie dei cinque oratori trevigiani inviati a Vicenza, l’aquila imperiale ancora non veniva issata e anzi, come notò il nuovo provveditore sier Piero Duodo, a Treviso si respirava un’aria pesante, i cittadini “mal disposti” e pareva che “tra lhoro mormoraseno” assai complici, armandosi e studiando sospettosamente le porte della città. Situazione esacerbata dal ritorno degli oratori, la popolazione sempre più convinta della capitolazione di Treviso. Interessatamente, sier Piero Duodo non si premurò di smentire tale notizia, scrivendo solamente che quel che “sarà se averà.” All’oratore di Asolo, alla cui signora ex-regina di Cipro domina Catharina Corner era stata garantito il mantenimento della castellania e i territori intatti se Treviso si fosse sottomessa all’Imperatore,  sier Duodo rispose seccamente: “Se li vostri zerchano salvar il suo, che dovremo far nui altri?” Mandò invece Bernardino Pola e Zuan Antonio Apornio a Venezia per ricevere istruzioni dal Collegio.

Dal canto suo, non ricevendo conferma dell’effettiva resa e sempre più incalzato dall’Imperatore che da Marostica si stava spostando in direzione di Feltre per poi scendere nella Marca, Leonardo Trissino inviò di nuovo il suo trombetta Bastiano a Treviso col vessillo imperiale da issare, e in nome dell’Imperatore d’esigerne la sottomissione o affrontare la collera sua e del suo esercito. Il Trissino stesso avrebbe raggiunto il suo messaggero a Treviso con rinforzi.

Ironicamente, quel suo temporeggiamento gli salvò la vita: il trombetta non raggiunse mai Palazzo dei Trecento, appena il tempo d’entrare in città e un gruppo di trevigiani armati, circondatolo, senza tanti complimenti l’uccise, impadronendosi delle insegne imperiali e sottoponendole ai vituperi più fantasiosi quasi a vendicare la sorte dei leoni marciani oltraggiati nelle città venete occupate.  Dopodiché, con in testa Marco Pelizer, di professione calzolaio, a cavallo e con in mano lo stendardo dorato di San Marco, la folla si diresse verso il Palazzo gridando come un sol uomo: “Marco! Marco!”, sfidando il podestà ad uscire da lì imperiale, se ne aveva il coraggio. S’accarezzò perfino l’idea d’irrompere e di defenestrare lui e tutti i membri del Consiglio Cittadino per aver osato venderli al Re dei Romani. Nel marasma generale, si diceva come i trevigiani avessero perfino scannato tre degli oratori scelti per negoziare col Trissino, dando la caccia poi ai nobili e supposti filoimperali domini Zacaria di Renaldi, Alvixe dal Corno e Rambaldo Avogaro, che non si trovavano da nessuna parte. Falsa la prima notizia, vera la seconda sebbene in quel momento tutto fosse possibile.

Al che il provveditore sier Piero Duodo, dinanzi al panico totale dei suoi colleghi, prese in mano la situazione e, aperta la finestra, lesse alla bellicosa folla la lettera inviatagli da Venezia, in cui a premio della sua lealtà Treviso sarebbe stata esente dalle tasse per i prossimi quindici anni e a ribadire tale concetto diede ordine di bruciare pubblicamente i libri di conto della città e tutti si dimostrarono di ciò molto contenti. Sospirando sollevati dello scampato pericolo – imminente – il podestà sier Hironimo Marin e sier Piero Duodo, in accordo col Consiglio Cittadino, scrissero subito ai Pregadi con la richiesta di uomini e soldi per sostenere la certa rappresaglia dell’Imperatore, a cui quella notizia non tardò ad andar di traverso.

Tale episodio equivalse allo schiaffo di cui Venezia aveva bisogno per riprendersi dal suo intontimento post-Agnadello: accolti commossi i nove oratori trevigiani e udita la conferma del loro appoggio alla Serenissima, il Consiglio dei Dieci inviò poi una lettera al podestà di Treviso, elogiando il coraggio “del suo beneamato ochio destro, dilettissima fiola primozenita de la Signoria Nostra” e giurando di difenderla con ogni mezzo a loro disposizione, anche con le loro vite se necessario.

Non si trattavano d’iperboli o retoriche di circostanza, essendo ora Venezia pronta a dimostrare il perché l’appellavano la Dominante, come dimostrato dal carismatico discorso al Senato del doge Lunardo Loredan, passato da vecchio tremolante e balbettante a determinato guerriero: sì, la Serenissima aveva peccato di superbia e di gola, aveva perso il senso del giudizio e la sua potenza era stata tale da toccare il cielo con un dito; vittima pertanto dell’invidia altrui, per le sue colpe punita, non per semplice malasorte. Ma ora, basta cogli indugi e le ceneri sul capo, che per il bene comune ci si armasse degli antichi valori e delle cristiane virtù e prendendo armi che fosse la loro santa missione di riprendersi la Terraferma, con qualsiasi mezzo, senza cedere.

Andèmo! Andèmo!”, gli fu risposto e così la Repubblica “ribelle dalla Santa Chiesa, scomunicata, interdetta e maledetta” lanciava la sua personale crociata contro la Lega di Cambrai.

Nel tesissimo mese di luglio che seguì, i Padri Veneti con ostinatezza rifiutarono ogni pretesa di cedere Treviso e la Patria del Friuli, sordi all’insistenze dell’Imperatore e del Papa Giulio II, il quale tramite il loro oratore sier Hironimo Donado “dalle Rose”, li fece ben sapere quanto non avrebbe levato la scomunica se Venezia non avesse accontentato le richieste del Re dei Romani, ovvero che Treviso e Udine ritornassero feudi imperiali. Per quel che lo concerneva personalmente, poi, Venezia doveva rinunciare ad ogni possedimento sulla Terraferma; le sue acque dovevano essere navigabili senza dazi; il clero esente da tasse e dal braccio secolare; di non nominare i vescovi; di mettere a disposizione le sue galee col Papa a loro capitano per la crociata contro i turchi, etc. etc, dimostrando quanto Giulio II volesse “la ruina total nostra di Veniexia e dil nome venitiano.”

Neanche il Pontefice aveva però compreso, che se due mesi prima dinanzi a tal discorso Venezia si sarebbe ingobbita di paura e magari avrebbe pure acconsentito, ora invece, all’arrivo di tal rapporto dall’oratore sier Hironimo Donado, l’intero Palazzo Ducale per poco non crollò dalle urla indignatissime del Doge e dei Pregadi e il figlio stesso del Loredan,  sier Lorenzo, balzando in piedi aveva gridato livido in volto: “50 oratori al Signor Turco!”, piuttosto che acconsentire a quel vile ricatto. Di tutti i Collegati, l’unico che non intese scherzo dietro quell’affermazione fu Fernando II d’Aragón el Católico, il quale suggerì al Sommo Pontefice di lasciar perdere Venezia e d’impegnarsi sul serio in una crociata contro i turchi, onde evitare che, approfittandone del conflitto, potessero invadere ulteriori regni cristiani. Il Papa gli rispose freddamente ch’era facile per lui parlare, dopo essersi impadronito di Brindisi, Otranto e degli altri porti pugliesi. 

Mentre l’alta politica si arrovellava sulla sua sorte, Treviso, riassaggiato il sangue dopo un secolo di letargo, si stava mobilitando per meglio affrontare lo scomodo corteggiatore, incominciando da una feroce purga di ogni elemento filoimperiale tra le sue mura. Inaugurò dunque la caccia al “gebelino” e ogni giorno v’era una processione di prigionieri a Venezia, tra cui Alvixe dal Corno e Rambaldo Avogaro, finalmente scovati e catturati; Piero Francesco Barixam e figli; Thadio del Mar e Guangelista Caleger, che furono  oratori per negoziare con Leonardo Trissino; Guielmo e Guido Antonio da Unigo e altri, relegati alla Novissima con ordine che “niun li parlasse”. Di Francesco di Renaldi non si riuscì ad averne lo scalpo, lo si cercò perfino nelle sue ville in campagna per poi digrignare i denti alla notizia di come fosse riuscito a riparare sano e salvo a Trento. Pazienza! Ve n’erano altri su cui rifarsi!

Molti di questi “gebelini” appartenevano all’antica nobiltà feudale, speranzosa nel cambio di governo di acquistare quel potere che gli era stato sottratto da Venezia e i suoi burocrati, patrizi anch’essi. Non avevano tenuto conto loro, i Collegati e soprattutto l’Imperatore, come il podestà, i provveditori e i rettori veneziani, sebbene non dei santi incorruttibili, comunque rappresentavano un sistema giuridico chiaro, definito e assai imparziale quando si trattava della pena capitale, un sistema in cui i cittadini e soprattutto i contadini trovavano supporto contro angherie e le interpretazioni del diritto da parte dei signori locali. Non ci fu quindi da stupirsi se i nobili trevigiani vennero traditi e consegnati dai loro stessi servitori, aprendo le porte delle loro ville o palazzi o indicando ai provveditori dove scovarli. I più scaltri furono i conti da Collalto, i quali subito misero le loro truppe personali a disposizione della Serenissima, dichiarandosi “boni marcheschi.”

Purtroppo, la paranoica smania di Treviso d’epurarsi di ogni elemento imperiale all’interno delle sue mura giunse ad atti poco onorevoli, come il saccheggio dei banchi e delle proprietà dei “zudei de Alemagna”, come i Rapp da Norimberga e i Mintz. Tra questi, la scampò un ebreo di nome Calman che, intuendo il pericolo, aveva dato libero accesso alle sue casse, dichiarandosi “bon marchesco, grande amicho di Trevixo”, dimostrando lungimirante capacità di calcolo e di previsione, ovvero che ci avrebbe rimesso di più ad aver devastato il suo banco e i suoi beni saccheggiati, che a dar via qualche forziere di ducati. Alla prima occasione, comunque, fuggì via a Venezia.

Nel frattempo, Maximilian era scocciato da tanta insolenza e un po’ imbarazzato per via della figura barbina di fronte ai suoi alleati, specie a Louis XII Re di Francia che aveva conquistato una Milano e lui, l’Imperator semper Augustus, inciampava su di una Treviso. Arrivato a Feltre, tra un banchetto e un Te Deum rincarò la dose di minacce, promettendo orride vendette se non si fosse piegata. Al Re dei Romani s’aggiunse il Papa che sempre lavando la faccia a suon d’urla e sputi al povero oratore sier Hironimo Donado, gli ricordava come l’Imperatore avesse 20,000 fanti pronti a “questa impresa di Treviso”, mentre quest’ultima poteva contare soltanto sui 7,000 rimasti a Mestre dopo Agnadello e che Venezia accettasse la realtà, ovvero cedendo ciò che non poteva difendere.

 “E’ certo”, insisteva il Papa ad un sier Hironimo Donado e a dei cardinali Domenego Grimani e Marco Corner ai limiti della pazienza “che oggi o in due giorni l’Imperatore sarà giunto lì, se non si trovi già a quest’ora a Treviso!”, poi aggiunse con una punta d’ansietà che l’acuto ambasciatore captò, piccola defaillance nell’atteggiamento duro e intransigente finora adottato dal Pontefice e prontamente segnalata al Senato che ben avrebbe saputo sfruttarla, conducendo ai grandi mutamenti nel 1511: “Sarebbe stolto da parte di Venezia d’irritare ulteriormente l’Imperatore. Cedete Treviso e Udine, riappacificate i rapporti: in questo modo ci saranno future discordie tra i due Re, cioè di Francia e dei Romani.”

Il cardinal Domenego Grimani guardò sier Hironimo Donado lungamente, che replicò cauto: “Sua Santità, neppure il Doge in persona potrebbe imporre la cessione di Treviso e di Udine, non in una Repubblica retta da un Senato di sì gran varietà d’opinione.”

Maximilian non gradendo la risposta decise d’accantonare la diplomazia e venir ai fatti, occupando Castelnuovo di Quero; Bassano, Feltre, Cividale di Belluno, Castelfranco, Cittadella, Sacile e altre città o paesi limitrofi a Treviso, così da prenderla per paura. Ma la superba non batté ciglio, neppure dinanzi ai racconti degli sfollati che si rifugiavano all’interno delle sue mura, narrando come i tedeschi distruggessero ogni cosa sul loro cammino, rubando il rubabile, profanando gli altari,  facendo a pezzi o bruciando vivi i contadini nelle loro case e uccidendo perfino i neonati in culla. In risposta a ciò, Treviso avviò i rafforzamenti alle sue mura su progetto dell’ingegnere Fra’ Jocondo da Verona, rompeva i canali e deviava il corso dei fiumi; si riforniva di viveri; mandava i suoi stradioti a compiere incursioni ed evacuava le sue donne e i suoi bambini, in un continuo viavai di barche.  I suoi “villani arrabbiati”, che avrebbero preferito “morir marcheschi” invece d’assoggettarsi al dominio imperiale, s’armarono e organizzarono una determinata ed efficace guerriglia, rispondendo alle crudeltà subìte con altrettante crudeltà, come si riportò un caso di soldati tedeschi ritrovati sgozzati e castrati da contadini inferociti.

Eletta trampolino di lancio e base strategica per la sacra riconquista, a Treviso giunsero poi i provveditori generali sier Andrea Griti, sier Christofal Moro, i condottieri Fra’ Leonardo da Prato e Alessio Bua con uomini, cavalli, artiglieria e denari nonché tre valenti “homeni de mar”, Antonio Panese, Philippo Brocheta, Vetor Trum, che assicurarono la difesa delle tre porte cittadine e il traffico sui fiumi di soldati, civili, armi e viveri. Nell’arco di poche settimane, Maximilian si vide sottratti uno ad uno i territori conquistati attorno a Treviso, i suoi sostenitori (o traditori a seconda del punto di vista) prontamente imprigionati e spediti a Venezia. Sier Andrea Griti dovette intervenire più volte a frenare le smanie di vendetta dei trevigiani, come il caso di un tal Beraldo fatto prigioniero assieme ad un borgognone, che il provveditore sier Christofal Moro voleva assolutamente impiccare, desiderio negatogli dal Griti, che giudicò più vantaggioso condurre il Beraldo  a Venezia per farlo “examinare”.

E da Treviso sier Andrea Griti partì a capo di quell’audace e inaspettata spedizione che avrebbe sconvolto i piani dei Collegati, rimettendo tutto in discussione: il 17 luglio, giorno di Santa Marina, con uno stratagemma degno dell’omerico Ulisse e del suo cavallo di Troia, [3] i veneziani entravano a Padova da ben quarantadue giorni sotto il dominio imperiale, sopraffacendo la guarnigione tedesca e catturando Leonardo Trissino e gli altri condottieri collegati, il tutto mentre i padovani ancora dominavano nei loro letti per svegliarsi con il vessillo dorato di San Marco e le campane Del Santo che suonavano a festa. Purtroppo, in quel frangente il Griti non riuscì a contenere i suoi uomini e Padova per punizione della sua resa alla Lega venne saccheggiata pesantemente, incominciando dalle case dei filoimperiali. Nondimeno, ci si rallegrò lo stesso ché l’asse Treviso-Padova era stata ristabilita, Venezia ora sul serio imprendibile.

Alla notizia della riconquista di Padova, il Papa Giulio II “fulminava” d’ingiurie sier Hironimo Donado e i Cardinali Grimani e Corner, i quali sornioni lo lasciavano fare, scrollando le spalle e ridacchiando in cuor loro alla vista del Pontefice paonazzo in volto, proprio lui che s’era proposto “magnanimamente” di funger da intermediario tra l’Imperatore e Venezia per la questione di Treviso e Udine, nonché di farsi da garante acciocché il Re di Francia non saccheggiasse Venezia. E i due risero ancor più forte ad agosto, come tutti i marciani del resto, alla notizia della farsesca cattura da parte di quattro “villani in camisa” del Marchese Francesco II Gonzaga e lo spettacolo del Papa buttar per terra la berretta e fuori di sé dall’ira bestemmiare San Pietro li ripagò di tutte le ingiurie e umiliazioni sorbite a causa di quel tremendo pontefice.

Se a Roma il Papa che aveva scomunicato, maledetto e interdetto l’eretica Venezia bestemmiava pesantemente il suo predecessore, i Collegati dal canto loro non sapevano più a che santo votarsi, realizzando nell’arco di settimane quanto fragili fossero state le loro vittorie.

Il vaso di Pandora era ormai stato scoperto: Castelfranco cadde e senza il Griti a trattenerli, le truppe stradiote-trevigiane tagliarono a pezzi i centocinquanta spagnoli lasciati a presidio della città; il tentativo a settembre del 1509 di riprendersi Padova fallì miseramente dopo quindici giorni d’assedio, tanto che Maximilian, sul campo,  dovette riparare in fretta e furia a Trento se non voleva essere scannato; come se non gli bastasse, suo suocero Fernando el Católico aveva ripreso a tampinarlo per certe questioni sulla reggenza in Castiglia; le città sottomesse si ribellarono e sedare le rivolte costava ai Collegati più risorse che l’averle conquistate; gli indomabili contadini veneti erano più feroci e arrabbiati che mai, tendendo agguati alle truppe collegate notte e dì e rubando armi e rifornimenti; Venezia comprava i mercenari della Lega offrendoli paghe più alte e grandi privilegi; la Sublime Porta si dichiarò amica della Serenissima e anzi, se voleva, poteva pur invaderle l’Ungheria fino a Vienna giusto per; il Re d’Inghilterra Henry VIII venne corteggiato per allearsi con Venezia, così da darla sui corni a Louis XII Re di Francia, già di suo stordito nel sentirsi nominare “Invasore!” invece di “Liberatore!” come al contrario durante le altre guerre in Italia. Neanche le sue riforme nel bresciano e nel bergamasco per renderle più francesi riuscirono a far dimenticare alla popolazione i loro “primi patroni et lhoro vol solum S. Marco”.  Poemi propagandistici celebravano sier Andrea Griti come la reincarnazione di Fabio Massimo contro l’Annibale invasore altresì noto col nome d’Imperatore e Re di Francia, infervorando gli animi.

Venezia aveva dunque contraddetto quanto affermato da Machiavelli, ovvero dimostrando che è possibile navigare anche la sfortuna, basta saper sfruttare la più piccola scheggia impazzita però favorevole nel mare di vicissitudini ostili. E il fiorentino stesso, a Verona, avrebbe commentato stupefatto della fedeltà del popolo alla Serenissima, preferendo morir liberi che schiavi di Francia o Impero [4].

Intanto, a Trento, Maximilian si leccava le ferite, meditando vendetta e nello specifico contro Treviso, incapace di comprendere come avesse potuto perdere la faccia con quella politicamente insignificante città, il cui unico momento di gloria nella storia recente era stata la concessione da parte di Papa Alessandro VI de Borja di celebrare a Santa Maria Maggiore la Messa di Natale prima dell’ora canonica [5] e per aver costretto alla fuga il suo vescovo Bernardo de' Rossi a seguito di un fallito tentativo d'assassinarlo. Come aveva potuto Treviso, descrittagli da sua madre “non una Firenze, una Milano, una Napoli, una Ferrara o una Mantova”, essere stato il granello che aveva fatto inceppare l’intero meccanismo della, in apparenza, invincibile Lega?  Nel pieno dei suoi umori neri, l’Imperatore si sentiva un po’ come Talete di Mileto, che osservando il cielo stellato cascò in un pozzo e una serva tracia lo derise.

L’amore per quella città si trasformò in odio, come l’amante respinto.

Negli anni successivi, più volte il Re dei Romani tentò di riprendere la “impresa de Trevixo”, piani saltati in aria sempre all’ultimo momento, come nell’estate del 1510, quando dopo aver ripreso Feltre era in procinto di avanzare nella Marca, sennonché i marciani non solo avevano respinto l’ennesimo assedio a Padova, ma rincorrevano le truppe franco-imperiali fino al vicentino e oltre, puntando poi a Verona, al che il suo fidato braccio destro, il Principe Rudolf von Anhalt-Dessau der Tapfere si era dovuto recare lì in fretta e furia, abbandonando momentaneamente il progetto d’invasione della Marca Trevigiana. Il Duca di Ferrara, dal canto suo, s’era visto scorrazzare la peggior truppa veneziana nel Polesine e oltre il Po, seminando terrore peggio dei turchi e rubandogli a spregio la sua adorata artiglieria a Polesella, la medesima che aveva usato per affondare la flotta veneziana e, pertanto, non poteva momentaneamente soccorre gli alleati in nessun modo.

A peggiorare la situazione, agli inizi di settembre del 1510 giunse a Maximilian la notizia che l’Anhalt, nel giro di neanche una settimana, s’era ammalato ed era morto in seguito a spasimi atroci da Golgota crocefisso. Il decesso del Principe venne reso pubblico più tardi, eppure tale nuova non impressionò Venezia che già lo sapeva e in maniera sospettosamente troppo dettagliata, da non lasciar spazio a sinistri dubbi, ovvero se il Missier Grande non avesse inviato qualche istruzione ai suoi abilissimi sicari in incognito e magari fu questo il suo personale epitaffio:

 

Sinque zorni xé vissuo,

d’Aynalt el gran cornuo;

trionfo a Verona xéo arrivà,

morto a Yspruch pur tornà. [6]

 

Verità o illazioni, Rudolf von Anhalt-Dessau aus dem Haus der Askanier rimaneva comunque morto orizzontale e Maximilian si ritrovò senza il suo carismatico capitano, un colpo durissimo per lui. Sforzandosi di far buon viso a cattivo gioco, l’Imperatore si fece animo e provò a nascondere il suo nervosismo, anche perché sul cadavere ancora caldo del Principe d’Anhalt, i condottieri della Lega avevano preso a beccarsi sulla successione a capo delle armate imperiali. Contemporaneamente, i capitani di ventura esigevano a gran voce le loro paghe arretrate, giungendo alle minacce o scene madri come quelle del condottiero albanese Mercurio Bua Spata che galoppò fino a Trento al cospetto dell’Imperatore, intimandogli il giusto pagamento o lui sarebbe andato a servizio dal più generoso Re di Francia e coi veneziani se la vedesse da solo. Altro boccone amaro – lo dovette pagare e anche profumatamente, nominandolo pure conte di Soave e Illasi-  ma necessario da digerire se quel satanasso del Bua gli spazzava via ogni resistenza sulla strada per Treviso.

Siccome però in qualche modo l’Imperatore doveva aver adirato particolarmente Dio, anche l’avanzata della primavera del 1511 finì prima ancora di incominciare, scongiurata da un tremendo terremoto che scosse l’intera Terraferma fino a Venezia, seminando indiscriminatamente il panico tra invasori e invasi, entrambi troppo preoccupati ad evitare tegole, pietre e alberi in testa per perdere tempo dietro a facezie quali combattere. Poi, neanche a farlo apposta, il giovane provveditore degli stradioti sier Ferigo Contarini sbucando fuori dal nulla gli catturava Andreas von Liechtenstein, altro suo capitano, spedendole alle Toreselle e per colpa degli insistenti appelli del cugino Paul von Liechtenstein, che a tutti i costi rivoleva indietro il parente e dunque che si pagasse quel furto di riscatto – ben 5,000 ducati d’oro! – il Re dei Romani si era trovato a ritardare l’impresa per l’ennesima volta.

Infine, si arrivò alla piovosissima estate del 1511 e un irremovibile Maximilian ritornò alla carica:  aveva infatti giurato a se stesso che avrebbe conquistato Treviso, la ribelle superba e fonte di tutte le sue disgrazie, fosse dovuto recarvisi di persona e smantellare le sue mura pietra dopo pietra e stavolta non l’avrebbero fermato di certo quisquiglie quali i terremoti, la malaria, le piogge, le esondazioni e le apparizioni della Vergine Maria.

E così, il sostituto di Rudolf von Anhalt,  Jacques II de Chabannes de la Palice assieme a Mercurio Bua si trovarono all'ora del tramonto del 25 agosto 1511 davanti alla fortezza di Castelnuovo di Quero, importante collegamento tra Feltre e Treviso, presidiata da sier Hironimo q. sier Anzolo Miani di San Vidal alla Carità e di madona Leonora q. sier Carlo Morexini dalla Sbarra di Santa Ternita detto “da Lisbona”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Lo scopo di questo prologo è appunto di dare un contesto alle vicende narrate, sulla Guerra della Lega di Cambrai e in particolare sull’ostinatezza di Massimiliano d’Asburgo nel conquistare Treviso, ripagata con altrettanta testarda resistenza. Spero non vi abbia annoiato, però mi ricordo che nei libri di storia nazionale la Lega di Cambrai veniva sempre riassunta in poche pagine, quindi molti dei come, dove, quando e perché non sempre spiegati nel dettaglio.

Mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto e alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] Benché la Lega avesse giustificato la sua fondazione per combattere l’Impero Ottomano, in realtà era più che palese che lo scopo finale era la conquista della Serenissima.

Prima ancora di dichiararle guerra, i Collegati già si erano spartiti i territori veneziani:

All’Imperatore Massimiliano: tutto il Veneto, il Friuli, l’Istria, Gorizia, Trieste e Rovereto;

Al Re di Francia Luigi XII: Cremona, Crema, Brescia, Bergamo e la Gera d’Adda;

Al Re Ferdinando II d’Aragona: Trani, Brindisi, Otranto, Gallipoli e altri porti pugliesi.

A Ladislao II d’Ungheria: la Dalmazia

Al Papa Giulio II: Ravenna, Cervia, Rimini, Faenza e Forlì.

Al Duca di Ferrara Alfonso I d’Este: il Polesine

Al Marchese di Mantova Francesco II Gonzaga: Peschiera, Asola e Lonato

Al Duca di Savoia Carlo II: l’isola di Cipro.

 

[2] Pur non nominandola direttamente, così la madre del Nostro venne menzionata dallo storico e cronista Marin Sanudo il Giovane: “[…] E poi partì in ditto zorno la serenissima Inperatrie per Sil volse andar con barcha fino a Treviso. Fo acompagnata da alchu zentilomeni deputatti et da sier Carllo Moresini  “da Lisbona»” al qual lei li batixoe una fiola, et così ben sodisfa inseme con lo Imperador andò in Alemagna.”

[3] Brevemente, la stratagemma funzionò così: un commerciante di frumento aveva un parente nella Padova occupata dagli Imperiali e sapendo come la città fosse a corto di approvvigionamenti, questo suo parente garantì per lui così da far entrare i carri col frumento. I veneziani si presentarono dunque con tre carri; il ponte levatoio venne abbassato ma quando venne il turno del terzo carro di passare, questo si bloccò in mezzo cosicché la porta di Padova rimase aperta alla cavalleria veneziana che irruppe in città. Le campane Del Santo, si riferisce qui alla Basilica di Sant’Antonio da Padova.

[4] “Negli animi di questi contadini è entrato un desiderio di morire, e vendicarsi, che sono diventati più ostinati e arrabbiati contro a' nemici de' viniziani, che non erano i giudei contro a' romani; e tutto di occorre che uno di loro preso si lascia ammazzare per non negare il nome viniziano".  E ancora, il 26 novembre 1509,  Niccolò Machiavelli a Verona annota come uno di quei contadini “marcheschi” , catturato, “disse che era marchesco, e marchesco voleva morire, e non voleva vivere altrimenti; in modo che il vescovo lo fece appiccare...”

[5] concessione di Papa Alessandro VI de Borja = a Santa Maria Maggiore a Treviso la Messa natalizia è possibile celebrarla in anticipo, cioè alle diciotto, per una speciale concessione di Papa Alessandro VI che risale al 13 dicembre 1498 e che è tuttora in vigore.

[6] Questa canzoncina non esiste, è una mia composizione. Tuttavia, simili canzoncine sfottitrici erano assai frequenti all’epoca e talvolta così insolenti che Venezia stessa arrivava a proibirle, non sempre con successo.

 

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo Primo: 26-27 agosto 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato 18.07.2021

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PARTE PRIMA:

Castelnuovo di Quero e Montebelluna

(26 agosto -12 settembre 1511)

 

 

 

Capitolo Primo

26-27 agosto 1511

 

 

 

 

L’ennesima cannonata colpì a vuoto, il tiro ancora insufficiente per far danni; ciononostante il viso gli si bagnò di acqua, confermando i suoi sospetti: si stavano avvicinando, era solo questione di tempo prima che colpissero la fortezza. Potevano soltanto sperare che finissero prima la polvere da sparo.

Osservando le file nemiche dinanzi a sé, Hironimo avvertì uno spaventevole gelo nelle viscere, l’armatura divenutagli d’un tratto pesante quanto un sudario.

Neppure ad Agnadello aveva avuto tanta paura, quando nell’infernale bailamme della rotta si era fatto strada verso la fuga mulinando alla cieca fendenti a destra e a manca e pure pugni e gomitate, mentre scavalcava i cadaveri dei soldati di ambedue gli schieramenti e sempre col cuore in gola per il timore che qualche archibugiere o balestriere lo puntasse. Non gli fosse apparso all’improvviso il suo amato Eòo, bestia nobilissima, che gli aveva permesso di montargli in groppa e mettersi in salvo, a quell’ora sarebbe stato a far compagnia in Francia al Bortolo D’Alviano e tanti altri prigionieri – se gli fosse andata bene. In caso contrario, a mangiare terra.

Non ebbe così paura neppure durante la folle galoppata in fuga fino a Treviso dopo essersi visto chiuso le porte di ogni città, i vessilli imperiali o francesi già svettanti sulle torri e sulle mura, rinnegato dai suoi compatrioti e braccato alla stregua di un criminale a casa sua, nella sua terra, il pensiero rivolto alla famiglia della cui sorte temeva. Neanche in quel frangente aveva osato sperare d’uscirne vivo, percependo sul collo il fiato dei nemici e distrutto dalla fatica. Sicché, ingoiato l’orgoglio, come tutti i pochi compagni  rimastigli anch’egli s’era messo ad implorare davanti a Porta Santi Quaranta affinché la città li offrisse la sua protezione.

“Verzé! Verzé! Sun trevixan fio vostro!”, aveva ruggito disperato dietro di lui Donado Cimavin e la fortuna volle che a far da sentinella in quel momento ci fossero stati proprio i suoi amici, ché, ignorando gli ordini, aprirono la porta cittadina e mai Hironimo poté benedire a sufficienza quel suo “colpo di matto”, come l’avevano definito i suoi compagni, quando a scapito della propria pelle era tornato indietro e caricando aveva impirato il lanzichenecco che si accingeva a finire il giovane trevigiano, già caduto per terra da una schioppettata fortunatamente di striscio. Issatolo su Eòo, i due erano poi ripartiti, forgiando l’amicizia dei fuggitivi, anche perché dovevano tenersi ambedue svegli in qualsiasi modo, onde evitare la cattura nel sonno. Il digiuno forzato non li aveva giovati, similmente alle ferite, non gravi ma lo stesso debilitanti.

Eppure, neanche in quelle occasioni aveva mai provato una paura così lacerante come ora sulla caminada di Castelnuovo di Quero, quella paura che non riusciva a dimenticare tramite l’ira, l’ambizione e la smania di combattimento come s’era imposto di domarla in quei due anni di guerra; eccola dunque, sottile e indescrivibile, quella di chi era braccato ma soprattutto di chi aveva un debito impossibile da sanare, un abisso dinanzi a sé e con la sola domanda: che faccio? per compagnia.

Hironimo si girò, studiando i volti altrettanto tesi dei pochi coraggiosi rimastigli, quei cinquanta civili bellunesi e feltrini che, invece d’imitare la vigliaccheria dei soldati e dei loro capitani Andrea Arimondi e Ludovico “Batagin” Bataja – serpi malefiche, meriterebbero mille forche e una tenaglia da ogni traghetto! – a loro periglio avevano preferito rimanere a difendere Castelnuovo pur consci di dar battaglia a 3000 fanti con artigliere e 200 cavalli agli ordini del capitano Mercurio Bua, inviati da La Palice così da liberare al Re dei Romani la strada per Treviso, l’antemurale alla laguna di Venezia.

Ma per raggiungere tale preda da Maximilian I. aus dem Haus Habsburg a lungo ambita, i franco-imperiali dovevano passare forzatamente per Castelnuovo, da una parte serrato dallo strapiombo del massiccio del Grappa, dall’altra bagnato dall’irrequieta e vorticosa Piave, cioè non permetteva ad alcuno il passo se non tramite l’angusta porta. Un torrione dall’altra parte del fiume complimentava il Castello, poiché ad esso metteva capo la lunga catena di ferro destinata ad impedire il passaggio fluviale.

Due anni addietro, il previo castellano di Castelnuovo, sier Moro Donado, s’era arreso prima ancora d’ingaggiare battaglia; per quel che lo concerneva, il giovane Miani non avrebbe concesso tale favore agli avversari.

Già prima ancora del loro arrivo, colto da brutti presentimenti, Hironimo aveva infatti dato l’ordine di alzare il ponte levatoio e la catena, specie dopo l’ignominiosa fuga dei suoi capitani e dei soldati (tre volte stramaledetti, se la scampo li apicho co le mie mani!) e questo li aveva immensamente aiutati, smorzando l’attacco e anche un po’ l’iniziale tracotanza dei nemici i quali si ritrovarono dinanzi ad una Piave ingrossata e cattiva, avendo avuto un’estate assai piovosa, e perciò impossibilitati di guadare il fiume senza correr il rischio d’annegare. I franco-imperiali avevano sudato freddo quando si resero conto d’essere finiti in una gola, senza via d’uscita se non quella d’arretrare e ritornare sui loro passi. Pieni di sconcerto avevano forzatamente appurato quanto gli assediati, nella loro disperazione, non avrebbero esitato a tirargli giù il massiccio del Grappa con tutte le sue cime, se ciò li avesse salvato la vita. Il fatto, poi, che piovesse a dirotto li aveva impantanati, rendendoli facile bersaglio delle bocche di fuoco marciane, impedendo lo strapiombo della montagna facile riparo nel bosco.

Contro ogni prognostico, per quasi un giorno Castelnuovo aveva resistito, i suoi difensori malgrado i piccoli successi col cuore pesante: ogni comunicazione con Feltre e Cividal di Belluno era stata interrotta; i rinforzi non sarebbero dunque arrivati e dal Castello ci sarebbero usciti cadaveri. Chissà, pensava Hironimo, se anche sier Zacharia Contarini "dai Scrigni" e suo figlio Piero s’erano sentiti così impotenti e sdegnati, quando a Cremona si videro disertati dai propri soldati?

L’unica certezza rimaneva che il sole incominciava a calare anche su quella giornata del 26 agosto e udendo dell’umiliante situazione di stallo e di come Mercurio Bua non si stesse neanche impegnando nell’assedio (perché poi?), il maresciallo La Palice decise inaspettatamente di presentarsi per intavolare le trattative, pur stando a debita distanza dal tiro dei balestrieri di Castelnuovo: ormai, quella guerra maledetta aveva assunto pieghe troppo poco cavalleresche per fidarsi della buona parola di chicchessia.

“Al castellano di Castelnuovo di Quero - saluti. Riconosciamo il vostro valore ed è per il rispetto guadagnatovi, che l’Imperatore è disposto alla clemenza: arrendetevi, consegnate la spada e il castello, sottomettendovi alla cesarea potestà e avrete salva la vita. Seguitate, e continueremo finché di questa fortezza non ne rimarrà che il ricordo e voi tutti sarete preda del nostro esercito.  Sappiamo della vostra massiccia inferiorità numerica e non c’è bisogno che finisca per forza in un inutile bagno di sangue!”

Hironimo rimase in silenzio, voltandosi di nuovo verso i suoi compagni: i capitani bellunesi Paulo Doglioni, Christofal Colle e Vetor dil Pozzo; i due nobiluomini sier Michiel “Chiella” e sier Benedeto Pagani; sier Vetor di sier Francesco “Finotti” di Croxecalle; Zuane Maresio; Hironimo di Batista Vezzan; Vetor “Bragaza” Capitanei; Gotardo dell’Agnella, Thomà nipote del Pigotin; Bortolo Sassaio; Alexio detto “el Gobo da Salce”; Andrea di Vitor Trepin; Zuam Piero Vedestoni; Agustin di Antonio Becaria; Catarin di Longo Boato; Francesco “Pliz” di Batista; Christofal q. Cesare Tofol detto “Mazaruol”; Piero e suo figlio Sebastian Germini; Vetor Sofforzi; Simon Nogaredo; Gasparo Vedestoni e tutti gli altri soldati volontari bellunesi che lo fissavano a loro volta attenti e silenziosi, il volto sporco di polvere e di sudore. Accanto a lui, i suoi servitori Menego coi figli Trovaso e Vico e il nipote Nadalin, che fedelissimi lo avevano seguito da Venezia. [1]

Pochi giri di parole: avevano tutti una paura fottuta di morire così, per niente, e per un momento Hironimo vi lesse nei loro occhi la tentazione d’accettare la proposta del francese. Poteva biasimarli? Anche le sue mani tremavano! Quale sventato si getta volontariamente nel grande abisso?

Il giovane castellano socchiuse allora le palpebre, respirando a fondo, richiamando alla mente ogni ricordo, ogni sensazione che cacciasse via quella paura insidiosa per sostituirla con la più famigliare ira e così fortificarsi d’odio e determinazione.

Si sforzò di ricordare lo stato pietoso in cui aveva trovato Feltre dopo la riconquista, la città natale della sua primissima infanzia [2] quando suo padre ne era stato amatissimo podestà e capitano, il cui nome era ancora scritto su di una tabella commemorativa a Piazza Maggiore con lo stemma dei Miani, che i cittadini avevano voluto donargli per riconoscenza in seguito alla sua vittoriosa difesa contro il Duca d’Austria nell’inverno del 1487, nonché  alla costruzione di nuove cinta murarie e delle fontane lombardesche rifornite da condutture di “cannoni” di abete, l’acqua captata sopra Pedavena.  

Rivide Hironimo la fuliggine dell’orribile incendio sugli edifici un tempo riflettenti la brillante luce montana da sembrar diamanti; i cumuli di macerie alte fino alle finestre; i monasteri e le chiese profanate, gli affreschi deturpati; il territorio guastato; le case gusci vuoti similmente ai sopravvissuti all’orribile saccheggio sia del 1509 e del 1510, facce di cera, corpi da crudeli percosse ancor tumefatti  e donne pregne di figli non voluti.

Ripensò agli occhi arrossati  e al volto cinereo di sua madre Leonora Morexini Miani, alle lunghe notti insonni in preghiera a piangere in silenzio per non opprimere gli altri figli col suo dolore, il cuore gonfio di pena e angoscia al pensiero di Lucha in Alemagna, ferito e prigioniero. Suo fratello, il figlio primogenito ben più nobile e ben più degno di lui, che le era stato ritornato solo il novembre scorso, vivo sì ma invalido col braccio destro penzolante e inerte, avendogli i proiettili maciullato i nervi e le ossa del gomito durante la strenua difesa del Castello Della Scala. E malgrado la sua dedizione alla santa causa, comunque Lucha si era dovuto umiliare dinanzi al Maggior Consiglio, costretto per necessità a supplicarlo per un mese d’accordargli il permesso d’ottenere a mo’ d’indennizzo la castellania di Quero, anche se governata in sua vece da uno dei suoi fratelli, incominciando infatti a risentire le loro risorse economiche a causa della guerra.

E che dire dell’enorme dispendio di energie e denari per rinforzare Castelnuovo con una terza torre? Nonché degli insulti iniziali dei soldati e degli operai, non gradendo d’esser capitanati da un “putachio imberbe, polorbo”  e divertendosi a sottolineare con crudele gusto ogni suo errore, finché, stufo marcio, Hironimo non aveva preso di persona a scudisciate i più insolenti a monito per gli altri? S’era scordato delle ingiurie al limite dell’assalto fisico della popolazione di Quero, Alano e Vas, che invece di comprendere la gravità della situazione, preferivano poltrire, neanche il Castello si potesse ricostruire da sé?

Si sovvenne poi delle lunghe trattative coi podestà di Feltre e di Cividale di Belluno sulla necessità di stringere un patto di reciproco sostegno in caso d’attacco nemico. Hironimo si ricordò delle sue insistenze sia col Consiglio dei Dieci che col podestà di Treviso di distruggere Scalon, situato sulla forcella sopra Segusino e soprannominato “la mulattiera dei contrabbandieri”: oltre che a danneggiare l’erario, esso corrispondeva ad un passaggio ideale per le truppe avversarie. Nell’ansia aveva venduto l’argenteria, i tappeti e ogni suppellettile prezioso trovato al Castello pur d’assicurarsi fondi sufficienti: ora gli interni di Castelnuovo parevano più austeri della cella di un eremita.

Tanto orrore, tanti sforzi, tante umiliazioni annullate da un  vigliacco?

Il giovane Miani aprì gli occhi; per la terza volta si girò verso i compagni e molto probabilmente anch’essi dovettero aver condiviso le medesime riflessioni raffrontandole alle loro esperienze passate, sparita infatti l’ombra del dubbio dalla loro fronte. I franco-imperiali li avrebbero ammazzati comunque, che almeno chiudessero degnamente la partita come Sansone coi Filistei.

Modulando la voce in un tono fermo e deciso, egli rispose pertanto: “Monsignor Gran Maestro di Francia -  saluti. Come mai codesto bel discorso non viene il Re dei Romani a farcelo di persona? O forse gli brucia ancor la faccia, dopo lo schiaffo di Padova?”

Un rictus nervoso piegò l’angolo della bocca del maresciallo francese e suo malgrado, Mercurio Bua si lasciò sfuggire un sogghigno confermando quel nervo scoperto che tanto affliggeva il suo superiore: effettivamente, da mesi l’Imperatore prometteva di scendere per la Valsugana fino a Treviso, rimpinguando le truppe di La Palice con uomini, armi, cavalli, rifornimenti e danari. Peccato che Maximilian parlasse e parlasse, ma di fatti concreti ben pochi. Lo confermava perfino l’irritato Re di Francia, il vero finanziatore di quell’impresa che gli stava costando almeno più di 20,000 ducati aggiungendosi ai 50,000 d’arretrati già dovutigli dal Re dei Romani, dei quali da troppo tempo si prometteva il risarcimento. Voci indiscrete sostenevano come Maximilian avesse chiesto in prestito soldi al suocero Fernando el Católico. Cosa quella vecchia volpe gli avesse risposto, non fu dato conoscerlo.

“La Cesarea Maestà non può venire di persona giacché voi, ostinandovi a non cedere il vostro Castello, glielo impedite.”

“Ah, così la colpa è di noialtri? Meno male, qui s’incominciava a pensare che l’eccellente esercito dell’Imperatore fosse bravo solo a prendersela con le donne e i bambini, quando non troppo impegnato a rubare, ben inteso.”

“Ci accusate di vigliaccheria? Suona grassa detta proprio da voi, disertato dai vostri medesimi soldati!”

“D’inutili palle al piede non so che farmene!”

“Tanta cocciuta insolenza non difenderà queste mura! Arrendetevi e cedete con onore, ciò che non poteste difendere con la spada! Pensate alla vostra gente e rimettevi alla clemenza dell’Imperatore!”

Al che Hironimo vide letteralmente rosso. “Oh, ma io ci penso alla mia gente così come conosco la clemenza del Re dei Romani: più volte ce l’ha dimostrata al punto che mi par più misericordioso il Signor Turco di lui!” E levata ancor più in alto la voce: “Per quel che ci riguarda, dai tempi di Santa Giustina abbiamo consacrato la vita alla Signoria Nostra e fino all’ultimo respiro non cederemo il Castello e se persisterete a molestarci, vi spediremo tutti all’inferno da dove venite!”

La Palice scosse il capo, indeciso se dispiacersi o meno per la sorte che attendeva quei disgraziati. In ogni modo li aveva avvertiti, la sua coscienza era quindi a posto. “A piacer vostro”, replicò incolore e assieme a Mercurio Bua galopparono indietro verso il loro campo. “Per oggi abbiamo finito: lasciamoli un’ultima notte per confessare i loro peccati.”

“E dunque?”, chiese il capitano Paulo Doglioni ad Hironimo, scrutandolo attendo.

Staccandosi dal parapetto, il giovane patrizio gli rispose seccamente: “Che andiamo a Patrasso [3] e facciamo la fine di Leonida”, e scese rapido la scalone di legno interno per imboccare il corridoio di pietra in direzione dei suoi appartamenti. Il tempo era poco, doveva sbrigarsi prima che riprendessero a bombardarli.

Spiando di sottecchi la figura del castellano scomparire dalla caminada, Thomà, un putto di sì e no dieci anni, domandò sottovoce a Andrea Trepin il bombardiere. “Ma chi xélo sto Liom Hida? Lo cognosselo?”

L’uomo fece spallucce. “Mah, sarà un che vien da Porto Gruero. Continua a smissiare ti!”, gli intimò, riferendosi alla miscela di polvere da sparo su cui stava lavorando per il cannone da caricare. Sei parti di salnitro, una di carbon dolce, uno di zolfo. “Fra puoco li avrem in bocha, quei cancari maladeti.”

“Andrea, dime: sul serio andemo a morir tuti?”

L’espressione del bombardiere si raddolcì, pur restando il suo sorriso amaro. “Ne toleremo assa’ co nu”, fu l’unica promessa che poté garantire al suo giovanissimo assistente. “E ch’ee zime dil Grappa et la Piave fassano el resto!”

Apparentemente, Castelnuovo di Quero si presentava una chiusa insormontabile: la torre maggiore, inserita nella montagna, era coperta da terrazza, con perimetro esterno munito di piombatoie su cui già i fanti s’erano predisposti per versare al momento giusto del piombo fuso e altro materiale agli assalitori. Dalle strettissime feritoie, disposte a vari piani, i soldati avevano piazzato invece i loro archibugi. Dal lato opposto, la torre minore affondava nel greto della Piave, con fondamenta decisamente profonde. Essa serviva da abitazione al castellano, al capitano militare e ai loro famigli; anche questa torre era coperta da una massiccia terrazza, coperta da grossi merli di roccia viva, ideale per le bocche di fuoco. Un corridoio di pietra collegava le due torri nella parte alta del corpo centrale più basso, dove i soldati s’erano appostati dietro al muretto protettivo, pronti a seconda della necessità di respingere le scale appoggiate alle mura e di tagliare le funi lasciate cogli arpioni.

Allo sbarramento della montagna si aggiungeva quello fluviale: la Piave, a causa dei molti e ricchi affluenti, aveva un livello d’acqua costantemente alto e il suo impetuoso frastuono riecheggiava nella gola di Quero, il suo greto caratterizzato da rientranze, insenature, curve e controcurve. Due soltanto erano i ponti che permettevano il suo attraversamento: uno a Cividal di Belluno ed uno a Cesana.

Quest’unione dunque – del massiccio del Grappa e della Piave – rimaneva l’ultima speranza dei marciani, pregando Iddio di contemplare un’altra aurora.

Nel suo appartamento spoglio, intanto, Hironimo fissava a lungo la carta bianca su cui indugiava, due dita sotto il mento: cosa scrivere alla sua famiglia? Come accomiatarsi dai suoi cari? Con quali ultime parole lui, castellano di Quero, sarebbe stato ricordato? Con che frasi avrebbe potuto consolare la madre, per rassicurarla che moriva con onore, da vero patrizio veneziano e che mitigasse la perdita del figlio con la consapevolezza che aveva adempiuto al suo dovere verso la Signoria? In che modo poteva confortare il Cor Suo, spronandolo a perseguire la santa causa fino alla vittoria e di non sentirsi schiacciato da quell’ennesimo lutto, già di suo oppresso dopo la cattura del padre e del fratello?

Un fremito di collera portò la fronte del giovane castellano a corrugarsi, le labbra martoriate dai denti e piegate all’ingiù in una linea dura.

Scrivere alla famiglia … per cosa? A quale scopo? Per informarli delle sue ultime angosciose ore di vita? Dei suoi timori? Della sua impotenza? Del suo spettacolare fallimento? Per farsi così deridere dai fratelli maggiori? Già li sentiva mormorare: Tipico del Momolo di nascondersi dietro le sottane della siora Mare, a piangere ogniqualvolta si trovi in difficoltà.

No, questo mai.

Intinta la punta nel calamaio, scrisse invece:

“Di Castel Novo di Quer, a dì 26 avosto 1511, sera. Informiamo il magnifico provedador zeneral di Trevixo, sier Zuam Paulo Gradenigo quondam sier Justo, che Castel Novo di Quer, attaccata, si tiene ancora ma non si pol garantir per quanto, ergo si prepari Trevixo. Si dubita l’arrivo dei rinforzi – capetanij Andrea Rimondi e Ludovico Bataja hanno disertato el campo, ripiegando a Cividàl di Beluno. Nescio dei podestà et capetanij sier Zuanne Dolfin et sier Nicolò Balbi a Cividàl, la via occupata da li inimici impedisce l’invio di qualsiasi trombetta. Tamen si è di bona voja, gli homeni qui tutti disposti a morir in fede di San Marco.”

Sì, decisamente meglio.

Deglutendo la bile risalente su per l’esofago, Hironimo passò la polvere sull’inchiostro, asciugandolo e dopo averla soffiata via chiuse la missiva destinata al provveditore di Treviso: l’accampamento a debita distanza dalla fortezza per timore di bombardamenti notturni, aveva lasciato la strada per l’alto trevigiano ancora relativamente sgombra dalle truppe nemiche per chi conosceva bene il territorio – meditava. Se riuscivano a resistere anche solo per un altro giorno, almeno avrebbero evitato una sconfitta ben più grave alla Serenissima, allertando in tempo Treviso, i cui stradioti ed esploratori stavano sicuramente già pattugliando la Marca; inoltre, i contadini del Montello, a detta delle lettere dei podestà e provveditori, erano vigilantissimi, riparati strategicamente nei fitti boschi e pertanto, se avessero inviato un loro messaggero, le probabilità di giungere in qualche modo sano e salvo a Treviso, senza essere intercettato, erano buone. Certo, la scelta era stata tra la capitale della Marca e Feltre e Cividale di Belluno, quali avvertire per prima: qualcosa però suggeriva ad Hironimo che quel vigliacco del Bataja, ben al riparo a Miesna, avrebbe adempiuto perfettamente al suo nuovo ruolo di corriere, riferendo la situazione a sier Zuanne Dolfin e a sier Nicolò Balbi.  

Magra consolazione per loro e bisognava affrettarsi.

Portandosi al caminetto, il giovane patrizio cercò a tentoni la rientranza segreta sul raccordo della canna fumaria, estraendo una piccola borsa con 200 ducati, ciò che aveva faticosamente messo da parte per le paghe dei soldati. Un risolino isterico gli sfuggì di bocca: con quei soldi ci avrebbero pagato Caronte!

Dopodiché, raccolti tutti i registri, le mappe del territorio nonché l’intero pacco con la corrispondenza coi podestà e i provveditori, il Maggior Consiglio, il Collegio, i Dieci e i Pregadi, li gettò uno ad uno nel fuoco, assicurandosi che di essi non rimanesse altro se non dell’inutile cenere. Forse non sarebbe servito a nulla, nondimeno non poteva cavarsi un certo senso di soddisfazione nel privare il nemico di ogni qualsivoglia forma di bottino.

E a tal proposito …

“Lo so, dolcezza mia. Lo so. Non mi vuoi abbandonare, tu, più fedele d’un cristiano.”

Oggettivamente appariva logico affidare Eòo a Cabriel Germini, il messaggero scelto per quella delicata missione e dunque bisognoso del corsiero più veloce e resistente, tutte qualità risiedenti in quell’animale fedelissimo da Hironimo amato più d’un essere umano, per il quale era entrato in cavalleria appunto per non doverlo cedere e al contempo evitare la multa di 25 ducati [4]. Ma il cuore, hé, il cuore gli aveva suggerito quella scelta per non dover sopportare il dolore di vedere il suo preziosissimo Eòo ridotto a bottino, finendo nelle cupide mani dei francesi o dei tedeschi.

Baciò la fronte dell’adorato cavallo, suo compagno sia nelle felici e spensierate cavalcate estive a Fanzolo sia nelle massacranti missioni notturne di disturbo operate dalla cavalleria leggera.  Hironimo lo accarezzò  tristemente, gli occhi fissi in quelli grandi e liquidi dell’animale che ricambiava solenne, quasi avesse compreso trattarsi di un addio.

“Hai ben capito?”, si riprese, staccandosi a forza dal corsiero per istruire Cabriel, montato timidamente in groppa, in quanto ben conosceva la protettività del suo castellano nei confronti dell’animale, arrivando a sfuriate tremende verso il malcapitato cui toccava ferrarlo se l’operazione non rientrava nei suoi gusti. “Questa lettera la consegni direttamente in mano al provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, solo al sior provedador, a nessun altro! Manco al podestà! Al camerlengo [5], invece, gli darai questa” e il ragazzo si ritrovò la mano pesante col denaro. “E mi raccomando: fatti riconoscere sia dagli stradioti che dai villani, se vuoi evitare di morir sul posto, quelli prima t’assassinano e poi ti domandano il nome. Comprendestu?”

Cabriel annuì energicamente, tirando su col naso.

“E non piangere, non sei un poppante!”, lo rimbeccò aspramente Hironimo, mentre faceva cenno a due soldati di aprire quanto più discretamente possibile l’entrata sud della fortezza, in direzione di Treviso. L’ingresso non era munito di saracinesche, bastando i ponti levatoi ad aprire e bloccare il passaggio, i quali vennero calatati lentamente, manovrando rapidi e guardinghi gli argani e le pulegge.

“Perdòname, zelenza, pensavo al sior mio pare et a mio fradelo, qui …”

Il giovane patrizio si morse l’interno della guancia, mascherando la propria pena nel realizzare per colpa di quelle parole quanto poco adeguatamente egli stesso si fosse congedato dalla sua famiglia. Sua madre, la sua roccia, lo aveva supplicato in ginocchio di ripensare alla sua decisione, quando Hironimo si era offerto volontario di sostituire Lucha. La donna gli aveva ricordato la sua inesperienza nel gestire una fortezza così strategicamente importante, concessa solo a reggenti di provata competenza e fiducia. Essere un valente cavaliere non fa di te necessariamente un buon comandante,  lo aveva ammonito. Invece d’apprezzare il suo consiglio, Hironimo s’era sentito infantilmente offeso, ribattendo stizzito di non trattarlo alla stregua di un moccioso e ricordandole che qualcuno doveva pur onorare quell’incarico ottenuto a gran fatica, visto che né Carlo né Marco avevano dimostrato sufficiente fegato e amor patrio per rimpiazzare Lucha. E ciò lo aveva affermato proprio davanti a Marco, che s’era illividito a tal punto da proferirgli i peggior epiteti e Hironimo aveva realizzato come in un sol colpo, pur di difendere la sua vanità, avesse disprezzato il consiglio materno e insultato i suoi fratelli maggiori.

E questo appena tornati dal funerale della loro sorellastra, Crestina Miani da Molin "Murlon".

“Quando sarai a Trevixo”, aggiunse il giovane Miani all’ultimo momento, costringendo Cabriel a fermarsi e girarsi, “porta questo cavallo a mio fratello Marco e riferiscigli che non avrà più da invidiarmelo. Digli anche che mi dispiace d’avergli dato del vigliacco.”

Anni addietro, alla nascita di Eòo, lui e Marco accapigliandosi avevano litigato come pazzi per decidere a chi sarebbe toccata quella magnifica creatura. Siccome Hironimo era il più testardo, con più fiato nei polmoni e ovviamente l’ultimogenito, sua madre aveva ceduto in suo favore, al che Marco s’era vendicato spingendolo dritto a faccia ingiù nello sterco, sorprendendolo di spalle nella scuderia mentre si godeva ignaro il suo ennesimo regalo.

Se così poteva fare ammenda …

La porta venne chiusa e con esso l’ultimo residuo dei tempi passati.

Cor mio, così dunque doveva finire la mia vita? In gabbia peggio d’un sorcio? Fosse stato almanco in battaglia, in groppa al mio Eòo e con te al mio fianco …

“Domino Vetor”, si scosse il giovane dal suo momentaneo incantamento, raggiungendo rapido il capitano feltrino. Costui s’era assai distinto negli ultimi due anni di guerra, guidando coraggiosamente la riconquista della sua città natale e bloccando l’anno successivo le truppe del principe di Noltz presso la Scala. Era stato il primo ad entrare a Castelnuovo di Quero – o quel che n’era rimasto – dopo averlo espugnato di nuovo ai tedeschi. Se c’era qualcuno di cui fidarsi per una sortita di cavalleggeri, Vetor dil Pozzo era il suo uomo. “Tenetevi pronti con la vostra compagnia: in caso il nemico dovesse entrare in questa fortezza, dobbiamo sbarrargli la strada per Feltre.”

“Non proseguiranno per Trevixo?”, s’informò il capitano, tirando un intimo sospiro di sollievo nel sentire la sua città natale fuori dalle brame conquistatrici del nemico e pertanto la moglie e i figlioletti al sicuro.

“Quello è il loro piano, tuttavia hanno due città poco distanti e codesti branchi di cani sono perennemente affamati.”

“Provvedo a radunare i miei uomini, allora”, concluse il feltrino, proseguendo verso le scuderie.

“Eccellenza”, si avvicinò il cappellano al giovane Miani, prendendo il posto di Vetor dil Pozzo che s’era appena allontanato, “stiamo per celebrar Messa”, forse l’ultima, “non desiderate venire a comunicarvi?”

Hironimo lo fulminò con lo sguardo. “A che pro pregare?”, chiese sardonico, il bel volto distorto in una smorfia ferina. “A meno che non faccia scendere una legione d’angeli per tagliare a pezzi i franco-imperiali, per me si tratta d’una perdita di tempo. D’altronde”, interruppe con veemenza l’obiezione dell’uomo senza concedergli tempo d’esprimersi, “se missier Domino fosse veramente giusto e misericordioso, avrebbe fulminato già da anni quel cancaro fiorentino [6] bestemmiatore che siede a Roma, quel figlio di femmina pubblica che ci ha aizzato contro questi barbari maledetti, bravi solo a saccheggiare le nostre terre, a bruciar tutto, a sgozzare i nostri fanciulli e a violentare le nostre donne. No, Iddio se ne sta sul suo bel trono d’oro a guardare noialtri soffrire alla stregua di cani, permettendo che ogni nefandezza in terra accada impunemente. In due anni di guerra, non L’ho visto difendere né la vedova né l’orfano, né liberare nessuno dal nemico. Dio non ci stima nulla, o avrebbe già provveduto.”

In altre circostanze, ovvero come accaduto negli ultimi cinque mesi, il religioso avrebbe ribattuto tenace il suo disappunto, sospirando e roteando gli occhi, ma fiducioso di possedere abbastanza tempo e risorse onde persuadere quell’ostinato castellano a riallacciare i rapporti col Padreterno. Adesso, a maggior ragione, non confidando nella sua salvezza terrena malgrado l’abito indossato, egli avvertiva l’impellente necessità di concludere quell’ultimo compito, così da presentarsi dinanzi a San Pietro senza rimpianti. “Capisco le vostre obiezioni, nondimeno considerando le circostanze …”

“Colendissimo padre, voi siete un uomo dabbene, non lo nego e vi rispetto per la vostra devozione ed onestà. Se volete dir Messa, fatevelo: se può dar conforto a questi valent’uomini, ben venga. Quanto a me, però, come vi dissi al nostro primo incontro e come vi dico oggi, vi prego di non costringetemi a partecipare.”

Il cappellano scosse il capo e ritornò alla piccola cappella, sconfitto e il cuore grave da tale ostinatezza, dispiacendosi per quell’atteggiamento da turco del giovane patrizio. Un vero peccato, cogitava mesto, contemplare un’anima così passionale eppure perduta …

Alle prime luci dell’alba ripresero le cannonate e quindi altri spruzzi in faccia.

 

***

 

Sier Ferigo quondam sier Hironimo Contarini di San Cassian non si era mai fatto scrupoli di nascondere i suoi pensieri: quando c’era da mandare in malora, mandava in malora; quando c’era da lodare, lodava. Poco gli importava del suo interlocutore, se nobile o plebeo, la sua filosofia di vita si riassumeva nel chiamare sempre il diavolo col proprio nome. Tale sfrontata coerenza l’aveva portato a difendersi due anni addietro con disarmante schiettezza dinanzi ai Dieci, narrandogli di come avesse evitato la cattura a seguito della capitolazione di Asola travestendosi da soldato mantovano e nascondendosi nell’ultimo posto, dove il marchese Francesco Gonzaga l’avrebbe cercato, cioè a Mantova stessa, da dove Ferigo era tranquillamente ripartito per Venezia in barca.

Senza peli sulla lingua, audace ma non sventato, alla fresca età di ventinove anni Ferigo malgrado la disfatta e rocambolesca fuga da Asola venne nominato ugualmente sulla fiducia provveditore di Cividale del Friuli, una scelta rivelatasi lungimirante ché il giovane si dimostrò ben presto un eccellente militare, collezionando spettacolari vittorie in Friuli, nel Vicentino, nel Veronese e nel Polesine; si distinse mirabilmente a Ficarolo, Sassuolo e Mirandola. Al punto che si volle affidargli le truppe più bellicose e indisciplinate, cosicché appena trentenne divenne provveditore degli stradioti (un primato in assoluto considerata la giovane età) che governava col proverbiale bastone e carota, punendo in maniera esemplare ogni forma d’insubordinazione ma al contempo lasciando ai suoi uomini una ragionevole libertà di far bottino, arrivando perfino a giustificarli all’occasione.   

Ovunque andasse, il Contarini seminava il terrore tra i suoi nemici e lo potevano ben testimoniare il Duca di Brunswick Erich I di Brunswick-Lüneburg der Ältere o il condottiero Andreas von Liechtenstein che in più occasioni se lo videro piombare addosso all’improvviso peggio d’un rapace, incapaci di reagire al violento impeto dei suoi attacchi e la frase “vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” assunse per i suoi avversari un significato meno spirituale ma assai più terreno. Grazie alle sue imprese, la famiglia apostolica dei Contarini a gran voce poteva vantare con orgoglio la sua discendenza dagli Aurelii Cotta, prefetti del Reno [7]. Ferigo, al contrario, si schermiva con pragmatica modestia e a chi lo chiamava un Druso, un Germanico o un Ettore, egli rispondeva con un sorrisetto sfottitore: “Puoah! Non avete un miglior paragone? Sono finiti tutti assai male!” 

E sempre con quel suo atteggiamento di chi sa ciò che vale e non accetta contestazioni, egli si presentò a casa del provveditore sier Andrea Griti e perdiana stavolta l’avrebbero ricevuto.

“Me spiace, missier provedador, ma la frebe di sier Griti non è miorata, el sente fredo e caldo e anzi, el dotor è lì per trar sangue.”

“Polelo parlar?”

“Sì?”

“Donca, cavate e lassame passar!”

Fortunatamente per il povero segretario, già in posizione perfetta per una solenne spintonata, gli comparve salvifico da dietro sier Polo Malipiero, il fratellastro del Griti e i suoi occhi umidi ed arrossati non tradivano nulla di buono. “Sier Ferigo, prego, entrate”, gracchiò, tirando su col naso.

“Come sta?”, s’informò sottovoce il giovane provveditore, scansando di malo modo il segretario, il quale giudicò conveniente battere a saggia ritirata, borbottando tuttavia come a furia di star cogli stradioti anche missier Contarini si comportasse in identica cafona maniera.

“Temo che per mio fradelo sia la fine: il medico non porta buone nuove. Ho tentato di persuaderlo a rientrare a Veniexia, ma lui non vuole, non con sier Christofal anch’egli in letto ammalato.”

“E parrebbe tutta Italia con loro: il dottor Hironimo Donado ci ha giusto confermato come a Roma anche il Papa stia giocando a dadi con la morte.”

Polo Malipiero assunse un’espressione disgustata. “Il diavolo volesse pigliarselo una volta per tutte …”, mormorò rancoroso. “Adesso s’è pentito – el cancaro! – d’aver chiamato i barbari in Italia, adesso che minacciano i suoi di territori.”

“Il mal italico”, sentenziò Ferigo, “sta nel rimettersi nelle mani degli stranieri per risolvere questione interne, manco fossero un demiurgo che agisce pel ben e gli interessi nostri, non capendo che così facendo offriamo la testa alla scure.”

“Voi due là, avete finito di spettegolare fitto-fitto peggio delle lavandaie?”, li interruppe sier Andrea Griti dal letto, nervoso quanto un leone a digiuno in gabbia e malgrado il contesto non proprio roseo, quello sfogo provocò un risolino divertito nei due uomini, alleggerendo la tensione vigente.

La stanza puzzava dell’aria stantia tipica dell’ammalato, non avendo infatti aperto le finestre sin dall’inizio della malattia del provveditore e ciò appariva più che giustificabile considerato come l’intero padovano pareva di recente flagellato da febbri improvvise e mortifere, accarezzando l’ipotesi che si trattasse di malaria a causa delle continue deviazioni dei fiumi e rotture dei canali, perciò favorendo l’elemento palustre mai completamente debellato dalla pianura veneta.

Sier Andrea giaceva in letto pallido quanto le lenzuola, forse più per il salasso cui il medico in quel momento lo stava sottoponendo che per la febbre di per sé, la quale comunque manifestava la sua salda presa sull’uomo sudato eppure tremante, il viso torvo per quella degenza forzata, un insulto al suo spirito attivo ed energico. Sedutagli accanto, la sua concubina greca Melpomeni [8] gli teneva la mano, tastando di tanto in tanto la fronte che inumidiva con un panno bagnato. Le sue nipotine Benedeta e Viena Griti erano già salite su di un burchiello diretto a Venezia, accompagnate dalla madre madona Maria Donado Contarini. Il loro nonno aveva veementemente insistito, poiché temeva il contagio se non da lui da qualcun altro, essendo la febbre un male sottile e vigliacco, rapidissimo ad ingoiarsi un’intera città, come Padova in quel momento. Inoltre, era giusto che ritornassero dal loro nuovo patrigno, sier Sebastian Contarini.

“Sier Ferigo, mi consola saper almanco voi in piedi”, fu il saluto del provveditore, contento sia di quella visita sia della fine del salasso. “Come si porta il magnifico provedador sier Christofal Moro?”, s’informò, invitandolo a sedersi seppur a debita distanza.

“Esattamente come voi: un giorno migliora, l’altro peggiora. Anche il governatore, il signor Lucio Malvezzi, si è buttato in letto; è da ieri che non si leva.”

Andrea grugnì, puntellandosi sui gomiti e aiutato da Melpomeni, che gli sistemò meglio il cuscino dietro la schiena. “E la cagnara della notte scorsa?”

“Un falso allarme: le sentinelle credevano aver scorto dei cavalli nemici. Ma il magnifico provedador sier Polo Capelo è rimasto comunque al bastione de Cao Longa per accertarsi.”

Sier Griti annuì sollevato.

“Inoltre, stamattina sono stati inviati alla volta di Trevixo i 3000 ducati assieme ai 500 fanti più gentiluomini a seguito, come da voi istruitomi. El vostro sior cugnado sier Zuam Paulo [9] sarà contento, almanco per qualche settimana”, aggiunse Ferigo, la cui venuzza sardonica nel tono di voce non sfuggì al suo collega più anziano, che di fatti ribatté stancamente:

“Sier Ferigo, già sappiamo la vostra opinione in materia …”

“Dunque, se si conosce la mia opinione, perché stiamo qui a succhiarci il pollice, invece d’uscire alla volta di Vicenza ed espugnarla? A presidiarla è rimasta poca gente, non sarà un’impresa impossibile! Mare de diana!”, sbottò con veemenza, battendo i palmi delle mani sulle cosce, “cosa stiamo aspettando? Bassan, Axolo e Castel Francho si sono arrese senza combattere! Se non reagiamo, i nemici non esiteranno ad attaccarci perché ci sapranno deboli!”

“Quindi, secondo voi, Vicenza s’è svuotata perché ci stanno venendo in bocca?”, volle conferma sier Polo, lanciando un’occhiata ansiosa al fratellastro, che convenne:

“Corretto. E senza Vicenza non avranno alcun luogo dove riparare, dopo la sconfitta a Trevixo. Dico bene, sier Ferigo?”

“Sì, ma chi ci assicura che l’impresa sarà a Trevixo?”, insistette Malipiero, anticipando l’altro provveditore. “Le nostre spie ci hanno riferito come la Peliza stia puntando invece qui a Padoa.”

“La Peliza, come tutti i francesi, dice una cosa e ne fa n’altra”, gli spiegò il Contarini. “Se hanno messo questa ciancia in giro, l’è per confonderci. A tal proposito, abbiamo catturato una staffetta del gran maestro il signor Gastone de Foys: da Millan son partite 400 lance, 4000 fanti e 12 bocche di cannone, tutte dirette a Marostega. Nella lettera è stato scritto chiaramente come l’Imperador debba trovarsi a Castel Novo de Quer, se vuole che il Roy di Franza continui a prestargli danaro. E dove conduce Castel Novo? Inoltre, da Marostega passando per Axolo, Castel Francho e Monte Beluna, è molto più facile e veloce puntare su Trevixo che su Padoa.”

Meditando in silenzio, Andrea Griti soppesò i pro e i contri. “Ragionate pulito, ma dubito che il governatore vi darà licenza de partir per tale impresa. Troppo rischioso.”

Ferigo serrò caparbio la bocca, raddrizzando il collo. “Non fallirò, se è questo ciò che teme.”

“Solo perché siete sempre stato vittorioso in battaglia, non significa che siete immortale”, gli ricordò perentoriamente il Griti. “Un assedio è rischioso e sussiste sempre la possibilità, che da Marostega il nemico cangi idea e ripieghi a Vicenza come campo. E se fosse così? Che fareste voi allora? No, spezzate le gambe ai rifornimenti per l’impresa di Trevixo mentre il nemico è in viaggio, ma non tentate né un assedio né di dar battaglia se non alla vostra portata. Non possiamo sguarnire troppo Padoa, sbilanciandoci in caso di centroattacco: ricordate, sier Ferigo, che la fortuna, gran puttana, potrebbe girar in malo modo anche per voi.”

 

 

Continuare con azioni di disturbo, in modo da spingere via i nemici dai confini del territorio padovano e al contempo ritardare il cammino di quella parte d’esercito già diretta alla Valle della Piave.

Non sarà stata quella la risposta che sier Ferigo Contarini aveva desiderato ottenere da quel colloquio col Griti -  a onor del vero aveva sperato in un’intercessione del provveditore generale presso il governatore, sponsorizzandogli l’impresa. Tuttavia, la prospettiva d’uscire per una qualsiasi missione da quella città malata e dall’aria mefitica finalmente s’era concretizzata, liberandolo dal cruccio di dover sprecare il suo tempo sia a punire gli irrequieti stradioti (e giustamente, la paga era in ritardo) sia a fronteggiare giornate intere chiuso in ufficio a Palazzo della Ragione a scrivere, firmare e leggere lettere e documenti. Perfino aiutare sier Polo Capelo nella supervisione del rafforzamento del bastione di Codalunga lo annoiava.

Sospirando pesantemente, il giovane provveditore si diresse quindi verso Palazzo Contarini dietro al Duomo, sperando che la notizia potesse rallegrare in qualche modo il suo amico Marco di Zacharia Contarini "dai Scrigni", il quale versava in un umore nero bestemmia da quando aveva appreso della presenza dell’Imperatore – vera o pianificata che fosse – a Castelnuovo di Quero, là dove si trovava a suo presidio il loro comune amico e parente alla lontana, Hironomo Miani. Dopodiché sarebbe rincasato, così da notificare anche suo fratello Marco Antonio delle ultime novità. 

Sennonché …

“Ah! E’ scappato via, quel mille volte ingrato! E senza dirmi niente! Figlio mio, perché sei stato così crudele verso di me?”

Ma che diamine …?

“Toffolo, cos’è questo carnevale? Che fa madonna ancora in casa? Non la doveva partire oggi per Veniexia?”

“Ah, patron, zelenza, se vui savesse che tragedia! Altro che andar a Veniexia: la mia povera patrona la more de doja, mezza matta!”, gli rispose mesto Toffolo, il servitore, aprendogli il portone e ad accogliere l’uomo a Palazzo furono le urla ferine miste ai pianti di madona Alba Donado Contarini, unite all’esclamazioni esasperate del figlio Francesco, che tentando di calmarla aumentavano per effetto contrario la sua isterica collera. “Siora Mare, calmatevi ve ne prego, o farete radunar tutta Padoa sotto i nostri balconi!”

“O correte a riprender vostro fradelo o tacete, razza de polaco!”

Sorprendentemente, a completare il giocondo quadretto si trovava lì anche sua madre, madona Ysabela Falier relicta Contarini, la quale osservava il tutto attorcigliandosi le dita, indecisa se dar man forte o meno a sier Francesco in evidente difficoltà contro quella belva umana di sua madre.

“Ah, eccolo qua, el Juda Scariota!”, comparve a Ferigo improvvisamente sotto il naso la donna, galoppando giù dalle scale, gli occhi iniettati di sangue e i capelli selvaggiamente in disordine, tanto che lo zendale in testa le penzolava negletto. “La xé tutta colpa vostra se qui me moro!”

Indicando seccamente a Toffolo di serrare il portone onde non dar spettacolo in strada, Ferigo domandò tra il confuso e lo scocciato: “Mia, siora Alba? E in che modo v’avrei strapazzata?”

Sua madre afferrò madona Contarini per il braccio, allontanandola dal figlio. “Alba, per carità, lasciate star. Non è colpa di nessuno, se non dello stesso Marcolino.”

“Ah, no?”, ribatté l’altra, asciugandosi furiosa le lacrime. “Chi ha riferito a mio figlio, che l’Imperador si dirigeva verso Trevixo? Chi gli ha detto, che sicuramente avrebbe attaccato Castel Novo di Quer?”

“E donca? Indove xélo el mal in zò?”

La mano di Alba si mosse convulsamente, indecisa se schiaffeggiare Ferigo o se cavargli gli occhi. “Indove xélo el mal? Marcolin è partito stamane coi 500 fanti e altri zentilomeni alla volta di Trevixo, e senza una parola, senza un saluto e soprattutto senza il mio permesso! Come avete potuto perderlo di vista così? E’ troppo giovane per un fronte sì periglioso come quello di Trevixo!”

Ah, dunque tutti quei discorsi del suo amico non corrispondevano a vuoti propositi, atti a metter solo in allarme la famiglia: alla fine sul serio aveva trovato il modo di partire anche se di nascosto, checché ne pensasse sua madre. Ah, borbotterebbero i vecchi moralisti, gioventù discola sempre ad agir di testa propria! 

“Zovane sì, siora Alba, ma non puto. Il Marcolin ha fatto la sua scelta, voi fate la madre savia che la smette d’impicciarsi nelle questioni d’un uomo adulto!”

Se sua madre e Francesco non si fossero praticamente gettati su di lei, a quest’ora madona Alba avrebbe tenuto in mano lo scalpo di Ferigo, il quale comunque intuite le intenzioni della donna, aveva ugualmente indietreggiato di qualche strategico passo.

“Can! ‘Ssassin! Vui me volé morta!”

Certo però che madona Alba non imparava mai la lezione; insomma, già Marco le era sfuggito una volta praticamente da sotto il naso, quando neppure ventenne era giunto volontario alla difesa di Padova nel settembre del 1509. Perché  stupirsi, quindi, di un bis da parte sua? Gliel’aveva perfino annunciato in più occasioni, peccato che nessuno dei suoi l’avesse preso sul serio, accusandolo di puerili millanterie.

Saggiamente, Ferigo optò per un silenzio da sfinge (aveva promesso all’amico di non tradire il vero motivo della sua partenza), lasciando che madona Alba si sfogasse ben bene su di lui, coprendolo d’accuse e insulti. Non glielo rimproverava, del resto: suo marito sier Zacaria e suo figlio Piero da ben due anni erano rispettivamente prigionieri a Parigi uno e a Perpignan l'altro, naturale che si preoccupasse a morte degli altri rimastole, arrivando a momenti a sequestrarli mettendoli sottochiave. Non c'era però niente di cui preoccuparsi: suo fratello sier Andrea Donado “dalle Rose” era podestà a Treviso e sicuramente avrebbe tenuto sott'occhio il nipote discolo.

Assordatosi quindi convenientemente, Ferigo si distraeva invece contando mentalmente il numero di stradioti necessari per cavalcare rapidi in direzione di Marostica ma sufficienti per sostenere un attacco vincente. Magari ne avrebbe discusso col conte Guido Rangoni, una volta tornato dalla sua missione a Longara per deviare il corso della Bacchiglione. Infatti, aveva in progetto una piccola modifica al piano originale approvato sia dai provveditori che dal governatore e cioè di non limitarsi a rallentare i rinforzi per il maresciallo, rubandogli soltanto qualche arma, ducato e vettovaglia. No, avrebbero al contrario ingaggiato le truppe nemiche in una vera e propria battaglia, annientandole.

La Palice poteva anche marcire in loro attesa fino al Giudizio Universale: a Castelnuovo non sarebbe arrivato nessuno.

 

***

 

Sapristi, capitaine Mercurio! Com’è possibile che una fortezza difesa da un’accozzaglia di disperati riesca a tenerci in scacco da più di un giorno?”, si lamentava il maresciallo e Gran Maestro di Francia Jacques de La Palice nel suo accampamento di fortuna tra Quero e Vas.

Per l’intera giornata la situazione era rimasta la stessa, sfrontatamente immutabile: Castelnuovo incassava i colpi dei cannoni, li contraccambiava con precisa e micidiale parsimonia, e non si riusciva ad avvicinarsi. Si era tentato un assalto, purtroppo fallito: ai franco-imperiali s’era mozzato il respiro non appena immersa una gamba nelle acque della Piave e alcuni di loro rischiarono d’annegare o annegarono proprio, avendo infatti messo il piede in un dislivello o scivolando su di una pietra erano inciampati, finendo in acque più profonde. I mulinelli, rapidi, avevano ghermito questi malcapitati trascinandoli seco e coloro che non erano stati prontamente afferrati dei compagni, ad un certo punto svanirono dalla superficie, invocando inutilmente soccorso. I pochi fortunati che riuscirono ad arrivare sotto il Castello divennero ben presto preda dei balestrieri marciani.

Dulcis in fundo, aveva ripreso a piovere a dirotto e aumentò il malumore dei soldati, assai frustrati da quell’affatto gradito tiro al bersaglio (dove loro erano il bersaglio); incominciarono di conseguenza ad eseguire di malavoglia gli ordini dei loro capitani, al punto da considerare l’opzione alternativa di prendere un’altra strada per giungere a Treviso e neppure la prospettiva delle più vicine Feltre e Cividal di Belluno più li allettava. Meglio impiegarci più tempo e vivere, che pigliare una scorciatoia e lasciarci nel tentativo le penne.

Sfortunatamente per loro, un messo dell’Imperatore recava la notizia di come Maximilian si stesse dirigendo da Bolzano per scendere a Castelnuovo di Quero, dove avrebbe sostato in attesa di ricongiungersi con le truppe provenienti o da Vicenza o Marostica inviatigli dal governatore di Milano, il duca Gaston de Foix-Nemours. 

Et à propos du Duc de Nemours, si sovvenne all’improvviso il maresciallo La Palice, come mai quell’inusuale silenzio da parte sua? Neanche due righe di biglietto! A quest’ora il contingente doveva essere già in marcia, eppure non una lettera di conferma, non un messaggero. Tali negligenze non erano da lui. Bizarre, très bizarre …

“Se si mette un gatto all’angolo, pur sapendosi fisicamente più debole esso soffia e cogli artigli punta agli occhi del suo opponente”, lo distolse il capitano Mercurio Bua dalle sue elucubrazioni, rispondendo alla sua frustrata domanda. Seduto sul bivacco accanto lui,  l’intera postura del greco-albanese si presentava talmente rilassata, da sembrare più a riposo da una partita di caccia che nel bel mezzo di un assedio. Dinanzi all’espressione accigliata de La Palice, il mercenario precisò: “Il punto è, monseigneur, che non a tutte le città e castelli basta la vista delle nostre insegne per arrendersi. Fortunatamente alcuni s’ostinano nella difesa, rendendo questa guerra un po’ meno monotona.”

Il francese lo guardò come se si fosse ammattito. “Trovate dunque diletto in tutto questo?”, inquisì scandalizzato, ripensando agli eventi di quell’infruttuosa giornata, a quella bolgia infernale di spari, sibilo di frecce e scatti di balestre, boati di cannoni e urla quasi animalesche tra imprecazioni e bestemmie.

Fu il turno del Bua d’indurire la sua espressione. “Ho i miei motivi per non aver ancora disertato l’Imperatore”, disse e de La Palice si domandò se stesse forse alludendo al cambio di bandiera avvenuto esattamente un anno fa da parte di suo fratello Teodoro Bua, servendo ora quest’ultimo con gran fervore la Serenissima.

“Lo dimostrate molto male, capitaine. Sembra quasi che non v’interessi prendere Castelnuovo.”

Il greco-albanese gli rise in faccia beffardo: “Quando la Cesarea Maestà mi pagherà come voglio io, allora combatterò come vuole lei.”

Il maresciallo si rilassò: in fin dei conti i mercenari erano anime davvero semplici! “Et bien, una volta espugnato Castelnuovo, potrete appropriarvi di qualsiasi cosa vi sia di gradimento al suo interno.”

L’intera postura del capitano di ventura si rianimò, scattante e sull’attenti, mentre un’espressione feroce gli contorceva i lineamenti: “Qualsiasi cosa?”, esigette conferma, sporgendosi famelico verso il maresciallo e fissandolo intensamente.

“Avete la mia parola. Posso fidarmi?”

“Jamais, monseigneur, jamais! La mia gente si fidò della clemenza dei turchi, per finire poi impalata sugli spiedi come fagiani o segata in due. Per questo, io rispetto di più chi resiste fino alla morte piuttosto che fidarsi dell’onore vero o presunto del suo avversario”, gli confidò tra il sincero e il sardonico, esibendosi per l’ennesima volta in quel suo tipico altalenare d’umori che applicato in battaglia lo rendeva imprevedibile, ingestibile e inarrestabile.

“Abbiamo dunque un accordo, monseigneur de La Palice”, rimarcò solerte il Bua,  istruendo a Zilio Madalo, suo luogotenente, acciocché alle prime luci dell’alba chiamasse a raccolta i suoi stradioti. E rivolgendosi poi alla loro guida, Borlholamio, domandò in veneziano:  “Donca, sto passajo dil qual ti me parlavi e che porta all’entrada dil Castelo, indove se trova?”

 

Nemmeno in mill’anni avrebbe potuto Hironimo immaginare, quanto il suo paragone con Leonida calzasse a pennello con la situazione sua e dei cinquanta difensori di Castelnuovo di Quero: oltre ad aver praticamente gridato al de La Palice un inequivocabile “Molon labe!” [10], come il re spartano anche loro dovettero subire il tradimento di un Efialte, tal Borlholamio, il quale conosceva un altro sentiero di montagna assai ideale per il contrabbando e che aggirava il Castello, talmente ben nascosto da sembrare innocuo ad occhi profani e pertanto sfuggito alla pur meticolosa ricognizione del territorio da parte del giovane castellano.

Non ebbero neppure il tempo di voltarsi, che la porta sud esplodeva in un enorme boato e in una grassa nuvola scura di polvere e pietre, seguita da un istante di mortifero silenzio che poi sfociò nelle urla bellicose degli assedianti pronti all’irruzione attraverso la breccia.

Il loro arrivo, però, sortì l’effetto d’innescare una piccola accortezza preparata da Hironimo come ultima spes la notte precedente, memore della lezione appresa a Padova dal condottiero Zitolo da Perugia: all’ingresso del cortile interno avevano piazzato della polvere da sparo e i primi malcapitati fecero la medesima fine della porta, rallentando per un istante l’impeto dell’assalto, ma ben presto una seconda ondata si riversò dalla parte opposta e gli assediati adesso erano pronti a puntargli addosso balestre e gli schioppi.  Non soddisfatti, a quelli che la scamparono vennero gettati addosso i fuochi ardenti, trasformando gli assedianti in torce umane e così illuminando la sera già di suo di un bel rosso vermiglio. Il fuoco faceva esplodere i loro schioppi e archibugi, coinvolgendo in piccole esplosioni non soltanto chi lo reggeva ma anche chi gli stava accanto in una mortifera reazione a catena.

“Bruseli tutti! Bruseli tutti!”

Piccoli stratagemmi, però, buoni a ritardare l’inevitabile ché non si poteva trattenere l’acqua con le mani e appunto  passati gli iniziali momenti di sconcerto e smarrimento, i nemici impiegarono maggior vigore nell’assalto, bramosi di sfogare i giorni di frustrazione e pioggia battente in testa, senza un granché di cibo e senza paga.

Francia! Impero!  - gridavano quelli, arrampicandosi quasi pur di raggiungere i soldati marciani.

Marco! Marco! – replicarono i difensori del castello, venendogli incontro con le armi in pugno.

Dopodiché, fu l’inferno del corpo-a-corpo e l’aria s’ammorbò di sangue.

 

***

 

A Domenico da Modone con uomini 189 era stato incaricato di sorvegliare il tratto di mura che dalla cittadella conduceva al bastione del Sile; da lì, in direzione di Santa Maria fino alla Porta di San Tomaso con uomini 221 se ne sarebbe preso cura Carlo Corso. Dalla porta di San Tomaso fino al ponte della Botteniga ci sarebbe stato a presidiare Paulo Baxilio con uomini 100 e da quel punto fino al lazzaretto Cipriano da Forlì avrebbe provveduto alla difesa con uomini 238 per concludere il cerchio con Vigo da Perugia e i suoi fino alla cittadella.

Queste erano state le disposizioni di sier Zuam Paulo Gradenigo, provveditore generale di Treviso, e dal signor Renzo Orsini di Ceri, capitano di fanteria per le pattuglie sia diurne che notturne delle mura. I due avevano in aggiunta ordinato che anche i gentiluomini giunti da Padova e Venezia contribuissero dandosi il turno nella ronda. Quanto all’Orsini e al Gradenigo, erano lì ogni notte o a consultarsi coi capitani e i connestabili sulla caminada o a cavallo a controllare che le ronde si svolgessero in ordine senza intoppi. 

Quella mattina del 27 agosto, tuttavia, l’energico provveditore si trovava in compagnia del capitano Vitello Vitelli e di sier Lunardo Zustignan q. sier Unfrè e nipote del Doge, avendo avuto infatti al pomeriggio scorso un acceso diverbio con Renzo di Ceri circa il comportamento affatto consono dei suoi fanti alloggiati nelle case dai recalcitranti trevigiani, i quali contraccambiavano la loro maleducazione finendo spesso alle mani e il povero auditore sier Piero Antonio Morexini stava impazzendo per il numero crescente di querele di padri, fratelli, mariti e fidanzati esasperati per le continue e volgari avances fatte alle loro donne, quest’ultime in realtà non tanto indifese quanto si lasciasse adombrare, anzi, se ogni tanto volava un soldato dalla porta di casa, a corrergli dietro con insulti ancor più prosaici era una florida matrona munita di secchia e scopa o la pentola per le castagne. “La prossima volta che te ripeti ste sporcarie a me fia, t’amazaré!” Affacciatesi alle finestre, le vigilantissime vicine di casa davano manforte e terminavano l’opera innaffiando il reo coi fetenti contenuti dei pitali loro e dei congiunti. Coloro che invece erano stati alloggiati nelle case abbandonate dai trevigiani rifugiatisi a Venezia, ugualmente si sollazzavano senza tregua con prostitute, mentre alcuni fanti senza né Dio né Madonne tentavano tramite ogni inganno d’infilarsi nel letto delle monache.

Più volte sier Zuam Paulo aveva rimproverato la fastidiosa malcostume dei soldati e più volte Renzo Orsini aveva promesso di porvi rimedio, ma sia lui sia l’altro Orsini, Troilo, alla fine lasciavano palesemente correre. Il podestà, sier Andrea Donado “dalle Rose” q. sier Antonio el cavalier, neanche ci metteva becco, ripiegando su di una conveniente neutralità. Purtroppo, quest’impasse non stava che peggiorando il temperamento sanguigno dei trevigiani, già di suo pungolato dalla decisione di abbattere la chiesa e monastero di Santa Maria Maggiore – la loro amatissima Madona Granda – per creare l’indispensabile difensivo guasto interno. Il giorno prima, il 26 agosto, si era incominciata in quel quartiere la demolizione di tutte le case fuori e attaccate alle mura, nonché del campanile della Madona Granda tra gli ululati dolenti della gente, che si batteva il petto invocando perdono alla Madre di Dio per quel sacrilegio.  Di conseguenza, le mani pizzicavano e quel pomeriggio accadde, infatti, che un soldato della compagnia di Troilo Orsini avesse allungato le mani sulla moglie di Donado Cimavin, mentre questa usciva dalla chiesa e infischiandosene dello stato di palese gravidanza di madona Felicita (avendo capito ormai i luoghi dove le donne si riunivano, i soldati non ci avevano messo molto per appostarsi strategicamente e lì aspettarle).

Non calcolò l’uomo come anche il signor marito si trovasse alla funzione con lei, rimasto indietro a parlare col prete. Sicché, testimone di tanta sozza tracotanza, Donado aveva ruggito paonazzo in volto: “Coss’elo sto porco negozio?” e afferrato lo zendale della moglie, arrotolandolo lo strinse a mo’ di corda attorno al collo del soldato, trascinandolo lungo il sagrato della chiesa alla ricerca di un palo, incoraggiato dagli astanti che gridavano in estasi feroce: “Apichalo! Apichalo!”

E quando il capitano Troilo Orsini ebbe pure la faccia tosta di querelare Donado Cimavin, l’auditore Morexini esplose, sbraitando spaventosamente: “El gh’ha fatto ben, el gh’ha fatto!”, assolvendo il marito oltraggiato da ogni accusa.

Al che il provveditore Gradenigo aveva aggiunto: “Se voi non mettete un guinzaglio a quei cani in calore dei vostri uomini, li impiccherò io stesso, saveu? Io stesso!” e peccato che a presenziare ci fosse stato anche Renzo di Ceri, che subito tentò di calmare gli animi per poi finire di litigare a voce ancor più grossa col provveditore, minacciandolo di percuoterlo con la sua spada e di impiccarlo.

“Una cheba di matti”, borbottava sier Zuam Paulo, sfogandosi in un irato andirivieni sulla caminada delle mura. “Una vera cheba di matti …”

“E fra poco lo diverrete anche voi, se non la smettete d’agitarvi manco foste un diavol ne l’acqua santa!”

Il provveditore, bloccandosi, si voltò e per la prima volta in tutta la giornata il suo volto si distese alla vista della moglie, madona Maria Malipiero Gradenigo, avvolta in un pesante zendale. Poi, però, ritornò la sua fronte ad accigliarsi: “Non sarebbe questo posto per voi, siora mojer. Rincasate, ché l’aria stanotte è umida e fredda.”

Più che altro, sin dal giorno in cui gli era stata assegnata la difesa di Treviso, l’uomo temeva costantemente in un attacco da parte dei franco-imperiali, specie notturno, e il pensiero che potesse avvenire perfino in quel momento, con la moglie così esposta, lo preoccupava assai. Aveva in più occasioni insistito acciocché ella restasse al sicuro a Venezia coi loro figlioli, ma lei era stata irremovibile: “Nella buona e cattiva sorte, sior marido mio”, gli aveva ricordato e intimamente Gradenigo gliene era grato, non potendo sfogare con nessun se non con Maria i suoi crucci e l’ansia di quell’incarico ogni giorno sempre più oneroso.

Degna sorella del Griti, Maria non si lasciò scoraggiare dalle parole brusche del consorte. “Sì, avete ragione: vengo solo a portarvi un po’ di cena- o meglio, la colazione vista l’ora -  considerato che siete scappato via peggio di un lievero, senza cenare” e gli cedette poco elegantemente una piccola cesta, girando subito sui tacchi. “E comunque”, esclamò perentoria, voltandosi all’ultimo mentre scendeva la scalinata. “Andando avanti così, credo che prima dei franco-imperiali v’ammazzerà la fatica! Va ben stare dietro a tutto e tutti, ma dormir e mangiare, anche le bestie lo fanno! Poi, arrangiatevi, io v’ho avvertito” e lasciò un impacciato marito lì, fermo immobile, in mezzo alla caminada con la cesta in mano.

“In effetti, se posso dir, vostra siora mojer avrebbe ragione”, commentò sier Lunardo Zustignan, con cui quella notte condivideva la supervisione della ronda. “Vi state strapazzando troppo, sier Zuam Paulo, non avete più vent’anni, potete anche riposare una notte.”

“Quando avremo vinto sta maledetta guerra, dormirò per una settimana intera – solo allora!”, dichiarò serissimo sier Zuam Paulo, cedendo il cesto ad una sentinella che non ci pensò due volte a farne bottino.

Da un po’ di tempo l’uomo sentiva delle fitte all’altezza del fegato e la bile gli risaliva acida lungo l’esofago, levandogli l’appetito, molto probabilmente dovute all’ansia di ritrovarsi a difendere una città-chiave della Serenissima sia dalle truppe franco-imperiali sia dai propri disordini interni. Non giovava il fatto, poi, che le sue richieste di rinforzi e denari o non ricevessero risposta o che gli venissero centellinate; ovvio che, senza paga, i soldati stessero dirigendo altrove le loro attenzioni, se alle donne o all’argenteria di chi doveva ospitarli forzatamente in casa. La questione poi della Madona Granda non aiutava, anzi, sua moglie stessa in uno scatto di nervi gli aveva dato del turco, mentre cercava di spiegarle il motivo di quella drastica scelta.

Fortunatamente, il podestà era talmente incompetente e di conseguenza malvoluto da attirarsi la stragrande maggioranza delle antipatie dei trevigiani; ciononostante, il Gradenigo non dormiva sonni tranquilli, addirittura lavorava più del dovuto per dimostrare la sua totale dedizione alla santa causa, da cui le lodi da parte di tutti.

Ma fino a quando?

State attento, sier Zuam Paulo, o metteranno la vostra testa su di una picca, come fecero con Batiano, il trombetta di Leonardo Trissino.

Il racconto di sier Hironimo Marini, il podestà in carica il fatidico 10 giugno del 1509, ancora l’ossessionava, portandolo a scrutare di tanto in tanto dalla finestra del Palazzo dei Trecento la folla in apparenza tranquilla e dedita ai fatti suoi, in realtà un maremoto umano pronto a colpire al primo suo passo falso.

“Fuogi! Fuogi dal Montelo!”

Il provveditore Gradenigo e Zustignan scattarono in avanti verso il parapetto, allungando il collo e gli occhi sgranati alla vista di piccole luci simili a torce illuminare i rimasugli della chiaria.

“Non possono esser già qui!”, esclamò sier Lunardo sconcertato, “L’avremmo saputo!”

Sier Zuam Paulo scosse il capo. “Saccomanni a cavalo, senza dubbio. O cercano i villani … o i villani cercano loro”, asserì concisamente e si staccò dal parapetto, scendendo rapido le scale onde salire a cavallo e raggiungere il capitano Vitelli. “In ogni caso, sarà meglio inviare domani degli esploratori per degli accertamenti. Se i saccomanni si son spinti fin qua, significa soltanto una cosa: che la Valle della Piave è stata invasa!”

E – Dio li scampasse – che la fortezza di Castelnuovo di Quero era caduta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua  …

 

 

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Piccola nota: alcuni fiumi in veneto sono al femminile: la Piave, la Botteniga, la Brenta, etc. perciò ho deciso di tenere questo “venetismo” nella scrittura anche per fedeltà filologica: soltanto nel XIX secolo il fiume Piave diverrà maschile.

A parte questo, come Mercurio Bua abbia espugnato Castelnuovo, purtroppo non si sa con certezza. Un poema greco scritto su di lui nell’Ottocento narra di come, davanti alle lagnanze del Principe di Anhalt, egli si sia messo a nuotare coi suoi stradioti il Piave, assalendo di spalle i marciani.

Ovviamente, si tratta di una narrazione un po’ troppo fantasiosa, poiché attraversare il Piave ingrossato è da sventati in costume da bagno, figurarsi con armature. Eppoi, cosa voleva fare senza armi? In aggiunta nel poema il povero de La Palice è messo da parte, senza contare come il Principe di Anhalt fosse già morto da un anno ai tempi dell’espugnazione di Castelnuovo. Tuttavia, io sono convinta che la parte del giungere alle loro spalle sia plausibile, pertanto ho preso quello spunto e sviluppato con una strategia un po’ meno romanzata.

Alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] questi sono i nomi dei militari a presidio della fortezza, che sono giunti fino a noi grazie alle cronache bellunesi del Giampiccoli. I nomi degli altri, così come degli uomini di scorta e dei famigli sia del Nostro che dei suoi capitani, purtroppo, sono rimasti sconosciuti.

 [2] Feltre città natale della primissima infanzia =  stando alla biografia ufficiale, il Nostro è  nato nel 1486 a Venezia nella parrocchia di San Vidal, dove presso il ponte Vitturi si trova il palazzo della sua famiglia.

Tuttavia, in quell’anno suo padre, Angelo/ Anzolo Miani era podestà e capitano di Feltre e secondo il “Liber juramenti rettorum et officialium de extra” e le prescrizioni degli “Statutorum magnificae civitatis et communis Feltriae”, gli ufficiali di Stato erano tenuti a trasferirsi con tutta la famiglia sul luogo del loro incarico, essendo anch’essi compartecipi dei doveri e dei diritti del podestà al momento del giuramento della presa di possesso della podesteria. 

Considerando il viaggio Venezia-Feltre troppo faticoso per un neonato, gli storici di recente hanno avanzato l’ipotesi che forse il Nostro sia nato a Feltre invece che a Venezia; non è da escludere che sua madre, incinta, abbia viaggiato per burchio risalendo il Piave. Purtroppo, sono soltanto speculazioni visto che non sappiamo tutt’oggi il mese e il giorno esatto della nascita del Nostro. Per la storia, ho scelto dunque questa teoria più recente, collocando la sua nascita a Feltre.   

[3] andar a Patrasso = finire male, morire.

[4] multa di 25 ducati = Nell’estate del 1509 venne emanata una grida che chiunque possedesse cavalli doveva cederli alla Serenissima ad uso dell’esercito o incorrere in una multa di 25 ducati per ciascun cavallo trattenuto. Vista la loro importanza, quando si faceva bottino, i cavalli erano le prime prede su cui ci si buttava.

[5]  camerlengo = da non confondere coll’omonima carica nelle gerarchie ecclesiastiche. Nel sistema amministrativo della Serenissima, il camerlengo era colui che amministrava le finanze pubbliche di una città.

[6] fiorentino = fiorentino, in questo caso sodomita. Di sodomia (o  “vizio fiorentino”) s’additava Giulio II stando a certe voci di corridoio riguardo ai suoi gusti effettivamente un po’ ambigui.

[7] famiglia apostolica = per famiglia apostolica s’intendono le 12 famiglie (come gli Apostoli) che si dice fondarono Venezia, tra cui appunto i Contarini, i Morosini (o Morexini) di cui faceva parte la madre del Nostro, i Giustiniani, i Gradenigo e i Corner, etc. Erano anche dette “Case Vecchie”, ovvero esponenti del patriziato più antico. Le “Case Nuove”, invece, erano le famiglie patrizie aggiuntesi o per meriti verso la Repubblica o per ricchezza prima della Serrata,  tra cui ad esempio i Miani, i Gritti, i Malipiero, i Loredan, i Tron (o Trum), etc.

(…) Aurelii Cotta prefetti del Reno = il clan dei Contarini vantava la propria discendenza dalla gens romana degli Aurelii Cotta e in particolare i prefetti del Reno, soprannominati Cotta Rheni, da cui Contareni, venezianizzati in Contarini. Ovviamente, non è storicamente dimostrato, però segue di sicuro la tradizione tutta aristocratica d’inventarsi origini illustri. I Miani, ad esempio, si vantavano di discendere dalla gens Emilia, da cui la latinizzazione (e conseguente italianizzazione) del loro cognome in Emiliani.

Stando alle genealogie, la prozia del Nostro, Elena Miani, aveva sposato nel 1428 Alvise Contarini, prozio di Federico, imparentandoli seppur alla lontana.

[8] prima di dare del fedifrago sporcaccione ad Andrea Gritti, sottolineiamo che egli era rimasto vedovo già dal 1476, anno in cui gli era morta di parto la moglie Benedetta Vendramin, dandogli l’unico figlio legittimo, Francesco, che a sua volta morirà nel 1506, affidando al padre la moglie Maria Donà e le due figlie Benedetta e Viena. Poco più tardi, Maria si risposerà con Sebastiano Contarini, amico del Nostro. Vedovo a soli ventun anni, Andrea decise allora di salpare per Costantinopoli e lì si prese in casa questa donna greca (il nome è inventato, purtroppo lei è rimasta anonima) con cui convisse in monogamia, bisogna dargli credito, e che gli diede quattro figli naturali: Alvise (o Ludovico), Pietro, Giorgio e Lorenzo.

[9] Gian Paolo Gradenigo aveva sposato Maria Malipiero, figlia di secondo letto di Viena Zane vedova Gritti e di Giacomo Malipiero, quindi sorellastra di Andrea. Oltre a lei, Viena ebbe anche due maschi, Paolo e Michele Malipiero. Il rapporto tra i fratellastri fu sempre ottimo, anzi, in più occasioni Andrea diede prova di grande affetto verso i minori e viceversa.

[10] Molon labe! = Vieni a prenderle!, la famosa risposta di Leonida all’intimazione di Serse di consegnargli le armi.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo Secondo: 27-31 agosto 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato  29.07.2021

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Capitolo Secondo

27-31 agosto 1511

 

 

 

Fino a quando, Signore, implorerò aiuto

e non ascolti,

a te alzerò il grido: “Violenza!”

e non salvi?

Perché mi fai vedere l’iniquità

e resti spettatore dell’oppressione?

Ho davanti a me rapina e violenza

e ci sono liti e si muovono contese. 

(Abacuc, Sap. 6, 12-16)

 

 

 

 

Un silenzio di tomba regnava su quel freddo e umido meriggio del 27 agosto 1511.

Scioltosi il livido sole dal laccio delle nuvole grigiastre e diradatasi la nebbia della polvere da sparo, azzittitisi gli echi delle grida di battaglia e il fragore delle spade e delle schioppettate, s’impose la pace immobile e gelida del cimitero e tale dovette il Castello apparire al maresciallo La Palice, quando vi entrò a cavallo: nulla si muoveva né un sol rumore umano si sentiva.

I corpi dei marciani e dei franco-imperiali, ammassati uno sopra l’altro in un mortale abbraccio, riuscirono a turbare il pur navigato generalissimo, avvertendo quegli per la prima volta in vita sua una certa insoddisfazione nella vittoria. Sì, avevano conquistato una roccaforte relativamente strategica, tuttavia … Forse quell’aver combattuto sul serio fino all’ultimo uomo aveva levato ogni godimento alla riuscita dell’impresa, schiaffando in faccia ai franco-imperiali la consapevolezza che se quella era la resistenza oppostagli da una fortezza male in arnese come quella di Castelnuovo di Quero, cosa li attendeva una volta giunti sotto le mura di Treviso, l’irriducibile e ostinato Occhio Destro di Venezia?

“Recherchez les survivants!”, ordinò ai suoi uomini La Palice, lui per primo scettico sulla possibilità di trovare dei sopravvissuti in quel mattatoio. Di animo meno incerto appariva invece il capitano Mercurio Bua, che anzi, sceso da cavallo, rivoltava i cadaveri e all’occasione levava loro l’elmo, quasi stesse cercando tra di essi un volto in particolare. Il greco-albanese ansimava leggermente, l’aspetto più scarmigliato del solito, reduce infatti dall’ostinata schermaglia mossagli contro dal capitano Vetor Pozzo e dalla sua compagnia, la quale, per suo sommo smacco, era riuscita a sfuggirgli da sotto il naso e a riparare molto probabilmente a Feltre. Se non fosse stato per il condottiero feltrino e il suo attacco a sorpresa al limite del suicida, di sicuro i franco-imperiali avrebbero concluso l’assedio assai prima, invece di prolungarlo dolorosamente fin quasi a mezzodì.

“Sopravvissuti?”, ripeté snervato il Bua, passando sempre più impaziente al prossimo corpo. “Si è combattuto tutta la mattina, chi volete che sia sopravvissuto? A parte quelli che hanno battuto in ritirata, ovviamente”, aggiunse, ribollendo di stizza al mero ricordo di Vetor Pozzo sparire tra il sentiero montano.

“Abbiamo dato loro una scelta, capitaine. E loro hanno scelto la pace della morte.”

“Sicuro, loro riposano in pace”, commentò ironico Mercurio, “nella breve attesa della nostra compagnia, perché senza bottino quant’è vero Iddio creperemo di fame. Forse, i vostri capitani tedeschi avrebbero dovuto tenerlo da conto, quando si sono avventati come i-d-i-o-t-i sui marciani, invece di salvarne qualcuno per il riscatto! Ogni volta la stessa storia: prima distruggono tutto e poi si lamentano che non è rimasto più nulla per il rifornimento.”

Purtroppo per lui, il maresciallo de La Palice dovette arrendersi dinanzi all’innegabile verità proferita dal mercenario greco-albanese, nell’intimo anch’egli infastidito da quella cecità che li portava sempre più sovente a litigare tra di loro sulle scorte di cibo o altri beni di prima necessità.

“Qualcuno si deve pur essere salvato.”

“Nessuno qui ci crede né lo spera. Guardatevi in giro: vi pare questo il modo di festeggiare una vittoria? Sangue di Cristo, perfino i nobili hanno ucciso!”

Di nuovo, Mercurio Bua aveva ragione. Perfino i soldati franco-imperiali, solitamente così rumorosi nel loro gozzovigliante razziare, non osavano fiatare: coloro che ancora si reggevano in piedi dopo quella mattina di sangue si limitavano a rovistare delusi e frustrati tra le macerie e a spogliare i cadaveri sia dei marciani che dei propri compagni, raggranellando un misero malloppo composto di pezzi d’armatura; scarpe e guanti; qualche spada e pugnale; poche monetine e qualche anello.

Non miglior fortuna ebbe chi invece setacciò gli interni del Castello: di cibo era rimasto poco o niente; lo stesso per le munizioni, avendo dato fondo gli assediati ad ogni arma e giungendo perfino a buttare giù in testa le colubrine e i falconetti agli invasori pur di rallentarne l’avanzata.  Nelle stalle giacevano morti i cavalli, se per lo scontro o per mano degli stessi difensori di Castelnuovo difficile da stabilire. Le stanze del castellano piangevano miseria, gli unici pezzi di valore – a parte il cassone cogli abiti – risultavano la sua scrivania di legno di quercia e le lenzuola del letto. La piccola cappella avrebbe potuto competere con la Porziuncola delle origini in quanto a spoglia semplicità, non trovarono una sola pala rivestita di foglie d’oro, niente ostensori, turiboli, calici d’oro, d’argento e ricoperti di pietre preziose, soltanto un crocifisso di legno assai dozzinale subito staccato per farne legna. Neppure il pane e il vino per l’Eucarestia erano rimasti. Al cappellano, morto, poterono rubare solo un piccolo crocifisso d’oro al collo e le scarpe di cuoio ché il rosario era fatto con i semi di lacrime di Giobbe, perciò di nessun valore dunque inutile.

Tanto scoglionarsi - incominciarono a mormorare tra di loro gli scontenti soldati la cui lungimiranza tattica si limitava alla paga mensile e alla sopravvivenza al giorno successivo-  quasi due giorni di patimenti per questo in cambio?

Pietre e cadaveri, era questo il bottino di Castelnuovo di Quero?

Hé, Finger weg! Ich habe ihn zuerst gesehen, er gehört mir!

Mercurio Bua, come molti soldati del resto, si girarono velocemente dinanzi a quel primo scatto di vitalità in mezzo alla silente desolazione. Già un piccolo gruppetto di curiosi si era stretto ai due contendenti, chi intimando loro di darsi una calmata chi incoraggiandoli in quella distrazione assai benvenuta. Un soldato tedesco e uno francese, i quali pur non capendo un accidenti di ciò che l’altro gli stesse urlando dietro, si contendevano peggio di due bambini capricciosi una misericordia, incuranti di come stessero a momenti calpestando il corpo per terra da cui l’avevano sottratta. Finché il francese, elargita al tedesco una violenta gomitata, se lo scrollò di dosso, intimandogli feroce:

Pas de chance, sale voleur, c’est à moi! Et si tu t’approches avec tes sales mains allemandes, je vais t’enfoncer ce couteau dans ta foutue gorge ! ”, gli mulinò contro un lungo coltellaccio e appurato come il contendente non avesse intenzione di riprendere la disputa, se ne ritornò soddisfatto alla spoliazione della salma.  

Aiutato il compare a rimettersi in piedi, gli altri soldati tedeschi gli batterono a mo’ di conforto la spalla, consolandolo: “Passiert. Nächste Mal.” [1] L’uomo, massaggiandosi la mandibola dolente, fissò torvo il francese e Mercurio Bua constatò come quest’ultimo dovesse incominciare a guardarsi le spalle d’ora in avanti.

“Hé, tu!”, richiamò egli l’attenzione del vincitore della contesa, una volta dispersosi il gruppetto a spettacolo terminato. “Da chi l’hai presa quella misericordia? Da questo qui?”, inquisì, girando prono col piede il cadavere, le cui membra apparivano ancora flessuose, avendo magari tirato le cuoia da poco o da sé o per mano del francese stesso.

Gli occhi inquisitori del greco-albanese ne studiarono attenti l’armatura, troppo elaborata e di buona qualità per appartenere ad un semplice fante. Inoltre, per quanto scalfita, non notava affondi letali, tranne ecco sul corsaletto ma le budella erano ancora al posto suo, cioè in pancia e il corpo non era circondato dall’alone di sangue di chi salta in aria o dall’alto cade nel vuoto. Né sentiva il familiare tanfo d’urina e feci. Cosa poteva aver dunque provocato la morte?

“Spostati!”, ordinò perentorio al soldato che, a malincuore, dovette obbedire al suo superiore, augurandosi in cuor suo che non volesse sottrargli il suo bottino. Inginocchiatosi accanto al corpo, Mercurio trafficò coi lacci dell’elmo, imprecando a denti stretti per via dei nodi attorcigliatisi coi capelli. Eventualmente, riuscì nell’impresa e l’elmo venne levato, schiaffandolo il Bua in mano al francese i cui occhi s’allargarono cupidi per l’eccellente sua qualità.

Un viso incrostato di sudore, polvere e sangue gli si parò innanzi; ciononostante, il greco-albanese ben se lo ricordava, impossibile dimenticarsi di quel ragazzo che nella confusione della breccia del bastione di Codalunga gli aveva puntato contro la balestra, mancando lui di un dito ma centrando appieno il suo cavallo così da farlo cadere in un canaletto maleodorante. Il suo luogotenente Zilio Madalo lo aveva letteralmente dovuto ripescar fuori dalla merda, però almeno Mercurio si era salvato dal rogo dei fuochi ardenti. Non aveva mai accarezzato l’ipotesi di rincontrare quel giovane in futuro, tantomeno a Castelnuovo di Quero.

Con inusuale delicatezza gli tastò il capo alla ricerca di ferite, roteandolo sul collo: niente, nulla di rotto.

“Beata ignoranza”, sogghignò compiaciuto, rivolgendosi al soldato francese che a momenti gli si appollaiava sulla spalla, pur di non perdersi un solo movimento del capitano greco-albanese.  “Sai tu a chi hai appena rubato questa misericordia? Al reggente di Castelnuovo!” Portato subito l’orecchio sopra la bocca dell’altro, percepì il flebile ma inconfondibile solleticare del respiro. “Ed è ancora vivo!”,  esclamò deliziato quanto un bambino il giorno dell’Epifania, afferrando la sua preda e caricatasela in spalla con sorprendente facilità, si diresse all’interno dove il La Palice stava completando un rapido rapporto da spedire ai suoi capitani rimasti al Barco e a Montebelluna.

Dietro a Mercurio, silenzioso ma tenace alla stregua di un cagnolino, lo seguiva serrato il soldato francese nella speranza d’ottenere comunque quella bella armatura.

Nel frattanto, il maresciallo aveva inviato tre corrieri: uno a Conegliano per domandar la sua resa; un altro incontro all’Imperatore per informarlo della conquista di Castelnuovo di Quero e il terzo, suo segretario,  per annunciare all’accampamento di Montebelluna e del Barco del loro prossimo ritorno per i rinforzi necessari alla presa di Feltre e Cividàl di Belluno. L’uomo seguitava infatti ad arrovellarsi a causa di quella mancata lettera da parte del duca di Nemours e voleva rientrare al campo quanto prima, giusto per precauzione.

 

***

 

 

Il salasso invece di migliorare peggiorò la già compromessa salute di sier Andrea Griti, al punto che suo fratello sier Polo Malipiero aveva scritto a Venezia per il rimpatrio immediato, non appena il provveditore generale fosse stato nelle condizioni di viaggiare senza rischi. Il patrizio aveva pianto apertamente e senza vergogna quando sier Andrea gli aveva espresso il suo desiderio di comunicarsi e ricevere l’estrema unzione, nonché di redigere il suo testamento.

Anche il governatore domino Lucio Malvezzi e l’altro provveditore sier Christofal Moro facevano gli equilibrismi con la morte e assieme a loro purtroppo i soldati e i padovani in generale,  lasciando sier Polo Capelo ora da solo a comando di una città pressoché moribonda. Non confortava apprendere come queste febbri dal padovano incominciassero lentamente ad espandersi nelle campagne limitrofe, mietendo vittime senza pietà.  A peggiorar la situazione, i soldi per le paghe non arrivavano, il malumore cresceva e ciò corrispose alla proverbiale ultima goccia che spinse sier Ferigo Contarini a persuadere sua madre Ysabela Falier a salire sul primo burchiello e portare con sé a Venezia i fratelli minori Marco Antonio e Regina, nonché madona Alba Donado (con cui si era riappacificato dopo averle promesso di scrivere a Treviso onde persuadere sier Andrea a rispedire Marco a casa) e il di lei figlio Francesco.

“Siora Mare”, si raccomandò il giovane provveditore, dopo aver aiutato la genitrice a salire sul burchiello dall’imbarcadero, “statemi bene, vi prego di riguardarvi. Pregherò con gran fervore l’Altissimo, affinché il viaggio sia tranquillo, arrivando quanto prima a Veniexia.”

La vedeva tanto curva e patita, la sua povera madre, invecchiata precocemente. La tragica morte del marito sier Hironimo, avvenuta alla Vigilia di Pasqua del 1508, [2] l’aveva piegata nel suo tormento, ancor più adesso che i figli rischiavano la vita per la Signoria, soprattutto Ferigo, quel suo primogenito sempre tanto brillante quanto irresponsabile della sua persona, una fiamma ardente e meravigliosa che lei temeva spegnersi troppo presto da un momento all’altro.

“Fate attenzione, gioia mia. Vi chiedo solo questo”, si raccomandò, accarezzandogli teneramente la guancia e Ferigo baciò quella fragile mano, che tanto nella vita l’aveva protetto e confortato. 

“Mo via, coss’elo sto muso da coroto, Marco Antonio?”, si rivolse poi giovale al fratello minore, più che altro per allontanarsi dalla madre, acciocché lei non scorgesse il luccichio umido dei suoi occhi. “Voi siete l’uomo di casa, ora: la siora Mare, Alvixe, nostra sorela  e fra poco la siora Marina vostra novizza contano su di voi.”

Il giovane uomo alzò il capo, serrando caparbio la bocca onde mantenere un’espressione stoica. “Promettetemi di scrivere! Ogni giorno!”, esigette, deglutendo malamente.

“Promettetemi di tornar vivo!”, l’abbracciò sua sorella Regina, nascondendo il volto sull’incavo della sua spalla e il provveditore le scoccò un bacio sul capo coperto dallo zendale, inalando a mo’ di ricordo il dolce e sottile profumo di rosa con cui ella soleva imbevere il panno ricamato. Strinse forte al petto quella figuretta minuta appena divenuta donna, quella sorellina avuta quando lui era ormai quindicenne e quindi riservandole attenzioni più di padre che di fratello, guidandola ad ogni passo fino alla maturità. “Promettetemelo!”

 “Sempre ritornerò vivo per voi. Non piangete, non desidero ricordarvi in lacrime”, le disse, asciugandole le gote coi pollici. Regina su sua richiesta gli sorrise tremolante, baciandogli la guancia in barba al decoro e cingendolo di nuovo forte, cedette e singhiozzò sommessamente.

All’occhiata allarmata del fratello, Marco Antonio afferrò Regina per le spalle, staccandola dolcemente da Ferigo e aiutandola a salire sul burchiello, prontamente abbracciata dalla madre, che le sistemò premurosa il velo scuro sul volto pallidissimo.

“Calar i remi in barba!”, gridò all’improvviso il pope del burchiello, giunta infine l’ora della partenza.

“Rema!”, gli risposero in coro i rematori.

“Avanti!”

Rivoltosi a Francesco “dai Scrigni”, Ferigo gli promise: “State de bona voja, amico mio. Iddio m’ascolta, vi riporterò indietro vostro fradelo sano e salvo.”

“Prendetevi cura di voi e non fate strambazzerie: non potremmo sopportare n’altra desgrazia!”, gli ricordò Francesco.

Il pope gridò ancora: “Andèmo! Tira!”

Le facce contorte dalla fatica iniziale di girare il burchiello fermo, i rematori intonarono tra uno sbuffo e l’altro: “Oh … ehi! Oh … ehi! Oh … ehi!”

Partiti, infine, rimpicciolendosi  gradualmente, pian piano, scivolando via sulla Brenta fino a Venezia.

Li avrebbe mai rivisti? Quanto fragile appariva adesso a Ferigo il battito del suo cuore, la nervosità dei muscoli e la solidità delle sue ossa. Doloroso e incerto il respiro, un lusso quasi, pronto a terminare in un qualsiasi momento. Alberi pronti a spezzarsi al vento, ecco che si era, in balìa di forze insormontabili e oscure con cui non si poteva negoziare, destinati ad una fine non voluta né evitabile. Ah, Fra’ Lunardo, tu che cinque mesi fa cadesti così virilmente in battaglia, disdegnando la resa pur essendo in numero inferiore! Dimmi, carissimo e valoroso compagno con cui dividemmo le imprese di Concordia e Mirandola, dimmi che si è provato in quegli ultimi istanti? A che cosa hai pensato? A quale Dio sei andato incontro? A quello dei Veneziani o dei Collegati?

“Messer Ferigo, vi disturbo?”

Il giovane provveditore trasalì, sbattendo le ciglia e strabuzzando gli occhi in modo da asciugare via i rimasugli delle ultime lacrime. Sistematosi i guanti e sospirando profondamente, si voltò verso il suo interlocutore e lo salutò cordiale, un mezzo sorriso sulle labbra:

“Affatto e bentornato, Conte Guido. Quali nuove?”

Il conte Guido Rangoni ricambiò il saluto, rasserenandosi e tirando un intimo sospiro di sollievo, ché un poco l’aveva preoccupato quello sguardo fisso del Contarini verso l’orizzonte.

Da quando era rimpatriato da quelle che il patrizio veneziano stesso definiva “terre aliene” della Romagna, un’ombra malinconica ogni tanto velava il suo sguardo vivace e ardente e il Rangoni comprendeva il sentimento: la morte del cavaliere di Rodi Fra’ Leonardo da Prato di Lecce era stata per tutti un duro colpo e per sier Ferigo in particolare, avendolo stimato come collega e maestro. La Serenissima, dal canto suo, perdeva un grande condottiero dotato di un carisma talmente trascinante, da persuadere i suoi uomini a combattere anche senza paga. Malgrado ciò, tra il conte Guido e il gerosolimitano era scorso sangue assai amaro specie dopo l’incidente l’anno addietro nel Polesine, cui solo l’intercessione di sier Andrea Griti aveva salvato il Rangoni dagli affilati artigli dei Dieci, colpa l'essere il nipote di Annibale Bentivoglio e gli anni passati trascorsi al soldo della casa d’Este. Eppure, neanche il conte modenese poteva negare l’inestimabile valore e lo spirito stratega del cavaliere rodiano, neanche quando, in un momento d’impazienza, all’ennesimo diverbio gli aveva sbottato contro un umiliante: Uagnone, stai bellu carmu! Tu mancu eri nato, ch’io già massacravo i Turchi ad Otranto! [3]

Prendendo il provveditore in disparte sull’imbarcadero, il Rangoni riassunse quanto appreso dai loro esploratori: “Si è saputo come il duca Carlo di Borbone e Giovanni Gonzaga abbiamo raggiunto Vicenza con 400 cavalli e 300 fanti. Potrei sbagliarmi, ma tutta questa fretta m’induce a pensare che temano un qualche attacco da parte nostra.”

Sier Ferigo annuì, pensoso. Dunque, quella vecchia volpe di sier Andrea Griti non aveva nutrito sospetti così infondati, alla fine. Il Duca Charles III de Bourbon e Giovanni Gonzaga avevano fiutato arie di grandi manovre da Padova, rendendosi conto di quanto stupidamente si fossero sbilanciati sulla Marca Trevigiana, lasciando scoperto il vicentino. Maledizione, che occasione persa!

Una risata sardonica, cattiva, scappò al provveditore degli stradioti. “Puoah! E così il Borbone e il Gonzaga si credono tanto intelligenti, da potermi leggere i pensieri? Ma sì! lasciamoglielo credere a questi bambinetti che giocano alla guerra!”, esclamò divertito tra sé e sé, due dita sotto il mento. E rivoltosi al conte Guido con sguardo furbescamente malevolo, lo istruì: “Voglio che si sparga la voce, che il Contarini di San Cassian sta marciando alla volta di Vicenza per sgozzarli tutti fino all’ultimo uomo.”

“A Vicenza?”

“A Vicenza.”

“Ma proprio uguali parole?”

“Sgozzare o squartare.  A banchettare sui loro cadaveri. A bruciarli come la Vècia al Panevìn [4]! A regalare all’Illustrissima Marchesa Isabella d’Este una collana fatta coi denti di suo cognato. Siete un conte e avete studiato la lingua, domino Guido, usate la vostra immaginazione! Esagerate, tingete di rosso fosco i dettagli! Bisogna impaurirli, bisogna che si arrocchino a Vicenza, bisogna che abbiano tanta paura da non osare uscire dalla città tranne per inviare i rinforzi da Milano per La Palice, in attesa di un attacco che non accadrà mai. Comprendete?”

Il conte Guido aprì la bocca in un Ah! complice, realizzando ora a quale conclusione il Contarini voleva che si giungesse. “E mentre quelli aspettano, noi invece punteremo o su Bassano, o su Castelfranco o su Cittadella.”

“No, le attaccheremo contemporaneamente; ciò rallenterà i soccorsi dei francesi, indecisi e in difficoltà su quale città delle tre salvare e quale sacrificare. Imperativo è riconquistare almeno Castelfranco; certo, la Brenta come porta a Bassano porta anche a Padova, però Castelfranco ha i mulini per macinare le loro farine, senza di essi non avranno di che nutrirsi e il provveditore sier Zuam Paulo ci ha confermato come i contadini del Montello stiano facendo terra bruciata sul cammino dei nemici.”

“Quando il Borbone e il Gonzaga avranno capito il trucco, noi con le tre città in pugno fungeremo da muro in mezzo agli accampamenti di Vicenza, del Barco e Montebelluna, dove ora si trova il La Palice. Insomma, gli taglieremo i rifornimenti da ovest.”

“Esatto.”

“Rimane però il rischio, che quei crapuloni senza fondo dei tedeschi puntino sulla Patria del Friuli per rifarsi.”

Lo sguardo del Contarini si rabbuiò di una cupezza mortale.  “A questo mondo, non si può difendere ogni cosa …”

“Domanderò al signor Giano di Campofregoso se s’unirà all’impresa”, cambiò celere discorso il conte modenese, notando il languore della malinconia fiaccare la determinazione del patrizio. “Credete che il provveditore messer Paolo Cappello approverà il piano?”

Lanciata un’ultima occhiata alla linea dell’orizzonte della Brenta, sier Ferigo si allontanò assieme al conte Guido Rangoni per discutere nei dettagli il piano d’attacco, tra cui le parole onde meglio persuadere il provveditore generale a benedire la loro impresa.

 

***

 

 

“Zò, Felipeto, gh’hastu finìo co’ quel pozzo?”

Il ragazzino per tutta risposta s’affrettò a buttar giù nell’acqua una strana pappetta fatta di fango, escrementi e grano. Il fratellino, afferrata anch’egli quella poltiglia, gli dava manforte.

“Datte ‘na mossa!”, gli intimò suo nonno Zuane detto Nane, mentre sistemava i carichi di farina sul carro e la moglie le gabbie con le galline, i conigli e le oche. Le figlie maggiori e le nuore, invece, trascinavano i maiali e i rispettivi mariti sistemavano legando ai carri i cavalli e i bovi. Il piccolo esercito di nipoti d’ambedue i sessi con l’aiuto di altri vecchi zii e cugini trasportavano fagotti di vestiti, coperte e lenzuola e oggetti di valore in un frenetico viavai. “Svelti, svelti!”, ribadì il capofamiglia.

Terminato coi sacchi, il contadino afferrò il cadavere del cane da caccia che suo figlio Titta aveva con gran maestria centrato in pieno col suo arco, prima che potesse ululare la loro presenza ai saccomanni venuti in esplorazione. Un trucco infame che i contadini del Montello stavano imparando a loro spese: compreso infatti quanto fossero o ben nascosti nel bosco o semplicemente per evitare di vagare a vuoto in esso, i francesi avevano addestrato dei cani per scovare i fuggitivi e soprattutto le loro scorte di cibo e gli animali da fattoria per farne bottino.

“Toh, qua stai, coi toi patroni!”, grugnì il contadino, gettando in un altro pozzo il cane assieme ai cadaveri nudi dei nove francesi tanto stolti da pensare di venir a rubargli la roba e sopravvivere. D’altronde, quelle terre erano state la casa sua e dei suoi avi da che mo’ e l’uomo riconosceva ogni loro rumore, ormai. Ovvio che, in seguito all’uccisione del cane e all’udir lo scalpiccio di cavalli, Nane avesse mobilitato tutti gli uomini di casa e così armati di arco, frecce, una picca di fortuna e occhi di gatto che ben vedevano al buio, essi s’erano posti a difesa della loro fattoria e delle loro donne e siccome Dio e la Madonna l’avevano benedetto con bravi figlioli e altrettanto bravi generi, manco i signori durante le battute di caccia all’airone ne avevano impallinati in così gran numero come loro coi francesi! Un giovane soldato veneziano a cavallo li era venuto poi inaspettatamente in aiuto, fiocinandoli con la sua balestra alle spalle.

Uno di questi francesi, però, Nane l’aveva risparmiato e non per cristiana carità, bensì perché pareva il miglior vestito e dunque se lo portavano a Treviso per farlo esaminare, magari il provveditore Gradenigo li avrebbe ricompensati con un bel po’ di ducati, rimpinguando la già soddisfacente somma che il contadino avrebbe sicuramente raggranellato coi cavalli dei saccomanni. Aveva quindi strabuzzato gli occhi tra lo stupito e il goloso non appena il giovane soldato, ghermito il prigioniero per i capelli e costringendolo a piegare all’indietro il collo per meglio osservarlo, aveva esclamato ringhiando: “Ma mi lo cognosso sto baron! (farabutto, ndr.) Xélo on canzelier dil la Peliza! Lo gho ben visto a Castel Novo de Quer! Puòh!”e gli sputò in faccia, usando molto catarro.

Pertanto, Nane aveva lasciato il francese alle cure di sua moglie Oria, la quale l’aveva pestato  come un materasso al cambio di stagione, dopodiché con l’aiuto delle figlie gli avevano legato le braccia dietro una barra di legno a sua volta dietro la schiena, sistemandogli a mo’ di collare la medesima corda riservata ai bovi. Spintonato sul carro tra gli animali, la testa del francese penzolava inerte in avanti, l’uomo ancor stordito e la faccia gonfia dall’ultima randellata della contadina col batocchio da polenta, reo di averle implorato diosacché nella sua lingua, cui la donna aveva replicato latrando: “Tasi, bestia!” e via botte da orbi.

Magre vittorie, ché ormai la loro pace era compromessa. Già, infatti, ringraziavano la Madonna per averla scampata per due anni – alcuni loro amici di tale fortuna non si erano giovati – adesso bisognava arrendersi all’evidenza e cioè che altri saccomanni o stradioti o franco-imperiali non avrebbero tardato a trovare la strada per la sua fattoria, magari in numero ben superiore dei temerari della notte scorsa. Cosa sarebbe accaduto allora? Morire, muoiono tutti prima o poi se per vecchiaia, malattia o un nocciolo andato di traverso. Ma non sgozzato come un porco a San Giovanni mentre gli violentavano la moglie, le figlie, le nuore e pure le nipotine e tagliavano a pezzi i figli, i generi, i nipotini anche in culla. No! Nane il contadino nulla aveva commesso di male a questo mondo per meritarsi tal sorte, manco fosse un criminale da decollare e squartare tra le colonne di San Marco e San Todero! [5]

Dai carri, l’intera sua famiglia di tre generazioni osservava a lavoro completato il capofamiglia in attesa di ulteriori istruzioni, tutti tranne la più piccola delle sue figlie, Màlgari, che si stava accomiatando dogliosa dal giovane soldato che li aveva sia aiutati a difendersi sia li aveva avvertiti di molto probabili e ulteriori scorrerie nel Montello, visto che Castelnuovo era stata cinta d’assedio. Il ragazzo, Cabriel, s’accingeva ora a ripartire alla volta di Treviso sia per via di un messaggio che doveva consegnare al provveditore sier Gradenigo sia per quella lettera appena rubata al francese, ma dall’espressione infelice e il rossore alle orecchie dovute alle carezze alla nuca da parte di sua figlia, Nane appurò come entro la fine della prossima primavera sarebbe divenuto nonno per l’ennesima volta. Anche nella devastazione più totale, la forza prorompente della natura riusciva lo stesso a trovare ogni forma di sbocco pur di rigenerarsi. E poi, prima della guerra, quel giovane era ceramista, prospettiva non disprezzabile per la sua Màlgari, la più bella delle sue figlie.

“Sior pare, xé tutto pronto …”, gli annunciò suo figlio.

Nane annuì gravemente e Titta accese la torcia tenuta da Felipeto. Con aria solenne, il contadino si diresse alla sua fattoria, costruita dai suoi avi prima ancora che Treviso e la sua Marca si dessero a Venezia, fonte sia di sostentamento per la sua famiglia  sia di vanto giacché roba veramente sua. Quante generazioni vi avevano sudato! Quanti sacrifici per poterla mantenere a discapito degli alti e bassi della vita!

“Non fifar, nezzo mio”, consolò il ragazzino, malgrado anche i suoi di occhi fossero umidi di lacrime. “Semo ancor omeni liberi e liberamente decidemo cossa far de la nostra roba. Della pietade de’ ladri, non xé da fidarsi. O c’amazano o ci risparmiano ma la boaria non sarà pì nostra, ma de Muso-da-Baila [6] e nui a laorar da s-ciavi pel patron che ci darà. No! Mi sun un poaro villan, perhò a servir todeschi non m’abbasso!”

E detto questo, lanciò la torcia e la fattoria prese lentamente fuoco.

“E vedarem, cossa i manzeran e i berran sti barbari, co le boarie e i molini bruzai e i pozzi avvelenai!”

A giudicare dai fumi neri che si levavano dal Montello, Nane il contadino non doveva esser stato l’unico ad aver seguito tal ragionamento. Lungo la strada conducente a Treviso a fine giornata si contarono almeno sedici mulini incendiati più fattorie e campi e innumerevoli pozzi inquinati e vasche idriche prosciugate.

 

 

***

 

 

Non sussiste a questo mondo nulla di peggio quando chi ti fa prigioniero in un certo qualmodo si ricorda di te e tu non di lui e non solo per motivi di passate beghe e vendette da servire fredde; no, basta solo che questi si ricordi chi tu sia e di chi tu sia figlio per rovinarti l’esistenza.

Un validissimo esempio poteva fornirlo il marchese di Mantova, Francesco Gonzaga.

Era l’agosto del 1509. Mentre il Marchese dormiva beatamente ignaro in un casolare ad Isola della Scala, vi si erano intrufolati dentro silenziosi come anguille un gruppetto di contadini armati fino ai denti e venuti allo scopo di derubare nel sonno i soldati francesi e mantovani. Tra questi militava tal Domenego di Vinturin dal Termeno al Marchese assolutamente sconosciuto, ma se i grandi di questa terra non tengono da conto i piccoli, quest’ultimi nei loro confronti posseggono una memoria di ferro e non sempre nutrita d’affetto e Domenego il contadino ben si sovveniva della faccia di Francesco Gonzaga, giacché costretto di malavoglia a servirlo a Verona. Riconosciuta dunque la sua preda, il giovane villano si era gettato addosso al Marchese, afferrandolo per la manica della camicia e trascinandolo di peso dentro visto che l’uomo stava tentando la fuga dalla finestra del casolare. Alla proposta di comprare il suo silenzio con 6000 ducati, Domenego gli aveva risposto sprezzante: “Vi vojo dar in man di la Signoria” e assieme ai suoi compari lo aveva condotto a Padova come un bove alla fiera, da dove poi il Marchese venne trasferito a Venezia alla Torresella. Missier el Doxe Lunardo Loredan, sier Hironimo Querini Capo dei Dieci e gli altri tre consiglieri sier Alvixe Capelo, sier Hironimo Contarini e suo zio sier Batista Morexini avevano ricevuto di persona e con l’affetto riservato ai figlioli i quattro contadini artefici di quella miracolosa quanto farsesca cattura, istruendo che al loro capo Domenego fosse assegnata una rendita annuale di 100 ducati più altri 100 di dote per sua sorella; agli altri tre una rendita di 50 ducati all’anno. Infine, cadauno se ne tornò a casa con altri 20 ducati a testa per le spese immediate e pure degli abiti nuovi, giacché s’erano presentati a Palazzo Ducale davanti alle massime autorità della Serenissima in camicia, brache e babbucce.

Hironimo Miani, rientrato nella sua casa di San Vidal, non avrebbe mai scordato l’arrivo da Padova di Francesco Gonzaga, con Lizza Fusina talmente ostruita di barche, che pareva un ponte. Tutta Venezia aveva atteso in febbrile eccitazione il fu eroe di Fornovo, un tempo beneamato figliolo ora Giuda Iscariota e non c’era stata una finestra, un imbarcadero, una riva, un ponte che non fosse stato gremito di persone lì anche solo per scorgere per un istante il Marchese prigioniero. Marco, Marco, vitoria, vitoria, apicha el traditor, sorze in cotègo! Turco preso! e gridavano come ossessi, oscillando pericolosamente tra ilarità derisoria e ferocia omicida, al punto che la scorta del Gonzaga ebbe non poche difficoltà nell’attraversare Piazza San Marco, temendo infatti che le guardie o per mancanza d’energie o perché in combutta fallissero a contenere la folla impazzita, pronta a maciullare a mani nude il Marchese, le donne in prima fila avendogliela giurata per la morte o la cattura dei loro uomini.

Il giovane patrizio aveva assistito basito a come i suoi concittadini avessero fatto a gara per riuscir a centrare cogli sputi il Marchese o peggio ancora coi pitali, con immondizia, con fango o qualsiasi cosa li capitasse sottomano. Perfino dai conventi si sentivano certe ingiurie da far rabbrividire. D’accordo, Francesco Gonzaga era un infame traditore e pure un vigliacco, ma non avrebbe meritato forse un trattamento un po’ più dignitoso, magari evitando la parata per i canali come riservato ai malviventi?

Ma i suoi erano pensieri di un ragazzo ancora ingenuo e sobrio da una vera e propria vittoria militare. Hironimo avrebbe compreso infatti il dionisiaco potere provato dal vincitore sullo sconfitto a Padova l’autunno del medesimo anno, dopo aver umiliato i Collegati in un assedio che aveva tenuto col fiato sospeso tutta Europa, per decidere se la Serenissima sarebbe divenuta o meno un ricordo come la Roma degli Antichi. Trascorse due settimane a tagliar a pezzi e bruciar vivi senza sosta tedeschi, francesi, spagnoli, ferraresi, papalini e chiunque altro gli si era parato innanzi, il giovane Miani aveva perduto pezzo per pezzo ogni sua nozione del codice cavalleresco di cui era stato infarcito fin dall’infanzia, arrivando a cantare a squarciagola coi suoi compagni mentre impiccavano sui bastioni di Padova gli ufficiali prigionieri tedeschi, affinché li vedesse bene da lontano l’Imperatore  in fuga.

 

Gi è partù quei slançeman!

Allegronse tutti, friegi,

al dispetto di ribiegi,

ch’i se dié magnar le man.

Gi è partù quei slançeman.

Oh, gi ha havù el bel honore,

quella zente della Magna,

digo ben, l’imperaore,

Franza, Frara, Roma e Spagna.

I ha habù el cancaro ch’i magna

A vegnire sul Pavan.

 

Se non fosse stato per la presa alla collottola da parte di un indignato Lucha, Hironimo avrebbe imitato coloro che, non paghi di veder scalciare nel vuoto i moribondi, avevano preso a gettar loro escrementi e li ingiuriavano: “Te volevi un toco de Padoa? Togalo, porco d’on todesco, togalo, muso-de-merda!” e ancora a cantare a squarciagola:

 

“Su, Todeschi onti e bisonti

Su, su, su, for de la paja;

Voi mai più passate i monti

Se verete a dar bataja;

Vostre arme poco taja

Se la faza v'è mostrata

Su, su, su!”

 

La prospettiva di poter un giorno finire prigioniero non aveva mai sfiorato Hironimo, più rassegnato a quella della morte. Eppure eccolo lì, nelle stinche della suo stessa fortezza con un dolore lancinante alla testa e al fianco, più una nausea montante a serrargli la gola. L’ultimo ricordo prima del buio pece dell’incoscienza corrispondeva al colpo infertogli a tradimento al corsaletto, che l’aveva costretto a voltarsi e decollare indignato il suo avversario, imprecando: “Maladeto can d’un todesco, toga qua!” ma così facendo s’era sbilanciato e scoperto. Se il suo nuovo avversario nella smania di ammazzarlo non fosse inciampato su di un cadavere e di conseguenza rotolati assieme giù per le scale, hé, al posto di ritrovarsi un bel bernoccolo in testa, Hironimo avrebbe piuttosto rimediato un cranio aperto in due, altroché.

Poi il niente fino al suo risveglio in cella e senza la sua armatura, con solo indosso la camicia, peggio dei contadini.

Messosi a carponi, Hironimo cedette e vomitò anche l’anima, reggendosi la testa che gli martellava.

Il tocco leggerissimo di due manine gli levarono dal volto i capelli sudati, per poi massaggiargli delicatamente la schiena. Girandosi di scatto, nella penombra il giovane Miani scorse Thomà, anch’egli assai malridotto, lo zigomo gonfio e un occhio pesto.

“Come sei riuscito a scamparla?”, gli domandò incredulo; teoricamente, non potendo tenere un’arma in mano, sarebbe dovuto esser stato tra i primi caduti nello scontro.

“El reverendissimo sior cappellano, patron. El gaveva 8 ducati co’ lu e i g’ha dati via per no degolarmi, perché m’gero rifugià in la capela, perhò i todeschi lo coparon uguale perché nol gaveva danari per salvar se stesso”, gli spiegò il bambino, tirando su col naso e la voce che gli tremava dal groppo in gola.

Pah, tipico di quegli avidi  agire così. “Chi altro s’è salvato?”

“Ch’jo sapia, i capetanij Doglioni e Colle.”

“Dove xéli?”

“Li tragharon fora per examilarli e par razonar sora la taja. Vuj anchor dormavate.”

Ovvio, per il riscatto. Medesima sorte l’aveva sperimentata Lucha, ma quali sarebbero state per loro le dinamiche? Soldi o scambio di prigionieri? Inoltre, quanto tempo avrebbero dovuto aspettare? Suo fratello era stato prigioniero per ben quattro mesi, un’eternità quasi … O, ipotesi tremenda, se l’avessero mai voluto scambiare com’era successo col D’Alviano, ancora prigioniero in Francia. Ma no! Figurarsi se lui valeva quanto il loro condottiero!

Puntellandosi sui gomiti, Hironimo strisciò fino alla parete, appoggiandovisi con la schiena e il capo, la bocca serrata stretta in modo da impedire ulteriore vomito di fuoriuscire. Maledizione, neanche i dopo-sbornia del Carlevar gli avevano scombussolato così tanto lo stomaco!

Plock … plock … plock …

Una goccia gli cadde sulla scollatura della camicia, facendolo sobbalzare per il gelo, seguita da un’altra e un’altra ancora. Spostandosi, Hironimo appurò trattarsi dell’acqua piovana che s’infiltrava tra le grate delle stinche, unita alla naturale umidità dei sotterranei scavati accanto alla Piave, il cui energico flusso riecheggiava simile ad un lugubre e sordo rullo di tamburo. Dunque ancora pioveva.

Plock … plock … plock …, senza il suo corpo ad attutirne il rumore, le gocce rimbombavano ora nella cella, amplificate dall’oscurità e martellando di conseguenza il cranio del giovane patrizio il quale, esasperato, batté la testa contro il muro tra il ringhio frustrato suo e il gridolino scioccato del bambino, che lo fissava come se avesse perduto il lume della ragione.

E magari ciò corrispondeva al vero.

Idiota, idiota, mille volte idiota, cosa aveva pensato di ottenere col suo ingenuo patriottismo, se non un bagno di sangue? Quei poveri disgraziati, li aveva ognuno sulla sua coscienza, tutta colpa sua, idiota, idiota, coglione orgoglioso a sacrificarli come agnelli pasquali per una causa persa in partenza mentre lui, il più stupido e inutile dei comandanti, ancora seguitava a vivere! Avrebbero potuto riparare a Feltre o a Cividàl di Belluno come quei fottuti bastardi dei Arimondi e Bataja e lì organizzare la controffensiva, invece d’ostinarsi a tenere quelle misere quattro pietre che tanto erano lo stesso state conquistate!

E Menego, il leale servitore che l’aveva visto nascere … I suoi figli Trovaso e Vico! E Nadalin, neppure ventenne … compagni di giochi, con cui aveva condiviso i pomeriggi sulle ginocchia dell’Orsolina … … Morti, uccisi per colpa sua, non avrebbe mai potuto rimediare a quel torto … Li aveva sottratti dalla sicurezza di Venezia … Li aveva privati di ogni futuro … Aveva ripagato la loro fedeltà con la morte … Orsolina, Eudokia Zanetta glieli avevano affidati e lui … e lui … Inutile! Incompetente! Stupido, stupido, stupido!

“Patron, molighe! (smettetela, ndr.) Ve spacaré ea testa!”, lo strattonò per la manica Thomà nel tentativo di distoglierlo da quell’autoflagellazione. “Gera el nuostro deber custodir ea fortaleza, gavé fato el vuostro deber! Niun vi rimprovera gnente!”

“Perché non è rimasto nessuno per farlo! Cospeto e tacca via!”, gridò Hironimo e appoggiò la fronte sulle ginocchia portate al petto.

Calò il silenzio, rotto dal solito Plock … plock … plock …

“Mi dispiace per tuo fradelo Andrea Trepin.”

Thomà si morse imbarazzato il labbro già di suo gonfio, forse da un manrovescio per indurlo a smettere di frignare dalla paura. “Patron, horra ch’el Andrea xé morto, ve lo digo sença timor: el no gera mi fradelo.”

Il giovane Miani girò di scatto la testa, chiudendo gli occhi per le repentini vertigini provocate da quel gesto inconsulto. “Cosa?”

“El sior mio pare e la mia siora mare i xéi volai in Cielo presso la Nostra Dona, cortesia de li todeschi, cussì chome i mii veri fradeli e sorele. Per on anno, me sun ranzato, niun ne volea saver de mi, poaro orfano, una bocha in pì da sfamar. Ma el Andrea l’gera un bonomo e un bon christiano, cussì com’el sior sòo par Vitor. El me g’ha dito: Aver ti visin no me fa ni pì richo ni pì poaro, ma un fradelo piccinin xé senpre ‘na bea cossa d’aver. E cussì la xé andà e mi sun zonto qua, chome soo assistente per smissiar la polvere da sparo.”

Un comandante invero competente era stato, abbindolato perfino dai propri bombardieri e i loro mocciosi appresso!

“Seu arabià, sior patron?”

“Cosa cambierebbe se lo fossi?”

“Donca, sonjo libero de dirve n’altra cossa?”

“Se proprio no te pol star zitto”, sospirò stancamente Hironimo, nettandosi gli angoli della bocca col dorso della mano.

“Me facevate assa’ paura, senpre a criar pèzo d’on matto e co tal muso da gorgon, parevate voler trasformare gli omeni en piere!”

Silenzio.

“Thomà?”

“Comandeu, patron?”

“Tasi!”

In quell’istante s’aprì la botola della cella e sia Hironimo che Thomà vennero issati su assai malamente, manco quei balordi di soldati avessero avuto intenzione di staccarli le braccia.  Li spintonarono fuori in direzione del cortile interno, là dove li attendevano La Palice già a cavallo e i suoi uomini pronti a partire. Paulo Doglioni e Christofal Colle si trovavano lì, anche loro spogliati fino alla camicia, frastornati e coi segni delle percosse ben visibili. Li avevano legati le mani con corde strette ai carri, così da trascinarseli via al campo di Montebelluna; dunque, cogitò Hironimo, là sarebbe avvenuto lo scambio o il pagamento del riscatto. Non scorse invece Vittore del Pozzo, sicché ne dedusse esser riuscito a riparare con la sua compagnia o a Feltre o a Cividal di Belluno.

Malgrado la luce livida di una giornata oscurata dalla pioggia, essa ferì ugualmente gli occhi del patrizio e del bambino oramai abituati all’oscurità della cella; nondimeno, gradirono assai l’aria pura e fresca, sebbene per qualche istante. Passato infatti il piacevole scombussolamento di uscire all’aperto, esso venne rimpiazzato dall’orrore di ciò che li circondava, una volta guardatisi più attentamente attorno: cadaveri nudi e lividi, ammassati in pile manco cataste di legna per l’inverno era quanto rimasto della guarnigione di Castelnuovo di Quero. Riconoscendo tra di essi Andrea il bombardiere, Thomà nascose di scatto il volto contro l’anca di Girolamo, piangendo sommessamente, le spalle minute sconquassate dai singhiozzi. Senza rendersene conto, il giovane castellano gli appoggiò la mano sulla testa a mo’ di consolazione, fissando ipnotizzato quel grottesco spettacolo.

Percepì lacrime salate colarli nella bocca, quando individuò, rigidi in un’ultima angosciosa smorfia, i volti di Trovaso e Nadalin, semi-seppelliti in quel groviglio violaceo di corpi.

 “Vi avevo avvertito, monseigneur le châtelain , che avremmo fatto preda di voi, se aveste perseguito nella vostra insensata difesa”, gli ricordò il maresciallo francese col medesimo tono di un padre che redarguisce un figlio discolo. “Eccone la prova!” e indicò i soldati marciani trucidati.

Hironimo digrignò i denti, replicandogli sferzante: “Se intendente prova d’esser degli animali, mi trovate molto d’accordo.”

“Anche nella sconfitta ci riservate solo insolenza?”

“Fin troppa cortesia per voi barbari.”

La Palice scosse il capo. “Legateli assieme agli altri. On returne au champ de Montebelluna!”.

Ma prima che i soldati potessero avvicinarsi a loro, un iroso ruggito fendette l’aria, riecheggiando per il cortile interno alla stregua di un rombo di cannone. “Pas si vite! Al tempo!” e girandosi videro Mercurio Bua avanzare a grosse falcate verso il maresciallo francese, gli occhi iniettati di sangue e livido in volto.

“Avevamo un patto, monseigneur de La Palice!”

“Vi lascio presidiare questo Castello fino all’arrivo dell’Imperatore, non gradite l’onore?”, replicò sbrigativamente l’interessato in questione, più che altro per evitare scenate dinanzi ai soldati.

Il comandante greco-albanese, invece, pareva di diverso avviso, ché insistette: “Mi ci sciacquo il gargarozzo coi vostri onori. Anzi, è grazie ad essi, se siamo rimasti senza bottino e senza cibo, padroni di un cimitero!”

“E che mi dite delle scorrerie dei vostri uomini? Non portano vettovaglie rubate ai contadini?”

“Appena per sfamarci qualche giorno e quando i miei uomini riescono a ritornare vivi e in un sol pezzo, ben inteso. Tra gli stradioti marciani e i contadini, non si sa chi si diverta di più a maciullarli!”

“Poche storie, capitaine Bua, è deciso: fino all’arrivo dell’Imperatore, rimarrete qui!”

Malakas”, imprecò sottovoce l’uomo e meno male che La Palice non comprendeva la sua lingua, altrimenti non avrebbe di sicuro gradito il complimento rivoltogli. “Non verrà, ve l’assicuro!”

Un agitato mormorio si diffuse tra i soldati. Come sarebbe a dire che il Re dei Romani, garanzia di sostentamento e per il quale stavano rischiando notte e dì la pelle, non sarebbe venuto?

La Palice percepì quel montante disagio e decise di porvi immediatamente rimedio, evitando che sfociasse in disordini. “Dubitate dell’augusta e sacra parola dell’Imperatore?”, sfidò egli apertamente il condottiero greco-albanese a contraddirlo, domanda ostica da rispondere lì davanti a tutti, senza rischiare un’accusa di sedizione. Soddisfatto del silenzio rancoroso di quel satanasso, l’uomo impartì di nuovo l’ordine di mettersi in marcia.

Sennonché, all’ultimo, Mercurio Bua berciò ai suoi uomini: “Tani!” e in un lampo, Hironimo avvertì qualcosa stringerlo al collo e trascinarlo indietro mentre Thomà gli si aggrappava nell’inutile tentativo di trattenerlo, finendo invece per venire anch’egli trascinato via dall’greco-albanese, subito circondato dai suoi stradioti con le spade e le balestre puntate contro i disorientati soldati franco-imperiali. Zilio Madalo recise le corde di Paulo Doglioni e Christofal Colle, spintonando anche loro nel quadrato improvvisato.

“Che significa questo, monseigneur?”, gridò indignato e confuso La Palice da tanta sfacciataggine.

Una volta espugnato Castelnuovo, potrete appropriarvi di qualsiasi cosa vi sia di gradimento al suo interno”, gli ricordò verbatim il condottiero la promessa del giorno precedente. “Ebbene, questi qua” e accennò col capo sia i capitani bellunesi sia un Hironimo sempre più paonazzo in volto per l’incapacità di respirare a causa della stretta al collo, “si trovavano all’interno del Castello e sono assai di mio gradimento. Me li sono più che guadagnati! Se non fosse stato per il sottoscritto, a quest’ora ce ne stavamo stupidamente a farci impallinare alla stregua di anatre! Non ho quindi il diritto di reclamare il bottino promessomi? O”, e qui il suo ghigno s’allargò diabolicamente, “il maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice è uno spergiuro, che non mantiene i patti? Questo dovrò riferire al Roi de France Louis?”

Anima semplice, aveva affermato il comandante francese? Anima da forzato, di uno stramaledetto pendaglio da forca dalla lingua lunga, ecco cos’era quell’uomo!

“Tre giorni, capitano Bua”, cedette infine La Palice, non desiderando minata la sua autorità dinanzi ai soldati: adesso capiva come mai, tra tutti i capitani insoddisfatti e senza paga, l’unico a riuscire a far valere le sue ragioni dinanzi allo stesso Re dei Romani fosse stato proprio Mercurio Bua, costringendo il Cesare Augusto a piegarsi ed esaudire ogni suo capriccio. “Tre giorni rimarrete qui in attesa dell’Imperatore. Se al terzo non si presenta né ricevete conferma del suo arrivo, potrete rientrare al campo. Ovviamente, se riuscirete a tenere la fortezza in ordine fino ad allora.”

La morsa al pezzo di corda al collo di Hironimo s’allentò e il giovane boccheggiò aria, tastandosi di riflesso la carne martoriata. “La vostra ragionevolezza mi consola, monseigneur”, convenne soddisfatto il greco-albanese, esibendosi in un beffardo inchino deferente.

Il maresciallo La Palice gli scoccò un’ultima occhiata nauseata e le truppe si misero in marcia.

Finito di osservare sornione l’esercito che si allontanava dal Castello, mormorando tra sé e sé Mercurio Bua commentò: “E pensare che stavo per essere sconfitto da un bambinetto come te … Di nuovo”, cogitava ad alta voce, notando come Hironimo ancora tossisse, il collo segnato da chiazze scure. Avvicinatoglisi, seguitò incautamente: “Chissà poi com’hai ottenuto quest’incarico … hai forse pianto dall’avuncolo? O con quei begli occhi neri hai sedotto qualcuno in Senato?”

Al che il giovane Miani cessò di tossire e giratosi lentamente verso di lui, lo fissò con tale odio da crocifiggerlo per poi esprimere la sua modesta opinione a riguardo in greco corrente: “Lo vuoi un consiglio, keratas? Cagati in mano e prenditi a schiaffi!”, gracchiò.

Un pugno allo stomaco lo zittì, forzandolo a carponi.

“Dunque sul serio, non ti ricordi di me a Padova?”

Ansimando, il patrizio replicò: “Una faccia da turco come la tua? Avrei avuto gli incubi a ricordarmela!”

L’espressione del Bua si trasformò in un qualcosa di mostruoso. “Oh, li avrai gli incubi”, l’assicurò, ordinando ai suoi uomini di rigettarlo nei sotterranei. Siccome poi, si sentiva d’umor particolarmente dispettoso, gli fece gettar addosso una secchiata d’acqua gelida della Piave, ridendo sguaiatamente all’urlo acuto di protesta sia di Hironimo che di Thomà, colpito suo malgrado dalla fredda cascata.

“Avanti, un’altra!”, gridò giulivo il capitano tra le grasse risate degli stradioti. “Che Sua Signoria si netti un poco la lingua!”

 

***

 

 “Me maraveggio ch’el abbia uto tanto muso da mostrarsi qui a Trevixo!”

“Non solo g’ha abbandonà Castel Novo, ma pur Cividàl de Belluno!”

“Pajàzo! Canàja! Pendajo da forcha! Meriterebbe l’oggio bollente!”

“No! Le tenaglie!”

“Ma perché el sier Provedador no g’ha dato orden de farlo apichar?”

“In tempi de carestia, ogni omo xé utile ancha co nol g’ha cogiòni!”

“Aveu visto con che muso el sier Marco Miani lo varda? Par volerselo manzar vivo!”

“Burlestu?” (scherzi, ndr.)

“El Batagin Bataja g’ha abbandonà so fradelo, il quale gera el castelan de Quer!”

“Dasseno?” (davvero?, ndr.)

“No!”

“Oh sì! El magnifico sier provedador Zuam Paulo g’ha affidato apposta quel caga-in-braghesse dil Bataja a la supervision dil sier Marco, perché lu lo scruterà assa’ attentamente, nella speransa ch’el scampoli cussì da cavarse el piazer de coparlo de propria man con la scusa di diserzione!”

“Pulito!”

“An, ecco perché el g’ha senpre ea man a la spada e gli oci tacai a la soa schiena.”

“Silenzio là, banda di comari pettegole!”, rimbeccò Lorenzo “Renzo” Orsini degli Anguillara di Ceri quel gruppetto a suo gusto un po’ troppo chiacchierone,  supervisionando intanto i lavori di pulizia dalle macerie della case abbattute lungo le mura. Non appena si girò dalla parte opposta, gli venne elargito un bel segno sconcio che provocò l’ilarità degli altri civili per poi chetarsi subito, quando il capitano delle fanterie, attirato dalle risate, si focalizzò di nuovo su di loro.

Onde velocizzare i lavori di fortificazione delle mura e della città già incominciati due addietro su progetto di Fra' Giocondo da Verona, il provveditore Zuam Paulo Gradenigo aveva emanato l’ordine che ogni trevigiano – sia laico che religioso – dovesse contribuire allo smantellamento degli edifici e smaltimento dei detriti. Infatti, per far fronte alle tensioni tra i soldati e i civili e soprattutto alla fiumana di fuggitivi dalle campagne che si riversava ogni giorno incontrollata in città, il Provveditore e il Consiglio Cittadino avevano convenuto come nessuno a Treviso dovesse stare con le mani in mano a poltrire; anche i rifugiati, se abili e in salute, al meglio delle loro possibilità e competenze col proprio lavoro dovevano ripagare la protezione, il pane e il vino offertoli da Treviso. Essendo la maggior parte di essi dei braccianti, con tale incarico ci andavano a nozze, fornendo un prezioso aiuto.

Fin qui dunque tutto bene, malgrado la pioggia battente che proprio non voleva smettere di cadere e impacciava di conseguenza i movimenti. Abbandonate dunque la berretta, la veste e il farsetto in mano alle loro donne, (tutte schierate sotto i portici, le braccia incrociate sotto gli zendali) i trevigiani si erano messi a lavorare nel fango più fradici e sporchi di quando la Melma straripava e allora dovevano andare a rovistare e liberare le zone allagate. Anche i monaci si erano rimboccati le maniche, onorando l’antichissimo ora et labora.

Tuttavia, quando avevano visto arrivare il Batagin Bataja e i suoi uomini assieme a sier Marco Miani (questi con una faccia da Gorgone Medusa), ecco che la bile aveva incominciato a ribollire, non gradendo dover faticare accanto a quei vigliacchi e all’occasione, quando l’Orsini non guardava, ne approfittavano per lanciar loro qualche manciata di fango addosso.

A peggiorare le cose, dopo il campanile si era annunciato l’imminente abbattimento del monastero di Santa Maria Maggiore e ai trevigiani era venuto un colpo, soprattutto essendo in pena per la sorte dei Canonici Regolari di San Salvatore, loro custodi. Al priore Fra’ Hironimo Francesco Bono e i suoi confratelli non era rimasto altra protesta, se non quella di piangere e recitare rosari, mentre il loro amatissimo santuario veniva demolito pezzo per pezzo, manco fossero ritornati gli Ungari [7].

“Spero solo che lassino star la capela di la Devotissima, la qual senpre g’ha difeso Trevixo da li nemici”, confessò a fine giornata Donado Cimavin a Marco Contarini “dai Scrigni”, mentre si dirigevano a casa del primo poco distante dalla chiesa di San Francesco.

Il giovane patrizio annuì distrattamente, più impegnato a scostarsi col polso alcune ciocche biondo-rossicce dalla fronte e a guardarsi infelice le mani doloranti e sanguinanti dalle vesciche pur avendo lavorato coi guanti, rimpiangendo quel suo colpo di testa di voler aiutare i soldati e i civili “volontari”. D’altronde, aveva provato un bisogno matto di sfogarsi contro i mattoni, non avendo potuto prendere a picconate la faccia del Bataja. Al convegno a Palazzo dei Trecento, dinanzi alla pesante accusa d’aver mancato alla parola d’onore data ad Hironimo Miani, ossia di venirlo a prelevare in caso di pericolo, ecco che il Batagin aveva replicato con una scrollatina di spalle: Non è mica colpa mia, se quel pazzo insolente e cocciuto ha voluto restare a tutti i costi lì a morire!

Come Marco Miani fosse riuscito a trattenersi dallo strappare a morsi quella faccia di bronzo, mistero e lode al suo autocontrollo. Eppure, Marco Contarini era certo di averlo scorto barcollare in preda ad una violenta vertigine nel momento in cui quel giovane soldato scampato dal Castello - Cabriel si chiamava? -  gli aveva ceduto le redini di Eòo e Marco conosceva abbastanza bene il Cor suo da sapere che solo da morto egli si sarebbe separato dall’amatissimo cavallo.

Tre giorni erano trascorsi dalla caduta di Castelnuovo di Quero, ma della sorte dei suoi difensori si ricevevano notizie incerte e contraddittorie: Domenico da Modone aveva appreso come se ne fossero salvati solo quattro su cinquanta, ma ignorava se il castellano fosse tra questi, anzi, confuse perfino Hironimo con suo fratello Carlo che per poco non gli era costato il collo da parte di un furibondo Marco Miani; il capitano Costantino Paleologo tramite i suoi esploratori infiltratisi nel campo di Montebelluna aveva riferito del ritorno del maresciallo La Palice e di come il francese stesse preparando un’invasione di Feltre risalendo (chissà perché) la Valle della Brenta. Altre spie avevano confermato il rilascio dei capitani bellunesi Doglioni e Colle dietro cospicuo pagamento. Feltre e Cividal di Belluno erano state abbandonate - avevano aggiunto-  i rispettivi podestà fuggiti a Serravalle in attesa di conoscere la risposta dell’Imperatore al loro ambasciatore, non avendo infatti alcuna alternativa se non la resa, specie se era vera la notizia di un doppio attacco a sud-ovest della Valle Serpentina.

Ma di Hironimo, ancora nessuna conferma se fosse vivo o morto e Marco Contarini, essendogli stato negato dal Gradenigo il permesso di unirsi alle missioni d’avanscoperta e incapace di respirare a causa di quel groppo in gola, era improvvisamente smontato da cavallo e s’era messo furiosamente a vangar via la terra e a sollevare mattoni pur di sfogare in qualche modo quel suo dolore, grato della pioggia torrenziale che gli nascondeva le lacrime. Si era ripetuto che in teoria era assai improbabile che avessero ucciso Hironimo, un patrizio veneziano rimaneva nel mercato dei riscatti una merce troppo preziosa da sprecare stoltamente. Eppure, non era da escludere che il Cor Suo, orgoglioso e testardo, avesse scelto di morire piuttosto di lasciarsi catturare.

“A caxa, la mia mojer la ve darà un fiatin d'unguento e bende – no gh’aveu mai laorato co’ le mani?”, gli chiese candidamente intrigato Donado e Marco gli elargì un cortese sorriso di circostanza, scuotendo il capo in diniego.

Al suo arrivo piuttosto inaspettato a Treviso, giacché aggiuntosi all’ultimo momento e non volendo soggiornare dallo zio – il podestà sier Andrea Donado -   il giovane Contarini era stato assegnato in via temporanea, ve lo zuro! in casa dei Cimavin, di professione mugnai, il che aveva impensierito non poco Marco, siccome non godevano gli esponenti di tale professione esattamente di buona fama – ladri, imbroglioni, usurai della farina -  non si soleva forse ripetere: i muneri i roba pregando? [8] Non ne avrebbero mica approfittato per derubarlo nel sonno, vero?

Il giovane patrizio aveva però ben presto scoperto con suo sommo sollievo come i Cimavin sì fossero mugnai, però già agiati di loro nel senso che possedevano ben tre “rode de molin” a Treviso e  lungo il Sile, un gran lusso: un mulino, il più grande, lo lavoravano direttamente loro; due li avevano dati in affitto a conduttori di fiducia, venendo tuttavia a controllarli spesso sia per la manutenzione che fosse costante sia per la produzione che non doveva calare sotto i livelli imposti della Serenissima, pena l’esproprio. E il padron peggiore è quello del mestiere.

Anche con la guerra in corso le loro fortune non erano mutate, anzi, l’ultimo che more de fame xé el munèr e Donado Cimavin aveva ben compreso la pressante richiesta di farina e pertanto i suoi mulini giorno e notte macinavano non solo per la popolazione trevigiana, bensì per Venezia, per l’esercito e le città limitrofe, con ritmi lavorativi talmente serrati che lui stesso dormiva all’occasione al mulino. Con l’arrivo dei soldati e il timore di eventuali danni, Donado aveva organizzato una contro-ronda coi suoi braccianti, così da controllare che quelle malerbe non gli rubassero o peggio danneggiassero la sua roba, bastonando senza pietà qualora necessario. E per roba sua intendeva anche la moglie, la siora Felicita, il cui palpeggiamento il Cimavin non aveva affatto gradito.

Ed eccola lì, la matrona di casa, seduta accanto al centro della stanza principale impegnata in apparenza a rammendare, in realtà i suoi occhi seguivano stretto ogni movimento della serva e del piccolo Jacopo seduto in braccio alla vecchia siora Luzia, sua madre. Donado andò subito incontro alla moglie, sennonché la giovane, annusando l’aria lo bloccò prima che potesse abbracciarla.

Noli me tangere!”, proclamò ieratica, il braccio levato a creare la debita distanza. “Seti onto, ve spuzate da cagnon e non vi vojo da rente! (vicino, ndr.)”, ma se le parole sembravano aspre, gli occhi e la bocca luccicavano di contentezza nel riavere ora per sé il marito, seppur sporco di fango e bagnato dalla pioggia e dal sudore.

“Aveu assunto ‘na massera?” (serva, ndr.), notò d’un tratto Donado la ragazza che stava riattizzando il fuoco nel caminetto, la quale si pose frettolosamente in piedi e salutò il nuovo padrone con un goffo inchino.

“Sior sì.”

“Sença dirme gnente?”

“Mi sun la patrona de caxa.”

“E mi el marido che paga.”

“Appunto, paghé! Qua a furia di prender zente in caxa, mi non sciò pì chome starghe drio!”, si giustificò impunita la moglie, senza smettere l’agile andirivieni dell’ago nella stoffa.  “An, la puta la se ciama Màlgari. La soa fameja la xé zonta ozi dal Montelo e la g’han alozata a la contrada di San Martim. Mi zerchavo guarda caso propio qualcheduna che m’ajutasse e la soa siora mare la me g’ha dito a man zonte: Madona, tolevela in caxa, la xé na brava puta de quindece anni, robusta e assa’ brava in cucina, v’ubbidirà in ogni cossa le comandaré . Et jo potevo rifiutar ad una poara mare disperata? Hé! Un fia’ di carità christiana!”, gli narrò, seppur l’espressione del marito seguitasse a rimanere molto scettica. Al che Felicita  esclamò spazientita: “Animo, andé a lavarve e fate pase col savon, deboto (fra poco, ndr.) svengo per via de sta spuza!”

“Vado, vado, perhò dopo faremo i conti!”

“Sì, sì sior marido, ché la puta la vol esser pagata in anticipo per la semana!” e rise all’imprecazione del consorte che riecheggiò dalle scale. Cambiando totalmente il tono di voce in uno più vezzoso, cinguettò in un sorrisone tutto fossette a Marco, rimasto saggiamente in disparte e sordo: “Zelenza, la massera la g’ha preparà un bel bagno ancha par vu; stasera, poi, gavemo di la lengua de bo’ co poenta e verdure bollite. Ve piaseu?”

“Mi piacerebbe, sì”, asserì educatamente il giovane patrizio, seguitando a sfregarsi le mani doloranti.

“Malgari, corate a ciapar el balsamo e di le bende pel magnifico messer domino Marco Contarini. Lesta!”, diede istruzioni Felicita alla domestica, la quale scese rapida ai piani inferiori.  Invitando Marco a sedersi, la giovane matrona riprese il suo lavoro. “Chome stanno i vuostri omeni?”, s’informò, riferendosi ai cinque soldati a spese del Contarini giunti seco da Padova. D’accordo presentarsi all’ultimo, ma senza nessuno come seguito proprio no, troppo sospetto. Per fortuna Ferigo gli aveva indirettamente indicato dove poter trovare dei volontari poco inclini a porre domande sconvenienti.

“Bene, ch’io sappia.”

“No ghe spiaseli alozar nel molino?”

“Si accontentano.”

Madona Felicita sospirò teatralmente. “Femo zò che podemo. D’altronde, cadaun zorno ne scapan cussì tanti a Trevixo, che non si sa pì ni dove metterli ni che cossa farli far. Bisogna dar a sta zente da laorar, sennò i vegne in testa strane idee. Chome predicava zustamente San Paulo: Chi non lavora non mangia! ché l’otium xélo pater de ogni vitium!”

Ascoltando il sermone in silenzio, Marco si guardava nel frattempo attorno, cogliendo i piccoli dettagli della stanza, dalle grezze decorazioni del grande caminetto, al vasellame di ceramica dipinta di Bassano, forse l’unico pezzo di pregio della casa e di fatti ben esposto all’occhio critico del visitatore. Studiò il fuoco scoppiettante, il biancore della tovaglia del grande tavolo guizzare nella penombra, il buco dei calzoni sparire gradualmente sotto i colpi dell’ago e filo. Cogli occhi accarezzò i soffici capelli del piccolo Jacopo che giocava felice e ignaro ai piedi della madre, la quale a sua volta passava di tanto in tanto la mano sul ventre sempre più grosso. Una scena domestica, serena, irreale quasi: quanto lontana pareva la guerra lì dentro! Eppure, bastava varcare la soglia di quella stanza per ripiombare nella sua squallida realtà.

“Siete molto tranquilla, madona”, commentò di punto in bianco.

L’espressione della giovane assunse tinte amare. “An, g’ho patìo de ben pèzo d’on assedio … Do anni fa, per puoco non divenivo vedoa co’n puto de quattro mexi, se nol gera pel magnifico messer Hironimo Miani.  Cossa gavaria fato mi sença el mio Donado? Jo, sola al mondo a diciasete anni co’n puto! Sier Hironimo me lo g’ha riportà vivo, el non gavea alcuna obligazion con elo, eppur me lo gh’ha riportà indrio, vivo!”, tirò su col naso, la maschera di cinica nonchalance caduta e Marco vi scorse dietro una fanciulla spaventata.

Felicita s’accarezzò ansiosa il pancione, memore del terrore atroce provato quando s’era vista il marito ricoperto di fango e sangue zoppicare verso casa, con Hironimo che lo sorreggeva per il braccio.

“Poaro, poaro sier Hironimo, g’ho tanto pregà la Devotissima azzò lo protegesse! Poareto,  non se meritava sta baronata. Non si abbandonano cussì i propri compagni!”, si asciugò la donna una lacrima ribelle, sorridendo imbarazzata a mo’ di scusa. “Zelenza, vuj seti omo de mondo, donca per cortesia  prudensa col fradelo, el magnifico messer Marco Miani: da quando g’ha savuo di la nova, a xé divenuo un tal salvadego; non si pol parlargli senza che ve morseghi. Poareta la soa siora mojer madona Helena, la compatisso!”

Marco si drizzò sulla sedia, scattando in avanti verso la donna. “Sier Marco xelo qui? In sta caxa?” Sin dal suo arrivo a Treviso, il Contarini aveva cercato invano di conferire con lui, tuttavia fallendo ad ogni occasione anche perché troppo impegnato il Miani sia con le ronde, sia a tener sottocchio il Bataja nella speranza di poterlo accusare di diserzione e così ucciderlo lentamente, con gusto.

“Macché, i xei nuostri visini. I g’han na caxa qui da che mo’, no saveu? El mio missier (suocero, ndr.) masenava le farine pel quondam sier Anzolo Miani, el qual gera on tal galantomo, sì sì.”

 “No, no ... cioè, sì ma non pensavo che … Avessi saputo, avrei chiesto …”

Gli occhi di madona Felicita si strinsero di dispetto, la fronte corrugata e le labbra piegate all’ingiù, pronte alla pugna sia dialettica sia della padella delle castagne in testa. “Zelenza, co tuto respeto, non ci credareu mica indegni d’alozar vuialtri patricij?”

“Non sia mai, voi siete i migliori anfitrioni dell’intero Stato da Tera! Non avrei potuto sperare in miglior alloggio!”, tagliò corto Marco, le gote vermiglie e sentendo la sua persona piuttosto minacciata. “Solo, non immaginavo che la famiglia Miani abitasse proprio in questa contrada. Che caso raro!”

“Ma ve par? Manco mi ghe credea!”, esclamò gioviale Felicita, distendendo il viso in un’espressione più rilassata. “Zò, Malgari, sistu andà fin a San Vio [9] a ciapar sto unguento?”, gridò verso le scale conducenti alla cucina.

 “Vi servo, patrona, vi servo!”, sbuffò l’ex-contadinella, prendendo uno sgabello e posizionandosi davanti a Marco, afferrandogli energicamente brusca il polso e mettendosi al lavoro. “A vara zò che man de tosa!” (ragazza, nr.), commentò in genuino stupore.

Nascosto in maniera strategica dalla fantesca che gli disinfettava e bendava le mani piagate, il giovane Contarini sospirò di sollievo per lo scampato pericolo di un incidente diplomatico -domestico.

Come facesse Hironimo a relazionarsi con ogni ceto sociale e a stringere amicizie sincere tra i loro esponenti con tal facilità da risultargli naturale quanto respirare,  Marco ancora faticava a comprenderlo ché lui dopo un’oretta a conversare con madona Felicita già gli stava venendo un gran mal di testa.

 

 

***

 

“Donca, porco d’un can franzoso, hastu voja de parlar?”

Alors, sale chien français, as-tu envie maintenant de parler ? "

Comme si vous me faisiez peur, vous, un porc cocu Vénitien ! 

“Che ciancia sto macaco?”

“Che non vi teme e che … e che voi siete un porco cornuto, magnifico sior Provedador.”

“A mi dil cornudo?! Paron Fortunato: date a questo furbastro qualche sorsetto d’acqua in più. Vedremo, se avrà ancora voglia di far lo spiritoso!”

Nelle stinche dietro a Palazzo dei Trecento ci si stava impegnando da molte ore e con grandi sforzi ad insegnare il veneziano al prigioniero francese, il segretario del maresciallo de La Palice, catturato da Nane il contadino sul Montello e condotto a Treviso legato e pestato alla stregua del baccalà mantecato del venerdì. Provando una piccolissima pena nei suoi confronti – le terrificanti prodezze che una donna arrabbiata può compiere quando armata anche solo di un batocchio di legno – gli inquisitori avevano deciso di limitarsi a farlo sedere al centro della sala, schiaffeggiandolo ogni tanto giusto per tenerlo sveglio, ma porgendogli soltanto domande. Una volta però ripresosi dal selvaggio trattamento campestre, il francese s’era armato di beffarda spavalderia e aveva rifiutato di tradire il suo maresciallo, ingiuriando sempre più pesantemente gli astanti al punto che l’interprete sudava freddo ad ogni frase tradotta.

In altre circostanze, e magari con altre persone, tale tenace atteggiamento avrebbe anche destato l’ammirazione di chi allo spirito cavalleresco ci credeva ancora. Siccome però la vita reale si riassumeva meglio in uno spiccio “ciò che voglio prendo, poco importa come e guai a te se mi fai la morale”, ecco che il segretario all’ennesimo insulto agli onorati presenti venne condotto in una cella sotterranea e lì s’incominciò il vero e proprio interrogatorio.  Legato ad una tavola di legno leggermente inclinata verso il basso e con la testa in quella medesima direzione, il francese col naso tappato fu costretto a bere acqua finché non si sentiva soffocare, tra colpi di tosse, vomito e fiumi d’urina per la vescica sovraccaricata da quell’inaspettata quantità di liquidi da smaltire.

“Parla, cancaro! O te fazzo tajar i cogiòni!”

Parle, racaille! Ou je vais te faire couper les couilles! ”

Il francese, trattenendo un po’ acqua in bocca, la sputò in faccia al Gradenigo, ringhiandogli contro: “Je vous encule, boule de suif!”

Nettandosi il viso bagnato e paonazzo per l’affronto, il provveditore lanciò un’occhiata molto significativa all’interprete, che farfugliò penosamente quasi sveniva: “Sier Zuam Paulo … devo proprio?”

L’arco minaccioso del sopracciglio dell’uomo gli confermò che sì, doveva proprio bere l’amaro calice di tradurre tutto fino all’ultima parola. Pregando la Madonna, il poveraccio gli riferì quanto detto dal segretario.

Un silenzio di tomba calò nella cella e neanche il capitano Vitello Vitelli, che pur di grossolanità ne aveva udite a bizzeffe, riuscì a guardare dritto in faccia il Gradenigo, il cui labbro inferiore tremò in un pericoloso rictus nervoso. L’unico serafico pareva sier Lunardo Zustignan, che anzi sorrideva lezioso al francese. “S-ciavo, sior canzelier. Stavolta l’hai fatta!”, gli sussurrò ironico.  

Di diverso umore sguazzavano l’interprete e lo scrivano, spostando agitati lo sguardo dal provveditore al prigioniero e viceversa, in attesa dell’esplosione. “Sier …”

“Ah sì?”, sibilò sier Zuam Paulo, alla penombra un diavol d’inferno quanto l’era in collera.  “Cussì me la conti? Che te me vol …”, si trattenne a stento, inspirando forte per il naso “… a me? Lo sai, muso-da-mona, cosa facciamo a Veniexia a chi copula alla fiorentina? Li bruciamo!”, berciò e  preso un attizzatoio, lo passò sul fuoco finché non divenne rovente, sventolandolo infine sotto il naso del prigioniero. “Se non vuoti il sacco in questo esatto momento, puoi immaginare dove ti ficco questo?”

E l’interprete più che tradurre le parole di Zuam Paulo Gradenigo, faticò a riportare parola per parola la fiumana che fu la confessione del terrorizzato francese.

Brevemente, Castelnuovo di Quero era stata conquistata con un inganno, essendoci dei traditori che fungevano da guida ai franco-imperiali nel feltrino, bellunese e trevigiano – Gradenigo volle e ottenne i nomi. Del castellano ignorava la sorte; l’Imperatore ancora cincischiava a Bolzano e intanto si puntava ora su Conegliano, Feltre e Cividàl di Belluno. Il francese aggiunse poi che La Palice aveva in progetto di rientrare a Montebelluna in attesa dei rinforzi che da Vicenza sarebbero arrivato a Marostica, dove si diceva li aspettasse il duca di Baviera e da lì sarebbero partiti con fanti almeno 10.000 per l’impresa, più 13 pezzi d’artiglieria (grosse, mezzane) e quasi 30 tra falconetti e colubrine; cavalleggeri tra i 1.500-2.000.  

Treviso sarebbe caduta - li assicurava -era già in mano loro come tutta la Marca; appunto per questo era intenzione dell’Imperatore di svernare in città per poi puntare su Venezia.

Soddisfatto, Gradenigo appoggiò l’attizzatoio rovente e il segretario del La Palice ritornò a respirare con la bocca.

“An, e dategli una dozzina di frustrate, come da protocollo. Non troppo forte, ma neanche da putelo, tutto esercizio, tutta salute”, aggiunse poi il provveditore generale non appena lo scrivano appoggiò la penna, mentre si sedeva sullo scranno pronto a godersi compiaciuto i frutti del suo duro lavoro. Facendo spallucce, incurante, il boia si apprestò a riscaldare la frusta sulla schiena del francese.

“Ma perché?”, chiese perplesso il podestà sier Andrea Donado “dalle Rose”. “Ha confessato!”

“Sì, ma no me xé garbà el tono!”, insistette seccamente Gradenigo, massaggiandosi al fianco là dove friggeva il suo povero fegato.

“Signor Gian Paolo, con vostra buona licenza, incomincio il turno di ronda per stasera.”

Schiocco-urla … schiocco-urla … schiocco-urla …

“Già s’è fatta sera? Sì, sì, andate pure capitano Vitello. Vi raggiungerò più tardi.”

“Con permesso.”

Schiocco-urla … schiocco-urla … schiocco-urla …

“Un cosa qui ancora mi sfugge: questo Papa è vivo o morto?”, cogitò ad alta voce sier Lunardo Zustignan, una volta che il capitano Vitelli ebbe chiuso dietro di sé la pesante porta.

Schiocco-urla … schiocco-urla … schiocco-urla …

Osservando sempre più disgustato lo spettacolo dinanzi a sé, il podestà replicò: “Il fante ferrarese non aveva detto esser morto? Anche il governatore di Millan, il duca Gastone di Foys si è rallegrato pubblicamente della sua morte. Che ne pensate, sier Zuam Paulo?”

Schiocco-urla … schiocco-urla … schiocco-urla …

“Mah … quel fiorentino è una canaglia, un parassita, difficilmente la pula la si cava dal grano …” L’essersi staccato dalla Lega di Cambrai, una volta ottenute le città della Romagna, non aveva garantito a Giulio II l’immunità da lui sperata, al contrario: sia il Re di Francia che l’Imperatore avevano indetto un concilio a Pisa per eleggere un antipapa e gran gaudio generale nell’immaginare quel disgraziato rosolarsi nei suoi medesimi rimorsi, avendo dimenticato che Venezia, gli piacesse o meno, era un necessario cuscinetto tra lo Stato Pontificio e Francia e Impero. Chi troppo vuole nulla stringe, dice il proverbio, ma forse Della Rovere era stato disattento quel giorno.

Schiocco-urla … schiocco-urla … schiocco-urla …

Avendone abbastanza e ottenuto le informazioni necessarie, i tre patrizi veneziani lasciarono la cella mefitica e claustrofobica e il francese nelle ottime mani di paron Fortunato, boia di qualità.

Quando giunsero in Cancelleria, la trovarono rivoltata in piena rumorosa confusione: i consiglieri, i rettori, i coadiutori e l’auditore sier Piero Antonio Morexini avevano circondato Cipriano da Forlì e la giovane staffetta, discutendo assai animatamente.  Perfino Vitello Vitelli, dimentico della ronda, ascoltava incredulo.

“Coss’ela sta cagnara? Siamo forse a Carlevar?”, li rimbeccò il podestà sier Donado.

Affatto intimorito, Cipriano da Forlì gli venne incontro, esclamando: “Signor Andrea, è appena giunto un messaggio del magnifico domino messere Francesco Foschari capo dei Dieci: il Papa è ancora vivo!”

“Cosa?!”, esclamarono basiti sier Lunardo e sier Zuam Paulo, ricevendo quest’ultimo in mano la lettera del Foscari e divorandone i contenuti.

Di quanto affermato da Gaston de Foix e l’emissario estense, sier Francesco Foscari smentiva tutto, poiché un suo uomo aveva appreso da fonti attendibilissime – il patrigno del cardinal Arzentino e lo stesso cardinale Giovanni de’ Medici – come il Papa certamente si trovasse in extremis e disperata salute, ma non per questo necessariamente orizzontale. In ogni modo, Roma intera si trovava in arme in attesa di sviluppi e tutte le spie dei Dieci, l’ambasciatore sier Hironimo Donado “dalle” Rose e i cardinali domino Domenego Grimani e Marco Corner tendevano ben bene le orecchie pronti a riferire all’istante.

Sier Gradenigo sorrise carnivoro: forse la missione di sier Hironimo Donado, dottor e orator della Signoria Serenissima a Roma, si poteva dichiarare ancora opus in corso.

 

***

 

Il milanese Aloisio Ferrer, capitano d’uomini d’arme, cavalcava inquieto accanto ai capitani di fanteria  monseigneur de Richebourg e monseigneur de Mongiron, la mente in subbuglio: la notizia di un imminente attacco da parte di Ferigo Contarini di San Cassian aveva instillato in Vicenza un panico sottile, presi infatti di contropiede sia Giovanni Gonzaga che il duca Charles de Bourbon, i quali tale mossa azzardata forse ancora se la sarebbero aspettata dal loro Bon Chevalier de Bayard, ma non di certo da quel diavolo d’inferno veneziano. Malgrado i sospetti del duca di Bourbon, che aveva suggerito d’inviare degli esploratori in avanscoperta per confermare la veridicità della notizia, alla fine era stata accordata la decisione di spostare immediatamente a Marostica i rinforzi giunti da Milano inviati dal Duca di Nemours, così da unirsi al contingente del Duca di Baviera e proseguire fino a Montebelluna dove La Palice e, a Dio piacendo, l’Imperatore li stavano attendendo per l’impresa di Treviso.

Ah, Treviso … A sentir il Re di Francia e Gaston de Foix suo nipote la città già pareva conquistata, sicuri dei loro numeri sia in fatto di uomini e di cavalli sia d’artiglieria. Un assedio facile - si vantavano - le mura scaligere crolleranno al primo tocco, vous verrez!

Eppure … eppure …

Il Ferrer non riusciva a districarsi dalla morsa stretta dell’ansia, una sgradevole sensazione di stonatura in quella marcia precocemente trionfale.

Primo, perché non arrivavano lettere dal maresciallo La Palice, informandoli dei loro ultimi spostamenti?

Secondo, perché proprio adesso quell’improvviso attacco suicida del Contarini di San Cassian?

Terzo, perché, nell’euforia e ottimismo generale (già il Re di Francia brindava alla caduta di Treviso), soltanto la voce del maresciallo  Gian Giacomo Trivulzio s’era levata contro l’impresa? Egli era arrivato addirittura a sfidare apertamente il Re, rifiutando l’incarico malgrado l’insistenza di quest’ultimo e quando il sovrano aveva esatto spiegazioni, il Trivulzio si era giustificato affermando che dopo anni di sfavillanti vittorie su grandi signorie e avversari, non voleva rimpatriare a Milano ricoperto dal fango del disonore e della vergogna, sconfitto da una città misconosciuta e dai suoi burocrati. “Sire, Treviso come Venezia è una luogo di cielo, terra e acqua. Quest’estate è piovuto anche fin troppo, la Marca sarà ritornata di sicuro una palude, cioè un disastro per muovere truppe e artiglierie, rallentandoci in ogni manovra ma esponendoci allo stesso tempo ai nemici. Inoltre, ricordatevi cosa fecero al trombetta di Leonardo Trissino: sono feroci quanto bestie lì, non arrischierò una morte disonorevole ai miei uomini, sgozzati nel sonno peggio d’agnelli!”

Sgozzati nel sonno …

Le truppe sfilavano in marcia a ranghi ben serrati, guardinghi al massimo, viaggiando persino di notte e concedendosi solo qualche ora di riposo, così anche da cambiare i soldati nelle retrovie in modo da guardarsi le spalle da eventuali attacchi.

“Sandrigo, enfin!”, esclamò il capitano de Richebourg, guardandosi attorno. “Encore un peu, e tosto arriveremo a Marostica!”

Quasi a segno di buon augurio, il sole s’erse su quel 31 agosto, tingendo il cielo del delicato rosa dell’alba e levando gli ultimi residui della nebbia dovuta dal terreno ancora imbevuto dell’acqua della pioggia torrenziale del giorno precedente.

Il capitano Ferrer si coprì gli occhi con la mano, ferito da uno strano bagliore. Come?  Già così splendente il sole?

Levato lo schermo, il milanese spalancò la bocca in pieno orrore e prima ancora che potesse urlare: “Imboscata!”, una freccia trapassava la gola di uno dei cavalieri accanto a lui e un fragore da far tremare la terra li giungeva incontro, un fiume in piena che si divideva con diabolica precisione per spezzare la colonna di marcia delle truppe, una legione di diavoli venuti per il loro sangue.

“Marco! Marco!”

I vessilli dorati di Venezia brillavano beffardi alla luce del sole, questo loro tacito complice che era sorto apposta per renderli i franco-imperiali visibilissimi e tra gli stendardi il capitano Ferrer riconobbe lo stemma a tre bande azzurre in campo d’oro che tanto aveva imparato a temere.

Embuscade! Embuscade!”

A che pro chiedersi come avessero fatto a raggiungerli così in fretta, intercettandoli? A che pro?

Bastavano i fatti e cioè che Ferigo Contarini li aveva ingannati tutti, non avendo mai avuto intenzione di andare a Vicenza e adesso, per quella loro ingenuità, avrebbero pagato con la vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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I francesi sono dei pessimi perdenti: nella loro versione della Guerra della Lega di Cambrai, mai non hanno accennato a questo episodio né a qualsiasi altra sconfitta inflittagli dai veneziani. Federico Contarini mai nominato. Appena appena si accenna alla sconfitta a Padova del 1509, ovviamente dando la colpa a Massimiliano, agli spagnoli, ad Alfonso d’Este, al Papa, alla gatta di Codalonga, etc. A sentir loro, insomma,  non persero neanche una battaglia … Boh.

Treviso contava all’incirca più di 200 mulini nel suo territorio per via dell’eccellente risorsa idrica: essendo i suoi fiumi di risorgiva, non soffriva della siccità estiva o del gelo invernale, producendo pertanto per tutto l’anno e Venezia esigeva quasi 30,000 staie (sacchi) di farina come rifornimento, anzi, alcuni mulini macinavano esclusivamente per la città che all’epoca contava quasi 150.000 abitanti; altri mulini all’occasione erano tenuti a macinare per Venezia mentre un’altra parte solo per il territorio trevigiano e dintorni. Sul Sile scivolavano continuamente burchi pieni di farina, ma anche lana che veniva follata a Treviso e pure legna dal Montello che veniva lavorata prima della spedizione in Arsenale per le galere.  I mulini molto spesso venivano dati in affitto ai mugnai, talmente importanti che prima dell’annessione a Venezia avevano la loro Corporazione. Sotto la Serenissima, i mulini appartenevano o agli ordini ecclesiastici, o al comune, o ai patrizi veneziani o ai nobili terrieri locali; tuttavia, non era improbabile per un mugnaio possedere il proprio mulino, solo che i costi di manutenzione sia ordinaria che straordinaria erano talmente alti, che se non possedeva sufficiente capitale per mantenerlo, allora preferiva andare in affitto.

Riguardo al Nostro, le cronache confermano come si salvarono in quattro dal massacro di Castelnuovo di Quero: lui, i bellunesi Paolo Doglioni e Cristoforo Colle e un popolano di cui però non specificano il nome. Vittore del Pozzo s’era già portato fuori dal castello, quindi non conta.

 Per motivi di trama e per tentare di spiegare (e anche anticipare) ciò che accadrà al Nostro, ho deciso essere un bambino. Interessantemente, ho trovato esempi in cui non era improbabile utilizzare bambini per il trasporto delle polveri da sparo e per la mescolatura in loco, forse in quanto piccoli e difficile da centrare?

In ogni caso, spero che il capitolo vi sia piaciuto!

Alla prossima!



Un po’ di noticine:

 [1] Hé, Finger weg! Ich habe ihn zuerst gesehen, er gehört mir = hé, giù le zampe! Lo visto prima io, mi appartiene! // Pas de chance, sale voleur, c’est à moi! Et si tu t’approches avec tes sales mains allemandes, je vais t’enfoncer ce couteau dans ta foutue gorge ! = scordatelo (lett. Nessuna possibilità/fortuna), sporco ladro, è mio ! E se ti avvicini con le tue sporche mani tedesche, ti ficco questo coltello giù per la tua fottuta gola ! // Passiert. Nächste Mal = capita / succede. La prossima volta.

[2] Sulla morte di Girolamo Contarini, padre di Federico, riferisce il Sanudo in data 1508: "A dì 10, fo la vezilia di Pasqua di mazo. Et la sera achadete un caxo molto strano et miserando, che fo conduto in questa terra il corpo di sier Hironimo Contarini, quondam sier Moisè, era stato provedador di l’armada fuora zà molti mexi, el qual si era anegato versso Lanzam, e rota la so galia, et cussì quella di sier Bernardim da cha’ Tajapiera, sopracomito, per fortuna grandissima. Il modo, quando e come, scriverò di soto. Fo caxo zà molti anni non sequito un tal, et a tutta la terra si dolse."

 [3] i Turchi ad Otranto = Fra’ Leonardo partecipò alla Guerra d’Otranto (1480-81) militando per Alfonso II di Napoli, all’epoca principe ereditario e Duca di Calabria.

[4] la Vècia al Panevìn = la vecchia (un fantoccio ben inteso!) alla festa del Pane e Vino. Si tratta di un falò di inizio anno, una tradizione popolare dell’Italia nord-orientale che consiste nel bruciare grandi cataste di legno e frasche su cui viene posto il fantoccio di una vecchia, questo il giorno della vigilia dell’Epifania (5 gennaio). Si suppone questo essere un rito pagano poi cristianizzato risalente addirittura ai tempi dei Paleoveneti, legato alla purificazione della terra. A seconda della direzione del fumo si saprà come andrà l’anno: male se va ad occidente, bene se va ad oriente, con tutte le varianti da città a città.

[5] colonne tra San Marco e San Todero =  a Piazza San Marco si concludevano le esecuzioni dei condannati a morte dopo la sfilata tra i canali, appunto tra le due colonne con in cima le statue del Leone Marciano e di San Teodoro (Todero in veneziano), davanti a Palazzo Ducale verso il bacino di San Marco.

[6] Muso-da-Baila = Faccia da Badile, un fantomatico soprannome di Massimiliano.

[7] Nell’899 Treviso subì un devastante saccheggio da parte degli Ungari. Il santuario di Santa Maria Maggiore venne pressoché distrutto, salvandosi solo il muro coll’antico affresco della Madonna, tuttora esistente.

[8] i muneri i roba pregando = I mugnai rubano pregando.  Si riferisce al gesto di prelevare la farina con le “mani giunte” come quando si prega, col “rischio” di dare meno di quanto si pagava per farla macinare.

[9] San Vio = San Vito di Cadore, comune in provincia di Belluno, situato nel cuore delle Dolomiti. Appartenente ai feudi dei da Camino, nel 1420 passa alla Serenissima sotto cui conosce una fase di felice sviluppo economico (ovviamente prima e dopo la Guerra della Lega di Cambrai).

 

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo Terzo: 31 agosto 1511 (18 agosto 1496) ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 29. 08. 2021

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Capitolo Terzo

31 agosto 1511

e

18 agosto 1496

 

 

 

Io sont la Morte che porto corona

Sonte signora de ogni persona

Et cossì son fiera, forte et dura

Che trapasso le porte et ultra le mura. [1]

 

 

Plock … plock … plock …

Se non fosse stato per la saltuaria apertura della botola, giusto per darli da bere e accertarsi che ancora indugiavano in questa valle di lacrime (lui almeno, del bambino agli stradioti non fregava nulla), Hironimo si sarebbe creduto già seppellito in tomba, completamente avvolto da un nero bestemmia e un silenzio sconsolante rotto dalle ritmiche gocce d’umidità; dallo scorrere della Piave; dallo zampettare degli onnipresenti ratti; dal gorgoglio dei loro stomaci e infine dallo schiocco affamato delle labbra di Thomà, il quale aveva di recente incominciato a suggergli la camicia pur di tenere i denti occupati, quando non battevano dal freddo ben inteso. Ambedue non si sovvenivano dell’ultimo loro pasto; in certi momenti, neppure si sovvenivano d’essere mai stati in vita, trascorrendo ore infinite incastrati l’uno nell’altro in un disperato abbraccio onde riscaldarsi, preoccupandosi il giovane Miani di come la pelle del piccino divenisse ad ogni istante sempre più fredda e appiccicaticcia.  Si tenevano desti a furia di pizzicotti, ma il sonno dell’affamato e dell’infreddolito talvolta li intorpidiva, precipitandoli in sonni inquieti, orribili,  che li lasciavano al risveglio doppiamente spossati invece di ristorarli, complice inoltre l’aria stantia della cella, ammorbata oramai dal puzzo del loro sudore e, alas, escrementi.

“Zò! Te me dà el pie en bocha?”, protestò Hironimo, svegliandosi di soprassalto per colpa della rapida e dolorosa pedata in faccia da parte di Thomà, il quale, rannicchiandosi ulteriormente contro il suo stomaco, bofonchiò contrito e stanco:

“La me perdoni, patron, nol gh’ho fatto apposta: mi dormivo e chi dorme, manza …”

Sì, dormiva scalciando peggio d’un mulo, il nanerottolo! Almeno però dimostrava di vivere ancora, rallentato infatti il suo respiro al punto che il giovane patrizio talvolta faticava ad udirlo, controllandogli di tanto in tanto l’aria con due dita sotto il naso giusto per assicurarsi di non stringere un cadavere.

Hironimo borbottò qualcosa, o meglio la sua gola lo fece meccanicamente, sistemando il capo sull’avambraccio nella disperata ricerca di una posizione comoda: il dolore alle tempie pian piano s’era attenuato, purtroppo ciò non si poteva affermare della ferita sul fianco, ancora bruciante e che gli tirava molesta. Thomà, ignaro, dormendoci sopra gliela premeva, causandogli sottili fitte come punture d’aghi sottopelle. Le palpebre gli divennero pesanti, ghermendolo una violenta vertigine che lo allettò a perdersi nella lusinga del sonno e appena riuscì a socchiudere gli occhi una strana sensazione lo colse, non dissimile a quella dello sfruscio in inverno del morbido e caldo bordo di pelliccia.

Peccato, che la sua pelliccia non si muovesse e squittisse.

Hironimo s’irrigidì peggio d’un cadavere, mentre quell’essere immondo gli zampettava impunito sulla spalla.  “Coss’elo? Coss’elo?”, ansimò istericamente, mulinando a caso il braccio e udì l’animale cadere, sebbene continuando a corrergli accanto nel tentativo di risalirgli sopra, squittendo confuso e irato da quella sua ribellione.

“Un sorze, me sa!”, fu la secca constatazione del bambino, insensibile al topo e preferendo piuttosto continuare a dormire; al contrario, il giovane Miani non condivideva tale rassegnazione e appunto strillò:

“No! Levamelo di dosso!”, calciava il nemico ben protetto dall’oscurità,  soffiandogli contro adesso minaccioso.

“Se vuj lo lassate star, no ve fa gnente!”

“Non voglio sorci addosso!”

“Oh, che putelezzi (bambinate, ndr.)!”

“Thomà, cavami questo sorcio o te dago ‘na schiaffazza in tel muso!”

Il bambino scattò a carponi pronto alla pugna. “No, patron! Gnente schiaffazze pel poaro Thomà!”, frignò petulante e quando il topo partì all’assalto per l’ennesima volta, con gli occhi e la rapidità di un gatto Thomà artigliò a colpo sicuro il ratto e prima che la bestia potesse morderlo gli spezzò l’osso del collo, gettandolo poi in fondo alla cella in un umido tonfo, là dove si liberavano dei propri bisogno naturali.

Silenzio.

“Bauco! (citrullo, ndr.)”, commentò sarcastico Hironimo, già udendo la marcia di tutti i topi di Castelnuovo darsi appuntamento lì. “Ora lo raggiungeranno i suoi compari per mangiarsi il cadavere!”

Al che Thomà, dimentico di ogni prudenza, replicò scocciato: “Saveu, patron? Andé al diavol ché mi sun stuffo, non ve va ben mai gnente!”, incassando con la dignità di chi s’è sfogato a ragione il doloroso scappellotto elargitogli prontamente da un offeso patrizio. Dopodiché, mettendosi in piedi, allargò bene le gambe pericolosamente vicino al giovane uomo, che gli domandò assai preoccupato:

“Cossa fastu?”

“Pisso, patron”, sentenziò solenne e si slacciò la braghetta.

Hironimo lo spintonò via con un calcio. “Non t’azzardare! Va’ nell’angolo!”

“Col cadavar dil sorze? Patron, perché non poxo farla qui?”

“E me lo chiedi pure, sempio? (scemo, ndr.) Se te pissi qui, c’insudici a tutti e do!”

“Ma me scapa!”

“Tientela! O falla sull’angolo!”, sbraitò esasperato il giovane Miani.

“No!”, si ribellò Thomà e il famigliare zampillio da fontanella riecheggiò nella cella, formando una piccola pozzanghera che lentamente e sorniona raggiunse e bagnò la coscia di Hironimo, il quale sobbalzò disgustato dalla parte opposta. 

 “Òstrega! [2] Orco Juda maladeto rotto-in-cul, che schifo!”, ripeteva sdegnato, asciugandosi convulsamente la coscia nuda con un lembo della camicia. “Sacramento ! Che schifo! Che schifo!”

Scrollandosi a fine pisciata, Thomà sospirò soddisfatto e sollevato. “Ma vuj no pissate mai?”, inquisì curioso, riprendendo posto accanto al giovane patrizio, che, trattenendo a stento un conato di vomito, gli spiegò malevolo:

“Son galantuomo, io! Mi so trattenere! E vado all’angolo, contrariamente a te che sei n’onto porzel!”

“An pulito, se lo dixé vu …”, fece spallucce il bambino, rannicchiandosi di nuovo contro il più anziano. Poi, sogghignando perfido, aggiunse:  “Certo perhò che col pisso indosso stemo  horra ben caldi!”

Un secondo scappellotto lo indusse al silenzio.

La botola s’aprì all’improvviso, cogliendoli talmente alla sprovvista da sobbalzare, le mani corse immediatamente a riparare gli occhi feriti dalla luce.

“Tirateli su!”, berciò una voce dall’alto e Thomà afferrò spaventato il braccio di Hironimo, domandando:

“Che dixélo? I nui copan?”, ignorando infatti la lingua dello stradiota, il quale parlottava coi suoi compagni in un curioso misto tra greco e albanese, rendendo ardua la comprensione perfino al giovane Miani, il quale però, già dimentico dei dispetti del piccino, gli accarezzò il capo, mormorandogli:

“Stammi appresso e soprattutto guai a te se fiati. Da qui ne usciremo vivi tutte e due o nessuno e se quei cancari vogliono il riscatto, a loro converrà la prima opzione.”

Era quella l’unica sua certezza in quei giorni di orridi sconvolgimenti, avendo ben capito Hironimo quanto il capitano Mercurio Bua come prigioniero lo stimasse, arrivando perfino a contenderselo col maresciallo La Palice. Tutto quel fuoco, pertanto, gli garantiva la sua sopravvivenza (pur in condizioni discutibili) fino al pagamento del riscatto o dello scambio.

“Puoah! Puzzano di piscio e merda!”, li dileggiarono i soldati, una volta estratti i due dalla cella, pungolandoli con dei bastoni verso il cortile centrale, manco avessero a che fare con dei lebbrosi. “Non peggio dei loro compagni sicuramente!”, rincararono la dose e il giovane patrizio afferrò il motivo di quell’ora d’aria: nella loro immensa pigrizia, gli stradioti invece di seppellire loro i cadaveri dei marciani – oramai in via di decomposizione – avevano deciso di servirsi dei due prigionieri, cedendogli l’onore del becchino e ciò all’insaputa del Bua, Hironimo ci scommetteva il mignolo destro.

Quarantasette corpi, che la Fortuna li assistesse giacché a causa di quella Quaresima anticipata a malapena si reggevano in piedi dalla fame, figurarsi scavare una fossa comune e trasportare cadaveri uno ad uno.

“Quelle sono le vanghe. Via, sbrigatevi! E se tentate di scappare o d’attaccarci,  raggiungerete i vostri compagni un pezzettino alla volta!” e via a ridersela di gusto, affilando tuttavia le spade segno che la loro corrispondeva ad una battuta unilaterale.

“Andé in mona de vostra mare, fioi de cagna turca, ch’el diavol vi ciapi a la florentina e col sabion …”, sibilò tra i denti e Thomà arcuò il sopracciglio genuinamente impressionato nel sentir tali prodezze poetiche uscire dalla bocca di un patrizio veneziano, il quale lo fissò storto: “Coss’hastu da vardar, mamalucco?”

“Patron, poxiam per favor sepelir per primo mi fradelo Andrea?”

Stringendo le labbra e sperando di aver perduto l’olfatto, il giovane Miani iniziò a scavare tra la pila di cadaveri alla ricerca del bombardiere e il bambino, con le ultime energie e lesto peggio d’una scimmia, vi si arrampicò sopra, pronto all’opera.

  

***

 

Et son quela che fa tremar el mondo,

revolgendo mia falze atondo atondo

O vero l’archo col mio strale

Sapientia,beleza, forteza niente vale

Non e signor, madona, né vassallo

Bisognia che lor entri in questo ballo.

 

 

 

18 agosto 1496

Quella mattina il decenne Momolo aveva pianificato ogni cosa con la coscienziosità di un generale dell’Antica Roma: lo richiedeva lo scopo ultimo di quella missione, cioè farsi perdonare da Padre per avergli risposto malamente (Andé in malhorra, orco! tartaro! Vi odio quanto che sé!) a causa del calamaio tirato contro il priore di Santo Stefano e lettore di filosofia, l’agostiniano Jacomo Batista Aloisi da Ravenna.

Costui a Ca’ Miani esercitava il doppio ruolo di precettore degli studi humanitas di suo fratello Carlo e di protégé di suo padre il senatore sier Anzolo Miani q. Lucha, il quale finanziava le sue pubblicazioni, in particolare i suoi studi su Aristotele, nonché il fiorente Monastero degli Eremitani di Santo Stefano e la sua scuola per fanciulli fondata il secolo scorso. E tanto il senatore era rimasto impressionato dalla preparazione dei magister puerorum, complice la fama di dotti degli agostiniani, da interrompere l’antica tradizione d’inviare i propri rampolli a studiare al Monastero della Carità, dall’altra parte del Canal Grande e quasi opposto a Ca’ Miani.

Si poteva dunque affermare senz’esitazione, che don Jacomo Batista e il suo allievo e confratello don Bortolo Rivolta fossero oramai di casa, accettando sempre di buon grado gli inviti del loro mecenate o a pranzo o a cena così da discutere a tavola di certi argomenti, che tanto affascinavano i commensali quanto annoiavano a morte il piccolo Miani. Non riusciva a capire come mai Padre, suo fratello Carlo e perfino il suo cugino sier Zuam Francesco “il Pizzocchero” s’entusiasmassero tanto al recente progetto dell’Aloisi, ossia di redigere dei “commentari sui libri degli analitici posteriori di Aristotele dell’agostiniano Alberto di Sassonia” (il fantolino già s’era perso ad “analitici posteriori”). Per lui, corrispondevano a vuoti concetti, troppo astratti dalla sua vita quotidiana, un’ingarbugliata matassa di ragionamenti senza né capo né coda in greco antico e in latino. Anche alcuni padri agostiniani dal priore frequentemente citati – Paolo Veneto, Alberto di Sassonia, Egidio Romano, etc. etc. – [3] non gli dicevano un bel fico secco, al punto che Momolo biasimava i due religiosi ravennati per la loro meschinità, non reputando carino spettegolare così sulla gente morta.

Tuttavia, non era per questo motivo che il priore di Santo Stefano s’era ritrovato imbrattato d’inchiostro. Momolo aveva infatti tentato di giustificarsi dinanzi all’inflessibile giudice paterno, piangendo sconsolato come aveva voluto lordar di nero non padre Jacomo Batista, bensì suo fratello Carlo – quel turco adottato! – che nulla aveva di meglio da fare nella vita, se non di sfottere il fratellino mentre tentava di domare la grammatica latina. Carlino ha la lingua così lunga ed è così bugiardo – aveva strillato battendo il piede per terra – che riuscirebbe ad inchiodare per la seconda volta in croce IHS XHS!

Quest’impenitente sbeffeggiatore delle altrui disgrazie li aveva scovati – Momolo e l’altro suo fratello Marco - intenti ad un disperato ripasso, lo Ianua di Elio Donato aperto sulle ginocchia del più grande dei due, i cui capelli arruffati tradivano quanto ardua fosse stata l’impresa.

“Poeta”, lo interrogò Marco per l’ennesima volta, la voce leggermente roca a furia di ripetere all’infinito il medesimo passo. “Quae pars est?”

“Nomen est.”

“Quare est nomen?”

“Quia … quia significat subtantiam et qualitatem propriam vel …vel comunem cum casu.”

“Nomini quot accidunt?” e qui Marco gli presentò il palmo aperto della mano, iniziando la conta assieme al fratellino.

“Quinque: species …”, un dito, “… genus …”, un altro, “… numerus … figura et … euh … euh … euh … l’ultimo non me lo ricordo …”

“Ma se l’hai appena menzionato!”

“Casu?”

“Casus!”

“Ed io che ho detto?!”

“Molighe zò! Non contestare o ti stampo a furia di sberle la grammatica sulla fronte, così non te la scordi più! Allora, cuius speciei?”

“Primitive, quia a nullo derivat derivative, quia derivatur a poesia. Visto che ho studiato?”

“Sicuro, coi piedi, perché si dice “a poesis” - sempio! -  non “a poesia”!”

“Beh, non vale stavolta, prima l’ho saputa dire correttamente!”

“Gne, gne, sempre una testa-da-bigoli rimani. Cuius generis?”

“Ma … masculini …?”

“E pure t’era venuto il dubbio?”

Al che Carlo, dinanzi a quel giocondo quadretto, non aveva più resistito, rendendo nota la sua presenza tramite un colpetto di tosse. Hieronymus Aemilianus - Quae pars est?

I due giovinetti s’erano immediatamente guardati l’un l’altro perplessi.

Nomen est?, aveva cinguettato speranzoso Momolo.

Puer est?, era stata al contrario la sospettosa risposta di Marco, avvezzo al lato più dispettoso del fratello maggiore.

Lode al suo intuito poiché Carlo, sfoderando un sorriso rubato allo stesso Mazariol, aveva replicato: Asinus est!, per poi abbassarsi quando il decenne fantolino, rosso in volto e schiumante di collera, aveva afferrato il calamaio e glielo aveva scagliato contro, colpendo purtroppo per lui dritto in petto don Jacomo Batista, che disgraziatamente stava entrando proprio in quel momento nella sala grande accompagnato da Padre.

Tale spiegazione non aveva commosso il senatore sier Anzolo Miani, il quale gli aveva elargito ugualmente una salutare mezza dozzina di vergate, sennonché suo figlio, stufo marcio d’aver il sedere dolorante due volte su tre per via degli scarsi risultati scolastici, gli aveva morso la mano ed era corso via da Madre col furioso genitore alle calcagna, nascondendosi sotto le sue gonne.

Meno male, giacché esse avevano ovattato la litigata tra sier Anzolo e madona Leonora Morexini Miani, il primo che accusava la moglie di rovinare questo mio fiolo, voi me lo fate crescere storto! Voi, che alla sua età ancora gli permettete di giocare con le sue germane e per di più con sua nipote! Bone Jesu, s’è mai visto un puto di dieci anni che gioca con le pute? Naturale poi che frigni per un nonnulla! Ma cos’ho avuto, io, per creatura? Un maschio o una femmina? E l’altra ribatteva inclemente: Cosa volete ch’impari, se ad ogni sbaglio lo battete manco fosse un tamburo di galea? Si spaventa, povero piccolo, non capisce perché lo puniate così severamente. Sa solo che voi e il magister gli incutete una paura tremenda!

Madona Leonora aveva ragione: il severo agostiniano suo insegnante metteva in soggezione il piccolo Momolo, schiacciato dall’impari raffronto coi fratelli. Et el Luchino l’gera cussì, sapeva l’abaco a maraveggia … et el Carlino lezeva et declamava chome Cicero redivivo … et el Marchetto scriveva pulito et richo de vocabuli … et ti, Momolo, ti te sè na bestia ignorante! e questo ovviamente mentre il fantolino era sottoposto al “cavallo”: tenuto fermo dai compagni e posto a cavalluccio del magister e parzialmente denudato, l’ultimogenito Miani si sorbiva, oltre che alle vergate sulle natiche, anche la lista dei suoi fallimenti più i successi dei suoi maggiori.

E questo per tre anni, da quando, settenne, egli aveva abbandonato il suo precettore privato per proseguire gli studi a scuola.

Che ci poteva fare? Ogniqualvolta il rector scholarum entrava in classe  il bambino panicava, non si ricordava la lezione e impappinandosi sbrodolava frasi sconclusionate in un misto tra latino e veneziano. Manco male che il greco antico non era previsto, poiché già nella testa di Momolo facevano a pugni le divergenze tra la variante candiota e quella peloponnesiaca del greco vernacolare, in tutta onestà non necessitava di un terzo incomodo a creargli ulteriore confusione.

(Anche se, mano sul cuore, era divertente assistere alle pepate diatribe tra la vecchia prozia, madona Andronica da Modone relicta Miani, e la fantesca Eudokia di Sfakia di Candia, tra gli Ochi! di una e gli Oi! dell’altra.)

Ascoltando quindi i timidi resoconti di don Jacomo Batista sul suo rendimento  – il quale tentava cristianamente di minimizzare , asserendo come il bambino fosse sì intelligente ma assai distratto e poco incline alla disciplina e al duro lavoro -  Lucha e Carlo se la ridevano sotto i baffi; Padre, delusissimo, fissava Momolo in cagnesco, battendo poi snervato il pugno sulla scrivania ed ecco che i due maggiori si chetavano all’istante; Marco, impietosito e suo unico alleato, tentava d’aiutarlo dandogli di nascosto ripetizioni.

Ad ogni rientro dal Monastero di Santo Stefano (col sedere dolorante) Momolo correva a piangere disperato tra le braccia di Madre (rigorosamente all’insaputa di Padre) o in cucina tra quelle dell’Orsolina, che si diceva troppo rassomigliante al nonno sier Lucha Miani q. sier Marco, da non destar sospetti di una qualche consolazione da parte del patrizio tra una moglie e l’altra. Pur non essendolo stata de facto, Momolo la chiamava nèna (balia, ndr.) e le voleva un bene dell’anima contraccambiato con ugual fervore dalla massera, neanche l’avesse partorito lei. Gli piaceva trascorrere il tempo assieme in quell’arsenale in miniatura qual era la cucina di Ca’ Miani, coi fuochi sempre accesi e un viavai continuo di servi là dove nessuno lo prendeva in giro chiamandolo musso, oco, macaron de Pugia (asino, stupido, mollaccione, ndr.).

In quella calda e fumosa sancta sanctorum sedevano la fantesca e il bambino davanti al grande caminetto medievale costruito con colonnine di un qualche rudere di tempio romano, con l’Orsolina che filava la conocchia e annuiva pur non capendo il latino e il Momolo intento a leggerle ad alta voce i Disticha Catonis. A sua volta, il piccino ascoltava rapito le storie della donna, la sua preferita quella dei mercanti disonesti tramutati in pietra da Santa Maria Maddalena, le cui statue ancora si potevano vedere a Campo dei Mori a Cannareggio, chiaro monito ai loro colleghi. Se i tochate co la man, poderè sentir i cori palpitar e lì la piera la xé tiepida, chome carne viva.

A lei Momolo aveva confidato il suo infallibile piano onde ottenere il perdono di Padre, cui in seguito a quel suo sfogo lo trattava pien di gelida indifferenza, parlandogli a malapena e solamente al dì dell’Assunta. (A onor del vero, negli ultimi mesi il senatore Miani spendeva molto tempo a Palazzo Ducale e la notte rincasava a notte fonda, quindi sì, il suo discolo figliolo non aveva avuto concretamente modo di farsi perdonare)

Per tutto il tempo, il decenne si era esercitato nel segreto della cucina a leggere quel passaggio maledetto dei Disticha col proposito di declamarlo a memoria a fine pranzo, dove sarebbero state servite le anguille ai ferri con la polentina bianca di cui sier Anzolo andava assai ghiotto. Dopo aver ben disnà, el sior vuostro Pare starà de bona voja e bon consejo, lo aveva assicurato ottimista Orsolina.

Madona Leonora aveva ascoltato benevola il piano del figlioletto, permettendogli di accompagnare Orsolina e sua figlia Zanetta a Rialto a comprare le anguille, la cui preparazione affascinava il bambino, specie quando Nardo il cuoco le estraeva ancor vive dal sacco e queste gli si attorcigliavano ai polsi, mentre egli faceva cadere la mannaia e in un sol colpo le tranciava il capo. Ah, patron Momolo, durante la guera contra Frara, nel Po se pescavan zerti bisati (anguille, ndr.) da far spavento: a Rialto ne vendevan di grassi, bei et longhi chome un brazo e per render l’idea allungando l’arto appoggiava l’altra mano all’altezza della spalla. Saveu perché? Perché ste bestie, dopo la bataja, i se notriban de cristiani! Ha-ha!- e via! Un’altra testa rotolava.

Rosicchiando accanto al tavolo la crosta della polenta, Momolo ascoltava attento tali aneddoti e al contempo studiava il movimento meccanico delle fauci del pesce decollato e gli spasimi del corpo lungo e viscido: anche il florentin (perché poi? Era veneziano!) s’era contorto così, quando Padre l’aveva portato alla Piazzetta assieme ai fratelli onde assistere alla sua decapitazione tra San Marco e San Todero. La testa era stata spiccata via con la medesima precisione e forse dal collo era uscito più sangue, ma stranamente il corpo del florentin seguitava a muoversi convulso e Momolo s’era chiesto in quell’istante se si potesse vivere anche senza capo. Poi come l’anguilla anche i resti del condannato erano stati gettato nel fuoco e la folla aveva gridato contenta, che ben gli stava a quel degenerato.

Hai ben guardato, Momolo?”

“Siorsì.”

“Così finisce chi si comporta da femmina, senza alcuna considerazione e rispetto verso Dio, lo Stato e le buone leggi veneziane!

Il bambino sapeva d’essere colpevole quanto il florentin agli occhi del padre, giacché pizzicato a giocare con le cugine germane Maria, Querina, Magdalena, Anzola Morexini e la  sorellastra di quest’ultima, Maria Bolani. Non era colpa sua, Madre gli aveva insegnato a non fare malegrazie alle fanciulle, d’esser con loro cavaliere e di esaudirle in tutto per tutto, sopportando stoicamente le loro visite e se poi le capricciose seguaci di Onfale gli avevano serbato la medesima sorte di Ercole, di nuovo: non era colpa sua. Così come non era colpa sua, se gli piaceva giocare alla nena coi cuginetti ancora in culla.

Padre però negli ultimi anni non lo capiva, non ascoltava mai, non lo lasciava spiegare; sembrava che più il suo ultimogenito crescesse, più diminuisse il suo affetto, trasformandosi il suo premuroso Tata (papà, ndr.) in un intransigente patron di galea, ai cui ordini tutti dovevano scattare ed ubbidire.

Eppure, Momolo lo ammirava e gli voleva bene, declamando ai suoi compagnucci al Monastero di Santo Stefano tutte le gesta paterne, esagerandole ovviamente, e sostenendo come non esistesse miglior veneziano di Padre in tutta la Signoria. Et jo, sòo fiol – mentiva - lo fazo assa’ contento. Tutte balle, infatti, con la rara eccezione di quando Momolo suonava il liuto; ecco lì sier Anzolo si scioglieva in qualche complimento a metà per poi commentare amaro: Se solo ci mettesse lo stesso impegno negli studi …

Ma oggi, 18 agosto, si sarebbe ricreduto!

“Orsolina! Zanetta! Leste! Andèmo! O non catarem pì gnente!”, le chiamava a gran voce Momolo, incurante di svegliare in questo modo l’intera Ca’ Miani. Rivoltosi poi al pope de casàda [4] saltellando impaziente lo incoraggiava mentre questi faceva scivolare aiutato dal figlio Lucha la gondola in canale: “Symon! Dai mo! Almanco ti datte na mossa! O femo mezzodì!”

“Servo vostro, patron!”, esclamò gioviale l’uomo, afferrando Momolo per le ascelle e issatolo, lo adagiò lentamente dentro la gondola. Subito comparvero la suocera e la moglie Zanetta che s’era attardata per indossare lo zendale più bello, ancora incredula ma eccitatissima di viaggiare sulla gondola dei padroni – Madre non aveva voluto che le due donne si recassero a piedi col figlio fino a Rialto, le calli ancora scevre di luce per l’ora troppo temprana. E Orsolina, co’ te sarai a Rialto - aveva aggiunto madona Leonora all’ultimo momento -  ricordati di comprare anche un fia’ di colazione per il tuo patron: è uscito presto stamane per andare in bottega, temo che per far prima abbia saltato il pasto.

“Ancuò xé sant’Helena Imperatriz …”

 “… ora pro nobis!”

“Dèmo!” e detto questo Symon prese a vogare e il piccolo Momolo dalla fèlze guardava estasiato il sole apparire timidamente tra i palazzi, illuminandoli d’oro e rosa come l’Enrosadira baciava le Dolomiti. Le prime finestre si aprivano pigre e le massere calavano le tende onde proteggere gli interni dal sole estivo, oppure salivano in altana per stendere il bucato o per battere i tappeti, canticchiando o chiacchierando con le loro colleghe del palazzo accanto. In Piazza San Marco palpitavano i rintocchi del Paron de Casa, annunciando la Maragona l'inizio dell'attività lavorativa e che come il cuore coordinava il flusso musicale di tutte le altre campane, nonché la giornata di ciascun lavoratore, richiamandolo al proprio esercizio.

Usciti dal piccolo rio San Vidal ed immettendosi nel Canal Grande, il fantolino ammirò l’omonima chiesa fondata dai suoi avi [5] con la sua struttura gotica a tre navate e lo svettante campanile cuspidato. Entrando, immediatamente sulla sinistra si poteva ammirare l’altare della Madonna e un suo dipinto a grandezza naturale, commissionato da sier Marco Miani q. sier Lucha, lo zio paterno che Momolo non aveva mai conosciuto, giacché morto neppure trentenne nell’isola di Schiro, nel mar Egeo, dov’era rettore. Falciato dal tossicoloso morbo che flagellava l’isola, sier Marco, non desiderando arrischiare la vita dei marinai, aveva incaricato il suo cappellano don Hironimo e il suo lettore Alexandro Bernardo di seppellirlo lì, a Schiro, con la sua spada, gli speroni e lo scudo con raffigurato il leone di San Marco, secondo l’usanza. Ai suoi cari rimasti a Venezia, quell’atto devozionale.

(Per questo motivo Momolo si immaginava il suo barba un po’ come il San Giorgio del maestro Bortolo Vivarini: bello, nobile e fiero che al posto del drago impirava qualche turco come l’autunnale oca allo spiedo)

Malgrado fossero oramai trascorsi ventinove anni dal decesso del fratello maggiore, gli occhi di Padre s’inumidivano puntualmente alla mera menzione di sier Marco, strappandogli un malinconico sorriso pieno d’affetto. Dopo la funzione, il senatore si tratteneva parecchio tempo in preghiera davanti a quell’altare, che tanta fatica gli era costato per realizzarlo, la sua ostinazione più forte dell’inflessibilità del Maggior Consiglio [6]. Pur non invitato, Momolo gli faceva compagnia e si commuoveva durante le sue ingenue orazioni, immaginando quanta tristezza gli avrebbe provocato la morte del suo di fratello Marco.

Subito dietro l’abside di San Vidal, Ca’ Miani col resto dei suoi magazzini s’affacciava sia sul rio San Vidal sia sul Canal Grande: l’intero sito, piuttosto vasto, era da secoli di proprietà della famiglia del bambino e appariva composito ed esteticamente modesto, articolato in numerosi fabbricati e unità abitative, con alcune aree tuttora non edificate, collegate da una corte centrale con al centro un pozzo in comune. Infatti, oltre che alla famiglia padronale, nella casa da statio coabitavano i rami cadetti dei Miani di Carità- San Vidal e quelli di San Vidal, nonché sier Polo Antonio Miani da San Giacomo dell’Orio e la sua famiglia, che pur non possedendo alcuna porzione dell’edificio, pagavano a madona Magdalena Miani q. sier Francesco un cospicuo affitto di 60 ducati annui. E ciononostante, zia Maddaluzza seguitava imperterrita a lagnarsi a tavola di quanto lei fosse poara, vecia e sola, ricevendo l’usuale replica: Poareta vu, ve compatisso e poco importava se lei affittava mezza contrada di San Vidal.

(Un alveare insomma di parenti dai gradi più disparati e ronzante attorno alla dimora dominicale di Padre, il capoclan del ramo diretto e proprietario di gran parte dello stabile.)

Sporgendosi un poco, Momolo respirò a pieni polmoni l’aria mattutina ancora miracolosamente fresca e il suo cuoricino decenne venne colto all’improvviso da una grande gioia, voltandosi sorridente verso l’Orsolina e la Zanetta che lo imitarono altrettanto contente, la più anziana accarezzandogli dolcemente la guancia. Forse stavolta sul serio Padre avrebbe riservato anche a lui un simile trattamento, finalmente sorridendogli orgoglioso e perdonandogli la cattiveria urlatagli scioccamente contro. Bisognava possedere umiltà e coraggio per chiedere perdono – lo aveva ammonito il suo padre confessore – e il fantolino si ripromise di non fallire, così da riferire al buon frate l’esito positivo dei suoi consigli.

Sicché, risalito il Canal Grande, Momolo intravide l’imponente ponte levatoio in legno strutturale di Rialto, le cui rampe inclinate si chiudevano su di una parte centrale, rimossa poi al passaggio delle imbarcazioni più alte. Per poco non si tuffò in acqua pur di raggiungere la Riva del Ferro, dove si vendeva l’omonimo metallo. Immediatamente s’imbatté nei magazzini del grano e delle farine, grandi, ben riforniti e dai numerosi banchi, da cui s’accedeva attraverso due porte. Alla fine del Ponte di Rialto si trovava la casa della dogana, dove le merci venivano pesate, registrate e tassate. Su ogni prezzo vigilava accorta e severa la Signoria tramite una lista ad hoc, acciocché gli affari si concludessero quanto più onestamente e non si speculasse soprattutto sui generi alimentari e di prima necessità. Anche i rifornimenti privati dovevano seguire la via della temperanza: nessuna casa a Venezia doveva infatti accumulare più d’un mese di scorta di cibo e vino.

Tenuto per mano da ambedue le fantesche e camminando per le calli già gremite di gente, in direzione della piazzetta, Momolo si sentiva la creatura più felice del mondo, in quell’allegro trambusto dove egli giudicava essersi dati appuntamento ogni rappresentante della razza umana, riempiendosi gli occhi di visi e abiti dalle fogge più disparate e le orecchie d’accenti da ogni dove.

Purtroppo, similmente a tutti i bambini, il suo entusiasmo nel far le spese scemò ben presto, impiegando a suo parere le due donne troppo tempo per comperare il pane (che file lunghissime!), per contare le uova che ci fossero tutte nel paniere e per esaminare la frutta e la verdura (la moglie del frutaruol gli aveva pizzicato giocosamente le guanciotte - Caro, dolce pí che no xé el zúcaro! - e gli aveva regalato una pesca, prontamente divorata).

Non paghe della sua noia montante, madre e figlia perfino s’erano messe a litigare insistenti in Beccheria. No! Sì! No! E no!, sventolavano i pugni contro l’altrettanto battagliero bechèr (macellaio, ndr.) perché, durante le contrattazioni, quelle erano le uniche parole ammesse. Peggio ancora quando incontravano una loro comare amica, attaccando bottone e non finendola più e della Pescheria neanche l’ombra, per sommo chagrin di Momolo che davvero voleva vedere il pescaor estrarre a mani nude le anguille dalle vasche di legno! E i folpi appesi ad asciugare! E le aragoste da Rodi! E le cappelunghe fare la linguaccia! O mettere la mano dentro la bocca gigantesca della coda di rospo! Dall’Adriatico i pescatori di Murano, Burano, Torcello e Chioggia tornavano con pingui carichi di pesci di ogni grandezza e qualità e poiché esso si trovava alla base della dieta di ogni veneziano, indipendentemente dal ceto, il ricambio di merci era velocissimo, non avanzava mai nulla la sera sui banconi.

Di conseguenza, approfittando di un attimo di distrazione dell’Orsolina, il fanciullo scivolò via dalla sua presa e corse nella calca del mercato in avida avanscoperta, imbattendosi nei banchi dei pegni dei patrizi Pixani e Lipomano e dei cittadini Garzoni e Augustini; nei gallinari; nei venditori di telerie, nei pellicciai, nei funai, nei cimatori di stoffe, sarti, bottai, argentieri e orafi, pellegrini e visitatori, osti e studenti della Scuola di Rialto in un vorticoso tourbillon di colori e odori e schiamazzi.  Rialto, nel sestiere di San Polo, era il cuore pulsante di Venezia: chi voleva concludere affari veri doveva obbligatoriamente fermarsi in quel che si descriveva come il più ricco e variegato mercato del mondo. La città lagunare di per sé produceva poco, ma di tutto si poteva trovare e comprare, i suoi magazzini straripanti di mercanzia sia dal Levante che dal Ponente, e non si limitavano al pianoterra, ma si saliva in alto per riuscir ad esaminare tutta la merce trasportata dalle agili e infaticabili galee.

Senza accorgersene, Momolo si ritrovò davanti alla bottega di famiglia, là dove vendevano sia all’ingrosso che al minuto fustagni tedeschi e fiamminghi; pregiatissimi pannilana da Milano e i San Martino fiorentini, confezionati con le migliori lane inglesi; panni garbi di lana spagnola; panni di media qualità da Como, Monza e Brescia, ordinari da Bergamo e gli emergenti pannilana da Feltre e dal resto del Veneto, sempre più richiesti. Fruttuoso commercio, con solido mercato soprattutto nel Levante, che non soltanto aveva arricchito la gens Miana, ma che le aveva permesso d’essere inclusa nel Libro d’Oro, prima della Serrata, assicurandosi in perpetuo il suo posto nel campidoglio veneto [7]. Seguendo le orme dei loro antenati, la mercatura era una tradizione ben radicata nei patrizi veneziani, che non disdegnavano le fatiche e i pericoli del viaggio, imbarcandosi e finanziando spedizioni nelle Fiandre, in Barbaria, Beirut, Alessandria d’Egitto, nelle isole greche e Costantinopoli, nel Mar Nero e ad Aigues-Mortes. Tale spirito avventuroso e proattivo, la costanza e l’esaltazione del lavoro come mezzo di riuscita sociale e non come svilente necessità, unito alla prudenza e alla saggezza del governo della Signoria, avevano contribuito alla fortuna e alla gloria della loro Venezia, bella, ricca, altera, invidiata.

Il bambino entrò trotterellando nel famigliare ambiente dell’emporio, dai pingui scaffali e arioso malgrado la strettezza (le proprietà a Rialto erano costosissime) sebbene v’indugiasse un lieve sentore di pecora per via della lana più grezza. Momolo salutò allegro e scansò i garzoni che trasportavano pesanti rotoli di tessuto e che li sistemavano a seconda della provenienza, del costo, del colore e della moda; poco distante, alcuni clienti ragionavano coi commessi, scrutandoli attentissimi mentre costoro srotolavano sul banco i campioni di stoffa scelta. Pendendo in avanti col naso a qualche spanna dai tessuti, i potenziali compratori vi scorrevano appena appena i polpastrelli per poi tastarli tra indice e pollice, quest’ultimo in esperti movimenti circolari onde saggiarne la qualità sia in robustezza che morbidezza.

“Quest’è rosso, come si usa proprio a Stia. Altri colori ch’abbiamo sono l’arancione, il verde e il bigio”, spiegava Zandomenego Martintoni, uno dei miglior commessi e rappresentante di Padre nelle mude di Fiandra, poiché, essendo egli originario di Rovereto, conosceva bene il tedesco così d’accaparrarsi le merci migliori ad Anversa, Bruges e nelle città delle Leghe Anseatiche. Sier Anzolo aveva fatto da padrino a due suoi figlioli e la moglie di Zandomenego ad ogni Santa Lucia regalava al loro datore di lavoro una grande torta alle mele, cannella e chiodi di garofano per la felicità dei bambini di Ca’ Miani.

In quel momento, l’uomo era intento a contrattare con dei mercanti napoletani per del panno cosentino, in un duello all’ultimo sangue sul prezzo, troppo alto per i clienti e troppo basso per quello proposto dal venditore. Piazzandosi in un angolino dietro al bancone, Momolo s’acquattò onde meglio assistere al serrato botta-e-risposta, finché, dopo una bella mezzoretta di sì e no e forse, si raggiunse un accordo, ossia che i mercanti avrebbero ottenuto uno sconto a patto che acquistassero il doppio della quantità richiesta e che pagassero metà in contanti entro la giornata.

“Perché hanno comprato tutto quel panno cosentino? Non vale molto, lo usano i frati per i sai”, commentò Momolo una volta che i napoletani se ne furono andati, intanto che Zandomenego chiudeva sottochiave l’anticipo e il contratto firmato.

“La guerra, patron Momolo, la guerra: ora li vedete piangere il morto, ma questi furboni di mercanti rivenderanno quei panni minimo il doppio a chi vorrà ricavarci delle mantelline per le cavalcature, braghe, ziponi, vai te a sapere … Meglio per noi, ci siamo liberati di merce ch’oramai nessuno comprava da un bel po’ e, d’altronde, che se ne fanno i soldati di panno San Martino o milanese? Forse il Re e manco lui, cui a momenti mancano i soldi perfino per vestire se stesso.”

Il giovinetto annuì serio e accorto: dei fatti di guerra a Napoli, egli l’aveva appresi ascoltando i discorsi tra Padre, senatore dei Pregadi e perciò degli affari esteri, e gli zii materni, assieme ad altri argomenti quali la visita a luglio dell’Imperatore Maximilian al duca di Milano Ludovico il Moro e a sua moglie Beatrice d’Este, nonché la spinosissima e non ancor risolta questione del piacentino Giorgio Valla, professore di latino e greco alla Scuola di San Marco, e del suo allievo Placido Amerino, imprigionati ambedue da febbraio con l’accusa di spionaggio per conto del Re di Francia, passando a Gian Giacomo Trivulzio informazioni sulla lega stipulata tra la Signoria e il Ducato di Milano.

Ma Napoli occupava tenacemente il primo posto nelle conversazioni sia a tavola sia in studio anche per motivi famigliari: sier Francesco Morexini, suocero di sier Batista zio materno di Momolo, era partito per la Bassa Italia a combattere per la causa del re Ferrandino d’Aragona, in piena campagna di riconquista del suo regno occupato dai Francesi. A gennaio gli ambasciatori napoletani erano giunti a Venezia allo scopo di strappare alla Signoria un sostegno sia militare sia pecuniario, favore che il giovane re aveva ottenuto impegnando i porti pugliesi di Otranto, Brindisi e Trani in cambio di denari, fanti, stradioti, uomini d’arme e galee. Se l’Aragona fosse però riuscito ad estinguere ogni debito, la Signoria gli avrebbe restituito tutte le città, le terre e le fortezze circostanti, immediatamente e senz’eccezione. Un patto semplice e onesto in vista, chissà, di una futura, lunga e vantaggiosa alleanza con Ferrandino, reputato uomo d’onore più del padre Alfonso e del vecchio re Ferrante messi assieme.

“Zandomenego, hai visto el sior mio Pare?”, domandò di punto in bianco Momolo, tallonando il commesso ch’aveva incominciato ad aggiornare i cataloghi.

“Avete controllato nel suo ufficio?”

“E’ il primo posto dove sono andato.”

“Il signor Ruberto?”

“Manco lui lo sa.”

Al che l’uomo distolse lo sguardo dalle pagine fittamente scritte, guardandosi perplesso attorno. Da quando il suo padrone aveva ottenuto la carica di senatore nei Pregadi, lo si vedeva in bottega e ai fonteghi solamente di mattina presto o alla sera tardi, per controllare l’inventario e l’incasso di fine di giornata. Tuttavia, anche se di recente sier Anzolo non si vedeva spesso, comunque rendeva ben nota la sua presenza ai suoi dipendenti, informandoli sui suoi spostamenti o di persona o tramite il suo segretario Ruberto Franco. In fin dei conti, quando a Venezia, il patrizio si dimostrava una creatura piuttosto abitudinaria.  

“Strano, molto strano che neppure lui lo sappia …”, mormorò Zandomenego, chiudendo il pesante quadernone e alzandosi dallo scranno. Avanzò di qualche passo, a caso, allungando il collo onde scovare tra i presenti la nota figura di sier Anzolo. “Io non … non credo d’averlo visto uscire … Cioè, doveva in effetti andare dal Capo Sestiere però non … penso … non … Aspettate, patron Momolo, vado un attimo a parlare col signor Ruberto!”, si diresse l’uomo velocemente verso l’ufficio del segretario del senatore, abbandonando al bancone un interdetto Momolo.

Vedendolo così disorientato e in pena, Lele, uno dei garzoni, ebbe di lui compassione e gli spiegò brevemente la faccenda: “Co’ ghemo averto, ea volta la gera tutta rebaltà, co la roba per tera, ‘na gran confusion dil diaol! El patron gh’avea creduo ser vegnui i ladri e perzò gh’ha volesto prima vardar cossa ghe gera stà robà e depo’ a far la denunzia al Cao de Contrada.”

Lo stomaco del bambino s’attorcigliò dolorosamente, provocandogli un lieve riflusso fino in gola, mentre ragnetti di brividi freddi incominciarono a risalirgli molesti lungo il collo, rizzandogli i capelli. S’inumidì le labbra d’un tratto secche, attorcigliando ansioso le dita: ignorava il motivo esatto, eppure un’arcana sensazione di pericolo l’aveva colto, quell’antica vestigia d’animale rimasta negli uomini che, senza l’ausilio di parole e ragionamenti, allertava e consigliava ad una pronta azione. Tale stato d’allerta irrigidiva ora le membra del fantolino, sentendosi questi improvvisamente solo e vulnerabile.

“Sai s’è alla fine uscito?”, soffiò Momolo, avvertendo il cuore martellargli in petto.

Lele scosse il capo. “Lo gh’ho visto ‘nultima volta là” ed indicò uno sgabuzzino seminascosto dagli scaffali,  “depo’, mi sun ‘ndà a laorar e nol poxo dirve de pì.” Poiché il garzone notò come il fanciullo stesse contemplando quella porta col medesimo trasognato timore, che un condannato riserverebbe al suo ceppo e che di conseguenza non accennava ad avanzare d’un passo, egli schioccò le dita verso un collega poco lì distante, intimandogli di controllare se il padrone si trovasse ancora lì.

Nettandosi le mani sul grembiale, l’altro ragazzo gli rispose tramite un silente cenno affermativo e sparì all’interno dell’angusta stanza, lasciando la porta aperta per far più luce. 

Ed ecco.

Bastò un unico, acuto, mezzo soffocato grido per stravolgere quella placida mattina d’agosto, per segnare una violenta linea netta tra il “prima” e il “dopo”, senza possibilità di capire, di rimediare, di tornare indietro e di cancellare per sempre quel brevissimo istante in cui il giovane apprendista usciva incespicando dallo sgabuzzino, sconvolto e la mano sul petto ansante, il viso piegato in una smorfia di pura agonia. Indietreggiando, egli tentava di parlare e indicava insistente l’interno semibuio, da cui s’intravedeva una scala e appoggiato a malapena su di essa qualcosa di grosso e scuro.

Immediatamente Lele lo raggiunse, strattonando per le spalle il compagno che farfugliava e piangeva e scuoteva il capo, ordinandogli di rivelargli ciò che tanto lo aveva turbato. Non ottenendo però alcuna risposta, entrò anch’egli e di nuovo quel grido, quel “No!” atroce, mentre il ragazzo rimasto fuori si copriva la bocca con la mano, per poi segnarsi continuamente mentre scivolava per terra in ginocchio. “Oh, Verzene Maria … Oh, Madona …!”

Attirati da cotanta sinistra gazzarra, si creò tosto un folto gruppetto tra garzoni e commessi il cui numero crebbe fino ad ostruire l’entrata dello sgabuzzino, al che Ruberto Franco, giungendo assieme a Zandomenego, dovette subito intervenire, spintonando via gli astanti in modo da non sconcertare gli altrettanto incuriositi clienti.

“Oh, bone Jesus dolciximo  … El patron! El patron! … Mi no savevo … mi no gh’ho podesto … el gera vivo, eo gh’ho veduo staman e horra … horra …”

Zandomenego, udito ciò, pigliò subito per un braccio un pallidissimo Momolo per allontanarlo. “Su, andiamo a casa, patron Momolo, vi ci porto io …”, lo esortò dolcemente, ricevendo invece un feroce strattone di diniego da parte del giovinetto. 

Riavutosi dall’iniziale spaesamento, Momolo gli oppose una fiera resistenza, piantò ben bene i piedi prima e tirò e scalciò peggio d’un mulo in direzione opposta poi, rifiutandosi d’abbandonare la bottega fintanto che non gli spiegavano cosa fosse accaduto a Padre, fintanto …

 

“No! No! Lassame! Lassame!”, strillò quegli instancabile; a furia di svincolarsi, torcersi e piegarsi era finito col sedere sul pavimento e la camicia fuori dalle brache, costringendo Zandomenego a sollevarlo di peso. “Vojo vardar! Xé’l mio sior Pare!”, si dimenò di disperata ansia e mulinò sconclusionatamente la braccia per schiaffeggiare via il commesso, che indietreggiando si stava dirigendo all’uscita del negozio.

“Lo vedrete, ve lo giuro! Ma ora andiamo a casa!”

“No! Lo voglio vedere ora! Ora! Ora! Ora!”

“Patron Momolo, per favore … Lo rivedrete …!”

Momolo inarcò la schiena in un doloroso arco, si girò ed elargì un calcio agli stinchi di Zandomenego. Finalmente libero schizzò velocissimo dentro lo sgabuzzino, seminando l’uomo che lo rincorreva. “Tata! Tata!” Si fece strada sgomitando, gli occhi già umidi di lacrime e invocando il padre, le braccia protese in avanti come se, una volta giunto in quello stanzino, al suo interno fosse sicurissimo di trovarvi Padre, vivo e in salute. Come se fosse lì ad attenderlo a braccia aperte, pronto ad abbracciarlo e a consolarlo.

“Tata! Tata!”

 

 

Mia figura o peccator contemplerai

Simile a mi tu vegnirai

 

 

Digrignando i denti e centellinando col naso l’aria mefitica, Hironimo districò faticosamente e a mani nude i cadaveri accatastati in barcollanti pile, disponendoli in ordine uno accanto all’altro, acciocché potesse riconoscerli e salutarli nella sua testa prima di seppellirli, in muto ringraziamento per il loro eroico ma inutile servigio.

Quando arrivò il turno di sistemare il corpo seminudo di Menego, il figlio dell’Orsolina, grigio, mezzo marcio e assolutamente anonimo, il giovane Miani si domandò perché mai i volti dei morti s’assomigliassero tutti.  

 

Non ofender a Dio per tal sorte

Che al transire non temi la morte

Che più oltra non me impazo in be né male

Che l’anima lasso al judicio eternale

Et come tu averai lavorato

Cossì bene sarai pagato.

 

 

Se non fosse stato per la toga nera manco l’avrebbe riconosciuto.

O meglio: lo avrebbe, ma Momolo per quanto si sforzasse non capiva come mai quel fantoccio penzolante scalzo, dalla faccia gonfia, dalle pupille dilatate e dalla lingua fuori potesse essere Padre, il senatore sier Anzolo Miani. Su quel viso di cinquantenne il bambino aveva contemplato ogni genere di sentimento, però mai quello gelido e immobile della morte, avendo Momolo sempre creduto Padre immutabile ed eterno come Domine Iddio e ironicamente, pensò, adesso stavano tutti a contemplarlo sconcertati e dolenti col naso all’insù come le Pie Donne e San Giovanni sotto la Croce.

E appunto come la Maddalena il bambino afferrò le caviglie del genitore e se le strinse forte al petto, strusciando la guancia sulla stoffa nera. Trattenendo i singhiozzi, Momolo si mise in punta dei piedi e spinse in alto con tutte le sue forze, illudendosi di poter salvare suo padre, di poter sfilare quella corda dal collo bluastro.

Gridò dallo sforzo, maledì la sua impotenza. “Tata! Tata!”, gli batteva le ginocchia. “Tata! Tata!”

All’improvviso, la luce scomparve e Momolo si ritrovò cieco a causa di una mano callosa sui suoi occhi: Zandomenego l’aveva preso in braccio, nascondendogli poi il viso sull’incavo della sua spalla. Di riflesso, il bambino strinse tra i pugni la stoffa del suo farsetto, lasciandosi avvolgere da quel buio improvvisato affinché lo conducesse via da quel luogo, dalle immagini impietose marchiatesi a fuoco nel suo cervello.

“Lele, molighe de fiffar e corate dal Cao de Contrada, lesto!”, gli giungeva sempre più ovattata e distante la voce affannata di Ruberto. “Vuialtri, mandé via tutti e serrate ea botega! Nissun gh’ha da vardarlo, nissun!”

Momolo voleva urlare. Voleva piangere. Svenire. Qualsiasi cosa pur di liberarsi da quel subitaneo nodo alla gola, che gli impediva di respirare e gli tingeva la visuale di chiazze. Invece, tenuto saldamente da Zandomenigo, altro non gli riusciva se non d’aprire e chiudere la mano, come se desiderasse afferrare quella spalancata e rigida del padre.

Un prima. Un dopo. Un mai più.

Il giovinetto avvertì il mondo ruotare, capovolgersi e schizzare via in una moltitudine di colori che si mischiarono e sciolsero vorticosamente fino a scagliarlo in un mare di luce bianchissima, dove il decenne fantolino v’affogò volentieri, accogliendo a braccia aperte quel doloroso nulla che tanto s’era fatto aspettare.

Nel dolore implose.

 

O peccator non peccar non più

Chel tempo fuge e tu non te n’avedi

 

 

Neanche un prete a benedire le loro tombe. Oh, che differenza avrebbe poi fatto? I morti non si lamentano.

Thomà, instancabile, intrecciava con l’erba piccole croci da mettere sui petti di ciascuno intanto che Hironimo scavava la fossa comune.

Le lacrime sincere di quel bambino erano più sante di qualsiasi acqua benedetta.

 

De la tua morte che certeza aitu

Tu sei forsi alo extremo et non lo credi

De ricore col core al bon Iesu

Et del tuo fallo perdonanza chiedi

Vedi che in croce la Sua testa inchlina

Per abrazar l’anima tua meschina …

 

 

Madre e le fantesche avevano agghindato Padre con la medesima perizia, che il defunto avrebbe usato per recarsi alle riunioni dei Pregadi a Palazzo Ducale, quasi a cancellare attraverso una raffinata eleganza ogni ricordo dello stato indecoroso, nel quale era stato rinvenuto.

Dopo che l’ufficiale sanitario e i barellieri se ne furono andati, lasciando il cataletto e il suo triste cargo sotto un lenzuolo, madona Leonora -  riavutasi dall’iniziale deliquio e spediti i figli al piano di sopra da madona Maria Foscarini Miani - gelida come il marmo aveva disposto di sistemare il consorte sul tavolo e di preparare il necessario onde ripulirlo e acconciarlo per l’ultimo suo viaggio terreno. Il tutto in un silenzio assoluto, chiunque avesse osato fiatare avrebbe incontrato i latrati ferocissimi della vedova, la quale aveva concesso al massimo di piangere con la bocca chiusa, dando l’esempio coi suoi occhi rosso fuoco e le guance smorte rigate.

Lei stessa aveva insistito di vestire sier Anzolo, accarezzandogli furtiva i capelli con la scusa di pettinarglieli e le guance di chiudergli il colletto, lo sguardo dolente e amorevole fisso sul suo corpo rigido ed illividito come se, tramite le sue carezze, desiderasse risvegliare il marito da quel gelido sonno. Orsolina e le altre domestiche avevano finto di non vedere, concentrandosi sul gravoso compito, semmai accelerandolo acciocché tutto fosse pronto per l’arrivo del resto del parentado, sempre senza proferire alcun motto, avendo infatti già comunicato ciò che dovevano comunicarsi, oramai abituate a quella mesta usanza, la memoria ben allenata dai passati decessi in Ca’ Miani. Ne avevano seppelliti abbastanza da saper alla perfezione cosa fare e come comportarsi, sebbene non negavano un certo turbamento per le circostanze della morte del padrone, le quali nessuno pareva darsi la pena di chiarire, in primis la moglie.

Quando Zanetta salì a chiamare Momolo ed i suoi fratelli, era tardo pomeriggio e la vestizione completa; s’attendevano i parenti più stretti per trasportare il defunto a San Vidal e lì iniziare la veglia.

Uno alla volta giunsero a porgere i propri rispetti: il biscugino sier Zuan Francesco Miani e sua moglie Maria Foscarini Miani; l’anziana Maddaluzza Miani e madona Ysabeta Zen relicta Miani ora Grioni col ventitreenne figlio Alvixe Miani e il di lui fratellastro Piero Grioni; sier Polo Antonio Miani e sua moglie Maria Morexini Miani, cugina di Madre, e i loro cinque figlioli, di cui l’ultimo, Piero, ancora in braccio alla balia. Poco più tardi si presentarono Crestina Miani da Molin, la figlia di primo letto di sier Anzolo, assieme al marito sier Thomà da Molin e alla piccola Leonora detta Dionora; appena scorse la matrigna, la venticinquenne patrizia le corse incontro, abbracciandola forte e piangendo silenziose lacrime sulla sua spalla, mentre madona Leonora le accarezzava il capo velato di nero.

A costoro s’aggregarono le famiglie dei commessi e degli operai di sier Anzolo, Ruberto Franco e Zandomenego Martintoni i primi a presentarsi; poi quelle della contrada di San Vidal e dintorni; in serata  alcuni amici intimi del senatore, quali il senatore della Zonta sier Antonio Trum e suo fratello minore Sebastian Trum, previi cognati del Miani. Madre ed i suoi figli li accoglievano rigidamente composti, la donna vestita interamente di nero, accollatissima, le belle trecce nascoste sotto una scuffia nera e un voluminoso paneselo nero lungo fino ai fianchi tanto da scambiarla per una suora. Il ventunenne Lucha e il diciannovenne Carlo già si presentavano con l’ombra della barba che, per tre anni, avrebbero sfoggiato a mo’ di lutto, assieme al mantello serrato bruno, dallo strascico assai lungo, stretto ai fianchi da una cintura di cuoio e affibbiato sotto la gola.

“Le nostre più vive condoglianze”, sentiva Momolo ripetere ogni visitatore, mentre Madre e i fratelli stringevano di continuo mani e sorridevano forzatamente a quella processione di volti familiari; quest’ultimi però stentavano di rimando a riconoscerli, stravolti com’erano da quell’inatteso e tragico evento.

Sua nonna, madona Ysabeta Contarini relicta Morexini, accorgendosi del silente nipotino, gli accarezzò la guancia, sussurrandogli parole di conforto prima di recarsi nella camera da letto del morto per unirsi allo scoordinato coro di “Ave Maria”. Ogni tanto gli si batteva sulla schiena o sulla spalla, incoraggiandolo a farsi forza, al che Momolo replicava annuendo, ricacciando indietro quelle lacrime che solo dopo le esequie e nella segretezza della sua stanza gli sarebbe stato consentito di versare. Ma non ora. Non in pubblico, a quello ci pensavano le donne. Non era ciò che sempre Padre gli aveva rimproverato? Di frignare ad ogni occasione? Mai più – si ripromise – mai più avrebbe pianto. Egli era un ometto e gli uomini non piangono. 

La genitrice e i fratelli si dividevano anch’essi tra gli infiniti convenevoli, i saluti e le melodrammatiche proclamazioni su quanto la morte di sier Anzolo Miani li avesse rattristati e se ciò corrispondesse al vero, meglio non sapere.

Momolo, aggrappato alla mano di Madre, assisteva passivo all’intero spettacolo e un poco innervosito, gli occhi ben asciutti.

Al crepuscolo trasportarono Padre su di un cataletto nella chiesa parrocchiale di San Vidal per la veglia funebre – al lume delle torce rette dai fratelli Lucha, Carlo, dal biscugino sier Zuan Francesco e dai suoi zii sier Batista, sier Lunardo e sier Hironimo Morexini “da Lisbona” (quest'ultimo senatore dei Pregadi come il cognato) accorsi in tempi diversi durante il giorno. Un affare semplice, privatissimo, quasi vergognoso e in netto contrasto con la pomposa cerimonia che si apprestava a compiere il giorno seguente.

Nell’andirivieni generale di partecipanti e babe pizzochere, soltanto lo zio di Momolo, sier Batista, era sempre rimasto in chiesa, avendo infatti mandato avanti la matrigna madona Ysabeta, i suoi fratelli e la moglie madona Morexina Morexini, promettendo di raggiungerli a Ca’ Miani. In passato, vegliare su di un cadavere pronto per l’ultima dimora terrena non aveva mai scosso suo zio più di tanto, ricordandoselo Momolo impassibile se non talora annoiato; ora, invece, l’uomo gli appariva inquieto, forse per colpa dell’innaturale silenzio regnante nella chiesa o forse perché, come tutti, non si capacitava di tale disgrazia abbattutasi improvvisa e violenta sul cognato e sulla sua famiglia.   

E il fantolino poteva ben immaginare, quanto tale sua apprensione non fosse rivolta a Padre – ormai in gloria di Dio – bensì a Madre, che sier Batista trovò là dove l’aveva lasciata, seduta in uno stato pressoché sonnambolico davanti al catafalco, illuminata a malapena dalla fioca luce dei ceri funebri, proiettando questi lunghe ombre sui muri e trasformando il morto in un’informe massa scura. Sulle ginocchia di madona Leonora sonnecchiava appena Momolo, la mano tuttora stretta a quella della genitrice; il quindicenne Marco, dal canto suo, s’era accontentato della spalla. Quanto a Lucha e a Carlo, erano rientrati a Ca’ Miani per coordinare il piccolo rinfresco e sorbirsi, volenti o nolenti, la compagnia del parentado, che fino al dì del funerale si sarebbe accampato nella casa da statio.

Sedendosi accanto alla sorellastra, sier Batista le mormorò dolcemente: “Dovreste coricarvi, almeno per qualche oretta: non avete neppure mangiato e domani …” e si bloccò in tempo onde evitare sciocchezze tipo: sarà una giornata impegnativa. E come no!

Madona Leonora scosse lentamente il capo in diniego, gli occhi vitrei riflettenti l’arancione delle candele, fissandolo sperduta come se l’avesse visto per la prima volta in vita sua. Negli abiti neri da vedova pareva ancor più giovane e al contempo vecchia per via delle spalle ricurve, del pallore dell’insonne e delle profonde occhiate. “Domani lo lascerò … non stanotte, no, stanotte rimango con Anzolo …”, gracchiò, passandosi rapida e vergognosa il dorso della mano guantata sugli occhi. “Il fumo …”, bofonchiò a mo’ di scusa, tirando su col naso.

Il suo fratellastro accettò la debole giustificazione senza commentare. In quel momento, Momolo uscì completamente dalla sua dormiveglia, ma, accorgendosi dell’espressioni serie di confidenza tra Madre e Avunculo, seguitò nel suo finto sonno, in ascolto, specie quando, inaspettatamente, l'altro zio sier Hironimo Morexini s'unì a loro.

“Siete ritornato in ritardo, oggi.” Il tono di sier Batista suonava tanto duro quanto gli altari di marmo e quel suo velato rimprovero doveva fondarsi su ottime motivazioni, per rivolgersi così al fratello maggiore.

“Sapete perché", replicò altrettanto tagliente sier Hironomo.

“Mi permetteranno di seppellirlo in chiesa?”, altre erano le preoccupazioni della vedova e almeno in questo, i due Morexini ebbero di lei, rassicurandola:

“Il priore don Jacomo Batista non nutre alcun dubbio a riguardo.”

“Questo vi ha trattenuto?”

Un istante d’esitazione.

“No.”

Madre si voltò verso sier Hironimo, guardandolo tanto supplicante quanto sier Batista accusatore. “Significa che sanno chi è stato. Mi rifiuto di credere che mio marito si sia tolto la vita”, interruppe lei la replica del fratellastro più anziano, zittendolo bruscamente. “Anzolo non s’arrendeva dinanzi a nulla, né sarebbe stato così codardo ed egoista da scegliere a nostro discapito questa triste scappatoia. Non lo credo! Non è possibile! Me lo hanno ammazzato e i Dieci conoscono il colpevole!”

Il senatore dei Pregadi girò il capo dall’altro lato, evitando di risponderle e ciò confermò le intime angosce della donna.

“Voi lo sapete! Ve lo hanno comunicato, quando vi siete recato a Palazzo per assicurargli una sepoltura da cristiano! E’ così?”, lo incalzò sier Batista e madona Leonora, dinanzi all'ostinato mutismo del fratellastro, gli ordinò affannata: “Me lo dovete dire, Hironimo! Sono sua moglie! I miei figli hanno il diritto di sapere chi ha ucciso il loro padre! Perché mi fate questo sgarbo tacendomelo?! Perché ci costringete a vivere con questo peso?”

Il patrizio allora s’alzò di scatto, avanzando a grossi passi verso il catafalco.

“Perché non abbiamo prove!”, sbottò frustrato sier Hironimo, appoggiando la mano poco distante da quella guantata ed inerte del cognato, quasi desiderasse scusarsi con lui  per la sua impotenza. “Senza prove concrete, inizieremmo uno scandalo di tal portata, che se le nostre teorie si rivelassero sbagliate, ci risulterebbe difficile se non impossibile ritrattare”, le confessò, calmandosi e respirando a fondo. Dopodiché il Morexini riaccese alcune candele, lo stoppino soffocato dall’eccesso di cera. “Se Anzolo fosse stato ucciso da un qualsiasi suddito della Signoria, quant’è vero Iddio lo avremmo scovato e tagliato a pezzi tra Sen Marco e Sen Todero. Poiché sospettiamo non essere così … Senza prove concrete non possiamo nominare nessuno a voce alta”, e si passò stancamente una mano sulla tempia. “Noi tutti siamo amareggiati per quel che è successo. Si poteva evitare”, e terminata l’operazione di riaccensione delle candele, riprese il suo posto sullo sgabello in attesa dell’alba.“Ma una testa rotolerà per certo, sorella mia, questo ve lo promettiamo: hanno voluto darci un monito. Ebbene, anche loro riceveranno il nostro.”

Momolo rabbrividì all’udire quella minacciosa promessa, ch’odorava di sangue, stringendosi inconsciamente a Madre.

A Venezia ogni cosa pubblica doveva essere uno spettacolo e il funerale di un suicida (o presunto tale, come si correggeva ferocemente lo sprovveduto pettegolo che affermava il contrario) lo era assai, attirando più partecipanti di quanti invitati, pareva aver reso l’anima Missier il Doge e non un senatore a giudicare dalle finestre gremite di facce incuriosite e scandalizzate; delle calli quasi ostruite di gente che si univa al corteo o che tentava di sbirciare il volto del morto, se si notavano i segni della corda (c’erano e belli scuri sotto il velo rosso postovi da Madre, in modo da confondersi con il colletto della vesta).

Per sicurezza, durante il tragitto verso Santo Stefano, i Miani avevano ordinato ai servitori di tenere ben pronti i bastoni in mano, da calare su qualsiasi testa facinorosa e fanatica che avesse osato disturbarli. Per fortuna non fu il caso, procedendo serenamente il pingue corteo indisturbato, tra Litanie dei Santi e segni della croce dei passanti o di chi s’affacciava alla finestra, srotolando da essa un panno viola o nero in segno di partecipazione. Momolo aveva assistito ad altri funerali, come ad esempio quello del suo omonimo prozio sier Hironimo Miani e di sua zia Barbara Moro Morexini, però ugualmente rimase sopraffatto da tutta quella gente, dai preti agostiniani e dai chierici; dai dipendenti in bottega e magazzini ai marinai e comiti che avevano servito nelle fuste e galee di sier Anzolo, quando questi era stato Capitano della Riviera della Marca durante la Guerre del Sale e capitano della muda di Beirut.

Oltre a costoro, seguivano poi: sier Thomà Miani cugino di Padre con le figlie Anzola e Maria, maritate rispettivamente in sier Alvixe Zantani e sier Fantin Dandolo; sier Daniel Contarini, figlio della prozia Helena Miani Contarini, e sua moglie Cypriana Arimondi Contarini; l'anziano procuratore di San Marco sier Andrea Contarini e madona Andriana Miani Contarini, altra zia paterna del defunot, e i loro numerosissimi figlioli e figliole tra cui sier Thadio e sier Antonio Contarini, che vivevano a San Vidal, il secondo assieme al figlio Sebastian Contarini e madona Pellegrina Contarini Morexini in compagnia dei figli Silvestro, Phelipo detto "l'Avaro" e Bortolamio Morexini.

Lontani parenti, ma pur sempre in Ca’ Miani partecipavano il novantaduenne sier Andrea Miani q. sier Vidal, tenuto sottobraccio da sua nipote Maddaluzza Miani con accanto madona Magdalena Marzelo da Canal, moglie di Marin da Canal suo altro nipote.

Dei Miani di San Giacomo dell’Orio si presentarono, oltre a sier Polo Antonio e famiglia, anche i suoi fratelli Batista, Sebastian, Zuanne, Lorenzo e Domenego e i loro cugini germani, Segondo, Zuam Batista e Domenego figli del cugino del nonno paterno di Momolo, quel sier Thomà Miani che tanto lo amava quasi se non più d’un fratello, da compartire l’anno di esilio quando, stolti e impetuosi ventenni ch’erano stati, sier Lucha e sier Thomà avevano deciso d’impegolarsi in strane sette. Momolo aveva conosciuto nei dettagli la succosa vicenda al funerale del medesimo sier Thomà, deceduto quello stesso anno.

E per virtù di matrimoni, che legano il mondo, la cognata di sier Thomà, madona Agnete Vituri, aveva sposato sier Nicolò Loredan fratello di madona Crestina Loredan Miani, madre di sier Anzolo, sicché costoro non poterono mancare, anche dopo che sier Lucha Miani, soffrendo del mal dell’eterno marito, si era risposato con la giovane vedova di sier Francesco Dolfin. Tra questi parenti spiccava l’anziana madona Agnexina Minotto Loredan, moglie del prozio sier Bertuzi e figliola del magnifico messer Hironimo Minotto, morto decapitato a Costantinopoli assieme al figlio Zorzi e ad altri sette patrizi veneziani, dopo averla virilmente difesa contro i Turchi. Madona Agnexina e suo fratello sier Polo Minotto, catturati assieme alla madre e destinati ad una vita di schiavitù, per grazia di Dio e della Madonna erano invece riusciti a fuggire e a rimpatriare a Venezia, assegnando la Signoria una dote alla fanciulla.

A proposito di Turchi: ai fratelli sier Antonio e sier Sebastian Trum s’erano aggregati i loro quanto mai numerosi famigliari, tra cui Momolo riconobbe sier Phelippo Trum q. il Serenissimo Missier el Doxe Nicolò Trum con la moglie e e la cugina di Madre sua cognata, quest’ultima rimasta precocemente vedova del sopracomito sier Zuane Trum, morto a Negroponte per “la fede e per el stado”; i figli di madona Francesca Trum Dolfin, il cui marito era stato anch’egli alla custodia di Costantinopoli sebbene con epilogo più felice; il capitano sier Hironimo Contarini “il Grillo” dei SS. Apostoli e sua moglie Orsetta Trum Contarini, nota per la sua bruttezza leggendaria, coi figli Francesco e Magdalena. Degli altri cugini di suo zio sier Antonio, il piccolo Miani si soffermò su Stae Trum q. sier Antonio, il quale i medici patavini avevano dichiarato irrecuperabilmente pazzo furioso e di fatti lo tenevano ben stretto i suoi fratelli Carlo e Donado e seminascosto dagli altri fratelli, sier Francesco, sier Lucha e sier Marco. Il povero Stae, scagnato dai parenti e seppellito vivo in casa, al decenne Miani in verità suscitava un’infinita tenerezza, povero prigioniero della sua medesima mente, dal sorriso sghembo e svagato, gli occhi distratti sempre vaganti di qua e di là e un filetto di saliva che gli rigava il mento, quando parlando esibiva nei suoi criptici discorsi la tipica saggezza dei matti. Non era nato così - aveva appreso il giovinetto - avendo anzi lavorato come giudice nella Quarantia Criminal; semplicemente, nel corso degli anni qualche demone interiore aveva roso, poco alla volta, il senno di sier Stae e soltanto Domine Iddio poteva nominarlo.

Dalle bande di Madre, oltre alla nonna Ysabeta, Momolo salutò i suoi cugini Zuanne, Donado e Francesco Michiel, quest'ultimo con la moglie Ysabeta Longo Michiel, figli dei sier Donado Michiel q. Zuanne detto "il Fusta", figliastro di sua nonna e di Cecilia Trum Michiel, cugina di sier Antonio e sorella di madona Francesca; dopodiché il piccolo Miani passò agli altri cugini, Alvixe, Andrea ed Hironimo Barbaro, figli dell'altra figliastra di madona Ysabeta, Diamante Michiel Barbaro e di Piero Barbaro q. sier Donado. Venne anche il cognato dell'avia materna, sier Ambruoxo Contarini q. sier Beneto, capitano della galea Aegeus contro i Turchi, ambasciatore ed esploratore, in compagnia di sua moglie madona Margareta Crispo Contarini col figliolo Beneto Contarini. Momolo per questo parente nutriva una grande fascinazione e gli dispiaceva di rincontrarlo in tali infelici circostanze, adorando infatti sedersi ai suoi piedi per ascoltare le sue avventure nel Levante. Il piccolo Miani forse non si ricordava manco sotto tortura gli Ianua e i Disticha Catonis, però poteva citare verbatim ogni singola parola dei libri-resoconto “Questo è el Viazo de misier Ambrogio Contarini” e “Viaggio al signor Usun Hassan re di Persia”, ripetendo come da grande egli avrebbe imitato il prozio e viaggiato per il mondo in lungo e in largo, ammazzando Turchi, salvando donzelle in pericolo e divenendo amico di re e imperatori di paesi esotici e mai scoperti. “Sì, sì, sempio come sei, appena metti fuori il naso dal Golfo, ti catturano i Turchi e ti vendono schiavo al Sultano d’Alessandria d’Egitto per fargli da scimmia!” “Sior Pare, aveu sentito?” “Carlino, molighe: qui nessuno vende nessuno al Sultano!”

I più vicini al cataletto, però, rimanevano i Morexini dalla Sbarra di Santa Ternita, cognominati “da Lisbona” per via dei lunghi anni in Portogallo del fu sier Carlo Morexini q. Nicolò, nonno materno di Momolo, senatore e “companheiro” del fiorentino Bartolomeo di Jacopo di Vanni, con cui aveva fondato una società di cambi tra Lisbona e Roma tramite la banca Gianchinotti-Cambini di Firenze, società tra i cui clienti s’era annoverato perfino l’infante don Enrique d’Avis.

Tra i suoi sei figli di primo letto, avuti da Querina Querini q. Piero q. Gelmo, spiccava appunto sier Batista che pur il minore di loro era divenuto per i suoi meriti il nuovo capofamiglia; gli camminavano vicino sua moglie Morexina “dalla Testa” e i figli più grandicelli Carlo, Piero, Nicolò, Hironimo e Maria, mentre Querina e Ferigo erano rimasti a casa con la balia. Un po’ in disparte, dietro padre, matrigna e fratellastri, li seguiva Andrea Morexini detto “il Vendramino”, illegittimo, nato prima del matrimonio di sier Batista. E dietro a costoro gli zii Nicolò, Piero, Ferigo, Hironimo e Lunardo con le rispettive consorti e prole, la cui compagnia solitamente Momolo apprezzava grandemente, ma ora la rifuggiva, neanche gli ricordasse quei giorni felici che giudicava rubatigli ingiustamente, provando una forte invidia, poiché i suoi cugini, nel bene e nel male, seguitavano a godere della presenza di un padre, mentre lui ne sarebbe rimasto orbato per sempre. L'unico a salvarsi dal suo rancore rimaneva il figlioccio e il più giovane dei cognati di sier Battista, il diciassettenne Anzolo Morosini, il cui padre Francesco detto "da Zara" si trovava in Bass'Italia a combattere per Ferrandino d'Aragona re di Napoli.

A far da ponte, oltre a Madre, tra Miani e Morosini, erano venuti a porgere i propri rispetti anche i biscugini di Padre, in primis sier Christofal Moro q. sier Lorenzo: suo nonno il fu sier Antonio aveva impalmato la prozia di sier Anzolo - madona Barbara Miani Moro q. sier Zuanne. La sua omonima nipote, Barbara detta "Barbarella" s'era poi maritata con sier Hironimo "da Lisbona" zio di Momolo, morendo tuttavia due anni addietro, anch'ella ad agosto. Ma non era per la sua parentela, che l'arrivo di sier Christofal suscitò qualche bisbiglio e sorrisetto: era la compagnia della sua terza moglie, madona Istriana Pasqualigo Moro di sier Cosimo, la sua bellezza direttamente proporzionale alla grande gelosia che il marito nutriva nei suoi confronti. Madona Istriana era pregna per la terza volta e ci si domandava non senza malizia se, dopo le figliolette Ysabetta e Paola, il suo figliastro Lorenzo Moro avrebbe finalmente avuto quel tanto sospirato fratellino o se per tal impresa fosse necessario l'ausilio di una quarta moglie.

Codesto variegato corteo occupò quindi la Chiesa di Santo Stefano e la cerimonia soddisfò pienamente le sue aspettative. Il cataletto, una volta entrati, era stato collocato sotto un baldacchino pieno di lumi su cui incombeva il manichino di una Morte alata, dal pesante mantello nero, munita di falce e del suo usuale ghigno, reso doppiamente sinistro dalla penombra e i fumi dell’incenso. Simbolo della caducità della vita e della vanità delle passioni, a Momolo quel fantoccio parve al contrario un difensore del corpo di Padre, quasi volesse scansare da lui i suoi assassini e risparmiargli le loro ipocrite lacrime.

Sier Anzolo giaceva in gelida composta perfezione sul suo catafalco, recante tra le mani ricoperte da morbidi guanti di cuoio una piccola icona della Panaghia Tricherousa [8], l’ultimo dono di suo fratello sier Marco da Schiro, da cui il patrizio non se ne separava mai. In rispetto alla sua carica nei Pregadi, la vesta sceltagli era di velluto semplice, pavonazzo, dalle maniche grandi e aperte e foderata d’ermellino; le calze e le pianelle invece erano rosse così come la stola sulla spalla. Sul capo, una beretta nera.

Si recitarono le orazioni e si cantarono le esequie, incensando di continuo il defunto, alla mercé dello sguardo indagatore e venale di ogni visitatore, che valutava in pecunia ogni spanna di seta e velluto con la scusa di pregare per la sua anima, nonché cercava di capire in che cosa differisse il cadavere di un suicida da uno morto cristianamente. Accanto a Padre, i corocciosi (parenti in lutto, ndr.) assistevano alla Messa da Requiem gravi e solenni, in statuaria immobilità, interamente coperti da un lungo mantello nero a strascico e un cappuccio, tanto da scambiarli per lugubri statue.

Tenuto per mano stavolta da Marco, Momolo notava come tutti si rivolgessero con estrema cortesia al primogenito Lucha, fino a qualche giorno fa sempre dietro a Padre, in silenzio se non interpellato. Adesso, invece, lo accarezzavano ipocritamente dogliosi e lo trattavano da gran amico, ormai chiaro il temporaneo cambio di testimonio a Ca’ Miani. Dopodiché, al compimento della maggiore età degli altri fratelli, il Tempo avrebbe svelato chi veramente avrebbe assunto il ruolo di capofamiglia.

Ai dubbiosi, agli addolorati nonché ai morbosi e ai pettegoli che s’accalcarono alla cerimonia funebre, sier Batista imbastì un gran bel discorso circa la causa di quel violento trapasso, cioè un vile assassinio causato dal crescente tasso di criminalità notturna a Venezia. Come poteva infatti il magnifico messere Anzolo Miani – declamava pieno d’infuocata enfasi - avvocato e giudice, capitano delle galere e podestà, provveditore e senatore essersi macchiato di un tal peccato mortale, aborrito dalla Serenissima e condannando la sua anima all’eterna dannazione? Sier Zuan Francesco “il Pizzocchero” e sier Antonio Trum rincararono poi la dose sciorinandosi in ulteriori articolate e solenni liste di benemerenze del defunto, ognora indicandolo come un uomo devotissimo alla Signoria Loro, dalla condotta irreprensibile, padre e sposo di rara virtù, meritevole solo di grandi lodi e onori. Il priore di Santo Stefano, don Jacomo Batista Aloisi, aveva ricordato commosso l’impagabile sostegno del Miani sia come mecenate sia come benefattore in generale e di come avesse sempre vissuto da buon cristiano.

Momolo ascoltava a malapena, barcollando mezzo stordito dalla stanchezza e dall’incenso. Un doloroso groppo in gola gli si formò a fine funzione, quando i becchini sollevarono il corpo di Padre e lo posero delicatamente nella costosa bara di larice. Marco lo dovette trattenere a viva forza, nel momento in cui il coperchio venne inchiodato e il feretro ricoperto d'un panno di velluto nero, costringendo il fratellino ad allungare il collo e a porsi in punta dei piedi, così da contemplare fino all’ultimo i lineamenti del genitore, celati per sempre dietro quel marmoreo sepolcro fino al dì in cui si sarebbero ricongiunti nell’Aldilà.

“Non voglio dimenticare la sua faccia, Marchetto. Non voglio!”, confidò angosciato sottovoce al maggiore, intanto che sollevavano il feretro nell’arca, collocata nella parte posteriore dell’abside.

“Te la descriverò ogni sera, Momolo, promesso”, giurò solennemente Marco, baciandogli furtivo la tempia onde sigillare quel segreto patto fraterno.

Nudo uscii dal seno di mia madre; e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!”, concluse e benedisse l’arca sigillata don Jacomo Batista Aloisi.

“Amen! Amen! Amen!”, rispose grave l’assemblea, segnandosi tre volte. “Misericordia! Misericordia! Misericordia!”

Il povero Stae Trum, ridacchiando e schioccando la lingua, indicò la tomba e il fantoccio. “Varda! Varda! La Morte s’è presa il cugino Zanzetto, ch’è volato via con lei!”

Nel frattanto, a Ca’ Miani, Symon il pope de casàda confidava sottovoce a Nardo il cuoco e alla di lui nipotina Ufemia alcuni suoi dubbi: suicida o assassinato? Ammettendo che sia vero, ma perché? - insisteva Ufemia mentre tirava il collo ai volatili per il pranzo - che motivo avrebbe avuto il sior patron di togliersi la vita? - A Rialto, poi! Dove tutta Venezia l’avrebbe saputo! - Debiti di gioco?  - No, il sior patron li aborriva, vi ricordate come prese a schiaffi i padroncini Luchin e Carlino quando li vide con le carte in mano?  - Mala gestione? Abuso della sua carica? Accusa di corruzione?  - Macché! Ce ne fossero di onesti in Senato come il povero padrone! – Ascoltate qua: il servo di sier Antonio della Zonta mi ha detto che il suo padrone è andato a chiarirsi con uno suo amico tra i Dieci e che questi gli ha confermato come la Signoria Nostra non abbia  mai avuto nulla da rimproverare al padrone nostro, al contrario sempre l’è stata soddisfatta del suo zelante operato. – La so io: malfrancese!  - Puoah, caro mio, e tu pensi che la padrona gliel’avrebbe fatta passare liscia, se l’avesse cornificata?

“Olà, bestie!”, ruggì Orsolina, chetandoli tutti. “Aveu finio de ciacolar? Deboto zonzeran i patroni e gli ospiti, e savé ben chome i patricij i magnan per zento ! Cossa ghe servirem a st’altri in tola? Le vuostre zanze?” (ciance, ndr.)

Si preannunciava un pranzo effettivamente abbondante di commensali ché a compiangere  il senatore sier Anzolo Miani oltre ai suoi parenti, ai suoi dipendenti, marinai, amici s’erano aggiunti anche i vicini di casa e di contrada. Nell’infinito viavai dello stipatissimo piano nobile di Ca’ Miani, Momolo, prima di rintanarsi in un angolo tranquillo, fu costretto a salutare la zia Ysabeta Morexini Corner, moglie di sier Zorzi Corner il cavaliere e fratello della Regina di Cipro, coi figli più grandi Zuanne, Francesco, Marco, Jacomo ed Hironimo. E come se non ne avesse abbastanza, anche la zia Marina Morexini Vituri, moglie di sier Piero, la quale figli non ne aveva e non tanto perché lei fosse sterile, bensì il marito, ch'era un prete mancato. Niente figli neppure per lo zio sier Thadio Morexini, l’altro figlioccio e cognato di zio Batista, sposato da due anni con madona Contarina Contarini Morexini, nipote della prozia madona Andriana Miani Contarini per suo figlio sier Zentil Contarini, ma lì, Momolo aveva origliato, era questione soltanto di tempo.

Madona Maria Malipiero Gradenigo fu l’unica che si rivolse direttamente a Momolo, stringendolo al petto e accarezzandogli tenera il capo, per crocifiggere poi con un’occhiataccia il marito sier Zuam Paulo Gradenigo che, tra il goffo e il burbero, su sua insistenza, gli bofonchiò: “Fa’ il bravo, veh” per poi riparare strategicamente tra sier Fantin Dandolo e madona Laura Dandolo Contarini, altra biscugina del piccolo Miani, sposata a Thadio Contarini cugino di Padre e nipote del fu Serenissimo sier Zuanne Mozenigo .

Vennero a salutare Madre anche sier Lunardo Loredan, i suoi figli e le figlie coi generi che abitavano a San Vidal; vestita a lutto compartì le sue condoglianze anche madona Laura Contarini relicta Zustignan (cognata di sier Lunardo) e la figlia Luzia Zustignan Dolfin, ch’aveva sposato il podestà e capitano di Mestre sier Piero Dolfin figlio di Francesca Trum Dolfin, così d’avere stretti non solo i parenti ma anche i vicini. Degli undici figli del fu sier Unfrè, accompagnarono madre e sorella Alvixe, Francesco, Andrea, Lorenzo, Lunardo e Pangrazio, il resto a casa poiché troppo giovani, nonché madona Paula Zustignan maritata anch’ella ad un sier Piero Dolfin, guadagnandosi il primato di miglior barzelletta del sestiere, la quale adombrava scambi di mariti tra le due sorelle, quando annoiate. Momolo si chiedeva come potesse ciò avvenire, essendo i due Dolfin diversissimi tra loro, decisamente figli di padri e madri diverse.

La chicca però corrispose alla partecipazione inattesa del cavalier sier Zacharia Contarini “dai Scrigni” con Alba Donado “dalle Rose” sua moglie e i figli maggiori appresso. Dell’intera sua gens  (e metà del patriziato lì presente) sier Zacharia appariva l’unico genuinamente dispiaciuto della tragica dipartita di sier Anzolo, avendo infatti orato durante la funzione con gran fervore per la salvezza dell'anima del parente acquisito, ambedue pronipoti di Andriana Miani Contarini.   

Il Cavaliere, ambasciatore e rappresentante speciale a suo tempo presso le corti di Francesco Gonzaga, Ludovico Sforza, Charles VIII e ora appena rimpatriato dalla corte dell’Imperatore Maximilian I., di recente aveva infatti riallacciato i rapporti col cugino alla lontana, specie in gondola durante il tragitto da Palazzo Ducale verso i rispettivi palazzi. Oltre alle accese discussioni sulle recenti difficoltà del Moro e sull’ignavia dell’Habsburg che bravo era solo ad incassare i soldi loro e del Duca, ad unire i due patrizi erano le lagnanze sui rispettivi figli minori. Sier Anzolo, ascoltando sier Zacharia, gli aveva in più occasioni confidato come anch’egli si crucciasse per il suo Momolo, da tutti adorato e coccolato e che tanto dicevano esser buono, cortese ed estroverso; chissà perché con lui invece si comportava da turco, sempre serio e rabbiosamente chiuso, che gli mordeva la mano se tentava di castigarlo e gli lanciava parole tanto dure, che il senatore neanche si capacitava da dove provenisse tutto quel rancore in un fantolino.

“Ascolta bene, Momolo: checché ne dica lo stolto volgo, il tuo sior Pare era un grand’uomo, per lui devi provare soltanto orgoglio!”

Soffocato da quella gazzarra di ospiti e infastidito dai loro rivoltanti sorrisi compassionevoli, Momolo scivolò via inosservato giù in cucina, alla ricerca della famigliare e rassicurante compagnia dei servitori, fintanto che Madre non l’avesse chiamato a tavola. Strisciò sotto la pistoria, s’accoccolò in posizione fetale e catturò il gatto, abbracciandolo mentre questi lo rilassava con le sue fusa; poco gli importava se così facendo si sporcava il farsetto di peli e farina, anzi in questo modo lo avrebbero spedito in camera sua e lasciato finalmente in pace.

“Zò, patron Momolo! Cossa faseu qua sotto? Vegné, a xé pronto en tola!”

“No gh’ho fame!”

“Mo via, gnente putelezzi!”

Al banchetto funebre si servirono le pietanze amate in vita dal defunto e gli occhi del piccolo Miani s’ingrandirono terrorizzati alla vista delle anguille portate in gran trionfo sui vassoi d’argento. Quando le ebbe sotto il naso, nella mente del bambino cozzarono violentemente vari ricordi, tra cui la testa del florentin tenuta in mano dal boia e quelle delle anguille scartate da Nardo il cuoco; della faccia tumefatta e irriconoscibile di Padre, colla lingua fuori come il toro a Carlevar, e sempre di Padre il viso rigido e color della cera che aveva baciato sulle labbra a mo’ di commiato.

“Di le toe virtù, ricchezze e forza fidar no te vole”, canticchiava serafico Stae Trum il matto, sviscerando il pesce con le mani con la medesima fascinazione di un infante. Accortosi di come i bambini a tavola lo stessero osservando divertiti, egli abbandonò l’anguilla sul piatto, tagliò a metà la sua fetta di polenta e ci giocò, nella sua mente degli scheletrini danzanti: “No sastu, Momolo?”, gli chiese, ponendosi l’indice sulle labbra. “La Morte chi lei vole, lei tole.”

Il piccolo Miani non resse più e vomitò dunque sul piatto e sarebbe stato allontanato in camera sua tra l’imbarazzo generale, se suo fratello Marco non avesse afferrato prontamente il piatto, gettandone non visto i contenuti fuori dalla finestra, in canale.

“E come dicono i Greci: buon viaggio, Anzolo nostro.”

“Buon viaggio!”

Momolo incominciò a sudare, ad avvertire fastidiosi crampi allo stomaco e scalpitava per la fine di quel (per lui) infinito calvario; inoltre, il fantolino esigeva l’abbraccio confortante di Madre e non riusciva più a trattenere il doloroso urlo ingroppatosi in gola per via della consapevolezza, che Padre era morto per davvero e senza che lui, suo figlio, avesse avuto modo di domandargli scusa e dirgli quanto l’amasse.

 

No sastu, Momolo? La Morte chi lei vole, lei tole.

Le mani gli bruciavano, sanguinanti; le braccia gli pesavano quanto il piombo. Hironimo s’asciugò la fronte madida di sudore, i capelli arruffati in battaglia, respirando a boccate irregolari, senza fiato e senza energie rimaste, lo stomaco attorcigliato dalla fame e la gola secca. Accanto a lui, il piccolo Thomà barcollava sfinito eppure ancora v’erano corpi da seppellire.

Il sole stava calando, forse li avrebbero ricondotti in cella, bastava fingere ancora per un po’ di lavorare …

“No ghe la fazzo! No ghe la fazzo pì!”, piagnucolava il fantolino, usando la vanga più alta di lui a mo’ di bastone, leccandosi le labbra secche e screpolate.

Percependo il peso delle occhiate degli stradioti sulla schiena, resosi infatti conto di come i ritmi lavorativi andassero rallentandosi, il giovane patrizio diede un colpetto d’incoraggiamento al braccio del bambino, spronandolo ad uscire dal suo incantamento. “Dèmo! Ancora un altro!”, insistette dolcemente.

Thomà scosse il capo, il moccio che gli fluiva liberamente dal naso. “Sun stracho! Gh’ho fame! Vojo la mama!”, prese a singhiozzare, stropicciandosi ambedue gli occhi e ritornando ad essere un piccino di dieci anni e non il linguacciuto assistente alle polveri di Andrea il bombardiere.

L’espressione di Hironimo da compassionevole s’indurì. “Non piangere, sempio, tanto lei non tornerà mai più da te!”

Il bambino strascicò qualcosa d’inintelligibile , sennonché un calcio al sedere da parte di un contrariato stradiota lo interruppe, facendolo rotolare dentro la fossa tra i cadaveri.  Dinanzi allo strillo spaventato di Thomà, agitandosi peggio d’un diavol nell’acqua santa in quell’ammasso di carne gelida e puzzolente, l’uomo e i suoi compari si scompisciarono dalle risate e anzi, afferrate delle manciate di terra, le buttavano addosso al decenne che urlava e piangeva isterico, scrollandosi via di dosso come ustionato la terra. 

“Toga! Toga! Fio dil suicida! Fio dil dannato!”

In mezzo al chiostro del Monastero della Carità, dove adesso studiava, Momolo era divenuto il bersaglio preferito degli studenti, i quali tra una lezione di grammatica e di retorica adoravano tenere fermo e ricoprire di fango il nuovo arrivato, il figlio del Suicida, come ormai appellavano il fu sier Anzolo Miani alle spalle della famiglia, sottovoce. 

“Basta! Basta!” , guaiva sfinito Thomà, rannicchiandosi in cerca di rifugio da quella terrosa lapidazione.

Hironimo strinse di riflesso la vanga, insensibile alle vesciche alle mani.

“Patron, ajudo!”

E quella vanga la spaccò in testa allo stradiota. 

“Fio dil dannato! Fio dil diavol d’inferno!”

Sì, forse lo era, poiché non porgeva l’altra guancia e malgrado la figura ancora esile e l’enorme disparità numerica (uno contro tutti), Momolo rispondeva a calci e pugni e morsi alle provocazioni dei compagni, colpendoli all’inguine approfittando della sua bassa statura e tirando loro i capelli una volta a terra; li graffiava quasi volesse strapparli gli occhi dal cranio e proferiva tali oscenità manco un battelante chioggiotto.

“Mi no sun debole! Mi no sun femena! Mi no sun fio dil suicida!”

Rosso, rosso di rabbia cieca e famelica, null’altro vedevano gli occhi impazziti di Hironimo mentre riempiva di pugni e randellate chiunque gli si parasse di fronte, prendendo e ricevendo, gli stradioti sgomenti dall’incuranza con cui incassava i colpi, senza neanche accorgersi del sangue che gli colava dalla fronte assieme al sudore, essendosi riaperta la ferita.

Indietreggiarono a quel suo sorriso sghembo, malato, il biancore degli occhi esaltato dalla maschera scarlatta.

“Basta così!” e stavolta non si trattò della voce piagnucolosa di Thomà, bensì di quella autoritaria e terribile di Mercurio Bua, ritornato dalle sue scorrerie nel territorio.  Spronando il cavallo, il capitano di ventura li raggiunse, il viso torvo e i denti ben esposti, maledicendo tra sé e sé quegli sciagurati cialtroni incapaci di rimanere mezza giornata al campo senza causare danni.  “Cosa significa tutto questo?”, esigette spiegazioni, indicando la fossa, gli uomini semi-incoscienti dalle botte e Hironimo col bastone in mano e il viso contorto di rabbia. Approfittando della confusione, Thomà era risalito nel frattempo, appiccandosi al fianco del patrizio che di riflesso lo strinse a sé.

“Allora?”, non aveva in realtà bisogno d’alcun chiarimento, l’albanese già si figurava alla perfezione le dinamiche di quell’indecente bailamme; ciononostante, leggere l’incertezza e il timore in faccia a quei masnadieri lo riempiva di una perversa soddisfazione. “Razza d’otri piene di sterco, chi vi ha dato l’ordine di far uscire il prigioniero? Chi? Potete anche solo rendervi conto, coglioni, di che cosa sarebbe potuto accadere, se fosse riuscito a scappare? Potete?”, sbraitò, schioccando la scutica sulle loro spalle, sulle braccia erte a mo’ di difesa, ovunque riuscisse a colpirli. “Idioti! Cani bastardi! Merde viventi! Chi vi ha dato il permesso di toccare ciò che non vi appartiene?”

“Ma … ma capitano …”, tentarono una disperata giustificazione. “Ha incominciato questo pazzo furioso … ci ha malmenato senza alcun motivo! …”

“E ha fatto bene! Troppo delicato! Al suo posto vi avrei scuoiati vivi! Anzi! Vi acconcio subito!” e diede ordine che quei disgraziati venissero passati sotto le forche caudine [9] con sommo gaudio degli altri stradioti, assai avidi di distrazione da quel mortorio senza né soldi né cibo né donne.

“Che sia ben chiaro a tutti”, enunciò però prima a gran voce e tutti i suoi uomini si misero sull’attenti in ascolto, consci di aver tirato troppo la corda col loro tremendo capitano. Mercurio Bua si spostò col cavallo dietro Hironimo e, avutolo nel suo raggio d’azione, se lo issò sopra con la medesima facilità di un fanciullo che si ruba un gatto, indifferente all’indignato divincolarsi del giovane patrizio. “Questo qui non è un prigioniero qualsiasi da tormentare a vostro piacimento”, spiegò perentorio, mettendo bene in mostra Hironimo in una grottesca parodia della Madonna col Bambino, “questo qui è Girolamo Emiliani, patrizio veneziano e mio bottino personale. Intendete? Mio! Egli è mio. Ciò significa che nessuno di voi lo deve toccare né gli deve parlare né tantomeno anche solo avvicinarsi a lui, se non sarò io stesso a comandarlo. Violate questo mio ordine e mi premurerò d’impalarvi di persona come fecero i turchi con le vostre famiglie!”

Fu sconcertante e meraviglioso leggere la paura in quei visi arcigni e spavaldi, ora ridotti a balbettanti scolaretti vergognosi e intimiditi.

Soddisfatto dell’esito positivo di quel suo discorsetto, Mercurio Bua spronò al trotto il suo cavallo in direzione del cortile interno.

“Ributtateli dentro e perdio dategli da mangiare: la Serenissima non sborsa danaro per i morti!”, comandò l’albanese. “Quanto a questi cadaveri, buttateli nella Piave: siamo soldati, non becchini! Ci penseranno a Venezia a seppellirli, quando le acque li trasporteranno in laguna. O quel che di loro resterà”, e spinse giù Hironimo su della paglia lercia di fango e altro sulla cui natura per la pace dell’anima sua preferì non inquisire.

Per fortuna i due stradioti, che prontamente l’agguantarono, tanta fretta avevano avuto di assistere alla punizione dei compagni da confondere le celle, da gettare il giovane Miani e Thomà in una cella pulita senza escrementi e cadaveri di topi e i due, a seguito di un lauto pasto a base di pane ed acqua, s’addormentarono quella sera sfiniti uno tra le braccia dell’altro, tirando un gran sospiro di sollievo.  

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Incominciamo coi flashback! Di nuovo, a causa delle scarse notizie sull’infanzia e sulla giovinezza del Nostro, abbiamo molto supplito con la fantasia, però sempre tenendo a mente gli anni della sua vita matura come “meta ultima” del suo percorso di formazione.

La morte di Angelo Miani, ritrovato impiccato il 18 agosto 1496 su di una scala in una bottega di Rialto (altre versioni addirittura sulla volta del ponte) rimane tutt’oggi un caso irrisolto: fu suicidio oppure omicidio? Perché a Rialto, uno dei luoghi più affollati di Venezia?  In ambedue i casi è assai difficile stabilire il movente di tale gesto, ma una cosa è certa: immediatamente sia i Miani che i Morosini sostennero a gran voce la tesi dell’assassinio pur incapaci di fornire un nome, più che altro per evitare l’infamia di un seppellimento in terra sconsacrata.

L’unica menzione di quest’avvenimento che si ha è l’ambigua frase di Domenico Malipiero “A' 18 d'Auosto, è stà trova a Rialto, in una volta, apicà Anzolo Miani ; e no è stà lassà a veder a nissun.”

Poi silenzio. Al che ci porta a due considerazioni: o fu suicidio fatto e finito oppure si trattò di un omicidio a fondo politico, messo a tacere in nome del segreto di Stato.

Ultimo punto, i rapporti coi servi erano molto diversi rispetto ad altrove, molto informale almeno tra le mura domestiche, convivendo infatti in un ambiente quasi “incestuoso” per via degli spazi ristrettissimi di Venezia. Non era strano, pertanto, che i figli dei padroni frequentassero specie da bambini i servi, o che il padrone concedesse una dote ad una sua domestica o tenesse a battesimo i figli dei domestici,  facendo da padrino (se non era anche il padre) o madrina. Non potendo ignorarli, i patrizi se li tenevano buoni anche perché i servitori potevano divenire all’occasione i primi accusatori dei padroni.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto!

Alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] Da “La Danza Macabra”, testi ed affreschi di Simone Baschenis(1539), che si possono ammirare sulla parete sud della chiesa di San Vigilio a Pinzolo. Parti di questa ballata ispirarono il cantautore Angelo Branduardi per la sua celebre canzone “Ballo in Fa Diesis Minore”.

[2] òstrega = letteralmente significa “ostrica”, però in questo contesto è usata con senso eufemistico di Ostia!

[3] Paolo Veneto o Paolo Nicoletti (1369-1429); Alberto di Sassonia (1316-1390) ed Egidio Romano o Egidio Colonna (1243-1316) furono tutti filosofi e teologi agostiniani, su cui Giacomo Battista Aloisi si concentrò in particolare nei suoi studi e pubblicazioni.

[4] pope de casàda = il corrispondente dell’autista moderno. Erano gondolieri privati che vivevano a palazzo (spesso tramandavano di padre in figlio il mestiere), spostandosi i patrizi più per gondola che a piedi, essendo infatti più sicuro.

[5] La chiesa di San Vidal (o San Vitale) fu in realtà fondata nel 1084 dal doge Vitale Falier. Poiché nelle antiche descrizioni delle famiglie nobili veneziane ho trovato indicati invece i Miani come fondatori della chiesa, ho deciso di lasciare quest’incongruenza.

[6] Dal testamento di Marco Miani, del 18 gennaio 1465: “ … Item prego quei ch’in Vanesia in la giesia de San Vidal per mezo el permetto da cha Miani sia fabricà uno altar con la immagine et grandezza de Nostra Donna et spenda 10 ho più quel imponerà …” Anche le disposizioni per la sua sepoltura – con la spada, speroni e scudo – di cui don Girolamo e Alessandro Bernardi dovranno assicurarsi, appaiono nel testamento.

Il 17 maggio 1473, suo fratello Angelo Miani chiede direttamente al Doge Nicolò Tron di autenticare la cedola testamentaria. Il doge, ignorando il decreto del Maggior Consiglio del 4 aprile dello stesso anno, si appellò alle forme abitudinarie e fece riconoscere la grafia del defunto, autentificando il testamento e pertanto approvando la costruzione dell’altare e la commissione del dipinto.

[7] Serrata = si riferisce alla Serrata del Maggior Consiglio (1279). Brevemente, si trattò di una riforma con cui si fissava in via definitiva ed ereditaria, tramite puntigliosi parametri, il numero di famiglie patrizie che potevano accedere al Maggior Consiglio. Il conseguente malcontento portò alla congiura di Marco Querini, Bajamonte Tiepolo e Badoero Badoer (1310), che prevedeva l’assassinio del Doge Pietro Gradenigo e dei suoi fedelissimi, in particolare il clan di sua moglie, i Morosini della Sbarra (Leonora Morosini madre del Nostro discendeva proprio da questo ramo!) e i Dandolo. La congiura venne prontamente sventata. Tuttavia, nel corso dei secoli molte famiglie riuscirono ad entrare ugualmente “per merito” nel M.C., come ad esempio durante la guerra contro Genova.

[8] Panaghia Tricherousa= “Tutta Santa Madre delle Tre Mani” icona molto venerata nella Chiesa Ortodossa. In essa è raffigurata la Madonna col Bambino ed una terza mano, quella del teologo arabo San Giovanni Damasceno, che gli fu amputata e poi, miracolosamente, restituita.

[9] passati sotto le forche caudine =  punizione fisica in ambito militare in cui il condannato viene costretto a marciare tra due file di soldati e da essi frustato ripetutamente. Si riferisce alla celebre umiliazione dei soldati romani per mano dei Sanniti a seguito della loro sconfitta.

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo Quarto: 1 -2 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 03.09. 2021

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Capitolo Quarto

1 -2 settembre 1511

 

 

 

 

Per questo tu correggi poco a poco quelli che sbagliano

E li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato,

perché, messa da parte ogni malizia, credano in te,

Signore.

 

(Sapienza, 12,2)

 

 

 

 

 

Nella solitudine degli appartamenti dell’ex-reggente di Castelnuovo, Mercurio Bua osserva crucciato il fuoco scoppiettante nel caminetto, una lettera stretta in mano e l’altra che tamburellava impaziente le dita sulla coscia.

Da Manoli e Constatino Boccali niente buone, quei caparbi linguacciuti dei suoi compatrioti non volevano cedergliela e dinanzi alle sue sacrosante insistenze per riaverla indietro, avevano osato aggiungere: non sperate in noi alcun appoggio né comprensione. Nessuno della nostra famiglia s’assocerà a voi, vendutosi ai Collegati. Non riotterrete ciò che voi per primo avete sacrificato per egoistica ambizione.

Suo fratello Teodoro Bua e l’altro suo parente Alessio Bua – luridi pendagli da forca! -  neppure s’erano degnati di rispondergli; suo nipote Andrea Bua era meglio se ne stesse a Mantova, inutile com’era.

Oramai troppo tempo era trascorso dall’ultimo soggiorno di Mercurio a Venezia, le amicizie e le conoscenze decadute e pertanto assai difficile per lui poter agganciare qualcuno di fiducia onde appoggiarlo nella sua causa. Il che lo frustrava oltre ogni dire, ancor più adesso che possedeva un carta preziosissima quanto difficile da giocare, nutrendo infatti il capitano di ventura gravi dubbi sulla bontà dell’impresa di Treviso ma soprattutto sulla costanza dei suoi medesimi alleati, non ispirandogli alcuna fiducia: i francesi da una parte, altezzosi e moi-je-sais-tout  (so-tutto-io, ndr.), sempre pronti ad incolpare il prossimo in caso di sconfitta o a prendersi il merito della vittoria.  Dall’altra parte i tedeschi, ancor peggio, buoni solamente a rubare considerando tutto il porco mondo loro proprietà anche quando appartenente agli alleati. Mal in arnese, disordinanti e disobbedienti eppure mille volte Mercurio Bua aveva insistito col maresciallo La Palice ad usare i metodi forti, ovver prendere gli imperiali a calci in culo finché in quelle teste di stoppa non si scolpivano gli ordini come fece Mosè coi Dieci Comandamenti. I Tedeschi, gli aveva spiegato il greco-albanese al limite della pazienza, sono un popolo di pecore, che non pensa bensì agisce e se sente il latrato del can pastore, ecco che saltella belando in fila! Peccato che Vossignoria dall’alto della sua saggezza non si degnasse mai d’ascoltarlo. Puah!

Ad arraffare però la sua roba - oh! - più lesto d’un gatto!

Per un soffio il Bua aveva evitato che il francese gli sgraffignasse da sotto il naso il patrizio veneziano; ad aggiungere l’insulto all’ingiuria quei cretini dei suoi uomini, pur di non rinunciare alla consolidata tradizione di grattarsi la pancia e poltrire, poco ci mancava che non avessero offerto su di un piatto d’argento una possibilità di fuga al prigioniero, che per fortuna era troppo debilitato da tre giorni di digiuno forzato per attraversare la Piave a nuoto, ma non sufficientemente da cambiare i connotati ad alcuni suoi stradioti, i quali, a Dio piacendo, si sarebbero ben sovvenuti della lezione impartitali.  

I bottini erano poi scarsi e magri; dell’Imperatore neppure l’ombra malgrado il capitano gli avesse concesso un giorno in più d’attesa oltre ai tre indicatigli da La Palice. Inutile quindi seppellire la testa sotto terra e ignorare la realtà, cioè che ben presto quegli ingordi dei tedeschi sarebbero venuti alle mani con quegli arroganti dei francesi, non per l’onore bensì per un pezzo di pane. Il che avrebbe potuto causare spinosi grattacapi al greco-albanese e alla sua compagnia.

No, doveva assicurarsi che nessuno gli toccasse il suo castellano, ché se fosse finito nelle mani dei tedeschi, quelli avrebbero incassato immediatamente il riscatto o scambiatolo con un prigioniero che a loro interessava, senza consultarlo; coi francesi, invece, impacchettato e spedito in Francia cogli altri prigionieri veneziani, di nuovo senza tenere in considerazione il vero merito nella cattura. Meno male che La Palice aveva avuto un attimo di lucidità mentale per concedergli di contrattare di persona il riscatto dei due capitani bellunesi, altrimenti il Bua sul serio l’avrebbe affogato di sua mano nella Piave. 

Presa dunque la sua decisione, il mercenario balzò in piedi e gettò stizzito nel fuoco l’inutile missiva, dirigendosi verso la porta là dove stava di guardia un suo famiglio.

La notte non era poi così lunga e c’era tanto da fare.

 

***

 

 

Magnifice ac generose frater carissime,

 

Oggi vi fu scritto brevemente dal mio segretario, poiché ancora mi trovavo fuori Padoa con all’incirca 300 stradioti (i nomi dei capi già vi sono stati da lui elencati) e altrettanti 300 balestrieri sotto il comando del domino Jannes da Campo Fregoso.

Avevamo lasciato Padoa verso l’imbrunire del 30 agosto, cavalcando tutta notte per giungere all’alba presso Santa Crose, là dove ci appostammo per coordinare il nostro agguato: 100 cavalli decisi d’inviarli tra Bassam e Castel Francho e altri 100 verso Marostega per sabotare il trasporto dei rifornimenti; quanto a noi, avevamo giudicato più prudente rimanere tra Citadela e Bassam pronti all’occorrenza a prestar soccorso. Quand’ecco, nel bel mezzo dell’attesa, un mio esploratore fece all’improvviso ritorno dalla sua missione d’avanscoperta e mi riferì concitatamente come 200 cavalli fossero partiti da Vicensa e diretti a Marostega, là dove si stava preparando il campo per il Duca di Baviera.

Immediate, cangiammo piano e piombammo inattesi addosso ai nemici, sorprendendoli infatti a marciare a ranghi serrati ignari della nostra presenza e con violento impeto ci scontrammo contro i loro cavalleggeri, il magnifico conte Guido Rangon e il sottoscritto in prima linea volendo infatti essere tra i primi feritori. Purtroppo, per il gran numero d’uomini d’arme, il conte Guido venne sopraffatto e con tre lance disarcionato; a me spezzarono una lancia sulla targa [1] et immediate fummo da tutti, stradioti e balestrieri, abbandonati. Il sopracitato conte Guido cadde prigioniero e poco ci mancò ch’io ne condividessi la triste sorte, tamen come meglio potei riuscii a sfuggir loro e ad indietreggiare assieme al signor Jannes da Campo Fregoso con all’incirca XX cavalli, pur tuttavia rimanendo sufficientemente presso ai nemici da tallonarli ugualmente e tagliarli ogni via di fuga in attesa dei rinforzi, intanto che cercavamo di radunare 100 fino a 150 cavalli.

Questo finché il nemico, esasperato, uscì dalla strada maestra per Marostega, ormai distante 3 miglia, e correva allo sbando per la campagna violentemente incalzati da noialtri, al punto che dalla fretta della disperazione abbandonò tutti i suoi carri, ch’erano in gran numero. Non potei di conseguenza non cogliere quell’inaspettata ma propizia occasione e così reingaggiammo subito battaglia contro i nemici, disperdendoli e trucidandoli.

In totale, catturammo uomini d’arme dai 30 ai 40; il resto, 200 cavalli tra arcieri, stradioti e alcuni balestrieri; 400 guasconi con molti schioppi che ne facevano gran danno, tutti armati benissimo e in ordine eccellente per recarsi all’accampamento. I prigionieri ci riferirono come il Roy di Franza non avrebbe più inviato ulteriori rinforzi a Marostega e come le artiglierie non fossero ancora state trasferite da Soave. In aggiunta, facemmo prigionieri anche tre capitani - due di fanterie, i Monsignori de Richebourg e Mongiron ed uno d’uomini d’arme, il signor Aloisio Ferrer -  i quali ci confermarono che, non fosse calata la Cesarea Maestà da Bolzano, non avrebbero compiuto alcun’impresa bensì se ne sarebbero ritornati alla guarnigione loro.

Altro non vi dico per ora: Iddio sia con voi!

 

Paduae, die primo septembris 1511, horre 7 noctis.

Frater Contarenus,

Stratiotarum Provisor

 

 

Sier Ferigo Contarini soffiò via la polvere dalla pagina della lettera, richiudendola con movimenti lenti e accorti a causa della stanchezza, ponendo ben attenzione a non ustionarsi con la ceralacca al momento di sigillarla. Ad operazione terminata si stropicciò gli occhi arrossati, sbadigliando sfinito e anelante alla sola consolazione del letto; prese la missiva e l’affidò al suo servitore, acciocché la consegnasse alla prima staffetta disponibile.

Malgrado il suo ingresso trionfale al crepuscolo alla Porta Codalunga, dove al lume delle torce avevano fatto sfilare in camicia e catene i prigionieri per lo più francesi ma con anche qualche tedesco, dai capitani fino alle loro puttane nonché i 200 carri per un valore di oltre 20.000 ducati di bottino, il Contarini purtroppo per lui non era riuscito a svignarsela prima di notte fonda, avendolo infatti ghermito il provveditore generale sier Polo Capello, cognato della Regina di Cipro, giunto appositamente dal bastione di Portello dove stava supervisionando i lavori di rafforzamento, euforico di quella schiacciante vittoria e avido di particolari da riferire sia alla Signoria Loro sia ai suoi colleghi ammalati (a sier Christofal Moro et a sier Andrea Griti zoverà pì de tutti i intruji ch’i gh’han fatto bevar fin’horra!).

Divincolatosi abilmente, sier Ferigo gli aveva promesso colloquio come primo impegno della giornata, barcollando quasi verso i suoi alloggi eppure il sangue che ancora gli pompava furiosamente nelle vene, animandolo di febbrile energia. Il tempo poi di concedere al suo valletto d’arme di spogliarlo dalla corazza e di lavarsi mani e viso, che rimasto nei più comodi camicia e zipone s’era messo a scrivere quella lettera tanto promessa a suo fratello Marco Antonio, nella speranza che non gli avesse serbato rancore se il suo segretario gli aveva fatto di recente le veci per tenerlo informato circa gli ultimi avvenimenti. 

Il giovane provveditore s’abbandonò sfinito sullo schienale della sedia, tirandogli i muscoli indolenziti del collo piegato all’indietro e le tempie pulsanti e infastidite perfino dalla flebile luce della candela. Se la sua natura non fosse stata coscienziosa e ordinata, si sarebbe gettato in letto così com’era. Pur avendolo la guerra abituato ad ogni genere di disagio tra cui anche dormire all’occasione a cavallo, egli ci teneva quanto più possibile di mantenere una parvenza di civili maniere, perlomeno negli alloggi cittadini e d’altronde rovinare quelle belle lenzuola calde e pulite equivaleva ad un sacrilegio. Inoltre, prima di coricarsi doveva preparare uno straccio di discorso per sier Polo Capelo: ogni sua parola sarebbe stata riferita verbatim alla Signoria e al Consiglio, pertanto doveva sceglierle accorto specie per giustificare la seccante cattura del conte Guido Rangoni e non tanto per il riscatto di per sé, bensì per la malcelata insistenza di suo zio Annibale Bentivoglio e del fratello minore Annibale Rangoni a rivoler indietro tra le loro file quel ribelle e recalcitrante figliol affatto prodigo e ora che l’avevano in pugno, di sicuro l’avrebbero rinchiuso sottochiave fin in cima alla Garisenda[2] pur d’impedirgli di riunirsi alle truppe veneziane.  Il che scocciava il Contarini fino al suo limite, sia per aver perso un valido condottiero sia colui che stava incominciando ad apprezzare anche come amico. Senza contare poi che a lui sarebbe toccato l’ingrato compito d’informare il giovanissimo Francesco Rangoni, l’altro fratello minore, in apparenza per rassicurarlo ma in realtà per saggiarne la fedeltà e la prontezza ad assumere eventualmente la condotta al posto di Guido.

Quella cattura bruciava beffarda al giovane provveditore, imporporandogli le gote di stizza e colpevolizzandosi impietoso per non aver pianificato con sufficienza cura l’attacco, lasciandosi guidare dalla smania di sorprendere l’avversario ad ogni costo e l’arroganza di averlo avuto già in pugno. Non avesse posseduto il pronto riflesso di conficcare ciò che rimaneva della targa nella gola dell’avversario, usandola praticamente alla stregua di una mannaia e non fosse comparso Giano di Campofregoso a coprirgli le spalle, a quell’ora sier Ferigo Contarini si sarebbe trovato in compagnia del Rangoni diretto in catene a Marostica o peggio ancora a Vicenza e stavolta nulla l’avrebbe salvato dal finire prigioniero dei Gonzaga, i quali ancora arrossivano sia per la sconfitta a Casaloldo sia per quell’insolente sua fuga due anni addietro, specie la Marchesa Isabella d’Este che vittima dell’astuto inganno di Ferigo aveva firmato ignara il suo lasciapassare, credendolo un fedele suddito che trasportava la farina per le truppe del marito. Uno bello smacco per l’altera e gelida Estense ognora credutasi al di sopra di ogni umano sbaglio.

E mentre l’uomo si crogiolava in questi poco lieti pensieri, il sonno lo colse traditore e di conseguenza sobbalzò buffamente all’irruzione di uno suo stradiota, il quale senza neanche concedere al suo provveditore il tempo di dargli della canaglia per quella sua cafoneria d’entrar senza bussare, esclamò questi concitato: “Signore, dovete venire! Oh, dovete proprio venire!” e batteva il piede per terra impaziente, trattenendosi dall’afferrare il Contarini per una manica e trascinarlo via con sé.

Sbiascicando un inintelligibile improperio e allacciandosi alla bell’e meglio il zipone, il patrizio s’augurò per lo stradiota che la notizia valesse la pena di quel disturbo, o l’indomani l’avrebbe fatto fustigare a Piazze delle Erbe finché manco sua madre sarebbe stata capace di riconoscerlo.

Arrivati dunque all’entrata di Codalunga e trovandola stranamente per l’ora tarda in giovale subbuglio, Ferigo s’arrestò bruscamente, impietrito, per poi piegarsi all’improvviso in due e, reggendosi la pancia, si sganasciò dalle risate come non faceva dai tempi delle sconcissime momarie e commedie scritte e rappresentate coi suoi amici per le feste organizzate dalla Compagnia degli Immortali. [3]

“Corpo dil diavol!”, ansimò ilare, mancandogli il fiato e asciugandosi le lacrime versate per il gran ridere. “Che gran fio de …”

… Bianca Bentivoglio, sorella di Annibale Bentivoglio, al secolo conte Guido Rangoni che rientrava a Padova sornionamente trionfo in groppa a cavallo assieme a don Garcia, il cavaliere spagnolo che l’aveva catturato. Il modenese appariva talmente in disordine da sembrare un vagabondo, inzaccherato com’era dalla testa ai piedi di fango e il viso ridotto ad una maschera di terra, sudore e sangue su cui però s’allargava raggiante un soddisfatto e felino sorrisone.

“Fascio humilissima riveronza a tutti lor monseigneurs!”, si esibì il giovane condottiero in un appositamente esagerato inchino pomposo, svolazzando e ondulando il braccio  a scherno del saluto alla francese, imitandone poi beffardamente l’accento e gli uomini lì presenti rincararono le dosi di grasse  e sfottitrici risate di sottofondo. “Hé, che poca creanza, signori miei! Ma come! Non mi s’aspetta per festeggiare? Ché siete stati tutti contagiati dalla zoticaggine francese?”, inquisì falsamente scandalizzato, nel frattempo che alcuni soldati lo aiutavano solerti a scendere da cavallo, avendo infatti notato la ferita alla coscia fasciata da una benda di fortuna.

“Conte Guido … noi vi abbiamo dato per prigioniero … ad un certo punto v’abbiamo perfino perso di vista!”, fece incredulo sier Ferigo, offrendo il suo braccio a mo’ di sostegno per il lievemente zoppicante nobile modenese.

“Anche el caballero qui presente mi aveva dato per prigioniero: peccato che dalla fretta di catturarmi si sia scordato come vanno stretti i nodi e di conseguenza, lungo la strada per Marostica, abbiamo invertito le sorti!”, spiegò concisamente il Rangoni al giovane provveditore, il quale seguitava a sorridere un po’ demente, nell’intimo orante mille grazie alla Madonna per quell’inaspettata giravolta d’eventi.

I due s’incamminarono allora lentamente verso gli alloggi del condottiero, quest’ultimo d’un tratto fermatosi, rimbeccando a gran voce gli stradioti che già agguantavano lo spagnolo poco delicatamente, trascinandolo quasi giù da cavallo: “No, trattate don Garcia con rispetto: questi è un uomo dabbene, mi ha curato malgrado fossi suo prigioniero. Fino al suo riscatto, che stia qui a Padova a suo agio e di buon cuore: tanto, paga tutto il Gonzaga!”

A quelle ilari parole,  il livello d’allegria schizzò alle stelle come le scintille dei falò d’Epifania e tutti gli uomini lì presenti, dai soldati marciani agli stradioti, in coro gridarono euforici, agitando ben in alto le braccia:

“Viva! Viva! Viva el Gonzaga che paga!”

Non fosse stata notte fonda e non avessero avuto due giorni di sonno arretrato, certamente essi avrebbero festeggiato quella loro vittoria con grandi bisbocce, avendo tutti la saccoccia e la pancia piena: infatti, dopo aver sequestrato i carri con l’oro destinato alla Signoria, sier Ferigo aveva nominato Giovanni Forti di Orte e il greco Teodoro Frasina responsabili dell’equa distribuzione tra i soldati delle catene d’oro, degli abiti di seta, delle armi, delle armature e perfino dei guadagni strappati da sotto le sottane alle prostitute; alle prime luci dell’alba avrebbero poi venduto i cavalli e se tutto andava bene 24 ducati a testa non glieli levava nessuno. Perfino i contadini scesi appositamente dai monti per ammazzare i francesi avevano guadagnato la giornata, spogliando i nemici delle armi e delle corazze di cui i marciani già non se n’erano serviti, lasciando letteralmente in camicia sia i vivi che i morti.

Ci si coricò quindi assai contenti, vittoriosi e senza casualità tra i loro, grati inoltre d’aver ottenuto sveglia libera l’indomani.

 

***

 

Hironimo avrebbe infranto l’ottavo comandamento affermando di non aver provato una paura fottuta, quando uno stradiota venne a prelevarlo di peso dalla sua cella, strappandolo dal primo sonno decente in seguito alla caduta di Castelnuovo di Quero. Il silenzio inquietante dei soldati, unito all’ora tarda e al fatto che l’avessero separato a furia di manrovesci da Thomà (che se ne beccò la più parte perché no, non voleva lasciare la sua presa alla camicia del patrizio) l’avevano indotto a giungere alla tremenda conclusione che il Bua aveva intenzione tramite la tortura di interrogarlo, forse per supplire a quelle informazioni che il giovane Miani aveva precedentemente bruciato onde impedire finissero nelle mani dei franco-imperiali.

Si stupì grandemente di conseguenza alla vista del capitano di ventura seduto tranquillo e disarmato, anzi, palesemente divertito davanti al suo stupore e alla frenetica ricerca con lo sguardo degli strumenti del supplizio, non trovandone però nessuno a meno che Mercurio Bua Spata non avesse intenzione di ricorrere ai più tradizionali pugni in faccia e allo stomaco, magari col guanto di ferro.

Invece, congedato il famiglio, l’uomo gli ordinò in greco con un sorrisetto sfottitore sulla faccia: “Avanti, spogliati e lavati; là c’è il catino. Puzzi da nausearmi!”

Hironimo si sentì avvampare di collera. “Grazie a chi questo?”, fu più veloce la lingua, incrociando le braccia al petto in inconscia difesa. Purtroppo per lui, il greco-albanese aveva ragione, il giovane patrizio stesso non sopportava più quell’odore rancido che si portava addosso da quattro giorni nonché il continuo prurito ai capelli e alla barba ormai cresciutagli incolta. Tuttavia, la soddisfazione di convenire con quel gaglioffo da morto gliel’avrebbe concessa.

Mercurio gettò indietro il capo, ridendosela alla grossa: gli piaceva quella puerile sfrontatezza, avrebbe reso la loro convivenza meno noiosa. “Suvvia, niente capricci. Levati quello straccio di dosso e datti una bella strigliata, fra poco voglio coricarmi e non ho tutta la notte a disposizione per farti da balia!”

Il giovane Miani studiò dubbioso l’acqua, saggiandone la temperatura con un dito: immediatamente avvertì il gelo fino alle ossa e oltre. “Mi vuoi ammazzare? È gelida!”

“Prima ti lavi, prima ti asciughi.”

“Girati almanco!”

Il condottiero allargò le braccia falsamente stupito. “Siamo tra uomini, ergo non hai niente da esibire ch’io stesso non possegga già. Cos’è questo tuo pudore da donzella?”, lo punzecchiò impietoso, specie quando Hironimo, rifilandogli un’occhiataccia velenosa, si voltò dandogli le spalle.

Non si trattava di verecondia, bensì di fastidio per quell’umiliante situazione, sentendosi infatti alla stregua di una bambolina nelle capricciose mani di quel masnadiere, del cui sguardo beffardo e scrutatore percepiva il peso sulla schiena ora denudata dalla sottile barriera della lercia camicia.  Prendendo un profondo respiro, Hironimo la piegò a lato e prese a slacciarsi le brache mentre cercava di scindere la sua mente dal presente, rifugiandosi in un altro contesto e in un altro luogo.

Quanto lo odiava, quel cialtrone pervertito.

Terminata la mortificante spoliazione, subito Hironimo entrò dentro il catino di fortuna e, acquattatosi onde nascondere il suo corpo quanto più possibile all’indesiderato spettatore, molto lentamente si versò addosso la brocca d’acqua, rabbrividendo ad ogni goccia, stringendo i denti che avevano incominciato a battere per il freddo.

Tale era la sua concentrazione da non accorgersi che il Bua s’era nel frattempo alzato, pigliando una seconda brocca più larga che gli rovesciò all’improvviso in testa, innaffiandolo in una dolorosa cascata ghiacciata al punto che per un folle istante Hironimo vide chiazze gialle e nere, urlando all’assassino e così ingoiando acqua che gli andò prontamente di traverso, alternando a colpi di tosse e soffiate di naso dei coloriti epiteti e severi commenti sulla razza del Bua e sulla professione di sua madre. Al che il greco- albanese replicò sornione con una terza e una quarta secchiata d’acqua, finché la pelle di Hironimo assunse un colorito bluastro.

“Toh”, gli calò di malagrazia un pesante telo, sollevandolo poi di peso fuori il catino e trascinandoselo seco, lo lasciò cadere sulla sedia davanti al caminetto.  Portando le ginocchia al petto, Hironimo s’avvolse velocemente nel ruvido panno, in sospettosa attesa.

I suoi occhi neri s’ingrandirono al luccichio di una lama.

“Sta fermo! O ti sbrego questo bel visetto!”, gli intimò Mercurio, tirandogli i capelli a mo’ di monito. Sconfitto, il giovane Miani annuì a malincuore, irrigidendosi ad ogni raschiare del rasoio improvvisato sulla sua pelle, in particolare sotto il mento. “Ti voglio in ordine per quando arriveremo a Montebelluna. O i Venedik, la tua gente, m’abbasserà il prezzo vedendoti più morto che vivo.”

Hironimo aprì un occhio. “Ci spostiamo a Montebelluna? Ma l’Imperatore?”, inquisì con nonchalance, sibilando all’ennesima tirata di capelli, segno che la sua intromissione non era la benvenuta.  

“Non t’impicciare”, l’ammonì infatti il Bua.

Testardo, il patrizio replicò: “M’impiccio eccome del mio riscatto!” e massaggiandosi la guancia arrossata. “E comunque come barbiere fai proprio schifo!”

Il capitano di ventura ridacchiò furbescamente, dirigendosi verso una cassapanca e, apertala, estrasse un indumento che gli gettò contro. “Era tua?”, cinguettò canzonatorio, gettandogli effettivamente una delle sue camice pulite, adesso requisite a mo’ di bottino di guerra.

“Ma certo! L’unica preda che un condottiero della vostra sorte riesce a conquistarsi!”

Mercurio Bua smise immediatamente di ridere.

“D’altronde, vi compatisco: tanti sforzi per conquistare una fortezza di seconda categoria, per accontentarsi di briciole. Non che a Feltre vi andrà meglio, a meno che, dopo due incendi e saccheggi, non v’accontentiate di pietre annerite dal fumo. Quanto a Cividal di Belluno, quelli là vi daranno qualche spiccio per salvarsi la pelle, per poi aprirci di nascosto le porte alla prima occasione e venderci la vostra, di pelle”, infierì il patrizio.

“Il maresciallo non punta né a Feltre né a Cividal di Belluno”, strisciò lentamente le parole Mercurio, stringendo tuttavia sospettoso gli occhi.

“Oh, e tu gli credi in tutto e per tutto?”

Voleva menarlo – oh!, se il capo degli stradioti voleva menarlo! – tuttavia, Hironimo ben si figurava quale furioso meccanismo di pensieri stesse lavorando alacremente dentro il cranio del greco-albanese, conscio che se presentava ai negoziatori del suo riscatto un giovane Miani tumefatto di cazzotti, quelli con la scusa di sevizie e maltrattamenti poco degni ad un patrizio non solo non avrebbero pagato prezzo pieno, ma avrebbero preteso anche una sorta d’indennizzo. Scaltri mercanti, questo erano i veneziani, maestri indiscussi.

“Poche storie”, ribadì seccamente il Bua, strattonando via il telo così da invogliarlo a vestirsi. Non ottenendo il risultato desiderato, di malagrazia afferrò la camicia e arrotolatala tentò d’infilarvi dentro la testa di Hironimo, che prontamente si ribellò in un gran sbracciare, berciando mezzo soffocato dalla stoffa:

“Non mi toccare, mi vesto da solo!”

“Sai quanto me n’importa?”, riuscì infine il capitano nell’impresa, sbuffando. Indietreggiando un poco, osservò soddisfatto il suo personale capolavoro, ovvero un livido Hironimo ancora mezzo bagnato, la camicia semitrasparente che gli delineava il petto ansante di collera nera.  “E ti sta anche bene, va’ che signorino!”, commentò sardonico. “Mi ricordi quelle prostitute alle Carampane, che s’affacciano col petto in fuori alla finestra!”

“Turco depravato!”, gli sputò di rimando il furente patrizio e in un battibaleno Mercurio gli fu addosso, costringendolo a retrocedere fino al tavolo, infelice mossa giacché proprio là lo voleva, dove infatti afferratolo rapidissimo per le caviglie lo issò sopra di esso, schiacciandolo a sua volta col suo corpo.

“Se davvero fossi un turco”, gli spiegò dolcemente velenoso l’uomo, “bello come sei a quest’ora ti ritrovavi senza palle e con le gambe aperte a prendertelo dentro come una femmina. Dunque, carino, vuoi ancora darmi del turco?” e mica scherzava, non disdegnando infatti gli Ottomani anche la carne maschile e il condottiero, tenendo fermo il giovane per la gola, ammise una certa sua avvenenza. Ondulati capelli scuri fino alle spalle s’accompagnavano perfettamente al suo incarnato olivastro, incorniciando un viso regolare dagli zigomi marcati, la fronte alta e il naso forse un po’ grosso, mitigato però da un paio d’occhi molto grandi, nerissimi, e una bocca sottile e larga da sfoggiare il più radioso dei sorrisi. Non come adesso, che sembravano le fauci di un leone a furia d’imprecargli contro.

Hironimo, trovandosi guarda caso esattamente nella posizione descrittagli prosaicamente dall’avventuriero e percependo pressioni sospette, cremisi in volto sbrodolò un flebile: “No, no, per carità … non dico più niente …”

“Ecco bravo e fossi in te seguiterei su questa linea, a meno che tu non voglia divenire la puttana del campo e si sa, in tempi di carestia …”

L’indignazione per la minaccia di costringerlo a quel turpe negozio soppiantò il timore di divenire eunuco. “Sì, ma … non è che dopo t’ingelosisci?”, domandò cinguettando un falsamente innocentino Hironimo, ché se l’altro voleva la guerra, l’avrebbe ottenuta. “Ti ho visto, sai, come ti sei scaldato quando La Palice mi voleva a Montebelluna tutto per sé … Mi son sentito la Briseide della situazione”, e sforzandosi con tutta l’immaginazione a lui disponibile in modo da evocare le fattezze generosamente morbide e femminee della sue passate ganze, gli zampettò le dita sul polso risalendo fin quasi al gomito e Mercurio Bua, neanche l’avesse pizzicato un granchio, si staccò bruscamente da lui con un’espressione schifata in volto. Afferrato un sogghignante Miani, lo tirò giù dal tavolo e lo ributtò malamente sulla sedia.

“Taci e mangia!”, gli ordinò perentorio, schiaffandogli sotto il naso la scodella fumante di minestra e lo stomaco del giovane patrizio si contorse voglioso al solo odore.

Ma Hironimo, ignorandolo e ribollendo di bile nera, col Bua aveva appena incominciato.

“No.”

“Come no?”

“Non mi va.”

Il greco-albanese lo fissò stralunato, come se si trovasse dinanzi ad un pazzo furioso. “Tre giorni di digiuno e ieri un pezzo di pane e tu mi dici che non hai fame?”, gli chiese sarcasticamente incredulo.

Hironimo fece spallucce, incurante.

Le dita del mercenario si contrassero rabbiose. “Mangia!”, sibilò.

“Ho detto di no!”, sbottò il giovane Miani e, al minaccioso appropinquarsi del Bua, aggiunse in fretta: “Non posso mangiare a cuor leggero, sapendo che in quell’orrida stinca un bambino di dieci anni languisce mezzo morto d’inedia. Se lo porterai qui e anche a lui offrirai del cibo e lo tratterrai da cristiano, solo allora mangerò.”

Sorprendentemente Mercurio si rilassò, la sua espressione scevra della recente irritazione, anzi, quasi gli pareva contento, annuendo in approvazione. “Mi par giusto”, sentenziò, gridando qualcosa in albanese, molto probabilmente al famiglio dietro la porta.

Poco tempo dopo, infatti, la porta si apriva di nuovo e un insonnolito Thomà venne spintonato verso Hironimo, che alla luce del caminetto storse la bocca alla vista dello zigomo nuovamente gonfio e delle croste di sangue dalle narici a causa dell’ultimo manrovescio ricevuto.

“Ecco, volevi il moccioso? Pigliatelo e lavalo, che anche questo qua puzza peggio d’un topo morto.”

Il patrizio roteò gli occhi snervato, allungando invece il braccio verso il fantolino. “Vien qua, Thomà, vien che te lavo.”

Thomà, sospettoso, piantò i piedi ben per terra.

Allora, spezzando un pezzo di pane, Hironimo ripeté, porgendoglielo: “Mo via, vien qua, che te spuzi da cagnon!”

Sniffando a momenti il cibo, il bambino si lasciò persuadere ad avvicinarsi al giovane Miani, strappandogli di mano il pane e mentre se lo masticava vorace, il più anziano gli toglieva i vestiti, premurandosi di schermarlo col suo corpo. Fortunatamente, Mercurio Bua non sembrava interessato, al contrario, con la punta dell’attizzatoio prendeva gli indumenti unti del piccino e li gettava nel fuoco a far compagnia a quelli di Hironimo.

“Scoltame ben, horra: sta bon, non criar se l’aqua la xé un fià freda; ti te gh’ha d’armarti de corajo, ché ti sè zà un ometo” e così incoraggiatolo, lo mise dentro il catino con Thomà sempre intento a mangiare, non smettendo neppure quando l’acqua gli toccò la pelle. Meglio così, l’avrebbe tenuto distratto da quell’immeritato supplizio.

Ingoiato simil serpente l’ultimo boccone, il fantolino esclamò deliziato: “Oh, patron! Ma vui seti un gran buziardo: l’aqua la xé bea calda, mancho un potacchio (zuppa, ndr.)!”

Hironimo strabuzzò gli occhi e Mercurio Bua si voltò di scatto e quasi in comica sincronia ambedue gli uomini infilarono la mano nell’acqua rimanente nella secchia, appurando sconcertati come sì, essa si presentasse calda, piacevole come quella termale di Abano. Prima però che il capitano di ventura potesse anche solo aprire bocca, Hironimo versò tutta l’acqua addosso al bambino, finendo di lavarlo e lo avvolse in fretta nel telo, tirandoselo su in braccio e portandolo al tavolo, dove un greco-albanese ancora confuso porse in silenzio una seconda scodella di minestra. Thomà, ghermitala, si mise a berla rumorosamente, dimentico del cucchiaio e delle buone maniere. Non che servissero considerata la natura del loro anfitrione.  

Nel frattanto che Thomà metteva a dura prova la flessibilità e resistenza del suo esofago, il giovane Miani domandò a Mercurio Bua, che dal canto suo osservava un poco affascinato la prodezza mangiatoria del bambino ora intento a leccare il piatto: “Perché avete impedito di seppellire i cadaveri? Non avete rispetto per i morti?”e intinse di sprezzante veleno l’ultima parola.

Il condottiero grugnì. “Avresti preferito che li dessi in pasto ai cani come fecero due anni fa i Francesi cogli abitanti di Castelbaldo? Il vostro è un popolo dal cuore marinaro: le tombe d’acqua non dovrebbero spaventarvi …” Notando però lo scettico sopracciglio inarcato sulla fronte del suo prigioniero, l’uomo continuò, stranamente sulla difensiva: “Contrariamente ai francesi e ai tedeschi, non sono stupidamente crudele. Eppoi, a che servono i cadaveri in un castello, se non a far venire topi e peste? Prima ce li leviamo dai piedi, meglio è”, sentenziò, fissando poi significativamente il patrizio veneziano. “Io tenni la promessa. Adesso mangia.”

A onor del vero, Hironimo avvertiva una leggera nausea, la gola serrata. Ciononostante, doveva ammettere la sorprendente correttezza del greco-albanese - costui continuava a scrutarlo con la medesima fissità predatoria di un felino - e giudicando pertanto controproducente da parte sua infrangere i patti, si risolse ad onorare la parola data. Aveva udito certe dicerie all'inizio del mese di agosto, su come Mercurio Bua, a Verona, avesse catturato Jacomo da Malnisio (o Jacomo Mamalucho com'era conosciuto da tutti) e lo avesse rilasciato sulla parola, acciocché egli potesse riscuotere da sé la sua taglia. Sennonché, il capitano era rientrato a mani vuote, ma rientrato come solennemente promesso ed ecco che il condottiero tra lo stupore generale l’aveva rivestito di seta, asserendo: “Tu è valente homo et di fede!” E Jacomo Mamalucho fu libero.

Deglutendo indietro la saliva acida, Hironimo portò quindi il cucchiaio ripieno di zuppa alla bocca, sorbendola titubante. Un secondo, un terzo, un quarto cucchiaio e il suo stomaco traditore già si rincuorava, sotto lo sguardo compiaciuto del Bua che si pose in piedi, trafficando con qualcosa dal sinistro rumore metallico.

Catene, tra cui una attaccata ad una palla di cannone.

Il cucchiaio cadde pesantemente di mano ad Hironimo macchiando il tavolo di minestra, subito raccolta dall’avida scarpetta che Thomà fece col pezzo di pane; intuendo poi questi come il patrizio, sconvolto, non avesse intenzione di continuare a mangiare, lentamente e di nascosto attirò a sé la scodella mezza piena, sostituendola con quella vuota.

“Hai le mani leste, lo ammetto, non mi sono sfuggiti i ricordini che hai lasciato – meritatamente – in faccia ai miei uomini. Per questo motivo e soprattutto perché tu ti levi dalla testa ogni piano di fuga, mi vedo costretto a mettertele. Non temere, ti ci abituerai presto!”, gl’illustrò il condottiero la situazione, ghermendogli la caviglia.

Immediatamente, Hironimo gli elargì di riflesso un calcio in pieno petto e il Bua barcollò all’indietro più per la sorpresa che il dolore vero e proprio; infatti, ripresosi, martoriò lo zigomo del giovane con un possente manrovescio da sbilanciarlo verso il tavolo sul cui bordo sbatté dolorosamente la fronte, cadendo in un sordo tonfo per terra.

Mezzo stordito, il Miani avvertì qualcosa rigirarlo e stringergli le mandibole. “Smettila d’atteggiarti come se fossi tu a dettar legge e bada di rigare dritto! Tu sei il mio prigioniero e di te posso fare quello che mi pare e piace e al diavolo se i Venedik mi pagano meno, almeno lo sfizio di tormentare un patrizio veneziano me lo sarò levato!”

“Sì, così il ricordo di come leccavi i piedi al Doge per una condotta ti brucerà di meno!”, soffiò aspro Hironimo, incassando un secondo pugno stavolta tra le scapole che lo indusse definitivamente a più miti consigli.

“Te ne vol ancha ti?”, berciò il capitano di ventura a Thomà, levando minaccioso il braccio. Ficcandosi in testa la scodella eletta ad elmo di fortuna, il bambino scosse vigorosamente il capo in diniego.

Grugnendo soddisfatto, Mercurio riprese il suo lavoro interrotto, fissando bene i ceppi alle caviglie e ai polsi di un semi-incosciente Hironimo, al cui collo egli serrò una sorta di collare di ferro da cui pendeva la piccola ma pensante palla di cannone, la quale, cadendo e non trovando mani pronte a sorreggerla, trascinò rumorosamente seco il giovane veneziano che per sua fortuna si trovava già mezzo inginocchiato per terra, non soffrendo pertanto eccessivamente dell’impatto della sua faccia col pavimento.

Alla stregua dei cani li costrinse il Bua a dormire quella notte, per terra dinanzi al caminetto e meno male che Hironimo dava le spalle sia all’avventuriero che a Thomà, gli occhi arrossati di lacrime di stizza e vergogna dietro gli arruffati capelli e il respiro ridotto a soffocati singulti.

 

***

 

Numero di zente è in Trevixo soto il capetanio di le fantarie:

3.520 fanti soto 17 capi.

449 fanti soto 20 zentilomeni.

46 bombardieri.

Stradioti - numero 228.

Maestranze - numero 140.

 

Vitello Vitelli, homeni d’arme 50, balestrieri a cavallo 25.

Orsino Orsini homeni d’arme 40.

Batagin Bataja, balestrieri 130 a cavalo, e fanti 70.

 

Sier Zuam Paulo Gradenigo si prese la testa tra le mani, leggendo sconsolato quei numeri poco rassicuranti: per quanto si lavorasse senza sosta alla fortificazione di Treviso e malgrado lo spirito generalmente ottimista degli soldati e dei civili volontari, il provveditore non scorgeva vittoria certa con sì inferiore numero di uomini. La città stessa non contava più di 14.000 abitanti, molti dei quali avevano già riparato nella capitale sin dall'inizio del conflitto. E come ogni giorno, alla richiesta a Venezia di portare almeno oltre 5.000 i difensori, nisba, neanche un sol motto a riguardo.

L’unica sua consolazione risiedeva negli scatenati stradioti, i quali compivano miracoli, portando dalle loro quotidiane perlustrazioni ricco bottino di prigionieri e cavalli,  30 il giorno prima, tra cui un famiglio di Mercurio Bua che confermava come il suo capitano avesse intenzione di abbandonare tra la notte del 1 e 2 settembre Castelnuovo di Quero alla volta del campo di Montebelluna, ergo sfatando la diceria della presenza del Re dei Romani in Italia. Inoltre, se non era per quell’intraprendente anima pia del comandante Dimitri Megaduca di Costantinopoli, che gli riconquistava Conegliano in testa a 20 suoi stradioti e 100 balestrieri a cavallo prestatigli da Renzo di Ceri, aveva voglia ad attendere i porci comodi di quell’inutile impiastro del Bataja e dei suoi uomini, all’unanime rifiutatisi di partire per quell’impresa e il Gradenigo incominciò sul serio a questionare la bontà della sua scelta di non aver concesso a sier Marco Miani l’immenso piacere di squartar vivo quel codardo. (Sier Nicolò Balbi, podestò di Cividal di Belluno, gli aveva confermato la responsabilità della perdita di Castelnuovo, disertando il castellano di cui ancora si ignorava la sorte)

A sier Zuam Paulo si era poi formato un groppo in gola dalla commozione quando, mentre stava sigillando i rapporti per la Signoria, sier Lunardo Zustignan entrando in Cancelleria euforico da far spavento gli aveva raccontato del fortunato rientro degli stradioti con un bottino di 8.000 ducati in contanti.

Un po’ meno contento lo rendeva invece il costante malumore dei molti civili “volontari” per la repulisti delle macerie della chiesa monastero di Santa Maria Maggiore e delle case attorno, i quali mal sopportavano sia il capitano Orsini degli Anguillara e i suoi soldati sia l’incessante pioggia, sostenendo quanto fosse ingiusto dover faticare come bestie al mero scopo di morire di catarro verde o cagando acqua.

Sulla scrivania del provveditore, oltre alle lettere per e dal Collegio, si trovavano lette e commentate anche quelle da parte dei suoi colleghi i quali non se la passavano certo meglio di lui.

Da Roma, scrivevano l’oratore sier Hironimo Donado “dalle Rose” e il protonotaro sier Nicolò Lipomano, gran moria di gente: il Papa aveva contagiato indiscriminatamente servi e cardinali, tra cui il cardinale Argentino che rendeva l’anima a Dio e con lui s’ammalavano pure i cardinali inglesi e svizzeri; avevano trovato un morto sottocasa e infine si pensava di spedire il della Rovere ad Ostia per non crear ulteriori danni. Il cardinale Giovanni de’ Medici gufava imbizzarrito quanto Giulio II fosse assolutamente spacciato, mentre quest’ultimo esigeva a furia di strepiti e scenate la sola compagnia fidata del parente Bartolomeo della Rovere, della sua cognata veggente e della nipote madonna Felice sposata a Gian Giordano Orsini. Tanto il Papa era moribondo, che trascorreva intere giornate a sbraitare contro i suoi stessi medici, Marco Arcangelo in primis, subissandoli di tali ingiuriose villanie che mai si sarebbero dovute sentire uscir di bocca da un pontefice consacrato. Giulio II contro ogni consiglio pretendeva di bere vino e mangiar pernici e non quelle immonde zuppe cui lo costringevano; aveva perfino fatto rinchiudere in carcere i medici, per poi perdonarli quando questi un poco cedettero, concedendogli del pesce persico. Il cardinal Domenego Grimani commentava che, per uno con un piede nella fossa, di sicuro aveva molte energie da spendere.

In verità al Pontefice più che il vino non giovavano alla sua salute i litigi crescenti sulla questione della legge salica aragonese che avrebbe lasciato Saragozza e Napoli senza eredi maschi, al che Louis di Francia già allungava cupido le manine, sennonché Fernando El Católico gli ricordava seccamente che un erede esisteva, soltanto qualche generazione più in là e che comunque, virile com’era, senz'ombra di dubbio un maschio dalla seconda moglie Germaine de Foix ce l’avrebbe tirato fuori. [4] L’Inghilterra, come sempre, parlava e nulla concludeva. In ogni modo, Roma restava sottosopra e in arme, tumulti all’ordine del giorno coi Colonna e gli Orsini sospettosi dei fanti stranieri e sier Nicolò Lipomano protonotaro concludeva le sue missive raccomandandosi a Dio ogni ora per arrivare vivo l’indomani.

Da Padova, grande allegrezza e lodi al provveditore degli stradioti sier Ferigo Contarini; il provveditore generale sier Polo Capello aveva poi aggiunto altri eventi quali il rimpatrio di sier Andrea Griti a Venezia per burchio; di come suo cognato sier Christofal Moro si fosse un poco ripreso, sebbene il dolore alla gamba gli impedisse di montare a cavallo ed infine di come il domino Lucio Malvezzi oramai si trovasse all’estremo passo, vinto dalla febbre e dal malfrancese.

E tante altre cose.

“Ah, mojer!”, sospirò affranto sier Zuam Paulo Gradenigo, rivolgendosi alla moglie Maria, la quale lo guardava assai accigliata dal letto poco distante: i due a seguito di un veemente litigio avevano raggiunto un compromesso, ovvero che se la donna non poteva costringere il suo consorte a ridurre le ore a Palazzo dei Trecento, che almeno lavorasse nei suoi appartamenti là dove lei poteva assicurarsi che il marito mangiasse almeno due pasti al giorno e anche per poco tempo si concedesse qualche pausa, non piacendole l’eccessivo zelo con cui il provveditore stava organizzando la difesa di Treviso, specie se detto zelo voleva in cambio la sua salute. “Se sopravvivremo a questa guerra, mi dovranno beatificare per non aver strangolati ‘sti scarcavali!” (petardi, intesi come scassapalle, ndr.)

Tirando via le coperte battagliera e alzandosi snervata dal letto, Maria Malipiero Gradenigo avanzò verso la scrivania e ivi catturò per un braccio il marito, trascinandolo seco e spogliandolo accigliata della vesta. “Puoah”, commentò dura, spingendo il suo uomo in letto e non per motivi lascivi. “A mi me gh’han da far santa, per avervi sopportato per trentadue anni senza affogarvi in canal! Dormite, strambazzo, almanco fino all’alba!”

“Burleu, femena? Gh’ho da scrivar le lettare et …!”

“Seu sordo o sempio? A Trevixo, comandate voi, ma qui in casa comando mi! Donca, usate il vostro buonsenso e dormite, ché la stanchezza è la peggior consigliera!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Sia ben chiaro: Mercurio Bua non attenterà mai più alla “virtù” del Nostro, né appartiene a quella sponda. Semplicemente, voleva fare il gradasso ma come dicono gli inglesi ha morso più di quanto potesse masticare, ché il Nostro aveva la linguetta assai lunga.

Siamo dunque ai primi giorni della prigionia, il Nostro ancora resiste, sebbene ora sia in catene non più figurativamente.

La lettera di Federico Contarini è stata “parafrasata” per via della lingua e struttura molto telegrafica, quasi lista della spesa, come se appunto fosse stata scritta di gran fretta.

La presenza di Maria Malipiero Gradenigo a Treviso è una mia arbitraria decisione, giacché non si sa se effettivamente lei seguì il marito; tuttavia, non era improbabile che gli ufficiali di stato venissero accompagnati dalle loro consorti e dai figli più grandicelli.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

 

Un po’ di noticine:

[1] targa = piccolo scudo di legno piegato e ricoperto di cuoio, di forma quadrata o trapezoidale che si regge con la mano sinistra.

[2] Garisenda = la Torre della Garisenda assieme alla Torre degli Asinelli sono i due edifici simbolo di Bologna, di cui i Bentivoglio furono signori.

[3] Compagnia degli Immortali, una delle varie Compagnia della Calza, era una sorta di club in cui i giovani patrizi si prodigavano a creare svaghi per ogni occasione, intrattenendo anche ospiti che venivano in visita a Venezia. Apprezzati erano gli spettacoli delle momarie e le commedie, talvolta scritte e interpretate dagli stessi membri della Compagnia.

[4] contrariamente a Castiglia, dove una donna (pur come ultima spes) poteva regnare come sovrana proprietaria del regno, in Aragona vigeva la legge salica che aveva creato non poche difficoltà ai sovrani Cattolici, specie dopo la morte del figlio Don Giovanni Principe delle Asturie, l’unico erede maschio. Morta la Principessa delle Asturie e Regina di Portogallo Isabella d’Aragona e il di lei figlio Don Miguel de la Paz, l’erede era divenuta Giovanna di Castiglia (più nota come Giovanna la Pazza), sposata con Filippo il Bello figlio di Massimiliano d’Asburgo. Purtroppo, il genero era politicamente filo-francese, aspetto che non garbava a Ferdinando, da sempre in conflitto con la Francia per via di Napoli, del Rossiglione e della Navarra. Il timore quindi, che il genero potesse regnare tramite la figlia o il nipote Carlo, spinse Ferdinando a sposare in seconde nozze Germaine de Foix sia come segno di “benevolenza” verso la Francia ma soprattutto per aver quell’erede al trono aragonese che avrebbe scalzato ogni pretesa di Giovanna, Filippo e Carlo. Purtroppo, Germaine non riuscì ad avere figli che sopravvissero e dunque ambedue le corone le ereditò Carlo, visto che Filippo era curiosamente morto di uno “strano” malanno allo stomaco nel 1506. Le teorie del complotto indicano veneficio da parte di Ferdinando e noi conoscendo l’uomo, il primo a dichiarare pazza la figlia pur di assumere la reggenza di Castiglia, ci crediamo. Comunque, la tensione del 1511 tra Francia e Spagna non sfuggì a Venezia, con conseguenze che ben si vedranno fra poco.

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo Quinto: 2-3 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato  06. 09. 2021

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Capitolo Quinto

2 -3 settembre 1511

 

 

 

 

Ambasciator non porta pena, tranne quella inflittagli dal suo adirato destinatario.

Seduto nel suo cantuccio, Hironimo assistette non senza apprensione al sollevamento della staffetta francese da parte di un furioso Mercurio Bua, strizzandolo a momenti quest’ultimo peggio d’un panno pronto per esser steso al sole.

“Cosa significa, che il maresciallo La Palice s’è spazientito del mio ritardo? Cosa significa, ch’è risalito per la Valle della Brenta per occupare La Scala, Feltre e Cividal di Belluno? Non era a Treviso, dov’eravamo diretti?”

“Il … il maresciallo non … o-ordini dell’Im-imperatore … un messo da T-Trento …”, balbettava ansimando il soldato, paonazzo in volto dall’ossigeno sempre più carente.

“L’Imperatore”, lo interruppe sibilando il condottiero, aumentando la presa, “deve raggiungerci qui, non certo a Feltre né a Cividal di Belluno! Come ti permetti, scalzacane, di rifilarmi codeste balle?!”

“E’ la verità! Lo giuro!”, protestò il trombetta, afferrandogli disperato i polsi. “Vi prego, capitano, lasciatemi spiegare …!”

Magnanimo seppur sbuffante, il greco-albanese concesse quella piccola grazia e il francese poté rimettere i piedi per terra.

“Monseigneur il maresciallo non desiderava mancarvi di rispetto”, esordì cauto l’uomo, massaggiandosi il collo indolenzito e arrossato. “Tuttavia, non udendo più alcune nuove da voi, ha temuto che la fortezza fosse stata riconquistata, sicché ha deciso di muovere le truppe verso La Scala, Feltre e Cividal di Belluno.”

Mercurio incrociò le braccia al petto, arcuando scettico il sopracciglio. “E per venire in mio soccorso, sua signoria il maresciallo ha scelto il percorso più lungo, che guarda caso evitava Castelnuovo di Quero?”, schioccò sardonico la lingua.

“Non … non potevamo sapere la situazione, insomma, dei cavalleggeri sono pur riusciti a scappare e …”

“E insomma, le due città sono o non sono state conquistate?”, cangiò brusco discorso il condottiere, non gradendo che gli si ricordasse la fuga di Vetor dil Pozzo da sotto il suo naso.

La staffetta di questo lo rassicurò, annuendo rapidissima. “La fortezza de La Scala e Feltre sono cadute subito, sebbene quest’ultima fosse già stata abbandonata sia dal podestà che dai suoi cittadini. Non … i Tedeschi non hanno raccolto pressoché niente di bottino …”

Il Bua, udendo ciò, con la scusa di cambiar peso da una gamba all’altra si voltò verso Hironimo, il quale gli sorrise trionfante. “E Cividal di Belluno?”, strisciò l’uomo le parole, gli occhi ben puntati sul suo prigioniero.

“Il commissario imperiale Jean d'Aubigny sta negoziando col Consiglio di reggenza, onde riscuotere un’ingente somma di danaro come punizione per l’alleanza dei Bellunesi con la Serenissima. Si parla di quasi quattromila ducati!”

“Hanno pagato?”

Il francese si schiarì la gola. “Ehm … no. Cioè, non ancora. Il Consiglio sta valutando il riscatto; inoltre, da quanto ho capito hanno protestato d’esser sempre stati neutrali e …”

“… stanno prendendo tempo, coglionando monseigneur d'Aubigny così da evitare sia il saccheggio sia di pagare una taglia troppo salata. Furbi loro”, terminò per lui la frase Mercurio, raggiungendo Hironimo e piazzandoglisi davanti, manco stesse conferendo col veneziano invece che col trombetta.

Il giovane Miani gli mostrò i denti in disfida, sostenendo lo sguardo indecifrabile del greco-albanese, il quale seguitava a fissarlo silente, il capo reclinato appena su di un lato.

“Chi fa parte della compagnia del commissario d'Aubigny?”

“Monsieur Julien du Maine; monsieur Alexander Stewart de Lorne , monsieur Georg von Rotemberg e ...”

“Non capisco”, lo interruppe bruscamente il capitano di ventura, d'un tratto disinteressato alla lista. “La Palice guida la spedizione, ma gli Imperiali fanno bottino. Perché?”

A questo quesito, il soldato francese perse ogni soggezione e spavento per imporporarsi di sdegno. “Perché non sono altro che dei porci avidi!”, sputò rabbioso. “Sapete l’ultima? Proprio ieri è stato letto un bando dell’Imperatore nel nostro accampamento a Montebelluna: la Sua Cesarea Maestà ci proibisce di varcare la linea della Piave!”

Il condottiere scrollò le spalle: lui militava per il Re dei Romani, quindi l’affare più tanto non lo tangeva.

“A noi e agli stradioti.”

Un gelo assassino calò improvvisamente nella stanza e la staffetta, non appena Mercurio si girò, inconsciamente indietreggiò d’un passo, temendo di finire sul serio appiccato allo stipite della porta. “Questo è ciò che l’Imperatore ha comandato!”, s’affrettò a precisare il francese, la voce improvvisamente più acuta.

“Che ha detto a riguardo il maresciallo?”

“Lo ignoro!”

Un pesante improperio sfuggì dalla bocca del greco-albanese, contratta in una smorfia di profonda stizza e al contempo perplessità, la medesima che provava Hironimo dopo aver appreso di quell’assurdo ordine. Anche se – cogitava il patrizio – in un qualche astruso modo poteva ritornargli utile …

“Zilio!”, chiamò infine il capitano di ventura il suo luogotenente, rimasto in disparte accanto alla porta. “Abbiamo ricevuto la taglia per i due bellunesi?”

“Sissignore.”

“Perfetto!”, esclamò compiaciuto il Bua, ponendosi le mani sui fianchi. E a voce ben alta, acciocché il trombetta potesse ricordare bene ogni sua parola e riferirla: “Date loro da mangiare, dei vestiti e una cavalcatura, che possano ritornare a testa alta dalle loro famiglie. Hanno combattuto valorosamente, in fin dei conti” e di nuovo guardò Hironimo con la coda dell’occhio. “Dopodiché, annuncia ai nostri uomini che leviamo il campo: ritorniamo a Montebelluna.”

Zilio Madalo si pose sull’attenti, sparendo lesto a notificare il resto della truppa.

“Non sarete stato eccessivamente generoso?”, s’azzardò di fargli notare il soldato francese.

“La Sua Cesarea Maestà non comprende, che non è minacciando morte e distruzione che si conquista il cuore della gente, bensì mostrandogli la propria convenienza nel seguirlo”, sentenziò Mercurio, dirigendosi di nuovo verso Hironimo e afferrandolo per il mento lo costrinse ad inarcare indietro il collo, strappandogli un piccolo guaito di dolore per la resistenza oppostagli dal peso della palla di cannone. “Questo la Serenissima Signoria lo sa bene: ecco perché i suoi cittadini sono disposti a morire così volentieri per lei …”

Così, nel cuore della notte alla stregua di ladri, si abbandonò Castelnuovo di Quero. Ironia della sorte, considerato il miserrimo bottino, per certo si viaggiava leggeri e silenziosi per la strada boscosa, vigilantissimi per timore dei tremendi contadini e delle loro imboscate.

Hironimo e Thomà marciavano accanto al capitano di ventura condotti tramite una corda in mano allo stesso greco-albanese, alternando scatti di corsa a passi più lenti. Abituato a cavalcare, Hironimo contrariamente a Thomà faceva una fatica enorme a trascinarsi avanti a piedi nudi, pesandogli e graffiandogli la pelle le manette alle caviglie e i polsi e la palla di cannone appesa ad un cerchio serrato attorno al collo.  Ogni tanto, il suo compagno di sventura gli trottava accanto e gli reggeva la palla, così da sostenerne meglio il peso e respirare più liberamente.

Prima che sparisse nascosto dagli alberi,  il giovane patrizio contemplò la sagoma del castello e gli si strinse il cuore similmente alla prima volta in cui l’aveva rimirato: ma se in quell’occasione egli aveva scorto una prospettiva di carriera e finalmente la sospirata occasione di distinguersi dai fratelli, adesso quelle rovine gli rammentavano il suo fallimento, insinuandosi l’atroce dubbio se, una volta libero, la Signoria gli avrebbe mai perdonato la caduta di Castelnuovo.

Venezia era una madre severa, prodiga nel dare ma altrettanto esigente nel pretendere in cambio e della sua poca clemenza nei confronti di chi la deludeva  faceva parlare di sé ovunque, sia dentro che fuori i suoi territori : di come depose il Doge Francesco Foschari e gli torturò il figlio sier Jacomo Foschari, esiliandolo a vita a Candia; il castellano sier Hironimo Trun q. sier Priamo, ch’aveva venduto Lepanto ai Turchi pur di salvarsi la vita, decapitato e disconosciuto dalla sua medesima famiglia; i Lippomano costretti alla fuga dopo l'arresto per insolvenza a causa del fallimento del loro banco; sier Antonio Grimani Capitano da Mar a causa di due tremende sconfitte contro i Turchi s'era rifugiato pure lui a Roma dal figlio cardinale Domenego e soltanto due anni addietro la Dominante l’aveva perdonato, nominandolo provveditore, a seguito di dieci anni vissuti da latitante, un criminale ai suoi occhi. Sier Anzolo Trivixan anch’egli esiliato per la sconfitta a Polesella. E il tanto osannato sier Ferigo Contarini? Se non avesse stupito con la sua ardita fuga, gli avrebbero concesso altri incarichi?  Sier Zuam Paulo Gradenigo per la rotta di Rovigo finito sotto processo e un anno senza incarichi.

La famiglia d’Hironimo stessa era stata in passato inquisita da parte dei Dieci, il suo bisnonno sier Marco Miani multato e sollevato dall'incarico di Bailo per strane questioni a Corfù; suo nonno sier Lucha Miani esiliato per un anno da Venezia e cinque da ogni carica pubblica, un’umiliazione che Padre s’era imposto con ogni suo mezzo di cancellare, dedicandosi anima e corpo alla Signoria acciocché nulla se non lodi si potessero dire dei Miani e così aveva cresciuto i propri figli.

(Venezia non sa che farsene d’inutile liquame, ricordava loro Padre, ogniqualvolta lo deludevano)

Un’ondata di sconforto assalì Hironimo: con quali parole si sarebbe giustificato? Gli avrebbero creduto? Oppure sarebbe rimasto un semplice cavaliere e, a guerra terminata, relegato nel dimenticatoio di un qualche oscuro ufficio, magari su di un’isola greca semideserta?

L’oblio … che ironico castigo per lui, da sempre alla ricerca di fama e successo così da liberarsi dal pesante giogo d’essere l’ultimogenito, il cucciolo della nidiata, il piccolo Momolo, il figlio-del-suicida.

Non gliel’aveva profetizzato quella veggente? Non gliel’aveva promesso?

Tu, che hai l’anima di Lazzaro, supererai chiunque dei tuoi pari a Venezia e fuori d’essa. Nulla di vivo dei re, degli imperatori, del Papa a loro sopravvivrà, ma il tuo operato viaggerà nel tempo e lo sconfiggerà e il tuo nome sarà conosciuto fino agli ultimi angoli della Terra e tutti lo ameranno, tale è la sua grandezza.

“Puoah, vecia bacuca, marantega (befana, ndr.), buziarda, mata e sempio mi che t’ho creduto”, sibilò sardonico Hironimo, infilando due dita sotto il collare in modo da recare sollievo alla pelle arrossata dallo sfregamento (già sentiva le prime vesciche formarsi). Stupido, stupido proprio.

E peccatore, la Chiesa non condannava forse la chiromanzia  e chi la consultava?

Oh beh, pensava il giovane patrizio, un peccato in più uno di meno … tanto ormai, come più volte ripetutogli dagli indignati preti, lui era al di là di ogni redenzione e allora che si peccasse e ci si divertisse, se proprio Domine Iddio non nutriva alcuna misericordia nei suoi confronti.

 

***

 

Marco si girò sul fianco, appallottolando il cuscino sotto la testa e grattandosi di riflesso la sottile barba che, a causa del lutto, avrebbe dovuto portare per tre anni e che gli dava non poco fastidio, essendo essa acerba come la sua età, contrariamente a quelle più virili dei suoi fratelli e parenti.

La stanza giaceva in un inusuale silenzio, rotto dalle violente sferzate del vento novembrino le quali graffiavano incessanti sui sottili vetri delle finestre, insinuandosi nei sottilissimi interstizi e gonfiando appena le pesanti tende tirate. Nel caminetto cadevano gli ultimi ciocchi di legno stanchi e consumati e accanto ad esso, ben accoccolato sul suo materasso, il servitore Trovaxo russava lievemente.

In altre circostanze, Marco avrebbe esultato ogni Hosanna in Excelsis dalla contentezza di avere infine la camera tutta per sé, ma in quegli ultimi mesi il sonno tardava a ghermirlo e si tormentava rigirandosi in letto simil San Lorenzo sulla graticola, le orecchie tese ad ogni rumore e si meravigliava di rimpiangere persino il fastidioso scricchiolio delle pagine del libro che Carlo, insonne civetta, s’ostinava nel cuore della notte a sfogliare finché, esasperato, Lucha non gli lanciava un cuscino addosso onde indurlo a spegnere la bugia e dormire come ogni cristiano.

Un improvviso refolo particolarmente forte provocò un sinistro tremore nella finestra, al punto da indurre Marco a balzare giù dal letto a cassettoni e assicurarsi che essa fosse chiusa bene. Tra la Bora (a Bora nassi in Dalmaxia, la se scadena a Trieste e la mori a Veniexia) e l’acqua alta, si preannunciavano giorni seppelliti vivi in casa, ancor per loro più tristi ch’erano in lutto. Beato Carlo che con la scusa di accompagnare lo zio Batista si trastullava alle terme di Abano, talvolta v’erano giornate in cui Marco credeva d’impazzire, se non avesse potuto rifugiarsi al piano di sopra dal biscugino Zuan Francesco.

“Marchetto?”, udì una vocina timida alle sue spalle e il ragazzo sobbalzò per la sorpresa, sbuffando poi nel trovarsi davanti il fratellino scalzo e in camicia da notte.

“Cossa fastu qua?”, sussurrò, non desiderando svegliare Trovaxo e dunque renderlo partecipe della loro conversazione.

Momolo affossò il mento sul petto, stringendo convulsamente l’orlo della camicia.

“Zò, oco?”, si piazzò Marco di fronte al bambino, le braccia incrociate al petto. “Cossa dirà la siora Mare, se la non te vede in leto? Ciò, non ti divertirai mica a strapazzarla?”

(Aveva origliato una conversazione tra i genitori, in cui Padre valutava se fosse il caso di spostare l’ultimogenito in camera coi fratelli. Madre, invece, gli aveva suggerito di attendere qualche anno, sostenendo quanto ancora fosse tenerello alle cose degli uomini, al che Padre, intuendo, era arrossito un poco e di fatti già quella sera Trovaxo dormiva coi padroncini, i quali non furono grati al genitore di quell’intromissione )

Momolo bofonchiò un qualcosa d’inintelligibile, costringendo il maggiore a ripetere spazientito la domanda, ottenendo però sempre i medesimi borbottii finché Marco, tastando per caso la camicia da notte del bambino, scoprì un’umidità sospetta.

“Oh, Momolo!”, esclamò allora dolcemente, abbracciando il piccino le cui esili spalle tremarono dai singhiozzi. “No xé gnente, horra te netto mi, sì?”

Dal giorno del funerale di Padre, quasi ogni notte Momolo si svegliava col letto bagnato e se all’inizio stimando la sua età oramai grandicella si pensava a sudore, purtroppo ci si dovette arrendere all’evidenza che, dopo anni, il bambino aveva ripreso ad urinare nel sonno per l’umiliazione sua e la preoccupazione di Madre ché nessun medico sapeva spiegarsi il perché di tal affare. Neanche loro, i fratelli maggiori, di solito sempre pronti a sfottere il piccino di casa, avevano osato commentare a riguardo.

Delicatamente, in silenzio e con le orecchie sempre tese acciocché Trovaxo non si svegliasse, Marco lavò il fratellino e lo aiutò ad indossare una delle sue camicie da notte, che gli stava talmente lunga da fargli un buffo strascico. Prendendolo per mano, salirono assieme sul letto a cassettoni e, ben rannicchiatisi sotto le coperte, il ragazzo spense la candela e sistemò in maniera più comoda per entrambi i cuscini. Immediatamente, Momolo si strinse al maggiore e Marco notò con preoccupazione la magrezza di quel corpicino, proprio lui cui gli davano affettuosamente del porcellino per il suo appetito gagliardo e l’aspetto robusto e florido del ben nutrito (Anche i dolci di San Martino aveva rifiutato [1]) Non aiutava, poi, l’umidità che Marco sentiva bagnargli la stoffa della camicia, là dove Momolo aveva affondato il viso né tantomeno la presa convulsa ai suoi fianchi, quasi il fantolino temesse che il fratello spiccasse il volo, scomparendo per sempre.

“Marchetto?”

“Dime.”

“Lucha non ha paura di dormire nella camera del nostro sior Pare?”

(Adesso che lui occupava il posto vacante di capofamiglia, ogni cosa di Padre era divenuta sua, anche la stanza da letto per quanto Lucha la prima notte vi ci fosse entrato con una faccia bianca da cencio appena lavato)

“Perché dovrebbe? Omo morto no' fa guerra.”

(Ignorava come Lucha riuscisse a dormire lì dentro, senza l’ansia di scorgere l’ombra di Padre fissarlo dall’angolo più buio, gli occhi spalancati chiazzati di rosso e la lingua fuori)

“Marchetto?”

“Cosa ancora?”

“Si può uccidere qualcuno solo col pensiero?”

Marco si girò di scatto, fissando stralunato il viso del fratellino che ricambiava serissimo nella penombra della stanza.

(I suoi occhioni neri un tempo sì ridenti adesso possedevano la medesima inespressività dei putti dei monumenti funebri. Il viso stesso era marmoreo e freddo)

“No, certo che no, strambazzo! S’ammazza con le mani, mica col pensiero.”

(Non era vero, Marco aveva voluto qualcuno morto col pensiero. Magari, Dio l’aveva pure esaudito)

“E ammazzarlo per omissione?”

“Ossia?”

“Cussì, fradelo.”

Senza dar tempo alla frase di dissolversi nell’aria, in un attimo le mani di Hironimo gli furono al collo ed egli a cavalcioni sopra di lui, pesante quanto il coperchio di un sarcofago. Non era il suo fratellino decenne, bensì venticinquenne, bianco come la calce, la gola squarciata, il viso sfigurato dalle ustioni e schegge di bombarda, la bocca sghemba e lorda di sangue.

Marco si portò di riflesso le mani alla gola nel tentativo di liberarsi da quella presa, rabbrividendo dal gelo emanato da quella carne livida e putrefatta.

“Mi hai lasciato andare in quella fortezza maledetta … Tu sapevi che non sarei stato capace di difenderla, eppure non hai mosso un dito per impedirmi di partire! Tu mi hai abbandonato alla mercé del nemico! Mi hai condannato a morte per soddisfare il tuo vendicativo orgoglio!”; gorgogliò quella voce rotta e disumana, lordandogli la faccia di sangue vischioso ad ogni parola proferita.

“No … No … Momolo, no …”

(Se suo fratello avesse avuto occhi e non buchi vuoti e neri, l’avrebbero guardato pieno d’odio)

“Mi hai voluto morto?”

“No, di giuro di no … Momolo, perdonami … Non ti ho mai voluto morto … no …”

(I pollici premettero sulla sua trachea onde provocarne il cedimento)

“No! … No! …”

“Stai di buona voglia, fradelo …”

“Markos …?”

“… ché morto lo sarò assai presto!”

“Oh, Verzene Maria! … Perdoname, perdoname! …”

“Markos!”,  lo scossero energicamente due delicate ma forti mani, strappandolo da quella chimerica visione e catapultando un gemente Marco nel letto non della sua casa a San Vidal a Venezia, bensì della stanza padronale in cui alloggiavano a Treviso. Fuori il vento seguitava ad ululare imbizzarrito, manipolando la direzione della pioggia battente e trasformandola in frustate contro i vetri della finestre, alternandosi ad altri scrosci di acqua, quelli più pigri e regolari del mulino poco distante.

Ansimando a grosse boccate, l’uomo si guardò intorno spaesato, sobbalzando al lieve e rassicurante tocco delle dita di sua moglie Helena Spandolin [2], che gli scostava via gli scuri ricci sudati dalla fronte e dalle tempie. Il suo viso dolce, dal pallore caldo del Levante e circondato da capelli nerissimi e ondulati, si sostituì a quello mutilato e cadaverico di Hironimo, così come le orbite oculari sanguinanti si riempirono di vivaci occhi nocciola, che lo studiavano ora inquieti.

“Sono qui, méli mou (miele mio, ndr.) Sono qui …”, gli sussurrò teneramente ella in greco, lingua che condividevano nell’intimità, conducendo il suo capo al petto e continuando ad accarezzargli amorevolmente la schiena. “Si è trattato di un incubo, soltanto di un incubo.”

Dilaniato dai sensi di colpa, Marco pregò con tutto fervore la Santissima Vergine Maria affinché ciò corrispondesse al vero.

 

***

 

Sier Lucha Miani uscì di corsa da Palazzo Ducale e senza neanche penarsi di scusarsi se urtava malamente i suoi accigliati colleghi, si diresse spedito là dove Lucha di Symon il gondolier de casàda stava cicalando fitto-fitto cogli altri suoi compari nel sotoportego, balzando comicamente in avanti all’ inaspettato arrivo del padrone.

“Ndove andèmo, patron?”

“Al Ramo de la Stua.”

Lucha il gondolier strabuzzò perplesso gli occhi. “A sta horra, patron? Non sarave un fià presto?” Sapeva, infatti, trovarsi vicino alle Carampane a Rialto, poco dopo l’allusivo Ponte delle Tette. Dinanzi all’espressione esagitata e inflessibile del padrone, l’uomo accantonò ogni obiezione e prese a remare con insolito vigore, intimamente contento di gustarsi nell’attesa la vista del bel balconcino delle mamole [3] affacciate alle finestre.  

In realtà, il trentaseienne Miani stava delineando altri piani d’azione ovvero piombare inatteso in una delle varie stue del Ramo e di fatti Lunario el Stuèr suo proprietario poco mancò di strangolarsi con la propria lingua alla vista di un patrizio con ancor la toga del Maggior Consiglio addosso presentarsi a lui terribile e solenne, come San Michele il giorno del Giudizio Universale. La lunga cicatrice lungo la mascella e il viso del pallore malsano del convalescente gli conferiva un ché di ancor più feroce.

“Mi no gh’ho fato gnente, no sun berton!”, ci tenne tosto a precisare lo stufaruolo, mettendo letteralmente le mani avanti. [4]

Lucha lo squadrò seccamente dall’alto al basso. “Lo spero ben”, schioccò la lingua e aggiunse spiccio: “El consier sier Batista Morexini, xélo qua? Et no me dir che ti no te lo cognossi, ché te fazzo prepar na bea tola a’ Pozzi! O mejo anchor: a le Orbe!”

Neanche terminò di proferire il nome delle tanto temute stinche, che Lunario scavalcando per poco il bancone guidava di persona il patrizio attraverso un piccolo dedalo di corridoi ben riscaldati  e senza correnti d’aria, fino a giungere ad una stanzetta specificatamente predisposta per riposarsi dopo il bagno di vapore. Lì lo stufaruolo bussò cauto alla porta, contorcendosi in una smorfia dolorosa alla scocciatissima risposta:

“Gran mercé! Che vuoi ora? Non ti pago per astiarme!”(seccarmi, ndr.), berciò dietro una voce a Lucha assai nota e giusto per abbreviare i tempi (non per pena nei confronti dello stuèr), che appunto replicò in fretta alla giusta obiezione del senatore:

“Sior Barba, sun el vuostro nezzo, Lucha.”

Immediatamente il tono dello zio s’addolcì. “Lucha?! Sangue di diana, perché non me l’hai detto prima? Pelandrone d’un Lunario, fallo subito entrare, lesto!”, comandò perentorio allo stufaruolo, che inchinandosi e mormorando un deferente Vi servo, patron, zelenza, vossioria, piegò l’indice verso di sé onde comandare ad uno schiavo moretto di portar una sedia al patrizio. E rivolgendosi in gran confidenza al Miani:

“Zelenza, lustrissimo, fé attension: el sior consier se porta sempre pì mutrión (taciturno, ndr.), pien de smara et gnàgna (malumore e malinconia, ndr.); se podarave dir ch’i spiriti lu possegano interamente …”

Uno zoccolo con inquietante precisione colpì la spalla dello stuèr, interrompendolo e sia il ragazzino che Lucha si morsero le labbra pur di non ridere.

“T’ho sentito, pampalugo!”, vibrò minacciosa la voce del consigliere. “Renditi utile e porta da mangiare e da bere!”

“Vi servo, patron, zelenza, lustrissima vossioria!”, si massaggiò l’uomo la spalla dolorante, raccogliendo lo zoccolo. E rivolto allo sghignazzante moretto: “Et movete, fio d’un turco!”, spingendolo via malamente.

Intanto che il ragazzino saltava a guisa di grillo onde accomodare al meglio il nuovo arrivato, il consigliere e senatore sier Batista Morexini, torvo in volto e tutto avvolto in un morbido panno, salutò il perplesso nipote con uno spassionato: “Donca?  Cosselo sto muso da imbaucato (incantato, ndr.)? Che t’aspettavi, nezzo mio? De trovarme a far a l’amor con do pute?” e indicando col capo il vassoio di marzemino e fritole alla cannella, gli confidò furbescamente: “Alla mia età, quest’è l’unico vizio che mi rimane!”

Ingoiando l’incuriosita replica circa il perché proprio con due donne lo doveva pizzicare, Lucha sorrise complice allo zio, l’unico ad accezione di Madre e i fratelli che gli dava del tu con tanta disarmante e tenera confidenza.  D’altronde certe libertà poteva più che permettersele, specie quando un allora inesperto Lucha si era ritrovato improvvisamente a ventun anni a rimpiazzare Padre e solo sier Batista Morexini s’era interessato attivamente alla sorte della sorellastra e dei nipoti, aiutandoli sia materialmente che spiritualmente.  Per lui era stato un pilastro, quello zio da tutti considerato un po’ stravagante, sempre allegro e generoso, ottimo padre e cotolón (donnaiolo, ndr.) ognora penitente.

Zio che alla vigilia delle nozze di Marco e della bella Helena Spandolin aveva preso da parte nel suo studiolo privato il novizzo (fidanzato ufficiale, ndr.) e gli  altri fratelli Miani con la scusa di favellare; una volta ottenuta la loro attenzione,  era volato un tal ceffone da far girare violentemente la testa al povero Marco, il quale ci mise un bel po’ per riprendersi e capire quanto appena successo. Zò! Gnanca gh’ho verto bocha! aveva poi esclamato indignato, mentre i fratelli assistevano scioccati, gli occhi fuori dalle orbite. Te dole, eh? Arecordate de sto dolor, nezzo mio, co’ te vien voja de bater la mojer! e rivolto agli altri nipoti: Ancha se ve vien ea spissa (prurito, ndr.) de ciaparla per el colo, avé da satre (sapere, ndr.) che ea mojer sì la gh’ha da obedir ma non xé ni da strapazzar, ni da menazzar, ni da insolentar! Vui seti omeni, abié juditio vui per primi, se volé che l’abbia anch’ela. Onde reiterare il concetto, aveva poi tra lo sconcerto generale elargito un secondo ceffone a Marco, sull’altra guancia. La donna sbaglia, se l’uomo si comporta da macaco! Sicché l’allora diciassettenne Hironimo, nel pieno  di quella fase in cui i giovani proprio non sanno tenere la bocca chiusa, gli aveva ritorto: Parlate per vostra personale esperienza, sior Barba?  per condividere immediatamente la triste sorte del fratello.

Era stato grazie alla amicizie e conoscenze di sier Batista, all’epoca nel Consiglio dei Dieci, alle sue macchinazioni e abilità oratoria se la dubbiosa Signoria aveva accettato l’anno addietro di scambiare Lucha col capitano Cristoforo Calepin, liberandolo dalla sua prigionia di quattro lunghi mesi in Alemagna. Inconsciamente, a quei ricordi, il Miani si tirò appresso la stola, usata come fascia di supporto per il braccio destro storpiato e inerme.

“Sentate, vuostu marèndar? (colazionare, ndr.)”, riprese il senatore il discorso, bevendo cautamente il marzemino, onde non sporcare il panno bianco.

“Vi trovo bene, sior Barba.”

Sier Batista lo fulminò cogli stessi occhi neri di Marco e Hironimo, quest’ultimo l’unico nipote Miani che gli assomigliasse in tutto e per tutto, una goccia d’acqua, e se non fosse stata Leonora Morexini Miani ad averlo partorito, le malelingue di certo avrebbero tambureggiato ogni sorta di pettegolezzi. “Burlestu?”, sbuffò sardonico l’uomo, mostrandogli le mani ossute, dalle vene ingrossate e dalle dita lievemente storte. “Te par che stago ben? An, la vecchiaia …  i reumi proprio non mi danno requie! In questo periodo dovrei trovarmi ad Abano, non qui a crepar dall’umido!” e sbuffando ritornò alla silenziosa degustazione del suo vino.

Effettivamente, appurò Lucha, sotto la scorza del sarcasmo il suo avunculo appariva più stanco e fragile del solito, rivelandosi per il sessantanovenne che ormai era, cozzando con l’immagine mentale da sempre custodita di lui, ovvero dell’energico e giovane zio che si issava anche due nipoti alla volta sulle spalle, facendoli roteare tra grandi risate e i preoccupati richiami di moglie e sorellastra, nelle dolci estati trascorse a Treviso e a Fanzolo.

“Talvolta”, proseguì pensieroso il consigliere, “credo d’aver vissuto in un altro tempo, in un altro luogo. Quanti avvenimenti si sono succeduti in quest’ultimi anni! Quanta gente da me conosciuta è oramai sottoterra ... Mio padre, le mie due madri, i miei fratelli ... Parenti, colleghi, vicini di casa, amici, nemici …  Ci crederesti che neppure sei anni fa seppellivo mio fradelo Hironimo (ancha se geravam in lite et in grandissimo odio) … e quest’anno il sior mio zenero sier Zuanne Querini e la mia nezza toa sorela Crestina? ... Ripensavo a quanto era stata contenta di far parte del gruppo di gentildonne scelte ad accogliere la olim Ducissa de Bari, quel maggio in cui giunse qui a Veniexia in visita. Ed ora sono ambedue morte. Ti ricordi di lei, della Ducissa? Eravate coetanei, sì?”, e al cenno positivo del nipote proseguì con un sorriso malinconico: “Una creaturina spiritosa e brillante, peccato che quel satiro del Ducha sòo pare si fosse dimenticato d’insegnarle, che gli affari si fanno in due o non si fanno … Poareta, morta sì zovane … ”, scosse il capo. “E il luglio dell’anno scorso, assieme a mio cugnado sier Alvise Malipiero, pure m’è toccato comunicare al Mazor Consejo la morte della mia siora cugnada Domina Catharina Corner … che aveva colazionato  con la Ducissa! In quel momento, ho pensato: ecco qua, la fine d’un’epoca!”

E poi c’era la questione di sua figlia, ma Lucha sapeva che lo zio mai e poi mai avrebbe approfondito di sua spontanea iniziativa, rivangando il dilaniante spettacolo della sua adoratissima Maria rimasta precocemente vedova del marito Zuanne Querini conte di Stampalia e Amorgo, proprio lei che era stata benedetta da un matrimonio felice e un marito amorevole. Intuiva il Miani come lo zio avesse interpretato tale disgrazia come una punizione divina per il suo comportamento fedifrago nei confronti della, nonostante tutto, amata moglie, mortificandolo tramite la sofferenza della figlia e per questo sier Batista s’ostinava a sopportare stoicamente in silenzio senza menzionarlo a nessuno, tranne quando era corso disperato dalla sorellastra Leonora, supplicandola di persuadere Maria anche solo a guardare la figlia postuma di Zuanne, la piccola Laura. Assieme a Francesco, il maggiore di anni sette, Piero, Agustin, Fantin, Nicolò e Crestina, il defunto conte Querini di Stampalia e Amorgo aveva lasciato una moglie devastata dal dolore che si rifiutava d’interagire con l’ultimogenita, anzi, una volta rinsavita aveva confessato vergognosa alla zia come avesse sperato morire di parto, in modo da ricongiungersi allo sposo. M’aspetterà, sior’amia?, le aveva chiesto in lacrime.  Al che madona Leonora, con la saggezza di chi era sopravvissuto al calvario della vedovanza, le aveva risposto brutalmente onesta: V’aspetta sì, nezza mia, perché dalla sua tomba sicuramente non si muove! e detto questo, le aveva ceduto l’infante tra le braccia, che subito aveva cercato avida la poppa della madre.

Incredibilmente, Maria s’era messa a ridere.

“… Una generazione se ne va, un’altra viene, e la terra sussiste per sempre”, [5]  terminò solennemente sier Batista il suo monologo e con esso il vino, le palpebre socchiuse, meditabondo.

“Sior Barba …”

L’anziano consigliere l’interruppe con un secco svolazzo della mano. “Lo so, lo so. Non sei venuto per rivangare il passato, bensì per determinare il futuro. Vuoi sapere di tuo fratello.”

“Saveu …?”

Di Trevixo: Item si ha, sier Hironimo Miani, era castelan in Castel Novo, era presom di Mercurio Bua; il campo è pur a Monte Belluna e non se move, … etcetera, etcetera. Continuo?”, citò verbatim sier Batista il rapporto letto in Senato alle prime ore del mattino, assieme agli altri sia dai vari fronti che dallo Stato da Mar.

Navigato politico e uomo di mondo, appena aveva udito il nome del suo nipote e fiòzo (figlioccio, ndr.) il suo anziano cuore pur avendo avuto un sussulto non aveva tradito alcun’emozione sul suo volto, seguitando ad ascoltare impassibile e indecifrabile come una sfinge. Ciononostante, sier Batista già aveva previsto una prossima visita da parte o di madona Leonora o dei suoi nipoti Lucha e Carlo e, ad onor del vero, quasi era sollevato che la sorte avesse scelto il più mansueto Lucha, ché sul serio non avrebbe avuto animo di affrontare la sua sorellastra solo per aggravarle la già pensante croce che portava sulle sue esili spalle. 

Inoltre, Lucha aveva vissuto questo conflitto sulla sua pelle, ne conosceva le dinamiche e sapeva cosa aspettarsi sia sul campo battaglia che nei consigli di guerra.

“Sior Barba, riconosco che vi sto chiedendo un enorme favore … Sempre nel bisogno ci avete soccorsi e avete vegliato per anni su di noi, da quando Padre … Ciononostante, vi supplico di … di suggerirci almeno quelle salvifiche parole, che potrebbero persuadere i Pregadi e i Dieci ad intavolare le trattative per la liberazione di mio fratello.”

Il volto di sier Batista s’incupì. “Non è così semplice”, sentenziò secco, sistemandosi meglio sul lettino.

Lucha strinse il pugno, digrignando frustrato i denti. Ovvio che quando si trattava di prigionieri la Signoria ci andava cauta, valutando i pro e i contro, ma quale valore strategico poteva aver mai suo fratello Hironimo, semplice cavaliere fino all’altro giorno?

“Perché?”, sbottò infine.

Lo zio non si scompose, semmai gli spiegò con flemma: “Perché la Signoria Nostra tiene in mano l’unica cosa, che potrebbe legare nuovamente il signor Mercurio Bua a lei.”

“E cioè? Danaro?”

“Moglie e figlia”.

Lucha avvertì il mondo cascargli addosso, spalancando poco elegantemente la bocca e il braccio sinistro gli cadde dal grembo.

“Burléu?”

“Te par?”, lo rimbeccò prontamente lo zio. “Catharina Bochali, la fia di Nicolò Bochali el capitan stratiota morto en la Patria del Friul e sorella dei nostri capitani Manoli e Constantin Bochali, i quali ce l’hanno a morte (chissà perché) col cognato e pertanto si rifiutano di restituirgli le sue donne. Figurati che quello sfacciato di Mercurio Bua, pur di riaverle indietro, s’è raccomandato direttamente alla Signoria.”

“E che cosa gli è stato risposto?”

“Secondo te? Che non possiede alcun valido argomento per giustificare questo scambio” in attesa in realtà di vedere chi dei due, in quel braccio di ferro, avrebbe ceduto per primo.

Se da una parte Mercurio Bua vantava doti militari strategiche di notevole audacia e potenti alleati, dall’altra la Serenissima possedeva pazienza e numerose risorse; in aggiunta, con quel suo gesto in apparenza tracotante, il condottiero si era sbilanciato, scoprendo in parte le proprie carte e Lucha ben immaginava quanto sfacciatamente la Signoria avrebbe sfruttato quel suo tallone d’Achille, pronta a stringere la presa sul greco-albanese se necessario tramite la moglie e la figlia.

E suo fratello, di certo, non valeva lo scambio se sussisteva la possibilità di tener per le palle il terribile capitano di ventura.

“Così, tra i due medici litiganti, a rimetterci è il malato! Mi state dicendo, sior Barba, che sussiste la possibilità che mio fratello venga rilasciato soltanto a fine guerra?!”, esplose allora di collera Lucha, incapace d’accettare quel cinismo da ambedue i contendenti, men che meno da parte della sua patria, per la quale aveva dato un braccio, la salute e continuava a finanziare colle sue risorse economiche.

“No.”

“Ma come! Se m’avete appena detto che …”

Sier Batista lo invitò a calmarsi e a risedersi. “Nezzo mio, coi condottieri non si discute, li si compra ed io, in tutta la mia vita, non ne ho mai trovato uno senza prezzo.”

“Tranne quel francese, quel Baiardo.”

“Verissimo. Lui non si compra” , convenne il consigliere e indicando la tempia “… s’uccide” e rise alla macabra battuta. Poi, ritornando più serio: “Bisogna che tu o Carlo andiate a parlare col missièr (suocero, ndr.) di vostro fradelo, domino Dimitri Spandolin, e che lo inviate in ambasciata alla moglie del signor Mercurio a San Biasio. In contemporanea, assicuratevi che la vostra siora Mare mia sorela vada a trovare la sua amica, madona Alba Donado Contarini: suo fratello sier Andrea è podestà e capitano di Trevixo, chissà che trovandosi più vicino al fronte, non riesca ad avvicinare vostro fratello, anche solo per assicurarci che sia ancora vivo. Inoltre, sier Francesco Contarini, il figlio di madona Alba, conosce personalmente molti esponenti della nobiltà francese, forse tramite qualcuna delle sue conoscenze riuscirà ad agganciare se non il signor Mercurio, almeno il maresciallo monsignor La Peliza. Dal canto mio, vedrò cosa potrò fare in Senato … e fuori.”

Fortuna che il Misser Grande lo conosceva bene e con lui anche sier Francesco Foschari, sier Hironimo Querini e sier Lucha Trum, cugino germano dell’amico di famiglia e parente sier Antonio Trum, tutti e tre ben inseriti tra i Savi e i Dieci. Chissà se non fosse riuscito a persuaderli a prestargli i servigi dei loro contatti nelle terre dei Conti da Collalto, sospettosamente indenni dalle scorrerie dei saccomanni  e dei franco-imperiali …

 

***

 

 

Le campane della Chiesa di San Francesco avevano appena annunciato i vespri che madona Felicita, non rincasando ancora il marito, decise di recarsi lei medesima al granaio onde preparare le staie da imbarcare sui burchi diretti a Padova e a Venezia e della farina per cuocere il pane l’indomani. Afferrato lo zendale e chiamata Màlgari, aveva già un piede fuori l’uscio quando comparve madona Helena Spandolin Miani, la quale le chiese se poteva accompagnarla, non essendo neanche sier Marco Miani ancora ritornato dalla sua ronda, contrariamente alle più fortunate madona Chiara Spandolin Trivixan, sua sorella minore, e a madona Orsola Malipiero da Canal, quest'ultima generosamente ospitata dal Miani, poiché sia lui che il marito della nobildonna, sier Alvixe, erano stati assegnato a guardia del Castello.

Felicita acconsentì di buon grado, contenta della compagnia della vicina di casa e intimamente affascinata dall’esotismo trapelante dalla donna, stupore tipico di chi non era mai uscito oltre le mura cittadine. La giovane patrizia, d’altronde, vi metteva del suo: oltre alla forte inflessione greca nel suo veneziano, ella aveva conservato alcune usanze nel vestiario tipiche della sua gente. Pur indossando, infatti, un’accollata camicia bianca e una veste nera alla veneziana, madona Helena s’acconciava la testa con un velo di bombace, alquanto lavorato all’ago, avvolgendolo in maniera intorno ad essa così da lasciarne pendere e cadere una parte giù per le spalle. Solitamente il velo era bianco, ma, in rispetto dell’anno di lutto per la morte della cognata madona Crestina Miani da Molin, la giovane greca aveva optato per uno nero, anche se non corrispondeva al colore adatto secondo i suoi costumi e anzi, in cuor suo ella temeva d’attirarsi la malasorte, indossando un panno da sfoggiare esclusivamente alla morte del marito. Tuttavia, sier Marco le aveva pazientemente spiegato in più occasioni, che trovandosi a Venezia doveva adattarsi alla vestemica del luogo e il velo giallo, anche se in Grecia significava un onoratissimo lutto generale, in Italia equivaleva all’uniforme delle meretrici.

Il Miani, sebbene vincitore su questo fronte, aveva dovuto arrendersi dinanzi all’ostinazione di sua moglie d’ornarsi le orecchie di due o più anelli d’oro assai grandi, assai scandalosi [6] e pertanto relegati alle occasioni informali. Per contro, madona Helena non esagerava cogli anelli alle dita, limitandosi a due. Invece, adorava cingersi la vita con una catena d’argento, fatta con bell’arte, che pendeva poi davanti con due o tre peri d’argento, gli stessi che stavano in quel momento suscitando l’interesse di madona Felicita. E come la sorella maggiore, anche madona Chiara si vestiva compagna.

Talvolta, passando per San Martino, le tre vicine di casa si erano imbattute in qualche stradiota che, riconoscendo immediatamente le donne degli arconti [7], si metteva subito sull’attenti, servizievole e mansueto agnellino; i loro capitani, specie i Paleologi lontani parenti delle Spandolin, le si rivolgevano con la più estrema cortesia. Gli uomini stessi che sier Marco Miani e sier Nicolò Trivixan avevano portato con sé a proprie spese a Treviso provenivano dalla patria delle mogli, scelti accuratamente sia da loro che dal suocero, il cavaliere Dimitri Spandolin da Costantinopoli, tributario del Signor Turco.

Ciononostante, Helena non ostentava vanitosa la sua diversità né si comportava da superba in quanto patrizia, rispondendo con allegra cortesia alle numerose domande di una curiosa Felicita, nelle lunghe ore vespertine in cui attendevano i rispetti consorti. Chiara, dal canto suo, se ne rimaneva in disparte a cucire, dimostrando infatti una natura più timida rispetto alla maggiore, preferendo la compagnia di madona Orsola verso la quale avvertiva una maggiore affinità culturale, esprimendosi infatti la nobildonna in fluente greco vernacolare . Anche se figlia del patrizio veneziano Antonio Malipiero, madona Da Canal era nata e cresciuta a Corfù dove la sua famiglia s'era da tempo trasferita e dove proprio lì aveva conosciuto il suo futuro consorte, all'epoca castellano della fortezza a guardia dell'isola.

“Cadaun zorno, i nuostri maridi fan senpre pì tardi, vero? Se no fussimo en guera, pensaria mal!”, scherzò la giovane donna.

La greca sorrise sibillina. “Dubito: il vostro sior marido Donado non mi è sembrato un farfallone. Vi guarda respirare, tanto vi vuol bene”, le confidò civettuola, provocando un grazioso rossore compiaciuto nelle gote dall’altra. “Vi confesso che un poco v’invidio.”

Assicurandosi che Màlgari e Cleofe, la fantesca della greca, si trovassero fuori dal raggio udivo, Felicita le sussurrò con genuina preoccupazione: “Vuostro marido ve trascurelo?”

“Non è facile essere ammogliate ad un patrizio”, asserì Helena, rigirando un poco malinconica la vera al dito. “Ché il marito non v’appartiene mai interamente: la Signoria viene sempre per prima; è lei la vera moglie e noi le concubine.”

Abituata a trascorrere molto tempo col suo Donado, soprattutto per via della gestione dei mulini, Felicita si dispiacque molto della situazione della nobildonna, non concependo come potesse stare così a lungo separata dal consorte senza rodersi dall’ansia nonché dal dubbio circa la sua capacità di resistere alle tentazioni della carne, ché alla giovane trevigiana non erano sfuggite le occhiate golose delle altre donne, maritate e non, saettate con sfacciata insistenza ad un ignaro Donado durante la Messa. Brutte insolenti!

Felicita aprì la bocca onde tentar di confortare la patrizia, sennonché un urlo si sostituì alle parole: distesi a terra, gli operai addetti al granaio giacevano svenuti con evidenti segni di colluttazione sui volti, gonfi peggio di una vescica. Il portone era stato sfondato e da esso simil formiche, dei soldati si servivano allegramente passandosele di mano in mano le staie di grano, orzo e di tutta l’altra farina macinata riservata l’indomani a Venezia e Padova.

Le gote della giovane si gonfiarono di collera, imporporandosi circa l’ingiustizia dell’affare: ma come? Loro si dannavano l’anima lavorando notte e dì onde soddisfare le richieste della Serenissima, suo marito pure precettato ad aiutare la squadra di guastatori sulle mura e quei pelandroni dei soldati mercenari, sfamati e alloggiati gratuitamente, ora gli venivano pure a rubare la roba?

“MALADETI CANI! SASSINI! PENDAJO DA FORCHA! BARONI! DA TAJARVE LE MANI!”, ruggì indignata e furibonda e prima che Helena o Màlgari potessero fermarla, madona Cimavin afferrava un bastone caduto agli operai e lo fracassava in testa ad un soldato (voltato di spalle), il quale con una bestemmia da far sanguinare le orecchie cadde a far compagnia agli operai, privo di sensi.

Purtroppo, ciò distrasse i suoi degni compari dalla razzia del granaio e di fatti uno di loro non tardò a disarmare con violenza la giovane donna. “Razza di troia, ad un uomo metti le mani addosso? Toh, prendi, se ti piace menare!”, sbraitò e Felicita appena ebbe il tempo di deviare il cazzotto che le diede, giusto per evitare che le spaccasse il naso sebbene esso incominciò a sanguinare lo stesso, tra lo sconcerto generale delle altre donne, specie quando il soldato, non pago, la colpì alla spalla e la spintonò malamente per terra e se non fossero stati i riflessi pronti di Màlgari, la giovane donna sarebbe certamente caduta di schiena.

Prontamente le altre donne si ersero a difesa della poveretta, intuendo come l’uomo avesse intenzione di infierire. “Béco fottuto!” (cornuto,ndr.), gridò la contadina, afferrando una pietra e lanciandogliela contro con inquietante precisione, da far invidia ai lapidatori di Santo Stefano primo martire. “Bater ‘na dona! (e una pietra) Et gravia! (e un’altra pietra) Seti pèzo de quei ch’i zogavan a dadi soto ea Crose Sancta!”

Intanto, aiutata dalle compagne che le coprivano le spalle, madona Helena batteva a saggia ritirata di direzione di casa, gridando a voce alta: “Zente! Zente! Arme, fora arme! Ajuto! Zente!” e tentando di trascinare seco una scalciante Felicita che nonostante l’epistassi e i lividi, urlava come un ossesso i peggiori insulti mulinando feroce i pugni.

Piccati sia per l’interruzione sia per l’esser stati malmenati da delle donne, alcuni mercenari lasciarono le staie che stavano prendendo ed esigere soddisfazione, malgrado i loro compagni li suggerissero di lasciar perdere e andarsene via col malloppo. Stando al loro discutibile codice d’onore, si trattava ormai di una questione di principio il lavar via quell’onta insopportabile, al diavolo il gentil sesso e altre baggianate da poemi cavallereschi.  

Sicché colpirono forte e colpirono duro, finendo sia Cleofe e Màlgari per terra e gli occhi di madona Helena si spalancarono impauriti al sinistro luccichio della lama di un pugnale.

Questi ci ammazzano!, fu l’unico pensiero che la sua mente poté elaborare e d’istinto coprì la donna incinta col suo corpo, serrando le palpebre in attesa del colpo, gli ultimi pensieri rivolti al marito e ai suoi pargoletti a Venezia.

Invece, qualcosa le saltò sopra a mo’ d’ostacolo e colpì con un calcio in pieno petto l’avversario, cogliendolo alla sprovvista, che indietreggiò e il pugnale tintinnò sui sanpietrini.

“Maladeto viliàco: se te gh’ha finio co’ le femene, battiti horra contra nuialtri omeni!”, lo sfidò Marco Contarini, il più giovane e veloce della mandria di tori che s’avvicinava pericolosa, al secolo i rispettivi mariti delle donne offese e gli operai ai mulini e gli uomini del Miani, Trivixan, da Canal e Contarini, tutti capeggiati da Jacopo Cimavin il Vecchio, il quale brandendo un nodoso bastone, ruggì come quand’era andato in guerra contro i Ferraresi:

“Manza-merda, ve sbuso tutti et ve fazzo vegnir fora le buéle par la bocha!” e che il sier Provveditore lo impiccasse pure, ma prima - sangue di diana! -  ne avrebbe tagliati a pezzi quattro o cinque di quei rotti-in-culo che osavano picchiare la nuora gravida e rubargli la roba!

In quel momento i mercenari seppero che l’avevano combinata grossa, tanto che la maggior parte di loro si pigliò in gran fretta le staie o a mani vuote ugualmente fecero  dietrofront e corsero via, inseguiti dai furiosi uomini.

Marco Miani afferrò uno per la collottola, lo costrinse a voltarsi e in rapida successione gli elargì un pugno dietro l’altro; Donado Cimavin, abituato sin da ragazzo a sollevare pesanti staie di semenza e farina, appunto ghermì un soldato e lo gettò di peso nel canale tra grandi imprecazioni sue; Marco Contarini, impratichitosi nelle risse del Carnevale, sbatteva la testa di un soldato contro il muro e il vecchio Cimavin sentendosi gagliardo come ai tempi della Guerra del Sale seguitava imperterrito a ricorrere la sua preda, che ad un certo punto, in panico totale, gli aveva lanciato contro a mo’ di difesa proprio la staia rubata che si stava portando sulle spalle.

La cagnara infernale finalmente scrostò dalle rispettive case i Trevigiani e si levarono molti: “Arme! Arme!” e chi coi bastoni, chi coi batocchi per la polenta, chi con scope o padelle e chi col solo ausilio delle proprie mani vennero a dar man forte e pareva di assistere alla rissa ludica sul Ponte dei Pugni a Dorsoduro, con tutta quella pressa di gente che incassava e mulinava pugni ora a caso ora ben mirati, tra bestemmie da far cadere giù l’intera Corte Celeste, volando alcuni in acqua e qualcheduno nel frattanto si fregava pure una o due staie lì abbandonate.

Più tardi si sarebbero calcolati i danni: ora come ora, la priorità era di scaraventare in canale quanti più soldati possibile e al diavolo ogni cosa.

Tale teatro titillò la curiosità di un gruppo di stradioti diretti ai loro alloggi a San Martino e che, pur non conoscendo la causa, decisero di partecipare giusto per passare il tempo. Ad essi si unirono alcuni soldati di ronda, tra cui Cabriel che per poco non tagliò il naso ad uno, quando concitatamente Marco Contarini gli aveva spiegato come quei disgraziati avessero picchiato le donne in casa del mugnaio, tra cui Màlgari.

La situazione s’aggravò coll’arrivo degli uomini del capitano Lorenzo Orsini venuti ad indagare su quel bailamme, ma la foga tale era che gli si coinvolse, picchiando anche loro specie quando uno di loro si mise a gridare: “In nome del capitano …”, interrotto dal cazzotto di un trevigiano dal dente avvelenato per via della proscrizione da parte di detto comandante a distruggere il santuario della Madonna Grande. “Tasi, bestia papalina!”, aveva infatti sbraitato, atterrandolo. Il più scemo tra questi mercenari onde quietare gli animi pensò bene di sguainare la spada, col risultato di finire in acqua in un battibaleno e di far giungere a cavallo un livido capitano Vitello Vitelli, segno che la contesa finiva lì e poche storie, tutti a casa.

“Risparmiate fiato ed energie per i franco-imperiali!”, li ammonì severo, scudisciando a destra manca acciocché a nessuno saltasse in testa lo sghiribizzo di disarcionarlo.

“No preoccupeve, sior capetano: ne avemo assa’ ancha par eli!”, berciarono i baruffanti e gli mostrarono con feroce gusto i pugni dalle nocche sbucciate e i denti macchiati di sangue (ci fu chi sputò perfino un dito staccato a morsi) e il comandante si domandò se le nuove mura di Treviso fossero state costruite per difendere i Trevigiani dai franco-imperiali o viceversa, per proteggere i franco-imperiali dai Trevigiani.

Dispersa ora con moine ora con minacce la folla, Jacopo Cimavin il Vecchio e suo figlio Donado, Marco Miani, Marco Contarini, Alvixe da Canal, Nicolò Trivixan e Cabriel si trascinarono a casa del mugnaio, malconci ma vittoriosi. Lì trovarono Màlgari che si accommiatava da Mamma Gaia, una curandera e levatrice, e poco ci mancò che Donado si liquefacesse dal terrore, correndo esagitato in camera da letto dove sua suocera madona Luzia rimboccava le coperte alla figlia.

“Donado!”, esclamò la giovane, gli occhi umidi di lacrime. “Oh, Donado!” e allungò le braccia onde richiamare a sé il marito, che subito l’abbracciò con foga, baciandola disperato.

“Donca?”, s’informò sottovoce Jacopo il Vecchio.

Màlgari scrollò le spalle. “A xé n’toro, patron. Et el puto, el scalcia contento pèzo d’un musso!”, informò ella il padrone circa l’esito positivo della visita della levatrice, la quale aveva giusto suggerito qualche intruglio per calmare i nervi a Felicita, la cui salute fisica sua e del bambino era uscita miracolosamente indenne dall’aggressione subita.  “Col vuostro permesso, mi andaria en cusina.”

“Sì, sì vai et rengraxia el zovane soldà- chome se ciamelo? Cabriel? -  servigli poi un goto (bicchiere, ndr.) di vin caldo”, la istruì e dopo che la fantesca se ne scese anche fin troppo lesta e contenta in cucina, l’anziano mugnaio sospirò di sollievo, appoggiando il bastone. “Maria Verzene, seti semper laudata!”, mormorò devoto, segnandosi tre volte. “Besogna horra ‘ndar dal cogitore a querelare …”, bofonchiò tra sé e sé, raggiungendo la stanza principale. “Donado! Olà, Donado!”

“Paron Cimavin, se no v’incomoda”, s’intromise Marco Contarini. “V’accompagnarave jo a Palaço per la querela.”

“Oh no, magnifico missier Marco!”, si schermì il vecchio Cimavin, d’un tratto ansioso dinanzi all’aspetto scapigliato del giovane patrizio, coi lunghi ricci impiastricciati sulla fronte in un misto di sudore, polvere e sangue. Temeva, infatti, complicazioni. “Ve ghavemo zà massa incomodà. Riposatevi, zelenza, vi fazzo portar un goto di vin caldo … Màlgari! Oh, dove xéla quea puta?”

Marco lo intimò dolcemente di rilassarsi, intuendo alla perfezione la natura di quell’eccessiva sollecitudine nei suoi confronti e infatti con accorte parole rassicurò paron Jacopo il Vecchio come ovviamente si sarebbe cambiato camicia e zipone, nettato il viso e le mani e pettinati i capelli, prima di recarsi assieme in Cancelleria. “Inoltre”, aggiunse con una fugace punta di birbante malizia tipica dei giovani, “non penso sia savio divider gli sposi” e all’espressione confusa del mugnaio, indicò la stanza da letto dalla cui porta semichiusa Jacopo intravide il figlio Donado con la testa sul petto della moglie e la mano intrecciata con la sua sul ventre rigonfio. Sicuro le avrebbe elargito una bella ramanzina, ma non nell’immediato, beandosi dei cari rumori congiunti del battito del cuore di Felicita e dell’insistente scalciare del bimbo.

Onde reiterare il concetto circa il perché egli corrispondesse al miglior candidato, il giovane Contarini puntò l’indice anche ai Miani che stavano rientrando in casa, molto probabilmente per ritirarsi in camera loro, con Marco che cingeva forte Helena per la vita, stringendola a sé in un misto tra il protettivo e il possessivo.

Quanto al motivo perché la servetta tardasse a presentarsi al richiamo del padrone, hé, Jacopo non necessitava di lezioni di vita da uno sbarbatello neanche ventiduenne. Che amoreggiasse pure in cucina col suo spasimante, purché questi se lo tenesse ben dentro le brache almeno fino all’approvazione del padre di lei al matrimonio.

Poi, figliassero pure come conigli, la cosa non lo concerneva.

 

***

 

Trovando la Cancelleria chiusa, Jacopo Cimavin il Vecchio andò dunque il mattino seguente alle prime luci a dolersi e lo fece a gran voce con toni foschi e drammatici, ché tutta la Piazza da fuori il Palazzo udisse e giudicasse se fosse mai possibile che un cittadino onesto come lui, che sempre le sue 30.000 staie alla Signoria le aveva consegnate puntuale, che pur il sangue la sua famiglia per gli interessi di Venezia aveva offerto, che aveva contribuito all’abbellimento delle chiese e degli altari, doveva dunque, Illustrissimi Messeri, sopportare le ingiurie e le ruberie di una banda di scalzacani senza né arte né parte, figli di mille padri usciti dai più squallidi tuguri veneti, bergamaschi e romagnoli.

Il coadiutore, torcendosi le dita, avendo trascritto ogni singola parola della querela la passò all’auditore sier Piero Antonio Morexini, il quale scosse il capo esclamando: “Ah, mi no, eh! Mi no!”, la cedette al cancelliere criminale che grugnendo un “Manco morto!”, la sbolognò al podestà stesso sier Andrea Donado che senza neanche aprirla la mise sulla scrivania di un perplesso sier Zuam Paulo Gradenigo, il quale, leggendola infine, con calma assassina aveva intimato che si determinasse a quale compagnia quei farabutti appartenessero e che, scovati ladri e refurtiva, essa venisse restituita immediatamente ai Cimavin. Tra le varie magagne che l’assillavano, al Provveditore  mancava soltanto che da Venezia e da Padova gli arrivassero perfide lettere inquisitrici, sul perché non giungesse la farina da Treviso, onde sfamare la popolazione e le truppe.

Sier Zuam Paulo digrignò i denti e spezzò in due una penna alla notizia che si trattava degli uomini del Batagin Bataja.

“Quel bauco! Testa-da-bigoli! Non capisce, quell’immane deficiente, che dopo aver compreso quant’è facile picchiare i soldati, quegli spiritati dei Trevigiani potrebbero ribellarsi e farci gran danno per via della Madona Granda?”,  si lamentava furibondo. I capitani Vitello Vitelli e Renzo di Ceri gli avevano riferito degli sfacciati assenteismi dei cittadini precettati ad affiancare i guastatori, adducendo tutti un gran mal di pancia e già il Gradenigo si figurava davanti ai Dieci a giustificarsi sul motivo per cui a Treviso, invece di badare alla difesa, si sedavano insurrezioni popolari.

E forse perché aveva continuato a parlare da solo ad alta voce per l’intera mattinata, che sua moglie madona Maria Malipiero Gradenigo aveva invitato a pranzo tutti i patrizi giunti alla difesa di Treviso, con le loro mogli se appresso, acciocché il provveditore potesse distrarsi dai mille progetti su come meglio vivisezionare l’indisciplinato capitano di ventura.

Il saggio piano della nobildonna funzionò: dopo che il podestà sier Andrea Donado ebbe elargito un bonario predicozzo a sier Marco Miani e a suo nipote Marco Contarini (che ancora si rifiutava di soggiornare a casa sua), la conversazione verté sulla triste notizia della morte del governatore domino Lucio Malvezzi, spentosi a Padova come confermato dal provveditore sier Polo Capello.

“Il corpo del governatore il signor Lucio è stato sistemato in un deposito lì a San Benedetto, senza far altre esequie”, terminò di narrare sier Piero Loredan q. sier Alvixe.

“Perché?”, domandò incuriosito il figlio del podestà, Nicolò Donado.

“Ecco … perché lui è morto di … di … ”, e si schiarì sier Piero la gola a disagio , scoccando occhiate imbarazzate alla madre del giovane, madona Francesca Gradenigo Donado, a madona Maria, le sorelle Elena e Chiara Spandolin, Orsola Malipiero da Canal e le altre patrizie lì presenti, che ascoltavano attentissime quanto gli uomini.

“Con pessima fama!”, gli venne in soccorso sier Lodovico Querini q. sier Jacomo, terminando per lui la frase e sier Piero gliene fu infinitamente grato.

“Zoè?”, aggrottò la fronte Maria Malipiero Gradenigo e gli uomini lì presenti si mossero inquieti sulle sedie, incapaci anche solo di pronunciare “malfrancese” dinanzi ad una matrona tanto rispettata e virtuosa. Ignoravano, poveretti, che la patrizia li stava stuzzicando apposta ché la sapeva più del diavolo, avendo viaggiato in lungo e in largo fin dove aveva potuto assieme al marito.

“Il Senato ha già appuntato un vice-governatore?”,  s’informò sier Alvixe da Canal q. sier Lucha, deviando abilmente il discorso tra il sollievo generale. “No sia mai che l’esercito rimanga senza un comandante, allo sbaraglio”, aggiunse.

Rispose sier Piero Gradenigo q. sier Anzolo: “Uno dei favoriti parrebbe il conte Bernardino Fortebraccio.”

“Com’è costui?”

“Ah, fedelissimo per quello!”, lo rassicurò quell’altro. “Purtroppo, i rettori e i provveditori lo devono ancora confermare, quindi per ora nulla d’ufficiale.”

“Pulito!”

Sier Sebastian Badoer q. sier Jacomo si rivolse a sier Zuam Paulo: “Corrisponde al vero la voce, che il Gran Maistro de Millan ha inviato un trombetta alla Signoria, onde assicurarsi che i suoi uomini nostri prigionieri siano ben trattati?”

Un risolino generale si diffuse nella sala e sier Zuam Paulo arrossì violentemente, tanto che la cicatrice al collo risaltò bianca sulla pelle scarlatta. Lanciò un’occhiataccia malevola a sier Lunardo Zustignan, il quale giocò al nesci, continuando a mangiare ineffabile il suo petto d’anatra muta, ma con un sorriso sornione sulle labbra.

La storiella di come il provveditore Gradenigo avesse minacciato di sodomizzare con un attizzatoio rovente il segretario di La Palice, dopo che questi a sua volta gli aveva promesso di violare alla fiorentina la sua virtù, non era rimasta a lungo segreta nelle stinche dietro a Palazzo dei Trecento e adesso che il governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours negoziava con la Serenissima per un trattamento più umano verso i suoi prigionieri, essa aveva suscitato non poche ilarità a Palazzo. Sebbene, gli stessi Veneziani avevano dovuto dare un freno alle spicce maniere dei Trevigiani, i quali, per risparmiare cibo e tempo, avevano l’uso di strangolare i prigionieri nelle carceri, seppellendo poi frettolosamente nelle fosse comuni.

Che tale sinistra pratica fosse giunta fino a Milano, alle orecchie del duca Gaston? In ogni modo, sembrava quasi che al francese, rimuginando sulle parole del Trivulzio a Louis XII, fosse sorto qualche scrupolo di coscienza e non per la benefica influenza del Chevalier de Bayard bensì perché ancora gli doleva la mascella alla notizia di come quel diavolo d’inferno di sier Ferigo Contarini in un colpo solo gli avesse sottratto tutti i rinforzi inviati da Milano, sebbene il giovanissimo duca millantasse coi suoi di non darsene pena. In realtà, temeva grandemente di non rivedere più né i suoi soldati né i suoi capitani e la notizia di come il milanese Aloisio Ferrer avesse disertato per passare a San Marco non lo aiutava certo a dormire tranquillo la notte, timoroso com’era di sfigurare davanti allo zio il Re di Francia.

“Domani o dopodomani manderemo un’ambasciata a La Peliza, assicurandolo che questa guerra la combatteremo da gentiluomini”,  e sier Zuam Paulo roteò scettico gli occhi, non credendoci manco lui. “Ancora sono indeciso se inviare il signor Alfonxo dal Mutade o …”

“Ah, eccovi infine!”

Un silenzio di tomba calò nella sala, i commensali pietrificati manco fosse entrata in quel momento Gorgone Medusa. L’unico a scattare in avanti convulsamente fu Marco Miani, subito trattenuto da Marco Contarini per il braccio.  Madona Helena si morse bellicosa il labbro inferiore ancora gonfio, gli occhi torvi.

Ludovico Battaglia da Cremona -  o come lo chiamavano tutti il Batagin Bataja - era marciato dentro con la decisione di chi vuol raddrizzare un torto subìto, ignorando i timidi richiami del famiglio del Gradenigo, che gli ricordava come almeno a pranzo lo si lasciasse tranquillo.

“Nicolò”, sussurrò il podestà sier Andrea al figlio, “di grazia accompagna nella stanza accanto la siora tua Mare e le altre madone.” Annuendo, il giovane si alzò cauto dalla sedia e, mormorata velocemente qualche parolina alle dame, offrì il braccio onde condurle nella stanza accanto, lontano da situazioni indiscrete che, a giudicare dai volti lividi di ogni astante, non sarebbero mancate a scoppiare in tutta la loro prosaica virulenza. 

“Sior capetanio Ludovico, l’aspetabam en Canceleria dopodisnà (pomeriggio, ndr.)!”, lo salutò gelido sier Zuam Paulo Gradenigo, rimanendo ben seduto all’ingresso del capitano e parlando in veneziano ché ormai l’uomo lo capiva assai bene.

“M’avé mandà a ciamar per parlar e qua sun!”, replicò altrettanto altezzoso il Bataja.

“Saveu perché?”

“Siorsì”, replicò sfacciato il condottiero, al che Gradenigo lo rimbeccò accigliato:

“E vi paiono azioni degne di voi? Forzare il granaio d’un onesto cittadino, rubare l staie destinate a Veniexia e Padoa? Picchiare delle donne indifese?”

“Non è stata un’idea mia, bensì dei miei soldati.”

“Ch’è assai peggio!”, sentenziò perentorio il provveditore. “Un capitano che non riesce a farsi obbedire dai suoi uomini non vale un bel niente!”

Batagin Bataja impallidì dalla collera. “Sono due mesi che le paghe non arrivano! Non posso certo mantenerli a ciance e promesse!”

“Così hanno ben pensato di risarcirsi da loro”, mormorò sogghignando sier Alvixe da Riva di sier Bernardin a suo fratello sier Vincenzo, che annuì ridendo malevolo, guardando ben in faccia il capitano di ventura mentre lo faceva.

“Donca?”, infierì serafico il provveditore. “I vostri uomini non mangiano? Non bevono? Non hanno un tetto sopra la testa e un letto dove dormire? Sono forse maltrattati?”

Il condottiero sbuffò sardonico. “La paga vostra e dei vostri patrizi sì che arriva, e anche puntuale! Magari la prelevate dalla nostra!”

Un’esclamazione di puro sdegno si levò a quella vituperazione e più d’un gentiluomo s’alzò bruscamente, pronto a reclamare la sua libbra di carne.

“A noi date del ladro?!”

“Ciò, il bue che dà cornuto all’asino!”

“Senti che sproposità, che linguaccia bugiarda!”

Con un deciso gesto, sier Zuam Paulo li invitò a calmarsi. “I gentiluomini qui presenti sono tutti a proprie spese” e i sopracitati convennero in un minaccioso borbottio.

Bataja rise sprezzante. “Ah sì? E di quanti? Cinque? Dieci uomini? Sapete quanti ne ho io da pagare, razza di tirchiacci? Centotrenta!”

“Eh!”

“Oh!”

“Troppi complimenti!”

“I miei balestrieri a cavalli ed io rischiamo ogni giorno la vita, mentre voialtri ve ne state tranquilli al caldo a bivaccare ed ingrassare!”

“Ma dove? Ma quando?”

“Se sté tutto el zorno a gratarve la panza!”

“Avete rifiutato di cavalcare a Conegliano! Non negatelo!”

“Calmeve, de diana!”, sibilò il podestà, incominciando a sudare freddo dinanzi al nervoso scalpitare dei patrizi più giovani, paonazzi in volto. “Non ci troviamo in osteria!”

E voi sior Provedador?“, infieriva invece Ludovico Bataja, sordo ai richiami pacificatori di sier Donado. “Che mi dite dei vostri ottanta ducati mensili?”

“Vi dico, signor capitano, che io compio il mio dovere!”

“Ed io il mio!”

Una risata crudele e cattiva commentò l’ultima affermazione del Bataja, attirando su di sé l’attenzione degli astanti che si voltarono verso il suo proprietario. “Sicuro! Scappando a gambe levate!”, lo sfotté inclemente sier Marco Miani, abbandonandosi mollemente sulla sedia e la tensione salì alle stelle, ben consci dei sentimenti che animavano il patrizio nei confronti del Bataja.

Senza scomporsi pur rimanendo un poco turbato, il condottiero inquisì falsamente cordiale: “Avete forse qualche pensiero da condividere, sier Marco?”

“Jo? Gnente!”, ribatté a tono l’uomo, indicandosi teatralmente. “Domandatelo a mio fratello, canaja!”, ringhiò, aumentando così all’improvviso il volume della voce, che non in pochi sobbalzarono sorpresi.

“Chi? Quel puto?”, gli fece eco il Bataja, sovvenendosi grazie ai lineamenti di Marco dell’ex- castellano di Castelnuovo e delle sue tremende sfuriate, proferite con mirata malizia da quell’ancora imberbe ragazzo eppure dalla mano già pesante e dal carattere impulsivo e violento, gran nemico della pazienza e del tutto inesperto su come trattare i sottoposti.

“Sì, che voi abbandonaste al nemico, fio-d’on-can!”

“Io m’ero offerto di ripiegare a Cividal di Belluno o a Feltre, ma credete che quel testardo di sier Hironimo m’abbia ascoltato?”, s’affrettò a giustificarsi il condottiero, notando il pericoloso tamburellare delle dita di Marco, le nocche gonfie e sbucciate, le artefici dei lividi sulle facce dei suoi uomini.

“Puoah, balle di musso!”, s’intromise sier Lunardo Zustignan tra i due contendenti, aprendo una cartella di cuoio ed estraendo un foglio di carta. “Sier Nicolò Balbi, avanti la resa di Cividàl di Belun, ci ha riferito come la perdita di Castel Novo di Queer sia imputabile a voi e alla vostra vigliaccheria!” , gli riferì perfido, sventolandogli sotto al naso la lettera dell’ex-podestà di Belluno, prima della capitolazione della città e della sua fuga precipitosa assieme al resto della popolazione fedele a San Marco.

Al che, capendosi in trappola e messo alle strette da quell’improvvisata commissione inquisitrice, Batagin Bataja s’infuocò, mulinando furioso il braccio: “Basta! Sangue di Cristo, ché mi lascio insolentare da un ciapo (banda di animali, ndr.) della vuostra sorte?! Io non son schiavo dei Veneziani! Vedetevela da soli, arrangiatevi coi Francesi e i Tedeschi! Di voialtri mi lavo le mani!”

“Come se avessimo bisogno di un tal impiastro!”, rimarcò sferzante sier Lunardo Zustignan. “Anzi, pure ci imbarazzate davanti al nemico! Traditore e spergiuro!”

“A me date del traditore e dello spergiuro, quando vostro zio Marin Zustignan venne esiliato per spionaggio?”

Sier Lunardo, impallidendo di colpo e battendo irato un pugno sul tavolo, ruggì: “Non fu mai una spia! Il suo unico peccato fu di fidarsi ciecamente di suo cugino il vescovo di Brexa, don Lorenzo Zane! Gli aveva chiesto ospitalità per la notte, dicendo che doveva consegnargli una lettera da Trevixo! Che ne sapeva, che stava accogliendo un traditore in fuga?! E comunque”, sputò lividissimo, “furono tre anni d’esilio dai consigli segreti, mica da Veniexia!”

Ma il Bataja, forte di tal vittoria, calcò la mano nelle accuse: “Si vocifera che a Trevixo ci sia una spia, che fornisce informazioni a La Peliza … Sior Provedador, vi siete mai premurato di controllare la corrispondenza della siora vuostra mojer, madona Maria? Ella era la figlia di sier Jacomo Malipiero, o sbaglio?”

Accennava il condottiere ad un triste avvenimento svoltosi nel 1478: sier Marco Corner aveva appreso dall’ambasciatore a Roma sier Jacomo de Mezo, come il conte Girolamo Riario – e suo zio il Papa con lui  - fosse fin troppo informato di quanto avveniva nel Consiglio dei Pregadi; sicché, non essendo il Riario di grande ingegno da tener la bocca chiusa sulle sue fonti, il Consiglio dei Dieci aveva dato ordine d’arrestare il padre di madona Maria, il senatore dei Pregadi sier Jacomo Malipiero q. sier Dario e il cognato di lui, il dottore e cavaliere sier Vidal Lando. A lungo interrogati e torturati, i due confessarono ai Dieci la lista completa degli altri informatori implicati, tra cui figurarono appunto gli zii materni di madona Gradenigo, sier Andrea e Alvixe Zane e don Lorenzo Zane q. sier Polo, quest’ultimo vescovo di Brescia. Sier Marin Zustignan q. sier Pancratio, zio di sier Lunardo, era stato suo malgrado coinvolto in quel fattaccio poiché, ignaro di ogni cosa, aveva ospitato nella sua casa a Murano il Vescovo fuggitivo verso Cesena. Per questo, ci si limitò ad escluderlo per tre anni dai consigli segreti di stato, per non aver posseduto la prontezza di spirito (o il sospetto) di denunciare il cugino non appena questi aveva varcato la soglia di casa sua, avvertendo i Dieci, i quali trovarono imperdonabile che sier Marin li avesse notificati il giorno dopo, quando questi aveva finalmente capito l’imbroglio, leggendo la lettera. Tutte codeste spie furono severamente punite, in primis sier Jacomo Malipiero, esiliato a vita ad Arbe e pure gli si era piazzata una taglia di cinquecento ducati, semmai avesse tentato di rientrare a Venezia con qualche sotterfugio o con la forza. Ironia della sorte, fu proprio Girolamo Riario (sicuramente istruito dallo zio Sisto IV) ad ottenere la grazia per il vescovo don Lorenzo, quando giunse in visita nel 1481.

Sier Zuam Paulo Gradenigo  odiava sentir rivangato quel vergognoso episodio, che per un soffio gli aveva impedito di convolare a nozze con madona Maria, all'epoca ancora sua fidanzata.

“Sior capetanio, se non avete nient’altro d’aggiungere  …”, sibilò gelido il provveditore, le dita robuste sul coltello accanto a lui e guardandolo tanto fissamente, quanto una tigre pronta a balzare sulla preda. Contrariamente a sier Lunardo – molto più giovane, quindi più suscettibile ed irruento – Gradenigo non diede alcuna soddisfazione al Bataja, giustificandosi. Invece, preferì avvertire con la sguardo il condottiere, promettendogli tacitamente una morte lenta e dolorosa semmai avesse osato insultare sua moglie tramite il padre spia e traditore.

Non replicando Ludovico Bataja, capita infatti l’antifona, sier Zuam Paulo informò l’uomo tramite un chiaro cenno di mano, che la conversazione poteva benissimo terminare lì.

Siccome però, l’ultima parola la doveva per forza avere lui, ecco che il cremonese, sporgendosi verso Marco, gli sputò in faccia velenoso: “Quanto a vostro fratello Hironimo, state di buon animo: pur di aver salva la vita, v’assicuro che non avrà esitato un sol attimo d’aprire le gambe al capitano Mercurio Bua!”

Marco Contarini, sebbene giovane e dai riflessi eccellenti, fallì miseramente di trattenere il suo furente omonimo, essendo Marco Miani balzato in avanti simil leopardo, ghermendo per la nuca il condottiere e sbattendogli poco cerimoniosamente la faccia sul piatto. Non pago, il patrizio veneziano acchiappando qualsiasi stoviglia gli capitasse per mano, la fracassò sulla schiena del capitano e, scavalcato il tavolo, lo rigirò e gli strinse le mani al collo.

 “Sier Miani, no fé!”, gli si gettarono addosso sier Alvixe da Canal e sier Nicolò Trivixan, afferrandolo cadauno per un braccio e tentando di strattonarlo via dalla sua preda.

“Tenélo fermo!”, incitò sier Zuam Paulo gli altri nobiluomini, leggermente titubanti alla vista dei loro colleghi volare per terra, scrollati via di dosso da Marco come un cane col fango, il quale, afferrato un bicchiere e spezzatolo, ne avvicinò la punta all’occhio del Bataja.

“Per la Crose Sancta, te fazzo vedar mi, che horra che xé!” [9], ruggì invasato, sennonché Marco Contarini tra uno sbuffo e l’altro riuscì ad afferrargli il polso e scansargli via il braccio, grazie ad una mossa appresa a Padova da Zitolo da Perugia. Tosto ne approfittarono sier Alvixe, sier Lodovico e i due fratelli sier Alvixe e sier Vincenzo da Riva per immobilizzare il furente Miani e costringerlo a sedersi.

Il condottiere, finalmente libero, scivolò via, la mano alla gola dove già si stavano formando le prime macchie scure. “Mi recherò a Venezia e lì starò, finché non m’arrivano le paghe!”, gracchiò, massaggiandosi la carne offesa. “E voi, sier Marco, non m’importa di chi siate parente, giuro su Dio che voi me la pagherete!”, gli promise minaccioso e Marco Miani gli mostrò bellicoso i denti, bloccato dal partire nuovamente alla carica da una secca e decisa spinta di sier Alvixe da Canal.

Sier Lunardo gl’intimò beffardo. “Sì! Andé, andé à Veniexia … a butarve in canal, in bocca alle pantegane!”

Ludovico Battaglia da Cotigliano detto Batagin Bataja gli rifilò un’occhiataccia d’odio puro, uscendo quanto più rumorosamente possibile e pure buttando per terra il povero famiglio del Gradenigo, il quale, calato infine un esausto silenzio e il pranzo oramai rovinato, dopo un gran sospiro annunciò ai presenti:

“Sia ben chiaro tutti: nella relazione al Senato, si scriva come siano volate unicamente insolenze e strane parole!”

Una volta ogni tanto, la decisione venne approvata all’unanimità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Alcuni storici sostengono che Mercurio Bua e Caterina Boccali si fossero sposati nel 1519, ma stando al Sanudo parrebbe che già lo fossero prima della guerra.  Sull'identità di questa misteriosa prima moglie gli storici non riescono a mettersi d'accordo: c'è chi la identifica appunto come Caterina Boccali figlia di Nicolò Boccali; altri come Maria Boccali sempre figlia di Nicolò oppure Maria Boccali sorella di Nicolò; altri ancora come una sorella di Costantino Arianiti Comneno. Per certo, la moglie del Bua morì nel 1524, stando alle cronache del Sanudo circa il suo seppellimento a San Biagio, la parrocchia della comunità greco-albanese a Venezia.

Per esigenze di trama e per i riferimenti ad una moglie da parte del Sanudo nelle vicende del 1511, abbiamo deciso di adottare questa versione e optato "Caterina" come nome della moglie del Bua.  La prova che i due si fossero sposati almeno prima del 1519 starebbe nel fatto che nel 1517 si tiene il battesimo del figlio Flavio Bua. Inoltre, si menziona anche un’altra figlia, rimasta però anonima, che non è da parte della seconda moglie.

La lettera riguardo il furto dal granaio e del litigio tra il Gradenigo e il Battaglia è effettivamente troppo corta per non essere sospetta, scarnissima di dettagli circa un fatto in fin dei conti assai grave. Con l’eccezione del provveditore e del condottiero, non si nomina nessun altro, neppure il derubato. Dei venti commensali a pranzo da Gian Paolo, il Sanudo riferisce che solo uno accusò direttamente il Battaglia di diserzione del campo, sebbene non si specifici se sia lo stesso che gli abbia o meno letto la lettera del Balbi. Di nuovo, neanche questo gentiluomo viene nominato ma, sapendo come Marco Miani si trovasse a Treviso, a mio parere solo lui poteva essere il meno diplomatico dei patrizi lì presenti, in ansia per la sorte del fratello e adirato col Battaglia per quell’atto di vigliaccheria che era costato la libertà al Nostro. Pertanto, considerata anche la ritirata ignominiosa del condottiero a Venezia, forse erano volati qualcos’altro oltre agli insulti ... La rissa del granaio invece è mia invenzione, però assai plausibile a causa della tensione tra civili e soldati.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

Alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] I dolci di San Martino = l’11 novembre è San Martino di Tours e si preparavano dolci a forma di medaglie fatte di mele cotogne per festeggiare il Santo.

[2] Helena Spandolin = il cognome originale di Elena era il greco “Spandounes”, venezianizzato in “Spandolin”.

[3 ] bel balconcino delle mamole = ovvero il seno delle prostitute (= mamole), gioco di parole visto che alle Carampane le prostitute si affacciavano a seno nudo alla finestra onde attirare i clienti.

[4] stua, stuèr = stufa e stufaruolo, da intendersi come i calidarium o hammam, dove si faceva la sauna a scopi terapeutici e per rilassarsi. Ovviamente, molti stufaruoli arrotondavano i guadagni mandando nelle stanzette degli avventori anche qualche prostituta, di cui erano i bertoni (= lenoni). Era un gioco molto pericoloso, visto che le prostitute a cortigiane a Venezia dovevano essere tutte registrate e vivere in determinati quartieri, con la sola eccezione di quelle sposate. Infatti, molte cortigiane si sposavano così da vivere dove e come volevano, senza incorrere in sanzioni.

[5] Ecclesiaste 1:4

[6] d’ornarsi le orecchie di due o più anelli d’oro assai grandi, assai scandalosi = a Venezia era disdicevole indossare gli orecchini, considerati gioielli più da schiave e cortigiane che da donne oneste.

[7] arconti = da "archon", intesa qui come nobiltà.

[8]  scappando come il Duca tuo compaesano = Cotignola era la città d’origine degli Sforza. Si fa riferimento alla fuga di Ludovico il Moro ad Innsbruck presso Massimiliano d’Asburgo dopo la caduta di Milano nel 1499 e paragonandola alla fuga di Ludovico Battaglia da Castelnuovo a Belluno.

[9] Per la Crose Sancta, te fazzo vedar mi, che horra che xé = per la Croce Santa, ti faccio vedere io che ora è. Questo modo di dire veneziano ha origine dall’uso di giustiziare in Piazzetta tra le colonne di San Marco e San Teodoro i criminali. L’ultima cosa che vedevano i condannati a morte era appunto la Torre dell’Orologio a Piazza San Marco, costruita nel 1496.

 

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo Sesto: 4 – 5 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il  06.09.2021

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Capitolo Sesto

4 – 5 settembre 1511

 

 

 

 

Cautamente e con lentezza estrema Hironimo si tamponò le piote, sibilando all’appiccicoso strappo del telo sulle piaghe aperte dei piedi, martoriati dall’inaspettata marcia notturna e peggiorati nonostante la completa inattività del giorno precedente. Lo stomaco gli gorgogliò altrettanto dolorante.

“Gh’aveu visto, patron? Mi veo gh’aveo dito de no schissar ee papule, ma vui no, teston pì d’un vecio musso!” (asino, ndr.)

In effetti, Thomà gli aveva suggerito di non bucare le vesciche, consiglio cui il giovane Miani s’era ribellato, già di suo innervosito per l'umiliazione d'andarsene in giro in camicia e scalzo, peggio dei villani. Ancora arrossiva ai volgari e derisori fischi d’apprezzamento della soldataglia, delle vivandiere e delle sgualdrine al loro arrivo all’accampamento di Montebelluna; perfino i prigionieri marciani – un misto tra civili, soldati e stradioti – avevano storto in disappunto la bocca, vendendolo così conciato, in mutande e con quel camicione bagnato ed aderente a causa dell’acquazzone sotto cui avevano marciato.

Unica consolazione fu però che la sua umiliazione coincideva all’unico lazzo che i franco-imperiali potevano permettersi: stando a frammenti di conversazione captati di qua e di là, nel campo incominciava a scarseggiare il pane e quel che c’era, scoprì Hironimo con suo disgusto, appariva nero come il carbone, immangiabile. Perfino Thomà, avvezzo a cibarie di fortuna, lo annusava sospettoso. Neppure battendo il territorio in continue perlustrazioni riuscivano i Collegati a scovare luoghi dove far adeguata provvista; i contadini avevano bruciato quasi tutto, inquinando i pozzi e portando gran parte del loro bestiame via con loro. Molto spesso boicottavano essi stessi i rifornimenti, assalendo le comitive nemiche nei punti più fitti del bosco e i soldati e saccomanni più fortunati rientravano al campo in camicia e mutande.

In aggiunta, l’arrivo di Mercurio Bua e della sua compagnia invece di rallegrare gli animi, li aveva ulteriormente depressi giacché il greco-albanese non solo non portava con sé bottino, ma neanche l’Imperatore Maximilian e le sue truppe come promesso. Il proclama dei Re dei Romani, poi, d’impedire ai francesi e agli stradioti d’attraversare la Piave e di fare rifornimento aveva incancrenito gli animati, sicché tra i due alleati serpeggiavano invidia e malcontento. Al che il maresciallo La Palice aveva rotto ogni indugio e inviato in gran fretta un corriere a Milano, onde premere su Gaston de Foix-Nemours acciocché anche il Re Louis si decidesse una buona volta sul da farsi ché ora più che mai le parole di Gian Giacomo Trivulzio risuonavo nella mente del francese veritiere e tremende come quelle della Sibilla Cumana.

Quanto al resto, c’era solo l’incognita dell’attesa. Intanto, si raccoglievano scale, gabbioni, barche e altro materiale bellico.

“Tasi, peocio” (pidocchio, ndr.), bofonchiò Hironimo, guardandosi infelice i piedi sanguinanti e provando a tamponarseli con un lembo della camicia. Com’era riuscito il bambino a camminare scalzo senza colpo ferire?

“Mi taso et ve saludo! Perhò no podé negar ché sembrate un San Roco …”

“Puoah, no xé vero gnente!”

Dietro di lui Thomà scosse il capo e riprese soffiargli sulle abrasioni là dove il cerchio al collo aveva sfregato inclemente. Adesso che avevano raggiunto l’accampamento, Hironimo non doveva più sopportare di reggere la palla di cannone ivi attaccata, tuttavia appoggiandola per terra significava rimanere o disteso o accovacciato col collo in avanti, i muscoli del trapezio fino ai reni indolenziti da quell’innaturale posizione, provocandogli inoltre crampi allo stomaco i quali s’andavano ad aggiungere a quelli dovuti alla fame.

Per lo meno non doveva più sopportare l’umidità, i topi e il perenne buio della cella o star dentro una gabbia improvvisata alla mercé degli elementi come gli altri prigionieri. Mercurio Bua l’aveva sistemato nella parte più retrostante del suo padiglione personale, piantando un palo dove aveva inchiodato le catene e pure brigando in modo da improvvisare una tenda separatoria con un lenzuolo, cosicché da nasconderlo in caso di visite. Lì dietro, in quello spazio limitatissimo, Hironimo poteva rilassarsi in quella poca riservatezza concessagli ma al contempo si sentiva soffocare, le orecchie tese in ascolto di un qualsiasi movimento esterno, corroso dall’ansia e i sensi di colpa a lui manifestatisi nel sonno con le facce dei suoi servitori e soldati trucidati a Castelnuovo. Più passava il tempo e più essi assumevano una sinistra nitidezza, alternandosi talvolta con altri volti e altri spiacevoli ricordi.

“Invece assomigli proprio a San Rocco!”, commentò sardonico Mercurio, intento a controllare le ultime mappe e correggendone qualche saltuaria imprecisione. “Sul serio, a volte mi sembri più delicato di una fanciulla! Forse saresti dovuto nascere femmina, gli spasimanti non ti sarebbero di certo mancati.”

Hironimo strinse gli occhi una linea sottile, bruciandogli nel petto una voglia matta di strappare a morsi il pomo d’Adamo del capitano di ventura.

Voltando sdegnoso il capo dall’altra parte, sentenziò insolente: “Non capisco, io non discorro coi Turchi”, e sogghignò all’udire l’incrinazione della penna sulla carta, nonché del profondo e scocciato sbuffo del greco-albanese.

“Perché il moccioso è ancora qui?”, abbandonò questi il tavolo, dirigendosi verso i due prigionieri. “Non mi pare d’aver detto che poteva tenerti compagnia” e puntò il bambino che pur non capendo intuì però trattarsi di lui e subito s’acquattò dietro Hironimo, fissando guardingo il capitano. “Ebbene?”

Il giovane Miani circondò protettivo Thomà con un braccio, cambiando idioma onde non agitarlo. “E me lo domandi, furbo? Visto che non mi posso neanche mettere in piedi, figurarsi muovermi, chi mi svuota sennò il pitale quando cago? Tu?”, lo sbeffeggiò ferocemente.

La bocca di Mercurio si piegò in una strana smorfia. “Io ti stacco quella linguaccia malefica e te la ficco su per il  …”, latrò e fece per allungare un braccio, sennonché, usando le catene a mo’ di frusta, Hironimo gliel’allontanò, strappando un gemito di sorpresa nell’uomo che, infuriato, lo ghermì per i capelli e …

“Capitano?”

Il luogotenente Zilio Madalo e Alessandro detto “Leka” Busicchio, altro capitano stradiota, rimasero per qualche istante lì comicamente imbambolati, temendo d’aver disturbato il loro compatriota in un momento assai intimo e delicato, ossia trasformare in baccalà  mantecato il suo prigioniero.

“Cosa c’è?”, a malincuore Mercurio abbandonò la sua presa dalla zazzera di Hironimo, che si vendicò elargendogli una gomitata allo stinco, rannicchiandosi subito dopo nell’angolo così da ergersi a scudo umano di Thomà.

“Il maresciallo e gli altri comandanti si stanno dirigendo qui. E stanno venendo con un trombetta del capitano Vitelli.”

Il Bua si voltò di scatto. “A far che?”

Zilio alzò le spalle, al che il suo capitano sbuffò snervato. Prima dell’arrivo del giovane Miani nel suo padiglione, non aveva mai avuto alcun problema ad ospitare chicchessia, dai generali alle puttane. Ora, però, non voleva nessuno, a malapena tollerava i suoi uomini. Ovunque in quel campo egli fiutava cupidigia e tradimento, sia da parte dei malcontenti francesi che degli infidi imperiali e non voleva correre il rischio che gli si rubasse quel suo prezioso bottino. Ancora non aveva digerito quell’editto di Maximilian, figurarsi se gli sottraevano ora l’ultima sua preda.

“Sta bene”, s’arrese e irritato afferrò la tenda, scostandola con malevola forza. “Sentiamo le loro signorie che han da riferirmi. E tu”, ammonì perentorio al patrizio, “vedi di comportarti saviamente.”

Da dietro il lenzuolo, Hironimo gli rispose col gesto della fica, guadagnandosi  di rimando un calcio sulla coscia.

 

***



 

Madona Maria Malipiero Gradenigo osserva nervosa il marito, mentre il suo valletto d’arme lo aiutava ad indossare l’armatura: quasi all’ultimo momento, infatti, sier Zuam Paulo Gradenigo aveva deciso, al posto del condottiero Alfonso del Mutolo, di recarsi assieme ai capitani Renzo di Ceri, Vitello Vitelli e Troilo Orsini a negoziare di persona con l’emissario del maresciallo La Palice, che il trombetta del Vitelli aveva promesso di portare con sé una volta terminata la sua ambasceria al campo nemico. E tutto ciò l’uomo l’aveva fatto annunciare con una tal fanfara che la patrizia veneziana non si sarebbe stupita, se perfino il Re di Francia lo fosse venuto a sapere.

Ora, la donna conosceva quanto il marito avesse sempre dato prova di grande coraggio, determinazione e sprezzo verso la fatica (nonché un pelino di superbia), combattendo ogni battaglia in prima fila al fianco dei suoi uomini; ma quella sua spavalderia la preoccupava, temendo che egli si fosse troppo montato la testa da non fiutare una potenziale trappola tesa dal nemico, smanioso com’era d’umiliare il La Palice dopo la rotta di Rovigo che aveva trascinato sier Zuam Paulo dinanzi al Senato, sotto processo e un anno intero senza alcun incarico. Maria gli aveva confidato la notte scorsa questi suoi dubbi, interrogandolo sulla bontà della sua scelta e tentando di persuaderlo a mandare incontro all’emissario francese qualcun altro e di poco conto in caso di cattura. Non mi fido di quei senzadio, gli aveva mormorato contro la schiena, con la scusa delle negoziazioni potrebbero imprigionarvi o uccidervi. Stranamente, Zuam Paulo non aveva contro-argomentato come sua abitudine, limitandosi a rassicurarla che conosceva bene i suoi ex-sottoposti e che non doveva angustiarsi per lui.

Poteva sul serio?, si tormentava la nobildonna, osservandogli la cicatrice bianca e ricordando come il marito l’avesse consolata a Cividale con le medesime parole, per poi ritornare semisvenuto in lettiga, con un panno scarlatto premuto al collo e versando tanto di quel sangue che ci si chiedeva come fosse riuscito a sopravvivere.

 “… si laora à le mura con solicitudine, ma non li è massa opere. El populo xé molto angarizato et le zente xé alozate a quartier, et i soldai fa di stranie cosse. Ma almancho ancuò (oggi, ndr.) se pol dir niuna baruffa”, informava il podestà sier Andrea Donado nel frattempo il provveditore delle ultime novità, intanto che sier Lunardo Zustignan prendeva velocemente nota onde informare il Senato.

“Il signor Lorenzo? Non l’ho visto da nessuna parte.”

“In letto tutto il giorno per via del malfrancese ch’affligge la sua gamba; la perdonanza, patrona”, si scusò il podestà con Maria, che liquidò la cosa con un irritato svolazzo della mano. “Stamattina s’è tuttavia rimesso e potrà accompagnarvi.”

“Come proseguono i lavori del Ponte de Pria?”

“Le fosse e la spianada sono quasi terminate, così come le chiuse a chiavica: all’occorrenza, possiamo ora deviare l’entrata dell’acqua o in città o verso le fosse. La Boteniga è stata completamente deviata per circondare completamente la città e per il Sile non mancherà molto.”

Corrispondeva quell’opera idraulica al fiore all’occhiello del piano difensivo, su progetto di Fra’ Giocondo da Verona: situato sul fronte nord delle mura, le sette poderose arcate del Ponte de Pria permettevano e regolavano l’ingresso in città alle acque del fiume Botteniga mentre un partidor, un ingegnoso sistema di arginature artificiali, permetteva la precisa suddivisione delle portate d’acqua necessarie ad alimentare i canali di Treviso, rifornire l’ingresso del Canale delle Convertite e riempire la fossa difensiva esterna. Il tutto all’ombra protettiva della mezzaluna del bastione di San Bartolomeo, posto sia difesa del fianco occidentale Porta San Tomaso sia, dalla parte opposta, a copertura del Ponte de Pria.

“Bon, cussì me garba”, approvò Gradenigo. “Di grazia, riferite ai capitani che a breve li raggiungerò. Ah”, si sovvenne all’ultimo, richiamando il collega, “che sia raddoppiata la guardia su tutto il fronte nord delle mura, da Porta San Tomaso fino al torrione di Santa Sofia.”

“Ma i nostri esploratori hanno detto che il la Peliza attaccherà a sud!”

“Sì, ma non oggi né domani”, replicò sibillino il provveditore.

Il podestà sier Andrea Donado annuì pur non comprendendo perché proprio a nord dovessero rafforzare la guardia visto che le spie riferivano le mura sud come piano strategico del maresciallo francese; tuttavia, confidando nell’esperienza militare del concittadino, s’affrettò assieme a sier Lunardo Zustignan di recarsi a fornire ai soldati le ultime istruzioni del provveditore.

Rimasto dunque solo con la moglie, sier Zuam Paulo cercò perplesso la spada, sussultando nel trovarla ben stretta dalle piccole e fini dita di madona Maria, che avvicinandosi a lui gli puntò contro gli occhi battagliera.

“Voi siete un gran testone, un orgoglioso, uno sventato.”

“Mo via, mojer, no credo che …”

Maria lo interruppe bruscamente. “Però siete anca un uomo di parola e di grandissimo cuore, sempre avete portato a termine gli obiettivi vostri e della Signoria”, gli rammentò e incorniciatogli il volto tra le mani, gli elargì un breve e deciso bacio. “Zuam Paulo, per i nostri figli, che non restino senza il loro sior Pare, giuratemi sì di farvi onore ma anche di tornar vivo e in un sol pezzo.”

Un poco commosso e un poco stralunato, il patrizio annuì piano, accarezzandole affettuoso i morbidi capelli sotto la cuffia di seta; all’improvviso, tenendola delicatamente per la nuca, ricambiò il gesto della moglie, baciandola col medesimo ardente trasporto di quando l’aveva posseduta alla loro prima notte di nozze trentadue anni addietro.

“Mojer”, le soffiò sulle labbra arrossate. “Non angustiatevi per me, bensì per quei disgraziati che s’avvicineranno troppo a Trevixo …”

Allora Maria Malipiero Gradenigo comprese.

 

***

 

 

“… così, su richiesta del governatore e Gran Maestro di Milano, l'illustrissimo messire duca Gastone di Foix-Nemours, la Signoria Nostra ha acconsentito di condurre questa guerra da buoni soldati; che in caso di cattura di saccomanni, famigli o fanti, sotto giusto pagamento del riscatto noi garantiamo che li si lascerà andare, senza muover alcun torto sulla loro personaSimilmente da voi vien richiesto medesimo cordiale e ragionevole atteggiamento.

Jacques de Chabannes de La Palice, Gran Maestro di Francia, terminava così di leggere la missiva del provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo e consegnatagli da un emissario della compagnia di Vitello Vitelli, tal Michele da Brisighella, appena giunto all’accampamento di Montebelluna.

“Sicché quando possiamo attenderci il ritorno dei nostri prigionieri?”

“Quando disporrete del danaro per il riscatto.”

“E quando possiamo attenderci il vostro, di danaro?”

“Quando vi deciderete di rilasciare i nostri, di prigionieri.”

Con la scusa di voltarsi a meditare, La Palice scoccò una velenosa occhiata a Mercurio Bua, che arcuò incurante un sopracciglio: nonostante fosse trascorsa ormai più di una settimana dalla caduta di Castelnuovo di Quero, ancora il greco-albanese si rifiutava di cedere l’ex-castellano e di nominare o una cifra per il suo riscatto o un nome per lo scambio. In aggiunta, a causa del crescente numero di prigionieri marciani catturati per merto o per caso, la prospettiva di diminuire le bocche da sfamare e pure incassare profitti non appariva malvagia, calmando gli animi irrequieti dei soldati, che scalpitavano d’attraversare la Piave per far razzie nella Patria del Friuli.

“Li avete visti fuori, nelle gabbie”, tergiversò cauto il francese. “Tutti coloro che abbiamo preso.”

Il trombetta abbozzò ad un sorriso furbo. “C’è un volto che ancora non ho intravisto e in parecchi a Treviso desidererebbero ottenere più dettagli sulla sua attuale condizione.”

Al che Mercurio s’intromise, inquisendo falsamente apprensivo: “E chi domanda di lui? La mogliera?”

“Il fratello”, rispose spassionatamente Michele da Brisighella, per poi rivolgersi al maresciallo: “La Signoria è al corrente di come molti dei vostri comandanti siano caduti suoi …”

“Il maresciallo monseigneur La Palice non può in alcun modo decidere della sorte del N.H. sier Miani”, l’interruppe bruscamente il Bua, non garbandogli la piega che stava prendendo quella conversazione, portandosi anzi davanti alla tenda alla stregua d’un feroce can da guardia. “Fui io a catturarlo e se si vuole negoziare della sua liberazione, che sia con me e me soltanto!”

In altre circostanze, una persona qualsiasi si sarebbe ingobbita sulla difensiva dinanzi a quella portentosa aggressività. Invece, il trombetta apparve sospettosamente compiaciuto di quello scatto di nervi.

“Indubbio. Per questo ed altre questioni, il magnifico provveditore generale di Treviso, il signor Gian Paolo Gradenigo mi ha incaricato di portare tramite emissario la vostra risposta, nonché la vostra adesione ai desideri del duca e governatore di Milano, l’illustrissimo Gastone di Foix-Nemours, nipote del Re di Francia.”

“Il provveditore desidera che tu ritorni assieme ad un nostro messo?”

“Corretto.”

“Chi ci assicura che non lo catturerete, magari torturandolo?”, s’informò invece assai scettico Artus Gouffier, signore de Boisy e duca di Roannez. “Sappiamo come chi finisce prigioniero a Trévise, da lì non ritorna se non in bara!”

“I magnifici messeri miei capitani ci verranno di persona incontro, a dieci miglia da Treviso in direzione Porta Altinia … sud”, si lasciò sfuggire Michele, mordendosi colpevole il labbro inferiore, proseguendo poi in fretta: “In questo modo il vostro uomo avrà ogni occasione di fuggire. Saranno portati lì anche i vostri soldati, se avrete i danari pronti per la taglia.”

“Questo quando?”

“Se riparto adesso, giungeremo anche oggi istesso a Treviso.”

“E il provveditore lo sa?”

“Sa tutto.”

Il maresciallo La Palice rilesse meditabondo la missiva di Gradenigo, cercando una falla in essa, un qualsivoglia indizio d’inganno. Il francese ben era al corrente dei recenti scrupoli del Foix-Nemours, specie dopo la rotta di Marostica, e in fin dei conti l’accordo sancito con la Serenissima non suonava insensato e svantaggioso. Senza contare che nelle stinche di Treviso languivano due suoi caposquadra che al maresciallo avrebbe fatto comodo riavere indietro, preferibilmente vivi.

“Sia”, acconsentì, ripiegando la lettera. “Segui i qui monseigneurs Jules de Saint-Séverin e Galéas Pallavicino: ti porteranno dal tuo compagno di viaggio. Quanto al provveditore e ai tuoi capitani”, aggiunse La Palice, scribacchiando e firmando un messaggio di risposta, “puoi confermare che siamo qui a compiere la volontà del nostro governatore e della vostra Signoria, ossia che questa guerra verrà condotta da gentiluomini.”

Michele da Brisighella abbozzò ad un inchino e pigliando la lettera uscì dal padiglione assieme a Giulio Sanseverino, fratellastro del Gran Scudiero, e al marchese di Busseto Galeazzo Pallavicino, non senza aver lanciato una fuggevole occhiata al lenzuolo steso davanti al quale ancora vigilava Mercurio Bua, le braccia conserte e arcigno in volto.

Un pesante silenzio calò nel padiglione.

“Cosa ne pensate?”, s’espresse per primo de Boisy. “Manterranno la parola?”

Soffrey Alleman, signore du Molard e barone d'Uriage, alzò a mo’ di resa le spalle. “Né loro né noi abbiamo scelta, così è stato accordato tra la Serenissima e il nostro duc de Foix-Nemours, a tutti noi non resta che obbedire.”

“Comunque sia, meglio non sbilanciarci coi riscatti: pagheremo solo quelli strettamente necessari, casomai proporremmo degli scambi -  di veneziani e stradioti ne abbiamo a sufficienza”, disse La Palice. “Ci sono questioni più pressanti cui pensare: l’artiglieria non può viaggiare in queste strade melmose, né attraversare i boschi pieni zeppi di contadini pronti a tagliarci la gola. Dell’Empereur Maximilien e dei rinforzi tanto promessi neppure l’ombra e malgrado abbia dato ordine d’impiccare chiunque attraversi la Piave, i tedeschi del capitano Jacob tuttora sfidano la mia autorità. Il pane scarseggia e se non fosse per i conti di Collalto, che ci riforniscono in gran segreto, a quest’ora ci sarebbe già stata una rivolta. Ah, e non scordiamo la più bella delle notizie: il provveditore generale André Grit parrebbe esser guarito dalla febbre e tosto rientrerà a Padue, onde riprendere l’ufficio e incontrare il nuovo governatore. Jean Gonzaga ancora non si decide a muoversi da Vicenza. Da Bayard a Ferrara ci giungono sempre meno missive e ci metterei la mano sul fuoco che dietro c’è lo zampino di quel satanasso di Frédéric Contarini. Ci stanno isolando e più indugiamo in questo pantano, meno chances avremo di vincere!”, concluse, battendo snervato il pugno sul tavolo.

Sia du Molard che de Boisy convennero gravemente.

Timeo Venetianos et dona ferentes”, sentenziò ad un tratto Mercurio Bua. “A forza di brigare in Levante, son divenuti infidi come i Turchi. Non conterei sulla costanza della loro parola, men che meno di quella di Zuam Paulo Gradenigo che non fa nulla senza un tornaconto personale.”

“Dite piuttosto, che ancora vi brucia l’esser stato pubblicamente da lui rampognato, quando egli era comandante degli stradioti e vostro superiore. Ah, e non scordatevi di Lorenzo Orsini degli Anguillara, che anche lui vi sconfisse sul campo!”, lo derise Teodoro Trivulzio, nipote di Gian Giacomo Trivulzio e antico compagno della famosa battaglia del Garigliano tra Spagnoli e Francesi, al che il greco-albanese gli elargì di rimando un sinistro sogghigno, per poi proseguire:

“Io propongo d’attaccare. Adesso che Gradenigo, Vitelli e i due Orsini sono fuori Treviso. Il trombetta ha detto che s’incontreranno in direzione sud, Porta Altinia? Perfetto, noi attaccheremmo da nord, a Porta San Tomaso!”

“E con che, sentiamo?”, puntualizzò scettico Soffrey du Molard, “non possiamo trasportare i cannoni per via della pioggia e del fango. Pensate d’arrampicarvi come scimmie sulle mura?”

“Restano pur sempre mura antiche …”, spezzò Artus de Boisy una lancia in favore del Bua. “Possono averle soltanto rinforzate, costruirne in poco tempo delle nuove è materialmente impossibile. Inoltre, bisogna considerare le abitazioni a ridosso delle mura scaligere e fuori città, così come i piccoli borghi limitrofi di Fiera, Melma, Santa Bona … Basterà occuparli, tagliare loro ogni via di comunicazione e da lì, via fiume, far arrivare l’artiglieria. Saranno loro, quelli isolati.”

Era stato quello il punto debole del Dominio di Terraferma: terminata la signoria delle famiglie locali e sotto la vigile egida di San Marco, le città venete non avevano per anni più avuto ragione di temere attacchi esterni, godendo di una pace impensabile rispetto agli Stati limitrofi e pertanto le loro difese si presentavano arcaiche e inadatte alla nuova guerra. Treviso non versava in una situazione tanto diversa, salvata solo dalla fortuna di trovarsi in una valle fluviale insidiosa ma per il resto, anche tentando disperatamente di modernizzarsi, non avrebbe mai e poi mai portato a termine un’impresa così titanica.

“Le mura ormai fungono da decorazione, la città si è espansa fuori di essa e non riusciranno in tempo ad evacuare gente e roba. E di certo non bombarderanno i civili. In questo modo, otteniamo alloggi, viveri e scudi umani”, terminò il greco-albanese, mostrando il tragitto a La Palice e gli altri comandanti. “Maresciallo, il vostro piano di attaccare a sud può tuttora considerarsi valido; ciononostante, se Gradenigo, Vitelli e Orsini hanno deciso di parlamentare proprio lì, significa che sospettano un nostro attacco e pertanto avranno raddoppiato la guardia, anche per evitare di venire a loro volta o catturati o uccisi.”

“Di conseguenza, il fronte nord rimarrebbe sguarnito e facilmente occupabile …”, concluse Teodoro Trivulzio. “E’ audace come piano, capitano Bua, ma avventato. Troppe incognite, non sappiamo neppure con precisione la morfologia attuale di Treviso. E se vi sbagliaste? Potreste finire catturato e noi non possiamo permetterci alcun passo falso, non ora che non abbiamo il supporto immediato né dell’Empereur né del Roi!”

Mercurio arricciò furbescamente l’angolo della bocca. “Ho il mio angelo custode in questo inferno, signor Teodoro. Mi scamperà lui dalla prigionia”, e rivolgendosi all’ancor dubbioso La Palice. “Quanto al pane, abbiamo i mulini di Castelfranco: mandate lì a macinare la farina. Ci vorrà più tempo, però quantomeno smetteremo una buona volta di addobbare di Tedeschi i rami degli alberi.”

Giulio Sanseverino e Galeazzo Pallavicino entrano nel padiglione. “Il trombetta sta per lasciare il campo col nostro emissario.”

“Gli sono stati dati i danari per il riscatto dei nostri caposquadra?”, s’accertò La Palice.

“Sì, certo.”

Il maresciallo serrò le labbra. “La vostra fama mi è nota dai tempi di Fornoue, capitaine Bua, e so che voi non elargite suggerimenti, bensì esponete decisioni già prese. Avete il mio permesso d’attaccare Trévise secondo il vostro piano, ma” e alzò la mano onde interrompere il greco-albanese, “con la vostra compagnia e nessun altro. Se fallirete, codesto fiasco sarà imputabile a voi e a voi solo. Perciò pregate che il vostro angelo custode valga abbastanza agli occhi della Serenissima per accordarvi la liberazione” e rivolto a du Molard e de Boisy: “Quanto a noi, alle prime luci dell’alba calcheremo ininterrottamente fino a Vicenza: poiché Jean Gonzaga non vuol venire con le artiglierie, saremo noi ad andar da lui a prendercele. Dovesse funzionare la strategia del capitano Bua, in meno di sette giorni saremo sotto le mura di Treviso.”

“Contro quelle bellezze ferraresi non avranno speranza alcuna di resistere all'assedio”, commentò sornione du Molard. “Due anni e mai conquistata. Sarà un piacere mettere Trévise al sacco …”

 

***

 

 

Etienne de Toulouse, il trombetta scelto dal maresciallo de La Palice, cavalcava dubbioso e guardingo assieme agli altri cinque suoi compagni, circondati da ogni lato dai laconici soldati marciani: pur non conoscendo bene il territorio, ad occhio e croce poteva affermare che non si trovavano a dieci miglia da Porta Altinia e che quel casolare dai muri ricoperti di fango fin quasi al secondo piano e in esso mezzo sprofondato di certo non era Treviso.

Michele da Brisighella arrestò la marcia della silenziosa comitiva, scendendo da cavallo. “Vieni”, invitò il francese a scendere tramite ampi gesti, affinché supplissero all’incomprensione di due idiomi simili ma non troppo. “Ah! E fai attenzione al …”

Un suono gutturale, che ricordava il suggere ingordo di un affamato intento a trangugiare una zuppa, interruppe il brisighellese e strappò contemporaneamente gridolini di sorpresa al tolosano e i suoi compari: non appena, infatti, essi avevano appoggiato i piedi nel terreno melmoso, ecco che affondarono fin quasi al ginocchio e per poco non ci lasciarono le scarpe e parte delle calze a causa di quella morsa fangosa.  

Etienne aprì sconvolto la bocca, cercando in Michele una risposta a quel fenomeno da palude marcia, non della terra fertile da Paese della Cuccagna descrittagli dai superiori. Il soldato del Vitelli, invece, si limitò a scrollare beffardo le spalle, conducendolo dentro il casolare là dove l’attendevano sier Zuam Paulo Gradenigo e i capitani Renzo di Ceri, Troilo Orsini e Vitello Vitelli.

Immediatamente, Etienne li salutò con un complicato svolazzo alla francese, che provocò una scintilla di ilarità negli astanti.

“Meno male”, commentò ironico il provveditore ai condottieri, “stavolta ce ne hanno mandato uno di buone maniere!” Dopodiché istruì l’interprete di tradurre le dinamiche dell’accordo tra la Serenissima e il governatore di Milano, nonché di discutere le modalità di pagamento del riscatto dei prigionieri francesi.

“Soltanto due caposquadra?”, fece un poco deluso Renzo di Ceri. “Pensavo che il tirchio in questa guerra fosse Massimiliano, non il La Palissa.”

“Forse conta di liberarli da sé, gli altri prigionieri”, gli spiegò sottovoce Vitello Vitelli.

La bocca del laziale s’arricciò perfida.

Qu’est-ce que cela signifie, que ce soir on va dormir ici?”, esclamò  ad un certo punto un indignato Etienne all’interprete, il quale, serafico, gli aveva tradotto le disposizioni del Gradenigo ovvero che la liberazione dei due caposquadra sarebbe avvenuto l’indomani mattina: oramai la sera era calata e la strada troppo pericolosa per un francese a zonzo da solo per la Marca, non sia mai che il vostro maresciallo possa sospettarci di spergiuro, dovesse accadervi qualcosa di assai spiacevole …

Inoltre, che i signori qui stessero di buon animo: gli ottimi soldati del capitano Vitelli li avrebbero tenuto eccellente compagnia assieme all’interprete, così da divenire tutti amici e cicalare senza disturbo alcuno in quel casolare a mezzo miglio da Treviso.

Quoi?”, si voltò disorientato Etienne verso i suoi compagni altrettanto increduli. “Mezzo … miglio?”

Com’era possibile? Se erano in piena campagna, circondati dal nulla! Non potevano essere così vicini senza aver scorto neanche un villaggio o case e …!

A meno che …?

 

***

 

 

Appena giudicò esserci abbastanza luce da distinguere le forme davanti al proprio naso, Mercurio Bua scese dalla branda per prepararsi alla lunga cavalcata che l’attendeva, scegliendo accuratamente quale armatura indossare e quali armi portarsi appresso, il giusto equilibrio onde evitare sia di combattere troppo leggero e vulnerabile sia di perdere l’effetto sorpresa. Anche i padiglioni di La Palice, de Boisy e Giulio Sanseverino erano illuminati, segno che sarebbero partiti pure loro quello stesso giorno, ma diretti a Vicenza.

“Così te ne vai?”

“Ti dispiace?”

“Stimo nulla.”

In certe occasioni, quel veneziano inquietava il condottiere, non avendolo visto negli ultimi giorni né mangiare né dormire (contrariamente al puttino accanto a lui, una vera e propria bestiola facilmente accontentabile) preferendo piuttosto scrutare il greco-albanese pieno d’odio, gli occhiacci neri che assorbivano avidi ogni suo movimento. Fosse stato un uomo superstizioso, Mercurio avrebbe ipotizzato che gli stesse lanciando una fattura.

“Cuore di pietra! Sul serio non t’importa saper la tua città sotto assedio?”, gli chiese beffardo, girandosi acciocché il suo famiglio gli stringesse gli ultimi lacci del corsaletto. L’avventuriero si raccomandò inoltre a Zilio di far da buona guardia al padiglione fino al suo ritorno. “A proposito, vuoi che ti porti qualcosa da Treviso?”

“Qualche paio di mutande e una corda per andar a farti impiccare.”

Mercurio cacciò un sospiro profondo, imponendosi di non lasciarsi provocare di prima mattina dal giovane Miani – conserva le energie! - più tarmante di sua moglie nei suoi periodi peggiori e ce ne voleva! Il capitano scosse il capo, d’un tratto immalinconito: cosa non avrebbe dato per poter risentire la voce della sua diletta, quel mulo testardo dalla linguaccia lunga. “Ti lascio il moccoloso, così non ti sentirai solo”, gli concesse magnanimo, infilando i guanti di cuoio e allontanando dalla mente quel bizzarro paragone tra Caterina e Hironimo.

“Puoah, come se tu fossi di alcuna compagnia!”

“Beh, fra poco avrai quella di tuo fratello”, insinuò casualmente il greco-albanese, godendo del lieve sussulto apprensivo del patrizio veneziano -  oh! finalmente una reazione che gli conveniva al suo status di prigioniero ... “E chissà, anche del Gradenigo e degli altri tuoi concittadini. Anzi, no, quel bastardo lo ammazzo proprio!”, ridacchiò compiaciuto del proprio ambizioso progetto. “Immagina lo sconcerto di Treviso nel vedersi privata del suo provveditore generale! Del suo grande eroe!”

Hironimo emise a sua volta una risata gutturale. “Sei nato e cresciuto sotto l’ala di San Marco, eppure ancora non hai capito un’emerita cippa di noialtri. Uccidi pure Gradenigo, se ti va. La Signoria invierà un altro provveditore generale. E un altro. E un altro ancora”, sibilò feroce, puntandogli contro gli occhi nerissimi. “Non esiste da noi un eroe, non se inteso come singolo individuo. Ché da noi è la civitas l’eroe. Venezia stessa è l’eroe. Voi non state combattendo contro Gradenigo o il Serenissimo Principe, voi avete mosso guerra a tutti noi, dal contadino al Doge! E come un’Idra, più teste ci tagliate più ne spunteranno per divorarvi!”

Piccato da quella saccente ramanzina e genuinamente non avendo mai approfondito quell’aspetto della mentalità veneziana, Mercurio ribatté: “Dunque questo significa che anche tu ai fini della Signoria sei sostituibile?”

Hironimo abbassò il capo, il suo silenzio più eloquente di qualsiasi risposta. Naturale che fosse spendibile, se necessario a conseguire la vittoria ultima contro i nemici. Dinanzi alla mancata richiesta di un riscatto da parte dei suoi, nella mente sempre più sotto pressione del patrizio incominciava a prender forma una tremenda teoria e cioè che lui non valeva la pena il rischio di patteggi troppo svantaggiosi. Qualcosa impediva alla Signoria di rivolerlo indietro, qualcosa più importante di lui.

Se da una parte il giovane Miani soffriva orribilmente, sentendosi abbandonato e tradito, dall’altra comprendeva la necessità di quel sacrificio. Non era stato d’altronde allevato così, nell’atipica Venezia in cui l’individuo diventa anonimo e al contempo celebrato nella sua grandezza? Invano cercare fra calli, campielli e campi un monumento, una statua, un’iscrizione a gloria di un eroe. Venezia onora solo i nemici sconfitti: a Palazzo Ducale più che le gesta di chi l’ha resa grande sono esposte a macabro trofeo quelle di coloro che hanno tentato distruggerla, monito e sfida al mondo intero. Una società governata con la  medesima disciplina delle sue galee, dove tutti – patrizi, clero, cittadini e villani – devono remare al ritmo del suo tamburo e dove nessuno, neanche il Doge, è più importante della Signoria o al di sopra delle sue leggi.

Chi s’era creduto di essere lui, Hironimo Miani, per aver vagheggiato un diverso destino?

“Ripeterai questo tuo bel discorso davanti all’Imperatore a Treviso?”, l’incalzò il capitano di ventura onde punzecchiarlo e ottenere una reazione da parte del ragazzo, lo sguardo divenuto vago e lontano quasi più nulla lo tangesse. “O davanti al cadavere di tuo fratello? Ha anche per caso moglie e figli?”

Hironimo, a fatica, si pose allora in piedi e approfittando della vicinanza di Mercurio, anticipando ogni sua reazione gli ghermì il volto, baciandolo feroce e mordendogli le labbra fino a trar sangue.

“Nel Levante lo chiamano  ölüm öpücüğü (bacio della morte, ndr.) quando prima di un’impresa è il nemico a dartelo. Che ti possa portar ogni male, Mercurio Bua Spata, che ti possa condurre alla peggior morte.”

 

 

***

 

 

L’ozio è la fonte di ogni vizio e un accampamento in attesa ne è perfetto crogiolo.

Per i soldati franco-imperiali stanziati a Montebelluna si trattava quindi di naturale prassi se di tanto in tanto tra di loro deambulava qualche prostituta, squadrandoli affamata alla ricerca di chi possedeva sufficiente sostanza da saziarla di danaro. Nessuno lo giudicava inconsueto o riprovevole, men che meno a quell’ora ancora temprana del mattino; terminato il trambusto della concitata partenza del maresciallo e del capitano degli stradioti, il campo era ripiombato nella consueta indolenza tipica di chi ha lo stomaco vuoto e nulla d’importante da fare.

Una di queste peripatetiche, piuttosto seccherella e con in testa un buffo turbante alla turchesca, con le mani ai fianchi si destreggiava tra le varie tende dove dormicchiavano i soldati affamati e annoiati. Al contrario, ella appariva assai vispa e accorta, studiando bene ogni angolo del campo e similmente a lei subito erano divenuti svegli e attenti i prigionieri marciani, non appena la intravidero dalle loro gabbie improvvisate.

Toi, la gueuse, qu’est-ce que tu fais ici? Non è posto per te, questo! Vattene!”, le berciò dietro il soldato posto di guardia.

Sennonché la prostituta, invece di scoraggiarsi, prese ad ancheggiare sensuale, suggendosi lasciva l’indice e massaggiandosi il pube in uno spettacolo sempre più grottesco finché l’uomo, spazientito, non la spinse via di malo modo, allontanandola di molti passi.

“Ah”, fece lei connivente, strizzando l’occhio. “Dur … te plé dur … et mua, scie lé tre dur …”

Quoi?”

Il sorriso civettuolo della puttana cangiò in uno ferino, sollevandosi le sottane rattoppate e prima che il francese potesse gridare la sua sorpresa nell’apprendere ciò che sotto vi si celava, ecco che ricevette un doloroso calcio al petto, sbattendo malamente contro la gabbia dei prigionieri.

Dietro di lui sbucarono rapidissime due mani lerce e robuste, che gli s’aggrapparono alla sua fronte e mascella e mentre la prostituta s’inginocchiava a cercare le chiavi – ottima posizione promiscua per l’osservatore distratto - il suo complice da dietro le sbarre spezzava l’osso del collo della guardia, che s’afflosciò per terra. Tocco finale, la finta meretrice, trascinato via il cadavere davanti ad una poco distante tenda francese,  gli pose tra le mani un lembo di una sopravesta tedesca e gli rubò la saccoccia col denaro, onde simulare un furto con omicidio e dunque esacerbare la reciproca diffidenza già vigente tra i Collegati.

“Vio, te val gnente chome putana!”, scherzò sottovoce uno dei suoi compagni d’arme, intanto che il ragazzino armeggiava col lucchetto.

“Ma va’ in mona de toa mare, quea gran vaca”, replicò Vio indispettito e rosso in volto, forzando la serratura e, accertatosi di operare senza testimoni scomodi, aprì la gabbia. “Vestate ti da putana e po’ dime, caro ti, se te riesse mejo!”

Silenziosi e lesti come gatti, i prigionieri scivolarono via nella semioscurità in direzione della selva, là dove le loro spie li avevano comunicato attenderli gli uomini di Domenico da Modone, incaricati da sier Zuam Paulo Gradenigo di seguire e riferire ogni passo dei franco-imperiali. Già uno dei suoi corrieri stava cavalcando verso Treviso e Padova, avvisando i rispettivi provveditori generali della sortita del La Palice a Vicenza.

Purtroppo tutti non potevano liberare senza destare sospetti, dovendo apparire le fughe come casi isolati e frutto dell’iniziativa personale, un po’ alla volta, ora all’alba, ora al tramonto, ora tra gli spostamenti delle truppe. Come aveva giustamente affermato lo stesso maresciallo, neanche la Serenissima poteva permettersi ogni riscatto.

“Teodoro, razza di coglione, che fai?”, sussurrò irato uno stradiota marciano al suo conterraneo, che, strisciando quasi, si era portato vicino ai cavalli. Poi, intuendo subitaneamente le sue intenzioni, inquisì perplesso: “Ma non è il cavallo di tuo fratello Zilio?”

Teodoro Madalo, della compagnia del capitano stradiota Manoli Clada, annuì aspramente. “Esatto e se non ci avesse partoriti la stessa madre, altro che la sua cavalcatura prenderei a quello là …!” e detto questo, con moine e schiocchi della lingua, le quattro bestie lo seguirono docilmente tra gli alberi.

Sorse infine l’aurora e riprese a piovere a dirotto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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E così incominciamo ad entrar nel vivo dell’assedio: pur scervellandomi, sinceramente non sono riuscita a trovare un motivo logico di quell’attacco da parte dei franco-imperiali; onde evitare dunque di farli far la figura dei cretini, ho delineato una forma di strategia, anche tenendo in considerazione che non esistevano i droni all’epoca e quindi non potevano avere conoscenze esatte del territorio, senza averlo prima esplorato. E figurarsi se si potevano avvicinare facilmente.

Inoltre, siccome non mi piace tenere anonima la gente, ho voluto dare un nome agli emissari sia francesi che marciani.

Il prossimo capitolo, come già si è intuito, verterà sul primo attacco a Treviso. Come si concluderà? Bene? Male? Pari?

Alla prossima e strano ma vero, stavolta niente note finali! XD

 

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo Settimo: 5-6 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato  l'11.09.2021

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Capitolo Settimo

5 (segue) – 6 settembre 1511

 

 

 

 

 

 

Per un istante, Mercurio Bua e Leka Busicchio credettero aver sbagliato strada.

Dall’alba avevano cavalcato ininterrottamente finché il terreno scosceso e irregolare delle colline si era livellato nella pianura, senza tuttavia imbattersi in alcuna resistenza né attacco, fattore bizzarro ripensando a tutti gli agguati ogniqualvolta mettevano il muso fuori Montebelluna.

Ad aumentare il loro disorientamento s’aggiunse inoltre la crescente desolazione che li circondava man mano s’avvicinavano alla loro meta, notando in lontananza le case vuote e i piccoli paesotti deserti, che si diradavano e lentamente sparivano in rovine diroccate e non dai colpi di cannone.

Sembrava … gli edifici sembravano quasi smantellati.

“Cristo Santo …! Cos’hanno fatto qui?”, udiva mormorare Mercurio i suoi uomini, basiti. “Ch’è successo?”

E se ciò li aveva turbati, nulla allora avrebbe potuti adeguatamente prepararli allo spettacolo offertogli una volta giunti a Treviso.

Di essa Mercurio possedeva vaghi ricordi, essendoci passato brevemente ai tempi di Fornovo, eppure era sicuro di non aver sbagliato luogo, ché Treviso se la sovveniva circondata da mura medievali dette a secco, alte e snelle e munite di molte torri da cui si accedeva tramite dodici porte. Otto ampi e popolosi borghi si diramavano da esse, brulicanti di case, negozi, chiese e monasteri, costringendo il perimetro del cuore cittadino all’antico e sovraffollato Cardo Maximus d’epoca romana, intricatosi nel corso dei secoli in uno sconclusionato dedalo di strade e abitazioni una sopra l’altra, da cui svettavano i campanili delle numerosissime chiese.

Invece, agli occhi sconcertati degli stradioti le mura cittadine si presentavano assai ridotte in altezza, costruite a terrapieno e rivestite da una spessa muraglia in laterizio e decorate a due terzi dell’altezza da un cordolo di pietra d’Istria, controventate da spalti esterni e spianate dal raggio di circa un miglio (pari al tiro delle più grosse artiglierie) che aveva comportato la demolizione integrale di quei borghi extra moenia, di loro rimasto qualche sparuto scheletro annerito dal fumo e non ancora interamente smantellato. Le porte, appurò il greco-albanese contandole freneticamente, s’erano ridotte almeno da quanto vedeva a due, dimodoché Treviso apparisse coi suoi tozzi bastioni più larga, massiccia, minacciosa e impenetrabile, protetta dalla Botteniga e dal Sile, spalti, fosse e cunette. Agli assedianti non s’era lasciato un angolo dove ripararsi né per accamparsi o posizionare in tutta tranquillità i cannoni. Mercurio aveva adocchiato un monastero, tuttavia troppo vicino alla porta cittadina da non sospettare che fosse tenuto sottotiro.

Costantemente sotto tiro. E pensare che ancora erano incomplete! Quale fortezza avrebbe partorito Treviso, ad opera compiuta?

Un brivido freddo percorse la schiena del capitano di ventura, le budella attorcigliate da un oscuro presagio già di suo fomentato dal malaugurio invocato su di lui dal giovane Miani; il fango, poi, che gli zoccoli dei cavalli sollevavano scalpitando non lo rassicurò, semmai esacerbò la sua convinzione che, forse, avevano sottovalutato la determinazione del nemico, novello Sansone [1].

“Cosa senti?”, volle il Bua l’opinione dell’altro comandante, il quale studiava anch’egli apprensivo l’imponente silhouette delle mura stagliatesi ancor più scure in controluce, il vessillo dorato di San Marco intrecciato a quello cittadino di Treviso, a croce d'argento accantonata in capo da due stelle di otto raggi, su sfondo rosso.

Mercurio diede ordine di tenersi ben distante, così da rimanere fuori dal raggio dei cannoni.

“Niente”, gli rispose Leka Busicchio, umettandosi nervosamente le labbra d’un tratto divenute secche. “Non odo assolutamente niente.”

Il capitano di ventura si morse l’interno della guancia. “Appunto, è troppo silenzioso qui … Dove sono le sentinelle? Dove sono tutti?”

“Sul fronte sud, come avevamo previsto!”

L’uomo scosse il capo. “D’accordo, ma il provveditore Gradenigo non può aver lasciato sguarnito completamente il lato nord. Non avrebbe senso …”

Nessun rumore infrangeva l’aria frizzante di fine estate, se non il vento sverzante che aveva sostituito la pioggia mattutina e che ingrossava capricciosamente gli stendardi. Dalla compatta cinta muraria non s’udiva né vociare di soldati né i cigolii delle ruote dei cannoni e dei carri, men che meno lo scalpiccio dei cavalli e i loro nitriti.

Nulla, un silenzio mortale, come se Treviso stesse emulando le limitrofe montagne.

“Sarà meglio portarci a quel monastero e avvicinarci a Porta Santi Quaranta”, suggerì Leka al conterraneo, facendo al contempo cenno alla sua compagnia di muoversi. “Restiamo comunque sotto tiro … Se solo riuscissi a capire quante cannoniere hanno …”

“Ritorniamo all’accampamento”, l’interruppe Mercurio. “Qui non finisce bene.”

“Ma come?”, protestò Leka. “Dopo l’intera cavalcata fin qua, te ne vuoi andare così, senza aver concluso nulla?”

“Abbiamo comunque ottenuto informazioni sulla struttura difensiva di Treviso, che possiamo riferire a La Palice una volta ritornato da Vicenza!”, ribatté altrettanto adirato il Bua. “Pensi che abbandonerei così su due piedi un’impresa senz’alcun valido motivo?”

“Possiamo spingerci più ad est, verso …”

All’inizio pensarono trattarsi dell’ennesimo sibilo di vento, sennonché le loro orecchie oramai smaliziate a tali rumori riconobbero quel fischio e impallidirono all’improvvisa comparsa di una ballotta di quasi 2 palmi, lanciata chissà dove ché non un filo di fumo si librava dalle cannoniere.

L’effetto rimase comunque devastante e non trovando la palla alcun ostacolo dinanzi a sé, essa viaggiò ancora più lontano e veloce, falciando e disperdendo la colonna di stradioti che ancora non s’era allontanata dal suo raggio.

Quale, però?

“Ripiegate! Ripiegate!”

Una seconda palla di cannone, subito seguita da una terza  li colpirono nuovamente con inquietante precisione, seguendone i passi alla stregua di un’ombra mortifera.

Dove? Da dove stavano facendo fuoco?

 

***

 

Il cucchiaio cadde di mano ad Etienne de Toulouse e con lui ai suoi compagni, impegnati a terminare il pasto offertogli dai loro poco rassicuranti anfitrioni i quali, bisogna però dire, pur avendoli tenuti sotto strettissima sorveglianza non avevano in alcun modo attentato alla loro persona, sicché il tolosano e gli altri suoi compatrioti avevano potuto riposare qualche oretta e perfino godersi il primo vero pasto decente dopo settimane di cibo immangiabile.

Il rombo dei cannoni ruppe tuttavia quella fragile bolla di tranquillità e i soldati francesi si guardarono allarmati l’un l’altro, incapaci di comprendere quanto stesse accadendo fuori dal casolare. Potevano immaginare, sicuro, ma il timore della conferma li impediva d’interrogare quella sfinge dell’interprete.

La novità giunse loro ugualmente nella furibonda persona di Michele da Brisighella, avanzante verso di loro con la daga sguainata e occhi iniettati di sangue.

“Cani fottuti!”, inveì loro contro e fendette l’aria con la lama, al che i francesi balzarono in piedi onde usare le dozzinali sedie a guisa di scudo, maledicendo la perquisizione del giorno addietro e il consecutivo sequestro dalle loro armi. “Così rispettate i patti? Parlamentare per voi corrisponde ad attaccare alle spalle? Vili canaglie!”

A nulla valeva la presenza dell’interprete, ché Etienne pur non comprendendo la lingua dai gesti violenti e collerici di Michele aveva ben afferrato la gravità della situazione sua e dei compagni; ciononostante, confidando nella sua effettiva innocenza, tentò ugualmente di riportare il brisighellese a più miti consigli:

“On ne savait rien! Je te le jure! On ne savait rien de cet attaque !”, si difese, incrociando e sciogliendo le mani onde reiterare il concetto. Richiamando alla memoria frammenti di parole veneziane captate di qua e di là da prigionieri e traduttori, il tolosano sbrodolò in affanno: “Gnente … gnente …”

Michele da Brisighella non si commosse. “Infame traditore d’un mangiarane, chi vuol sentire le tue patetiche scuse?”, e gli cacciò un pugno dritto al naso, spaccandoglielo, per poi avventarsi coi suoi compari sugli altri francesi inermi.

Fuori dal casolare, il capitano Vitello Vitelli assisteva al tutto dalla finestre, sorridendo compiaciuto, assai divertito dalle doti recitative dei suoi soldati.

Per poco, mano sul cuore, a quel teatrino ci cascava pure lui.

 

***

 

A gran fatica Mercurio riuscì a domare il panico vigente tra i suoi stradioti e a costringerli a raggrupparsi così da riparare dietro gli scheletrici ruderi degli edifici non ancora interamente abbattuti, quel tanto che bastava a tirarsi fuori dalla gittata dei cannoni e decidere sul da farsi prima di finire impallinati alla stregua di anatre selvatiche.

L’unica soluzione papabile comprendeva l’immediata e indiscussa ritirata a Montebelluna; il Bua, infatti, non desiderava arrischiarsi di testare fino a quando i marciani avrebbero continuato a bombardare, ignorando a quanto ammontasse il loro approvvigionamento in fatto munizioni. Malgrado avesse notato come esse fossero saltuarie ma ben mirate, quasi si fosse dato l’ordine di non sprecare alcun colpo, ciò non corrispondeva ad una prova concreta, contrariamente a quanto accaduto a Castelnuovo di Quero, dove là sì che il suo ex-castellano aveva dovuto lesinare sull’utilizzo delle bocche di fuoco per ovvia penuria di ballotte e polvere da sparo. Infatti, il greco-albanese s’era accorto di come dalla mezzaluna di San Bartolomeo avessero cessato di sparare, riprendendo invece dal torrione angolo di San Marco a protezione di Porta Santi Quaranta, dove egli, con un’abile finta, aveva condotto i suoi stradioti, disorientando per qualche attimo i marciani, che avevano creduto volersi nascondere dietro i ruderi davanti al rivellino di Porta San Tomaso.

Piccolo vantaggio atto solamente a riprendere fiato. Onorando il suo soprannome – l’Occhio Destro di Venezia – Treviso per davvero sembrava possedere mille occhi che tutto scrutavano e seguivano, degna emule di Argo Panoptes [2].

A peggiorare la già complicata situazione, il cielo s’era oscurato in un tremendo grigio fumo e il vento aveva cessato di flagellarli, sicché le ballotte viaggiano ancor meglio. Un nauseabondo odore di terra putrida e di fogna ammorbò l’aria dal sentore metallico e foriero del temporale, costringendo Mercurio a valutare una strategia di fuga adeguata onde sfruttare al meglio la prossima tempesta, che non giovasse solamente agli assediati.

“Il tiro è a raggiera”, delucidò il capitano di ventura al suo collega Leka Busicchio. “E la gittata è ad occhio e croce di mezzo miglio abbondante, se non oltre. Bisogna ritirarsi retrocedendo, solo così la scamperemo, oramai non ci è più possibile riprendere la medesima via da cui siamo arrivati. Ci stanno costringendo verso il Montello, là dove ci attendono quelle bestie feroci dei loro contadini. Porco Giuda maledetto!”, imprecò frustrato, digrignando i denti ed espirando rabbioso. “Ti giuro, Leka, che se quella troia rotto-in-culo-suggia-cazzi di Giovanni Gonzaga non ci ha rifornito di quanti più cannoni possibili, mi aggrego alla spedizione a Vicenza per il mero gusto di fotterlo a fondo col sabbione, finché non diventa femmina!”

Busicchio non lo mise in discussione per un istante, convenendo quanto Mercurio fosse capacissimo d’attuare quella colorita minaccia. Chi si scordava più della sua furibonda e sfacciata ramanzina propinata allo sbigottito Imperatore?

“Al maresciallo cosa diremo?”

“Che quel gran furbo del provveditore Gradenigo ci ha ben fregati. Ora, voi tutti”, intimò ai suoi uomini, “dopo questa ballotta, spronate i cavalli in direzione di …”, ma un fischio acuto e stridulo lo interruppe bruscamente, centrando appieno le rovine del monastero dietro cui s’erano riparati, il quale crollò in un gran boato, polvere e schizzi di acqua melmosa ovunque, annebbiando loro visuale.

“Hanno cannoniere alla base dei torrioni?”, proruppe Leka a gran voce, trillandogli le orecchie dal riverbero del botto infernale, impedendogli di udire un altro fragore, stavolta meno meccanico però altrettanto mortale.

Grida di battaglia.

Diradatasi quella nebbia artificiale di polvere, fumo e fango, per un attimo Mercurio giurò d’aver scorto Porta Santi Quaranta aprirsi, approfittando della confusione generata dall’ultimo sparo; forse un miraggio, non reale come invece era la colonna di cavalleggeri che li stavano caricando simil mandria di tori imbizzarriti. A capo di essi, il greco-albanese individuò Teodoro Clada e Giovanni Paleologo, affiancati da altri cavalieri marciani.

“Ritirata! Ritirata!”, gridò il capitano Busicchio, confidando nei pronti riflessi della sua compagnia e nella lontananza del nemico.

“In formazione, invece!”, ruggì Mercurio il contrordine, replicando aspro all’occhiata interdetta del collega. “Non ho mai voltato le spalle al nemico; perdio, non incomincerò certo da oggi, men che meno davanti ad un Paleologo!”, e a quel nome sputò per terra pien di disprezzo.  “Se oggi il destino ha disposto che finisca all’inferno, quant’è vero Iddio quegli scalzacani seguiranno meco!” Impugnò forte la zagaglia e sistemata bene la targa, incoraggiò i compagni: “Avanti! Il peggior biasimo è quello della nostra gente! San Giorgio! San Giorgio!”

Gli stradioti ulularono la loro approvazione  - San Giorgio! San Giorgio! -  e in breve da fuggitivi si trasformarono in avversari, venendo incontro ai loro parenti altrettanto bramosi di battaglia, il dente avvelenato per quel che ambedue le fazioni consideravano un reciproco tradimento: all’inizio di quel sanguinoso conflitto, i medesimi stradioti avevano tentennato durante gli scontri, consci di fronteggiare i propri famigliari e non avendo cuore di ucciderli se non costretti, ad ogni occasione avevano preferito catturare e i disarmare i compatrioti. Mercurio stesso più volte aveva contattato i parenti e antichi colleghi nella speranza di portarli dalla parte dei Collegati, talora riuscendoci talora ricevendo secche repliche di rifiuto. Adesso però, trascorsi due anni, gli stradioti alle parentele curavano di meno, badando a conservare la condotta e soprattutto le proprietà e i privilegi assegnati alle rispettive famiglie a Venezia  a seguito della progressiva diaspora dalle loro terre assoggettate dai turchi. Se in passato, infatti, solo i condottieri salpavano per tentar la sorte in guerra e ritornavano dalle famiglie col compenso, ora anch’esse seguivano i loro uomini, chiedendo questi profughi di conseguenza speciali concessioni alla Serenissima, la quale tanto generosamente gliele elargiva e tanto rapida sapeva toglierle se di loro insoddisfatta.

L’impatto tra i due contendenti rimbombò col fragore di un tuono, forse non avendo confidato gli stradioti marciani in un simil disperato gesto da parte di quelli franco-imperiali, supponendo al contrario di doverli rincorrere più che affrontare.

Nondimeno, il loro intontimento durò un fuggevole istante e caricarono feroci onde rompere la formazione avversaria e disperderli; in particolare, si premuravano di disarcionarli, un po’ come nelle giostre, al che d’afferrare le redini dei cavalli rimasti senza padrone e legare gli appiedati con un laqueus.

A Mercurio parve allora evidente come il loro obiettivo primario fosse la maggior acquisizione di prigionieri e siccome gli stradioti marciani pressavano nella sua direzione, capì trovarsi egli il primo in lista.

Un moto d’incontrollata stizza gli scosse le membra – maledetto, maledetto Gradenigo! Lo aveva aspettato, l’intera sceneggiata delle negoziazioni un mero pretesto per attirarlo in quella trappola appositamente preparata per lui, memore ancora della sua natura temeraria e opportunista malgrado i quattordici anni trascorsi dall’ultima volta in cui avevano combattuto assieme. Il provveditore sapeva che il Bua non si sarebbe lasciato scappare quella ghiotta occasione e ogni parola, perfino il lapsus, riferita dal trombetta era stato un accurato studio d’inganno.

Un’isterica risata sfuggì dalla bocca contratta del capitano: ironicamente, si sentiva lusingato da tanta premura, dimostrando come, tra tutti i comandanti nemici, Gradenigo avesse gran fretta di metterlo quanto prima fuorigioco, reputandolo il più pericoloso. E il bastardo aveva perfettamente ragione, poiché la sua cattura non sarebbe corrisposta ad un affare indolore.

Stringendo la zagaglia, Mercurio spronò il cavallo e puntò con precisione contro il cavaliere marciano che gli stava venendo addosso – povero sciocco, che credeva d’ottenere?  Il capitano di ventura neanche gli concesse tempo d’accorgersi del suo arrivo, che gli lanciò la zagaglia contro con gran possanza, colpendo in pieno la targa e spaventato di conseguenza il cavallo, che nitrendo acutamente inciampò e si piegò in avanti, cosicché il suo cavaliere si ritrovò da esso sbalzato e rotolante nel fango. Non pago di quella vittoria, tali cortesie lasciamole alle giostre, il Bua agguantò una zagaglia rimasta conficcata per terra e l’alzò per colpire il veneziano, il quale si rimetteva in piedi con grandi difficoltà, barcollando e molto probabilmente frastornato dalla caduta, con la melma fin quasi alle ginocchia.

Avvertita la presenza dello stradiota, il cavaliere evitò l’affondo gettandosi prontamente fuori dal tiro dell’avversario; risvegliatosi dal torpore iniziale grazie allo scorrere impazzito dell’adrenalina , estrasse la spada e impavido attese che il Bua lo caricasse di nuovo.

Bravo, pensò perfido Mercurio, stattene lì fermo ad attendere la morte! E si preparò a impironarlo, sennonché in un lampo egli non solo si vide disarmato, ma gli venne frantumata anche la targa da una lancia.

Per puro miracolo e per la saldezza della sua montatura Mercurio riuscì a rimanere sul suo cavallo, assorbendo l’impatto abbastanza da rimanere in equilibrio e allontanarsi dal suo nuovo avversario, dimentico di quel fortunello cui era stato concesso di vivere ancora qualche giorno. Sguainando la spada e disfacendosi dello scudo oramai inutile, il capitano girò il cavallo, pronto alla pugna e similmente lo era il suo avversario, la cui tracotanza fu tale, da impirare la lancia per terra ed estrarre a sua volta la sua lama.

Incerto se congratularsi per il coraggio o sfotterlo per la sua sventatezza, Mercurio si concesse un breve istante per studiare quel pazzo sconsiderato davanti a sé, non trovando in lui alcunché di minaccioso o misterioso,un anonimo cavalleggero in groppa ad un corsiero bianco latte che mordeva impaziente il freno.

Peggio per lui.

I due cavalieri si curvarono sul dorso dei rispettivi cavalli e corsero ad incontrarsi. Mercurio levò la spada per colpire alla spalla l’avversario, ma l’agile corsiero di quest’ultimo si drizzò sulle zampe e gli volteggiò davanti in maniera così imprevista che il veneziano riuscì a strisciare la punta della lama sul corsaletto del greco-albanese, che dovette rinculare in fretta, stupito da tanta rapidità.

E sempre improvvisamente, il cavaliere si spinse di colpo quasi ad abbracciare il condottiere, che tentò per difendersi di calargli un fendente sul capo, subito però bloccato dal nemico, conseguendone in una prova di forza tra i due, chi possedeva maggior vigore nel braccio da non solo sciogliere il nodo di lame ma anche di spingere i lati affilati contro il viso e la spalla dell’altro.

Di primo acchito risultava Mercurio il vincitore di quella contesa, imprimendo una forza tremenda e costringendo il veneziano ad arcuare la schiena all’indietro, sopraffatto. Sennonché, raggiunto il punto di massima tensione, ecco che questi scattò in avanti come una fionda, elargendo una poderosa testata al Bua, che, sia a causa dello stordimento che della furia cieca, di rimando colpì il cavaliere talmente forte da levargli la spada parata a difesa con un riverbero doloroso, al punto che il veneziano cacciò un mugolo di dolore. Allorché il greco-albanese s’accinse ad un secondo fendente, l’altro si piegò all’ultimo, estraendo dalla fusciacca un qualcosa di sottile e luccicante.

Ad urlare fu dunque il turno di Mercurio, i nervi impazziti che gli offuscavano la vista e gli facevano fischiare le orecchie. Quando credette di poter riaprire gli occhi appurò con orrore il sangue scorrere grasso e languido lungo il lato scoperto della sua coscia, tratto dai mortiferi pugnali berberi giunti a Venezia assieme ai vari carichi di merci e schiavi. Si diceva fossero così leggeri e sottili da poterli infilare nelle maniche più strette, risultando al contempo talmente affilati da provocare la morte con estrema rattezza.

Di riflesso il Bua si pose una mano sulla ferita, con l’altra stringendo la spada, ostinato a combattere. Il cavaliere veneziano, invece, serbava per lui altri progetti e giostrò il cavallo in modo da fargli perdere l’equilibrio e non soddisfatto, con lo scudo lo colpì dritto in faccia al che il capitano di ventura ruzzolò per terra dentro una pingue pozza di fango, sconfitto. Nella caduta a faccia ingiù Mercurio ingoiò suo malgrado acqua e fango, tappandoli bocca e nari al punto che si sentiva soffocare, impantanato nella terra acquitrinosa che subito lo abbrancava avida.

Il cavaliere veneziano, appurata la vittoria, staccò allora dal terreno fangoso la sua lancia e la conficcò appena appena sulla spalla del condottiero, non tanto da ucciderlo né ferirlo gravemente, giusto per levarsi la soddisfazione di torturarlo un po’. Ché quando, sceso da cavallo e infilata la spada di Mercurio nella propria fodera vuota, il cavaliere alzò la celata, l’uomo s’imbatté in un paio di occhi nerissimi, che mai in vita sua avrebbe scordato.

Destino beffardo, invero! Aveva promesso ad Hironimo di portargli prigioniero il fratello e invece da questi era stato battuto! Quella peste bubbonica per davvero gli aveva appiccato contro la malasorte!

“Et cussì, sistu un Miani? E qual? El Strùpio (storpio, ndr.)?”, rise il greco-albanese, sperando così di provocarlo ad uccidere, ché Mercurio non aveva intenzione di lasciarsi prendere, no, non da vivo! Anche se non avesse mai più potuto riabbracciare la sua Caterina e la piccola Marietta, almeno loro avrebbero appreso della sua morte onorevole, con la spada in mano, piuttosto di vederlo arrivare a Venezia in catene. “Scommetto che mi vuoi catturare, per chiedere uno scambio e così liberare tuo fratello. Ti manca, nevvero? Vuoi sapere come sta”, infierì malevolo. “Tranquillo, il tuo caro piccolo Hironimo è tratto col massimo rispetto. Certo, mi scalda il letto ogni notte, dovresti vedere come piange quando lo monto da dietro: sembra una fanciulla alla sua prima notte di nozze …” e attese la sfuriata.

Ne rimase deluso: il Miani era invece rimasto in strano silenzio, piegando la bocca in una smorfia inquietante e sempre senza proferire parola avanzò verso di lui. E una volta che l’ebbe sotto di sé, col piede gli premette sulla coscia ferita mentre in sincronia perfetta rigirava la punta della lancia conficcata nella sua spalla, al che Mercurio credette d’impazzire dal dolore, finché il corpo ad esso cedette ed egli non seppe più nulla. Il veneziano solo allora cessò di tormentarlo e allungò un braccio per ghermirlo, quand’ecco che alle sue spalle lo stesso cavaliere che il Bua aveva disarcionato gli gridò:

“Sier Marco, sté zoso!” e lo scatto del meccanismo della balestra fendette l’aria, impiantandosi nel collo dello stradiota che stava per decollare il Miani alle spalle. La sua morte comperò tempo ad un secondo stradiota che approfittando della confusione caricò il veneziano, il quale riparò in fretta e furia balzando in groppa al suo corsiero, perdendo tuttavia Mercurio, prontamente issato da Leka Busicchio che spronò il proprio cavallo alla stregua d’un ciuco, galoppando via rapidissimo.

“Ritirata! Ritirata!”

Dal dispetto, Marco Miani degolò lo stradiota dinanzi  a sé, battendo gli speroni sui fianchi di Eòo onde tallonare quel maledetto e ripigliarselo; purtroppo neppure la nobile bestia riuscì nell’impresa. Certo, i marciani inseguirono fin quasi alle pendici del Montello i nemici sconfitti, catturando ulteriori uomini e cavalli, ma la preda che il patrizio voleva già aveva spiccato il volo, svanendogli da sotto il naso anche a causa del violento temporale scatenatosi e della fitta pioggia che gli ostacolava la visuale e rallentava Eòo a furia di rimpinguare il terreno oramai saturo.

“Sier Marco”, lo richiamò Giovanni Paleologo, fermandosi dinanzi l’entrata della selva, “dobbiamo rientrare a Treviso. Che siano i contadini lì nascosti a finirli!”

Un’implosione di collera bruciò nel petto di Marco, il quale aprì la bocca in un ruggito nato muto, maledicendo il Bua, i franco-imperiali e tutta quella razza bastarda d’invasori, le dita strette convulsamente all’elsa della spada vinta a Mercurio, che a sua volta l’aveva sottratta ad Hironimo, conservandola come trofeo.

“Radunate i vostri uomini assieme ai cavalli e i prigionieri catturati”, istruì egli il Paleologo, lanciando un’ultima occhiata alla fitta vegetazione boschiva: volesse il Cielo che quei dannati s’imbattessero nei contadini, finendo impiccati a testa ingiù come fagiani!

Sotto alle mura di Treviso, Marco individuò ed afferrò il vessillo della compagnia di Mercurio Bua: alla festa della Madonna fra tre giorni, l’avrebbe offerto all’altare della Patrona, nella speranza che gli desse forza e consiglio, che la disperazione e l’ansia per la sorte del suo Momolo non li straziassero più l’anima.

Avrebbe trovato il modo di liberare il suo fratellino, Iddio gli era testimone che l’avrebbe trovato, a qualsiasi costo!

 

***

 

 

Sier Zuam Paulo Gradenigo e i capitani Renzo di Ceri e Vitello Vitelli entrarono ieratici e solenni nel casolare, le espressioni gravi e rammaricate dirette ai prigionieri francesi lì legati e dai visi gonfi di botte, tenuti al guinzaglio da un sornione Michele da Brisighella.

“E cussì xélo questo el modo de parlamentar d’i Franzosi? Atacar drio le spale? Tanto ve rempite ea bocha de parolle chome honor, vertù, cavalaria, et tuto quel che volé, ma a la fine, vuj seti ‘na banda de can sassini, viliachi et pure onti e straonti.” (unti e straunti, ndr.)

“C’est ainsi que vous les Français …”, iniziò a tradurre l’interprete, sennonché Etienne de Toulouse lo interruppe, protestando la sua estraneità all’attacco appena avvenuto.

Purtroppo per lui, le orecchie del provveditore non erano ben disposte a sorbirsi ulteriore francese, intimandogli di zittirsi con un secco gesto.

“Grazie a Domine Iddio e alla Vergine Maria, Treviso si conserva intatta a San Marco: in caso contrario, le vostre sarebbero state le prime teste a cadere!”

I soldati francesi deglutirono alla mimica perfetta del provveditore.

“Ora ascoltatemi bene” e s’avvicinò ad Etienne de Toulouse, annodandogli al collo a mo’ di fazzoletto lo stendardo insanguinato dei gigli di Francia, “uno di voi ritornerà all’accampamento di Montebelluna e riferirà al vostro maresciallo monsignor de la Palice, che se vuole venire qui a Treviso, faccia pure, noialtri non aspettiamo altro. In aggiunta, se vorrà indietro i suoi uomini, monsignore dovrà sborsare doppia taglia per il suo inganno. In questo modo, imparerà a suo danno che con la Signoria non si scherza.”

Al cenno del suo capitano, Michele da Brisighella sciolse i nodi che legavano Etienne dai suoi compagni ed ignorando i disperati richiami di essi, lo spinse via dal casolare.

“E voialtri”, ringhiò minaccioso Gradenigo, “considerate la vostra vita ostaggio della Signoria: pregate la Vergine acciocché il vostro maresciallo s’astenga da altre monade (cazzate, ndr.), perché vi riavrà indietro, sicuro, ma un pezzettino alla volta!”

Detto questo sier Zuam Paulo uscì seguito dai capitani, beandosi della vista, mentre s’avvicinava a galoppo a Treviso, della fila di prigionieri e cavalli condotti all’interno della città. Un quarto dell’intera compagnia del capitano di ventura greoco-albanese -  non male come risultato.

“Il Bua non c’è”, commentò deluso Renzo di Ceri, storcendo la bocca. “Su questo punto abbiamo fallito.”

Vitello Vitelli sospirò profondamente. “Bisognava tener conto anche di questa possibilità. I suoi l’avranno difeso strenuamente, pur d’evitargli la cattura!”

“Per quanto sia frustrante, qualcosa abbiamo ottenuto”, ribatté Gradenigo e all’occhiata inquisitiva degli altri due, spiegò: “Oggi abbiamo inculcato al terribile Mercurio Bua del sano e mai abbastanza timor di Dio. Non oserà più questi colpi, non con noi, non qui a Treviso, poiché sa che sotto le nostre mura l’attende solo la morte. E senza i suoi slanci arditi e imprevedibili, La Palice non potrà più - tatticamente parlando - sorprenderci.”

 

***



 

Mentre i suoi comandanti discutevano le prossime mosse e valutavano il bilancio della giornata, acciocché al Senato arrivasse il miglior rapporto, a Treviso si respirava aria di festa: la vittoria sui franco-imperiali aveva disteso il clima di tensione e attesa, ringalluzzendo i suoi difensori e la certezza di scacciare gli invasori in via definitiva dalla Marca non appariva più un miraggio. Terminate di scrivere le lettere e inviatele a Venezia, anche i magistrati e funzionari palatini finalmente poterono tirare un lungo sospiro di sollievo e sier Lunardo Zustignan commentò malizioso tra i vari brindisi celebrativi come il suo collega sier Zuam Paulo Gradenigo fosse corso fin troppo speditamente dalla moglie; lode al suo intuito, ché madona Maria Malipiero Gradenigo sul serio l’aspettava impaziente, pronta a ricevere il marito onde coccolarselo ben bene, con tutti i crismi.

Gli stradioti di Teodoro Clada e Giovanni Paleologo in particolare vennero sommamente laudati e accarezzati, felici d’essere al centro dell’attenzione e descrivendo in un misto tra greco e veneziano la battaglia agli avidi ascoltatori, ovviamente infarcendo i dettagli in modo d’apparire ancor più valenti. Fissato su di una picca l’elmo di Mercurio Bua, lo esibivano orgogliosi alla folla euforica e stupefatta.

Anche i bombardieri ovviamente avevano da dire la loro, specie i più giovani e celibi che mimavano alle impressionate ragazze ogni dettaglio dell’impallinamento del nemico, sperando d’ottenere sul momento almeno una carezza o un bacio a mo’ di complimento, se altro era troppo domandare.

Ad un certo punto, e col beneplacito del podestà sier Andrea Donado “dalle Rose”, ad ogni piazza si radunava gente a festeggiare, ballando e bevendo di buon animo (vino rigorosamente assai annacquato), cogli stradioti che animavano la festa con le loro danze vorticose, le braccia tese come ali d’uccello e schioccando le dita roteavano in cerchi sempre più stretti. Per rendere il tutto più difficile e spettacolare, si ruppe qualche boccale e il ballerino, con in testa a sua volta una piccola brocca, evitava agilmente i cocci pur non alterando alcun passo di quel ballo accompagnato dal battito di mani dei suoi compagni e le vivaci melodie delle loro terre lontane.

Nella casa dei Cimavin vigeva simile clima festoso, in particolare il ritorno di sier Marco Miani e sier Marco Contarini; immediatamente, i due uomini vennero acciuffati dalle donne e costretti al bagno, non gradendo le delicate nari femminili l’odore di sangue, terra e sudore che si portavano appresso. E se Marco Miani aveva avuto la fortuna d’appartenere esclusivamente a madona Helena Spandolin Miani e pertanto solo lei aveva ogni sacrosanto diritto di spogliarlo e gestirselo a suo piacimento, ecco che invece Marco Contarini, reo d’esser celibe, finì nelle grinfie delle sornione madona Felicita e Màlgari, convenientemente sorde e cieche alle vive proteste degli uomini di casa.

“Hastu proprio da nettarlo ti?”, s’oppose Donado, assistendo impotente al volo dei pezzi d’armatura, sciolti con sospettosa maestria da parte della moglie. Tale era il suo disagio, che neanche più pretendeva di parlar distinto in presenza del patrizio veneziano, dando a Felicita del tu.

“Zò, caritade christiana!”, si giustificò impunita la giovane donna, liberando un paonazzo Marco Contarini dall’usbergo. “Curar i amalati et i feriti, el gh’ha dito Nuostro Missier Domine Jesu! E mi sun bona cristiana.”

“Sì, sì, ma fé attension che no te me devegni anca santa, co tuta sta devosion!”, e sollevando maligno il sopracciglio, aggiunse: “Fusse stà missier Marco un vecio scorfano [3], lo gh’avarestu nettà uguale?”

Felicita schioccò la lingua in dispetto. “Aria, sior màmara!” (babbuino, ndr.)

“A mi?”, trillò indignato Donado.

“A ti!”, confermò inclemente la giovane donna, mulinando le braccia come se stesse scacciando le galline dal pollaio. “Aria, che gh’ho da nettar el sier Marco, ch’el me se giassa tutto!”

Il povero mugnaio boccheggiò simil pesce fuor d’acqua – rimanendo in tema di scorfani – cercando furiosamente d’appigliarsi ad un qualsiasi argomento per ribattere a tanta sfacciataggine, sennonché suo padre Jacopo Cimavin il Vecchio lo cinse per le spalle e con delicatezza lo portò sulla panca davanti casa, godendosi il timido sole sbucato a temporale terminato. “Caro el mio toxo (ragazzo, ndr.), ti no te capissi gnente de’ femene: co xéle in pì de do in una camara, ti no te parlamenti, ti te fuzi e anca lesto!”

Donado, infelice all’eventualità di tal malefico gineceo in casa sua, s’augurò di generare solo figli maschi. In ogni modo quella sera, sotto le lenzuola, ben si sarebbe adoperato a rimarcare il territorio.

“A drèta, un fià pì a drèta!” (destra, ndr.)

“An, che bele spale!”

“Ah, che forte schena!”

“Che fianchi streti!”

“Patron, feve vardar le vuostre bele gambe!”

“Le vuostre cosse (cosce, ndr.) lisse!”

“La camisia, patron! Via la camisia!”

“Per metar l’oggio (olio, ndr.) in la macaura (livido, ndr.) a besogna cavarla de dosso!”

“Gran mercé? Coss’elo sto parlar da sbisào (plebeo, ndr.)?”, inquisirono in coro i due Cimavin, girando ambedue di scatto le teste all’udir quei commenti e fischi d’apprezzamento da soldataglia infoiata. E d’accordo dover sopportare le donne che ci scelgono, ragionò il pater familias, ma adesso esser pure preso d’assalto dalle vogliose vicine? Passi per le vedove, però le nubili? Le maritate? O tempora o mores!  “Coss’ele ste sporcarie da bordello?”, s’alzò bellicoso dalla panca, pronto a difendere l’irreprensibile  mos maiorum di casa sua.

L’arrivo dei due patrizi non era stato un affare privato, nossignore. Notando il loro aspetto scarmigliato e i capelli arruffati e sudati, le donne avevano colto l’occasione per appostarsi alla finestra e costì godersi lo spettacolo di un bel giovine ignudo. E ovviamente, mica si chiudeva, la finestra!

“Molighe (basta, ndr.), rassa de betòneghe!” (pettegole, ndr.), si sbracciò indignato Donado. “No ghe xé gnente da vardar!”

Una valanga d’insulti sommerse padre e figlio: “Via, via, che vuj do seti zà maridai!” (sposati, ndr.)

Pene perso!”

“Un pochetto de flemma, patrona, mi saria anca védoo!”

“Varé là, munèr, ti te sé pur vecio, bruto e teo gh’ha fiapo!”

“A mi?”, s’accalorò sdegnato Jacopo il Vecchio, e levando in alto l’avambraccio, le sfidò: “Mi lo gh’ho pì duro di quel puto; se volé pinciàr (scopare, ndr.) co un vero omo, vegnite suso in camara, horra, e vedarem, siore patrone, se xélo o no fiapo!” e le donne gli risero dietro ancor più forte e pure una gli scoccò un bacio al volo. Il pater familias allora accettò la sfida e si mise a correre bramoso dietro la più grassottella, una vedova il cui sedere alto e sodo gli provocava gravi turbe esistenziali, e questa tra grandi sgonnellamenti stette al gioco, cinguettando ilare.

Dinanzi a sì poco decoroso spettacolo, il povero Donado si coprì sconsolato la faccia con una mano e Marco Contarini, approfittando della confusione, agguantò un telo di lino e uscì di corsa dalla vasca, ritirandosi nella sicurezza di camera sua.

Soltanto l’inaspettato arrivo del podestà sier Andrea Donado riportò la calma, proprio ora che Jacopo aveva ghermito la sua vedovella -  guastafeste inopportuno!

“El mio nezzo, xélo in caxa?”

“Siorsì!”, esclamò esasperato Donado. “Et Lustrissimo, Zelenza, de bona grassia, tolévelo con vu!”

Ed era ciò che il podestà aveva ogni intenzione di fare, fumando infatti di dispetto a causa della disobbedienza di quel ragazzaccio: sua sorella, madona Alba Donado Contarini, gli aveva scritto lunghe lettere in cui gli raccomandava il figlio, che lo tenesse lontano dallo scontro diretto e in generale da ogni pericolo. E non solo quel disgraziato non si era recato al torrione di San Marco come ordinatogli, ma perfino s’era accodato a sier Marco Miani, i due fratelli da Riva e gli stradioti per la sortita fuori dalle mura! Non pago, pure aveva tentato d’attaccare Mercurio Bua! Se sier Marco Miani non l’avesse intercettato, a quest’ora altro che star dentro una tinozza! In una bara! E chi lo comunicava poi ad Alba? Meglio la morte, piuttosto …

Basta, volente o nolente, quel gaglioffo l’avrebbe seguito a casa sua!

Poaro illuso, ridacchiò sorniona madona Felicita, indicandogli la strada e mentre inviava Màlgari a stendere i panni.

Ad attendere la fanciulla c’era per sua somma gioia Cabriel, che la sorprese cingendole la vita da dietro e schioccandole un sonoro bacio sulla nuca.

“E jo? No te me netti? Mi gero al bastion de San Bortolo, no sastu? Varda, chome sun’onto!”, scherzò, mostrando il viso effettivamente brunito dal fumo della polvere da sparo.

Imbevendo un panno d’acqua, Màlgari gli ripulì via la sporcizia, approfittandone anche per accarezzargli le guance. “Co te parli col sior mio pare et co el dise che sì, che podemo darghece ea man (sposarci, ndr.), caro ti, vedaré chome te lavo tuto …”, e arricciò la boccuccia scaltramente civettuola.

Cabriel, sentendosi audace, la trascinò a sé e l’accomodò sulle sue ginocchia. “Ancha sença camisia?”

Le piccole e forti dita curiose di Màlgari scesero rapide e dispettose all’inguine del ragazzo, che trasalì dalla sorpresa, per poi imbronciarsi. “Sovratuto sença la camisia”, gli soffiò sulle labbra, baciandoselo con gusto.

D’umor totalmente opposto invece sguazzava sier Marco Miani, che sua moglie madona Helena Spandolin Miani trovò seduto su di una sedia a fissar il vuoto, ancora vestito di tutto punto e la spada del fratello ben stretta tra le mani. Appena appena quest’ultime e il viso si era pulito, forse per nascondere il rossore dei suoi occhi.

“Méli mou”, s’inginocchiò la giovane donna davanti al marito, scorrendo la mano sui folti ricci sudati.

“Lo avevo in pugno”, mormorò roco Marco in greco, i muscoli facciali contratti. “Lo avevo in pugno e mi è scappato. Tutti gli sforzi di sier Zuam Paulo, tutto … tutto inutile. Quel tanghero è ancora in circolazione e … e Momolo ancora suo prigioniero”, abbassò il capo contrito ed espirò affranto.

Rivedeva ogni istante, scena per scena, l’intera battaglia dall’apertura di Porta Santi Quaranta alla carica contro il nemico; di come Mercurio Bua aveva disarcionato Marco Contarini e di come, contrariamente ad ogni buon senso, invece di catturarlo lo stava per impirare. Ricordò il salvataggio dell’amico d’Hironimo, del suo personale duello brutale col Bua e soprattutto del salvifico intervento del pugnale berbero, un dono di nozze da parte del cugino Andrea Morexini.

Notando lo sguardo perso di Marco, Helena si pose con determinazione in piedi e, tolta di mano la spada dal marito, lo costrinse ad imitarla, armeggiando a levargli l’armatura. “Io la guerra la conosco solo tramite mio padre e mio fratello", esordì, alludendo al cavaliere Dimitri Spandolin e suo figlio Giorgio. “E similmente ad essa, conosco Merkourious Buas Spatas solo tramite i loro racconti e quelli di sua moglie Aikaterinī e ti assicuro che egli è molte cose, troppe cose, ma non uno stolto inutilmente sanguinario. Hieronymos è troppo prezioso per i suoi scopi, per torcergli anche solo un capello!”

“Neanche ti voglio ripetere ciò che m’ha confessato!”, ritorse di rimando Marco, imporporandosi di disgusto. “Le … le porcherie cui lo sottopone!”

Helena aggrottò scettica la fronte. “E tu così poca fiducia hai in Hieronymos, quel terremoto di tuo fratello che quando s’arrabbia tutta Rialto trema? Proprio tuo fratello che partecipa di nascosto alla Guerra dei Pugni? Pensi sul serio che si lascerebbe” e qui la greca stessa ebbe qualche difficoltà a scegliere la parola, “oltraggiare da uno come Merkourious Buas? Se quello sprovveduto gli si dovesse anche solo avvicinare con intenzioni poco caste, stai sicuro che la povera Aikaterinī si ritroverebbe  vedova col marito vivo!”

Un debole sorriso s’increspò sulla bocca di Marco.

“Méli mou, sotto certi aspetti, è stato meglio così: se tu avessi catturato Merkourious Buas, la sorte d’Hieronymos sarebbe divenuta ancor più oscura. La Signoria avrebbe spedito il capitano alla Torresella o alle Novissime, sorvegliato a vista fino alla fine del conflitto, senza accettare alcun riscatto né scambio. E dunque? Che ne sarebbe stato d’Hieronymos? Lo avrebbero deportato o in Alemagna o in Francia, come successo al padre e al fratello di Markos. Allora sì, che non l’avresti forse mai più rivisto. Ma, fintanto che sta col Buas, sussiste sempre la possibilità che Hieronymos riesca a fuggire o che noi riusciamo a salvarlo, in particolare … ”

“… quando si accamperanno qui per assediare Treviso”, incominciava a capire Marco dove la moglie stesse andando a parare. “Mercurio non si fiderà di lasciare Momolo a Montebelluna, lo costringerà a seguirlo. Sarà lui stesso a riportarcelo indietro.

“Esatto”, convenne Helena, trafficando cogli ultimi lacci. “E conoscendo il provveditore generale, mentre i franco-imperiali saranno impegnati a bombardarci, di sicuro invierà alle loro spalle un contingente di stradioti per far razzia del loro accampamento, rubando armi, munizioni, cibo e liberando i nostri soldati.”

“Mi proporrò volontario d’affiancare i comandanti Peleologi o chiunque sier Zuam Paulo vorrà nominare per quella spedizione”, decise Marco, rincuorato da quella prospettiva e già sentendosi rifiatare, ripromettendosi che in quell’occasione avrebbe raggiunto il suo obiettivo.

Strinse forte al petto l’adorata moglie, la sua colonna portante nonostante le recenti increspature nel loro matrimonio, dovute purtroppo al mal consiglio dell’orgoglio e della guerra.

“Se soltanto fossi nata uomo”, le sussurrò pieno d’ammirazione, inalando quel caro odore di gelsomino con cui ella si profumava le trecce nere, “che comandante degli stradioti saresti stata!”

“Avrei riconquistato Costantinopoli”, stette Helena allo scherzo, ponendo piccoli baci al giugulo del marito, vezzeggiando lieve la pelle salata con la punta della lingua. Sorrise compiaciuta al fremere involontario di Marco, all’eco del suo respiro già più profondo e irregolare, sebbene dal modo in cui stringeva le labbra ella intuiva come si stesse trattenendo, forse non reputando il momento adatto, non quando ancora sussistevano gravi questioni da regolare.

Beh, oramai il crepuscolo era sceso e fra tre ore sarebbe scattato il coprifuoco, inflessibile anche in quel clima di vittoriosa festa. A che pro scervellarsi, cavandosi il giusto ristoro? Ogni giorno ha la sua croce, si legge nei Vangeli, verità assodata e assoluta. La guerra ci sarebbe stata anche l’indomani, così come le lunghe discussioni su strategie, rifornimenti, lavori di rinforzamento della città … tutte cose che avrebbero totalmente assorbito suo marito, addirittura sottraendoglielo per sempre (Dio la scampasse da tale fato orribile!). Dunque, che non le si negassero quelle poche ore assieme, non quando il suo Marco era lì con lei, vivo, di carne e sangue, i muscoli delle forti braccia guizzanti sotto i suoi polpastrelli, pronti all’azione e al contempo dominati in rispettosa attesa.

“Però, che triste sorte sarebbe stata la tua”, ronronnò, sostituendo le unghie ai polpastrelli, piano e senza fretta, che ogni terminazione nervosa di lui la percepisse.

“La mia?”

Helena abbassò languida le palpebre, schiudendo appena la bocca quel tanto da lasciar intravedere la lingua che fece scorrere pensierosa sui denti. Si puntellò sui piedi, cingendo il marito con un braccio e con l’altra disegnando strani arabeschi sul suo petto nudo. “Sì, la tua. Se io fossi stata maschio, non avresti potuto certo …” e s’interruppe, scoccando un’occhiata birbante a Marco, per poi sciogliersi via troppo in fretta per i gusti dell’uomo, che rapido si premurò di riacchiapparla.

“Non avrei cosa?”

“Ah, niente!”, fece la greca con noncuranza, controllando la temperatura dell’acqua, che ancora fosse calda.

Marco strinse gli occhi, lasciando cadere le braccia mollemente ai fianchi e avvicinandosele tuttavia felino, predatorio. “Niente?”, ripeté in un soffio, appoggiandosi a lei appena appena da dietro, acciocché ella sentisse la sua presenza senza però sentirsi oppressa.

“Ecco, fossi stata uomo, non avresti di certo avuto una moglie che ti ricorda, signore caro, come bisogna lavarsi quando si ritorna a casa più lercio d’un villano il giorno dell’aratura!” , ridacchiò, per poi lanciare un gridolino quando, inattese, avvertì le mani di Marco intrufolarsi abili sotto le sue sottane, cercando, tastando e conquistando il suo premio più ambito.

“E io pensavo perché non avrei goduto di questa!”

“Ah, non mi dire! Credevo …”, Helena deglutì, mordendosi le labbra ché tali soddisfazioni non gliele avrebbe date, non subito almeno. “Credevo che a … ah! … a s-sua magnificenza non … non garbasse più …”

“Sbagliatissimo” e con un gesto deciso Marco cessò la sua dolce tortura, portandola delicatamente ad appoggiare la testa sulla sua spalla e costì baciarla tra sospiri e furtivi incontri delle loro lingue, intanto che l’altra mano scivolava pigra e liberava la moglie dall’intrigo dei vestiti.

Fingendo ritrosia, Helena provò a sciogliersi per ondulare invece bene il sedere sull’inguine di Marco, i cui movimenti divennero un buffo connubio d’impazienza e voglia di gustarsi il gioco, contraddizione che divertì assai la moglie, che ne approfittò spudoratamente.

“Sul serio”, si lamentò, accomiatandosi dai vari pezzi del suo abito scivolati uno dopo l’altro in un gran fruscio ai suoi piedi. “L’acqua si sfredda e … e poi unto come sei … mi sporchi, dai …”

Marco allora la sciolse dal suo abbraccio e tenendola per mano, la invitò a girarsi verso di lui. “Pazienza”, sentenziò egli, portando le sue mani ai fianchi di lei e abbassandosi un poco. “Vorrà dire che ti laverò io, se ti sporco”, la rassicurò e in un battibaleno Helena si ritrovò issata in braccio al marito, le gambe penzoloni sulle sue spalle.

Rise di quella prova di forza, mentre si lasciavano ricadere sul letto; sotto quell’aspetto il suo uomo non era cambiato dal giovane ventiduenne che l’aveva impalmata otto anni addietro.

“Mi laverai come fa il gatto?”, lo pungolò perfidamente giocosa.

“Come fa il gatto. Anzi”, le descrisse pigramente Marco, le dita che le scorrevano dal ginocchio lungo l’interno della coscia, dilettandosi a fine corsa a dar tormento alla rosea boccuccia con cui intendeva intensamente dialogare. “Anzi, come un grande …”, scivolò in basso, “… grosso …”, le sorrise birichino, “ … pasciuto gatto …”, leccò e baciò il palmo della mano che Helena gli scorse tra i capelli, suggendole le dita a guisa d’infante, “… soddisfatto e satollo di quella povera passerotta che s’è ingoiato …”

Uno sbuffo divertito fuoriuscì dal petto della donna, tuttavia teso e fremente d’anticipazione. “Sfacciato melenso!”, lo rimproverò falsamente altezzosa.

Marco non replicò, limitandosi a sorriderle carnivoro, lingua e denti ben in mostra e con quella zazzera scarmigliata più che ad un gatto ricordava il leone del suo omonimo santo. Che la mojer obiettasse quanto volesse, una volta partito alla carica e messosi all’opera quant’era vero che il sole sorge ad est, l’ultima parola l’avrebbe avuta lui.

 

***

 

 

“Altolà! Chi vive?”

“Zente in fede di San Marco!”

A mezzogiorno dell’indomani, 6 settembre, a Porta San Tomaso si presentarono alle sentinelle di guardia i prigionieri marciani fuggiti da Montebelluna, seminudi e talmente inzaccherati di fango che parevano dei saraceni. A guidarli c’era Vio, il più giovane degli esploratori delle truppe veneziane sin dai tempi della Guerra del Cadore [4], suo fratello Bernardin da lui liberato, nonché i due stradioti Teodoro Madalo e Nicola Cazantachi, più quattro cavalli rubati.

“Verzé la porta!”

Giubilando felici, chiaro segno della fine delle loro peripezie, i fuggitivi entrarono di corsa dentro, prontamente accolti dai compagni assai contenti di rivederli.

“Teodoro!”, esclamò uno stradiota, correndogli incontro e abbracciandolo con foga, arruffandogli poi i capelli. “Gran figlio di puttana … che poi sarebbe anche mia madre. Come diavolo hai fatto?”

Spintonandolo scherzoso, Madalo spiegò brevemente al fratello: “Ringrazia il capitano Domenico di Modone e quello scricciolo laggiù”, indicò Vio che litigava paonazzo in volto col fratello a causa della sua narrativa boccaccesca circa la loro fuga, con tanto di mimesi esplicativa per il gran sollazzo dei soldati che se la ridevano alla grossa. “Quello là ha dimostrato di possedere un paio di coglioni che non si trovano facilmente oggidì!”

“Et po’ el se gh’ha alsà le cottole et …”

“Molighe o te squarto!”

“In ogni modo sei libero e questo è ciò che conta!”, disse Giorgio Madalo, “Anche se … anche se vorrei che Zilio ti avesse seguito …”

Teodoro gli appoggiò fermamente una mano sulla spalla. “Ritornerà con noi, vedrai!”

“Oooooh … te plé trè dur! …”

“Argh! Simia (scimmia, ndr.) maladeta, te me la pagharé!”

La piccola bolla di buonumore non durò a lungo: appena saputo dell’arrivo dei fuggitivi, essi immediatamente vennero convocati a Palazzo dei Trecento onde riferire al provveditore generale quanto visto e udito, il tutto tra un vorace boccone di gallina bollita, carote, sedano, pane e vino saporito.

Guardandoli ingozzarsi incuranti di chicchessia, sier Zuam Paulo appurò quanto a corto di rifornimenti si trovassero i franco-imperiali.

Da loro Gradenigo apprese come La Palice fosse partito per Vicenza per portare al campo i cannoni promessi da Giovanni Gonzaga, giacché, malgrado le smargiassate del governatore di Milano, la rotta di Marostica li aveva assai danneggiati; dell’Imperatore si disperava l’arrivo, però si diceva che tosto sarebbe arrivato al campo un vescovo -  il nome purtroppo non sapevano riferirlo però suonava francese - nonché il conte Gianfrancesco di Gambara – quel can traidor brexiano!, ruggirono i patrizi al sentirlo nominare – appunto grande sostenitore di Maximilian, da lui molto probabilmente inviato per farne (forse) momentaneamente le veci. Il pane scarseggiava, era duro e nero peggio del carbone; il vino sapeva d’aceto e si faceva la fame, i capitani avevano ricevuto pertanto l’ordine d’impiccare chiunque tentasse di oltrepassare il Piave per far razzia o disertare direttamente. I francesi e i tedeschi poco si fidavano l’un l’altro ponendo per sicurezza mezzo miglio di distanza tra i loro accampamenti e ciononostante, le baruffe e gli assalti notturni per rubare restavano all’ordine del giorno.

“E dil Bua?”

Ingoiando a viva forza il boccone troppo grande, a rispondergli fu Teodoro Madalo. “Ho visto i suoi uomini trasportarlo in barella, ma se per fargli il funerale o lenire la sofferenza delle ferite, non saprei dire.”

“E mio fratello?”, l’incalzò Marco Miani. “L’hai visto?”

Lo stradiota scosse il capo. “Il capitano Mercurio lo tiene nel suo padiglione personale, segregato e isolato dagli altri prigionieri. Da quel che ho compreso, neanche i suoi sottoposti possono avvicinarsi a lui né tantomeno parlargli”, gli spiegò contrito, dispiacendosi per la pena dell’uomo.

Sier Zuam Paulo Gradenigo s’accarezzò il mento, cogitando a lungo su quanto udito. Bisognava rallentare il ritorno di La Palice a Montebelluna, forse distruggendo il ponte di Bassano?

E se invece il francese avesse avuto intenzione di deviare direttamente a Treviso, magari portando seco il Gonzaga?

Alzatosi in piedi e ringraziati i fuggitivi, lasciandoli adesso tranquilli a godersi il meritato pasto, l’uomo si diresse assieme ai colleghi verso il Ponte de Pria, là dove scorreva l’acqua vorticosa.

“La chiusa è davvero pronta? Così come il partidor?”

“Siorsì”, rispose il podestà sier Andrea Donado, desideroso di distrarsi a seguito dell’ennesimo rifiuto del nipote di seguirlo a casa sua, anche dopo la sfuriata con cui l’aveva subissato.  

“Ottimo!”, asserì entusiasta il provveditore, studiando i mille intorcolamenti dell’acqua e i giochi delle alghe. “Ho intenzione di far deviare il corso dell’acqua fino a un miglio da Porta San Tomaso, così d’allagare la campagna circostante tra detta porta fino a quella di Santi Quaranta. E che la si faccia scorrere per due giorni consecutivi, in tal modo la terra s’imbomberà e al nemico non resterà che piangere sotto le mura di Trevixo!”

A meno che i francesi non si fossero infatti trasformati nelle rane da loro tanto apprezzate, sier Zuam Paulo Gradenigo dubitava fortemente nella loro capacità d’accamparsi o più in generale di muoversi nell’immenso acquitrino che Treviso si stava per trasformare.

 

***

 

 

Un attimo.

Un solo, fottutissimo attimo in cui Hironimo aveva chiuso gli occhi, stravolto dal sonno di una veglia forzata e dall’ansia provocatagli  dall’eco distante dei cannoni (dunque invero avevano attaccato Treviso?) ed ecco che Thomà era sparito dal suo giaciglio di paglia e stracci. Abituati infatti a dormire oramai uno incastrato all’altro onde tenersi caldi e scacciar via la fredda sensazione d’umido alle ossa, il giovane Miani aveva percepito a livello tattile quella scomparsa prima ancora della sua realizzazione logica.  

Balzando di scatto seduto, il patrizio si era messo a carponi, scostando la tenda e aguzzando la vista alla ricerca della figuretta del bambino, spingendosi a gattoni fin quanto la catena attaccata al palo glielo permetteva e anche quando ebbe raggiunto la massima tensione egli tentò di proseguire oltre, stringendo i denti al dolore al collo e all’aria mancante.

“Thomà!”, gracchiò apprensivo, la mente che elaborava ogni sorta di scenario, uno più orribile dell’altro sulla sorte del piccino. Che glielo avessero sottratto nel sonno? Che fosse morto a sua insaputa? Hironimo a quel punto contemplò di chiamare Zilio, il loro personale can da guardia, onde raccogliere maggiori informazioni, ma all’ultimo desistette: quello scimunito d’un energumeno manco gli portava loro da mangiare, figurarsi se gliene importava alcunché della loro salute. “Thomà!”, l’appellò in affanno. “Thomà!”

“Sssssh, patron! Sté chieto chome un sorzetto, sennò el gato ce magna!”

A quelle paroline accorte e sussurrate, il patrizio veneziano si voltò rapidamente, tirando un gran sospiro di sollievo e strisciando nel suo angolino là dove Thomà lo attendeva, il lembo inferiore della camicia levato su a mo’ d’involto. Per il resto era grigio di fango più d’un maiale nel suo accogliente porcile.

“Da dove sbuchi?”

“Da là zoso!” e il bambino indicò la buca che aveva scavato sotto la tenda, approfittando del dislivello che la terra, ricolma d’acqua non smaltita, aveva creato. Ecco dunque spiegato il suo aspetto a dir poco selvaggio.

Inoltre, tirò fuori dalla paglia un osso di pollo, l’unica carne che avevano visto in più di una settimana e che Hironimo l’aveva ceduta ad un Thomà sbavante dalla fame, e che il fantolino aveva con pazienza appuntito, sfregandolo ironicamente sulla palla di cannone che pendeva dal collare del patrizio. In questo modo, sega un giorno sega l’altro e ovviamente agevolato da un’ottima conoscenza dei nodi, egli aveva tagliato la corda che lo legava alla caviglia, giacché Mercurio Bua più di tanto non s’era curato di prevenire un’eventuale sua fuga.

“Sei scappato?”

“Siorsì.”

“E tornato indietro?”

“Sior patron, el campo xé pieno de soldai, ‘ndove voleu che fugga? El me van suito zaffar!” (subito acciuffare, ndr.), giustificò Thomà la, a suo parere, insensata obiezione del giovane Miani, la cui attenzione venne catturata dal fagotto stretto al petto del bambino.

“Cos’è?”

“Dil pan, patron.”

“Rubato?”

Thomà gonfiò le guance di dispetto, fulminando il patrizio. “El xé pan di Samarco, sior patron”, sibilò iroso, “sti cancari todeschi et franzosi lo gh’han robado a nuialtri.”

“An, così ti sei risarcito?”, replicò aspro Hironimo, più per la paura di un eventuale e crudele castigo nei confronti del bambino se beccato, che per il furto di per sé. “No sastu, caro ti, cosa fanno ai puti che rubano?”

Al che Thomà, terminato d’ascoltare la ramanzina in rancoroso silenzio e scarlatto in volto, scattò in piedi e alzò battagliero il mento onde apparire più grande e minaccioso, i pugni stretti convulsamente tra di loro e i denti ben esposti in una smorfia ferina. “Sì, patron, lo sciò cossa fan a li puti che roban e anca a quei ch’i no fan gnente! L’gh’ho ben visto mi a Feltre co i todeschi et  tajani (italiani, ndr.) [5] ce massacravan tuti! Saveu per dasseno cossa i fan? I nuj fan le sporcarie, i nuj taja a pezzi, i nuj dan in pasto a li cani! Par eli, semo zogàtoli!”, strillò, le vene del collo ingrossate e gli occhi sempre più umidi.

“El mio fradelino, el no gh’avea un anno ancora, i todeschi el gh’han ciapà per un pie di la cuna e l’gh’han fracassà el cranio sul muro! La mia siora mare e le mie sorele tute vergognate, anca quee menori de mi! La Gegia mia sorea, la gera ‘na puta de sie anni e la gh’han trattà de putana, a turno, ea xé morta cussì, lo stomego a tochi, pissando sangue!”, ingollò aria, nettandosi via stizzito le lacrime.

“Il mio sior pare e i mii fradei brusai vivi, perhò prima i soldai i gh’han tajà via le récie (orecchie, ndr.), ea napia (naso, ndr) e le man! Et zò, co la spartidora (sega, ndr.) dil mio sior pare!”

Dai piccoli indizi sparsi di qua e di là nei discorsi di Thomà, un sempre più basito Hironimo aveva appreso come suo padre dovesse aver esercitato la professione di falegname.

“La poara siora mia nonna, la gh’han taja en tochi, perché la gera massa vecia per i soldai! Depo’ i todeschi gh’han ordenà a li cani: Fresstir, fresstir! [6a] E sì, i can se gh’han ben nutrio di le buele di la siora mia nonna! E vuj, sior patron, me dite horra ch’el no xé justo robar a sti cancari el pan? TUTO LHORO I ME GH’HAN ROBADO! Anca l’anima, ché i me volean copar, i ridevano – per cossa, po’? Lustiche bube [6b], i ridevan, et i ridevan! Ah sì?, digo mi, voleu rider siori patroni? El todescho, mi l’gh’ho morsegà a la gola, tragando sangue azò crepasse mal!” e mostrandogli le mani, proseguì febbrilmente: “Mi sun corrotto, sior patron, cossa voleu che sia robar co gh’ho amazzà un omo? Gnanca in Paradiso per colpa lhoro andrò, perché sun dannato! Perhò”, e singhiozzò, il viso rigato di pingui lacrime che più Thomà si sforzava d’asciugare più copiose scendevano, “perhò sior patron no me pento, se podessi – oh se solum podessi! – de novo lo farave, et tuto, tuto!, i roberei a sti cani, sti sassini, sti baroni maladeti, i strupiaria, i strazzeria coi denti, i tormentaria, i faria le pèzori cosse! A Domine Idio gh’ho dimandà: Pare Nuostro che Vui seti in Cel, se non poté darme l’assoluçion, se non poté fulminar i todeschi, almancho la vendeta, de grassia, concedetemela! Cussì moro contento!” e nascondendo il viso tra i palmi delle mani pianse amaramente, le esili spalle sconquassate mentre disperati gemiti si mischiavano ai singulti.

Un bruciante groppo in gola impedì ad Hironimo di replicare alcunché, serratosi a guisa d’un cappio man mano che il bambino proseguiva nella sua angosciosa confessione, il respiro mozzato e il labbro inferiore tremante similmente all’intero suo corpo, quasi l’avesse ghermito la febbre quartana. Senza accorgersene più volte aveva sbattuto furiosamente le palpebre, la vista offuscata da lacrime figlie della collera, della tristezza e dell’orrore: a quelle infernali descrizioni la sua immaginazione aveva crudelmente scambiato gli sconosciuti volti della famiglia di Thomà alla sua, figurandosi la madre Leonora tagliata a pezzi e divorata dai cani, le nipoti Dionora, Crestina e la cognata Helena brutalmente stuprate fino all’assassinio; i suoi fratelli Lucha, Carlo e Marco, i nipotini Gasparo e Anzolo mutilati e poi bruciati vivi, il neonato Scipio lanciato contro il muro, imbrattandolo con le sue cervella. Fosse accaduta una cosa simile a lui, avesse Hironimo assistito a quel massacro di certo sarebbe impazzito dal dolore e sì, sì avrebbe cercato vendetta ad ogni costo, anche a discapito della sua vita, ma …

… ma niente ciò li sarebbe mai accaduto. Non a loro, nel bene e nel male.

Hironimo realizzò d’un tratto quanto fosse stato fino a quel momento un privilegiato, un intoccabile e per di più padrone della sua vita. Tranne per i doveri a lui richiesti dalla Signoria, ogni sua azione e decisione era stato il frutto della sua volontà, di una sua scelta. E lui aveva scelto d’abbracciare la guerra allo mero scopo d’avanzar di carriera, di gloriarsi d’onori, cieco della disperazione di chi volente o nolente la subiva, di chi era più che sacrificabile ai “grandi scopi” dei rispettivi governi.

Adesso comprendeva.

Antropocentrismo … humanitas … l’uomo libero e padrone della sua esistenza … cura benevola tra i propri simili … sì, certo! Se si era patrizi, duchi, conti, principi, re ed imperatori allora sì che tutto ruotava attorno a loro, sovrani indiscussi dell’universo e perfino sopra Dio!

Ma gli altri? La gente comune?

Non erano anche loro di carne e di sangue? Non avevano anche loro sogni, progetti, talenti, gioie e dolori, non provavano caldo e freddo, non ridevano allo scherzo o piangevano all’affanno o s’adiravano ad un torto?

Utili numeri, utili bestie, meno del fango sotto i calzari, meno di niente.

Quanto a lui, egli non era altro se non un ipocrita che tanto parlava dell’uomo, della sua dignità, della sua anima superiore, della solidarietà umana ma poi non muoveva un dito, malgrado il suo status sociale di privilegiato glielo concedesse, per attuare concretamente le nozioni apprese e di conseguenza portare ad un vero miglioramento, nascondendosi dietro sterili letture e sterili discussioni, cullato e pasciuto in quegli agi ottenuti non per merito suo, adoperandosi però alacremente a raddoppiarli a scapito degli altri.

Hironimo provò un’infinita vergogna verso se stesso.

“Non morirai”, mormorò mestamente, la voce tremante. “Sempre ti proteggerò.”

Thomà tirò su col naso, levandosi un po’ di muco con le dita. “Anca l'Andrea me lo gh’avea promesso. El xé morto lo stesso.”

“Te lo giuro! Vivrò per te, per proteggerti.”

Le braccia gli si mossero di volontà propria e prima che il giovane Miani potesse rendersene conto, ecco che avviluppava un recalcitrante Thomà in un consolante abbraccio, stringendolo a sé forte quasi a dimostrare la serietà di quel giuramento, scostandogli la frangia dagli occhi e asciugandogli le lacrime coi pollici.

“La mama!”, pigolò affranto il fantolino, arrendendosi poco alla volta, le mani artiglianti i lembi del camicione del patrizio. “No la rivedrò mai pì, patron! No scolterò mai pì la sua vose, ni sentirò el calor di soi abrassi, ni le soe cansoni per indormensarme. Zà la soa fazza me la sto desmentegando. El sior cappellan me diseva: ea stà in Paradiso cum Domine Jesus, perhò mi la vojo qui, gh’ho besogno d’ela! El bone Jesu gh’ha la Madona, la Soa Mare, perché me gh’ha da ciapar la mia?”

Come rispondere a tale domanda, quando quindici anni addietro Hironimo ne aveva urlata una non tanto dissimile a Madre, all’ennesimo suo rifiuto di recarsi alla Messa?

Se a questo mondo esiste un dio così egoista e crudele che ruba ai bambini i loro padri, io non lo voglio pregare!

“Quando avevo più o meno la tua età, fu trovato impiccato a Rialto il sior mio Pare. Era morto senza ch’io potessi dirgli quanto l’amassi. Del suo viso, oramai, mi ricordo assai vagamente.”

Thomà sollevò il capo, sbattendo incredulo le ciglia umide: chi l’avrebbe mai immaginato, che l’altero e collerico reggente di Castelnuovo serbasse nel cuore un lutto simile al suo? Lo aveva sempre immaginato fortunato su di ogni fronte!

“Sparirà mai sta doja?”, domandò flebilmente, accoccolandosi al petto del patrizio che non si dava noia del camicione oramai sporco di fango e muco, seguitando al contrario ad accarezzare piano la testa del piccino, cullandolo lievemente e ricambiando la timida stretta della sua manina.

Scomparire? No, il dolore generato da quell’improvviso vuoto non sarebbe mai scomparso, infelice ombra che per sempre l’avrebbe accompagnato per tutta la vita.

“Col tempo, imparerai a conviverci.”

Thomà lo fissò a lungo come alla ricerca d’inganno; non trovatolo, abbozzò ad minuscolo sorriso, una fiammella di speranza ravvivata in quell’oceano di disperazione.

“Se pol disnar horra, patron?”, tentò un debole motto di spirito, arrossendo al gorgoglio del suo stomaco.

Hironimo aprì la bocca per replicare, sennonché fu interrotto da un concitato vociare da fuori il padiglione e l’avvicinarsi di lunghe ombre dietro l’ingresso principale.

“Scòndete!”

“Patron!”

Ma il giovane Miani lo spinse via, al che il bambino, dopo uno sconclusionato girar attorno alla tenda in cerca di un posto sicuro dove celarsi, optò per la cesta delle camice sporche di Mercurio.

“Toh, ecco dunque la famosa concubina del Bua!”, lo salutò beffardamente cortese il marchese di Busseto, Galeazzo Pallavicino, scostando il lenzuolo là dove si vociferava il greco-albanese custodisse il suo prigioniero più gelosamente del sultano con le sue amanti nel Topkapi [7]. “Come sono caduti in basso i patrizi veneziani!”

Hironimo gli sorrise graziosamente velenoso. “Toh, ecco il reggipalle dei francesi!”, cinguettò. “Come sono caduti in basso i nobili milanesi! Come sta il signor Giulio? E suo il signor fratello Galeazzo? Si sta godendo il nuovo titolo di Gran Scudiero?”

“Certo, certo, quasi mi scordavo del vostro insulso umorismo veneziano.”

“Ah, non vi preoccupate, magnifico messere, ho tutto il tempo per rinfrescarvi la memoria!”

Appurando come il dialogo stesse degenerando, il marchese di Pizzighettone, Teodoro Trivulzio, s’intromise in quella tenzone. “Risparmiate le vostre battute di spirito al maresciallo La Palice: appena sarà rientrato da Vicenza, vi trasferiremo alla gabbia vicino al suo padiglione.”

“Mi spiace deludervi, signor marchese, ma io sono prigioniero di Mercurio Bua e dubito che a quest’ultimo faccia piacere non ritrovarmi là dove mi ha lasciato!”

Il marchese di Busseto lo compatì e scosse il capo, intanto che l’altro gli si avvicinava per slegarlo dalla catena. “Non avete appreso l’ultima nuova? Il Bua è morto!”

Un macigno cadde nello stomaco del giovane Miani, rizzandosigli in allarme i capelli dietro la nuca. “Non è vero …” Sul serio il solo desiderio di saperlo morto aveva funzionato? Ma no, ridicolo!

“Mi rincresce contraddirvi, ma così è!”, confermò spiccio il Trivulzio. “A quanto pare, il suo tanto ingegnoso piano l’ha condotto alla morte sotto le mura di Treviso. Di conseguenza, ogni sua avere passa sotto la tutela di monsignor La Palice, prigionieri compresi.”

“Puoah”, grugnì ironico il veneziano, ripigliandosi in fretta dallo sconcerto iniziale. “Insomma, il cadavere del Bua è ancora caldo e voi già siete qui a razziare il suo padiglione? Certo che avete ben appreso le cattive abitudini dei francesi, chapeau!”

Galeazzo Pallavicino lo strattonò in piedi di malagrazia. “Sono contento che conosciate l’idioma francese”, dichiarò a denti stretti, imponendosi la calma e di non cedere alle provocazioni del patrizio. “Vi servirà egregiamente, non appena il maresciallo avrà disposto la vostra deportazione prima a Milano e poi in Francia …”

“… o in Alemagna”, s’intromise una voce alle loro spalle. “Vi ricordo, magnifici messeri, che quest’impresa monsignor La Palice la conduce per conto dell’Imperatore, non del Re di Francia”, ricordò loro il conte Gianfrancesco di Gambara, entrando nella tenda. “Ergo, ogni prigioniero appartiene alla Cesarea Maestà!”

Hironimo scoppiò all’improvviso in una fragorosa risata, costringendo a sé gli sguardi attoniti dei tre nobili, credendolo uscito di senno e non avvedendosi invece di come Thomà fosse anguillato fuori dal padiglione in cerca di Zilio, la cui stolidità era tale che anche da morto avrebbe eseguito gli ordini del Bua e cioè che nessuno s’avvicinasse al suo prigioniero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Non mi ricordo in quale romanzo di André Gide lo lessi, però mi colpì quella sua riflessione quando, a seguito dello scampato pericolo di morte, una coppia dalla vita amorosa pari ad un surgelato tutto d’un colpo si ritrovi a far maratone di gambe all’aria, stimolate appunto dall’adrenalina e quel senso di caducità della vita.

Beh, grazie a Gide possiamo dunque capire il perché di tanta euforia a Treviso. Se il Sanudo diceva che a Padova, dopo la sconfitta dei Collegati, c’era gente che si abbracciava e baciava, vuoi che Treviso, famosa per la sua vita gaudente, non fosse da meno? ;)

Inoltre, la scena del Nostro e di Thomà per quanto breve mi ha molto depressa, quella dell’attacco mi ha sfinita e perciò volevo inserire all’ultimo un qualcosa di rilassante e divertente da scrivere. La vita d’altronde è fatta così, Eros e Thanatos non devono essere letti in chiave prettamente tragica e romantica …

Comunque, non ho esagerato riguardo all’orribile sacco di Feltre del 1510 né alle torture che la gente indifesa subì da parte dei Collegati. Purtroppo ve ne saranno ancora, più in là con la storia. E dispiace dire, ma come il Sanudo ha anche laconicamente commentato, anche gli “italiani” ci misero del proprio comportandosi né più né meno come gli stranieri.

Bene (insomma), spero che il capitolo vi sia piaciuto. Di nuovo, scusate per la lunghezza!

Alla prossima,

 

Un po’ di noticine:

[1] Sansone = personaggio biblico dall’incredibile forza risiedente nei suoi lunghi capelli, che con l’inganno gli furono tagliati, rendendolo facile vittima dei suoi nemici. Accecato e legato a due colonne, Sansone invoca Dio di concedergli la forza per l’ultima impresa, da qui la famosa frase: “Muoia Sansone con tutti i Filistei”, per indicare tutt’oggi un atteggiamento autodistruttivo pur di prevalere sul proprio nemico.

[2] Argo Panoptes = Argo che tutto vede, secondo la leggenda questo gigante sorvegliava per ordine di Hera la ninfa Io trasformata in mucca da Zeus, onde nasconderla dalla moglie gelosa. Pentitosi di averle ceduto la ninfa-ora-vacca, ma non riuscendo ad avvicinarvisi per via degli innumerevoli occhi del gigante, ecco che Zeus affida ad Ermes l’ingrato compito d’accopparlo e di ritornargli la bovina amante. Hera, commossa dalla fedeltà del gigante, staccherà dal cadavere di Argo i suoi occhi e li appiccicherà sulla coda del pavone, suo animale sacro.

[3] scorfano = tipo di pesce, nel linguaggio comune è anche sinonimo di persona assai brutta e sgraziata.

[4] Guerra del Cadore = conflitto combattutosi nel 1508, a causa dell’invasione del Cadore da parte di Massimiliano d’Asburgo, che con la scusa di scendere a farsi incoronare a Roma, ben aveva pensato di far un po’ di conquista dei territori di confine veneziani. Affidando il comando a Bartolomeo d’Alviano, Carlo IV Malatesta, Rinieri della Sassetta, Girolamo Savorgnan e pure col sostegno di Gian Giacomo Trivulzio a capo di un contingente francese, Venezia non solo respingerà l’invasione, ma pure estenderà il suo dominio nel resto Val di Grestra, Gorizia, Cividale, Cormons, il triestino e Fiume. Immenso fu il supporto della popolazione cadorina alle truppe veneziane, le cui guide locali guidarono l’Alviano tramite la forcella Cibiana, scendendo per la Valle di Cadore e pertanto tagliando la strada agli Imperiali in fuga verso Cortina.

[5] italiani = generalmente s’intende tutti coloro che non sono veneziani / marciani.

[6a] Fresstir, fresstir = storpiatura di “Fresst ihr, fresst ihr”, ovvero “Mangiate! Mangiate” – fressen, in tedesco è generalmente utilizzato quando a mangiare è un animale o se applicato ad una persona assume allora un connotato negativo. [6b] Lustiche bube, invece corrisponde a “lustige Bube”, ovvero “bambino divertente”.

[7] Topkapi = Palazzo del Topkapi o Serraglio del Topkapi era appunto la residenza ufficiale del sultano ottomano, dove si trovava anche il suo famoso harem.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo Ottavo: Confiteor ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il  06.09.2021

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Capitolo Ottavo

Confiteor

(Non avrai altro Dio fuori di me. Non nominare il nome di Dio invano. Ricordati di santificare le feste.)

 

 

 

6 settembre 1511

 

Faceva uno strano effetto rivedere la luce per più di qualche ora e osservare il sole che si teneva ben nascosto dietro infernali cirri grigio-nerastri.

Hironimo aveva perduto ogni nozione del tempo, seduto semicosciente con la schiena appoggiata alla gabbia. Lentamente, ogni tanto accarezzava là dove gli pulsava il fianco, storcendo la bocca ed espirando forte dal naso alla vista del sangue sui polpastrelli.

“A ti manco te curo, traidor d’un brixiano fio-di-cagna!”

“Non parlo veneziano.”

“Ah, no? Vuostu ch’i toi degni compari i capiscan? Pulito! Donca nettati ben le rècie et scolta qua: Brescia è della Signoria!”

“Era.”

“Ritornerà! E la tua testa sarà la prima a rotolare!”

“Mio caro messer Girolamo, mi ricordavo della tua linguaccia lunga a Venezia; un vero peccato che il tuo cervello non sappia trattenerla!”

“Avrò la lingua lunga, però almeno non è ruvida a furia di leccare i piedi al Re di Francia!”

“Io servo l’Imperatore! Basta con le bambinate, dicci dei podestà scappati da Feltre e Belluno e della tua corrispondenza intrattenuta con Gian Paolo Gradenigo!”

“Se vuoi davvero ch’io canti, mi devi fare un favore.”

“Quale?”

“Visto che servi così zelantemente l’Imperatore, mettiti in ginocchio e servi con altrettanto ardore il mio cazzo! E magari, da lì ne tiri fuori qualcosa!”

Più che gli impietosi colpi incassati sia onde costringerlo ad uscire dal padiglione di Mercurio Bua sia per aver insolentito quel rinnegato del conte Gianfrancesco di Gambara (e manco ti degni di pestarmi di man tua, brutto coglione?) al patrizio doleva l’antica ferita ottenuta a Castelnuovo di Quero, riapertasi proprio ora che si stava rimarginando. Isolato nel carro-gabbia in attesa del ritorno di La Palice così da tirare a dadi sulla sua sorte – prigioniero dell’Imperatore o del Re di Francia? – e senza il piccolo Thomà a fargli da ombra e compagnia, al giovane Miani non restava che appellarsi al buonsenso di quegli scimuniti, ovvero di dargli anche solo un pezzo di tessuto per tamponare via il sangue.

La nausea, creduta estinta giorni addietro, ritornò a serrargli la gola, bruciandogliela, mentre acute fitte di dolore gli percorrevano ovunque e impazzite il corpo sfinito da tutti quegli strapazzamenti, iniziando a sudare freddo.

Eh, merda.

Stavolta aveva sul serio esagerato, pensava Hironimo, ridacchiando amaro e appoggiando stancamente il capo sulla spalla, troppo fiaccato nel corpo come nell’anima per infastidirsi della pioggia che gli bagnava faccia e capelli.

“Mare …”, si mossero inconsciamente le labbra screpolate prima dell’oblio di un sonno forzato, prosciugate le ultime energie “… nunc et in hora mortis nostrae …” e cadde in un tonfo sulla paglia, lordandola di sangue.

 

***

 

1496

 

Nella sua immensa pena Madre s’era scordata di chiudere la porta e Momolo e suo fratello Marco poterono spiarla indisturbati da dietro la pesante tenda rossa. Seduta sul letto, con una mano ella accarezzava la toga nera che il marito indossava quando l’ufficiale sanitario finalmente glielo aveva riportato a casa. Con l’altra, coccolava dogliosa Frisopo il cagnolino maltese il quale, intuendo il malessere della padrona, le s’acciambellava mesto e fedele sul grembo, le orecchie basse e guaendo piano la comune afflizione.

“Anzolo, perché m’hastu lassà sola a sto mondo?” (Momolo trasalì dalla sorpresa: mai aveva udito Madre appellare Padre per il nome di battesimo né dargli del tu; in casa lui era sior patron; sior marido; sior Pare; sior cugnado, sior zerman e nezzo …) “De grassia, stame vizin. Solum cussì mi catarò (troverò, ndr.) ea forsa …”

Captando il celato singulto in quella supplica, Eudokia cinse la padrona per le spalle precocemente ricurve e le sussurrò con infinita dolcezza: “Il kyrie Angelos sempre vi rimarrà accanto e veglierà su di voi, ovunque egli si trovi.”

Madre sorrise tremula, silente, stringendo le dita lunghe e scure della sua cameriera personale.

“Se soltanto quest’amaro calice mi fosse stato risparmiato …”

“Se non per voi, fatevi forza per i vostri figli! Siete il loro unico punto di riferimento rimastoli.”

Frisopo drizzò le orecchie e levò la candida testolina in direzione di Momolo e Marco, abbaiando e scodinzolando la sua scoperta scese dalle ginocchia della padrona, la quale sbiancò nel vedersi colta in quell’intimo momento di sconforto, non desiderando coinvolgere nei suoi tormenti anche i figlioletti più giovani.

Alzatasi dal letto e avanzando verso di loro, Madre allargò le braccia e senza troppo temporeggiare Momolo le si avvinghiava, il volto nascosto nel pesante abito nero, inumidendolo di lacrime. Marco, invece, se n’era rimasto in disparte, le mani strette dietro la schiena e il collo ben ritto così da giustificare i suoi quindici anni; eppure, madona Leonora ben notò il labbro inferiore tremolante e gli occhi cerchiati di rosso sul volto malsanamente pallido e tirato.

“Cosa ci fate ancora in piedi? E vestiti poi!”, s’informò la donna in un misto di preoccupazione e rimprovero. “Seu mica di le notole?” (pipistrelli, ndr.), tentò di scherzare, passando la mano sulla zazzera scura di Momolo, che bofonchiò qualcosa d’inintelligibile, prontamente tradotto da Marco:

“Urlano dabasso; non si può dormire manco a pagar oro!”

Ché Lucha, Carlo e Crestina ancora si trovavano coi parenti nello studio privato di Padre nella galleria del piano nobile e le loro urla riecheggiavano talmente forti a Ca’ Miani, ch’era un miracolo se i Signori di Notte al Criminal [1] ancora non li avevano bussato alla porta, inquisendo il motivo di tale baccano notturno.

Terminate le esequie e riposto il fu senatore sier Anzolo Miani nella sua bella arca nella parte inferiore dell’abside di Santo Stefano, sul suo cadavere ancora caldo immediatamente la famiglia sua, del genero e della moglie avevano preso a scannarsi a vicenda, pigliando la povera vedova in mezzo la quale nessuno voleva vedere, tranne i figlioli. Purtroppo, i parenti del marito li aveva in casa e i suoi a Venezia e non potendo sfuggire né all’uno né all’altro doveva ogni santissimo giorno sorbirsi le reciproche accuse, pretese e insulti. Non potendosi beccare in Senato, pena severe sanzioni, si sfogavano nell’intimità delle mura domestiche.

La questione appariva di semplice causa ma di difficile soluzione: il testamento.

La scomparsa improvvisa di sier Anzolo oltre a rompere l’equilibrio familiare in Ca’ Miani aveva scatenato un putiferio, giacché tra lo smacco generale si era scoperto come l’uomo non avesse lasciato alcun testamento, il che apriva una miriade di questioni sull’effettiva distribuzione dell’eredità.  A ciò s’aggiungevano i richiami del notaio che dietro chiari ordini della Signoria ricordava solerte ai corocciosi come la strada del Paradiso passasse attraverso la carità, ovver provvedere ad elargire pingui lasciti e donazioni agli ospizi, e sier Anzolo Miani ne aveva di strada da fare, per il Paradiso …

A Venezia non si riconosceva il diritto di primogenitura che spogliava i figli minori in favore del primo. Anima di mercante, la Serenissima non amava il denaro liquido e condannava le fortune eccessive, arrivando ad imporre alla sua classe dirigente o di finanziare a loro spese opere di pubblica utilità o, come accadde ai ricchissimi cugini Corner, di maritare a qualsiasi costo i loro figlioli onde disperder meglio il patrimonio. Avesse sier Anzolo lasciato un testamento in cui favoriva i suoi altri quattro figli (o uno di loro) di più rispetto a Lucha, benissimo, a suo piacere! Il ventunenne Miani conservava solo il titolo simbolico di capofamiglia, giusto perché era il maggiore e dunque suo dovere, ora, d’aiutare Madre a provvedere ai fratelli.

La Signoria, comprensiva e riconoscente per i servizi di sier Anzolo anche senza pecuniario guadagno in tempi di crisi [2], aveva disposto una piccola pensione e garantito la gratuita istruzione dei suoi orfani, poiché né Lucha né Carlo ancora erano entrati di diritto nel Maggior Consiglio e pertanto dovevano affidarsi agli introiti degli affitti dalle loro proprietà fondiarie e del commercio della lana. Purtroppo, però, tale generosità era al contempo oculatamente controllata, sicché ogni spesa doveva essere giustificata, dal vestiario all’approvvigionamento  di cibo e vino (che non doveva superare per durata un mese), dai divertimenti al numero di domestici. Madona Leonora, facendo accorta leva sulla grande devozione mariana della Signoria, era riuscita a persuaderla a condonarle  perlomeno il completamento di un ritratto con l’intera famiglia sotto il manto della Madonna, un capriccio che sier Anzolo aveva voluto concedere alla moglie per celebrare i ventiquattro anni di felice e prospero matrimonio.

La Signoria aveva perfino in parte saldato alcuni naturali debiti accumulati e anticipato le somme che una masnada di creditori, spaventata dall’incertezza di rivedere i propri soldi, pretendeva indietro a gran voce, arrivando perfino a cingere d’assedio Ca’ Miani, al che i servitori Nardo, Menego, Polo, Symon e Baldissera erano stati costretti ad un certo punto ad uscire e randellare senza pietà alcuna quegli avidi, prima che il Capo Contrada si stufasse e chiedesse rinforzo agli Zaffi o peggio ancora che si sguinzagliassero gli Arsenalotti e allora bondì a tutti. 

Inoltre, s’aggiungeva la questione della cospicua dote della prima moglie di sier Anzolo, madona Andriana Trum nipote del fu doge Nicolò Trum, che i da Molin reclamavano passasse di diritto a Crestina; e poi quella di madona Leonora Morexini Miani. In teoria, la dote di quest’ultima le sarebbe dovuta spettare indietro in totum (come sostenevano i Morexini) in pratica, però, nulla di scritto lo garantiva come transazione automatica (come invece sostenevano i Miani). Senza contare che non si parlava solo dei 2,000 ducati d’oro versati da Ysabeta Contarini relicta di Carlo Morexini "da Lisbona", bensì di appartamenti e altre proprietà a Venezia.

Da settimane i Morexini, i  Miani  e i da Molin si stavano quindi sgolando senza raggiungere un accordo. Ogniqualvolta pareva si fosse giunti ad un compromesso, ecco che saltava fuori un cavillo e via daccapo a litigare.

Questo perché, scartabellando i libri di conto, le dichiarazioni e altri atti notarili, ci si rese conto che l’unico denaro liquido rimasto era per lo più quello dalle entrate della bottega a Rialto e della dote della vedova, la quale rimaneva sua da gestire ma comunque a nome del marito. Sier Anzolo lasciava il negozio, i magazzini, la sua parte di proprietà di Ca’ Miani, dei campi a Fanzolo ereditati da sua madre madona Crestina Loredan Miani e quelli comprati, dal 1467 al 1470, assieme a delle case date in affitto e un bosco per il legname, più una casa a Treviso. In questo modo, la famiglia avrebbe sempre contato su di una rendita sicura e diversificata, finalizzata anche alla provvista degli elementi necessari alla tavola padronale (grano, vino, salumi) e la biada e il fieno per i loro cavalli. Ma contanti pochi, troppo pochi.

“Eudokia, per favore, potresti portarmi la cappa?”, chiese di punto in bianco madona Leonora, respirando a fondo e prendendo per mano sia Momolo sia Marco; una volta che la sua fantesca l’ebbe fermato sulla cuffietta di seta nera il pesante paneselo nero, che la ricopriva dalla fronte fin quasi ai piedi, la donna scese coi figli in direzione dello studio privato del marito.

Senza salutare né curarsi dell’interdetto silenzio generato dalla sua solenne entrata, la vedova si portò dietro la scrivania di quercia venata d’oro e fatto cenno al segretario Ruberto Francho, che incominciasse a trascrivere, sentenziò costì: “Vedo qua che xé impossibile de far che ci si pacifica e se lo fasse lo faràve tutti per forza, e doman se tornarave da capo. Avé sentìo i capitoli; mi sun ea patrona de sta caxa, e mi penserò a provveder tutto, e a niun lasserò mancar el bisogno”, e indicando il suo primogenito:

“Lucha m'agiuterà a tegnir l'economia di la caxa e cussì l'imparerà. Carlo, Marchetto e Momolo proseguiranno i loro studi e poi s’avedarà. La Signoria ha già provveduto a fornirci il danaro necessario e il buon don Jacomo Batista Aloisi è più che contento, di continuare ad insegnare a Carlo. Da voialtri, quindi, non mi aspetto né pretendo un singolo mocenigo.

“Al parentado mio, che si tranquillizzino: se la mia dote non si potrà in alcun modo recuperare, pazienza, se ne gioveranno i miei figli i quali, a conti fatti, in futuro ne avranno più bisogno di me. A mia fia Crestina toccherà in totum la dote della sua siora Mare, madona Andriana, e co’ la se sgrava, dovesse ancora rimanere qualcosa di suo, venga a prenderselo, nulla quaestio.

“Non si suol dire, che le vedove veneziane abbracciano, con la morte del marito, la morte di tutte le vanità? Anch’io farò così e giustamente non mi servono né ornamenti né vestiti, né zendali, cappe, scuffie, calcagneti, ventagli, gioielli nuovi: Haec ornamenta mea !” [3], asserì grave la matrona, mostrando orgogliosa i suoi figlioli.

“Al parentado dil mio sior marido, se questa soluzione non risulta di loro gradimento, che i vaga in tel lhor appartamento de sóra, nuialtri starem in quel de sotto. Ghe darò parte di la servitù solo par eli, ghe farò per un fià tóla (tavola, ndr.) separada, e no vedendose e no trattandose, pol ser che le question la se quieta, se ciò può far ritornare la pace in questa nostra famiglia in lutto!”

E prima che chiunque osasse contraddirla, madona Leonora Morexini Miani s’issò in braccio un Momolo ciondolante dal sonno e scortata da Marco, Eudokia ed Orsolina uscì trionfante dallo studiolo, l’intero parentado ammutolito.

 

***

 

1497

 

Nella tragedia, dunque, madona Leonora Morexini relicta Miani si costrinse a rimanere forte, saggia e coraggiosa e non a gloria sua personale bensì per il bene delle sue creature, la luce dei suoi occhi. Da sempre abile nel maneggio dell’economia domestica e nel tenere i conti di casa, talento acquisito dalla sua famiglia di mercanti e all’occasione banchieri, Leonora seppe dimostrare agli scettici parenti di sapersela sbrigare egregiamente da sola e senza alcuna intromissione o consiglio nell’amministrazione del patrimonio immobiliare a Venezia, Castelfranco e nella Valle della Piave ma soprattutto nella conduzione del commercio laniero ereditato dai suoceri. Impegni politici, amministrativi, commerciali e militari avevano tenuto suo marito Anzolo spesso e volentieri lontano da casa, sicché l’uomo, per pragmatico buonsenso, già in vita s’era affiancato la moglie nei proprio esercizi, confidando più in lei che nell’onestà dei suoi segretari e amministratori. D’altronde, gli unici parenti stretti del marito, ovvero i cugini germani sier Zuan Francesco e sier Thomà Miani avevano già le loro cariche cui pensare e i cognati che Leonora mai conobbe, sier Marco e sier Vorzilio Miani, erano morti prematuramente, lasciando dunque il fratello mediano Anzolo erede universale di tutto.  

Man mano che il matrimonio si saldava tramite un reciproco e profondo affetto (pur seguitando all’occasione di litigare), non si poté dire che Anzolo fu con Leonora un maestro avaro:  le insegnò da pari ogni sua conoscenza in materia e senza nasconderle nulla, come trattare coi clienti e i mediatori; come piazzare la merce sul mercato più vantaggioso; come scovare il miglior offerente; come anticipare e sbaragliare la concorrenza, specialmente quella toscana e lombarda. Le aveva insegnato a gestire le spese di spedizione nonché della manutenzione delle galee, del cargo e del reclutamento dell’equipaggio così come il pagamento dei loro stipendi.

Il tavolo di quercia venato d’oro dopo il periodo di lutto ritornò seppellito di carte di navigazione, di contratti, libri di conto, cedole, cambiali, corrispondenza da Rodi, Candia, Cipro, Cattaro, Sebenico, Spalato, Durazzo, Scutari, Smirna, Costantinopoli, Tana, Beirut e Alessandria; da Buda (Budapest, ndr.), Anversa, Bruges, Antona (Southampton, ndr.), Londra, Lisbona, Barcellona, Lione, Aigues-Mortes  … Accanto a Madre sedeva Lucha, leggendo e discutendo assieme le ultime novità economiche e politiche udite a Rialto e firmando ambedue sui documenti ufficiali. Ben presto, con la scusa di osservare, Marco s’era unito a loro, dimostrandosi un allievo ancor più recettivo e avido d’apprendere del maggiore, azzardandosi di tanto in tanto di suggerire, con l’ingenua perspicacia dei suoi sedici anni, qualche piccola mossa di compravendita. Carlo, quando non studiava a Santo Stefano, era riuscito a ritagliarsi il suo angolino di nicchia ossia l’aspetto legislativo della mercatura, le sue leggi e i suoi regolamenti, e lì trionfò, applicandovi con efficacia gli studi di giurisprudenza.  Quanto a Momolo, anch’egli venne ammesso al grande tavolo più che altro perché cessasse di guardarli storto durante la cena, offesissimo, sentendosi a sua detta ingiustamente escluso. Tuttavia, Madre ugualmente gli affidava alcuni esercizi, tra cui: se il ricavo di oggi è stato X, ma ci sono volute Y di spese fisse e Z di spese straordinarie, più aggiungi i ricavi dei mesi scorsi e considerato il totale di ogni spesa, dici che questo quadrimestre, tenendo in conto lo stesso periodo dell’anno precedente e il valore della lira e del ducato, stiamo andando in perdita o in guadagno? Almeno così stava quieto, dimostrando la sua naturale inclinazione verso la matematica rispetto allo studio della Bibbia e dei classici antichi, il cui profondo odio verso di essi il fantolino a stento riusciva a celare.

Spiando l’ultimogenito di sottecchi, concentratissimo a risolvere l’ultimo problema, Leonora s’umettò le labbra, il cuore pesante. Malgrado Momolo s’ostinasse a lasciarsi crescere disordinato i capelli, tanto d’appellarlo scherzosamente zazzerone, alla donna non erano sfuggiti i lividi sugli zigomi che il bambino copriva con le ciocche fingendo di grattarsi la testa, o le nocche gonfie seminascoste goffamente dalle maniche della camiciola assieme ai graffi e tagli sparsi fino ai gomiti – colpa della corda dell’arco, le mentiva con allarmante naturalezza. Rideva sempre di meno, il fu pagliaccetto di casa.

Di tutte le quotidiane angosce che attanagliavano madona Leonora e contro cui combatteva a spada tratta, la sorte dei figli rimaneva quella maggiore. I più vecchi non le davano, in fondo, grandi preoccupazioni; col tempo, Lucha e Carlo avrebbero intrapreso una solida carriera a seconda delle proprie abilità e talenti; anche Marco era sulla medesima buona strada. Momolo, invece …

Momolo, pur ereditando i tratti fisici dei Morexini, assomigliava in tutto e per tutto a suo padre caratterialmente, anche negli aspetti più infelici. Sotto la scorza d’estrema vivacità, intraprendenza e affabilità, si celava un animo inquieto, nervoso, prono a frequenti scatti d’irascibilità, quest’ultime vere e proprie fiammate d’ira che s’accendevano senza preavviso e la donna sapeva come crescendo, sostituendosi gli umori dell’uomo adulto a quelli del bambino, esse erano destinate solamente a peggiorare. Laddove suo fratello sier Batista lodava il coraggio del nipote a rispondere per le rime a chi insultava la memoria del defunto senatore, Madre vi scorgeva soltanto temerarietà ai limiti dell’autodistruttivo, specie dinanzi alle ecchimosi ogni giorno più grandi e i continui segni della ferula sulle mani e sulle natiche quando ritornava dalle lezioni al Monastero della Carità, sulla riva opposta del Canal Grande.

Leonora sapeva quante forze in bene e in male covassero nel suo ultimogenito, per il momento ancora tutto suo ma fino a quando? Già la rifuggiva, sgattaiolandole via e reclamando i propri spazi. Precisamente adesso, alla soglia degli anni difficili della prima giovinezza, il Signore aveva disposto che gli venisse a mancare il solido appoggio (e freno) del padre Anzolo.

La vedova Miani neanche si figurava quanto vicina fosse arrivata alla verità. Avesse, infatti, potuto spiare a guisa di mosca le ore trascorse a scuola, di certo la sorte del figlio l’avrebbe turbata doppiamente. E appunto giacché l’undicenne sapeva di avere la coda di paglia e sapeva quanto Madre avrebbe sofferto per il suo scarso rendimento assieme alle continue vessazioni da parte dei compagni, che aveva cessato di riferirle qualsiasi cosa accadesse al Monastero della Carità.

Momolo era al contempo fonte di timore e dileggio. Facile vittima per il suo aspetto mingherlino, per quei capelli lunghi “da femena” e ovviamente per il presunto suicidio di Padre, se provocato soffiava a guisa d’un gatto e come tale mordeva e graffiava l’avversario fino a trar sangue. Grazie all’inarrestabile sviluppo del suo corpo, la sua malizia nella vendetta cresceva esponenzialmente alla sua forza fisica, tanto da divenire il terrore dei poveri canonici regolari suoi precettori il cui unico rimedio consisteva nel bacchettargli le mani o il sedere come se potesse fargli alcuna differenza.

E poi c’era la questione religiosa, che li turbava non poco. Momolo già aveva appreso da Madre e sua sorella Crestina i primi rudimenti della Fede, ma quanto praticato s’era inaridito in mefitico rancore alternato ad indifferenza verso ogni aspetto del credo cristiano, disertando ogni funzione, rosario e adorazione nella piccola cappella privata a Ca' Miani o nell'adiacente Chiesa di San Vidal. Grandi guerre per andare a Messa prima della lezione, accaparrando ogni sorta di scusa per bigiarla; se ci andava, s’annoiava o s’addormentava o fissando il soffitto ascoltava svogliato le letture della Bibbia, appoggiando imbronciato la mano sulla guancia. Ogni disciplina classica l’affrontava di malavoglia e con poco impegno; solo nelle lezioni di matematica e scienze meccaniche Momolo si risvegliava al che al magister suo prudevano le mani, poiché sapeva che il bambino stupido non era, semmai il contrario, soltanto un gran fannullone. Ignorava come in realtà Momolo si sforzasse di stare attento, ma semplicemente quando un concetto gli sfuggiva, non potendo interrompere  con domande il precettore e non curandosi questi di fermarsi ad indagare se i suoi alunni avessero ben assimilato le nozioni appena enunciate, allora il fantolino perdeva il filo del discorso e lì si distraeva, non riuscendo a capire più nulla. Imparava a memoria, quella l’aveva assai buona, per poi dimenticarsi già tutto il giorno successivo.

Neanche in quella grigia mattina di marzo, la situazione appariva tanto diversa.

Il magister, desiderando iniziare i suoi allievi alle opere del grande poeta Dante Alighieri, aveva portato una sua personale copia così da leggere, parafrasare e commentare qualche passo dei canti dell’Inferno, il più facile, approfittandone d’aggiungere inoltre qualche nozione storica; quand’ecco, che l’uomo scivolò nell’errore di menzionare Pier della Vigna e il giardino dei suicidi.

Tutte le teste si voltarono in sincronia perfetta verso Momolo, così come i sorrisi crudeli dei suoi compagni, e il più insensibile di loro esclamò: “Anche il tuo sior Pare, il suicida, sta marcendo all’inferno, trasformato in un albero a tener compagnia al Pier della Vigna!”

Neppure ebbe tempo il canonico di rimproverare l’alunno discolo, che Momolo gli aveva rapidissimo sottratto la sua adorata Divina Commedia da sotto il naso, sbattendola in faccia al provocatore, che cadde rovinosamente a terra, reggendosi il capo dolorante e il naso sanguinante.

“Perché l’hastu fatto? Quella scimmia sarebbe stata punita e invece hai visto, ricorrendo alla violenza, come sei passato tu dalla parte del torto?”, lo rimproverò Marco.

I due fratelli, terminata la lezione del minore, avevano approfittato delle ultime ore di sole per recarsi alla spiaggia di San Nicolò al Lido e colà esercitarsi nel tiro con l’arco, disciplina da Momolo molto amata e in cui si stava dimostrando più che capace, persino in quel momento con le mani bendate per via delle dodici apostolicamente feroci bacchettate elargitegli dal furente pedagogo. 

“Donca? Il gatto t’ha mangiato la lingua?”, insistette il maggiore, corrugando la fronte dinanzi all’ostinato silenzio del bambino, che serrando le labbra seguitava a mirare al bersaglio, centrandolo in pieno a freccia scoccata.

“El sior nuostro Pare, non è un albero come quel Pier della Pigna!”, protestò infine Momolo, gli occhi di bragia.

"Vigna, sempioto, Vigna!"

“Vigna, pigna, ugualmente me gh'ha insolentà! Quel muso-da-mona a xé stà ‘na gran carogna, gh’averia dovuo batterlo pì forte!”

Marco sospirò pesantemente, pizzicando simil arpa la corda del proprio arco. “Momolo, riconosco quanto sia dura accettarlo, ma le cose purtroppo stanno così: se il sior nuostro Pare s’è per davvero tolto la vita, ha commesso un peccato imperdonabile che dovrà scontare all’inferno.”

“Chi disélo?”

“Missier Domine Iddio.”

“Mi credea che Lu l’è perdonador.”

“El xé anca zudese.”

“Donca, Lu nol capisse gnente.”

Marco spalancò sbalordito la bocca, incapace di credere a quanto appena proferito dal fratellino.

“Egli non capisce niente”, ripeté testardo Momolo. “Nostro padre era un brav’uomo: non faceva e non ha mai fatto del male a nessuno, non rubava, s’adoperava in moltissime opere di carità, vai a chiedere a quei mangiapane ad ufo degli Agostiniani a Santo Stefano, a questi Canonici Regolari Lateranensi alla Carità, ingrassati dai nostri soldi! Padre pregava tutti i giorni, non mancava ad alcuna Messa, non picchiava la siora nostra Mare né bestemmiava il corpo di Cristo e di venàre (venerdì, ndr.) cascasse il mondo, si mangiava esclusivamente baccalà!

“E ora tu hai il coraggio di dirmi, che Missier Domine Iddio non tiene conto di ciò? Che fosse almanco vero, poi! Il nostro sior Pare mai e poi si sarebbe tolto la vita! Ci amava e ci proteggeva! È la gente, quella cattiva, vigliacca e senz’onore!”, gridò all’improvviso, divenendo paonazzo in volto e battendo pesantemente il piede per terra. “E anche Dio è ingiusto e crudele!”, aggiunse con altrettanta foga l’undicenne, tendendo malamente l’arco e di fatti la corda gli s’impigliò sul naso, ferendogli la guancia e ingarbugliandosi con la maschera, quasi ne uscì accecato. “Che sia maledio! Vermocane!”, imprecò, massaggiandosi la guancia offesa.

“Zò, bocha de rosa! Cossa xele ste finéze?” (raffinatezze, ndr.), fischiò suo fratello maggiore, volendo il suo corrispondere ad uno scherzoso richiamo, ma il tremolio nella sua voce tradiva quanto la veemente confessione di Momolo l’avesse turbato.

“Ti te ne disi ben pì sporche”, ribatté imbronciato il fantolino. “E ti fa anca le cosse sporche!”, l’accusò, ripetendo più che altro le parole di un’imbarazzata Orsolina, quando Momolo le aveva chiesto perché talvolta di notte Marco dormisse col suo còco in mano, sospirando.

“Sì”, roteò il più anziano gli occhi, le orecchie rosse al ricordo della ramanzina di Madre circa i suoi passatempi notturni. “Però io dopo mi confesso mentre tu, turchetto, manco t’avvicini alla chiesa!”

“Più bugiardi dei miei compagni di scuola, rimangono solo i preti!”

Al che, colmata la misura, Marco pigliò Momolo per ambedue le orecchie, intimandogli perentorio: “Scolta ben, pajàzo: tu queste cose le ripeti solo a me e a nessun altro. Comprendestu? O te squarto!”

Fortunatamente, il Lido a quell’ora si presentava semideserto e comunque, cortesia del Carlevar, le maschere che indossavano fornivano loro adeguata protezione da orecchie e occhi indiscreti. D’altronde, tutta Venezia in quel momento era riversa in ciascuna sua piazza, campo o campiello a far baldoria e la sua attenzione rivolta ben altrove.

Piccato, il bambino cedette e annuì forzatamente, il cuore in subbuglio e la gola stretta dal dispetto e la voglia di gridare e mordere.

“Domani vieni a Messa, sastu? E poche storie!”

“No gh’ho voja!”

“Te la farai venire, anche perché c’è il battesimo del nostro nipote Gasparo.”

“Uffa, proprio domani che c’è il Zuoba della Caza?!” [4]

“Ih! La fanno ogni anno; non morirai se per questo la perdi!”

Momolo sbuffò talmente forte e scalciò doppiamente irato sulla sabbia che pareva lui, il toro in Piazzetta. 

Sua sorella Crestina aveva dato di recente alla luce un bel puttino roseo e grassottello, rallegrando assai l’intero parentado e Madre in particolare, che se lo coccolava instancabile e confidando ad un imbarazzatissimo Lucha circa il suo desiderio di volerne presto un altro da lui. Solo la piccola Leonora, o Dionora per distinguerla dalla nonna, si doleva di quella nascita, gelosa del fratellino e sentendosi messa in disparte, dimenticata.

Vermocane, da questa non posso defilarmi! O mia sorela Tina m’en vorrà! Vermocane!, inveì Momolo astioso e in trappola, assicurando la freccia sulla cocca e ignorando bellamente il sorriso sornione di Marco, quasi avesse intuito i suoi pensieri.

Quand’ecco che all’ultimo l’undicenne cangiò bersaglio, mirando ad un rumoroso gabbiano col pesce in bocca appena catturato. Sistu felice, stupida bestia? e scoccò, sogghignando malevolo al gorgoglio agonizzante dell’uccello che cadde in un pesante tonfo in acqua, la preda ritornata in libertà.

Il sorriso svanì subito dalle labbra di Marco.

“Co m’insegnarastu ea scrima?” (scherma, ndr.)

Essendo nel bel mezzo della Settimana Grassa del Carnevale (l’ultima prima delle Ceneri) tra zuffe, assassinii, arresti, furti nonché cani, orsi, tori e buoi randagi scappati dalle corride, alla gente veniva concesso di girare armata anche di notte mentre i più previdenti preferivano rinchiudersi in casa anticipando di parecchi giorni il periodo della penitenza.  Marco pertanto era venuto a prendere di persona il fratellino assieme al servitore Trovaxo e Momolo aveva per tutto il tragitto in ganzaruòlo spiato con occhio goloso le spade e le daghe ben allacciate alle cinture del maggiore e del domestico.

“Ea scrima? Quando tradurrai dal latino senza becanòti (errori, ndr.)!”

Cioè il giorno del mai.

“Puoah, rassa de sgrimio basacòco (antipatico baciapisello, ndr.) …”, mugugnò  indispettito il bambino, stringendo gli occhi al grugnito di Marco, già preparandosi allo scappellotto. Invece, un pizzicotto al fianco lo face sobbalzare in avanti stile ranocchio, presto seguito da un altro che gli provocò un fastidioso solletico. 

A mi dil basacòco? Mo via, te fazzo pissar indosso dalle risate!”, esclamò Marco, fingendosi offeso, al contrario ridendosela alla grossa davanti al buffo spettacolo di Momolo che si contorceva fino a cadere per terra dalle risate e scattando al suo inseguimento quando il fratellino riuscì a sgusciargli via. “Se te ciapo!”

Voltandosi brevemente e seguitando a ridere sguaiato, Momolo si batteva irrispettoso il didietro, sfidandolo: “Corri, corri, vecio, ché te gh’arivi ultimo!”

 

(Al battesimo si comportò civilmente, solo dietro promessa di poter tener in braccio l’infante Gasparo e tanto gli piacque che chiese a Crestina quando gliene faceva un altro. Purtroppo, malgrado la sua condotta esemplare,  Madre non gli concesse di recarsi ugualmente in Piazza per assistere al combattimento di galli. Per ripicca, Momolo non solo si nascose nell’altana [5] assieme al cagnolino Frisopo, perdendo la Messa lui e facendo arrivare in ritardo la famiglia, ma pure si mangiò a spregio uno spiedino di fritole messo da parte il giorno precedente, tra le occhiatacce piene di biasimo delle vecchie babe alle finestre – turchetto! turchetto! – che lo spiavano affamate e crocisegnate di cenere sulla fronte)

 

***

 

1498

 

L’avvertimento di Marco sul moderare il linguaggio nelle imprecazioni, non corrispondeva al suo desiderio di apparire più autorevole nei confronti del fratellino, quando anzi lui per primo predicava male e ruzzolava peggio. Ma anche il ragazzo conosceva bene i limiti delle concesse trasgressioni a Venezia, il primo e imperdonabile tra questi era il mal suo più antico e più ostinato da sradicare: la bestemmia.

In atroci e rabbiose maledizioni si sfogava e inveiva il popolo e con loro parecchi degli stessi patrizi e addirittura i preti, nonostante ai laici spettasse il taglio della mano o della lingua assieme alla perdita degli occhi, mentre i religiosi venivano rinchiusi della cheba (gabbia, ndr.), sospesa ad un palo alla metà circa del campanile di San Marco.

Niente da fare, si seguitava imperterriti. Similmente al raffreddore la bestemmia viaggiava e contagiava lingua e orecchie, finendo d’impararle volenti o nolenti a furia di sentirsele ripetere in continuazione, seppur proferite sottovoce o ringhiate sibilando tra i denti onde non attirar l’attenzione.

Sicché il cugino di Padre, sier Zuan Francesco Miani detto "Pizzocchero" come suo padre sier Hironimo, al minimo accenno d’imprecazioni strizzava con notevole forza un lembo dell’orecchio dell’impudente (poco importava se maschio o femmina, parente o famiglio) per ricordare gravemente solenne al malfattore della triste sorte del patrizio Zuanne Zorzi di San Maurizio, cui era stata cinque anni addietro tagliata una mano.

Purtroppo, nelle numerose sfaccettature della bestemmia intesa come imprecazione s’inseriva la bestemmia come blasfemia e lì camminava Momolo su di una sottilissima lastra di ghiaccio. Se pur s’esibiva in raffinate e creative volgarità – lengua ontissima!, commentava indignato sier Zuan Francesco - non aveva mai oltrepassato quella linea tabù. Questo, però, non l’ostacolava dal condividere la sua opinione circa i contenuti della Bibbia, che soltanto la sua giovanissima età impediva all’ascoltatore di pigliarlo sul serio.

Vittima sua preferita rimaneva, giustamente, il suo povero magister al Monastero della Carità.

“Perché undì gh’ho d’orar San David re? Perché lo considerano un “santo”? El gera n’onto cotolòn; un bigamo e un adultero, ch’aveva mandato a morire il suo miglior amico e generale Uria, perché quel bèco (cornuto, ndr.) non voleva riconoscere il figlio bastardo messo in pancia da David alla sua siora mojer Betsabea!”

Oppure quando commentando la condanna per stupro di un bigamo [6]:

“Et Jacopo d’Isaco, che s’era preso sia Lia che sua sorella Rachele? O re Solomon con tante femene quanto Gen Soldan e il Signor Turco messi assieme?”

Al che l’esasperato precettore replicava:

“Capisco, Momolo, tuttavia considera che i patriarchi e i profeti dell’Antico Testamento erano giudei.”

“E noialtri cosa siamo?”

“Noi, cristiani. Su di te, nutro qualche dubbio.”

Al beffardo risolino di sottofondo, al ragazzino saltò immediatamente la mosca al naso. “E dunque come mai perdiamo tempo a leggere le vicende dei Giudei, se noi non lo siamo?”

“Se tu avessi prestato attenzione quando ti spiegavo il Vangelo secondo il Missier Sen Mathio, ti saresti accorto come Domine Jesus Christo sia il compimento dell’Antico Testamento.”

“Sì, però Lui ci ha comandato di non pigliarsi più d’una moglie, mentre i Padri d’Israele facevano e disfacevano matrimoni a destra e a manca! È una contraddizione, signor maestro!”, s’erse una vocina, imprevista alleata.

“Marcolin, te scomenzi ancha ti, horra?”, si lamentò il canonico, provocando un furioso rossore nelle gote del novenne Marcolino Contarini “dai Scrigni”, che abbassò contrito il capo. Momolo, invece, si girò a guardarlo perplesso, notando solo adesso per la prima volta il bambino, nuova addizione nella classe, uno dei tanti figli dei Contarini di San Trovaso, i generosissimi mecenati del Monastero. “Iddio ha creato un ma-scio et una femena, i quali s’uniscono in un unico ed eterno maridaùro (matrimonio, ndr.)! Il sior marido ha da custodire e guidare la siora mojer, perché fu Eva a far precipitare Adam, persuadendolo a mangiare il frutto proibito, lei per prima ingannata dal vile serpente!”

“Pì ch’el pòmo”, resisteva a tutto Momolo tranne che alle tentazioni, “la siora Eva ha offerto ad Adam la sua pignatèla (potta, ndr.)! Per questo, quello scemo s’è coperto el còco davanti a Dio, ché ce l’aveva ancor …”

Sciaff!

Un possente ceffone l’interruppe e il dodicenne si portò lesto la mano sulla gota, inchiodando furente il magister con lo sguardo.

“Adesso tu ed io ci rechiamo in confessionale, a chieder perdono a Dio e a mondare quella tua lingua d’inferno!”

“Siornò!”

“Vuostu morir biastemador?”

“Io non crepo né sono un bestemmiatore!”, protestò Momolo scattando in piedi, il volto scarlatto e la vista offuscata dalla collera, le mani talmente tremanti da spezzare inconsciamente una penna. “Sior magister, deboto volé scoltar na vera biastema? Or- “, ma il precettore l’anticipò, tappandogli la bocca e trascinandolo fuori dall’aula sotto lo sguardo attonito degli altri alunni, trascinandolo di peso nella chiesa attigua al monastero, rabbrividendo alla fiumana d’oscenità rigurgitate dalle labbra del ragazzino, avvertendole se non con le orecchie con la pelle della mano che le bloccava. 

Ovviamente, neppure descrivendogli le peggiori torture dell’Inferno aveva scalfito la granitica ostinazione del giovinetto a non confessarsi, neanche lasciandolo lì in ginocchio dinanzi al crocifisso per l’intera giornata finché, esasperato, il canonico non l’aveva condotto lui stesso a Ca’ Miani dove ruppe gli argini di due anni di disperazione e tormenti cui quel masnadiere l’aveva costretto.

Ascoltando ambedue costernati, un Lucha porpora e Madre bianca latte s’umiliarono a suon di scuse, biasimando lamentevoli la ferita tuttora aperta che la morte del fu sier Anzolo aveva lasciato nel cuore di Momolo, che gli aveva levato ahimè la pace dello spirito. In lacrime, madona Leonora aveva afferrato le mani del precettore, domandandogli se avesse avuto cuore di far tagliare la mano e la lingua o cavar gli occhi ad un fanciullo di dodici anni. A ciò l’uomo, pur grande amatore della legge secolare e della morale cristiana, non s’era saputo difendere, provando in effetti un intimo orrore dinanzi a tal punizione eccessivamente severa per un ragazzino. “A patto però”, aggiunse prima di congedarsi, “che il Momolo si dia una calmata o l’espelleremo seduta stante: oggi invero ha passato ogni limite.”

Momolo terminò il resto dell’infelice giornata in punizione senza cena, con le orecchie ancora fischianti dai ceffoni e del furibondo predicozzo del cugino di Padre sier Zuan Francesco: Chi ti credi di essere, razza di ingrato? Il mio sior Barba sier Nicolò Miani ha fatto dare i scasi di corda a sier Jacomo Foschari, il figlio di Missier il Doxe Francesco Foschari! [7] Cosa credi che ci voglia alla Signoria per cavarti gli occhi e tagliarti la lingua? Sì, proprio a te, che te sé un missier nissùn ? Sempio! Bauco! Oco! Mamara! Testa-da-bigoli! -  nonché cogli occhi ancor pieni del manrovescio che sier Zuan Francesco aveva dato a Lucha - Indriòto (idiota, ndr.) anca ti, co il tòo sior Pare l’gera in vita, queste cose mai e poi sarebbero accadute! Per secoli i Miani hanno patrocinato il Monastero della Carità, per secoli siamo stati ad esso legati e sempre tenuti in grandissima considerazione: adesso, per colpa di quel turco di tuo fratello e per la tua imbecillità, siamo divenuto oggetto di pettegolezzo e scandalo! Vergognati! 

Disteso sul letto il ragazzino fissava gli arabeschi del baldacchino, ripetendosi ostinatamente quanto non avesse né detto né fatto nulla di male, che come sempre gli adulti esagerassero nelle loro reazioni, incapaci di accettare una qualsivoglia critica od opinione differente dalla propria.

“A questo punto, sarebbe meglio mandarlo a bottega o ai fonteghi, che apprenda almanco un mestiere se non vuole studiare. Ancora poco e avrà quattordici anni, basterà tener duro fino ad allora.”

Momolo udì Madre sospirare pesantemente, stringendoglisi il cuore, ché l’unico rimorso da lui provato era di averle dato ulteriori motivi di pena.

“A quest’ora i pupilli della Carità avranno già riferito tutto ai loro parenti. Certo, i puti mentono spesso e volentieri, però basta che uno soltanto degli adulti li creda e cussì bondì sioria per nuialtri!”

“Hai ragione, Lucha”, convenne infine madona Leonora a seguito di un lungo silenzio. “E’ la soluzione migliore. Ti confesso che avevo già da un po’ intenzione di recarmi a Fanzolo per la questione degli affitti; tra una cosa e l’altra, alla fine sono due anni che nessuno va a controllare e non vorrei che, via la gatta, i topi si mettessero a ballare. Porterò dunque meco sia il Momolo che il Marchetto: in questo modo il primo avrà occasione di cambiare aria, prima di ritornare a scuola, mentre il secondo apprenderà qualcosa di più sulla gestione del patrimonio.”

Marco le sarebbe stato di grande aiuto: sebbene appena diciassettenne, già dimostrava una grande propensione e intraprendenza verso il commercio, più forse dei suoi fratelli Carlo e Lucha, il primo oramai deciso a dedicarsi all’avvocatura mentre il secondo interamente assorbito dalla politica, entrato finalmente nel Maggior Consiglio nel dicembre dell’anno addietro.

Momolo si girò sul fianco, fingendo di dormire, quando Madre entrò nella stanza, prendendo silenziosamente posto accanto a lui. La donna non si lasciò ingannare, accorgendosi della tensione della sua schiena e il respiro corto. Dolcemente, segno che non si trovava lì per rimproverarlo o aggiungere ulteriori busse a quelle già prese in gran abbondanza, madona Leonora accarezzò la testa dell’ultimogenito, scorrendo le bianche dita tra le folte ciocche scure ch’egli si rifiutava di tagliare e pertanto cresciute oltre le spalle. Le si strinse il cuore alla vista del sorpreso sussulto del dodicenne, quasi non si aspettasse più alcuna carezza da chicchessia, solamente percosse.

“Donca m’esiliate”, l’accusò Momolo, le parole ovattate dal cuscino. “Vi vergognate di me e quatti-quatti mi cacciate via da Veniexia …”

“Donca ce ne andiamo via in tre: tu, io e il Marchetto”, replicò ineffabile Madre, perseverando nel suo accarezzare il figlio. “Ci trasferiremo per qualche tempo nella casa a Trevixo. T’aricordi chome te piaseva star lì? Coi giardini, gli orti, le vigne, i prati, le fontane … Ti geri tanto contento coi tuoi amici! Quando farà più caldo ci recheremo alla villa a Fanzolo e poi a Castel Francho a trovare madona Pellegrina Nani Morexini e la Marina e il signor Tuzio Costanzo …”

Il ragazzino fece spallucce, incurante. Sì, in passato, prima del fatto aveva sempre scalpitato impaziente all’avvicinarsi dell’estate, tarmando i genitori sul giorno della partenza alla villa dove trascorreva le sue intere giornate a scorazzare per la campagna  libero, felice e selvaggio assieme agli altri bambini del paese suoi compagni di gioco, in brache e in maniche di camicia senza le costrizioni di tutti quei costosi e ingombrati vestiti cittadini. Poi, per far vita sociale e spezzare la monotonia, ci si recava in visita ai Costanzo e altri loro amici e conoscenti a Castelfranco.

Le settimane prima e dopo l’Assunta, fino a settembre, le trascorrevano rigorosamente a Treviso, quella bellissima città giardino, centro commerciale fiorente e ricercato luogo residenziale. Ne approfittavano sia per necessità mondane sia per assistere alla magnifica processione o semplicemente per perdersi nei borghi fuori dalle mura, gustandosi le vivaci piazzuole, gli antichi monasteri e chiese, i giardini profumatissimi, i fiumi e i canali. Momolo, sporgendosi in avanti sul Ponte degli Impossibili agli squeri, stava per buon tempo a bocca aperta a rimirare i colori differenti delle acque del Sile e del Cagnan che scorrevano l’uno accanto all’altro, con Padre che lo teneva ben fermo acciocché non cascasse dal ponte. Oppure, sempre sulle spalle di Padre, tendeva il collo nel convento di Santa Margherita per meglio vedere l’arca di Pietro Alighieri, il figlio di Dante o gli affreschi di Tomaso da Modena (pur conoscendola alla nausea, adorava sentire Padre raccontargli la storia di Sant’Orsola). Con la scusa di visitare i frati domenicani, i due Miani si dilettavano a commentare gli affreschi a San Nicolò, ridacchiando col genitore alla fila degli studiosi ivi rappresentati, intenti a scrivere e leggere ponderosi volumi, in particolare di Hughes de Saint-Cher e Nicolas de Rouen con indosso i loro buffi occhialetti sul nasone adunco.

Adesso, invece, niente di ciò l’entusiasmava più. Nulla lo stimolava. Non c’era più Padre a tenerlo in equilibrio sul ponte citandogli Dante, o a narrargli di Sant’Orsola o a commentare maliziosi la buffa vecchiaia degli eruditi domenicani. Padre giaceva nella sua arca, come Pietro Alighieri, in alto e inaccessibile, senza che Momolo avesse potuto ringraziarlo del tempo assieme, confessandogli quanto l’avesse sempre amato e quanto gli fosse dispiaciuto, negli ultimi anni, di non essere stato un figlio esemplare.

“Momolo, dime, vuoi bene alla tua Mamma?”

Il giovinetto si voltò verso la madre, confuso. “Siorasì”, mormorò lentamente, non comprendendo dietro quale ragionamento ella lo stesse conducendo. Certo che le voleva bene - che domande? - se non addirittura più di se stesso!

“Mi chiameresti mai putana?”

Momolo impallidì, sgomento. “Siorano!”

“E al tuo Tata – requiescat in pace – gli volevi ben?”

Annuì.

“Lo chiameresti forse can?”

Negò.

“Donca, quando ti prude in bocca la tentazione di bestemmiare Dio e la Madonna, che sono il tuo Padre e la tua Madre celesti, immaginati mentre dici: Cane il mio sior Pare Anzolo e puttana la mia siora Mare Leonora!”

Momolo balzò seduto, il labbro tremante e congiungendo le mani scosse con tal veemenza il capo, che Leonora temette volerselo staccare: “No! No! No! Questo mai! Mai e poi insolentirò voi e il sior Pare! Preferirei morire piuttosto!”, asserì angosciato. Abbassando il tono della voce, le confessò in un misto di astio e affanno: “Però Dio … Lui mi suscita una gran rabbia e altrettanta paura … Non mi riesce più di pregarLo come prima! Egli m’odia! Come può la gente affermare tutta convinta quanto sia giusto e misericordioso, quando invece Lui mi ha strappato il mio sior Pare? Vojo mio Pare! Vojo il mio Tata! Lo voglio qui con me, ho bisogno di lui, perché Iddio non ha tagliato la corda che l’ha impiccato? Non compie miracoli, forse? Perché si burla così di noialtri?”, singhiozzò per la prima volta dopo due anni, coprendosi disperato le mani. “E’ questa la mia punizione per esser stato disobbediente? Per aver mandato Tata alla malora? S’è per questo motivo, perché Dio non se l’è presa direttamente con me? Perché ha dovuto uccidere Tata?”

Leonora si portò il piangente figlio al petto, stringendolo forte e cullandolo, di tanto in tanto schioccandogli baci consolatori sul capo o sulle tempie, massaggiando le spalle già più larghe (ma sempre magre! sempre troppo magre!) onde consolarlo e calmarlo.  

“Amor mio, Dio non ti odia né vuole il tuo male. Le cose, anche quelle malvagie, capitano perché devono capitare.”

“Lo stesso non mi va di pregarLo; Lui non ascolta, non capisce … Giudica e punisce soltanto!”

“Donca rivolgiti alla Madonna, confidaLe i tuoi crucci e pensieri, come con me quando volevi ottenere il perdono del tuo Tata, ma eri troppo timoroso di domandarglielo direttamente. Aricordate ben, Momolin dil cor mio: Eia ergo, advocata nostra … Quando dubiti – a torto – che Dio non ti voglia ascoltare, stai certo che Ella sempre lo farà.”

 

(Nelle settimane successive, mentre aiutava Madre a preparare i bagagli tra le obiezioni dei parenti, che non vedevano di buon occhio la sua decisione di andare a vivere da sola a Treviso, arrivava al Senato la notizia del voltafaccia a Pisa del Duca Ludovico il Moro, colui per la cui causa Venezia aveva mobiliato ingenti risorse tra uomini e denaro, passando egli dalla parte della nemica Firenze. Il pagatore di campo sier Zuam Paulo Gradenigo e il provveditore sier Nicolò Foscarini da Mantova avvertivano inoltre la Signoria di guardarsi dall’infido Francesco Gonzaga che, pur comandante dell’esercito della Serenissima, troppa simpatia ancora nutriva verso il cognato e oramai la scusa del comune dolore per la prematura e sfortunata morte della giovane Duchessa Beatrice non giustificava più quella sospettosa vicinanza tra Mantova e Milano.

Il giorno in cui Momolo partì da Venezia assieme a Madre, Marco e alcuni servitori, navigando via burchio in direzione di Portegrandi di Quarto d’Altino e colà imboccando il Sile, ecco in quel giorno con la sua secolare gelida flemma la Signoria discusse, elaborò e prese l’irrevocabile sua decisione di sbarazzarsi una volta per tutte di Ludovico Sforza duca di Milano assieme alla sua nipote illegittima Caterina Sforza contessa di Forlì e signora di Imola, le cui intromissioni aveva impedito loro di raggiungere la Toscana o impedendo agli stradioti d'arrivare a Pisa o proprio ingaggiando le truppe veneziane in continui scontri. A peggiorare la già precaria posizione del Duca, suo suocero il duca Ercole d'Este era venuto a proporsi come arbitro tra Firenze e Pisa, dispiacendo la sua proposta di pace sia alla Signoria sia agli ambasciatori pisani, i quali, gettandosi ai piedi di Missier el Doxe, lo supplicarono di conceder loro solo danari per difendersi dai fiorentini. E tanta fu l'indignazione generale, che né il Duca di Ferrara, né gli ambasciatori fiorentini, né quelli milanesi ebbero, per qualche tempo, coraggio di mettere il naso fuori di casa.

Frustrata, tradita, avvelenata da una malsana smania vendicativa, questa fu la solenne promessa della Signoria davanti a Dio e agli uomini: il Moro deve cadere.)

 

 

***

 

6 settembre 1511, sera

 

Madona Leonora rimboccò le coperte al nipotino Anzolo, detto Zanzi, rimasto mezzo scoperto a furia di scalciare nel sonno e gli sistemò il cuscino caduto per terra. Dopodiché, la donna controllò che la culla del piccolo Scipio si trovasse ben distante dalla finestra e i suoi spifferi, massaggiandogli il pancino quando l’infante corrugò il viso forse a causa di qualche sogno molesto, arricciando il naso onde frignottare, chetandosi subito al rassicurante tocco della nonna e dopo uno sbadiglione e un felino strofinarsi del viso, ripiombò nel regno di Morfeo, suggendo contento il suo pollice. La loro sorella Crestina (o Ina per, distinguerla dalla defunta zia) dormiva invece quietamente, abbracciata alla sua bambola preferita. Ai piedi del letto, acciambellati, si scaldavano Frisopin e Baffo, il gatto di casa.

Da quando quella maledetta guerra era incominciata, la vedova Miani aveva sviluppato un bisogno quasi patologico di sentire fisicamente accanto a sé la propria famiglia, dando ordine di trasferire i lettini e la culla dei nipoti nella sua stanza da letto così da tenerli ben sott’occhio. A Marco scriveva dettagliate lettere sulla salute dei suoi figli Zanzi, Ina e Scipio, a sua volta raccomandandosi di riguardarsi e non gettarsi in strane imprese.

E mentre i nipoti dormivano il sonno del giusto, la nobildonna invece trascorreva le sue notti in preghiera, con Eudokia e Orsolina a farle compagnia nelle lunghe veglie. Lì  Madona Leonora aveva fatto sistemare un inginocchiatoio davanti al ritratto di famiglia ai piedi della Madonna, avendo preferito tenerlo per sé invece di esporlo nella cappella privata contrariamente all’originaria intenzione.

Il pittore aveva voluto lasciare un’impressione d’intima informalità nella composizione, lasciando solo a lei e a suo marito sier Anzolo espressioni calme e solenni, confacenti ai ruoli di patrizi e capofamiglia. Crestina, accanto al padre, lo guardava di sottecchi dolce e introversa; accanto a lei sulla sinistra, Carlo osservava pensieroso e attento. Lucha, alla destra di sier Anzolo, mostrava un certo orgoglio per aver ottenuto la sua toga nera, mentre Marco arricciava la bocca in un sorriso furbetto, con davanti Momolo che guardava in alto, verso la Madonna, con un’espressione d’infantile curiosità e aspettativa (Marco gli aveva detto che per davvero Lei stava sopra di loro sennò come avrebbe potuto dipingerLa il pittore? Al che il fantolino, credendogli, aveva alzato la testa; al pittore questa deviazione dalla posa stabilita tanto piacque che aveva insistito di ritrarlo così). Ai lati della Vergine, Leonora aveva poi chiesto d’aggiungere all’ultimo due angioletti con le fattezze, descritte a memoria, degli altri suoi figlioli Marco Antonio ed Emilia, morti purtroppo bambini.

“Sancta Mare d’Idio, Sancta Verzene dòlzissima, Sancta Maria: de grassia, salvé mio fio! Liberelo di le catene! Riportémelo indrio!”, La pregava Leonora come ormai da quindici anni, di restituirle il figlio libero da ogni catena.

“Sancta Mare d’Idio, Sancta Verzene dòlzissima, Sancta Maria, salvé el fio! Liberelo di le catene! Riportélo indrio!”, le facevano eco Eudokia e Orsolina, dondolando con lei nella preghiera e pregando anche per l'anima dei loro figli e del marito, morti sicuramente a Castelnuovo di Quero.

Così La supplicava fino alle prime ore dell’alba, gli occhi velati dalle lacrime fissi sul soave volto sorridente della Madre di Dio, alla quale Leonora aveva chiesto al pittore di dare le medesime sembianze dell’affresco della Madonna dei Miracoli a Treviso.

 

 

 

Come potrà un giovane tenere pura la sua via?

Custodendo le Tue parole.

Con tutto il cuore Ti cerco;

non farmi deviare dai Tuoi precetti.

(Salmo 118)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Capitolo introspettivo, ci prendiamo una pausa prima di ripiombare nella realtà della guerra.  Avrete sicuramente notato se non le medesime parole, ma il parallelismo tra il discorso di Thomà e del Nostro, spiegando dunque il perché quest’ultimo sia rimasto così scosso dal racconto del bambino.

Dopo i vari Concili, la figura di Dio Padre e Cristo Gesù sono state molto “ammorbidite” e pertanto potrebbe risultare difficile la comprensione circa la grande devozione dell’epoca verso la Madonna, mediatrice e Madre di Dio, la cui potente intercessione avvicinava a Colui che si credeva fermamente inavvicinabile, lontano e tremendo.  Questo in caso ci siano stati attimi di perplessità leggendo le riflessioni del Nostro e delle sue remore interiori.

I tre dei dieci comandamenti all’inizio del capitolo vi avranno fatto appunto capire che questa, del Nostro, non è solo una rimembranza ma anche un esame di coscienza. Prima della confessione, si medita sui dieci comandamenti, se li si hanno osservati.

Infine, in questo capitolo v’è una piccola citazione di un’opera letteraria veneziana, quando ho scritto la scena non ho saputo resistere alla tentazione d’inserirla … senza suggerir niente, chi la sa, la scova :-)

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, ci si vede al prossimo!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] Signori di Notte al Criminal = sei magistrati (un patrizio per ogni sestiere) che di notte erano incaricati assieme agli Zaffi di far la ronda per le calli di Venezia onde mantenere l’ordine pubblico (in collaborazione col Capo Contrada/ Capo sestiere ) e la sicurezza notturna delle strade. La loro sede – la Camera del Tormento – si trovava a Palazzo Ducale.

[2] ebbene sì, quando Venezia si trovava in difficoltà economiche o in uno stato d’emergenza in cui aveva bisogno di ogni ducato, pur di non vessare con eccessive tasse il popolo preferiva togliere gli stipendi ai suoi funzionari, magistrati e senatori.

[3] Haec ornamenta mea = Ecco i miei gioielli, (lett. Questi sono i miei gioielli). A pronunciare questa frase – sinonimo delle virtù matronali -  fu Cornelia figlia di Publio Cornelio Scipione Africano e madre dei populares  Tiberio Sempronio e Caio Sempronio Gracco.

[4]  corrisponde al Giovedì Grasso. In quel giorno avveniva una grande processione, che terminava col taglio della testa del toro è un’antica tradizione del Giovedì Grasso, in cui si ricorda la vittoria nel XII secolo del Doge Vitale Michiel contro il Patriarca di Aquileia e i suoi dodici suoi feudatari ribelli. Come ammenda presente e futura, ogni anno il Patriarca doveva regalare a Venezia un toro (simbolo del Patriarca) e dodici maiali (i feudatari), i quali venivano fatti sfilare per la città fino alla Piazzetta, dove il macellaio con un solo colpo tagliava la testa all’animale, da qui il detto “tagliar la testa al toro”, ovvero chiudere in maniera secca una faccenda una volta per tutte. Le carni del toro e dei maiali venivano poi distribuite ai patrizi, al clero, al popolo e anche ai carcerati. Oggigiorno, la traduzione pur continuando ha perduto l’elemento “vivo”, ossia che il toro è un fantoccio e i maiali gente in maschera.

[5] altana = terrazza in legno sopra i tetti delle case

[6] la condanna per stupro di un bigamo = prima del Concilio di Trento, a Venezia la gente si sposava per lo più col rito civile. Siccome bastava qualche testimone, senza un atto notarile vero e proprio talvolta risultava difficile “provare” la validità del matrimonio e siccome inoltre gli uomini non portavano la fede nuziale, la sposa doveva fidarsi sia di lui che dei testimoni, ovvi complici. Pertanto, siccome il bigamo “ingannava” la giovane così da vincere ogni sua ritrosia a concedersi a lui, per la legge di Venezia esso era paragonabile ad uno stupro in quanto la sposa perdeva la virtù sua tramite un raggiro, che la rendeva “forzatamente” consenziente. Uno dei vari compiti dei Signori di Notte era anche di scovare questi bigami e di arrestarli.

[7] Jacomo Foschari / Francesco Foschari = già in passato costretto ad un temporaneo esilio per aver accettato doni dal Duca di Milano Filippo Maria Visconti, Jacopo (Jacomo) Foscari (1416 - 1457) figlio del Doge Francesco Foscari (1373 -1457) , venne accusato dell’omicidio dell’avogadore di Comun Ermolao Donà, nel 1451. Arrestato e torturato finché non confessò il delitto, dopo quasi tre mesi di processo venne esiliato a vita a Creta. Nel 1456, di nuovo Jacopo venne riportato a Venezia per un altro processo stavolta per aver intrattenuto una corrispondenza col Duca di Milano Francesco Sforza e il sultano Maometto II; tra la scelta di giustiziarlo e di confermare la condanna all’esilio, prevalse la seconda e il Foscari venne rispedito a La Canea (oggi Cania) a Creta dove, stremato dal carcere, dalla tortura subìta e dall’umiliazione dell’esilio, morì nel gennaio del 1457. Suo padre, il Doge Francesco Foscari, venne costretto ad abdicare lo stesso anno e morì di lì a poco.

Nicolò Miani, prozio paterno del Nostro, nel 1451 era Capo dei Dieci e anzi fu colui che raccolse la confessione dell’accusa del Foscari. Nel 1457, invece, faceva parte dei 25 della Zonta (Giunta) assieme a Nicolò Tron (Trum in veneziano), allora Avogadore di Comun che, su iniziativa di Giacomo Loredan ( il figlio di quel Pietro Loredan che per poco non aveva ottenuto il dogato e che si vociferava fosse stato avvelenato proprio da Francesco Foscari) riuscirono a convincere il Senato a deporre il Doge.

La triste vicenda di Jacopo Foscari – l’uomo infatti, era innocente dell’omicidio, il vero colpevole si fece avanti solo in confessione e in punto di morte – divenne ghiotto materiale per i grandi esponenti del Romanticismo come Lord Byron, Delacroix, Hayez e Verdi che compose la celebre opera lirica “I due Foscari”.

Levando la patina tragica del Foscari dipinto come capro espiatorio e vittima della vendetta della famiglia Loredan (i quali sfruttarono certo la situazione ma non la crearono come invece sosteneva Byron), bisogna dire che l’intera vicenda giudiziaria dimostrò una volta per tutte la supremazia delle leggi di Venezia su qualsiasi individuo, perfino quello considerato il più intoccabile. Anzi, proprio perché figlio del Doge, le colpe relativamente blande di Jacopo (levando il delitto che non commise) divenivano maggiormente imperdonabili e pertanto punibili col massimo della pena.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo Nono: 7 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 25.09.2021

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Capitolo Nono

7 settembre 1511, domenica

 

 

 

 

 

 

“Potevate anche farvi annunciare”, commentò freddamente il conte Gianfrancesco di Gambara, senza neanche premurarsi di staccare gli occhi dalla mappa che stava consultando assieme al capitano Jacob Empser. “Monseigneur du Molard …  signor marchese Galeazzo … signor marchese Teodoro … come posso aiutarvi?”

“Scartiamo per cortesia i convenevoli e veniamo al dunque”, tagliò corto il barone d'Uriage, piazzandosi davanti al bresciano. “Ovvero che siete un ladro e un porco.”

La testa di Gambara guizzò in alto. “Come prego?”, sibilò ostile e perfino i due nobili lombardi sobbalzarono stupiti dal sermo adoperato dal francese, solitamente più gentile e diplomatico nella scelta dei vocaboli.

“Avete udito benissimo.”

Il conte sospirò snervato: “Se vi state riferendo all’uccisione di quella vostra guardia, vi ripeto che si è trattato di un …”

“Chi se ne fotte di quel coglione che s’è fatto ammazzare sì stupidamente!”, sbraitò fuori di sé il capitano delle fanterie guascone, giunto al limite della sopportazione, rovesciando il tavolo che per poco non cadde sul piede del condottiero tedesco Jacob Empser, costringendolo a balzare all’indietro. “Siete un ladro ché approfittando della confusione generata dalla morte del capitano Mercurio vi siete impossessato di un nostro prigioniero; un porco ché vi nascondete dietro l’Empereur per tenervelo ben stretto alle sottane! Già ci trattate alla stregua di servi, impedendoci d'attraversare la Piave e far rifornimenti e ora ci rubate i prigionieri, frutto delle nostre imprese? Pardi, per chi ci prendente?!”

Digrignando i denti ma seguitando a sorridere affettato, il Gambara replicò tagliente: “Abbiate dunque l’amabilità di spiegarmi, quale negozio avevano le loro illustrissime signorie nel padiglione del signor Mercurio” e indicò Teodoro Trivulzio e Galeazzo Pallavicino, che aprirono la bocca per replicare, sennonché il conte li interruppe: “Ma ormai poca importa: vi recherà immenso piacere apprendere di come egli sia sopravvissuto alla sua disfatta a Treviso: proprio stamane gli stradioti l’hanno riportato in barella al suo padiglione. Dite, quale fretta vi spronava ad accaparravi il patrizio veneziano, da non poter neanche attendere la conferma del decesso del capitano Mercurio?”, li sfotté con velata ed accorata perfidia.

Il marchese Teodoro Trivulzio si difese carezzevolmente astioso: “Ci limitavamo a prendere in custodia un prigioniero pericoloso, nel frattanto che attendevano sue notizie!”, rigirò abile la questione, in realtà sorpreso di quella novità quanto il marchese Pallavicino e il medesimo du Molard. “In passato questo nostro zelo ci ha molto giovato, o mi sbaglio?”

Il cinquantatreenne nipote di Gian Giacomo Trivulzio si riferiva alla cattura il mese scorso del capitano Alessio Bua, per mano di Giulio Sanseverino in una sua audace sortita. Quest’ultimo aveva subito contattato a Treviso il capitano Vitello Vitelli, proponendo di scambiare lo stradiota per il comandante spagnolo Francisco Maldonado. Onde forzare la mano al recalcitrante condottiero, il Sanseverino l’aveva avvisato che, in caso di rifiuto, nessuno stradiota veneto fatto prigioniero sarebbe stato restituito alla Signoria.

Il bresciano grugnì sardonico: “Pericoloso! Ma chi credete d’aver catturato? Un altro Bartolomeo d’Alviano? Piuttosto direi un insolente ragazzino che non sa tenere la lingua a freno!”

Notando la vendicativa foga in quelle dure parole e sovvenendosi dei pesanti insulti cui il prigioniero aveva subissato il conte, Teodoro Trivulzio insistette mellifluo: “Dunque restituitecelo, se per voi non ha alcun valore.”

“Molto volentieri, se si trattasse di un patrizio qualsiasi”, s’ostinò invece il Gambara, intuendo il gioco dell’altro. “Purtroppo, quell’Emiliani è un nipote di un consigliere ducale e questo a me – e all’Imperatore di conseguenza – è sufficiente per considerarlo un nostro prigioniero.”

“E con ciò?”, corrugò la fronte Soffrey du Molard, non comprendendo dove il conte volesse andare a parare. “Cosa vale un consigliere?”

“Niente”, mentì ineffabile il signor Gianfrancesco, rimettendo in piedi il tavolo calciato per terra. “Assolutamente niente.”

Ignoravano spesso gli stranieri come il Doge, pur essendo il personaggio più eminente di tutta Venezia, non rappresentasse che la facciata dello Stato, il suo potere diviso con i suoi sei Consiglieri e i tre Capi della Quarantia Criminal. Non era dunque lui bensì questo Minor Consiglio a presiedere i Consigli di Stato; non lui bensì il Minor Consiglio che vagliava le credenziali e discuteva con gli ambasciatori; che effettuava le visite negli uffici di Palazzo Ducale,  nei cantieri dell’Arsenale, alle udienze dei tribunali, salvo rari casi in cui si necessitava della presenza del Doge. Solo il Minor Consiglio disponeva del diritto di grazia ed esaminava in ultima istanza le suppliche e le petizioni dei condannati. Sulle lire e sui ducati, l’effigie al rovescio raffigurava un uomo inginocchiato ma irriconoscibile nei tratti del Doge in carica, un personaggio stereotipato di fattezze anonime, talmente insignificante che lo si poteva imprigionare su decisione di due Avogadori su tre. Il Doge quindi era niente di meno d’un simbolo, un’efficace maschera per celare un potere ben più articolato e complesso, difficile da agganciare e con cui intessere relazioni privilegiate anche per via dei frequenti cambi di carica.

Per questo un’occasione simile il conte Gianfrancesco voleva sfruttarla al massimo: Dio solo sapeva quando gli sarebbe ricapitata, una volta scaduti gli otto mesi di mandato del consigliere Batista Morexini! Come posso negare all’Imperatore una leva così preziosa su chi veramente governa la Serenissima Repubblica? 

Du Molard strinse scettico gli occhi, odorando puzza d’imbroglio. Contrariamente al bresciano, non conosceva tutte le dinamiche politiche interne di Venezia, però gli era bastata la testardaggine di Mercurio Bua nel contendersi quel patrizio con La Palice per convincersi dell’importanza di quel prigioniero. “Vi rammento”, tornò cocciuto alla carica, “che l’Empereur può essere colui che ha voluto quest’impresa; tuttavia, chi sta cacciando fuori i soldi è le Roi! Di conseguenza, considerato l’abnorme debito del vostro Habsbourg nei suoi confronti, minimo ci dovete risarcire con questo prigioniero.”

“C’è tanta gente importante a Treviso, che vi procurerà ottimo bottino. Vi rifarete con loro”, scrollò il conte incurante le spalle.

“E’ la vostra ultima parola, monseigneur de Gambara?”, avanzò d’un passo verso di lui  il capitano delle fanterie guascone, fissandolo lungamente dritto negli occhi.

“Sì.”

“Perfetto.”

E senza aggiungere altro du Molard uscì dalla tenda ad ampie falcate, lasciando gli altri astanti interdetti e a guardarsi disorientati per qualche istante, prima che la tremenda realizzazione delle sue intenzioni calasse in Gambara che, imprecando furioso, lo imitò in egual misura seguito a ruota da Trivulzio e Pallavicino.

 

***

 

 

Presa la Messa e comunicatosi, sier Zuam Paulo Gradenigo si preparò all’ennesima giornata intensa, spendendo due buone ore a rampognare gli stradioti i quali, insofferenti per la paga mancata, davano preoccupanti segni d’irrequietezza e solo la passata esperienza come loro comandante aveva aiutato il provveditore a trovar le giuste parole, onde rimetterli prontamente in riga e anzi, spronandoli ad impiegar maggior zelo nelle loro operazioni di avanscoperta, alla ricerca di informazioni e di bottino. Simile trattamento l’aveva riservato anche ai soldati di Troilo Orsini, trasformatisi all’occasione in petulanti comari.

“Quaranta giorni senza paga!”

“Il vino ce lo date talmente annacquato che neanche si distingue il sapore!”

“Qui le donne ci menano! E ci tirano addosso i pitali!”

“La Madre Superiora ci ha presi a scoppettate, insultando noi e le nostre madri!”

“E’ indecente! Almeno un pochino di svago!”

“O lo stipendio!”

“Niente denaro, niente vino, castità perpetua … A questo punto ingaggiate dei monaci, no?”

Al che il provveditore, sorridendo loro ambiguo, aveva replicato con feroce malizia: “Mi par di capire, signori miei, che qui a Treviso non si lavora abbastanza se avete tutte queste energie da spendere per lamentarvi, ubriacarvi e correre dietro alle donne. Sta bene: risolveremo la questione raddoppiando i vostri turni di guardia e le ore a potenziare la difesa cittadina, ché il bravo soldato crolla stanco sulla sua branda!”

Dopodiché Gradenigo si era recato a Porta Santi Quaranta, là dove sospettava trovarsi il luogo principale dell’attacco dei nemici (se non addirittura dove si sarebbero accampati) e pertanto personalmente si era messo a coordinare l’allagamento della campagna circostante più altri tre punti limitrofi, grazie al piccolo capolavoro ch’era il Ponte de Pria. [1]

Allo stesso tempo, aveva dato ordine di continuare i lavori di deviazione del fiume Sile, augurandosi che la squadra dei guastatori avesse ben colazionato e sprizzasse d’energia poiché nessun trevigiano, essendo domenica, si era presentato ad aiutare. Dinanzi alle giuste obiezioni del capitano Renzo di Ceri, il quale gli proponeva di trascinare quei pigri gaglioffi per i capelli se necessario alle loro postazioni di lavoro, Gradenigo aveva ribattuto serafico che se voleva svegliarsi con un pugnale in gola, facesse pure. L’assalto al granaio assieme alla malcostume e generale indisciplina dei soldati aveva creato una sottile crepa tra la popolazione locale e le autorità e il provveditore non osava sfidare la sorte, inimicandoseli proprio ora al momento del bisogno.

Le lettere della Signoria divenivano cadaun giorno sempre più perentorie e intransigenti, spronando una miglior difesa della città e del territorio fino a pretendere due aggiornamenti al dì sulla situazione nella Marca. Gradenigo rispondeva loro promettendo che avrebbe fortificato in perfezion Treviso, assicurandoli che se Dio voleva quell’assedio, allora esso sarebbe stato a vergogna e a danno dei franco-imperiali, spedendoli , così giurava, uno ad uno all’inferno. Certo, aggiungeva poi alla fine, se avessimo almeno 5,000 fanti e più denari per le paghe, si potrebbero ottenere maggior risultati.

I nemici, aveva poi fatto scrivere il provveditore quella mattina al suo segretario, ancora indugiavano a Montebelluna in attesa di un buon numero di artiglierie; si contavano più o meno 8,000 imperiali però assai mal equipaggiati; 2,000 francesi più 300 uomini d’armi, quest’ultimi partiti alla volta di Bassano. La sua spia gli aveva riferito inoltre come i franco-imperiali stessero lavorando a dei gabbioni, ponti e scale e confermava da una conversazione origliata dal padiglione del conte Gianfrancesco di Gambara la loro ferma intenzione di seguitare in questa loro impresa di Treviso, malgrado la batosta di due giorni addietro. L’unico inghippo rimaneva la crescente scarsità di pane, la reciproca diffidenza tra tedeschi e francesi, nonché un raffreddamento di stomaco e polmoni che stava pian pianino colpendo un buon numero di soldati, costringendoli ammalati nelle loro tende. Infine, niente nuove sulla calata dell’Imperatore, sier Antonio Zustignan orator e dottor spiegava in Collegio come Maximilian si trovasse inattivo a Sterzene, senza dar segni di aver preparato alcun esercito d’affiancare a quello di La Palice.

Per il resto, pioggia, pioggia, tantissima pioggia.  

“Ma è il pisciatoio d’Italia questo?”, bofonchiò tra sé e sé il capitano Renzo di Ceri, scostandosi i capelli bagnati dalla fronte e rabbrividendo alla sensazione dell’acqua che, entratagli dentro la gorgiera, gli scivolava gelida lungo la schiena. Non si sovveniva più dell’ultima volta in cui aveva goduto del secco calore degli abiti asciutti. “Non può smettere di piovere per qualche giorno?”

Accanto a lui Vitello Vitelli starnutì, tirando su col naso. “Sempre a lagnarvi peggio d’una femmina, voi, eh?”, lo rimbeccò, sogghignando all’occhiataccia dell’Orsini che, al secondo starnuto, s’allontanava da lui per precauzione. “Cacasotto …”, lo schernì sottovoce.

“Benvenga, invece, la pioggia”, ribatté sier Zuam Paulo. “Anzi, spero che continui così per i prossimi due o tre giorni: allora sì, che i franco-imperiali dovranno trasformarsi in rane se vorranno giungere qui a Treviso - o in pesci per attraversare la Piave”, disse, mentre osservava l’acqua della Botteniga alzarsi lenta ma inesorabile di livello al punto di confondersi con la linea dell’orizzonte, espandendosi.  “Avvisate invece i vostri balestrieri di prepararsi - stanotte cavalcheranno assieme agli stradioti. Vediamo se riescono a danneggiare un po’ i nemici, così da far bottino e smetterla d’importunare sia i cittadini che i villani …”, lanciò l’uomo un’occhiata assai eloquente all’Orsini, che ebbe la decenza di arrossire al ricordo degli arrabbiatissimi contadini inseguire con falci e forconi i suoi uomini, pizzicati a rubare nei loro casolari con la scusa di perlustrare il territorio.

“Era oggi che Matteo da Zara doveva partire per Mestre? Per i rinforzi?”, gli chiese confermaVitello Vitelli, levando d’impaccio il collega. “E con loro spero porti anche le paghe. Viaggerà via fiume. Questo lo rallenterà non poco …”

“Meglio impiegarci un’ora in più e arrivare a destinazione, che prendere la scorciatoia e sparire nel nulla”, sentenziò brusco Gradenigo, il pollice premuto sulla lunga e orrida cicatrice bianca sul collo e segno della palese protezione dall’oltretomba da parte del suo carissimo fratello sier Zuam Gradenigo, morto ironicamente per un’analoga ferita presso Valiceno.

Sia Vitelli che Orsini tacquero saggiamente, indovinando l’evento cui il veneziano stava sottintendendo.

Ogni uomo porta la croce di un grande rimpianto nella vita sua e di due si tormentava ancora il provveditore generale di Treviso: il primo, di non esser stato al posto del fratello in quell’agguato di tredici anni addietro così da rovesciarne le sorti e risparmiare al minore quel triste destino – Zuam Paulo aveva combattuto contro Gian Giacomo Trivulzio, cos’era per lui quella lurida masnada a confronto? Il dolore del ricordo del feretro di Zuam giungere a Pisa tuttora lo straziava così come la frustrazione di non esser stato più in quel momento provveditore di campo, bensì semplice synico. Nella lunga e ultima veglia al corpo del fratello nella chiesa di Santa Croce in Fossabanda a Pisa, Zuam Paulo si era fatto narrare esattamente quanto accaduto, sorridendo amaro dinanzi al coraggio del suo Zuaneto che pur quando gli erano stati addosso in cinque e gli fu intimato di arrendersi e darsi prigioniero a Firenze, egli, sprezzante, sciabolandoli tutti li aveva gridato: “Rendite ti!” prima del colpo mortale al collo. “Quei maladeti florentini, manza-bàgari, busi-verti, onti-spurij, fioi-di-putana-turcha, caga-alto!”, aveva imprecato con le lacrime agli occhi l’allora pagatore di campo, incurante del luogo sacro, i pugni serrati e mordendosi il labbro fino a ridurlo in carne viva. “Me la pagheranno! Anche a costo di sgozzarli uno ad uno!” Ed ecco dunque il suo secondo rimpianto, ovvero di non aver avuto né modo né occasione di potersi vendicare di man propria su di Paolo Vitelli, Giovanni de’ Medici e Caterina Sforza. Se solo avesse potuto metterli gli artigli addosso! Altro che prigionieri!  Zuam Paulo Gradenigo avrebbe riservato loro i metodi turchi, in particolare al Vitelli che gli accecava gli uomini e glieli mutilava delle mani. Il veneziano avrebbe infatti dato ordine di segarli vivi in due per poi impalarne le metà sulle picche più alte, cucendo infine le loro teste su cagne impagliate da presentare in dono alla Signoria. Dateve cum un legno,[2] lo esortava invece la perentoria lettera di sua moglie madona Maria Malipiero Gradenigo, all'epoca incinta e pertanto rimasta a Venezia, lettera recapitatagli personalmente tramite suo fratello sier Marco Gradenigo. Non è né il luogo né il momento d’andar fora de vada. Ste inzendènti (orribili, ndr.) turcherie non fanno onore né a V.S. né al nostro Zuaneto. Limitatevi a compiere il vostro dovere in nome e per la gloria della Signoria Nostra e lasciate la vendetta a Missier Domino Iddio: vedaré, colendissimo sior marido mio, come il Suo castigo non mancherà d’abbattersi sopra i fautori di quest’orrendo delicto – videlicet el Villan, ea Gata de Forlì et quel Zanizero dil Vitelli. Qui gladio ferit gladio perit. Savia profetessa la sua Maria, ché nel giro di neppure due anni, mentre Gradenigo sfogava in Albania la sua rabbia a danno dei turchi, il Popolano calava di malattia nell’Ade; sua moglie perdeva lo stato e la libertà per mano del Valentino e la testa di Paolo Vitelli, illuminata da una torcia, dileggiata dai medesimi fiorentini per cui aveva combattuto.

Perdonami, fratello, per non aver potuto né proteggerti né vendicarti. Veglia su di me. Guida la mia mano. Che almeno io possa difendere e vendicare i torti subiti dalla Signoria Nostra per la cui gloria noi nasciamo e moriamo.

“Il collaterale Pietro Antonio Battaglia da Cremona e il signor Carlo Valiero giungeranno entro la fine della prossima settimana -  con l’ordine d’ispezione credo -  il primo da Padova e il secondo da Venezia”, interruppe Vitello Vitelli il denso silenzio impostosi tra i tre, dopo essersi schiarito la gola. “Evidentemente, la Signoria non si fida troppo dei nostri resoconti.”

E co la se fida mai, pensò Gradenigo. “Sta bene”, rispose atono, la bocca arricciata meditabonda. Ci scommetteva il mignolo destro che dietro le pressanti lettere del Minor Consiglio si nascondeva il tocco di sier Batista Morexini. Da quando quest’ultimo era stato nominato ad agosto consigliere ducale, il tono del Consiglio era cambiato in uno più spiccio e affatto incline ad udire scuse. Nulla quaestio a riguardo, solo che sier Zuam Paulo sospettava che dietro l’apparente ansietà del Minor Consiglio si celasse la ripicca del Morexini contro il podestà di Treviso sier Andrea Donado “dalle Rose”, che aveva ignorato le lettere di suo nipote sier Hironimo Miani, in cui gli denunciava i transiti dei contrabbandieri e di come urgesse il suo intervento. La questione si era conclusa con un nulla di fatto, manco con la chiusura del passaggio dello Scalon giusto per dar al ragazzo un contentino ed ecco che, a punizione della loro leggerezza, Castelnuovo di Quero cadeva, magari proprio per colpa di uno di quei sentieri di contrabbando. Sorteggiato inoltre l’altro nipote sier Marco Miani per la custodia di Treviso, naturale che il loro barba Morexini sfruttasse la sua posizione onde tenere ben puntati gli occhi sulla città e sui suoi capi.

“Sta bene”, ripeté il patrizio veneziano, dirigendosi verso il bastione di San Bartolomeo per controllare come procedeva l’allagamento a Porta San Tomaso. “Aggiungete alla missiva ai provveditori di Padoa, ch’i stagan vigilanti e fasse qualche bon’opera contra quei nemici pur ch’i pagamenti nol’i impedissa”, riferì il provveditore al segretario che annuendo s’appuntò mentalmente il messaggio che avrebbe trascritto al primo riparo disponibile. “Su di un secondo foglio, indirizzata alla Signoria, richiedete i seguenti … Cospetto e tacca via! Cos’è questo … questo … quest’obbrobrio?”, s’interruppe all’improvviso Gradenigo, spalancando schifato la bocca dinanzi all’orrore architettonico dinanzi a sé.

“Sono casematte?”, gli fece eco un confuso Renzo di Ceri, colui che aveva dato l’ordine d’erigere alcuni bastioni in forma di casematte e d’alzarli in altezza.

Sier Zuam Paulo contrasse i muscoli della mascella. “Vi pare si costruiscano così le casematte?”

“Sempre sono state così.”

“E sempre la fortezza è caduta!”, sbottò il provveditore, sciogliendo dalla cintura il fodero con la spada e, tra le grida di protesta del capitano Orsini e dei manovali, col pomolo buttò giù i mattoni non ancora fissati. “Noi stiamo demolendo mezza città, per non dar possibilità ai cannoni di farci danno con crolli e voi ben pensate di alzare le casematte?” e quando giudicò essersi ben sfogato, intimò ad un paonazzo Renzo di Ceri: “Rifate le volte a botte secondo le misure e indicazioni di Fra’ Jocondo: non ci troviamo qui per giocare agli artisti!”

“Sono giorni che ci lavoriamo e abbiamo lavorato bene!”, si difese indignato l’Orsini.

“Un lavoro raffazzonato, superficiale e alla checcefrega, tipico di voi papalini!”

“Cosa pretendete da noi? Non abbiamo né uomini, né risorse, né finanziamenti necessari – nome di Dio, cosa vi aspettate?!”

“La perfezione!”

“Siete un vecchio pazzo balordo, allora!”

Neppure il tempo di terminare la frase, che sier Zuam Paulo afferrò fulmineo il capitano delle fanterie per la gorgiera, la punta del pugnale all’altezza del pomo d’Adamo. “Innanzitutto, voi quel tono con me non lo usate, poppante. Secondo, voi siete al nostro soldo e perciò lavorate secondo i nostri parametri senza proferir né ai né bai, ma solo signorsì e se io voglio quelle cazzo di casematte basse, voi costruirete quelle cazzo di casematte basse e le vostre opinioni ve le tenete ben serrate in quella lercia fogna della vostra bocca!”, lo redarguì feroce. “Inoltre, credete che non conosca la mentalità di voi condottieri? Morto un committente se ne fa un altro: oh, caro mio, state ben certo che se Treviso dovesse cadere voi cadrete con essa, giacché prima che ci facciano prigionieri m’assicurerò di tagliarvi personalmente la gola, acciocché voi rimpiangiate all’inferno la vostra negligenza e faciloneria!” , lo minacciò il provveditore senza tanti giri di parole, la sua pazienza giunta invero al limite. Nonostante le provate capacità militari, sulla fedeltà dell’Orsini egli ancora non si fidava completamente: la Signoria forse aveva archiviato nel dimenticatoio il suo rifiuto di servirla due anni addietro per fedeltà al Papa, ma non di certo Gradenigo che lo teneva ben sottocchio, pronto ad agire al minimo suo sgarro. 

Quanto al capitano Renzo di Ceri, egli fissava sconvolto il veneziano quasi lo vedesse per la prima volta in vita sua: il giorno delle presentazioni ufficiali, non gli aveva suscitato una granché d’impressione, giudicandolo assai anonimo come ogni burocrate della Serenissima, pedante, pignolo e tendente al brontolamento cronico. Invece ora, con quegli occhiacci da belva assatanata e scintillanti di morte e dannazione, il condottiero riconobbe l’ostinato avversario di Gian Giacomo Trivulzio, di Ranuccio da Marzano, di Paolo Vitelli e dei Turchi.

“Signor provveditore, per cortesia, ci stanno osservando tutti …”, s’intromise Vitello Vitelli, appoggiando cautamente una mano sull’avambraccio dell’uomo, tacito invito a non scambiare il suo collega per un puntaspilli.

Allentando la presa, il patrizio veneziano rinfoderò il pugnale, asserendo in tono più conciliante: “Non dubito vi abbiate messo impegno, signor capitano Lorenzo; tuttavia, non possiamo permetterci un solo errore, poiché questo di Treviso non sarà un assedio bensì l’assedio: dopo di noi c’è solo Venezia e se cadiamo sarà la fine, Padova da sola non riuscirà a reggere l’attacco di tutti i Collegati. Io sarò vecchio e appunto in quanto tale ho ben compreso come il mondo della mia giovinezza sia morto, distrutto dalla guerra alla moderna cui se vogliamo sopravvivere non ci resta che adattarci e anche in fretta. Quelle spanne in meno sulle volte delle casematte che voi tanto sottovalutate, corrispondono invece alla sottile linea tra la sicurezza e la perdita della nostra artiglieria! Capite?”

“Capisco”, gracchiò Renzo di Ceri, massaggiandosi la gola offesa. “Però sul serio avremmo bisogno di più uomini e mezzi, o non riusciremo mai a completare i lavori in tempo e La Palissa potrebbe piombarci addosso da un momento all’altro!”

“Avrete tutto a disposizione, di questo ve lo garantisco”, convenne Gradenigo, auspicandosi che, a furia d’insistere, prima o poi la Signoria avrebbe ceduto, inviandogli quanto desiderato. “Oggi focalizzatevi sulle casematte, domani riprenderemo col guasto. Signor capitano Vitello, quanto a voi, per cortesia sovraintendete i lavori di deviazione del Sile”, ordinò ad entrambi i condottieri, scendendo le scale assieme al segretario. “Voi, invece, recatevi da sier Hironimo Capelo, sier Alexandro Pexaro e sier Vicenzo da Riva: ho da conferire urgentemente con loro.”

“Vi servo, zelenza!”

Osservando la figura del provveditore montare a cavallo, finalmente Vitello Vitelli espresse la sua opinione: “Siete invero poco furbo”, apostrofò aspro il collega. “Cosa andate a litigare con chi ha combattuto per due anni contro i Turchi sulle montagne albanesi?”

Ironia della sorte, non era quello ciò che turbava Renzo di Ceri: analizzando l’altezza delle casematte, a malincuore il condottiero dovette ammettere quanto quella vecchia volpaccia asserisse il vero nel descriverle troppo alte e perciò vulnerabili ai colpi di cannone nemico.

“Dai, al lavoro! Sennò qua er castigamatti ce mena a tutti quanti!”, incitò l’Orsini i manovali, che grugnendo in disappunto ricominciarono l’intera costruzione pressoché daccapo.

“Sier Lunardo”, salutò il provveditore il concittadino appena giunto da cavallo dal porto cittadino. “Quali nuove? Mi è stato riferito di un gran viavai di gente a San Martim”, domandò incuriosito, riferendosi al brulicare di bastasi indaffarati a ponte San Martino, in un serrato andirivieni di botti e di sacchi diligentemente poi stipati nei magazzini per le provviste durante l’assedio.

“Rifornimenti da Chioza, sior proveditor! Un piccolo regalo da parte loro, per augurarci la buona sorte!”

“Da Chioza?”

Zustignan rise di gusto. “Un piccolo scherzetto al Duca di Frara. I marinai mi hanno raccontato, come don Alfonxo avesse ordinato di trasportare dal Polesene a Frara quanti più rifornimenti possibili. Appena saputolo, i nostri chiozoti hanno armato alcune barche, eletto capitano un loro concittadino – Piero Pagan – e risalendo il Po hanno catturato sette burchielli ferraresi carichi di botti di vino, poiché erano venuti a vendemmiare alle basse …”, e qui sier Lunardo s’interruppe, asciugandosi le lacrime agli occhi. "E così il Duca alla fine è rimasto a bocca asciutta!"

Doveva esser stato uno spettacolo indimenticabile quello dei marinai chioggiotti assalire all’arrembaggio le imbarcazioni ferraresi cariche dei vittuarie, col coltello tra i denti e tanta cattiveria in corpo, nonché dei ferraresi buttati fuoribordo a far compagnia alle anatre. .

“Scommetto che quei vendemmiatori ferraresi li hanno lasciato andare; chissà se quel gran cancaro del Duca ci avrebbe concesso uguale magnanimità, lui che faceva decapitare i nostri prigionieri! Suo padre in questo era più savio ed equilibrato.”, storse Gradenigo disgustato la bocca.

Sier Lunardo scosse paziente il capo. “Perché don Alfonxo sarà pur il “duca artigliere”, peccato che non capisca come un morto non valga nulla, contrariamente ai vivi da cui sempre qualcosa si può ricavare.”

“Avete ragione”, gli concesse sier Zuam Paulo, stringendo nervoso le redini del cavallo. “E a proposito di provviste: ho dato incarico di trasportare domani il laterizio e i legnami; sier Alexandro e sier Vicenzo porteranno i materiali via barche, mentre sier Hironimo via carri. Meglio sfruttare al massimo la lentezza e i tentennamenti del nemico, finché possiamo …”

 “Chi ha tempo non aspetti tempo, sior Provedador.”

 

***

 

Blu e bianco mischiati nella luce accecante del meriggio. Quel calore tremendo eppur confortante che gli penetrava le ossa. Lo sciabordio delle onde, l’ombra protettiva della Fortezza. Le risate dei fratelli, il latrato del cane Argo.

Mitéra che li chiamava, scherzosa, ridente.

L’armatura luccicante di Patéras. Il primo pugnale nelle sue mani. Ricorda gli Antichi: guai ai vinti!, riecheggiavano le sue parole mentre con la lama fendeva l’aria o il duro tronco centenario di un olivo, Patéras che assisteva orgoglioso assieme a theíos.

Ombre, tutte ombre che lo stavamo chiamando insistentemente. Le loro pallide braccia che lo ghermivano. I visi scarni, gli occhi incavati. Larve umane, orride, fredde, avide. Vieni con noi, hai già penato abbastanza. Vieni, trova in noi il ristoro dell’oblio.

No, non ancora!

Sì, ora!

Patéras … Mitéra … suo fratello maggiore … parenti … amici … compagni d’arme … quanti volti! Quanta morte!

Vieni con noi, tocca a te ora!

Una risata cristallina, civettuola di giovane donna che lo adulava e al contempo lo scherniva – bella, raggiante, vestita d’oro, gli occhi risplendenti come il suo rubino. Ma come! Non vuoi seguire neppure me?

Patéras! Patéras!

Il suo angelo gli correva incontro, le mani piene di fiori primaverili colte su campi fecondati di cadaveri. A che vita l’aveva costretta?

Patéras!, lo invocava la piccina in braccio alla madre, quest’ultima livida e inclemente, degna figlia di suo padre.

No! No! Aikaterinī, aspetta! Non andartene! Non portatemela via!

La moglie gli si avvicinò, gli occhi di bragia, la bambina piangente. Come hai potuto farci questo? Che uomo sei?

No!

Sarebbe meglio se crepassi!

No!

Così da liberarci dal tuo disonore!

No!

Della tua crudeltà!

No!

Della tua insensatezza!

No!

Torna da me, allora!

No! No!

Allora muori, non ci servi!

Aikaterinī, aspetta … Lasciami spiegare …

I lineamenti cambiarono, la loro dolce femminilità s’indurì in una più maschile.

E se lo vide di nuovo davanti, ridente e biancovestito, senza catene e col puttino in braccio. Accanto a lui, Jacomo Mamalucho, vestito di seta, gli rideva in faccia.

Ciò, signor beota! Cosa fai, mi muori così da coglione?  - lo schernì  - Sei proprio un macaco fanfarone!

Dal nulla gli balzò addosso una scimmia che gli tirò la barba per baciarlo in bocca mentre l’altro se la rideva alla grossa.

“Maledetto! T’ammazzo io!”, ruggì un delirante Mercurio Bua, afferrando un disgraziato a caso per il colletto della casacca e trascinandolo seco. “Come ti permetti, razza di stronzetto? Ti spezzo le ossa una ad una …”

Schiaffeggiando via assai scocciato la mano artigliata alla sua povera preda, liberandola, il cerusico di campo sbraitò insofferente: “Insomma, qualcuno me lo può tenere fermo? O legatelo direttamente, sennò qua finisce che lo eviro e allora sì che avrà motivo di dolersi sul serio!”, dovendo infatti egli operare alla coscia, in pericolosa prossimità dell’inguine.

Immediatamente, Leka Busicchio e un altro stradiota gli strinsero con una corda le caviglie e i polsi all’improvvisato tavolo operatorio, intanto che i suoi compagni immobilizzavano il convulso greco-albanese onde facilitare l’impresa.

“Si salverà?”, s’informò apprensivo Busicchio, osservando preoccupato il collega giacere pallido ed esangue sul tavolo, la pelle un malsano misto tra giallognolo e bluastro e sudata per via della febbre montante.

“Me lo avessi chiesto un istante fa, ti avrei detto di no”, gli confessò brutalmente onesto il cerusico, mentre passava la lama sulla fiamma e indicava al suo assistente di preparare una tintura d’oppiacei che poi costrinse il poco collaborativo paziente ad inghiottire. “Ora invece … Santissimi Cosma e Damiano [3]! Mai visto un moribondo con così tante energie …”

Il capitano stradiota si morse il labbro inferiore, in pena e allo stesso tempo arrabbiato col Bua, biasimandolo intimamente per la sua ostinatezza a voler rimanere a tutti i costi sul campo di battaglia, malgrado questa fosse stata già persa in partenza.

“Leka”, biascicò Mercurio, la lingua gonfia e impastata e gli occhi guizzanti in ogni direzione, esausti dallo sforzo di rimanere focalizzati. “Perdio, Leka!”

“Eccomi!”, si portò il condottiero al suo fianco. “Andrà tutto bene … il cerusico qui …”

“Stai zitto e dimmi: la battaglia?”

“Persa.”

“Quanti dei nostri?”

“Un quarto.”

Mercurio s’umettò le labbra secche, deglutendo malamente acida bile. “Dove siamo?”, si guardò attorno disorientato.

“A Montebelluna, nel tuo padiglione. San Giorgio sia benedetto, non siamo incappati in alcun agguato, sebbene poco ci mancasse che quel cavaliere veneziano …”

Il greco-albanese, che fino a quel momento aveva ascoltato ad occhi chiusi e semicosciente, spalancò le palpebre, girando il collo di scatto. “Dov’è?”, ringhiò, realizzando ora il perché avvertisse qualcosa mancare nella sua tenda, impedendogli un pronto riconoscimento.

“Te l’ho già spiegato: quel veneziano l’abbiamo seminato alle pendici del Mont- …”

“Non quello, l’altro!”, gli esplicò (male) Mercurio, digrignando i denti nel tentativo di puntellarsi sui gomiti, solo per realizzare d’esser legato al tavolo. Il che aumentò la sua arrabbiatura. “L’altro! L’altro! Quel maledetto uccello del malaugurio, quello stronzo infame, quell’insolente farabutto, quella brutta scimmia, quella femmina mancata, quel …” e appurando quanto Leka l’avesse perso in calle, uscì dai gangheri e incominciò a far pressione sui lacci, prontamente premuto giù disteso dai fin troppo solerti stradioti ora al comando dell’inflessibile cerusico.

Quand’ecco entrare nella tenda Zilio Madalo, cui Mercurio s’appellò manco San Giorgio redivivo sceso in terra: “Zilio, almeno tu salvami da questi farisei! Dov’è finito?”

Il suo sottoposto gli rispose sollevando Thomà e portandoglielo ad altezza d’orecchio. “Parla s-cieto, puto, e lesto!”, l’intimò perentorio il capitano di ventura. “Dove xélo el tòo patron?”

“Lo gh’han i todeschi!”, gli spiegò conciso il bambino. “Co si pensava che geravate morto, vanti xéi venui tre omeni tajani, do dil partio di Franza et on d’Alemagna. El mio patron lo gh’han messo in la cheba, i disen cheo portan in Alemagna, perhò i franzosi no xéi contenti, i lo volen ancha lhori e se lo litigano chome la veste sancta di Domino Jesu Christe.”

“Tre uomini italiani, due di parte francese ed una tedesca?”, corrugò Mercurio la fronte. Il fratellastro del Gran Scudiero era partito assieme a La Palice e de Boisy alla volta di Vicenza, quindi dovevano trattarsi sicuramente di Pallavicino e Trivulzio. Ma chi militava per l’Imperatore pur italiano? L’unico che gli veniva in mente era il conte Gianfrancesco di Gambara, il cui arrivo era stato annunciato … Il Bua socchiuse gli occhi e cercò di recuperare dalla mente annebbiata dalla febbre e dagli oppiacei le ultime missive ricevute e dunque i prossimi movimenti all’interno dell’accampamento. “Allora ci ha già raggiunto … Sistu seguro, che gera per dasseno on tajan a soldo di l’Imperador? Se ciamelo Zuan Francesco de Gambara?”

Thomà gli lanciò un’occhiataccia. “Gambara, gambero, gambera … chi sonjo, mi, el Imperador che cognesse tuti i nobeli di sta terra? Mi ve conto solo zò che gh’ho vardà e sentio! No franzosi, no todeschi, tre tajani i xéi entrai!”

“Pulito, basta che ti te tasi”, lo liquidò uno snervato Mercurio, avvertendo una maggior pesantezza sia nel cervello che nelle membra. Fatto cenno col capo a Zilio di metter giù Thomà, gli ordinò: “Pigliati i più robusti dei nostri e vammelo a riprendere con qualsiasi mezzo, lecito e non! Anche a costo di spaccare il muso a tutti i francesi e tedeschi di questo campo! E se quegli schifosi di Trivulzio, Pallavicino e soprattutto di Gambara dovessero intralciarti, hai la mia benedizione di spedirli a guardar crescere le margherite per le radici!”

Fiutando guai e conoscendo la natura fin troppo zelante di Madalo, Leka s’intromise, offrendosi anch’egli volontario così da evitare un inutile massacro prima e dopo per le punizioni sicuramente inflitte a scontro terminato. “M’accerterò di riportartelo indietro”, assicurò il dubbioso collega. “Tu devi solo pensare a guarire.”

Mercurio Bua annuì debolmente, adesso sul serio sfinito.

Una volta usciti gli stradioti e finalmente tranquillo di lavorare in santa pace, il cerusico s’avvicinò al paziente con un bastoncino, cacciandoglielo tra i denti. “Ah, urlate pure se vi va. Prometto di non giudicarvi”, asserì, sorridendogli d’una poco rassicurante e gaudente ferocia.

“Ti piacerebbe”, bofonchiò Mercurio, preparandosi mentalmente alla peggior ora della sua vita, dopo ovviamente il primo incontro con la suocera.

 

***

 

 

Hironimo s’era appena addormentato quando captò lo stridore del cancello della gabbia, accompagnato da rauche grida sia in francese che in tedesco. A destarlo completamente fu però la presa e il conseguente strattone alla caviglia, costringendolo a scivolare fuori dalla gabbia in un doloroso e pesante tonfo, finendo dritto in una pozzanghera a mangiar fango e acqua.

Senza capire i come e i perché, si sentì schiaffeggiare via la mano che lo stringeva per poi venir issato in piedi e malamente scaraventato contro le sbarre, nascosto dal corpo massiccio della sua guardia, la quale puntò la sua picca contro il gruppetto di soldati guasconi dietro i quali Hironimo riconobbe il capitano du Molard.

“Laisse-nous passer! C’est un ordre!”, ringhiò il guascone al tedesco, estraendo la daga e avvicinandosi minaccioso.  

Quell’altro gli rise in faccia, affatto impressionato. “Wahnsinn! Meine Pflicht ist es, die Befehlen zu gehorchen. Und mein Kapitän hat mir gesagt, dass er unser Gefangener ist! So … verschwindet ihr alles!”

Osservando inebetito quell’assurda conversazione in idiomi così dissimili tra di loro, Hironimo, ripresosi dallo sguarattamento iniziale, si rese conto di tre grandi verità: primo, sebbene schiacciato dalla schiena del tedesco comunque si trovava fuori dalla gabbia.

“Je ne parle pas allemand, sale connard! Fiche-moi la paix et donne-moi le vénitien! C’est le maréchal de La Palice qui le commande !”

Secondo: aveva i ceppi solo ai polsi.

“Leckt mich!”

Terzo: nessuno lo stava badando sul serio.

Veux-tu désobéir au maréchal? Veux-tu pendre au gibet?”

Il tedesco poteva anche ignorare in totum la lingua francese, ma quell’insistente ripetizione del nome di La Palice incominciava a smuovere gli ingranaggi del suo cervello, riempiendogli la testa di dubbi. L’ordine di vegliare sul prigioniero veneziano gli era stato dato, in effetti, dal conte di Gambara che rappresentava l’Imperatore. Tuttavia, il comandante in campo era La Palice e se quel guascone gli si stava avvicinando col nome del maresciallo in bocca, forse un valido motivo sussisteva per cedere il prigioniero.

D’altro canto, però, perché il maresciallo non era lì con loro? E neppure il Gambara o almeno il capitano Jacob Empser? Cosa voleva il capitano delle fanterie guascone da lui?

No, finché uno dei suoi commilitoni o comandanti non si fosse presentato assieme a loro, l’imperiale non si sarebbe scrostato di un centimetro dalla sua postazione.

“Wo ist denn mein Kapitän? Was befehlt er?”, insistette egli assai sospettoso.

Il guascone batté snervato il piede per terra, sbuffando e con lui anche du Molard, che esclamò esasperato: “Est-ce qu’il n’y a pas un foutu allemand ici qui connaît le français afin d’informer ce fils-de-pute, que le vénitien appartient au Roi de France?”

E il tedesco, che tanto stupido non era, captando qualche parola abbastanza simile alla sua lingua incominciava a capire l’inganno cui tentavano di sottoporlo, alterandolo grandemente specie quando avevano intenzione di fregarlo sì meschinamente. Stette quindi per ribattere che il prigioniero non apparteneva al Re di Francia bensì all’Imperatore, quando un’esclamazione da parte di du Molard lo distrasse, costringendolo a voltarsi di scatto: i suoi medesimi occhi s’ingrandirono alla vista di come Hironimo con l’agilità di una scimmia si fosse arrampicato sopra la gabbia e stesse gattonando dalla parte opposta per scappare.

In un sol uomo, si lanciarono tutti sulla gabbia; il guascone anzi ne approfittò per sganciare un bel cazzotto contro il tedesco, tramortendolo, per poi issarsi sulle sbarre sennonché, girandosi, il giovane Miani gli frustò via la mano con le catene: “Toga qua!” e il guascone cadde rovinosamente per terra, reggendosi la mano dolorante.

Medesima sorte toccò agli altri suoi compari che tentavano di raggiungere il patrizio, il quale a guisa della coda del cavallo, scacciava le moleste mosche francesi tra un: “A ti! A ti! Et ancha a ti! Ne gh’ho qua per tutti!” supplendo con calci in faccia laddove le catene non arrivavano.

Dinanzi all’inefficacia di quel bizzarro assedio, i guasconi allora cangiarono tattica e afferrate le sbarre della gabbia presero a scuoterla con l’intenzione di far cascare Hironimo a guisa di mela dall’albero, non calcolando come il giovane s’aggrappasse simil gatto, rimanendo in beffardo equilibrio. Purtroppo per loro, la guardia tedesca, imprecando, si riscosse dal suo forzato torpore e riconosciuto il suo assalitore, lo ghermì per la spalle e costretto a voltarsi gli ricambiò la cortesia ricevuta tre volte tanto, per poi passare ad un altro francese.

Ciò provocò una fulminea reazione a catena: accortisi dei compagni in difficoltà, alcuni guasconi abbandonarono la gabbia e si gettarono quasi di peso sul tedesco, arrivando a bloccarlo per ambedue le braccia e a colpirlo tra faccia, addome e pure inguine, cacciando l’uomo urla disumane a quell’ultimo tormento che sortì l’effetto d’attirare l’attenzione dei suoi commilitoni. Indignatissimi, gli imperiali sopraggiunsero di corsa, tuffandosi per liberarlo dall’impari lotta in una confusa mischia di corpi e cazzotti.

Nel frattempo, Hironimo scendeva quatto-quatto dalla gabbia, approfittando della confusione col progetto di raggiungere indisturbato il limitare del bosco, là dove sperava essersi rifugiato anche Thomà quando l’aveva visto scappare dal padiglione di Mercurio Bua al momento del suo cambio di custodia. Il patrizio procedette dunque come i granchi, guardandosi costantemente attorno e nascondendosi all’occasione dietro un carro, un barile o una tenda, soddisfatto da come i soldati fossero presi dalla loro contesa – accresciuta in una vera e propria rissa di campo – apprestandosi col cuore in gola allo scatto finale, quel lembo di terra vuoto tra l’accampamento e la selva.

Ancora un po’ … ancora un po’ …

Hironimo corse, maledicendo le gambe intorpidite dai lunghi giorni di forzosa inattività e chiudendo la bocca onde risparmiare ossigeno.

All’improvviso una mano gli afferrò un lembo del camicione, tirandolo indietro e, perduto l’equilibrio, ingamberandolo al punto da cadere prono per terra e trascinando seco il suo assalitore, che lo soffocò col suo peso. Subito Hironimo si sistemò supino e memore degli esercizi di lotta libera sulle spiagge del Lido roteò il bacino così da portare le ginocchia all’altezza del mento e, inarcandosi, strinse tra le cosce il collo del soldato francese per ribaltarsi prima sul fianco e poi sopra di lui, così da finire l’uomo con un pugno sul naso.

Al francese che l’aggredì alle spalle, il giovane Miani elargì prima una frustata con le catene e poi, rotolando sulla schiena e scivolandogli alla giusta altezza, una tallonata sui testicoli.

Rimessosi in piedi, il patrizio riprese la corsa ma oramai la sua fuga era stata scoperta e in più lo insidiavano da più lati, sia francesi che imperiali. Ad uno egli afferrò il braccio e, torcendoglielo, l’atterrò dolorosamente. Ad un altro gli cinse le catene al collo per usarlo come scudo umano ed avanzare di qualche spanna; un altro ancora si ritrovò piegato a metà  in avanti col braccio tra le gambe e Hironimo, dandogli un calcio ben assestato al sedere, lo usò come ariete di sfondamento contro i suoi compari. Il più abile tra questi riuscì ad afferrarlo per il colletto del camicione e lo strattonò verso di sé; facendo perno con la gamba e tirando in direzione opposta, Hironimo riuscì a divincolarsi in qualche vorticosa piroetta, pur stracciando l’indumento e ritrovandosi letteralmente in mutande.

Nessuno dei suoi avversari si giovava nella lotta di alcun’arma se non delle proprie mani, evidente infatti l’ordine di riportarlo vivo a chiunque di quei masnadieri lo rivolesse indietro. Tuttavia, malgrado questo vantaggio, la stanchezza pesava sempre di più in Hironimo, man mano che il gruppo di soldati s’infoltiva e un “Ma va’ in mona!”, gli sfuggì dalla bocca alla vista di quel rotto-in-culo di Gambara raggiungere du Molard.

La presenza dei loro comandanti evidentemente ringalluzzì i soldati, desiderosi forse di non sfigurare, e di fatti uno di loro, roteando all’inverso la picca, mirò alle ginocchia e agli stinchi del patrizio col palese scopo di gambizzarlo. Concentrato ad evitare i colpi, Hironimo non poteva porre sufficiente attenzione a quanto gli accadeva alle spalle e la sua difesa ne risentì, divenendo gli attacchi avversari più efficaci e la sua reazione più lenta e imprecisa. Finché una stoccata particolarmente maligna alla caviglia gli strappò un mugolo di dolore, incrinandolo in avanti; in subitanea successione gli si calò un colpo all’addome e, cadendo bocconi, sul trapezio, atterrandolo e subissandolo di calci così da impedirgli un qualsivoglia centroattacco. Neanche il tempo di rialzarsi e quattro paia di mani afferrarono lo sfinito veneziano per le braccia, tirandolo in direzioni opposte manco volessero squartarlo vivo, la vista oscurata dal sudore e dal sangue che gli colava dalla fronte e le orecchie che gli martellavano, ovattando le grida dei soldati.

Quand’ecco che delle nuove voci più forti e più irose delle altre s’intromisero, sovrastandole. La pressione ai suoi muscoli aumentò di conseguenza e così il dolore, credendo Hironimo che se avessero tirato ancora qualche spanna in più gli avrebbero lussato la spalla come nella strappata. Si morse perciò le labbra a sangue, l’orgoglio troppo radicato in lui per dar a chicchessia la soddisfazione di vederlo urlare in agonia, come invece faceva il suo cuore: Mare … Mare ajuto! I me copan ! I me mazzan! Mare! Mare!

“Se il Bua lo rivuole indietro, che se lo venga a prendere di persona!”

Cosa? Che stavano dicendo? Mercurio Bua non era morto a Treviso?

Poco importava ciò che gli stradioti – ché di loro si trattava – avessero latrato di rimando. La stretta e la pressione alle braccia svanirono e come una marionetta senza fili Hironimo cadde per terra, respirando liberamente, per poi accomiatarsi dal suolo e, in una vorticosa capovolta, trovarsi a contemplare la schiena di colui che solo quell’energumeno di Zilio Madalo poteva essere, a giudicare dall’altezza. E correva anche veloce, constatò Hironimo con strano distacco, osservando gli sbraitanti franco-imperiali alle loro calcagna e come Leka Busicchio aprisse la strada a Zilio a suon di pugni a chiunque gli si parasse innanzi.  Dopodiché, preso un profondo respiro, il veneziano incominciò a mordere e a graffiare il volto del mercenario, rallentandolo e così per la par condicio anche gli stradioti dovettero faticar non poco onde salvarsi da quell’immensa zuffa.

Nessuno si accorse, nel parapiglia generale, degli uomini dalle dubbie uniformi avvicinarsi alle zattere costruite per trasportare via fiume le artiglierie attese da Vicenza. Nessuno tranne forse un soldato tedesco che, notando alcune inesattezze nei colori, aveva esclamato: “Du bist kein Franzose!” per beccarsi una pugnalata sui reni e uno sbrigativo:

“Et no, beo ti!”

Liberatosi della presenza ingombrante del tedesco, Bernardin fece cenno ai suoi compari di sbrigarsi, rimanendo di vedetta onde captare il minimo interesse alle loro azioni. Quella rissa pareva un dono inviatogli da San Liberale, benedisse il trevigiano mentalmente il loro santo patrono, non poteva capitare più a proposito così da operare in fretta, a colpo sicuro e senza neppur attendere l’incerta complicità della notte. Boicottati in pieno giorno nel loro stesso accampamento, che smacco per quei boriosi! Appena rientrato a Treviso, l’uomo si ripromise di accendere un cero lungo un braccio nella cripta del Duomo, davanti alle reliquie del santo. [4]

“Dèmo su! Lesti!”, li spronò, mentre i marciani gettavano del liquido viscoso e infiammabile sulle zattere.

Afferrate delle braci da un bivacco abbandonato, Bernardin le lanciò una per ciascuna imbarcazione. “Via, via!”, intimò ai compagni di correre veloci verso il bosco, prima che le fiamme s’alzassero e inghiottissero le zattere inermi.

 

***

 

 

“Cos’è quella faccia? Non speravi che sopravvivessi?”

“E con ciò? Che vuoi da me? Un applauso?”

Quando Hironimo poté finalmente metter di nuovo i piedi per terra fu nel padiglione di Mercurio Bua, là dove il suo proprietario, terminata la sua agonia sotto i ferri del cerusico, lo stava aspettando disteso sulla branda, la schiena appoggiata su di una pila di cuscini così come la gamba ferita. Il suo valletto d’arme l’aveva ripulito e aiutato ad indossare una camicia pulita, dal cui colletto aperto si notava la stretta fasciatura e la perspirazione della febbre che tuttora piagava il greco-albanese, malgrado l’espressione adesso meno delirante. Il condottiero si limitò d’arcuare scocciato il sopracciglio alla vista dei profondi e rossi graffi sul volto di Zilio, assai contento quest’ultimo d’essersi liberato di quel gattaccio selvatico antropomorfo che ora teneva in ginocchio ben fermo per le spalle. Non che il veneziano se la passasse meglio, pallidissimo e ricoperto d’ematomi ed escoriazioni manco un San Rocco.

“Va’ dalla tua nënë (mamma, ndr.)”, spinse Mercurio col braccio buono Thomà, il quale senza manco capire che accidenti gli avesse ordinato corse d’istinto verso Hironimo, il quale prontamente l’abbracciò protettivo, lanciando un’occhiataccia al capitano di ventura, accusandolo dei più turpi delitti.

“Adesso che te l’abbiamo riportato, puoi startene tranquillo a riposare?”, rimbeccò Leka Busicchio il suo collega, interrompendo sul nascere la vivace protesta che questi stava per rifilare al patrizio veneziano e le sue insensate chimere denigratorie. “Azzoppato e febbricitante non ci sei affatto utile! Anzi, una palla al piede!”

“El xé senpre ‘na bala al pie”, bofonchiò tra sé e sé Hironimo, prontamente rampognato da un celere scappellotto da parte di Zilio.

“Ringrazia il fratello di questa … pescivendola!”, sbottò petulante Mercurio, indicando il giovane Miani che gli rispose con un gesto assai scurrile delle dita e beccandosi un altro ceffone alla nuca. “M’ha fronteggiato da turco, quel vigliacco, altrimenti l’avrei sgozzato io!”

“Sì, ma intanto ci sei tu in barella e se non ti dai una calmata, qui finisce che ti spediscono a Trento o a Milano a sbollire i tuoi umori biliosi!”, non si commosse Leka, arrabbiato quanto se non di più del conterraneo. “Inutile atteggiarti da struzzo: hai fatto una figura di merda a Treviso! Pertanto, se vuoi conservare un minimo di dignitosa autorità in quest’accampamento, ti conviene mantenere un profilo basso e non impegolarti in altre cazzate! E questo include …”

“Capitano! Capitano!”, l’interruppe gridando uno stradiota, irrompendo trafelato nel padiglione. “Fuoco! … Fuoco! …”, ansimò, deglutendo malamente l’aria.

“Come? Dove?”

“Le zattere! Le zattere per trasportare l’artiglieria! Sono andate tutte a fuoco! Non se n’è salvata nessuna! Il campo è in subbuglio! Sono anche scappati dei prigionieri! I tedeschi stanno entrando in tutte le tende per rubare cibo, vino, denari e Dio sa cos’altro!”

Un silenzio mortale calò nella tenda e lentamente ogni sguardo accusatore e incredulo cadde su Hironimo che, stringendo a sé Thomà e raddrizzando battagliero le spalle, berciò infastidito: “Ciò! Non mi guardate così ché io non c’entro un’emerita cippa!” e notando come gli stradioti continuassero a fissarlo astiosi, esclamò indignato: “E come avrei fatto, sentiamo? Mi stavate tutti attaccati al culo peggio delle mosche sul latte, mi dite come sarei riuscito a pestarvi e allo stesso tempo bruciare le zattere e liberare i prigionieri?” D’un tratto ansioso, si rivolse a Mercurio: “Si è trattata di una mera coincidenza, non ne sapevo niente!”

Il greco-albanese lo squadrò a lungo, esitante. Il suo naturale istinto gli diceva di non fidarsi, che molto probabilmente il patrizio aveva funto da specchietto per le allodole così da permettere ai suoi conterranei d’agire indisturbati, sfruttando l’immunità conferitagli dal suo status sociale. Dall’altra parte, però, suonava come un piano esageratamente elaborato e basato su parecchie variabili di natura troppo incerta per concludersi con successo.

Semplicemente, risolse il condottiero, il giovane Miani aveva creato in maniera casuale e inconsapevole il momento giusto per gli uomini giusti.

“Zilio”, comandò Mercurio, gli occhi sempre puntati su Hironimo. “Lavamelo come si deve da capo a piedi, bendagli la ferita al fianco e poi dagli una delle mie camice pulite. Dopodiché, prendi la chiave e aprigli uno dei ceppi e richiudilo al mio polso, cosicché se me lo vogliono rubare di nuovo stavolta dovranno passare sul serio sul mio cadavere. L’accampamento è in tumulto, stanotte ci si può aspettare di tutto sia dai marciani che dai franco-imperiali! Armatevi dunque e vigili! Leka”, disse al collega, ponendogli una mano sulla spalla, “ti ringrazio per il tuo aiuto. Ammetto d’aver agito da sconsiderato e spero che tu voglia ancora combattere al mio fianco. E per cortesia taci, non ho mai sopportato i tuoi sentimentalismi”, lo chetò avanti che Busicchio potesse replicare. “Invece, piglia le cose di valore dalla tua tenda e i tuoi uomini più gagliardi: veglieremo assieme finché la situazione non si acquieta. Fai appostare i nostri ai padiglioni e ai cavalli e spero che nessuno qui tra voi abbia tanto sonno, ché sarà una notte assai lunga …”

Sollevati per il ritrovato polso del proprio comandante, simili ad api gli stradioti s’adoperarono zelanti ad adempire alle direttive di Mercurio e in meno di un’ora si disponevano armati di tutto punto al suo capezzale, studiando accorti l’entrata della tende e le ombre convulse che s’agitavano dietro, stringendo la zagaglia o l’elsa della spada o accarezzando nervosi l’impennaggio delle frecce. Persino il convalescente stava impugnando la sua arma, il braccio incatenato ben stretto ai fianchi di Hironimo che a sua volta teneva Thomà sedutogli sulle ginocchia.

Tutto questo in un silenzio da predatore, i respiri ridotti a flebili sussurri e i cuori tuttavia tambureggianti in gola, in netto contrasto con le acute grida convulse che riecheggiavano all’esterno.

“M’ero scordato di dirti”, mormorò piano Mercurio al patrizio, “adesso che siamo legati spero non ti scandalizzerai, donzelletta mia, quando dovrò usare il pitale!”

“Non preoccuparti per me, pan de zucaro”, gli sorrise con magnanima sufficienza Hironimo, pur tuttavia sperando che il suo tono di voce non tradisse la crescente ansia per la sorte sua e di Thomà. Ironico come dovesse affidarsi a quel satanasso onde sopravvivere. “Spero invece non mi creperai d’invidia, quando toccherà a me pisciare!”

In altre circostanze, il Bua gli avrebbe pizzicato il fianco a mo’ di punizione per quel suo umorismo puerile. In quel momento, però, gli fu grato d’averlo aiutato a sdrammatizzare e quindi distendergli i nervi e ragionare più lucidamente, specie quando la tenda prese a muoversi a causa dei primi assalti, scostandosi appena da rivelare la punta di una lama  e la mano che l’impugnava ...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Come sempre, ricordiamo che le vicende qui sono romanzate per supplire sia alla mancanza di fonti che alla concisione del Sanudo in certi eventi.

Un contadino fuggito dal campo dei franco-imperiali notificò come essi fossero venuti pesantemente alle mani, così da fornire un’occasione d’oro ai marciani di bruciare le zattere destinate a trasportare l’artiglieria. Conoscendo i soldati mercenari, possiamo ben intuirne i motivi – soldi, cibo, donne, naturale antipatia tra francesi e tedeschi, etc. – ciononostante, perché non fare il Nostro la ragione di questo litigio? Inoltre, sì, i soldati dormivano armati e non per paura dei marciani bensì dei loro stessi alleati, poiché le ruberie nelle rispettive tende erano all’ordine del giorno.

Se pensate poi che Gian Paolo Gradenigo stesse esagerando nelle sue fantasie su come punire i responsabili della morte di suo fratello Giovanni Gradenigo, hé, sappiate invece che quelli erano veramente i metodi dei turchi, per quanto orribili essi possano suonare.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!


Un po’ di noticine:

 

[1] non sappiamo come Fra’ Giocondo ideò l’originale Ponte de Pria (Ponte di Pietra in italiano), essendo la forma attuale quella della ricostruzione del 1521, sotto la podesteria di Priamo Legio. Pertanto, abbiamo tenuto quanto più vaga la descrizione.

[2] Dateve cum un legno = dattele in testa col legno, cioè prenditi a legnate in testa, modo di dire per darsi una calmata. Andar fora de vada = fuori di testa, impazzire.

[3] Ss. Cosma e Damiano =  protettori dei medici e chirurghi, sono stati appunto due medici romani martirizzati sotto Diocleziano, gemelli e fratelli maggiori dei santi Antimo, Leonzio ed Euprepio.

[4] San Liberale = San Liberale d’Altino, patrono di Treviso, di Castelfranco Veneto e di tutta la diocesi trevigiana, fu un militare, un predicatore e asceta, grande avversario dell’eresia ariana, che s’adoperò per tutta la vita a sradicare dal territorio. La leggenda, oltre che a legarlo ai santi martiri Teonisto, Tabra e Tabrata, narra che fu lui a salvare Treviso da un’incursione degli Unni o dei Longobardi, a seconda della versione.  

Laisse-nous passer! C’est un ordre! lasciaci passare ! E’ un ordine!

Wahnsinn! Meine Pflicht ist es, die Befehlen zu gehorchen. Und mein Kapitän hat mir gesagt, dass er unser Gefangener ist! So … verschwindet-ihr alles! Follie! Il mio dovere è di obbedire agli ordini. E il mio capitano mi ha detto ch’egli è un nostro prigioniero! Quindi … sparite tutti!

Je ne parle pas allemand, sale connard! Fiche-moi la paix et donne-moi le vénitien! C’est le maréchal de La Palice qui le commande ! Non parlo tedesco, brutto coglione! Smettila di rompermi le palle (lett. Lasciami in pace) e dammi il veneziano! È il maresciallo de La Palice che lo comanda!

Leckt mich !sucamelo!

Veux-tu désobéir au maréchal? Veux-tu pendre au gibet? vuoi disobbedire al maresciallo ? Vuoi pendere dalla forca ?

Wo ist denn mein Kapitän? Was befehlt er? dov’è allora il mio capitano? Cosa comanda?

Est-ce qu’il n’y a pas un foutu allemand ici qui connaît le français afin d’informer ce fils-de-pute, que le vénitien appartient au Roi de France? non c’è qui un fottuto tedesco che conosca il francese da informare questo figlio di puttana, che il veneziano appartiene al re di Francia?

Du bist kein Franzose!Non sei francese!

 

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Capitolo 11
*** Capitolo Decimo: 8 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 21.10.2021

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Capitolo Decimo

8 settembre 1511, Festa della Madonna

 

Sub Tuum praesidium confugimus,

Sancta Dei Genetrix.

Nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus,

sed a periculis cunctis libera nos semper,

Virgo gloriosa et benedicta. [1]

 

 

 

 

 

Da ogni campanile di Treviso suonavano con festosa baldanza le loro campane, rincorrendosi in echi e dialogando in diverse tonalità, incominciando dal Duomo ed espandendosi a macchia d’olio così da formare un gioioso coro che rallegrava i cuori.

Levandosi dai rispettivi giacigli e sgranchendosi la schiena e le articolazioni anchilosate dal costante sforzo fisico, ai guastatori addetti allo smantellamento di Santa Maria Maggiore e al rafforzamento dei bastioni di Santa Sofia si presentò un curioso spettacolo: in fila ordinata e compatta, malgrado la pioggia battente, una crescente folla di fedeli avanzava coi ceri in mano in direzione della chiesa, cantando Sub Tuum praesidium a voce talmente alta, che chiunque nel proprio letto avesse indugiato nel sonno poteva ben accommiatarsi da esso e magari unirsi agli oranti. Tutta Treviso d’altronde pareva essersi data lì appuntamento, i suoi cittadini negli abiti della domenica e un’espressione in faccia di grande determinazione.  Quel giorno era la Natività della Beatissima Vergine Maria e grandi lai al folle che avesse boicottato la loro processione verso il Santuario. (Che poi essa di norma avvenisse solo il giorno dell’Assunta, era irrilevante, quei forestieri mica lo dovevano sapere)

Sancta Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!

Dinanzi a tal moltitudine, i guastatori rimasero imbambolati e indecisi su come reagire; si lasciarono quindi scavalcare con assoluta noncuranza da parte dei fedeli che s’accalcarono nel profanato edificio sacro onde poter rendere omaggio alla loro amatissima Signora e invocarne in quei giorni amari e difficili la potentissima intercessione, affidando sotto il Suo manto materno le sorti della città come sempre avevano fatto. Entrati, gli oranti avanzavano genuflessi verso l’altare dell’affresco miracoloso, le braccia incrociate al petto o le mani giunte, incuranti della pressione e dello sporco sulle ginocchia, gli occhi umidi e la fiduciosa preghiera insistente sulle labbra tremanti.

Sancta Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!

Ben prima dell’arrivo dei Romani, gli argini del Sile (e di tutti i fiumi) erano stati luogo di venerazione per gli antichi Eneti domatori di cavalli, i cui fieri guerrieri gettavano le spade più belle e preziose in offerta a Reitia potnia theron, l’amatissima dea madre e signora degli animali, dalla veste rosso fuoco e il lungo velo azzurrino quanto l’acqua dei fiumi e delle fontanelle del trevigiano. In quel punto, si narrava, ella camminava e ascoltava le preghiere dei suoi fedeli, benevola e protettiva come la genitrice che era.

E poiché cambiano gli uomini, ma non il loro spirito, anche quando il nome di Reitia era scomparso dalle bocche dei Veneti, questi non cessarono d’adorare la madre.

Dapprincipio infatti  sede di un timido nucleo paleocristiano fondato da San Prosdocimo e abilmente celato col pretesto d’ivi venerare l’allattante dea Iside col pargoletto Horus in grembo, su quel tempio pagano nacque la prima vera e ufficiale chiesa cristiana e da quel momento in poi a Treviso non vi fu più posto che per una sola Regina dei Cieli [2].

Nell’anno del Signore 780 il duca Gevardo di Treviso, uomo di fede sincera e desideroso di garantirsi la salvezza eterna,  aveva dato ordine di riedificare in quel suo fondo un tempietto a onore della beatissima Vergine Maria, della Croce Gloriosa e di Santa Fosca vergine e martire; dispose inoltre che il piccolo santuario fosse aggregato al monastero di Nonantola e dai suoi monaci amministrato. Sua moglie Albergonda, nell’812, nel suo testamento aveva poi offerto ogni sua proprietà alla nascente chiesa. Neppure il saccheggio, l’incendio e la distruzione di Treviso nell’898 per mano della spietata orda d’Ungari poté cancellare la memoria di quel luogo di culto, semmai rafforzandolo quando, tornata indietro la popolazione sopravvissuta, trovarono sì la chiesa distrutta tranne però per un muro e su di esso, l’immagine della Madonna, intatta e incorrotta dal fumo.

Sul ricordo di questo primo miracolo decise, nel 1045, il vescovo Olderico d’operare, nel suo intimo preoccupato per lo stato di degrado morale ch’aveva circondato quei luoghi e, in generale, la sua medesima città. Sparito il borgo attorno alla chiesa, esso era divenuto luogo d’esercitazioni militari, di combattimenti e di tornei che molto spesso, iniziati amichevolmente, degeneravano in zuffe sanguinose. Sicché Olderico fece restaurare l’antico rudere, adattando il muro a forma di tempietto votivo e tale sua iniziativa venne tosto premiata, poiché negli anni a seguire molti cavalieri, feriti gravemente, ottennero inspiegate guarigioni, come accadde nel 1094 durante la giostra in onore dell’Imperatore Heinrich IV, giunto in visita a Treviso.

Ma fu madona Lucrezia della Torre colei che n’elevò la fama. Paralitica da nove anni e senz’alcuna speranza rimastale se non d’affidarsi alla volontà di Dio, la nobildonna aveva udito del caso dei due conti Da Camino i quali, militando per Venezia contro il Patriarca d’Aquileia, erano stati mortalmente feriti in combattimento eppure, per il voto fatto alla Madonna di Treviso, la loro vita era stata risparmiata e le piaghe sanate. Riconoscenti, i due Caminesi non avevano esitato a divulgare il miracolo, prostrandosi dinanzi all’affresco e commissionando l’ampliamento del semplice capitello in una cappella votiva. Forte di questo precedente e fiduciosa nella misericordia divina, la vedova Lucrezia pregò dunque la Madonna di Treviso, supplicandoLe la grazia di liberarla dalla prigione del suo letto d’ammalata. Tale fervente e sincera preghiera non cadde nel vuoto: la Madre di Dio le apparve esattamente nelle sembianze dell’immagine di Treviso e l’esortò a recarsi il giorno successivo alla Sua cappella, ottenendo così l’agognata guarigione. In aggiunta, la istruì acciocché si costruisse una vera e propria chiesa in Suo onore e che la si chiamasse Santa Maria Maggiore. Era il 1096. Madona Lucrezia non La deluse e la mattina seguente ordinò ai suoi servitori di trasportarla nella cappella, davanti all’affresco. Lì era rimasta in estatica contemplazione per all’incirca due ore finché, destatasi all’improvviso, balzò in piedi dalla sua lettiga e camminò senza alcun impaccio, completamente guarita tra lo stupore generale.

Memore delle indicazioni ricevute, la nobildonna s’adoperò subito con ogni suo mezzo per erigere, a sue spese, un tempietto votivo riccamente decorato e sollecitò instancabilmente le autorità trevigiane, acciocché richiamassero i dispersi monaci Nonantolani, che avevano la reputazione d’essere particolarmente devoti, i quali avrebbero gestito la chiesa e si sarebbero presi cura dei sempre più numerosi pellegrini. Accolti dal popolo giubilante, nel 1115 i monaci di San Silvestro ripresero di nuovo possesso del tempio mariano e l’umile cappella si trasformò in uno splendido santuario: assieme ai sacelli per conservare le reliquie dei santi Liberale e Teonisto, quelle rive del Sile oltre a vie commerciali diventavano ora vie devozionali per i pellegrini che, prima di proseguire fino a Roma, decidevano sostando di ammirare il gioiello custodito all’interno della chiesa, l’affresco della Madonna dei Miracoli offrente in trono il prezioso Figlio agli occhi dell’umanità.

Sancta Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!

Secoli di fedeli in ginocchio L’avevano adorata; a Lei levavano gli occhi, i palmi in alto, donandoLe ceri votivi di ogni grandezza; i rosari ora di semi ora di pietre preziose; le grucce divenute inutili; le conchiglie di San Giacomo Apostolo; dei panni preziosamente ricamati, il cuore gonfio di speranza e penitenza, d’afflizione e di gioia, ognuno invocandoLa per alleviare un’intima pena o un esteriore malanno o per intercedere qualche grazia o il perdono presso Dio, sicuri d’essere esauditi. Lo dimostravano gli innumerevoli ex-voto nonché i generosissimi lasciti dei signori feudali e dal XII secolo il nome della Madonna Grande a Santa Maria Maggiore ricorreva costante negli atti notarili della Marca Trevigiana, legandosi indissolubilmente alla sua storia.

Liquidati gli Ezzelini nel 1260 e cacciati i Caminesi (a dare il segnale della rivolta cittadina, il 15 dicembre 1312, erano state proprio le campane di Santa Maria Maggiore), il Libero Comune di Treviso in segno di riconoscimento aveva decretato, il 19 luglio 1313, che venisse posta un’immagine della Madonna nel gonfalone comunale. L’anno dopo s’aggiunse negli Statuti Comunali il riconoscimento pubblico di Santa Maria Maggiore da parte del Podestà in occasione della festa dell’Assunta. Al priore del santuario venne perfino concesso il privilegio di custodire le chiavi della porta cittadina adiacente, onde regolare il grande flusso di pellegrini che arrivavano notte e giorno. Orgogliosamente, il Comune sentenziava che non conosceva altro vassallaggio se non quello verso la Vergine Maria, l’unica Signora di Treviso. E tutti i Trevigiani, indifferentemente dal sesso, età e stato sociale, le erano devotissimi cavalieri.

Sancta Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!

Né la dominazione dei conti di Gorizia, degli Scaligeri, dei Tempesta, del duca d’Austria, dei Carraresi né la dedizione alla Repubblica di Venezia scalfirono mai l’assoluta fedeltà alla Madonna Grande. Semmai, accorta e sensibile a quella ferrea devozione mariana, la nascente Serenissima aveva confermato gli antichi statuti e s’adoperò negli anni per ampliare ulteriormente il veneratissimo santuario, in stretto rapporto coi religiosi di Santa Maria Maggiore. I Benedettini avevano nel frattanto ceduto il posto ai Canonici Regolari di San Salvatore e per quarant’anni il santuario era stato felicemente amministrato dal priore Fra’ Lorenzo Filippari,  trevigiano, d’umili origini eppure da tutti lodato per la sua saggezza, erudizione e onestà, come riferiva il vescovo domino Ludovico Barbo alla Signoria nel 1437. Gli introiti della chiesa – spiegava – erano stati interamente devoluti  al ripristino del pavimento, al restauro ed ampliamento del monastero, alla riparazione dell’organo e non ultimo all’ulteriore abbellimento del tempietto della Madonna. Il vescovo Barbo, durante la sua visita episcopale, aveva insomma trovato una chiesa ben ordinata ed i parrocchiani soddisfattissimi della sua gestione.

Il 20 luglio 1474, con sessanta voti a favore e due contrari, il Gran Consiglio Cittadino di Treviso approvò l’ennesimo restauro di Santa Maria Maggiore, su sollecita richiesta del suo priore Fra’ Tommaso da Gubbio. L’allora podestà e capitano, sier Jacopo Morexini, s’era così rivolto ai consiglieri onde persuaderli ad intraprendere tale costosa impresa: “La nostra città è scampata da molti pericoli e calamità […] Voi conoscete perfettamente che il Monastero, a causa dell’enorme e continuo concorso e della straordinaria devozione, è troppo piccolo e del tutto insufficiente per una così grande moltitudine di genti che vi convengono ogni giorno più. E’ doveroso dunque, sia per l’onore e la riverenza della gloriosissima Avvocata e Madre nostra, sia per la protezione della nostra città, restaurare e ampliare questo Suo Santuario.” 

Venne così demolito il porticato antistante la facciata, allungando il corpo del tempio e ristrutturandolo in tre navate, corrispondenti a tre cappelle dell’abside. Per far fronte a tali ingenti spese, il Comune, oltre a giovarsi degli aiuti del governo veneziano, decretò di destinare metà degli introiti ottenuti da ammende giudiziarie ai lavori del Monastero. S’aggiunsero anche molti generosi lasciti privati, addirittura da fedeli al di fuori della Marca, tanto s’era propagata la fama della Madonna Grande, definita nei documenti ufficiali la “luce sfolgorante” di Treviso. Sotto il priorato di domino Antonio Contarini, due coniugi milanesi, Antonio Tassino e sua moglie Timotea, per grazia ricevuta avevano fatto erigere un sontuoso colonnato attorno all’immagine miracolosa e al suo altare, che l’intera comunità trevigiana poté contemplare estatica, il dì della riconsacrazione del santuario da parte del vescovo domino Sebastian Nascimben. Qualche anno dopo lo stesso papa Alessandro VI, debitamente informato sull’espansione ed intensificazione della pietà mariana, diede il suo contributo, concedendo il medesimo privilegio di cui godeva la Basilica di San Marco a Venezia, di anticipare la solennissima Messa di Natale alla sera della Vigilia. Inoltre, riconfermò alle dipendenze di Santa Maria Maggiore tutte le chiese della Marca Trevigiana, sottraendole alla giurisdizione dei Nonantolani.

Tanta reputazione aveva reso la piazza davanti alla chiesa un luogo ricercatissimo per dimorarvi, osservando i suoi abitanti dalle finestre i fiumi di devoti riversarsi all’interno del santuario e assistendo ai miracoli gridati al cielo dai fortunati, ognuno prontamente registrato nei pingui libri. Tra questi pellegrinaggi certamente non era passato inosservato l’arrivo di sier Alvixe Pizamano, capitano delle galee di Barbaria che, scampato dai pericoli della navigazione, subito dopo l’attracco a Venezia s’era recato con gli altri mercanti e la sua ciurma intera a Treviso e lì sciolto il solenne voto fatto alla Madonna dei Miracoli. Questo nel 1508, prima che la lunga ombra funesta della guerra oscurasse ogni cosa, perfino la “luce sfolgorante” di Treviso. Poiché se Santa Maria Maggiore aveva prosperato grazie alla pax veneta in tutta la Terraferma, adesso per essa giungevano i setti anni di vacche magre e sofferenza.

Perché quando fu deciso di radere al suolo le fortificazioni scaligere e di costruire il nuovo sistema difensivo alla moderna, la porta cittadina occidentale e il santuario ad essa adiacente vennero inesorabilmente aggiunti alla lista nera d’edifici d’abbattere. La stessa immagine della Madre di Dio che era sopravvissuta alla prima grande distruzione del suo tempio per mano degli Ungari ed era finita quasi dimenticata in un luogo d’esercitazioni belliche, ironicamente per la seconda volta si ritrovava in un campo di battaglia, stavolta assediata dalla cinica logica degli ingegneri militari e senza un vescovo a proteggerla, essendo stato infatti domino Bernardo de’ Rossi trasferito a Venezia, dubitando quest’ultima della sua lealtà, sospetto acuito della sua parentela col filo-imperiale Filippo Maria de’ Rossi.

Ciononostante, allora come adesso, ugualmente a sua difesa s’erse un Olderico o meglio, molti Olderichi: giammai i Trevigiani avrebbero permesso quel sacrilegio, colpire la loro Signora era come trafiggerli uno ad uno dritto al cuore, privandoli di una devozione che non era astratta, bensì concreta, una parte fondamentale della propria identità collettiva. Troppi eventi del loro passato s’erano intrecciati alle vicende di Santa Maria Maggiore; troppi benefici avevano ricevuto dalla Devotissima per disertarLa senza neppure levare in alto una protesta. Troppe generazioni avevano pregato dinanzi a quel volto soavissimo, da permetterne l’eterna rimozione.

Sancta Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!

Nel tardo Trecento, il pittore Tomaso da Modena aveva infatti dovuto ritoccare l’antica immagine bizantina della Madonna, raffigurata come la Nicopeia o fautrice di vittorie, similmente a quella venerata a San Marco a Venezia, stile iconografico assai diffuso in tutte le terre venete. Vestita d’un verde acquamarina, avvolta da un candidissimo mantello fermato da una spilla e il capo cinto da una corona d’oro e gemme scolpita in bassorilievo, la Madonna sorrideva serena e benevola, gli occhi allungati  e colmi d’una sorprendente vivacità che seguivano lo spettatore ovunque si spostasse, quasi lo confortasse rassicurandolo che, ovunque egli fosse andato, Lei e il Figlio l’avrebbero vegliato. Dinanzi a tal espressione così piena di pace e bontà era impossibile non aprire il proprio cuore, impossibile non affidarsi nelle Sue mani.

Sancta Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!

E affidati a Lei si sarebbero, proteggendoLa i Trevigiani da ogni nemico. Anche se non potevano più celebrare Messa, ugualmente cantavano e pregavano, i ceri ben alto quasi a monito per il mondo intero: siamo qui, Nostra Donna, siamo qui ai Tuoi piedi come un sol uomo, pronti a tutto per la difesa del Tuo tempio e della Tua città!

Sancta Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!

“Varda, Jacopino”, indicò Donado Cimavin l’affresco al figlioletto sedutogli sulle spalle – il santuario, già di suo rimpicciolito dai guastatori, non riusciva più a contenere come in precedenza un gran numero di persone e pertanto il giovane mugnaio e la sua famigliola s’erano dovuti accontentare di un angolino lontano. Avrebbero tentato a fine orazione di avvicinarsi all’immagine. “Varda la Patrona, varda che bela!”

Sancta Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!

Il fantolino s’esibì in una buffa sequela di smorfie, stringendo gli occhi e poi spalancando la bocca, estasiato. “Bela … bela …”, ripeteva, indicando a sua volta la figura splendente di bianco e il cui sorriso illuminava l’ambiente più delle candele votive.

Sancta Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!

“Bravo, metti le man cussì e pregaLa, t’agiuderà sempre”, gli congiunse le manine sua madre Felicita, costringendo il marito ad abbassarsi un poco e il piccino, intuendo come la questione richiedesse grande serietà e impegno da parte sua, premette i palmi con decisione e corrugando la fronte pregò con parole che solo il cuore di un bambino conosce. Unendo a sua volta le mani, Felicita invocò la protezione sulla creatura che portava in grembo e tutta la sua famiglia; sulla città che resistesse all’assedio e il pronto rilascio di sier Hironimo Miani, che tanto del bene le aveva fatto, riportandole vivo il marito senza poi chiedere nulla in cambio.  

Sancta Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!

Con le mani giunte e genuflesso malgrado il pavimento gli stesse massacrando i ginocchi, Marco Contarini pregava con grande fervore per la liberazione del padre il cavalier sier Zacharia, di suo fratello minore Piero e del Cor suo. In particolare, La supplicava di preservare l’amico carissimo da ogni male, soprattutto da una morte in dannazione, accogliendo con preoccupazione le notizie circa la scarsità di pane e di una strana febbre che s’era insinuata nell’accampamento nemico.

Come due personalità così differenti – devoto uno e turco l’altro – avessero potuto convivere e nutrirsi di vicendevole affetto, a tutti un po’ sfuggiva però al contempo convenivano come la presenza del Contarini addolcisse l’animo sanguigno del Miani. Forse perché più pacato, più serio o forse perché era l’unico che lo ascoltasse per una buona volta senza atteggiarsi a Cristo nel tempio, giudicandolo ancor prima che aprisse bocca. 

Cor mio”, gli aveva confessato una volta nel segreto della felze, “tu non ti rendi conto del grande carisma che eserciti sulle persone: ovunque tu vada, riesci a stringere e soprattutto a mantenere le più sincere e durature amicizie, indipendentemente dal soggetto. A chiunque tu ti rivolga, risulti immediatamente simpatico, ti trattano come se ti avessero conosciuto da una vita! Malgrado i tuoi eccessi, ti si perdona ogni cosa e anzi, non si esita a giustificarti pur di conservare la tua amicizia. Di te tutti hanno sempre e solo buone parole, un’altissima opinione. Li avvinci e pendono dalle tue labbra al punto che potresti chieder di compier qualsiasi impresa e loro ti esaudirebbero pure. Perché non utilizzi questo tuo dono per compiere qualcosa di buono? Per … per cambiar in meglio questo …”  Ma Hironimo lo aveva interrotto, in apparenza bonario ma Marco percepiva la collerica vibrazione di fastidio nella sua voce, tipica di quando riceveva una critica mal digerita. “Cor mio, cambiar cosa? Questo mondo? E perché mai? A me va bene così, al popolo va bene così, alla Signoria va bene così anzi, guai a chi scuote il suo centenario status quo! E non solo qui da noi, guarda quel domenicano ad esempio: voleva trasformare Firenze e la cristianità; Firenze e la cristianità hanno trasformato lui in un pugno di ceneri. Chi ha, ha. Chi non ha, non ha e s’impicca. Questa è l’unica verità”, aveva concluso, facendo spallucce. Al che Marco aveva insistito ch’era facile filosofeggiare, quando tutto girava pel verso giusto e si campava sereni, illesi dalle brutture della vita. Hironimo allora aveva piegato la bocca all’ingiù, inquisendo un poco accigliato se stesse parlando sul serio con cognizione di causa o giusto per aprir bocca, sicché il giovane Contarini aveva giudicato saggio dirottare altrove la conversazione.

Eppure, avrebbe tanto voluto poterlo convincere a vivere più rettamente, invece di sprecare così aridamente la sua vita. Oh, non che Marco si giudicasse uno stinco di santo (mica si sottraeva alla vita mondana), tuttavia s’angustiava nel veder scendere nel fango quell’anima buona ch’era Hironimo, quello strano ragazzo incredibilmente sensibile ma altrettanto orgoglioso e ostinato proprio per non farlo notare, che latrava i peggiori insulti a chiunque lo pizzicava mentre si svuotava il borsello per fare la carità ad un mendicante, neanche si vergognasse di quel suo gesto.

Sua madre madona Alba Donado Contarini gli aveva spesso ripetuto che non si può costringere a bere il cavallo condotto alla fonte; ciononostante, Marco non voleva demordere nel suo intento. Salvalo, salvalo e illuminagli il cuore!

Ave Maria di molte grazie piena,

con teco sia l’Altissimo Signore.

Tu fra le Donne benedetta sii;

e benedetto il frutto del tuo ventre Iesu.

 

 

Uguali pensieri agitavano la mente di Marco Miani, mentre affidava alla Madonna la moglie e i figlioletti Anzolo, Crestina e Scipio. Pregava per la sua famiglia, per ricevere protezione in questo assedio e non per gloria sua personale bensì per non mancare al suo ruolo di sostegno nei confronti di Helena e dei figli, tremando all’idea di lasciarli indifesi e soli al mondo.

Gli occhi chiusi e i pugni serrati, Marco si batteva il petto in spietati mea culpa, supplicando l’intercessione della Vergine onde perdonargli i molti peccati, in primis il concepimento adulterino del suo terzogenito (atto d’imperdonabile debolezza dettato dal suo orgoglio unito al malcostume della guerra e ancora ringraziava pieno di riconoscenza per non essersi beccato in tal circostanze il malfrancese), seguito poi dall’ultimo aspro diverbio con Momolo.

Non aveva desiderato aggredire così suo fratello, non con quelle parole malsane e crudeli,  non il medesimo giorno del funerale della loro sorellastra Crestina. E sarebbe stato facile, similmente ad ogni loro errore, incolpare nuovamente la guerra, sostenendo come essa li avesse abbruttiti, privandoli della sensibilità e raffinatezza dei gentiluomini. La verità era che avevano permesso a delle stupide incomprensioni e infondate gelosie di venire a galla, un meschino marciume che aveva avvelenato quegli ultimi preziosi istanti assieme prima di ripiombare nell’incertezza del futuro.

Marco aveva nutrito le solite piccole invidie nei confronti del minore – non lo nascondeva - specie il suo rapporto privilegiato con Madre, mal tollerando di conseguenza come Momolo la ripagasse recandole di continuo mille dispiaceri e come ella continuasse a giustificare le sue baronate, malgrado i rimproveri suoi e degli altri fratelli maggiori. Contrariamente però a Lucha e a Carlo, che sì gli volevano bene ma con il pacato equilibrio della differenza d’età, Marco invece per Momolo era stato un rivale con cui misurarsi e un complice da spalleggiare, un maestro e un confidente sebbene con l’avanzare dell’età e il suo matrimonio i due fratelli si fossero un po’ allontanati, ognuno con la propria compagnia, e Marco ammetteva una venuzza di gelosia verso il giovane Contarini, che s’era insinuato a suo sostituto.

Ciononostante, il profondo affetto che li aveva legati non s’era mai sciolto e Marco per questo aveva scelto Momolo come santolo di ogni sua creatura. A lui doveva la scelta del nome di Scipio, quando questi fece il suo imbarazzante ingresso a Ca’ Miani. Reggendo il piangente pargolo, Momolo aveva esclamato ilare: poiché il piccino strillava più imperioso d’un generale, già che era un Aemilianus che Scipio lo si chiamasse [3] ed era uno spettacolo vederlo giocare a gattomiao con Zanzi ed Ina o a fare il vola-vola a Scipio, più bambino lui di loro, dolci quadretti familiari che Marco custodiva nel cuore alla stregua dell’oro.

Ma era bastata quella parolina di troppo e il perfido sussurro del demone della superbia per rovinare tutto.

“Essere un valente cavaliere non fa di te necessariamente un buon comandante!”

“Di diana, potresti almeno per una volta, Madre, cessare di trattarmi alla stregua di un poppante? Non è la prima volta che vado al fronte! Devo ricordarti, poi, quante settimane ci siano volute affinché il Maggior Consiglio concedesse la castellania a Lucha? A come si è dovuto umiliare, prostrandosi a momenti? Proprio adesso dobbiamo rinunciarvi? E come ci sostenteremo, visto che la nostra filanda è chiusa, molto probabilmente distrutta, i nostri fonteghi semivuoti? Qualcuno deve in vece di Lucha presidiare Castelnuovo e se né Carlino né Marchetto hanno abbastanza fegato né amor patrio per offrirsi volontari, hé, dunque non rimane che a me il compito di tener alto il nome dei Miani!”

Qualche parolina di troppo …

“Arrogante, maligno, ingrato pezzo di merda! Vattene pure in quella sorciera di quattro pietre marce, chi ti vuole qui a impestarci con la tua odiosa presenza? Sei un peso morto in famiglia, un essere inutile! Vattene e per quel che mi riguarda, puoi anche crepare, non ci tangerebbe! Anzi, equivarrebbe ad una liberazione!”

Quante volte aveva rivissuto quella scena, nel vano tentativo di poterla cambiare? Quante volte s’era morsicato la lingua nella speranza di cancellare quell’assurda invettiva? Quel desiderio mostruoso?

Perché aveva visto, sì,  Marco aveva visto come aveva annientato Momolo in spirito, anche se quest’ultimo non s’era scomposto -  gliel’aveva letto negli occhi nerissimi, divenuti improvvisamente opachi, vuoti.

Come il giorno in cui l’ufficiale sanitario aveva riportato il cadavere di Padre a casa.

Il trentenne patrizio si guardò le mani congiunte in preghiera, le medesime che avevano afferrato e tirato suo fratello per lo zipone, strattonandolo, dopo avergli impedito d’uscire dalla chiesa di Santo Stefano. Avrebbe dovuto lasciar correre e non tanto per dargliela vinta, bensì perché sapeva che Hironimo stava parlando a vanvera, sapeva che il minore non rifletteva mai sul peso dei suoi discorsi quando una forte emozione lo turbava. Avrebbe dovuto lasciarlo in pace a piangere sulla tomba di Crestina, a confortare i suoi singhiozzanti nipoti Dionora e Gasparo. Avrebbe dovuto scegliere un altro argomento di conversazione o dirottare quest’ultima su temi innocui. In fin dei conti, decidere a gennaio chi dei due a marzo sarebbe partito alla volta Castelnuovo di Quero non corrispondeva in quel momento ad un’impellente priorità. Marco si era giustificato aggrappandosi all’età d’Hironimo, ormai abbastanza adulto e uomo da dominarsi in ogni situazione. La verità? Marco aveva voluto distrarsi per soffocare il suo dolore, senza tuttavia badare a quello del minore e come un gatto messo all’angolo, quest’ultimo gli  aveva soffiato contro.

Madonna Santissima, ti supplico di riportarmelo indietro. Non voglio che quelle siano le ultime parole ch’abbia sentito da me. Non voglio che quel porco di mercenario lo torturi. Salvalo, salvalo te lo supplico! Che io sia punito, piuttosto, che io sia punito per le mie parole inique e orrende ma salva mio fratello!

O Madre dell’eterno Sire,

Porgi i tuoi dolci prieghi inanzi a Lui,

per noi, che siamo erranti e peccatori.

Amen!

 

“Sier Marco?”, lo chiamò sottovoce sier Lunardo Zustignan, portatosi con molto sgomitare dietro alle sue spalle.

Il Miani sobbalzò, asciugandosi veloce e furtivo le lacrime inconsciamente scivolategli lungo le guance. “Ve scolto, sier Lunardo.”

“Avete per caso delle novità da parte del vostro barba, el consier?”

Guardandosi cautamente attorno, Miani rispose in un mormorio intellegibile: “Ancuo el Menor Consejo va far colegio. I decidaran in prèssa.”

“Spiero in Dio sia cussì.”

“Cosa dice il sior Provedador?”

“Iguali cosse: come i nemici siano accampati a Monte Beluna e da qualche parte tra Asolo e Castel Francho, probabilmente in attesa delle artiglierie. I nostri esploratori hanno contato finora quattro cannoni minuti e uno grosso, tre colubrine, quattro falconetti da parte dei Franzosi. I Todeschi, invece, quattro cannoni grossi. Sier Zuam Paulo ha inoltre ordinato di fortificare maxime porta Altilia e nel frattempo ha scritto alla Signoria d’inviargli circa trecento facchini e altrettante zappe e badili. A sostegno della sua richiesta ha allegato il rapporto del camerlengo, così da dimostrare la buona gestione delle risorse fino ad oggi ricevute”, li riassunse il nipote del Doge i fatti del giorno. “Dal Cadore, intanto, il capitano sier Phelippo Salamon ci ha informati di come siano passati dalla Val Sugana all’incirca 6000 fanti todeschi guidati da domino Zorzi Felzer, sebbene tutti mal equipaggiati. Anche il vescovo di Lubiana e il conte Zuam Francesco de Gambara sono stati avvistati lungo la strada per Monte Beluna, forse inviati dall’Imperatore per farne le veci.”

“Le veci?”

“A quanto pare, l’Imperatore ancora non si è mosso.”

“Per essere uno dei principali sostenitori dell’impresa di Trevixo, il Re dei Romani se la piglia assai comoda!”

“Maximiano, sier Marco, non ha mai brillato per tempestività d’azione.”

“Così come i suoi comandanti: ad esempio, si dice che Thodaro Triultio, per quanto valoroso ed esperto nel mestiere delle armi, sia tardo e pigro nel dar battaglia. Il duca di Roanné fino all’anno addietro era il tutore del giovane Francesco d’Orliens. Il marchese di Busseto non lo conosco, se non per fama di uomo d’ottimo consiglio e Mercurio Bua obbedisce solo a Dio. Pensate poi che il Gran Scudiero di Francia neppure s’è degnato di presentarsi, mandando al posto suo il fratello domino Julio …”

Lunardo grugnì sardonico. “Come ci riferì a suo tempo il nostro ambasciatore sier Marco Lipomano, Monsieur le Grand, o come si fa chiamare adesso monsieur Galéas de Saint-Séverin, è valente soltanto con la lancia!”, sussurrò e i due quasi coetanei si coprirono la bocca onde soffocare una poco consona risatina.

D’altronde, se era vero che il fu genero di Ludovico il Moro aveva brillato nelle corti italiane per l’eleganza delle maniere e la vasta cultura; per contro nell’ambiente militare egli non godeva di grande stima, giudicando i condottieri il signor Galeazzo bravo soltanto nelle giostre ma inutile in battaglia, irritati dalla sua incapacità di governare una sola compagnia di soldati figurarsi un intero accampamento. Lo stesso sier Zuam Paulo Gradenigo aveva avuto da ridire sull’effettive qualità del Sanseverino, specie durante la campagna militare ad Alessandria. Galeazzo e suo fratello Fracasso non avevano osato dare l’assalto al castello nemico sul Monte Baldo, temendo una presenza di soldati e artiglierie sufficiente a danneggiarli, sicché avevano rinculato per salvare carriaggi e il resto, lasciando Gradenigo solo alla retroguardia e senza avvisarlo, peggio d’un allocco. Si vociferava che, in seguito a quest’episodio, ogniqualvolta l’allora provveditore degli stradioti udiva il signor Galeazzo menzionato per il suo soprannome, egli tra sé e sé borbottasse rancoroso: “Figlio della Fortuna. Sì, sì, un vero e proprio rotto in culo.” E soltanto gli esponenti della previa generazione potevano cogliere nell’immediato il senso di quel calembour, non avendo in effetti ancora capito per quale esatto merito fosse stato il Sanseverino posto a capo dell’esercito sforzesco.

“In ogni modo – rapidi o veloci che siano – i nemici ugualmente hanno intenzione di porre l’assedio, su questo non ci piove. Di conseguenza, bisognerà velocizzare i lavori alle mura … Per fortuna la Signoria s’è affidata a sier Zuam Paulo, il Podestà qua non è che abbia molta pratica nella guerra …”, fu la clemente opinione del Zustignan su sier Andrea Donado, che se non fosse stata per la granitica risolutezza e ferrea organizzazione del provveditore generale, Dio li scampasse tutti.

“Per terminare le mura, mi sa che i nostri capitani dovranno apprendere il compromesso”, sentenziò Marco, alludendo alla folla compatta di Trevigiani davanti alla Devotissima, a mo’ di scudo umano. A Renzo di Ceri sarebbero cresciuti i vermi allo stomaco non appena la notizia l’avrebbe raggiunto, poco ma sicuro.

“Una dura lezione d’umiltà per loro”, convenne Leonardo. Dopodiché s’informò, cambiando argomento: “E col domino Symon Michiel, chome xela finia?”

Alludeva il patrizio ad un singolare caso avvenuto di recente a Treviso, del sano pettegolezzo onde mitigare la tensione della preparazione all’assedio. Il canonico Symon Michiel di sier Nicolò cavaliere e procuratore e residente lì in città, era stato incolpato di aver criticato con aspre parole l’operato della Signoria e pertanto arrestato.  L’uomo s’era difeso proclamandosi innocente e calunniato da gente invidiosa, che solo voleva la sua rovina.

“An, i Cai di X l’hanno a lungo esaminato, ma, non trovando niente di concreto contro di lui, l’hanno prontamente assolto.”

Il nipote del Doge arricciò la bocca, sbuffando. “Verità o bugia, in futuro domino Symon imparerà a tener la bocca ben serrata”, disse, per poi chetarsi bruscamente alla benedizione del priore Fra’ Hironimo:

“Alleluia, alleluia. Felix es, sacra Virgo Maria, et omni laude dignissima: quia ex te ortus est sol iustitiae, Christus, Deus noster. Alleluia.”

Un fitto bosco di braccia e mani si levò in alto, speranzoso, risoluto e adorante. “Alleluia!”, ripeterono in un sol uomo i fedeli, scandendo con fervore ogni singola lettera. “Alleluia!”

Falliscono e deludono gli uomini, pensavano con granitica fiducia i Trevigiani, ma non Lei, non la loro Signora.

Mai.

 

***

 

 Fu una notte alquanto strana: ogniqualvolta l’ombra di un soldato s’avvicinava all’ingresso del padiglione, gli stradioti si tendevano in avanti pronti allo scontro per poi rilassarsi quando i loro compari riconducevano a miti consigli quegli sfacciati predoni, allontanandoli tra urla e stridore d’armi. Il tempo trascorreva lento, ogni granello di clessidra sembrava restio a scendere e il silenzio riempiva la testa di ogni astante d’orride chimere, di agguati e assalti e neppure si aveva il coraggio di chiudere per un istante gli occhi nel timore di venir attaccati esattamente in quell’istante. Gli stradioti s’umettavano la bocca secca e al contempo umida del sudore che non osavano tergere col dorso della mano, ambedue impegnate a tenere la zagaglia, la mazza, lo scudo, l’arco o la spada.

Hironimo, seduto nel lato della branda, aveva dal canto suo avviluppato simil serpente Thomà, offrendogli col proprio corpo quanta più protezione possibile e strabuzzando gli occhi al doloroso pizzicore delle unghie del bambino, le quali gli si conficcavano nervose nella carne alla vista delle sagome dei soldati avvicinarsi alla tenda. Mercurio, invece, pur seguitando a fissare davanti a sé col medesimo ardore predatorio d’un felino, scuoteva di continuo il capo onde tenersi lucido e sveglio, essendogli la febbre risalita ma sforzandosi di non tradirlo ai suoi sottoposti acciocché il panico di perdere il loro capitano non li sopraffacesse. Dovevano rimanere assolutamente concentrati.

Solo alle prime luci dell’alba la situazione cangiò corso e s’erse nel padiglione un grande sospiro sia di sollievo che di vittoria: un grave silenzio s’era poco a poco imposto nel campo e gli ultimi schiamazzi vennero scacciati dai raggi del sole come la neve a primavera.

E quando gli stradioti alla guardia della tenda lasciarono entrare la figura che s’appropinquava, si comprese che ogni focolaio di sommossa era stato completamente debellato. 

“A quanto vedo il mio padiglione s’è trasformato in un’osteria”, commentò aspro Mercurio Bua al nuovo arrivato, puntellandosi sui gomiti e nettando la fronte madida di sudore, la spada ceduta a Leka Busicchio. “Si va e si viene a proprio piacere, senza domandar permesso.”

Il conte Gianfrancesco di Gambara gli rifilò un sorriso stretto. “Vi si credeva morto, capitano”, rispose, soffermando lo sguardo su Hironimo che strinse gli occhi bellicoso. Perfino Thomà lo fissò di traverso, mostrandogli una scaltra linguaccia con la scusa di leccarsi le labbra secche.

“Neppure una puttana si consola così in fretta!”, sbuffò sardonico il greco-albanese, tirando alquanto possessivo al petto la catena, avendo seguito la traiettoria dello sguardo del bresciano e non garbandogli quella sua insistenza nello scrutare il giovane Miani. “Bando alle ciance, in che poss’esservi d’aiuto, signor Conte?”, lo canzonò falsamente servile.

“Non badate a me, piuttosto alla giustificazione che dovrete al Gran Maestro circa la vostra disfatta a Treviso!”

La bocca del capitano di ventura si piegò in rictus nervoso. “Almeno la mia è stata un’azione coordinata a concludere un risultato utile. Voi, invece, come gli spiegherete la sommossa nel campo? Come si potrà fidare il maresciallo e soprattutto l’Imperatore di chi non è neppure in grado di tener a freno i propri uomini?”, sputò velenoso, le dita contorte da spasimi specie dinanzi alla faccia di bronzo del nobile, che pur nel torto continuava a fissarlo con condiscendente sufficienza. 

“Vi piacerà apprendere”, gli riferì infine il conte, porgendogli un rapporto appena giunto all’accampamento da un emissario, “che il Gran Maestro si appresta a ritornare.”

Fingendo di cercare fantomatici pidocchi tra i ciuffi biondi di Thomà, Hironimo si spostò strategicamente sul lato della branda, leggendo di sottecchi i contenuti del rapporto.

Arrivati a Vicenza sabato 6 settembre; artigliere avviate a Marostica. Aggiunte alle nostre plus lance 200 e 2,000 fanti grigioni. Entrati a Vicenza si è dato ordine di suonare le trombe e a gran voce si son fatte levare grida: “A Treviso! A Treviso!” unde infondere coraggio ai soldati. Inventario è il seguente: 400 munizioni, ponti, scale e burchi per il trasporto lungo la Brenta partendo da Bassano. 4 cannoni, 3 colubrine, 4 falconetti, 4 grosse di calibro e un cannone grosso. Falconetti e altre artiglierie però di piccolo calibro. Quantità più che soddisfacente di rifornimenti per fronteggiare la carestia di pane nel campo. Si cerchi di capire chi in Treviso sia disposto a collaborare.

“Evidentemente”, indicò il Gambara l’ultima frase, “neanche Gradenigo s’è rivelato capace di governare la propria città, se La Palice adombra l’esistenza di simpatizzanti alla causa dell’Imperatore”, e attese in sorniona aspettativa l’occhiata indispettita del greco-albanese.

Ne rimase deluso. “Sicuro”, asserì incolore Mercurio, rileggendo il rapporto e piegandolo indifferente in due. “Vi apriranno le porte, certo, ma per tagliarvi a pezzi e trasformarvi in soprèssa da mangiar con polenta e funghi, visto che fra poco siano in stagione.” [4]

Al che il conte s’inalberò parecchio. “Date del bugiardo al Gran Maestro di Francia?! Pensate che si sia inventato questa notizia?”

“E voi?”, esclamò spazientito lo stradiota, strattonando improvvisamente Hironimo, che finì per sbilanciarsi in avanti e per poco non gli cadde addosso sulla gamba ferita. “Credete che queste” e mostrò teatralmente le bende, “siano le ferite infertemi da una città pronta a consegnarsi? Di una città che ha un traditore pronto a svelarci i suoi piani? Se è vero, è una ciancia messa in giro da Gradenigo così da cullarci in false aspettative prima e fottercelo poi dentro a palazzo comodamente!”

“Non nascondete la vostra incapacità accusando gli altri d’inefficienza o superficialità!”

“Voi non eravate sotto le mura di Treviso! Non avete visto in che modo preciso, matematico quasi, ci hanno respinto. Se non rivediamo alla svelta i nostri piani e non cambiamo tattica, ci uccideranno uno ad uno come sorci in trappola. La città è preparata e mi hanno lasciato avvicinare solo per darmi un assaggio della sua potenzialità bellica! La Palice, voi e tutti i vostri buffoni da osteria potete cantare A Treviso! A Treviso! quanto vi piace, ma io vi dico ch’è inutile porla d’assedio: avessimo anche il doppio delle forze in campo, non la prenderemo mai! Treviso ora come ora è inespugnabile.”

Quelle parole caddero come una gelida secchiata d’acqua sulla schiena del conte di Gambara, affermazione resa ancor più insopportabile dal compiaciuto arricciare di labbra di Hironimo che tuttora si fingeva interessato a spidocchiare Thomà.

“Vigliacco …”, sibilò il bresciano, il volto a chiazze. “Non siete che un vigliacco, un fanfarone che si spaventa alla prima difficoltà. Uno schiaffo all’onore cavalleresco, al senso del dovere in ogni soldato, uno sputo alla disciplina marziale e ai nobili ideali della guer- …”

“Ma per favore!”, interruppe scocciato Mercurio la sequela di accuse del conte, smanioso di terminare lì la questione anche perché oltre alla febbre percepiva gli acuti spilli dell’emicrania martoriargli le tempie e il collo. “Rifilate tali puerili asinerie agli esaltati bambocci che servite. La guerra è affar di mercante, dove per ottenere un bene invece che col denaro si paga in vite umane! E anch’io voglio aver il mio profitto, non mi nascondo dietro grandi retoriche né mi vergogno delle brutture del mio mestiere! E voi pure mi siete compare, caro il mio conte di Gambara: non pensate di corbellarmi sciorinandovi in elegie sui diritti ancestrali dell’Imperatore e altre stronzate varie sulla necessaria sacralità della guerra, ché vi rido in faccia. La verità è che vi brucia come Venezia v’abbia giuridicamente equiparato alla plebe. Vi brucia di compartire i medesimi diritti e doveri di uno Zane qualsiasi dinanzi alla legge veneziana e di come un qualsiasi rettore veneziano vi possa trascinare in tribunale. Pur di riottenere i vostri antichi diritti feudali, combattereste al fianco del diavolo in persona! E ben lo avete dimostrato cangiando ripetutamente bandiera, voi che mi predicate l’onore e la fedeltà!”

Gianfrancesco di Gambara balzò in piedi, livido, la mano corsa di riflesso sull’elsa della spada. Ciononostante, l’uomo s’impose di calmarsi anche perché la sua indignata reazione aveva provocato un pericoloso irrigidimento da parte degli altri stradioti, pronti a scannarlo in caso si fosse avvicinato troppo al loro capitano.

“Sappiate che vi farò appiccare come disertore, al minimo vostro cenno d’abbandonare quest’impresa di Treviso …”, gli puntò minaccioso contro il dito, mormorando a denti stretti e frenando a stento la collera.

Mercurio alzò a mo’ di sfida il mento. “Avvertitemi non appena rientra il maresciallo e il vescovo di Lubiana”, lo congedò, sostenendo lo sguardo finché il nobile bresciano non si risolse ad uscire dal padiglione. Solo allora si lasciò cadere sul cuscino, stremato. “E tu? Non hai nulla di brillante d’aggiungere?”, inquisì beffardo, notando come Hironimo se ne stesse sospettosamente in silenzio.

In effetti, il giovane patrizio aveva ascoltato con la massima attenzione il diverbio tra i due comandanti, sorpreso assai del tono duro e irrispettoso nei confronti di chi nell’accampamento rappresentava il Re dei Romani. D’accordo nei confronti degli altri comandanti francesi, tedeschi e italiani; d’accordo pur con molte riserve verso lo stesso La Palice ma certi attriti e sgarbatezze verso il Gambara? Dunque quel lupo affamato di greco-.albanese invero non serviva altro padrone se non il danaro, infischiandosene di tutto e tutti? Forse … già il fratello e i cognati avevano disertato … forse …

“Hai già i tuoi buffoni di corte”, replicò calmissimo Hironimo, terminando la sua guerra personale alla zazzera di Thomà, che reclinando indietro il capo lo studiò perplesso. “Chiedi a loro di divertirti.”

Stava azzardando un gioco rischioso e colmo d’incognite, lo sapeva. D’altra parte, però, tredici giorni e neppure un emissario per informarsi sulla sua salute, figurarsi chiedere del suo rilascio e pattuire un riscatto o uno scambio. O s’erano dimenticati di lui o qualche impedimento bloccava le trattative, vai tu a indovinare cosa.

Poco male.  

Hironimo se la sarebbe cavata da solo anche questa volta.

Come sempre.

 

***

 

Negli ultimi quindici anni madona Leonora Morexini relicta Miani aveva acquisito l’uso di recarsi di buon mattino alla Chiesa di Santo Stefano e lì di pregare sull’arca del marito sier Anzolo Miani. A tal rituale s’erano aggiunte le orazioni per l’anima della figliastra, madona Crestina Miani da Molin, deceduta lo scorso gennaio.

Ognora accompagnata dall’inseparabile Eudokia, in via eccezionale quella mattina s’erano aggiunti il piccolo Anzolo, la sua omonima nipote e Lucha, dovendo questi raggiungere suo fratello Carlo e il resto del parentado a Palazzo Ducale, malgrado le insistenze della madre la quale non desiderava allungare inutilmente il tragitto del figlio.

Alla gentile obiezione materna, Lucha si era schermito, sostenendo di non provare alcun incomodo, anzi, gli giovava solo, non stimando la sua invalidità un motivo sufficiente per abbandonare ogni attività fisica.  Al che Leonora non aveva insistito oltre, lasciandolo far il suo piacere, abituata ormai a non pugnare se non strettamente necessario contro l’irremovibile testardaggine tipica dei Miani e a non sforzare l’umore talvolta suscettibile del suo primogenito, un tempo il più tranquillo e mite dei suoi figlioli. Dal suo rientro a dall’Alemagna, il suo Lucha, partito forte, bello e baldanzoso per La Scala, le era ritornato l’ombra di se stesso, reso quasi irriconoscibile e coperto di cicatrici e lividi, col braccio destro storpiato a causa di un colpo d’archibugio, tenuto su completamente inutilizzabile dalla fascia di supporto legata al collo. C’era voluto un po’ di tempo, prima che Lucha cessasse di sobbalzare ad ogni tocco, riabituandosi al contatto fisico; invece, tuttora seguitava a nascondere vergognoso le sue ferite, disgustato lui per primo da esse e non per la loro bruttezza bensì per le occhiate di compassione che gli procuravano. Voleva ritornare al fronte, vendicare quella bruciante sconfitta, non invecchiare anzitempo dietro una scrivania. Adesso poi che Hironimo era caduto prigioniero dei nemici, Lucha si dimenava peggio d’un diavolo nell’acqua santa pur di trovare una pronta soluzione al suo rilascio, memore dei tormenti patiti durante la sua cattività. Il suocero di Marco, il cavalier Dimitri Spandolin, ancora non era riuscito a farsi ricevere da Caterina Boccali Bua e il suo barba sier Batista Morexini, pur in una posizione di grande influenza, non era onnipotente.

“Siora Mare, mi sono scordato, ieri, di leggervi la lettera del cugino Zuam Francesco.”

“Non importa. Come sta? Non dev’essere una carica facile, quella di Conte e Capitano a Sibinico.” [5a]

Madre e figlio s’erano messi a cicalare del più e del meno, così da scacciare la ultime ombre dell’ennesima notte insonne. Pur invalido del braccio destro, Lucha aveva però offerto il sinistro alla madre per sostenersi, spiando preoccupato il suo incedere strascicato e un poco claudicante. Un fragile uccellino intirizzito dal freddo, ecco chi gli ricordava in quel momento la genitrice.

“Nostro cugino mi narrava di certi malumori tra la popolazione locale per colpa d’alcuni gentiluomini, rei di furto e d’altri crimini poco onorevoli. Zuam Francesco ha però già debitamente informato la Signoria dell’intera faccenda e non dubita di un suo pronto intervento, onde quietare gli animi e punire i felloni.”

“Ti confesso che quando il tuo sior Pare era stato provveditore sia di Nepanto che di Zacinto [5b], io non dormivo la notte e chissà come facesse lui, beato nel sonno dei giusti. Par mi, lo Stato da Mar xé tera de salvadeghi. ”

“Uhm, dipende forse dal posto. L’altro nostro parente, Polo Antonio, è Ducha di Candia, però non mi pare si trovi male, almeno stando alle lettere della sua siora mojer vostra germana.”

“E’ il titolo di Ducissa di Candia che la consola! E per sua fortuna il titolo non è ereditario, sennò finiva come la povera Ducissa di Nixia, madona Thadia Loredan Crispo, uccisa dal marito divenuto folle e ci scommetto per via del suo sangue ormai marcio ... Possa Dio perdonare l'anima di entrambi e ricongiungerli al Suo cospetto", si segnò. [5c] ”

Lucha prontamente imitò la genitrice, provando in effetti pena per il giovanissimo Duca di Nixia, Zuanne, e sua sorella madona Catharina, rimasti orbati d'ambedue i genitori in sì tragiche circostanze.

“Oggi m’incontrerò con madona Alba, per andare insieme a distribuire viveri e indumenti agli sfollati dello Stato da Tera alla Cha' del Ducha di Frara e all'Ospedale di Sant'Antonio”, riferì madona Leonora al figlio, che annuì meditabondo.

“Non dimenticate di chiederle d’organizzare un colloquio con suo figlio sier Francesco.”

“Figurati se mi scordo di conferire con chi potrebbe aiutarci a liberare tuo fratello!”

“Non lo mettevo in dubbio, siora Mare. Perdonate se v’ho mancato di rispetto. ”

La nobildonna piegò all’ingiù gli angoli della bocca. Dalla morte del marito, i suoi rapporti col primogenito s’erano di molto formalizzati, così come il senso di responsabilità aveva invecchiato Lucha anzitempo, conferendogli un’aura severa e poco incline a perdonarsi il benché minimo errore. Per questo Leonora sperava ardentemente in un prossimo matrimonio del figlio: siccome non poteva più coccolarlo, era giusto che lo facesse una moglie, sostenendolo e confortandolo.

“Piuttosto, ti suggerirei di non insistere eccessivamente col tuo Barba. Ricordati, che qui a Veniexia c’è chi veglia sui custodi”, l’ammonì velatamente la nobildonna, rammentando al figlio che pur avendo ottenuto l’ambito posto di consigliere ducale e supervisore dell’operato del Doge, anche sier Batista Morexini era soggetto al serrato scrutinio da parte dei suoi tre colleghi Avogadori nel Minor Consiglio, pronti a dimetterlo se non addirittura incarcerarlo al minimo cenno d’abuso di potere.

“Me ne rendo conto, siora Mare.”

“So che sei giudizioso, fio mio. Te vojo tanto ben”, lo benedisse, disegnandogli una croce sulla fronte col pollice. Lucha le baciò di rimando la mano alla greca, pieno d’affetto, appoggiando le nocche di lei sulla fronte. Dopodiché si accommiatarono, essendo Leonora giunta al convento degli Eremitani Agostiniani di Santo Stefano, mentre il Miani proseguì oltre verso la Piazza e poi a Palazzo Ducale.

In quell’ora tutta per sé e protetta da quell’aura di sospensione tipica dei luoghi sacri, nel dolce silenzio profumato d’incenso madona Leonora incominciò dunque le sue orazioni dove raccomandava costantemente la sua famiglia a Missier Domeneddio, alla Madonna e agli Angeli Protettori. Nella privatezza della parte posteriore dell’abside, la vedova patrizia instaurava tramite la preghiera una sorta di dialogo col defunto marito, in cui gli narrava come se avesse potuto ascoltarla ogni suo pensiero e ogni novità, ancora incapace d’accettare, nonostante i quindici anni trascorsi, d’esser stati separati in modo sì improvviso e violento.

Quel giorno, però, inginocchiata sotto l’arca del consorte, la nobildonna confidò ad Anzolo come, al posto dei sogni, da molti notti la tormentasse un antico ricordo, che credeva da lungo tempo seppellito. Sommessamente glielo descrisse, attendendo che sua nipote Dionora terminasse le sue preghiere in modo poi d’allontanarla con la scusa di mostrare al suo germano Zanzi le tombe monumentali dei dogi Andrea Contarini e Zuanne Soranzo, le quali si trovavano nel chiostro trecentesco del monastero adiacente.

Leonora si rivedeva gravida e intenta a ricamare nel giardinetto del palazzo pretorio a Feltre, godendosi gli ultimi pomeriggi di quell’estate del 1487, già rendendosi cadaun giorno più frizzantina l’aria. Accanto a lei cicalavano allegre la sua figliastra Tina e sua madre Ysabeta, circondate dalle fantesche occupate a rammendare. Da lontano s'udivano gli echi dei manovali che rafforzavano le mura sotto la direzione dell’ingegnere Dionigi da Viterbo a sua volta supervisionato da Anzolo, podestà e capitano della città. Anche in quegli anni erano in guerra, nello specifico contro il duca del Tirolo Siegmund von Habsburg per questioni di dazi. L'improvvisa e scioccante morte di Roberto Sanseverino d’Aragona a Calliano aveva persuaso il consorte a dare un’accelerata ai lavori, acciocché fossero già ben impostati all’arrivo del suo sostituto. Anzolo aveva espressamente chiesto i servigi di messer Dionigi, conosciutone in prima persona le competenze durante la Guerra del Sale, quando aveva preparato i due grandi ponti galleggianti per l'attraversata del Po a Lagoscuro.

La patrizia aveva appena destato Momolo dal sonnellino pomeridiano e già il suo fantolino era lì a zampettare sull’erbetta soffice, impegnato a tormentare i fiorellini selvatici che coglieva e studiava con estrema concentrazione. Sopra la camiciola bianca, la nobildonna gli aveva infilato una larga vesticciola rossa come rosse erano la cuffietta e le scarpette, lasciandogli però il massimo di libertà di movimento. E se si muoveva, quel piccolo terremoto!

Seguendolo attenta con la coda dell’occhio, Leonora provava un’immensa gioia nel bearsi della vista di un figlioletto di sì provata salute, specie dopo aver perduto il suo Marco Antonio, morto due anni addietro di peste, la quale prima di pigliarselo l'aveva ridotto ad un febbricitante scheletrino. Ancora non si capacitava di quel piccolo miracolo, non alla sua età e non dopo cinque anni in cui nulla era più stato concepito dal suo ventre. Si sovveniva perfettamente del viso pallidissimo e sgomento di Anzolo alla notizia dell’inaspettata gravidanza e doppiamente ridacchiava al ricordo di quando, balbettando, il suo sposo le aveva chiesto come avessero fatto, neanche si fosse scordato all’improvviso delle numerose notti di passione, una volta ritornato dalla muda di Beirut. Dopo quattro anni di guerra sul Po e un anno in Siria, i due coniugi finalmente riuniti s’erano amati con tale gioioso e affamato trasporto, che l’unica conseguenza doveva per forza essere il concepimento di un figlio. 

E quanto ambedue avevano scalpitato in quei nove mesi, impazienti di conoscere il visetto della loro creatura!

Invano avevano tentato d'istruire madona Leonora sin dall’adolescenza a tener un certo distacco nei confronti della prole: alunna discola, nessuno dei suoi pargoli la Morexini l’aveva completamente affidato alle cure di balie, domestiche o contadine come invece solevano fare le altre patrizie, neppure la figliastra Crestina, all’epoca del suo matrimonio con Anzolo un’infante di poco più di un anno. Anzi, con lei la giovane sposa s’era impratichita nel mestiere di madre. E adesso che Leonora si trovava ben distante da Venezia, tutt’al più se ne approfittava sfacciatamente, libera da ogni forma d’etichetta e aspettativa. Fin quanto possibile, voleva crescere i suoi figli nella consapevolezza dell’assoluta totalità del suo amore nei loro confronti, anche il piccino che le stava crescendo in ventre.

(La sua piccola Emilia, che strinse a malapena per un mese tra le braccia)

Un gridolino sorpreso seguito da un acuto vagito catturò l’attenzione della patrizia, costringendola in piedi e in un gran fruscio di gonne a correre verso il suo fantolino, caduto a faccia ingiù e piangente in un misto di stizza e paura. Leonora se lo issò in braccio, baciandogli le gote umide di lacrime e spazzando via i fili d’erba e il terriccio dai vestiti e dalla fronte di Momolo che, ancora scosso, si pose il pollice in bocca e con l’altra mano si strinse allo zendale bianchissimo della madre, ritornata nel frattempo al suo ricamo.

Annoiandosi però ben presto e passato lo spavento, Momolo incominciò d’un tratto a scalciare e ad arcuarsi frignottando, insofferente di quella posizione, il suo interesse attirato altrove. Sorridendogli tenera, madona Leonora lo sciolse dalle dolci catene del suo abbraccio e pigliandolo per la manina cicciotta, lo guidò nella direzione laddove l’ultimogenito agognava recarsi, ancheggiando in quella buffa camminata da papera tutta gambe e bacino tipiche degli infanti.

“Ma-ma … ma … co! Ma-ma  … ma … co!”, cinguettava contento e Leonora vide il suo terzogenito Marchetto correre incontro a braccia aperte al fratellino il quale tanto tirava, che la madre dovette liberarlo dalla lieve stretta alla mano.

“Ma-ma … ma … co!”

Pensare che Marchetto aveva pianto disperato alla nascita di Momolo, battendo i piedi per terra e mulinando indispettito i piccoli pugni, perché non aveva chiesto alla Madonna un nuovo fratello bensì rivoleva indietro quello vecchio. Senza contare, che d’ora in avanti non avrebbe mai più potuto godere dei privilegi dell’ultimogenitura.

“Momolin!”

Eppure eccolo là accucciarsi all’altezza del fantolino che gli trottava incontro, abbracciandolo forte e sollevandolo per le ascelle mentre l’altro se la rideva sguaiatamente tra strilli e gorgoglii, le guanciotte baciate e ribaciate dal maggiore. “Momolin s’è svegliato! Momolin è tornato! È tornato dal sonnellin, il mio bel Momolin!”, canticchiava battendo le mani e il fratellino, ridendo di pancia, lo imitava.   

Leonora li osservava felice e assorta, in disparte, accarezzando la mano che aveva stretto e guidato quella del suo Momolo fino a Marchetto …

Quale significato può avere codesta reminiscenza?, s’interrogava disorientata la nobildonna, Perché così ricorrente? Io che accompagno Momolo fin da Marchetto. Cosa mi si vuol dire?

Un sogno premonitore? Un presagio? Un semplice ricordo?

Solo in quel momento s’accorse di come suo nipote Zanzi avesse terminato il suo giro, portatosi accanto a lei e con le mani giunte borbottava all’arca del suo omonimo nonno, da lui mai conosciuto: “Sior Avio, de grassia, vegliate sul mio Tata vostro fio e la mia Mama, che stanno alla custodia di Trevixo. Vegliate sull’Ina e sull’altro mio fratellino, tutti e due vostri nezzi anche se Scipio ha una mamma diversa. Vegliate sulla mia siora Nonna vostra mojer, sui miei Barba Luchin e Carlino e soprattutto sul Barba Momolo, che lo liberino in fretta!”

Madona Leonora, sorridendogli mestamente, gli accarezzò da dietro i folti ricci scuri.

“Patrona”, interruppe di malavoglia Eudokia quel piccolo idillio, essendosi allontanata per qualche istante onde ricevere un’ambasceria da parte di un’altra domestica. “La massera della despina Alba m’ha appena riferito, come la sua patrona non stia bene, sospettano trattarsi di quelle febbri che di recente stanno affliggendo la Terraferma. La despina non sembra grave, per fortuna, e le sue figlie la stanno assistendo. Cosa le rispondo, patrona?”, le riferì dispiaciuta, ben intuendo la candiota cosa quel contrattempo significasse per la nobildonna.

Rigirando pensosa la vera nuziale, Leonora si risolse a seguito di una lunga pausa: “Torna dalla massera di madona Alba e dille di porgerle da parte mia ogni augurio di pronta guarigione; aggiungi poi che ci tenga al corrente delle sue condizioni di salute e che non mancheremo di recarci in visita a casa sua.”

Eudokia annuì, filando via a riferire lesta come il vento.

“V’accompagnerò io a dar da mangiare ai fuggiaschi”, s’offrì volontario Zanzi, notando come le spalle della nonna si fossero subitaneamente curvate e ignorava il perché. Per lui infatti la presenza di madona Alba corrispondeva ad una mera compagnia per i loro esercizi di carità e soccorso verso gli sfollati di Terraferma, non essendo punto al corrente del doppio fine di quell’incontro.

Vista la mancata reazione di Leonora, il settenne bambino afferrò dunque la mano piccola e rugosa dell’avia, gli occhi nerissimi ereditati dal padre scintillanti d’entusiasmo. “Non avete bisogno di madona Alba: Dionora ed io v’aiuteremo con le ceste! Guardate, visto che come sono forte?”, esclamò orgoglioso, flettendo il braccio per mostrare gli acerbi bicipiti.

Al che sua nonna non si trattenne e scoppiò in una timida risatina. “No vorave pì mejo cavalier de ti!”, gli confessò sincera, e, toccata con la punta delle dita l’arca d’Anzolo, preso per mano il nipote si recarono assieme a Dionora verso l’uscita della chiesa.

A Te, che immersa in angoscia mortale per il tormento del Figlio, ti fu trafitto il cuore da una spada: dammi forza, Santissima Madre di Dio! Dammi tanta forza per sopportare questo strazio atroce! Non disprezzare le mie suppliche, ma liberaci da ogni male. Liberami il figlio da ogni male, oh Vergine gloriosa e benedetta!

“Siora avia? Coss’aveu? Perché piangete? È successo qualcosa?”

“Oh, Dionora cara. Non è niente. Soltanto della polvere negli occhi.”

 

***

 

“Beata viscera Mariae Vírginis, quae portaverunt aeterni Patris Fílium.”

La solenne ma sentita formula d’invocazione e ringraziamento pronunciata dal primocerio [6] della Basilica di San Marco, domino Hironimo Barbarigo, si disperse leggera tra le volte dorate e il trionfo di mosaici della cappella palatina e chiesa di Stato, ripetuta con mistico fervore da Missier il Doge Lunardo Loredan.

Corrugando la fronte alta in un volto scarno e serio, eppur pacato nella sua risolutezza, il Principe affidava l’intera Repubblica alla Madonna, supplicandoLe intercessione presso Dio onde concederle vittoria contro il nemico nonché perdono per l’arroganza sua, risparmiandola dall’umiliazione della schiavitù allo straniero. Invocò inoltre consiglio all’anime dei suoi predecessori – in particolare di Andrea Contarini vincitore dei Genovesi nella tremenda Guerra di Chioggia – acciocché gli concedessero saggezza, prudenza e audacia per affrontare una delle crisi più acute nella storia della Serenissima. Se così dev’essere - fiat voluntas Tua. Ma fino al nostro ultimo respiro, sostienici nella battaglia, o Signore. Kyrie Eleison, Christe Eleison.

Accanto al Serenissimo, sotto l’attento scrutinio dell’icone bizantine del Christus Rex Mundi, della Vergine Nicopeia, delle schiere angeliche e dei Santi, oravano assieme al doge il legato del Papa, l’episcopo di Monopoli, il Minor Consiglio al gran completo e alcuni patrizi, quest’ultimi in attesa che il Collegio a Palazzo Ducale concludesse la sua consultazione acciocché il Principe e i suoi consiglieri, terminata la Messa, potessero accogliere la loro proposta di decisione.

Fuori la Basilica la vita scorreva nell’usuale gran frenesia, alternandosi il vociare della gente allo scalpellare degli operai intenti a ricostruire la cuspide del Campanile di San Marco, gravemente colpita durante il tremendo maremoto del marzo scorso.

Rigirando irrequieto l’anello di zaffiro al dito, sier Batista Morexini “da Lisbona” meditava a quale sorte stessero andando incontro. Per due anni avevano resistito a questa guerra che non pareva voler terminare mai, i loro nemici irriducibili nel proprio odio e invidia verso la Repubblica. Era nato in un mondo di uomini liberi, cogitava il patrizio, doveva dunque morire in uno di cani assoggettati ad un padrone, cui nulla importava se non sfruttarne le risorse e l’ingegno? Sarebbe stata anche la Serenissima spazzata via come le altre Signorie italiane?  O avrebbe resistito caparbia?

Il “da Lisbona” ripensava al lontano anno dell’elezione a Doge di sier Nicolò Trum, marito della sua lontana parente madona Aliodea Morexini: anche in quel frangente, strangolata da un enorme ed impagabile debito nonché dall’incessante incalzare dei Turchi, sola e abbandonata nella sua miseria, la Serenissima era sembrata sull’orlo del precipizio. “Chi si lagna e nulla combina per cangiar la sorte, è uno sconfitto in partenza che non merita alcuna commiserazione”, aveva allora sentenziato il settantenne ma ancor energico Principe, arringando in via straordinaria il Senato con tal piglio che nessuno osava fiatare. “Piangeremo quando non ci sarà più niente da fare e sarà solo dentro le nostre tombe. Fino a quel ben triste giorno, però, duri i banchi! A vogare tutti per la Signoria!” E nel giro di un anno, la Repubblica s’era ripresa economicamente e militarmente, stupendo il mondo esterrefatto da tal impensabile prodigio.

“C’è un motivo per cui Nostro Signore ci pone in un certo posto ad una certa ora. È la prova che ci dà e soltanto in quell’istante vediamo chi siamo e cosa valiamo”, aveva confessato madona Aliodea a sier Batista quando, vedova del doge sier Nicolò e ritiratasi in convento, durante la peste del 1478 s’era rifiutata di lasciare Venezia onde soccorrere assieme alle consorelle gli ammalati, insensibile ai richiami della famiglia che la supplicava di rifugiarsi nelle proprietà di campagna.

“C’è sempre un futuro, anche quando esso si presenta nero pece”, aveva riassunto Jacomo Mamalucho la sua incredibile vita dinanzi al Senato e lui sì, che poteva parlare ex cathedra. Catturato giovanissimo in una scorribanda dei Turchi nella Patria del Friuli ai tempi della seconda guerra turco-veneta, Jacomo s’era opportunisticamente convertito, entrando nel corpo militare dei mamelucchi e distinguendosi per la sua abilità nell’uso dell’arco e del giavellotto. Nel 1506 egli aveva accompagnato a Venezia l’ambasciatore turco Taghrī Bērdi, da cui però era fuggito l’anno seguente, troppo forte il suo attaccamento alla terra natia e alle sue origini. Jacomo aveva scelto dunque di ritornare alla fede di Cristo e si era fatto battezzare di nuovo, supplicando la Signoria di riaccoglierlo anche come suo cittadino e condottiero, richiesta immediatamente esaudita anche per la sua fama di valent’uomo, confermata persino dal comandante nemico Mercurio Bua, che l’aveva catturato lo scorso agosto vicino a Verona ma poi liberato per aver mantenuto la parola data su di un loro patto. Poco dopo il suo rilascio, Jacomo era stato gravemente ferito in battaglia e, malgrado fosse riuscito a riparare prima a Padova e poi a Venezia, non era scampato alla febbre che lo aveva condotto alla morte. Tre giorni addietro, sier Batista Morexini aveva partecipato al suo funerale nella chiesa di Santa Croce alla Giudecca, dolendosi come l’intera Signoria di tale perdita e domandandosi, mentre osservava la tomba venir sigillata, se lui avrebbe mai dimostrato tanta forza e tanta determinazione quanto Jacomo Mamalucho, la cui vita era stata bruciata per poi riemergere dalle ceneri, più trionfante di prima. “Basta ghermire quell’unica e minuscola opportunità offerta, stringerla a sé e farla propria e allora anche un destino già scritto si può cambiare!”, si ripeté il consigliere ducale le sagge parole dell’ex- mammalucco friulano.

“Duri i banchi. Afferrare l’opportunità per cambiare il destino. L’ora della prova”, esordì così sier Batista, portatosi vicino alla presidenza, segno ch’era venuto il suo turno di parlare, ad assemblea incominciata. “Se ci lasciamo cogliere impreparati in questo momento di dura prova, che Missier Domeneddio abbia pietà di noi perché il nemico di certo non ne avrà. Avé sentio i capitoli: Trevixo per nulla al mondo dev’essere perduta. Sì, anche Padoa per quello”, levò il palmo, bloccando l’alzata di mano del collega sier Andrea Trivixan, savio di Terraferma. “Così come la Patria di Friul” e di nuovo, non concesse d’essere interrotto dalla silenziosa richiesta d’intervenire di sier Bortolamio Minio, altro consigliere ducale, che sempre in silenzio abbassò il braccio, attendendo il suo turno. “Tutte e tre minacciate contemporaneamente. Ora, non nego l’importanza di nessuna di queste terre, però dobbiamo essere realistici: quanto possiamo difendere? A quale delle tre dobbiamo dare la priorità? Quale delle tre corrisponderebbe per noi alla peggior perdita? Meglio un nemico vicino o uno lontano?”

I senatori abbassarono il capo, le labbra strette per non pronunciare ad alta voce la risposta già conosciuta dal “da Lisbona.”

“Esatto. Trevixo”, parlò egli al posto dei suoi colleghi. “Senza la Marca non possiamo bloccare a nord e ad ovest i franco-imperiali; senza la Marca non possiamo bloccare a sud gli spagnoli e i ferraresi; senza la Marca non possiamo, in caso d’occupazione, riprenderci né Padoa né il Friul. Senza la Marca, la strada per Veniexia è libera. Con la Marca, i Collegati non riusciranno mai ad avanzare" e detto questo,  ritornò seduto sulla tribuna e lasciò che il concetto piantasse radici nelle menti dei senatori.

Sier Alvixe Malipiero, savio di Consiglio e cognato di sier Batista, preso posto vicino alla presidenza, espose la proposta: “Si suggerisce di mandare a Trevixo, oltre alle già pattuite provvisioni, altri quattrocento fanti da Mestre. In aggiunta, di spedire 4000 ducati oggi e 6000 ducati domani per le paghe dei nostri capitani e soldati alla custodia della città. Infine, proponiamo d’inviare il capitano Mafio Cagnolin e la sua compagnia di cinquanta fanti non a Pordenon bensì a Trevixo e con lui sier Zuam Vituri q. sier Daniel, previo provveditore della Patria di Friul, stipendiando quest’ultimo a quaranta ducati mensili.”

Sier Antonio Zustignan alzò la mano, chiedendo di parlare. Sier Alvixe Malipiero glielo consentì, ritornando al suo posto. “Se davvero la custodia di Trevixo è divenuta la nostra priorità, a questo punto sarà il caso che Padoa le ceda alcuni dei suoi fanti, bombardieri e stradioti. Momento!”, pose in avanti le mani dinanzi all’accigliarsi dell’assemblea e alle numerose braccia di conseguenza levatesi in alto. “Scolté n’atimo: dalle informazioni forniteci dalle nostre spie a Vinzenza, abbiamo trovato conferma sulla volontà del La Peliza di porre l’assedio a Trevixo e non a Padoa, come va cianciando in giro per spaventarci e confonderci. Lo stesso capitano Mercurio Bua ha attaccato la città, quali altre prove necessitiamo per convincerci che l’impresa sarà quella di Trevixo? Pertanto, suggerisco che si scrivano lettere ai provveditori di Padoa sier Christofal e sier Polo affinché inviino al provveditore sier Zuam Paulo il loro presidente delle artiglierie Orlando da Bergamo, assieme ad altri tre bombardieri ed a Zuam Forte e la sua compagnia di duecento cavalleggeri, in modo d’aumentare il numero di gente alla custodia di Trevixo” e si sedette, lasciando spazio agli altri senatori d’esprimere la loro opinione a riguardo.

Quando infine non s’ebbe più nulla d’aggiungere, si chiamò l’ora della votazione, l’ora della verità, la definiva sier Batista Morexini, attendendo assorto, i due indici alle labbra.

Invero stavano chiedendo molto, levare uomini da Padova e soprattutto privarla dei suoi migliori bombardieri corrispondeva ad un azzardo non da poco, scommettendo sulla loro ferma convinzione che La Palice non aveva alcun’intenzione di attaccare Padova, come invece aveva lasciato credere il mese addietro con tutti quegli spostamenti sospetti nel veronese e vicentino. No, nient’altro che una messinscena per poter armare in tranquillità il campo di Montebelluna e dopodiché attaccare Treviso, sfruttando il dubbio della Signoria, circondata com’era dai nemici, da dove l’avrebbero colpita, se da nord, ovest o sud.

Appunto per questo, il consigliere Morexini s’attendeva molte resistenze e rinvii al voto, non varando alcun provvedimento se la maggioranza dei voti non fosse stata netta; si sorprese assai, piacevolmente, nel constatare come invece a fine di quella sessione ogni proposta venne accolta e approvata con buona maggioranza e le disposizioni presto scritte su verbale per i provveditori, capitani e camerlenghi. Un piccolo prodigio invero, laudato Domine Deus.

Dopodiché, si passò alla lettura dei rapporti.

“Lettere di sier Hironimo Donado, dotor et orator nuostro a Roma …”

Ancora poco, sorrise perfido sier Batista accogliendo con sommo gaudio i contenuti delle missive del loro ambasciatore, ancora poco e gli irriducibili nemici della Serenissima avrebbero ricevuto una tal amara sorpresa, da farli perdere in via definitiva la loro infinita tracotanza.

E allora sì che avrebbero finalmente combattuto ad armi pari.

 

***

 

Jacques de Chabannes de La Palice, Giulio Sanseverino, Artus Gouffier de Boisy e Giovanni Gonzaga, fratello del Marchese di Mantova, s’erano Vicenza, sbuffando sudati ché li era stato detto con accorata malizia come la grazia, ai pelandroni che andavano su per il colle a cavallo, non si concedeva.

Costruita in stile gotico e affrescata da Bortolamio Montagna, la chiesa era stata una richiesta da parte della medesima Madonna, comparsa a donna Vincenza Pasini durante la peste del 1426, mentre l’anziana contadina saliva il colle per portar il pranzo al marito intento a lavorare nei vigneti. Figurarsi s’Ella venne esaudita! Malgrado la tenace testimonianza della Pasini, derisa e additata pazza dai più colti e saggi di lei, solo alla seconda apparizione nel 1428, quand’ormai la peste aveva spezzato le gambe a Vicenza, venne allora la veggente creduta e più per disperazione che per vera fede. Il Comune diede subito ordine di costruire in soli tre mesi un piccolo tempietto e quasi immediatamente l’epidemia cessò di mietere vittime, sicché gli stupefatti santommasi ora un po’ più credenti risolsero di dedicare alla Vergine una vera e propria chiesa, la prima pietra benedetta dal vescovo di Vicenza in persona, domino Piero Miani di San Cassian.

Sull’altare addossato alla parete, là dove la Madre di Dio aveva piantato il bastone a prova dell’apparizione, tra i marmi policromi spiccava dominante la statua della Madonna della Mercede, raffigurata così come donna Vincenza L’aveva veduta, vestita  d’una sfolgorante zupa dorata e il capo coperto da un velo bianco leggerissimo e scintillante. Sotto il manto celeste e pieno di stelle della Vergine si rifugiavano i supplicanti e questa mirabile scultura in pietra tenera dei Colli Berici era stata dipinta da Nicolò da Venezia, un tempo ingioiellata più di qualsiasi donna mortale avesse mai osato sognare, ma gli scaltri Serviti che gestivano il santuario già prima dell’occupazione dei Collegati avevano provveduto a nascondere i gioielli, evitando che quei doni devozionali finissero nelle cupide mani degli invasori.

Ai Suoi piedi dunque s’inginocchiarono il maresciallo La Palice, Sanseverino, de Boisy e il Gonzaga, i ceri tra le mani congiunte.

Nonostante le iniziali difficoltà, i preparativi per l’assedio di Treviso avevano ripreso con maggior vigore e i frenetici ma soddisfacenti giorni a Vicenza avevano fatto sperare al francese in un esito positivo: gli umori erano alti, i grigioni ben preparati e motivati e l’artiglieria ferrarese impeccabile come suo solito. Inoltre, il Gran Maestro di Francia non nascondeva il suo intimo sollievo per il mancato arrivo del Gran Scudiero, il quale aveva mandato in sua vece il fratellastro minore, il trentaseienne Giulio Sanseverino, a capo di cento lance. Confrontate le passate imprese militari dei due figlioli del fu Roberto, il generalissimo si prospettava, quindi, una collaborazione molto più promettente col signor Giulio, che col signor Galeazzo, non giudicando quest'ultimo abbastanza incisivo in guerra. Per carità, a livello personale il Gran Scudiero piaceva moltissimo a La Palice, eccellente conversatore e di gran compagnia, ma la vita dell’accampamento non era quella di corte ed era meglio tenersene fuori, se inesperti, piuttosto di sfigurare divenendo un’imbarazzante palla al piede.

E di palle ai piedi, i francesi ne avevano avute anche fin troppe ultimamente: sicuro, il maresciallo non s’illudeva di come quell’impresa sarebbe stata una passeggiata alla marina; nondimeno, confidava di poter riuscire là dove il Trivulzio s’era tirato indietro e se Bayard non si fosse ritrovato a far da balia al Duca di Ferrara, la sua presenza avrebbe ringalluzzito le truppe e magari tenuto a bada quell’indisciplinato di Mercurio Bua. Lo scudiero del Bon Chevalier, Jacques de Mailles, gli aveva raccontato alcuni fatti poco rassicuranti a riguardo del capitano epirota, come ad esempio quando a San Bonifacio veronese Mercurio s’era convenientemente dimenticato d’avvertire Monseigneur de Ru della presenza di stradioti veneziani nelle vicinanze del castello, permettendo di conseguenza che il capitano borgognone venisse catturato durante il sopralluogo della zona. Questo sgambetto il greco- albanese gliel’aveva fatto un po’ per ripicca, perché il Ru aveva scambiato un prigioniero del Bua, il patrizio Bragadin, per un suo soldato; un po’ per avidità, perché anche Mercurio aveva desiderato per sé quel castello.

Oppure del litigio tra Bayard e l’epirota, quando quest’ultimo aveva dato ordine ai suoi stradioti di suppliziare  alcuni prigionieri croati con dieci colpi di scimitarra, per fissare sulle punte delle picche le loro teste mozzate. Dinanzi alle accuse d’eccessiva ferocia da parte del Bon Chevalier, Mercurio s’era tranquillamente giustificato asserendo come quei Croati non fossero neppure cristiani. E quando un furioso Bayard gli aveva ricordato che il capitano di predetti Croati rimanesse comunque un prigioniero di guerra e dunque soggetto o ad uno scambio o al pagamento di un riscatto, il Bua, piccato, gli aveva velenosamente raccontato come fossero stati da sempre nemici giurati perché, oltre ad essere un apostata, il suppliziato in vita era stato anche suo cugino germano che approfittando della sua tenera età lo aveva scacciato dal suo dominio patrimoniale nel Levante, costringendolo esule a Venezia. Siccome però il francese non sembrava incline a credere a quella storia, ecco che il greco-albanese, uscito non poco dai gangheri, s’era sciorinato in una lunghissima e truce lista di soprusi subiti per mano di quel suo parente, descrivendolo al pari d’un Giuda Iscariota. Soltanto in nome della vendetta aveva il condottiero rinunciato a ben 10 000 ducati e sei splendidi cavalli turchi, offerti dallo stesso capitano croato per il suo riscatto; avrebbe potuto accettarli e andarsene con Dio, ma l’onor suo era l’onor suo e anche il suo parente prima di morire aveva convenuto che, fossero stati i ruoli invertiti, anch’egli si sarebbe vendicato dell’odiato rivale. E forse tale svantaggiosa cocciutaggine aveva un poco convinto Bayard della veridicità di quel racconto.

Nondimeno, i due seguitarono a mal sopportarsi, chiamandosi rispettivamente “macellaio” e “pretino”, però almeno, quando gli girava, il Bua ascoltava Bayard di più rispetto agli altri, forse perché, sosteneva irriverente, le sue strategie avevano maggior senso di “voi generalucci dilettanti”.

Mon Dieu, se non fosse stato un abile comandante, La Palice avrebbe già strangolato Mercurio in più di occasioni. Ma non poteva e il gaglioffo era ben conscio del suo valore in guerra, sicché anche Giulio Sanseverino aveva dovuto ingoiare il rospo al ricordo della trappola in cui era caduto suo nipote Faccendino. Quando il Sanseverino rinfacciava al Bua di come, sfidato a duello, piuttosto di presentarsi avesse preferito assassinare Faccendino assieme a 25 stradioti, il greco-albanese scrollava le spalle e gli replica: "E dunque? Ancora con quella storia? Ha voluto morire arditamente, l'ho accontentato!" Per poi continuare che aveva già pagato per la sua passata colpa, perdendo la condotta del Re di Francia.

Che masnada s'era il Gran Maestro di Francia ritrovato a comandare!

Incidenti di percorso a parte,il maresciallo si consolava come la Serenissima pur pugnando irriducibile per due anni consecutivi, non aveva speranze di scamparla. Circondata da ogni angolo, senza alleati, non poteva contare sul sostegno di nessuno e le sue risorse non potevano durare all’infinito. A rigor di logica si trattava soltanto di una questione di tempo e Venezia ben presto si sarebbe trovata costretta a piegare la sua dura e orgogliosa cervice all’ineluttabilità del suo destino. Quella dei Collegati corrispondeva ad una santa causa per spezzare quella superba, una guerra giusta e benedetta dal Papa atta a ridimensionare la Serenissima all’isolotto palustre ch’era stato alle origini e ritornare i suoi territori ai legittimi proprietari. Dio stava dalla parte della Lega di Cambrai, soprattutto del loro re cristianissimo Louis XII e questo lo testimoniavano le sue vittorie sia passate che presenti.

“Soyez bénie, Vierge Marie. Aidez-nous dans la bataille, donnez-nous la victoire contre les ennemis de la France et de la chrétienté. Que la chute de Trévise l’orgueilleuse soit le signe de la sainteté de notre mission et de la volonté de Dieu et de Sa justice. Car nous combattons pour Sa gloi- … Aïe! ”, [7]  lanciò il maresciallo un piccolo gemito di dolore, la sua preghiera interrotta.

Confuso, controllò di riflesso la candela di sego che reggeva, stupendosi di come la cera che gli aveva bruciato il dorso della mano non fosse caduta da lì. Né da quella del Gonzaga, del Boisy e di Giulio Sanseverino, inginocchiati accanto a lui e che lo scrutavano disorientati.

Una seconda goccia s’unì alla sorella, stavolta però evitata dall’uomo, che balzò indietro e scoprì che le gocce bollenti provenivano dalle lucerne appese al soffitto e semi-sospese da lunghe catene. Con crescente apprensione La Palice notò come esse oscillassero lievemente, eppur non un refolo d’aria viaggiava nel santuario, finché ogni lume attorno all’altare non si spese all’improvviso, lasciando solo le deboli fiammelle del cero suo e dei suoi compagni.

“Comment? Comment?”, mormorò turbato il Gran Maestro di Francia, avvicinandosi incredulo ai piedi della statua avvolta nella semioscurità. “Comment c’est possible?”

Un secco schiocco d’aria e anche le loro candele condivisero la sorte delle lucerne, spegnendosi

***

 

 

Hironimo si svegliò di soprassalto, battendo la fronte contro il bordo della branda di Mercurio, giacché quest’ultimo, agitandosi indiavolato nel letto per via della febbre, s’era girato dalla parte opposta, trascinando con sé la catena e di conseguenza il patrizio, accoccolato per terra.

“Brutto fio d’un can!”, bofonchiò il giovane, afferrando la catena e tirando, costrinse poco alla volta il greco-albanese a ritornare più vicino a lui, così anche da permettergli di appoggiare per terra il braccio addormentato dall’innaturale posizione. “Se potessi, ti darei un tal stramuson (ceffone, ndr.) ch'el muro t’en dà n'altro!”

E mentre le dita intorpidite scorrevano gli anelli di ferro, la tentazione di strangolare con esse il mercenario si faceva sempre più forte sennonché la parte razionale del Miani, non ancora intontita né dal sonno né dalla disperazione, gli sovveniva di ricordarle il seguito del suo brillante piano ovver, ad assassinio compiuto, come intendeva liberarsi dai ceppi e uscire dal padiglione sorvegliato a vista dagli uomini del Bua, per non parlare dell’intero accampamento.

Inoltre non poteva fuggire senza Thomà, gli aveva giurato di proteggerlo e protetto l’avrebbe anche a costo della vita, sia in qualità di bambino sia in qualità di ultimo “uomo” della sua massacrata guarnigione di Castelnuovo di Quero; ormai era l’unica impresa d’onore che gli restava per redimersi, cogitava frustrato il veneziano, aprendo e serrando il pugno onde facilitare la ripresa della circolazione sanguigna della mano.

La vocina sommessa del bambino attirò la sua attenzione e Hironimo si trovò sul punto di rispondergli, sennonché s’accorse ben presto di come Thomà non si stesse rivolgendo a lui. Chetandosi, suo malgrado (erano legati, come non poteva altrimenti?) origliò.

“Siora Patrona, mi no m’aricordo pì l’orazion en latin per orarTe, perhò te priego de scoltarme igual. No te chiedo gran cossa, si no de no farme soffrir ‘na dolorosa morte; de darme da magnar cadaun zorno; de portarme ben cussì mi vago en Paradiso co la mea fameja e se me volé far scapolar da questo campo, ancha mejo, Te ringrassiarò co un zero grande chome un campanil. Te priego, Siora Patrona, de vejar ancha sul sior patron, el sarave pur un turcho et un orso, perhò el xé tanto bon e me faria pecà ch’el vada a l’inferno. Sancta Patrona, ve vojo tanto ben, a Ti et al Tòo Fio Domine Jesu. Nel nome dil Pare, dil Fio, e dil Spirito Sancto. Cussì sia”, si segnò sottovoce Thomà, concludendo la sua personale preghiera e riprendendo posto accanto ad Hironimo, accoccolandosi al suo fianco in cerca di calore.

Inconsciamente il giovane Miani lo cinse col braccio e lo strinse a sé, gli occhi umidi fissi al soffitto del padiglione e un inspiegabile groppo in gola.

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Peste, peste, quanta peste: nel 1406, 1426-28, 1438, 1457, 1478, 1485 (la più grave, per la cronaca, in tutto il territorio della Serenissima)  …

Ebbene sì, incredibile ma vero le assemblee a Venezia venivano svolte nel più rigoroso silenzio e guai a chi osava parlare sopra all’altro; interrompere; insultare o confabulare col vicino durante il discorso pubblico di un altro. Si alzava la mano e si aspettava il proprio turno, salendo o la scala o sedendosi vicino alla presidenza.

Ovviamente le assemblee e soprattutto le votazioni duravano molto di più, si potrebbe scrivere un romanzo solo sullo svolgimento di una!

Capitolo d’impronta molto religiosa, in cui ciascuno o quasi dei personaggi si fa una chiacchierata interiore e d’altronde non poteva essere altrimenti date le circostanze. Spero di non aver urtato nessuna coscienza.

Mi auguro che il capitolo sia piaciuto! Alla prossima,

 

Un po’ di noticine:

[1] Sub Tuum praesidium = sotto la Tua protezione. Si tratta della più antica invocazione a Maria Madre di Dio (III secolo), laddove s’invoca con fiducia il Suo aiuto nei momenti difficili. Ignoro nella Chiesa pre-tridentina quali delle tre versioni venisse usata – bizantina, romana o ambrosiana. Ho scelto quella romana, speriamo bene. Sennò, mea culpa.

La traduzione è la seguente:

 

Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio,

Santa Madre di Dio:

non disprezzare le suppliche

di noi che siamo nella prova,

ma liberaci da ogni pericolo,

o Vergine gloriosa e benedetta.

 

[2] Regina dei Cieli = previamente alla Madonna, questo titolo già in passato veniva attribuito a diverse divinità pagane femminili quali: Iside, Astarte, Era / Giunone, Frigg, etc.

[3] già che era un Aemilianus che Scipio lo si chiamasse = gioco di parole tra la versione latina del cognome Miani – Aemilianus, da cui Emiliani – e Emiliano ovvero Publio Cornelio Scipione Emiliano, il famoso console che distrusse Cartagine e che fu un avversario politico dei Gracchi. 

[4] soprèssa = salume tipico della provincia di Vicenza.

[5a] Sibinico= l’odierna Sebenico in Croazia.  [5b] Nepanto, Zacinto = rispettivamente Lepanto e Zante, per chi si ricorda del buon Ugo Foscolo. [5c] L'evento cui Leonora Morosini si riferisce è avvenuto il 15 agosto 1510: Francesco Crispo, duca di Nasso (Nixia), soffrendo già da un anno di un'acuta malattia mentale, in un raptus di follia uccise sua moglie Taddea Loredan di Matteo. In breve, questo duca di Nasso, che già aveva dato segni di cedimento mentale nel 1509, una sera rincorse sua moglie Taddea Loredan fino alla casa della zia di lei, Lucrezia, dove la duchessa si era rifugiava dopo esser stata cacciata da palazzo. Per due giorni tentò d'entrare, finché non riuscì a persuadere le donne ad aprigli. Una volta dentro, picchiò a sangue Lucrezia e la sua domestica. La moglie s'era nascosta sotto il letto e lui, scovatala, la pugnalò al ventre per 4 volte e la poverina morì in agonia il giorno dopo. Francesco, braccato da tutti, si rintanò nel suo palazzo, prendendo ostaggio il figlioletto Giovanni che aveva appena 11 anni. Fortunatamente, questi riuscì a fuggire prima che potesse uccidere anche lui, approfittando un servitore di un attimo di distrazione del duca per portarlo via e si buttarono ambedue giù dal balcone. I soldati forzarono la porta e catturarono Francesco. Condannato, morì in carcere a Creta (Candia) il 15 agosto 1511. Paolo Antonio Miani, che si trovava a Creta in veste di duca, seguì personalmente il caso.

[6] primocerio = primo canonico della basilica di San Marco, ch’era cappella ducale e chiesa di Stato, amministrata invece di un metropolita direttamente dal Doge. Infatti, il Patriarca di Venezia spostò la sua diocesi a San Marco solo dopo la caduta della Repubblica. Erede del patriarcato di Grado, il Patriarca se ne stava a Castello, assai lontano da Palazzo Ducale. Aggiunto al fatto ch’era il Doge che nominava a Venezia i vescovi e che l’intera curia veneziana rispondeva del suo operato a lui soltanto ed era come i laici soggetta alla legge secolare, nonché i patrizi che sceglievano la carriera ecclesiastica si vedevano preclusi da qualsiasi carica pubblica (tranne quella di ambasciatore) ci fa ben capire lo straordinario, per i tempi, secolarismo della Serenissima ma soprattutto quale suo aspetto avesse fatto girare i cocomeri a Giulio II e agli altri Papi prima di lui. Riassumendo, a Venezia accadeva il sogno proibito d’ogni Imperatore del SRI durante la lotta per le investiture.

[7] Soyez bénie, Vierge Marie. Aidez-nous dans la bataille, donnez-nous la victoire contre les ennemis de la France et de la chrétienté. Que la chute de Trévise l’orgueilleuse soit le signe de la sainteté de notre mission et de la volonté de Dieu et de Sa justice. Car nous combattons pour Sa gloi- … Aïe! = Siate benedetta, Vergine Maria. Aiutateci nella battaglia, concedeteci la vittoria contro i nemici della Francia e della cristianità. Che la caduta di Treviso l’orgogliosa sia il segno della santità della nostra missione e della volontà di Dio e della Sua giustizia. Poiché noi combattiamo per la Sua glor- Ahia!

 

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Capitolo 12
*** Capitolo Undicesimo: 9 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 21.10.2021

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Capitolo Undicesimo

9 settembre 1511

 

 

 

 

 

“Demo … su, demo …”, digrignava i denti Hironimo sia dallo sforzo che dal crescente dolore della carne spellata a causa del continuo sfregamento contro la catena al polso, roteando e storcendo quest’ultimo in pose sempre più dolorose, così da aumentare sulle ossa carpali la stretta e implacabile pressione del poco collaborativo ferro. Neppure lubrificato dal sangue né piegando fino all’impossibile l’intera falange del pollice riusciva il patrizio a sfilarsi quel tormento di dosso.

All’ennesimo tentativo fallito il giovane Miani ringhiò frustrato, battendo il pugno per terra pieno di stizza. Chiuse gli occhi e provò a regolare il respiro affannoso, le tempie pulsanti per via dell’ennesima notte trascorsa in bianco.

Quanti pensieri un cervo atterrito agita nella sua mente quando i cacciatori gli stringono intorno un cerchio di morte, tanti pensieri s’accavallavano nella mente di Hironimo e a nulla serviva il suo incessante e infruttuoso sforzo di cacciarli via, di costringerli al silenzio e colà perdersi almeno nel dolce Lete del sonno ristoratore.

Essi al contrario scivolavano nelle crepe di quegli attimi in cui la sua mente non vigilava né si teneva attiva come poteva, in quella forzosa inezia tipica della prigionia. Quando Hironimo non si concentrava onde ricordare quanto più possibile dei piani di guerra dei comandati francesi e tedeschi, così da riferirli verbatim al provveditore di Treviso non appena si fosse liberato; quando non si prodigava a tener occupato Thomà così da non farlo cadere in tentazione di svuotare il piatto dell’ancor convalescente Mercurio Bua e dunque cacciarsi nei conseguenti guai; quando colmo di bile nera non si risparmiava in strali velenosi allo scopo di cavar al sopramenzionato condottiero quella sua aria strafottente, ecco, quando nulla poteva distrarlo il giovane Miani si ritrovava faccia a faccia con lo specchio implacabile di se stesso – solo, livido, rabbioso, umiliato -  un essere grottesco nutrito di crudeli parole e vergognosi ricordi nati al mero scopo di tormentarlo e da cui egli non riusciva a scappare. Altro non gli restava se non subire inerme, la sua anima oppressa da un’inspiegabile tristezza mortale.

Il giovane patrizio conosceva bene il fiele del rimorso, del “se avessi potuto …”, del “se fosse andata così …”, o “se avessi fatto colà …” ma sempre s’era scrollato via di dosso quella malinconia con l’energica fiducia nel futuro e nelle sue capacità. Con immenso orgoglio si vantava d’aver ereditato dai genitori la loro grande passione per attività, organizzazione, intraprendenza, sviluppando contemporaneamente un coraggio ai limiti della temerarietà.

Odiava compatirsi ed essere compatito, nelle rarissime occasioni in cui si lagnava lo faceva per cercare col suo interlocutore tramite la maieutica una soluzione pratica e non per sentirsi rifilare un a lui inutile e scocciante “poverino, quanta pena!”  E come non lo sopportava per sé, non lo sopportava in coloro che l’avvicinavano sottoponendogli problemi apparentemente troppo invalicabili anche a seguito del più grande scervellamento da parte di lui.

“Evita costoro”, l’avvertiva Padre, “ché nulla sono se non sanguisughe egoiste e pigre, pronte a succhiarti via le energie. Anzi, più tu ti arrovelli per una soluzione, più s’infastidiscono quasi avessi fatto loro un gran torto: perché in verità non vogliono aiuto, vogliono solo attenzione e benevolenza su di sé e tu, figliolo, col tuo ragionamento e la buona volontà smascheri impietosamente quest’ignavia loro.”

Similmente, Hironimo aveva odiato chi lo subissava di continuo di sermoni pregni di morale, o meglio di ipocrisia, e che con la scusa di volerlo guidare in realtà lo rallentava nei suoi progetti. Con la rara eccezione di Madre, e anche con lei faceva pur orecchie da mercante, Hironimo da tempo non ascoltava più i consigli di chicchessia, l’unica sua vera guida, Padre, perduta e strappatagli ingiustamente. Sapeva quel che voleva e ai suoi obiettivi puntava con una ferocia pressoché marziale; alle soglie dell’età adulta e asciugandosi le ultime lacrime dell’adolescenza, Hironimo aveva giurato a se stesso che si sarebbe spezzato piuttosto di piegarsi; che avrebbe stracciato coi denti chiunque avesse osato intralciargli il cammino.

Fino a Castelnuovo di Quero, sotto certi aspetti aveva mantenuto quest’intima promessa, vivendo in libertà assoluta. Ora, però, nella quiete delle ore prive d’una qualsivoglia attività, quell’arcana inquietudine riemergeva, sconquassandogli il petto e annodandogli la gola al punto che faticava a respirare  – dentro di me palpita violentemente il mio cuore e una paura mortale mi è piombata addosso. Non stare lontano da me, perché l’angoscia è vicina e non c’è chi mi aiuti (o roba simile, se Hironimo non si sovveniva male, le letture dei Testi Sacri ridotti a vaghi e confusi ricordi conditi da grande noia e disattenzione)

Ma di che cosa hai paura, imatonìo?, si rimproverava il giovane, Che ti uccidano? Non li conviene, sei un prigioniero troppo importante! Che ti tormentino? Sprezzo il dolore! Hai paura delle umiliazioni di questo tanghero d’uno stradiota? Che ci provi, gli renderò la pariglia e perfino cogli interessi!, botta e risposta che cadevano nel vuoto, non sortendo alcun effetto consolatorio, semmai gli lasciavano maggior amarezza in bocca.

Paura … paura … forse paura d’esser stato dimenticato dai suoi e dalla Signoria (Sei un peso morto in famiglia, un essere inutile!) – e non ne avrebbero avuto ogni diritto, d’altronde? Con loro s’era comportato peggio d’un cane.

Paura di aver deluso ogni aspettativa e di aver imbarazzato il nome suo e della sua patria (la Signoria del liquame non sa che farsene) – così agiscono infatti gli inetti e i mediocri.

Paura di non aver combinato nulla di nota, d’aver sprecato solo occasioni (Perché non utilizzi questo tuo dono per compiere qualcosa di buono?) – un futuro stroncato prima ancora di nascere.

Tanti timori inconfessabili; ciononostante Hironimo ugualmente non comprendeva quale tra questi fosse la vera catena che lo stava soffocando in quel momento.

Girandosi inquieto sul fianco, il veneziano contemplò nella penombra generata dalla chiaria la figuretta raggomitolata di Thomà, immerso totalmente nel sonno del giusto. Come faceva a rimanere così sereno, si domandava, quel marmocchio indifeso, un signor nessuno alla mercé dei capricci dei più potenti di lui? Thomà aveva assistito impotente al massacro della sua famiglia, della sua gente, dei suoi compagni d’armi e del suo maestro, la sua vita fluttuante instabile come alghe nei fiumi e malgrado tutto il fantolino non tradiva alcuna paura, non quella dell’anima almeno. Come si difendeva? Ignoranza? Sventatezza? Ingenuità? Fede?

Hironimo si ritrovò ad invidiarlo, ironia della sorte. Cosa non avrebbe dato per una goccia della sua serenità, quel tanto da esorcizzare quelle voci incessanti che godevano nel straziargli il cervello. O perlomeno da ritornare a pregare, trovandoci un poco di conforto.

Pregare? Chi? Dio? La Madonna? Oh, se li aveva pregati in quelle notti di lutto, supplicati di restituirgli come Lazzaro suo padre, o di trasformare tutto in un incubo da cui risvegliarsi; più in là, al picco del suo malessere, li aveva anche pregati d’accopparlo così da cessare quella sua tormentosa esistenza segnata da null’altro che delusioni e fallimenti.

Niente, non aveva ricevuto un bel niente, solo un grande silenzio. Pertanto, Hironimo aveva smesso, stufo marcio d’implorare miracoli evidentemente impossibili, giungendo alla conclusione che né la Provvidenza né il famigerato castigo divino esistevano in realtà. Quanti reprobi aveva visto trionfare e pure vantarsi dei propri misfatti? I medesimi che poi predicavano a gran voce l’etica e la morale - sepolcri imbiancati! -  e al contempo dileggiavano chi s’affidava genuinamente a Dio.

Si rivolga al Signore; lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!, avrebbero costoro ricordato la sera scorsa a Thomà mentre pregava; inghiottendo acida saliva, Hironimo ammise d’aver pensato simili obiezioni e la tentazione d’interromperlo aveva fatto anche capolino, per poi crollare nel momento in cui il fantolino lo aveva incluso nelle sue orazioni. Ti prego, Siora Patrona, di vegliare anche sul sior patron, che sarà anche un turco e un orso però è tanto buono e mi farebbe piangere saperlo all’inferno.

Che aveva provato Hironimo a quelle parole?

Stizza – come osava quel moccioso appellarlo “turco” e “orso”?

Fastidio – figurarsi se aveva bisogno delle altrui preghiere per cavarsela! 

Vergogna –  il piccino si preoccupava per lui e senza alcun merito da parte di Hironimo, anzi, a Castelnuovo e anche dopo per un bel po’ aveva trattato Thomà alla stregua d’un cencio lercio, con sufficienza e falsa bonarietà ma sotto-sotto fregandosene altamente di lui.

Tristezza – che in lui il bambino scorgesse della bontà. Hironimo aveva rinunciato ad essa, non gli aveva mai portato alcun profitto semmai ad ulteriori sofferenze, approfittandosene infatti la gente sfacciatamente del suo buon cuore (quando ancora lo aveva). Sfruttato e ingannato, aveva per ripicca incominciato a sfruttare e ingannare a sua volta e sfidava poi a lamentarsi di lui. Na volta bon xé bon; do volte bon xé santo, tre volte bon xé mona, recitava il proverbio e il giovane Miani non solo conveniva ma pur s’era già fermato al primo “bon”. Piuttosto di subire il male, preferiva infliggerlo.

Eppure Thomà raccontava alla Madonna quanto lui fosse “buono”. Hironimo quasi se La immaginava scuotere il capo – figlioletto mio, che ciance mi racconti? Di buono non gli è rimasto un sol capello!

Un grugnito, seguito da uno strattone alla catena al polso e l’attenzione del patrizio veneziano si concentrò sulla prova vivente di quanto lui non fosse “buono”: da molte ore Mercurio Bua si stava contorcendo dalla febbre, il viso pallidissimo e i muscoli contratti dagli spasimi. Il cerusico s’era raccomandato d’avvertirlo immediatamente in caso la febbre fosse ricomparsa; che colpa ne aveva, si giustificava Hironimo, se il greco-albanese era un maledetto orgoglioso e i suoi sottoposti dei fenomenali idioti? Se il Bua nel suo delirio di congiure e tradimenti fosse arrivato al punto da non voler in tenda neppure un valletto d’armi o il suo scudiero? Doveva forse lui, suo prigioniero, avvertire il medico onde curarlo? Lui a cui aveva massacrato i servitori e la guarnigione, sottratto il castello e distrutto ogni futura possibilità di carriera ; lui che aveva spogliato fino a ridurlo alle mutande che indossava ché manco la camicia gli era restata; lui che il Bua si divertiva ad umiliare e demascolinizzare ad ogni occasione; lui costretto ad un collare e a delle catene alla stregua di un cane rabbioso; lui, lui doveva notificare il cerusico della ricaduta del comandante?

Che burla! Si raccoglie ciò che si semina, no? Per quel che concerneva il giovane Miani, il capitano di ventura poteva anche crepare tra spasimi atroci da Golgota Crocefisso, non avrebbe versato una lacrima sulla fossa scavatagli. Semmai lo doveva invece ringraziare che non lo avesse ancora degolato nel sonno (voleva, ma poi scappare sarebbe stata una bella gatta da pelare).

Peccato però che Mercurio Bua appartenesse alla categoria dei malati che non ne volevano sapere di morire quietamente: ai mugugni s’aggiunsero ben presto delle piccole convulsioni, costringendo il braccio di Hironimo in uno strano balletto e ben presto questo incominciò a dolergli per le eccessive brusche tirate, l’ultima talmente violenta da svegliare perfino Thomà.   

“Ostregha, gh’ho da smissiar la polvere da sparo!”, farfugliò disorientato, balzando prontamente in piedi, ancora convinto di trovarsi a Castelnuovo sotto le direttive di Andrea Trepin il bombardiere.

“Portami dell’acqua!”, lo istruì Hironimo, indicando tra uno sguarattamento e l’altro la brocca poco distante.

Thomà sbadigliò a bocca larghissima, grattandosi la caviglia arrossata dal ceppo. “Chi? Mi?”

“No, varda, quel gran porceo di Maximian. Sì, ti! Lesto, prima che sto bècho d’on straliota me fazza vegnir suso ea fùgaza (focaccia, ndr.) di la Pasqua passà!”, berciò, avvertendo una pressione sospetta alle tempie, frutto sia della notte trascorsa insonne sia di tutto quello strapazzamento. “Cossa fastu, strambazzo?”, inquisì poi il patrizio, notando come il fantolino si stesse abbassando le mutande dopo aver appoggiato il boccale per terra.

“De diana, patron! No saveu ch’el pisso xélo parfeto per curar ea fiebre? Vardé, ghemo ancha el bocale!” [1], si difese innocentino Thomà di fronte allo scettico arcuare di sopracciglio di Hironimo. Rinfilando il suo còco dentro le mutande, il bambino versò imbronciato l’acqua nel boccale. “Gnanca ‘no spuacio?” (sputo, ndr.), insistette, fissando speranzoso e impunito ora il Miani ora il liquido trasparente nel bicchiere.

Per tutta risposta, Hironimo gli sottrasse brocca e boccale di malagrazia, gongolando perfido però assieme al fantolino dinanzi al sobbalzo di Mercurio quando le gocce gelide gli caddero sul torso nudo e sudato.

Alla fioca luce della candela morente, un pittore avrebbe trovato grande ispirazione per fermare sulla tela il famoso episodio biblico dell’eroina israelita Giuditta, con le due figure di Hironimo e Thomà che scivolavano silenziose e guardinghe sul corpo di Mercurio aggrovigliato tra le coperte, pendendo su di lui alla stregua di famelici avvoltoi, le ombre lunghe e minacciose. Il pittore avrebbe immortalato al meglio l’espressione disgustata anche se risoluta di Hironimo e quella concentrata di Thomà, perfetti per quei foschi ruoli ma se Giuditta e la sua ancella avevano portato la morte ad Oloferne, i due invece si stavano sforzando d’evitarla al greco-albanese, il patrizio veneziano che afferratagli la mandibola gli costringeva la bocca aperta acciocché il bambino potesse cacciargli dentro l’acqua.

“Bevi, zò, turcho maladeto! Manzasborae! (mangiasperma, ndr.) Bevi, quea vacha sfondrada de toa mare! Chei cani di toi morti! Cagasangue! Stomegoso can impestà, ch’el te sofeghe! Squartao!”

Solo al settimo tentativo, tra insulti sempre più sozzi, tra sputazzi, colpi di tosse e vomito, si riuscì a costringere il Bua a bere e non appena il fresco liquido venne assorbito dal corpo debilitato, il suo effetto benefico già calmava gli spasimi dell’uomo che, elargito l’ultimo strattone, s’accasciò sfinito sulla branda mentre i due infermieri improvvisati si sedettero ansimando ai bordi, contemplandolo in cagnesco.

“Perché ghemo salvà la vita a sto muso-da-mona?”, esigette Thomà una spiegazione, nettandosi via il sudore dalle guance col dorso della mano.

Ingollando aria, Hironimo si sporse verso il fantolino, rivelandogli con fare cospiratore: “Se questo cancaro muore, i Todeschi fanno di noi un bel sguazeto (brodo/sugo, ndr.) come quello di Biasio Cargnio el luganegher (salsicciaio, ndr.) di San Zan Degolà.”

“An? Lo sguazeto dil Biasio el luganegher?”, ripeté lentamente Thomà, gli occhi due uova al tegamino.

Ovvio che il bambino ignorasse quella turpe vicenda d’otto anni addietro, giacché troppo piccolo e per giunta foresto di Feltre. Hironimo, all’epoca diciassettenne, invece si ricordava benissimo quella sera di novembre in cui suo fratello Lucha era rincasato verde in volto, con l’orlo della manica della toga lercia di vomito e non era stato il solo -  diceva  perfino gli Zaffi e i Signori di Notte, abituati ad ogni genere di torture durante gli interrogatori, s’erano sentiti male, rigurgitando perfino l’anima. Su insistenza d’Hironimo, Lucha con mani tremanti aveva raccontato, tracannando bicchieri ricolmi di vino schietto, di come quella sera fosse stato staro arrestato a Campo San Zan Degolà Biasio Cargnio el luganegher, famoso in tutta la Venezia operaia per il suo sguazeto di carne. Un avventore dell’osteria aveva trovato nella sua porzione un ditino con ancora l’unghia attaccata e, avvertito il Capo Contrada, la sera stessa questi e i Signori di Notte avevano fatto irruzione nell’osteria, scoprendo il segreto di quel guazzetto così saporito: appesi aperti e sviscerati, macellati e a macerare nel vino e spezie e nei pentoloni alla stregua di maiali,  il luganegher aveva trasformato dei bambini, spesso medicanti o orfanelli di cui nessuno avrebbe denunciato la scomparsa, in carne da brodo e spezzatino.

E alla domanda dei giudici della Quarantia Criminal sul perché avesse assassinato quegli innocenti, sapete che rispose? Son soldi!

Curiosamente, il giorno dell’esecuzione del salsicciaio, invece d’inveirgli e sputargli contro mentre un cavallo lo trascinava dal carcere fino alla sua bottega, dove gli sarebbero state in seguito tagliate le mani e da lì condotto alla Piazzetta per decapitarlo e poscia, squartato, esporlo in quattro diversi angoli di Venezia; invece di provare o un’isterica indignazione o una rabbia furibonda da richiedere l’intervento dei Zaffi per evitare che la folla linciasse il Cargnio prima che il boia potesse guadagnarsi il suo salario, ecco, contrariamente a tutti gli astanti, Hironimo aveva provato esclusivamente una gran pena in petto per le piccole vittime, indifferente in totum alla sorte dell’assassino.

“Alla fine nessuno pensa a loro”, aveva confessato a Lucha. “Son qui solo per lui.”

Ma se lo hanno condannato per questo? Non vedi come la folla sia arrabbiata?”

“Bella cosa! E quando questi bambini sparivano, che faceva la gente? Scrollava le spalle e guardava dalla parte opposta!”

“Momolo …”

“Vado a casa, quest’esecuzione mi annoia!”

A racconto terminato, Thomà s’afferrò i capelli, terrorizzato. “Potta d’on cancaro! I Todeschi ci metton en tècia?” (pentola, ndr.)

“Ciò, sai come li descrive Dante? E come là tra li Tedeschi lurchi … Ci cucineranno esattamente come le seppie, in umido e con un po’ di sughetto … Tu per primo, perché te sé picinin e la carne dei puteli è la più tenera e gustosa.”

Thomà deglutì malamente.

“Per questo motivo ci conviene rimanere prigionieri del Bua: perché lui non mangia i cristiani, soltanto i turchi. E i puti che rubano l’altrui cena …”, aggiunse, scoccando un’occhiata significativa al bambino che, intuendo benissimo a chi si stesse riferendo, appoggiò il mento al petto e s’ingobbì tutto penitente come la Maddalena.

“Ma el xélo malà, nol pole magnar e no voleu mica sprecar tutto quel ben di Missier Domeneddio, an?”

Uno strattone fallì per poco di costringere per terra Hironimo prima che potesse replicare e, di fatti, il giovane grugnì il suo disappunto per quell’interruzione. Armatisi d’acqua, lui e il fantolino ritornarono alla loro missione di tener in vita il loro improbabile protettore in attesa che quel fesso del suo scudiero venisse ad assicurarsi delle sue condizioni.

Il giovane Miani non scalpitava affatto di finire deportato in Alemagna o peggio ancora in Francia là dove si rivedeva novello Zorzi Corner [2]. Pur costretto a sopportare la sua becera compagnia, Mercurio se lo teneva ben attaccato allo zipone e ciò significava un alto tasso di probabilità di fuga, specialmente in prossimità di Treviso. La mente ancora semplice di Thomà – limitata a ragionamenti di causa/effetto – non poteva afferrarne la logica, perciò meglio spaventarlo con la storia di colui che da otto anni a Venezia era divenuto il Barababao per i bambini disobbedienti.  

“Sia ben ciaro, patron, che perhò mi nol tegno in man el sòo còco, co’l pissa!”

“No preoccuparte, caro ti. Se nol pol farla nel bocale, se la fa indosso. Chome diseva el mio sior Pare: co’ che l’omo xé stimà, el pole pissare in leto e dir che’l gh’ha suà!” (sudato, ndr.)

Thomà si tappò la bocca, soffocando la risata e producendo uno strano grugnito malignamente divertito.

“Tanto per suar, el sua e spussa chom’on porceo per via di la fiebre … donca, manco s’accorge! E nuj muci !” (zitti, ndr.)

“Appunto, te par ?”

Spiando di sottecchi il bambino armeggiare col boccale, Hironimo percepì una bizzarra tranquillità nell’animo. Se non per te stesso, sii forte per lui: a te s’appoggia, non deludere la sua fiducia.

 

***

 

 

 

La notizia della partenza del maresciallo La Palice da Vicenza non era caduta sterilmente nel vuoto e all’arrivo a Padova del collaterale generale domino Pier Antonio Bataja, già la sera precedente il provveditore sier Polo Capelo aveva posto l’ordine di una cavalcata di 3000 cavalleggeri con a capo Zuam Paulo Manfron di Schio allo scopo d’intralciarne la marcia e rubargli le golose artiglierie ferraresi. Allo stesso tempo, Carlo di Montone veniva incaricato con 150 uomini d’arme, 800 cavalleggeri, 150 fanti e due falconetti di recarsi a Bassano e colà bruciarne il ponte, acciocché i franco-imperiali non potessero attraversare la Brenta che divideva la città. La mattina stessa il provveditore e il vicegovernatore di Padova, domino conte Bernardino Fortebracci di Montone, accoglievano soddisfatti  il resoconto di un loro esploratore laddove, giunti al ponte di Liziera poco distante da Cittadella, volendo passare per forza con le artiglierie i Collegati avevano invece ottenuto la loro perdita, con una grossa caduta in acqua e a nulla era serviti lo sbraitare del La Palice, le sue maledizioni al destino avverso e agli infidi fiumi veneti: non c’era stato verso di recuperarla.

“Altolà, chi vive?”

Domino Pier Antonio Bataja frenò il suo cavallo, la strada bloccata dall’arcigna figura del condottiero Giano di Campofregoso.

“Pier Antonio Bataja da Cremona, collaterale generale. Cedetemi il passo, ho da conferire coi provveditori sier Christofal Moro e sier Polo Capelo e il vicegovernatore domino Bernardino di Montone”, si presentò l’uomo, rizzando bene il collo e dandosi un gran contegno.

Invece di scansarsi, il genovese suo interlocutore aggrottò le sopracciglia, affatto convinto. “E che volete voi dai provveditori?”, inquisì diffidente, dando di sperone al suo cavallo così da avvicinarsi al collaterale che gli rispose cauto:

“Ho un importante dispaccio da consegnare.”

“Potete cederlo a me, m’assicurerò di recapitarlo a chi di dovere.”

“Mi dispiace, non posso servirvi, sono fatti riservati tra loro e la Signoria.”

Forse si trattò del tono arrogante del cremonese unito alla secchezza della sua risposta, poiché la proverbiale mosca saltò al naso di Giano di Campofregoso che, inalberandosi, gli gridò sputandoli contro: “Impostore! Spia, giuda iscariota! Dammi subito quelle missive, s’affermi il vero! O t’impicco al primo albero!”

Pier Antonio Bataja scansò via con la scutica la mano tesa del condottiero, replicando altrettanto velenoso: “Tu menti per la gola! E non ti darò un bel niente!”, per poi pentirsi immediatamente dinanzi al furente genovese che, in un lampo, aveva estratto la spada e tagliato a spregio la scutica a metà.

Vedendosi poi calare un secondo fendente addosso, il cremonese tentò invano di sottrarvisi costringendo il suo cavallo ad indietreggiare e chiuse gli occhi in attesa del dolore straziante di carne seviziata dal ferro, sennonché uno stridore di lame cangiò il corso di quella baruffa, imponendo un pesante silenzio tra i due contendenti.

“Che cosa accade, signori miei?”, li apostrofò duramente sier Ferigo Contarini, provveditore degli stradioti, messosi in mezzo a cavallo tra il Bataja e Campofregoso e la spada ben incastrata in una prova di forza con quella dell’alterato genovese. “Siete impazziti? Volete sollevare il vicinato e finire appesi a Piazza delle Erbe?”, ricordò loro l’uomo la pena prevista a chiunque disturbasse la quiete cittadina in tempo di guerra.  

“Quest’è una carogna!”

“Quest’è un traditore!”

“Ah, disgraziato!”

“Maledetto!”

Con una secca rotazione del braccio, Ferigo Contarini districò la sua lama da quella di Giano di Campofregoso, allontanandolo con forza da un ansante Pier Antonio Bataja, ancora scosso dalla furia dell’attacco e sollevato per averla anche oggi scampata.

“Perdonatelo, domino, ma la prudenza di questi tempi non è mai troppa, specialmente quando non è il valore bensì il tradimento a far cadere solide fortezze”, giustificò il giovane provveditore il collega, che pur continuava a riempire di strali velenosi il collaterale generale. “Domino Pier Antonio, cedetemi la missiva della Signoria e vi giuro che la consegnerò immediatamente ai provveditori. Di me si fidano altissimamente, più di se medesimi. Parlare con me, è come parlare con loro. Similmente, qualsiasi dispaccio attendano, può essere ceduto a me.”

“Sier Ferigo”, replicò costernato l’uomo, “vi ringrazio ma non posso separarmi da queste lettere.”

“Osate dubitare della mia onestà? Non sapete voi, che appartengo alla più nobile e antica Ca’ Vecchia e apostolica di Venezia, famiglia di dogi e patriarchi, nata dal sangue degli illustri Aurelii Cotta avi di Giulio Cesare? Temete forse che io tradirei i segreti della mia Signoria?”

“Possa mozzarsi la mia lingua ante di tacciarvi di simil crimine, sier provveditore. La Signoria m’ha però espressamente ordinato di recapitare le direttive in mano ai provveditori sier Polo Capelo e sier Christofal Moro e a nessun altro. Ed io obbedisco alla Signoria prima e a voi dopo.”

Un sorriso carnivoro s’allargò sul viso di Ferigo, mentre i suoi occhi brillavano felinamente furbi. In realtà nessuna famiglia patrizia a Venezia poteva fregiarsi di godere di poteri e privilegi superiori alle altre e il Bataja, come tutti i foresti, queste sottigliezze ovviamente le ignorava. Ciononostante, aveva passato ugualmente la sua prova, non lasciandosi ingannare né dalle generose profferte di liberarlo dalla responsabilità della sua missione né dai titoli pomposamente esposti con tono minaccioso e arrogante, rimanendo ligio alle direttive della Signoria.

Anche fin troppo: Giano da Campofregoso non se lo ricordava, Ferigo invece benissimo il feroce litigio tra il Bataja e Zitolo da Perugia, quando il cremonese aveva accusato il condottiero di far la cresta sui pagamenti. Affare che il perugino non lo usava al posto delle balote di cannone a San Martino.

“Seguitemi, domino.”

L’ultima conferma gliela diede comunque il vicegovernatore Bernardino Fortebracci di Montone e il provveditore sier Polo Capello, di ronda poco distanti dal luogo della baruffa e più che volentieri disposti a garantire per il collaterale, riconoscendolo come rappresentante della Signoria. Ristabilita la pace tra domino Pier Antonio e Giano di Campofregoso, li portarono tutti a pranzare assieme e a discutere sul da farsi a lettura terminata delle missive.

 

Quanto disquisito a tavola tra il collaterale generale, il provveditore e il vicegovernatore conseguì nella ricerca di sier Ferigo Contarini del presidente delle artigliere Orlando da Bergamo. Saputo da un suo sottoposto, come si trovasse alla basilica del Santo onde pregare sulla tomba di domino Latanzio Bonghi da Bergamo, il giovane provveditore degli stradioti lo aveva raggiunto, rimanendo in angolo con accorta discrezione, acciocché il capo bombardiere potesse terminare le sue orazioni personali per il suo defunto maestro, seppellito di fronte al condottiero Zitolo da Perugia.

Il patrizio si stupì un poco della presenza accanto al bergamasco di Tician Vecelio, ingaggiato l’anno addietro ad affrescare la Scoletta accanto all’Oratorio di San Giorgio presso la basilica. Ducati un po’ buttati alle ortiche, considerati i pressanti costi della guerra, ma se Sant’Antonio, commosso per il ciclo d’affreschi sulla sua vita, li concedeva la grazia di spedire i Collegati alla malora, hé, allora il sacrificio pecuniario aveva senso.

“Dim un po': venite spesso qui a pregare?”, parlottava il bombardiere col giovane pittore cadorino.

“No, soltanto per scrollarmi un po’ di fatica dalle ossa. Quel braccio in rilievo nell’affresco m’ha assassinato … E voi?”

“Salveregina, per pregare anche se suonerà strano. È pur sempre l’anniversario della morte del mio maestro.” Un triste giorno per il bergamasco, così amaro come le lacrime che aveva dovuto ingoiare quando, colpito alla coscia, Latanzio Bonghi gli aveva intimato di lasciarlo perdere e di continuare a dirigere al posto suo l’incessante bombardamento da Porta Vescovo al castello di San Felice a Verona, mentre i rabbiosi fanti di Zitolo da Perugia, con la forza dell’odio e della vendetta per il mortale ferimento del loro capitano, respingevano senza pietà alcuna i lanzichenecchi venuti ad insidiarli per le artiglierie, difendendo magistralmente la loro postazione. Già un anno era trascorso, eppure ad Orlando pareva ieri.

“Vara zò”, commentò pensoso il ventitreenne Tician, “anche voi avete perduto l’anno scorso un maestro … Voi per colpa della guerra ed io della peste. È dura senza di lui, vero? Anche se l’odiamo e gli auguriamo ogni male, alla fine il maestro è come se non più del nostro sior pare. Il primo ci ha dato la vita; il secondo ci ha insegnato a viverla.”

A onor del vero, Zorzi Barbarella da Castelfranco detto “Zorzon” per il giovane Vecelio non era stato il suo maestro ufficiale bensì un semplice collega, almeno sulla carta, con cui aveva condiviso la firma sul contratto che prevedeva la decorazione esterna del nuovo Fontego dei Tedeschi, ricostruito dopo l’incendio che l’aveva distrutto sei anni addietro. Eppure Tician, in quei brevi anni di collaborazione, percepiva tuttavia di aver grazie al Zorzon completato la sua educazione da lui giudicata incompleta fino a quel momento, malgrado gli ottimi insegnamenti dei fratelli Zentil e Zuam Belini, i pittori ufficiali della Serenissima. Zorzon l’aveva sempre trattato alla pari, non curandosi della misera esperienza di Tician fuori dalla bottega, in un continuo confronto delle rispettive idee creative, anche quando velatamente criticava il giovane Vecelio per l’eccessiva e schietta drammaticità nei suoi dipinti, così diversa dall’olimpica ed enigmatica staticità contemplata dal neoplatonismo e presente nelle enigmatiche opere dell’artista di Castelfranco. [3]

Mentre ascoltava le riflessioni del giovane pittore, Orlando ridacchiò nostalgico, la mente volata ai tempi burrascosi del suo apprendistato laddove il conte Bonghi l’aveva preso sotto la sua ala  - lui, un ragazzino senza né arte né parte – per iniziarlo al mestiere delle armi. “Chigasang, ti te gh’ha rasun!”, esclamò. “Se a Pisa, quel rugant (maiale, ndr.) di Paulo Viteli non è mai riuscito a tagliarmi le mani, è stato grazie agli insegnamenti del mio maestro!” Mesi pieni di ansia, dove oltre alla paura di morire s’accompagnava quella di cadere prigionieri di quel turco del Vitelli, cui piaceva instillare timore tra i bombardieri veneziani grazie al macabro rituale d’amputarli ambedue le mani. Sancte Alexander Bergomensis ora pro nobis [4], Orlando era sempre scampato a tal orrido destino sia per la sua mira micidiale (el mio falcon, lo complimentava orgoglioso il conte Latanzio), sia per la sua lesta cavalcatura quando l’occasione chiamava. Poco onorevole, ma primum vivere deinde philosophari, specie se ci si ritrovava a filosofare da monchi e senza un soldo.

“E’ dura da soli”, commentò atono Tician, studiando malinconicamente l’ostinato sporco dei colori e della calce sotto le unghie.

“E’ dura, sì … Che ve piàs, sior provedador?”, si voltò bruscamente Orlando da Bergamo verso sier Ferigo Contarini, il volto corrugato dal dispetto per quell’indesiderato origliare.

“Na parolla, sior Orlando.”

Il bergamasco annuì, messo sull’attenti dal tono perentorio del giovane provveditore e da infastidito il suo atteggiamento riacquistò la marziale obbedienza del soldato. Si congedò dunque a malincuore dal giovane Vecelio, che ricambiò cortese, dovendo infatti anche lui riprendere il suo lavoro alla Scoletta, o addio paga.

“Comandate, v’ascolto.”

“Oggi il collaterale generale domino Pier Antonio Bataja ci ha consegnato delle lettere da parte della Signoria, dove vi si menziona espressamente. Infatti, vi si comanda di scegliere tre dei vostri migliori bombardieri e di trasferirvi da Padoa a Trevixo.”

“Trevixo? Dove attaccherà la Paliss?”

“Sì, ben? Qual è il problema? Avete paura di lui?”, lo provocò sornione sier Ferigo, ben conscio di come cadaun giorno il fronte trevigiano divenisse sempre meno appetibile, appunto per il lento ma inesorabile appropinquarsi dei Collegati alle mura della città.

A quella velata accusa il bergamasco s’imporporò sdegnato. “No set chi so'? In tutto lo Stato da Tera non troverete un miglior artigliere del sottoscritto! Perfino il Papa, a Mirandola, s’è complimentato con me!”, si batté orgoglioso il petto, dimentico di ogni cortesia e formalità verso il suo superiore. “La Paliss, io, lo ribattezzo col piscio!”

Al Contarini s’incrinò una costola onde trattenere la risata al solo immaginarsi la scenetta. “Anche il vostro collega, Mafio Cagnolin, si recherà alla custodia di Trevixo: eravate ambedue allievi del fu domino conte Latanzio, giusto? Vi farà piacere combattere fianco-a-fianco, come ai vecchi tempi.”

“Digh el ver, sior provedador, tut e tres bergamasch onorati e fedeli alla Repubblica”, rispose un poco altezzoso Orlando tutto un pavone per via del complimento, per poi stringersi al Contarini e chiedergli più confidenzialmente, sottovoce: “Voràf ch'a' gh' fesséf on favur, sior provedador, p'piasée.”

“Cossa voleu?”

“Il sacro da sei libbre ferrarese,  ch’avete menà via ai franzes a Marostega.”

“Per portarvelo a Trevixo?”

“Certissem! Ho dei grandi progetti sul suo uso …”

In un certo qualmodo, meditava sier Ferigo nel frattanto che Orlando sbracciandosi entusiasta gli delineava il suo tremendissimo piano ai danni dei Collegati, sia il capo bombardiere che il Vecelio erano ambedue degli artisti nel loro campo, uno dedito alla distruzione e l’altro alla creazione.

 

***

 

La solenne processione dell’8 settembre a Santa Maria Maggiore oltre che ad atto devozionale era corrisposto al gesto della fica da parte dell’intera popolazione trevigiana al progetto di abbattere completamente il santuario, cappella della Madonna inclusa. Perfino il provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, il podestà sier Andrea Donado e l’intero Gran Consiglio Cittadino non potevano più ignorare la plateale sfida lanciatagli contro senza temerne le preoccupanti conseguenze; solo il capitano delle fanterie Renzo di Ceri seguitava ostinato in quel braccio di ferro, infastidito al limite dalla (per lui) insensata bigotteria della città e grato d’aver trovato perlomeno un valido supporto in sier Carlo Valier, inviato dalla Signoria onde investigare e riferirle sui lavori di fortificazione a Treviso.

“Il motivo per cui ci inviano denari e uomini da Venezia è per creare un guasto adatto a contenere le cannonate nemiche, non certo per celebrare Messe e processioni!”, arringò Renzo di Ceri il Collegio al Palazzo dei Trecento. “Per quanto doloroso, è un sacrificio che i Trevigiani debbono sostenere e preferibilmente senza lagnarsi troppo!”

“Sença contar i molti desordeni …”

“Parlé tajan, sier Valier o’l foresto qua manco ve capisse!”, interruppe bruscamente sier Zuam Paulo l’altro patrizio. Il provveditore appariva inquietantemente pallido quella mattina, le orecchie fischianti e le dita di continuo sulla cicatrice al collo, massaggiandosela onde darsi un poco di sollievo. Forse avrebbe dovuto ascoltare la sua Maria e rimanersene in letto, invece di ignorare le vertigini che l’avevano colto non appena s’era messo in piedi. Poco importava, ormai si trovava lì.

Fissando astioso Gradenigo, sier Carlo Valier riprese in volgare italiano: “Senza contare i molti disordini che codesta questione sta creando a Treviso, rallentandone i lavori.”

“I disordini di cui la Signoria è stata informata appartengono a ben altra natura e tutti risolti puntualmente”, ci tenne a precisare il capitano Vitello Vitelli, sentendosi indirettamente preso in causa per via dell’indisciplina dei soldati, “quanto alla fortificazione delle mura, per questo motivo gli illustrissimi provveditore e podestà hanno sollecitato l’arrivo di ulteriori manovali. Tutti qui a Treviso lavorano, giorno e notte, e di buona lena malgrado lo sforzo titanico di quest’impresa.”

“Siamo ancora in stato di opera in corso, ma già da domani s’incominceranno a vederne i frutti. Anzi, oseremmo dire che le fortificazioni sia dentro che fuori le mura siano addirittura a buonissimo punto, tanto da minimizzare e riparare in breve tempo qualsiasi danno inflittoci dalla batteria nemica”, aggiunse sier Marco Miani, sperando che il suo intervento potesse tramite il rappresentante placare i sospetti di suo zio sier Batista Morexini e dell’intero Senato. “Inoltre, la guardia alle porte è stata raddoppiata e ogni notte noi gentiluomini siamo a pattugliare come se ci fosse già l’assedio. Nessuno entra e nessuno esce senza identificarsi.  Inutile aggiungere infine le incessanti perlustrazioni del territorio per mano degli stradioti, che rendono impossibile ogni incursione da parte del nemico. Dico il vero, signor capitano?”

“Sì, la città è vigile e preparata e aspetta di buon animo il nemico”, ammise Troilo Orsini, beccandosi un’occhiataccia dal parente, accusandolo di tradimento per quel suo schierarsi col Miani. Renzo Orsini, a sua discolpa, non aveva torto nelle sue argomentazioni; purtroppo, stava pericolosamente sottovalutando la guelfa guelfità della guelfa città più guelfa del guelfo del Papa guelfo [5] e se la Marca veniva giocosamente sfottuta col nomignolo di “sagrestia della Terraferma” un motivo sussisteva.

“Infatti, i torrioni potenziati così come il Ponte de Pria sono già operativi, l’avete visto”, rincarò la dose sier Andrea Donado, ansioso di non compromettersi dinanzi all’occhio vigile della Signoria. “E da Padova, sier Polo Capelo ci ha confermato la partenza dei loro migliori bombardieri per sistemare al meglio le artiglierie.”

“Sì, l’ho visto e meno male che ho viaggiato in burchio”, commentò sardonico sier Carlo Valier, non essendogli sfuggito il lago di fango su cui Treviso si specchiava a causa dell’allagamento delle campagne onde testare il funzionamento delle chiuse. “Voi sostenete come i lavori siano quasi giunti al loro termine. Eppure, ancora noto dei monasteri fuori le mura in piedi o mezzi abbattuti da palle di cannone. Il Santuario seguita a rimanere in piedi. A mio parere, la città non è stata sufficientemente fortificata, tutt’altro, e si perderà di certo. Mi domando se non sia il caso di riferire alla Signoria di mandar una commissione di quattro di collegio qui a Treviso, per meglio sorvegliare l’operato dei suoi capi.”

“Riferite allora alla Signora, di smetterla di tergiversare e d’inviarci soldati, manovali, zappe, badili e ovviamente denari ché la guerra non la combattiamo muniti soltanto di preghiere e buona volontà!”, s’impuntò Vitello Vitelli, dando voce al disagio generale di tutti, dai comandanti fino all’ultimo degli stallieri.

“Sier Domenego Malipiero ha pagato e inviato i 200 manovali richiesti …”

“500 a dire il vero!”

Imperterrito, sier Valier continuò: “E sier Lucha Trum oggi ha pagato il resto dei fanti a Mestre. Sier Zuam Vituri e i dieci connestabili partiranno domani e oggi sono già in marcia Mafio Cagnolin da Bergamo e la sua compagnia..”

“E quanti?”

“In totale 500.”

La mascella del podestà cadde aperta rovinosamente. “Bone Jesu! Perché non i 1000 richiesti?”, tartagliò pallidissimo.

“In ogni modo”, riportò sier Lunardo Zustignan la discussione al punto iniziale, “non corrisponde al vero che il Santuario di Santa Maria Maggiore non sia stato abbattuto. Infatti, il campanile s’è quasi terminato di minare così come gran parte del monastero. Comprendiamo appieno l’importanza del guasto ma allo stesso tempo stiamo procedendo con cautela, valutando quanto effettivamente possa esser sacrificato e quanto invece no.”

“Non mi par questa l’impressione datami”, ribatté Renzo di Ceri. “Ogni giorno i miei uomini subiscono molestie da parte di quei bacia-altari dei vostri compaesani. È evidente che non si ha intenzione di demolire la chiesa!”

“Di nuovo: capiamo la vostra situazione e vi assicuriamo che il monastero verrà smantellato tranne per la cappella grande, le due piccole e la sagrestia.”

“La cappella grande?”

“Quella dell’affresco miracoloso.”

“E quando sarebbe stato deciso questo?”

“I Trevigiani dai tempi dell’evangelizzazione hanno dimostrato una fede granitica nella Madonna, devotissimi. Distruggere quell’affresco per loro corrisponderebbe al più turpe e imperdonabile dei sacrilegi e nulla esclude una consecutiva rivolta contro noialtri”, gli ricordò pragmatico Zustignan, evadendo però al contempo la previa domanda dell’Orsini. “La cappella si trova fuori dall’area designata per il guasto, perché non lasciargliela? Loro credono fermamente che la Vergine Santissima li aiuterà in quest’assedio e che combatteranno fino all’ultimo uomo per preservare la città a Lei votatasi, perché scardinare questa convinzione se li motiva contro il nemico? Siete un papalino, signor Lorenzo, certe sottigliezze dovreste conoscerle.”

“Tutto quel che volete”, tagliò corto il capitano delle fanterie, snervato dalla frecciatina finale. “Ma chi ha dato l’ordine, a mia insaputa, di preservare la cappella?”

In quel momento entrarono silenziosamente sier Alexandro da cha’ da Pexaro e sier Alexandro Michiel, i quali, camminando quasi rasente ai muri affrescati, si portarono accanto al colpevole di quell’ordine dato senza consultare l’Orsini.

“Sior Provedador? Avete ricevuto delle nuove?”, s’informò cauto il podestà e tutte le teste si girarono verso l’uomo in sincronia perfetta.

Una nausea fastidiosa riempì d’acida saliva la bocca di sier Zuam Paulo Gradenigo, rimasto stranamente in silenzio fino a quell’istante, ascoltando a fatica, il capo appoggiato sulla mano.

“Ebbene”, strascicò un poco le parole, “stando a due prigionieri francesi appena catturati, a Montebelluna i nemici sono stati avvisati della partenza di La Palisse da Vicenza con le artiglierie e che questi dovrebbe rientrarvi o mercoledì o giovedì. Dopodiché, il piano sarebbe di spostare l’accampamento a Musano, sei miglia da Treviso, e di sgattaiolare di soppiatto di notte per costruire i cestoni sottoterra atti a piantare l’artiglieria. I loro comandanti, incuranti della sconfitta inflittali, continuano a confidare nella presa di Treviso in meno di tre giorni.”

Silenzio.

“Ecco!”, sbottò sier Carlo Valier, “ecco il risultato della vostra insensata prova di forza con Mercurio Bua! Se prima avevano intenzione d’attaccare Treviso, adesso pure millantano di conquistarla in meno di tre giorni!”

“E che vengano, li stimo nulla quei boriosi caga-sego!”, ruggì sier Zuam Paulo e più di uno balzò sul proprio seggio dalla sorpresa e il Valier sudò freddo, ricordandosi come avesse punzecchiato lo stesso patrizio che a Pisa aveva afferrato sier Thomà Zen per il collo della corazzina e, puntatagli la misericordia sotto il mento, lo aveva sfidato a ripetergli dritto negli occhi quanto detto, dopo l’ennesimo ingiusto e umiliante rimprovero da parte del provveditore per via di un’iniziativa del Gradenigo contro i fiorentini, incurante dell’esito positivo della spedizione.

“Meglio che si decidano ad assediarci ora!”, continuò sier Zuam Paulo. “Piuttosto che o la fame o l’avidità li spingano verso la Patria del Friuli. Non tanto i francesi piuttosto i tedeschi, visto che l’Imperatore … Oh, Santiximi Theonisto, Thabra e Thabrata! ” [6] e più non riuscì a proferire, roteando gli occhi dietro le orbite e mancandogli per un istante il respiro e si sarebbe spaccato la fronte cadendo in avanti se Alexandro Michiel non l’avesse afferrato in tempo.

“Sier Zuam Paulo? Sier Zuam Paulo?”, gli batté sier Michiel la guancia con apprensione, scuotendolo leggermente.“Ajere, fé un puoco d’ajere!”, ordinò agli imbambolati astanti che, riscuotendosi, presero a girovagare per la sala alla stregua di mosche impazzite.

Vitello Vitelli aprì l’ampia finestra e Renzo di Ceri, accantonando le divergenze, aiutò sier Marco Miani e sier Alexandro Michiel a trasportare il provveditore sotto di essa, mentre il podestà sier Donado comandava ad un suo famiglio di correre a prendere i sali e una brocca d’acqua fresca.

Storcendo il naso per via del pungente odore e rifiutando il bicchiere, sier Zuam Paulo tentò di sottrarsi dai suoi soccorritori. “Sto ben! Sto ben!”, li rassicurò malgrado barcollasse vistosamente, le gambe instabili.

Sier Lunardo Zustignan non si lasciò ingannare. “Menèlo en cha’, menèlo!”, e onde reiterare, fece strada a Miani e Michiel che sorreggevano il provveditore per le braccia.

“No ghe vojo ‘ndar!”, protestò Gradenigo, le gote rosse per l’imbarazzo. “Sto ben, gh’ho dito! Lassème voialtri do!”

“E vui gh’avé ben da vegnire!”, rifiutò categoricamente Zustignan ogni appello, incaricando il figlio del podestà, sier Nicolò, di correre ad avvertire madona Maria Malipiero Gradenigo dell’arrivo del consorte, anche per evitare alla nobildonna un gran spavento e al patrizio un gran ceffone per aver disdegnato i suoi savi consigli. “Signori, sarà consigliabile riprendere il collegio dopo pranzo.”

Nessuno ebbe da ridire, mormorando ancora frastornati il proprio consenso.

 

***

  

Le agili dita del cerusico manipolavano con ferma accortezza le membra intorpidite e rigide di Mercurio Bua; leggere come una piuma si soffermavano sul giallognolo viso sudato e gli aprirono prima una palpebra  e poi l’altra, studiandone il colore. Dopodiché, l’uomo gli aprì la bocca e ne esaminò la lingua, borbottando tra sé e sé fino a scendere sul collo che controllò a lungo.

Era stato Zilio Madalo a correre a chiamarlo, tutto tremante manco si fosse beccato la terzana e il cerusico aveva compreso immediatamente l’identità del suo paziente.

“E’ curioso … molto curioso …”, bofonchiò, scostando la coperta e incominciando a ispezionare sotto le ascelle del capitano di ventura.

“Che intendente?”, inquisì cauto Leka Busicchio seguendo con lo sguardo come le dita del cerusico tastassero la carne tesa dell’inguine. “Cos’ha?”

L’uomo non lo degnò di una risposta, dirigendosi invece verso Hironimo e Thomà, i quali si erano fatti convenientemente trovare addormentati quando Zilio era entrato nella tenda con la colazione e che ora assistevano in prudente silenzio. Senza tanti preamboli il cerusico appoggiò i pollici sotto le orecchie del patrizio veneziano e gli fece piegare indietro il capo, premendo fino a raggiungere il suo pomo d’Adamo.

“Levati la camicia”, gli intimò con tal distacco professionale che Hironimo nulla ebbe da obiettare e neanche s’era sfilato completamente dell’indumento, che già il cerusico gli alzava le braccia onde esaminare a sua volta le ascelle. L’uomo agì più pudico quando gli chiese di scostare un poco le mutande quel tanto da denudare la regione crurale, non perché si vergognasse lui di per sé bensì per non agitare né il giovane né il fantolino che lo stava fissando sospettosissimo.

Infatti, arrivato il turno d’esaminare Thomà, questi si sentì in dovere di chiarire: “A mi nissun me varda drento le mudande!”

“Devi solo sollevarle un poco, stupidotto”, ribatté serafico il cerusico, parlando lentamente acciocché il bambino afferrasse ogni parola, mentre lo esaminava sotto l’ascella e poi all’inguine. A operazione completata, l’uomo si mise in piedi e andò a lavarsi le mani.

“Dunque?”, insistette Leka Busicchio, fino a quel momento rispettoso del silenzio necessario al cerusico per operare in tutta tranquillità, ma adesso avido di conoscere il responso. “Come sta? È grave? E perché anche i prigionieri?”

L’uomo sospirò a fondo, asciugandosi. “Temo questa febbre non esser figlia di una ferita infetta. Ho controllato sotto le bende e la cicatrizzazione sta seguendo il suo naturale corso, quindi no, non si tratta di un’infezione.”

Il condottiero sbiancò, il labbro inferiore tremante. “Non … non si tratterà mica di … di …?”, neanche osava pronunciare quell’orrido nome, quasi temesse d’evocarla alla stregua del diavolo o della iettatura.

“Essa ne sta falciando abbastanza nel campo, che sarebbe imprudente negarne la presenza. Non escludo pertanto il contagio, considerando la condizione di salute già debilitata del capitano.”

“E non c’è niente che si possa fare?”

Il cerusico scosse il capo. “Attendere e pregare che scenda la febbre. Finora macchie o pustole non ne ho viste.”

Intanto che i due discutevano fitto-fitto a voce bassa, Mercurio, forse per via della sete o dei continui maneggiamenti del suo corpo, si destò dal suo torpore e notata l’imponente figura di Zilio pendere su di lui, gli fece cenno di portare l’orecchio alla sua bocca.

“Che … che cos’ho?”, parlava in albanese onde impedire ad Hironimo d’origliare.

“Il capitano Leka lo sta apprendendo ora dal cerusico, signore. Sembra che la febbre vi sia risalita … forse, forse la ferita s’è infettata …”, tentò di spiegargli lo stradiota, il volto tirato e visibilmente in pena per la sorte del suo superiore.

“No … no, non è così … non è la ferita … è qualcos’altro … San Giorgio mio! Mi sento … mi sento le ossa come spezzate … neanche … neanche m’avesse calpestato uno stallone imbizzarrito …”, ansimò Mercurio, corrugando per il dolore la fronte e inghiottendo a fatica la saliva. “Zilio … Zilio! … Mi ha preso! … Oh, San Giorgio, è lei! Lo so! È lei! … È lei! … Oh, San Giorgio … oh, Sancte Georgi adiuva me! … ”

Madalo negò con ogni fibra del suo essere. “No, capitano! Non l’avete presa! Non potete averla presa! Vedrete che il cerusico confermerà trattarsi di altro!”

Il condottiero epirota si morse scettico il labbro inferiore, imponendosi di calmare il panico crescente che gli stava paralizzando le membra e costringendo il cuore a martellargli rumorosamente in petto. “Zilio …”, disse quando fu sicuro di poter continuare a parlare senza tradire alcun tremore nella sua voce.

“Capitano?”

Mercurio gli strinse la mano, puntandogli contro gli occhi lucidi e febbrili. “Dovessi morire … ti prego … ti prego ammazzalo …”

Zilio reclinò il capo, confuso. “Chi dovrei uccidere?”

“Il Veneziano”, proferì Mercurio a voce talmente bassa che il suo luogotenente dovette leggerli le labbra. “Non voglio che se lo prenda La Palice … né il Gambara … se non posso averlo io, nessun altro l’avrà …”, digrignò feroce i denti. “Quindi … dopo avermi chiuso gli occhi … dopo … chiuderai anche i suoi … me lo giuri?”

Madalo annuì solenne. “Sulla tomba di San Giorgio, lo giuro.”

Un sorriso tra il sollevato e il carnivoro graziò le labbra esangui dell’uomo, che s’accasciò sfinito sul cuscino. “Grazie …”, mormorò nel frattanto che scivolava nuovamente nell’incoscienza, “grazie …”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

 

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La macabra vicenda di Biasio Cargnio il salsicciatio (l’originale Sweeney Todd) oscilla tra verità e leggenda, poiché pur con l’ausilio delle sentenze della Quarantia Criminal, tutt’oggi gli storici sono indecisi se collocare la sua vicenda nel 1395, nel 1503 o nel 1520. Noi abbiamo optato per la versione più famosa, ovvero la sentenza del 18 novembre 1503 anche perché si colloca perfettamente nel contesto del percorso di formazione del Nostro. Tradizione vuole che Riva de Biasio a Venezia stata così nomata a rimembranza della vicenda e dove sorgeva l’osteria del salsicciaio, si può vedere una testa maschile scolpita, si dice ad immagine dell’assassino. In realtà molto probabilmente è un San Giovanni Battista, trovandosi appunto a Campo San Zan Degolà.

La scena tra Pietro Antonio Battaglia, Giano di Campofregoso e Federico Contarini purtroppo è vera e descrive il clima di vigilanza mista a paranoia nelle città ancora rimaste sotto la Serenissima, temendo infatti la presenza di traditori.

I condottieri Lattanzio Bonghi da Bergamo e Zitolo da Perugia morirono entrambi nel 1510 mentre conducevano un’operazione congiunta durante l’assedio di Verona e di fatti vennero seppelliti uno di fronte all’altro nella Basilica di Sant’Antonio da Padova. Ironia proprio della sorte, visto che i due erano stati avversari durante la guerra di Pisa, il Bonghi sotto la Serenissima e Zitolo agli ordini di Paolo Vitelli.

Tiziano Vecellio si trovava nel 1511 a Padova per affrescare la Scuola del Santo (o Scoletta) con scene sulla vita di Sant’Antonio tra cui: il Miracolo del neonato; il Miracolo del piede sanato e il Miracolo del marito geloso. Quest’ultima in particolare presenta una peculiarità menzionata nel capitolo: il braccio levato in alto della moglie, per difendersi dalla pugnalata del marito, è stato reso tridimensionale applicandovi numerosi strati di intonaco e modellato sulla figura.

La questione del santuario di Santa Maria Maggiore e tutt’altro che conclusa, essa corrisponde allo stallo messicano di questa storia. Sia Gian Paolo Gradenigo sia Renzo di Ceri avevano ottime ragioni, il problema che nessuna delle due riusciva a mettere tutti d’accordo.

Ormai credo abbiate capito cosa stia accadendo nel campo di Montebelluna … Quando si dice non saper di che morte morire …

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] gh’emo ancha el bocale =  gioco di parole : “bocale” significa sia “boccale” che “pitale”

[2] novello Zorzi Corner = Giorgio Cornaro, nonno di Caterina Cornaro regina di Cipro, prigioniero di Filippo Maria Visconti durante le Guerre di Lombardia, venne ferocemente torturato da quest’ultimo per sette anni quando, apprendendo dell’arresto di Francesco Bussone conte di Carmagnola, volle estorcere al Cornaro quanto i Veneziani sapessero nel dettaglio circa i rapporti tra lui e il condottiero, decapitato per tradimento. Nonostante le sevizie brutali descritte dal patrizio stesso nella “Cronachetta Corner”, egli non rivelò nulla e per spregio, a guerra terminata, il Visconti fece circolare la falsa notizia della sua morte pur di non restituirlo a Venezia, sennonché il Cornaro riuscì ugualmente a mettersi in contatto col figlio Andrea e il Duca, sbugiardato, dovette cederlo. Ammalato e distrutto fisicamente dagli anni di tortura e prigionia, Cornaro morì il 4 dicembre del 1439, due mesi dopo la sua liberazione.

[3] Che Tiziano fosse l’allievo, nel senso tradizionale del termine, del Giorgione è un’affermazione del Vasari; studi recenti, infatti, suggeriscono che i due si conobbero da colleghi, piuttosto che da maestro-discepolo, per quanto il ventenne Tiziano imparò moltissimo dal Giorgione. Tra i maestri ufficiali di Vecellio invece figurano appunto Gentile e Giovanni Bellini, i pittori ufficiali della Serenissima ed i maggiori esponenti della pittura veneta del Quattrocento.

[4] Sancte Alexander Bergomensis  = Sant’Alessandro da Bergamo, fu un soldato della legione tebea, subì il martirio a Bergamo di cui poi divenne santo patrono. Sul sagrato della chiesa a lui dedicata si può ammirare la colonna dove venne decapitato.

[5] sottovalutando la guelfa guelfità della guelfa città più guelfa del guelfo del Papa guelfo = Qui “guelfo” è inteso come “clericale”

[6] Santissimi Theonisto, Thabra e Thabrata!  = Assieme a San Liberale patrono di Treviso, Ss. Teonisto, Tabra e Trabata appartengono anch’essi alla storia e alla devozione locale: vicino al fiume Sile i tre subirono il martirio per mano degli eretici ariani, li stessi contro cui combatté San Liberale.

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo Dodicesimo: 10 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 21.12.2021

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Capitolo Dodicesimo

10 settembre 1511

 

 

 

L’ambasciatore sier Hironimo Donado “dalle Rose” chiuse la finestra, lanciando un’occhiata torva sulla piazza semivuota sottostante. Cadaun giorno a Roma s’apprendeva di nuovi ammalati di febbre, quest’ultima assolutamente equa nel suo contagio e trasportata dai putridi venti ch’ammorbavano l’aria, rendendola irrespirabile, come se la Città Eterna avesse avuto bisogno d’ulteriore lezzo, onde apparire più marcia di quanto già non lo fosse.

Forse era la stanchezza, forse era l’età non più fresca, ma nelle ultime settimane s’era ritrovato molto spesso ad anelare alla sua patria, alla moglie madona Maria Gradenigo Donado e ai loro numerosi figlioli, a sua sorella madona Alba Donado Contarini e a suo fratello sier Andrea Donado, podestà di Treviso, chiedendosi della loro salute, delle loro occupazioni, di quali crucci li stessero tormentando, dei loro progressi e progetti, se avessero ricevuto le sue lettere e quali sentimenti li avevano suscitato. Né la musica né la composizione di poesie in greco ed in latino, grandi sue passioni fin da giovinetto, lo consolavano più; a malapena lo distraevano le conversazioni con il suo segretario, Lorenzo Trivixan.

Talora, tra la veglia e il sonno nella sua abitazione a Campo Marzio, sier Hironimo ripercorreva gli episodi di vita famigliare trascorsi assieme, tra un incarico e l’altro: ripensava al giorno delle sue nozze, ai frizzanti distici latini del suo compare d’anello, Almorò Barbaro, ch’avevano fatto sghignazzare i giovanotti ed arrossire le fanciulle; ai battesimi dei vari nipoti; al primo incontro tra suo figlio Phelipo e il magister Marino Becichemo e di quanto il giovane avesse sprizzato d’orgoglio alla prospettiva di divenire l’allievo d’un uomo sì dotto. Sier Hironimo si rivide alle nozze di sua figlia Ysabeta con sier Faustino Dolfin e anche al secondo matrimonio della sua Luzia con sier Cabriel Moro, dopo averla consolata per la perdita di domino Francesco Martinengo suo primo sposo.

Questa malinconia, questo rivangare il passato inquietava assai l’ambasciatore: sin da giovane aveva viaggiato in lungo ed in largo per l’Italia e per l’Europa, avendo ricoperto ruoli che l’avevano quasi sempre condotto fuori da Venezia, quali oratore in Francia, in Portogallo, a Milano, a Genova, a Lucca e presso l’Imperatore; era stato Duca di Candia; visdomino di Ferrara; podestà a Brescia, Ravenna e Cremona e Roma la conosceva oramai meglio della sua scarsella, avendo in più occasioni rappresentato la Signoria presso la corte papale, delle cui insidie suo padre, il fu sier Antonio “dalle Rose”, ben l’aveva istruito avendo egli stesso ricoperto la medesima carica. Eppure, mai aveva il Donado avvertito tanta nostalgia di casa come in quel momento, mai quella smania di riabbracciare la sua famiglia e d’aggrapparsi al ricordo d’essa per non lasciarsi confondere da una sottile angoscia. Si diceva che soltanto chi era prossimo alla morte s’immergeva nei ricordi del passato; al che, se tale era il suo ineluttabile destino, il “dalle Rose” pregava Iddio e la Vergine di concedergli di concludere prima la sua missione e poi di disporre di lui come meglio credevano.

Sier Hironimo sospirò pesantemente: forse le sue erano le tipiche crisi della vecchiaia, acuite dai soliti acciacchi ai reni. Aveva cinquantaquattro anni e troppi viaggi, troppe missioni delicate alle spalle, ch’avrebbero sfibrato chiunque. Gli ultimi anni, specialmente, gli pesavano alla stregua di macigni, avvertendo come Atlante il pesantissimo fardello affidatogli dalla Signoria: su di lui, infatti, dipendeva la sua salvezza.

Perché mentre i generali e condottieri tenevano impegnato sul campo di battaglia il nemico, la diplomazia veneziana gli scavava il terreno da sotto i piedi. Già nel 1509, dopo la sconfitta dei Collegati sotto le mura di Padova, la Signoria era riuscita ad attaccare economicamente la Lega antiveneziana, stipulando un accordo con la Sublime Porta: i Turchi, infatti, avevano incominciato a boicottare i panni di Firenze, di Ragusa e di Genova, diminuendo i finanziamenti del nemico e rendendo insidiose le rotte marittime. Non meno importante, il coinvolgimento indiretto del Sultano aveva garantito la neutralità del Re d’Ungheria, il quale se all’inizio s’era lasciato sedurre dalle ipotetiche conquiste promessegli dall’Imperatore, aveva poi rinculato per tenersi buoni i Veneziani per non essere invaso dai Turchi.

Il vero obiettivo, però, era e rimaneva il Papa.

Il cardinale Marco Corner del cavalier sier Zorzi aveva riferito alla Signoria come Giulio II, prendendolo in disparte, gli avesse confidato d’aver in realtà sempre amato la Repubblica e di quanto gli dispiacesse veder la rovina dello stato veneziano per mano di quei barbari. Aveva sostenuto d’esser stato costretto ad unirsi alla Lega di Cambrai, poiché sdegnato dalle violazioni dei diritti papali e delle sue terre per mano dei Veneziani.

La realtà, invece, era ben altra: il Papa aveva capito d’aver fatto il passo più lungo della gamba e di trovarsi dinanzi ad un avversario che, per la sua sopravvivenza, non aveva (e non avrebbe) esitato a giocar sporco. Pertanto, aveva cambiato opinione per trarne il maggior profitto. Egli aveva imposto alla Serenissima di riconoscere per giusta la scomunica e di chiedere pubblicamente perdono per essere assolta. In più, l’aveva obbligata a restituire Rimini, Faenza, Cervia e persino Ravenna; a sopprimere il diritto del Doge di designare i vescovi, di prelevare le decime, le imposte sui beni ecclesiastici; le aveva proibito di giudicare in tribunale gli ecclesiastici, a disconoscere il suo dominio nel Golfo e a permettere ai sudditi papalini di navigare liberamente le sue acque.

Sier Hironimo Donado, sier Domenego Trivixan, sier Lunardo Mozenigo, sier Alvixe Malipiero, sier Polo Capelo e sier Polo Pisani il 24 febbraio 1510, nell’atrio della Basilica di San Pietro, avevano recitato la dichiarazione di Venezia di pentimento e di sottomissione dinanzi al Papa e a dodici cardinali. Questi poi, impugnate delle verghe, avevano cantato il Miserere mentre gli ambasciatori avevano ascoltato lividi e rancorosi in ginocchio. Giulio II, trionfo, aveva recitato solenne la formula di assoluzione, ignaro dell’odio e della vendetta ch’animavano le preghiere degli oratori veneziani. I notai avevano letto la lista delle penitenze imposte e poi tutti s’erano recati nella Cappella Sistina per assistere alla Messa, tra squilli di trombe e grandi dimostrazioni, laddove gli ambasciatori avevano pregato Dio e la Madonna di confondere il Papa. E al funerale di sier Polo Pisani, morto di lì a poco, i legati veneziani avevano solennemente giurato sul catafalco del conterraneo d’ingegnarsi in ogni modo per sconfiggere i numerosi nemici.

Così fu: mentre Della Rovere gongolava per la sua vittoria, la Serenissima progettava alla prima occasione di disconoscere ogni capitolo di sottomissione, nel frattanto che sier Hironimo, rimasto a Roma, assieme al cardinale Marco Corner aveva incominciato a tastar il polso ai condottieri da assoldare, incominciando da Renzo di Ceri, Giampaolo Baglioni e Troilo Savelli.

La volontà di potenza di Giulio II era stata tale, inoltre, d’aver peccato di hybris: dopo aver creduto d’aver soggiogato la ribelle Venezia, egli aveva ripreso l’antico progetto dei Borgia, ossia l’assoggettamento della Romagna al diretto controllo di Roma. Così, in barba al fatto che fossero alleati, il Papa aveva dato il terzo scossone alla Lega di Cambrai attaccando il Ducato di Ferrara, dopo aver tentato di sottrarre Genova ai Francesi. Sier Hironimo e i suoi colleghi avevano seguito Giulio II durante l’intera campagna invernale, fino allo zenit dell’assedio di Mirandola. Ciononostante, malgrado il Papa si fosse messo lui di persona a capo dell’esercito, aveva trovato in Alfonso d’Este un avversario altrettanto ostinato, oltre a ben spalleggiato da Francia e Spagna, sicché l’incapacità di Della Rovere di portare a termine la conquista di Genova, Bologna, Ferrara e delle altre terre emiliane e romagnole aveva minato non soltanto la sua immagine di ferocia e imbattibilità, semmai l’aveva indebolito e screditato agli occhi del mondo.

Il tentativo d’accordo a Mantova del marzo del 1511, laddove una Lega visibilmente in difficoltà si era dimostrata disposta a porre fine alla guerra, a patto che Venezia pagasse le spese della pace e riconoscesse l’alta autorità imperiale sul territorio di Terraferma, pagando all’Imperatore un grosso censo, era fallito non soltanto perché la Serenissima aveva fatto intendere a Maximilian cosa gli avrebbe dato di grosso al posto del censo, bensì per l’intemperanza di Giulio II, che non aveva gradito la spocchia del segretario del Re dei Romani, Mathias Lang vescovo di Gurk, che s’atteggiava da trionfo vincitore.

Dulcis in fundo, poco dopo la debacle a Mantova, a Pisa s’era riunito un concilio di natura palesemente scismatica, indetto dal cardinale di Santa Croce Bernardino López de Carvajal, dal Re di Francia, dall’Imperatore, dal cardinale Federico Sanseverino ed altri porporati per eleggere pontefice proprio de Carvajal e ciò allo scopo di punire quella banderuola di Della Rovere. Al che questi, tra una bestemmia e l’altra, aveva giurato su ogni cosa sacra al mondo, che non sarebbe morto prima d’aver interdetto, scomunicato e tagliato a pezzi tutti i sostenitori di Louis XII, laici e religiosi, a partire da quel traditore di Carvajal che s’era prestato a quell’indegna porcheria. Malgrado queste sfuriate, però, il Papa stava perdendo la sua fierezza ed arroganza, non essendosi atteso questa contromossa. Ed ecco, sommo miracolo, che il persecutore era venuto a chiedere consiglio al perseguitato: purtroppo per lui, stavolta Venezia aveva idee e soprattutto richieste ben chiare e sier Hironimo Donado non gli si presentava più supplice al suo cospetto, bensì in veste di negoziatore.

Abbandonando la finestra, sier Hironimo “dalle Rose” si risedette a tavola tra i suoi compatrioti lì presenti: domino Nicolò Lipomano q. sier Thomà, protonotario apostolico; domino Marco Corner di sier Zorzi ed infine il loro anfitrione, domino Domenego Grimani di sier Antonio. Approfittando dell’indisposizione del Papa Giulio II di vedere chicchessia, il cardinale Grimani aveva, tramite accorti messaggi, invitato i tre suoi ospiti ad “ammirare un manoscritto greco assai raro, miniato ad arte, di recente acquistato” nel suo elegante Palazzo di San Marco [1] dai marmi di travertino del Colosseo e del Teatro Marcello, costruito dal loro conterraneo Papa Paolo II quand’era ancora il cardinale Piero Barbo.

Inutile dire quanto nessuno avesse sospettato di un imbroglio: la fama del cardinale d’eccellente filosofo e teologo, di bibliofilo e mecenate s’equiparava a quella di fine politico, ed egli stesso amava raccogliere attorno a sé una piccola corte dei migliori talenti artistici ed intellettuali che transitavano a Roma, come ad esempio Erasmo da Rotterdam, suo graditissimo ospite per l’intero suo soggiorno romano. Sier Hironimo stesso aveva usufruito della sua ricca collezione di libri, manoscritti, breviari, codici, avendogli il Grimani procurato il De Anima d'Alessandro d'Afrodisia, che il “dalle Rose” aveva successivamente tradotto in latino, prima di cederlo al Poliziano. Naturale, quindi, che il cardinale avesse voluto invitare i suoi conterranei, onde ammirare l’ultimo suo acquisto.

L’intero Palazzo di San Marco trasudava del resto di quest’amore di domino Domenego per la cultura e per l’arte, in particolare per i pittori settentrionali, spiccando una robusta raccolta di dipinti di Hans Memling, Hieronymus Bosch ed Albrecht Dürer, ma era la sua biblioteca il suo vero motivo di vanto, arrivando perfino ad acquistare, nel 1498, la collezione intera di Pico della Mirandola. I suoi conterranei giocosamente lo sfottevano, asserendo come amasse più le donne miniate degli incunaboli che quelle in carne ed ossa. Il cardinale ridacchiava, rispondendo altrettanto mordace ch’era proprio così, poiché quelle sui libri si lasciavano sfogliare senza chieder nulla in cambio. Quando non sguinzagliava i suoi agenti in cerca di rarità d’aggiungere alla sua biblioteca, Domenego Grimani aveva inoltre incominciato sei anni addietro robuste opere di restaurazione ed abbellimenti al Palazzo di San Marco, oltre a comprare dei terreni presso il Quirinale dove aveva fatto costruire una magnifica villa privata, sede di feste e divertimenti atti a dimostrare la potenza della sua famiglia e soprattutto a creare utili amicizie per il futuro. Qui vi aveva soggiornato suo padre sier Antonio, libero finalmente d’abbandonare l’isola dalmata dov’era stato confinato dalla Signoria per aver perduto la battaglia di Zonchio del 1499; il cardinale l’aveva accolto senza discutere e a braccia aperte, invitandolo a pazientare e di vivere ritirato, finché alla Serenissima non fosse passata in via definitiva l’arrabbiatura.

A far compagnia al Grimani caduto in disgrazia, c’era stato il fratello di domino Nicolò Lipomano, sier Hironimo Lipomano, riuscito anch’egli dopo anni d’assenza forzosa (o esilio informale a seconda dei punti di vista) a rimpatriare a Venezia, grazie al cospicuo patrimonio lasciatogli dalla sorella Maria, deceduta senza eredi, e manna dal cielo onde ripulire e rilanciare il loro nome a seguito del disastroso fallimento del loro banco [2]. Vero che inserendosi tra le dinastie ecclesiali i fratelli Lipomano erano riusciti a navigare in acque tempestose, ma la nostalgia era stata troppa, specie per sier Hironimo Lipomano cui non garbava quella vita da vagabondo tra Roma e Bologna. Sier Hironimo “dalle Rose” aveva già conosciuto domino Nicolò ai tempi dei suoi studi universitari a Padova, in comune amicizia con il fu domino Sebastian Priuli e sier Marco Dandolo. [3]

Questi dunque erano i commensali ch’animavano quell’informale colazione, uomini lontani dalla madrepatria e di essa nostalgici, pur impiegando ogni loro energia e pensiero per la sua salute.

“Xéo stà on pecà la morte dell’ambasciatore portoghese”, esordì il giovane cardinale Marco Corner, giocherellando coi chicchi del suo melograno, prima di portarseli alla bocca. “Dopo il cardinale Argentino, abbiamo perduto non soltanto un valido alleato, ma anche un gran brav’uomo.”

Sier Hironimo Donado annuì, ricordandosi il fu oratore e di come gli fosse risultato simpatico già al loro primo incontro a Lisbona, anche se ormai si trattava di quasi venticinque anni addietro. 

“Lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti e badiamo al futuro”, liquidò invece in fretta le condoglianze domino Domenego Grimani, focalizzandosi sulla spinosa sfida del presente. “Ciò che mi preme, in questo momento, è di sapere se Di la Roare abbia intenzione di vivere o di morire. Un giorno sembra migliorare, mangia persici e olive, sbevaza vino peggio d’un ubriaco in osteria e minaccia d’impiccare chiunque glielo impedisca. Il giorno dopo, però, eccolo in fin di vita, pronto a render l’anima a Missier Domeneddio.”

“Di sicuro la malattia del Papa crea molti disordini e rallenta el tutto”, asserì domino Nicolò Lipomano corrucciato. Inghiottì un sorso di malvasia. “Questa febbre è stata una maledizione per noialtri”, commentò.

“In effetti”, aggiunse sier Hironimo Donado, “anche il cardinale Flisco [4a] e il cardinal d’Ingaltera domino Christofal Bambrize [4b] risultano contagiati. Tuttavia, prima di buttarsi in letto, l’episcopo eboracense m’ha assicurato che il suo signore, il re Errico, v’era etiam. E come lui, anche l’oratore yspano, el segnor Vich [4c], conferma che don Ferrando viene di bone gambe.”

“Credete che ci possiamo fidare del Re Cattolico?”, inquisì Marco Corner.

Sier Hironimo Donado allargò le braccia. “Se non della sua persona, del suo odio giurato nei confronti del Roy di Franza e del suo timore che Maximian, con la scusa della guerra, s’avvicini troppo a re Ludovico, estraniandogli gradualmente il nipote, il Duca di Borgogna [5], ed erede delle corone di Castija ed Aragò. Sapete bene come, per raggiungere i suoi obiettivi, don Ferrando non si fermi davanti a niente: ha perfino dichiarato pazza sua figlia, la regina Zuanna, ed assassinato il di lei marito don Phelipo,  figlio dell’Imperatore.”

Il cardinale Corner arcuò scettico il sopracciglio. “Null’altro che una ciancia, sier Hironimo.”

“Co’ ghe xé na óse, (voce, ndr.) ghe xé na nóse (noce, ndr.), si suol dir”, gli ricordò ambiguo il protonotario Lipomano.

I commensali tacquero un istante all’arrivo del panunto con fichi e lattemelle; licenziati i servitori e congratulato l’anfitrione, sier Hironimo Donado proseguì il discorso di sier Nicolò:

“E la noce è che il Cattolico sta tirando verso il Royssilion ed ha preteso quattro castelli dal re di Navara per segurtà dei suoi confini. Il Roy de Franza dovrebbe fidarsi di don Ferrando come dell’assassino di sua madre. Ricordatevi del Trattato di Bloys: re Ludovico ha ceduto i suoi diritti su Napoli a sua nipote Zermana de Foys, maritata al Cattolico e ora regina d’Aragò. Tuttavia, il patto prevede che se la Reyna non dovesse generare eredi maschi, ogni rivendicazione della corona aragonese su Napoli cadrebbe in perpetuum, tornando indietro il Reame al Roy de Franza. Che io sappia, fino ad oggi, di figli maschi e vivi don Ferrando dalla sua siora mojer ancora non ne ha avuti”, espose l’oratore l’attuale rapporto politico tra re Fernando e re Louis, una corda tesissima di liuto pronta a spezzarsi alla prima incauta pizzicata. “Perciò mi sono preso la libertà d’esporre i miei dubbi al segnor Vich: se Veniexia avesse da cader, chi v’assicura ch’el roy de Franza nol punti  al Royssilion dopo Napoli? E perché non anche alla Cicilia, la quale non mi sembra distare tanto da Napoli? Come già se n’era discusso l’anno addietro, ho ricordato al segnor Vich che ho conosciuto di persona don Ferrando, di cui ne avevo apprezzato la prudenza e la saggezza, e di come fossi certo che anche lui avrebbe ritenuto pericoloso il favorire i disegni francesi di dominio, cedendo lo Stato da Tera all’Imperatore.”

 “E v’ha creduto?”                              

“Era bianco di paura.”

“Come il Papa”, dichiarò Domenego Grimani. “Malgrado le sue minacce, le sue bestemmie ed escandescenze, Di la Roare vive nel timore che a suo danno Franza e Impero affettino l’Italia con piron e cortelo. Ma più del Re dei Romani, cui basta lo Stato da Tera e danari per placare la sua fame, è il Roy de Franza colui che veramente ruba il sonno al Papa.”

“Il Papa, con la Lega, ha creato un mostro che non sa più gestire e che finirà per divorarlo”, puntualizzò sier Hironimo.

“Appunto su questa paura dobbiamo premere e attaccare, senza pietà, finché Julio non s’arrenderà all’evidenza d’essersi estraniato ai suoi previi alleati e, isolato, non gli resterà che ballare alla nostra musica!” e il cardinale Grimani batté sul tavolo ad ogni parola la punta dell’impugnatura del coltello, onde reiterare il concetto.

“Lasciatemi tentare. Con me il Papa s’è sempre dimostrato ben disposto.”

“E chissà perché, reverendissimo sior Marco, la cosa non ci sorprende.”

Il giovane Corner, intuendo l’allusione, arrossì violentemente.

“Il Papa in questo momento naviga nella confusione: più della capitolazione di Mirandola lo scorso gennaio, è stato il Concilio di Pisa indetto da Franza e Impero ad averlo veramente scardinato. Chi potrà mai credere alla sua autorità, quando gli stanno letteralmente togliendo il trono di Sen Piero da sotto le terga, per offrirlo ad un Antipapa?”

“Nessuno”, risposero domino Nicolò e sier Hironimo. 

“Giusto. Nessuno lo temerà, nessuno lo prenderà più sul serio e le sue terre diverranno preda golosa e Di La Roare potrà biasimar soltanto se stesso e la sua cupidigia – vae victis, e il perdente ingoia e tace”, sorrise obliquamente domino Domenego, colui che grazie alla sua pazienza di predatore aveva smussato un poco alla volta, giorno dopo giorno, l’ostilità antiveneziana nell’implacabile pontefice, finché questi non aveva revocato la scomunica alla Serenissima. Di più: a maggio egli aveva cantato la Messa di Pentecoste e niente gli stava impedendo d’imporsi tra i porporati più importanti dell’Urbe.

Dinanzi a tal obiettivo di vitale importanza, il cardinale Grimani e il cardinale Corner erano perfino giunti ad accantonare le rispettive divergenze ed antipatie, non essendosi, a livello personale, mai piaciuti. Domino Marco era d’altronde ricco, ambizioso e generalmente un bel giovane di ventinove anni, fattore da non sottovalutare alla corte edonista di Giulio II. Ma il cinquantenne domino Domenego possedeva maggior esperienza, amicizie e acume politico da sapersi giostrare alla meraviglia nell’insidiosa curia romana. Per amor della Serenissima, i due avevano deciso di lavorare in comune accordo come in mutuae, il Corner sfruttando la beltà del viso suo e la giovinezza tanto gradita al Papa e il Grimani l’acuta scaltrezza d’una vivace intelligenza.

Quanto all’ambasciatore, sier Hironimo necessitava d’ambedue i cardinali per la sua missione: che si beccassero pure peggio dei capponi, se la cosa li dava gusto, però solo alla fine del conflitto, non prima.

“Saria vera sta favoleta?”, fece sardonico il Donado “dalle Rose”, massaggiandosi all’altezza della vescica, là dove ultimamente lo coglievano alcune fitte moleste. “Crederà davvero che Franza e Impero, con l’ausilio dei loro lacchè, abbiano intenzione d’invadere le sue terre una volta spodestatolo?”

“Perché altrimenti scomodarsi ad indire un Concilio, consci del rischio di scomunica? Inoltre, don Alphonso d’Este ci ha fatto un grandissimo regalo, con quel suo maldestro complotto d’avvelenare il Papa. Praticamente, l’ha spinto dritto tra le nostre braccia ed ora in avanti, ciò che noi diremo a Di la Roare, sarà per lui tanto vero quanto il Vanzelo!”, ribatté il cardinal Grimani. E sogghignando: “Siete stato davvero scaltro, sier Hironimo, a suggerirgli di muovere guerra contro il Ducato.”

Il “dalle Rose” fece spallucce: “Gli ho soltanto fatto notare, che Frara apparteneva allo Stato della Chiesa e che l’unico motivo, per il quale il signor Duca faceva la voce grossa e rifiutava sottomissione ed obbedienza alla volontà papale, era perché puttaneggiava a turno con Francia e Spagna. Se poi il Papa ha voluto implementare le mie osservazioni, problemi suoi: anche nella sconfitta noi ci abbiamo comunque guadagnato. Infatti”, sottolineò, “l’attacco agli Estensi primo li ha fatto passare la sbornia di Polesella; secondo, ha sviato l’attenzione dei Collegati da Trevixo, dando alla città tempo e modo di continuare a fortificarsi.”

“Stando alle lettere di vostro fratello sier Andrea, i franco-imperiali stanno nuovamente puntando contro la città”, rimarcò domino Nicolò. “Proprio non demordono dal loro progetto d’assoggettare la Marca!”

“Sì”, ammise un poco preoccupato l’ambasciatore, ripensando ai dispacci del podestà, “ma la Trevixo di adesso non è più quella dell’anno scorso e la presenza di veterani come sier Zuam Paulo Gradenigo, Lorenzo Orsini e Vitello Vitelli hanno di molto tirato su il morale.”

“Anche ad Agnadello avevamo dei veterani a capitanare le nostre milizie”, gli ricordò il Lipomano. “E sappiamo tutti com’è finita.”

A quell’obiezione sier Hironimo non poté controbattere, limitandosi a piegare la bocca in una smorfia amarissima.

“Dobbiamo aver fede sentenziò fiducioso Marco Corner, interrompendo lo scoraggiato silenzio, “Trevixo ha sempre dimostrato d’esser all’occasione una fiera combattente e la sua gente è famosa per scegliere da sé la propria forma di governo, coerente fino alla morte nelle proprie decisioni. Non dimentichiamo, poi, della grandissima protezione di Nostra Donna a quella città, rimasta per due anni illibata da ogni saccheggio. La mia povera siora Amia Catharina – a chi Dio perdoni – per ben due volte è dovuta scappare da Asolo, di cui era signora. E Trevixo, che non dista molto, non è mai stata sfiorata dalle truppe nemiche. Non è umanamente possibile tanta fortuna.”

“La sconfitta dei Francesi e dei Tedeschi sotto le sue mura saranno la prova definitiva del favore di Dio e della Madonna alla nostra causa”, dichiarò grave il cardinal Grimani. “Tuttavia, dobbiamo anche noi dare il nostro contributo: gli eventi dell’anno scorso ci hanno ben indicato il modo in cui possiamo sconfiggere i Collegati”,  disse e scelse dalla cesta d’argento una particolare mela, la più grossa e dura in quanto ancora acerba e impossibile perciò da addentare.

A brigante, brigante mezzo e quanto dissetava la dolce vendetta; se Domenego Grimani non aveva ceduto alla disperazione o alla vergogna, neppure quando Giulio II l’aveva obbligato in concistoro assieme a Marco Corner d’ascoltare muti e in piedi la scomunica della Serenissima, egli facendosi tetragono aveva trovato la forza di reagire grazie al costante pensiero e affetto che nutriva per la Signoria: sto al mondo, aveva confessato al padre sier Antonio Grimani, per servirla ed onorarla.

“Il Papa deve annegare nella paura d’emulare i suoi predecessori avignonesi: solo così ci verrà veramente incontro! Non basta l’aver sciolto formalmente la Lega. Dobbiamo spezzarla in via definitiva!”, concluse il cardinale Domenego e i suoi ascoltatori annuirono solenni in muta approvazione, osservando attenti come il cardinale avesse preso a tagliare la mela in otto parti, il numero esatto dei fautori della Lega di Cambrai. Disposti in linea gli spicchi, una alla volta se li mangiò, finché quella mela, così difficile da mordere, non era svanita dal piatto nell’arco di quale istante.

Nicolò Lipomano si recò allora alla scrivania, abbozzando la prossima lettera al Senato.

In conclusion, l’orator gh’ha manchato de molti avisi e di le cosse de Ingaltera. Item, gh’è stà dal Papa et verba pontificis, qual non xé ben varito et fa desordeni, e l’orator yspano nui gh’ha dito, aver hauto letere di Spagna et mandato amplo di far la liga, e si ’l Papa stesse ben saria conclusa, et v’era etiam Ingaltera; tamen l’orator gh’ha zonto, il papa si acorderà con Franza. Item, fiorentini danno Pisa al concilio, il papa l’à ’uto molto a mal et dicunt, xé stà perlongà a chalende di novembrio dito concilio …

E mentre ancora il protonotario stava scrivendo, il segretario di sier Hironimo Donado bussò discretamente alla posta. “Zelenza. Domino Cajtan dei Conti di Thiene è appena giunto”, comunicò Lorenzo Trivixan sottovoce al suo superiore, che a sua volta scoccò un’occhiata significativa al cardinal Grimani. “Pulito. Conducilo qui. È solo?”

“Peggio d’un cane.”

“L’ha seguito qualcuno?”

“Nessuno, zelenza, ci siamo ben accertati di questo.”

Sier Hironimo espresse la sua soddisfazione, congedando il segretario che scese nell’atrio del Palazzo per far salire il nuovo arrivato.

“Domino Cajtan?”, reclinò il capo il protonotario Nicolò Lipomano, intrigato nel sentir nominato il proprio collega. “Siete riuscito a persuaderlo ad unirsi alla nostra causa?”, domandò leggermente incredulo, non appartenendo infatti il Thiene allo storico patriziato veneziano, la sua famiglia ammessa soltanto in seguito all’annessione di Vicenza alla Serenissima.

L’ambasciatore sier Hironimo negò, arricciando tuttavia furbescamente gli angoli della bocca. “L’ho convinto a porgere i suoi saluti ai reverendissimi domini Domenego e Marco, i quali, gli ho confidato, si sono dimostrati assai volonterosi d’aiutarlo a finanziare le sue opere di carità”, ed ignorando gli sbuffi sarcastici dei diretti interessati per una scusa sì debole, egli continuò: “Sì, sì, sembra banale ma corrisponde al vero: del resto, fonti attendibili mi hanno rivelato che i suoi benefici parrocchiali a Malo e a Bressanvido non gli rendono molto e come potrebbero con la guerra in corso, che ha devastato l’intero agro vicentino? Verrà dunque alla prospettiva di danaro e sarà lì che i reverendissimi cardinali termineranno la mia opera di persuasione. Alla fine, domino Cajtan rimane comunque un uomo di chiesa e ben può schermarsi dietro la religione per rifiutarci il suo aiuto. Voialtri, reverendissimi” ed indicò Grimani e Corner, “siete i soli qui che possono parlargli alla pari.”

I due porporati si scambiarono un’occhiata connivente, gradendo assai il piano del “dalle Rose”.

Lorenzo Trivixan ricomparve poco dopo, camminandogli appresso il protonotario apostolico il quale, dopo le introduzioni ufficiali, s’inginocchiò dinanzi al cardinale Grimani prima e poi al Corner, baciandoli l’anello. 

Cajtan da Thiene era giunto neppure quattro anni addietro a Roma, soggiornando nel palazzo poco distante dalla chiesa di San Simeone ai Coronari ch’apparteneva a domino Giovanni Battista Pallavicino vescovo di Cavaillon, suo esatto coetaneo e nipote del fu cardinale domino Antonio Pallavicino Gentile. Di trentun anni, dalle belle maniere e di pronta intelligenza, Cajtan aveva da ragazzo conseguito a Padova la laurea in utroque iure, scegliendo in seguito contro il parere di sua madre domina Maria da Porto la via del sacerdozio, avendo infatti perduto il giovane, oltre a suo padre il conte Gaspare da Thiene, anche due fratelli e la contessa vedova temeva di conseguenza l’estinzione del ramo diretto del casato. Né le lacrime né le giuste obiezioni materne avevano smosso la determinazione del figlio, il quale aveva ugualmente ricevuto la tonsura dal vescovo di Vicenza domino Piero Dandolo e anzi, a prova della serietà della sua vocazione, a sue spese aveva promosso l’edificazione della chiesa di Santa Maria Maddalena nella tenuta comitale di Rampazzo.

Spinto però dall’energica sete d’esperienze tipiche della gioventù, il Thiene s’era trasferito a Roma e dal Papa Giulio II aveva ottenuto l'incarico di scrittore delle lettere apostoliche, entrando a far parte della sua cerchia personale. Il pontefice, compiaciuto dalla serietà e dedizione del giovane, lo aveva inoltre beneficiato delle chiese di Santa Maria di Malo e di Santa Maria di Bressanvido e a livello personale sempre l’aveva lodato e stimato, appellandolo in pubblico spesso “figlio diletto” e “nostro familiare”. Ed in effetti, aveva appurato sier Hironimo Donado, v’era qualcosa di estremamente limpido nel volto di Cajtan, una freschezza non ancora deturpata dal cinismo ed arrivismo ch’infettava l’animo di ogni componente della Curia Romana. Un giovane di buona volontà, seriamente convinto della propria missione religiosa e determinato nei suoi obiettivi, ma pronto tuttavia a conseguirli onestamente, senza inganni.

Un infiltrato perfetto -  aveva concluso l’ambasciatore, iniziando pian pianino ad avvicinarlo e lavorarselo - l’ultima persona di cui Giulio II avrebbe mai sospettato.

“Carissimo”, pose una mano domino Domenego sul capo del Thiene a mo’ di benedizione. “La vostra visita ci rallegra immensamente. Prego, sedetevi. Avete già colazionato?”

“Vi ringrazio”, prese posto Cajtan da Thiene, sorridendogli, “non necessito di nulla.”

“Suvvia, permettetemi d’adempiere ai miei doveri di padrone di casa. Volete forse ledere la mia reputazione?”, lo rimbrottò giocosamente il Grimani, al che il chierico cedette, richiedendo soltanto un bicchier d’acqua. “No, no. Almeno un biscotto. Li riconoscete?”, inquisì l’uomo, mentre gli porgeva il vassoio d’argento e non gli sfuggì il luccichio nostalgico negli occhi del Thiene, alla vista di quei dolci tipici della sua madrepatria.

“Ancora grazie”, si servì titubante Cajtan di un biscotto, rigirandolo un poco imbarazzato tra le dita. Onde metterlo a suo agio, il porporato offrì il vassoio a domino Marco, che si servì e poi lo passò a domino Nicolò e questi a sier Hironimo, il quale lo cedette per ultimo al suo segretario.

“Non è di vostro gradimento?”, s’informò sornione il cardinal Domenego, notando l’esitazione del vicentino a mordere il biscotto, ch’aveva anzi timidamente appoggiato sul tavolo, mentre gli altri commensali o l’avevano già finito o erano in pieno processo di degustazione. E dinanzi all’espressione colpevole del Thiene, sospirò: “Già. Vedo che vi siete ben abituato agli usi e costumi di questa città. Anche il reverendissimo cardinal domino Zuanne Michiel – a chi Dio perdoni! – m’aveva spiegato, vent’anni fa al mio arrivo da Venezia, quanto l’ospitalità romana potesse rivelarsi agli incauti piuttosto … velenosa”, lasciò ad intendere, spezzando a metà il suo biscotto come l’Ostia benedetta. Ne addentò enfaticamente un pezzo, cedendo il secondo al protonotario apostolico, che stavolta accettò docile. “Eppure voi ben sapete, domino Cajtan, come non sia nostra usanza uccidere di nascosto sia i nemici sia i traditori. Lo facciamo alla luce del sole, anche se ciò significa suscitare l’altrui sdegno.”

Dinanzi a quel velato rimbrotto, il Thiene arrossì, sbatté le palpebre, prese un piccolo morso del dolce a mo’ di scusa, s’impappinò nel tentativo di giustificarsi. “Io … mi dispiace, non è che dubitassi … Io … ecco … in questi giorni sto offrendo i miei digiuni e le mie preghiere a Missier Domeneddio e alla Madonna, in suffragio delle anime dei miei conterranei, vittime di questa guerra …”, mormorò a disagio, masticando un altro pezzettino di biscotto.

“Ciò vi rende onore”, asserì ieratico domino Domenego, socchiudendo un poco gli occhi. “Pregate. Pregate con fervore per quegli infelici. Pregate per i morti quanto per i vivi, domino Cajtan. Pregate per quegli uomini trucidati per la loro lealtà a San Marco; pregate per quelle donne vergognate, indifferentemente dall’età e dalla condizione, esibite a seni nudi alle lerce voglie del nemico. Pregate per i neonati infilzati nelle loro culle, pregate per i bambini torturati ed uccisi o deportati come schiavi in Alemagna. Pregate, domino Cajtan, pregate per quei piccini morti senza battesimo, soffocati nel sangue del grembo materno violato dal ferro e dalla foia del vincitore, piccole anime innocenti destinate al Limbo eterno, che mai contempleranno la gloria di Cristo! Pregate per coloro cui è stata negata una sepoltura da cristiani, gettati in pasto ai cani! Pregate, sì, pregate per questa Rachele che piange i propri figli e che non vuol esser consolata, poiché essi non sono più!”, elencò impietoso l’uomo le crudeltà perpetuate dai Collegati ai danni della popolazione veneta negli ultimi due anni ed appresa dalle missive degli ambasciatori.

Ad ogni atrocità, le spalle di Cajtan s’abbassavano ed egli stesso sussultava, neanche equivalesse ad una frustata alla schiena. Deglutì a fatica, sbattendo le ciglia già inumiditesi di lacrime. “Che altro volete ch’io faccia?”, domandò infine dopo un lungo silenzio, fissando il porporato in un misto tra rassegnato e speranzoso, avendo infatti colto la velata critica in quel discorso. “Non sono un uomo d’arme, altro modo non ho per sostenere la mia gente se non tramite la preghiera …”

“E le opere di carità?”, s’inserì nel discorso Marco Corner. “E’ cosa notanda di come voi usiate i benefici parrocchiali e aspettative per finanziare opere di carità in soccorso dei derelitti, ammalati e convertite qui a Roma …”

“An, riguardo a quello …”

“Di questo appunto vi volevamo parlare. Di danaro e della sua gestione”, interruppe il cardinale Grimani la spiegazione di Cajtan. “Noi siamo più che disponibili a contribuire in pie donazioni, però al contempo vogliamo garanzie di buon uso. Altrimenti, sterco del diavolo rimane.”

Il chierico vicentino fissò interdetto i due porporati e le loro espressioni severe; dopodiché spostò lo sguardo verso gli altri astanti, avvertendo una sgradevole sensazione nelle viscere, parendogli quasi di trovarsi dinanzi ad un tribunale. “Non capisco …”, asserì lentamente. “Dove … dove sarebbe il male nelle mie opere? Si tratta comunque di persone che necessitano d’aiuto …”

“E la vostra gente no?”, obiettò secco il Corner. “Le vostre entrate provengono da parrocchie vicentine, domino Cajtan. Le quali sono al momento occupate da truppe straniere, così come i vostri parrocchiani sono continuamente perseguitati, torturati, uccisi, vergognati! Il denaro che voi usate per rimpinguare questi parassiti romani è macchiato del loro sangue!”

“Nostro Signore ci ha comandato di soccorrere il nostro prossimo, senza badare alla sua nazione e bandiera … Egli si trova in chiunque abbia bisogno d’aiuto”, difese testardo il Thiene le sue posizioni, sebbene sier Hironimo avesse afferrato un leggero nervosismo in lui, dal modo in cui tamburellava le dita sullo sgabello.

Era inquieto, agitato dalle parole dei due cardinali, i quali gli stavano offrendo una prospettiva che il trentunenne o ignorava o di cui non s’era curato finora d’apprendere.

“E il vostro prossimo”, inquisì l’ambasciatore, “non è anche la vostra gente, domino Cajtan? Come potete dormire tranquillo la notte, sapendo che mentre i vostri conterranei soffrono e muoiono, voi sanate e sfamate proprio coloro che hanno voluto la loro rovina?”

“Si tratta soltanto di derelitti ed ammalati …”

“… che potrebbero un giorno arruolarsi nell’esercito”, concluse per lui la frase sier Hironimo. “Sicché ogni uomo ucciso, ogni donna sforzata e ogni puto degolato o rapito peserà sulla vostra coscienza. Perché in Italia, la riconoscenza ha la memoria corta. Credete forse che coloro che avete beneficiato, mostreranno altrettanta clemenza nei confronti della vostra gente? Neanche si ricorderanno del vostro nome, nella frenesia del saccheggio.”

Al che, spazientito e col groppo in gola, il protonotario vicentino balzò in piedi. “Per questo motivo sono stato qui invitato? Per ricevere rimproveri sul mio operato?”

“Al contrario”, replicò placido il cardinal Domenego. “Noi v’ammiriamo per la vostra dedizione. Soltanto … che la troviamo implementata nella direzione sbagliata.”

“Mi state suggerendo di rimpatriare a Vicenza?”

“Non oseremmo chiedervi tale sacrificio, mettendo inutilmente a repentaglio la vostra vita”, l’assicurò su quel punto Grimani. “Tuttavia, pur restando qui a Roma, lo stesso voi potrete aiutare i vostri conterranei.”

“E non solo con preghiere”, puntualizzò Marco Corner. “Ma con opere concrete.”

Cajtan si risedette, ascoltando attento e un poco apprensivo dinanzi a tanta apparente vaghezza.

“Sua Celsitudine vi stima moltissimo”, esordì cauto il cardinal Domenego, “al punto d’avervi incluso nella sua famiglia” e lo guardò significativamente.

“Apprezza il mio lavoro, sì”, confermò il Thiene, confuso.

“Non mettiamo in dubbio, che vi siate guadagnato onestamente la sua fiducia”, chiarì subito il Corner, fugando ogni allusione a doppio senso. “E la sua grande e disinteressata considerazione nei vostri confronti, non è un privilegio da poco qui a Roma.”

“Immagino di sì”, mormorò Cajtan, irrigidendosi poiché incominciava a capire dove i porporati e gli altri suoi conterranei lo stavano pian pianino conducendo.

“In questi momenti d’incertezza sulla sua salute e sulla stessa stabilità del suo potere, Sua Celsitudine non desidera ricevere nessuno, tranne i suoi familiari e di chi si fida ciecamente”, proseguì il Grimani. “Voi incluso.”

“Gli scrivo soltanto le lettere”, si schermì il Thiene. “Non … non siamo in confidenza.”

“Davvero?”, gli domandò sornione il cardinal Domenego. “Mentire è peccato, figliolo.”

“A voi o al Papa?”, ribatté Cajtan, stringendo la bocca in una linea dura. “A chi dovrei mentire?”

“A nessuno”, fece lo gnorri domino Marco.

Il protonotario batté snervato il pugno sulla coscia. “Voi mi state chiedendo di divenire la vostra … la vostra spia”, verbalizzò alla fine i suoi sospetti, ponendo fine a quello stillicidio e obbligando così i presenti a scoprire una volta per tutte le proprie carte e a parlare a viso aperto. “Mi state chiedendo di sfruttare la benevolenza del Papa, per i vostri scopi!”, li accusò sdegnato.

“E se ciò fosse?”, ritorse altrettanto aggressivo domino Nicolò Lipomano. “Vogliamo la salvezza della nostra patria, lo giudicate forse un crimine?”

“Voi avete guadagnato molta più reputazione di me presso Sua Celsitudine!”, rimarcò Cajtan. “Io … io non valgo nulla a confronto! Non sono un politico, in che modo potrei manipolare uno come … come il Papa?”, sbottò esasperato.

“Voi ci riferirete ogni parola del pontefice e voi gli riferirete ogni nostra parola”, gli semplificò la questione l’ambasciatore sier Hironimo. 

“Se n’accorgerà, figurarsi! Mica è nato ieri!”

“Avete studiato giurisprudenza, domino Cajtan, rigirare le parole a vostra convenienza non dovrebbe risultarvi complicato”, non si lasciò commuovere il Donado.

“Avete ricevuto la tonsura, è vero, e dovete lealtà a Cristo e alla Sua Santa Chiesa”, gli concesse più benevolo il cardinal Corner. “Ma siete anche veneto e dovete lealtà alla madre che vi ha generato. Ora questa madre è violentata, umiliata, saccheggiata e le persone che vi hanno nutrito ed allevato disperse, angariate, uccise. Volete voi prolungare il loro martirio? Chi state servendo in realtà? È il vostro orgoglio che vi impedisce di aiutare la vostra madrepatria? O la vostra ambizione?”

“No!”, negò veemente Cajtan, scotendo il capo. “Non è questo! È che mi pare disonesto ripagare la fiducia concessami dal Papa, tramando alle sue spalle! È pur sempre il vicario di Cristo e …”

“… e bestemmia, sodomizza e va di persona alla guerra. In quale aspetto è più santo degli altri cristiani?”

Il Thiene aprì la bocca e boccheggiò qualcosa alla stregua d’un pesce fuor d’acqua, incapace di giustificare l’atteggiamento poco consono di Giulio II alla carica ricoperta. “Il suo essere un peccatore non condona il mio abbassarsi al suo livello”, sentenziò infine. “Soltanto perché lui pecca, non significa che debba farlo anch’io.”

“An, così soccorrere la vostra madrepatria equivale a peccare? Ignoravo questa novità”, asserì implacabile il cardinal Grimani, la fronte aggrottata e un’espressione arcigna in volto, che non suscitava molte speranze di clemenza da parte sua. “Non soltanto si pecca in parole e opere, domino Cajtan, ma anche in omissioni. E voi, ch’avete la possibilità d’aiutarci a vincere questa guerra, vi rifiutate di prender partito e di dare il vostro contributo!”

“Avete preso i voti per vivere senza infamia e senza lode?”, infierì Marco Corner.

“O forse la vostra decisione già l’avete presa e dobbiamo considerarvi nostro nemico?”, insinuò malevolo sier Hironimo.

“No! No, non vi sono nemico!”, protestò scioccato il Thiene. “Non ho mai rinnegato le mie origini!”

“Lo state facendo ora!”, appurò al contrario domino Nicolò Lipomano. “Come tutti i codardi traditori, ora che Veniexia è morente, voi le voltate le spalle!”

“Ma io … non è vero! Non … è che non posso e non voglio né mentire né congiurare, io … io non ho preso i voti per interessi personali o … o per perseguire il male, io …”

“Voi siete figlio d’un conte”, gli ricordò sier Hironimo, “e se proprio non ve ne cale un fico secco della Repubblica e dei suoi cittadini, almanco degli abitanti delle vostre terre dovrebbe importarvene! Dei loro paesi messi a ferro a fuoco! Dei fiumi tinti del loro sangue! Delle stragi, delle morti perpetuate dal furore gallico e teutonico, che non conosce pietà e che giorno dopo giorno si abbatte su povera gente inerme! E invece no, per amor della vostra presunta correttezza anche loro avete abbandonato! E per che cosa? Per chi? Degli accattoni romani, bravi solo a mangiare a sbafo e a grattarsi la panza, senza curarsi di lavorare per vivere? Per un vecchio porco che palpeggia i ragazzini? Per un bordello chiamata Basilica di Sen Piero? Per una cloaca fetente appellata Roma?”

“Conobbi bene vostro padre, il conte Gaspare”, scosse il capo deluso domino Domenego. “Un valent’uomo devoto alla Signoria, pronto al sacrificio per i suoi. A vedere la vostra pavidità si vergognerebbe al punto da maledirvi: costui non è un Thiene, non è figlio di conti veneti: costui del Papa e di Roma è lo schiavo!”, e gli puntò l’indice contro, le sue parole più affilate e dure di una spada di Toledo, che penetrarono nel cuore del chierico vicentino, ammutolendolo.

Alla menzione del padre, la cui venerata memoria Cajtan serbava in cuore, avendolo perduto appena dodicenne e pertanto amandolo al pari d’un beato, egli si sentì morire al solo pensiero che il fu conte Gaspare da Thiene potesse biasimarlo e disconoscerlo dall’oltretomba. L’uomo s’accasciò su se stesso, il capo chino, dilaniato dall’amore cristiano che significava anche pregare per il nemico e la mai sopita fierezza d’appartenere alla Serenissima. Si era sempre considerato troppo insignificante per poter cambiare le sorti della madrepatria, o forse aveva intimamente sperato di non rimanerne coinvolto? Dopotutto, per amor di Cristo aveva rinunciato al mondo, ma esso ora lo chiamava a gran voce, le ombre degli estinti suoi conterranei gridavano giustizia e protezione verso i loro cari sopravvissuti alle angherie dello straniero. Che fare? Zittirle? Rimanere neutrale? Compromettersi per un bene superiore? Davvero tutto sulla terra era vanità? Oppure v’erano dei principi eterni e incontestabili?

“Figlio mio”, gli pose il cardinal Grimani una mano sulla spalla, provocando un lieve sobbalzo nel Thiene, non essendosi reso conto di come il porporato si fosse nel frattanto alzato. “La nostra gente non sta morendo per la fede, per mano d’infedeli a testimonianza del Verbo incarnato. Muore per mano di vili peccatori, per la loro invidia e cupidigia. Preservare i nostri compatrioti dalla morte non macchierà la vostra anima, semmai l’esalterà per la pena che tale scelta le ha inflitto.”

“Avete ragione: tanta doppiezza già per me corrisponde ad uno strazio.”

“Equivalga dunque esso alla vostra penitenza. Non temete, fio mio: Dio capirà il vostro sacrificio e vi perdonerà.”

“Prego sia così, reverendissimo domino, prego ardentemente sia così”, si coprì Cajtan il volto tra le mani, arrendendosi però alle richieste dei suoi conterranei.

 

 

***

 

 

A seguito della visita del cerusico, Leka Busicchio e Zilio Madalo si davano il turno, pur con discrezione, di controllare con maggior frequenza le condizioni di salute del loro capitano e siccome quest’ultimo non poteva protestare, contro i suoi illogici ordini il collega aveva imposto almeno allo scudiero di portare seco la branda e di vegliare in tenda Mercurio, sicché Hironimo e Thomà si videro costretti a rimandare a tempi più tranquilli ogni loro tentativo di liberarsi dai ceppi.

“Sdrissa chea man! No te sè drio arar el campo, ti!”

“A me fan male le dita, patron!”

“Made!”

Pertanto, impossibilitati a dormire a causa di quel costante andirivieni, nonché dai mugugni di Mercurio Bua – oltre che ad agitarsi, adesso pure parlava nel sonno -  i due prigionieri avevano deciso d’impiegare il tempo come potevano e al giovane Miani era balzata in mente l’idea d’insegnare a leggere e a scrivere a Thomà, così da distrarlo dallo stomaco gorgogliante. Il terreno fangoso sotto le stuoie bombe d’acqua si presentava ideale, essendo il limo penetrato ormai ovunque e restituendo anche qualche bastoncino e foglia, credutisi seppelliti dopo averlo battuto per erigervi sopra la tenda. Che importava se sporcavano o, scostando le stuoie decisamente consunte, facevano pervenire l’umidità? Al primo cenno d’attività esterna o interna, si copriva tutto in fretta e furia e d’altronde il padiglione intero, imbevuto da mesi e mesi di pioggia, puzzava di terra e acqua rafferma. La paglia stessa su cui i due prigionieri sedevano, non avendola ancora nessuno cambiata, si presentava anch’essa bagnata, maleodorante e lercia, come incrostate apparivano le loro gambe nude e l’orlo mai asciutto delle rispettive camice.

Così, trascritte le lettere dell’alfabeto, Hironimo aveva ceduto la penna improvvisata al fantolino che malgrado le ore e ore di pratica, ancora s’ostinava d’impugnare il bastoncino dritto nel pugno, invece di inclinarlo limitandosi ad usare le prime tre dita. E mica ci credeva il patrizio trattarsi di stanchezza, anche quando Thomà scrollava la mano con fare tragico, bensì di vera e propria pigrizia da parte sua ché appena rimbeccato, infatti, subito il piccino correggeva la postura e scriveva da cristiano.

“Hai finito di scrivere il tuo nome?”

“Siorsì”, annunciò fiero il bambino e, puntando il dito sporco su cadauna lettera, lesse con esasperante lentezza: “TO-MM-A DI VIET-OR MA-RAN-CON.” Si girò verso Hironimo in speranzosa attesa.

Scorrendo la punta del bastoncino sulla grafia sgangheratissima, il giovane gli indicò laddove il fantolino aveva toppato. “Uhm, allora, qui ci andrebbe la h”, sottolineò, “e l’accento sopra la a. Così. Poi tu dici di chiamarti Thomà, quindi ci va una m de manco. Riscrivi sotto … No! Non cancellare, altrimenti non ti ricordi!” Un fugace sorriso gli illuminò il volto stanco, ripensando alle sue prime scaramucce con la scrittura nonché alle ben più severe punizioni del suo magister, quando messo dinanzi ad errori sì grossolani.

Piegandosi quasi a metà, Thomà riscrisse il suo nome, mormorandolo a mezza voce durante il processo, come se se lo stesse dettando.

“Il nome del tuo sior Pare?”, continuò Hironimo.

“Gera Vetor, chome l’on dil do sancti patroni de Feltre! [6] Anca el sior Pare d’Andrea Trepin se ciamava Vitor!”

“E tu come l’hai scritto?”

Thomà arricciò il naso, leggendo parecchie volte a fior di labbra lo scarabocchio sul fango. Quand’ecco, l’illuminazione. “Oh, la perdonança, patron! Sença la i !”, esclamò, mettendosi subito a correggere. Volendo strafare onde dimostrare la sua diligenza, anticipò Hironimo soggiungendo: “E la g - chea durra -  al posto di la c, m-a-r-a-n-g-o-n!”

Il patrizio annuì compiaciuto. “Ultima cosa: non va bene il di bensì devi usare il quondam riferito a Vetor”, e pronunciò con molto tatto quella parola, specie dopo aver conosciuto l’orrida fine del padre di Thomà e della sua famiglia.

“Che vorave dir cuo-n-diam?”, si grattò invece la testa il fantolino, confuso.

Quondam significa fo” - ché el sior tòo pare nol xélo pì in vida, avrebbe voluto Hironimo aggiungere, ma per delicatezza tacque.

“Che lengua xelà, patron?”

“Latino. Come fai a non riconoscerla? Quando preghi, non reciti Pater Noster e Ave Maria? Ecco, quello è il latino. Varda, così compare il tuo nome negli atti ufficiali: Thomas q. Victoris fabri filius”, scrisse, la differenza di grafia un pugno nell’occhio, lasciando a bocca aperta il fantolino che, affascinato, la calcò con l’unghia sporca e azzardò di leggerla, meditando sul suono bizzarro prodotto, così diverso dalla lingua che parlava quotidianamente.

Poi riprendendosi dal suo stupore: “La siora mea Nona, no me gh’ha mai insegnà el latin, manco per orar. Depo’ perché mi gh’ho da orar en ‘na lengua, che mi nol capisso ni cognosso se no a memoria? A me par falso. Mi a la Madona ghe parlo pulito en veneto de Feltre, perché aliter mi no sapria dirgheLe le cosse che vojo.”

“Lei già conosce ciò di cui hai bisogno, prima ancora che glielo domandi. Come disse Dante: La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fïate liberamente al dimandar precorre …”, quand’ecco un brivido, mentre recitava quel verso, gli attraversò l’intera lunghezza della schiena, risalendo fino alla radice dei capelli e inspiegabilmente Hironimo si sentì bruciare gli occhi, quasi gli fosse sorto in petto una gran voglia di piangere.

Bizzarro, bizzarro invero che dopo quindici anni di totale aridità e disinteresse spirituale, proprio ora quelle poche letture di tema religioso gli stessero riaffiorando alla mente, turbandolo e punzecchiandolo come il puttino col cadavere di una medusa arenatasi sulla spiaggia.

“Patron?”

Hironimo sbatté le palpebre, arrossendo lievemente per quell’attimo di debolezza. “Dime.”

“Ma ‘sto Dante, l’gera amigo vuostro? Lo gh’avé senpre en bocha.”

Le labbra del giovane Miani si piegarono in una buffa smorfia e Thomà, vendendolo allungare il braccio e paventando l’ennesimo scappellotto, prontamente serrò gli occhi e si preparò all’impatto, sennonché la mano viaggiò oltre la nuca, cingendogli le spalle e trascinandolo contro il petto del più anziano. “Co’ te impari a menadèo l’abezedé  mi te parlarò di Dante.”

Thomà gli mostrò la fila di denti, entusiasta all’idea di conoscere l’amico del suo patron, anche se capiva soltanto la metà delle sue citazioni. Un foresto, sicuramente. S’apprestò quindi a far promettere ad Hironimo, quand’ecco che lo scudiero di Mercurio si pose in piedi, avvertendo l’appropinquarsi di passi al padiglione. Velocemente, i due prigionieri risistemarono la stuoia, nascondendo il tutto ché gli stradioti non misinterpretassero, credendolo un piano di fuga o diosacché di losco.

“Come sta, Niko?”, s’informò subito Leka Busicchio. “S’è agitato molto?”

Lo scudiero annuì. “Solo verso le prime luci dell’alba ha smesso sia di rigirarsi simil diavol nell’acqua santa, sia di parlare nel sonno.”

Leka osservò a lungo la pelle tirata e cinerea del suo collega, le ciglia appoggiate su profonde occhiaie. “E quei due?”, indicò col capo Hironimo e Thomà, divenuti più inespressivi di statue di pietra.

“Immobili al loro posto, sebbene …”

“Cosa?”

“Forse mi sbaglio, però li ho sentiti confabulare ogniqualvolta voi e Zilio uscivate dalla tenda.”

“E tu non sei mai andato a controllare?”, soffiò pericoloso Leka, fissando in cagnesco lo scudiero e torreggiandolo minacciosamente.

“Mi avevate ordinato di vegliare sul capitano ed io questo ho fatto”, si difese il ragazzo, sudando freddo. “Eppoi, dove volete che fuggano, specie il nobiluomo ch’è legato al polso del capitano!”

Busicchio schioccò la lingua pieno di disprezzo, portandosi davanti a Miani, che ricambiò lo sguardo diffidente di lui con un vezzoso reclinare del capo.

“Così ti piace chiacchierare di notte, al posto di dormire, eh?”, esordì il capitano con velenosa ironia. “Di’ un po’, perché non ci rendi partecipi?”

“Ah, ed io anche te le riferisco?”, gli rispose invece Hironimo con magnanima sufficienza. “Ignoravo voi stradioti foste delle tali pettegole!”

Leka grugnì beffardo, accucciandosi all’altezza del patrizio e, fissandolo dritto negli occhi, sibilò: “Al tuo posto, non mi darei tante arie né tirerei la corda, atteggiandomi dal re degli smargiassi. Tu non sei che un ostaggio, anzi, il più inutile degli ostaggi poiché dopo quattordici giorni, ancora nessuna proposta di riscatto né di scambio. Coi due capitani bellunesi, al contrario, abbiamo incassato in neanche due giorni. Silenzio totale dalla Signoria tua. Forse, ai suoi occhi non vali quanto credi. O forse, ha la memoria corta. Magari”, e lentamente estrasse dalla fodera il pugnale, “magari se le spedissimo un tuo dito o un orecchio, forse gliela rinfrescheremmo …”, sogghignò ed Hironimo, pur con la lama a qualche pollice dalla guancia, ricambiò mostrandogli ferino i denti, deciso a non lasciarsi intimidire pur terrorizzato all’idea di quella barbara mutilazione.

“Tagliagli anche un solo capello e alla Signoria spedisco la tua, di testa.”

Hironimo avvertì sopra la sua spalla il gelo di una spada rivolta contro Busicchio che, rialzandosi, optò per rinfoderare il pugnale. “Non ti scaldare, Maurikos, stavo scherzando”, si giustificò ridacchiando. “Noto con piacere come la febbre non t’abbia privato della sua solita prudenza di dormire armato …”

Stringendo l’elsa e digrignando i denti, il greco-albanese berciò al collega: “Ancora malakas non l’ho scritto sulla fronte. Costui”, e il patrizio avvertì il pizzicore della lama sul collo, “sa bene quale ben triste fine l’attende, in caso volesse fregarmi.”

“D’accordo. Tuttavia, dormirei sonni più tranquilli se tu richiamassi in tenda almeno i tuoi famigli”, negoziò Leka. “E non dico perché dubiti della tua capacità di difenderti da questo qua, bensì per la febbre la quale … la quale ne sta falciando perfino ora che stiamo parlando”, sospirò, passandosi una mano sulla fronte. “Negli ultimi giorni non si fa che seppellire morti, ché o si crepa di febbre o impiccati per aver tentato di attraversare la Piave. Si viene alle mani per un tozzo di pane … In ogni modo, il cerusico è stato chiaro: dobbiamo controllare che …”

“Conosco bene, ciò che state aspettando ch’appaia sul mio corpo. San Giorgio sia laudato, tuttora la morte mi schifa”, grugnì affaticato il condottiero, riponendo via l’arma e puntellandosi sui gomiti, intanto che lo scudiero gli sistemava i cuscini dietro la schiena. “Peccato che non ci siano più le epidemie di una volta, m’avrebbe giovato assai gettar terra sopra a qualcheduno dei nostro colleghi comandanti”, mormorò spassionatamente, lanciando un’occhiata significativa a Busicchio. “Quali nuove del maresciallo? Arrivano o no, questi tanto favoleggiati cannoni ferraresi o ci hanno promesso l’araba fenice?”

Lo stradiota prese posto accanto a lui, totalmente dimentico della sua questione con Hironimo. “La Palice dovrebbe giungere o oggi o domani. O anche dopodomani, chissà”, bisbigliò sottovoce. “Purtroppo, stando ad un suo emissario, il fango ha rallentato di molto lo spostamento dell’artiglierie ed i fiumi sono così ingrossati, da impossibilitarne l’attraversamento. Anzi, a Liziera presso Cittadella ne hanno perso uno, cascato come un pero giù in acqua.”

Mercurio mordicchiò pensoso l’unghia del pollice. “Dunque ripiegherà su Bassano e tenterà di passare per il suo ponte”, concluse.

“Sarebbe la scelta più saggia.”

“Saggia? Non ne possiede altre”, contraddisse Mercurio il suo collega. “Cittadella si trova nel raggio d’azione di Padova ergo del provveditore Federico Contarini e delle sue bande. Se La Palice è lì impantanato e non riesce ad attraversare il fiume, per forza dovrà dirigersi a Bassano ch’è più lontana e in apparenza più sicura. Nondimeno, ci scommetto i miei speroni d’oro che i Veneziani qualcosa lì combineranno pur d’intralciarlo. Un dirottamento troppo ovvio da passare inosservato. ”

Leka allargò fatalista le braccia, sconfitto dall’inconfutabile logica del conterraneo.

“Piuttosto, non hai qualcosa di meglio per colazione? Se non la febbre m’ammazza questo pane schifoso, talmente nero che pare l’abbiano bruciato!”, si lagnò Mercurio, cui i giorni di digiuno forzato avevano stimolato un certo appetito.

“Questo passa al convento; da Noale e da Castelfranco arriva sempre meno farina macinata e i saccomanni, colpa lo zelo dei nostri parenti marcheschi, non osano addentrarsi troppo nella Marca, temendo di finire loro prigionieri. Abbiamo inviato una richiesta d’approvvigionamenti sia a Giovanni Gonzaga che ai Conti di Collalto, solo quest’ultimi ci hanno inviato quanto necessario.”

“Tzé, il nostro pane se lo sarà sicuramente mangiato tutto quella grassa giovenca della Marchesana di Mantova”,commentò sardonico Mercurio, annusando accigliato la pagnotta. “Ora come ora, mi domando chi sia veramente l’assediato, qui, se noi o i Veneziani.”

“Quando rientrerà La Palice, questo stallo si sbloccherà di certo. Jean d’Aubigny s’è definitivamente installato a Cividal di Belluno: come avevi previsto, quei furbi di bellunesi hanno dichiarato neutralità e pertanto evitato di pagare il riscatto di 4000 ducati!”

“Maggior ragione per i Tedeschi per disertare in massa verso il Friuli.”

Leka incrociò le braccia al petto. “In tutta onestà, avrebbe senso: è strategico  - pensa soltanto a Gradisca! - e n’avremo in abbondanza per l’inverno. Perché non attaccarlo? E’ indifeso ora, fiaccato dalla rivolta popolare, dal terremoto e dalla pestilenza. In questo modo apriremo un altro fronte per i Veneziani, indebolendoli ulteriormente.”

“Ah beh”, soffiò il Bua, abbandonando disgustato ogni tentativo d’addentare quel pane poco allettante. “Già piango i Tedeschi che invaderanno le terre di Girolamo Savorgnan del Monte e di suo cugino Antonio Savorgnan.”

“E chi soni costoro?”

Il condottiero piegò la bocca in una smorfia complice. “L’incubo di Massimiliano.”

Una nobile famiglia friulana di frontiera, guerriera e ostinata. Mercurio aveva conosciuto personalmente Jacopo Savorgnan a Fornovo, Novara e San Regolo (un diavolo a cavallo!) e non dubitava dei racconti di come Hironimo Savorgnan suo parente avesse fermato con un contingente di cernide [7] l’avanzata delle truppe di Maximilian in Cadore nel 1508, permettendo a Bortolo d’Alviano di tagliar la strada ai tedeschi e di massacrarli nella battaglia di Tai di Cadore in pieno inverno e con la neve alta fino alle ginocchia. Tale era stato lo sdegno della Serenissima per quell’ingiustificata invasione e razzia dei suoi territori da parte dell’Imperatore, da non mostrare alcuna pietà, passando a fil di spada i soldati tedeschi arresisi e invocanti misericordia e coloro che riuscirono a sfuggire ai marciani e agli stradioti, perirono ugualmente per mano della popolazione cadorina, arrabbiata al limite per le ruberie dei tedeschi che li avevano privati delle scorte destinate ai lunghi mesi invernali. Quel giorno le Dolomiti s’erano tinte di rosso e non per l’Enrosadira.

Da quanto Mercurio aveva appreso, Hironimo Savorgnan era stato nominato senatore soprannumerario dalla Signoria, fatto straordinario poiché non appartenente al patriziato veneziano, per ricompensarlo delle sconfitte inflitte a Maximilian sui confini orientali della Repubblica. Inoltre, il condottiero aveva saputo anche del cugino d’Hironimo Savorgnan,  Antonio Savorgnan o Antoni il Sassin, che con un trucco degno di Odisseo, aizzando la popolazione udinese credutati assediata dagli imperiali, aveva fatto da essa massacrare la famiglia rivale dei Della Torre, filo-imperiali e capi riferimento degli Strumieri,  il dì del Giovedì Grasso di quello stesso anno. Molti polsi erano tremati ai racconti di come i contadini avessero indossato gli abiti degli aristocratici uccisi per inscenare una macabra mascherata dove ne imitavano i comportamenti, in pieno spirito del “gioco delle parti” del Carnevale. Dalla città di Udine questa rivolta s’era estesa a tutto il Friuli con massacri, stupri e saccheggi ai danni della nobiltà locale - Crudel Joibe Grasse, il Crudele Giovedì Grasso, l’avevano chiamato.

Adesso il clan dei Savorgnan si trovava però isolato e dai sanguinosi disordini interni tra Strumieri e Zamberlani ne erano usciti indeboliti nonché impopolari, rendendoli facile preda, eppure qualcosa suggeriva al Bua che, anche conquistando la Patria del Friuli, finché i Savorgnan fossero rimasti in vita nessun tedesco avrebbe dormito sonni tranquilli. Era cosa notanda, infatti, il loro secolare vassallaggio a San Marco.

“Il tuo pessimismo mi conforta”, arcuò Leka il sopracciglio.

“Difficile rimanere di buonumore, quando sussiste la possibilità di morire inermi di pestilenza. O di fame”, ribatté seccamente Bua. “Se attaccassimo il Friuli, ci allontaneremmo da Treviso, fornendo ai Veneziani tempo e modo di trasformare la Marca in una frontiera invalicabile, intanto che i cugini Savorgnan e le loro bande ci trasformano in spiedini da bivacco, logorandoci in un’infinita guerra di scaramucce e agguati. No, appena La Palice arriva, dobbiamo levare il campo e sforzare la linea fino a giungere sotto le mura di Treviso e lì porre l’assedio.”

“Come?”

“Nervesa. È fondamentale occuparla: la Piavesella è il collegamento con la Piave che ci serve per trasportare fino al Sile le artiglierie.”

“Non avevi previamente affermato come la città fosse inespugnabile?”

“Le sfide mi stuzzicano.”

“Sta bene. Al suo ritorno, cercherò di persuadere il maresciallo a radunare quanto prima tutti i comandanti per discuterne”, si pose in piedi Busicchio, contento di quel piano e del ritrovato vigore nel collega. “Tu però riguardati, senza di te questo assedio non lo vinciamo.”

Mercurio scrollò le spalle in apparente disdegno di quel complimento, ma dal modo in cui arricciò compiaciuto le labbra tradì il suo intimo gradimento.

Uscito Leka dal padiglione, Mercurio si sistemò seduto, contemplando a malincuore la magra colazione. “Niko”, riferì allo scudiero, sollevando con sospetto la fetta di carne affumicata. “Doveste voi tutti pizzicare i tedeschi o i francesi intenti a scambiare i nostri cavalli per prosciutto, avete il mio permesso d’utilizzarli per carne da spezzatino.” Troppo spesso il greco-albanese aveva assistito a simili episodi di soldati talmente affamati e disperati, da macellare i propri cavalli. Piuttosto di mangiarsi lo strumento essenziale del suo lavoro, il Bua avrebbe preferito, nel peggiore dei casi, cambiar committente e al diavolo l’onore.

“M’han detto esser bue, capitano. Quelli presi ai contadini.”

Il pezzo di carne cadde pesantemente sul piatto. “Quelli destinati a trasportare i carri?”

Lo scudiero annuì velocemente, confermando i timori del condottiero: dai buoi ai cavalli la strada era breve, così male versava l’accampamento?  Maledizione, doveva subito conferire con Molard e Gambara, prima abbandonavano Montebelluna prima avrebbero evitato …

L’uomo si passò una mano tra i capelli sudati, inspirando profondamente, la visione sconvolta da repentine vertigini. Un’ora soltanto di veglia e già si sentiva stanco, anelando a riprendere il sonno interrotto. Si sentiva miracolosamente meglio rispetto al giorno precedente, la febbre abbastanza calata da consentirgli una parlata coerente nonostante però egli seguitasse a dormire da cani, la mente piagata da incubi e il corpo rigido dai muscoli intorpiditi.

Per quanto odiasse ammetterlo, Leka aveva ragione, doveva ritemprare il suo corpo e scrollare la stanchezza della malattia dal suo cervello, impedendogli di coordinare azione e volontà. Era convalescente, non guarito. Inoltre, le febbri e la carestia nel campo avrebbero ridimensionato l’ego di quei pomposi aristocratici, riportandoli a più miti consigli e bisognosi di sostegno e in quel frangente Mercurio avrebbe trovato riscatto e autorità, azzerando la sua figuraccia a Treviso in una piccola e perdonabile defaillance.

Confortato da tali pensieri, il Bua congedò lo scudiero mandandolo a chiamare il cerusico e addentò la carne (schifosissima ma s’era nutrito di cibo ben peggiore), interrotto da un inaspettato e rumoroso gorgoglio di stomaco. Si girò e scovata la fonte, l’uomo si lasciò andare ad un perfido sogghigno.

“Come ci si sente”, stuzzicò il suo prigioniero, “ad ascoltare impotenti i piani d’attacco del tuo nemico, conscio di come saranno la rovina della patria tua?”

Hironimo corrugò la fronte ma non proferì alcuna parola né diede segno d’aver proprio ascoltato.

“Ormai dovresti averlo capito, di come la Signoria stia combattendo una guerra perduta in partenza. I suoi nemici sono troppi e ben uniti nel comune odio contro di lei. Ammirevole la sua resistenza di due anni, almeno si scriverà di come la Serenissima sia capitolata con la spada in mano.”

Il giovane Miani s’ostinò a tacere, registrando tuttavia quell’uso singolare della terza personal plurale al posto della prima, quasi il greco-albanese volesse tenersi fuori dalle beghe e invidie ch’avevano condotto al conflitto.

“Scommetto, che ti piacerà molto ritornare allo status di semplice mercante di una città ridotta ad anonima provincia dell’Impero. No?”

Niente, silenzio.

Mercurio reclinò il capo, deluso da quell’indifferenza. “Cos’è? Il gatto t’ha mangiato la lingua? Non ti degni più di parlarmi?”, sbuffò irritato. Afferrata una fetta di carne, con crudele gusto gliela tirò contro, colpendolo in piena faccia e ungendo la pelle già di suo sporca.

Hironimo ingoiò le labbra, le nari dilatate dalla rabbia. Ciononostante, senza dir nulla raccolse la carne, ci soffiò sopra e datole un morso la cedette poi a Thomà, che l’ingollò in un sol boccone.

“A piacer tuo, pescivendola altezzosa. Non parlarmi – non me cale una cippa. Invece, smettila di giocare al buon samaritano e mangia qualcosa. T’ho già detto che da morto non mi servi!”

“Ed io t’ho già detto”, schioccò annoiato la lingua il giovane patrizio, “che se non mangia il bambino, non mangio neanch’io.”

“Tu fai quello che dico io. O proprio quel cervello moscio non afferra la tua situazione?”

“Io so che si comanda ai soldati e alla moglie e, mi pare, io per te non sono né l’uno né l’altro. Sebbene, il mio signor padre spesso affermava come né al vento né alle donne, specie le mogli, si può imporre alcunché.”

Ripensando a Caterina e sentendosi pigliato in castagna, il greco-albanese dichiarò sprezzante: “Tuo padre era un idiota smidollato.”

Gli occhi nerissimi d’Hironimo assunsero una tinta quasi vermiglia da quanto si dilatarono e per un folle istante, Mercurio percepì un inusuale sconquassare di viscere. “An, non insultare mio padre, altrimenti incomincio col tuo. E ne ho di cose interessanti da dire, credimi”, sibilò aspro, il bel volto ridotto ad una grottesca maschera da Gorgone Medusa.

Bua avvertì il sangue ribollirgli a sua volta nelle vene. Di Pietro Bua Spata conservava vaghissimi ricordi, morto infatti quanto il figlio era appena undicenne. Ciononostante, egli era cresciuto imbevendosi dei racconti dei suoi parenti, anelando ad imitarne il coraggio e il prestigio se non proprio di superarlo. “Mio padre era un uomo da bene!”, ringhiò il condottiere, tirando la catena così da far cadere riverso il giovane Miani che, dimentico della precarietà della sua situazione, altrettanto porporino in faccia dallo sdegno gliela tirò di rimando e per poco Mercurio non cascò dal letto, portandosi allo stesso livello del patrizio che gli soffiò contro:

“Il mio anche!”

“Tuo padre era un suicida!”, infierì Mercurio, sovvenendosi all’improvviso di quel tanto chiacchierato episodio e ricollegando nomi e persone. “Si dice che l’abbiano tirato giù alla stregua d’un criminale alla forca!”

“Menzogne da carogna!”, gridò spaventoso Hironimo, tanto che Thomà balzò in piedi, guardando vigile i due contendenti. Mercurio s’irrigidì in difesa pronto a parare il pugno che s’aspettava, che l’intera figura tesa in avanti del veneziano tradiva. Ma non arrivò mai, limitandosi quest’ultimo ad avvicinare il viso al suo e di fissarlo rabbioso. “L’hanno ammazzato per invidia e chi sostiene il contrario è una lurida testa di …”

“Stai zitto, ti fa più onore”, tagliò corto arrogantemente il greco-albanese, risistemandosi sulla branda e fingendo interesse per i contenuti del piatto. Si passò una mano sul collo, massaggiando i muscoli indolenzenti e percependo con preoccupazione il calore sospetto dietro l’umidità della pelle.

Miani all’udire ciò proruppe in una gaia risata di scherno. “Signore e signori, dame e cavalieri, ecco a voi Mercurio Bua Spata l’eterno indeciso, che s’arrabbia se gli parlo e altrettanto s’arrabbia se non gli parlo. Insomma, deciditi una buona volta: cosa vuoi da me?”

Preso di contropiede nella sua evidente contraddizione nonché da quel repentino cambiamento d’umore, il Bua aspirò l’aria frustrato, maledicendo il giorno in cui aveva deciso di non chiedere il riscatto anche per quella tarma antropomorfa, dopo aver riscosso quello dei due capitani bellunesi. “Mangia, non mi scocciare”, intimò al suo prigioniero, lanciandogli un altro pezzo di carne che Hironimo addentò con sospettosa docilità.

“A proposito”, si sovvenne quegli, deglutendo con rumorosa teatralità, gli occhi nerissimi brillanti di sinistra malizia, “quest’è carne di cavallo” e gongolò maligno all’afflosciarsi della bocca dello stradiota, da cui cadde il bolo sul piatto.

“Tu menti per la gola!”, trillò scandalizzato e si nettò celere le labbra col dorso della mano, studiando incredulo la poltiglia mezza mangiucchiata.

Hironimo allargò il sorriso, staccando sornione un altro morso di carne per poi cederla definitivamente a Thomà. Povero, povero Mercurio, pensava beffardo, meno male ch’era giaciuto semisvenuto sulla sua branda, così da risparmiarsi gli angosciati nitriti dei cavalli mentre i soldati, data la scarsità di provviste, li inglobavano nella loro nuova dieta.

 

 

***

 

 

Ripresosi dalla fatica del viaggio e la pancia piena dell’ottima trippa preparatagli, Orlando da Bergamo si mise immediatamente al lavoro, convocando assieme ai suoi sottoposti e concittadini Batistin e Zuan Antonio il resto dei bombardieri a Treviso, cinquanta in tutto, una pelliccia pezzata di maestranze da ogni parte dei Domini di Terra e di Mare e anche d’Italia. Ad assistere gli stavano accanto sier Marco Contarini “dai Scrigni” e suo cugino sier Nicolò Donado “dalle Rose”, all’occasione traducendo qualche espressione bergamasca per miglior comprensione e Orlando stesso si sforzava di parlar moscheto [8].

Il presidente delle artiglierie s’era informato sul numero esatto delle bocche di fuoco; sul calibro e tipologia; sulla quantità disponibile di polvere da sparo e di balote; sulle loro attuali postazioni lungo le mura e i bastioni e l’unità operativa ad essi dedicata, di in quanti fossero e dove avessero ubicato i mastri bombardieri.

Le risposte lo lasciarono abbastanza soddisfatto, complimentando (così da rendersi subito benvoluto) i mastri per la saggia collocazione dei cannoni, specialmente quelli sulle porte cittadine e sui bastioni. Invece, era rimasto un po’ perplesso sulla mancanza di un adeguato sfruttamento delle gallerie interne per posizionarvi l’artiglieria e di conseguenza, Orlando aveva annunciato che lì avrebbe implementato dei cambiamenti, anche considerando l’incessanti giornate di pioggia non ideali per la polvere da sparo. Appellatosi alla pazienza e buona volontà dei bombardieri, li aveva chiesto di mostrargli la cinta muraria, sia i camminamenti esterni che le gallerie interne. 

E fu durante questo pellegrinaggio, mentre si dirigevano al Castello, che Orlando s’era fermato all’improvviso, contemplando in estasi il campanile di San Nicolò.

“Sier Marco, sier Nicolò”, aveva esclamato, indicando l’edificio. “Con vostra buna licenza, voj menà icsì el sacro de 6.”

I due cugini levarono in alto gli occhi, sgranandoli tra l’incredulo e lo scettico. Quasi leggendoli i pensieri, Orlando li aveva invitati a salire fin in cima con lui e, una volta dinanzi alla vastità del campo visivo offertogli, l’uomo li aveva spiegato come il campanile fosse perfetto giacché alto a sufficienza per colpire a tutto tondo la batteria nemica, ovunque essa si spostasse, nonché in posizione tale da rendere impossibile ai fuochi nemici di centrarlo. All’obiezione del giovane Contarini, se il bergamasco fosse certo che i franco-imperiali non disponessero d’artiglieria di lunga gettata (memore infatti dell’assedio di Padova dove l’Imperatore aveva portato certe bocche di fuoco il cui rombo s’era udito fino a Venezia) questi rispose con un sogghigno malevolo come i pezzi migliori stessero adesso ospitando sott’acqua i pesci di Liziera.

Sicché, chiamati i robusti bastasi (facchini, ndr.) mandati da Venezia, ci si era rimboccati le maniche per trasportare il sacro sul tetto.

“Porco d’un can! Strénzi ben sto gropo (nodo, ndr.), potta d’un cancaro, situ cascà da picolo di la carega (sedia, ndr.) che gnanca ti te sè bon a far ‘na cossa sì fassile?”

“Mi fazzo el gropo dil’apichato -  mi fazzo; cheo che ti me gh’ha dito -  mi fazzo. Chea vaca putana, cossa me veniu a insolentare, an?”

“Zò, bestie, taselà, no semo à carlevar! Qua gh’avé da laorar et muci!”

“Lesti, ante che scomenzi a piovar!”

Appurato infatti la grande difficoltà di far passare il sacro per lo stretta scala di 242 gradini, s’era deciso d’issare il cannone da fuori mentre la cassa veniva trasportata a mano. I bastasi in quel momento stavano fissando gli ultimi nodi -  quelli dell’impiccato come li appellavano con macabro gusto - da passare sulle estremità del sacro e congiungere le corde al gancio.

“Chigasang! Ferma, maidé maidé!”, bloccò tutti all’improvviso Orlando, sbracciandosi onde fermare i bastasi ch’avevano già iniziato a tirare e sollevato di qualche spanna il sacro. E gridando alla gente rimasta in basso: “Bisogna che quach vergü (qualcuno, ndr.) si sieda in su’l canù e che lo guidi lungo la salita! Sennò, el fà dil dan al campanil!” ed in effetti, oscillando il cannone poteva danneggiare il muro dell’edificio, creando crepe o buchi.

“Mi vago”, s’offrì volontario Marco, sceso nel frattanto onde coordinare i lavori da terra. Dei presenti, era il più giovane e snello a sufficienza da non pesare eccessivamente ai bastasi, anzi, per aiutarli s’era levato quanto più strati di vestiario possibile, rimanendo in braghe e camicia.

“Zerman, siete impazzito?”, gli strillò dall’alto suo cugino Nicolò. “Volete rompervi il collo? Cosa riferirò poi alla vostra siora Mare mia Amia?”

“Un bel niente!”, urlò Marco, venutogli un piccolo e colpevole tuffo al cuore al pensiero di sua madre madona Alba, ammalata a Venezia. L’ultima cosa che le mancava, povera donna, era di leggere come suo figlio salisse per campanili di 88 braccia (60 m.) in groppa ai cannoni. Beh, occhio non vede (o in quel caso, legge), cuore non duole … Se Nicolò avesse fatto la spia, giurò a se stesso il ventiduenne, l’avrebbe affogato di persona nel Cagnan.

“Brào tus (ragazzo, ndr.), coragiùs come il vostro amico Ferigo Contarini!”, si complimentò invece Orlando, orgoglioso. “Adès, drizzé le gambe; come salite su, punté i pé e caminé!”

Il giovane Contarini annuì, rabbrividendo (dal freddo, si giustificò) mentre prendeva posto sul sacro. Come istruitogli, stese in avanti le gambe quanto più possibile, così da toccare il muro con l’intera pianta del piede e guidare l’ascesa del cannone, impedendogli di oscillare e cozzare contro l’edificio.

“Pront?”

“Siorsì!”

“Partiamo allora! E il primo che s’azzarda a tirar giù sante e madóne, lo tiro giù io dal campanil, oh sì!”, rammentò severo il bergamasco ai bastasi d’astenersi da ogni bestemmia, un po’ per superstizione un po’ per genuina fede.

“Oh … ehi! Oh … ehi! Oh … ehi!”

Al primo strattone che lo sollevò da terra, Marco velocemente si segnò tre volte, stringendo le corde fin quasi a sbiancare le nocche. Sollevò lo sguardo, concentrandosi sulle facce di Orlando e di Nicolò che da sfuocate macchie di colore si definivano in forme più precise e allo stesso tempo ignorando lo scricchiolio delle corde, nonché il vento dietro la nuca man mano che aumentava di quota o l’aria sotto le gambe che risalendo gli gonfiava la camicia. Il ragazzo sperò inoltre ardentemente che i piccioni stessero a pranzo in quel momento.

“Oh … ehi! Oh … ehi! Oh … ehi!”

Dopo le prime braccia, però, la sensazione di vuoto scomparve e Marco quasi si divertì, soprattutto quando, affacciandosi dalle finestre o interrompendo per un istante la ronda, una piccola folla aveva incominciato a gridargli incoraggiamenti per poi sciogliersi in fischi e applausi al suo arrivo sul tetto, dove Orlando lo pigliò veloce, aiutandolo a scendere.

“Brào! Brào!”, gli batté la spalla il capo-bombardiere e il patrizio si sciolse in un sorriso un po’ sghembo, incerto se per isteria o sincera contentezza, sicuramente le ginocchia se le sentiva molli come la ricotta e la fronte madida di sudore.

Dirigendosi al Castello dove stava di presidio, attirato dalla cagnara, sier Marco Miani aveva assistito, assieme ad un perplesso sier Alvixe da Canal suo compagno di ronda, all’intrepida scalata. Decisamente capiva adesso perché il giovane Contarini e Momolo fossero così amici, quei due scavezzacolli disobbedienti nati allo scopo d’imbiancare precocemente i capelli dei propri parenti.

 

Nel frattanto, a Palazzo dei Trecento si respirava ben altra aria: in un nervoso andirivieni, il capitano Renzo di Ceri imprecava alla stregua d’un giannizzero, gli occhi fuori dalle orbite e livido in volto sotto lo sguardo confuso di Troilo Orsini e stanco di Vitello Vitelli. L’Orsini degli Anguillara aveva richiesto al podestà sier Andrea Donado un incontro d’emergenza, a seguito dell’arrivo dei rinforzi richiesti a Venezia nonché dei denari.

“Li mortacci sua, ce stà à pijà per culo?”, sbraitò il condottiero, provocando un sobbalzo nel podestà e un arcuamento del sopracciglio da parte di Vitelli. “Chiediamo alla Signoria 1000 fanti, ce ne promettono 500 e poi da Mestre ne arrivano 400 di cui più della metà ammalati?  Ci si garantisce l’arrivo di 10,000 ducati e ne arrivano 3,000? Ma c’abbiamo Giocondo scritto sulla fronte? Voglio tenere o perdere Treviso? A questo punto, arruoliamo donne, vecchi e ragazzini! E Carlo Corso dove diavolo è finito? S’è perso per la laguna?”

Sier Andrea Donado s’attorcigliò le dita, costernato forse più del condottiero e intimamente turbato dalla prospettiva che sì, in mancanza di adeguati mezzi e uomini, la città non avrebbe retto l’assalto delle truppe franco-imperiali. Lamentò assai la mancanza a Palazzo di sier Zuam Paulo Gradenigo e del suo supporto, ma gli ordini del medico erano stati categorici: riposo assoluto, il provveditore – Deo gratias! – era crollato svenuto solamente a causa degli eccessivi strapazzi cui si sottoponeva, lavorando alle mura fino a notte fonda al lume delle torce e riprendendo all’alba. Sicché Gradenigo era rimasto in letto tutto il giorno precedente e quella mattina, venuto a cercarlo, sua moglie madona Maria Malipiero Gradenigo aveva promesso morte e dannazione al temerario ch’avesse avuto l’ardire di venirlo a disturbare.

“Cerchiamo di rimanere obiettivi e razionali”, provò il capitano Vitelli a tranquillizzare il collega, che sbuffando scettico si sedette. “La situazione è lungi dall’essere ottimale, però non dobbiamo lasciarci guidare dal panico o la peggioreremo. Vero, non ci sono arrivati né i fanti né i denari promessi, però i bombardieri e i facchini sì e già stanno lavorando a migliorare la disposizione dell’artiglieria e a rafforzare le mura. Quanto ai ducati, m’era parso di capire che sarebbero stati spezzati in due o tre pagamenti, onde evitare complicazioni durante il trasporto. Purtroppo, l’intero territorio è stato colpito da queste febbri e come se la sono pigliata i nostri soldati, se la sono pigliata anche i franco-imperiali. E a proposito di loro: finché La Palisse non ritorna a Montebelluna non tenteranno niente e quelle dei prigionieri catturati corrispondono a ciance belle e grosse.”

Troilo Orsini aggiunse: “Da Padova c’è giunta notizia come Giovanni Forti di Orte coi suoi cavalleggeri abbia distrutto i mulini dei Collegati da Castelfranco fino a Godego, sottraendoli numerosi sacchi di farina macinata. A stomaco vuoto quei diavoli non combatteranno di certo. Quanto a La Palisse, si trova ora tra Quinto e Liziera …”

“… con 350 lance e 3500 fanti aggiuntivi”, concluse secco Renzo di Ceri. “Come questa possa corrispondere ad una buona notizia, mi sfugge.”

“Perché ora che il maresciallo ritorni e s’accordino sul da farsi – quando mai, tra francesi e tedeschi si collabora in armonia? – noi avremo già completato i lavori di rafforzamento e ricevuto il necessario dalla Signoria”, contro-argomentò Vitelli. “Il signor podestà ve lo può confermare, quanto si stia dannando in continue lettere di sollecitazione al Senato!”

“Un tempo la Serenissima pagava e pretendeva; adesso, non paga ma continua a pretendere!”, puntualizzò snervato Renzo di Ceri.

“Due anni di guerra, capitano Lorenzo, due anni di guerra ininterrotta metterebbero le casse di qualunque Stato sotto pressione.”

L’Orsini degli Anguillara aprì la bocca onde replicare, sennonché entrò all’improvviso sier Lunardo Zustignan, rosso in viso e un’espressione di collera sulfurea da non ammettere contestazioni da parte di chicchessia. Tra le mani teneva accartocciata la missiva appena consegnatali dal povero postiglione, balbettante e trascinato lì suo malgrado.

“V’affliggete per i pochi uomini e i pochi denari?”, berciò il nipote del Doge, rivolgendosi ora al capitano delle fanterie ora al Vitelli e Troilo Orsini. “Allora preparatevi a piangere come ai funerali dei vostri padri, ché questa … cosa ci ricopre del fango più schifoso. Voi per primo, signor capitano Lorenzo” e indicò Renzo di Ceri, il quale strabuzzò gli occhi confuso, “ché in questi giorni si discuterà in Senato se confermarvi o meno la condotta.”

Sier Andrea Donado prese coraggio e, impedendo al condottiero una qualsivoglia reazione, inquisì: “Quali notizie da Palazzo Ducale?”

Aperta la lettera, il Zustignan declamò l’impressioni della Signoria circa il rapporto compilato e inviatole da sier Carlo Valier.

In un sol uomo tutti gli astanti si levarono dai rispettivi scranni, puntando come bracchi alla casa dove alloggiava sier Zuam Paulo Gradenigo e se per conferire con lui dovevano fronteggiare l’ira e le urla di sua moglie, ben venga, piuttosto di rischiare di finire come il Carmagnola [9].

Come profetato dal Zustignan, il provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo aveva dovuto sorbirsi, prima di rifugiarsi sotto le coperte, una tremenda filippica da competere con quelle leggendarie dell’istessa Santippe, poiché madona Maria Malipiero Gradenigo delle tre virtù muliebri incoraggiate nella Repubblica – chea piasa, chea tasa, chea staga chaxa – di certo fallava in quella del tacere e siccome sier Zuam Paulo aveva ben appreso i classici, non gli era risultato difficile in quel frangente applicare i consigli di Marco Terenzio Varrone, cioè che i difetti della moglie o si raddrizzano o si sopportano e Gradenigo ora, come nei trentadue anni di matrimonio, aveva sempre preferito quest’ultima opzione. Sussistevano peggiori mancanze in una consorte, ragionava, che la sua brutale schiettezza e ciò a onor del vero non lo infastidiva: se la sua Maria parlava, non era mai a vanvera.

Perciò s’era lasciato spogliare e condurre a letto dalla furente donna senza proferire parola, mite come un agnellino anche quando madona Maria gli dava del turco e dell’assassino, rimproverandogli la poca considerazione che aveva della sua salute andando ogni notte a far la ronda e ridurre così le ore del sonno ad appena quattro ore risicate. Gli aveva ricordato la sua non più giovane età nonché gli obblighi che aveva verso Dio, verso la Signoria e infine verso la sua famiglia, ricattandolo con tragici scenari sul destino suo e dei suoi figlioli, della sua crudeltà nell’abbandonarli in sì tremende circostanze e spargendo ulteriormente sale sulla piaga dell’amore paterno grazie alle fosche descrizioni dell’immane dolore, che sier Gradenigo avrebbe di certo causato al loro ultimogenito Zuam, ancora tenerello e tanto bisognoso della ferma guida di suo padre per crescere sano e onesto. Come avrebbe potuto proteggere quel giovinetto, lei, povera vedova indifesa? Come avrebbe fatto lei -  avanti, rispondete voi che sapete tutto! -  piccola fragile donna che non era altro, senza il suo scudo, la sua gruccia, la sua roccia? Voleva che si cavasse il cuore dal petto dallo strazio?

“Mo via, basta!”, aveva infine borbottato a disagio Zuam Paulo, accarezzando la guancia umida della moglie, che cingendogli la mano con le sue più piccoline e delicate, l’aveva baciata affranta. “Lo sapete che non gradisco vedervi piangere”, le aveva confessato un po’ impacciato e, giurandole solennemente di riguardarsi in futuro, l’aveva attirata a sé in modo che lei appoggiasse il capo sul suo petto. I due coniugi stettero così a lungo, le mani intrecciate, finché la nobildonna non aveva udito un lieve russare, segno che il marito s’era finalmente addormentato.

Maria Malipiero Gradenigo, cessato allora il ruolo di donzella indifesa e mater dolorosa, postasi in piedi ne aveva approfittato per passargli con pragmatica delicatezza l’unguento sulla cicatrice tesa e arrossata, piegando all’ingiù la bocca dinanzi agli involontari spasimi del marito. S’era poi sistemata sulla sedia accanto al letto, pigliato il suo tombolo e soffiato a guisa di drago sangiorgesco a chiunque avesse osato bussare alla porta, onde disturbare il dormiente provveditore.

La sua si trattava di una commedia da tempo collaudata, freno necessario per l’eccessiva vitalità e gusto per la sfida, talora doti talora difetti del suo consorte con cui ella aveva dovuto confrontarsi ben prima del loro matrimonio, quando un diciannovenne Zuam Paulo, adocchiatala vicino alla chiesa di san Gironimo mentre lei prendeva il fresco sull’acqua, infatuatosi subitaneamente s’era incaponito che quella fanciulla doveva diventar sua moglie, o lei o nessun’altra. Grazie all’amicizia che legava madona Viena Zane Malipiero a madona Lucchese Dandolo Gradenigo, dopo molto insistere il giovane era riuscito a strappare a sier Jacomo Malipiero il permesso di conversare con la sua figliola, lei al balcone più basso del palazzo e il volto celato dal velo mentre lui poco sotto in gondola, tutto questo in presenza della madre madona Viena. Naturalmente alla quindicenne Maria quella tenace dedizione garbava assaissimo, anzi, il maggior suo diletto consisteva nel tormentare il suo spasimante, mostrandosi ora annoiata, ora triste ora lusingata finché un giorno, gli aveva chiesto di vincere la regata al prossimo fresco ed era rimasta turbata e commossa nel vedere come Zuam Paulo, invece di delegare la disfida ad abili rematori, avesse imbracciato egli stesso il remo, sostituendosi al pope.

Per lui aveva sollevato per un istante il velo da nubile e gli aveva accordato di guardarle il viso e i morbidi boccoli scenderle lungo le guance. Inoltre, adesso che anche lei l’aveva visto ben bene, le risultò gradito quel giovanotto dai capelli in battaglia, scarmigliato e dalle gote rosse dallo sforzo che la guardava sfacciatamente beato e quattro anni dopo, fattosi egli più uomo, le piacque ancor di più.

Anche perché, dopo l’esilio ad Arbe del padre, madona Maria si era considerata ormai una paria, condannata a rimanere sola ed emarginata per sempre, lei e i fratelli minori. Era pertanto rimasta esterrefatta quando Zuam Paulo, suo novizzo, le aveva confermato che sì, l’avrebbe ugualmente sposata, avendo infatti creduto volesse egli  rompere il fidanzamento. “Sono disonorata” - gli aveva confessato in lacrime, dinanzi alla sua caparbia insistenza  - “la mia vergogna diverrà la vostra vergogna. Siete giovane, siete un valent’uomo di cuore, non dovete rovinarvi per una come me.” Al che, infastidito al limite, il ventiduenne patrizio aveva sbottato: “Se le colpe dei padri dovessero ricadere sempre e comunque sui figli, allora in Maggior Consiglio non dovrebbero più sedere né Querini, né Thiepolo, né Badoer! Voi non siete vostro padre e dopo che ci saremo sposati non sarete nemmeno più la sua figliola, bensì mia moglie e così vi presenterete davanti a tutta Venezia,  il vostro onore ristabilito. Certo, bisognerà magari attendere un anno che le acque si calmino, tuttavia …” e più non aveva potuto aggiungere, avendogli Maria circondato il viso e baciatolo d’impeto. “Vi amerò doppiamente, come padre e marito, ché mi avete dato oggi una nuova vita.”

“Ben svejà!”, salutò la Malipiero il marito, notando i primi cenni del risveglio. “Vi siete un poco riposato?”, s’informò, indicando alla fantesca di lasciare il vassoio sul tavolo vicino alla finestra.

“Quanto sono stato in letto?”

“All’incirca due giorni.”

“An? Già s’è fatto sera?”, esclamò basito Gradenigo, balzando giù dal letto e contemplando incredulo le ombre vespertine colorare d’arancione la stanza. “Perché non m’avete svegliato prima?”

“Dasin, dasieto (adagio, adagio, ndr.), avrete tutto domani per brigare a Palazzo”, lo bloccò la nobildonna, intanto però che lo aiutava ad indossare una turchesca di seta azzurra. “Ricordatevi dei consigli del medico: riposo, riposo. Avete proprio ansia di morir, voi!”

“No, no”, la rassicurò il provveditore, captando il sottile tono bellicoso nella voce della moglie mentre si lasciava condurre al tavolo. “Non mi va di poltrire inutilmente, ecco tutto. Non posso dirigere i lavori anche da casa?”

“Uhm …”

“Come sta vostro fratello, sier Andrea?”

“Assa’ mejo. Mi raccontava che quando si sarà completamente rimesso, ritornerà a Padoa da nostro fratello Polo.” A onor del vero, memore delle affrante lettere scrittegli da sier Polo Malipiero, la patrizia avrebbe preferito che il suo fratellastro sier Andrea Griti completasse la convalescenza a Venezia, invece di rischiare una ricaduta a Padova e glielo aveva anche suggerito, ricevendo una vaga risposta arzigogolata (tradotta, no). Che ci voleva fare, se Domine Iddio aveva deciso di circondarla di uomini più testardi di un mulo?

I due coniugi si sedettero a tavola e Maria versò al marito prima da bere, riempiendogli poi il piatto di polentina, carne bollita, soppressa, formaggio e funghi, intanto che gli riassumeva le ultime novità, dagli impegni e la salute dei loro figlioli d’ambo i sessi al proseguimento dei lavori a Treviso. Gradenigo l’ascoltava attento, mangiando in silenzio.

In effetti, ripensava la Malipiero, anche lei un poco s’era preoccupata alla vista del consorte dormire alla stregua d’un morto, valutando se destarlo o meno, in particolare dinanzi alle insistenti ambasciate di sier Andrea Donado in cui si richiedeva d’urgenza la presenza del provveditore a Palazzo. Conscia di peccare forse d’egoismo, certamente non voleva privare la Signoria del suo provveditore ma al contempo, lei non voleva privarsi del marito e Zuam Paulo pur di fibra robusta, non apparteneva agli immortali e Santa Lucia l’assistesse, la povera donna aveva scampato a sua volta un malore nel vederselo trasportare semicosciente da sier Marco Miani e sier Alexandro Michiel.

Tuttavia, spiando di sottecchi il colorito più sano e la voracità dei bocconi di Gradenigo, Maria vi trovò consolazione e giudicò la sua scelta la più adatta e ora poteva allentare le catene della sua muliebre potestà, restituendo il consorte ai suoi doveri di patrizio veneziano.

Neanche a farlo apposta, la fantesca bussò alla porta, annunciando l’arrivo del podestà, dei capitani e di sier Lunardo Zustignan.

Chiusosi sul petto la turchesca e indossate le braghe, il provveditore scese nel salone là dove lo si attendeva in un misto d’ansietà e di sollievo nell’appurare la ritrovata salute.

Senza tanti preamboli, Zustignan gli cedette la missiva ricevuta e Gradenigo vide letteralmente rosso.

“Sanctissimo e Divinissimo Sacramento!”, ruggì al punto che madona Maria s’affacciò all’uscio della porta, impensierita da quel violento sfogo. “El … chome se gh’ha permesso de scribar … scribar ste mingonarie?! (minchionate, ndr.) Ma mi a lu ghe staco i brassi et i ghe meto in man, cussì l’apprendarà a contar busie!”, sbraitò paonazzo in volto, già immaginandosi a giustificarsi dinanzi ai Dieci per l’ennesima volta e sempre ingiustamente a causa delle calunnie di gente incompetente e pusillanime.

“Dobbiamo replicare immediatamente”, propose concitato sier Andrea Donado e sia Vitelli che Orsini annuirono energici, “prima ancora che la Signoria digerisca in totum le obbrobriose bugie di quell’intrigante bugiardo di Carlo Valier!”

“O qui noi si finisce senza condotta e voi sollevati dall’incarico!”, aggiunse Vitello Vitelli, rabbrividendo al pensiero. “Dopodiché se la veda il signor Valiero a riferire ciò ai miei soldati, io di certo me ne lavo le mani!”

“Se ci va bene”, gli ricordò pessimista Renzo di Ceri, il più arrabbiato tra loro in quanto aveva sperato in un supporto in sier Carlo per poi invece ritrovarsi cornuto e pure mazziato. “Se ci va male, tutti sotto processo e poi o alle Orbe o in Piazzetta.”

“Per carità, non esagerate!”, sbiancò il podestà. “Non siamo mica dei Carmagnola, noi! Al massimo … al massimo accadrà come suggerito dal capitano Vitello …”

“Nella lettera si parla esplicitamente di traditori!”, trillò l’Orsini degli Anguillara. “E se la mia testa deve proprio rotolare, che sia in battaglia, grazie mille!”

“La lettera menziona la presenza di un traditore a Treviso, vero, ma non cita nomi e cognomi”, lo calmò sier Lunardo Zustignan. “In ogni modo, Missier il Podestà ha ragione: il nostro silenzio ci condanna, più tempo aspettiamo più le accuse infondate di sier Carlo si solidificheranno e non mancherà la Signoria d’aprire un’indagine su di noi.”

“Moglie mia, per favore, incaricate il mio valletto di correre a chiamare il postiglione”, istruì Gradenigo la consorte che, annuendo anch’ella preoccupata, sgonnellò via a cercare il ragazzo. E invitando i presenti a seguirlo nel suo studio, là dove avrebbero scritto in comune accordo la loro difesa, il provveditore confessò irato a sier Lunardo: “Spero solo di non dover più incrociare per strada o a Palazzo quel turco bugiardo, o giuro al Cielo che l’impicco alla porta di casa!”

[…] El podestà et provedador ebbe na letera di la Signoria, che gh’ha inteso, quelli zenthilomeni fano tuto il zorno custion cum soldadi, et voleno, dove i stanno, se li fazi le spese per forza, la qual letera gh’ha tolto el ben servir di molti, che meteno li danari et la vida per la patria, qual xéla ingrata, et sono obedienti, et si fatichano tutti. Et il podestà et provedador qua respondono humili et divoti a la Signoria in bona forma, et pregando la lhor letera sia lecta in Gran Consejo.

[…]  Chome se gh’ha inteso quello dito da sier Carlo Valier a la Signoria di Trevixo, et che il podestà gh’ha dito publice, non si maraviglia di tal parolle, perché questo inverno el volea condur biave in terra todescha e lui non volse; ben xé vero, li soldadi xéli un pocho licentiozi zercha li alozamenti, et voleno viver cum minaze ma no cum fati, et di questo, al principio, fo qualche turbazion, ma horra le cosse xéle asetate assa’ ben, et non ghe xé pì rechiami per le minaze fatoli; et xé vero, il capetanio voria aver fato apichar qualche d’on.

 Item, che ghe xé confusion tra el provedador e i capi, no xé vero, et tuti sono uniti et maxime cum il provedador et tuti li zenthilomeni.

Item, che l’artelarie non xéle preparade ai so luogi, no dize il vero, perché tuti i cavalieri et bastioni di le porte li sono le sòe artelarie; le altre xéle preparade, et vegnando i nimici a meter campo, dove si alozerano, lì sarano poste, segundo el besogno, et tute quelle di bronzo xéli su li soi cari, et quelle di ferro bona parte, le altre si va compiando e si condurà dove besognerà. Item, si stà cum bon cuor et non dubitemo gnente.

Item, dito sier Carlo Valier si havea fato far capo di contadini da le sue possession e tute quelle ville intorno per letere di la Signoria, et xélo stà alcuni zorni, et per paura de’ inimici dormiva in uno burchielo a mezo il fiume, et quando la intesi, i nimici vien zerto a campo lì xé vegnuo a Veniexia, et va sbaiafando per le piatze et incolpar il provedador e capi etc., qual stanno fina horre una di note su li repari e fabriche fino con le torze, et comenzano a l’alba. El signor Vitello et Orsini mai stanno im paze, et cussì tuto il resto, secondo li exercij datoli. Laudemo depo’ quel Orlando da Bergamo, capo di l’artelaria, arlievo di Latanzio, qual va a far meter l’artelarie dove bisogna […]”

“Soddisferà questo la Signoria?”

“Chi vivrà, vedrà.”

“Non mi consolate, provveditore.”

“Non era mai stata mia intenzione, signor capitano Lorenzo.”

 

 

***

 

 

“Fu mai trovato il colpevole?”

Hironimo si destò dallo strattone che Mercurio Bua, non ricevendo risposta, gli aveva elargito attraverso la catena onde attirare la sua attenzione. La tenda si trovava a malapena illuminata dalla fioca luce della lucerna, il resto avvolto in un nero pece.

Maledizione, pensò il patrizio, proprio nel cuore della notte gli era venuta voglia di discutere? Lo preferiva moribondo, in tutta onestà, almeno se ne stava zitto. Anche delirante, mica parlava con lui, bensì alternandosi in invocazioni a tali Aikaterini e Maria. Grugnendo infastidito, il giovane si girò sul fianco, richiudendo gli occhi e se il greco-albanese voleva un confessore, che andasse a cercarsi un prete.

Un secondo strattone lo pose nolente seduto. “Allora?”, insistette il condottiero, decisamente bello vispo.

“Orco juda maladeto, cosa vuoi da me?”, sbottò frustrato il Miani, stropicciandosi gli occhi pesante e gonfi di sonno.

“Non riesco a dormire.”

“Dunque ti debbo tener compagnia?”

Mercurio s’esibì in un secco svolazzo della mano. “Tuo padre”, chiese, “sostieni che l’abbiano assassinato. Fu mai trovato il colpevole?”

Hironimo reclinò il capo, sospettoso da quell’inusuale interessamento da parte del capitano, specie dopo il diverbio di quella mattina. Se da una parte era prono pensare trattarsi dell’ennesima provocazione, dall’altra incominciava a formularsi la teoria che si trattava di un indiretto tentativo di Mercurio di scusarsi per aver ingiuriato suo padre.

Sì, certo, come no. Fosse stato un altro, ancora poteva credere in tal miracolo, ma da quel turco senzadio era assai improbabile.

“No”, rispose incolore, stendendosi di nuovo sul suo pagliericcio.

“Perché?”

“Non ricordo, avevo dieci anni.”

“Ti manca?”

“Non pormi domande idiote.”

L’ambiente versava forse nella semioscurità, ma l’occhiataccia di Mercurio il veneziano la subì in tutto il suo collerico splendore. Tamburellando le dita e ormai il sonno partito per lidi migliori, Hironimo sospirò, concludendo che forse gli conveniva ricambiare la “cortesia.”

“A te manca tuo padre?”

“Non proprio. Avevo undici anni, di lui ricordo ben poco. Tu?”

“Neanche io quasi niente. Di ch’è morto?”

“Sul suo letto, di vecchiaia, circondato dalla sua famiglia.”

“Una bella morte, insomma.”

“Se l’è meritata.”

“An?”

“Ognuno va incontro alla morte che s’è guadagnato in vita. Agisci bene, muori bene. O almeno così sosteneva mia madre.”

“Le dispiacerà quindi apprendere, la morte da traditore di suo figlio.”

“Prego?”

“Per questo motivo, sotto-sotto non sopporti il conte di Gambara”, proseguì imperterrito Hironimo, “siete banderuole uguali, pronti a cambiar padrone al primo vento contrario e solo per gretto guadagno personale.”

“Nel mio mestiere”, sibilò Mercurio, “se non mi si paga, non mantengo la compagnia e se non mantengo la compagnia, quella mi diserta e se mi diserta, io m’impicco piuttosto di crepar di fame. Pensavo possedessi abbastanza intelletto d’arrivarci!”

“Non c’è onore tra voi condottieri, dunque.”

“Forse non come lo concepite voi signorini cresciuti nella bambagia.”

“O tuo padre.”

“Come?”

“Se non erro, tuo padre guidò la rivolta di Morea. [10] Perfino il sultano Mehmed, dopo averla sedata, non aveva potuto non riconoscere il suo valore e di fatti non guerreggiò mai più contro di lui. Tuo padre era rimasto coerente nella sua causa, anche quando le sorti si erano per lui rovesciate e, pur conscio di una fine orrenda in caso di sconfitta, non cambiò mai fazione e rimase coi suoi fino alla fine. Ammirevole, per conquistare la fiducia e la considerazione dei Turchi, i quali quasi mai rispettano i nemici sconfitti.”

Un sorriso stranamente dolce distese i lineamenti pallidi e tirati di Mercurio. “Tempi passati.”

“Comportarsi con onore e coerenza alla propria causa non si può considerare una moda.”

“Parli per esperienza?”

“Sono in catene perché non ho voluto cedere Castelnuovo di Quero, l’hai scordato?”

“Avresti dovuto, forse.”

“No, sarebbe equivalso al gesto della fica alla gente ch’avevo giurato di proteggere. Si può fallare in molto” ed io ho molto peccato “ma dai propri doveri non si deve scappare. Questo m’insegnò mio padre.”

Silenzio.

“Com’era egli?”, s’informò Mercurio, incuriosito da quell’uomo divenuto oggetto di speculazioni a Venezia per quella sua misteriosa morte e che tuttavia, persino dalla tomba, ancora riusciva a suscitare tali forti emozioni nel figlio. Doveva esser stato un personaggio peculiare, cogitò l’epirota.

Purtroppo per lui, Hironimo deluse ogni sua aspettativa, rispondendogli infatti con una scrollatina di spalle: “Lo ignoro. Cioè, conosco a menadito il suo cursus honorum, però di lui come persona … io non ho mai capito chi fosse …”

“Che differenza fa? Era comunque tuo padre, non ti bastava?”

No, non al giovane Miani non bastava e inoltre per lui costituiva un’abissale differenza, giacché non aveva mai voluto un padre-statua da ammirare ed imitare da lontano, bensì una persona vicina in carne ed ossa con cui crescere e da cui imparare.

Ahimè, il destino altro non gli aveva lasciato se non la prima opzione, ovver la fredda arca di sier Anzolo Miani a muto insegnante e sterile esempio da seguire.

E Hironimo, giustamente, s’era rivelato il peggiore degli allievi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Ebbene sì, questo Cajtan da Thiene è proprio San Gaetano da Thiene (1480-1547), presbitero italiano, fondatore dell'Ordine dei Chierici regolari teatini; nel 1671 è stato proclamato santo da papa Clemente X ed è conosciuto anche come il “Santo della Provvidenza”. San Gaetano ricoprirà un ruolo importantissimo nella vita del Nostro, tuttavia molto più in là delle vicende qui narrate. Stando alle biografie del Thiene, gli storici gli attribuiscono una certa influenza su Giulio II, aiutando o direttamente o indirettamente la diplomazia veneziana a mitigare l’ostilità del terribile pontefice. Purtroppo, non specificando costoro l’esatto modo, abbiamo un po’ romanzato.

A Treviso, poco distante da Santa Maria Maggiore, l’antica chiesa dei Cavalieri di Malta è stata riconsacrata a devozione di San Gaetano da Thiene, prima della sconsacrazione definitiva (oggi infatti è un museo e un auditorium per concerti).

Ignoriamo come siano riusciti a portare un sacro da 6 fin in cima al campanile di San Nicolò a Treviso; purtroppo, non ci è mai stato permesso salirvi per via dei continui restauri e diosacché altri impedimenti, ma avendo visitato abbastanza campanili di simile stile in giro per l’Italia e l’Europa, supponiamo la scala essere ugualmente angusta e stretta, senza possibilità di grandi manovre da parte dei facchini, a meno che non volessero scalfire il muro.

Se abbiamo fallato, chiediamo venia.

Il “Crudele Giovedì Grasso” fu la più grande rivolta popolare del Rinascimento in Italia e la più sanguinosa: iniziata per ripulire Udine da ogni elemento filo-imperiale, essa scappò di mano e s’estese a tutto il territorio, al punto che il provveditore di Pordenone dovette intervenire in soccorso agli Strumieri. Purtroppo non se ne parla molto sia perché oscurato da un evento più “importante” – la guerra della Lega di Cambrai – sia perché la storia del Friuli non ci pare esser mai stata trattata nel dettagli nei libri di storia nazionale al liceo, a parte nei capitoli sulla fine dell’Ottocento e il Novecento – irredentismo, Prima e Seconda Guerra Mondiale.

 

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] Palazzo di San Marco = noto oggigiorno come Palazzo Venezia. Per quanto riguarda la villa del Grimani, gli storici suppongo essersi trovata nell’area dove oggigiorno si trova Palazzo Barberini.

[2] Per farla breve, nel 1499-1500 il banco dei Lippomano fallì rovinosamente e Girolamo Lippomano, data la cifra spaventosa da ripagare, finì in carcere per debiti mentre la famiglia cercava di racimolare i fondi necessari. Nel 1501, però, il Lippomano riuscì a evadere in modo rocambolesco. Il Sanudo racconta come Girolamo, fattosi arrivare dei dolci dai familiari, una volta apertagli la barca coprì la faccia del suo carceriere col mantello e puntatogli un coltello alla gola, gli rubò le chiavi, fuggendo via là dove l’attendevano tre barche armate per partire alla volta di Bologna e poi Roma. Solo nel 1511 riuscì a ritornare a Venezia e non perché la Signoria ce l’avesse particolarmente con lui, anzi pure gli firmò i lasciapassare, più che altro erano i suoi creditori che gliel’avevano giurata.

[3] Sebastiano Priuli fu arcivescovo di Nicosia e Patriarca d’Antiochia, morì il 2 ottobre 1502. Marco Dandolo (1458-1535) fu un diplomatico, politico ed umanista, fino al 1488 zio acquisito di Marco Corner, avendo sposato sua zia Lucia nel 1485.

[4a] cardinal Flisco = Niccolò Fieschi (1456-1524), cardinale e arcivescovo, uno dei più stretti collaboratori di Giulio II e fratello di Santa Caterina Fieschi Adorno, autrice del Trattato del Purgatorio.  [4b] Christofal Bambrize = Christopher Bainbridge (1464-1514), arcivescovo di York (Archiepiscopus Eboracensis in latino), poi cardinale e oratore di Enrico VIII Tudor presso Giulio II. [4c] segnor Vich =  Jeronimo Vich y Valterra (1459-1535), ambasciatore di Ferdinando II il Cattolico. [4d] Antonio Pallavicino Gentile (1441-1507) fu cardinale, datario apostolico, camerlengo ed elettore di Alessandro VI, Pio III e Giulio II. Morì nel 1507 ed è sepolto a Santa Maria del Popolo. Suo nipote Giovanni Battista (1480-1524) diverrà cardinale sotto Leone X e titolare di Sant’Apollinare. Venne seppellito, alla sua morte, nella medesima chiesa dello zio.

[5] Ducha di Borgogna =  Carlo d’Asburgo, figlio dell’Arciduca d’Austria Filippo d’Asburgo, nipote di Massimiliano e futuro Imperatore Carlo V.

[6] San Vittore e Santa Corona (o Stefania nella versione greca), sono i santi patroni di Feltre, le cui reliquie si possono venerare nell’omonima basilica santuario  a 3km dalla città.

[7] cernide = sotto la Serenissima, la cernida indicava una milizia territoriale costituta da contadini addestrati. Il vantaggio rispetto alle truppe mercenarie era la rapidità del reclutamento.

[8] parlar moscheto = linguaggio più alto, cittadino, in contrapposizione con la parlata locale e popolare.

[9] Carmagnola = Francesco Bussone, detto il Carmagnola. Insospettita dai continui rinvii dell’attacco finale da parte del condottiero, malgrado i successi militari finora collezionati, attacco che avrebbe assicurato la sua vittoria contro Milano, la Serenissima aprì un’indagine sul Carmagnola per scoprirne i motivi. Ne risultò come egli si fosse messo d’accordo con Filippo Maria Visconti dalla cui parte aveva in progetto di passare. Arrestato, venne processato e decapitato per alto tradimento. Nel Romanticismo (specie Manzoni e Hayez) la vicenda del Carmagnola venne riletta in chiave innocentista, col Bussone vittima degli intrighi e invidie del Senato veneziano. Revisione errata, giacché la condanna del Carmagnola fu votata pressoché all’unanimità, cosa rarissima e dunque segno che le prove c’erano ed erano schiaccianti. L’atteggiamento ansioso/furente del Visconti dopo l’esecuzione (vedi “Giorgio Corner” nel capitolo precedente) aveva tradito poi una coscienza sporchissima.

[10] Rivolta di Morea = a seguito della caduta di Costantinopoli, Pietro Bua Spata incitò alla rivolta i 30,000 albanesi residenti in Morea (Peloponneso) contro i despoti Tommaso e Demetrio II Paleologi (il primo padre di Zoe Paleologa, poi divenuta granduchessa di Mosca col nome di Sofia Paleologa) a causa dei pesanti tributi che dovevano versare. Temendo il controllo degli Albanesi in Morea, il sultano Mehmed II intervenne per sedare la rivolta in favore dei Paleologi, tuttavia risparmiando lo sconfitto Pietro Bua Spata e riconoscendolo come rappresentante della comunità albanese in Morea. Il sultano inoltre mantenne la promessa di non attaccare i territori non occupati dagli Ottomani, tra cui appunto Napoli di Romania (Nauplia) e le zone veneziane rimaste in Grecia, dove risiedette il Bua e dove nacque Mercurio.

Secondo i nostri calcoli, siccome la rivolta è durata dal 1453 al ‘54, supponendo che Pietro Bua (di cui non si conosce la data di nascita) avesse avuto all’epoca almeno 25 anni, questo significa che morì sessantenne nel 1489, data certa della sua morte in quanto corrisponde al trasferimento di Mercurio a Venezia. Di conseguenza, Pietro avrebbe avuto Mercurio quand’era all’incirca cinquantenne e ciò non sorprende in quanto in data 1511 e trentatreenne, Mercurio aveva già un nipote, Andrea Bua, che militava con lui. Dalla scarnissima genealogia della sua famiglia abbiamo trovato un fratello, Nicolò, morto nel 1500 e molto probabilmente figlio di primo letto, mentre Mercurio e Teodoro (quest’ultimo forse il padre di Prodano Bua, l’altro nipote) erano di secondo letto, quindi i conti tornano (si spera).

Ringrazio Semperinfelix che ci ha aiutato coi vari calcoli, perché due cervelli son meglio di uno!

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Capitolo 14
*** Capitolo Tredicesimo, parte prima: Confiteor ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 20.09.2021

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Capitolo Tredicesimo, parte prima

Confiteor

(Onora il Padre …)

 

 

 

 

“Com’era egli?

“Lo ignoro. Cioè, conosco a menadito il suo cursus honorum, però di lui come persona … io non ho mai capito chi fosse …”

“Che differenza fa? Era comunque tuo padre, non ti bastava?”

Già.

Chi era Padre?

Quante volte dopo la sua morte Hironimo se l’era chiesto, meditando se veramente avesse conosciuto l’uomo in padre o solo uno dei tanti ruoli da lui ricoperto.

Sempre gli era stato dipinto come uomo energico e dinamico, capace di passare con disinvoltura dal comando di una galea a quello di una città, dai tribunali ai fonteghi, dal dibattito nelle assemblee di Palazzo Ducale alla dura vita di un accampamento.

Chi era però sul serio Padre? Il capitano, il podestà, il mercante, il massaro della Zecca, il camerlengo, l’avvocato, il giudice o il senatore?

Quindici anni erano trascorsi dall’atroce giorno in cui Hironimo aveva riconosciuto il cadavere penzolante del genitore su quella scala a Rialto; quindici anni in cui egli aveva cercato sia di fuggire la sua ombra che d’aggrapparsi disperato ad essa.

Chi eri per me, Padre?

I ricordi più recenti l’amareggiavano, riportandolo agli sguardi delusi del genitore dinanzi agli scarsi risultati scolastici; alle scudisciate sul sedere per ogni singola marachella o disobbedienza; alla fredda formalità dei loro dialoghi e i severi monologhi, durante le esecuzioni in Piazzetta tra S. Todero e S. Marco, sulla Santa Trinità veneziana ovver: Dio, la Legge e lo Stato. Punizioni e divieti ogni santissimo giorno che Domine Iddio metteva in terra condito da quel “briccone” insopportabile - no a questo, no a quello; stai dritto e non gobbo; smettila di piangere; parla schietto e non tartagliare; lascia perdere le tue cugine; i tuoi cuginetti non sono piavoli (bambolotti, ndr.) con cui giocare; non mentire; non rubare i bussolai dalla cucina; non parlare se prima non ti s’interpella; non voglio gatti o cani in letto; non rispondere sgarbato; obbedisci ai tuoi anziani, e bla, e bla, e blablabla …

Costui era stato Padre negli ultimi anni, quando Hironimo aveva incominciato a rispondere: Perché? ad ogni ordine, ad ogni ipse dixit, ad ogni cosa che non capiva e che desiderava che Padre gliela spiegasse, giacché il suo cervello di fantolino credeva fermamente in una sua onniscienza e infallibilità alla pari del Padre nei Cieli.

Perché devo darti del “voi”, signor Padre?

Perché così ci si rivolge tra patrizi e soprattutto ai tuoi genitori.

Perché?

Perché così stanno le cose.

Perché?

Perché vuoi forse parlare come il popolino?

E perché allora voi mi date del “tu”?

Perché, si chiedeva l’allora Momolo, Padre doveva sempre andar via da Ca’ Miani, anche quando non lo trattenevano più gli affari di Palazzo? Perché non poteva seguirlo?

Perché quando lo vedeva con Madre, Momolo percepiva una fitta acuta, un grandissimo astio nei suoi confronti - voi lasciate sempre sola Madre durante il giorno; io le faccio compagnia in vostra assenza; voi non avete alcun diritto di starle accanto, lei è mia! Mia! Mia! Perché, Padre, talvolta neppure voglio il Luchin, Carlino e Marchetto vicino a lei?

Gliel’aveva letta negli occhi, codest’ostilità? Oppure egli avevo scorto la sua quando s’intrufolava spaventato in letto di Madre, lamentando un incubo e scalzando il genitore da esso, oppure quando in altana Momolo le sedeva davanti mentre lei merlettava a mazzette e Padre non si poteva avvicinare per imbastire quei discorsi, che solo tra marito e moglie dovevano stare?

Quando incominciarono ad essere gelosi l’un dell’altro? Momolo per Madre veniva sempre prima, anche del consorte. D’altronde, non le aveva Padre sottratto i maggiori per avviarli gradualmente alla vita pubblica? Dunque, le lasciasse il minore, ancora suo.

O …

O quando fu Momolo ad incominciare a preoccuparlo? Come il Missier Grando, Padre quando si trattava di lui sembrava possedere occhi e orecchie ovunque, beccandolo puntualmente in castagna, colpevolissimo.

Me lo fate crescere storto, questo rimproverava Padre spesso a Madre. Perché Momolo frignava per un nonnulla, diceva; si fidava di chiunque, scorgeva bontà dove non esisteva e solo ora Hironimo capiva come mai l’avesse riempito di ceffoni, quando aveva scoperto, di ritorno da scuola, la focaccina alla cannella regalatagli dal pasticcere dietro promessa di ritornarvi più spesso [1].

 

“Chi te l’ha data? Chi? Perdio, parla! Chi t’ha dato questa focaccina?”

“Non lo so, sior Pare, non lo so!”

“Anzolo, per l’amor di Dio, smettetela di scuoterlo così, lo spaventate!”

“Non t’ho insegnato niente? An, stupido? Quante volte t’ho ripetuto, che non si parla, né si accetta niente da chicchessia se non dalla tua famiglia? Ma a chi parlo, io? Al muro? E smettila di piangere, no sta far la pittima, e dimmi chi è stato a regalarti quella focaccina o quant’è vero Iddio ti rinchiudo nello sgabuzzino del fontego per tutta la notte!”

“Stavo rincasando da scuola, non mi ricordo dove stesse …”

“E non hai aspettato Menego? O Baldissera? Ma ascolti o fai finta? Tu hai d’aspettarli a scuola, cosa stava pensando quel tuo cervello da gallina? Lo sai, testa di rapa, cosa fanno ai bambini che se ne vanno in giro a zonzo da soli e che danno confidenza a chi non devono? An? Lo sai, oco bauco?”

 

Storto perché Momolo al competitivo e aggressivo mondo dei “veri uomini” preferiva il locus amenus in cui Madre era Imperatrice e Padre era l’Ospite, pieno di luce calda, di colori morbidi come le tele del Zorzon. Il suo pomeriggio ideale consisteva nel stare sull’altana assieme a Madre, Crestina, Eudokia, Zanetta e Orsolina e a madona Maria Foscarini Miani, spingendo il girello di Dionora o Agustin o Marco Antonio, le orecchie piene del loro cicaleggio. Grande festa poi quando veniva sua zia, l’amia Morexina con i cuginetti, allora si preparavano i biscotti, il panunto col lattemelle e frutta di stagione e Momolo giocava con loro, specialmente con Maria Morexini la quale gli mostrava orgogliosa le sue bambole, vestite alla milanese, alla fiorentina, alla fiamminga e una perfino alla turca. Gli piaceva un po’ meno, ecco, quando l’altre cugine - Anzol, Magdalena e Querina Morexini - lo costringevano o a perdere a carte o peggio ancora a scegliere chi tra le due possedesse le bambole più belle – domanda trabocchetto, giacché avrebbe ottenuto il broncio perpetuo di una o dell’altra e i conseguenti dispetti; in quel frangente, Momolo pigliava per mano il suo cuginetto Carlo e in fuga strategica e si rifugiavano dietro a Madre.

Dopo la morte di Padre, Hironimo si comportò in maniera diametralmente opposta, disprezzando ogni mollezza e atteggiamento sensibile e compassionevole quasi si fosse convito che ad uccidere il genitore, al posto della corda, fosse stato il suo rifiuto del mondo, per vivere nel suo, di mondo. Ciononostante, quando molto alterato, il suo spirito s’acquietava di nuovo accanto a Madre o all’Orsolina, tenendole i fili di lana quando sferruzzava berrette ai ferri.

 

“Sior Pare?”

“Dimmi.”

“Ho scoperto, che il mastro tessitore è un uomo.”

“Sì ben, e dunque?”

“Dunque, visto che non è solo negozio da femmine, posso imparare senza che voi mi rimproveriate.”

“Davvero? E perché vuoi apprendere a lavorare la lana?”

“Primo, perché se dovrò aiutare i miei fratelli a valutare i panni di lana prodotti nelle filande, come faccio a sapere se ci stanno imbrogliando, rifilandoci tessuti di seconda qualità, se non conosco il loro mestiere? Oppure, come posso pagarli adeguatamente se non so la fatica dietro? Terzo, perché quando l’Orsolina mi confeziona una bereta, sono contento. Vorrei anche io far contente le persone e imparare qualcosa che porti a creare invece di distruggere. Sior Pare, è sbagliato?”

“No, Momolo, non è affatto sbagliato.”

 

Chi era Padre? Il nemico.

Chi era Padre? Il difensore.

Chi era Padre? Atlante con l’ingrato peso dell’esser genitore.

Eppure, non era sempre stato così. La sfortuna volle che padre e figlio si separassero in cattivi termini, tra contrasti e incomprensioni, però Hironimo dal più profondo dell’anima credeva con ostinato ardore che esistette un tempo in cui egli per lui fu il suo Momolo, un tempo in cui, mentre Padre compilava questo o quel rapporto o controllava i conti, sulle sue ginocchia egli si sentiva invincibile, un re.

E gli confidava i suoi pensieri senza paventare rimbrotti o sminuimenti.

Con questa missione, il preservamento della memoria di Padre e la ricostruzione del mosaico che fu Anzolo Miani, Hironimo nel corso degli anni aveva raccolto con certosina scrupolosità ogni indizio sulla vita del genitore, letto e collezionato ogni cartiglio, interrogato ogni persona che l’aveva conosciuto, in cerca di tracciare un disegno definito e rispondere all’annosa domanda: chi era mio Padre?

Di nascosto dai famigliari, da Madre istessa, sotto il suo letto a cassettoni a San Vidal egli celava una cartella di marocchino rosso con dentro il frutto delle sue ricerche, da Hironimo consultata in quei giorni in cui invero si sentiva una nave senza nocchiero in gran tempesta.

 

***

 

 (lettera del N.H. Anzolo Miani di Lucha a suo fratello maggiore il N.H. Marco Miani, Rettore di Sciro, 1464)

 

 

Carissimo amico e fratello, compagno fedele e confidente,

mi conforta apprendere come il viaggio da Negroponte a Schiro si sia concluso felicemente, senza ritardi né intoppi e un poco confesso invidiarvi i caldi raggi del sole di cui sicuramente starete godendo. Approfittate dunque della buona aria e del clima favorevole, che vi possa giovare ai polmoni, avendomi la siora nostra Maregna riferito quanto ancora voi soffriate di sporadici attacchi di tosse. Vi rammento di portarle, al vostro ritorno, di quel salutare olio di iperico ivi prodotto: ella lo gradirà e i suoi nervi con lei e non assorderà più la povera Orsolina.

Vi scongiuro di riguardarvi: anche se quest’anno potremo raderci la barba, il lutto della morte del nostro dolcissimo fratello Vorzilio corrisponderà per me ad una piaga ognora aperta e il sapervi distante da casa e per di più ammalato mi angoscia. Non strapazzatevi; nutritevi adeguatamente, dormite le giuste ore e pur praticando svaghi all’aria aperta, non in eccesso da mancarvi il fiato.

Quanto al resto della nostra famiglia, le cose stanno così: il nostro sior Pare ancora risiede a Pola, totalmente assorbito dal suo nuovo incarico di Provveditore della legna dell’Istria e della Dalmatia; le lettere scritteci dalla siora Maregna confermano la sua salute, le solite noie e disagi legati al ruolo, qualche novità locale e basta. Suppongo quindi portarsi bene, ché niente nuove buone nuove. Il sior barba Nicolò ugualmente poco lo si vede, si direbbe dormir quasi a Palazzo e rimprovera spesso nostro cugino Thomà di non imitarne lo zelo lavorativo, trascorrendo troppo tempo ai fonteghi come se si trattasse d’un gran crimine l’aiutarmi. Inoltre, la moglie del nostro germano aspetta un altro figlio, naturale voglia restarle un poco più accanto e dopo la Marietta egli spera ricever da lei un maschio. Il sior barba Hironimo si dileggia nelle ore morte o nello studio a legger di filosofia e teologia o in chiesa a San Vidal, al Monastier di la Caritae e dagli Agostiniani di Santo Stephano. Ultimamente mi reco con lui da quest’ultimi, rafforzando il mio latino e, avessi figli, già ho deciso a quali tutori affidarli ché i Domenicani, vi confesso, m’incutono un certo timore. Nostra nipote Marietta e nostro cugino Nane-Chéco crescono sani, di eccellente costituzione e appetito e assai rumorosi ma temo un poco per quest’ultimo, essendo il sior barba Hironimo d’età più nonno che padre, non vorrei lo viziasse troppo; per il momento Nane-Chéco resta in cuna e in custodia della siora amia Maria e come crescerà, si vedrà.

Per me, colmo il vuoto della vostra assenza tra i fonteghi, le visite alle filande e i libri di diritto, ché non mancherà la mia occasione di servire concretamente la Signoria, oltre in galea, e voi ben sapete quanto m’irriti trovarmi impreparato in qualsiasi compito affidatomi.

Item, sto seguendo molto da vicino i nostri ordini di lana inglese – lo spazio di galea acquistato ci garantisce un buon carico; stendendo il contratto con sier Zuane Foschari, mi chiese questi se avessi voluto rivenderla a Tunisi e /o a Siracusa – contro l’opinione di Padre ho rifiutato poiché lavorando in loco detta lana nelle filande otterremo maggior introiti, senza contare che il Foschari pur sarà uomo d’onore, ma in galea la legge è lui e non posso controllare i noli addebitatimi. Padre ed io abbiamo navigato e commerciato a sufficienza da riconoscere immediatamente i metodi dei contrabbandieri -  tra le righe ciò ho fatto intendere a sier Foschari: non s’atteggi da furbo con me. [2]

Al momento, dopo essersi trattenuti due mesi a Londra e passata la fiera di Vintona, la Foschara di sier Zuane Foschari e la Malipiera e la Squercia del vicecapitano sier Stephano Malipiero si trovano ad Antona e lì finalmente avremo il nostro cargo. Aspetto novembre con impazienza, quando rimpatrieranno a Veniexia.

Conosco bene i vostri scetticismi riguardo quest’insolito investimento, ma credetemi che contrariamente a molti altezzosi la lana inglese la considero invece d’eccellente qualità e testura, resistente e di prezzo economico pur aggiungendo i costi di viaggio e ciò giustifica i miei sforzi ed ansie -  il vostro prestito è ben garantito. Vi ricordate il panno acquistato per curiosità dall’ultima spedizione di Fiandre? Teneva talmente caldo da poter vestir estivamente sotto, impermeabile tutt’al più. Senza contare che anche a Florenza e a Millan la usano per confezionare panni d’eccelsa qualità, sicché garanzia assicurata.

Il N.H. Priuli residente fisso ad Antona – cui mi sono raccomandato, anticipando il Foschari e anche il Malipiero - mi spiegava che di lana in Ingaltera ne producono in sovrabbondanza, ma non son capaci di lavorarla appropriatamente, cioè non con la maestria dei tessitori e tintori italiani sicché ad Antona hanno costruito una “Casa della Lana” apposta per venderla a noi e agli altri mercanti stranieri - Aragonesi, Fiamminghi, Anseatici e qualche Scandinavo. Di Genovesi e Napoletani sempre di meno - mi riferiva il N.H. Priuli le lamentele di un grossista alla Casa - colpa della guerra tra Eboracensi e Lancastrensi e degli stolti che essa mai uccide. Meno male che la Signoria vostra è tenace e non si è lasciata intimorire - dice costui - da quattro scalzacani che pensano di campare mangiando aria. Si riferisce quest’inglese ai saccheggi delle case dei Lombardi a Londra e delle furberie di Zuanne Peine, fu sindaco di Antona. Per nostra fortuna, il nuovo Re eboracense è molto ansioso di ristabilire i commerci con la Signoria nostra e fa il tutto per riportare l’ordine e punire i sudditi ribelli, che non ci molestino né ci impongano noli al di là di quelli convenuti.  

Parrebbe, dunque, fratello carissimo, che questa mia idea di tentare la sorte in Ingaltera possa dare i suoi frutti: il cargo soddisferà le nostre esigenze e potrebbe essere l’anno della ventura.

Vi scriverò quanto prima e prego la Madonna che sempre stenda su di voi il Suo manto materno,

Vostro fratello Anzolo

 

Item. Giuntami nuova, dai consoli nostri a Londra il N.H. Priuli ha appreso e mi riferisce come detto Re sia maldisposto nei confronti del Conte Varvici, ché questi gli vuol imporre moglie francese quando lui la vuol borgognona; pur il Conte ha già accarezzato il Roy di Francia o per la sua figliola madona Anna o per la sorella della Reyna, madona Bona di Savoia. Si vocifera però che il Re tutto è preso d’amore per una nobildonna della fazione sconfitta, madama Yxabela Greia, la quale è vedova con due figlioli, e di come sia il Conte che il Consiglio Privato non favoriscano tale unione, se la pigli il Re come amante ma come Reyna eia non digna est. Item, il N.H Priuli teme come il Conte, se ulteriormente infastidito, potrebbe anche disertare il Re per servire il rivale sconfitto e sarebbe grande disgrazia per l’attuale Re e per noi, di nuovo privati di un mercato tanto profittevole come quello inglese, dovesse la Signoria giudicare nuovamente Antona porto pericoloso per le nostre galee.

Novembre però arriverà presto e per allora saremo a posto. [3]

 

 

“In certi periodi, in casa lo si vedeva o poco niente, specie negli anni della guerra contro Frara. Ciononostante, la sua presenza la percepivi eccome. S’informava spesso di noi, la siora Mare gli scriveva lunghe e dettagliate lettere; tant’è vero che, rincasando, quando conversavamo e mi chiedeva dei miei progressi nelle letture e nel ricamo, mi sembrava che Padre non fosse mai partito”gli confidò Crestina un pomeriggio.

Momolo era venuto a salutare lei e i nipoti Dionora e Gasparo prima della partenza per Treviso, dove Lucha si sarebbe diretto in virtù di camerlengo e non avendo egli ancora famiglia propria, Madre aveva suggerito a Momolo e a Marco d’accompagnarlo così da familiarizzarsi coi futuri incarichi che l’attendevano. Avrebbero viaggiato da soli, Madre doveva seguire la distribuzione e la catalogazione delle merci nei fonteghi e Momolo di conseguenza stava sguazzando nell’angoscia, mai veramente separato dalla genitrice fino a quel momento e, non sapendo dove sbattere la testa, s’era rintanato a casa della sorellastra, l’unica a non rifilargli il solito ritornello del “non adesso”, “non ho tempo”. Persino il barba Batista, sempre disponibile, da quando l’avevano eletto Savio di Terraferma pareva la laguna averlo inghiottito.

Ignorava gli esatti come, dove e perché, però ad un tratto i due avevano incominciato a discorrere di Padre: il sole piacevole li aveva condotti sull’altana del palazzo, dove Crestina prediligeva cucire ed insegnare tale arte alla figlia Leonora detta Dionora e, forse a seguito delle lagnanze della sua sorellastra circa le assenze del marito Thomà, ecco che lei aveva correlato i due uomini e Momolo ne aveva approfittato infido per interrogare avidamente la donna, Gasparo sulle sue ginocchia intento a mangiucchiare un piavolo di pezza.

 

(lettera indirizzata dalla N.D. Leonora Morexini Miani a suo marito Capitano di Galee della Marca e dell’Istria, il N.H. Anzolo Miani, 1482)

 

 

[…] La Tina mi scrive dal convento come le suore la stiano impegnando in pie opere di carità, la quale ella offre a Dio onde gli piaccia di preservarvi dai pericoli della guerra. Mi manca molto il suo chiacchierio e le giornate trascorse lietamente in giochi, quant’è strano visitarla in parlatorio! Approverete di sicuro la scelta del convento: le suore non seguono una regola né troppo severa né troppo lasca, anzi paiono dimostrare grande benevolenza verso i talenti della Tina e le insegnano con zelo le virtù della matrona cristiana, invece di nutrire invidia come solgono spesso indulgere coloro che si monacano per costrizione […] Ogni giorno Luchin e Carlino recitano per la salute di V.S. delle deliziose Ave Maria e con molto fervore pregano Missier Sen Bastian che vi protegga dalle febbri malariche. Il Luchin v’allega qua la sua prima letterina […] Marc’Tonin sempre chiede di voi e il Marchetto sta imparando a camminare col girello e non sta mai fermo […] Giunta ci è la nuova della presa di Comacchio da parte di V.S. e ben siamo orgogliosi di voi […]

 

 

(lettera indirizzata dalla N.D. Leonora Morexini Miani a suo marito Capitano di Galee della Marca e dell’Istria, il N.H. Anzolo Miani, 1483)

 

 

[…] comprendo la vostra penna esser legata da segretezza assoluta, spero che voi e le vostre fuste restiate saldi e al sicuro per tutta la durata di quest’impresa. I vostri figlioli pregano assai il Signore per il vostro ritorno e ogni giorno Luchin e Carlino m’accompagnano per le opere di carità. Altro non si può fare, vige una gran confusione per via della scomunica, pur la Signoria è implacabile col clero veneziano: scelgano la loro lealtà, se Veniexia o Roma. Più a riguardo non vi so dire, la nostra anima è in pace col Signore Il Quale vede ogni cosa, anche le doppiezze dei suoi ambiziosi servi che, come il primo che sedette a Roma, Lo rinnegano in terra ignorando come Egli li rinnegherà in Cielo. La Tina vi saluta e vi mando, tra gli oggetti da voi richiestimi, un fazzoletto da lei cucito. I piccini mi chiedono di scrivervi di ogni dettaglio delle loro giornate; pregano per l’incolumità vostra e delle vostre galee e altre cinguettii che voi ben conoscete esser tipici dell’età loro.

 

 

“Com’era Padre con te?”

“Molto affettuoso, attento ad ogni mia necessità e pur non capendo di ricamo, conscio però quanto in esso mi dilettassi, mi portava in Merceria e lì mi diceva: compra tutto ciò che t’aggrada! Credeva che non me ne rendessi conto, quando mi contemplava triste, forse gli ricordavo mia madre o forse l’avvicinarsi del tempo della separazione”, disse la nobildonna, intorcolando con arte le mazzette in un’agile danza ipnotica. Ridacchiò: “Talvolta Padre me lo ricordo anche un po’ impacciato con me, come ogni uomo che non concilia più la sua bambina con la donna adulta che diviene”, e all’insistenze di Momolo di fornirgli maggiori dettagli ella negò col capo, non potendogli descrivere senza violare un segreto esclusivamente femminile. “Era gelosissimo e sospettoso di Thomà, gli aizzò dietro i miei barba Antonio e Sebastian, no sastu?”

 

 

(lettera indirizzata al N.H. Antonio Trum q. sier Stae dal Provveditore del Polesine di Rovigo, il N.H. Anzolo Miani q. sier Lucha, 1488)

 

 

Carissimo amico, fratello mio,

ho accolto con sollievo la pronta guarigione di vostro fratello Sebastian; vi prego d’aggiungere i miei saluti e complimenti al vostro germano Lucha, che mi dicono distinguersi a Palazzo, in questo si può ben vantare d’assomigliare al quondam vostro Serenissimo barba Nicolò […] Come vi scrissi, il ponte di pietra – “del Sale” – è completato, ad uso ed ornamento della città; simile, il nuovo Palazzo Pretorio si finirà presto cosicché la Fiera del 17 agosto possa suscitar ancor più entusiasmi e introiti per la città e Ruigo ne ha assai bisogno […] Tra le altre cose, fratello carissimo, se non v’incomoda troppo, un unico favore vi chiederei poiché il mio ufficio mi vieta d’assentarmi qua dal Polexine. Vorrei se per cortesia voi v’informaste con tatto e discrezione su Thomà figlio del fu sier Thomà da Molin “Murlon” da la Madalena. Poiché costui ben persiste nel suo proposito di maritarsi con mia figlia, io ho da sapere chi egli sia realmente, delle sue occupazioni civili e frequentazioni private, quale sia insomma il suo vero animo nei confronti della mia Tina. Nulla quaestio sulla sua famiglia – la conosco bene, solido credito, grandi elemosinieri, di buone qualità, molto cattolici e suo nonno, sier Francesco, un vero galantuomo – ma di questo Thomà niente. Capirete, fratello carissimo, che maritare una figlia non è come ammogliare un figlio; una nuora la si può raddrizzare, se falla verso il marito. Ma un genero? Mia figlia da sposata non m’apparterrà più, se il marito dovesse rivelarsi una bestia solo tramite la Quarantia potrei riaverla indietro e in quali condizioni? Per amore della vostra nipote e fiozza e per l’amore che portavamo per la defunta Andriana, vi prego d’aiutarmi a proteggere questa nostra perla, ché darla ad un indegno ci rende ad egli uguali e Dio non ci fa uomini né la legge ci conferisce i poteri e le libertà degli uomini, onde permettere che una donna venga strapazzata, men che meno se sangue del nostro sangue.

 

Tu molto probabilmente non te lo ricordi, avevi tre anni appena. Al termine della festa nuziale, quando venne il momento di congedarmi da Padre per seguire mio marito in casa sua, ecco, m’inginocchiai come conveniva e, afferrategli ambedue le mani, gli dissi: Padre, voi sapete quanto vi ami e vi rispetti, dell’immensa gratitudine ch’io nutro per voi per avermi messa al mondo, cresciuta ed educata, facendomi buona veneziana e buona cristiana. Padre mio, se v’ho offeso, se v’ho deluso, se mi son comportata indegnamente verso di voi, vi scongiuro, in nome di Dio e della Beata Sempre Vergine Maria, di perdonarmi ogni mancanza nei vostri confronti e di benedirmi in questa nuova parte della mia vita.” Ci crederai, Momolo, che dovetti aspettare un bel po’ prima della sua benedizione, giacché Padre aveva un tal groppone in gola, da non riuscir a parlare?”

Momolo stentava, invece, immaginandosi il genitore di marmo come le statue degli dei, dei generali romani e degli eroi greci.

“E quando nacque Dionora … Ah! Padre per poco non inciampò sulla toga al suo rientro da Nepanto, tanto era ansioso di vederla e d’assicurarsi ch’io stessi bene …”

Sì, quello Momolo se lo ricordava, così come la fitta di gelosia che gli aveva trapassato il suo cuoricino di seienne alla vista di Padre sorridere tutto orgoglioso sulla culla di Dionora. Traditore, avrebbe voluto rimproverargli il bambino, manco più mi badi? E per cosa? Per questo macaco spelato?

E naturalmente il biscugino Zuan Francesco doveva pure lui mettersi a procreare e di fatti due anni dopo nasceva il piccolo Agustin e a Momolo venne una crisi di pianto, quando, non capendo la differenza tra padre e padrino, credette che Padre per davvero non ne volesse più sapere di lui e su quest’inquietudine a Carlino il Turco non parve vero di soffiarci sopra, confidandogli come Padre avesse avuto intenzione di venderlo ai Genovesi alla stregua di una scimmia.

 

“Madre! Padre non mi vuole più bene! Mi vuol vendere ai Genovesi! Non sono una scimmia!”

“Ma no, Momolin, che dici?”

“E allora, perché sta sempre dietro a loro e a me niente? Odio lui, odio quei ladri ramarri dei miei nipoti e cugini! E se … e se vendesse loro ai Genovesi?”

 

Non li odiava, tutt’altro; Momolo scoprì man mano che le numerose sue amie (zie, ndr.) o cugine ne scodellavano uno all’anno, che i bambini gli piacevano, almeno dopo che la balia li aveva ripuliti e fasciati. A tal punto si divertiva a giocare con loro che s’azzardò un giorno durante la pennichella del dopopranzo estivo ad imitare la balia. Non visto, Momolo era entrato nella stanzetta dove il neonato Agustin dormiva ignaro ed estrattolo dalla culla, s’era slacciato prima i lacci del farsetto e poi della camicia giudicando per il rasoio di Occam che se Stin poppava dalla tetina della balia, poteva benissimo riuscirci dalla sua e che altrimenti ce l’aveva a fare?

Se a Momolo codesto mistero dell’anatomia sfuggiva, al fantolino no di certo, anzi, riconoscendosi gabbato da quella falsa promessa di pappa, strillò talmente forte il suo sdegno da svegliare l’intera Ca’ Miani e sfortuna decretò che il primo a giungere sul luogo del misfatto fosse appunto Padre.

Per la prima volta in vita sua, Momolo ebbe di lui una paura fottuta.

“Beata te, con me si comportava da tartaro!”, bofonchiò il quindicenne Momolo, giocherellando con i ciuffi morbidi di Gasparo. “Sempre una critica, sempre una predica da rifilarmi … Non riuscivo mai a compiacerlo! A volte mi chiedo, se fosse mai stato felice della mia nascita …”

 

 

(lettera indirizzata al N.H. Batista Morexini da sua sorella N.D. Leonora Morexini Miani, da Feltre, luglio 1486)

 

Carissimo e generoso fratello,

Cento, mille baci alla mia nipotina, la bellissima Maria e le mie felicitazioni alla dolce mia sorella Morexina vostra moglie […] Dalla vostra lettera comprendo come la piccina v’abbia rubato il cuore – è giusto, qualcuno dovete pur viziare […] Quanto alla nostra famigliola, godiamo tutti di buona salute e della protezione della Vergine Dolcissima, tranne la siora nostra Mare che si lamenta del clima feltrino, a lei insopportabile: malgrado il Palazzo Pretorio ci offra le adeguate comodità, Feltre si presenta talmente fredda che pure in estate sembra d’esser in primavera e la sera si sta bene con uno zendale di cotone pesante […] Riguardo alle mie condizioni, non v’angustiate: voglia la Madonna, quest’autunno c’arricchiremo d’un puttino o d’una puttina. Il mio sior marido e la siora nostra Mare mi tengono avvolta in seta e piume; in particolare il mio illustrissimo consorte neanche quando rimasi grossa del Luchin mi trattò con tale premura, pare faccia a gara per indovinare ogni mio desiderio e ogni sera prima di coricarci mi bacia le mani, benedicendomi per la gioia che gli sto regalando. D’altro canto, però, è anche tutto un’agitazione – credo per via della mia età - talvolta mi piglia una gran voglia di scuoterlo e intimargli di calmarsi, che il fantolino lo debbo fare io e non lui, che ho sì trenta e quattro anni ma non son vecchia e decrepita e che se proprio mi vuol aiutare, compia il dover suo di Podestà e riappacifichi una buona volta questi Feltrini, che a seguito della peste altro non pensano di ringraziare Dio, San Vetor e Santa Corona d’esser sopravvissuti se non scannandosi a vicenda in tristi e sanguinose contese […]  Oggi poi parlerò con Mastro Isepo e suo figlio Vetor, falegnami, per la questione della culla […]

 

Crestina gli afferrò la mano, costringendolo a guardarla negli occhi, i medesimi di Padre, grigi come il mare d’inverno. “Mathuzhèlo (stupidotto, ndr.) mio! Padre ti voleva molto, molto bene, ma lui non era Madre.”

“Che significa?”, inquisì intrigato l’adolescente.

“Un padre deve badare all'educazione ed al mantenimento dei suoi figli, prezioso pegno di continuità, e sovraintendere alla loro riuscita in società; alla madre vanno lasciati i sentimenti e la partecipazione affettiva.”

Momolo storse la bocca, affatto d’accordo. “Che jotonia!”, grugnì scettico.

“Così va il mondo.”

“E chi l’ha deciso?”

Crestina sospirò, conscia che quando il fratellastro partiva col piede polemico, la conversazione correva al litigio.

“Io”, dichiarò solenne il quindicenne, “quando avrò figli, li educherò come un padre e allo stesso tempo li amerò come una madre! E a chi m’intralcia o mi critica, gli caccio la testa dentro un gàtolo [4] e poi vedremo, se il mondo lo giudicherà ancora strano!”

La trentenne nobildonna scosse il capo, bonaria, lasciandolo blaterare al vento.

 

 

[lettera indirizzata al N.H. Antonio Trum q. sier Stae dal N.H. Anzolo Miani q. sier Lucha, dicembre]

 

Carissimo amico e fratello,

prego Iddio, i Missieri Sen Bastian e Sen Rocho e la loro protezione su di voi e la vostra famiglia. Mi perdonerete gli sghembi scarabocchi, gettati in pressa e senza forza di controllare quanto e come scrivo. Dopo settimane di strenua lotta, il morbo è infine riuscito stanotte a rubarsi via il nostro piccolo Marco Antonio. “Sior Pare”, mi chiedeva in un sussurro, “sono stato abbastanza buono per il Paradiso?” E mentre pregavamo, la sua manina, ch’io stringevo, perse ad ogni parola di vigore, finché non divenne lassa e fredda ed io seppi che d’ora in avanti Marco Antonio avrebbe seduto sulle ginocchia della Madre di Dio. Volesse Egli per questi attimi avermi creato donna! Potrei piangere senza pudore alcuno assieme alla mia povera e infelice consorte, strapparmi i capelli e urlare al Cielo l’ingiustizia di ciò, che non posso né voglio accettare malgrado la gran moria di gente che ci ha circondato e che credevamo per sempre finita . Non è mai ovvio, né naturale per un padre seppellire un figlio! Ancora potei reggere lo strazio della perdita dei miei due fratelli – scesi nella tomba giovani e in forze – ma di un fanciullo sì tenero? Di un figlio? Marco Antonio era così buono, così innocente, se invero è un castigo divino perché il morbo non si porta via chi se lo merita? Potrei compilare per giorni liste piene zeppe d’indegni … Perdonate! Perdonate! Perdonate se v’affliggo, con qualcuno avevo bisogno di sfogarmi, non oso oberare la povera mia siora mojer d’ulteriori pene, ma questa lama in petto m’assassina. Almeno, unica mia consolazione, sono riuscito a rimpatriare da Barutto in tempo per abbracciare il mio puttino un’ultima volta.

 

 

(lettera indirizzata al N.H. Antonio Trum q. sier Stai dal Podestà e Capitano di Feltre, il N.H. Anzolo Miani q, sier Lucha, novembre 1486)

 

 

Io più contemplo questo bimbo e più rimango commosso e sbalordito dinanzi alla potenza e misericordia di Dio, che dopo il lutto atrocissimo ci ha benedetto di un altro figliolo, nato di domenica quasi a sottolineare la santità del dono offertoci. Non fraintendete: Marco Antonio rimarrà nel nostro cuore, è il nostro piccolo angioletto adesso e spero lo sarà anche del suo fratellino. Vedeste come mi guarda! Ha gli occhietti neri, grandi e intensi dei Morexini, s’agita, strilla e non vuole che lo si fasci, schifa la balia ed esige solo la poppa della madre. Lo amo già moltissimo e prego Missier Domine Iddio e Missier Sen Isepo di guidarmi nuovamente nel mio difficile compito di padre. Non credevo poter ritrovare gioia a questo mondo, dopo la morte di Marco Antonio […] Il parto s’è svolto in gran fretta, sia ringraziata la verzene Sancta Malgarita d’Antiochia, quasi il nostro figliolo scalpitasse di venir al mondo. La levatrice è arrivata appena in tempo e ci ha confermato di com’egli galda di eccellente robustezza e di come abbia tutto ciò che serve al suo posto. La mia illustrissima consorte dopo quattro giorni ha di nuovo le gote latte e rosa, fresca come la brezza montana. Le suggerisco di riposarsi ma lei non m’ascolta e pensa solo ad organizzare il battesimo. Abbiamo pensato d’appellarlo o Nicolò, come il mio sior Barba e il fratello primogenito e l’avo della mia siora mojer; o Hironimo, come l’altro mio sior Barba e l’altro fratello della mia colendissima sposa. Io preferisco Nicolò, in famiglia ha più importanza. Quanto alle altre questioni […]

Item. Alla fine l’abbiamo registrato Hironimo ché la moglie qua non sente ragioni, m’accusa d’aver deciso per cinque e il sesto è suo. Inoltre è nato il giorno di San Girolamo dottor e quindi lei dice "esser destino". Non fu vero, Carlo l’ho nomato per onorare il mio fu missier Morexini, ché a mia memoria non s’ebbe mai un “Carlo” in famiglia nostra. Ma né al vento né alle donne si comanda e va bene così.

Item. Marco vi ringrazia per il regalo per il suo compleanno, un’eccellente idea la vostra onde distrarlo dalla delusione di non essere più l’ultimogenito, se ne va in giro con certi musi lunghi e per sicurezza con Hironimo s’accompagna soltanto in mia presenza, non sia mai lo sottoponga per gelosia a qualche malagrazia.

Item. A ringraziamento di Dio e la Madonna, a spese mie ho deciso di finanziare il progetto per quelle fontane con serbatoio per approvvigionamento idrico di cui v’accennavo, che per varie questioni ancora non sono state costruite e che invece gioverebbero alla città sia in utile che in ornamento. Si discuteva di commissionare la facciata agli scultori i maestri Tullio et Piero Lombardo […]

Item. Pur nella gioia s’annida il fiele, alla Signoria m’auguro siano giunti puntuali i miei rapporti circa i sospetti movimenti del Ducha d’Austria ai confini -  attendo istruzioni.

A voi mi raccomando e invoco la benedizione di Dio sulla vostra casa.

Vostro perpetuo amico e fratello, padre fortunato, Anzolo Miani scrisse.

 

 

 

(lettera indirizzata al N.H. Batista Morexini dalla sua matrigna N.D. Ysabeta Contarini relicta Morexini, da Feltre, 17 novembre1487)

 

[…] a dì 17 con nostra infinita pena e grandissimo dolore, seppelliamo in Feltre questa mia ultima nipote, nomata Emilia. Già vi confidai mesi addietro le mie preoccupazioni, quando mia figlia vostra sorella mi comunicò d’esser nuovamente grossa, malgrado mi fossi più volte e con insistenza raccomandata d’usar prudenza con suo marito vostro cognato, non essendo lei d’età consigliabile per affrontar un altro parto, in particolar modo dopo nostro nipote Hironimo ch’è già si può dir un miracolo per la svelta e facile nascita, nonché per la robustezza di membra e salute, miracolo che non s’è ripetuto con sua sorella Emilia, talmente piccola e fragile che subito la battezzammo temendo non passasse la notte. Un poco c’eravamo illusi potesse sopravvivere notando incoraggianti miglioramenti, ahimè non fu così e oggi s’è disposta la sepoltura e una messa per l’animuccia sua innocente. In casa abbiamo pianto tutti a lungo e doppia sarebbe per noi stata la doglia se non fosse alleggerita da Hironimo, cognonimato “Momolo”, che ignaro di quanto accaduto seguita ad esser un puttino vivace e felice, rallegrando questo nostro cuor in lutto[...] Malgrado la fine della guerra contro il Duca d'Austria, ancor nulla dell'arrivo del nuovo podestà, sier Hironimo Capelo. Ormai l'inverno s'appropinqua e già fioccano le prime nevicate. Pertanto, se non per Natale, sicuramente festeggeremo assieme la Pasqua [...]

 

 

(lettera indirizzata alla N.D. Ysabeta Contarini relicta Morexini da sua figlia N.D. Leonora Morexini Miani, da Lepanto, 1491)

 

 

[…] Il Momolo vi saluta con tutto l’affetto del suo cuoricino. Pur tenerello, si rammenta assai bene di voi e mi domanda spesso vostre notizie. Sa esprimere qualsiasi concetto, forte e chiaro, e recita, correttamente, il Pater Noster e l’Ave Maria; è un piacere ascoltarlo. S’inventa poi tante di quelle storielle e scherzi d’animare i lunghi pomeriggi in giardino. Dalle fantesche greche ha perfino appreso molti vocaboli e si fa capire da loro. Sta visibilmente crescendo: se sopravvivrà a questi anni incerti, a Dio piacendo verrà su un assai bel giovane, un po’ scuro di carnagione né tantissimo alto tuttavia forte di corporatura e vigoroso, le gambe belle dritte, le spalle già si vedono ampie e avrà fianchi stretti – Dio possa oltre alla bellezza fisica conferirgliene una ugualmente spirituale, tanto da farne di lui un buon cristiano! Il suo magister è di lui piuttosto soddisfatto, sostiene che quando vuole ha ingegno e una lingua pronta. […] Marchetto vi scrive ogni giorno; il mio sior marido vostro zenero gli ha regalato il suo primo calamaio di corno, completo d’inchiostro, penne e carta e Luchin vi darà oltre alle sue letterine quelle di Carlino, così possiate sentirli crescere accanto a voi […]

 

 

(lettera indirizzata alla N.D. Crestina Miani da Molin dalla sua matrigna N.D. Leonora Morexini Miani da Zante, ottobre 1493)

 

[…] Mi chiedi con grande ansietà di tuo fratello Momolo e ti dirò questo: che sta crescendo nel puttino più dolce e bello di cui si possa sperare esser genitore. È sorprendente quanto sia di spirito vivace e curioso; impara in fretta e a memoria senza difficoltà – purtroppo, però, solo se la lezione gli garba o non c’è santo presso cui si possa intercedere. Le sue orazioni le recita alla perfezione, oltre al Pater Noster, l’Ave Maria ora conosce il Credo, Salve Regina, Qui abitat e molte altre preghiere cui io e la siora vostra avia ci prodighiamo d’insegnargli quotidianamente. Per l’Avvento, a Dio piacendo, saprà leggere il latino senza interrompersi e senza strafalcioni di pronuncia; conosce a menadito molte poesiole e canzonette sia in lingua veneziana che greca, con cui ci diletta dopo cena. Possiede una robusta inclinazione verso la matematica, il tuo sior Pare mio marido per gioco lo interroga con alcune somme e sottrazioni così, al volo, che Momolo risolve con grande facilità. Si diverte a giocare all’aria aperta, anche se i dispetti dei suoi coetanei lo fan star male, e trova molto spasso nell’accompagnare in barca i tuoi fratelli a pescare o in spiaggia a raccogliere conchiglie.

Dal tuo sior Pare mio marido ha ereditato l’attitudine ad organizzare ogni attività fino al dispotico se non lo si ferma. Vuol far tutto lui e non accetta né consigli né aiuti. […]

Ogni giorno Momolo mi chiede di te e pretende notizie dettagliate, s’accende del medesimo fuoco del tuo sior Pare se lo s’ignora e non accetta “no” o “non adesso” o “più tardi” per risposta. Perfino progetta d’imbarcarsi per Veniexia e di visitarvi alla Pasqua Teofania, mi elenca tutto il necessario per il viaggio e vuole che venga anche l’Orsolina. […] Scrivimi ogni cosa su Dionora, come sta crescendo, mi dispiace assaissimo perdermi questi suoi primi anni. Non dimenticarti d’estendere i miei saluti anche al tuo sior marido Thomà mio zenero, al suo sior fradelo sier Timotheo e al loro avo sier Francesco e non ultima alla tua madona la siora Gracimana Trivixan relicta da Molin.

 

***

 

 

Sier Antonio Trum q. sier Stae, nipote del fu Serenissimo e in quell’anno Savio di Consiglio, incuteva di primo acchito una certa soggezione: non molto alto ma di membra robuste, di non bella faccia, pareva un orso eppure, se preso in disparte, possedeva il medesimo carattere generoso e accattivante del suo illustre barba, pur indurito dalle necessità del tempo.

Prima di divenire cognato di Padre, già tra i due esatti coetanei vigeva una fortissima amicizia, nata dalla mutuae tra i Trum e i Miani per la muda di Candia e di Rodi, dove i primi possedevano solidi appoggi, ora famigliari – la madre di Antonio, madona Maria, era una Contarini del ramo candiota – ora d’amicizie accuratamente coltivate dal nonno sier Lucha Trum e i suoi quattro figli, Nicolò, Donado, Antonio e Stae. Pertanto, i lunghi anni di collaborazione commerciale li avevano avvicinati al punto da considerarsi fratelli ancor prima d’imparentarsi tramite il matrimonio con Andriana Trum e anche dopo la sua morte di parto, sier Antonio seguitò a frequentare Ca’ Miani, più che altro per la nipote Crestina cui ricopriva di mille amorevoli attenzioni – l’adorava. [5]

“Scherzosamente, Anzolo mi definiva un mercante sedentario, giacché pur conoscendo a menadito i diritti e regolamenti commerciali e il codice nautico, soltanto una volta in vita mia misi piede su di una galea e mi bastò per tutta la vita! Fortunatamente, tuo padre mi prese, a modo suo, sotto la sua ala … Anzolo apparteneva alla vecchia scuola, in cui le mani dei patrizi sono incallite dal remo prima che dal ferro.”

 

Seduto a gambe penzoloni su di un pozzo, Toniolo osservavano attento, il mento appoggiato sui pugni. Il sole ancora non scaldava eppure ovunque pullulava di gente. La curiosità morbosa per l’esilio di sier Jacomo Foschari figlio di Sua Serenità Missier il Doge e la spensierata baldoria per la visita dell’Imperatore Friedrich III e dell’Imperatrice Leonor d’Avis erano episodi ormai relegati al passato, riprendendo ciascuno le rispettive attività con la solita dovizia di formichine operose.

Quei giorni Piazza San Marco era ricoperta di un considerevole numero di piccole tavole e di bandiere ornate degli stemmi della famiglia del capitano-commerciante, il finanziatore della spedizione e reclutatore delle duecento e più anime che a fine luglio si sarebbero imbarcate con lui alla volta dei vari porti mediterranei e oceanici.

Anche il signor padre di Toniolo, sier Stae Trum, v’era tra questi, installato dietro il suo banco assieme ai suoi barba Donado e Antonio, valutando i candidati con precise domande e aggiudicandoli la mansione che avrebbero ricoperto nella galea nonché la paga in anticipo, differenziandosi infatti Venezia dall’uso straniero d’impiegare forzati e schiavi ai suoi remi e pertanto gloriando la propria flotta col nome di “galee libertà”. L’araldo pubblico aveva avvisato da parecchi giorni la popolazione e una folla di poveri ma robusti diavoli dalla Terraferma, Slavonia e Dalmazia s’era raggruppata a semicerchio, in attesa del proprio turno.

Poiché il codice nautico aveva già regolato la maggior parte dei problemi e dei casi, ai fratelli Trum non rimaneva che ingaggiare rapidamente l’equipaggio, incominciando per loro un febbrile periodo di attività e se di suo li si vedeva poco in casa, adesso ancor meno. Onde raccogliere i fondi necessari per finanziare l’impresa e acquistare la merce prevista nel capitolato d’appalto, oltre alla fraterna stavolta i Trum avevano ricorso ad una mutuae coi Miani e di fatti nel banco accanto stavano assieme a loro sier Lucha e suo fratello sier Hironimo Miani, molto probabilmente discutendo dell’attrezzatura e della squadra di calafati e maestri d’ascia da reclutare per l’ottimo e constante mantenimento della galea. Infatti, se al loro ritorno i Trum non voleva esser tenuti responsabile di danni o d’avarie, essi doveva controllare accuratamente l’attrezzatura del naviglio consegnatogli dall’Arsenale. Dulcis in fundo, i patrizi avrebbero chiamato di nuovo il notaio per sistemare i loro affari privati, salutato sier Stae sua moglie madona Maria Contarini da Candia e i suoi figlioli Bastian e Andriana e poi buondì fino a Natale, giacché onde meglio badare alle operazioni di carico, nelle ultime due settimane i fratelli Trum non avrebbero potuto per un solo istante abbandonare l’imbarcazione. Quell’anno di grazia 1452, poi, il loro fratello Nicolò e i nipoti Phelippo e Zuane non avrebbero viaggiato, troppo impegnati nei loro uffici a Palazzo Ducale, e quindi mancando d’aiuti dovevano lavorare il doppio in preparazione alla partenza.

“Toniolo, venite qua! Lesto!” , chiamò Stae Trum suo figlio decenne, che trasalendo dalla sorpresa balzò giù per raggiungere il banco paterno.

“Comandate, sior Pare?”

“Il viaggio a giugno per Tana del nostro caro amico e socio sier Lucha si prospetta assai impegnativo; pertanto ha pensato d’aggregare ai Signori di Poppa della Trona il suo figliolo, Zanzetto, invece di portarselo seco.”

Toniolo si morse il labbro inferiore, scoccando un’occhiata scettica al suo esatto coetaneo dietro a sier Lucha Miani, un giovinetto silenzioso dal capo perpetuamente chino (almeno in presenza del padre) magrolino e agile, olivastro di volto e le gote arrossate dal sole e dal vento. Come molti cadetti o figli di cadetti, s’imbarcava per via della possibilità di ottenere una borsa di studio, nel frattanto che, a spese della Signoria, gli s’insegnava il mestiere di marinaio e commerciante. 

“Zanzetto è sì un paggio, ma essendo già stato l’anno scorso a Barutto sa il fatto suo e quindi vi terrà egregia compagnia.” Tradotto tenerlo d’occhio che non impacciasse le manovre o s’esibisse in momarie, giacché sier Stae non aveva né tempo né voglia di badare a lui. Anzi, Toniolo nutriva il sospetto che già suo padre si stesse pentendo di averlo arruolato e che quello sarebbe equivalso per lui al primo e ultimo viaggio verso Candia. Oh beh, almeno avrebbe visitato i suoi parenti materni.

Toniolo ingoiò saliva amara, non contento di quella sua nuova balia.“Ci saluteremo alla partenza?”, gli chiese con un sorriso forzato.

“Se non mi crepi prima”, dichiarò scocciato Zanzetto, beccandosi un pronto scappellotto da sier Lucha Miani. “Sarà un piacere”, si corresse, ghignando verde.

Il giorno della partenza arrivò per Toniolo troppo in fretta e in quell’alba di fine luglio otto galee si apprestavano a lasciare la laguna, le vele così alte che oltrepassavano il tetto delle case.

“Adjutorium nostrum in nomine Domini.”

“Qui fecit caelum et terram!” 

“Dominus vobiscum.”

“Et cum spiritu tuo.”

“Oremus. Propitiare, Domine, supplicationibus nostris, et benedic navem istam dextera tua sancta et omnes qui in ea vehentur, sicut dignatus es benedicere arcam, Noë ambulantem in diluvio: porrige eis, Domine, dexteram tuam, sicut porrexisti beato Petro ambulanti supra mare; et mitte sanctum Angelum tuum de caelis, qui liberet, et custodiat eam semper a periculis universis, cum omnibus quae in ea erunt: et famulos tuos, repulsis adversitatibus, portu semper optabili, curusque tranquillo tuearis, transactisque, ac recte perfectis negotiis omnibus, iterato tempore ad propria cum omni gaudio revocare digneris: Qui vivis et regnas in saecula saeculorum.”

“Amen!”, si segnò Toniolo in mezzo al resto dei Signori di Poppa intanto che il cappellano di bordo deambulando per la corsia centrale benediceva nave e uomini.

Ciascun membro dell’equipaggio si trovava precisamente al suo posto, indaffarato; i balestrieri a supporto dei fanti in piedi lungo l'impavesata; il pilota al castello di prua, il timoniere nella sua navicella, mentre centosettanuno remi, in gruppo di tre, agli ordini del comito incominciarono a battere l’acqua ritmicamente. Davanti a loro, decine di piccole lance s’affannavano a rimorchiare le grandi galee attraverso il passaggio del Lido .

Un vento favorevole li aveva benedetti e una volta superato il porto, i rematori lasciarono i banchi e aiutarono gli altri marinai a issare le vele del trinchetto, della mezzana e dell’albero maestro e le galee incominciarono tosto ad acquistare velocità, finché i contorni di Venezia si persero all’orizzonte, fondendosi con la linea piatta del mare. I gagliardi, giovanissimi gabbieri più ossa che muscoli, si arrampicavano e scendevano con abilità d’acrobata lungo le corde, talora rimanendo sospesi come scimmie alle sartie.

“Sai che diceva il nostro illustrissimo ammiraglio, il Capitano Generale da Mar sier Piero Loredan?”, [6] confessò Zanzetto ad un sofferente Toniolo, aiutandolo a distendersi sulla branda dentro il pizzuolo, là dove avrebbero condiviso pasti e sonno col Patron e i suoi ufficiali. Zanzetto, afferrato Toniolo per la mandibola lo costrinse a guardarlo negli occhi così da mantenere un punto fisso e non soffrire la nausea causata dal mal di mare. Quanto a quella per il puzzo di freschin e di sudore animale e umano, a quella non sussisteva alcun rimedio.

“N-no …?”, sbrodolò sbiancando Toniolo, stringendo la coperta al petto, le budella sconquassate dalle oscillazioni della galea.

Induritevi alla fatica e alla sofferenza acciocché sappiate esporre la vostra vita per la difesa e la prosperità della Signoria!” Quindi duri ai banchi e sopporta senza tanti piagnistei e se osi vomitarmi addosso stanotte, ti rifilo uno stramuson che manco più ti riconosci allo specchio!”

Toniolo deglutì, intimidito.

Zanzetto grugnì in approvazione. “Vedrai che poi t’abitui”, gli disse più dolcemente, afferrandogli la mano cui Toniolo s’aggrappò come un naufrago ad un pezzo di legno. “L’importante è che camminando fissi un punto dritto davanti a te, così da stabilizzarti. Ah, non scordarti d’indossare una bereta, a meno che tu non voglia stramazzare al suolo. Il sole del Levante non perdona. Poi, qualunque cosa, non hai che da chiedermi!” e sorrise, contagiando anche il suo coetaneo.

Fino a Parenzo e a Pola, in Istria, le galee avrebbero viaggiato assieme anche per rifornirsi di acqua, di legname, di viveri e di montoni. Dopodiché, sorpassata Corfù, avrebbero seguito la rotta per la Morea arrivando a Negroponte e lì sarebbe avvenuto il vero addio, dividendosi ognuna verso la propria rotta: verso Candia e Rodi per far scorta dell’eccellente vino e dell’uva passa di cui i popoli del nord impazzivano; verso il Mar Nero e Tana per ammassare le stive di pellicce, pelli, pesce salato, caviale e tutti i prodotti d’Oriente trasportati dall’India o dalla Cina dalle carovane dell’Asia.

Trentacinque giorni di navigazione prima d’attraccare a La Canea, per poi proseguire a Retmino ed infine a Candia, l’omonima capitale dell’isola. Sull’infinito mare blu intenso dell’Egeo frusciavano le onde schiumose sotto la chiglia, correndo le galee di Candia e Rodi incalzate dal vento e si faceva il paesaggio costiero sempre più brullo e d’un ocra intenso, così come la luce solare vivacizzava ogni colore, rendendolo quasi accecante.

Trentacinque giorni in cui Toniolo e Zanzetto, dopo l’iniziale ostilità, impararono a conoscersi fino a divenire inseparabili, dove stava uno compariva l’altro e a Candia egli presentò il piccolo Miani ai suoi barba Contarini come “il più caro amico ch’io abbia mai avuto a questo mondo.”

 

Le malelingue battevano, ovviamente. Le amicizie delle galee, contro cui il Consiglio dei Dieci tuonava, meditando in qual momento Dio, come nella Bibbia, avrebbe sfogato la sua collera contro certi vizi lì assai frequenti, fomentati da una ciurma giovane (non si reclutava oltre i trentacinque anni) e seminuda per la maggior parte del giorno.

Momolo non aveva mai dato credito a tali dicerie, pur non sfuggendogli i toni rilassati e complici tra Padre e sier Antonio, diversi perfino da quelli che il genitore riservava a Madre. Un uomo, se assennato, si morde la lingua dinanzi ad una donna. Tra di loro, invece, non sussiste alcun freno. E se il Momolo tradiva qualche scetticismo, l’Hironimo confermava ché i discorsi tra lui, Marco e Piero Contarini e i suoi amici difficilmente li avrebbe potuti riferire a Madre o Helena senza imporporarsi imbarazzatissimo.

Sicuramente, la vita marinaresca non aveva reso Padre un gran gentiluomo: la pelle brunita; i capelli castani schiariti e un poco rovinati dalla salsedine; le mani più callose di alcuni patrizi suoi pari; sboccatissimo nella collera, superstizioso (il verde non lo indossava neanche sotto tortura), goloso di panbiscotto ammorbidito nel vino e ogni volta che da piccino Momolo l’abbracciava, giurava di cogliere l’odore salso del mare sulla sua pelle e paesaggi esotici affioravano immediatamente alla sua mente. Prima di sposarsi, molto spesso, nei bei giorni d’estate, di conserva coi suoi amici remava la sua gondoletta e faceva con essi a gara a chi arrivasse per primo alla Chiesa del Lido. Oppure, nelle piscine (o bagni) formatisi a causa del moltiplicarsi degli edifici e dell'interramento, lui ed i suoi coetanei si sfidavano a gare di nuoto oppure di lotta libera nei ginnasi, in gare di salto, di corsa o di tiro dell’arco a seconda dell’inclinazione del giorno. Passatempi che Hironimo aveva ereditato e che anch’egli praticava con gusto.

Abituato ad essere obbedito senza discussioni e ad esprimersi in concetti chiari e concisi, a Padre la galanteria e la diplomazia rimasero grandi sconosciute fintanto che esercitò la mercatura navale. D’altronde, in galea non servivano a nulla, non quando s’intraprendevano insidiosi viaggio di quattro mesi fin quasi di un anno e mezzo, con la claustrofobica compagnia di una ciurma composta dai più indigenti della Repubblica, sotto la disciplina ferrea del mare, con l’ansia del cargo e la paura ogniqualvolta s’avvistava una vela foresta, seguita immediatamente dalla furia dell’arrembaggio.

“In quel momento, un amico fidato accanto è tutto, che ti guardi le spalle e che ti sproni fino alla morte”, gli raccontò sier Antonio, in vena di confidenze e come biasimarlo? Era la festa di matrimonio tra Marco ed Helena, aveva ecceduto di malvasia e marzemino e la malinconia l’aveva colto, lamentando l’assenza del padre dello sposo e amico carissimo. Momolo, improvvisatosi suo confessore, lo lasciava parlava a ruota libera. “In quel momento, sei tu e il tuo avversario. Non hai nessun luogo dove fuggire o nasconderti, sei prigioniero tra il legno e il mare e lì è la tua vita o la loro …”, e incominciò a narrargli di un abbordaggio così come l’aveva saputo da suo cugino il fu sier Zuane Trum, anch’egli un amico intimo di Padre.

 

“Duri ai banchi! Duri ai banchi!”

Dal ponte di comando Zuane Trum, sopracomito, intimava urlando ai rematori per avvertirli di mollare la presa ai remi e di tenersi saldamente ancorati alle panche, in vista dell’imminente impatto.

Appena avvistate le piccole ma agilissime navi dei pirati berberi, non scorgendo via di fuga e piuttosto di lasciarsi attaccare il figlio di Nicolò Trum aveva deciso di speronare quella maestra per primo, cogliendola alla sprovvista. Le sue galee sorelle avrebbero poi stretto il loro cerchio di morte, creando un’unica piattaforma di combattimento.

Il cannone di corsia centrale e quelli di piccolo calibro sulla rembata avevano tenuto i pirati sufficientemente distanti per coordinare la manovra, tuttavia le sollecitazioni delle bocche di fuoco stavano scuotendo troppo la galea, rischiando di danneggiarla più dell’attacco delle fuste nemiche.

“Tenete pronte le falci e quando le saremo contro tagliatele le manovre! Preparate i vasi di calce e polvere! Stoppe imbevute di pece, resina e zolfo - veloci! I balestrieri mirino alle vele! I fanti pronti a respingere ogni tentativo d’abbordaggio!” e rivolgendosi concitatamente al cappellano di bordo: “Quanto a voi, Padre, assolveteci dai nostri peccati e benediteci per la battaglia!”

 

“… quando le galee collidono, vedi doppio e ti rimbomba ogni organo interno che te li senti uscire dalla bocca. Non ragioni più, sai solo che hai in mano una scure, una daga o qualsiasi oggetto tagliente e a guisa di macellaio ti getti all’urlo di Marco! Marco! perché se quei cani ti rubano il cargo, eh!, o in fondo al mare o in fondo ai Pozzi, per debiti ci finisci … Mio cugino, buonanima, contrariamente ai signorini d’oggigiorno che se ne stanno al sicuro a poppa, scendeva in prima fila coi suoi e tuo padre non era da meno, per un amico non avrebbe esitato prendersi una freccia in pancia al posto suo … ”

 

E via! Uno, due, tre, in una claustrofobica rissa di corpi, scudi, picche e scuri; gli schizzi di sangue volavano alti assieme a grida e bestemmie, ad arti tranciati in netto, gole sgozzate e budella fuoriuscite, unite al tanfo di carne bruciata ed escrementi – Avanti! Marco! Marco! Nella speranza che tutto finisse presto, gli occhi brucianti dal sangue, sudore e salsedine …

Zuane Trum aveva perduto il conto contro quanti avesse affondato la lama, o di quante avessero scalfito il suo corsaletto a botta, imbrattato da capo a piedi di sangue viscido e schiumoso. Le orecchie gli fischiavano, rendendolo sordo ad ogni stimolo esterno se non quello d’avventarsi sul prossimo avversario, senza concedersi il lusso neanche di premersi il naso gocciolante da un pugno finito male, leccando via con la lingua.

“Sopracomito, indietreggiate!”

L’uomo cercò affannato con le orecchie la sorgente di quella voce, come solgono fare i ciechi così da evitare colpi vigliacchi e morte certa.

Un diciottenne Anzolo, sbucato chissà dove, con dei fanti stavano gettando sul parapetto vasi di sapone molle e i pirati, scivolando, offrivano con divina facilità la gola alle spade e scuri veneziane.

 

“Che diceva sier Zuane di Padre?”

“Lo descriveva come un compagno leale e generoso, ma spietato peggio d’un turco coi nemici.” E da parte di colui che li odiava a morte, avendogli ucciso barbaramente il cugino Zuane a Negroponte, corrispondeva essa ad un’esauriente descrizione sulla ferocia dimostrata da Padre contro chiunque attaccasse lui e la famiglia.

Momolo gli credeva, da arrabbiato Padre lo terrorizzava al limite, accendendosi d’ira come il fuoco greco e se Madre non intercedeva, ammorbidendolo, in più occasioni sarebbero volati (nel suo caso) rimproveri ben peggiori di quelli già tremendi che doveva incassare.

O sarebbe volata direttamente gente, come quella volta, durante la pressa dei dì del Carlevar, in cui spintonarono Madre per terra e Padre, afferrato il fellone per la gola, l’aveva costretto a domandarle perdono. Come avessero evitato una conseguente denuncia, mistero.

“Devi capire, Momolo, che tuo padre non era una persona di natura violenta, lo diventava quando si sentiva minacciato. Purtroppo, in galea incancrenisci codesto difetto.”

“E allora, quando stava … tranquillo? Non lo ricordo mica affabile, io.”

“Vero, possedeva un’anima nervosa e inquieta … Però in una cosa v’assomigliate.”

“In che?”

“Una linguaccia lunghissima. An, possedeva una fantasia di poeta nell’insulto!  Poi, sai Momolo, credo si sia ingentilito una volta abbandonato il remo.”

“Uhm.”

“Non sei convinto?”

Momolo sospirò, guardando infelice la sala addobbata a festa, laddove i giovani, indossate le maschere e abbandonando i rispettivi genitori e parenti alle eccellenti vivande, s’erano portati al centro per improvvisare gaie danze e civetterie maliziose. Al tavolo degli sposi Marco stava litigando ridendo con Lucha e Giorgio suo cognato, intenti a strappargli il bicchiere dalle mani. “Basta vino, hai da lavorare stasera!”

In altre circostanze, il diciassettenne sarebbe stato tra i più chiassosi animatori, sennonché al momento delle felicitazioni (grazie a Dio ancor da sobri e digiuni) la mancanza di Padre gli s’era palesata largamente, intristendogli il cuore.

“Sembra quasi un contrappasso che l’abbia colto una morte sì violenta”, asserì il ragazzo, ingollando il vino in un sol sorso.

A quell’affermazione Trum non seppe come controbattere.

“Sier Antonio”, domandò all’improvviso Momolo, afferrando un’albicocca e tormentandola agitato. “Da tempo desideravo chiedervelo: vi sovvenite del cifrista Antonio Landi? Quello … quello che s’accordò con Zuam Batista Trivixan e il Marchese di Mantoa?”

L’uomo annuì lentamente, cauto.

“Credete … credete Padre abbia incontrato tale destino, giacché anche lui …? Insomma, in quell’anno i Dieci avevano firmato il mandato di arresto di Zorzi Valla con l’accusa di spiare per il Triultio …”

“Il magister Zorzi fu rilasciato lo stesso ottobre per insufficienza di prove”, gli rammentò severo il Savio di Consiglio.

“E se invece fosse stato perché nel frattanto aveva fornito dei nomi? Se tra questi nomi ci fosse stato Padre? Se … se l’avessero impiccato a mo’ di monito? Non era la politica allora dei Dieci, per scoraggiare la fuga di notizie?” ansimò ansioso.

Quel dubbio l’aveva tormentato negli ultimi sei anni, dopo aver assistito all’impiccagione post-mortem del segretario Antonio Landi.

Una turpe e vergognosa faccenda: Zuam Batista Trivixan, residente da quattro anni a Mantova e segretario di Francesco Gonzaga, durante le sue visite a Venezia visitava spesso in casa il segretario del Senato Antonio Landi, settantenne, così da informare il Marchese di Mantova su alcuni segreti di Stato, in particolare sul motivo esatto per cui la Signoria aveva revocato la condotta al Gonzaga. Ora, codesto Trivixan frequentava una cortigiana cui incautamente s’era lasciato sfuggire alcuni dettagli di quell’intrigo e la donna, ovviamente, aveva a sua volta riferito il tutto all’altro suo cliente, il segretario degli imprestiti, Hironimo di Amadi cui non era parso vero di sporger denuncia ai Capi dei Dieci. Arrestati i traditori, Antonio Landi venne torturato senza alcun riguardo per la sua veneranda età e di fatti egli morì straziato dai ferri; non soddisfatti e piccati di non averlo potuto decapitare in Piazzetta, i Dieci avevano deciso allora che il corpo del Landi venisse rivestito col suo comeo da segretario e, legatolo in modo che dalla folla fosse ben riconosciuto, lo impiccarono ad una forca eretta in Piazza. Hironimo di Amadi ottenne in premio due fonteghi alle farine e la cortigiana cento ducati.

A Momolo quel macabro e chiaro monito riportò alla mente quel maledetto 18 agosto dello stesso anno dell’arresto di Giorgio Valla, professore di retorica originario di Piacenza, studente dell’umanista neoplatonico Costantino Lascaris e precettore dei figli del fu duca Francesco Sforza. Si era scoperto, dopo otto mesi di carcere e numerosi interrogatori corroborati da robusta tortura, che la colpa risiedeva nel suo allievo Placidio Amerino, il quale l’aveva incastrato, nascondendosi dietro l’amicizia di lunga data tra il suo maestro e il luogotenente del Re di Francia, Gian Giacomo Trivulzio, quest’ultimo il vero artefice di quell’intrigo finalizzato a scoprire i maneggi tra la Serenissima e il duca Ludovico il Moro. Valla per un soffio aveva avuto salvo il collo, mentre il suo discepolo, malgrado le suppliche di clemenza ai Dieci, condannato a morte per spionaggio. Gran bell’amico s’era rivelato il Trivulzio, che l’aveva sfruttato per impiantargli addosso un suo informatore, cacciandolo nei guai con la Signoria!

In ogni modo, il sospetto che forse, magari, Padre avesse potuto …

“Per qual motivo, sentiamo, avrebbe dovuto Anzolo lavorare per il Triultio?”, berciò adirato sier Antonio, la fronte corrugata. “Così poca stima nutri nei suoi confronti, da pensarlo un gretto venale che si vende al primo minchione che gli sgancia danari? Tuo padre finanziò di tasca propria molte opere pubbliche; in prima fila combatté sia sul Po sia assieme a Guido de’ Rossi contro quei cani degli Austriaci, in pieno inverno nel Passo di Celazzo con la neve fino alle ginocchia e nel bel mezzo di una bufera! E tu credi che si sarebbe a tali porcate abbassato?”

“Molti cosiddetti fedelissimi e boni marcheschi hanno calato le braghe o per paura o per avidità, servendo oggi la Signoria e l’indomani tradendola!”

“Sacramento, ragazzo! Se non fossi suo figlio ti spaccherei il muso!” e da come sier Antonio s’alzò dalla sedia, Momolo sospettò la veridicità di quella minaccia.

Fortunatamente per ambedue, sier Batista Morexini li raggiunse, sedendosi strategico tra i due litiganti.

“Via con la malinconia!”, riempì loro di vino le coppe l’allora Savio di Terraferma, improvvisandosi Ganimede a scapito del povero servitore cui aveva sottratto la caraffa. “Momolo, le feste esistono per scappar via dai noiosi vecchioni, mica per punzecchiarli riesumando antiche reminescenze, le quali, come lo sterco, a furia di rivangare puzzano di più.”

“La perdonanza, sior Barba e anche a voi, sier Antonio”, ammise il ragazzo, studiando mesto il liquido dorato. “Non avrei dovuto imbastire certi discorsi …”

Captando il visibile malessere nel nipote, sier Batista s’informò da sier Antonio: “Di che conversavate?”, pur intuendone benissimo il tema.

Il Savio di Consiglio sbuffò snervato. “Momolo qui teorizzava una correlazione tra l’arresto di Zorzi Valla e la morte di Anzolo”, riassunse brutalmente sintetico.

“A bèmpo! Che monae vai blaterando?”

Paonazzo in volto, il diciassettenne pur a malincuore difese la sua ipotesi: “Il mio bisnonno Marco finì sotto processo per corruzione a Corfù e mio nonno Lucha esiliato per un anno da Veniexia per aver fatto parte di una strana setta. Forse, forse possediamo un sangue disonesto …”

I due Savi si scoccarono un’occhiata compassionevole. “Momolo, guardami bene dritto negli occhi”, posò sier Batista le dita sotto il mento del nipote, costringendolo a sollevare la testa. “Anche mettendo caso che tuo padre fosse stato un traditore, credi sul serio che la Signoria l’avrebbe fatto assassinare così, di nascosto, con metodi da Borja? No, come opera con tutti, l’avrebbe condotto in Senato e lì giudicato, publice e non nell’ombra, e sempre davanti agli occhi di Dio e degli uomini, se colpevole, giustiziato o esiliato!”

“Sì ma i fuoriusciti, quelli sì che li assassinano di nascosto …”

“Per evitare casus belli e solamente se non riescono a rapirli e a riportarli qui, a Veniexia, ond’essere giudicati dalla sua buona giustizia”, tagliò corto sier Batista. “Quanto a tuo padre, ripetendo il mio discorso al funerale, s’è trattato di un tentativo di furto o comunque della diffusa criminalità notturna …”

La musica di una piva d’impose tra i tre, chetandoli.

“Oppure siete voi il colpevole”, alluse sornione sier Antonio nel tentativo di scacciar via la depressione generata da quella conversazione. “Anzolo l’odiavate perché ogni volta vi batteva nelle regate e nelle gare di nuoto e voi, pregno di quella boria imparata dai Portoghesi, non tolleravate che uno delle Cha’ Nuove umiliasse voi delle Cha’ Vecie e Apostoliche.”

“Zò, lustrissimo sior Toniolo, la senilità v’ha sbattuto la padella in testa?”, inalberò scioccato sier Batista. “Che asinerie andate ragliando? Al quel cancaro del mio cugnà volevo bene. Anche quando mi batteva nelle gare. Certo, ancor mi domando come quella santa di mia sorella lo sopportasse, ma tra moglie e marito non ci mettere il dito, no?”

“Ma se veniste alle mani e vi buttaste giù in canale!”

Il Savio di Terraferma bevve un lungo sorso di malvasia. “Non mi ricordo”, nicchiò e sier Antonio ghignò feroce.

“Ma sì, stavamo assistendo ad una momaria e ad un certo punto, uno dei personaggi affermò come al mondo non esistesse donna più brutta di sua moglie. Al che, alzandovi, esclamaste che invece esisteva ed era mia cugina Orsetta, talmente brutta da trasformare il vino in aceto e che solo un cieco, un infoiato o povero in canna avrebbe avuto il coraggio di sposarla!”

“Io questo ho detto?”

“Sì, pur aggiungendo che ormai vista l’età doveva aver la mona asciugata e che piangevi la sorte di colui che se lo sarebbe scorticato in carne viva, fottendola …”

“Ma va là!”

“Carissimo, eravate talmente ubriaco che avreste ingiuriato anche il Papa, l’intera curia romana e loro madri, se, arrabbiati, non v’avessimo chetato prima. Imbriago spòlpo geravate, vui!”

“An sì?”

“Oh sì. E quando Anzolo s’erse a difesa dell’onore di mia cugina, gli elargiste il gesto della fica urlandogli: Squattrinato come sei, te la scoperesti anche domani pur di mettere legna in camino e una toppa alle braghe tue, an, Miani? Pezzente!

“Oh, gran mercé”, si dolse sier Batista, pizzicandosi la radice del naso e tuttavia a Momolo non sfuggì l’arricciamento divertito della sua bocca.

“V’accapigliaste alla stregua di due lavandaie. Voi ad un certo punto tagliaste i lacci delle calze ad Anzolo, per prenderlo a scudisciate con la vostra scarpa, dandogli del rematore greco, sennonché Anzolo vi diede a sua volta una tallonata sui vostri cogliombari e tentò d’annegarvi in canale, dandovi della puttana. Ancora mi domando come evitaste l'arresto in quell'occasione!”

Momolo tappò una scrosciante risata con la bocca, ricavandone un misto tra singhiozzo e grugnito e pure sier Batista, ilare, batté il pugno sul tavolo e assieme a sier Antonio Trum i tre uomini divennero paonazzi in faccia dal gran ridere, al punto d’asciugarsi le lacrime agli occhi.

“An sì, adesso mi sovvengo della zuffa. Ma quelle parole in fede mia mai le pronunciai! Ve lo giuro sulla tomba di mia suocera!”, protestò ansimando sier Morexini, prendendo fiato. “Il mio sior barba Francesco, Momolo, le sberle che non mi diede Anzolo finì per darmele lui!”, esclamò ilare. Attirata l’attenzione del coppiere, lo istruì di servirli d’un altro vino, rosso scuro e corposo, appellato Lacrime di Cristo. 

“Che poi, Toniolo, voi non me la raccontate giusta: perché v’incavolaste? In fondo, in tutta Veniexia era risaputo come Orsetta Trum vostra cugina pareggiasse in beltà a Gorgone Medusa! Non foste voi, a Palazzo Ducale, a commentare durante la sua festa di matrimonio col Grillo: Alegreza per otto dì et grameza per sempre?” [7]

Sier Antonio per poco non mancò di soffocarsi col vino, ridendosela alla grossa.

Ristabilito l’umore spensierato e frivolo da festa nuziale, Momolo si concesse di lasciarsi contagiare e coinvolgere in quei lazzi triviali, pur contenendo a fatica la sorpresa nell’apprendere quel lato di Padre, di solito descritto all’unanimità come serio, poco incline agli scherzi e rispettoso del prossimo e della legge.

Quant’è bella giovinezza invero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Nomi di città  e isole in veneziano /italiano: Barutto = Beirut;  Antona = Southampton; Ventona = Winchester; Candia = Creta; Bruza = Bruges

 

Come accennato nell’introduzione del capitolo, la parte 2 non tarderà ad essere pubblicata. Infatti il capitolo era venuto un qualcosa di mostruoso, 50 pagine circa. Siccome Hoel non desidera venir accusata della morte degli altrui occhi, ha deciso di dividerlo. Quindi state in campana.

l nuoto era di antica tradizione presso i Veneziani. Da un codice si ha questo passaggio: "Angelus Heremita, anno 1312, cum esset fere annorum 100, respondit, quod bene vidit dictam piscinam et ibi intus se balneavit". Nelle isolette lagunari si formavano piscine e laghetti a causa dell'interramento e del moltiplicarsi degli edifici. Lì nuotavano i ragazzi e alcune di queste piscine erano usate al posto dei bagni, supponiamo quelli termali visto che comunque si trattava d'acqua salsa. Uno di queste piscine più famose era quello di San Daniele, dove c'è attualmente l'Arsenale.

Inoltre, nel quadro "Miracolo della Croce caduta nel canale di San Lorenzo" di Gentile Bellini (1500), si vedono dei natanti utilizzare stili di nuoto quali lo stile libero e rana.

Ci siamo molto divertiti a scrivere questo capitolo, soprattutto perché buttato così, senza dover seguire la trama tranne per le riflessioni che s’allacciano al capitolo precedente. Spero di averle rese bene, soprattutto dall’ottica maschile.

Queste digressioni possono sembrare superflue, ma come anticipato, in questa storia ci sono due narrazioni qui: quella prettamente storica e quella intimistica, per dire. Il Nostro sta tirando le somme, si sta guardando indietro e cercando di far pace con se stesso. Le lettere sono di mia invenzione, utilizzando però come modello delle loro sorelle coeve, scritte tra famigliari.

In ogni modo, spero che il capitolo vi sia piaciuto, a prestissimo col numero 14!

 

 

Un po’ di noticine:

 

[1] il motivo per cui Anzolo si arrabbiò così tanto, fu perché, come previo avvocato e giudice, ben conosceva questo metodo esser usato dai pasticceri per adescare i bambini e ragazzini per prostituirli dopo averli portati in retrobottega. I pasticceri, assieme ai barbieri, fungevano spesso da mezzani nella prostituzione maschile.

[2] che Giovanni Foscari facesse un po’ la cresta sui noli (dazi) ci è confermato dalle lettere di lamentela ai consoli veneziani a Londra da parte di Marino Dandolo, costretto a pagare 17 ducati sui panni venduti a Siracusa.

[3] le vicende narrate da Anzolo riassumono le Guerra delle Rose tra i Lancaster e gli York, la prima fase vinta da Edoardo IV York, il quale istallatosi sul trono, aveva riaperto immediatamente i commerci, specialmente con Venezia a seguito dei vergognosi eventi della “caccia al Lombardo” a Londra, dove molte case di mercanti italiani vennero brutalmente saccheggiate. Infatti, a causa della guerra e delle tensioni tra mercanti e i locali, molti Genovesi e Napoletani avevano smesso di commerciare con l’Inghilterra e anche i Veneziani furono lì per lì d’imitarli, specie a seguito delle angherie del sindaco di Southampton John Payne (Zuanne Peine nel capitolo) che raddoppiava impunito i dazi e li ostacolava in generale. Edoardo IV mise subito in chiaro con la Signoria, promettendo severi provvedimenti a chiunque osasse molestare i Veneziani. In ogni modo, loro se ne stavano o sulla galea o nei fonteghi o a casa dei loro conterranei fissi, a Southampton sappiamo essere i Priuli e i Pisani per certo. Le tappe di solito erano almeno tre: Londra, Winchester per le sue fiere e appunto Southampton. Essendo l’Inghilterra un mercato ancor più profittevole rispetto a Bruges e Anversa, le galee si trattenevano di più, fin quasi ad un anno. Altri eventi menzionati sono le tensioni tra il nuovo re Edoardo IV e il Conte di Warwick (Conte di Varvici) “The King’s Maker” colui che aiutò gli York a vincere contro i Lancaster. Il Conte voleva sposare Edoardo o ad Anna di Valois o a Bona di Savoia (sì, proprio la Bona che andò in sposa a Galeazzo Maria Sforza), ma Edoardo s’era innamorato follemente di Elizabeth Woodville in Grey (Yxabela Greia), vedova lancasteriana. Si sposarono segretamente appunto nel 1464 con disastrose conseguenze.

[4] gàtolo = collettore in muratura posto sotto la pavimentazione dei percorsi cittadini. Fogna, in soldoni.

[5] Lo supponiamo da questo fatto: Antonio Tron, al momento della morte nel 1524, nominò suo erede il suo pronipote Gaspare di Tommaso da Molin e di Cristina Miani, lasciandogli in eredità una grandissima somma di danari, mentre ai cugini Luca e Marco Tron, solo un “zerto stabele a Rialto, conditionato si harano fioli”.

Quanto alla sua poca dimestichezza nella marina, lo ammette lui stesso quando giustifica al Senato il suo rifiuto di sostituire Angelo Trevisan come Capitano Generale da Mar; noi vogliamo credere all’uomo e non perché gli fu chiesto in un periodo delicatissimo, il 1511 appunto. Tuttavia, ci par ugualmente strano, visto che i Tron fecero i soldi appunto coi commerci e suo nonno Luca Tron e suo padre Eustachio (Stae o Stai) Tron stavano più a Creta che a Venezia, in un continuo su e giù, tant’era vero che Eustachio si sposò perfino con una Contarini del ramo cretese. Fino a prova contraria, concediamo il beneficio del dubbio. Almeno è stato onesto, dai.

[6] Pietro Loredan, fu Capitano Generale da Mar e Provveditore d’Armata, uno dei migliori comandanti della Serenissima: vincitore dei Genovesi a Modone; dei Turchi a Gallipoli; del Re d’Ungheria a Motta di Livenza; conquistatore della Dalmazia  e colui che, dopo aver respinto i Milanesi a Brescia, per poco non aveva preso a calci nel deretano il Carmagnola, intimandogli di cessare i suoi tentennamenti e d’ingaggiare il nemico, come puntualmente avvenne a Maclodio. Fu il grande avversario politico di Francesco Foscari. Questa sua riconosciuta grande abilità militare gli costò il dogato, perché gli avversari politici durante i ballottaggi per l’elezione ducale, fecero pesare la sua eccellenza militare a sfavore del successo nell’elezione, dicendo che il Loredan sarebbe stato molto più utile come capitano che come doge. A peggiorare la rivalità tra le due famiglie, Foscari e Loredan, fu il sospetto d’avvelenamento di Pietro L. da parte del Francesco F. e ai processi del ’52 e ’56 di suo figlio Jacopo F. a capo dell’accusa, nel Consiglio dei Dieci, ci furono rispettivamente il figlio e il nipote di Pietro L., Giacomo e Francesco Loredan che persuasero poi il Senato ad approvare l’abdicazione dello stesso Doge. Nicolò Miani di Marco, zio di Angelo, giocò un ruolo attivo in ambedue le vicende, prima come consigliere dei Dieci (fu lui ad aprire l’inchiesta, interrogando il testimone circa l’omicidio d’Almorò Donà) poi nella Zonta. (maggiori informazioni la vicenda Foscari-Loredan, vedi “Jacopo Foscari”, nota del Capitolo IX)

[7] questa è proprio vera. Narra il Sanudo: Questo Doxe (Nicolò Tron)  maridò una sua fiola brutissima in sier Hironimo Contarini q. sier Francesco ditto “Il Grillo” et fo fatto belle feste in Palazo, la quale andò a marido in bucintoro. […] E’ da saper sier Antonio Trum q. sier Stai, nepote del Doxe, andava dicendo: “Alegreza per otto dì et grameza per sempre.”

Che cavaliere!

 

 

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Capitolo 15
*** Capitolo Tredicesimo, parte seconda: Confiteor ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 13.11.2021

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Capitolo Tredicesimo, parte 2

Confiteor

(Onora il Padre …)

 

 

 

 

 

Visitatori e ambasciatori a Venezia spesso annotavano, sbalorditi e scandalizzati, la balzana sintonia tra patrizi, cittadini e popolo, laddove non sussisteva alcun aspetto della vita quotidiana né alcun divertimento, in cui i cosiddetti “inferiori” non condividessero coi loro “superiori” e come quest’ultimi non esigessero alcun rispetto esteriore dai primi. Una convivenza pacifica regolata dalle scrupolose leggi e lo spazio risicato rispetto alla popolazione. Strabuzzavano gli occhi, i foresti, scorgendo magari in beccheria tra il popolino e i servi un senatore contrattare col bécher il prezzo della carne, magari il medesimo nobiluomo con cui a Palazzo Ducale avevano discusso con olimpica flemma di delicate questioni diplomatiche.

Sicché i servitori ai patrizi, nell’intimità del palazzo, fungevano anche da amici, confidenti, occasionali amanti (purché non lo si denunciasse ai Signori di Notte), balie, compagni di giochi, santoli e figliocci. Custodi quindi dei segreti dei padroni e spesso loro complici, non ci si stupiva se i Signori di Notte e la Quarantia Criminal puntassero immediatamente su di loro onde estrarre confessioni e testimonianze utili alle loro indagini. Tutt’al più li incoraggiavano con lauti compensi, come quelli di condividere metà delle multe o espropri, ad esempio, quando denunciavano i loro padroni per cospirazione, frode, fornicazione, violazione delle leggi suntuarie, sodomia e gioco d’azzardo.

Hironimo, similmente a tanti suoi coetanei, era appunto cresciuto in questo equilibrio, giostrandosi tra il piano nobile di Ca’ Miani e l’affollato Campo San Vidal; tra il portego arioso e raffinatamente ammobiliato e il marasma fumoso delle cucine; tra le fragranze d’incenso e sandalo dei brucia-profumi di bronzo e gli odori di cipolle e noce moscata delle pentole; tra la colta compagnia di Madre e quella grezza di Orsolina.

Costei era stata allevata dalla seconda moglie del nonno sier Lucha, per arginare la mancanza di figli suoi. Nata, ufficialmente, da un marinaio chioggiotto morto in mare, in realtà a Ca’ Miani non era sfuggito come la ragazza assomigliasse in maniera inquietante al padrone. Tuttavia, i servi avevano sempre taciuto a riguardo e non confermarono mai niente all’interessata in questione, prima fra tutti la sua stessa madre.

Orsolina, anima semplice, s’era dimostrata una compagna devotissima alla sua benefattrice e tale lealtà trovò premio quando, rimasta senza la sua padrona, invece d’esser scalzata da Eudokia, la fantesca di madona Leonora, quest’ultima se l’affiancò nel governo di casa giacché “voi conoscete anche l’ultima sua pietra”.  A sancire tale muliebre alleanza, suo figlio Menego aveva sposato la candiota.

A chi dunque se non all’anziana Orsolina poteva Hironimo porre quelle domande, che neanche i suoi onorati parenti e fratelli osavano rispondere senza tergiversare, arrossire e tartagliare?

“Com’era madona Andriana, la prima moglie di Padre? In che rapporti erano?”

L’anziana massera levò lo sguardo dall’elaborata brocca di vetro che stava lavando con grande attenzione, nel frattanto che Zanetta e Ufemia o finivano d’asciugare le coppe di vetro con decorazione in doratura e smalto o lucidavano i piatti d’argento da parata. Pur non estraendo la balla d’oro alla Barbarella, Madre aveva ugualmente desiderato organizzare una festicciola per Hironimo, tirandolo su di morale e scherzando che avrebbe avuto la vita intera a starsene chiuso a Palazzo Ducale.

“Madona Andriana, patron Momolo?”, ripeté confusa la donna. Il ragazzo annuì. “Perché?”

Il ventenne fece spallucce, accarezzando distrattamente Baffo il gatto che, ristoratosi dai suoi vagabondaggi notturni, si strusciava ora tra i suoi stinchi, ronronnando. “Così? Non ne parli mai” e invero assieme ai fratelli Marco Antonio ed Emilia, morti prima ancora che Hironimo potesse conoscerli, la prima moglie di Padre corrispondeva al fantasma di Ca’ Miani, una presenza talmente passeggera e presto dimenticata, da non aver lasciato alcun’impressione duratura al punto che la sua sorellastra Crestina era considerata all’unanimità più figlia della seconda padrona, che della prima. 

Orsolina si leccò le labbra, riprendendo il suo lavoro interrotto. “Una rosa graziosissima dal fascino delicato che piace agli uomini, dai modi cortesi e imperscrutabile come un’icona greca”, esordì la massera, rievocando quei lontani ricordi di trentasett’anni addietro, quando sier Anzolo aveva condotto la giovane sposa a Ca’ Miani dopo i festeggiamenti nuziali. “Parlava poco col Patron e trascorreva la maggior parte del tempo o in camera sua o in altana e sempre in compagnia delle cugine, cognate e amiche, sicché si poteva dire andasse molto d’accordo con la nostra famiglia. Molto elegante nel vestire al limite della vanità, sempre sfoggiava abiti ed acconciature alla moda, ognora pronta a farsi ammirare alle feste di precetto e alle cene dogali. All’incoronazione a Principe Serenissimo del suo barba Nicolò Trum e a Dogaresa della sua amia Aliodea Morexini, ella sfilò in Bucintoro nel corteo di quest’ultima e pareva una stella nel firmamento, biancovestita di raso e splendente di diamanti e filamenti di perle. Se non m’inganno, teneva la treccia legata a mo’ di crocchia da una sottilissima rete di fili d’argento, la quale luccicava alla luce del sole. Fu l’ultima volta che la si vide in pubblico, prima di … voi lo sapete.”

Hironimo storse la bocca, il cuore stretto da un’infida vena d’astio a chiunque osasse sciorinarsi in lodi sull’altrui muliebre beltà, che non fosse quella di Madre. “Erano felici? Padre l’amava?”

Quella vecchia volpe d’Orsolina captò immediatamente la sua malcelata asprezza. “L’amava per la famiglia che rappresentava. I Trum si erano rivelati un aiuto impagabile per noi, ottimi soci negli affari e in generale brave persone, anche se un po’ eccentrici. Naturale, che si combinasse un matrimonio per rafforzare la mutuae”, lo rassicurò e con fare cospiratore, aggiunse: “Io penso che madona Andriana non avesse mai dimenticato il vostro barba, il sior Marco.”

“Dunque è vero, ch’erano fidanzati e che Padre la sposò per onorare la promessa?”, strabuzzò incredulo gli occhi il giovanotto: effettivamente, un matrimonio sì importante e vantaggioso avrebbe avuto più senso per il primogenito che per il secondogenito, specie se la fanciulla in questione si trovava in perfetta età da marito ancora quando il suo barba Marco era in vita.

“No, ciance da pettegola! Ma che madona Andriana avesse sospirato per il bel Marco, quello sì che è vero, come tutte le ragazze della contrada per quello. An, l’aveste conosciuto! Un … come si chiama, quell’idolo pagano che tanto va di moda adesso? Quello sempre in bocca ai poeti?”

“Apollo?”

“Ecco, bravo, un Apollo. An, non come il vostro barba Batista da ragazzo -  oh, bone Jesu, che gran bel pezzo di figliolo! Con quegli occhi nerissimi e impertinenti,  m’avesse dato appuntamento in casoto dopo la caccia … L’avrai spolpato io che manco più camminava dritto, altro che quelle frigide cortigiane …”, si perse per la calle Orsolina, uno sguardo di beata malizia sul volto e Hironimo si mordicchiò il labbro inferiore, trattenendo a stento una risata. 

“Eh-ehm, dicevamo. Il vostro barba Marco coniugava – si dice così? – bellezza con nobiltà d’animo, di fatti stringeva amicizie con grande facilità e sapeva ben conservarle. Tutti lo tenevano in gran stima. Quando rideva, avevate il sole dinanzi e non si poteva rimanergli indifferente, vi contagiava con la sua allegria. Voi, patron Momolo, me lo ricordate moltissimo. Vostro padre, il Patron, l’adorava così come adorava l’altro suo fratello più giovane, sior Vorzilio, e più della morte del Vecchio Patron, lo devastarono quelle dei fratelli. Povero, povero sior Vorzilio, non aveva neppure vent'anni … La Vecchia Patrona, pur non sua madre di sangue, divenne mezza matta dal dolore, poiché l’aveva allevato quand’era pressoché un puttino … Vostro padre dovette intercedere presso Missier il Doxe per eseguire le ultime volontà del vostro barba Marco, non concedendogli l’autorizzazione di costruire un altare alla Madonna nella nostra chiesa di San Vidal”, tacque, tirando su col naso. Hironimo le coprì la mano con la sua e l’anziana donna lo ringraziò con un tremulo sorriso.

Sbattendo via con le ciglia le lacrime traditrici, Orsolina si schiarì la gola e proseguì:  “Il sior Marco aveva iniziato bene la carriera, specie nello Stato da Mar e chissà cosa sarebbe divenuto se la malattia non l’avesse stroncato così giovane, a neppure trent’anni. Il sior Lucha vostro nonno, poi, l’aveva educato bene, nutriva grandi aspettative su di lui, contrariamente ai figli minori cui poco badava. Non so neanche perché il Patron abbia battezzato vostro padre Anzolo, non mi ricordo nessuno in famiglia con un nome simile … Ah sì!, perché suo santolo fu il mastro tessitore [1] … E manco Vorzilio lo so, forse perché al Vecchio Padrone piaceva leggere poesia? Bah  …  Erano diversi come il giorno dalla notte, il sior Marco e il Patron, uno pareva un cavaliere e l’altro un corsaro berbero. Eppure, vostro padre era tutt’altro che stupido o ignorante, faceva le ore piccole nello studio a leggere tomi e tomi di diosacché. Solo, le letture – come si dicono? Galanti? Cortesi? – lo annoiavano, le trovava frivole e fini a se stesse;  sapeste che battibecchi con la Vecchia Patrona, le sue amie e le sue zermane Contarini e Loredan! Alla prima critica sul comportamento di quel cavaliere francese o inglese – Lanza-lotto? – lo scannavano vivo, dandogli del turco, del bifolco, dello spirito gretto e materialista! Come se a ‘sto mondo si avesse bisogno d’ulteriori incentivi a commettere adulterio! Che poi, se è Lanza-lotto e Ginepra, va tutto bene, è grande amore; se sono io, son gran puttana! E se lo fa mio marito, è un uomo morto”, roteò l’indice in aria Orsolina, più infiammata del fu Savonarola sul pulpito.

“D’altronde, dico io, cosa vuoi? Cosa pretendi da quel povero figliolo, se lo mandi ad undici anni in galea? Cosa t’aspetti ch’impari? La galanteria? Le poesie d’amore? Il bonjù monsù?”, imitò la domestica con grottesca abilità il modo affettato dei foresti francesi, appoggiando le mani sul ambedue i fianchi e dondolandosi a mo’ d’odalisca ottomana. La cucina si riempì immediatamente del trillo allegro di risate femminili e anche Hironimo s’unì a loro. “Disciplina, obbedienza, la bestemmia e la sodomia, ecco che s’impara in mare. Manco mal che quest’ultima il Patron l’ha scampata …”

“Padre bestemmiava?! Non l’ho mai sentito!”

“Come se non peggio d’un turco prima di sposarsi con la Patrona. Il suoi poveri barba si strappavano i capelli all’udirlo, invece il Vecchio Patron scrollava le spalle, turco anche lui. Mi rincresce sentire che codesto viziaccio, estirpato dal padre sia ricresciuto nei figli”, commentò la massera, scoccando una lunga ed esauriente occhiata ad Hironimo che, imporporandosi offeso, si difese subito:

“Io non bestemmio! Mi cimento in sporchissime imprecazioni e insulti, lo ammetto, ma mai bestemmio, ché le sberle del sior Nane-Checo mi son bastate. E’ Carlino, quel turco adottato, che ingiuria e maledice San Piero [2] e Luchin talvolta quand’è in collera nera, per poi pentirsi immediatamente. Il Marchetto si sciorina in ontissime poesie da bordello, però non l’ho mai sentito tirar giù né santi né madonne.” Prese fiato, aspirando aria rumorosamente. “Ma dimmi, quando conobbe Padre mia Madre?”

“Dunque … la questione è un po’ complessa. Sier Donado Michiel, il figliastro della vostra siora nonna, s'era ammogliato con madona Cecilia Trum e sempre una zermana di vostra madre aveva sposato sier Zuanne Trum, fratello di madona Cecilia e ambedue zermani di madona Andriana. Ora non dico che i vostri genitori si vedessero tutti i giorni, vostro padre è sempre stato molto intraprendente e fino ai venticinque anni aveva viaggiato andata e ritorno in Levante, tuttavia ci furono occasioni in cui sì, ebbero modo di frequentarsi, giusto per sapere uno dell’esistenza dell’altra. Inoltre, madona Andriana e la Patrona, sfruttando il legame condiviso con la moglie di sier Zuanne, erano nel frattanto divenute amiche ed ecco che madona Andriana invitava vostra madre al suo matrimonio.”

“Quindi già all’epoca un poco si conoscevano?” e al cenno affermativo della fantesca. “Che impressione le fece?”

“An, non molto favorevole suppongo: quando si sposò con madona Andriana, vostro padre aveva appena terminato una serie di lutti, uno dietro l’altro: i vostri barba Vorzilio e Marco, il vostro nonno il Vecchio Padrone e ultimo il suo barba, il sior Nicolò, proprio poco prima dello sponsalicio, al che, considerati i cattivi auspici, avremmo tutti dovuto comprendere molte cose su questo matrimonio. Furono anni duri per lui, patron Momolo, doversi assumere la responsabilità di Cha’ Miani in sì poco tempo. Pertanto, non c’era da stupirsi se si comportava da re dei selvatici e con quella barba lunga pareva un saraceno del Cayro. Buon pro per la sua nomina ad avvocato degli Uffici a Rialto, un po’ meno per noi tarmati da processi anche in famiglia. Se il Patron s’addolcì, fu grazie alla presenza di vostra madre. Con la prima moglie si dimostrava rispettoso e cortese, guai però a contrariarlo.”

Insomma, come si comportava con tutti e ciononostante, la massera aveva ragione: pur finendo magari di borbottare rancoroso nel suo studio, Padre non esercitava alcun’influenza né autorità sull’operato di Madre, la quale se faceva quel che diceva lui era perché conveniva con la sua idea, non perché glielo fosse stato comandato. “Come ci riuscì Madre?”, l’incalzò dunque. “Nel senso, come riuscì a …”, non voleva usare sedurre, troppo scandaloso associato a lei, “… ad attirare la sua attenzione? Cos’aveva di diverso?”

“Vostra madre si comportò l’esatto contrario di madona Andriana, cioè ascoltava vostro Padre e s’interessava al suo mondo. Anche agli uomini piace, mica soltanto alle donne. La Patrona adesso la vedete come una nobildonna distinta, piena di grazia e dignità, ma da ragazzina, oh!, sapeste che scimmietta curiosa, una chiacchierina, il tormento delle suore del convento dove aveva studiato fino a quindici anni! Tutto l’incuriosiva e che risate quando tampinava con infinite domande vostro padre, pareva un levriere che tallonava la volpe. Mi ricordo che quando madona Andriana e il Patron ritornarono da Ravena, dov’era stato camerlengo …”

 

“An, Leonetta! Sapessi che viaggio da Ravena fin qua! Per poco, ho creduto di soffocare in quell’imbarcazione mezza-marcia, stipata più delle bestie da macello in galea!”

Ad orecchie profane il tono di Andriana poteva suonare giocoso, eppure Leonora ben aveva captato la venuzza di fastidio sotto l’ingannevole buonumore, forse dovuta alla gravidanza della giovane donna. Il volto pallido, tirato e lievemente sudaticcio tradiva o l’inizio di una febbriciattola o la fine di un gran mal di mare. Al che, conoscendo bene gli svantaggi di contraddire una persona già di suo alterata, la Morexini tacque e annuì, cosa che invece non fece Anzolo Miani il quale, strabuzzando gli occhi sorpreso da tal inaspettato brio nella consorte, replicò con altrettanta vivacità:

“Ma che dite? L’imbarcazione era sana e spaziosa, il vento tranquillo e regolare e non abbiamo avuto né tempesta né bonaccia.”

La maschera di gaiezza scomparve dal volto d’Andriana, indurendosi in una di pietra. “An sì? Siete stato così tanto tempo in mare, che si potrebbe dire che perfino una zattera potrebbe risultarvi comoda! Un mariner ho sposato, non un patrizio!”

Gli angoli della bocca dell’uomo s’incurvarono all’ingiù, subito sulla difensiva. “Per essere veneziana, disprezzate troppo il tramite della fortuna di vostro padre, dei vostri barba e anche di vostro marito” chiarì aspro, mentre allungava il collo in direzione di Leonora, seduta dietro il suo ricamo. La Trum aveva invitato a casa sua l’amica per raccontarle il soggiorno a Ravenna, nonché la notizia della sua prossima maternità, ma nella fretta s’era scordata d’informare il marito, il quale, attirato dal concitato cicalare nelle stanze della moglie, vi s’era subito recato onde indagare. “Non m’avete ancora presentato la vostra … conoscente?”, s’informò lentamente, sospettoso.

Andriana emise un ibrido tra uno sbuffo e una risata, s’alzò dal suo posto e, pigliata l’amica per il polso la costrinse in piedi e quasi gliela spinse sotto il naso. “Vi ricordate di Leonora Morexini? La figlia di madona Ysabeta, la zia della moglie del mio povero zerman Zuanne nonché maregna di sier Donado, il marito della mia zermana Cecilia. Vi siete già incontrati al battesimo del piccolo Lucha [3], ai tempi ancora del nostro fidanzamento!”, gli ricordò velenosa. "E ovviamente al nostro matrimonio, ma forse eravate allora troppo distratto ..."

Anzolo deviò lo sguardo dalla moglie per non tradirle la sua crescente stizza; piuttosto, preferì squadrare Leonora da capo a piedi con la medesima pignola oculatezza di un mercante, che valuta la qualità di una stoffa o di una spezia. Confrontò mentalmente le forme piene e mature di Leonora, così morbide e promettenti fertilità, a quelle acerbe e spigolose di quella ragazzina sempre seminascosta dietro la madre, che ogni tanto, di sguincio aveva notato senza però mai rivolgerle la parola. E non si poté dire che la fanciulla non ricambiò tale meticoloso studio, ugualmente intrigata da questo marito di cui la sua amica si lagnava in continuazione e di cui, personalmente, poco si ricordava. A suo modo scoprì al contrario garbarle: pur castigato da quel perenne cipiglio, lei scorgeva in quel viso serissimo occhi molti buoni. Si rilassò immediatamente, sorridendogli ed esibendosi in quei vezzosetti inchini imparati in convento.

“Vi vedo molto cresciuta dall’ultima volta”, mormorò l’uomo, leggermente spaesato senza saper bene perché. “Siete divenuta una donnina, ormai …”

“Sì, a furia di secchiate d'acqua in testa!”, scherzò Leonora e prima che Anzolo potesse replicare, Andriana gli raccontò: “Leonetta m’ha sempre tenuto molto compagnia, sin da piccole, mentre voi eravate a giocare al corsaro in Levante.”

“Corsaro? Giocare?”, ripeté suo marito, strisciando irritato la parola.

Non avrebbe dovuto impicciarsi, Leonora ne era consapevole, ma al contempo non desiderava finire arrostita tra quei due fuochi incrociati.

E la città com’era, sier Anzolo? Come sono i Ravenati? Fa più caldo o più freddo che a Veniexia? Ma è vero che lì c’è la malaria? Non vi sarete ammalato, spero! Avete visto i mosaici a Sen Vidal? A Sant’Apollinare? Sono belli come quelli a Sen Marcho e a Torzelo o di più? Aneta, carissima, suvvia, persuadete vostro marito a raccontarci tutto!”

“A che pro, Leonetta? Mio marito non va in chiesa se non per pregare: di sicuro non avrà ammirato al di là del suo naso.”

“Vi sbagliate, ho molto apprezzato le chiese e i loro mosaici, così come ho visitato il mausoleo di Galla Placidia e i due Battisteri. Eravate con me, ve lo siete già scordato?”

“An, non vi facevo così osservatore. E che opinione v’hanno lasciato, sior marito?”

“Non saprei. La stessa impressione di chiunque veda un Cristo senza barba, più femmina che uomo e le pudenda ben in mostra ai fedeli!” [4]

Andriana spalancò la bocca, scandalizzata, aggrottando tuttavia la fronte in un muto rimprovero, mentre Leonora si copriva la bocca con la mano, soffocando un risolino, le orecchie tuttavia cremisi. “Eretici sul serio!”, commentò ilare e gli angoli della bocca di Anzolo accennarono ad un timido sorriso. “Per cortesia, raccontateci la vicenda di Galla Placidia, sono sicura che a Ravena avrete imparato maggiori dettagli su di lei. Aneta è così parca di dettagli nelle sue narrazioni!”

“Leonetta, non vorrete ora che mio marito ci tedi con una lezione di storia?”

“Tediarci? Come? Una principessa, figlia di un imperatore, rapita durante il sacco di Roma da un re barbaro, di cui da ostaggio ne diviene la sua regina! Neanche i vostri novellatori o poeti riuscirebbero ad inventarsi di meglio!”

“Non confondete, amica mia, la politica con l’amore!”

“Suvvia, crudele, concedetemi di sognare un poco! Inoltre, se non erro, siete voi e non io quella che legge troppi romanzi, novelle e sonetti!”

“E voi troppo pochi! La cara Leonetta, sior marito”, ignorò Andriana le giocose proteste della ragazza, “temo sia l’unica a non aver mai gradito le imprese di un Galvano, un Percivalle o un Lancillotto. Ma oh!, come s’infiamma nel leggere le imprese degli Scipioni, di Cesare, di Germanico … Soprattutto di Germanico …”, aggiunse maliziosa, scoccandole un’occhiata obliqua.

Leonora arrossì violentemente. “Oh, Aneta, per favore non fatemi passare per una rustica beota agli occhi di vostro marito; adesso penserà che disprezzo la cultura!”

“Non trovo assolutamente rustica né superficiale una persona, che trae beneficio dalle vicende di personaggi reali piuttosto che fittizi.”

Captando l’espressione interdetta d’Andriana da quella stilettata, la giovane Morexini subito corse ai ripari, afferrando a mo’ di sostegno il braccio dell’amica. “Noi povere donne possediamo ben pochi svaghi, sier Anzolo; fortunatamente gli scrittori e i poeti, ogni tanto mossi a pietà per noi, ci dilettano con le loro creazioni. Basta non confonderle con la realtà, per il resto sono spiriti dell’immaginazione, innocui”, la difese, sfruttando l’accurato uso delle parole appreso indirettamente dai suoi fratelli.

A sua volta conscio di aver esagerato a rimproverare così la moglie dinanzi all’amica, anche Anzolo cangiò celere discorso: “Così voi prediligete Germanico?”

“Siorsì.”

“Quali aspetti, se posso chiedere, vi hanno di lui colpito?”

“L’amore per la famiglia; l’amore per la Patria; la sua natura benevola e generosa; la sua determinazione nella battaglia. Tutte caratteristiche che di certo avranno ispirato i protagonisti dei poemi e novelle cavalleresche da noi tanto amate”, reiterò quell’ultimo concetto in modo da tamponare quella sottile ma palese nota di biasimo dell’uomo circa le letture della moglie. “Dimostra che se è esistito un Germanico, un Galvano non può nascere totalmente dalla fantasia.”

“Ma ha Galvano accanto a sé un’Agrippina Maggiore che lo sostiene e lo consiglia, che lo segue all’accampamento, che incoraggia lui e i suoi soldati anche nei momenti più bui e disperati; una donna con cui condivide sia i disagi e le ansie sia il trionfo della sua impresa? Non credo. O è un’evanescente dama-trofeo-angelo per cui langue d’amore per nulla avere in cambio se non uno sguardo, o un’adultera seduttrice che lo disonora più che elevarlo. In ambedue i casi, una palla al piede. Per questo, il cavaliere alla fine rimane sempre solo, poiché alla fine la donna lo intralcia, deviandolo con la sua natura sostanzialmente viziosa, quando non angelicata, ma in quel caso non può trattarsi di un essere umano di carne e sangue.”

Le due giovani donne tacquero, il capo chino ma dialogando cogli occhi, quale miglior risposta dare. Al che, Leonora, armatasi di coraggio e non avendo nulla da perdere, sorridendo furbescamente azzardò: “Appunto questo, sier Anzolo, la nostra illustre conterranea Crestina da Pisan [5] rimproverava ai suoi colleghi: “Sembrano tutti parlare con la stessa bocca, tutti d'accordo nella medesima conclusione, che il comportamento delle donne è incline ad ogni tipo di vizio.” Vedete, come noi donne per prime biasimiamo codesti vaneggiamenti di poeta se eccessivamente immaginosi? Se nella loro fantasia appariamo sfuggenti, capricciose e sfacciate, nella realtà siamo savie, discrete e prudenti - più delle Agrippine che delle Ginevre. Ora, però, non perdiamoci in calle con questi discorsi a noi non congeniali e invece dilettateci con la storia di Galla Placidia che ci avete promesso …”

 

 Similmente agli infaticabili mulini trevigiani, il cervello d’Hironimo girava in piena confusione, incapace di conciliare le immagini evocate, di Padre e Madre come li conosceva lui -  composti, sicuri di sé, fieri – a come li aveva invece conosciuti Orsolina, la quale aveva spiato la gustosa scenetta, ovver un serioso giovane uomo stanco dal lungo incarico fuori sede e una fanciulla iperattiva, che gli dava il tormento con infinite domande e lo impegolava in lunghe conversazioni. Il ventenne concluse che tal comportamento gli ricordava il suo; ripensandoci bene, anche lui da piccolo non voleva staccarsi da Padre al suo rientro dagli uffici, aggrappandosi alla manica della toga e tirandogliela piccato quando non soddisfaceva esaurientemente la sua infinita curiosità o peggio, quando Hironimo si accorgeva come Padre stesse fingendo di ascoltarlo, mentre lo rendeva partecipe dei suoi ragionamenti.  

“E non s’infastidiva?”, arcuò dubbioso il sopracciglio, memore dei stizziti rimproveri di Padre all’ennesimo strattone.

L’anziana donna ridacchiò sorniona. “A parole! Ma gli occhi raccontavano ben altro …”, arricciò maliziosa la bocca, al che lo stomaco d’Hironimo s’attorcigliò dolorosamente su se stesso, paventando scenari disonesti dietro le ragioni di quel secondo matrimonio. Afferrandole le mani rugose, inquisì ansioso:

“Orsolina, sii sincera, in quegli anni Padre e Madre furono mai … ?”

“Cospetto!”, s’inalberò la massera, sottraendo di malagrazia la mano e fulminando il giovane con lo sguardo, indignatissima da quella sconcia insinuazione. “Vostro padre pur coi suoi difetti rimaneva un uomo timorato di Dio e vostra madre la più onesta delle fanciulle!”, protesse a spada tratta i padroni. Sbuffando a guisa di toro, riprese un po’ più calma: “La Patrona peccava di grande ingenuità, questo sì, e se aveva dato simpatia e conversato col Patron più del lecito, fu perché lo considerava quasi un parente e dunque inoffensivo, come se codesti legami possano difendere una fanciulla dalle malizie degli uomini. Fu una fortuna per lei, che il Patron non appartenesse a quell’infame categoria che s’approfitta delle amicizie e delle parentele delle rispettive mogli per i loro sozzi comodi, vergognando così la malcapitata di turno, la sua famiglia, la legge, Veniexia e Domine Iddio stesso. Vostro padre, io so quante volte si batté il petto in mea culpa e le rigorose penitenze cui si sottoponeva per scappare alle lusinghe del malvagio demone asmodeo …  Però i suoi occhi s’illuminavano d’una luce speciale ogniqualvolta veniva in visita alla moglie la Leonetta”, e sorrise dolcemente, le dita sotto il mento e un’aria quasi sognante. “Orsola, Orsola cara, scendeva correndo trafelato in cucina, vien la Leonetta per la merenda, fai preparar quei dolcetti di fichi e noci che tanto le piacciono! Neanche da ragazzino lo vidi mai così contento. Ahimè, s’era beccato il mal del Lanza-lotto, solo all’inverso.”

Hironimo in tutta onestà, man mano che il racconto proseguiva, non sapeva più cosa pensare, basito. Aveva creduto Padre un uomo pio, severo, bacchettone e non un potenziale adultero a neppure due anni di matrimonio, con la moglie che ancora indossava le perle da novizza [6] “Non cedette mai? Proprio mai?”

“Lo spirito è forte, ma la carne è debole. Vostro padre pur non sfiorandola con un dito né palesandole i suoi pensieri, purtroppo non riuscì a non commettere una piccola imprudenza: regalò infatti a vostra madre una striscia di bel panno di lana inglese, da metter sul collo d’inverno quando l’umidità della nebbia diventa insopportabile. Il vostro barba Batista glielo scorse immediatamente e trascinatala in studio dai fratelli, la costrinse a rivelarle dove e come se lo fosse procurato. Estortale la verità, i vostri barba andarono su tutte le furie, manco il Patron gliel’avessero mangiata viva. Quand’invece la colpa ricadeva totalmente su di loro: invece di contar soldi o fare i Portoghesi, avessero tenuto più sott’occhio la sorellastra! Vermocane! Una scena indegna e con la povera madona Andriana in cima alle scale che ascoltava, grossa della vostra sorellastra, talmente bianca che dovetti accompagnarla in letto o mi moriva sul posto!”, gonfiò le guance Orsolina, nelle cui orecchie ancora rimbombava il furioso confronto tra i Morexini al gran completo e sier Anzolo nello studio di quest’ultimo, laddove egli protestava furibondo la sua innocenza all’accusa di stupro e adulterio ed esprimeva la sua sorpresa e delusione nel sapersi così poco stimato, se invero lo si credeva capace d’approfittarsi della candida innocenza di una fanciulla, per di più amica intima di sua moglie.

“La povera Patrona, cascando giù dalle nuvole, provò un’immensa vergogna per tale incresciosa situazione e scrisse numerose lettere a madona Andriana, in cui giurava sulla tenera memoria del fu suo padre il senatore sier Carlo "da Lisbona", come mai e poi mai si sarebbe impegolata in sì turpi negozi. Ci volle un bel po’ di tempo, prima che le due amiche si riconciliassero e comunque, da allora in avanti, le visite le faceva madona Andriana e non viceversa.”

Un punto ad Hironimo non tornava. “Come mai i miei barba acconsentirono alle loro nozze? Da quanto mi racconti, lo odiavano!”

“Suppongo che sotto-sotto non avessero mai creduto nell’innocenza del Patron e che quindi il loro corrispondesse al giusto modo di riparare al torto inflittoli. Razza di portoghesi impestati di veleno, dovettero sventolarli le lenzuola nuziali alla festa, per indurli a cambiare idea!”, agitò la massera il pugno nel vuoto, in testa sua però in faccia a ciascuno dei Morexini "da Lisbona". Strano comportamento,  cogitava il giovane Miani, ché Madre verso i suoi fratellastri esprimeva solo parole d’altissima stima e affetto.

“E la siora nonna? S’oppose? Fu d’accordo? Che fece?”

“Lei all’inizio m’era parsa un po’ delusa, forse sperava in una migliore alleanza per vostra madre. Poi però, s’acquietò e fu ben contenta che il Patron desse la mano alla figlia. Era una drittona, la vostra nonna, come tutte le donne ch’hanno avuto più d’un marito!”

“Perché allora mi dicono, che non furono felici nei primi anni di matrimonio?”

“Non avete compreso? Ambedue temevano d’aver fatto torto alla povera madona Andriana. Vostro padre pensava d’averne inconsciamente desiderato se non addirittura provocato la morte, mentre vostra madre d’aver tradito l’amica, inducendo il consorte in tentazione. Ché quando venne il tempo di risposarsi – il Patron rimaneva l’unico del ramo diretto e solo una figliola aveva  - dopo un’iniziale ritrosia e tentennamenti, egli altre non volle che la sua Leonetta e siccome i vostri barba si trovavano d’accordissimo la ottenne in gran fretta, a grand'insoddisfazione però di sier Batista, rispetto agli altri il più protettivo della sorellastra.”

Hironimo roteò gli occhi. “Sì, alla fine il barba m’ha confessato di quella rissa e di come da giovani lui e Padre si beccassero alla stregua di galline … E la storia della cortigiana?”

“Malelingue, padroncino, malelingue!”, esclamò ad alta voce Orsolina, acciocché sua figlia Zanetta e la nipote Ufemia l’udissero bene e abbassassero di colpevole verecondia il capo. “Vi racconto io ciò che accadde veramente. Dunque, il cugino del Patron, il sior Zuan Francesco, era giunto ad un’età in cui ai maschi il sangue scorre unicamente dabbasso e soltanto un pensiero fisso li circola nel cervello …”

“Illazioni!”

“Disse la gallina che fece l’uovo. Il vostro barba ritornava da una festicciola con degli amici, era se non m’inganno la settimana della Sensa. Abituato in casa a non bere vin schietto, immaginatevi in quali condizioni rincasò, imbriago spolpo, e appunto a sorreggerlo ci furono un suo amico e una cortigiana di lume. Il Patron in quel momento stava ritornando anch’egli da una cena a casa di sier Antonio Trum, il suo previo cognato, e vistosi il cugino in tali imbarazzanti condizioni, onde non svegliare l’intera Cha’ Miani coi suoi schiamazzi da ebbro decise di aiutarlo a salire nel suo appartamento. Dopodiché, augurò la buona notte all’amico di sior Zuan Francesco e congedò la cortigiana, pagandole il suo dovuto. E là si consumò la tragedia: vostra Madre, insonne, s’era destata per scendere in cucina e domandarmi qualche infuso e assistette sfortunatamente soltanto al pagamento, null’altro. Misinterpretando, non disse però nulla, ritornandosene in letto. Alle prime luci dell’alba, senza alcuna spiegazione, diede ordine a Symon di preparare la gondola e presa la Tina, con l’Eudokia ritornò nella casa paterna.”

Orsolina prese fiato, gli angoli della bocca piegati all’ingiù e un’espressione angosciosa sul volto. “Io ne ho passate tante, patron Momolo, ne ho assistite a tante di stranezze in ‘sta casa, ma … Voi non avrete mai idea di quanta paura ebbi il giorno seguente. Bone Jesu! Non ricevendo risposta, dopo aver bussato alla porta, il Patron m’ordinò preoccupato di aprila, temendo in un malore della moglie. Quando trovò la stanza vuota …”

Hironimo temeva già la reazione.

“M’appiccicai al muro, desiderando fondermi con esso, non avevo neanche la forza di correre via tanto ero impietrita dal terrore. Vostro padre -  Dio mio! - vostro padre sembravano averlo posseduto tutti e sette i diavoli della Maddalena, ruggiva spaventoso ogni genere di profanità, ribaltando il materasso, volavano i bancali sui cassoni, rovesciava quest’ultimi, tirava giù qualsiasi cosa gli capitasse a tiro  … Irruppe poi in camera di Symon e lo prese per il collo, scuotendolo da sguarattargli il cervello fuori dalle orecchie, e minacciandolo d’affogarlo personalmente a Canal dell’Orfano gli intimò di rivelargli dove fossero fuggite moglie e figlia. Il poveraccio collaborò immediatamente e condusse il Patron a Cha’ Morexini e lì dovette usare ogni sua risorsa e abilità diplomatica per riportarsi a casa la Patrona, senza coinvolgere gli Avogadori Civili. Quattro giorni prima d’esser ricevuto a palazzo. Quattro. Povero Patron.”

 

“Non avrei mai immaginato un tiro del genere da parte vostra … In che modo v’offesi da essere da voi abbandonato così, senza una parola, una spiegazione, alla chiaria alla stregua dei ladri, con mia figlia, umiliandomi dinanzi a tutta Veniexia come l’ultimo dei cornuti?!”

“Siete voi che m’umiliate, siete voi che mi rendete cornuta, siete voi che m’offendete e ogni vostra disgrazia ve la siete attirata da solo, di man vostra!”

“Io? Che diavolo blateri, femmina testarda?”

“Avrei dovuto immaginarlo … I miei fratelli avevano ragione sul vostro conto: siete un malvagio, un perverso, un maledetto adultero, uno spergiuro, un senzadio, un satiro licenzioso ognora voglioso di coito, uno schifoso!”

“Frascona, a me così parlate?”

“A voi!”

“Perdio, mi credete uno dei vostri garzoni da pigliarvi codeste libertà?! Son vostro marito, chea vaca putana!”

“Ed io chi sono? La vostra serva? Qualcheduna che avete raccattato dalla fogna? Pensate forse che una nobildonna della mia sorte, figlioccia dell’Imperatriz, si lasci strapazzare da un pescivendolo qualsiasi come voi? Da uno delle Cha’ Nuove? Quando voi Miani ancora sventravate i pesci in Istria, noi Morexini eleggevamo il primo Doxe Paulo Luzio Anafesto! [7] Carogna cafona! Se i miei fratelli non m’avessero aperto gli occhi, chissà cosa ne avreste fatto di me? M’avreste certo condotta nell’angolo più remoto del vostro fontego e lì vergognatami, come magari faceste con altre donne!”

“Ma porco …”

“Non bestemmiate!”

“ … giuda! Ancora quella fottutissima storia?! Il vostri fratelli a furia di frequentare quei caga-alto dei Portoghesi, si sono imbevuti di tutte le loro stronzate sull’onore, sulla cavalleria, sull’alto lignaggio dei miei coglioni! Cervelli fritti!  Una banda di protervi, ecco cosa siete voi Morexini! Me ne cale un gran cazzo che la vostra famiglia abbia fondato la Signoria, che annoveri tra i suoi Doxi e Dogarese, Regine consorti d’Hongaria e Beati in Paradiso, in niente vi sono inferiore da meritarmi un tal trattamento da contadino! Vermocane! Ora siete mia moglie, non più la loro sorella, voi appartenete alla mia famiglia e non agite contro di me alle mie spalle! Voi a casa dei vostri fratelli (vadano a farsi squartare!) non ci tornate senza prima avermelo comunicato e men che meno con la mia Tina! Cul del cancaro, v’informo sempre dove vado e quando torno, si può dire lo stesso degli altri mariti qui a Veniexia? Quando volete uscire, ve l’ho mai proibito? Vi ho strapazzata? Vi ho chiusa a chiave nelle vostre stanze? V’impedisco di ricevere le vostre amiche e cognate? Quella becera di vostra madre? Ho rimandato indietro la vostra Eudokia? Vi rimprovero quando parlottate in portoghese coi vostri fratelli, poiché io non capisco una maledetta e rischio d’esser oggetto dei vostri lazzi? An, ingrata? … Tagliando corto, invece d’insultarmi, parlate schietto una buona volta: che v’ho fatto?”

“An, turco sfacciato! Anima di prava! Serpe biforcuta! Ipocrita d’un predicatore, con le tue ciance riusciresti a crocifiggere Cristo una seconda volta! Mi fate passare dalla parte del torto, adesso? Che m’avete fatto? Domandatelo a quella donnaccia di malaffare, a quella sporca peripatetica di cui vi portate indosso ancora il fetore e con cui, senza timore di Dio e della decenza, vi siete sfogato bestialmente sotto il mio naso! Attendevo il mattino per darvi una gran bella notizia, ma voi avete rovinato tutto! Vi detesto, non vi voglio più vedere! Manderò i miei fratelli dal Patriarca a far annullare le nozze! Il sol guardarvi mi fa sputar bile!”

“Che?! Quale sfogo? Quale meretrice? Non pigliatemi per … il … oh, cagasangue! Can fotuo impestà!”

“Vi ricordate ora, an?”

“E no, signora bella! No! Io non c’entro un cazzo in questo negozio, quella cortigiana l’ho pagata, verissimo, ma per la compagnia tenuta a mio cugino!”

“Puoah! Ed io ci credo! Guardate, leggetemi “oca giuliva” sulla fronte! Da ben sette miei fratelli ho udito codeste scuse! Ipocriti sepolcri imbiancati!”

“Per favore, adesso non mettetevi a piangere per una tal sciocchezza  …”

“Non piango!”

“Suvvia, ritornate a casa – dimentichiamo questa questione, va bene?”

“No! Lasciatemi in pace!”

“Cospetto! D’una … puttana sareste gelosa?”

“Mi pensate di pietra? Che non provi sentimenti? Che non sia fatta anch’io di carne e di sangue come voi? Certo che sono gelosa! Gelosissima! Anche voi m’appartenete, l’avete giurato davanti a Missier il Doxe e soprattutto a Domine Iddio ed io non … e non … oh …”

“Sancte Spiritu! Leonetta? … Leonetta! Su, aprite gli occhi … Leonetta, splendore, aprite questi benedetti vostri occhietti, non è né il luogo né il momento di scherzare … Olà, olà! Gente, aiuto, gente! Creature! La si sente male, madona si sente male! … ”

 

“A prova della sua buona fede, il Patron trascinò sior Zuan Francesco da vostra madre, acciocché udisse da lui la verità. E da allora, questo palazzo divenne più morigerato del Santuario di Monte Berico!”

“Lo perdonò? Anche se, onestamente, Padre non aveva commesso alcunché di male.”

“Certo, si riappacificarono, sebbene i primi giorni avessero seguitato a tenersi il broncio,  a dormire e a mangiare rigorosamente separati, neanche un bondì e un bonasera! Tuttavia, ogni screzio scomparve qualche settimana più tardi alla notizia della prima gravidanza della Patrona, così come ogni rimpianto e ogni accusa se li gettarono alle spalle. Si potrebbe affermare, che il Signore non li avesse accordato di concepire fino a quel momento, finché non avessero accettato il passato e abbracciato il futuro. Come diceva quel tizio fiorentino che tanto piace citare a voialtri?”

“Incipit vita nova?”

“Ecco.”

Silenzio.

Grattando la testa del gatto e imboccandolo di un pezzettino di prosciutto avanzato dalla colazione fredda, Hironimo azzardò la domanda più spinosa. “Orsolina … Madre amava Padre? Non lo sposò per obbligo o per compassione del suo amore? Davvero voleva l’annullamento dal Patriarca?”

“Patron Momolo, quando in collera la gente parla alla babalà e voi per primo dovreste saperlo, quando v’arrabbiate”, scosse benevola il capo la massera, quasi si stupisse di quella domanda così scontata. “Vostra madre amava moltissimo vostro padre; al contempo, non era il tipo di donna da piegarsi alla volontà di chicchessia. Infatti, doveva ricordare al sior Patron che lei non era uno dei suoi rematori od operai. Ignoro quanti degli altri patrizi usino farlo, ma i vostri genitori vi assicuro che ancora dormivano nello stesso letto, tranne quando il Patron stava alzato a lavorare fin tardi e siccome la Patrona faticava a riaddormentarsi, se destata, per non disturbarla si recava in camera sua.”

L’illuminazione. “Ecco perché non gli garbava che stessi ancora in stanza di Madre e voleva spostare il mio lettino in camera dei miei fratelli. Gli disturbavo le sporcherie!”

“Padroncino, non è da biasimare se accadono tra moglie e marito.”

Hironimo socchiuse gli occhi con forza, scacciando via dalla mente ogni immagine osé maliziosamente creatavisi, ché i figli, pur consci dei meccanismi della riproduzione umana, ugualmente credevano con fermo imbarazzo la loro procreazione tramite il pensiero, piuttosto di figurarsi i genitori impegnati in tali attività.

“Quindi l’amore di Madre cambiò Padre?”

“No, fu lui che volle cambiare per amor suo. Se l’iniziativa non vien dalla persona stessa, nessuno la può cambiare.”

 

***

 

 

Alla vigilia della sua partenza verso Castelnuovo di Quero, Hironimo s’era ritrovato a vagabondare senza meta per le calli semideserte di Venezia. Pur sopravvissuta due anni addietro al primo, tremendo scossone l’ombra opprimente della guerra pesava sulla città, in perpetua attesa di conoscere la sua sorte, se di vittoria o di sconfitta. Il maremoto e il conseguente crollo del Campanile di San Marco avevano poi inasprito quei presagi d’imminente sventura, controbilanciata dalla disperata tenacia di chi, tuttavia, non poteva né voleva arrendersi. All’ennesima richiesta dell’Imperatore Maximilian di ritornargli gli antichi feudi imperiali di Padova, Treviso e il Friuli, la Signoria aveva replicato che avrebbe preferito giocarsi il tutto per tutto con la guerra, piuttosto di cedergli di sua iniziativa anche una sola zolla di terra.

Duri ai banchi.

A tale convinzione s’aggrappava anche il giovane Miani, il cuore tuttavia pesante non tanto per il compito di grande responsabilità affidatogli; piuttosto, per la freddezza con cui Marco e Carlo lo trattavano a seguito del litigio al funerale di Crestina – il primo addirittura gli aveva tolto il saluto. Era conscio d’esser lui nel torto, nondimeno la tenace protervia del suo sangue Morexini gli impediva d’abbassarsi ad invocare perdono, scervellandosi invece in mille scuse e giustificazioni atte a placare la sua coscienza.

A che pro, se lo condannava alla solitudine? A che pro congedarsi pieni di stupidi rancori, quando l’indomani avrebbe potuto esser cibo per vermi? Questo rimpianto voleva lasciare in eredità alla sua famiglia? Questo magone?

Sarebbe morto anch’egli come Padre, all’improvviso, violentemente, senza una parola di conforto, di incoraggiamento, d’amore?

Nel suo avvilito deambulare, solo come non mai in vita sua, Hironimo si ritrovò inaspettatamente nella parte posteriore dell’abside di Santo Stefano, dinanzi alle arche di famiglia, in particolare a quella di sier Anzolo Miani.

S’irrigidì alla vista di sua madre madona Leonora lì attenderlo, serena, avvolta nel pesante paneselo vedovile. Poco distante, silenziosa e discreta, l’accompagnava Eudokia.

“Siamo stati un tutt’uno per nove mesi, amore mio, ti conosco come il mio cuore”, fu il suo saluto, mentre allungava la mano a mo’ di invito. Lesto, Hironimo l’afferrò, baciandola e stringendosela al petto. “Vieni, siedimi accanto.”

“Come sapevate di trovarmi qui?”

“Testone, non t’ho detto che ti conosco? Tre sono i posti in cui ti sei sempre nascosto, quando triste o arrabbiato: l’altana, che escludo poiché in casa è sorto il problema da cui vuoi fuggire; dal Marcolino Contarini, il quale è partito ieri per Padoa e quindi no; sotto l’arca di tuo padre rimane dunque il terzo e ultimo posto dove cercarti, sebbene tu mi abbia costretta ad una lunga attesa.”

Il giovane si morse colpevole il labbro inferiore, una fastidiosa voce che dall’angolo più remoto del suo cervello gli ricordava maligna come da anni facesse aspettare sua madre.

“Perdonate, non era mia intenzione incomodarvi …”, sussurrò, il capo chino sulla mano ossuta e affusolata di madona Leonora, della quale pur coperta dal guanto ne conosceva la morbidezza e, ahimè, le rughe e le vene sporgenti. Gli appariva così fragile tra le sue, pronta a frantumarsi al primo tocco incauto.

“Non sei mai un fastidio per me.”

Hironimo, indeciso se ridere sardonico o sbuffare avvilito, partorì dalla sua bocca un verso ingolato ch’era un ibrido tra i due. Come poteva nutrire nei suoi confronti tanto affetto e benignità, malgrado le sue imprudenze, disobbedienze e cattiverie? Quando lui per primo si odiava per averle compiute, quietando però la sua coscienza con doppia razione di esse? 

“Il Marchetto è ancora arrabbiato con me?”, cambiò in fretta discorso, per quanto ugualmente interessato ai sentimenti in cui versava suo fratello. Rispetto a quelli di Carlo, il suo rancore gli risultava il più insopportabile.

“Non dubitare che gli passerà. È un orgoglioso, come te, concedigli del tempo e vedrai che saprà perdonarti. Tu però devi compiere il primo passo”, lo rassicurò e al contempo lo spronò sua madre, liberando la mano dalle sue e passandogliela tra i folti e disordinati capelli, non avendo badato Hironimo neppure di pettinarseli tanto l’arrovellavano gli intimi suoi crucci.

“Forse non avrò del tempo”, asserì in un lungo sospiro, imperterrito nell’evitare lo sguardo di madona Leonora, la quale domandò confusa e turbata:

“Che intendi?”

“Domani parto per Castel Novo di Quer, siora Mare. Per quel che ne so, potrei morire entro il mese, entro la settimana, entro il giorno stesso. Nulla mi garantisce la sopravvivenza.”

“Dunque scusati stasera con lui. E anche col Carlino.”

Hironimo serrò caparbio le labbra, tormentandosi le dita guantate e premendo il pollice al centro del palmo della mano, quasi progettasse di forarlo in profane stigmate. La soluzione dell’anziana genitrice abbagliava nella sua disarmate semplicità e logica: sì, avrebbe potuto chieder perdono a Marco e a Carlo e riconciliarsi, trasferendosi alla fortezza sulla Piave in pace con se stesso. Ciò tuttavia comportava umiliarsi e riconoscere il proprio errore, invocando una grazia cui non gli spettava e non perché si sentisse indegno, bensì perché lui non aveva agito in fin dei conti male, aveva espresso soltanto la sua opinione e cioè che se tiravano indietro il culo dopo esserselo fatto per ottenere quella dannata castellania, decisamente non si poteva evitare d’appellarli vigliacchi. Perché biasimarlo, per avergli rinfacciato null’altro se non la verità?

Neanche avesse intuito quali pensieri s’agitassero nella mente del suo ultimogenito, madona Leonora gli raccontò un piccolo aneddoto: “Quando tuo padre, onde fermare le scorrerie degli Austriaci capitanati dal Duca d’Austria Sigismondo, raccolse le sue cernide e assieme alla compagnia del conte Guido de’ Rossi si mosse in pieno inverno verso il Passo di Celazzo, la sera antecedente la partenza …”

 La situazione invero non si presentava rosea per la Repubblica: sotto la guida di Gaudenzio di Matsch, l’esercito austriaco era partito da Trento per puntare a Rovereto, terra all’epoca veneziana e bagnata sulla sinistra dall’Adige, situata negli stretti delle Alpi. All’inizio le truppe marciane avevano virilmente resistito, comandante dal podestà sier Nicolò Priuli q. sier Zuanne e pertanto, a mo’ di vendetta, gli invasori avevano infierito nei villaggi circostanti, massacrando la popolazione e seminando il terrore. Allora la Serenissima, appresa la notizia, aveva nominato provveditori sier Piero Diedo, che in quel tempo ricopriva la carica di podestà di Verona, e sier Hironimo Marzelo. Contemporaneamente, Guido de’ Rossi e il figlio Filippo raggiungevano Feltre onde presidiarne i confini.

Sier Anzolo Miani, podestà e capitano di Feltre, non aveva perso tempo e prima ancora che arrivasse il condottiero, già s’era attivato a rinforzare la sua città, facendo abbondanti provvisioni in caso d’assedio sia di cibo sia di uomini, reclutando chiunque fosse in grado di tener in mano un’arma, impresa non facile giacché la peste dell’85 aveva falciato gran parte della popolazione. Tali provvedimenti non avevano tuttavia rassicurato i Feltrini, soprattutto udendo delle scorrerie di Sigmund von Habsburg nel Vicentino e Veronese e di come si stessero avvicinando pericolosamente al Passo di Celazzo, il quale avrebbe dato libero accesso al distretto. Al che il Miani aveva rotto ogni indugio e, convocato a palazzo domino Guido, gli aveva  delineato l’importanza d’anticipare le mosse del nemico.

“Vi basteranno 2,000 uomini? Gli Austriaci ...”, non riusciva Leonora a darsi pace, mentre osservava in un misto tra terrorizzato ed affascinato il ritmico ed ipnotico saliscendi della cote sul filo della lama.

“… sono bravi solo a rubare, uccidere i contadini in fuga e a prendersela con donne e bambini. E si vantano d’esser grand’uomini d’arme!”, terminò Anzolo la frase della moglie e dalla rabbia repressa le sue dita imposero maggior vigore al suo lavoro. “Delle femmine col cazzo, piuttosto, assaggeranno presto il ferro veneziano e a quel rotto-in-culo del Duca d’Austria altro non rimarrà, che succhiarsi il pollice in quella cloaca fetente della sua lercia tana di legno e paglia! Così imparerà, che noi non siamo puttane che si piegano a chi fa la voce grossa!”, le garantì sinistramente.

“Ugualmente, guerreggiare in pieno inverno …”

“Appunto. Poiché loro giudicano improbabile un nostro attacco, noi invece li sorprenderemo nel bel mezzo del loro svernamento, con le braghe in mano. Li ingaggeremo al Passo di Celazzo, così da bloccarli ogni ingresso nel feltrino. Il conte Guido de’ Rossi è una volpe, sa il fatto suo negli assalti a sorpresa e a muovere in fretta le sue squadre – non avranno neppure il tempo d’invocare la loro madre. L’importante è impedire agli Austriaci di spingersi ulteriormente nei nostri territori, nel frattanto che la Signoria mobiliti il conte Roberto Sanseverino col grosso dell’esercito. Leonetta mia, basta un solo, spietato assalto e come i topi che sanno della presenza del gatto, se ne staranno buoni e nascosti nella loro tana.”

“E se riuscissero a sconvolgervi i piani, ribaltando la situazione? Se a rimanere bloccati nel passo non fossero loro, bensì voi?”

“Le mie cernide sono preparate e abili, tutti locali, conoscono ogni sentiero più delle loro stesse mogli. Inoltre, il tempo s’è spezzato, le montagne fumano, segno che il vento sta girando e ci conosciamo molto bene, il vento ed io. Entro dopodomani dovrebbe scatenarsi una bufera, che disorienterà gli Austriaci e li bloccherà in Valsugana. Non prenderei mai questo rischio, lo sapete, se non avessi la certezza assoluta di vittoria.”

“La guerra è un negozio di cui non si ha alcuna certezza.”

“Vi … ti giuro che non mi farò ammazzare tanto facilmente.”

“Non puoi promettere ciò che solo Dio può disporre.”

“Alla Cui volontà mi sottometto. Leonetta, dovesse accadere il peggio … No, dimentica ciò che ho detto. Invece, ho dato disposizioni al Consiglio Cittadino di preparare la difesa. Ho anche inviato delle chiari istruzioni e i recenti movimenti degli Austriaci a sier Dardi Zustignan, podestà di Cividal di Belluno e al castellano di Castel Novo di Quer. Vorrei inoltre che tu ti recassi a Cividal coi bambini, dove sarete più al sicuro.”

“Se lo credi opportuno, manderò i piccini con mia madre a Cividal, ma resterò qui. Vero, non so niente del mestiere delle armi. Però so quanta fiducia i Feltrini abbiano riposto in noi, dopo la peste e le faide civili che solo attraverso molti sforzi sei riuscito a pacificare. Siamo divenuti i loro punti di riferimento. Dovessero vedere la moglie del loro Podestà e Capitano fuggire via, crederanno che la Signoria li stia abbandonando al loro destino e colti dalla paura, non esiteranno ad aprire le porte agli Austriaci. La mia famiglia ha sempre servito in prima fila la Repubblica, io non sarò da meno.”

Anzolo si voltò di scatto, i suoi occhi spalancatisi dal terrore al sol pensiero di sapere l’altra metà della sua anima in pericolo, alla mercé di quelle belve assassine. “I nostri figli hanno più bisogno di una madre, che una città di un simbolo. Pensa al Momolo, indifeso e ancora in fasce: lo condanneresti a crescere senza né padre né madre?”, tentò di dissuaderla, indicando l’ignaro figlioletto che dormiva nella sua calda culla il sonno dell’innocente.

La Morexini vi si portò accanto, quasi a mo’ di protezione, il suo sguardo però infuocato di grandissima determinazione.“Il Signore non li lascerà mai orfani: la nostra causa è giusta, e Lui ci darà la vittoria!”

Neanche l’avesse evocata, la bufera di neve invero arrestò la marcia degli Austriaci e diede la vittoria ai Veneziani, sicché la famiglia del podestà e i Feltrini non ebbero necessità di riparare a Cividal di Belluno.  Alle soglie della primavera, Guido de’ Rossi si trasferì con la sua cavalleria a Bassano per sventare ulteriori attacchi del Duca d’Austria e per ricongiungersi, a metà giugno, a suo suocero, il comandante generale Roberto Sanseverino, allo scopo di sferrare un contrattacco e liberare Rovereto, essendo questa caduta e il podestà Priuli finito prigione degli tedeschi e deportato in Austria. Nello stesso periodo, sier Zustignan Morexini raggiungeva Feltre in veste di provveditore

Nel frattanto, Anzolo, forte del successo della spedizione del Celazzo, di persona s’era recato a Cividal di Belluno e là aveva spronato il podestà sier Dardi Zustignan a far lega e a prepararsi a difendere assieme la Val Serpentina. Gli elencò i suoi dubbi sull’effettivo arrivo del Sanseverino in loro soccorso, giudicandolo sia troppo lento nelle trattative con la Signoria per la sua condotta sia più incline ad operare a sud, là dove le scorrerie nemiche rischiavano di farsi più frequenti. Sicché, rimasti da soli, i due podestà riuscirono a raccogliere uomini a sufficienza per occupare Grigno, luogo situato nello stretto della Valsugana, ben presidiato da genti austriache che diedero gagliarda battaglia, prima di soccombere ai Veneziani, i quali sottomisero il castello alle fiamme. Purtroppo tale buon esito non liberò la Valle dalla pressione del nemico: cogliendo impreparato il presidio lasciato a guardia del monte Celazzo, gli Alemanni non senza ingenti perdite lo espugnarono.

Ciò non aveva però scoraggiato Anzolo, tutt’altro: pieno del sacro fuoco guerresco che l’aveva animato durante la Guerra del Sale, riorganizzò in brevissimo tempo la difesa di Feltre e del distretto. Leonora lo vedeva sempre a cavallo, con l’armatura indosso a dirigere i lavori di rafforzamento alle mura, ai serbatoi idrici, sia alla luce del sole sia delle torce. Dormiva poco e vestito; mangiava in piedi;  scriveva molti dispacci e coordinava instancabile i rifornimenti cittadini, specie del frumento e delle biade, e questo con il dodicenne Lucha sempre accanto, giudicando esser giunto per lui il tempo d’imparare i fatti di guerra. Dal palazzo pretorio la Morexini seguiva con lo sguardo il figlio maggiore e il marito finché poteva, con una mano stringendo il lattante Momolo al seno e con l’altra accarezzandosi il ventre, là dove intuiva crescere un’altra creatura. Ogni sera, infatti, Anzolo veniva da lei affamato come se fosse stato l’ultimo suo istante in terra, ignorando gli ammonimenti della suocera madona Ysabeta che gli aveva suggerito prudenza per il recente parto della moglie, nonché la sua non più fresca età.

Ma che potevano farci? Leonora per prima non voleva negarsi a quei suoi ardenti abbracci, non quando cadaun giorno il suo consorte rischiava di non rincasare mai più.

L’era pertanto venuto un colpo, quando Anzolo le comunicò d’aver reclutato venticinque uomini, tra i più forti e coraggiosi della zona, per liberare il presidio occupato dagli Austriaci sul Celazzo: se la nobildonna aveva dubitato di duemila soldati guidati dall’eccellente conte Guido de’ Rossi, cosa sperava il Miani d’ottenere con un gruppetto sì sparuto?

“Antonio Bonmassaro di Fonzaso, oltre ad essere un valoroso capitano, è più esperto del territorio di qualsiasi altro condottiere, oserei perfino dire del medesimo signor Roberto. Non abbiamo i numeri, ma possiamo coglierli impreparati. D’altronde, anche tu avrai compreso come ormai il distretto dobbiamo difenderlo noialtri; non è improbabile che mandino il grosso delle truppe a riprendersi Rovereto. Questo significherà che il signor Roberto e il signor Guido partiranno dall’agro veronese o vicentino, al massimo da Bassano, comunque senza passare dalle nostre bande.”

La patrizia strinse inconsciamente il rosario tra le dita, quello stesso che recitava assieme alle altre donne feltrine davanti all’immagine miracolosa della Madonna di San Lorenzo. “Sarebbe un rischio da parte della Signoria, lasciare i nostri confini scoperti. E questo il signor Roberto lo sa bene, se non gliel’ha già spiegato suo genero”, mormorò apprensiva, gli occhi ancora pieni dei fuggitivi dai villaggi saccheggiati, riparati a Feltre coi soli stracci addosso e che lei, assieme alla figliastra Crestina, a sua madre, alle altre nobildonne locali e alle religiose, si prodigava a rivestire e sfamare, alloggiandoli nei conventi cittadini. “Se il Feltrino dovesse cadere, seguirà la Val Serpentina e poi … chi li fermerà dall’attaccare la Marca Trevisana? I nostri provveditori e condottieri non possono ignorarlo!”

“Conosco il signor Roberto: se potrà, invierà qualche contingente in nostro soccorso”, la tranquillizzò Anzolo e le si sedette accanto sul letto, circondandole le spalle. Strinse la bocca in una linea dura alla vista dei timidi fili d’argento imbiancarle appena appena le tempie, i quali ben si ricordava non possedere l’anno addietro. “Al contempo, non possiamo né aspettare i suoi comodi né crederlo onnipotente. Anche qui abbiamo genti valide e pronte a guerreggiare: forse il mondo non si ricorderà della nostra impresa, ma Dio e la popolazione sicuramente.”

“… allora, come quella volta che partì assieme al signor Guido, tuo padre mi domandò perdono e non in segno di perpetuo congedo, bensì per infondergli maggior vigore nella battaglia …”

Combatterò meglio, ricco della certezza del tuo amore, nient’altro che del tuo amore”, afferrò il Miani le manine della sposa tra le sue, baciandole le nocche.

Al che a Leonora comparve, dopo tanto tempo, la sua solita espressione birbante, che tanto aveva fatto innamorare il marito. Ricambiando il bacio, la Morexini non riuscì a trattenersi  dal domandargli, non senza una punta di malizia, dove avesse letto quella frase alla Rinaldo.

Anzolo divenne allora rosso in faccia ed esclamò: “Mojer, so bene quali sono i miei doveri verso te e la Signoria: ritornare vivo e vincitore, né più né meno!” 

“Ed è l’unica promessa di cui veramente m’importa!”, lo baciò sulla bocca Leonora, guidando le sue mani sul ventre. “Soprattutto a questa creatura, che scalpita di chiamarti padre!”

“Lo perdonai, poiché insisteva, e mi diede grande conforto; qualsiasi cosa fosse accaduta, non ci saremmo divisi in cattivi termini e brutti ricordi, sicuri invece del nostro reciproco affetto e fiducia.”

Contro ogni aspettativa, il presidio a Celazzo venne riconquistato ed il capitano Antonio Bonmassaro vi rimase a sua brava ed inviolata guardia fino alla fine del conflitto, a novembre. Ringalluzziti dalla vittoria, le locali truppe venete marciarono a Borgo di Valsugana e non soltanto impedirono l’ennesimo tentativo d’entrata da parte di Iorio di Innsbruck e dei suoi quattrocento fanti nel Feltrino, ma pure li costrinsero a ritirarsi nel castello, ponendo il tutto a ferro e fuoco per risarcimento dei mesi di guerra e ruberie.

A metà luglio, quasi a premio della lunga resistenza opposta al Duca d’Austria, arrivò un contingente inviato da Roberto Sanseverino per rinforzare gli aspri confini, scorrendo per la Valsugana ed il Tirolo, con uccisioni ed incendi, ed il terrore stavolta lo provarono le genti austriache, intanto che il comandante generale puntava alla liberazione di Rovereto.

“Ebbi tanta paura di non riabbracciare tuo padre, Momolo. Più ancora di quella volta di Frara: per questo non badai, almeno per quel periodo, ai suoi malumori ed escandescenze. Sapevo che non agiva per meschinità sua: semplicemente, aveva paura e la gente diviene cattiva, quand’ha paura.”

“Vorrei chiedere perdono al Marchetto e al Carlino. Solo che non ci riesco”, si giustificò in fretta Hironimo, interpretando quella rimembranza non come un esempio da imitare, bensì come l’ennesima critica. Padre del suo comportamento ne sarebbe rimasto assai deluso, definendolo infantile ed egoista, a lungo termine un dannoso parassita che erodeva il solido albero familiare. “Marchetto ha ragione: la mia collera congiura contro di me.”

Hironimo sarebbe diventato turco a sapere quale entità lo possedeva ogniqualvolta s’arrabbiava, cosa lo spingeva a reazioni verbalmente e, purtroppo, fisicamente aggressive, le quali intimorivano lui stesso in quanto incapace di controllarsi. Si sforzava di domare l’ira, però corrispondeva a trattenere un mostro, la poteva quasi gustare dietro i denti quando dallo stomaco essa gli risaliva in gola e si propagava a guisa di veleno in tutto il suo corpo fino agli occhi, che più non vedevano; alle orecchie, che più non ascoltavano e al cervello che in uno schiocco di dita cessava ogni freno umano per lasciar spazio alla bestia interna.

“La collera decisamente l’hai ereditata da tuo padre.”

Ecco, immediatamente il giovane Miani avvampò, sibilando astioso: “Solo i suoi difetti? Null’altro?”

Sboccato, impertinentaccio, comandino, irascibile, ostinato  - chiunque avesse conosciuto Anzolo Miani solo queste caratteristiche rivedeva nel suo ultimogenito. E il resto? Niente di suo padre era sopravvissuto in lui? Solo il peggio?

“Tuo padre non era perfetto”, replicò serafica madona Leonora.

“Grazie, n’ero già a conoscenza!”, fischiò beffardo Hironimo, scattando bruscamente in piedi e sfuggendo al tocco materno.

“Aspetta. Non era perfetto, però al contempo si sforzava di divenire il padre ideale per te e per i tuoi fratelli. Se falliva, bisogna imputarlo al modo in cui l’hanno a sua volta cresciuto. Tuo nonno infatti non gli aveva riservato tali riguardi, lui era il padre e il patron e tutti avevano da ballare alla sua musica o niente e, secondo me, tuo padre ne soffrì più di quanto avesse mai lasciato intendere. Con la sua matrigna non era mai riuscito a legare veramente, forse perché in lei non aveva trovato il supporto di cui necessitava. Di conseguenza, non avendo ricevuto un granché d’affetto, non possedeva delle solide basi per esprimerlo e donarlo a sua volta.”

“Si comportò ugualmente”, sentenziò rancoroso il giovane.

“Dici?”

Hironimo incrociò i suoi occhi nerissimi e furiosi con quelli altrettanto nerissimi e quieti della madre. “Si comportava da capitano di galea! No a questo, no a quello; critiche, rimbrotti, punizioni … Quando mai mi fece sentire amato? Apprezzato? Incoraggiato?”, si sfogò, arrivando ad un certo punto a girarsi di scatto adesso verso l’arca silenziosa del padre, quasi reclamasse anche il suo di ascolto. “Certi giorni mi sentivo talmente inutile, indegno …

“E sostenete che mi volesse bene? Non ribattete”, interruppe sul nascere la replica della madre, zittendola, “che così va il mondo, che è ciò che la società s’aspetta, che il “padre” deve solo provvedere a sfamare la famiglia e al massimo benedire i figli alla sera prima di coricarsi! A questo punto, che differenza c’è tra un “padre” e un contadino che dà da mangiare alle bestie o da bere alle piante? Non li nutrono? Non li crescono? Non li educano gli animali a compiere il loro mestiere? Cosa me ne faccio di un “padre” cui non posso confidare i miei pensieri, i miei dubbi, le mie angosce, i miei progetti senza provare ogni volta paura e vergogna del suo giudizio?”

“E tu credi che non soffrisse ad ogni critica, ad ogni rimbrotto, ad ogni punizione inflittati?”, gli rammentò madona Leonora, ascoltando con avvilita attenzione lo sfogo del figlio il quale, a siffatte parole, esplose:

“Quindi la colpa ritorna sempre a me!” e l’eco rimbombò per l’intero abside, anche Eudokia, nell’angolo più remoto, sussultò dalla sorpresa.

La nobildonna s’alzò, avvicinandosi al figlio e afferratagli la mano, gli rivelò con disarmante schiettezza: “Nessuno ti accusa di alcuna colpa. Semplicemente, tu ti comportavi come si comportava un qualsiasi bambino, né più né meno: disobbediente, impulsivo, scatenato, sbeffeggiavi ogni autorità, specialmente di chi ti voleva guidare. Anzolo, dal canto suo, si comportava da padre, un ruolo che purtroppo conduce a divenire il primo nemico del proprio figlio, se questo però lo può salvare da assai peggiori, di punizioni.” Notando il persistente scetticismo nel giovane, ella proseguì: “Momolo, tuo padre era ancora molto giovane, quando esiliarono sier Jacomo Foschari …”

“La conosco, quella storia”, roteò gli occhi Hironimo, snervato, battendo impaziente il piede per terra.

Madona Leonora non si lasciò scoraggiare dal brusco commento. “Dunque saprai anche, come aprirono le porte acciocché il Doxe suo padre, sier Francesco Foschari, potesse ben udire le urla del figlio mentre lo sottoponevano ai tratti di corda. Trenta tratti di corda finché questi impazzì dal dolore.”

Al giovane Miani andò di traverso la saliva, il collo pizzicato da brividi freddi. Attraverso la carica di Lucha, giudice della Quarantia Criminal, era a conoscenza delle pratiche d’interrogatorio, nonché di come a Palazzo Ducale le urla inumane dei torturati si mescolassero ai dibattiti nelle sale e ai gemiti dei pazienti dei cavadenti sotto i portici. Supponeva, considerata l’imperturbabilità di suo fratello dinanzi a tale prassi, che col tempo ci si abituasse, se non si provasse addirittura fastidio per quei rumori molesti, ch’interrompevano le assemblee oppure rallentavano il corso dell’inchiesta.

Come avrebbero reagito però Lucha, se sospeso con le braccia dietro la schiena legate ad una corda, invece di un tizio qualsiasi si fosse trovato uno dei suoi fratelli? Se a gridare dai più insondabili recessi dell’anima fosse stato il sangue del suo stesso sangue? Avrebbe mantenuto la flemma? Si sarebbe allontanato sconvolto? Si sarebbe strappato di dosso gli occhi?

O sarebbe corso a tagliare quella tremenda corda, pur conscio dei rischi cui incorreva?

C’era da impazzire al solo pensiero di quell’eventualità. In quale modo era riuscito Sua Serenità a resistere? L’unico figlio rimastogli, poi!

“Il suo barba Nicolò, che aveva avuto un ruolo attivo in questi processi, glielo ricordava spesso, quando tuo padre s’incaponiva e gli remava contro: Finirete come il Jacomo Foschari! Solo, in esilio, senza la consolazione di vostra madre, la vergogna della vostra famiglia e di Veniexia intera!, lo minacciava”, proseguì madona Leonora ed Hironimo comprendeva adesso il motivo per cui quel nome compariva spesso sulla bocca del biscugino Zuan Francesco, quando da piccolo lo rimbeccava per le sue malefatte. “Ma di quel triste affare a tuo padre non rimase impressa la tortura di per sé -  no, la violenza dall’alba dei tempi coabita nell’animo umano -  bensì il fatto che Missier il Doxe non fece nulla, non mosse un dito per salvare il figlio, anzi, lo esortò il giorno della condanna all’esilio di sottomettersi docilmente alla legge e d’accettare stoicamente il suo destino.” [8] L’anziana nobildonna invitò Hironimo a sedersi, portandosi la mano stretta tra le sue sul grembo. “Tuo padre mi confessò, un giorno mentre aspettavo il Luchin, che se fosse stato egli Missier il Doxe non sarebbe rimasto lì inerme, che se non poteva contestare la legge che almeno lo si lasciasse uccidere il figlio di sua propria mano, così da risparmiargli il supplizio della tortura. Egli pertanto vi voleva indirizzare sulla buona strada, crescervi nel timore di Dio e della legge acciocché non giungesse mai il giorno, in cui si fosse trovato lui sullo scranno e voi dietro quella porta ad urlare sotto i ferri della tortura.”

Un castigo peggiore non poteva sussistere al mondo per un genitore, d’assistere impotente all’agonia della sua creatura, le mani legate.

Quest’aspetto Hironimo non l’aveva mai considerato.

“Vi voleva proteggere. Da voi stessi e dagli altri.”

 

“Dorme?”

“Sì, l’Orsolina lo sta vegliando. Tutto quel piangere l’ha stancato, è crollato in letto.”

Anzolo fissò il libro dei conti, mordendosi l’interno della guancia, le dita unte d’inchiostro che rigiravano nervose la penna. Si era attardato nello studio, la candela ormai consunta e l’unico rumore proveniente dalla finestra semichiusa era l’assonnato sciabordio delle onde del sottostante rio San Vidal. Una notte tranquilla per un anno così turbolento per la Serenissima e per l’Italia intera.

“Non mi fossi accorto di quella focaccina, avrebbe pianto molto di più”, sentenziò gravemente, riprendendo il lavoro interrotto dal discreto arrivo della moglie nella sua sancta sanctoroum. Quand’ecco, resosi conto di come stesse sbagliando le somme più elementari, il Miani increspò le labbra e, sparso del polverino, chiuse il pesante tomo. “Davvero ha pianto così tanto?”, s’informò apprensivo.

Leonora si portò accanto a lui. “Quella tua scenata l’ha spaventato a morte. Dovresti atteggiarti in maniera più delicata con lui.”

Con lui il mondo non sarà delicato”, ribatté Anzolo, tormentando la penna. “Inoltre, non capisco perché ogniqualvolta lo rimproveri, reagisce neanche lo trascinassi al martirio … insomma, né Luchin, né Carlino, né Marchetto s’esibivano in tali momarie!”

“Ma il Momolo non è né il Luchin né il Carlino né il Marchetto. È se stesso, è unico e dovresti trattarlo come tale, non come la copia dei suoi fratelli.”

“Perché non mi ascolta mai? Perché questa sua continua e ostinata disobbedienza? Dov’ho sbagliato con lui?”, le chiese angosciato il marito, passandosi una mano sulla fronte e poi sugli occhi. “Perché non comprende che non provo alcun gusto ad atteggiarmi a Missier Grando con lui, che … che se non indurisce il suo cuore crescendo scambieranno la sua bontà per stupidità, approfittandosene sfacciatamente? E se questa sua sensibilità d’animo lo conducesse a finire nei guai, ad impegolarsi con la legge? Se … se la si scambiasse per altra natura più vergognosa, non degna degli uomini?”, batté il senatore il pugno sulla scrivania di quercia venata d’oro, accalorandosi. “Non può permettersi alcuna debolezza, non in questa vasca di squali dove viviamo! Quelli come nostro figlio li trangugiano e poi ne sputano gli ossi; con questo in mente ti pare ch’io possa dormire sonni tranquilli? Che possa soprassedere?”

Leonora non replicò nulla, limitandosi ad appoggiargli la mano sulla spalla. Immediatamente, Anzolo gliel’afferrò.

 

“Lo dimostrava malissimo, però si preoccupava per voi. Da giovane, quand’esercitava l’avvocatura, talvolta gli capitavano dei casi … delicati, in cui molti piccini venivano costretti ai torti dei più turpi.”

 

“Quando ho visto Momolo, tornare a casa, da solo, con quella focaccina in mano, ho rivisto in lui quel bambino. Dopo un’eternità, l’ho rivisto.”

“Quale bambino?”

“Quanti anni aveva? Dieci? Otto? Stava … stava attendendo che i servi giungessero per prelevarlo da scuola, quando quell’otre di sterco, quel figlio-del-diavolo l’avvicinò, regalandogli una fritola: ti porto a casa io, dammi la manina … Quel che gli hanno fatto … i danni … come urlò quando i medici lo esaminarono, come pianse quando l’interrogai, di vergogna e pena e mi pregava di non chiedergli altro, che voleva la sua mamma e che voleva morire. Quale bambino ad otto anni invoca la morte? Fui così grato della sentenza dei Dieci … così grato e non per il compenso … Mio Dio, per un istante ho temuto che lo stesso fosse accaduto a Momolo … Perché si ostina a non dirmi il nome? … Se quel becco fottuto avesse osato toccarlo, anche solo sfiorarmelo … Non ci sarebbe arrivato vivo dai Dieci … Oh, no! L’avrei squartato vivo, quel cancaro, l’avrai squartato vivo a mani nude e mangiato finché di lui non sarebbe rimasto niente!”

 

“Perché allora non lo palesò mai, non ce lo disse chiaro e tondo?”, esigette di sapere Hironimo, le orecchie che gli bruciavano per la diversa chiave di lettura di quell’episodio, che lui aveva all’epoca percepito come una grande e immeritata ingiustizia. Si diede dello stupido, di non essersi mai fermato a capire le motivazioni dietro il rimprovero di Padre, così come di tutti gli altri.

Madona Leonora levò gli occhi verso l’arca del marito, un’espressione malinconica sul volto scarno. “Suppongo perché gli fosse stato insegnato come la bontà e la sensibilità d’animo appartengano ai deboli; quando invece essi, uniti alla Grazia dello Spirito Santo, rendono invincibili e tetragono a qualsiasi avversità.”

“Nel Regno di Saturno, forse”, confutò scettico Hironimo. “Quando vinceremo questi porci balordi, non sarà per benevolenza e magnanimità; sarà perché siamo stati più feroci e astuti di loro. Padre aveva ragione ed io un deficiente ad oppormi: a questo mondo, chi segue la via della moralità viene destinato a null’altro se non alla derisione e ad essere calpestato, a trovarsi i piedi in testa. Ho ben appreso questa lezione.”

“Ti sei molto indurito di cuore, questo sì”, commentò tristemente sua madre.

Portandosi sotto all’arca di Padre, il giovane Miani si pose in punta di piedi per sfiorarla. “Mi distinguerò in questa guerra, Madre”, le promise con ferma convinzione, voltandosi, gli occhi luccicanti di febbrile ardore. “Duratura seges– duraturo frutto, [9] non era questo il motto di Padre? Vincerò gloriosamente e cancellerò ogni infamia dal nostro nome, il quale non sarà più associato ad un presunto suicidio, bensì a nobili imprese; lo renderò immortale e conosciuto fino all’ultimo angolo della Terra, dove verrà pronunciato con la più alta devozione! Così avverrà, Madre, ve lo giuro: da delusione ad ultimo, diverrò l’orgoglio e il primo e sarà questa la mia espiazione e il mio ringraziamento nei confronti di Padre, per tutti i suoi sforzi. Dimostrerò al mondo intero che lui non ha perso il suo tempo con me!”

Madona Leonora l’ascoltava in silenzio, il volto una sfinge indecifrabile.

 

***

 

 Chi era Padre?

L’unico, assieme a Madre, che l’aveva amato incondizionatamente, contro i propri interessi, anche a costo di ricevere in cambio rancore da parte sua.

I suoi fratelli gli volevano bene, però avevano anche la loro vita cui badare, le loro nuove famiglie da sostenere e proteggere. Hironimo corrispondeva per loro ad un sovrappiù.  

Mentre Padre e Madre, ovunque egli fosse andato, qualsiasi cosa avesse fatto, qualsiasi scelta avesse compiuto, sarebbero stati lì per lui, granitici sostegni. Un privilegio che non molti genitori concedevano ai propri figli, Hironimo in retrospettiva lo vedeva ora chiaramente nelle dinamiche familiari dei suoi amici, i quali si credevano liberi ma in realtà ben piegati al giogo parentale.

In fin dei conti, Padre non aveva mai ostacolato le sue inclinazioni – a parte il tentativo d’allattare i cuginetti – l’aveva sempre lasciato sperimentare e anzi, anche se non tralasciava alcun’esplicita impressione a riguardo, adesso Hironimo si ricordava con folgorante nitidezza l’interesse nei suoi occhi quando lui condivideva le sue opinioni, le sue scoperte, il risultato dei suoi personali apprendimenti – come diceva l’Orsolina, era ruvido ma non insensibile.

Solo, questa libertà concessagli doveva camminare mano nella mano con la consapevolezza della responsabilità delle proprie azioni – ciò cui Hironimo desiderava sfuggire e ciò che Padre invece s’ostinava d’insegnargli.

Che nascere in un mondo di privilegiati non equivaleva a rendere lecito l’illecito, bensì a dare l’esempio e a scontare gli errori con doppio rigore. Che appartenere ad una posizione di potere non si limitava ad impartire ordini ai subordinati, ma di essere il loro scudo, il loro punto di riferimento nel momento del bisogno, assumendosi e giustificando il peso del loro fallimento. In porto, non è il rematore che viene processato per la mala gestione della galea o per una sconfitta: è il patron che viene condannato, riecheggiarono in Hironimo le parole di Padre, definite e precise come non mai dopo anni di silenzio. Il rematore dirà: che scelta avevo io? Mi è stato dato un ordine e quello io ho eseguito. Ma il patron potrà affermare lo stesso? No, gli diranno i Cai dei X, noi ti abbiamo dato ogni potere di decidere, di comandare, di disporre degli uomini come meglio potevi. Non ti mancava nulla. Ora però tu ci devi rispondere del tuo operato, non i tuoi inferiori. Può il servo ordinare alcunché al padrone? Paga dunque il prezzo del tuo privilegio.

Alla fine, ogni persona interrogata dal giovane Miani, pur descrivendolo in maniera differente, conveniva sul fatto che suo padre non si tirasse mai indietro dinanzi a qualsiasi sfida e alle sue conseguenze, i meriti e le colpe. Convenivano su come egli non desse mai per scontato la sua appartenenza al patriziato, come non considerasse la nobiltà una distinzione sociale bensì un titolo da guadagnarsi onestamente attraverso la mercatura, l’esercizio di una carica pubblica, un servizio pubblico. La devozione.

Convenivano tutti come Padre sì disprezzasse le melensaggini e l’esaltazioni eroiche dei poemi e romanzi cavallereschi, eppure narravano di come egli non esitasse a combattere in prima fila e ad ergersi a scudo umano per i suoi compagni; convenivano tutti come pur non declamando in latino ciceroniano, Padre praticasse nel concreto le tanto osannate ma assai poco praticate virtù romane: clementia, dignitas, firmitas, frugalitas, honestas, industria, severitas, pietas, prudentia, fides, iustitia, … Per lui non corrispondevano ad una sterile moda da sfoggiare onde stupire i suoi ospiti della sua cultura, per lui era un modo di vivere e da tramandare ai suoi figli, la sua eredità viva.

Padre aveva voluto che Hironimo in queste virtù si fortificasse, fedeli alleate per affrontare il mondo ostile fuori le rassicuranti mura domestiche. Che lo aiutassero a sopravvivere e a prosperare. I suoi metodi saranno stati goffi – come pretendere d’insegnare amore se non lo si è mai ricevuto? – però impregnati di grande sincerità e devozione paterna. Perché sapeva che la clessidra girava inesorabile per lui, che un giorno sarebbe arrivato il tempo di presentarsi a discutere con San Pietro, impedendogli quindi di proteggere all’infinito suo figlio, la sua famiglia.

Quale utilità ricavava altrimenti del suo affanno?

Hironimo capiva, ora, la sofferenza nel guidare un figlio per ricevere in cambio amore ma anche odio. Era facile per lui viziare i suoi nipoti Anzolo, Crestina e Gasparo, giocare al barba amorevole ma educarli, oh! Da scuotere le fondamenta di casa rimbombavano severissime le paternali di suo fratello Marco ai figli, seguite poi da grandi e avviliti sospiri in privato, quando Zanzi e Ina correvano piangenti in camera loro. Anche Padre, dopo averlo punito, sospirava così tristemente?

In quella stasi notturna, alla luce traballante della lucerna nella tenda di Mercurio Bua,  si compì uno strano fenomeno: per un istante, in bilico nel dormiveglia, Hironimo ebbe la sensazione di ritrovarsi nel suo corpo decenne, spaparanzato sul suo lettino accanto a Madre. Avvertì una presenza sopra di lui, un tocco di dita ruvide e timide sulla fronte, scostando via i ricci ribelli. Un bisbiglio – non aver mai paura, sei nato per lottare – e poi, la dolce pressione di un bacio sulla testa e il profumo di Padre, salato come il mare, che lo avvolgeva, cullandolo nei migliori sogni.

Le dita di Hironimo corsero di riflesso sulla sua fronte, tastando incredule, i suoi polmoni pieni di quell’aroma a lui tanto caro.

“Padre, voi sapete quanto vi ami e vi rispetti, dell’immensa gratitudine ch’io nutro per voi per avermi messo al mondo, cresciuto ed educato, facendomi buon veneziano e …”, recitò a mente la formula enunciata dalla sua sorellastra Crestina al momento del congedo dalla casa paterna. Solamente buon cristiano non riuscì pronunciare, sentendosi altrimenti ipocrita. “Padre mio, se v’ho offeso, se v’ho deluso, se mi son comportato indegnamente verso di voi, vi scongiuro, in nome di … in nome di … Mater, di perdonarmi ogni mancanza nei vostri confronti e di benedirmi in questa nuova parte della mia vita.”

Hironimo proferì il tutto a cuore aperto, lacrimante. Eppure, dopo quindici anni, percepiva trattarsi di lacrime di gioia, di chiusura.

Sotto certi aspetti, quel gran bischero di Mercurio Bua aveva ragione: Padre era suo padre. Non era il fratello di Marco e Vorzilio Miani o il figlio dei suoi nonni. Né l’amico di sier Antonio Trum né il cognato/rivale del barba Batista. Né il capitano della Miana. Né tantomeno il marito di Madre. Era tutto questo, ma per lui era suo padre, neppure quello dei suoi fratelli, il suo.

Perché per il bene di Hironimo, egli agiva; per il suo bene aveva diretto le sue energie, i suoi pensieri, anche se per approcciarsi a lui usava il metodo meno consono.

Perfettamente imperfetto, ma era suo padre.

I cui insegnamenti, se Hironimo si fosse deciso a seguirli, l’avrebbero accompagnato per tutta la vita.

Altrimenti, sul serio, sarebbe stato come se per lui Anzolo Miani non fosse mai esistito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Ed eccoci qui alla fine de “Alla ricerca del padre perduto”. La seconda parte del quarto comandamento “… onora la madre”, non sarà così lunga, promesso! Avrete capito che il Nostro ci tiene tantissimo a lei!

In ogni modo, potrà sembrare che non sia accaduto niente, invece sì, c’è stato fatto un passo fondamentale in avanti per il Nostro. Le bellezze delle salite …

Vorrei ribadire, che le riflessioni in questo capitolo su famiglia e genitori non sono dogmi universali, quindi niente flagellazione della povera Hoel se non si è d’accordo.

Certamente i ruoli dei genitori all’epoca  - come fin quasi 50-60 anni fa  - erano ben definiti, molto più rigidi rispetto ad oggi, però leggendo i carteggi di alcuni patrizi veneziani dell’epoca, ho trovato esempi di padri molto affettuosi e presenti, in contrasto al generale sentire di padre autoritario e distante. Pertanto, credo fosse a seconda della personalità dell’interessato e al suo livello di sensibilità.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima (con la narrazione “regolare” XD) Un ringraziamento a Semperinfelix (che m’ha aiutata nella revisione).

 

Un po’ di noticine:

 

[1] un’usanza curiosa del patriziato della Serenissima, che nella scelta dei padrini per il battesimo non si limitava a scegliere solo tra parenti stretti e i membri di famiglie cittadine, ma anche tra il popolo e i loro stessi servitori. Di conseguenza, il numero di padrini era assai notevole – si stabilì  fino a 6 dopo una serie di eccessi (150 in un sol battesimo) contrariamente ad oggigiorno che sono al massimo due.

[2] probabilmente era la sua imprecazione preferita. Narra il Sanudo, che come nel 1514 Carlo Miani, ripresa l’attività forense, durante un processo in Quarantia Criminal contro un Lampugnano, accusato d’aver ordinato l’assassinio di un figlio di Domenico Marin Becichemi, s’era lasciato sfuggire una bestemmia – “maledeto sia San Piero” -  forse frustrato dall’impasse in cui era caduta l’udienza. Ovviamente la cosa suscitò un grandissimo sdegno e il Miani venne condannato a pagare una multa o di 25 lire o di servire un mese a Padova.

Considerati gli usuali provvedimenti per i bestemmiatori (taglio della mano e d’un pezzetto di lingua) gli andò di lusso! Secondo noi, Carlo Miani durante il suo processo si giustificò astutamente dicendo che per “San Piero” intendeva non il santo bensì il Vaticano. Oppure, siccome Della Rovere bestemmiava sempre San Pietro, appellandosi all’infallibilità papale, se il Papa lo faceva allora va bene. Oppure, essendo ancora la guerra in corso ed essendosi il Miani distintosi a Brescia e a Bergamo, forse la Quarantia non vedeva il vantaggio nello sprecare così un valente militare, tanto nell’esercito bestemmiavano tutti. Chissà.

[3] Di questo Luca Tron figlio di Giovanni Tron e nipote del Doge Nicolò non si trova alcun altro riscontro, se non nell’albero genealogico del Cappellari, ragion per cui sospettiamo esser morto fanciullo, prima ancora della Balla d’Oro.

[4] quello che Angelo Miani sta descrivendo è il “Battesimo di Cristo” nel Battistero degli Ariani a Ravenna.

[5] Crestina da Pisan= Cristina da Pizzano o Christine de Pizan, è una scrittrice e poetessa vissuta a cavallo tra il XIV e il XV secolo, nata a Venezia e poi trasferitasi in Francia con la famiglia presso la corte di Carlo V di Valois. Il suo componimento più celebre è “La Città delle Dame”, una risposta ai suoi colleghi Boccaccio e Jean de Meung le cui produzioni letterarie considerava ingiuste e denigratrici nei confronti delle donne. Oltre ad esercitare da laica la professione di scrittrice, di Cristina va notato che in molte sue poesie viene toccato il tema della prematura perdita del marito Etienne de Castel, di cui era molto innamorata.

[6] durante i primi due anni di matrimonio alla novella sposa (novizza, che vuol dire anche fidanzata) veniva concesso d’indossare una collana d’oro e/o una di perle grosse, nonché di vestire più sontuosamente del solito, così da segnalare il suo nuovo status sociale di donna maritata.

[7] Paulo Luzio Anafesto = Paolo Lucio Anafesto, primo Doge di Venezia, al governo dal 697-717. I Morosini furono una delle dodici famiglie veneziane che lo elessero, da qui l’aggettivo “apostolico” a Ca’ Vecchie. Oggidì gli storici dubitano della storicità di Anafesto, ma all’epoca di questo racconto sicuramente per Leonora Morosini e con lei tutta Venezia corrispondeva all’indiscussa realtà. Quanto ai Miani, pur vantandosi di discendere dalla gens Emilia, in realtà erano dei navigatori-commercianti provenienti dall’Istria, i quali si trasferirono a Venezia verso la fine del X secolo.

[8] Narra il Sanudo: et quando ‘l andò (il Doge Francesco Foscari nella camera dove avevano portato il figlio per congedarsi dalla famiglia), li parlò molto costantemente, che pareva non fosse suo figlio licet fosse unico figlio. Et lui disse: “Messier padre, vi prego procurate per mi che torni a caxa mia.” Il Doxe disse: “Jacomo (Jacopo) va ed obedisci a quello vol la Tera, et non zerchar più oltra.” Ma ben si disse che il Doxe, tornato a Palazo, stramortì, et detto sier Jacomo fo mandato al suo confin alla Cania.

[9] duratura seges = “Frutto duraturo”. Questo motto fu scolpito nella targa commemorativa in marmo sulla fontana lombardesca a Feltre, sopra di cui è posto un fascio di piante di miglio con un nastro volante. Poiché il miglio compare nello stemma dei Miani, non sappiamo se questa frase fosse il loro motto oppure semplicemente l’incipit del contenuti della targa. Finché non riusciremo a trovare fonti precise a riguardo, per non sbagliare ci limiteremo a dire che si trattava del motto personale di Angelo Miani.



 

 

 

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Capitolo 16
*** Capitolo Quattordicesimo: 11-12 settembre 1511 ***


Ecco qua il (vero) quattordicesimo capitolo!

Ulteriori note si trovavano a fine pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.

Avvertimenti: linguaggio scurrile, teorie del complotto e altre peculiarità.

Ricordiamo che le vicende narrate sono una ricostruzione romanzata, in mancanza di fonti specifiche sul protagonista in quel periodo e alcuni punti oscuri nelle cronache stesse dell’assedio.  

Chiedo venia se ogni tanto qualche parola di “terraferma” si mescola al veneziano “di Venessia”, per quanto risciacquiamo i panni in laguna non tutte le ciambelle riescono col buco.

Un ringraziamento ai miei lettori e ai miei recensori: Alessandroago_94, Semperinfelix, Mrosaria e Sagitta72. Grazie a chi ha messo questa storia tra le seguite, preferite e ricordate.

Vi auguro una buona lettura,

H.

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Capitolo Quattordicesimo

11-12 settembre 1511

 

 

 

Ca’ Contarini dai Scrigni e da Corfù riluceva al sole e al riflesso ondulato e danzate dell’acqua, mescolando pietre rosa d’alba mattutina a bianche d’Istria, vivacizzate dalle calde fantasie degli arabeschi dei tappeti persiani e dai grandi vasi di fiori ai balconi, conferendo al palazzo un che di leggiadra civetteria femminile.

Sier Piero “Pinze d’Oro” Contarini l’aveva costruito alla fine del Trecento in stile gotico e il suo discendente e attuale proprietario, il cavaliere sier Zacharia dai Scrigni q. sier Francesco, ereditato quell’edificio nella contrada di San Trovaso, aveva deciso di ritorno dalla sua ultima missione in Alemagna nel 1496 di restaurarlo e di ampliarlo, inaugurandolo due anni dopo tramite suntuosissima festa.  Dei tre piani del palazzo i due nobili centrali erano stati decorati ciascuno tramite eleganti quadrifore a sesto acuto balaustrate al centro e due monofore ogivali per lato iscritte in una cornice rettangolare. La porta d’acqua era stata ingrandita e valorizzata con mezze colonne doriche e sopra un timpano a forma d’arco con decorazioni a raggiera a guisa di conchiglia, creando maggior impatto al visitatore giungente dal canale, il quale non poteva non ammirare il felice connubio tra la spinta ardita e fiorita del gotico e la placida armonia delle nuove forme classicheggianti degli Antichi.

Un luogo pieno d’aria, di luce, la casa della felicità ecco lo scopo ultimo di quel progetto.

Sier Zacharia in persona aveva seguito i lavori, tra una seduta e l’altra in Senato e la cura dell’educazione dei suoi figli minori. Dopo anni di missioni diplomatiche a Mantova, a Ferrara, a Milano, in Francia e in Alemagna, giustamente la Signoria gli aveva concesso un po’ di requie e dunque l’annoiato ambasciatore s’era dato alle gioie dell’edilizia, desideroso di infondere nella sua casa la sua ritrovata contentezza nella quotidiana domesticità. Non fosse stato chiamato nel giugno del 1499 a ricoprire il ruolo di podestà e capitano a Rovigo, il Contarini si sarebbe pure dedicato all’antico castello di famiglia a Piazzola sul Brenta, uno dei beni portati in dote da sua nonna domina Maria da Carrara q. domino Jacopo, ultimi esponenti dell’illustre famiglia signorile di Padova.

Tredici anni da allora e Ca’ Contarini seguitava a conservare quell’aria di coccola dolcezza, in fiero contrasto però coi cupi sentimenti dei suoi abitanti. Sull’intero palazzo gravava infatti una densa coltre di silenzio e tristezza, mai mitigata, malgrado i tentativi del figlio di sier Zacharia, Francesco, di tener alti gli spiriti acciocché il suo sfarzo seguitasse ad abbagliare i preziosi e  necessari ospiti da lui invitati onde accelerare le trattative per la liberazione del padre e del fratello minore Piero, catturati a Cremona nel 1509 e condotti in Francia prigionieri, il primo a Parigi e l’altro a Perpignan. Rifiutando di rassegnarsi al fato palesemente avverso, Francesco Contarini assieme ai fratelli rimastigli – Phelippo, Marco e Polo – e i cognati sier Andrea Guxoni e  sier Marin Trivixan seguitava ostinato a battere ogni strada a lui percorribile, intrattenendo fitte corrispondenze con diplomati e comandanti francesi per intercedere presso l’irremovibile Louis XII. Con buona licenzia della Signoria il patrizio aveva nel maggio scorso viaggiato fino a Bologna a casa di domino Franco degli Uberti per discutere personalmente del riscatto. Tale era la sua determinazione da riuscire egli  a convincere il Consiglio dei Dieci a rifiutare richieste di scambi di prigionieri da parte dei francesi, fintanto che il re di quest’ultimi s’incaponiva a non rilasciare sier Zacharia e Piero Contarini.

A costui dunque s’erano rivolti madona Leonora Morexini relicta Miani e suo figlio Lucha su suggerimento del consigliere ducale sier Batista Morexini, nella speranza che, grazie alle sue conoscenze, sier Francesco riuscisse ad agganciarli a qualcheduno dei comandanti nemici e iniziare il processo di riscatto di Hironimo. In particolare madona Leonora s’era parecchio raccomandata alla madre del Contarini e sua amica di vecchia data, madona Alba Donado dalle Rose, d’intercedere per la sua causa.

Ed evidentemente dovevano esserci delle novità, poiché quella mattina un loro servitore portò in ambasciata a Ca’ Miani un invito a pranzo, onde discutere di certe faccende a loro note. Madona Leonora non aveva fatto attendere troppo la sua risposta e la Nona [1] ancora non aveva battuto il diciottesimo tocco che la sua gondola attraccava alla porta d’acqua di Ca’ Contarini.

“Le siore patrone colendissime la N.D. Leonora Morexini relicta Miani, la N.D. Leonora da Molin dil Bragadin et domina Maria Morexini relicta Querini, comtessa de Stampalia et Amorgo.”

Non potendo accompagnarla né Lucha per via dei suoi impegni in Quarantia Criminal né suo fratello Batista per via del suo incarico che lo obbligava a rimanere super partes, madona Leonora aveva scelto come chaperon due sue nipoti, così da non apparire una supplice disperata e per dirottare altrove l’attenzione degli elementi in sovrappiù a Ca’ Contarini.  

Il maestro di casa a seguito dell’annuncio guidò le tre donne nel portego del piano nobile, là dove tra i muri tappezzati di ricchi arazzi, i pavimenti di seminato ricoperti di tappeti turcheschi, gli scranni in legno scolpiti e decorati a foglie d’oro e ottomane di cremisino l’attendevano madona Alba Donado in Contarini e sette dei suoi dieci figli – Francesco, Phelippo, Maria, Camilla, Lugrezia, Talesia e Contarina [2] -  tutti vestiti con tal eleganza da confondersi con la lussuosa stanza e parevano decorazioni anche loro. Madona Alba e le sue figlie vestivano di balzo di velluto e i fiori d’argento ed oro ricamati ad arte sul raso delle loro ampie e gonfie maniche rilucevano alla settembrina luce del meriggio, così come le scuffie di seta ricamate a filo d’oro con motivi geometrici e le due sottili collanine di perle intrecciate al collo. Sier Francesco, invece, indossava una casacca nera sciallata che lasciava intravedere la camicia bianca plissettata e le maniche di velluto scarlatto; quella del fratello Phelippo, invece, si presentava turchese e ambedue portavano i capelli a caschetto e la barba, secondo la nuova moda vigente.

A confronto di tal variopinta tavolozza, le tre ospiti corrispondevano ad un pugno nell’occhio: vestite sì di velluto, ma di un nero cupissimo da capo a piedi, ognuna col suo personale lutto, l’unica macchia di colore la fine camiciola di seta bianca che copriva la scollatura della sola madona Leonora, non giudicando le sue nipoti, entrambe nel fiore degli anni, necessario fustigare il naturale rosato del loro decolté. Levatesi il pesante paneselo nero che li arrivava fino a metà coscia, le donne rimasero con le loro scuffie sempre nere che coprivano in toto le loro trecce; niente gioielli, se non le vere nuziali al dito.

Sembravano uno stormo di corvi che s’imbatteva in uno di pavoni. Ciononostante, ironia della sorte aveva pur disposto un unico elemento in comune tra quegli astanti diversissimi tra di loro,  ossia espressioni serie e granitiche, nessuno incline al sorriso e non per cattiveria o maleducazione.

“El fio mio Lucha, el vu dimanda la perdonaça, s’el nol gh’ha podesto vegnir à disnar cum vui: ea Quarantia Criminal lo tegne occupà pì dil necessario”, si scusò madona Leonora con l’amica, dopo aver scambiato i dovuti convenevoli. “Staltro fio mio, Marco, el me scrive ch’el Marcolin vuostro se porta ben et che se fa honor, che no xélo mai stuffo d’agiudar i soi compari a l’opere a le mura di Trevixo”, aggiunse e il volto smunto di madona Alba si tinse brevemente di sollievo, inquieta a causa delle scarse notizie circa il fuggiasco suo figliolo che col suo silenzio aggiungeva insulto all’ingiuria, tutto il contrario di suo fratello Polo Contarini che pur imbarcato nell’Armata del Po scriveva regolarmente alla madre.

Attraversata la vasta stanza attigua al portego, adibita a lanziera d’armi, il gruppetto si stava nel frattanto portando nella sala ove desinare, anch’essa ricoperta di broccati e quadri dai soggetti ora sacri ora profani e sulle cui pareti s’appoggiavano credenze di legno di noce stracolme di scintillanti argenterie, di vivaci e variopinte maioliche di Faenza, di Cafaggiolo, di Urbino; di sottili vetri di Murano, di ninnoli e statuette delle più variegate forme e provenienza e perfino di pezzi d’antichità greche e romane, tutti raccolti in artificioso assetto. Il tavolo stesso, per un pranzo informale quasi en famille, era stato preparato con elegante dovizia di vasellame e decorazioni.

“Co’ ripatrieré a Stampalia, siora comtessa?”, s’informò sier Francesco, tallonando immediatamente la vedova figlia di sier Batista Morexini, la cui bellezza non si lasciava strapazzare né dal lutto né dalla nascita del figlio postumo del fu conte Zuanne Querini. Semmai, il nero dell’abito di velluto le slanciava la figura e risaltava il biancore alabastrino della sua pelle, così come gli occhi nerissimi e la bocca vermiglia e sensuale. Eppure, dietro a tal beltà si celava un dolore acutissimo, del quale Maria pareva quasi gelosa, custodendolo per sé senza mostrarlo al mondo. Che le pizzocchere la tartassassero pure scambiando il suo stoicismo per indifferenza, lei non doveva dimostrare niente a nessuno. Zuanne le mancava da morire, però la nobildonna doveva vivere per i suoi figli e per la sua famiglia.

“Nol sciò”, replicò la giovane contessa in un sussurro vellutato, le palpebre abbassate come il gatto che fingendo di dormire in realtà osserva attentissimo ogni movimento che lo circonda. “Gh’ho da star drio ai lavori a la nova Cha’ Querini; el mio missere Nicolò Querini tendaran optime a le tere anca sença de mi. De pì, el mio putelo Nicolò xélo massa picenin per inbacarse et la siora mia Mare et el sior mio Pare voleno ch’el staga qui a Veniexia cum eli. Chi songio mi par desobedir?” e soprattutto perché a Venezia Maria poteva tutelare l’eredità dei figli minorenni contro ogni pretesa della famiglia del marito, nonché evitare di sentire il costante fiato sul collo della minaccia turca alle isole greche infeudate ai Querini.

“Chome steli i vuostri parenti, i lustrissimi sier Antonio Trum procurator et Lucha Trum savio a tera ferma?”, domandavano le Contarini a Dionora da Molin in Bragadin, la quale rispose lentamente e con diffidenza, mentre s’accarezzava i primi cenni del ventre rigonfio:

“Assa’ ben da l’ultima volta che mi gh’ho parlào cum eli.”

“Gh’ho sentio ch’el Procurator gh’ha da depositar 800 ducati de presenti a la Signoria per un anno. O geran 900?”

“Nol sciò, el sior barba di la siora mia Mare ancuo (oggi, ndr.) gh’ha da parlar en Colejo – s’avedarà.”

“Xélo vero, ch’el gh’ha refudà ea nomina a Capitan Zeneral?”

“El cognosse i soi limiti.”

“Raccomandatime à lhor siori riveriti, donca.”

“No falarò”, finse di promettere Dionora, cogliendo la frecciatina delle due donne sulla salute del suo prozio materno. Tuttavia, dissimulò ignoranza e non tanto per ingannare le sue interlocutrici, quanto coloro che rappresentavano, ovver i mariti ed i fratelli la cui linea politica non sempre coincideva con quelli dello zio e cugino della sua defunta madre madona Crestina Miani da Molin. Il recente rifiuto poi di sier Antonio Trum a sostituire il capitalo generale sier Anzolo Trivixan gli aveva guadagnato molti occhi puntanti contro e critiche borbottate a denti stretti. Il nipote del fu Serenissimo, imperturbabile, s’era giustificato sostenendo la sua poca dimestichezza nella marina militare, mancanza inaccettabile in tempi delicati come quelli: piuttosto, che tale compito venisse affidato ad un comandante d’esperienza, magari più giovane di lui, povero vegliardo settantunenne pieno di reumi qual era.

In aggiunta, alla giovane patrizia i Contarini dai Scrigni non erano mai andati tanto a genio (con l’unica eccezione del Marcolin e del Piero, gli amici del suo barba Momolo) e di conseguenza non li frequentava più del dovuto, avendo infatti ereditato quella nuova generazione la medesima aristocratica spocchia della loro bisnonna domina Maria da Carrara, credendosi alla pari di Dominiddio soltanto perché possedevano un fottio di terre, danari e potevano permettersi ospiti illustri e per di più foresti, senza che la Signoria avesse molto da ridire. Bah.

“Amiga mia, no me scolté? An, la perdonança!”

Madona Leonora strabuzzò gli occhi disorientata. “Per cossa, Alba?”, fece confusa.

La nobildonna scosse il capo, stringendo con imbarazzo il piròn che mulinava in aria a vuoto, indecisa se impirare la carne sul piatto o se appoggiarlo.

“Jo stago qui a lamentarme di le mie desgrassie, co’ anca vui gh’avé le vuostre.”

Stavolta arrossì Leonora, giacché a onor del vero non aveva prestato grande orecchio alla triste e lunga brentana che fu lo sfogo della sua amica, la quale trascorreva da ben due anni notti d’angoscia per la sorte del marito e del figlio, acuita adesso da quella per il fratello e gli altri suoi due figli al fronte. Da Parigi le giungevano lunghe lettere da parte di sier Zacharia, ma da Perpignan quasi niente, se non ciò che il cavaliere riusciva ad estrapolare da terzi sulle condizioni del suo ultimogenito. E il Marcolin con la sua recente fuga l’aveva assassinata e nonostante le sue veementi insistenze quell’inutile di suo fratello sier Andrea Donado non riusciva a persuaderlo ad alloggiare in casa sua, figurarsi ritornare a Venezia. E a proposito del podestà e capitano di Treviso … “Et saveu cossa gh’ha scrito en Consejo sier Lunardo Zustignan vuostro parente zerca mio fradelo Andrea?”

“No?”

“Ch’el podestà val puocho, et usa miseria in li danari di la Signoria.”

Al che la vedova Miani, piuttosto di commentare, giudicò più saggio bere una sorsata di vino rosso annacquato. Quanto riferito dal patrizio corrispondevano alle medesime lagnanze nelle lettere del Marchetto, laddove suo figlio si sfogava frustrato protestando quanto sier Andrea Donado centellinasse i soldi inviati a Treviso da Venezia per la costruzione delle mura difensive, neanche li cacciasse fuori di tasca propria e pertanto tra soldati, cittadini, popolani, gli stessi patrizi e comandanti si lavorava tutti alla stregua di formichine, notte e giorno, ad infernali ritmi d’Arsenale.  

“Xéle cosse che se disen”, nicchiò infine madona Leonora, appoggiando il bicchiere. “Pitosto, Alba, sora la question di staltro fio mio …”, introdusse discreta l’argomento che più le stava a cuore e per il quale aveva abbandonato la quiete di Ca’ Miani, arrivando a scomodare perfino le sue nipoti.

Similmente agli antichi pellegrini di Delfi, madona Leonora interrogava costantemente suo figlio Lucha, i suoi parenti e il fratello Batista onde reperire anche la più minuscola informazione sul suo Momolo, ricevendo ogni volta la medesima risposta, ossia ch’era in vita, sorvegliato a vista da Mercurio Bua e fine della storia. Ma in quali condizioni versasse, se in salute o in malattia; se sfamato o lasciato deperire d’inedia; se vestito o nudo, se torturato o ben trattato … lo ignorava. Con Lucha, invece, pur ricevendo notizie saltuarie le aveva comunque avute, anche per mano di altri prigionieri, nel periodo in cui il suo primogenito giaceva nella branda intontito dagli oppiacei dopo l’operazione chirurgica per salvargli il braccio destro. La nobildonna aveva sofferto orrendamente, sì, ma mai aveva dubitato della sua incolumità nonostante la prigionia, né del ritorno di Lucha malgrado i quattro mesi di attesa.

Momolo, al contrario … Mille tremende immagini sulla sua sorte si alternavano nella mente di Leonora, togliendole il sonno già scarso, prosciugandole gli occhi di lacrime e l’anima d’energie. E anche a te una spada trafiggerà l'anima, mai parole furono più veritiere.

Talora la nobildonna si svegliava  sussultando e madida di sudore, l’immagine del figlio talmente nitida dinanzi a sé che quasi le pareva di poterlo toccare e stringere al petto. In altre occasioni giurava d’udire l’eco della voce di Anzolo, che la spronava a continuare a pregare, a pregare ininterrottamente la Devotissima.  

Maria, afferrando al volo l’ansietà di sua zia, per la prima volta dal suo arrivo guardò dritto negli occhi sier Francesco, sorridendogli tra il supplice e il civettuolo: “Seti riussì a parlar cum qualchedun di comandanti franzosi o todeschi?”

La bocca del secondogenito di sier Zacharia si contrasse in una strana smorfia, in bilico tra il dispiaciuto e l’incoraggiante. “Sì ben …”, esordì curiosamente impacciato rispetto alla sua usuale parlantina assai sciolta. “Cognosséu la comtessa di Corejo, domina Veronica de Gàmbara?”

“La fiola dil traditor brexiano Zuan Francesco de Gambara?”

“La medesma. Saveu anca chome el sior sòo Pare se trovi horra à Monte Beluna agli hordeni di la Peliza, per l’impresa di Trevixo? Ecco, in nomine di l’amititia ante la guera, le gh’ho scrito et spiegà ea situazion …”

Madona Leonora trattenne il fiato, incalzando impietosa sier Francesco: “Gh’avela capiò l’importança …?”

L’uomo annuì. “La comtessa la me gh’ha riferio che l’intende et chome la gh’avea scrito al sòo sior Pare de zò unde agiudarci.”

“Perché el conte de Gàmbara vol horra ser d’ajuto?”, arcuò scettica Dionora il sopracciglio.

“El gh’ha scoperto a sòo danno che li franzosi non xéli cussì amizi chom’el credea. A Brexa i se gh’han petuffai de bruto coi gasconi dil cavalier Bayart; niun i vol pì vedar manco dipinti. Cussì el Gàmbara horra vorave tornar a san Marco, ma el Consejo dei X no se fida et chome podaria? El gh’ha canbià zò massa bandiera.”

“Perhò, vui credete a elo”, puntualizzò Leonora.

“Gh’avé da satre, madona, chom’el 6 di setembrio, ghe gera stà a Trevixo ‘na scaramuzza coi stratioti dil Mercurio Bua, el qual tegne prexom vuostro fio sier Hironimo. El Bua scampolò perhò s’amaloe et credutolo morto, el conte de Gambara gh’avea dato hordene de tuor Hironimo im soa protetitione, cussì che vuialtri podesse pagar ea taja …”

Dionora e Maria lanciarono un piccolo gridolino entusiasta, già figurandosi l’esito positivo di quel piano: accaparrandosi infatti il prigioniero per sé, il conte di Gambara poteva disporne a proprio piacimento, concludendo scambi o pagamenti di riscatto assai vantaggiosi e anche dimostrando quanto veritiere fossero le sue lettere inviate al Consiglio dei Dieci, nelle quali giurava e stragiurava la sua lealtà alla Serenissima pur proclamando a voce alta l’incontrario. Madona Leonora, al contrario, non giubilava, accortasi infatti dell’espressione sempre più mesta sul viso solitamente superbo del Contarini e non presagendone nulla di buono.

“Purtroppo desgrassia gh’ha volesto, ch’el Bua nol gh’avea niuna intençion de crepar, sicché el se gh’ha ciapà indrio cum la força vuostro fio, el qual tegne sconto im sòo pavion, niun pol vedarlo niun pol propinquarselo (avvicinarsigli, ndr.) A me spiase …”, mormorò genuinamente contrito sier Francesco, percependo quel rovescio d’eventi come l’ennesima personale sconfitta. Infatti, aveva creduto il salvataggio di un signor nessuno quale Hironimo Miani poca cosa, sottovalutando l’ostinazione dell’incognita impazzita, al secolo Mercurio Bua che se lo costudiva manco avesse catturato il Doge in persona.

La vedova Miani socchiuse per un istante gli occhi, incassando stoicamente quell’ennesima stilettata, la speranza di riabbracciare il suo ultimogenito di nuovo dispersasi come il caìgo invernale dal vento e dal sole. “Chome stelo el fio mio?”, s’aggrappò tenace a quell’ultima consolazione. “El Gambara, gh’avelo parlà cum elo? Gh’avelo visto?”, stridette la sua voce di tal angoscia, che sier Francesco sussultò lievemente, mentre sua madre sgranava gli occhi, pallidissima.

“Siorasì”, s’affrettò a rassicurarla madona Alba. “El Momolo l’gera ligà cum catene et en camisia, bianco puina et malmenao, perhò im boni spiriti et lengua prontissima.”

Dionora artigliò quasi la stoffa sopra il pancione, deglutendo; Maria cacciò un profondo sospiro, appoggiando la sua mano sopra il polso della zia a mo’ di conforto.

“Insistareu cum el conte, sier Francesco?”, esibì poi la giovane contessa la più sconsolata delle sue espressioni, le iridi nerissime da cerbiatta velate di accorte lacrime. La mano libera viaggiò molle e discreta verso quella più grande dell’uomo, sfiorandogli appena le nocche con la punta delle dita. Così sporgendosi offrì agli occhi del Contarini il motivo per cui non aveva indossato la camiciola bianca e non perché a Maria importasse un fico secco di lui, bensì della sorte del suo amatissimo cugino per la cui causa era disposta ad offrir il suo modesto contributo.  

“Fazzo el tutto che se pol far”, le promise a disagio sier Francesco, ansioso di ben figurare con lei pur non perdendo di vista la personale missione di riscattare i suoi di parenti, ché stando al saggio proverbio, ad una bea femena non se nega gnente soprattutto se s’era come lui ancora celibi. “Basta spetar l’occasion propitia.”

Maria lo trafisse impietosa con quel suo sorriso birichino pieno di fossette, annuendo soddisfatta mentre con la scusa di levargli la mano gli sfiorò il polso, dentro la manica.

“No v’indubité”, reiterò madona Alba, scoccando tuttavia un’occhiata obliqua di monito al suo primogenito maschio, che tossicchiando portò il braccio più da rente al bordo della tavola. E rivolgendosi benevola verso l’amica: “O prima o dopo el Bua gavarà pur da dimandar ea taja. No pol mica tegnirlo seco per sempre!”

Madona Leonora convenne rigidamente, poco persuasa da quelle incoraggianti parole, e riconcentrò lo sguardo sulla sua  porzione di ambroyno sul piatto, pollo cotto con cipolla, zenzero, chiodi di garofano, cannella, cardamomo e sopra salsa alle mandorle speziate allo zafferano. In altre circostanze quel piatto così ricco e gustoso l’avrebbe di molto gratificata; invece in quel momento la nauseava, specie al pensiero di sapersi lì, al sicuro e ben nutrita, mentre la carne della sua carne molto probabilmente stava patendo la fame, il freddo, forse perfino ammalato e lei non poteva fare alcunché onde alleviare quelle tremende condizioni, tranne pregare per una liberazione ch’ogni giorni si rimpiccioliva in un pallido miraggio.

“Ma mio fio insistarà, digo ben Francesco? El conte vol tornar in brazo a la Signoria: codesto ajuto pol zogar a sòo et vuostro vantajo.”

Leonora avrebbe ardentemente desiderato alzarsi e disertare la compagnia, sennonché desistette, indossando la sua giornaliera maschera di stoica imperturbabilità. Lo doveva al suo Momolo: dimostrandosi forse troppo sconvolta, avrebbe scoraggiato sier Francesco nella sua delicata missione di persuadere il conte Gianfrancesco di Gambara a non gettare la spugna al primo tentativo fallito, impresa non facile considerando la volubilità dell’uomo.    

“Gh’avé rason, Alba. Tentar et ritentar.”

 

 

***

 

 

Un altro magro meriggio si trascinava via al campo dei Collegati di Montebelluna, immobile in abulica attesa del maresciallo de La Palice, il tempo dilatato e scandito a malapena dal muoversi del pallido sole settembrino, appesantito da un’aria umidiccia e fastidiosa – el vento dil pizzegamorto, lo chiamavano i locali.

Vino e pane pressoché introvabili, al punto che i soldati avevano dovuto dar fondo alla preziosa carne essiccata e a mattare le bestie anche per il trasporto. Si vendeva a prezzo ignominioso del mosto ma la terra, marcia d’acqua, aveva prodotto uva scadente da rivoltare lo stomaco. La pancia non si riusciva a riempirla adeguatamente da montare la guardia, figurarsi marciare e combattere. Ogni tanto qualcuno tornava da qualche perlustrazione con del cibo, a malapena sufficiente per sé e pochi compagni. Se ritornavano, caduti in qualche dolina dell’insidioso Montello o scannati dai contadini nascostisi nelle grotte.

I litigi per il cibo erano all’ordine del giorno, specie tra francesi e tedeschi, quest’ultimi dalle mani ognora lunghe sulle misere scorte dei cisalpini.

Le incessanti piogge costringevano ad una costante manutenzione di armature e armi, inumidendo le polveri da sparo e il fango di quella terra sostanzialmente paludosa rubava letteralmente le loro calzature, alcuni rimanendo pertanto scalzi onde evitare di perderle o in attesa di un bottino migliore per sostituirle. L’apatia era tale, che neppure le puttane di campo interessavano più, preferendo ognuno restarsene o per i fatti suoi o coi suoi commilitoni, a domandarsi quale morte l’aspettasse, se o per malattia o in battaglia,  e un poco rimpiangendo la loro terra natale, abbandonata a causa dell’allettante promessa di facile bottino in quel Paese di Bengodi com’era stata loro da anni descritta l’Italia.

Ogni tanto, da qualche angolo non precisato del campo, s’elevava un fastidioso concerto di grasse tossi catarrose e raschi di gola seguiti da sputi e gemiti di chi non riusciva più a respirare col naso.

O il rumore della terra scavata per tumulare chi non respirava affatto.

Quand’ecco che l’inaspettato squillo di tromba ridestò l’accampamento dal malsano torpore in cui era da giorni sprofondato.

Una stanca eppure festante esclamazione di giubilo si levò all’ingresso del maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in testa ai rinforzi portati da Vicenza. Sia tedeschi che francesi, accantonando le loro divergenze, gli erano andati incontro, salutando il comandante e i nuovi compagni e ovviamente adocchiando famelici il carro dei viveri.

Eppure, chi aveva occhi per vedere non gioiva: da Vicenza era giunta una barzelletta di rinforzi, sia in termini di uomini che di munizioni.

Uguale sconforto lo stava assaporando in quell’esatto momento anche il de La Palice, guardandosi intorno smarrito e incredulo: aveva lasciato un campo abbastanza completo di soldati e invece gli si presentava il desolante spettacolo di un branco d’ammalati macilenti e di prostitute. Le barche per attraversare il Piave erano ridotte a moncherini carbonizzati. Le fosse coi cadaveri aumentate e i rami degli alberi ornati più di impiccati che di foglie. Il campo emanava ovunque un tanfo nauseabondo di carne putrescente, d’erbe marce, di terra bagnata e di feci.

Il francese allungò il collo verso il padiglione di Mercurio Bua e dove attorno stava la sua compagnia; deglutì malamente appurando quanto il fallito attacco di Treviso l’avesse quasi dimezzata. Aveva udito della debacle dell’albanese, soltanto che non si figurava un tal disastro.

Tutti, giurò tra sé e sé il furibondo l’uomo, tutti i suoi sottoposti gli avrebbero dovuto spiegare molte cose e dettagliatamente.

Lecha Busicchio irruppe nella tenda del collega, tallonato da Zilio Madalo. “Il maresciallo è tornato!”, annunciò tutto d’un fiato.

Puntellandosi al contrario pigramente sui gomiti, Mercurio si grattò la testa, sbadigliando sonoramente. “E dovevi proprio svegliarmi in sì malo modo per comunicarmelo?”, disse affatto compiaciuto di quell’eccesso di zelo. Il magro pranzo non l’aveva sfamato e si sa che ci dorme mangia, tanto era convalescente e aveva ogni sacrosanto diritto di poltrire.

Grugnendo il Bua si pose seduto, osservando soddisfatto l’eccellente processo di risanamento della sua coscia: invero quella sua lesta guarigione aveva un che di miracoloso, considerando come cinque giorni addietro il cerusico se lo fosse disputato alla morte a dadi e scalpello. L’animo superstizioso del condottiero ne dedusse che la fortuna stava pian piano ritornando ad arridergli e quisquiglie quali il de La Palice e le sue rogne non gli avrebbero di sicuro guastato il ritrovato buonumore. Neppure gli ultimi fastidiosi rimasugli di febbre. Alla faccia di chi gli diceva ch’aveva contratto il Male Innominabile e già gli cantava la Messa da Requiem.

L’albanese gioì un po’ di meno quando, postosi in piedi, la gamba ferita cedette al primo passo, sbilanciandolo rovinosamente e se Thomà gli sfuggì eseguendo una circense capriola, Hironimo si ritrovò a fungergli da materasso, assorbendo in totum l’urto della sua caduta, il fiato mozzato da quel massiccio corpo.

Perlomeno, Zilio e Lecha accorsero solerti a liberarlo di tal peso morto e il giovane Miani ritornò a respirare, la mano premuta all’addome, avendogli involontariamente dato Mercurio una gomitata proprio sull’antica ferita.

Sicché, non trovando modo di sciogliere la catena che l’aveva ingarbugliato al prigioniero, l’albanese si risolse d’aprire la manetta, anche perché l’arrivo degli altri comandanti significava per Hironimo ritornarsene nel suo angolino dietro la tenda. Se non fosse stato per i ceppi, le cavigliere e soprattutto il collare con la palla di cannone, che lo costringeva disteso sul pagliericcio, il giovane veneziano ne era quasi contento, rassicurato e protetto dall’intimità di quella mea. Nondimeno, ritornare a tu per tu col fetore della stuoia umida d’acqua e fango e l’innaturale posizione riversa gli sconquassarono ugualmente le budella, rischiando di fargli vomitare la poca colazione consumata, se non fosse stato per il provvidenziale intervento di Thomà che gli tappò la bocca, costringendolo a ricacciare tutto indietro.

Inoltre, da quella mattina Miani percepiva un acuto dolore alla gola, non dissimile a quello provocato da una spina di pesce e ogniqualvolta tentava di deglutire, gli sembrava d’avere un sasso ad ostruirgli l’esofago. Doveva aver dormito a bocca aperta oppure era disidratato, si disse giustificando quel nuovo e persistente malessere.

Hironimo tossicchiò di prova e gli parve d’aver due tenaglie ora, oltre al collare.

“Cos’era quella?”, udì il giovane la seccata domanda del condottiero da dietro la tenda. Senza neanche degnarlo di una risposta, il patrizio si rigirò sul fianco e si mise a richiamare quanta più saliva in bocca, così da inumidire la gola irritata.

“Bevete, patron”, gli offrì solerte Thomà la sua ciotola d’acqua, dopo essergli gattonato accanto. Gli offrì poi un pezzetto di pan nero, previamente salvato dall’ultimo pasto e che aveva tenuto nascosto sul fianco ossuto, dentro la mutanda.

Miani si voltò di scatto, gli occhi nerissimi spalancati. “Ripeti!”, gli ordinò perentorio, disdegnando le vivande, più interessato a squadrare fissamente il perplesso fantolino.

“Patron?”

“Che disestu?”

“Mi?”

“Parla de novo!”

“Mi no gh’ho dito gnente, mi!”

“Cossela sta voze da masorin?” (anatra selvatica, ndr.)

Il biondino decenne si grattò colpevole il collo, ingobbendosi contrito. “A me dole ea golla, patron”, ammise infelice.

“Da quanto?”

“D’eri.”

“Et ti, ebete, ti no te m’avverti?!”

“Cospetto, patron!”, esclamò di rimando Thomà tra l’incredulo e il deliziato. “Anca vui gh’avé la voze da galina! Semo compagni horra et podemo orar Sen Biasio tuti et do!”

“Cancaro d’un puto, te scortego la fazza a furia di s-ciafoni, altro che i peteni de Sen Biasio!” [3]

Poco incline a beccarsi lo scappellotto castigatore per la sua impertinenza, il bambino sbrodolò lesto un’intellegibile sequela di piagnucolosi miagolii e paternostri-avemarie, mulinando esagitato le braccia, finché il troppo parlare gli rubò il fiato e il patrizio si ritrovò il viso ventilato da una lunga e profonda tosse secca.

La tenda si scostò bruscamente.

“Cos’è questa cagnara?”, ringhiò Mercurio Bua, sostenendosi su di una sorta di gruccia sotto l’ascella e vestito di tutto punto col corsaletto già indosso, presagendo infatti un’eventuale visita da parte del maresciallo de La Palice alla sua tenda. Gli occhi dell’uomo scandagliarono ogni minimo dettaglio della “cella” del suo prigioniero, dalla ciotola vuota appoggiata sul pagliericcio al veneziano che si premeva il viso del moccioso contro il petto. “Ebbene?”

“Parlavamo, o ci è proibito anche questo?”, sibilò astioso Hironimo con tono di voce sospettosamente basso e roco, neanche fosse ubriaco.

Mercurio avanzò piano verso di lui. “Chi dei due tossiva?”, inquisì aspro.

Il giovane Miani si scorticò petto, esofago e gola fino alle lacrime in un roboante colpo di tosse. “Io”, mentì, peccato che poi gli venne da tossire sul serio, rimanendo per un istante senza fiato e pure gli venne da sputare, cosa che fece senza rimpianti e per di più ai piedi di uno schifato Mercurio.

Un’espressione sgomenta impallidiva tuttavia il volto da convalescente del condottiero, che per una volta non seppe cosa ribattere, specie dinanzi al biancastro grumo per terra. Imprecando stizzito, si voltò per andarsene ma ecco che uno starnuto lo bloccò.

“Di nuovo io?”, si strofinò Hironimo il naso, sforzandosi con ogni fibra della sua persona d’ignorare il muco e la saliva sulla sua camicia, cortesia di Thomà che ci aveva starnutito sopra.

Gamo ti poutana mou!”, inveì ruggendo Mercurio, zoppicando rapido verso uno dei suoi cassoni e in un battibaleno Miani si ritrovò ad acchiappare più o meno al volo una pesante coperta di lana. “Vedi di un creparmi!”, gli intimò snervato il capitano di ventura, chiudendo malamente la tenda, nel frattempo che abbaiava ordini ai suoi sottoposti, il suo umore decisamente guastato.

“Faccio quel che posso, ma non t’assicuro un bel niente!”, lo sfotté poco convinto Hironimo, intento al contrario nella difficile operazione di avviluppare con la coperta sia lui che Thomà, ostacolatagli infatti dalle catene e la palla al collo. Sicché il piccino, pigliando in mano la situazione, afferrò il panno e fatto cenno al più grande di stendersi, lo sistemò sopra di loro.

Quel ritrovato tepore sarebbe stato pure una bella sensazione, se il giovane patrizio non si fosse ritrovato a contemplare le smorfie del bambino mentre deglutiva a fatica, all’occasione interrotto da timorosi colpetti di tosse, che Thomà soffocava sotto la coperta, sulla paglia. Non avendo nulla da fare, il fantolino d’un tratto incominciò a sbadigliare, si stropicciò gli occhi e serrando la mano contro lo scollo della camicia del Miani, si addormentò così da ignorare i crampi della fame e del mal di gola.

Vegliando accorto sul dormiente piccino, Hironimo gli massaggiava intanto dietro la schiena, tra i capelli, tentando di dargli un poco si sollievo. Espirò a lungo, più che altro per impedire di tossire anche lui, emettendo così un penoso ibrido tra un gemito e un ansimo e gli sembrò d’esser pure lui scorticato dai pettini di ferro di San Biagio.

 

 

***

 

 

“Ponti?”

“Esatto: se non possiamo scendere con le zattere, lo faremo costruendo dei ponti man mano che procediamo verso Treviso. Legna, come potete vedere, qui non manca.”

“In questo modo terremo anche occupati i soldati, così da evitare eventuali diserzioni o, Dio non voglia, sollevazioni. È inutile rimanere qui a marcire a Montebelluna: bisogna muovere il campo, adesso o mai più.”

Mercurio Bua arcuò un sopracciglio in direzione del conte Gianfrancesco di Gambara, sorpreso da quell’inusuale supporto da parte sua.

“Esatto”, reiterò  l’albanese, “avete sicuramente sentito della spedizione di Giovanni Forti da Orte? Di come abbia distrutto a Noale dei mulini? O, come da me previsto, della distruzione del ponte di Bassano per opera di Giampaolo Manfrone di Schio?” e alla risposta positiva degli astanti proseguì: “Ci stanno sia affamando, sia creando terra bruciata attorno. Non possiamo tergiversare, maresciallo, una decisione deve esser presa, anche a costo di disobbedire all’Imperatore!”

Riunitisi per comodità il de la Palice e il resto dei comandanti nel suo padiglione e ascoltato il predicozzo del francese con la medesima svogliatezza dello scolaro impenitente, Mercurio Bua non aveva perso tempo e subito dirottava l’argomento su questioni più urgenti, ossia decidere se continuare l’impresa di Treviso o di tornarsene a Verona a svernare, ritentando in primavera. Ormai l’estate volgeva al termine e considerate le premesse, si prospettava un autunno infame e un inverno da lupi, fattori non ideali per cingere d’assedio una città così ben fortificata.

“Cesare Borgia conquistò la rocca di Ravaldino in gennaio”, ricordò Giulio Sanseverino al Bua. “E anche quella era considerata imprendibile.”

Du Molard e de Boissy convennero, memori di quel famoso assedio che aveva tenuto in scacco per quasi un mese il Valentino e tutta Italia col fiato sospeso. “Saint-Séverin ha ragione: perché dovrebbe Trévise sottrarsi da un destino analogo?”

“Perché, monseigneurs? Perché da allora son trascorsi ben undici anni”, fu la semplice e disarmante replica di Mercurio Bua. “I tempi sono cambiati. Gli ingegneri militari sono cambiati. Il nemico stesso è cambiato. Se pensate d’assediare Treviso alla stessa maniera di Ravaldino, allora è meglio che ce ne torniamo tutti a Verona a farci un bell’esame di coscienza e magari testamento!”    

Treviso sarà anche stata una città-fortezza in via di perfezionamento, aveva concluso l’albanese, ciononostante rimaneva comunque una fortezza alla moderna, progettata e costruita ad hoc per respingere gli attacchi della medesima artiglieria che tanto aveva sconvolto le sorti d’Italia. I comandanti francesi lì presenti stavano inoltre sottovalutando un altro fattore importantissimo, ovvero che il provveditore Zuam Paulo Gradenigo poteva contare non soltanto sul supporto militare di compagnie di ventura ormai avvezze a combattere contro cisalpini ed imperiali, ma anche sul pronto e fedele sostegno della popolazione locale, vantaggio di cui l’irriducibile Contessa di Forlì non aveva potuto giovarsene ai tempi di quel lontano assedio.

Galeazzo Pallavicino ci tenne però a puntualizzare: “Verissimo, il vostro previo scontro sotto le mura di Treviso ha confermato la preparazione bellica della città. Tuttavia, bisogna anche considerare che i nostri numeri appaiono di gran lunga superiori rispetto ai loro. Possiamo infatti contare sulle truppe ausiliari del Duca di Brunswick, di quelle stanziate a Castelfranco e a Soave. Lo stesso Giovanni Gonzaga è disposto ad unirsi a quest’impresa. Perché rinunciare proprio ora, quando siamo ad un passo dalla meta finale?”

Tutte le teste si voltarono in direzione di Mercurio, il quale a onor del vero non possedeva alcuna risposta precisa a riguardo, soltanto l’eco di una brutta sensazione che non l’aveva più abbandonato, dopo la cocente sconfitta sotto le mura di Treviso.

Le prime ombre vespertine e il conseguente consiglio di guerra l’avevano infatti sorpreso ancora intento a terminare gli ultimi dispacci, nello specifico al contino di Melzo Galeazzo Sforza e a Sebastiano d’Este, ambedue stanziati a Soave assieme a buona parte della compagnia di Federico Gonzaga da Bozzolo. Li aveva avvertiti di non abbassare la guardia, insospettito dalle continue e serrate sortite da Padova delle bande di Ferigo Contarini, di Zuam Paulo Manfron, del conte Guido Rangoni, di Giano di Campofregoso e ovviamente dei parenti di Lecha, i Busicchio al gran completo. Pareva che i provveditori di Padova Christofal Moro e Polo Capello e il vicegovernatore Fortebracci di Montone avessero dato ordine ad ogni capitano di ventura di sbizzarrirsi in incursioni a loro piacere, colpissero dove volessero. All’apparenza a caso, eppure il Bua intuiva uno schema di fondo. Quale però?

“Evidentemente, questa serie di continue sconfitte incomincia a pesare sul vostro giudizio tattico, o mi sbaglio?”, lo stuzzicò Teodoro Trivulzio.

“Pah, a Garigliano c’eravate anche voi!”, lo rimbeccò astioso l’albanese. “Così come tra i vincitori c’era l’Orsini degli Anguillara cui stiamo per andare incontro! Scommetto che gli farà piacere rivedervi!”

Anticipando un probabile battibecco tra i due offesissimi condottieri, il conte di Gambara s’intromise, tagliando la testa al toro: “Non è il numero, bensì la qualità. Ora come ora, non possediamo sufficiente artiglieria né polvere da sparo per sostenere un lungo assedio. Per questo concordo col capitano Bua: prima attacchiamo, prima toglieremo a Treviso ogni possibilità di terminare il rafforzamento delle mura. Prima attacchiamo, prima evitiamo di finire sbranati dai nostri stessi soldati.”

“Maresciallo, a voi l’ultima parola.”

Eletto a Salomone in quella contesa, Jacques de Chabannes de la Palice si ritrovò dunque inguaiato nell’ingrato compito di mettere d’accordo ciascuno senza scontentare chicchessia. Una bella gatta da pelare e tutto perché Maximilian ancora tergiversava nel raggiungerli di persona, le sue promesse solide quanto il vento di burrasca.

Soit”, sentenziò grave il francese, “l’impresa di Trévise continuerà e non per obbedienza nei confronti dell’Empereur, bensì per non venir meno alla parola data: ne va del nostro onore. Se Maximilien è un codardo e preferisce vincere dalla sicurezza delle retrovie, non significa che dobbiamo esserlo anche noialtri”, disse e un mormorio d’assenso si diffuse nel padiglione, malgrado l’irrispettoso aggettivo rifilato al Re dei Romani. Soltanto i capitani tedeschi strinsero piccati la bocca, sennonché neppure loro potevano descrivere altrimenti il comportamento ambiguo dell’Habsburg, né giustificarlo all’infinito. 

“La maggior parte del campo verrà levato stanotte stessa per trasferirlo a Villorba. Non appena il capitano Bua si troverà nelle condizioni adatte per viaggiare, provvederà di occupare Nervesa così da controllare più da vicino ogni transito sul Piave e colà assicurarci il trasporto fluviale dell’artiglieria”, proseguì imperterrito il de la Palice, tracciando il percorso sulla cartina con la punta della ferula. “Nel frattanto daremo ordini di tagliare legna, in modo da costruire ponti per guadare il fiume. Infine, invieremo un trombetta a Padoue per annunciare un futuro assedio da parte nostra, così da confondere il nemico e guadagnare tempo; una piccola compagnia da 300 s’avvicinerà invece quanto più vicino possibile a Trévise, onde capire a che punto siano nella costruzione delle cinta murarie, se non compiere addirittura qualche azione di disturbo.”

“Quest’ultima meglio di no”, gli suggerì Mercurio, cui non piacevano gli sprechi. “Per il resto, mi trovo d’accordo. Voialtri?”

Du Molard, de Boissy, Pallavicino, Sanseverino, de Gambara e gli altri comandanti convennero, chi con maggior e chi con minor entusiasmo ma almeno non sorsero obiezioni.

Con l’augurio all’albanese di pronta guarigione e di tenerli aggiornati sulle sue condizioni di salute, il maresciallo de la Palice dichiarò terminato il consiglio, congedando i presenti.

“Signor conte!”, chiamò il Bua il nobile bresciano, mentre questi s’apprestava ad uscire dalla tenda assieme ai suoi commilitoni. “Volevo ringraziarvi per il supporto di oggi. Non me l’aspettavo, se posso esser sincero.”

Gianfrancesco di Gambara fece spallucce. “Dovere”, replicò laconico.

Mercurio però non desistette, trattenendolo di nuovo. “Posso inquisire di questo vostro mutamento d’animo? Considerate le nostre passate e accese divergenze, voglio dire”, precisò, studiando attentamente ogni singolo rictus del volto del suo interlocutore, in cerca forse di una contraddizione o di una conferma della sua buonafede.

“Il vostro appassionato discorso s’è rivelato assai illuminante”, gli sorrise ambiguo il conte, abbozzando ad un inchino. Quand’ecco, che le guance gli si gonfiarono ed egli coprì immediatamente la bocca sull’incavo del gomito, tossendo ferocemente.

“Pure voi! Mi sembrate assai pallido, signor conte, vi sentire bene?”, s’informò apprensivo il Bua, pur tenendosi a debita distanza dal bresciano che effettivamente sfoggiava un viso tirato e giallognolo.

“Un piccolo raffreddamento, niente di cui preoccuparsi”, liquidò in fretta la questione di Gambara, respirando a lungo onde riprendere fiato e massaggiandosi il petto dolorante. Si schiarì la gola, nettandosi l’angolo della bocca con un fazzoletto. “Già sto migliorando. Queste piogge e questo umido … Piuttosto, perché dite Pure voi? Vi siete ammalato?”

“No, non io …”, mormorò pensoso l’albanese, fissando di striscio dietro la tenda, ignaro di come Gianfrancesco di Gambara avesse subito seguito il suo sguardo, registrando mentalmente ogni dettaglio.

 

 

 

***

 

 

Al Castello tra Porta Altinia e Porta Santi Quaranta, sier Marco Miani deambulava lungo le mura come suo solito, insonne.

Nonostante gli altri gentiluomini suoi commilitoni assegnati alla ronda di quel tratto si fossero più volte offerti di sostituirlo, il trentenne patrizio rimaneva fermo nella sua decisione di non schiodarsi da lì, neanche ne fosse dipesa la sua vita. Si muoveva talmente inquieto e silenzioso da scambiarlo per un fantasma, impressione esacerbata dal tremulo riflesso delle torce sul suo corsaletto in contrasto col nero della notte.

Montare di guardia aiutava Marco a non pensare; il tarlo del senso di colpa infatti rodeva con maggior gusto in presenza della moglie e dell’amico di suo fratello minore, imprigionandolo in un vortice senza di fine di “E se …?”, scenari dove egli riusciva ad appendere a testa ingiù Mercurio Bua e a riprendersi indietro Hironimo.

Helena lo aveva rassicurato e più volte delucidato quanto la cattura del solo condottiero poco avrebbe cangiato la situazione del ragazzo; malgrado ciò, il prurito di stringere le mani attorno al collo dell’albanese non s’era facilmente assopito. Di pari passo si nutriva la sua frustrazione dinanzi a quello stillicidio d’attesa caratterizzata da informazioni tra di loro contraddittorie, laddove un giorno i Collegati parevano voler abbandonare l’impresa di Treviso e un altro dove sarebbero giunti entro la settimana.

Miani si mordicchiò nervoso il labbro inferiore, sfilandosi i fastidiosi guanti di cuoio e liberando le mani bendate, i palmi rovinati da calli e vesciche a causa dei frenetici ritmi di costruzione delle mura e di demolizione degli edifici ad esse adiacenti.

Quella mattina era toccato ai monasteri di Santa Maddalena e di Santa Chiara, bruciati e smantellati brutalmente; alla Madonna Granda, invece, si avanzava con maggior prudenza onde non rovinare la Cappella della Devotissima e l’affresco miracoloso. Lavoravano tutti senza sosta – militari e civili – perfino i capitani Vitello Vitelli e Renzo di Ceri erano stati scorti per ben due ore trasportare pesanti carriole cariche di materiale edile.

Tali impegnative attività avrebbero dovuto fiaccare chiunque, cullandolo la sera nel dolce sonno del giusto. Al contrario, Marco si sentiva doppiamente vispo e vigile e ogni picconata se l’immaginava rispettivamente sulla faccia del Bua, del Re dei Romani e del Re di Francia.

“Sier Marco”, l’attirò una voce alle sue spalle. L’uomo si voltò, sorridendo al nuovo arrivato.

“Patron”, salutò egli sier Alvixe da Canal di sier Lucha, il quale incominciava il suo turno e curiosamente portava con sé due boccali di terracotta.

“No ghe xé a sto mondo na pì mejo medesina per ste fiebri et pesti”, gli rivelò complice il patrizio, cedendogli il caldo bicchiere dal cui odore Miani intuì trattarsi di acqua calda, miele, zenzero e qualche goccetto di acquavite, abbastanza da riscaldare il sangue e disinfettare la gola ma non da ubriacare.

“Obligao, grassie!”, levò il boccale a mo’ di brindisi, schioccando in approvazione le labbra. “Bona, al zinepro?”

“Solum al zinepro!”, ridacchiò sier Alvixe. “Novità?”

“Nol se move gnanca na foja” e prendendo un secondo sorso, Marco domandò al concittadino: “Sta storia di la peste … ea xé vera?”

Da Canal aggrottò la fronte, la bocca ridotta ad una linea dura. “48 casi a Veniexia ancuo, medici et spezieri xéli tutti in arme, pronti al besogno. Mi spero ch’i mii puteli i stagi ben, im protetitione di la Madona”, mormorò cupo, roteando in maniera circolare il caldo liquido fumante, la mente rivolta alla consorte e ai suoi figlioletti, l’ultima volta che li aveva visti tutti lì a circondare come pulcini la gonna della madre.

Miani accolse in silenzio la notizia, limitandosi a vuotare d’un tratto avido il boccale, lo stomaco stretto da una molesta fitta d’ansia: da parecchi giorni correvano dicerie di focolai di peste in tutta la regione e aveva ardentemente sperato ch’essa non raggiungesse mai Venezia. A quanto pareva, di nuovo le sue preghiere non erano degne d’esser esaudite e altro non gli restava se non augurarsi che nessuno della sua famiglia la contraesse.   

“El sier Alvixe da Riva el va a ripatriar diman a Veniexia. Sòo fradelo sier Vizenzo resta qui inveze.”

“Xélo messo cussì mal?”, strabuzzò incredulo Marco gli occhi, incapace di concepire il rapido deterioramento della salute del collega, con cui aveva condiviso molte ronde notturne. Lo sapeva certo ammalato in letto con la febbre, ma non al punto da dover rientrare in sì gran fretta a Venezia.

Sier Alvixe da Canal aprì appena la bocca per meglio spiegargli la questione, quand’ecco che il concitato suono di una campana lo interruppe, ponendo ambedue i patrizi sull’attenti. “La vien dai Santi 40!”, esclamò l’uomo, mentre una seconda campana più vicina alla porta cittadina veniva suonata, presto seguita da una terza e da una quarta. “Xéla ea compagnia dil Cypriam de Forlì!”

Di riflesso Marco scattò alla campana del loro camminamento, agitando il batocchio quasi volesse spezzarlo ed ecco che nemmeno in un battito di ciglia l’intera Treviso diveniva una cacofonia di scampanate, cui tosto s’aggiunsero quelle di ciascun campanile della città, svegliandola, nonché gli echi sempre più incalzanti e netti dell’ordine:

“Arme! Arme!”

Destatisi di colpo dal rumore di pesanti passi correre giù per le scale, madona Felicita e Donado Cimavin balzarono giù dal letto, correndo alla finestra, spalancandola apprensivi.

“Arme! Arme!”

Da ogni casa si riversavano sulle strade gruppi di soldati, tutti miracolosamente armati quasi si fossero costì coricati. Anche Marco Contarini, per quanto scarmigliato e con la barba sfatta, saliva preparatissimo in groppa al suo cavallo.

“Coss’elo sto strepitare? Che accade?”, urlò Cimavin al giovane patrizio, il quale tenendo a freno l’irrequieto animale gli esplicò succinto:

“Franzosi et todeschi!” e battuti i tacchi sui fianchi del cavallo, sparì rapido alla sua postazione.

Manco avesse il Contarini evocato il demonio, grida terrorizzate si librarono una dietro l’altra nella notte e ogni finestra della contrada s’illuminò, mentre i suoi abitanti in maniche di camicia s’armavano di un qualsiasi oggetto contundente, sprangando le entrate.  

Anche Donado e suo padre Jacopo scattarono all’azione e presero rispettivamente una vecchia spada e una picca; dopodiché si posero dietro il portone dopo averlo rinforzato con sedie e cassapanche. Felicita con in braccio un piangente Jacopino, madona Helena Spandolina in Miani, Luzia e Malgari correvano nell’angolo più remoto e riparato della casa, brandendo la greca l’ascia per la legna e le serve una mannaia e un lungo coltello per affettare il pane.

“Arme! Arme!”

Il nitrito degli irrequieti cavalli degli stradioti si confuse alle loro colorite imprecazioni, mentre essi in gran fretta li sellavano, cavalcando poi verso la piazza in un uniforme e roboante clamore di zoccoli sui sanpietrini, i loro comandati Teodoro Clada e Giovanni Paleologo in testa.

“Animo! Animo! Per Agios Georgios! Animo!”

La fantesca di madona Malipiero spalancò folle di terrore la porta della camera della padrona, incespicando per poco ai suoi piedi, la quale assieme al valletto aiutava il marito sier Zuam Paulo Gradenigo ad indossare gli ultimi pezzi dell’armatura.

“Franzosi! Todeschi! I xéli zonti qui a Trevixo!”, singhiozzò disperata, facendosi il segno della Croce. “Miserere nobis!”

“Tasi, a fifar no te xé d’ajuto!”, la rimproverò invece aspramente il provveditore, sortendo tuttavia l’effetto desiderato. Afferrato l’elmo e indossatolo, con delicatezza circondò il viso di sua moglie Maria, fissandola lungamente dritta negli occhi.

La donna lo baciò forte.

“Dove sono i balestrieri porco diavolo?”, inveì il capitano Vitello Vitelli, girandosi attorno e sbuffando sollevato alla vista di Naldo di Brisighella e la sua intera compagnia far capolino assieme agli archibugieri capitanati da Piero di Novelon.   

“Pronti, capitano!”

“Ai vostri posti, non siamo qui per menarcela!”

“Ma … ma cosa sta succedendo?”, gli chiese disorientato il collaterale Piero Antonio Bataja, giunto la mattina precedente a Treviso da Padova per far rapporto alla Signoria e come tutti letteralmente sbrandato giù dal letto, l’unico però a rimanere senza un preciso compito nel vespaio in cui s’era trasformata la città.

“Un drappello di francesi e di tedeschi è stato avvistato a meno di un miglio dalle mura e minaccia di venirci incontro.”

“E questo quando?”

“Meno di un’ora fa!”

Il cremonese reclinò diffidente il capo: se non lo stesse assistendo coi propri occhi, non avrebbe mai creduto possibile un raduno di soldati così rapido e preciso.

“Orsini! Dove sono quei due dannati?”, sbraitò Vitelli alla ricerca di Renzo di Ceri e di Troilo Orsini.

“Rispettivamente al bastione di San Bartolomeo e di San Marco, capitano!”, gli indicò Naldo.

“Chi c’è a quello di Santa Sofia?”

“Vigo da Perugia!”

Vitello Vitelli grugnì in approvazione. “Signor Provveditore!”, accolse egli calorosamente l’arrivo di Gradenigo, accompagnato da sier Lunardo Zustignan e il podestà sier Andrea Donado.

“Quanti avvistati?”

“All’incirca 300, difficile stabilire con questo buio.”

“I bombardieri si trovano alle loro postazioni?”

“Già con la polvere fumante, signor Provveditore!”

“Eccellente!”

“Attendono tutti il segnale di Orlando da Bergamo.”

Il sopracitato presidente delle artiglierie in quel momento stava salendo gli scalini del campanile di San Nicolò a due a due, manco una scimmia.

“Chigasang!”, schiumava per la rabbia e per la fatica il bergamasco. “I coparé tutti, cussì imparan!”, giurò a se stesso, mentre caricava celere il sacro da sei, il dente ognora avvelenato dalla morte del suo maestro, il conte Lattanzio da Bergamo, per mano dei Collegati sotto le mura di Verona. Puntò la bocca da fuoco nella direzione delle fiaccole intravedibili in lontananza e quando i suoi occhi di falco le focalizzarono, calcolata mentalmente la traiettoria, il suo viso si piegò in una smorfia perversamente compiaciuta.

Zuam Paulo Gradenigo levò in alto il braccio, imponendo il silenzio ai soldati più vicini e per imitazione l’intera Treviso si chetò, con l’eccezione del fruscio degli stendardi e dello sfrigolio del fuoco delle torce. Neppure i civili osavano più fiatare.

Dalla sua postazione, il collaterale inviato da Venezia assisteva in rapita estasi allo spiegamento dei battaglioni, gli occhi contesi tra la contemplazione di quello spettacolo e la compilazione del rapporto che stava scrivendo in gran velocità: quando il Campanón de 'l Cànpo ebbe terminato di battere i suoi severi rintocchi, i balestrieri si trovavano a Piazza del Duomo; gli uomini d’arme a Piazza di San Martino; gli stradioti a Piazza del Castello, 600 soldati a Piazza Maggiore e doppia guardia sui camminamenti.

Tutto in un’ora secca dal primo allarme.

La Signoria sarebbe stata invero lieta d’apprendere, quanto i suoi timori si fossero rivelati assai infondati: salvo problemi di mancate paghe, Treviso poteva benissimo opporre fiera resistenza ai Collegati.

“Schifosi soreghi …” (sorci, ndr.), bofonchiò Orlando da Bergamo, accendendo la miccia e, tappatosi le orecchie, si spostò indietro onde evitare il rinculo del sacro.

Un secco colpo di cannone rimbombò per il campanile, scuotendo un poco il batacchio della campana, la quale cantò un breve requiem al drappello di franco-imperiali incautamente avvicinatisi alle mura.

Troppo pochi per azzardare un attacco diretto alla città, ma abbastanza per danneggiarli, forse per distruggere i loro mulini lungo il Sile e a Melma, complice l’oscurità notturna.

Immediatamente da lontano giunsero agli assediati le grida concitate e isteriche del nemico e i nitriti imbizzarriti dei loro cavalli, seguite dallo spegnersi delle fiaccole e dal suono ritmico dei tamburini, che indicavano sia il raggruppamento che la ritirata, come se ciò avesse potuto salvarli da una seconda micidiale cannonata, che sortì l’effetto di ucciderli e disperderli ulteriormente.

“Me cojoni!”, cadde a Renzo di Ceri la mascella, genuinamente impressionato dalla precisione a dir poco chirurgica del bergamasco. “Abbiamo un artista tra noi … Archibugieri e balestrieri, pronti a coprire i cavalleggeri!”

Una compatta squadra di cento stradioti stava infatti uscendo da Porta Santi Quaranta per d’avventarsi su quella disordinata e mutilata dei nemici, terminando l’opera.

 

 

 

 

***

 

 

Il cavaliere Dimitri Spandolin q. Teodoro da Costantinopoli non si stupì, una volta giunto alla parrocchia di San Biagio a Castello, delle furtive occhiate lanciategli da gente apparentemente affaccendata o a lui estranea: a parole Caterina Boccali in Bua (Caterina Minore o "Cate" per distinguerla dall'omonima madre) soggiornava nella casa che fu di suo padre Nicolò, a fatti era un preziosissimo ostaggio della Signoria, sorvegliata a vista. L’inaspettato ritorno di Manoli e Costantino Boccali in seno a San Marco era stato accolto con grande benevolenza, non essendo quelli tempi da rifiutare il benché minimo aiuto; la fama poi del fu capitano Nicolò Boccali, della sua fedeltà e delle sue imprese a Sebenico, Spalato e nella Patria del Friuli aveva assicurato ai suoi figli il pronto perdono per quel loro voltafaccia. Eppure, l’occhio vigile dei Dieci li scrutava accorto, soprattutto la sorella, giacché ancora legata a quel marito alla Repubblica ufficialmente nemico.

Per giorni il cavaliere aveva tentato di approcciarla in maniera tale da non destare eccessivi sospetti sulla cagione della sua visita; l’ultima cosa che desiderava, specie adesso che s’avvicinava il suo rientro per affari a Costantinopoli, era di ritrovarsi a tu-per-tu dinanzi ai Dieci a giustificarsi del suo operato.

Da una parte, il greco si ritrovava spinto da obblighi familiari a quell’ambasciata; dall’altra, da genuina curiosità ché quell’enigma di Caterina Boccali tuttora intrigava l’anziano Spandolin, quel tarlo insinuatosi che forse la donna non fosse mai stata rapita dai suoi fratelli, come ufficialmente narrato, bensì che lei li avesse seguiti di sua spontanea iniziativa, portandosi appresso la figlia e il cognato Teodoro Bua. Da fonti attendibilissime – Venezia era piccola e il quartiere greco di San Biagio ancora più piccolo – il cavaliere aveva appreso come neanche per un istante aveva lei dimostrato grande dispiacere per quella separazione, recandosi al mercato e in chiesa assieme alla sua fantolina senza preoccuparsi della sorte del Bua.

“Kalimera, keeria Aikaterini.”

“Kalos ton, keerie Dimitrios Spandounes”

Spandolin aveva atteso pazientemente fuori dall’edificio sacro, sul sagrato, finché adocchiata la donna non le si era avvicinato con nonchalance, aggregandosi al compatto corteo. Cate stessa finse con estrema naturalezza, pur sorpresa da quella visita, e costì i due camminarono indisturbati fino alla casa della greca, dove ad accoglierli venne loro incontro la piccola Maria e sua nonna, Caterina Arianiti Topia Comnena, sorella del famoso condottiero Costantino Arianiti Topia Comneno e di Andronica, moglie di Giorgio Castriota Skanderbeg.

“Ci perdonerete per la frugalità di casa nostra – noi qui siamo una famiglia semplice”, si giustificò con studiata modestia l’anziana nobildonna albanese, favellando in greco e invitando Spandolin a sedersi e offrendogli una calda bevanda d’erbe e dolci al miele e pistacchi.

Pur esponenti di famiglie di mercenari, madre e figlia si presentavano assai dignitose e aristocratiche nei loro abiti tradizionali, un curioso miscuglio di greco e albanese: sotto, una lunga tunica celestrina dalle maniche lunghe e aperte, chiusa fino al collo da una fila di vistosi bottoni e stretta ai fianchi da una molle cintura; sopra, una sorta di sbernia vermiglia dai bordi foderati in pelliccia. Ai piedi facevano capolino le opinga, le calzature dalla punta all’insù tipiche albanesi. Al collo ambedue le donne indossavano due ampie collane intrecciate in complessi nodi, abbellite da diversi pendagli a forma di palla, vuoti all’interno e formati da una sottile ragnatela di filigrana d’argento, arricchita da piccoli tasselli di corallo e turchese. Al centro del petto, pendeva invece il morčić, un ciondolo in smalto a forma di testa di moro col turbante, comprato durante il periodo di servizio di Nicolò Boccali in Croazia, un portafortuna locale (anche se un po’ macabro) e copia dei più ricchi moretti veneziani, spille decorative in oro, cammei e rubini di cui appunto gli stessi veneziani amavano adornarsi i mantelli.

Similmente alle due donne, anche la casa ostentava una certa malinconica ricchezza nobiliare, piena zeppa infatti di tutti quei preziosi cimeli salvati dopo la caduta di Durazzo che ricordavano alla famiglia gli antichi splendori della prosperità e indipendenza, quando ancora erano feudatari e padroni del loro. L’abile spada dei maschi e le ricche doti delle figlie, ecco cosa rimaneva della morente aristocrazia dei Romei.

“Adesso che Manouel e Konstantinos combattono di nuovo sotto il vessillo di Agios Markos, possiamo finalmente riprendere fiato e concederci qualche piccolo lusso”, dichiarò domina Caterina Arianiti, servendo di persona lo Spandolin, massimo segno di considerazione. Adocchiando le serve sull’attenti dietro le padrone, il cavaliere greco ridacchiò scettico dietro la coppa finemente cesellata, gustandosi l’infuso di erbe amarognole. Qualche lusso, diceva lei. Certo, certo.

“Immagino la cosa vi rallegri.”

“Oh, immensamente”, replicò civettuola domina Caterina, sorridendogli però ambigua. “Vi pare?”

L’Arianiti non aveva mai fatto mistero delle sue simpatie filo-veneziane, forse ereditate da suo padre, il principe albanese domino Giorgio Arianiti Topia Comneno, dopo che questi aveva tagliato formalmente i rapporti col Regno di Napoli. Certamente, ciò aveva per significato tagliare i ponti coi suoi fratelli e perfino con la sua stessa matrigna, domina Pietrina Francone, figlia del barone aragonese Oliviero Francone da Lecce, dov’ella era rimpatriata coi figli una volta rimasta vedova del consorte. Contro il volere della nuova madre e della sorella Andronica, domina Caterina era rimasta invece a Durazzo e da lì a poco aveva sposato il greco domino Nicolò Boccali, capitano di ventura  e altro fedelissimo della Signoria.

Decedutole il marito sei anni addietro e rimasta senza patria a seguito della conquista ottomana di Durazzo, domina Caterina non s’era scoraggiata e grazie alle amicizie a Venezia pur nelle difficoltà economiche aveva trovato modo di barcamenarsi – non s’è mogli di condottieri per vivere nella mollezza. Fierissima, l’anziana nobildonna albanese aveva rifiutato ogni ducato inviatole dai figli, specie se questi introiti provenivano dai nemici della Repubblica. Meglio mangiare un piatto di polenta di miglio ma da uomo libero, che uno d’arrosto ma da schiavo, sosteneva.

“Mi consola sapervi adesso in migliori condizioni e riconciliata con la vostra famiglia. Anzi, mi dispiace non avervi potuto aiutare di più. Greci, albanesi, siamo tutti esuli, qui, dobbiamo soccorrerci a vicenda”, asserì generosamente Dimitri Spandolin.

Gli occhi di domina Caterina si strinsero in penetrante osservazione, sicché il greco comprese come mai s’andava cianciando come perfino il terribile Mercurio Bua provasse una certa soggezione nei confronti della suocera. “Vi ringraziamo, però suppongo voi abbiate dovuto anche badare agli interessi della vostra famiglia. In fin dei conti, i primi a perdere la patria foste voi Greci”, velenosetta frecciatina dinanzi alla poca resistenza dei greci contro i turchi, contrariamente al valore degli albanesi che pur erano considerati dai romei esponenti di una nobiltà minore.

Il cavaliere allargò le mani, concedendole vittoria su quell’argomento. In effetti, pur trasferendosi da Costantinopoli, egli non aveva tagliato completamente i ponti con la madrepatria, tutt’altro, aveva intessuto buoni rapporti commerciali anche col signor Turco, pur di conservare una certa ricchezza e conseguente dignità, ché a Venezia egli non aveva intenzione d’andarci mendicando come altri suoi connazionali. “Si fa quel che si può per sopravvivere. Non amo rimanere inerme in attesa dell’onda che mi travolgerà”, dichiarò bonario.

“Giusto”, convenne lentamente domina Caterina. “Come state in famiglia?”

“Ottimamente. Mia moglie soffre un po’ di reumi per via dell’umido qui a Venetía; i miei figli vivono delle loro condotte e le mie figliole felicemente sistemate coi rispettivi mariti. Mio nipote Nikolaos [4], adesso che non può più proseguire gli studi di medicina a Padova, ha deciso di seguirmi a Costantinopoli. Un bravo ragazzo, molto volonteroso, grande lavoratore e pieno di grinta”, anche se povero in canna, avendo i Da Ponte perduto ingenti beni e proprietà dopo la caduta di Negroponte, da dove traevano le proprie ricchezze. Ma ciò aveva giovato comunque lo Spandolin, avendo avuto infatti egli in progetto di accasare le figlie con patrizi veneziani, acciocché non fossero più considerate delle straniere, finalmente tranquille e protette. Una famiglia economicamente disagiata non era una famiglia schizzinosa e non badava troppo da dove provenissero i danari. E in fin dei conti i suoi generi non gli davano grandi grattacapi, tranne forse per quel pirata saraceno di Marco Miani, che se il greco non stava attento, quello sfacciato di suo genero sarebbe stato capacissimo di portargli via perfino le mutande.

Per amor di sua figlia il cavaliere aveva deciso di aiutare il fratello di quel tanghero. Solo per lei.

“La mia Eleni, invece, si trova a Trevizo col suo consorte”, la buttò lì casualmente Dimitri, osservando attento il rossore sparire dalle gote di Cate e l’occhiata furtiva di domina Caterina in direzione della figlia.

“Ah, capisco …”, mormorò assente la giovane donna, giocherellando nervosamente col bordo della manica.

“Vostro marito, fra poco potrebbe condurre lì il campo.”

“Lo so”, ribatté seccamente la Boccali, alzandosi e portandosi alla finestra, là dove si mise a contemplare senza particolar gusto la riva sottostante e il viavai di gente sul ponte e delle gondole in canale. La figlioletta Maria, udito il nome del padre, prontamente la seguì, cingendole il fianco con un che di protettivo.

“Saprete anche che il fratello di mio genero Markos Mianes, Hieronymos, è suo prigioniero.”

Gli occhi neri della donna guizzarono rapidi in direzione del cavaliere Dimitri, per poi ritornare al suo inquieto studio del paesaggio urbano. “Sì, ne ho sentito parlare”, ammise infine. “Mi dispiace per lui.”

“Stiamo cercando di avvicinare vostro marito per avanzargli una somma di danaro, onde riscattare il ragazzo. Purtroppo vicende varie ce lo impediscono. Voi, forse, potete aiutarci”, instette Spandolin.

Cate cacciò fuori un profondo sospiro, passandosi una mano sulla fronte. “Da voi non accetterà neanche un soldo”, gli confessò triste, facendo cenno ad una fantesca di portar via seco la bambina, segno che ci si stava addentrando in acque non consone alle sue innocenti orecchie. “Non è la prima volta che mi manda simili ambasciate, ma è la prima che ricorre a tali stratagemmi. Dunque è ricorso adesso allo scambio di prigionieri pur di riavermi indietro?”

“Siete sua moglie”, gli ricordò imperturbabile il cavaliere, “avete l’obbligo di seguire vostro marito, ovunque egli vada.”

“Sua moglie, certo. Ma non un cavallo né un suo sottoposto da comandare. Né un oggetto di cui disporre a suo capriccio”, lo contraddisse feroce Cate, le iridi nere luccicanti di battagliero fuoco. “Troppo spesso Maurikos s’è scordato chi io sia, da quale famiglia io provenga.”

“Nondimeno, anche se costretta dai vostri fratelli, il vincolo del matrimonio rimane sacro e inviolabile; nessuno vi si deve intromettere.”

“Lui per primo l’ha infranto!”, s’intromise domina Caterina, stringendo i pugni sulle ginocchia. Dopodiché, ricomponendosi in fretta, dichiarò solenne: “Noi restiamo agli ordini della Signoria. Se vuole che ce ne andiamo, obbediremo. Fino ad allora, però, non abbiamo intenzione d’abbandonare Venetía. Già in passato abbiamo perduto una patria, se possibile vogliamo evitare di ripetere una seconda volta tale atroce esperienza.”

Di fronte a quell’ostinatezza, il sospetto che Caterina Boccali in Bua avesse disertato di sua spontanea iniziativa il consorte incominciava a materializzarsi in certezza. Tuttavia, Spandolin necessitava della prova finale. “Ma se voi domandaste alla Signoria di lasciarvi partire, sicuramente non avrà nulla da obiettare. A meno che più che di lei, voi non temiate la reazione dei vostri fratelli”, gettò l’amo, in attesa di quale risposta avrebbe pescato.

L’inaspettata risata di scherno da parte di Cate lo colse un poco impreparato. “A chi credete debbano i miei fratelli e mio cognato il pronto perdono della Signoria nei loro confronti? Io non posso tornare dai Collegati, non dopo quello che ho fatto.”

Il cavaliere Dimitri strabuzzò gli occhi, disorientato. “Prego?”

“Contrariamente a mio marito e ai miei fratelli” e la bocca della donna si piegò manco avesse pronunciato un improperio, “non ho mai dubitato, io, della mia fede in Agios Markos”, gli spiegò, ritornando a sedersi accanto alla madre, la cui mano afferrò a mo’ di sostegno per quanto stava per rivelare. “Contrariamente a loro, non siamo delle ingrate. La Signoria ci ha sempre protette, ci ha offerto aiuto quando gli altri Stati lavandosi le mani di noi ci hanno lasciato in balia dei Turchi. Dov’era quel vanaglorioso francese, quel Re Cristianissimo quando Durazzo cadeva? Dov’era quell’altrettanto borioso Imperatore quando mio padre dovette fuggire dalla Morea? Dov’era il Papa? Se ne stettero tutti quanti al sicuro nel loro bel palazzo col culo al caldo, ecco dove! A contar soldi e ingrassare alla stregua di capponi! Ed io dovrei schierarmi con questi codardi, questi “cristiani” per sentito dire? E per cosa? Per denari ottenuti da ruberie? Per terre su cui loro ancora non comandano? Quando l’Imperatore nominò conte mio marito, glielo dissi: cosa ti può dare Maximilianos, quando nulla di quanto possiede è in realtà suo? Ti dona il fumo, per quest’ultimo stai sacrificando il tuo onore e la tua vita?”

Spandolin si ritrovò a convenire suo malgrado. Le sue simpatie politiche al massimo s’erano sbilanciate verso i napoletani, ai tempi della Lega tra Venezia, Napoli e il Papato nel lontano 1472, ma neanch’egli tollerava l’arroganza francese e tedesca, il loro concetto di difendere la cristianità esplicato nel turpe massacro di altri cristiani.

“Per anni ho seguito fedelmente Maurikos, anche se ciò m’ha condotto lontano dalla mia famiglia. Come da voi affermato, il marito è il marito e va obbedito. Ma ci sono cose che …”, Cate s’interruppe, portandosi due dita alla bocca, il viso un’espressione d’acuto dolore. Domina Caterina le circondò le spalle col braccio.

“Seguendo mio marito, mi sono imbattuta appieno nella brutalità della guerra e ho sopportato tutto per amor suo: il degrado morale degli accampamenti, la fame, la miseria, la malattia. Ma questa guerra che si protrae da due anni … No! Per me fu troppo.

“Voi ignorate che razza di bestie siano i francesi e i tedeschi. Voi non avete visto come soffocarono col fumo quei vecchi, donne e bambini riparatisi nelle caverne a Vitséntsa, pur di farsi rivelare l’ubicazione degli ori e dei danari – neanche stessero sterminando degli scarafaggi! O come trasformarono Feltre in un mattatoio, macellando alla stregua di vacche la popolazione inerme -  per quale soddisfazione poi? O a Verona, dove quel maledetto principe-arcivescovo di Trento addobbava la città impiccando civili indiscriminatamente a destra e a manca! Questa terra mi ha accolta, keerie Spandounes, mi ha ridato la vita, la amo e non potevo tollerare di vederla così martoriata! Né volevo essere un’indiretta complice della sua fine!

“Sicché, quando giungemmo l’anno addietro da Soave a Verona assieme alla compagnia del Principe di Anhalt, ne approfittai per mettermi in contatto con mia madre. Sapevo che lei poteva aiutarmi a rimpatriare. Così come sapevo delle spie veneziane in città.

“Mi misi in contatto con loro; mi chiesero fin dove mi sarei spinta per rientrare in grazia della Signoria, quale prova potevo offrirle della mia lealtà. A mia volta domandai loro, se stessero alludendo ad una testa in particolare. Mi risposero: la Signoria vuole quella dell’Anhalt. Sappiamo che è malato, quanto può durare?”

Spandolin deglutì, incominciando a comprendere il macabro disegno.

“Il principe austriaco risiedeva al palazzo pretorio. Il viaggio da Soave l’aveva assai debilitato. Neanche noi, d’altronde, ce la passavamo meglio. I Veneziani tenevano il campo ad Agios Martínos, pronti a dar assedio; l’Imperatore non pagava né mio marito né i miei fratelli, checché ci rabbonisse il principe-arcivescovo di Trento e gli altri comandanti. Il generale malcontento giocava a mio favore.

“Al che, proposi all’Anhalt di trasferirsi da palazzo pretorio alla casa di Dominikos Marioni, come indicatomi dalle spie. Gli spiegai come lì si sarebbe trovato meglio, in un edificio più sano e accogliente, lontano dal continuo andirivieni di gente. Avete bisogno di riposo assoluto, lo blandii, non ne troverete certo a palazzo. L’Austriaco mi credette e come non poteva? Il Marioni, in apparenza, era filo-imperiale ed io ero la moglie di uno dei comandanti favoriti dall’Imperatore stesso. Una volta lì, divenni volontariamente cieca e sorda su quanto stesse accadendo in quella casa. L’Anhalt v’entrò vivo, ne uscì cinque giorni dopo morto. Inutilmente cercarono di occultarne la morte; i provveditori veneziani già ne erano a conoscenza.”

Cate chiuse gli occhi, la mente volata a quella lontana settimana, in cui giorno dopo giorno osservava l’effetto della polvere di diamante mischiata al cibo dell’Anhalt, la quale, straziandogli le viscere, lo torturava con una lenta e dolorosa agonia, contorcendosi esso nel letto, consumato sia dalla malattia contratta a Soave sia dal veneficio somministratogli ad arte. Che il principe fosse già ammalato era un segno di Dio, s’era detta, e la Sua mano colpisce forte quando l’uomo la guida. Loro s’erano soltanto limitati ad affrettargli il trapasso.

La donna si sovvenne dei visi preoccupati del principe-arcivescovo di Trento Georg von Neideck e di Monsignor Ru, delle lacrime del valletto e dello scudiero dell’austriaco e dell’espressione cupissima di suo marito Mercurio Bua, tanto che la donna all’epoca aveva temuto se stesse sospettato qualcosa.

Si ricordò dell’immobile volto di cera di Rudolf von Anhalt-Dessau aus dem Haus der Askanier illuminato grottescamente da quattro ceri, domandandosi a quale giudizio fosse andato incontro ora che si trovava dinanzi a San Pietro. Per via delle orride brutalità commesse contro chi non poteva difendersi, Cate aveva sperato nel budello più profondo dell’inferno.

“Con la scusa di spedire il feretro dell’Anhalt in Austria da suo fratello ed erede, mio marito ne aveva approfittato per recarsi da Maximilianos e lì reclamare la paga arretrata. Così, senza la sua ingerenza, andai dai miei fratelli ed esposi loro la situazione. L’Imperatore e il Re di Francia combattevano una guerra perduta in partenza, cosa speravano d’ottenere? Promettevano tanto, ma cosa di concreto li avevano offerto? Fu un rischio da parte mia, lo confesso, però fuggire e lasciare indietro Manouel e Konstantinos … Ironia della sorte, quando andai da loro già stavano progettando di disertare assieme a mio cognato Theodoros, solo che temevano nell’inflessibilità della Signoria …”, ridacchiò amaramente la donna, mordicchiandosi il mignolo. “I miei fratelli mi proteggono sostenendo d’avermi rapita, però … Non posso tornare da Maurikos. Non così, una traditrice ai suoi occhi.”

Sporgendosi verso di lei, Dimitri Spandolin tentò un nuovo approccio: “Comprendo il vostro motivo e il vostro sacrificio per aiutare la Signoria. Siete stata coraggiosa e leale. Siatelo di nuovo, ora. Permettete che le venga restituito questo suo figlio. E magari, come a suo tempo avete persuaso i vostri fratelli e vostro cognato, forse riuscirete a convincere anche vostro marito a ritornare a servire sotto il vessillo di Agios Markos.”

Cate levò gli occhi neri, asciugatisi all’improvviso dalla patina di lacrime e induritisi in due pietre d’onice. “Impossibile”, sentenziò brutale. “Vi giuro che il mio cuore piange la sorte di quel ragazzo e pregherò l’Agia Parthena Maria giorno e notte per la sua liberazione, ma per nessun motivo al mondo ritornerò da Maurikos.”

“E’ un capitano di ventura, servire il migliore offerente è insito nel suo mestiere, non potete più di tanto biasimarlo per le sue scelte”, non demorse il cavaliere Dimitri. Ben celato dallo scudo del patriottismo, egli percepiva un altro motivo dietro la granitica testardaggine della Boccali. Qualcosa di più oscuro. Di più personale. “I vostri stessi fratelli …”

“Mio marito”, l’interruppe bruscamente Cate, il volto torvo di collera “cambiando bandiera, mi ha allontanata dalla Patria del Friuli, da mio padre. Mi ha impedito di raggiungerlo al suo capezzale, mi ha negato la sua ultima benedizione per quanto l’avessi supplicato di lasciarmi partire! Niente, neppure dinanzi al mio strazio quel cuore di diavolo si lasciò commuovere! E questo, Agios Georgios mi è testimone, finché vivrò non glielo perdonerò mai. A meno che …”

“Che?”, l’incalzò speranzoso Spandolin, lo stomaco in subbuglio a quella confessione. 

“Rivuole mio marito indietro sua moglie e sua figlia? Soltanto quando avrà giurato fedeltà ad Agios Markos e strisciando, in ginocchio, egli avrà supplicato il mio perdono!”

Iddio invero protegga l’uomo dalla ferocia di una donna furibonda e chi ride dinanzi a tale massima si consideri solo uno stolto fortunato.

 

 

***

 

Sier Francesco Contarini figlio del provveditor d'armata sier Hironimo detto “Il Grillo” corse a perdifiato in direzione a Palazzo della Ragione, là dove i due provveditore e cognati sier Christofal Moro e sier Polo Capello stavano discutendo assieme al vicegovernatore il conte Bernardino Fortebracci da Montone circa la recente ambasciata da parte di un emissario del maresciallo de la Palice, il quale annunciava la decisione dei Collegati d’attaccare Padova al posto di Treviso.

“Se questa nuova fosse vera, sarebbe stato davvero imprudente da parte nostra sbilanciarci così!”, lamentava il Fortebracci. “Specie dopo aver inviato a Treviso i nostri migliori bombardieri!”

“La Palisse ne racconta talmente tante da non risultare più credibile”, ragionava sier Christofal Moro, appoggiandosi sul bastone, dandogli noia la gamba ammalata. “Inoltre, la strada è troppo lunga per arrivare fin da noi senza incappare nelle nostre bande. Non correrà il rischio di ripetere la rotta di Marostica.”

“A meno che La Palisse non abbia intenzione d’assediare Padova dopo Treviso; questo significherebbe che la città non si trova sufficientemente fortificata …”, presagì il peggio il provveditore Capello.

Avvicinatosi al suo conterraneo sier Ferigo Contarini, il quale ascoltava in disparte e in religioso silenzio assieme a Giano di Campofregoso, sier Francesco gli porse la missiva appena giunta da una staffetta.

“Signori”, attirò su di sé l’attenzione il provveditore degli stradioti, sventolando teatralmente le carte. “Un messaggio da Treviso. Forse questo dipanerà gli ultimi nostri dubbi.

[…] zonse ancuo domino Constantin Paleologo, capo di stratioti, e disse, i nimici ser levati et venuti mia 5 lontan di Trevixo, e li soi cavali lizieri venuti mia 2 lontan di qui per botinizar.

 

Dize che franzosi et todeschi xéli  10-12 milia fanti et homeni d’arme 1200, et cavali lizieri 5000 tra stratioti, corvati e taliani; artelaria grossa boche 16, canoni, falconeti e altre artelarie menude, et xeli per vegnir a questa impresa cum animo di far cosse assai, et Trevixo li speta cum lo ajuto de Dio, cum bon animo et cuor, perché lì temeno di cossa alcuna.

 

Un terzo dei niminici xélo fato di amalati et femene, et ogni dì ne moreno assa’, anca di fame. Item, per uno altro venuto dil campo, avisa di l’artellarie venute, et sono boche 6 et 5 fra falconeti et sacri, et che in campo di todeschi xéli zonto solum cavali 3000 di l’imperador, et no si aspeta più.

 

I nimici alozerano a Villa Orba, perché ancuo gh’han spento un squadron di cavali lizieri,

et, per quello si judicha, domenega si ianteranno le sue artelarie soto questa terra. Nostri stanno con bon cuor et animo, et spera, i nimici si partirano cum vergogna etc.

 

Sier Zuam Vituri zonse. Etiam Antonio di Castello cum li soi provisionati et alcuni xéli rimasti a Mestre. Etiam è zonto Maphio Cagnolim, qual à posto in castello. Item, gionseno li X contestabeli mandati, cum uno fameio per uno; zà messi in exercitio. […]

 

“Allora, che vi pare? Dobbiamo ancora credere a questa provocazione del La Palisse?”, cedette la lettera sier Ferigo ai due provveditori, acciocché se la passassero, leggendola con calma. “E’ palese che stesse mentendo: l’impresa rimane a Treviso, dove mi sembrano più che pronti a dar il benservito ai Collegati. La Palisse voleva confonderci e nel panico dividerci. Invece, adesso noi gli dimostreremo il contrario!”

“Che cosa proponete, signor Contarini?”, inquisì intrigato il vicegovernatore.

Il giovane provveditore ghignò sinistramente. “Con vostra buona licenza, avrei bisogno almeno di cinquecento tra balestrieri e cavalleggeri, tutti insonni e ben motivati!”

“A qual fine?”

“Cospetto! Per rispondere all’ambasciata del La Palisse”, spiegò dolcemente sier Ferigo. Quand’ecco che i suoi occhi s’illuminarono di gioia assassina. “A Castelfranco.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Ovviamente, circa la morte dell’Anhalt rimangono supposizioni, non essendoci prove concrete che sia stato effettivamente assassinato. Ciononostante, le dinamiche della sua improvvisa morte rimangono tuttora assai misteriose e troppo ghiotte per non ricamarci sopra.

Questo capitolo è un po’ il punto di svolta della storia, nel senso che finalmente il la Palisse ha deciso di muovere le chiappe e di procedere con questo benedetto assedio! Povero Mercurio, impiegato sottopagato e pure incompreso!

Quanto alla natura banderuola del conte di Gambara è assolutamente vera, sebbene il suo coinvolgimento nel piano circa liberare il Nostro rimane una nostra invenzione.

Orlando da Bergamo aveva sul serio una mira pazzesca, colpendo chiunque sia di notte che di giorno, Sanudo conferma.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

 

Un po’ di noticine:

 

[1] La Nona era la campana del Campanile di San Marco che indicava mezzogiorno.

[2] Purtroppo non siamo riusciti a reperire tutti i nomi delle figlie di Zaccaria Contarini. Tuttavia, considerando il nome delle sue nipoti (figlie di Paolo/Polo), delle altre donne di famiglia (i.e. suocera) e tenendo presente come certi nomi ritornassero frequenti in famiglia, abbiamo supposto le Contarini mancanti potersi appellare "Maria" e "Camilla".

[3] orar Sen Biasio / peteni de Sen Biasio = San Biagio di Sebaste fu un vescovo e santo armeno vissuto e martirizzato nel IV secolo. Suo simbolo iconografico sono i pettini di ferro con cui si dilaniò il suo corpo. San Biagio è invocato come protettore contro il mal di gola e i raffreddori, in quanto il più famoso dei suoi miracoli attribuitigli fu il salvataggio di un bambino che stava soffocando dopo aver ingerito una lisca di pesce. Il 3 febbraio in alcune chiese ancora si celebra la benedizione delle gole, di solito appoggiando due ceri uniti a croce di Sant’Andrea sul collo del fedele (o circondando il collo coi ceri, a seconda delle varianti).

[4] nipote Nikolaos = ossia Nicolò Da Ponte, figlio di Antonio Da Ponte e di Regina Spandolin, diverrà nel 1578 Doge di Venezia. Siccome poco si sa di lui dal 1511 fin quasi al 1532, è probabile che si diede alla mercatura anche per risollevare la situazione economica della famiglia, forse seguendo il nonno materno negli affari. Nel 1520 si sposerà con Arcangela da Canal figlia di Alvise da Canal di Luca, che in questo racconto si trova assieme a Marco Emiliani alla custodia di Treviso.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo Quindicesimo: 13-14 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato l’11.11.21

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PARTE SECONDA:

Nervesa e Torre di Maserada

(13 -27 settembre 1511)

 

 

 

Capitolo Quindicesimo

13-14 settembre 1511

 

 

 

Hironimo non sarà stato un fisico o uno speziale, tuttavia aveva affrontato, specie al cambio di stagioni, sufficienti raffreddamenti da sapere che se il mal di gola persisteva oltre un giorno, esso diveniva foriero di mali ben peggiori. Solitamente, ai primi sintomi sua madre gli faceva preparare dagli spezieri di grosso a San Bartolomeo una miscela di erisimo, achillea, partenio, artemisia e valeriana da pigliare sotto forma di tisana tre volte al dì prima dei pasti. Se proprio s’ostinava, allora ricorreva all’enula, al ribes nesro, al mirtillo rosso e all’ontano nero e se proprio il malanno non voleva mollar la presa, ci s’affidava all’infallibile Triaca che l’avrebbe per certo guarito.

Nelle sue attuali circostanze, il giovane patrizio si sarebbe accontentato anche di un semplice cucchiaio di miele, pur di non risvegliarsi l’indomani col fuoco dell’inferno in gola e la voce pressoché inesistente. Thomà non se la passava di certo meglio, tossendo a bocca larga e sputando un misto di saliva e catarro per terra, per poi soffiarsi con le dita il naso rosso che ripuliva o con la manica della camicia o sulla paglia. Il fantolino si strofinava gli occhi vitrei e arrossati, come se avesse pianto tutta la notte.

Miani s’era astenuto dal rimproverarlo, rassegnato infatti al medesimo fato. Invece, gli aveva passato il dorso della mano sulla fronte, sospirando di sollievo nel sentirla ancora relativamente fresca.

Altra magra fortuna consistette nella poca attenzione che Mercurio Bua poneva su di loro, impegnato infatti a sovraintendere lo smantellamento del campo a Montebelluna per muoverlo a Nervesa e il coro di rauche tossi e scatarri si era rivelato talmente diffuso, da confondersi quello dei due prigionieri tra quelli degli altri soldati.

Più che un esercito in marcia pareva il corteo d’un Trionfo della Morte, composto da ammalati che trascinavano i piedi e la punta delle loro lance; di cavalleggeri ciondolanti dal sonno e dalla fame; di prostitute talmente ossute da non indurre in tentazione neppure il più infoiato dei libertini.

Avanzare nel terreno fangoso toglieva energie, così come tirare i buoi e i muli dei carri, i cavalli e le artiglierie, le quali s’impantanavano ad ogni pisciata di cane, come commentava frustrato Mercurio beccandosi di rimando una velenosa replica dal capitano Jacob Empser, il quale lo sbeffeggiava ricordandogli l’enorme abisso vigente tra fanteria e cavalleria.

“Magari una volta arrivati a Nervesa, ve lo rispiegherò”, ghignò il tedesco.

“Non ho bisogno”, scrollò le spalle Mercurio, massaggiandosi noncurante la coscia laddove era stato vilmente ferito, ma la contrazione dei muscoli facciali tradiva quanto in realtà quel rimprovero l’avesse infastidito, specie se davanti ai propri uomini.

“Suvvia, non c’è vergogna nell’ammettere la superiore e antica tradizione bellica tedesca!”

Al che l’albanese gli rise in faccia di gusto, sganasciandosi al punto che perfino Hironimo, fino a quel momento incurante delle beghe tra i due condottieri, levò gli occhi in loro direzione, subitaneamente interessato. “Pah! Quando voi Tedeschi ancora dondolavate nudi sugli alberi, noi Greci conquistavamo Babilonia!”

Il capitano Jacob digrignò i denti, adesso lui l’offeso. “Piano con gli insulti, cane turco!”

Il viso dell’albanese mutò in una maschera diavolesca, esacerbata dalla sommessa risatina di scherno del suo prigioniero. “Ripetilo e pregherai che siano i Veneziani ad ammazzarti per primi!”

“Mi minacci, Mistkerl?”

“Ti avverto, malakas!”

“Capitaine Jacob, al posto d’attaccar briga col capitain Bua, vi consiglio di badare con maggior attenzione alle retrovie. Ci stiamo avvicinando al Montello e da ogni buca potrebbero sbucar fuori nemici!”, gli consigliò Jacques de Chabannes de la Palice con falsa flemma, intromettendosi tra i contendenti che borbottando obbedirono.

Non fosse il maresciallo intervenuto, i due sarebbero giunti alle mani e Mercurio si appuntò di farla pagare alla prima occasione a quel tedesco borioso.

Non era il solo a condividere tal sentimento: tra i francesi e gli imperiali serpeggiava un odio cadaun’ora sempre più palpabile, lanciando i gallici sospettose occhiate alle proprie spalle e le loro dita accarezzavano nervose le rispettive spade, balestre, lance e pugnali, giacché temevano più l’infida lama dei tedeschi che quella ufficialmente ostile dei marciani. Oltre alla più gretta questione del cibo, a dividerli rimanevano le idee tuttora discordi sul da farsi: i francesi non volevano sputtanarsi la reputazione venendo meno all’impegno preso di conquistare Treviso; i tedeschi ancora rimanevano testardi dell’idea di andare a saccheggiare la Patria del Friuli, oramai ad un tiro di schioppo, incominciando dalle più vicine Conegliano, Sacile, Motta di Livenza e Oderzo.

“I briganti sono più disciplinati di questa masnada di bifolchi cenciosi: in quale merdaio alemanno li ha scovati l’Imperatore?”, si lagnava adirato Mercurio, scoccando di tanto in tanto qualche occhiataccia al capitano Jacob Empser, trastullandosi in dolci progetti di vendetta, in cui vedeva il tedesco squartato vivo da quattro cavalli. “E tu muoviti, pelandrone!”, strattonò la corda che legava le catene di Hironimo, sbilanciandolo bruscamente in avanti e solo però un soffio il veneziano mancò di cadere bocconi per terra.

Conoscendo assai bene quello sguardo, Lecha Busicchio s’adoperò a calmarlo subito: “Lascialo perdere, ci penserà l’assedio a spedir sottoterra quell’otre di sterco. Fra poco entreremo nei feudi dei Conti di Collalto, alleati dell’Imperatore. Lì avremo di che sfamarci. Se non erro, a Nervesa dovremmo trovare anche dei monasteri o roba simile.”

“Sì, l’Abbazia di Sant’Eustachio e la Certosa di San Girolamo, me li ricordo. Benedettini e certosini, molto ben forniti. E sotto la protezione dei Collalto.”

“Dunque?”

“Dunque, giusto per rimanere in tema, ci converrà pregare affinché almeno per stavolta i tedeschi si tengano le zampe ben attaccate al culo e non si abbandonino a saccheggi. Altrimenti nulla ci salva da una figura di merda coi Conti e ora come ora, fin troppa gente qui cambia bandiera.”

Lecha strinse le labbra in una linea dura, convenendo suo malgrado, memore della diserzione del fratello di Mercurio e dei suoi cognati.

“Allora oggi le vuoi proprio prendere?”, abbaiò il capitano albanese a Hironimo, vibrandogli in faccia minacciosamente la scutica.

In realtà a rallentare il patrizio era Thomà, che tra i colpi di tosse e la stanchezza a causa di quella marcia piuttosto sostenuta per le sue gambette arrancava e incespicava, finendo trascinato da Hironimo finché questi rapido lo rimetteva in piedi prima che il Bua se ne accorgesse.

“Mi hai scambiato per un levriere?”, gracchiò il giovane Miani, levando a fatica il collo, forzatamente piegato dalla pendente palla di cannone.

“No, per un somaro!”, ridacchiò Mercurio.

“Attento, non vorrei che tu finissi col prenderti in faccia un bel calcio!”, gli sibilò di rimando Hironimo, balzando di nuovo in avanti per il piccato trattone che gli diede l’albanese, che per ripicca e anche per distrarsi dal suo cattivo umore, aveva ben pensato di passare ad un leggero trotto, lasciando ambedue i prigionieri senza fiato dallo sforzo di stargli dietro.

Il che non giovò ai polmoni già provati del piccolo Thomà.

“Patron”, ansimò piagnucolando, le gote costantemente gonfie dai colpi di tosse e il muco che gli colava in bocca, “no ghe stò pì in piè!”

“Mo’ via, stà bon!”, lo rimbeccò dolcemente Hironimo. “Tacate a la mia caéna”, lo istruì, acciocché il bambino si aggrappasse alla catena che gli cingeva i fianchi, nella speranza di giungere quanto prima all’Abbazia di Sant’Eustachio a Nervesa.

Lì (pia speranza) i monaci avrebbero di sicuro provveduto a curarlo con qualcuno dei loro decotti. Hironimo oramai aveva compreso che al Bua serviva vivo, perciò come curavano lui, egli avrebbe insistito affinché anche il fantolino ricevesse le medesime attenzioni, secondo la promessa fattasi di mantenerlo vivo fino al riscatto o allo scambio.

“Tegni duro”, mormorò a Thomà, “semo quasi arrivai.”

Voltandosi, però, Hironimo non s’era accorto della punta d’un pingue sasso far capolino nel fango della strada e puntualmente vi sbatté il piede contro, perdendo l’equilibrio e dalla sorpresa le sue mani abbandonarono la catena che reggeva la palla di cannone, cosicché il peso di quest’ultima lo scaraventò doppiamente più veloce a terra.

A malapena Hironimo riuscì a coprirsi parte del viso, battendo dolorosamente il mento e mordendosi di conseguenza la lingua, per poi sentirsi il peso di Thomà cadergli sulla schiena nonché la ruvidezza del sentiero in alternanza sui fianchi e le ginocchia, non avendo Mercurio ancora registrato la sua caduta e pertanto proseguendo imperterrito nella sua cavalcata. Dulcis in fundo, la palla di cannone creava attrito, impantanatasi infatti nel fango, serrandogli di conseguenza il collare al punto che per qualche istante il patrizio si sentì soffocare.

“Che diavolo stai facendo? Ti pare il momento di fare i capricci? Sei già stanco, donzelletta?”, l’apostrofò infastidito Mercurio, tirando la corda neanche stesse pescando un luccio dal fiume. Hironimo tentò di rimettersi in piedi, però la caviglia cedette, frustato da un dolore acutissimo che gli provocò striduli fischi fino alle orecchie. Ricadde in ginocchio, finendo trascinato ancora per qualche brevissimo tratto. “In piedi! In piedi, pezzente! Ratto di laguna! In piedi, perdio, o ti scortico vivo!”

Invece di aiutare o anche solo biasimare il capitano di ventura per quell’inutile accanimento, gli stradioti lì accanto sorridevano compiaciuti e divertiti da quel piccolo divertissement capitato proprio a pallino per interrompere la noia della marcia. Solo Lecha non disse niente, scuotendo il capo.

“Zò! Zò! Fermeve! Fermeve!”, si sforzò Thomà a gridare, la sua vocina troppo flebile e roca per giungere alle sorde orecchie del Bua. “Fermeve! Eo copate!”, strillò isterico. Notando il modo insensibile in cui il condottiero seguitava a strattonare Hironimo senza concedergli adeguato tempo per rimettersi in piedi, il bambino afferrò un sassetto e lo lanciò con chirurgica precisione contro l’albanese, come faceva a casa sua a Feltre contro i cani randagi.

Mercurio ebbe appena il tempo di captare il sibilo, che un dolore atroce da Golgota crocifisso gli annebbiò la vista. Maledetta fu la volta che s’era alzato la visiera dell’elmo! Esaminando a tentoni l’eco della sassata subita, gli occhi del Bua s’allargarono alla vista del sangue lordargli  il guanto, assaggiandolo inoltre sulle labbra e mentre si nettava con la lingua capì di come esso provenisse dal naso.

Una rabbia furibonda, figlia dell’umiliazione d’aver giocato al Santo Stefano per mano di un moccioso, portò il capitano degli stradioti a portare veloce la mano sull’elsa della spada sordo alle parole che Hironimo gli gridava mentre col suo corpo copriva quel mostriciattolo, pronto il Bua come gli altri stradioti a decollare quel disgraziato e rispedirlo dai villani suoi antenati, al diavolo l’età e il motivo dietro quella lapidazione improvvisata.

“Avete finito di dar spettacolo?”, s’intromise la voce nasale del conte Gianfrancesco di Gambara, abbandonata la sua postazione per controllare quanto accadeva, insospettito dal rallentamento della colonna della compagnia del Bua. E guardando pieno di disprezzo lui e i suoi stradioti, commentò aspro: “Bel modo di trattare i prigionieri d’alto rango!”

“Alto rango? Non vedete che si tratta d’un fottuto villano? Una bocca in meno da sfamare!”, protestò veemente il condottiero, indicando con la scutica un Thomà mezzo coperto dal Miani, già pronto a difendersi con una pietra più grossa, reso temerario dalla consapevolezza di star comunque per morire.  

Mettendosi in ginocchio, Hironimo ringhiò dietro a Mercurio: “Questo che tu chiami fottuto villano, furbo, è mio figlio!”

“Tu non hai alcun figlio, bugiardo!”

“Tu non me l’hai mai chiesto, idiota!”, e neanche la presenza del Gambara risparmiò il giovane Miani da una scudisciata per la sua insolenza, regalandogli una striscia rossa sul braccio sotto il lembo di camicia strappato.

“Rimettiti in piedi: ripartiamo”, sbuffò snervato il Bua, specie davanti all’insistenza del nobile bresciano a non schiodarsi dal suo posto, ritornando alla sua colonna, neanche temesse che l’albanese a furia di sevizie finisse per ammazzare il prigioniero. “In piedi, disgraziato!”

“Non posso.”

“Non ho tempo per le tue stronzate …!”

“Non posso!”, insistette frustrato Hironimo, tossendo poi fino a sconquassarsi il petto per aver alzato la voce malgrado l’infiammazione. “Cadendo temo di essermi storto la caviglia, ti pare che riesca a camminare?! Con queste poi?”, scosse platealmente le catene e gli schiaffò sotto il naso l’arto offeso, il quale in effetti si presentava sempre più rosso e gonfio, pulsando leggermente.

Mercurio si morse l’interno della guancia, tentennante. L’arrabbiatura gradualmente spentasi, egli appurò l’effettiva incapacità del prigioniero di proseguire la marcia, almeno a piedi. Questo però comportava ammettere che il veneziano aveva ragione, l’ultima cortesia sulla faccia della terra che gli avrebbe concesso, men che meno col conte Gianfrancesco di Gambara come testimone.

Inoltre il naso non s’era rotto, pertanto poteva anche magnanimamente risparmiare la vita al nanerottolo, adesso scopertosi figlio di quel tanghero linguacciuto. Certo! E quando l’avrebbe generato quello? In culla? L’aveva preso per uno stolto sprovveduto? Mercurio più volte aveva origliato il moccioso chiamare “patron” il patrizio, quando mai un figlio si rivolge così ad un padre? Anche se, ripensandoci, a Venezia s’interloquiva così anche tra parenti, specie nei saluti ...  Magari quella era usanza coi figli illegittimi, chissà, troppi anni erano trascorsi dall’ultima volta in cui il Bua aveva vissuto nella città lagunare, i tempi e le mode cambiavano ultimamente troppo in fretta … Fermo restando che non fosse tutta una bufala per salvare quella bestia antropomorfa, della cui sorte il condottiero non si capacitava come mai al veneziano stesse così a cuore. Era solo un bambino, una pulce, un essere inutile in guerra, destinato a perire se non di spada di stenti o malattia. A che pro mettere a repentaglio la propria vita e reputazione per tale nullità?

Poco male - concluse Mercurio - anche se quella notizia non fosse corrisposta al vero, se il Miani affermava trattarsi di suo figlio, chi era lui per contraddirlo se l’affare poteva risolversi a suo vantaggio? Un padre e un figlio per una madre e una figlia, uno scambio più che equo cui nemmeno quell’intrigante della Signoria poteva obiettare ... Tanto, che ne avrebbe potuto sapere lei della verità?

Un poco raccomandabile sorriso arcuò la bocca ancora macchiata di sangue del Bua, intanto che questi scendeva faticosamente da cavallo, poggiando il peso sulla gamba sana.

Hironimo strinse gli occhi, sospettoso di quel repentino cambio d’umore. Anche il di Gambara condivideva medesima impressione, studiando accorto ogni movimento del condottiero.

“Giusto”, soffiò malevolo Mercurio, issando di malagrazia il giovane Miani e conducendolo zoppicante al primo carro disponibile, ironicamente quello delle prostitute di campo, e lo pose lì seduto. “Le donne sempre viaggiano in carretta!”, esclamò a voce ben alta acciocché lo ascoltassero tutti e una risata da parte degli stradioti non mancò d’elevarsi nell’umida aria settembrina. “Là! Stai comodo? Finalmente un ambiente a te famigliare, una puttana figlia di puttana tra le puttane!”

Alla stregua di una molla un livido Hironimo scattò in avanti, raschiandosi ben bene la gola e un grumo grasso e giallo planò in mezzo al corsaletto di Mercurio, per poi finire il giovane tra le braccia di una meretrice a causa di un portentoso cazzotto da parte di Lecha, prontamente spintonato via lo stradiota dal conte bresciano.

“Avete intenzione d’andare avanti così per tutto il dannatissimo di giorno?”, ruggì snervato il di Gambara, il suo sermo subitaneamente dimentico di ogni lirica raffinatezza aristocratica. “Neanche ce la stessimo spassando in una scampagnata estiva!”

Mercurio montò in sella al suo cavallo senza neanche degnare il nobile di una parola, pulendo via lo sputo con una decisa strofinata. Busicchio prontamente lo imitò, sospirando e domandosi che accidente avesse preso al suo collega quel giorno. Raramente l’aveva visto di così pessimo umore e non poteva trattarsi solamente a causa degli screzi cogli altri comandanti. Qualcosa di ben peggiore gli stava ribollendo in petto e lo stradiota nutriva qualche sospetto a riguardo.

“Oh, poveretto, vuoi una mano?”, deridevano intanto le prostitute Hironimo, il quale ancora stordito dal pugno si copriva con la mano l’occhio e la parte di zigomo martoriati, già l’epidermide che andava scurendosi in un bell’ematoma blu e giallo. “Eh? La vuoi?”, lo schiaffeggiavano e spintonavano finché Thomà, soffiando a guisa di gatto selvatico, non prese a sua volta ad elargire zampate, premurandosi d’usare le unghie.

“Pussa via, ontissime bagasce!”, berciava e tossiva, sicché le meretrici, temendo il contagio, indietreggiarono e si dispersero peggio degli scarafaggi. “Mi ve cavo i ocij, mi!”

“Oh, che carino!”, cinguettò melensa la più coraggiosa del carro. “Che vorresti farci, pulcino?”, disse, pigliando il bambino per le guance e scotendogli il muso.

Questo, le rispose a fatti Thomà, mordendole la mano tra pollice e indice fino a trar sangue e la prostituta urlò peggio d’un porco sgozzato, colpendo il fantolino e tirandogli i capelli acciocché mollasse la presa, ma i denti di quest’ultimo eguagliavano in tenacia quelli di un mastino napoletano.

Ripresosi dall’intontimento, Hironimo intimò al decenne di lasciarla andare e a malincuore egli obbedì, non senza essersi tolto lo sfizio di tormentare con una poco velata minaccia le altre puttane, esibendo loro i denti lordi di sangue. Acquattandosi ben in fondo al carro, le donne non osarono più avvicinarsi, paventando una possessione demoniaca del putto.

“E così avete un figlio, non l’avrei mai immaginato!”, insinuò malizioso il conte Gianfrancesco di Gambara, il quale cavalcava accanto al carro. “Non mi date l’impressione di un padre …”

“Voi non mi date l’impressione di un amico, cui confido i fatti miei”, ribatté acido il patrizio, soffiando non appena i suoi polpastrelli sfioravano l’ematoma, i recettori di dolore estremamente attivi e impazziti. Cautamente mosse la palpebra dell’occhio, per fortuna non così gonfia da impedirgli di aprirlo.

“Nondimeno, non credete sia stato un poco irresponsabile da parte vostra portare un fanciullo così tenero al fronte?”

“Ciò dimostra che i nostri bambini posseggono più coglioni dei Francesi e Tedeschi messi assieme!”

“Uhm … Più che da figlio, questo pargolo si comporta alla stregua d’un can da guardia!”, non desistette il nobile bresciano in quella (al Miani) molesta conversazione, scoccando una veloce occhiata a Thomà che appunto lo guardava in cagnesco. “Mai visti denti così!”, commentò gioviale.

“Quei denti”, ribatté invece cupamente il patrizio, “gli hanno salvato la vita” e tacque non arrischiandosi di compromettere la sua bugia raccontando di quel triste episodio, laddove durante il sacco di Feltre un lanzichenecco, una volta terminato di massacrare la famiglia di Thomà assieme ai suoi degni compagni, si trovava lì per lì a completare l’opera scannando anche il piccino se quest’ultimo non l’avesse anticipato, azzannandogli la gola fino a strappargli via la carne e costì degolarlo, fuggendo via nel marasma generale della città saccheggiata e nascondendosi tra i boschi, giudicando più misericordiosi i lupi degli uomini.

Un’espressione molto vicina al rimorso scurì il volto giallognolo del conte, quasi potesse intuire l’implicazione di quel mordere animalesco, ma si trattò un attimo. S’avvicinò invece al carro, inclinandosi verso di lui come se volesse render partecipe il veneziano di una qualche confidenza. “Prima che ritorni alla mia compagnia, avete bisogno di qualcosa?”, s’informò neutro, non tradendo alcun’emozione.

“Da un traditore non voglio niente” e quel malcelato veleno provocò un breve rictus nella mascella del conte.

“Non siate così rancoroso”, blandì questi flemmatico il giovane patrizio. “È la guerra, ognuno fa i propri interessi.”

“Anche domino Soncino Benzone faceva i suoi interessi e guardate com’è finito”, gli ricordò Hironimo con crudele divertimento, sogghignando al subitaneo irrigidimento della schiena del Gambara, il cui colore già malaticcio divenne cinereo, peggio d’un morto.

Come poteva d’altronde egli obliare la punizione esemplare riservata al traditore cremasco?

“La Signoria è la causa dei suoi stessi mali, si è creata da sé i suoi nemici”, sentenziò dopo un lungo silenzio il conte, tuttavia evitando d’incrociare lo sguardo di Miani. “Soncino Benzone ne è la prova, vittima sia dell’invidia del vostro conterraneo Zuam Paulo Gradenigo, suo rivale fin dall’epoca della guerra di Pisa, sia della poca riconoscenza da parte della Signoria nonostante i suoi successi militari. Fu lui a catturare il cardinale Ascanio Sforza e come venne ripagato? Col confino a Padova e questo grazie alla testimonianza di Gradenigo, presentando questi frasi vecchie e in altri contesti. Non l’avessero codeste circostanze umiliato, sono sicuro che domino Benzone non avrebbe serbato tal rancore da passare dalla parte del Re di Francia, aprendogli le porte di Crema due anni addietro.”

“Il mio parente [1] Gradenigo l’ha solo inquadrato, capendo immediatamente con chi avesse a che fare ossia uno scaltro approfittatore pronto a cambiar bandiera al primo vento contrario”, si scaldò il giovane veneziano, affatto contento di quel vilipendio e in aggiunta desideroso di sfogare con qualcuno la stizza dell’umiliazione appena subita per mano del Bua.

“Domino Soncino voleva solo risparmiare la sua amata Crema dal saccheggio e dalla distruzione!”

“Su suggerimento del suo grande amico, Gian Giacomo Trivulzio, che gli aveva anticipato i piani suoi e del Re, a patto ovviamente che oltre alla città questo novello Giuda consegnasse ai Francesi anche il podestà sier Nicolò Pexaro!”, obiettò Hironimo, cingendo Thomà con un braccio e tenendolo fermo, acciocché appoggiasse la testa ciondolante dagli scossoni del carro. “Li abbiamo ben letti i rapporti di domino Latanzio da Bergamo.”

Su quel punto di Gambara non poté controargomentare. “Anni di confino avvelenerebbero il sangue a chiunque. Per cause ingiuste, per di più!”, insistette tuttavia l’uomo. “Negate forse che i continui rapporti negativi inviati dal Gradenigo non abbiano influito sull’opinione della Signoria, rendendola irriconoscente verso il Benzone e costì disconoscendone i meriti? Gli aveva tagliato il mantello dinanzi alle autorità veneziane. Era ovvio che gli avesse ordito contro una congiura!”

“Congiura!”, rise sardonico il giovane patrizio. “Il mio parente sarebbe incapace di tali bassezze, non possiede una sola fibra disonesta nel suo corpo!”

“Nondimeno per ripicca ha contribuito alla condanna di un innocente!”

“Un innocente che ha tentato di corrompere un Capo dei Dieci con centoventi ducati!” Il conte Gianfrancesco si voltò di scatto, sbalordito. Al che Miani schioccò la lingua trionfante. “Ah, questo non lo sapevate.”

“Un uomo disperato si dimostra disposto a tutto”, bofonchiò il nobile bresciano, stringendo convulsamente le redini del cavallo.

Hironimo emise uno sbuffo assai scettico. “Dite, signor Conte, non avrete forse timore di dover un giorno far compagnia a domino Soncino nell’Antenòra?”, [2] lo stuzzicò perfido. “O di finire cadavere appeso ad un palo in balia degli animali e delle intemperie?”

Gianfrancesco di Gambara aspirò profondamente dal naso, avvertendo una certa strettezza al collo mentre fredde gocce di sudore gli scendevano lungo la nuca accaldata. Una sensazione di vuoto allo stomaco seguì poco dopo, rendendolo ipersensibile ad ogni stimolo esterno, quasi l’avessero improvvisamente denudato e costretto all’aria fredda. Tutto questo il conte s’ingannava rassicurandosi che si trattava dei sintomi della malattia contratta a Montebelluna; in realtà, eccome se ci pensava a domino Soncino, così come all’eventualità d’emularne la triste sorte in caso l’avessero catturato a Treviso la cui difesa, oh somma ironia, era stata affidata proprio a Zuam Paulo Gradenigo, la sua fama di uomo poco tenero coi traditori ben nota a tutti.

Il conte bresciano aveva combattuto al fianco di Soncino Benzone, lo conosceva abbastanza bene e pur simpatizzante per le sue amare vicende e ammirandolo per lo spirito ardito e abilità diplomatica e militare, anch’egli a malapena aveva tollerato il carattere altero e iracondo del cremasco, nonché la violentissima crudeltà con cui trattava la popolazione assoggettata tra Vicenza, Verona e Padova, quasi il Benzone avesse voluto sfogare  su quegli inermi poveracci il suo inestinguibile odio nei confronti della Signoria.

Onestamente, sarebbe stato meglio per lui esser rimasto nel bresciano e nel bergamasco.

Louis XII aveva infatti commesso un imperdonabile errore nel trasferire il Benzone così vicino al raggio d’azione della Serenissima. Il 19 luglio 1510 tra Este e Montagnana venti stradioti riuscirono inaspettatamente a catturare il condottiero cremasco con cinque suoi uomini, mentre da Verona trasportavano carri di panni e seta a Vicenza. Condotto a Padova, con non poche difficoltà venne il prigioniero portato a Palazzo della Ragione per l’interrogatorio, le strade bloccate dalla folla inferocita e intenzionata ad impiccarlo al primo palo disponibile. Sicché il passaggio dal giudizio all’esecuzione era stato immediato ed esemplare: la notizia della sua cattura ancora non era giunta a Venezia, che già Soncino Benzone penzolava dalla forca su ordine del provveditore, il suo cadavere appeso poi con un sasso ad un palo fuori città sull’argine del Brenta, esposto alle intemperie e agli uccelli.

A giudicare dalla sua tardiva reazione nell’invio di emissari, sicuramente Louis XII non s’era aspettato tanta solerzia nel giustiziare il suo capitano. Condannando a morte il cremasco senza indugio, il provveditore sier Andrea Griti aveva ottenuto il doppio scopo di eliminare un traditore della Repubblica e di vanificare un prevedibile intervento francese in suo favore, privando il loro re di un validissimo e determinato alleato.

D’altronde Soncino Benzone nella sua arroganza s’era inimicato la persona sbagliata. Mai avrebbe creduto che Gradenigo, oltre che a notificare i Dieci, avesse largamente condiviso i suoi dubbi e le sue accuse contro di lui con amici e familiari. Mai avrebbe il cremasco immaginato, fra tutti i provveditori, di finir prigioniero del cognato dell’odiato rivale – sier Andrea Griti. Mai avrebbe immaginato, dopo la dolce illusione d’aver vendicato il suo onore, che l’ultima risata se la sarebbe fatta proprio il veneziano, maledicendo chissà il momento in cui le loro strade s’erano incrociate.

“E’ stato vittima di sfortunate circostanze”, concluse malinconico Gianfrancesco di Gambara, percependo una certa pesantezza sulle spalle che lo fece sentire d’un tratto ancor più vecchio e spossato per quel mondo governato dalla follia, ironicamente da lui invitata a martoriare quelle terre feconde e tranquille. Soncino Benzone aveva agito spinto dall’orgoglio e dalla sete di vendetta. Lui per la difesa dei privilegi ancestrali e contro l’imposizione del governo veneziano. Aveva fatto bene, però? , si domandava talvolta angosciato. Quale eredità avrebbe lasciato ai posteri, quale immagine di lui? Di un liberatore o di un traditore?

Quella guerra iniziata con la certezza assoluta della sconfitta veneziana, quella guerra ch’era stata descritta dall’Imperatore come la giusta vendetta per l’arroganza di San Marco, quella guerra che il Re di Francia giudicava rapida alla stregua d’un fulmine, ecco quella guerra per il Gambara era da tempo divenuta soltanto un’avida voragine buia che tutto inghiottiva, uomini, donne, amici, nemici, onore, cavalleria, verità, menzogna, il giusto e il sbagliato per rigurgitar fuori null’altro che miseria e morte per ambedue i contendenti.

“E voi, signor Conte”, gli chiese lentamente Hironimo, scuotendolo dalle sue cupe elucubrazioni. “Siete anche voi vittima di sfortunate circostanze?”

“Voi, invece?”, gli ritorse il nobile contro la domanda.

Al che Miani s’ingobbì su se stesso in difesa, sebbene la sua voce rimase ferma: “Io non sono una vittima. Io ho fatto le mie scelte, giuste o sbagliate che siano, le ho fatte. Non temo le conseguenze.”

Il conte l’ascoltò in meditabonda contemplazione ora del suo interlocutore ora dei contorni dei monti all’orizzonte, i quali si stagliavano scuri nel cielo plumbeo quando però le nubi basse non li celavano, creando l’illusione di un immenso incendio.   

Similmente una vampata calda e improvvisa riempì i polmoni del Gambara, dilatandosi essi fino a correre l’aria rapida lungo la trachea, fermandosi in gola e premendogli dietro i denti finché l’uomo, coprendosi la bocca, si sfogò in una portentosa tosse talmente profonda, che ricordava vagamente il raglio di un asino. Egli tossì, tossì, tossì in continuazione ed a brevissimi intervalli a malapena necessari onde ripigliare fiato, neanche avesse per azzardo ingoiato della salsa al pepe, il viso paonazzo dallo sforzo e la vista annebbiata da pingui lacrime.

Vedendo il nobile piegato su se stesso e a momenti sputar fuori l’anima, per un fuggevole istante Hironimo provò un pelino di pietà nei suoi confronti.

Giusto un pelino.

Gianfrancesco di Gambara si costrinse a raddrizzare la schiena, schiarendosi la gola e dominando la smorfia di dolore provocatagli dalle ghiandole parotidi. S’asciugò in fretta le lacrime dal viso chiazzato da macchie rossastre, un po’ per l’affaticamento e un po’ per aver sputato a terra del catarro, atto assai poco aristocratico.

Un incomodo silenzio s’impose tra i due uomini.

“Sul serio non necessitate di nulla?”, riprese incolore il bresciano la domanda scatenante quel loro acceso dibattito, intuibile tentativo sia di cambiar discorso sia di concluderlo lì.

“Non ho bisogno del vostro aiuto”, anche il tono di Hironimo suonava secco e tagliente, poco desideroso di disquisire oltre. “Men che meno se finalizzato a placarvi la coscienza!”

Il conte giostrò con le redini e schioccò la lingua, acciocché il suo cavallo intuisse il suo desiderio di girarsi e tornare indietro alla sua colonna. Non senza tuttavia aver condiviso col giovane patrizio un’ultima confidenza: “Forse un giorno imparerete l’umiltà di accettare aiuto, messer Emiliani, dovunque esso arrivi”, fu il suo consiglio.

Dopodiché speronò il cavallo, galoppandosene via e lasciando Hironimo in compagnia dei suoi pensieri e ignaro delle frequenti e segrete occhiate scoccategli da Mercurio Bua, giratosi infatti questi per controllare i movimenti dei due uomini. La fronte dell’albanese, man mano che il di Gambara s’attardava col Miani, s’era increspata in una smorfia scocciata nonché insospettita.

Cos’era quel negozio? Sin dal suo arrivo al campo, il conte bresciano aveva dimostrato fin troppo interesse nei confronti del suo prigioniero, anche dopo che il Bua aveva chiarito in via definitiva le modalità d’uccisione a chi glielo avesse sottratto e giustamente alla fine ogni pretesa sul veneziano era decaduta. Evidentemente quel cocciuto pezzente non aveva recepito il messaggio.

Prima sarebbero giunti all’Abbazia, meglio sarebbe stato per tutti. Lì il condottiero avrebbe messo il patrizio sottochiave in qualche cella, ben distante dal nobile.

Poiché figli della medesima razza, Mercurio sapeva benissimo che, tradito una volta, non ci si metteva nulla a tradire una seconda.

 

***

 

 Il blu incominciava a scacciare in cielo l’ultimo oro del tramonto, ammantando delle sue ombre la dolce pianura sotto la sua volta e di gran brillantezza rifulgeva adesso Espero, la sua prima stella. I grilli al contempo vicini e lontani cantavano le loro incessanti serenate, accompagnati dal lieve fruscio delle fronde degli alberi e dei giunchi dei canali e fiumi, il cui scorrere sereno e incurante degli affanni umani riecheggiava flebile ma persistente.

In questo momento di placido transito dal giorno alla notte, Francesco Contarini di sier Hironimo “Il Grillo” e i suoi compagni esploratori s’apprestavano a ritornare con succose notizie a Camposampiero, laddove era appostato il resto della compagnia, un totale di cinquecento uomini tra stradioti e balestrieri agli ordini del provveditore sier Ferigo Contarini q. sier Hironimo, di domino Giano di Campofregoso, del conte domino Guido Rangoni e dai capitani Domenico, Giorgio, Pellegrino e Pietro Busicchio.

Il giovane provveditore degli stradioti aveva insistito su quella sosta, ordinando ai soldati di cenare bene e dormire quanto più possibile, in attesa che il conterraneo gli fornisse gli ultimi tasselli necessari a completare il suo piano. Sicché tutti l’avevano preso in parola e il campo era sprofondato in uno stato di beata pennichella di fine estate. Soltanto lui, sier Ferigo, seguitava a scrutare insistentemente l’orizzonte oscurarsi e perdere la sua fulgente doratura man mano che il carro di Febo cedeva il passo a quello di Selene.

Guido Rangoni l’osservava da  lontano, indeciso se raggiungere il Contarini e invitarlo a riposare qualche ora o di lasciarlo al suo impaziente andirivieni, interrottosi all’improvviso in una marmorea immobilità, le mani ben serrate dietro la schiena.

Sebbene tra i due uomini fosse nata una cauta amicizia, il giovane conte non si giudicava abbastanza conoscitore dell’animo di sier Ferigo nell’approcciarlo quando, dimessa la sanguigna maschera del capitano impetuoso e carismatico, egli riacquistava quella sua naturale aria riservata, discreta ed esteriormente tranquilla qualunque fossero i suoi contrasti interni, un po’ tipica della sua gente.

Da fanciullo Guido aveva appreso da suo padre, il conte Niccolò Maria Rangoni, come i veneziani generalmente fossero dei simulatori e dei vendicativi. Solo molti anni dopo, andando esule e scomunicato a vivere tra di loro, Guido capì cosa intendesse veramente il genitore: più che dei simulatori, i veneziani erano di natura assai introversa, ossia chiusa e diffidente, poco inclini a parlare di sé semmai grandi ascoltatori. Accordavano difficilmente l’amicizia, ma una volta concessa non la toglievano, sicché con doppia tenacia perseguitavano chi li tradiva, il modenese stesso aveva avuto un assaggio di codesta ferocia punitiva, quando s’era adombrato un certo favoritismo nei confronti dei suoi conterranei durante la campagna del Polesine.  

Se sier Andrea Griti vi crede innocente al punto da difendervi dal parere dei Dieci, non vedo perché non debba fidarmi anch’io della vostra lealtà a San Marco. Nondimeno, sappiate che se mi tradirete, il mio settanta volte sette sarà quello di Lamec e non di Nostro Signore [3]

“L'é un quèl ed cl' êter mònd! Mi domando come accidenti faccia”, borbottò suo fratello minore Francesco, provocando nel giovane conte un lieve sussulto, avendolo infatti creduto ancora beatamente addormentato accanto all’altro cadetto, Ludovico.

“C'sa? Chi?”

“Il provveditore Contarini”, sbadigliò Francesco, passandosi una mano tra gli arruffati capelli castano scuro. “Non dorme mai, piglia un pasto tra il dì e la notte, vigilantissimo. Per dîrla s'cèta e nèta, par quasi possedere una natura diabolica, che mai si consuma.”

Guido abbandonò la sua infruttuosa contemplazione delle spalle di sier Ferigo, oramai accantonando ogni proposito di discorrere con lui. “Egli combatte per la sua patria”, gli spiegò concisamente, prendendo posto accanto al fuoco e invitando Francesco ad unirsi a lui, se proprio non aveva alcun’intenzione di tornare a dormire.

“Et nuêter?”

Con la scusa di spostare dei ciocchi con l’attizzatoio, il ventiseienne condottiero evitò al minore risposte infelici. “Da parte di chi è quella missiva?”, inquisì cambiando velocemente discorso, notando il pezzo di carta mezzo accartocciato tra le dita del fratello che, tentennante, rispose in un sussurro:

“Di … d’Hannibal …”

“Ch' ét gnés 'n antcōr! Dammi qua!”, scattò rapido e sottratta di malagrazia la lettera, il maggiore dei Rangoni la gettò nel fuoco, che l’ingollò in una sola vampata. “Êşen! Quante volte ti ho detto di non accettare mai più alcuna missiva da parte sua?!”

Da un bel po’ sia il loro fratello Annibale che il loro zio Annibale Bentivoglio, da quando avevano recuperato Bologna, stavano insistendo coi tre Rangoni acciocché ritornassero a prestar servizio alla famiglia signorile bolognese, come ai vecchi tempi. Il Bentivoglio li aveva pure garantito come si fosse riappacificato col Duca di Ferrara, alleato degli stessi francesi che l’avevano aiutato a riconquistare lo Stato, e come Alfonso d’Este avesse dimenticato e perdonato ogni passato screzio tra di loro.

Mal per l’Estense, Guido Rangoni non aveva dimenticato né perdonato.

“Ma Guido! L’è nòster fradèl!”, protestò sbigottito Francesco, gli occhi fuori dalle orbite che si spostavano dal viso del maggiore al mucchietto di ceneri in cui s’era trasformata la lettera.

“Nella nostra professione non abbiamo fratelli, solo una sorella ovvero la nostra spada!”

“An dîr dal cojunêdi! Hannibal rimane nostro fradèl, così come lo sío Hannibal rimane nostro sío e i Bentivoy nostri parenti!”

“Anche Lucrezia d’Este è nostra zia e gli Estensi nostri parenti, eppure guarda come ci hanno allegramente sbattuto la porta in faccia al primo vento contrario! Ti ricordo, fradèl, che se lo sío Hannibal ha dovuto mendicare supporto ai Francesi per ripigliarsi Bologna, deve ringraziare proprio quel ciocapiât del Dóca ed Ferêra, tanto bravo a proclamarsi loro amico e dispiaciuto per le loro disgrazie che misere nobis quando i Bentivoy hanno voluto riprendersi lo Stato! Li ha consegnati al Papa su di un piatto d’argento come Salomè! Anni di servizio da parte sia nostra sia di nostro padre, tutti buttati giù nella cloaca e perché cosa? Perché noi abbiamo dimostrato di possedere rispetto a lui più onore alla parola data e lealtà verso i legami familiari?”

Richiamato il suo capitano in gran pressa da Bologna a Ferrara, il duca Alfonso d’Este lo aveva posto dinanzi ad un aut-aut: o il servizio alla casata ducale ferrarese, o la sua famiglia bolognese. Se varcherete quella soglia, lo aveva avvertito minaccioso, guadagnerete un nemico tenacissimo.

Per la vita, gli aveva allora a sua volta promesso Guido Rangoni, voltando le spalle al Duca, a Ferrara e all’antica alleanza che per anni aveva unito gli Estensi ai Rangoni. Per mesi Alfonso d’Este aveva cercato di catturare il ribelle, le cui spiccate doti militari lo avevano però sempre salvato da ogni imboscata da parte dei ferraresi capitanati dal fratello dell’Este, il cardinale Ippolito. Si narrava perfino che quest’ultimo, frustrato e umiliato dall’ultima abile fuga del Rangoni, dalla stizza avesse ordinato d’impiccare l’oste che aveva ospitato a Bologna il giovane conte.

Abbandonata la madrepatria e scomunicati dal Papa Giulio II, Guido e Ludovico Rangoni s’erano acclimatati facilmente alla nuova vita a Venezia, riparando al loro feudo di Cordignano impestati d’odio a causa di quell’ingiusto tradimento da parte di coloro per le cui cause avevano sempre combattuto, ponendo la vita in prima fila, per poi venir ripagati con del gretto egoismo calcolatore. Al contrario Francesco Rangoni, il più piccolo dei fratelli, ancora faticava a lasciarsi tutto indietro e a voltar pagina.

“La verità”, gli rammentò aspro Francesco, “è che a te non importa più della nostra famiglia, né dei Bentivoy. A te basta dargliela in qualsiasi modo sui corni agli Estensi!” 

Guido si sporse in avanti verso il cadetto, puntandogli severo contro le iridi marroni. “Vuoi tornartene a Bologna? Fai pure, vattene! Chi ti trattiene? Sei forse mio prigioniero? Però rammenta che se tu dovessi cadere una seconda volta col culo per terra, sappi che non mi troverai lì ad aiutarti!”

Il ragazzo abbassò il mento sul petto, le dita strette e intorcolate tra di loro. Comprendeva perfettamente la situazione in cui le avverse vicende li avevano scaraventati; era quell’implacabile rigore da parte di suo fratello maggiore che non comprendeva.

“Mi manca … mi manca tanto nostro fradèl … nostra mêdra, le nostre surèle … Mòdna ... Bologna ... il nostro palazzo a San Sismondo …”, farfugliò mesto, avvertendo un familiare pizzicore agli occhi.

“Mócio! An fêr di snóm! Non piangere, non sei più un putèin!”, lo zittì perentorio Guido, a voce forse troppa alta ché Ludovico si scosse dal sonno, puntellandosi disorientato sui gomiti.

“… ‘sa succede?”, si stropicciò gli occhi, ancora mezzo addormentato. “E’ già ora di partire?” e accortosi sia dello sguardo duro e furioso del fratello maggiore sia di quello basso e penitente del cadetto, insistette: “Perché quelle facce?” Scese dal letto e li raggiunse, studiandoli preoccupato.

Guido cacciò fuori un profondo sospiro, massaggiandosi stancamente la fronte intanto che si poneva in piedi a contemplare il fuoco. Sin da quando, quindicenne, aveva perduto il padre e s’era trovato costretto a sostituirlo sia alla guida dell’esercito che della famiglia, il giovane conte s’era sempre prodigato per assicurare il meglio ad entrambi. A quanto pareva, era più facile dirigere una masnada di indisciplinati soldati che i propri parenti.

“Allora? Di che cosa stavate discutendo?”

Il maggiore dei Rangoni invitò Ludovico ad avvicinarglisi e anche al minore. “Hannibal rimarrà per sempre nostro fradèl, però ha fatto la sua scelta e noi la nostra. A Mòdna non ci possiamo più tornare, se non a capo di un esercito”, asserì rassegnato, scrutando accorto il viso impassibile di Ludovico e quello dispiaciuto di Francesco. Colto da un subitaneo moto d’affetto, Guido appoggiò le mani dietro la loro nuca, conducendoli a sé e abbracciandoli. “Ludovico, Francesco … in questo momento voi siete tutto ciò che mi rimane della nostra famiglia frammentata e dispersa. Dobbiamo impedire ad ogni costo di perdere fiducia l’uno nell’altro. E come abbiamo servito fedelmente i Bentivoy e gli Estensi, adesso con altrettanto zelo noi dobbiamo servire la Repubblica, senza se e senza ma. Mi si spezzerebbe il cuore vedervi penzolare come Soncino Benzone …” ed ebbe appena il tempo di terminare il suo discorso, che improvvisamente l’aria serale vibrò dell’energia della tromba e del tamburo, cui funse d’accompagnamento musicale agli schiamazzi concitati dei balestrieri e degli stradioti, i nervosi nitriti dei loro cavalli e il ventiseienne conte seppe che il campo aveva ricevuto l’ordine di levarsi.

“Su, sbrigatevi, non facciamo la figura dei poltroni!”

Allorché i tre fratelli modenesi raggiunsero il resto della compagnia, trovarono il provveditore degli stradioti già pronto, occupato a monitorare alla stregua d’un gatto ogni preparativo, mentre ascoltava soddisfatto e sornione quanto sier Francesco Contarini gli stava riferendo.

“Buone notizie?”, s’informò celere Guido Rangoni col suo collega Giano di Campofregoso.

“Ottime”, esclamò vivacemente il genovese, salendo sul suo cavallo. “Si preannuncia uno scontro interessante. E proficuo”, aggiunse, girandosi poi ad ordinare le ultime istruzioni ai suoi uomini. Quand’ecco che il suo sguardo cadde su Francesco Rangoni, che se ne stava un po’ a disagio seminascosto dietro al fratello Ludovico. “Belin, anche il piccolino viene? Dite, è la vostra prima volta?”, s’informò cortese, peccato che quell’innocente domanda venne travisata da maliziose interpretazioni, almeno a giudicare dal divertito grugnito di Ludovico, subito fustigato da un’occhiataccia da parte di Guido.

“Francesco, l’illustrissimo signor comandante di Campofregoso v’ha posto una domanda”, incoraggiò questi il minore a parlare, essendosene rimasto lì imbambolato a bocca aperta.

Il ragazzo strabuzzò comicamente gli occhi e annuì veloce, grato dell’oscurità che gli copriva il fastidioso rossore alle gote.

“Avete paura?”

“Nossignore”, gracchiò Francesco, stringendo convulso le redini.

“Non vergognatevene: tutti abbiamo paura al primo assalto. Dopo però diverrà per voi naturale come respirare”, l’assicurò il cinquantaseienne condottiero, sorridendogli tenero, memore dei tempi passati quando anch’egli aveva tremato la prima volta in cui aveva battezzato di sangue la sua spada. “Osservate bene vostro fratello e imparerete dal migliore!”

“Grazie signore, lo terrò a mente e farò del mio meglio”, espresse il giovane la sua riconoscenza verso quei consigli. E non appena il Campofregoso gli diede le spalle per conferire con Guido, Francesco elargì una stizzita manata a Ludovico, che ridacchiando lo ripagò d’una sfrontata linguaccia, forte della distrazione del maggiore.

Un attento silenzio generale impedì al ragazzo di rendergli la pariglia, ogni sguardo diretto verso sier Ferigo Contarini, ch’aveva levato la mano in alto per conferire.

“I nostri esploratori ci hanno comunicato come il nemico abbia dato ordine di preparare e spedirgli da Castelfranco carri di pane, farine e biade per sfamare loro e i cavalli”, esordì il provveditore. “Vedete che ladri?” e calcò bene la parola, strisciandola e riempiendola di veleno e disgusto. “Si nutrono del cibo rubatoci! Del cibo cavato di bocca a chi se l’è onestamente guadagnato! Del cibo prodotto da una terra che non li appartiene!”, esclamò veemente, indirizzato soprattutto questo discorso alle coscienze dei soldati veneti, i quali digrignavano feroci i denti, essendosi infatti alcuni di loro arruolati sia per patriottismo sia perché non avevano altro modo di sfamare le loro donne e i loro figli. “Allora io dico: con tal feccia non c’è da esser gentiluomini!”

Un primo entusiasta ululato fendette la quiete notturna, garbando ai soldati la piega che quell’arringa stava prendendo.

Conscio di aver ben scaldato gli animi, sier Ferigo annunciò dunque con trascinante impeto: “Dieci carri spettano alla Signoria, il resto è tutto vostro!”, fu la sua solenne promessa.

Un giubilante ruggito l’accolse, accompagnato dal forsennato battersi il pugno sul corsaletto e dal cozzare della zagaglia contro la targa e gli stradioti apparivano quasi commossi dalla bella notizia, qualcuno addirittura che accarezzava il possente collo del proprio fedele cavallo, raccontandogli della scorpacciata di biada che a breve si sarebbe fatto.

Sier Ferigo domandò di nuovo di porgergli orecchio. “Domani oltre che ad essere domenica, è la festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Anche se non possiamo ufficialmente celebrare la Messa [4], ugualmente preghiamo e affidiamo nelle mani del Signore le nostra missione e le nostre vite”, esortò il giovane provveditore a quel breve attimo di raccoglimento, onde far pace con Dio e cavalcare sereni al loro destino, qualsiasi esso fosse stato.

Eseguito un lento e grave segno della Croce, il Contarini recitò a voce ben alta e chiara il Salmo della Messa festiva:

“Ascolta, popolo mio, la mia legge,

porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.

Aprirò la mia bocca con una parabola,

rievocherò gli enigmi dei tempi antichi.

 

Quando li uccideva, Lo cercavano

e tornavano a rivolgersi a Lui,

ricordavano che Dio è la loro roccia

e Dio, l’Altissimo, il loro redentore.

 

Lo lusingavano con la loro bocca,

ma Gli mentivano con la lingua:

il loro cuore non era costante verso di Lui

e non erano fedeli alla Sua alleanza.

 

Ma Lui, misericordioso, perdonava la colpa,

invece di distruggere.

Molte volte trattenne la Sua ira

e non scatenò il Suo furore.

 

Nos autem gloriari oportet in cruce Domini nostri Iesu Christi, in quo est salus, vita et resurrectio nostra, per quem salvati et liberati sumus!”, terminò ieratico sier Ferigo, aprendo gli occhi. “Amen!”

“Amen!”, lo imitò il resto della compagnia, la quale aveva ascoltato in devotissimo silenzio, a capo chino e chi poteva a mani congiunte, tingendo conforto in quelle sacre parole, unica certezza in un mondo dai continui rovesci di fortuna, morale ed amicizie.

“In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti”, si segnò nuovamente il giovane provveditore degli stradioti tosto imitato dai soldati. Dopodiché, egli appoggiò la sua fiaccola sul braciere e avvoltasi di fiamme la punta, la ritirò e accese quella dell’altro Contarini, che a sua volta accese la fiaccola di Giano di Campofregoso e lui quella di Guido Rangoni e così via a catena, finché tutto il campo venne illuminato a giorno.

“In nome del Cristo Risorto, della Vergine, di San Marco e di San Giorgio, a Castelfranco!”, incitò sier Ferigo i suoi stradioti e balestrieri, cui fecero eco le zagaglie, le balestre e le insegne levate in alto dagli uomini eccitatissimi alla prospettiva della battaglia e soprattutto del pingue bottino.

“A Castelfranco! A Castelfranco! Marco! Marco!”

Perfino i cavalli parvero nitrire il loro assenso, guidati al galoppo dai loro cavalieri in una compatta colonna formatasi assai rapidamente e in un batter d’occhio il campo si era svuotato completamente, ingoiato dal silenzio.

E un fiume luminoso penetrò nell’oscurità notturna, simile ad una folgore in cielo preannunciante un portentoso temporale di morte e distruzione del nemico.  

 

***

 

 Le truppe dei Franco-Imperiali giunsero a Nervesa di prima mattina e subito Jacques de Chabannes de la Palice, monseigneur de Boissy e du Molard, Mercurio Bua e Lecha Busicchio, Gianfrancesco di Gambara, Giulio Sanseverino e Galeazzo Pallavicino si diressero all’Abbazia di Sant’Eustachio[5], la quale sovrastava la zona dall’alto di una collina terrazzata da viti feconde. Il capitano Jacob e gli altri comandanti tedeschi invece avevano preferito sostare alla Certosa di San Girolamo, da lì poco distante.

Appartenente all’ordine benedettino, l’Abbazia di Sant’Eustachio era stata fondata nel 1062 dal conte Rambaldo III di Collalto e da sua madre Gisla, godendo pertanto essa della costante protezione della famiglia, la quale le aveva garantito una notevole indipendenza dalla diocesi di Treviso nonché l’ingerenza del suo vescovo, il cui potere i Collalto avevano voluto limitare.

Di conseguenza, vista dal basso l’Abbazia poteva assomigliare più ad una piccola fortezza che ad un edificio di preghiera o di sanificazione del territorio, come invece erano le sue consorelle sparse nella Terraferma, costruite infatti ai piedi di colli o montagne, in terreni dapprincipio marci e inutili. Le spesse mura del corpo principale del monastero e il massiccio campanile da cui si poteva visualizzare la vallata sottostante lo rendevano un robusto rifugio da ogni pericolo esterno.

Il maresciallo francese l’aveva scelta apposta per la sua posizione strategica e i suoi sottoposti avevano convenuto animosamente con lui, assai allettati dall’idea d’alloggiare in un luogo finalmente asciutto e confortevole, anche a costo di doverlo condividere tra di loro.  

Purtroppo, la lunga ed estenuante marcia li aveva fatto scordare come quel giorno fosse domenica e per di più festa solenne dell’Esaltazione della Santa Croce e ciò ritardò i loro piani di ristoro, costringendoli all’attesa.

“Siete i benvenuti ad assistere alla Messa”, spiegò il padre guardiano ai nuovi arrivati, non appena li ebbe raggiunti dalla sua casetta poco lontano dal cancello principale. Parlava nervosamente, incerto cosa aspettarsi da quegli stranieri malgrado le rassicurazioni del conte Joanne Antonio da Collalto. “Tuttavia dovete attendere la fine della funzione, prima di poter conferire con l’Abate.”

“Molto volentieri, fateci per cortesia strada”, accettò La Palice di buon grado quella proposta, sia per ripararsi dalla pioggia ch’aveva ripreso ad importunarli sia perché sentiva l’impellente necessità di una benedizione, preoccupato nel suo intimo di tutte quelle sciagure capitatigli di recente tra capo e collo, quali epidemie nel campo, penuria di approvvigionamenti, liti continue tra soldati francesi e tedeschi, i Veneziani che lo tallonavano da ogni angolo e l’Imperatore che s’era perso tra i monti, giurando e stragiurando che si sarebbe unito alle sue truppe per l’impresa di Treviso e invece di Maximilian non si vedeva manco la punta del suo grossissimo naso.

La tentazione di mandare l’Habsburg a mangiar rave nei campi lo tentava ogni dì sempre di più, soltanto il senso dell’onore e dell’impegno preso gli impedivano di tornarsene a Verona o a Milano direttamente. Che magra figura ci avrebbe fatto, ragionava poi, col suo Roi Louis e con quell’arrogantaccio di suo nipote Gaston de Foix-Nemours? Neppure l’ognora comprensivo Bayard l’avrebbe giustificato, rimproverandogli la poca costanza e d’altronde conoscendo le Bon Chevalier, quello sarebbe stato capacissimo di correre scalzo e in mutande a Treviso pur di non mancare alla parola data.

Contemplando abbacchiato le betulle ai lati della stradina onde salire all’Abbazia, il de La Palice s’augurò di trovar risposta nella preghiera, non essendogli mai capitato in vita sua di non saper quale decisione prendere.

Il maresciallo e il resto dei comandanti passarono per il secondo portone, quello del monastero vero e proprio, attraversando un ampio cortile di solito brulicante d’attività ma in quel momento silenzioso per via della Messa solenne, le cui litanie cantate si potevano udire già dai gradini dalla basilica in stile tardo romanico. Quasi in punta dei piedi il gruppetto si ritagliò un angolino tra le colonne della navata principale, ammirando con la tipica imbarazzata curiosità dei visitatori gli affreschi trecenteschi sulle volte e le statue in rilievo sulle colonne. In realtà, essi guardavano altrove per non dover incrociare lo sguardo penetrante dell’Abate, il quale li squadrava dal suo scranno con la medesima intensità del gigantesco Christus Triumphans posto al centro dell’abside, dalle cui braccia pendeva un pesante panno d’oro di broccato finissimo e ghirlande.

Terminato di cantare il Gloria si passò alle Letture e neppure quando il monaco lesse cantando il passo biblico, smise l’Abate il suo accigliato studio di La Palice e compagni, in particolare di Mercurio Bua e Lecha Busicchio che coi loro abiti orientaleggianti potevano benissimo passare per ortodossi o peggio per turchi.

“Dal libro dei Numeri: In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: “Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero.” Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: “Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti”. Mosè pregò per il popolo. Il Signore disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”. Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita.

L’Abate poteva ben figurarsi quale favore quegli stranieri sarebbero presto venuti a chiedergli – già il conte Joanne Antonio da Collalto gli aveva anticipato la loro venuta. L’uomo chiuse gli occhi e sospirò a fondo, il petto dilaniato da sentimenti contrastanti. Da una parte sapeva che, in quanto supportati dalla famiglia dei Collalto, nessun male sarebbe incorso all’abbazia e ai suoi abitanti. Dall’altra, però, conosceva bene il cuore della gente del Montello ed esso era marchesco, sicché costoro che si trovava costretto per cristiana carità (e politica convenienza) ad ospitare per i locali erano messaggeri di morte, così come per Treviso nella cui giurisdizione l’abbazia si trovava.

Mio Dio, sorreggici nella prova, noi che non siamo nulla senza di Te, pregò l’Abate, mandando a Messa terminata a prelevare il maresciallo francese e i suoi comandanti, invitandoli a seguirlo per il chiostro adiacente fino al suo studiolo.

“Padre reverendissimo, vi saluto”, s’inchinò de la Palice, baciando l’anello portogli dall’Abate. “Vi ringraziamo dell’ospitalità vostra.”

“Ringraziate i conti di Collalto di San Salvatore”, lo corresse ambiguo l’anziano monaco. Quand’ecco che la sua espressione s’indurì. “Vi rammento che questa è la casa di Dio e un sacro luogo di preghiera e che pertanto non saranno tollerati atteggiamenti ad esso inaccettabili, checché a comandarvi sia un re autoproclamatosi cristianissimo”, l’ammonì perentorio, puntandogli al petto il riccio del pastorale.

La Palice deglutì a disagio, schiacciato dal peso delle passate e tristemente note colpe dell’esercito franco-imperiale, famoso per razziare il razziabile, in barba alla funzione dell’edificio saccheggiato. “Giuro sul mio onore che ci comporteremo nella maniera più discreta e consona a questo luogo sacro. Chiediamo soltanto ospitalità per qualche notte, in attesa di completare il ponte e di muovere a Treviso il campo”, gli garantì solennemente.

L’Abate soppesò a lungo i pro e i contro, tamburellando le dita sul pastorale finché non chinò lentamente il capo in assenso. “Vi farò avere una celletta per voi, maresciallo de la Palissa. E anche al signor conte di Gambara”, aggiunse, notando il viso pallidissimo del nobile bresciano, gonfiato di tanto in tanto da colpi di tosse che questi cercava di trattenere in petto o di coprire con la mano. “Quanto al resto dei vostri comandanti, potranno usufruire degli ospizi dei pellegrini.”

“Vi ringraziamo infinitamente della vostra generosità.”

“Padre colendissimo”, s’intromise con ossequiosa mitezza Mercurio Bua, inchinandosi con l’elmo sottobraccio, “potrei aver l’ardire di domandarvi, se per caso avreste qualche celletta assai isolata?”

“Per voi?”, domandò confuso e lievemente sospettoso l’uomo, conoscendo infatti la fama poco raccomandabile dei mercenari greco-albanesi.

“No, venerabilissimo Padre, per due miei prigionieri, la cui … sicurezza mi sta molto a cuore.”

L’Abate strinse gli occhi, non molto convinto. Ciononostante, rispose affermativamente: “Ci sono le celle dove i monaci ribelli alla Regola hanno modo di riflettere sui loro peccati.”

“Non avrei osato sperare di meglio, Padre eccellentissimo”, baciò riconoscente il condottiero l’anello del perplesso religioso.

Così, mentre Mercurio Bua col beneplacito del maresciallo de la Palice distruggeva le altrui aspettative di ristoro mettendo i soldati subito al lavoro alla costruzione del ponte per transitar sul Piave, berciando a destra e a manca come si fossero anche fin troppo riposati a Montebelluna nell’ozio più osceno, Hironimo e Thomà vennero tirati giù dal carro e trascinati al loro nuovo alloggio. Un asfissiante buco stretto, senza luce naturale e puzzolente di muffa, però almeno se ne stavano per conto proprio.

Il veneziano si adoprò subito per preparare un giaciglio dove poter far distendere il ciondolante fantolino, sostenendo questi non aver dormito bene e di conseguenza sofferente d’un brutto mal di testa e rigidità del collo.

Con la scusa di accendere una pingue candela, Mercurio ne approfittò per spiare i movimenti del giovane, meravigliandosi dall’infinita premura impiegata nell’avvolgere il bambino nella ruvida coperta di lana e nel sistemargli della paglia sotto la testa, nonché dalla tenerezza in cui gli scostava via dalla fronte le ciocche umide. Tali amorevoli gesti l’albanese li aveva visti soltanto in sua madre e in sua moglie Caterina, quando la sera aiutava la loro Maria ad addormentarsi, spaventata la piccina dalle sinistre ombre proiettate dall’armatura sulla tenda e dagli schiamazzi dei soldati.

E similmente agli occhi neri di Caterina, i quali dopo aver finito con la loro creatura lo fissavano ricolmi di malcelato disprezzo, anche quelli di Hironimo non gli risparmiavano alcunché, biasimandolo di ogni loro disgrazia.

A Mercurio si serrò la gola, imprimendo le sue dita eccessiva forza nella cera tanto da lasciarne l’impronta: in quei grandi occhi nerissimi egli rivedeva ogni sguardo della moglie e pertanto s’immalinconiva e al contempo s’arrabbiava quand’essi lo guardavano rancorosi, poiché per lui era come ritrovarsi davanti alle sue colpe nei confronti di Caterina. Il Bua s’era sempre vantato d’esser stato un buon marito, ma più trascorreva il tempo in compagnia del suo prigioniero, più le sue espressioni si confondevano con quelle della moglie e allora l’uomo incominciava a dubitare se avesse mai capito l’animo di lei, se non avesse dato per scontata la sua presenza accanto a lui.

Ed ecco che a Mercurio sfuggì un risolino amaro: tanto filosofeggiare per una banale somiglianza nel colore degli occhi! Cos’avrebbe fatto, allora, se a Castelnuovo di Quero avesse catturato una castellana al posto di un castellano?

“Ti piace la tua nuova stanza?”

“Tutto è bello senza te tra i piedi!”

L’albanese ridacchiò magnanimo, posando per terra la candela. “In questo modo potrò coordinare i lavori al ponte e dormire sereno la notte, senza la scocciatura di voialtri tossicolosi”, gli spiegò, intanto che sfilava all’imbronciato patrizio le manette, le cavigliere e il collare. Neanche il tempo di posare quest’ultimo, che il Bua ghermì per la gola Hironimo e lo costrinse a guardarlo ben in faccia, avvertendolo mortalmente serio: “Bada a non giocare al furbo, o massacro di pugni questo tuo muso impertinente che perfino tua madre si schiferà al sol guardarti!”, e abbandonò malamente la presa, tanto che il giovane cadde all’indietro di schiena.

Massaggiandosi il collo arrossato e tossendo forte sia per la malattia che per il ritrovato ossigeno, Miani si sforzò d’apparire tranquillo, elargendogli noncuranti spallucce. “Se lo dici tu”, sputò e tossì ancora, nettandosi l’angolo della bocca con la camicia.

“La tua caviglia?”, s’informò brusco Mercurio.

“Grazie a te non bene”, gli cantilenò beffardamente dietro Hironimo, dalla cui smorfia però si tradiva il fastidio ch’essa gli provocava.

In effetti, appurò il condottiero storcendo la bocca, il veneziano non stava panicando alla stregua d’una donnicciola: la caviglia aveva assunto un colore tra il rosso e il bluastro, il piede in una posizione più rigida e storta rispetto all’altro.

Delicatamente, l’albanese lo sollevò dal tallone, esaminandolo cauto tramite lenti movimenti circolari e fermandosi non appena avvertiva piccoli spasimi convulsi nel patrizio, il quale a viva forza tratteneva ogni esclamazione di dolorosa protesta dinanzi a quella manipolazione.

“Te la senti intorpidita?”

“Sì.”

“Hai come una sensazione di bruciore?”

“No.”

Mercurio appoggiò per terra il piede e si rialzò. “Ti farò portare delle pezze d’acqua fredda e qualche unguento. Non credo tu te la sia fratturata, il che è un bene perché in barella fino a Treviso non ti ci porto!” Magari il suo prigioniero ne avrebbe approfittato anche per pulirsi un poco, avendo le gambe sporche di fango, di croste di sangue per le escoriazioni ed i tagli, nonché piene di punture d’insetto e arrossamenti cutanei a causa del bacio dell’ortica. S’appuntò di dargli poi una camicia pulita, neanche un porcaro se ne andava a zonzo con una talmente lercia come la sua.

“An, visto che sei così gentile, perché non mi porti anche un vasetto di miele?”, esigette petulante Hironimo, indicandogli la gola con uno storcere di bocca assai infantile. “Mi fa bua qua” e rise sardonico.

Mercurio borbottò qualche improperio, sbattendo la porta e chiudendola a chiave.

Rimasto finalmente solo, Hironimo gettò indietro il capo e cacciò un profondo sospiro, portandosi poi al petto le ginocchia che abbracciò a mo’ di conforto, percependo ogni singola energia abbandonargli il corpo. Negli ultimi giorni gli stava costando moltissimo tener testa sia fisicamente che mentalmente al suo carceriere, tormentato in ambedue dalla malattia e dai mille dubiti e quesiti che lo punzecchiavano feroci.

Perché, perché ancora nessuno aveva domandato di lui? Perché nessuno s’era fatto avanti con una proposta di riscatto? O di scambio? Le famiglie dei capitani Colle e Doglioni avevano subito provveduto a pagare la loro taglia, liberandoli, come mai nessuno della sua famiglia aveva mandato alcun’ambasciata al Bua?

Vero, con Lucha avevano dovuto attendere ben quattro mesi prima di riabbracciarlo, però perché l’avevano trasferito in Alemagna e dunque non era stato facile capire dove fosse finito.

Ma lui? Come facevano a non sapere dove si trovasse? A meno che …

A meno che non lo pensassero già morto. No, no, non poteva essere. Altrimenti il Bua sul serio l’avrebbe ammazzato, una volta compresa la sua inutilità  … O forse era così, l’albanese ancora non sapeva che a Venezia lo davano per ucciso e quindi nulla gli avrebbe impedito, appresa la novità, di gettarlo nel Piave con la palla al collo …

No, no, no! Di sicuro, in qualche astruso modo, le spie veneziane avevano riferito in Senato della sua sopravvivenza alla mattanza di Castelnuovo di Quero. Ma allora perché quel silenzio? Quell’inazione? Cosa attendeva la Signoria per riscattarlo?

Hironimo aveva origliato frammenti di conversazioni degli emissari di uno dei capitani alla custodia di Treviso, il signor Vitello Vitelli, e nessuno chiedeva di lui, neppure suo fratello Marco che lì si trovava, o meglio, che il giovane Miani aveva scoperto trovarsi lì tramite terzi perché Marco …

… lo odiava.

Ancora gli riverberavano le dure parole del fratello all’orecchio, la loro collera, la loro delusione nel dover ascoltare le minchionate che Hironimo, giudicandosi all’apice della saggezza umana, aveva stoltamente pronunciato.

Parole pronunciate giusto perché aveva la lingua, senza rifletterle, senza ponderarne l’effetto devastante che avrebbero potuto avere su una delle poche persone che per tutta la sua giovane vita l’aveva amato e protetto, contro questa persona le aveva lanciate, azzannandola sconsiderato, vigliaccamente, stupido idiota che non imparava mai niente! Ogni confidenza, ogni difficoltà superata assieme, la fiducia estrema tra di loro sputtanata dal suo nocivo orgoglio, da quella tossica necessità di volersi sentire superiore a chiunque, più intelligente, più coraggioso e invece eguagliava a stupidaggine una lumaca spiaccicata dallo zoccolo di un asino.

Era stato meschino, antipatico, ingiusto nei confronti di Marco e anche di Carlo, arraffando come dovuto il loro affetto e non premurandosi di proteggerlo, né di nutrirlo …  Anche se fosse riuscito a ritornare a casa, con che faccia li avrebbe affrontati? Con quali parole poter spiegare loro il motivo dietro quella sua sconsideratezza?

Non devi prendertela, gli era stato rassicurato; sono arrabbiati anche loro, hanno bisogno di tempo per gettarsi alle spalle quanto accaduto … Balle! Balle! Balle! Hironimo ben s’era accorto del gelo, dell’imbarazzo e della delusione aleggiare negli occhi dei fratelli, in Marco soprattutto, non lo avevano perdonato, non avrebbero dimenticato, una volta oltrepassata una certa linea non c’era via di ritorno, nulla sarebbe ritornato come prima ed egli non poteva convivere con l’eterna angoscia del biasimo nascosto dietro un’ipocrita maschera di cordialità, di udire il pianto dell’anima sua lacerata dal rimorso e dai dolci ricordi laddove rivedeva quei giorni pieni d’amore l’uno verso l’altro …

Amore? Come avevano potuto amare una persona così ingrata? Come avevano potuto amare una persona così vile?

E lui, cretino altero, perché non s’era scusato? Perché non li aveva spiegato i suoi motivi, non li aveva costretti ad ascoltarlo anche a costo di trattenerli fisicamente? Li aveva urlato di far il piacer loro, che non doveva delucidazioni a nessuno, men che meno a chi si rifiutava di capirlo … Se non volevano accettare ciò che stava sostenendo, erano affaracci loro, troppo ciechi e sordi nelle loro convinzioni per abbracciare la verità!

La verità!

Quale verità?

Si meritava il loro disprezzo, ecco qual era la verità, si meritava il loro disinteresse per la sua sorte. Era stata questione di tempo che si disinnamorassero di loro, disillusi da una falsa sua bontà per poi scoprire realmente quale bestia lui fosse e magari, magari … magari anche Madre aveva visto finalmente dietro la cortina dell’inganno, realizzando che razza di mostro avesse generato …

Niente se non un continuo fallimento, ecco cosa lui rappresentava per la sua famiglia, una pietra di scarto, d’imbarazzo, una zavorra che forse non sarebbe mai dovuta esistere …

Aveva rovinato tutto. Come sempre. Tutto quello che toccava, lui rovinava.

Come sempre.

“Etcì!”

Hironimo scattò in un buffo balzo, voltandosi indietro verso il fagotto qual s’era trasformato Thomà.

Aiutandosi a porsi in piedi appoggiandosi contro il muro, il patrizio zoppicò fino al giaciglio di fortuna laddove giaceva il fantolino, avvolto da una pesante coperta di lana. Sin dal suo risveglio, la sua faccia appariva d’un giallo cera poco rassicurante, circondate le tempie da ciocche bagnate e perle di sudore e adesso il labbro aveva incominciato a tremare similmente al suo corpicino.

Il giovane gli si sedette accanto, accarezzandogli la punta del naso arrossato col dito, così da svegliarlo evitandogli un coccolone al cuore. “Thomà? Ti te dromi ancora?”

Si stupì d’udire la sua voce così tremula, d’un tocco talmente infantile che perfino Thomà sbatté le ciglia disorientato.

“Uhm …?”

“Su, Thomà, sveia, zò!”, lo scosse dolcemente Hironimo, nel suo intimo tuttavia preoccupato dalla mancanza di reazione nel solitamente vispo decenne, il quale alzò un poco la testa, guardandosi attorno distratto e affaticato, per poi ripiombare sul raffazzonato guanciale di paglia.

“Gh’ho sono, patron …”, sbiascicò, al che Miani lo sollevò di spalle, appoggiandoselo al petto e abbracciandolo onde riscaldarlo, il cuore che gli batteva impazzito nel percepire i continui tremiti nel bambino. “Lassème pisocar …”, chiuse gli occhi, accoccolandosi contro il giovane uomo, la testa pesante e i muscoli intorpiditi. 

Hironimo, imperterrito, lo scosse ancora e gli accarezzò col pollice la guancia, costringendolo a star sveglio. “No xélo pì patron, ma sior Pare, gh’hastu desmentegà?”, gli ricordò, tentando di mascherare la sua ansietà dietro un tono allegro.

“Chome volé”, bofonchiò Thomà, riappisolandosi.

Miani non glielo permise, destandolo per la terza volta. “Via, verzi sti ocieti bei!”, lo incoraggiò e stavolta il fantolino si mise d’impegno, sistemandosi a fatica seduto, pur avviluppando il braccino magro contro quello più robusto del patrizio.

Silenzio.

“Perché gh’avé dito al Griego, vui seti el sior mio pare?”, inquisì infine Thomà, giocherellando svogliato coi lacci della camicia di Hironimo. 

“Te volevi ea testa su la panza?”, gli delucidò questi, sovvenendosi dell’enorme paura provata alla vista del sangue dal naso del Bua e dell’animalesca espressione assassina nei suoi occhi, quando stava per estrarre la spada e costì vendicare il suo onore. Nonché della sorpresa nel vedersi coprire col proprio corpo il bambino, d’istinto, quasi stesse proteggendo un figlio suo invece di un mocciosetto, che fino a qualche mese fa per lui era stato un signor nessuno, un anonimo addetto alla mescolatura delle polveri come tanti altri.

“No, no, sora queo vuj gh’avé rason. Perhò, a saria stà pì logico dir che mi gero on fradel picenin ch’on fio vuostro. Seti massa zovene par farme da pare”, argomentò Thomà le sue perplessità circa la scelta di parentela da parte del Miani, che esclamò ilare:

“Massa zovene? Co’ te geri nato, mi gh’aveo zerca quindexe anni, nol gero cussì picenin!”

Il decenne schioccò la lingua affatto persuaso. “El mio sior Pare l’gera omo no putelo!”, sentenziò, levando lo sguardo vitreo in alto onde incrociare quello di Hironimo. “Comprendeu?”

Anche se gli costava ammetterlo, sì, egli comprendeva. La paternità era questione di maturità mentale, non fisica. Tutti possono generare figli, a qualsiasi età, però allevarli si trattava di ben altro negozio che non sempre si concludeva con successo. Hironimo col senno di poi aveva appurato quanta fatica fosse costata ai genitori la sua educazione, ripagando assai miseramente i loro sforzi. L’unica consolazione che gli rimaneva stava nel saper Padre morto, risparmiandogli la vergogna di aver avuto un fallito per figlio.

“Hé, ti no te pol ser mio fradel,  anca perché la siora mia Mare xéla fià vecia par ser la toa.”

A questo Thomà non vi aveva pensato, logicamente all’oscuro delle dinamiche familiari del Miani. Anzi, fino a quel momento l’aveva sempre creduto figlio unico, tanto gli ricordava il suo carattere inflessibile e prepotente quello di chi l’aveva ogni volta avuta vinta. “La perdonança, mi no la cognosso. Chome xéla?”, volle improvvisamente sapere.

“Bona chome la Madona”, sussurrò flebile Hironimo, d’un tratto vergognoso nell’accennare a Madre, quasi si considerasse indegno di lei e del suo amore.

“Donca chome xéla che vuj seti un Turcho?”

“No, mi sum l’Orso.”

Thomà arrossì colpevole, borbottando imbarazzato come non fosse educato origliare le altrui preghiere.

“Me piasarave incontrarla …”, confessò al patrizio in un gran sospiro. “Et ringrassiarla.”

“De che?”

“Sciò mi.”

“Co’ saremo liberi, mi te zuro che ‘ndremo tuti et do a Veniexia da ela.”

“Sì, un zorno …”, scosse il bambino sognante il capo, socchiudendo gli occhi. “Grassie, mille grassie per esserme stà siempre vizin, anca se per vuj nol gero nissun. Mi me despiase se ve gh’ho talvolta astià, perhò a mi me consola morir cum qualchedun ch’a me vol ben et no da solo chome un can …” e tacque in un gran sospiro, umettandosi le labbra secche.

Un lungo, possente e doloroso tremore rivoltò ogni nervo di Hironimo da capo a piedi all’udire quelle rassegnate parole, recependone allibito il tremendo significato e ribellandosi di conseguenza ad esso – non con lui vivo, non se poteva far qualcosa per impedirlo!

“Thomà? Thomà, sveia, ti no te xé divertente!”, lo rimproverò, impaurito dalla lassa immobilità del fantolino tra le sue braccia. “Thomà! Thomà!”, gridò il giovane panicando e squillando acuta la sua voce nella semioscurità di quella fetida cella. Strisciando il Miani afferrò la candela e la portò al viso del bambino, mordendosi a sangue il labbro dinanzi al suo pallore mortale e al bianco dei bulbi oculari, quando aprì forzatamente le palpebre del piccino.

“Agiudo! Agiudo!”, ruggì, fustigato dal crudele e sterile eco rimbombante dalle pareti. “Agiudo!”, ripeté, ponendosi faticosamente in piedi e gettandosi quasi di peso sulla porta sbarrata e chiusa a chiave. “El more! Agiudo! Agiudo!”, prese Hironimo a battere i palmi delle mani fino a scorticarseli di schegge, alternandoli con disperati pugni finché il legno non si tinse di macchioline rosse.

Constatata la loro inefficacia, il giovane si voltò alla forsennata ricerca di un qualsivoglia oggetto utile ad attirare l’attenzione dall’interno, trovando soltanto il pitale che però essendo di terracotta non poteva certo resistere all’impatto senza sgretolarsi.

E va bene, non gli mancavano altri mezzi!

Hironimo strinse i denti e ingoiò il dolore generato dall’impatto della sua spalla contro il legno e del peso sulla caviglia ferita, mentre rinculando prendeva una breve rincorsa.

Non aveva combinato niente di buono nella sua vita, né per lui né per il suo prossimo. S’avvide chiaramente delle delusioni date come figlio, fratello, cittadino, castellano, malgrado non gli fosse mai mancato né coraggio né determinazione. Non meritava alcuna pietà né giustificazione.

Non stavolta, però, in quest’occasione.

Miani aveva giurato a se stesso che a qualsiasi costo avrebbe protetto quel bambino, anche anteponendolo ai propri interessi personali.  

Poca cosa dunque massacrarsi le ossa contro quel duro legno, se col suo sangue poteva salvare la vita di un innocente.

 

Contemporaneamente a quei disperati tonfi sulla solida porta, s’aggiungevano quelli nell’acqua provocati dal legno del ponte, scardinata la struttura dalla possente corrente del Piave, ingrossatosi per via delle piogge e pertanto ribelle ad ogni guado.

Fortuna che l’Abbazia e la Certosa si trovavano abbastanza distanti da non crollare dal peso delle bestemmie che si levarono, una babele di profanità in francese e tedesco e pure arricchite dalle espressioni regionali di tal idiomi.

Jacques de Chabannes de la Palice assisteva accigliato ai miseri progressi, le mani strette convulsamente tra di loro dietro la schiena. S’impose di portar pazienza e insistere sulla costruzione di quel dannato ponte: ogni cosa d’altronde si piega al volere umano, se sussisteva sufficiente determinazione.

L’ennesimo crollo lo contraddisse, provocandogli un rictus nervoso all’occhio specie nel vedere alcuni suoi soldati nuotare a stento sulla riva, rigirandosi supini sulla riva, ansimando alla stregua di cani.

“Forse dovremmo ordinar loro di fare una pausa”, gli suggerì cauto Giulio Sanseverino, le cui vicende famigliari gli avevano reso ogni fiume assai antipatico [6].

“Avranno modo di riposarsi stanotte”, commentò aspro la Palice, rimbeccando invece i suoi uomini per quel loro tergiversare e spronandoli a riprendere chiodi, martelli, corde, livelle e seghe e costì terminare almeno metà ponte prima del calar della sera. 

“Speriamo a pancia piena”, gli fece notare Mercurio Bua, levando gli occhi al plumbeo cielo senza sole.  “Non dovevano arrivare i viveri da Castelfranco?”, chiese al Sanseverino, il quale si guardò a disagio la punta dei piedi.

“Non una parola a riguardo dal nostro luogotenente”, ammise egli infine. “Eppure mi ero personalmente raccomandato di spedirmi una staffetta, non appena i carri fossero partiti.”

“A che ora eravate rimasti d’accordo?”

“Verso le ore undici.”

E adesso erano quasi le ventuno, pomeriggio inoltrato virante al tramonto.

“Io dico che gli è successo qualcosa di brutto”, concluse il capitano Jacob Empser, incrociando le braccia al petto. Ottenuta l’attenzione dei tre uomini, il tedesco prese coraggio ed esternò la sua personale opinione: “Non mi piace star qui ad aspettare di far la fine del sorcio, morto o di fame o mangiato dal gatto. Una volta terminato il ponte, andiamocene nella Patria del Friuli e riforniamoci lì di provviste e munizioni!”

La Palice lo fulminò con lo sguardo. “Vade retro, satana”, sibilò velenoso, allontanandosi fisicamente da quel diavolo tentatore.

Il capitano Jacob non desistette, anzi, pure inseguì il francese nel disperato tentativo d’indurlo alla ragione: “Maresciallo, voi non siete uno sprovveduto, ciononostante non capisco perché vi ostiniate a morire di fame in questa terra ostile! Abbiamo già perso troppi uomini di malattia, perché raddoppiarne il numero? Senza contare che le polveri da sparo non ci bastano né tantomeno i cannoni! Non chiedo mica di disertare, sapete? Soltanto di prendere le piazzeforti friulane, di svuotarle e una volta ben forniti di andare a conquistare questa fottuta Treviso!”

Il maresciallo si bloccò all’improvviso, voltandosi di scatto verso il tedesco e spingendolo quasi col petto lo costrinse ad indietreggiare. “Volete sapere perché preferisco aspettare qui piuttosto che in Friuli? Perché se lì le cose dovessero mettersi male, voi Allemands non c’impieghereste nulla a riparare a gambe levate in Allemagne, branco di conigli codardi che non siete altro! Mentre noi, capitaine Jacob, noi rimarremmo in balia della popolazione assetata del nostro sangue!”

“Dubitate del sostegno del Kaiser?”, boccheggiò indignato il capitano Jacob Empser, paonazzo in volto. “Credete che vi sbatterebbe irriconoscente la porta in faccia?”

Il silenzio di la Palice fu molto esaustivo.

“Kapitän Bua!”, s’appellò allora in extremis il condottiero all’albanese. “Il Kaiser vi ha nominato Graf di Soave e suo consigliere: cosa ne pensate voi? Che vi diserterebbe, lasciandovi morir sgozzato da un branco di bifolchi friulani?”

Ovvio che no, coi suoi indiscussi meriti Mercurio s’era ben conquistato la fiducia del Re dei Romani, tanto che questi assecondava ogni suo capriccio, il suo aiuto militare divenutogli indispensabile dopo la morte del Principe di Anhalt.

Eppure …

Povero, povero il mio Maurikos, Conte del Niente! Di quali terre e titoli ti può investire Maximilianos, se ancora non ha vinto la guerra? Vai piuttosto a chiedergli di darti un feudo in terra austriaca  e poi torna a riferirmi la sua riposta!, gli riecheggiarono d’un tratto le taglienti parole di sua moglie Caterina, i cui lineamenti nella sua testa si stavano  sinistramente sostituendo con quelli di Hironimo. Ogni volta la stessa storia con lui: molto onor, pochi contanti! Tutt’al più se non sei del suo paese!

“Io non penso niente”, fu la gelida risposta del Bua al comandante tedesco, che si bloccò sconcertato, rimanendoci letteralmente di sasso.

Dopodiché, riprendendosi da quella tranvata, l’uomo imprecò due o tre volte e saltò in sella, spronando stizzito il suo cavallo in direzione della Certosa.

“Se quei mangiarane vogliono crepare di fame o ammazzati dai Veneziani, facciano pure che ce ne cale?!”, ringhiava tra sé e sé. “Conigli codardi …  Pah! Quegli arroganti non sanno che con l’onore non si mangia?!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua ...

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La questione di Soncino Benzone, come tutte le vicende, rimane assai ambigua, considerandosi ambedue le parti nel giusto. Manzonianamente diciamo: Ai posteri l’ardua sentenza.

Certo però che noi non crediamo per niente alle accuse a Gradenigo di avergli congiurato contro; da come ce lo descrive il Sanudo e gli altri suoi contemporanei, Gradenigo era una persona moralmente retta e se gli stavi antipatico un motivo c’era e anche oggettivo, non personale. Insomma, con lui o si rigava dritto o si finiva male.

Di conseguenza, Soncino Benzone avrà pur avuto validi motivi per serbar rancore contro la Serenissima, ciononostante è anche vero che se è finito com’è finito lo deve alle decisioni da lui prese.

Francesco Rangoni farà il bravo, Guido il fratellone lo tiene ben sottocchio XD

Nel prossimo capitolo si concluderanno le vicende qui iniziate e si spera la prima parte di questa storia.

Alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] ovviamente alla lontana. Sua figlia Gradeniga aveva sposato nel 1506 un altro biscugino del Nostro, Sebastiano Contarini di Antonio di Andrea Contairni e Andrianna Miani. Parentela dunque alla lontana e acquisita che però il Nostro sta spudoratamente sfruttando onde mettere in soggezione il conte Gianfrancesco di Gambara, giacché a quanto pare il buon Gradenigo era un po’ il babau dell’epoca.

[2] Antenòra, nell’inferno dantesco è dove si trovano i traditori della patria.

[3] Gioco di parole tra l’episodio in Matteo 18, 22  - E Gesù gli rispose: “Non ti dico (di perdonare) fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette -  e quello in Genesi 4, 24  - Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette.

[4] la Messa vespertina del sabato, che vale come Messa domenicale, è stata introdotta da papa Pio XII nel 1953.

[5] La descrizione dell’Abbazia di Sant’Eustachio è stata scritta “intuitivamente” in base alle poche immagini reperite e a ciò che rimane di essa: infatti, l’abbazia è andata distrutta durante la Prima Guerra Mondiale dopo la Rotta di Caporetto, trovandosi infatti poco distante dal Fronte del Piave, e oggigiorno non rimangono che i ruderi. Al momento non sono riuscita a reperire testi descrittivi dei suoi interni prima del 1917, quando ci riuscirò, modificherò.

Ringraziamo Semperinfelix per averci dato qualche supplemento di fonti per orientarci sul modus operandi delle abbazie, specie dove risiedevano i viaggiatori.

Piccola curiosità: l’Abbazia di Sant’Eustachio era soprannominata “L’Abbazia del Galateo”, giacché lo scrittore, letterato e arcivescovo monsignore Giovanni della Casa vi compose tra il 1551 e il 1555 il libro “Galateo overo de' costumi”, dopo essersi ritirato a Nervesa onde trascorrervi gli ultimi anni della sua vita. Il libro infatti verrà pubblicato postumo, nel 1558.

Tra gli altri ospiti illustri ricordiamo Pietro Aretino e Gaspara Stampa, insomma un posto culturalmente parlando sia sacro che profano!

[6] il padre di Giulio, Roberto Sanseverino d’Aragona, era morto affogato il 10 agosto 1487 nella Battaglia di Calliano.

 

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Capitolo 18
*** Capitolo Sedicesimo: 14-15 settembre 1511 ***


Ecco qua il sedicesimo capitolo!

Ulteriori note si trovavano a fine pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.

Avvertimenti: linguaggio scurrile, scene piuttosto truculente, totale assenza delle Convenzioni di Ginevra e altre peculiarità.

Un ringraziamento ai miei lettori e ai miei recensori: Alessandroago_94, Semperinfelix e Mrosaria. Grazie a chi ha messo questa storia tra le seguite, preferite e ricordate.

Se vi chiedete come mai non rispondo alle recensioni di Sagitta72 (che sempre ringrazio), si tratta di un semplice accordo preso da entrambe: è più divertente risponderci e commentarle dal vivo!

Vi auguro una buona lettura,

H.

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Capitolo Sedicesimo

14-15 settembre 1511

 

 

 

 

 

Un timido vento disperdeva i miasmi di legno bruciato misto a polvere da sparo, animando l’altrettanto timida aquila nera imperiale a due teste sovrastante la città dalla torre civile, la quale pareva voler spiccare il volo onde evitare la sorte delle sue sorelle cadute preda dei suoi mortali nemici e da loro strappate, dileggiate e bruciate senza pietà alcuna.

Un giovane soldato le comparve alle spalle, recidendo con trionfante gusto i legacci che la reggevano all’asta e tosto l’aquila tedesca sì volteggiò cullata dal vento settembrino, però per cader in ipnotici e vorticosi cerchi giù dalla torre, ai cui piedi altri soldati l’attendevano in avida attesa di ghermirla e sfoggiarla prigioniera, essendo lei la più importante.

“Crepa! Crepa maladeta!”, urlavano questi, sputandoci sopra mentre un loro compare la piegava, deponendola sul carro dei vincitori, là dove avevano ammassato viveri e prigionieri.

Dall’alto della torre il ragazzo rideva sguaiatamente, contagiato dall’euforia dei suoi compagni, intanto che si scioglieva dalla vita il secondo vessillo ed ecco che il leone dorato ritornò a sventolare nell’aria, ruggendo al cielo in un fruscio di stoffa.

“Marco! Marco! Vitoria! Vitoria!”

Dal palazzo pretorio della liberata Castelfranco, sier Ferigo Contarini assisteva all’intera operazione assai compiaciuto, provando anch’egli un piacere quasi fisico alla vista del vessillo tedesco rimpiazzato da quello veneziano, non dissimile dall’orgasmo raggiunto dopo un amplesso assai focoso e diamine se di fuoco ce n’era stato in quell’assedio, lo dimostravano i resti carbonizzati della porta cittadina e dei forni costruiti dai Franco-Imperiali per cuocere il pane.

Il morale altissimo per quella schiacciante vittoria e il pingue bottino gli avevano cancellato ogni fatica del combattimento, nonché di una notte intera trascorsa in sella. Sicché, approfittando quindi dei festeggiamenti dei suoi uomini e della spartizione tra essi della preda di guerra, il giovane provveditore degli stradioti si portò allo scrittoio per scrivere una lettera a suo fratello minore Marco Antonio, così da informarlo dei recenti avvenimenti prima ancora dei provveditori di Padova sier Christophal Moro e sier Polo Capello, cui il Contarini doveva far rapporto.

 

Magnifice ac generose frater carissime

 

Come già scrittovi, cavalcai tutto ieri fino a portami a Campo San Piero con 500 cavalli tra balestrieri e stradioti, appartenenti questi alla compagnia del signor Jannes da Campo Fregoso. Giunto che fui al campo, intesi come una scorta di nemici dovesse venire a prelevare otto cassoni di pane da Castel Francho, laddove veniva appunto preparato. A tal proposito levai il campo a mezzanotte e cavalcai fino all’alba.

Stamattina mi imboscai a due miglia o più sopra Castel Francho ed ebbi la fortunata intuizione di far sorvegliare ogni strada conducente alla città acciocché venendo il drappello nemico, questi si scontrasse con noialtri. Lì stetti nascosto per circa sei ore, senza che tuttavia alcun nemico si facesse vivo. Esplorai allora un tratto più avanti, circa sei miglia oltre Asolo, allo scopo d’apprendere maggiori informazioni sul campo nemico, operazione finora impossibile giacché dopo l’occupazione il paese era rimasto disabitato. Inviai dunque 50 stradioti con l’ordine di assaltare il campo, ossia di catturare qualche prigioniero, onde scoprire l’ubicazione esatta del nuovo campo e affinché il nemico non facesse ritorno a quello vecchio, sapendolo vulnerabile.

Ritornati indietro, galoppammo di corsa alle porte di Castel Francho e lì diedi il segnale d’ingaggiar battaglia e appiccare il fuoco alla porta d’ingresso tanto che nell’arco di due ore entravamo in città, dove catturammo il luogotenente – un gentiluomo di Pavia –  20 fanti, 12 cavalli e 8 fornai che rifornivano di pane il campo nemico.

Feci saccheggiare tutto il pane che si trovava nei magazzini così come i sacchi di farina e di biada, in modo che ogni stradiota e balestriere potesse caricare in abbondanza i propri cavalli, chi di pane, chi di farina, chi di biada. In aggiunta ordinai di distruggere 8 nuovi forni fatti costruire dai nemici (…)

 

“Come posso aiutarvi, signor Conte?”, non staccò sier Ferigo gli occhi dal tavolo sotto di sé, pur ripiegando in fretta e furia la lettera per infilarla in una piccola borsa appesa alla cintura sotto la scarsella dell’armatura.   

Guido Rangoni avanzò con delicata discrezione verso il provveditore, avendo infatti notato la maniera quasi protettiva con la quale questi aveva riposto via la missiva: si fosse trattato di un rapporto o a Padova o a Venezia, di certo non gli avrebbe riservato, seppur di sfuggita, quell’aria lievemente offesa tipica di chi viene disturbato in un attimo di privatezza.

“Il signor comandante Giano di Campofregoso mi manda a chiedervi istruzioni.”

“Sono stati caricati i carri di pane, farina e biada?”

“Sì.”

“I prigionieri?”

“Anche loro sui carri.”

Il Contarini s’accarezzò il mento, contemplando pensoso il cielo dalla finestra, le dita dell’altra mano tamburellanti sul cosciale. Perduta la tranquillità di scrivere senza interruzioni, già stava rimandando ad altra occasione il completamento della sua lettera.

“Sarà meglio ritornare a Camposampiero finché c’è luce”, gli suggerì il capitano modenese, “onde evitare stavolta d’imbatterci sul serio in un drappello nemico, col rischio che si riappropri dei viveri.”

Una pessima eventualità. “Concordo appieno”, sentenziò il patrizio, alzandosi e raccogliendo i guanti e l’elmo. “Non credo resti molto da fare qui al momento”, aggiunse un poco deluso, nel suo intimo desideroso di sottrarre al nemico ulteriori fortezze e città occupate, se non d’assaltare direttamente il loro campo e degolarli tutti, dai comandanti fino all’ultima delle loro puttane.

Magari una volta rientrati a Padova ne avrebbe discusso coi provveditori, se fosse il caso di concentrare i loro sforzi nella Marca in modo da provocare i Collegati e costì distoglierli dal loro proposito d’attaccare la Patria del Friuli. La situazione si presentava troppo spinosa, costellata di scelte difficili: Treviso o i confini a nord-est, nella speranza che nessuno dei capi lì cedesse al nemico se per sconfitta militare o viltà, giungendo a collaborare nello specifico cogli imperiali, conoscendo infatti il Contarini gli animi ghibellini di alcuni nobili friulani e degli Ampezzani, il cui atteggiamento ambiguo sempre aveva lasciato grandi incognite nel corso dei vari conflitti affrontati dalla Signoria. Sui Cadorini, al contrario, il giovane provveditore degli stradioti poteva metterci la mano sul fuoco, la loro lealtà solida e immota come le montagne e anzi, nulla dava più piacere a quella gente d’aggiungere i tedeschi alla loro lista di selvaggina da cacciare.

Il che gli riportò alla mente …

“Com’è parso a vostro fratello Francesco il suo primo assedio?”

Guido Rangoni avvertì la gola d’un tratto secca per quell’inaspettata e specifica menzione del suo cadetto. “E’ rimasto tutto il tempo accanto a me, sono sicuro che avrà avuto modo di imparare bene.”

Ferigo Contarini assottigliò gli occhi e il giovane conte si domandò freneticamente tra sé e sé quale ragionamento quella mente imprevedibile stesse rincorrendo. “Ne sono anch’io sicuro. Il signor Francesco si può ben dire fortunato d’aver avuto come esempio un uomo di somma integrità e valoroso, quale il vostro illustrissimo signor padre. Nonché voi, signor Conte”, asserì sibillino il patrizio, deambulando distrattamente, con quella sua solita placida camminata felina.

Il condottiero modenese reclinò attento il capo, in silenziosa attesa e nelle orecchio l’eco tambureggiante dei propri battiti cardiaci. Dove voleva arrivare il provveditore con quel suo bislacco discorso? Che c’entrava ora Francesco che letteralmente fino a ieri non aveva mai contato nulla come militare? 

“Eppure, i fratelli minori si rivelano sempre problematici, vero?”, fu la domanda retorica del veneziano, sulle labbra uno strano sorriso. Guido percepì una goccia di sudore scivolargli lentamente lungo la schiena. “Essendo appunto i più piccoli, i genitori non posseggono più né le forze né la pazienza riserbata ai maggiori e a quest’ultimi spetta l’ingrato compito di supplire per meglio educarli …”,  ridacchiò senza gusto. “Sarà per questo che i primogeniti tendenzialmente sono tra i più restii a sposarsi?”

Il Rangoni deglutì malamente la saliva, sforzandosi di ridere alla battuta e di modulare la voce onde mascherare il suo nervosismo. “Può darsi. Prima di far da padre ad eventuali figli miei effettivamente devo badare ai miei fratelli minori, i quali, lo ammetto, talvolta si dimostrano piuttosto giovani per questo mestiere …”

“Non esistono giovani nell’esercito, bensì soldati vincolati da chiari obblighi”, lo interruppe gelido il Contarini, il viso più duro della pietra, usando ora il medesimo tono che riserbava agli stradioti ai suoi ordini ribelli, prima di frustarli al primo palo disponibile. “Detto questo”, si portò egli talmente vicino a Guido che i loro fiati parvero mescolarsi, “fingerò di non aver ascoltato quanto udito a Camposampiero tra voi e vostro fratello. Citandovi, mi si spezzerebbe il cuore doverlo veder penzolare come Soncino Benzone”, gli confessò perentorio, allontanandosi dal condottiero cui mancò per poco di cadere in ginocchio, tale fu lo spavento che lo colse nell’udire quella rivelazione.

Come aveva fatto il provveditore a venir a conoscenza di quella loro assai privata conversazione?  Al punto di citargli verbatim le sue stesse parole?

Guido avvertì il viso avvampare e poi freddarsi da un improvviso reflusso di sangue, portandolo ad ansimare pesantemente, di colpo terrorizzato per la sorte del fratello e desideroso di scagionarlo a qualsiasi costo, con qualsiasi argomentazione.

Di nuovo, Ferigo lo anticipò, impedendogli di parlare tramite un deciso cenno della mano. “Non mi guardate con quella faccia né tantomeno perdete tempo in inutili giustificazioni. Non vi sto accusando d’alcunché, anzi, capisco benissimo i vostri crucci e per questo vi sto avvertendo. Anch’io ho un fratello più piccolo e m’è noto quanto i nostri minori possano agire e parlare sconsideratamente, neanche provassero gusto a tormentarci con le loro insensatezze”, disse sfoggiando un’espressione contraddittoriamente malinconica rispetto alle sue dure parole. Il patrizio spostò gli occhi dal volto del conte ai graffiti sulle pareti del palazzo pretorio. “L’amaro prezzo del nostro privilegio di primogeniti …”, mormorò più a sé che all’altro, estraendo un pugnale dalla fodera e con la punta andando a scalpellare dal muro una scritta al veneziano molesta.

“Che cosa fareste se un giorno il vostro cadetto dovesse tradirvi?”, ruppe Guido l’incomodo silenzio interpostosi tra loro due. Domandava sì per curiosità, ma soprattutto per cercar una consolante conferma che a questo mondo non sarebbe stato né il solo né il più reprobo dei fratelli ad agire così contro il suo stesso sangue. Chiedeva perché in cuor suo il giovane sapeva che nel Contarini aveva trovato uno spirito affine, che l’avrebbe compreso senza giudicarlo. “Come vi comportereste con lui?”

La lama del pugnale si bloccò improvvisamente sull’intonaco da esso grattugiato.

“Che cosa farei se Marco Antonio dovesse tradire la Signoria?”, ripeté Ferigo talmente incolore, che Guido temette la sua voce provenire dall’oltretomba. “Lo ucciderei con le mie stesse mani, onde punire sia lui che me stesso”, gli confidò e grugnì mentre imprimeva un’eccessiva forza contro il muro, staccando un grosso strato di malta che cadde rovinosamente per terra. “Ho risposto in maniera esaustiva alla vostra domanda?”, si voltò infine il provveditore verso il modenese, il quale osservando la mortale serietà sul viso di questi non poté non costatare la veridicità delle sue parole.

Nessuna punizione, giudicava infatti Ferigo, poteva per lui superare in crudeltà a quella di dover sopprimere di persona il suo amatissimo fratello, così da portare per sempre sulle spalle sia il peso del fratricidio sia dell’amaro rimpianto di non aver potuto impedire l’infamia del tradimento. Contrariamente a quanto affermato da Caino, il Contarini sì che si considerava il custode del suo diletto Marco Antonio.

“Se non v’incomoda, dopo aver fatto relazione ai provveditori sier Capello e sier Moro, vorrei dopodomani che m’accompagnaste a Venezia”, cambiò repentinamente discorso il patrizio. “O meglio, mi dovete accompagnare, poiché la vostra presenza è richiesta a Palazzo Ducale dal Serenissimo e dalla Signoria.”

In altre circostanze, Guido Rangoni sarebbe stato molto lusingato da quella convocazione; ora come ora, a seguito di tutti quei pesanti discorsi, era indeciso se gioirne o incominciare a preoccuparsi. “Per quale motivo, se posso chiedere?”

Il giovane provveditore degli stradioti sorrise a fior di labbra, giocherellando con la punta dei piedi coi pezzi di intonaco scalpellati via dal muro. “Per discutere della compagnia del fu governatore di Padova, domino Lucio Malvezzi”, fu la sua vaga spiegazione. “Chissà che voi e vostro fratello Francesco non possiate trarne qualche vantaggio, visto che il ragazzo s’è comportato davvero valorosamente in questo suo primo assedio … Uhm, che cos’abbiamo scritto qua? Hoch lebe der Kaiser Maximilian von Habsburg, Sieger des Löwen Venedigs …”, ripeté a voce alta Ferigo in un comico ed incerto tedesco lo scarabocchio che, a furia di grattare, aveva staccato via dalla parete e che ora giaceva scomposto a pezzi per terra. “Puoah, che sgradevole lingua barbara!”, commentò in sardonico disgusto e pestò malevolo la scritta, premendovi bene sopra il piede e triturando la malta in sottile polvere. “Dopo di voi, signor Conte”, fece cenno al nobile ad operazione completata, indicandogli la porta.

“Grazie mille.”

Fosse stato Guido Rangoni un’altra persona, dopo un tale confronto minimo avrebbe nutrito o risentimento o paura nei confronti del patrizio. Invece, da quel poco ch’era riuscito a determinare del suo carattere, appunto perché il Contarini l’aveva preso in disparte e ammonito laddove nessuno poteva fungere da scomodo testimone, appellandosi per di più al comune amore che portavano verso i loro fratelli minori, che il giovane condottiero sapeva di poter contare su di lui quasi come su di un amico.

 

(…) dopodiché mi riportai a Campo San Piero non avendo altro da concludere, anche perché ogni soldato, carico di bottino, voleva ben portaselo casa.

Altro non vi dico per ora: Iddio sia con voi!

 

Campo San Piero, 14 settembre 1511, ore 21.

Frater  Contarenus,

Stratiotarum Provisor

 

 

 

 

***

 

 

 

Fai il bravo, Thomà, comportati  in maniera degna della chiamata che hai ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, s’era raccomandata la nonna il giorno della sua Prima Comunione. Prega tanto Domine Iddio, la Madonna, i Santi Vittore e Corona e vedrai che non andrai mai all’inferno!

Com’è l’inferno, siora Nonna?

Un luogo dove brucia un eterno incendio, le fiamme talmente alte che ti squagliano il viso; dove i diavoli arpionano e infilzano le anime inermi dei dannati; dove né pietà né speranza esistono. Solo terrore, pianto e stridore di denti. Un luogo senza la luce di Dio.

E l’inferno Thomà l’aveva vissuto sulla sua pelle, altroché.

Forse perché senza saperlo egli era già morto e la sua breve vita talmente costellata di peccati, da precludergli il Padreterno il Paradiso, spedendolo appunto all’inferno. Altrimenti, il bambino non riusciva a spiegarsi come mai quella spirale di morte, distruzione e odio non giungesse mai al termine, laddove non sussisteva altra logica se non quella di versare quanto più sangue a seconda dell’offesa ricevuta. All’inizio aveva tentato di dissociarsi, considerando la guerra affare tra soldati ma poi …

Poi divenne questione personale, il sangue e la vendetta le uniche fonti di sollievo in un dolore inumano, un palliativo all’odio che gli consumava le giovanissime viscere, ammorbando ogni pensiero e divorandogli pezzo per pezzo la sua innocenza di bambino.

Thomà non vedeva alcun futuro, non si figurava adulto. Un tempo, felice e pieno d’amore, sognava d’apprendere il mestiere del nonno e del padre, di aprire la sua bottega, di sposare la figlioletta della vicina di casa e avere con lei tanti bei bimbi, grassi e morbidi come i suoi fratellini. Egli stesso avrebbe costruito la loro culla, si riprometteva.

Negli ultimi due anni, il fantolino aveva al contrario appreso a vivere alla giornata, a procurarsi il cibo e possibilmente la morte del nemico. Se da piccino era rimasto turbato durante la veglia funebre del nonno, adesso la vista di un cadavere lo lasciava totalmente indifferente; anzi, se si trattava di un tedesco pure lo rallegrava. Non distoglieva lo sguardo dai pezzi di carne umana schizzare a seguito dell’impatto della balota del cannone, semmai miscelava con maggior ardore le polveri come insegnatogli da Andrea Trepin il bombardiere. I rantoli, le bestemmie, l’odore acre del sangue e del fumo delle bocche di fuoco gli erano divenuti compagni di viaggio, assuefandosi ad essi. Soltanto il distante eco delle preghiere della nonna gli impedivano di sacramentare e anche perché, nelle cupe ore in cui gli mancava la mamma, lo consolava sapere che gliene fosse rimasta sempre Una che lo vegliava, anche se da distante.

Vivere, morire, uccidere; giusto o sbagliato che importanza avevano per lui? Tanto Dio aveva distolto lo sguardo dalla sua terra e la sua assenza aveva scatenato i diavoli, scesi dalle montagne apposta per tormentarli, a loro volta però dilaniati dalle stesse vittime trasformate in carnefici.

Thomà era uno di loro.

La prima volta fu il 3 agosto del 1509.

I Feltrini s’erano ribellati alla volontà dei loro nobili di sottomettersi ai Tedeschi e malgrado la città avesse accolto lo stesso Imperatore, già di soppiatto apriva le porte alle milizie veneziane per ritornare a San Marco.  La risposta degli Imperiali non tardò a farsi sentire e miracolosamente la famiglia di Thomà si salvò dal fiume di sangue che scorse nella sua Feltre, la loro modesta casa-bottega scampata all’occhio famelico e vendicativo dei tedeschi, non giudicandola essi degna di saccheggio. Tuttavia il bambino fagocitò per sempre nel suo cervello le urla dei 400 feltrini massacrati nel più brutale e infamante dei modi, il vagito dei bambini prima di venir strappati dalle loro isteriche madri, costrette ad assistere alla loro morte mentre venivano ripetutamente violentate. Gridavano a squarciagola al cielo, nella speranza di un miracolo che mai sarebbe avvenuto, invocando Dio come ultima suprema difesa.

All’epoca Thomà non vide niente, udì soltanto tra le braccia di sua nonna, la quale gli tappava la bocca acciocché non emettesse alcun suono e dunque credessero quelle bestie teutoniche vuota la casa. Quando poté uscire, gli parve di camminare in un cimitero a cielo aperto: le strade pregne d’un silenzio mefitico e di cadaveri mutilati, irriconoscibili, insidiati dagli magri cani randagi.  

Tra questi visi di gesso Thomà scoprì la bimbetta che aveva in progetto di sposare un giorno. Quante volte glielo aveva promesso, arrossendo imbronciato dinanzi ai bonari risolini della vicina e di sua madre? Thomà le accarezzò le trecce insanguinate, quante volte gliele aveva viste pettinate? Quante volte gliele aveva tirate per farle dispetto, ma in realtà perché voleva la sua attenzione?

Il Re dei Diavoli aveva fatto questo, quello schifoso austriaco dalla faccia da badile, che se n’era cavalcato tutto trionfo a Feltre, credendosi chissà chi. L’Ultimo Cavaliere lo soprannominavano, quel porco farcito di pura arroganza, entrato in città solamente perché i soliti ghibellini avevano cospirato in segreto ai danni della Signoria. Te Deum, aveva ordinato di cantare in Cattedrale, cosa voleva ringraziare Dio se manco aveva messo in gioco la sua vita per un istante? Ovvio che chi vince facile, poi al primo schiaffo si vuol vendicare più ferocemente. Perché la sua sconfitta è la prova della sua inettitudine.

A novembre dello stesso anno, con ancora il viso esangue della sua fantolina marchiato a fuoco nell’animo suo, Thomà aveva gioito del congiunto assalto dei Feltrini e Veneziani all’antico Castello di Alboino, nonché al massacro della seconda guarnigione lasciata da Maximilian, ivi asserragliatasi. Di essa sopravvissero soltanto il capitano e due soldati, trascinati dalla popolazione inferocita in piazza, Thomà in prima fila contro il parere materno. Dove vai? Cosa fai?, gli urlava dietro la sua mamma, ignorando di come il malvagio seme dell’odio già gli stesse germogliando nel cuore. Rise il bambino quando al capitano tedesco vennero cavati gli occhi coi ferri ardenti. Ai due soldati che ebbero in consegna il loro capitano, affinché lo consegnassero all’Imperatore, invece si limitarono ad amputare le mani. E Thomà rise ancora più forte.

Evidentemente, Dio lo punì per quello.

Erano i primi di luglio quando l’odiosa aquila a due teste si ripresentò alle porte di Feltre. Di nuovo Thomà s’era nascosto al solito posto, sotto una panca, ma stavolta i diavoli teutonici seppero dove scovare la sua famiglia. Questa volta vide il padre e i fratelli torturati prima di venir uccisi, vide lo stupro di madre e sorelle. Vide la povera sua nonna divenire cibo per cani. Vide gli stivali unti di fango e sangue avvicinarsi al suo nascondiglio, distruggerlo, si vide ghermito dal lanzichenecco e seppe che la sua vita finiva quel giorno.

A meno che …

Tempo addietro, durante una visita a dei parenti a Pedavena, Thomà aveva assistito alle pubbliche lamentazioni di un pastore, cui il lupo aveva sbranato alcune pecore. Maledette bestie! , aveva imprecato, mostrando loro le penzolanti gole aperte.

Bestia … bestia … Gli animali non possedevano spade, balestre, archibugi o cannoni, eppure uccidevano ugualmente.

Se non posso difendermi da essere umano, allora sarà da animale.

Thomà spalancò la bocca e azzannò il pomo d’Adamo del lanzichenecco. Era il 3 luglio 1510.

Il primo affondo si rivelò difficile, riempiendogli il sangue la gola, le nari e macchiandogli gli occhi, accecandolo e provocandogli un conato di vomito. Ma resistette, in nome della vendetta e della sopravvivenza. Il tedesco dimenandosi convulsamente tentava di scrollarselo di dosso, al che il bambino affondava con maggior vigore i denti nella carne, masticandola, trincerandola finché il muscolo non si staccò e Thomà lo sputò, mentre fiotti rossi e caldi gli inondavano la faccia. I due caddero in un tonfo assieme e il fantolino rubò al lanzichenecco il suo pugnale, per poi scappare via dalla finestra, gettandosi e cadendo su di uno cumulo di cadaveri. Tra essi Thomà si camuffò, avanzando difficoltosamente passo per passo, corpo per corpo, mentre una voluta di fumo saliva al cielo.

Poi furono le fiamme. Alte e grandi, peggio di una muraglia. Ovunque, inarrestabili, ingoiandosi case, chiese, conventi, persone. Thomà si gettò dentro le vasche d’’acqua gelida delle belle fontane lombardesche, riemergendo intirizzito, tossendo e annaspando avido d’ossigeno. Rabbrividendo attraversò la fornace ardente che s’era trasformata Feltre, i tetti sfrigolanti, i vetri che scoppiavano dalla pressione per poi vomitare fuoco, ogni segno dell’umano passaggio divorato, spazzato via, come se i Feltrini non fossero mai esistiti. Le ustionanti vampate di calore gli ribollivano il sangue nelle vene, però Thomà stringendo i denti correva verso Porta Oria, in direzione forse di Cividale di Belluno, che ne sapeva lui? Uscire, uscire dall’inferno doveva, ovunque, senza guardare i diavoli che con le loro lance arpionavano gente indifesa, ridendo e sghignazzando in quella loro ruvida lingua.

L’inferno, l’inferno in terra. E Thomà un’anima dannata, rincorso dai diavoli, seminudo, lordo di sangue e bagnato fradicio, la pelle nera di fuliggine da scambiarlo per un moretto, il pugnale ben stretto in pugno che mulinava per farsi largo tra la vegetazione, incurante dei rovi, delle ortiche, delle lacrime mischiate al sangue, della flemma che gli colava in bocca dal naso, del piscio che gli appiccicava le cosce.

Correva, piangeva – Mamma! Mamma! invocava la povera donna ridotta ormai a polvere al vento.

Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?

Per tre giorni e tre notti la città bruciò. A Cividale di Belluno, distante venticinque miglia, videro il cielo sopra Feltre tinto d’arancione, poi una possente e densa colonna di fumo e un silenzio di morte calare sulla vallata.

Bisognò attendere la primavera prima che Venezia si riprendesse Feltre, che coincise con l’arrivo di Thomà a Castelnuovo di Quero in qualità di assistente del bombardiere Andrea Trepin da Belluno e questo poco dopo l’insediamento a marzo del 1511 del nuovo castellano e reggente della fortezza sul Piave, sier Hironimo Miani q. sier Anzolo. Il fantolino aveva riconosciuto immediatamente il patronimico e il cognome, avendoli infatti “letti” ogniqualvolta la sua mamma attingeva l’acqua dalle fontane in Piazza Maggiore: era quello del podestà e capitano sier Anzolo Miani, colui che aveva difeso la città dal duca austriaco Sigmund von Habsburg nel lontano 1487, respingendo in pieno inverno la sua invasione e costì salvando la sua gente. Lo sai che tuo nonno e tuo papà costruirono la culla ai figli del Miani? , gli narrava orgogliosa la sua nonna, indicandogli lo stemma.  

Forse era un segno del destino che il figlio di un tal valente podestà e capitano fosse giunto da queste bande. Forse era il miracolo che serviva loro per sconfiggere i diavoli tedeschi, aveva giudicato Thomà il giorno delle presentazioni ufficiali col giovane Miani a Castelnuovo.

Ne rimase deluso.

Chi gli si era parato innanzi (impressione da tutti condivisa del resto) non era nient’altro se non un ragazzo. Per carità pieno di iniziative, di grinta, di sopportazione, indefesso lavoratore però sempre un ragazzo che aveva assistito a troppe carneficine in troppo poco tempo, un ragazzo spaventato che si nascondeva dietro alla rabbia per non sembrare da meno rispetto agli altri. E chi non lo era in quell’inferno?

Se il nuovo castellano non gli avesse ripetutamente urlato dietro manco un indemoniato, forse Thomà avrebbe potuto anche volergli bene e a rassicurarlo che non c’era vergogna nella paura, bastava solo vincerla con la crudeltà, pensava egli accarezzando il pugnale della sua prima vittima.

Perché sapete, Thomà aveva un segreto, tenuto nascosto anche ad Andrea Trepin che pur amava alla stregua d’un fratello. A questi aveva infatti raccontato soltanto di come avesse vissuto fino al loro incontro d’espedienti, tra furti e accattonaggio ora da solo ora in compagnia di qualche compaesano. Non gli aveva raccontato di Primiero, di ciò che lì combinò, anche se fu poca cosa a confronto degli altri Feltrini sfollati e impestati d’odio verso qualsiasi cosa fosse stata tedesca.

La valle di Primiero era governata dai Welsberg, nota famiglia legata alla casa d’Austria.

A Primiero si parlava tedesco, si scriveva in tedesco, si pregava in tedesco con preti tedeschi, i suoi minatori erano tedeschi e chissenefregava se condividevano il medesimo vescovado, chissenfregava se Primiero non aveva supportato l’eccidio di Feltre in alcun modo, anzi, aveva ribadito la sua amicizia. Agli occhi dei Feltrini gli abitanti della valle di Primiero erano tedeschi ergo odiosi sudditi del più odioso dei nemici, il Re dei Diavoli, Faccia da Badile, Maximilian von Habsburg.

Terre grasse, terre vergini dalla guerra, dalla fame, dalla distruzione. Felici e fertili terre tedesche.

Terre dell’Imperatore. Terre vicine.

Dopo mesi di vagabondaggi sopravvivendo alla stregua d’un animale, Thomà conosceva a menadito le strade per la Valsugana e incurante dei suoi dieci anni, più che volentieri assieme ad altri locali guidò i 2.500 fanti e 50 cavalieri feltrini che si misero in marcia, un esercito raccogliticcio ma assai motivato dal solo scopo della vendetta. Soldati improvvisati, gente che non aveva più nulla da perdere perché tutto aveva perduto, anima compresa.

I diavoli avevano distrutto il loro Paradiso, adesso avrebbero sfondato i cancelli del loro.

Penetrarono rapidamente nella Valsugana, poi nelle valli del Tesino, lasciandosi alle spalle incendi e brutali saccheggi, senza star tanto a guardar in faccia a chicchessia, sordi all’invocazioni di pietà, di pensar a Dio e al suo castigo. A chi toccava, toccava, assolutamente imparziali nell’elargire la morte.

Poi fu il turno di Primiero e che Dio avesse pietà delle anime loro, ché i Feltrini non ne ebbero. Settanta volte sette s’abbatté su di loro la vendetta di quella torma infuriata e incattivita dalle disgrazie subite per mano dei lanzichenecchi di Maximilian.

Come un branco di lupi rabbiosi i Feltrini si sfogarono sulle genti di Primiero, seminando il terrore nell’intera valle, battendo accuratamente villaggio dopo villaggio, spadroneggiandovi indisturbati finché, razziato il razziabile, lo incendiavano e passavano al successivo, inarrestabile masnada di senzadio che in ferocia poteva eguagliare quella dei Turchi. Nessuno si poteva dire al sicuro, non permisero a nessuno di scappar via.

Ovunque andassero, i Feltrini bruciavano, saccheggiavano, ammazzavano e Thomà sempre con loro. Era lì quando incendiarono la Bastia tirolese ad inizio della vallata. Era lì quando piombarono inaspettati sul primo villaggio, gettandosi voracemente sugli abitanti, estraendoli uno ad uno fuori dalle proprie case e trascinatoli nelle strade li scaraventavano contro i muri e li trasformarono in porcospini con frecce al posto degli aculei, come Diocleziano aveva ordinato agli arcieri di San Sebastiano. O similmente al drago di San Giorgio finivano infilzati dalle picche feltrine tra grugniti e grida agonizzanti. Qualcheduno si beccò persino il medesimo trattamento di Sant’Erasmo e San Floriano, neanche si volesse metter in scena qualche iperrealistico mistero o leggenda aurea. Se mancavano gli istrumenti, si suppliva con le mani, dipingendo le pareti con le cervella dei paesani. Oppure li defenestravano direttamente e torcendo col piede il collo ai disgraziati, completavano l’opera. L’impiccavano, li bruciavano vivi – oh, l’immaginazione non mancava ai Feltrini grazie all’arte appresa dai lanzichenecchi! [1]

Thomà diede una mano ai suoi concittadini a riutilizzare le federe dei cuscini come gran sacchi da riempire di cibo, vasellame, ori, argenti, di qualsiasi cosa o utile nell’immediato o come futura merce di scambio. Si riempì la scarsella di pane, fette di formaggio, di bottoni, di anelli, di collane; si arrotolò al collo giri di salsicce e un rosario d’ambra. Entrato in una chiesa, s’avvolse alla vita la tovaglia di seta bordata d’oro dell’altare e si riempì la fiaschetta di vino; quando il prete tentò d’indurlo alla ragione, il bambino gli puntò contro il pugnale, ferendogli di striscio la mano e berciando (anche se molto probabilmente l’uomo non capì niente): Taci, prete: vi siete bevuti il nostro vino, sbafati il nostro cibo, saccheggiato le nostre chiese! Adesso tocca a noi!  Thomà si tolse persino lo sfizio di lanciar merda sull’aquila asburgica dipinta nella Rathaus e di pisciare sullo stendardo e lo scudo scaraventati giù per il pubblico ludibrio.

S’ingozzò del ferocemente agognato cibo, seduto su di un materasso finito chissà come in strada, mentre assisteva a quella folle danza macabra, che gli ricordava vagamente la mattanza dei porci a San Giovanni. Nessuno ebbe il pudore d’allontanarlo quando, liquidati gli uomini, si decise di passare alle donne, ricambiando il favore che i tedeschi avevano riserbato a quelle dei Feltrini, costringendole a vergognose rusticità.

Tanto, la violenza in ogni sua manifestazione non turbava più l’anima del fantolino. Non si scompose neanche alla vista di un suo compaesano, da tutto il borgo suo conosciuto come un uomo mite e di gran cuore, avventarsi contro una madre che stava difendendo il suo figlioletto. Mein Kind!, gridava disperata la donna, Gnade! Gnade! Mein Kind! Es ist nur ein Kind! Nur ein Kind , piangeva, le braccia sanguinanti e piene di lividi levate in alto sia supplici sia in segno di resa.

Non ho più pietà! Non ho più figli! Non ho più moglie! Non ho più vita!, le ruggì dietro il feltrino tra amare lacrime, ghermendola per i capelli e sbattendole la testa su di una panca ad ogni esclamazione, finché il corpo della donna, dopo un violento spasmo, s’afflosciò privo di vita e la sua faccia divenne una poltiglia irriconoscibile; ciononostante, l’uomo seguitò imperterrito, ritrovandosi macchiato di sangue e cervella fino al gomito. Ansimando, si ritrasse singhiozzando dal cadavere, gli occhi spenti e vacui.

Dietro di te!, lo avvertì d’un tratto gridando Thomà e voltandosi di scatto il feltrino menò di riflesso un rapidissimo taglio di striscio, recidendo la carotide dell’assalitore alle sue spalle talmente a fondo, che si vedeva l’osso.

E così via per parecchi giorni. Stesso scenario, ma con facce nuove. Saccheggiare, ammazzare, bruciare. Saccheggiare, ammazzare, bruciare.

Infine, quando ebbero raggiunto un sufficiente numero di villaggi ridotti a macerie fumanti, i Feltrini si considerarono abbastanza satolli di vendetta e, con le mani e le vesti incrostate di sangue, se ne tornarono alla loro città di cenere, percorrendo trionfanti e carichi di bottino la via di Schenèr, con Thomà in mezzo al festoso corteo.

A quanto pareva, neppure quelle sue azioni piacquero a Dio, ed ecco che Castelnuovo di Quero malgrado la strenue difesa cadeva, il suo fratello d’anima Andrea Trepin moriva in combattimento e lui, finito prigioniero, s’era ammalato magari di peste o di polmonite o di tutt’e due e stavolta nulla l’avrebbe salvato dall’inferno dell’Aldilà, dopo l’assaggio dell’Aldiqua.

“… perzò, sior pare confessor colendissimo, gh’aveu capio horra perché mi no gh’ho timor ni de crepar ni de finir a l’inferno? Mi sun zà cativo, gh’ho fato cosse assa’ brutte et Domine Iesu nol me va a perdonar.”

Fra’ Anselmo strinse convulsamente il crocifisso appoggiato alle ginocchia, sopraffatto dal peso della stola da confessione, gli occhi gonfi e umidi di lacrime. Guardò smarrito il bambino che al contrario ricambiava tranquillissimo, le dita incrociate al petto sulle coperte tirate fino al mento. Il frate s’umettò le labbra, incapace per la prima volta in vita sua di fornire consiglio al penitente: né il rigoroso esercizio della Regola benedettina, né i pingui volumi pregni della saggezza dei Dottori della Chiesa avrebbero potuto ispirargli una parola anche solo per commentare su quanto visto, udito e fatto da una creatura, il cui massimo peccato doveva limitarsi a far i capricci per non voler coricarsi all’ora stabilita.

Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare.

E di scandali ne avevano creati in sì gran copia, che il frate si chiese come facesse Dio a non nausearsi di loro, scaraventandoli ancora vivi nella Geenna o annegandoli tutti in un secondo Diluvio Universale, amici e nemici. Per via di questo suo disgusto l’uomo s’era ritirato dal mondo, anche nel tentativo di capire tramite le Scritture e la vita ascetica il perché di tanta misericordia verso coloro che non la praticavano, come la parabola del servo malvagio che, pur condonatogli dal padrone il grosso debito, non aveva esitato a gettar in prigione un suo pari per una piccola somma di denaro. Ma era anche vero che Dio non seguiva la logica umana, la quale per quanto si sforzasse non sarebbe mai riuscita a decifrarne i pensieri, né a trovare un nesso in coloro che lei considerava palesi contraddizioni. Ad esempio, in quanto veneto il monaco teoricamente non doveva curare i soldati francesi ammalati e ricoverati nell’infermeria dell’Abbazia; tuttavia lasciarli morire significava divenire agli occhi di Dio un assassino. Talvolta il dare a Cesare e il dare a Dio non risultava di così facile esecuzione come si predicava.

Schiarendosi a disagio la gola, Fra’ Anselmo si sporse sul fantolino disteso sul lettuccio.

“Ti te xé veramente pentio de li toi pecadi?”, gli chiese infine, celando il groppo in gola.

Thomà abbassò il mento sul petto, piegando all’ingiù la bocca e il frate capì quanto sforzo quella risposta gli costasse e avrebbe d’altronde potuto biasimarlo? I tedeschi gli avevano portato via quei pochi punti di riferimento della sua giovanissima vita – la famiglia, la casa, a momenti la stessa fede – privandolo di un futuro, un’orfana foglia al vento in balia degli eventi. Dio sapeva essere davvero esigente talvolta …

Nondimeno, il bambino annuì sincero e per la prima volta dall’inizio della confessione l’uomo vi lesse un flebile barlume di speranza.

Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. Domine Iesu Christo, el bon Pastor che nol gh’ha volesto perdar manco na piegora al pecado, ch’el te daga, mediante el minister di la Giesa, ea perdonança per le toe colpe”, gli impose Fra’ Anselmo la mano sul capo, pur con qualche difficoltà non fidandosi Thomà di lasciarsi toccare da chicchessia. “Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.”

“Amen.”

“Ancuò xé zorno di la Madona Dolorà. Te cognossi el Stabat Mater?”

“Siorno.”

“El Salve Regina?”

“Siorno.”

“Almanco l’Ave Maria?”

“Un puoco”, s’afflosciò Thomà imbarazzato nel cuscino, tirando su la coperta, intimidito dallo sguardo ora severo ora sconfortato del benedettino, il quale si domandava in che razza di mondo di pagani e ignoranti fosse nato e cresciuto.

Ironicamente, più la cultura si diffondeva grazie alla stampa e alle raffinate corti italiane, più il popolo sprofondava nell’ignoranza, soprattutto religiosa. Ah, non che lor signori fossero meglio, con le loro arroganti teorie d’antropocentrismo! Se davvero l’uomo è padrone del proprio destino, perché allora egli col suo intelletto superiore non aveva  impedito che un bambino s’insozzasse l’anima assistendo e divenendo complice di turpitudini innominabili? L’uomo piuttosto è folle, non ragiona se non d’istinto e l’unico freno è Dio Padre e appunto come ogni figlio discolo Lo ama e Lo odia, perché vuol sì la Sua protezione senza però seguirne i precetti.

E ora questa loro follia gli uomini l’avevano imposta pure nella casa del Padre, invadendo l’Abbazia e la basilica con la scusa della guerra.

“Ti no te cognossi l’Ave Maria, perhò te gh’ha pur fato ea Comunion! Qual prete turcho te gavei a Feltre, caro ti?”

“No xé colpa mia et manc’elo cognosse l’Ave Maria!”, si discolpò Thomà indicando prontamente Hironimo, il quale se ne stava a debita distanza, acciocché il decenne si potesse confessare in tutta tranquillità.

Il giovane Miani si voltò verso i due, arcuando inquisitivamente il sopracciglio, seguitando tuttavia a suggere la sua calda tisana. “Spion!”, commentò in una piccata cantilena. Thomà replicò tramite una rumorosa linguaccia e Fra’ Anselmo si grattò la fronte assai imbarazzato. “Gh’aveu terminà, sior frate?”, li raggiunse il patrizio e si sedette accanto al malato, togliendogli la pezza d’acqua dalla fronte e, imbevutala di nuovo nella bacinella accanto, gliela riposizionò, controllandogli la temperatura sotto le orecchie col dorso della mano bendata.

“Cum lu sì. Voleu anca vu confesarve?”

Hironimo s’irrigidì e lo fulminò con lo sguardo. “Mi no gh’ho gnente da dirve!”, gli ringhiò contro bellicoso, torvissimo, per poi tornarsene ad accudire il marmocchio, il quale già ciondolava dal sonno, le poche energie spese per confessarsi col frate.

Che strano giovine!, meditava Fra’ Anselmo, spiando i due di sottecchi con la scusa di riempire il boccale di terracotta con dell’altra tisana d’ontano nero. Raramente aveva scorto in un uomo tanto amore nel prendersi cura di un bambino, figurarsi in uno poi così giovane!

Il frate ben si sovveniva dell’irruzione di Hironimo in infermeria tra i Vespri e la Compieta, recante questi tra le braccia sanguinanti e ricoperte di lividi e schegge il suo piccino privo di sensi, talmente pallido in volto da temerlo il monaco un qualche fantasma dei tempi antichi. Il patrizio gli aveva ceduto esagitato il suo fardello, supplicandolo piangente di salvarlo ad ogni costo.

Come poteva egli rifiutarsi dinanzi a tanto tormento?

Fra’ Anselmo conosceva bene le sue erbe ed esse di nuovo non lo tradirono, disputandosi tutta notte Thomà con la morte e solo alle prime luci dell’alba il fantolino aveva ripreso conoscenza, quel tanto per chiedere subito di confessarsi giacché sicuro d’aver visitato per qualche ora l’inferno. Molto probabilmente, ragionava il benedettino, il delirio della febbre doveva avergli rievocato quei tremendi ricordi custoditi nel cuore.

Fino a quel momento, Hironimo gli era rimasto seduto accanto, incurante di sé e rifiutando ogni assistenza, specie quando Fra’ Anselmo gli aveva offerto una camicia nuova e di bendargli i graffi e sbucciature alle mani, spalle e perfino sulla fronte. Soltanto al risveglio di Thomà cedette, ma neanche in quel frangente volle riposarsi, preferendo rifugiarsi in un angolo lontano dell’infermeria.

All’inizio, mea culpa, il frate non aveva compreso chi i due fossero in realtà, lasciandogli l’emergenza poco spazio per congetture e spronandolo invece all’azione. Furono i segni rossi e spellati delle manette e delle cavigliere, nonché la faccia preoccupatissima di un suo confratello e la sua celere spiegazione a svelargli il mistero. Fra’ Anselmo rimase vivamente impressionato che il giovane fosse riuscito a sfondare una porta così robusta, a nulla invidiabile a quelle di un vero e proprio carcere. Quella porta è costruita apposta affinché i monaci in punizione non scappino! Com’avrà fatto?, gli aveva sussurrato confuso all’orecchio il confratello.

“No me maravejo che vuj gh’avé sfondà ea porta cum ea testa: quea sì, che vu l’avé ben dura! Testa da copo!”, commentò Fra’ Anselmo, mulinando il dito all’impenitente patrizio, che gli rifilò un’espressione da gnorri totale. E alzandosi proseguì: “Mi vago. Ve fazzo portar ea Comunion, almanco pel céo (bambino, ndr). Po’ se gh’avé besogno de mi, vu savé ndove trovarme.”

“Pì ch’ea Comunion, félo portar on fià de pan et de sopa!” (zuppa, ndr.), lo esortò ad alta voce Hironimo, ridacchiando impunito dal modo in cui le spalle del frate s’irrigidirono per il nervoso.

“Turcho!”, borbottò questi, scuotendo il capo, prima di dedicarsi al prossimo paziente ricoverato in infermeria.

Miani lo seguì sornione con lo sguardo, intanto che si sistemava più comodo sulla sedia. Quand’ecco che si sentì tirare timidamente per la manica.

“Patron?”, lo chiamò sottovoce Thomà, accertandosi della lontananza del monaco.

“Dime.”

“Xélo vero, che vu gh’avé sfondà ea porta a testate?”

Sfiorandosi il crescente bernoccolo costellato da escoriazioni più o meno profonde, Hironimo scherzò: “Solum un puoco a la fin …” ed effettivamente corrispondeva alla verità, arrivato ad un certo punto dove gli dolevano troppo sia i pugni che le spalle per proseguire all’abbattimento di quell’ostinato ostacolo. Oh beh, in testardaggine aveva trovato il suo fiero avversario.

Il volto di Thomà s’illuminò estasiato e pieno d’ammirazione. “Ostrega, che força zò! M’insegnaré un zorno?”

“Co’ ti te stà mejo, zerto.”

Il bambino annuì vivacemente, felicissimo all’idea. Quand’ecco che la sua espressione s’incupì, ingobbendosi su se stesso e storcendo vergognoso la bocca. “Patron? Jo ve fazzo schifio horra?”

“Cossa te blateri?”, sbottò immediatamente Hironimo, scrutandolo severo, le braccia incrociate al petto.

“Sun stà malguajo (malvagio, ndr.) mi”, bofonchiò dispiaciuto il fantolino, dimenando nervoso la punta dei piedi sotto le coperte. Temeva, infatti, che una volta appreso il suo vero passato il patrizio non volesse più rapportarsi con lui, nauseato da cotanta sua cattiveria e al decenne deludere l’opinione che aveva di sé l’angustiava, non tanto perché avrebbe potuto perdere un protettore bensì un amico. Strano ma vero, se all’inizio non poteva soffrire quell’arrogante nobile, adesso gli voleva bene e gli sarebbe dispiaciuto ritornare alla freddezza di prima. Il suo cuoricino aveva battuto impazzito di pura felicità, quando Hironimo l’aveva protetto dal Bua presentandolo come un figlio illegittimo; non aveva mai creduto che un privilegiato come lui si abbassasse a tali stratagemmi pur di salvare la vita ad una nullità. Gli era venuta una gran voglia di abbracciarlo, però s’era trattenuto, i veri uomini non s’abbracciano, gli aveva detto Andrea Trepin il bombardiere, l’è roba da femmine.

All’oscuro di questi suoi ragionamenti, Hironimo sospirò invece alle sue parole, mordicchiandosi il labbro inferiore. “Ti te gh’ha solum copià le porcade di staltri. I puti xéi ea spièra (riflesso, ndr.) de l’omeni, i nol gh’ha juditio ni cossiensa di l’ati lhor”, dichiarò mestamente, riflettendo sui propri gesti di bambino, quando si sforzava di imitare Padre in ogni suo aspetto, dal modo di parlare, di camminare e pure di comportarsi senza però capire il significato profondo di ciò che scimmiottava. Egli era il suo modello e Hironimo, simile ad una pagina bianca, assorbiva ogni cosa e non la filtrava, non possedendo gli strumenti necessari di discernimento. Di conseguenza l’allora Momolo li aveva reputati normali e naturali e mai li aveva contestati, semmai arrabbiandosi se qualcuno lo rimproverava a causa d’essi.

“Donca Domine Iesu me pardonarà?”, insistette Thomà, d’un tratto ansioso. Aveva sempre creduto d’esser ormai al di là di ogni redenzione, tuttavia Fra’ Anselmo l’aveva assolto e se inoltre era vero che le sue colpe derivavano dalla sua scempiaggine per aver imitato degli sconsiderati adulti, forse-forse in Paradiso dalla sua mamma e papà ci poteva ancora andare.

“Se Lu no pardona a ti, che te xé on gnorante petusso (pulcino, ndr.), chi altro pole pardonar?”, gli propose il giovane Miani quella grama prospettiva. Un sardonico sbuffo gli sfuggì dalle labbra: se un bambino si fustigava così tanto per aver soltanto ceduto all’istinto di sopravvivenza, come si doveva sentire lui?

Sì, quella confessione l’aveva sconvolto, non lo negava, incapace di scorgere tanto odio nel cuore di chi era un innocente per antonomasia. Tuttavia, avesse egli vissuto le medesime esperienze di Thomà, avrebbe agito in maniera differente?

Risposta: no di certo, anzi si sarebbe comportato peggio di lui.

Thomà non era altro che il prodotto vivente delle follie degli adulti. Un loro mostro. Non era nato malvagio, lo avevano fatto divenire tale. Qualcheduno poteva anche ribattere: non è una giustificazione, poteva scegliere di tenersene fuori.

Quale giustificazione razionale può dare un bambino, che senza la guida genitoriale è tutto istinto, inconsapevole delle proprie azioni e del significato di responsabilità?

Si può biasimare la foglia sbandata al vento, se viene staccata dal ramo robusto?

“Mi credea che Lu gera pardonador. Perhò horra i me disen ch’en verità Lu xé zudese, che Lu no scolta i pecadori, ma li buta zò a l’inferno.”

Hironimo percepì un doloroso e subitaneo crampo allo stomaco nell’udire quelle parole, sinistramente a lui famigliari e infatti si rivide d’un tratto bambino a ripeterle e discuterne con suo fratello Marco, in quel lontano pomeriggio al Lido di quattordici anni addietro.

Eppure, di altri discorsi si sovvenne contemporaneamente, discorsi snobbati all’epoca ma mai del tutto obliati per quanto si fosse sforzato. In automatica e inarrestabili, le parole di Madre incominciarono inaspettatamente a fluire perfette e sicure dalla sua bocca: “Donca parla à la Madona, la qual senpre te scolta et senpre la intersede vizin Deo: Eia ergo, advocata nostra …”e Hironimo s’interruppe, non riuscendo più a ricordarsi come proseguisse. Eppure Madre e Crestina gliel’avevano insegnata e dalle lettere a Padre egli sapeva che da piccino recitava alla perfezione e con sentimento ogni preghiera, specie quelle mariane. Adesso la sua memoria a riguardo s’era tramutata in un arido deserto, vuoto e silente. “Et horra molighe coi putelezi: i malà gh’han da dromir, sennò nol guariscon pì”, si ricompose in fretta il giovane, scacciando quell’attimo di malinconia che l’aveva proditoriamente colto. Che importanza aveva ormai conoscere o meno il Salve Regina? Non era quello ciò che l’avrebbe salvato dalla sua attuale situazione.

“Pulito, perhò podeu star qui meco?”, gli offrì Thomà la manina sudaticcia, arrendendosi alla sua poco virile smania di coccole e affetto, incolpando al contempo la malattia che lo rendeva capriccioso, come gli ripeteva solerte la siora sua nonna.

Hironimo gliela strinse delicatamente. “Sì, mi stago qui”, sorrise, scrutandolo attento finché il fantolino, tirato un sospiro soddisfatto, chiuse le palpebre e si rilassò, addormentandosi.

Allora, avvertendo anch’egli una certa stanchezza, il giovane Miani appoggiò i gomiti sul materasso e la testa su di essi, pronto ad appisolarsi. Tuttavia, il suo sguardo si posò casualmente sulla scultura lignea di una Crocifissione e nello specifico sulla figura curva e piangente della Madonna, gli occhi immobili e scuri fissi sul Figlio agonizzante. L’anonimo scultore aveva disposto le statue, ch’Egli pareva ricambiare lo sguardo materno e la bocca dischiusa mormorante quasi: “Donna, ecco tuo figlio!” e “Ecco tua madre!”

Per una madre non doveva esserci nulla di più tremendo d’assistere al supplizio e alla morte della propria creatura e ad appendere Cristo alla croce era stata la medesima umanità che non solo era stata perdonata, ma per la quale Lei continuava indefessa ad intercedere, consolare, fornire esempio e consiglio. Il Figlio dell’Uomo spogliato di tutto, anche l’ultima cosa rimastaGli generosamente donava – sua madre. Quale magnifica contraddizione! Quanto amore ripagato con ingratitudine!

Ecco tua madre …

Se Le avesse parlato, l’avrebbe ascoltato? Per quindici anni s’era categoricamente rifiutato … Perché incominciare ora?  E perché doveva la Madre per eccellenza ascoltarlo? Proprio lui, che neppure con la sua madre terrena s’era mai comportato bene, facendola costantemente preoccupare e deludendola col suo comportamento indisciplinato e il suo pessimo carattere? Anch’ella l’aveva sempre perdonato e l’aveva coperto da capo a piedi d’amore incondizionato, senza mai perdere fiducia in lui. Anch’egli l’aveva ringraziata atteggiandosi da ingrato, d’egoista, da selvaggio.

 Ecco tua madre …

Come si può amare e difendere uno che ti fa soffrire? La spada che ti trafigge l’anima? Come ha potuto mia madre sopportarmi, quand’io non ero altro se non un peso morto? Un figlio ribelle e scapestrato? Un insulto all’educazione datami da lei e da Padre?

Sopraffatto da codesta sensazione di solitudine mortale, Hironimo s’addormentò, la manina di Thomà ben custodita dalla sua.

Anche se Lei m’ascoltasse, cosa potrebbe dire al Padreterno per discolparmi di tutte le mie colpe? Del rancore e indifferenza che per anni ho nutrito nei Suoi confronti?

Eia ergo, advocata nostra …

Ci sono tante persone più innocenti e meritevoli di me del sostegno divino. Che speranze avrei io? Che diritto di chiedere ciò che ho sempre disprezzato?

… Donna, ecco tuo figlio.

 

***

 

 

 

Il ponte sul Piave era stato finalmente completato e sarebbe stato motivo di gran festa nell’esercito dei franco-imperiali, se non fosse stato per un piccolo ma non trascurabile dettaglio presentatosi agli occhi del maresciallo Jacques de Chabannes de la Palice nella veste di malmenati soldati francesi.

“Cosa vorreste dire”, fumò il condottiero, strascicando feroce le parole, “che hanno attraversato il ponte?”

I poveracci farfugliarono qualcosa, tremanti sia dalla paura che dal freddo, rivelandosi infatti bagnati fino all’osso. “Avevamo appena completato il ponte, quando le capitain Jacob cogli altri suoi compari ha dato l’ordine di passarlo. Noi l’abbiamo contestato, sostenendo che non ci risultava tale ordine provenire da voi e loro ci hanno riempito di botte e gettati giù …”

La Palice gettò un’occhiata furibonda al de Boissy, du Molard, al Sanseverino e al Pallavicino. In particolare si soffermò su Mercurio Bua, che già quella mattina gli aveva portato la fastidiosa ambasciata della caduta di Castelfranco in mano veneziana e della distruzione dei forni. “E la Certosa? La maggior parte dell’esercito imperiale s’è accampato lì,  impossibile che tutti i suoi soldati abbiano attraversato il ponte in sì breve tempo!”

Il soldato scosse il capo. “Je l’ignore, monseigneur. I nostri compagni andati a controllare alla Certosa non sono ancora tornati, les Allemands non ci permettono di avvicinarsi senza giungere a discussioni e talvolta alle mani!”

“Come sarebbe a dire che non vi permettono? Siamo alleati o che? Pour les plaies de Christe! È le Roi che paga quest’impresa e loro osano comandarci cosa possiamo e cosa non possiamo fare?!”, ringhiò il maresciallo, i pugni che si serravano e aprivano collerici.

A tal proposito, arrivò la stoccata finale. “Les Allemands si sono presi parte delle nostre munizioni e dei nostri viveri …”, pigolò infine un altro soldato, augurandosi di sprofondare negli abissi della terra.

“FOUTUS CHIENS!”, esplose la Palice, la misura oramai colma. “Basta! C’est trop de félonie! È dunque questa la tanto osannata disciplina militare teutonica? Un branco di masnadieri, avidi briganti il cui unico vanto è quello di saccheggiare villaggi e di correre via al primo abbaiare del nemico?! È evidente che quest’impresa di Trévise non lo vogliono fare e non vedo perché dobbiamo rimetterci noi! Tutto abbiamo messo a disposizione di questi valorosi “alleati”: soldi, armi, uomini, il nostro stesso onore! E così che ci ripagano? Scappando all’alba alla stregua di ladri? Beh, che Trévise se la conquisti da solo l’Empereur! Io ho chiuso con questi vigliacchi!”

“Datemi l’ordine, monseigneur”, s’offrì un altrettanto furente du Molard, “datemi soltanto l’ordine e i miei guasconi vi riporteranno indietro le teste di quei fottuti disertori!”

“Non si saranno spinti troppo lontano: al massimo fino a Conegliano, se partiamo ora possiamo raggiungerli assai in fretta”, insistette du Boissy.

Sordo a quell’allettante promessa, la Palice si concentrò invece su Mercurio. “Voi lo sapevate! Voi sapevate che sarebbe finita così!”, l’accusò, puntandogli contro l’indice.

“Che c’entro io?”, si difese adirato l’albanese, la proverbiale mosca saltatagli al naso.

“Non siete conte e consigliere dell’Empereur?”

“E allora? Mica implica che debba anche far da balia a quei coglioni dei suoi capitani!”, allontanò il condottiero il dito del maresciallo dal suo petto. “Sono forse il custode delle loro anime?!”

Pigliando coraggio, Giulio Sanseverino s’intromise nella concitata discussione prima che degenerasse: “Monseigneur, maresciallo, sia a Milano che in esilio coi miei fratelli ho avuto modo di conoscere gli alemanni e vi assicuro che non diserterebbero tanto facilmente. Se hanno attraversato il ponte, l’hanno fatto in quanto spinti dalla fame. Sì”, s’affrettò ad aggiungere, anticipando l’obiezione del la Palice, “hanno contravvenuto ad un vostro ordine. Nondimeno, sono persuaso che una volta terminate le loro scorrerie al di là del Piave e in Friuli ritorneranno pronti per l’impresa!”

“Effettivamente il capitano Jacob non ha mai parlato di diserzione, soltanto di svernare in un posto più sicuro e meglio fornito”, reiterò Galeazzo Pallavicino, placando momentaneamente il giusto sdegno del maresciallo francese.

“Che ne pensate voi, capitain Bua?”, volle l’uomo conoscere l’opinione del condottiero, non ancora persuaso dall’appassionata difesa dei due nobili lombardi.

Mercurio trasalì, perso nei suoi poco rassicuranti pensieri, l’intera situazione d’un tratto un doloroso déjà vu. “Chi sparisce dal campo difficilmente ritorna, ecco la mia opinione. Vi debbo ricordare, messer Sanseverino, le vicende di Ver -…” e s’interruppe, il cuore cascatogli nello stomaco.

Una rapidissima sequenza di ricordi gli scorse davanti agli occhi. Il suo ritorno a Verona dal colloquio con l’Imperatore. La compagnia dimezzata. Suo fratello Teodoro e i suoi cognati spariti. Il letto vuoto di Caterina e Maria …

“Dov’è il conte di Gambara?”, inquisì all’improvviso il Bua, pallidissimo in volto e tremante manco avesse contratto la terzana. Guardandosi meglio attorno, constatò ansioso come non avesse scorto il bresciano in nessun luogo per tutto il giorno e dai conti di Collalto decisamente il de la Palice non l’aveva inviato.

E ora i tedeschi se l’erano data.

“E’ rimasto all’Abbazia, sin da ieri esibiva una tal brutta cera … Capitano Bua, in nome di Dio che state facendo?!”, esclamò sconcertato Giulio Sanseverino, allibito dinanzi alla folle corsa dell’albanese verso il suo cavallo, balzandovi sopra più agile d’una scimmia. “Capitan Bua!”, gli urlò dietro, girandosi impotente in cerca di sostegno verso gli altri sconvolti comandanti.

“Maurikos!”, lo richiamò gridando Lecha Busicchio, montando anch’egli in sella e lanciandosi all’inseguimento di quel pazzo del suo collega, il quale spronava il suo cavallo alla stregua d’un ciuco. “Fermati! Dove vai?”

Lo sapeva Mercurio dove stava andando, digrignando i denti e gli occhi iniettati di sangue, mentre irrompeva indiavolato nell’Abbazia tra grandi esclamazioni intimorite dei suoi abitanti, terrorizzati da quel suo incedere violento ed esagitato. Disceso dalla sua cavalcatura, a grandi falcate e facendo letteralmente volare via ogni benedettino che gli si parava innanzi, il condottiero raggiunse le celle dei monaci in punizione, ululando rabbioso alla vista della porta sfondata e, dopo aver aperto con un calcio quella della cella del Gambara, anche alla vista del letto vuoto del conte. Ecco! Ecco! Esattamente come aveva sospettato! Quel porco d’un nobilastro gli aveva sottratto il suo prigioniero e per di più da sotto il naso!

“Parla disgraziato! Dov’è diavolo è finito il conte di Gambara?”, pigliò Mercurio un frate per il saio, scrollandolo talmente forte manco volesse staccargli la testa.

“In … infermeria …”, tartagliò quegli atterrito. “Non … non stava molto bene e … Fra’ Anselmo gli sta dando qualche rimedio …”

“Per la salute del tuo corpo mortale, prega Dio che sia così!”, s’augurò il Bua, mollando sgarbatamente la presa e gettando il monaco tra le braccia dei suoi spaventati confratelli, per poi virare alla stregua d’un ossesso alla meta designata.

Oh beh, dall’infermeria al camposanto il passo era breve e Mercurio si sarebbe d’esso assicurato …

 

L’odore di minestra solleticò le nari di Hironimo, invitandolo a sbirciarsi attorno: lo stanzone era rimasto sempre uguale, coi suoi ammalati tossicolosi o dormienti, i benedettini che giravano tra i letti onde assisterli e Fra’ Anselmo impegnato a sorvegliare la distribuzione adesso del pranzo.

Si sorprese di trovare lì anche il conte Gianfrancesco di Gambara, dalla cui espressione meravigliata egli dedusse condividere il suo stupore. Memore della loro ultima conversazione, il giovane finse di non accorgersi di lui, chiudendo lesto gli occhi. Peccato che il nobile avesse altre intenzioni.

“Prendete, avete perso troppo peso, dovete nutrivi se volete arrivare vivo a Treviso”, gli porse una scodella fumante, provocandogli l’allettante profumino un’ondata di saliva nonché un rumoroso gorgoglio d’approvazione nel suo stomaco. “E’ dei monaci”, lo rassicurò scherzosamente il Gambara, alludendo a come l’orgoglioso patrizio rifiutasse ogni aiuto da parte di un traditore, fatto confermato dalla sua palese riluttanza nell’accettare la minestra.

Si trattò di un brevissimo scrupolo di coscienza: il bresciano aveva appena terminato di parlare e già Hironimo gli sottraeva cupido la scodella, gettandovisi a pesce in barba al liquido bollente che gli ustionava la lingua. “Anche al piccino!”, l’ammonì ferino, indicando Thomà, pure lui svegliato dall’odore di zuppa.

E mentre il conte serviva il villano (oh, l’ironia!), Hironimo ne approfittò per studiarsi segretamente il Gambara, cercandogli in faccia il motivo per quella bizzarra compassione nei suoi confronti e scovandovi al momento soltanto una tinta ancor più gialla, quasi verde, rispetto a quella del giorno precedente. Piccole gocciole di sudore gli ammorbidivano i capelli ingrigiti, divenutegli le occhiaie più profonde e scure così come gli occhi vitrei s’erano ulteriormente arrossati.

“Ecco”, cedette il nobile il piatto a Thomà, ma prima che quest’ultimo potesse soddisfare la sua fame, Miani lo bloccò, domandandogli:

“Cossa te disi al sior conte?”

“A la bon’horra che te me davi da magnar!”

Gianfrancesco di Gambara corrugò accigliato la fronte, affatto compiaciuto di tanta cafonaggine, Miani invece sogghignò divertito sulla sua zuppa.

“Vi vedo male, signor Conte: l’aria della Marca non vi giova?”, gli domandò beffardo. “E meno male che dovevo esser io, quello bisognoso del vostro aiuto!”

“Io sarò ammalato, ma voi rimanete prigioniero”, scrollò incurante le spalle il conte Gianfrancesco.

“Della mia sorte che v’en cale?”, ribatté aggressivo Hironimo, non sopportando il paternalismo da parte del nobile.

“Di voi non m’importa un granché”, replicò impietoso quegli, “piuttosto dell’intero quadro generale.”

Bruciandogli le gote dall’ira, il giovane patrizio ingoiò una rispostaccia assai ingiuriosa, la parte calcolatrice di lui che gli suggeriva di portar pazienza e ascoltare quanto il bresciano avesse da dire. Nella sua mente quelle frasi ambigue incominciavano ad incastrarsi e a prender forma, la quale avrebbe ben potuto giovargli a lungo termine. Ciononostante, onde non fallare né cadere in un tranello, bisognava giocar fino e seguitare a comportarsi ostilmente. Il Gambara doveva sbilanciarsi per primo, non lui.

“Ah sì?”, sbuffò Hironimo, inchiodando il suo sguardo con quello del conte Gianfrancesco. “E quale sarebbe il quadro generale?”

“Niente assicura l’esito di una guerra, tranne la Fortuna”, gli spiegò sibillino l’uomo.

“Sicché voi state cercando d’accaparravi la vostra, di Fortuna?”

“Ho buone ragioni di temere il futuro senza di essa”, nicchiò il bresciano, sedendosi accanto al Miani. “Noi tutti abbiamo qualcuno da cui ritornare, no?”

A che cosa il di Gambara alludesse, se ad uno schieramento politico o semplicemente alla famiglia, Hironimo non ebbe il tempo di domandare delucidazioni, giacché un maremoto umano investì in pieno entrambi.

Avvenne tutto troppo in fretta anche solo per rendersene conto, figurarsi per reagire: un attimo prima il veneziano stava discutendo col nobile, l’attimo dopo quest’ultimo giaceva per terra, reggendosi la spalla dolorante e inveendo contro il nuovo arrivato, mentre il patrizio si trovava subitaneamente avvinghiato da una stretta ferrea e, sollevato da terra, trascinato via di peso dall’infermeria, malgrado si dimenasse e scalciasse forsennatamente, inseguito dal tonante rimbombo delle urla di protesta del conte Gianfrancesco, di Fra’ Anselmo e di Thomà.

“Cori a ciamar l’Abbas! Cori a ciamar l’Abbas! Eo copa! Eo copa!”

La sua visione ritornò stabile solamente quando sbatté la faccia contro il pavimento. Tentò di riconoscere l’ambiente che lo circondava, notando soltanto mura bianche, un letto e un tavolo piuttosto dozzinale. Di riflesso, si pose a gattoni per balzare in piedi e correre via, sennonché si ritrovò ghermito per una spalla e rigirato brutalmente supino, un avambraccio premuto sulla gola e la faccia di Mercurio Bua a qualche pollice dalla sua, quest’ultimo con una tale espressione raccapricciante, manco l’avesse rubata al diavolo in persona.

“Che brigavi tu col Gambara?”, l’assordò per poco l’albanese, i denti ben in mostra.

“Cosa? Cosa?”, fu l’unica intelligente replica che poté fornirgli Hironimo, la cui visione si stava oscurando di macchie gialle e nere, sia per la pressione al collo sia per il peso del corpo del condottiero sistematosi a cavalcioni sopra di lui: non avrà forse questi indossato l’intera armatura, avendo infatti indosso solo il corsaletto, però di certo non era neppure una piuma per il fisico provato del giovane.

Accorgendosi dello sguardo sempre più vacuo del suo prigioniero, Mercurio sostituì il suo avambraccio col pugnale, premendone la punta sulla pelle già arrossata. “Come accidenti sei uscito dalla cella? Chi ti ha sfondato la porta? Chi ti ha aiutato? I monaci? Quel bresciano?”

“Sono stato io! Sono stato io!”, gracchiò Miani tra un colpo e l’altro di tosse, giungendogli il fiato poco e male nei polmoni. “Non mi ha aiutato nessuno!”, s’affrettò a chiarire cosicché lo stradiota terminasse lì la questione e si schiodasse da lui, magnanimamente concedendogli di ritornare dal suo fantolino ammalato.

Una pingue goccia di sangue gli scivolò dal collo, imbrattando la camicia e parte del pavimento.

“Dunque, come mai ti trovavi in infermeria col Gambara?”, sibilò minaccioso Mercurio, strisciando la punta del pugnale dalla gola su fino al mento, soffermandosi dolorosamente sul labbro inferiore del giovane. “Vi siete dati convegno?”

“Ci siamo imbattuti lì per caso; quello là mi ha solo dato un piatto di minestra e m’ha raccontato due o tre bagatelle che t’assicuro manco m’han divertito!”, confessò celere Hironimo un riassunto di quanto avvenuto, ovviamente omettendo quei piccoli particolari compromettenti, che però non toglievano alcuna veridicità al suo racconto: sul serio non aveva pianificato nulla col bresciano, ogni cosa era frutto di una sfortunata coincidenza.

Purtroppo per lui, Mercurio Bua apparteneva a quella categorie di persone perennemente convinte delle proprie ragioni, che non concedono mai il beneficio del dubbio. Sicché, afferrato il patrizio per il bordo della camicia, gli sbraitò contro feroce: “E quando t’ho permesso di parlargli? Di stare in sua compagnia? Di guardarlo?”

Un famigliare schiocco al cervello azzerò la parte conciliatrice del Miani, il cui viso si tinse di scarlatto e non solo perché, a furia di sbatacchiarlo, il sangue gli rifluiva malamente per le vene: “Hé! Oh! Queste tue patetiche gelosie risparmiale a quella poveraccia di tua moglie!”

Il condottiero si staccò da lui come scottato, ansimando lievemente, quasi Hironimo l’avesse colto in fallo su qualcosa allo stradiota soltanto noto. Quand’ecco che una maschera di animalesca furia cacciò via quella confusa ed in un battibaleno, per l’ennesima volta, il giovane si ritrovò martoriato da quelle tenaglie di mani.

Mercurio l’aveva infatti strattonato per il braccio destro, d’istinto levato in alto dal Miani per difendersi da un eventuale cazzotto, e rimesso forzatamente in piedi l’aveva condotto fino al tavolo dove lo costrinse a piegarsi in avanti su di esso, tenendogli sempre il braccio premuto dietro la schiena.

“Tu credi di continuare a fare lo spiritoso, eh? Tu credi di fare all’infinito lo spiritoso con me?”, gli sussurrò dolcemente perfido il capitano, torcendogli dolorosamente l’arto. “M’hai forse scambiato per un Giobbe?”, e flesse di nuovo. Il veneziano strinse caparbio le labbra dal dolore. “Va bene, d’accordo, abbiamo scherzato, ce la siamo un poco spassata, ci siamo fatti qualche risata ma adesso basta! Mi stai decisamente stufando! Tu sei un prigioniero, la cui vita dipende da un mio sì e un mio no! Non mi costa nulla tagliarti la gola né ordinare di spedire a tua madre un tuo pezzo alla volta, cosicché lei si diverta a ricomporti!”, ringhiò. “Chi ti credi di essere? Uh? Superiore? A me? E in quale modo? Non hai più un castello, né una spada, né una famiglia, né amici, non hai nulla, non sei nulla! Se sei vivo non è per merito tuo, bensì per un mio capriccio!”

Hironimo deglutì un singulto di rabbia e umiliazione, ferito più da quelle crudeli parole che dalle sevizie dell’albanese.

“Suvvia, parla: come sei uscito da quella cella?”

“Ho sfondato la porta, te l’ho già detto!”

“Con questo tuo ammasso di pelle ed ossa?”

“E’ la verità, perché ti dovrei mentire?”

“Che negozi hai con Gianfrancesco di Gambara?”

“Cosa?”

“Che accordi!”

“Nessuno!”

“Neghi di avergli parlato?!”

“Solo per insultarlo!”

“Neghi di essere combutta con lui?”

“Nego! Le tue prove?”

Mercurio s’appoggiò di peso col gomito in mezzo alle scapole del giovane, tirandogli all’indietro il braccio destro che costrinse ad un arco innaturale e Hironimo spalancò la bocca in un grido nato morto, le vene del collo ingrossate dal suo sforzo di non urlare.

“Troia bugiarda, vi ho pizzicati a confabulare assieme l’altroieri, quand’eravamo in marcia! Cosa gli hai promesso in cambio della libertà?”, insistette nel suo interrogatorio l’inflessibile albanese. “Soldi?”, strattonò egli il braccio. “Il perdono della Serenissima Signoria?” un’altra strappata. “Il tuo culo?”, glielo palpò volgarmente esplicito e se non fosse stato impegnato a contorcersi da atrocissimi spasimi di dolore, Miani si sarebbe anche offeso per quelle indecenti illazioni.

“Figurati …”, boccheggiò, la bocca che gli tremava e la visione vacillava a causa dei nervi impazziti, “figurati se … se voglio qualcosa da … da un traditore! Figurati …”, sibilò, collera e paura che gli annebbiavano il cervello, imbevendolo di suicida temerarietà, “figurati se ricorro ai tuoi stessi metodi per … per … per mio profitto! Conferma … su conferma quant’è piaciuto farti … farti fottere da Massimiliano!”, e rise isterico, cangiando in un singulto al logico strappo al braccio che ne conseguì.

“Un altro insulto e ingoierai il tuo medesimo cazzo!”  

“Le tue minacce … non cambieranno mai il fatto che tu sei … e resti …  una lurida baldracca, ognora … pronta a … a vendersi al miglior offerente!”, gridò Hironimo, talmente intontito dal dolore da parlare a ruota libera. “Non … non mi predicare l’onore … quando tu … per denaro …  hai volentieri abbassato testa e braghe!”

Il Bua allentò un poco la presa, concedendo un attimo di respiro al prigioniero, difficile affermare se per stanchezza del suo di braccio o se trafitto da quella cinica osservazione.

“Bah, insulti noi condottieri proprio come i Francesi ingiuriarono i Tredici ai tempi della disfida di Barletta …”

“Sai … quanto me ne frega dei …  Francesi …  dei Tredici e … e di Barletta? Per quel che mi concerne … si possono anche gettare … allegramente da uno scoglio! Io …  mi sto riferendo a te, Mercurio Bua Spata …  a te … e a te soltanto!”

“Ho le mie ragioni e non sono tenuto a giustificartele!”

“Dunque … sii altrettanto grazioso …  da non tediarmi …  coi tuoi moralismi della malora!”

Un tesissimo silenzio s’impose tra i due uomini, rotto dai rispettivi respiri irregolari e pesanti: quello di Hironimo a causa della sevizia subita, quello di Mercurio per la rabbia che quel disgraziato s’ostinava a pungolargli in petto. Se non avesse purtroppo avuto bisogno di lui per lo scambio, a quest’ora l’avrebbe già tagliato in piccole strisce di carne, distribuite poi ai porci.

Schiacciandogli ulteriormente il busto contro il tavolo grazie al peso del suo corsaletto sulla schiena, l’albanese non demorse nel suo intento di scoprire il nesso tra la quasi-fuga del prigioniero e il fitto cicalare col conte bresciano. “Cosa stavi tramando col Gambara?”, gli sussurrò all’orecchio, torcendogli il polso del quale da tempo ormai Miani aveva perduto ogni sensibilità, pizzicandogli la punta delle dite informicolate.

“Niente …! Se mi stessi … seriamente ad … ascoltare, ti … accorgeresti che non … sto mentendo!”

“Perché ti trovavi allora in infermeria con lui? Chi ti ci ha portato?”

“Nessuno, te lo … giuro! È … venuto dopo … non so quando … forse mentre dormivo! È malato … non te ne sei reso conto? Non hai visto la sua faccia da … cadavere?”

In effetti, il tarlo del dubbio incominciava ad insinuarsi in Mercurio, rivalutando la sua mente ogni singola noticina stonata in quella grottesca gagliarda. Purgatosi della frustrazione degli ultimi fallimenti, dello spavento per aver perduto una merce così preziosa di scambio, nonché dei brutti ricordi legati ad una diserzione di massa, adesso il condottiero poteva analizzare la situazione con maggior freddezza e si rimproverò della sua ottusità per non aver considerato l’elemento più palese, che avrebbe scagionato i due italiani.

“Ammettiamo che tu abbia sfondato quella porta. Perché non sei scappato?”

Ovvio no? Un prigioniero quello fa, alla prima occasione propizia fugge. Invece, il Bua aveva ritrovato il patrizio in infermeria, mossa non proprio intelligente, specie se il Gambara era suo complice. Non se ne sarebbero rimasti lì a chiacchierare. Sarebbero balzati sui primi due cavalli disponibili per galoppare in un sol sorso fino a Treviso.

“Con tutti … i tuoi uomini attaccati al mio culo … come … come sarei riuscito … secondo te … a scappare?”

Un altro valido punto a favore del veneziano. Al suo ingresso in Abbazia il Bua aveva lasciato Zilio Madalo ed altri suoi fedelissimi e nessuno di loro aveva accennato ad una fuga. Al contrario, pure l’avevano guardato straniti manco stesse scherzando.  

Hironimo ansimò e deglutì a fatica, flettendo le gambe onde scivolare giù dal tavolo e dalla presa del condottiero che, accorgendosene, aumentò la sua presa su di lui, bloccandolo e premendogli con maggior vigore il bacino contro il bordo del tavolo. “Il … piccino stava male”, gli rivelò, il fiato mozzo. “Siccome nessuno rispondeva … ai miei richiami, ho …  dovuto prendere in mano la situazione e … portarlo dal frate … Questo è quanto … Non ho mai … concepito di fuggire …” Non con Thomà ammalato.

“Così tu avresti combinato questo gioioso bordello per salvare la vita a quel moccioso?”, riassunse sardonico Mercurio, scuotendo ilare il capo. “Ti rendi conto di quante stronzate stai vaneggiando?”

“E perché no?”, lo sfidò indefesso Miani. “Gli voglio bene … è mio figlio!”

“Tu non hai alcun figlio!”

“E’ come se lo fosse!”

Mercurio rise gutturalmente, il viso deturpato improvvisamente da una smorfia cattiva, maliziosa. “La sai una cosa? Secondo me il motivo è un altro. Secondo me”, e gli pigiò con maggior forza il gomito sulla schiena, strappandogli l’ennesimo mugolo di dolore, “questo tuo ardore nel difendere il marmocchio non deriva dall’amore, che tu nutri nei suoi confronti, bensì dal senso di colpa. Meglio ancora: lo fai per addolcire il peso del tuo fallimento. Non hai saputo difendere Castelnuovo di Quero, non hai saputo difendere i tuoi soldati dalla sconfitta e dalla morte. L’unico appiglio di redenzione che ti resta è questo bambino, cui tu ti sei aggrappato ferocemente per mitigare il fatto che non sei altro che un inetto, bravo soltanto a parlare, ma poi ai fatti vali ben poca cosa. Che mi vuoi dimostrare? Quanto sei nobile e coraggioso pigliandoti a cuore la sorte della vedova e dell’orfanello? Sei un ipocrita e mi disgusti!”

Hironimo sperò ardentemente che la lacrima colatagli sulla guancia fosse stata provocata dalla torsione al braccio. Lo sperava con ogni fibra del suo essere, malgrado sapesse corrispondere ad una bugia. Il giovane batté la fronte sul tavolo: la terra gli era testimone, non avrebbe dato a quel maledetto alcuna soddisfazione della sua pena interiore. “Sei odioso!”, sputò aspro onde mascherare l’instabilità della sua voce.

“E’ questo il meglio che sai fare?”, lo sfotté il condottiero stradiota.

Il patrizio veneziano ridacchiò crudele. “Le stesse parole ripetute … da tua moglie …  il dì in cui lei scappò via … da te?”, lo provocò, giacché per lui era più facile gestire Mercurio Bua nell’ira cieca del tormento fisico che in quello razionale e gelido del tormento mentale.

Così fu.

 

Hironimo perse sia ogni cognizione del tempo sia dei pugni ricevuti da Mercurio Bua; seppe soltanto che non riusciva nemmeno a stare in piedi quando, stancatosi dei suoi vani tentativi, l’albanese dovette issarselo sulla spalla per trasportarlo al suo nuovo carcere. Ogni parte del suo corpo bruciava di dolore e dappertutto odorava il ferro del sangue.

“Possibile che con te sia impossibile conversare civilmente?”, sbuffò il condottiero, uscendo in cortile e dirigendosi verso un modesto edificio. “Ché? Non hai più nulla da dire, adesso?”

In realtà Miani ne aveva anche fin troppe da cantargliene, se non si fosse ritrovato una faccia talmente gonfia, da fargli male anche solo aprire la bocca. Fortunatamente, la sua lingua aveva contato tutti i denti al loro posto. Aveva invece fallito a controllarsi il naso, anche perché le sue braccia non gli rispondevano più, dondolando penzoloni sulla schiena del Bua.

“Via quella faccia da monachella oltraggiata! Una buona dormita e domani t’è passato tutto!”

Il patrizio gorgogliò qualcosa d’inintelligibile, sputando sangue, saliva e catarro.

“Eccoci arrivati. Ora potrai soggiornare coi tuoi simili, così non soffrirai più di solitudine!”

Una disgustosa pozzanghera di fieno, melma e feci avvolse Hironimo nel suo nauseabondo e bagnato tanfo, laddove Mercurio l’aveva gettato senza tante cerimonie, creando poi un certo scompiglio tra le ignare mucche le quali muggirono il loro dissenso, battendogli ansiose gli zoccoli per terra.

“Non sei contento? Potevo gettarti in un porcile, sai? Fortunatamente per te, non voglio correre il rischio che tu finisca sbranato dai maiali”, s’informò melenso l’albanese, mentre costringeva il giovane seduto contro il muro della stalla, fissando le catene su di un cerchio in modo che il prigioniero si ritrovasse le braccia bene in alto. “Cosa si dice?”

Fottiti! , gli comunicarono i suoi occhi neri nella più velenosa delle sue occhiatacce, dolendogli troppo i muscoli facciali per farlo ad alta voce.

“Una o due notti di riflessione ti gioveranno. E se proprio vuoi annoiare qualcuno con le tue corbellerie, guarda, sei circondato da un pubblico molto accondiscendente”, gli spiegò Mercurio con falsa cortesia, allargando le braccia e indicando le ineffabili vacche. Chinandosi su di lui, gli afferrò il mento e gli confessò con sinistro entusiasmo: “Riuscirò a piegarti, carino, vedrai se non ti leverò questa dannata tua spocchia dagli occhi!” Non voleva leggervi lo sguardo di Caterina, non quando continuava a perseguitarlo, rinfacciandogli ogni suo errore. “Azzarda un’altra miracolosa fuga e ti sgozzo il marmocchio, lavandoti la faccia col suo sangue. Hai inteso? È l’ultimo mio avvertimento!”, gli promise mortalmente serio, mollando bruscamente la presa. Rimessosi in piedi e sogghignando malevolo, il condottiero uscì dalla stalla, sbattendo rumorosamente la porta per sommo chagrin delle mucche, che muggirono nuovamente il loro disagio.

Questo lo vedremo! Ti ammazzerò, giuro che piscerò sulla tua testa mozzata!, scoppiò Hironimo ringhiando in uno sconquassante pianto di frustrazione, strattonando impotente le catene, furente, solo, umiliato, il viso ridotto ad una maschera di lividi, lacrime e sangue.

Avrebbe trovato il modo di fuggire, così da dargliela definitivamente sui corni a quel dannato! Fosse stata l’ultima cosa ch’avesse fatto in vita sua!

Ma prima, doveva darsi una bella calmata e far buon viso a cattivo gioco.

L’albanese poteva vantarsi d’esser un uomo di mondo, ma Hironimo proveniva dalla città del Carnevale laddove, per tre mesi, ognuno assumeva un’identità fasulla, a piacimento.

Si recitasse dunque quella del prigioniero mite e rassegnato.

Tranquillizzatosi e regolando il respiro, Miani si nettò con la lingua il naso colante di sangue, sorridendo sghembo: costasse quel che costasse, l’ultima risata l’avrebbe avuta lui.

 

 

 

***

 

 

Da Sacile, riassunto delle lettere di sier Marco da cha’ da Pexaro, podestà e capitano, e di domino Antonio Savorgnan.

 

I nimici hanno passà la Piave e auto Conejan, qual era stà abandonato. Sier Hironimo Marzelo, podestà, era venuto lì, a Sazil, et domino Baldisera di Scipioni; scriveno, si mandi fanti de lì e si provedi. Et per colegio fo terminato, che Damian di Tarsia, era qui, facesse … fanti qui et andasse a Zazil, e cussì la matina sequente a San Zacharia sier Lucha Trum, executor, andò a expedirlo et dar danari a li fanti.

 

 

Da Treviso, riassunto delle lettere di sier Zuam Paulo Gradenigo, provveditore generale, e di sier Lunardo Zustignan.

 

 

[…] in consonantia, todeschi haveano passà la Piave et francesi no, imo haveano fato comandamento e cride, niun de’ francesi non passasse e tutti li venturieri si partisseno de lì di campo. Item, che sacomani andavano per le ville dimandando lemosina di pan, et vivevano de vua, e che al presente saria il tempo di darli adosso dividendossi cussì, e il campo, è in Padoa, venisse a Noal.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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E rieccoci qua ad un anno esatto dal primo capitolo (prologo): 27.09. 2019 – 27.09.2020!

Anniversari a parte, adesso ci inoltreremo nella parte meno piacevole della storia: come detto giustamente da Mercurio Bua, abbiamo riso e scherzato, ma sarà sempre di meno.

Ringraziamo Semperinfelix per le dritte che sempre ci dà e che di recente è divenuta madrina, avendo infatti nomato Fra’ Anselmo visto che il Sanudo ha un po’ il vizietto di lasciare alcuni personaggi anonimi.

Di nuovo, mi dispiace per i germanofili ma in questa guerra i tedeschi proprio hanno fatto una figura barbina, così come il La Palisse era veramente maltrattato da tutti, non sono io che mi accanisco. Quanto alle vicende di Feltre, ogni lettore trarrà le sue conclusioni.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] Breve ripasso del martirologio dei santi citati: a San Sebastiano vennero prima scagliate tante frecce da parte dei suoi stessi arcieri, da crederlo morto; guarito dalla vedova Irene, ritornò ad accusare Diocleziano che lo fece bastonare a morte. San Giorgio sconfisse il drago infilzandolo con la sua lancia e subì il martirio tramite decapitazione; a Sant’Erasmo vennero cavate le budella e San Floriano venne gettato in fiume con una macina al collo.



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Capitolo 19
*** Capitolo Diciassettesimo: Confiteor ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato l’11.09.2021

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Capitolo Diciassettesimo

Confiteor

(… e onora la madre)

 

 

Madre è l'altro nome di Dio sulle labbra e sui cuori di tutti i nostri figli.

(Il Corvo)

 

 

 

Agosto 1499

 

 

 

Momolo smontò violentemente da cavallo, la gola serrata dall’arsura e dalla collera, intanto che si slacciava furioso il farsetto, i lunghi capelli in battaglia, liberi dall’oppressione della bereta. Stringeva gli occhi, vagando alla cieca e così pure conduceva il docile suo cavallo, le belle gote vermiglie bruciate dal sole e dallo sdegno.

Attorno a lui, lo circondava il verde della natura alla vigilia di Santa Monica [1], l’aria offrente qualche raro spiraglio di fresco in quei torridi vapori estivi. Il cielo d’un turchino feroce tagliava nettamente le sagome lontane dei monti tra cui il Grappa dietro ad Asolo, illuminando il dolce connubio tra le viti d’uva recantina, i campi coltivati e la foresta che si stringeva man mano che ci s’avvicinava ai Fontanassi del Sile, là dove il tredicenne anelava nascondersi nel suo selvaggio abbraccio.

Aveva infatti cavalcato alla stregua delle Erinni da Fanzolo fino a Casacorba, poco distante da Vedelago, con l’arco in spalla e la scusa di cacciare aironi in bocca: in realtà, poca concentrazione gli restava per destreggiarsi in quel suo passatempo. Momolo avanzava piuttosto alla ricerca delle risorgive tra gli arbusti incolti, le erbe alte e graffianti, imbiancate di sputacchine e ornate da collane di ragnatele bagnate di rugiada. Sperava di non imbattersi in nessuno, specie negli operosi mugnai che lì macinavano le numerose staie provenienti dai campi arati.

L’assenza di civiltà nella boscaglia – i casoni dal tetto di grisole [2], le ville, le chiesette, perfino i monasteri – ristoravano l’animo avvelenato del giovinetto, beandosi del paesaggio imbevuto del caos della natura contro quello armonioso ma forzato dell’uomo. In esso non esisteva né logica né utilità, soltanto quel fiero disordine che ben rifletteva i turbolenti pensieri del ragazzo, la sua ribellione alla ragione e alla calma. Similmente all’acqua indomita, essi scorrevano vorticosi e Momolo v’annegava, soffocando nel suo malessere.

Il fontanasso sbucò all’improvviso, riflettente il verde delle fronde degli alberi e dei giunchi fluttuanti. L’acqua della possente ed irrequieta Piave, giunta grazie al sottosuolo permeabile fino a Casacorba, risorgeva ora a nuova vita. Sul fondo fangoso e sulle rive laterali di queste che, in apparenza, parevano grandi pozze d’acqua, piccole bocche borbottavano in continue bolle il loro benvenuto alla nascita del Sile, lo stridulo richiamo di qualche uccello lontano a tener loro compagnia o l’eco dell’acqua sollevata dai mulini e le campane di una qualche cappella sperduta nell’alta e fitta vegetazione.

Momolo era consapevole di quel limo, di come avrebbe provocato la contrarietà di Madre, di sicuro non contenta delle macchie grigiastre sugli stivaletti e le braghe. In altre circostanze, al tredicenne il solo pensiero di un cipiglio in quel volto amatissimo l’avrebbe inorridito. Adesso, non soltanto non gliene importava, anzi, quasi desiderava provocarlo.

Nella torba dunque procedette, a piedi, incurante di lodarsi, del graffiare dei rovi, del pizzicore delle ortiche. Afferrò un ramo secco e avanzò battendo siepi e rovi, sia per farsi spazio sia per spaventare eventuali bisce nascoste. Quando raggiunse uno dei tratti nascenti del Sile - “La Porta dell’Acqua” -  pareva uno di quei selvaggi che si diceva giungere dall’India, tanto che un povero mugnaio lo scambiò per un brigante di strada e poco mancò che gli sguinzagliasse addosso i cani. Chiaritisi in tempo, l’uomo per discolparsi offrì al giovinetto di ristorarsi a casa sua, magari di nettarsi via il sudore e il fango dal viso.

Momolo, invece, s’accontentò di sedersi a gambe penzoloni sul pontile davanti alla casa del mugnaio, le mani graffiate che gli coprivano gli occhi ricolmi di lacrime di rabbia e impotenza.

 

 

***

 

 

Al mondo Madre era l’unica persona che aveva fatto sentire Momolo veramente amato, ricco e speciale, i suoi abbracci morbidi, rassicuranti e profumati d’ambracane [3], un porto sicuro ogniqualvolta il giovinetto si sentiva agitato, nervoso, triste.

O semplicemente felice. Molto spesso, senza un motivo apparente, egli raggiungeva Madre e l’abbracciava tenero, inebriandosi del suo profumo e sospirando soddisfatto quando lei ricambiava. Questo dalla mattina fino alla sera, al risveglio di Madre in cui ancora in camicia Momolo le balzava in letto per darle il bacio del buongiorno e poi in svariate occasioni (così giusto per) e ovviamente nell’ora in cui Madre gli rimboccava le coperte, egli l’abbracciava e le baciava di nuovo le gote per poi assopirsi contento.

Era sempre stato così, d’altronde, ancora prima della morte di Padre. Solo che col trascorrere degli anni quel sentimento s’era rafforzato, invece di affievolirsi in uno più formalmente contenuto com’era successo per i suoi fratelli. Ed era strano osservare i suoi abbracci crescere con lui, il quale all’inizio  doveva accontentarsi di cingere le gambe di Madre mentre negli ultimi anni la raggiungeva tranquillamente in altezza o quasi, apparendole più piccola, più fragile e rinforzando quella necessità sua di protezione nei confronti della genitrice. Aveva sofferto la prima volta che, abbracciandola da dietro con troppo impeto e sollevandola di peso per qualche istante, lei si era sciolta da lui esclamando ridendo: mo’ via, Momolin! Sei troppo forte, mi fai male!

Il giovinetto s’era allora staccato da lei come ustionato, rifugiandosi avvilito in altana e madona Leonora ebbe il suo bel daffare a spiegargli che non lo stava rimproverando, bensì il suo corrispondeva ad un consiglio: stava diventando uomo, doveva far attenzione e misurare la sua forza, esser insomma gentile, specie con una donna.

Il fatto era che Momolo aborriva l’idea di ferire sua madre, sia fisicamente che spiritualmente. Vederla triste, lo rattristava. Se soffriva, soffriva con lei.

E pertanto, odiava chiunque la rattristasse.

La prima volta in cui aveva provato tal connessione era accaduto nel 1491, quando Padre venne nominato provveditore a Lepanto.

Momolo avrebbe ricordato per sempre quella mattina: contrariamente alla solita consuetudine laddove il genitore doveva assentarsi da casa per andare o agli Uffici o ai fonteghi, quel giorno si respirava aria pesante. Madre colazionava avida di parole e le poche proferite secche e taglienti. Padre mangiava altrettanto silenzioso, vestito da viaggio al posto della sua solita vesta rossa e nessuno a tavola pareva incline alla benché minima conversazione, spiando timidamente di sottecchi la coppia. Da marzo i due coniugi litigavano incessanti e testardi, poiché sier Anzolo aveva deciso d’arbitrio di portare seco sua zia madona Andronica da Modone, vedova di suo zio sier Nicolò Miani, al posto della suocera, madona Ysabeta Contarini reclita Morexini. Padre s’era giustificato fino alla nausea che tale disposizione non era stata presa perché mal sopportasse la sua madona (suocera, ndr.), bensì perché, recandosi in terra greca, avere una madrelingua affidabile come sua zia gli era parsa una gran bella idea. Peccato che tal opinione non era stata ben accolta dalla moglie, la quale già non era contenta d’esporre nuovamente la sua famiglia in terre di confine (le era bastato lo spavento dell’invasione del Duca d’Austria nel 1487, quando sier Anzolo era stato podestà e capitano di Feltre), ma l’idea di separarsi un anno dalla figliastra Crestina, la cui gravidanza ahimè non procedeva serenamente e per di più dalla sua anziana genitrice l’imbestialiva e la preoccupava, paventando in una sua morte mentre si trovava a Lepanto.

“La Tina è in eccellenti mani, suo marito e madona Gracimana sono sempre lì ai suoi ordini, molto premurosi e amorevoli, non le fanno mancare niente! Quanto alla vostra siora Mare, di che v’angustiate? Quella galde d’ottima salute, vedrete se non ci seppellirà tutti!”

“Barbaro! Parlate così perché siete geloso di mia madre!”

“Macché!”

“Siete un anaffettivo!”

“Pure!”

“Non sapete cosa significhi amare una madre, perché non ne avete mai avuta una vera e propria!”

“Menzogne, io ho sempre rispettato la mia siora Maregna!”

“Appunto: rispettato, non amato. “Maregna”, la chiamate, non “Mare” come faceva vostro fratello Marco, a chi Dio perdoni. E ora lasciatemi in pace, devo preparare i cassoni!”

Momolo, ch’aveva origliato tutto, aveva intuito, dalla smorfia di Padre, come quello di Madre fosse stato un doloroso colpo basso: in effetti, da quanto appreso dai suoi parenti, la sua nonna di sangue, madona Crestina Loredan Miani, era morta quando i suoi tre figlioli erano ancora dei fantolini, sicché era stata la loro matrigna ad averli allevati e se sussistevano prove concrete dell’amore portato nei suoi confronti dai figliastri Marco e Vorzilio, il mediano Anzolo non s’era mai sbilanciato, almeno esternamente, dimostrandole un composto rispetto.

“Insomma, non siete riuscita persuaderlo?”

“Il sior mio marido sostiene che voi siete troppo fragile per affrontare codesto viaggio.”

“Che jotonia! Io fragile? Ha sbattuto la testa, forse? La malaria polesana gli ha trasformato in sbatudin il cervello? Io, fragile?! Io, che ho seppellito due mariti?! Io, che da Negroponte ho dovuto riportare a Venexia le ossa del vostro sior Pare, con voialtri appresso ancora fanciulli! Ed io sarei fragile?!”

Al momento del congedo dall’unica sua figlia, madona Ysabeta aveva sistemato e risistemato incessantemente la cappa sulle spalle dei nipoti, goffo tentativo di posticipare quanto più possibile la partenza. Madona Leonora le aveva infine afferrato le mani e sussurrato qualcosa all’orecchio, molto probabilmente rassicurando la madre, il cui labbro inferiore tremava sia di tristezza che di rabbia per non aver potuto seguire la sua creatura. La vedova Morexini aveva poi salutato cortesemente gelida sia il genero sia la sua ignara sostituta, la quale tanto era contenta di rimettere piede nella sua patria d’origine, da non accorgersi della palese ostilità della nobildonna nei suoi confronti.

“Mamma”, aveva chiesto Momolo a Madre, approfittandone dell’assenza di Padre e dei fratelli dal pizzuolo [4] per conferire indisturbato con la genitrice, rimasta lì per pudicizia, non essendo decoroso che deambulasse tra i vogatori mezzi nudi. “Perché dobbiamo andare a Nepanto? A Tata non piace più Veniexia?”

“Il sior tuo Pare mio marido sta badando agli affari della Signoria, come dovrai fare anche tu da grande. E poiché gli incarichi in territori di confine sono tra i più pericolosi, a lungo termine però sono i più remunerativi.”

“Perché?”

“Perché gli permetteranno di accedere a cariche esclusivamente a Veniexia!”

“Oh! E perché non ha voluto portare la Nonna?” e scoccando un’occhiata furtiva a madona Andronica, che sonnecchiava serafica, aveva sussurrato: “Come ne porta una, ne porta anche due! Non sarà che anche Tata segue il detto: Per quanto bone che le sia, le madone sta ben sui quadri?” [5]

“No”, s’era intromesso Padre, venuto a controllare come stesse la moglie. “Piuttosto: perché tre done vada d’acordo, ghe vol una viva, una morta e una piturada su la porta!”

“Dovevate allora lasciarmi a Veniexia e portare seco il mio ritratto, se già in casa ne avete una viva”, e se la risposta era parsa sarcastica, in realtà Momolo aveva notato l’angolo della bocca di Madre arricciarsi all’insù, quando scherzava giocosamente birbante con Padre.

Se a distrarre Madre non ci fossero state le mogli del Podestà e degli altri funzionari palatini, nonché la gravidanza della figliastra Crestina, alla quale scriveva quanto più possibile, riempiendola di buoni consigli e d’incoraggiamenti, di certo madona Leonora si sarebbe rosa il fegato in quell’anno di separazione dalla madre e in generale la sua famiglia per intero. I due anni a Feltre non le erano pesati perché comunque erano rimasti in suolo italico e Venezia, in fin dei conti, non era poi così distante e irraggiungibile come al contrario le pareva Lepanto; inoltre, madona Ysabeta l’aveva accompagnata per aiutarla durante la sua gravidanza, essendo Crestina ancora troppo cruda per gestire da sola una casa e la servitù.

“Mamma, siete ancora arrabbiata con Tata?”

“No, amore mio. Sono solo un po’ triste.”

“Per colpa di Tata?”

“Momolin, quando sarai più grande, capirai che anche volendo far del bene, purtroppo finiamo per ferire le persone che amiamo.”

“Io no! Mamma, io non vi farò mai del male!”, le aveva promesso solennemente Momolo, quando deambulando per la terrazza-giardino del loro palazzo a Lepanto, Madre s’era attardata a fissare malinconica l’orizzonte e le galee scivolare sul mare liscio e azzurrissimo, uscendo o entrando in porto. Le aveva afferrato la mano, drizzando le spalle e tirando fuori il petto, cercando di farsi più grande dei suoi cinque anni. Madre gli aveva accarezzato la guancia e il bambino s’era sentito d’un colpo grande, responsabile, contentissimo.

Avrebbe protetto Madre da qualunque male e da chiunque. Anche da Padre se necessario.

Perché qualche settimana più tardi, poco prima di cena, sier Anzolo era entrato negli appartamenti della consorte, intavolando un discorso che suonava a metà tra un’informazione e una scusa.

“Pensavo, una volta rientrati, di presentare la mia candidatura a provveditore di Zante. È una carica bene remunerata, a soldo, e meno distante. Avremo così i fondi necessari, per non muoverci mai più.”

“Me ne rallegro: dopo due anni in Grecia, potrete ambire senza problemi ad una cattedra di greco a Padoa.”

“Lasciatemi finire. Siccome  si parlerà d’un altro anno fuori Veniexia, mi sembrava giusto, a questo punto, d’invitare anche la vostra siora Mare mia madona. Se non erro, si lamenta spesso dei suoi reumi, quindi potrà approfittarne per asciugarsi ossa e legamenti e …”

A quelle parole Madre aveva distolto lo sguardo dal suo ricamo, trattenendo a malapena un sorrisone soddisfatto. “Non v’astierà in alcun modo, ve lo prometto. La siora mia Mare sarà la discrezione fatta persona, manco v’accorgerete d’averla in casa!”, lo aveva assicurato, alzandosi dallo sgabello e andandosi a sedere sulle ginocchia del marito, le mani bianche e affusolate tra i capelli di lui, scendendo languide lungo la nuca, dentro il colletto. “E ora, con vostra buona licenzia, scendo in cucina a predisporre per la cena con l’Orsolina.”

“Di già? Aspettate ancora un poco!”

“No, no, è tardi. Forse, dopo, vedremo …”

A tavola, Padre aveva per tutto il tempo seguitato a scrutare Madre così fissamente, che Momolo aveva creduto volerla tramutare in pietra; né lei si sottraeva, anzi, nel miglior suo abito ricambiava ora timida ora civettuola, reclinando il collo tornito in un tintinnare di perle, un mezzo sorriso arricciato sulla bocca formosa.

Dopo mangiato aveva poi osservato il modo in cui Padre la conduceva spingendola verso la camera, il braccio ben serrato alla sua vita; tutto nel suo atteggiamento ricordava nel bambino uno strano archetipo d’aggressione, di rapina, al punto da temere per la genitrice, prigioniera in un abbraccio inflessibile. Eppure, Madre ad esso non si sottraeva, semmai lo assecondava morbida e flessuosa, calmissima, in contrasto con l’incalzante nervosità del consorte. Di tanto in tanto, sier Anzolo le scoccava un bacio sulla nuca, lungo la colonna vertebrale, più denti che labbra e a Momolo gli parve un lupo pronto a divorare la sua preda.

Un’arcana angoscia l’assalì, il desiderio di sottrarre Madre a quella bestia antropomorfa troppo grande, unito però ad un nuovo senso di rabbia e gelosia, come di scalzare Padre, come se a cingere la donna dovesse essere lui al posto del genitore.

Momolo ovviamente non era riuscito a dormire quella notte, tormentato dagli incubi. Sicché a notte fonda, quando ormai sapeva l’intero palazzo addormentato, decise di sgattaiolare in punta dei piedi lungo il corridoio fino alla camera dei genitori, onde assicurarsi che Madre stesse bene.

Al lume della candela, celato dietro la tenda rossa, aveva visto i genitori sul letto sfatto, tranquilli neanche la previa tensione non fosse mai esistita. Una camiciola sottile accarezzava il corpo bianco di Madre, distesa puntellandosi sul fianco verso il marito e impegnata in muta conversazione con lui, mentre questi le accarezzava la coscia, scoprendola, risalendo fino al gluteo, invitandola a schiudere le gambe. Padre non indossava nulla, se non appena il lenzuolo ai lombi, fiero contrasto il suo corpo bruno contro il candore delle lenzuola. Pur tendendosi egli verso la moglie, le spalle e i muscoli delle braccia si muovevano rilassati, appagati, forse sfiniti da chissà quale sforzo.

Madre gli sorrideva ambigua, piegandosi su di lui, baciandolo a lungo e invitandolo a distendersi di schiena mentre questi l’abbracciava, sollevandole la camiciola.

Fu allora che Momolo a sua volta si sentì issato per le ascelle e penzolone come un micio trasportato dalla gatta veniva riportato da una brontolante Eudokia in letto.

Cosa fanno?”

Quando sarai più grande, ve lo spiegherò.”

“Lo voglio sapere adesso!”

“L’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re!”

“Non c’è re a Veniexia ed io voglio sapere che fanno!”

Trascorse una settimana tonda prima che Momolo potesse essere riammesso in camera dei genitori, ma da quell’episodio egli già aveva incominciato a nutrire gelosia e diffidenza verso Padre, il quale possedeva il misterioso potere di rendere Madre sommamente felice o terribilmente infelice.

Come quella mattina del 18 agosto 1496.

Quando l’ufficiale sanitario aveva bussato alla porta di Ca’ Miani, Madre già sapeva quale tremenda notizia era venuto a portarle; tuttavia, non aveva resisto all’ingresso dei barellieri entrare nel portego col loro macabro carico. La mano di madona Leonora tremava impazzita mentre sollevava il telo bianco che copriva il corpo sottostante; un urlo ingolato d’animale agonizzante le sfuggì dalle labbra livide nel riconoscere il volto di sier Anzolo in quella maschera grigia e contratta davanti a lei. Gli occhi le si girano all’indietro, impallidì fino a competere col marmo, cadde svenuta talmente pesantemente tra le braccia di suo fratello sier Batista Morexini, che questi dovette flettersi in ginocchio per attutirne la caduta. Momolo aveva assistito atterrito dal modo frenetico con cui suo zio scuoteva Madre, chiamandola a voce alta, elargendole buffetti d’incoraggiamento sulle guance, baciandole le tempie, le lacrime agli occhi.

Niente, Madre seguitava a rimanere immobile come Padre.

Giustamente, madona Leonora aveva dovuto riprendersi e sforzarsi di vivere per i suoi figli, però Momolo sapeva come di notte ella piangesse tra le braccia di Eudokia, come invocasse il marito. Egli in quelle occasioni avrebbe tanto voluto già esser adulto e sostituire la fantesca candiota, nonché trovare il modo di poter assorbire su di sé il dolore di Madre, alleviandola dalle sue pene.

Si ripromise che se Padre l’aveva ferita, lui l’avrebbe guarita, restandole sempre accanto, aiutandola, perfino giocando al buffone per tirarla su di morale. Le rivoleva sul viso quel sorriso gioioso che evidentemente soltanto Padre le sapeva instillare, ma Momolo non era persona che si tirava indietro dinanzi a qualsiasi sfida.

“Sei proprio tutto il tuo sior Pare!”, gli aveva confidato Madre, stringendolo a sé la mattina di San Nicola [6], quando Momolo aveva trovato un pacchetto di biscotti ai fichi e subito l’aveva condiviso con lei.

Tal paragone l’aveva all’epoca reso euforico, sapendo quanto il genitore fosse stato importante per Madre.

Ma ovviamente gli altri dovevano mettersi in mezzo e rovinare tutto.

Era stata colpa di Jacomo Corner, il figlio del cavalier sier Zorzi Corner e nipote di sua zia acquisita madona Morexina, la moglie dello zio Batista. Il ragazzo non aveva infatti digerito d’aver perduto, a San Nicolò del Lido, alla sfida di tiro con l’arco contro un nanerottolo qual era ancora il giovanissimo Miani. Sicché, staccando astiosamente dal bersaglio le frecce, aveva borbottato rancoroso: “Momolo mammolon!”, perché il giovinetto s’era vantato di come avrebbe regalato il premio a sua madre. Al che Momolo gli aveva elargito un calcio sui reni, saltandogli addosso una volta a terra e mentre lo riempiva di sberle gli gridava che male ci fosse a voler bene alla propria madre.

“Ma tu esageri!”, gli aveva urlato dietro il giovane Corner, massaggiandosi lo scalpo e il viso doloranti. “Sei peggio d’Edipo!”

“Non conosco nessun “E-di-po” ma se t’azzardi a ripetere tali bestialità, ti strappo la lingua e te la ficco su per il culo!”

E Jacomo Corner c’era andato assai vicino quando Momolo, tarmando suo fratello Carlo,  aveva suo malgrado appreso a chi il suo rivale l’avesse paragonato.

“Chi è Edipo?”

“Lasciami in pace: contrariamente a te, ho da lavorare!”

“Dai! Chi è Edipo?!”

“Avessi trascorso un po’ più di tempo sui libri che sull’arco, a quest’ora lo sapresti!”

“Carlino!”

“Uffa e va bene: è un personaggio della mitologia greca, il quale uccise suo padre Laio e fece l’amore con sua madre Giocasta. Contento?”

No.

“Io non ho ucciso mio padre né ho fatto l’amore con mia madre!”

“Ma che diavolo …? Ohé, Momolo, dove corri? Guarda ciò che strambazzo …”

Un disgusto indicibile aveva infatti nauseato il ragazzino, la sua mente già di suo turbata dai primi accenni di sensualità tipici dell’adolescenza. Amava Madre d’un amore profondo e infinito come il mare, ma l’idea di far certe cose con lei gli provocava feroci tremiti di ribrezzo, similmente al paragone con Padre, associandolo ora a quella volta che li aveva pizzicati in letto.

Sior Barba, voi avete voluto bene alla vostra siora Mare Querina e alla mia siora Nonna Ysabeta?, ne approfittò Momolo per investigare con suo zio Batista, quando andò a trovarlo a casa sua per le pubbliche scuse col cugino acquisito Jacomo Corner, su insistenza di sua zia madona Morexina la quale a sua volta era stata tormentata da sua sorella madona Ysabeta. Il giovanissimo Miani aveva dunque emulato l’Imperatore a Canossa, ribadendo però che se il Corner avesse insistito a blaterare tali oscenità, gli avrebbe strappato uno ad uno i denti come Sant’Apollonia. Le occhiatacce delle sue zie raggiunsero livelli da Gorgone Medusa, mentre il suo avunculo ridacchiava sotto i baffi, orgogliosissimo.

Quella domanda gli era sorta in testa ripensando alle antiche accuse di Madre, di come Padre non avesse mai nutrito grande amore nei confronti della sua matrigna. Essendo deceduta prima della sua nascita, Momolo non possedeva alcun brazzoler [7] di giudizio personale onde smentire o confermare tali parole; ciononostante, ben si ricordava del funerale del suo prozio sier Hironimo Miani, laddove perfino quello stoico di suo padre sier Anzolo non era riuscito a nascondere le lacrime. Sicché, tale analoga situazione gli sarebbe servita per capire, se si poteva voler bene solo alla propria madre di sangue, anche se morta precocemente, oppure se una matrigna poteva supplire. Perché, guardando il rapporto tra Madre e Crestina, quest’ultima devotissima alla sua matrigna, che l’aveva cresciuta come se l’avesse partorita lei e di fatti la prima figlia femmina della sua sorellastra era stata battezzata Leonora. Ma lo zio Batista? Di sua madre Querina Querini Morexini, Momolo non sapeva pressoché nulla e il fatto che il suo Barba non ne accennasse mai, pur nomando una sua figlia Querina, lo intrigava assaissimo.

“Che domande, sempioto! Anche se  la mia siora Mare è morta quand'ero fantolino e dunque oramai non me la ricordo assai bene, so per certo che l’amai con tutta la mia anima! Così come voglio bene alla mia siora Maregna, che m’ha cresciuto amorevolmente.”

 “Lo stesso bene che volete alla siora mia Amia vostra mojer?”

“An, no! Quello è un tipo d’amore diverso!”

“In che senso?”

“Eh … nel senso che è un amore anche fisico, oltre che spirituale. L’amore che si nutre verso la madre è puramente platonico, alto, puro, privo di qualsiasi sensualità. Un po’ come quello che si porta verso la Madonna. Quello per la moglie è sì pieno di rispetto e dedizione, ma in esso giustamente sussiste anche una componente più carnale, altrimenti non si genera prole.”

“Ma l’amore per la Luzia Trivixan, allora? Cos’è?”

“E tu come fai a sapere di lei?”

“Ho occhi per vedere sior Barba e voi non siete discreto. Né la siora mia Amia vostra mojer l’è donna che fa la gelosa in silenzio, lamentandosi come il sabato mattina voi vi rechiate a prender Messa a Santa Caterina solo per incontrarvi con la siora Luzia e disnar poi assieme.”

“E ti pareva che non andasse a spettegolare in giro i fatti miei, quella betonega de me mojer … Cos’è la siora Luzia Trivixan? … Hé, lei è solo carne e niente spirito … E che carne, nezzo mio, che carne … un gran bel senato e culàta! [8] …”

“Sicché dovesse la siora Luzia morire, voi non piangereste per lei, sior Barba?”

“Cosa c’entra adesso?”

“Sior Barba, non mi pigliate per idiota!”

“D’accordo, d’accordo … Sì, me ne dispiacerei, più che altro perché la Luzietta è di tanta compagnia … con quella sua voce d’usignolo e le sue conversazioni brillanti … un giorno ti porterò ad un suo concerto, quando sarai più grandicello … Però la moglie è la moglie e non bisogna confondere i due tipi d’amore. Ci sono cose che non puoi chiedere alla moglie, Momolo, lei è la madre dei tuoi figli, sta su di un sacro piedistallo e non puoi pretendere che si abbassi alle tue necessità meno onorevoli.”

“La siora Luzia invece si abbassa?”

“Sapessi quanto … Volevo dire, lei posso amarla d’amor totalmente profano.”

“Il sior mio Pare non aveva di questi prusegini (pruriti, ndr.). Anzi, sosteneva che donne come la siora Luzia sono fredde, artificiose, bugiarde, addestrate sin dall’infanzia a comportarsi a seconda dell’occasione e del ganzo loro. Sono una e cento donne allo stesso tempo, di cui mai ti puoi veramente fidare. Mi diceva che chi è sincero con te e che vuole il tuo bene anche a costo d’apparire antipatico, allora ti ama per davvero e che di questa persona ti puoi fidare. Mi diceva che quando non c’è reciproca fiducia, non c’è amore.”

“Il sior tuo Pare mio cugnado, pace all’anima sua, l’era una bestia rara che però su molte cose aveva ragione.”

“Sior Barba?”

“Uhm?”

“Ho agito male a menare il Jacomo?”

“No, ti ha detto una cosa davvero disgustosa, che poi mi sorprende visto che la siora sua Mare mia cugnada è sempre lì a coccolarselo. Bah. Però la prossima volta picchialo senza testimoni.”

“Sior Barba? Se la siora Luzia dovesse morire, voi ve ne pigliereste un’altra?”

“Possibile.”

“E se la siora mia Amia vostra mojer dovesse morire, voi ve ne pigliereste un’altra?”

“Assolutamente no: una m’è già bastata!”

“Ma come! Se dichiarate d’amarla!”

“Ed è vero, la mia Morexina è per me molto importante. Però lei non è come la Luzietta, che quando m’infastidisce la mando via. La tua siora Amia mia mojer la devo sopportare, anche ahimè in quei momenti in cui la prenderei volentieri per il collo. E lo sa, la furbastra, che lei è la moglie e può prendersi con me tutte le libertà che vuole!”

“Mica v’insulta, vi descrive per quel che siete!”

“Ossia?”

“Un cotolon impenitente, con più amanti che anima, tanto da parer el galo de dona checa!”

“An, quello quando lei è di buonumore!”

“Sior Barba, secondo voi, c’è la possibilità che la siora mia Mare si possa risposare?”

“Non lo so, dipenderà da lei. Le donne talvolta si dimostrano più pragmatiche di noi uomini e se si risposano non è necessariamente per motivi di cuore o di lascivia.”

“Ma io non voglio che si risposi! Non glielo permetto!”

“Perché mai dovrebbe risposarsi?”

“La siora mia Mare è molto bella e qualche malintenzionato potrebbe volerla tutta per sé, sottoponendola a porcherie assai oscene …”

“Bah, dubito: ormai mia sorela Leonetta l’è vecchia e neppure più tanto bella.”

“Balle de musso! Come vi permettete, sior Barba? Mi meraviglio di voi! La siora mia Mare è bellissima invece, la donna più bella di Veniexia e d’Italia e chi afferma il contrario è irrimediabilmente un fiorentino bacia-piselli come il vostro amico sier Orsato!”

Sier Batista Morexini s’era messo a ridere di gusto, considerando l’ultima affermazione un motto di spirito: ovvio che Momolo guardasse la madre cogli occhi del cuore, trovandola eternamente pulchra e affascinante nonostante gli implacabili segni del tempo. Ignorava, purtroppo, la sottile ansia del nipote dietro tale affermazione giacché ai suoi timori egli aveva sul serio accostato un nome e un cognome.

Esatto, c’era per davvero chi gli insidiava la madre, non erano chimere le sue.

E Momolo al sol pensiero crepava di rabbia.

 

 

Fanzolo, nella podesteria di Castelfranco e poco distante da Vedelago, era una terra pedemontana di conformazione un po’ bizzarra, che racchiudeva nei suoi teneri contorni di campagna fertile e gentile, le insidie delle torbiere e i dislivelli delle colline in vista delle montagne.

Sier Anzolo Miani vi aveva acquistato quarantasei campi a prezzo irrisorio, in aggiunta a quelli ereditati da sua madre madona Crestina, dandoli in affitto a tre famiglie di contadini con cui aveva stabilito il personale prezzo di due o tre staie (a seconda del raccolto) di frumento, segale, miglio, biada per cavalli, saggina, grano nonché di vino reccardino che per la natura dell’uva sua autoctona della Marca Trevigiana - grappolo e acini grandi d’un blu nero, pruinoso e dalla buccia consistente - non aveva bisogno di concia. 

A Momolo era sempre piaciuto recarsi in visita alla casa di paron Menego Storti, di paron Miorotto e di paron Mathio de Bonio, durante i suoi vagabondaggi per la campagna. Gente semplice ma curiosa, onesta e pratica, di buon consiglio e grandi lavoratori da cui imparava un sacco di nozioni sulla vita dei campi e sui mestieri ad essa legati e non.

Mutua simpatia che si manifestava in particolare alla domenica, quando tra un gioco e l’altro coi loro figlioli i fittavoli lo invitavano per un goto di vino e una fetta di polenta dolce nei loro casoni dalla copertura a cuspide, una struttura che aveva sempre affascinato Momolo per la sua diversità dalle case alte e strette di Venezia. Al di fuori della copertura a cuspide era sistemata la cucina con l’ampio camino posto sottovento e svettante, con il terminale conformato a campana per proteggere il tetto di paglia dalla fuoriuscita delle scintille. La canna del camino era poi realizzata sporgente verso l’interno delle murature d’ambito, acciocché anche gli ambienti al piano superiore potessero riscaldarsi d’inverno. Nel sottotetto, all’interno della copertura, vi si trovava la teza, da cui si accedeva soltanto all’esterno a mezzo di una scala a pioli attraverso un abbaino. Lì i contadini conservavano le biade ed i formaggi, al riparo dalle intemperie e affidati all’abilità predatoria dei loro fidi gatti, in perpetua lotta contro i topi. Nulla però potevano contro i ragazzini che giocando l’usavano come nascondiglio, o peggio i giovani innamorati.

V’era nella campagna un non so che di arcano e di selvaggio, che aveva sempre attirato Momolo, forse l’illusione d’ampio respiro fornito dalla vastità di quelle terre fluviali e collinose, protette dalle rassicuranti montagne. O forse l’assenza di formalità e di quelle cerimonie da cortigiani, che da sempre pizzicavano i nervi del giovinetto, percependoli infatti non come segno di raffinatezza, bensì d’untuosa piaggeria.

Una via di mezzo era Treviso, bellissima città-giardino, un cento commerciale molto fiorente e ricercato luogo residenziale. Dal suo cuore antico, racchiuso tra le mura scaligere, si diramavano tutt’intorno come raggi otto sobborghi, creando una pianta cittadina assai armoniosa, circondata da giardini, orti, prati, ville, vigne, piazzette, case, chiese e monasteri. Lì la vita scorreva placida come i suoi due fiumi e le sue chiare fontane, gli abitanti di natura gaudente e assai golosa di quel “piacer d’amor che quivi è fino”, come poetava Fazio degli Uberti nel suo “Dittamondo.” E di fatti, Momolo, ch’aveva iniziato a guardarsi un po’ attorno, spesso si ritrovava a rispondere ai sorrisi e ad inchinarsi dinanzi a qualche giovinetta trevisana, trovando donne e fanciulle tutte belle, gioiose, devotissime eppur affatto introverse, provocandogli le prime smanie in petto.

Ogni tanto, interrompevano il soggiorno a Treviso e a Fanzolo per recarsi in visita a degli amici di famiglia, come ad esempio i Costanzo, i Pellizzari e i Morexini a burgo Tarvisii a Castelfranco, oppure ad Asolo quando sier Batista raggiungeva per qualche giorno la cognata acquisita, la Regina di Cipro, domina Catharina Corner.

Tali visite equivalevano per Momolo ad una vera e propria tortura, infastidito dai perpetui paragoni cogli altri suoi cugini, laddove egli in tutto era carente - cultura, vestiario, galateo, patrimonio. Più che per se stesso, soffriva per la spocchiosa sufficienza con cui trattavano Madre, la quale si sottoponeva a quel teatrino soltanto per compiacere suo fratello, sorda alle frecciatine e alla sottile perfidia contenuta nelle parole dei cortigiani di domina Catharina, quando accennavano alla loro “villa rustica dell’epoca dei Caminesi” a Fanzolo o al “palazzetto di fronte ad un mulino” a Treviso.

Momolo non sopportava veder dileggiata Madre per la sua frugalità, men che meno adesso che vestiva in perpetuo lutto, senza gioielli tranne che per la vera e l’anello di Padre, le trecce nascoste dalla scuffia nera sopra cui scendeva un pesante paneselo del medesimo colore, tant’è vero che i forestieri scambiavano le vedove veneziane per monache, meravigliati dall’assoluto rigore della loro vedovanza, poiché una volta perduto il marito esse rinunciavano ad ogni vanità del mondo. O almeno così davano ad intendere, considerate alcune vedovelle che non potevano vivere se non sentivano in casa il passo d’un uomo.

Ad ogni modo, dopo un anno volato via coi suoi alti e bassi, nell’ottobre del 1498 Momolo era dovuto rientrare ritornare a Venezia e a scuola, a subirsi per tutto l’inverno oltre  Cicerone e la Bibbia anche i vanti dei parenti Miani di San Giacomo dell’Orio perché sier Lorenzo era stato nominato console a Palermo, nonché il biasimo loro e degli altri parenti Morexini poiché ai primi di marzo 1499 sier Marin Sanudo, sier Marco da Molin, sier Zacharia Dolfin e sier Hironimo Querini avevano bussato a Ca’ Miani per riscuotere un debito di 100 ducati, che Lucha doveva ad un protogero di Morea [9], a detta di sier Marin personaggio poco limpido quasi uno spione. Madre aveva spellato vivo Lucha, rimproverandolo di non impegolarsi in nessun prestito, che non fosse riuscito poi a pagare. Cosa suo fratello maggiore le avesse risposto tra un urlo e l’altro, Momolo non lo seppe mai; nondimeno, il danno era fatto e i parenti semplicemente godevano alla stregua d’un riccio nel rivangare all’infinito quel succoso pettegolezzo. Come se loro fossero immacolati quanto la veste dei Giusti nell’Apocalisse.

Grazie a Crono giunse la Sensa e Momolo poté ritornare a Treviso e Fanzolo e madona Leonora alla gestione degli affitti e dei raccolti.

Momolo, dal canto suo, poco ci badava se non lo stretto necessario; traeva invece maggior diletto nel seguire la crescita di un nuovo puledro bianco latte, ch’egli aveva ribattezzato Eòo come uno dei cavalli del carro del dio Febo e per il cui possesso aveva affrontato di petto i suoi fratelli. Giorno dopo giorno pieno d’aspettativa studiava l’esili gambe posteriori e braccia anteriori dell’animale e scalpitava pensando al giorno in cui avrebbe potuto infine cavalcarlo, intanto che s’impratichiva cogli altri cavalli.

Cavallo vecchio, cavaliere giovane; cavallo giovane, cavaliere vecchio, patron Momolo!, gli spiegava Zulian Canestri, un veterano di guerra e un tempo abile cavalleggero, che ora insegnava equitazione ai rampolli di buona famiglia, maestro assai raccomandatogli dal suo zio acquisito sier Antonio Trum, il primo a capire quanto quella disciplina fosse capace di contenere la prorompente esuberanza del nipote.

Ormai a Momolo era chiaro come tra i suoi simili non avrebbe svettato in altezza, il fisico snello ma al contempo robusto lo rendevano un cavaliere ideale e la povera madona Leonora doveva imbrigliare oltre che al cavallo anche il figlio, il quale non le teneva nascosto il suo progetto di partecipare un giorno al palio di Santa Lucia a Treviso, anche per zittire definitivamente quelle pettegole dei suoi cugini.

“Vuoi gareggiare con quel ronzino?”

“Taci, vecia ciacola invidiosa! Eòo crescerà in un bellissimo cavallo e assieme vinceremo il palio, vedrai!”

“Ma tu lo sai che il mio cavallo proviene dalle scuderie mantovane?”

“Puoi anche cavalcare la Marchesana di Mantoa, per quel che m’importa: alla fine sarà io a farti mangiar la polvere!” (e via a prendersi a sberle e a tirarsi per i capelli)

Screzi a parte coi suoi cugini, madona Leonora osserva piena di soddisfazione la ritrovata la serenità sul volto del suo ultimogenito, assecondando ogni sua iniziativa con grande pazienza e generosità e a Momolo a sua volta piaceva viziare sua madre, riempiendola costantemente di piccoli doni e attenzioni. Adorava il suo sorriso, si sentiva ricco dell’amore da lei riversatogli e non ne aveva mai abbastanza. Il suo spirito, profondamente scosso e ferito dal lutto e dai recenti avvenimenti a Venezia, s’aggrappava a quel balsamo materno, sviluppando un odio sotterraneo verso chiunque dall’esterno s’avventurasse nella loro piccola bolla felice.

La loro villa a Fanzolo, pur modesta se comparata a quelle degli altri patrizi veneziani o nobili locali, saltava tuttavia all’occhio per la sua sobria e raffinata armonia architettonica. Un’elegante trifora centrale e il delicato taglio delle finestre del piano nobile s’accompagnavano alle grandi arcate del porticato aperto su tre lati, cozzando con la spiccia solidità delle altre pertinenze rurali accanto alla villa, quali la stalla, il granaio e i magazzini. Il tutto era circondato da un alto muro così da creare sia una sorta di corte che di giardinetto dove refrigerarsi e oziare. Sier Anzolo, osservando i palazzi di Treviso e le altre ville nella Marca, l’aveva fatta affrescare sia all’esterno che nelle lunette del portego, così da nobilitarne la struttura non particolarmente elaborata e il materiale di costruzione non ricco. Sul muro il senatore aveva preferito dei motivi geometrici simili ai tappeti persiani; nelle due lunette una Sacra Conversazione e San Giorgio che uccideva il drago, essendogli particolarmente garbata un’omonima tela ammirata all’Abbazia di Santa Maria del Pero di Monastier di Treviso. Madona Leonora, invece, aveva provveduto ad arredare l’interno con mobili o vecchi o di scarsa qualità, portandoseli da Ca’ Miani così da consumarli definitivamente e disporne di conseguenza. In questo modo s’era creata un’impressione di prolungamento del palazzo, senza sentir la nostalgia di casa e di Venezia.

Lì i giorni scivolavano via felici, monotoni eppure laboriosi, interrotta quella bucolica quotidianità da qualche festa comandata a Castelfranco e a Treviso o le odiate visite ad Asolo o al Paradiso.

E fu lì che Momolo conobbe il Rivale.

Villa Paradiso (così nomata per via del terreno su cui sorgeva, cioè appunto il Paradiso) in realtà era ancora un edificio assai austero, forse un’antica fortezza rimaneggiata, chissà, e Momolo non capiva come mai i Morexini se la tirassero tanto, visto che non gli appariva più signorile della loro a Fanzolo. [10] Forse perché era appartenuta un tempo alla nobile famiglia dei Tempesta, avogari del Vescovo di Treviso, mentre la loro ad un diossacchi però abbastanza ricco da permettersi un’abitazione in stile cittadino.

Con la dedizione della Marca Trevigiana alla Serenissima Signoria e la conseguente corsa alla compera di terreni da parte dei patrizi veneziani, i Morexini avevano infatti acquistato il Paradiso a burgo Tarvisii dagli ultimi esponenti dei Tempesta, la loro importanza politica ridottasi a Noale, soppiantati come avogari dalla famiglia Azzoni.

Generazione dopo generazione, era giunta a sier Orsato Morexini q. sier Francesco, buon amico di famiglia, uomo di ingente patrimonio e rinomata pecora nera della sua gens. Era stato infatti pizzicato assieme all’avvocato sier Alvixe Zorzi q. sier Polo nel retrobottega di un barbiere in procinto di lavorarsi il giovane Piero Mozenigo, figlio del loro vicino di casa sier Francesco, cosa che a momenti Padre si soffocava a cena col boccone d’agnello andatogli di traverso, quando apprese del fattaccio, conoscendo infatti egli bene sier Francesco e Lucha e Carlo frequentavano la stessa compagnia di Piero.

Al conseguente arresto e processo era scoppiato un tal buferone in contrada, da compatire quei poveracci, malmenati sia dai Dieci sia a turno in casa da ogni loro parente maschio.

“Insomma, tra suo padre sier Francesco e gli altri Mozenigo non so chi l’avesse scudisciato di più!”, aveva raccontato madona Magdalena Miani, che non solo riscuoteva a San Vidal gli affitti, ma anche i pettegolezzi.  “Non si capiva più niente! Ad un certo punto pareva quasi una partita a pallacorda: smetteva uno e incominciava l’altro! Il tutto mentre gli urlavano dietro ogni sorta d’invettiva, tipo: “Con sì gran numero di potte disponibili a Veniexia, tu proprio sentivi la necessità di prendertelo in culo non da uno, bensì da due uomini?!”, aveva per caso sentito un giovanissimo Momolo discutere i suoi parenti da dietro la porta dello studio di Padre. “Lo dicevo, io, che il giovane Piero Mozenigo ultimamente vestiva troppo elegante, per le possibilità economiche del suo sior Pare! Ed ecco qua svelato l’arcano: s’accompagnava a quel sodomita di sier Orsato!” Madre, beccatolo ad origliare assieme a Marco, li aveva trascinati via assieme ad Orsolina, evitando con grande abilità le domande dei suoi figlioli, su cosa fosse esattamente un sodomita.

Un po’ per il prestigio sociale ed economico del clan Morexini; un po’ perché niente d’irreparabile era accaduto tra sier Orsato, sier Alvixe e il ragazzo Piero Mozenigo (o almeno questo quanto emerso dalle indagini), il Consiglio dei Dieci aveva optato per la clemenza, limitandosi ad esiliare il Morexini per dieci anni da Venezia, sicché sier Orsato si era trasferito nei suoi possedimenti a Castelfranco, pur sorvegliato a vista dai suoi famigliari tramite i servitori.

Ma un uomo ricco, anche se sodomita, rimane comunque una risorsa socialmente utile ed ecco che sier Orsato venne riammesso a Venezia nel 1491 per grazia dei Dieci e del Serenissimo Doge Missier Agustin Barbarigo, sotto sacra promessa di pentirsi, di sposarsi e di generare figli. Onde favorire la riabilitazione del suo nome, Sua Serenità gli aveva generosamente offerto in moglie una sua nipote, Pellegrina di sier Zorzi Nani sicché sier Orsato, volente o nolente, quel figlio lo dovette dare al clan, se non per dovere o riconoscenza almeno onde evitare una sorte ben peggiore del bando al confine o un altro giro di scudisciate da parte dei parenti. All’esposizione delle lenzuola macchiate di sangue più che un urlo di giubilo, si narrò esser corrisposto ad un urlo di sollievo.

Di conseguenza l’intera famiglia aveva ritrovato la pace e l’equilibrio interiore alla nascita della piccola e graziosa Marina Morexini, peccato che lì i suoi genitori si erano fermati, stavolta non perché sier Orsato fosse ritornato ai suoi antichi vizi, piuttosto perché la morte per febbre l’aveva vigliaccamente colto a Milano nell’ottobre del 1495, dove si trovava in qualità di pagatore di campo. Il patrizio venne seppellito ai Santi Apostoli a Venezia, lasciando erede universale la figlia di case, terre e 30.000 ducati liquidi. 

A Momolo quella bimba faceva molta pena: l’essersi ritrovata da un giorno all’altro un’appetibile ereditiera l’aveva trasformata in una reclusa, controllata a vista. Sua madre, infatti, ovunque leggeva tranelli per accaparrarsi la figlia e non si poteva darle ogni torto: la Morexini ancora si succhiava il pollice e già ogni famiglia patrizia a Venezia tramava per maritarla ai propri rampolli. C’era invero da impazzire e la vedova di sier Orsato forse un po’ matta lo era diventata, a giudicare dal modo in cui aveva aggredito Momolo quando lo aveva pizzicato a passeggiare mano nella mano con Marina. Mossa esagerata e infelice giacché sperimentò tutta la furia di madona Leonora, la quale giurò a madona Pellegrina le pene dell’inferno se avesse osato prendere di nuovo a vergate suo figlio come l’ultimo dei villani.

“Cosa facevamo allora da soli in giardino? An? Avanti, piccolo turco, che facevi con la mia Rina?”

“Parlavamo dei nostri defunti padri!”

Le due vedove dinanzi a tale risposta erano rimaste gelate sul posto. Non era una menzogna: tra i due bambini s’era instaurata una delicata affinità, che nulla però aveva d’amoroso. Semplicemente, la perdita del genitore li accumunava e pertanto spendevano ore e ore a discutere su di  loro, sui ricordi che conservavano, sul vuoto che li avevano lasciato. Si capivano a vicenda e tentavano in maniera goffa di consolarsi.

“Talvolta, se mi sforzo di notte, ho come la sensazione di poter ancora udire la voce del mio sior Pare. E tu Momolo?”

“La mia siora Mare ha tenuto tutti gli abiti del mio sior Pare nei cassoni. Ogni tanto vado ad aprili per vedere, se riesco ad annusare il suo profumo.”

“E lo senti?”

“Ogni giorno sempre di meno.”

“Mi dispiace per come s’è comportata la mia siora Mare.”

“Non ti preoccupare.”

“Sai che non s’è neppure risposata, perché teme che un mio eventuale patrigno possa rubarmi l’eredità? Almeno tu sei fortunato, perché non hai un granché di soldi.”

“Grazie per avermi dato del povero! E comunque, la mia siora Mare non si risposerà mai!”

“Tu non comandi niente alla tua siora Mare! Se si vuole risposare, lo farà!”

“E invece no!”

“E invece sì!”

“Tu sei solo invidiosa, perché la mia siora Mare, al contrario della tua, rimane fedele alla memoria del mio sior Pare perché lo amava e non perché ha paura di perdere i suoi soldi!”

Al che Marina l’aveva buttato giù dall’altalena e se n’era scappata via in lacrime, giurando di non parlargli mai più in vita sua.

Promessa non mantenuta ché la volta dopo i due avevano ripreso le loro conversazioni, sebbene di nascosto, quando gli adulti erano troppo impegnati a merendare al fresco sotto le pompeiane di cedri o presso il roseto.

Quel particolare giorno d’estate, accadde che tra i ragazzi venne voglia d’improvvisare una partita a pallacorda, per passare il lungo e monotono pomeriggio e Momolo s’aggregò immediatamente, poiché puntava di vincere uno dei due premi, un fazzoletto di seta finissima dai bordi merlettati secondo la nuova moda, per regalarlo a Madre.

“Posso giocare anch’io?”, chiese Momolo al gruppetto di giovanotti, tra cui figuravano domino Mathio Costanzo; Gasparo Valier; Marco Antonio Michiel,  i nipoti di domina Catharina Corner - Francesco, Marco, Hironimo, Zuam e Jacomo; Francesco e Phelippo Contarini di sier Zacharia cavalier; Piero Trivixan; Ferigo Contarini di sier Hironimo biscugino di Madre; Francesco Contarini del “Grillo”, i cugini più grandi di Momolo e naturalmente suo fratello Marco.

“Ma dai, cosa vuoi giocare a pallacorda, con quei tuoi braccetti corti!”, lo sfotterono inclementi i ragazzi. Perfino Marco sghignazzava, il turco traditore!

“Su, vai a giocare coi tuoi coetanei!”, indicavano il resto dei bambini, che già avevano preso posto accanto alle sottane delle loro madri per assistere al gioco.

“Non ne ho voglia! Preferisco unirmi a voialtri!”

“Nah!”

“No!”

“Ma va là!”

“Contame naltra!”

“Sei troppo piccolo!”, gli rivelò ridacchiando Jacomo Corner, provocando un feroce arricciamento di capelli da parte del tredicenne Miani.

“Sicuramente meno piccolo del tuo bifi!”, replicò quest’ultimo prontamente velenoso, mostrandogli tramite l’ausilio dell’indice e del pollice le supposte misure del pene del Corner, il quale divenne paonazzo dallo sdegno per quell’illazione.

“Ma io ti squarto, razza di …”

“Mo via, te la pigli per uno scherzo?”, sdrammatizzò il suo parente Ferigo Contarini, appoggiando una mano sulla spalla di Momolo, col duplice scopo di trattenerlo e di calmarlo. “Sta ben, il piccoletto vuole giocare con noi e donca? Hai forse paura che ti stracci?”

Jacomo Corner alzò altero il mento. “Figurati se ho timore di questo ma-ca-co!”

Ferigo sorrise carnivoro. “Pulito! Allora: il Momolo ed io facciamo coppia; poi, vedetevela voialtri!”

Un deluso grugnito si levò in aria: il ventenne Contarini era uno dei migliori giocatori di pallacorda e ovviamente ciascuno progettava di finire appaiato con lui.

Onoratissimo di tal privilegio e considerazione da parte di un suo parente maggiore, Momolo gli sorrise sincero e Ferigo gli rispose tramite un complice occhiolino.

Il duo si rivelò una coppia ben sortita: laddove il più anziano sfruttava la sua naturale inclinazione al gioco di tattica, fiaccando l’avversario con passaggi insidiosi più che violenti; il minore suppliva in agilità, intercettando e riacchiappando la palla con balzi al limite del circense e ben presto i due giovani si portarono in finale, fronteggiando i fratelli Marco e Jacomo Corner.

“Zò, Soa Santità! Volete cresimarmi di nuovo?!”, esclamò beffardo Ferigo, evitando in un’assai tersicorea piroetta la palla lanciatagli da Marco Corner (che uscì fuori dal tracciato assegnando il punto al Contarini), accompagnato dalla grassa risata di Momolo. Era risaputo come il cavalier sier Zorzi avesse intenzione d’avviare il figlio alla carriera ecclesiastica e i suoi amici non mancavano di sfotterlo per quello. Anche perché, bel giovine qual era, si sa che la Curia a Roma …

“Tase-là, turco miscredente!”, gli mulinò Marco Corner contro la racchetta, atteggiamento strano per quel solitamente placido ragazzo. La verità è che la coppia avversaria li stava raggiungendo, rendendo nullo il vantaggio iniziale dei due fratelli Corner.

I quattro giocatori fletterono le ginocchia, incurvandosi leggermente in avanti ed evitando perfino di sbattere le ciglia pur di non perdersi alcun movimento della palla. Le camice di lino erano divenute ormai trasparenti dal sudore, rivelando il brunito dei loro torsi e modellandosi ad ogni loro muscolo. I ragazzi si scostavano frustrati dalla nuca gli ingombranti capelli o la frangia molesta, le ciocche bagnate appiccicate alla pelle sudatissima. Perfino le braghe apparivano più aderenti, ben delineando lo sforzo muscolare delle gambe snelle e agili.

Ferigo servì stavolta, imprimendo grande possanza nel tiro e la palla sfrecciò oltre la corda e con un rumoroso grugnito Jacomo la rispedì indietro. Scattando alla stregua d’un grillo, Momolo la intercettò e gridando la ributtò dai Corner e Marco dovette sbilanciarsi non poco per non perderla, ma comunque riuscendo a salvarla. Il tredicenne corse perdifiato a riprenderla e per poco cadde in una capriola ma la palla la ricacciò ai Corner. Jacomo allora tentò di schiacciarla, approfittando del vuoto lasciato da Momolo, sennonché Ferigo gli corse incontro e con una torsione da discobolo gli impedì di segnar il punto, anzi, accaparrandoselo lui.

“Pari! Dai mo’ che se li facciamo ingoiare ‘sta palla, vinciamo!”, incoraggio il Contarini il suo compagno di gioco. “Momolo?”, domandò, notando come questi si fosse imbambolato, lo sguardo torvo puntato sulla tribuna improvvisata.

Chi era quel tizio seduto accanto a Madre?

Se alla destra di madona Leonora stava la sua amica madona Alba Donado Contarini, alla sua sinistra s’era accomodato un gentiluomo e dal modo in cui chiacchierava fitto-fitto con sua madre, Momolo avvertì una gran rabbia montargli in petto. Il viso di lei, infatti, non possedeva la medesima gelida cortesia che la vedova Miani rifilava a qualunque uomo, specie dopo la morte di sier Anzolo: v’era un non so che di dolce, pacato nel suo sorriso e lo zenit fu il risolino che la nobildonna coprì con la punta delle dita.

Momolo vide letteralmente rosso, digrignò i denti al richiamo di Ferigo e si lasciò travolgere da un’ira cieca all’ultimo turno di punti. Ad ogni servizio impresse una violenza inaudita per il suo corpo ancora magro d’adolescente, urlando imbestialito e mirando più a colpire gli avversari che in posti strategici, dove avrebbero faticato a salvare la palla. Le parole di monito di Ferigo gli scivolavano addosso come il rivoletto di sudore sulle tempie.

Ansimava inferocito a guisa di tigre, figurandosi dinanzi il misterioso gentiluomo al posto di Jacomo Corner, nelle orecchie l’eco delle parole di Marina Morexini. Madre non si sarebbe risposata, nessun uomo avrebbe preso il posto di Padre al suo fianco e men che meno il suo! Momolo aveva giurato che avrebbe protetto Madre, che le sarebbe rimasto sempre accanto. Nessuno gliel’avrebbe portata via! Già a Padre aveva dovuto rinunciare, ma a lei no! Lei no!

“Ah!”, cacciò il ragazzino un urlo inumano, facendo perno sul piede sinistro e roteando il busto portò la palla a schizzare velocissima contro Jacomo che rinculò comicamente all’indietro per rispedirla indietro, sbilanciandosi.

“Ah!”, gridò nuovamente Momolo, che al contrario pareva ancorato al terreno, ampliando il movimento d’apertura e la palla viaggiò ancora più veloce e sempre puntata contro il petto del Corner.

“AH!”, non si accorse delle lacrime di rabbia che gli offuscavano la vista, soltanto della frustrazione che la palla avesse colpito il piede al posto della gola di Jacomo, contrariamente al suo progetto iniziale. Temerario, il tredicenne era corso quasi sotto la corda e s’era letteralmente buttato addosso alla palla al mero scopo di distruggere l’avversario, rivoltandogli contro il tiro di rimando.

Segnò l’ultimo punto per vincere soltanto un grande amaro in bocca, soprattutto quando, al momento di consegnare il prezioso fazzoletto merlettato alla sua “dama”, Madre gli aveva fatto un cenno nascosto di diniego, che non stava bene regalarle platealmente il premio – lo doveva dare a qualcun’altra in segno di cavalleria. Seminascosto dalla sua spalla, il gentiluomo sorrideva compiaciuto, neanche gliel’avesse suggerito lui al mero scopo d’indispettirlo.

Momolo allora strinse convulsamente la preziosa stoffa, sgualcendola e, portatosi davanti alla giovanissima Regina Contarini sorella di Ferigo, glielo gettò sgarbatamente sul grembo per poi allontanarsi a grandi falcate, pugnalato mille volte alle spalle dalle occhiatacce assassine delle cugine Anzola, Maria e Querina Morexini, le quali, sotto-sotto, avevano sperato ricevere loro quel bel fazzoletto.

Madre lo ripigliò al rinfresco dopo l’improvvisato torneo, una volta levato il campo e rivestitisi e rinfrescatisi i giocatori, e poiché evidentemente il destino ce l’aveva a morte con lui, il tredicenne se la vide arrivare col gentiluomo appresso.

“Sior Alvixe, questi è il Momolo, il mio più piccolo”, lo presentò madre all’uomo, anch’egli nerovestito (ma non della toga patrizia) e con la barba castana macchiata di bianco. Forse coetaneo di Madre, giudicò il giovinetto, il cui corpo s’era teso sulla difensiva. “Momolo, saluta il signor Alvixe Beltramin.”

“Come stai, Momolo? E’ un piacere conoscerti. La toa siora Mare m’ha parlato molto bene di te.”

Il tredicenne serrò i denti e i pugni. “Mi stago ben, sior Alvixe. E per voi sono Hironimo, non Momolo”, dichiarò battagliero, beccandosi un furtivo scappellotto al braccio da parte di sua madre.

“Momolo! Che maniere da turco!”, ridacchiò ella nervosamente, inasprendo il malessere del suo ultimogenito. “Qualche volta è proprio un rebégolo!” (ragazzo irrequieto, ndr.)

“No, no ha perfettamente ragione! Ammetto d’esser stato un poco presuntuoso a volerlo chiamare  da subito “Momolo”, soprattutto se è un nomignolo conferitogli dal fu suo padre”, lo giustificò bonario Beltramin e il ragazzino spalancò sconvolto la bocca, voltandosi di scatto verso la genitrice, sul viso un’espressione tradita: come aveva potuto raccontargli quel dettaglio? Con quale diritto?

“Il signor Alvixe è un nostro vicino a Fanzuolo, dove possiede della terra e per mestiere, fa il mercante di vino. Ha viaggiato per il mondo in lungo e in largo; di fatti, mi stava raccontando alcuni interessanti aneddoti dal Principato di Trento!'”

“Troppo gentile, patrona. Mi dipingete più interessante di quanto lo sia in realtà: so benissimo di non poter certo competere col vostro parente sier Ambruoxo Contarini, l’esploratore!”

“Oh bella, ci terremo dunque in buona compagnia!”, e risero complici, similmente a quelle volte in cui Padre scherzava con Madre in altana.

Momolo si sentì morire.

Alvixe Beltramin di Liberale era un intraprendente commerciante di vini e proprietario di qualche appezzamento di terra vicino ai terreni dei Miani e pertanto si poteva dire sufficientemente agiato da partecipare alla vita mondana di Castelfranco, grande amico del condottiero e viceré di Cipro, domino Tuzio Costanzo. La sua famiglia era originaria di Piove di Sacco (si sentiva forte il pavan nella sua calata) e s’era fatto da solo, lavorando duramente sin da ragazzo pur d’emergere dall’anonimato cittadino. Sier Batista Morexini, anch’egli dedito alla mercatura, aveva avuto modo di conoscerlo a Rialto e subito s’erano intesi bene, sicché quando il patrizio era venuto in visita alla vedova di sier Orsato era stato oltremodo contento di rivederlo, presentandolo alla moglie madona Morexina e alla sorella madona Leonora.

Per questo e altri due motivi, scoprì in seguito Momolo, aveva egli avvicinato Madre e incominciato a discorrere con lei: il primo era perché malgrado i suoi meriti un poco rimaneva snobbato e non potendo sempre stare attaccato alla vesta di sier Batista o di domino Tuzio Costanzo, l’uomo doveva pur andar da qualche altra parte, rimanendo però puntualmente relegato all’angolo, analogo destino che si riservava spesso e volentieri a Madre. Il secondo, poiché anche Beltramin era rimasto vedovo, perdendo la moglie per il parto di un figlio. Questo spiegava l’abito bruno e soprattutto la barba. Con discrezione aveva chiesto da quanto tempo madona Leonora portasse il lutto e lei gli aveva replicato da tre anni il prossimo 18 agosto. Al che il signor Alvixe le aveva domandato se ancora lei ripensasse al consorte e se quel dolore, che avvertiva in petto, si sarebbe prima o poi addolcito. Lei gli aveva confessato di no.

E incominciarono a discorrere d’altro.

Quello fu l’inizio di una serie di numerose visite, specie dopopranzo quando Madre si portava assieme ad Eudokia e Orsolina sotto il portico della villa a ricamare, mentre il resto del personale o era a dormire o in giro per i fatti propri.

Malgrado i modi di fare un po’ diretti e spicci, il signor Alvixe si comportava da perfetto cittadino, buon conversatore e di ottima compagnia, conquistando piuttosto facilmente l’amicizia di Marco, con il quale discuteva animatamente di affari, dei mercati all’estero e degli ultimi regolamenti sul territorio, che si rivelarono assai utili per il governo dei loro campi. Di recente però i due uomini parlavano molto di politica sia interna (di nuovo i Turchi portavano la guerra nell’Egeo) sia estera (di nuovo Francesi portavano la guerra in Italia). Anche Momolo partecipava a questi dibattiti accanto al fratello, ascoltando in rancoroso silenzio, la sua antipatia nei confronti dell’uomo tenuta a freno soltanto per compiacere Madre, la quale lo incoraggiava ad imparare dall’esperienza dei suoi maggiori.

Non soltanto sotto i porteghi in villa si doveva Momolo sorbire la sua presenza: che fosse stato in piazza o al mercato a Castelfranco o ai ricevimenti al Paradiso; in chiesa o in borgo a Fanzolo, il tredicenne si ritrovava il Beltramin in ogni luogo. Marco era totalmente entusiasta della sua compagnia; Madre non si sbilanciava però aveva insistito d’invitarlo a pranzo quando Carlo l'aveva raggiunta in villa per qualche giorno, presentandolo ufficialmente alla famiglia:a desinare terminato il secondogenito Miani, famoso per la sua lingua da sarto, che tagliava e cuciva, sorprendentemente aveva cantato ogni lode del sior Beltramin.

“Momolo, perché ti comporti sempre in maniera così scontrosa col signor Alvixe?”, gli domandò Madre una sera, mentre gli sistemava il cuscino dietro la schiena. A causa dell’intenso caldo estivo, la nobildonna era venuta meno ai dettami dell’etichetta, togliendosi la scuffia nera e pertanto lasciando respirare i lunghi capelli, le trecce sciolte in un manto di boccoli misti tra bianco e nero.

“Non mi piace averlo tra i piedi!”, dichiarò imbronciato il ragazzino, giocherellando con quelle ciocche sale e pepe che gli sfioravano il petto, essendosi la donna sporta verso di lui. Alla tremula luce della candela il viso di lei gli appariva ancor più giovanile, risaltando il luccichio dei suoi occhi grandi e nerissimi e il giovinetto s’irritò doppiamente, affatto contento di doverla condividere con altri uomini.  

Madona Leonora sospirò, accarezzando i folti capelli scuri del figlio. “Momolo, devi sapere che il povero signor Alvixe soffre molto di solitudine. Noialtri gliela alleviamo un poco.”

“Non ha una sua famiglia a Piove di Sacco?!”, protestò ostinato il tredicenne, battendo il pugno sul materasso. “Perché deve intromettersi nella nostra?”

“La solitudine non è solo un male del corpo, ma anche dell’anima.”

“Balle de musso!”

“Quando sarai più grande, capirai.”

“Ma anche no”, si voltò astioso Momolo dalla parte opposta, stringendo offeso il cuscino e imponendosi di dormire.

Non c’era niente da capire. Cosa gli importava se Beltramin soffriva di solitudine? Quale diritto gli conferiva d’impicciarsi nei loro affari? Di trascorrere ogni dopopranzo con Madre?

Perché, tra tutte le donne della Serenissima Signoria, aveva puntato proprio a lei? Perché non dirigeva altrove le sue attenzioni?

Quella notte Momolo venne tormentato da una serie di incubi, il più orribile una rievocazione di quella volta che, appena cinquenne, s’era per caso trovato a spiare i genitori in letto. Ma al posto di Padre, nudo sul corpo di Madre c’era il signor Alvixe Beltramin  e il tredicenne si svegliò urlando con quanto fiato avesse nei polmoni, sudato neanche avesse contratto la malaria e ammazzando per poco suo fratello Marco dallo spavento, destandolo di soprassalto.

“Che c’è? Cos’hai?”

“Non voglio! Non voglio!”, si tirava i capelli il giovinetto, scuotendo il capo e piangendo disperato. “Non voglio! Non voglio!”

“Cosa non vuoi?”, lo spronò il diciottenne a confidarsi, osservando ansioso i calci a vuoto del fratellino e l’agitarsi convulso del suo corpo. Fu costretto a bloccargli i polsi quando il tredicenne incominciò a pigliarsi la fronte a pugni. “Parlami, su, Momolo! De diana, parlami invece di gridare!”, lo supplicò disperato e notando l’assenza di risultati e l’epistassi dal naso che stava tingendo di rosso le lenzuola, corse a chiamare la madre.

“Amore mio, che ti succede?”, abbracciò ella la sua creatura in affanno, stringendosela al petto e tamponandogli le nari sanguinanti. Ma se in altre occasioni quel dolce contatto l’avrebbe rassicurato da ogni cruccio, in quella al contrario lo esacerbò e Momolo, singhiozzando, vomitò sul letto per poi cadere svenuto.

Nervi, soltanto nervi”, fu il conciso responso della curandera del paese. “Qualche tisana di camomilla e lavanda e gli passerà; se proprio peggiora allora provate con quella alla valeriana, ma senza esagerare, anche se per me  il problema, patrona, non sta nel corpo bensì tutto qui”, disse l’anziana donna, ticchettandosi la tempia destra.

Ovviamente, quel maledetto di Beltramin, appreso del confinamento in letto di Momolo, figurarsi se non venne a trovarlo per informarsi della sua salute così d’avere un’ulteriore scusa per trascorrere indisturbato maggior tempo con Madre, sicché la sua malattia si prolungò di una settimana, tra febbriciattole, nausee e uso continuo del pitale a causa dell’infernali tisane.

Neppure alla Messa commemorativa di Padre il Beltramin gli risparmiò la sua presenza e se le maledizioni scagliategli dal tredicenne avessero potuto far crollare l’antica chiesa romanica di Santa Maria Assunta [11] a Castelfranco, a quell’ora non ne sarebbero rimaste neanche le macerie. Tra tutti i giorni, proprio quello! Ma certo! Era una sfida alla memoria di Padre, per godere del suo trionfo su di lui, essendosi ormai autoproclamato suo sostituto al fianco di Madre!

Vedi? Vedi? Te lo rubata! Tu sei morto, io sono vivo e ora mi chiavo la tua donna! – lo poteva il giovinetto quasi sentire vantarsi con quel suo odioso accento pavano – dopodiché venderò i tuoi figli ai Turchi, i quali li trasformeranno in eunuchi e così la tua discendenza sparirà dalla faccia della terra!

“Dio sia lodato, posso finalmente rasarmi questa barba maledetta!”, sospirò allegro Marco alla fine della funzione, grattandosi enfaticamente le gote intanto che scendevano gli scalini d’ingresso della chiesa. “Con questa barba e i capelli lunghi, mi pareva d’essere un monaco greco!”

“Ti pare?”, lo rimbeccò aspro Momolo, sul cui mento invece ancora non cresceva nulla, le gote morbide e lisce. “Oggi è l’anniversario della morte del nostro sior Pare e l’unico tuo pensiero è quello di sbarbarti? Ma fammi una carità!”

Secondo i costumi di Venezia gli uomini erano tenuti a portare la barba in segno di lutto, la durata variante a seconda del grado di parentela. Nel caso di sier Anzolo, i suoi figli l’avevano portata per tre anni come di precetto, mentre gli altri suoi zii e parenti già l’anno successivo la morte del Miani se l’erano rasata.

Marco strinse gli occhi, piccato per la verità dietro quelle parole, avendo in effetti odiato la barba più per un fattore estetico che simbolico. “Mo’ andiamo dal barbiere”, bofonchiò impacciato, spingendo in avanti il minore onde spronarlo a muoversi. Sennonché quest’ultimo rimase ben piantato per terra, rifiutandosi di chiudere in quattro e quattr’otto la questione. “Che ti prende oggi, Sior Contrario?”, sbuffò snervato il diciottenne, ponendosi le mani sui fianchi.

Momolo gli indicò col mento Madre, attardatasi a chiacchierare sul sagrato della chiesa con la moglie di domino Tuzio Costanzo e suo figlio Mathio; con una gentildonna assieme ad una fanciulla che il ragazzino non aveva mai visto fino a quel momento e, figurarsi se mancava, il signor Alvixe Beltramin.

“Donca?”, aggrottò Marco la fronte, piuttosto confuso.

“Mi domando cosa voglia da noi, quello là …”

“Chi?”

“Quello là!”

“Se non parli schietto, non ti capisco!”

“Il signor Alvixe!”, sputò il tredicenne il nome, manco avesse pronunciato un improperio. “Perché è venuto oggi a prender Messa?”

“Per creanza?”

“No, perché vuole sedurre la nostra siora Mare!”

Marco aprì la bocca, rimanendo comicamente interdetto per qualche istante. Dopodiché, si piegò in due dalle risate fino ad annaspare dalla mancanza d’aria, trascinando il fratellino in un angolo appartato dietro una stradina secondaria tra mura, chiesa e castello. “Burlestu?”, inquisì divertito, asciugandosi le lacrime agli occhi.

“No!”, batté Momolo frustrato il piede sul selciato, la sua collera direttamente proporzionale all’ilarità del maggiore. “Spiegami allora come mai è sempre attaccato alle sue sottane? Ogni giorno si presenta a casa nostra! Dopo pranzo neanche tu puoi negare, come se ne stiano a ciacolar fitto-fitto, manco la zia Maddaluzza e le sue betòneghe di contrada!”

“E allora?”

“Non lo giudichi il tipico comportamento d’un corteggiatore?”

“Bah, t’immagini le cose!”, scrollò le spalle il maggiore, liquidando quei dubbi alla stregua di sciocche bambinate e pertanto accennando a raggiungere il gruppetto, sennonché Momolo lo trattenne per la manica, costringendolo a rimanere.

“Scoltame ben: quel pavan vuole la nostra siora Mare! E noi dobbiamo assolutamente impedirgli di sposarla!”, gli rivelò talmente ansioso che Marco non ebbe più alcun dubbio sulla veridicità delle parole del fratellino. Invero non stava scherzando, glielo leggeva in faccia e finalmente il giovane capì la cagione dietro quei perpetui bronci nel minore ogniqualvolta s’imbatteva nel signor Alvixe. 

“No.”

“Come no?”, ripeté scioccato Momolo da quel secco e infastidito rifiuto, mollando di colpo la presa dalla manica.

“Scoltame ti ben”, gli puntò Marco l’indice contro il petto, severissimo. “Io non so se ti sei bevuto il cervello o che, però se ti sei ammalato per questa jotonia, copandome quasi dallo spavento, giuro che te dago tante di quelle sberle, che a Carlevar non avrai più bisogno d’indossare una maschera! Secondo”, lo interruppe inflessibile, levando in alto la mano in un veemente scatto, “cosa te ne cale, se la nostra siora Mare si vuole rimaritare? Sei forse il suo sior Pare? No! Sei suo figlio e alla siora Mare s’obbedisce, senza tante storie! Quando tu sarai un marito e un padre e quando possiederai  la tua casa, allora sì che potrai comandare e dire al mondo: Mi vojo cussì, mi vojo cosà! Siccome però non hai niente e non sei niente, abbassa le orecchie e obbedisci in silenzio. Comprendestu?”

Momolo incassò la sferzante predica a capo chino, le gote vermiglie e gli occhi umidi dal pianto a stento trattenuto. “Non la può sposare! Non la deve sposare! Non può rubarcela! Non la voglio in casa d’altri! Non voglio che porti un altro cognome! Non voglio un fratellastro! Non voglio nuovi parenti!”, insistette istericamente il tredicenne e prese ad ansimare in affanno, sballottato dalla perdita d’un potenziale alleato nella sua personale lotta contro il Rivale. “L’unico uomo cui è maritata è il nostro sior Pare!”

“CHE E’ MORTO DA TRE ANNI! SVEJA, IMMATONIO MACARON DE PUJA!”, l’apostrofò spazientito il maggiore, forse più aggressivo di quanto intendesse, ché infatti Momolo indietreggiò intimidito, sbattendo la schiena contro il muro. “Ammettendo che il signor Alvixe la voglia sposare: e allora? Dove sarebbe in ciò il crimine? An? Nostro padre – a chi Dio perdoni -  è morto e nostra madre è libera di fare ciò che meglio crede! Cosa t’impicci degli affari suoi?”

“E’ la donna del nostro sior Pare, comprendestu? Nostro. Padre!”, si batté il giovinetto il petto onde reiterare il concetto. “L’affare sul serio non ti tange? Non t’importa sapere nostra madre in letto, nuda a fare l’amore con uno che manco è nostro pa-ahia!”, non riuscì Momolo a terminare la frase, che suo fratello gli aveva afferrato i capelli, tirandoglieli crudelmente, i denti digrignati ben in mostra.

“Ti te sporcarie da sbisào no te le me disi, sastu? O TE COPO!”, l’avvertì perentorio, ogni traccia affabile sparita dal suo viso. “La siora nostra Mare è una nobildonna onorata, pudica di corpo e di pensieri! E anche se si volesse rimaritare, chi sei tu per impedirglielo, chi sei tu per comandarla, per dirle cosa può e cosa non può fare? Chi sei tu?”

Suo figlio!, avrebbe voluto replicare un Momolo sull’orlo dell’ennesima crisi nervosa, ma già prevedeva la replica di Marco, ovvero che anch’egli era figlio di Madre e di certo non si permetteva di pontificare in giro sul suo operato.

Era dunque rimasto solo ad affrontare i suoi problemi, come sempre.

 

***

 

 

“Zò, patron! Saria anca horra de tornar ndrio a chaxa vuostra per zenar!”

Momolo trasalì alle parole mugnaio, rendendosi soltanto ora conto delle prime luci rossastre del tramonto. Tirò su col naso e s’asciugò le lacrime dalle gote, ottenendo solo l’effetto di sporcarsi ulteriormente di fango.

“Dime, caro ti”, chiese piuttosto egli all’uomo, rimettendosi in piedi sul pontile, “facciamo che un giorno la Morte di colga. Saresti contento, se la siora toa mojer la se maridasse de novo?”

Il mugnaio reclinò confuso il capo, grattandosi il collo sudato, intanto che meditava sia ad una risposta soddisfacente sia al motivo dietro quella bislacca domanda. “Beh, tuti i saven ch’i morti ndove i van, no tornan indrio: anca se mi no vorave la mia femena co naltr’om, chome imperdighelo se sonjo morto?! De po’, le femene gh’han senpre fato zò che le piasen, dai tempi d’Adam et Eva!”

“E ciò senza tener conto dei tuoi parenti e del tuo onore?”

L’uomo scoppiò a ridere fragorosamente, a bocca ben larga e mostrando qualche dente mancante. “Il mio honor? I mii danari, ecco zò ch’el premarà a staltri! Co’ se more, patron, no ghe rimane al morto ni honor ni niente, solum Sen Michiel cum la bassacuna” [12], ridacchiò ilare, scotendo il capo dinanzi a tal ingenuità.

Insoddisfatto e un poco piccato per quella non troppo velata presa per i fondelli, Momolo raggiunse il suo cavallo, salendoci in groppa assai imbronciato.

“Patron”, lo trattenne all’ultimo il mugnaio, avvicinandosi e guardandolo serio-serio, “aricordeve ste parolle: ante de far la moral a qualchedun, vardé drento de vu et pensé se vuj seti mejo o pezo di chi volé criticar. Queo sgrandezón (superbo, ndr.) dil luzifero fo el primo a dir: Mi sun parfeto!”

Il ragazzino strinse la bocca in una piega dura, ribelle a quel consiglio come lo era nei confronti di tutti quegli altri elargitigli dagli adulti. Inoltre, la malcelata vanità dovuta al suo ceto gli suggeriva di non tener da conto i pareri di un popolano, anche se più maturo di lui e con maggior esperienza del mondo. Che ne sapeva quel plebeo della morale, dell’onore? Similmente ad ogni esponente del popolo bue, egli non era che un’anima semplice, i cui unici scopi della vita rimanevano il cibo, i soldi e il sesso. Nient’altro. Inutile dunque contraddirlo e tentar di cavar sangue dalle rape: non ci sarebbe mai arrivato. Che vivesse dunque nel fango alla stregua di bestie, che gliene importava? Ma che non venisse a riempirlo di consigli, quello no!

“Iddio sia teco”, si congedò il tredicenne in un tono assai frettoloso e scocciato, battendo i tacchi sui fianchi del cavallo.

“El xé senpre meco, patron!”, si toccò il mugnaio appena il bordo del cappello di paglia a mo’ di saluto, seguitando ad osservare con quell’aria tra il furbo e il bonario la figura di cavallo e cavaliere allontanarsi lungo il fiume fino a sparire all’interno del bosco.

Quando Momolo raggiunse la villa, oramai l’ora di cena era bell’e passata. Ad avvistarlo fu Trovaxo, che subito gli corse incontro ad afferrare il morso del cavallo, costringendolo a fermarsi definitivamente acciocché il padroncino scendesse.

Neanche diede tempo al servitore d’avvertirlo o rimproverarlo, che subito il giovinetto sfrecciava in casa, ignorando bellamente i richiami misti di rimprovero e preoccupazione di madona Leonora.

“Ciò! Ciò! Ti sto parlando! Che modi sono questi?”, lo tallonava non senza qualche difficoltà, essendo infatti il figlio più veloce, salendo le scale a due a due. “Te paiono ore da rincasare? Ero spasimata dalla preoccupazione! Ho spedito il Marchetto a cercarti! Nessuno dei tuoi fratelli s’è mai comportato da turco come te …”, brontolava la nobildonna sbuffando, finalmente però capace di allungare il braccio per afferrare il discolo del suo figliolo.

Sennonché questi, guizzando come una vipera, si scrollò violentemente dalla sua presa, gridandole furioso: “NON MI TOCCARE!”, e quando la madre tentò di trattenerlo una seconda volta, questi le schiaffò via la mano con tal forza da sbilanciarla.

Portandosi la mano dolorante al petto, madona Leonora studiava confusa il figlio, neanche si fosse trovata dinanzi ad uno sconosciuto. Non l’aveva mai visto così arrabbiato: la bocca tremante di piccoli spasimi, l’assottigliarsi convulso degli occhi, quell’ingobbirsi da gatto … La nobildonna immediatamente riconobbe in lui le medesime crisi di collera che ogni tanto esplodevano nel marito. Dunque, come aveva imparato a percepirle e anticiparle in sier Anzolo, similmente operò col figlio. “Momolo, come ti sei ridotto? Sei tutto sporco di fango!”, abbassò e addolcì ella il tono di voce, rendendolo più conciliante. S’avvicinò lentamente al ragazzino, quasi si trovasse di fronte ad un animaletto selvatico. “Momolo, vieni su, ti faccio preparare il bagno. Dopodiché ceni e ti metti tranquillo in letto …”

Il tredicenne s’allontanò bruscamente dalla genitrice. “Lasciami stare!”, l’interruppe aspramente, acquattandosi contro la porta della sua camera e rifiutandosi di guardarla dritto negli occhi. “Non toccarmi! Non ho bisogno del tuo aiuto! Da te non voglio niente!”, berciò pure dimenticandosi di darle del voi da quant’era incollerito.

“Ma se fino a ieri mi domandavi sempre d’aiutarti a lavarti …”, gli ricordò dolcemente madona Leonora, provocando un feroce rossore sulle gote del giovinetto.

“Oggi invece non lo voglio più!”, replicò gridando, battendo imperioso il piede per terra. “Vermocane! Hai mai nettato i miei fratelli a tredici anni? No! E’ sbagliato! Indecoroso!”

L’espressione di sua madre, da comprensiva, mutò in una severa e inquisitrice. “Chi ti ha messo in bocca queste parole?”, esigette di sapere, impedendo col suo corpo ogni via di fuga al figlio.

“Nessuno!”, sgattaiolò via ugualmente Momolo. “E comunque, non preoccupatevi per me: tanto a breve avrete un nuovo pargolo da accudire!”, berciò, sbattendole in faccia la porta, che sbarrò rapidamente con un cassone, sordo ai richiami adesso arrabbiati di sua madre.

“Momolo! Momolo! Apri questa porta! Ora!”, batteva irata la donna contro la porta, cui s’unì poco dopo anche Marco, il quale, seppur aprendo una breccia, non poteva ugualmente entrare a causa del pesante ostacolo postogli dal cassone.

“Apri la porta, peocio, o domani tu ed io faremo i conti! Ti faccio ingoiare i denti a furia di s-ciafoni!”, gli promise assai minaccioso il maggiore.

Momolo, seduto di spalle contro il cassone, aspettò di scorgere dalla fessura della porta il viso di Marco, per rifilargli una lunghissima linguaccia. “Andé a zogar a la lipa!”, e balzato sopra il mobile, spinse la porta che per poco gli troncava il braccio, tra colorite imprecazioni e il tredicenne sogghignò perfido sapendo quanto Marco si stesse trattenendo, primo per non scandalizzare Madre; secondo, per non dargli del figlio di puttana senza, in un colpo solo, vituperare la genitrice e se stesso.

Una magra consolazione: il tredicenne sapeva benissimo che l’indomani il fratello in qualche modo l’avrebbe agguantato e scorticato vivo a furia di sberle, secondo la pratica ludica preferita a Ca’ Miani, il pituffamento del Momolo.

Quella sera, però, il vincitore rimaneva lui giacché, tra ringhi e insulti, Marco dovette cedere e la casa sprofondò in un tesissimo silenzio.

Ignorando i crampi della fame, il ragazzino si cavò la bereta, il farsetto, gli stivaletti e le brache, gettandoli disordinatamente per terra. Dopodiché si buttò sopra il letto, affondando la faccia sul cuscino e stringendo tanto questi convulsamente quanto i suoi denti.

Quel pomeriggio, poco dopo il pranzo, Momolo aveva cercato sua Madre nel salone principale della villa, non avendola scorta da nessuna parte nel più fresco portico. Aveva avuto una brutta sensazione nel non trovarla al solito posto, sentimento esacerbato dal mutismo di Eudokia, che come sempre quando si trattava della sua padrona non sapeva e non vedeva mai niente.

Il tredicenne allora, appurato come anche quella stanza risultasse vuota, si era spostato alla volta della cucina per poi uscire dal retro e fu lì, dentro la serra, che li scovò, Madre col cestino colmo di limoni del Garda sottobraccio e il signor Alvixe Beltramin accanto a lei, che le parlava talmente fitto che le loro spalle si toccavano quasi.

“Madona Leonora”, il tono di voce dell’uomo suonava assai ansioso, incalzante, “oramai ci conosciamo … solo a voi posso dirlo francamente … Voi sapete della mia vedovanza, di come abbia amato moltissimo la mia povera moglie  … tuttavia”, si morse a disagio il labbro inferiore, incerto su come proseguire. “Che ne pensate?”, le domandò infine. “Credete in una seconda possibilità?”

Momolo si tramutò in pietra, manco più respirava. I suoi timori s’erano dunque avverati? Quel tanghero sul serio le stava chiedendo di … Il ragazzino allungò il collo, sperando di scorgere sul volto di Madre una qualsivoglia forma di rifiuto e fastidio per quelle avances. Al contrario, vi trovò un sorriso assai soddisfatto.

“Certo che sì, signor Alvixe. La vita è troppo breve per trascorrerla soli ed infelici. Inoltre, il vostro puttino avrà pur bisogno di una madre per crescere, no?”

“Sì, sì proprio così, m’avete cavato le parole di bocca!”, convenne energico l’uomo, afferrandole d’impeto la mano. “Grazie, grazie di cuore! Siete un angelo disceso dal cielo!” e gliela baciò gioioso.

Doveva agire! Assolutamente! Impedire ad ogni costo quelle nozze scellerate! Non voleva nessun patrigno, non voleva nessuno tranne Padre, nessun uomo gli avrebbe tolto Madre! Se soltanto non fosse stato un figlio ribelle e malvagio, se soltanto non avesse biasimato di continuo il genitore, forse Domine Iddio non l’avrebbe punito sottraendoglielo per sempre e addirittura infierendo con la prospettiva di dargli un secondo padre, un uomo che Momolo odiava con tutto se stesso.

Ma chi poteva aiutarlo? Chi?

Lucha? Carlo? Pah, figurarsi! Il primo, a Marostica e ignaro di tutto, avrebbe ugualmente dato ragione a Madre come aveva fatto Marco e il secondo se ne fregava di tutto e di tutti, tant’è vero ch’avrebbe campato fino a cent’anni! Crestina? Aveva da badare alla sua di famiglia, col Gasparo che cresceva veloce e irrequieto come ogni pargolo in salute, riempiendole le giornate. Il mite e benevolo prozio Hironimo detto “il Pizzocchero” ormai cantava alla presenza del Signore, quindi no. Il biscugino Thomaso? Nah, quello se ne stava sempre per i fatti suoi nel fontego. L’altro biscugino sier Zuan Francesco s’era tutto dedicato alla politica, candidandosi a questa o quella carica e di sicuro non avrebbe avuto tempo per starlo a badare … E comunque a Ca’ Miani comandava incontrastata Madre, ergo anche se il biscugino avesse voluto che avrebbe potuto rimproverarle senza venir prontamente zittito?

Il barba Batista! Come aveva potuto non pensarci prima? Non era soggetto alla dura lex del gineceo, tra i suoi zii era quello che più ci teneva a loro e vantava di una posizione di parentela abbastanza forte da poter ragionare con Madre da suo pari!

Balzando giù dal letto, Momolo corse al piccolo scrittoio, intingendo velocemente la punta della penna nell’inchiostro e tra mille sbrodoli e macchie scrisse in gran pressa:

Clarissimo e magnifico sior Barba. So che molti negozi vi tengono occupato a Veniexia e che gli affari dello Stato vengon sempre prima dei nostri. Tuttavia vi chiedo di porre attenzione anche al governo della vostra medesima famiglia, la quale senza la guida del mio sior Pare non si mantiene più onesta come prima. Mi duole informarvi come la mia siora Mare vostra sorela si comporta in maniera vergognosissima, accettando la presenza d’un altro uomo nella casa del mio sior Pare e non avendo né il Marchetto né gli altri miei fradeli alcuna volontà d’intervenire, vi supplico di provvedere acciocché codesto serpente tentatore nomato Alvixe Beltramin di Liberale venga allontanato dalla mia siora Mare vostra sorela. Di vostra signoria devotissimo servitore, Jer.mo Miani scrisse. Fanzuolo a dì …

Ora avrebbe dovuto trovare il modo di sgattaiolare e consegnare a chi di dovere la lettera, prima che Marco l’acciuffasse e a ceffoni gli conciasse in cuoio la pelle delle chiappe.

Ogni sua speranza di conservare Madre per sé ormai si trovava nelle mani di sier Batista Morexini.

 

Come da lui profetizzato, invero Momolo l’indomani si ritrovò catturato da suo fratello, entrato dalla finestra tramite una scala, e neanche il tempo di dirgli “Parlamento!” che il ragazzino si ritrovava a faccia ingiù sulle sue ginocchia a pigliarsi i giusti sculaccioni. Dopodiché il maggiore lo gettò di peso nella vasca a lavarsi, intanto che Orsolina scuotendo il capo toglieva le lenzuola sporche di fango secco, prefiggendosi una dura giornata di bucato.

Questo però soltanto dopo che il tredicenne aveva già inviato la sua preziosa missiva a Venezia.

Saggiamente, in attesa dello zio, Momolo optò per la tattica dell’invisibilità, ossia di starsene quieto e di comparire il meno possibile in casa, anche perché pervasa dal contagiante malumore di Marco.

All’inizio il giovinetto aveva pensato il suo maggiore avercela ancora con lui; più tardi, interrogando Orsolina, apprese che il motivo per cui suo fratello aveva un diavolo per capello corrispondeva alla sconfitta a Zonchio dell’ammiraglio sier Antonio Grimani da parte della flotta turca. Le loro basi commerciali, i loro affari in quella parte di Grecia … tutti compromessi! “Spero che quell’innominabile testa di cazzo coli a picco con la sua fottuta ammiraglia!”, avevano i ruggiti del diciottenne Miani scosso la villa dalle fondamenta, “Perché non appena mostra quel suo muso di merda a Veniexia, quant’è vero Iddio lo impicco con le sue stesse budella al Campanile di San Marco! s’era sfogato ben bene, per poi chiudersi per due giorni di seguito nello studiolo di Padre a scrivere numerose lettere a sier Antonio Trum, ai barba Miani e Morexini e altri suoi agenti a Veniexia, Candia, Cipro e perfino a Rodi per sperare che il danno della perdita di Lepanto e altri basi greche non avesse scalfito eccessivamente gli introiti totali della loro attività laniera. E mentre faceva questo, similmente a tutti i monelli di strada a Venezia e com'era anche dipinto sulle botteghe, sui muri e perfino sulla porta di Ca' Grimani, il giovane Miani ripeteva anch'egli l'oramai famoso ritornello: "Antonio Grimani / Ruinà de’ cristiani / Rebello de’ venitiani / Puòstu esser manzà da’ canni / Da’ canni, da’ cagnolli / Ti e toi fiulli!"

Tanto Marco era preso dalle vicende provenienti dal Levante, da ignorare completamente quelle dal Ponente e più nello specifico quelle nella sua medesima casa. Altrimenti, quel pomeriggio del 30 agosto non si sarebbe assentato, mancando d’un soffio l’arrivo del suo zio materno.

Avvertito da una perplessa Orsolina dell’inaspettata (per loro) presenza di sier Batista, Momolo scese veloce dalle scale, andando incontro al patrizio per salutarlo e condurlo al frutteto, là dove Madre stava valutando quali pere cogliere.

Il suo Barba doveva aver viaggiato di gran pressa, presentandosi scarmigliato e gli abiti pieni di polvere, il volto tirato da un’espressione talmente arcigna che il ragazzino si bloccò sull’ultimo gradino della scala, improvvisamente intimidito da quello sguardo di fuoco. Capì d’aver commesso un errore di giudizio: tanto era preso dal suo malessere, da aver ignorato ciò che accadeva fuori Fanzolo e non si riferiva solo alla perduta guerra di Zonchio, bensì del fallimento del banco dei Lipomano il 16 marzo scorso, una vergogna per l’intera Serenissima. Il 20 giugno, sier Batista, sier Christofal Moro e sier Stephano Contarini erano stati eletti nella commissione che avrebbe dovuto indagare sulla questione del fallimento della banca, fondata nel 1480 da sier Thomà Lipomano, assieme ai fratelli e cognati Alvixe, Andrea e Polo Capelo, poi liquidati. Quest’ultimi, ironia della sorte, erano previi cognati di sier Christophal e come lui, anche se ormai fuori dalla società, avevano dei risparmi, i Capelo tredicimila ducati e sier Moro quattromila. Se Lucha se l’era vista brutta a saldare in tempo il debito di cento ducati al protogero di Morea e così evitare la galera, a quale santo doveva appellarsi sier Hironimo Lipomano? La sua banca contava più di mille depositanti, tra cui settecento nobili, i quali v’avevano messo da parte le doti per le figlie, svanite ora nel nulla. Da mesi sier Batista aveva dovuto affrontare quell’ingarbugliata matassa finanziaria, respingendo e difendendosi dai creditori inferociti, i quali reclamavano a gran voce il sangue di tutti i Lipomano, perfino dei loro neonati. Non che contrattare con sier Hironimo, sier Bortolo e sier Vitor fosse più semplice, protestando questi come il dissesto del banco fosse dovuto ai troppi crediti accordati all’Erario statale, chiamando quindi indirettamente in causa la Signoria.  

Si preannunciava dunque un lungo braccio di ferro tra i tre commissario, il Consiglio dei Dieci, i creditori e i debitori e se sier Batista era sempre riuscito a dissimulare la sua frustrazione nelle visite al Paradiso o a Fanzolo, adesso, tra la sconfitta di sier Antonio Grimani e la lettera di suo nipote, l’ultima oncia della sua pazienza s’era esaurita e anche lui giungeva col coltello tra i denti.

“Schiavo vostro, patr- …”, provò a salutarlo, sennonché l’uomo in due falcate lo raggiunse e, afferratolo per il polso, lo costrinse a scendere giù. Trascinatolo sotto la luce delle finestre, gli sventolò sotto il naso la lettera spiegazzata dal pugno.

“Mi spieghi questa porcheria?”, ringhiò gutturalmente sier Batista, stringendo la presa tanto da strappare un piccolo guaito da parte del nipote, più per la sorpresa della reazione del parente che per il dolore vero e proprio. Non aveva minimamente immaginato poter lo zio reagire così: invece di mostrargli gratitudine, pareva offeso a morte dalla sua lettera. “Non ti vergogni a scrivere tali monade?!”

“Non è una jontonia, è la verità!”, pigolò Momolo, le gote tinte di rosso. “La mia siora Mare si vuole risposare!”, gli rivelò in un sol sorso, fissando l’uomo pieno d’aspettativa.

Il Morexini socchiuse sospettoso gli occhi. “Risposarsi? E con chi?”

“Il signor Alvixe Beltramin!”

“Hai delle prove? Ne hanno parlato apertamente?”

“Siorsì!”

“Dove e quando?”

“Nella serra, meno di una settimana fa.”

“Cosa facevano?”

“Chiacchieravano.”

“Soltanto?”

“Siorsì …”

“Di che cosa esattamente?”, e notando l’assenza di risposta da parte del nipote, l’incalzò: “Sei davvero sicuro che la tua siora Mare si voglia risposare?”

Momolo serrò la bocca, cercando freneticamente una scappatoia da quell’interrogatorio. Aveva coscientemente lasciato ambigui molti dettagli, onde pungolare l’orgoglio dello zio e invogliarlo a raggiungerli a Fanzolo. Evidentemente l’aveva giudicato male, credendolo più impulsivo di quanto in realtà non fosse. Le serrate domande e contro-domande cui lo stava sottoponendo non avevano nulla da invidiare ad un consigliere dei Dieci, tradendo la sua intima diffidenza.

Il ragazzino non aveva totalmente errato i suoi calcoli, glielo si conceda: fosse accaduta tal vicenda trent’anni addietro, forse-forse il “da Lisbona” avrebbe reagito con maggior impetuosità e scatenato un buferone. Gli anni, l’esercizio della mercatura e la sottile ambizione d’inserirsi bene in politica e farvi carriera avevano aiutato sier Batista a stemperare l’irruenza giovanile tramite l’assidua pratica della virtù cardinale della prudenza, ponderando ogni volta i pro e i contro prima d’agire e di parlare. A onor del vero s’era dapprincipio sdegnato nel leggere di tali indecenze in seno alla sua famiglia; dopodiché, a mente fredda, il patrizio aveva considerato l’età del mittente, ossia un giovinetto di tredici anni che sicuramente aveva peccato d’impulsiva drammaticità. Gli avessero inviato o Lucha o Carlo tale missiva, ancora Batista si sarebbe preoccupato: invece, essendo stato Momolo, dubitava della veridicità di tale faccenda, non nel senso che non gli credesse, ma più che altro che avesse esagerato nei dettagli, distorcendo la realtà.

E di questo il Morexini era venuto ad accertarsi.

“Perché non mi rispondi?”, indietreggiò l’uomo di un passo, squadrando accigliato il nipote da capo a piedi. “Perché sei così nervoso?”

“Perché mi ponete tutte queste domande?”, replicò di rimando Momolo, il quale sul serio però si stava innervosendo dinanzi a quell’occhiata inflessibile e indagatrice.

“Non hai forse richiesto il mio intervento? Come posso agire, se non conosco approfonditamente l’intera faccenda?”

“Tutto quel che c’è da sapere, lo trovate scritto in quella lettera!  Che volete che aggiunga? La mia siora Mare ha il ganzo!”

Sier Batista alzò il mento e il tredicenne abbassò il suo. “Tu menti per la gola”, sentenziò infine il patrizio dopo un lungo silenzio.

“No!”, gridò il giovinetto, scattando in avanti come se volesse afferrare il parente per la vesta, ma trattenendosi all’ultimo momento. “No, no, no, sior Barba, vi giuro su quel che volete, che vi sto dicendo la verità! La mia siora Mare si vuole maritare!”

“Deciditi, Momolo: ha il ganzo o si vuole maritare? Qui mi hai scritto, che mia sorella conduce un disonesto commerzio con questo Beltramin! Ora però mi dici che lo vuole sposare. A quale delle due versioni debbo credere?” Certamente uno poteva prima fornicare e poi sposarsi, però sier Bastita percepiva quella persistente nota di contraddizione che non lo convinceva. Se davvero la sua sorellastra si fosse data a gioie disoneste con un altro uomo, anche se da vedova, difficilmente i suoi nipoti Lucha, Carlo e Marco sarebbero rimasti a guardare silenti e inattivi, sicuramente qualche provvedimento avrebbero preso onde troncare quella disdicevole relazione.

“Momolo”, l’avvertì spazientito l’avunculo, “per l’ultima volta, dimmi come stanno veramente le cose! Varda che sun stuffo!”, l’apostrofò severo il patrizio. “Se t’ostini nel tuo silenzio, non ti potrò né credere né aiutare!”

“Aiutarlo? E in che cosa?”, s’intromise madona Leonora, rincasando assieme ad Eudokia. Ignorando l’irrigidimento del figlio e del fratellastro, la nobildonna cedette alla fantesca la sua cesta di pere, inviandola in cucina, mentre lei rimase lì nella sala principale. “Titta caro, ma che sorpresa! Quando siete arrivato? Non v’aspettavo, altrimenti vi avrei preparato una piccola refezione”, gli andò incontro sorridente, intanto che si levava il pesante paneselo nero, rimanendo solo con la scuffia d’altrettanto colore.

“Da poco”, replicò a denti stretti sier Batista, gelando la sua sorellastra che si bloccò, riconoscendo nel viso solitamente amabile dell’uomo un’espressione assai dura e contrariata. “Per rispondere alla vostra prossima domanda - perché sono qui -  leggete prima questa lettera e poi abbiate la cortesia di spiegarmi codesta novità”, l’esortò perentorio Batista a prendere la missiva che le stava porgendo.

Momolo trattenne il fiato, avvertendo il cuore sprofondargli in pancia.

Confusa, madona Leonora afferrò la lettera e ne lesse rapidamente i contenuti, sbiancando peggio d’un panno appena lavato. Levò incredula gli occhi verso il figlio, la bocca schiusa e il labbro inferiore tremante; rilesse e di nuovo fissò smarrita il fratellastro, scuotendo inconsciamente il capo in diniego.

“Giusto adesso ho appreso, come fra poco dovrò chiamare vossioria madona Leonora Morexini Beltramin!”

Come punta da una vespa, la patrizia si risvegliò, accartocciando la lettera nel pugno. “Che asinerie andate blaterando? Io? Maritarmi con Bel-tra-min?” e pronunciò il nome del gentiluomo come se l’avesse sentito per la prima volta in vita sua, sconcertata da tal assurdità.

“Donca per dasseno intrattenete un disonesto negozio con quest’uomo!”, concluse sardonico il “da Lisbona”, girandosi brevemente verso il suo ammutolito nipote.

“Rivolgetevi ancora a me con questo tono e – fratello o non – vi faccio sbattere fuori di casa mia a cialz en cul!”, s’inalberò immediatamente la nobildonna, visibilmente offesa da quell’insinuazione. “Il mio cuore di donna l’ho seppellito tre anni fa nell’arca di Anzolo! Mai e poi mai accetterei un secondo matrimonio! Mi fate torto, missier, voi e il vostro dubitare! Come potete pensare che io … che io …”, s’impappinò, non riuscendo più ad articolare i suoi pensieri a causa dell’indignazione.

“A me lo chiedete? Domandatelo a vostro figlio! Domandategli perché scrive tali barbarità! Domandategli perché ha preferito sbottonarsi col suo barba e non coi suoi fratelli maggiori, men che meno con sua madre!”, esclamò aspro Batista e indicò bruscamente un impietrito Momolo, che abbassò lo sguardo, incapace di sostenere quello incredulo e deluso di Madre. “Sangue di Cristo, che qualcuno mi spieghi una volta per tutte quest’intrigo, poiché io per primo fino a ieri non ne sapevo niente! Anzi! Me ne stavo a casa mia, a districarmi in quel … bordello ch’è il fu banco dei Lipomano, quand’ecco che m’arriva questa lettera dove mi s’invoca aiuto, spiegandomi come mia sorella si comporti da mamola (donnaccia, ndr.)!

“Mi sono recato prima a Cha’ Miani dal Carlino a domandargli cosa significasse questa storia del ganzo. Sapete che cosa m’ha risposto? Che son matto; che avevo preso troppe legnate in testa! Mi ha quasi mangiato vivo, gridandomi come la loro siora Mare non faccia di queste sporcarie, che non era a conoscenza di alcuna tresca tra voi e codesto signor Alvixe. Avanti! Ditemi a chi debbo credere!”, sbottò frustrato il patrizio, pigliando il nipote per il gomito e costringendolo seduto sulla cassapanca foderata di cuoio. Accomodatosi anch’egli, batté sull’imbottitura del sedile acciocché la sorellastra lo imitasse alla svelta. “Cul del cancaro, visto che m’avete trascinato in questo casino, ora esigo di conoscere tutta la storia, dall’inizio fino alla fine!”, esclamò sbuffando e appoggiando ambedue le mani sulle ginocchia leggermente divaricate, si sporse in avanti onde meglio ascoltar la tanto sospirata delucidazione.

“Non v’è niente da spiegare: il signor Alvixe Beltramin è un nostro vicino, il cui unico crimine, a quanto pare, fu di venire qui a tenerci un poco di compagnia.”

“E secondo voi, lo reputate un comportamento saggio e confacente ad una nobildonna della vostra sorte? Vi pare onesto avere un estraneo alla famiglia gironzolare in casa?”

“E secondo voi, io accetto lezioni di morale da uno che fa beca (cornuta, ndr.) la soa mojer dalla mattina alla sera?”

“Io sono un uomo; voi siete una donna e come tale dovete comportarvi con decoro!”

“Voi siete marito e padre e il decoro, Titta carissimo, manco sapete dove stia di casa!”

I due Morexini si fissarono in cagnesco, ognuno sfidando l’altro a proseguire nelle proprie moralistiche invettive.

Batista si morse l’interno della guancia, congiungendo stizzito le mani sul grembo. Leonora aveva stretto talmente le labbra, che pareva volersele ingoiare e dal luccichio dei suoi occhi, Momolo intuì come si stesse trattenendo da un pianto rabbioso.

Fu il patrizio a rompere per primo il silenzio, allargando le braccia tra il conciliante e l’aggressivo. “Ma alla fine, de diana, che diavolo veniva a fare questo gentiluomo in casa vostra?”

“A chiacchierare un poco … E’ vedovo e solo con un bambino ancora in fasce …”

“Puoah, affari suoi … Certo che a voi, sorella, i vedovi piacciono assai … ”, commentò malizioso Batista, beccandosi un’occhiataccia fustigatrice da parte della patrizia che proseguì imperterrita:

“Veniva a chiedermi consiglio.”

“A voi?”

“A me!”

“E qual consiglio poteva offrigli la dottoressa, qua?”, inquisì beffardo il “da Lisbona”.

“La fiozza (figlioccia, ndr.) del signor Pellizzari, no la cognosseu?”, replicò a tono Leonora, arcuando il sopracciglio.

“Vagamente …”, rispose incolore il suo fratellastro, aggrottando la fronte e incominciando a capire dove la sorellastra stesse andando a parare. Si ricordava di quel passerotto di fanciulla, timida e discreta e sempre nascosta dietro la madre. Una biondina molto graziosa dalla pelle di latte e rosa.

“Il signor Alvixe la vorrebbe in moglie e poiché sono amica della madre della puta, egli mi domandava: primo, d’intercedere presso di lei; secondo, se non fosse troppo presto per risposarsi. Se dubitate delle mie parole, prego, recatevi dalla siora Marta e domandatele conferma!”, lo sfidò la nobildonna a verificare di persona la sua giustificazione, indicandogli tramite un ampio gesto del braccio la porta da dove uscire. "Su, andate controllare, Missier Grando, chiedete a tutta Fanzuolo e Castel Francho, a chi vi pare! Dopodiché, m’auguro si possa chiudere per sempre quest’assurda vicenda!"

Fu comico osservare le diverse reazioni di zio e nipote dinanzi a quella rivelazione: il primo si rilassò immediatamente, neanche gli avessero levato un grande macigno dal petto e anzi, ridacchiò pure nervosamente, appoggiando la schiena sui cuscini appoggiati al muro sopra la cassapanca. Il secondo parve invece essere schiacciato da essa, afflosciandosi quasi su se stesso.

“Tuttavia”, puntualizzò Batista, “avreste forse fatto meglio a chiarirvi prima col vostro puto. Poareto, non ha capito niente, anzi, s’è preso un brutto spavento e questo soltanto perché vi vuole molto bene. Nevvero, Momolo?”, gli accarezzò il capo senza voltarsi né accorgersi di come il nipote avesse sussultato, sconvolto.

Stavolta fu madona Leonora ad abbassare il capo, ammettendo il suo errore in quel frangente. Il suo fratellastro aveva ragione: avrebbe forse dovuto spiegare meglio la situazione a suo figlio, onde evitare quel malinteso. Ciononostante, non capiva come mai quell’ansietà da parte sua, aveva sempre pensato d’esser stata assai palese circa la sua contrarietà ad eventuali seconde nozze.

Proprio in quel momento rincasava Marco che, raggiungendo il gruppetto onde salutare il nuovo arrivato, s’imbatté nel curioso spettacolo del suo Barba un poco imbarazzato, di sua madre costernata e del suo fratellino sull’orlo delle lacrime.

“Dime, caro ti”, partì immediatamente il patrizio all’attacco. “Tu ovviamente non ne sapevi niente, vero?”

“Sora che?”, sbatté il diciottenne confuso le ciglia.

“Mah, che la tua siora Mare vuol sposarsi il signor Alvixe!”

“Titta!”

“Eh?”, mutò d’un colpo l’espressione di Marco da disorientata a furiosa, girandosi di scatto verso Momolo, il quale ormai vagava nel suo mondo, insensibile ad ogni contatto esterno, tramortito.

“An!”, schioccò trionfante Bastita la lingua, puntando contro l’indice al ragazzo. “Ecco qua il complice. Vedete, Leonetta? Questi due”, e accennò col capo a Marco e Momolo, “stanno attaccati l’un l’altro come Juda ai suoi trenta danari. Ma tu guarda”, asserì severo, scuotendo il capo, “se mi tocca giocare al re Salomon per cavarvi di bocca la verità!”

“Marchetto, per dasseno sapevi tutto?”, l’interpellò mesta sua madre, costringendo il giovane ad abbassare contrito il capo.

“Purtroppo”, ammise, per poi scoccare l’ennesima occhiataccia al fratellino. “Ma non fino a questo punto! Sì, siora Mare e sior Barba, Momolo s’era confidato con me, però subito ho tentato di dissuaderlo dal perseguire questa sua asineria! Non è colpa né mia né della mia siora Mare, se questo disgraziato non ascolta mai i suoi maggiori e agisce sempre di testa sua!”

 “Figlio mio, potevi però avvertirmi.”

Le orecchie di Marco avvamparono, ammansendosi il suo tono di voce. “E ripetervi le … le turpi schifezze che m’ha confessato? Sarà ancora un piccoletto, ma possiede una mente più sporca d’un marinaio! On marso malignasso!”

Madona Leonora aprì la bocca per replicare in difesa dell’ultimogenito, sennonché Bastita, captando un’aria piuttosto tesa e volendo evitare altri inutili discussioni, s’intromise onde appacificare gli animi.

“Mo’ via, mo’ via! Pace e non parliamone più. S’è trattato di un semplice malinteso; noialtri ci siamo chiariti come gente civile e la questione, per me, è bella che chiusa. Non vi trovate d’accordo?” e squadrò uno ad uno il volto dei suoi interlocutori, i quali convennero a malincuore.

“Sior Barba, vi fermereste a cena?”, lo invitò impacciato Marco dopo un lungo silenzio.

“Vorrei ben vedere! Ho una gran fame, neanche ho pranzato!”, esclamò ilare, alzandosi dalla cassapanca foderata e seguendo il giovane verso l’altra sala.

“Vi faccio anche preparare un bagno e una stanza.”

“Buon’idea: il mio povero cavallo ancora ha da riprendersi e d’altronde mai fidarsi di viaggiare di notte. Ripartirò domani mattina, se non v’incomoda.”

“No, no, è il minimo che possiamo fare per scusarci …”

Madona Leonora, invece, era partita alla rincorsa di Momolo che, appurando la perdita perfino del sostegno e considerazione dello zio, era zompato via in camera sua alla stregua di una lepre.

Ripigliatosi dall’intontimento ricevuto da quell’inaspettata batosta, il giovinetto era passato dall’incredulità alla vergogna ad infine alla collera più nera. Si trattava di un inganno, ne era certo, un teatrino architettato ad arte da Madre e il suo ganzo onde ingannare suo zio. La figlioccia del Pellizzari … figurarsi! Momolo non sarà stato un grande appassionato di poesia, però la figura della donna schermo se la ricordava bene ed ecco che di nuovo s’era ritrovato da solo nella sua lotta e stavolta sul serio senza alcun alleato.

E se ne avesse parlato col prete?

“Momolo”, gli giunse la voce di Madre alle sue spalle, interrompendo il suo esagitato andirivieni per la stanza. Subito il ragazzino si sedette sul letto, le spalle rigide sulla difensiva.

Madona Leonora chiuse la porta, avanzando verso il suo ultimogenito, il cuore inquieto dinanzi all’espressione furibonda in quelle giovani iridi nerissime: in nessuno ella vi aveva scorto tal rancore, neppure in Anzolo nelle sue crisi peggiori. Per un istante, per un folle istante, le parvero gli occhi di una creatura infernale più d’un essere umano.

“Momolo”, gli disse dolcemente, sedendosi accanto a lui. Il ragazzino si scostò bruscamente, voltando il capo in direzione opposta. Madre sospirò. “Momolo, non sono arrabbiata. Però, dopo quanto successo questo pomeriggio, hai ora l’obbligo di dirmi perché ti sei comportato così. Perché non ti sei confidato?” e ostinandosi il figlio nel suo mutismo, proseguì: “Ci siamo sempre raccontati tutto … Sai bene che non ti giudico …”, provò ad accarezzargli i capelli, sennonché il tredicenne si sottrasse al suo tocco. “Momolo …”

L’interpellato in questione serrò i muscoli della guancia, incrociando le braccia al petto, irremovibile.

“Amore mio, non t’angustiare: non mi risposerò. Men che meno col signor Alvixe, che, come ora ben sai, veniva qui allo scopo di conoscere meglio quella ragazza.”

“Le solite scuse”, ribatté infine Momolo, strisciando dall’astio le parole. “Non appena il sior Barba rientrerà a Veniexia, torneremo daccapo!”

Sua madre scosse il capo. “Ma no …”

“Ma sì, invece! Mica sono scemo! Sempre lì a sminuirmi, quando invece giudico le cose per quel che sono! E non rifilatemi il solito stornello Ora sei giovane e non capisci, perché al contrario ho ben capito, come anche gli adulti sappiano essere più stupidi e ingenui dei bambini!”

“Per questo motivo hai scritto al tuo Barba? Perché mi credevi stupida ed ingenua?”

“Speravo facesse qualcosa. Qualsiasi cosa”, bofonchiò impacciato l’adolescente, gonfiando le guance. “Ed ecco che si rivela più mona della mona.”

“Momolo! Porta rispetto al tuo sior Barba!”, lo rimproverò la nobildonna, scontenta da quel turpiloquio che proprio non riusciva a sradicare dal figlio. “Cosa t’auguravi che facesse? Non ha potuto risolvere niente, perché non c’è mai stato niente da risolvere! Tesoro …”, si portò ella più presso al ragazzino. “Il tuo Tata era la mia vita, anche se ogni tanto ci vedevi litigare e gli tenevo il broncio, l’ho amato dalla prima volta fino all’ultima in cui l’ho visto … Neanche obbligandomi, neanche se Missier il Doxe o il domino Patriarcha me lo comandassero riuscirei mai a sopportare un secondo matrimonio … Dio m’ha dato il tuo Tata; Dio me l’ha tolto. Dio me lo restituirà nell’ora della mia morte.”

Un feroce groppo in gola strangolò Momolo, che si morse feroce il labbro inferiore. “Non bestemmiate il nome di Padre né di Dio!”, gracchiò, battendo i pugni sul materasso. “Come potete … come potete …?”

“Come hai tu potuto accusare un uomo senza prove concrete?”, gli chiese di rimando sua madre. “Scrivere tali accuse al tuo Barba! Hai mai pensato a cosa sarebbe potuto accadere, se qualcun altro avesse letto la tua lettera? Per gelosia avresti rovinato la vita ad uomo innocente!”

“Ecco, sempre a difendere Sant’Alvixe Beltramin, confalonier (patrono, ndr.) dei maridi bechi et di le védoe allegre!”, ridacchiò sarcastico il tredicenne e pieno di tal malignità, da frustrare un poco la nobildonna. Il suo figliolo avrà pur ereditato l’aspetto dei Morexini, ma in quanto a testardaggine era tutto Miani …

“Mi deludi, sai? Non ti facevo così maligno e rancoroso”, gli confidò infine, alzandosi dal letto. Un qualcosa si ruppe nel cervello di Momolo a quelle parole, sconvolgendogli la ragione  e letteralmente vide rosso, il suo cuore incapace di sopportare anche quel tradimento. Dell’opinione altrui se ne fregava, ma quella di Madre gli era vitale. Se dunque anch’ella lo disprezzava … “Se lo sapesse il tuo sior Pare …”

“Ancora avete la faccia tosta di nominarlo?”, berciò all’improvviso Momolo, interrompendola furioso. Balzò giù dal letto e raggiunta sua madre le impedì di lasciare la stanza, anzi, le afferrò di malagrazia il polso e la costrinse a voltarsi. “Se lo sapesse il mio sior Pare, si rivolterebbe nella tomba nello scoprire che razza di troia s’è preso in casa!”

Il ragazzino scorse appena il lampo d’ira negli occhi della madre, avvertendo immediatamente un poderoso ceffone sulla bocca, il primo in tutta la sua vita da parte della genitrice. Sconvolto, si portò la mano là dove gli pulsava un taglio aperto, scoprendo piccole gote di sangue sui polpastrelli: ironia della sorte, Madre lo aveva schiaffeggiato con la mano recante proprio l’anello di Padre, dal quale non si separava mai.

Per un arco indefinito di tempo i due si fissarono in silenzio assoluto, Madona Leonora con un’espressione inflessibile da Christus Judex e Momolo come un’anima prava in attesa del giudizio. Entrambi, curiosamente, volevano in realtà parlare sennonché l’orgoglio, la paura, lo sdegno, il dolore e la vergogna glielo impedivano.

“Gnanca presentate a tola.”

“Gnanca vojo sofrir di la vuostra cumpagnia.”

Si dissero il contrario di ciò che in realtà premeva nei loro cuori, ossia l’impellente necessità di perdono e conciliazione.

Il tredicenne represse il naturale istinto di correre dalla madre e di abbracciarle le ginocchia, supplicandola di perdonarlo e di confessarle in lacrime la sua intima paura di perderla, di rimanere solo ad affrontare quel pazzo mondo assassino. Voleva confidarle del vuoto lasciatogli da Padre, della sua ira contro quell’ingiustizia divina, della sua invidia verso i suoi cugini benedetti da ogni fortuna, specie quella di avere un padre che li guidava mentre di lui nessuno si curava e ciononostante avevano l’ardire di criticarlo ugualmente, come se fosse facile crescere da soli. Voleva dirle che l’ama tantissimo, più della sua vita, che lei era l’unica persona in cui nutriva una fiducia assoluta, l’unica che non l’avrebbe mai ingannato né abbandonato. Il suo scudo, la sua aria, il medesimo sangue che gli scorreva nelle vene.

Voleva solo proteggerla per proteggersi.

Momolin, quando sarai più grande, capirai che anche volendo far del bene, purtroppo finiamo per ferire le persone che amiamo.

Tacque invece, l’orgoglio troppo grande, la voce della sua vanità che gli sussurrava quanto lui fosse nel giusto, mentre la colpa stava in Madre, l’artefice di quell’incresciosa situazione.

Mi sun parfeto.

Madre e figlio si separavano e Momolo si domandò se forse, quel lontano 18 agosto 1496, non sarebbe stato meglio se avessero trovato impiccato lui a Rialto al posto di Padre.

 

***

 

 

Madre, in cuor suo, l’aveva ovviamente già perdonato malgrado Hironimo non le avesse mai chiesto esplicitamente scusa. L’aveva riaccolto a braccia aperte, senza mai rinfacciargli nulla e ciò l’aveva doppiamente ferito perché ormai sapeva d’aver varcato una linea da cui era impossibile ritornare indietro. La loro perfetta sintonia era stata irrimediabilmente contaminata da dubbi e paure ed egli non si sentiva più in diritto di godere di quell’amore così intenso, né di reclamarlo esclusivamente per se stesso.

Sicché cercò attivamente altrove.   

Nei giorni e negli anni che seguirono, Hironimo in apparenza si comportò da figlio modello, adoprandosi nella difficile arte della doppia vita – un volto per la genitrice, uno per i suoi amici e conoscenti. Pur spiritualmente attaccatissimo alla genitrice, fece di tutto per staccarsi dai suoi dolci legami, vertendo ogni suo sforzo a dimostrare al mondo come egli non fosse uno smidollato mammone. Agli altri questo suo cambiamento piacque assai, finalmente si comportava normalmente, era uno di loro, conforme alla società. Poco importava se la sua vita stesse gradualmente divenendo sempre più sterile.  Si trasformò consciamente in una barca danzante alla deriva dei flutti, lasciandosi guidare da questa o quella moda, dall’ambizione, seguendo i suoi capricci e i suoi istinti ma mai la voce della ragione ch’era sua Madre, la quale, pur rispettandola, gli divenne cadaun giorno sempre più fastidiosa e insopportabile.

“Momolo, sii attento. Momolo, sii prudente”, gli ripeteva Madre ogniqualvolta usciva “a cena” cogli amici. Sapeva che suo figlio non era cattivo e si sforzava nella titanica impresa di tenerlo sulla buona via, di non perdere quell’antico legame d’amore e fiducia.

“Sì, sì, non vi preoccupate. Non son più un bambino!”

Se madona Leonora avesse mai sospettato della verità, il giovane Miani se lo seppe lo relegò nel dimenticatoio, giustificando le sue come le ennesime chimere della sua coscienza sporca e costì tirando dritto per la sua strada. Un giorno si sarebbe comportato meglio, un giorno avrebbe fatto ammenda … un giorno forse, quello del mai …

Ignorava che così facendo, non onorava per niente Madre e il tenerla all’oscuro delle sue baronate, non rendevano le sue colpe meno lievi.

Ella mi ha educato soffrendo tante volte per me i dolori del parto quante mi vide allontanarmi da voi, o Dio. [1b]

Hironimo ciononostante non s’azzardò mai più d’ingiuriarla, d’urlarle dietro, né di disobbedirle o contraddirla. La sua espiazione corrispose alla consapevolezza, che lui aveva e tuttora stava mancando di rispetto alla sola persona in tutta Venezia che lo amava incondizionatamente, senza aspettarsi nulla in cambio e che non lo frequentava per doppi fini. Madre desiderava solamente che fosse un bravo figlio e cittadino per giovare se stesso e la sua anima, non per compiacerla. Già lo amava per ciò che era, anche se poca cosa a detta di Hironimo, non necessitava che lui le dimostrasse alcunché o che si contendesse il suo amore ai fratelli.

Per questo motivo, col senno di poi, Hironimo comprese perché aveva perduto la ragione alla prospettiva di perdere Madre: dopo la morte di Padre, s’era sentito perduto, solo al mondo e indifeso. Ogni certezza gli era crollata, la vita non gli appariva più alla stregua di un'avventura, bensì un mostro divoratore ingiusto, crudele, ipocrita. Improvvisamente, Hironimo s’era sentito vulnerabile ad ogni cosa, costantemente in pericolo, solo Madre gli infondeva sicurezza, conforto e amore. Come gli aveva detto la genitrice, la solitudine non è soltanto un male del corpo ma anche dell’anima, la quale si accartoccia su se stessa, impazzendo dalla disperazione.

Cos’avrebbe fatto Hironimo senza Madre? Niente. Il resto della famiglia l’avrebbe sopportato, sobbarcandosi di lui più per dovere che per amore, i propri pargoli più importanti di lui. Sarebbe finito come Thomà, se non di peggio, con la testa sul ceppo come Gasparo Valier.

Come aveva ringraziato la fortuna d’aver avuto l’amore di Madre? Insultandola, tormentandola con la sua disobbedienza, arroganza, testardaggine.

Aveva sputato sul dono offertogli, l’ingrato. L’ennesimo sgarbo a Dio che gli aveva generosamente offerto una madre amorevole e attenta. Thomà avrebbe costruito ponti d’oro per riavere indietro la sua mamma e Hironimo s’era congedato da lei senza neppure esaudire il desiderio ultimo di madona Leonora prima della sua partenza a Castelnuovo di Quero, ovvero che si riappacificasse coi suoi fratelli, almeno per amor suo. Per farla contenta. Per non condannarla all’angoscia di sapere i propri figli morti odiandosi l’un l’altro, com'era accaduto coi suoi fratelli sier Batista e sier Hironimo, deceduto quest'ultimo sei anni addietro "in lite et in grandissimo odio" nei confronti del minore.

Da lei aveva preteso senza offrirle di concreto nulla in cambio. Era partito con le migliori intenzioni – di proteggerla al posto di Padre – per poi divenire un parassita che si nutriva  e basta del suo amore.

Se uscirò vivo da qui, si ripromise solennemente Hironimo, cercando d’appoggiarsi più comodamente sul muro umido e sporco della stalla. Non avrebbe più commesso lo stesso errore con Padre, non sarebbe morto senza scusarsi con Madre e confessarle quanto l'amasse. Se la scampo giuro che le chiederò perdono. Andrò a Veniexia, da mia Madre, e in ginocchio la supplicherò di perdonarmi per ogni mia mancanza nei suoi confronti e da quel giorno, finché avrò vita, non farò mai nulla che le possa recare dispiacere.

Questo si ripeté e ripeté senza sosta fino alle prime luci dell’alba e per la prima volta in quindici anni sperò, sperò con ogni fibra del suo essere in una seconda possibilità, sul serio in una seconda possibilità.

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Come sempre, non sapendo un bel niente dell’infanzia del Nostro, le maggior parte dei fatti di quest’episodio sono romanzati (così come alcuni personaggi quali Alvise Beltramin), tranne i cenni storici di contorno (la guerra veneto-turca e la seconda calata dei francesi) e le vicende di Orsatto Morosini. Anche l’episodio del debito di Luca Miani è riportato dal Sanudo, pure quest’ultimo protagonista di quella poco chiara faccenda.

Riguardo al nome della moglie di Orsatto, purtroppo non ci è stato possibile reperire il nome. Tuttavia, poiché sua sorella minore era stata chiamata Elisabetta in onore della nonna materna, la (de iure mai de facto) dogaressa Elisabetta Soranzo Barbarigo, non si può escludere che la sorella maggiore fosse stata chiamata Pellegrina, in onore della nonna paterna, Pellegrina Zorzi Nani. Pertanto, ci siamo presi questa licenza di così nomarla.

Colgo l’occasione per ringraziare Semperinfelix per il suo sostegno e Sagitta72 per avermi in particolare aiutata nella stesura dell’ultima parte – grazie mille! ^^

Il prossimo capitolo verterà ancora sull’esame di coscienza del Nostro: come accennato nel precedente capitolo, abbiamo raggiunto metà storia e ci addentreremo poi verso la seconda e ultima parte.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] Santa Monica = 26 agosto. Madre di Sant’Agostino Dottore della Chiesa (celebrato il giorno dopo, 27 agosto), giocò un ruolo importantissimo nella sua conversione al cristianesimo. Il Santo ammise in più occasioni come non fosse stato un figlio esemplare, riempiendola spesso di preoccupazioni. Un parallelo davvero affascinante col Nostro, specie il suo rapporto con la madre. La citazione [1b] nel capitolo è infatti dello stesso Santo.

[2] grisole (o grisiole) = Graticci o graticciuole (arelle di valle) formate di canne verticali.

[3] ambracane = antico nome dell’ambra grigia, da cui si produceva l’omonimo profumo.

[4] pizzuolo = la cabina del comandante in galea.

[5] gioco di parole, tra “madonna” intesa come “suocera” e la Madonna. Da questo motto, si può dunque intuire l’opinione dei generi verso le loro suocere e dove le preferiscono.

[6] San Nicola = 6 dicembre. Un famoso episodio della vita di San Nicola narra di come l’allora giovane santo, saputo di come un padre avrebbe prostituito le sue figlie senza dote, di notte lanciò dalla finestra dei sacchi piene di monete così da risparmiarle a quel triste destino. Da allora era tradizione lasciare il 6 dicembre soldi o dolciumi o piccoli presenti, specie per i bambini.

[7] brazzoler = il metro/stecca per misure la stoffa.

[8] un gran bel senato = il motto completo è “Quela signora ga un gran senato!” Quella signora ha un gran petto, dei seni prepotenti. Gioco di parole tra “seno” e “senato”. "Culàta", invece, è riferito alla natica, ma è anche il nomignolo dato all'estrema poppa di galee e galeazze, il cui fasciame si richiudeva in due parti quasi semisferiche tra le quali ruotava il timone. "Parer el galo de dona checa" si dice ad un uomo che non solo si innamora facilmente, ma che non va tanto per il sottile nella scelta della donna.

[9] protogero = il capo più anziano della comunità greca.

[10] anche questa è una descrizione “intuitiva” di Villa Paradiso (oggi nota come Villa Bolasco) poiché non si sa come fosse stata prima della demolizione e ricostruzione nel 1509 e poi della significativa ristrutturazione del 1607, che lo trasformò in un vero e proprio palazzo signorile senza però intaccare la struttura originaria del 1509.

[11] questa chiesa è stata abbattuta nel XVIII secolo per costruire l’attuale Duomo. Qui si trovava l’originaria Cappella Costanzo, dove l’omonima famiglia nel 1503 collocherà la celebre Pala commissionata da Tuzio Costanzo al Giorgione in occasione della morte del figlio Matteo a Ravenna.

[12] San Michiel cum la bassacuna = San Michele con la bilancia. Secondo un’iconografia molto diffusa, l’Arcangelo Michele veniva raffigurato nel Giudizio Universale con spada e la bilancia, misurando le anime e smistandole poi dove di dovere. Riprende molto l’iconografia egiziana della pesatura del cuore da parte del dio Anubi al cospetto di Osiride.

 

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Capitolo 20
*** Capitolo Diciottesimo: Confiteor ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato l'08.10.2021

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Capitolo Diciottesimo

Confiteor

(Non uccidere)

 

A forza di sterminare animali, si capì che anche sopprimere l'uomo non richiedeva un grande sforzo.

(Erasmo da Rotterdam)

 

 

 

 

1500 – 1502

 

 

 

Il nuovo secolo chiudeva un’era e ne apriva un’altra, sostituendola con nuovi ordini e spazzando via quelli vecchi. Un’Italia bruciava e moriva; Dio solo avrebbe saputo dire quale creatura sarebbe nata dalle sue ceneri.

Perfino a Venezia, nel suo piccolo, quasi a sottolineare la fine di un’epoca, moriva Missier il Doge Agustin Barbarigo. Al suo funerale gli vennero resi tutti quegli onori di cui, per la natura del suo ufficio, mai in vita godette: steso su di un feretro imbalsamato e armato di tutto punto, il fu Barbarigo venne trasportato nella sala del Piovego, proceduto da stendardi, dal suo stemma, dai marinai dell’Arsenale, dai principali membri delle Scuole, tosto seguiti dai funzionari palatini e dignitari, da numerosi frati d’ogni ordine, dal clero laico e dagli orfanelli di Santa Maria della Pietà ciascun con una candela in mano. Per tre giorni il popolo veneziano aveva sfilato davanti al suo catafalco in apparenza per pregare per l'anima sua, in realtà per maledire Barbarigo e la sua rapacità, avarizia, tenacità e superbia. Per tre notti i consiglieri ducali del Minor Consiglio avevano scrupolosamente vegliato il corpo, così come avevano fatto quando Missier il Doge era stato ancora in vita, spiandone e registrandone costantemente ogni azione e parola. Dopodiché, al dì del funerale, tutta Venezia si radunò in Piazza San Marco e davanti alla porta principale della Basilica il corteo funebre si fermò bruscamente: per nove volte i portatori alzarono e abbassarono il feretro e per nove volte gridarono: Misericordia! Infine, a Messa terminata, il corteo si recò alla Chiesa di Santa Maria della Carità, l’ultima dimora terrena del Serenissimo Agustin Barbarigo, seppellendolo accanto all’odiato fratello, il fu Missier il Doge Marco Barbarigo.

Morto dunque un Doge, la Serenissima Signoria s’affrettò a nominarne presto un altro e la scelta cadde, inaspettatamente, sul procuratore sier Lunardo Loredan q. sier Hironimo “dal Barbaro” della parrocchia di San Vidal e, come si soleva dir in tali circostanze, mutato duce, mutabitur fortuna. I maligni, ovviamente, batterono le lingue: sier Piero Bembo di sier Bernardo infatti adombrò che il Loredan avesse vinto più per conoscenze personali, che per i propri meriti. Ed in effetti, i primi a brontolare per la malasorte furono i Trum: sier Phelipo procuratore, cugino di sier Antonio, piaceva assai come candidato, giacché onesto, amico del bene pubblico, nemico dello spreco e di rara modestia oltre che ricchezza. Sennonché, il figlio del fu Serenissimo sier Nicolò aveva avuto il cattivo gusto di morire proprio durante il processo d'elezione del nuovo Doge e tale fu la sciagurata coincidenza, che si vociferava come il Trum fosse stato avvelenato. Tale notizia, avendo messo l'intera Venezia in agitazione, aveva portato ad un concitato andirivieni di magistrati e patrizi a San Stae, dove sier Phelipo viveva con le sorelle, onde assicurarsi delle cause del decesso. Sier Antonio Trum s'era ben sfogato con la nipote Crestina, dichiarando assurdo l'intero teatrino: era ovvio che il suo germano fosse morto ad appena sessantasei anni per la sua notevole grassezza, che accidenti dovevano scomodare un medico e soprattutto le cugine per un'indagine? Avrà fatto piacere a sier Piero Trivixan, loro parente, ritrovarsi all'improvviso quel gineceo da ospitare.

In ogni modo, alla presenza di 50.000 persone accalcatesi a Piazza San Marco, sier Lunardo Loredan sbarcò al ponte della Paglia, scortato dai suoi sei consiglieri ducali e le bombarde e i campanili, che fino a quel momento avevano riempito l’aria di spari e di vivacissime melodie, tacquero improvvisamente, segno che Sua Serenità era giunto. Ecco il vostro Doge!, s’elevò solenne l’annuncio, mentre il Loredan procedeva con passo silenzioso dalla porta della Basilica fino all’altare, inginocchiandosi davanti al primocerio il quale dopo avergli fatto prestar giuramento lo benedisse, cosicché fosse ben chiaro come Dio approvasse dal Cielo ciò che gli uomini sceglievano in terra.

Salito sulla portantina detta “pulpito” trasportata da duecento marinai dell’Arsenale, il nuovo Doge attraversò la folla festante, elargendo ducati a destra e a manca, suo fratello sier Piero Loredan, i figli del Serenissimi sier Lorenzo, sier Hironimo, sier Alvixe, sier Bernardo, madona Donata, sposa di Jacomo Guxoni da S. Vidal, madona Maria, sposa di Zuam Venier; Paula, moglie di Zuam Alvixe Venier ed infine Ysabeta, sposa di Zacharia Priuli, immediatamente dietro di lui con tutta la Signoria al gran completo. Niente Dogaressa, essendo venuta a mancare ante l'elezione madona Morexina Zustignan da San Moixé. Passata la Porta della Carta, il corteo entrò nel cortile di Palazzo Ducale e pareva quasi ironico che le nuove facciate, appena terminate, fossero state commissionate proprio dal fu Serenissimo Missier Agustin Barbarigo, morto prima di potersene giovare. Lì i marinai deposero la portantina e Sua Serenità salì sulla monumentale scala circondata da allegorie della Fama e della Vittoria, opera degnissima di Antonio Rizzo [1]. Soltanto alla fine di essa, all’ultimo gradino, venne sier Lunardo Loredan incoronato ufficialmente Eccellentissimo Serenissimo Principe e Duca di Venezia, acciocché a nessuno sfuggisse il chiaro simbolismo, ossia che la sua ascensione alla carica più alta dello Stato non gli era dovuta per diritto di sangue, bensì per meriti graduali, carica dopo carica, ma soprattutto, standosene in alto la Signoria, come Venezia l’aveva creato Venezia lo distruggeva, avesse egli tentato qualsiasi stranezza a suo danno. 

Dal più giovane membro del Maggior Consiglio il Serenissimo ricevette la bereta delle cerimonie ordinarie, mentre dal più vecchio consigliere il corno ducale dei giorni di festa, una vera e propria “zoja”, sormontato da una croce di diamanti e scintillante di smeraldi, rubini e perle, per un valore totale di 194.092 ducati. Un altro consigliere gli pose sulle spalle il manto di broccato d’oro ed ermellino. Il Gran Cancelliere gli lesse le norme della Costituzione, su cui Loredan giurò solennemente di osservarle a costo della vita. Il Serenissimo ricevette infine lo stendardo di San Marco fra le acclamazioni del popolo, al quale egli promise justicia indifferenter, abondantia, et tenir la terra in paxe .

Impegno non indifferente se considerata la delicata situazione politica, con la guerra contro i Turchi che procedeva a fasi alterne, coi Francesi oramai padroni del Ducato di Milano e intenti a spartirsi il Regno di Napoli cogli Aragonesi di Spagna e naturalmente i Borgia impegnati ad eliminare dalla Romagna ogni signoria a loro scomoda.

Decisamente il Serenissimo Lunardo Loredan non poteva esser stato eletto in un periodo più tremendo.

In questo clima dunque di sconvolgimenti di una realtà che s’era sempre creduta eterna e immutabile, Hironimo aveva preso la decisione anch’egli di lasciarsi quanto più possibile alle spalle i perduti giorni dell’infanzia e con essa ogni sensibilità d’animo da lui coltivata, che, a quanto pareva, all’altrui giudizio corrispondeva a debolezza al limite dell’effeminatezza. Ciò lo infastidiva oltre ogni dire: per quanto il ragazzo adorasse trascorrere i pomeriggi in compagnia delle cugine, non si era mai sentito meno maschio né desideroso d’emulare quei loro atteggiamenti da donzella.

Anche perché, ultimamente non resisteva più all’infinità di melensaggini che avevano rincretinito le giovani Morexini. A dare il la era stata la loro cugina Catharina Corner: da quando s’era sposata in sier Zuanne Soranzo era divenuta insopportabile, cogliendo ogni occasione per sfoggiare la collana di perle della novizza, l’elaborata acconciatura e i vestiti all’ultimo biondo; non faceva che raccontare delle feste cui adesso poteva partecipare più agevolmente, di quanto fosse bello gestire una propria casa, dei cagnolini che s’era comprata e in generale di  ricordare alle sorelle minori e soprattutto alle cugine Morexini ancora nubili della sua ascensione dallo status di vergine a moglie.

Le tose lo desidera, le maridae lo prova, le vedove lo recorda sicché la presenza nefasta del Soranzo instillò in Maria e Querina una gran smania di sposarsi anch’elle, lavorando con doppia tenacia al proprio corredo nuziale e non cessando di ricordare subdolamente al padre sier Batista della loro età e di quanto sarebbe stato disdicevole sapersi o monache o zitelle, quando le cugine Corner sicuramente tutte si sarebbero maritate. E tanta fu il desiderio d’apparire e di comportarsi più adulte della loro effettiva età, da finire per rendersi, agli occhi di Hironimo, ridicole, noiose e irrimediabilmente rincitrullite, specie Maria la quale, raggiunti come lui i quindici anni, non faceva che tarmarlo con i suoi sospiri su questo o quel cavaliere di non so qual poema ch’aveva letto; oppure delle sue confidenze circa qualche giovanotto che aveva intravisto in chiesa a Messa o dal balcone, descrittogli e commentatogli l’aspetto con la spietata pignoleria da mercante tipica della loro famiglia. E tramite la medesima precisione ella gli descriveva il tessuto ch’avrebbe utilizzato per un nuovo abito o le pietre per una nuova collana o come si sarebbe acconciata i capelli alla prossima celebrazione della Sensa. Il povero Hironimo si sforzava di ascoltarla e mostrar interesse verso cose che manco lo tangevano, anzi, pure arcuava indispettito il sopracciglio all’udir cantar le lodi dei giovani patrizi adocchiati dalla cugina; però ahimè non riusciva a starle dietro e spesso dimenticava quanto dettogli, temendo assai il momento in cui Maria, crudele, gli chiedeva di ripetere onde verificarne il livello d’attenzione. E Querina, che in tutto emulava la più spigliata e volitiva sorella, rincarava la dose con doppio vigore, onde dimostrare che non era da meno. L’unica a salvarsi rimaneva a piccola Marina, quel benedetto angioletto che dall’alto dei suoi quattro anni non si preoccupava certo del futuro, trascorrendo le giornate a giocare in giardino o a palla coi fratellini o a vestire e ninnare le sue bambole.

Era un piacere vederla correre così allegra e spensierata, le sue risate un balsamo dopo ore e ore d’inconcludenti chiacchiere da parte delle sue sorelle maggiori.

“Sior Barba, come riuscite voi ad ascoltare la siora mia Amia vostra mojer, la Mariuccia e la Rina senza addormentarvi ad occhi aperti? Diamine, hanno più senso i discorsi della Marinella!”

“E chi ti dice che le ascolto?”

“Ma …!”

“Dai retta al tuo Barba: lasciale parlare, poi quando le si è seccata la lingua e finalmente tacciono, solo allora replichi: “Concordo appieno, meglio non potevate dire, vi auguro buona giornata.” E poi scappi via senza guardati indietro, prima che recepiscano il messaggio e ti assordino coi loro strilli e rimproveri. Hai ben compreso?”

“Le mie zermane ritorneranno mai normali?”

“Sì, è soltanto la novità d’aver scoperto d’esser “donne”. Poi quando si stuferanno, vedrai che riprenderanno ad usare il cervello. Solitamente questo accade dopo il primo figlio.”

“Spero d’arrivar vivo a quel momento.”

“Per fronteggiar una donna bisogna aver spalle larghe, nezzo mio. Il tuo sior Pare aveva ragione, quando affermava che come il vento, le femmine non si comandano mai. D’altronde, è il prezzo che paghiamo per il privilegio d’esser nati col pene.”

Neanche con Marina Morexini q. sier Orsato poteva Hironimo più parlare e non per via dell’età della giovinetta, bensì per le solite paranoie di sua madre madona Pellegrina Nani relicta Morexini, la quale, preoccupata dell’eccessiva intesa tra la figlia e il ragazzo, li aveva per vie indirette lentamente allontanati, incominciando dall’invitare sempre di meno al Paradiso madona Leonora e per associazione i suoi figli oppure declinava gli inviti di madona Alba Donado Contarini nel suo palazzo a San Trovaso, quando sapeva per certo come anche Hironimo si sarebbe trovato lì. La vedova temeva infatti che Hironimo, dall’alto della sua perfidia calcolatrice, potesse compromettere la virtù della figliola, dunque accaparrandosela, quando la donna avrebbe preferito mille martiri piuttosto di saperla maritata ad un tanghero senza né arte né parte quale il giovane Miani.

Sicché Hironimo aveva dovuto cercare altrove una sua collocazione, virando verso le amicizie virili dapprincipio da lui snobbante, all’inizio accodandosi ai fratelli e poi cercandole da sé.

Per facilitarle e al contempo obliare la perenne sensazione di vuoto nel petto, l’adolescente si gettò a capofitto in ogni disciplina marziale, accampandosi per poco nelle palestre e nelle scuole di scherma, frequentando assiduamente i corsi di tiro con l’arco a San Nicolò del Lido e di pallacorda a San Zaccaria. Rincasava tardi, stremato, coi muscoli tremanti e in fiamme, lividi dappertutto e gli avambracci rossi per via delle ustioni da frizione della corda dell’arco. Però almeno la notte dormiva senza sognare e più non pensava.

Nella lotta libera o grecoromana o negli incontri di pugilato Hironimo non si spaventava d’affrontare avversari il doppio della sua stazza, né si lagnava del vento sferzante contro il viso, dei vestiti umidi d’acqua e del bruciore delle vesciche, quando remava in laguna o per sfogare la rabbiosa sua energia o per competere contro i compagni in serrate gare da Mestre fino al Lido. Sprezzando la temperatura dell’acqua, o in canale o al mare o nei fiumi, niente e nessuno lo poteva trattenere dall’accettare una gara di nuoto.

“Hé, bravo, bravo! Anche io alla tua età mi dedicavo molto al nuoto, è il miglior esercizio per irrobustirti! Sapessi da giovane quante gare ho vinto!”

“Quando Anzolo non partecipava  …”

“Antonio, dovevate proprio ricordarmelo?”

Ad allenamenti terminati, la parte della giornata che più piaceva al giovane Miani era quella di recarsi alle stue (stufe, ndr.) pel bagno turco assieme al barba materno Batista e quello acquisito Antonio Trum. Non capiva il perché i due gli avessero proibito di andarci da solo, insistendo di accompagnarlo o lui di raggiungerli. In ogni modo, rilassarsi sulle panche e lasciarsi cullare dall’avvolgente tepore umido e profumato ora di rose, ora di arancia, cannella e spezie lontane equivalevano per lui ad un balsamo sia fisico per rilassare i muscoli tesi e doloranti sia spirituale, cullato dalla sospensione di quell’ambiente vaporoso d’eterna nebbia. Questo prima di scoprire tutti gli altri benefici offerti dalle stue, in particolare durante o dopo il massaggio: Marco e Carlo si erano retti la pancia dal tanto ridere, quando zio Batista, perfido pettegolo, aveva raccontato di come, al suo primo massaggio in assoluto, ciò che credevano morto in Hironimo s’era invece ben risvegliato e di come il ragazzo fosse scappato via col solo lenzuolo addosso quando la massaggiatrice, ineffabile, s’era offerta per un piccolo extra di “ammollire” quella svettante durezza.

Il giovane Miani non osò da allora farsi fare i massaggi, se non dagli uomini.

Nelle stue, che comunque continuava a frequentare volentieri, Hironimo pianificava i suoi obiettivi, in quale disciplina concentrarsi di più, come migliorare la sua postura nella scrima; pensava alla manutenzione del suo arco; s’immaginava qualche trucco per velocizzare la vogata … Osservava tanto e a lungo i suoi compagni, a seconda dell’abilità li prendeva a modello e si prefiggeva di eguagliarli, per poi passare al prossimo più bravo. Non gli importava quante volte stramazzasse al suolo dai colpi infertigli, o per un cedimento delle gambe ridotte a ricotte. L’adolescente ingoiava il dolore, l’umiliazione della sconfitta, le aspre critiche e gli sfottò, certissimo di poter ugualmente raggiungere lo scopo prefittosi e di trionfare su qualsiasi ostacolo ed avversario.

La sua determinazione e testardaggine vennero così incanalate in questo suo esercizio, trasformandosi da difetti da tutti rimproveratigli a qualità degne d’elogi. Pian pianino, la sua tenacia gli conquistò le lodi dei maestri e il rispetto dei suoi compagni, un giorno perfino si beccò i complimenti del suo parente Ferigo Contarini, provocandogli gioiose farfalle allo stomaco ché la sua opinione, tra tutte, era per Hironimo la più importante, avendolo infatti sempre ammirato (Ha-ha! Ferigo di qua, Ferigo di là …  se tu fossi femmina, Momolin, a quest’ora già saresti a dargli il primo figlio, da quanto gli sbavi dietro!, lo burlava maliziosa Maria, provocando feroci arrabbiature nel permaloso cugino). Le ragazze ripresero a guardarlo e stavolta con occhi ben diversi, non più come un’informe creatura di sesso maschile bensì come un vero e proprio uomo, garbando ai gusti loro le sue spalle larghe e le gambe dritte, snelle e muscolose. Anche a costo di soffocare, Hironimo si stringeva il farsetto quanto più possibile onde esaltare la vita stretta e il triangolo del busto. Sfidava gli amici e compagni di allentamenti a serrate gare di lancio della palla; cavalcava per ore e ore, montando talora senza staffe; d’estate partecipava a competizioni su chi riuscisse a rimanere penzoloni più a lungo sul ramo, senza cascar giù in acqua. Solo Maria continuava a sfotterlo per i suoi capelli lunghi fin quasi a metà schiena, dei quali il ragazzo aveva una cura pressoché maniacale. Che ne capiva lei? A vent’anni se li sarebbe comunque dovuti tagliare e poi avrebbe avuto tutta la vecchiaia per starsene pelato, che male c’era nel goderseli finché poteva? Inoltre, poteva negare alla Marinella il divertimento di pettinarglieli?

Pah, per le donne la Casa dei Contenti non era mai stata costruita e meglio era rimanere tra uomini, dove lì sì che Hironimo trovava comprensione e riconoscimento dei suoi meriti.

“Ma come? Stai già eseguendo l’esercizio?”

“Ho sbagliato, sior maestro? Non dovevo?”

“No, no … E’ che ieri non riuscivi a terminarlo senza finir per terra!”

“Mi dovevo soltanto abituare … Non è difficile alla fine!”

“Bravo, quest’è lo spirito. Finché s’ha fiato nei polmoni, mai arrendersi!”

Ogni vittoria l’esaltava, incoraggiandolo a migliorarsi ancora di più e a tastare i suoi limiti. Quei brevi atti di euforia gli azzeravano ogni percezione d’impossibilità, portandolo a credere d’esser onnipotente e di fatti Hironimo accettava ogni sfida per il solo gusto di sapersi superiore agli altri partecipanti. S’ingannava dichiarando come lo facesse per vanità e non per sfogare quella sua rabbia segreta che da sempre tentava di seppellire.

Inaspettatamente, una di queste discipline, la scrima, comportò un riavvicinamento tra Hironimo e suo fratello Carlo, sorpreso il primo di saperlo così abile nel maneggio della spada. Era avvenuto per caso, quando di notte, credendosi non visto, l’adolescente sgattaiolava nel portego e staccava dal rastrello la spada di Padre, la medesima ch’egli aveva adoprato nelle sue pattuglie in galea da Chioggia fino alla Romagna a caccia di pirati e contrabbandieri, durante la Guerra del Sale e la difesa di Feltre contro il Duca d’Austria e che Madre teneva sempre lucida e pulita, come se il marito potesse in un qualsiasi momento presentarsi a reclamare la sua arma. Alla luce della candela, Hironimo allora mulinava la spada, ripetendo le posizioni impartitegli dal maestro, il gioco di gambe, la forza nel fendere e nell’affondare. Nella sua fantasia egli ammazzava turchi, tedeschi, pirati saraceni, ungheresi, francesi, immaginando di trovarsi nelle grandi battaglie dei suoi avi, per mare o per terra, e sognando di divenire tanto famoso quanto il suo trisnonno Zuanne “il Vecchio”, valente capitano.

“Zò, ma che fai in giro a quest’ora? Con la spada di Padre? Vai forse a caccia di pantegane?”

“Stavo facendo attenzione, prometto di non danneggiarla!”

“Temo più per la tua sorte che per quella della spada: de diana, sembri un villano che falcia il grano!”

“Tzé, spiritoso … Che ci fai piuttosto tu in giro a quest’ora? Non dovevi essere in camera tua a piangere per la partenza a Roma di sier Antonio Zustignan?”

“Basta asinerie e dammi qua. Guarda bene e cerca di imitarmi, così forse non finisci infilzato al primo duello …”

Effettivamente fu una rivelazione per Hironimo osservare la naturalezza e fluidità dei movimenti del fratello maggiore, avendoli contemplati fino a quel momento solamente nel maestro e in Ferigo Contarini. L’aveva infatti sempre creduto un acido topo di biblioteca, similmente ai suoi amici, tra i quali spiccavano sier Hironimo Donado “dalle Rose” e sier Antonio Zustignan, quest’ultimo lettore di logica e filosofia al Gymnasium Rivoaltinum e di recente nominato nuovo ambasciatore a Roma in sostituzione di sier Polo Capello.

Carlo si rivelò dunque un buon maestro e un avversario tenace, riducendo certe volte Hironimo in un frustrato toro sbuffante.

“Non attaccare quando sei arrabbiato! Mi concedi solo un vantaggio! Su la difesa, vedi come ti disarmo al primo colpo? Dai, macaron de Puja!”

“Possiamo prenderci una pausa? Sono stanco!”

“Ha! Vallo a dire al tuo nemico in battaglia, sai che risata si fa?”

“Te ne stai approfittando, che non ti posso ammazzare!”

“Pfui! Prima d’imparare ad ammazzarmi, impara a non farti battere dal sottoscritto!”

“Posso almanco cambiar spada? Questa qui è troppo pesante, non riesco a muoverla bene!”

“Non c’è niente che non vada in essa, è il tuo braccio ch’è imbranato! Vedi che se le scambiamo, ti sconfiggo lo stesso? La spada è solo uno strumento che scompare se paragonato alla mano che l’impugna e alla volontà di chi la guida. Su, alza la guardia e ricominciamo.”

Molto probabilmente, l’ossessione ludica del ragazzo Miani equivaleva non solo ad una gratificazione personale ma anche ad un sentimento di rivalsa verso tutti coloro, che da fanciullo l’avevano dileggiato, specie a seguito della morte di Padre. Nelle sue vittorie egli immaginava di ripulire il nome suo e del genitore, ristabilendo l’onore della famiglia e affiancandovi la gloria personale.  

Soltanto l’equitazione sfuggiva a quella sua triste logica. Eòo, anno dopo anno, era divenuto uno splendido esemplare di corsiero, bianco latte e talmente intelligente, che quando Hironimo gli accarezzava teneramente il muso, per qualche istante poteva leggere un tentativo di conversazione nei grandi e languidi occhioni dell’animale. Il cavallo era l’unico essere vivente col quale l’adolescente si sentisse completamente a suo agio, raccontandogli mentre lo strigliava quei crucci segreti dell’animo suo che a nessuno osava confessare e se Eòo avesse posseduto il dono della parola, sicuramente l’avrebbe capito e consolato meglio di molti cristiani.

Lanciarsi al galoppo senza una meta, ventre a terra, l’aria che gli scompigliava i lunghi capelli e gli gonfiava la camicia … l’ebbrezza del divertimento, d’assoluta libertà, quasi di poter volare … Hironimo non se ne saziava mai, assecondata la sua vivacità da quella di Eòo, il suo Pegaso, col quale sognava di poter fuggire via, lontano, lontano, verso nuovi mondi e lì compiervi imprese talmente mirabolanti, di cui se ne sarebbe parlato nei secoli a venire.  

Sicché non gli risultò difficile partecipare ai vari palii sia a Venezia che in Terraferma e se dapprincipio bruciarono fastidiose al suo ego le prime sconfitte, poi col tempo e la pratica il ragazzo incominciò a vincerle, gongolando dinanzi alle espressioni stupefatte dei suoi cugini, i quali non si capacitavano della qualità di un cavallo di razza assai incerta quale appunto Eòo.

Il suo massimo trionfo fu il palio di Santa Lucia a Treviso, svoltosi il 13 dicembre, giorno di doppia ricorrenza laddove si celebrava sia la Santa con grande processione e in presenza delle massime autorità civili e religiose, dalla Cattedrale lungo via Cornarotta passando il ponte di San Cristoforo fino a raggiungere a piazza delle Erbe [2] la chiesa dedicata alla Martire; sia si celebrava la liberazione di Treviso dal giogo dei Carraresi da parte della Serenissima Signoria, avvenuta il 13 dicembre 1388 ed era stato proprio il suo antenato, sier Zuanne Miani “il Vecchio” q. Francesco "lo S-ciavo" ad espugnare il Castello, dove Francesco Da Carrara s'era rifugiato.

Per tale doppia ricorrenza era stato istituito nel 1390 dal podestà sier Ludovico Morexini anche un palio, con una sfrenata corsa di cavalli a Piazza Maggiore del Carrubio per il bel Bravium di velluto consegnato al vincitore, drappo benedetto dinanzi agli altorilievi della Madonna del Paveio (farfalla, ndr.) e di Santa Lucia. Il primo era un dono del podestà sier Lorenzo Celsi, commissionato nel 1354 allo scultore veneziano Phelippo Calendario, altorilievo che aveva sempre affascinato d’un gusto quasi morboso Hironimo.

“Carlino, tu che sai tutto, perché la farfalla?”

“Sin dai tempi antichi, la farfalla rappresenta l’anima. Ti ricordi Psyché? Ecco, nella devozione popolare, la farfalla simboleggia l’anima che ottiene, attraverso la conversione redentrice per opera di Cristo e la mediazione di Maria, la vita eterna nel Paradiso. Questo perché la farfalla si libera dalla crisalide per poter volare via in cielo.”

“Per questo motivo, dunque, la mano del Bambino è tesa verso di essa? Come se la stesse accompagnando?”

“Suppongo di sì. Devi ricordare che questa chiesa ha inglobato quella di Santa Maria delle Carceri, dove i prigionieri e specialmente i condannati a morte venivano a pregare prima dell’esecuzione. Ladri, stupratori, sodomiti, falsari, traditori, assassini … un bel bozzolo da cui liberarsi! Quanta feccia s’è qui inginocchiata davanti a Lei!”

“E convertendosi, sarebbero ritornata la loro anima a volare leggera?”

“E’ la nostra fede e speranza.”

“Ecco perché questo luogo mi dà i brividi.”

“Non ci pensare. Che mali puoi aver commesso tu, razza di paperotto? Piuttosto, vedi di vincere questo palio o ti pigliamo a calci nel sedere da qua fino a San Vidal!”

Hironimo vinse il palio, sfilando in trionfo per la Piazza col Bravium in mano e, una volta tranquilli e in tutta privatezza, sua cugina Maria pure lo premiò per la sua bravura con un soddisfacente bacio sulla bocca, ad imitazione di tutti quegli (per Hironimo) stupidi poemi cavallereschi di cui s’ingozzava da mane a sera. Tuttavia, quella vittoria sapeva di amaro, incapace egli di scacciare l’immagine della Madonna del Paveio dagli occhi.

Che mali puoi aver commesso tu, razza di paperotto?

Non sapevano niente.

Non conoscevano il bozzolo creatosi attorno alla sua anima, quel marciume che la imprigionava abilmente celato dalla galanteria, cordialità, generosità, dalla sua bella presenza fisica. Invidia, rancore, superbia, avidità di gloria, prorompente sensualità, attrazione verso il sangue e la morte li facevano da oscuro contraltare.

Per liberarsi del passato, Hironimo s’era votato a Marte, il quale però era un dio crudele, inneggiante alla violenza più brutale. La medesima che il ragazzo tentava disperatamente di dominare, ma che, complice la rabbia tipica della sua età e il gusto per il sangue di Venezia ereditato dai Romei, troppo spesso veniva incoraggiata e con effetti a dir poco strazianti per la coscienza del giovane Miani.

 

 

***

 

Settembre 1503

 

 

Nel quartiere di San Barnaba si trovava un ponte senza parapetti, nomato il Ponte dei Pugni, l’arena favorita di una delle gare di pugilato più sanguinose di Venezia, tanto che ad alcuni forestieri si rivoltava lo stomaco all’assistere a quelle disfide, prontamente dileggiati dai Veneziani lì presenti per la loro poca sopportazione: quale diletto arrecavano giostre e tornei? Roba quasi da signorini effeminati, se si poteva assistere a ben altra battaglia più cruenta e veritiera.

Tutta la logistica attorno al Ponte dei Pugni si presentava d’altronde adatta al combattimento, le due rive d’uguale dimensione cosicché le squadre potevano sistemarsi comodamente e di pari numero. I balconi, le finestre, le altane e i luminàl degli edifici attorno si trasformavano in tribune degli spettatori, così come il canale per l’occasione ripulito pullulava di gondole e i ponti adiacenti rinforzati onde non cedere al peso della massa stipatasi, in una sorta di Colosseo improvvisato. Lì tutta Venezia v’accorreva eccitata, dividendosi i partigiani per simpatie e già scommettendo sulla squadra vincente, addirittura assegnando il favore degli stranieri, a seconda di dove fossero entrati, se ad ovest da Chioggia o ad est da Mestre.

Sul Ponte dei Pugni sfogavano la loro secolare rivalità i “Castellani” - Arsenalotti, squeraioli, calafati e pegolotti ad est del Canal Grande -  e i “Nicolotti” ad ovest, pescatori e barcaioli [3]. Alla Signoria tali scontri non dispiacevano e anzi li incoraggiava, sia per tener ben allenato lo spirito guerriero dei suoi figli sia per distrarli da un qualsivoglia malcontento e ribellione nei suoi confronti.

La regola era molto semplice: vinceva la squadra che, in una serie di incontri individuali o di gruppo, avrebbe superato il maggior numero di avversari. Un punto per ciascun vittoria, due punti se uno dei contendenti riusciva a gettar in acqua il rivale. Curiosamente, la Guerra dei Pugni non concerneva soltanto gli uomini, bensì anche le loro donne, che non disdegnavano certo dar manforte azzuffandosi con le mogli dei rivali.

Hironimo, abitando nel sestiere di San Marco, aveva dunque sempre parteggiato per i Castellani, saltellando a momenti sul posto dalla foga dell’incitamento indiavolato e mulinando invasato braccia e pugni si sciorinava senza freni nella più prosaica sequela di incoraggiamenti misti ad imprecazioni, similmente a tutti gli altri spettatori, donne incluse, casomai queste più scatenate perfino degli uomini specie se erano le consorti dei partecipanti. Ovviamente, la Guerra dei Pugni corrispondeva all'ennesima occasione per Padre e lo zio Batista di litigare, giacché appartenenti i rispettivi sestieri alle due opposte fazioni. Le oscenità poetate dai maggiori della sua famiglia avrebbero fatto sanguinare le orecchie perfino al più sozzo dei soldati. Va' ad affogarti in rio con la tua ganza, ludro, onto d'un Cannaregio! San Cancian!, era infatti la cosa più gentile che Hironimo aveva sentito Padre urlare al cognato. Magnafasiòli d’on San Vidal, andé a lumàr che magari qualche danaro teo cati per pagarte la legna! rispondeva il barba Batista, in netto svantaggio rispetto a sier Anzolo, poiché mentre questi poteva insinuare sulle attività extraconiugali di madona Morexina, lo zio non poteva per non vituperare l’amatissima sorellastra Leonora. Ma questo non gli impediva di dar della puttana a suo cognato, tutt’altro.

Purtroppo, col trascorrere degli anni, sorse in Hironimo una grande smania di partecipare di persona a quel combattimento, invece di rimanere spettatore passivo. Ovviamente non ne aveva fatto parola con nessuno, sia per la pericolosità degli scontri (alla sera si raccoglievano i morti di ciascun partito) sia perché non era una competizione degna di un patrizio, partecipandovi esclusivamente il popolino e al massimo qualche cittadino.

Peccato che lo spirito ribelle della sua giovane età, il fascino verso l’ignoto e l’avventura nonché l’aggressivo spirito competitivo del suo sesso spinsero il giovane Miani a trasgredire quel divieto e una mattina del 30 settembre 1503 egli riuscì a sgattaiolare fuori casa (dopo esser rimasto indietro con la scusa di un grave mal di pancia) e di mescolarsi tra le squadre dei Castellani. All’occasione aveva rubato i vestiti di Dardi di Polo, il nipote di Orsolina, e la sua bereta di feltro rosso, sporcandosi con della cenere il viso e le mani acciocché non lo si riconoscesse e dal modo in cui i suoi nuovi compagni lo accolsero a gioviali pacche sulla schiena, lo stratagemma funzionò.

Era una giornata tiepida, soleggiata e San Barnaba affollatissimo, l’aria vibrante di grande aspettativa, ogni sguardo puntato sui trecento gareggianti per fazione che, salutando il loro pubblico, si vantavano alla stregua di galletti e insultavano pesantemente l’avversario, spaziando dal mestiere presunto delle loro madri alle personali porcherie, niente si salvava, neppure i rispettivi morti. Hironimo, dal canto suo, abbassava invece il capo e si portava un po’ di frangia sul viso, il cuore però impazzito dall’eccitazione.

Le donne “Castellane”, con i capelli raccolti in un fazzoletto rosso, fischiavano, mulinavano i pugni e riempivano di gesti e smorfie osceni le “Nicolotte”, dai fianchi cinti dalla fascia nera, le quali ricambiavano altrettanto bellicose.

“Maddalusse ingiandolìe!”

“Dorondòna!”

“Fùmia!”

“Gratapanza!”

“Gualta!”

E via così in un crescendo inarrestabile di prosaicità.

“Ti te sé fortunà”, confessò ad Hironimo un Castellano accanto a lui, “ancuò se fa la guera ordenà!”

Il giovane patrizio sorrise euforico: la guerra ordinata corrispondeva allo zenit della Guerra dei Pugni, laddove non ci si limitava più ad accumulare punti, bensì si doveva conquistare con qualunque mezzo il ponte stesso. Fortunatamente, a quello la Signoria sì che poneva freno, concedendo saltuariamente la guerra ordinata, altrimenti Venezia si sarebbe svuotata come durante i cupi anni di peste.

I due padrini dei Castellani e Nicolotti giunsero infine correndo al Ponte dei Pugni, uno da una parte e uno dall’altra. Questi arbitri, contrariamente al resto dei partecipanti, erano invece dei rispettabili cittadini la cui abilità nel pugilato li aveva concesso l’onore d’aprire la disfida. Appena saliti si levarono lo zipone e indossarono il guanto, rimanendo in manica di camicia onde evitar di ritornare a casa col prezioso indumento a brandelli.

“An, ti no te me gh’ha ancor dito chome te ciami!”, si sovvenne il giovane uomo accanto ad Hironimo, intanto che si levava anch’egli il farsetto di monachino. “Mi me ciamo Zane, e ti?” Dall’accento doveva provenire dal sestiere di Castello. [4]

“Anzolo”, rispose d’impulso il patrizio. Si tolse il farsetto e s’arrotolò a ciambella la camicia alla vita, rimanendo a torso nudo. Dopodiché, accommiatandosi dai sandali e rimasto scalzo, infilò un guanto sulla mano destra.

“Sistu de Sen Marcho?”

“Siorsì.”

“Stame vizin, va ben? Mi te vardarò le spàe! E gnente “sior” qua: ché parlemo moscheto horra?”, ridacchiò bonario.

Hironimo al contrario annuì attento: nella guerra ordinata ne succedevano di tutti i colori, rimanere compatti e guardarsi a vicenda le spalle era l’unico modo per arrivare incolumi a fine gara.

“Et arecordate di tegnir serrà le labra!”, s’intromise un ragazzotto assai robusto, forse uno squeraiolo, presentatosi col nome di Nico. “Cussì”, gli mostrò solerte, cacciando indietro le labbra che pareva quasi ingoiarsele.

Un altro, nomato Lio e anch’egli di San Marco, da dietro prese a raccogliere i lunghi capelli di Hironimo, cacciandoglieli dentro la bereta di feltro rosso e sistemandogli meglio la sciarpetta d'altrettanto colore. “Se no, i te ciapan pe i caveij e bondì sioria!”, rise, contagiando col suo buonumore anche il giovane Miani e i giovanotti accanto a lui.

“Speremo de vinzer st’anno”, sospirò falsamente tragico Nico, stiracchiando le braccia. “La mia fameja, par ea vargogna, a me gh’ha tegnuo el muso duro fin squasi a Nadal!”

“El mio vecio manco me gh’ha voluo vardar, me gh’ha lassà fora dea porta par tuta ea note, pèzo d’un can!”

“Pianzeu vuialtri per st’asinerie? Voleu satre cossa xélo capità a mi?”, schioccò scettico la lingua Zane alle lagnanze dei suoi compagni, “la mia femena no me gh’ha dato par tre” e mostro ben in alto le dita, “setimane la mona. Tre setimane, porc’eva, tanto la gera arabià!”

Perché la vergogna della sconfitta comportava, oltre ad arti doloranti, anche lo sdegno degli stessi famigliari e soprattutto delle loro risentite metà, tant’era vero che alcuni neppure osavano rincasare nell’immediato, temendo infatti d’incassare le ultime randellate della giornata. 

“E ti, Anzolo?”

“An, par mi xea prima volta.”

“Bia' ti!”

“Beh, se perdemo, sta seguro che te finisso mi a teghe en testa!”

“Pulito! Perhò se vinzemo, ti me favorissi ea mona di la toa femena!”

“A bea! Mi poxjo ea boca?”

“Ti te pol star lì a vardar, Zane, mica m’ofendo!”

“O femo le cosse en tre, che mi sun omo splendido (generoso, ndr.) de gran core!”

“Alor, splendidamente mi te dago tante di quee pèae (pedate, ndr.), che te desmenteghi de ser stà omo!”

“Eh! Ma almanco ‘na ciuciadina la me pol dar! Senpre te lagni ch’ea no stagi mai zitta!”

“Zò, ciucia sto pugnazo, folpo sporcaciòn!”   

Tuttavia si minacciavano piuttosto allegramente, a giudicare dalle alte risate sguaiate.

“Ohé, scomenzemo? O femo note?”, allungò il collo Lio, mettendosi in punta dei piedi.

Terminato lo scontro tra i due cittadini – finito con la vittoria del padrino dei Nicolotti tra le urla di vittoria e i fischi dell’avversario – le Castellane e Nicolotte erano partite all’attacco, lasciandole per cavalleria sfogarsi per prime. Una donna con due braccia da marinaio cacciò un pugno che ci si dolse per il suo marito; un’altra perse copiosamente sangue dal naso; alcune sputarono i denti; altre si videro tirate i capelli e le camice strappate e una tal Altabella finì in canale non senza che le si fosse, durante la caduta, sollevato il gonnellone, mostrando all’universo mondo il pelliccione biondo tra le gambe, visione che pacificò per un attimo tutti i maschi lì presenti, i quali apprezzarono e si offrirono volontari di tirarla fuori dall’acqua.

Conclusasi la piccola parentesi e ripescata l’Altabella, si passò alla vera competizione. Essendo quella giornata di guerra ordinata, ciascun partito s’era ammassato sui due lati della riva e, fin dove si poteva vedere, esse brulicavano di lottatori. Il gruppetto di Hironimo si trovava per loro sommo smacco abbastanza indietro, rendendoli difficile la comprensione di quanto stesse avvenendo sul ponte.

“Ecco! Ecco!”

Ricordato a voce alta e intelligibile le “regole”, unico momento in cui il pubblico chetandosi ascoltava in rigoroso silenzio, i due arbitri si pararono di fronte agli angoli opposti dell’arena, abbastanza da vedere ma non dar esser coinvolti.

Un ultimo attimo di apnea …

“San Marco!”, gridarono i padrini, fuggendo via strategicamente e la folla ruggì in coro il suo sfrenato entusiasmo.

In un sol uomo le due fazioni si buttarono in avanti, spingendosi furiose mentre lanciavano a loro volta urla sempre più assordanti, tra bestemmie e insulti, finché le prime file, sotto l’effetto della pressione, e le ali della compatta colonna di lottatori non cedettero e di botto interi gruppi di quasi sessanta persone caddero rovinosamente in canale a un tempo, tra i lazzi ingiuriosi e le risate sgangherate degli spettatori e della parte avversaria.

I lottatori rimasti all’asciutto invece corsero forsennatamente fino al ponte nel tentativo d’attraversarlo e dunque dichiarare chiusa la partita, cozzando violentemente tra di loro come un’onda sullo scoglio: nell’impatto finirono o abbracciati o atterrati da una presa brutale; aggrovigliatisi in nodi di braccia e gambe, ci si spingeva di peso dalla parte opposta, o ricacciando via il nemico o avanzando sbuffando a guisa di toro. Un marcantonio di Castellano ghermì per il braccio e la gamba un Nicolotto e, sollevatolo di peso, lo lanciò giù dal ponte in acqua, tra gli applausi del pubblico in visibilio. Un Nicolotto invece saltò sulla schiena, da dietro, di un Castellano, che tentò di scrollarselo di dosso a guisa di cavallo imbizzarrito, intanto che quell’altro lo costringeva ad inginocchiarsi. Cogli avambracci si circondavano gole, ci si faceva vicendevolmente lo sgambetto.

E poi, ovviamente, volavano pugni come le dantesche schiere angeliche, in un dolce coro di diretti, ganci e montanti.

Un Castellano s’abbassò per schivare il gancio d’un Nicolotto, per poi bloccargli un montante di gomito. Un altro Nicolotto invece schivò un diretto in una piroetta ad U che provocò l’involontaria, ma vantaggiosa, caduta dal ponte di un Castellano (un letterale colpo di culo).

Laddove fallivano i pugni compensavano i calci, mirando soprattutto a stinchi e coglioni e chi aveva la miglior coordinazione gamba-diretto sapeva colpire la virilità avversaria e subito finirla tramite sonoro cazzotto, spendendola a far compagnia alle anatre.

Un Castellano intrecciò le mani per formar un solo pugno e lo calò tra le scapole d’un Nicolotto, tramortendolo e poi lo calciò fuori dal ponte; un altro Nicolotto si beccò un colpo alla tempia e non si rialzò più. Un Castellano invece si prese in testa un colpo che avrebbe ammazzato un bue e neanche quello diede più segni di vita; due contendenti si appiattirono contemporaneamente a gambe all’aria sulla pietra del ponte e un Castellano schiumante sangue dalla bocca attaccò in un balzo il Nicolotto che si preparava a dargli il colpo di grazia, stendendolo con un commuovente montante al mento.

Uno strano grappolo umano si formò ad un certo momento sul ponte: in una catena di prese per braccia, gambe, brache e capelli, alcuni contendenti penzolavano dalla struttura nel disperato tentativo di rimanere su, incitati dalle grida del pubblico scatenato e dall’esagitato svolazzare di fazzoletti dai balconi dei palazzi. I lottatori rimasti aggrappati sul ponte tiravano su tra fischi e sbuffi e sputi finché le vene del collo non li s’ingrossarono dallo sforzo; ahimè la forza del peso prevalse e tutto il gruppo cadde in un sonoro tuffo in acqua, bagnando anche i loro compagni sulla riva tra grasse sghignazzate di coloro che assistevano dalla gondola, divertiti sia dagli schizzi che dal piacevole moto ondoso provocato da quelle cadute.

I gruppi retrostanti, tra i quali si trovava anche Hironimo, incominciavano nel frattanto a scaldarsi, impazienti d’entrare in azione.

“Spenzare! Spenzare!”, si spronavano l’un l’altro e anche il giovane Miani spingeva il suo compagno davanti con ogni forza concessagli dalle braccia. Forti di quella nuova pressione, i Castellani guadagnarono qualche spanna al di là della metà del ponte, prontamente bloccati però dai Nicolotti che tenendoli fermi o intrecciando le mani o spalla contro spalla, facendo perno con le gambe assorbivano e ricambiavano tramite compatto muro l’impeto del loro assalto.

Ciò frustrava le retrovie, stufe di spingere soltanto.

“Zò, Anzolo, ti che te sé picinin, montame sora le spae!”, gli ordinò Zane, abbassandosi quel tanto acciocché Hironimo potesse salirgli sulle spalle e, issatolo, lo sbilanciò su quelle dell’uomo davanti a lui e, trapezio dopo trapezio, il ragazzo riuscì a portarsi più avanti. Non fu il solo: molti dei suoi compagni stavano salendo sui corpi dei loro compari, arrampicandovisi sopra e raggiungendo così le prime file che si trovarono il pronto ausilio di questo secondo piano di lottatori freschi e dalla mira eccellente.

“Toga qua, bestia d’un Nicoloto, buso descusio, magna-bifi!”, berciò un Castellano vicino ad Hironimo, lanciando con accurata precisione un sasso contro un Nicolotto lì sulla riva opposta, colpendolo alla spalla e per la sorpresa questi cadde in acqua.

Al che il patrizio, afferrata al volo l’antifona, senza saperlo si ritrovò tosto ad imitarlo, e un’interrotta lapidazione da far sembrare quella di Santo Stefano roba da imbranati amatori si rovesciò sulla parte avversaria, la quale si vide dapprincipio costretta a riparare alla bell’e meglio, ingobbendosi.

Magro vantaggio ché tali pratiche erano assai note: subito infatti comparvero le retrovie dei Nicolotti che risposero con bombardate altrettanto gagliarde. In più occasioni un sasso o un piatto o un coccio di ceramica sfiorarono il giovane Miani, traendo all’occasione sangue se questi era appuntito. Nondimeno, pur dondolando incerto sulle spalle del suo collega, era difficile colpirlo giacché i suoi riflessi prontissimi lo aiutavano, grazie agli allentamenti alla pallacorda. Così, abbassandosi e mostrando la lingua, impallinava feroce il temerario ch’aveva osato scambiarlo per un’anatra selvatica, divertendosi un mondo.

I poveri gondolieri dovettero intanto girare le imbarcazioni e spostarsi, prima che la loro testa e la felze dei padroni si trovasse nella traiettoria dei contendenti. Qualche proiettile di fortuna arrivava addirittura dentro in casa attraverso le finestre, tutte saggiamente lasciate spalancate.

“Lio! Zò cossa fastu?”, gridò Hironimo al suo compare, il quale si stava scimmiescamente arrampicando su per il muro di un palazzo.

“A catar copi!” (tegole, ndr.), gli rispose quegli, puntando al tetto assieme ad altri compari. Una volta lì, il giovanotto incominciò a staccar le tegole e a lanciarle giù alla sua squadra, accogliendole questi simili ai rondinini col verme di mamma rondine. “Ciapa qua, Anzolo!”, urlò Lio e Hironimo si spostò cauto alla sua sinistra, affinché le preziose munizioni non cadessero per terra, frantumandosi e andando così sprecate.

Sfortunatamente, quella sua iniziativa lo distrasse, rendendolo meno vigile alla mira nemica e una stoviglia di terracotta lo colpì alla coscia, sbilanciandolo in avanti. Se non fosse stato per un Castellano dai riflessi ben vispi, che lo catturò per il bordo delle braghe e lo gettò indietro, di certo Hironimo sarebbe cascato in acqua, coprendosi conseguentemente di ridicolo.

Inaccettabile.

Rabbioso, il diciassettenne patrizio s’accucciò per terra e incominciò a diselciare a mani nude la riva, onde procurarsi le mattonelle necessarie al bombardamento di quegli sfrontati scalzacani. Poco gli importava del sangue proveniente dalle unghie rotte, né del sudore e degli schizzi d’acqua salata che gli annebbiavano la vista. Munitosi finalmente, Hironimo sgomitò per portarsi più presso al ponte e da lì riprese a lapidare i Nicolotti ai lati della struttura, permettendo così ai Castellani in prima fila di avanzare di qualche passo.

La piccola vittoria diede nuovo impulso alla squadra e il Miani venne spinto anch’egli in avanti, finalmente mettendo piede sul primo gradino del ponte. Un passo e un passo ancora e senza neanche rendersene conto, eccolo faccia a faccia coi Nicolotti.

Una folle euforia invase il ragazzo, che di riflesso alzò gli avambracci pronto a parare i colpi e di fatti la sua preparazione ginnica gli fornì un pronto vantaggio contro la tecnica assai raffazzonata dei suoi avversari, i quali sì possedevano una forza notevole, ma lasciavano moltissimi punti scoperti e lì Hironimo colpiva spietato, fosse all’addome, al fianco, sul volto.

Colpiva, indietreggiava, colpiva e indietreggiava, un diretto, poi abbassamento, parata, schivata, gancio, flessione laterale, gancio, rotazione, bloccaggio e infine un bel montante sotto il mento che mai faceva male (per lui). Se non si fosse trovato in uno spazio sì ridotto e asfissiante, stritolato infatti dai robusti corpi dei suoi compari e avversari, di sicuro avrebbe anche potuto divertirsi di più tramite un grazioso gioco di gambe, sebbene tali raffinatezze, ragionò, erano sprecate in quella grande zuffa plebea. Ma oh! come se la sarebbe spassata alla prossima lezione di pugilato nella sala ginnica! I suoi amici, a parte qualche tafferuglio al Carlevar, non avevano mai fronteggiato veri avversari che menavano sul serio e non per futile gioco, o per guadagnar tempo e scappar via dagli Zaffi. Questo era il suo battesimo di fuoco e, superatolo, nessuno l’avrebbe mai più sconfitto nelle risse!

Tra i Nicolotti, intanto, serpeggiavano occhiatacce malevoli e lo sdegno misto al sospetto li portò alla conclusione che i Castellani stessero barando, avendo arruolato tra le loro fila un professionista, anche se giovanissimo, forse figlio di qualche condottiero che sperava di attirare l’attenzione della Signoria in vista d’un futuro ingaggio. Beh, anche no!

Hironimo aveva appena steso l’ultimo suo avversario che un altro subito lo sostituì e con esso il luccichio di qualcosa di metallico, un pugnale che teneva attaccato dietro alla cintura nera. Panicando, il ragazzo lo afferrò in tempo per il polso, bloccando la punta della lama a qualche dito dal suo viso; un suo compare da dietro tentò di spinger via il contendente, ottenendo però come risultato che sia lui che Hironimo si sbilanciarono e caddero per terra, a qualche spanna dal lato esterno del ponte.

“Corteli! Pugnai! Arme! Arme!”, corse veloce l’avviso tra i Castellani di sfoderare le loro di armi e di gettarsi nella pugna o, per chi era troppo lontano, di lanciare direttamente i pugnali e stiletti contro i Nicolotti, infilzandoli.

Il sangue schizzava dappertutto, tingendo l’acqua e il selciato e i bordi (o ciò ch’era rimasto) delle rive, in un gran mattatoio che ricordava quei sacrifici umani ai tempi degli Antichi o gli spettacoli gladiatori negli anfiteatri romani; grida, ringhi e gemiti cozzarono tra di loro così come i metalli nemici sfrigolavano avidi, alterandosi a pugni, morsi e stramusoni conditi di mattonelle. Qualcuno perse un dito, chi un pezzo d’orecchio, chi un occhio, chi qualche dente (o una fila di essi), chi la punta del naso, chi rimase sfregiato sulla guancia, chi si morse a sangue la lingua, chi si trovò strisci più o meno profondi sul petto, sulla coscia, sulla braccia, chi per poco rimase castrato e chi se ne andò direttamente al Creatore.

La disfida degenerò presto in una carneficina per il sommo gaudio degli spettatori, i quali giubilavano in estatica frenesia, battendo le mani e ridendo senza manco saper perché, gridando, contorcendosi più dei posseduti dai demòni, i capelli e gli ambiti scomposti, le lingue fuori e penzoloni, i denti ben in mostra, qualche filo di saliva che li scivolava dal tanto strepitare, i petti ansanti, gli occhi spalancati, convulsi, spirati e non ragionavano più, dimentichi di ogni pietà umana e colmi di perversa esaltazione e furore, arrivando ad abbracciare o a strusciarsi non visti con bestiale foga sulla compagna accanto, scene da baccanali dei più tremendi.

La catarsi tramite la mattanza.

Tale furia, figlia della vergogna e della paura, aveva contagiato anche Hironimo, steso supino sul bordo del ponte, intrappolato dal pesante corpo del suo avversario che ancora tentava d’infilzarlo con pugnale. Il Nicolotto era riuscito a graffiagli ambedue gli avambracci, tuttavia il piede del patrizio sul suo addome gli impediva di calare oltre la lama, la quale da degna emula di quella di Damocle seguitava a penzolare minacciosa all’altezza  della gola. La presa stessa del Miani, perfezionata tramite l’apprendimento preciso e raffinato da un maestro, aveva bloccato i polsi dell’uomo e il diciassettenne ogni tanto premeva coi pollici sui legamenti o li storceva appena, provocandogli notevole dolore.

I due rimasero bloccati in una vera prova di forza, laddove avrebbe vinto chi dei due sarebbe resistito più a lungo, trovando magari una debolezza nell’altro e sfruttandola per ribaltare la situazione.

In questo, per quanto allenato, la giovane età non venne in soccorso ad Hironimo, né la sua vita relativamente comoda di patrizio, giacché al contrario il Nicolotto sopra di lui doveva di certo lavorar come facchino o comunque un lavoro di elevata forza fisica ché la gamba del ragazzo si piegò sotto il suo peso e il viso furente di questi s’avvicinò ulteriormente a quello di Hironimo, tanto che poté sentirne l’alito caldo e qualche goccia di sudore e saliva bagnargli la faccia. Pur bruciandogli i muscoli delle braccia, il giovane Miani digrignò i denti e s’impose di non cedere alla pressione esercitata dal Nicolotto, il quale lo fissava con una tale espressione, che nulla più possedeva di umano, una maschera da incubo rubata a qualche demone nei dipinti fiamminghi. Lo voleva ammazzare e ammazzato lo avrebbe, inutile appellarsi alla ragione. Al diciassettenne sfuggì una risata isterica: se soltanto quel folle avesse saputo chi s’apprestava a pugnalare! Si sarebbe degolato da sé, prima di levar la mano contro un patrizio!

La risatina offese a morte il Nicolotto, ignaro dei pensieri del ragazzo sotto di sé; premendogli le ginocchia sotto i glutei, prese a spingerlo oltre il bordo del ponte ed ecco che il giovane Miani si ritrovava mezzo sospeso nel vuoto a contemplare San Barnaba a testa ingiù. In questo modo non riusciva a coordinare i suoi movimenti, né a prevedere quelli dell’avversario, il sangue gli fluì alla testa e la sua difesa cedette di conseguenza.

Sicché, abbandonandosi all’istinto, il patrizio strinse gli addominali e issandosi come durante gli esercizi puntò al setto nasale dell’uomo, elargendogli una poderosa testata che lo sbilanciò all’indietro, le mani corse all’osso rotto.

Hironimo avrebbe allora potuto rifilare un dritto o un gancio all’addome del Nicolotto. Oppure spingerlo o lontano da sé o direttamente in acqua. Avrebbe potuto approfittarne per gattonare via. Avrebbe potuto tramortirlo tramite una tallonata sulle palle e passare al prossimo.

Ma non lo fece. O non poté farlo. Non lo sapeva, non capiva più niente, quanto accadde lo osservò con tale distacco che quasi gli parve esser un’altra persona, uno dei tanti spettatori di quella macabra disfida.

Vide la sua mano correre autonomamente verso il pugnale, disarmando il gemente avversario.

Vide il suo braccio levarsi, rapido e letale come insegnatogli dal maestro di scrima.

Vide la punta affondare precisa nella carne tenera della gola.

Vide il sangue sprizzare e lordargli il volto quando la ritrasse.

Vide l’espressione sconvolta, tradita, terrorizzata dell’uomo.

Vide il corpo del Nicolotto tremare convulso e rimbalzare nella sua caduta prima per terra e poi in una grassa scia di sangue scivolare in acqua.

Rigiratosi prono e aggrappatosi incredulo al bordo del ponte pregno di sangue, Hironimo seguì ipnotizzato l’affioramento del cadavere del suo avversario in superficie, il rosso sulla pelle lavato via dall’acqua, la quale dondolava il morto assai dolcemente, quasi lo ninnasse materna verso il sonno eterno.

Ho ucciso un uomo?, si chiese disorientato il ragazzo, scoprendosi ancora stretto il pugnale tra le dita insanguinate, il viso gocciolante di sangue e sudore.  

Era stato dunque così facile? Recidere una vita, scendere nell’Ade era dunque così semplice, questione di qualche istante? Giorni, mesi, anni per formare un essere umano e un battito di ciglia per annullarlo? Come se non fosse mai esistito?

Ho ucciso un uomo.

Anche Padre era morto così, in un battibaleno, la sua esistenza cancellata tramite gesti così banali? Neanche i suoi carnefici stessero sopprimendo una bestia?

Ho ucciso un uomo.

Così poco valeva la vita umana, così fragile da non metterci niente per distruggerla?

Ho ucciso un uomo.

Perché quel Nicolotto voleva ucciderlo? Che gli aveva fatto Hironimo di male?

Perché quegli ignoti avevano ucciso Padre? Che li aveva fatto lui di male?

La lama tremò.

Ho ucciso un uomo.

In un balzo felino, Hironimo si ritrovò in piedi e cacciando un urlo spaventoso si gettò su di un avversario a caso, mulinando il pugnale a destra e a manca, colpendo dove colpiva, senza tecnica né scopo, tranne quello di trarre sangue.

Ho ucciso un uomo. Ho ucciso un uomo. Ho ucciso un uomo. Ho ucciso un uomo.

Non c’era niente di eroico nella morte. Niente. Un animale che uccide un altro animale. Semplice. E poi il nulla.

Molto probabilmente, il ragazzo aveva osato spingersi troppo in là, mancandogli di conseguenza il sostegno della sua squadra. La stanchezza poi di ore di combattimento gli avevano appesantito le braccia, rendendolo goffo e pesante nei movimenti e nelle sue reazioni. Sicché un pugno allo zigomo gli fece ruotare la testa, annebbiandogli la vista e un altro all’addome gli mozzò il fiato in gola, togliendogli l’equilibrio. Il mondo prese a vorticare in una sequela di sferzanti luci, di colori mischiati selvaggiamente tra di loro e lo stridulo rimbombo delle grida concitate dei lottatori e in questa fantasmagorica gagliarda Hironimo sgambettò e roteò sconclusionatamente, ogni appiglio perduto così come il dominio sul proprio corpo, ridotto ad instabile marionetta.

Un paio di mani (o tenaglie a forma di mani) non tardarono ad agguantarlo e, in una buffa capriola, il diciassettenne patrizio volò letteralmente giù dal ponte, e trovò curioso il modo in cui il mondo si rovesciava e roteava fino a terminare inghiottito nel verde-bluastro delle acque del canale. 

L’impatto dell’acqua sulla schiena non si rivelò tanto atroce quanto temuto dal Miani, il quale affondava rotolando in una grande scia di bolle. Né l’acqua fredda gli dispiacque, semmai l’aiutò a ritrovare la calma, sentendosi dopo tanto tempo in pace con se stesso, sensazione provata soltanto in sella ad Eòo. Neanche s’avvide di come non riuscisse più a muovere un sol dito, la mente intorpidita dal cazzotto ricevuto da rendergli impossibile ogni azione e confuso ogni pensiero.

Lì, sottacqua, le grida, i tonfi, ogni suono gli giungevano ovattati, sgradevoli echi lontani da cui desiderava alienarsi. I raggi della luce filtrati dall’acqua creavano piacevoli veli da cui lasciarsi accarezzare, mentre il suo corpo, pesante, scendeva, scendeva … le sue braccia immobili tese verso l’alto come in preghiera e i capelli fluenti a guisa d’alghe lo incoronavano di scapigliata leggerezza …  accompagnato dal profondo sospiro del mare, quella voce greve e costante che cullava i marinai caduti nell’abbraccio della capricciosa Thalassa, addormentandoli per sempre tra le sue cupide braccia … quella voce che soltanto i delfini e gli altri animali marittimi conoscevano … quella voce antica come il mondo e che non poteva offendere, che tutto azzerava …

Il mondo finalmente distante, sigillato dalla superficie dell’acqua, e con lui ogni suo dolore. Il sangue più non macchiava né le sue mani né il suo corpo; si sentiva libero e leggero, come le farfalle. E forse anche la sua anima sarebbe volata via, ricongiungendosi al Nicolotto della cui vita egli aveva così crudelmente disposto, ricongiungendosi magari anche a quella di Padre …

Libero, libero da quell’odiosa crisalide!

Hironimo chiuse gli occhi, soffocato dall’ultima vertigine provocatagli dal cervello concusso, ma ecco che questi gli proiettò dinanzi al posto del buio sempiterno l’altorilievo della Madonna del Paveio di Treviso, i cui occhi di pietra dalla farfalla si spostarono sul ragazzo, infelici, quasi stesse per piangere.

Figlio mio, Momolo mio, cosa fai?, udì egli la Sua voce dolente, curiosamente assai simile a quella di Madre.

Due enormi bolle fuoriuscirono dalle narici del giovane e una dalla bocca l’avrebbero presto seguite, se egli, ripresosi dal suo incantamento, non avesse saggiamente serrato le labbra e trattenuto in gola quel poco preziosissimo fiato rimastogli. Dominando l’istintiva reazione di dimenarsi scoordinatamente e così sprecare energie e ossigeno, Hironimo sciolse il nodo della camicia e come di lei si sbarazzò anche delle braghe, i vestiti pregni d’acqua trasformatisi infatti in ulteriori pesi che lo trascinavano in basso.

Stese le braccia in avanti a forma di cuore, ma stavolta per darsi propulsione in avanti, sostenuta dalla spinta della gambata che lo avvicinò alla superficie.

Bracciata, gambata – su! Bracciata, gambata – su! Dai, Momolo, dai che sennò arrivi ultimo! Bracciata, gambata – su!

Le mani del ragazzo s’artigliarono alla cieca al primo oggetto solido ad esse reperibile, ottimo punto d’appiglio per lo sforzo finale: imitando uno di quei tritoni tanto amati dai pittori nei loro trionfi di questa o quella divinità classica, il giovane Miani sfruttò l’ultima leggerezza concessagli dall’acqua per sollevarsi in alto e lasciarsi cadere pesantemente scomposto e supino a bordo di quella che scoprì trattarsi di una gondola. La testa parve volergli scoppiare quando la batté sul duro legno.

Neanche il tempo di giustificarsi coi proprietari della gondola, che i suoi polmoni si contorsero in fiamme, lo stomaco sottosopra e disgustato dall’effetto purgante dell’acqua lagunare, sicché il giovane patrizio riuscì nella notevole impresa di tossire e allo stesso tempo rigettare vomito e acqua, perlomeno quest’ultima parte a carponi a babordo, fuori dall’imbarcazione. Grugnendo, respirò affannosamente l’aria ritrovata, gli occhi brucianti dalla salsedine, scostandosi le ciocche bagnate dalla faccia e rabbrividendo al contatto dell’aria pomeridiana, le tempie che gli battevano alla stregua dei tamburi di galea.  

“Momolo?!”

L’interpellato in questione si bloccò all’istante, tramutato in sale neanche fosse la seconda moglie di Lot. [5] Circospetto si voltò verso la famigliare voce che lo chiamava, sperando che appartenesse a chi lui sperava. Poiché se si trattava di un suo parente, nulla l’avrebbe sottratto all’orrido destino del sileno Marsia, altroché. [6]

“Patrona …”, mormorò in un buffo singulto, la bocca storta in una smorfia incerta tra l’accattivante e il dispiaciuto per quella sua insolita invasione dell’altrui gondola.

Luzia Trivixan, cortigiana "honorata", virtuosa del canto d’eccellentissima fama, figlia di Apollo, musa ispiratrice dei più celebri musicisti e compositori di Venezia, generosissima mecenate e amante preferita di suo zio Batista lo fissava imbambolata, il ventolino levato a mezz’aria quasi la donna fosse incerta se sventolarsi o picchiare Hironimo con esso.

Fossero quelli stati altri luoghi e altre circostanze, onestamente al ragazzo non sarebbe dispiaciuto trovarsi in mutande a tu-per-tu con la Diva. Al contrario, una subitanea verecondia lo colse traditrice e il patrizio si accovacciò su se stesso nel goffo tentativo di celare simultaneamente petto e inguine, maschile imitazione dell’Afrodite Accovacciata dello scultore greco Doidalsa.

La cortigiana, appurata l’identità dell’ospite imprevisto, abbassò il ventolino di damasco, tirando un grande sospiro di sollievo. Sorridendogli amabile e intuendo al volo i come e i perché di quella bizzarra entrata in scena, Luzia staccò la spilla di diamanti e si sciolse l’ampio zendale di seta dalle spalle, che usò lesta per coprire Hironimo, suggerendogli cogli occhi intelligenti di sgattaiolare dentro la felze, operazione resa assai complicata dalla scoordinazione motoria del ragazzo, ancora mezzo intontito sia dai pugni ricevuti in testa che dal mancato annegamento e di fatti, nella felze, egli c’entrò a guisa di granchio.

“Ohé, Luzietta”, cinguettò da una gondola vicina Francesca Ordeaschi, altra nota cortigiana honorata d’esotica bellezza, vestita quel giorno d’un eleganza strepitosa, di damaschetto dai fiori d’oro e argento trapuntati di perle, che pareva la dea Flora reincarnata. La sua imbarcazione, contrariamente a quella della Trivixan, ospitava tre gentiluomini, segno che la Ordeaschi ben conciliava il negotium all’otium. “No xélo un fià presto per la pesca de’ bisati?”, alluse maliziosa, indicando celere tramite il ventalino la figura snella e muscolosa d’Hironimo seminascosta dalla felze. Tanto colta e raffinata quanto subdola e intrigante, quell’ambiziosissima figlia di nessuno qual era Francesca Ordeaschi non mancava di metter alla prima occasione disponibile in cattiva luce le sue colleghe per accaparrarsi gli uomini più potenti e ricchi, sicché le cortigiane in sua presenza si comportavano in maniera ancor più guardinga e artificiosa, onde non esser colte in fallo, arrivando perfino a spiarla a loro volta tramite gli stessi clienti che l’Ordeaschi intratteneva così da anticiparne le mosse.

Luzia medesima, pur all'apice della sua carriera, aveva guerreggiato gagliardamente contro Francesca, la giovane e fresca nuova arrivata, sennonché il suo talento canoro e nella musica in generale le avevano ritagliato una clientela, seppur di nicchia, alla temuta rivale piuttosto inaccessibile per quanto si sforzasse.

Affatto intimorita da quella velenosa frecciatina, la cantante rise dunque piena di sarcastica nonchalance, allargando le braccia e roteando enfaticamente i polsi similmente a quando s’esibiva per il suo pubblico. “Oh cara”, tintinnò soave la sua voce simile a mille campanelli scossi dal vento, “io son la Ciprigna Venere, che, poscia la dura pugna, consola tenera tra le candide sue braccia il bello e indomito Marte, l’Andreiphontês, il Miaiphonos!”, gorgheggiò la sua gola d’usignolo in improvvisato canto, sicché la battuta canora piacque agli altri astanti lì vicini, che applaudirono impressionati.

L’Ordeaschi arricciò furbetta la carnosa bocca sensuale, replicando altrettanto ampollosamente: “Ch’el povero Vulcan vostro non vi sorprenda!”

“La sua Venere saprà far giusta ammenda!”, la rassicurò canticchiando la Trivixan, inchinandosi affettata e, raggiunto il suo ospite nella felze, calò i drappi laterali, concedendosi così un po’ di privatezza senza però rinunciare al cruento spettacolo dinanzi a sé sul Ponte dei Pugni. “Dorondòna petegola”, commentò sbuffando, sventolandosi imbronciata il ventalino.

“Oh, poareto ti”, si concentrò poi Luzia sul suo protetto, sistemandosi tra i morbidi cuscini di velluto all’interno dell’elegante felze e invitando Hironimo ad imitarla, il quale s’accoccolò al suo fianco, attirato dal sia dal calore sia dal profumo di lei che gli ricordavano le melagrane settembrine. La cantante gli sistemò sopra una leggera coperta, studiando con materna apprensione i lividi sul volto e il grumo di sangue tra i capelli impiastricciati tra  loro. “Cossa gh’hastu combinà? Vardate, te xé mojo chome un arnàto! [7] Che labbra blu!”, scosse il capo, accarezzando dolcemente e senza alcun fine di seduzione il corpo pieno di tagli e ecchimosi del ragazzo, il quale starnutì, stringendosi più presso lo zendale sotto la coperta. “Non ti sarai mica buscato qualche malanno? Tremi neanche avessi la terzana!”

“No, no, siora patrona, sto bene”, la rassicurò Hironimo, rendendosi conto solo in quel momento di come effettivamente stesse battendo i denti e di come le sue mani si muovessero autonomamente in convulsi spasimi. Le vertigini ancora non l’avevano abbandonato e gli stava sorgendo un gran sonno, cui il solo cicalare dell’amante dello zio gli impediva di abbandonarvisi.

Sebbene la bocca della cortigiana continuasse a rimanere fissa in un tenero sorriso, in realtà il progressivo avvicinarsi delle sue sopracciglia tradiva il suo scetticismo. “Vieni, posa qua la tua testina”, tamburellò le lunghe dita bianche e affusolate sulle sue ginocchia. Quando l’ebbe dove lo voleva, Luzia prese a tamponargli col fazzoletto il sangue dalla ferita sulla testa, per poi esclamare sconvolta: “An, Momolo! Guarda le tue povere mani! Erano così belle, chi m’accompagnerà col liuto, quando canto per il tuo avunculo?”, lo acchiappò per un polso e contemplò mesta le nocche sbucciate e le dita gonfie della mano sinistra, avendo il giovane Miani menato pugni anche con quella nuda del guanto. Neppure la destra se la passava tanto bene e al ragazzo dispiacque aver intristito così la Trivixan, la quale traeva grande diletto nel sentirlo suonare durante i privati concerti famigliari, anche se la sua tecnica era da amatori se equiparata ai veri virtuosi che frequentavano la casa della cortigiana.

“Non lo so, forse il Bortolo Trombonzin Veronese?”, replicò il giovane, tingendo di stizza quella che doveva essere una battuta di spirito. “Si racconta in giro come voi due siate divenuti amici assai intimi …”

Luzia gettò indietro il capo, ridendo allegramente. “An, lui lo invito soltanto per suonarmi le sue ultime composizioni (così da ottenere qualche copia gratuita dei suoi spartiti) e per discutere sul serio di musica, mica per finta come faceva a Mantoa, coi siori Marchesi! Se lo sapesse quella spocchiosa sgrandezona della Marchesana, che ha sempre voluto il maestro Bortolo tutto per sé! Non ti pare divertente, Momolo, come io possa avere ciò che quella gran dama d’Yxabela d’Este non avrà mai?”, si portò una mano sulla serica pelle del petto, asciugando qualche molesta goccia d’acqua. “Sta de bona voja, petusso mio, conosco quale pensiero ti turba: non ho promesso nulla al sior Bortolo, figurati se mi prendo per amante uno che ha ammazzato la moglie. Non m’importa che i siori Marchesi l’abbiano perdonato, non m’importano le giustificazioni di lui, di come avesse trovato la sua siora Antonia in letto col ganzo. Ha ucciso e questo mi basta. Ché! Crede forse che io sia nata ieri?”

 “Se v’insolenta, se vi fa torto, lo ammazzerò!”, le promise veemente Hironimo, fissandola serissimo. Non scherzava, ora che aveva visto quant’era facile sopprimere un individuo, non ci avrebbe pensato due volte a spedire quel veronese a far compagnia a sua moglie Antonia, se questi avesse osato levare la mano contro la loro Luzietta. Non siamo tanti dissimili, lui ed io -  ammise a malincuore.

“Ora lo so”, ammise gravemente la cortigiana, ogni frivolezza sparita dalla sua voce cristallina, come se potesse scorgere la differenza nei suoi occhi nerissimi, dell’Hironimo prima e dopo la Guerra dei Pugni.

Non l’aveva d’altronde chiamato Marte Andreiphontês, l’assassino di uomini e Marte Miaiphonos, il macchiato di sangue? La Trivixan non sceglieva mai a caso le sue parole, men che meno se pronunciate in pubblico e dunque ella sapeva o poteva intuire ciò che il giovane Miani aveva compiuto nella confusione della mischia. Ciononostante, la grande virtù delle cortigiane era la riservatezza e il rispetto delle confidenze dei propri clienti, più fedeli loro dei preti nel custodire ogni segreto. Luzia non gli avrebbe posto domande né avrebbe spifferato quanto accaduto allo zio Batista. Era al sicuro, concluse sollevato l’adolescente, mentre si strofinava via invisibili macchie di sangue dalle mani, non ancora avvezzo a quella viscosa sensazione né la sua mente ancora provata dalla concussione capace d’elaborare i recenti avvenimenti.

Per il rotto della cuffia vinsero i Castellani, annunciando per i giorni a venire grandi festeggiamenti. Al suono di tamburi avrebbero i vincitori percorso tutti i sestieri della loro fazione – Castello, San Marco e parte di Dorsoduro – in barche cariche di ghirlande e adornate di fiori. I patrizi lì residenti li avrebbero compensati dispensandoli di vino e denaro e per tutta la notte i loro allegri e grossolani schiamazzi avrebbero tenuto sveglie le contrade, tra cortei alla luce delle torce e festini improvvisati in piazze, campi e campielli.

Sarebbe stata invero una gran bella festa, peccato che Hironimo non se la sentì di parteciparvi, troppo scosso dalla recente svolta della sua vita, per quanto ardentemente desiderasse conoscere le sorti di Zane, Nico e Lio, se se la fossero cavata, tornando alle proprie case abbastanza integri da festeggiare la meritatissima vittoria.

Gentilmente accompagnato in gondola da Luzia, Hironimo risalì di nascosto le scale di Ca’ Miani con l’obiettivo di sgattaiolare in camera sua e infilarsi sotto le coperte prima che rincasassero i suoi famigliari e il suo piano avrebbe anche funzionato, se l’Orsolina non l’avesse pizzicato proprio all’uscio della sua stanza, quell’infallibile can da guardia, manco avesse annusato la sua presenza. Gli bastò uno sguardo per capire come l’anziana fantesca sapesse benissimo dove e cosa il padroncino avesse combinato  - mal di pancia, invero!

“Seu ussito de menocca, patron? Xéle cosse da far? Un patricio chome vuj, comportarse da ultimo de’ villani!”, lo rimproverò aspra la donna, seguendolo imperterrita quando uno snervato Hironimo che manco la filò, preferendo entrare in camera sua tra sonori sbuffi e spazientiti roteare di occhi.

“Molighe, Orsolina, ti me dà astio!”, berciò, massaggiandosi le tempie doloranti. “O se proprio no te pol star zitta, almanco parla più pian, chea vaca!”

Figurarsi se la massera si scoraggiò davanti a tal impertinenza. “Gh’avé mentio a la siora vuostra Mare e al sior Zuan Francesco; seti scapà via de chaxa pèzo d’una pantegana, gh’avé robà i vestij dil nezzo mio. Seti tornà ndrio nudo bruco, pituffao bacalà, cum dosso el zendal d’una putana! Gh’avo da continuar? Che turcherie faseu, patron? E per cossa? Per ciaparve a schiaffazze cum cuatro sbisai e bastasi?”, s’appoggiò bellicosa le mani sui fianchi.

“Ih, quante storie!”, scrollò incurante Hironimo le spalle, aprendo il cassone alla ricerca di un paio di mutande asciutte, tirando rapido indietro le mani quando la fantesca, comparendo all’improvviso, gli richiuse di malagrazia il coperchio. “Zò, matta! Mi vuoi spezzare le dita?”

Orsolina lo guardò in cagnesco, i suoi occhi grigi, così terribilmente simili a Padre, saettanti di collera. “Storie? Ve podevate morir mazato lì! Sì horra i festejan, perhò saveu anca di tuti quei omeni, che stanote no torneran pì da le lhoro fameje? Che xéli morti ni per lo stato ni per la fede ma per na baruffa?”

La banalità della morte, elargita così, senza un perché.

Anche quel Nicolotto lo sapeva a cosa sarebbe andato incontro quel giorno? Aveva immaginato che quel letto da cui s’era alzato, quella famiglia da cui s’era congedato, mai più l’avrebbe rivisti e non per via di una guerra bensì per uno sciocco divertimento? Per una rivalità oramai vecchia come il cucco?

S’era reso conto di ciò, mentre rendeva l’anima al Creatore?

“No gh’aveu pensà a la siora vuostra Mare?”

I denti di Hironimo stridettero tra di loro. “Avevo calcolato ogni rischio, mica sono andato allo sbaraglio, io. Non ho corso alcun pericolo, mai, neppure per un istante. Volevo divertirmi un po’, ecco tutto! Sapevo quel che facevo!”

Sì, certo che il Nicolotto lo sapeva così come tutto ciò ch’era successo, l’aveva voluto a suo danno. Nessuno d’altronde lo aveva obbligato a partecipare o ad attaccarlo con un pugnale in mano, di certo il fisico non glielo aveva consigliato per migliorare la sua salute! Di sua iniziativa aveva gareggiato, di sua iniziativa aveva tentato d’accoppare Hironimo, il quale s’era soltanto difeso, non aveva fatto nulla di male! Se lo aveva ucciso, s’era trattato di un disgraziato incidente, lamentevole, però così andava il mondo e perché dunque addolorarsi? Quanti prima di lui aveva ammazzato quel Nicolotto senza starci troppo a meditare su, a compatirsi?

Inoltre, tutti quei suoi allenamenti nella disciplina marziale non avevano forse l’obiettivo ultimo di fronteggiare la morte? Dov’era quindi in quanto da lui compiuto la stranezza, lo scandalo, il rimorso che la sua coscienza stava cercando d’inculcargli?

“Bagolo? Bagolo?”, (divertimento, ndr.) si strozzò per poco Orsolina con la sua medesima saliva, ascoltando incredula quelle barbarità. “Voléu copar de doja (dolore, ndr.)  la siora vuostra Mare per dil … bagolo?!”

“Ancora una parola e a finire ammazzata sarai tu!”, ruggì il ragazzo, scattando in piedi e premendosi i pugni agli occhi, onde scacciar via sia l’implacabile emicrania sia la tremenda immagine di Madre piangente sul suo corpo immobile e tumefatto, così com’era avvenuto sette anni addietro con Padre.

“El sior vuostro Pare, anca se da zovene l’gera stà assa’ salvadego, no se gh’ha mai portà da bestia! Mai!”

“Io non sono il mio sior Pare!”

“Donca saria mejo par vu tuore esempio da lu!”

“Oh, certo! Adesso corro a prendere la corda e vado ad impiccarmi a Rialto!”, si portò Hironimo la mano alla gola, fingendo di stringere.

Orsolina impallidì, la bocca piegata in una smorfia disgustata. “Talvolta, gh’ho da dirvelo, vuj seti squasi na desgrassia per sta fameja”, sentenziò delusa, incrociando le braccia al petto e dirigendosi in un furioso sgonnellare fuori dalla stanza. “Poara Patrona, cossa la gh’ha combinà per meritarse un fio cussì turcho …”

“Dove vastu?”, la bloccò subito Hironimo, temendo ch’andasse a far la spia con Madre o coi fratelli.

“A pareciarve el bagno: un corno che vuj me spusolenté de freschin i nezuòi (lenzuola, ndr.) néti!”, ribatté pragmatica la fantesca dal corridoio.

Quand’ecco ch’ella cangiò idea, ritornando sui suoi passi e, afferrato il ragazzo per il polso, se lo trascinò seco nelle cucine. A quell’ora l’intera servitù s’era riversata in piazza a godersi i festeggiamenti e pertanto quell’ambiente di solito brulicante di gente e d’attività giaceva in un rilassante silenzio, vuoto.

Orsolina pigliò la tinozza e due pingui brocche di rame, dall’acqua ancora calda. In questo modo avrebbe nettato prima il padroncino, senza destar troppi sospetti in un viavai d’utensili per il bagno. Insaponato ben bene il diciassettenne patrizio, gli rovesciò indosso il contenuto e Hironimo trasalì dal cambio di temperatura e dovette soffiarsi il naso, essendogli entrata fastidiosamente dentro dell’acqua e pure un poco sputacchiò. “Mi vuoi annegare, furbastra?”, la rimbeccò stizzito, scostandosi i capelli divenutigli sul viso una tenda da finestra. Almeno, constatò rincuorato, la ferita sulla testa aveva smesso di sanguinare, sebbene pulsasse peggio d’un cuore.

“V’eo meritarave!”  

“Puoah, vecia bacuca!”

“Varda! Varda che bote! Perché ve voléu tanto mal, patron, da farve petuffar? Manco gh’avesse vuj chissà quali pecai d’espiar! Mi sun segura, che gnanca quei pia-gno-ni a Fiorensa xéli cussì mati!”

“Perché lo faccio? Fatti miei. E comunque, vecchia ignorantaccia, quei piagnoni fiorentini erano matti, li hanno arrostiti tutti alla stregua di fagiani.”

“I gh’ha fato ben, i gh’ha fato! Massa premura (zelo, ndr.) de religion, porta solum on gran mal de stomego.”

“Fai attenzione alle tue parole, ché il sior pare del “Pizzocchero” da sant’uomo che l’è, dal Ciel te scolta, te varda, te judega!”

“Bah, piagolo!”, grugnì scocciata la fantesca che afferrò la seconda brocca, esitando però un attimo. “Patron Momolo”, gli disse invece serissima, “mi no vago a contar gnente a la siora Patrona vuostra Mare, perhò vuj m’avé da zurar che mai pì parteciparé a la Guera di Pugnazi.”

Hironimo si morse indeciso il labbro inferiore, cogitando quali dei due mali fosse il peggiore: se rinunciare a tal pericolosa però esaltante competizione oppure se provocare un coccolone al cuore a Madre, informandola di quel suo violentissimo passatempo.

Mentre valutava i pro e i contro il suo sguardo cadde sulle mani appoggiate ai bordi della tinozza, a com’erano state lorde di sangue.

Ho ucciso un uomo.

“Te lo giuro.”

“No, patron, vuj gh’avé da zurar sora l’archa dil sior vuostro Pare.”

Le sue dita erano talmente gonfie, che il solo schiuderle gli risultava doloroso. Ciononostante non rimpiangeva quella sua esperienza. Era stata … liberatoria, quasi catartica.

“Lo giuro sull’arca del mio sior Pare.”

Orsolina fu di parola e così anche Hironimo, ritornato docile al suo ruolo di spettatore passivo, all’occasione in compagnia di Luzia, assai divertita la cortigiana da quel loro segreto.

“Siora Mare?”

“Dimmi, Momolo.”

“Padre aveva ucciso?”

“In guerra diviene purtroppo una necessità.”

“Anche se è condannata nei Dieci Comandamenti?”

“Se fossimo perfetti, vivremmo ancora nel Paradiso Terrestre.”

Ma il vaso di Pandora era oramai stato scoperchiato e d’altronde Venezia brulicava di zuffe, mica bisognava limitarsi soltanto a San Barnaba …

 

 

***

 

 

1504 - 1511

 

Da quel 30 settembre, Hironimo non aveva più avuto chissà quanta paura della morte, ora che aveva scoperto di poterla a sua volta dare e anche così facilmente.

Era conscio tuttavia che soltanto la Serenissima Signoria decretava come e quando essa poteva venir impunemente elargita ed egli non era talmente sciocco da sfidare le severe leggi veneziane, né d’arrischiare le sue personali ambizioni per dei banali omicidi figli di stupidi litigi o questioni d’onore.

A quello ci pensava il Carlevar.

Da Santo Stefano fino a martedì grasso, la città si abbandonava alla pazza gioia, dedicando mesi interi ad ogni genere di spettacolo e intrattenimento, pubblico e privato, tra balli, concerti, palii, regate, combattimenti tra orsi, tori, cani, galli; settimane in cui l’illecito diveniva lecito, il proibito il permesso, il male bene. L’anarchia accuratamente programmata, in cui ognuno assumeva una nuova personalità ed evadeva, giocando con la sua realtà e manipolandola a proprio piacere in un sofisticato gioco delle parti.

Sicché in questo disordine non mancavano anche i regolamenti di conto, le vendette, molto spesso impunite o per incapacità d’identificare il colpevole o per disinteresse dell’autorità, più focalizzate a vegliare l’intera città che il singolo individuo. Le risse dunque erano all’ordine del giorno e Hironimo, due volte su tre, si trovava lì coinvolto o per dar manforte o perché da lui stesso provocate.

I motivi? Molto spesso gelosia tra “innamorati” per i favori di questa o quella cortigiana, oppure, questo sì più serio e valido, per proteggere le ragazze del loro sestiere di San Marco contro le pretese dei giovanotti di quelli confinanti; troppo spesso, infatti, si sentivano tra le calli gli echi di qualche povera fanciulla rapita da queste bande di masnadieri, trascinata a viva forza nelle loro alcove e una volta lì ... Hironimo voleva giustificare i morsi della sua coscienza, sostenendo che se scazzottava con tal marmaglia era per galanteria cavalleresca verso quelle povere indifese e pure di ciò si vantava con le sue estasiate cugine e l’amante – in realtà, di quelle giovinette poco gli importava, la sua era una semplice disfida personale per dimostrare agli altri la sua forza, il suo carisma di capogruppo, la sua dominanza verso il prossimo, il suo sprezzo verso la morte. Erano un pretesto, nulla più. Neppure in quelle occasioni in cui accorrevano gli sbirri egli si tirava indietro, anzi, per la par condicio finiva per pestare a sangue pure loro, gettandoli spesso e volentieri in canale.

Sapeva di giocare un gioco pericoloso, con quel suo perpetuo sfidare la sorte a costringerlo ad uccidere nuovamente, e in più occasioni rischiò di uscirne sconfitto.

Come con quel tale di Ferrara, quel gentiluomo la cui moglie per sbaglio Hironimo aveva approcciato all’imbarcadero, avendo infatti equivocato la pelliccia di volpe argentata di lei per la medesima indossata dalla sua amante che, disgrazia del destino, gli aveva dato appuntamento proprio lì. Accortosi dello scambio di persona, Hironimo s’era immediatamente scusato con ambedue, spiegando il malinteso, ma il ferrarese non aveva voluto sentir ragioni, appellandolo coi peggior epiteti e insistendo di soddisfare e lavare l’onta subita col sangue.

Al che, annoiato a morte da tali discorsi e incollerito per quegli ingiusti insulti, Hironimo da dietro la maschera gli aveva riso crudele e beffardo, mentre sguainava enfaticamente lo stiletto e la spada. Sangue avrai, Ferrarese, non rifiuto dartelo se lo cerchi. Ma bada: se stanotte deve scorrere, sarà a gran fiotti il tuo.

A stento evitò d’ucciderlo, però per il suo orgoglio perse il gentiluomo un occhio, tornandosene a Ferrara sfigurato e col dubbio se quel veneziano avesse proferito o meno la verità. Quanto al Miani, si biasimò per aver esitato a spedire quella canaglia nell’Aldilà, perdendo così l’occasione e il piacere d’alleggerire il mondo dell’ennesimo arrogante idiota.

La guerra, incominciata a maggio del 1509, gli portò consiglio. Lì non aveva nessuna remora o coscienza a fermarlo, né famiglia, né leggi né Dio.

E come Hironimo aveva appurato anni addietro, non c’era nulla d’eroico in essa, nulla d’esaltante né degno d’esser cantato da quei bugiardi dei poetastri in infiniti e barbosi poemi. Si uccideva e si passava al prossimo avversario, meccanicamente, spesso con brutale gusto, la mente proiettata completamente nel presente, senza passato e futuro. Vivere alla giornata con l’incertezza del domani, l’unica consolazione era quella di privare il nemico di tale medesima prospettiva.

Il giovane patrizio giudicava questa una vita assai più lineare, semplice e diretta. Soddisfacente quasi. Obiettivi chiari, ordini da impartire e da obbedire. Il nemico davanti a sé, la zagaglia in mano e le redini di Eòo nell’altra, l’appagamento di penetrare con essa la carne avversaria, conscio che ogni uccisione corrispondeva ad un danno a chi si prefiggeva di distruggere lui e la Signoria; conscio che ogni uccisione era la prova della sua bravura, della sua consacrazione a Marte.

Battaglia dopo battaglia, il suo talento e la sua dedizione sarebbero state ricompensate, ne era certo. Nel sangue avrebbe trionfato assicurandosi la gloria, la fama immortale, avrebbe reso onore ai suoi illustri avi, superandoli in ingegno e abilità militare. Avrebbe definito il suo destino, il suo posto nel mondo.

Gli ci volle la sconfitta a Castelnuovo di Quero e il racconto di Thomà per far comprendere ad Hironimo che, alla fine della fiera, non s’era comportato né meglio né peggio d’un comune macellaio, tranne che a quest’ultimo Dio non avrebbe chiesto conto di tutti gli animali che scannava per riempire le pance dei suoi clienti. Non aveva acquisito alcun merito agli occhi della Signoria perché ancora nessuno s’era fatto avanti per pagare il riscatto; se sarebbe stato ricordato, solo per quella sua umiliazione, azzerando gli sforzi dell’intera sua adolescenza a meno che qualcosa, qualcuno non gli avesse concesso un’occasione di riscatto. A patto però che fosse sopravvissuto, ovviamente. Ora come ora, la certezza di rimanere in vita stava inesorabilmente crollando. Lui non decideva niente, non era padrone del suo destino. Ostaggio impotente, vittima nelle mani del suo carnefice, più forte, più astuto, più spietato di lui. Come il Nicolotto di otto anni addietro, chi l’aveva costretto a quella vita? Coscientemente aveva imboccato quel cammino e adesso doveva pagarne le ovvie conseguenze nell’infamia della prigionia. Fosse almanco morto eroicamente in battaglia …

Per questo guadagno aveva dunque compromesso la sua anima?

Riponi la tua spada nel fodero, ché tutti coloro che avran messo mano alla spada di spada periranno.

Non aveva considerato questo dettaglio, nella sua cieca ed entusiasta ricerca del successo militare. Tanto si credeva invincibile, da non aver realizzato come anche lui fosse sottoposto alla medesima dura lex della guerra, laddove prima o poi il fato l’avrebbe destinato a fronteggiare qualcheduno a lui superiore, che gli avrebbe inferto tutto il male ch’egli aveva a suo tempo sfogato sui perdenti.

A qual pro odiare dunque Mercurio Bua, biasimandolo delle sue disgrazie?

Fossero stati i ruoli invertiti, Hironimo si sarebbe comportato esattamente come lui.

Se non peggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Continua il nostro viaggio nella coscienza assai sporca del Nostro, ne avremo ancora almeno per qualche capitolo, dove spiegheremo altri punti qui accennati, ma non sviluppati, tipo il suo rapporto con Lucia Trevisan.

Colgo l’occasione per un meritatissimo ringraziamento a Alessandroago_94 che, contrariamente a quanto dice, non è né ignorante né inutile anzi, è stato il primo a recensire e a darmi fiducia continuando a leggere, dopo un prologo assai bislacco. Grazie mille!

Spero dunque che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] oggidì questa Scala è nota come “La Scala dei Giganti”, per via delle scultore gigantesche di Marte e Nettuno ad opera di Jacopo Sansovino, lì collocate nel 1567.

[2] Piazza delle Erbe = oggi Piazza del Monte di Pietà. La chiesa di Santa Lucia, addossata alla chiesa di San Vito, aveva inglobato la chiesa di Santa Maria delle Carceri, da qui i numerosi simboli sulla conversione e sul destino dell’anima dopo la morte. Infatti, oltre all’altorilievo, c’è anche un affresco di Tomaso da Modena raffigurante la Madona del Paveio.

[3] Castellani: sestieri di Castello, San Marco e Dorsoduro (tranne per le contrade di San Nicolò dei Mendicoli, Angelo Raffaele, San Basegio, Santa Margherita e San Pantalon); Nicolotti: sestieri di San Polo, Santa Croce e Cannaregio.

[4] Ebbene sì, a Venezia si poteva riconoscere dall’accento da quale sestiere uno proveniva. Questa curiosità venne persino appuntata da Goethe nel suo “Viaggio in Italia.”

[5] La moglie di Lot contravvenne agli ordini degli angeli, voltandosi indietro durante la distruzione di Sodoma e di conseguenza tramutandosi in una colonna di sale.

[6] l’orgoglioso sileno Marsia sfidò Apollo ad una competizione musicale, perso contro il dio, quest’ultimo per la sua hybris lo fece scorticare vivo.

[7] mojo chome un arnàto = (lett.) bagnato come un’anatra, ossia bagnato fradicio.

 

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Capitolo 21
*** Capitolo Diciannovesimo: Confiteor ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 04.10.2021

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Capitolo Diciannovesimo

Confiteor

(Non commettere atti impuri)

 

Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa.

(Geremia, 17:9)

 

 

 

 

 

Magnifica domina,

come volete dunque ch’io mi comporti? Cosa volete ch’io faccia?

Mesi di rigoroso silenzio da parte vostra, al punto che mi pareva d’udire l’eco della mia medesima voce quando vi scrivevo e ora, finalmente che ho potuto stringere una vostra lettera, voi mi pugnalate con le vostre ridicole cortesie nonché impertinenti offerte d’amor di sorella, voi, proprio voi che con tanta passione mi giuravate al cielo e alla terra d’appartenermi, legati dal nodo assoluto d’amore; voi, che con ardore m’accoglievate nella vostra stanza, vi debbo ricordare l’impeto e il trasporto da voi dimostratomi, quando vi stringevo al petto? Adesso non soltanto rinnegate il nostro sentimento, persino volete dileggiarmi sostituendolo con un altro di ben più misera natura, in questa burla di lettera dal foglio mezzo vuoto, scritto in fretta, neanche voleste spicciarvi di un affar a voi molesto?

Vorrei non esser mai rientrato a Veniexia se tale missiva doveva attendermi, né tentare il fato e, ante di leggerla, portarmela a Padoa, nella sciocca e disperata speranza che le vostre parole, a me più confortanti di mille orazioni, potessero addolcire l’asprezza di questa tremenda guerra. Speravo, folle!, di trovare almeno un picciolo affanno da parte vostra per la mia salute; una spiegazione, perfino una bugia per giustificare il vostro inaspettato fidanzamento: nulla ch’io già non conoscessi, ma forse voi non potrete mai immaginare con quale perverso gusto esso mi venne comunicato? Orbene, nessun orrore offertomi sia dal campo di battaglia sia dall’assedio potrà mai far vacillare il mio spirito, come invece accadde quando intesi dei vostri insensibili propositi,  ancor più stomachevoli poiché avete unito al silenzio la vostra ostinata assenza.

M’imponete supplichevole e altera d’evitarvi e di restituirvi la vostra pace, cessando di importunarvi ed esortandomi a dimenticarvi. Ah! s’io potessi, v’offrirei questo e altro, così come vi ricordo che foste voi per prima a cercarmi, voi per prima ad importunarmi, voi a sfruttare la mia indifesa giovinezza e la mia ingenuità sugli artifizi più subdoli dell’amore,  voi ad avvelenarmi per prima l’esistenza con false promesse e chimere! La mia naturale inclinazione verso di voi non poteva non arrendersi a tal passione!  Se non mi fosse noto l’ambiguo potere della retorica, cederei alla tentazione di credere alla vostra ritrovata verecondia, alla vostra disperata necessità di recidere questo nostro legame per la salvezza della vostra anima, che il dolore che mi state infliggendo corrisponde ad un grave sacrificio da parte vostra. Ciò che mi ha e continua ad addolorarmi, è invece la certezza sempre più inevitabile della fine di quell’affezione che per lunghi anni ci ha tenuti saldamente avvinti. Abbiamo gettato allora il chicco nei rovi? S’io temevo che il vostro silenzio derivasse dalla mancata lettura delle mie missive e dunque m’appigliavo all’ultima illusione che voi mi fuggivate più per apparenze morali che per fastidio della mia presenza, codesta vostra assassina freddezza mi conferma che voi al contrario le avete lette e dimenticate e soprattutto che voi non mi amate più e forse mai lo avete fatto, scambiandomi per un piacevole intermezzo tra il letto del vostro defunto marito e quello del vostro prossimo nuovo consorte.

Eppure io non voglio credere che voi, colei cui ho donato senza riserve e senza garanzie la parte più pura del mio cuore, che proprio voi abbiate deciso di burlarvi costì di me: sempre si denigra l’incostanza e crudeltà di noi uomini, ma oh! se voi donne ben sapete giocare con medesima spietata astuzia, nascondendovi dietro la presunta debolezza del vostro sesso e convenienti pretesti per abbindolare l’allocco di turno, per poi scartarlo inclementi e senz’alcuna possibilità di appello quando più nulla ha da offrirvi! In che cosa io vi ho mancato? Dove ho fallato al punto da rendermi a voi odioso? Da preferirmi l’altrui corteggiamento? Quale male v’inflissi per guadagnarmi tal supplizio, rendendomi mortalmente infelice? È dunque questa la ricompensa per avervi amato sì teneramente? Vi ho adorato alla stregua d’un pazzo, incurante di ogni conseguenza e morale, disposto ad ogni vostra condizione e sedotto da qualità ch’io realizzo ora esser di natura assai mediocre - dove troverete altrove altrettanta dedizione, ditemi? Vi compatisco immaginandovi presto vittima del mio medesimo tormento, il vostro novizzo vi donerà il medesimo affetto che nutre per il suo cane e forse neanche quello, voi ridotta ad un ricco trofeo da esporre e avvizzirete anzitempo nei vostri scrupoli e nelle amarezze di scoprirvi ripetutamente ingannata. Dovrei gioire nel sapervi destinata a tal ingloriosa ma giusta fine, eppure non ho cuore d’augurarvi alcun male né d’odiarvi. Il mio animo, pur dilaniato dall’immeritata perfidia vostra, ancora spera in una smentita, ancora si culla nel sogno di poter trascorrere qualche tempo con voi. Vi scongiuro di dirmi che lo spettro di questo vostro pretendente altro non sia che una prova su cui temprare la fermezza del mio amore, invece dell’arca dove volete anzitempo seppellirlo.

Scrivetemi! Scrivetemi che mi avete subitaneamente preso in odio, che mi disprezzate e che mi maledite piuttosto di narrarmi come abbiate smesso d’amarmi -  io temo più il vostro silenzio che le vostre ingiurie. Comandatemi d’espormi in prima linea al fuoco nemico, ma non di dimenticarvi. Ad ogni ordine vi sono stato docile, a questo io contravverrò fino all’ultimo mio respiro. Non chiedetemi di sopprimere l’amore ch’io nutro per voi, non lo farò. Tale fiamma non si può racchiudere in un angolo sperduto del cuore e più insisterete di gettarvi cenere onde spegnere ogni affezione nei vostri confronti, più al contrariato voi ci soffierete sopra, alimentandola. Allora voi mi darete dell’egoista, di colui che vi vuol negare la vostra tranquillità. Quale? Se non la trovate, è la vostra coscienza che vi morde, poiché chi sprezza l’amore sincero dopo averlo conosciuto è destinato a soffrire ogni martirio interiore, ogni rimorso, cadaun giorno, incessantemente! E quando mi chiamerete poi meschino, per la mia testardaggine, ecco, io pretenderò che me lo sputiate in faccia e se temete in un tranello per sottoporvi a qualche malagrazia, rincuoratevi: piuttosto di nuocervi, mi getterei contro le picche dei lanzichenecchi. Di gran lunga preferisco perire tragicamente, pure di man vostra, acciocché la mia morte vi si marchi a ferro nell’anima e mai voi possiate liberarvi anche solo del ricordo di me. Vedete a che deliri mi avete ridotto?

Sì, convengo con voi che dovrei dimenticarvi quanto prima, però non posso, non posso! La vostra voce mi sussurra costantemente nelle orecchie, è il vostro viso che sogno la notte; neanche il furore della battaglia può cancellarvi dalla mia mente né la mia, lo confesso, vendicativa infedeltà contro di voi. Vedete come siamo ben assortiti, indegnamente degni l’un dell’altro? Voi mi siete stata infedele per comodo e vanità ed io per disperazione e rancore ed ambedue abbiamo esteso le nostre colpe su vittime innocenti.  Ironicamente, il consiglio datomi dai miei amici si sta ritorcendomi contro, al posto del chiodo, scacciar amor con altro amore. Ho preso una villana nel mio letto, una dei tanti fuggiaschi dalle campagne, col chiaro intento di umiliarvi non solo associandomi ad una donna a voi nettamente inferiore, ma pure di poterle riservare il medesimo affetto finora esclusivamente vostro, dimostrandovi che voi non siete né la prima né l’ultima donna a questo mondo e che il vostro spirito non è così sublime come voi v’illudete essere. Ebbene, ingannatore finii ingannato e mi disprezzo il doppio per essermi abbassato a tal meschinità pur di scuotervi dal gelo che vi cinge, approfittandomi dell’altrui disgrazia. Vedete come per amor vostro mi stia rendendo coscientemente spregevole, acciocché voi abbiate validi motivi per odiarmi? Aggiungo inoltre che, malgrado sia ben conscio di quanto anche questa mia ganza stia portando l’acqua al suo mulino, nella sua rusticità ugualmente ella mi dimostra più franchezza di voi: non mi sfugge e me ne dolgo, per non aver aperto prima gli occhi. Quanto amore, quanti anni sprecati!, si sospirerebbe se la parte più inflessibile e orgogliosa di me al contrario non mi bisbigliasse: io non mi pento di nulla – se per qualche misteriosa maniera potessi ritornare indietro, senz’alcun tentennamento ripeterei ogni mia azione, semmai v’amerei con maggior intensità, sapendo a quale triste destinazione doveva concludersi il nostro viaggio. Negatelo pure, se vi va, però noi ci siamo amati e a nessuno debbo chiedere scusa.

Scrivetemi! A breve rientrerò a Veniexia, voi sapete dove trovarmi, verrete? Mi concederete quest’ultima grazia?

Ripensandoci, effettivamente il nostro amore è nato sotto cattivi auspici: ad un funerale ci scorgemmo per la prima volta, ad un funerale ci salutammo per quella che voi avevate arbitrariamente deciso dovesse essere l’ultima volta. Chi fu il vostro consigliere fraudolento? La gelosia, alle cui sferzate molte fiate io dovetti sottostare? I vostri parenti, che più di voi a loro importava la sorte del vostro patrimonio? La vostra coscienza, dove l’avevate scordata quando la passione c’univa nel focoso amplesso? Le vostre amiche, appestate d’invidia? O quelle beghine della vostra parrocchia, i vostri preti pallidi, grossi e grassi, dalla lingua di velluto, le cui frasi troppo spesso di recente mi ripetevate -  fornicazione, disonesto commercio, impuro capriccio. Impuro? Era questo dunque ciò che vi turbava? Che vi ha portata a cedere alle più comode e onorevoli lusinghe di un altro? Impuro! Avete creduto più a loro, che a me? Vi ho mai nascosto la mia ferma intenzione di accasarci, non appena mi fosse stato assegnato un incarico? Impuro! No, preferiste ascoltare il gracchiare dei pizzoccheri, di quei moralisti dalla vita talmente arida e sterile che nulla hanno di meglio da fare se non criticare quella degli altri. Invidiosi che mai amati, non sopportano che gli altri amino; ipocriti sepolcri imbiancati, tanto retti e morali di facciata, ma sozzi delle peggiori lascivie nel cuore. Dal giudizio di costoro vi siete lasciata influenzare? Che cosa sanno questi scalzacani di noi? Del nostro sentimento? Che cosa? Se parlano, è a vanvera, per luoghi comuni, incapaci di ogni discernimento. Talmente son pronti a giudicare, che neppure ascoltano l’intera storia del loro imputato. Egoisti, idolatri di se stessi e, se la fortuna li arridesse, tirannici nei confronti del loro prossimo, smaniosi di spingere la loro farlocca santità giù dritta per l’altrui gola. Ignorate che le virtù di cui tanto oggidì ci s’ammanta, altro non sono che abili coperture di ben peggiori vizi? La loro è una virtù che vuole la servile approvazione di un gran numero di testimoni; la loro è una virtù presuntuosa che condanna l’altrui e mai il proprio errore. Perché avete ascoltato il loro gracidare e non la mia voce?

E come ho potuto io non accorgermi del graduale raffreddamento del vostro amore? Di scorgere i segni della vostra crescente insofferenza? O rimorso? Di che cosa vi siete pentita, esattamente? Nulla io ho fatto, che voi non abbiate voluto. Almeno, aveste avuto la bontà di non cacciarmi via avvalorandovi di scuse di pessimo gusto: il vostro pudore, il vostro onore, la vostra famiglia, il vostro novizzo. Sostenete che io, trascinandovi nel gorgo della fornicazione, abbia offeso il vostro pudore di matrona: e voi? Mi avete catturato quando io ancora possedevo il mio, di pudore, approfittando della mia confusione verso il vostro sesso e del disordine del mio cuore per rigirarmi abilmente a guisa di bambola tra le vostre mani; mi avete menato per il naso per anni e se io nutrivo qualche sentimento di decenza verso gli affari tra uomo e donna, voi m’insegnaste a non curarmene, a seguirvi verso gli impervi sentieri delle disoneste tresche amorose. M’accusate d’infamarvi: ed io? Non ho per amor vostro messo a repentaglio anche il mio di onore, esponendomi costantemente alle severe leggi della Signoria, al pubblico biasimo, alla morbosa curiosità, all'unanime accusa di non stimare né leggi né Stato né Dio, ponendomi allo stesso livello dei munegini, come il fio dil zermano del mio avunculo? [1] M’informate delle vostre preoccupazioni riguardo alla vergogna che proverebbe la vostra famiglia, nello scoprirvi invischiata in sì turpi negozi. E alla mia, allora? Non avete pensato come anche la mia morirebbe di vergogna in caso dovessi comparire dinanzi agli Avogadori? Allo sdegno dei miei parenti, nel vedermi costì traviato? Per chi, poi? Per un’infida, per un’empia che mi vuol precipitare? Non volete mancare alla parola data al vostro novizzo, ma come? Non avevate giurato prima a me che a lui? Non vi avevo promesso su ogni cosa a me sacra, di darvi il segno e la mano appena possibile? Così poca fiducia dunque avevate in me? Cosa sono stato io per voi? Un cassone per il vostro cuore solitario? Non tediatemi poi con discolpe quali l’uomo è l’uomo: ebbene, anche la donna è la donna, fatta anch’essa di carne e di sangue come l’uomo, coi medesimi desideri dell’uomo, in nulla sono i suoi pensieri più nobili, sia essa nata in una stamberga o in un palazzo principesco. Il ventre di una villana è altrettanto accogliente come quello di una nobildonna, ve l’assicuro. Fossimo governati da leggi foreste, con gioia mi avreste consegnato alla vendetta dei vostri familiari, più per placare la vergognosa consapevolezza che voi non siete immune dai più istintuali dei desideri, che non siete al di sopra di nessuno, più che per un presunto senso di giustizia e anche là, attenta, perché se dovessimo determinare la sorgente del vostro supposto disonore e se voleste soddisfazione tramite la giustizia terrena, ebbene avanti! Chiedetela! E non temete che ne riceverete anche fin troppa. Credetemi, a questo mondo a non esser perdonati sono gli scandali, non i peccati e i vostri scrupoli e i vostri rancori contro di me sono dettati anche dal timore, che la mia presenza possa nuocere ai vostri progetti: realizzo che finché nulla si sospettava, voi vi siete spensieratamente accompagnata meco, per poi abbandonarmi al primo cenno di pubblico pettegolezzo. Ma se invece davvero voi avete ragione, se davvero in quest’affare sussiste una colpa, allora è imputabile ad entrambi in egual misura sebbene, vi ripeto, io non mi dolga affatto d’avervi costì amata, ponendovi al di sopra del mio onore, della mia famiglia e oserei aggiungere perfino della mia patria carissima.

Ahimè, quando vi ho conosciuta, io ancora sguazzavo negli insegnamenti dei miei maggiori, ossia come l’amore fosse un piacere e l’onore un dovere; di come l’amore lo si dovesse piegare a qualche virile ambizione superiore, agli affari di Stato, alla gloria, perfino all’orgoglio. E appunto questo è il problema, che la nostra natura fiera e inflessibile  non vuole né cedere né abbassarsi né soffrire in nome dell’amore, dimenticandosi come chi ama davvero non teme alcun sacrificio, alcun compromesso, alcun’umiliazione se può giovare alla persona amata. Perfino la morte per quest’ultima assume i connotanti di una capricciosa stravaganza che un segno di grandezza d’animo e coerenza. Quanta vanità mascherata da amore! Avete amato me o il vostro amor proprio in tutti questi anni?

Ed io?

Ho amato voi o l’idea che avevo di voi o l’amore nutrito per voi? Sicché s’insinua il dubbio anche in me, s’io v’abbia sul serio amata, o se trovavo più dolce amare ed essere amato a condizione di godere anche del corpo della persona amata. Chissà magari non sia io dalla parte del torto, avendomi condotto un’intenzione pura ad un risultato disonesto? Non riesco a giungere ad alcuna conclusione, tanti sono i pensieri contradditori in me, talora neppure  so cosa io voglia da voi esattamente, oscillando tra il desiderio disperato di stringervi le ginocchia similmente alle schiave greche o di applicare il vostro consiglio e ingegnarmi a dimenticarvi, stavolta sul serio e non sfruttando chi non se lo merita.

Un poco sorrido tra me e me al pensiero della vostra espressione di puro terrore dinanzi a questa mia missiva; non temete, già immagino che voi non la leggerete o se lo farete, sarete impestata di sdegno e pertanto non recepirete appieno il mio messaggio. Poco m’importa, oramai questa mia lettera l’ho incominciata a Padoa, per continuarla qui a Veniexia, dove voi tutt’oggi mi negate un colloquio, e spero di inviarvela speditamente, salvo contrattempi – vi dispiacerà sicuramente sapervi subordinata ad altre priorità? Quanto tempo per concludere la vostra lettera! A quante esterne amarezze essa s’accompagna! S’avvicina la festa di Santa Luzia e prego che questi anni di lontananza non abbiano influito sulle vostre devozioni e mi venga esaudito il desiderio di lì incontrarvi, almanco casualmente.

State di buon animo, non premuratevi di rispondere alla mia missiva, non pretendo da voi alcuna replica né conferma di lettura. Ho realizzato nelle ultime settimane che sto effettivamente scrivendo più per me stesso che per voi, sebbene ogniqualvolta scivoli l’inchiostro su questa carta, io abbia la sensazione di vedervi, di toccarvi e di parlarvi. Penso che non stia più cercando di persuadervi a ritornare ad amarmi o ad incominciare a farlo – sarebbe inutile, più che umiliante. Non m’inganno più della falsa attesa di un colloquio che voi mai mi accorderete. Il mio unico desiderio rimane quello di separarci senza alcun rancore, il medesimo ch’io scorgo nelle rarissime occasioni in cui ottengo d’incrociare il vostro sguardo, laddove mi accusate tacitamente di perseguitarvi, come se potessimo sceglierci le amicizie e i familiari, come se voi aveste sperato nella mia morte sotto le mura di Padoa, mi rimproverate d’esser sopravvissuto? Quale forza diabolica m’attribuite, dunque, da riuscire a scampare alla furia assassina della guerra al mero fine di tormentarvi? Suggeritemi voi come ci si debba regolare. Se incontrarmi di sfuggita v’irrita, contemplarvi accanto ad un altro, unito alla consapevolezza che sarei dovuto trovarmi io al vostro fianco, mi ferisce e mi rivolta il sangue, similmente alle vostre perfide confidenze con mia cugina, laddove ingiustamente vituperate il mio carattere e le mie azioni. Così tanto mi trovate peggiorato?

La mia famiglia potrebbe convenire con voi, preoccupata dallo stato deplorevole del mio animo, dalla bile nera che mi ribollisce nel petto. Tutto d’altronde mi dà noia, ogni svago e ogni interesse da me coltivato e perfino questa città istessa sono fonte di un fastidio senza fine. I miei familiari attribuiscono il mio nuovo temperamento atrabiliare alla spietata realtà della guerra e per pigra convenienza glielo lascio credere, forse soltanto a mio fratello ho, tramite qualche sparso indizio, parzialmente confessato il mio tormento, oppure lui l’ha facilmente intuito giacché vittima di medesime angosce e artefice del medesimo crimine di cui voi sì solertemente m’avete assai spesso e volentieri accusato. Fu magro conforto il suo, egli ha trovato la soluzione contrariamente a me, di lui hanno avuto pietà.

Ho deciso, avvicinandosi la data prevista della mia prossima partenza a Castel Novo di Quer e a seguito delle genuine condoglianze del vostro ignaro marito per la morte di mia sorella, di restituirvi assieme a quest’ultima mia missiva tutte le vostre lettere e i vostri favori. Ne custodirò solo due: la prima e l’ultima che mi inviaste e non a titolo d’assicurazione, casomai voi un giorno vi risolveste di vendicarvi danneggiandomi, bensì a futuro monito per me, qualora il tarlo dell’impellente desiderio di amare dovesse ritornare a rosicchiarmi il cuore. Le ho rilette fino ad impararle a memoria, rendendomi conto, soprattutto nella prima, della vostra leggerezza di spirito, dell’accorto gusto nella scelta delle parole e della musicale grazia del raffinato scriver vostro, insomma lettere piacevoli, seducenti, bellissime quanto voi e altrettanto fredde nella sostanza, più sensate che appassionate. Ci siamo travestiti da amanti e ci siamo divertiti e illusi in un lungo Carnevale. Siccome per me è giunta l’ora delle Ceneri, vi ritorno ogni vestigia della migliore tragedia e al contempo commedia da noi recitata. Avrei potuto bruciare e distruggere i vostri pegni d’amore, tuttavia preferisco inviarveli indietro anche per rassicurarvi della mia ferma intenzione di non cercarvi mai più, né apposta né per caso, e di perdonarvi ogni vostra colpa nei miei confronti, spronandovi, se mi permettete un’ultima mercé, a perdonare anche me e a non odiarmi, come io non vi odio. Cesserò per sempre ogni corrispondenza tra di noi e, dovesse questa mia ultima lettera commuovervi, sono io ora ad esigere di non scrivermi né di sentirvi costretta ad un qualsivoglia obbligo nei miei confronti.  

Ho sofferto, mi avete fatto soffrire tremendamente, però vi ringrazio. Vedete, ante di voi io non sapevo cosa fosse esattamente amore né cosa significasse amare, ero innamorato del concetto di amare e ancor meglio se di natura eroica, accecato dalle finzioni letterarie e ansioso d’emularle, incapace di accettare il suo più semplicistico uso, ossia amare per vincolo di legge o di denaro. Non amavo ancora, tuttavia amavo amare... cercavo qualcosa da amare, amando amare. [2] Sono stato un giovane sprovveduto, senza ancora sufficiente malizia per discernere l’amor spontaneo e sincero da quello artificioso e galante, mi avete scovato e ghermito prima che potessi costruirmi le adeguate difese e forse proprio per questo mi avete scelto e tenuto in gabbia per anni, perché ero a voi inoffensivo, facilmente manipolabile e incapace di rendervi la pariglia, affrontando di petto ogni vostra sfida, senza alcun razionale distacco o cinico tornaconto. Orbene, la vostra lezione è stata magistrale, meglio di un qualsiasi magnifico rettore padovano. Mi avete aiutato finalmente a svegliarmi e a maturare, grazie a voi so cosa fare e cosa evitare, cosa voglio da una donna e cosa in lei invece potrebbe provocarmi gravi dispiaceri. Pur separandoci senza un degno commiato, soppesando i pro e i contro del nostro legame, ho realizzato che in fin dei conti voi mi avete reso assai felice -  quanto a voi ignoro fin dove abbiate recitato e fin dove ci abbiate sul serio creduto! -  la mia vittoria consiste nella consapevolezza che voi per anni mi siete appartenuta, anima e corpo, e niente che voi potrete dire o fare potrà mai cambiarlo. La bellezza di questo tempo trascorso ad amarvi non verrà deturpata dalle vostre ultime meschinità, né dalla triste mia consapevolezza e unico rimpianto, di come il destino abbia voluto unirci in un matrimonio persiano, piuttosto che sotto l’inflessibile egida della nostra legge. Lamento di non avervi potuta amare alla luce del giorno, serenamente, invece che nell’angoscia furtiva della notte, la mezzana degli amanti.

Forse doveva finire così? Forse dovevamo insegnarci a vicenda in vista di un nuovo e più casto amore? State amando voi? Il vostro nuovo marito, vi è di gradimento? Vi auguro di trovare in lui l’appagamento e la tranquillità che non trovaste in me. Quanto a voi, rimarrete per sempre nei miei ricordi come colei che amai teneramente, non come l’anima ingrata che mi tradì, ferendomi. A tal punto mi siete cara.

Per me, ho al momento moglie nella guerra e figli nell’ambizione di distinguermi in essa. Penserete sicuramente di un mio rinculare nelle convinzioni e negli insegnamenti dei miei maggiori – ricordate? – di anteporre gloria, onore, orgoglio ad amore. Niente di tutto ciò. Sì, adesso amore in me è ridotto ad un timido fuocherello, ma è lì che attende nuovo soffio vitale per ritornare a bruciare. Un tiro del genere, ho notato tra i miei disincantati compari, solitamente inselvatichisce nei confronti di nuove fiamme, incrudelendo l’anima che, soffocata dal cinismo, fa soffrire agli altri quanto da essa sofferto. Pur divenuto, io spero, più guardingo e savio, ugualmente non permetterò a qualche delusione di negarmi la meravigliosa, possente e tremenda prospettiva futura di potermi di nuovo innamorare. Voglio continuare ad amare, totalmente, senza alcun guadagno personale, amore per amore, fino alla consunzione, fino ad annegarci, annullato in esso. Chi mi accetterà, mai avrà carestia del mio amore, non sarò mai avaro nelle mie affezioni. Il vero amante è colui che rimane abbagliato dalla perfezione della cosa amata e che si sottomette spontaneamente alla sua volontà. È da pazzi e da illusi credere fermamente che tale miracolo possa accadere? O ancora è il nostro orgoglio che ci guida e ci consiglia? Io sento che tale creatura possa esistere e che mi aspetta, sebbene ignori quale via percorrere onde raggiungerla. Nondimeno, di viltà e d’accidia mai sono e sarò tacciato e non temo di sbattere il muso contro il muro del fallimento. Per questo motivo di nuovo vi ringrazio, ho scoperto nell’amore una forza prorompente d’energia infinita, che voglio depurare da ogni gelosia e desiderio di possesso e di dominazione, grazie a voi ho scoperto che mi è più caro amare che essere amato, solo il modo dovrei affinare, evidentemente per non arruffare l’altrui moralistica semplicità. Che strano! Da un disonesto commercio come il nostro, nasce una ricerca di sublimazione dell’amore, una spontanea ricerca di perpetuo vassallaggio tra esso e il suo tempio: dunque è vero, che è la melma ciò che porta fecondo frutto, non la fredda perfezione del cristallo. Ridete pure di me, come tutti gli altri. Dileggiate ciò che voi appellate deliri o disperati sillogismi atti a preservarmi dall’angoscia del disinganno. Fatelo, non mi tangete.

Vi amai, adesso non v’amo più. Mi avete reso tanto felice quanto infelice, senza però riuscire a levarmi la capacità di amare sinceramente come la prima volta. Non è così scontato, sapete, già ve l’ho accennato nelle righe precedenti. Malgrado le mie lascive disonestà degli ultimi due anni, questo mio desiderio rimane puro e attende solo d’ardere di nuova fiamma, più degna. Non permetterò al mio orgoglio d’infettarlo con futili propositi di vendetta, non reclamo alcun sangue, a che pro trascinarsi per tutta la vita il peso d’un inutile assassinio? Cosa ne guadagnerei di concreto se non il fallace e temporaneo appagamento del mio egoismo? Voi non m’amate più ed io non v’amo più. Siamo già morti l’uno per l’altro - a che pro infastidirci in sciocche faide? I crimini passionali che riempiono le aule dei tribunali e le nostre orecchie forse vi rendono scettica circa le mie intenzioni, ebbene voglio che mi distinguiate dagli altri uomini che non hanno sufficiente coraggio d’affermare: non m’importa più, anche quando l’amante abbandonato sono loro. È facile predicare l’atarassia quando si recide un legame, invece di sopportarne la recisione. Non mi è stato facile, lo ammetto, rassegnarmi e riconoscervi la libertà conquistata a mio danno e non vi nascondo che ad un certo punto giunsi ad odiarvi e a maledirvi, per poi concludere che preferisco sapermi ricordato da voi con affetto piuttosto che con paura. La vita è troppo breve per dannarsi per simili quisquiglie. Non ne ho né tempo né voglia di corrervi dietro, sento piuttosto che altri progetti di ben più nobile valore aspettano la mia totale attenzione.

Vi restituisco dunque i vostri presenti – la ciocca di capelli, l’anellino di zaffiro, il fazzoletto di seta merlettato, il libro di chanson per liuto, e altre bagatelle che m’erano più care della vita e adesso occupano soltanto spazio e lì languiscono dimenticate a prender polvere – riservate loro un destino migliore. Ignoro cosa voi abbiate fatto dei miei regali e delle mie lettere – ve ne siete sbarazzata? Le avete conservate? Disponetene a vostro piacimento, ho perduto da tempo il diritto di chiedervi alcunché. Vi confesso che un poco mi stuzzica la curiosità di conoscere a quale sorte riserverete questa mia missiva e la perdonanza se mi sono assai dilungato – mia debolezza, lo ammetto: voi siete stato il mio primo vero amore e quando staccherò la penna, asciugherò l’inchiostro e sigillerò la lettera, ecco che con essa finirà anche la mia giovinezza e questo momento assai definitivo e solenne mi turba grandemente.

In ogni modo, s’ha da giungere alla fine: mia cugina gentilmente s’è offerta di riportavi indietro ogni vostra possessione e il tutto con la massima discrezione; avrei tanto desiderato consegnarvele di persona, ciononostante vi debbo questa delicatezza, per non costringervi a sgraditi chiarimenti con vostro marito, il quale in fin dei conti è un uomo di gran cuore e di nuovo v’esorto a ripagarlo con tutto quell’amore da voi negatomi.

Addio – non vogliatemi male, perdonatemi laddove v’ho offesa, ricordate che mai una volta v’ho ingannata. Addio – siete stata e perennemente sarete l’amore della mia gioventù, profondo ed infinito e vi ringrazio di ogni anno, ogni mese, ogni settimana, ogni giorno e ogni ora d’amore regalatomi.  Addio, senza rancore – vi voglio troppo bene per congedarmi da voi adirato. Addio, mia dolcissima amante, maestra, amica, confidente, tormentatrice, ingrata e crudele, addio mia amata degli impossibili. Addio.

A vostra magnificenza ogni felicità auguro e a voi mi raccomando, Jer.mo Miani scrisse. Veniexia, a dì 1 marzo 1511.

 

***

 

“Siora amia, vi dispiace se porto in camera del Momolo alcune cose che s’è dimenticato a casa mia?”

“Certamente, anzi, peccato che voi lo abbiate mancato di qualche giorno, così da consegnargliele di persona!”

“Oh figurarsi, dubito che al mio zermano avrebbe fatto alcuna diff - …”

“Madona Maria, di grazia, potrei farlo io al posto vostro? Già vi siete affaticata abbastanza a venir fin qui …”

“Siora amia?”

A madona Leonora non era sfuggito l’imbarazzato ingobbirsi della donna accanto a sua nipote, né il modo colpevole in cui gli occhi celestrini di lei rifuggivano il suo sguardo. Quale ansietà la spingeva a compiere un incarico sostanzialmente indiscreto, poco consono al buonsenso del comun galateo? Non sarebbe stata opportuna tale richiesta, anche se la camera di suo figlio Hironimo rimaneva silente e vacante, la sua presenza un incorporeo ricordo fino alla prossima volta in cui l’anziana patrizia avrebbe potuto riabbracciarlo.  

Probabilmente fu l’esitazione della zia a persuadere Maria ad alzarsi e, presa sottobraccio l’amica, a dirigersi assieme verso la stanza del cugino, fermandosi però sull’uscio, in attesa, gli occhi nerissimi di Hironimo che assorbivano ogni movimento della visitatrice, imperscrutabili.

“Amica cara, a che debbo questa vostra visita?”

“Lasciate perdere i convenevoli e ditemi chiaro e tondo: che intenzioni avete col mio germano?”

“Prego?”

“Ho favorito il vostro commerzio giacché mi giuraste di volervi accasare, una volta trascorso il periodo di lutto per voi e ottenuto il mio germano il suo primo incarico ufficiale. Poiché non vedo alcun incoraggiamento da parte vostra a santificare la vostra unione, adesso vi chiedo: che intenzioni avete? Perché, badate, il mio germano ci crede alla vostra promessa. Pertanto, vi consiglio di prendere una decisione: se lo amate, maritatevi con lui. Se non lo amate, lasciatelo libero e non umiliatelo più del dovuto con le vostre disonestà!”

La giovane contessa di Stampalia e Amorgo non conobbe mai quali pensieri s’affollarono nella mente della donna, quand’ella s’attardava, tra l’accorto e il meditabondo, nella sua lenta deambulazione della camera di suo cugino. Su cosa rifletteva, intanto che appoggiava sul piccolo scrittoio quello scrigno ben sigillato? O mentre con la punta delle dita sfiorava la ruvida e leggiadra consistenza della penna appoggiata sbadatamente accanto al calamaio, la pila compatta di pallidi fogli adesso tristemente vergini di parole?

La vide aprire la vetrinetta, sollevare appena il coperchio del bauletto dove dimenticato giaceva il liuto e un mesto e sordo pizzico di corda riempì l’aria troppo primaverile e vivace per sì malinconiche reminescenze. La donna accarezzava il pregiato legno di quello strumento con la medesima delicata passione d’un’amante, sospirando dogliosa e se n’accorse: trasalì, arrossì, impallidì, avvampò e piena di gelo chiuse in fretta tutto, scuotendo veementemente il capo.

“Andiamo: io qui ho finito”, disse la donna alla vedova Querini, uscendo dalla camera senza guardarsi indietro.

Quale sentimento la tormentava? Maria non s’azzardò a chiederle alcuna spiegazione; le bastò captare quella piccola frase per intuirlo e rammaricarsene.

Ritorna vivo e trionfante. Io non t’ho mai odiato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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La genesi di questo capitolo m’ha tormentata assai, giungendo a scrivere ben 3 versioni dai toni piuttosto differenti! XD Il tema era un po’ complesso da sviluppare, nel senso volevo qualcosa che andasse al di là del semplice ravanarsi il còco in allegria coi propri compari o a zompare nei letti delle donnine allegre.

Forse qualcuno ne rimarrà deluso, però questa alla fine è la versione che più mi ha convinta e devo dire che è la mancanza più “perdonabile” del Nostro, il quale come disse l’Anonimo: “il suo amore eccelleva sulla ragione” quindi un carattere molto passionale e generoso nel suo amore, anche  nei suoi aspetti meno “onorevoli”.

Farà sorridere leggere di un uomo nella parte di Didone, però ricordiamo che fu un uomo (Virgilio e poi Ovidio nelle Eroidi) a scrivere i suoi strazianti lamenti XD  Scherzi a parte, l’identità e l’atteggiamento de “L’amata immortale” sono lasciati volutamente ambigui, libero lettore di trarre le sue interpretazioni. Chi è lei? Cosa accadde tra loro due? Fu il Nostro il vero mascalzone? Fu lei la fedifraga? Furono ambedue gli scemi? Chi lo sa, adoro per questo motivo il narratore inaffidabile.

Capitolo insolitamente breve, meglio per me, così termino prima il prossimo e rituffarci nelle vicende del Nostro, lasciato troppo a lungo a languire nella sua cella di fortuna, poi dopo il Bua si annoia e somatizza.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

 

Un po’ di noticine:

 

[1] munegini = coloro accusati di fornicazione con le monache. Vincenzo Morosini di San Cassian, figlio del cugino primo di Battista Morosini, nel 1503 era stato arrestato e condannato per aver folleggiato con una monaca della Vergine delle Grazie. Malgrado la sua fama d'esser giovane "Assa' dishonesto" - come lo definisce il Sanudo - Vincenzo si sposa con Franceschina Boldù, la monaca concupita.

[2] Dalle “Confessioni” di Sant’Agostino.

 

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Capitolo 22
*** Capitolo Ventesimo: Confiteor ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 04.10.2021

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Capitolo Ventesimo

Confiteor

(Non rubare)

 

 

 

Finché Hironimo era rimasto a casa, sotto l’accorta egida materna, o a zonzo per i campi della podesteria di Castelfranco e Treviso, egli non s’era curato un granché del suo aspetto fisico, tranne per tenersi pulito e in ordine, né la vanità l’aveva mai stuzzicato né il bisogno di danari tarmato. S’accontentava senza lagna alcuna delle sue scialbe braghe monocolore, del farsetto forse leggermente più grande di lui, del cappello di feltro sulla zazzera lunga e indomita e dei suoi comodi stivaletti perennemente infanganti per via delle sue errabonde sortite tra le torbe e canneti, affatto turbato da tanta spartanità. Curiosamente, la sobrietà del suo vestire unita alla sua giovinezza gli riserbavano gradite lodi da parte dei suoi maggiori e delle gentildonne che lo conoscevano, paragonandolo quest’ultime al selvatico Ippolito le cui irte chiome e l’aspetto brunito e agile del cacciatore avevano irretito il cupido cuore della sua matrigna Fedra. Credevano, infatti, la sua esser una bellezza un poco trascurata, citando il buon Ovidio, e così volutamente. Ignoravano, invece, che non solo Hironimo non aveva per niente letto L’Arte di Amare, dunque traendone i giusti benefici, ma che la sua negligenza nel vestire derivava più dall’economia domestica che da un atteggiamento atto a colpire positivamente l’altrui opinione.

La morte di Padre aveva comportato una notevole e serrata attenzione ad ogni spesa (malgrado gli aiuti economici della Signoria) fintanto che Lucha non avesse incominciato a guadagnare qualcosa dalle cariche pubbliche per rimpolpare le entrate del commercio laniero. Ogni sfizio venne bandito e non si comprò nulla se non lo stretto necessario, madona Leonora ostinata nella sua decisione di vivere più modestamente piuttosto di licenziare anche uno solo dei suoi servitori e operai. Di conseguenza, niente veniva sprecato a Ca’ Miani e tutto riciclato, incominciando dai vestiti di sier Anzolo che, trascorso qualche mese, grazie alle mani d’oro del gineceo vennero immediatamente distribuiti, smembrati e rigirati ad uso e consumo dei figli, tranne per la sua toga nera che madona Leonora custodiva gelosamente nel cassone in camera sua. Medesima sorte subirono i suoi gioielli, cappelli, mantelli, calze, scarpe e guanti (Hironimo pure imparò a ricucirli, quando le dita incominciavano a far capolino dal cuoio). D’altronde, anche a tali situazioni aveva la Signoria pensato, imponendo l’uso obbligatorio in pubblico della toga nera ai patrizi a partire dai vent’anni, un abito lungo allacciato sotto la gola e con le maniche a gomito, atto soprattutto a reprimere la fierezza e la vanità giovanile, inducendo invece gravezza e modestia, l’unico accessorio concesso era una cintura di velluto decorata con borchie d’argento. D’inverno questa toga veniva foderata o d’ormesino o di dossi e decisamente era impossibile notare i vestiti rigirati o di modesta qualità sotto una tal severa livrea.

Bisognò attendere qualche anno per vedere un abito nuovo a Ca’ Miani, quando Carlo divenne avvocato del proprio mentre Lucha, l’anno successivo, si trasferiva a Marostica, suo podestà e capitano e poi camerlengo a Treviso. Ma piccole cose se comparate alla rivoluzione del guardaroba  quando suo fratello Marco succedette Lucha nella medesima carica a Marostica, neanche fosse stato inviato a Brescia [1]: il ventiduenne podestà era entrato nella città dell’agro vicentino col lieto furore e ottimismo della gioventù, raggiante nel suo pesante e coprente mantello di broccato d’oro da cui faceva capolino l’ampia manica della sua vesta di cremisino. Sulla spalla scendeva morbida una stola di seta dorata e al petto una robusta catena d’oro; sui capelli da poco tagliati più corti aveva portato un’aderente bereta di velluto nero da cui pendeva una spilla di rubino dal bordo inferiore incastonato da un grappolo di perle. Seguendolo a piedi nella processione verso il Duomo, Hironimo, con un abito da cerimonia invece gentilmente imprestatogli da Lucha, aveva seguito orgoglioso e senza alcun’invidia suo fratello, così come aveva fatto quando Lucha era divenuto camerlengo a Treviso e Carlo podestà a Lonato sul Garda. Gli importava poco di vestire gli abiti vecchi dei fratelli che magari erano stati pure di Padre o del biscugino Zuan Francesco. Finché erano in buono stato e fungevano al loro scopo, non avendo poi egli alcuna vita pubblica, non comprendeva perché sprecar soldi inutilmente.

Neanche le stilettate dei parenti lo scalfivano, rispondendoli a tono e assai divertito.

“Il taglio perfetto di queste stoffe, l’accostamento ardito dei colori … Dì, Momolo, quanti vestiti vecchi dei tuoi fratelli ti sono serviti per confezionare questo zipone?”

“Non comprendo, sior Cujìn. Quest’abito è nuovo.”

“Suvvia, caro ti, so che dalla morte del sior tuo Pare non ne hai più avuti.”

 “E’ questione di punti di vista, Cujìn. Se tu intendi “nuovo” un abito composto da stoffa appena comprata in merceria, allora sì, non posseggo un abito nuovo. Tuttavia, se per “nuovo” ti riferisci ad un modello che non hai mai visto prima d’oggi, ebbene il mio abito è nuovo perché ieri non vestivo uno zipone con codesta fantasia di colori, né forma. Ho forse torto?”

Quando incominciò ad importargli del suo aspetto fisico, della moda? Dell’impellente necessità di danari? Quando al posto di partecipare, come i suoi fratelli, al ballottaggio per divenire balestriere di galea, aveva insistito con suo zio Batista acciocché trovasse un modo per farlo ammettere alla Compagnia della Calza? Quando incontrò per la prima volta Luzia Trivixan, la divina cantante? Quando presenziò al matrimonio di suo fratello Marco con la ricca Helena Spandolin o di sua cugina germana Maria con Zuane Querini conte di Stampalia e Amorgo?

Quando divenne l’amante di lei? Il che appariva strano, poiché in pubblico la sua domina sfoggiava abiti rigorosamente neri e non portava gioielli, eppure si sentiva a suo confronto un perenne straccione e in generale un poveraccio, malessere acuito dalla consapevolezza di non potersi ancora permettere alcunché di suo, non avendo infatti un ruolo definito nella società. Il che lo imbestialiva, desiderando offrirle il mondo e ritrovandosi invece incapace di provvedere a quisquiglie quali vestiti nuovi, figurarsi alla moda. Per codesto motivo Hironimo rifiutava categoricamente un qualsivoglia regalo da parte della sua domina, interpretando il suo orgoglio quei doni a un moto di pietà nei suoi confronti, al posto del naturale e sincero piacere di viziare una persona amata.

No.

A traviarlo definitivamente fu quando accettò un regalo costoso.

Accadde un giorno, mentre deambulava tra le calli di Rialto per delle commissioni con suo zio materno sier Hironimo Morexini, che un malefico piccione gli schittò in testa, rovinandogli la bereta di feltro e l’umore, a giudicare dalle rabbiose profanità ringhiate dal giovane Miani, dopo aver constatato i danni levandosi il cappello. Suo zio aveva discretamente ridacchiato dinanzi all’incidente (come tutti gli insensibili quando sono spettatori e non vittime), tuttavia s’era velocemente ricomposto, specie alla vista di suo nipote sollevarsi il mantello di lana e coprirsi così il capo, neanche indossasse uno zendale, essendo la bora invernale inclemente a Venezia.

“Via, via, nezzo. È segno ch’è arrivato il tempo di comprartene una nuova, non vedi com’è lisa quella bereta?”

“Mica tanto, me l’ha passata Carlino!”

“An bon, dopo che Marchetto l’ha usata largamente! Niente putelezi, con quel mantello in testa mi sembri una sioreta dal becher! Seguimi, te ne compro io una nuova, non sia mai si vociferi in giro che io m’associo ad un accattone!”

Malgrado la ruvidezza della risposta, invero sier Hironimo Morexini l’aveva accompagnato in via Merceria dal suo beretaro preferito e, a fine visita, suo nipote si rigirava estasiato e commosso tra le mani la sua nuova bereta di velluto nero con applicazioni d’azzurro chiaro. Il beretaro, inoltre, s’era preso la libertà di spigargli come indossarla, ossia un po’ a sghimbescio acciocché la folta e ondulata chioma di ricci d’Hironimo venisse risaltata dall’accessorio.

“Grazie, mille e mille grazie, sior Barba! E’ davvero bellissima! Non dovevate! Anche una più semplice mi andava bene! Come sto? È caldissima, mi piace tantissimo, la terrò per sempre da conto!”

“Me ne rallegro. Finalmente possiedi un capo alla moda e devo ammettere che ti calza a pennello, manco te l’avessero cucita in testa. Quasi-quasi ti si scambierebbe per un duchetto.”

“In effetti … Sennò non mi spiego perché la gente continua a salutarmi sì garbatamente.”

“Ha-ha, nezzo mio! Beato il tuo candore. Mica salutano te, salutano la tua bereta nuova!”

All’inizio Hironimo non aveva afferrato il significato di quella battuta, per poi realizzarlo alla prima visita ai parenti, il cui sguardo si focalizzò immediatamente sul suo cappello nuovo, suscitando ora ammirazione, ora sorpresa ora broncio e il giovane Miani si stupì di leggere un sottile fastidio nel volto dei suoi cugini.

“Non capisco, siora Mare: i vostri nezzi miei zermani già ricoprono cariche di rilievo nella Signoria; con quel che guadagnano, possono comprarsi tutti i cappelli di Rialto. Cos’hanno da rimproverarmi?”

“Momolin mio, tu possiedi qualcosa che loro non hanno e per questo ti odiano. Così va il mondo: che sia una bereta, un palazzo, una carica, delle terre o semplicemente del talento, chi ha verrà sempre invidiato da chi non ha. E la cosa triste è che invece di sudarsi, guadagnandosele, le loro mancanze, preferiscono o invidiare l’altrui roba o peggio ancora rubargliela. Ricordati: il peccato d’Invidia sempre si marita in casa dell’Accidia.”

Savie parole su cui Hironimo dovette riflettere in molte occasioni.

Infatti, la bereta della discordia non suscitò i malumori solamente dei suoi cugini, bensì anche dell’altro suo zio sier Batista Morexini e naturalmente della sua domina, la quale lo accusò crudelmente d’ingiustizia e ipocrisia, accettando doni dai parenti ma non da lei, bandendolo dalla sua presenza per all’incirca un mese, fino a ridurlo quasi alle lacrime e supplice alla sua porta in una crudele parodia di Canossa.

Suo zio ci andò giù ancor più pesante, irritato senza fine da quel gesto a sua detta provocatorio da parte del fratello maggiore di cui ormai mal tollerava perfino l’ombra istessa. Me lo vuole rubare! Me lo travia! Me lo sta aizzando contro!, ringhiava furibondo a alla sorellastra Leonora e al di lei cugino per parte di madre, sier Stephano Contarini. Da qualche anno sier Batista e sier Hironimo si trovavano in lite tra di loro e un grandissimo odio li divideva, portandosi a reciproche scortesie tanto da preoccupare la Signoria medesima, che affidando loro incarichi distinti sperava di tenere i due contendenti ben separati a Palazzo. La teoria di sier Batista era che, con la scusa di ricoprirlo di doni, suo fratello si stesse comprando l’affezione dell’omonimo nipote e figlioccio, guarda caso il prediletto dell’ultimo maschio di Ca’ Morexini. [2] E questa baronata sier Batista non la sopportava. Inutilmente madona Leonora tentava di mediare tra i due, rattristata nel più profondo da quella crepa in famiglia, rifiutandosi categoricamente di schierarsi a favore di chicchessia. Quanto ad Hironimo, la questione lo perplimeva: egli amava ambedue gli zii, gli piaceva la loro compagnia e la cercava contento e sincero, indipendentemente dai regali donatigli. Perché ora si stavano scannando su di lui?

“Lo fa apposta, lo fa apposta per indispettirmi, quel cancaro maladeto! Lo sta  sfacciatamente manipolando per poi farmi odiare dal mio stesso nezzo, perdio, il mio fiozzo!”

“Ma che mingionate andate ragliando, Titta? Già ve l’ho spiegato: la bereta del Momolo s’era rovinata e nostro fradelo gliene ha comprata una nuova! Punto! S’è trattata di un’emergenza!”

“E i guanti di cuoio, allora? Anche quelli erano un’emergenza?”

“Titta …”

“Sangue di Cristo, smettetela di farmi il “Titta” e ascoltatemi bene: Momolo è mio nezzo e fiozzo e neanche un paio di mutande mi avete permesso di comprargli, spiegandomi che la roba nuova, se la voleva, se la doveva guadagnare! Adesso, quel … quel … quell’impestato cao da brodo lo ricopre di doni peggio di una mamola e voi non fiatate? Vi pare giusto? Dopo la morte di Anzolo, io v’ho sempre sostenuto, io, non quell’indegno caprone opportunista, e adesso scopro che mi preferite a lui?! Cos’ha quella cantarèla (scarabeo, ndr.) ch’io non posseggo? Ditemelo, ché vi dimostro quanto io sia settantamila volte sette meglio di quella bestia innominabile!”

“Ioannes Baptista Maurocene! [3] Basta! Basta, perdiana, basta! Molighe! Non voglio guelfi e ghibellini in casa mia! Mi sembrate due ottusi e piagnucolosi tosateli intenti a misurar la lunghezza delle proprie lance! Dolcissima Trinità, sono stufa marcia dei vostri stupidi litigi, delle vostre faide! E soprattutto, non v’azzardate ad usare mio figlio come scusa per farvi la guerra, ché vi piglio ambedue a pedate fino a Gradischa!” e calmandosi: “Avete ragione: bereta a parte, Momolo non doveva accettare regali da nostro fradelo. D’ora in avanti non lo farà più. Quelli ricevuti sarebbe scortesia rimandarglieli indietro, però, anche perché, conoscendolo, sicuramente concluderà essere questa una decisione presa per causa vostra ed io non voglio buttar ulteriore paglia sul fuoco!”

Sier Batista sbuffò iroso. “Sta bene. A patto che anch’io dia a Momolo un regalo, per rimettermi alla pari.”

“Oh bone Jesu, Titta …”, si portò la patrizia due dita alla tempia, domandandosi se s’affermasse il vero quando si teorizzava come, invecchiando, si ritornasse ai medesimi ragionamenti insensati dei fanciulli.

Ovviamente, madona Leonora si raccomandò grandemente con Hironimo, intimando il figlio a non lasciarsi condizionare dalle querelles degli zii e di rimanere fermo sui suoi principi di onesta sobrietà: quando avrai i tuoi danari, li spenderai come meglio credi, siccome però ora vivi in comunità, devi pensare al benessere collettivo ante del tuo.

Purtroppo per la nobildonna, il seme della vanità stava germogliando fecondo nel cuore del ragazzo, terreno arato d’insolita invidia. La bereta, similmente al frutto proibito dell’Eden, gli aveva aperto gli occhi abbastanza da scoprire la sua “nudità”: dapprincipio a lui indifferenti, adesso Hironimo guardava con malcelata golosità i broccati, i damaschi, i velluti e le sete delle maniche, dei ziponi, delle berete, dei mantelli di cugini e amici; pesava criticamente il valore dei loro gioielli, della fattura e della circonferenza delle perle e delle pietre preziose; valutava il costo di ogni mobilio, quadri, vasellame, argenteria, statue, arazzi, tappeti e decorazione dei loro palazzi, nonché calcolava a mente quanto spendevano ogniqualvolta si bagolava a zonzo di notte per scatenarsi in gran baldoria, arrivando al punto da catalogare le cortigiane con cui i suoi compari s’accompagnavano, dalla più costosa alla più economica. Tutto il giovane Miani misurava oramai in danari, tutto. Sicché trovava ingiusto doversi ammettere il parente e l’amico povero, quello vestito cogli abiti rigirati dei suoi fratelli, quello che poteva a malapena offrire un giro di vino ai suoi amici durante i vagabondaggi in gondola e figurarsi quante volte aveva sospirato infelice davanti alle gioiellerie nella speranza di trovare una gioia abbastanza a buon prezzo da regalare alla sua domina.

Sicché, appresa della rivalità tra i suoi zii e in particolar modo di come l’avessero eletto a misura della loro prodigalità, Hironimo dopo l’iniziale perplessità e dispiacere cedette alle lusinghe della vanità e al veleno dell’invidia: decise con malevole freddezza d’approfittarne e trarne il proprio utile, servendo se medesimo e i suoi scopi. Tra i due litiganti il terzo gode e infatti il giovane patrizio si prodigò in esso col massimo zelo del doppiogiochista.

L’idea gli era sorta per caso: poco dopo la discussione con Madre, il suo barba Batista gli aveva regalato una catena d’oro con un pendente di zaffiro e una grossa perla. Incautamente Hironimo l’aveva indossata recandosi in visita dall’altro suo zio e sier Hironimo, ghermendo il gioiello e tirandolo in avanti verso di sé, per poco strangolando suo nipote, gli aveva chiesto feroce l’identità del fautore di quel presente. Senza pensarci, il ragazzo gli aveva candidamente rivelato esser stato suo zio Batista al che il furente sier Hironimo l’aveva trascinato in gioielleria e prima ancora di rendersene conto un grosso e scintillante anello d’oro, il primo in assoluto in vita sua, gli circondava l’indice.

L’occasione fa l’uomo ladro e in un certo qualmodo ladro Hironimo lo divenne, sfruttando la competizione instauratasi tra i due Morexini, a chi fosse lo zio più meritevole (nonché il più ricco) dimostrando a peso di ducati il loro affetto verso il nipote, ignari che così stavano finendo per rovinarlo, viziandolo. Per una giubba larga di velluto nero, egli riceveva subito dopo una pelliccia di volpe rossa; per una scarsela di marocchino, un profumo esotico. Spille per cappelli; mantelli da indossare traversi alla romana; farsetti stretti da lasciar intravedere la camicia fin quasi all’ombelico. E ovviamente soldi, tanti soldi. Qualsiasi cosa volesse, Hironimo l’otteneva e con furbizia dissimulava per non irritare i cugini né per farsi scoprire da Madre, alla cui presenza seguitava ad indossare i soliti abiti spartani, per trasformarsi in un altro Hironimo al calare della notte, quando s’univa ai suoi amici nelle loro feste notturne e alle bische clandestine. Dal suo istruttore, ex-cavalleggero, non aveva soltanto imparato a cavalcare ma anche un paio di trucchetti con le carte ed i dadi, onde assicurarsi la vittoria e rimpinguare il suo gruzzoletto personale. Il giovane Miani, inoltre, si era infatti scoperto un allievo assai ricettivo e un grande osservatore, studiando accorto le varie mosse dei bari che riempivano le osterie, replicandole e perfezionandole al punto da sembrare la sua semplice sfacciata fortuna.

Vestito all’ultima moda e col borsello pieno di tintinnanti mocenighi e ducati, Hironimo si ritrovò maggiormente considerato e apprezzato, sempre al centro dell’attenzione e tutti all’improvviso parvero volergli bene, quando prima d’allora manco si ricordavano del suo nome. Grazie alle raccomandazioni e donazioni dei suoi zii lo avevano ammesso all'esclusiva Compagnia della Calza, dove la meglio gioventù veneziana si raccoglieva e socializzava. Col senno di poi - concluse amaramente l'Hironimo venticinquenne - avrebbe invece fatto meglio a partecipare ai ballottaggi per il posto di balestriere di galea: erano quattro anni in mare, sì, però significava guadagnarsi la priorità nelle elezioni a capitano e poi sopracomito. E la paga non era neanche male. Invero era stato un fannullone, un perditempo, un mangiapane ad ufo. Ma che ne sapeva all'epoca del suo futuro, della necessità di costruirsi pian piano una carriera, scatenato e impulsivo ragazzo poco incline all'obbedienza ch'era stato? Gli si era aperto un mondo di gaudente lusso, nel quale Hironimo si era buttato con l'esuberanza del bambino il giorno dei regali dell'Epifania: gli inviti a cena, alle feste, alle rappresentazioni teatrali, ai freschi, a balli ora privati ora pubblici fioccavano senza che lui riuscisse a star dietro a tutti; imparò quanto delizioso fosse il vino speziato con vere e proprie spezie e non della frutta essiccata; l'unto sfrigolante della carne in agrodolce soppiantava il sapore quaresimale dei molluschi, delle sardine e del baccalà. E le pasticcerie, oh! Prima adorate da distanza, adesso quando entrava tutti a togliersi il cappello e quale soddisfazione portare tortini di mandorle dolci e fritelline alla cannella alla sua amante, da sbocconcellonare distesi sul letto sfatto, in complici risolini. Perfino la sua domina, digerito il dispetto iniziale per la sua improvvisa ricchezza, lo guardava con occhio diverso, compiaciuta della ricca eleganza del suo drudo e della sua generosità, spendendo egli i soldi degli zii per farle a sua volta dei graziosi regalini.  

“Sicuro che non stai corteggiando un’altra? Tutto questo lusso …”, insinuò ella maliziosa, beandosi dello spettacolo offertole. 

Nell’intimità della felze, seduto tra i cuscini di velluto, il suo diletto le appariva invero un’opera d’arte, coi suoi tratti regolari e molto fini incorniciati dalle ciocche ondulate dell’abbondante zazzera bruna, cui ella si divertiva ad arrotolare tra le sue magre e lunghe dita pallide. Hironimo, per amor suo, quella sera aveva optato per una veste di broccato color ocra e rosso profondo e una sottile camicia plissettata, ambedue molto scollate al punto che la sua domina volendo poteva denudargli facilmente la spalla, gesto che puntualmente compì golosa, posandogli un rapido bacio sulla pelle calda che si sollevò recettiva e scossa da lievi brividi. A completamento, il ragazzo s’era avvolto nel mantello di pelliccia di volpe rossa e indossava la famosa bereta fonte della sua inaspettata fortuna, conferendogli un’aria leggermente civettuola, in contrasto con lo sguardo scioccato nell’udire quella malcelata accusa d’infedeltà.

“Non oserei mai! M’inghiottisca il mare piuttosto!”

La donna ridacchiò clemente, intimandogli di colmare la distanza tra di loro e, avutolo tra le sue braccia, gli annusò avida i capelli finalmente tagliati un pelino più corti. “E questo profumo di gelsomino?”

“Una pomata che producono le sorelle di Sen Lorenzo. Me l’ha donata per il mio compleanno la mia zermana Anzola Morexini, la quale vi si reca spesso a pregare.”

“An, così adesso pure le virtuose monachelle induci in tentazione! Bravo! I miei complimenti, mio giovane e licenzioso satiro! Quanto fui sciocca a leggerti il Boccaccio!”

“Vi prego, non scherzate! Non mancherei mai di rispetto a quelle pie donne!”

“Puoah! Come se a loro dispiacesse!”

“Giuro sulla mia vita che mi reco lì soltanto per far piacere alla mia cara zermana: mi ha sempre voluto bene e sarebbe scortesia negarle un sì piccolo favore!”

“Quindi sul serio questi begli abiti e i danari te li regalano i siori tuoi Barba?”

“Sicuro, chi altro?”, sbatté confuso le ciglia Hironimo e molto probabilmente il candore della sua schiettezza dovette luccicargli negli occhi nerissimi, se la patrizia si convinse della veridicità delle sue parole.

“Nessuno e prego Dio resti così. Ora però dammi un bacio e tutta la tua linguina; poi ti voglio contemplare nella tua livrea naturale …”

Quegli incalzanti sospetti da parte della sua domina Hironimo li conservò tuttavia nel cuore, domandandosi infatti cosa li avesse scatenati, ignaro di come la nobildonna non li avesse vociati chiaramente più che altro per decenza, incapace lei per prima di concepire il suo amante impegolato in disonesti commerci per procurarsi il danaro necessario onde indulgere comodamente nel lusso. A svelargli l’arcano fu l’invidia di alcuni giovani della compagnia che frequentava, cui il vino aveva sciolto la lingua in una pungente e accusatrice loquacità.

“Avanti, sior Momolo, a noi lo puoi confessare: ti fai lavorare?”

Risolini crudeli.

“Come? Come? Io lavoro? Mi spii ai fonteghi, ora? Il tuo interesse mi lusinga, ma come amico non credo tu incontri i miei gusti!”

 “Certo, certo … gusti … dipende quali e di che valore … Suvvia, poche parole: da quanto tempo fai il patiens?”

“Da quando hai incominciato a mettermi in croce con tutte queste tue stupide domande!”

 “Non te la prendere, si tratta soltanto di una piccola curiosità: fino all’altroieri parevi Sen Hironimo nel deserto, adesso vesti quasi da satrapo persiano! È bizzarro, ecco.”

“Pure!”

“Dai, dai … da quanto sei un patiens? Mica facciamo la spia, né ti giudichiamo …”

“Vorrei ben vedere! Anche perché da troppo tempo sono stato “patiens” [4] verso le tue stronzate!”

“Troia!”

“Succhiacazzi” e Hironimo condì quell’insulto con un pugno ben assestato alla bocca dello stomaco, per poi alzare in difesa gli avambracci quando il suo avversario lo caricò muggendo di rabbia e indignazione. Finirono per rotolarsi sul selciato, tra morsi, ceffoni e tirate di capelli, finché il giovane Miani, salendo sopra l’altro patrizio e bloccandolo con le cosce, non lo stordì tramite un’accurata sequela di cazzotti.

I suoi compagni ruggirono dalle risate di scherno verso il contendente sconfitto, peccato però che Hironimo non godette di quella sua personale vittoria, digrignando al contrario i denti, umiliato, le gote rosse. Quella sera l’occhio pesto, il labbro spaccato e il malanno di qualche costola incrinata nonché le occhiate di biasimo e commiserazione di Madre gli pesarono doppiamente sulla coscienza.

Era questione di tempo prima che qualcuno insinuasse come l’improvvisa eleganza e prodigalità di Hironimo derivassero da turpi intrallazzi con qualche facoltoso protettore. D’altronde, i Dieci, tra le altre cose anche strenui difensori del mos maiorum, ogni venerdì si spaccavano la testa su come frenare la sregolatezza e la smania di lusso nella gioventù veneziana, la quale non giudicava abbietto abbassarsi a lavorare e a farsi lavorare pur di mantenere lo stile di vita gaudente e agiato. Il giovane Miani conosceva tal pratica, addirittura poteva indicare chi la faceva per negozio e chi invece la faceva perché quella era la sua natura, come ad esempio Anzolo Thiepolo, [5] una persona squisita, amabile, cordialissima e generosa e, malgrado il suo difetto, da tutti stimato e mai una parola contro l’onor suo ch’egli sul serio si portava da galantuomo. Al contrario, il giovane patrizio disprezzava pieno di schifo chi s’esponeva a tali commerci unicamente per vantaggio personale. Eppure …

Non s’era comportato ugualmente? Per carità, non era mai giunto al segno di giacere incestuosamente coi suoi zii tuttavia non aveva agito in maniera tanto diversa da qualche cortigiana che vendeva i suoi favori al migliore offerente, nel caso d’Hironimo il suo affetto. S’era comportato tanto disgustosamente quanto i suoi viziosi coetanei, almeno loro erano onesti e si facevano mantenere tramite un inequivocabile contratto di do ut des, invece d’ingannare con falso amore disinteressato, che poi tanto falso non era, egli adorava i suoi avunculi e ciononostante aveva spudoratamente mercificato quel prezioso sentimento.

Poiché quella baldracca della dea Fortuna mai l’aveva favorito, una volta giunto a quella realizzazione e desiderando il giovane Miani porvi rimedio e rassicurare i suoi zii che li frequentava perché li voleva bene e non per i loro soldi e i regali, ahimè l’oscuro mietitore s’apprestava a colpire di nuovo a suo danno.

Una mattina di fine novembre del 1505 sier Hironimo Morexini non s’era più alzato dal letto e il suo decesso tosto dichiarato, adoprandosi mesta la famiglia ad organizzare il funerale nella Chiesa di San Cancian secondo i dettami del suo testamento. Sennonché, esattamente nel momento in cui sier Batista Morexini, trascinato in chiesa a viva forza da sua sorella madona Leonora, s’apprestava a malincuore a baciare la fronte del morto, ecco che all’improvviso egli cacciò un urlo tremendo e balzò all’indietro, neanche gli fosse apparso innanzi lo sdegnato fantasma del defunto fratello. Per le dolcissime piaghe di Cristo! L’è vivo! , aveva gridato invasato e all’inizio si pensò alla tipica follia del rimorso, peccato che, tastando la pelle del morto, con sommo orrore tutti gli astanti convennero come in effetti seguitasse ad essere calda e le carni molli e flessuose, la bocca vermiglia e così pure le gote e le gengive. [6]

Immediatamente, Marco Miani e suo cugino Nicolò Morexini afferrarono per le spalle e per i piedi lo zio e toltolo dal catafalco corsero forsennatamente in canonica con in testa il parroco esagitato, il quale preparò un giaciglio di fortuna nella saletta principale e ambedue i patrizi s’erano impegnati con ogni mezzo a rianimare il congiunto, tra scosse, ceffoni, pizzicotti, richiami, apertura forzata di palpebre e bocca; gli sfregarono le gambe e le braccia e pure mandarono a chiamare un fisico, questo sotto lo sguardo attonito dell’intero clan e degli amici e parenti acquisiti dell’anziano patrizio. La vedova, madona Agnese Erizo Morexini del fu procuratore sier Antonio [7a], svenne tra le braccia di suo fratello sier Sebastian Erizo; la moglie di questi, madona Cypriana Trivixan Erizo, per soccorrerla dovette ricorrere ai sali mentre la figliastra Magdalena Morexini spronava la pallidissima matrigna a sorseggiare un goto di vin liquoroso. Qualcuno si sentì lo stomaco sottosopra e si gridava ora Miracolo! ora Miserere Nobis! Vani affanni: gli occhi di sier Hironimo continuavano a rimanere saldamente serrati e non reagiva agli stimoli, sebbene la sua pelle restasse tuttavia calda. Siccome però ugualmente non lo si poteva seppellire, per quel giorno si congedarono tutti i corocciosi e non si fece nulla. Accanto al “da Lisbona” rimase testardamente a vegliarlo sua figlia Magdalena, dopo aver domandando ai parenti la cortesia di riaccompagnare a casa la sua sconvolta matrigna madona Agnese. Per i successivi due giorni lei non si schiodò dal capezzale del padre, accettando tuttavia di buon grado la compagnia dei suoi cugini germani Carlo Morexini e Lorenzo Moro figlio del suo barba sier Christofal, dei suoi cugini acquisiti sier Piero e sier Alvixe Diedo, figli di madona Helena Erizo relicta Diedo sua zia e del filosofo e dottore valentissimo in utroque jure sier Francesco Diedo e ovviamente di Hironimo. Il gruppetto s’era accampato in canonica a pregare stavolta per il risveglio-resurrezione di sier Hironimo Morexini e anche il giovane Miani in cuor suo sperò ardentemente in tal miracolo, acciocché potesse confessare al suo barba quanto gli volesse bene ed implorarne il perdono. Nel frattanto, la notizia del morto resuscitato era dilagata in tutta Cannaregio e il parroco ebbe il suo bel daffare a cacciar via i curiosi, che dalla finestra speravano di scorgere il corpo del “da Lisbona”, bramosi d’assistere ad una rappresentazione dal vivo dell’episodio di Lazzaro.

“Ti sono grata, Momolo, d’esser rimasto qui con me. La perdonanza, ti ho giudicato male: pensavo che tu venissi a trovare il mio sior Pare tuo Barba soltanto per via dei regali.”

Al che Hironimo non resistette più e, serrando i denti fin quasi a mordersi la lingua, si coprì il viso con la mano, singhiozzando amaramente per il rimorso e la vergogna. Mal interpretando quello sfogo, Magdalena lo cinse per le spalle, portando il disperato germano al petto, intanto che suo cugino Carlo gli accarezzava il capo.

“Mo via, rasserenati: il nostro sior Barba sapeva per certo che tu l’amavi teneramente.”

Il giovane Miani se l’augurò, per quanto lui per primo ne dubitasse.

Il miracolo non avvenne e sier Hironimo “da Lisbona” si raffreddò, segno innegabile della sua dipartita, sicché si poté riprendere il funerale interrotto, non senza qualche disagio tra i partecipanti. Dal canto suo, il giovane Miani osservava devastato la figura immobile dello zio, così come aveva osservato nove anni addietro quella di Padre, cogitando se fosse una sua maledizione, destinandolo a ferire chi amava senza potersi poi riconciliare, sottrattogli beffardamente dall’inesorabile morte.

Ladro, parassita.

E chi non lo era, tuttavia, a questo mondo?  Ed appunto di lì a poco incominciarono a scannarsi i parenti per l’eredità, con tutte le sue spiacevoli conseguenze: giocando d’anticipo sia sui Moro, i parenti di Magdalena Morexini per parte di madre, sia sugli Erizo, per parte della matrigna, sier Batista Morexini aveva preso la nipote orfana sotto la sua protezione, dichiarando guerra a chiunque osasse intaccarne il patrimonio, forse allo scopo d’espiare la sua condotta ostile nei confronti del fratello deceduto.

La fortuna lo assecondò: infatti non molto tempo dopo Ysabeta Erizo, cognata di sier Hironimo “da Lisbona”, era stata messa agli arresti, incolpata d’avergli vilmente rubato una bella fetta di soldi ad esequie neanche terminate. [7b] A seguito d’un lungo e penoso anno di processo, nel luglio del 1507 la nobildonna venne però assolta dall’accusa, sebbene il giovane Miani giurò d’aver sentito la sua cugina Maria Morexini Querini confidare alla sorella Querina, alla loro genitrice madona Morexina, a Crestina e a Madre: “Scommetto che l’ha fatto per procurarsi la dote, visto ch’è l’unica delle sorelle Erizo rimasta zitella! Che mossa disperata! Poereta, mi fa quasi pena: costretta ad affidarsi alla carità e all’onore dei fratelli e dei cognati …”

Al che la moglie di sier Batista, in un impeto di sorprendente cattiveria, commentò: “Dopo un anno trascorso in casa del capitano delle carceri, nessuno la vorrà più nel suo letto, neanche dietro pagamento!” e prendendo nuovo filo per l’ago. “Sempre meglio di sua sorella, la cara siora Agnese: il letto del mio povero cugnado non s’era ancora raffreddato, che quella mamola di sua mojer non ha esitato a riscaldarlo con un altro uomo!”

“Adesso state esagerando, Morexina: madona Agnese e sier Ferigo Renier hanno diligentemente atteso l’anno di lutto prima di sposarsi.”

“Scorgete sempre del bene in coloro che non lo posseggono, mia cara Leonora. Tre anni di matrimonio e la nostra cugnada non è mai rimasta incinta. Ma oh! Appena-appena terminata la festa nuziale che questo Renier la ingrossa e già in autunno lei  si sgraverà del primo figlio. Vi pare?”

“Ecco … sier Ferigo è molto più giovane del mio povero fradelo vostro cugnado; suo figlio Alvixe non è che un ragazzino … E’ naturale che madona Agnese sia rimasta subito pregna di lui …”

“Appunto, sorela cara: appena ha intascato la sua fetta d’eredità, la nostra cara cugnada se l’è svignata e bondì sioria! Voltà el canton, passà la passion!”

“Non sarà invece perché mio fradelo vostro marido, dopo aver reso il sangue amaro all’altro mio fradelo vostro cugnado, ha ben pensato di tarmare, per la par condicio, anche la nostra siora cugnada? In tutta onestà, mi fossi trovata al posto di madona Agnese, anch’io sarei salpata via da questa casa al primo vento favorevole!”

“In effetti, siora amia, era penoso condividere il posto a tavola con la siora amia Agnese, specie dopo lo spiacevole affare della siora Ysabeta …”

“Querina, invece di parlare a vanvera, finisci una buona volta quel ricamo: è più di un’ora che non vai né avanti né indietro! Cosa dirà il tuo fidanzato, il sier Daniel Zustignan, a saperti così pigra e chiacchierona? Inoltre, madona Agnese Erizo Renier non è più la tua siora amia, ha voluto staccarsi da questa famiglia e da estranea allora verrà trattata!”

“Guardate il lato positivo, siora Mare: il secondo matrimonio di madona Agnese, oltre che a levarvela dai piedi, ha favorito il sior Pare vostro marido ad ottenere la custodia della zermana Magdalena”, s’intromise Maria, interrompendo la genitrice prima che le sue invettive degenerassero in volgarità da bordello e salvando la sorella da un’immeritata lavata di capo.  

Madona Leonora sospirò affranta: pur di spuntarla sulla cognata, il suo fratellastro Batista non aveva esitato a sfruttare l’allora fidanzamento della vedova Morexini per insinuare dubbi sulla sua affidabilità e morigeratezza in veste di tutrice della figliastra. Una donna che non si fa scrupoli di risposarsi così presto dalla morte del primo marito, diceva, non può allevare onorevolmente una figlia, figurarsi una figlia non sua. E come poteva lui, suo barba, permettere che la povera Magdalena fosse costretta a seguire codesto soggetto poco raccomandabile e ad andare a vivere in una casa a lei totalmente estranea, tra uomini non di famiglia cui nulla importava di tutelare la sua onestà? Quei disgraziati, pur d’accaparrarsi le sostanze di Magdalena, avrebbero anche potuto vergognarla e costringerla a nozze riparatrici, per quel che ne sapevano! Come poteva la sua famiglia di sangue rimanere impassibile dinanzi a tale orrenda prospettiva?

Madre aveva disapprovato ogni singola parola di quell’arringa, secondo lei infamante e crudele, però Hironimo sapeva che suo zio aveva semplicemente vociato ciò che tutti in famiglia pensavano: ossia che madona Agnese Erizo relicta Morexini ora Renier, altro non era che un’avida sgualdrina, una bugiarda e una ladra come sua sorella Ysabeta, solamente più furba. Aveva sfruttato lo scandalo generato dalla congiunta per defilarsi comodamente nell’ombra, tra le lussuriose braccia del secondo marito più giovane di venticinque anni rispetto al primo, che si mormorava essere stato il suo amante quando il povero “da Lisbona” era ancora vivo, adducendo a somma prova di tal disonesto commerzio sia la rapida gravidanza della nobildonna sia la rapida ascesa di carriera di sier Ferigo Renier, finanziato dai danari della seconda moglie. 

Ladri. Approfittatori. Bugiardi. Avidi. Gretti. Tirchi e meschini. A quanto pareva, Hironimo non era l’unico adoratore del Vitello d’Oro. Sicché, consolatosi di questo, ogni suo senso di colpa nei confronti dello zio e di chiunque avesse ingannato per soldi si dissolse come la neve di marzo.  

 

***

 

La riconquista di Padova il 17 luglio 1509 e l’eroica testardaggine di Treviso che preferiva morire con le armi in mano piuttosto di sottomettersi a Maximilian von Habsburg equivalsero alla fine dello spiraglio di disgrazie e l’inizio dell’inaspettata riscossa della Serenissima.  L’eterna notte che la Lega di Cambrai voleva far calare su Venezia invece le aveva portato consiglio, giacché proprio di notte la Signoria aveva recuperato Padova e la seguente mattina chi non veniva arrestato e deportato alle Torreselle o alle Nuovissime per tradimento, si vedeva la casa saccheggiata senza pietà alcuna, specie i nobili padovani. Sier Andrea Griti aveva scritto alla Signoria che si rammaricava di tal comportamento da parte dei soldati e degli Arsenalotti: in realtà, aveva gongolato peggio d’un riccio alla vista dei palazzi di quei traditori depredati e vandalizzati, anche perché, quando Padova s’era consegnata all’Imperatore, analoga sorte era toccata a quella dei patrizi veneziani.

Occhio per occhio, dente per dente, razzia per razzia, ladro per ladro.

L’ondata d’entusiasmo rinsaldò il fronte veneziano e tra agosto e settembre oltre ai soldati mercenari più di 300 patrizi, tutti volontari e a spese proprie, erano partiti per difendere Padova che Maximilian aveva giurato di riprendersi, minacciando punizioni bibliche e ribollendo di stizzosa rabbia per averla perduta proprio mentre dormiva. Ad ambedue i fronti era chiaro che lì si sarebbe giocata la sorte di Venezia, sola contro tutto il mondo.

Contagiato dall’impeto guerriero e la smania di riscatto dopo Agnadello, Hironimo s’era arruolato nei cavalleggeri e assieme ai suoi fratelli Lucha e Marco, al suo cugino germano Piero Morexini di sier Batista e agli altri cugini Batista e Jacomo Miani di sier Polo Antonio erano partiti alla custodia di Padova, tutti coi loro soldati provigionati. All’ultimo s’era unito anche Marco Contarini, l’amico di Hironimo, con la scusa di controllare la portata dei danni sicuramente inflitti alle loro proprietà a Piazzola sul Brenta, avendo infatti udito notizie poco rassicuranti sui pesanti saccheggi ai danni dei beni dei Veneziani e filo-veneziani in tutto il padovano.  

L’antico Castello di Piazzola [9] dei Contarini era stato costruito dai conti Dente attorno all’anno Mille a protezione delle sue genti dalle scorrerie degli Ungari, sfruttando l’ansa della Brenta sia come confine naturale sia come via di comunicazione. Secoli dopo il Castello, divenuto nel frattanto della famiglia Belludi, era stato acquistato da Nicolò I da Carrara, signore di Padova, probabilmente come strategica postazione di controllo dei suoi territori; Francesco I da Carrara l’aveva regalato assieme a 1800 campi al figlio naturale Jacopo, valoroso condottiero e peritissimo nel mestiere delle armi. Da lui aveva ereditato, nel 1406, sua figlia Maria natagli nel 1395 dalla moglie madona Luzia Contarini della Madonna dell’Orto e questo non perché Jacopo non avesse avuto altra prole, bensì perché erano stati proprio i suoi medesimi figli Paolo e Bonifacio ad aver denunciato la sua alleanza con la Repubblica di Venezia ai danni del fratellastro Francesco Novello, denuncia che gli era costato l’arresto, la tortura e la morte, il 9 aprile 1405, fatta passare dal Novello per suicidio. In segno di ringraziamento per i servigi e la fedeltà di Jacopo da Carrara, la Serenissima aveva concesso a Maria la proprietà dei feudi paterni a scapito dei fratelli, i quali, senza più alcun titolo e terra, erano destinati a morire in esilio. [10]

Maria da Carrara si era poi sposata nel 1418 in sier Nicolò Contarini da San Cassian, portandogli quindi in dote il Castello, i villaggi di Piazzola, Sant’Angelo e Santa Maria di Sala, trasformando il paesotto di Piazzola nel fulcro centrale e sede amministrativa delle loro proprietà, accorgimento assai utile specie quando i Contarini si recavano in loco per curare l’andamento dei raccolti. Ivi avevano mantenuto gli antichi privilegi carraresi, ossia godevano dei diritti di mercato, pascolo, mulino, sui passi di barca sul fiume Brenta a Carturo, Carbogna e Camposanmartino, nonché di guardia armata e del giuspatronato della chiesa.

Il corpo centrale del Castello si presentava quindi assai semplice e funzionale all’ambiente rustico, un po’ palazzo un po’ magazzino, con solo due piani e coronato ai vertici meridionali da due torrette. Al termine del viale alberato ad est della piccola fortezza si trovava un mulino di proprietà dei Contarini sebbene non più funzionante poiché posto su un’ansa della Brenta rimasta negli anni all’asciutto. Poco distante sorgeva la chiesetta e il villaggio vero e proprio.

I due giovani veneziani, attraversando quest’ultimo rapidamente a cavallo con la loro piccola scorta, rimasero basiti e turbati dinanzi all’impietosa miseria lasciata da quei quarantadue giorni d’occupazione imperiale e abbondante saccheggio dietro la scusante di rifornire Padova: le basse case dai tetti a cuspide si presentavano scheletriche e annerite dal fumo, scricchiolanti per qualche trave o pezzo di muro che si sfaldava sotto il loro medesimo marcio peso e cadeva rumorosamente al suolo, l’unico rumore in uno sconfortante silenzio da cimitero. La chiesetta aveva avuto sorte migliore grazie al materiale più nobile, ancora in piedi seppur abbondantemente depredata e dietro di essa, neanche fosse stato invaso dalle talpe, il camposanto era tutto un tumulo più o meno fresco, senza croci, di gran fretta. I campi erano stati abbandonati a se stessi e gli alberi tagliati indiscriminatamente, specie quelli decorativi del viale principale e quelli rimasti in piedi fungevano da forche improvvisate laddove i contadini, prima d’evacuare la zona, per sfiziosa vendetta avevano appeso i soldati nemici o quel che rimaneva di loro. Quanto al Castello, ancora portava i segni di razzie e bivacchi, le porte scardinate e le finestre prive d’imposte e fracassate, quel poco che v’era nei magazzini pignolosamente rubato così come le scuderie e le stalle degli animali vuote e semi-demolite. Niente però paragonabile al puzzo vomitevole che colpì le loro narici, non appena Marco e Hironimo entrarono dentro l’edificio, appestati dall’acre odore delle feci e urine, sia animali che umane, accompagnato da quello delle piume dei volatili che si libravano stizziti in aria al loro passaggio, reso difficoltoso dall’accumulo d’immondizia sui pavimenti un tempo lustrissimi.

“Sacramento!”, ringhiò il giovane Contarini, nascondendo il viso all’interno del gomito. “Sti cancari mi hanno impestato la casa, sembra un cagatoio! L’hanno fatto apposta perché non c’era nulla da rubare! Maledetti!”

Evidentemente, interpretò il ventenne, quello corrispondeva al “Grazie!” dei saccheggiatori – qualsiasi fosse stata la loro provenienza – nei confronti dell’usanza dei nobili veneziani di portarsi seco i mobili e ogni oggetto di valore, ogniqualvolta ritornavano in laguna dalla campagna, non fidandosi sostanzialmente dell’onestà dei locali. Sicché, avendo occupato il padovano prima ancora ch’incominciasse la villeggiatura, quegli ospiti sgraditi non avevano trovato un granché, riempiendosi il sacco di poca roba e di scarso valore e a spregio avevano insozzato il Castello.

“O sono lerci di loro e basta!”, la buttò sul ridere Hironimo, pur continuando a guardarsi alle spalle, insospettito sia dal poco rassicurante eco dei loro passi sia da un altro odore, più flebile ma fresco, sotto quello di fogna a cielo aperto. “Marcolin cor mio, cosa d’aspetti da questi barbari? Fosse per loro, ancora adorerebbero nudi gli alberi!”, asserì lentamente, mentre una mano scivolava sull’elsa della sua spada e l’altra s’appoggiava sulla spalla di Marco, costringendolo a fermarsi e a cambiar direzione, subito imitato dalla loro scorta, anch’essa in allerta.

Gli occhi del giovane Contarini si sgranarono sorpresi e intimoriti, le pupille dilatate sul punto indicatogli dall’amico: tendendo le orecchie e annusando ben bene l’aria, i due giovani captarono un costante brusio di sottofondo – voci, indubbio! – nonché l’affumicato d’un fuoco alimentato da legna malsana e paglia. Quand’ecco che il borbottio s’infittì prima e si chetò poi all’improvviso e i patrizi coi loro compagni ebbero appena il tempo d’alzar la difesa che dal buio di un corridoio sbucarono urlando tre o quattro uomini armati di picche, i quali tuttavia tanto velocemente erano comparsi, tanto velocemente s’impietrirono sul loro posto.

“Cul dil cancaro! Domine Cribele! Cagasangue! Christo d’on Christo! Fago humilentissima reverenzia a lori missieri bei colendissimi!”, si sciorinò il loro capo in un comico balletto d’inchini e salamelecchi, le armi gettate di riflesso ai piedi di Marco ed Hironimo, che li fissavano tra il perplesso e il guardingo, avendo riconosciuto dai loro vestiti rozzi e laceri dei contadini e anche male in arnese, tranne per le picche, probabilmente sottratte a qualche cadavere. “Vuostre stilenzie, vuostre spaternitè lostrissime, a me rebuto, (riverisco, ndr.) cari missieri! Bienvegnui en tera de Sen Marcho!”, continuò ansioso l’improvvisato scalco zeneral, spiando di sottecchi le affilate armi del gruppetto di veneziani davanti a lui e ai suoi compagni. “Cossa ve menò chialondena? (qui, ndr.) Ze stà vinta o perdua ea guera?”

“Ralegherati, ti et la toa zente che se tegne fiel: par vuialtri xé finio el timor, horra vuj seti tutti soto ea protetion di la Signoria, la qual fortissima governa Padoa e la custodisse dai barbari”, replicò solenne Marco, facendo cenno ai suoi uomini di rifoderare le spade. Avvicinandosi al contadino, che di riflesso s’esibì nell’ennesima riverenza, si presentò: “De pì, ti te gh’ha da satre che mi sun el castelan, el patron, el fio dil magnifico sier Zacharia Contarini dai Scrigni!” e neanche avesse nominato Missier San Marco o il Serenissimo suo rappresentante in terra, ecco che il villano, scattando quasi sull’attenti, si girò verso il suo compare, esclamando sorpreso ed eccitato:

“El paron, saivù?”

“El paron!”, informò incredulo il suo interlocutore un altro suo compagno ancora e quest’ultimo si voltò, urlando a quelli dietro: “El paron!”

“El paron?”, s’intromisero da un angolo delle voci femminili e di bambini, tosto seguite dalle loro teste che facevano capolino, incuriosite. “Pota an l’amor che bell’om!”, ridacchiarono tra di loro due ragazze, una delle quali, notò Hironimo, gli ricordava per affilatezza di volto e per fissità di sguardo una volpe. Quella s’accorse del suo scrutinio e gli strizzò complice l’occhio, esibendogli un aguzzo sorriso di denti sorprendentemente bianchissimi e forti a guisa d’araba.

“Che ci fate in casa mia? Chi siete? Perché non vi siete rifugiati a Padoa, al sicuro?”, li interrogò Marco adesso in tono assai più colloquiale, rilassando così di colpo l’atmosfera, tanto che i villani tirarono un grosso sospiro di sollievo per tal benevolenza nei loro confronti e pure le donne e i bambini s’azzardarono ad abbandonare i loro nascondigli.

“Se Diè m’ai (Che Dio m’aiuti, ndr.), missier beo, no semo ladri! Aldì (sentite, ndr.), semo tuti scapolai di campi, di colli … poara zente che gh’ha corso coi soldé et slançeman (lanzichenecchi, ndr.) drio del cul: i nuj volé apichar, tajar en tocherin da dar a magnar a li porzei, depo’ haber menà via le nuostre christiane!  Saivù perché? On de sti cancari, on can de quel fio d’on can dil Trisin, gera vegnù a dirghe a nuialtri: “Avé da darghe a nui biave, fromento, bestie ché el paron gheo comanda.” Mi gh’ho domandé: “Et chi zelo el paron?” Queo: “L’Imperaor Maximiano, el Cesar Augusto!” Mi: “Ma mi depo’, se ti te me meni via tuto per darghe da magnar al Cesare Augusto, mi et la mia famegia cossa fagemo sto verno?” Queo: “V’acorderìo cum l’Imperaor!”; Mi: “Sì, a s’accorderón in lo culo!.” Nuj no semo traditoron ribiegi, semo tuti per il domini Missier Sen Marcho et a quel can mi no gh’ho dà gnente!”, raccontò il contadino concitatamente la sua storia, gesticolando e mimando i dialoghi avuti con lo sfrontato inviato di Leonardo Trissino, rappresentante del Re dei Romani e governatore di Padova in attesa dell’arrivo dell’Imperatore. La pernacchia che Treviso aveva elargito all’Habsburg aveva ringalluzzito i villani, i quali avevano colto la palla al balzo per ribellarsi ai nobili locali e darsi alla macchia se potevano, rifiutandosi di fornire il benché minimo aiuto agli invasori e anzi, tormentandoli in continui ed improvvisi agguati notturni. Aveva omesso, il contadino, il piccolo dettaglio dell’uccisione dell’inviato e dei suoi compari, non aspettandosi costoro quell’imboscata da parte di ignoranti bifolchi, quando invece loro s’erano aspettati eccome una visita da parte di quei ribelli traditori e già s’erano previamente organizzati.

L’uomo narrò poi dei saccheggi operati da parte delle truppe di Maximilian, il quale man mano che s’avvicinava a Padova aveva dato ordine di sequestrare ogni cosa potesse servire come cibo, come strumento per i guastatori e i genieri, come arma, come scaldaletto umano. Rubavano e ammazzavano i contadini che s’opponevano, terrorizzati questi all’idea di perdere anche quel poco che possedevano, traditi dai loro stessi nobili che pur di darla sui corni ai Veneziani li gettavano in pasto alle fameliche gole dei Collegati. Villaggi bruciati, donne violentate e rapite, bambini uccisi e alberi pieni d’impiccati. I Tedeschi in particolare soffrono di sto gran mal della lupa: non si saziano giammai!, continuava, paragonandoli  alle cavallette, alle sanguisughe, ai pidocchi e alle zecche. Quand’erano in azione – spiegava - pareva l’Apocalisse srotolarsi ai loro occhi e dove incominciavano loro continuavano i Francesi, genia malefica e crudelissima, poi i Ferraresi – ladri e assassini! – per finire con le truppe italiane, altra marmaglia puzzolente, tutti figli bastardi di cagna bastarda e le cui mogli e figlie, asseriva serissimo il contadino, erano le rinomate puttane dei Tedeschi e dei Francesi. Tramite fosche pennellate dai gusti molto macabri, il contadino descrisse ai due patrizi delle lunghe marce notturne per campi e per i Colli Euganei; della paura di morire o infilzati o affamati o entrambi e perfino della paura di fermarsi a cagare, con le orecchie sempre tese onde captare il vociare dei nemici, il rumore dei loro passi, delle armature e del cigolio delle ruote di cannone. Si dilungò infine sullo sgozzamento di alcuni militari stranieri in cui erano sfortunatamente incappati, morendo ammazzati questi nel sonno tra grandi convulsioni e rantoli. Dei loro abiti, viveri, danari, pezzi d’armatura e delle loro picche s’erano poi largamente serviti, non è giammai peccato rubare al ladro.

“Orbentena, missier beo, a ghe semo pur rivai a sto Castelo, che a nu ghemo pí augurai d'arivarghe!”, terminò il contadino le disavventure sue e del suo gruppo, assicurandoli di come non avessero preso proprio nulla dal Castello, solo una stanza per starsene riparati, rifocillarsi, dormire e riscaldarsi quel giusto per levarsi l’umidità dalle ossa dopo troppi sonni sulla nuda terra. Già progettavano di raggiungere Padova per dare una mano alla sua custodia, parola d’onore che non mentivano!

“Sì, l’altra gente?”, volle sapere Marco, non tornandogli un piccolo dettaglio.

“Chi?”

“La gente di Plazóla!”

“An! Muorti o ané (andati, ndr.) missier beo, come tutti chialondena: chi pol se salva; chi no, dabaso!”, riassunse l’uomo sbrigativamente la faccenda, indicando o il pavimento sotto di lui o la fantomatica direzione verso la città. “Co’ ghe semo arivai, no ge gera nigun, se no sto spion!”

“Spion?”

Rivolgendosi al ragazzo vicino a lui, il villano lo istruì berciando: “Moà, cori lesto a torre quea bestia!” e ai due giovani patrizi: “Mi criù (credo, ndr.) ser foresto e da com’el move ea bocha mi criù ser on can de Magna!” (Alemagna, ndr.), gli confidò compiaciuto, neanche stesse discutendo d’un vitello appena acquistato a buon prezzo al mercato. “Gheo portemo a missier el Podestà e al Provedador, per ea taja. An, el vegne! Cancaro! Te vegnisse ea peste roxa!”

Tirandolo per un guinzaglio improvvisato, il giovane contadino suo compare portò al cospetto dei due nobiluomini un uomo assai malmenato, in camicia e mutande, le braccia legate e costrette all’indietro da una tavola sulla schiena. La villanella dal viso di volpe gli elargì un mirato e doloroso calcio sui reni, costringendolo in ginocchio. Dal modo in cui imprecò tra i denti si tradì effettivamente l’accento straniero del prigioniero, il che non sorprese i veneziani, attendendosi infatti la presenza nel territorio di esploratori sia delle truppe imperiali che pontificie, onde carpire informazioni sullo stato di difesa di Padova.

“Ora capisco”, gli rise in faccia il giovane Contarini, le iridi scure però dardeggianti di fuoco colmo d’odio ferocissimo, “da dove proviene questo tanfo di merda!”

Hironimo si sventolò sotto il naso, sogghignando beffardo. “I sudditi rispecchiano sempre il loro signore, nevvero?

“Pensavi sul serio di gironzolare indisturbato a casa nostra, neanche fossimo un’osteria? An? Credevi che queste terre sul serio appartenessero al tuo codardissimo Imperatore?”

Peccato che l’esploratore li fissasse inebetito, incapace di comprendere quanto dettogli e dimenandosi sbrodolò nella sua aspra lingua un rivo sconclusionato di parole stavolta ai suoi ascoltatori incomprensibili.

Dinanzi a tal spettacolo il giovane Miani scoppiò in una fragorosa risata e, acutizzando la voce in una sardonica cantilena, gli cinguettò falsamente compassionevole: “Ma guardatelo! Poverino, che fai? Non capisci? Non ci senti? Vuoi parlare? Ragli, asino? E-sen!”, gli scandì accorto l’ultima parola, che calmò di botto l’esagitato prigioniero, la sua bocca comicamente penzolante in una O giottesca.

Dopodiché, agitandosi peggio d’un demonio nell’acquasantiera, il soldato tentò di balzare in avanti o per insultare o per mordere la faccia di Hironimo, destino risparmiatogli da un cazzotto da parte del capo dei contadini fuggiaschi, che lo spalmò per terra a mangiar polvere.

“Momolo … che gli hai detto?”

Asino, una parola imparata dal sior mio Pare durante la Guerra del Tirolo. Può essere che codesto somaro venga appunto da quelle bande.”

“Dunque in Tirolo non dicono Esel come gli altri Todeschi?”

“Te parestu che mi sonjo dotor de todesco? Se c’è una sola cosa che conosco bene degli imperiali, è che sono tutto stomaco e niente spirito, bravi ad arraffare l’altrui senza dar nulla in cambio!”

Marco strinse la bocca in una linea dura, istruendo i suoi soldati di pigliarsi il prigioniero e di tenerlo ben sottocchio, questo dopo aver rassicurato il capo dei villani sulla tutela del suo investimento, anzi pure gli diede qualche ducato dalla sua scarsella a titolo di garanzia, che non si sarebbe intascato il premio al posto loro. L’uomo dondolò in una serie di profonde riverenze e fece cenno alla sua brigata di seguirlo, uscendo assieme ai provigionati dal Castello. Soltanto i giovani Miani e Contarini rimasero indietro, quest’ultimo dirigendosi di corsa verso quella che, in estate, fungeva da sua camera da letto.

“Zò, Marcolin! Spetame almanco! Zò!”, gli gridò dietro Hironimo, partendo rapido all’inseguimento e bloccandosi di colpo alla vista del suo amico a bocconi sul caminetto, intento a rovistare forsennatamente tra le ceneri. “Cor mio …”

E per la prima volta da quando la guerra era incominciata, Marco Contarini scoppiò a piangere, sfogando tutta la frustrazione, il dolore, l’angoscia che per amor di sua madre aveva ingoiato a viva forza.

Hironimo si portò in un battito di ciglia accanto a lui, inginocchiandosi, e lo cinse per le spalle sconquassate dai singulti, portando il viso del ventenne al suo petto,  cullandolo, accarezzandogli i capelli castano-rossicci e sussurrandogli ogni parola di conforto che gli sorgeva sulle labbra, il suo sguardo puntato sul cumulo scuro dei rimasugli di un fuoco che doveva esser stato assai vivace.

Nella sua stanza il giovane Contarini aveva lasciato indietro un mobiletto di modesta fattura, che però conteneva le sue “bagatelle estive”, ossia quei sonetti, canzoni, poemetti e brevi commediole ch’egli componeva per suo diletto e per la sua stretta cerchia di amici intimi, così da allietare i pomeriggi e soprattutto le afose serate in campagna. Evidentemente, cogitò il giovane Miani, non avendo giudicato d’alcun valore quel mobile e quei fascicoli, i soldati nemici avevano ben pensato d’utilizzarli come combustibili, tenendosi probabilmente il quaderno di cuoio contenente gli scritti di Marco.

Ad occhi profani, forse piangere per tali facezie poteva apparire ridicolo e puerile, ma Hironimo sapeva che non era per i suoi componimenti in sé che Marco singhiozzava: era per ciò ch’essi avevano rappresentato.

La loro gioventù, la loro spensieratezza, la loro estate, rubata, mutilata per sempre dall’altrui avidità e invidia. Loro, i giovani, eletti a capro espiatorio per le colpe e la cecità dei padri, loro ch’avevano appena incominciato a vivere, novelli Atlanti si dovevano sobbarcare di una responsabilità tremenda, costretti ad affrontare oltre alla morte anche le conseguenze a lungo termine della guerra, paura accompagnata dall’incertezza per la sorte propria e delle rispettive famiglie in caso di sconfitta. Quanto lontani gli apparivano adesso gli anni così lieti della giovinezza! Il loro mondo sicuro e stabile era stato bruciato come quei fogli pieni d’ingenui idilli amorosi ed eroici sogni del futuro; deturpato e inselvatichito come il giardino del Castello, un tempo rigoglioso e luogo di rifugio dal caldo e di confidenze tra amici fraterni; come il Castello stesso, violato e insozzato.

Pensare che finora a lui era anche andata relativamente bene: in molte occasioni Hironimo aveva provato ad immaginare una sua reazione, se gli fosse mai arrivata la notizia della cattura e deportazione di uno dei suoi fratelli in Francia, dubitando di potersi comportare tanto stoicamente quanto Marco. Gli si era stretto il cuore al solo pensiero dell’incerta sorte del suo amico Piero Contarini, di quell’introverso e dolcissimo pulcino “peritissimo nelle lingue greca et latina” che tallonava tenacemente lui, Marco e il suo più spigliato gemello Polo, peggio d’un’ombra. Ancora Hironimo poteva udire l’eco della sua timida risata riecheggiare nelle stanze del Castello o nel giardino, quando a braccetto, in una sorta di scoordinata catena umana, deambulavano sghignazzanti tra i sentieri sulla collinetta decorativa o sulle rive del laghetto artificiale, scherzando, giocando a palla, confidandosi segretucci o cantando qualche frottola comodamente seduti sul soffice prato, sotto le verdi fronde degli alberi. Aveva avuto una tal faccia da funerale, Piero, il giorno in cui dovette lasciare Venezia per recarsi a Cremona insieme a sier Zacharia, elettovi podestà e capitano, neanche avesse inconsciamente intuito di salutare la sua famiglia e gli amici per l’ultima volta.

Solo Hironimo aveva ascoltato le domande a vuoto proferite da un catatonico Marco, mentre leggeva e rileggeva straziato e incredulo la tremenda notizia della caduta di Cremona e della cattura di suo padre e del fratello e dell’immediata deportazione a Milano; solo a lui il giovane Contarini aveva confidato le sue intime paure di non poter rivedere mai più né Piero né sier Zacharia, perduti forse per sempre, ostaggi in terra straniera, morendo magari in un misero tugurio senza il conforto e l’affetto dei loro familiari, senza poterli contemplare un’ultima volta né bearsi degli amati contorni dei paesaggi della loro madrepatria. Inutilmente sier Zacharia avrebbe in seguito tentato di consolarli, scrivendoli da Marquis, presso Parigi, che tuto il despiazer che io ho, è che io dubito de vostra madre e de tutti vui più che de mi, preoccupato egli più della sorte della sua famiglia che della propria. Sull’ultimogenito, invece, poche parole: Piero è andato a Lixignan de Lion, in uno castello sopra la strada de andar da Bles a Perpignan, cercha 60 miglia lontan da Bles, et credo che el stagi ben ed era quel “credo” che tormentava e avrebbe tormentato per anni Marco, spronandolo assieme ai fratelli Francesco e Phelippo ed i cognati a trovare ogni stratagemma per liberarli. “Credo” stia bene – non “so” che sta bene. Oh, Dio!

(In quel momento, Hironimo poteva soltanto immaginare la pena dell’amico; neanche un anno dopo e l’avrebbe sperimentata sulla sua pelle, alla cattura e deportazione di Lucha in Alemagna, quando anche lui avrebbe dovuto soffocare sul cuscino le proprie lacrime per non ammazzare Madre col suo dolore; quando anche lui e Marco avrebbero dovuto escogitare ogni astuzia per liberare il fratello; quando anche lui avrebbe provato una smania assassina verso ogni foresto, ogni traditore)

“A sti cancari, sti baroni, sti maladeti gliela faremo pagare, vedrai!”, mormorò solenne il giovane Miani, circondando con le mani il viso umido di Marco e costringendolo a guardarlo dritto negli occhi. “Roma, Magna, Franza, Spagna, Frara – che ci diano pure battaglia, questi lupi vigliacchi ch’attaccano in branco! A Padoa troveranno solo sangue e vergogna! La vendetta e la loro vita sono nostri e non sai che, a riscuotere i debiti, noi Veneziani abbiamo sempre eccelso?”

Il giovane Contarini, tirando su il naso, abbozzò ad un timido sorriso di sghimbescio, mentre l’amico fraterno gli asciugava maternamente premuroso le lacrime coi pollici. “Sangue e vendetta”, ripeté il ventenne con ritrovata freddezza, inspirando profondamente e una volta calmatosi, s’erse in piedi, pronto ad affrontare stoico quel folle mondo.

 

Quell’episodio, oltre ad accrescere l’odio nei confronti dei Collegati, aveva esacerbato il disprezzo d’Hironimo verso i traditori sia padovani sia in generale di tutti coloro che nel momento del bisogno avevano voltato le spalle alla Signoria. Non gl’importava che quest’ultima stessa aveva sciolto le sue città da ogni vincolò di fedeltà pur di salvarle da saccheggi e massacri: nell’intransigenza della sua gioventù, dove ogni cosa è bianca o nera, egli non concepiva alcuna giustificazione per quel voltafaccia, quello sputare sul piatto che li aveva nutriti e arricchiti. Nel suo intimo provava una perversa soddisfazione nell’apprendere delle angherie subite dalle città occupate, delle ruberie travestite da tasse e balzelli imposte dai sovrani stranieri. Se n’erano resi ben presto conto -  quei traditori! - degli svantaggi del cambio di governo, della mano dura del nuovo padrone, il cui unico scopo corrispondeva allo sconsiderato sfruttamento delle loro risorse senza però investire in infrastrutture per consentirne un continuo ciclo di rinnovamento.

In  casa aveva difeso appassionatamente le razzie ai palazzi dei nobili padovani: Hanno fatto bene, probabilmente era roba già rubata! E ancor di più gli era piaciuto che avessero alloggiato lui, i suoi fratelli e i suoi cugini in una casa a queste canaglie confiscata. Essa era stata risparmiata dalla depredazione molto probabilmente poiché tra le ultime, quando oramai l’impeto rubereccio s’era calmato. Nondimeno la sua proprietaria, domina Gigliola, si era dovuta ugualmente veder condotti via il marito e i figlioli a Venezia “per sicurezza loro e di Padova”, senza ulteriori spiegazioni, senza un addio e senza abiti di ricambio se non quelli indosso. Ad acuire il malessere della nobildonna s’era aggiunto l’arrivo dei patrizi veneziani e dei loro provigionati, temendo infatti ella per il pudore delle sue figlie: in tutta onestà né Hironimo né i suoi parenti nutrivano alcun interesse verso di loro, tuttavia far macerare nel dubbio la loro signora madre era un passatempo troppo divertente, così come punzecchiare lei e le ragazze di continuo tramite innumerevoli dispetti e servirsi largamente di ogni bendiddio della casa, a spese ovviamente della poveraccia.

Soltanto Lucha disapprovava quel loro comportamento, più per timor che i fratelli e cugini colmassero la misura e si cacciassero nei guai col provveditore, che per simpatia verso domina Gigliola che anzi pure lui detestava. Taceva tuttavia in pubblico e, pur sorvegliando acutamente i suoi minori, li lasciava fare, serbando eventuali predicozzi e rimproveri nel segreto delle loro stanze, laddove ricordava loro di non comportarsi da pirati saraceni e puttanieri, specialmente Marco adesso ch’era accasato con moglie e figli, peccato che alla menzione di Helena suo fratello scattasse inviperito, ribadendogli di non necessitare dei suoi sciocchi consigli. Piccoli screzi a parte, dinanzi alla padrona di casa i Miani e i Morexini apparivano saldamente uniti nella loro ostilità mascherata da paternalistica benevolenza e così doveva essere, per tenere la nobildonna sottomessa e timorosa. Le costava obbedirli, lo notavano e ne approfittavano sfacciati, ciononostante ella non poteva sottrarsi né d’altronde glielo aveva consigliato il medico di schierarsi dalla parte dell’Imperatore, s’assumesse dunque le sue responsabilità.

Quanto ad Hironimo, egli aveva la sua volpetta a tenergli compagnia dopo i turni di ronda ai bastioni, sebbene in cuor suo egli avrebbe di gran lunga preferito quella della sua domina. Se ancor sua lo era, poi. L’ultima lettera di lei …

Hironimo si bloccò davanti il portone d’ingresso del palazzo in cui era alloggiato, sgranando gli occhi perplesso: nel suo cupo meditare non s’era accorto tranne all’ultimo della presenza di Lena all’uscio, seduta imbronciata sugli scalini, la guancia appoggiata su di un pugno e l’altra che giocherellava con le cuticole delle sue dita. Che cosa ci faceva lì?  si chiedeva, se già aveva terminato il suo turno a portar da bere agli zappatori alle mura, perché non se ne stava in camera sua a riposarsi?

“Lena”, la chiamò allora Hironimo e la ragazza levò lo sguardo in alto verso il patrizio, per poi voltare di scatto il viso dall’altra parte, le labbra piegate infantilmente all’ingiù. “Non mi saluti, ora?”, la rimproverò scherzosamente il giovane, accarezzandole le gote con due dita.

“Paron, stilenzia, a me rebuto”, obbedì quella di controvoglia, borbottando sia stizzita sia ironica, provocando nell’altro un perplesso arcuare di sopracciglio. Lena si scostò brusca dalla carezza del Miani e si passò la mano sugli occhi, strofinandoseli forte al punto d’arrossarli.

Hironimo si chinò su di lei, d’un tratto preoccupato, cercando d’incrociare i loro sguardi. “Pianzestu?”

“Siornò, dea fumegàra (fumo, ndr.) en li ocij”, rispose in fretta la ragazza, ponendosi in piedi per rientrare dalla porta della cucina e quell’atteggiamento così sospetto non piacque per niente al giovane veneziano, che le intimò perentorio, afferrandola celere per il polso e così bloccandola:

“Fatti guardare, non ho mica pressa di rientrare!”

Impossibilitata a fuggire, Lena si morse l’interno della guancia, incerta se soddisfare o meno il palese comando del ventitreenne patrizio.

“Spicciati, femena, son stanco e non ho né tempo né voglia di giochetti!”

“Vi servo, paron, ste’ seren”, dichiarò stavolta più docile la contadina, girandosi verso Hironimo e permettendogli di squadrarla da capo a piedi, pur seguitando ad evitare il suo sguardo, ora più vergognosetta che arrabbiata.

In pochi giorni, Lena non pareva più la medesima emaciata fuggiasca vestita di cenci e ricoperta di polvere e fango, che da Piazzola era giunta a Padova assieme agli altri suoi compari: il giovane Miani, cui ella s’accompagnava, di persona aveva provveduto a rimetterla in sesto e adesso la contadina già si presentava come un’altra persona, il suo musetto di volpe più pasciuto e roseo e l’occhio limpido e soddisfatto di chi possedeva lo stomaco pieno. La vecchia sottana e camicia, ambedue lerce e stracciate, erano state sostituite da una veste celeste alla rustica sopra ad un’altra tela di color biava, con un busto alquanto stretto che strizzava e sollevava il seno pieno di giovane donna e detto busto era allacciato con alcuni cordoncini grossi in modo che si vedesse la camicia bianca sottostante. Onde evitare di sporcare l’abito nuovo, la contadina s’era legata la veste alzandola con una cintura di cuoio sopra l’altra che aveva di sotto e mostrando quindi una bella porzione delle caviglie formose e ovviamente le pianelle.

Il dettaglio più curioso della sua persona, quello che subito attirò Hironimo, fu il velo di bambagia sul suo capo, visto che di solito Lena lo teneva allacciato al collo e lo sollevava soltanto a mezzodì o in chiesa. Adesso invece oltre a coprire i suoi ricci biondi celava anche mezzo volto, tanto da rassomigliare ad una di quelle donne turche quando deambulavano fuori casa.

“Coss’elo sto negozio?”

“Gnente, paron.”

Hironimo, non credendole, per tutta risposta le scoperse la testa e digrignò irato i denti all’indegno spettacolo offertogli. “Chi è stato?”, la costrinse a rivelargli, passando lievissimo il polpastrello sul livido gonfio e pulsante sullo zigomo della contadina. “An?”

“Nigun.”

“Bugiarda.”

“Cossa v’importeu? Gi ho l’uso mi de ciaparme botte e stramusoni, no ze ‘na novità ...”

“Tasi! Tu sei la mia femmina: chi t’offende, offende me!”, l’interruppe bruscamente il patrizio, che già ribolliva di rabbia all’idea che qualcuno avesse picchiato la ragazza alle sue spalle, sentendosi preso in causa. Dopo l’affronto subìto per mano della sua domina e del suo novizzo, non tollerava ora di certo un secondo ceffone all’amor proprio né tantomeno verso roba sua. Inoltre, malgrado si fossero accordati una per sopravvivenza e l’altro per vendicarsi, un pelino a lei s’era affezionato e non la voleva sapere strapazzata da chicchessia, non se lui aveva voce in capitolo. A suo modo aveva promesso di proteggerla e l’avrebbe fatto fino in fondo.

Lena tirò su col naso, umettandosi le labbra un po’ secche per le lunghe ore a trasportare borracce d’acqua e vino e secchie. Un ultimo attimo d’esitazione, valutando i pro e i contro, ed infine rivelò al veneziano: “Zé stà quea stomegosa de madona Ziliola: co’ rencaxavo, me gi ha dé on stramuson, butandome forra de caxa a spentoni: Mi chialondena a ti no te voggio, ludra onta bisonta, cancara villana e troja!, ea m’ha zigé. O mi criù, ché mi nol capisso ben el tajan moscheto.” (italiano da signori, ndr.)

Hironimo inspirò l’aria in un rabbioso sibilo, le gote scarlatte e i muscoli del collo tesi allo spasimo, similmente a quelli dei pugni, stretti convulsi da far sbiancare le nocche. “An, così mi racconti …”, mormorò in un ringhio ingolato. “Corri in camera mia, risciacquati il viso e dopo vienimi appresso, ché chiarirò io la faccenda con la siora patrona.”

Rise malevolo, grato in fin dei conti di quella distrazione: la lettera che aveva inviato a Venezia ancora non ritornava con una risposta e aveva una voglia matta di sfogarsi contro il genere femminile, meglio ancora se un suo rappresentante già di per sé gli stava sullo stomaco.

L’aveva rivista a Padova qualche giorno dopo la loro perlustrazione del Castello di Piazzola e dei dintorni: allora Hironimo aveva già imparato a memoria la crudele missiva della sua domina, rifiutando di credere ad ogni singola parola ivi scritta e annegando le lacrime traditrici nell’acquavite, sicché al momento di rincasare all’ora del coprifuoco se ne stava leggermente barcollando a guisa di funambolo, incurante di potenziali borseggiatori o d’inciampare e sbattere il muso sul selciato.  

Incrociò la contadina verso la strada conducente al palazzo dove alloggiava e soltanto all’ultimo la riconobbe, infilando celere nella scarsella di cuoio la lettera, non desiderando ch’ella eseguisse i proverbiali due più due.  La giovane stava arrancando sotto il bàger alle cui estremità erano agganciati dei secchi d’acqua. Correndole incontro, Hironimo con molte moine riuscì a farsi cedere il bastone ricurvo in modo da sistemarselo sulle sue di spalle.

“Hai finito il turno?”

“Siorsì, questi sono per me.”

“Dove abiti?”

La ragazza glielo disse.

“E’ lontano e fra poco calerà il buio, non dovresti andartene a zonzo da sola. Manderò qualcuno ad accompagnarti. Il mio alloggio non dista molto lontano.”

“Paron, siete troppo buono a preoccuparvi così per me”, commentò ella, levandosi lo sciugatoio dalla testa e usandolo per tamponarsi il collo e il petto sudati. Subitaneamente il suo viso lungo e affilato da volpe s’illuminò d’un sorriso malizioso. “Siete sempre così cavaliere?”

“No, affatto”, ribatté brusco Hironimo. “Sei sempre così ciarliera cogli uomini?”, le chiese piuttosto acido di rimando.

“Soltanto con quelli che mi piacciono.”

“Ed io ti piaccio?”

“Moltissimo, paron.”

Il giovane patrizio piegò la bocca in un ghigno amaro, preferendo tuttavia rimanere in silenzio. Giunti alla porta di servizio del palazzo, egli batté forte sullo spesso legno, tra arditi equilibrismi col bàger. Gli venne ad aprire una pasciuta fantesca, la quale trasalì nel vederlo così conciato e doppiamente quando Hironimo le cedette sgarbatamente il bastone ricurvo, che s’arrangiasse a trovargli un’ubicazione.

Intuendo d’aver forse pizzicato un nervo scoperto, la contadina lo tallonò lesta, anticipando il veneziano quando questi tentò di servirsi di un boccale di vino, sottraendoglielo infatti e servendolo lei stessa. “Perdonate, paron, se v’ho offeso. Avete forse una cristiana a Veniexia?”

“No.”

“Morosa?”

“Neanche.”

“Una femena, allora?”

Hironimo esitò un istante; dopodiché, si portò l’orlo del boccale alle labbra. “No”, rispose atono, ingollando in un sol sorso il vino. Servitosi ancora della bevanda e sovvenutosi delle buone maniere, s’informò assai disinteressato: “E tu? Non hai un sior marido?”

“Vivo col mio uomo da quasi tre anni, sì.”

 “Vattene da lui dunque e non m’importunare.”

La ragazza gli sorrise indulgente, come se stesse discutendo con uno scolaretto piuttosto testardo. “Non si può, paron, manco se lo volessi.”

“Perché?”, posò perplesso il patrizio il boccale sul tavolo e si sedette, d’un tratto coinvolto dal discorso della villanella.  “Pensavo fosse uno di quei villani rifugiatisi a Plazóla”, le fece cenno d’imitarlo e perfino le servì del vino, stranamente empatico verso di lei. “E’ morto?”

“Morto? Sì, no, non so. Forse è ferito. Forse è prigioniero. Forse ha disertato e s’è nascosto in qualche buco. Forse s’è perso o non gli riesce di rimpatriare. È da maggio che non so più niente di lui. Si fece soldato, sapete, per tirarci fuori dalla miseria. Mi sa che m’ha sprofondato doppiamente in essa”, constatò pragmatica la ragazza, nel frattanto che si risistemava lo sciugatoio sui capelli biondi. “Quando ho capito che non sarebbe più tornato, ho preso le poche mie robe e via per i campi a cercar altri compagni di sventura. O restavo e morivo ammazzata oppure tentavo la sorte. Quei compari veramente me li ha mandato la Madona, tanto gentili sono stati con me, mi hanno accolta senza domande … Perché mi guardate così turbato? Poteva andarmi peggio: ho forza e salute e qualche parente da cui recarmi per cercar lavoro. Il resto vien da sé o ci pensa il Padreterno.”

Hironimo l’osservò a lungo in silenzio, studiandone i lineamenti volpini, la figura d’una magrezza nervosa, la saldezza della sua presa sul boccale, la fissità predatoria degli occhi. Una creatura tutto istinto determinata a sopravvivere ad ogni costo, materialista e incurante di qualsiasi cosa non potesse né toccare né vedere. Così diversa dalla sua domina, ohibò, così diversa da qualsiasi donna da lui conosciuta a Venezia. Ecco, forse ancora le sue fantesche possedevano quell’animalesca vitalità, tuttavia leggermente mitigata dalla sicurezza di un tetto sopra la testa, dalla protezione dei loro uomini e della certezza di tre pasti caldi al giorno. “Hai figli?”, s’informò incuriosito, tra un sorso e l’altro di vino.

“Uno, seppellito lo scorso autunno. Ripensandoci, sono quasi contenta: almanco il mio fantolino è morto nel sonno, come un angioletto, senza soffrire”, gli rivelò con voce tremula e una piccola lacrima traditrice, sincera, le colò lungo la guancia, prontamente asciugata. “Perdonate, paron, non so che …”

“Non c’è vergogna alcuna nel piangere un figlio morto.”

La contadina gli sorrise timidamente, non sfuggendogli la dolcezza e la genuina comprensione verso il suo intimo dolore: possedeva un ché di paterno, inusuale per la giovane età del nobiluomo. “Avete creature vostre? Magari da qualcuna delle vostre ganze.”

“No, però ho dei nipoti che adoro; le uniche mie gioie, le mie stelle che mi rendono più sopportabile ogni noia quotidiana” e il viso d’Hironimo s’illuminò per la prima volta di un bel sorriso, sognante e pieno d’orgoglio affettuoso, in bilico tra il possessivo e il protettivo come se Dionora, Gasparo, Anzolo e Crestina li avesse generati e allevati lui stesso, quel sorriso che Luzietta scherzosamente affermava quanto facesse di colpo innamorare la gente e di fatti il cuore della ragazza sussultò e mancò di qualche battito.

Arrossita involontariamente e mancandole il fiato, ella commentò sbiascicando: “Avessi avuto io un Barba così: i vostri nipoti possono ritenersi davvero fortunati!”

“An, chissà …”, si schermì modesto il Miani, passando pensoso il dito sul bordo del boccale. Sebbene li amasse fino all’ultima spanna della sua anima e s’adoperasse in ogni modo per non farli mancar nulla, dubitava talvolta d’essere per loro un degno esempio da seguire. Dionora oramai a breve si sarebbe maritata; Gasparo cresceva forte e di testa fine, il cocco di suo zio acquisito sier Antonio Trum; Ina l'avrebbero spedita al convento per studiare e Zanzi … se non fosse stato per i capelli e gli occhi scuri di Marco (e dei Morexini in generale) sarebbe stato la copia sputata di suo nonno Anzolo, pure nel caratterino peperino che incominciava a saltar fuori. Probabilmente per questo motivo Zanzi era il suo preferito, ritrovava in lui Padre e lo sentiva quasi una parte di sé, più d’un nipote, un figlio, una costola sua. “Ancora non m’hai detto il tuo nome”, cambiò Hironimo agilmente discorso, non garbandogli esplorare oltre quei suoi sentimenti.

“Lena, paron”, l’accontentò subito la villanella.

“Magdalena?”

La giovane fece spallucce. “Penso di sì, m’han detto corrispondere allo stesso nome della mia santola  … Siete per caso fratello del magnifico missier Marco Contarini?”

“I nostri padri erano imparentati alla lontana, ma ormai lui è più un amico di famiglia che un congiunto. Il mio nome è Hironimo, della casata dei Miani del ramo di Carità - San Vidal.”

“An, in effetti non v’assomigliate affatto  …”, si portò pensosa Lena un dito sul mento, richiamando alla mente l’immagine del viso di Marco Contarini. “Paron, posso confidarvi una cosa?”, si sovvenne all’improvviso.

“Che abbiamo fatto finora?”, si massaggiò sbuffando il collo Hironimo, controllando il fondo della brocca. “Avanti, confessati, figliola.”

Lena arricciò la bocca, divertita da quella selvatichezza. “Non avrei mai immaginato di poter un giorno conversare così liberamente con un patrizio veneziano; sempre vi si descrive come molto altezzosi e inavvicinabili.”

Detto patrizio grugnì sardonico, replicando leggermente offeso: “Tipico degli sciocchi scambiare la riservatezza per dell’arroganza!”

“Non v’arrabbiate, riporto soltanto le dicerie.”

“Ma tu che ne pensi?”, reclinò il capo Hironimo, sporgendosi verso di lei e puntandole contro le iridi nerissime, indagatrici.

La ragazza ricambiò tale sguardo insistente, a sua volta studiandolo. “Chi non sa di te non ti può ferire”, sentenziò dopo un pregno silenzio e aggrottando la fronte dinanzi alla risata amara del veneziano, il quale, battendo le mani, si complimentò senza particolar gusto eppure senza deriderla:

“Brava, bravissima! Vedo che capisci.”

Al che Lena osò vociare il dubbio che l’aveva rosa dalla prima volta in cui aveva incrociato quello strano giovanotto: “Chi vi ha ferito, paron?”

Hironimo sobbalzò sul posto, raddrizzando sulla difensiva la schiena, gli occhi spalancati e increduli, induriti in un atteggiamento però di sfida e aggressione. Il petto, ansante, si strinse in una morsa di pura agonia e i denti presero a stridere tra di loro. Di riflesso si scostò della polvere invisibile dalle ciglia, volse caparbio il capo altrove: così palese era stato nella sua affiliazione? Si sentì improvvisamente avvampare di vergogna, le ultime difese abbattute dalle bombardate di quello spinosissimo dolore, il più tremendo, amare per finire odiato. Ironico come non potesse lamentarsi con nessuno di ciò, quando proprio da tali lai i poeti traevano succosa materia per sfogare le loro frustrazioni amorose. Puoah, mondo all’incontrario che prima feriva e poi canzonava!

Della sua confusione Lena n’approfittò per posare la mano delicatamente sopra la sua. Conosceva la tristezza dell’animo e aveva un eccellente metodo per curarla. Sicché, nella profana versione della vedova Irene, ella a suo modo si prese cura delle ferite del suo Sebastiano. Lui non oppose resistenza, si lasciò fare, inerme e vulnerabile. Senza favellare lei se lo portò in camera, al lume di candela lo sanò, leggere le sue dita sulla pelle tesa, sudata, affannata, lì dove i muscoli si contraevano ansiosi sotto i suoi polpastrelli, risvegliando il sangue, i sospiri rochi e sinceri. Amò ella osservare come la vita riprendeva a scorrere sulle gote di lui, il bianco dei suoi denti e l'umido guizzare della sua lingua, unito al vibrante e improvviso gradito fuoco nelle iridi nerissime. In mezzo al gelo della morte che li avvolgeva e li abbruttiva, sfogarsi nell’atto primario del genere umano li riscaldò nel profondo, rendendoli anche per poco dimentichi di ogni cruccio e tormento, abbandonandosi senza rimorso a quegli illeciti attimi rubati. A nessuna carezza si negarono, a nessun bacio. L'odore pungente di lei - un misto di terra e il dolciastro dell'acqua fluviale, non dissimile a quello di qualche dea pagana dei campi e delle selve - si mescolò a quello più innaturale di lui - ferro, acciaio, cuoio, polvere da sparo - e lo ritrasformò in un uomo, estraendolo a viva forza da quel guscio di rancore e diffidenza, un'armatura senza volto dietro la celata.

Nella carne di Lena, Hironimo si rigenerò e scoprì non odiare più come prima la sua domina, un po' perché ora erano pari e patta, un po' perché finalmente non doveva più fingere, neppure con se stesso: la giovane contadina lo aveva visto nella sua nudità e l'aveva accettato senza pregiudizi o richieste.

Finalmente un legame semplice e sincero, anche se prosaico e probabilmente a breve termine. Poco importava che non s'amassero, poco importava che i loro cuori bruciassero ancora per chi li aveva abbandonati: sapevano chi erano e che cosa li aveva uniti. Ciò li bastava in quel mondo folle, che non garantiva l'indomani.

“Il mio dovuto, paron”, allungò Lena la mano a coppa verso Hironimo, destandolo dal lieve sonno cui s’era abbandonato. Le ombre vespertine avevano ceduto il passo alle tenebre notturne, rischiarate dai flebili raggi lunari insinuatisi dalle sfese delle imposte. Nuda a carponi sul letto e la pelle riflettente il caldo arancio della fiammella della bugia, al giovane patrizio la ragazza pareva doppiamente ferina, una vera volpe a caccia.

Hironimo sbadigliò e, postosi seduto di fronte a lei, appoggiò flemmatico il palmo della sua mano sopra quello aperto di Lena, stringendole le dita quasi volesse domarla. “Se tu divenissi la mia fissa?”, le propose di punto in bianco. In altre circostanze avrebbe dovuto strigliarsi via l’odore di quella donna dalla pelle e tagliarsi la lingua per quell’offerta, che profanava il voto di fedeltà alla sua amante; invece, la cosa adesso gli recava un malsano piacere, neanche avesse trovato il mezzo perfetto per vendicarsi di quell’infida, di quell’empia che l’aveva menato per il naso peggio d’un allocco.

“Io? Vostra fissa?”

“La tua compagnia mi aggrada.”

La contadina ci rifletté su per qualche istante, per poi annuire soddisfatta col capo. “Mi sta bene, accetto.”

“Starai con me e con nessun altro”, l’ammonì perentorio Hironimo, affatto desideroso di ritrovarsi nuovamente invischiato in un tiro a due, laddove lui era il terzo e inconsapevole incomodo.

“Ancora meglio”, convenne Lena: l’aveva ben osservato e sul suo corpo non aveva trovato alcun segno sospetto, tranne delle cicatrici frutto di risse e combattimenti. Dal canto suo, lei aveva avuto in letto soltanto il suo cristiano, ergo se si congiungevano esclusivamente tra loro due, potevano evitare più facilmente di contrarre il malfrancese. “Purché mi lasciate ritornare dal mio uomo, dovesse ripresentarsi a Padoa”, puntualizzò. Malgrado le alterne vicende, alla fine lei aveva un obbligo nei confronti del suo compagno e se lui l’avesse reclamata indietro Lena doveva obbedirgli e seguirlo.

“Compro i tuoi servigi, non la tua anima. Mi pare ovvio. Tu sei libera di fare quel che vuoi, tranne ingannarmi.”

La contadina si ritrovò d’accordo.  Quand’ecco che una subitanea curiosità le balzò in testa. “Mi porterete a Veniexia?”, gli chiese, in caso esistesse la possibilità che il suo uomo non tornasse mai più.

“Vuoi venire?” e la serietà del veneziano le provocò un gran riso.

“Come mi giustificherete? Ecco la mia morosa padovana? Vi rideranno in faccia! No, meglio di no. Di certo non sono una degna preda di guerra di cui vantarsi in giro. Alla prima occasione ritornerò dai miei parenti e poi si vedrà.”

“Cosa diranno …?”

“… che ho fatto la puttana per mantenermi? Niente, paron. Voi forse vi stupite e vi scandalizzate se una donna ricorre a tali espedienti, proprio voi che siete i primi a richiedere tale negozio per poi biasimare chi lo pratica. Come dice il proverbio: chi predica il digiuno ha sempre la pancia piena.  Noi, invece … a furia di star con le bestie forse un poco lo siamo divenuti anche noi. E d’altronde, mica ho intenzione di farlo per sempre, ché rischio di pigliarmi i franzosi? So lavorare, io. Già aiuto gli zappatori alle mura. Solo … pensavo di mettermi da parte qualche lira per ogni evenienza futura, senza contare che voi … insomma, siete ricco, giovane, bello e gentile …”

“… e concludendo, unisci l’utile al dilettevole”, riassunse Hironimo con un rapido svolazzo della mano.

“Siete arrabbiato con me?”

Il giovane scosse il capo, rassicurandola. “Una donna non fa niente per niente, l’ho ben imparato a mie spese. Qualcosa in cambio dall’uomo lo vuole sempre, che sia denaro, rango o il suo cazzo.”

Gli angoli della bocca della ragazza si piegarono all’insù, divertiti da tanta prosaica schiettezza. “Non mentivo quando affermavo che mi piacete, paron. Vi servirò obbedientissima, io.”

“Me ne consolo”, la cercò Hironimo e Lena non oppose resistenza quando lui la cinse per la vita e la posizionò sotto di sé, né si spaventò della subitanea forza impiegatavi eppure il suo tono di voce rimaneva sempre cortese, quasi titubante: “Vuoi?”, inquisì e la contadina si sarebbe anche offesa per la banalità di tal richiesta, dopo quel ch’avevano già concluso, s’ella non avesse letto negli occhi pur dilatati del patrizio del genuino timore d’un rifiuto. Sbuffò frustrata: come si poteva sputare sulla propria fortuna e scacciar via un amante disposto a tanta devozione e gentilezza? Bah!

Gentiluomo infatti Hironimo lo fu anche in letto e Lena ci trovò nel suo negozio anche il suo spasso, l’accordo gradito ad entrambi e funzionante alla perfezione.

Domina Gigliola infisse l’ago nel ricamo, levandosi in piedi e, poste due mani sui fianchi, arcuò la schiena dolorante, avendo dedicato infatti quasi l’intera giornata a tale attività, non possedendone altra con cui ingannare il tempo. Colta da un’improvvisa ansia, si guardò intorno, domandandosi come mai la sua fantesca tardasse a ritornare: che si fosse trattenuta dalle sue figlie Biancha, Yxabela e Lucrecia? O da quegli screanzati che da settimane oramai le occupavano il palazzo, bivaccando allegramente? Tra i patrizi, i loro servitori e i provigionati, pareva di stare in un’osteria invece di una casa onorata, costringendo lei e le sue ragazze a vivere da recluse nelle rispettive stanze, onde evitare quanto più possibile la compagnia loro e delle sgualdrine che si portavano talora dietro.

I primi giorni, facendo appello alla sua dignità di nobildonna, domina Gigliola era scesa ad affrontarli nella speranza di ragionarci assieme e trovare un accordo di convivenza, ricevendo al contrario null’altro se non false cortesie al limite dello scherno e costanti provocazioni, al punto che alla fine v’aveva rinunciato anche perché timorosa della sicurezza sua e delle figlie. Aveva udito certi turpi storie da chi alloggiava in casa i soldati, roba da farle rizzare i capelli, specie associandole alle sconcezze proferite dai suoi “inquilini” quando lei, scandalizzata, l’imponeva un minimo di decoro. Finora s’erano limitati a parole, ma quando sarebbero passati alle vie di fatto?

Cielo! Com’era giunta a quel punto? Quanti rovesciamenti in pochi anni, mesi, giorni! V’era una fine a quella follia? Cremona le aveva dato i natali, quando si trovava ancora sotto il Ducato di Milano; appartenente alla piccola nobiltà, a corte domina Gigliola aveva presenziato pochissime volte e sempre con grandi spese per la sua famiglia, la quale sperava di trovarle lì un buon partito. All’inizio non era stata contenta di sposarsi suo marito - un padovano! -  ma i soldi son soldi e lei non era più giovanissima. Ironia della sorte, Cremona stessa era passata in seguito sotto la Serenissima. Tuttavia, domina Gigliola aveva imparato ben presto che il patriziato veneziano e l’antica nobiltà di Terraferma appartenevano a due razze distinte, trovandosi quindi assai compatibile di mentalità col consorte, il quale sotto-sotto mal sopportava la soffocante intromissione veneziana in ogni loro questione amministrativa. Pertanto, la donna aveva gioito nel cuore all’arrivo di Leonardo Trissino a Padova e delle truppe imperiali, felice di veder cadere e deturpare l’odiatissimo leone alato, sentendosi infine vendicata per l’ignominiosa fine del Ducato di Milano. Finalmente la giustizia divina s’era abbattuta su coloro che avevano spalleggiato i Francesi nella conquista, era più che giusto che adesso Venezia perisse per mano loro, dell’Imperatore, del Papa e dei loro valorosi alleati.

Dio però evidentemente parteggiava per i Veneziani e similmente ai ladri della parabola dei Vangeli, loro non avevano saputo né il giorno né l’ora della contromossa e quelle porte che credevano aver chiuso ai lagunari per sempre, con sprezzo e prepotenza quest’ultimi le avevano forzate di nuovo, scatenando l’ira della loro vendetta. Non avrò pace finché non avrò ridotto quei superbi Veneziani agli umili pescatori quali erano alle origini!, aveva tuonato il Papa Giulio II, sbagliandosi di grosso: non erano pescatori, erano pirati perché se da una parte i Veneziani erano entrati col Griti a Porta Codalunga, dall’altra sbarcavano gli agguerriti Arsenalotti capitanati da sier Nicolò Pasqualigo, risaliti di notte lungo il Brenta dalla laguna. All’ordine del loro patron, l’Arsenale aveva vomitato questi suoi militari-operai, satanassi rossovestiti fedelissimi alla Signoria e sua creatura dilettissima, da lei sguinzagliati nei momenti più critici. Dopo aver terminato d’occupare i punti strategici della città, gli Arsenalotti s’erano abbandonati ad una sfrenata orgia di saccheggi, violenze e bagordi assieme agli stradioti, ai cavalleggeri di Polo Contarini, ai fanti di Latanzio Bonghi da Bergamo, di Taddeo della Volpe e di Zitolo da Perugia, facendo allegramente man bassa dei beni dei “traditori gebelini.” Uomini, donne e perfino i bambini s’erano riversati sulle strade per aiutarli in tale crudelissima impresa, equiparando in ferocia i Turchi e i Mori, trascinando a spregio per le strade i vessilli di Maximilian. Circolavano poi voci  sinistre sul massacro degli imperiali al Castello di Stra, tagliati a pezzi per aver opposto resistenza alla rabbiosa cupidigia della folla. Leonardo Trissino, catturato assieme ai suoi fedelissimi, era stato inviato a Venezia e lì incarcerato nelle sue più orride segrete.

Il palazzo di domina Gigliola era stato risparmiato, ma suo marito e i suoi figli strappateli via dagli Arsenalotti, lasciandola priva di protezione, specialmente ora, alla mercé dei loro patrizi, o meglio pirati travestiti da gentiluomini. Non si fidava di nessuno, men che meno dei suoi servitori i quali la cremonese con suo sommo orrore aveva scoperto esser stati proprio gli stessi a denunciarli al podestà e ai provveditori. Era rimasta da sola, in trappola in casa sua. Talvolta aveva progettato di uccidere nel sonno quei disgraziati ma poi? Quale guadagno ne avrebbe ricevuto? Sicuramente i loro conterranei l’avrebbero scoperta e condannata, forse addirittura torturata prima di …

L’unica sua speranza rimaneva che l’Imperatore e la Lega riconquistassero Padova, liberandola per sempre da quei dannati, specialmente il più giovane di tre fratelli Miani, quel brunettino tanto strafottente e dalla bocca più sozza d’un marinaio. Addirittura aveva invitato la sua ganza a vivere sotto il medesimo tetto, sicché domina Gigliola adesso pure una puttana era costretta a sfamare gratuitamente! Oh, ma se quel pomeriggio non l’aveva rimessa al suo posto, quella sfacciata che gironzolava tutta trionfa nel suo palazzo, rifiutando d’eseguire un qualsivoglia suo ordine! Quando le aveva intimato per l’ennesima volta di raggiungere le altre serve a pulire i pavimenti, quella disgraziata, incrociando le braccia, le aveva risposto sogghignando in quel pavan alla cremonese tuttora ostico: Sbraitate quanto volete, io obbedisco solamente al mio paron! Al che la nobildonna aveva visto rosso e, tra sberle e spintoni, l’aveva buttata fuori in strada, là dove appartenevano le troie come lei. A Dio piacendo, presto sarebbe toccato anche a quello sciagurato del suo padrone.

E neanche l’avesse evocato, ecco che la porta della sua camera, l’ultima sua sancta sanctorum, si spalancava fragorosamente come s’egli avesse voluto spaccarla contro il muro.

Domina Gigliola balzò all’indietro, presa di contropiede da quel violento arrivo e inconsciamente la sua mano strinse il crocefisso d’oro al petto. Rapida corse dietro la colonnina del letto, sperando di porre quanto più spazio tra lei e il veneziano, ancora con l’armatura indosso per via della ronda appena termina, i capelli in battaglia e i denti ben in vista, manco si fosse trasformato nel medesimo leone marciano. A giudicare dallo sguardo livido e dal congiungimento delle sopracciglia, di sicuro veniva per il suo sangue.

La nobildonna, inutile negarlo, prese a tremare dalla paura: l’avesse incontrato nel salone principale o altrove a palazzo, forse sarebbe riuscita a sostenere quello sguardo assassino ma vederselo lì, nel suo rifugio, equivaleva a mille violazioni e si sentiva estremamente vulnerabile.

“Co-così quella … quella vigliacca è venuta a lamentarsi da voi?”, esordì domina Gigliola, raccogliendo il suo coraggio, i pugni serrati e alzando orgogliosa il mento.

“Come giusto che fosse: insolentendo lei, avete insolentito me. Eccomi qui, domina: quali rimostranze vi hanno portata a malmenarla alla stregua d’una ladra?”, le sorrise carnivoro Hironimo, cantilenando affabile la voce come il gatto ante di strappare le ali alla mosca.

“S’è rifiutata d’ubbidirmi!”

“Giustamente, serve me e non voi!”

“E’ una pigra, non fa niente in casa!”

“Lavora alle mura, fa molto per la Signoria!”

“E’ una puttana!”, trillò infine snervata domina Gigliola, arrossendo per essersi espressa a voce alta in indecenti turpiloqui. “Non tollero di condividere il tetto e il pane con tal immondizia! Non m’importa che sia la prostituta di un patrizio o di un soldato, sempre la sua presenza mi disonora la casa e oltraggia la comune decenza!”

“Dunque l’avete picchiata perché è una puttana?”, riassunse conciso Hironimo il succo di quell’appassionata filippica. E girandosi verso Lena, che se ne stava sull’uscio della porta, le tradusse per la migliore sua comprensione: “No sastu? Horra te ciaman putana!” E rivolgendosi alla nobildonna, sibilò feroce: “Sapete perché è diventata puttana?”, fu la sua domanda retorica, mentre avanzava lentamente verso madona Gigliola, la quale indietreggiò fin quasi ad appiattirsi contro il muro. “Perché quella puttana di vostro marito assieme a quelle puttane dei suoi degni compari hanno abbassato le braghe e aperto le porte di Padova e del padovano intero a quell’altra puttana di Leonardo Trissino, permettendo a quelle puttane ladre dei tedeschi di sgavazzare a danno soprattutto dei contadini inermi, che voi puttane avete venduto alla stregua di bestie pur di riottenere indietro quei miseri privilegi ch’avevate ai tempi dei Carraresi!”, ringhiò, sottolineando sprezzante il sostantivo incriminato ogniqualvolta lo pronunciava. Dopodiché, indicando Lena, proseguì sdegnato: “Tutto a questa poveraccia l’è stato rubato: la casa, la roba sua, il marito …”

“… el porzeo!”, aggiunse solenne la contadina, ché il grasso roseo animale possedeva per lei il medesimo valore di uno scrigno di gioielli per una gentildonna.

“ … il porcello. Cos’avrebbe dovuto fare, secondo voi?”

“Meglio morire, piuttosto di scendere così in basso!”, replicò fredda domina Gigliola, intransigente.  “Ma cosa può capire una bestia come lei della parola dignità?”

“Puoah, morire! Nessuno vuole morire a questo mondo, neanche dignitosamente! L’uomo preferisce soffrire piuttosto di crepare”, sghignazzò sarcastico Hironimo, quand’ecco che una luce malevola gli guizzò negli occhi nerissimi. “Poiché la sua presenza vi disonora e vi credete oltraggiata da noialtri, perché non morite voi? Uccidersi pur di non cedere all’avversario, non è una fine degna di un Catone? Oppure … le vostre sono soltanto pompose parole da manuale, imparate a memoria e ripetute diligentemente giusto per sentirvi superiori agli altri? È facile vantarsi coi villani, vi sfido dunque da mia pari.”

La nobildonna rimase muta in ostinato silenzio, le mani strette in una presa convulsa e deglutendo ansiosa, non attendendosi quel capovolgimento della situazione. Aveva contemplato d’uccidere per l’onor suo, ma … ma suicidarsi? Compromettere il destino eterno della sua anima per una vanità terrena?

“Suvvia, dimostratemi quanto valete e uccidetevi, qui, davanti a me, se davvero ne avete il fegato!”, la provocò inclemente Hironimo. “E finirete di vivere nella vergogna!”

L’altra rimase immobile, incominciando a tremare da capo a piedi, umiliata dal suo intimo tentennamento e dall’occhiate avide e curiose della contadina, che seguiva l’intero teatrino attentissima, mangiucchiandosi l’unghia dell’indice.

“E se proprio non vi regge il cuore e non potete dimostrarmi la vostra grandezza d’animo, inginocchiatevi allora davanti a colei ch’avete picchiato ed imploratele perdono!”, proseguì imperterrito il giovane patrizio, indicando severo ora il pavimento ora  i piedi di Lena.

La padrona di casa avvampò dall’indignazione, imporporandosi completamente e riacquistando un po’ di coraggio. “Io umiliarmi così davanti ad una meretrice?!”, esplose, levando il braccio onde schiaffeggiare quell’impudente d’un veneziano, sennonché questi la bloccò senza sforzo alcuno, commentando ironico:

“E’  quindi un vostro vizio quello di percuotere chi non dovete!” e costringendola a guardare la ragazza, aggiunse: “Questa “meretrice” ha un nome, sapete, si chiama Magdalena e così vi dovete rivolgere d’ora in avanti a lei”, la corresse gelido Hironimo, torcendo il braccio della donna dietro la schiena e strappandole un guaito di sorpresa e dolore. “Avanti, chiedetele scusa!”, l’incalzò, trascinandola al centro della stanza verso la contadina, la quale stava esibendo una bizzarra espressione trasognata, incapace di credere a quanto stesse accadendo e timorosa di aver capito male per la pochezza del suo italiano: sul serio quella gran dama si sarebbe scusata con lei?

“No, no, no! Mi rifiuto! Non mi pongo al suo stesso livello! Se l’è meritato, è una sgualdrina e così vanno trattate tali donnacce!”, protestò strillando domina Gigliola, tentando di sciogliersi da quella ferrea presa e digrignando i denti alla lieve pressione sul polso applicatale dal giovane patrizio.

“Vale più una sgualdrina fedele alla Signoria che una nobildonna traditrice e sto proprio parlando di voi e della vostra immonda masnada, razza di lerci lenoni figli di cento padri! Proprio voi predicate le grandi virtù, che con faccia di bronzo avete prostituito la vostra madrepatria al miglior offerente! Meritereste mille forche, mille tenaglie ad ogni traghetto, di finire divorati dai cani randagi e di marcire in bocca al diavolo per il vostro voltafaccia!”, ruggì feroce Hironimo, spingendola giù a carponi e, ponendole un ginocchio sulla schiena, la costrinse a faccia a terra. “Poche storie, schifosa di un’ipocrita ghibellina: imploratele perdono! Ora!”, insistette violento e inflessibile il veneziano, strisciando pericolosamente le parole e stringendo con maggior forza la sua presa sul polso.

“No! Non m’abbasso a tali vergognosi ricatti!”

“Ditele che vi dispiace!”

“No!”

“Rassicuratela che non l’insulterete mai più, né che v’azzarderete in futuro a metterle le mani addosso!”

“No!”

“Inoltre, per farvi perdonare, ditele che le regalate uno dei vostri abiti migliori e qualche bel gioiello. Ne possedete a bizzeffe, no? Potete ben separarvi da uno: vanitas vanitatum et omnia vanitas, sorella!”, la derise crudele Hironimo, scuotendola vigorosamente tanto che la lenza le cadde dalla fronte e abbondanti ciocche di capelli le uscirono dalla retina, spettinandola.

“Fatelo e vi denuncerò per furto!”, singhiozzò domina Gigliola, spasimata dall’ira e dal terrore.

Hironimo gettò il capo all’indietro, ridendosela alla grossa. “E chi vi crederà?”, la tormentò, sussurrandole quasi all’orecchio. “La parola di una traditrice, d’origini straniere per giunta, contro la mia? Vi rideranno in faccia, vi daranno della pazza, della calunniatrice, della bugiarda!”

“E come giustificherete abiti così costosi?”, ritorse quella, sfinita. “È palese che siano frutto di una ruberia! Vi denuncerò e godrò alla vista della vostra mano appesa al collo!”, gracchiò isterica, dimenandosi esagitata.

“Leggete troppe tragedie senechiane, domina. Furto? E chi parla di un furto? La vostra è una donazione. Racconterete come la storia di questa povera ragazza vi abbia commossa al punto che vi siete sentita in dovere di regalarle qualcosa di vostro, anche ad espiazione delle vostre colpe.”

A quella proposta a suo parere indecente la nobildonna perse in parte il senno, urlando peggio d’un monaco infervorato nella sua predica fustigatrice: “Dio vede tutto! Dio sa tutto!”

“E gli uomini sanno ciò che gli vien detto e vedono quel che vogliono vedere!”, il cinismo nella replica di Hironimo ammutolì di colpo domina Gigliola, equivalendo quasi ad una frustata. “Se voi dite che è un dono, allora sarà un dono; la vostra parola determinerà la loro verità”, le spiegò egli assai spazientito e desideroso di terminare lì la questione, non gradendogli la presenza di quella spocchiosa che, man mano che passava il tempo, gli ricordava sempre di più la sua amante e l’immagine delle due talora si confondevano inquietantemente, tanto che Hironimo si chiedeva come avesse potuto perdere la testa per tale frivola, vigliacca e superficiale oca giuliva.

“Giuro che vi rovino! Troverò il modo per rovinarvi!”

Il patrizio roteò gli occhi, imitandone puerilmente la vocetta acuta. “Minacciate, adesso? Allora permettetemi di contraccambiare: fate voi attenzione, ché se v’azzardate a darci fastidio, una mia parola sulla vostra dubbia lealtà e vostro marito e i vostri figli li rivedrete cadaveri in bara! Se non li buttano in canale prima, le caviglie legate a dei pesi … Insultate o alzate ancora le mani sulle nostre donne e m’assicurerò di farvi condividere la stessa sorte di chi voi tanto ora disprezzate: state certa che i nostri soldati giù in sala semplicemente adoreranno la possibilità di rompere il vostro nobile e virtuoso culo nonché quello delle vostre figlie! Già le vedo piegate a metà sulla tavola a gemere come le cagne in calore che in realtà sono!”, la spintonò infine per terra, costringendo la matrona a piantare i palmi onde non spaccarsi il naso nell’impatto contro il pavimento.

“Non loro, maledetto, non loro!”, batté ella i pugni, impotente, angosciata dall’immagine mentale delle sue indifese figlie tra le cupide braccia di quella lasciva marmaglia.

Dunque ingoiate il vostro orgoglio e fate come ordinatovi!”, fu la sentenza definitiva d’Hironimo, mentre faceva cenno a Lena d’entrare nella stanza e di porsi esattamente davanti la faccia della prona nobildonna. “Sto aspettando, madonna …”, l’avvertì minaccioso, notando la sua palese titubanza. “Volete che mandi qualcuno a far visita alle vostre figlie?”, parlò a ruota libera, senza freni inibitori e si sorprese della stupidità di quella cremonese, che sul serio lo credeva capace di tale nefandezza ai danni di quelle tre ragazze. Dell’onore della madre poco se ne crucciava, ma le fanciulle non meritavano di pagare per gli errori dei loro genitori voltagabbana.“Dopo che saranno divenute delle puttane, non vi darà più fastidio condividere tetto e tavola con quelle di vera o presunta professione, anche perché non noterete più la differenza tra loro e le vostre care Biancha, Lucrecia e Yxabela. Sapeste come ci guardano vogliose la braghetta, quelle tre false verginelle, non vedono l’ora di prenderselo tutto in bocca …”

Un roco singulto si librò nell’aria e domina Gigliola, sconfitta, mormorò flebile a denti stretti: “Mi dispiace” e pianse amaramente di vergogna per quella sua debolezza.

“L’interessata non ha sentito.”

“Mi dispiace!”

“In pavan veneziano, per cortesia.”

“Me despiase!”

Magdalena, cara amica mia, prendi il vestito che più ti piace e anche la mia collana di perle, sono un mio regalo!”

“Ladro! Furfante!”

“Domina …”

“Magdalena … cara amica mia … va’ a … a torte el … el … el vestìo che pì te piase et … anca ea colàna de perle, zeli on … on mio presente!”

Magdalena, stasera cenerai alla mia tavola, da sorelle, con le mie figlie.”

“Magdalena … stasera ti te zenarà a la mia tola, da … da sorée …  cum le mie fie.”

“Ora un bacio sulla guancia e pace fatta.”

Il viso scarlatto e rigato di lacrime, la nobildonna si ripose barcollante in piedi, appoggiando le mani sulle spalle della divertita contadina, la quale le porse beffarda la guancia su cui domina Gigliola posò un recalcitrante bacio manco le avessero domandato di sbaciucchiare un rospo. Dopodiché, resistendo all’istinto di nettarsi le labbra tramite il dorso della mano, la donna si recò in stato pressoché sonnambolico verso uno dei suoi cassoni, estraendo un prezioso abito di broccato d’argento e dallo scrigno una collana con due giri di grosse perle.

“Par ti”, sussurrò atona la padrona di casa, cedendo affranta alla villanella quei due suoi averi: decisamente un condannato a morte avrebbe dimostrato più allegria di lei.

Al che Lena scoppiò in una risata fragorosa e sguaiata, strabuzzando gli occhi al punto che si vedeva il bianco dei bulbi oculari; a mo’ di ringraziamento l’intera sua lingua mostrò alla gran signora che sulla pelle sua, di sua madre, di sua nonna fino all’alba dei tempi aveva fruttato quel goloso lusso di cui tanto si pavoneggiava e che adesso la contadina ghermiva tra le sue forti dita. Poiché l’invidia e l’avidità risiedevano sia nel cuore del ricco che del povero, Lena non provava alcuna pietà per le disgrazie della nobildonna, semmai gongolava nell’apprendere come anche la malasorte ogni tanto si sfogasse sui cosiddetti intoccabili.

Quella sera Lucha, Marco e i loro cugini Piero, Batista e Jacomo si stupirono di veder scendere per la cena domina Gigliola e le sue figlie, solitamente più recluse delle monache di clausura, ma ancor di più di vedere l’altezzosa dama deambulare a braccetto con la contadina, vestita lussuosamente da sua pari e trattata con altrettanto raffinato garbo in una grottesca parodia d’intima amicizia, il tutto sotto l’occhio vigile di Hironimo, il quale non si perdeva il benché minimo movimento dell’aristocratica. Davanti a tal giocondo quadretto, nessuno dei convintati lì presenti, tranne Lucha che dal disappunto strinse le labbra manco volesse ingoiarle, riuscì a trattenere il proprio spasso e con crudele gusto stettero al gioco, rivolgendosi ossequiosi a Lena e riempiendola di ogni galante carineria in un carnevalesco gioco delle parti. Invitarono a tavola perfino le loro compagne di guerra e le fantesche e a breve la sala si riempì d’ontissimi schiamazzi e canzonette ancor più sporche.

Tanto si divertivano a bere, mangiare e sbaciucchiarsi indecentemente con le loro ganze, da non curarsi minimamente dell’espressioni imbarazzate e ansiose delle damigelle Biancha, Yxabela e Lucrecia dinanzi a tal spettacolo da quartiere militare né di come la loro madre domina Gigliola, tra un boccone amaro e l’altro, ripetesse oramai ossessivamente tra sé e sé:

“Ladro, disgraziato, ladro, disgraziato, ladro …”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Alla faccia della cavalleria, direte? Beh, l’Anonimo nei suoi scritti ha mostrato con disarmante schiettezza il lato meno “onorevole” dei condottieri e capitani sia regolari sia di ventura e di chiunque si desse in generale alla vita militare, citando chiaramente le loro angherie, ruberie e atteggiamenti assai dissoluti.

E con questo si conclude l’ultima digressione (ne mancano altre tre ma saranno più in là) e nel prossimo capitolo ritorniamo nel “presente” con le vicissitudini del Nostro.

Capisco che questi salti nel passato possano risultare noiosi se non addirittura fuori contesto, invece vi anticipiamo che avranno un ruolo importante in futuro, altrimenti alcuni atteggiamenti del Nostro non avrebbero senso a voi lettori senza conoscere il suo passato.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] di tutte le città dello Stato di Terra, Brescia era la più ricca subito seguita da Treviso.

[2] a titolo di ripasso, il nonno materno del Nostro, Carlo Morosini “da Lisbona”, aveva avuto i seguenti figli qui in ordine di nascita. Da Querina Querini: Nicolò (1430); Piero/Pietro (1431); Ferigo / Federico (1433); Hironimo / Girolamo (1437); Lunardo / Leonardo (1441); Batista / Battista (1442). Da Elisabetta Contarini: Leonora / Eleonora (1452).

[3] sebbene sia sempre stato chiamato “Battista” nelle cronache del Sanudo e altrove, nell’atto di matrimonio lo zio del Nostro è stato registrato come Zuam Batista /Giovan Battista o Giambattista. Supponiamo quindi esser quello il suo nome di battesimo per intero.

[4] Patiens vuol dire “colui che tollera”; “colui che soffre”, ma nel gergo giuridico di Venezia è anche “colui che si sottomette”, cioè un omosessuale passivo. L’intero dialogo è dunque un gioco di parole, il riferimento alla croce si rifà all’iconografia bizantina e duecentesca del “Christus Patiens”, cioè del Cristo sofferente sulla Croce.

[5] Angelo Tiepolo, per via di una soffiata incentivata poi dalla promessa di una ricompensa, verrà arrestato mentre si trovava nella Quarantia con l’accusa di sodomia passiva nell’agosto del 1516. Torturato per giorni lui e la sua serva, non confesserà mai e pertanto ci si limitò ad esiliarlo cinque anni da Venezia. Sia Marcantonio Michiel che Marin Sanudo descrivono la sua condanna un’ingiustizia, descrivendolo come una persona “gentile” e benvoluta da tutti, malgrado il suo “difetto”, mostrando quindi che si sapeva e ciononostante lo si tollerava per il comportamento evidentemente morale dell’uomo.

[6] Narra il Sanudo in data 28 novembre 1505: Item accidit, che morì in do zorni sier Hironimo Morexini, da Lisbona, era governador de l’intrada, ab intestato. El qual era in lite, et in grandissimo odio, con suo fratello, sier Batista; ma, ita volente Deo, successe il tutto. E portato il corpo in chiesia di San Canzian, fo trovato in questo zorno una zanza, che l’era vivo, perchè pareva fusse caldo; fo portà di chiesia in caxa dil piovan, fregato etc., et pur morto era.

La nostra teoria è che probabilmente Girolamo Morosini fosse stato creduto morto per un caso prolungato di coma.  Chissà perché questo episodio mi ha subito ricordato “La Sepoltura Prematura” di Edgar Allan Poe …

[7a] 

È vero che Agnese si risposò relativamente presto con Federico Renier (1462-1542): il loro primo figlio, Giovanni, nacque infatti il 16.09.1507 e lei era rimasta vedova a fine novembre del 1505. Calcolando un anno di lutto, praticamente era sul serio rimasta incinta poco dopo le nozze. Tuttavia, che lei e Federico fossero stati amanti prima della morte di Girolamo Morosini e una diceria da me creata per motivi di trama – forse i parenti Morosini l’avranno anche veramente pensata, chissà. In ogni modo, prendetela per la ciancia che è, non per la verità fino a prova contraria. Io rimango tuttavia dell’opinione (che ho espresso tramite Leonora) che dopo lo scandalo della sorella Elisabetta Erizzo e soprattutto a causa della faida tra i fratelli Battista e Girolamo Morosini, il clima a Ca’ Morosini doveva essere stato talmente pesante da spronarla a  trovarsi in tutta fretta un secondo marito, pur d’andarsene via da quell’ambiente divenuto decisamente tossico.

[7b] Narra il Sanudo in data 8 luglio 1507: In questo zorno fo expedito, in do quarantie, la retention di la fia fo di sier Antonio Erizo, procurator, incolpada aver robà danari a la morte di sier Hironimo Morexini da Lisbona, so cugnado; la qual è stà più di uno anno retenuta in caxa dil capitanio di le prexon. Parlò sier Hironimo Querini, olim avogador; li rispose domino  Rigo Antonio; poi sier Antonio Zustignan, el dotor, olim avogador; e li rispose domino Bortolo Dafin, dotor, avochato. E posto da poi disnar, per li avogadori la parte di procieder: 40 di no, et 11 di sì. E fo asolta.

Delle quattro figlie di Antonio Erizzo – Elena, Marina, Elisabetta e Agnese – abbiamo identificato in Elisabetta questa “fia fo di sier Antonio Erizo” cognata di Girolamo Morosini. Questo perché Elisabetta era nubile (e tale morirà) e di conseguenza appare più logica la scelta di Sanudo di relazionarla al padre, l’unico uomo di riferimento sociale. Infatti, se fosse stata sua sorella Marina, sarebbe stato più immediato introdurla come la moglie di Giacomo da Canal; similmente anche l’altra sorella, Elena, che pur vedova comunque era stata la moglie di Francesco Diedo, il quale si era distinto come ambasciatore, militare e filosofo dottorato. Questa menzione esclusivamente del padre potrebbe equivalere ad un pudore del Sanudo, forse per non infangare la reputazione dei mariti? Poco probabile, visto che quando c’era da cantarle, Sanudo le cantava, basti pensare a come riportava tranquillamente la canzonetta sconcia e minacciosa verso Antonio Grimani e famiglia nel 1499 (e costui diverrà Doge nel 1521!). Inoltre, anche Antonio Erizzo era stata una personalità di tutto rispetto a Venezia, perché associarlo allo scandalo della figlia? No, molto probabilmente questa Erizzo non aveva altri legami maschili se non col padre e per questo abbiamo pensato ad Elisabetta. Tenendo poi a mente il suo precario status di donna nubile, indirettamente ci ha fornito il movente per il presunto furto, ossia d’ottenere una dote per maritarsi.

[8] Voltà el canton, passà la passion! = quando il corteo funebre ha girato l’angolo, il dolore (del coniuge superstite) se n’è già andato (detto veneziano).

[9] adesso nota come “Villa Contarini Camerini””, di nuovo si tratta ricostruzione intuitiva grazie ai pochi disegni rimasti. Sulla pianta del castello nel 1540-46 Paolo Contarini fratello di Marco commissionò al geniale architetto Andrea Palladio di costruire un nuovo maestoso edificio, il corpo centrale della villa. E’ riportato che il figlio di Ludovico il Moro, Francesco, vi soggiornò gradito ospite dei Contarini, quando lo Sforza stava praticamente rincorrendo l’Imperatore Carlo V fin quasi a Bologna per riottenere il Ducato di Milano.

Nella seconda metà del Seicento, il discendente di Paolo, Marco Contarini procuratore di San Marco, farà ampliare la villa e abbellendo il parco, donandole l’attuale aspetto, talmente sfarzoso che i contemporanei la definirono una reggia. 

[10] Francesco Novello da Carrara venne sconfitto nel 1405 dai Veneziani e perdette la signoria di Padova, annessa allo Stato di Terraferma. Condotto assieme ai figli Francesco III e Giacomo a Venezia, morirono tutti e tre in prigione strangolati nel 1406. Nel 1435 Marsilio da Carrara, l’unico sopravvissuto dei maschi di Francesco Novello e  Taddea d’Este, tentò di riprendere il controllo di Padova col supporto del duca di Milano Filippo Maria Visconti ma finì catturato e decapitato in Piazza San Marco il 24 marzo 1435, ponendo così fine ad ogni pretesa della famiglia signorile sulla città.

I superstiti, assieme agli Scaligeri di Verona, si rifugeranno in Germania e proveranno, tra il 1487 e il 1490 a preparare un'invasione col supporto del Duca di Sassonia e il Duca di Baviera, concludendosi però la cosa con un nulla di fatto.

Per quanto riguarda Jacopo da Carrara padre di Maria, egli dapprincipio aveva militato fedelmente per il padre Francesco I, distinguendosi per il valore in battaglia e per aver riconquistato, tramite uno stratagemma, Padova nel 1390 per il fratellastro Francesco Novello, che gli diede metà delle terre di Santa Maria di Sala. Tuttavia, i due fratelli entrarono ben presto in conflitto per le loro vedute politiche, spostando Jacopo le sue simpatie verso Venezia. Denunciato dai suoi stessi figli, Jacopo venne arrestato, torturato ed imprigionato e ufficialmente si suicidò, sebbene già all’epoca si vociferasse di un’esecuzione en cachette, addirittura per mano dello stesso Francesco Novello (che poi anch’egli venne giustiziato in segreto, oh ironia!)

Conquistata Padova, Venezia confiscò puntualmente ogni proprietà ai Carraresi, compresi tra questi i figli di Jacopo – Nicolò, Paolo, Bonifacio e Antonio – cedendoli alla sorella Maria e alla madre Lucia Contarini.  in segno di riconoscenza verso Jacopo.



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Capitolo 23
*** Capitolo Ventunesimo: 16-17 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura e un Buon Natale!

H.

Aggiornato il 18.10.2021

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Capitolo Ventunesimo

16-17 settembre 1511

 

 

 

 

 

Fra’ Anselmo respirò a pieni polmoni l’aria mattinale, deliziandosi del suo retrogusto fresco d’acqua di ruscello nonché del tepore settembrino catturato dai muri alti e bianchi dell’Abbazia, riflettenti il lilla-lavanda intenso dell’aurora che cedeva gradualmente il posto al pesca-arancione del giorno. Posizionata infatti a sud, l’edificio era protetto dal vento di tramontana e permetteva di conseguenza un microclima temperato e la coltura di quelle piante che, solitamente, crescevano sul Garda o in Centro e Sud Italia: all’avanzante rossastro e giallo acceso delle foglie autunnali dei roveri, querce, gelsi e dei pampini d’uva s’accompagnava sui terrazzamenti il sempreverde degli ulivi, generosi fornitori d’olio per i monaci.

Il benedettino permise al timido sole di scaldargli le ossa, piccolo lusso che si concedeva dopo le Lodi mattutine prima di recarsi in infermeria dai suoi ammalati. Avanzò di qualche passo a contemplare la valle sottostante, là dove sorgeva il villaggio di Nervesa e il suo porticciolo su di una Piave ridotta da lassù a grasso serpente e dove, in lontananza, si potevano ammirare i vaghi monti della Patria del Friuli e la pianura di campi e alberi conducente a Treviso. Un raro e armonioso equilibrio, l’industriosità umana e la selvatichezza indomita della natura, che da anni nutriva e rilassava l’animo di Fra’ Anselmo quando in vena di solitaria contemplazione fuori dal chiostro.

Una piccola oasi d’immota serenità riparatrice dai turbini dei tempi.

Adesso, invece, il piano immediatamente sotto la collina dove sorgeva l’Abbazia era stato trasformato in un accampamento e così anche il villaggio, disertato in massa non appena i suoi abitanti avevano udito dell’accoglienza delle truppe franco-imperiali da parte dei Conti di Collalto e soprattutto dell’Abate. I soldati avevano rigirato alla stregua di calze ogni casa, magazzino, bottega, rimessa pur di trovare qualche provvista o utensili, spingendosi fino alle ville estive dei patrizi veneziani, trovandole però desolatamente vuote. Le barche e zattere inutilizzate per la fuga erano finite bruciate dalle sempre più frequenti incursioni degli stradioti veneziani, rendendo inutilizzabile il porticciolo di Nervesa, almeno nell’immediato, fintanto che il commissario imperiale Jean d’Aubigny Cividal di Belluno non si fosse deciso a spedire per via fluviale i rifornimenti. Tuttavia, il ponte di barche costruito dai Collegati si vedeva benissimo e il monaco studiò colmo di pena in direzione della Patria del Friuli, pregando che Sacile, Oderzo e Pordenone resistessero, a seguito della nuova caduta di Conegliano che pur, magra consolazione, quei disertori dei soldati alemanni avevano trovato già abbandonata e senza vittuarie.

Fra’ Anselmo cacciò fuori un pesante sospiro: anche lui e i suoi fratelli, forse ad espiazione della loro codardia, avevano la propria croce da portare. I pochi soldati tedeschi rimasti si comportavano aggressivi e rapaci più dei lupi d’inverno, venendo in violenta discussione sia coi loro alleati francesi e italiani, sia coi monaci camaldolesi che li ospitavano alla Certosa sia con loro i benedettini, avendo buon gioco l’Abate a negoziare le insistenze di monsignor de La Palice a condividere le proprie scorte con le sue truppe in nome della pace e della concordia.

Quale cibo? Avevano a malapena farina per dar da mangiare ai monaci, novizi, oblati e conversi dell’Abbazia, figurarsi a più di quattromila bocche; tutta l’uva dei loro vigneti era stata confiscata dal maresciallo francese e distribuita ai soldati per farne del mosto e così anche le loro rape e la carne, neanche si fossero trasformati in un mattatoio a cielo aperto. Si lamentavano monsignore e i suoi comandanti della scarsità di cibo, di come non si mangiasse pane da tre giorni e bevessero mosto invece di vino. Hé, cosa s’aspettavano? Il miracolo dei pani e pesci? In infermeria Fra’ Anselmo doveva litigare costantemente coi soldati italiani e francesi, i quali tentavano ad ogni occasione di rubare le razioni destinate ai loro commilitoni ammalati. Scene disgustose, invero, un’umanità alla sbando senza Dio né morale, ecco l’unico beneficio della guerra. I suoi occhi caddero sulle forche improvvisate, penzolanti uniti nella morte disertori francesi e tedeschi e contadini veneti, ognuno colpevole del proprio crimine terreno e solo l’Onnipotente conosceva quale avrebbero esattamente espiato nell’Aldilà.

Il benedettino si segnò tre volte, prendendo coraggio nel Signore che lo aiutasse a superare anche quella giornata; solo rientrando nel suo laboratorio e di sfuggita colse una figuretta biancovestita diretta tutta di corsa verso la stalla.

Quale negozio doveva brigare un novizio lì?

 

 

Hironimo si destò all’improvviso da un sonno inquieto, sudato alla stregua di Cristo nel Getsemani e colto da brividi compagni, la testa dolorante neanche gli avessero stretto un cerchio uncinato alle tempie. L’escoriazione allo zigomo gli pulsava aperta, rossa e gocciolante di umori similmente al taglio sul labbro inferiore, il quale gli tirava per via della secchezza della bocca invidiabile soltanto a quella della gola, manco avesse ingoiato null’altro che polvere per tutta la notte. Aprendo disorientato gli occhi cisposi, per un istante il giovane Miani panicò nel non riuscire più a muovere le dita delle mani, temendo esser rimasto monco; allora si sforzò di calmarsi, di reclinare il collo indolenzito quel tanto per focalizzare quegli arti apparentemente inesistenti: mugugnò di sollievo nel ritrovarsi tutte e dieci le sue amiche, per quanto anchilosate in posizioni vagamente artigliformi.

Il veneziano strinse i denti e, una ad una, s’obbligò malgrado il dolore da spilli d’ago sottopelle a piegare le dita, stringendole forte a pugno e così finché non poté di nuovo muoverle agevolmente. Dopodiché lentamente si pose in ginocchio, poi sollevò piano una gamba per alzarsi in piedi, ignorando le fitte ai muscoli intorpiditi a causa sia dalla contorta posizione in cui s’era addormentato sia delle contusioni provocategli dal Bua al loro ultimo “diverbio.” Maledizione, quel beota l’aveva forse scambiato per una bistecca da frollare?

E a proposito di carne … un grugnito dolorosissimo e imperioso gli attanagliò le viscere, costringendo il giovane ad indietreggiare fino ad appoggiarsi di schiena al muro della stalla, la vista oscurata da macchie nero-giallastre: se all’inizio della sua prigionia aveva sopportato la mancanza di cibo, talvolta rifiutandolo a spregio, adesso tal digiuno forzato incominciava a pesargli, esaurendo poco alla volta il suo corpo le scorte di grasso. Senza contare la disidratazione: tra un imbroglio e l’altro, l’ultimo liquido assunto era stata la zuppa.

I suoi occhi, annebbiati e famelici, si posarono subitaneamente cupidi sulle mammelle della vacca davanti a lui, la quale, manco ne intuisse i torbidi pensieri, si girò guardinga e muggì il suo disappunto. Ora, cogitò Hironimo, gli angoli della bocca umidi e gocciolanti di una saliva di cui neppure s’era accorto, ora il problema consisteva nell’arrivare a quella fonte di latte evitando d’affondare negli escrementi, aumentati d’altezza nel corso della notte. Fortunatamente, le catene gli consentivano d’avvicinarsi senza strattoni all’animale, il quale poi s’era portato convenientemente vicino a lui e così, in punta dei piedi brucianti per via del sangue che ritornava a fluire pel verso giusto, il patrizio si preparò ad improvvisarsi mungitore e saziare fame e sete. Sennonché, abbassandosi cauto per non spaventare la mucca, dietro le mammelle vide inaspettato il viso perplesso di Thomà.

“Cossa feu, patron?”, domandò quegli, trattenendosi dal ridere per l’inusuale spettacolo di un gentiluomo in ginocchio tra paglia ed escrementi per mungere una vacca. Quand’ecco, che il luccichio birbante svanì negli occhi del fantolino, non appena s’accorse della pelle rossa, blu e gialla del veneziano. “Oh, patron! Cossa gh’avelo fato quel tartaro a vu?”, s’informò in un gemito, raggiungendolo immediatamente, la mano bloccata a mezz’aria e indeciso s’accarezzarlo o meno a mo’ di conforto.

“El Bua”, tagliò corto Hironimo, “el me gh’ha un fià spelucato.”

“Gheo vedo”, fischiò Thomà, affatto convinto del “un poco”, a giudicare dalle vivaci ecchimosi sul corpo del patrizio, trasformato a momenti in una tavolozza di pittore.

“Tu non dovevi startene in letto?”

“Mi gero en leto et ghe tornarò.”

“Conciato così?”, indicò il Miani l’abito da novizio del piccino, il quale, guardandoselo e accarezzandolo orgoglioso, gli confidò furbo:

“Per portarve qualchecossa da manzar e bevar, sença farme desquèrzare (scoprire, ndr.) da frati e franzosi!”, e dalla tasca del saio ancora umido di lavanderia tirò fuori in maniera assai teatrale un salame morbido e una piccola borraccia di cuoio, ambedue rubati molto probabilmente uno dalla cambusa dei monaci e l’altra da qualche soldato in infermeria. “Salàdo e mosto per vossioria, la resti servida”, ridacchiò compiaciuto della sua abilità.

In altre circostanze, il giovane patrizio avrebbe rampognato Thomà per quel suo irrefrenabile vizietto di ladro, sennonché la fame l’aveva a tal punto intontito da spingerlo ad allungare avido la mano, facendogli cenno di cedergli il malloppo e pure in fretta. “Bravo, bravissimo! Quest’è parlar da zentilhomo!”, lodò il fantolino, mentre abbandonando ogni pensiero affondava i denti sull’unta carne speziata, senza neppure premurarsi di spelarla dal budello. E gli dispiaceva di farsi vedere così poco galante, divorando a grandi morsi e masticando e deglutendo rumorosamente, ingollando il mosto a grosse sorsate.

Thomà nel frattanto gli s’era accovacciato davanti, fissandolo sorridente e soddisfatto, le guance appoggiate sui pugni. “Xélo bon, an?”, gli chiese e malgrado l’assenza di malizia, quella domanda risvegliò la coscienza d’Hironimo, che tosto lo ghermì per i capelli, tirandoli fino a rinsavirlo da quella sua fame bestiale.

Ingoiato l’ultimo boccone, il Miani si pulì col dorso della mano le labbra, leccando via ogni rimasuglio di carne tra le dita. “Toga qua e magna anca ti, ché te sè picenin e te gh’ha da créssar!” gli cedette la metà ancora intatta del salame, lamentando d’aver purtroppo svuotato la boraccia; tuttavia trovar da bere sarebbe stato più facile per il fantolino, anche in tempi di carestia un sorso d’acqua i monaci non lo negavano.

Le pupille di Thomà si dilatarono predatrici e così pure le nari, vibrando il suo corpo intero d’aspettativa tanto che Hironimo rise mentalmente, associandolo al gatto di casa prima di balzare sul sorcio. “Mmmh-mmmmh, che pretioso!”, commentò il fantolino paciolando a bocca piena e neppure in quel frangente il patrizio ebbe cuore di rimproveralo, intenerito dall’espressione di pura goduria sul volto da convalescente del piccino.

Hironimo lo condusse a sé, abbracciandolo forte e stringendolo al petto, annusando a pieni polmoni l’odore di erbe, sapone, sudore e paglia impregnati sui capelli e la figuretta magrolina di Thomà, il quale, reclinando leggermente il capo, bofonchiò la sua perplessità:

“Patron, cossa gh’aveu?”, non che se ne dolesse, tutt’altro: chissà perché, ma i rari abbracci del castellano gli ricordavano quelli della sua mamma ed egli ammise che non poteva riceverne abbastanza, desiderandone sempre di più.

“Gnente, gnente: magna e tasi”, lo rimbeccò privo di fuoco Hironimo, appoggiando la guancia sulla testolina del ruminante bambino, rivangando la sua memoria le frasi terribili di Mercurio Bua. 

Che mi vuoi dimostrare? Quanto sei nobile e coraggioso pigliandoti a cuore la sorte della vedova e dell’orfanello? Sei un ipocrita e mi disgusti!

Sì, all’inizio forse era stato così: salvando Thomà, l’ultimo rimasto della sua guarnigione, Hironimo aveva sperato di redimersi, di mitigare il suo totale fallimento come castellano e capitano. Adesso invece stava realizzando che di quello gl’importava sempre di meno; d’altronde, quanti insuccessi peggiori del suo avevano commesso condottieri di più vasta esperienza e fama? Finché restava in vita e respirava, Hironimo poteva ancora rimediare a quella sua magra figura, poteva ancora trovare il modo di vendicare il suo onore e farla pagare con tutti gli interessi al nemico – omo morto no’ fa guera [1] e lui era vivo e ben intenzionato a darla.

No.

Lui lottava per la sopravvivenza di Thomà perché era giusto così. I bambini non dovevano pagare per le ambizioni e le malefatte degli adulti, che al contrario dovevano proteggerli e fornir loro un degno esempio di vita da seguire. Al momento il giovane Miani non poteva offrire null’altro in riparazione al torto fatto al piccino, tranne quello di condurlo sano e salvo a Treviso e lì adoprarsi acciocché sopravvivesse a quella guerra, offrendogli l’opportunità di ricostruirsi tutto ciò che gli era stato crudelmente sottratto. Forse poteva usare le sue conoscenze a Venezia per mandarlo a bottega presso qualche maestro d’ascia in uno dei numerosi squeri (neanche avrebbe sofferto la nostalgia delle sue montagne, gli squerarioli provenivano tutti o quasi dalle bande di Thomà) o presso qualche falegname … forse …

Azzarda un’altra miracolosa fuga e ti sgozzo il marmocchio, lavandoti la faccia col suo sangue. Hai inteso? È l’ultimo mio avvertimento!

Hironimo serrò la sua presa sulle spalle esili del fantolino: avrebbe cavato personalmente gli occhi al greco-albanese, se si fosse azzardato anche soltanto a torcergli un capello. Non temeva per sé, non temeva di nulla, poteva benissimo sopportare qualsiasi tormento da parte del Bua, se poteva ergersi a scudo umano tra lui e il bambino.

“Come ti senti?”

“Mejo, patron.”

“La febbre?”

“Nola gh’ho pì”, schioccò Thomà le labbra, finalmente satollo. “Perhò vuj seti tutto on bójo (bollore, ndr.)!”, rimarcò preoccupato.

“Non pensare a me. Invece, fila in letto prima che il frate s’accorga della tua assenza e te ciapi per le orecchie!”, liquidò Hironimo sbrigativamente le ansie del fantolino, sciogliendolo dall’abbraccio e spronandolo a rimettersi in piedi tramite giocose pacche sul sedere.

“Fe’ attention, patron. No ve vojo morto anca vu!”, gli confessò triste il bambino, rassettandosi la cottola del saio.

Il giovane Miani gli sorrise temerario. “Manco se mi sguinzagliassero contro tutti i diavoli dell’inferno, riuscirebbero ad uccidermi! Dèsso pussa via, sennò ti cattura il castigamatti!” , lo spronò ed in un battibaleno Thomà sgusciava da una finestrella della stalla, giusto in tempo prima che la porta s’aprisse. E a giudicare dal rumore ferroso degli speroni, non doveva certo trattarsi del monaco venuto per la mungitura.

Un possente colpo di tosse catarrosa tradì l’identità del nuovo arrivato e Hironimo abbassò le spalle, rilassando la postura. “Mal trovato al chiarore dell’aurora, signor conte di Gambara!”, lo salutò ad alta voce, acciocché lo potesse localizzare dietro i robusti corpi delle mucche.

Il nobile bresciano si bloccò, impietrito, guardandosi sospettoso intorno alla stregua d’un ladro colto sul fatto dal trionfo e incavolato padrone. Non scorgendo alcuno e riconoscendo l’accento dopo aver respirato a fondo per ben tre volte, l’uomo si diresse infine nel là dove intuiva trovarsi il vero mandante di quel saluto. “Sempre orgoglioso, messer Girolamo, anche nella merda”, ricambiò sardonico, evitando in un buffo balletto di lordarsi pure lui fino alle caviglie.

Hironimo gli sorrise vezzoso. “Almeno questa è fisica e si lava via, mica come quella morale vostra!”

Il conte Gianfrancesco di Gambara strinse la bocca in una linea dura, rendendogli il volto pallidissimo doppiamente patito: a confronto, il pur strapazzato patrizio sprizzava di salute da tutti i pori. Le occhiaie profonde e scure cozzavano col rossore liquido degli occhi; la pelle tirata acquistava cadaun momento un crescente livore da cadavere, lucente di sudore freddo del febbricitante cronico. Le gote, ironicamente, brillavano d’un malaticcio rossore ed Hironimo s’allontanò inconsciamente da lui, riconoscendo nel Gambara il viso di chi, oltre a catarro, tra poco avrebbe incominciato a sputar sangue.

“Poche parole”, venne al dunque il conte, conscio del poco tempo a disposizione per conferire col prigioniero, prima che uno degli sgherri del greco-albanese s’accorgesse della sua presenza o venisse a controllare. “Che cosa voleva sapere il Bua da voi?”

“Con quanta gente qui all’Abbazia l’ho tradito.”

“Piaghe di Cristo, vi paiono tempo e luogo adatti a tali scherzi?”, sibilò frustrato il bresciano, il pugno stretto convulsamente. Possibile che non si potesse conversare in maniera civile con quel dannato veneziano?

Invece … “E chi scherza?”, ribatté tagliente Hironimo, aggrottando serio e pragmatico la fronte. “Voi potete giocare allo scettico quanto vi pare, ma ora come ora il Bua sguazza nel sospetto del geloso: non si fida di nessuno e scorge nemici ovunque. Crede che tra noi due ci sia una sorta di diabolica alleanza a suo danno. Teme specialmente di voi, della vostra incostanza”, gli riassunse brevemente la situazione, confidando nella coscienza sporca del conte, giacché soltanto chi aveva qualcosa da nascondere poteva preoccuparsi così tanto dei vaneggiamenti di un condottiero vittima di manie di persecuzione. “Ha ragione?”, insistette il giovane Miani; doveva accettarsi ad ogni costo della posizione del Gambara in quel gran bailamme: amico o nemico o approfittatore geloso del Bua. “E’ vero?”, l’incalzò, malgrado l’eloquente silenzio del bresciano, il quale tradiva una disponibilità nei suoi confronti davvero ghiotta.  

Il conte Gianfrancesco abbassò contrito il capo, per poi levare di nuovo lo sguardo leggermente sfocato dalla malattia, pesando accorto ogni parola onde non compromettersi eccessivamente. “Si parla di rientrare a Milano”, disse infine, provocando una mezza sincope nel giovane, che di fatti sbrodolò genuinamente agitato:

“C-cosa?!”

“Potete ben intuire cosa comporterebbe per voi: la deportazione, forse perfino in Francia se il Re decidesse di togliervi al Bua per aggiungervi alla sua collezione di prigionieri illustri”, seguitò imperterrito il Gambara pur senza alcuna malizia nella sua voce, anzi, delucidandogli in maniera piuttosto distaccata quale destino attendeva Hironimo, avesse La Palice deciso di rinunciare all’impresa di Treviso e di ritirarsi in Lombardia in attesa di un’occasione più propizia.

Lo stomaco del veneziano sobbalzò dolorosamente, montandogli la nausea al punto di rigettare la previa colazione. Teoricamente, Mercurio Bua serviva l’Imperatore e quindi Hironimo era prigioniero dei tedeschi. Tuttavia, grazie alla recente diserzione di quest’ultimi, La Palice poteva benissimo rivendicarlo come suo prigioniero a mo’ di risarcimento dei danni subiti, visto che, alla fine, a pagare la spedizione rimaneva comunque il Re di Francia e non quello dei Romani.

La deportazione! Se fosse finito in Alemagna, ancora qualche possibilità di ritornare a Venezia ce l’aveva, ma in Francia? Ripensò immediatamente al suo amico Piero Contarini a suo padre l’ambasciatore sier Zacharia, già al loro secondo anno da ostaggi; conoscendo la possessività di Louis XII sui suoi prigionieri, il Miani avrebbe fatto prima a rimpatriare in bara che sui suoi piedi.

“Al momento mi è difficile avvertire direttamente i miei contatti a Venezia: avete forse qualcheduno a Treviso che possa fare da tramite?”, continuò in fretta il conte, abbassando significativamente il tono di voce.

Hironimo sbatté confuso le ciglia. “Mio fratello Marco è alla sua custodia”, disse, paventando d’illudersi in false speranze: troppo conveniente per sembrare vera quella partigianeria da parte del Gambara. Dove voleva andare a parare? Che si trattasse di un elaborato piano del Bua per tormentarlo? S’era così, il greco-albanese doveva darsi alla carriera teatrale, ché la sua collera e sospetto non gli erano parsi così recitati …

“Sta bene. Gli farò sapere che siete qui a Nervesa, che siete vivo e in … discrete condizioni.”

“Perché dovrei fidarmi di voi? Come avete tradito la Signoria, potreste tradire anche me!”, vociò infine il patrizio il dubbio, che da sempre l’attanagliava ogniqualvolta si rapportava col nobile bresciano.

“Perché?”, ripeté esitante l’uomo. “Perché potrei essere l’unica speranza che avete per fuggire via da qui”, ammise sottovoce. “Spero di sbagliarmi, ma ho come l’impressione che il Bua non chiederà per voi alcun riscatto. Non vi pare strano? Subito ha riscosso la taglia per i capitani Doglioni e Colle, mentre voi siete suo ostaggio da quasi tre settimane e non una parola dalla Signoria.”

“Può darsi … può darsi che la Signoria mi giudichi morto assieme agli altri soldati di Castelnuovo di Quero”, tentò disperatamente Hironimo di smontare quell’orrida teoria. “Può darsi che il Bua abbia indicato una cifra troppo alta e che pertanto stiano negoziando!”

“Ignoro come esattamente stiano gestendo a Venezia le trattative per il vostro rilascio”, scosse il capo il conte, indietreggiando verso l’uscita della stalla. “Però conosco abbastanza bene Mercurio Bua e non è tipo da tirarsi indietro dinanzi ad un facile guadagno. Quali progetti egli abbia su di voi, da tardare di così tanto la richiesta di riscatto, al momento mi restano oscuri”, concluse sbrigativamente il discorso, uscendo veloce dallo stanzone e abbandonando Hironimo all’angoscia per il suo futuro.

Un ringhio rabbioso riecheggiò tra le mura della stalla.

Cancaro maledetto!  Come sarebbe stato a dire, che non avrebbe richiesto alcun riscatto? Per quale motivo? A quali “progetti” si stava riferendo il Gambara? Ché figurarsi se Hironimo se la beveva quella grossa, grassa balla colossale che lui non sapeva niente! Non aveva mica intenzione quel satanasso di tenerselo stretto a mo’ di scudo umano e garanzia per l’intera durata della guerra? Piuttosto gli strappava a morsi il pomo d’Adamo, piuttosto di tollerare all’infinito una prigionia così umiliante – in catene alla stregua d’un criminale o uno schiavo, sporco, scalzo, a gambe nude, in camicia e affamato. Se soltanto l’avesse liberato dai ceppi e affrontato alla pari da gentiluomo, altro che pugni! Il Miani gli avrebbe aperto la pancia e costretto a mangiarsi le sue merdose budella! Gli avrebbe …

Calma! Calma …

Hironimo prese un profondo respiro, chiudendo gli occhi e imponendosi di raffreddare i propri bollenti umori maligni. La collera non lo portava da nessuna parte, se non a percosse certe. Inutile invocare galanteria nei briganti: sprecata con tal feccia, bisognava sfruttare la furberia del disonesto. Nonostante il suo rango, Hironimo rimaneva comunque un prigioniero e non stava scritto da nessuna parte che Mercurio Bua dovesse restituirlo intero o in buona salute – gli bastava ricordare i racconti laddove si descrivevano le terribili e penose condizioni in cui era rimpatriato il povero sier Zorzi Corner, bisnonno dei suoi cugini alla lontana, dopo sette anni di prigionie e torture a Milano per mano di quel pazzo furioso di Filippo Maria Visconti. 

Doveva apparirgli docile, disperato, distrutto. Così il Bua avrebbe abbassato la guardia e, alla prima occasione, Hironimo sarebbe scappato via con Thomà alla faccia di quel bastardo mascalzone malnato.

 

***

 

 

Francesco Rangoni saliva trasognato la rampa di scaloni che l’avrebbe condotto assieme ai suoi fratelli al secondo piano di Palazzo Ducale, quello riservato alle sale del Collegio e del Senato. Guido e Ludovico avanzavano più composti (sebbene il capofamiglia mostrasse un viso leggermente teso) forse perché già familiari e a loro agio in quell’ambiente così solenne e testimone di tutta la storia veneziana, grazie al miscuglio di stili architettonici e decorativi succedutisi nel corso dei secoli, dal bizantino, al gotico, al classico-rinascimentale. Ovunque un tripudio di marmi, pietra d’Istria, legni pregiati, ori, smalti, affreschi, arazzi, il ragazzo non riusciva a concepire tanta ricchezza concentrata in un sol luogo. Ripensò al loro palazzo a Modena e a San Sismondo a Bologna: accidenti, a confronto gli pareva esser cresciuto in una stamberga! Perfino la loro nuova casa a Ca’ Contarini a San Paternian impallidiva. 

“Adesso capisco perché vogliono tutti spartirsi la Signoria: qui l’aria istessa profuma d’oro!”, sussurrò Francesco a suo fratello Ludovico, che rapido lo zittì, rampognandolo aspro per la sua sventata mancanza di tatto. Fortunatamente, sier Ferigo Contarini, che li accompagnava, era troppo impegnato a discutere con Guido, Agustin da Brignano Gera d’Adda  e Julio Manfron figlio del condottiero Zuam Paulo per accorgersi della piccola scenetta.

Il gruppetto entrò infine nell’imponente Sala del Collegio, illuminato dalle altissime finestre del secondo piano nobile, le cui proporzioni allungate di stile gotico fiorito ricordavano moltissimo quelle che Francesco aveva di sfuggita ammirato nel secondo ordine della Scuola di San Marco. Il giovane modenese si sentì un poco intimorito, stringendosi inconsciamente a Ludovico mentre lisciava nervoso le pieghe invisibili del suo zipone, sentendosi d’un tratto svestito e vulnerabile senza i rigidi e pesanti strati della sua armatura. Guido, dal canto suo, avanzò apparentemente ineffabile verso i Pregadi dalle veste scarlatte, che lì li attendevano coi loro tipici sorrisi di sfinge sui volti attenti e scrutatori.  Che strano, pensava invece sier Ferigo, notando i principali scranni vuoti, mancano Sua Serenità e il Minor Consiglio …

Un cancelliere, comparendogli in punta dei piedi alle spalle, gli sussurrò discretamente qualcosa all’orecchio, invitandolo a seguirlo senza attirare su di sé l’attenzione. Il che non fu difficile, avendo iniziato i Pregadi un discorso preparatorio in attesa della Signoria, il completo interesse degli ospiti concentrato su di loro.  

Fuori dalla sala, in un angolo ascoso, il giovane provveditore si meravigliò di trovare ad attenderlo sier Batista Morexini “da Lisbona”, il quale, ringraziato il segretario, lo istruì di raggiungere il Serenissimo e gli altri consiglieri onde annunciarli l’imminente arrivo del Contarini. La vesta ducale color pavonazzo risaltava il pallore nel viso, tipico di chi da giorni faceva le ore piccole, una stanchezza a malapena mitigata dalla stola di broccato d’oro e il chiaro dello zibellino che s’intravedeva dalle maniche larghe e aperte.

Confortante apprendere come anche i senatori condividessero l’insonnia dei provveditori di campo.

“Non sono degno di cotanto onore, sier consier”, mormorò piano sier Ferigo al consigliere ducale, il quale con nonchalance gli s’era accodato e gli camminava accanto, evitando ambedue di guardarsi in faccia mentre discorrevano. “Da quando in qua un consigliere scorta un semplice provveditore?”

“Consideratevi soltanto un bravo giovine, ch’aiuta un povero vecchio a camminare e che gli tiene un po’ di compagnia mentre prende una boccata d’aria fresca”, ribatté serafico il Morexini. Ad arte era riuscito a coordinare quel fuggevole colloquio privato col Contarini prima di quello ufficiale col Doge e il Minor Consiglio, non appena l’anziano patrizio aveva appreso di come il provveditore avrebbe accompagnato i fratelli Rangoni e gli altri condottieri a Palazzo Ducale. Poco tempo per parole veloci, giacché conscio del loro immediato ritorno a Padova a seduta terminata. D’altronde, neanche il “da Lisbona” poteva intrattenersi troppo a lungo col giovane senza destar sospetti.

“Donca? Cossa comandela la Signoria de mi?”

“An, non vi voglio rovinare mica la sorpresa!”

Vecchio volpone sibillino. “Cosa vogliono i Pregai dal domino Guido Rangon?”, cambiò discorso sier Ferigo, un poco seccato da quell’esprimersi ad enigmi.

“I condottieri sono come le puttane: gran sbaglio affezionarsi a loro!”, ridacchiò cinico il consigliere, spiando di sottecchi il rossore sulle gote dello stoico provveditore. “State di buona voglia, il vostro conte modenese in questo momento è coccolato e lodato dai Pregai, per la sua partecipazione attiva e gagliarda a Marostega e a Castel Francho. Gli staranno di sicuro comunicando, come abbiano intenzione d’assegnargli 75 degli uomini d’arme della compagnia del fu Governatore Generale”, spiegò succinto sier Batista a sier Ferigo la decisione dei Pregadi, ossia di dividere e ridistribuire l’orfana compagnia di Lucio Malvezzi ai comandanti più meritevoli, tra cui appunto il Rangoni e i suoi fratelli, a quest’ultimi spettanti cinquanta soldati da gestire personalmente tra quei settantacinque ereditati dal fu genero del fu Roberto Sanseverino.

“Non m’en cale un fico seco del Rangon e della sua masnada; è che mi scoccerebbe perdere proprio ora un valente condottiero!”, berciò stizzito il patrizio più giovane, fissando ostinato il viavai di gente sul cortile esterno del Palazzo.

Il Morexini sogghignò indulgente.

“Ed io? Da me cosa vogliono i Pregai? La Signoria? Il Principe?”, insistette testardo sier Ferigo, sul serio non comprendendo l’assenza del Doge e dei suoi consiglieri alla seduta: cosa dovevano comunicargli di tanto importante, da trarlo in disparte e ritardare il loro arrivo nella Sala del Collegio? E perché il “da Lisbona” gli stava facendo fare il giro più lungo per raggiungerli?

“Abbiamo ragionato a lungo coi provveditori sier Polo e sier Christofal: quando voi e il conte ritornerete a Padoa, v’unirete ai 1500 cavalleggeri di domino Meleagro da Forlì alla volta di Trevixo per disturbare i Francesi rimasti al di qua della Piave. Senza i Tedeschi a coprir loro le spalle, il campo nemico è divenuto più vulnerabile e può essere che, credendosi in inferiorità numerica, decidano di abbandonare l’impresa.”

Il Contarini strabuzzò gli occhi, disorientato. “1500 cavalleggeri a Trevixo?”

“Sì”, confermò il consigliere ducale. “Già oggi sono partiti 200 stradioti al comando di domino Thodaro Paleologo …”

“Non soltanto per la custodia Trevixo, ma anche per la liberazione di Noal, Citadela, Bassam ed Asolo”, concluse il provveditore degli stradioti, afferrando al volo la strategia camuffata abilmente dietro un semplice spostamento di truppe. “Volete far terra bruciata attorno a La Peliza, isolandolo da ogni possibile soccorso esterno.”

Sier Batista lo fissò di sbieco, compiaciuto dell’acume militare del giovane, rimanendo tuttavia in silenzio.

La Signoria in effetti stava accarezzando il progetto d’isolare ad ovest La Palice, impedendo ogni ricongiungimento delle sue truppe con quelle dei Gonzaga di Bozzolo e Treviso diveniva di conseguenza il trampolino perfetto per un attacco a sorpresa. Contemporaneamente, la Signoria si stava arrovellando sull’elaborazione di un rapido piano di difesa di Sacile, Oderzo, Pordenone, Marano, Portogruaro, Gradisca e Udine: analizzati e commentati i rapporti da parte dei loro podestà, capitani, castellani e nobili locali, si preparava a ricevere a breve gli oratori delle città friulane per accogliere eventuali richieste ed istruirli sul da farsi. Si lavorava a ritmo frenetico, serrato, l’ultima seduta terminata quasi alle ore 8 di notte (le due, ndr.)

Naturale, quindi, che sier Batista agli occhi del Contarini apparisse così stanco e provato: tali strapazzi i giovani li reggevano meglio e la primavera da tempo aveva abbandonato il corpo del patrizio. Si poteva ben affermare come il consigliere ducale vivesse ormai a Palazzo, alternando alle sedute brevi visite a Ca’ Morexini giusto per cambiarsi di camicia e dormicchiare qualche oretta o alle stue per levarsi l’umido dalle ossa, talvolta in compagnia dei nipoti e del primogenito Carlo, l’unico dei suoi figli, dopo la partenza di Piero alla volta di Cipro per raggiungere il suo fratellastro Andrea ad Aleppo presso il Sofì [2], con cui sier Batista riuscisse a rapportarsi serenamente e ad intavolare una conversazione civile.

“Non capisco”, esclamò infine sier Ferigo, fermandosi improvvisamente. “Ciò che mi state riferendo sono cose, che potrei benissimo apprendere da una qualsiasi seduta dei Pregai o della Signoria. Perché dunque volete conferire meco da solo?” Fin dall’inizio aveva giudicato bizzarro che un consigliere ducale si scomodasse per lui, accompagnandolo di persona dai suoi colleghi e il Doge quando un qualsiasi cancelliere poteva bastare. Anche la scelta della strada, la più lunga. Ora, il Contarini non sarà stato pratico dei giochi di politica però quelli della guerra sì; di conseguenza riconosceva bene la tattica di chi stava temporeggiando.  

Il Morexini si voltò enfaticamente verso di lui, guardandolo per la prima volta dritto negli occhi. “A Nervesa”, sussurrò grave, “il mio nezzo è prigioniero del capitano Mercurio Bua ed io lo voglio libero, qui, a Veniexia!”  

“La sua famiglia non ha che da pagare la taglia! O la Signoria accordare uno scambio!”, replicò spiccio sier Ferigo, calcolando mentalmente il tempo di cattura dell’amico suo Marco Contarini. I riscatti purtroppo non si risolvevano mai tanto velocemente, affari penosissimi, curiosa quindi l’ansietà del consigliere per la sorte del nipote.

“Il Bua non ha avanzato alcuna richiesta, né di riscatto né di uno scambio tra … prigionieri.”

Questa neppure il provveditore se l’aspettava. “Cossa? Chome mai?”, inquisì confuso e un pelino incuriosito da tal comportamento stravagante; in tempi di guerra, ogni singolo ducato diveniva motivo d’accese discussioni. Infatti, quando non impegnato a combattere, il Contarini doveva baccagliare continuamente contro i comandanti stradioti per questioni di paga.

“Il Bua ha intenzione di scambiare il mio nezzo con la sua mojer madona Catharina, però né lei né la Signoria vogliono venirgli incontro. Di conseguenza, traete voi le ovvie conclusioni”, condensò sier Batista quanto appreso sia dal cavaliere Dimitri Spandolin oratore improvvisato presso Caterina Boccali Bua, sia dalla Signoria medesima, la quale confidava di poter liberare ugualmente suo nipote senza bruciarsi la carta della moglie del condottiero greco-albanese.

“Ma che vantajo ghalelo da tegnirlo senpre seco, s’el no polelo scambiar?”

“Co’ el Bua gh’ha tolto na decision, xé quea. La mojer o nissun. Pertanto non posso escludere la possibilità che il mio nezzo rimanga suo prigioniero per l’intera durata della guerra, se il Griego non si stufa prima, ammazzandolo. E questo, se Missier Domeneddio no me tuol el zervelo, non permetterò ch’accada”, ribadì determinato sier Batista: per amor della sua sorellastra Leonora e sul cadavere di suo cognato Anzolo, aveva giurato che finché il Padreterno gli avesse concesso salute e mezzi, si sarebbe preso cura dei suoi nipoti orfani, proteggendoli da ogni male. Già aveva ottenuto con successo il rilascio di Lucha l’anno addietro; non avrebbe fallito certamente con Hironimo, affatto intimidito dalla testardaggine del capitano di ventura.

La Signoria aveva d’altronde espresso la sua irremovibile sentenza: giammai Mercurio Bua avrebbe riottenuto indietro sua moglie e se lui non s’accontentava dei soldi, hé, incominciasse a considerarsi vedovo seppur marito.

“La Signoria mi vuole inviare a Trevixo, ma voi? Cossa voleu de mi?”, andò dritto al punto sier Ferigo, comprendendo ora il piano di fondo.

“Al Montelo i nostri stradioti e contadini fedeli già stanno danneggiando i francesi in imboscate, bruciando ogni burchio e zattera. Se vi riesce, sfruttando il marasma da loro creato, vi chiedo di liberare il mio nezzo.”

“Un’impresa non da poco”, commentò pragmatico il Contarini, delineando mentalmente un’ipotetica disposizione del campo e del modus operandi del nemico: sicuramente, un prigioniero così importante il Bua doveva tenerselo molto stretto, onde impedirgli la fuga o un tentativo di liberazione in agguati e scorribande notturne. “Tuttavia Momolo è mio amico e lontano parente e non lascerò nulla d’intentato, acciocché non venga deportato né in Francia né in Alemagna”, dichiarò infine la sua disponibilità e il “da Lisbona” emise un lungo sospiro di sollievo, non accorgendosi di non aver respirato per qualche istante.

“Appunto poiché quest’impresa si presenta complessa, che la Signoria vuole affidarvela. Grazie rapporti di sier Zuam Paulo si è elaborato un piano non malvagio ai danni del nemico, il quale però ha da rimanere segreto fino alla sua approvazione”, l’avvertì sier Batista, indicandogli attraverso un ampio gesto del braccio di precederlo e d’entrare nella sala, dove il Serenissimo e il Minor Consiglio l’attendevano.

Si trattò di un colloquio brevissimo, anche per non imbarazzare troppo i Pregadi e gli ospiti della loro assenza, i quali, se già prima si sentivano onorati dai calorosi elogi da parte dei senatori, credettero d’avvampare di gioia nel venir ricevuti dal Doge in persona.

A seduta terminata, sul burchio diretto a Padova, sier Ferigo rimuginava in silenzio ambedue i discorsi tenuti quella mattina, sia col Morexini che con la Signoria. Sordo agli entusiasti commenti di Ludovico e Francesco per i complimenti e gli uomini d’arme ricevuti, mitigati dalle più pratiche osservazioni di Guido, il giovane provveditore pianificava il modo di pigliare due piccioni con una fava, di soddisfare la richiesta del consigliere ducale e della Signoria. Sier Zuam Paulo Gradenigo non avrebbe avuto nulla da obiettare, se gli avesse domandando il permesso di tendere qualche imboscata ai francesi. L’unico problema rimaneva comunque la responsabilità ch’egli aveva verso i suoi stradioti: non poteva certo sacrificarli in un’operazione avventata e senza profitto, nossignore. L’Abbazia di Nervesa sier Ferigo se la ricordava, in cima ad una collina, una fortezza quasi, molto difficile da espugnare senza essere avvistati. Pertanto, finché il Bua vi rimaneva arroccato dentro, gli sarebbe stato impossibile liberare Hironimo.

Allo stesso tempo, il condottiero non poteva rimanersene rintanato lì per sempre, prima o poi doveva uscire da Nervesa, o per attaccare Treviso o per ritornarsene a Milano.

Ed era esattamente lì che il Contarini l’avrebbe aspettato.

 

***

 

 

“Aux armes! Aux armes! Arme! Arme!”

Hironimo scattò seduto dal suo giaciglio di paglia e ruvida ma calda pelle di vacca, il cuore in gola e guardandosi esagitato attorno a lui, sebbene invano: nulla si muoveva nella buia stalla, cozzando col cacofonico pandemonio di urla e nitriti di cavalli proveniente da fuori e il cui eco aveva persino innervosito le solitamente placide mucche.

Cosa stava succedendo? Un incendio? Un attacco?

Di riflesso il giovane patrizio si rialzò, pompandogli il sangue esultante nelle vene. Sì! I francesi stavano gridando dalla paura, qualcuno doveva aver disturbato il loro dannato sonno intrufolandosi nell’accampamento e creando scompiglio! Se non proprio dato battaglia notturna!

Il Miani non perse tempo e subito appoggiò il piede contro la parete, tirando e strattonando nella speranza di spezzare la catena e al contempo torcendo e graffiando i polsi per sfilarsi le manette. Doveva innanzitutto liberarsi; poi correre in infermeria e pigliarsi Thomà -  non fosse mai scambiato per un paggio francese; dopodiché si sarebbe portato ben fuori dal combattimento, in attesa di farsi riconoscere in un secondo tempo, non finisse lui infilzato per sbaglio.

“Porc’eva, porc’eva, porc’eva, porco juda, porco juda, porco juda, maladeto, smovate! …”

O l’umidità o la cattiva manutenzione, in ogni modo il chiodo, che teneva fisso il cerchio in cui la sua catena era stata stretta, pian pianino prese a sfilarsi dal suo buco. Ancora qualche strattone e finalmente sarebbe stato …

La porta della stalla si spalancò violentemente, illuminata dall’ansioso svolazzare di torce.

… fregato.

Hironimo si morse la lingua per non imprecare fino ad abbattere l’Abbazia a suon di sacramenti, non appena udì la voce di Mercurio Bua: “Eccoti qua, meno male che sei già bello sveglio, mi sarebbe seccato doverti dare il bacino del buongiorno!”

Contravvenendo al suo piano, Hironimo strillò frustrato: “E chi te l’ha chiesto! Piuttosto, cos’è sta cagnara qui fuori?”

Il greco-albanese non gli rispose, concentrato spazientito ad aprire il lucchetto della catena stretta attorno al cerchio. “Quando saremo nella mia cella in foresteria, ti dirò tutto”, tagliò corto, issandoselo sulle spalle e istruendo Zilio Madalo e Leka Busicchio di coprirli mentre avanzavano nella sicurezza dell’Abbazia.

A testa ingiù, il patrizio osservava confuso l’intenso e sconclusionato viavai di soldati mezzi svestiti e con le armi in pugno, i quali occupavano disordinatamente i punti strategici del complesso abbaziale. Quelli al portone d’ingresso principale tentavano a gran fatica di trattenere altra gente altrettanto semidiscinta, che a spintoni, pugni e morsi e randellate di pietre in testa si facevano prepotentemente strada oltre o dentro di esso, creando un ingorgo di corpi spintonati in direzioni diverse e contrarie. Alcuni, vestiti alla tedesca, si rotolavano coi francesi ed Hironimo catturò il luccichio dei loro pugnali e i rantoli dei feriti.

“Les Allemands! I Tedeschi c’assassinano! Ils nous vont tuer! Aux armes! Aux armes!”

“Les Vénitiens!”

“Les Allemands!”

Ma che … ?

“Dentro! Dentro l’Abbazia! Chiudete il portone, dentro!”

Il veneziano, facendo leva sulle spalle del Bua, prese a picchiettargli la schiena onde catturare la sua attenzione, sovvenendosi di Thomà, solo in infermeria e difeso da soldati moribondi e qualche monaco.

“Dopo!”, gli ringhiò dietro Mercurio, intanto ch’estraeva la sua spada per farsi largo tra un gruppetto talmente compatto da non riconoscersi a vicenda, se amici o nemici. “L’allarme! Date l’allarme! Qualcuno con un po’ di coglioni salga su quel cazzo di campanile e suoni quella fottuta campana! Date l’allarme, perdio, razza di femmine incapaci!”

Il selciato prese lievemente a tremare, seguito dal rumore di legno sfondato: i cavalli degli stradioti e saccomanni, spaventati da quel baccano infernale, erano fuggiti dalle loro stalle sforzando una via di fuga.

“I cavalli! Riportateli dentro! Chi se ne frega dei prigionieri, lasciateli scappare! I cavalli, maledizione, quelli vi crocifiggo uno ad uno come San Pietro se me li perdete!”, sbraitò il greco-albanese, respingendo l’ultimo avversario con un poderoso calcio per però finir a sua volta spintonato dentro la basilica, inciampando all’indietro in un’inversa proskynesis greca, mentre Zilio e Leka sbarravano sbuffando il pesante portone, finalmente al sicuro.

“Avanti, in piedi!”, intimò Mercurio ad un inebetito Hironimo ch’era finito come lui per terra sul duro e gelido pavimento, sbattendoci però la fronte come i penitenti del Venerdì Santo. “Cammina!”, lo issò in piedi e lo spinse in avanti, peccato che il giovane vedesse doppio e pure gli venisse da vomitare. “Agios Georgios, sei più delicato delle tette di una monaca!” [3], sbuffò snervato il capitano stradiota, per poi spalancare gli occhi timoroso e tapparsi la bocca, conscio d’aver proferito un’oscenità nella casa del Signore. Si segnò in fretta, appuntandosi di far più tardi penitenza. Oh beh, non che far da balia a quella piattola del suo prigioniero già non lo fosse …

“Il bambino …”, sbiascicò Hironimo, lo sguardo torbido non dissimile a quello d’un ubriaco, aggrappandosi ciondolante al collo del corsaletto del Bua. “Voglio … il mio … il mio bambino …” Un rivoletto di sangue gli divideva in due la faccia, congiungendosi al mento.

Maledizione. “Più tardi te lo porto. Giuro! Adesso però devi camminare e raggiungere la foresteria!”

“No …”, s’oppose ostinato il patrizio, dimostrando una pellaccia assai dura se pur da parzialmente concusso riusciva a tarmarlo con ugual tenacia di quand’era cosciente. “Lo voglio … lo voglio … lo devo proteggere … io devo …” e i suoi occhi rotearono all’indietro, costringendo il condottiero ad afferrarlo al volo, prima che il pavimento terminasse l’opera, rincretinendolo completamente. Invano scosse il giovane, schiaffeggiandolo delicato o aprendogli le palpebre: diavoli d’inferno, era proprio svenuto e Dio lo scampasse dal non risvegliarsi più! Altrimenti Caterina …

“Zilio, vola in infermeria per il marmocchio e uccidi chiunque te l’impedisca! Ci penseranno dopo i monaci ad assolverti”, ordinò l’uomo al suo sottoposto mentre correva in direzione del chiostro dall’uscita laterale sulla destra, sotto la navata con l’affresco della Creazione. “E magari qualche unguento, già che sei lì!”

“Da quando in qua pigliate ordini da quel veneziano?”, s’impuntò lo stradiota, affatto contento d’abbandonare il suo capitano con soltanto Leka a protezione.

Mercurio gli lanciò un’occhiata assassina. “Da quando in qua sei così spavaldo?”, l’avvertì tra le righe e Zilio guizzò via più rapido di una lepre.

“Dio del Cielo, che gli avete fatto?”

Il condottiero digrignò i denti: e ti voleva il destino che non incontrasse il Gambara in ogni luogo!

“Niente, è caduto e fra poco gli spunterà un bel bernoccolo in fronte”, riassunse in fretta Mercurio la faccenda, tallonato da Leka e il conte Gianfrancesco verso la foresteria, il conte che reggeva apprensivo il capo ciondolante del prigioniero svenuto. “La Palice, invece?”

“Già fuori; il signor Giulio e il signor Galeazzo credo siano con lui”, fece concitatamente rapporto il nobile bresciano. “Ma che diamine è successo esattamente? Alcuni incolpano i tedeschi, altri i marciani, altri addirittura i monaci - non si capisce più niente!”, si sfogò, aprendo la porta a Mercurio che scivolò dentro la sua cella senza neppure degnarlo di una risposta, sbattendogli invece la porta in faccia e chiudendosi dentro.

Tossicchiando imbarazzato, Leka s’autoproclamò suo portavoce, anche per mitigare la cafonaggine fuori luogo del collega: “Ne sappiamo quanto voi, signor conte. In fede nostra, stavamo dormendo quando all’improvviso questo schiamazzo infernale c’ha buttati giù dal letto! Forse domani mattina riusciremo a capire meglio cosa può averlo scatenato …”

Il conte Gianfrancesco annuì rapidamente. “Rechiamoci dal maresciallo, vediamo d’essergli d’aiuto.”

“Eccellente idea, così potrò anche controllare se i miei uomini sono riusciti a recuperare i nostri cavalli …” e se n’andarono correndo verso l’uscita della foresteria.

Da dietro la porta Mercurio staccò l’orecchio dal legno, avendo infatti origliato ogni singola parola proferita dai due militari. Non che s’aspettasse una scioccante ammissione di colpevolezza o complicità, nondimeno sperava in una qualche parolina rivelatrice da parte del Gambara, di solito così guardingo nei suoi confronti.

Per quanto si sforzasse, non riusciva a fidarsi di quell’uomo, per niente.

Un flebile gemito distrasse il greco-albanese dalle sue elucubrazioni, conducendolo al letto, là dove aveva gettato di peso il suo prigioniero ora riverso scomposto sul materasso, le catene ancora avvolgenti il suo corpo in una grottesca parodia del mito d’Andromeda e Perseo; peccato che il Miani non fosse una principessa etiope e il Bua un baldo eroe greco.

Infatti gli versò in faccia la brocca d’acqua.

Appoggiandola sul grezzo tavolino, il condottiero rimase in paziente attesa, già pregustandosi la sfilza d’improperi di cui sicuramente l’annaspante veneziano l’avrebbe subissato. Ne rimase deluso: quest’ultimo infatti si limitò a sbattere infastidito le ciglia, provando la sua mano ad asciugarsi il viso in maniera piuttosto scoordinata, ottenendo l’unico risultato di disegnarsi arzigogolate strisce scure sul viso grazie all’impasto d’acqua, sangue, polvere e fango.

“Embé? Ti sei ripreso?”, s’informò cauto Mercurio, incrociando le braccia al petto e sedendosi sul bordo del materasso. “Mi riconosci?”, aggiunse in un secondo momento, accorgendosi dello sguardo smarrito dell’altro. 

Le iridi nerissime d’Hironimo seguitarono a vagare senza meta, fluttuando in una preoccupante semi-incoscienza. Al che il greco-albanese gli diede uno schiaffo e lo pigliò per la mascella, costringendolo a guardarlo. “Mi riconosci?”, ripeté perentorio e scandendo ciascuna sillaba. “Chiudi gli occhi se capisci.”

Il veneziano arcuò il sopracciglio. “Guarda che posso parlare”, gracchiò spassionatamente in un buffo borbottio a causa della stretta alla bocca.

Mercurio ritornò a respirare tranquillo, avendo temuto per il peggio e ringraziando la costituzione robusta del giovanotto. “Adesso ascoltami bene”, gli spiegò pacatamente, conscio tuttavia della botta presa e non sottovalutandone gli effetti collaterali, “per stanotte ti tolgo di dosso queste catene, però tu non azzardare niente di strano, altrimenti le adopero per strangolare te e il marmocchio. Intesi?”

“Ho inteso”, convenne docilmente il patrizio, usando la manica della camicia per ripulirsi la fronte dal sangue. 

“Ancora conservo le cavigliere e il collare con la palla di cannone. Finché rimaniamo qui, vorrei limitarmi soltanto alle manette: dalla mia cella per certo non puoi scappare. Disobbedisci e tornerai legato alla stregua d’un salame. Capito?”

“Non lo farò più”, gli promise il giovane con voce flebile e stanca, appoggiando la testa dolorante sul cuscino e socchiudendo gli occhi, molestato perfino dalla flebile luce della bugia.  “Grazie”, soggiunse dopo una piccola pausa, massaggiandosi i polsi liberi e graffiati dal morso del ferro.

Il Bua deglutì male e fallì per poco di strozzarsi, sbattendo incredulo le ciglia. Aveva udito bene? Quell’altezzoso, linguacciuto, testardo, pestifero, bastian-contrario d’un Hironimo Miani lo ringraziava e si comportava mite e remissivo peggio d’una pulzella all’altare?

Quanto forte aveva battuto la testa? Abbastanza, constatò il capitano, notando il crescente bozzolo giallastro incominciare a protendere dalla fronte rossastra. Colpa sua, avrebbe dovuto porre maggior attenzione: in fin dei conti, pur di fibra robusta, il veneziano non si trovava nella sua forma fisica migliore, naturale che adesso il suo corpo sopportasse meno gli strapazzi. Se continuava così, rischiava di lasciarci le penne prima che lui potesse persuadere la Serenissima Signoria a restituirgli sua moglie …

“Il mio bambino.”

“Uh?”

“Me l’hai giurato”, gli ricordò delicatamente Hironimo, sebbene le sue iridi nerissime tradissero una granitica tenacia. “M’hai giurato di riportarmelo.”

Mercurio, palesemente a disagio, s’alzò in piedi onde porre una debita e sicura distanza tra loro due: alle sferzanti battute e provocazioni del Miani sapeva benissimo come comportarsi, ma dinanzi a tutta quella caparbia dolcezza proprio no. Pregò trattarsi di un malessere momentaneo, destinato a passargli dopo una notte di buon riposo in un letto decente.

“Per favore … il mio puttino …”

“Smettila di farmi quegli occhi dolci: cosa speri d’ottenere?”, optò il Bua per la solita strategia, quella dello scherno. “Certo, se tu fossi una bella fanciulla avremmo anche potuto discuterne contrattando, ma considerato il tuo sesso, dubito tu abbia un granché da offrirmi in cambio!”

Massaggiandosi il bernoccolo, Hironimo non si scompose semmai allargò il sorriso. “Se sono ancora in vita, significa che io al contrario ho qualcosa da offrirti in cambio. Altrimenti, m’avresti ucciso e gettato nella Piave. O sbaglio?”

Ridacchiando sommessamente, Mercurio si sporse beffardo verso di lui, appoggiando le mani all’estremità del letto e così intrappolandolo in una gabbia di carne. “Ti giudichi di così alto valore?”, lo sfidò, grato di ritrovare un po’ di spirito nel  suo prigioniero: adesso lo riconosceva e meno male, stava rinsavendo! “Peccato di superbia, sier Hironimo”, gli soffiò sul viso umido.

Il patrizio reclinò all’indietro il capo, guardandolo sibillino dritto negli occhi. “Se non valgo nulla”, si nettò le labbra con la punta della lingua, “perché non mi riconsegni alla mia gente?”

Un insistente tambureggiare alla porta interruppe la replica del greco-albanese che, sbuffando, abbassò irritato il capo. “Che volete?”

“Sono io, capitano, Zilio”. Apertogli, il suo luogotenente si presentò sulla soglia in rispettosa attesa con Thomà penzoloni sottobraccio. “V’ho portato il moccioso e l’unguento. Tuttavia”, s’affrettò ad aggiungere assai apprensivo, “il monaco, cioè Fra’ Anselmo, vi sconsiglia di tenervelo presso: è ancora convalescente e sembrerebbe la febbre essergli risalita, sebbene in forma più leggera …”

In effetti, il fantolino possedeva un certo rossore da febbricitante, fortunatamente però lo sguardo appariva più lucido e presente rispetto alla crisi dei giorni passati. “Hai sentito?”, si rivolse Mercurio ad Hironimo, che per miracolo afferrò al volo il vasetto d’unguento lanciatogli dal condottiero. “Ordini di Fra’ Anselmo: la pulce qui per il momento non può stare. Non appena guarirà, te lo riprendi. Su”, esortò invece Thomà, appoggiato nel frattanto per terra, “vai a dare la buonanotte al tuo signor padre …”

Il bambino non se lo fece ripetere, scattando rapidissimo tra le braccia aperte del veneziano e il capitano di ventura avvertì una spiacevole stretta al cuore, oscillando tra il rimpianto e l’invidia: così correva la sua Marietta verso di lui, quando lui rientrava all’accampamento dalle sue perlustrazioni, contenta la pargoletta di riabbracciarlo vivo e in salute e d’arrampicarsi sul possente corpo del padre. Un groppone in gola gli si formò quando Hironimo pose la mano sopra la testolina del bambino prima a mo’ di benedizione, per poi levarla e fingere di sputare sopra la zazzera bionda, un piccolo incantesimo greco per scacciar via i demòni: Caterina lo eseguiva sempre al momento di coricare la loro bimba, similmente a sua madre quando lui e suo fratello Teodoro si svegliavano la notte preda degli incubi.  

A queste cose lui avrebbe dovuto assistere, non ricordare. Sua moglie e sua figlia vivevano, eppure per lui alla stregua di fantasmi.

“Capitano …?”

“Com’è la situazione là fuori?”, impedì Mercurio al suo sottoposto d’inquisire oltre, assumendo un’espressione di dura e distaccata professionalità. A che pro lagnarsi? Le lacrime non gli avrebbero restituito la sua Cate.

“La Palice ha riportato egregiamente l’ordine nel campo. Onde evitare di esser colti di nuovo di sorpresa, ha sensibilmente rafforzato i turni di guardia. Ha inoltre emanato una grida, nella quale si prevede l’impiccagione per ogni disertore o sobillatore.”

Non un granché come provvedimento, ma sempre meglio di niente. “I danni?”

“Difficile determinarli  con chiarezza in questo momento: troppa confusione, non riuscivamo a distinguerci tra di noi, figurarsi i nemici. Certamente molti dei nostri prigionieri sia all’Abbazia che al campo di sotto sono riusciti a fuggire: da una parte meglio – meno bocche da sfamare; dall’altra … addio riscatto! Quanto ai nostri cavalli, mancano soltanto quelli dei nostri compagni mandati in ricognizione dal maresciallo.”

“Efharistò para poli! Agios Georgios sia ringraziato, ogni tanto una buona notizia!”, si segnò tre volte il condottiero, baciando la medaglietta recante l’effige del suo santo protettore. “Quanti dei nostri ha inviato in perlustrazione?”

“All’incirca quaranta.”

“Tanti”, commentò Mercurio, grattandosi il mento. “Come mai?”

“Gradenigo deve aver scoperto che siamo qui accampati a Nervesa e ha mandato i suoi di stradioti ad infastidirci. Così, come se non ci bastassero i contadini del Montello, dobbiamo guardarci le spalle pure dai nostri compaesani!”

“Meglio la morte della pietà d’un Paleologo!”, sputò quasi Mercurio il nome dell’odiata famiglia rivale, la medesima contro la quale suo padre Pietro Bua Spata s’era scontrato in svariate occasioni durante la Rivolta di Morea. “Uhm … non ha senso … non capisco …”, scosse poi il capo, massaggiandosi frustrato le tempie. “I soldati urlavano: I Tedeschi c’assassinano! Io stesso li ho visti attaccare, le armi in pugno … corpo d’un diavolo, uno di questi ha perfino provato a sfilettarmi … Eppure! Eppure mentre i nostri alleati tentavano di sgozzarci nel sonno, qui si gridava contemporaneamente Ai Veneziani! … ”

Zilio fece spallucce, non sapendone più del suo capitano. “Ad ogni modo, il maresciallo vi prega di raggiungerlo domani per discutere sulle prossime strategie d’adottare.”

“Riferiscigli che non mancherò.”

“Buonanotte, capitano.”

Mercurio grugnì poco convinto. “Ah, tranquillo che non chiuderò occhio fino all’alba, non dopo quanto accaduto! Inoltre, come puoi ben vedere, ho già il letto occupato!” e indicò col pollice i due prigionieri, intenti in una fitta conversazione.

Al che il luogotenente arrossì, abbassando il capo vergognoso. “Mi dispiace, capitano, per prima. Non intendevo mancarvi di rispetto. È che non vi voglio sapere in pericolo, specie dopo Treviso …”

“Lo so e per questo non me la sono presa”, lo rassicurò benevolo il Bua e gli appoggiò da camerata la mano sulla sua spalla, sorridendogli sincero e orgoglioso. “Di te mi fido ciecamente, Zilio, non vorrei altra zagaglia accanto a me in guerra.”

Madalo s’impettì assai commosso, abbozzando ad un timido sorrisino ebete. “Capitano …”, soffiò impacciato, voltando la faccia verso il buio del corridoio prima che gli occhi gli s’inumidissero di lacrime di gioia: dopo sedici anni trascorsi a combattere fianco a fianco per mezza Italia, tale devozione la giudicava naturale e logica e ciononostante gli recava sempre piacere sentirsi così apprezzato dal suo comandante, da lui ammirato sin dal giorno in cui da Cattaro era approdato a Venezia per unirsi alla compagnia diretta a Fornovo. “L’onore è mio!”, sbrodolò goffamente.

“Puoi ritirarti, ci aggiorneremo domani dopo l’incontro col maresciallo La Palice”, tossicchiò Mercurio, realizzando con suo sommo disagio l’eccessiva dose di sentimentalismo alleggiante nell’aria. Tra lui, Zilio e il veneziano, di questo passo si sarebbero ritrovati in un battibaleno a filare la lana, spettegolando sugli amori delle vicine di casa. “Bene, messere, hai finito di sbaciucchiarti il pidocchio?”, apostrofò smielato il suo prigioniero che, terminato di schioccare due baci sulle gote del fantolino, glielo cedette arrendevole.

“Zò, pórtate ben cum Fra’ Anselmo”, l’ammonì dolcemente Hironimo a voce alta e Thomà, pur non capendo il motivo dietro la declamazione pubblica di quel consiglio,  sbiascicò comunque un timido sì, zampettando via furtivo dal Bua finché Zilio non lo risollevò da terra, riconducendolo di peso in infermeria alle solerti cure di Fra’ Anselmo.

“Gli vuoi davvero bene”, commentò malizioso Mercurio, assicurandosi di chiudere bene la porta e pure appoggiandovi contro una sedia reclinata. Rinfoderò la scimitarra abbandonata di fretta sul tavolo, levandosi l’elmo e passandosi una mano tra i capelli scompigliati.

“Come ogni padre ama suo figlio”, replicò soave Hironimo, applicandosi l’unguento sul gonfiore alla fronte e la stanza si riempì d’un fresco odore pungente, affatto sgradevole. “Scommetto che anche tu ami tua figlia”, gli ritorse contro l’osservazione e con tal candore, che se il greco-albanese non lo conoscesse, ci sarebbe pure cascato. “Maria, giusto?”

“Come lo sai?”, s’irrigidì immediatamente il capitano sulla difensiva.

Hironimo gli sorrise indulgente. “Non esistono segreti a Venezia”, gli confidò magnanimo, per poi sciogliersi in un’ambigua risata. “Mia cognata è greca e la mia famiglia è in affari da anni col protogero di San Biagio a Castello, là dove vivono la maggior parte dei Greci emigrati. Suppongo tu abbia avuto modo di conoscere il cavaliere Dimitri da Costantinopoli? È nostro parente, il padre della mia cognata”, lo tranquillizzò conciliante, pur non resistendo alla tentazione di lanciarli una rapida stilettata.

“Mi sono noti gli Spandounes … o Spandolin, come si fanno chiamare adesso. So che il cavaliere Dimitri è tributario del Signor Turco e conosco anche il cavaliere Matteo Spandolin da Loidoriki, grande condottiero al soldo della vostra Signoria e maritato ad una Cantacuzena, di famiglia regale. Mio padre aveva dei traffici con Loukas Spandounes, ricco commerciante di Tessalonica. Ancora mi ricordo della sua tomba ad Hagios Demetrios: splendida e imponente, di marmo, costruita e trasportata direttamente da Venezia ”, si rilassò Mercurio, constatata la conoscenza di sua figlia (e per associazione di sua moglie) solo tramite terzi. “Quanto alla tua previa domanda: sì, amo la mia Marietta e mai mi verrà imputata la colpa del contrario”, ammise l’uomo, sedendosi sulla fine del letto e appoggiando la schiena contro il muro. Subito Hironimo si scostò, portando le ginocchia sotto il mento, facendogli spazio. “Chi è la madre dello scricciolo?”, inquisì di punto in bianco. Non che gli importasse conoscere gli altarini del suo prigioniero, però rimanere svegli e in silenzio per il resto della notte si prospettava un’impresa assai noiosa.

“Non la conosci: una giovincella di Marostica”, mentì abilmente Hironimo, ripensando a Lena, la quale neanche a farlo apposto era bionda come Thomà. Tenendola ben presente davanti agli occhi avrebbe reso più convincente la bugia.

“E che ci facevi lì?”

“Mio fratello era podestà ed io l’ho accompagnato.”

Mercurio calcolò rapido l’età tra il moccioso e il patrizio. “E tua madre cos’ha commentato, quando sei tornato col fagotto?”

“Come nutro quattro bocche, posso nutrirne cinque.”

“Allora, perché il marmocchio parla con una calata quasi cadorina?”

“Sua madre proveniva da quelle bande.”

“E viveva a Marostica?”, piegò scettico il Bua la bocca.

Il giovane Miani lo fissò beffardamente pietoso. “Dietro Marostica s’ergono le prealpi vicentine, le quali da Lavarone fino al territorio dei Sette Comuni portano al principato di Trento o nei nostri domini di Folgaria e Rovereto attraverso le Piccole Dolomiti … Pensavo l’Imperatore t’avesse spiegato la geografia di base del territorio veneziano, quando t’ha comandato d’invaderci …”, gli spiegò cinguettando, mieloso. “Pensavo”, infierì, “che tu ti ricordassi dello Stato che t’ha accolto da orfano …”

Il greco-albanese avvicinò il viso al suo, squadrandolo bellicoso. “Non dimentico niente, io”, ribadì, sfidandolo a contraddirlo.

“Dove ti trovavi quando nacque la tua bimba?”, saltò di palo in frasca Hironimo, confondendolo. Appoggiò mollemente la schiena sul cuscino, mangiucchiandosi incurante una pellicina molesta, come se il velato avvertimento del condottiero non l’avesse scalfito.

Mercurio esitò parecchio prima di rispondere, valutando cosa dire e se ne valesse la pena. Non voleva dar troppa confidenza al veneziano, il quale tuttavia possedeva l’inspiegabile dono d’incuriosirlo al punto da trasformarsi in un inquisitore domenicano. “Nel Regno di Napoli”, rispose infine, “o quel che ne restava, visto che se lo contendevano Francia e Spagna come i cani con l’osso!” A Garigliano s’era quasi cagato addosso dalla paura di lasciare sole e indifese la figlia e la mo -…

Il Bua aggrottò la fronte, colto all’improvviso da un dubbio.

Adesso che ci ripensava a distanza d’anni e più oggettivamente, fu proprio dopo la nascita di Maria che la sua Cate aveva incominciato a remargli contro ad ogni occasione, ben ante l’improvvisa morte del suocero Nicolò Boccali, in una sfilza d’infiniti litigi in cui lei gli gridava dietro come l’accampamento non fosse il luogo per crescere una bambina, costringendola ad una vita nomade, in tenda, peggio d’un tartaro, tra la peggior feccia umana. Voleva ritornare dai genitori malgrado le insistenze del marito.

“Prima però servivi il Moro, giusto?”, lo costrinse Hironimo a ripiombare nel presente.

“Corretto”, confermò laconico il condottiero.

Il giovane patrizio si sporse verso di lui, due dita sotto il mento. “Perché hai deciso di combattere per il sovrano che t’ha sconfitto, umiliato, privato del tuo protettore e che ti ha costretto a sette settimane di prigionia nella fortezza di Castellar, nel marchesato di Saluzzo?”

Colpito e affondato, a Mercurio non rimase che incassare il colpo, non avendo affatto previsto quella domanda così scottante ed introdotta a tradimento, partendo da argomenti ad essa non pertinenti. “Perché?”, ripeté aggressivo, stringendo le labbra in una linea dura.

“Sì, perché non sei tornato dalla Signoria?”, non gli permise di respirare Hironimo, incalzandolo inclemente. “Il tuo dovere verso Ludovico Sforza l’avevi compiuto, perché servire il suo nemico?”

“Le mie decisioni non ti concernono”, si rifiutò il Bua di cedere, avvertendo il familiare pizzicore alle mani, ogniqualvolta il suo prigioniero apriva la bocca. Forse non s’atteggiava più da impavido e arrogante, però non era addolcendo il tono che gli rendeva meno mordace lo strale con cui si dilettava a ferirlo. Maledetto, voleva inculcargli i sensi di colpa, ora?

“Di sicuro, però, esse concernevano tua moglie …”

Un sonoro ceffone zittì Hironimo, riaprendogli la ferita sul labbro inferiore.

“Ciò che ho fatto non devo certo giustificarlo ad uno come te!”, l’afferrò il greco-albanese per il colletto della camicia. “Né mi garba il tono troppo confidenziale quando parli di mia moglie!”, sibilò minaccioso e lo spinse di malagrazia sul materasso, mollando la presa.

“Hai ragione, perdonami. Non parlerò più”, mormorò contrito il giovane Miani, leccando via il sangue dal taglio. S’accoccolò remissivo in posizione fetale sul fianco meno illividito, le palpebre d’un tratto pesanti e l’intero suo dolorante corpo voglioso di perdersi nella morbidezza di un letto finalmente da cristiani. “Buona ronda”, gli augurò sbadigliando a bocca larga; dopodiché, impastatolo e stringendo sornione il cuscino, s’addormentò di colpo, genuinamente sfinito dalla fame e i sussulti dei recenti avvenimenti.

“Eh? Senti, non mi farai mica l’offes- …”, s’interruppe bruscamente il Bua, rendendosi conto di come l’altro ormai ronchisasse serafico e incurante del mondo esterno, le spalle che s’abbassavano e s’alzavano regolari. Appariva talmente abbandonato al suo sonno, da competere con un morto e di fatti il respiro usciva flebilissimo dalle labbra secche, a malapena dischiuse. I capelli disordinati e impicciati si spandevano scomposti nel cuscino e le ciglia d’ugual colore cozzavano contro il pallore malsano del viso.

Mercurio schioccò annoiato le dita, tamburellandole sul ginocchio: ecco dunque che la sua principale distrazione e compagnia se la ronfava alla grossa, disertandolo all’ennesima notte solitaria. L’aveva chetato e invece di godere del suo trionfo si rammaricava d’aver perduto nuovamente la pazienza. E per cosa poi? Non aveva mica la coscienza sporca, lui! Le sue condotte le aveva guadagnate onestamente, così come i suoi titoli e gradi, ognora in prima fila a combattere e l’ultimo ad arretrare. Non aveva alcun debito nei confronti della Serenissima, nossignore, casomai l’incontrario, checché ne dicesse l’ex-castellano, quella peste di sua suocera e sua moglie. Sua moglie … Quel birbo malnato parlava di lei manco fossero amici di lunga data, decifrandone i pensieri meglio di quanto lui, suo marito, avesse potuto fare malgrado i lunghi anni di matrimonio … E se? Un anno da sola, senza uomini in casa … No, no Mercurio, no,  futili sospetti i tuoi! La sua Cate non apparteneva a quella risma di donne e a Venezia, lo riconosceva, nessuno badava mai agli affari propri e tutti sapevano di tutto.

Il condottiero si sistemò meglio contro il muro, piegando su una gamba sul letto. Spiò di sottecchi le prime sporgenze ossute da sotto una camicia ogni giorno sempre più larga. Basta tergiversare, indipendentemente dall’esito del consiglio di guerra tenuto l’indomani da La Palice, la sua decisione era presa.

Alla prima occasione avrebbe inviato un oratore alla Signoria, domandole chiaro e tondo lo scambio tra sua moglie Caterina Boccali Bua e il patrizio veneziano Hironimo Miani.

Maria invece sarebbe rimasta per il momento da sua nonna a Venezia, in attesa di vincere la guerra e di portarla con sé nel suo feudo di Soave: l’accampamento non era posto per bambini e su quel punto Mercurio Bua dovette riconoscere il suo sbaglio, rimpiangendo di non aver ascoltato attentamente  la giusta obiezione di sua moglie quando ne aveva avuto l’occasione.

 

***

 

 

Nelle poche ore di sonno concessegli a seguito dell’attacco notturno, Jacques de Chabannes de La Palice era arrivato alla conclusione d’aver indugiato a sufficienza nel monastero di Nervesa, in attesa che l’Imperatore rispondesse alle sue insistenti sollecitazioni di scendere in campo. Poi, vista vana l’attesa, e affatto desideroso di finire ucciso in trappola a guisa di un sorcio, aveva deciso di convocare i capitani francesi per un consiglio di guerra durante il quale aveva intenzione d’annunciarli la sua decisone di rimettere al Re di Francia il suo progetto di rimpatriare in Lombardia. Se Louis XII voleva che La Palice restasse, sarebbe restato; altrimenti, non avrebbe esitato a raggiungere il Duca di Foix-Nemours a Milano.

“Ho inviato una lettera a Notre Sire le Roi, in modo da informarlo dell’intollerabile situazione: l’autunno e la cattiva stagione sono pressoché alle porte; non abbiamo sufficienti cibo e munizioni; i nostri stessi alleati ci disertano e tentano di derubarci nel sonno. Vi pare accettabile ch’io debba ordinare ai nostri uomini di dormire coll’elmo in testa più per paura de les Allemands, che dei Vénitiens?”

Un diffuso mormorio di assenso si levò nella stanza. Le facce tirate e stanchissime per via del sonno interrotto e mai propriamente recuperato, i comandanti francesi avevano trascorso la mattina a riorganizzare il campo, ricostruendo laddove necessario e seppellendo i morti, i quali s’aggiungevano al numero giù cospicuo di quelli deceduti per febbri, fame e il Gran Morbo.

“Perché ieri notte siamo finiti a difenderci sia d’alemanni che da marciani?”, vociò infine Galeazzo Pallavicino il dubbio, ch’aveva roso ogni suo collega per il resto delle poche ore precedenti l’alba.

“Dio non voglia che quei debosciati d’Allemands abbiano a nostra insaputa cangiato bandiera”, ipotizzò monseigneur du Molard, incrociando al petto le braccia. “Questo spiegherebbe: uno, il silenzio assai incomprensibile dell’Empereur nonché la sua reticenza ad unirsi alle nostre truppe; due, quel loro vigliacco oltrepassare la Piave alla volta del Frioul. Più che una diserzione potrebbe corrispondere ad un rinculo per poi massacrarci con comodo più tardi. Magari s’erano previamente accordati con Venise: il nostro annientamento per la Patrie du Frioul.”

“No, impossibile”, smontò la sua tesi Teodoro Trivulzio, memore dell’atteggiamento presente e passato dell’Habsburg nei confronti della Repubblica. “La Sua Sacra Maestà Massimiliano odia troppo la Serenissima per abbassare le braghe in maniera così plateale e codarda, e la Signoria stessa preferirebbe bruciare personalmente ogni singola città friulana fino all’ultimo sparuto ammasso di casupole, piuttosto di cedere anche solo un fil d’erba all’altrettanto disprezzato Re dei Romani.”

“Senza contare che il Cesare Augusto non tradirebbe mai la fiducia del suo alleato più forte”, aggiunse il conte Gianfrancesco di Gambara, portandosi un fazzoletto alla bocca e tossendoci vigorosamente. Scusatosi, proseguì: “Sua Grazia il Re Ludovico, in caso di voltafaccia, di sicuro coglierebbe quest’occasione propizia per invadere i territori dell’Imperatore e questi lo sa e non azzarderebbe tale futile guerra per un magro guadagno quale la Patria del Friuli, non quando grazie all’aiuto del Re Cristianissimo ha la possibilità d’annettere all’Impero anche il Veneto.”

“Il Re dei Romani è un uomo d’onore, lo chiamano L’Ultimo Cavaliere per qualcosa, no?”, concluse Giulio Sanseverino. “Ha giurato di scendere a Treviso e così farà.”

Né La Palice né i monsignori du Molard e de Boissy si commossero dinanzi a tale appassionata difesa dell’Habsburg, seguitando nelle loro espressioni scocciate e diffidenti. Anzi, il capitano dei guasconi du Molard pure commentò assai sprezzante:

“Mon cher Saint-Séverin, parlate assai bene di chi v’ha assassinato il padre! Je suis vraiment étonné, mi stupite!”

“Mio padre, il conte Roberto Sanseverino d’Aragona, è caduto onorevolmente in guerra!”

“E la Sua Sacra Maestà ne celebra la morte nei suoi trionfi!”, sogghignò pieno di sufficienza il capitano francese, ridendo più forte al tentativo di schiaffeggiarlo da parte del Sanseverino, prontamente trattenuto da Galeazzo Pallavicino.

“Monseigneurs, vi prego di calmarvi, non ci troviamo in una bettola. Avete ragione, Saint-Séverin, l’Empereur sarà pure un uomo d’onore; nondimeno, i tanto onorati tedeschi ci assalgono alle spalle per cibo e munizioni, disertandoci al primo vento contrario”, ribatté severo il maresciallo francese, placando gli animi e ammonendo ambedue i contendenti con lo sguardo. “Sfortuna ha poi voluto, che proprio ieri notte i Vénitiens abbiano deciso d’assalirci, quando les Allemands alla stregua di ladri sgattaiolavano nel nostro accampamento, unendo le forze in un’accidentale ma infernale alleanza! I comandanti tedeschi tacciono davanti a tale insubordinazione e non prendono alcun provvedimento; sicché, ai nostri occhi, sono altrettanto codardi e traditori quanto i loro soldati, masnade cui bisogna affidarsi il meno possibile.”

Leka Busicchio scivolò dentro la stanza in punta dei piedi, avvicinandosi di soppiatto presso Mercurio Bua e sussurrandogli celere qualcosa all’orecchio, la quale sortì l’effetto di togliergli ogni rossore dalle guance.

“Brutte notizie, capitano?”, inquisì La Palice, non essendogli sfuggita quella scenetta. “Se non v’incomoda condividerle …”

Il greco-albanese arcuò il sopracciglio, affatto contento di quel paternalismo da tutore. “Dico soltanto, che mentre ci troviamo qui a discutere allegramente alla stregua di comari al focolare, i Veneziani ci hanno sottratto Castelfranco e i suoi rifornimenti”, esordì rapido e conciso, guardando in faccia ciascuno degli altri comandanti in modo che i concetti ben si fissassero nelle loro dure teste.

“Dico soltanto, che m’è appena giunta la nuova che trenta dei miei soldati inviati ieri in perlustrazione adesso si trovano a Treviso prigionieri” e adesso accusò tacitamente La Palice per aver disposto sì sconsideratamente dei suoi uomini, senza consultarlo, mandandoli allo sbaraglio dritto nelle fauci del nemico. “Dico soltanto, che siamo in trappola, circondati dagli stradioti dei Paleologi e dai contadini veneti. È soltanto questione di giorni, prima che Gradenigo organizzi un assalto mirato contro di noi e l’Abbazia, per quanto in posizione strategica, non è una fortezza. Quello di ieri notte era uno studio del territorio, come il serpente prende le misure prima di stritolare e ingoiare la sua preda”, e il condottiero fece una pausa d’effetto, bevendo compiaciuto l’ansia e agitazione creatasi tra i suoi colleghi, specie alla menzione della trappola, timore che da tempo nutrivano ma mai avevano osato definire a voce alta.

“Al che, due opzioni restano al lupo quando stretto in un cerchio di morte: o soccombere sotto le lance dei cacciatori, oppure sbranando aprirsi una via di fuga. D’ora in avanti, maresciallo, suggerirei di scortare i miei uomini e i vostri saccomanni con la cavalleria pesante, acciocché si possano difendere in caso d’agguato. Quanto ai contadini rintanati nel Montello, scoviamo loro e avremo di che rifornirci di biave e farina. Inoltre, suggerisco d’elargire una tal lezione a quei bifolchi ribelli, da farli ben capire chi sia il loro nuovo padrone!”

La Palice annuì soddisfatto, intimamente grato d’aver sempre al suo fianco quell’irriducibile capitano di ventura, sempre ottimista e intraprendente pur dinanzi a situazioni disgraziate. “In attesa della risposta di Notre Sire le Roi, manderemo un ambasciatore a Trévise chiedendo la resa incondizionata della città. In questo modo capiranno, che devono escogitare stratagemmi di ben altra natura per intimorirci e che nulla ci persuaderà a rinunciare all’impresa di conquistare la città”, terminò il suo discorso il maresciallo, congedando i capitani che ritornarono alle loro postazioni in attesa d’aggiornamenti. All’ultimo però trattenne il Bua, facendogli cenno di rimanere. “Come intendete esattamente liberarvi dei contadini?”

“I Conti di Collalto”, rispose sbrigativo Mercurio. “Sono nostri alleati, giusto? Che lo dimostrino descrivendoci zolla per zolla questo territorio, ogni fossa, ogni caverna, ogni antro che quei cenciosi possono usare come nascondiglio.”

“Proporrete ai Conti di consegnarci la loro stessa gente? Non la giudico una mossa onorevole.”

“Quando mai c’è gloria nelle guerre tra partigiani? Anche se nemici e divisi da ideali opposti, sempre di sangue civile e fraterno ci si macchia e questo i Collalto lo sapevano, quando si sono schierati dalla parte della Lega. ”

 

***

 

Nelle stinche di Treviso ferveva un viavai da formicaio, tra smistamenti dei nuovi prigionieri catturati la notte precedente; scambi di cella per impedire che s’accordassero sulle risposte in vista degli interrogatori; evacuazione dei posti lasciati liberi da coloro che nel frattanto avevano reso l’anima ed infine bonari ammonimenti dei carcerieri ai criminali locali, che dileggiavano strafottenti al limite dell’aggressione fisica i prigionieri franco-imperiali, degni emuli del cattivo ladrone. La processione di barelle trasportanti i cadaveri dei soldati era divenuta un rituale giornaliero, per la gioia dei becchini che s’erano visti aumentare la paga e tanto alacremente lavoravano, gettando calce viva sui corpi riversi in anonime fosse comuni, da non badare ai segni rossi sul collo di alcuni morti.

Ciascuna di queste operazioni era sorvegliata dall’occhio vigile del capitano delle prigioni, il quale in particolar modo stava attendendo l’esito dell’esame di paron Fortunato su di un pericoloso ribelle, Corneto da Cividal di Belluno, noto per essere “cossa medema” col commissario imperiale Jean d’Aubigny: dei villani di Castelnuovo lo avevano sorpreso e catturato mentre conduceva assieme a due suoi compari tre zattere trasportanti legname per costruire ponti, tavole che gli stessi s’erano premurati di sequestrare e nascondere a loro uso personale. Dopodiché, i contadini avevano condotto i tre traditori a Treviso. Il provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, ordinato di perquisirli, aveva trovato addosso al bellunese una lettera da La Palice, nella quale lo sollecitava a portar vittuarie per il campo, aggiungendo assai drammaticamente come si morisse di fame se non fosse stato per il soccorso di certe genti della bassa friulana. Insoddisfatti dalle vaghe risposte di Corneto sui contenuti della missiva, lo si era messo alla tortura onde carpirgli ulteriori informazioni e dettagli sulla sua missione, sul campo francese e sul governatore tedesco.

Il capitano aggrottò la fronte all’ennesimo urlo, mentre gli altri prigionieri nelle loro celle si stringevano tra di loro, temendo analoga sorte: invero paron Fortunato, il boia, si stava sbizzarrendo nella sua creatività. Il che significava soltanto una cosa, pensò amareggiato l’uomo: quel ribelle non avrebbe cantato tanto in fretta.

“Paron Fortunato!”

“Comandeu?”

“Pì forte cum i scasi di corda (tratti di corda, ndr.), no ghemo tuto el dì!”

“Servo vuostro, sior capitan!”

Contemporaneamente, a Palazzo, il podestà sier Andrea Donado “dalle Rose” e il provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo discutevano sul procedimento dei lavori alle mura assieme ai capitani Renzo di Ceri, Vitello Vitelli, Troilo Orsini e gli altri comandanti e patrizi veneziani. Altri argomenti sui quali ragionavano: l’imminente arrivo di Meleagro da Forlì coi 1500 cavalleggeri e del provveditore degli stradioti sier Ferigo Contarini; le ultime disposizioni della Signoria; i rifornimenti e pagamenti dei soldati; le missive ricevute dai provveditori di Padova sier Polo Capello e sier Christofal Moro e infine il rapporto di Alfonso del Mutolo e Costantino Paleologo, tornati assieme a molti prigionieri liberati dall’ultima vittoriosa sortita notturna. La vasta sala del Palazzo sembrava invasa dai tarli a causa del perenne e concitato scricchiolio delle penne degli scrivani, impegnati a scrivere punto per punto ogni lettera indirizzata ad altri podestà, capitani, provveditori, castellani o alla Signoria. Il tavolo stesso di sier Gradenigo era seppellito da carte e cartine, più non si scorgeva il legno sottostante.

“Se non v’incomoda, domino Thodaro”, si rivolse il provveditore al capitano greco Teodoro Paleologo, che da poco li aveva raggiunti a Palazzo, “per via della mancanza di alloggiamenti in città, la vostra compagnia di 200 stradioti verrà sistemata appena fuori Porta Santi Quaranta, nell’omonimo monastero, davanti al Tiveron, il quale è a sua volta protetto dal Sile e quindi da nessun lato vi potranno attaccare, anche se fuori le mura.”

“Da lì mi sarà più facile muovere i miei uomini in perlustrazioni e irruzioni nel campo nemico”, convenne il condottiero. “Mi sta bene come posto.”

“Ovviamente, in caso d’assedio, verrete immediatamente trasferiti in città. Non posso però garantire a ciascuno dei vostri una stanza …”

“Non vi preoccupate: noialtri oramai siamo abituati a far quasi tutto in groppa a cavallo, dormire e mangiare in primis”, scherzò Paleologo, contagiando gli altri capitani lì presenti in un risata liberatoria per sdrammatizzare l’aria tesa degli ultimi giorni.

“Monsignore de la Palisse ci ha inviato una lettera molto insolente”, aggiornò poi sier Zuam Paulo gli astanti, sorridendo feroce. “Anzi neppure a noi, bensì al popolo di Treviso che descrive oppresso e infelice sotto il giogo di Venezia, offrendogli giustamente la libertà sottomettendosi a quello imperiale. Sostiene che se porterà morte e distruzione nella Marca, sarà per colpa nostra che orgogliosamente rifiutiamo di arrenderci, consegnandoci alla volontà del Re dei Romani, e non del popolo indifeso che null’altro desidera se non esser dominato da un sovrano straniero. Loda la magnanimità dell’Imperatore il quale tanto s’è preso a cuore la sorte dei Trevigiani, che impiegherà ogni mezzo bellico per raggiungere questo suo scopo, bruciando, saccheggiando e massacrando a destra e a manca, ma risparmierà i beni e la vita del povero oppresso popolo trevigiano soltanto quando noi ci saremo piegati, rinsavendo a più miti consigli”, parafrasò l’uomo in un sarcastico riassunto la missiva del maresciallo francese, fissandola schifato sulla sua scrivania, manco l’avessero spalmata d’escrementi.

“A me par de scoltar mea mojer co’ la brusa el rosto (arrosto, ndr.), disendome che no xé ela che nol save cusinar, ma jo che la gh’ho fata ràbiar”, commentò sottovoce Marco Miani al suo compagno di ronda, sier Alvixe da Canal, il quale soffocò a malapena un grugnito divertito.  

“E’ una mia impressione o questi contenuti mi suonano famigliari?”, chiese Vitello Vitelli, soffocando un colpo di tosse all’interno dell’avambraccio.

“Sì, ha praticamente scopiazzato la lettera dell’Imperatore, quella dello scorso agosto ai cittadini di Venezia. I francesi non hanno fama di gente originale”, gli confermò Renzo di Ceri. “Quella che invece mi piacerebbe leggere, è la missiva inviata al Re di Francia.”

Il suo parente Orsini annuì. “La Palisse sta temporeggiando: questa richiesta di resa incondizionata è una presa per i fondelli, anche perché sa benissimo dove gli ficcherebbero i Trevigiani la magnanimità dell’Imperatore.”

“Nondimeno, dimostra che non l’abbiamo a sufficienza scoraggiato”, puntualizzò sier Lunardo Zustignan. “I Tedeschi hanno attraversato la Piave e si stanno dirigendo verso la Patria del Friuli, là dove i sentimenti verso la Signoria sono assai più ambigui che nella Marca. Non possiamo escludere che trovino supporto tra i nobili feudatari strumieri, fornendoli quest’ultimi cibo e munizioni, se non proprio aprendo loro le porte delle città friulane!”

“Pensavo che domino Antonio Savorgnan avesse sterminato quei ratti filo-imperiali!”, esclamò perplesso Costantino Paleologo, gli echi della rivolta del “Crudel Zobia Grassa” giunti ad ogni orecchio della Terraferma.

“Gli stronzi, kyrie Konstantinos, galleggiano sempre”, gli spiegò lapidario in greco Marco Miani e il Paleologo non poté non trovarsi d’accordo, associando tale massima alle sue esperienze di vita. “Sier provedador Zuam Paulo”, proseguì il patrizio, “se posso condividere una mia opinione. La Peliza sta procrastinando un attacco che lui non vorrebbe scagliare, ma che dall’alto vogliono a tutti i costi. Lo vuole l’Imperatore, perché della conquista di Trevixo ne ha fatto una questione personale e non riterrà vendicato il suo “onore” finché non avrà raso al suolo la città e massacrato la sua gente. Lo vuole il Re Ludovico, perché tramite il saccheggio spera di risarcirsi di ogni ducato spento per Maximiano, ducati che non rivedrà mai restituiti dal suo alleato. La Peliza al contrario non vorrebbe, ma per gli interessi dei suoi padroni verrà qui a Trevixo, ergo ogni sua dichiarazione d’imminente rimpatrio in Lombardia va scartato senza tanti indugi.

“In secondo luogo, a mio parere, i Tedeschi hanno invaso la Patria del Friuli, certo, ma non per scappare o svernare in attesa degli ordini dall’Imperatore bensì per prendere quanto necessario all’assedio e poi ritornare indietro meglio forniti di com’erano all’inizio, ricongiungendosi coi Francesi. La fazione filo-imperiale degli strumieri nella Patria è tutt’altro che scomparsa, non scordiamoci che il destituito Patriarcato d’Aquileia sempre è stato sotto l’influenza tedesca, chiamando nobili dalla Carnia e dall’Austria per meglio amministrare quelle sue terre. Fossi in voi, io non confiderei in un’accanita resistenza all’invasione del Friuli, specialmente adesso che i casi di peste sono aumentati e la gente fiaccata dalla Zobia Grassa.

“Avete letto come perfino domino Antonio Savorgnan abbia abbandonato Sazil. Adesso io non voglio contestare l’intensa fiducia che la Signoria ripone in lui, tuttavia non mi pare questo l’atteggiamento di chi è disposto a difendere ad ogni costo le sue roccaforti e città.”

“Sospettate in un suo probabile voltafaccia?”, domandò incredulo sier Andrea Donado, lanciando un’occhiata ansiosa al provveditore e al resto dei patrizi veneziani lì presenti. “Ma … ma domino Savorgnan e il suo casato da più d’un secolo sono stati nostri alleati, i capi storici della fazione zambarlana per di più!”

“Sempre un nobile di Terraferma rimane”, spezzò sier Alvixe da Canal una lancia in favore di Marco. “Ed i loro interessi non hanno mai coinciso coi nostri, s’è visto in quest’ultimi due anni come i vari conti di terra si siano inchinati servili a Francia e Impero, loro che tanto si proclamavano boni marcheschi!”

“Domino Antonio ha abbandonato Sacile poiché a corto di uomini e artiglieria”, ricordò Renzi di Ceri al Miani, “non molto cavalleresco, vero, però la prudenza non è una colpa né una prova di tradimento. Ritirandosi ad Udine avrà più possibilità di difendere la Patria. Alla fine, parliamo di città di confine, di poco valore strategico se comparate ad Udine.”

“Evidentemente, il Savorgnan voleva anche evitare la triste fine di vostro fratello”, aggiunse Troilo Orsini, provocando un bellicoso digrigno di denti nel veneziano.

“Mio fratello ha compiuto il suo dovere e senza i vostri sofismi da mercenari”, berciò quegli astioso, gli occhi nerissimi saettanti di tal collera che l’Orsini inconsciamente indietreggiò di qualche passo, memore della zuffa del Miani col Batagin Bataja e della testa di quest’ultimo sbattuta sul piatto. “Sono orgoglioso di lui, di come s’è comportato. Avesse abbandonato Castelnuovo di Quero o peggio, avesse offerto la sua dedizione all’Imperatore, tradendo la sua famiglia e la Signoria, Dio m’è testimone che con queste mani l’avrei ucciso!” e il tono di voce implacabile e l’espressione tremenda sul viso accigliato rivelarono tanta verità nelle sue parole, da ammutolire i presenti.

Calmatosi e riprendendo fiato, Marco contro-argomentò pieno di focosa determinatezza  l’affermazione di Renzo Orsini: “Capitano, non fraintendetemi, mi trovate d’accordissimo con voi e comprendo bene il ragionamento tattico del Savorgnan. Ciononostante vi rammento, che è lunga e perigliosa la strada da Sacile fino ad Udine, soprattutto quando i Conti di Porcia, Polcenigo e Spilimbergo chiaramente appoggiano l’Imperatore e potrebbero sbarrargli il cammino durante la ritirata, colpendolo sul fianco. E v’assicuro che un uomo messo alle strette è capace di rinnegare qualsiasi cosa, dall’onore alla fede, pur di salvarsi la vita!”

“Cosa proponete, sier Marco?”, lo sollecitò dunque sier Lunardo Zustignan, decisamente persuaso dalle argomentazioni del concittadino.

“Avevo sei anni quando il Duca d’Austria invase i nostri confini, puntando alla conquista di Feltre. Di quegli eventi serbo ricordi confusi tranne uno, ossia quando mio padre sier Anzolo Miani, consultandosi con domino Guido de’ Rossi, gli disse: Dobbiamo sempre pensare allo scenario peggiore mentre pianifichiamo, per non lasciarci cogliere impreparati dal nemico. Qual è il nostro scenario peggiore? La caduta della Patria del Friuli, il tradimento del Savorgnan e dei nobili locali, il ricongiungimento delle truppe francesi e tedesche, la diffusione della peste. Se vogliamo organizzare una degna difesa di Treviso, dobbiamo farlo tenendo a mente tutte queste possibilità.”

Sier Zuam Paulo Gradenigo s’alzò dalla sedia, appoggiando i pugni sul tavolo. “Avete ragione sier Marco”, concordò, raggruppando le carte e sistemandole ordinatamente su di un lato, pronte per essere raccolte nei loro quaderni e fascicoli o distribuite ai corrieri. “La Signoria è fiduciosa a riguardo ma io no: la Patria del Friuli è condannata, un moribondo in attesa dell’estrema unzione. Avete udito i capitoli: Treviso si comporterà come se già fosse sotto assedio, Nervesa non dista poi così lontana da noi. Continueremo con le incursioni notturne per fiaccare lo spirito del nemico, per impedirgli di spiare la costruzione delle nostre mura e per liberare quanti più dei loro prigionieri”, e scoccò un’occhiata significativa a Marco.

“La Palisse non attaccherà prima d’aver ricevuto una risposta dal Re di Francia e soprattutto d’essersi ricongiunto con le truppe imperiali”, ragionò a voce alta Vitello Vitelli, “questo ci comprerà due o tre settimane di tempo per preparaci, se i timori di messer Marco dovessero rivelarsi fondati e la Patria del Friuli non dovesse opporre resistenza agli imperiali.”

“Per allora avremo completato per certo i lavori alle mura”, concluse ottimista Troilo Orsini.

“Troppo tempo, troppo tardi”, lo contraddisse invece sier Zuam Paulo. “Dobbiamo darli un’accelerata”, e rivolgendosi al podestà sier Andrea Donado: “Con vostra buona licenza, vorrei emanare una grida nella quale ogni abitante di Trevixo, uomo o donna, che possa tenere una vanga in mano e spingere una carriola o trasportare una barella venga a lavorare alle mura. Ovviamente, questo provvedimento includerà anche noialtri. Entro due al massimo tre giorni, Trevixo avrà le sue cinta murarie terminate e pronte ad affrontare l’assalto nemico.”

“Ma è impossibile!”, esclamò scettico Renzo di Ceri.

“Appunto!”, reiterò Gradenigo, sogghignando malevolo. “Perché questi sono gli esatti pensieri dei Collegati: poiché giudicano impossibile quest’impresa, noi la compiremo! Poiché giudicano impossibile che la Francia e l’Impero possano perdere contro una città politicamente insignificante come Treviso, noi li sconfiggeremo, umiliandoli e spedendoli piangenti dalle loro madri! Poiché grazie alle titubanze del La Peliza e all’avidità dei Tedeschi, noi possediamo sufficiente tempo e mezzi non solo per costruire la miglior città-fortezza alla moderna d’Italia, ma anche per poter predisporre a nostro piacimento il terreno su cui combatteranno. Le dinamiche della battaglia le sceglieremo noi e faremo ballare questi barbari alla nostra musica!”

“Ci vorranno turni di giorno e di notte, senza sosta né riposo. Se non c’ammazzano i Collegati, c’ammazzerà la fatica.”

“Ci riposeremo in saecula saeculorum nell’Aldilà, capitano Lorenzo Orsini degli Anguillara.”

Il nobile laziale scosse il capo, eppure gli angoli della bocca s’erano piegato all’insù in un sorrisetto complice.

“Sior Provedador, zelenza”, si presentò all’improvviso il capitano delle prigioni, recante un pezzo di carta prontamente ceduto al patrizio, “la confexion dil rebello, el qual ghemo tormentà fin desso.”

Gradenigo lesse a voce alta il resoconto dell’interrogatorio: “El citadin Corneto da Cividal no confessa gnente, salvo che portava le zatre, per comandamento di el governador todesco, fino a Narvesa per voler far ponte per passar la Piave. – Tutto qui?”

“Non accenna minimamente alla lettera di La Palisse né alle condizioni del campo francese”, schioccò la lingua deluso Renzi di Ceri.

“Né tantomeno chi nella bassa friulana e nella Marca sta foraggiando i franco-imperiali”, precisò Vitello Vitelli, che poi era proprio quella l’informazione per la quale avevano torturato per ore il ribelle bellunese.

“Insistemo, sior provedador?”, si propose solerte il capitano delle prigioni.

Sier Zuam Paulo Gradenigo negò in un nervoso svolazzo della mano. Invece, si portò accanto ad uno scrivano, domandandogli se avesse terminato la lettera destinata alla Signoria. Incuriositi da quel tono complice e quell’aria di mistero, subiti i presenti lo spronarono a condividerne i contenuti.

Il provveditore li accontentò, svelandoli l’arcano: “Si tratta dei resoconti di quanto visto e udito dai nostri prigionieri scappati dal campo nemico. Questo punto specialmente è importante, ascoltate bene: Rebelli trevisani che sono guide de’ nemici: Bortholamio Sforza; Hironimo de Martegnago dito Barbon; Sydro e Franceschin da Martegnago, sòo fradeli; Domenego di Inselmi, el conte Carlo di San Bonifazio, veronese, grandissimo rebello, el qual perhò è sta morto in campo.

“Ville di là di la Piave, che danno vituarie a li inimici: Voladina; Quia; Quieto; San Stefano; Val de Marin; Vidor; Barboza; Fontino et La Piove de Soligo.

“Noterete che sì, questo ribelle bellunese ha coraggiosamente affrontato la tortura e sfidato il dolore pur di non venderci i suoi complici, peccato l’abbia fatto per niente ché nulla sfugge all’Occhio Destro della Signoria. Ricordate bene i nomi, specie voi capitani degli stradioti: una pingue ricompensa aspetta chi riuscirà a catturare questa feccia ghibellina. Quanto alle città ribelli, ad assedio terminato esse saranno le prime a venir mondate nel sangue dal loro peccato.”

“Morire per mano nostra o per mano dei franco-imperiali … Vi pare una scelta proponibile?”, mormorò amaro Troilo Orsini.

“Morire da traditori o da nostri partigiani, ecco la loro scelta”, lo corresse sier Lunardo Zustignan.  “Che ne facciamo del bellunese?”, s’informò.

Gradenigo chiuse la lettera destinata alla Signoria, imprimendo il suo sigillo sulla cera bollente. “Processatelo e poi impiccatelo. E che il suo corpo sia ben visibile a tutta Trevixo, acciocché si sappia qui come nella Marca quale destino attende chi tradisce la Serenissima Signoria.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Il termine “partigiano” esisteva anche all’epoca, sebbene oramai sia più comunemente associato alla Seconda Guerra Mondiale e non indicava necessariamente chi in gruppi armati resisteva all’invasione nemica, piuttosto gli agguerriti sostenitori di una determinata fazione. Nel caso della nostra storia, i filo-imperiali (e per associazione, francesi) e filo-veneziani.

Al povero de La Palice non gliene va mai bene una, per adesso, ed effettivamente se non fosse stato per l’inesauribile spirito d’iniziativa di Mercurio Bua, credo che sul serio se ne sarebbe ritornato a Milano, alla faccia dell’Orléans e di Massimiliano! XD Con tutto rispetto, aveva appresso un branco o d’ammalati o d’incapaci o d’approfittatori vigliacchi. Altro che armata franco-imperiale, piuttosto di Brancaleone!

Il Nostro come sempre sballottato di qua e di là, a capriccio del Bua, non riesce mai ad aver un attimo di tregua!

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] Uomo morto non fa guerra = versione veneziana del “Mortui non mordent” (I morti non mordono) di Plutarco e pronunciata a seguito della cattura di Francesco Novello da Carrara, il quale appunto venne condannato a morte assieme ai suoi eredi maschi con la lapidaria sentenza “omo morto no' fa guerra”, onde sottolineare la decisione di Venezia di finirla una volta per tutte coi rivali Carraresi per il dominio sul Veneto.

[2] Sofì = così si chiamava all’epoca lo Shah di Persia.  

[3] più delicato delle tette di una monaca = modo deliziosamente veneziano per indicare una persona di fisico e salute fiacca, cagionevole. Sarebbe interessante capire il ragionamento dietro …



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Capitolo 24
*** Capitolo Ventiduesimo: 18-19 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 15.10.2021

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Capitolo Ventiduesimo 

18-19 settembre 1511

 

 

 

 

Michele da Brisighella s’appiattì per terra, sfruttando il fitto reticolo di felci e cespugli nonché il dislivello del terreno, che creava conche perfette da cui osservare la strada maestra sottostante. Con la coda dell’occhio controllò le postazioni dei suoi compagni esploratori e degli stradioti veneziani, anch’essi camuffatisi nella fitta vegetazione di roveri e farnie, in attesa che l’eco lontano di voci e di ruote di carri si materializzasse dinanzi a loro.

“I tuoi compaesani affermavano il vero”, sussurrò a Cabriel, steso sul fianco accanto a lui. “Ecco da dove si fanno arrivare i viveri: non più da ovest, bensì da est, al di là della Piave!”

Il giovane soldato terminò di caricare la balestra a leva. “Noi siamo sempre sinceri coi nostri alleati, siete voi i malfidati opportunisti e bugiardi”, replicò secco.

Contrariamente all’altra squadra rientrata a Treviso a seguito dell’assalto al campo nemico, la sua era rimasta al Montello onde controllare gli spostamenti dei franco-imperiali e continuare nelle azioni di disturbo. Cabriel, memore delle indicazioni di Malgari e di suo padre Nane, aveva proposto di mettersi in contatto coi contadini rintanati nelle grotte, così da poter meglio coordinare l’assalto ai rifornimenti e muoversi agilmente nell’intricato bosco. Infatti, giravano voci che, pur rimanendo sprovvisti in gran parte, comunque delle vittuarie stavano lentamente giungendo all’accampamento e ciò aveva agitato non poco i loro capitani, che scalpitavano d’apprendere maggiori dettagli a riguardo. Quella mattina, poi, alcuni dei villani erano spariti, così come le provviste e i marciani invero brancolavano nel buio, scombussolati da tal novità.

“Ho combattuto molte guerre e assistito a troppi tradimenti per fidarmi di chicchessia”, si giustificò altero Michele, pur arrossendogli le orecchie quanto la sua casacca e il palvese dietro alla schiena, metà rossi e metà bianchi. “Scusami se voglio riportare la mia pellaccia da mia moglie!”

“Non è mai stata per te una faccenda personale, la guerra?”

“E’ il mio mestiere. Ho servito sotto i Manfredi, poi per il signor capitano Dionigi Naldi [1] e quest’anno mi ritrovo col signor capitano Vitello Vitelli. Finché mi pagano e mia moglie e i miei figli mangiano, a me basta.”

“Il tuo mestiere … bah, non il mio”, replicò cupo Cabriel, appoggiando la balestra e calibrando la mira. “Non sono mai stato balestriere. Qua io non ci ho guadagnato niente, tranne quella ragazza che ho aiutato a scappare e che ora mi aspetta. Ero ceramista, sai? Creavo oggetti utili e belli per la gioia dei miei concittadini e dei mercanti, non ero artista di morte. Ma i Collegati hanno distrutto la mia città, massacrandomi uno alla volta tutti i miei familiari. A Castelnuovo ho perso i miei ultimi fratelli … Non ho voluto io questa guerra, ci sono stato trascinato dentro e pertanto, finché avrò vita, darò tutto me stesso per aiutare la Signoria a vincerla, per punire questi scellerati assassini.”

Un sorriso amaro si dipinse sul volto del brisighellese. “Ecco perché voi sopravvivrete a questa tempesta, mentre noialtri siamo crollati”, commentò, sistemando la sua balestra e lo scudo. “Silenzio! Ecco qua i nostri galli.

Era indubbio che si trattassero di carri di rifornimenti, tuttavia ciò che sorprese i due soldati furono alcuni aspetti a loro completamente nuovi: primo, non s’attendevano un sì gran numero di mezzi, impossibile che provenissero ciascuno dai villaggi immediatamente dopo la Piave. Secondo, soldati armati, addirittura Michele ne riconobbe qualcuno della scorta personale di La Palice e i lancieri dovevano invece appartenere alla compagnia di Giulio Sanseverino. Non saccomanni o stradioti, vera e propria cavalleria da sfondamento. Avevano mangiato la foglia e s’erano preparati di conseguenza.

Eh, merda.

“Che facciamo? Li lasciamo andare?”

“Manco per sogno”, scosse il capo Michele, dando il segnale ai suoi compari e agli stradioti nascosti dall’altra parte del sentiero. “Voglio proprio scoprire da dove si riforniscono ‘sti stronzi!”

Il sibilo di una freccia fendette l’aria, interrompendo il ritmico cigolio delle ruote e dello scalpitio dei cavalli. Il sordo gemito del cavaliere colpito alla gola e il tonfo del suo corpo caduto da cavallo scatenarono l’immediata e rumorosa reazione nei francesi, i quali si raggrupparono d’istinto attorno ai preziosissimi carri, berciando ordini di caricare le loro balestre e tenere spade e zagaglie pronte all’assalto.

Una seconda freccia saettò dal buio del bosco, colpendo un soldato più lontano dal primo ucciso. Una terza la seguì, in apparenza a caso, impedendo ai francesi di capire esattamente dove si nascondesse il balestriere e in quanti fossero.

All’improvviso gli stradioti veneziani li caricarono sullo stesso lato, evitando però di avvicinarsi troppo ai carri e limitandosi a cozzare le loro zagaglie contro le picche nemiche, scansandosi rapidissimi così da non fornire un bersaglio fisso ai balestrieri nemici e tenendo i lancieri e i gendarmi [2] focalizzati su di loro. Ché infatti, senza rendersene conto, i francesi avevano dato gradualmente le spalle a Michele e alla sua compagnia: in quell’istante, al segnale del brisighellese presero a piovere frecce dal loro lato sicché i nemici, cadendo come anatre in volo, si voltarono di scatto dall’altra parte  e di ciò ne approfittarono subito gli stradioti, stavolta ingaggiando serrata battaglia e nulla poté più di tanto la cavalleria pesante, costretta a muoversi in spazi sempre più ristretti ed insidiata dai cavalleggeri e i fanti a piedi. Assediati da ambedue i lati, i cisalpini si strinsero l’uno all’altro nella speranza di resistere alla spinta veneziana, ma la pressione fu troppa e non li rimase altra soluzione se non arrendersi.

Mentre i loro colleghi tenevano i prigionieri allineati e sotto tiro, alcuni soldati marciani balzarono agili sui carri, scoprendo i contenuti dei barili e casse e fischiando in apprezzamento: vino, farina, biave, carne essiccata, perfino qualche munizione. Gli stradioti invece si disputavano i cavalli dei francesi, contrattandoli animatamente tra insulti, innocue minacce e gioviali pacche sulla schiena.

“Questa roba non può venire unicamente dalla Marca”, borbottò Cabriel, osservando pensoso il bendiddio ai suoi piedi. “Quasi tutto o se lo sono portati via i contadini o è finito a Treviso oppure è stato distrutto. A meno che …!” e il viso gli si colorì dalla collera, immaginando il modo mediante il quale i francesi s’erano procurati i rifornimenti.

“Le munizioni vengono dalla Patria”, commentò un altro balestriere. “Riconosco il marchio sui barili.”

Michele si morse l’unghia del pollice, i suoi peggiori timori confermati. “L’invasione della Patria del Friuli sta dando i suoi frutti e per di più hanno scoperto dove i contadini nascondono i loro viveri!” e una frustrata imprecazione gli gorgogliò in bocca. “Non abbiamo spazio sufficiente nelle stinche né vogliamo sprecar cibo per sfamare ‘sti pezzenti”, si rivolse perentorio ai suoi sottoposti, intanto che prendeva posto alla guida di uno dei carri, raccogliendo le redini degli agitati cavalli. “Denudate questi cani di ogni loro bene, che ritornino dal La Palissa in mutande! Sono certo che si sapranno benissimo difendere dai contadini ch’hanno appena derubato!”, aggiunse pieno di perverso gusto, abbandonandoli alla giustizia dei villani gabbati. Oh beh, a Michele del loro codice militaresco e d’onore non gliene fregava un granché, così come della sorte di quei bastardi e arroganti invasori. Il discorso di Cabriel gli aveva risvegliato in petto una rabbia antica, sentendosi dopo anni di cinico e disilluso servizio quasi patriottico.

“Questo qua lo conosco!”, esclamò di punto in bianco Teodoro Madalo, della compagnia di Manoli Clada.

“Chi?”, fece confuso Michele.

Lo stradiota gli indicò un francese seminudo e seminascosti tra i suoi compagni. “Quand’ero prigioniero a Montebelluna, l’ho visto andarsene a zonzo assieme al cuoco de La Palissa. Da come parlottavano fitto-fitto tra di loro, dovevano essere amici assai intimi. Può darsi che sappia qualcosa sulla provenienza di questa miracolosa carovana. Si sa, i cuochi son tutti dei gran pettegoli.”

Il brisighellese si ritrovò d’accordissimo e Cabriel scese dal carro con una corda, staccando l’interdetto e spaventato francese dal gruppo e, legatolo, lo issò di peso tra i barili di vino.

Il resto dei prigionieri, ora liberati, veniva invece pungolato dalle picche a camminare scalzi e in camicia lungo il sentiero, in direzione opposta alla loro.

“Porgete i nostri saluti al generalissimo!”, gridò loro Michele, strafottente. “Ditegli che non si crucci se stasera non cenerà. Ditegli che avete già mangiato abbastanza sulle spalle dell’Italia e che un po’ di digiuno non v’ammazzerà di certo!”

 

***

 

Fra’ Anselmo chiuse gli occhi al soldato e incrociò le sue braccia al petto. Due oblati, solleciti e intuitivi, sollevarono il lenzuolo su cui giaceva e lo sollevarono di peso in modo da trasportarlo al camposanto improvvisato ai piedi dell’Abbazia. Il padre confessore, dal canto suo, terminò le sue preghiere e benedisse il cadavere, il volto ancora verde da quel poco che aveva udito della sua ultima confessione. Il benedettino indovinava quanto fosse costato, sul piano personale, al confratello elargire l’assoluzione al soldato: non aveva osato origliare, tuttavia alla fine della fiera i racconti di quei moribondi s’assomigliavano più o meno tutti quanti, macabri resoconti di ogni abiezione umana immaginabile. Più conosceva gli uomini, più provava rispetto per gli animali, anche per quei lunghi serpenti arrampicatori e strangolatori che popolavano il Montello.

Il monaco appoggiò solidale la mano sulla spalla del confessore, confortandolo che ormai il loro dovere era compiuto, quell’anima adesso si trovava nel tribunale di San Pietro e di San Michele Arcangelo, i quali avrebbero certamente saputo valutarla meglio di loro. L’altro benedettino scrollò le spalle, preferendo osservate il novizio che, dopo aver gettato della calce, preparava il letto con lenzuola pulite per il suo prossimo sfortunato inquilino.

Siccome la febbre non mieteva abbastanza vittime tra i francesi, l’assalto notturno aveva riempito l’infermeria fino a costringere i monaci a stendere per terra i feriti su tavole di legno improvvisate a letti. Almeno, le loro erano state morti o guarigioni piuttosto veloci, non una lenta e incerta agonia.

Via, a che pro lamentarsi? Al lavoro, si spronò il benedettino, scostando la tenda che lo separava dal prossimo ammalato, onde controllare eventuali segni o di miglioramento o di ricaduta ed aiutare il suo paziente a mangiare la magra colazione.

Peccato, che detto pasto fosse in procinto d’esser svuotato da un Thomà colto in flagrante degustazione.

“Sarai pure un Attila!”, lo rimproverò aspramente Fra’ Anselmo, ghermendo il bambino per un orecchio, sebbene tale trattamento non sortì l’effetto di persuaderlo a mollare la presa dal piatto. E pensare che il benedettino, pur di curare l’ammalato, si privava del già poco cibo rimasto!

“Attilio te sarà ti, vecio bacuco, mi me ciamo Thomà!”, ribatté stizzito il fantolino, ficcandosi impunito in bocca quanto più pane e formaggio riuscisse, dimostrando una flessuosità d’esofago paragonabile a quella di un serpente.

“Rubi il cibo agli ammalati? Sei proprio senza Dio e Madonne, eh?”

“Xéi franzosi mica christiani, no xé pecà!”

“Cossa? Ma io ti …!” e a quale punizione l’indignato religioso volesse sottoporre Thomà – neanche a lui garbavano i francesi, però levare il pane di bocca agli ammalati era una scortesia davvero poco cristiana – il piccino non ebbe modo di scoprirlo, ché l’imponente figura di Mercurio Bua irrompeva in infermeria, cercando convulsamente un letto vuoto e al contempo un monaco disponibile ad assisterlo.

Abbandonando la sua presa all’orecchio, Fra’ Anselmo si diresse verso il condottiero, indicandogli di seguirlo al letto appena sgomberato. Si morse l’interno della guancia alla vista del patrizio veneziano pallido come un morto, tremante convulsamente e le labbra secche, gli angoli lordi dei residui giallastri di vomito.

Senza proferire parola il monaco s’attivò subito in una celere diagnosi, aprendogli le palpebre, controllandogli attento dentro la bocca, ai lati del collo, sulla gola, le ascelle e l’inguine. Storcendo il naso, gli levò la camicia sporca di dosso, lasciandola cadere per terra e ripromettendosi di bruciarla alla prima occasione. Passò lievemente la mano sulle gambe e sul petto ricoperti di graffi e tagli, di ecchimosi ora rosse, ora gialle ora viola; scorse in particolare il dito sulla ferita crostosa al fianco, arrossata. 

“L’ho … l’ho tro-trovato così … pensavo … pensavo stesse ancora dormendo, poi è … è caduto dal letto e …  e …”, tartagliava nel frattempo Mercurio, cambiando esagitato peso da una gamba all’altra e sarebbe stato interessante sapere quale delle due prospettive lo terrorizzasse di più, se perdere il suo prezioso ostaggio o la possibilità di crepare di peste tramite lui.

Siccome Fra’ Anselmo non apparteneva alla categoria degli infami, su quel punto ci tenne a rassicurarlo: “Non è il morbo, credo una brutta febbre e forse un raffreddamento di stomaco … Ha avuto il flusso?”

Il Bua lo fissò stralunato e un poco offeso: per chi lo prendeva, per una balia che controllava l’attività defecatoria del suo puttino? Brevemente, gli spiegò invece la faccenda: il giorno dopo l’assalto all’Abbazia il suo prigioniero se n’era stato tranquillo nella sua cella – il greco-albanese gli aveva lasciato perfino l’usufrutto del suo letto, acciocché si riprendesse dalla caduta. Gli aveva anche parlato la sera prima, dannazione! Invece, ritornando quella mattina dall’ennesimo incontro con La Palice e gli altri comandanti, Mercurio aveva ritrovato Hironimo riverso per terra circondato da una pozza di vomito e tremante neanche avesse – San Valentino gliela scampasse! – l’epilessia [3].

Il monaco gli scoccò di rimando uno sguardo pieno di commiserazione. “La febbre è molto alta”, sentenziò infine, sollevando il dorso dalla pelle d’Hironimo. Immerse una pezza nella bacinella d’acqua e gli tamponò la fronte, in particolare l’escrescenza e il taglio su di essa. Il giovane aprì per un istante gli occhi, girandoli confusamente alla ricerca di chissà cosa e Fra’ Anselmo vi lesse una bruciante delusione, sicché il patrizio li richiuse subito, affondando sfinito sul semplice cuscino. “Finché non scende trovo consigliabile che rimanga qui, sott’osservazione.”

“Non se ne parla nemmeno!”, ringhiò il greco-albanese, riacquistando la sua tracotanza. “Tu lo guarisci ora, in questo istante!”

Adesso Fra’ Anselmo aveva perso invero la pazienza e che San Benedetto suo padre fondatore lo aiutasse. “Ma per chi accidenti mi hai preso, sentiamo?! Per Missier Domeneddio?! Ché compio miracoli io ora?! Se il ragazzo si trova in questo stato pietoso, condanna la tua stupidità: quand’è stata l’ultima volta che gli hai dato un abito caldo, da mangiare adeguatamente, che non l’hai menato alla stregua d’un cane rabbioso, che non l’hai esposto a questa pestilenza?!”, ruggì, al punto che le teste degli ammalati sui lettini accanto a lui si girarono e qualche confratello arcuò il sopracciglio tra il sorpreso e il biasimante. “Hai mai visto uno che getta in una lercia stalla un povero cristo con le piaghe ancora aperte? Anni a combattere e ancora non conosci il concetto d’infezione?! E ti sorprendi che ora stia facendo gli equilibrismi con la morte?!”

Il condottiero aprì e chiuse la bocca a guisa di pesce, impappinandosi dopo tanto tempo in vita sua, non più avvezzo a sentirsi oggetto di paternali così severe e umilianti: “Io … io non mi fido di … Hai visto cos’è successo, no? E se la sua gente venisse a riprenderselo?”

Il benedettino grugnì sardonico, sferzando via da sé un’invisibile molestia. “Ti risparmierebbero di sicuro il fastidio di seppellire un cadavere!” e detto questo si concentrò sul suo paziente, sennonché si ritrovò improvvisamente agguantato per lo scapolare.  

“Lui non muore, intesi?”, gli lavò quasi la faccia Mercurio, il viso deformato in un’espressione spaventosa. “Non m’importa cosa t’inventi, cosa gli fai ingurgitare per resuscitarlo, ma perdiana lo devi guarire e questo nella mia cella, non qui, dove entrano cani e porci!”

Affatto intimorito dai suoi modi violenti, Fra’ Anselmo si staccò sdegnato da lui. “A te la scelta, capitano: o ritrovarsi un ammalato in infermeria o un cadavere in camera tua!” Era stufo delle continue prevaricazioni, delle morti crudeli e assurde, delle immeritate sofferenze, della follia di quei bambocci arroganti, buoni soltanto ad infilzarsi in inutili mattanze e per questo convinti di trovarsi all’apice della sapienza, soffrendo invece di palesi deliri di blasfema onnipotenza!

“Tu osi comandarmi? Di costringermi a scegliere? Vecchio, ora a te chiedo chi ti credi di essere!”

“Se il ragazzo muore, peserà sulla tua coscienza perché hai avuto la possibilità di salvarlo, ma per il tuo egoismo ti sei rifiutato. E ricordati, figliolo, che il male viene sempre ripagato da altro male”, gli puntò contro il dito. “Ché la vendetta divina, Mercurio Bua Spata, trova sempre il modo di colpirti dove più soffri!”

E dovette esserci stato un qualcosa di profetico negli occhi del monaco, ché il greco-albanese impallidì fino al giallognolo, il labbro inferiore tremante. Fu un attimo, però: strabuzzando gli occhi e scotendo il capo, l’uomo s’impose di calmarsi e di assumere un atteggiamento imperturbabile.

“D’accordo”, deglutì, espirando pesantemente l’aria, i pugni serrati convulsamente e l’intero suo corpo teso di furiosa energia a malapena repressa. “Per stavolta hai vinto, vecchio … Tanto, il nostro messere conosce quale punizione l’aspetta, in caso s’azzardasse a fuggire …”, gli rivelò con perfido gusto, indicando Thomà che trasalì impaurito, avendo giudicato sicuro origliare dietro la sottile tenda che separava i letti degli ammalati.  Rise malevolo e fu il turno di Fra’ Anselmo di percepire del sudore freddo colargli lungo la schiena, afferrando al volo la minacciosa promessa del comandante.

“Hai finito?”, lo sfidò ugualmente, intrecciando le mani dietro lo scapolare, onde nascondere quanto in realtà tremassero.

“Ho finito.”

“Allora levati dai piedi, qui non mi servi”, gli fece cenno col capo Fra’ Anselmo, indicandogli la porta.

Un guizzo assassino attraversò gli occhi di Mercurio e le sue dita inconsciamente avevano accarezzato l’elsa del pugnale. Ciononostante si dominò, sparendo quel lampo tanto velocemente quant’era comparso. “Restate servito, padre”, sibilò velenoso, abbozzando ad un beffardo inchino e uscendo con la medesima veemenza con la quale era entrato.

Il benedettino cacciò fuori un sconquassante singulto, sentendosi finalmente libero di respirare e un poco traballante sui piedi si sedette sul bordo del letto, la mano appoggiata al cuore. Mio Dio, soccorso! Non posso più, non posso più sopportare questa violenza, questa profanazione della Tua casa! È questa la prova che ci vuoi dare? Per testare la nostra saldezza?, pregò frustrato, congiungendo e stringendo i pugni e portatali alla fronte, si batteva con essi. Cosa fare? Cosa fare? L’Abate oramai obbediva al maresciallo francese e se non a lui, alle direttive dei Conti di Collalto. Poco gli importava, evidentemente, dei danni fisici e morali, pur di scampare a questa tempesta.

Un lieve ma costante singhiozzare lo distrasse dai suoi intimi crucci e recriminazioni contro la guida dell’Abate. Girandosi in sua direzione, vide Thomà abbracciare in una sorta di bizzarra Pietà il suo padrone, inumidendogli il volto di pingui lacrime.

“Lo gh’ho assassinà!”, pianse disperato, stringendolo forte e al contempo scuotendo il patrizio per destarlo. “Mi gh’ho uto ea frebe ante d’elo e depo’ gheo dà qualcossa de stranio da manzar e bevar! El mio patron va morir par colpa mia!”

Sorridendogli incoraggiante, Fra’ Anselmo gli scorse una mano tra la zazzera bionda. “Avi fe’, fio mio. Il tuo padrone ha la pelle più dura del marmo, non l’uccidi così facilmente. Dico bene, sior castelan?”

Thomà sobbalzò sorpreso e confuso, specie quando la mano d’Hironimo sostituì quella del monaco nella sua carezza consolatoria al capo del fantolino. “Patron!”, esclamò giubilante, ridendo e piangendo  e ricoprendolo di moccolosi baci manco si fosse trasformato in Santa Marta col redivivo Lazzaro.

Sottraendosi da quelle effusioni d’affetto e invitando il bambino a calmarsi onde non attirare sguardi ed orecchie indiscrete, Hironimo si puntellò a fatica sui gomiti, mirando i febbricitanti occhi nerissimi contro il monaco. “Come hai capito che fingevo?”, lo inquisì perentorio e un pelino curioso.

Fra’ Anselmo arricciò sardonico la bocca. “Caro ti, ero medico prima di rinunciare al mondo e anche qui, nella Badia, continuo a curare i malati. Certo, ammetto che sei stato proprio bravo a recitare la parte del moribondo – Veniexia in fin dei conti è la patria del Carlevar – ma un medico della mia sorte ed esperienza non si lascia certo corbellare da un puto nato ieri, siornò!”

 “An!”, puntualizzò in rimprovero patrizio. “Peccato di superbia, sior pare, non va bene!” e i due ridacchiarono conniventi, tranne Thomà che li fissava confuso, tentando di collegare gli eventi e capire quanto stesse accadendo. Nel dubbio si strinse di più accanto al giovane: lui non era più in pericolo di vita e questo gli bastava. “Confiteor”, riprese il Miani, ritornando serio, “che mi gero stuffo di la mala compagnia dil Bua e gh’ho volesto ‘ndarmene da la soa zella.”

Un vecchio espediente ben collaudato ai tempi della prima adolescenza, onde marinare la scuola: approfittando delle lunghe ore di solitudine, Hironimo aveva cautamente inzuppato il petto e il trapezio d’acqua, così come le tempie, in modo da far credere al condottiero d’aver sudato peggio d’una fontana. Dopodiché, s’era cacciato in bocca un dito e aveva punzecchiato e irritato l’esofago finché lo stimolo non era giunto al cardias, che aveva rilasciato tra acidi spasimi quel poco di cibo rimastogli nello stomaco. Infine, riconoscendo l’oramai inconfondibile passo del Bua, il veneziano s’era gettato a terra e aveva incominciato la sua accurata recita e bisognava dire che quell’altro c’era cascato sublimemente, portandolo là dove voleva finire, ossia in infermeria, lontano dalla sua sorveglianza e dunque con più possibilità di fuga.

“Non sopporto più questa situazione”, concluse il suo racconto il giovane Miani, serrando possessivamente il braccio attorno alla vita di Thomà. “M’è ormai chiaro come, per motivi che non conosco, il Bua non avanzerà alcuna richiesta di riscatto. Donca, non ho alcun’intenzione d’attendere né i porci comodi di quel satanasso né che si stufi di me e m’ammazzi perché annoiato. L’anticiperò fuggendo via.”

 “Come?”

Hironimo strabuzzò gli occhi, sorpreso da quell’ovvia domanda. “Col tuo aiuto, che altro? Tu conosci molto bene la Badia, così come sono sicuro che tu conosca come si entri e come si esca da qui inosservati, per i sentieri del bosco circostante.”

“Supponiamo che sia così …”, mormorò cauto Fra’ Anselmo. “Perché dovrei indicarti la via?”

Il patrizio veneziano reclinò vezzoso il capo, il viso una maschera di complicità e malizia. “Perché anca ti te xé stracho de ser prexom di sti barbari e de dar obediença ad on Abba’ che nol te proteze ”, gli lesse nei pensieri, verità inoppugnabile cui il benedettino non poteva se non acquiescere. “Sin dal primo giorno, ti ho letto la ribellione negli occhi”, aggiunse, mantenendo lo sguardo ben ancorato a quello dell’altro.

Fra’ Anselmo s’inumidì le labbra, voltando il capo in ogni direzione sia per controllare che nessuno stesse origliando sia per valutare se ne valesse la pena, rischiare così tanto. In fin dei conti, lui personalmente si trovava in una posizione abbastanza privilegiata – gli ammalati andavano sempre curati e di lui si necessitava. Forse s’era lamentato troppo, alcuni suoi confratelli subivano angherie peggiori, sebbene nulla paragonato alla popolazione civile. Insomma, si trovava comunque in un luogo sicuro, perché compromettersi … Però, eh sì, però. Lui aveva rinunciato al mondo, non alla sua dignità.

“Puoi contare sul mio aiuto”, sussurrò il benedettino e il giovane Miani riprese a fiatare, sciogliendo il lenzuolo stretto forte nel pugno. “Soltanto però quando sarai guarito, è la mia unica condizione. Il vomito, gli spasimi … quelli li puoi anche fingere e procurateli, ma la febbre alta, caro, ti, quella purtroppo per te è vera!”, gli confidò pragmatico, appuntandosi di preparargli entro l’ora di pranzo un infuso di tiglio e genziana per abbassargli la temperatura.

In effetti, Hironimo dovette riconoscere che si sentiva ribollire dall’interno, i muscoli doloranti e la visione ogni tanto che si deformava, provocandogli piccoli capogiri e brividi involontari. Tossì forte, riverberandogli l’eco nella cassa toracica e per qualche istante credette di non riuscire a respirare. Thomà, dolcemente, gli batté apprensivo sul coppino, porgendogli un bicchiere d’acqua. I suoi occhi rilucevano limpidi e le gote pur smunte avevano riacquistato colore, segno che il corpo del piccino aveva vinto la sua personale battaglia contro la malattia.

Ciò riempì Hironimo di una sconosciuta gioia, nel vederlo scampato dal pericolo.

M’ha affidato la sua vita e ripone in me la massima fiducia, si ripeté il giovane patrizio, massaggiandosi la tempia destra, le cui vene gli tambureggiavano ritmicamente, peggio che in galea, scendendo il rigido e punzecchiante fastidio lungo il collo, alle cervicali, le quali gli tiravano e pulsavano inclementi tanto che perfino ai denti gli parve assaporare l’emicrania. Non posso ammalarmi proprio ora, non posso permettermi alcuna debolezza!

Non voglio morire così stupidamente, in un letto d’infermeria, senza aver concluso almeno un’azione degna di merito! e un oscuro brivido lo percorse da capo a piedi, realizzando come, dal giorno della sua cattura, i pensieri di morte si facessero sempre più frequenti e tragici, non in circostanze eroiche e onorevoli bensì squallide e anonime, in perfetto contrappasso dal modo in cui aveva fino a quel momento vissuto.

Vissuto … quale vita aveva vissuto?                                    

Hironimo strinse gli occhi, corrugando la fronte al pizzicore dell’emicrania. Basta piangersi addosso, basta desiderare l’impossibile. Il passato stava lì, immoto ed eterno, bisognava focalizzarsi sul concreto presente e l’incerto futuro. Convenne che qualche giorno di riposo gli avrebbe giovato, per riprendere le forze ché invero la loro sarebbe stata una corsa al limite della fibra umana, se volevano passare il confine sicuro delle linee veneziane. Un passo alla volta, senza rovinare tutto a causa della fretta.

Il giovane Miani concluse che del Gambara non si poteva troppo fidare: gente come lui si comportava tanto cortese e disponibile, finché non cambiava il vento e abbandonava il cosiddetto “amico” al proprio destino, che s’arrangiasse da solo. Evidentemente il bresciano aveva fiutato aria di ribaltamenti del gioco, dell’alternanza di favore di quella grande capricciosa della dea Fortuna, che da puttana dei Collegati poteva divenire quella della Serenissima.

In caso però non dovesse accadere, ecco che il conte nuovamente avrebbe confermato la sua alleanza alla Lega, lasciando Hironimo col culo per terra. Nossignore, il veneziano si risolse di sfruttare la gentilezza del Gambara finché a lui sarebbe convenuto, evitando però d’affidargli ogni sua speranza. Il monaco, al contrario, possedeva i requisiti fondamentali per i suoi scopi: non un combattente, non un uomo in prima fila ad affrontare i problemi della vita; ciononostante abbastanza dignitoso da non subire all’infinito e non troppo idealista d’anelare ad uno sciocco martirio, propendendo più ad una pratica sopravvivenza. Scuotere la polvere dai propri calzari! Invero! Prima o poi sarebbe scappato via ed Hironimo gli aveva elargito soltanto la spintarella necessaria per decidersi definitivamente. Adesso doveva pensare a guarire e anche in fretta, pianificando alla perfezione ogni passaggio della fuga.

D’altronde, la posta in gioco per lui era altissima: neppure per un istante aveva dubitato della serietà del Bua, quando gli aveva minacciato di uccidere Thomà avesse lui deciso di fuggire e anche su quel punto, Hironimo stava meditando alacremente su come anticiparlo, assicurandosi perlomeno la salvezza del bambino, poiché, in caso di fallimento, se doveva proprio morire l’avrebbe fatto con la soddisfazione di ridere in faccia a Mercurio Bua.

 

***

 

Il Castello di San Salvatore dei Conti di Collalto era situato in posizione strategica a controllo dei guadi della Piave, espandendosi sinuoso lungo l’intera collina e sovrastando i campi e le vigne sottostanti. Tra la rocca, la corte e il borgo abitato da contadini e artigiani, esso era uno dei complessi fortificati più estesi in Italia.

L’antichissimo casato dominava stabilmente su quelle terre dai tempi di Grimoaldo re dei Longobardi, navigando con accorta maestria attraverso le acque tempestose dei tempi, sempre riuscendo a conservare i loro feudi e i privilegi essenziali, malgrado i frequenti cambi di governo nella Marca Trevigiana durante i burrascosi secoli, dal libero Comune alle signorie degli Ezzelini, dei Caminesi e Carraresi; dal dominio del Ducato d’Austria a quello della Serenissima. Gli approvati e confermati “Statuta Collalti” li avevano garantito l’antico diritto di governare la contea secondo le proprie leggi, tuttavia al costo della pubblica e perpetua rinuncia da parte di Vinciguerra I di Collalto nel 1471 al titolo di “Conte di Treviso” su sollecita richiesta della Repubblica di Venezia. Vinciguerra pertanto aveva dovuto accontentarsi di quello di “Conte di Collalto e San Salvatore” e naturalmente della garanzia di continuare ad esercitare il suo potere senza l’ingerenza del Podestà e Capitano di Treviso, segno della fiducia che la Signoria voleva riporre nella famiglia comitale per una pacifica convivenza.

Ciò aveva evidentemente insuperbito i Conti, cullandoli nella certezza di poter mantenere in eterno il piede in due staffe e barcamenarsi come loro uso, saltando all’occasione opportuna sul carro del vincitore. Così avevano fatto anche in occasione della rotta di Agnadello: il castello di San Salvatore era stato scelto come sede di vitali trattative per una tregua tra Venezia e l’Impero, peccato che i tedeschi, certi della loro imminente vittoria nella Marca e in generale sulla Repubblica, avevano rifiutato all’ultimo momento l’incontro coi messi di San Marco e male gliene incorse a Maximilian, il quale se era una persona di temperamento vendicativo, aveva purtroppo scoperto a suo danno un rivale altrettanto caparbio nell’inimicizia. Di fatti, malgrado nei seguenti due anni l’Habsburg avesse seguitato imperterrito a lanciare contemporaneamente appelli di tregua e alla popolazione di ribellarsi alla Signoria, egli a sua volta per contrappasso aveva raccolto solo no secchi. Gli unici alleati dell’Imperatore, e del Re di Francia per associazione, rimanevano le antiche famiglie feudali dell’entroterra che o per paura o per avidità si dichiaravano prontissime a servire i due sovrani stranieri.

“Monsieur le Grand Maître de France Jacques de Chabannes, signore di La Palice, Pacy, Chauverothe, Bort-le-Comte e Le Héron, maresciallo delle truppe di Francia e dell’Impero!”

Sicché Mercurio Bua non si stupì di vedere il ventottenne conte Joanne Antonio I di Giambattista I di Collalto di Sopra, il conte Antonio III di Vinciguerra I di Collalto di Sotto e l’intero parentado di ambedue i rami venirli incontro vestiti alla francese. Né che si fosse stabilito di pranzare in una sala decorata di variopinti e preziosi arazzi fiamminghi e francesi. Ridacchiando tra sé e sé, il capitano di ventura sperò almeno il cibo seguire le usanze italiane.

“Il magnifico messer Mercurio Bua Spata, principe di Morea, conte di Soave ed Illasi, consigliere imperiale e capitano degli stradioti.”

“Illustrissimi domini comiti, Vostre Signorie eccellentissime”, reclinò il capo il greco-albanese in un inchino a malapena abbozzato ai due Conti, gesto che in particolare Joanne Antonio ricambiò con ugual affettata cortesia, un sorriso magnanimo sulle labbra, e soffermandosi specialmente sullo zipone di broccato d’oro indossato da Mercurio, nonché le pesanti catene d’uguale metallo, forse calcolandone mentalmente il prezzo.

In tal caso il condottiero si sentì assai gratificato nell’avergli chiaramente dimostrato quanto in nulla gli fosse inferiore. Troppe volte nella vita aveva sopportato sulla sua pelle la spocchia della nobiltà italiana, che lo considerava alla stregua d’un apolide vagabondo affamato, pronto a vendersi al miglior offerente. Si ricordava benissimo l’espressione di sfottitore divertimento sul volto della ventenne Beatrice d’Este, quando al termine della Battaglia di Fornovo il marchese e capitano dei Collegati Francesco Gonzaga e suoi superiori, i provveditori veneziani sier Lucha Pixani, Marchiò Trivixan e Bernardo Contarini lo avevano di persona presentato a lei e al marito Ludovico il Moro, elogiando l’audacia di Mercurio che, neanche diciottenne, era riuscito a sfondare le linee nemiche francesi, ferendo di striscio il medesimo Re di Francia e catturando il Duca di Borbone. Il giovanissimo capitano degli stradioti si era atteso di essere trattato allo stesso modo dei suoi superiori, soprattutto da parte della duchessa Beatrice, del cui animo virile tanto si favoleggiava. Invece, non soltanto si era trovato una giovane donna che non la smetteva di civettare, ma che al contempo lo trattava alla stregua d'un ragazzino ingenuo, d'un provincialotto appena arrivato e facilmente manipolabile. Ché Mercurio non aveva mai visto una femmina in vita sua? E magari più bella? Lo zenit era giunto quando gli venne rimproverata la barba, credendola un segno d'incuria visto che, considerata l'età, ancora non possedeva la regolare foltezza di quella di un uomo. Dinanzi alla perplessità del giovane capitano, l’Estense s’era giustificata, ridendo, su quanto trovasse incomprensibile l’uso stradiota sia di portarla sia di legare in trecce i lunghi capelli. “E’ la tradizione della mia gente, l’unico ricordo della nostra terra che possiamo portarci appresso!”, le aveva Mercurio candidamente spiegato.“Oh, che tradizione orribile!”, aveva licenziato Beatrice la questione, accettando tuttavia il bacio sulla mano alla greca. Il giovane capitano aveva sbrigato in fretta i convenevoli, umiliato da cotanta cieca superficialità e ritirandosi furente nei suoi alloggi e partecipando ai festeggiamenti soltanto perché il suo superiore sier Bernardo Contarini glielo aveva espressamente ordinato. “Madama è tanto schizzinosa con chi ha salvato l'Italia, ma tanto liberale con chi l'ha devastata! Non mi pare avesse avuto da ridire sui capelli dei francesi, sui vestiti dei francesi, su ... su ... su qualsiasi cosa loro! Ma cosa pretende? Chi si crede d'essere? La dea Venere? E' una capricciosa come tutte, ecco cosa, ed è pure brutta e scura peggio d'una fantesca turca!”, s’era sfogato col provveditore degli stradioti, alludendo all’opulento benvenuto offerto dai duchi ai francesi l’anno addietro, nonché al fatto che l’Estense, assieme alle sue ottanta dame, avesse concesso ai nobili cisalpini di baciarla sulla bocca, secondo la loro di usanza. Il Contarini, posandogli una mano sulla spalla, lo aveva allora consolato: “Così funziona in Italia: si è cortesi fintanto che l’amicizia risulta vantaggiosa. La gratitudine e la reciprocità hanno vita breve e la memoria corta, qui. Non ti curare di ciò che dice madona Beatrixe, sicuramente non l'ha fatto apposta e lascia che le sue truppe da giostra vengano guidate dai suoi signorini impomatati; la Signoria ha visto il tuo valore e se ne ricorderà. Puoi solo salire, Mercurio, se però impedirai a chicchessia di buttarti giù!”

Le sagge parole di sier Bernardo gli erano rimaste scolpite nel cuore al pari di una massima di vita, anche quando Mercurio aveva disertato la Serenissima per altri committenti. Da quel momento, infatti, aveva giurato sulla tomba del suo illustre padre, il kyrie Pietro Bua Spata capo degli Albanesi in Morea, che nessuno mai lo avrebbe più dileggiato sia per la sua abilità che per la sua provenienza. Con le unghie e con i denti avrebbe strappato il suo posto nelle alte sfere e trattato da pari chi vi si trovava più per virtù di nascita, che per merito personale. Avrebbe elevato il nome suo e della sua casata, indorandolo di gloria e onore e bivaccando sulle ossa di chiunque avesse osato sottovalutarlo. In un certo qualmodo, dunque, era grato a Beatrice d’Este poiché, nella sua impulsività e ignoranza, gli aveva rivelato il vero volto degli italiani, specie dei nobili.

Nel frattempo che gli altri comandanti venivano presentati uno ad uno alla famiglia comitale, a sua volta il Bua si soffermò sugli abiti di Joanne Antonio di Collalto, sul suo toque di velluto nero ornato di perle e zaffiri e da una cascante penna di struzzo, la chemise à encolure dégagée e bordata di sottili fili d’oro, vaporosa, semitrasparente e a stento trattenuta dallo zipone a righe di damasco grigio dai riflessi argentati.

Costui sarà anche un damerino fatto e finito, tuttavia gli concedo una certa astuzia nella sua scelta di vestirsi alla francese, concluse Mercurio, mentre i Collalto si premuravano di mostrare brevemente agli ospiti la Rocca. Infatti, cogitava, sarebbe stato più logico presentarsi con abiti alla tedesca poiché l’impresa era quella di Maximilian; tuttavia i Conti dovevano aver immaginato quanto a La Palice, pur servendo formalmente il Re dei Romani, avrebbero recato più piacere i familiari costumi del suo paese rispetto a quelli alemanni, specie a seguito del colpo basso ricevuto dai disertori imperiali.

E di fatti il maresciallo, svestita per l’occasione l’armatura, ammirava tutto contento la francesità al limite del pacchiano esposta ad arte nel castello, il buonumore improvvisamente ritornato e non mancava di scherzare coi suoi anfitrioni nel suo piuttosto discreto italiano appreso a Milano. Dal canto suo, Mercurio trovò invece più interessante studiarsi gli affreschi in corso nella chiesa di San Salvatore, ad opera del maestro Zuan Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone. In particolar modo, rimase piacevolmente impressionato da un “San Girolamo nel deserto” di Cima da Conegliano, ammirando l’armonico passaggio dall’ocra brullo del deserto alla pastosa verdura dei prati collinosi e dei boschi, culminante in un complesso castello arroccato su di una rocciosa altura che gli ricordava proprio quella dei Collalto. Similmente anche i piccoli borghi e le chiesette emulavano lo stile architettonico di quelli veneti, testimoni dei fecondi anni di pace. Il capitano di ventura si scoprì incredibilmente attratto dalla Marca Trevigiana, con la sua intricata rete di fiumi, l’acqua di risorgiva leggera e chiarissima, le campagne fertili, i fitti boschi collinari e gli svettanti campanili che competevano in altezza cogli alberi. Il tutto circondato da quell’aria quasi montana, fresca e dolce, un poco malinconica che sfumava i contorni dell’orizzonte, conchiuso dalle sagome delle montagne e che soltanto i pittori veneti riuscivano a cogliere nei loro colori sfumati, indefiniti. Se avesse dovuto scegliere un posto ove stabilirsi nei lunghi anni della vecchiaia, forse … magari …

“Il maestro Cima da Conegliano si è ispirato a queste terre”, gli giunse alle spalle la timida vocina di Cassandra di Collalto di Sopra, la quale arrossì pudica non appena il condottiero si girò verso di lei. Una graziosa bambolina invero, piccola e pienotta, un bocciolo d’aprile. Su ordine fraterno anch’ella vestiva alla francese, indossando una sopravveste di damasco scollata e lunga fino a terra, con alquanto strascico e tutta foderata di pellicce finissime, stretta alla vita da una lunga e spessa catena d’oro. Sotto portava una veste di velluto a maniche strette vicino alle mani, mentre quelle della sopraveste erano al contrario molto larghe e ricoperte delle medesime pellicce di cui erano all’interno foderate. Il capo della contessina Cassandra era ornato da uno chaperon d’ermisino sottilissimo e lucente, tutto ornato da diversi fili di belle perle, delle quali s’era arricchita anche il petto e il collo, assieme ad altre pietre di gran valore cucite sullo scollo.

Anche se costoso e di gran pregio, in tutta onestà quello chaperon non incontrava i gusti di Mercurio, poiché a sua detta rendeva la giovinetta non dissimile da una suora, nascondendole la fluente chioma bionda e conferendogli un’aria severa che alla sua età non le si confaceva.

“Notate la Piave sulla destra?”, seguitava la damigella nella sua descrizione, ignara di quel pignolo studio della sua persona. “E poco distante …”

“… l’Abbazia?”, terminò per lei il Bua, sorridendole accattivante.

Cassandra annuì. “La mia famiglia nutre da sempre uno speciale affetto verso l’ordine benedettino. E anche di San Girolamo Dottore della Chiesa. Avete visitato suppongo il suo eremo, all’Abbazia?”

“Provvederò uno di questi giorni.”

“Conoscete per caso Giuliana di Collalto? Ancora non è tale, però in molti già la considerano una beata!” [4]

“Non credo s’incontrino santi e beati nel mio mestiere!”

La contessina si coprì la bocca col ventolino di damasco, nascondendo un sorrisino compiaciuto e sovvenendo a Mercurio una bimbetta pronta a vantarsi di una qualche sua marachella particolarmente ben riuscita. Gli ricordò immediatamente la famosa civetteria di Beatrice d’Este. “An, non lo dubito. La reverenda madre badessa Giuliana di Collato era una monaca benedettina, una mia antenata, fondatrice della chiesa e del monastero di San Biagio e Cataldo alla Giudecca. Le sue spoglie mortali, incorrotte, riposano tuttora lì. Prima della guerra mi piaceva recarmi a Venezia per pregare sulla sua tomba, adesso però …”

Il Bua fu immensamente grato dell’annuncio dello scalco a raggiungerlo per il pranzo, levandolo d’impaccio. Non desiderava concludere il discorso rammentando alla ragazza, che se i veneziani avessero saputo del doppiogioco dei Collalto, beata o non beata, la cara badessa Giuliana sarebbe finita in un qualche canale di scolo, a spregio della sua famiglia traditrice. Meglio dunque lasciare la contessina nei suoi sogni di dame e cavalieri, protetta dalle mura centenarie del suo castello e dalla spregiudicatezza politica dei suoi fratelli e parenti.

Finalmente a tavola, La Palice e gli altri comandanti dovettero dominarsi a viva forza dal commuoversi dinanzi al bendiddio offertoli, sebbene i Conti insistessero sulla sobrietà di quel pranzo, causa i difficili tempi di guerra. Contenti loro, Mercurio da tempo immemore non mangiava una prima portata completa di zuppa, frittura, lesso e fricandò; seguito poi dalla seconda portata d’arrosto tenero con la mostarda, di pasticci di selvaggina, verdure fresche per pulirsi la bocca, il tutto accompagnato da salse di ogni colore e densità. E vino, ovviamente, dai rossi duri del Friuli ai bianchi gradevoli delle vigne degli stessi Conti.

Masticando voracemente una fetta di testina intinta nella salsa verde, il greco-albanese fece cenno ad un inserviente d’avvicinarsi. “Xélo possibile metar da parte qualche vanzaùra (avanzo, ndr.)?” Il giovinetto scoccò un’occhiata inquisitrice al conte Joanne Antonio, che a sua volta fissò confuso il condottiero. “All’Abbazia ho due cani”, gli spiegò garbatamente ironico, “e la mia cagna diventa particolarmente feroce, qualora non provvedessi a sfamare il suo cucciolo.”

“Oh, avete dei cani con voi, signor Mercurio?”, cinguettò intrigato il tredicenne Manfredo di Collalto, uno dei tanti fratelli minori del conte, e di recente appassionato d’arte venatoria. “A quale razza appartengono, se posso chiedere?”

“Della miglior razza veneziana, la madre; il cucciolo, mi sa ch’è uscito un po’ bastardo”, sogghignò Mercurio, compiaciuto lui per primo del suo scherzo segreto e delle facce spaesate dei commensali.

Pulendosi a disagio gli angoli della bocca, la contessa Chiara di Collalto di Sotto, sorella del conte Antonio e moglie di Joanne Antonio, ravvivò la conversazione domandando al conte Gianfrancesco di Gambara: “Come sta la vostra cara figlia, la contessa Veronica? Ho sentito che a febbraio è divenuta madre per la seconda volta.”

Il nobile bresciano dovette ingollare qualche sorsata d’acqua, onde riacquistare la parvenza di una voce umana. La sua faccia rasentava invero il cadaverico e Mercurio si chiedeva come facesse a rimanere in piedi senza stramazzare. Studiando accorto gli astanti dietro il bicchiere, il greco-albanese notò un certo pallore anche sulle gote del maresciallo La Palice, il quale si portava il fazzoletto troppe volte alla bocca, da non destar sospetti. Forse l’incidente di quella mattina non era stato così improbabile, forse il monaco aveva avuto ragione: il malanno in qualche modo era riuscito dal campo ad insinuarsi nell’Abbazia e lui, stoltamente, aveva esposto il suo prigioniero a contrarlo, abbandonandolo in un luogo sporco senza adeguato vestimento e cibo.

“Magnificamente bene, madonna contessa. Mio nipote Girolamo gode d’eccellete salute e spero di poter visitare lui e la sua famiglia assai presto”, rispose vago di Gambara, tralasciando il doloroso dettaglio confidatogli dal genero Gilberto da Correggio, laddove lo informava di una tremenda malattia post-parto ch’aveva afflitto la sua dilettissima Veronica, impedendole, una volta guarita, di poter concepire di nuovo. Fortunatamente Gilberto non se ne crucciava, la discendenza assicurata da Ippolito l’anno addietro e ora dal piccolo Girolamo, il primogenito tenuto a battesimo dal cardinale Ippolito d’Este e la Marchesana Isabella d’Este, con la quale Veronica intratteneva da anni una fitta corrispondenza.

“La contessa di Correggio scrive ancora quelle deliziose Frottole?”

“In quest’ultimi difficili mesi, la poesia le rimane uno dei suoi più grandi conforti. Dopo i figli e il marito, ovviamente”, ammise intenerito il conte Gianfrancesco.

“E voi, signor Mercurio? V’intendete di poesia?”, inquisì quasi sottovoce Cassandra di Collalto, sedutagli accanto e che lo fissava sognante, neanche il condottiero fosse saltato fuori direttamente dalle pagine dell’Orlando Innamorato.

“Sorella cara, credo che il capitano non abbia di recente avuto modo d’occuparsi d’arte”, la rimbeccò dolcemente sua sorella Degnamerita, ottenendo un imbarazzato rossore sul viso a forma di cuore della fanciulla.

“Vostra sorella ha ragione: non ho espugnato tre settimane fa Castelnuovo di Quero declamando al suo castellano Boiardo o Ariosto o chiunque altro poeta laureato!”, a meno che non si considerassero poesia gli sboccatissimi insulti lanciatisi contro, roba da scommettitori ai combattimenti dei galli o da ubriachi alle bettole, cattiva abitudine che, neanche da prigioniero, quella peste bubbonica di veneziano aveva intenzione d’ammansire. O beh, fino a qualche giorno addietro. Adesso se ne stava così stranamente zitto …

“E come, allora, avete espugnato quella fortezza?”, insistette curiosa Degnamerita di Collalto, impironando un pezzo d’arrosto. “Nostro fratello ci ha raccontato come il suo castellano, un tal messer Girardo Manni, avesse al contrario fortificato assai bene il castello. Addirittura era riuscito a persuadere i podestà di Feltre e Belluno a venirsi in reciproco soccorso, in caso d’assedio.”

Mercurio sogghignò amaro: un piano eccellente, peccato che il suo patrizio non avesse calcolato l’immancabile traditore, che l’aveva venduto allegramente al nemico. “Non è mio uso descrivere la guerra alle nobildonne, non lo giudico un argomento adatto. Ed in ogni caso”, si sentì in obbligo di puntualizzare, “il castellano non è né un tale né un Girardo Manni, si chiama Girolamo Miani e così dev’essere ricordato. Ha perso, ma ha perso con la spada in mano, cosa che non di tutti si può dire oggigiorno.”

Le due sorelle, imbarazzate dalla schietta correzione, incassarono stoicamente il colpo. “Ogni giorno da due anni i nostri fratelli e cugini parlano soltanto di guerra; voi pure siete nostri ospiti appunto per discuterne a riguardo. Non è un tema a noi alieno”, provò timidamente a contro-argomentare Cassandra, dimostrando dietro la maschera di soave pudicizia una testarda forza di volontà, aspetto che scaldò il cuore del condottiero, rendendolo d’un tratto nostalgico.

“La guerra appare eroica soltanto nei libri, contessina. Sussiste un motivo, per cui appartiene ai Quattro Cavalieri dell’Apocalisse”, liquidò in fretta il discorso, anzi, pure riempiendosi la bocca di carne e verdura onde ben sottolineare il concetto che la conversazione su quel tema per lui finiva lì.

“Dunque perché la fate?”, mormorò piano Cassandra, sgranando i suoi occhioni di cerbiatta e corrugando la fronte.

“Forse perché vogliamo finire in quei libri e di conseguenza far sognare voi belle fanciulle”, ironizzò allegro il Bua, bevendo un lungo sorso di vino e tosto imitato dalle due nobildonne, i loro volti pieni d’ilari fossette.

“Signor Jacopo, signor Nicolò”, s’era nel frattanto rivolto Teodoro Trivulzio agli altri due Collalto di Sotto, attirando l’attenzione del greco-albanese. “Abbiamo saputo del vostro perdono da parte della Signoria. Non l’avremmo immaginato possibile.” Alludeva il comandante al ritiro del bando d’esilio per i due nobiluomini, avvenuto il marzo scorso, richiamandoli da Udine e assolvendoli da ogni crimine.

“Neppure noi l’avremmo mai creduto”, confermò Jacopo, ché aveva temuto in quegli istanti esser invece giunta la sua ora, spedito prima alle Orbe e poi in Piazzetta. “Ci consideriamo assai fortunati.”

“Tale misericordia è inconsueta da parte della Signoria”, convenne meditabondo Gianfrancesco di Gambara.

“Forse ha percepito il fuoco dell’inferno attenderla e vuole fare ammenda”, teorizzò Giulio Sanseverino, “come se potesse riconquistarle il favore di Dio.”

“Davvero la considerate irrimediabilmente condannata?”

“Tutta la cristianità o quasi le ha dichiarato guerra: nessuno Stato è mai sopravvissuto a tal ondata; ciascuno dei Collegati ha giurato di non darle mai tregua, finché la Repubblica non scomparirà dalla faccia della terra!”, ribadì il fratello del Gran Scudiero di Francia.

“Dunque la nostra assoluzione ci ritorna doppiamente gradita!”, commentò sollevato Nicolò di Collalto. “Poiché non le abbiamo concesso l’ultima soddisfazione di giustiziarci!”

“O forse”, s’intromise Mercurio tra le risate dei commensali, “forse voi risultate più utili alla Signoria da vivi che da morti”, insinuò malizioso e il gelo scese nella sala, ognuno fissando a disagio il proprio piatto.

“Signor Mercurio”, replicò freddamente cortese il conte Antonio, venendo i soccorso dei fratelli, “da anni viviamo sotto la Serenissima e siamo certi di poterne indovinare se non addirittura anticiparne i pensieri.”

Il Bua levò il bicchiere in alto a mo’ di brindisi. “I miei complimenti, signor conte, per il vostro infallibile intuito e per la vostra approfondita conoscenza dell’anima nera della Signoria! D’altronde, ve la siete pure portata nel talamo nuziale”, esclamò gioviale, tracannando in un sol sorso il vino rimasto. “E un brindisi anche a voi, messer Nicolò: la vostra moglie veneziana immagino sarà stata assai contenta, di non essere rimasta precocemente vedova!”

Nicolò di Collalto sbiancò fino a mimetizzarsi con la sottile tovaglia di cotone, non attendendosi certo quel colpo basso da parte del vendicativo condottiero: sei anni addietro egli aveva impalmato madona Maria Zane, figliola di sier Bernardo, la quale non soltanto s’era rifiutata di seguirlo in esilio ad Udine, ma anche dopo l’assoluzione del consorte s’ostinava a rimanere nella casa paterna. Analogo destino era capitato a suo fratello il conte Antonio, accasato con madona Luzia Mozenigo di sier Lorenzo, portatasi appresso a Venezia i tre figlioletti Bianca, Violante e Rambaldo. Infine, Nicolò da Collalto di Sopra era ufficialmente fidanzato con madona Maria Contarini di sier Marco Antonio e nulla al mondo era intenzionato a rinunciare alla ricca dote di lei, veneziana o no.

“Codesti matrimoni li abbiamo tutti contratti prima della guerra, in segno d’amicizia e collaborazione con la Repubblica. Il che non significa necessariamente cieca sottomissione da parte nostra”, sibilò altero il conte Antonio, rigirando nervosamente il piron tra le dita. “Non reputo dunque inconsueta la prudenza delle nostri mogli, se hanno preferito riparare al sicuro con i nostri pargoletti. Venezia rimane comunque la loro patria e lì nessuno le molesterà. Ignoriamo, infatti, fino a che punto possiamo garantire la protezione a queste terre e a chi vi abita.”

“E da chi, sentiamo, dovete proteggerle? Dai Veneziani o da noialtri?”, lo stuzzicò Mercurio, guadagnandosi feroci occhiatacce da parte del Trivulzio, Pallavicino e Sanseverino.

Ignorando la stoccata e tuttavia ansioso di cambiar velocemente discorso così d’evitare un litigio a tavola, il conte Joanne Antonio riprese la conversazione interrotta con La Palice: “Sapevamo della riconquista di Castelfranco e della scarsità di rifornimenti; ciononostante, non comprendiamo il motivo per il quale adombrate ad una nostra mancanza di solidarietà. Noi vi abbiamo sempre e sollecitamente inviato i viveri richiesti, anzi, giusto stamane abbiamo aggregato dei nostri carri a quelli provenienti da Sacile e Spilimbergo.”

“Monseigneur le Comte”, lo tranquillizzò La Palice, “noi non v’accusiamo di niente. Appunto perché sappiamo della vostra fedeltà alla Lega, che volevamo il vostro permesso ed aiuto per stanare dei fastidiosi sabotatori.”

“Sabotatori?”, ripeté incredulo Jacopo di Collalto. “Nelle nostre terre?”

“Le truppe veneziane non possono transitare nella contea senza il nostro consenso! La Signoria può possedere metodi discutibili, tuttavia non ha mai mancato ai patti!”, protestò incredulo il ventiduenne Sartorio di Collalto di Sopra. “Diteglielo, fratello!”, si rivolse a Joanne Antonio, che annuì lentamente col capo e Mercurio ben si figurava quali ragionamenti gli tamburellassero nel cervello: se la Signoria avesse scoperto del tradimento dei Collalto di Sopra e di Sotto, non avrebbe avuto alcuna remora di rimangiarsi ogni accordo e di trattarli alla stregua dei ribelli, confiscando ogni loro bene e spedendoli uno ad uno dal boia tra le colonne di San Marco e San Todero.

“Sospettiamo, nel bosco del Montello e anche nella vostra contea, nascondersi dei contadini ribelli, i veri responsabili degli agguati”, delucidò brevemente la situazione La Palice. “Di conseguenza, vorremmo per cortesia il vostro beneplacito nel perseguirli, qualora venissero catturati nelle vostre terre, o d’indicarci la geomorfologia del Montello così da poterli affrontare e punire. Già stamane abbiamo inviato 300 uomini in esplorazione, in attesa della loro relazione a riguardo.”

Il conte Joanne Antonio strinse la bocca in una linea dura. “I miei contadini non oserebbero mai compiere tali azioni: io li proteggo, loro mi devono obbedienza. Sanno fin troppo bene, che se colti in flagrante non verrebbero giudicati dalla legge veneziana bensì dagli Statuta Collalti e …”

“… e non gliene importa un gigantesco fico secco!”, concluse lapidario Mercurio, ammutolendo nuovamente la tavolata, ma stavolta il tono del condottiero aveva perduto ogni ironia e frivolezza, assumendo il tono serio di comando nei consigli di guerra. “Indovinate cosa si nettano i villani coi vostri statuti? Non sottovalutateli, signor Conte, non commettete il medesimo errore dei vostri altezzosi pari! Questi non sono dei disorganizzati bifolchi senza cervello, bensì squadre di partigiani pronti a morire per un ideale, ossia rimanere a qualunque costo sotto San Marco. Siete voi tutti Collalto degli uomini d’arme, nevvero? E allora onorate questi combattenti con la medesima cura e serietà, che riservereste ad un esercito nemico!”

“Se aveste evitato di costruire quel ponte di barche per attraversare la burrascosa Piave, forse i vostri soldati non avrebbero razziato le campagne circostanti e i miei contadini non si sarebbero ribellati”, non gliela volle dar vinta il conte di Collalto di Sopra, scaldandosi. “Ho ricevuto notizie molto sgradevoli dal Priore della Certosa di San Girolamo, sul pessimo trattamento riservato ai monaci, sulle continue ruberie! Poi, ci giungono missive dall’Abate invece di Sant’Eustachio, laddove, oltre alle prepotenze cui sottoponete i monaci, mi si narra addirittura di un vero e proprio assalto notturno, con tanto di morti e danni ingenti ad un edificio sotto la mia protezione, che m’avevate giurato di non coinvolgere in alcuno scontro diretto!”

“In guerra, signor Conte, non esistono né Dio né Madonne né Santi”, non si lasciò invece commuovere Mercurio. “Nessun luogo è reputato abbastanza sacro da non venir scelto come campo di battaglia, accampamento o fonte di bottino. A volte mi domando sul serio se voi …”

“… abbiate mai considerato questo piccolo dettaglio”, intervenne speditamente La Palice, chetando il suo sottoposto. “Ossia che noi, al nostro meglio, ci siamo in ogni occasione premurati di trattare con cortesia i monaci benedettini e di rispettare i loro usi e costumi, comportandoci in maniera quanto più discreta possibile. Così io ho voluto e comandato. Purtroppo, i soldati tedeschi hanno invece preferito agire di testa propria, spinti dall’invidia e dalla loro proverbiale avidità. Non paghi, sprezzanti di ogni impegno preso e dell’onore militare, se la sono infine data oltre Piave, malgrado le mie innegoziabili ordinanze!”

“Per davvero si sono comportati così?”

“Madame la Comtesse”, si pose il maresciallo una mano sul cuore, puntando gli occhi azzurri sul viso preoccupato della giovane Chiara di Collalto. “L’onore e la cavalleria m’impongono schiettezza sia nei confronti dei miei alleati che del nemico. Non vi nasconderò niente: nutro una profonda sfiducia ne les Allemands e sulla loro costanza in quest’impresa di Trévise.”

“L’Imperatore ha assicurato …”

“… molte cose, ma finora a nessuna delle sue tante promesse ha adempiuto. Alla fine, quelli inguaiati in questo stallo siamo noi, non i tedeschi. Avevamo ricevuto ordini chiari dall’Empereur, d’attenderlo qui senza guadare per nessun motivo la Piave, ed ecco che i suoi soldati al contrario l’attraversano impunemente, occupando città dopo città, facendo rifornimenti e bottino, mentre noi costretti qui a rimanere senza né viveri né la certezza di non finir tagliati a pezzi da les Vénitiens. Je vous demande pardon, mesdames”, si scusò immediatamente il francese, conscio d’aver usato termini troppo macabri per le sensibili orecchie delle nobildonne.

“Quindi voi dubitate che l’Imperatore scenda in campo?”, domandò il conte Antonio, scoccando una celere e apprensiva occhiata ai fratelli.

La Palice annuì gravemente. “Da settimane l’Empereur se ne sta accampato a Bolzane a brigare diossacché. Il nostro legato ci ha riferito come neppure abbia pronto un esercito! Il suo atteggiamento corrisponde ad un insulto a Notre Sire le Roi, che tanta fiducia ha riposto in lui, per venir invece ripagato con ingratitudine e codardia!”

“Capisco siate confusi …”, mormorò Joanne Antonio. “Probabilmente l’Imperatore vuole assicurarsi il ritorno delle truppe imperiali dalla Patria del Friuli e forse giudica queste terre ancora troppo pericolose per arrischiare di …”

“Monseigneur le Comte”, lo interruppe seccamente il maresciallo. “Noi per allora potremmo già esser stati massacrati dal nemico. Ho inviato una missiva all’Empereur per sollecitarlo, l’ennesima, ed una ai capitani tedeschi nella Patrie du Frioul, in cui li comando di tornare indietro entro la fine del mese, o si troveranno stavolta loro da soli a fronteggiare i Vénitiens. Questo è il mio ultimatum: se les Allemands non si ricongiungeranno a noi entro la scadenza prestabilita, quest’impresa di Trévise non soltanto non si farà, ma sarà mia premura sollecita di informare personalmente le Roi sulla mancata fede dell’Empereur. Dieu giudicherà e s’occuperà del resto.”

A seguito di questo severo discorso ed irremovibile decisione, ciascuno dei commensali - dai Collalto agli stessi comandanti francesi ed italiani -  si chiese se avesse in effetti commesso un grave sbaglio, avendo infatti puntato ogni sua fortuna e speranza su quel cavallo sbagliato di Maximilian I. von Habsburg.

Nel frattanto che il banchetto procedeva verso il dolce e il suo termine, lo scalco scendeva nelle cucine onde controllare i tempi d’attesa per la spongada. Ricevuta la precisa conferma dal cuoco, l’uomo allora inviò alcuni garzoni cogli avanzi del pranzo da portare agli scudieri rimasti a guardia dei cavalli nonché i soldati di scorta. Rammentò severo e puntiglioso ai giovanotti di farsi seguire dai francesi in foresteria e ivi di lasciarli consumare tranquillamente il pasto riparati dalla pioggia e questo senza mai perderli di vista, che per nulla al mondo gironzolassero nel cortile interno del castello.

Dopodiché, congedati i garzoni, i servitori rimasti chiusero a chiave la porta principale della cucina e lo scalco aprì invece una più piccina, di servizio, quella dove i contadini portavano la carne, le verdure e la frutta per i loro signori.

Due figure vestite di stracci, in apparenza medicanti, non esitarono a scivolare dentro lesti e circospetti, stringendo vigorosamente la mano al maestro di casa e sedendosi accanto al caminetto su suo invito. Prontamente li venne offerto da mangiare una fetta d’arrosto e da bere un bicchiere di buon vino rosso, onde rifocillarsi oltre che ad asciugarsi.

“Bone Jesu, che pioza, zò!”, esclamò allegro il giovane Vio, intingendo un pezzo di pane nel sugo della carne. “Mi credea deboto de negar en la Piave, co la ghemo traversà!” e appoggiato il piatto vuoto per terra, pur continuando a ruminare, allungò le mani sul vivace fuoco, sfregando loro e le braccia intorpidite dal freddo. “Uhm, i ghe magna ben, lorssignorie!”, biascicò a bocca piena.

“An, savestu!”, ridacchiò una fantesca, riempiendogli nuovamente il piatto. “Per dasseno aveu traversà la Piave cum sta pioza?”

“Mare de diana! Roba da far sbiancar quei cancari de Rolando, Rinaldo e Ruzier e le lhoro siore mari!”, esclamò Bernardin, il fratello maggiore di Vio, battendosi a mo’ di vanto il petto. “Ringrassiemo perhò el sior Mercurio Bua et el sòo ponte de barche!”, gli concesse un po’ più modesto. “Sença d’elo, no saremo no riussiti a vegnir qua!”

“Amen!”, risposero solennemente in coro il maestro di casa e i servitori, ridendo poi ilari alla battuta.

“Donca”, terminò di bere Bernardin il suo vino, nettandosi la bocca col dorso della mano. “Quae bone nove gh’aveu da contar a la Signoria?”

Gli occhi dello scalco s’illuminarono di perversa gioia e così anche quelli dell’intera servitù, mentre ripetevano per filo e per segno alle due spie veneziane quanto visto e udito durante il banchetto nel castello di San Salvatore.

 

***

 

 

Di Trevixo, dil provedador sier Zuam Paulo Gradenigo.

 

Uno compagno del cuogo de monsignor de la Paliza, questa matina preso et per stratioti menato de qui, è stà examinato, dice, che monsignor de la Paliza era passato la Piave per andar a disnar con li conti da Colalto, e francesi alozano soto Narvesa, sopra la Piave, e la persona di monsignor di la Paliza aloza ne la Badia, e che sono lanze 1200 de conduta, ma in effeto da zercha 1000; li capi sono questi, videlicet:

 

Monsignor da la Paliza: lanze 50

Monsignor de Boisi: lanze 50

Missier Rubert de la Massa: lanze 50

Monsignor de Stasom: lanze 50

El gran scuodier: lanze 100

Monsignor de Frontaglia: lanze 50

El conte Zuam Francesco da Gambara: lanze 50

El capetanio de Borgognon: lanze 100

Numero lanze: 500

 

[…]Dice che fanno preparamenti di vituarie, et alcuni dicono che voglino venir a questa impresa, e alcuni dicono che sono per andar a la volta de padoana e andar a la sua via. Afferma, li todeschi volevano far questa volta per a brusar el tutto, et che monsignor de la Paliza diceva, non voler acompagnarli per abrusar, perchè tornando un’altra volta non troveriano cossa alcuna, et che sono stati 3 zorni senza pan, et che un pan valea 4 marcheti, et qualche volta non se haveria trovato pur un pan chi havesse voluto pagarlo un ducato, ma che heri sera furon portati molti cari de pan in campo, mandato da le parte de là de la Piave.

Item, dimandato come l’era stà preso, dice, che tutti li sacomani del campo eran venuti a questa volta con una scorta de 300 homeni d’arme per cerchar strami, vini et biave, che pur ne atrovavano, perchè villani non haveano voluto condur le robe sue dentro, ma le hanno ascose, et sono da’ nemici trovate, et che non heri l’altro monsignor de la Paliza ha scrito al re di Franza et a l’imperador, et per questo crede, per la dimora che fano, che l’haspetta la risposta.

 

 

Di Trevixo, di sier Lunardo Zustignan

 

[…] Item, per nostri è stà preso alcuni da i qual pocho si à potuto cavar, salvo da un garzon che dize, l’altro zorno si trovò a Colalto i francesi con li signori di Colalto, e che si consigliavano quello havesse a far, chè vedea todeschi averli soiati, dicendo, voler far pur assai cosse, e li havea conduti fino lì, e hora se ne stevano di là di la Piave, e lhoro francesi di qua, e dubitavano che, come dicesse a’ todeschi de ritornar adrieto, che lhoro non li vegneria in compagnia, ma anderiano a caxa sua, e lhoro stariano in le petole, e che stevano in gran pericolo de esser taiati a pezi, et erano mezi confusi.

[…] Item hanno, etiam el conte Zuam Francesco da Gambara esser andato in gran pressa, con 50 cavali, per la via di Seravale, e va in Val Sugana e a la volta di brexana; non si sa la causa.

 

***

 

Quella mattina, svegliandosi con la nebbia fitta e la fastidiosa pioggerellina a bagnarli il viso più di vapore che d’acqua, la squadra al comando di Mercurio Bua s’era domandata se davvero fosse il caso di proseguire nel loro piano, attaccando di sorpresa i contadini nascostisi nel bosco del Montello. Vero che il loro capitano s’era prodigato il giorno precedente d’insegnarli come muoversi a colpo sicuro in quell’impenetrabile bosco dal terreno irregolarissimo – cortesia delle cartine e indicazioni dei Conti di Collalto - ripetendo all’infinito e rassicurandoli sulle modalità d’attacco, tuttavia il cuore dei soldati ancora tentennava, troppo provato dall’ansia delle brutali imboscate subite per mano di quei villani ribelli. La nebbia non aiutava, semmai acuiva i loro timori, non giudicandosi abili a sufficienza per districarsi in quell’infido bosco e scampare ai loro tremendi abitanti.

Oramai i soldati consideravano i contadini del Montello alla stregua di spiriti malevoli, inafferrabili e immortali, pronti ad assumere la forma degli imponenti alberi per poi balzare fuori all’improvviso e assalirli. Oppure li immaginavano trasformarsi in animali e costì cacciare, affamati e feroci, di notte come di giorno, trasalendo al bubulare della civetta, che li ricordava l’urlo di una donna uccisa e pertanto foriero di sventura.

Mercurio, dal canto suo, non condivideva tali insensate superstizioni da balia, semmai a sentir tale lagne da parte dei suoi stradioti, dei lancieri del Sanseverino e perfino dei gendarmi, perse l’ultimo granello di pazienza e li apostrofò sprezzante:

“Se vi cagate in mano dinanzi a quattro villani, cosa farete sotto le mura di Treviso? V’inginocchierete e succhiandovi il pollice, invocherete piangendo la vostra mamma?”

Personalmente, il greco-albanese era snervato da quella situazione: già ritornando dal pranzo da San Salvatore, l’ignobile spettacolo delle truppe intente a sgavazzare e a compiere scorrerie nei villaggi limitrofi, nelle chiese e negli stessi monasteri l’aveva assai disgustato, ancor più apprendendo come alcuni soldati fossero riusciti a disertare tranquillamente. Inutile aggiungere quanto il condottiero avesse desiderato pigliarli a sberle uno dopo l’altro; qualcuno della sua compagnia pure le ricevette.

A peggiorare la situazione, dei trecento uomini inviati a far provviste e a scortare i carri provenienti dai Collalto e dalla Patria del Friuli ne erano ritornati la metà, in camicia e mutande e ovviamente senza né rifornimenti né cavalli. Dulcis in fundo, il suo prigioniero manco gli aveva rivolto una sola parola, destandosi dal suo profondo sonno d’ammalato giusto per mangiare gli avanzi portatigli e, ringraziatolo distrattamente, se n’era ritornato a dormire incurante degli appelli del Bua a rimanere desto. Tempo addietro avrebbe ringraziato San Giorgio e tutta la sua legione per quel mutismo, invece ora la cosa lo inquietava, non presagendo nulla di buono dall’improvvisa apatia del veneziano. In ogni modo, aveva posto due sue sottoposti a guardia dell’infermeria, per sicurezza.

“Maurikos, non essere così duro nei loro confronti: a furia di prenderle dai villani, hanno imparato a temerli”, tentò Leka Busicchio di spiegare al collega il motivo di tanta agitazione nella compagnia. “Questa nebbia poi non aiuta, credono l’abbiano evocata loro, così come gli spiriti dagli abissi più profondi del bosco …”

“Che! Questo lo so fare anch’io e lo saprebbe fare chiunque”, replicò scettico Mercurio, stringendo le redini onde calmare il suo impaziente destriero turchesco. “Ma verranno poi, questi spiriti, quando i contadini li avranno invocati? L’unico modo per comandare il diavolo è fronteggiarlo e vedrete che non morderà né farà più spavento. Oggi questi fifoni temono i villani, ma vedrai che stasera, ebbri del loro sangue, si scorderanno di ogni paura previamente nutrita verso costoro.”

Azione o paralisi, reagire o subire. Il condottiero non aveva mai esitato sulla sua linea di condotta e s’augurò d’aver ben inculcato tale determinazione anche nei suoi uomini, quando, prima d’uscire da Nervesa per addentrarsi nel bosco del Montello, li aveva domandato se volevano dare soddisfazione ai tedeschi, quando quest’ultimi li ingiuriavano appellandoli pavidi conigli.

“Li dimostreremo che ci sappiamo difendere, che sappiamo farci temere e che non abbiamo bisogno di loro per quest’impresa di Treviso!”, aveva concluso, nella speranza di riuscire effettivamente nel suo piano: come delineato a La Palice, una volta appreso della posizione di forza dei francesi, i tedeschi avrebbero incominciato a sudare freddo, paventando della vittoria degli alleati senza il loro supporto e conseguente esclusione dal bottino. In questo modo, presi per la gola, sarebbero ritornati prontamente a Nervesa.

 

Zanze, la sua sorellina Zuaneta e poco distante da loro l’amica Lussìa stavano terminando di raccogliere gli ultimi rami secchi, riempiendo le rispettive gerle, le orecchie ben tese in ascolto di rumori sospetti: avevano approfittato della nebbia per uscire e far legna, portando l’avanzante autunno sempre più freddo e umidità che rendeva la permanenza nelle grotte poco piacevole e pericolosa, quando la luce sarebbe diminuita e il freddo avrebbe attirato alcuni predatori in cerca di facile preda.

“Nana”, chiamò la contadina la minore, “par ancuò, ghemo finio. Tornemo indrio, finché ghe xé sto caigo (nebbia, ndr.)!” Lussìa già le aveva anticipate, complice il pancione che le dava non poco fastidio alla schiena, rallentandola nei lavori.

La ragazzina annuì, infilando le bretelle della gerla e avviandosi verso il campo, sennonché un sordo rimbombo e il lieve tremore del terreno la gelò sul posto, similmente a sua sorella che si girò di scatto dietro di sé, osservando il latteo velo quasi potesse intuire quale orrido mostro vi si celasse dietro.

“Corate!”, gridò Zanze non appena le sue orecchie isolarono il nitrito dei cavalli e i loro zoccoli battere pesanti al galoppo e il sinistro scricchiolio delle armature. “Lassa star ea gerla e corate!”, spinse via la giovinetta che obbedì immediatamente, arrampicandosi sul terreno in salita, in direzione però opposta del campo. “Nana! Nana!”, tentò d’avvertirla la giovane contadina, ma sua sorella ormai era stata inghiottita dalla nebbia e pure lei non capiva più in quale direzione stesse correndo esattamente, l’unica sua certezza erano i nemici alle sue calcagna.

All’improvviso, una mano sbucata dalla nebbia la ghermì per lo scialle e lei si sentì tirare all’indietro; disperata, Zanze anguillò via in una serie di buffe piroette, rinunciando al capo d’abbigliamento e riprendendo a scattare via veloce. Allora il soldato si sbilanciò in avanti e l’afferrò per la vita, sollevandola di peso malgrado lei si dimenasse impazzita e scalciasse e menasse pugni e schiaffi contro quell’altro che se la rideva divertito. L’uomo se la caricò in sella e tirò le redini per ricongiungersi al suo gruppo, sennonché Zanze torse il busto e gli morse l’orecchio con tutta la forza posseduta dai suoi denti, staccandoglielo e sputandolo per poi passare l’altro. Tremando accecato dal dolore, il soldato perse il controllo del cavallo che a sua volta si spaventò, cavalcando alla cieca e imboccando un dislivello. La bestia v’inciampò, perse l’equilibrio e gli si ruppe il garretto e la gamba anteriore cedette, rotolando essa e il suo cavaliere giù fino alla morte, le ossa fratturate al primo impatto contro il solido tronco d’un rovere, mentre la contadina si limitò a ruzzolare seppur dolorosamente, avendo posseduto sufficienze prontezza di spirito di gettarsi dalla cavalcatura prima della caduta.

Alzandosi non senza notevoli difficoltà, Zanze riprese zoppicando a correre, stringendo i denti insanguinati onde soffocare il dolore al corpo, ma una scudisciata improvvisa la gettò a terra, giunti gli altri compagni del soldato indirettamente da lei ucciso. Ostinata si rimise in piedi e ne ricevette un’altra e poi un’altra ancora, credette volessero assassinarla a furia di frustate e forse non era disprezzabile come fine, almanco le avrebbero risparmiato una sorte ben più vergognosa.

La ragazza strisciò sul terreno fangoso ricoperto di foglie, i polmoni pieni dell’acre odore dell’humus mischiato al suo sangue, premendo sulle ginocchia e sui gomiti e artigliando qualsiasi cosa le servisse a mo’ di leva per proseguire. Ángele Dei, qui custos es mei, me, tibi commissum pietáte supérna, illúmina, custódi, rege et gubérna. Amen!, pregava ferventemente, supplicando in un mantra ossessivo il suo Angelo Custode di pigliarsi la sua anima e di portarla al cospetto di Dio, prima che i soldati si prendessero il suo corpo.

Arrivò infine il buio e Zanze non seppe se si trattasse della morte o di uno scherzo del diavolo atto a tormentarla. In ogni modo, ante d’abbandonarvisi, la ragazza si puntellò sui gomiti e cacciò fuori un urlo spaventoso, neppure i dannati più abietti sguazzanti nei recessi più orridi dell’inferno potevano emularlo: se a lei non era concesso salvarsi almeno lo fosse ai suoi compagni, lanciandoli quell’avvertimento angosciato, l’ultimo suo contributo alla loro lotta per la fede in San Marco.

L’eco di quel grido inumano fischiò nelle orecchie di Lussìa, riuscita malgrado il ventre gonfio a correre fino al loro nascondiglio e dando esagitata il tardivo allarme; appena ebbe il tempo di raggiungere il suo uomo, che le sagome degli stradioti, lancieri e gendarmi francesi si stagliarono nere e compatte, ai loro occhi una schiera di demoni sputati dalle viscere della terra.

“Toga el tròzo (sentiero, ndr.) pel Trevixo, nuj li trategnéremo finché podemo!”, spingeva Berto la sua compagna in direzione di una viuzzia nascosta tra le piccole rocce carsiche, là dove altre donne e bambini stavano correndo.

“No, ti va morir!”, singhiozzò Lussìa, abbracciandolo forte. “Se te mori, moro anca mi!”

Il giovane contadino la strattonò via. “No!”, gridò perentorio. “Ti te va vivar: par mi, par nuostro fio; ti fasse tuto el possibile per farlo nassere e cressare! Zuramelo!”

La ragazza si portò di riflesso le mani al grembo pieno, stranamente tranquillo quasi il bimbo comprendesse la gravità della situazione. “T’eo zuro”, s’asciugò le lacrime col dorso della mano, baciando infelice Berto più a lungo che le venne concesso.

“Corate, lesta!”, si staccò da lei il suo compagno, affrettandosi nella direzione opposta, la picca in mano.

Pur agguerriti e pieni di buona volontà, nulla poterono i contadini in uno scontro diretto coi soldati francesi, agevolati dall’effetto sorpresa e dai loro cavalli che con facilità disperdevano i già disorganizzati villani, impedendo loro di formare un quadrilatero compatto di picche. Simili ai fanciulli che corrono dietro alle oche in cortile per torcerle il collo, così gli stradioti rincorrevano i contadini, sciabolandoli con le scimitarre o infilzandoli con le loro zagaglie, impennando i loro corsieri acciocché questi li colpissero al petto cogli zoccoli, per poi trafiggerli più volte fino a sventrarli.

Alcuni villani più audaci avevano imbracciato i loro archi raffazzonati e colpito i cavalleggeri meno coperti dall’armatura, se non uccidendoli perlomeno colpendoli strategicamente in modo da disarcionarli o per le ferite subite o perché uccisa direttamente la cavalcatura. Ugual trattamento lo riserbò chi, come Berto, puntava contro le bestie le punte acuminate delle picche o addirittura qualche torcia, spaventandole e imbizzarendole. Stae, un compare del contadino, con la falce ferì fin quasi ad amputare le gambe di un cavallo; la bestia nitrì agonizzante e cadde sul fianco, trascinando seco lo stradiota che prontamente venne ucciso dai due uomini.

Un profondo ululato seguito da latrati e urla di sorpresa e di dolore attirò l’attenzione di Berto e il cuore gli scese nello stomaco, realizzando la comparsa di una piccola muta di cani, i quali sguinzagliati dai francesi davano man forte ai loro padroni. Calciando via l’avversario abbattuto, il contadino strinse la picca e affrontò il prossimo, evitando d’un pelo l’affondo della sua spada, per infilzarlo alla gola. Un altro lo impirò all’inguine e un ultimo alla coscia. Aveva appena staccato la punta dalla carne di un saccomanno ruzzolato ai suoi piedi, che una figura scura gli balzò contro di peso e un dolore indescrivibile gli artigliò il braccio viaggiando fino al cervello.

Berto gridò come mai aveva fatto in vita sua, la carne martoriata dai denti del cane, il quale ringhiando strattonava, affondava i denti giallastri nel sangue zampillante misto alla sua saliva, affatto desideroso di mollare la preda. Un altro di questo azzannò il contadino al fianco e questi cadde per terra, tremando d’acutissimo dolore e soffocato dal vomito, invocando la morte che però si presentò curiosamente nei panni del suo amico Stae. Il primo cane si ribellò alla presa alla gola da parte dell’uomo, cercando di morderlo ma questi, estraendo un pugnale dalla cintura, lo sgozzò come i porci a San Giovanni mentre al secondo cane si limitò di piantargli la lama nelle viscere, ammazzandolo tra i patetici guaiti della bestia.

“Berto! Berto!”, chiamò Stae lo semisvenuto compagno, afferrandolo per il braccio sano e issandolo su onde nascondersi dietro un luogo riparato. Berto aprì la bocca, gorgogliando sangue e schiuma, sforzandosi con ogni fibra del suo essere d’avvertirlo nella sagoma dietro di lui, la quale levò in aria la scimitarra e la calò in un rapidissimo sibilo sull’amico, in un sinistro scricchiolio dell’ossa craniche.

Sangue e cervella imbrattarono il contadino, trascinato per terra dal corpo del compagno ucciso e scosso dagli ultimi spasimi, la faccia deformata in una maschera grottesca, gli occhi improvvisamente strabici che lo fissavano vacui e torbidi. Anche Berto avrebbe seguito Stae nell’Aldilà, n’era conscio, però ai suoi termini: afferrato il pugnale dalla mano ancora calda dell’amico, facendo appello alle ultime forze il giovane contadino si scagliò contro Mercuria Bua, il quale, senza neppure battere ciglio né scomporsi, lo colpì di traverso per il collo, lasciandogli la testa a malapena attaccata.

Appurata la morte di quel pazzo temerario, il condottiero si guardò velocemente attorno, analizzando la situazione e giudicandola a loro vantaggio -  oramai in pochi erano sopravvissuti al violento scontro - urlò alla sua compagnia: “Setacciate le grotte! Prendete ogni loro bestia, ogni provvista! Spogliate i cadaveri di ogni loro bene! Uccidete chi non s’arrende e fate prigioniero chiunque lo faccia! Tutto ciò ch’apparteneva a questi ribelli è vostro, le loro donne comprese!”, li comandò, mulinando in alto la scimitarra a mo’ d’incoraggiamento.

Più in là, in direzione dell’agognato limite del bosco, un'ansante Zuaneta galoppava aiutata dalla rapidità figlia della disperazione, incespicando di tanto in tanto e rimettendosi in fretta in piedi, il corpicino suo di dodicenne ridotto ad un Ecce Homo di tagli e graffi.

Un singulto le scosse il petto nel captare l’ululato dei cani, i quali stavano avvertendo i padroni della preda fiutata e pronta alla cattura. La ragazzina accelerò fin quanto le gambe glielo permisero, ma già sentiva le forze abbandonarla e, ultima spes, decise quindi di tentare il tutto per tutto. Giunta ai piedi di una farnia, s’aggrappò alla ruvida corteccia, allungando il braccio verso il primo ramo e pian pianino s’issò su di esso. Puntò il piede e si spinse a quello sopra e via così salì fino a nascondersi tra le fronde. Zuaneta s’appiattì al centro della farnia, tremando tutta da capo a piedi, tappandosi la bocca e imponendosi di trasformarsi in un silenzioso topolino e pregando che non la trovassero.

L’abbaiare festante dei cani ruppe questa sua speranza, così come i loro balzi e il continuo e inquieto graffiare sul tronco. Lo scalpiccio di zoccoli confermò i suoi peggiori timori e gli schiamazzi divertiti dei lancieri non tardarono a riverberare nell’aria, ferendola peggio di una frustata.

Cosa dicessero, lo ignorava. Tuttavia ben vedeva il modo in cui uno di loro sventolava beffardo la sua vesticciola, strappatale di dosso quando l’altro suo compare pensava d’averla atterrata e invece n’erano rimasto gabbato, ché Zuaneta era sì stata allevata nella pudicizia, ma scaltra abbastanza da afferrare in caso di necessità i coglioni di un uomo e torcerglieli e stringerglieli al punto da farlo urlare, come insegnatole da sua sorella Zanze. Sgusciando via dal dolorante soldato, la fanciulla aveva ripreso la sua fuga, nuda come il giorno in cui uscì da sua madre e forse ciò aveva infoiato i compagni del demascolinizzato, chissà. Certamente aveva fornito una traccia ai cani.

L’albero tremò, seguito da colpi di ferro, divertendosi infatti i lancieri e gendarmi a fingere d’abbattere la farnia, tra risa, fischi e lerce promesse su ciò che le avrebbero fatto una volta avutala tra le mani. I cani, nel frattanto, saltavano sempre più in alto, ringhiando rabbiosi.

Zuaneta guardò il gruppetto di soldati, i cani e poi il vuoto sotto di sé. Era alto a sufficienza? Se si fosse lasciata cadere di schiena, avrebbe sbattuto la testa abbastanza da morire sul colpo? Domine Iddio l’avrebbe perdonata per quel suo gesto? Lui leggeva il suo cuore, leggeva la sua paura, avrebbe avuto di lei pietà?

La dodicenne s’erse in piedi, dondolando in precario equilibrio sul ramo che già scricchiolava sotto il suo peso. Fece lentamente tre volte il segno della Croce, confessò al Padreterno i suoi peccati, e s’apprestò a porre fine a quell’immeritata sofferenza.

Quand’ecco, una voce virile dalla calata della sua gente, le ridiede speranza.

“Voltati, figlio di puttana e prenditela con un uomo!”

Per aiutarla ad addormentarsi alla sera, sua sorella Zanze le raccontava le vite dei Santi e spesso Zuaneta sognava d’essere la principessa salvata da San Giorgio. Ed eccolo là, neanche fosse sceso di persona dal Cielo, galoppare sul suo destriero bianco latte incontro al drago antropomorfo che l’insidiava, la zagaglia abbassata in attacco pronta a colpire.

Il cavaliere si scagliò ferocemente gagliardo contro il gendarme, colto quest’ultimo alla sprovvista: abile, egli aveva approfittato della visiera alzata del francese per colpirlo dritto in faccia, in mezzo agli occhi senza neppure concedergli il tempo di chieder perdono dei propri peccati. Voltò il cavallo e si preparò a fronteggiare gli altri, mentre i suoi compagni s’aggregavano a lui, dando battaglia senza concedere alcuna via di scampo. Uno di questi cavalleggeri infilzò a guisa di cinghiale i cani, i quali s’accasciarono in un sordo tonfo ai piedi della farnia.

Finalmente calò il sospirato silenzio.

“Desmonta de là! Vien zoso, putela, semo zente in fede de Sen Marco!”, si portò sotto il cavaliere, scendendo da cavallo e sbirciando tra i rami. Si tolse l’elmo, liberando un’arruffata zazzera scura e due occhi nerissimi, incastonati in un viso addolcito da un’espressione cortese e rassicurante. “Non temere: non ti farò alcun male. A casa, a Veniexia, ho moglie e tre bambini più piccoli di te”, le raccontò onde metterla a proprio agio e darle confidenza.

Tirando su col naso, Zuaneta si sporse tra il sospettoso e l’incuriosito, chiedendo con una vocina tremula: “Chome se ciameli?”

Il cavaliere le sorrise teneramente. “Zanzi, Ina e Scipio. Il primo ha sette anni, la seconda sei e il terzo è ancora in culla.”

“Zanzi per Anzolo?”

“Sì.”

“Anca la mia sorea la se ciama Anzola, ma tutti ea ciaman Zanze.”

“Che bello! Tu invece?”

“Mi Zuanna o Zuaneta. O Nana, perhò solo la Zanze la me pol ciamar cussì!”

“D’accordo, mi riferirò a te come Zuaneta. Ma adesso, splendore, scendi giù da lì, così ti posso aiutare a ritrovare la sua sorella Zanze!”, le promise il cavaliere, stendendo incoraggiante le braccia verso di lei.

Che Iddio gliela mandasse buona, la ragazzina scese cautamente, ponendo attenzione a non scivolare né a posizionare il piede su di un ramo marcio o rotto. Balzò giù dall’ultimo ramo (o primo a seconda dei punti di vista), atterrando esattamente davanti al cavaliere, il quale s’inginocchiò, si sciolse immediatamente il nodo al mantello e lo usò per coprirla, abbracciandola di rimando quando Zuaneta gli cinse il collo, scoppiando in un pianto isterico e sconquassante.

“Brava … sei stata bravissima … più coraggiosa di una leonessa … è finita, sei in salvo, sei al sicuro … ssshh, è finita …”, le accarezzava la schiena Marco Miani, consolandola intanto che la contadinella si sfogava in quei singulti liberatori, battendogli sul corsaletto i pugnetti dai palmi spellati dalle infinite cadute per terra. Non gli diede fastidio l’umidità crescente al collo, irrorato delle grasse lacrime della fanciulla né il pungente odore di urina che la permeava per ovvi motivi. “Quanto te la senti ti parlare, raccontami tutto. Di tua sorella, da dove vieni, cos’è successo alla tua gente.”

Zuaneta sciolse la sua presa, stropicciandosi gli occhi. “Siorsì”, annuì e al meglio delle sue capacità gli riassunse quanto accaduto, di come quella mattina lei, sua sorella Zanze e Lussìa fossero andate a raccogliere legna, dell’arrivo dei francesi, della forsennata fuga e di come si fosse separata accidentalmente da sua sorella. “Questo xé queo che mi sciò, patron”, terminò il suo racconto, stringendosi il mantello sull’esili spallucce.

“Brava la mia guerriera”, le diede il Miani un giocoso buffetto sulla guancia sporca di terra e lacrime e la ragazzina gongolò orgogliosa, arrossendo notevolmente.

Dietro di lui ritornava intanto uno stradiota della compagnia di Teodoro Paleologo, staccatosi dal gruppo in rapida esplorazione, il quale informò sottovoce il suo capitano. “Kyrie Markos”, richiamò infine il condottiero la sua attenzione a discorso terminato.

“Ditemi.”

“I miei esploratori mi hanno riferito di uno scontro poco distante da qua. Forse la piccoletta è da lì ch’è scappata via.”

“Uno scontro?”

Il greco confermò. “Non osiamo avvicinarci troppo, non adesso almeno. Fra poco, se vorrete controllare. I ladri non sostano mai a lungo dove hanno rubato.”

Alla categoria dei codardi gli stradioti di certo non appartenevano, dunque sussisteva un altro motivo per il quale si rifiutavano di cavalcare in quel luogo di morte. “In quanti sono?”, s’informò cauto il patrizio. Paleologo glielo riferì. “Sacramento!”, imprecò allora Marco tra i denti, stringendo stizzito le dita sull’elsa della spada. “La cavalleria pesante? Questa non corrisponde ad una fortuita imboscata, bensì ad una spedizione ben pianificata ch’andava a colpo sicuro.”

Il capitano di ventura si ritrovò d’accordo, grato della perspicacia del veneziano. “Sono troppi per noi e verremmo sopraffati facilmente, specie adesso che si sono insuperbiti da questa vittoria!”

“Tranquillizzatevi, kyrie Theodoros, condivido appieno il vostro punto di vista. Neanche io ho alcun’intenzione di finire prigioniero dei francesi, men che meno di quel tartaro di Merkourios Buas. Io e lui abbiamo un conto in sospeso e voglio terminarlo alla pari, non certo in catene!”, digrignò i denti Marco, sollevando di peso Zuaneta e sistemandola sulla sella. Inforcata la staffa, salì in groppa anch’egli d’Eòo. “A questo punto approfittiamone per cercare i superstiti, finché c’è luce. Treviso ha bisogno di quante più braccia possibili per terminare le mura”, suggerì poi.

Si sforzava di mascherare il suo disappunto dietro una maschera di distaccata professionalità; nel suo intimo ribolliva in realtà di rabbia scellerata, frustrato all’infinito da quell’ennesimo imbroglio. Dai rapporti degli esploratori aveva creduto l’Abbazia essere infine aperta ad incursioni notturne, impegnati i francesi a guardarsi le spalle sia dai tedeschi che dai contadini del Montello a sud-est, dalla valle, per realizzare la loro scarsa difesa al lato nord-ovest del monastero, quello che dava direttamente sul bosco. Se invero Mercurio Bua aveva liquidato nel sangue il problema dei villani ribelli, avevano purtroppo perso un validissimo alleato ché i superstiti si sarebbero ancora più rintanati nel bosco e forse non avrebbero più collaborato coi marciani, pensando soltanto a salvare la pelle.

Quel greco-albanese … Marco dubitava d’aver mai odiato in vita sua una persona così tanto, ecco forse l’anonimo assassino senza volto di suo padre poteva superarlo nel podio per intensità … Era stato ad un passo dal liberare Momolo, quella notte avevano intenzione di ritentare l’assalto e invece!

Stramaledetto Bua, che il diavolo se lo ingoiasse e lo cagasse in un pitale di fuoco!

“Vinceremo questa guerra?”, gli chiese di punto in bianco Teodoro Paleologo, squadrandolo lungamente.

Miani arcuò un sopracciglio. “Ne dubitate?”

“Le notizie dalla Patria del Friuli non sono buone. Tutti i nobili friulani stanno aprendo le porte delle loro città, andando incontro ai tedeschi e alcuni perfino all’Imperatore.”

“Puttane”, commentò lapidario Marco.

“Forse davvero siamo stati maledetti, kyrie Markos. Forse è vero che ricevendo i poteri direttamente da Theos, Maximilianos possiede facoltà soprannaturali …”

Il patrizio veneziano si sganasciò dalle risate, gettando indietro il capo. Zuaneta levò lo sguardo in alto, incuriosita da quello scatto d’ilarità. “Suvvia, kyrie Theodoros, non lasciatevi influenzare da queste insulse storielle né dalle vostre antiche credenze sulla figura del Basileus. V’assicuro che Maximilianos è un uomo di carne e sangue, che s’abbassa le braghe e caga e piscia come noialtri, se non di più! Ed uguale a lui anche il Papa, il re Ludovico e tutta la loro allegra masnada d’altezzosi piscialletto, che si credono Missier Domeneddio in terra solamente perché hanno avuto culo di nascere in una reggia invece di una stalla. E a proposito di stalla, ricordate che solamente Uno a questo mondo fa miracoli e prima o poi anche Lui si nauserà delle porcate di queste bestie. Theos è con noi e ci darà giustizia e così la Parthena Maria. Noi dobbiamo resistere e impegnarci al meglio delle nostre possibilità.”

“Aiutati che Theos t’aiuta.”

“Appunto.”

Requiem aeternam dona eis Domine et lux perpetua luceat eis, requiescant in pace. Amen. Una volta rientrato a Treviso, quella sera Marco accese una candela all’altare della Madonna dell’Umiltà nella chiesa-tempio di San Nicolò per le anime dei contadini morti sul Montello, commilitoni sconosciuti ma a lui non meno vicini e fraterni, forse rimasti insepolti alla mercé delle bestie notturne, senza un funerale né una messa. Pregò affinché Dio li giudicasse per i loro meriti e non per le loro colpe, concedendoli quel ristoro e quell’abbondanza negata in vita nonché la Sua protezione ai loro famigliari sopravvissuti, che resistessero saldi nella salute e nella fede fino alla liberazione. Pregò che il provveditore Zuam Paulo Gradenigo cangiasse idea, concedendogli di continuare ad affiancare i Paleologi nelle loro perlustrazioni, invece d’arrostire d’ansia a guardia del Castello. Pregò per Momolo e per Zanze, di riuscire a salvarli; pregò per la sua famiglia.

Poco prima Marco aveva affidato Zuaneta alle cure di madona Maria Malipiero Gradenigo, la quale dopo averla personalmente lavata le aveva regalato un bel vestitino e delle pianelle nuove. Offertole infine un abbondante pasto caldo, la nobildonna aveva poi accompagnato l’intimidita fanciulla a Palazzo, tenendole compagnia mentre suo marito sier Zuam Paulo l’interrogava circa gli avvenimenti della giornata.

Levando gli occhi sull’antica immagine della Madonna allattante il Bambino, il Miani ripercorse mentalmente la breve e sussurrata conversazione avuta con la moglie del provveditore, invocando soccorso e forza alla Madre di Dio, per non arrendersi, per mantenere in lui salda la virtù teologale della Speranza, verde-vestita come il Figlio nell’affresco, sedutoLe sulle ginocchia.

“Se non v’incomoda, sier Marco, vorrei tenere meco Zuaneta in qualità d’assistente in ospedale, almeno finché non si ricongiungerà con la sua famiglia. È una brava donnina, obbediente e lavoratrice.”

“Non potrebbe avere protettrice migliore di voi, madona Maria.”

“Via, adulatore!”

“Quale missiva, se posso chiedere, è giunta a vostro marito da spingerlo a rinchiudersi col Podestà e i capitani a Palazzo, senza consultare il resto del Consiglio?”

“Dubito poterne parlare liberamente, sier Marco.”

“Suvvia, il mio barba è consigliere ducale: ne verrei ugualmente a conoscenza.”

“D’accordo, a condizione però che ve lo teniate per voi: il Consiglio dei Dieci ha inviato un piano segretissimo per la distruzione del ponte sulla Piave.”

“Perché non ci è stato comunicato? Avrei potuto distruggerlo io oggi stesso, intanto che quei dannati erano impegnati a massacrare i contadini!”

“Perché la Patria del Friuli è persa o lo sarà presto, sier Marco. Stamane in Collegio c’è stata una grande agitazione alla notizia di come sier Alvixe Gradenigo, luogotenente della Patria, abbia abbandonato di gran fretta Udene, senza portarsi via l’artiglieria o perlomeno inchiodarla. Molti rettori di castelli stanno disertando le loro postazioni; i Conti di Porcia hanno offerto la loro dedizione all’Imperatore. A Spilimbergo il castellano esiliato Zuane Erico ha catturato il provveditore Jacomo Boldù e consegnato lui e la città agli imperiali.

“Non possiamo sbilanciarci troppo al di là della Piave. Ormai la linea di confine s’è assottigliata. Un conto è inviare esploratori, un conto è distruggere il ponte: richiederebbe un’operazione perigliosa a rischio di troppi uomini. Non ci è concesso questo lusso, lo sapete. Dobbiamo accettare che questo turno lo stanno vincendo i franco-imperiali e adeguarci di conseguenza.”

“Il provveditore degli stradioti sier Ferigo Contarini ci raggiungerà presto qui a Trevixo. E vedrete, madona Maria, quanto più dolorosamente cade chi ha creduto di toccare il cielo!”

“Dio v’esaudisca, sier Marco. Dio v’esaudisca.”

 

***

 

Uno dei privilegi di ricoprire la carica di consigliere ducale includeva la possibilità di piombare all’improvviso in camera del Serenissimo senza premura d’annunciarsi, né di rispondere alle domande delle sue guardie del corpo sui come dove e perché di quella visita, scaltro espediente atto ad impedire al Doge di tramare contro la Repubblica e in generale per comunicargli in tempo reale urgenti notizie e altre peculiarità legate al suo ufficio.

Un trafelato cancellerie da Palazzo aveva strappato sier Carlo Morexini “da Lisbona” dal sonno e dal talamo nuziale, spronandolo a correre difilato al piano nobile e svegliare suo padre sier Batista, il quale, udito il conciso messaggio, aveva spedito il segretario e i suoi emissari a radunare quanto prima gli altri cinque consiglieri ducali, intanto che si vestiva alla bell’e meglio, aiutato contemporaneamente dal figlio e dalla moglie e soltanto in gondola ebbe il tempo di infilarsi le pianelle rosse, raddrizzandosi la vesta abbottonata di traverso e la stola.

Giunto a Palazzo Ducale e fattosi riconoscere, assieme ai suoi colleghi era entrato negli appartamenti dove dormiva Missier il Doxe Lunardo Loredan, scuotendolo delicatamente e così rendendolo partecipe, in letto e ancora con la berretta da notte e in camicia, del disastro in procinto d’avverarsi.

Le loro spie avevano scoperto e riferivano come, di fronte ad una situazione militare insostenibile e alla possibilità di saccheggio e distruzione di Udine, domino Antonio Savorgnan aveva accettato di negoziare coi messi imperiali nonché le loro generose offerte, ossia il mantenimento di tutti i suoi feudi e proprietà in cambio della sua perpetua fedeltà alla casa von Habsburg. Con le cernide di 5.000 e passa uomini al soldo del Savorgnan; l’imminente occupazione di Udine e l’artiglieria ivi trovata, mancava all’appello soltanto Gradisca d’Isonzo e la conquista della Patria del Friuli poteva dirsi completata.

In un sol giorno, Antonio Savorgnan aveva disconosciuto l’alleanza centenaria del suo casato con Venezia.

Il doge Lunardo Loredan s’accasciò sul materasso, sprofondando quasi nella turchesca che l’avvolgeva. Dopodiché, balzando giù dal letto, il suo volto scarno e rugoso si tinse di scarlatto e scagliò certe maledizioni contro il conte ribelle da superare in fantasia le Dieci Piaghe d’Egitto. Passandosi una mano tremante sugli occhi, implorò al Minor Consiglio e al Consiglio dei Dieci di porvi rimedio, in qualsiasi modo ritenessero più idoneo: stipulare una tregua, pagare il riscatto della Patria, cercare di persuadere il Savorgnan a ritornare dalla parte della Serenissima, punire per la loro negligenza sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo …

Il povero sier Hironimo Querini, capo dei Dieci, assieme a tutti i suoi colleghi ascoltavano il Doge costernati e indecisi su quale soluzione prendere, lì così su due piedi senza alcun consulto, almeno per dar qualche appiglio di consolazione al Serenissimo, che già piangeva la caduta di Treviso e la fine della Repubblica.

Al che sier Batista Morexini dichiarò colmata la misura di quella tragedia da due soldi e, avanzando in mezzo alla stanza, interpellò risoluto sier Hironimo: “Lustrissimo collega, come voi ora anch’io feci parte del Consejo dei X e conosco lo scopo per cui fu costituito. Se dobbiamo sporcarci le mani per la salute della Signoria, lo facciamo di buon cuore.

“Avé sentio i capitoli: domino Antonio Savorgnan è un ribelle traditore e così va trattato. È inutile corrergli dietro alla stregua di una donzella respinta. Il tempo della misericordia, dell’onestà, della guerra all’italiana è finito: Impero, Franza, Mantoa, Frara si credono più forti e crudeli di noi? Li dimostreremo che Veniexia al bisogno sa e può superarli.

“Dobbiamo fare di Antonio Savorgnan un exemplum, acciocché gli altri nobili di terraferma sappiano cosa li aspetta, in caso gh’avian el muso di tradir la Signoria. Lui, il figlio don Nicolao, suo fratello Zuanne, i suoi nezzi Francesco, Bernardin … tutta la sua casata!”

“Ma don Nicolao è un canonico!”

“Donca? Anche i religiosi tradiscono!”

Un mormorio di consenso riempì la sala e il Doge stesso aveva assunto un’espressione attenta, piacendogli la prospettiva di fare del traditore friulano un esempio per il resto della nobiltà feudale di terraferma così da infrangere la loro illusione di perpetua immunità.

“Il cugino del ribelle, domino Hironimo Savorgnan, in questo preciso momento si starà anche lui recando dall’Imperatore Maximiano, forse per capire quale profitto può ricavarne da un eventuale vassallaggio”, seguitò sier Batista, ripetendo quando appreso dalle spie e delineando un certo piano, che gli era venuto in mente durante il tragitto da Ca’ Morexini a Palazzo Ducale. “Ora, dalle informazioni ottenute durante il mio mandato nei X, so  per certo che domino Hironimo sempre è stato segretamente geloso del cugino Antonio, per il suo potere e reputazione nella Patria, nonché per la grande stima che la Signoria nutriva nei suoi confronti. Pertanto, in virtù di tanta fama ed eccelse qualità, sono pronto a scommettere che anche l’Imperatore preferirà il Savorgnan ribelle rispetto a quello ancora … nostro.”

All’epoca il “da Lisbona” non aveva potuto sfruttare tale rivalità tra cugini; adesso invece cascava a pennello ché facendovi leva avrebbe impedito ai due parenti d’unire le forze e di soccorrersi a vicenda e dove uno aveva fallito, l’altro avrebbe rimediato. Un altro fattore non trascurabile su cui far leva rimanevano i matrimoni d'Hironimo Savorgnan: dopo la prima moglie, Maddalena della Torre, egli s'era legato al patriziato veneziano sposando le nobildonne Felicita Trum, Biancha Malipiero ed infine, due anni addietro, madona Orsina da Canal di sier Hironimo, già vedova di sier Marco Antonio Marzello.

“Dunque proponete di confiscare i beni, le terre, i castelli ad Antonio Savorgnan per cederli a suo cugino domino Hironimo?”, concluse sier Hironimo Querini. “In questo modo egli otterrà ciò cui ha sempre ambito: autorità in Friuli, la fiducia della Signoria e il ruolo di capo del partito dei zambarlani.”

Sier Batista annuì gravemente, seppur la bocca gli s’arricciasse in una piega compiaciuta assai poco raccomandabile. “Cao de zambarlani? Certo, glielo faremo credere”, fu la sua acuta puntualizzazione.

In realtà, spiegò il Morexini ai suoi colleghi, Hironimo Savorgnan sì sarebbe divenuto il nuovo signore Savorgnan, sì il nuovo principe-cliente di Venezia ma capo del partito filo-veneziano in Friuli? Soltanto di facciata e non più autonomo com’era stato in passato con suo cugino. I nobili friulani avevano ripagato la fiducia della Serenissima col peggiore dei tradimenti  - asseriva il consigliere ducale - mai più avrebbe la Signoria abbassato la guardia né allentato la presa su coloro che sarebbero sopravvissuti alla sua vendetta.

“E domino Antonio Savorgnan? Come vi pare si debba procedere nei suoi confronti?”

Oramai era chiaro che non ci sarebbe stato per il Conte alcun mandato di cattura, né un processo pubblico né alcuna offerta di riappacificazione. Si discusse piuttosto sulla ricompensa da riservare a chiunque riuscisse ad uccidere il ribelle, giungendo alla ragionevole cifra di 5.000 ducati e della revoca del bando o l’amnistia da ogni condanna per qualsiasi crimine commesso. In questo modo, giudicarono soddisfatti il Doge, i Dieci e il Minor Consiglio, nessun angolo della terra conosciuta all’uomo sarebbe stato sicuro per Antonio Savorgnan, in perpetua fuga e costretto a guardarsi le spalle fino alla fine dei suoi giorni, Deo volente assai presto. Il contratto d’assassinio sarebbe stato poi archiviato nella “Secretissima”.

“Gli strumieri ci libereranno di lui.”

“Quei vigliacchi, ribelli traditori filo-imperiali? Dobbiamo proprio trattare con loro?”

“Sì, perché stavolta abbiamo un nemico in comune”, ribatté conciso il consigliere ducale alle giuste obiezioni degli altri senatori. “Anche se adesso Antonio Savorgnan parteggia per l’Imperatore, non dimentichiamoci come egli in passato abbia servito zelantemente la Signoria, portandolo a massacrare per gli interessi suoi e nostri intere famiglie di strumieri. Un fatto di sangue che i suoi conterranei non avranno di certo dimenticato assai facilmente. Né perdonato.”

Alleandosi cogli strumieri – illustrò pragmatico - sarebbero riusciti a braccare Antonio Savorgnan in breve tempo e giustizia compiuta senza lordarsi direttamente le mani. Compito dei Dieci sarebbe stato di scovare tra i nobili friulani chi tra questi era stato particolarmente danneggiato dai saccheggi del “Crudel Zobia Grassa”, fomentato e diretto dal Savorgnan stesso, e di conseguenza disposto ad ogni compromesso pur di vendicarsi dell’ex-capo della fazione zambarlana.   

Dategli ciò che vogliono-  insistette sier Batista - dategli appunto sangue e vendetta per i massacri, gli stupri e saccheggi subiti dai zambarlani capeggiati dall’antico alleato della Repubblica. Che questi nobili si scannassero pure tra di loro per riacquistare l’onore perduto, cosicché nessuno avrebbe potuto in seguito affermare che la Signoria aveva in realtà architettato ogni singolo dettaglio di quell’esecuzione. E anche supponendo che quegli strumieri avessero deciso di denunciarla, esponendo al mondo la sua complicità, hé, chi li avrebbe mai creduti? In fin dei conti, non erano anch’essi dei traditori filo-imperiali esattamente come il Savorgnan? Nessuno si sarebbe stupito se la Signoria avesse deciso prontamente di sbugiardarli e di giustiziarli. L’ombra della spada del boia già accarezzava infatti il loro collo, gli strumieri non avevano nulla né da perdere né da rivelare. Ecco, forse potevano togliersi l’ultima soddisfazione di vendicare l’onore offeso delle loro donne.

“Ed in nome dell’onore, rinunceranno alla loro libertà e diverranno nostri vassalli per sempre”, concluse solenne il Morexini il suo discorso. In nome dell’onore mostreranno con orgoglio le nostre catene, concluse a menteIl consigliere tacque in una significativa pausa e, non ricevendo repliche, intrecciò le mani davanti a sé, in attesa del verdetto finale del Consiglio dei Dieci.

Missier il Doxe Lunardo Loredan prese un profondo sospiro e, alzandosi dal letto, sentenziò: “Vae Antonio Savorgnano”, invitando, se  la soluzione li garbava, sier Hironimo Querini e il resto del Consiglio d’attivarsi onde procedere come suggerito, in via straordinaria ovviamente date le circostanze, da sier Battista Morexini, il quale si scusò timido e modesto, giustificandosi e sostenendo la sua riluttanza a volersi far consigliere dei Dieci. Soltanto, considerata la magra figura di due sue membri – videlicet sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo – e possedendo lui un poco (molta) esperienza come ex-consigliere e segretario dello stesso organo esecutivo, ecco, ci teneva a condividere le sue informazioni onde sostenere i suoi colleghi senatori in questo difficile momento, tutto per la salvezza della Signoria.

D’altronde, già era stato strano coinvolgere il Doge in quella discussione dove solitamente lui ascoltava e annuiva a decisioni previamente approvate e trascritte; una piccola e tuttavia condonabile eccezione poiché in guerra bisognava per sopravvivere dimostrare una certa flessibilità.

“Secondo voi”, fermò sier Hironimo Querini il “da Lisbona”, proprio mentre quest’ultimo stava per risalire sulla sua gondola. “Maximiano vincerà questa guerra?”

Al consigliere ducale sorse una gran voglia di grattarsi i coglioni, soltanto che in pubblico, malgrado l’ora tarda, proprio non sarebbe stato il caso. Già sua moglie lo chiamava vecchio satiro libidinoso, meglio non coinvolgere anche l’intera Piazza San Marco. “Non vincerà”, condivise spassionatamente la sua opinione. “Maximiano è abile a conquistare terre, ma che poi sia in grado di mantenerle, hé, quest’è un altro paio di maniche …” se ne sarebbero accorti i friulani, una volta giunte le esose e irragionevoli tasse dell’Imperatore.

Magra consolazione? Folle speranza? Chi lo sa.

Sier Batista, finalmente nella sua felze, si levò la bereta e si passò una mano sulla fronte, massaggiandosi poi gli occhi stanchi quanto la sua anima. Arrivare all’apice o quasi del potere a Venezia significava sobbarcarsi delle decisioni più spietate e impopolari, soffocando ogni afflato di rimorso e di pietà cristiana e in quegli anni di guerra, tali occasioni divenivano sempre più frequenti, tanto che in alcune occasioni, a Messa, l’anziano patrizio per poco giurava d’udire distintamente le maledizioni scagliategli contro da tutti coloro che, per la sopravvivenza della Serenissima, lui e i suoi colleghi avevano cinicamente disposto.

Presto Antonio Savorgnan si sarebbe aggiunto a quel coro di voci accusatrici. E anche i senatori sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo.

“No, vira da st’altra parte!”, gridò al pope de casada, indicandogli dove voleva recarsi. Non al suo palazzo, dove l’attendeva la sua buona ma petulante moglie. Il suo vero erede sia spirituale che terreno Carlo, per quanto solidale, aveva da badare alla sua bella e giovane Maria e a Dio piacendo una famiglia sua. Gli altri suoi figli Nicolò, Ferigo e Hironimo? Mah, che avrebbero capito dei suoi crucci, loro che disprezzavano quel mondo che neppure conoscevano, interessati più alle questioni celesti che terrene? Neanche Luzietta poteva consolarlo dalla solitudine e dalla malinconia, pur tenera e amorosa come sempre, tuttavia anch’ella sul viale del tramonto. Ah, l’esser vecchi e aver vissuto troppo a lungo! 

Sarebbe andato da Leonora, l’unico suo porto sicuro in gran tempesta, l’unica a cui credesse quando lei gli sussurrava teneramente materna: Andrà tutto bene.

Una volta giunto a Ca’ Miani, infatti, il servitore Baldissera non si stupì di scorgerlo all’uscio della porta d’acqua e lo scortò fino al piano nobile, dove già la sua padrona, avvertita, lo attendeva.

Sier Batista non proferì parola, si lasciò guidare dalla sorellastra accanto al caminetto e una volta seduta lei sullo sgabello e lui sul cuscino, le appoggiò il capo sul grembo come solevano fare da giovani e nubili, quando Leonora lo consolava per un rimprovero particolarmente severo o per una delusione amorosa o semplicemente per sentire le sue invettive contro l’eterno rivale Anzolo Miani. All’epoca e adesso gli accarezzava il capo, silente, in attesa che il fratellastro incominciasse a sbottonarsi con lei, aprendole il suo cuore.

Pur legato dalla segretezza del suo ufficio, tra lui e Leonora non esistevano segreti. Le confessò ogni discorso, ogni preoccupazione, quasi cercasse da parte sua un’assoluzione, valutando il suo giudizio migliore di quello di un qualsiasi prete.

In particolar modo, le rivelò quanto soffrisse per l’infamia che si stava per abbattere su sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo. Il voltafaccia del Savorgnan avrebbe trascinato nell’onta i suoi sostenitori nel Senato e chiunque fosse rimasto coinvolto nei recenti eventi della politica veneziana in Friuli, vittime innocenti di feroci rappresaglie politiche e nessuno, il “da Lisbona” se lo sentiva, avrebbe mai pagato tanto quanto il Loredan, ingiustamente poi: il giorno prima del tradimento di quel pezzente, gli oratori di Udine avevano persino chiesto, per via della sua esperienza e reputazione, di far nominare proprio sier Andrea luogotenente della guarnigione locale, nutrendo in lui la massima fiducia e stima.  Da alcuni senatori sier Batista aveva poi appreso come sier Andrea avesse intenzione l’indomani di sborsare una notevole cifra di ducati, onde pagare di tasca propria le truppe stanziate a Padova acciocché potessero soccorrere Treviso.

Venezia nelle punizioni si dimostrava cieca e implacabile, il Morexini lo sapeva: il Loredan, Capelo e i  loro infelici compagni di sventura sarebbe divenuto una pietra di scandalo, ostracizzati e la loro carriera congelata finché sarebbe piaciuto alla Signoria e la sua collera placata. Avevano sbagliato, certo, ma comunque spinti dalle migliori intenzioni.

“Spero che l’uccidano e anche presto”, mormorò sier Batista, nascondendo il volto stanco sul velluto della gonna nera di Leonora. La mano di lei si posò delicata sulla sua e soltanto allora egli s’accorse di quanto stesse tremando.

Perché poi? Un tiro del genere da tempo l’aveva sospettato, addirittura quasi profetizzato; ciononostante, per quanto ci si prepari al peggio, esso costantemente riusciva a sorprendere e a ferire.

Poco importava, oramai. Questione di ore ed Udine si sarebbe consegnata agli imperiali, indipendentemente da cosa sier Batista avesse o non avesse fatto per impedirlo.  

Il futuro si trasformava velocemente in presente e subito finiva relegato nel passato; tendersi di nuovo al futuro, giocare d’anticipo prima ancora d’ipotizzarlo. Non c’era spazio per il presente men che meno per il passato.

Soltanto il futuro, soltanto il futuro. Indefinibile, malleabile, volubile. Un regno senza sovrano dove tutto era possibile, anche vincere quella stramaledetta guerra ribaltando clamorosamente i giochi.

 

***

 

Trascinando il letto presso il muro e nello specifico sotto la finestra, Hironimo si pose in piedi e scrutò il campo sottostante l’Abbazia. Stava giusto indugiando negli ultimi strascichi del sonno indotto dal farmaco di Fra’ Anselmo, quando cori alti e ben distinti eppure intrecciati in strana polifonia l’avevano destato completamente, attirando la sua attenzione.

A quanto pareva non si trattava dell’unico curioso: i monaci, quei pochi pazienti che riuscivano a starsene in piedi e ovviamente Thomà che non stava mai fermo, tutti costoro avevano trovato il modo di guardare quanto stava accadendo e, a giudicare dalle facce disgustate di Fra’ Anselmo e perfino di qualche soldato, non doveva trattarsi di un bello spettacolo.

Con lo sguardo domandò al benedettino cosa si fosse perduto, nel frattanto che questi l’aveva stordito tra tisane, decotti e chissà quali altri intrugli. Non che se ne lamentasse, avrebbe potuto andargli anche peggio: la sua emicrania aveva infatti raggiunto tali livelli d’agonia che le vene del giovane Miani s’erano ingrossate allo spasimo neanche volessero scoppiare e il ragazzo stesso stringeva i denti e dimenava convulsamente gli arti, tirandogli i muscoli tesissimi del corpo, al che Fra’ Anselmo aveva deciso di sottoporlo ad un salasso d’emergenza. Sennonché, all’improvviso,una copiosa epistassi dal naso aveva regolato la pressione nonché la circolazione sanguigna, liberando in parte Hironimo da quella dolorosa impressione d’indossare al capo le tenaglie d’una garrotta. Il monaco l’aveva allora costretto a bere una strana bevanda amarognola e il patrizio non aveva capito più niente, crollando sfinito sul letto.

“E’ da un bel po’ che continuano a far bisboccia”, gli rivelò invece un soldato, dal cui accento Hironimo intuì provenire dalla Lombardia, probabilmente al soldo di Sanseverino o Pallavicino.

“Che vuoi dire?”

L’uomo tossì forte, sconquassandosi il petto. Afferrò rapido il pitale, si raschiò la gola e vi sputò sopra un grumo verde misto a sangue. “Mentre tu ronfavi alla grossa, il capitano Mercurio Bua e i suoi stradioti hanno tagliato a pezzi quei villani là rintanatisi nelle grotte, portando seco quei pochi sopravvissuti, le bestie e le provviste ma soprattutto le loro donne. Questi lamenti che senti sono il loro canto funebre.”

Hironimo tese l’orecchio, distinguendo tra i festanti schiamazzi il lugubre pianto muliebre e un brivido freddo lo percorse dalla nuca lungo l’intera colonna vertebrale, ben intuendo il motivo dietro quell’apparente misericordia, dietro quel risparmiarle la vita contrariamente ai loro uomini. Era stato Mercurio Bua ad ordinarlo? Lo immaginava appartenere alla peggior razza d’avventurieri e approfittatori, ma permettere tali … tali …

“Beh, suppongo sia giusto così”, fece spallucce il lombardo.

La testa del patrizio scattò rapidissima nella sua direzione. “Prego?”, sibilò astioso, avvertendo l’ira vibrargli nel petto.

“Le nostre donne sono state violentate dai francesi, mi par giusto tocchi alle vostre, no?”

Un pugno in faccia corrispose alla risposta del giovane Miani. E poi un secondo per cavarsi lo sfizio di spaccargli il naso prima di ciondolare dalle vertigini e cadere per terra, tossendo a carponi e vomitando anch’egli catarro e pezzi della colazione. Uno sbuffante Fra’ Anselmo lo trascinò via dalla sua preda, mentre un confratello tratteneva il soldato smanioso di restituire il favore al patrizio.

“Daghetele cum on legno!”, l’ammonì perentorio il benedettino, costringendo un ansimante Hironimo a calmarsi. “Non vorrai mica che il Bua ti dia per guarito e che ti rinchiuda di nuovo nella sua cella, no?”, gli sussurrò all’orecchio con la scusa di controllargli la temperatura, ricordandogli implicitamente il piano di fuga.

Hironimo si conficcò le unghie nei palmi delle mani, traendo sangue e battendo furioso e impotente i pugni sulle cosce. Era colpa sua, soltanto sua. Se soltanto non l’avessero tradito. Se soltanto Castelnuovo avesse retto l’assedio. Se soltanto avesse puntato una colubrina dritta in testa a Mercurio Bua, facendogliela saltare in mille pezzettini a guisa di melone. Per colpa sua li aveva tutti sulla coscienza. Era suo dovere difendere la via per Treviso, era … era …

“LA MIA MAMA, A XE’ STA VERGOGNADA DI TODESCHI E LE MII SORELE CO’ ELA. E TI TEA CIAMI JUSTITIA QUESTA?! TE SARASTU UN DIAOL, BECHO D’UN LUMBARDO!”, ruggì Thomà, afferrando un pitale pulito e scagliandolo contro il soldato, colpendolo alla spalla e sfracellandosi per terra tra lo sconcerto generale. “Co’ te sdormi, te degolaré!”, gli promise minaccioso, mimando col cucchiaio di legno uno sgozzamento.

“Aspetta e spera, poppante”, lo derise il lombardo, ridacchiando incurante e a sua volta lanciando una caraffa contro il fantolino, prontamente intercettata da Hironimo, il quale gliela rigettò indietro, colpendo però il muro sopra di lui essendosi il soldato agilmente abbassato.

“Quella gran vacca di tua madre, quella sì che puppa forte, tutti i cazzi di Francia!”, lo insultò battagliero il giovane patrizio, nascondendo il bambino dietro la sua schiena onde ripararlo da altre balote di fortuna. “Avvicinati a mio figlio e neanche t’accorgi di morire!”

“Ripeti un po’, troia veneziana? Vuoi ingoiare i denti, la lingua, il cervello mentre crepi?”

“Avanti, succhiacazzi buzaron, fatti sotto, ché t’impicco con le tue budella!”

“Qui nessuno ammazza nessuno e fra poco aggiungerò sapone alla vostra acqua, per nettarvi quelle vostre onte linguacce!”, esplose infine Fra’ Anselmo, afferrando la scopa di saggina e percuotendo salomonicamente le dure cervici di ciascuno, secondo le buone creanze di un po’ per uno per far male a ciascuno. “E voi dovreste essere gli scudi e il sostegno delle donne? Voi? Dei collerici, immaturi, frignanti bambinetti? Povere figliole, quanto sono cascate male!”, strillò il benedettino, gettando via di malagrazia la scopa e ritornandosene furibondo alla sua postazione. Estraendo il suo rosario e agitandolo a mo' di frusta, puntò gli indici contro il soldato lombardo e Hironimo, ambedue a capo chino, includendo tuttavia anche il resto dei pazienti nella sua veemente filippica. “Le vostre stolte recriminazioni mi nauseano! Le vostre stupide rivalità pure! Invece d’insultarvi, pensate a quanto stiano patendo in questo esatto momento quelle disgraziate contadine e vergognatevi! Io pregherò per la loro salute e spero anche voi, se v’è rimasto un briciolo di coscienza in quelle vostre animacce nere!”

E mentre Fra’ Anselmo impediva una zuffa da quartiere militare nella sua infermeria e forniva ottimi spunti di riflessione non soltanto ai litiganti ma anche agli altri pazienti, nel campo sotto l’Abbazia si respirava aria di festa. Così aveva ordinato Mercurio Bua, in apparenza a mo’ di premio per la vittoria conseguita quel giorno, in realtà per tenere a bada le truppe cadaun giorno sempre più indisciplinate e irrequiete. Almeno che dirottassero altrove le loro energie, coloro che non stavano morendo né di fame né di malattia.

Stipata in recinti improvvisati assieme alle sue sventurate compagne, Lussìa s’accarezzava con una mano il ventre rigonfio e con l’altra stringeva convulsamente una ciocca miracolosamente strappata a Berto, gli unici ricordi terreni rimastele di lui.

Per quanto si fosse sforzata di correre veloce, aveva indugiato troppo a lungo ed era stata una delle prime a finire prigioniera: fortunatamente il pesante zendale la ingoffava nascondendole la pancia, altrimenti Dio solo sapeva come avrebbero reagito quei satanassi. Ricondotta al luogo dello scontro appena terminato, la giovane contadina aveva approfittato di un attimo di distrazione dei suoi carcerieri per staccare dei capelli al defunto compagno. Anche se ricoperto di sangue e la testa mezza decollata, l’avrebbe riconosciuto ovunque e sempre in maniera furtiva s’era portata la sua mano gelida e rattrappita sul pancione, quasi a chiedergli un’ultima benedizione per quel figlio che non avrebbe mai conosciuto.

Incessantemente, neanche si fossero trasformate in vitelli da macellare, quel dannato cancello s’apriva e si chiudeva e due o tre soldati entravano alla volta, issando di peso una piangente contadina, trascinandola via dal gruppo che inutilmente si stringeva a mo’ di difesa, sperando di rendersi invisibili o più pesanti del piombo. Quando ritornavano, singhiozzavano doppiamente, rannicchiandosi vergognose e doloranti nell’angolo.

Lussìa chiuse gli occhi, annusando la presenza del nuovo arrivato e non oppose resistenza quando lui le afferrò il braccio, ponendola in piedi di malagrazia e così spintonandola in direzione della sua tenda.

Non preoccuparti, bimbo mio, la mamma è qui. Ti proteggerà a qualsiasi costo.

Nessun’umiliazione le sarebbe apparsa troppo disonorevole, se significava offrire al piccino una possibilità di nascere. Glielo doveva a Berto: una vita per un’altra vita, un morto per un nascituro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Sia ben chiaro che questo Alvise Gradenigo e il Gian Paolo nostro non sono assolutamente parenti; sicuramente però il nostro caro provveditore avrà rosicato parecchio nell’esser associato (per via d’omonimia) a chi abbandona la propria artiglieria senza neppure manometterla … sigh … Idem per il doge Leonardo Loredan e Andrea Loredan.

Sulle vicende del Friuli si potrebbe scrivere una storia a sé, ho tentato di riassumere pur rimanendo quanto più possibile esauriente, spargendo di qua e di là degli indizi su quanto stesse accadendo, fino alla sorpresina (?) finale. Anche perché fu effettivamente una conquista lampo – tutti i nobili friulani s’arresero e i contadini mica avevano voglia di farsi ammazzare – ai todeschi: ti piace vincere facile!

Lo so che i capitoli stanno divenendo sempre più lunghi: abbiate pazienza, lo zenit della storia si sta avvicinando e purtroppo questi giorni furono assai frenetici! Superata la “crisi”, ritorneremo a capitoli più umani, promesso!

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] in breve, così anche da capire il discorso di Michele: Brisighella era stata, dopo vari tira e molla tra la casata e il Papa, sotto i Manfredi di Faenza, poi conquistata nel 1500 da Dionigi Naldi per conto di Cesare Borgia e infine nel 1503 si diede sempre su impulso del Naldi a Venezia, quando ormai la cometa del Valentino era passata. Ritornò papalina dopo la rotta di Agnadello nel maggio del 1509.

[2] Gendarmi = nel XVI secolo s’intende il corpo specializzato di cavalleria pesante, come i Corazzieri per l’esercito imperiale.

[3] San Valentino (sì, proprio lui, quello del 14 febbraio) era invocato come protettore degli epilettici, avendo curato il figlio Cratone che soffriva appunto d’epilessia.

[4] Giuliana di Collato = nata nel 1186 a Collalto e appartenente all’omonima famiglia, morì a Venezia nel 1262. Per un certo periodo visse assieme alla Beata Beatrice I d'Este nel monastero benedettino di Santa Margherita sui Colli Euganei, dopodiché si trasferì alla Giudecca a Venezia, dove fondò la chiesa  e il monastero dei Santi Biagio e Cataldo, apparsole il primo in sogno. Beatificata da Benedetto XIV nel 1743, il suo corpo riposa adesso a Sant'Eufemia a Venezia, in quanto il monastero e la chiesa vennero demoliti nel 1822 da Giovanni Stucky per costruire il mulino Stucky, oggidì un lussuoso hotel.





 

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Capitolo 25
*** Capitolo Ventitreesimo: 20-21 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il  26.10.2021

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Capitolo Ventitreesimo

20-21 settembre 1511

 

 

 

Il soldato francese e Lussìa si fronteggiarono intensamente con lo sguardo, sfidandosi a vicenda a fare il primo passo.

La contadina si stringeva il pesante scialle dall’interno, nascondendo il ventre rigonfio e ingobbendosi a guisa di un’aggressiva gatta messa all’angolo, rifiutandosi sia d’abbassare timorosa gli occhi sia di spogliarsi di sua iniziativa. Anzi, sperava che l’uomo s’accontentasse di sollevarle le sottane e di montarla da dietro cosicché non s’accorgesse del suo pancione e al contempo non la costringesse a contemplare il suo brutto muso, intanto che si pigliava il premio del vincitore.

Il soldato avanzò infine verso di lei e Lussìa s’impose di non indietreggiare né di mostrare paura: per esperienza sapeva che opporre resistenza peggiorava la situazione, meglio che si sbrigasse e poi morta là. L’uomo sbiascicò qualcosa, ciondolando un poco e pur non comprendendo l’idioma, la giovane intuì costui esser piuttosto alticcio il che la rassicurò, non durando a lungo gli ubriachi.

La mano di lui l’afferrò lo scialle, strattonando per toglierlo e trovando invece una fiera opposizione in Lussìa, che pur rassegnata quell’indumento proprio non se lo voleva togliere; l’uomo impiegò dunque maggior forza, applicando pressione sulla spalla di lei e a seguito di due o tre brusche tirate glielo cavò di dosso, al che la contadina di riflesso si piegò in avanti, voltandosi acciocché quell’altro ben capisse come doveva concludersi la faccenda. Purtroppo quegli voleva possederla in altro modo e la girò ruvidamente, afferrandole i polsi e con malgarbo aprì le braccia poste a protezione del suo ventre, rivelandogli alla fine il suo segreto.

Un pesante silenzio s’insinuò tra loro due e Lussìa tremò da capo a piedi, un doloroso groppo in gola le impediva di respirare, in timorosa attesa di una qualsiasi reazione da parte del soldato, pregando la Madonna avesse questi pietà di lei e del piccino.

Una sfilza di sibilanti improperi francesi fuoriuscì dalla bocca del soldato, neanche l’avessero gabbato in un cattivo acquisto alla fiera degli animali. Ghermitala per le spalle, la scosse feroce, le chiese diossacché e le rifilò poi un tal manrovescio che Lussìa vide nero e giallo e gustò in bocca il sapore metallico del proprio sangue. Stordita e indietreggiando tra un incespico e l’altro, ella si lasciò dolcemente cadere per terra. Lì stette, immobile, il mondo roteantele attorno. Udì i passi del francese, lo snervato fruscio della tenda che s’apriva e si chiudeva; la ragazza avrebbe voluto balzare in piedi e fuggire via, purtroppo le vertigini ebbero la meglio e lei chiuse sfinita gli occhi dopo esser strisciata sul fianco sotto il tavolo, cedendo alla stanchezza sia fisica che mentale.

Quando si ripigliò, quell’atroce notte ancora non era terminata e non doveva infatti esser trascorso tanto tempo dall’involontario alterco col soldato, ché infatti quest’ultimo era ritornato proprio nel momento in cui Lussìa riapriva circospetta un occhio, fingendo d’esser ancora svenuta.

L’uomo giungeva in compagnia d’un’altra donna, totalmente dimentico, nel suo stato ebbro, d’aver scordato di riportare indietro Lussìa. Evidentemente si sentiva defraudato per quel suo raccattare una donna incinta, giudicandola troppo grassa e gonfia e per questo facendogli impressione, chissà.

La giovane contadina riconobbe a stento Zanze nella sua sostituta: i capelli scarmigliati senza velo, la gonna lorda di fango e foglie e sulla schiena s’intravedevano delle strisce rosse esacerbate dal biancore della camicia. Una serie di lividi sparsi le ricopriva buona parte del lato destro del viso, il labbro superiore gonfiatosi per via d’un taglio e croste di sangue permanevano sotto il naso. Il soldato, onde sbrigarsi, le strappò dal mezzo la camicia, liberando i seni e Lussìa notò ecchimosi anche sul petto e sulle braccia, così come sulle gambe quando all’amica venne sollevata la sottana, una volta spinta supina sulla branda.

Un conato di vomito le bruciò in gola, quando il francese coprì la contadina col suo corpo, grugnendo la sua soddisfazione. Poi, l’idea.

Zanze fissava immobile il soffitto della tenda, astraendo lo spirito dal corpo e permettendo che volasse leggero in un qualsiasi luogo così da non curarsi di quanto avveniva, relegandolo nel dimenticatoio. Aveva imparato a sopportare tali copule sin da ragazzina: sua madre, morto il marito di febbre malarica, aveva fatto San Martino [1] ed era ritornata dalla sua famiglia d’origine, rimettendosi alla decisione di un suo zio, il nuovo capofamiglia. Zanze, la maggiore della nidiata, aveva pagato il tributo al posto della madre, troppo sformata dalle gravidanze e poco appetibile rispetto alla carne fresca di una dodicenne. Il prozio aveva atteso che lei fosse un pomeriggio andata ad urinare in un angolo e, prima che lei potesse riabbassarsi le cottole, l’aveva spinta in avanti e così deflorata – ultima arrivata in famiglia, ultima nel branco, nella gerarchia. Zanze era stata così contenta quando il padre di Arrigo era venuto in ambasciata per chiederla in moglie al figlio (in fin dei conti era carina, robusta, lavorava alla pari d’un uomo); perfino le aveva accordato di portare con sé Zuaneta, grazie a Dio ignara di tutto. Aveva creduto la contadina finalmente di trovare in Arrigo la protezione ch’aveva sempre sognato, il suo compagno e padre dei bimbi che tanto voleva. Invece, il terremoto del marzo scorso glielo aveva ucciso, sepolto sotto le macerie della loro casa e dall’indescrivibile paura la contadina aveva avuto un parto prematuro, il piccino nato morto. 

Solo Arrigo lei aveva accolto con gioia nel suo corpo, mentre il resto null’altro se non passeggere incombenze da sopportare, questo francese incluso. Purché non la picchiasse o la violentasse fino a bucarle lo stomaco, ben inteso.

Zanze girò casualmente la testa su di un lato, piombando all’improvviso nella realtà. Strabuzzò gli occhi, incredula di ritrovare la sua amica Lussìa in un angolo, la quale si stava lentamente alzando, l’indice alla bocca intimandole silenzio e dissimulazione. Tra le sue mani penzolava una corda, che la giovane incinta arrotolò ad esse e la tese a mo’ di cappio. Zanze trattenne il fiato, stringendo il bordo della branda in anticipazione.

In un balzo, Lussìa cinse il collo del soldato da dietro, serrando e incrociando la corda sulla nuca; pose un ginocchio sulla schiena dell’uomo e tirò all’indietro acciocché le fibre sfrigolando gli mordessero la carne e la pressione esercitata alla gola gli ostruisse le vie respiratorie fino a farle cedere. D’istinto il francese tentò subito di divincolarsi, Zanze però gli pigiò i pollici negli occhi, cingendolo con le gambe per la vita e intrappolandolo contro di sé. La tenda si riempì d’ansimi e grugniti, imprimendo le donne ogni forza a loro reperibile onde sopraffare l’avversario, in una gara di resistenza che rasentava quasi la tauromachia. Il francese, paonazzo in volto, emise uno strano gorgoglio e poi cacciò fuori la lingua, afflosciandosi per terra ai piedi delle due contadine, le quali non emisero alcun suono se non quello d’ansimare pesantemente, contemplando pietrificate quanto appena commesso.

“Xélo morto?”, inquisì infine Zanze, rimettendosi seduta e nettandosi meccanicamente tra le gambe.

Lussìa si passò sulla sottana le mani umide di sudore e graffiate dalla corda. “No”, rispose, accovacciandosi sul soldato tramortito.

“Sempia!”, strillò preoccupata l’amica, cercando freneticamente un coltello, un pugnale, qualsiasi cosa per terminare il lavoro incompiuto.

“Sbassa ea vose!”, l’intimò perentoria Lussìa, al che Zanze si calmò subito, rendendosi conto della situazione e di come fosse consigliabile non farsi scoprire. “Nol gh’ho copà no perché me despiase par elo, bensì perché chome femo col sangue? Non sastu poi co’ uno more, el se caga e pissa ‘ndosso?”

L’altra contadina annuì incerta, non afferrando il senso di quella frase. Glielo spiegò l’amica che, rigirando il francese, prese a slacciargli la casacca, gettandola sulla branda ad operazione terminata e destino analogo riservò al resto dei vestiti, braghe e scarpe comprese. “Vestate”, le ordinò e il viso di Zanze s’illuminò di comprensione.

Lussìa l’aiutò a stringere alla bell’e meglio il seno coi resti della camicia strappata e ad indossare gli abiti del francese, brigando quanto più in fretta poté a stringere i lacci almeno del corsaletto onde conferire all’amica un’impressione più militaresca. All’inizio Zanze si sentì un poco vacillare sotto il peso di tanti strati, per poi bilanciarsi avendo infatti trasportato gerle di legna assai più pesanti. Raccolse in una stretta crocchia i capelli e indossò l’elmo e poi il mantello, ficcando un lembo di lenzuolo strappato nella braghetta per completare la sua virilizzazione. Il tutto con le orecchie sempre tese e un occhio puntato all’entrata della tenda.

“Scoltame ben, do parolle de franzese mi gh’ho imparà en sto campo: Mal e Pest; se ze fermano, ti te va dirghele e te me mostri”, l’istruì, appallottolando della terra e cenere dal braciere con un po’ d’acqua. Ottenuta la strana polpetta, Lussìa se l’applicò alla gola: grazie al buio, Deus volente, nessuno sarebbe stato capace di distinguere quel petaisso dai bubboni della peste. Un po’ di cenere la cosparse anche sul volto dell’amica, per darle la sembianza di un’ombra di barba.

“Mal … Pest … Mal … Pest …”, ripeteva intanto Zanze, memorizzando le parole chiave in caso le avessero fermate e interrogate.

“Pì mas-cia ea vose: Mal! Pest!”

“Mal! … Pest! …”

Lussìa schioccò la lingua in approvazione. “Ch’Idio e la Madona zea manden bona!”, s’augurò, segnandosi tre volte. “Sistu pronta?”

“N’atimo”, si concesse Zanze un ultimo sfizio, aprendo le gambe del soldato e, tenutolo per le caviglie, di tacco gli pestò i gioielli di famiglia: troppo stordito dall’urlare, il francese tuttavia convulsò violentemente. La contadina gliene elargì un altro, giusto per assicurarsi che soffrisse peggio d’un cane alla sua prossima erezione. Dopodiché gli sputò sopra e calciandolo lo nascose sotto la branda, coprendo il tutto con la coperta. “Demo”, ritornò dall’amica, che simulò un mancamento tra le sue braccia.

Lussìa aveva previsto giusto: l’aria di sgavazzo aveva reso la maggior parte dei soldati piuttosto distratta e ai loro occhi alticci dalla tenda uscì il loro compagno, trasportante per il braccio la prigioniera semisvenuta. Incoraggiate pertanto da tanta negligenza, le due donne puntarono verso il bosco nella speranza di lì sparire per imboccare in seguito la strada per Treviso, trascinandosi circospette tra le tende, evitando luoghi affollati e soprattutto le torce. Zanze teneva il mento quasi al petto e di fatti era Lussìa che con discrezione la guidava. Arrivarono miracolosamente ignorate al limitare dell’accampamento … ancora qualche passo …

“Hé, voi due! Dove ve ne andate di bello?”

Le fuggitive gelarono sul posto, non soltanto per l’esser state notate bensì nel riconoscere l’idioma italiano, che pur non conoscendo alla perfezione, potevano comprendere il significato globale.

“Furbastro, te ne scappi con la villana, eh? Non sai cos’ha ordinato il maresciallo? La forca a chi diserta!” e i suoi occhi luccicarono di delizia alla prospettiva d’assistere a tal spettacolo.

Zanze si voltò lentamente, pur seguitando a celare il viso. O la va o la spacca e gli animali lei sapeva sgozzarli. “Mal”, grugnì in una voce profonda e gutturale. “Mal!”

“Cosa?”, sbatté confuso le palpebre il mercenario.

“Mal!”, ripeté enfatica la giovane. “Pest!”

L’uomo balzò terrorizzato all’indietro, specialmente quando Lussìa incominciò a tossire rumorosamente e a raschiarsi ben bene la gola, sputando e battendosi il petto, intanto che l’amica le scopriva velocemente il collo.

“Se davvero c’ha la peste, ammazzala o portala in infermeria, che diamine! Tanto quelli là hanno già dentro un piede nella fossa … un morbo in più uno di meno … magari crepano prima …”, protestò il soldato, spintonando le due donne in direzione dell’Abbazia.

“Pest! Mal!”

“Ho capito, ma portala in infermeria a farla vedere!”, sbraitò frustrato l’uomo. “Cretino d’un francese! Bah, vi ci conduco io, sennò c’impesti tutti di qualsiasi cosa si sia presa quella troia”, borbottò iroso, pungolando la schiena di Zanze con la punta della spada, seppur al sicuro nel suo fodero, sia per spronarla ma anche per tenere una certa distanza di sicurezza tra loro. Meglio, giudicò lei, così non l’avrebbe guardata in viso.

Fra’ Anselmo aveva appena terminato l’ennesima corona del rosario e si preparava alla sua ronda notturna, quand’ecco che dalla porta dell’infermeria entrò un curioso corteo di gente: un soldato francese, uno italiano, una donna piuttosto malconcia e due stradioti di Mercurio Bua che osservavano incuriositi dall’uscio, sporgendosi all’interno.

“Ebbene?” apostrofò il monaco quello che poteva capire la sua lingua, indicando tuttavia la giovane tra le braccia dell’altro soldato.

“Ho pizzicato ‘sti due al limitare del bosco. Sostiene che ‘sta qua abbia la peste, ma non ne sono sicuro, le pustole mi paiono un po’ strane …”, gli spiegò concitatamente il mercenario e alle contadine mancarono qualche paia di battiti cardiaci quando il benedettino, alzatosi dalla sedia, esaminò clinicamente spassionato sotto la gola di Lussìa.

“Infatti non è peste, bensì una vescica sanguinolenta”, sentenziò solenne Fra’ Anselmo, appoggiando la candela e  lavandosi le mani. “Contagiosissima in caso dovesse esplodere. Bravo, hai ben pensato a portamela qua.”

Malgrado il complimento assai lusinghiero, il soldato non appariva totalmente convinto. “Le vesciche sono contagiose?”, domandò scettico.

Il benedettino piegò con studiata lentezza l’asciugamano. “Sei tu forse medico?”, replicò garbatamente intimidatorio.

“No.”

“Hai studiato a Padova?”

“No.”

“E allora, cosa parli se non sai, ignorante?”, infierì il monaco, ergendosi in tutta la sua altezza ché sarà stato sulla cinquantina, ma anni a lavorare nell’orto, nella vigna e nell’uliveto l’avevano irrobustito quasi quanto un contadino.

“Ecco … non è che mettessi in dubbio … solo che …”

“Quousque tandem abutere, stulte, patientia nostra?”

E no, il colpo basso del latino era davvero troppo per il povero mercenario, che si ritirò con la coda tra le gambe, lasciando alle cure del gongolante Fra’ Anselmo le due fuggitive.

“Vegname drio … qua … sentate qua …”, condusse dolcemente Lussìa ad un letto accanto alla sua scrivania, in modo da difenderla in caso quei birbi malnati dei suoi pazienti, annusato l’odore di femmina, improvvisamente non si dichiarassero redivivi e guariti soltanto per insidiarla. Di solito uomini e donne sostavano in stanze diverse, purtroppo in tempi di sovraffollamento tali protocolli neppure venivano considerati, figurarsi rispettati.

“El mio puto …”

“Sì, sì … vedaremo … horra sentate et reposate …”, la tranquillizzò dolcemente il benedettino, aiutandola a stendersi e chiudendo le cortine attorno. Si girò verso il “francese” e una furtiva occhiata a Zanze, ch’aveva levato il viso velocissima per poi riabbassarlo, gli schiaffò in faccia la dura realtà del loro segreto. Lo stomaco gli si rigirò dolorosamente: gli mancava pure quella. “Beh, poiché ti sei scomodato a condurla fin qui, puoi anche rimanere”, dichiarò a voce alta, acciocché tutti udissero la conferma dell’identità del soldato. “Respondame:”, le sussurrò tra i denti.

“Uì!”, gridò quasi Zanze, afferrando poi uno sgabello e sedendovisi sopra. Appoggiò le spalle al muro e si coprì col mantello fin quasi al naso, finalmente comoda e rilassata. Fra’ Anselmo dal canto suo chiuse sconsolato gli occhi, respirando a fondo.

Certo però, meditava nel frattempo che ripuliva Lussìa da quei pastrocchi al collo, che in una settimana aveva vissuto più emozioni in vent’anni all’Abbazia, infrangendo ogni regola del Padre Fondatore, arrabbiandosi di brutto, urlando, minacciando, insultando e mentendo allegramente senza tanti rimorsi e addirittura alle spalle della sua comunità stava architettando una pericolosissima fuga! Se l’Abate l’avesse saputo, l’avrebbe rinchiuso in una cella senza luce e a sola acqua, mummificato di cilici e flagellato ignudo dall’Abbazia fino alla Certosa.

Ne valeva la pena peccare così forte? Ribellarsi?

Fra’ Anselmo spiò di sottecchi la mano di Lussìa disegnare confortanti arabeschi sul pancione, l’altra stretta a quella dell’amica.

Cristo aveva sempre scelto la gente più controversa e improbabile per operare in Suo nome; se poi si considerava, ad esempio, come avesse perdonato a San Pietro il suo triplice rinnegamento e San Paolo che aveva custodito le vesti dei lapidatori di Santo Stefano e pure era stato implacabile persecutore delle prime comunità cristiane … hé, di sicuro dinanzi alle colpe di Fra’ Anselmo si sarebbe messo a ridere – con tutto rispetto – specie se erano finalizzate a scopo di bene.

 

***

 

 

Nella sua cella divenutagli d’un tratto claustrofobica, Mercurio Bua deambulava inquieto avanti e indietro, incapace di pigliar sonno e dunque di riposarsi adeguatamente. Ignorava il motivo di tal nervosismo, aveva alle spalle battaglie assai più sanguinose di quella. Forse perché non  era andato incontro a dei veri militari, bensì a gente improvvisatasi, in un poco onorevole gioco al massacro. Il condottiero si batté le tempie, esasperato: quando i nervi gli pizzicavano così neppure il vino lo calmava, tranne una buona scopata o meglio ancora una scazzottata.

La Palice e gli altri comandanti s’erano all’unisono congratulati con lui per aver vinto quello scontro e sollevato temporaneamente il campo dalla penuria di rifornimenti. Tzé, scontro … scaramuccia forse.

Sebbene valenti e agguerriti, i contadini non avevano rappresentato per Mercurio dei grandi avversari, ne aveva fronteggiati ben di peggio. Se ripensava a quando, a Fornovo, appena diciassettenne s’era gettato assieme al Marchese Francesco Gonzaga contro il re Charles VIII e di come l’avesse ferito, causa purtroppo l’intromissione del duca di Bourbon che gli aveva impedito d’ucciderlo e costì spedirlo al diavolo … a confronto quei quattro bifolchi male in arnese per lui corrispondevano ad una passeggiata di piacere!

Aveva perseguito l’azione più logica e strategicamente sensata, quelle bande a briglia sciolta di villani costituivano una spina nel fianco e dovevano essere neutralizzati, avanti che le truppe, sempre più indisciplinate e scoraggiate, disertassero in massa. Ciononostante, il greco-albanese non gustava alcuna soddisfazione nella vittoria, al contrario lo riempiva di un’amarezza sconosciutagli. Aveva compiuto il suo dovere, ciò per cui era stato addestrato e pagato. Aveva eliminato un problema alla radice e compensato adeguatamente chi l’aveva aiutato nell’impresa.

Non si dà l’osso ai cani per premio? Dunque che i soldati celebrassero quel piccolo successo e si tirassero su di morale, se poteva anche distrarli dall’incerta situazione di stallo e motivarli a combattere sotto le mura di Treviso, anticipando ciò che li attendeva in caso di vittoria.  Era l’unico metodo sicuro per mettere in riga i militi, per ammansirli: cibo, danari e femmine.

Mercurio si premette i palmi delle mani sugli occhi: il viso di quel contadino da lui ucciso continuava a perseguitarlo. Non per la maschera di sangue e cervella, non per  la truculenta semi-decapitazione che l’aveva spedito nell’Ade, no. La sua espressione. Non quella sorpresa del Re di Francia, non quella stizzita di un mercenario sconfitto, no, la sua era la faccia di chi aveva appena perduto un caro amico, di chi combatteva per proteggere quella moglie che forse il Bua aveva consegnato ai soldati per divertirsi … neanche conosceva il suo nome …

“Malakas!”, imprecò tra i denti, battendo le nocche contro il legno della scrivania. Necessitava di una distrazione, ora, in quell’esatto momento. Sua moglie, non poteva per ovvi motivi; Leka e Zilio neppure desiderava sapere dove si fossero cacciati. Un prete neanche per sogno, dunque … Indossò in fretta e furia la lunga casacca imbottita di cotone e uscì dalla cella sbattendo la porta, in direzione dell’infermeria.

Hironimo si sentì all’improvviso soffocare, svegliandosi di soprassalto. Si dimenò d’istinto, spaventato e disorientato, artigliando ciò che in quel momento gli stava impedendo di respirare agevolmente, scoprendo trattarsi di una robusta mano.

“Stai tranquillo”, si ritrovò il patrizio, a qualche spanna dal suo naso, il sorriso sghembo di Mercurio Bua, il quale sedendosi cauto sul bordo del letto liberò gradualmente la bocca e il naso del giovane, stupefatto quest’ultimo di non averlo sentito avvicinare e pensare che aveva sempre posseduto un sonno piuttosto leggero. Colpa delle tisane di Fra’ Anselmo, indubbio. In ogni caso Hironimo scattò seduto, fissandolo in cagnesco in tacita accusa dei suoi modi da turco.

“Suvvia, non mi guardare con quegli occhioni indignati: non stavo mica per attentare alla tua virtù, ti avrei prima chiesto di sposarmi”, scherzò grossolano il condottiero e il Miani arricciò il naso al puzzo vinoso nell’alito, segno che il suo interlocutore s’era ben goduto la sua personale festicciola. D’un tratto gli dispiacque d’aver sottoposto ad uguale trattamento Lena, in quelle rare occasioni in cui lui l’aveva avvicinata mezzo sbronzo.

Notando l’ostinata apatia nell’ex-castellano, Mercurio schioccò la lingua, espirando snervato. “Stavo scherzando, ovvio! Voglio soltanto parlare un po’, che diamine!”

“Beh, io no”, replicò secco il patrizio, tornando disteso sul fianco e dandogli sgarbatamente le spalle.

“Qualche oretta, che ti costa?”

“Non è né il luogo né il momento. La prossima volta, magari, quando tu non sarai ubriaco ed io ammalato.”

Le dita del Bua si contrassero in un rictus nervoso. “Spostiamoci nella mia cella. Lì nessuno ci disturberà.”

“Dopo che hai minacciato di sodomizzarmi? È l’ultimo posto al mondo dove ti seguirei!”

“Allora nel chiostro, in chiesa, all’inferno! Ovunque, purché tu muova quel tuo culo veneziano! Oppure preferisci che chiacchieri col moccioso?” e indicò significativamente Thomà, che ronchisava sereno e ignaro per terra, su di un lettuccio di fortuna.

Hironimo scostò in un grande svolazzo le coperte, irritato al massimo, ponendosi in piedi talmente veloce e brusco, da sballottare un poco il greco-albanese. “Il chiostro”, ringhiò sottovoce, lo sguardo torvo.

Le prime luci dell’aurora già tingevano di lilla le flessuose colonnine di pietra, delineando il semplice corridoio e giardinetto interno al cui centro sorgeva un pozzo decorato, agli angoli appena accennati di un quadrilatero, da vezzose foglie d’acanto. Hironimo ignorava se i monaci avessero o meno terminato le Lodi mattutine; sperò di no, cosicché venissero presto ad interromperli.

“Non temi ch’io ne approfitti per fuggire?”, non resistette dal punzecchiarlo un poco, una piccola rivincita per ogni frustrazione patita quella sera, al pensiero della brutalità dimostrata dal greco-albanese a danno della sua gente. 

“Tu non scapperai”, ribatté risoluto Mercurio, ghignando arrogante e costringendolo a camminare indietreggiando. “Tu non azzarderai nulla di strano; non ti conviene e lo sai. Ti credi furbo, nevvero? Pensi ch’io non immagini quanto ti piacerebbe conficcarmi un pugnale tra le scapole, se tu n’avessi l’occasione? Peccato che ti sia stupidamente esposto, permettendomi di tenerti doppiamente per i coglioni. Non desideri mica ulteriori sensi di colpa, o mi sbaglio?”

Il giovane Miani si sedette sul muretto perimetrale del chiostro, su cui s’ergeva il colonnato. “Affermi il vero”, gli concesse schietto, “non fuggirò. Anch’io ogni tanto scherzo”, gli restituì la pariglia, intrecciando le mani sul grembo. Una fitta di tosse lo colse impreparato, costringendolo a sputacchiare qualche grumetto di saliva e catarro. Si coprì la bocca e si schiarì la gola. La nausea gli risalì, feroce. Merda, aveva voluto fingerli e invece quei crampi allo stomaco per davvero avevano incominciato a tormentarlo. Si passò furtivo la mano sulla fronte, storcendo la bocca nel cogliere la temperatura ancora calda.

“Come ti senti?”

“Non bene, grazie a te”, rispose aspro Hironimo, nettandosi la mano bagnata di saliva sull’orlo della camicia. “Dovevi proprio svegliarmi all’alba per chiedermelo? Non si poteva attendere un’ora meno barbara?”

Mercurio cambiò peso da una gamba all’altra. “Ti rispedisco subito in letto, non ti preoccupare. Avevo voglia di rilassarmi, dopo intere giornate trascorse a fustigare gente indisciplinata, a far impiccare disertori, a combattere villani ribelli, a …”

“… a violentare donne …”

“Io non ho stuprato nessuno!”, si sporse minaccioso su di lui Mercurio, battendo il pugno contro una colonnina, il viso paonazzo d’ira. “Possibile che ogni tua parola corrisponda ad un insulto nei miei confronti?”

“Non ti sto insultando”, si difese imperturbabile il patrizio, “sto semplicemente elencando le tue imprese, mi par diverso.”

“Io”, scandì aggressivamente il Bua ciascuna parola, i denti ben in mostra, “non ho mai forzato alcuna donna.”

Hironimo lo squadrò a lungo, in silenzio. Dopodiché, raddrizzando le spalle, dichiarò annoiato: “Vuoi parlare, d’accordo parliamo”, e rimase in docile attesa, tamburellando impaziente le dita sui mattoni del muretto.

Sbuffando deluso, il capitano di ventura gli si sedette accanto, massaggiandosi le tempie e stropicciandosi gli occhi. Non trovando nulla di brillante da controribattere, si limitò a studiare il pozzo dinanzi a sé, strappando alcuni fili d’erba e giocandoci distrattamente. Hironimo si portò le ginocchia al petto, nascondendo sotto la camicia le gambe nude, avvertendo una certa fredda umidità molesta. Di primo acchito il Bua poteva apparire rilassato al limite della noncuranza, però il veneziano conosceva la sua mimica corporea troppo bene, cogliendo la rigidità delle spalle e la tensione delle braccia e delle gambe, intanto che cincionava con l’erba: il greco-albanese lo stava tenendo accuratamente sottocchio e se il patrizio avesse tentato di guizzare via da lui, gli sarebbe saltato addosso più rapido d’un ghepardo.

I due uomini stettero sospesi in questo limbo per un periodo indefinito di tempo, assaporando la quiete ante il risveglio del mondo, l’aria dal profumo della pioggia imminente e il lontano cinguettare delle allodole. Gli schiamazzi dei soldati e il lamento delle donne erano stati dispersi assieme alle tenebre notturne dalla luce, neanche appartenessero ad un angosciante incubo da cui tosto ci si sarebbe destati, ridacchiando imbarazzati del proprio sciocco timore.

“Perché ti comporti così?”, ruppe il silenzio Mercurio, abbandonando i fili d’erba e strofinandosi via la terra dalle mani. “I tuoi sono gli occhi di un combattente, di uno nato per lottare in prima linea … la remissività non ti s’addice.”

Appoggiando la nuca sulla colonnina e reprimendo un violento brivido, Hironimo socchiuse le palpebre, nauseato dalle vertigini ch’avevano ripreso a scuotergli il cervello. “Pensavo avertelo già chiarito quella sera”, quale esattamente non si sovveniva, il tempo oramai per lui aveva assunto una connotazione infinita e confusa. Tre settimane e mezzo di prigionia, eppure gli pesavano alla stregua di anni. Dinanzi all’espressione interrogativa del Bua, gli delucidò paziente: “Sono stanco, ammalato, prigioniero, forse non rivedrò mai più la mia famiglia …” e un groppo in gola gli strozzò la voce, l’unica punta di sincerità in quella loro bizzarra conversazione. Tacque.

Le forze del suo corpo si stavano gradualmente affievolendo; nel suo intimo, per quanto s’aggrappasse caparbio alla vita e si rifiutasse di cedere, si stava in lui solidificando la consapevolezza di combattere una guerra persa, la medesima sinistra sensazione provata a Castelnuovo quando il Bua aveva distrutto la porta della fortezza, creandovi una breccia. Un nemico invisibile, più temibile del capitano di ventura e dei franco-imperiali messi assieme, lo consumava dall’interno, suggendogli avido il soffio vitale in cambio di una crescente e sconosciuta paura, paragonabile alla tipica vertigine di chi in bilico su di un scivoloso parapetto guarda la voragine sotto di sé.

Quando Fra’ Anselmo aveva recitato il rosario, la rabbia e il dolore gli avevano provocato scatti nervosi pieni di fastidio e ribellione a quella noiosa litania. Ad un certo punto era stato lì per lì d’intimare al monaco di tacere, tappandosi snervato le orecchie. Grano dopo grano, corona dopo corona, le preghiere avevano incominciato ad un tratto a scivolargli leggere e soavi; il nome Mater, ripetuto costantemente, non gli suggeriva più alcuna voglia di rivolta, bensì d’abbandono. Per un attimo s’era rivisto bambino, sul suo lettino, la fronte calda per via di una febbriciattola da cambio di stagione, le dita fresche di Madre che gli asciugavano le lacrime: aveva pianto, terrorizzato e dolorante per via della solitudine e della malattia. Sono qui, figlio mio, gli aveva allora sussurrato teneramente Madre, seguitando nella consolatrice carezza ...

“Non mi va di sprecare energie preziose, ecco tutto. Soddisfatto?”, gli confessò conciso Hironimo, tamponandosi con la manica il sudore alle tempie.

Mercurio si girò verso di lui, gli angoli della bocca piegati all’ingiù. Analizzò meticoloso ogni curva dei lineamenti del viso del Miani, ogni dettaglio alla ricerca di un inganno, di una recita da parte sua. Quel che vi trovò fu sul serio una stanchezza mortale di chi era giunto al termine delle proprie risorse fisiche e mentali. Da una parte avrebbe voluto rimproverarlo, se non proprio sfotterlo per quella sua debolezza – diamine, lui era stato prigioniero per ben sette settimane e mica ne aveva fatto una tragedia, né l’avevano riportato da Caterina in barella e delirante!

D’altro canto, però, riconosceva un qualcosa di oscuro agitarsi nel giovane uomo, una forza al greco-albanese incomprensibile, quasi … quasi un anticipo di metamorfosi. Il condottiero riconosceva perfettamente il bacio della morte sui volti altrui e invero Hironimo manifestava gli stessi sintomi del moribondo, ma – e qui il Bua ne rimaneva confuso – non di un decesso del corpo, piuttosto … dell’anima? Come, come se una parte di lui stesse lentamente morendo per permettere ad un’altra di nascere. Strano, talmente strano da rimanerne scosso e inquieto.  

“E’ lamentevole”, commentò infine a voce alta, scrocchiandosi pensieroso le nocche. “In un’altra vita, avremmo forse potuto essere amici.” Gli costava ammetterlo, però sin dall’inizio quell’orso d’un veneziano gli era risultato alquanto simpatico. Avrà pur posseduto una linguaccia che tagliava e cuciva, una tendenza all’irascibilità e allo sfottò creativo, ciononostante aveva dimostrato un senso di lealtà, coraggio e generosità davvero invidiabile. Sperò di non sbagliarsi nel suo giudizio.

“Ne dubito: sei troppo permaloso”, aggrottò la fronte Hironimo, l’ombra di un sorrisetto beffardo sul viso pallido e sudato.

“Allora, avresti potuto essere mia moglie!”, lo canzonò Mercurio, gongolando alla vista delle spalle del patrizio irrigidirsi, manco un gatto cui si rizzava il pelo.

“Piuttosto monaco stilobita in cima al Monte Pelmo!”

“Suvvia, ti avrei corteggiato appassionatamente ed io scommetto che sei uno scatenato sotto le lenzuola!”

“Il tuo senso dell’umorismo m’inquieta”, tagliò corto Miani, simulando un disgustato conato di vomito. Quand’ecco che gli scoccò un’occhiataccia velenosa: “Piuttosto, perché debbo fare io la femmina?”, inquisì irritato.

“Ho visto come ti prendi cura del moccoloso”, gli chiarì Mercurio, il cui tono non tradiva curiosamente alcun’ironia, semmai un’insolita tenerezza. “Un padre non si comporta così coi propri figli.”

“An, perché tu ora sai come si comporta un padre?”

Il condottiero grugnì sardonico. Poteva ben affermarlo: di Pietro Bua Spata, per quegli undici anni vissuti assieme, ben si ricordava le sberle e gli aspri rimproveri ogniqualvolta falliva negli allenamenti o cadeva dal suo cavallino o semplicemente si comportava secondo lui troppo “da bambino”. Il suo barba Alessio poi non aveva di certo nutrito sentimenti più paterni, rincarando casomai la dose di busse e sermoni. Solo sua madre l’aveva riempito d’affetto e di dolci parole d’incoraggiamento, baciandogli i lividi e curandogli le escoriazioni, confortandolo la notte durante  i primi mesi a Venezia, dove tutto gli appariva alieno, pauroso, incomprensibile. Lei era stata la sua roccia e così Caterina. Adesso non possedeva più nulla di tutto ciò e si sentiva smarrito.

Hironimo reclinò il capo, avvertendo un colpevole guizzo al cuore, un timido sentimento di pietà nei confronti del suo carceriere e tentò di supporre cosa potesse aver provocato il subitaneo rabbuiamento nel suo viso. “Ti manca tua figlia?”, gli domandò gentile, paragonando le loro situazioni; in fin dei conti, ambedue null’altro desideravano se non di ricongiungersi alla propria famiglia e di proteggerla, rendendola felice e orgogliosa.

Invece, il Bua scattò peggio di una vipera, misinterpretando la sua genuina offerta di tregua per una provocazione. “Non incominciare”, l’avvertì astioso, rifilandogli un’espressione torva e aggressiva.  

Il Miani allora ritornò immediatamente sulla difensiva, trincerando ogni afflato d’empatia dietro le sue alte mura e rindossando la sua maschera di gelida indifferenza. “Conosci la soluzione per riaverla indietro”, gli rivelò, lasciando volutamente ambigua la frase e sogghignando bieco dinanzi all’irrigidimento delle spalle del condottiero, roso per certo dai dubbi sulla sua interpretazione. “In infermeria, alcuni soldati discutevano su come il loro comandante, il conte di Gambara, fosse ieri partito di gran fretta dall’Abbazia.”

“Così sembrerebbe. Ti dispiace?”

“Stimo nulla di lui”, si grattò il mento Hironimo. “Sicuro, era un conversatore assai più civile di te, ma d’altronde ci vuol poco …”, rigirò il coltello nella piaga.

“Ho notato”, sentenziò piccato il greco-albanese, ponendosi in piedi. “Bene”, annunciò in un enfatico sospiro, celando a malapena la sua intima seccatura. Il veneziano si compiacque d’aver pizzicato un nervo scoperto, anche perché effettivamente il conte bresciano gli aveva di sfuggita confidato qualcosina d’interessante, cioè, nulla di sconvolgente, ma se presentato sotto un’altra prospettiva … “Basta chiacchierare, sennò quel vecchio monaco pazzo mi spella vivo. Ti riporto indietro”, dichiarò pratico, allungandogli la mano per aiutarlo a scendere dal muretto.   

“Non vuoi più sapere cosa m’ha detto il Gambara?”, gli sorrise obliquo Hironimo.

Le dita del Bua si strinsero in un pugno che ritornò al fianco del suo proprietario, il quale si sedette inconsciamente, le orecchie ben tese. “La febbre t’ha reso ciarliero”, appurò stupefatto. “Avrei dovuto procurartela prima, invece di farmi venire calli e vesciche a furia di picchiarti!”

Il patrizio levò in alto le mani, ammettendo le sue colpe. “An, non aspettarti chissà quali sconcertanti rivelazioni … Semplicemente mi raccontava certe divertenti bagatelle su Massimiliano. Lui è il suo rappresentante in campo, ti ricordi? Conosce un mucchio d’aneddoti su di lui, roba da scompisciarsi dalle risate … In breve, mi narrava di quell’ordinanza in cui ti si nominava consigliere imperiale, conferendoti maggior potere esecutivo in campo”, la buttò lì casualmente, osservando attento la reazione del capitano di ventura.

Non ne rimase deluso: Mercurio si sistemò meglio sul muretto, incrociando le braccia al petto. “Continua”, lo invitò, oramai catturato dal discorso del Miani, che obbedendo proseguì:

“Il conte m’ha confessato il suo dispiacere nel vederti talmente umiliato. M’ha detto, cito verbatim: trovo assai ingiusto corbellare un condottiero così fedele, onesto, serio e dedicato, quale Mercurio Bua Spata.

“Co- corbellare?”, ripeté incredula la vittima di detta beffa imperiale. Si massaggiò la fronte, richiamando alla mente ogni singolo dettaglio di quell’ordinanza, cercando di capire dove l’Habsburg l’avesse fregato. Non trovando alcun dettaglio fuori posto, lanciò un’occhiata perplessa al patrizio, che gli espose concisamente i suoi dubbi:

“Non ti è sembrato strano l’ordine dell’Imperatore, che sanciva la Piave a limite invalicabile soltanto alle truppe francesi e ai tuoi stradioti?”

Mercurio deglutì male la saliva, sovvenendosi d’un tratto di quella piccola clausola, che all’epoca sì l’aveva infastidito ma che poi aveva relegato nel dimenticatoio, giacché ridimensionata dinanzi ai doni e privilegi concessigli dall’Imperatore. “Sì, lo ammetto”, gli concesse a denti stretti, “questo perché la maggior parte delle truppe è formata da francesi e … e quindi … voglio dire, La Palice risponde al Re di Francia e … sicuramente l’Imperatore …”, s’impappinò, incapace di giustificare quell’ordine così castrante e partigiano. A conti fatti, finora ad averci rimesso erano sempre stati i francesi e i suoi stradioti, mica gli …

Hironimo avvicinò il viso al suo, finché i loro fiati non si mescolarono in un’unica nuvola di vapore. Le sue iridi nerissime rilucevano di una luce poco raccomandabile, predatrice, mentre gli esponeva il subdolo ragionamento del Re dei Romani:

“Massimiliano è timoroso che voi possiate appropriarvi indiscriminatamente di rifornimenti, di viveri e mezzi di sussistenza, molto abbondanti al di là della Piave, e perciò ha consentito solo alle milizie tedesche di varcare il fiume. Quella dei suoi capitani non è stata una diserzione di massa, bensì un chiaro ordine dell’Imperatore, acciocché gli imperiali restino sempre in vantaggio rispetto a voi.

“Egli teme infatti il conto che il re Ludovico gli presenterà a fine impresa, un conto talmente salato da non poterlo saldare neppure cedendogli l’intero bottino di Treviso.

“Il suo piano è quindi che i tedeschi conquistino la Patria del Friuli, riempiendosi la pancia di cibo e le botti di polvere da sparo, mentre a voialtri sciocchi, rimasti a guardare, non rimarrà che soffrire la fame, la malattia, l’impatto degli attacchi nemici. Sarete talmente sfibrati nell’animo, da non poter neppure protestare quando Massimiliano incamererà in totum la preda di guerra. E una volta incassato il malloppo, cosa mai potrà fare re Ludovico? Strillare che lo rivuole indietro? Dichiarare guerra all’Imperatore?

“Tuttavia, quest’ultimo sa che tu non sei completamente un idiota – al contrario dei tuoi compari -  e così ti nomina suo consigliere imperiale e conte di Soave ed Illasi, onde gettarti fumo negli occhi. Perché lui sa che tu sei l’unico con sufficienti coglioni da mandarlo, se costretto, alla malora e di te l’Imperatore, volente o nolente, ha un fottuto bisogno!”, batté Hironimo l’indice sui mattoncini del muretto, ogniqualvolta sottolineava un concetto chiave acciocché s’imprimesse nella mente di Mercurio, la cui faccia impallidiva a cadauna parola, il respiro fattosi irregolare e sembrava in procinto di vomitare da un momento all’altro. L’aveva ascoltato in sbigottito silenzio, aprendo e chiudendo la bocca ogniqualvolta credeva di possedere argomentazioni abbastanza solide da ribattere, sennonché ad ogni frase successiva finiva per arrendersi, scuotendo inconsciamente in diniego il capo, l’inattaccabile logica finalmente denudata ai suoi occhi.

Maximilian li aveva menati per il naso; tutti quei sorrisi, quelle promesse, quegli infiammati discorsi sulla cavalleria, l’onore, la sacralità della vendetta, quei “Mein geliebter Bruder”: oh, sicuro! Fratello, fratello, mio amato fratello, dissero al biblico Giuseppe avanti di venderlo!

L’Imperatore li aveva mandati accuratamente allo sbaraglio, nascondendosi abile dietro le quinte e da lì in attesa dei risvolti finali degli eventi: in caso di sconfitta, la colpa sarebbe stata imputata a La Palice e a Mercurio Bua che non avevano obbedito ai suoi ordini con sufficiente diligenza. In caso di vittoria, tutto merito del genio militare di Maximilian, il quale da Bolzano sarebbe volato giù fino a Treviso, materializzandosi all’improvviso nella città conquistata.

Keratas!

Il giovane patrizio non concesse al Bua alcuna tregua, incalzandolo spietato nella sua confusione e rabbia, adesso che lo stava per avere in pugno: “Vedi in quale considerazione ti tiene quell’Asburgo? In tal modo ci si comporta cogli alleati? Con chi combatte così … arditamente per lui?”

“Stai cercando di seminare zizzania?”, soffiò furioso Mercurio, rifiutandosi di credere ad un tiro così basso e vile! Non a lui, non se lo meritava! Lui che aveva costantemente servito con la più assoluta lealtà e impegno i suoi signori, come si permetteva quel … quel … a trattarlo alla stregua della peggiore delle scartine?

Hironimo negò tristemente. “Sto cercando di aprirti gli occhi, capitano. Provo troppo rispetto nei tuoi confronti, per vederti preso per i fondelli da un austriaco bugiardo e senza coglioni, che manco ha il fegato di mostrare il suo muso al fronte, delegando ai suoi comandanti l’onore di morire per le sue cause. A lui la gloria eterna e a voi la bocca riempita di terra!”

Le nocche del greco-albanese si sbiancarono dalla stretta, scrocchiando sinistramente. “Non ho intenzione di cambiar bandiera, qualsiasi cosa tu mi dica”, tremava dalla collera e dall’umiliazione, tuttavia non immune dal sospetto che forse si trattava di un’accorta bugia del veneziano per indurlo al tradimento.

Sicché sussultò neanche avesse ricevuto una frustata, quando Hironimo si sciolse in un riso sguaiato, cattivo. “Certo, certo, com’ho potuto scordalo? Sempio mi!”, si batté il patrizio teatralmente la mano sulla fronte, il bel viso deformato in una maschera beffarda e crudele. “Tu sei troppo pieno del latte dell’umana bontà e gentilezza e giustamente t’accontenti delle briciole altrui. Massimiliano con te ha concluso davvero un ottimo affare, lode al suo fiuto. La stragrande maggioranza dei condottieri pretende ducati sonanti a ricompensa delle proprie fatiche, mentre tu ti ritieni soddisfatto di un sorriso galante, di una pacca sulla spalla, di una stretta di mano e di qualche insignificante zolla di terra su cui giocare al conte-dalle-brache-onte! Me lo vedo Massimiliano cinguettarti a lavoro terminato: Ben fatto, Mercurio; bravo, Mercurio; ottimo lavoro, Mercurio! Grazie, Mercurio,  per aver sacrificato all’altare del mio prestigio la tua vita e quella dei tuoi uomini; grazie per aver rinunciato per amor mio a tua moglie e a tua figlia!

Un pugno alla bocca dello stomaco lo interruppe, sbilanciandolo sulla sinistra e di fatti, grugnendo di dolore e senza appiglio, Hironimo cadde sull’erba, riecheggiandogli il colpo dell’impatto dalla schiena lungo l’intero scheletro, fino all’ultimo osso.

Povero, povero il mio Maurikos, Conte del Niente!, tambureggiarono di nuovo veementi le parole di Caterina nelle orecchie del Bua, mescolandosi a quelle di Hironimo. Braccato, in trappola, a corto di argomenti dinanzi a quell’impietoso e veritiero teatrino imbastitogli. Lui non era un debosciato di cui approfittarsi! Un figlio di papà con la pappa pronta! Da solo s’era costruito la sua carriera e reputazione, non avrebbe permesso a chicchessia d’infamarlo né di deriderlo! Ogni volta la stessa storia con lui: molto onor, pochi contanti! Tutt’al più se non sei del suo paese! 

Mercurio afferrò il veneziano per la gola, spingendolo supino per terra quando questi fece per rialzarsi, posizionandosi a carponi sopra di lui al fine d’immobilizzarlo. “Le tue parole puzzano di veleno”, proferì in un gelido sussurro, che sapeva di condanna.

“Mio povero, povero Mercurio”, gracchiò di rimando Hironimo. “Il veleno non ha odore, non sai?”

Neanche cingesse carboni ardenti al posto della pelle, il capitano di ventura abbandonò  in un guizzo la presa al collo, balzando agile in piedi e issando in un possente strattone il patrizio. “Bada a guarire in fretta: febbricitante o meno, quando leveremo il campo tu mi seguirai ovunque io vada e non ti perderò di vista per un solo istante, neppure in battaglia, dovessi legarti al vessillo!”, gli promise arcigno, spingendolo di malagrazia in direzione dell’infermeria.

“Un tal spettacolo neppure il tanto osannato Boiardo sarebbe stato in grado d’inventarselo!”, ridacchiò divertito Hironimo, acquiescendo all’implicito ordine del Bua.

Poco gli importava se gli credesse o meno: la verità lui gliel’aveva detta, poi stava al greco-albanese trarre le sue giuste conclusioni. Non lo tangeva. Che decidesse di farsi ammazzare stupidamente per Maximilian, o che decidesse di ritornare a servire la Serenissima? Cavoli suoi. Ciò che più premeva al Miani era di tenergli la mente occupata, distraendolo: in questo modo avrebbe abbassato la guardia, fornendogli un’ottima occasione per fuggire. Ché arrabbiato e confuso, Mercurio Bua diveniva assai negligente, commettendo errori grossolani e situazioni ideali onde facilitargli il piano.

Hironimo stava davvero giungendo al suo limite, la fuga adesso la sua unica ragione di vita e speranza.

 

***

 

Fra’ Anselmo tamponava leggermente le ferire sul dorso di Zanze con dell’aceto, disinfettandole, di tanto in tanto scoccando un’occhiata guardinga dietro di sé. La contadina, scoperta la schiena il minimo necessario, sussultava e sibilava al tocco bruciante del liquido, senza però sottrarvisi e il monaco ridacchiò al ricordo di certi suoi pazienti uomini più agliofobici di lei. “Ancora un poco e abbiamo finito”, la rassicurò benevolo, impiegando un tocco leggero e rapido.

Zanze scrollò le spalle. “Gh’ho soportà de pezo: el barba di mia mare, co’, par lu, mi no ghe no lavoravo bastanza, me cresemava (cresimare = picchiare, ndr.) pì d’on musso!” (asino, ndr.)

Il benedettino storse la bocca in disappunto: credeva fermamente nello disciplinare i giovani, per lui il mondo sarebbe finito alla malora il giorno in cui avrebbero smesso d’elargire qualche salutare scappellotto alle loro ribelli cervici; tuttavia batterli alla stregua di tamburi lo riteneva più nocivo che educativo, rendendoli o estremamente paurosi oppure aggressivi, a seconda del carattere.

Per esempio, quel giannizzero di Thomà accanto a lui non aveva ricevuto sufficienti sculaccioni, giacché disobbediente ad ogni ordine, specie quando Fra’ Anselmo gli aveva intimato di trasferirsi in foresteria visto ch’era guarito. Niente da fare: il fantolino s’era costruito una sorta di cuccia per terra, vicino al patrizio veneziano, e lì voleva stare, cascasse il mondo o la pazienza del monaco. Il quale, considerata l’energia frenetica del pargolo, l’aveva arruolato ad ergersi assieme a lui a scudo umano, onde coprire ulteriormente Zanze da occhi indiscreti.

“Passami l’unguento!”, comandò al bambino, intanto ch’appoggiava la pezza di tela insanguinata su di una bacinella a parte.

“Coss’elo?”, non resistette Thomà dall’annusare il cremoso impasto.

“Una mistura di centaurium erythraea et lamium galeobdolon!”

“L’amia (zia, ndr.) dil galeoto? Cossa c’entréla?”

Il pover’uomo si pizzicò esasperato la radice del naso: aveva scordato l’ignoranza imperante al di là delle mura del monastero, sicché talora nutriva l’impressione di parlare col fantolino idiomi diversi, manco provenissero dai due estremi opposti del mondo. “Baùco!”, lo rimproverò sbuffante il benedettino, intingendo la punta di una pezza pulita nell’unguento e applicandolo delicatamente sulla ferita di Zanze. “Xéi zentaurea menor e falsa antrìga zàla (ortica gialla, ndr.), tutte e do erbe bone par varir sbréghi (ferite, ndr.) e secatrizar (cicatrizzare, ndr.). Depo’ la falsa antriga zàla, la gh’ha anca proprietà espettoranti!”

“Justo, a xé onta e fa petòni!” (macchie d’unto, ndr.), schioccò le dita Thomà, fiero di sé per aver compreso la difficile parola da patavino dottore universitario. 

“Bone Jesu!”, guaì Fra’ Anselmo, mentre le due giovani donne ridacchiavano dinanzi a quella commediola degli errori. “No, no sior mamara (scimunito, ndr.): “espettorante” vuol dir che te fa spuàr (sputare, ndr).”

“An! Pulito! Ma perché?”

“Perché, perché! Perché sputare fa bene, ti libera i polmoni dagli umori nocivi! Per l’appunto ho somministrato anche al tuo patron un po’ di falsa ortica gialla, acciò si liberi dal catarro e stia un po’ tranquillo in letto …”, ché quell’erba possedeva pure benefici antispasmodici, nella speranza che gli rilassasse abbastanza i muscoli da persuadere Hironimo a non gironzolare sconsideratamente all’alba, in camicia e a piedi nudi.

Infatti, il frate lo aveva sottoposto ad una solenne lavata di capo non appena l’aveva pizzicato rientrare in infermeria, sordo alle vivaci proteste del giovane patrizio, tutte accusanti la villania di Mercurio Bua e la sua incapacità di distinguere lui da un prete, considerate le sue smanie di ciarliere confessioni. Inflessibile, il benedettino l’aveva minacciato di legarlo al letto e costretto a bere il primo decotto della giornata, rimboccandogli le coperte e ordinandogli di dormire. Su quel punto il Miani s’era ritrovato d’accordo, appisolandosi quasi immediatamente, ambedue le mani al ventre.

Fra’ Anselmo spostò lo sguardo alla finestra e poi verso il veneziano: il sole già s’era alzato da che mo’, eppure ancora non s’era risvegliato. L’uomo s’augurò non si trattasse di una brutta ricaduta, non adesso che stavano terminando di progettare il piano di fuga!

Il monaco terminò di spalmare l’unguento  sulle ferite di Zanze, istruendo Lussìa a stringere piano le bende e, intanto che quella rindossava camicia e casacca, le raccomandò di dormire, se possibile, prona e di non appoggiarsi di schiena al muro. Quanto alla sua amica, il bambino pareva scalciare tranquillo e l’ansie della notte scorsa non davano segni di complicazioni, però queste rimanevano supposizioni del frate, non pratico quanto una levatrice di tali muliebri questioni. Ciò di cui Lussìa necessitava piuttosto era cibo e Fra’ Anselmo rinunciò volentieri alla sua magra razione per lei, anche per quaresimarsi in penitenza.  

Accorgendosi del risveglio d’Hironimo, Thomà disertò il benedettino per zampettare da lui e balzargli in letto, intanto che il patrizio si puntellava cautamente sui gomiti. Il piccino gli sistemò il cuscino dietro la schiena e, ad operazione compiuta, sussurrò qualcosa all’orecchio del giovane, lanciando qualche fugace occhiata al monaco e alle contadine.

“Ben svegliato”, li raggiunse Fra’ Anselmo, chiudendo le cortine attorno al letto delle due donne. “Vediamo un po’ come sei messo oggi”, disse e tenendogli il mento, mosse piano il volto di Hironimo, studiandone il colore della pelle, la torbidezza dell’occhio e la quantità di bianco sulla lingua. Gli misurò la temperatura, storcendo affatto compiaciuto la bocca: ecco cosa accadeva a fare i mona in giro, scalzi, coll’umido mattutino a raffreddare bronchi, stomaco e ossa!

“Cosa c’è da mangiare?”, anticipò Hironimo la paternale, che il crucciato frate già s’apprestava ad appioppargli.

“La tua medicina”, rispose secco quell’altro. “E solo dopo che l’avrai bevuta tutta, si parlerà di colazione.”

Il patrizio sospirò deluso, scivolando sotto le coperte. “Morirò pisciando”, bofonchiò e il benedettino catturò il modo in cui ancora si reggeva la pancia, quasi soffrisse di crampi o coliche.

Fece per chiedergli di mostrargli là dove l’affliggeva, quand’ecco un confratello chiamò Fra’ Anselmo, necessitando della sua assistenza.

Dodici monaci lo seguivano, smunti, sporchi, gonfi di lividi e croste di sangue, l’abito dell’ordine certosino lacero e lordo di fango, senza mantello. Immediatamente il frate l’identificò provenienti dalla limitrofa Certosa di San Girolamo, seccandoglisi la saliva in gola alla vista di tal scempio specie quando, tra questi poveretti malmenati, egli riconobbe Fra’ Thomà Patavim, una sua vecchia conoscenza.

Il confratello spiegò al benedettino come costoro fossero giunti appunto dalla Certosa, scortati personalmente dal maresciallo La Palice, dopo che questi s’era dovuto recare d’emergenza al monastero su sollecita richiesta del Conte di Collalto, per indagare sulla veridicità degli apocalittici resoconti del loro Priore circa il vergognoso comportamento dei soldati tedeschi accampati alla Certosa.

A giudicare dalle facce tumefatte dei certosini, le lamentele del procuratore spirituale si erano dimostrate anche fin troppo ben giustificate.

Fra’ Anselmo sistemò meglio che poté i nuovi arrivati, l’infermeria satura: chi su di uno sgabello, chi per terra, chi appoggiato al muro se riusciva a reggersi in piedi. Si dolse di non poter offrire loro se non qualche mezza scodella di zuppa di rape rosse; dal modo bestiale in cui la trangugiarono direttamente senza cucchiaio, l’uomo comprese trovarsi i certosini in condizioni assai ben peggiori delle loro.

“Cos’è successo?”, interpellò egli sottovoce Fra’ Thomà, con la scusa di tamponargli un taglio sullo zigomo con dell’acqua fredda.

Il frate tirò su col naso, rabbrividendo al pizzicore della ferita. “I todeschi, ecco cos’è successo. Quei diavoli d’inferno hanno messo la nostra Certosa al sacco! Tutto c’hanno portato via: bestie, arnesi, viveri, lasciandoci solo l’aria per respirare e le lacrime per piangere. Arraffavano qualsiasi cosa trovassero, addirittura hanno fatto irruzione in chiesa, mentre ci trovavamo a pregare davanti all’altare! Li abbiamo supplicati di smetterla, di rispettare la casa di Dio, ma quelli, ridendosela, ci hanno picchiato, minacciato, spogliato dei nostri mantelli … E non paghi, quasi a deriderci, dopo averci derubati quegli sciagurati si sono tutti inginocchiati davanti al Crocefisso, si sono segnati, e sempre imperturbabili se ne sono andati via con la nostra roba!” Non avevano dimostrato alcun timor di Dio, forzando barbaramente le porte della chiesa, con le armi in pugno, per di più durante l’Adorazione e dalla paura il certosino aveva ingoiato in un sol boccone l’Ostia, in caso quei masnadieri avessero deciso di profanare anche Quella oltre alla casa del Signore.

Fra’ Anselmo inspirò profondamente, approfittando di strizzare via l’acqua dalla pezza per sfogare la sua rabbia. Udendo di tali barbarità, concluse che invero Dio era esigente nel chiedere di porgere l’altra guancia, una fatica sovraumana.

“Erano furiosi”, aggiunse Fra’ Thomà maggior dettagli a quella squallida vicenda. “L’argenteria e gli altri oggetti di valore in sacrestia li avevamo già inviati al sicuro a Veniexia, ben prima dell’arrivo di quest’esercito di senzadio. Di conseguenza, non trovando nulla di prezioso, i todeschi ci hanno percossi affinché li rivelassimo dove li avessimo nascosti.” S’inumidì le labbra gonfie e incrostate al ricordo dei pugni ricevuti da un lanzichenecco per nulla soddisfatto della risposta datagli, ossia che per loro di prezioso non v’era alcunché da rubare.

Il certosino proseguì: “Dopodiché è giunto alla Certosa monsignor di la Peliza e subito il nostro Priore gli è corso incontro, lamentandosi delle crudeltà usate su di noi e su di un luogo sacro. Il maresciallo s’è immediatamente scusato, contrito: Non sono stati i miei francesi, e se anche lo fossero stati, v’avrei posto rimedio. Ed ha giurato per la fede sua di schierare quei todeschi malnati in prima linea, una volta messa Trevixo sott’assedio”, concluse il suo triste racconto, appoggiando la bocca sull’orlo della scodella e ingoiando avidamente il piacevole liquido caldo.

Tipica promessa del comandante: trasformare gli indisciplinati in scudi umani al primo scontro, piuttosto di punirli in loco, scosse il capo Fra’ Anselmo, che ormai stava imparando a capire il modus operandi di tal marmaglia. “E adesso? Cosa farai?”, inquisì invece.

Fra’ Thomà lo guardò nervosamente dietro il piatto, per poi riconcentrarsi colpevole sulla zuppa. Il benedettino arcuò insospettito il sopracciglio, ancor di più quando Mercurio Bua comparve all’uscio della porta, facendo sobbalzare i due monaci.

“Colendissimo padre”, lo sfotté il greco-albanese tramite la riverenza e Fra’ Anselmo si morse la lingua, soffocando una degna risposta a quell’indegno saluto, “il maresciallo La Palice richiede la vostra assistenza. È ritornato dalla Certosa pallido, sudato e sostiene soffrire di dolorosissime fitte alla testa. La sua garzona vi saprà dire di più a riguardo. Avreste dunque la cortesia di visitarlo e magari di preparagli una delle vostre portentose tisane?”

Il frate s’alzò in piedi. “Vedo cosa potrò fare.”

“Ah, e già che ci siete, recatevi anche dal conte di Gambara. Stamane non si è alzato dal letto e il maresciallo vorrebbe informarsi sulle sue condizioni di salute: temo che la sua improvvisa cavalcata non gli abbia affatto giovato”, aggiunse all’ultimo il capitano di ventura.

Per tutta risposta Fra’ Anselmo uscì dall’infermeria, affidando i suoi malati al confratello e assistenti. Rimasto finalmente solo con Fra’ Thomà Patavim, Mercurio occupò il posto vacato dall’altro monaco, squadrandolo ben in faccia. “La mia offerta rimane tuttora valida”, andò dritto al sodo, “sta a voi accettarla o meno, però vi avverto: oggi o mai più.”

Il certosino appoggiò la scodella sulle ginocchia, nettandosi la bocca col manico del saio. Nel suo resoconto di quanto accaduto alla Certosa, aveva omesso di riportare a Fra’ Anselmo un piccolo dettaglio, ovvero che il capitano degli stradioti Mercurio Bua aveva accompagnato il generalissimo francese alla volta del monastero e che mentre La Palice si beccava le lamentele, sfuriate e anatemi del Priore, il condottiero aveva avvicinato Fra’ Thomà, domandandogli se avesse dei parenti a Treviso. Il frate, interdetto e un poco intimidito dalla cruda fama del Bua, gli aveva replicato che dappertutto nel mondo possedeva fratelli.  Al che il capitano aveva specificato fratelli o parenti di sangue, non spirituali. Sì, ne aveva, aveva allora risposto il frate e inaspettatamente gli era stato chiesto se volesse raggiungerli, giacché Mercurio gliene avrebbe offerta l’occasione.

“Perché mi volete aiutare?”, gli pose Fra’ Thomà quella domanda, che l’aveva tormentato sin dal loro primo incontro. “Anzi, perché ci volete aiutare?”, si corresse, menzionando il fatto che il greco-albanese era disposto ad estendere il favore anche agli altri undici frati malconci.

“Perché siete delle inutili bocche da sfamare”, non gli zuccherò il farmaco il Bua, provocando un indignato rossore nel monaco, “e non abbiamo tempo per farvi da balie, men che meno il nostro maresciallo, che in questo momento ha ben altre gatte da pelare, che proteggervi dai tedeschi.” Incluso rimanere in salute, aggiunse mentalmente lo stradiota.

“Un comandante incapace di tenere a freno i propri soldati, non si può certo ritenere tale!”, giudicò inclemente Fra’ Thomà, indicando il suo viso a chiazze rosse e blu.

Mercurio scrollò incurante le spalle. “In ogni modo, potete scegliere se rimanere qui a patire la fame e le percosse, oppure scappare a Treviso e poi raggiungere il vostro ordine a Venezia.”

“Come?”, strinse gli occhi il certosino, sospettoso e temendo un inganno. Dopo lo scontro coi contadini, il bosco del Montello pullulava degli stradioti del Bua, i quali perlustravano assieme ai gendarmi ogni zolla di terra, in cerca dei superstiti e di scoraggiare anche gli esploratori e stradioti veneziani, sempre vigili e pronti ad improvvise imboscate. Sia l’Abbazia che la Certosa erano occupate dagli accampamenti dei franco-imperiali, i quali avevano triplicato i turni di guardia. Impossibile quindi fuggire senza un aiuto esterno.

O interno.

“Darò a voi e ai vostri confratelli una mia piccola scorta, la quale v’accompagnerà al limitare del bosco, per poi lasciarvi proseguire da soli. Gli stradioti veneziani cavalcano in incessante esplorazione, non tarderanno a notarvi e a soccorrervi”, gli spiegò in breve Mercurio.

Fra’ Thomà reclinò il capo, dubbioso quanto il suo omonimo santo. “E tutta codesta generosità in cambio di cosa?”, mise le carte in tavola, arrivando al nocciolo della questione. La reputazione del Bua lo procedeva e pure le sue bizzarrie – tendere un’imboscata a chi l’aveva sfidato a duello; far catturare un suo alleato per ripicca; abbassare ad una cifra ridicola e simbolica la taglia di riscatto di un’intera città; affrancare un uomo che non aveva soldi per liberarsi; infilzare su di una picca la testa di un suo parente e rivale croato, per un’antica faida tra famiglie e tante altre. Naturale che il certosino poco si fidasse di lui, del suo carattere volubile e appunto mercuriale, di quel suo avvicinarlo senza un doppio scopo.

Il greco-albanese s’avvicinò a lui, estraendo dalla sua casacca un foglio piegato e sigillato. “Consegnerete per conto mio una lettera”, fu la sua semplice richiesta.

“A chi, nello specifico?”

“Al magnifico e illustrissimo consigliere ducale, messer Giovan Battista Morosini “da Lisbona.” A lui e a lui soltanto.” Caterina non aveva risposto ad alcuna delle sue lettere, né tantomeno suo fratello Teodoro e i suoi cognati Manoli e Costantino Boccali soltanto per mandarlo al diavolo. Silenzio totale anche dal Consiglio dei Dieci, dei Pregadi e il Doge contava quanto un due di bastoni, manco sprecava carta e inchiostro. A questo punto, considerata la situazione, era infine giunto il momento di rivolgersi all’unica persona su cui Mercurio poteva veramente far leva.

“Cosa dice?”

Il capitano degli stradioti aggrottò la fronte, sorpreso e piccato da quell’eccessiva curiosità. “Non sono affari vostri”, tagliò bruscamente corto, spingendo la missiva sotto il naso del frate.

Fra’ Thomà incrociò testardo le braccia al petto. “Sì, invece, perché potrei rifiutarvi questo favore. Chi m’assicura che non si tratti di qualcosa di compromettente o che possa compromettermi agli occhi della Signoria?”

“Che! Avete la coscienza sporca?”

“La calunnia, signor capitano, esiste dall’alba dei tempi. O mi rivelate i contenuti o non se ne fa nulla”, fu l’innegoziabile ultimatum del monaco.

“E voi rimarrete qui prigioniero e affamato”, levò in alto i palmi delle mani Mercurio, in realtà scocciato da tanta testardaggine. Un conto era comandare i suoi stradioti, un conto i civili, teste ancor più dure. Almeno i primi poteva sempre minacciarli con la frusta.

“Pensate che la prospettiva mi spaventi?”, sogghignò indulgente Fra’ Thomà. “All’inizio non comprendevo perché vi foste rivolto a me, ora sì: soltanto uno interno alla Serenissima può recapitare questa lettera al vostro destinatario, poiché i vostri uomini verrebbero o catturati o questa missiva confiscata e letta da terzi e voi non desiderate ciò. Al che vi si precludono molte possibilità di scelta e se io dovessi rifiutarmi, voi vi trovereste daccapo. Ho forse torto?”

Il condottiero batté sarcastico le mani. “Per esser gente ch’ha rinunciato al mondo, voi monaci la sapete anche fin troppo lunga”, commentò beffardo, ammettendo ciononostante la perspicacia del frate. Sicché gli concesse la sua richiesta, sebbene ai suoi termini. “In breve  - e non chiedetemi ulteriori dettagli -  mia moglie si trova al momento a Venezia e quando la Signoria avrà intenzione di restituirmela -  alle condizioni da me elencate -  invierò una robusta scorta dei miei migliori stradioti a prelevarla, così da levar il disturbo alla Signoria d’organizzare la cosa. Soddisfatto? Abbiamo un accordo?”

Fra’ Thomà ponderò a lungo i pro e i contro, alternando la contemplazione della lettera al viso dell’epirota, le cui sopracciglia si stavano avvicinando impazienti ad ogni istante di tentennamento da parte del monaco. “Mi pare una richiesta ragionevole”, sentenziò infine e Mercurio convenne assolutamente con lui. “Sul serio ci assisterete nella fuga?”, sussurrò poi d’un tratto ansioso.

“Avete la mia parola d’onore”, si portò il condottiero una mano al cuore, gli occhi luccicanti di febbrile eccitazione. “Possa Iddio fulminarmi in questo istante se mento.”

Il certosino lo chetò tramite un deciso gesto della mano, ritenendo inopportuno scomodare il Padreterno per tali quisquiglie. “Accetto”, dichiarò solenne, sfilando la lettera dalle dita di Mercurio e nascondendola sotto lo scapolare.

“Badate: quanto vi ho appena confidato, resterà con voi. A nessuno - intesi? -  a nessuno dovrete ripetere i contenuti di questa lettera”, si raccomandò il greco-albanese, ponendosi in piedi e squadrandolo intimidatorio.

“Sia”, annuì Fra’ Thomà.

“Riposatevi adesso per qualche oretta e poi recatevi nella mia cella: Zilio Madalo, il mio luogotenente, v’istruirà dove incontrarvi per la partenza. Il tutto con discrezione”, giacché La Palice ignorava alla grossa questa personale iniziativa del condottiero: agli occhi profani dei francesi, i frati erano scappati e gli stradioti del Bua partiti alla loro ricerca, ma, ahimè, senza successo.  

Fra’ Thomà asserì di nuovo col capo, raggiungendo il gruppetto dei suoi confratelli per informarli a grandi linee del piano per abbandonare l’Abbazia alla volta di Treviso, inducendoli alla calma e circospezione onde evitare di destare sospetti, specialmente tra i benedettini, i quali avrebbero potuti denunciarli o all’Abate o al maresciallo oppure accodarsi a loro e di conseguenza complicarli la fuga.

Mentre i certosini così confabulavano, Mercurio si recò a porger visita al suo prigioniero, trovandolo per suo sommo fastidio bianco quanto le lenzuola. Seduto a tenergli compagnia l’immancabile marmocchio, interrompendolo l’arrivo del condottiero nel bel mezzo della spiegazione della parola “espettorante” da lui imparata quella mattina.

“Hai mangiato?”, s’informò perentorio il Bua, notando la scodella preoccupatamente vuota e asciutta. A seguito della discussione di quella mattina ancora risentiva il patrizio per le sue insinuazioni, ciononostante si sforzò di non recriminarlo eccessivamente per delle - lo riconosceva - giuste obiezioni sull’ambiguo comportamento dell’Imperatore. D’altronde anche La Palice ne diceva su di lui peste e corna, ergo …

“Gli ultimi rimasugli di zuppa di rape se li sono pappati quei monaci certosini”, gli rispose concisamente Hironimo, ponendosi come suo solito davanti a Thomà.

Potrei stenderlo con un unico ceffone e ancora crede di riuscire a proteggere il moccioso. “Uhm”, contemplò pensieroso il capitano di ventura la punta dei suoi stivali. Perché si sentiva lui a disagio invece di quell’altro, quando dalla parte del torto sguazzava appunto il veneziano? “Provvederò a farti portare qualcosa. Anche al pidocchio, lo so”, l’anticipò snervato, non appena il Miani aprì la bocca per replicare.

Invece … “No, non era questo di cui volevo parlarti.”

“Ti preferivo muto, sai?”, roteò gli occhi Mercurio, affatto desideroso di un’altra diatriba, la quale sarebbe puntualmente terminata con lui arrabbiato e il Miani pestato peggio d’un baccalà.

Il patrizio chiuse la mano in un pugno, segno che neanch’egli aveva tempo per incominciare le solite discussioni da lavascale. “E così hai intenzione di far fuggire quei monaci certosini?”, gli domandò brutalmente schietto. “Suvvia, da quando in qua parli fitto-fitto con un frate? Neanche se me lo giurassi su tua madre, ti crederei così cristiano da confessarti”, gli delucidò con un sorrisetto compiaciuto.

Mercurio sobbalzò, non attendendosi d’esser stato scoperto così presto. E adesso? Quale provvedimento questo furbastro voleva prendere contro di lui? Ricattarlo? Denunciarlo? Ci provasse pure, gli avrebbe estratto le budella dalla bocca!

“Dunque?”, gli chiese imperturbabile. “Anche se fosse?”

Hironimo lo trafisse coi suoi occhi nerissimi. “Come ne sgattaiolano fuori dodici, ne possono sgattaiolare fuori quattordici …”

Il Bua sentì fischiargli le orecchie e divenne paonazzo. “Stai tentando di corrompermi per lasciarti fuggire con loro?!”, berciò furioso, già avanzando di qualche passo per riempire di ceffoni quel muso da impunito del patrizio, il quale allungò il braccio, ponendo una stizzita distanza tra loro.

“Se mi ascoltassi invece di continuare ad interrompermi, magari ci capiremmo!”, lo rimbeccò al limite della sua pazienza. “Tre settimane trascorse a sopportarti e poi - oh! -  mi liberi così? Senza uno scambio o un pagamento di riscatto? Dai! Non offendere la mia intelligenza!”, asserì offeso e perentorio. Il giovane indicò poi il lettuccio accanto alla scrivania di Fra’ Anselmo. “Invece, qui in infermeria si sono rifugiate due contadine, giunte ieri dal bosco del Montello e i come e perché penso tu già li conosca benissimo.”

Il malessere oscuro provato durante l’intera nottata scorsa investì in pieno il condottiero. Subito si pose sulla difensiva, scacciando via cocciuto quei vili pensieri. “Cosa vuoi da me? Che le includa nell’allegra comitiva?”, finse ironica disponibilità.

Non si scorgeva un granello di spiritosaggine in Hironimo, semmai una determinazione mista a dell’intimo disgusto e delusione, colando tali sentimenti nella sua spiccia risposta: “Sarebbe il minimo dopo la porcata che hai commesso.”

“Ti ho detto, ch’io non forzo le donne!”, balzò in avanti Mercurio, sporgendosi imponente sopra di lui, ma il Miani sostenne imperturbabile il suo sguardo, il mento ben alto in segno di sfida.

“I vostri soldati, al contrario, l’hanno fatto per tutta la notte scorsa! Quindi, se non colpevole, sei perlomeno complice del loro stupro!”, ogni parola pesava più d’un macigno sulla coscienza del greco-albanese, per la prima volta in vita sua. Forse perché nessuno, nemmeno Caterina, aveva avuto il fegato di schiaffargli in faccia le sue meschinità? “Avresti potuto intervenire. Trovare un altro modo per premiare i soldati. Invece, hai preferito la via più facile e mi sorprende venire proprio da te, che tanto professi d’amare tua moglie e tua figlia ma al contempo non hai dimostrato un minimo di pietà od empatia verso quelle mogli e figlie, trasformate per tuo ordine in carne da dare in pasto ai tuoi cani lussuriosi!” La sera addietro non aveva potuto credere alle parole del soldato lombardo; purtroppo i racconti delle due fuggitive, riferitigli da Thomà, avevano confermato la sordida verità e nauseatolo al punto da rigettare per intero la zuppa della sera precedente.

La testa di Mercurio guizzò dall’altra parte, neanche avesse ricevuto un possente ceffone. Cacciò fuori un pesante sospiro, le mani poste nervosamente ai fianchi e i denti martorianti la tenera carne delle labbra. “E che cosa ci guadagno a farle fuggire, sentiamo?”, lo provocò stizzoso al limite del petulante; in realtà Hironimo sapeva che  quella battaglia la stava nettamente per vincere, a giudicare dalla fissità dello sguardo dell’epirota, un cane in attesa dell’ordine del padrone.

“Qualche girone più in alto all’inferno!”, dichiarò sarcastico il Miani.

“Così m’indisponi”, gli ricordò seccato il condottiero.

Il giovane patrizio fece spallucce. “E’ la tua coscienza sporca, non le mie parole.”

“Da quando in qua un prigioniero impone alcunché al suo guardiano?”

Hironimo neanche degnò il Bua di una risposta, appoggiando la schiena sui cuscini, le vertigini risvegliatesi dalla pennichella nel suo cervello. Lo stomaco gli gorgogliava, avvertiva un gran dolore tra le costole e freddo alle mani e ai piedi. Decisamente aveva più diritto lui di giocare allo sdegnato e offeso, rispetto a quel lunatico d’un greco-albanese. Ignorando completamente la sua domanda, optò per un’altra tattica, che sperò portagli qualche risultato soddisfacente. “Una di quelle contadine”, e indicò una delle due sagome dietro la tenduccia, “raccontava a Thomà come avesse trovato il cadavere del suo compagno mezzo decollato. Gli ha mostrato la ciocca di capelli strappatagli per ricordarsi di lui, per mostrare qualcosa di tangibile al figlio che porta in grembo …” Il fantolino, commosso, gli aveva riferito come Lussìa avesse lavato via il sangue e intrecciato quei capelli in una piccola croce, acciocché l’anima del suo Berto vegliasse su di lei e il piccino. “Ma tanto cosa parlo a fare”, asserì amaramente il patrizio e lisciò le pieghe del lenzuolo, “tu possiedi un’anima nera quanto il carbone.”

E dal fondo nero d’essa riemerse nella mente di Mercurio il volto di quell’anonimo contadino da lui ucciso il giorno addietro, macchiato di sangue e gli occhi saettanti di rabbia e disperazione. Mors tua vita mea, d’accordo, ma pure infierire sulla mia donna e mio figlio?, schiumava l’annoso quesito da quella storta bocca mutilata.

In un battito di ciglia tale angosciante visione scomparve, rintanandosi nella memoria prodigiosa dello stradiota, là dove simile ad un parassita avrebbe atteso ogni suo istante di stanchezza per ripresentarsi a lui, tormentandolo. Dinanzi a Mercurio rimase soltanto il viso di pietra d’Hironimo, raccolto impassibile nei suoi pensieri.

“Quando cesserai d’intercedere per gli altri e incomincerai a supplicare per te stesso?”, non si frenò dal domandargli il Bua, genuinamente intrigato da quella sua ostinatezza di voler alleviare le altrui sofferenze senza curarsi delle proprie. Certo, si trattava della sua gente, però nulla aveva il veneziano chiesto per mitigare l’asprezza della sua prigionia. Una volta, per punzecchiarlo, l’aveva minacciato che s’avesse ceduto la sua porzione al marmocchio, non ne avrebbe ricevuta un’altra. Sia, era stata gelida risposta del suo prigioniero e allora per testare questa sua determinatezza, il condottiero sul serio non gli aveva dato da mangiare, ma da quell’altro non una parola di lamento né di protesta.

“Mai”, gli rispose stoico ed orgoglioso il Miani. “Non supplicherò mai nessuno.”

Il capitano di ventura batté il piede per terra, grattandosi pensieroso la nuca, roso dal dubbio. In fin dei conti, che gli costava? Altre due bocche, anzi tre, in meno contro cui contendersi il pane …  “Che si vestano da monaci”, cedette il Bua, tornando un poco a fiatare. “Per evenienza”, aggiunse, levando in alto la testa e si sorprese di trovare un timido sorriso sul volto pallido d’Hironimo.

“Te ne saranno molto grate”, gli sussurrò sincero.

D’accordo, era giunto il momento di battere velocemente in ritirata. “Non me, è te che debbono ringraziare”, non volle l’uomo perdere alcuna parvenza di dignità, chiudendo la tendina e dirigendosi verso Fra’ Thomà Patavim in modo d’aggiornarlo circa i suoi nuovi compagni di viaggio.

Sennonché venne intercettato da un cupo Fra’ Anselmo, di ritorno dalle sue visite. “Deduco dal pranzo di due giorni fa che i Conti siano vostri amici?”, esordì dritto al dunque il monaco.

“Affermi il vero, frate.”

“Bene, perché qui in infermeria non c’è più posto e le celle non sono il posto più salubre per due ammalati.”

“Invierò immediatamente un nostro emissario ai Conti, chiedendo caritatevole ospitalità nel loro castello per il nostro maresciallo e per il conte di Gambara”, colse Mercurio la palla al balzo: perfetto, con la scusa del trasferimento di La Palice e del nobile bresciano a San Salvatore, l’attenzione del campo sarebbe stata doppiamente rivolta altrove.

In uno massimo due giorni la lettera sarebbe giunta nelle mani del consigliere ducale sier Morexini e, a Dio piacendo, fra una settimana avrebbe finalmente riabbracciato la sua Caterina. Poi il resto poteva andare giù per lo scolo di fogna, non gliene fregava un gran bel fico secco.

Ignaro dei suoi ragionamenti, Fra’ Anselmo terminava di riferirgli la sua diagnosi: “Il vostro maresciallo dovrebbe rimettersi senza eccessivi fastidi, forse già per fine mese sarà guarito. Ho adeguatamente istruito la sua garzona sui rimedi da somministrargli. Quanto al signor conte …” e qui la voce dell’uomo tremò leggermente e così anche il Bua, più che altro perché col Gambara ci aveva lavorato a stretto contatto e maledetto fosse in eterno quel bresciano, in caso gli avesse appiccicato il morbo!

“Ebbene?”, lo spronò nervoso, tentato dalla voglia matta di porre fine di persona alle sofferenze del Gambara e poi di bruciarne per sicurezza il cadavere.

“Non più di due mesi”, sentenziò grave il benedettino, ritornando alla sua scrivania.

“Gliel’avete comunicato?”

“Ovvio”, fece sorpreso Fra’ Anselmo, “così il signor conte avrà tutto il tempo per riflettere sulla sua vita, tirarne le somme e riappacificarsi con Dio e cogli uomini. Contrariamente a voi profani, che mascherate la verità attraverso futili speranze”, e gli puntò contro la penna, “noi fisici siamo assai più pietosi nel descrivere le cose per come stanno.”

“Rivelare a quel disgraziato che gli rimangono due mesi di vita?”, ribatté scettico Mercurio. “A me pare piuttosto impietoso, invece.”

“Impietoso è ciò che l’attende, se non si prepara adeguatamente.”

“Detesto i vostri sermoni escatologici”, sbuffò il condottiero.

Fra’ Anselmo non se ne curò di certo. “Tutti verremo giudicati, figliolo, peccato che a nessuno piaccia sentirselo dire in anticipo”, e sorrise sornione.

Al che Mercurio guizzò via rapidissimo dall’infermeria: due prediche in un sol giorno erano davvero troppe per un poveruomo.

 

***

 

Era buffo osservare sier Zuam Paulo Gradenigo, sier Andrea Donado e il figlio Nicolò, sier Lunardo Zustignan e sier Marco Miani tentare comicamente d’impironare la fetta di brasato senza arricciare la bocca dal fastidio, utilizzato soltanto le prime due dita, gli unici arti liberi dalle bende alle mani, testimoni dell’intesa attività manuale alla cinta muraria.   

I lavori alle mura settentrionali erano miracolosamente terminati, proprio come prefissatosi dal provveditore generale: l’intera città vi aveva lavorato in sincronia perfetta sia di giorno che di notte, trasformandosi in un operoso alveare d’api, tutti ordinatamente ai loro posti, uomini e donne; guastatori, genieri, soldati, patrizi, cittadini e popolani, laici e religiosi, in un continuo viavai di carriole e passamano di materiali edili e calce. Poi, quando s’era giudicata conclusa l’impresa, o perlomeno il suo grosso, i trevigiani erano rimasti a contemplare basiti il risultato, a bocca aperta, incapaci di credere al nuovo complesso murario dinanzi a loro, così possente e arcigno e a Dio piacendo infallibile contro le cannonate nemiche. Dopodiché s’erano trascinati ognuno alle proprie case, desiderando null’altro se non dormire ed immergere le mani gonfie e piene di vesciche e calli nell’acqua fredda.

Oltre alle mura, ci si era attivati alacremente a demolire i monasteri a loro ridosso o in prossimità, quali San Girolamo; Santa Maria del Gesù; Santa Chiara; Santa Maddalena e ciò per creare spazio vitale e impossibilità al nemico di rifugio. Al monastero Santi Quaranta era stato concesso di vivere ancora per qualche settimana, intanto che fungeva da quartiere per gli stradioti di Teodoro Paleologo; poi anch’esso sarebbe stato abbattuto. Un duro sacrificio per la religiosissima città, ma essenziale.

Il tempio della Madonna Grande al contrario continuava, malgrado i continui accordi e promesse, a creare problemi, ché distruggere quella chiesa limitrofa alle mura equivaleva a trafiggere il cuore della popolazione trevigiana, da secoli fedelissimi al sentito culto mariano e certi, come scriveva sier Lunardo Zustignan ai suoi familiari a Venezia, che “la devotissima Nostra Donna è lì per aiutarli” contro i franco-imperiali e contro la pestilenza insinuatasi in città.

Le squadre di guastatori avevano già demolito il monastero attiguo dei Canonici Regolari, commissionato nel 1491 dal Patriarca di Venezia domino Antonio Contarini, all’epoca Priore del santuario, assieme al tempietto e alla sagrestia attigua. Anche il campanile era stato abbassato, riconvertito in torre di vedetta. Tuttavia, causa le occhiatacce torve e feroci dei trevigiani, i guastatori non avevano osato proseguire oltre, temendo picconate in testa o direttamente la lapidazione.

A seguito di notevoli tira e molla tra le autorità civili (che a tutti i costi voleva evitare una possibilissima sommossa popolare) e le autorità militari (ciechi ad ogni devozione tranne all’ottica bellica) s’era giunti ad un compromesso: ogni parte a ridosso delle mura sul lato orientale sarebbe stato demolito; il tempietto lombardiano che incorniciava l’affresco della Nicopeia dei Miracoli invece risparmiato.

Sfortunatamente, quel 20 settembre, il capitano Renzo di Ceri s’era riscoperto insoddisfatto dell’accordo e aveva ordinato, per sommo orrore generale a cominciare dagli stessi guastatori, d’abbattere il tempietto e il muro perimetrale dove si trovava l’immagine miracolosa. Immediatamente una  folla esagitata era corsa ad avvisare sottocasa sier Zuam Paulo Gradenigo e un furioso e pubblico diverbio n’era scaturito tra i due comandanti, il provveditore arrabbiato a bestia per l’ennesima insubordinazione del condottiero laziale, opponendosi con infiammato vigore alla demolizione della cappella della Madonna. I due contendenti erano arrivati al punto di mettersi le mani addosso, sennonché alla fine Renzo di Ceri aveva ceduto alle pressioni del Gradenigo o piuttosto all’espressioni crucciate dei trevigiani lì riunitisi a cerchio, i quali lo fissavano impestati d’odio e già calcolando il primo albero disponibile dove appiccare l’Orsini.

A denti stretti Renzo di Ceri aveva accettato di dare la mano a sier Zuam Paulo in segno di pubblica pace e concordia, ironicamente dinanzi all’immagine sacra che avrebbe voluto distruggere.

“Però vi giuro”, riferì a cena sier Lunardo Zustignan all’ancora sbuffante provveditore, “d’aver sentito borbottare il capitano: Dio dice: Aiutati, che t’aiuterò anch’io”, e che quest’opera di demolizione non è mal alcuno.”

La bellissima chiesa della Madonna Grande s’era quindi ridotta ad un rudere informe, mutilata delle tre cappelle gotiche, dell’abside e del transetto. Le tre navate sarebbero state riconvertite per deposito munizioni e gli alloggi dei soldati, mentre una provvisoria copertura avrebbe protetto il tempietto lombardesco.

Sier Zuam Paulo Gradenigo abbassò il piron, stufo del brasato sul piatto. Poi però l’appetito lo vinse, ci ripensò su e, seppur dolorosamente per via delle piaghe alle mani, morse il pezzetto di carne. “Mi duole il cuore come a tutta Trevixo; tuttavia, per un bene superiore, bisogna pur far sacrifici.”

“La cappella della Madonna non corre più alcun pericolo ed era questo ciò che più premeva al popolo. Tutto bene quel che finisce bene”, lo consolò sua moglie madona Maria Malipiero Gradenigo, ancora vestita del semplice abito da lavoro, così come la moglie del podestà madona Francesca Gradenigo Donado e madona Helena Spandolin Miani.

La nobildonna, troppo anziana per lavorare alle mura, ugualmente non aveva voluto restarsene  a casa con le mani in mano e, racimolando un gruppo di volontarie, aveva pigliato il comando dell’Ospedale trecentesco di Santa Maria dei Battuti, controllando le scorte di bende, medicinali e strumenti chirurgici, i posti letto per i feriti  e gli ammalati, specie per quest’ultimi, il cui numero stava crescendo sì rapidamente, da trasferirne alcuni al lazzaretto. Né la mole di lavoro né gli scetticismi dei direttori dell’ospedale l’avevano trattenuta dal rigirarseli tra le dita: accompagnare il marito in quasi tutte le sue spedizioni militari non significava solamente starsene in tenda a cucire o a guardare le sfilate delle truppe.

“Sier Vincenzo Salamon e sier Vincenzo da Riva torneranno domani a Veniexia”, cangiò discorso madona Maria, acciocché il consorte placasse la persistente arrabbiatura verso il capitano Orsini. “Anche le condizioni di salute del capitano Naldo Naldi e del connestabile Domenego da Modom si sono aggravate. Il numero d’ammalati sta aumentando di giorno in giorno e purtroppo ci troviamo a corto sia di medici sia di chirurghi.”

“Sier Andrea”, si rivolse madona Helena al podestà, “vorrei per cortesia domandarvi aiuto, nell’aiutarmi a persuadere il vostro nezzo Marco a rimpatriare anch’egli a Veniexia. Stamane, quando l’ho incrociato mentre usciva di casa, aveva una faccia talmente bianca da sembrarmi morto. Madona Felicita Cimavin, presso cui egli alloggia, m’ha inoltre riferito come al suo ritorno, dopo la ronda, Marco si sia buttato a letto, stanchissimo, senza neppure cenare. Per questo motivo non ha potuto unirsi a noi stasera e di questo si scusa.”

Sier Donado spalancò la bocca incredulo, sbiancando anch’egli alla notizia dell’improvvisa malattia di suo nipote Marco Contarini, prefigurandosi la sfuriata di sua sorella madona Alba non appena si fosse rivista rincasare il figlio più morto che vivo. D’altronde, parecchi patrizi erano dovuti rimpatriare in fretta e furia per via di quella strana febbre, spopolando i torrioni dei loro guardiani. “Ma certo”, gli venne in soccorso sua moglie madona Francesca, replicando al posto suo e traendolo d’impaccio, “parlerò io stessa domani col mio nezzo. Grazie mille per averci avvertito.”

Marco Miani, al contrario, aggrottò la fronte e scoccò un’occhiata affatto compiaciuta anzi assai sospettosa alla moglie, domandandole silente da quando in qua tutta quella confidenza col Contarini, da conoscere così approfonditamente il suo stato di salute e da fargli perfino da portavoce. Imperturbabile, madona Helena gli pestò sotto il tavolo il piede, riportandolo a miti consigli: il piccolo Scipio era la prova vivente che Marco doveva esser l’ultimo sulla faccia della terra a predicarle la fedeltà coniugale, perdendo in aggiunta ogni diritto di farle il geloso.

“Certamente, se sta male è giusto che Marco torni a casa”, convenne il podestà, ripigliatosi dal suo iniziale spaesamento e ignaro delle diatribe sotterranee tra i due coniugi. Suo figlio Nicolò avrebbe accompagnato il cugino germano, così d’allietargli il lungo e deprimente viaggio in burchio e portare le scuse scritte dal padre a sua zia.

“Questa mattina”, interruppe sier Lunardo Zustignan il pesante silenzio impostosi tra i commensali, “è ritornato da una sortita il nostro Draganeto e i suoi esploratori. Con loro avevano due prigionieri, un cavallaro francese e un feltrino proveniente da Bolzam, ai quali hanno trovato addosso delle lettere da parte dell’ambasciatore francese indirizzate a monsignor di la Peliza. In esse l’oratore si lamentava di come l’Imperatore non sembri disposto ad organizzare alcunché per venir in soccorso ai suoi alleati; che la cosa lo lascia mezzo confuso e che per non attristare monsignor di La Peliza, non vuol dilungarsi in spiacevoli dettagli.”

Una giovale risata riecheggiò nella sala, l’umore decisamente sollevato. “Poareto! Non lo vuol far piangere!”, commentò Marco, stringendo a mo’ di scusa la mano a madona Helena, che ricambiò ridendo anch’ella all’immagine del maresciallo riverso in fiumi di lacrime alla notizia dell’inettitudine dell’Imperatore.

“Il signor capitano Vitello ha commentato a riguardo, che ciò spiegherebbe il generale malcontento dei francesi e che quindi, quella loro testardaggine a voler comunque porre Trevixo sott’assedio o sia figlia della paura di una ritorsione da parte dell’Imperatore oppure del loro smisurato orgoglio e senso dell’onore”, riferì Zustignan.

Sier Zuam Paulo sbuffò dietro il bicchiere: tra i francesi a tentennare e i tedeschi a sbravazzare nella Patria del Friuli, non si sapeva se ridere o piangere di quella situazione. “Piuttosto”, chiese al nipote del Doge, “le carte del Ducha di Frara e del Roy di Franza?”

Oltre agli emissari provenienti da Bolzano, gli esploratori veneziani avevano intercettato lettere provenienti dal medesimo Louis XII, d’Alfonso d’Este e dallo scomunicato cardinale Federico Sanseverino, scritte in codice cifrato e in francese, sicché si poteva ben definirla una giornata proficua. I traduttori e i cifristi avevano lavorato alacremente fino all’ultima parola, traducendo e decifrando a velocità impressionante, affinché la Signoria ne fosse informata quanto prima. L’eco della resa di Udine e delle altre città friulane aveva aumentato la pressione su Treviso e ogni informazione poteva fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta.

“Anche queste lettere erano destinate a monsignor di La Peliza”, riassunse sier Lunardo, imparatene oramai i contenuti a memoria a furia di scrivere rapporti su rapporti alla Signoria, “in esse il Ducha di Frara gli ricordava la promessa fatta d’inviargli in soccorso trecento lance nel Polesene, così d’aiutare le truppe estensi a Lignago. Il Ducha gli ha poi allegato una cartina di Frara e delle terre ferraresi a ridosso del padovano, acciocché La Peliza sappia meglio orientarvisi.”

“Ci state dunque dicendo, che il Ducha si crede tanto furbo e invincibile, da spedire a La Peliza le mappe del suo ducato e da descrivergli nel dettaglio gli spostamenti delle sue truppe?”, non riuscì a concepire Marco tale ingenuità tattica. Non calcolava l’Estense, che per raggiungere via corriere La Palice a nord della Marca Trevigiana i suoi cavallari dovevano passare forzatamente per il padovano prima e per il trevigiano meridionale poi, ergo inciampando nella fitta rete di spie ed esploratori? Incredibile! Un errore così madornale se lo sarebbe aspettato da uno scolaretto fresco di studi, non da chi si fregiava d’essere un esperto veterano di guerra e più soldato che duca.

“Il signor Ducha”, commentò spassionatamente il provveditore Gradenigo, “poiché ha vinto alla Polesella e contro il Papa, non soltanto si crede ora un gran condottiero e stratega – e questo di per sé è già più scusabile, chi non ha mai peccato d’hybris? – ma addirittura s’atteggia da vincitore e padrone del nostro Polesene, sicché la prudenza, per lui, può ben andarsene alla malora!”

“A suo gran danno”, ribatté Marco, rigirando il coltello tra le mani bendate. L’esperienza gli aveva insegnato quanto arroganza rimasse con stupidità, ché soltanto il superbo crede di conoscer tutto, sbagliando invece clamorosamente. Come l’Estense in quest’esatto momento.  “E tutto che danneggia monsignor di La Peliza e il suo amichetto don Alphonso d’Este, non può che giovare la Signoria!”

“Amen.”

Il trinciatore s’intromise timidamente nella conversazione, chiedendo se lorsignori desiderassero ancora un po’ di carne prima di spedirla indietro.

“Ieri, sul Montelo, la compagnia del signor Renzo Manzino s’è imbattuta in quanto rimasto dello scontro tra il nemico e i villani, trovando cadaveri e cavalli sparsi ovunque per il bosco … Li hanno seppelliti, uno spettacolo pietoso mi raccontava … Ahimè, non ci voleva anche questa …”, intrecciò le mani sul tavolo il podestà sier Andrea, d’un tratto nauseato dalla cena.

“A tal proposito”, s’inserì Marco, tentando nuovamente d’intercedere presso di lui, visto che Gradenigo a riguardo s’era dimostrato irremovibile, “se potessi di nuovo cavalcare alla volta del Montelo per assicurarci che …”

“No”, lo interruppe immediatamente il provveditore, conoscendo l’eccessiva condiscendenza del podestà, “sier Marco, necessitiamo della vostra presenza alla custodia del Castello sul  Terajo per la via di Mestre: la malattia ha sfoltito le nostre fila di gentiluomini e soldati, non possiamo rischiare di perdevi al nemico!” 

Le nari del Miani si dilatarono rabbiose, espirando a fondo ed ingoiando a fatica una rispostaccia. Helena subito gli afferrò il polso, stringendo ed allentando, poi di nuovo stringendo ed allentando la presa, onde calmarlo quando gli scoppi d’ira, ereditati dal padre sier Anzolo, rendevano irragionevole il consorte. Sier Zuam Paulo comprendeva benissimo quale smania agitasse il suo conterraneo: voleva il fratello libero e anche lui, fossero stati i ruoli invertiti, avrebbe reagito alla stessa maniera. Nondimeno, meglio negoziare da vittoriosi che da perdenti e se quest’assedio fosse finito appunto a loro favore, a testa alta avrebbero preteso, non supplicato, la liberazione di sier Hironimo Miani.

“Dalla Badia sono scappati oggi dodici frati certosini”, gli diede però un piccolo contentino, “può darsi che sappiano qualcosa su vostro fratello. Dopocena, se lo desiderate, mi potreste accompagnare al convento di Sen Paris e Senta Crestina.”

“Per me anche subito: non ho più appetito”, scansò in avanti il piatto Marco, raddrizzandosi sulla sedia e pronto a scattare in piedi. Zuaneta sparecchiò lesta, arrossendo e balbettando quando il Miani la ringraziò, sgambettando via in cucina con le farfalle allo stomaco. “Che?”, domandò egli spaesato ad Helena, che lo studiava attenta.

“Niente”, rispose ella sottovoce e in greco, ridacchiando tra sé e sé all’idea d’emulare i turchi, ossia di vestire suo marito da capo a piedi di un lungo telo e di coprirgli il viso, acciocché nessuna donna glielo guardasse troppo golosa.

La Priora del convento delle monache camaldolesi di San Parisio e di Santa Cristina, situato presso l’omonimo ponte e poco distante dalla chiesa di San Francesco, attendeva solennemente benigna sier Zuam Paulo Gradenigo e sier Marco Miani, ricevendoli calorosamente nel parlatorio d’ingresso. Il suo viso affilato e vigile, pur nascosto dalla pesante e doppia grata traversa, s’illuminò particolarmente alla vista di madona Maria e madona Helena dietro i rispettivi mariti, grata di aver finalmente trovato qualcuno cui poter affidare in tutta sicurezza le due contadine giunte assieme ai dodici frati dall’Abbazia di Sant’Eustachio a Nervesa, il cui arrivo aveva creato non poco scompiglio in quel rigoroso e appartato ambiente femminile. Con la distruzione dei monasteri fuori dalle mura, molti esponenti degli svariati ordini religiosi s’erano ritrovati sfollati e i conventi cittadini non avevano la capacità d’ospitare nelle proprie celle e foresterie sia loro che i fuggitivi dalle campagne. Sicché alcuni erano ritornati in casa dei rispettivi parenti, altri erano saliti sui burchi per Mestre, Padova e Venezia. La Madre Badessa non s’era tirata di certo indietro nell’assistere quei poveracci scampati all’inferno, ricordando severamente alle monache che la virtù teologale della Carità doveva vincere anche la naturale ritrosia dettata dalla pudicizia. E poi, in tutta onestà, si trattava di una manciata d’ore, al massimo di una notte di sosta. La Priora s’era arrovellata piuttosto per la sorte delle due contadine, non avendo sul serio più spazio all’interno del convento. La Madre Badessa aveva inviato una conversa in ambasciata alla Priora del monastero benedettino di San Teonisto, ricevendo però la medesima risposta: non c’era più posto. Figurarsi poi la sua sorpresa della monaca camaldolese, quand’aveva scoperto che sotto il saio certosino si celavano due femmine, per di più una in avanzato stato di gravidanza! Come poteva imporle di dormire per terra nella sua delicata condizione? Di sicuro la moglie del provveditore possedeva sufficiente posto a casa sua e l’avrebbero aiutate.

Davanti alla grata nel parlatorio e accanto alla suora portinaia, stavano in piedi Fra’ Thomà Patavim e suo cugino germano, Zuam Batista Patavim, accorso quest’ultimo al convento non appena informato dell’arrivo del congiunto, così da riportarselo a casa. Del gruppetto dei monaci fuggiaschi, solamente Fra’ Thomà s’era offerto di conferire col provveditore, essendo gli altri sfiniti dalla lunga marcia e provati dagli stenti e le percosse. La Madre Badessa li aveva sistemati alla bell’e meglio in refettorio, chiusi prudentemente a chiave e rassicurata dalla ferma intenzione dei certosini d’imbarcarsi l’indomani per Venezia.

“Come siete riuscito a fuggire dalla Badia?”, interrogò Gradenigo senza alcun preambolo il monaco, incuriosito da tanta formidabile scaltrezza.

Fra’ Thomà guardò interrogativamente la Priora attraverso le sbarre, la quale lo incoraggiò a parlare. “Un’occasione propizia, sior Provedador: monsignor di La Peliza e domino Zuan Francesco di Gambara si sono ammalati e i Conti di Colalto li hanno offerto ospitalità nel loro castello a Sen Salvador. Di conseguenza, approfittando della confusione generata da questo sanmartin, i miei confratelli ed io ne abbiamo approfittato per scappar via.”

I patrizi veneziani si scambiarono tra di loro occhiate impressionate: quando si diceva fortuna sfacciatissima. Evidentemente, dopo averle prese in abbondanza dai franco-imperiali, il Padreterno aveva deciso di ricompensare la mitezza dei certosini attraverso quella ghiotta possibilità di fuga. Inoltre, la notizia della malattia del maresciallo francese e di quel gran traditore del Gambara suonava ai loro orecchi musica assai gradita.

“Cos’altro accade da quelle bande?”, lo sollecitò il provveditore, avido d’ulteriori informazioni all’interno dell’Abbazia e tra le schiere nemiche.

“I Conti di Colalto, dietro cospicuo pagamento, riforniscono l’esercito nemico di vittuarie”, gli obbedì Fra’ Thomà. “Gli stradioti e gendarmi francesi hanno espugnato i villani nascostisi nel bosco del Montelo, impossessandosi di quasi 3000 capi d’animali grossi. Molti di questi contadini o sono stati ammazzati oppure fatti prigionieri e li hanno tolto le loro donne.” Madona Maria, madona Helena e la medesima Madre Badessa rabbrividirono impercettibilmente a quel dettaglio, immaginando la tremenda sorte di quelle infelici. “Sicché adesso nell’accampamento nemico ci sono più ammalati e donne, che soldati pronti alla guerra. Il cibo scarseggia, il vino è pochissimo e riservato ai comandanti. Tra franzosi e todeschi vige un clima di reciproco sospetto, ma più da parte dei primi, i quali mal sopportano l’indisciplina degli imperiali, i quali sbravizano assai, com’è loro usanza.”

Mentre raccontava, Marco si voltò verso Lussìa e Zanze, in silente ascolto nell’angolino, sedute a capo chino sulle panche appoggiate al muro del parlatorio. Quest’ultima lo colpì particolarmente, avendo la sensazione di riconoscere nella giovane un viso a lui noto.

“Sì”, gli confermò a sorpresa Fra’ Thomà, accorgendosi dell’intenso studio del patrizio, “queste due contadine le avevano condotte prigioniere alla Badia e anche loro hanno approfittato della partenza di La Peliza e Gambara per fuggire via assieme a noialtri.”

Un secondo violento brivido freddo percorse le schiene delle due patrizie, tremando all’idea di cosa quelle due poverette dovevano aver subìto per mano dei soldati all’accampamento. Al che Marco confidò sussurrando i suoi dubbi all’orecchio della moglie, la quale li riferì a madona Maria.

“Ti, moreta, chome te ciamestu?”, domandò la consorte del provveditore alla contadina, la quale, scattando in piedi e inchinatasi deferente, rispose timidamente:

“Anzola di Bapi, siora patrona … lustrissima”, aggiunse veloce, tenendo lo sguardo ostinatamente per terra.

“Dime, cara ti, non ti chiamano forse Zanze?”

La ragazza sollevò la testa, perplessa. “Sì, patrona?”

“Per caso hai una sorella minore di nome Zuanna, detta Zuaneta?”

“Siorasì, patrona! Siorasì! La cognosseu? Saveu ndove xéla?”, tartassò Zanze di domande la nobildonna, ansimando in panico al pensiero di quale triste sorte potesse aver sofferto la sua sorellina, da lei sì crudelmente separata.

Madona Maria le sorrise benevola, tranquillizzandola su quel punto. “Rasserenati: tua sorella sta bene e si trova qui con noi a Trevixo. È stato sier Marco Miani ad averle salvato la vita, lì sul Montelo”, le spiegò brevemente, sicché Zanze s’inginocchiò ai suoi piedi, baciandole riconoscente l’orlo della gonna. E avrebbe ripetuto tale operazione di ringraziamento circondando le ginocchia di Marco, sennonché la tempestiva occhiata assassina di madona Helena glielo impedì, costringendo la contadina a proferire un semplice grazie e a riprendere il suo posto accanto all’amica, seguita a vista dalla bellicosa greca, strategicamente posizionata alle spalle dell’ignaro marito.

“Poxjo vederla?”, bofonchiò timidamente Zanze, consideratasi infine al sicuro dalle grinfie di madona Miani.

“Farò di più: mi seguirai a casa del sior Provedador, tu e la tua amica”, le offrì generosamente madona Maria e la Priora sorrise soddisfatta del suo intuito infallibile e lungimiranza.

“An? Dasseno?”, cascò invece dalle nuvole sier Zuam Paulo, subito piccato della mancata consultazione a riguardo. Sua moglie arcuò il sopracciglio e strizzò gli occhi, segno che lei aveva deciso e la questione terminava lì. Fuori in piazza, lui era patrizio e provveditore generale di Treviso e faceva tutto ciò che da uomo poteva e voleva; in casa, lei era alla stregua di Domine Iddio e dunque i suoi abitanti soggetti alle ferree leggi dell’indiscussa matriarca.

“Chome la toa patrona la comanda”, s’arrese imbronciato Gradenigo: ma tu guarda se dopo essersi liberato a Venezia del gineceo di casa, maritando le sue numerose figliole a dei bravi giovanotti, doveva ora ritrovarsene un altro a Treviso, strapazzato dalla tirannia di nuove sottane! A conti fatti, meno male ch’aveva generato pochi maschi – Andrea, Antonio, Jacomo, Zuam (in onore dello zio deceduto) e Justo – cosicché avrebbe preso in casa al massimo cinque nuore.

Le due contadine ringraziarono all’unisono i coniugi, Zanze in particolare stringeva contenta la mano di Lussìa dalla gioia di riabbracciare presto la sorellina Zuaneta.

“Mio fratello? Lo avete per caso visto? Si chiama Hironimo Miani, era reggente di Castel Novo di Quer e adesso prigioniero di Mercurio Bua”, domandò apprensivo Marco a Fra’ Thomà, supponendo che il monaco, anche se di mero passaggio all’Abbazia, in un qualche modo avesse avuto occasione almeno di scorgere Momolo.

Il certosino trasalì impercettibilmente all’udire il nome del suo segreto liberatore. Imponendosi di calmarsi, scosse il capo, dispiaciuto. “Ho notato, in infermeria, che il capitano Mercurio se ne stava in effetti accanto ad un paziente lì ammalato, però non saprei dirvi se costui fosse o meno vostro fratello”, s’affrettò a riferirgli, deglutendo amara saliva dinanzi all’espressione angosciata del veneziano.

“Vuostro fradelo sta en infermeria”, s’intromise Lussìa e alla conseguente domanda su come lo sapesse per certo, ella replicò con estrema sicurezza: “A traverso on puto nomato Thomà, sòo famejo.”

Marco si consultò brevemente con Helena, sospettoso: a sua memoria non ricordava possedere Momolo un paggio o comunque un servitore di nome Thomà, men che meno un bambino. Che la contadina si fosse sbagliata? O che lo stesse ingannando per accaparrarsi la sua benevolenza e fiducia?

“En infermeria?”, ripeté scettico e il viso stanco e tirato della contadina s’imporporò, offesissima.

“Perché no?”, berciò a voce alta, incurante della regola del convento. “Ghe xéi tanti amalai a la Badia, lustrissimo! I ne more ogni dì pèzo dee mosche! Aveu sentio Fra’ Thomà? La Peliza xé amalà, el sior conte pure! No xé imposibile, donca, ch’anca vuostro fradelo gh’avia buscà el morbo!”

Le ginocchia di Marco cedettero ed egli vacillò impercettibilmente all’indietro, prontamente bloccato dalla moglie.

“Grassie, dona Lussìa”, terminò sier Zuam Paulo l’ostica conversazione, prima che il conterraneo balzasse in sella al suo cavallo e dimentico di ogni ordine cavalcasse come un pazzo fino all’Abbazia. “E anche a voi, Fra’ Thomà. Domani mattina v’imbarcheremo sul primo burchio diretto a Veniexia, acciocché voi possiate riferire quanto narratoci al Colejo. Reverendissima Siora Mare Badessa, ve saludo e v’auguro la bona note”, s’inchinò rispettoso l’uomo assieme agli altri patrizi veneziani e la Priora ricambiò prontamente il gesto dietro la grata, ricordando al provveditore come lei e le sue monache stessero offrendo ogni loro digiuno e preghiera per la custodia di Treviso e la salvezza della Serenissima.

“Servo vostro, sior Provedador, e della Signoria”, ringraziò anche Fra’ Thomà la generosità di Gradenigo, congedandosi dalla Madre Badessa ed esprimendo la sua riconoscenza per il caritatevole soccorso ricevuto.

“Mo via, zerman, rincasiamo: il tuo sior barba mio padre sarà contento di rivederti dopo tanto tempo, nonché sano e salvo dopo quanto accaduto alla Certosa e sul Montelo!”, lo pigliò per mano suo cugino Zuam Batista, incamminandosi verso la contrada dove risiedeva l’intera famiglia Patavim.

Fra’ Thomà annuì distrattamente, muovendo irrequieto la testa in apparente contemplazione degli affreschi sulle lunette dei sottoportici, in realtà schiacciato dallo sguardo accusatore delle numerose Madonne col Bambino e dei Santi ivi raffigurati, i loro occhi resi ancora più vividi e mobili dall’instabile chiarore apportato dalla lucerna del germano.  

“Mea culpa … mea culpa … mea maxima culpa …”, ripeteva a fior di labbra ossessivamente.

“Che?”

“Nulla, zerman. nulla. Oravo le mie laudi.”

“An”, scrollò le spalle Zuam Batista, battendo gioviale una pacca tra le scapole del parente. “Prega anca par le mie mani, ciò, per ‘na spedita guarigione!”, scherzò, mostrandogli le mani callose dopo tre giorni di lavori estenuanti alle mura.

Fra’ Thomà gli sorrise a denti stretti, nervoso, asciugandosi con la manica la fronte madida di sudore freddo, la lettera di Mercurio Bua che gli bruciava colpevole sotto lo scapolare.

 

***

 

“Missier consier Batista!”, esclamò un trafelato sier Hironimo Querini, capo dei Dieci, scendendo a quattro a quattro la Scala d’Oro e raggiungendo nel Cortiletto dei Senatori il suo collega sier Batista Morexini “da Lisbona”, sceso tra una seduta e l’altra del Collegio per pigliare una boccata d’aria fresca in compagnia del figlio Carlo e dei nipoti Lucha Miani e Carlo Miani. “Una parola, per favore!”

Tra le accese discussioni circa la spinosissima situazione nella Patria del Friuli e le rampognate che ancora gli fischiavano nei timpani, il povero “da Lisbona” si toccò infastidito le orecchie, dolente da quel rumoroso richiamo.

La visita improvvisata a sua sorella madona Leonora gli era costata la più orrida delle paternali, dal giorno in cui sua moglie aveva scoperto della sua relazione fissa con la cantante e cortigiana onesta Luzia Trivixan. Non avendolo infatti visto rincasare il mattino successivo dalla convocazione notturna a Palazzo Ducale, madona Morexina aveva spedito gli altrettanto preoccupati Carlo, Nicolò, Hironimo e Lorenzo a cercare il loro signor padre in casa dell’amante, l’unico posto certo dove la nobildonna s’immaginava aver potuto pernottare il marito. La povera patrizia aveva creduto d’impazzire alla risposta negativa della Trivixan, per poi piangere isterica davanti ai nipoti Lucha e Carlo Miani quando questi, su istigazione della loro madre madona Leonora, s’erano recato a rassicurare la zia sulla salute, almeno fisica, dello zio, accampatosi depresso in casa loro a colazionare. Sier Batista, persuaso a ritornare alla sua casa da statio, s’era beccato per quella sua fuga notturna un sonoro ceffone sia da parte della moglie sia dell’amante, per la prima volta straordinariamente coalizzate contro di lui, nonché i loro pianti e le accuse di volerle assassinare di dolore col suo insensato comportamento, eccetera, eccetera, gli stessi discorsi che ormai il consigliere ducale conosceva a menadito. Sicché, alzatosi e domandato agli impietriti figli e nipoti se volevano anche loro prenderlo a sberle (tutti in coro avevano negato vivacemente, inorriditi all’idea di picchiare un loro maggiore), il Morexini aveva allora abbracciato ambedue le piangenti donne e consolatele con gravi parole, aveva promesso di non sparire mai più nel cuore della notte senza avvertirle dei propri spostamenti.

“Sier Hironimo, non moritemi davanti!”, scherzò sier Batista, alludendo al volto paonazzo e sudato del capo dei Dieci, il quale stava respirando a grosse boccate d’aria. “Non prima d’aver votato la deliberazione, almeno.”

“La perdonança, sier Batista”, si scusò il Querini per la sua irruenza e per aver interrotto la conversazione tra parenti, allentandosi il colletto della sua toga. Dopodiché, fece cenno al Morexini di seguirlo in un angolo più riparato del cortile, lontano da occhi e orecchie indiscreti. “Ci è giunta questa missiva e noi tutti vorremo per cortesia una vostra opinione a riguardo, visto che sembrate tra i più informati sulle vicende di Terraferma”, gli rivelò sottovoce, guardingo.

“Una missiva?”, reclinò sier Batista il capo, la sua curiosità stuzzicata dalla criptica spiegazione del suo collega. Di tutto s’aspettava dai Dieci, tranne che gli chiedessero di leggere una lettera e interrogarlo a proposito. E a chi era poi destinata? Alla Signoria? Al Consiglio? A lui? Era sospetto, davvero sospetto. Quando mai si discuteva della corrispondenza fuori da Palazzo e senza consultare gli altri membri del Minor Consiglio? Lo stavano mettendo alla prova? S’era forse troppo sbilanciato quella volta in camera del Doge? Oppure i contenuti di quella missiva avevano turbato a tal punto i Dieci, da fare uno strappo alla regola?

Il Morexini sfilò senza esitazione la lettera dalla mano di sier Hironimo e, posizionandosi dove c’era più luce, l’aprì e ne scorse avido i contenuti, suo figlio Carlo e i nipoti che spionciavano in punta dei piedi alle sue spalle, altrettanto curiosi.

Copia di la risposta dil magnifico et valoroso signor Hironimo Savorgnan fata al trombeta de li comessarij imperiali su l’invictissimo monte di Osopo, a dì 21 septembrio 1511”, lesse sottovoce il consigliere ducale, che domandò perplesso al Querini: “Come! Di già?”

“Il nostro cavallaro è stato piuttosto … incalzante nella sua fretta di portarci la risposta del Savorgnan”, commentò sornione e soddisfatto il capo dei Dieci, “nonché Maximiano un mona per aver preferito domino Antonio a domino Hironimo. Tutto si sta svolgendo esattamente come da voi previsto, sier Batista. Ma de grassia, lezete.”

Sier Batista non se lo fece ripetere di certo due volte. “Non reputa el fidel Savorgnan esser demerità da vuj, excellentissimi signori capitanei et cesarei comissarij, la presente risposta sua a la rechiesta a lui facta per el suo publico militar nuntio, anzi spiera, imo tien, per constanti da quelli reportarne non vulgar comendation, imperhò che rapresentando le signorie vostre la sacra cesarea majestà, qual sempre ha detestado jure optimo le perfidie, proditiom et rebellion di soi subditi, non dubita tal sua fidei intention, resposta et excusation esser ancora da quelle abrazata et aprobata.

Essendo adunque Jo, Hironimo Savorgnan, con mei progenitori nato, relevato et benemerito soto el mio excellentissimo dominio veneto, cognoscendo tute leze sì naturale, como civile astrenzerme a la perseverantia de fede et devotiom verso el mio signor, non mi par sequir le perfidie et exacrabil vestigie da uno altro nephandissimo proditor, indegno agnato de la casa Savorgnana, qual al presente, postposto ogni timor de Dio, postposto lo santissimo vinculo juramenti fidelitatis per ipsum praestiti, postposto li inmeriti beneficij da questo excellentissimo stato recevuti, postposto lo amor de la propria patria, postposto la propria et comune libertà, non resguardando etiam a li fidelissimi et devoti amici et fautori de la casa Savorgnana, imitando el perfido Juda Scarioto, publicamente a lo excellentissimo et inclyto dominio signor suo ha venduta la sua patria et propria libertà. Etcetera, etcetera … fidelis Hieronymus Savorgnanus … Gran mercé, quest’uomo è un genio!”, rise talmente forte sier Batista, da inumidirsi i suoi occhi di lacrime, il viso deformato in una maschera della più folle e perversa delle gioie.

Sier Hironimo Querini s’unì anch’egli alla grassa risata, complimentandosi ancora col Morexini per l’eccellente suo piano, ossia d’offrire al Savorgnan ogni proprietà e privilegio appartenenti al cugino in cambio della sua fedeltà alla Serenissima. Non aveva immaginato tanto livore tra i due parenti, da persuadere domino Hironimo ad accettare seduta stante la proposta della Signoria.

Sier Batista rilesse più volte la lettera del nobile friulano, analizzando attentamente ogni singola parola e sorridendo carnivoro a ciascuna di essa, l’umore improvvisamente migliorato, similmente alla smania di vendetta nei confronti dell’Imperatore, del Re di Francia e di tutta la loro accozzaglia di parassiti. Un’eccellente risposta, un mirato pugno in faccia all’amor proprio di Maximilian, da sempre fregiatosi del titolo di Ultimo Cavaliere e di difensore delle virtù cavalleresche: proprio l’Imperatore, che aborriva la fellonia, non poteva certo chiedere ad un nobile, per di più di antico lignaggio quale Hironimo Savorgnan, di macchiarsi di siffatto delitto contro la Signoria? La sua richiesta di tradire il suo vassallaggio verso la Serenissima corrispondeva al peggiore degli insulti, un’offerta da Gano, non da chi si vantava di possedere le qualità d’un Rolando, il cavaliere dei cavalieri!

Bone Jesu, al “da Lisbona” stava per venire un gran mal di pancia dal ridere, al solo pensiero della faccia dei comandanti e commissari imperiali, ma soprattutto quanto gli sarebbe piaciuto trasformarsi in una mosca e volare fino a Bolzano soltanto per godersi lo spettacolo di Maximilian balzare giù dalla sedia, pestare i piedi per terra, frignare petulante e mangiarsi il cappello.

Ma il colpo di grazia ai suoi sfruttatissimi polmoni fu l’ultima pagina.  

 

Soneto fato contra Antonio Savergnano, proditore.

 

Ave Rabi, iniquo traditore

Antonio Savorgnam, non sarai lieto

Haver monstrato il tuo malo concetto

A la tua patria hessendo senatore.

 

Ma il justo sangue de quelli di la Torre

Et altre nobel caxe che hai decepto,

Ha parturito in te cotal effecto

Acciò che ’l sia punito lo tuo erore.

 

Non ha persa la forza il fier leone,

Secho verà ogni bon castellano

D’um voler tutti et una opinïone.

 

Non ti varà il favor de alcun villano;

Che se non fuzi, come fu il Benzone,

Te apicherano con sue proprie mano.

 

Cussì meriti, o Gano

Star su la forcha con un pe’ atachato,

Da’ cani et corvi il corpo lacerato.

 

 

“Non è proprio Petrarca, però mi piace assaissimo!”, ripiegò allegro la lettera il Morexini, restituendola a sier Hironimo Querini. “La farete pubblicare?”

Il capo dei Dieci fece spallucce, non disdegnando l’idea di stampare numerose copie del sonetto, anche per divertire un poco la gente in quei tempi di grande tensione.

“Sier Zuam Vituri e la sua compagnia dovrebbero oramai aver raggiunto Trevixo”, si ricordò sier Batista del conterraneo comandante, uno dei più validi assieme a sier Ferigo Contarini. “Se posso darvi un consiglio, vi suggerirei di domandare al provedador sier Zuam Paulo Gradenigo d’inviarlo in soccorso a domino Hironimo Savorgnan, in segno di stima e d’amicizia perpetua da parte della Signoria.”

Sier Querini gli promise di discuterne per certo sia tra i Dieci sia in Collegio, supportandolo nella votazione finale e questo rasserenò il “da Lisbona”, giunto alla conclusione che l’altro patrizio aveva soltanto voluto consultarlo sul da farsi, evitando però di rallentare i tempi in ulteriori discussioni ufficiali. Con più di trequarti del Friuli in mano tedesca, la loro era una lotta contro il tempo e ogni ora sprecata corrispondeva ad un regalo al nemico. Inoltre, non stavano aggirando le consuete procedure per dei vantaggi personali, bensì per la salvezza della Signoria, ergo non dovevano flagellarsi troppo nei mea culpa, purché s’agisse con discrezione.

La fortezza lagunare di Marano e Osoppo rimanevano grazie alla rinnovata lealtà di domino Hironimo Savorgnan saldamente veneziane, una perpetua spina nel fianco dei tedeschi, levandoli il sonno e la certezza della totale conquista della Patria del Friuli. Ben venissero i loro saccheggi, gli incendi ai villaggi e alle città. Ben venissero le tasse, i soprusi: la popolazione friulana e gli stessi castellani si sarebbero di propria spontanea iniziativa allontanati dall’Imperatore tanto velocemente, quanto s’erano a lui avvicinati. Non si conquista l’amore dei propri sudditi a parole, mica lo capiva il Re dei Romani, ci vogliono fatti e bêçs (soldi, ndr.) La convenienza. E qualora non ci fosse stata, si cerca un padron migliore.

Anche se perduta questa prima partita, la rivincita non sarebbe tardata a giungere. Venezia aveva tempo. Le truppe tedesche stanziate in Friuli no, ché un inverno senza niente da mangiare è cosa assai brutta da sopportare. Ancje Diu al è furlan: sa nol pae vuê al pae doman. [2]

 

***

 

Il burchio scivolava pigramente sull’abbraccio fluviale del Sile e del Cagnan, staccandosi dal porticciolo tra il Ponte degli Impossibili e il bastione di San Polo e allontanandosi in placido dondolio da Treviso, finché gli alberi incominciarono ad accompagnarsi prima ed ad oscurare poi le alte torri cittadine.

Fra’ Thomà rigirava inquieto la missiva di Mercurio Bua, tentato di rompere il sigillo di ceralacca e di leggerne i contenuti: ambasciator non porta pena, ma se invece la portasse? Come avrebbe reagito la Signoria?

Alla fine non aveva resistito e, in un momento di privata tranquillità, aveva confessato al cugino Zuam Batista dell’ambasciata incaricatagli da parte del capitano di ventura.

“Se ti ha chiesto di consegnarla a sier Batista Morexini, significa che si tratta di una faccenda personale tra lui e il capitano. La Signoria non c’entra!”

“La Signoria c’entra sempre e dappertutto, zermano! E se … e se fosse qualcosa di losco? Se il consigliere si trovasse in combutta coi francesi? Con l’Imperatore? Dovrei rendermi complice di un tradimento? E se poi si scoprisse l’intero affare? Non voglio finire impiccato tre le colonne in Piazzetta!”

“Allora consegnala direttamente alla Signoria!”

“Baùco! Sier Batista fa parte della Signoria, s’impossesserebbe comunque della lettera!”

“Io non capisco … Il capitano Bua parlava di uno scambio, di riprendersi sua moglie … non capisco perché t’agiti così tanto!”

“Magari è un linguaggio in codice! Un rebus soltanto a loro comprensibile. Che ne sai? Se … se quella della moglie non sia altro che una scusa per avvicinarsi alla laguna coi suoi stradioti? Per penetrare nel territorio e conquistare fortezze così da circondare Trevixo?”

“Mah, per me tu scorgi ovunque intrighi e tradimenti!”

Fra’ Thomà si morse l’interno della guancia, il cuore in subbuglio. Sicuramente Mercurio Bua non l’aveva ingannato circa il suo sostegno nella fuga, filando ogni cosa liscia come da lui promessagli. Di conseguenza, se lui l’assicurava dei contenuti della lettera, tecnicamente doveva fidarsi.

Peccato, che i recenti avvenimenti gli avessero instillato della sana diffidenza nei confronti di chicchessia. Tutti tradivano, tutti mentivano: il suo Priore, i Conti di Collalto, i nobili friulani filo-imperiali, il maresciallo La Palice, i capitani tedeschi … perché Mercurio Bua non doveva sottrarsi a tale nefanda lista?

Che la sua fuga fosse corrisposta alla farsa di una farsa ancora più grossa? Uno scaltro complotto del Bua e del Morexini ai danni della Serenissima? Se il greco-albanese gli avesse permesso di fuggire, per poi venir ammazzato dai sicari del consigliere ducale, zittendolo per sempre?

No, non avrebbe corso il rischio di finire implicato e magari di trasformarsi in un testimone scomodo di cui sbarazzarsi. Aveva giurato di non leggere la lettera e la sua promessa fino a quel punto l’aveva mantenuta. Quanto al resto …

Il certosino strappò esagitato la missiva in piccole strisce, affidandole al vento e all’acqua, ch’allontanassero da lui quell’amaro calice.

Al diavolo Mercurio Bua, al diavolo sier Batista Morexini “da Lisbona” e qualsiasi negozio li legasse: in fede sua, lui non avrebbe portato alcun’ambasciata, nossignore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Procediamo ad oltranza verso il clou di questa storia, anche perché voglio ritornare a scrivere capitolo normali!

La vicenda di Mercurio e di Fra’ Tommaso Patavino è piuttosto oscura.

Riferisce il Sanudo: “[…] El (Mercurio) qual voria che sua mojer, ch’è qui a Venecia, venisse da lui, e la vegneria a tuor con gran scorta, ma esso frate disse, non voler portar tal imbasata.

Le parole del Bua, infatti, nella sua stringatezza e da come il monaco le ha spifferate al cugino (che a sua volta le ha riferite al Collegio), si presentano infatti assai ambigue. Il condottiero aveva incaricato il frate di portare quest’ambasciata, ma a chi nello specifico? Alla moglie, affinché si preparasse alla fuga? Alla Signoria per organizzare la partenza di Caterina? O uno scambio? Oppure, come da noi supposto, proprio a Battista Morosini, che, facendo parte del Minor Consiglio noto anche come Signoria, poteva influenzare il suo ricongiungimento con Caterina? Ma siamo sicuri in cambio di niente? Mercurio teneva comunque in ostaggio il nipote …

Secondo, questo messaggio che il Patavino doveva portare mi ha insospettita sulla fuga di questi. Impossibile che fosse fuggito e che al contempo fosse messaggero del piano del Bua. Questi gli ha permesso d’abbandonare indisturbato il campo francese, appunto per riferire le sue intenzioni di riprendersi la moglie.

Infine, perché il Patavino s’è rifiutato di fare quest’ambasciata? Lo scambio di persone non era una prassi così bizzarra, lo stesso Luca Miani era stato ad esempio scambiato per un capitano nemico. Inoltre, la richiesta di Mercurio era piuttosto innocua, voleva la moglie, non un militare.

Cos’ha insospettito il frate? O intimorito? Forse temeva in un raggiro del Bua, il quale sperava magari di prendere due piccioni con una fava, la moglie e con la sua “grande scorta” entrare indisturbato in territorio veneziano ed occupare fortezze?

Solo Fra’ Tommaso lo sa e, qualunque siano state le sue motivazioni, di sicuro a) Battista l’avrà voluto strangolare; b) il Nostro rimane fregato c) Mercurio piange.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

Alla prossima,

 

Un po’ di noticine:

[1] San Martino = “fare San Martino” o “sanmartin” come sostantivo, significa sia cambiar lavoro / cambio di lavoro che traslocare / trasloco, in genere poiché per i contadini in quella data – 11 novembre - terminavano i contratti di lavoro e di affitto delle terre lavorate e coloro cui non veniva rinnovato dovevano appunto cercare altrove lavoro, trasferendosi con l’intera famiglia.

[2] Ancje Diu al è furlan: sa nol pae vuê al pae doman = Anche Dio è friulano: se non paga oggi, paga domani.

 

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Capitolo 26
*** Capitolo Ventiquattresimo: 22-24 settembre 1511 ***


Ricordiamo che parte degli eventi di questa storia, in mancanza di descrizioni dettagliate nelle fonti, sono romanzati.

Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato l’11.11.2021, buon San Martino!

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Capitolo Ventiquattresimo

22-24 settembre 1511

 

Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.

(Gv 15,17)

 

 

 

Il valletto del conte Antonio di Collalto di Sotto annunciò il suo padrone, mentre apriva la porta, scansandosi poi onde permettergli d’entrare nella stanza offerta generosamente al maresciallo Jacques de Chabannes de la Palice.

Il generalissimo giaceva ancora in letto, tuttavia seduto e con una piccola cappa di lana a tenergli calde le spalle, il viso provato dalla recente febbre già tinto del rosato di chi stava riguadagnando salute, grazie alle zelanti cure della sua garzona Belletta, la giovane modenese con cui l’uomo s’accompagnava.

“Vi sarò per sempre riconoscente per la vostra premurosa ospitalità”, dichiarò il francese, interrompendo la dettatura dei dispacci al duca di Foix-Nemours a Milano, all’ambasciatore francese a Bolzano e ai capitani e commissari imperiali nelle varie città friulane occupate. Belletta sottolineò il concetto sorridendo al conte, intanto che girava la zuppa destinata al convalescente.

“Dunque saprete anche che suo cugino, Jérôme Savorgnan, invece si è schierato dalla parte di Vénise, conservando saldamente le due fortezze di Marano e Osoppo.”

Dal modo in cui Antonio reclinò nervosamente il capo, no, non ne era a conoscenza. “Questione di tempo, prima che l’Imperatore lo persuada a giurargli fedeltà.”

“Non se il nuovo conte Savorgnan lo accusa di costringerlo alla fellonia con la sua richiesta di tradire il secolare vassallaggio, che lega il suo casato alla République”, ribatté La Palice, ammirando segretamente l’arguta risposta del nobile friulano, una velenosissima frecciatina alla vanità dell’Imperatore. “Les Allemands potranno anche espugnare Gradisca, tuttavia senza Marano ed Osoppo non saranno mai al sicuro nei loro nuovi territori e l’Empereur non ha mai goduto di buona fama nei territori da lui conquistati. Al che m’ha indotto a reiterare il mio ultimatum ai commissari imperiali, restringendo ad otto giorni la scadenza del rientro delle truppe al di qua della Piave”, aggiunse il maresciallo. “Hanno avuto il loro bottino; è tempo che anche noi perseguiamo i nostri interessi.”

“Una saggia decisione”, convenne il conte.

“Inoltre”, proseguì il maresciallo, “ho predisposto per domani un parziale spostamento del campo, trasferendoci all’Abbazia di Santa Maria di Pero. Da lì spedirò un contingente verso sud, con l’ordine di asportare dai mulini del Sile grano e farina.”

“Non dovrete faticare molto”, l’assicurò Antonio, “la popolazione rurale trevigiana della destra della Piave sta divenendo sempre più ostile alla Repubblica, ritenendola responsabile della perdita dei raccolti e delle distruzioni dei loro paesi. Invano il Podestà e il Provveditore mandano grida, acciocché rientrino a Treviso con le loro scorte: nei granai vi troverete tanto di quel grano, da poterne dare anche ai vostri cavalli!”, scherzò, trascinando nel suo buonumore anche La Palice, che s’appuntò mentalmente quell’informazione.

I due nobili trascorsero il resto della mattinata chiacchierando sulle ultime novità e potenziali strategie d’attacco, finché un servitore non venne a ricordare al conte di un suo impegno su alcune questioni riguardanti la recente vendemmia. Antonio di Collalto si scusò graziosamente con La Palice, augurandogli una pronta guarigione.

“Cosa stai facendo?”, inquisì d’un tratto l’uomo, notando il suo valletto scrivere velocemente e in disparte su di un pezzetto di carta.

Il ragazzo, imperturbabile, allungò il braccio, offrendogli il foglio da leggere. “Ea lista dil bucato da far ancuò, sior conte”, chiarì, sgranando confuso i grandi occhi nocciola. “Poxjo ndar dabasso a darghela a la massera?”

Il conte lo congedò tramite un infastidito svolazzo della mano. Il valletto s’inchinò e corse guardingo in lavanderia, là dove l’aspettava il giovane Vio. Una serva chiuse la porta e si pose a vedetta; le altre impiegarono doppia forza nello sbattere i panni, onde coprire ogni altro rumore sospetto.

Parola d’ordine: sfondare il fronte di Trevixo – v’era scritto su di un secondo biglietto abilmente celato dalla vera lista del bucato, più un veloce riassunto di quanto discusso tra il maresciallo La Palice e Antonio di Collalto.

La giovane spia veneziana lo piegò; toltosi uno stivaletto e sfilato il tallone dalla braga, pose la preziosissima nota sotto la pianta del piede e rindossò l’indumento. “El Gàmbara?”, s’informò.

Il valletto tirò indietro gli occhi, cacciò fuori la lingua e disegnò una finta linea sul collo: spacciato.

Parlando del diavolo, il conte Gianfrancesco di Gambara invero arrancava in un’altra stanza del castello di San Salvatore, il corpo sempre più debole: la cavalcata a Serravalle per il bresciano l’aveva sfinito, rubandogli le ultime energie concessagli dalla malattia. Il suo animo agitato, d’altronde, non favoriva la guarigione, semmai esacerbava quel senso d’ineluttabilità del suo destino così concisamente descrittogli da Fra’ Anselmo. Dapprincipio il nobiluomo aveva pensato ad uno crudele scherzo da parte del benedettino, una rivalsa per tutte le angherie subite dalle truppe franco-imperiali durante la loro occupazione di Nervesa. Invece, negli occhi scuri del monaco non vi aveva letto alcuna malizia né rancore, bensì una distaccata oggettività acquisita dalla sua previa professione di medico e quella attuale d’erborista e fisico del monastero.

State morendo, signor conte – gli aveva ripetuto pazientemente – ed ogni giorno di respiro concessovi, interpretatelo come la volontà di Dio a riconciliarsi con Lui. Meditate sulla vostra vita, sulle vostre parole, opere e omissioni. Invocate pietà laddove avete fallato e pregate per chi avete offeso e danneggiato. Il mondo andrà avanti anche senza di voi; lasciatelo scorrere via e preoccupatevi del destino eterno della vostra anima.

Le ultime parole avevano particolarmente colpito il conte Gianfrancesco, precipitandolo in un profondo stato di prostrazione che neanche le preghiere avevano potuto alleviare. Sicché, sentendosi quella mattina leggermente più in forze, aveva richiesto al suo segretario carta e penna: avrebbe scritto all’amatissima figlia Veronica e poi, alla prima occasione, sarebbe ritornato a Pralboino, là dove aveva intenzione di morire, non a Collalto, non lontano dal suo feudo ancestrale.

Vanitas vanitatum. Tanto affannarsi nelle terrene vicende, tante fatiche, guerre, intrighi, tradimenti e alla fine cosa di quanto guadagnato gli sarebbe rimasto? Cosa si sarebbe portato seco? La sua eredità, qualsiasi essa fosse stata, sarebbe caduta sulle spalle dei suoi figli e di suo fratello Nicolò. Il suo nome? Le future generazioni, indipendentemente dalle azioni o parole del Gambara a sua discolpa, l’avrebbero giudicato. Niente era più in suo controllo, sempre che lo fosse mai stato.

Il bresciano aveva seguito il consiglio di Fra’ Anselmo, sul serio scorrendo e analizzando la sua vita. Davanti al foglio bianco, in cerca delle parole per sua figlia, il conte Gianfrancesco ripensò alla sua prima condotta appena quindicenne, alla sua partecipazione alla Guerra del Sale, alla battaglia di Fornovo, all'assedio di Novara; alla spedizione nel Reame di Napoli per aiutare Re Ferrandino d'Aragona a riconquistare il suo regno dai francesi; rivisse la battaglia di Tai di Cadore e, alas, d’Agnadello, il punto di non ritorno, là dove la voglia di tutelarsi aveva vinto sull’onore.

In passato, Gianfrancesco ammetteva le sue passate intemperanze e acredini tra lui e la Serenissima: si era dovuto pubblicamente scusare per aver accolto a Pralboino i suoi parenti Sanseverino, nemici della Signoria; il suo diverbio e il conseguente schiaffo al podestà di Brescia, sier Andrea Loredan, gli erano equivalsi ad ulteriori grattacapi col Collegio dei Pregadi, fino al suo momentaneo allontanamento dalla città fintanto che il Gambara non avesse avuto l’umiltà di riconciliarsi non soltanto col podestà Loredan, ma anche e soprattutto con alcuni nobili locali, infastiditi dal suo comportamento a loro detta sprezzante. 

Eppure aveva combattuto ad Agnadello, ma la paura di perire in quella carneficina l’aveva persuaso a fuggire dal campo di battaglia assieme ai concittadini Luigi Avogadro e Taddeo della Motella, mitigando la sua sorte da morto stecchito a prigioniero di Galeazzo Sanseverino il quale, memore dell’antica parentela che li aveva uniti, lo aveva liberato dietro pagamento di un riscatto.

Ma quello era stato solo l’inizio dell’incubo, oh, solo l’inizio!

Sua moglie, Alda Pio da Carpi, energica militante del partito ghibellino e antiveneziano di Brescia, suo fratello Nicolò di Gambara e Marco Palatini da Martinengo, l’avevano convinto a lasciar perdere quell’antica alleanza e d’aprire invece immediatamente le trattative coi francesi e così di salvarsi dal naufragio, divenendo ufficialmente capo del partito filo-francese di Brescia. Eppure, contrariamente al loro parere, Gianfrancesco non aveva potuto sopportare di rendersi complice dell’ingiusta prigionia dell’allora podestà, sier Sebastian Zustignan, intercedendo per la sua libertà e per un salvacondotto fino a Venezia.

La nuova alleanza aveva fruttato alla sua famiglia numerosi vantaggi, privilegi e un grande potere a Brescia, almeno in apparenza, giacché il rivale e potente casato filo-veneziano degli Avogadro aveva colto al balzo l’occasione per inasprire i rapporti tra i Gambara, il resto dell’aristocrazia bresciana e la popolazione stessa, in una sottile guerra di faide e spionaggio, forti gli Avogadro dell’appoggio della Serenissima e delle altre famiglie nobiliari, gelose della nuova influenza dei Gambara. Il conte Gianfrancesco s’era inoltre reso ben presto conto di quanto si stesse peggio sotto il nuovo governo, trattati dai loro alleati francesi alla stregua di utili lacchè da sfruttare comodamente, disprezzati e derisi per il loro servilismo.  Di conseguenza, contro l’opinione di moglie e fratello, egli aveva ricontattato la Signoria e tramite il cardinale Francesco Alidosi aveva brigato onde riconsegnare Brescia ai veneziani, rimasto, in fin dei conti, il suo animo prevalentemente marchesco. Niente tuttavia sembrava seguire il processo dei suoi piani, il destino della Serenissima incerto quanto però l’esito della stessa guerra e questo l’aveva bloccato proprio nell’istante in cui la Signoria, per quanto perplessa e sospettosa, gli aveva conceduto un colloquio conclusosi con un nulla di fatto. Il Gambara voleva ritornare all’antico signore, mondarsi dell’infamia che sapeva avrebbe perseguitato perennemente il nome suo e del casato. Per questo motivo aveva ugualmente mantenuto i contatti con Francesco Contarini “dai Scrigni”, onde agevolare quanto possibile la Signoria, nonché di restituire alla sua famiglia il prigioniero di Mercurio Bua a mo’ di prova concreta della sua ritrovata lealtà.

Dio invece aveva disposto altrimenti, cogliendolo in pieno conflitto interiore, se la lealtà verso la famiglia o verso la patria. Come l’avrebbe giudicato, una volta al Suo cospetto? A che cos’era valsa la pena compromettere la sua reputazione? Il suo onore? Aveva salvato nell’immediato la sua casata dal disastro, ma non la sua coscienza. Aveva visto e ammesso il suo peccato più grande, il più disdicevole, ossia quello di mutare talmente spesso fazione da chiedersi il Gambara se il suo fosse un cuore o perverso o demente.

 “Signor conte?”, lo riportò bruscamente alla realtà il suo segretario, interrompendosi nel suo discorso non appena s’accorse della palese distrazione del padrone. “La lettera del cardinale Federico Sanseverino. Cosa gli rispondete?”

Invero, come replicare ad uno scomunicato, talmente ambizioso d’accettare di partecipare al Concilio di Pisa per deporre Papa Giulio II ed eleggere l’antipapa, il cardinale Carvajal?

“Che venga qui a Collalto, se proprio mi deve parlare”, gli comunicò incurante il conte Gianfrancesco, intingendo il pennino nell’inchiostro per incominciare invece la sua personale lettera a Veronica.

 Il mondo sarebbe andato avanti anche senza di lui, gli aveva detto quel monaco benedettino; dunque, il bresciano si premurò di confortare gli unici che avrebbero faticato per un po’ ad accettare la sua assenza, prima di proseguire il lungo cammino della loro esistenza, relegando il suo ricordo alle preghiere serali o al Dì dei Morti.

 

***

 

“Ea question sta cussì: en la strada dil zimitèro di la Badia, te trovi on muro, el qual gh’ha no sbrego, indove pol passar on om par volta. Innanzitutto, ti procurerò un saio acciocché ti scambino per uno di noi; dopodiché, trasporteremo il puto avvolto in un lenzuolo, come facciamo per muovere i morti via da qui al cimitero. Di decessi ne abbiamo avuti così tanti, che nessun ci baderà più di tanto né si premurerà di far domande”, spiegava sottovoce Fra’ Anselmo il suo piano di fuga ad Hironimo e Thomà, sfruttando la scusa di tingere al patrizio le placche infiammate in gola.

Dominando il riflesso faringeo sia per la manipolazione dei muscoli involontari sia per il gusto atroce della tintura, il giovane Miani bofonchiò in un gutturali gargarismi: “E come la mettiamo col resto degli ammalati e delle guardie?”

“Niente che un ninìn de papaver somniferum non possa risolvere”, ribatté pragmatico il benedettino, cessando la tortura del suo paziente, il quale s’espresse in una serie di comiche smorfie e sputazzi, nauseato al limite dal sapore in bocca lasciatogli.

“Così vi divertite ad avvelenare la gente a destra e a manca? Xé squasi roba da Borja!”

Fra’ Anselmo s’imporporò, ironicamente, proprio d’un bel rosso papavero. “Se possiedi un piano migliore del mio, avanti, esponimelo!”

Hironimo scosse il capo, scusandosi per la battuta di pessimo gusto, la quale in altre circostanze avrebbe o provocato la risata o una frecciatina arguta da parte del monaco. Invece quel giorno l’umore di quest’ultimo trasudava di stizza, colpa la rampognata da parte dell’Abate, il quale aveva preso in disparte Fra’ Anselmo, ma non abbastanza da impedire al veneziano d’ascoltare. In breve, gli si rimproverava d’aver accolto due donne in infermeria - una perfino travestita da uomo! -  incurante di ogni conseguenza, specie se le due erano manifeste ribelli, fuggitive e mancate assassine ed eviratrici dell’altrui virilità.

“La colpa ricade sul soldato, Padre Abate. Poteva applicare il mai disprezzabile principio di castità e rispettare la persona e, probabilmente, il vincolo matrimoniale di quelle poverette.”

“Su questo punto non le biasimo; ciononostante, non dovevate dar loro rifugio nell’Abbazia. La neutralità è l’unica difesa rimastaci, se vogliamo evitare rappresaglie da parte dei soldati francesi.”

“Non potevo certo rimandarle indietro, Padre Abate. Non dopo aver scoperto quale destino le attendeva.”

“Comprendo la vostra crisi di coscienza, però non vi dovevate sbilanciare così apertamente. Voi appartenete ad una comunità e come tale siete responsabile della sua tutela …”

“… ma anche dei miei pazienti e degli sfortunati che m’invocano soccorso!”

“… e dovete obbedienza al vostro Padre Abate.”

Poi il Signore dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. Deus absconditus est, Padre Abate, Dio è nascosto, tra di noi, non siede su di un trono dorato a guardare e basta! Il nostro dovere è d’aiutare il prossimo, la Carità! Cos’è la Fede, a cosa serve pregare tutto il giorno inginocchiati all’altare, fustigarci e indossare cilici se poi quando un nostro fratello in difficoltà ci supplica aiuto, lo scacciamo rimproverandolo: “Vattene da me, peccatore, questo è il tuo giusto castigo!” Con quale coraggio avrei potuto pregare dinanzi all’Eucarestia, dopo aver negato il mio sostegno a due mie sorelle in Cristo, vittime della cattiveria umana? In quale modo, ditemi, avrei potuto considerarmi migliore dei loro aguzzini?”

“Siete sconvolto, Fra’ Anselmo. Per stavolta fingerò di non aver udito le vostre disobbedienti parole. Badate a comportarvi conformemente alla Regola e al volere del vostro Padre Abate.”

Hironimo, origliando quelle parole, aveva avvertito una stretta al cuore, ammirando lo schietto coraggio di Fra’ Anselmo e la sua coerenza morale, virtù assai rara in quei giorni di sfacciato trasformismo. Inoltre, gli avevano riportato alla mente alcuni ricordi d’infanzia, alle visite, quand’era bambino, agli ospedali dei derelitti assieme a sua madre madona Leonora e le sue parenti e amiche, opere caritatevoli da lui abbandonate alla prima occasione, divenutegli infatti una noiosa incombenza rispetto ad altre attività più divertenti e stimolanti, ma al confronto aride e fini a se stesse. S’era ricordato delle parole della genitrice, quando di sua mano assieme alle fantesche impastava ed infornava il pane destinato ai poveri: Il mondo è tanto orfano di carità e amore, Momolin mio.  Quanto poco ci chiede Cristo di fare verso il nostro prossimo, a confronto di quanto Lui ha fatto per noi.

Cosa aveva fatto lui per il suo prossimo, se non sfruttarlo per i propri scopi? Se aveva aiutato qualcuno in difficoltà, era stato soltanto per ottenere un utile debitore nei suoi confronti, oppure perché il suo gesto l’avrebbe distinto dalla massa, esaltando le sue qualità. Da un favore accordato s’aspettava puntualmente un guadagno – do ut des – e quelle poche volte ch’aveva ceduto a quell’oscuro istinto d’essere caritatevole, se n’era o subito vergognato manco avesse commesso un turpe delitto, oppure aveva minimizzato la cosa, presentandolo ai suoi amici come uno scherzo, una stravaganza da parte sua. Il suo prossimo, in verità, l’aveva ignorato bellamente, talvolta biasimato e disprezzato, considerandosi l’unico al centro del mondo, l’unico con delle esigenze, problemi, sogni e speranze.

Come avrebbe reagito, fossero stati i ruoli invertiti, nei panni di Fra’ Anselmo? Avrebbe posto la sua vita in gioco per salvare le due contadine? A Castelnuovo di Quero non s’era arreso per motivi di gloria e onore, per tornaconto personale: avrebbe messo a repentaglio la vita per quelle sconosciute, che nulla avevano da offrirgli in cambio, se non la possibilità di finire impiccato assieme a loro?

“Zò, sveja, indormensà!”, gli schioccò le dita sotto il naso Fra’ Anselmo, scocciato da cotanta distrazione. “Donca, come ti stavo spiegando …”

“Domani mattina all’alba”, lo interruppe Hironimo, massaggiandosi gli occhi d’un tratto brucianti.

“Cosa?”

“La fuga. Domani mattina all’alba.”

“Matto!”, sibilò il monaco, scrutando circospetto dietro di sé. “Sei ancora ammalato! A malapena ti reggi in piedi, figurarsi correre fino a Trevixo?!”

“Posso e voglio!”, replicò testardo il giovane Miani. “Domani una parte delle truppe si sposterà alla Badia del Pero, mentre l’altra cavalcherà a sud, per un attacco. L’intero accampamento sarà pertanto in subbuglio, un’occasione perfetta per scappar via da qua!”

Il benedettino si grattò il mento, in profonda meditazione. Era rischioso, però rinviare all’infinito non poteva ugualmente corrispondere ad un’opzione. Una volta mobilitato il campo, forse lui poteva dichiararsi sollevato dalla penosa convivenza coi franco-imperiali, ma il giovane patrizio? Il bambino? A quale destino sarebbero andati incontro? No, in sua fede, non poteva abbandonarli, né continuare a soffrire la fame e la mala compagnia di quei giannizzeri travestiti da cristiani.

“Sta ben”, gli diede l’uomo una pacca sulla spalla, sennonché la sua mano venne trattenuta da quella d’Hironimo.

“Mi dispiace averti provocato tutte queste rogne per causa mia. Ti sono debitore per l’aiuto offertomi, soprattutto per aver guarito il mio bambino”, lo ringraziò sincero, sorridendogli timidamente. Poi, avvicinandosi all’orecchio del frate, gli sussurrò energico: “Dovesse questa fuga fallire, giurami di portare Thomà a Trevixo, anche a costo di lasciarmi indietro. Compredestu?”

Lo stomaco di Fra’ Anselmo sobbalzò a disagio dinanzi a quell’inflessibile richiesta.

“Comprendestu?!”

“Sì, ho capito. Te lo prometto”, lo rassicurò in fretta il benedettino, scoccando una fugace occhiata all’ignaro Thomà. “Ora, però, per davvero dormi: avrai bisogno domani di tutte le tue forze”, si raccomandò, chiudendo la tendina.

Hironimo s’accoccolò sotto le coperte, i crampi allo stomaco passati, figli del pugno dell’altro giorno da parte di Mercurio Bua, nella speranza che non gli avesse incrinato qualche costola o provocato danni interni. Allungò il braccio per accarezzare la testa bionda di Thomà, il quale si girò con fare interrogativo, la bocca piena di una fetta di pane, cortesia del greco-albanese.

Avesse prestato più attenzione a chi lo circondava, non avrebbe permesso che un bambino di dieci anni e qualche mese militasse in una fortezza così pericolosa quale Castelnuovo di Quero. Avesse Hironimo posseduto abbastanza buonsenso e spirito di osservazione, avrebbe chiesto ad Andrea Trepin di spedire Thomà a Treviso o meglio ancora a Venezia, al sicuro, non in prima fila a combattere contro quei senzadio dei franco-imperiali. Non era quello il suo posto. Invece, tanto era stato assorbito in strategie militari rivelatesi alla fine inutili; dai suoi sogni di gloria miseramente infranti; dai suoi problemi col senno di poi assai stupidi da non accorgersi di nulla.

Pertanto, il Miani doveva questo favore a Thomà, per esser stato un pessimo comandante e una persona cieca ai suoi bisogni. Avrebbe lottato fino all’ultimo respiro per concedergli la possibilità di divenire un uomo migliore rispetto a lui.

 

***

 

Sul porticciolo di Treviso, davanti al bastione di San Polo, s’incrociavano in un intenso viavai burchi, burchielli, zattere, barche, ogni sorta d’imbarcazione disponibile nelle rimesse. I calafati e maestri d’ascia lavoravano alacremente onde riparare quelle danneggiate, spalmandole poi della tenace pece.

Sotto un portico poco distante, il capitano Andrea Vassallo ascoltava attento e ragionava assieme a paron Jacopo Cimavin il Vecchio, a suo figlio Donado e agli altri membri della Corporazione dei Mugnai, i quali sulla cartina della Marca gli stavano indicando con grande precisione ogni mulino sulle rive principalmente del Sile e degli altri fiumi e canali.

Appreso di una prossima incursione finalizzata a rubare la farina macinata per Treviso e la Signoria, il provveditore Zuam Paulo Gradenigo aveva deciso di ritirarla tutta, trasportandola via acqua al sicuro nei magazzini cittadini. Al contempo, avrebbe trasformato i mulini in piccole torri fortificate, acciocché, per ripicca, i franco-imperiali non li distruggessero, sottraendo a Treviso una vitale fonte di sostentamento. Quanto ai contadini sulla destra della Piave, non ricevendo risposta ai suoi inviti se non netti rifiuti, sier Gradenigo aveva deciso infine di lavarsene le mani: che si difendessero pure da soli, se non volevano collaborare.

Sicché, sulle imbarcazioni venivano trasportati anche falconetti, archibugi, balestre, barili di polvere da sparo, mentre il capitano Vitello Vitelli raccoglieva dei cavalleggeri e stradioti acciò il nemico imparasse a saccheggiare altrove.

“Vegnarò anca mi”, concluse Donado Cimavin, sorprendendo suo padre, che infatti sobbalzò alla notizia. “Sior pare”, lo rassicurò prontamente il giovane uomo, “i gh’han besogno de zente forte, che savia el sòo mestier e soratuto che cognossa el Sil. Mi e li altri muneri e sbisai semo abituà a tirar suso staie; ajutando i soldà, ze manedarem (sbrigheremo, ndr.) avanti l’attaco.”

Jacopo il Vecchio non poté negare una certa ansia nel sapere suo figlio invischiato in un’operazione sì rischiosa; ciononostante, avendo vissuto anch’egli avventure pericolose in gioventù, comprendeva l’allettante richiamo al cimento e la voglia di riscattarsi facendosi onore, specie dopo la magra figura di Donado ad Agnadello, la pellaccia sua salvata in extremis. “Badarò mi a Felicita e al bocia” (bambino, ndr.), anticipò la prevedibile raccomandazione di Donado, il quale, appoggiò riconoscente la mano sulla spalla del genitore.

Intanto che il giovane Cimavin radunava i suoi operai e li smistava sulle varie imbarcazioni, Orlando da Bergamo e altri maestri bombardieri aiutavano alcuni fanti a trasportare l’artiglieria leggera e ad imbarcarla.

“Oué, presidente”, fischiò giovale Giorgio da Otranto, attirando l’attenzione del bergamasco, “v’unite alla brigata?”

“Salveregina! Vi pare che manchi alla gita, mastro Zorzi?”, replicò Orlando, scandendo bene le parole acciocché il pugliese comprendesse. “Lì sul campanél si muore di noia, almanco fazz un po’ d’speriènsa ad ammazzare franzosi!”, ridacchiò, grato al provveditore d’avergli concesso d’accompagnare la piccola guarnigione ai mulini, più per sistemare l’artiglieria in maniera efficace e strategica che per combattere, necessitando Gradenigo del suo capo dei bombardieri a Treviso, vivo e illeso. Un’ottima distrazione, altrimenti al bergamasco sarebbe cresciuta la muffa sotto le chiappe a starsene lì inattivo a San Nicolò in compagnia dei piccioni e del campanaro.

Orlando stava giusto terminando di legare l’ultimo falconetto assieme al bombardiere Paolo da Corfù, quando i suoi occhi di falco isolarono, nel concitato viavai di donne sulla riva del fiume, la gonnella che da qualche giorno intrigava la sua curiosità. L’aveva scorta tra le volontarie a servire i pasti e ad aiutare madona Maria Malipiero Gradenigo, trasportando in testa, come in quell’esatto momento, gonfi fagotti di coperte o ceste o secchi d’acqua. Una bella morettina, soda e al contempo pastosa, visetto dolce d’angelo e braccia robuste da rematore. Orlando aveva in progetto di parlarle, peccato che quella non guardasse nessuno in faccia, un’espressione selvatica perennemente dipinta su quel suo visetto vispo, che neppure l’ombra dei lividi e dei graffi avevano scalfito.

Il bergamasco aggrottò la fronte dinanzi ai fischi di alcuni soldati e alle moine d’apprezzamento, sebbene ignorati sdegnosamente dalla ragazza, la quale proseguiva impettita per la sua strada. Il bombardiere balzò giù sul pontile, azzoppando per poco il suo compaesano Zuan Antonio e Thadio da Vicenza, non appena uno dei fanti prese a tallonare la giovane, parlottandole forse nella speranza di persuaderla a fermarsi. Osservati gli scarsi risultati, l’uomo decise allora di ghermirla per una spalla e così costringerla a voltarsi, sennonché, per la somma sorpresa sua e di Orlando, la moretta estrasse rapidissima un coltello, puntandoglielo bellicosa sotto la gola.

“Tocame de novo e te tajo i cojoni e te li fazzo magnar!”, lo minacciò senza tanti giri di parole, fissandolo arcigna.

“Ohi, zentilhomo!”, le venne in soccorso il bergamasco, conoscendo la permalosità dei soldati, che sì potevano all’inizio spaventarsi dinanzi a tale audacia, ma poi, ripresisi, non avrebbero reagito certo galantemente se provocati. Raggiuntili, si portò in mezzo ai due improbabili innamorati. “La s-cèta (ragazza, ndr.) l’è meco, sót la mia protessiù”, mentì il capo dei bombardieri, tranne quando appoggiò allusivamente la mano dietro la schiena, là dove alla cintura teneva il pugnale. “Cavat d’i ballis”, intimò spiccio al soldato che, levando in alto le mani, ammise il suo torto e lasciò il campo libero al bergamasco, credendo il territorio già marcato.

Soddisfatto, Orlando si girò trionfante verso la giovane e magari aspettandosi pure un sorrisone d’estasiata ammirazione, invece quella girava sui tacchi, rimettendosi in testa la cesta e filando via in direzione dell’ospedale.

“Hé-oh! Torna qua indietro: neanche un ringrassiamènt?”, le corse subito dietro il presidente dell’artiglierie, decisamente preso di contropiede da tal atteggiamento burbero. “No set chi so'?”

“On bergamasco che co’l verze ea boca, mi no capisso na maladeta!”, replicò secca la giovane donna, senza neppure degnarlo d’uno sguardo.

Orlando rise a quella che lui accettò come una battuta, riconoscendo la difficoltà di comprensione da parte della ragazza, proveniente di sicuro dalla campagna e poco avvezza a qualsiasi realtà oltre a quella dei suoi campi. “Volevo soltanto un grassie, bela pötela”, ripeté più lentamente e mescolando veneto e bergamasco. In un balzo la sorpassò, aprendole cavallerescamente una defilata porticina di servizio dell’ospedale. “Perché set, ch’a t’è bela, no?”

“Sì, sì, con sta fazza pittufada!”, s’indicò scettica la ragazza i lividi e i graffi, meno gonfi certo, ma comunque visibili. Dopodiché appoggiò la cesta per terra, ponendosi le mani sui fianchi e sistemandosi scocciata lo zendale, affatto impressionata da quella cortesia e quei complimenti. “Co’ on om dise a ‘na puta: quanto te sé bea, a vol dir ch’el vol infilarghele le man tra le cosse (coscie, ndr.)!” e riafferrato il suo fardello, passò oltre lo scioccato Orlando, rimasto comicamente a bocca aperta dinanzi a tal prosaica schiettezza.

“D’accordo, seguirò il tuo consiglio: dimmi il tuo nome!”, si riprese però in fretta, “Così non ti chiamo bela pötela! E per quanto riguarda quelli”, e indicò più serio le ecchimosi al volto, “passano in fretta e ne ho collezionati anche io, dappertutto.”

La moretta esitò, arricciando pensosa la bocca e valutando da capo a piedi la figura del bombardiere, in paziente attesa sullo stipite d’ingresso, sporto in avanti. Sì, il suo atteggiamento da galletto tradiva la tipica tracotanza dovuta al suo rango di presidente delle artiglierie, tuttavia il bergamasco possedeva una faccia da buono che la rassicurava. Inoltre, fattore non trascurabile, si presentava generalmente un bell’omo. “Anzola di Bapi”, gli concesse, entrando tuttavia svelta dentro il cortile interno dell’ospedale. “Zanze.”

“Zanze”, assaporò quasi il bergamasco il nome, memorizzandolo bene. “Zanze, tesoro, ‘scoltami: co’ torno, possiamo ciacular, tu ed io?”, le propose galante, indeciso però s’accarezzarle o meno il braccio. Quand’ecco, che s’accorse di alcune macchioline rosse sul selciato. “Ti sè fag’mal?”, esclamò preoccupato.

La contadina sobbalzò all’indietro, fissando sbalordita per terra; dopodiché s’alzò di qualche spanna la sottana, strabuzzando gli occhi alla vista di un rivoletto di sangue scenderle dalla gamba fino al tallone.

“No! No vojo ciacolar teco!”, rifiutò imbarazza Zanze la richiesta del bergamasco, anguillando via lesta e sbattendogli poco cerimoniosamente la porta in faccia. Per poco mancò di spaccargli il naso, che comunque il capo bombardiere si massaggiò, deluso da quel due di bastoni ricevuto. Ecco però che la porta si riaprì e la testa scura di Zanze riapparve. “Forse”, si corresse, rientrando dentro tanto rapidamente quant’era comparsa. “Tra sinque zorni: cussì la sarò ancor pì bela per ti, senza macature!” e fu la terza ed ultima correzione.

Un sorrisone da gatto pasciuto illuminò il volto d’Orlando, felice dell’incoraggiante esito di quell’incontro; corse rapido al porticciolo e lavorò più di tre uomini messi insieme, avendo ora infatti un ottimo motivo per terminare quanto prima la missione dei mulini sul Sile.

 

***

 

Fra’ Anselmo deambulava in punta dei piedi lungo l’intero perimetro dell’infermeria, i nervi a fior di pelle, levando la bugia sui volti dei suoi pazienti e sospirando sollevato ogniqualvolta li trovava rilassati, le membra docili sotto il giogo del succo di papavero mischiato al loro mosto serale. Anche i due assistenti dormivano contro il muro, uno appoggiato all’altro, mentre il suo confratello s’era recato alle Lodi, il suo turno finito. L’ampio salone giaceva in assoluto silenzio, l’eco del gran trambusto dovuto al parziale smantellamento del campo un lontano ricordo. Fuori il cielo s’andava gradualmente a schiarire, preparando la terra all’alba.

L’ora dei ladri e dei fuggitivi.

Guardandosi incessantemente alle spalle, il benedettino si recò al letto d’Hironimo, appoggiandogli lievemente la mano sulla spalla e destandolo. Il giovane patrizio non manifestava una cera migliore del giorno addietro né ad esso precedenti, sicché il monaco l’aveva lasciato dormire fino all’ultimo, sobbarcandosi lui e Thomà dei preparativi. Il fantolino, agile e scaltro, non aveva avuto alcuna difficoltà a reperire dalla lavanderia un saio per il suo padrone (anzi conosceva sospettosamente anche fin troppo bene la strada) e per sé una casacca, un paio di braghe e scarpe destinate agli oblati. Dalle ceste accanto al forno del monastero egli aveva in aggiunta rubato una grossa pagnotta di pane e riempito di mosto una borraccia in cuoio, non potendo calcolare nell’esattezza la durata di quella loro fuga. Se tutto fosse andato per il meglio, aveva ipotizzato Fra’ Anselmo, in giornata sarebbero giunti a Treviso, specie in caso si fossero imbattuti negli esploratori veneziani. Altrimenti, l’indomani.

Hironimo sussultò, guardandosi confusamente attorno, la testa dolorante dalle ormai famigliari fitte. Ricacciò indietro la nausea e si stropicciò gli occhi, obbligandosi a regolarizzare il respiro, deglutendo in continuazione dell’acida saliva. Accanto a lui, Fra’ Anselmo lo scrutava attento, i muscoli del viso contratti dall’ansia e dalla pressione.

“Stetu ben?”, s’informò in un sussurro.

Il giovane Miani annuì, pur ansimando, avvertendo sulle guance un bizzarro connubio di caldo e freddo. Si massaggiò il collo irrigidito, roteandolo onde scrocchiarne e scioglierne in muscoli, peggiorando al contrario la situazione, acuiti infatti gli spasimi alle tempie.

“Demo, donca”, l’incoraggiò il monaco, gettandogli sul letto un fagotto ben stretto – saio, scapolare e sandali. Dopo quasi un mese trascorso indossando la sola camicia, al veneziano pareva quasi strano il contatto d’altro tessuto sulla pelle e una piacevole sensazione di calore l’avvolse, specie le gambe perennemente infreddolite. “Bevi”, non si scordò certo il frate del suo decotto, che il patrizio ingollò in un sol sorso tra grandi smorfie, tappandosi il naso.

Thomà, nel frattanto, aveva sistemato uno spesso telo in mezzo alla stanza, avvolgendosi poi in un secondo lenzuolo. Un po’ titubante, si stese per terra e incrociò le braccia al petto, non senza aver dato una furtiva grattatina sotto l’inguine.

“Ma cossa fastu, porzeo?”, lo rimbeccò Fra’ Anselmo, raggiungendolo assieme ad Hironimo, travestitosi alla perfezione e già col cappuccio calato in testa.

“Contr’ea scarògna!” (sfortuna, ndr.), si giustificò impunito il fantolino, scrollando le spallucce manco il suo si trattasse dell’atteggiamento più naturale del mondo. “Mi fazzo el morto, ma no ghe vojo mica serlo per dasseno, zò!”

Il monaco scosse il capo, borbottando un pagan! rivolto al bambino; lui ed Hironimo si piegarono uno di fronte all’altro e pigliate l’estremità del telo, lo sollevarono e lo chiusero come se volessero piegarlo, dirigendosi lentamente verso l’uscita dell’infermeria, il cuore in gola e il sangue fischiante nelle orecchie.

“Dove andate?”, vennero immediatamente bloccati dai due stradioti posti di guardia.

Ineffabile, Fra’ Anselmo rispose loro, acciocché l’attenzione fosse rivolta totalmente su di sé: “A seppellirlo: la cancrena se l’è portato via, i suoi umori puzzano da nauseare!” e si sventolò enfaticamente sotto il naso. Potere della suggestione, anche i due mercenari credettero annusare tale lezzo, facendo rapido cenno ai due monaci di proseguire verso il camposanto, abituati oramai all’andirivieni di cadaveri dall’infermeria.

Il benedettino ne approfittò per accelerare il passo, non giudicando sicuro sprecare un solo istante: le Lodi non sarebbero durate in eterno e un conto era ingannare qualche soldato ignorante o ingenuo confratello, un conto un’intera congregazione. O peggio ancora, d’incrociare in corridoio o nel chiostro Mercurio Bua, il quale non mancava occasione di venir spessissimo a controllare il suo prigioniero, non appena si ricavava qualche ora buca tra un impegno e l’altro. Fortunatamente il suo complice aveva afferrato al volo questa sua fretta, camminando anche lui speditamente finché imbroccarono l’agognato sentiero verso il cimitero, liberi infine dal labirinto interno dell’Abbazia. 

“Ecco, ecco!”, virò Fra’ Anselmo verso un angolo piuttosto defilato del muro perimetrale, seminascosto dalle edere rampicanti, dagli irti cespugli e qualche ramo degli alti alberi al di là della recinzione. Appoggiato il cargo per terra, il monaco scostò via la verzura, tirando e rompendo alcuni rami piuttosto ostinati, finché non comparve in mezzo al biancore delle pietre una piccola breccia, a malapena sufficiente per un uomo d’infilarsi dentro una spalla alla volta. “Dove vastu?”, sibilò agitato ad Hironimo, il quale, aiutato Thomà a srotolarsi dai lenzuoli, era corso alla fossa comune a cielo aperto, dove gettò i teli, ricoprendoli con numerosi strati della calce lì disponibile.

“Per non lasciare una traccia ai cani”, fu la concisa spiegazione del veneziano e il monaco si batté la mano sulla fronte, avendo scordato quel dettaglio malgrado avessero, nel forno comune, bruciato ogni oggetto venuto a contatto coi due prigionieri e il benedettino stesso aveva ripulito e passato sui suoi strumenti, scrivania e sedia un liquido particolarmente urticante alle sensibili nari dei cani.

Thomà scivolò tranquillamente per primo attraverso lo stretto varco, atterrando in basso il dislivello della collinetta in un sordo tonfo fangoso, unito al fruscio delle foglie secche. Fra’ Anselmo, invece, dovette trattenere il fiato e stringere gli addominali, incontrando un fiero attrito tra pancia e pietre che soltanto una decisa spinta da parte d’Hironimo lo disincastrò, permettendogli di passare oltre. Venne infine il turno del patrizio, il quale ricoprì il passaggio segreto alla bell’e meglio con edere e rami, per poi rotolare giù dove l’attendevano il monaco e il bambino, altrettanto infangati.

“Tutto ben?”

Hironimo fece cenno di sì, mascherando al contrario una smorfia di dolore non appena appoggiò il piede previamente slogato per terra; issandosi su, esso aumentò, non realizzando d’aver battuto anche il ginocchio. “Tutto ben”, rispose e i tre in un sol uomo presero a correre lungo un sentiero scosceso del bosco, verso la sua parte più interna e buia, là dove cresceva il sottobosco e dove i cavalli avrebbero faticato ad inseguirli.

Essendo piovuto in gran abbondanza, il terreno rossastro creava uno strato molle in cui i loro piedi affondavano, insinuandosi il fango tra i sandali del monaco e del veneziano, il quale teneva sollevato il saio, non avvezzo a correre sì intralciato da cottole. I rametti talvolta spinosi dei cespugli li ferivano, stracciando pezzi di tessuto;  le punte delle ortiche li pizzicavano arrossando quello sfortunato lembo di pelle cui erano venute a contatto.

Un retrogusto ferroso iniziò a riempire la bocca d’Hironimo, il petto stretto e in affanno dal crescente debito d’ossigeno. In altre circostanze, correre a perdifiato su qualsiasi sentiero non l’avrebbe certo stancato così presto; la malattia e un mese d’inattività forzata s’erano congiunte in uno scellerato patto, rallentandolo ad ogni falcata. Più volte dovette appoggiarsi ad un albero, ansimando in cerca d’un’aria sempre più difficile da respirare, la milza in fiamme che lo malediva. Il sudore gli rigava il volto e sapeva bene quanto non fosse figlio dello sforzo; infatti si sentiva bruciare da dentro e gelava al contempo, la vista appannata da macchie nere e gialle, quando ovviamente non gli deformava ogni contorno davanti a sé.

Strinse i denti, rifiutandosi di cedere proprio in quel momento, di compromettere la fuga con la sua debolezza e soprattutto di mettere a repentaglio la vita dei suoi complici. Hironimo ignorò la rigidità dei muscoli, la morsa alla milza e ai polmoni; avanti, avanti, soltanto una volta giunto a Treviso si sarebbe lasciato stramazzare al suolo.

Un acuto gridolino spaventò lui e Fra’ Anselmo: Thomà, che li correva straordinariamente avanti, era sprofondato in apparenza nel sottobosco, neanche la terra l’avesse inghiottito. Hironimo si portò rapidissimo sul posto, temendo il fantolino ferito o peggio.

Tirò un sospiro di sollievo.“Ahia-ahia-ahia!”, si massaggiava il sedere il bambino, non avendo notato la discesa a picco ben camuffata dalla verzura e rotolato quindi ai piedi della collinetta. “Patron?”, inquisì perplesso Thomà, notando l’improvviso colorito cinereo sul volto del patrizio.

Un brivido dolorosissimo colse il decenne, nel captare dietro di sé lo schiocco di una balestra a leva appena caricata.

 

A onor del vero, Mercurio Bua non era molto entusiasta all’idea di quella cavalcata a saccheggiare i mulini sul Sile: tale operazione l’avrebbe allontanato per l’intera giornata dall’Abbazia, se non di più se doveva dare adito ai piani di La Palice che bisognava spingersi fin quasi a Musestre e figurarsi se il greco-albanese avesse poi voglia di pernottare al ritorno nell’Abbazia di Santa Maria di Pero. Il suo prigioniero sicuramente non versava nelle migliori condizioni di salute per cimentarsi in futili imprese e il monastero pullulava di soldati, nondimeno la prudenza non era mai troppa, il tradimento serpeggiante in ogni corridoio e lui non voleva rischiare brutte sorprese. Il Gambara, primo nella sua personale lista dei sospettati, poteva anche languire fuori gioco nel Castello di San Salvatore, ma ciò non escludeva eventuali complici, specie nella sua compagnia.

Di conseguenza, il capitano di ventura aveva discusso l’affare con Leka Busicchio, chiedendogli di sostituirlo; lui poi si sarebbe inventato una scusa da rifilare a La Palice. Inoltre, che il suo collega rimanesse rassicurato, il Bua gli cedeva volentieri il comando di parte dei suoi stradioti, Zilio Madalo compreso. Busicchio aveva accettato di buon grado, non approvando però comprendendo la circospezione dell’altro capitano.

Mercurio s’era quindi appena congedato da Leka, quando si diresse verso l’infermeria, trovandola stranamente in subbuglio: il solito benedettino – com’accidenti si chiamava? Fra’ Guglielmo? Fra’ Antonio? – mancava dalla sua scrivania o accanto ai letti degli ammalati, rimanendo solo il suo confratello e gli assistenti, quest’ultimi indossanti in viso un’espressione assai intontita non dissimile da quella d’un ubriaco. L’altro monaco stava spiegando qualcosa all’Abate, dalla sua faccia sgomenta sicuramente grave e di fatti trasalì terrorizzato alla vista del Bua, il quale gli si piazzò imperioso davanti.

“Cos’è successo?”, domandò, leggermente inquieto da quella bizzarra scenetta. I pazienti ricoverati in infermeria gli apparivano stranamente quieti, così come l’intero ambiente troppo in ordine, conferendogli un non so che d’abbandonato, alternandosi nell’aria un odore pungente e uno di tessuto bruciato proveniente dal forno, a malapena mitigato dalle finestre aperte per far circolare via tal fastidioso lezzo.

“Un … un nostro frate, Fra’ Anselmo, parrebbe essere fuggito …”, gli spiegò vago l’Abate, evitando di guardare il condottiero dritto negli occhi, “a quanto pare s’è servito assai scaltramente delle sue erbe, per addormentare …”, ma non riuscì a terminare il discorso, essendo Mercurio volato verso il letto d’Hironimo, scostando veemente le tendine, il cuore martellante in petto e presagendo il peggiore dei suoi timori.

Vuoto. 

Il materasso nudo ai suoi occhi – senza lenzuolo, senza federa il cuscino, senza il suo prigioniero – lo derideva inclemente, schiaffandogli in faccia il suo fallimento e stupidità per aver arrogantemente creduto quel dannato veneziano incapace di reagire, sconfitto e soggiogato. Alla stregua di una vipera, gli aveva sputato il suo veleno per poi scivolargli via agile tra le dita e per di più – massimo scorno! – s’era portato seco il suo preziosissimo nanerottolo, sottraendo così al Bua l’unica arma di ricatto in suo possesso, rompendo l’accerchiamento cui era stato costretto.

Si fosse trattato dell’altrui ostaggio, Mercurio si sarebbe complimentato in cuor suo per l’astuzia del patrizio e biasimato la cecità del suo guardiano; siccome però il gabbato era lui, un’ondata di rabbia mista a vergogna per la sua stoltezza gli provocò violenti spasimi, costringendolo a digrignare i denti quasi a spaccarsi mascella e mandibola, le nocche che potevano squarciare i guanti di cuoio da quanto stringeva i pugni. Come aveva potuto lasciarsi ingannare da quel teatrino? Come aveva potuto peccare di tale stupida ingenuità? La mansuetudine, l’arrendevolezza, perfino la fottuta malattia, tutta una manfrina, un abile piano atto a fargli abbassare la guardia e piantargli il simbolico pugnale tra le scapole. Perché? Perché proprio adesso doveva fuggire? Quale figura ci avrebbe fatto con lo zio di quel maledetto, con l’intera Signoria? Esigere presuntuosamente uno scambio, quando in realtà non possedeva ora nulla da cedere? Quei vecchi volponi in Senato gli avrebbero riso in faccia, non pigliandolo in futuro mai più sul serio! Un buffone, un millantatore, un miles gloriosus, ecco a quale considerazione l’avrebbero relegato! E Caterina? Cos’avrebbe pensato di lui, della sua debacle? Del modo da scolaretto in cui s’era fatto abbindolare? Quando l’avrebbe potuta riabbracciare? Quando sarebbe riuscito a catturare nuovamente qualcuno di sì gran rango per giustificare lo scambio?

A Mercurio sorse una gran voglia d’urlare, di stracciare a morsi il materasso, di spaccare a pugni il letto e d’infilzare, uno alla volta, tutti i presenti in infermeria, complici forse ignari ma non per questo ai suoi occhi meno colpevoli. Invece, una strana atarassia l’avvolse, una lucidità imparata in sedici anni di servizio militare. Alla fine della fiera, anche quella era una guerra: il veneziano aveva fatto la sua mossa, ora spettava al Bua reagire di conseguenza.

In predatorio silenzio uscì dalla sala, pigliando i suoi due stradioti per la gola e sbattendoli contemporaneamente contro il muro, li intimò di raccontargli dettagliatamente quanto visto e udito quella fatidica mattina. Dunque i due fuggitivi avevano finto di seppellire qualcuno – il moccioso, indubbio – e costì sgattaiolare fuori? Perfetto, quindi dovevano essersi recati al camposanto. Ma da lì com’erano usciti? I furbastri avevano bruciato o ripulito qualsiasi oggetto toccato, impedendo ai cani di fiutare una traccia. Come localizzarli nel bosco? A meno che …

“Voi due sellate i cavalli e seguitimi”, ringhiò Mercurio ai suoi negligenti sottoposti, i quali si massaggiavano il collo scuritosi di ecchimosi. “E pregate Agios Georgios che riesca a catturare almeno il veneziano, altrimenti v’impiccherò al primo albero disponibile!”, che in un bosco significava immediatamente.

E mentre i due stradioti correvano via in direzione della stalla, il Bua ritornò alla sua cella, rovesciando collerico il cassone contenente la sua roba. Rovistò disordinatamente, lanciando di qua e di là capi d’abbigliamento e chincaglierie, calciò qualsiasi cosa lo ingamberasse e imprecò nel non reperire subito ciò che stava cercando.

Fischiò vittorioso nel trovare, ben nascosto in fondo all’ultimo cassone, il farsetto ch’aveva sottratto, il giorno della cattura, al veneziano, quando l’aveva spogliato dell’armatura e di ogni altra sua possessione. Un capo d’abbigliamento d’un bel rosso accesso, d’eccellente e robusta lana inglese follata in modo da rendere il tessuto impermeabile all’acqua e al sudore. Conoscitore della qualità, Mercurio se n’era appropriato allo scopo di disfarlo e di ricucirselo addosso, adattandolo alla sua taglia. Grazie a Dio aveva posticipato tale decisione, giacché, se fortunato, l’odore del fuggitivo poteva aver indugiato nell’indumento.

Il condottiero corse in cortile, portando il farsetto ai cani e mordendosi in ansiosa attesa all’interno della guancia dinanzi alla confusione degli animali, i quali sniffavano esagitati ma al contempo confusi, girando in cerchi, annusando, scodinzolando per ripetere in seguito tale operazione. Quand’ecco, che i loro corpi muscolosi e snelli s’irrigidirono, la coda fendette con maggior vigore l’aria e un lungo ululato riecheggiò nel monastero, intanto che i cani partivano entusiasti all’inseguimento, la traccia localizzata.

L’unico inghippo rimaneva che Mercurio non poteva transitare a cavallo lungo la fessura nel muro perimetrale del camposanto – disgraziato lui che non aveva controllato a sufficienza ogni pertugio in quella stramaledetta Abbazia! – sicché dovette frenare l’esuberanza dei suoi cani e reindirizzarli lungo il sentiero, soltanto dopo aver girato attorno al monastero per una via più agevole agli zoccoli della sua cavalcatura.

Il greco-albanese, affiancato dai suoi due stradioti, batté quindi furiosamente gli speroni contro i fianchi del suo turcomanno, il quale guizzò in possente galoppo e i suoi sbuffi per l’inaspettato sforzo si mescolarono al tintinnare delle catene, con le quali Mercurio aveva intenzione di legare la sua ribelle preda.

 

Il balestriere dinanzi ai tre impietriti fuggiaschi rimase altrettanto immobile, reclinando il capo interdetto. Lentamente, dalla boscaglia apparvero e gli si affiancarono altri due uomini armati di picche, i cui abiti grezzi e le pellicce pezzate tradivano la loro rusticità ed esclusione da uno specifico esercito. Il che rassicurò Hironimo, rilassatosi, pur avanzando a mani in alto e a passo deciso verso il soldato alle spalle di Thomà, malgrado i preoccupati richiami di Fra’ Anselmo.

“Semo zente in fede di Sen Marcho!”, dichiarò a voce ben alta, scandendo ciascuna parola e mantenendo un solido contatto visivo col balestriere, il quale, malfidente, replicò aspro, il dito accarezzante la molla per far scattare la freccia:

“Provalo!”

Il giovane Miani guadagnò ancora qualche passo, portando il tiro su di sé così da permettere al bambino di scivolare dietro la sua schiena. “In due parole mi sbrigo: sono Hironimo Miani, figlio del fu magnifico senatore Anzolo Miani di Sen Vidal, castellano di Castel Novo di Quer; costui”, ed indicò col capo il fantolino dietro di lui, “è Thomà figlio del fu Vetor, falegname di Feltre, e assistente del fu bombardiere Andrea Trepin da Cividal di Belluno. Quest’ultimo invece si chiama Fra’ Anselmo dalla Badia di Sen Stae, medico ed erborista. E tu”, aggiunse all’ultimo, piazzandosi ad una risibile distanza dal soldato. “Tu sei Cabriel Jermin, fio del fu Piero e fradelo dil Bastian Jermin, morti virilmente a Castel Novo!”

O quel frate – o presunto tale – apparteneva alla miglior categoria di spie mai esistite sulla faccia della terra, oppure egli affermava il vero sulla sua identità. In ogni modo, Cabriel abbassò ciondoloni la balestra, la bocca aperta dallo stupore e la contentezza di rivedere il suo ex-comandante vivo e in un sol pezzo.

“Sior castelan! … Lustrissimo! … La perdonança, mi … mi no savevo … no …”, balbettò in affanno il balestriere, arrossendo quasi quanto una matura fragola selvatica. “Mi ve credea prexom dil Bua … Ve seu vestito frate?”, domandò confuso, strabuzzando comicamente gli occhi.

“Rilassati, hai fatto soltanto il tuo dovere, anzi, nei tuoi panni mi sarei comportato esattamente come te. Quanto al saio, fa parte del piano di fuga, figurarse se io mi vesto frate, prete, cardinale!”, lo rassicurò Hironimo, afferrandogli il braccio a mo’ di saluto fino al gomito. “Però adesso dimmi: cosa ci fai qua? Quali nuove da Trevixo?”

“Trevixo xè tanto fortifichato che s’il fosse do exerciti chome quello de’ inimici no xè da dubitar: sarà la pì brava forteza de tutta Italia!”, iniziò Cabriel a rispondere l’ultima domanda, onde rasserenare il suo superiore circa la preparazione della città dinanzi alla costante minaccia d’assedio. “Prima, ve confesso, non valea gnente e c’on lanzon si haria potuto saltar le mura, ma horra a xé stà slargate cuatro volte pì, dal pe’ dil fosso fin suso con do man di lote tirade per linea, chome fosse un muro, che mai fo visto sì ben lavorato e tuto con frasche e teren, de quello cavano, e xé molto mejo di repari di Padoa. Tutti li fossi xéi desfati, e parte di cavalieri, per slargar i fossi, se gh’ha convenuto a tajar. Xé stà ruinà tante caxe e giese, gerano fino su li fossi, e tutavia si disfa, che xé ‘na compassion, e potrà andar parechij cavalli a par. In summa, sta terra no xé da robar e manco di ser tolta per forza. El provedador sier Zuam Paulo Gradenigo vol mandar Zigante Corso a la Mota per tegnirla e sier Zuam Vituri, horra provedador di la Patria, al castello di domino Hironimo Savorgnan, per far tremar i todeschi e quei lochi rebelli a la Signoria. ”

I tre fuggitivi si scambiarono dei sorrisi pieni di sollievo, rispecchiati da quelli di Cabriel e dei suoi due compari. “Par mi, sun qua per tegnir en osservation el campo”, proseguì il balestriere nel suo racconto, dirigendoli intanto verso un anfratto ben nascosto all’interno di una collinetta, là dove potevano discorrere indisturbati e al riparo da occhi indiscreti. “Da Colalto ghemo inteso chome ancuò la Peliza feve spostar parte dil campo a la Badia dil Pero, pì atachar, per sachizar, i molini sul Sil che masenano per Trevixo e Veniexia. Sti do”, ed indicò i suoi compagni, “xéi villani scampolai dil massacro. Di solito mi sto qua a tegnir stimulati i franzosi, perhò ancuò i xéi ussiti con arme et artellaria e nuialtri non ghemo possibilità di scaramuzzar sì desvantajai.”

“Donca ve ne tornerete a Trevixo?”

“Ancuò sì. Depo’, s’avedarà. Sti valenti homeni no gh’aleli alcun scopo qui, mejo ch’i ajuden a custodir la città”, chiarì Cabriel la situazione ad Hironimo. Lo scontro e il conseguente massacro di parte dei contadini ribelli sul Montello aveva sortito l’effetto prefissatosi da Mercurio Bua: molti dei superstiti s’erano rintanati negli angoli più inaccessibili del bosco e da lì più non volevano uscire, sordi ad ogni richiamo; altri, quelli invece rimasti nelle campagne della bassa, si rifiutavano d’obbedire alle ordinanze del Podestà e del Provveditore che li comandavano di riparare a Treviso coi loro carri e bestiame, preferendo o morire a guardia delle loro proprietà oppure cederle senza combattere al nemico, piuttosto d’abbandonarle definitivamente.

“Puoah!”, commentò disgustato Thomà a fine discorso, avendo ascoltato tutto attentamente dietro il suo padrone. “Ghe xé chi xé nato libero e chi s-ciavo!” e sia Hironimo, Fra’ Anselmo sia Cabriel rimasero stupiti dalla saggezza contenuta in quelle parole pronunciate da un decenne.

“Cabriel”, ruppe il silenzio il giovane Miani, sorgendogli all’improvviso un dubbio. “Stamane, hai per caso scorto il Bua tra gli stradioti?”

Il ragazzo strinse gli occhi e aggrottò la fronte, sforzando intensamente la sua memoria visiva e scorrendo ciascuna faccia individuata a capo delle colonne di soldati. “No”, schioccò infine la lingua, “nol gh’ho visto. E manco tra li cavali lizieri e stratioti alla volta di molini. Ghe gera el sòo compare, Leka Busichio, ma no el Bua.”

Una coltellata dritta allo stomaco gli avrebbe doluto di meno, rispetto ai crampi generati al Miani nell’apprendere quella notizia. Merda, merda e ancora merda! Aveva deciso di fuggire proprio quella mattina, confidando nella presenza di Mercurio Bua alla spedizione a sud, ai mulini, la quale l’avrebbe allontanato dall’Abbazia almeno per l’intera giornata, concedendogli così un notevole vantaggio di tempo. La gola gli si serrò dal panico e le sue mani presero impercettibilmente a tremare, terrorizzato all’idea di cosa quel satanasso avrebbe potuto fare, in caso li avessero catturati. Il patrizio spiò di sottecchi Thomà, che lo ricambiava altrettanto ansioso e così anche Fra’ Anselmo.

Se invero Mercurio Bua era rimasto a Nervesa, sarebbe dunque stata questione di qualche ora prima di scoprire l’inganno e partire alla loro ricerca. Lui e Fra’ Anselmo avevano eliminato ogni possibile traccia per i cani, tuttavia non si poteva escludere che il condottiero avesse conservato un oggetto appartenuto ad Hironimo, vanificando ogni loro scrupoloso accorgimento. E conoscendo la bestiale tenacia dell’uomo, il veneziano non dubitava che li avrebbe scovati.

Calma! Calmati! Ancora non ci ha raggiunti, possiamo uscirne vincitori!, si massaggiò il giovane in maniera circolare lo stomaco, respirando a profonde boccate d’aria onde riequilibrare il suo spirito sconvolto e riacquistare la freddezza necessaria per la contromossa.

“Sior castelano?”

“Dove avete lasciato i cavalli?”

“Do o tre milia pì en basso de qua, col resto di la mia compagnia.”

Hironimo congiunse le mani sotto il mento, calcolando mentalmente i tempi e la velocità con la quale potevano ricongiungersi al resto degli esploratori veneziani. Non era una distanza impossibile, ciononostante considerò il suo precario stato di salute e il gonfiore alla caviglia e al ginocchio;, nonché l’età non molto fresca del benedettino e le gambette corte di Thomà. Troppo rischioso azzardarsi a viaggiare uniti. “C’è un’altra uscita dal bosco del Montelo?”

Cabriel, solerte, gliel’indicò, in direzione più a sud rispetto al loro nascondiglio. “M’a xé pì longa”, l’avvertì, non comprendendo il ragionamento del conterraneo.

“Tu, i tuoi uomini e i miei compagni percorrerete la vostra solita via. Io prenderò quest’altra.”

“No!”, esclamò veemente Thomà, afferrando al volo l’intenzione d’Hironimo e abbracciandolo stretto, quasi ad impedirgli fisicamente di separarsi da lui. “No me lassé solo, patron! M’avé zurà de senpre starme meco! Nol podé farlo, nol podé! Se quel cancaro dil Bua ve copasse, cossa fassjo?”

Afferrandogli i piccoli e magri polsi, il Miani si staccò bruscamente di dosso il fantolino, allontanandolo da sé. “Thomà”, l’apostrofò sì duramente, che il pargolo trasalì, non più abituato a quel tono autoritario. “Sono il tuo comandante e mi devi obbedienza. Compredestu?”

Il labbro inferiore di Thomà incominciò a tremare violentemente, i suoi occhi velati da grasse lacrime. Deglutì un forte singhiozzo, asciugandosi via il pianto a stento trattenuto, il suo cuoricino straziato di nuovo dal medesimo dolore provato all’epoca dell’uccisione della sua intera famiglia.

“Ci separeremo solo per qualche tempo”, lo consolò Hironimo, afferrandogli il mento ad invito a guardarlo. “E ti prometto che ci ricongiungeremo tutti a Trevixo!”

“Dasseno?”, pigolò affranto il fantolino. “Me lo zurate-vuj?”

“Lo giuro. Adesso smettila di piangere: non sei il mio ometto coraggioso?”, l’abbracciò forte Miani, ricambiato con altrettanta intensità dal piccolo, il quale gli artigliava i capelli e il saio neanche desiderasse fondersi in un unico corpo. Il suo istinto di fanciullo, così simile a quella animale, aveva fiutato un che di mortifero e definitivo in quel congedo e la sua animuccia agonizzava all’idea di rinunciare a quell’ultimo appiglio di famiglia rimastogli. Allo stesso tempo la sua fiducia nel patrizio rimaneva talmente salda da credergli in tutto, anche di riuscire, come il biblico Giosuè, a fermare il sole in cielo per favorirli nella fuga.

“Ve vojo tanto ben, sior pare”, gli sussurrò Thomà all’orecchio quelle tenere parole, che avrebbe tanto voluto pronunciare più spesso al suo vero padre, privato però dalla guerra di ogni futura possibilità. Sicché, incerto di un futuro troppo mutevole da prevedere, compì quell’atto d’amore verso chi come un padre s’era comportato nei suoi confronti, verso chi l’aveva difeso contro ogni incognita, senza guadagno personale, assumendosi volontariamente un ruolo cui nessuno l’aveva obbligato.

Hironimo non rispose, stordito dal peso di sì grande privilegio e stima, non sussistendo al mondo fiducia più grande di quella che un bambino ripone in un adulto, il più indifeso e innocente degli affetti. Gli baciò la fronte e finse di sputargli in testa a mo’ di buon augurio, riponendosi in piedi e cedendo Thomà alla custodia di Cabriel. “Bada”, l’ammonì energico, “sto puto xé el cargo pì pretioso che te dago. Se gli accade qualcossa, mi te cato, te ciapo, te copo e l’inferno te parrà el Paradiso! Pulito?”

Il povero Cabriel annuì velocemente, pigliando protettivamente per mano l’infelice e rassegnato fanciullo e lo invitò silenzioso ad incamminarsi assieme a lui.

“Sarai anche un turco”, indugiò un ultimo istante Fra’ Anselmo, sistemandoglisi di fronte, “ma allo stesso tempo sei un valent’omo e d’onore”, gli confidò impressionato, posandogli la mano sulla testa. D’istinto Hironimo tentò di scostarsi – quando mai gli aveva richiesto una benedizione? – sennonché desistette, la pressione del monaco troppo forte. Provò uno strano brivido, unito ad un’improvvisa voglia di piangere, quando il pollice del benedettino gli segnò una croce sulla fronte. “Scoltame ben, razza de testòn: più di ogni peccato, Missier Domeneddio si ricorda d’ogni buona azione.”

“In tutta la mia vita, non ho mai fatto nulla di buono”, fu il massimo di confessione che il giovane Miani gli concesse, il petto stretto da quell’improvvisa afflizione. “Ho rifiutato Dio quindici anni fa, a questo punto sicuramente Egli si sarà dimenticato di me. Perché dovrebbe oggi incominciare ad ascoltarmi? Invece”, interruppe egli sul nascere la contro-argomentazione di Fra’ Anselmo, premendogli altro in quel pochissimo tempo rimastogli a disposizione, “per favore, porta quest’ambasciata a mio fratello Marco: digli, che mi dispiace tantissimo per ogni torto, ogni villania, ogni litigio. Digli, che mi dispiace d’essere stato così crudele ed ingiusto con lui. Digli che l’amo, lui e tutta la nostra famiglia. Digli che sto bene.”

Il monaco gli strinse la mano, accettando silente l’incarico, avvertendo un famigliare groppo in gola. Dopodiché si congedò dal patrizio, seguendo rapido il gruppetto fino a sparire nella fitta vegetazione, lasciando infine Hironimo solo, indietro.

Digli che sto bene, perché i morti stanno sempre bene, completò egli a mente la frase indirizzata a suo fratello Marco, ch’ormai non confidava più di rivederlo se non nella casa dell’Ade. Il giovane Miani si coprì il viso bollente di febbre tra le mani gelate dall’umido boschivo, i tremori ripresi con maggior vigore di prima. Un Mercurio Bua arrabbiato già era difficile da gestire; uno fuori di sé dall’ira corrispondeva ad un certo appuntamento con l’Oscuro Mietitore, o quasi. Il veneziano non escludeva la possibilità che, onde vendicare il suo orgoglio ferito, il greco-albanese l’avrebbe torturato, forse addirittura ucciso. S’augurò mille volte questa seconda opzione, non nascondendo la sua paura dinanzi al supplizio, non se il condottiero poteva aver appreso qualche utile lezione dai turchi.

D’altronde, si consolò, stringendo i denti e correndo in direzione sud, verso l’uscita del bosco, quale altra maniera per riscattarsi gli restava, se non d’aiutare i suoi compagni ed ergersi a scudo umano? Mercurio era lui che voleva, dunque se la pigliasse con lui.

Per la sua vanagloria e testardaggine Hironimo aveva sacrificato senza guadagno la vita di quei coraggiosi soldati rimastigli fedeli e dei suoi servitori, nonostante l’allettante promessa di La Palice di risparmiarli in caso di resa. Avrebbe dovuto congedarli da ogni vincolo, un bravo comandante riconosce quando ha perduto la partita e s’adegua in attesa del riscatto. Per difendere il suo onore s’era servito delle vite altrui, vite spezzate che mai più sarebbero ritornate, occasioni perdute, sogni infranti, futuri negati.

Il loro sangue macchiava le sue mani e se doveva versare il suo per far ammenda dei suoi errori, avrebbe più che volentieri offerto le vene alla lama nemica.

Hironimo aveva disonorato suo padre a Castelnuovo e a Feltre, la quale aveva esultato alla notizia di un Miani a comando di quelle zone, ricordando ancora piena d’ammirazione l’antico podestà e capitano, malgrado i ventitre anni trascorsi dalla fine del suo mandato. Quale magro guadagno! Uno stolto figlio ch’aveva invece annullato ogni benemerenza del fu sier Anzolo Miani, vittorioso contro il tentativo di Sigmund von Habsburg d’occupare il feltrino e la stessa città.

Sicché il giovane patrizio era pronto a qualsiasi sacrificio pur di dimostrare al mondo, quanto lui non fosse da meno; di dimostrare a Padre, ovunque egli si trovasse, ch’egli non era una delusione, un incapace, un figlio che sarebbe stato meglio seppellire in culla.

Se invero vi dovrò raggiungere presto, sior Pare, non voglio farlo vergognandomi alla vostra presenza.

 

***

 

 

Mulino dopo mulino, senza trovare niente tranne polvere e qualche chicco di grano, la compagnia di Leka Busicchio si era spinta fin quasi a Musestre, in territorio nemico, tentando la sorte giusto per non tornare indietro a mani vuote al campo.

Il capitano degli stradioti fece cenno ai suoi di fermarsi, allungando il collo e stringendo gli occhi onde accertarsi della natura dell’edificio davanti a sé e seminascosto dai salici piangenti ed altre fronde. Due piani, un pergolato e un muretto perimetrale ed infine il familiare scroscio dell’acqua manipolata dalle pale della ruota d’acqua.

Sì, decisamente un mulino e con un burchio legato ai pali in colonna del pontile, ergo i preziosi sacchi di grano e farina ancora rimasti nel magazzino. Le finestre erano aperte, un sottile filo di fumo serpeggiante fuori il camino, segno che il mugnaio probabilmente si trovava lì dentro.

Il greco scrutò bene lo scenario, in cerca di elementi ch’avrebbero potuto tradire una presenza militare nemica; la vegetazione fitta, sia degli alberi che delle canne, fornivano un eccellente nascondiglio. Il mugnaio, i suoi operai e la sua famiglia non avrebbero corrisposto ad un grande ostacolo, ciononostante Busicchio ugualmente comandò ai suoi stradioti di non uccidere se non necessario, già satollo di sangue dal recente scontro del Montello. Il loro obiettivo era di rubare il macinato e rientrare al campo prima che i marciani potessero reagire, quindi niente spreco di tempo prezioso per infierire, specie sulle donne.

Leka estrasse la spada dal fodero, mai troppa la circospezione, intanto che i balestrieri caricavano le loro armi a leva. Battendo i talloni sul cavallo, il capitano incitò i suoi uomini ad occupare velocemente il terreno, cogliendo di sorpresa la gente nel mulino senza concedere alcuna possibilità di difendersi. Man mano che si avvicinavano però all’edificio, un odore acre e familiare colpì le nari del capitano di ventura, un odore che la legna bruciata, in lontananza, aveva ben camuffato.

Polvere da sparo.

All’improvviso, il muretto perimetrale al mulino cedette in una piccola valanga di mattoni e la bocca di un falconetto apparve e il suo ruggito bloccò la cavalcata degli stradioti, i cui cavalli s’impennarono spaventati, nitrendo e ribellandosi al comando dei loro padroni. Le balote, atterrando nel terreno fangoso, sollevavano terra e l’urto scoordinava e sbilanciava la colonna nemica, facendo cadere a terra molti cavalleggeri, morti o feriti sia dal colpo sia dalle rovinose fratture alla colonna vertebrale. Da un altro angolo del muro sparò un secondo falconetto e ben presto anche dalle finestre s’unirono, in un concerto di zolfo, gli schioppi degli archibugi.

“È un’imboscata!”, gridò Leka ai superstiti rimasti della prima linea, tirando le redini onde bloccare l’avanzata del suo cavallo e costringerlo a rinculare. La melma tuttavia rallentava l’animale, gli zoccoli sprofondanti su di un terreno instabile e scivoloso. I balestrieri tentavano di mirare dentro alle finestre, ma l’incalzare dei falconetti allontanavano troppo il tiro, rendendo le frecce inefficaci.

“Ritirarsi! Artiglieria!”, fece eco Zilio Madalo al capitano, segnalando ai compagni di zigzagare e disperdersi, così da confondere i tiratori e limitare i danni delle cannonate.

Dal piano alto del mulino, il capitano Vitello Vitelli osservava la confusione nel gruppo degli stradioti, i quali cozzavano in due movimenti contraddittori, d’offensiva e ritirata. A onor del vero, il laziale non s’era atteso quell’attacco, giudicando Musestre al di fuori dal raggio d’azione del nemico e per questo aveva lasciato i suoi mulini per ultimi nell’evacuazione. Fortuna che già da quella mattina stavano brigando a convertire l’edificio a piccola torre di vedetta, sicché non li avevano pigliati impreparati.

“Signor Orlando!”, urlò dabasso al capo bombardiere, il quale strisciava nascosto dietro al muretto onde dirigere i suoi uomini. “Costringeteli in un unico blocco, che non si disperdano!”

Il bergamasco levò in alto il pugno, segno ch’aveva compreso. “Puntate ai fianchi!”, tradusse l’ordine del Vitelli ai suoi colleghi Paolo da Corfù, Giorgio da Otranto, Zuan Antonio da Bergamo e Thadio da Vicenza, i quali calibrarono il tiro, puntando i falconetti in modo da non concedere via di salvezza al nemico, specie laterale, la quale avrebbe portato ad un possibile accerchiamento del mulino da dietro. Se i Collegati volevano arrendersi e scappare, sarebbe stato solo ritornando sui propri passi. “Fuoco! Fuoco!”

Al pianoterra, un archibugiere chiamò Donado Cimavin, rimasto lì imbambolato senza alcunché da fare, gli ultimi sacchi rimasti da trasportare ai suoi piedi. “Sistu bon a sparar?”, gli allungò un archibugio rimasto orfano di padrone.

Il giovane mugnaio guardò incerto l’arma da fuoco, specie quando il soldato, impaziente di una risposta, gliela cedette di peso. Donado era un pochino familiare con la balestra, più che altro come svago nelle competizioni della domenica, ma quel lungo pezzo di legno e metallo lo percepiva alieno tra le sue mani. Una freccia piantatasi contro lo scure della finestra lo costrinse in ginocchio accanto all’archibugiere, ogni indugio gettato alle spine.

“Movete, t’eo gh’ho zà cargà!”, lo spronò impaziente il suo compagno, sparando all’anonimo temerario che l’aveva scambiato per un’anatra selvatica.

Allora, Donado imitò la posizione del soldato, appoggiando la canna sulla finestra e puntò ad uno a caso dei cavalleggeri nemici. Un altro archibugiere gli accese la miccia da dietro, la quale sfrigolò avida, creando un enorme tensione nel mugnaio, meditando questi sulla prossima mossa da fare. Scoccò una seconda occhiata all’uomo accanto a sé, poi agli stradioti, poi nuovamente agli archibugieri.

“Co’ te gh’ha puntà l’arma, serra i ocij e scansa ea testa, sennò t’i brusi di polvare!”

Donado deglutì e seguì immediatamente il consiglio: prese la mira, chiuse le palpebre e reclinò il volto quel giusto per non riempirseli dei pericolosi rimasugli di polvere e lo schiocco roboante dell’archibugio fece il resto. “Bravo! Bravo!”, udì dal buio, persuadendolo a riaprire gli occhi. “Te ne gh’ha ciapà on! An, la fortuna dil prinzipiante!”, si congratulò il suo vicino, offrendogli la mano per rialzarsi in piedi, non avendo Donado calcolato il rinculo del colpo appena sparato e puntualmente finito a gambe all’aria.

In alto, Vitello Vitelli diede alla vedetta nascosta tra i rami il segnale convenuto e questa fischiò ai cavalleggeri marciani, nascosti ad arte nella boscaglia e lo stesso ai fanti tra i canneti.

Il nuovo impeto scombussolò gli stradioti nemici, i quali si videro insediati sui fianchi dal fuoco nemico e adesso dalle sue zagaglie, impegnandoli in furiosi corpo a corpo onde salvarsi la vita in quella rovinosa ritirata. Dal basso sbucavano inattese le picche, disarcionando i cavalleggeri e trascinandoli nel fango o direttamente in fiume. Uno di questi fanti addirittura seguì in acqua uno stradiota caduto, cacciandogli la testa sott’acqua e tenendolo fermo mentre questi si dimenava esagitato, finché le ultime bolle risalirono e un’immobilità mortale segnalò il decesso dell’avversario.

“Zilio!”, richiamò Leka l’attenzione del luogotenente di Mercurio, il quale era riuscito a respingere numerosi assalti dal suo lato. “Dobbiamo aprirci un varco e ritirarci. Raggruppa i tuoi abbastanza da sfondare la linea destra! Dobbiamo evitare il fiume!”

Lo stradiota annuì concitatamente, nettandosi il viso coperto di sangue e mulinando la spada, costrinse il cavallo a roteare in direzione opposta, cavandosi due o tre avversari già pronti a sbarrargli la strada. “Avanti! Compattatevi! Compattatevi!”, incoraggiò i suoi uomini. “Sfondate a cuneo la lin- …” e le parole gli morirono in gola, mollando la sua presa all’elsa.

“Zilio!”, ruggì Busicchio alla vista del compagno inarcarsi e poi irrigidirsi, colpito alla spalla da un colpo d’archibugio. Il cavallo del Madalo s'impennò all’indietro e questi abbandonò la presa alle redini, balzato via di sella e cadendo in un gran tonfo in acqua, sparendo tra i canneti. Una rabbia figlia del dolore conferì nuove energie a Leka, il quale non si scoraggiò, semmai infuse maggior vigore a salvare ciò che rimaneva dei suoi soldati.

Frustando i cavalli alla stregua di ciuchi e premendo allo spasimo sul fianco destro, gli stradioti riuscirono ad aprirsi un varco ed evitarono così il massacro e la cattura di chi rimasto ancora vivo, ma non necessariamente illeso.

Dalla sua postazione, il capitano Vitelli fece cenno d’interrompere ai bombardieri i loro tiri, concedendo ancora qualche schioppettata ammonitrice agli archibugieri, in modo da permettere ai fanti e ai cavalleggeri di rientrare in tutta tranquillità nella fortezza improvvisata.

“Xé finia?”, domandò confuso Donando al soldato accanto a lui, il quale sogghignò affermativamente. Un alto ululato di vittoria s’elevò nell’aria, levando ben in alto i marciani qualsiasi arma avessero in mano, dalle picche ai bastoni caricapolvere.

D’umore più cauto restava invece Vitello Vitelli, che, concesso qualche istante di liberatorio giubilo, riportò immediatamente l’ordine e comandò ai soldati ed operai di terminare il carico del burchio, intanto che i bombardieri riparavano rapidi il muretto.

“E anche oggi, l’è andata!”, raschiava via Paolo da Corfù gli eccessi di calcestruzzo. “Stasera però voglio ubriacarmi di grappa friulana fino ad andar in letto cantando, soprattutto accompagnato da una bella donna!”

“Uagnon, azzardati a presentarti domani sbronzo al bastione”, l’ammonì ridendo Giorgio da Otranto, “e ti spacco il muso!”

“O ti lanciamo direttamente contro i francesi!”, rincarò la dose Thadio da Vicenza, al che un piccato Paolo, maledicendo lo scarso senso dell’umorismo dei suoi colleghi, si rivolse ad Orlando:

“E voi presidente? Che fate stasera?”

Il bergamasco ripose gli attrezzi, caricandoseli in spalla. “Io?”, gli rifilò un sorriso lascivamente furbetto. “Io ci provo stasera con la Zanze!”, con la scusa d’evacuare i mulini, non erano rientrati a Treviso la sera del 22 settembre e chissà se lei si stesse chiedendo o meno che fine avesse fatto Orlando. Per quel che lo concerneva, la contadinella gli allietava assai i sogni ed egli sentiva una voglia matta di concretizzarli.

Un boato di grasse risate lo sfotté inclemente. “Sì e fu così che doman mattina vedremo il signor presidente coi segni rossi di due ceffoni stampati uno per guancia …”

“… nonché zoppicare per la pedata in culo ricevuta!”

“Chigasang! Maledetti!”, lanciò loro del fango un offesissimo Orlando, “un’altra parola e v’affogo quanti che siete!”

I bombardieri se la risero ancora più forte.

 

 

***

 

Se Mercurio Bua aveva tentennato sullo specifico modo d’agire, una volta ritrovatosi a tu per tu col suo prigioniero, a seguito del racconto di Leka Busicchio non possedeva più alcun dubbio a riguardo.

Il veneziano non s’era fatto scovare né ricatturare tanto facilmente: invece di spaventarsi alla vista dei cani da traccia, il fuggitivo li aveva attesi in agguato e bastonati dritto sul collo, tramortendoli o paralizzandoli. In aggiunta, aveva costretto i loro conduttori ad inseguirlo per sentieri accidentati, ora in salita e ora in discesa, in un groviglio doloroso di rami, spine e piante urticanti e a piedi Mercurio s’era ritrovato separato dalla sua scorta, non agile né pratico in quel terreno irregolare e infido, avvolto nei suoi punti più oscuri da una sottile nebbia, la luce respinta da fronde fittissime. Ad un certo punto in lui s’era formulata l’idea d’abbandonare l’impresa, rendendosi conto di rischiare di perdersi in quell’antro d’inferno o di rotolare giù lungo qualche dislivello.

Quando il Bua s’era imbattuto nella sua preda, non l’aveva dapprincipio riconosciuta, non subito, intabarrata com’era in quel largo saio. I due s’erano ritrovati quasi per caso l’uno di fronte all’altro, inzaccherati di fango e foglie, dei fili appiccicosi delle ragnatele e delle bave spumose e biancastre delle sputacchine. Il veneziano s’era bloccato, sgomento, ma non abbastanza da impedire di girare rapidamente sui tacchi e salire sul pendio in direzione opposta a quella del condottiero, il quale arrancava, scivolando in continuazione. Nondimeno, Mercurio non aveva per un solo istante perduto di vista il patrizio, balzandogli addosso alla prima occasione favorevole e placcandolo in un ultimo frustrato tentativo d’impedire a quella lepre antropomorfa di scappargli. Il fuggitivo s’era allora aggrappato disperatamente ad un ramo, graffiandosi i palmi delle mani quando questi, flessuosi, si torcevano agli strattoni del Bua onde staccarlo. Ogni volta che mollava la presa, ecco che il veneziano ne afferrava un altro, incurante dei rivoletti di sangue scivolanti dentro le maniche, issandosi per calciare in faccia o al petto il capitano di ventura, che grugniva e sputava dallo sforzo e dal dolore quando il tiro colpiva a segno. Mercurio agguantava il giovane ad ogni appiglio disponibile, tirando e strappando pezzi del saio, elargendogli pugni sulla schiena, sulle spalle, sulle braccia tese e avutolo finalmente per terra, onde chiudere in fretta la questione, gli aveva sbattuto la testa contro il tronco d’un albero -  doveva riportarlo vivo alla Signoria e non necessariamente col cervello ancora funzionate. Dallo sforzo dell’inseguimento Mercurio si era poi accasciato per terra, accanto allo svenuto prigioniero, ansimando pesantemente e contemplando il complesso intreccio di rami che impediva di scrutare il cielo. Purtroppo, ricongiuntosi in seguito ad uno dei suoi uomini e affidatogli il patrizio, il greco-albanese aveva dovuto desistere dalla sua ricerca del moccioso e del benedettino per invece localizzare e riportare indietro l’altro suo sottoposto, prima che calasse la notte e gli esploratori veneziani lo catturassero o i contadini se lo mangiassero alla brace.  

E il condottiero avrebbe anche potuto dichiararsi soddisfatto, se non fosse rientrato all’Abbazia proprio durante il ritorno improvviso di Leka, il quale gli aveva dolorosamente spiegato come mai Mercurio non fosse riuscito a scorgere Zilio in nessun luogo. “È morto coraggiosamente, degno erede delle genti di Megas Alexandros!”, aveva commentato Busicchio, come se la cosa avesse potuto consolarlo o riportare in vita una delle persone più oneste e leali, che l’epirota avesse mai conosciuto in tanti anni di servizio. D’accordo, nulla assicurava al militare di vivere una lunga vita, però crepare così stupidamente, senza la presenza e la guida del suo capitano, perché quello stramaledetto veneziano aveva deciso di scappare via, forzando Mercurio a scegliere tra lo scambio e la missione … No, quel dannato avrebbe pagato anche per la morte di Zilio.

La cella sotterranea puzzava di muffa e di chiuso, senza luce e senza un refolo d’aria, una vera e propria prigione ideata per punire i monaci ribelli. Lì il Bua aveva ordinato al suo sottoposto di gettare il suo prigioniero, in attesa di reperire il bambino ed attuare la promessa fattagli tempo addietro. Sfortuna invece aveva decretato che, almeno quel giorno, egli fosse ritornato a mani vuote, ma ciò non garantiva che lo stradiota avrebbe smesso di cercare il fanciullo.

Udito lo scatto della serratura e le sottili strisce di luce squarciare le dense e soffocanti tenebre, Hironimo stringendo i denti si pose in piedi, appoggiandosi contro il muro umido in fondo alla cella, il cuore impazzito battente la chamade in petto. Una volta divisosi dal gruppo, s’era rassegnato alla possibilità di venir ricatturato, tuttavia sperava ardentemente che tale sorte Thomà non la condividesse, crogiolandosi angosciato lì nel buio in continui incubi, laddove quell’uscio d’inferno s’apriva e gli appariva la figuretta del bambino, spintonato dal mercenario pronto a trasformarlo in un agnellino pasquale. Artigliando le ginocchia, il giovane patrizio aveva pregato neanche lui sapeva chi acciocché il Bua non reperisse mai il suo piccoletto; aveva supplicato di pigliare su di sé l’intero impatto della collera del greco-albanese, a patto che la vita di quel pargolo fosse risparmiata, che raggiungesse Treviso sano e salvo. Non chiedeva altro.  

Mercurio appoggiò la lanterna sul pavimento in terra battuta, la sua figura ingigantita dal chiaroscuro, malgrado si fosse levato la pesante e lunga casacca, e ogni curva del suo viso s’ombreggiava e si distorceva in una maschera luciferina di pura rabbia, pareva uscito da quei paurosi racconti sul Barababao, il divoratore di bambini. A passi lenti, misurati e predatori egli occupò l’intero spazio della cella, sbattendo la porta in un roboante tonfo il cui eco fece fischiare le orecchie del giovane patrizio, per poi ammutolirsi l’aria istessa di quel fetido sepolcro.

“Ti ho malgiudicato”, esordì il condottiero, la voce vibrante di una gelida ira a malapena imbrigliata, “ti credevo un gentiluomo, una persona d’onore di cui fidarsi e soprattutto abbastanza intelligente da capire la propria situazione. Sbagliavo: sei un infido, un empio, un egoista che preferisce sacrificare gli altri al proprio tornaconto!”, scandì egli ogni parola con l’accuratezza di una frustata e di fatti al medesimo modo le percepiva anche il suo prigioniero, concordando mentalmente con l’altro, sebbene non gli avrebbe mai concesso la soddisfazione di saperlo sconfitto.

“Tu vivi nel mondo dei poemi cavallereschi”, lo derise velenoso Hironimo, artigliando i mattoni pregni di muffa per infondersi coraggio. “Gente come te è nata per farsi coglionare dal prossimo!”

Uno schiocco l’ammutolì, rubandogli il fiato e costringendolo per terra, la mano corsa al braccio bruciante da sotto il saio strappato. Incredulo, il giovane guardò il flagello tenuto in mano da Mercurio, le cui code arrotolava e allungava nervosamente, forse per l’impazienza d’usarlo di nuovo.

“In tutta onestà”, riprese quegli, afferrando per i capelli Hironimo e trascinandolo al centro della cella, “non ho mai compreso questa sciocca usanza dei monaci di flagellarsi. Per cosa? Per punirsi dei propri peccati? Per disciplinarsi? La vita già ti flagella a sufficienza, senza dover rincarare la dose per mano tua. Ma” e le strisce di cuoio frusciarono voluttuose nell’aria assieme al tintinnio delle palline metalliche, scivolandogli lungo la gamba quando il Bua aprì la mano, “se mi si dovesse chiedere d’usare il flagello  contro qualcun altro, mi trovi in prima fila a consigliarne l’uso!”

Il patrizio reclinò il capo, i muscoli tesi fino allo spasimo. “Che t’aspettavi da me? I tuoi comodi? Che rimanessi buono e docile a subire le tue prepotenze? Tu parli” e cercò le parole che gli avrebbero guadagnato la sferzata meno dolorosa, “alla stregua d’un amico tradito, quando amici non lo siamo mai stati. Soltanto perché mi costringevi ad ascoltare i tuoi vaneggiamenti, perché ti degnavi d’accordarmi da mangiare gli avanzi degli avanzi della tua tavola,  sul serio avevi creduto d’aver acquistato la mia lealtà?”, balzò in piedi, levando il mento a mo’ di sfida. “Tu sei quello che per due anni ha massacrato la mia gente, che ha espugnato la mia fortezza, che ha passato a fil di spada i miei soldati, i miei servitori, che mi ha umiliato, affamato, costretto in catene, trattato alla stregua d’un giocattolo da calciare via non appena si stufava! Tu hai minacciato mio fratello, la mia famiglia, il mio bambino di morte; per causa tua ho beccato il malanno e rischiato un’infezione! Pertanto come hai potuto pensare ch’io non contemplassi la fuga?! Che io considerassi te un uomo d’onore? Un camerata? Ma neanche in mille anni, neanche se ti fossi messo in ginocchio a supplicarmi!”

Il flagello sibilò nell’aria, colpendo tuttavia a vuoto; anticipato, pur nella penombra, da Hironimo, che indietreggiando evitò la frustata.

“Arrogante figlio di puttana”, lo braccò Mercurio, tentando di costringerlo in continui cerchi in un angolo. “Chi ti credi d’essere? Bartolomeo d’Alviano? Quale altro trattamento s’aspettava un bambinetto viziato, sconfitto al suo primo assedio?”

Scrocchiando le nocche al sentire così vituperata l’amata madre, Hironimo sogghignò però sghembo, mostrandogli i denti. “Chi mi credo d’essere? Un patrizio veneziano, qualcuno per la cui custodia hai lottato con le unghie e coi denti, coprendoti di ridicolo dinanzi a la Palissa e a tutto il campo!”

Il Bua balzò in avanti e il giovane di riflesso indietro. “Non sei l’unico patrizio che posso catturare e usare a mo’ d’ostaggio. A Treviso ne troverò di ben più altolocati e importanti di te!”

Hironimo gli rise in faccia, crudele. “Puoi anche catturare il Provveditore in persona, ma non otterrai mai ciò per cui mi hai tenuto presso te per quasi un mese!” e schivò un’altra sferzata, abbassandosi come ai tempi in cui imparava al ginnasio i primi rudimenti del pugilato, sfruttando la statura più bassa per anguillare via, in un continuo balletto di cerchi concentrici.

“Tu non sai niente”, ringhiò il Bua, i cui occhi guizzavano in cerca di un punto stabile dove colpire l’avversario, perennemente in movimento. “Tu non mi puoi fare niente; io sì al contrario. E sappi che continuerò a cercare quel tuo moccioso di merda, finché non l’avrò trovato e non t’avrò dipinto il muso del suo sangue!”

“Tu parli nel sonno”, preparò il Miani la sua contromossa, il cui labbro inferiore tremava all’orribile immagine di Thomà sgozzato, il corpicino scosso da mortifere convulsioni mentre il prezioso liquido vitale zampillava via a gran fiotti. Il giovane scacciò via forzosamente quel pensiero e si concentrò sulle sue prossime parole, le quali sarebbero sicuramente corrisposte ai proverbiali chiodi sulla sua bara, nondimeno Hironimo non accettava di sapere minimamente trionfante il condottiero e se poteva ferirlo e fino all’ultimo rigirargli il coltello nella piaga, ben venisse! Specie dopo aver minacciato per l’ennesima volta Thomà. “Aikaterinī … Caterina, giusto?”, e Mercurio ammutolì all’improvviso, perdendo ogni baldanza, il volto ridotto ad una maschera di cera, le spalle d’un tratto curve, flaccide. “Ti ha lasciato, poverino”, cinguettò beffardo.

Occhio per occhio, dente per dente, persona amata per persona amata.

“Caterina … è stata rapita dai suoi fratelli”, ansimò l’epirota, il sangue infiammatosi e ribollente nelle vene. Quella era la sua verità, un tiro barbino di quei cani di Manoli e Costantino Boccali, di quello spergiuro di suo fratello Teodoro. Ché il condottiero non conosceva la sua compagna, adesso? Da quando in qua fuggiva una moglie da suo marito? Per passare tra le fila nemiche, poi! Inconcepibile, assurdo!

“Ti ha lasciato”, reiterò inflessibile Hironimo, adocchiando il flagello. “Una donna che ama il suo uomo neanche sotto tortura lo abbandona. Ti ha rinnegato, se n’è scappata via: evidentemente come hai stufato me, hai stufato anche lei con la tua cecità, vanagloria, egoismo ed ambizione. Non ti vuole più, Mercurio, che vita le hai offerto? A sua figlia? Con che coraggio può quella poveraccia raccontare alla bimba: tuo padre è un traditore, un assassino, uno stupratore?”

Gli occhi neri di Caterina luccicavano di lacrime, il bel viso rigato di lacrime. “Ti prego, concedimi di tornare a Venezia, da mia madre, acciocché io cresca la nostra piccina lontana da quest’orrore! Morti, feriti, torture, malattie, stupri … quale colpa ha tua figlia commesso per meritarsi quest’inferno in terra?”

“Ogni passo da me intrapreso è stato per loro! Per elevarle dalla miseria, dall’eterno status di fuoriuscite!”

“Non m’importa delle vostre guerre, del tuo onore venduto al migliore offerente! Mio padre sta morendo, colui che m’ha dato la vita sta per congedarsi per sempre dalla sua! Almeno le sue ultime parole abbi la bontà di farmi sentire! Capisco le vostre divergenze, i vostri rancori … Ma tu già nei sei uscito vincitore, non ti pare? Io rimarrò tua moglie fino alla fine dei miei giorni, ma sua figlia io lo sarò ancora per poco!”

“No, agivi per te stesso e per il tuo amor proprio, ch’è così grande e ingombrante da considerare Caterina un sovrappiù, un ornamento, un corpo da fottere quanto ti sorgeva il prurito! Di lei, dei suoi pensieri, delle sue preoccupazioni, dei suoi desideri, non te n’è mai fregato alcunché! Scommetto anzi che tenevi più in considerazione il tuo cavallo! Non le sei mai stato un vero marito e giustamente lei t’ha abbandonato, dimenticato!”

“Aikaterinī?”

La giovane donna, pallidissima, gli cedette la missiva, nella quale Mercurio lesse e apprese della morte di Nicolò Boccali. “Vedi, è come ti avevo detto: non l’avresti raggiunto mai in tempo, specie se tuo padre si trovava nella Patria del Friuli … Avresti affrontato un viaggio inutile e …”

“Tu m’hai detto un sacco di cose, Maurikos”, mormorò atona Caterina, dirigendosi in stato pressoché sonnambolico verso il lettuccio di Maria. Sistemò la copertina sulle esili spallucce della bimba, fissando trasognata un punto indefinito davanti a sé. “Ma mai quelle giuste.”

“Lei è mia moglie, è mia! …”

“Secondo te, ho torto se mi recassi dall’Imperatore e reclamassi finalmente i mancati pagamenti?”

Caterina levò brevemente gli occhi dalla casacca che stava rammendando, riconcentrandosi poi sul suo lavoro. “Perché mai dovrei darti un consiglio?”, scrollò incurante le spalle, spezzando il filo coi denti. “Alla fine agisci sempre e soltanto di testa tua, quindi …  Non vedi che ho anch’io da fare? Se non ti serve sul serio aiuto, non distrarmi ché perdo tempo!”

Mercurio le si sedette accanto, perplesso. “Non è vero, all’occasione ho ascoltato la tua opinione.”

“Uhm, può darsi … ai tempi che mai furono …”, replicò scettica Caterina, intrecciando le dita sull’indumento. Sospirò profondamente. “Vai dall’Imperatore, fatti valere. Vuole i tuoi servigi? È ricco, che paghi. Niente a questo mondo è dovuto, tutto va guadagnato.”

“Esattamente quel che stavo pensando anch’io.”

“Già, che strano.”

“Sicura che non t’incomoda rimanere sola a Verona?”

“Tranquillo: ho la mia Maria da badare e poi … e poi i miei fratelli a tenermi compagnia. Non sono mai stata sola, io.”

“Spero per loro che ti trattino bene!”

“Non è tua, non l’è mai stata né lo sarà! Caterina appartiene a se stessa, non spetta a te decidere della sua esistenza. Lei ti odia, ti ha dimenticato, probabilmente pure rimpiazzato e tu ti sei sbattuto per niente, perché anche se pagassi staie su staie d’oro puro alla Signoria, non otterrai mai indietro Caterina, perché lei non ti vuole! Tu l’hai delusa e lei ti ha ripudiato e per di più sei un coglione perché tutto il mondo se n’è accorto, tranne te!”

Il sorriso di Caterina si deformò in una smorfia sghemba, ambigua. “Non dubitare, caro marito: Manoli e Kostantinos obbediscono ad ogni mio cenno.”

E Mercurio capì.

Capì infine il perché avesse provato quel scellerato connubio di repulsione e fascinazione verso Hironimo. Capì il motivo per cui non tollerava le sue mordaci risposte. Capì come mai lo infastidisse quel suo impertinente sorriso sibillino, di chi celava abilmente i propri pensieri dietro una maschera impenetrabile.

Quello sguardo … lo  aveva visto in Caterina, l’ultima sera prima della sua scomparsa. Della sua fuga da Verona. Da lui. Un’espressione implacabile e tremenda, d’odio e condanna, che lui di sua mano aveva nutrito, giorno dopo giorno.

Mercurio aveva sempre avuto la verità dritta e brillante davanti a sé, soltanto che lui s’era rifiutato d’accettarla, orgoglioso e testardo, addossando colpe ad altri quando in realtà doveva deplorare se stesso ed i suoi errori. Quel disgraziato affermava il vero: Caterina l’aveva considerata roba sua, un premio, la figlia di una principessa di Durazzo e di un condottiero famoso; una moglie, una madre, un’ombra onnipresente ognora a disposizione. S’era giudicato un bravo consorte perché provvedeva per lei e ogni tanto magnanimo le chiedeva opinioni e consigli che manco ascoltava - figurarsi implementarli -  non la consultava mai veramente. Non la prendeva sul serio, non le aveva mai dato la possibilità di distinguersi, credendola incapace di una qualsivoglia iniziativa senza il supporto e la guida di suo marito. Ignorava il suo spirito, le sue passioni, le sue angosce. L’aveva sin dal principio considerata sua, fisicamente sua, non concependo che sua moglie potesse un giorno finire per ribellarsi, odiandolo al punto da prendere la decisione d’allontanarsi in via definitiva da lui. Con chi aveva vissuto per tutti quegli anni? Chi era Caterina? Aveva amato lei o l’immagine ideale che lui aveva di sua moglie? Quella cui per un anno intero egli s’era disperatamente aggrappato? Cos’era? Un’illusione? Una scusa?

Una donna mai esistita?

Ti strapperò di dosso quel sorriso, quello sguardo, quella tua condanna! Mercurio torse il busto all’indietro, caricando il flagello e le palline metalliche tintinnarono assieme al sibilo del cuoio, schioccando e mordendo la carne del braccio sinistro d’Hironimo, posto in alto a difesa e roteato rapido, nonostante il gemito di dolore strappatogli dall’impatto. Le code di gatto ghermirono la loro preda, avvinghiandosi ad essa, stracciando la veste candida, ma troppo avide rimasero prigioniere e fu Hironimo ora a torcerle, artigliando il manico e contendendosi al Bua il flagello.

Col pugno destro il giovane mirò allo zigomo del greco-albanese, il quel lo bloccò afferrandogli il polso e maldestramente provò a piegargli il braccio, non pratico con la sinistra. Sennonché, Hironimo gli si buttò contro, elargendogli una forte spallata in pieno petto, girandosi di schiena su di lui in un grottesco abbraccio. Gli pestò il piede, finché il Bua non lo liberò dalla presa e il patrizio rinculò veloce, strattonando in sua direzione il flagello che gli solcava la carne in una sgradita morsa.

Mercurio piantò bene i piedi per terra e tirò forte, sicuro della miglior prestazione fisica rispetto al malconcio opponente, che appunto cadde, trascinato in avanti. Gli elargì un pugno tra le scapole; sputando saliva e forse anche sangue, Hironimo s’issò sul ginocchio sano e ricambiò con una gomitata al basso ventre e più Mercurio infieriva più lui rispondeva a tono. Quand’ecco che il veneziano afferrò il polso del Bua, mordendogli la mano che reggeva il flagello e un grido indiavolato riecheggiò tra i muri colmi di muffa.

Entrambi sapevano che non sarebbe stata una lotta tra gentiluomini.

Afferratolo per il bavero del saio, l’epirota si staccò via di peso dal Miani, il quale pur rotolando calciò lontano il flagello, adesso libero da ogni padrone. Il giovane si riprese in fretta e scattò in piedi, correndo in sua direzione, ma il condottiero gli face lo sgambetto, sicché s’ingamberò e cadde sfortunatamente sul ginocchio dolorante. Mercurio lo ghermì per le spalle, lo girò e Hironimo mirò di tallone alla virilità dell’opponente, sennonché questi gli bloccò la caviglia, torcendola neanche volesse spezzargliela. Al che il veneziano, gridando di dolore e afferrata d’istinto della terra, gliela lanciò in faccia, calciandogli sullo stomaco non appena avvertì l’arto libero, sicché il Bua cadde all’indietro tra bestiali imprecazioni. Hironimo prese a strisciare verso il flagello, il ginocchio e la caviglia in fiamme che parevano volersi staccare dal suo corpo. Allungò il braccio, catturando il manico e trascinando lo strumento al petto, sotto di sé.

Ripresosi  e scuotendo furioso il capo onde levarsi ogni residuo d’intontimento, Mercurio si buttò di peso addosso ad Hironimo, coprendolo e infilando le mani onde costringerlo a staccarsi dal flagello, finendo i due per rotolarsi in un groviglio di calci, gomitate e testate, uno lottando per distruggere e l’altro per morire dignitosamente. D’un tratto il Bua cambiò strategia, balzando in piedi e sollevato per il saio il Miani lo sbatté contro il muro, mozzandogli il respiro, neanche l’avesse scambiato per un antico ariete d’assedio. Ogni osso del giovane tremò, i nervi guizzando in impazziti stimoli, tanto che credette aver sentito il movimento acquoso dei suoi medesimo organi, così crudelmente sballottati.

Ciononostante, Hironimo non cedeva, il flagello ben saldo tra le sue dita sanguinanti: non l’avrebbe assassinato peggio d’un somaro o un criminale, se il Bua voleva spedirlo da Padre, sarebbe stato per mano sua o di una lama. Non meritava tale ignominiosa fine. La sua schiena gli traballava contro il muro, lo scheletro supplicante di terminare quella tortura prima di finire disintegrato. I polmoni smisero di collaborare, respirava sempre peggio e la ferita alla fronte si riaprì e il viso s’inumidì di placido liquido vischioso, sicché all’odore di muffa s’aggiunse quello del sangue.

Agli spintoni si sostituirono i pugni, un’incessante grandinata, giù e giù e giù, senza ritmo tranne l’aumento d’intensità, colpendolo a caso, ora sullo stesso punto ora su di uno nuovo, finché Hironimo cedette al loro peso, scivolando lentamente contro il muro, la vista azzerata da ogni colore, ovattandosi ogni suono, perfino il dolore alla fine gli divenne sopportabile. Il mondo vorticò sconclusionato e una voragine nero bestemmia spalancò le sue fauci  e lo inghiotti in una graduale incoscienza, trasformandolo in uno spettatore inerme. Capiva quanto stesse accadendo, ma non lo percepiva più su di sé, non gli apparteneva.

Madre mia, soccorso! Madre ho paura!

Si stava spegnendo, eppure Hironimo non provava un dolce torpore bensì una paura indescrivibile, mentre un mortifero gelo s’impossessava dei suoi arti, ribelli ad ogni suo ordine. Soltanto le sue mani seguitavano a serbare al petto il flagello, neanche l’avesse eletto a palma del suo martirio. Niente però di eroico c’era in quel suo progressivo commiato alla vita, niente di santo. Solo orrore e disperazione per terminare lì la sua esistenza, la sua giovinezza rubata in una puzzolente cella di un remoto monastero. Nessuno avrebbe saputo della sua morte, nessuno l’avrebbe pianto, né seppellito nella sua città natale, accanto ai suoi avi, condannato ad un’eterna solitudine.

Aiutami, Madre! M’uccide! Madre! Madre! Mater! Mater perdono! Mater salvami! Salvami! Salvami, Mater! Mater! Mater! Salvami …

“… Mater!”, invocò Hironimo con l’ultimo fiato rimastogli, piegandosi su se stesso nel disperato tentativo di proteggere la testa dai colpi. Cadde in un tonfo sul fianco, il corpo insensibile ai pugni del condottiero, inerme, quasi rilassato. Non si muoveva più, ogni funzione annullata. Le dita gli si schiusero e il manico del flagello rotolò per terra.

… nunc et in hora mortis nostrae …

Era quella dunque l’ora della sua morte? Perché il patrizio non si sentiva né leggero né bruciare, piuttosto pesante e goffo, un sacco di farina gettato malamente in un angolo, informe e sbatacchiato. Freddo e vuoto, un limbo senza via d’uscita, nonostante il suo spirito graffiasse contro la porta della sua stesse mente, incapace d’arrendersi, ostinato a vivere ad ogni costo.

Non aver mai paura, sei nato per lottare.

Morire sarebbe stato ammettere la sua sconfitta contro il Bua.

Mater! Aiutami! Aiutami a tirarmi su!

No, morire significava non poter più proteggere Thomà. Suo fratello. La sua famiglia. La sua patria.

Homo morto no fa guerra.

Hironimo artigliò la terra cruda, alla cieca, impresse le ultime forze sulle mani sbucciate e sanguinanti, impose ai muscoli delle braccia d’obbedirgli, di sollevarlo dal pavimento. Immediatamente, una violenta frustata gli martoriò la schiena e cadde prono, sbattendo il mento e mordendosi la lingua.

Mater, aiuto! Ti supplico! Cocciuto, il giovane si tirò su e nuovamente venne rispedito per terra, stavolta battendo la fronte. Spostò il peso su di un avambraccio, inarcandosi, cercando stabilità sui ginocchi. Niente. L’ennesima frustata lo tramortì.

Forse era meglio così. Se nulla di buono poteva combinare, forse era meglio che Hironimo morisse, cavandosi dalle spese di un mondo che non necessitava di lui, che sarebbe andato avanti benissimo senza il suo contributo. Gente più importante, più meritevole di lui sicuramente aveva la precedenza. Cosa poteva sperare d’ottenere? Cosa reclamare per sé? Senza castello, senza spada, senza famiglia, senza amici, senza più alcuna dignità, non era più nessuno, tanto valeva che anche il suo corpo si disfacesse e di lui si perdesse ogni ricordo.

Padre era morto, Madre non poteva aiutarlo, i suoi fratelli l’avevano rinnegato. Era solo dinanzi al grande abisso, destino adeguato: aveva voluto la libertà d’agire a suo piacere, di scegliere da sé. Da solo dunque avrebbe affrontato il suo destino, inutile invocare vanamente soccorso, dopo averlo per anni schifato.

D’altronde, non ho compiuto alcunché di degno e non mi merito né aiuto né salvezza.

Il patrizio avvertì all’improvviso una corrente d’aria sulle ferite, un fastidioso luccichio, l’eco di concitati passi sulla terra e due corpi che cozzavano contro, urla in greco, spintoni, il flagello gettato lontano, contro il muro, rotolante in un qualche angolo.

“Sei impazzito?! Vuoi uccidere l’ostaggio? Ti rendi conti che da morto non vale niente?”

“E’ il mio prigioniero e ne faccio quel che voglio!”

“Sbagliato! Noi abbiamo espugnato Castelnuovo, noi tutti assieme! Non tu da solo! Senza di noi, tu non avresti combinato alcunché! E’ la nostra preda di guerra e soltanto perché t’abbiamo assecondato nelle tue eccentricità, non significa che di conseguenza tu ne possa disporre a tuo piacimento!”

“Leka …”

“Leka, un cazzo! Tutte le magagne affrontante per tenerlo in vita, tutti quegli imbrogli e fastidi … e poi tu butti alle ortiche ogni nostro sforzo, così? All’ultimo? Proprio adesso che ci serve per liberare i nostri compagni?”

“Lui non mi serve per quello!”

“Cosa?”

“Non lo voglio scambiare!”

“D’accordo, d’accordo … Per denaro, allora! Infatti, giusto in questo momento avremmo bisogno …”

“Neppure!”

“Kyrie Eleison! Mi vuoi far imprecare peggio d’un turco? Non per denaro, non per uno scambio … Per quale motivo lo tieni teco, sentiamo?!”

“Per mia moglie.”

“Eh?”

Silenzio.

“Lo voglio barattare in cambio di Aikaterinī.”

“Tu stai scherzando, Maurikos … No, no tu stai scherzando …”

“Ho già inviato una richiesta alla Signoria. Mi dispiace non avertelo rivelato prima, però sono state settimane piuttosto intense e … e può darsi che mi sia passato di mente. In ogni modo, fin dall’inizio avevo ideato questo piano, altrimenti avrei chiesto subito il suo riscatto assieme a quello dei due capitani bellunesi, no?”

“Ah, così te l’eri scordato? Complimenti, mi sento davvero lusingato nell’apprendere, quanto tu mi consideri alla pari del figlio della serva!”

“Leka … mi stai fraintendendo …”

“Ma vaffanculo te e chi t’ha fatto, che siete in tre! Frainteso? Frainteso cosa?! Cazzo c’è da fraintendere, quando invece sei stato chiarissimo, porco diavolo d’un cane! Fino ad oggi ci hai convenientemente nascosto di come intendevi usare quel veneziano non per riscattare i nostri compagni o per riscuotere una taglia – Theos solo sa quanto necessitiamo di soldi in questo momento! – bensì per ripigliarti quella fuggitiva di tua moglie, la quale manco si cura di te e questo per appagare un semplice tuo capriccio?! E poi tu mi dici che fraintendo?! Oltre a fregarmi, pure mi dai dell’imbecille?!”

“Mia moglie non è scappata via! L’hanno rapita! E comunque non lo chiamerei un capriccio, insomma non credi che …”

“Oggi – anzi, ieri ormai – dovevi cavalcare con noi fino ai mulini sul Sile. Dov’eri? Perché non c’eri a capitanare la compagnia, uh? Me lo spieghi? Cos’avevi di meglio da fare? T’era stata affidata una missione e tu, tu l’hai rifiutata per startene accanto al prigioniero. Io te l’ho lasciato fare, mi sono lasciato persuadere nella sciocca illusione, che questo veneziano avrebbe potuto giovare l’intera compagnia. Avessi saputo …  e ora Zilio è morto, Maurikos, è morto per servire il tuo egoismo.”

“Leka, forse tu hai trascurato il piccolo dettaglio, che questo pezzo di merda è sul serio scappato e dunque neanche tu puoi negare la bontà delle mie decisioni! Mi fossi unito a voi all’impresa, a quest’ora si trovava questo qua bell’e allegro a Treviso ed io con un pugno di mosche!”

“E allora? Tanto a noi che ce ne veniva? Tu solo avresti goduto dei vantaggi, non noi. Ci avresti perduto, lo ammetto. Però è anche vero che se tu avessi deciso di seguirci e di dirigere l’operazione come ordinatoti, Zilio non sarebbe caduto in battaglia. Risolvimi, Maurikos: che guadagno c’è a perdere un compagno fedele e capace, per un prigioniero? N’è valsa la pena, questo scambio?”

“Leka … ascolta … sei sconvolto, lo capisco, lo sono anch’io, però … ”

“Stammi lontano per oggi, non mi parlare. Forse domani mi passa, ma non oggi. Non costringermi alla tua compagnia, Maurikos, a meno che tu non voglia un pugno sul naso.”

I passi s’allontanarono e così anche i due condottieri, segnata la loro uscita dallo snervato sbattere della porta del greco-albanese e il secco schiocco della serratura, come se Hironimo avesse potuto fuggire, paralizzato com’era nella medesima posizione, in cui Leka Busicchio l’aveva trovato al momento della sua irruzione nella cella.

Il corpo intero vibrava dolorante, un liuto dalle corde spezzate. Il giovane Miani riuscì a malapena a rigirarsi supino, gemendo al contatto della pelle lacera contro la pastosità del terreno, accecato da un pugno all’occhio che manco si ricordava d’aver incassato e da un buio atroce, dentro cui ticchettavano gocce d’umidità condensata e altri rumori sconnessi, lontani e al contempo vicini. Non trasse alcun conforto in essi, suoni alle sue orecchie di morte annunciata e non di consolazione per essere sopravvissuto ad un altro giorno.

In quelle tenebre Hironimo si sentiva schiacciare dalla forzosa stasi, dal desiderio mancato di riscatto; nella solitudine i suoi fallimenti si moltiplicavano e soffocavano qualsiasi suo pregio. A onor del vero, non ne trovava alcuno, di pregio. In che modo si sarebbe presentato a Padre?

Plick. Plock. Plick. Plock.

Sulle grandi finestre batteva feroce la pioggia, la precoce notte illuminata dall’improvviso lampo cui faceva eco il suo sposo, il possente tuono che scuoteva impercettibilmente il vetro, aiutato dalla bellicosa bora. Incominciava il Dì dei Morti, la fiammella accesa in mezzo al tavolo e lì accanto un bicchiere d’acqua e qualche fetta di pane acciocché le anime, vagando per la terra, potessero ristorarsi e proseguire il cammino fino all’alba.

“Sen Piero aveva una suocera [1], la quale in vita era stata tanto avara e cattiva, che quando morì, ahimè, precipitò dritta giù all’inferno”, narrava Madre seduta accanto al caminetto, i suoi figlioli simil pulcini che l’attorniavano, ascoltandola attenti e sgranocchiando le deliziose Fave dei Morti ai pinoli e le caldarroste. “Sen Piero se ne dolse moltissimo e pregò Nostro Signore di risparmiarle quegli atroci tormenti, pensando e ripensando ad una buon’azione da parte di sua suocera, che avrebbe potuto riscattarla. La vecchia però in tutta la sua vita non ne aveva compiuta alcuna, vivendo per i fatti suoi e senza aiutare nessuno. Quand’ecco, che Sen Piero si ricordò di una foglia di radicchio che sua suocera aveva donato ad un orfanello mendicante. Nostro Signore allora gli disse: “Benissimo: che un mio angelo cali quella foglia di radicchio all’inferno, acciocché lei vi s’aggrappi e venga issata su, nel mio Regno.” L’angelo eseguì l’ordine e la vecchia quando vide quella foglia di radicchio si commosse e prontamente l’afferrò, mentre l’angelo la tirava su per trasportarla in Paradiso. Le altre anime, però, se ne accorsero e prontamente ghermirono le gambe della donna, nella speranza d’essere anche loro salvati da quel pozzo infinito di gelide fiamme. “Portaci con te! Aiutaci, sorella!”, la supplicavano in lacrime. Accortasi di quegli intrusi, la vecchia invece incominciò a dimenarsi e a scalciare: “Via da me!”, gridava. “Questa foglia di radicchio m’appartiene! Sono io quella che Nostro Signore vuole liberare dall’inferno, non voi, anime dannate! Via da me!” Ed ecco che la foglia si spezzò e la donna ricadde nella voragine, da dove non risalì mai più.”

“Non capisco”, aggrottò la fronte Carlino, esibendo un’espressione assai scettica: “Nei Vangeli la suocera di Sen Piero invece s’era messa a preparare il pranzo a Jesus e gli Apostoli, dopo esser stata guarita. Non m’è sembrata proprio una tal carogna da meritare addirittura l’inferno!”

“E che ne sai, Carlino? Forse avrà cucinato da schifo!”

“Non sei divertente, Marchetto!”

Madre non si scompose, semmai ridacchiò indulgente dinanzi alla preparazione di quel suo figliolo, che divorava più libri che pane. “Lo so, Carlino, ma non è questo il punto del mio racconto.”

“E qual è?”

“Esatto, qual è? Luchin …?”

“An … perché … perché la suocera non è stata generosa con le altre anime? La foglia di radicchio rappresentava quell’unico atto di carità, che, in mancanza di altri a rinforzarlo, s’è spezzato per via del suo egoismo!”

“Più che altro non ha avuto pietà delle altre anime, pur trovandosi tutti insieme nella medesima situazione!”, disse invece Carlino. “Pur peccatrice, s’è considerata superiore e privilegiata rispetto a loro. E arrogante, perché diceva di conoscere cosa volesse o non volesse Nostro Signore. Non aveva capito che l’aveva messa alla prova!”

Madre annuì, sorridente. “E tu Momolin? Cos’hai imparato dalla storia?”

Il bambino s’ingobbì imbarazzato, non trovando nulla d’intelligente d’aggiungere alle osservazioni dei fratelli. “Non lo so …”, bofonchiò, “Luchin e Carlino hanno già detto tutto …”

“Sì, ma tu personalmente cos’hai capito del racconto?”, lo incoraggiò Madre, ponendosi il piccino sulle ginocchia.

Momolo piegò ingiù la bocca, il cuore che gli batteva in petto dall’ansia e le gote vermiglie dalla vergogna per la sua tardezza di spirito. “Ecco … ecco io … io penso che … che a Nostro Signore basti una foglia di radicchio per salvare una persona, perché anche la più cattiva-cattiva possiede la sua foglia di radicchio … però dopo bisogna continuare ad essere buoni-buoni e non è facile … ”, s’impappinò, giocherellando nervoso coi laccetti del suo farsetto, arrossendo dinanzi ai risolini sfottitori del fratelli. “Ma a Nostro Signore basta quella piccola foglia di radicchio ...”

Plick. Plock.

“Na fòja de radécio …”, mormorò tremante Hironimo, due gemelle lacrime che gli scendevano lungo le tempie. “Basta ‘na fòja de radécio …”

All’improvviso urlò a pieni polmoni tutta la sua angoscia, quel grido represso da quindici anni che non era mai riuscito ad esprimere, quell’invocazione d’aiuto cui aveva disperatamente anelato e che per troppi anni aveva taciuto, imprigionato dalle catene dell’orgoglio e della rabbia e che ora lo serravano fameliche, strangolandolo e ritorcendosi malvagie contro di lui.

Di scatto Hironimo si morse i polsi, ignaro se per aprirsi le vene o per soffocare quei sconquassanti singhiozzi.

 

***

 

La gola gli bruciava a tal punto, che il soldato giudicò aver inghiottito per ore della ruvida sabbia, la lingua impastata di saliva secca. Un improvviso conato di vomito lo soffocò, portandolo a girarsi sul fianco e a liberarsi dell’acida bile sul primo catino disponibile. Ansimando, l’uomo s’abbandonò esausto sul materasso, guaendo all’artigliante dolore sulla spalla.

“Stai fermo, deficiente! Ti si riapre la ferita ed io non te la ricucio di certo!”

Il soldato aprì gli occhi, sobbalzando non appena riconobbe quella voce assai scocciata. Vide dinanzi a sé, chino su di lui tipo l’Oscuro Mietitore, Fra’ Anselmo che gli stava risistemando le bende.

Si rilassò. Un incubo o forse un’allucinazione frutto del delirio della febbre. “Sono ancora all’Abbazia”, si consolò, socchiudendo le palpebre e lasciandosi cullare dal torpore degli oppiacei e della convalescenza.

Uno schiaffo al braccio lo riportò bruscamente alla realtà, costringendolo a guardarsi meglio attorno ed in effetti l’uomo non riconobbe l’ambiente a lui famigliare dell’infermeria, bensì un ampio salone più spartano e colmo di letti per la maggior parte ancora vuoti.

“Vorresti, stronzo!”, gli apparvero i suoi fratelli Giorgio e Teodoro Madalo, le braccia incrociate al petto. Le guance di Giorgio avevano assunto un colorito porporino dallo sforzo di non ridere, mentre Teodoro lo fissava accigliato quanto la loro madre, quando s’apprestava a percuoterlo cogli zoccoli.  “Altro che Abbazia, ti trovi a Treviso!”, scosse il capo Teodoro, chiedendosi perché Dio lo punisse tramite un fratello così scemo.

“La pallottola t’ha colpito alla spalla, ma come si suol dire, l’erba cattiva non muore mai”, scherzò Giorgio, beccandosi uno scappellotto dietro la nuca da parte del maggiore, che seguitò severo:

“Ringrazia Theos che ci trovavamo lì, sennò chi ti rancurava dai canneti, mezzo affogato?”

Zilio Madalo, redivivo e novello Mosè, proprio non sapeva cosa rispondere, avendo fermamente giudicata finita la partita una volta cascato in acqua. Nondimeno, il suo cuore si scaldò al pensiero che i suoi fratelli, malgrado gli schieramenti opposti, si fossero premurati di salvarlo, al posto di lasciarlo crepare per conto suo o d’elargirgli il colpo di grazia.

“Cosa ne sarà di me?”, s’informò, ringraziandoli cogli occhi e i due stradioti compresero e accettarono quella sua esitazione a proferirlo ad alta voce, sedendosi invece ai bordi del letto, sul viso un’espressione più conciliante.

“Sei prigioniero della Signoria”, gli delucidò conciso Teodoro. “Il capitano Paleologo ha interceduto presso il Provveditore, acciocché tu rimanga qui all’ospedale fintanto che sarai convalescente. Il che significa …”

… che Zilio era legato al letto, impossibilitato a fuggire e sorvegliato a vista dai due cavalleggeri e, in loro assenza, d’un soldato.

“Dopodiché, ti trasferiranno alle stinche.”

“Se vuoi un consiglio spassionato, ti conviene cantare prima che lo facciano!”

“Non sono una spia! Non spiffererò niente!”, s’impuntò testardo Zilio, subito rimesso al suo posto da una sberla da parte di Teodoro.

“Ti spacco il muso, se non lo fai! Ingrato! Il capitano Paleologo poteva consegnarti al Provveditore e lasciare che t’interrogasse o ti torturasse così com’eri, invece t’ha fatto curare. E’ così che ripaghi la sua cortesia nei confronti della tua indegna carcassa? Vergogna! Pensavo che Pateras e Miteras t’avessero inculcato un po’ di creanza!”

Fra’ Anselmo scosse il capo, ridacchiando tuttavia a quel giocondo quadretto famigliare. Riacquistò la sobrietà di spirito invece alla vista di Thomà, seduto per terra contro il muro, le mani sulle ginocchia e un’espressione vuota sul visetto sporco e rigato di lacrime.

Quel terremoto di bambino, così ciarliero e indocile, dal loro arrivo a Treviso non aveva proferito alcuna parola, la mente rimasta dentro il bosco del Montello, assieme al suo padrone. Il fanciullo s’era sistemato in quel cantuccio dell’ospedale e lì se n’era stato per tutto il tempo, ignorando perfino la chiamata al refettorio per il desinare.

Thomà scoppiò improvvisamente a piangere, quando madona Maria Malipiero Gradenigo lo raggiunse, chiedendogli gentilmente di seguirla per lavarlo e spulciarlo dai pidocchi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Ebbene sì: La Palice aveva la garzona (o fidanzatina) modenese! XD D’altronde, la moglie era in Francia e l’uomo si sentiva un po’ solo …

Riprenderemo il punto di vista di Fra’ Anselmo e Thomà nei prossimi capitoli, per adesso tiriamo un sospiro di sollievo che almeno loro si sono salvati. Il Nostro, invece, ha toccato letteralmente il fondo del barile. O forse no? In ogni modo, c’attendono ancora un paio di giorni di pura depressione. Per questo, terrò vicino il barattolo di cioccolato fondente spalmabile, non si sa mai nella vita.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! E sul serio, fatemi sapere la vostra opinione riguardo l’annuncio.

Alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 [1] Questo racconto popolare si presenta in diverse varianti, a seconda del paese. Ne “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij, è una cipolla quella che usa l’angelo e la protagonista è una qualsiasi donna anziana; nella versione veneziana invece si parla di una foglia di radicchio e la vecchia è addirittura la suocera di San Pietro (chissà perché, poi); in altri parti d’Italia, pur conservando la suocera come protagonista, l’angelo invece intreccia una corda fatta di bucce di patate.

Sinceramente non so quanto sia vecchia questa novellina, però per la storia mi pareva assai adatta.  

 

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Capitolo 27
*** Capitolo Venticinquesimo: Confiteor ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato l’11.10.2021

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Capitolo Venticinquesimo

Confiteor

(Non dire falsa testimonianza)

 

 

 

 

 

“In nome della Santissima ed Indivisibile Trinità, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; della gloriosa Maria, santa vergine Madre di Dio; di San Marco, Apostolo ed Evangelista, e dell’intera trionfante corte celeste.

“Sia messo agli atti che il rispettabile missier Dimitri Spandolin di Costantinopoli, cavaliere e tributario del Signor Turco in Costantinopoli e mercante in Venezia, qui solennemente promette di dare la sua figlia legittima madonna Helena in moglie al magnifico missier Marco Miani, figlio legittimo del quondam magnifico missier Anzolo Miani, fu senatore dell’illustrissimo Consiglio dei Pregadi: il qui presente e sopramenzionato missier Marco Miani altrettanto solennemente promette di prendere la sopracitata madonna Helena Spandolin come sua legittima sposa e moglie, come comandato da Dio e dalla Santa Madre Chiesa. Le due parti si sono così accordate: che il missier Dimitri Spandolin per lui fisserà a nome di sua figlia la dote di ducati 5.000 suddivisi nella seguente maniera …”

Hironimo inarcò discreto il collo all’indietro, annoiato a morte dalle stentoree parole del notaio, il quale leggeva senza alcun’allegria il contratto nuziale tra suo fratello Marco ed Helena Spandolin, la misteriosa greca che gli aveva rubato il cuore.

Terminata la Pasqua e i suoi festeggiamenti, i Miani e gli Spandolin s’erano accordati d’incontrarsi al palazzo di quest’ultimi e lì firmare il contratto nuziale, ponendo fine alle trattative, ossia una guerra di logoramento su chi cedeva per primo, se il cavalier Dimitri o il ventiduenne patrizio veneziano. E appunto quest’ultimo dettaglio aveva incuriosito l’intera famiglia di Marco, quando questi aveva di punto in bianco annunciato la sua ferma intenzione d’ammogliarsi: non si capiva in quale modo avesse potuto conoscere la fanciulla costantinopolitana, fornendo pertanto a tutte le sue parenti un eccellente argomento su cui ragionare per interi pomeriggi fino all’essicazione della lingua. A tal riguardo, infatti, Marco era rimasto assai vago, nonostante le insistenti domande di Madre e di Lucha; li aveva piuttosto rassicurati della nobiltà e morigeratezza del casato romeo degli Spandounes e in particolare della giovane Helena. Molto probabilmente – li scriveva Carlo le sue supposizioni da Lonato sul Garda - il loro fratello aveva conosciuto il cavalier Dimitri per vie traverse, o tramite i Da Ponte, avendo sier Antonio q. sier Zuanne sposato una figlia di questi, Regina Spandolin; oppure tramite il protogero, il capo del consiglio degli anziani della comunità greca a Venezia.

In ogni modo, quando Marco si ficcava in testa un obiettivo, sarebbe stato più facile convincere un cane affamato a mollare una bistecca; sicché ottenuto il consenso di Madre e di Lucha, egli aveva dato il via alle trattative col cavaliere greco, senza mediatore e però ugualmente in presenza di terzi, temendo le rispettive famiglie che i due si scannassero a vicenda ante raggiungere un accordo.

Allo Spandolin non piaceva Marco e a Marco lo Spandolin piaceva ancor di meno; tuttavia al ventiduenne patrizio la bella Helena garbava moltissimo, la voleva e l’avrebbe ottenuta, a costo di straziare i nervi del padre, il quale da bravo levantino si credeva furbo e maestro nelle negoziazioni. Peccato ch’egli non avesse calcolato l’ancestrale testa dura miana ed Hironimo aveva giurato udirlo un giorno borbottare a suo figlio Giorgio, uscendo dalla sua casa da statio: Non ho più saliva in gola, parlare con quello là è come pretendere di spaccare un muro di pietre con la testa.

Osservando stanco il pigro scorrere dell’acqua del rio sottostante, Hironimo, tamburellando le dita sulla cornice della finestra, si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, trovando più gusto nello studio dei suoi futuri congiunti, che nell’ascolto dell’inventario della dote della futura cognata.

Al tavolo di noce Dimitri Spandolin sedeva diametralmente opposto a Madre, Lucha e Marco, assieme al figlio Giorgio e a qualche altro parente. Vestivano tutti alla greca, secondo i canoni del loro status nobiliare: similmente agli Albanesi, anche loro usavano barba e mustacchi e indossavano un cappello morbido, di color nero per distinguerli dai mercanti, che ne sfoggiavano al contrario uno celeste. Portavano di sotto e di sopra vesti alla lunga e di panni fini, sempre neri giacché abiti da giorno, e su di essi si stagliava una lunga fila di spessi bottoni, dalla cintura al collo. Le vesti si presentavano non molto larghe da basso e strette ai fianchi, cinti da una rete di seta torta di diversissimi colori, tranne il bianco e il giallo; le maniche di sopra fino al gomito invece erano alquanto larghe.

Considerando l’abito nero dei greci; l’abito nero vedovile di Madre e le toghe nere dei suoi fratelli, Hironimo col suo zipone blu turchese (uno zipone che gli pareva più una gavardina dei tempi dei suoi maggiori, tanto gli stava corto e stretto) balzava all’occhio peggio d’un intruso, in quel gruppo che più che ad un contratto nuziale pareva presenziare alla lettura d’un testamento.

E come il morto anche Helena, dei cui beni si ragionava, mancava fisicamente, ben custodita dal gineceo nell’angolo più remoto della casa.

Quante storie, pensava annoiato il giovane Miani, suo fratello era giunto lì per firmare il contratto e domani ci sarebbe stato il parentà, che male c’era se Helena presenziava? Mica la ingravidava con lo sguardo!

“… e così le due parti sopracitate firmino il qui presente contratto, e noi preghiamo Missier Gesù Cristo acciocché vivano felici, in prosperità e gioia, concedendoli di bearsi della vista dei loro discendenti fino alla terza e quarta generazione, fino alla beatitudine eterna del Paradiso. Amen.”

“Amen!”, risposero in coro gli scocciati presenti, i coccigi distrutti dagli scomodissimi sgabelli pieghevoli. D’ugual avviso si trovava il notaio, che bruscamente solerte girò il foglio al cavaliere greco assieme al calamaio.   

Io, Dimitri Spandolin q. Teodoro, mi dichiaro soddisfatto di quanto concordato e scritto”, lesse ad alta voce l’uomo, intingendo la penna e firmando.

Riottenuta la carta, il notaio la cedette adesso a Marco. “Io, Marco Miani q. Anzolo, mi dichiaro soddisfatto di quanto concordato e scritto”, ripeté la medesima azione il giovane patrizio e il notaio, firmato anch’egli, vi appose i dovuti sigilli siglando il patto nuziale che rendeva Marco ed Helena formalmente novizzi. Il cavalier Dimitri terminò la procedura ordinando al suo famiglio di cedere ai due servitori di Marco il cassone contenente un quarto della dote della sua fidanzata.

Infine, liberati da quella prima incombenza, le due famiglie s’avviarono chiacchierando a Piazza San Marco, ragionando sulle varie date da fissare per lo sponsalicio. Si convenne attorno alla metà d’aprile, così da non cozzare il matrimonio di Marco con quello della sua cugina germana Maria Morexini, programmato per l’anno seguente. Il gruppetto entrò nel cortile di Palazzo Ducale, seguito da una piccola folla di amici e altri parenti da ambedue le parti, lì riunitisi su invito per ascoltare il proclama del banditore, elevando da privato a fatto pubblico il fidanzamento tra il magnifico messer Marco Miani e la magnifica domina Helena Spandolin da Costantinopoli. Tutti applaudirono e si rallegrarono con lo sposo.

“Ci vedremo domani per il parentà, dunque. Per quanto riguarda le visite a casa mia, ci organizzeremo in settimana”, concluse il cavalier Dimitri, tendendo la mano all’ormai quasi-genero, il quale non replicò nulla, limitandosi a reclinare il capo e ad accettare il gesto di congedo. I due se le strinsero neanche desiderassero spaccarsi le rispettive dita.

Forse -  meditava Hironimo osservando l’intera scenetta -  forse si trattava la loro di una naturale antipatia tra suocero e genero, un po’ come lo fu tra gli zii e Padre, sebbene il ragazzo ugualmente non si capacitasse di tanto immotivato astio, visto che ambedue le parti avevano ottenuto ciò che desideravano, il greco un marito veneziano per la figlia e suo fratello una moglie per formare una nuova famiglia. Intimamente il giovane Miani se la rise nel constatare, quanto il cavaliere greco si nascondesse dietro la morigeratezza per tenere i due fidanzati il più separati possibile, almeno fino al dì delle nozze religiose. Ormai a Venezia vigeva l’uso di consumare il matrimonio già dopo aver dato la man, senza aspettare di dar l’anello, evento che poteva avvenire qualche settimana se non addirittura mesi dopo la firma del contratto. Marco si sarebbe rosolato nel lardo dell’impazienza, altroché. 

Similmente al fratello, sebbene per motivi più casti, il ragazzo fremeva adesso dalla voglia di presentarsi alla sua futura cognata, dopo averla conosciuta per mesi solo attraverso le parole di Marco e i litigi col padre di lei, così da scoprire il motivo dietro la testardaggine del maggiore a volerla sposare a tutti i costi.

 

***

 

Il parentà a casa degli Spandolin si svolse in maniera assai semplice e intima, complici i costumi diversi tra le due famiglie. Solitamente, la novizza entrava nella sala di rappresentanza accennando ad un qualche passo di danza, condotta per mano dal suo maestro. Tuttavia, non possedendo Helena né un istruttore né delle sorelle o parenti monache da visitare al termine della cerimonia, ella non poté soddisfare appieno il tradizionale rituale, mancando quindi d’esibirsi vistosamente sia in casa sia in gondola, in trasto, durante il tragitto verso il monastero.

Non che ne avesse bisogno, lei stessa era già uno spettacolo: appena la greca s’affacciò all’uscio della porta, Hironimo immediatamente non riuscì a non notare la vistosissima ed esotica acconciatura della diciottenne fanciulla. Essa era fatta a mo’ di scatola di legni sottili e leggeri, coperta di una teletta d’oro e decorata di scintillanti pietre preziose, la cui sommità terminava a guisa di corona. Dietro scendeva su di un lato soltanto un velo di seta vergato, il resto stretto da un cerchio d’oro massiccio tutto ingioiellato, il quale cadeva dietro le spalle con alcune folte trecce di capelli scuri, una per tempia vicino alle orecchie, incorniciando un viso vago e leggiadro. Il collo morbido e il petto li aveva ornati di collane di perle (tra cui quella della novizza offertale da Madre come dono di fidanzamento) di spille cariche di pietre fini e di catene d’oro, senza un particolare ordine o tema. Le sottili mani Helena le teneva incrociate sopra la sottana di raso dal busto alto, sopra la quale ne portava altre, di ormesino bianco, lunghe e aperte a mezza gamba, cinta da un vivacissimo velo di seta.

Al giovane Miani quell’abito lineare e accollato ricordava quello della Basilissa Irene nella Pala d’Oro così come il medesimo sguardo d’Helena, indecifrabile e compito, quasi severo. Tuttavia, a cerimonia terminata e una volta presentati ufficialmente, dopo l’inchino di circostanza Hironimo catturò l’incuriosito sguardo della ragazza su di lui, la quale lo studiava con altrettanta intensità. Pizzicata, la novizza celò gli occhi dietro le lunghe e seriche ciglia, reclinando appena il capo e lasciando che un verecondo rossore le tingesse le gote. L’esempio perfetto d’un contrito bambino sgridato per una sua marachella, se il diciottenne patrizio non avesse catturato la fuggevole ombra di un civettuolo ricciolo di sorriso sulle labbra carnose della greca.

Gli risultò immediatamente simpatica, accantonando ogni malumore portatosi seco.

Helena emulava in fatto di curiosità il suo antenato Odisseo, tempestando a tavola durante il rinfresco i suoi futuri parenti d’ogni sorta di domanda su Venezia e i suoi costumi, città che conosceva poco, avendo vissuto per lo più a Costantinopoli, nel quartiere greco di Pera; eppure, sosteneva, per magnifico incanto le sembrava di continuare a vivere nel Levante, tanto simili le apparivano l’architettura, il cibo, lo stile di vita.

“Trovo davvero bizzarro quest’uso”, dichiarò ad un certo punto Helena, portando le dita all’altezza del collo e del petto, “che se da una parte le fanciulle nubili debbano andare in giro a viso coperto, dall’altra le scollature siano così generose” e il modo in cui proferì con tale genuino stupore quel suo dubbio, provocò dei divertiti e magnanimi risolini tra le donne, mentre gli uomini si guardavano imbarazzati, incapaci di spiegare l’arcano senza scivolare nel triviale.

La novizza aveva infatti notato per lo più il vestito en donzelon di Maria Morexini, il cui busto assai corto a malapena le copriva buona parte del petto e lasciava nude le morbide spalle. Dal busto fregiato intorno da una lista di tela d’oro e perle fuoriuscivano gli intricati merletti della camicia, neanche volessero ulteriormente incorniciare, risaltandola, la femminile bellezza di quella pelle alabastrina e liscia, invitando l’occhio maschile a guardare e a soffrire.

“Oh bella!”, esclamò Maria, lisciandosi ilare il rocchetto di seta bianca, crespa e trasparente, “Perché andiamo in giro così?” e disegnò nell’aria la curva superiore dei suoi seni, “personalmente, lo ignoro. Però potete chiedere un’opinione a vostro fratello: sicuramente avrà una risposta assai più esauriente della mia!”

Giorgio Spandolin arrossì violentemente, colto in flagrante contemplazione; le sue sorelle Regina e Chiara sghignazzarono forte dinanzi al suo imbarazzo, fino a farsi venire le lacrime agli occhi, ma più di tutte se la rideva Helena, coprendosi vezzosa la bocca con la mano, lo sguardo puntato su Marco quasi a studiarne le reazioni.

“Vedete?”, riprese maliziosetta la giovane Morexini. “Cosicché i nostri uomini pensino soltanto a noi e non a qualche altra italica foresta!”

“Foresta?”, aggrottò Helena la fronte, confusa. “Non comprendo, che significa?” Fino a quel momento la giovane aveva dialogato in un basico veneziano, lentamente, scandendo bene le parole e probabilmente già s’era preparata in precedenza cosa dire. Adesso che deviava dal copione, si trovava in maggior difficoltà e le sue lacune nella lingua rischiavano palesemente d’emerge.

Xeno”, la soccorse sottovoce Hironimo, prima che ci s’accorgesse di come la greca non avesse capito la battuta e si coprisse di ridicolo. Dinanzi al cenno affermativo della sua futura cognata, egli proseguì a voce alta: “Le nostre nobil done, giustamente, non vogliono che corriamo dietro ad altre italiane, straniere” ed enfatizzò che le straniere erano queste gentildonne e non quelle greche, specie se provenienti o dallo Stato da Mar o comunque residenti a Venezia.

“Sono … sono molte belle, le altre donne d’Italia?”, chiese accorta Helena, ansiosa di riparare a quel suo piccolo scivolone. Aveva preso a torcersi le dita, nervosa, d’un tratto temendo di aver dato una pessima impressione di sé.

Hironimo avrebbe voluto porle una mano sopra la sua e rassicurarla, comprendendo la sua agitazione: per maritare le loro figlie a stranieri, i patrizi veneziani non si ponevano grandi problemi; al contrario, ammogliare i propri rampolli a straniere, quello sì che si rivelava un affare complesso e le potenziali candidate dovevano dimostrarsi impeccabili, di virtù ineccepibile, integrate ai valori locali. La pressione di dimostrarsi all’altezza delle aspettative doveva pesare moltissimo sulle spalle di Helena, rendendola particolarmente inquieta dinanzi al più minuscolo errore. Se voleva aspirare, similmente a sua sorella Regina, ad entrare nell’élite, lei doveva rasentare pressoché la perfezione, nessuno sbaglio concesso. E se s’impappinava davanti ai parenti, quale impressione avrebbe dato al Doge e all’intero patriziato, il dì della sua presentazione ufficiale?

“Le altre nobildonne italiane non sono di nostro gusto”, anticipò Marco la risposta di suo fratello minore, “perché noi già possediamo le più incantevoli”, dichiarò sincero, sorridendo allusivamente alla sposa, la quale abbassò vezzosa il capo, rilassandosi e ringraziandolo del complimento. Ciononostante, Hironimo ben s’accorse della sua espressione soddisfatta e pragmatica, simile a quella di un magister, che riceve la risposta esatta da un allievo.

“Riguardo all’abito nuziale”, deviò domina Irene Spandolin la conversazione, acciocché la figlia pigliasse un attimo di tregua. “Pensavo, se non v’incomoda, che al posto della ghirlanda la nostra Helena potrebbe indossare un berrettino di panno d’oro, secondo la nostra tradizione … Questo ovviamente per la cerimonia privata …”

Le spalle della ragazza s’abbassarono, mentre questa cacciava fuori un grosso sospiro, sfinita. Allora Marco, approfittando della distrazione delle genitrici, sotto il tavolo le aveva accarezzato furtivamente il dorso della mano a mo’ di conforto. Gesto che non passò inosservato al guardingo Dimitri Spandolin, che però preferì mangiare e tacere.

“Hieronymos”, lo prese brevemente in disparte Helena a fine visita, nel frattanto che i parenti si salutavano e scambiavano mille raccomandazioni di buona salute, “volevo ringraziarvi …”

“Dammi pure del tu”, la interruppe Hironimo, “fra poco sarai mia sorella e in casa non siamo avvezzi a tante formalità, non tra noi coetanei almeno.”

La greca piegò il capo in consenso, incoraggiata. “Sta bene. Volevo ringraziarti del tuo aiuto. Sarebbe stato assai riprovevole da parte mia, imbarazzare il mio novizzo con la mia torpidezza di spirito”, gli confidò e dietro l’abito pomposo e ricco, Hironimo scorse una diciottenne spaventata e smarrita, costretta in una situazione completamente nuova e senza alcun punto di riferimento.

“Non t’angustiare: la mia germana possiede un senso dell’umorismo, che spiazza anche noialtri”, la rincuorò il giovane Miani. “Hai già conosciuto il mio sior barba suo padre: ugual caratterino!”

Helena ridacchiò nervosamente. “Sì, ho notato. Il kyrie Ioannes Baptistes Morezines è stato molto cortese e gentile: s’è seduto accanto a me e ha impedito che mi si ponessero quesiti complessi.”

“An, lui è gentile e cortese verso qualsiasi bella fanciulla”, grugnì sardonico Hironimo, conoscendo la fama di cottolon di suo zio Batista Morexini. Quand’ecco che si schiaffò la mano alla bocca, conscio della gaffe appena commessa. “Ehm, volevo dire …”, ma si rilassò dinanzi al rassicurante risolino civettuolo della greca, confermando un poco certe dicerie sulla loro natura sensuale al limite dell’impudico.

All’improvviso la ragazza assunse un’espressione seria. “Siete tutti stati così buoni e pazienti nei miei confronti, mi avete fatto sentire subito la benvenuta”, gli confessò sincera e riconoscente, inumidendosi a disagio le labbra, “e anche Márkos mi guarda attraverso gli occhi del cuore, cosa però che non faranno gli altri suoi pari: mia sorella Vassilissa – Regina - mi ha raccontato quanto sia difficile essere accettata, costantemente sotto  scrutinio. Il mio sposo avrà bisogno di una moglie di cui non si possa vergognare, che non lo faccia sfigurare in società. Ammetto la mia ignoranza dei vostri costumi e la vostra lingua non la parlo abbastanza bene da poter conversare agevolmente. Figurarsi poi se debbo pure imparare il volgare italiano … Hieronymos, mi chiedevo se per cortesia tu potessi aiutarmi a migliore il mio veneziano nonché il volgare.”

“Io?”, strabuzzò gli occhi Hironimo, non capacitandosi del suo nuovo e inaspettato ruolo di magister, proprio lui ch’era stato all’unanimità eletto il somaro di famiglia, sin da quando aveva incominciato a studiare. “Sicuramente il tempo non ti mancherà per apprenderlo e Marco …”

“… sarà sempre via, per mare o per terra; in qualche città o a Palazzo Ducale. E il mio Patéras è irremovibile nella sua decisione di tenerci separati fino alle nozze religiose”, gli esplicò concisamente Helena il destino ch’attendeva la coppia, essendo i patrizi veneziani più nomadi dei tuareg del deserto. “Inoltre non voglio importunare la tua Mitéras, né dimostrarmi indegna del mio ruolo ai suoi occhi.”

“Ma tua sorella Regina? Si è ben ambientata …”

“Possiede una famiglia numerosa cui badare, non posso monopolizzarle il tempo.”

Hironimo si morse l’interno della guancia, dubbioso s’esaudire o meno quella singolare richiesta. Da una parte non vi scorgeva alcun tranello – Helena e Marco erano palesemente cotti a puntino l’una dell’altro e figurarsi se lui era così infame da compromettere l’onore di suo fratello. Dall’altra, però, il ragazzo temeva appunto d’impegolarsi in strani malintesi, in fin dei conti non era più un bambino e la sua cognata un’affascinante ed esotica creatura dell’Oriente.

“D’accordo”, cedette, poiché parente o meno a ‘na bea dona no se nega gnente. “Ma a queste condizioni”, frenò l’entusiasmo d’Helena, la quale annuì velocemente. “Primo: che anche le mie germane Anzola, Maria e Querina studino con noi. Fra poco Maria s’accaserà con sier Zuanne Querini di Stampalia e Amorgo e non l’ucciderà migliorare il suo greco; insomma, deve conoscere la lingua dei suoi feudi. Secondo: che non se ne parlerà a chicchessia”, così Helena non avrebbe sfigurato e lui non l’avrebbero sfottuto per l’essersi improvvisato magister. “Sarà il nostro segreto e se ci chiederanno che cosa facciamo, diremo che t’insegno a giocare a scacchi, o a carte o a suonare il liuto.”

“O a provare danze nuove!”, aggiunse la greca, intuendo in fretta il piano. “Così il giorno dello spon-sponsalicio potrò ballare anche io!”

“Corretto. Che ti pare?”

Il volto regolare d’Helena s’illuminò di un sorriso pieno di fossette, lo stesso ch’aveva indubbiamente innamorato Marco. “Come dite voi bene in veneziano? Pulito?”

“Bravissima! Pulito!”

Dopo il parentà era costume per qualche tempo, prima di ricevere l’anello, che le novizze fossero visitate un giorno dai parenti maschi e dagli amici del novizzo, mentre un altro dalle donne della sua futura famiglia, svagandosi assieme in giochi, musica e balli, in modo da eliminare ogni estraneità ed offrire alla sposina la possibilità di socializzare. Era il periodo perfetto per colmare le lacune di Helena.

Convincere Anzola, Maria e Querina a reggere il gioco non avrebbe richiesto grandi sforzi, specie Maria, la sua tremenda germana, la quale avrebbe semplicemente adorato l’idea di partecipare a quel piccolo intrigo, doppiamente disinvolta nel mentire senza arrossire né confondersi e quella piccola tatina della Querina obbediva ciecamente alla sorella maggiore.

Insomma, si trattava pur sempre di un’opera a fin di bene, no?

 

***

 

Purtroppo per Hironimo, quello d’aiutare sua cognata a migliorare le sue competenze linguistiche non sarebbe corrisposto all’unico loro segreto (o sfilza di menzogne a seconda dei punti di vista) bensì una lunga serie destinata a durare per anni, in un continuo accumulo fino a giungere al punto di saturazione.

Come acutamente profetizzato da Helena, per quanto Marco si sforzasse di trascorrere quanto più tempo possibile assieme alla giovane sposa, gli impegni amministrativi e politici lo tenevano spesso e volentieri lontano da casa, sicché era toccato a Madre ed Hironimo il duro compito d’aiutare la greca ad ambientarsi a Ca’ Miani. L’unica pecca di madona Leonora rimaneva la sua età non più incline agli svaghi e all’esuberanza della gioventù, limitandosi ad insegnare alla nuora come gestire le finanze domestiche e in generale la casa.

Invece, a Hironimo, Querina, Anzola e Maria era toccato colmare codesta lacuna e la futura madona Querini offriva costantemente occasioni di divertimento, tra una lezione e l’altra, con la scusa di doversi preparare al suo futuro ruolo di contessa di Stampalia e Amorgo. Il povero maestro di ballo si ritrovò un’allieva in più, nonché un gruppo di scatenati adolescenti vogliosi d’apprendere le ultime danze, in primis lo scandaloso ballo del cappello, laddove le dame, indossando un cappello maschile, aprivano le danze e sceglievano loro il cavaliere, un puro sovvertimento di ogni regola contro cui tuonavano gli anziani. E per questo alla gioventù graditissimo.

Maria, ch’amava tenere banco in ogni circostanza, aggregò al loro gruppo anche Chiara Spandolin sorella di Helena; le cugine Anzola e Magdalena ed infine i suoi fratelli più grandicelli, Nicolò, Carlo, Piero e Hironimo. In letizia assoluta trascorrevano le ore, accoccolati i giovanissimi patrizi ai piedi delle loro dame, cantando e suonando frottole e madrigali al liuto – la musica la loro vita.  Recitavano poesie o leggevano romanzi ad alta voce, improvvisavano commediole pastorali o si cimentavano in lunghe partite di scacchi o a carte. Un dì Maria aveva proposto un antico gioco di corte francese, “Le jeu du Roi qui ne ment pas”, laddove il Re o la Regina ponevano domande d’amore agli altri partecipanti. Soltanto il Re non mentiva, mentre gli altri forse che sì e forse che no ed era lì la sfida, di capire chi simulasse e chi affermasse il vero. Anche Helena nel suo piccolo contribuiva, suonando antiche e nuove canzoni romee della corte dei Basileus, le sottili dita agili sulle corde del suo bouzouki mentre la sua calda voce orientale rievocava gli amori di Atzemiko, le avventure di Ioanne e dei serpenti, il cinguettio sensuale ed erotico del bellissimo Usignolo. Piero Morexini, che come il fratellastro Andrea tra tutti eccelleva nel greco vernacolare, l'accompagnava nel canto, creando piacevoli duetti.

In tal locus amoenus avevano trascorso questi giovani una tra le più belle primavere ed estati, lontano dal cinismo e squallore del mondo reale, relegato alla porta. Sier Batista li osservava di sguincio quando attraversava il loggiato che dava sul giardino, soddisfatto di trovare figli e nipoti in sì lieti spiriti. Avrebbero avuto tempo -  ripeteva alla sua scettica consorte madona Morexina, che non approvava tanta frivolezza -  di rinchiudersi in casa a recitare Paternostri o Avemarie o ad ascoltare frati predicatori e monache veggenti e ogni riferimento all’effettivo passatempo di sua moglie e delle sue cognate madona Ysabeta Morexini Corner e madona Marina Morexini Vituri era puramente casuale. 

Intanto, tanta allegria continuava poi a Ca’ Miani, la quale dopo anni di silenziosa austera castità e morigeratezza s’era riempita dei tipici cinguettii notturni degli innamorati, al punto che ormai tra i fratelli giravano già delle goliardiche scommesse, a quando il grande annuncio. Invece, ne arrivò un altro che rattristò non poco Helena, che aveva appena-appena incominciato ad ambientarsi a Venezia: suo marito Marco era stato eletto podestà di Marostica ed era suo dovere pertanto seguirlo. Fu dura per lei accomiatarsi dai suoi nuovi parenti, in particolare da Maria, temendo infatti di non trovarla più una volta terminato il mandato del consorte, giacché sposatasi e trasferitasi nel frattempo a Stampalia. La giovane greca si consolò tuttavia della compagnia di Hironimo, il quale le aveva promesso di passarla a trovare quanto più possibile e della sorellina Chiara, che la loro madre voleva acquisisse in tutto e per tutti usi e costumi veneziani.

Il 18 agosto 1503, dunque, Marco Miani prestò giuramento come podestà; lo accompagnarono a Marostica il garante sier Hironimo Soranzo, il cancelliere sier Pasqualin di la Croxe da Mestre e il commilitone Synibaldo Brucalido. Nel corteo d’entrata e alla Messa al Duomo assistettero anche Madre, Hironimo e Lucha, venuti apposta per assistere all’insediamento del fratello e per restargli accanto per le prime settimane, giusto per aiutare la coppia ad ambientarsi.

Marostica, nell’agro vicentino, si presentava come una città fortemente murata, costituita da ventun torri e quattro porte: la Vicentina a sud, la Bassanese ad est, la Breganzina a ovest e la Pe’ dil Monte a nord.  In cima al colle Pausolino, sulla pianta di un’antica fortezza romana, sorgeva il Castello Superiore, a base quadrata con quattro torresini ai lati ed una grande torre centrale, voluto nel 1312 dagli Scaligeri di Verona assieme al Castello Da Basso, che si trovava invece a valle. Quest’ultimo, di pianta rettangolare, era costruito a ridosso di un imponente mastio. Di fronte al Castello da Basso si trovava la Rocca di Mezzo, anch’essa affacciata sulla Piazza Maggiore, dove al centro sorgeva una grande fontana costruita sotto le podestarie di sier Andrea da Molin e sier Piero Baxadona e dove il martedì e il venerdì si svolgeva il mercato. La Signoria aveva dato un grande impulso all’edificazione religiosa della città, costruendo la chiesa di San Marco e la Scoletta del Santissimo Sacramento di fronte alla chiesa di Sant’Antonio Abate e la chiesa di San Gottardo nel Borgo; restaurò e ampliò il Duomo e dulcis in fundo, commissionò anche la costruzione del convento di San Sebastiano a est della Pieve di Santa Maria. Sullo sfondo di Marostica, s’ergevano le prealpi vicentine, da Lavarone fino al territorio dei Sette Comuni, montagne che portavano a Trento o nei domini veneziani di Folgaria e Rovereto attraverso le Piccole Dolomiti. Territorio dunque di confine, perennemente sotto la pressione dell’Impero, specie dopo il passaggio dal Ducato di Milano alla Serenissima Repubblica nel 1404.

A Marco l’idea dunque di recarsi in una città così “a rischio” era stranamente piaciuta (tutto suo padre, aveva commentato scherzosamente Madre, mentre Helena aveva ridacchiato nervosa), sia perché amava le sfide sia perché intimamente sperava di distinguersi, come Padre quando gli Austriaci avevano minacciato spavaldi il Feltrino per poi ritornarsene a casa propria con la coda tra le gambe. Il ventiduenne podestà aveva quindi fatto il suo ingresso fiducioso e ottimista, suscitando la sua aria determinata grande ammirazione, così come la sua giovane e bella sposa levantina.

Per Hironimo, Marostica corrispose ad un colpo di fulmine, dapprincipio per l’entusiasmante esperienza di soggiornare in cima al monte nel Castello Superiore, laddove alloggiava appunto il podestà, nonché di esplorare assieme ad Eòo il colle Pausolino sia dentro che fuori le mura e gli altri colli circostanti, lasciando a Lucha l’onore d’istruire Marco sul suo ruolo e le aspettative ad esso connesse. Il ventottenne patrizio aveva ricoperto quattro anni addietro il medesimo incarico e nella medesima città, sicché si era premurato di condividere le sue conoscenze col minore su Marostica, sul suo territorio, la sua economia, l’apparato difensivo, le sue famiglie più in vista e in generale sulla popolazione e le sue necessità. Hironimo, dal canto suo, preferiva trascorrere il tempo con le due cognate, insegnandole a cavalcare e organizzando facili gite fuoriporta su delle docili mule. Lontane dal severo giogo paterno, le due greche si divertivano assaissimo, in particolare Chiara che coraggiosamente osò chiedere, un pomeriggio, di montare a cavallo, dimostrandosi un’amazzone piuttosto discreta.

Settembre sostituì troppo in fretta agosto e il giorno del rientro a Venezia si presentò tanto triste, quanto l’uggiosa giornata di pioggerellina. Helena aveva gli occhi velati di qualche lacrima ribelle, sorridendo forzatamente alla suocera e ai cognati. Il suo viso da qualche giorno appariva pallido e tirato  e la ragazza si teneva a stento in piedi, preoccupando Madre la quale si raccomandò mille volte con Marco, acciocché vegliasse sulla sposa. Personalmente, Hironimo non comprendeva il nesso tra i seri consigli di madona Leonora e la faccia da ebete del fratello, non avendolo mai a sua memoria visto così felice, ogni occasione buona per baciare e cingere per i fianchi la sua sposa, la mano posta per merto o per caso sul ventre. 

Luchin”, aveva egli un giorno avvicinato esitante il maggiore dei Miani, “volevo il tuo permesso, se non t’incomoda, di poter nomare mio figlio come il nostro sior Pare. Poiché sei tu il primogenito, non volevo te ne avessi a male, sentendoti defraudato di questo tuo diritto”. Al che Lucha gli aveva battuto una mano sulla schiena, rassicurando il fratello che il suo consenso glielo dava più che volentieri: Dio solo sapeva quando si sarebbe ammogliato e poi, mica quella era una regola fissa, bastava pensare allo zio Batista, che pur ultimo dei maschi di sier Carlo “da Lisbona”, aveva conferito ai figli il nome paterno, dell’avo paterno e materno, secondo la tradizione. Marco l’aveva allora abbracciato, commosso.

“Perché quel discorso, Luchin?”, cedette Hironimo alla tentazione di chiedere al fratello durante la cena. Si erano fermati a pernottare nella loro casa a Treviso, avendo Madre un poco sofferto il viaggio. “Marchetto parlava come se Helena fosse già incinta.”

Lucha proruppe in una fragorosa risata, affogando per poco il naso nella zuppa. “Te xé svejo chome un indormensà! Helena è già incinta, da un bel po’ anche! Forse addirittura prima di partire per Marostega!”

L’ultimogenito di Ca’ Miani tartagliò qualcosa, sconvolto da tale rivelazione, più che altro per la realizzazione d’aver suggerito ad una donna gravida di cavalcare, azzardo rischiosissimo per lei e la creaturina nel suo ventre. Stupido, come aveva potuto non cogliere i segni? Affanni, nausee, capogiri, appetito gagliardo … Ciononostante, onde evitare l’ennesimo sermone, il diciassettenne tacque, incassando il colpo e concentrandosi sulla sua zuppa alle trippe.  

Madona Leonora non tardò a divulgare la notizia della prossima nascita del suo primo nipote di sangue: spedì la Zanetta e l’Ufemia a chiamare a raccolta amiche e parenti e costoro risposero entusiaste all’appello, imbastendo un vero e proprio Maggior Consiglio muliebre, tra una fetta e l’altra di focaccia dolce con melagrana. 

“Mi sembra quasi surreale ritornare a pronunciare in famiglia il nome Anzolo, dopo tutti questi anni”, confidò madona Crestina alla sua matrigna, mentre porgeva all’undicenne figlia Dionora una fetta di dolce. “Spero l’affare non vi ponga a disagio, siora Mare”, aggiunse sottovoce, timorosa dei brutti ricordi associati a quel nome, quasi vi pendesse sopra una maledizione.

La nobildonna scosse il capo. “E’ giusto così, Tina”, asserì serena, la sua bocca increspatasi in un birbante sorrisetto. “E poi, tra di noi, avevamo i nostri nomi …” e le due donne ridacchiarono complici, ben familiari ai quei segretucci tra marito e moglie.

“E’ un peccato che mia sorella partorisca a Marostica”, asserì madona Regina Spandolin da Ponte. “Abbiamo già avuto una vita così raminga: un poco di stabilità le avrebbe giovato. È sempre stata una ragazza molto sensibile e domestica.”

“Vi recherete a Marostega per il parto, madona Irene?”, domandò Pellegrina Muazzo Miani alla madre di Helena e Regina.

La matrona greca negò, le labbra increspate in una smorfia delusa. “Purtroppo no, ahimè, mio marito deve rimpatriare a Costantinopoli per affari, ovviamente, ed io debbo appunto seguirlo. Tuttavia, Georgios e Vassilissa sono qui a Venetia e la mia Clara a Marostica con sua sorella, pertanto mi dichiaro tranquilla: Eleni non rimarrà sola in questa prova.”

“Forse dovremmo visitare i cugini Marco ed Helena per il battesimo: adoro le feste di presentazione degli infanti, specie se primogeniti maschi! Sicuramente parteciperanno tutte le famiglie nobili locali e ci saranno danze e banchetti, chissà che in quanto podestà Marco non organizzi una giostra!”, propose sognante Maria, immediatamente rampognata da sua madre.

“Contegno, figlia mia! Proprio in quel mese ti mariterai in sier Zuanne Querini! Trovi morale disertare il tuo consorte appena terminate le nozze?”

“E chi l’abbandona? Naturale che verrà con me! Scommetto che gli piacerà visitare la città, le sue mura, i suoi palazzi, chiese e conventi. Perché Marostega è molto bella, nevvero Momolo?”

L’interpellato in questione, seduto in un angolo accanto al seienne nipote Gasparo a leggiucchiare un libro sulla varietà di uccelli rapaci utilizzati nella falconeria, levò confuso lo sguardo verso la cugina. Ultimamente, avevano notato i suoi parenti, da qualche settimana Hironimo se ne stava per conto suo e in inusuale silenzio, indossando i guanti anche in casa, sebbene fossero solo ai primi di ottobre. Il ragazzo s’era giustificato che il suo ruzzolone giù per le scale l’aveva non poco scosso, portandolo a cercare per qualche tempo svaghi più tranquilli. “Scusami?”, sbatté le ciglia, non avendo seguito il filo del discorso.

“Marostega”, ripeté vezzosa Maria. “Dev’essere un posto molto interessante, no? Tu ci sei stato quasi due volte, puoi confermare!”

“Mi piacciono molto i suoi boschi ed i colli. Un vero peccato che abbiamo perso la stagione venatoria.”

“Sì, ma i palazzi? Il Duomo? I conventi? Ho sentito dire che sono davvero notevoli …”, insistette la cugina.

Hironimo scrollò le spalle. “Sono soltanto degli edifici: freddi, immutabili e morti. La natura invece m’affascina appunto perché è caduca, viva e imprevedibile. In una chiesa è come essere vivi in un sepolcro di marmo; in un bosco si è vivi in un mondo vivo.”

Le donne lì presenti si sciolsero in tintinnanti risatine. “Ignoravo questo tuo spirito alla Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue creature”, scosse Maria giocosamente il capo. “Dovresti insegnare agli  stessi Francescani!”

“Le tue risposte sono troppo pepate per una donna, zermana”, la rimbeccò Hironimo, ritornando offeso al suo manuale.

“E per un uomo, possiedi un animo più dolce del latte, zermano”, non si scompose la Morexini, semmai traendo gusto da quel battibecco.

“Forse dovreste recarvi voi stessa a Marostega”, cangiò discorso madona Alba Donado Contarini, rivolgendosi all’amica madona Leonora. “In fin dei conti, siete la matrona di Ca’ Miani ed Helena necessiterà di una figura di riferimento e con esperienza, al di là della comare levaressa.”

“Non vorrei esser di troppo, né sostituirmi a …”, nicchiò la patrizia, scrutando di sottecchi la consuocera.

“Perdiana, non dite assurdità!”, ribatté vivacemente madona Alba, “è vostra nuora, vivete sotto lo stesso tetto; per lei, voi siete una seconda madre. O sbaglio, madona Irene?”

“No, no, affermate il vero. Anzi, despina Lionora, mi fareste un grandissimo favore assistendo la mia Eleni!”

“In tal caso, scriverò a mio figlio Marco che lo raggiungerò assieme ad Hironimo (e forse anche a Carlo) per Natale.” Quand’ecco che l’espressione dell’anziana patrizia s’incupì. “Prego solo la Madonna che tutto vada bene: Helena ha molto sofferto durante i primi mesi, non vorrei le capitasse qualche complicazione al momento del parto …” Non aveva avuto il coraggio di confessare a nessuno quella sua intima pena, lo svantaggio di non possedere in casa sufficienti presenze femminili su cui discutere di certi argomenti.

Crestina strinse incoraggiante la mano della matrigna. “Varé là, siora Mare! Che dite? Helena è giovane, forte … Guardate sua sorella Regina: s’è sgravata tranquillamente, senza alcuna traccia di febbre e anzi, dopo quattro giorni aveva già il viso latte e rosa. Volete che per Helena sia diverso?”

Madona Leonora non rispose, stringendo le labbra in una linea dura: adesso Crestina minimizzava, però anche lei a suo tempo aveva sofferto moltissimo alla sua prima gravidanza, portandola a redigere il suo testamento.

Il nuovo membro della famiglia Miani decise di venire al mondo il 6 marzo 1504 ed era stato un bene che Hironimo avesse già ricevuto il suo battesimo di fuoco, ché le urla infernali di Helena da dietro la porta di camera sua neanche si potevano paragonare a quelle della sua sorellastra Crestina, né della zia Morexina, né di Maria Foscarini Miani moglie del biscugino Zuan Francesco: nessuna delle donne aveva emesso suoni così tremendi, quasi avessero sottoposto sua cognata al peggiore dei supplizi, aprendola e squarciandola a metà senza un attimo di respiro.

Per ovvie ragioni tecniche anatomiche, il primo figlio corrispondeva ognora ad una grande sfida per la primipara, variando i tempi di nascita dalle dieci ore ad una giornata intera. Compito pertanto delle donne era quello di tranquillizzare la futura madre e ai parenti maschi il futuro padre, in un’equa partizione dell’ansia.

Costretti dunque a pazientare nella sala di rappresentanza, Carlo ed Hironimo tenevano bloccato in uno stretto e compatto cerchio il povero Marco, che ad ogni grido scattava in piedi dalla sua sedia, smanioso di soccorrere la moglie.

“Sentate e stà bon!”, gli poneva una mano sulla spalla suo fratello maggiore, costringendolo seduto. “E smettila d’agitarti: se ci muori al primo, che ci fai al secondo? Ascendi in Cielo direttamente dalla tomba? Guarda i nostri siori zii, fanno tutte queste storie quando le loro mogli partoriscono?! Li hai mai visti strapparsi i capelli e piangere peggio d’un puteo?”, sbuffò snervato. Dopodiché, accertatosi che Marco si fosse un poco tranquillizzato: “Capisco la tua ansietà, però credimi che quel che stai provando adesso, l’hanno provato anche i nostri parenti e come vedi sono ancora tutti in piedi, sulle loro gambe!”, lo consolò Carlo, pigliando un bicchiere d’acquavite e costringendo Marco a berlo in un sol sorso. “Presto sarai padre di un bellissimo fantolino e ti getterai queste ore alle spalle, ridendotela alla grossa!”

“Beh, insomma, quasi tutti l’hanno sperimentato, parla per gli ammogliati”, lo corresse Hironimo, zittito immediatamente da un’occhiataccia ammonitrice da parte di Carlo.

Muovendo esagitato la gamba, Marco balbettò terrorizzato: “E allora … allora per-perché ci … ci sta mettendo così … così tanto? È … ormai è quasi sera … se lei … se il bambino …”, e onde impedirgli d’esprimersi in altri incoerenti e tristi presagi, gli si versò solerti del liquore. “Mio figlio sarebbe già dovuto nascere un paio o più d’ore fa!”, guaì disperato, storcendo la bocca dal bicchiere portogli, rifiutandolo schifato.

“Bevi e tasi!”, non dimostrò Carlo alcuna pietà, intanto che Hironimo teneva fermo lo spiritato. “Hai voluto divertirti con la mojer, ecco le conseguenze. La sofferenza che stai provando è niente paragonata alla sua! Ergo, sii uomo e rispetta il suo sforzo comportandoti da tale!”

“Amen!”

“Momolo, ancor na parolla e te dago ‘no stramuson, che te spalmo sul muro!”

“Marchetto, il primo putelo crea sempre qualche ritardo!”, s’inginocchiò infine Carlo davanti al fratello, quando l’acquavite fallì il suo scopo d’intontirne l’ansia. Il ventisettenne patrizio optò allora di consolare il minore tramite spiegazione razionale e scientifica, condividendo in questo modo anche le conoscenze acquisite dalle numerose letture da lui intraprese, onde ammazzare la noia. “Per questo, secondo me, corrisponde ad una gran cavolata il non permettere alle donne di partorire accovacciate, come ad esempio quando urinano. Infatti, stando a dei recenti studi a Padoa, pare che il canale uterino si dilati, aprendosi, più di un quarto rispetto alla posizione supina e …”

“Carlino!”, lo rimbeccò Hironimo leggermente imbarazzato.

“Che?!”

“Zò!”

Roteando snervato gli occhi, Carlo s’alzò in piedi, borbottando rancoroso sul bigotto atteggiamento da farisei dei suoi parenti: un corpo era un corpo, che problemi c’era a discuterne a riguardo, specie se poteva portare ad un avanzamento del sapere medico? Bah, ridicoli!

“Se si salva, non giacerò mai più con mia moglie!”, ruppe Marco in un pianto assai alticcio, nascondendo il volto tra le mani.

“Hé-oh, zò che drammi!”, esclamarono all’unisono i suoi fratelli, mulinando scettici le mani in aria. Adesso il ventitreenne patrizio parlava così; dategli un anno o due ed ecco che ci si sarebbe ridati appuntamento in sala d’attesa per il secondo figlio.  

Neanche a farlo apposta, la matriarca di Ca’ Miani usciva proprio in quel momento, seguita dagli acuti vagiti del neonato, i quali rallegrarono assaissimo i presenti, duramente provati da quella lunga e sfibrante attesa e anzi, Carlo dovette aiutare Marco ad alzarsi in piedi, le gambe di questi molli quanto la ricotta. Inspirando a lungo e dominando il fascio di nervi qual era divenuto il suo corpo, madona Leonora abbozzò ad un tremulo sorriso, annunciando solenne: “Mascolo! Mascolo! Mascolo!”

Poiché suo fratello ancora non pareva aver recepito il messaggio, rimanendosene là imbambolato a bocca aperta, Hironimo ordinò a Menego di correre in cantina a pigliare del Recioto della Valpolicella per un giro di brindisi. “Al piccolo Anzolo di Marco Miani: salute, denaro e tempo per goderseli entrambi!”, augurò al neogenitore, mentre i servi riempivano i bicchieri di passito rosso scuro. “Zò, qualchedun daga ‘no s-ciafon a sto puto dil mio fradelo: mare de diana, sembra ch’abbia partorito lui!”, scherzò e in effetti, un impensierito Carlo aveva incominciato ad elargire lievi buffetti sulle gote di suo fratello, non reagendo questi ancora da uomo vivo.

“Oh, ma che bellino! Tutto rosso arrabbiato!”

“Bone Jesu, che polmoni!”

“A chi dici assomiglia?”

“Quando strilla così: a te, Momolo!”

“Mo’ via, non fai ridere!”

Tutto il Castello Superiore di Marostica festeggiò in grande allegria il lieto evento, tra ciambelline e marzimino. Eppure, scendendo in cucina per pagare la comare levaressa, Hironimo giurò d’averla sentita commentare ad una preoccupata Orsolina: “A me gera parso, chea creatura no la volesse nasser.”

“Dasseno? Cussì mal xela ‘ndà?”

La levatrice tracannò il suo vino in un ultimo grosso sorso. “A sarave mejo, chea patrona non la fasesse fioi per un bel po’ …”, le rivelò brutalmente onesta il suo parere.

E il significato di quella conversazione, Hironimo lo comprese appieno l’anno seguente. Vuoi la fresca passione tra novelli coniugi, vuoi la sventatezza della gioventù, Helena neanche il tempo di ritornare a Venezia che aveva concepito di nuovo e anche in quell’occasione il parto si protrasse per lunghissime ore, alternando urla inumane a momenti d’angoscioso silenzio. Ciò impensierì oltre alla famiglia anche l’esperta levatrice, la quale aveva appurato quanto il nascituro fosse parecchio pigro e insensibile agli stimoli delle contrazioni.

“Non nasce! Non nasce!”, singhiozzava la greca, stringendo convulsamente la mano della suocera madona Leonora e di sua sorella madona Regina, le quali le sussurravamo dolci parole di conforto, mentre sua cognata madona Crestina le tamponava la fronde madida di sudore e pallidissima e sua sorella Chiara, assistendo terrorizzata in un angolo, aveva incominciato a recitare un misto di preghiere in latino e greche, cattoliche e ortodosse.

“Zerto che sta creatura ea nasse!”, non s’arrendeva la comare levaressa, testarda. “A xé ‘na meampa (torda,ndr.), che la gh’ha da ser costreta! Spinzé, patrona, spinzé!”

Helena s’inarcò in avanti, digrignando i denti e ruggendo ingolata, per poi cadere sfinita sulle lenzuola sfatte.

Fu allora che madona Leonora decise d’uscire inaspettatamente dalla stanza della partoriente, bianca peggio d’un cencio e serissima in volto, seguita da un’altrettanto grave Eudokia, sua silente ombra. Raggiunse a passo deciso gli uomini di casa, radunatisi in attesa nella sala di rappresentanza, ma stavolta la patrizia levò in alto il palmo della mano in diniego, frenando la sfilza di domande postale dai presenti e segno che no, non veniva a portare la tanto sospirata notizia. “Momolo, una parola”, chiamò invece il figlio. “No, Titta”, bloccò il suo fratellastro, “restate pure accanto a mio figlio vostro nipote.”

La nobildonna condusse il ragazzo giù in cucina, con la scusa di ordinare alle fantesche di scaldare dell’acqua da portare alla levatrice. Con mani tremanti si servì d’un bicchiere di vino, sospirando affranta. “Voglio che corri a casa del medico chirurgo Yonah bar Shemu'el e che, con discrezione, lo conduci in camera d’Helena. Eudokia” e indicò la sua personale fantesca, la quale reggeva un fagotto, “t’accompagnerà, acciocché egli si travesta da donna. Siamo nella settimana della Sensa: nessuno sospetterà niente.”

Il significato tra le righe di quell’ordine schiacciò d’angustia il cuore d’Hironimo, realizzando e accettando controvoglia lo scenario, che fino a quel momento s’era rifiutato di considerare, sdrammatizzandolo attraverso le solite battute ed incoraggiamenti ai danni del futuro padre, mentre in sala aspettavano l’annuncio ufficiale della nascita.

“In altre circostanze”, riprese determinata madona Leonora, “non avrei permesso ad un uomo di … d’immischiarsi in tali faccende, per quanto qualificato e competente. Tuttavia, adesso la questione si riassume nella scelta del male minore, se violare per qualche ora la modestia di mia nuora o …”, e il labbro inferiore dell’anziana patrizia tremò, “… o se lasciare che domani mio figlio seppellisca moglie e piccino.”

“Il patron Marco non soffrirà per ciò che non conosce”, sentenziò pragmatica Eudokia, insistendo sull’importanza di quella missione. “Meglio sorbirsi il broncio di madona Helena che il suo funerale.”

“Momolo?”

Hironimo alzò la testa, rendendosi conto solo in quel momento d’aver tenuto lo sguardo abbassato, fissando trasognato il pavimento, incredulo dinanzi a quell’inaspettato e drammatico giro d’eventi. Ripensava a quando aveva incontrato la greca per la prima volta; ai lieti pomeriggi a casa delle cugine; ai suoi sorrisi, alle lezioni, ai piccoli concerti … soprattutto il ragazzo rivedeva la luce di pura felicità negli occhi di Marco il dì delle loro nozze, alla notizia della gravidanza, quando aveva tenuto tra le braccia il neonato Anzolo  …

“Se salverà la vita ad Helena, non dirò niente”, promise il diciannovenne Miani.

Indossato il mantello, Hironimo scivolò via furtivamente assieme ad Eudokia e altrettanto circospetti rincasarono col medico chirurgo giudeo, comicamente ingoffato dalle vesti femminili e la barba nascosta dallo spesso velo bianco, fermato da una spilla.

“Perché non mi avete chiamato prima?”, fu la domanda retorica di Yonah bar Shemu'el, mentre srotolava dalla borsa di cuoio i suoi arnesi, scuotendo il capo dinanzi alla condizione deplorevole in cui versava la partoriente. Si lavò le mani più volte, sfregando bene tra le dita. “Lavati di nuovo le mani e poi passa questa lama sulla fiamma viva”, istruì la comare levaressa, eletta a sua assistente e tramite, aggiungendo poi sottovoce: “Adesso io ti dirò cosa fare e tu esegui alla lettera, se vuoi che questa poveraccia arrivi viva a domani.”

La levatrice annuì velocemente, lanciando una rapida occhiata a madona Leonora, la quale piegò il capo in assenso. Aveva previamente congedato la figliastra, madona Regina e Chiara, invitandole a raggiungere gli uomini con la scusa ch’erano in troppe in quella stanza, rubando aria preziosa ad Helena. Quanto a lei, sarebbe rimasta fino alla fine con sua nuora, qualsiasi fosse stato l’esito.

Un’ora dopo l’arrivo del medico chirurgo, madona Leonora usciva per la seconda volta. “Femena! Femena! Femena!” e con lo sguardo sfidò tutti i presenti a non gioire di meno per via del sesso della neonata, specie dopo aver sottratto la puerpera alla morte per il rotto della cuffia. Il suo fratellastro sier Batista e suo genero sier Thomà furono tra i primi a complimentarsi, dimostrando quanto aver figlie non corrispondesse in fondo ad una tragedia.

Hironimo, dal canto suo, aveva preferito raggiungere sua madre, insospettito dall’espressione affatto rilassata rispetto al resto della famiglia. “Mare, come sta Helena?”

La patrizia lo afferrò per il braccio, appoggiandosi quasi di peso sul suo ultimogenito.  “Lo sapremo al mattino”, mormorò sfinita.

Al dì della presentazione ufficiale dell’infante Crestina, detta Ina, madona Helena dovette ricorrere all’antico trucco di pizzicarsi le gote, onde renderle belle vermiglie e segno d’eccellente salute. Sua suocera e le sue sorelle Regina e Chiara l’avevano agghindata a guisa di bambolina nella speranza di celare il suo aspetto pressoché cadaverico, rispondendo al posto suo alla maggior parte delle domande e felicitazioni. Ciononostante, malgrado i bisbigli e le previsioni pessimistiche, la puerpera sopravvisse e, seppur a fatica, riacquistò gradualmente le forze. Il battesimo tuttavia venne ugualmente celebrato in casa.

“Sono davvero grata che la levatrice abbia risolto … per un attimo ho creduto sul serio di rendere l’anima …”, confessò la ragazza un giorno ad Hironimo, il quale le faceva compagnia, intanto che Marco aiutava la moglie a mangiare la minestra d’uovo.

“Avrebbe potuto sbrigarsi anche prima”, bofonchiò invece rancoroso il marito, pulendole l’angolo della bocca. “In quante erano dentro, tra levatrice ed assistenti? Tre? Quattro?”

“Quattro”, rispose la greca e prima che Marco potesse commentare a riguardo, Hironimo la corresse dolcemente:

“Tre, Helena, me l’ha confermato la mia siora Mare, tua madona. Si trattava sempre della medesima assistente, solo che era scesa in cucina per prendere dell’altra acqua calda”, mentì celere, forte del previo stato mentale della cognata, la quale infatti cedette docile al suo ragionamento, ammettendo il suo errore frutto di una memoria confusa.

Dopodiché, Hironimo inventò una scusa banale per sottrarsi alla domanda già in procinto d’uscire dalla bocca di suo fratello, deviando scaltramente il discorso su altri argomenti.

Trascorsero gli anni, laddove morte e vita s’alternavano.

Maria Morexini aveva puntualmente sposato sier Zuanne Querini di Stampalia e Amorgo, rifiutandosi però di seguirlo nell’isola greca, adducendo come scusa la sua celere gravidanza e sier Batista si beò del suo nipote Francesco Querini, bello, grasso e in salute perfetta. Peccato che quando arrivò il giorno di salpare da Venezia, ecco che la patrizia era rimasta nuovamente gravida della piccola Crestina (perché era nata lo stesso anno della biscugina Miani) e subito dopo ancora di Fantin, sicché si rimandò ironicamente alle calende greche. In realtà, Maria posticipava strategicamente la partenza, poiché aveva capito che, una volta attraccato a Stampalia, ogni sua autorità sarebbe svanita, costretta a sottostare a quella della suocera Juliana Malipiero Querini. E poiché la Morexini possedeva la medesima personalità focosa, altera e imperiosa degli uomini della sua gens, o finiva per gettare la Malipiero giù da uno scoglio o si auto-esiliava ad Amorgo, prospettiva che non l’entusiasmava per niente. Di conseguenza, sfruttando le persuasive arti seduttive femminili, aveva convinto il consorte a restare a Venezia, a crearsi nella capitale utili amicizie e una reputazione invece di languire semi-dimenticato in uno scoglio del Dodecaneso in mezzo all’Egeo. Il suo trionfo corrispose alla promessa di sier Zuanne di trasformare i due edifici distinti affacciati sul rio di Santa Maria Formosa in un unico vero e proprio palazzo gentilizio.

Sua madre madona Morexina, nello stesso anno di nascita delle due Crestine, dava alla luce il suo ultimo figlio, nomato anch’egli Francesco e sier Batista, considerata l’età decisamente avanzata della moglie, giurò solennemente d’osservare una rigorosa astinenza (dal talamo nuziale). Sier Hironimo Morexini “da Lisbona” era lo stesso anno morto, resuscitato e morto ancora, sua cognata Ysabeta Erizo arrestata e poi rilasciata e la sua inconsolabile moglie madona Laura s’era prontamente risposata, donando subito un figlio a sier Ferigo Renier, Zuanne. Un altro Francesco Morexini nacque da sier Thadio cognato di sier Batista e da sua moglie Contarina Contarini Morexini, biscugina d’Hironimo. Regina Spandolin da Ponte ebbe l’ennesimo figlio e si celebrarono molte nozze, tra cui quella di Lugrezia Corner in sier Jacomo Contarini di sier Piero.

Sier Andrea Miani q. sier Vidal morì pure lui nel 1505, alla veneranda età di centoun anni e ben si poteva vantare di averle viste davvero tutte nelle vita. Le sue ultime parole furono che un poco gli era dispiaciuto indugiare così a lungo in questa valle di lacrime, avendo seppellito pressoché trequarti della sua famiglia originaria, nonché assistere alle tremende vicende che spesso assillavano la Signoria, rischiando più volte di precipitarla nel baratro. Se n’era morto contento, nel suo letto, ben satollo dell’ultimo pasto, confessato, comunicato e unto degli oli santi; circondato da parenti di cui manco si ricordava il nome e assistito dall’instancabile sua nipote Maddaluzza, ch’aveva visto nascere, crescere e invecchiare zitella.

Quanto ai fratelli d’Hironimo, ormai erano lanciatissimi nella vita pubblica e non li si vedeva quasi mai in casa: Lucha era partito castellano a Brisighella, Carlo castellano alla Garzetta di Brescia, mentre Marco si preparava al prossimo incarico.

Soltanto l’ultimogenito Miani era rimasto tra coloro ch’erano sospesi, indeciso su cosa fare della propria esistenza, menato di qua e di là dai flutti, senza meta, mentre attorno a lui ciascuno danzava o con sorella Morte o con sorella Vita, a seconda del voler di Missier Domeneddio.

Chi condivideva tal perplessità sul suo destino era sua cognata Helena. Dopo Anzolo e Crestina non era stata benedetta da alcun altro pargolo, malgrado le palesi prove dell’impegno suo e di Marco di regalare ai due un terzo fratellino.

Col passare del tempo, la greca aveva incominciato a manifestare segni d’afflitta irrequietezza, la medesima che Hironimo le aveva scorto al loro primo incontro. Invano la spronava a confidarsi, come una volta, offrendole il suo supporto: sua cognata scuoteva il capo, cacciando via le perenni lacrime che le velavano gli occhi. Al funerale della povera madona Pellegrina Muazzo Miani, morta di parto nel dare alla luce il suo secondogenito Vidal, Helena aveva singhiozzato più forte del vedovo sier Alvixe e quando quest’ultimo morì poco dopo a Rimini, dove si trovava in qualità di capitano delle navi della Riviera della Marca, ella avvertì un pesante malore e svenne nella cappella funeraria dei Miani a Santo Stefano, nell’esatto momento in cui collocarono la bara di sier Alvixe nella sua arca accanto a quella della moglie, sigillandola. Maddaluzza Miani l’aveva incoraggiata, rasserenandola sulla sorte dei due orfanelli, rimasti orbati anche dello zio Piero Grioni, annegato in mare, credendo che la greca si tormentasse per loro: non v’angustiate, mi prenderò cura io del puttino e della puttina! Non li farò mancar nulla, sarò per loro padre e madre!, aveva dichiarato davanti all’intero parentado, nell’intimo contenta d’avere finalmente quei figli negatigli dal mancato matrimonio.  

A tali parole Helena annaspò, reggendosi il ventre si piegò in due e pianse più forte.

In ugual maniera si dannava Marco, non comprendendo quell’improvvisa malinconia: sua moglie non rideva più, giungendo talora ad un inquietante mutismo, lo sguardo perennemente abbassato da cane bastonato; nulla la interessava, perdendo gusto di ogni svago, abbandonando perfino le visite a madona Maria e alle altre cugine Morexini. Neppure il breve periodo trascorso ad Asola le aveva giovato e appena rientrati a Venezia, lei s’era prontamente murata viva in casa. Indossando unicamente i  larghi e comodi abiti della sua terra natale, Helena se ne rimaneva in camera sua senza vedere e parlare a chicchessia, tranne alle sorelle Regina e Chiara e ad Hironimo, l’unico sul cui petto Zanzi ed Ina si calmavano, suggendo serafici il pollice e l’altra manina artigliata o ad una ciocca dei suoi capelli o allo scollo della camicia. Crescendo i due bambini avevano cessato di succhiarsi la falange, però non di richiedere la presenza del loro barba, al momento di coricarsi a letto o per giocare. 

Inutilmente tentava il ragazzo d’ammansire Marco, scopertosi geloso di quella palese predilezione dei figli – specie il maschio -  nei confronti dello zio. “Di recente sei sempre nervoso, agitato, collerico: Zanzi  e Ina lo percepiscono e di conseguenza si spaventano”, gli spiegò paziente una sera, quando il maggiore l’aveva scorto tenersi in braccio la dormiente nipotina, mentre conduceva a manina Anzolo da Helena, acciocché li mettesse a nanna. “Zanzi ed Ina ti vogliono bene, devi solo controllare il tuo umore.”

“An, così saresti un esperto di bambini adesso”, replicò aspro Marco, la fronte aggrottata e le mani poste bellicosamente ai fianchi. “Che sei? Una femmina travestita?”, lo dileggiò e un rictus nervoso attraversò l’occhio sinistro d’un alterato Hironimo.

“Ma va’ en mona de toa suocera!”, sputò egli irritato, girando sui tacchi, sennonché suo fratello l’agguantò per un braccio, costringendolo a voltarsi e a guardarlo dritto in faccia.

“Se tanto ti preme allevare fantolini”, sibilò furioso, “fanne di tuoi, non andare in giro a rubare quelli degli altri!”

Hironimo spalancò la bocca, strabuzzò gli occhi, imporporandosi sdegnato, le mani che gli prudevano dalla voglia di scarnificare a ceffoni le guance di Marco. “Padre è chi cresce il puto, non chi lo genera! E non mi fare il geloso: tu manco la volevi la femmina! Ché non mi sono accorto della tua espressione delusa?”, gli rinfacciò astioso, scrollandosi via di dosso la presa del maggiore e dirigendosi di filato in camera sua dove pigliò il suo mantello, tallonato spietatamente dal fratello. “In tutta onestà, Marchetto, quanto tempi trascorri coi tuoi figli?”, l’accusò, scendendo a due a due le scale. “Eri lì ad aiutarlo, quando Zanzi ha imparato a camminare? O quando ha incominciato a parlare? Gli insegnerai l’abc oppure accamperai l’ennesima scusa per delegare l’onore a tua mojer? Ed Ina? Manco t’accorgi ch’esiste!”

“Scusa? Quale scusa? Sangue di Cristo, mentre tu ti trovavi qui a Veniexia a poltrire e a sgavazzare, io guadagnavo il pane per voialtri come vice-castellano ad Asola, credi che stia fuori casa a menarmela?!”, ringhiò scocciato Marco, braccato infine il minore al portego del pianoterra.

“Guarda che Mare ed io v’abbiamo tenuto i fantolini, perché tu non volevi che Helena li portasse seco! Sul serio possiedi la memoria corta dell’ingrato, zò!”, gli ricordò pedante Hironimo, sistemandosi la gorra in testa e uscendo dal portone d’ingresso che dava sulla strada: avrebbe camminato al primo imbarcadero e lì salito su di una gondola o sandolo, troppa la sua impazienza per aspettare i porci comodi del loro pope de casada.

“Non li ho voluti, perché mi sembrava ovvio quanto fossero troppo piccini e delicati per compiere un tal viaggio! E comunque, signorino, non rigirare la frittata, cambiando discorso: crescere i bambini piccoli è il compito della siora mare, non del sior pare. Quindi fatti un tegamino di cazzi tuoi e non t’immischiare!”

Hironimo si fermò in mezzo al ponte, i pugni serrati convulsamente. Avrebbe voluto urlare tante cose a quel tordo e cieco di suo fratello, avrebbe voluto urlargli che se non fosse stato per il suo sostegno, Helena avrebbe finito per soccombere dinanzi al peso del suo malessere, aggravato da quello dell’educazione di Zanzi ed Ina. Non capiva che sua moglie non stava bene? Non scorgeva in lei la sofferenza, l’angoscia, la malinconia che giorno dopo giorno la stavano consumando dall’interno? Se Hironimo non riusciva a cavar di bocca alla cognata la ragione alla base di tal suo comportamento, almeno poteva sostenerla compartendo il ruolo d’educatori, offrendole un po’ di respiro. Perché non riusciva Marco a comprendere un concetto così basilare?

La verità è che per lui aiutare Helena non corrispondeva ad un gran sacrificio: adorava Zanzi ed Ina, così come aveva amato Dionora e Gasparo prima di loro. Assistere ad ogni piccolo progresso dei nipoti, vederli spuntare i dentini, ascoltare la prima lallazione, guidarli nei loro incerti passettini, sentire il loro cuoricino accompagnare il battito del suo cuore e la tiepida carezza del loro respiro solleticargli la nuca … Hironimo non capiva perché i suoi pari preferissero perdere tutto questo in nome di altre sterili occupazioni, delegando alle mogli e alle balie tali preziosi istanti, che mai più si sarebbero ripetuti. C’era tempo per l’alta carriera politica, tutta la mezz’età!

Aver figli suoi … certo, Hironimo l’aveva considerato e lo progettava anche, appena se ne fosse presentata l’occasione propizia. Sognava d’averne tanti, tantissimi, una marea …

“A cosa debbo questa tua visita improvvisa?”, la voce della sua amante lo destò dalle sue rêveries, cullato com’era dalla mollezza post-amplesso e il tocco rilassante delle dita di lei, che gli massaggiavano lo scalpo in dolci cerchi regolari, finalmente placatasi la tempesta dell’animo suo. Le era infatti piombato in casa e, fatto raro per lui solitamente così amorevole e premuroso, l’aveva baciata e posseduta con un’irruenza alla nobildonna sconosciuta, neppure preoccupandosi di spogliarla, limitandosi ad alzarle le sottane e di prenderla contro il muro. Non violento né minaccioso, bensì alla stregua d’un condannato a morte che si piglia l’ultimo piacere terreno.

Hironimo levò la guancia dall’addome di lei, sorridendole imbarazzato. “Vi ho fatto male?”, s’informò un poco ansioso, sospirando sollevato al cenno di diniego da parte di quell’altra. Riappoggiò il capo, tracciando arzigogolati arabeschi sulla pelle bianchissima della nobildonna, giocherellando coll’ombelico e strappandole qualche risolino. “Non desideravo mancarvi di rispetto poc’anzi: mi perdonate?”, si scusò, in realtà omettendo la vera domanda che lo assillava, ossia come avrebbe la sua amante reagito se un giorno Hironimo avesse perduto il controllo, se non avesse interrotto l’amplesso al momento giusto, sfilandoglielo prima di riempirla del suo seme; se avessero di conseguenza concepito un figlio. Lei gliel’avrebbe comunicato e si sarebbero sposati? Oppure gliel’avrebbe taciuto ed esposto l’infante alla ruota, se non direttamente sbarazzatasi  d’esso ingerendo della ruta? Se quest’ultimo accorgimento lei non lo stesse già prendendo …

Tanto facilmente Hironimo chiese ed ottenne il perdono della sua domina, tanto difficilmente i due fratelli si riconciliarono, due teste talmente dure da competere con le statue d’Egina, a confronto fragili balocchi in terracotta. Senza la presenza mediatrice di Lucha e di Carlo, in casa loro erano rimasti gli unici uomini e naturalmente finivano per beccarsi, incapace l’ultimogenito Miani d’accettare l’autorità di chi gli era maggiore di appena cinque anni.

Sicché, per non causare inutili questioni, il giovane uomo aveva deciso di frequentare di più i suoi amici, rimanendo il meno possibile a casa e di soffocare quella fitta al cuore, ogniqualvolta ignorava le richieste di Zanzi  ed Ina di giocare con loro. Forse Marco aveva ragione: i suoi nipoti non erano roba sua, al massimo di Madre, loro nonna paterna. Crescendo i fantolini si sarebbero dimenticati del loro speciale legame e avrebbero apprezzato di più la compagnia del loro genitore, come giusto che fosse. Scandagliando i suoi ricordi d’infanzia, Hironimo aveva ammesso che anche Padre mal sopportava quando suo figlio s’attaccava alla toga del suo barba Batista, sollevandolo via di peso e soffiando peggio di una gatta, tra le risate di Madre.

“Barba Momi …”, si sentì il ventiduenne patrizio punzecchiare all’improvviso sui fianchi, destandolo dal sonno pesante del dopo-sbornia. Maledetto Francesco Contarini e le sue divertentissime feste fino all’alba, niente e nessuno avrebbe salvato Hironimo da una lavata di capo per esser rincasato ad un orario sì indecente, puzzando peggio d’una distilleria di grappa friulana. Manco s’era accorto d’essersi disteso accanto al gatto Baffo, ch’aveva occupato il suo posto, anch’egli tornato dalle sue avventure notturne, tra cacce ai topi e combattimenti per le femmine. “Sveja! Barba Momi, su sveja, sveja …”, non cessò per un istante quel tormenta-cristiani.

“Va’ en malhorra! Lasseme star!”, grugnì il giovane, emergendo a guisa di tartaruga candiota da sotto le coperte, serrando dolorosamente gli occhi, feriti dalla vivida luce del mezzodì. Diamine, quant’aveva dormito?

“Barba Momi!”, saltellava adesso sul materasso Zanzi, imperioso, imitato da sua sorella Ina. “Vegni! Vegni! Vegni!”, ripeteva ad ogni balzo. Il gatto Baffo, fino a quel momento tranquillo e spaparanzato, balzò giù irritato, stiracchiandosi e cercando altrove un posto dove dormire indisturbato.

“Vago, vago, vago!”, replicò a tono Hironimo, accomiatandosi dal tepore del suo letto, lavandosi in fretta ed infilando di malavoglia camicia, braghe e zipone. Pigliato per mano i nipotini di rispettivamente tre e quattro anni, si lasciò condurre fino alla porta della stanza dei genitori.

“Mama xé drento”, gli indicò serissimo il fantolino.

“El Tata?”

Zanzi scrollò le spallucce. “Via”, disse, cambiando impaziente peso da una gamba all’altra. Sua sorella Ina annuì, gli occhioni grigi spalancati e apprensivi.

Perplesso da quel bizzarro teatrino, Hironimo bussò educatamente alla porta, avendola trovata infatti chiusa. “Helena?”, chiamò la cognata, alternando ai battiti. “Helena c’è qui il Zanzi e l’Ina che vorrebbero entrare, per favore, potresti aprire …?”

La voce soffocata della greca l’apostrofò snervata: “Dopo, dopo! Adesso non posso, ho da fare!”

“Giuro che non entro, se sei ancora in camicia!”, sdrammatizzò Hironimo, contento di non essere l’unico poltrone a Ca’ Miani. “Ma i tuoi petussi (pulcini, ndr.) sono qui davvero preoccupati, vero?”

“Sì!”

“Ditelo alla Mama!”

“Mama! Mama! Verzi ea … ea …”, e Ina si portò pensierosa il ditino alle labbra, scordatosi dalla concitazione il termine giusto.

“Porta”, le suggerì sottovoce lo zio.

“ … porta!”

“Dopo!”, ripeté ostinata sua madre, il tono modulato d’un timbro sospettosamente isterico. “Perché non lo capisci?!”

Il giovane patrizio aspirò l’aria, adesso genuinamente in ansia per la cognata. Sicché, appoggiate le mani sulle schiene dei nipotini, l’accompagnò tramite moine e promesse in cucina, affidandolo alle cure di Zanetta.

Se da una parte Hironimo avrebbe d’istinto sfondato a spallate la porta, dall’altra giudicò sciocco lussarsi l’arto e buttar via i soldi dal maragon, per sostituirla con una nuova. Non quando l’ognora previdente Orsolina conservava un doppione di ogni chiave di casa e di fatti l’anziana domestica ed Hironimo così entrarono, per poi gelare sul posto alla vista d’Helena seduta per terra, la gonna sollevata abbastanza da intravedere le cosce insanguinate mentre la sua fantesca Cleofe le porgeva dei panni puliti. Ambedue le donne sobbalzarono impaurite non appena s’accorsero dei nuovi arrivati, la serva ponendosi protettivamente tra loro e la padrona.

“Maria Verzene ora pro nobis”, si segnò Orsolina, subito girandosi verso un interdetto Hironimo, che al contrario non aveva capito niente, tranne che sua cognata sedeva su di una pozza di sangue. “Patron Momolo, gh’avé horra da ussir, ve ciamarò mi co’ gh’avarò finio, saveu?” e lo sbatté fuori dalla stanza senza tante cerimonie.

Una volta riammesso, Helena era stata ripulita e posta a letto, la camera arieggiata malgrado l’odore ferroso del sangue indugiasse ancora, seppur labilmente.

“La siora vuostra cugnada la gh’ha perduo ea creatura”, gli sussurrò all’orecchio Orsolina, la quale teneva in mano una scatoletta avvolta in un telo. “Co’ no la gera massa granda, no va far gran dano”, aggiunse, rassicurando il padroncino su quel punto. “Mi vago zoso en cocina, se gh’avé besogno de mi, ciamème pur.”

Hironimo annuì distrattamente. Si sedette accanto alla cognata, stringendo la mano di lei, fredda e umidiccia, tra le sue. “Come ti senti?”, inquisì cortese.

Helena abbozzò ad un sorriso stanco. “Passerà, non hai ascoltato l’Orsolina? La creatura era ancora piccina-piccina, neanche me ne sono accorta veramente, tranne quando … quando …”, si voltò dalla parte opposta, soffocando a stento un singhiozzo. “Perché Theos mi sta punendo così?”, balbettò tra le lacrime, la voce soffocata dal pianto.

Deglutendo a disagio, Hironimo si sforzò di consolarla. “Forse non era il caso che nascesse, perché … perché magari era ammalata e … e molte donne perdono i figli avanti il parto, sono … sono cose che capitano … Ma Helena!”, la consolò, scuotendole la mano. “Sei giovane, bella, in salute e  Marco ti ama moltissimo! Hai perso questo, ne avrai altri! Probabilmente la morte di Alvixe e Pellegrina ti ha scossa più del dovuto; questa casa in effetti sembra essa stessa un sepolcro tanto è divenuta cupa, silente e soffocante, non aiuta certo! Parlerò con mio fratello e gli chiederò di portarti meco a Trevixo, a cambiar aria! E quando ti sarai rimessa, vedrai che il prossimo anno organizzeremo un battesimo!”

La greca negò veementemente, tirando su col naso. “Non ci riesco …”, ammise, il viso contratto in una smorfia di pura agonia. “Dopo Christina … dopo lei … non sono più stata capace di tenerne neanche uno …” e la sua mano libera artigliò la coperta all’altezza del ventre, quasi volesse scavare e squarciare il traditore.

Suo cognato impallidì fino al cinereo. “Non era … non era il primo?”, ansimò incredulo e al contempo ogni tassello di quell’incomprensibile mosaico s’incastrò perfettamente, conferendo una perfetta logica dietro ogni comportamento della giovane donna. Ecco dunque spiegati i malumori, la magrezza, quell’aria vergognosa di chi nascondeva una grave colpa, l’eccessivo dolore ai funerali di madona Pellegrina e del marito …

“Tutti”, boccheggiò Helena, il respiro irregolare e tremulo, “tutti da quando abbiamo ripreso a …”

“Marco n’è al corrente?”

Sua cognata sbarrò gli occhi, terrorizzata all’idea. “No, e non deve saperlo!”, lo supplicò, stringendogli forte la mano fino a conficcargli le unghie nella carne.

“Ma … ma …”, tentò di ribattere Hironimo, non condividendo quell’ingiusta omissione ai danni dell’ignaro fratello, il quale si tormentava in ugual misura dinanzi all’inspiegabile e improvvisa selvatichezza della moglie nei suoi confronti. Meglio che si compartisse la notizia, acciocché egli si mettesse l’animo in pace, piuttosto di lasciarlo macerare nel dubbio di ben peggiori ipotesi.

Peccato che la greca non condividesse questo suo parere. “Che se ne fa Márkos di una moglie difettosa, che non può partorirgli i figli che le mette in grembo?”, dichiarò ella angosciata, piangente. “Cosa si dirà in giro? Che avrebbe fatto meglio a prendere una del suo paese, non un’inutile straniera! Márkos mi ripudierà, non mi vorrà mai più vedere!”

“Mo’ via, non viviamo più ai tempi degli Ezzelini!”, la contraddisse Hironimo, sudando freddo dinanzi a quell’impietoso eppure realistico scenario, ché la cattiveria della gente superava di continuo ogni ardita fantasia. L’ultimo nipote di Helena, Andrea da Ponte, era nato sciancato e pertanto condannato tutta la vita a claudicare, sicché prima ancora del suo nome di battesimo aveva ricevuto il soprannome di “Zotto” e già si speculava sulla sua malformazione come palese segno di malvagità e natura diabolica, originaria forse dall’insincera abiura della fede greco-ortodossa da parte della madre levantina.[1]

“Il vostro matrimonio è più che consumato, avete avuto due figli in perfetta salute. Mio fratello non potrà mai ripudiarti, neanche se lo volesse e anche in quel caso, lo prenderemo a pugni in testa affinché rinsavisca!”, sdrammatizzò Hironimo.

“No, non capirebbe”, s’intestardì Helena, scuotendo il capo. “Vedrebbe in me soltanto un fallimento di madre. Un peso, una palla al piede. Mettendo caso” e inconsciamente si segnò all’ortodossa, privilegiando la spalla destra invece della sinistra, “Theos e la Parthena Maria non vogliano, però … però mettendo caso che Angelos non sopravviva all’infanzia? Che gli rimanga solo Christina? Come riuscirà allora mio marito ad ottenere degli eredi maschi e legittimi? Certo, se vuole dei figli ne potrà avere o di naturali o dei filii de anima, i quali tuttavia non avranno mai il diritto di sedere a Palazzo Ducale tra i loro pari! Guarda tuo cugino Andreas di tuo zio Ioannes Baptistes: ad Aleppo s’è dovuto installare, perché qui non ce n’era per lui! E così per colpa mia e di questo dannato mio ventre, Márkos si ritroverà condannato a non aver discendenza maschile e rimpiangerà di non aver ascoltato la sua gente, quando l’avvertiva: moglie e buoi dei paesi tuoi! Forse all’inizio non ci baderà, ma poi finirà per odiarmi, lo so!”, gridò, singhiozzando forte, i cancelli della sua anima finalmente aperti e permettendo al pus cancrenoso delle sue insicurezze ed intime paure di fuoriuscire, togliendosi dalle spalle quel macigno portatosi per anni addosso.

Per quanto ingiusti e strazianti, i timori di Helena non apparivano infondati: similmente alla polis d’Atene, a Venezia soltanto il figlio legittimo di due patrizi a loro volta nati legittimi poteva aspirare alle cariche politiche, Hironimo ben si sovveniva del giorno in cui Madre lo aveva accompagnato in Avogaria Comun per registrarlo alla Barbarella, confermando sotto giuramento la sua nascita all’interno di regolare matrimonio e pure portando a fideiussori i suoi padrini sier Jacopo Barbaro e sier Beneto Contarini. [2] In seno alla loro gens viveva poi l’esempio lampante e pratico di suo cugino germano Andrea Morexini, soprannominato “Vendramino” giacché nato proprio il giorno dell’incoronazione a Doge del fu sier Andrea Vendramin [3] e soprattutto quando ancora suo zio Batista risultava scapolo: la zia Morexina non aveva biasimato nessuno, accettando di buon grado il figliastro e crescendolo amorevolmente assieme ai suoi. Ciononostante tutti sapevano benissimo come Andrea sarebbe stato considerato per sempre un figlio di seconda categoria rispetto ai fratellastri legittimi, costretto a cercare altrove fortuna e a costruire da sé il proprio posto nel mondo.

In quale modo avrebbe reagito Marco alla notizia dell’incapacità d’Helena, di portare a termine qualsiasi gravidanza futura? Suo fratello avrà sì posseduto un caratteraccio, però non apparteneva alle categorie delle carogne senza scrupoli, sebbene i suoi recenti comportamenti avessero spiazzato non poco Hironimo, anche perché in fin dei conti il maggiore rimaneva comunque un ambizioso e qualora gli si fosse balenata in testa l’idea di presentare una petizione di separazione al tribunale del Patriarca, indubbiamente Marco avrebbe smosso cieli e terra per porre fine al suo matrimonio, determinato come pochi.

D’altronde, Hironimo possedeva occhi per veder e non gli era sfuggito il disappunto nel volto del fratello, seppur abilmente dissimulato, alla notizia d’esser divenuto padre d’una bambina. Al momento di sceglierle il nome, Marco aveva optato per Crestina, come sua nonna paterna e la sua sorellastra, giustificandosi che già sua nipote s’appellava Leonora e dunque non desiderava che si creasse ulteriore confusione. In realtà, scegliendo il secondo nome femminile più importante, inconsciamente aveva dimostrato quanto gli scocciasse il doversi tormentare negli anni a venire di provvedere a un decoroso futuro a quella bimba. Avevano buon gioco quegli splendidi dei suoi zii a fargli la predica: tanto, loro quattrini per le doti laiche li avevano e in abbondanza.

Cingendo la cognata per le spalle e permettendole di sfogarsi piangendo contro il suo petto, Hironimo soppesò ogni pro e contro circa l’informare suo fratello di tal tremenda novità. Possibile che la sua famiglia non potesse trovare un attimo di respiro? Perché Dio si divertiva a tormentarli così?

“Innanzitutto”, esordì, massaggiando le braccia di Helena in movimenti circolari, “Zanzi gode d’eccellente salute e sicuramente crescerà nel più bel giovinotto, che si sia mai visto a Veniexia, rendendoti nonna di una cernida di nipotini! Secondo, se anche dovesse rimanere soltanto Ina, vorrà dire che diverrà un’ereditiera e convolerà a nozze importanti, divenendo madre di un’illustre discendenza. Terzo,  non è detta l’ultima parola: forse avete ripreso a tentare troppo presto per un terzo figlio, specie dopo un parto così difficile. Magari rivolgendoti ad una qualche baba curandera, si potrebbe trovare il modo di … di riuscire a portare a termine la gravidanza.”

Helena s’asciugò le lacrime col dorso della mano, ascoltando attenta e sforzandosi di mantenere uno spirito saldo.

“Quarto”, continuò Hironimo, accarezzandole i capelli, “devi dirlo a Marco: prima o poi lo verrà a sapere e credo che soffrirà di meno, se l’apprenderà da te che da terzi.”

“Quando sarà, gliene parlerò”, convenne sibillina la greca.

Non proprio la risposta che suo cognato voleva udire, nondimeno s’accontentò, reputando prematuro ogni immediato provvedimento. In questo momento, la giovane doveva badare a recuperare le forze sia fisiche che mentali,  riappacificandosi con la sua coscienza e poi forse si sarebbe confrontata col marito.

“Orsolina! Che ne hai fatto del … della scatola?”, prese in disparte il Miani l’anziana fantesca appena sceso giù nelle cucine, sfruttando la scusa d’avvertire Nardo il cuoco come madona Helena avrebbe desinato in camera sua e di prepararle del semplice petto di piccione alle erbette, giunto a del pane bianco e niente vino. Madona ha i vermi allo stomaco, aveva giustificato la peculiare richiesta.

“La gh’ho ancor meco”, sussurrò Orsolina, guardandosi furtiva attorno. “Co’ vien note, gh’ea buto en canal.”

Hironimo aggrottò la fronte, mulinando l’indice in diniego. “No, dalla a me. Lo troverò io un posto dove seppellirla.”

“No ve molesté, patron Momolo. Nol gh’ha gnanca forma d’omo”, gli sconsigliò la domestica, pur sorridendo triste, comprendendo la motivazione dietro quel caritatevole gesto.

Testardo, il ragazzo reiterò: “Ma rimane carne umana, che merita una sepoltura da umani, non di finire cibo per seppie e calamari.” D’altronde, la creaturina era così piccola, lunga nemmeno un mignolo, un angolino nascosto nell’isola di San Michele gliel’avrebbe trovato.

Similmente a Pandora, durante il tragitto, Hironimo aveva ceduto alla curiosità e aperto con mani tremanti la scatolina, contemplando a lungo quell’esserino: neanche gli pareva un infante, bensì uno di quei girini scovati negli stagni, quando da piccolo si divertiva a catturare le rane per poi portarle a Nardo acciocché le friggesse. Così piccino, così … neppure il sesso poteva determinare, cosa sarebbe stato? Un maschietto? Una femminuccia? Uno strano pensiero sorse in mente al giovane: poteva quell’amorfa creatura considerarsi abbastanza umana, da  venirle negato il Paradiso? Se ai bimbi nati morti e senza battesimo, eppure formati, veniva negata la sepoltura in terra consacrata, era degno quel girino antropomorfo di finire sottoterra? Oppure Orsolina aveva ragione, avrebbe dovuto gettarlo in canale? In fondo la natura stessa l’aveva scartato e comunque gli animali l’avrebbero ugualmente divorato, indifferentemente se fosse stato o un pesce o un verme.

Hironimo seppellì suo nipote in un angolo nascosto del giardino dell’abbazia accanto alla Chiesa di San Michele in Isola. Non gli era risultata difficile l’ammissione, anche se apparteneva ad un altro ramo del casato Miani, ugualmente i monaci camaldolesi lo avevano accolto ben volentieri, memori del generoso lascito di madona Margarita Vituri relicta Miani, acciocché vi si costruisse una cappella a Santa Maria Annunziata in memoria del defunto marito [4]. Il ragazzo si domandava se le piante lì avrebbero tratto nutrimento da quel grasso concime, crescendo rigogliose grazie ad un corpicino troppo debole per farlo da sé. Si chiese se ritornando dopo qualche tempo e annusando i profumi dei loro fiori, egli avrebbe sentito anche quello del nipote senza volto. Dafne, Mirra, Narciso, Giacinto … anche lui aveva le sue Metamorfosi in famiglia. Hironimo terminò il lavoro staccando un fiorellino dal ramo, posandolo sul tumulo, talmente piccolo da sembrare l'entrata della tana di una talpa, semicelato dalla tomba dimenticata di Stefano “il Postumo” Arpadi, marito della sua antenata Thomasina Morexini “dalla Sbarra”, duchessa di Slavonia e madre del re Andrea III d’Ungheria detto “il Veneziano”.[5]  

Orsolina, nuova complice, venne messa al corrente dell’idea del suo padroncino, di consultare qualche baba curandera onde risolvere il problema d’Helena. La massera ci meditò sopra a lungo, per poi sentenziare che sicuramente a Venezia di tali fattucchiere ne esistevano in grand’abbondanza, tuttavia giudicava più prudente cercare fuori città, specie se Marco ancora restava all’oscuro della faccenda (e qui la donna lo guardò di traverso in disapprovazione).

La fantesca pertanto consigliò i due giovani di rivolgersi a Mamma Gaia, comare levaressa e in generale fattucchiera di qualità. La sua siora Mare – aveva rivelato ad Hironimo  - ha fatto nascere i vostri fratelli .  L’unico problema rimasto era persuadere Marco a lasciarli partire alla volta della Marca Trevigiana senza porli troppe domande pericolose; a tal proposito giunse provvidenziale l’intervento di Madre, la quale aveva esplicato al figlio la sua intenzione di visitare il santuario di Santa Maria Maggiore e lì pregare dinanzi al miracoloso affresco della Devotissima Nicopeia. Il tutto mentre madona Leonora fissava severa Hironimo, un’imbarazzata Orsolina alle sue spalle, tacita ammissione d’aver spifferato il loro piano alla padrona.

A Treviso Mamma Gaia abitava poco distante da Porta San Teonisto, in quel tratto di mura dove scorreva un canale derivato dal Sile e nomato di Cantarane. Una casetta modesta, però pulita e accogliente, dove permaneva un costante odore d’erbe. Ovviamente Hironimo se n’era dovuto rimanere fuori ad aspettare, fintanto che la comare non aveva terminato la sua visita alla cognata.

“Ci rechiamo alla Madona Granda”, gli annunciò Madre una volta uscite, “vieni anche tu?”

“No, preferisco fare un giro in Piazza”, declinò l’offerta il ragazzo, ignorando l’espressione delusa della genitrice, la quale convenne mesta, incamminandosi verso il santuario assieme alla nuora e alle rispettive fantesche.

“Patron”, lo chiamò da dietro Mamma Gaia, bloccandolo, “vistò che gh’avé spetà fora fin desso, vegné drento che ve dago un giozzeto d’acquavite calda. Xé roba bona, saveu?”, gli fece l’occhiolino la donna, invitandolo ad accomodarsi davanti ad un modesto caminetto.

Il tepore della fiamma, unito a quello della bevanda alcolica al ginepro e miele, riscaldarono ogni fibra del corpo infreddolito d’Hironimo, non avendo creduto Treviso così fredda rispetto a Venezia: l’aria stessa possedeva il medesimo retrogusto ferroso delle montagne, neanche il giovane avesse ingoiate lame. La levaressa girava i ciocchi di legno con l’attizzatoio, ravvivando di tanto in tanto la fiamma, la cui luce creava soffusi chiaroscuri, conferendole una ieraticità da sacerdotessa e magari nei tempi antichi pre-romani l’avrebbero pure considerata tale, un’ancella della dea madre, Reitia potnia theron. [6] Doveva essere sulla trentina abbondante, ciononostante il suo volto non dimostrava affatto la sua età, giovanile e indecifrabile, i capelli raccolti da uno stretto sciugatorio, gli occhi vivaci e scrutatori, la bocca vermiglia e un seno prepotente a malapena nascosto dallo zendale, talmente eretto, pieno e sodo che per un fuggevole istante Hironimo fu assai tentato di nascondervi il volto e strizzarglielo fuori dal corpetto.

Il giovane uomo deglutì a disagio, girandosi dall’altra parte e dandosi mille volte del caprone infoiato.

“M’arecordo di la vuostra nassita”, ruppe Mamma Gaia il silenzio, “la siora mia Mare la gera massa vecia par viajar a Feltre, en autuno po’! Vossioria gh’aveva ‘na tal pressa d’ussir fora, che la vuostra siora Mare no la gh’ha sentio squasi gnente, chome se vu l’amavasse zà cussì tanto, da no volerghele dar alcuna pena” e rise mostrando bene una compatta fila di robusti denti straordinariamente intatti e il patrizio s’unì a lei, seppur un pelino imbarazzato dall’argomento di quella discussione. “Vuostra sorea, inveze …”, s’incupì la levaressa, chetandosi bruscamente e sputando sul fuoco la bacca di ginepro cadutale per sbaglio nella bevanda.

Hironimo sapeva d’aver avuto dei fratelli premortigli, del cui volto non poteva sovvenirsi purtroppo neanche l’ombra di un sogno, spiriti leggeri custoditi nel cuore di Madre e di chi poteva ancora ricordarsi della loro brevissima esistenza.

“Seu stà vossioria a consejar a madona di vegnir qua?”

“Siorasì.”

Mamma Gaia si sporse in avanti verso di lui, puntandogli contro gli occhi del medesimo colore del Sile, studiando immobile e imperscrutabile i lineamenti del volto del ragazzo. “Saveu? Co’ ve vardo, a me par star davant’a do omeni, on da ben et on malguajo (malvagio, ndr.), i qualli se ciapan a crognoli (pugni, ndr.) per tuorre dominio sora vossioria.”

Hironimo posò stizzito il bicchiere sul tavolo, interrompendo quello sconclusionato monologo. “Mia cognata, piuttosto. Sei riuscita a curare il suo malanno?”, le chiese spiccio.

Mamma Gaia abbandonò la sua posa indagatrice, alzandosi dalla carega e, preso il bicchiere del patrizio, glielo riempì. “Le gh’ho consejà di bevar di la camamila, par repossar i nervi. Co’ la mare la stà serena, el bocia nasse pì fassilmente. Depì, la gh’ha d’orar la Devotissima a Santa Maria Mazor, cognomata de’ Miracoli.”

Un brutto presentimento raffreddò le viscere del giovane Miani, il quale manco s’accorse d’essersi ustionato la lingua nel sorseggiare troppo in fretta la bevanda calda. Quasi gli leggesse nei pensieri, la comare levaressa aggiunse: “Vossioria, no dié la colpa al medego zudeo: el gh’ha dato ordene de ras-ciare drento vuostra cugnada a la perfetion, anca massa, azzò no la ciapasse niuna infetasion.”

Eliminando a viva forza ogni immagine mentale provocatagli dalle schiette e brutali parole della donna, Hironimo osò infine pronunciare la tanto temuta domanda: “Ma riuscirà o no a partorire un figlio vivo?”

“Nol podevo dir de no a madona”, fu la secca e al contempo compassionevole risposta di Mamma Gaia.

“Alla fine mi sorge il dubbio, se abbia o meno compiuto la scelta giusta facendo convocare il medico chirurgo”, confessò all’improvviso madona Leonora all’ultimogenito, tirandosi su la coperta di lana sulle ginocchia.

Dopocena, madre e figlio si erano trasferiti davanti al grande caminetto della loro casa a Treviso, cucendo la prima e giocherellando da solo a carte il secondo. Zanzi ed Ina avevano giocato fino all’ultimo, ricorrendo il cagnolino maltese Frisopin e rincorrendosi, finché la nonna non li aveva ricordato ch’era giunta l’ora di coricarsi. I due fantolini allora avevano baciato l’avia, la quale aveva imposto la mano sulle morbide testoline. Ottenuta la benedizione, i due bambini erano balzati addosso allo zio, che li ricoprì le gote di rumorosi baci tra una risata e l’altra. Dopodiché, sbadiglianti e stropicciandosi gli occhietti stanchi, erano stati condotti da Ufemia nella loro cameretta. Rimasti finalmente soli, ecco che madona Leonora aveva imbastito ciò che si preannunciava una spinosa conversazione.

Il giovane patrizio si girò di scatto in direzione della stanza d’Helena, là dove la sfinita cognata s’era ritirata assieme alla fantesca Cleofe appena terminato il pasto. “Perché dite questo, Mare?”

Madona Leonora cacciò fuori un pesante sospiro, tormentando tra le dita il filo di lana. “Avrei dovuto consultare Marchetto prima, si trattava pur sempre di sua moglie. Forse questa è la punizione di Dio per la mia arroganza e per aver usufruito di rimedi non molto conformi alla dottrina cristiana …”

“Mare, se fosse così, Dio dovrebbe fulminare l’intera università di Padoa, di Bologna e tutti gli atenei dove sezionano cadaveri dalla mattina alla sera.”

“Nondimeno, il parto rimane affare di donne e … e un uomo che si intromette …”

“Ha semplicemente diretto quell'incapace della comare levaressa. Inoltre, se Dio se la piglia per queste piccolezze, non merita d’esser pregato.”

“Made, Momolo!”, l’avvertì perentoria sua madre, stringendo arrabbiata gli occhi. Hironimo serrò caparbio la bocca, lo sguardo duro e fisso davanti a sé. “Sai bene come la madre di Tina sia morta di parto”, riprese madona Leonora la conversazione bruscamente interrotta.

“Certo!”, replicò aspro suo figlio, incrociando astioso le braccia al petto. “Così come so pure che al sior Pare non importò un fico secco, semmai se la levò convenientemente dai piedi in modo da potervi sposare.”

“Contrariamente alle tue malignità, il tuo sior Pare se ne dolse moltissimo: non l’amava forse appassionatamente, però non le aveva mai augurato la morte, non così giovane, a malapena ventiduenne. Un’esistenza spezzata prima ancora d’aver propriamente vissuto …”, la nobildonna abbassò il capo, rivivendo il momento in cui il feretro d’Andriana Trum Miani era stato sigillato nella sua arca. “Ci vollero anni al tuo sior Pare per riuscire a perdonarsi e per accettare il fatto che quel triste epilogo non era dipeso da lui … Quando nacque tua sorella Emilia, io lo udivo da dietro la porta che si malediva per avermi messo nuovamente incinta, malgrado gli ammonimenti sia di Mamma Gaia che della tua siora nonna. Mi vegliò giorno e notte durante l’intera mia degenza … Il mese successivo, avendo mancato la piccolina di sopravvivere, il tuo sior Pare mi domandò perdono per aver preferito la mia vita alla sua.”

Hironimo aspirò aria, soffocando il groppone in gola ivi formatosi. Con la scusa di scacciar via un ricciolo ribelle dalla fronte, s’asciugò quella lacrima traditrice che fino all’ultimo non s’era reso conto inumidirgli la guancia, sia per la sorte di quella sorella che mai avrebbe conosciuto in terra sia per l’inconciliabilità delle due immagini di Padre, quella severa e intransigente che lui ricordava e quella umana e vulnerabile nei ricordi di Madre. Quanto egli avrebbe desiderato condividere la seconda versione, invece della prima!

“Ecco ciò che io ho rivisto quella sera”, proseguì Madre, il volto pallidissimo e tirato, le mani intorcolate tra di loro, “e per nulla al mondo volevo tale destino per Marchetto, ancor di più perché lui ama la sua Helena. Perciò, mi sono detta: se esiste al mondo la benché minima possibilità di salvarla, opterò per quella soluzione! Non permetterò che mio figlio seppellisca la sua adorata moglie e il loro pargolo, biasimandosi poi fino alla fine dei suoi giorni. Perché anche qualora dovesse risposarsi, quel dolore gli rimarrà per sempre, attutito forse, ma mai completamente scomparso. Ogni volta che guarderà suo figlio, ripenserà alla sua perduta Helena.” Si passò una mano sugli occhi rossi e gonfi di lacrime non sparse. “Ho sbagliato?”, invocò soccorso al suo ultimogenito, il quale la vide così piccola e indifesa, povera donna schiacciata da tante disgrazie.

Hironimo le coprì le mani con le sue, appoggiandosi delicatamente sul petto materno. “La nostra unica colpa, Mare, sono le continue menzogne che stiamo rifilando a Marchetto. Ha il diritto di sapere quanto sta succedendo. Il male peggiore glielo abbiamo scampato, ma non possiamo costringerlo a vivere felicemente ignaro in un mondo fantasmagorico, costruito su falsità dopo falsità, nelle quali s’illude di generare figli che non riuscirà mai a veder nascere. L’ignoranza lo farà soffrire più della conoscenza. Almanco, se ne farà una ragione.”

“Mi trovi d’accordissimo, però allo stesso tempo questa rivelazione deve venire da Helena, non da noialtri”, gli accarezzò il capo madona Leonora, assai scoraggiata. “Conosci bene tuo fratello: la prenderebbe malissimo se fossimo noi a confidargli il segreto di sua moglie, invece di quest’ultima. Rischierebbero di non fidarsi mai più l’un dell’altro, vivendo da morti, il che sarebbe una prospettiva assai peggiore di quella iniziale contro cui abbiamo lottato.”

“Anche questo è vero”, convenne stancamente Hironimo, socchiudendo le palpebre e lasciandosi cullare dal ritmico scoppiettio del fuoco e il sordo ululare del vento.

 

***

 

Afferma il proverbio: il medico pietoso fa la piaga cancrenosa.

Indirettamente, tramite allusioni, frecciatine, strabuzzamenti d’occhi e torsioni del collo, madona Leonora ed Hironimo spronavano in continuazione Helena ad intavolare con Marco quella dovuta conversazione, liberandolo da dubbi e ansie sull’anomalo comportamento della moglie.

La giovane donna invece rimandava alle calende greche, approfittando del rientro di Lucha e di Carlo dai rispettivi incarichi per spingere subdolamente il marito a concentrarsi altrove, invece che su di lei. L’annuncio del matrimonio a marzo tra Marina Morexini q. sier Orsato e di Jacomo Corner del cavalier Zorzi le offrì un’ottima scusa per assentarsi da casa ed evitare così il consorte.

Per carità, da una parte Marco manifestava sollievo nel constatare quella ritrovata energica allegria in Helena, accordandole di buon grado ogni visita a casa della novizza, assieme a madona Maria Morexini Querini e a madona Querina, maritatasi l’anno addietro in sier Daniel Zustignan q. Francesco. Dall’altra, però, i suoi occhi scrutavano attentissimi ogni movimento della greca, quasi temessero un inganno e talora pareva che i due si fossero scambiati gli umori, lei solare ed espansiva mentre lui incupito e scontroso. D’altronde Helena sì aveva ritrovato il buonumore, tuttavia evitava la compagnia dello sposo, parlandogli il minimo indispensabile e stando ai pettegolezzi tra le domestiche, lei dormiva in un’altra stanza e questo senza aver consultato per niente Marco, mettendolo di fronte a decisione presa.

Non trovando quindi quasi mai la consorte a Ca’ Miani e appurato quanto l’infastidisse la sua compagnia, il patrizio aveva incominciato anch’egli a disertarla, rincasando spesso e volentieri tardissimo, quasi in contemporanea ad Hironimo, cui si giustificava ch’era dovuto trattenersi a Palazzo Ducale; ch’era stato invitato a cena da degli amici, etc. etc. tutte scuse perché l’odore di vino nell’alito suo fratello minore lo riconosceva assai bene, indugiando egli stesso in tali sgavazzi notturni.

Inesorabilmente, tra Marco ed Helena s’impose uno spaventevole gelo, il che rattristò non poco i loro famigliari, così contenti d’aver appaiato due giovani tanto innamorati l’uno dell’altro e che adesso sembravano essersi trasformati in due perfetti sconosciuti. Non litigavano, no, sebbene il Miani esibisse certe espressioni inquietanti, ogniqualvolta sua moglie gli annunciava una sua visita alle cugine acquisite o alle sorelle, sempre accompagnata da Hironimo, da lei schiavizzato a perpetuo paggio.

“Uscite?”, da un po’ di tempo Marco aveva ripreso a dare del voi ad Helena, per sommo chagrin di quest’ultima, la quale afflosciò impercettibilmente le spalle, delusa.

“Sì, mia sorella Vassilissa mi ha invitato a cena”, gli spiegò concisa la greca, aggiustandosi nervosamente lo zendale in testa. “Non ti … non vi preoccupate, Momolo mi fa da scorta”, tentò ella in maniera goffa di rassicurare il marito, indicandole suo fratello che già varcava la soglia della porta d’acqua per salire in gondola.

Se un’occhiata avesse potuto uccidere, Marco quanto a ferocia avrebbe equiparato il fu Vlad III di Valacchia, detto l’Impalatore. “Una di queste sere dovreste invitare madona Da Ponte e la sua famiglia da noi, a cena. Non sia mai ci accusino d’abusare della loro gentilissima ospitalità, visto che tanto ricchi non sono …”, sibilò velenoso l’uomo, risalendo le scale verso il piano nobile.

Helena, pur captandola, non si premurò di rispondere alla frecciatina del consorte, anche per non adirarlo ulteriormente. Avrebbe molto volentieri desiderato contraccambiare sua sorella Regina, però si vergognava e temeva che quest’ultima captasse la disastrosa deriva, che stava prendendo il suo matrimonio.

“In ogni modo anch’io farò tardi, perciò non aspettatemi stanotte”, giunse dall’alto la voce di Marco, facendo sobbalzare la greca, che corse all’inizio delle scale, incerta se raggiungerlo o meno.

“Neanche per un’ora?”

Silenzio.

“Vedremo.”

La giovane donna si morse il labbro inferiore, tormentandosi a disagio le dita. “Allora … allora divertitevi. Fate piano nel rincasare, non vorrei si svegliassero Angelos  e Christina di soprassalto …”

“Non mancherò”, rispose atono suo marito. “Servo vostro, patrona” e chiuse in via definitiva la penosa conversazione.

“Sì, sì, servo vostro …”, ripeté amareggiata Helena, sospirando profondamente. Sedutasi accanto ad Hironimo all’interno della felze, si passò una mano sulla fronte, per poi pizzicarsi esausta la radice del naso. “Ma che gli è preso?”, fu la sua domanda retorica. Ché lei conosceva benissimo la risposta.

Anche Hironimo intuiva quali pensieri stessero tormentando suo fratello; dopo tanto ed inteso ragionare, finalmente aveva capito dove avesse già contemplato quel suo sguardo arcigno e al contempo sofferente: sul volto del loro parente alla lontana, sier Christofal Moro, ogniqualvolta si menzionava sua moglie la madona Istriana Pasqualigo Moro, di cui si mormorava egli fosse terribilmente geloso e possessivo al punto che, quand’era ritornato vedovo da Cipro delle cui fortezze era luogotenente e capitano della flotta contro i Turchi, i pettegolezzi l’avevano indicato come potenziale assassino della povera donna, strangolata nel sonno - si raccontava - con tale arte da farla credere morta di cause naturali. Chiacchiere, ovviamente, salvo il dettaglio dell’ossessiva gelosia del luogotenente, quella sì che corrispondeva al vero e adesso Marco sguazzava nel medesimo sentimento.

Contrariamente però al Moro, suo fratello non dirigeva né sfogava mai la sua frustrazione contro Helena, bensì puntava direttamente all’origine delle sue disgrazie (o che lui presumeva tale), sicché Hironimo pagò di conseguenza per tutti, così come avvenne al rientro a Ca’ Miani a seguito del fastoso sponsalicio tra Marina Morexini e Jacomo Corner, tenutosi il 25 marzo 1509.

Sentendosi leggermente assetato per via delle numerose spezie utilizzate nelle abbondanti portate e maledicendo la sua tonteria per non aver ordinato ai servi di lasciargli in camera una brocca d’acqua, un Hironimo scalzo e in camicia da notte era sceso sbadigliando nelle cucine, sobbalzando dalla sorpresa nel trovarvi lì Marco, ancora completamente vestito e dinanzi al caminetto scoppiettante.

“Forse dovresti metterla giù”, consigliò scherzando Hironimo al maggiore di posare il bicchiere, dal cui odore fruttato sospettava trattarsi di vin bianco. “Al banchetto hai già alzato a sufficienza il gomito” e come suo fratello fosse riuscito a camminare dritto fino alla gondola senza incespicare, rimaneva un gran mistero. Perché vin rosso fa sangue, ma vin bianco batte alla testa.

“Embè?”, scrollò le spalle Marco, sottraendo il bicchiere dalla presa del minore, anzi, riempiendoselo di nuovo. “Non sei il custode della mia anima.”

Sospirando snervato, Hironimo si sedette accanto a lui sulla panca di legno, portando le ginocchia al petto in modo da scaldare sotto la camicia i piedi infreddoliti. “Ascolta, che noi veneziani siamo rinomati per le nostre abitudini beverecce, l’è cosa notanda in tutt’Italia. Ciononostante, credo di saper riconoscere chi beve per divertirsi e chi per affogare i propri dispiaceri. Marchetto”, gli appoggiò una mano sull’avambraccio, provocando un irritato arcuare di sopracciglio nel maggiore, “per favore dimmi cosa ti turba. Madre l’ha notato, Luchin e Carlino l’hanno notato. Ci stai preoccupando, soprattutto Helena.”

Alla menzione della moglie, Marco grugnì sardonico. “An, sì? Lo dimostra malissimo, credevo non l’importasse nulla di me.”

“Mare de diana, che follie vai mai cianciando?”, schioccò uno scocciato Hironimo la lingua, scuotendo il capo. “Ti vuole tanto bene e s’impensierisce per te.”

“Osa affermare il contrario!”, lo sfidò veemente il fratello, sporgendosi bellicoso in avanti verso di lui. “Se veramente Helena mi volesse bene, non mi fuggirebbe neanche fossi un appestato! Mia moglie evita la mia compagnia; non mi parla o cerca sempre di terminare in fretta la conversazione. Piaghe di Cristo, ha perfino disertato il mio letto!” e qui le orecchie del minore s’infiammarono, non attendendosi tanta schietta confidenza. “E per cosa questo? Che le ho fatto? In quale modo l’ho offesa? Mi sono comportato male, le ho mai mancato di rispetto? L’ho sempre lasciata libera di fare ciò che più le piaceva!”, sfogò infine Marco mesi e mesi di bile amara ingurgitata, provocando feroci e colpevoli crampi nello stomaco d’Hironimo, ch’ammetteva la sua buona dose di complicità in quell’assurda situazione creatasi. “Forse ho sbagliato io”, riprese feroce suo fratello, tracannando a grosse sorsate il vino, “forse mi sono fidato troppo, le ho concesso eccessiva libertà. Avrei dovuto vigilare meglio: come affermato dal barba Batista, la femmina cade se l’uomo attua da macaco!”

Il minore dei Miani incrociò scettico le braccia al petto. “Il sior Barba possiede una grande esperienza del mondo e sa molte cose, ma non tutto ciò che dice è necessariamente vero, giusto e buono!”, contro-argomentò il ragazzo. “Questi ultimi tempi, capisco esser stati per voi due difficili, nondimeno …”

“Lei mi tradisce, ne sono certo”, arrivò la secchiata d’acqua gelida, che lasciò intontito Hironimo per qualche istante abbondante, la bocca spalancata a causa della sua incredulità verso tale stupida supposizione. Attraverso quale assurdo e contorto ragionamento era Marco giunto a tal altrettanto bislacca conclusione? Helena si struggeva per lui, sopportando stoicamente in silenzio la sua pena per non provocarne alcuna al consorte. E quest’ultimo invece d’esigere magari una spiegazione finalmente chiara e tonda, si perdeva nell’Empireo delle congetture paradossali?

“E con chi, sentiamo?”, lo sfidò aspramente Hironimo, in pronta difesa della cognata. “È sempre in compagnia di noialtri”, aggiunse onde sottolineare l’improbabilità dell’adulterio.

Peccato, che la sua affermazione ottenne il risultato opposto e un luccichio poco raccomandabile guizzò negli occhi nerissimi di Marco, il quale piegò la bocca in una smorfia tra il ferino e il trionfante. “Tu … ho notato che tu spendi molto tempo assieme a lei …”, alluse in un sordo ringhio. “Ogni volta che Helena esce di casa, sei sempre ad accompagnarla. Anche quella volta a Trevixo … Mi pare che con te, lei si comporti in maniera molto più rilassata … e aperta … ”

“E dunque? Cosa stai insinuando?”, sibilò seccato il minore, imporporandosi le guance di sdegno. “Cospetto, non ci crederai mica la versione veneziana di Paolo e Francesca, adesso?”, ridacchiò sardonico, incapace di concepire tale grottesco paragone e sperando in una pronta smentita da parte del fratello, che invece rimase serissimo, seguitando a scrutarlo bellicosamente. “Oh Sacramento, lo pensi sul serio?”, ansimò sgomento Hironimo, sentendosi le budella attorcigliare.

“Io non penso niente!”, ruggì Marco, battendo il bicchiere con tale foga sul tavolo, da spaccarne il fondo.

“Bugiardo!”, s’inalberò Hironimo, balzando giù dalla panca, i pugni serrati e vibrando di collera da capo a piedi. “Avanti dillo! Guardami dritto in faccia e abbi i coglioni di chiedermi se mi scopo tua moglie!”, lo provocò fuori di sé.  Sciocco! Avrebbe dovuto immaginarlo, avrebbe dovuto leggere lo sguardo torvo e obliquo del maggiore, la fronte aggrottata fino ad unire le sopracciglia in un’unica linea, nonché il modo in cui s’ingobbiva simile ad un ghepardo pronto a balzare sull’ignara preda. In quante occasioni aveva contemplato quell’espressione assassina, ogniqualvolta Marco s’appropinquava all’attacco?

Di fatti Hironimo, pur possedendo riflessi eccellenti, si ritrovò sbattuto contro il muro, l’avambraccio di suo fratello sulla gola. “Ed è vero?!”, sbraitò, le iridi nerissime che cambiavano incessantemente di posizione, quasi stessero leggendo avide e disperate ogni minuscolo rictus facciale del ragazzo, in cerca di conferma o smentita. “Lo fai?!”, ripeté e soltanto perché il maggiore era palesemente alticcio e perché in fin dei conti avrebbe potuto scansarlo con un pugno allo stomaco, che Hironimo si calmò, rispondendogli serissimamente ironico:

“Certo! Mi scopo tua moglie davanti a Madre, a Tina, ai nostri e suoi parenti, davanti a tutta la fottuta servitù per intrattenerli! Elencami ogni circostanza, in cui lei ed io abbiamo potuto rimanere soli! Avanti!”, e non ricevendo alcuna risposta – perché non sussisteva – egli delicatamente afferrò l’arto di Marco, sciogliendosi senza fatica da quella presa. Riaccompagnò suo fratello accanto al caminetto, porgendogli stavolta un bicchiere d’acqua e servendosene anch’egli. Solo in quel momento s’accorse di come le sue mani stessero tremando. “Mi addolora sapermi da te così poco stimato, da giudicarmi capace di tal tradimento nei tuoi confronti!”, gli confessò mestamente, umiliato da quella mancanza di fiducia. Non lo si poteva di sicuro descrivere un ragazzo d’oro, un figlio modello, ma insidiare la cognata no, quella carognata neppure sotto tortura l’avrebbe il giovane Miani compiuta. Amava troppo Marco per pugnalarlo così alle spalle e verso la greca provava unicamente l’innocente affetto riservato ad una sorella.

Leggendovi null’altro che sincerità negli occhi del minore, Marco perse ogni slancio aggressivo, sgonfiandosi quasi sulla panca e coprendosi il viso con le mani. “Perdonami, non stavo ragionando lucidamente”, ammise in un sospiro, massaggiandosi le tempie.

“Questo mi pare ovvio”, sbuffò Hironimo. “Ti sei calmato?”

Suo fratello lo ignorò, vociando il dubbio che lo tormentava da un bel po’ di tempo: “Helena mi nasconde qualcosa, lo sento.”

“Forse lei si è semplicemente stufata delle tue ingiustificate gelosie! Non vuol trasformarti in motivo di pettegolezzo, come sier Christofal Moro.”

“Ti ha mai confidato qualcosa?”, giunse la non tanto inaspettata domanda, la quale in verità sarebbe stato auspicabile fosse stata posta direttamente alla moglie, che a suo fratello minore.

Oddio, Hironimo era assai tentato di spifferare la faccenda per intero a Marco e così salvare capre, cavoli e matrimonio e ritornare a respirare liberamente. Ciononostante si ricordò della promessa fatta ad Helena, del discorso di Madre circa una futura perdita di fiducia del maggiore nei confronti della consorte. Inoltre egli avrebbe dovuto anche confidargli del motivo del viaggio a Treviso, dei problemi fisici della moglie, nonché dell’intervento segreto del medico giudeo, una sfilza di menzogne e omissioni concatenatesi tra di loro fino a formare un soffocante cappio al collo. Se stupidamente il giovane Miani aveva permesso di lasciarsi coinvolgere tra le loro beghe, doveva perlomeno mantenere una sicura neutralità.

“Riguardo a ciò che l’affligge, non mi ha rivelato nulla a riguardo.”

Sicché Hironimo tacque e mentì, augurandosi d’aver optato per la soluzione migliore. 

 

***

 

Giunse la tremenda guerra, la quale come arrivò a distruggere per un soffio Venezia, ugualmente rischiò di minare il matrimonio di Marco ed Helena fino al punto di non ritorno.

Già durante i mesi precedenti al conflitto, il patrizio aveva cessato ogni gelosa ostilità nei confronti della moglie, intensificando le ore fuori casa e addirittura dalla città lagunare, con la scusa di valutare alcune terre nell’entroterra miranese, ch’aveva intenzione d’acquistare. Il suo atteggiamento in generale s’era di molto tranquillizzato e anzi, manifestava un’oscura soddisfazione che non garbava affatto ad Hironimo, ché gli ricordava fin troppo bene la medesima compiaciuta espressione, quando da ragazzino Marco gongolava trionfante a seguito di una marachella particolarmente crudele e riuscita alla perfezione ai danni del malcapitato di turno. Ma certo che sto bene, perché non dovrei?, gli rispondeva innocentino e beffardo, in quelle occasioni in cui il minore s’informava della salute del suo spirito. Almeno, pareva essersi riconciliato di facciata con Helena, dimostrandosi sempre gentile e cortese verso di lei, eppure l’intero concerto suonava falso, stonato.

“Lo sospettavo da qualche tempo, ma ormai ne sono sicuro”, sentenziò sier Batista Morexini, eseguendo un gambetto di donna sulla scacchiera. Quel pomeriggio, non sopportando più l’aria mefitica a Ca’ Miani, Hironimo aveva cercato rifugio nel palazzo dello zio, onde distrarsi. Sennonché, alla fine, lo stesso aveva finito per discutere del fratello, esplicando al parente i suoi dubbi.

“Cosa, sior Barba?”

“Ch’el Marchetto gh’ha la soa pezzetta” (ha l’amante/mantenuta, ndr.)

Hironimo si bloccò fulminato, rimanendo comicamente col gomito a mezz’aria e il cavallo gli scivolò dalle dita, rimbalzando sulla scacchiera e rotolando per terra. “Avete … avete la sua confidenza?”, la buttò pateticamente sul ridere, la gola invece secca e il cuore che gli batteva la chamade in petto. Come aveva potuto Marco? Una pugnalata in pieno petto avrebbe doluto meno ad Helena, una volta appresa la squallida notizia.

“Non ho bisogno d’essere il suo confessore per capirlo”, replicò ineffabile il senatore, raccogliendo il pezzo perduto e cedendolo al nipote. “Tra criminali ci si riconosce”, asserì pragmatico, da vero esperto in materia.

Il giovane abbassò il capo, stordito e rifiutandosi di credere della bassezza di quel gesto. Perché lo sapeva che Marco non tradiva sua moglie per lussuria, lo conosceva più di se stesso. No, si trattava di una vendetta bell’e buona, per umiliare la moglie che, secondo lui, l’aveva rifiutato.

E mentre sier Batista in neanche tre mosse gli faceva scacco matto, lamentandosi della distrazione del nipote, Hironimo indugiò in quella sua indecisione, se giudicare suo fratello o estremamente puerile o straordinariamente crudele. Pregò ardentemente che non si trattasse di madona Maria Baxadona da Molin, zia della giovane sposa di suo cugino Carlo Morexini, Maria da Molin. La moglie di sier Hironimo da Molin q. Antonio e Marco erano stati tra i più tenaci sostenitori di quelle nozze tra il Morexini e la fanciulla, nipote per via di madre del celebre letterato sier Alvixe Foscarini ed unica erede del fu sier Amadio da Molin q. sier Antonio, un’unione che avrebbe combinato prestigio culturale con prestigio economico. Forse gli occhi di Hironimo erano foderati di malizia, ma aveva notato un’eccessiva complicità tra madona Maria Baxadona da Molin e Marco, dietro la scusa ufficiale di persuadere il recalcitrante cugino Carlo a sposarsi.

Sarebbe stata una prospettiva orribile, ritrovarsi non solo l’amante in casa, ma pure legata a vincoli di parentela, rovinando in un colpo solo ben tre matrimoni. Per fortuna Padova dissipò questa sua angoscia, trovando conferma inoltre nella sua seconda teoria, che Marco tradisse la moglie più per ripicca che per altri lascivi sentimenti.

Certo, Hironimo stesso in quel periodo non nutriva particolari sentimenti cavallereschi verso il gentil sesso, ferito e umiliato dal tradimento della sua domina, sicché non giudicò la donna cui suo fratello s’accompagnava, non all’inizio almeno. In fin dei conti si trovavano in guerra, ogni giorno poteva corrispondere all’ultimo, perché non godersi quei pochi piaceri rimastigli e al diavolo tutto il resto?

Poi, però, osservando meglio la coppia adulterina, Hironimo sospettò in quei due una complicità nata ben prima di Padova. Non era strano che alcuni patrizi si fossero portati le prostitute o le concubine da Venezia – meglio un lupo familiare ad uno nuovo -  ma il modo in cui Marco interagiva con la sua ganza, in cui la baciava e se la stringeva,  manifestavano una confidenza di vecchia data e più profonda del classico rapporto fornitore-cliente. Era dunque lei, lo strumento della rivalsa su Helena?

Ipotesi che, una volta rientrati vittoriosi nella città lagunare, si rivelò fondata, poiché Marco seguitava a frequentare quella donna anche quando, tecnicamente, i suoi servigi non erano più richiesti. Hironimo tuttavia si disinteressò in parte a tale questione, più impegnato prima ad organizzare i rinforzi richiesti da Lucha, poi a consolare una disperata Madre quando giunse la notizia della caduta di La Scala e della cattura del primogenito da parte delle truppe spagnole, che l’avevano ceduto ai tedeschi al fine di deportarlo prigioniero in Alemagna.

Soltanto durante una notte particolarmente ventosa di fine ottobre, il giovane patrizio osò menzionare ad alta voce i suoi sospetti a Marco, nell’intimità dello studio di Padre.

Naturalmente suo fratello si scocciò, neppure degnandosi di sollevare lo sguardo chino sulle missive che stava compilando. “Quali sono le tue priorità, Momolo?”, s’informò laconico. “Arrangiare il riscatto per nostro fratello o discutere su chi mi porto a letto?”

“Dimmi almanco che non si tratta della Baxadonna …”

“Della chi?”, fece genuinamente confuso suo fratello. Dopodiché avvampò. “Non osare infangare così la reputazione di Marietta, come ti perm- …”

“Oh-oh, senti, senti. Della Marietta non sapevo che foste già arrivati ai diminutivi. Quindi oltre alla tua ganza, ti scopi anche la moglie del povero sier Hironimo? Magari quando vi recate in visita dalla loro nipote Maria … Mi immagino la faccia della zia Morexina – tutta Messe e rosari -  quando apprenderà in che razza di bordello le abbiate trasformato la casa!”

“Taci, idiota! Non sai niente e ti permetti pure di parlare? L’unica ragione, per la quale m’atteggio cortesemente verso Mariet- madona da Molin, è per convincerla a fidanzare sua figlia Catharina con Anzolo. È lei che comanda in casa: se ottengo il suo beneplacito, mio figlio otterrà per sé una moglie molto ricca. Quindi sì, non nego di esser sembrato forse un po’ troppo in confidenza con madona Maria, ma non mai ho iniziato con lei alcun disonesto commerzio!”

“Ah no? T’ho visto con che occhio lubrico la guardi, tutto cicci-coccò, galante, spiritoso e pure la prendi per mano quando sale dall’imbarcadero! Le miagoli dietro melenso e lusinghiero, peggio del gatto quando scorge un uccellino sul balcone! Credi che venga da Mazorbo?”

“Ti giuro che non l’ho sfiorata neppure con la punta delle dita! Voleva ch’io persuadessi nostro cugino Carlo a sposare sua nipote Maria, perché devi sempre pensar male?”

“E la femena a Padoa?”

“Un altro discorso.”

“An! Quindi confermi di aver tradito Helena? Per quale motivo, poi, visto che non hai prove della sua infedeltà nei tuoi …”

“Non giudicarmi”, lo crocifisse feroce Marco cogli occhi. “Anche tu sei un adultero, non te lo dimenticare”, gli ricordò pungente, chetando in via definitiva Hironimo, il quale si morse l’interno della guancia, colto in fallo, scordatosi infatti del piccolo dettaglio di come anche la sua Lena fosse stata sposata. “Sussiste una ragione, per la quale il nostro sior Barba cornifica dalla mattina alla sera la nostra siora Amia?”

“Non certo per vendicarsi di lei.”

Marco appoggiò la penna, intrecciando le dita sotto il mento. “E se ti dicessi che la mia amante è incinta?”

“Ti risponderei che sei un pezzo di merda”, ribatté prontamente Hironimo, le nocche bianche a causa dei pugni serrati, irritato dalla nonchalance con cui suo fratello pronunciava quell’annuncio, quasi si trattasse di una piccola stravaganza e non invece di una stilettata a quella povera donna di sua moglie.

“Perché?”, inquisì dolcemente velenoso suo fratello, il medesimo tono usato nella Sala del Tormento verso gli indagati e i testimoni.

Perché per anni tua moglie mi ha pianto sulla spalla, visitando in pellegrinaggio ogni chiesa in ginocchio per un improbabile miracolo e dannandosi l’anima per te, perché teme di deluderti, di provocarti un dolore acutissimo semmai tu dovessi scoprire che lei non può portar a termine alcuna gravidanza.

“Che decisione hai preso riguardo al bambino?”, chiese infine Hironimo, imponendosi la calma, il respiro irregolare dall’ira che gli graffiava dentro il petto.

“Lo prenderò in casa, ti pare? È mio figlio, non voglio cresca tra la plebe.”

“Ti supplico di non farlo.”

“Preferisci che l’abbandoni alla Pietà?”

Il ragazzo scosse il capo. “Non potrebbe piacerti la reazione d’Helena.”

“Pensi che mi spaventino gli strilli di una donna?”, rise malevolo Marco, intingendo il pennino nel calamaio e riprendendo la scrittura interrotta.

“Non strafare nella vendetta, potrebbe ritorcerti contro”, l’avvertì sibillino Hironimo e suo fratello assunse un’espressione genuinamente confusa. “Presenta l’infante come mio, tanto oramai sono ufficialmente la pecora nera di famiglia, non si stupiranno in caso dovessi portare un illegittimo a casa …”, tentò debolmente di sdrammatizzare, ottenendo purtroppo l’effetto contrario, ché il viso di Marco si rabbuiò, torvo.

“Non giocare al martire, adesso.”

Da complice involontario della cognata, Hironimo si ritrovò di punto in bianco a dover mentire anche per il fratello, in uno spietato fuoco incrociato. Servitore di due padroni, per non far torto a nessuno, soffriva lui per ambedue.

“Che ore sono?”, chiese d’un tratto Helena, tenendo l’orecchio all’eco lontano della campana della chiesa di San Vidal.

“Le cinque di notte”,  (circa le 23 attuali, ndr.) rispose prontamente Madre.

La greca chiuse il ventaglio di carte che teneva in mano, mordicchiandosi infelice il labbro inferiore. Un’altra notte disertata dal marito ed Hironimo sapeva benissimo perché. “Momolo, ti ha detto per caso …?”

“An … forse, forse sarà andato a casa di sier Nicolò Trivixan, sai, il novizzo di tua sorella Chiara …”, mentì celere suo cognato, fissando tanto intensamente le figure delle sue carte, che sembrava volerle bucare con lo sguardo.

“Mi pareva d’aver sentito, che invece fosse ospite di vostro cugino Carlo; sua moglie ha invitato il suo barba sier Hironimo da Molin e la sua bellissima moglie, madona Maria …”, commentò  allusiva Maddaluzza Miani, sorridendo eloquentemente ad Hironimo, che la crocifisse feroce.

“Donca è vero quel che si dice: che siete sorda e udite il contrario di tutto!”, soffiò ostile, pigliandosi un pronto rimprovero da sua madre.

“Capisco”, sospirò mesta Helena. E sforzandosi di sorridere: “Se non v’incomoda, io mi ritirerei, sono molto stanca”, annunciò tramite un teatrale sbadiglio e si pose velocemente in piedi, senza neppure premurarsi di contare i punti ottenuti nella partita.

“Ma che diamine sta succedendo tra loro due? Pensavo avessero chiarito”, si sfogò Lucha – liberato nel frattempo e rimpatriato a Venezia da qualche settimana – mentre Hironimo lo aiutava a svestirsi e ad indossare la camicia da notte, i nervi del gomito destro spezzati e giacente pertanto l’intero braccio immobile ed inutilizzabile.

“Marchetto aspetta un figlio da una sua amante.”

Lucha si voltò di scatto verso il minore. “Cosa?! È impazzito?”, si soffocò per poco con la sua medesima saliva. “Come … come …?”

“Che ne so io?”, lo interruppe snervato Hironimo, contento in parte d’alleviare quel suo gran peso dallo stomaco. “S’è ficcato in testa di punire a tutti i costi la freddezza d’Helena, ignorando che così danneggia soltanto se stesso!”

“Ma … ma … perché? Non comprendo. Parevano così felici …”

Hironimo invece capiva e avrebbe tanto voluto cercare consiglio nel maggiore. “Le spezzerà il cuore.”

“E lei gli spezzerà l’osso del collo”, commentò sarcastico Lucha, salendo cautamente sul letto. “D’altronde, chi è causa del suo mal, pianga se stesso”, dichiarò e si tirò su la coperta con la mano sinistra, forse alludendo alla ferita di guerra, la quale l’avrebbe reso un invalido fino alla fine dei suoi giorni. “Come sta la Tina? L’ho vista tanto dimagrita e pallida …”

“Non molto bene; non riesce né a mangiare né a dormire di notte. Se soltanto non fossimo in guerra … potremmo mandarla a curarsi alle terme di Abano …”

“Domani, di ritorno da Palazzo Ducale, andrò a visitarla.”

“T’accompagno, se vuoi.”

“Perché no? Sono talmente stufo di vedere queste facce da funerale … E nostro fratello non aiuta.”

Perché per piangere, sarebbero di sicuro scorsi fiumi di lacrime, altroché.

Hironimo fu il primo a tenere Scipio tra le braccia, innamoratosi speditamente di quella faccina grinzosa nei cui lineamenti ritrovava una copia sputata di Marco, tranne negli occhi grigi ch’erano quelli di Padre. Si chiese se i nipotini abortiti naturalmente da Helena gli sarebbero assomigliati, avessero avuto l’opportunità di sopravvivere.

Da quanto appreso, la madre della puerpera non le aveva neanche concesso di vedere il neonato, acciocché non s’affezionasse e dunque evitando di soffrire per la separazione. A giudicare dalla borsa di denaro appoggiata sul tavolo e dall’espressione soddisfatta della donna, questa aveva concesso a Marco di divertirsi con sua figlia dietro solenne promessa di procurarle una dote e, ç’allait sans dire, d’allevare il pargolo nato da quella relazione extraconiugale.

Cullando lievemente il nipotino e coprendolo bene sotto la pelliccia, Hironimo si dispiacque che una creaturina così bella dovesse esser stata concepita per motivi così gretti. Gli promise di amarlo e di supportarlo ora e per sempre, anche se l’intera Ca’ Miani avesse finito per odiarlo, in primis la sua matrigna.

“Piange troppo”, osservò apprensivo Marco, seduto di fronte al fratello e al figlio, il quale suggeva iroso e affamato il mignolo offertogli dallo zio. “Non vorrei corrispondesse ad un segno di poca salute …”

“Macché, ha semplicemente ereditato il tuo caratteraccio. Scoltame ben: poiché questo putelo strilla più imperioso d’un generale, già ch’è un Aemilianus perché non lo chiamiamo Scipio?”, gli propose invece Hironimo e miracolosamente il piccino si calmò, pur fissando di traverso i due uomini, accusandoli di negargli la meritata pappa.

“Scipio mi piace assaissimo”, convenne Marco e il minore ritrovò sul suo volto la medesima contentezza ed orgoglio, che gli aveva letto la prima volta che gli era stato messo in braccio Zanzi. Il neopadre accarezzò col dorso dell’indice la guanciotta paffuta e morbida del suo terzogenito, anch’egli rimasto inesorabilmente vittima dell’incantesimo del coccolo puttino.

Perché il destino s’era accanito così crudelmente, impedendo che Scipio nascesse da Helena? Quanti anni di amarezze li sarebbero stati risparmiati!

Lucha e Carlo, alla vista del nipote, l’accolsero ben volentieri, sebbene biasimando nel loro intimo il fratello per i suoi modi poco ortodossi di procurarsi quel terzogenito che la moglie si rifiutava di dargli. Madona Leonora, dal canto suo, sorreggeva estasiata l’infante, cui non parve vero d’appoggiare finalmente la testolina sul petto di una donna: perlomeno si facevano progressi e presto quei gaglioffi gli avrebbero offerto una gonfia poppa da cui suggere. Ciononostante, Madre seguitava ad osservare ansiosa il figlio, meditando sulla reazione della nuora e indecisa sul da farsi, giacché mai trovatasi in una situazione simile: l’unico illegittimo (riconosciuto) suo fratello Batista l’aveva portato in casa da scapolo, ergo evitando questioni con la consorte; pace all’anima sua, Anzolo in questo le aveva dimostrato fedeltà assoluta. Come avrebbe reagito, in caso si fosse trovata nei panni d’Helena?

Certamente madona Leonora non sarebbe stata così stoica e composta, quando la giovane greca venne presentata al figliastro. Pallidissima in volto e torcendosi le dita manco volesse spezzarle, Helena aveva ascoltato in silenzio assoluto le circostanze della nascita di Scipio, per poi rintanarsi nelle sue stanze e l’eco dei suoi singhiozzi riecheggiò fino alle fondamenta di Ca’ Miani e la cosa andò avanti per un paio di giorni, al punto che da fuori ci si chiedeva se fosse morto qualcuno in casa.

“Perché? Perché mi hai dovuto fare questo?!”

“Perché? E me lo chiedi? Dopo quello che tu per anni hai fatto a me?”

Al terzo giorno, i pianti si tramutarono in urla, che si definirono in feroci accuse in un misto tra greco e veneziano e nessuno osava mettersi in mezzo ai due furiosi contendenti, i quali oltre che al rivale accusavano anche i supposti complici di doppiezza e abiezione delle più nefande, incuranti del veleno sputato a destra e a manca, il loro unico scopo rimaneva quello di ferire quanto più possibile, fregandosene altamente dell’eventuali conseguenze sull’unica vittima del loro dissapore.

“Io non so di che cosa tu mia stia colpevolizzando … Ti sono sempre stata devota e leale;  quest’umiliazione non me la meritavo! Come hai potuto?! Mi hai giurato fedeltà nel corpo e nell’anima! Dannato spergiuro! Schifoso puttaniere!”

“Bugiarda, lurida gattamorta levantina! Vuoi davvero conoscere la tua colpa? Dunque ascolta bene e non m’interrompere: tu mi hai rinnegato come sposo, mi hai ridicolizzato davanti a tutta Veniexia e magari pure ti sei divertita a decorarmi la testa!”

“Non è vero! … Crudele, non è vero … ti amo, ti ho sempre amato … non puoi pensarlo veramente …  Ti ho dato due figli! … ”

“Bel modo d’esprimere il tuo amore! Non ne hai più voluto sapere di me, lo neghi forse? E siccome non sono quel genere di marito, che con la forza si prende i suoi diritti coniugali, pure ti permetti di lagnarti che ho preferito un’amante alla violenza?”

“Avresti potuto dirmelo … Ne avremmo potuto discutere …”

“Tu per prima non l’hai voluto fare!”

“Tu non capisci!”

“E FAMMI CAPIRE PERDIO!”

Ché se Scipio se ne stava ignaro e beato tra le braccia robuste della balia o nella sua cuna, Zanzi ed Ina erano quelli abbastanza maturi da ascoltare e in parte capire le cattiverie scagliatesi contro tra i genitori. In più occasioni Hironimo aveva scovato i nipoti accoccolati dietro la porta da dove provenivano le grida furiose di Marco ed Helena, tappandosi il cinquenne bimbetto le orecchie, gli occhioni nerissimi colmi di lacrime. La quattrenne sorellina lo fissava inebetita, chiedendo soccorso con lo sguardo, incapace di consolare il maggiore. Allora, lo zio si inginocchiava e li abbracciava forte entrambi, Zanzi che gli inumidiva lo zipone ed Ina che si aggrappava a lui mentre li conduceva in cucina, lontani da quell’inferno.

“Perché si devono dire queste brutte cose?”, gli singhiozzava il fantolino contro il petto. “Perché non fanno la pace? Perché Mama non vuole vedere il nostro fratellino?”

Perché i vostri genitori si sono comportati da deficienti ed io dal Re dei Deficienti per aver taciuto la verità fin dall’inizio, gli spiegò mentalmente il giovane Miani, accarezzandogli il capo e baciandoglielo a mo’ di scusa per il male fatto indirettamente all’adorato nipote.

“Ed io no, sior barba?”, gonfiò le guance Ina, il suo immaturo cuoricino già distratto dalla gelosia verso le attenzioni rivolte al fratello.

“A te due, perché sei la principessa di casa!”, l’accontentò Hironimo, accomodandola sulle ginocchia, ritrovandosi ben presto oberato dal peso di Zanzi, che pure lui non voleva esser da meno.

“Tu lo sapevi.”

Hironimo sospirò stancamente: bene, al fine Helena aveva confessato e come in ogni processo, dopo gli imputati ora toccava ai testimoni.

A seguito di una visita informale da parte del Signore di Notte del sestiere di San Marco, allertato per via degli immondi schiamazzi provenienti da Ca’ Miani e venuto ad accertarsi che nessuno si stesse ammazzando, i due coniugi avevano cessato di gridarsi dietro ogni genere di recriminazione, piombando di conseguenza il palazzo in un inquietante silenzio. L’inarrestabile malattia di madona Crestina e le pratiche per la supplica di Lucha d’ottenere dal Maggior Consiglio la castellania di Castelnuovo di Quero avevano impedito ai fratelli Miani di discutere oltre sull’argomento, rimandandolo a data da destinarsi.

“Hai già interrogato Mare, Luchin e Carlino?”, si sedette annoiato Hironimo di fronte a Marco, sfinito dalla triste visita alla sorellastra Crestina, ogni giorno sempre più magra e patita, perfino il semplice parlare le risultava stancante.

Dal modo in cui suo fratello tamburellava nervosamente le dita sul tavolo, intuì di sì. “Tu sapevi tutto, più di chiunque altro. Perché non me l’hai detto?”, non gli addolcì Marco il farmaco, ponendogli brutalmente secco quella domanda sortagli immediatamente in testa, dopo la confessione della moglie. “Il medico giudeo; gli aborti naturali; perfino la visita alla comare levaressa a Trevixo … Eri al corrente di ogni cosa, in sostanza quasi il suo confessore …”

“E come tale, legato al vincolo di segretezza.”

“Siamo fratelli”, gli ricordò Marco, stranamente senza astio.

“Ed ambedue stupidi”, ammise amaramente Hironimo, umettandosi le labbra secche. “Io più di te. Hai ragione: non dovevo mentirti, avrei dovuto informati su quanto stava accadendo. Ti ho stoltamente sottovaluto, avrei dovuto nutrire più fiducia nei tuoi confronti. Ma ti giuro che non l’ho fatto per malizia, bensì per proteggerti da una grave ingiustizia, che nessun genitore dovrebbe mai soffrire. Non lo capivo allora, l’ho compreso grazie a Mare”, disse, contemplando i palmi delle sue mani. Ovvero di seppellire un figlio, tuo figlio

Marco allungò il braccio, afferrandogli il polso delicatamente. “Helena mi ha domandato perdono per il suo comportamento e oggi, per la prima volta, ha preso in braccio Scipio. Mi pare si piacciano e anche Zanzi ed Ina sono contenti della nostra riappacificazione”, gli confidò malinconico. “Ho rassicurato mia moglie, che non ha nulla di cui rimproverarsi, piuttosto che fosse lei ad accettare le mie scuse. Mi sono comportato da puerile idiota, ho peccato d’adulterio, intraprendendo un’inutile quanto imbarazzante vendetta, contro cosa, poi? Contro ombre partorite dalla mia mente”, si fustigò impietoso e mollò la presa dal polso del minore, intrecciando nuovamente le dita. “Vi ho accusato ingiustamente e me ne pento. Voi volevate soltanto risparmiarmi un grande dolore.”

Hironimo s’esibì in un sorriso tirato. “Siamo fratelli”, ripeté le parole pronunciate poc’anzi da Marco. “E tra fratelli ci si perdona tutto, no? Anch’io posseggo la mia buona dose di colpa in questa vicenda e vorrei aver parlato prima, evitando così di farti soffrire inutilmente e perdere tempo prezioso.”

E pronunciato il suo mea culpa, l’ultimogenito Miani ritornò a studiare le sue mani, ch’avevano scavato furtive e rapide nella nuda terra una buca dove posare quella scatoletta, ricoprendola e livellandolo l’humus finché il dislivello non era stato appianato. Ogni anno Hironimo si recava al monastero di San Michele in Isola, accarezzando le piante che crescevano sopra la piccolissima tomba improvvisata, staccando un dente di leone o una margherita selvatica e portandosela seco, interpretandolo come un regalo del nipote sconosciuto, un modo per ricordarsi di ciò che poteva esser stato.

Avrebbe dovuto confessarlo a Marco? Oppure lasciargli immaginare il destino di quel figlio mai nato?

Osservando, mesi dopo, dalle finestre di Castelnuovo di Quero la primavera sbocciare e ricoprire di scarmigliati fiori gli alberi, le rive della Piave e i prati del Cesen, Hironimo giunse alla conclusione ch’era meglio così: inutile oberare suo fratello, da lui ferito per l’ennesima volta, di un ulteriore peso specie riguardo ad una creatura, che nulla possedeva d’umano, almeno nell’aspetto fisico.

Quella tristezza, quel magone, quel rimpianto verso una vita sfumata senza possibilità di vivere e mettersi alla prova, egli li avrebbe affrontati da solo a monito e penitenza per le sue bugie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Questo è la terzultima digressione del Nostro, arrivando così alla conclusione del suo percorso di meditazione su di sé e del suo passato.

Sulle dinamiche coniugali di Marco ed Elena Miani abbiamo chiaramente romanzato, poiché poco o niente si conosce, specie sulla vita della greca, di cui è riportata soltanto la data di matrimonio (1503) e che è morta prima del 1519.  Sua sorella Regina sarà la madre del futuro Doge Nicolò da Ponte (per maggiori informazioni, vedi note cap.16)

Dall’unione della coppia nacquero due figli, Angelo il Giovane e Cristina, mentre Marco ebbe un illegittimo appellato Scipione, di cui però s’ignora la data precisa di nascita, ma stando al testamento del padre, quando quest’ultimo fece testamento per la prima volta non doveva aver ancora compiuto i 18 anni. In caso Scipione dovesse esser nato dopo la morte di Elena, mi scuso allora con Marco per come l’ho trattato in questo capitolo ^^’ Ma questo è quel che si merita, per non averci fatto reperire l’esatta data di morte di sua moglie …

Quanto alla nascita di Cristina, non ho trovato alcuna data, però ho ipotizzato essere figlia di primo letto, poiché nel testamento Marco scrive: la  (la seconda moglie) prego etiam li sia ricomandato Anzolo et Crestina. Fosse stata Cristina figlia di secondo letto, trovo decisamente incomprensibile che dovesse raccomandarla a sua madre.

Inoltre, ho ipotizzato essere stata la ragazza in età da marito al momento della morte di Marco: infatti, nelle prime versioni, egli voleva che o si facesse monaca o che vivesse da “pizochera” (cioè da zitella beghina) per non pesare economicamente sulla famiglia, per via della dote laica, e ciò il prima possibile. Poi però, Cristina dovette esser cresciuta in una bella signorina e Marco, forse sentendosi in colpa, istruì il figlio Angelo di a) darle una piccola rendita di 25 ducati annuali se fosse rimasta nubile; b) 300 ducati di dote religiosa se avesse preso i voti; c) 1000 ducati in contanti se si fosse sposata. Quale delle tre opzioni Cristina scelse, purtroppo rimarrà un mistero.

Anche storicamente vera è l’antipatia tra Dimitri Spandolin e Marco, giunta allo zenit con una causa del suocero contro il genero, quando questi gli fece confiscare tutte le merci trasportate da Costantinopoli, assieme all’altro genero dello Spandolin, Nicolò Trevisan.

Riguardo alla questione di Maria Basadonna, noi vogliamo fino alla fine credere che sia stata solo una collaborazione a fin di bene (il matrimonio della nipote Maria da Molin e del cugino Carlo Morosini) e null’altro, sebbene ammettiamo che non si possa escludere l’ipotesi che, ad un certo punto, lei e Marco Miani fossero stati amanti.

Più che scoprire, infatti, come Maria Basadonna fosse la zia di Maria da Molin Morosini (nulla di strano, oggi come allora mogli e mariti si trovano più facilmente nel cerchio delle conoscenze) a sconcertarci furono le parole di Carlo Morosini, ossia che fu “ben astretto da ser Marco Miani et la moglie di ms. Hieronimo da Molin” a sposarsi. (E poi dicono che erano le ragazze quelle sempre prigioniere nei matrimoni combinati.) Capisco l’ansia della zia di contrarre nozze vantaggiose per la nipote, ma Marco che c’entra in tutto questo? Perché lui e la Basadonna hanno insistito? Coincidenza? Forse sì, forse no, perché, rimasto vedovo di Elena Spandolin attorno al 1517-18, Marco Miani si risposerà proprio con Maria Basadonna, rimasta anch’ella nel frattanto vedova. Tuttavia, appena divenuto diciottenne, suo figlio Angelo si sposerà con la sorellastra Caterina da Molin, ereditando un cospicuo patrimonio, essendo rimaste infatti solo lei e sua cugina Maria da Molin Morosini le uniche eredi dei da Molin. Tanta fretta di ammogliare il figlio ci ha fatto credere che Marco avesse già da tempo in progetto quest’unione, unendo l’utile al dilettevole e sposandosi la vedova così d’avere sia la dote di Maria sia in custodia Caterina, sottraendola ad altri eventuali pretendenti. Due piccioni con una fava, insomma. Curiosamente, tale procedura alla famiglia da Molin non era estranea, giacché la nonna di Caterina da Molin Miani (Caterina da Canal) era stata anche la sorellastra del nonno Antonio da Molin, figlia di primo letto della matrigna di quest'ultimo, Cristina Franceschi.

 

 

Un po’ di noticine:

[1] Andrea da Ponte, detto il “Zotto”, fratello minore del futuro Doge Nicolò da Ponte (1491-1585) divenne assieme a Carlo Corner, Alvise Malipiero, Alvise Bembo e Marco Antonio da Canal uno dei più attivi diffusori della Riforma Protestante a Venezia. Malgrado la palese protezione del fratello Nicolò – anch’egli di posizioni anticlericali e antiromano convito, specialmente infastidito dall’Indice dei Libri Proibiti più per il danno economico inferto alle case editrici veneziane, che per vera e propria ortodossia – Andrea da Ponte venne tuttavia troppe volte inquisito dal Sant’Uffizio da soprassedere all’infinito e la sua abiura al cattolicesimo lo costrinse infine nel 1560 ad espatriare nella calvinista Ginevra dove morì nel 1585, poco prima del fratello maggiore. Per la sua fuga e le sue idee protestanti, il Da Ponte subì una pesante damnatio memoriae, utilizzando i suoi avversari la sua malformazione fisica per sottolineare la sua natura diabolica ed eretica.

[2] A conferma della fiscalità circa la legittimità del sangue dei rampolli patrizi, presentiamo degli estratti di documenti relativi al Nostro:

Doc 1: “Anno 1506, giorno 1 dicembre. La nobildonna Leonora Morosini, vedova del nobile sier Angelo Emiliani q. sier Luca, presentò e fece inscrivere al concorso della palla d’oro, per intervenire al Maggior Consiglio, il nobil giovine Girolamo suo figlio, nato da essa e dal predetto suo legittimo consorte, e giurò essere egli dell’età di vent’anni compiuti, ed essere suo figlio legittimo nato come sopra; sotto le pene stabilite dalle leggi tanto per l’età come per la legittimità, se risultasse diversamente. Inoltre i nobili uomini sier Jacopo Barbaro q. sier Bartolomeo e sier Benedetto Contarini q. sier Ambrogio giurano la legittima nascita del detto giovine per pubblica voce e fama dal legittimo matrimonio dei predetti coniugi. Questo alla presenza dei magnifici missieri e Avogadori di Comune Taddeo Contarini, Giovanni Corner e Giovanni Badoer, dottore e cavaliere.”

E malgrado tutto, fin quasi al 1919 si pensò esser nato il nostro nel 1481 (a Venezia la targa commemorativa porta questa data), confondendo la data con quella di suo fratello Marco … sigh …

[3] Andrea Vendramin divenne doge il 5 marzo 1476, data che noi ci siamo presi la licenza poetica d’attribuire alla nascita del figlio naturale di Battista Morosini. Andrea Morosini era veramente soprannominato “Vendramino”, come riportato dal Sanudo in occasione della sua morte nel 1526.

Ora, se costui agli inizi del Cinquecento era un mercante già affermato in Siria e addirittura amico dello Shah di Persia, molto probabilmente era nato prima del matrimonio del padre, avvenuto nel 1481. Quindi, c’è chi crede alle coincidenze e chi non ci crede, ma guarda caso c’è un doge ante l’81 che si chiama “Andrea Vendramin” e il nostro uomo si chiama “Andrea” e fa “Vendramino” di soprannome. Un omaggio al Doge? Mancanza di fantasia? A meno che lo zio Battista non abbia fatto il furbetto con una delle numerose figlie del Doge, leggasi: Felicita, Orsa, Clara, Taddea, Angela ed Elena, sebbene sia improbabile come ipotesi giacché le signore erano o più anziane del Morosini o al massimo sue coetanee. Il Titta s’è portato il segreto nella tomba, mi sa.

[4] Nel suo testamento Margherita Vitturi Miani del ramo di San Cassiano (per niente imparentati coi Miani di San Vitale, anzi lo stemma è pure diverso) aveva lasciato presso i Procuratori una grossa somma da donare all’abbazia dell’isola di San Michele, acciocché costruissero una cappella dedicata alla Vergine Annunziata in memoria del defunto marito Giovanni (o Giambattista) Miani. La donna morì nel 1455, però la “Cappella Miani/ Emiliani” verrà costruita soltanto nel 1528 su progetto di Guglielmo dei Grigi detto Bergamasco e restaurato da Jacopo Sansovino nel 1560. È una cappella esterna a pianta esagonale con una cupola in pietra d’Istria, con all’interno tre altari ornato ciascuno da tre pale in marmo: Annunciazione, Adorazione dei Magi, Adorazione dei Pastori ad opera dello scultore Giovanni Battista da Carona, il quale scolpì anche le statue di Santa Margherita e San Giovanni Battista, collocate nelle nicchie esterne alla cappella.

[5] Tommasina Morosini “dalla Sbarra” (1250 – 1300) era la figlia di Michele Morosini e di Agnese Corner di Andrea; nel 1264 sposò Stefano “il Postumo” Arpadi, figlio di Beatrice d’Este e d’Andrea II d’Ungheria (colui che spodestò Ladislao figlio di Costanza d’Aragona, poi moglie di Federico II di Svevia). Stefano morì nel 1271 a Venezia e venne seppellito a San Michele in Isola. Il figlio suo e di Tommasina, Andrea III detto “il Veneziano”, assunse il potere nel 1290 e chiamò tre anni dopo la madre come amministratrice della Croazia, Dalmazia e Slavonia. Tommasina morì improvvisamente nel 1300, forse avvelenata. Uno dei suoi fratelli, Giovanni Morosini, fu il padre di Tommasina Morosini moglie del Doge Pietro Gradenigo e suocera del primo signore di Padova, Giacomo I da Carrara, che aveva sposato sua figlia Elisabetta Gradenigo. Giovanni Morosini sarà inoltre il capostipite del ramo da cui discende Leonora Morosini, madre del Nostro.

[6] Reitia potnia theron = Reitia signora degli animali era il corrispettivo della grande Dea Madre presso i Paleoveneti, molto venerata e i cui templi molto spesso sorgevano presso i fiumi.

 

 

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Capitolo 28
*** Capitolo Ventiseiesimo, parte prima: Confiteor ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 27.10.2021

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Capitolo Ventiseiesimo

Confiteor

(Non desiderare la donna altrui; Non desiderare la roba d'altri.)

Parte 1

 

 

 

 

Era molto facile, quasi inevitabile, desiderare la donna altrui, anche quando in miniatura. Dal giorno della loro nascita, le nobildonne veneziane non appartenevano mai a se stesse, preziosissime pedine di un sottile gioco sociale, economico e politico, destinate o a qualche ancora incognito patrizio o a Domine Iddio.

A Ca’ Miani l’elemento femminile s’era rivelato piuttosto carente: tranne per Madre – al vertice della gerarchia - zia Maddaluzza e le mogli dei cugini, si poteva ben dire che in quel palazzo si respirasse un’aria quasi da quartier militare. Crestina non aveva lasciato una sufficiente impressione per mitigare quello spartano rigore maschile, né in casa né tantomeno nel fratellastro Momolo, essendosi sposata quando lui aveva appena tre anni. Non significava certo che per il piccolo Miani ella fosse morta, tuttavia quando voleva vedere Crestina, Momolo doveva recarsi a Ca’ da Molin alla Maddalena, in un ambiente a lui estraneo e relazionandosi con la sorellastra alla stessa maniera con cui interagiva con le matrone di Ca’ Miani, rispettoso e serio, niente frivolezze.

Al contrario, a Ca’ Morexini si respirava una più muliebre leggerezza, tra risate civettuole, delicati profumi floreali e fruscii di cottole. Similmente alla tavolozza del pittore, Momolo si destreggiava tra le variegate personalità delle sue cugine germane, scoprendo quanto tutte possedessero almeno una virtù a lui gradita.

Anzola Morexini di sier Ferigo, tanto per incominciare, era la più buona delle fanciulle; domestica, timida e molto devota, prendeva sempre le difese del cuginetto e se lo coccolava al petto, riempiendolo di baci e parole affettuose, sia di conforto che d’incoraggiamento quando Momolo faticava a capire le sue lezioni o si lamentava dei suoi compagni a scuola. Anche la sorellastra di Anzola, Maria Bolani, era molto gentile e nulla prima della morte di Padre aveva reso più felice Momolo di recarsi in chiesa con le cugine, mano nella mano, e di riempire di fiori l’altare della Madonna in primavera, pregando assieme.

Magdalena Morexini di sier Hironimo possedeva come la cugina Anzola un carattere introverso, ma la sua non corrispondeva ad una timidezza soave, bensì a quella guardinga di chi s’era vista orfana di madre e quasi subito figliastra di una donna giovane, graziosa e decisamente più nelle grazie del padre rispetto a lei. Unica sopravvissuta dei fratelli, Magdalena sapeva che sier Hironimo avrebbe di gran lunga preferito al posto suo un erede maschio (soprattutto per dargliela sui corni all’odiato fratello Batista) e che l’apparente sterilità di madona Agnese Erizo Morexini non la sollevava da certe occhiate deluse, come se, con lo sguardo, i seni della ragazza potessero svanire e crescerle un pene tra le gambe. Per questo motivo, Magdalena aveva l’abitudine di starsene per i fatti suoi, mal sopportando la presenza maschile e di fatti Momolo notò come, non appena la pubertà aveva incominciato a virilizzare il suo corpo, sua cugina avesse incominciato a trattarlo più freddamente, specie quando sier Hironimo aveva preso a regalargli doni su doni, ignorando la figlia.

Maria, Querina, Marina e Donata di sier Batista erano indubbiamente le principesse di Ca’ Morexini. Querina a Momolo era sempre apparsa piuttosto scialba, la brutta copia di sua sorella maggiore Maria: qualsiasi cosa ella facesse, la minore la copiava, suscitando non poche preoccupazioni in zia Morexina, il cui carattere esuberante di Maria le provocava mille apprensioni, temendo in una corruzione della sua secondogenita femmina, più ingenua ed indifesa. In realtà, aveva scoperto Momolo, sua cugina Querina altro non era che una gattamorta fatta e finita: Maria era bella e impavida come una Diana cacciatrice col cuore però di una generosa Venere. Querina, al contrario, con quell’aria fragile e verginale, con il suo perenne pigolare delle sue sfortune e la vocina sottile e cantilenante, pareva una Vesta ma sotto-sotto era più ambiziosa d’una Giunone. Se gli uomini adoravano Maria per la sua arguzia e briosa spigliatezza, l’aria dolce, vulnerabile e bisognosa di protezione di Querina li imbizzarriva. Marina e Donata, le più piccole, grazie a Dio erano libere e selvagge come Amazzoni, non curandosi ormai più i loro genitori d’educarle tanto rigorosamente quanto le maggiori. Marinella e Donatella (com’erano chiamate in famiglia per distinguerle dalle omonime parenti) ridevano, scherzavano, giocavano spensierate con i fratelli e cugini d’ambo i sessi ed erano talmente spontanee nella loro vivacità da scaldare i cuori e Momolo se le issava in braccio a turno e le faceva roteare tutto contento, specie perché le cuginette erano le prime che gli correvano incontro durante le visite.

Però, però … era Maria la sua preferita. La splendida Maria, dalla pelle bianca come la spuma del latte, i capelli scuri e morbidi, le iridi nere, vivaci e liquide. Agli occhi di Momolo ella incarnava l’ideale perfetto di femminilità e nulla al mondo gli recava più piacere, d’appoggiare la guancia sulla sua spalla mentre lei leggeva ad alta voce o di scorrere le dita tra i suoi lunghi capelli sciolti con la scusa di pettinarglieli oppure, nell’altalena improvvisata, di stringersi stretto a lei, sincronizzando il battito dei loro cuori, mentre si sussurravano segretucci alle orecchie. S’era, insomma, scoperto innamorato e gli scocciava di sentire Maria parlare ammirata e sognante di cavalieri e condottieri, volendo essere lui l’unico oggetto dei suoi sospiri.

Ma erano soltanto sogni, i suoi.

Momolo aveva sempre saputo che le sue cugine germane, in primis Maria, terminata la loro educazione in convento, sarebbero state maritate a qualcuno, figlie femmine troppo utili da venir sacrificate sterilmente alla vita religiosa, come affermato in più occasioni dallo zio Batista. Nella sua mente di bambino ciò significava che Maria e le altre sue cugine non avrebbero più giocato con lui, il che lo rattristava un poco: anche se capricciosa al limite del tirannico, Maria non lo prendeva mai in giro e gli insegnava  tanti passatempi interessanti, quali giochi di carte sia con le trevisane che coi tarocchi (inventandosi talora all'improvviso nuove e strampalate regole per vincere a discapito sia di Momolo sia delle sorelle). L’idea di doverla cedere ad un altro compagno di giochi innervosiva il fanciullo, arrovellandosi su come impedirlo. Perfino nei confronti dei fratelli di Maria nutriva una certa gelosia, poiché condividevano più tempo con lei rispetto a lui.

Inoltre, l’essersi suo malgrado ritrovato a spionciare ciò che marito e moglie combinano nell’intimità del proprio talamo aveva aperto a Momolo un mondo nuovo, pieno zeppo di mille domande sugli uomini e sulle donne, dalle faccende tra di loro alle differenze corporali. La sua innocenza e genuina curiosità gli guadagnavano tuttavia risposte vaghe e un poco imbarazzate, oppure sghignazzanti dai maliziosi fratelli e cugini maggiori, i quali non resistevano alla tentazione di scioccare il minore tramite dettagli crudemente scabrosi, i quali però sortivano l’effetto di rafforzare quell’inconscia diffidenza che Momolo nutriva verso di loro, giudicando le loro verità scherzi di pessimo gusto.

E sempre perché i bambini studiano, assimilano e scimmiottano i grandi senza però giudizio alcuno, ecco che uno dei giochi preferiti di sua cugina Maria consisteva nel sposarsi e fingere che le sue piavole fossero i suoi puttini. Ovviamente, la materia prima, ossia il marito, rimaneva un vago concetto a destinarsi e se un piccato Momolo chiedeva alla Morexini dove si trovasse il sior marido, lei rispondeva con nonchalance “in mare, patron di galea”.  

Sicché, stufo marcio di star lì a fare sempre lo “zio”, un giorno Momolo  osò metter in pratica quella cosetta ch’aveva di nascosto visto far Padre a Madre.

I due cugini stavano giocando in giardino a Ca’ Morexini quando Momolo, di punto in bianco, aveva afferrato Maria per le spalle e le aveva stampato un bacio sulla bocca, davanti alla sorella Querina, che subito corse a fare la spia, gelosa più che scandalizzata. Anzola e la sorellastra Maria Bolani s’erano messe a ridere di cuore e pure Magdalena, scuotendo affettuosamente il capo. Quanto a Maria, immediatamente ella storse le labbra e cacciò fuori disgustata la lingua, appioppando al cuginetto un sonoro ceffone.

“Ma perché?”

“Che schifezze fai?”

“Ciò, quel che fanno marito e moglie!”

“Non è vero, te lo sei inventato!”

“E invece sì: il sior mio Pare lo fa sempre alla mia siora Mare, quando esce per lavorare, quando rincasa, quando è in studio e prima di andare a letto!”

“I miei siori genitori non lo fanno mai, quindi stai mentendo!”

“E’ la verità, ti dico! E se vuoi giocare alla moglie, devi baciare tuo marito!”

“Sei un bugiardo!”

“Non sono bugiardo!”

“E pure porcello!”

“Non è vero!”

“E poi tu non sei manco mio marito!”

“Allora sposami e poi ti bacio ancora!”

Al che Maria lo schiaffeggiò di nuovo e corse piangendo da sua madre, madona Morexina, accusando Momolo di comportarsi da lascivo Tarquinio. Ne conseguirono una tirata d’orecchi e un solenne sermone da parte della zia, laddove ella ricordava pedantemente al nipote della reputazione della cugina, la quale doveva rimanere impeccabile se desiderava trovare un buon partito, e in generale l’ammoniva di rispettare ora e per sempre il pudore delle putte onorate, che mai andava violato sì impunemente. “Sii grato, bestiaccia, che il tuo sior Barba ti concede di frequentare le tue zermane! In alcune famiglie soltanto i fratelli posso interagire con le sorelle nubili!” Pur arrossendo furiosamente dall’umiliazione, Momolo non si considerò affatto colpevole per il suo gesto, in fin dei conti lui aveva proposto a sua cugina di sposarlo e poi manco ci credeva ch’avesse un fidanzato, figurarsi un marito! Inoltre – e qui il fanciullo sorrise tra sé e sé perfido – qualcosa gli diceva che sua zia Morexina sotto-sotto stesse crepando d’invidia, poiché anche a lei sarebbe piaciuto esser baciata più spesso dallo zio Batista e a nulla valeva quel suo rimproverare Madre e Padre per le loro effusioni amorose, da lei giudicate inappropriati atteggiamenti d’adolescenti al primo amoretto estivo. Sicché il piccolo Miani, al rientro in casa dello zio Batista, gli era andato dritto incontro e, mani sui fianchi, aveva chiesto: “Sior Barba, posso sposarmi vostra figlia, sì o no?” e il Morexini, ch’aveva capito che più s’ostacolava il nipote e più quegli remava contro, aveva risposto falsamente solenne: “Quanto diverrai Missier Capitan Generale da Mar, te la darò in moglie”.

Furbo lui.

In ogni modo, la cottarella verso la cugina scomparve tanto velocemente quanto era nata, stroncata dalla morte di Padre, la quale coincise col trasferimento di Anzola, Magdalena, Maria e Querina al convento, là dove per cinque anni avrebbero migliorato le loro competenze di matrone, in un ambiente esclusivamente femminile e al sicuro dalle insidie degli uomini e dalle tentazioni carnali.

O almeno si sperava.

Il 26 ottobre 1502 scoppiò infatti l’ennesimo scandalo dietro le mura conventuali, stavolta al Monastero di Santa Maria delle Vergini, nel sestiere di Castello. L’Avogador sier Francesco Foschari si vide arrivare in Quarantia Criminal una banda di munegini, tra cui sier Vicenzo q. sier Ziprian Morexini, il nipote di Maria Morexini Miani cugina di Madre. Nessuno dei Morexini di San Cassian si sorprese di tale arresto, ben avvezzi alla sua consolidata fama di puttaniere impenitente; eppure, nella disgrazia sier Anzolo, fratello maggiore di Vicenzo, vi scorse una ghiotta possibilità per imbrigliare finalmente quel cavallo pazzo del minore e al contempo punirlo ad perpetuam della sua sfrenata lussuria. Al culmine di un processo durato ben quindici mesi, sier Anzolo aveva costretto Vicenzo a dire che sì, egli aveva in più occasioni conosciuto carnalmente la giovane monaca Franceschina Boldù di sier Alvixe, ma in quanto spinto dall’immenso amore che nutriva nei suoi confronti e pertanto era prontissimo a riparare, sposandola. Ai Boldù non parve vero di stringere tale vantaggiosa alleanza e l’Avogador si ritenne soddisfatto. Vicenzo scontò dunque prima la condanna emanata dalla Quarantia Criminal e poi quella da suo fratello Anzolo. Perché madona Franceschina Boldù Morexini mica era una agnellina di primo pelo, oh no! Oltre ad essere l’amante di Vicenzo Morexini, costei aveva condiviso per anni il suo letto con sier Zorzi Contarini e con sier Bernardo Pixani, rendendo quest’ultimo padre di più d’un figlio.  

“E come se non bastasse”, se la rideva la cantante e la cortigian honorata Luzia Trivixan, “il caro sier Bernardo, oltre a madona Franceschina, se la spassava anche con madona Benedicta Lego sua consorella! Sapete come s’introducevano? Usando scale e le piante rampicanti! Addirittura, codeste monache non soltanto intrattenevano commerci carnali con patrizi e cittadini veneziani, ma pure da fuori: tre loro amanti se le sono portate a Vicenza per sollazzarsi allegramente, con la scusa di un pellegrinaggio al santuario di Monte Berico” e prese fiato, asciugandosi le lacrime agli occhi. “Santa Cecilia mia! Neppure a casa mia c’è tutto questo viavai di uomini!”

“Ma neanche alle Carampane!”, sbottò invece sier Batista, sorprendendo Momolo per il tono stranamente perentorio dello zio. “L’ho sempre detto, che Le Vergini non è un luogo onesto: sin dai tempi del Doge Francesco Foschari è sempre stato invischiato in turpi negozi, con le sue monache più in calore delle gatte ed una di queste adesso ce la ritroviamo pure in famiglia! Ma che diavolo è saltato in testa al mio cugino Anzolo d’ammogliare suo fratello a quella mamola?!”

“Personalmente, lo trovo un raffinato contrappasso, roba che il sommo Dante applaudirebbe: poiché sier Vicenzo è un disonesto dunque si sposi una disonesta!”

“Momolo, ti ho forse detto di smetterla d’esercitarti col liuto? Non far perdere tempo alla Luzietta!”

“Oh, mo’ via, sier Batista”, corse Luzia in aiuto di Momolo, accarezzandogli la zazzera indomita e provocandogli un attorcigliamento di budella. “Il vostro nezzo ha ragione: una puttana per un puttaniere, il castigo perfetto!”

“Ma il Pixani? Il Contarini? Chi c’assicura che quella svioldra cesserà d’intrattenerli? Bone Jesu, ha avuto dei figli dal primo! Non finirà che Vicenzo la mantiene e gli altri se la galdono? (godono, ndr.)”

“Bah, per me a loro non farà differenza: in inverno, vedrete, si scalderanno in quattro in letto!”,  gettò indietro il capo la Trivixan, ilare. E facendo un occhiolino a Momolo, si sedette sulle ginocchia dello zio, ticchettandogli la punta del naso, l’apostrofò giocosamente: “La verità è che voi siete invidioso, perché sier Bernardo, sier Vicenzo e sier Zorzi hanno tutti avuto gratuitamente accesso alla mona di madona Franceschina, mentre voi per la mia …” e come terminò la frase Momolo non l’apprese, sia perché la cortigiana honorata l’aveva sussurrata maliziosamente all’orecchio dello zio, sia perché l’intera conversazione unita a quell’effusione amorosa gli stava provocando una certa tensione dentro la braghetta, costringendolo ad appoggiare il liuto e a correre via dalla stanza, le gote in fiamme.  

Pettegolezzi a parte, effettivamente Momolo aveva in più occasioni sentito su di sé lo sguardo voglioso di educande, novizie e perfino delle monache da dietro le grate del parlatorio, quando si recava in visita alle sue cugine onde portare loro di nascosto un libro o per ciacolare del più e del meno. Occhiate di fuoco che lo spogliavano strato dopo strato, confessandogli desideri della più ormonale lascivia e non si poté dire che il ragazzino non le ricambiasse, avvicinandosi magari al ferro e appoggiando sopra d’esso la mano, intrecciando “casualmente” le dita ora con educante e ora con postulanti o novizie, desiderandole tutte e nessuna in particolare, ninfe ridenti e maliziose anche se nero o biancovestite. Gli anni a seguito di Madre e di tutte le sottane di casa gli avevano insegnato una rara arte, declamata dal medesimo Ovidio, ossia di saper ascoltare le donne: qualsiasi confidenza e conversazione, anche se banale e noiosa, Momolo le ascoltava serio e attento, commentando vivacemente e anzi, pure incoraggiando quelle recluse a fornirgli maggiori dettagli. Sicché, estasiate da cotanti riguardi nei loro confronti, le signorine si contendevano la sua compagnia e gli sussurravano all’orecchio paroline infuocate.

Tali visite cessarono per un breve periodo, quando le sue germane ritornarono nel mondo e vennero piazzate sul mercato, in attesa che i signor padri pescassero l’anguilla giusta per loro, come avvenne per Maria, la quale tre anni dopo si sposò in sier Zuanne Querini di Stampalia e Amorgo. Le visite al convento ripresero invece nel momento in cui sua nipote Dionora da Molin seguì le orme delle parenti, divenuta la giovinetta amica di Marina Morexini, figlia ed erede universale dell’ognora vituperato e ricco sier Orsato Morexini.

Pur divisi dall’età, la fanciulla sin da piccola aveva dimostrato un’incredibile precocità di pensiero, forse per difendersi dalle follie di sua madre madona Pellegrina Nani relicta Morexini, la quale se avesse potuto più che in convento l’avrebbe rinchiusa nella più alta torre fortificata della Serenissima, tanto temeva l’unica figlia finire vittima di cacciatori di dote senza scrupoli. Prima di venir bandito dalla sua presenza, giudicato appunto una delle sopracitate canaglie, lei ed Hironimo avevano condiviso una delicata amicizia, accomunati da un lutto inconsolabile, la morte precoce dei rispettivi padri, e pertanto conversando in sintonia perfetta. Il giovane Miani l’aveva rivista in via straordinaria al matrimonio di Maria, stentando di riconoscere l’antica amichetta in quella donnina: a confronto, la dodicenne sua nipote Dionora pareva  fisicamente ancora una bimbetta, spigolosa, piatta e dai fianchi stetti, tutta gambe lunghe; al contrario la sua amica, di un anno più anziana, era maturata in fretta, prosperosa ma non troppo di seno, morbida e sinuosa.

Ma la cosa più straordinaria era che Marina non s’era affatto scordata del loro legame, per quanto platonico esso fosse stato, supplicandolo con sospettosa arte di venirla a trovare più spesso in convento, così da scacciare la noia e se non per amor suo, per la povera Dionora lì tutta sola soletta.

Hironimo s’era prestato volentieri a quello che, in fin dei conti, per lui si trattava di un gioco: non gli dispiaceva ridacchiare a questo o quell’aneddoto di vita conventuale assieme alle tre educande, né di divertirle invitando dei burattinai ad improvvisare uno spettacolino, del quale si giovavano anche le altre fanciulle, sempre al sicuro dietro la grata. Aveva accettato volentieri i fazzoletti ricamati da Marina, così come lei divorava i designi allegorici che Hironimo le passava, decifrando talvolta rebus contenenti qualche battuta di spirito o la risposta ad un indovinello che lui le poneva. Ben presto però Marina iniziò a replicare con altrettante allegorie amorose e Hironimo rispose con cavalleresca leggerezza, rammentandosi che si trovava dinanzi ad una bambina che giocava alla donna. Non l’incoraggiava né scoraggiava, poiché sapeva che l’incanto sarebbe sfumato non appena Marina avesse terminato gli studi.

“Oggi è il mio compleanno e non mi avete portato neanche un dono: sappiate, che sono molto in collera con voi”, gli confessò la quattordicenne fanciulla, deambulando felina dietro la grata e seguita parallelamente da Hironimo, che ridacchiò:

“Non vi piace il nastro di seta, che v’ho regalato?”

Marina alzò la lunga e pesante manica, rivelando la pregiata stoffa fasciante il polso e chiusa in un elaborato fiocco. “Non la posso mostrare a chicchessia”, storse la boccuccia. “Inoltre, l’ho trovato un regalo assai freddo.”

“Freddo?”

La giovinetta si fermò all’improvviso, afferrando le sbarre con ambedue le mani. “Se voi m’amaste sul serio, m’avreste donato un bacio!”

Il patrizio rise di cuore, scuotendo ilare il capo. “E come?”, disse, alludendo alla grata, che impossibilitava tali effusioni, ideata forse apposta.

“Avreste trovato il modo!”, replicò cocciuta ed imbronciata Marina. “Vi odio, Hironimo Miani, non vi parlerò mai più in vita mia!”

“Mo’ via, quante storie! Non fate i capricci!”, la rimproverò il ragazzo scherzosamente, pur avvicinandosi alla grata.

“E voi non fatemi morire di dolore!”, piagnucolò la fanciulla.

“Cosa dirà il vostro novizzo?”

“Non ho alcun novizzo; amo soltanto voi, l’unico che desidera me e non i miei soldi!”, sbottò Marina, asciugandosi le lacrime che incominciavano ad inumidirle i grandi occhi allungati.

Un po’ per colpa, un po’ per curiosità, un po’ perché dinanzi ad una bella ma piangente ragazza il cuore dell’uomo tende a sciogliersi in fretta, Hironimo cedette alle insistenze della giovinetta e si portò due dita alle labbra, prontamente imitato da lei. Ambedue schioccarono un sonoro bacio sui polpastrelli e in contemporanea infilarono il braccio dalla parte opposta della grata, accarezzando la rispettiva bocca, sennonché all’improvviso Marina gli catturò l’indice coi denti, mordendolo a mo’ di punizione per la sua insensibilità e poi suggerlo languidamente, provocando un’inaspettata scarica di caldo e freddo nel ragazzo, di mollezza e durezza di membra. D’istinto, mandando al diavolo (con ogni rispetto per il luogo) le conseguenze, Hironimo ghermì la mano di Marina e s’infilò in bocca il sottile medio di lei, accarezzandole la falange con la lingua, avvolgendola in un umido abbraccio. Senza accorgersene i due giovani si spinsero contro il muro e la grata e congiunsero in sincronia perfetta le loro bocche, intrecciando le mani mentre Marina afferrava quella destra d’Hironimo per porsela sul seno sinistro e massaggiarselo in movimenti circolari, il sangue ribollente nelle vene.

Quand’ecco che l’eco dei passi li gelò, portandoli a staccarsi rapidissimi, il fiato mozzo e irregolare, fissandosi increduli e complici negli occhi.

“Verrete domani?”, ansimò Marina, sorda al richiamo lontano della suora responsabile delle educande.

Hironimo non si recò più al convento, inviando soltanto lettere alla nipote e  senza mai menzionare la Morexini. La consapevolezza di quanto compiuto gli era crollata addosso più pesante d’un macigno: era sbagliato, sbagliatissimo, com’aveva potuto cedere a quella debolezza? D’approfittarsi sfacciatamente dell’ingenua infatuazione di Marina? Lui le era maggiore, avrebbe dovuto comportarsi da responsabile e impedirle di compromettersi per un capriccio temporaneo. Non aveva un novizzo, vero, ma si trattava di questione di tempo. Sua madre madona Pellegrina Nani relicta Morexini non si sarebbe certo piegata dinanzi ai sentimenti acerbi della figlia e il giovane Miani non l’avrebbe trascinata nel lussurioso adulterio per soddisfare le sue brame. Lei non era sua, quell’ereditiera cui a tutta Venezia faceva gola.

In tali colpevoli pensieri e agitazione d’animo lei l’aveva scovato e corteggiato, lasciandosi Hironimo sedurre anche per dimenticare lo schifo che provava verso se stesso. Inoltre, s’era ripetuto la prima volta in cui i due novelli amanti s’erano appassionatamente congiunti, la sua amante era vedova e un morto non corrispondeva ad un granché come rivale. Anzi, al dì del funerale, onde sottolineare il concetto,  era usanza che il compare dell’anello o un parente del morto sfilasse pubblicamente la vera nuziale dal dito della vedova, segno che ogni legame terreno e spirituale col defunto veniva reciso, che la donna ritornava libera di sposare chiunque ella desiderasse.

(Madre a tal riguardo aveva fatto il diavolo a quattro, rifiutandosi categoricamente di sottostare a quel rituale tra lo sconcerto generale e rimproveri di melodrammaticità, stringendosi invece caparbia la fede e sostenendo che, da viva come da morta, ella sarebbe sempre stata la donna di Anzolo Miani e di nessun altro.)

 

***

 

In fin dei conti, per motivi di spazio fisico e di storia, Venezia aveva sempre vissuto in un mondo tutto suo, con le sue regole e la sua morale, infischiandosene dell’altrui opinione, semmai traendo diletto dallo stupore ed indignazione dei foresti, adorando semplicemente sconvolgerli e così ridicolizzarli. 

Tra i suoi molti atipici costumi, i visitatori stranieri avevano spesso notato come mai in nessun luogo si fossero visti tanti devoti e tanta poca devozione come a Venezia e ciononostante, i suoi abitanti possedevano una religiosità da riuscire ugualmente a stupirli: ad esempio, i veneziani potevano tranquillamente donare ingenti somme di denaro nei loro testamenti a questo o quell’ordine religioso e magari un attimo dopo schernivano pesantemente e strapazzavano il loro parroco o qualche pio monsignore; bestemmiavano perfino i morti eppure recitavano con sincero fervore i loro Paternostri e Avemarie; baciavano le sante reliquie e con la stessa bocca quella di una ragazzotta compiacente; un patrizio manteneva pubblicamente e senza alcun biasimo una cortigiana honorata, anche in casa al limite di un concubinato da harem, ma allo stesso tempo egli non avrebbe mancato la sua Messa per nulla al mondo.

D’altronde, riguardo a quest’ultimo punto, la qualifica di “cortigiana” non disonorava nella città lagunare, bensì dava credito e per una di queste donne di partido, sier Zuan Moro era uscito da una rissa sfregiato sul volto, malgrado a casa sua e dei due suoi rivali li attendessero mogli molto avvenenti. E se per le cortigiane di lume gli uomini erano disposti a bagarrare, figurarsi allora l'effetto delle cortigiane “honorate” su di loro, ricercatissime e degne eredi della greca Aspasia. I nobili si disputavano accanitamente i loro favori e il popolo la loro mano, mentre i pittori le tallonavano per immortalarne il vago volto in una qualche santa o dea. Costoro si trovavano al vertice della gerarchia delle amiche di letto e permettersi la loro compagnia confermava in società l’importanza, la ricchezza e la cultura dei loro clienti, nonché un’ottima opportunità d’intrecciare utili amicizie politiche e sociali, con la scusa di frequentare gli eventi mondani organizzati da quelle moderne eteree.

Stanchi delle fatiche della politica e magari delle lagne delle mogli o il chiasso dei figli, se maritati, o vogliosi di compagnia, se celibi, i patrizi veneziani spesso e volentieri si abbandonavano alle piacevoli festicciole preparate ad arte dalle cortigiane honorate, invitati a cene raffinate nei loro stravaganti e ricchissimi appartamenti, in cui non esistevano né censori né saggi, né ambasciate né guerra, bensì un mondo segreto creato esclusivamente per loro e fatto di sola effimera bellezza, dove codeste dee  incantatrici cantavano, danzavano, suonavano il liuto, improvvisavano versi e donavano quel pizzico di sensualità che, vuoi per pudore, mancanza di slancio o semplicemente l’età, la sposa non poteva offrire.

Qualora la cortigiana honorata (od onesta) fosse diventata un’estensione della famiglia del suo protettore, non era strano che si trasferisse in un piano del suo palazzo né che chiamasse il suo protettore (o protettori) "Mio signor" né che la moglie legittima ci pranzasse assieme, spesso divenendo amiche intime e ciò non per cristiana e muliebre bontà della patrizia, bensì per puro e gretto tornaconto personale e inoltre la mantenuta, se sveglia, ben le conveniva non discutere sulla gerarchia domestica. L’amante serviva ad intrattenere in ogni senso il marito, distraendolo dalla moglie che rimaneva finalmente libera dalle gravidanze e di gestire la casa a suo piacimento. Secondo, la cortigiana era la sua spia perfetta, la quale le riferiva ogni spostamento del consorte. Terzo, garantiva più possibilità all’intera famiglia d’evitare di contrarre il malfrancese. Quarto, la patrizia avrebbe visto più spesso in casa il marito, risparmiando inoltre sulla tariffa visto che vitto e alloggio erano già inclusi.

Ulteriore meraviglia per gli stranieri era, poi, come i patrizi veneziani non tendessero a riservarsi il godimento esclusivo delle amanti: pur mantenendo una cortigiana honorata, onesta o di lume, il nobile se la divideva allegramente con tre o quattro dei suoi amici o parenti, la donna il loro collante e portavoce. Tale liberalità però non doveva esser scambiata per incauto laissez-faire: anche in questi piccoli e intimi gruppi vigevano regole non scritte, laddove la mantenuta, pur seguitando pubblicamente ad intrattenere con musiche e conversazioni brillanti, s’impegnava a cedere i suoi favori solo alla sua ristretta cerchia, nessun intruso ammesso. Contrariamente alle cortigiane di lume, oneste e honorate a briglia sciolta, la mantenuta poteva ben rifiutare i suoi servigi a chi non le andava o a chi le veniva proibito e a suo modo sentirsi “fedele” al protettore e/o protettori.

Di sicuro non si faceva di un’erba un fascio e anche a Venezia esistevano mogli gelose e mariti fedeli, che personalmente non condividevano tali pratiche, ma neanche le giudicavano, semmai scherzandoci sopra.

Rimaneva comunque una situazione ambigua, specie per gli esclusi dal cerchio, poiché in un certo senso la mantenuta rappresentava il suo gruppo e un suo sbaglio si ripercuoteva anche sulla loro reputazione, associarsi a lei significava essere ammesso nel circolo, uno sgarbo da un estraneo equivaleva ad un insulto a chi la proteggeva.

Quando Hironimo conobbe per la prima volta Luzia Trivixan, egli aveva appena sette anni ma ci sarebbero voluti altri anni e un secondo incontro ufficiale per capire meglio, chi ella fosse e che ruolo avesse nella loro famiglia. Nella sua ingenuità l’aveva creduta una favolosa cantante, una nobildonna ospite della Regina di Cipro, ingannato dal cognome patrizio della cortigiana, uno dei molti misteri della Diva, del cui passato ella si dimostrava stranamente gelosa.  

Di quel lontano maggio del 1493, il Miani si sovveniva a spezzoni, spesso sconnessi tra di loro e della Trivixan uno stralcio di conversazione origliato tra lei e il suo barba.

All’epoca, sier Batista Morexini stava completando il suo mandato come provveditore sopra il Polesine di Rovigo, assieme ai colleghi sier Lucha Trum di Antonio e sier Francesco Bragadin q. sier Jacomo. Purtroppo, un qualcosa di quelle terre gli aveva raffreddato lo stomaco e in seguito a molto vomitare ed evacuare più acqua che feci, il Morexini aveva scritto alla Signoria, chiedendo e ottenendo un breve rimpatrio onde curarsi meglio, non confidando nella bravura dei medici rodigini né di far da cavia a quelli padovani. A sua moglie madona Morexina, che l’aveva accompagnato, non pareva vero di poter finalmente ritornare alla civiltà, lamentandosi con la cognata madona Leonora e domandandole il suo segreto, su come avesse fatto a sopravvivere quando sier Anzolo aveva ricoperto la medesima carica nel 1488. Madre le aveva raccontato che all’epoca c’era molto da fare ed erano sempre stati impegnati in mille attività, tra opere di bonifica, di potenziamento urbano e stradale, di smantellamento di ogni traccia del dominio estense da Rovigo e dalle altre città del Polesine. Praticamente il fratello viveva di rendita del lavoro del cognato e di sier Agustin Barbarigo, ora Doge ma primo provveditore delle nuove terre annesse alla Serenissima.

“Il loro accento è così terribile, come facevi a capirlo?”

“Dopo due anni a Feltre, dove si parla un misto tra veneto-trevigiano e ladino, nessuna parlata all’interno della Signoria m’ha più spaventata!”, scherzava madona Leonora dinanzi alle perplessità della cognata.

Le era dispiaciuto moltissimo lasciare Feltre, così come i suoi abitanti avevano pianto commossi il dì della partenza del loro beneamato podestà e capitano e della sua famiglia. Leonora si era affezionata a quella gente montanara; al vecchio monaco della basilica-santuario dei Santi Vittore e Corona che le preparava deliziose tisane, talvolta solo per il gusto di bere qualcosa di gradevole al posto del vino. Le sarebbe mancato il sole forte e caldo e l’aria frizzante e tersa, nonché quel perpetuo odore d’erba fresca e di latte appena munto. Perfino all’ululato dei lupi in inverno s’era abituata, non terrorizzandola più come la prima volta. Inoltre – e qui Madre arrossiva per quella sua piccola vanità – rimpiangeva un poco non trovarsi più al centro dell’attenzione: in conformità al titolo e al grado del marito, a Feltre la si chiamava madonna podestaressa e capitana e in quanto tale doveva mostrarsi in pubblico vestita sontuosamente, le vesti di diversi colori di broccati, seta, d’oro ed argento ed i capelli racchiusi in un’elaborata acconciatura ricca di perle e d’altre gioie, a malapena celata da un velo di seta bianco con trine d’oro. Quando usciva dal palazzo pretorio in visita o per recarsi nelle varie chiese, conventi e monasteri di Feltre per questa o quella devozione, Leonora era sempre accompagnata da un variopinto e civettante corteo di nobildonne locali e da una moltitudine di serve, tenendo così la sua piccola corte.

Trasferirsi a Rovigo non era stato facile, l’ambiente tutt’altro che amichevole, malgrado fossero trascorsi ben quattro anni dalla Pace di Bagnolo; forse troppo pochi per far dimenticare a certuni irriducibili, come sier Anzolo fosse stato capitano di galea durante la Guerra del Sale e rivederselo ritornare assieme ai colleghi sier Andrea Venier q. Lion e sier Domenego Zorzi q. Francesco, non doveva aver evocato graditi ricordi. Forse quella sottile ostilità aveva spinto i tre provveditori ad’intraprendere una linea politica particolarmente dura, stufi marci di quell’ostinatezza da muli: la Signoria s’era dimostrata paziente e tollerante, conservando in parte alcuni statuti estensi ma guai a chi scambiava la sua diplomazia per debolezza, sperandola di gabbare. Sicché, all’ennesima provocazione, i tre provveditori erano scesi col piede guerra e ogni simbolo degli Este era stato abbattuto e rimpiazzato da quelli della Serenissima, incominciando dall’antico castello, bruciato prima e smantellato poi.

Inutile dire quanto madona Leonora fosse stata contenta di rimpatriare a Venezia l’anno successivo, sorridendo di gioia pura alla vista della Torre delle Bebbe, l’antico segno di confine veneziano. Di conseguenza, un po’ biasimava la mancanza di stoicismo nella cognata madona Morexina, la quale stava risiedendo in una Rovigo totalmente diversa, più venezianizzata rispetto a quella di cinque anni addietro.

E parlando del diavolo – cioè gli Este – una settimana dopo il rientro di un sofferente sier Batista Morexini, a Venezia si festeggiava la Festa della Sensa cui avevano partecipato anche il marchesi di Mantova, Francesco Gonzaga ed Isabella d’Este, giunti separatamente, prima la moglie e poi il marito, entrambi “domesticamente” , ovvero senza un comitato di benvenuto ad accoglierli. I Marchesi avevano assistito in bucintoro allo Sposalizio del Mare e alla sera cenato a Palazzo Ducale assieme al doge Agustin Barbarigo. Madona Crestina Miani da Molin, scelta per il corteo di patrizie che doveva accompagnare ovunque la Marchesa per l’intera durata del suo soggiorno, aveva raccontato ai curiosissimi parenti ogni minimo dettaglio di quella visita, provocandone il riso specie quando descriveva le differenze comportamentali tra i due coniugi mantovani, tanto raffinata al limite dell’affettato lei, quanto terra a terra e assai volgare lui.

“Siccome ho dato una buona impressione, mi hanno poi confermata per far parte del seguito delle nostre prossime ospiti”, confessò Crestina a Madre, eccitatissima. Approfittando degli ultimi strascichi della Festa della Sensa, la Signoria stava lavorando puntigliosamente per accogliere al meglio Eleonora d’Aragona duchessa di Ferrara; suo figlio don Alfonso e la nuora Anna Maria Sforza e la secondogenita Beatrice d’Este duchessa di Bari, moglie di Ludovico il Moro, nonché un corteo di quasi 1200 persone, tra nobili milanesi e ferraresi. “Purtroppo non avrò tempo per ordinare gioielli nuovi e si sa che la Ducissa di Bari ne ha una sfilza di bellissimi …” e chissà dei 900.000 ducati spesi annualmente solo dalla città di Milano a Venezia (contro il milione e mezzo dell’intero Ducato) quale fosse la percentuale di contributo personale della giovane e insaziabile Beatrice d’Este, i cui ordini includevano rubini di Pegù, diamanti di Deccan, zaffiri, topazi e giacinti di Ceylon, smeraldi dall’India, turchesi del Khorassan e del golfo Persico, onice, corniola d’Arabia, cristallo di rocca del Zabulistan e del Badakhshan, occhi di gatto del Malabar, lapislazzuli della Tartaria. I vizi costano e la Serenissima si dimostrava solerte e generosa nel coccolare spudoratamente i suoi clienti, trasportando le sue agili galee ogni genere di bendiddio.

“Sì, la Ducissa ne avrà di costosi, ma nessuno regalato dall’Imperatrice in persona!”, la consolò madona Leonora, abbandonando momentaneamente il suo ricamo e, ritornata dalla sua stanza, le cedette una scatola laccata, dove la figliastra trovò avvolto in un panno di velluto due giri di pingui perle con un grosso pendente di zaffiro, incastonato in un cerchio di nove perle dalle dimensioni di nocciole. Era stato un regalo di D. Leonor d’Avis di Portogallo, defunta Imperatrice, venuta in visita a Venezia nel maggio del 1452 e madrina della Morexini. “Ti presto questa collana più che volentieri, ormai per me le occasioni d’indossarla stanno diminuendo”, asserì ad una commossa Crestina, la quale dimentica del suo lavoro indossò celere il vezzo e si ammirò allo specchio, tra i complimenti delle altre nobildonne lì presenti.

“Vi ringrazio, siora Mare: s’accompagnerà benissimo alla mia coroncina di perle!”

Sua zia Morexina, lì seduta accanto, non volle esser da meno e le mise a disposizione i suoi veli di seta talmente trasparenti, morbidi e lucenti, da sembrare vaporosi spicchi di nuvole. Inoltre, le erano appena giunte dal sarto delle manichette in panno d’oro, che col vestito cremesino della nipote sarebbero state d’incanto. Madona Barbara Moro Morexini, moglie di sier Hironimo Morexini, invece s’offri di imprestarle uno dei suoi ventolini, esotiche bizzarrie portatale da suo fratello sier Christofal Moro dal Levante.

“Quale preferite, mia cara, quello dal manico d’avorio e dalla striscia di damasco o quello d’ambra dalla striscia fatta di penne di pavone bianco?”

“Quello di pavone! Quello di pavone!”, le suggerì Ysabeta Zen relicta di sier Alvixe, biscugino di sier Anzolo, che viveva in casa con loro. “Giusto per vedere che faccia fa la Ducissa di Frara!”

E le donne risero forte fino a piegarsi quasi sui rispettivi ricami, divertite di rara perfidia allo scherzo e inquietando parecchio Momolo, lì seduto in un cantuccio della stanza in attenta osservazione di quel gineceo, che con la scusa di ricamare e merlettare spettegolavano su tutto e tutti, più informate delle medesime spie della Serenissima.

“An, quanto siete fortunata, sorela”, sospirò madona Marina Morexini Vituri, moglie di sier Piero Vituri, alla sorella madona Ysabeta Morexini Corner, moglie del cavaliere sier Zorzi Corner. “Avrete la possibilità di merendare a tu-per-tu con le Ducisse a casa della Reyna”, disse, alludendo alla festa che domina Catharina Corner stava organizzando nel suo palazzo e giardino a Murano. “Morexina, cara sorela, perché v’ostinate a rifiutare l’invito?”

Essendo suo amico intimo nonché suo socio nella mutua, il cavaliere aveva esteso l’invito al cognato, sier Batista Morexini, il quale ancora non s’era deciso se accettare o meno l’invito, idem per sua moglie.

“Vi pare consigliabile portare lì quel mezzo-cadavere del mio poaro sior marido, cussì che vomiti sul bel panno morello della Ducissa di Bari? Inoltre, oramai la luna qui va crescendo e ogni vestito già mi sta stretto ...”, storse la bocca, allundendo al ventre che si stava ingrossando del suo settimo figlio.

“Conoscendo il vostro sior marido, più probabile sulla scollatura!”, scherzò madona Ysabeta, provocando l’ennesima fitta di risolini e un piccolo broncio nella sorella, la quale mai aveva digerito la natura farfallona del consorte.  

“Se lo fa, lo debbono eleggere a prossimo Missier el Doxe”, rincarò la dose madona Barbara, falsamente solenne. Poi, alleggerendo il tono: “Di sicuro si preannuncia una guerra all’ultimo sfarzo, che la nostra Reyna e domina d’Axolo potrebbe ben vincere: insomma, possiede gioielli appartenuti alle Reyne di Jerusalem, Cypri e Armeniae! La Ducissa di Bari potrà comprarsene dei più costosi, ma cos’è un vezzo nuovo, se paragonato ad uno antico, indossato da grandi sovrane?”

“Di sicuro si preannuncia un trionfo dell’ipocrisia”, commentò al contrario cupamente Madre, il viso ben puntato sul ricamo e la fronte aggrottata. “Per me, io non so come reagirei se mi dovessi trovare dinanzi alla figlia e alla nipote, di colui che ha ordinato tramite congiura l’assassinio del mio sior barba e del mio zerman, per di più davanti ai miei stessi occhi, per poi strapparmi via dal seno il mio unico figlio!”

Un gelido silenzio s’impose nella sala, disorientando Momolo, non capendo cosa avesse rabbuiato le nobildonne, le quali, contrariamente a lui, ben si ricordavano del triste passato della loro parente. Ma domina Catharina pur nell’isolamento e prigionia s’era dimostrata di tempra ben più forte dei suoi nemici, dei commissari ciprioti ed esponenti del partito filo-napoletano fomentato da re Ferrante d’Aragona, i quali avevano creduto di spezzarne lo spirito, piombandole in camera di notte e massacrandole lo zio sier Andrea Corner e il cugino sier Marco Bembo, accorsi a proteggerla, e sottraendole il figlio, il piccolo Jacques de Lusignan.

Adesso domina Catharina dimostrava doppio coraggio a voler fronteggiare, senza provare alcun prurito alle mani, la figlia e la nipote del Re di Napoli, la fonte primaria dei suoi lutti familiari, nonché causa della forzata abdicazione e perdita del suo regno, annesso alla Serenissima a seguito dell’ennesimo complotto, nonché delle dichiarazioni di nuove nozze da parte della regina.

Togliendosi il vezzo di perle e riponendolo nella scatolina, madona Crestina tossicchiò un attimo, cercando di ravvivare la conversazione. “Siora Amia Morexina, pensate almeno d’accettare l’invito della Reyna alla colazione di domani?”

Grata di quel cambio di discorso, la patrizia convenne. “Un po’ d’aria fresca gioverà a mio marido, così anche da capire se sarà o meno in grado di resistere alla festa in onore delle ducisse!”

“Posso venire anch’io, siora Mare?”, s’intromise ad un tratto Momolo, stufo d’ascoltare e attirando su di sé ogni muliebre sguardo.

“Ma certo, tesoro, la Reyna stessa ha insistito!”, l’assicurò Madre, la cui cognata acquisita possedeva un rapporto un po’ ambivalente nei confronti dei bambini: se da una parte li adorava e le piaceva circondarsi della piccola truppa di nipotini, dall’altra le davano sui nervi, ricordandole il figlioletto premortole, il suo Jacques. Evidentemente, in quel momento la Regina e signora di Asolo si sentiva più incline al primo umore.

“Ho sentito che mia cognata ha invitato anche Luzia Trivixan, per un concerto dopo la refezione”, aggiunse madona Ysabeta, puntando l’ago e, alzatasi dallo sgabello, inarcando e stiracchiando la schiena irrigiditasi.

“Trivixan?”, ripeté madona Marina. “La moglie di chi?”

“Di nessuno. Di qualcuno. Di tutta Veniexia”, le rispose maliziosa madona Barbara, il cui fratello sier Christofal apparteneva alla medesima categoria di cottoloni del cognato sier Batista. “E’ una cortigiana honorata e, dicono, a soli diciott’anni la migliore cantante della Signoria!"

Il viso di madona Morexina sbiancò. “Una cortigiana? Alla presenza dei bambini? Ma è impazzita mia cugnada? Se voleva delle cantanti, poteva invitare quelle eccellenti monache agostiniane!”

“Oh, mo’ via, barbosa pizzocchera! È un concerto diurno, di cos’avete paura? Che la Trivixan s’abbassi la scollatura e mostri il seno? È una cantante, una professionista, mica una concubina turca del Topkapi! Inoltre, cara cugnada, vi ricordo che in fatto di lasciva reputazione, quelle monache di gran lunga superano la Trivixan!”

Momolo si ritrovò d’accordissimo con sua zia madona Barbara: aveva già visto le grosse poppe bianche delle balie di sua nipote Dionora e dei suoi altri cugini, ergo non ci trovava nulla di strano se anche questa cortigiana (cos’era poi?) gliele avesse mostrate, specie in caso ci fossero stati fantolini da allattare.

“Possiede già un protettore? O protettori?”, inquisì madona Marina, al contrario intrigatissima.

“Questione di tempo”, commentò allusiva madona Barbara.

“Io l’ho già vista a Palazzo”, rivelò Crestina, associando finalmente un volto al nome della cantante. “Missier el Doxe, dopo la cena, l’ha invitata a cantare prima del ballo e vi assicuro che nulla del suo aspetto appariva indecente! Di più: vestiva in maniera talmente sobria e delicata, da scambiarla per un vergine appena uscita dal convento!”

“Senti, senti …”

“E com’è lei? Fisicamente, intendo.”

Il settenne Momolo, in retrospettiva, più che del viso di Luzia Trivixan si sarebbe ricordato del suo abito e non perché fosse un frivolo damerino, bensì perché si era immaginata quella femena publicha, come l’appellava sdegnosamente sua zia Morexina, una sorta d’odalisca o di concubina del serraglio, non dissimile dall’esotiche schiave turche, arabe o circasse che sbarcavano a Venezia e poi vendute a Rialto.

Piuttosto gli era parsa più stravagante la zia acquisita domina Catharina Corner, vestita di velluto nero con un velo di seta trasparente orlato d’oro e fermato da una corona di perle e gioie, sopra una scuffia in panno d’oro trapuntato di perline, secondo l’uso cipriota, così come alla moda di Cipro la Regina indossava un paio d’orecchini di perle e rubini e l’intero petto era una ragnatela di sottilissime collane d’oro e di perle. A confronto, Luzia Trivixan, giunta in compagnia del compositore Alexandro Demophon Venetus, si poteva benissimo confondere tra le altre gentildonne lì presenti, indossando anche lei una veste di velluto dalle maniche lunghe e strette fino ai piedi che s’apriva in un triangolo perfetto, da dove s’intravedevano la zupa e le manichette di differente colore, le spalle coperte pudicamente da un trasparente velo di seta. L’unico elemento che accomunava le due donne rimanevano gli orecchini, sfoggiando la cortigiana un paio di filza d’oro di tre perle.

Giovane, più giovane della sua sorellastra Crestina, eppure Momolo la vedeva deambulare a suo agio tra gli ospiti, conversandovi rilassata neanche si trattassero d’amici di vecchia data. Rideva alle battute, scherzava arguta, onnipresente senza però rubar la scena alla padrona di casa, domina Catharina, semmai reindirizzando l’attenzione degli uomini sulla Regina di Cipro e signora di Asolo.

Interesse che però ricatturò quando iniziò a cantare e a Momolo era venuto da piangere ascoltando quella sua voce celestiale, sprigionata da un corpicino così fragile e minuto. Anche il maestro Alexandro Demophon la guardava in estasi, mentre l’accompagnava col liuto e conduceva gli altri musici e il coro. Sicché, preso coraggio, durante una pausa per il rinfresco il fantolino era partito alla ricerca della ragazza per complimentarsi di persona, pizzicandola in un angolo acquattato del giardino, seminascosta dalle fronde profumate di piante e fiori esotici.

“Come sono andata?”, chiedeva ansiosa Luzia al maestro Alexandro, il quale, circondandole il bel viso tra le mani, mormorò orgoglioso e roco:

“Sublime”, e la baciò impetuoso, mordicchiandole goloso le labbra, di tanto in tanto accarezzandosi le punte guizzanti delle rispettive lingue. Le mani dell’uomo, tanto agili e rapide sul liuto, manipolavano con altrettanta destrezza la gonna di lei, infilandosi sotto, scoprendo una morbida e lattea coscia.

“Oh, amore mio”, sospirò la cantante, infondendo ugual trasporto nelle sue effusioni, strusciandosi vogliosa contro il corpo del compositore e accarezzandogli tra le gambe, sul petto, tra i capelli fino a spettinarlo e fargli cascare accidentalmente la bereta. “Quea gran vacha di la Marchesana, ch’el diaol s’ea manzi!”, digrignò i denti, mentre accompagnava la testa dell’amante sulla scollatura la cui linea s’abbassava pericolosamente a ciascun famelico bacio di lui, “il modo in cui ti guardava! Ti voleva portar via da me, per collezionarti tra i suoi bamboli! Chi si crede d’essere, quea cancara de betonega?!”

“E il Marchese?”, replicò a tono l’artista, seppur più leggero e scherzoso. “Manco s’era reso conto d’aver finito il vino nel bicchiere, tanto ti divorava cogli occhi! A momenti scodinzolava!”

“Perdio, mi farebbe meno impressione l’idea scaldare il letto di Sua Serenità el Doxe, piuttosto di star sotto a quel cinghiale antropomorfo!”, gettò ilare Luzia il capo all’indietro e Momolo s’unì al lazzo, immaginandosi quel Francesco Gonzaga con la testa d’un cinghiale al posto di una umana.

Scoperti, i due amanti si separarono in un balzo, guardandosi attorno apprensivi e la cantante si sciolse in un tintinnante sorriso alla vista di Momolo, ancora piegato a metà dalle risate.  “Ben, ben … non lo sai che è maleducazione origliare i discorsi altrui?”, lo rimbeccò giocosamente Luzia, portandosi le mani ai fianchi e sgonnellando verso il fantolino.

“Siete sposati?”, chiese di rimando il giovinetto, ergendosi sulla punta dei piedi per sembrare più grande.

La cortigiana honorata si coprì la bocca dietro la mano, ridacchiando. “Sì, siamo sposati nella musica!”, gli spiegò allegra, facendo l’occhiolino al maestro Alexandro che a sua volta abbassò la testa, ridendosela alla grossa. “Ora però ti riporto dal tuo sior Pare, va bene?”

“Il mio sior Pare non c’è oggi, è a Palazzo per conto della Signoria. Sapete che è stato nominato provveditore a Zacinto?”, le annunciò impettito Momolo, orgogliosissimo. “E presto ci trasferiremo lì, dove il sior mio Pare e i miei fratelli combatteranno contro i pirati saraceni e i Turchi! Ed io, da grande, farò lo stesso! Voglio divenire un valente comandante, come fu il mio trisavolo sier Zuanne Miani che combatté nella Guerra di Chioggia con i magnifici sier Vetor Pisani e sier Carlo Zen; che espugnò Alessio, Corfù, Argo e Napoli di Romania e che catturò nel Castello di Trevixo il tiranno Francesco da Carrara! Diverrò Capitan Generale da Mar, così mi sposerò mia cugina Maria. Il mio Barba me l’ha promesso e lui mantiene sempre le promesse!”

“Bravo, così parla un vero veneziano: sono sicurissima, che supererai le gesta del magnifico sier Piero Loredan!”, convenne decisa Luzia, senza però alcuna traccia né di sberleffo né di sarcasmo, come se lo ritenesse sul serio un progetto realizzabile. “Ti accompagno dalla tua siora Mare? Oppure” e i suoi occhi brillarono birbanti, “andiamo a mangiarci qualche dolcetto?”

Momolo neanche lottò contro la tentazione, saltellando felice alla prospettiva. “Posso prendervi la mano, madona Luzia?”, bofonchiò poi d’un tratto timido.

“Naturalmente”, gliela cedette la cantante, “anzi: oggi t’eleggo mio cavaliere e da nessun altro mi lascerò condurre!” e lanciata una scrollatina di spalle all’amante – Cossa vuostu far? Xé on puteo! – la strana coppia si diresse al tavolo del rinfresco.

Luzia, previdente, si sedette poco distante e incaricò Momolo di scegliere i dolciumi anche per lei; ritornato in fretta dalla missione, il fantolino s’impietrì e assottigliò geloso gli occhi alla vista del barba Batista seduto accanto alla cortigiana, parlottando fitto-fitto con lei. Che poca creanza! Lei era la sua dama, che lo zio sfarfallasse attorno a qualcun’altra, preferibilmente sua moglie!

Al che … “La vostra siora mojer e mia Amia, se vi vede bere tutto quel Recioto della Valpolicella, prima vi ammazza e poi vi resuscita e poi vi ammazza di nuovo!”, fu il Servo vostro, patron! del bambino, ponendosi bellicosamente in mezzo ai due adulti e pronto ad usare il piatto ricolmo di dolci a guisa d’arma.

Scrutandolo con la medesima aria accondiscendente di una mamma gatto, che permette ai micini di giocherellare con la sua coda, sier Batista sottrasse allo sdegnato nipote un tortino dal piatto, ficcandoselo a mo’ di sfida in bocca. “Ed io riferirò alla tua siora Mare mia sorela, come tu ti sia strafogato di dolci, cosicché finirai in punizione da oggi fino al tuo ritorno da Zacinto!”, lo ricattò senza tanti giri di parole. “Sicché pascola altrove o vai a giocare coi tuoi zermani.”

“No vojo!”, batté un piede per terra Momolo, sentendosi assai territoriale e protettivo verso la sua dama. Lui aveva visto per primo Luzia e, regola fondamentale, chi trova prende.

“Non ti preoccupare, dopo torno da te”, gli promise la cantante, aggiungendo complice: “E t’insegno a suonare il liuto!”

“Dasseno?”

La cortigiana honorata annuì solenne. “Ora però vai, il tuo sior Barba ed io dobbiamo fare discorsi da grandi.”

Momolo grugnì il suo disappunto, trascinando enfaticamente i piedi. Ma alla prima curva egli ritornò sui suoi passi, sistemandosi alle spalle dei due congiurati e ben celato dietro un cespuglio, curioso proprio d’ascoltare cosa avessero da raccontarsi di così importante, da escluderlo dalla loro conversazione.

“Che puto prezioso!”, commentò dolcemente Luzia, addentando appena un biscotto.

“E’ un piccolo Mazariol” [1], replicò tuttavia affezionato il Morexini, paragonando il nipote al dispettosissimo folletto rossovestito che scorazzava per i boschi della Marca Trevigiana, burlandosi degli ignari uomini e delle stesse vispette fate.  “In ogni modo”, riprese, sistemandosi meglio sulla panchina di marmo, “volevo complimentarvi con voi per l’eccellente concerto, lo stesso, immagino, che ha stregato i Marchesi di Mantoa!”

“An, non vi giurerei”, arcuò scettica Luzia il sopracciglio, “la siora Marchesana mi sembrava più interessata al magister Alexandro, mentre il sior Marchese al mio petto”, sentenziò mordace e sier Batista si morse l’interno della guancia per non ridere. “Dubito abbiano apprezzato me”, aggiunse indispettita, pigliando un secondo morso di biscotto.

“Forse i nostri futuri ospiti saranno meglio capaci di riconoscere il vero talento, quando li si manifesterà innanzi.”

La cortigiana honorata assottigliò gli occhi, sospettosa. “Siete per caso venuto in ambasciata per conto della Reyna? Perché la mia risposta non cambia: io rimango agli ordini della Signoria e non suoi.”

Scombussolato da quel cambio di tono, da cortese a battagliero, il provveditore alzò in alto le mani. “Vi assicuro la mia più assoluta ignoranza e neutralità, in qualsiasi divergenza abbiate nei confronti della mia siora cugnada.”

Luzia abbassò le spalle, tormentando il dolce e spezzettandolo fino a ridurlo in briciole. “La Reyna mi ha domandato di cantare durante la refezione in onore delle tre pie donne”, e lanciò i granelli per terra, attirando qualche uccellino affamato. “Comprendete la mia umiliazione? Durante la refezione non la festa! Appena l’ho appreso, ho subito declinato l’offerta e soltanto perché il magister Alexandro ha insistito, ho accettato di cantare oggi per la Reyna. L’ingiustizia del mondo! Monsieur Cordier canterà da solista, ammirato e lodato da tutti, mentre io debbo farlo di nascosto, alla stregua d'un panno sporco da lavare! Siorno! In nulla differisco in bravura da lui e o canto in concerto o non se ne fa nulla!”

Sier Batista si girò in direzione opposta e da lontano osservò a lungo il compositore, impegnato ad accordare il liuto e ad istruire i suonatori ed i coristi per la seconda parte del concerto. Dopodiché studiò il volto imbronciato di Luzia e di nuovo quello del maestro Alexandro e la bocca gli s’arricciò in un sogghigno malizioso.

“Non sono una menestrella, che s’abbassa a cantare per un pubblico distratto durante i banchetti, men che meno per quella grassa nanerottola della Ducissa di Bari, la quale più che ascoltarmi preferirà rimpinzarsi di dolci fino a scoppiare!”, sbottò infastidita la cantante, battendo i pugni sulla panchina, associando a quell’Este sconosciuta il medesimo carattere di quella a lei più nota, giudicandole ambedue capricciose, egoiste, ognora pronte a pigliarsi ciò che non le apparteneva.

“Se la Ducissa di Bari ci morisse in casa per via di un’indigestione, l’affare ci causerebbe non pochi grattacapi: il nostro povero ambasciatore a Millan lo vedo e lo piango a riferire la notizia al Moro”, sdrammatizzò il Morexini, afferrando il pugno della ragazza ed invitandola a schiuderlo, massaggiandole l’interno del polso col pollice. “Forse per ugual motivo, neanch’io ho tutta questa voglia di partecipare alla festa. V’immaginate la faccia della Ducissa di Frara, al momento delle presentazioni? Bentrovata, o illustrissima madonna Duchessa, io sono il provveditore di quelle terre, che vi abbiamo conquistato nove anni fa! In fede mia, non desidero assumermi alcuna responsabilità d’eventuali incidenti diplomatici!”

“Al contrario, voi dovreste assolutamente partecipare!”, gli suggerì Luzia, il buonumore ritrovato, sorridendogli monellescamente, la mano chiusa a quella del “da Lisbona” come due metà di una conchiglia. “Già la Ducissa domina Leonora friggerà d’imbarazzo nel ritrovarsi dinanzi ad una sovrana perseguitata e deposta per colpa degli intrighi di suo padre il Re di Napoli; la vostra presenza, a memento della sconfitta di Frara, renderà la refezione ancor più gustosa.”

“Voi. siete. davvero. tremenda!”, scosse il capo sier Batista e i due se la risero a lungo, complici, toccandosi quasi le loro fronti e l’uomo aveva portato la mano della  Trivixan al petto, invitandola ad avvicinarglisi. “In verità, non vi nascondo che la decisione di mia cugnada mi ha davvero sorpreso. Ci vuole una grande forza d’animo per affrontare faccia a faccia la famiglia, che le ha rovinato l’esistenza … Ma il passato è il passato e non possiamo sottrarci al futuro”, citò cinicamente l’uomo il proverbio, finendo il suo vino. “Un futuro però che assomiglia pericolosamente troppo al passato.”

Ogni traccia di civetteria scomparve dal viso sveglio della cortigiana honorata, sostituito da un’espressione attenta, intrigata. “V’ascolto”, lo incalzò, sedendosi sulla panchina in modo da avere di fronte il patrizio.

Sier Batista anch’egli aveva perduto la sua affettata nonchalance per un tono serio, analitico. “Don Ferrando è vecchio e come tale non ha imparato nulla dai suoi errori”, esordì, roteando nel vuoto il bicchiere. “Dopo la morte del Roy di Cypri, si è voluto immischiare nella questione dinastica dei Lusignan. Il risultato? Don Ferrando ha perso ogni influenza politica sull’isola, ogni fondaco e accordo commerciale, sua nuora Ciarla e per poco il suo stesso figlio naturale don Alfonxo. Adesso, sta ripetendo il medesimo sbaglio, cogli Sforza di Millan. C’è da chiedersi che cosa perderà, stavolta.”

“Credete certa una sua sconfitta?”

“Ogniqualvolta dalla Franza è sceso in Italia un esercito, un casato cade e un altro ascende. È matematico, inevitabile.”

“Il Re e il Duca di Calabria avrebbero, quindi, dovuto ingoiare in silenzio l’umiliazione d’Yxabela d’Aragona? Dell’attuale Ducissa di Millan?”

“Se gli Aragona fossero stati dei patrizi come noialtri, la questione sarebbe stata portata in Quarantia Criminal e il Moro condannato per appropriazione indebita. Siccome però parliamo di sovrani e capi di Stato … Quando danno via una figlia, o una nipote, l’hanno perduta per sempre in favore di un’alleanza, che durerà finché farà comodo alle parti coinvolte. Non tutte le spose sono devote o influenti o entrambe da fungere da mediatrici.”

“Un figlio senza un padre è facile preda delle altrui ambizioni”, mormorò grave Luzia, accarezzando pensosa la morbida stoffa della sua gonna, “quella degli Sforza era una tragedia annunciata, così come quella della domina Catharina, straniera e vedova, priva della protezione del Roy suo sposo. Sapete”, reclinò all’indietro il capo, osservando un punto indefinito del cielo, “forse ho indovinato perché la Reyna vuole incontrare quelle tre donne.”

“Dasseno? Le leggete la mente, ora?”

Il sorriso della cortigiana honorata assunse una piega malevola. “Per vendicarsi degli Aragona, scagliandoli contro una maledizione, acciocché distrugga Re Ferrando, come lui ha distrutto lei; affinché lui perda il regno, come lei ha perduto il suo; affinché egli seppellisca il suo sangue, come lei ha seppellito il suo. E quale miglior occasione di questa festa, dove parteciperanno la figlia e la nipote amatissime del Re? Più il tramite è vicino alla vittima, più potente ed efficace è l’anatema.”

Un brivido freddo scese lungo la spina dorsale di sier Batista, il quale, pur di natura cinica e razionale, non si sottraeva al profondo spirito superstizioso tipico della sua gente. “Stando così le cose, oltre a don Ferrando dovrebbero morire anche domina Leonora d’Aragona, e magari anche le domine Beatrice d’Este e Anna Maria Sforza, o chiunque presenzi a quella dannata festa …”, provò debolmente a minimizzare, fallendovi, semmai aumentandogli in petto una certa angoscia, come all’Italia intera da quando era incominciato quel braccio di ferro tra Milano e Napoli.

“Chissà”, scrollò incurante le spalle Luzia, “si vocifera che chi sia stato maledetto, o non passi l’anno dal momento esatto dell’anatema oppure non superi i trentatré anni, l’età di Domine Jesus Christo”, si scostò un ricciolo ribelle dalla fronte. “Ma si trattano senz’ombra di dubbio di storielle da balia, altrimenti la popolazione si ridurrebbe drasticamente, se ogni uomo maledetto dall’altro dovesse morire!”

“Vi dico solo questo: se entro l’anno dovesse morire anche un solo Aragona, non oserò mai più in vita mia contraddire la siora cugnada”, le confessò semiserio il Morexini, massaggiandosi lo stomaco, il quale aveva incominciato nuovamente a rigirarsi proditoriamente, serrandogli la gola. Dannata golosità sua unita ad inquietanti discorsi sul sovrannaturale! “A meno che domina Catharina non m’abbia già maledetto, al che mi scuso, bellissima Luzia, se mi congedo anzitempo da voi”, si pose traballante l’uomo in piedi, sudando freddo e ficcando la mano dietro il cespuglio dove estrasse, issandolo quasi di peso, Momolo, che si pigliò lesto sottobraccio.

“Vi prego di riguardarvi, sier Batista Morexini, e v’auguro una pronta guarigione: mi dareste una gioia immensa se decideste un giorno di venire a visitarmi, così da continuare la nostra conversazione. Suonerò e canterò per voi, dimostrandovi che non sono per nulla una vanesia”, allungò il braccio languidamente Luzia, acciocché il patrizio le baciasse la mano, sotto lo sguardo truce e geloso di Momolo. “Vi ringrazio per il piacevole tempo trascorso assieme e soprattutto per la vostra pazienza, prestando caritatevolmente orecchio alle mie sciocche lamentele.”

“Non possedete ancora nessuno, che le ascolti?”, colse sornione il “da Lisbona” la palla al balzo e suo nipote aggrottò la fronte, confuso: da quando in qua il suo barba s’offriva di fare volontariamente il confessore? Sempre che sbuffava perché doveva sopportare le lamentele della moglie ed ora era disposto ad ascoltare quelle della Trivixan? E poi, perché la cantante non aveva invitato anche lui a casa sua? Non gli aveva promesso d’insegnargli a suonare il liuto?

“Uno ce l’ho sempre, gli altri … finché non mi stufano”, alluse Luzia scaltramente e sier Batista s’inchinò deferente, capendo subito il sottotesto. “E’ stato un piacere conoscerti, Momolo. Spero di rincontrarci in futuro” e gli schioccò un casto bacio sulla fronte. “Fai il bravo, veh!”

Il bambino si girò verso lo zio, sorridendogli perfidamente trionfante come per dirgli: hai visto? Ha baciato me e non te! Quindi è la mia dama, non la tua!

Peccato che l’uomo non gli diede alcuna soddisfazione, anzi, trascinandoselo appresso, si diresse rapido alla ricerca di madona Morexina, onde supplicarla di ritornare quanto prima a Ca’ Morexini o di trovargli un posto tranquillo dove vomitare senza un fastidioso pubblico.

“Che orba la Marchesana di Mantoa”, commentò ad alta voce il provveditore, durante il viaggio di ritorno, gli occhi chiusi e artigliandosi le ginocchia, ingollando giù acida saliva. “Orba proprio …”

“Perché sior Barba?”

“Hé, Momolo, perché non ha capito, che bisogna tenere giù le mani da ciò che non le appartiene …”

Il giovinetto strabuzzò gli occhi, battendo pensoso il dito sul mento. “Chi? Il magister Alexandro?”

“E tu come lo sai, piccolo Mazariol?”

“Me l’ha detto Luzia: sono sposati nella musica!”

Sier Batista rise di cuore, arruffando la zazzera indomita del nipote tra le sue mille indignate proteste. “Benedetta sia la tua anima pura e innocente, nezzo mio, benedetta sia in saecula saeculorum!” e detto questo, scoprì il drappo della felze e vomitò in acqua, tra i gridolini schifati delle sue donne di casa.

 

***

 

Ovviamente, per Momolo l’amore era sempre corrisposto indissolubilmente al matrimonio e per questo motivo la scoperta di concetti quali “amante”, “concubina” e “cortigiana” l’avevano sconvolto, incapace di credere nell’esistenza di altri tipi di amori, definiti dal biscugino sier Zuan Francesco “immorali.”

“E come li evito?”

“Il peccato entra attraverso l’occhio: evita di guardare e non vacillerai!”

Prova assai ardua, essendo infatti Hironimo di natura vivacissima e curiosa. Inoltre, di occasioni per “guardare” le sfaccettature meno onorevoli dell’umanità Venezia ne offriva in gran copia, incominciando dallo zio Batista quando divenne uno dei protettori di Luzia Trivixan, la cui bellezza riempiva di strani pensieri il ragazzo, che non sapeva spiegarsi il motivo per il quale percepisse l’impellente necessità di poggiare la testa sul seno della cortigiana honorata.

La seconda volta che la vide, infatti, non fu l’abito bensì il suo aspetto a colpirlo.

Riccioli rossi tempestati di perle, grandi occhi turchesi, languidi e orgogliosi insieme, labbra sensuali e bocca ridente, pelle dalla delicatezza e candore d’un giglio, la voce un mormorio di frusciante seta, ecco chi era Luzia, l’usignolo di Venezia. Partito con l’idea di dover disprezzare la fonte dei crucci di sua zia Morexina – malgrado la simpatia suscitatale da bambino -  al giovane patrizio era bastato un solo suo concerto per cambiar rapidamente d’avviso, vittima del suo fascino similmente agli altri esponenti del suo sesso.

La cantante aveva saputo, tramite particolari amicizie, della presenza a Venezia del compositore, cantore e suonare di liuto Marchetto Cara da Verona, stipendiato della Marchesa di Mantova e in eccezionale visita nella città lagunare, ospite graditissimo dei Bembo. Il veronese non s’era lasciato tanto pregare, anzi, vuoi per la fama della Trivixan, vuoi per le sue civetterie irresistibili, vuoi per la presenza del famoso editore musicale Ottaviano Petrucci e del suo collega Bartolomeo Budrio, dell’organista Francesco D’Ana, del compositore e maestro di cappella Francesco Patavin, nonché dell’ex-collega e concittadino Bortolamio Trombonzin (insomma di tutta o quasi la comunità musicale di Venezia), ecco che l’entusiasta maestro Marchetto si presentava nell’elegante appartamento della cortigiana honesta, lodato e vezzeggiato e da lei trattato alla pari di un principe.

Hironimo s’era inaspettatamente aggregato a questo Parnaso, poiché suo zio sier Batista aveva confidato all’amante della sua passione musicale e di come non fosse disprezzabile al liuto. Al che la giovane donna aveva di buon grado esteso l’invito e quando il sedicenne Miani la vide scendergli incontro lungo le scale di marmo, alla fioca e tremula luce dei candelabri, gli parve la medesima Venere discesa dall’Olimpo per condividere cogli uomini il concetto di divina bellezza.

“Gran mercé, vi siede vestita da gentildonna rodia! Potevate avvertirmi e mi sarei presentato a voi da cavaliere gerosolimitano”, esclamò sier Batista, riferendosi all’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni presenziante a difesa dell’isola greca. Baciò ambedue le guance della cantante, la quale replicò giocosa:

“Oh, mio signor, il vostro sprezzo per la loro regola di castità vi avrebbe guadagnato un arresto per blasfemia! Quanto all’abito … siamo a Carlevar e mi voglio divertire! Anche a vostro danno, se necessario!”

“Perfida!”

“E voi mi amate esattamente per questo, mio signor!”

Luzia quella sera aveva optato per gli abiti tipici dell’isola di Rodi, smaniosa di scacciare alcun tristi suoi pensieri nell’euforia sregolata del Carlevar. La cantante s’era dipinta di rosso le mani, le unghie e, da quel poco che s’intravedeva dalle scarpette, anche i piedi. I capelli del medesimo colore li aveva rinchiusi dentro una rete d’argento, sopra la quale stava un’altra di velluto e coperta da un bellissimo velo di tela vergata, appuntato sopra la fronte da una gemma e da cui ricadeva all’indietro, donandole un’aria un poco sbarazzina. Sopra la semplice sottana di raso cremesino, Luzia indossava una veste di tela d’argento, corta fino a mezza gamba, aperta ai lati e legata con nastri d’oro. Una variopinta cinta di seta e una d’oro le circondavano la vita. Al collo pendeva una grossa collana di perle con al centro un pendente di smeraldo, abbinandola agli orecchini di ugual squisita fattura.

“Spero che vi sentiate meglio”, le sussurrò sottovoce il Morexini, adesso Savio di Terraferma, scrutando accorto ogni movimento del viso di Luzia e cingendole protettivamente le spalle.  .

“Grazie, molto meglio”, gli confermò in fretta la cortigiana honorata, pur evitando di guardarlo dritto negli occhi, accarezzando la mano del senatore. “Suvvia, raggiungiamo i nostri illustri artisti: non sia mai si sparli sulla nostra poca professionalità!”, scherzò, accettando il braccio offertole dal patrizio, la mente sicuramente altrove ché neanche s’era accorta della presenza d’Hironimo.

Il quale la perdonò senz’indugi non appena la sua voce gli scaldò il cuore: malgrado il coro talora di tre o di quattro, pur ridotto ad un contrappunto di nota contro nota, Luzia spiccava monodicamente sulle altre parti, conferendo alle varie frottole un che di vivo. Ella, infatti, ora socchiudendo gli occhi, ora lasciandosi trasportare dall’accompagnamento del liuto, ora storcendo il viso e modulando il tono fingeva rabbia, malinconia, desiderio e inscenava tramite un’accorta mimica i versi poetici su cui il compositore aveva musicato. Languì col Petrarca, scherzò col Boiardo, s’infiammò con Giovanni Filoteo Achellini, si trasformò in un loquace uccellino nell’inedita frottola a quattro Mentre io vo per questi boschi del maestro Marchetto Cara, il quale la fissava trasognato, le agili dita scivolanti per conto proprio sulle corde del liuto. Il fosco Trombonzin pareva trasfigurato di nuova luce, il Petrucci se ne stava lì con la bocca aperta, Francesco d’Ana dondolava a ritmo il capo, il pallido Francesco Patavin si perdonò quel suo piccolo capriccio d’aver voluto viaggiare da Padova fino a Venezia per conoscere la cantante, lo zio Batista aveva gli occhi lucidi e come lui gli altri invitati contemplavano estatici e devoti Luzia Trivixan, quasi si trovassero inginocchiati innanzi l’Eucarestia sull’altare.

“Il concerto di stasera, signori miei, lo vorrei dedicare ad un grande vostro collega e compositore, ch’Apollo dalla lira dorata ha voluto rapire per tenerlo accanto a sé, nel suo seguito immortale! Questo è il mio personale brindisi in sua memoria”, annunciò enfaticamente la cortigiana honorata, sorseggiando dell’acqua per rinfrescarsi l’ugola. Si bagnò poi le dita e sparse delle gocce per terra; dopodiché gettò sul pavimento il bicchiere, i cocci prontamente spazzati via dalla solerte fantesca. “Ora comprendete il perché dei miei abiti di Rodi, l’isola sacra al dio della musica e delle arti!” e un applauso riempì la sala, mescolandosi a piccoli commenti sorpresi o divertiti. Tipico della Trivixan di stupire i suoi ospiti tramite rebus e sciarade. Soltanto sier Batista batteva poco convinto le mani, un sorriso triste sulle labbra.

“Magister Marchetto, posso chiedervi l’immenso favore di suonare, per amor mio e del magister Alexandro Demophon Venetus, Vidi hor cogliendo rose ?”, pregò civettuola Luzia il veronese, congiungendo vezzosa le mani.

Marchetto Cara convenne in un grave e reverente inchino, difficile affermare se in onor del defunto collega o della cantante. Le sue dita serpeggiarono sinuose nell’aria, in un mentale conteggio del tempo musicale, pizzicando infine le tese corde del liuto e seguito dal preciso attacco della cantante:  

 

Vidi hor cogliendo rose, hor gigli, hor fiori

Una leggiadra, bella e vaga ninfa

Credo discesa dai celesti cori …

 

Come biasimare la generale fascinazione degli spettatori nei confronti di Luzia, nonché la sconfinata ammirazione degli artisti musicali? Hironimo medesimo, un dilettante profano, era scosso anch’egli nel più intimo dalla rara potenza e perfezione canora della donna, imbrigliate magistralmente in quel corpicino dall’apparenza fragile.

La cortigiana honorata saltava da un’ottava all’altra con estrema facilità e non improvvisava mai delle pause per riprendere fiato, tenendo ogni nota anche quelle più lunghe e alte, alternando acuti e gravi in lenta discesa o vertiginosa salita a seconda della melodia, mantenendo un’emissione sempre morbida dei suoni ed omogeneità del registro. Gorgheggiava seguendo gli eleganti arpeggi senza trascurare la dizione del testo, le parole comprensibili e infuse di grande sentimento, rinforzando o stemperando le note secondo necessità, come se stesse recitando un soliloquio.

 

… Hor schiude l’auree labbra, hor con la cetra

Supera le sirene e il dolce Apollo;

hor posa in terra sua bella faretra

hor se rinfresca braccia, volto, collo;

hor mostra il vago petto, hor l’ha coperto

e lassa stare il paradiso aperto

dove se leva la luna col sole …

 

Pareva che un dio o un angelo stesse cantando, attraverso il sottile e lungo collo della Trivixan, l’arcana voce del mondo e che ogni gamma d’umana passione vi si potesse incontrare e modulare, entrando nel cuore e nell’anima stessa dell’ascoltatore, accarezzandola o straziandola a suo piacere. Come poteva tal divina grazia risiedere in una persona considerata immorale, impura? Era proprio vero che dal fango nascessero i fiori più belli?

 

… Hor sagitta con gli occhi ardenti sguardi;

Hor parla, hor ride, hor balla, hor salta, hor canta,

hor col duro arco tira i suoi dardi;

hor con la man sfronda qualche giovin pianta

hor vien la nocte e di riposare ha gran desire …

 

 

Hironimo si sovvenne all’improvviso dei baci appassionati tra Luzia ed il maestro Alexandro e per un attimo, credette di scorgerlo lì, tra le braccia tese della cantante, vivo, ardente d’amore, Luzia che gli regalava il suo respiro e una nuova voce, che gli permetteva di vivere ancora e ripetutamente nella sua musica, per sempre, immortale. Le sarebbe stato accanto, non l’avrebbe mai abbandonata finché al mondo sarebbero esistiti  musicisti e cantanti, veramente i due amanti sposati nella musica, inseparabili.

Dispersi nell’aria gli accordi finali, nessuno osò muovere un sol muscolo né proferire parola, finché Luzia, uscendo dalla sua trance, riaprì gli occhi ed elargì al suo pubblico un timido sorriso di fanciulla innamorata, indifeso.

Uno scroscio d’applausi la investì e lei s’esibì in un profondo e deferente inchino, nutrendosi avida di quell’entusiaste ovazioni e raccogliendo da terra le rose e i gigli accoratamente lanciatigli.

La cortigiana honorata appellò poi il suo scalco, ordinandogli di servire la raffinata e abbondante cena, acciocché, dopo il pane astratto dell’arte, i suoi ospiti si nutrissero di uno più materiale. Fu divertente per Hironimo osservare la reazione confusa e un poco intimidita dei compositori e solisti, non avvezzi malgrado il loro ingegno e talento a compartire da pari la tavola e il pasto con l’aristocrazia, così giusto per rimanere in allegria e in amicizia, in un rapporto totalmente egalitario. Si scherzava spesso quanto soltanto Luzia Trivixan fosse capace di tali follie, permesse e accettate tuttavia all’unanimità, senza protesta alcuna.

Una musica leggera e disimpegnata accompagnava il sontuoso banchetto, una carrellata di gustosissime prelibatezze in curiosi connubi agrodolci, serviti gli ospiti da giovani moretti dai brillanti e variopinti turbanti. Tra una portata e l’altra, delle ballerine turche deliziavano i commensali con le loro danze esotiche, in un continuo tintinnare dei sonagli d’argento ai polsi e alle caviglie. S’arcuavano e si molleggiavano sinuose peggio dei serpenti, i fianchi generosi ondulati in maniera circolare e spingendo il bacino in avanti, mettendo così in risalto lo scollo profondissimo, il quale arrivava fino all’ombelico riempito da una gemma, dividendo a metà il petto seminudo, la semitrasparente camiciola di lino a malapena coprente i turgidi seni e da cui s’intravedeva l’ambrato dei capezzoli.

Straordinariamente non interessato al conturbante spettacolo, Hironimo si concentrò su Luzia, seguendola cogli occhi nel suo deambulare da ospite ad ospite, sedendoglisi accanto, chiacchierandoci e scherzandoci assieme dietro al ventaglio di piume di struzzo e dal manicolo d’oro, talvolta accettando un bicchiere di vino, offertole galantemente. Infine, la cortigiana honorata raggiunse suo zio Batista, prendendo posto sulle sue ginocchia. Luzia intinse un pezzettino di pane caldo in una salsa cremosa ai ceci, limone, semi di cumino e, tenendo una mano sotto per non gocciolare, imboccò l’amante, porgendogli del vino non appena questi ingollò il bolo, lo sguardo ognora ancorato su di lei. Il savio di Terraferma le offrì poi di bere dal medesimo bicchiere, invito accettato dalla cortigiana, chinata su di lui onde ascoltare ciò ch’aveva da dirle. E a giudicare dall’espressione ora mesta ora rincuorata della giovane donna e incoraggiante e tenera di sier Batista, non dovevano trattarsi di focose promesse d’amore. Quand’ecco, ricordatasi della presenza degli invitati, la Trivixan s’accomiatò dal suo protettore e si diresse dagli altri suoi amanti/clienti, o riprese il giro di saluti e conversazioni tra gli ospiti ed Hironimo, ch’aveva osservato ogni cosa, si chiedeva primo, come facesse lei a non svenire dalla fame, poiché non aveva toccato una briciola di cibo; secondo, quale cruccio la tormentasse, da ricercare di tanto in tanto supporto morale in suo zio, adesso completamente assorbito dall’ombelico ingioiellato di una turca a qualche spanna dal suo naso.

“Noto ch’apprezzate la cultura levantina, mio signor”, scherzò ilare la cantante, piazzatasi in piedi tra sier Polo Capelo, di recente rimpatriato da Roma, e sier Marco Antonio Morexini q. Ruberto, fratellastro dell’attuale visdomino di Ferrara, sier Christofal Moro, purtroppo assente da Venezia da quasi due anni. La donna teneva una mano appoggiata sulla spalla di sier Marco Antonio, mentre l’altra giocherellava coi capelli dietro la nuca di sier Polo Capelo, il quale a sua volta la cingeva per i fianchi.

“Per carità, troppo agguerrita!”, commentò ridendo il “da Lisbona”, tastando non visto il sedere carnoso e sodo della ballerina, con la scusa di spingerla altrove. Se soltanto la zia Morexina avesse potuto vederlo, l’avrebbe appeso per un piede come la Signoria puniva per l’appunto i traditori. Se da una parte sua moglie s’era rassegnata alle continue infedeltà del marito, dall’altra seguitava ad arrabbiarsi, in un’altalena contraddittoria d’umori e opinioni.

“Dite d’esser stracco e stufo per via degli impegni a Palazzo, ma appena cala la sera correte via ben vispo dalla Trivixan e non dormite più con me neppure per un’ora!”

“Torno tardi e non vi voglio svegliare.”

“Spiritoso! Se continuerete di questo passo, mi piglierò un amante!”

“Cioè il vaso del miele?”

In ogni modo, per quanto tentasse d’incrociare il suo sguardo o di farsi notare, la cortigiana honorata non s’accostò mai ad Hironimo, né per salutarlo né per riempirgli la coppa di vino, sicché il ragazzo si ritrovò costretto dalla noia a discutere di musica sacra assieme al maestro di cappella Francesco Patavin, appassionandosi straordinariamente all’argomento.

Ma mai entusiasmante quanto la sfida preferita dei veneziani a Carlevar: due servi, inginocchiatisi per terra e le mani congiunte dietro la schiena, si sfidavano ad acchiappare con la bocca delle anguille da un catino, l’acqua intorbidita dal nero di seppia. Un fanciullo moretto girava e porgeva un piatto d’argento tintinnante di lire, mocenighi e ducati e la padrona di casa incoraggiava gli ospiti a fare le loro scommesse, su quale dei due uomini fosse riuscito ad estrarre per primo il muscoloso pesce.

“Fortuna nel gioco, sfortuna in amore, eh sier Hironimo?”, lo sfotté il Trombonzin, la cui bravura eguagliava la sua stronzaggine. C’era da chiedersi il motivo per il quale la Marchesa di Mantova stravedesse per lui, comportandosi alla stregua di un’amante tradita – pazza proprio, pure coinvolgendo il Marchese -  quando il veronese aveva disertato all’improvviso la sua corte. Talento o meno, per il sedicenne patrizio la sua fuga sarebbe equivalsa ad una liberazione, tanto gli stava antipatico.

“Toh”, sputò dietro le sue spalle il giovane Miani, scacciando la malasorte.

“Gran catarro, patron!”

“Il prossimo è per voi!”, mugugnò minaccioso il ragazzo, intascando però in scarsella la vincita.

A fine serata, il maestro veronese Marchetto Cara baciò le mani di Luzia con un trasporto talmente sincero, che di sicuro mai aveva riserbato ad Isabella d’Este, ringraziandola commosso dell’indimenticabile concerto e dell’ottima cena. Nelle sue prossime composizioni avrebbe indubbiamente pensato a lei e alla sua divina voce -  fu la sua solenne promessa. Il signor Ottaviano Petrucci, non volendo sentirsi da meno, le assicurò una copia gratuita del suo Odhecaton, una raccolta di 96 chanson franco-fiamminghe [2], tra cui alcune inedite del fiammingo Johannes de Stokem, compositore ufficiale della corte di Beatrice d’Aragona ex-regina d’Ungheria e della cui scomparsa il mondo musicale s’era assai doluto.

Hironimo si stava ancora sistemando il mantello, quando la cantante lo raggiunse inaspettatamente, accompagnata da suo zio Batista.  E alla sua cortese domanda di circostanza, su cosa gli fosse parso del concerto, il ragazzo esclamò col cuore in mano, la voce tremula dall’emozione: “Patrona, voi non siete un’artista: voi siete un’opera d’arte vivente, creata dal medesimo Apollo!”

Chissà cosa commosse la smaliziata Luzia Trivixan, che di complimenti ben più complessi e poetici ne aveva uditi oramai a bizzeffe, fino alla nausea. Forse la purezza di sguardo nel sedicenne, forse il timbro sincero della sua voce, forse il fatto che l’avesse lodata senza doppi fini. In ogni modo, la cortigiana honorata gli sorrise dolcissima e, appoggiando lievemente la mano sulla sua guancia, gli schioccò un bacio sulla fronte. “Sarà un piacere, farmi da te accompagnare al liuto.”

Hironimo avvampò, arrossì, ebbe caldo e poi freddo; le gambe gli divennero di ricotta e la testa gli girò per qualche istante. Se si ricompose e non si gettò ai piedi della giovane donna fu per rispetto verso suo zio Batista, che stava lì a guardarli con ambigua bonarietà.

“Patrona”, soffiò al limite del collasso, ma serio in volto. “Volevo porvi, anche se in ritardo, le mie sincere condoglianze per la morte del magister Alexandro: mi ricordo del vostro matrimonio nella musica e posso capire il vostro dolore.”

Luzia aprì la bocca, disorientata, poi la serrò, gli occhi improvvisamente gonfi di lacrime. Sier Batista, resosi conto del guaio combinato, fece per rimproverare la mancanza di tatto da parte del nipote, quand’ecco che la cortigiana honorata s’inchinò, sospirando in un tremulo sorriso: “Tu sei l’unico, assieme a tuo zio, ad esserti sinceramente dispiaciuto della sua morte …” e detto questo s’allontanò assieme al Morexini, il quale si sarebbe trattenuto qualche oretta con lei, mentre Hironimo si diresse verso l’imbarcadero, dove l’attendeva la sua gondola per rincasare.

Il giovane patrizio riprese così a studiare con doppio intento il liuto, pur conscio di non raggiungere mai i livelli d’un professionista (figurarsi del fu Alexandro Demophon Venetus)  ciononostante determinato a non sfigurare né far sembrare alla cortigiana honorata di perdere il suo tempo. Per compiacerla, ingoiò un bel po’ del suo orgoglio virile e domandò soccorso a sua cugina Maria, libera infine dal giogo del convento, cui non parve vero di giocare al Pigmalione e inculcare una sana dose di galanteria in quel selvaggio del suo cugino, torturandolo impietosa tramite robuste letture di poesie, poemi epici, novelle, romanzi cavallereschi e altre stramberie tanto apprezzate dalle donzelle e letterati.

In giardino, sotto la pompeiana di Ca’ Morexini, la ragazza lo costrinse a migliorare il suo latino e volgare italiano, arrivando a pigliarlo a librate in testa quando commetteva errori di pronuncia. In compenso, Hironimo aiutava Maria nel suo greco corrente (l’unico che conosceva, figurarsi quello antico!) essendo infatti la fanciulla promessa sposa al futuro conte di Stampalia e Amorgo, sier Zuanne Querini. Anche se terre dello Stato da Mar, era giusto che lei un po’ di greco lo conoscesse, specie quando avrebbe dovuto seguire il marito qualche volta in quelle isole alla sua famiglia infeudate.

“Mi piacerebbe un giorno poterle dedicare qualche sonetto …”

“Puoah, non saresti capace di poetare manco se la tua vita dipendesse da ciò!”

“Sempre piena di complimenti nei miei confronti, eh? Guarda di non far tanto l’acida, sennò il Querini t’abbandona a Nixia come Ariadne!”

“Meglio: vorrà dire che da contessa di Stampalia diverrò la duchessa di Nixia, ho-oh, ha-ah!”, lo schernì Maria.

"Non puoi, il sior duca Francesco Crispo è già sposato a madona Thadia Loredan e suo figlio Zuanne è troppo piccolo per te!", la corresse petulante Hironomo e notando lo sguardo imbronciato del cugino, la ragazza addolci l'espressione e la voce in tono più conciliante: “La Trivixan è piena di zerbinotti che le inviano poesie. Forse per questo le stai simpatico: perché non la tarmi con le tue velleità artistiche. Lei è una vera artista e mal sopporta i mediocri. Affermo il vero, magister?”, si rivolse la novizza al giovane pittore che la stava ritraendo, un piccolo dono per il suo fidanzato, acciocché sier Zuanne Querini pensasse a lei e a lei soltanto fino al dì delle nozze, cuocendolo a fuoco lento nel suo brodo d’aspettative.

Deambulando irrequieto per l’intero perimetro della stanza, Hironimo giunse a spionciare dietro le spalle dell’artista, contemplando i lineamenti vispi della Morexini prender forma e vita sullo sfondo scuro. Invero il giovanotto aveva colto appieno l’espressione vivace e al contempo sensibile di Maria, ritraendola di trequarti e colta in un’acuta osservazione di un fantomatico oggetto oltre il dipinto. Su di uno sfondo verde scuro, la veste scarlatta e foderata di pelliccia, di foggia assai orientale, cozzava col biancore del velo di seta, il quale le scendeva morbido dietro la schiena. Nessun vezzo, nessun ornamento, tranne il rosato delicato della pelle alabastrina e la levigata lucentezza della gioventù. Hironimo sgranò gli occhi, piacevolmente impressionato: l’autore si dimostrava a malapena suo coetaneo, eppure la mano già delineava una fermezza da veterano ed emergeva timidamente un gusto nuovo, moderno, differente da quello di Zentil Belini, suo maestro.

“Troppa buona, patrona. Non sono ancora un magister, bensì un allievo”, si schermì modesto il pittore e le sorrise sibillino, intingendo e roteando il pennello nel colore, per poi punteggiare appena un piccolo dettaglio. “I veri artisti esigono la perfezione, altrimenti nulla ha senso. L’arte è la loro vita e la vita e ciò che accade tra un’opera d’arte e l’altra”, dichiarò conciso, ampliando ora la pennellata. “Detto questo, patrona, se posso chiedervi di rimanere per cortesia ferma, sarebbe per me cosa gradita”, la rimproverò scherzosamente, con quel suo duro accento montanaro.

Maria convenne vezzosamente, ripigliando la posizione abbandonata. “O forse”, non desistette però dal tormentare suo cugino, “forse tu le piaci perché non l’opprimi coi tuoi desideri carnali.”

“Prego?!”, boccheggiò Hironimo, incredulo di tanta sfacciataggine, dinanzi ad un estraneo, poi!

“Suvvia, Momolo, adori la Trivixan alla stregua d’una dea, non negarlo! Però scommetto che, se lei ti chiedesse d’infilarti nel suo letto, tu scapperesti via alla stregua d’un leprotto!”

“Ma che dici?!”, arrossì il ragazzo, imbarazzato da quel pubblico attacco alla sua virilità. “Perché, i tuoi fratelli già hanno goduto dei suoi favori?”

“Tutti quanti tranne i piccoletti”, replicò semiseria la giovane donna, per poi scoppiare in una cristallina risata dinanzi all’impappinamento dello scandalizzato cugino. “Mo’ via, Momolo! Che credulone! Ovvio che no, la Trivixan è roba del sior Pare e degli amici del sior Pare, senza il cui esplicito consenso i miei fratelli non oserebbero sfiorarla neppure con la punta delle dita.”

“Manco mal che le suore dovevano tenerti ignorante del mondo e crescerti nella modestia!”, bofonchiò il Miani, piccato della talora eccessiva vivace schiettezza della cugina. “Rincaso, prima che tu mi scocci con altre scabrose assurdità!”

Maria rise doppiamente di gusto, gettando indietro la fluente massa di capelli scuri, d’identico colore a quella di Hironimo, e seminascosta dal velo di seta. “Vien qua, razza de rustego, dammi un bacio e facciamo pace: ti voglio troppo bene per lasciarti andar a casa arrabbiato!”

Non visto, il giovane Tician intanto appoggiava cauto il pennello, pigliando il suo taccuino e scarabocchiando furtivo i due cugini, lei ch’afferrava da dietro la recalcitrante testa di lui, abbassandolo al suo viso. Venere che bacia Marte per farsi perdonare, elaborò in fretta il cadorino un titolo provvisorio, sognando pieno d’ambizione il giorno in cui sarebbe stato finalmente indipendente e non più a bottega, né chiamato a rimpiazzare il maestro Zentil Belini quando questi si ritrovava troppo impegnato per accettare commissioni di minor conto.

“Sior pitor!”, la voce birbante di Maria lo fece sobbalzare e il ragazzo s’affrettò a nascondere il quadernetto, farfugliando qualche sconclusionata scusa. “Poiché mi ritraete vestita all’orientale, cosa ne dite s’aggiungessimo anche il mio seno nudo?”

Il povero Tician avvampò purpureo per poi sbiancare fino allo slavato, più che altro per il timore di finire gettato alle Orbe da sier Batista in persona, reo di volergli concupire la figliola, rovinandosi di conseguenza la reputazione e di perdere la ghiotta occasione di lavorare per domino Jacopo Pexaro, vescovo di Pafo e capitano vittorioso nella battaglia navale di Santa Maura contro i Turchi, il quale stava giusto cercando qualcuno di bravo ed economico per realizzare una pala per un ex-voto. Dinanzi al palese disagio del balbettante cadorino, i due giovani sghignazzarono perfidi, congiungendo le forze e focalizzando i loro lazzi sul loro indifeso quasi-coetaneo.

Rincasando verso tardo pomeriggio e riflettendoci sopra, sua cugina però aveva ragione: Hironimo aveva posto Luzia Trivixan su di un piedistallo, elevandola ad amor sacro, stimando infatti più le emozioni che lei gli suscitava tramite il suo talento, nonché la sua vivace e stimolante compagnia. Il timido desiderio sensuale ch’aveva all’inizio provato egli si costringeva ad affievolirlo e sublimarlo in ammirazione e una parvenza d’amicizia, non giudicando opportuno insidiare colei ch’apparteneva a suo zio, il quale si fidava di lui al punto di cessare, dopo una dozzina di visite, di presenziare ai loro piccoli concerti. Sarebbe stato da infami tradirlo per un tal capriccio.

Certo, Hironimo non s’ingannava sulla professione di Luzia e sapeva che di protettori ne aveva altri (pochi ma buoni, contrariamente alle cortigiane di lume o alle comuni meretrici) e che non era inusuale tra amici scambiarsi la medesima cortigiana. Ciononostante, per il ragazzo un conto era battersi per i favori della Trivixan contro degli estranei, un conto in famiglia. Piuttosto di minare il sacro equilibrio della sua gens, preferiva tirarsi indietro.

Anche perché, oggettivamente, in che cosa poteva competere lui con lo zio? Cosa poteva offrire di meglio a Luzia?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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E con questa domanda esistenziale, ci si vede alla seconda parte!

Il mondo delle cortigiane a Venezia è davvero affascinante nella sua contraddizione: artiste poliedriche e prostitute; idolatrate e disprezzate; talora concubine e madri di figli illegittimi; mecenati e benefattrici; amanti di tutti, di nessuno o di qualche circolo esclusivo; donne indipendenti e al contempo dipendenti dagli uomini.  Una mia ipotesi sul perché le mantenute (il massimo cui si potesse aspirare) fossero condivise, era sia per motivi economici, così da dividersi le spese visto che le cortigiane menavano una vita molto costosa all’insegna dello stravagante e sia un po’ perché fungevano da piattaforma sociale dell’epoca, in una sorta di salotti letterari ante litteram.

In mancanza di fonti sulla vita “privata” dei personaggi, gli eventi narrati, come più volte ripetuto, sono frutto di una nostra licenza poetica e spero che dall’Aldilà mi si perdoni. Tuttavia la fama di cantante di Lucia Trevisan era davvero talmente grande, che Marin Sanudo, in occasione della sua morte nell’ottobre del 1514, annoterà: “In questa matina, fo sepulta a Santa Catarina Luzia Trivixan, qual cantava per excellentia. Era dona di tempo tuta cortesana, e molto nominata appresso musici, dove a caxa sua se reduceva tutte le virtù musicali. Et morite eri di note, et ozi 8 zorni si farà per li musici una solenne Messa a Santa Catarina, funebre, e altri officii per l’anima sua.”

Purtroppo, della sua vita non si sa moltissimo, in particolare come mai possedesse un cognome patrizio – figlia illegittima? Moglie di un nobile decaduto? Donzella senza dote? Monaca mancata? Certamente doveva esser stata un’autorità presso la comunità musicale di Venezia, se tutti i suoi musicisti l’hanno così onorata, suonandole una Messa funebre degna di una regina.  

Di nostra immaginazione – ma non improbabile considerato il mestiere di Lucia – è la sua relazione con Alessandro Demophon Venetus, compositore di frottole veneziano, attivo tra il 1480 e il 1500, probabilmente l’anno della sua morte. Nulla si conosce della sua vita privata (ma va?), tranne che fosse o un appassionato di mitologia greca – Demophon = Demofoonte di Eleusi? – o di origini greche. Della sua produzione musicale non ci è giunto moltissimo, tra cui “Vidi hor cogliendo rose” dalla poesia dell’umanista bolognese Giovanni Filoteo Achellini.

Vi proponiamo questa versione su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=2u9G-OFZXSk

Piccolo cameo anche di Tiziano Vecellio, qui ancora in veste di allievo presso Gentile Bellini. Che il pittore cadorino fosse un talento precoce, lo dimostra che appena sedicenne gli venne commissionato il primo suo dipinto ufficiale ed autografato “Jacopo Pesaro presentato a san Pietro da papa Alessandro VI” – iniziato nel 1503 e terminato nel 1506. Nulla esclude che però avesse già dei lavori alle proprie spalle, insomma non si commissiona un dipinto così importante ad uno sbarbatello dalle qualità totalmente sconosciute. Ecco dunque la nostra licenza poetica circa l’immaginario ritratto di Maria Morosini.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] Mazariol = “El Mazariol” è un folletto rossovestito e dalle scarpe a punta, appartenente al folklore trevigiano-bellunese, il quale si aggira per boschi e vallate assieme al suo gregge oppure in zattera sul Piave nelle notti di luna piena, facendo scherzi a destra e a manca, in una versione veneta dello shakespeariano Robin Goodfellow “Puck”, il valletto di Oberon  re delle fate in “Sogno di una notte di mezz’estate”. Infatti, all’elenco dei dispetti di Puck, mi sembrava proprio di rileggere le “imprese” del Mazariol!

La tradizione popolare ricorda ai viandanti di non calpestare le orme del Mazariol, le quali fanno dimenticare la memoria e la strada di casa. Un’altra vicenda che l’ha reso famoso è stato lo scompiglio che avrebbe portato coi suoi dispetti nel campo di Attila, salvando la città di Oderzo dagli Unni.

[2] Odhecaton = o per intero Harmonice Musices Odhecaton è la prima raccolta di musica polifonica (o d’armonia come definita all’epoca) completamente stampata a caratteri mobili. La prima edizione venne pubblicata nel 1501 a Venezia dall’editore Ottaviano Petrucci, il primo stampatore musicale italiano, e dedicata all’umanista veneziano ed ambasciatore Girolamo Donà “dalle Rose” (lo zio materno di Marco Contarini), definito dal Petrucci “suminus patronus" delle arti. Una seconda edizione uscirà nel 1503 ed una terza del 1504.

 

 

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Capitolo 29
*** Capitolo Ventiseiesimo, parte seconda: Confiteor ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 10.11.2021

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Capitolo Ventiseiesimo

Confiteor

(Non desiderare la donna altrui; Non desiderare la roba d'altri.)

Parte 2

 

 

 

 

Ma la tentazione! La tentazione dell’amor profano!

A quello il ragazzo ci cogitava parecchio, da sveglio e dormiente, peccato che l’implementazione non accadesse ai suoi termini, indifferente egli agli sfottò dei suoi amici che lo definivano uno “schizzinoso”: a lui le prostitute comuni non dicevano niente, piuttosto lo disgustavano, quei fantocci imbellettati, volgari e indifferenti. Perché accontentarsi di polenta, quando si poteva assaggiare pane bianco? Tecnicamente, anche Luzia Trivixan apparteneva alla categorie delle peripatetiche, eppure nessuno la insultava né dopo averla posseduta i suoi clienti si dimenticavano di lei, ritornando invece ancor più bramosi di prima, perennemente insoddisfatti. E lei, crudele, li tormentava, si negava, si dava ora generosa ora avara; con intuito pazzesco inquadrava l’uomo e gli ritorceva contro le sue debolezze, trasformandosi nella donna che voleva.

Trascorrendo i pomeriggi con la cantante, onde migliorare le sue competenze di liutista dilettante o semplicemente per chiacchierare, Hironimo aveva avuto modo di studiarla con comodo, cercando di vedere al di là dell’aura di pura prorompente femminilità emanata dalla cortigiana honorata. S’era sorpreso di scorgervi, dietro all’ingannevole civetteria e aria da perpetua bambolina, uno spirito intrepido e avvezzo alla guerra di sopravvivenza. Il mondo di Luzia tanto era bello quanto effimero, un unico passo falso e lei poteva perdere in un battibaleno quanto conquistatosi a fatica.

Sicché ella aveva col tempo sviluppato la medesima fredda razionalità di un condottiero, che studia il piano d’attacco avanti ordinare la carica: Luzia progettava spietata la maniera di sbaragliare l’insidiosa concorrenza delle colleghe e sceglieva accuratamente i suoi clienti, infischiandosene del rango, età e patrimonio di chi rifiutava, badando più ai benefici a lungo termine che a breve. Se l’arciere tendeva la corda dell’arco, di persona lei accordava il suo preziosissimo liuto, ascoltando attentissima la tonalità giusta; i suoi elegantissimi e preziosi vestiti corrispondevano alla sua armatura, i gioielli il suo vessillo, la schiera esotica di famigli, suonatori, ballerini e acrobati la sua compagnia di ventura. Al posto di una spada, la cortigiana honorata brandiva i suoi eccentrici ventagli, gli alti calcagnetti il suo destriero e l’arguzia mascherata da superficialità lo scudo dietro cui ripararsi.

Hironimo l’aveva definita, non a torto, un’opera d’arte vivente, perché rispecchiava perfettamente la natura di Luzia, la quale non viveva in pigro e decadente lusso al pari di una concubina da harem, bensì lavorava costantemente al miglioramento di sé, informandosi su ogni minuscolo aspetto del mondo che la circondava, acciocché nessun cliente la pigliasse mai impreparata. S’informava sulle mode correnti e lei stessa improvvisava il suo stile; arrivava a leggere fin quasi all’alba gli ultimi saggi e produzioni letterarie, in contemporanea alle otto ore giornaliere di prove di canto, esercitandosi fino allo sfinimento e trasformandosi lei stessa in uno strumento d’affinare, fino a giungere alla perfezione di cui parlava il giovane Tician. Hironimo era giunto alla conclusione, che l’unico vero amore di Luzia fosse la musica e la necessità di continuare a coltivarlo, unito alla consapevolezza della caducità della sua bellezza fisica, portavano la Trivixan a discutere coi suoi protettori e clienti anche d’economia, su quali investimenti puntare i suoi guadagni, così da capitalizzarli e vivere tranquilla la sua vecchiaia. Alternava concerti a lezioni private, sia di canto che di musica e Hironimo si chiedeva quando lei dormisse e mangiasse. 

Il patrizio tuttavia amava quella sua determinazione, quell’inesauribile energia e chiarezza dell’obiettivo e un poco ammise d’invidiare Luzia, desiderando poter possedere tali qualità, invece di bighellonare con la sua vita, ancora incerto quale strada intraprendere. Le persone sicure di sé e dalla forte personalità l’avevano sempre affascinato, portandolo a frequentarle, forse nella speranza d’imparare anch’egli qualcosa da loro. Luzia, aggiungendo il fattore femminile, gli conferiva poi una dolce sensazione di sicurezza e maturità, quasi di protezione. Allo stesso tempo, gli piaceva come non lo trattasse con accondiscendenza, ragionando alla pari e se la cortigiana honorata non aveva mai pianificato di sedurlo, esattamente grazie alla vivacità del suo intelletto aveva irretito il ragazzo, divenendo inavvertitamente l’oggetto dei suoi desideri.

Ammirazione e passione si fusero quindi in Hironimo, influenzando il suo modo di suonare, cambiando la voce del liuto da precisa e senz’anima a languida e malinconica, imitando l’umore del suo suonatore. E poiché appunto l’esecuzione di un brano musicale non si riduce a suonare la nota giusta, bensì a dargli un’interpretazione, uno spirito unico e vivo, che la cantante talora aggrottava la fronte, quasi colta di contropiede da un sospetto o una rivelazione, per poi scuotere il capo. In altre occasioni, invece, lei lo spiava di sottecchi, indecifrabile peggio d’una sfinge, e allora Hironimo sbagliava apposta per distrarla, temendo che lei gli leggesse i pensieri e che o lo cacciasse o assecondasse il suo capriccio. Fosse la Trivixan appartenuta ad altri uomini, il ragazzo non avrebbe esitato a raccogliere la sfida, stuzzicato dalla competizione di rendersi il più meritevole agli occhi di lei e di rubarla per sé. Peccato, però, che lei fosse mantenuta anche da suo zio Batista e se dei suoi amici Hironimo se ne fregava altamente, di lui no, già egli se ne approfittava sfacciatamente della sua generosità e fiducia, non poteva adesso mettere le mani sull’unica cosa che gli era stata proibita, seppur implicitamente. Sapeva d’essere talora un ingordo egoista, ma non fino a quel punto. O almeno sperava.

“Sei distratto oggi, Momolo”, gli fece notare Luzia, chiudendo sbuffando lo spartito ed invitandolo a riporre il liuto, le orecchie infastidite dalla sfilza d’accordi sbagliati ma peggio ancora dell’esecuzione fuori tempo. “Meglio smettere, prima che mi sanguinino le orecchie! D’accordo che il brano parla d’addii ai propri amori, però sarebbe in chiave ironica, mica tragica!”, lo burlò dolcemente, aprendo la finestra e permettendo ad un po’ d’aria fresca di circolare nel suo studiolo privato. “Se ci recassimo in giardino per sgranchirci un po’ le gambe?”

Hironimo s’ingobbì, storcendo imbarazzato la bocca. “Mi dispiace”, mormorò contrito, giocherellando con un laccetto del suo zipone. “Vi giuro che m’ero esercitato a casa”, aggiunse, non volendole dare l’impressione d’aver disertato gli esercizi assegnatigli. I maestri di musica costavano cari e Luzia – su istruzione del suo amante e protettore – gli insegnava pressoché gratuitamente. Il ragazzo non desiderava pertanto apparire né un fannullone né un ingrato.

“E di che ti scusi?”, liquidò la donna la faccenda tramite uno svolazzo di mano. “Abbiamo tutti i nostri giorni cupi. L’importante è non indugiarvi troppo”, gli sorrise incoraggiante. La cortigiana honorata si sedette su di una panca foderata di cuoio e ricoperta di cuscini di velluto, invitando il ragazzo a seguirla. Gli porse una coppa di ceramica, dal cui liquido all’interno proveniva un pungente profumo di rose e di menta. “Una miscela appena giunta dalla Siria: vostro cugino sier Andrea l’ha regalata al vostro sior Barba, il quale gentilmente ne ha condivisa una parte con me.”

Hironimo, all’udir la storia di quella deliziosa bevanda, mancò per poco di soffocarsi, andandogli di traverso, neanche lo zio Batista avesse pianificato di strangolarlo indirettamente, reo di nutrire pensieri lascivi sulla sua mantenuta.

“Raccontami.”

“Stupidaggini da ragazzini”, nicchiò il giovane Miani, roteando la coppa, lo sguardo ostinatamente abbassato. “Nulla su cui perderci il sonno …”

“Eppure capaci di rubarti il buonumore”, ribatté paziente la cantante,  bevendo con garbo il suo infuso, il mignolo ben teso e alzato, un’abitudine simpatica e un pelino infantile, che suscitava i sorrisi bonari dei suoi protettori e clienti.  “Niente che ci ferisce è stupido e non m’importa se tu la giudichi una fesseria da tosatèli, ti ascolterò ugualmente e volentieri.”

Ed ecco un altro aspetto ch’aveva ammaliato Hironimo, quella pazienza e oggettività dimostratagli nel sentire le sue confidenze, senza sfotterlo né indorargli la pillola se necessitava d’un consiglio.

Sospirando a disagio, il ragazzo tentò di vociare quanto lo stesse turbando, augurandosi di non suonare ridicolo: “E’ che …  è che mi vergogno della mia pateticità.”

“Pateticità?”, ripeté confusa la cortigiana, stringendo gli occhi.

Hironimo annuì. “Tutti i miei amici seducono tranquillamente ogni donna a loro congegnale mentre io … io neppure riesco ad aprir bocca senza coprirmi di ridicolo … Forse, forse i miei maggiori hanno ragione, quando sostengono come ci sia qualcosa di storto in me …” e ogni volta gli insulti, seppur proferiti ridendo, lo ferivano profondamente e lo impestavano di folle rabbia. A nulla serviva riempire di (molto virili) pugni lo sfrontato di turno, perché se in questo modo la sua immagine davanti agli amici si rafforzava, quella che lui aveva su di sé diminuiva, aumentando quella sua insicurezza tipica dell’adolescenza.

“Ciacole, ciacole”, sentenziò inaspettatamente Luzia, dopo un lungo silenzio di riflessione. “Non c’è niente di anormale in te e i tuoi amici sono degli stolti, perché non s’accorgono come tu al contrario sia molto chiacchierino e disinvolto con ogni donzella, basta che chiedano conferma alla Fantina …”, gli confidò, arcuando maliziosa la bocca. Occhio sempre vigile, alla cantante non erano sfuggite le furtive occhiate di Hironimo alle sue ballerine o acrobate durante le prove generali prima di una festa: esibendosi quest’ultime seminude, non gliene faceva certo una colpa, semmai la divertiva. Una tra le più spigliate, Fantina, con la scusa di far sentire al giovane quanto le battesse il cuore a furia d’esercitarsi, gli aveva posto la mano all’altezza della tetta sinistra, roteandola in un invitante massaggio e il ragazzo, ridendosela, aveva dichiarato non sentire al contrario niente, appoggiandole l’orecchio al petto, mentre quella gli spostava il viso in posizione frontale tra i seni, emettendo una serie di risolini acuti non appena egli aveva preso a soffiare e vibrare le labbra, provocandole un piacevole solletico.

Hironimo arrossì violentemente, colto in fallo e maledicendosi per quella scherzosa ripicca al giochetto della vivace ballerina.

“Il problema è casomai quando detta donzella t’interessa, allora sì che ti blocchi! E non negare, perché sai che ho ragione!”, esclamò trionfante la cortigiana honorata. “Quando una non ti piace sul serio, non temi la sua reazione o giudizio. Al contrario, se la desideri … Non molti uomini sono capaci di mettersi in gioco, sai? Specie se la potenziale amante può rifiutarli. De diana, tutti sono dei grandi seduttori con le prostitute, no?”, ridacchiò, strizzandogli maliziosa l’occhio.

“E il mio sior Barba?”, inquisì d’un tratto brusco il ragazzo. “Come vi ha sedotto?”

“An, quesito difficile”, non si scompose la Trivixan, riempiendosi di nuovo la coppa di quel dolcissimo infuso. “Non certo coi suoi soldi né la sua posizione sociale, poiché annovero tra le mie fila  patroni più danarosi e socialmente meglio piazzati di lui. Ama molto appassionatamente, però con incostanza … No, se avessi puntato solo sulla passione fisica, a quest’ora avrei già perduto il tuo sior Barba. E’ la mia mente ciò ch’egli adora di me: vedi, la tua siora Amia possiede molte qualità e lui le vuole un bene dell’anima, solo che lei è troppo rigida e limitata di pensiero, mentre il tuo sior Barba è un irrequieto vulcano d’idee. Lui apprezza ch’io gli tenga testa intellettualmente ed anch’io amo ciò, sicché abbiamo stretto codesto matrimonio persiano, anche quando la passione fisica scemerà. Io so che lui va con altre donne, eppure torna sempre da me.”

L’unica tuttavia che Luzia gli aveva categoricamente precluso era Francesca Ordeaschi, la sua odiatissima rivale. Alla scoperta  di come sier Batista avesse partecipato ad una festa in cui lei aveva presenziato, la sua amante si era trasformata in una delle Erinni, sputandogli addosso i peggiori insulti e minacciandolo d’accopparlo di sua mano, piuttosto che cederlo alla concorrenza. Il Morexini (che sul serio manco se la filava l’Ordeaschi, troppo volgare per lui) aveva ascoltato calmissimo, lasciandosi scivolare di dosso ogni invettiva, già allenato dalla sua Santippe. L’unico momento in cui aveva perduto la pazienza, fu quando lei in sberleffo gli aveva ripetuto, imitandolo alla perfezione, le sue motivazioni, ossia che aveva bisogno di crearsi una solida rete d’amicizie a Palazzo per favorire la sua carriera politica in ascesa e attorno a Francesca Ordeaschi gravitavano appunto quei pezzi da novanta.

E allora fuori da casa mia! Vi odio, vi disprezzo, mi fate schifo! Su, su correte cagnolino, correte da lei! Io tanto mi strapazzo per divertire vossioria, io che vi ho donato i miei migliori anni, che ho sperato – Dio mi perdoni! – in una minuscola prova di fedeltà vostra, mi vedo ripagata così: l’Ordeaschi schiocca le dita, vossioria perde la testa e zampetta scodinzolante da lei!”

“Parlo al muro, forse? Non me ne cale un accidente di quella baldracca, bensì della gente che lei frequenta! Vi giudicavo più intelligente, ma a quanto pare la gelosia vi ha rivelato per la donnetta di bassa lega quale siete!”

“Visto che scopate anche quelle, non dovreste amareggiarvi!”

“Attenta a non infastidirmi: non siete l’unica puttana a Veniexia …”

“E voi non siete l’unico patrizio: della vostra razza, ne ho già cento in lista d’attesa. Meglio per loro che si sia liberato un posto, almeno mi divertirò di più e non dovrò più sopportare un vecchio noioso e impotente come voi!”

E via così finché, non ottenendo nulla a parole, sier Batista era passato alle vie di fatto e, pigliata la cortigiana, l’aveva costretta sulle sue ginocchia, chiappe all’aria, e sollevatale le gonne l’aveva sculacciata per bene per la sua linguaccia. Caricatasela poi sulle spalle e gettatala di peso sul letto, le aveva ben esplicato tra le lenzuola come lui la preferisse sopra ogni altra amante; come fosse tutt’altro che vecchio, noioso e impotente e che mai più si ritornasse sull’argomento. In Senato, il giorno successivo, si era chiesto al “da Lisbona” il perché dei graffi sulla guancia, segni che lui aveva giustificato frutto di un’accesa discussione con la gatta di casa. Felino che, dopo una settimana di bronci e dispetti, gli era ritornata tutta morbida e ronronnante sulle ginocchia, sotto solenne giuramento di non toccare l’Ordeaschi manco sotto minaccia di morte.

“In quest’aspetto, tu gli assomigli molto: ti piace sì un bel visetto, ma ancor di più lo spirito di una persona.”

Appoggiando la coppa sul tavolino smaltato di foggia orientale, Hironimo si passò una mano sulla fronte, grattando via i pensieri. “Mi si rimprovera che sono troppo accondiscendente verso le donne, permettendo loro di pestarmi i piedi e pure scusandomi quando lo fanno”, proseguì nella sua confessione, riversando il pus accumulato negli ultimi mesi e sentendosi un poco indegno di quel paragone con lo zio, il quale non si tirava mai indietro dinanzi alla sfida di una nuova conquista. “Mi hanno detto, che forse dovrei essere più – cito - rude e aggressivo nei loro confronti, poiché così piace a loro. Che mi lascio trattare alla stregua di uno straccio, piuttosto d’impormi e farmi, secondo costoro, rispettare …”

“Boff, l’uomo lo vogliamo rude e aggressivo forse in letto, ma ti assicuro che nella vita reale lo preferiamo gentile e premuroso”, su quel punto l’assicurò un’intransigente Luzia, la quale l’ascoltava un poco in pena, affezionata com’era all’animo sensibile di quel ragazzo, in fin dei conti più buono e puro di tanti approfittatori e marpioni in cui s’era imbattuta. E ribolliva di rabbia nell’udire quelle sue insicurezze e recriminazioni, inculcategli da gente che neanche gli arrivava alle caviglie. In molti preferiscono essere amati e prendere dagli amati, in una sorta di comodo e passivo egoismo; in pochi invece preferiscono dare e amare, sbilanciandosi ed esponendosi alle delusioni ed Hironimo si ritrovava in questa seconda categoria, degli spiriti amanti, che traevano la loro felicità in quella della persona amata, piuttosto che alla propria soddisfazione personale. E per questo, ahimè, venivano spesso o ridicolizzati o sfruttati.

Teneramente la cantante afferrò Hironimo per le spalle e lo invitò ad accomodare il capo sul suo grembo, scostandogli delicata delle ciocche scure dalla fronte. “Come sostiene Marsilio Ficino, solo Venere domina Marte e lui non domina mai lei: dunque, un uomo che maltratta la sua donna non vale niente, se perfino lo sterminatore di uomini si accoccola mansueto e rilassato accanto alla sua”, gli spiegò, distendendo una piccola ruga scettica sulla fronte del giovane. “Tu non sei debole, Momolo, ti ho visto combattere alla Guerra dei Pugni contro opponenti il doppio di te; non sei né stupido né una scartina. I veri amatori non si vantano mai delle loro conquiste e chi afferma di non aver mai sofferto d’amore, allora è un bugiardo perché non è vero, chi veramente ama soffre, poiché non si esiste più, ci si annulla nella cosa amata e viceversa. In amore è facile prendere, ma difficile dare”, ammise la donna, accarezzandogli la testa, colta da antica malinconia.

Ripensava al suo Alexandro, alla sua eroica rinuncia di carriera, quando, anni addietro, la marchesa Isabella d’Este gli aveva proposto impiego a corte, a patto però ch’abbandonasse Luzia, sostenendo che di cantori e amanti a Mantova ne avrebbe avuti a bizzeffe. Egli, allora, le aveva intimato di tagliargli la mano e così assumerlo, poiché senza la sua musa, egli non poteva lavorare. Una scelta sciocca, se analizzata freddamente, rifiutare una sì allettante offerta per amor di una cortigiana; eppure … eppure …

“E poi neanche a me piacciono gli spacconi, i gretti e i volgari, il cui unico pensiero fisso si riduce al coito. Bleah, cani in calore e senza qualità … ”, si scosse Luzia dal suo incantamento. Nei suoi lunghi anni da professionista ne aveva viste di cotte e di crude e udite di ben peggio. Per questo motivo aveva lavorato tenacemente per elevarsi dall’anonima marmaglia delle prostitute, per dedicarsi alla sua arte in tutta tranquillità, senza scendere a scabrosi compromessi. Se i suoi clienti desideravano una serata più piccante, sapeva dove procurare loro le ragazze ma se volevano giacere con lei, scaltramente li indirizzava nelle posizioni a lei consone, facendoli però credere ch’erano stati loro stessi a sceglierle. Una volta presili saldamente per il pene, gli uomini non capivano più niente, altro ch’esperti dominatori. E a coloro che si lamentavano di lei, rinfacciandole come con minor tariffa ottenevano miglior mercanzia ai bordelli, Luzia, ridendoli in faccia, replicava sfrontata su cosa li trattenesse allora a casa sua; sul perché si fossero scomodati a dirglielo, perdendo così tempo prezioso ch’avrebbero potuto meglio impiegare in letti più economici.

“Quegli infoiati là io li cedo assai volentieri alle cortigiane di lume o alle comuni meretrici. Da loro non c’è da guadagnarci alcunché di concreto e molto spesso chi si pavoneggia a voce alta, poi si scopre essere un incapace a letto, più veloce di un gatto affamato.”

Hironimo grugnì sotto i baffi alla battuta.

“Non vergognarti mai di chi sei, Momolo: quando lo fai, loro hanno vinto. Il mondo è pieno di vigliacchi pronti ad azzannarti, ma guaiscono spaventati non appena mostri il pugno! Mia madre, oltre al mestiere, m’ha insegnato a sapere come voglio esser trattata: vedi qualcuno che mi chiami apertamente in faccia “troia” o “puttana”? Uomini arrapati che mi palpeggiano? O che mi fischiano dietro? No, perché il mio atteggiamento glielo impedisce, sanno che se s’azzardano, ci saranno conseguenze gravi per loro. E se ciò non bastasse, i miei bestioni li acconciano per le feste”, dichiarò bellicosa la cortigiana honorata, la quale appunto onde evitare visite sgradite o aggressioni da parte di pretendenti respinti o di rivali, deambulava per le calli accompagnata dai suoi bravi, omaccioni provenienti dallo Stato da Mar, tanto truci cogli estranei quanto mansueti con la padrona. “Non cedere dinanzi ai giudizi di nessuno, conosci te stesso e vai avanti per la tua strada.”

“Quale strada?”, obiettò Hironimo, stringendo la bocca in una linea dura. “Quando il mio sior Pare era vivo, non avevo alcun dubbio quale essa fosse, poiché progettavo di seguire le sue esatte orme. Dopo la sua morte … non capisco più nulla, questo mondo mi sembra di vederlo da una lente di vetro, distorto e assurdo, e ciononostante io voglio fare qualcosa, rifiuto di starmene con le mani in mano, voglio … voglio poter esser d’aiuto e apprezzato come lo era stato il mio sior Pare … Lo stesso anche in ambito amoroso”, e reclinò all’indietro la nuca, cercando lo sguardo della cantante. “Il mio sentimento finisce sempre unilaterale e … e se invece viene ricambiato, è perché lei ha pietà di me. Ecco perché mi appellano un patetico sfortunato.”

“Pietà, lussuria, amore sincero …”, elencò spassionatamente la donna, cancellando la conta nell’aria tramite uno svolazzo della mano,  “che importa il modo, quando l’amata è tua? In guerra ed in amore tutto è concesso!”, disse tenera, inclinando il viso su quello del ragazzo, che allungò la mano, attorcigliando un ricciolo rosso tra le sue dita e rigirandolo pensoso.

“Affermate il vero, patrona”, soffiò d’un tratto roco, gli occhi nerissimi incatenati a quelli turchesi di lei. “Ovunque al mondo è violenza ed io non voglio portarla tra me e la mia amata”, mormorò, disegnando con la punta del dito il profilo della cantante, accarezzandole la pelle morbidissima della guancia. Allo stesso modo non desiderava far del male a nessuno e ciononostante, in lui percepiva spesso una forza perversa, che lo spronava alla malvagità, terrorizzandolo e costringendolo a domandarsi che cosa sarebbe successo il giorno, in cui avesse perduto il controllo.

Voleva soltanto amare ed essere amato, perché doveva suonare strampalata come idea e così difficile da capire da parte degli altri?

Puntellandosi sui gomiti, Hironimo affondò le sue dita tra le trecce rosse di Luzia, chinandola su di lui e iniziando un bacio un poco rovescio, i rispettivi nasi in direzione opposta. Le labbra del ragazzo emulavano in finezza la forza di due eserciti in pieno scontro frontale, avanzando e conquistando il morbido territorio pregno dell’euforia della prima uccisione. Si sistemò sul fianco, trascinando Luzia a sé, la sua preda di guerra, petto contro petto, leccandole lungo il collo e i denti mordicchianti il lobo del delicato orecchio. Finché le posizioni non s’invertirono e lei si ritrovò accoccolata sulle sue ginocchia, prigioniera tra le sue braccia e la gonna abbastanza sollevata da intravedere le braghesse, assecondando diligente i suoi movimenti, senza però prendere alcuna iniziativa, in paziente attesa che l’audace slancio del giovane s’esaurisse e lui realizzasse il peso del suo gesto.  

… la Trivixan è roba del sior Pare …

Hironimo si fermò a mezz’aria dall’elargire l’ennesimo bacio a Luzia, mordendosi e tirando la pelle delle labbra ora gonfie ed arrossate, osservando il viso impassibile della cantante, la camiciola di seta abbassata e aperta fin a scoprire quasi completamente il petto, i nastrini sciolti delle braghesse. Il ragazzo sospirò, serrò frustrato i denti, maledicendo tra sé e sé la sua mancanza di autocontrollo, il suo impulsivo egoismo. Baciò con estrema delicatezza ciascuna palpebra della Trivixan, le cui ciglia tremarono impercettibilmente da un lieve solletico, intanto che le sistemava le spalline e la camiciola, in un goffo tentativo di rivestirla.

“Patrona, mi piacete assaissimo e vi desidero d’ugual intensa maniera.”

“Sì.”

“Ma amo troppo il mio sior Barba per ripagare la sua fiducia coll’inganno.”

“Sì.”

“Vi domando perdono.”

“Sei perdonato”, lo rincuorò gentile la cantante, sciogliendosi piano dall’abbraccio del confuso e rammaricato patrizio. Nelle sue iridi turchesi egli non vi lesse alcun biasimo né rancore né delusione. Forse un pelino d’incertezza, come se l’intera situazione stesse risultando anche a lei sconosciuta ed ostica. “Ed è già dimenticato”, si riprese la cortigiana honorata, alzandosi dalla panca e lisciandosi le pieghe della gonna sgualcita.

“Suppongo non mi vogliate più vedere.”

Luzia gli scoccò un’occhiataccia, intanto che si acconciava alla bell’e meglio i capelli spettinati. “Non fare lo sciocco. La pavana si balla in due, la colpa è in parte anche mia”, lo rimproverò aspra. “A furia di frequentare uomini piuttosto maturi, avevo quasi scordato quanto i giovani fossero irruenti ed irresponsabili …”, dichiarò pragmatica, riprendendo posto accanto ad Hironimo una volta terminata la rapida toeletta, ancora indeciso se rimanere o scappar via dopo quella figuraccia. “Mentre tu m’hai appena dimostrato, che sei l’eccezione che conferma la regola.”

“Non datemi troppo credito, patrona”, si schermì severo il ragazzo, studiandosi avvilito la punta delle scarpe,  “se foste stata la donna di qualcun altro, qualcuno magari a me in odio, non mi sarei trattenuto.”

La cortigiana honorata rimase in silenzio per una manciata d’istanti, l’espressione guardinga ed indagatrice. Sporgendosi verso di lui, gli pose due dita sotto il mento e scandagliò accuratamente negli abissi di quelle iridi nerissime. “Anche in quel frangente, ti saresti fermato. Non sei un malvagio, è il diavolo che vuol fartelo credere.”

“Che?!”

Ma Luzia non gli fornì ulteriori dettagli: riacquistata la sua aria da finta civetta, scattò in piedi e gli tese la mano, reclamando imperiosa il suo braccio. Costì avvinghiati, i due si diressero a gran passi verso la sala di rappresentanza, gremita di un frenetico viavai di servitori impegnati a decorarla. Osservando soddisfatta l’avanzamento dei lavori e fornendo ogni tanto qualche dritta, la cortigiana honorata suggerì una controproposta ad Hironimo: “Invece, se proprio vuoi far penitenza, aiutami ad elaborare un’efficace vendetta contro quello spergiuro d’Ottaviano Petrucci, quella viscida serpe d’Urbino!”

“L’editore musicale?”, si svegliò dal suo incantamento il ragazzo, riconoscente a Luzia per aver cambiato argomento e rotto l’imbarazzo, che lo stava divorando vivo.

“In tutta la sua odiosa persona!”, sbuffava a guisa di toro la Trivixan. “Tra i suoi numerosi progetti futuri, ha incluso una nuova raccolta di frottole, ricercari e danze del compositore milanese Joan Ambrosio Dalza e mi aveva giurato – ripeto – giurato sul suo onore, che mi avrebbe procurato in esclusiva una copia inedita di una pavana alla venetiana, per suonarla al mio prossimo ricevimento ufficiale. E l’ha fatto, secondo te? No! Che figura farò coll’ambasciatore sier Hironimo Donado? Ti pare si mantengano così le promesse, Momolo? E ad aggiungere l’insulto all’ingiuria, fonti mie certissime hanno sentito suonare a casa della Francesca Ordeaschi – becha fotua, cancara proditora! – un saltarello alla ferrarese sempre del Dalza! Ti pare giusto? Ci scommetto il mio diamante più grosso, che il signor Ottaviano s’è lasciato coglionare da quella pezzente! An, mare de diana! Ma se pensa di cavarsela … di sfuggirmi … Domani sera a cena gli farò vedere i sorci verdi, altroché! Non permetto a nessuno di burlarsi di me, men che meno ad un marchigiano papalino imbrattatore di fogli!”

Veramente Luzia Trivixan si comportava come se nulla tra loro fosse accaduto, avendo sviluppato, grazie alla sua professione, una spessa corazza che l’aiutava a lasciarsi scivolar via ogni cattiveria, delusione e dispiacere. Per il resto del pomeriggio non accennò mai più al bacio, né permise che Hironimo si fustigasse oltre il necessario, tenendolo occupato e riprendendo la lezione interrotta di liuto, esercitandosi assieme su di una versione da lei stessa arrangiata di Adieu mes amours del franco-fiammingo Josquin des Prez, il princeps musicorum.

“E stavolta leggerezza, Momolo”, gli pizzicò giocosa la guancia la cortigiana, dopo avergli corretto la postura delle dita. “In fin dei conti, il nostro amico si sta lagnando che, non avendo più danari, dovrà momentaneamente abbandonare i suoi divertimenti amorosi!”

Adieu mes amours, a Dieu vous command,
Adieu je vous dy jusquez au printemps …

Luzia Trivixan era sì una commediante, una maschera che s’adattava alle circostanze, però sempre con Hironimo si dimostrò spontanea e sincera, sicché, dopo gli iniziali timori e rimorsi, il ragazzo poté rilassarsi e confidare nell’effettivo perdono da parte della cortigiana honorata e soprattutto nel suo silenzio circa l’accaduto con suo zio sier Batista.

I loro incontri pomeridiani, per quanto diminuiti, conservarono lo stesso tono complice e brioso e il giovane Miani si divertì come un matto a sentire il colorito resoconto della cantante, quando gli descrisse i tormenti cui aveva sottoposto il signor Petrucci, talmente bistrattato da accordarle speditamente tutti gli spartiti di cui ella necessitava, per organizzare una piccola festa in onore dell’ambasciatore sier Hironimo Donado “dalle Rose”, noto “suminus patronus” dell’arte, e il cavalier sier Domenego Trivixan, da poco rimpatriati.

Un piccolo trionfo per Luzia, specie nei confronti della sua peggior rivale, Francesca Ordeaschi, ed Hironimo le fu davvero riconoscente d’averlo incluso a quella festa esclusiva, laddove la cortigiana honorata era riuscita ad invitare la meglio Venezia, sia politicamente che dal punto di vista culturale.

In particolare, perché il giovane Miani ebbe modo d’incontrare finalmente di persona l’ambasciatore sier Hironimo Donado, un fratello di madona Alba amica di Madre e zio del suo amico fraterno Marco Contarini. Conversando con lui, Hironimo capì da chi Marco avesse ereditato la sua amabile gentilezza e velleità poetiche e da chi suo fratello minore Piero la sua precoce bravura in latino e in greco, ammettendo anche una certa somiglianza nei tratti somatici: la veste di broccato e la ricca collana al collo risaltavano in sier Hironimo il suo corpo vigoroso e il viso bellissimo, dolce e benevolo e ben presto Hironimo appurò quanto tanta beltà fisica s’accompagnasse a quella dell’animo.

Felice connubio tra prestigio politico e impegno culturale, il Donado “dalle Rose”, oltre ad aver ricoperto importanti cariche per conto della Signoria, era anche dottore in artibus, poeta lirico, d’elegie e satire; saggista, filosofo e appassionato di studi d’astronomia e di musica, tanto che Ottaviano Petrucci gli aveva dedicato, il 15 marzo 1501, la prima edizione dell’Odhecaton. Amico di Giovanni Pico della Mirandola, d'Angelo Poliziano, di Galeazzo Facino, di Marsilio Ficino e dello stesso Lorenzo il Magnifico, d’Almorò Barbaro e di Piero Bembo, della bellissima Cassandra Fedele Mappelli e di moltissimi altri umanisti veneziani ed italiani, non esisteva un argomento in cui sier Hironimo non fosse preparato, spaziando agilmente dalla letteratura alle scienze, senza tuttavia apparire spocchioso o pedante, anzi, per la prima volta in vita sua il giovane Miani riusciva a capire concetti – tipo l’unità dell’intelletto o l’immortalità dell’anima secondo Aristotele -  che neppure prendendolo a scudisciate si era stati capaci d’insegnargli. Questo perché, se interrotto da una sua domanda, l’ambasciatore non si scocciava, semmai ripeteva e semplificava per facilitargli la comprensione.

“Purtroppo, non si possono servire due padroni”, gli confidò malinconico sier Hironimo, spesso e volentieri trascinato via dal suo otium culturale dai turbini della politica. “Per questo, quando troverai la tua vera vocazione, devi perseguirla più tenace d’un bracco, senza distrazioni e compromessi. Altrimenti, si è destinati all’oscurità e ad un precoce oblio.”

Completamente ammaliato dalla sua intelligenza, Hironimo credette d’essersi un poco innamorato di quell’uomo, al punto d’invidiare madona Maria Gradenigo Donado sua sposa e i suoi nove figlioli, indegni rivali che avevano la fortuna di tenerselo tutto per loro: fosse stato per lui, si sarebbe accoccolato ai suoi piedi come Maria di Betania ad ascoltarlo parlare per ore e ore e di fatti per l’intera serata lo tallonò inclemente, lavorandosi poi ben bene il cugino dell’ambasciatore, sier Francesco, anch’egli peritissimo nelle lettere classiche, soltanto di carattere meno estroverso rispetto al parente, un pensatore più che un uomo d’azione e come sier Hironimo anch’egli propendeva a preferire la subdola mischia della politica [1]. La scelta del giovane Miani d’affiancarsi a sier Francesco si rivelò azzeccata, togliendolo d’impaccio e perciò accaparrandosi la sua simpatia: sul volto del trentacinquenne patrizio, infatti, trapelava un certo disagio nel ritrovarsi in un ambiente così frivolo, per quanto colto. Cicalando del più e del meno, Hironimo aveva scoperto che tale malinconia d’animo era dovuta alla prematura scomparsa della moglie del Donado, fatto che l’aveva reso particolarmente devoto soprattutto al momento di prendere una seconda moglie, madona Maria Zustignan Donado, verso la quale sier Francesco nutriva una grandissima stima ed affetto.

Peccato che il giovane Miani commise la sconsideratezza, mentre l’indomani raccontava agli amici Marco, Piero e Polo Contarini ogni dettaglio della serata, quanto ammirasse il loro barba sier Hironimo, tessendogli estasiato ogni lode alla stregua d’una fanciulla innamorata e pertanto scatenando una gelosia furiosa in Marco, già di suo frustrato per la sua incapacità d’eguagliare la bravura letteraria dell’illustre zio, figurarsi adesso che scopriva quest’ultimo avergli insidiato colui che già considerava il cor suo.

“Bestia, allora sposatelo alla persiana e fuora de là col diaol!”, gli urlò Marco in lacrime, quasi spezzando in due il suo arco d’addestramento. Meno male che si trovavano al Lido, lontano da orecchie indiscrete ch’avrebbero potuto equivocare. “Io ti voglio più bene di lui e a scuola ti ho sempre aiutato in latino, razza d’ingrato somaro! E tu ora mi fai la baldracca e gli scodinzoli dietro? Ma chi sono io per te? Una latrina da usare al bisogno?”, prese il ragazzino a singhiozzare, aggrappandosi disperato al maggiore, quando questi l’abbracciò per consolarlo.

Porta pazienza, non ha che quattordici anni, si ricordò Hironimo mentre gli prometteva fedeltà eterna e gli accarezzava il capo, ricordandosi di come, alla medesima età del Contarini, egli si fosse scatenato in scenate di gelosia ancora più assurde e melodrammatiche.

Certo però sembrava quasi una maledizione, che l’uomo fosse destinato, due casi su tre, ad affezionarsi a chi di rimando non se lo filava manco di striscio.

Facilissimo, dunque, desiderare “l’altrui” …

 

***

 

Il rapporto tra Hironimo e Jacomo Corner di sier Zorzi il cavalier si poteva riassumere in amici-nemici. Di caratteri simili ma provenienti dai poli opposti del patriziato veneziano, i due giovanotti riuscivano a divertirsi e bighellonare assieme, per poi un attimo dopo accapigliarsi ed insultare loro e i rispettivi antenati fino alla fondazione di Venezia.

Il Miani invidiava al Corner la sua ricchezza ed appartenenza ad una delle famiglie più influenti e meglio imparentate della Serenissima; mentre Jacomo invidiava il carisma naturale e la facilità con cui Hironimo tesseva amicizie, creandosi un piccolo suo seguito personale. Pur in generale soddisfatti di sé, mal sopportavano ciò che l’altro possedeva e non perdevano occasione di ricordarselo a vicenda, talora crudelmente. Ad esempio, il Corner rimarcava inclemente i modesti mezzi economici del Miani; quest’ultimo, invece, gli chiedeva se gli bruciasse la palese predilezione di suo padre verso i suoi fratelli Francesco e Marco Corner.

Magre vittorie di Pirro, poiché nella vita reale, alla fine, la spuntava sempre e comunque Jacomo, favorito da ciò che contava di più al mondo, ossia danaro e posizione sociale.

Sicché, il giorno in cui dinanzi al doge sier Lunardo Loredan venne annunciato a Palazzo Ducale il fidanzamento ufficiale tra Marina Morexini q. sier Orsato e Jacomo Corner, Hironimo, ricevuta la notizia, non si sorprese del rictus nervoso che gli attraversò il viso, scendendo fino alla mano mentre, senza accorgersi, piegava in due la penna.

Da anni non provava alcun sentimento verso Marina e, sicuro, un poco rimpiangeva di non aver tentato (molto arditamente) di proporsi a sua madre come candidato alla sua mano; tuttavia lo infastidì che, tra tutti gli scapoli di buona famiglia, proprio Jacomo Corner avesse dovuto spuntarla. E al Miani sarebbe andato bene perfino un qualsiasi Corner, ma non quel Corner, il cocco di zia Ysabeta, quello per le cui marachelle lui finiva puntualmente punito, anche quando non era colpa sua, uscendone Jacomo sempre innocentino e perdonato.  

“Era ovvio che la pronipote del fu Serenissimo Agustin Barbarigo si maritasse in una famiglia a sua volta discendente da Dogi, quale la nostra – e per nostra intendo sia i Corner che i Morexini. In fede mia, non avrei potuto sperare migliore alleanza per il mio Jacomo: vi immaginate? La fanciulla più ambita di Veniexia sarà sua moglie! Quale lustro guadagnerà in società, come gli assicurerà una spedita carriera politica! Per fortuna, che abbiamo deciso di fidanzarli in largo anticipo: costasse quel che costasse, questo sponsalicio dev’essere l’unico degno di nota dell’anno, nessuno dovrà batterlo in fama e lusso, addirittura nessuno dovrà avere perfino il coraggio di sposarsi, tanto abbaglieremo la città!”

“Sicché per un anno vivremo tutti da Turchi!”, bisbigliò Hironimo all’orecchio di suo zio sier Batista, che grugnì paonazzo in volto, sforzandosi di non ridere. Sua moglie, madona Morexina, invece era divenuta anch’ella rossa, ma per differente motivo.

“La tradizione indicherebbe l’abito nuziale o di raso bianco o di panno d’argento, ma considerata la superiore nobiltà della sposa, dire che sarebbe più auspicabile del rastagno d’oro. Uguale discorso per mio figlio, ovviamente. Una tal giovane ed avvenente coppia ha il diritto d’essere celebrata nello sfarzo più assoluto …” e per interminabile tempo madona Ysabeta si vantò e si vantò e si vantò di quell’illustre unione, che per la prima volta dacché s’aveva memoria, sua sorella minore madona Morexina si ribellò alla maggiore e, battendo la mano sul cuscino del sedile dentro la felze, esclamò inviperita:

“Sancte Marce! Un’altra Marina si sposa oggi, nostra sorela: potreste almanco spender una parola di felicitazioni per lei, o vi costa troppo?”, e sbuffando sdegnata prese a mangiucchiarsi stizzita l’unghia, suo marito sier Batista che la rimirava adorante ed Hironimo genuinamente colpito da tanto fegato, avendola sempre creduta succube della sorella maggiore.

Ultimamente, anzi, da quando madona Ysabeta Morexini Corner aveva incominciato a maritare figli e figlie, un inaspettato spirito di rivalsa aveva piantato radici in madona Morexina, prefissandosi d’accasare tutte e quattro le sue figliole, costasse quel che costasse.

“Il prossimo anno, abbiamo deciso di far sposare Lugrezia a sier Jacomo Contarini. Non vi pare meraviglioso?”

“Invitatelo al matrimonio di mia figlia Maria con sier Zuanne Querini di Stampalia e Amorgo!”

Oppure …

“Che ne pensate, sorela? Raso o seta per l’abito nuziale della mia Biancha?”

“Ecco, io per mia nuora Maria avevo pensato a del raso …”

“Ma come? E alla povera Querina più non ci pensate?”

Se madona Ysabeta avesse chiamato barbona vagabonda sua sorella, certamente l’avrebbe insolentita di meno, ché la mera menzione al mancato fidanzamento di sua figlia Querina aveva immediatamente zittito madona Morexina, pietrificata sul posto. La granitica volontà della patrizia di maritare suo figlio Carlo alla ricca ereditiera Maria da Molin del fu sier Amadio l’aveva totalmente distratta dalla ricerca d’un marito per la sua seconda femmina. A complicare la già delicata situazione, Carlo s’adoperava in ogni modo a stracciare i nervi dei genitori, rivelando un carattere meno remissivo e pacato di quanto si fosse finora creduto, protestando la sua contrarietà a quelle nozze e adducendo un’infinità di deboli scuse per sottrarvisi, quali il non aver nemmeno compiuto ventun anni. Sier Batista lo fissava stralunato, incapace di concepire tanta irriconoscenza in quel suo figlio prediletto: la Molin possedeva terre, case, un cospicuo patrimonio liquido; era giovane, virtuosa e piuttosto carina, certamente più obbediente del suo futuro consorte. Insomma, che diamine pretendeva di più? Così ripagava i suoi sforzi?

“Vuoi divenire l’erede e prossimo capofamiglia? Impara ad assumerti le tue responsabilità! Un uomo non è tale se non è sposato! Puto rimane, di nome e di fatto!” [2]

Ogni giorno era un dramma a Ca’ Morexini, tra pianti, grida, recriminazioni, porte sbattute, vasellame infranto per terra, promesse di buttarsi giù in canale o di vestirsi frate e contro-promesse d’assassinio, in caso d’attuazione delle preditte.

“Finché io respiro e finché tu vivrai in questa casa, perdio, se non m’obbedirai! Anni di sacrifici e sofferenze per dare a te, disgraziato d’un barabba, e ai tuoi fratelli e alle tue sorelle ogni possibilità d’emergere, d’avanzare in società! E tu mi ringrazi sciorinandoti in capricci come l’ultima delle donnicciole? Guarda tua sorella Maria! Ha protestato quando le ho detto di sposarsi sier Zuanne? No! Come puoi ripagare tutto il bene che ti ho fatto, con tanta meschina disobbedienza? Mi deludi, Carlo, mi deludi grandemente! Non pensi ai tuoi fratelli minori? Alle tue sorelle ancora zitelle? Uh? Se dovessi morire domani, come te la caveresti a mantenerli?”

“Sior Pare, non mi costringete, vi supplico! Non la voglio! Non la voglio! Maritatela a Nicolò o ad Hironimo o meglio ancora a Piero! Sì, Piero è certamente il più adatto al matrimonio rispetto a me!”

“Sacramento! Alzati e vattene via, mi fai venire la nausea!”

Un giorno sier Batista s’era perfino presentato fuori di sé a Ca’ Miani, inveendo contro il figlio e la fortuna e domandando soccorso a Marco, acciocché persuadesse il cugino a piegarsi alla volontà paterna. “Fallo ragionare, prima che lo strangoli!”, aveva tuonato frantumando nel pugno il biscotto offertogli. “E’ mia moglie che me l’ha rovinato! Quella bacia-altari, quella pizzocchera, altro che donna da conto! Donna da prete! Con tutti quei rosari, Messe, devozioni, pellegrinaggi, padri predicatori e cialtronerie varie gli ha raffreddato gli umori! Quale maschio, che tale si possa dire, rifiuta a venti e uno anni di sposarsi una bella giovane?! Cos’ha, mio figlio, neve al posto del sangue?”

“Vi prego sier Marco”, l’aveva supplicato madona Maria Baxadona da Molin, zia di Maria da Molin e giunta assieme al “da Lisbona”, “aiutateci a convincerlo: voi possedete un grande ascendente su sier Carlo. La mia nezza Maria è talmente una cara e brava figliola, virtuosa ed obbediente. Sarà per lui un’ottima moglie”, aveva appassionatamente elogiato le virtù della fanciulla ed Hironimo aveva stretto sospettoso gli occhi davanti al modo in cui la Baxadona appoggiava una mano sull’avambraccio di Marco, mentre l’altra gli accarezzava il polso.

L’apice di tal malessere s’era raggiunto una domenica pomeriggio: il gineceo di Ca’ Morexini s’era ritirato sotto la pompeiana in giardino, mentre gli uomini deambulavano, chiacchierando tra di loro, quand’ecco che le voci femminili sovrastarono quelle maschili, coprendole. Voltandosi, i presenti capirono che la conversazione stava vertendo sull’abito da comandare al sarto per il prossimo matrimonio tra la cugina Biancha Corner e sier Vicenzo Priuli. Maria Morexini Querini, accarezzandosi il pancione, aveva esclamato giovale di non saper ormai più cosa indossare di nuovo e di come la moda cambiasse tanto in fretta, quanto le alleanze politiche. Al che madona Morexina aveva ribattuto che quello corrispondeva ad un problema universale, tranne forse per le sorelle minori. Querina, sentendosi presa in causa, esigette immediatamente spiegazioni e sua madre, alzando le spalle, le spiegò che, dovendo indossare gli indumenti da fanciulla, non avrebbe dovuto tanto scervellarsi sulla scelta dell’abito, il quale doveva apparire appunto semplice e sobrio. Querina allora si morse a sangue il labbro, strinse i pugni e rinfacciò furente alla genitrice, se fosse giusto che alla sua età dovesse ancora  vestirsi da zitella. Invece di sprecare tempo, fiato ed energie con quella testa dura di suo fratello Carlo, perché non le cercavano marito? Un uomo si poteva sposare a qualsiasi età, lei no, perché quell’ingiustizia? E senza lasciar spazio di replica ad una sconvolta madona Morexina, sua figlia chiuse forzatamente la questione in un acuto pianto isterico, allontanandosi poi via di corsa dal giardino e rispondendo uno sgarbatissimo “Indove ghe vojo!” alla domanda del padre: “Indove corestu?” mentre saliva le scale a due a due.

Hironimo non aveva resistito a ricorrere la cugina, raccogliendo lungo la via la scuffia di seta e lo zendale dei quali Querina, nella sua frustrazione, s’era spogliata.

“Suvvia, Rina, non piangere: mica sei una vecchia carampana, non hai ancora diciott’anni, non dirmi che adesso smani di legarti a qualche scalzacane qualsiasi e soprattutto di sorbirti una suocera rompiscatole?”

“Oh, Momolo! Non capisci? Hanno già un’altra figlia cui pensare! Maria da Molin di qua, Maria da Molin di là, Maria, Maria, Maria! Quella schifosa racchia ormai mi ha sostituita, non pensano che a portarla in questa casa e che importa se nel frattempo io vi marcisco, murata viva senza veder un sol cristiano?”

“Ed io chi sono? Un turco?”

“Sei mio cugino!”

“Dunque peggio?”

Querina, sollevandosi sui gomiti, gli sorrise debolmente, stropicciandosi gli occhi arrossati. Hironimo ne approfittò per sedersi accanto a lei sul letto. “Il tuo sior Pare mio barba è ricco, ha una carriera tutta in salita a Palazzo, è imparentato bene qui a Veniexia. Certamente qualcuno d’interessato ci sarà.”

“E allora perché il mio sior Pare non fa niente per cercarmi questo qualcuno? La verità è che si sono rassegnati tutti, qui. Sono una causa persa per loro! Non fanno che parlare del fidanzamento di Carlo, io non esisto più per loro! Sono divenuta un’ombra in questa casa! Ho deciso: prendo il velo e morta là!”

“Oh, bella, in convento sì ch’avresti uomini a palate con cui consolarti”, commentò Maria, giunta in un secondo momento, rallentata infatti dal ventre rigonfio. “Magari madona Franceschina nostra parente avrà ancora qualche nome da suggerirti!”

“Mariuccia!”, la rimproverò Hironimo, per niente divertito dal sarcasmo della cugina, la quale, imperturbabile, prese posto al fianco di Querina e l’apostrofò perentoria:

“Innanzitutto, smettila di piangere: ti fa brutta. E finiscila anche con queste tue scenate da tragedie senechiane, ne ho già abbastanza di quelle di nostro fratello Carlo. Non sono degne di te e ti creano fama di femmina instabile, chi poi se la prende in casa una così?”

“Il tuo sior Pare mio barba ti vuole molto bene: se ancora non ti ha presentato un nome, sarà perché vuole sceglierti bene il tuo futuro marito!”

“Esatto. Mio marito Zuanne già gli sta proponendo dei suoi conoscenti, sebbene, lo confesso, a me nessuno di loro piaccia …”

“Sul serio, Mariuccia?”

“Non ti mentirei mai!”

E con l’immagine della cugina Querina piangente marchiata a fuoco nella memoria, che Hironimo s’era presentato alla porta di casa di Luzia Trivixan, spiegandole il tutto e domandandole aiuto.

“Tesoro, sono una cantante, una maestra di canto e musica e una cortigiana honorata, mica una sensale di matrimoni!”

“Voi però possedete una fitta rette di amicizie e conoscenze: di sicuro avrete sentito, tra una chiacchierata e l’altra, o tra i vostri allievi, di un qualche scapolo desideroso di sposarsi!”

“Sistemarsi, casomai. Non tutti sono mossi dall’affetto, lo sai.”

“Sono sicuro che voi saprete ben discernere le pecore dalle capre. Vi prego! Vi pagherò per il disturbo, farò tutto quel …”, ma un dito sulle labbra lo zittì.

Accetto perché mi piacciono le sfide: parola d’onore, presto a Ca’ Morexini si mangeranno confetti!”

D’impeto, senza pensarci, Hironimo le baciò la bocca, in un rumoroso schiocco, e poi la sollevò di peso in aria, tra i risolini e le deboli proteste della cortigiana, ringraziandola di cuore.

Appunto perché Luzia Trivixan gli aveva promesso di trovargli un partito decente e non un gretto cacciatore di dote, che la sua ricerca si rivelò lunga ed ardua.

Nel frattanto, una nuova diatriba rinfocolava la silente ed infinita faida tra madona Ysabeta e madona Morexina, stavolta però non per loro figlie, bensì per la propria sorella Marina ed era stata quest’ultima discussione la proverbiale goccia, ch’aveva fatto traboccare il vaso, portando madona Morexina a chiamare finalmente il diavolo per il suo nome e a rimproverare la sorella maggiore, accusandola di superficialità: certo che sistemare la prole rimaneva la loro priorità di mogli e madri; tuttavia si poteva anche dimostrare empatia e solidarietà al di fuori dell’immediata famiglia. 

Anche perché la povera madona Marina Morexini sul serio si meritava ogni augurio di felicità: il 29 marzo del 1508, la patrizia era rimasta vedova di sier Piero Vituri, senza figli e senza alcun sostentamento economico ad eccezione della sua dote. Il defunto marito aveva infatti escluso dal testamento sia lei sia i suoi nipoti, figli della sorella madona Ysabeta Vituri Griti, donando ogni suo bene ai frati Certosini e alla Scuola di San Marco. [3] Sicché, disperata dalla magra prospettiva di rientrare nella casa paterna e di vivere della carità dei suoi fratelli sier Thadio ed sier Anzolo Morexini, madona Marina aveva coraggiosamente deciso di scoprire alcuni riccioli di capelli da sotto la scuffia nera, mentre si recava a Messa o attraversava campi, campielli e calli, supplicando un miracolo dal Cielo che qualcuno, notando la sua disponibilità a seconde nozze, l’avvicinasse. [4]

Per fortuna della vedova Vituri, suo cognato sier Batista sguazzava in uno stato di grazia: tramite il solido supporto (consiglio fraudolento) di suo nipote Marco Miani e di madona Maria Baxadona da Molin era riuscito (con le cattive) a far firmare (a forza) il contratto nuziale al suo (recalcitrante) figlio Carlo, nel quale s’impegnava ufficialmente d’impalmare la giovane, morigerata e benestante Maria da Molin del fu sier Amadio, sicché poteva ben dirsi soddisfatto e disposto ad aiutare il prossimo, anche per tranquillizzare madona Morexina, in pena per la sorte amara della sorella.

Il caso aveva voluto, che un amico del “da Lisbona”, sier Alvixe Malipiero, stesse anch’egli cercando una compagna, soffrendo particolarmente la solitudine dopo la morte della prima moglie e soprattutto dopo le nozze dell’unica sua figliola, Malipiera, in sier Piero Marzello, celebrate sette anni addietro. “La dote è conforme al rango di madona e la sua famiglia – già lo sapete - ben imparentata.” Tranne per quella seguace d’asmodeo dell’ex-monaca madona Franceschina Boldù Morexini, ma stando a sier Anzolo Morexini, il matrimonio l’aveva ben esorcizzata dal mal del puttanesimo. “Certo, però, che se cercate una discendenza, temo che la siora mia cugnada non sia un’agnellina di primo pelo.” Sier Alvixe aveva subito chiarito, che, alla sua età, ormai gli unici pargoli da tenere in braccio erano i suoi nipotini e comunque non voleva compromettere il patrimonio con altri eredi. Sier Batista e sier Alvixe s’erano allora stretti la mano e il Malipiero aveva poco dopo iniziato le brevissime trattative di matrimonio, dove nessuno aveva osato obiettare alcunché contro quell’unione. Galeotto fu il matrimonio tra Carlo Morexini e Maria da Molin, che permise alla loro zia Marina d'incontrare e conversare industurbata con sier Alvixe Malipiero, quest'ultimo sornionamente aggiunto alla lista degli invitati. I due si piacquero al primo sguardo sicché, infischiandosene di ogni rispetto verso il defunto marito, la vedova Vituri manco aveva atteso la fine dell’anno di lutto per risposarsi, a sua detta lei per prima ingiuriata da sier Piero, che nella sua infinita crudeltà l’aveva defraudata persino di un tetto sotto cui stare. Non gli doveva né lutto né lacrime.

Le nozze, quindi, si celebrarono nella casa paterna di madona Marina e si trattò di una cerimonia molto semplice e tranquilla, non suscitando l’età dei due sposi molto interesse tranne negli abitanti di Santa Maria Formosa, dove abitava sier Alvixe. Si volle concludere lo sponsalicio in un giorno, iniziato alla mattina con l’inanellare della sposa, seguito da una gustosa colazione mattutina, per poi trasferirsi in gondola a Ca’ Malipiero; si partecipò ad una commuovente orazione nella chiesa parrocchiale ed infine si concluse la giornata in un sostanzioso banchetto e balli a volontà.

E  lo sfogo di madona Morexina era avvenuto appunto durante il tragitto in gondola, poiché figurarsi se madona Ysabeta non aveva trovato qualcosa su cui criticare, vuoi che fossero le ghirlande a sua detta striminzite e mezze secche, o la qualità mediocre del cibo, o le calze rosse dei gondolieri, o l’abito di raso verde di madona Malipiera Malipiero Marzello, o l’acconciatura di madona Helena Mozenigo Malipiero, cognata di sier Alvixe, o i gioielli, ventalini, calcagneti e cagnetti delle sorelle dello sposo -  videlicet le madone Biancha Malipiero Zorzi,  Cecilia Malipiero Pasqualigo, Helena Malipiero Venier e Paula Malipiero Bondumier –  ma mai quando aveva commentato all’orecchio di sua cognata madona Contarina Contarini Morexini: “Sono sicura di averglielo già visto indosso, magari alla Sensa? O all’ultima cena dogale, quando il fu sier Piero era ancora vivo?” riferendosi all’abito di seta rosso della sposa.

“Perché non riesce mai ad essere contenta per gli altri?”, borbottò madona Morexina a sua cognata madona Leonora durante la cena, tra un boccone e l’altro d’oca allo spiedo. “Mia sorea ha ottenuto tutto ciò che desiderava dalla vita: un matrimonio illustre, numerosa prole ben piazzata in società, danaro, terre, palazzi … Ha conosciuto il bel mondo d’Italia sia prima che dopo la calata del Roy di Franza … Cos’ha insomma da sminuire e criticare costantemente il suo prossimo, quando già lei si trova in cima alla gerarchia?”

La vedova Miani sorseggiò placida il suo vino, tacendo e lasciando parlare a ruota libera la cognata, la quale più di una risposta necessitava di una spalla su cui piangere e sfogarsi.

“Tutta colpa del mio sior Pare, che l’ha viziata: Betia di qua, Betia di là, a lei i migliori vestiti e gioielli, i migliori precettori e maestri di danza e di musica, mentre a noialtre gli avanzi!”, proseguì infatti madona Morexina, impironando feroce un pezzo di carne. In effetti, nascere ultima femmina aveva relegato la donna in fondo alla lista delle priorità paterne, dovendo lei accontentarsi spesso e volentieri delle briciole delle sorelle, costantemente sminuita e pertanto aveva sviluppato fortissimi complessi d’inferiorità, nonché un carattere sostanzialmente debole e accondiscendente. Eppure, col suo visetto da eterna adolescente, piccolina e minuta, avrebbe potuto far girare tutte le teste maschili di Venezia, se soltanto fosse stata un pelino più sicura di sé e meno brontolona. “Le risate che si fece Ysabeta, gli sbeffeggianti strali, poiché fui l’ultima a sposarmi!”

Al che Madre aggrottò la fronte, non ritornandole i conti: “Non fu vostra sorella Marina?”, ma non volendo rigirare il coltello nella piaga, colse piuttosto l’occasione per perorare la causa della nipote: “Appunto per questo, perché conoscete l’amarezza dell’indifferenza sia materna che paterna dovreste aiutare la povera Querina. Capisco che dovevate pensare a sistemare prima Mariuccia e Carletto, tuttavia l’impressione che le date è di trascurarla.” Ne aveva discusso ovviamente col suo fratellastro sier Batista, il quale aveva accettato le critiche ma al contempo le aveva spiegato come la faccenda non fosse di facile soluzione, temendo il “da Lisbona” in un cattivo affare per la figlia.

“Mi chiamava la vecchierella, anche s’ero la minore!, continuava imperterrita e petulante madona Morexina, sorda ai suggerimenti della cognata e dimentica del fatto d’aver scalzato sua sorella Marina in tempistica matrimoniale, sposandosi prima di lei e neanche un cattivo partito, anzi. Ma se quando per tutta la vita s’era abituati a guardare il bicchiere mezzo vuoto …

“Ih, basta rivangare il passato e focalizzatevi sul presente”, la interruppe madona Leonora, dandole la giusta (simbolica) tirata d’orecchie. “Avete donato a mio fradelo vostro marido sette figlioli ma-sci e quattro belle pute; avete allevato amorevolmente un figliastro ch’è adesso amico del Sofì e già siete una nonna felice! Vostra sorea mia cugnada è soltanto una grande materialista, che non riesce a trovare altra soddisfazione se non in ciò che può toccare e comperare. Vi siete costruita una vita serena e piena di soddisfazioni, in nulla dovete sentirvi inferiore ad Ysabeta!”

Sua cognata appoggiò le posate, afferrando emozionata le mani della cognata. “Siete davvero così buona e così saggia! Vorrei possedere un’ombra del vostro stoicismo!”

La vedova Miani le rifilò un sorriso tirato, di circostanza: la sua fermezza d’animo l’aveva acquisita a prezzo altissimo, la morte del suo amato Anzolo, e dubitava che madona Morexina avrebbe desiderato ottenerla attraverso uguale percorso.

“Ancora congratulazioni, siora Amia”, baciò Hironimo sua zia Marina su ambedue le guance, la quale gli elargì un sorrisone a trentadue denti.

“Grassie, tesoro! Sei molto caro!”, gli accarezzò lei la guancia. Poi, però, il suo volto si rattristò un poco: “Mi dispiace davvero che i tuoi fratelli non siano potuti venire, mi avrebbe fatto davvero piacere vederli! Siete cresciuti troppo in fretta, mi par ieri d’aver partecipato ai vostri battesimi!”

“Lucha e Carlo li hanno trattenuti degli affari a Fanzolo, si scusano moltissimo, quanto a Marco …”, tentennò Hironimo, cercando in fretta un modo per glissare sullo spinoso argomento familiare, “mia cugnada sua mojer Helena ultimamente non si sentiva bene, un raffreddamento di stomaco, e così lui ha deciso di restarle accanto. Tuttavia”, cambiò tono in uno più allegro, “vi porgono tutti le loro congratulazioni ed Helena vi relega un rotolo di merletto fatto da lei, da applicare al collo e alle maniche della camicia.”

Madona Marina lanciò un deliziato gridolino. “Che puta pretiosa! Lo stesso disegno che piaceva a me?” e dinanzi all’energico cenno affermativo del nipote acquisito, la nobildonna spiegò entusiasta alla figliastra Malipiera, con la quale oramai erano divenute tutte un ciccì-coccò: “La siora cugnada di Momolo è una greca di Costantinopoli, abilissima nel ricamo, delle vere mani d’oro! An, non vedo l’ora d’aprire i doni nuziali, così da mostrarlo per mano!”

La giovane donna si ritrovò d’accordo, incuriosita da tanta bravura. “Sier Hironimo”, si rivolse poi al nipote della matrigna, “temete sia troppo sfacciato da parte mia, invitare la siora vostra cugnada a casa mia per ricamare un poco assieme? Ovviamente, quando si sarà rimessa.”

“Sono sicuro che apprezzerà moltissimo la vostra compagnia”, la rassicurò Hironimo, contento di poter offrire ad Helena un’occasione per svagarsi e conoscere altre nobildonne, al di là della solita cerchia famigliare, invece di trascorrere ore in ginocchio davanti agli altari, pregando per improbabili miracoli. Quand’ecco che il giovane impallidì, rendendosi soltanto ora conto del timido rigonfiamento del ventre di madona Malipiera, ben camuffato dai morbidi panneggi della gonna di raso verde. “An … non … non avevo … le mie felicitazioni, patrona”, farfugliò a disagio da quella scoperta e alle potenziali reazioni ch’avrebbe potuto scatenare in Helena.

“Vi ringrazio, mio marito ed io siamo molto contenti di questo nuovo puttino”, reclinò graziosamente il capo la futura madre, allungando la mano al consorte sier Piero Marzello, il quale aveva raggiunto la moglie dopo un giro di chiacchierate cogli altri invitati. “Nevvero, carissimo?”

“Assolutamente”, confermò il ventisettenne patrizio, appoggiando ambedue le mani sulle spalle di madona Malipiera. “E stavolta spero sia una femminuccia, della vostra stessa bellezza!”

Sua moglie schioccò divertita la lingua, scuotendo ilare il capo. “An, io invece spero in un altro maschietto, però non col vostro caratteraccio, o mi farà impazzire!”

“Ma …!”, protestò l’uomo e madona Malipiera, madona Marina ed Hironimo risero di cuore alla battuta. Dopodiché, adducendo un’abile scusa, il ragazzo si congedò dalla famigliola e si diresse verso il gruppetto di ospiti nella sala accanto: le sue orecchie avevano captato della musica e gli era venuta una gran voglia di ballare.

Inoltre aveva una missione da portare a termine. “Su, Querina, suonano una piva!”, esclamò, pigliando il polso della cugina e trascinandola nella stanza attigua, cercando con lo sguardo l’amico di sier Piero Marzello.

“Momolo, non credo …! Aspetta, ciò!”

“Carissimo”, abbracciava sier Alvixe Malipiero l’amico e neocognato sier Batista, “vi ringrazio ancora per avermi consigliato Mari-ehm, vuostra cugnada: è di buon cuore, savia e d’ottima compagnia. Va d’accordissimo con la mia Melina e adora i miei due nipotini, meglio di così? Sier Piero Vituri – a chi Dio perdoni – non se la meritava proprio questo gran bel pezzo di donna!”

“Amen, amico mio, amen!”, gli batté sulla spalla il Morexini, riempiendo allo sposo di nuovo il bicchiere di garba, un malvasia amara dall’Epiro. “Lasciare l’intero patrimonio ad estranei? E quando mai s’è sentita una pazzia del genere? Credetemi, a sier Piero hanno fatto il lavaggio del cervello: ecco perché io, in casa mia, non voglio né preti né suore né monaci, né tantomeno permetterò a nessuno dei miei figli, finché vivrò, di prendere i voti! [5] Già in famiglia ci è toccata un'ex-suora per colpa di quello screanzato di Vicenzo ... Ma adesso ditemi: sul serio non vi dispiace, che la vostra nuova mojer possa avere delle difficoltà a darvi dei figli?”

“Batista, onestamente, a cinquantotto anni mi metto a fare il padre?”, arcuò scettico il sopracciglio il Malipiero, bevendo una grossa sorsata di vino. “Lasciamo ai giovani tal privilegio”, disse, guardando amorevolmente la figlia e il genero, intenti a scherzare assieme a sier Zuanne Querini e a madona Maria sua moglie, confrontandosi le due matrone la curva dei rispettivi pancioni.

Il “da Lisbona” soppesò a fondo le parole dell’amico: contrariamente a lui, il suo ultimogenito Francesco l’aveva inaspettatamente avuto a sessantatre anni e l’esperienza gli era bastata, al punto ch’aveva detto chiaro e tondo a sua moglie che soltanto legandolo al letto l’avrebbe costretto a concepire un altro figlio, infierendo poi dandole della vecchia. A onor del vero, lui si sarebbe fermato anche a Lorenzo, non volendo infatti rischiare stupidamente la vita di Morexina, privando prematuramente i suoi pargoli della madre. Peccato che la scoperta della sua tresca con Luzia Trivixan avesse risvegliato nella moglie una strana ed inquietante libidine, sicché Ferigo, Marinella, Donatella e Francesco erano nati, quest’ultimo appena tre anni addietro.

“Se vengono, vengono. Altrimenti … ci si accontenta, perché farne una malattia? Guardate il caro sier Marco Antonio Morexini: ben due matrimoni sterili alle spalle e s’è lasciato scoraggiare? No, ha adottato una neonata abbandonata alla Pietà, che lui e sua moglie madona Donata adorano come se fosse sangue loro. Non tutti vengono benedetti da figli e a coloro che ne hanno, non sempre viene concesso di vederli crescere …”, sospirò sier Alvixe, ripensando alla sua nidiata di pulcini, della quale rimaneva soltanto Malipiera. “Ma via con la malinconia! Stasera si festeggia incipit vita nova!”

Sier Batista levò in alto il bicchiere. “E il vostro è il matrimonio più facile in assoluto, neanche vi dovete preoccupare di rassicurare la sposina!”, sghignazzò complice. “Attacco diretto e frontale, si suol dire, senza pietà!”

“La mia mojer avrà pur la sua età, ma tutta in esperienza! Peggio per il fu sier Piero, meglio per me!”, se la rise sier Alvixe, suggendo malizioso un sorso di garba, mentre il cognato si strozzò per poco col suo.

“E come …?”, sbiascicò, nettandosi gli angoli della bocca. E dinanzi alla lunga e significativa occhiata da parte del Malipiero … “No!”, esclamò stupefatto. “Davvero?!”

“Ciò!”, confermò quell’altro e il Morexini si portò le nocche alla bocca, guardandosi a destra e a manca, incredulo e divertito oltre ogni limite. “Vi giuro che non l’avevo minimamente pianificato. Madona Marina ed io stavano discutendo sul trasporto dei suoi cassoni col corredo, quando, prima di rendermene conto, m’ha calato giù le braghe, m’ha spinto sul letto e m’è saltata addosso!” Tanto ormai non c’era più alcuna verginità da provare, sulla carta praticamente figuravano già coniugi e la futura moglie s’era rivelata infine un’eccellente amazzone, quindi i formalismi potevano anche risparmiarseli. Da quella posizione l’uomo aveva ben potuto constatare quando la Morexini si mantenesse ancora soda, col suo bendiddio di senato lì a portata di mano, che lo supplicava d’impastarlo e baciarlo.

“E nessuno in casa ha detto niente?”

“An … credo fossero tutti usciti per la Messa … an, no! C’era madona Franceschina, però dalla sua espressione non mi sembrava essersi accorta d’alcunché.”

Il “da Lisbona”, dubitando assai della cosa vista la fama della donna, preferì servirsi d’altro malvasia e non commentare.

“Beh, che dire? A notti felici, amico mio!”

“A notti felici!”, rispose al brindisi sier Alvixe, bloccandosi però all’improvviso. “Dite, Batista”, e indicò malizioso il gruppo di giovani intenti a danzare una pavana, “non m’inganno o vostra figlia Querina è già alla quinta danza con sier Daniel?”

“Con sier … chi?!”, si girò di scatto il Morexini, fallendo di spaccare il bicchiere a furia di stringerlo, alla ricerca del fellone seduttore per tirargli il collo.

Dal canto suo Hironimo, con la scusa di volteggiare accompagnando l’avvenente madona Fontana Malipiero Barozzi nipote di sier Alvixe, [6] gongolava soddisfatto del buon esito di quel suo intrigo: Luzia Trivixan, tra una ciacola e l’altra col cavalier sier Domenego Trivixan, aveva appreso come sier Francesco Zustignan “dalle Canove” stesse cercando moglie per uno dei suoi cinque figli. Fatalità, dei potenziali candidati, Daniel Zustignan era amico del nipote del cavaliere, sier Piero Marzello, che guarda caso era il genero di sier Alvixe Malipiero e con po’ di moine da parte di madona Malipiera, messa al corrente della congiura, il giovane Zustignan era stato invitato alle nozze. Cura di Hironimo era stata di spingere la sua germana Querina a ballare e conversare quanto più possibile con Daniel, alternandosi con i suoi complici sicché, a neanche metà festa nuziale, la Morexini già era cotta per il patrizio e quest’ultimo la tallonava neanche si fosse trasformato nella sua ombra. E il Miani vibrava di perverso gusto nel contemplare la faccia perplessa e bellicosa di suo zio Batista, il quale, a giudicare dal fitto gesticolare di sier Alvixe, già si stata informando sulla vita, morte  e miracoli di Daniel Zustignan, sui suoi genitori e le famiglie dei rispettivi genitori; sui beni immobiliari ch’avrebbe potenzialmente ereditato; sulla sua posizione a Palazzo Ducale e sulla sua disponibilità di denaro liquido. Il “da Lisbona” si sarebbe trasformato nella più spietata copia del Missier Grando – poco ma sicuro – e ciononostante tenne per sé la sua nascente, ostile diffidenza verso il giovane patrizio, lasciandolo tranquillo a godersi la festa: c’era tempo e modo per interrogarlo e sbatterlo, strizzandolo, peggio d’una camicia stesa al sole.

Quando Hironimo si recò al tavolo per servirsi da bere, s’era appena terminato di ballare la pavana e sua zia Marina stava chiedendo ai suonatori un brano più allegro, forse una gagliarda. Il ragazzo sbuffò, dilaniato dalla voglia di ricongiungersi al resto dei ballerini e di rinfrescarsi il gargarozzo. Hé, forse un turno poteva anche saltarlo, aveva danzato almeno una volta con tutte le nobildonne lì presenti, due s’erano sue parenti e tre di fila con madona Fontana, tanto bella quanto spiritosa, gli raccontava certi pettegolezzi da sbellicarsi, in primis sugli infiniti amori di sier Piero Bembo, l’eterno innamorato.

Il patrizio fece quindi per afferrare la pasciuta ampolla di vetro, quando una mano più lesta della sua gliela sottrasse da sotto il naso e i due giovani sussultarono nel ritrovarsi inaspettatamente gomito a gomito.

“Ne vuoi?”, gli offrì Jacomo Corner, interdetto quanto l’altro.

“Non mi piace il vino bianco”, mentì rapido Hironimo, afferrando alla cieca l’ampolla di rosso e servendosi sempre mantenendo un guardingo contatto di visivo col cugino alla lontana.

Il giovane Corner fece spallucce, riempiendosi il bicchiere. “Che ne pensi di questo matrimonio?”

“Molto domestico”, rispose vago il Miani, riempiendosi la bocca di vino, onde parlare il meno possibile. Due volte su tre, quando Jacomo intavolava un discorso, i due finivano per discutere e una su tre degenerava in un vero e proprio accapigliarsi.

“No, no, io intendevo del matrimonio di per sé”, lo corresse il Corner, insistente. “Per me la  siora Amia non avrebbe dovuto risposarsi, troppo vecchia. E sier Alvixe Malipiero? A che pro risposarsi, se la moglie non può generare alcuna prole? La tiene per lussuria? S’è così poteva prendersi una concubina, una moglie sterile non serve a nulla.”

Jacomo non l’aveva fatto apposta, non poteva sapere ciò che stava accadendo tra le mura di Ca’ Miani, nondimeno le orecchie d’Hironimo presero a fischiargli ugualmente e il sangue a risalirgli bollente al cervello: era esattamente per colpa di gente come il Corner, che Helena si stava in quel momento dannando l’anima, nel disperato tentativo di partorire un terzogenito.

“Beh, il nostro lontano parente sier Marco Antonio, uomo stimatissimo a Veniexia, non è riuscito ad avere figli da ben due mogli. Al che vien da pensare che o sia stato davvero sfortunato o che il problema fosse lui. Eppure, mi pare che nessuno l’abbia mai chiamato “impotente”, “inutile” o che sua moglie madona Donada abbia mai espresso il desiderio di divorziare da lui”, sibilò Hironimo, ingollando altro vino. Il mondo invero ruotava storto: brave persone desiderose di figli più di qualsiasi altra cosa, ne rimanevano invece privati, mentre gente che manco si meritava l’appellativo di genitori, figliava al contrario peggio dei conigli.

“Ha adottato una bambina”, fu la secca risposta di Jacomo.

“Sier Alvixe già possiede una figlia legittima e gli basta”, ribatté il Miani. “E noi dobbiamo farci un bel tegamino d’affaracci nostri, tu per primo. Non sei ancora sposato e già pontifichi sugli altrui matrimoni? Aspetta almanco un lustro e dopo condividerai opinione ed esperienza!”

“Invero”, sogghignò l’altro patrizio, bevendo a sua volta. “Come mai non vedo qui tuo fratello Marco? Dov’è?”, si guardò teatralmente attorno, già notagli l’assenza del cugino acquisito.

La dita d’Hironimo presero a tamburellare nervosamente sul vetro, annusando puzza di bruciato in quell’apparentemente innocua domanda. “A casa con la sua mojer.”

“Sicuro?”, alluse malizioso l’altro. “E’ questa la scusa oggidì? A casa con la mojer?

“Quale scusa?”, ripeté bellicoso il Miani, digrignando i denti. “Quando siamo usciti, si trovava nei suoi appartamenti. Mia cugnada non godeva oggi di buona salute e Marco, quale marito degno di tal titolo, ha preferito rinunciare alla festa per prendersi cura della consorte.”

Il giovane Corner scosse il capo, ridacchiando dinanzi alla palese ingenuità (secondo lui) del cugino alla lontana. “S’è già stufato della greca, vero? Oppure è la greca, che s’è stufata di lui? Dicono essere le orientali molto focose, per via della penuria di uomini … Lo puoi confermare?”

Hironimo appoggiò con eccessiva veemenza il bicchiere sul tavolo, macchiando di qualche gocciolina rossa la tovaglia sottostante. Come si permetteva quel disgraziato di speculare sul matrimonio di suo fratello, insinuando poi infedeltà da parte di ambedue i coniugi? Non sapeva niente dei problemi che stavano attraversando, della disgrazia abbattutasi sulla cognata e sull’ignaro suo marito! Non aveva asciugato le lacrime d’Helena, né dovuto sopportare i malumori di Marco, né tantomeno mediare di continuo tra loro due! E cos’era infine quel dare, tra le righe, della poco di buono alla greca, povera infelice che per amor di Marco si sarebbe squarciata il petto? Come osava? Come …?

L’annuncio, più goliardico che solenne, dell’ora di metter a letto gli sposi zittì Hironimo, impedendogli una pronta replica e male gliene incorse, ché forse quella sarebbe stata meno velenosa della seconda da lui proferita.

“Che buffonata!”, commentò tra sé e sé Jacomo, ma abbastanza per l’altro giovane da udire perfettamente ogni sua parola. “Come se dopo ci fosse poi qualcosa da mostrare sulle lenzuola”, disse e s’avviò a raggiungere i suoi fratelli.

Sennonché Hironimo lo tallonò speditamente e gli si piazzò davanti, un’espressione assassina sul volto. “Chissà se ci sarà qualcosa da vedere anche sulle lenzuola di tua moglie …”, e gli sorrise obliquamente, il fuoco di una crudele rivalsa bruciante nelle viscere, come se tutti gli sgarbi ed umiliazioni ingeriti vi si fossero concentrati, alimentando questo bolo per poi scagliarlo contro il rivale a guisa di drago.

Le mani del Corner si mossero convulsamente e questi avanzò irritato verso Hironimo, costringendolo petto contro petto. “Tu non vedrai un bel niente, perché neanche sei invitato … Non sei famiglia, grazie a Dio …”, gli sputò il suo veleno. “Non sareste null’altro se non un imbarazzo, voialtri Miani di San Vidal, discendenti di pescatori istriani che manco avrebbero dovuto sedere in Maggior Consiglio! Figli di un vigliacco suicida, nipoti di un cospiratore esiliato e pronipoti di un delinquente truffatore! Poveracci senza né arte né parte costretti a sposarsi le straniere per riprodursi, poiché nessun patrizio veneziano sano di mente concederebbe a tal pezzenti la mano della propria figlia, a gente che deve accontentarsi di piccoli incarichi per sopravvivere o confidare nella generosità degli zii”, elencò inclemente Jacomo ad Hironimo, distorcendole, tutte le pecche della sua famiglia, sottolineando accortamente il ramo, onde non infamare gli estinti Miani di San Cassian e i Miani di San Giacomo dell’Orio. “Si racconta che tu trascorra molto tempo con la Luzia Trivixan: come puoi permetterti le sue tariffe? È sempre lo zietto che paga? A meno che tu non gli scuota, di nascosto, la coda di volpe della Trivixan, alle sue spalle, il che non mi sorprenderebbe. A meno che … ” e qui gli occhi del Corner assunsero un luccichio maligno, “lei non ti stia impartendo qualche trucco del mestiere, cosicché tu possa divertire meglio i tuoi … benefattori?”

A tali parole Hironimo tremava da capo a piedi, ogni nervo pizzicato e rivoltato dai risolini crudeli di Jacomo. Il giovane si continuava a ripetere di non badarci, di dominare l’ira bestiale che gli graffiava dentro il petto e di zittire la seducente vocina alle orecchie, la quale gli suggeriva d’afferrare il Corner per la gola e di cavargli gli occhi. Avrebbe potuto intimargli di andare al diavolo; avrebbe potuto rinfacciargli che la sua famiglia era tanto onorata quanto la sua, sempre in prima fila ad obbedire alla Signoria; avrebbe potuto vantarsi che almeno lui la Trivixan l’aveva baciata – anche se in circostanze torbide – mentre Jacomo di lei non n’avrebbe manco annusato da lontano il profumo dei capelli.

Invece, la parte d’anima nera d’Hironimo puntò subito là dove sapeva far male, là dove un uomo più facilmente risultava vulnerabile e prono ad incassare senza possibilità di difesa, non immediata almeno. E quell’antico ricordo, quella bagatella adolescenziale relegata nel dimenticatoio, d’un tratto riaffiorò provvidenziale dalla sua mente e si trasformò in un’arma micidiale.

“Mi dispiace per te -  caro ti -  però mi trovo su quella lista degli invitati, che ti piaccia o meno. E’ stata proprio la tua novizza ad insistere e non perché siamo quasi vicini di casa, no, l’ha fatto per ringraziarmi in memoria dei bei tempi del convento!” ed Hironimo indietreggiò enfaticamente, ammirando pieno di crudele gusto il lento lavoro del dubbio corrodere dall’interno Jacomo, i cui lineamenti si deformavano in un’interessante gamma d’espressioni, dal rabbioso all’umiliato; dallo scettico all’incredulo. “Come? Marina non te l’ha mai raccontato?”, simulò ignoranza Hironimo, non concedendo un attimo di respiro all’avversario. “Mi recavo ogni giorno al convento e ti assicuro che lei traeva un enorme piacere dalla mia compagnia …”

“Menti …”, ringhiò sottovoce il Corner, la cui mano vagava meccanicamente ora alla cintura, in cerca forse del mancante stiletto, ora a qualche spanna dallo zipone del Miani, incerto dove e come afferrarlo e quanto fargli male. “Sei un bugiardo e uno sciocco, se pensi ch’io creda ai tuoi puerili tentativi d’ingelosirmi! O d’infangare l’onore della mia sposa!”

Hironimo aprì la bocca in finta sorpresa, reclinò vezzoso il capo e, congiungendo le mani dietro la schiena, dondolò di qualche passo indietro. “Querina”, chiamò la sua zermana, intenta a parlottare assieme ad alcune nobildonne. “Vien qua!”, le intimò.

Accortasi del richiamo, la ragazza si congedò dalle sue compagne e trotterellò allegra accanto al cugino, il quale la cinse per la vita, schioccandole un tenero bacio sulla fronte. “Querina, colombella mia, il tuo zerman Jacomo qua mi sta accusando di mentire: è vero o no, che venivo sempre a visitare Marina al convento?”, le chiese gravemente Hironimo, al che Querina, dopo essersi posta meditabonda due dita sotto il mento, esclamò affermativamente, sovvenendosi all’improvviso:

“Ma certo che sì! Era il mio ultimo anno di convento, però mi ricordo benissimo delle tue visite! Momolo”, spiegò ingenuamente la Morexini all’impietrito cugino, “ci teneva molta compagnia, anche perché al convento studiava pure sua nipote Leonora. Le sue visite erano il momento più bello di tutta la giornata e sempre la Marina mi confidava: non vedo l’ora che sia già domani, così da rivederlo!” e, prendendo la mano del promesso sposo, tramite la sua innocenza gli inferse il colpo di grazia: “Jacomo caro, spero che tu possa divertire Marina, tanto quanto la divertiva nostro cugino Momolo!”

Gli occhi iniettati di sangue, la bile risalitagli alla gola e incurante del luogo e di ogni conseguenza, il Corner allungò di scatto l’altra mano in avanti per afferrare il collo d’Hironimo, il quale reagì bloccandogli il polso e al contempo spingendo via Querina, che l’altro non la coinvolgesse nella lotta. L’urletto sorpreso e dolorante della fanciulla attirò l’attenzione di Carlo e Nicolò Morexini, Daniel Zustignan, Andrea Corner e di Thomà Malipiero fratello di madona Fontana, i quali circondarono rapidissimi e compatti i due contendenti e li separarono senza dare troppo nell’occhio, intanto che con una scusa li allontanavano dalla stanza, lontano da occhi indiscreti.

“Cosa v’è saltato in testa?”, li apostrofarono a momenti in coro. “Volete dare spettacolo?”

“Ha incominciato lui, non ho fatto altro che difendermi!”, si giustificò prontamente Jacomo Corner, le nari dilatate e il viso ancora paonazzo. “Una tal feccia dovrebbero gettarla nelle Orbe a vita natural durante!”

“Bugiardo vigliacco!”, berciò Hironimo, trattenuto a malapena per le braccia dagli sbuffanti Nicolò Morexini e Daniel Zustignan. “Mi hai provocato tu per primo!”, gli sputò sullo zipone e Andrea Corner dovettero tuffarsi per riacciuffare il fratello, impedendogli in tempo di mordere il naso dell’insolente suo sbeffeggiatore, adesso sollevato di peso da Nicolò Morexini, per spingerlo via lontano da Jacomo.

“Tu, lurido cane impestato, hai vituperato la mia fidanzata!”

“Tu, marcia otre di sterco, la mia famiglia!”

E i due rivali si gettarono in avanti, mirando ai rispettivi pomi d’Adamo e trascinando seco i giovani uomini che, puntando i piedi, opponevano resistenza in direzione opposta, grugnendo nell’arduo compito di tenerli distanti l’uno dall’altro. Hironimo, mulinando il braccio a guisa di gatto, riuscì a ghermire una pingue ciocca di capelli di Jacomo, strattonandola feroce nel tentativo di strappagliela, mentre il Corner gli piantava le unghie nella carne onde costringerlo a mollare la dolorosissima presa. Scalciava mirando agli stinchi del Miani, colpendo all’occasione anche Nicolò Morexini e Daniel Zustignan. Iniziarono a volar a caso pugni e sberle, le quali, oltre ai due avversari, inclusero anche il malcapitato finito nella loro traiettoria, tra guaiti di protesta e imprecazioni. Sfidando codesti strali, Carlo Morexini si pose imperioso in mezzo ai litiganti, spintonandoli di malagrazia e puntando perentorio i palmi delle mani contro il petto d’Hironimo e di Jacomo, in modo da impedire ogni probabile riavvicinamento.

“Possibile che voi due non possiate rimanere da soli in una stanza, senza finire a parole o alle mani peggio d’un branco di bifolchi gallinari?”, sbuffò il Morexini, fulminando con lo sguardo i suoi cugini germani. “Siete imbarazzanti! E tu ancora di più, Jacomo! Hironimo t’è minore di tre anni e inoltre tu fra poco ti sposi, ergo dovresti dare il buon esempio e dimostrarti abbastanza maturo, da non pigliare sempre e troppo sul serio le sue monade!”, berciò spazientito e senza degnarsi d’ascoltare la replica del Corner – poiché manco gli interessava – il patrizio si voltò verso il Miani, ché mica gli sfuggiva, nossignore. “E tu, datti una calmata! O sei talmente stupido da non riuscire ad intavolare almanco una conversazione civile? Sei un litigioso, un violento! Vergognati!”

Sentirsi rimproverare così, dal suo cugino germano preferito, sparse ulteriore sale sulle ferite di Hironimo: l’euforia della previa vittoria ottenuta su Jacomo scemò rapidamente e si mutò in un’amara sconfitta, visto che Carlo era giunto alle conclusioni sbagliate, misinterpretando in totum le sue ragioni. Litigioso? Violento? Quel tanghero innominabile aveva sparlato a vanvera di situazioni familiari che neppure conosceva, vituperando poi il suo casato, perché bisognava dunque biasimare Hironimo, se lui aveva logicamente perso le staffe?

“An, eccovi qua! Cosa ci fate qui nascosti?”, s’affacciò all’uscio sier Hironimo Malipiero, il fratello minore di sier Alvixe e padre di Thomà, osservando in bonaria aspettativa i volti colpevoli e chini dei giovani lì presenti. “Momolo!”, esclamò poi genuinamente preoccupato, indicando l’interpellato in questione. “Cosa t’è successo? Stai …” e l’uomo si portò due dita al naso, prontamente imitato dal Miani, che soltanto in quel momento s’accorse dell’epistassi scendergli fino in bocca. “Seguimi, ti faccio portare dell’acqua fredda e un panno”, s’offrì solerte, sennonché, tappandosi le nari gocciolanti, Hironimo bofonchiò adirato:

“Sto bene.”

“Ma …

“Sto bene! Sul serio, non vi disturbate!”, gli gridò snervato il ragazzo, il quale si scrollò di dosso i parenti e s’aprì collerico un varco tra loro, attraversando di corsa il salone principale fino al portone d’ingresso di Ca’ Malipiero. Hironimo camminò esagitato fino al primo pozzo reperibile e lì si fermò, appoggiando ambedue le mani sulla pietra bianca. Respirò a fondo l’aria pesante e dal retrogusto metallico, ingollando la rabbia e le lacrime da essa provocategli, il corpo un unico fascio di nervi.

Ingiusto, ingiusto, era così ingiusto che Jacomo Corner se la cavasse ogni volta con così poco, uscendone puntualmente vincitore lui, il povero santarellino, l’agnello sacrificale, l’innocente martire vittima di quel gran diavolo di Momolo! Mentre al contrario, quella bestia, quell’infame, quel tiranno di Momolo si ritrovava doppiamente punito, la reputazione più nera del carbone! Oh, ma se Hironimo si sarebbe vendicato! Eccome! Gli avrebbe restituito tutto in un sol colpo, ovviamente aggiungendo gli interessi, per i rospi ingoiati!

Hironimo non s’accorse di come avesse preso a prendere a pugni il bordo del pozzo, né di come il candore della pietra d’Istria si stesse macchiando di rosso, unendosi il sangue delle mani a quello del naso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Un po’ di noticine:

[1] Breve riassunto della dinamica famigliare: Andrea Donà (Donado) aveva contratto due matrimoni: dal primo, con Maria da Canal, aveva avuto tra i vari figli Antonio, padre di Girolamo, Andrea e Alba Donà, rispettivamente in questa storia ambasciatore a Roma, podestà a Treviso e madre di Marco Contarini amico del Nostro. Girolamo e Andrea a loro volta avrebbero sposato due sorelle, Maria e Francesca Gradenigo di Alvise. Dalla seconda moglie Camilla Foscari del Doge Francesco, Andrea senior aveva avuto Alvise dal quale nacque Francesco Donà, quest’ultimo destinato a divenire Doge nel 1545.

[2] Puto rimane, di nome e di fatto! = gioco di parola, con “puto” che si riferisce sia a “bambino/ragazzo”, ma anche a “scapolo”.

[3] Riguardo a tale avvenimento, riporta il Sanudo:  (29.03.1508) Morite sier Piero Vituri, era savio a terra ferma, stato assa’ amallato. Fece uno testamento, che dete molto che dir a la terra: privò li fiuli di soa sorella, e lassò heriedi li frati di la Certosa et la scuola di San Marco etc., ut in ipso.

Posso anche capire escludere i nipoti dal testamento, ma neanche un lascito alla moglie, la quale manco è menzionata? Mah.

[4] era tradizione a Venezia, che una vedova portasse una scuffia nera (fuori come in casa), nascondendo le trecce, indossandovi sopra un pesante paneselo nero lungo fin quasi al sedere, il petto coperto da una spessa camicia accollata, senza ovviamente nessun gioiello, tant’è vero che i forestieri scambiavano le vedove veneziane per delle monache. Tuttavia, se la signora si sentiva pronta a convolare nuove nozze e voleva comunicarlo pubblicamente ma con discrezione, allora incominciava a mitigare tale rigore, magari usando una camicia più sottile, qualche catenina o anellino d’oro e ovviamente, mostrando qualche ciocca di capelli da sotto il velo e la scuffia.

[5] E quelle di G. Battista Morosini, mica erano parole al vento o le antenate del politicamente corretto! Proprio non voleva sapere i figli negli ordini religiosi - almeno i maschi. Infatti, suo figlio Nicolò prese i voti soltanto dopo la morte del padre, avvenuta nel gennaio del 1518; suo fratello Federico avrebbe voluto imitarlo, morendo purtroppo a soli 22 anni sempre nel settembre del 1518. Quanto al fratello minore Girolamo, fu protagonista d’un epico scontro padre-figlio. Narra il Sanudo a riguardo (2 gennaio 1515): “E’ da saper: eri nel monastero di San Spirito, per don Francesco Valier prior, fo vestito frate sier Hironimo Morexini di Batista, qual veniva a Consejo, era di età anni … (27 anni, ndr.) et ha voluto esser chiamato don Hironimo. Il padre prima fe’ ogni resistentia, poi si acquietò, et fu contento si vestisse.”  Dev’essere stato uno spettacolo memorabile, se è finito nelle cronache del Sanudo, così come sarebbe interessante capire, come abbiano persuaso il Battista a calmarsi!

[6] Fontana Malipiero Barozzi. Piccolo angolo di pettegolezzo: Fontana, figlia di Girolamo Malipiero e di Elena Mocenigo, nipote di Alvise Malipiero (e dunque cugina di Malipiera) diverrà madre, nel 1514, della celebre Elena Barozzi, reputata una delle donne più belle di Venezia. Pittori quali Tiziano e Giorgio Vasari ne fecero la loro musa e di fatti s’ipotizza che “La Bella” di Tiziano possa essere proprio Elena, poiché la data d’esecuzione del ritratto, 1536, coincide proprio con le nozze della nobildonna col patrizio Antonio di Marco Zantani (o Centani), famoso protettore delle arti musicali, nel cui salotto si riunivano compositori e musicisti tra cui Girolamo e Annibale Parabosco, Claudio da Correggio, Baldassarre Donato, Francesco Londarit e Perissone Cambio. Enea Vico lo menziona nella sua opera "Discorsi sopra le medaglie". Non meno importante, Antonio Zantani è anche ricordato per aver fatto ricostruire l'Ospedale degli Incurabili nel 1560, fondato tra il 1517 e il 1522 da Maria Malipiero, Marina Grimani e San Gaetano da Thiene e della cui gestione il Nostro divenne responsabile nel 1531.

Ritornando ad Elena Barozzi Zantani, la sua bellezza era tanto nota da essere immortalata non solo nella pittura, ma anche nei versi: il poeta Lelio Capilupi le dedicò la ballata: “Ne l'amar e fredd'onde si bagna” mentre Fortunato Spira nei suoi versi la paragonava alle bellezze mitologiche della Grecia Antica e Giambattista Dragoncino alla "vaga Isotta da le trecce bionde".

Ma fu la sua relazione con Lorenzino de’ Medici a sancirne la fama storica: il Medici, in fuga per l’assassinio del duca Alessandro de’ Medici, aveva riparato a Venezia, in Campo San Polo per l’esattezza, dove abitava Elena. I due divennero amanti, malgrado le giuste contrarietà del marito Antonio. Stando ad Orazio Toscanella, Lorenzino avrebbe perfino schiettamente chiesto allo Zantani di divenire suo "compare" al che il patrizio gli rispose: "Abbiate pazienza, se voglio essere il solo padre dei miei figli." In ogni modo, dalla relazione tra Elena e Lorenzino nacque Lorenzina, figlia postuma del Medici, il quale perì assassinato dai sicari di Cosimo de’ Medici. La bimba venne allevata dalla famiglia di Elena e sposò in seguito Giulio Colonna.

 

 

 

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Capitolo 30
*** Capitolo Ventiseiesimo, parte terza: Confiteor ***


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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 10.11.2021

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Capitolo Ventiseiesimo

Confiteor

(Non desiderare la donna altrui; Non desiderare la roba d'altri.)

Parte 3

 

 

 

 

 

 

Alla fine zia Ysabeta era stata esaudita: le nozze tra suo figlio Jacomo e Marina Morexini finirono sulla bocca di tutta Venezia, celebrate con fasto dogale e se la sposina era stata la donzella più ambita, suo marito divenne presto l’uomo più odiato, per ovvi motivi, dagli spasimanti respinti. [1]

Hironimo vi partecipò assieme alla sua famiglia, sorvegliato a vista da suo cugino germano Carlo Morexini, silenzioso e implacabile alla stregua d’un giannizzero. Sicché al ragazzo non rimase altro svago se non d’offrire le sue felicitazioni alla coppia, evitando di guardare ambedue dritto negli occhi. Strinse (molto) forte la mano del novizzo e baciò quella della novizza, per poi ritirarsi nel suo cantuccio e godersi in santa pace la festa ch’animò San Trovaso fin quasi alle prime luci dell’alba, filando liscia senza brutte sorprese e perfino le tante temute lenzuola, al momento dello sbandieramento ai convitati, mostrarono le loro brave macchioline rosse.

Insomma, tutto bene quel che finiva bene, se Marco non si fosse esibito in quella scena madre di gelosia nelle cucine di Ca’ Miani, guastando l’umore d’Hironimo per i mesi a venire, poiché le sozze insinuazioni di Jacomo Corner parevano essersi avverate, manco avesse gettato una maledizione contro i due coniugi.

La crisi matrimoniale tra il fratello ed Helena; la guerra; la rottura con la sua domina; la cattura di Lucha e la malattia e la morte di Crestina … ognuno di questi elementi aveva incancrenito l’animo del giovane Miani ed esacerbato gli aspetti meno piacevoli del suo carattere. Si rendeva conto d’essere divenuto più aggressivo, dispotico, poco incline al compromesso e impaziente. Gli antichi passatempi gentilizi non l’attiravano più, traviato dalla rudezza del campo e i suoi occhi infarciti di brutalità e squallore avevano dimenticato come s’apprezzasse la bellezza, pigliandosi diletto ovunque lo trovasse e in qualsiasi forma. Se Hironimo si conteneva però nei vizi, lo faceva non per amor della virtù, bensì per non compromettere il suo progetto di distinguersi come militare: pur conscio d’essere ancora giovane per ruoli di spicco, nondimeno seguitava a puntare tenace alla meta, ché se il suo amico e cugino di terzo grado sier Ferigo Contarini era riuscito, alla fresca età di trent’anni, a divenire provveditore degli stradioti, allora anche il giovane Miani poteva ben sperare, se continuava a rigare dritto e a comportarsi, almeno sul campo, in maniera irreprensibile.

“Tanto scoglionarsi per reclutare quei fanti e archibugieri, per poi neanche riuscire ad inviargli a mio fratello … Sacramento, avrei dovuto partire io con loro, invece di delegare la questione a quell’inutile capitano! C’è riuscito Ferigo  a portargli perfino dei vettovagliamenti, non potevo farcela anch’io?”, borbottò frustrato Hironimo, nascondendosi il viso tra le mani e massaggiandosi le tempie.

“Saresti morto inutilmente”, scosse il capo Luzia, versandogli sulla coppa un infuso siriano, regalatole dal solito sier Bastita, non appena suo figlio naturale Andrea gliene spediva qualche pacco da Aleppo. “Tuo fratello è stato anche fin troppo bravo a resistere così a lungo”, aggiunse, sottraendogli discreta la brocca mezza vuota di vino, non piacendole questa nuova tendenza del giovane.

Il giovane Miani, accortosi invece, storse la bocca, tamburellando nervoso le dita sul tavolo. “Con quegli uomini, avrebbe potuto resistere ancora di più”, grugnì, sorseggiando guardingo la bevanda calda, trovandola abbastanza gradevole.

Alla notizia della caduta di Bassano, Covolo, Enego e dell'avvicinarsi delle truppe ispano-imperiali a Feltre, i fratelli Miani, consapevoli dell'estremo pericolo in cui versava Lucha, avevano stretto la cinghia e, ai continui e urgenti appelli del fratello alla Signoria affinché inviasse rinforzi alla Scala, di tasca propria avevano pagato il capitano Domenego da Vicenza per raggiungere in fretta il maggiore. Marco, poi, aveva dato il meglio di sé e della sua arte oratoria in Consiglio, infondendo nell’impresa tutta l’energia nervosa accumulata per colpa della crisi del suo matrimonio. E l’aveva spuntata, il gaglioffo: a San Zaccaria lui di persona aveva presentato in rassegna le reclute. Magra consolazione era stato l'inaspettato soccorso di Ferigo Contarini, ch'era riuscito ad introdursi nella fortezza senza incappare nel nemico, rifornendola di vettovaglie. Tutti sforzi rivelatisi inutili, giacché quando gli archibugieri stavano per partire da Treviso e i provigionati da Venezia, la Scala ormai era divenuta irraggiungibile, la battaglia iniziata ed ogni via di comunicazione interrotta. Hironimo aveva voluto condurre lui stesso la compagnia, incurante del pericolo di venire facilmente sopraffatti: per convincerlo a desistere, Marco l’aveva quasi assordato con le sue urla, incrinandosi per qualche giorno la voce. S’era così ansioso di crepare malamente - lo aveva minacciato -  bastava un cenno e il maggiore gli avrebbe legato una palla di granito alla caviglia per gettarlo in seguito nel Canal dell’Orfano.

“Pota dell’angonaia …”, imprecò di nuovo Hironimo, stizzito dalla sua incapacità, per quanto si sforzasse, di poter influenzare e cambiare il corso degli eventi, ribelli mostri dotati di volontà propria e con l’unico scopo di tormentare lui e la sua famiglia. “Vermocane d’ona sporca svioldra …”

“La tua occasione non tarderà a venire e non mancherai di distinguerti”, finse Luzia di non aver udito quella sequela d’improperi, porgendogli ineffabile dei biscotti. “D’altronde, da come il tira il vento, ho l’impressione che questa guerra non finirà tanto presto: la Signoria sta giocando il tutto per tutto, senza esclusioni di colpi né compromessi, i nostri condottieri al fronte e i nostri ambasciatori dal Papa.”

“Spero che sier Hironimo “dalle Rose” riesca nel suo intento”, s’auspicò il Miani, roteando pensoso la coppa.

“Non c’è obiettivo, che un uomo del suo intelletto non possa raggiungere: assieme al cardinale domino Domenego Grimani, è il nostro asso nella manica”, sentenziò grave la Trivixan. “Ma la diplomazia, contrariamente al campo di battaglia, necessita di tempo. Ciò che s’ottiene in un’ora in uno scontro armato, lo si ottiene forse in giorni e in mesi di trattative, con effetti però a lungo termine.”

“I condottieri vincono le guerre, non gli ambasciatori.”

“Gli ambasciatori però posso prevenirle o scombussolare le alleanze nel corso di queste.”

Hironimo sorrise, intrecciando le dita sotto il mento. “Noto che siete rimasta la solita Luzia Trivixan”, dichiarò tra l’affezionato e il malinconico, soffiando sul liquido bollente.

“Ho rinunciato alla carriera di cortigiana honorata e di mantenuta, mica al mio cervello!”, cinguettò falsamente scandalizzata la donna, unendosi alla risata del patrizio, che le chiese, intrigato:

“E vi manca quella vita?”

“Un poco”, si passò Luzia un dito sulle labbra carnose. “Ma d’altronde, a lungo andare, ogni suo aspetto mi era divenuto pesante. Pertanto, ho giudicato meglio ritirarmi all’apice della gloria, amata e onorata, piuttosto di scivolare lentamente nell’oblio fino a ridurmi a battere le calli di Rialto per qualche spicciolo e di finire i miei giorni a languire in un qualche sozzo letto pulcioso, nell’ospedale dei derelitti”, gli rivelò spassionatamente la Trivixan i suoi pensieri, mentre intingeva un dolcetto al miele nella bevanda. “E’ stato uno spartiacque: senza i miei favori di letto, si è visto chi veramente m’era amico e chi mi frequentava soltanto per divertirsi e basta. Grazie a Dio e a Santa Cecilia, il vostro sior Barba m’è rimasto straordinariamente fedele. Per questo motivo, per me, egli rimarrà sempre il "mio signor". Ah, e anche tu naturalmente non ti sei dimenticato di me”, aggiunse ella dolce, afferrando la mano d’Hironimo, che gliela strinse di rimando.

A trentasei anni Luzia Trivixan ancora serbava la sua seducente bellezza, frutto certamente dei numerosi trattamenti di bellezza, ma anche di uno stile di vita piuttosto rigoroso, laddove lei dormiva le sue otto ore e non mangiava né troppo né troppo poco, equilibrato. Invero aveva sconvolto tutti l’anno addietro, poco prima della guerra, con la sua improvvisa decisione di chiudere il sipario sulla sua avventurosa carriera di cortigiana honorata, in un addio commuovente e trionfante, uno dei pochi per donne della sua razza.

Già un anno dopo, vuoi per il nuovo capitolo della sua esistenza vuoi per le conseguenze del conflitto, Hironimo faticava leggermente a conciliare le due Luzie, la brillante e sensuale intrattenitrice della sua infanzia e adolescenza con la posata matrona seduta davanti a sé, vestita di velluto verde scuro e dalla camicia piuttosto accollata, gli unici indizi dell’antico mestiere i perenni orecchini di perle e smeraldi alle orecchie e l’esotico turbante di seta blu notte e festechino, fermato da una catenina d’oro e una spilla di smeraldo col pendente di perla.

L’appartamento stesso aveva acquisito una certa sobrietà, pur rimanendo coccolo, elegante ed accogliente: Luzia aveva tenuto per sé un cuoco, quattro fantesche e un bravo a protezione; ogni oggetto inutile, stravagante e ingombrante l’aveva venduto e, da quanto Hironimo aveva capito, la donna viveva soltanto nella parte nobile dell’edificio, affittando di persona il resto. Tre stanze, più il portego, la cucina e un mezzado. Alle pareti, notò Hironimo, figuravano più quadri a soggetto sacro di quanto si ricordasse, accanto ai cozzanti nudi profani delle scene mitologiche, illuminati dal cesendelo d'ottone e di vetro. Le credenze di noce avevano conservato soltanto gli oggetti più preziosi, per lo più piatti di maiolica, un vaso di preziosissima porcellana e numerosi bicchieri di vetro dalle forme più svariate. All'angolo, il clavicordo, i liuti, i flauti appoggiati con cura al limite del maniacale, così come la piccola biblioteca di libri sottochiave, tra cui numerosi spartiti musicali. Eppure, nella semplicità, il gusto del raffinato e del costoso continuava a permeare l'appartamento, essendosi infatti ridotto il numero, non la qualità dell'arredamento.

“I miei investimenti nelle mude m’hanno fruttato bene e sono certa continueranno a farlo. Il corallo va forte in Siria ed in Egitto, così come il vino di Cypri e l’uva passita di Candia in Ingaltera”, raccontava la Trivixan. “Ora che possiedo una solida base economica, posso dedicarmi interamente alla musica: a quella carriera no, che vi rinuncio” e ridacchiò soddisfatta di sé. Infatti, pur ritirandosi dalla mondanità di letto, la donna rimaneva ben presente in quella culturale, circondandosi di musicisti, compositori e altri cantanti, facendoli da mecenate o scrivendo raccomandazioni ai più meritevoli e intraprendenti. Lei stessa continuava ad impartire lezioni di canto e di musica, esibendosi poi la sera, eppure Hironimo nutriva il sospetto che, sottobanco, da qualcuno i soldi per le antiche prestazioni li accettava, come ad esempio da suo zio Batista.

“Il vostro sior Barba è stato davvero coraggioso ed intuitivo ad aver insistito sul commercio del pepe. Credevamo che i Portoghesi ci avessero completamente rubato il settore, viaggiando diretti a Calcutta per comprarlo. Chi l’avrebbe mai detto, che le loro navi avrebbero invece rovinato la spezia e resa invendibile?”

Quando i portoghesi erano ritornati dall’India col doppio del carico di pepe e commerciandolo a minor prezzo, Venezia aveva panicato, per la prima volta dopo lungo tempo incapace di vendere alcuna spezia, ritrovandosi i magazzini pieni di merce a prezzo decisamente fuori mercato. Al che s’era perfino contemplato l’idea d’abbandonare il centenario commercio del pepe e di focalizzarsi sulle altre spezie, finché rimanevano disponibili.

Al contrario, il Morexini assieme ad altri mercanti avevano sostenuto, insistendo a gran voce, un approccio diverso, basandosi sulle loro conoscenze navali e soprattutto sulla spezia in questione: passata l’euforia della novità, i compratori all’ingrosso si erano accorti che, assaggiandolo, il pepe portoghese non aveva né odore né sapore, arrivava marcio e bagnato, poiché le navi portoghesi, per quanto più capienti e rapide, erano costruite con legno insalubre di pessima qualità, non isolate e pertanto le merci, stipate in una stiva troppo carica per conservarle agevolmente, divenivano soggette all’umidità, ai vermi e ai topi. In aggiunta, l’equipaggio inesperto, le velature insufficienti, i timoni tarlati contribuirono ad una serie di tragici incidenti marittimi, ponendo spesso il capitano di fronte alla dura scelta tra la vita e il cargo.

Sicché, nell’arco di neanche un anno, per bilanciare il rapporto spesa-guadagno, i mercanti portoghesi per un concetto male inteso dell’economia erano stati costretti ad alzare i prezzi, arrivando ad eguagliare se non a superare quelli del pepe veneziano, il quale ritornò in auge sia per la consueta sua eccellente qualità sia per il prezzo concorrenziale. Anche perché, sfruttando l’amicizia di suo figlio naturale Andrea col Sofì di Persia, sier Batista e i suoi colleghi avevano appreso come del pepe arrivasse ugualmente in Siria ed in Egitto e sulla costa del Malabar, aggirando scaltramente il blocco imposto dai Portoghesi. I mercanti arabi, infatti, mal tolleravano quelli portoghesi, i quali li costringevano a vendere grandi quantità di merci a prezzo risibile e senza possibilità di differenzazione. Sfruttando dunque le conoscenze del territorio, gli Arabi rifornivano Venezia del meglio dall’India, saldando gli antichi accordi commerciali e unendosi in un sol fronte contro il nemico comune [2].

“Se la famiglia del mio sior Barba l’hanno cognominata “da Lisbona”, significa che i loro galletti portoghesi li conoscono bene”, commentò Hironimo, il quale aveva seguito appassionatamente quella vicenda, aiutando volentieri suo zio ad analizzare i due differenti tipi di pepe, grazie anche alla consulenza dalla Siria del cugino Andrea, mercante di spicco ad Aleppo. “E’ di questo che adesso parlate, voi e il mio Barba? Di spezie, investimenti e danaro?”

Luzia reclinò vezzosa il capo. “Abbiamo sempre parlato di molte cose”, gli confidò in un misto di malizia e tenerezza. “Ma ora, ahimè, gli argomenti sono divenuti assai tristi e il tuo Barba ha trovato nella Signoria un’amante ancora più esigente e possessiva …  Il mio tempo è finito, Momolo, non lo sapevo allora, lo so adesso. Forse fui profetica ad abbandonare appena in tempo la professione di cortigiana, così non verranno per me.”

Il giovane Miani si raddrizzò con la schiena, inquieto, le orecchie tese. “Chi dovrebbe venire per voi?”, inquisì lentamente.

La cantante s’umettò le labbra, lisciando nervosamente il fazzoletto ricamato. “Ti sei mai chiesto, come mai a Veniexia ci siano tante prostitute e cortigiane, come mai siamo così rispettate e tutelate dalla legge? Perché, similmente ai mercanti, garantiamo alla Signoria un guadagno sicuro, siamo … quasi un arsenale statale. Patrizi annoiati; cittadini dalle mogli non più disponibili o dai troppi figli; giovani marinai di passaggio e lavoratori scapoli e desiderosi di compagnia; visitatori illustri; mercanti stranieri; pellegrini che vogliono aggiungere un ultimo peccatuccio veniale prima dell’indulgenza; artisti innamorati dell’effimera bellezza … di tutto Veniexia offre, a chi vuole pagare. Ma … con la guerra …” e Luzia sospirò, guardandosi le mani alabastrine e delicate. “Ignoro se tu ne sia o meno al corrente, ma in Senato si parla di tassare le prostitute per finanziare l’esercito e credo proprio che passerà quell’ordinanza. Già in molte, tra meretrici e cortigiane, si sono lamentate pubblicamente col Patriarca domino Antonio Contarini, sostenendo che non possono sostenere tali tasse, non quando non ci sono più uomini disponibili. Il che porterà ad un’unica soluzione: la confisca dei beni. Io … io posso rinunciare ai miei damaschi, ai miei broccati, alle mie sete … posso vendere i miei vezzi e le mie gioie, i miei ventolini ed ogni chincaglieria, perfino la prospettiva di vivere in una sola stanza non mi spaventa, ma … ma i miei liuti, i miei flauti, il mio clavicordo, i miei spartiti? No, non potrei mai separarmi da essi, preferire la morte piuttosto.”

Commosso, Hironimo le prese l’altra mano, stringendogliele ambedue a mo’ di conforto. Luzia gli sorrise tristemente rassegnata e il patrizio comprese appieno il significato delle parole dell’ex-cortigiana, sul perché il suo mondo bello, felice e dorato ma superfluo fosse finito, spazzato via dal crudo pragmatismo della guerra.

“Ma adesso che non esercito più il mestiere”, si riprese Luzia in fretta, “non mi possono più tassare in quanto cortigiana, dunque me la caverò! E se anche come cantante e maestra dovessero crearmi dei problemi, mi reinventerò e troverò qualcos’altro da fare. La bellezza sfiorisce, la mona s’asciuga, i danari vanno e vengono, ma finché c’è questo” e si picchiettò la tempia, “e questo”, si portò una mano al cuore, “non è mai detta l’ultima parola!”

“Voi siete una spada!”, esclamò Hironimo, da sempre pieno d’ammirazione verso lo spirito intrepido, tenace e proattivo della donna, la quale non si tirava indietro dinanzi a nessuna sfida della vita. “Dovrebbero inviare voi contro i franco-imperiali!”

“Dammi un’ora con l’Imperatore Maximiano e Re Ludovico e ve li faccio ballare in catene, nudi, alla stregua d’orsi!”, dichiarò enfatica la Trivixan, per poi gettare il capo all’indietro e sciogliersi in una grassa risata, seguita a ruota dal Miani. “Oh beh, forse questo dieci o quindici anni fa …”, s’asciugò ilare Luzia una lacrima.

“Non denigratevi: voi rimarrete per sempre quell’affascinante cortigiana, cui ai suoi piedi si prostrava tutta Veniexia.”

La cantante gli pizzicò giocosa la guancia. “An, come la sai bene, mio giovane adulatore, l’arte di farti amare!”, gli fece l’occhiolino, sistemandogli una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Non sono arrivata all’apice della gerarchia, se non mi fossi sempre trovata due passi in avanti rispetto al mio avversario. Regola che valeva allora come adesso.” Sospirò. "Anche se, lo ammetto, ho perso la mia disfida con Francesca Ordeaschi. Sai che si trasferisce a Roma? E' rimasta incinta del signor Agostino Chigi e questi l'adora al punto, che par lui aver inventato il modo di dir "pazzo d'amore"!", gli narrò Luzia l'ultimo pettegolezzo del giorno ed Hironimo la trovò estremamente distaccata, avendola invece creduta invidiosa verso l'inaspettata fortuna della sua acerrima rivale.

"Sì, la siora Francesca dovrebbe partire verso la primavera."

"A quanto pare, la visita a Veniexia è sta molto proficua, per il signor Agostino! Se ne torna a Roma col banco sistemato, un'amante ufficiale, un figlio in arrivo e il mio Bastian appresso!" ed ecco che la voce della Trivixan cangiò di tono in uno veramente indignato. Il giovane Miani scosse benevolo il capo: Bastian de' Luciani, o del Piombo come si faceva chiamare, oltre ad essere un pittore di qualità era anche un eccellente liutista, nonché dolce e piacevole nel conversare e poco gli era bastato per conquistarsi le grazie della cantante. Luzia l'aveva infatti accolto con grande entusiasmo e benevolenza nel suo circolo di musicisti e appassionati di musica, introducendolo a molti gentiluomini ed artisti, anche dopo che il ragazzo aveva relegato il liuto a svago per far della pittura la sua vera professione. L'ex-cortigiana perfino era riuscita a strappargli la promessa di un ritratto in segno d'amicizia, sennonché ecco che quel banchiere senese, in una sfacciata terna, glielo sottraeva per portarselo via a Roma. Chissà che non fosse quello il vero suo motivo di cruccio ...

"Cercate di capirlo: dopo la morte del magister Zorzon, ormai si va dicendo che l'unico suo vero erede sia il giovane Tician. Il magister Carpaccio, perfino il nostro pittore ufficiale il magister Zuan Belini appartengono oramai al vecchio gusto, alla gente piacciono i quadri alla moderna. E Bastian dil Piombo questo l'ha capito, così com'ha capito che fra poco non ci sarà più spazio a Veniexia sia per lui sia per Tician. O uno o l'altro. A Roma avrà più fortuna, ché gli altri pittori dipingono con stili diversi dal suo e, nella varietà, potrà ricavarsi il suo spazio."

"In ogni modo, mi dispiacerà congedarmi da lui ... Suonava così tanto bene ..."

"Mi sorprende piuttosto che non siate gelosa della siora Francesca. Dite, non vi sarebbe piaciuto divenire l'amante dell'uomo più ricco d'Italia? Insomma, il signor Agostino è pur sempre il banchiere dei Papi ..."

"Bah. Non ci tengo", scrollò le spalle Luzia, incurante.

"Perché?", sprizzava Hironimo di curiosità.

"E me lo domandi? Chigi è un gran porco, fatto e finito. E come tale, non poteva non innamorarsi di quel magnifico troione di Francesca Ordeaschi!", gli spiegò la donna e rise forte, coinvolgendo il giovane Miani, che sghignazzò alla grossa. "Poco tempo fa, dopo un mio concerto, il signor Agostino mi ha offerto una grossa somma di ducati per andarci a letto, pur sapendo ormai quanto casta fossi divenuta" e congiunse le mani in burlesca preghiera, fingendo un'espressione da Maddalena penitente che pareva rubata alle immagini votive in chiesa. "Ti confesso però che un pensierino me l'ero anche fatto: insomma, lui era ricco, non di malaspetto, colto, buon conversatore ... Ci sarei anche stata, sai? Peccato che, al momento di definire i dettagli, il signor Agostino m'avesse anticipato come pianificasse di violarmi il retrobottega. Al che io gli ho detto: "Benissimo, mio signor, però a patto che uno dei miei schiavoni sodomizzi anche voi nel frattanto, perché a tre mi rende assai gaudente!" Ciò, Momolo! Solitamente uno normale scappa via a queste proposte, specialmente quando si tratta del suo, di deretano da violare: t'immagini, invece, che il signor Agostino non solo era entusiasta all'idea, ma pure ha aggiunto: e portatemelo qua, allora, questo vostro schiavone, voglio proprio vedere se davvero è lo stallone che descrivete!" Basta, non ho retto più e me la sono filata via con una scusa. Da quel momento, ogni volta che lo scorgevo tra il pubblico, ero quasi contenta che la siora Francesca fosse in sua compagna. Di sicuro, ho notato che lei camminava un po' a gambe larghe ... Ma come si suol affermare: meglio le tue, che le mie di chiappe!"

Mentre ascoltava il prosaico racconto, Hironimo divenne paonazzo dal tanto ridere, gettando indietro il capo e si pose poi una mano sugli occhi umidi, seguitando a sobbalzare dalle risate. "Cul del cancaro, è proprio vero che più sono ricchi e vecchi e più sono sporcaccioni!", sentenziò ilare, pensando anche alle sue di esperienze. Con la sua ex-amante, al massimo l'avevano fatto vestiti contro il muro e le uniche proposte indecenti a Lena comprendevano molte lance spezzate per quasi l'intera serata, senza però mai deviare dalla "diritta via". Forse costoro erano talmente facoltosi e perciò annoiati, da non trovar gusto nelle cose semplici della vita, tra cui far l'amore ad una donna che lo vuole per davvero.

"Amen! Amen!", replicò solenne Luzia. "E lo fanno perché, contrariamente ai giovani, gli si drizza una volta al dì e pertanto, co' pinciano con una puta, la gh'ha da ser memorabile!"

Una fantesca venne a sparecchiare la tavola, mentre i due convitati si ritiravano presso il caminetto. Il volto della Trivixan, dapprima così allegro e piacevole, s'incupì all'improvviso in un'espressione seria e piuttosto grave. “Momolo … non vorrei giocare all’ambasciator che porta pena, però volevo chiederti: hai saputo della recente scomparsa del conte Querini di Stampalia ed Amorgo?”

Hironimo s’irrigidì sulla sedia, tamburellando nervoso le dita sulle ginocchia e contemplando distratto i ciocchi di legna sfaldarsi, divorati dal fuoco. “Purtroppo, visto che ho partecipato al suo funerale”, asserì a denti stretti, memore dello straziante spettacolo della povera sua cugina germana Maria, incinta e sorretta dal padre sier Batista e dal fratello Carlo, i cui strazianti lamenti avevano reso penosissima la Messa funebre del fu sier Zuanne. Tutto il contrario di quello di sua cugina Biancha Corner relicta Priuli, consolatasi in fretta l’anno addietro con un secondo marito, sier Zuan Antonio Malipiero.

“So bene che sei ancora in lutto per via di tua sorella Crestina, però dovresti visitare tua cugina Maria più spesso e tenerle compagnia. Ultimamente non sei molto socievole, i tuoi parenti incominciano a mormorare male di te, che sei cambiato, che non sei più il loro Momolo. Il tuo Barba mi ha raccontato di come tu abbia litigato con tuo fratello Carlo e soprattutto con tuo fratello Marco, che non vi parlate più e se ne duole moltissimo, poiché eravate sempre stati molto uniti.”

Il giovane Miani arricciò la bocca in una smorfia sarcastica. “Sparlavano di me anche quando ero il loro Momolo”, borbottò mordace, mangiucchiandosi un’unghia. “Però concordo con voi: avrei dovuto offrire miglior sostegno alla mia zermana. Non voglio giustificarmi, tuttavia … ho avuto altro per la testa” e non si riferiva soltanto alla guerra e alla sua futura partenza per Castelnuovo di Quero, men che meno allo stupido litigio di quella testa da bigoli dei suoi fratelli Carlo e Marco, che si credevano all’apice della sapienza, quando invece Marco aveva negli ultimi anni dimostrato d’essere tanto se non più puerile d’Hironimo.

Se da una parte il giovane Miani era stanco d’accollarsi i problemi altrui e di rimanere l’unico saldo in quella tempesta di casini personali, dall’altra gli recava piacere quel sentirsi utile, con uno scopo al mondo. Quindi per lui era stato un onore sostituire Lucha come castellano, perché aveva sbagliato nel ricordarlo ai fratelli maggiori?

“Alla prossima, dunque?”, ricordò Hironimo a Luzia, mentre questa, a visita terminata, lo accompagnava alla porta.

“Alla prossima”, convenne la donna, allungandogli la mano, acciocché il giovane gliela baciasse. “Tu e il tuo Barba siete sempre i benvenuti in questa casa”, gli ricordò benevola.

Un sorrisetto poco raccomandabile increspò la bocca d’Hironimo, il quale con la scusa del baciamano spinse e attirò a sé la Trivixan, avvinghiandola stretta col braccio e prendendo possesso delle sue labbra. Il suo desiderio verso di lei non s’era mai propriamente acquietato, un po’ come quel giocattolo a lungo negato, che ogni tanto riaffiorava nella mente del bambino, rinvigorendone la voglia d’ottenerlo a qualsiasi costo. E la morte di Crestina, sommata alla guerra, l’aveva ancor più reso ingordo nei confronti della vita, portandolo ad indulgere in ogni suo capriccio.

La pacatezza del cullante movimento della bocca di lui, il lento suggere della carne umida, il battito regolare nel petto e la pazienza dimostrata nel persuaderla a schiudere l’ultima barriera, quei tenaci denti dietro cui si rifugiava la nervosa lingua, rivelarono a Luzia che ormai non la stringeva più quell’adolescente inesperto e impetuoso, bensì un giovane uomo di quasi venticinque anni, sicuro di sé e della sua arte persuasiva. Si chiese, non senza una divertita punta di gusto, chi gliel’avesse svezzato e voleva complimentarsi per l’eccellente lavoro, se neppure mesi trascorsi in cavalleria gli avevano sottratto quella raffinatezza amatoria, che un uomo deve dimostrare ad una donna, se non vuol passare per un caprone infoiato, sfottuto prontamente alle sue spalle e allontanato poi con qualche scusa.

A lunghe e languide carezze s’abbandonarono le loro lingue, spostandosi il giovane sul muro, acciocché lei stesse comoda e soltanto prigioniera del suo corpo. Le mani del patrizio vagarono dai fianchi della cantante fino al petto, sfiorando e aprendo appena la camicia, per poi risalire lungo il morbido collo fino alla nuca. Delicatamente, senza fretta, la invitò ad abbandonare il capo sul suo palmo, lasciandosi sorreggere. Le baciò le palpebre, una alla volta, e Luzia sorrise al ricordo.

“Monellaccio”, sbuffò ilare, accarezzandogli la guancia ricoperta dalla barba del lutto, segno che sì, ormai lei stava trattando con un adulto. “Non demordi mai, vero?”, gli chiese, fingendo un rimprovero di cui invece non gli faceva alcuna colpa.

“Mai”, stette al gioco Hironimo, anzi, abbracciando la donna ancora più forte, intrappolandola completamente. “Vi avrò seduta sulle mie ginocchia”, le promise semiserio, soffiandole sopra le labbra tumide, ogni formalismo decaduto.

“Uhm”, schioccò la lingua Luzia. “Dovrai guadagnarti il privilegio, mi sa”, lo provocò, scorrendo le mani sulla stoffa della casacca nera sciallata fino alla camicia plissettata sottostante, ch’abbassò, denudandogli la giugulare che punzecchiò alternando delicati morsetti e pennellate con la punta della lingua. “Dovrai dimostrarmi in che sei meglio, rispetto agli altri miei amanti”, gli sussurrò all’orecchio, catturandogli il lobo tra i denti e suggendolo piano. “O sei uno di quegli insicuri, che vuole le vergini perché teme il paragone cosicché non si dica in giro: quel suo cazzo non val niente?”

Hironimo chiuse sbattendo la porta e sollevò di peso la cantante, costringendola a cingergli la vita con le gambe. “Sfida accettata!”, replicò ridendo di cuore e roteando in vorticose giravolte, che provocarono il riso anche nella Trivixan, aggrappatasi forte al trapezio del nobile, finché quest’ultimo inciampò per via delle vertigini, atterrando prima di schiena sulla panca, in un tuffo di cuscini, e in seguito scivolando di sedere per terra.

I due risero, risero, risero fino al mal di pancia, rotolandosi sui fiori stilizzati rosso brillante, blu pallido e verde chiaro del tappeto damasceno, facendosi a vicenda un tremendo solletico e Luzia fu la prima a dichiarare la resa, scalciando in aria le gambe peggio di un mulo. Al che Hironimo, gattonandole incontro,  ne approfittò per sollevarle la sottana e infilarvi sotto la testa.

“A varda zò! Indossate ancora le braghesse!”

La cantante lanciò un gridolino falsamente indignato, sporgendosi in avanti in modo da sculacciare quell’impertinente. “Vien fora, bestia!”, ma il giovane l’afferrò per le caviglie e si sistemò comodamente tra le sue gambe. Le passò una mano sulla nuca e la baciò di nuovo, scostandole a metà la camicia e abbassandole le spalline, lo scollo del busto a vita alta che a malapena le copriva i capezzoli e da cui si sparsero sopra la donna e sul tappeto, in una vivente manifestazione della dea Flora, degli odorosi fiori di gelsomino.

Luzia si sciolse i capelli rosso fuoco dal turbante e si distese sul tappeto, nel centro perfetto del disegno, invitando Hironimo a raggiungerla. Come la rosa di Damasco, si schiuse per il patrizio che le si posò sopra come l’ape, appoggiandole la fronte sul petto ed inalando piano, in piacevole carezza, l’odore floreale emanato in quella morbida valle. L’ex-cortigiana, a seconda della stagione, soleva riempirsi la fascia mammellare di viole, di fiori d’arancio, di petali di rose o di gelsomino affinché la sua pelle, svanito l’effetto del profumo, seguitasse a solleticare piacevole l’olfatto dei suoi ospiti. Lo stesso suo seno, adesso accarezzato in intenta esplorazione da Hironimo, era stato il frutto d’un accorto lavoro da scultore, sottoponendolo per anni a giornalieri bagni nell’acqua gelida, onde rassodarlo e costì mantenendolo più duro e tondo di quello di una fanciulla. Similmente, sul collo e sul viso Luzia s’applicava dei pezzi di carne appena levati dalla ghiacciaia e intinti nel latte e cannella. Si lisciava alla greca e ogni giorno si faceva fare massaggi per tonificare il corpo, sopportando ogni agonia e sacrificio in nome della bellezza. E a giudicare dagli sguardi vogliosi degli uomini quando si recava in Merceria o a Messa a Santa Caterina, i risultati a lungo termine l’avevano ripagata di tanto soffrire, vendicandola e sbugiardando quei cafoni che, raggiunti e passati i trent’anni, avevano osato chiamarla vecchia, per poi cascare bramosi ai piedi, pere cotte a puntino.

“Soltanto questa volta”, mormorò Hironimo e nei suoi occhi nerissimi Luzia comprese il significato tra le righe, del tabù che stavano infrangendo.

“Soltanto questa volta”, ripeté lei, scivolando la sua mano in basso e con destrezza figlia della pratica gli slacciò la braghetta, infilandovi la mano dentro e trovandolo già pronto, il vantaggio della gioventù.

Sono cambiato, pensò amaramente Hironimo, rigirando tra le dita le ciocche rosse di Luzia, la quale gli s’era accoccolata sopra, la guancia appoggiata sull’addome e i polpastrelli che gli sfioravano appena la sottile linea di peluria, la quale dall’ombelico gli scendeva giù all’inguine. La donna osservava pigramente i muscoli del giovane contrarsi a quella languida carezza, la pelle tesa e calda.

Le ombre pomeridiane s’allungavano all’interno della camera da letto, entrandovi silenziose dalle lunghe e strette finestre, curiose intruse, e risalivano fino al soffice letto di sei materassi, avvolgendo in caldi chiaroscuri i corpi ivi stretti e semicoperti dalle lenzuola bianchissime.

Sì, sono proprio cambiato, sospirò il patrizio, ingoiandosi le labbra e mordendole a sangue, conscio d’aver infranto quell’antico divieto: il se stesso adolescente non avrebbe mai commesso quello sgarbo nei confronti dello zio, anche a costo d’apparire rigido o stupido o stupidamente rigido, fregandosene dell’altrui scherno. Invero aveva ben assimilato l’ipocrisia comune e lo spirito di rapina e in generale disonesto dei capitani di ventura, prendendosi tutto ciò che gli piaceva, senza rimorsi né timore delle conseguenze.

Il discreto e curioso tocco della Trivixan lo destò dal suo incantamento: la cantante gli stava studiando la mano, tastando delusa la ruvida pelle. “Un tempi avevi mani così belle”, mormorò ella tristemente, contornando i fantasmi rosati delle croste cadute dalle nocche e il giallognolo dei calli sui palmi. “Creavano bellezza, non davano la morte.”

“A Padoa aiutavo a costruire le mura e portavo le barelle”, avvertì inconsciamente il giovane il bisogno di giustificarsi di quel mutamento, il riflesso fisico di quello dell’anima.

Luzia rabbrividì al pensiero dell’inferno scatenatosi in quelle tre settimane d’assedio. “Il mio tempo è finito, Momolo”, sussurrò sibillina, socchiudendo gli occhi e lasciandosi cullare dal ritmico alzarsi ed abbassarsi del petto di lui.

Anche lei era cambiata, appurò Hironimo, accarezzandole la schiena e coprendo ambedue col lenzuolo, raffreddandosi il sudore nel frattempo a risultare molesto alla pelle. Alla fine della fiera, la Trivixan stava invecchiando, malgrado i suoi momentanei e combattivi sforzi di rallentamento del processo. Pur sforzandosi d’apparire stoica dinanzi all’inesorabile declino, in realtà ella voleva sentirsi ancora amata e desiderata come un tempo, l’oggetto del desiderio di tutta Venezia, la musa ispiratrice della comunità musicale. Era impossibile, dopo anni alla ribalta, abbandonare l’ebbrezza della notorietà, l’ammirazione sconfinata della gente, il trovarsi perennemente al centro dell’attenzione per poi finire in secondo piano, scartati alla stregua di un abito passato di moda, un ricordo lontano e sfuocato, rimpiangendo giorni gloriosi che non sarebbero mai più tornati, costretti a ripiegare in attività di nicchia.

Un artista muore due volte, si dice: quando non può più esercitare la sua arte e quando lo sotterrano. Luzia Trivixan per sua fortuna ancora non era giunta a quel livello, tuttavia stava cedendo ad una sottile smania di ricerca di conferme. “Grazie a Dio e a Santa Cecilia ho il mio canto e la mia musica a consolarmi e sostenermi. Sai, quand’ero ragazzina, prima del mio debutto ufficiale, confessai a mia madre che progettavo di guadagnarmi il pane, onestamente, da cantante, solo da cantante. Lei mi rise in faccia e mi disse: “Vuoi cantare e basta? Fallo in strada per l’elemosina. Vuoi cantare in un palazzo? Allora trasformati in una sirena e attira gli uomini nelle profondità del tuo letto.” Ed era questa strisciante e persistente insicurezza che la rendeva sempre più dipendente dai suoi amici musicisti e dai suoi allievi, dalla loro ammirazione e approvazione.

Il suo Alexandro Demophon era morto da dieci anni, così come alcuni dei suoi protettori storici. Sier Batista, pur rimanendo generoso e leale nei suoi confronti, oramai s’era votato alla Signoria, relegando ogni altra donna in secondo piano, perfino sua moglie istessa. La Trivixan, aveva notato Hironimo, più che amante si stava gradualmente trasformando in confidente e amica, una piccola oasi di tranquillità dove potersi rilassare, gli amplessi sempre più saltuari e non perché il sangue e le voglie del Morexini si fossero raffreddate.

Hironimo l’aveva capito benissimo, ecco perché aveva fatto la sua mossa, approfittandone della malinconia e confusione di Luzia: ella aveva chiuso col passato, servendo se stessa e non più gli uomini; tuttavia, la solitudine di non possedere un compagno che l’assicurasse col suo amore, l’aveva resa vulnerabile nella sua inquieta voglia di sentire nuovamente la passione viva d’un amante, la sua forza e il suo calore, donandole l’ebbrezza di prendere ed essere presa, regalatale generosamente in un’altra vita da Alexandro Demophon.

Lui e la Trivixan erano simili, concluse il giovane patrizio, condannati ad anelare ciò che non potevano ottenere attraverso vie diritte e alla luce del sole.

 

***

 

Guardati dai ritorni di fiamma, dice il proverbio, ché t’arrecano soltanto dispiaceri.

Seguendo il consiglio di Luzia Trivixan, Hironimo si era risolto a visitare più spesso sua cugina madona Maria Morexini relicta Querini, per quanto lo ferisse profondamente nell’animo: stentava di riconoscere nella giovane donna sciupata e nerovestita la sua vivace e amorevole germana, invecchiata precocemente dei suoi neanche venticinque anni. I suoi occhi nerissimi avevano perduto ogni guizzo vitale, fissando smorti davanti a sé, un simulacro vuoto e senz’anima.

Maria si disinteressava di quanto le accadesse attorno, chiudendosi a riccio su se stessa e bandendo ogni passatempo dei giorni felici assieme al marito; non leggeva, né suonava, né ricamava, né deambulava nell’odoroso giardino interno, preferendo languire nel buio della propria stanza da letto, Ca’ Querini ridotta ad un sepolcro. La patrizia si rifiutava perfino d’uscire di casa, neanche per recarsi a Messa, preferendo chiamare in casa un prete per confessarsi e comunicarsi. Madre cercava d’aiutarla a trovare conforto nella religione, condividendo con la nipote la sua esperienza e a codesto trattamento un poco la vedova Querini rispondeva, più che altro ricattata dalla salute del bimbo che cresceva nel suo grembo, la cui morte sarebbe stata imputabile alla sua noncuranza.

“Come siete riuscita a sopravvivere? Come siete riuscita a vivere senza il vostro cuore, senza l’altra metà della vostra anima? Come?”

“Mi sono detta che lui è sempre meco, ovunque io mi trovi. E che veglierà su di me, ovunque egli si trovi.”

Madona Morexina aveva saggiamente preso in casa i nipotini Francesco, Crestina, Fantin, Piero,  Agustin e Nicolò Querini, terrorizzata dall’idea che la figlia potesse, in uno scatto d’imprevedibili nervi, svegliarsi dall’abulica sua stasi e compiere qualche gesto azzardato, avvertita la nobildonna dagli altrettanti ansiosi e spaventati servitori, in particolare dalla fantesca personale della contessa, la quale sosteneva di non riconoscere più la sua padrona.

“Abbiate pazienza, siora Mare. Non posso abbandonare questa stanza, non subito, non finché potrò ancora percepire l’odore di Zuanne sul suo cuscino, sui suoi vestiti.”

Sua madre non aveva potuto non assecondarla, ordinando tuttavia alla servitù di riferirle verbatim ogni singolo movimento e parola a Ca’ Querini, intanto che scriveva una pepata missiva alla consuocera madona Juliana Malipiero Querini, invitandola a salpare quanto prima da Stampalia.

“Partirsene così, il giorno dopo il funerale di suo figlio, abbandonando a se stessa sua nuora, i suoi nipoti e quell’infelice che mai conoscerà il volto di suo padre! Capisco sier Nicolò, per via dell’amministrazione dei loro feudi, ma quale scusa aveva madona Juliana?”

“Cercate di capirla: ha perso tutti e tre i figli in così poco tempo, naturale sia sconvolta! In ogni modo, scrivetele pure: è tempo che si scuota dal lutto e che s’assuma le sue responsabilità!”

In attesa dunque della consuocera, madona Morexina e la figlia Querina si dividevano in casa i nipotini, quest’ultimi ancora troppo piccoli per capire quanto stesse accadendo. Il solo che se ne rimaneva in disparte e non giocava né con la cuginetta Biancha Zustignan, né con gli zii Donatella e Francesco Morexini era il piccolo Francesco Querini, il primogenito del defunto sier Zuanne, che dall’alto dei suoi sette anni possedeva più ingegno di quanto non gli si desse credito.

Sollevata dalla dolorosa presenza dei figlioletti e confortata dalla compagnia di Marinella, la quale aveva sorpreso tutti offrendosi volontaria di trasferirsi a casa di Maria e così di rinunciare all’ultimo anno d’istruzione al convento, la vedova Querini pareva dar segni di miglioramento e anzi, con la scusa di riparare, aveva prontamente assunto un maestro di danza e uno di latino per completare l’educazione della sorella minore, partecipando anch’ella alle lezioni per ingannare il tempo e distrarsi. Dall’altra parte però, in segreto, Maria aveva sviluppato un interesse morboso per l’Aldilà, mascherandolo dietro il pietoso culto dei morti, sicché sier Batista, informato da Marinella, andò su tutto le furie quando scoprì come la figlia stesse consultando negromanti levantini per farsi dire dove il marito si trovasse esattamente, se fosse possibile comunicare con lui. L’anziano consigliere s’era dovuto frapporsi tra le due sorelle, poiché un’indignata Maria, giudicandosi tradita da Marinella, s’era subito avventata contro di lei, tirandole i capelli e chiamandola juda scariota, sporca, fumia e ingiandolia, mentre la povera fanciulla si difendeva in lacrime, descrivendo a lei e al padre quanto quei maghi e indovini l’avessero spaventata a morte, specie l’ultimo che, irrigidendosi tutto manco uno stoccafisso, aveva aperto la bocca e senza muoverla l’avevano udito parlare, sostenendo questi averlo posseduto l’anima di sier Zuanne.  

“Piaghe di Cristo!”, era dunque esploso sier Batista, abbracciando protettivo Marinella, che singhiozzava impaurita contro il suo petto. “Te lo dico io dove si trova tuo marito: morto e sepolto nella sua arca, sulla quale dovresti finalmente deciderti ad andarci a pregare, così da rinsavire e non impegolarti in tali negozi da pagani! Bone Jesu, vuoi farti scomunicare?!”

Hironimo raramente aveva visto così arrabbiato il suo barba, tuttavia condivideva in pieno la sua frustrazione e tristezza nell’assistere al lento decadimento fisico e morale dell’adorata figlia. Di conseguenza, assumendosi volontariamente il ruolo del cattivo, egli aveva rincarato la dose, rimproverando aspramente la cugina e spronandola a reagire, per amore dei suoi bambini, dell’eredità che Zuanne le aveva lasciato. Doveva tutelarla mentre i suoi piccini crescevano, per la legge mai disprezzabile dei parenti-serpenti.

Braccata da ogni lato e sbattutale in faccia la necessità di farsi animo e di vivere, Maria si persuase a darsi una seconda possibilità. Fece arieggiare Ca’ Querini, cambiare le lenzuola e, pur vestita in rigorosissimo lutto, ad uscire per qualche timida sortita fuori casa, accompagnata dai genitori, le zie ed Hironimo. Poi, su iniziativa di quest’ultimo, la vedova Querini s’aprì all’idea d’invitare anche qualche altro parente, specie i più giovani, della cui dinamica vitalità Maria necessitava più della malinconica saggezza dei vecchi. Su consiglio d’Hironimo, la contessa approfittò del Carlevar per invitare regolarmente le sorelle Querina e Marinella (con cui si riappacificò e domandò ed ottenne perdono); la cognata madona Maria da Molin Morexini moglie di Carlo; la sua nuova cugina madona Malipiera; la cugina di quest’ultima, madona Fontana; le cugine Catharina, Fiorenza, Cornelia, Biancha, Lugrezia e Violante Corner e la loro nuova cognata, madona Marina Morexini Corner.  

“Ed io che cavolo c’entro?”, arcuò sospettoso il sopracciglio Marco Contarini “dai Scrigni”, incrociando le braccia al petto.

“Tutte quelle femmine lì riunite m’inquietano, cor mio. Ho bisogno di maggior presenza maschile. Sier Daniel e gli altri sior maridi, con la scusa della politica, hanno codardamente disertato.”

“Pensavo possedessi cugini in grand’abbondanza per supplire, senza giungere a scomodarmi.”

“Anche loro se la sono data, quelle puinette (ricottine, ndr.), lasciandomi solo in balia di quelle spettegolanti sottane!”

Il “dai Scrigni” assottigliò gli occhi, i medesimi acuti ed intelligenti di suo zio sier Hironimo Donado, studiando diffidente l’amico fraterno.

Hironimo sospirò, sconfitto: quando Marco gli elargiva quello sguardo, neppure utilizzando i buoi l’avrebbe schiodato dalla sua opinione. Guardandosi furtivamente attorno, il giovane Miani trasse in disparte il Contarini, approfittando della confusione in calle per via del Carlevar. “Mi devi guardare le spalle”, gli rivelò sottovoce, ansioso.

“Eh?”

“Ti ricordi di Marina Morexini?”

“La siora tua Amia, la tua zermana o la mojer dil Corner?”

“La terza. Ecco, quando lei studiava al convento, io mi recavo spesso lì a trovarla.”

“Non mi dire che …”

“Bestia! Così poco mi stimi, da giudicarmi capace d’infilarmi di notte nel letto delle educande, in un convento?!”

“No, no, per carità, non stavo affatto pensando male.”

Hironimo lo squadrò scettico: eccome, se l’amico aveva equivocato maliziosamente, ci scommetteva il mignolo sinistro! In ogni modo, proseguì concitatamente: “Dietro la scusa di porger visita a mia nipote Dionora, ho avuto modo di riallacciare i rapporti con Marina, mia vicina di contrada. E ti assicuro, cor mio, che non ho mai avuto intenzioni disoneste su di lei: mi svagavo più che altro a stuzzicarla, divertito dalla sua innocenza misto al suo desiderio di giocare alla donna adulta. Si trattava tutto di un grande scherzo!”

“Di cattivo gusto”, obiettò severo Marco, “perché lei ci credeva e tu l’hai illusa. Anche se non puntavi a concupirla, ugualmente lei hai promesso menzogne, pigliandola crudelmente per i fondelli e per che cosa? Per farti una risata? Non è stato molto cavalleresco da parte tua.”

“Avrei in effetti dovuto scoraggiarla fin dall’inizio”, convenne il giovane Miani, non sottraendosi a quella sferzata di biasimo. Invece, aveva perduto il giudizio e risposto a quel brevissimo scambio d’effusioni, nonché utilizzato tal innocuo amoretto per colpire Jacomo Corner là dove faceva più male. “Adesso Marina frequenta la casa della mia zermana e lei parrebbe disponibile a …”

“Spero che tu non la stia corrispondendo!”, spalancò scandalizzato la bocca Marco, non concependo il suo miglior amico, per quanto discolo e irrequieto, invischiato in turpi intrallazzi adulterini.

“Mi pigli per scemo? Con mio fratello Lucha, poi, che conosce mezza Quarantia Criminal e di cui pure è stato parte?”, strillò indignato Hironimo, nauseato all’idea di sottoporre la sua famiglia a tale umiliazione, anche perché Lucha lo avrebbe sottoposto lui stesso ai tratti di corda, semmai egli fosse comparso in tribunale, imputato con l’accusa d’adulterio e fornicazione. E dopo aver rifiutato ogni rapporto civile e riconciliazione con Carlo e Marco, gli risultava insopportabile la prospettiva di perdere anche Lucha, l’ultimo fratello rimastogli accanto. “Per anni non le ho più rivolto un’ombra di parola; allo sponsalicio l’ho ignorata completamente … Ostrega d’on ostrega! Tre volte -  tre! -  che ci siamo incontrati a casa della mia zermana, dove abbiamo conversato superficialmente di tutto e di niente, e invece sembra quasi che ci siamo congedati dal convento l’alter dì!”

Marco increspò le labbra, pensoso, analizzando e soppesando ogni parola dell’amico, onde delineare la situazione e trovare una soluzione. Si sistemò una ciocca di capelli ramati dietro l’orecchio, cacciando fuori un grosso sospiro: per ficcarsi in situazioni assurde, il cor suo possedeva invero un’abilità preternaturale! “Se tu le intimassi chiaro e tondo di badare a suo marito, quella là, per ripicca, minimo ti rifila un tiro alla moglie di Putifarre e tu certo non sei un Giuseppe[3]”, ragionò il Contarini ad alta voce, soppesando i pro e i contro. “La tattica migliore rimarrebbe fare il morto: non guardarla, non parlarle, non rispondere alle sue lettere, evitala teatralmente e magari diserta qualche visita a casa della tua zermana. Se madona Marina non è stupida, capirà che sta abbaiando all’albero sbagliato e si stuferà!”

Il giovane Miani s’appoggiò al muro, contemplando scocciato la sagoma di Ca’ Nani a San Trovaso, neanche le rimproverasse la nascita di quella piattola di Marina.

In verità, non era stato completamente sincero con Marco, nel senso che sì, non aveva mai concluso nulla di concreto con la giovane donna; tuttavia allo stesso tempo, accortosi dell’interesse mai sopito di lei, il malevole desiderio di vendicarsi di Jacomo Corner gli aveva sussurrato tentatore all’orecchio, trovando terreno fertile per progettare un’epica punizione ai danni dell’arrogante patrizio e quale complice migliore, se non la cara mogliettina di lui infatuata?

Per notti intere, davanti al caminetto, ridacchiando perversamente Hironimo aveva sognato ad occhi aperti l’intero scenario, traendovi un diletto pressoché fisico: sedurre Marina, tenerla come amante (tanto lei non avrebbe cantato comunque, anche per non perdere eredità e dote), rispedire ogni sera a Jacomo la moglie ben riempita del suo seme, vederle il ventre crescere d’un figlio suo … e quel somaro l’avrebbe cresciuto, tutto orgoglioso nella sua ignoranza, designando come erede il frutto d’un amore illecito, proveniente per di più da una famiglia dal Corner tanto disprezzata …

Di conseguenza, verso Marina egli aveva adoperato ogni carineria a lui conosciuta, sempre disponibile e cortese: al suo cenno, le suonava al liuto frivole e maliziose  frottole; le sussurrava all’orecchio poesiole d’amore (imparate a memoria) e le disegnava su bigliettini lusinghiere allegorie da innamorati. Hironimo l’elargiva vivaci sorrisi pieni di fossette e conversava con lei galante e con tono di voce morbido e caldo; apriva sempre le danze con lei e davanti al caminetto le si sedeva accanto, appoggiandole “casualmente” il braccio attorno alla spalla, mentre Marina leggeva, commossa, di un qualche infelice amore letterario. O, acquistando dei fiori di stoffa, il patrizio glieli appuntava ai capelli o sulla spallina, accarezzando allusivamente i petali e godendo del rossore di lei, dell’alzarsi ed abbassarsi inquieto del suo petto. Al momento di salire in gondola, egli indugiava in furtive carezze sulla manina della nobildonna e si passava le dita sulla labbra, conscio di come madona Corner lo stesse osservando rapita. Le recitava con teatrale trasporto gli “Asolani” del magnifico messer (e si vociferava futuro domino) Piero Bembo di sier Bernardo, anche se l’avevano fin dalla loro pubblicazione annoiato a morte, reputandoli un ammasso di luoghi comuni da minestra riscaldata. L’unico forse con cui Hironimo andava d’accordo era Perottino, l’amante infelice, più che altro perché le femmine sempre gli avevano puntualmente portato null’altro che un gran mal di stomaco, grazie ai loro capricci e false modestie. A nulla valevano le argomentazioni di Gismondo, l’amante ricambiato, su come dovesse difendere Amore dalle “false calunnie” di Perottino. Quello stronzetto alato meritava ogni spennatura, altroché. E aveva buon gioco, sier Piero, a far dire a Gismondo come l’essere si identificasse in amore e fosse in vita in quanto amore, poiché senza d’esso non esisterebbero né l’uno né l’altra. Tanto, pensava un poco invidiosetto Hironimo, al Bembo nessuna donna, zitella o matrona, gli aveva negato il suo affetto, il Miani era praticamente cresciuto ascoltando i suoi parenti spettegolare degli amori di sier Piero, da Maria Savorgnan alla medesima duchessa di Ferrara, Lucrezia Borgia d’Este. Quindi, fortunato e appagato in ogni sua avventura, ovvio che il Bembo concepisse amore come forza cosmica, unificante, presente in ogni uomo, la fonte stessa della civiltà; invece, per Hironimo amore era divenuto un sentimento divisorio, bestiale, ingordo, ch’abbassava l’uomo alle azioni più indegne pur di soddisfarlo.

In ogni modo, mentre così la dilettava, Hironimo leggeva negli occhi di madona Corner la fiamma dell’antica passione, rinfocolata dalla legna dei sottili e indiretti incoraggiamenti del giovane Miani, il quale li ammantava d’accorta ambiguità per friggerla ben bene nell’olio del desiderio e per farli passare inosservati, innocenti agli sguardi di terzi. Ormai Marina era una donna a tutti gli effetti: scavalcato lo scoglio ingombrante della verginità, ella adesso sapeva cosa aspettarsi da un uomo sotto le coperte e il patrizio gongolava nel sapere Jacomo talmente incapace, da neppure soddisfare appropriatamente sua moglie, se questa era disposta ad aprire le gambe al suo primo amoretto adolescenziale, frutto perlopiù di una fantasia d’educanda sessualmente frustrata.

Hironimo si scoprì dunque a desiderare ardentemente Marina e non per la dolcezza umida della sua femminilità o per affinità di carattere e pensiero, bensì per immaginarsi sul suo volto quello del Corner, quando gli avrebbe fottuto la bella sposina.

Ah! Lui e tutti gli altri stronzi avrebbero ben presto pagato per le loro cialtronerie, per gli anni di crudeli sfottò, per aver appellato insensibili Hironimo “figlio del suicida”, “mammoletta”, “femminuccia”, “patiens”, etc.! Incauti, l’avevano creduto una sorta di cappone, un inoffensivo eunuco cui affidare le loro donne. Oh, sì! Per meglio agire indisturbato e godersele tutte, alla facciaccia loro, li avrebbe cornificati dal primo all’ultimo e sì ripetutamente, che neanche sarebbero riusciti ad entrare per il portone di casa senza grattarle!

“Becchi fottuti, vi meritate ogni corno!”, aveva gridato euforico ad un certo punto al fuoco, vuotando il bicchiere, l’ultimo di una lunga e indefinita serie.

“Momolo, che diamine stai facendo?”, gli giunse alle spalle la voce impastata di suo fratello Lucha, sceso in camicia da notte e scalzo a controllare da dove provenisse tutta quella caciara. “Non dormi?”, sbadigliò, stropicciandosi stanco gli occhi arrossati. “Dai, che solo i ladri e gli adulteri a quest’ora rimangono svegli!”, scherzò il maggiore, sollevando per il braccio un impietrito Hironimo, la battuta cascatagli addosso più dolorosa di un secchio d’acqua gelida.

Momolo, che diamine stai facendo?

Siccome Marco Contarini era un amore – anzi, l’unico vero amore della sua vita e gli avrebbe scolpito un monumento per ringraziarlo – egli aveva accettato, soltanto per quell’occasione, d’accompagnare Hironimo a Ca’ Querini e come previsto dal Miani, madona Marina non osò avvicinarlo, intimidita dalla presenza di quell’estraneo, il quale, in aggiunta, suscitò nelle giovani matrone e zitelle un civettuolo interesse, contente d’ammirare un po’ di carne fresca, mentre un sospiro di sollievo usciva dai petti dei fratelli minori di Maria, commossi di poter parlare con un altro maschio fuori dalla cerchia famigliare.

Il vociante gruppetto si chetò all’improvviso alla vista di un’anziana donna, dalla pelle rugosa ed olivastra, vestita di larghe e vaporose sottane e d’uno scialle dai colori sgargianti, ricoperta di bracciali e collane d’oro al collo, ai polsi, alle orecchie e caviglie, perfino sul naso. Una gitana, forse, proveniente dal Levante se non addirittura dall’India, viaggiando raminga per la terra, il cielo l’unica sua dimora fissa.  

“Mariuccia, avevi promesso!”, l’apostrofò aspramente Hironimo, afferrando la cugina per il braccio e pizzicandoglielo leggermente a mo’ di rimprovero.

Sciogliendosi piccata dalla presa, la vedova Querini sbottò snervata: “Rilassati, non si tratta di alcunché di disdicevole; l’ho chiamata soltanto per leggerci il futuro! Gli astrologi lo fanno, che male c’è? Non sei curioso?”, lo sfidò beffarda. Ed esibendo un sorrisone di circostanza: “Mo’ via, non restatevene lì impalati: che temete? Che lei vi mangi?”, scherzò allegra, sedendosi lei per prima onde dare l’esempio al resto della piccola comitiva.

“Pensi che voglia sapere se sopravvivrà al parto?”, domandò sottovoce Marco ad Hironimo, nel frattanto che gli ospiti si sistemavano attorno alla gitana, la quale s’inginocchiava misteriosa e ieratica davanti a loro, leggendo a ciascuno il palmo della mano e sussurrando, come in trance, il sibillino responso, suscitando esclamazioni ora divertite, ora stupite, ora ansiose. Perfino Marinella, ancora scossa dall’esperienza col negromante, aveva ascoltato rapita la profezia dell’anziana donna, di come il suo nome avrebbe influito sul destino del suo primogenito. [4]

“Spero soltanto che le profetizzi come ritornerà sana di mente”, scosse il capo il giovane Miani, esasperato dalla melodrammatica cocciutaggine di Maria. Se suo padre sier Batista avesse appreso di quel nuovo passatempo, magia bianca, nera o verde, avrebbe scudisciato personalmente la figlia, aborrendo tali pratiche più per superstizione che per fede cristiana, sentimento condiviso anche dal cognato, il fu sier Anzolo Miani. Il quale, Hironimo ben se lo ricordava, soleva ripetere mentre sfregava l’indice rinsecchito di una mummia, acquistato al Cairo: “Chi è vivo, sta coi vivi. Chi è morto, sta con Dio. Chi è morto e sta coi vivi, non è un’anima defunta bensì un demone venuto a dar tormento. Similmente, chi afferma di poter predire il futuro o è un ciarlatano o posseduto da un demone ingannatore, perché Dio solo conosce a quale destino ci ha designati. Fino a prova contraria, omo morto no fa guerra. Ricordatelo sempre, Momolo.”

“O forse”, proseguì malizioso Hironimo, “le rivelerà come, fra un paio d’anni, si ritroverà sposata di nuovo e più innamorata che mai!” e alla battuta i due patrizi si coprirono la bocca, sganasciandosi di grasse risate.

Quand’ecco, che la gitana si piazzò davanti al Contarini, il quale trasalì dalla sorpresa e un pelino intimorito, specie quando la donna, senza tante cerimonie, gli afferrò il polso e disegnò col dito colorato di rosso ogni linea del suo palmo.

“Nati diversi, morirete uguali; tu ombra, l’altro luce; attraverso il tuo anonimato lo renderai famoso e questi ti renderà immortale.”

Marco la fissò inebetito, manco gli avesse tartagliato di fronte uno dei suoi balbettanti ed incoerenti nipotini. “Ma che diamine …?”, si voltò disorientato verso Hironimo, che fece spallucce, confuso quanto lui.

“Insomma, caro el mio Marcolin”, lo consolò però subito dopo l’amico, appoggiandogli beffardo la mano sulla spalla, “sei destinato a rimanere l’eterno secondo dietro al tuo sior barba Hironimo!”, e se la rise, pure quando il Contarini, stizzito, gli schiaffeggiò il braccio. “Dai, baba, tocca a me”, le presentò arrogante il palmo, pregustando la sciarada che gli avrebbe rifilato, tipica di quegli imbroglioni levantini, acciocché il grullo di turno s’impressionasse senza capire al contempo un accidente.

Il suo sorriso gli morì sulle labbra, quando il viso da tartaruga della gitana impallidì, stupito e al contempo commosso, mentre i grandi occhi neri all’orientale si velavano di lacrime. “Tu, che hai l’anima di Lazzaro, supererai chiunque dei tuoi pari a Venezia e fuori d’essa. Nulla di vivo dei re, degli imperatori, del Papa a loro sopravvivrà, ma il tuo operato viaggerà nel tempo e lo sconfiggerà e il tuo nome sarà conosciuto fino agli ultimi angoli della Terra e tutti lo ameranno, tale è la sua grandezza” e gli baciò la mano, imprigionandogliela quando Hironimo, imbarazzato, aveva tentato di sottrarla da quelle dita ossute. “E sarà l’amore di una donna a salvarti”, terminò la vecchia, baciandogli di nuovo il palmo.

“Aspetta! Cosa vuol …?”, esigette il Miani un chiarimento, il cuore in subbuglio e lusingato dall’incoraggiante profezia, la quale coincideva perfettamente con le sue ambizioni, sennonché la gitana lo ignorò, intenta a scrutare il destino di Marina, il naso aquilino a qualche spanna dalla mano offertole.

“Sei desiderata, ma non amata; l’odio lega chi ti vuole, ma sarà la pietà mascherata da crudeltà a preservare la tua pudicizia”, proferì la gitana, aggiungendo poi: “Due bimbi da un unico nome e spirito, uno verrà dopo che l’altro se ne andrà.”

Avvertendo una montante sensazione di claustrofobia, il giovane Miani s’alzò in fretta e si ritirò in giardino, inspirando a pieni polmoni la fredda aria invernale.

“Hironimo?”

L’interpellato in questione sobbalzò dalla panchina, scattando in piedi e indietreggiando di riflesso di fronte al nuovo arrivato. Accidenti, quanto tempo s’era trattenuto lì? A giudicare dalle lunghe ombre, parecchio tempo …

Marina Morexini Corner si stagliava in controluce, avvolta da un alone arancione che la rendeva un’apparizione pressoché sovrannaturale, sinistra, la luce vespertina riflettente sul vaporoso abito di seta rossa e la cuffia di broccato, la collana di perle e quella d’oro due tizzoni ardenti al collo, così come i bottoni d’oro della vesta. I medesimi occhi rassomigliavano alla brace nei caminetti, immobili eppure vivi di scintille.

Hironimo esaminò velocemente la situazione, realizzando di trovarsi proprio nell’opposto contesto prefissatosi. Maledizione! Dov’era finito Marco? Come aveva fatto quella furbastra a seminarlo?

“E’ tardi, ormai. Ritorno a casa”, gli annunciò Marina, annuendo incoraggiante col capo.

“Va bene. S-ciavo, patrona”, giocò al gnorri il Miani, cogliendo al volo l’allusione e si schiaffeggiò mentalmente per la sua smemoratezza.

Infatti, non comprendendo il motivo per il quale il patrizio non rispondesse al loro linguaggio in codice, la nobildonna ripeté, confusa: “Ritorno a casa.”

“D’accordo”, fu altrettanto testardo Hironimo. “S-ciavo, patrona.”

“Vado a Ca’ Nani, non m’accompagnate?”, tentò ella un approccio allora più diretto.

Momolo, che diamine stai facendo?

Lo scombussolamento interiore aveva fatto dimenticare al patrizio, che quando Marina gli avrebbe chiesto d’accompagnarla alla casa materna, quello sarebbe stato il segnale convenuto che gli garantiva libero accesso al suo letto, poiché sua madre madona Pellegrina Nani relicta Morexini dormiva alla grossa e pesantemente, coricandosi in aggiunta assai presto. La serva personale di Marina avrebbe poi vigilato accorta davanti alla porta e nessuno avrebbe sospettato di niente. Jacomo Corner non aveva inquisito eccessivamente sul perché la moglie avesse insistito tanto di dormire a Ca’ Nani, credendola semplicemente attaccatissima alla genitrice. Era il piano perfetto.

Momolo, che diamine stai facendo?

“Marina …”, s’inumidì Hironimo le labbra d’un tratto divenute secche, scandagliando le varie opzioni per meglio intavolare quella spinosissima conversazione. “Marina, forse è meglio se rincasate da sola stasera.”

“Oh”, schioccò delusa la giovane donna la lingua, imporporandosi lievemente le guance. “Avete … avete da fare? Sta bene, un’altra volta …”, mormorò, tormentando a disagio la lucente stoffa rossa della gonna.

“No, Marina. Dovrete rincasare sempre da sola e non a Ca’ Nani bensì a Ca’ Corner”, tagliò corto il patrizio, il cui gelido tono di definitiva chiusura istigò un feroce sussulto in Marina, che si portò di riflesso una mano al collo, stringendo la collana di perle.

“Ma … ma voi … ma noi …”, balbettò scombussolata, il colore svanitole dalle guance per poi riaffiorare e stavolta d’ira e vergogna per quell’improvviso voltafaccia. “Pensavo che m’amaste!”, lo accusò infine, il viso distorto in una maschera d’angoscia e stizza ed Hironimo rivisse quella sgradevole sensazione di déjà vu, ai tempi del convento, quando la Morexini e lui amoreggiavano a parole e bigliettini, colpevolizzandolo lei di non provare alcun sentimento onde ricattarlo con comodo, ogni suo desiderio esaudito. All’epoca, però, stavano giocando e inoltre c’era una pesante grata di ferro a separarli; adesso, invece, soltanto l’anellino d’oro all’anulare di Marina, che senza una granitica volontà da parte di ambedue non poteva di certo fermarli.

“Pensavo che aveste finalmente capito … io … io vi ho aspettato dopo quel giorno, vi ho atteso per anni nella speranza che voi mi chiedeste in moglie, che mi rapiste durante il banchetto nuziale … Dio mi perdoni! … Perché mi avete fatto credere d’amarmi ancora, se non è così?”, singhiozzò Marina, coprendosi disperata il volto tra le mani, artigliando i capelli dalla cuffietta, spettinandosi. “V’amo e mi sono fidata!”

Momolo, che diamine stai facendo?

E va bene, giochiamo al cattivo.

“Svegliatevi, Marina! Svegliatevi! Sono i finiti i tempi dei giochi, delle dame e dei cavalieri, svegliatevi e benvenuta nella realtà!”, ingoiò Hironimo ogni minuscola parte di pietà in lui, sopprimendola dietro una maschera d’inflessibile cinismo. Chiunque in famiglia lo considerava un egoista, un violento litigioso approfittatore, benissimo, poteva recitare quel ruolo, se significava districare lui e Marina da una situazione destinata a finire per ambedue nella pubblica vergogna. Non gl’importava della virtù, quella non esisteva e se esisteva l’aveva da tempo perduta. Ci teneva invece ad evitare l’infamia ch’avrebbe gettato su Ca’ Miani, una prospettiva che non valeva neanche mille vendette contro Jacomo Corner. Padre aveva faticato e sofferto per restaurare il loro nome, compromesso da Nonno e Bisnonno, ed Hironimo non avrebbe vanificato stoltamente i suoi sforzi. Ben venissero i vizi, purché rimanessero privati e segreti. E i Corner, così ricchi ed influenti, erano figure più pubbliche di una meretrice.

“Volevate che vi sposassi? E come?”, la sbeffeggiò Hironimo, avanzando minaccioso verso di lei. “Voi eravate una ricca ereditiera, figlia unica di un’antica famiglia apostolica, bisnipote del Doxe Agustin Barbarigo, ed io? Ultimogenito di una famiglia di Ca’ Nove, il figlio del suicida, senza alcun incarico né posizione, credevate davvero che vostra madre avrebbe accettato il nostro matrimonio? I soldi sposano i soldi!”, ringhiò a denti stretti, costringendo la giovane donna ad indietreggiare, spaventata da quell’atteggiamento subitaneamente aggressivo, a lei nuovo e sconosciuto.

“Se avessimo giaciuto insieme, vostra madre m’avrebbe accusato di stupro e fatto condannare alle Orbe o all’esilio, magari perfino a morte se si fosse messa a piangere abbastanza forte dinanzi alla Quarantia! Se ci fossimo sposati in segreto, c’avrebbe atteso analogo destino più il dettaglio che vostra madre avrebbe richiesto al tribunale del Patriarca l’annullamento delle nozze. Pur di preservare voi ed il vostro brillante futuro, vostra madre avrebbe trascinato me e la mia famiglia nella rovina!”, le rivelò inclemente, aspirando feroce l’aria. Dopodiché, calmatosi un poco, s’allontanò da Marina, acquattatasi nel frattanto contro il muro del giardinetto.

“Inoltre”, infierì Hironimo, soppesando bene le parole e scegliendo le più insolenti, “perché mai avrebbe dovuto interessarmi una sciocca ragazzina, viziata e infarcita di sogni e di chimere, al di là dei suoi danari e di una mona stretta e vergine da rompere?”

“Io v’ho amato tanto”, mormorò frastornata la giovane patrizia, le gote rigate di lacrime e il labbro inferiore che le tremava violentemente.

“Ed io no”, l’infilzò senza misericordia Hironimo, il viso più duro del marmo. “Non v’ho mai amato, né allora né adesso. Eravate un divertente intermezzo per spezzare la monotonia, ecco tutto” e sogghignò cinico. “E naturalmente non potevo non sentirmi assai lusingato, nel vedermi da voi preferito rispetto a vostro marito. L’ho sempre saputo, che il Corner non fosse altro che un pene-moscio, se neppure a due anni dalle nozze la sua sposina già si premura di cornificarlo per bene!”

“Quel giorno però … io v’ho visto, eravate davvero preso!”, gli mostrò i denti Marina, incapace di rassegnarsi alla perdita di quel dolce idillio amoroso, che l’aveva consolata dalla solitudine immensa della sua adolescenza, trattata costantemente alla stregua d’un prezioso gioiello, sì,  ma da rinchiudere in cassaforte. “Non potete mentirmi, voi avete risposto alla mia passione con altrettanta passione!”, gli ricordò malevola. “Potete mentirmi a parole, ma la vostra faccia affermava la verità: vi è piaciuto, mi desideravate e m’avreste posseduta, se non ci fosse stata quella grata a separarci!”

Hironimo s’esibì in una risata crudele, tormentandola. “Donca?”, la canzonò falsamente pietoso. “Sul serio pensate che ad uomo basti l’amore, per rispondere al richiamo di una femmina in calore?”, scivolò appositamente nel triviale, onde imbarazzare le raffinate orecchie della gentildonna, che di fatti trasalì vereconda. “Eravate un gran bel toco de mona, ingenua e disponibile e sì, m’avete eccitato, lo ammetto”, mormorò sornione, asciugandole una lacrima col dorso dell’indice e stavolta, al posto d’assecondare languida il movimento, Marina si ritrasse disgustata da quel tocco, neanche l’avessero ustionato la guancia. “Ma credetemi se vi confido, che come avrei fottuto il vostro buco, avrei fottuto tranquillamente quello di una qualsiasi puttana di campo e manco mi sarei accorto della differenza!”

Un sonoro ceffone, tutto palmo ed unghie, gli martoriò la guancia. E per la regola di porgere l’altra, puntualmente ne arrivò un secondo. “Miserabile! Viscida serpe! Porco schifoso!”, lo insultò furibonda la giovane donna, colpendolo al viso, al petto, all’addome, Hironimo che si difendeva svogliatamente, alzando di tanto in tanto il braccio per deviare gli strali dell’umiliata ed offesa nobildonna. “Meritereste mille forche, mille tenaglie! Hanno ragione su di voi: siete una carogna, una troia, un senzadio, un barbaro, un giannizzero, una creatura del diavolo! V’auguro di morire in battaglia, di soffrire peggio d’un cane!”, lo tempestava di pugni, alternandoli ai singhiozzi. “Spero che i franco-imperiali v’impicchino, vi squartino, vi sbudellino, vi cavino gli occhi, che vi brucino vivo ed ogni tortura che vi meritate!” e in un ultimo sconquassante singulto, Marina lo spintonò via, per poi accasciarsi sfinita sulla panchina. “Vorrei non avervi mai incontrato! Vorrei che quel giorno avessero trovato voi impiccato e non il vostro sior Pare! Vorrei … che non foste mai nato!”

Bene, Hironimo aveva ottenuto esattamente ciò che voleva: tanto lei l’aveva amato intensamente, tanto ora lo odiava d’altrettanta passione. Forse i suoi amici e compagni non avevano torto, quando affermavano quanto fosse nato sfortunato. Era vero. Nessun suo desiderio né progetto s’era mai avverato, per quanto egli lottasse tenacemente. Anch’egli, per un brevissimo istante lungo un sogno, s’era illuso di poter sposare Marina e di creare una famiglia con lei, medesimo errore ch’aveva poi ripetuto con la sua domina e amante.

Per questo Hironimo non temeva d’esporsi in prima fila al fuoco nemico; in fin dei conti, non aveva nessuno da cui ritornare a casa, non aveva niente da perdere, perché la sua vita era stata un unico, grande niente. Eh sì, Ca’ Miani avrebbe subito una perdita minore, se fosse morto lui al posto di Padre, che decisamente non era una barzelletta vivente come il figlio. Se la sua esistenza doveva riassumersi in una serie infinita di fallimenti e speranze infrante, forse sarebbe stato meglio non essere mai nato o morire in fasce come la piccola Emilia, quella sua sorellina volata in Cielo felice e ignara della penosa esistenza destinatale in terra.

“Tornate da vostro marito”, le suggerì atono Hironimo, scostando il volto in direzione opposta onde celarle le sue, di lacrime. “Corner sarà uno smargiasso arrogante, però vi vuole bene. Siategli tenera e fedele, rallegratelo di bei fantolini e godetevi quella poca felicità concessaci in questa vita.”

Adesso Marina piangeva e si disperava, giustamente; in seguito avrebbe dimenticato il suo amore per lui, le sue illusioni, la vergogna, la delusione e l’umiliazione del rifiuto. Ciascuno di questo sentimento le sarebbe scivolato via di dosso, poiché tutto passa, tutto scorre e finisce nell’indifferenza dell’oblio.

 

“Bestia! Me la ripaghi tu, quella camicia?”

Ad Hironimo era sfuggita la dinamica esatta, mediante la quale dal giardino interno di Ca’ Querini s’era trasferito sul morbido letto di Luzia Trivixan, così come la sua insolita irruenza e mancanza di autocontrollo nei confronti di una donna.

La voglia disperata di conforto fisico e al contempo di un tramite per sfogare la rabbia montante l’aveva condotto in uno stato pressoché sonnambolico dalla cantante, irrompendo in casa sua e gettandosi su di lei alla stregua d’un assetato nel deserto. L’aveva pizzicata in camicia, pronta per il suo rilassante bagno tardo-pomeridiano, e gliel’aveva strappata di dosso, sotto lo sguardo terrorizzato delle fantesche. “Aspettatemi fuori, ho tutto sotto controllo.”  Invero la donna a quell’impetuoso slancio s’era adattata in fretta, flessibile e versatile, rispondendo misura per misura, in un misto d’abbracci vigorosi e di lotta libera, graffiandolo e mordendolo a sangue quanto lui la stringeva fin quasi a spaccarle le ossa, possedendola senza finezza alcuna.

Luzia gli assecondò i movimenti a scatti, collerici, prepotenti finché, approfittando di un attimo di distrazione, cambiò ella il ritmo, costringendo il patrizio seduto e sistemandosi meglio sulle sue cosce, l’ampio petto di lui contro la schiena delicata di lei. La donna gli ghermì il braccio sanguinante di strisce rosse e pulsanti e se lo passò alla vita, intrecciando le dita, per poi iniziare a muovere sinuosa i fianchi, stringendo e allentando i muscoli, portando lo scontro alla pari e allo spasimo l’amante: voleva la guerra? Avrebbe trovato il suo degno avversario! Famelico fu il bacio che Luzia rubò ad Hironimo: afferratogli una pingue ciocca di capelli, lo costrinse in una dolorosa torsione a piegarsi in avanti su di lei, in un battagliero cozzare di denti e lingue. Il patrizio si ribellò, stringendole vendicativamente il capezzolo sinistro e lei allora di rimando gli morse il lobo dell’orecchio, lui la spalla e lei gli piantò le unghie nel fianco.

I due duellanti seguitarono a scontrarsi come onde furiose l’uno contro l’altro per un tempo indefinito di tempo, nessuno propenso a cedere in quella furiosa lotta camuffata d’amplesso. Si guardavano dritti negli occhi, le pupille dilatate in selvaggia frenesia, sfidandosi a vicenda in un silente dialogo fatto di rabbia, disperazione, rammarico, lussuria, tenerezza, d’insulti e carezze.

Quand’ecco che, inaspettatamente, Hironimo socchiuse le palpebre e la baciò profondamente, languido e placido, senza urgenza né violenza. Da dietro la schiena e sulle braccia, Luzia avvertì i nervosi spasimi nei muscoli del giovane, i medesimi di uno stallone imbizzarrito finalmente calmatosi e docile al suo cavaliere. All’aggressività di lui, ella aveva replicato con altrettanta aggressività; simile trattamento gli avrebbe riservato ora che il patrizio era passato ad una focosa dolcezza, massaggiando e coccolando amoroso la sua compagna.

“Uffa, era davvero la mia preferita”, bofonchiò Luzia, esaminando la camiciola mezza stracciata. Fece spallucce. “Vorrà dire che la utilizzerò per spolverare i mobili.”

“Te ne comprerò una nuova, te lo prometto”, si puntellò sui gomiti Hironimo, riprendendosi gradualmente dalle vertigini della petite mort.

“Ci puoi scommettere le tue mutande, che a proposito dove le hai gettate?”, sdrammatizzò la donna, alludendo ai vestiti sparsi alla rinfusa sul pavimento, sui cassoni e sulle careghe. Offrendogli la mano, la Trivixan aiutò il giovane a scendere dai sei materassi, conducendolo verso una bassa tinozza, pregandolo d’entrare. “Uhm, per fortuna è ancora bella calda … Anche se te la meriteresti gelida per raffreddare quei tuoi bollenti spiriti, razza di giannizzero …”

Intinta la spugna in una seconda bacinella d’acqua calda e sapone, Luzia la strizzò e in movimenti lenti e circolari la passò sulla pelle sudata di Hironimo, nettandola e profumandola, per poi risciacquare con la brocca e ripetere l’operazione. Iniziò con le braccia, cospargendo di piccoli baci picchiettati sulle ferite, placando gli impercettibili sobbalzi non appena l’acqua insaponata o la spugna veniva a contatto con la tenera carne aperta. Afferratogli una caviglia, se l’appoggiò sulla coscia e prese a sfregargli lo stinco e il ginocchio, fino a risalire all’interno coscia, invitando il patrizio a flettere la gamba e a schiuderla un poco. La donna si sciolse in un basso risolino alla vista d’Hironimo levare al soffitto gli occhi, le orecchie rosse quando la spugna gli inumidì, tamponando, le parti intime.

“Se ti vedessero coloro che ti davano della femminuccia”, commentò maliziosetta Luzia, disegnandovi sopra una rapida e serpentina S con la punta della lingua, fingendo poi un morso all’aria, provocando sia un nervosa risata nel giovane sia un inconscio balzo all’indietro.

“Sul serio non vuoi che ti ripulisca? Non m’incomoda affatto”, s’offrì cavallerescamente Hironimo, la voce mezza ovattata dal panno in cui la cantante l’aveva avvolto, istruendolo poi di sedersi sullo sgabello accanto al caminetto. Aveva azzardato a darle del “tu” e gli suonava alieno alla lingua, non avvezzo a quell’intimità di registro neppure con la sua antica e un tempo adorata amante, la sua domina. Né mai aveva dato del “tu” a Marina Morexini Corner. Soltanto a Lena, ma per motivi di superiorità sociale che d’affetto.

“Un’altra volta”, declinò ambigua la Trivixan, aprendo la porta e battendo le mani chiamò le sue fantesche, rimaste fuori pronte ai cenni della padrona. In silenzio e ignorando completamente il patrizio, due di loro disfarono e cambiarono veloci le lenzuola, mentre una terza portava sulla testa una nuova brocca d’acqua e una ciotola di fiori di lavanda secca.

“Gnese”, fece Luzia cenno ad una di quelle ch’aveva terminato di preparare il letto. “Porta a missiere una camicia pulita da notte e un caffettano di velluto -  quello indaco per favore. Dopodiché vai dal cuoco e riferiscigli di preparare una cena leggera per stasera, ma domani mattina vorrei al contrario una colazione abbandonate: missiere cenerà e dormirà meco. Infine, chiudi col catenaccio, ché per oggi non m’aspetto né accetto ulteriori visite.”

“A ve servo, patrona”, s’inchinò la massera, attivandosi subito a compiere le istruzioni datele, portando seco anche la sua collega rimasta inattiva.

“Polina, piglia quei tre miei profumi nuovi”, ordinò Luzia alla terza e all’ultima serva, dopo che questa aveva finito di cambiare l’acqua e di raccogliere gli abiti sparpagliati per terra. La ragazza s’inchinò obbediente e si diresse verso il mobiletto della toeletta, armeggiando abile coi fragilissimi flaconi.  

La cantante s’insaponò per bene, massaggiandosi il corpo in sinuosi ancheggi e piegamenti, non lasciando nulla all’immaginazione. Lentamente si versò addosso la brocca, sospirando a voce alta la soddisfazione del caldo abbraccio dell’acqua, la quale scese rapida dalla spalla lungo la schiena, insinuandosi tra le fossette di Venere fino al sedere e da lì diramandosi in rivoletti sulle gambe e ricoprendola come di una seconda pelle, il corpo ancora sodo e formoso modellato da quella liquida carezza.  Pur di spalle, ella percepiva lo sguardo insistente d’Hironimo su di sé, il fruscio inquieto del panno e, dallo scricchiolio dello sgabello, del continuo suo accavallamento di gambe, cambiando irrequieto posizione.

Sorridendo tra sé e sé vittoriosa, Luzia si voltò verso Hironimo. “Mi devo asciugare”, gli annunciò solenne, allungando il braccio in direzione del panno attorno alle spalle del patrizio, il quale s’alzò e, all’ultimo, avvolse entrambi, issandola fuori dalla tinozza. L’accomodò sulle sue ginocchia, seduti sullo sgabello pieghevole e riscaldandosi accanto allo scoppiettante fuoco nel caminetto.

Polina s’avvicinò in punta dei piedi alla coppia, recando seco su di un vassoio delle piccole e pasciute ampolle di vetro di Murano dai diversi colori e forme.

“Dunque”, esordì Luzia, cingendo il collo d’Hironimo con un braccio e con una mano afferrando un’ampolla trasparente e dalla polvere d’oro, sulla quale s’avvinghiava un fragile roseto di vetro, i petali vermigli e verdi i gambi, le foglie, perfino il minuscolo dettaglio delle spine. La cantante levò il cappuccio finemente decorato e sfilò il sottile tubo di vetro, portandolo sotto le nari del patrizio, tacito invito ad annusare. “Questa fragranza è una miscela di rosa e lavanda con un pizzico di gelsomino. Che ne dici? Molto tradizionale eppure raffinato ed avvolgente.”

La Trivixan chiuse e appoggiò il profumo. Selezionò una seconda boccetta, più alta e snella, rossa fuoco dalle spesse spirali dorate e un pampino d’uva in vetro fungeva da tappo. “Fiori d’arancio, sandalo e mughetto … ultimamente questo va piuttosto di moda …” e infine gli propose l’ultimo flacone, più basso e panciuto, blu scuro avvolto da una rete di costellazioni dorate e il tappo un sole e una luna fusi in un volto solo. “Oppure un qualcosa di più stimolante e intenso?”, aprì la fiala, sprigionando un forte odore di zenzero e legno di cedro.

Dopo settimane trascorse al fronte, qualsiasi profumo sarebbe risultato gradito ad Hironimo, purché gli scacciasse dal naso il tanfo di polvere da sparo, di sangue, di carne putrefatta o bruciata, di fango, di fumo, di sudore vecchio, di vomito e feci, odori nauseabondi che non riusciva a scacciare via neppure a distanza d’anni, neppure annusando per ore e ore i sacchetti di fiori secchi di lavanda provenienti da Spalato, come se gli si fossero insinuati nella pelle, nel cervello, nelle vene.

“Mi piace lo zenzero … e il cedro”, sottrasse il giovane uomo la boccetta dalle mani della cantante. Levò dalla punta del tubetto di vetro l’eccesso di profumo, disegnando piccoli cerchi sul polso sinistro e poi destro di Luzia. Ripeté tale azione sul collo, in seguito dietro le orecchie, ammirando la cascata fiammeggiante di capelli rossi cozzare contro il biancore del panno. “Mi ricorda il mare irrequieto, le agili galee che spezzano le sue onde schiumose. I porti lontani di Tripoli, Beirut, di Acri, Tiro e Sidone … Carovane attraversanti deserti infuocati, le antiche rovine di Palmira e di Petra, sotto lo sguardo centenario dei tre colossi di Bamiyan …”, [5] scorse la punta del naso dal gomito di lei lungo la morbida spalla, inalando a pieni polmoni la fragranza pungente della spezia, ricercando sotto quello più caldo e avvolgente del legno di cedro. Dove annusava, poi accarezzava in lenti baci aperti, confondendosi quegli umidi schiocchi alla legna sul fuoco.  “Viaggiare lontano, via da Veniexia, dall’Italia, dalla guerra … l’universo la mia terra, la mia volontà per legge … libero, libero dalle catene …”

“Quali catene?”

“Ogni catena.”

Luzia sollevò il panno, coprendo le spalle del patrizio, la cui testa s’era accoccolata sul suo petto in pensosa contemplazione delle ragnatele d’acqua sulle finestre, create, distrutte e rimodellate dall’acquazzone scatenatosi qualche ora addietro.

“Va bene così, Polina. Puoi ritirarti”, congedò ella la sua fantesca, la quale ripose i profumi nel mobiletto e scivolò discreta fuori dalla stanza. “Permettimi allora di portarti lontano”, si scostò la Trivixan, in modo da sedersi a cavalcioni su Hironimo. Strinse le caviglie alla base della schiena di lui e da lì partì, scorrendo le unghie sui muscoli tesi e guizzanti verso l’alto fino a raggiungergli le spalle. Coi polpastrelli Luzia percorse e massaggiò ogni curva del viso del giovane, soffiando appena sulla pelle ancora umida. “Anche se per qualche istante …”, gli circondò lo zigomo con la mano e congiunse le labbra alle sue, tirando delicatamente quello inferiore, “… permettimi di farti dimenticare ciò che ti affligge …”, mormorò tra i piccoli morsetti lungo la gola, la giugulare fino al centro del petto. Ritornarono a baciarsi, lungamente e pigliandosi tutto il tempo del mondo, intrecciati in un tremulo groviglio di carne e tessuto.

L’odore dello zenzero e del legno di cedro avviluppò l’intera camera, provocando una lieve ma gradita vertigine in Hironimo. Non era stato totalmente sincero quando aveva detto a Luzia, quanto gradisse alla follia quella spezia. Alla fine, avrebbe apprezzato un qualsiasi profumo, che non appartenesse a quelli già a lui noti.

Fiori d’arancio … la sua previa amante, la sua domina, sceglieva sempre quella soave fragranza, quasi a sberleffo di quel matrimonio tanto desiderato e che avrebbe sì avuto luogo, ma non con lui … Lavanda … Lena gli sistemava dei sacchetti sotto il cuscino, per contrastare il tanfo di polvere da sparo e di fumo, tuttavia Hironimo sapeva quanto alla contadina piacesse sfregare quei fiori secchi tra le mani, le medesime che lo stringevano la notte, nelle lunghe ore dell’attesa … Mughetto … sua cugina Maria si cospargeva d’esso, evocando dolci immagini di fresca primavera … Gelsomino … la pelle di Marina e le sue lacrime sapevano d’esso … Rosa … Madre eguagliava quel piccolo roseto che cresceva nel pingue vaso su in altana, lei stessa una rosa di maggio, un profumo intenso e inebriante che Padre si divertiva ad applicarle ai polsi, sul collo e dietro le orecchie … e di rose di ogni sfumatura profumava sempre l’altare della Vergine, nella piccola cappella votiva …

“Questo pomeriggio …”, si risolse infine Hironimo a confessare a Luzia il suo cruccio interiore, che l’aveva portato ad assediarle la casa. Un improvviso lampo riempì di bianco la sala, scomparendo furtivo per cedere il passo al fragoroso tuono. Un piccolo tavolo ovale di pino, coperto da una finissima tovaglia, era stato posizionato accanto al caminetto, preferendo la coppia cenare nella coccola intimità della camera da letto. D’altronde i commensali stessi vestivano molto informale, ambedue già in camicia da notte e con indosso soltanto un largo e comodo caffettano. Ogni tanto la tortorella ricordava, sbattendo stizzita le ali, la sua presenza nella gabbia argentata, mentre la luce arancio del fuoco, ravvivato, avvolgeva i drappi bergamaschi e bresciani, infondeva viva alle figure degli arazzi e donava brillantezza agli intricati intarsi dei cassoni dorati e degli scrigni. Una cornice di rara dolcezza, se Hironimo non fosse stato impestato di fiele. “Questo pomeriggio ho spezzato il cuore ad una donna.”

Staccando col piron la polpa dalla conchiglia della cappasanta e tociandola nel suo sughetto, la cantante arcuò il sopracciglio, cedendo la forchetta al giovane. “Soltanto ad una?”, lo stuzzicò, riempiendogli il bicchiere di vin bianco. Seduta in fondo alla stanza, Polina strimpellava un allegro motivetto al liuto, accompagnato da una canzoncina da convito. Gnese ondeggiava nell’aria il bruciaincensi di bronzo, prima d’appoggiarlo, un po’ per scacciar via l’odore di pesce e un po’ per scacciar via la malinconia.

“Mi sono comportato esattamente come lei”, sputò bile il patrizio, addentando veemente la polpa e masticando in rapidi bocconi. Luzia, silente, gli sottrasse la forchetta e gli preparò un’altra cappasanta. “Prima m’ha nutrito d’illusioni e dopo me le ha calpestate senza alcuna pietà!”, si sfogò per la prima volta ad alta voce. Accortosi improvvisamente del soggetto di quel monologo e di chi lo stesse ascoltando, Hironimo arrossì imbarazzato. “La perdonança, io … non è molto educato parlare di altre amanti davanti … ecco …”

Mentre una terza fantesca appoggiava il vassoio d’argento ricolmo di mazzancolle e Gnese toglieva quello pieno di cappesante vuote, la Trivixan roteò il piron quasi sotto al naso del giovane, in giocoso ammonimento. “E di che ti dovresti scusare? Non immagini quante confidenze io abbia dovuto ascoltare, quante infinite ed insulse lagne da parte dei miei protettori , clienti ed amici sulle loro mogli e, ovviamente, sulle loro altre amanti e cortigiane. Ergo, ho le spalle larghe, io!”, dichiarò allegra, sfilando la polpa carnosa dei crostacei dalla loro corazza in poche precise mosse. “Inoltre, credi che non me ne fossi all’epoca accorta? Avevi gli occhi brillanti d’amore e non per me”, cinguettò, ponendo la codina di mazzancolla sulle labbra del giovane, invitando a schiuderle.

“Nondimeno, ho mancato ugualmente di tatto”, ribatté testardo Hironimo, addentando un pezzo del crostaceo.

“Donca, debbo a questa donna del mistero il tuo imprevisto arrivo? La tua sfrenata irruenza?”, inquisì enfatica la cantante, nettando col pollice l’angolo della bocca del patrizio e suggendoselo birbante. “Immaginavi lei mentre ci congiungevamo? Oppure quest’altra infelice, cui hai spezzato il cuore?”, lo pungolò scherzosa, reclinando all’indietro il capo ed infilandosi in bocca una mazzancolla, dall’inizio fino alla fine della codina in un unico goloso boccone.

Il giovane Miani aprì la bocca, per poi chiuderla, mordicchiandosi incerto il labbro inferiore. Alla fine si risolse di sorseggiare un poco di vino, sorridendo vezzoso a Luzia. “A dire il vero, ero totalmente affascinato dalle tue chiappotte alte e pastose!”, le rispose per le rime, pigliando una lunga sorsata senza ingoiarla. Si sporse in avanti per baciare la donna, schiudendole le labbra e spillandole dentro il vino, dopodiché s’assaporarono a vicenda il gusto fruttato sulle lingue.

“Oh, sfacciato!”, lo rimproverò giocosa la Trivixan a bacio terminato, fustigandolo col fazzoletto. “Stai certo, che ti farò pentire stanotte!”, gli promise sensualmente minacciosa, infilando il piedino tra le pieghe del caffettano, in mezzo alle gambe del patrizio.

La verità era che, dopo aver crudelmente rifiutato Marina, Hironimo s’era sentito talmente soffocare da quel suo atteggiamento da verme infame, d’annaspare in disperata ricerca di un palliativo che scacciasse quell’orrida sensazione di viscido marciume, che simili alle piaghe gli incancrenivano l’animo, percependole quasi fisicamente addosso. In quei nauseabondi istanti aveva desiderato purgarsi di quel malessere e ritrovare la calma, nonché di bearsi del lenitivo contatto di pelle contro pelle, scacciando il calore di un abbraccio quella gelida morsa di vergogna di rimorso. Dopo essersi sentito sbattere in faccia per l’ennesima volta la sua inutilità al mondo, esigeva una qualsiasi prova tangibile ch’era voluto, apprezzato e magari a qualcuno necessario.

Luzia gli prestava gentilmente ascolto, però anche quello apparteneva ad un obbligo del suo previo mestiere: chissà fino a che punto lei l’ascoltasse sul serio o fingesse, fin dove l’avrebbe capito senza giudicarlo uno sciocco frignone.

Né Hironimo le avrebbe potuto confessare, quella notte, che cosa egli avesse sognato da costringerlo a svegliarsi di soprassalto, urlando, la mano corsa al collo. Ogni notte, dall’inizio della guerra, lo perseguitava quel medesimo angosciante incubo, nel quale, al posto di Padre, l’impiccato era lui e scendeva, scendeva, scendeva in basso, sotto il pavimento di Rialto, sotto le fondamenta, sottacqua, sotto il fondale e le viscere stesse della terra …

 

Zefiro spira e il bel tempo rimena,
Amor promette gaudio agli animali …

Hironimo si svegliò non senza qualche difficoltà, la testa pesante e riempita di cotone eppure non aveva bevuto un granché la sera precedente. Ciononostante, la luce livida del mattino gli feriva gli occhi e i capelli sulla nuca gli s’erano rizzati, come per avvertirlo di una situazione d’imminente pericolo. Si guardò cauto attorno, non riconoscendo dapprincipio l’ambiente circostante, sovvenendosi grazie all’odore di zenzero ancora nell’aria dei come, quando e perché fosse finito a rotolare sul materasso assieme a Luzia Trivixan.

Si scoprì non essere molto orgoglioso di se stesso.

A fatica il giovane scese dal letto, liquidando in fretta le abluzioni mattutine e relegando al barbiere la sua toeletta; trovò i vestiti ben piegati e pronti per l’uso, che subito indossò, dirigendosi in seguito verso la sala principale, attirato dal profumo  invitante della colazione.

… Ognun vive contento, io me lamento
Ch’amor m’ha fatto albergo di tormento.

“Oh, bondì a vossioria! Hai fatto la grassa mattinata, eh? Almanco ti sei divertito ieri sera?”

Hironimo gelò sul posto, l’intera colonna vertebrale percossa da un unico gigantesco tremito.  Gli si seccò la saliva in gola e dalla bocca uscì un mezzo verso di saluto; tuttavia non si sottrasse all’incontro, avanzò invece lentamente verso il tavolo al centro, laddove sedeva Luzia intenta a suonare e cantare una frottola del Tromboncino, mentre sier Batista Morexini suo zio sorseggiava imperturbabile una bevanda al limone e zenzero.

“Siediti e mangia: non farai mica come gli inglesi, che lasciano raffreddare fino all’immangiabile il cibo prima di riempirsi il piatto?”, gli intimò spiccio l’uomo, addentando una frittella.

Suo nipote prese meccanicamente posto sulla carega davanti a lui, sedendosi in uno sgraziato tonfo e seguitando a contemplare il “da Lisbona” come ipnotizzato. Il giovane Miani tentò nuovamente di comunicargli almeno che non aveva fame, lo stomaco chiuso in una morsa dolorosa, ma ancora una volta la sua gola non produsse alcun suono, neanche avesse la lingua appiccicata al palato.

L’intero scenario appariva totalmente assurdo e grottesco: il suo barba lì quasi stravaccato dinanzi a sé, intento a colazionare come se nulla fosse, di tanto in tanto scambiando qualche parolina con la cantante, anch’ella serafica e imperscrutabile. Non lo ignoravano, però si comportavano come se tutto ciò fosse normale, condividere la medesima tavola assieme all’amante della donna con cui, la sera precedente, Hironimo aveva giaciuto più volte.

“Come facevate a sapere che mi trovavo qui?”, vinse infine il giovane patrizio l’iniziale stordimento, ponendo all’avunculus quella giusta domanda, fonte di quell’inaspettata giravolta d’eventi.

Al che cadde la maschera d’atmosfera in apparenza rilassata e lo sguardo del Morexini divenne improvvisamente gelido e sferzante, sebbene il suo sorriso rimanesse amabile e disinvolto. “Luzietta, dolcezza mia, potreste per cortesia lasciarci soli un attimo?”, fu il velato ordine dietro quella cortese domanda.

Coltolo al volo, la Trivixan annuì e appoggiò delicatamente il liuto sulla gamba del tavolo. Al cenno di sier Batista ella lo raggiunse: l’uomo le baciò la mano, poi la guancia ed infine la bocca, sempre fissando di sbieco il nipote, che non abbassò mai il suo, ingoiando silente il lampante messaggio ossia che, giovane o non giovane, amato o meno amato, in famiglia l’alfa rimaneva lo zio, sotto la cui autorità, gli piacesse o meno, Hironimo doveva sottostare.

“Andateci piano con lui”, sussurrò all’orecchio la cantante all’anziano patrizio, schioccandogli un secondo bacio. Il Morexini bofonchiò di rimando qualcosa d’inintelligibile, congedandola tramite un terzo bacio. “Vi prego di ritirarvi, patrona”, l’incalzò teneramente, sottraendo dispettoso dalla treccia una lunga ciocca rossa.

“Restate servido, mio signor”, obbedì affettata la donna. E girandosi verso Hironimo: “Patron”, s’inchinò e in un frusciante sgonnellare, Luzia scivolò fuori dalla sala, chiudendo la porta dietro di sé e un incomodo silenzio s’impose tra i due uomini, i quali gareggiavano a chi avrebbe abbassato per primo gli occhi.

“Sappi che mi hai deluso profondamente”, ruppe gli indugi sier Batista, intrecciando le dita sul tavolo, svanita in lui ogni aria sorniona o sarcastica per sostituirsi ad una di duro e inappellabile pragmatismo, la medesima che indossava in Consiglio e in Collegio. Hironimo capì non trovarsi dinanzi a suo zio, bensì ad un giudice e un senatore della Serenissima Signoria.

“Sior Barba, se si tratta della Luzietta …”

“La tua povera siora Mare”, lo interruppe di malagrazia il Morexini, mostrandogli ferino i denti, “è venuta in lacrime a casa mia, raccontandomi come ti abbia atteso per tutta la notte, in piedi, insonne, domandandosi dove tu fossi finito, che fine avessi fatto! Ti rendi conto, cancaro desgrassià, quale agitazione, quale immeritato dispiacere le hai arrecato? Come se mia sorella non avesse pianto abbastanza in vita sua, ti ci dovevi mettere di mezzo anche tu?!”, batté il pugno sul tavolo, rovesciando qualche bicchiere e facendo tintinnare piatti e posate. “Perché ti sovverrai, spero, di chi fu l’ultimo che non rincasò più a Ca’ Miani? O debbo rinfrescarti la memoria, testa da bigoli, sul modo in cui questi ritornò dalla siora tua Mare?!”, ringhiò il “da Lisbona” ed Hironimo strinse la bocca, colpevole, memore delle tragiche circostanze della morte di Padre e dell’ansia che aveva provocato in Madre, ogniqualvolta i suoi figlioli uscivano la sera e rientravano nel cuore della notte, incapace la donna d’addormentarsi fintanto che non li sapeva al sicuro nei loro letti. Questo mentre ancora vivevano a Venezia, poi al fronte ...

Le guance gli bruciarono dalla vergogna al pensiero di come avesse egoisticamente pensato unicamente a se stesso, senza penarsi di mandare qualcuno ad avvertire Madre, almeno per rifilarle una panzana che si fermava a cena da un amico o da Maria, la quale certamente gli avrebbe retto il gioco. Tanto s’era crogiolato nelle sue sofferenze, da non accorgersi di come ne stesse provocando a terzi.

“Ti paiono cose da fare? Uh? Con la guerra in corso; con tuo fratello Lucha storpiato d’un braccio; con te che non rivolgi più la parola a Carlo e Marco? La vuoi uccidere, quella povera donna di tua Mare? Non hai un minimo di rispetto ed empatia verso il tuo prossimo? E soprattutto verso la siora tua Mare, cui devi la medesima devozione che riservi alla Virgo Maria Mater Dei? Sempre che tu ne abbia, poi, bruciacristi pagano che non sei altro!”

“Sior Barba … io … ieri pomeriggio …”, farfugliò Hironimo un tentativo di spiegazione, perlomeno sul motivo per il quale non aveva mandato ad avvertire Madre, tanto l’aveva sconvolto da non ragionare più lucidamente.

“Taci! Chi t’ha dato il permesso di parlare?”, lo zittì in un secco gesto sier Batista. E puntandogli contro l’indice: “Come se non bastasse, hai messo in imbarazzo anche i Contarini “dai Scrigni”, ché quando la tua siora Mare si recò a San Trovaxo a domandare al Marcolin dei tuoi vagabondaggi, quegli per poco non si sentiva male, avendoti fermamente creduto rincasato ed in letto da che mo’! Quanto amore per una carogna ingrata come te!  E sopraffatto dai sensi di colpa, quel povero ragazzo -  di gran lunga più sensibile e responsabile di te! – non ha mai lasciato sola per un istante la tua siora Mare, accompagnandola ovunque e confortandola! Pensava quell’infelice essere colpa sua, perché non t’aveva sufficientemente tenuto sott’occhio! Ma tu dimmi se a quasi venticinque anni, ti si deve ancora far da balia, porco … porco juda scariota maladet’elo et quei cancari d’i soi parenti!”, sbraitò furioso l’uomo, stringendo convulsamente i pugni. “Se ti abbiamo permesso d’arruolarti nei cavalleggeri, era con la speranza che t’inculcassero un po’ di disciplina, non che ti trasformassero definitivamente in un turco mammalucco!”

Hironimo era abituato da anni ad ingerire insulti e rimproveri da chicchessia, amici, parenti e serpenti, sicché neanche la paternale del “da Lisbona” l’avrebbe in teoria scosso, se questi non avesse giocato subdolamente la carta di Madre, scuotendolo così nel più intimo, ognora vulnerabile quando si tirava in ballo la genitrice e saperla ferita e tormentata per l’ennesima sua vigliaccata, equivalse al Miani ad una pugnalata al cuore. Quanto al resto, suo zio aveva ragione: per l’ennesima volta aveva dimostrato una cecità mostruosa, badando unicamente alle sue magagne e coinvolgendo chi non se lo meritava nei suoi casini, confermando le comuni dicerie sul suo caratteraccio ed indisciplina e sputtanando di conseguenza l’operato dei suoi genitori, i quali s’erano prodigati con ogni mezzo di fornirgli un’educazione da cristiano.

La piacevole serata trascorsa assieme a Luzia non era stata altro se non un effimero palliativo, sufficiente per esorcizzare per qualche oretta i sensi di colpa e scacciare la realtà fuori dalla porta del suo cervello. Ma, similmente alla sbornia, il giorno dopo tutto ritornava e si pagava cogli interessi, poiché in nome della distrazione, di sicuro qualche altro male s’era nel frattanto combinato.  

“Chi vi ha detto ch’ero qui?”, mormorò Hironimo, strappandosi via nervosamente le cuticole da sotto il tavolo.

Sier Batista grugnì malevolo, scoccandogli un’occhiataccia di sufficienza. “Appartengo al Consiglio dei Dieci, furbastro. Sarei davvero un pessimo membro, se non sapessi neppure ciò ch’accade sotto il mio stesso tetto, noi che abbiamo l’incarico di sapere cosa succede in ogni angolo della Signoria”, e finita di sorseggiare la bevanda, si nettò gli angoli della bocca.

“Inoltre”, proseguì egli, piegando accuratamente il fazzoletto, “la mia Luzietta a suo modo s’è sempre dimostrata leale e continua ad esserlo. Anche in questo mi hai deluso, nezzo mio: tra voi due colombelle in amore, speravo che fossi tu quello a pigliar coraggio e a chiedermi da uomo a uomo di frequentare la Luzietta e non viceversa, com’è invece accaduto. Sì”, reiterò il Morexini, dinanzi all’espressione sconvolta del nipote, “lei non mi ha mai tenuto nascosto alcunché: pacta sunt servanda, nezzo mio, con Luzietta avevamo stilato un preciso accordo e lei ha diligentemente adempiuto ad ogni suo dovere. Adesso che siamo amanti “informali” e il contratto è stato rescisso, Luzietta, per rispetto, ugualmente continua a chiedermi il permesso. Se non è vera devozione, questa!”

Ironico come le persone tra le più vituperate si fossero, invece, rivelate tra le più oneste.  “L’avete detto, sior Barba: lei non è più vostra per contratto, può fare ciò che più le aggrada”, non si trattenne Hironimo dallo sfidare ugualmente sier Batista, ricordandogli che, stando così le cose, la sua parte di colpa rimaneva, certo, ma assai ridimensionata. Sì, avrebbe forse dovuto discuterne almeno con Luzia, per capire come funzionasse la faccenda esattamente tra lei e suo zio, invece d’imporsi prepotentemente, manco un cervo in calore. Su quel punto aveva senz’ombra di dubbio sbagliato.

“Perché non ti sei mai fatto avanti con me?”, volle invece sapere il Morexini, scrutandolo attentissimo. “Suvvia, non insultare la mia intelligenza. Credevi sul serio, che prima o poi non me n’accorgessi? Non sei il primo né sarai l’ultimo ad aver desiderato la donna altrui. Chiunque a Veniexia, almeno una volta nella vita, o s’è dovuto nascondere sotto il letto o scappare fuori dalla finestra, per evitare di farsi beccare dal terzo incomodo”, e in questa pratica sier Batista in gioventù aveva posseduto abilità al limite dell’acrobatico. “Tra criminali ci si riconosce , ti ricordi? Se m’è bastata una sola occhiata per capire come Marchetto avesse la ganza – lui ch’è molto più scaltro e dissimulatore di te – figurati quanto poco ci ho messo per pigliare te in castagna!”

Incrociando le braccia al petto, il giovane Miani replicò altero: “Avete sbagliato carriera, sior Barba: intuitivo ed infallibile come siete, avreste dovuto farvi frate domenicano e inquisitore!”

“Non mi provocare, putelo, ché ancora non m’è del tutto passata la voglia di sottoporti alla strappata!”, replicò acido il “da Lisbona”, non accennando ad un benché minimo sorriso, ergo il prurito d’appioppare qualche ceffone al nipote discolo gli era rimasto eccome. “Da ragazzo, questo te l’abbono, perlomeno avevi la buona creanza di rispettare le regole e di stare al tuo posto: ti giuro, mi hai positivamente impressionato vedendoti lottare contro la tentazione, ammirandoti per la tua forza di volontà. Ora, al contrario … guarda: non so se arrabbiarmi con te o compatirti …  Insomma, Momolo, cos’è cambiato? Temevi forse che ti rifiutassi la Luzia? E perché mai avrei dovuto? Anzi, ti avrei saputo in buone mani, piuttosto che nel letto di una qualche bagascia poco raccomandabile.”

Oggettivamente, Hironimo non riusciva più a formulare un pensiero coerente, la situazione completamente sfuggitagli di mano. Aveva creduto aver compreso l’animo della cantante e invece lei gli si era concessa anche per via di una crisi di mezz’età (da lui correttamente azzeccata) ma soprattutto perché aveva ottenuto la benedizione del suo amante. Il quale era sempre stato al corrente della verità, mettendolo sornionamente alla prova e lui, il buffone di casa, lo aveva magari divertito nel processo.

Ma vaffanculo.

“Luzia, sior Barba, era la mantenuta vostra e dei vostri amici. Io ero l’estraneo e se non avessi fatto torto a voi, lo avrei arrecato ai vostri amici. Non vi volevo né biasimato né ridicolizzato per la mia sgradita intromissione”, gli spiegò infine il giovane Miani, optando per la sincerità in quella situazione assai confusa e ambigua. “Adesso che Luzia è la vostra amante e basta … tutt’ora vi appartiene, è voi che lei sotto-sotto anela, anche se lo nega apertamente. Avete visto come poc’anzi v’ha obbedito?”, ammise il giovane a malincuore, realizzando l’amara verità. “In me lei vede soltanto un sostituto, una versione più giovane di vossioria. Poiché oramai la considerate sempre di meno un’amante, Luzietta per sentirsi ancora utile e desiderata ha scelto me ed io l’ho scelta, perché se lei ha accettato, concedetemelo, un tanghero donnaiolo come voi, può ben sopportare uno come me” e sfogatosi ben bene Hironimo sospirò, pizzicandosi la radice del naso e avvertendo una grossa spossatezza.

Uno dei benefici acquisiti dalla carriera politica, oltre al prestigio sociale, era stata la pazienza d’ascoltare un discorso fino alla fine e di non scaldarsi mai, qualsiasi fosse stato il contenuto. Anche se l’aveva rimproverato a guisa di scolaretto e l’aveva sminuito attraverso appellativi infantili, sier Batista aveva udito in concentrato e rispettoso silenzio le giustificazioni del nipote, il quale sarà pur stato un pirata saraceno, ma quando si decideva a vuotare il sacco era disarmante nella sua sincerità. In aggiunta, possedeva i medesimi tic di Anzolo quando quest’ultimo gli confidava i suoi schietti pensieri, per quanto ostici e cupi essi fossero.

“Luzia è la mia amante, sicuro, e neppure l’unica s’è per quello, sebbene io le sia molto affezionato”, dichiarò il Morexini, addolcendo il tono e servendosi di un bicchiere d’acqua. “Confiteor: tra tutte è stata la mia preferita, per questo ho redatto quel contratto in comune coi miei amici, per tenercela più stretta e sfruttare la sua ben nutrita rete di conoscenze. Una mano lava l’altra. Ti sorprenderà l’ammontare d’informazioni, che le cortigiane riescono a carpire e, non a caso, noi Dieci le consultiamo spesso, a titolo d’informatrici.”

“Ecco perché vi siete raffreddato nei suoi confronti: quando venite da lei è per discutere degli affari della Signoria, non per …”, concluse Hironimo, capendo infine come mai, per non compromettersi, ambedue avevano dovuto mantenere un certo distacco. E rabbrividì dinanzi al freddo cinismo dell’avunculus, lui che tanto appariva amorevole e caloroso, ma che al comando della Signoria non esitava a mettere da parte o a sfruttare l’antica amante. “Malgrado fosse la vostra preferita, malgrado l’abbiate vincolata in un contratto … non vi è mai importato saperla in letto con qualcun altro, dopo che aveva finito con voi? Anche adesso, non vi dà fastidio che io …?”

“No”, fu la lapidaria risposta del Morexini. “Perché Luzietta è una donna, non la donna. Soltanto su di una non transigo e si tratta della tua siora Amia, mia mojer. Lei è mia e di nessun altro. Il resto delle pollastrelle? Facciano quel che li pare, la cosa mi è totalmente indifferente. Se loro mi cornificano per dispetto, io lo faccio perché m’annoiano e così siamo alla pari e amici come prima. La moglie è la moglie e le altre un piacevole passatempo, senza impegni e senza futuro. Detto ciò”, terminò l’anziano patrizio, passando al nipote il cesto ricolmo di frittelle, “ora finisci di colazionare  ed assicurati d’inventarti una scusa convincente per la tua siora Mare.”

“Non siete mai stato geloso?”, non riusciva a capacitarsi Hironimo di tanta flemma. O menefreghismo.

“Contrariamente a te”, spezzò a metà sier Batista una frittella, “io non ho mai avuto problemi a condividere i miei giocattoli tra fratelli e amici.”

“Dunque la Luzietta corrisponde a questo per voi? Ad un giocattolo?”

“Tu ti sei comportato forse meglio?”, gli inflisse lo zio il colpo di grazia e al giovane patrizio non rimase altra opzione, se non incassare docilmente e in silenzio. Per motivi diversi eppure uguali, tutti e due avevano sfruttato i favori offerti da Luzia Trivixan, nessuno cercandola per amore sincero.

“Ascoltami bene, nezzo mio, perché non amo ripetermi”, aggiunse l’ultima chiosa sier Batista, riassumendo in parte la sua previa perentorietà.  “Io sono sempre stato di manica larga con tutti,  molto più liberale di certa gente che sembra uscita da un monastero ortodosso di frati eunuchi, flagellanti eremiti e stilobati. Ma su di una cosa non accetto compromessi: la fiducia. Mai più -  capito? -   mai più ti devi azzardare ad agire alle mie spalle!”, ribadì egli intransigente il concetto, picchiettando sul tavolo a ciascuna parola.  “Ti ho mai negato qualcosa? Ti ho mai maltrattato? La risposta è: mai, sior Barba. Ergo, niente giustifica quel tuo giocare al nascondino con me, visto che mai ti ho dato un valido motivo per temermi!”

Di nuovo il Morexini aveva ragione: in molti si sarebbero leccati le dita ad avere dei parenti così generosi e tolleranti. Al posto di farne tesoro, Hironimo s’era comportato da ingordo, pretendendo sempre di più, insaziabile. Realizzò che se da una parte mirava ad emulare Padre, dall’altra gli piaceva la vita gaudente dello zio, due figure però alla fine troppo inconciliabili tra di loro, destinante a fare a pugni.

“Non tutti, sior Barba, ragionano come voi!”

“Da uno a dieci, sai quanto me ne cale? Io sono me stesso e tu oramai dovresti conoscermi assai bene!”

Appoggiando i gomiti sul tavolo e nascondendosi sfinito il viso tra le mani, il giovane Miani borbottò sincero: “Mi dispiace, sior Barba. Avrei dovuto dimostrarvi maggior rispetto e riconoscenza.”

“Fai bene a dispiacerti, però non cambia ciò ch’hai fatto”, s’alzò in piedi l’anziano patrizio, sgranchendosi una gamba intorpidita. “Non ti chiederò d’indossare cilici o il digiuno di mona per penitenza; mi basta che tu mi sia leale e di fidarci a vicenda. In questi tempi tremendi di guerra, pregni del male italico di pugnalarsi alla schiena, l’unica nostra speranza è rimanere uniti e quisquiglie quali rivendicare il possesso di una donna, lasciamole ai perdigiorno. An, Luzietta!”, cambiò sier Batista repentinamente tono, alla timida comparsa della cantante, venuta a controllare che i due uomini non si fossero scannati l’un l’altro.

“Avverto il vostro pope, che state per scendere?”

“Dopo, mia cara, prima finiamo la colazione. Sedetevi piuttosto, fateci compagnia”, la invitò il Morexini e Luzia prese posto proprio in mezzo a zio e nipote. Notando l’irrigidimento d’Hironimo, che non sapeva dove guardare, e un certo disagio anche nella donna, il “da Lisbona” esclamò: “Non vi preoccupate, Luzietta: il mio nezzo adesso sguazza nella confusione dell’imbarazzo. Ma imparerà a purgarsi d’inutili gelosie, per focalizzarle dove invece meritano.”

Perché Hironimo si sorprendeva di quella loro noncuranza? Perché provava una fitta di dispetto nel cuore? Sapeva chi fosse la Trivixan, del suo passato, dei suoi amanti, clienti e protettori. E allora cos’era quella sgradevole sensazione di soffocamento?

Forse perché, per l’ennesima volta, gli era stato sbattuto in faccia, quanto lui non avrebbe mai primeggiato in alcunché?

Eppure … supererai chiunque dei tuoi pari a Venezia e fuori d’essa. Il subitaneo ricordo della profezia della gitana rincuorò il giovane patrizio, il quale piegò la bocca in un sorriso quasi sulfureo, massacrando la povera frittella fino a ridurla in patetiche briciole sul piatto.

Adesso pativa umiliazione dopo umiliazione, l’eterno secondo, sottomesso e impotente dinanzi ai suoi maggiori. Ma poi, oh! Sarebbe infine giunta l’ora del riscatto ed egli avrebbe con la sua brillantezza oscurato tutti. La gitana, le stelle, il Fato gliel’avevano promesso: un grande avvenire l’attendeva, destinandolo a grandiose imprese ed egli finalmente non sarebbe mai più stato il solito Momolo da sbeffeggiare o compatire.

Esatto, esatto, segui il tuo istinto e vedrai come t’eleverai rispetto agli altri! Non dipenderai né risponderai mai più a chicchessia; finiti i giorni della cieca obbedienza! La tua volontà sarà l’unica tua legge, libero, libero di seguire il tuo glorioso destino, senza imposizioni!  - gli sussurrò all’orecchie quella strana e familiare vocina – Hanno paura di te, del tuo potenziale, per questo ti frenano, t’ostacolano! Sono loro gli invidiosi e presto, oh sì, avrai tu la tua personale Luzietta, rango, danari, finalmente chi ti disprezzava imparerà a temerti. Non sarebbe bello, vederli adoranti ai tuoi piedi?

 

“Perché sei ancora in tempo, sai?”

Completamente paralizzato sul pavimento di quella mefitica cella dell’Abbazia, incerto se stesse sognando o meno, Hironimo tentò d’urlare e  di divincolarsi dalla presa di quel … quell’essere dalla faccia vagamente umana, sebbene sfigurato da zanne e i bulbi oculari completamente neri. Ma i suoi denti rimanevano caparbiamente serrati tra di loro e nessun muscolo gli obbediva, mentre la creatura, aggrappandosi alle sue caviglie, s’issava dalla nuda terra e s’arrampicava su di lui, famelica e trionfante.

“Mi ci sono voluti ben quindici anni …”, si vantò, la lingua biforcuta che vibrava nervosa a guisa di lucertola, creando lunghe ombre sulla faccia color del gesso da lebbroso e petecchiale del sifilitico.“E adesso sono così vicino da godermi il mio premio … scusami, il nostro premio … Io so cosa vuoi, cosa noi vogliamo … Basta che ti abbandoni a me … Non vuoi che la profezia s’avveri? Non desideri più quella gloria che fin da ragazzino sognavi? La vendetta? L’umiliazione dei tuoi nemici? Te la posso dare e molto di più … Ma tu, poi, mi devi ripagare …”, e quella bocca storta si piegò in un sorriso orribile, tutto zanne e saliva e nel suo buio si muovevano convulsamente strette delle figure indefinite, come i vermi in un cadavere.

Più l’essere avanzava sul suo corpo e più perdeva le sue sembianze umane, reggendosi su braccia nodose dagli arti disgiunti e riattaccati all’inverso, le dita aguzzi artigli picconanti la carne indifesa del giovane immobile sotto di sé.  Il collo della creatura si piegava gradualmente all’interno della cassa toracica, aprendosi nella pelle altri occhi su cui Hironimo osservava il suo terrorizzato riflesso. Braccia sottili fuoriuscivano dal naso mancante, dalle orecchie e dagli angoli di quelle fauci vermiglie, quasi quell’essere fosse composto da altre creature al suo interno. Quasi … quasi s’alimentasse di loro …

Il patrizio serrò le palpebre, percependo salati rivoli di lacrime bagnargli le tempie. Non voglio! … Non voglio! … , ripeteva ossessionatamente, imponendosi d’aprire quella maledetta bocca serrata e di gridare soccorso. A chi poi? Chi sarebbe mai accorso?

“Non mi vuoi? Ma come? Mi parevi ben disposto in passato! Le mie catene sono forti! Nessuno può spezzarle! Tu stesso le hai mostrate pieno d’orgoglio!”

E Hironimo d’un tratto se le vide addosso, catene di spine che gli martoriavano il corpo, traendo sangue, stritolandolo pian pianino … soffocava … non … non … Premevano verso il basso, spingendolo contro il pavimento, tirate esse da sotto da mani invisibili … Mancava poco e forse la terra sottostante si sarebbe spaccata da tanta pressione ed egli sarebbe precipitato giù, perennemente prigioniero …

“Non t’attende null’altro destino, se non questo. Perché dunque non goderne i vantaggi in terra?”, s’ingigantiva la creatura, quasi si nutrisse del terrore d’Hironimo e il suo peso, aggiunto alle catene, pesava sul torace del giovane fin quasi a spezzargli le ossa. “Sei un peccatore, quale speranza ti resta? Il perdono?”, lo canzonò, imitando la vocina bonaria dei curati di campagna. “Ma dove? Ma quando? Sei sporco e resterai sporco! Marchiato! Non ti si vuole più! Verrai giudicato, condannato ugualmente e allora manda tutto alla malora e divertiti! Non c’è perdono, non c’è misericordia lassù per te! Nessuno ti vuole, nessuno ti ama, nessuno ti verrà mai in soccorso, nessuno ti ascolterà, hai schifato tutti con le tue iniquità e non hai alcuna via di scampo! Tu. Sei. Mio.!” e  rise talmente forte, da scuotere l’ambiente attorno a sé, provocando un generale fuggi-fuggi dei topi, che terminarono puntualmente nelle fauci della creatura in acuti e terrorizzati squittii, dilaniati da quelle figure all’interno d’essa, sprizzando sangue e budella, macchiando inesorabilmente Hironimo, il quale realizzò essere quella la sua inevitabile fine.

Quegli occhi lo puntavano fiammeggianti, bramosi quanto la lingua biforcuta che si nettava dalle labbra da pesce i rimasugli dei topi. La creatura si sporse golosa in avanti e gli occupò l’intera visuale, ogni angolo invaso senza possibilità di distogliere altrove lo sguardo. Ogni tanto delle squame si sollevavano e compariva un bulbo oculare che roteava in cerca di chissacché, oppure lingue o braccia mulinanti all’aria.

Non poteva fuggire. Non poteva rifugiarsi nella pietà di nessuno. Era sempre stato solo, giudicato, abbandonato e … per cosa, poi? A confronto di certa gente, le sue erano quisquiglie d’infante!

“Giusto, giusto …”, convenne la sibilante creatura, ridacchiando gutturalmente, accarezzandosi la molle pancia deforme, da cui s’intravedevano la sagoma di mani e facce premere su di essa, similmente ai calci di un nascituro sul ventre materno. Ma quelle spinte erano spasimate, grattando, scavando alla ricerca di una via d’uscita, una qualsiasi via d’uscita, anche a costo di squarciare quella carne squamosa e al contempo pelosa. “La colpa non è tua … no, no, sono gli altri che ti hanno fatto sbagliare … tu ti sei soltanto difeso … era il tuo diritto! … ”, cinguettò falsamente amorevole, allungando quelle mani-artigli verso il cuore d’Hironimo, pronto all’estrazione.

No.

“Che?”, si bloccò l’arto a mezz’aria, mentre la creatura reclinava il capo, perplessa.

No. La colpa è mia. Soltanto mia. Io ho fatto quelle scelte. Potevo agire diversamente, ne avevo la libertà, ma ho preferito agire d’impulso, d’orgoglio, credendomi chissà chi quando in realtà non sono niente.

“Bene, bene, altre giustificazioni?”, si batté ilare l’essere la zampa sulla coscia tra il mammifero e il rettile. “E a chi, sentiamo? Chi vuoi che le ascolti? Uh? Chi? I tuoi fratelli? Bah, li hai sempre osteggiati!” e nell’aria la creatura creò figure di fumo rassomiglianti Lucha, Carlo e Marco che lo fissavano crudeli, impietosi, colmi di rancore.

“I tuoi parenti? Peggio ancora, ad ogni occasione li fregavi alle spalle!” e di nuovo quelle larve si stagliarono sinistre e minacciose dal buio, guardandolo senza pietà alcuna e anzi gli puntavano accusatori il dito, gli occhi bianchissimi privi di pupille e la bocca un’unica fila di denti.

“Tua madre?” ed Hironimo guaì agonizzante nel vedere Madre tra quei fantocci, severa ed inavvicinabile, gelida nel suo rifiuto. Fece male, male, male, gli bruciò fino in fondo all’anima. Eppure, gli infuse per contrappasso una piccola speranza: perché, tra le mille incertezze della vita, di una cosa egli era stato costantemente sicuro, ed era l’amore incondizionato di Madre nei suoi confronti.

“Dopo quello che le hai fatto? Che se ne fa di un figlio ribelle, disobbediente, che non le ha mai dato alcuna soddisfazione? Un figlio che forse sarebbe stato meglio se fosse nato morto?”

Le insinuazioni della creatura cascavano però nel vuoto, inascoltate. A parole ed opere Madre gli aveva dimostrato per anni il suo affetto, mai Hironimo n’era rimasto digiuno. E nessun’illusione, nessun manichino col suo volto avrebbe potuto ingannarlo dell’incontrario. Sì, egli era stato tutt’altro che un figlio modello, ma era amato, Madre lo amava e quindi quell’essere almeno su quel punto stava mentendo.

Hironimo artigliò una manciata di terra.

“Oh, se tu fossi morto  senza battesimo, mi sarei risparmiato un sacco di lavoro, non immagini quanto quelli là ti vogliano a tutti i costi … quanto continuassero a mettermi i bastoni tra le ruote …”

Quelli là?

La creatura s’irrigidì, il suo corpo deforme scricchiolando come l’eco di una frustata. “Nessuno si cura di te”, ribadì minacciosa, accortasi di quel lapsus. Si chinò nuovamente su Hironimo e gli alitò bellicosa sopra uno scirocco di zolfo e carne putrefatta. “Nessuno t’ascolta …”

Stavolta il giovane non temette di sostenere quegli occhi infernali: la fiammella dell’amore di Madre gli aveva ricordato un piccolo stralcio di conversazione udito anni addietro, una promessa preziosa, un consiglio all’epoca ignorato, ma mai obliato. Lei m’ascolta.

“Uh?”

Madre me l’ha assicurato. Quando nessuno mi vuole ascoltare, Lei m’ascolta.

Un altro schiocco fece tremare la creatura, le cui squame s’alzarono e fremettero irrequiete di paura e di rabbia, roteando imbizzarriti gli occhi e le lingue farfuglianti maledizioni. “Menti!”, berciò, reclinando quella faccia sfregiata dalla lebbra e malfrancese fin quasi a rotearla da spostare il mento aguzzo all’insù.  “Hai offeso troppo quelli là, per sperare nella loro mercé. Figurarsi se ti prestano pure orecchio!”

Sì, io ho mentito e mi sono comportata da indegna carogna. Madre però mai con me. E se Madre ha detto che Lei m’ascolta, Lei m’ascolta.

Suo zio lo aveva ammonito come la fiducia fosse l’unico scudo nei momenti di periglio e adesso Hironimo nutriva l’assoluta fiducia nelle parole di Madre, nella disponibilità di Mater. Aveva dubitato di tutto e di tutti, perfino di Pater, lontano e distante, giudice inflessibile. Aveva temuto il suo giogo, in realtà lieve se paragonato alle catene che per anni l’avevano stritolato vigliaccamente sotto pretesa di libertà, aggiungendo egli stesso di sua mano ciascun anello, anno dopo anno.

Forse sarebbe stato condannato, forse il giudice non gli avrebbe riservato alcuna misericordia, però ogni imputato aveva il diritto ad un avvocato ed ora Hironimo nutriva un’assoluta fiducia in Mater, nella sua intercessione, per quanto poca cosa potesse offrire in cambio di clemenza.

Ma aveva fiducia, l’aveva.

“Che ne sai tu? Che ne sa quella becera di tua madre? Sei un ignorantaccio, un miscredente, un lurido peccatore, un … un …”

Lei m’ascolta.

“No, ti sbagli!”

Lei m’ascolta!

“No, maledetto! Ti ho detto di no! Quellala mia rivale non vanificherà i miei sforzi! … Non ti avrà! Non ti avrà …!”, tremava la creatura da capo a piedi, contorcendosi in spasimi dolorosi al sol guardare, al punto che Hironimo avvertì quelle torture auto-inflittesi  sulla sua medesima pelle.

Ciononostante, tenne duro. Lei m’ascolta e tu … tu starai zitto! , si ribellò dopo anni di acquiescenza a quella voce tentatrice, a quell’io-assassino che l’aveva spinto alle peggiori decisioni, portandolo poi a giustificarsi tramite arzigogolati sillogismi e a considerarsi candido agnellino, vittima innocente. Tendendo i muscoli del collo, storcendo quelli della faccia e piegando le labbra, Hironimo simile ai fantolini concentrò ogni sua energia nel rompere la barriera di denti e finalmente parlare con la sua vera voce, non quella dell’orgoglio o della maschera a lungo indossata.

“A me zitto? A me zitto?!?”

“M-mmmm …”

“Tu, ingrato, tu dovresti invece ringraziarmi! Io ti ho reso ciò che sei! Sei la mia creazione! E pertanto mi devi obbedienza!”

“Mmm-a-aa- …”

“Potresti essere grande, te lo giuro! Perché rivolgersi a quegli inutili di lassù, eh? Sempre ad ostacolarti coi loro moralismi, mai una parola di conforto … Sempre lì in alto a giudicarti dal quel bel trono d’oro! A farti sentire perennemente in colpa! Io invece t’ho sempre sostenuto, t’ho guidato e t’offrirò molto di più, se t’inginocchierai ad adorarmi! Non chiedo molto, mi pare!”

“Maa-add-o-on ...”

“PERCHE’ DEVI NOMINARLA?!? Perché vuoi rovinare tutto?! Saresti stato il mio trionfo contro quelli! Non credere di liberati facilmente di me! Io non ti cedo! Non ti cedo!”

“Ma … don … na … Ma … donna … Madonna!”

La creatura cacciò fuori allora un urlo ingolato e al contempo acutissimo, che neppure un esercito di unghie graffianti il vetro avrebbero potuto eguagliare in stridore; né il rimbombo del cannone dal calibro più grosso avrebbe trovato un facile paragone. L’essere spalancò la bocca, gridò assieme alle altre figure dentro d’esso, si divincolò esagitato, coprendosi stizzito e vergognoso il volto deforme e rimpicciolendosi sprofondò nell’abisso sottoterra.

Hironimo spalancò gli occhi, ululando terrorizzato e annaspando in cerca d’aria: si guardò forsennatamente attorno, riconoscendo il buio inflessibile della cella e il pavimento di nuda terra sulla quale giaceva supino. Avvertì il peso delle catene, ma la morsa del ferro lo rincuorò, conferendo un aspetto reale alla sua situazione e strappandolo dalla tremenda prigione onirica, in cui la sua mente sconvolta l’aveva gettato.

Ma era sul serio stata una visione? Un incubo? O l’aveva vissuto per davvero?

Con calma e tremando violentemente, il patrizio s’accarezzò le braccia e le gambe madide di sudore, scovando i polpastrelli le famigliari ferite inflittegli da Mercurio Bua e null’altro. Eppure, ancora percepiva quegli artigli sulla carne indifesa, l’alito umido e nauseabondo della creatura, i suoi occhi da mosca, la pelle marcia, le sue ora lusinghiere ora minacciose parole sibilargli alle orecchie.

Non ti cedo! Non ti cedo!

Battendo i denti dal nervosismo e dalla paura, Hironimo si portò lentamente sul fianco dolorante, strisciando le gambe intorpidite all’altezza del petto, chiudendosi in posizione fetale. Un’enorme stanchezza e la disidratazione lo stavano gradualmente indebolendo, cullandolo verso un sonno profondo, cui però egli resisteva tenace, lo sguardo puntato contro il buio.

Allucinazione o sogno … quelle figure le vedeva distintamente, le udiva bisbigliare, indicarlo, acquattate predatrici nelle tenebre, in attesa che lui abbassasse la guardia per balzargli addosso e trascinarlo nella loro tana.

Non ti libererai tanto facilmente di me!

“Madonna … Santa Maria Vergine … Oh, Madonna … Oh, Madonna … Santa Maria … Santa Maria …”, balbettava in lacrime Hironimo, ogniqualvolta quei puntini brillanti s’avvicinavano troppo a lui, circondandolo, tendendo le loro filiforme mani ossute. Vieni con noi! , parevano invitarlo, acuendo invece il terrore che paralizzava l’inerme patrizio, il quale per impedire d’addormentarsi aveva preso a mordersi le mani e le dita.

“Madonna … Santa Madonna … Oh, Madonna …” e puntualmente, come le bestie notturne rifuggivano il fuoco, quelle larve antropomorfe si rannicchiavano, retrocedevano, posticipavano l’assalto all’udire quelle singhiozzanti invocazioni.

Che cos’erano? Spiriti? Demoni? O i ricordi delle sue passate colpe?

Cosa volevano da lui? Si trovava all’inferno? Nella sua tomba? Era vivo? Era morto?

No! No! No! Non era morto, non era ancora morto!

Dilaniato da tali dubbi, Hironimo trascorse l’intera notte in sì angosciosa veglia, il nome della Madonna costantemente sulle sue labbra, l’ultimo appiglio per non affogare tra i flutti dell’eterna disperazione.

Confesso, confesso, confesso che …

… peccavi per superbiam in multa mea mala iniqua et pessima cogitatione, locutione, pollutione, sugestione, delectatione, consensu, verbo et opere, in periurio, in adulterio, in sacrilegio, omicidio, furtu, falso testimonio, peccavi visu, auditu, gustu, odoratu et tactu, et moribus, vitiis meis malis …

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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E dunque un finale col botto – anche per le mie coronarie, perché quest’ultima scena in piena notte l’ho scritta e giustamente al minimo rumore sobbalzavo, infilandomi sotto le coperte.

Questa versione del “Confiteor”, per quanto possa suonare grammaticalmente discutibile, appartiene però al IX secolo, quindi una tra le più antiche, e mi piaceva come ha riassunto tutti, o quasi, i dieci comandamenti violati.

Abbiamo ufficialmente terminato qui le digressioni del Nostro: ancora pochi capitoli e arriveremo alla fine della seconda parte del racconto.  Ci saranno sicuro altre riflessioni, ma veleggiamo verso vicende più dinamiche.

Mi sono divertita a scrivere questi “Confiteor”, pur soffrendo per il talora impietoso svisceramento dei personaggi, ma hé, il le faut bien! D’altronde, abbiamo parlato di trascorsi poco “onorevoli” e quindi era inevitabile mostrare i lati più turpi del protagonista e degli altri personaggi. Ma li amo lo stesso!

Piccolo angolo del pettegolezzo: Francesca Ordeaschi effettivamente fu l'amante di Agostino Chigi, quando questi si recò a Venezia nel 1511 e tanto lo ammaliò, che lui se la portò a Roma. Dopo ben cinque figli, nel 1519 i due si sposarono, la cerimonia celebrata dallo stesso papa Leone X. Chigi commissionerà a Raffaello Sanzio "Il trionfo di Galatea" e "Banchetto di Amore e Psiche" ed altri affreschi per il suo palazzo, onde celebrare l'evento. Purtroppo, Agostino morirà l'anno seguente e poco dopo la stessa Francesca lo seguirà, secondo alcuni avvelenata. Quindi sì, fortunata fino ad un certo punto XD

Quanto a Sebastiano del Piombo, andrà a Roma e si distinguerà come pittore e la sua "Dorotea" è stata identificata come il ritratto dell'Ordeaschi. Ed in effetti, ha la faccia un po' da furbetta. Come mai, poi, abbiamo detto che Chigi era libertino? Beh, suo amico fu niente di meno che Pietro Aretino e chi l'ha letto, conosce il suo pensiero sulle relazioni intime ...

In ogni modo, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] Sempre il nostro Sanudo riporta (25.03.1509): In questo zorno fu fato le noze di sier Jacomo Corner, di sier Zorzi, cavalier, procurator, in la fia quondam sier Orsato Morexini, quondam sier Francesco, in cha’ Nanni a San Trovaxo; heriede, dà di dotta ducati ... e più, et era da tutti desiderata.

[2] Malgrado la flotta più veloce e adatta a viaggiare direttamente sugli oceani, invece d’affidarsi alle carovane, i Portoghesi non riusciranno a capitalizzare le nuove rotte verso l’India, appunto per i problemi tecnici riportati nel capitolo. Nel 1550 ormai il monopolio del pepe era ritornato definitivamente a Venezia, grazie al sostegno degli Arabi che fornirono più spezie di quanto potessero fare i viaggi di Vasco de Gama. Fra’ Agostino d’Azevedo, nel suo rapporto al re di Spagna Filippo II, scrisse: “Il meglio delle Indie procede verso Venezia.” Nel 1596, malgrado lo sfruttamento delle Americhe, i commerci in Siria frutteranno alla Serenissima ben due milioni di ducati annuali, sbaragliando completamente la concorrenza portoghese, la cui sconfitta nei trasporti navali potrà dirsi completa.  

 [3] Celebre episodio biblico di #metoo alla rovescia. La moglie di Putifarre, l’egiziano cui Giuseppe era stato venduto dai fratelli, s’era invaghita dell’avvenente ragazzo, insidiandolo di continuo e proponendogli di andare a letto con lei. Giuseppe, invece, non voleva assolutamente far torto al suo padrone che tanta fiducia aveva riposto in lui, al punto da conferirgli in casa un’autorità seconda soltanto alla sua. Umiliata e stizzita dal secco rifiuto da parte del giovane, la donna, durante una colluttazione, afferrò la sopravveste di Giuseppe mentre egli scappava via, che usò per accusarlo davanti al marito di tentato stupro. Ovviamente, Putifarre credette alla moglie, facendo sbattere Giuseppe in carcere.

[4] Dal matrimonio di Marina Morosini in Marco Antonio Foscarini (1515) nascerà Andrea Foscarini (1519-1590), distintosi prevalentemente nell’ambito navale, sia come capitano di galee che come governatore  nel Collegio della Milizia da mar, provvedendo alla formazione della ciurma e all’armamento della flotta.

[5] tre colossi di Bamiyan = sono le tre statue di Gautama Buddha, nella valle di Bamiyan nel centro dell’Afghanistan, risalenti al VI – VIII secolo d.C. Queste tre gigantesche statue erano considerate la summa dell’arte buddista e gupta dall’India, con influenze degli imperi sasanide e  bizantino e del Tokharistan. All’interno dei colossi c’erano delle stanze affrescate. I tre Buddha vennero distrutti nel marzo del 2001 dai talebani per ordine del mullah Mohammed Omar che li aveva dichiarati degli idoli. Dal 2002 sono incominciati e, tuttora proseguono con enormi difficoltà, i tentativi di costruzione e di restauro, soprattutto dopo la scoperta di un’altra statua nel 2008, di un Buddha dormiente.

 

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Capitolo 31
*** Capitolo Ventisettesimo: 25 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 17.12.2021

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Capitolo Ventisettesimo

25 settembre 1511

 

“Dicono che i migliori uomini sono impastati di difetti, e per lo più divengono buoni per esser stati un po’ cattivi”

 

(W. Shakespeare “Misura per Misura”, Atto V, I)

 

 

 

 

 

Seduto sul balconcino di Ca’ Querini dei Conti di Stampalia ed Amorgo, il consigliere ducale sier Batista Morexini “da Lisbona” studiava a guisa di gatto i grigi e arrabbiati cirri provenienti dall’entroterra ed avanzanti prepotenti in direzione della laguna. Anche quel giorno avrebbe diluviato.

Sua figlia la contessa vedova madona Maria l’aveva invitato a colazione a casa sua, assieme al fratello Carlo, per confermargli il felice esito della missione affidatale. Non che suo padre avesse nutrito alcun dubbio sulla sua scrupolosità e soprattutto sulle sue doti persuasive – era pur sempre degna figlia sua – ciononostante, aveva ascoltato piuttosto soddisfatto quanto l’altero sier Francesco Contarini “dai Scrigni” fosse capitolato dinanzi alla civettuola richiesta di Maria d’aggiungere, nella missiva al suo contatto in campo francese, quella piccola “ciancia” a prova della fiducia assoluta, che la Signoria nutriva nei suoi confronti. Un innocuo pettegolezzo che, se ascoltato dalle orecchie giuste, avrebbe creato una valanga di sospetti impossibile da arrestare, trasformandosi da una supposizione mista a bugia ad un’inconfutabile verità.

L’idea era venuta al Minor Consiglio durante una seduta dei Pregadi verta a discutere sui recenti dispacci da Padova, nonché sulla testimonianza di Zorzi Plam, un prigioniero rilasciato dall’Imperatore e ovviamente sulle lettere scritte dal Re di Francia in persona, il suo regio corriere intercettato e condotto a Venezia per essere esaminato.

Si era scoperto che il destinatario di tale missiva era proprio il maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, cui Louis XII confidava i propri timori e scetticismi sull’alleanza con l’Imperatore Maximilian, il quale, a sua detta, non stava facendo nulla per accelerare le operazioni militari, interessato soltanto ai propri interessi, leggasi la conquista della Patria del Friuli e del Cadore, già preparandosi per quest’ultima il comandante Wilhelm von Roggendorf. Il Re di Francia, tuttavia, aveva aggiunto che soltanto in nome dell’onore e della sua fedeltà al patto della pur (formalmente) estinta Lega, egli spronava La Palice a porre una volta per tutte sotto assedio Treviso ma, allo stesso tempo, l’ammoniva che se detto assedio si fosse protratto oltre quattro giorni, il maresciallo allora era da lui scusato e poteva ritirarsi in Lombardia senza se e senza ma, e che il Re dei Romani se la vedesse da solo.

Zorzi Plam, dal canto suo, aveva riferito i seguenti fatti: condotto davanti a Maximilian I. von Habsburg, questi gli aveva rivelato la sua intenzione di svernare in Cadore, una volta terminata la conquista del Friuli;  dopodiché, l’Imperatore aveva aggiunto come avesse intenzione di licenziare i francesi presenti sia dalla sua corte che dalle sue milizie, incominciando dal governatore di Cividal di Belluno Jean D’Aubigny, e come volesse far pace coi Veneziani, ma questo serbando naturalmente i territori a loro sottratti, sottolineando come l’inimicizia tra loro sarebbe continuata in eterno, finché Maximilian non avesse terminato la conquista di quelle terre, sue di diritto. Sicché, pigliato Zorzi Plam per la barba, gli aveva intimato feroce di rivelargli quanta gente ci fosse a Padova e in particolare a Treviso e poiché l’uomo in tutta onestà lo ignorava, esagerò i numeri della guarnigione trevigiana e il Re dei Romani, intimorito da tanta potenza, aveva commentato quanto la Signoria avesse dovuto ringraziare i suoi stradioti, ché senza di loro Maximilian già avrebbe vinto quella guerra.

A Gradisca d’Isonzo, pur resistendo gagliardamente all’assedio postagli dagli imperiali, la peste stava flagellando inclemente la città-fortezza e fra poco si sarebbe giunti alla scelta del male minore, se morire tra atroci tormenti o se arrendersi e vivere qualche giorno in più.

Infine, dispacci da sier Christofal Moro e sier Polo Capelo avevano avvertito la Signoria di un probabile ricongiungimento tra Federico Gonzaga, stanziato a Verona, col parente Giovanni Gonzaga, invece a Vicenza, per poi congiungersi a Treviso all’esercito di La Palice e lì incominciare l’assedio, i Collegati ringalluzziti dai rapidi successi dell’Imperatore in Friuli e certi della prossima capitolazione della capitale della Marca, ritenuta incapace di difendersi dinanzi ad un sì possente esercito, formato da veterani delle più aspre guerre d’Italia.

Treviso, di nuovo tutto convergeva e si riassumeva in Treviso, replicandosi le medesime condizioni dell’assedio di Padova ed era interessante notare come quella città da più d’un secolo dimenticata dall’alta politica italiana, d’un tratto fosse divenuta la più ambita grazie al suo granitico rifiuto di sottomettersi.

“Sior Pare, credete che il piano funzionerà? In fin dei conti, quelle messe in circolazione sono soltanto dicerie prive di ogni fondamento …”, azzardò Carlo ad esprimere quel suo dubbio al genitore, verbalizzando l’occhiata inquisitiva sul volto della sorella, la quale condivideva uguali pensieri.

Sier Batista terminò il suo latte caldo con miele, acquavite e cannella, cedendo la tazza di ceramica ad una fantesca. “Il veleno, una volta in corpo, non si può più espellere e poco a poco, lento e inesorabile, lo corrode dall’interno. Quel che ci serve, tuttavia, è un ulteriore indebolimento di detto organismo per migliorarne l’efficacia …”

Al che il giovane Morexini schioccò la lingua, comprendendo d’un tratto il ragionamento paterno. “Qualora Franza e Alemagna dovessero fallire a Trevixo, non perderebbero soltanto un assedio, ma anche la faccia e ciò quegli altezzosi dei Franzosi non riuscirebbe mai a sopportarlo. Dopo Napoli, Millan, Forlì, essere sconfitti da un’anonima città senza né arte né parte come Trevixo equivarrebbe alla peggiore umiliazione, dimostrando come non siano poi così invincibili come credono. E appunto perché la loro protervia li acceca”, aggiunse con malevolo gusto, “che cercheranno un capro espiatorio onde giustificare la loro sconfitta e la troveranno nell’Imperatore, ai loro occhi inaffidabile e traditore. E il piano della Signoria è di soffiare su questo fuocherello, trasformandolo in un incendio.”

Suo padre annuì gravemente.  “La Marca è una terra strana: gaudente, bonacciona e in generale tollerante, ma se punzecchiata la sua gente diventa improvvisamente ribelle, agguerrita e sanguinaria al limite del barbarico. In più occasioni ce l’ha dimostrato, come se provocata non guardi più in faccia nessuno: pensate al loro vescovo, domino Bernardo de' Rossi, consegnato alla Signoria su di un piatto d'argento, felicissimi di saperlo al confino.”

Di tutte le più importanti città venete, effettivamente Treviso era rimasta la più fedele all’antico spirito comunardo e di fatti, tutte le famiglie nobili ch’avevano tentato d’instaurare nella Marca una signoria, nell’arco di una generazione – vuoi per sommossa popolare, vuoi per una guerra esterna – erano state puntualmente deposte e il loro ricordo cancellato, anche fisicamente come la demolizione dei loro palazzi signorili.

Sporgendosi in avanti, Maria gli domandò allora sottovoce: “Ciononostante, non comprendo: in questo cosa c’entrano gli Sforza?”, perché lei non aveva questionato alcun punto delle direttive paterne da suggerire per vie traverse al Contarini; nondimeno, questo non l’aveva esonerata dal nutrire qualche legittimo dubbio, sul perché riesumare quell’ormai putrescente cadavere di casato. “Non appartengono al passato? Quale peso possono ancora avere?”

“In tutto c’entrano, fia mia, e niente è impossibile, finché ancora respirano”, replicò sibillino il consigliere ducale, appoggiando su due dita la tempia e sorridendo sulfureo.

Durante la lettura dei dispacci di sier Moro e sier Capello, nei quali elencavano i comandanti al seguito di Federico Gonzaga, tra di essi era figurato il contino di Melzo, Galeazzo Sforza, figlio naturale del fu Duca di Milano, Galeazzo Maria e della sua amante Lucia Marliani. Ciò aveva scatenato una rapida serie di associazioni nella mente del “da Lisbona”: Galeazzo Sforza era nipote del fu Ludovico il Moro, i cui figli Ercole Massimiliano e Francesco si trovavano in esilio presso la corte dell’Imperatore, come a suo tempo in Alemagna s’erano rifugiati gli ultimi Scaligeri e Carraresi, cui era stato promesso supporto onde riconquistare lo Stato sottrattogli dalla Serenissima. Sier Batista aveva correlato gli eventi di allora a quelli attuali e li aveva piegati alla medesima logica, sostituendo gli Scaligeri e i Carraresi cogli Sforza e la Signoria con la Francia.

Era rimasto piacevolmente sorpreso nel constatare, quanto i suoi colleghi senatori avessero ragionato allo stesso modo e fossero all’unisono giunti a quella conclusione.

Francia e Impero, che tanto avevano sfruttato lo spirito fazioso dell’Italia per i loro interessi, a Dio piacendo sarebbero caduti nel medesimo errore e così sconfitti. Già la prima frattura nella Lega, dopo il suo formale scioglimento, l’avevano creata col Concilio di Pisa per eleggere un Antipapa e male avevano fatto a sottovalutare il sanguigno e volubile Giulio II, che come li aveva chiamati in Italia allo stesso modo poteva invocarne la scacciata. Alla Serenissima  rimaneva il facile compito di spingere la misericordia più a fondo, allargando la sottile crepa fino alla rottura definitiva.

Annusando a pieni polmoni l’aria pregna di quel sentore frizzante annunciante il temporale, il Morexini ripensò malinconicamente alle bonarie accuse di suo cognato il fu sier Anzolo Miani, il quale lo tacciava d’essere un pessimo perdente, non disdegnando il “da Lisbona” di barare sfacciatamente pur di darla sui corni all’avversario. Dunque, perché non convertire questo privato vizio in pubblico benefizio? Impero, Francia, Spagna, Roma, Mantova, Ferrara e Ungheria avevano loro per primi giocato sporco, in tanti contro uno e certissimi di una rapida vittoria, forti dei loro numeri.

Benissimo, avrebbero invece assaggiato la loro medesima medicina.

Più tardi, a discussione terminata e su direttiva del Senato, Missier il Doge Lunardo Loredan aveva approvato d’inviare missive a Roma, con duplice istruzione ai cardinali domini Domenego Grimani, Marco Corner e all’ambasciatore sier Hironimo Donado “dalle Rose” di mettere il Papa Giulio II alle strette così come dovevano pressare Don Jéronimo Vich y Valterra, oratore del Cattolico e l’arcivescovo di York Christopher Bainbridge, ambasciatore di Henry VIII Tudor d’Inghilterra.

E sempre a riguardo del regno d’oltremanica, si scrisse una lettera a sier Andrea Badoer, ambasciatore a Londra, per ottenere una risposta definitiva dal giovane e impetuoso re, il quale, malgrado le professioni d’amicizia verso Louis XII, scalpitava di mettersi militarmente alla prova. Fattore non trascurabile rimaneva che gli inglesi ancora possedevano Calais in Normandia e che la regina d’Inghilterra, Catalina d’Aragona, condivideva sotto-sotto il medesimo astio che suo padre, Fernando II, nutriva nei confronti dell’acerrimo rivale francese. Ora che il Cattolico aveva completato la conquista dei porti pugliesi, nulla gli impediva di puntare alla Navarra e i rafforzamenti delle fortezze catalane nel Rossiglione confermavano le sue intenzioni bellicose verso il suo attuale alleato nella Lega. Se re Fernando avesse dichiarato guerra a re Louis, la sua fedelissima figlia avrebbe onorato il patto d’alleanza tra Spagna e Inghilterra e avrebbe persuaso suo marito Henry a sbarcare in contemporanea a Calais per un doppio attacco, gli spagnoli a sud-ovest e gli inglesi a nord-est.

Ultimo ma non meno importante, furono le direttive a sier Alvixe Arimondi, ambasciatore a Costantinopoli, onde tener impegnato il Sultano, le cui truppe scorazzanti ai confini ungheresi stavano creando notevoli danni al Re d’Ungheria, lasciando a Wladyslaw Jagiellończyk  l’onore di trarre le sue conclusioni, quale fosse la sua priorità, se sottrarre alla Serenissima la Dalmazia o fronteggiare gli Ottomani alle porte di Buda. Stando poi a sier Piero Pasqualigo, oratore in Ungheria, il re Wladyslaw aveva inviato già un ambasciatore presso il Sultano per negoziare, ma, non tornando questi, ne aveva mandato un altro senza tuttavia alcun successo e dubitava fortemente in un aiuto dell’Imperatore e del Re di Francia, malgrado questi lo spronassero nella sua ostilità contro la Signoria, garantendogli il loro soccorso per conquistare la Dalmazia.

I Collegati della Lega di Cambrai aveva voluto la guerra e guerra avrebbero ottenuto, una guerra però totale, su tutti i fronti.

Venezia si sarebbe trasformata in una polveriera e avrebbe fatto saltare in aria l’Europa intera, trascinando con sé, se necessario, tutti i suoi nemici nell’abisso.

 

***

 

Seguendo l’eco delle campane cittadine annuncianti l’ora tredicesima del mattino, Fra’ Anselmo si ritagliò quei pochi istanti per una preghiera personale davanti alla preziosissima reliquia della Santa Croce, nella cappella detta appunto di S. Croce dell’Ospedale di Santa Maria dei Battuti. Accanto a lui, in ginocchio, orava un cupo Thomà, indossante abiti a lui più confacenti e dalla zazzera bionda accorciata, avendogli tagliato madona Maria Malipiero Gradenigo, durante lo disinfestazione dei pidocchi, le ciocche più impicciate e impossibili da pettinare.

Il benedettino, anche per tener fede alla promessa, aveva tenuto presso sé il fantolino, arruolandolo ad aiutare coi malati e gli stradioti feriti di ritorno dalle esplorazioni, nonché di rinsegnarli qualche preghiera in latino comprensibile o almanco in veneziano, in modo da distrarre il fanciullo dall’unico pensiero che lo tormentava.

Oramai, ammise tra sé e sé Fra’ Anselmo, erano trascorsi due giorni dal loro rocambolesco arrivo a Treviso; come di dovere, il frate aveva conferito con il podestà sier Andrea Donado “dalle Rose” e sier Zuam Paulo Gradenigo, riferendo loro come all’Abbazia si morisse di fame e che la mala compagnia dei franco-imperiali l’aveva spronato a fuggire. [1] Aveva aggiunto come il ponte fosse in mano agli imperiali e che da Conegliano, Oderzo e Collalto arrivassero nuovi rifornimenti al campo nemico, che tuttavia seguitava a patire ogni stento, in primis la pestilenza che falciava soldati in gran numero. Il frate s’era offerto poi volontario d’aiutare all’ospedale, giacché si sentiva sia un poco indegno di rientrare presso i suoi confratelli a Venezia (avendo infatti infranto la Regola disobbedendo al suo Abate) sia perché percepiva come un dovere morale aiutare la sua gente, dopo aver curato volente o nolente il nemico. Madona Maria Malipiero Gradenigo, moglie del Provveditore, s’era rivelata una valente collega, decisa ed energica quanto il consorte, la quale aveva organizzato marzialmente l’ospedale, reclutando chiunque avesse buona volontà e soprattutto fosse rimasto senza un tetto sopra cui stare. Al che Fra’ Anselmo era riuscito a convincere alcuni suoi confratelli più altri monaci e monache, novizi, oblati e converse di altre congregazioni rimasti sfollati, invitandoli a dar una mano all’ospedale e così formando una piccola truppa efficiente. Nondimeno, si continuava a sollecitare la Signoria d’inviare medici e chirurghi in vista dell’assedio.

Sicché, costantemente impegnato, Fra’ Anselmo talora perdeva di vista Thomà, eppure sapeva benissimo dove il bambino si recasse: tra gli ammalati, i fuggitivi, alle porte cittadine, in cerca del suo padrone, nella disperata speranza di rincontrarlo. Ed era una pena vederlo tornare la sera abbattuto e fosco in viso, nonché udirlo singhiozzare silenziosamente la notte.

Ora, il benedettino per assurdo credeva fermamente nei miracoli, tuttavia il suo lato razionale gli suggeriva che, dopo due giorni dalla separazione, le possibilità che Hironimo Miani fosse stato ricatturato rimanevano assai alte e Dio soltanto sapeva a quale destino il suo vendicativo carceriere, Mercurio Bua, l’avesse sottoposto. Il monaco poteva soltanto pregare che il giovane ex-castellano seguitasse a vivere.

Dispersosi nell’aria l’ultimo eco della campana, si sostituì quello acuto di una tromba. La testa di Thomà guizzò d’istinto verso la sua direzione, la fronte corrugata.

“Tranquillo: è il cambio della guardia”, liquidò Fra’ Anselmo la questione, ritornando alle sue orazioni.

“No”, lo contraddisse sorprendentemente Thomà, ponendosi in piedi. “Xéa ciamada pel i stralioti a ussir di le mura: qualched’on xé vegnuo vizin a Trevixo et i van a controllar!”

Un concitato scalpiccio di zoccoli sui sanpietrini confermò la teoria del fanciullo: una compatta colonna di stradioti si diramò, dal loro quartiere generale a San Martino, lungo le vie della città, uscendo da Porta Altinia, Porta San Tomaso e Porta Santi Quaranta, quest’ultimi ricongiungendosi con la compagnia di Teodoro Paleologo, alloggiato nell’omonimo monastero.

Segnatosi in fretta, Fra’ Anselmo e Thomà uscirono dalla porta della cappella che dava sulla strada e il monaco rimase sinceramente impressionato dalla bravura del ragazzino, il quale da quasi un anno viveva tra i soldati e pertanto aveva imparato a distinguere ogni loro mezzo di comunicazione. Infatti, era stato uno dei pochi a non essersi preoccupato quando il provveditore Gradenigo, Renzo di Ceri e Vitello Vitelli avevano ordinato una serie di esercitazioni, appellando i soldati alle loro postazioni, come se ci fossero già i franco-imperiali sotto le mura. Li avevano fatti indossare delle fasce colorate al braccio e li avevano mescolati tra di loro nelle varie compagnie: in questo modo, tutti i soldati presenti a Treviso avevano finito per imparare le rispettive facce a memoria, impossibilitando la presenza di spie esterne o ogni possibilità di diserzione.

Nonostante i solidi preparativi per l’assedio, tuttavia nella città si respirava un’aria pesante, le notizie dell’inarrestabile avanzata tedesca nella Patria del Friuli esercitante un’ulteriore pressione sui suoi difensori, eppure la voglia di combattere aumentava esponenzialmente all’avvicinarsi dei Collegati.

“Fra’ Anselmo”, gli annunciò d’un tratto Thomà una sua decisione a lungo meditata, “mi vago coi bombardieri, a smissiar par eli ea polvare da sparo!”

La testa del benedettino scattò incredula nella sua direzione. “Matto!”, esclamò egli stupefatto. “Quali scempiaggini vai blaterando? Non ci troviamo mica a Quer, dove ogni creatura dotata di braccia e mani serviva, no sastu?”, lo rampognò severo, temendo che il piccoletto si cacciasse in qualche guaio nonché apprendesse il malcostume dei soldati. “Adesso rientriamo, ché mi devi aiutare coi malati ed i feriti!”

L’anziano monaco s’apprestò a pigliare il fanciullo per il braccio, sennonché questi gli scansò in uno schiaffo la mano, portandosi al centro della strada. “Mi no voggio ajudar ni  malai ni feridi! Mi voggio copar franzosi e todeschi! Mi voggio spedirli tuti a l’inferno, quei cancari di diaoli!”, pestò Thomà il piede per terra, testardissimo. “Li odio! Li odio tuti!”, gridò, correndo via in direzione degli squeri lesto come una lepre e il povero frate, rallentato dalla tonaca e dall’età, non riuscì né a riacchiapparlo né a stargli dietro, perdendolo facilmente.

Un bambino di dieci anni non dovrebbe proferire tali parole, si dolse Fra’ Anselmo, mentre cercava in affanno la nota testolina bionda tra il concitato viavai di soldati, guastatori, genieri e bastasi. In che razza di mondo stiamo scivolando, dove salvare una vita diviene meno importante di dare la morte?

Al porto, intanto, un mogio e livido Marco Contarini “dai Scrigni” s’apprestava a salire sul burchio, che l’avrebbe condotto a Venezia. Il suo viso lungo appariva doppiamente affilato dalla magrezza derivatagli dalla malattia, nonché un sottile strato di sudore gli rendeva la pelle pallidissima quasi trasparente, arrossata dal vento sferzante post-temporale. I cirri grigio fumo tuttavia seguitavano a rimanere ben ancorati in cielo, coprendo il sole, e i vogatori avevano fretta di partire, anticipando di qualche ora il secondo acquazzone.

Il ragazzo si stropicciò per l’ennesima volta gli occhi arrossati e brucianti, mentre l’altra mano si sorreggeva al braccio di Marco Miani. Dietro di loro, li seguivano silenziosi Nicolò Donado “dalle Rose”, cugino del Contarini ch’avrebbe viaggiato con lui, Donado Cimavin e madona Helena Spandolin Miani.

“Siete sicuro, di non voler portar seco le vostre robe?”, gli chiese il Miani per l’ennesima volta, alludendo al piccolo cassone che il “dai Scrigni” aveva lasciato a casa dei Cimavin.

Il patrizio più giovane annuì stancamente. “Ho viaggiato leggero e quelle poche mie cose potrebbero servire al Momolo”, aggiunse, alludendo ai vestiti e anche alla sua armatura. A parte la casacca nera sciallata sotto il mantello e la bereta da lui indossate, il Contarini cedeva ben volentieri quei suoi averi all’amico fraterno, nella speranza che questi fungessero da portafortuna, velocizzando la sua liberazione. “E’ il solo modo di contribuire che mi resta …”, mormorò amaro, maledicendo la febbre che gli ammorbava il corpo e lo rendeva inadatto a combattere. Fino all’ultimo aveva resistito e celato la sua malattia, purtroppo essa l’aveva sopraffatto al punto da stramazzarlo al suolo neanche un paio di giorni addietro, rivelando di conseguenza il suo segreto. Marco allora aveva compreso che non poteva più restare a Treviso, sia perché un’inutile zavorra sia perché avrebbe rischiato di contagiare i suoi compagni, assottigliando le fila di uomini a difesa della città.

Sussisteva un bene superiore alle sue egoistiche velleità di gloria e onore.

Cacciando via la malinconia alla menzione del fratello, Marco Miani appoggiò la mano sulla spalla del “dai Scrigni”, costringendolo a guardarlo in faccia: “Nessuno vi sta biasimando. Avrete altre occasioni e altri modi per servire la Signoria”, lo consolò bonario, fino a strappare nel ragazzo un sorrisetto assai tirato. Si era trasferito da Padova per unirsi alle truppe a Treviso per poter ricongiungersi  ad Hironimo, ché il Contarini non aveva mai dubitato di rivederlo libero. Con lui al suo fianco, egli non temeva nulla.

“Avrei tanto voluto riabbracciarlo …”, mormorò tra sé e sé il ventiduenne patrizio, stringendo convulsamente i lembi del mantello.

“Cosa?”, strabuzzò gli occhi il Miani, la fronte aggrottata.

“Dovessi rimettermi prima dell’assedio, non dubitate che ritornerò a Trevixo”, dichiarò solenne Marco, accettando la mano di suo cugino germano Nicolò, salito nel frattanto sul burchio. S’ingamberò un poco, le gambe instabili, aggrappandosi saldo al parente.

“E noi vi aspetteremo”, convenne Marco Miani. “Tranquilla sia l’onda e mite il vento. Fate buon viaggio”, gli augurò di cuore, sporgendosi in avanti abbastanza da stringere velocemente la mano tesa del Contarini.

“Se avete occasione di passare da mia sorella, madona Chiara Spandolin Trivixan, porgetele i nostri saluti e ditele, che sempre preghiamo la Despina Panaghia per la salute di suo marito”, si raccomandò Helena, preoccupata per la sorte del cognato sier Nicolò, anch’egli ripartito ammalato per Venezia.

“Non mancherò”, le promise Marco. “Grazie mille dell’ospitalità”, disse poi a Donado Cimavin, il quale si portò una mano al petto, chinando brevemente il capo e confermando implicitamente l’ultima disposizione del ragazzo, di cedere i suoi averi ad Hironimo. La siora Felicita già si trovava d’accordo di tenerli da conto, l’intera casa convinta di riabbracciare presto l’ex-castellano di Quero e orando incessantemente per lui.

Si levarono gli ormeggi, mentre il pope gridava secchi ordini agli sbuffanti rematori e il provier determinava la cadenza della vogata, girandosi pigramente il burchio, cullato dalla duplice corrente del Sile e del Cagnan. Le pale dei remi sferzavano e sollevavano sopra e sotto la superficie verde scuro in un continuo fruscio d’acqua, accompagnato dalle esclamazioni d’incitamento dei vogatori e l’imbarcazione, raddrizzatasi, acquisì propulsione e imboccò la giusta direzione per il suo lungo tragitto fino alla laguna. Lentamente, il molo e le mura circostanti si rimpicciolirono, così come Marco Miani, sua moglie Helena e Donado Cimavin si trasformarono in piavoletti, le braccia mulinanti in alto a mo’ di saluto, l’unico tratto distinguibile della loro identità.

Marco Contarini abbandonò in fretta la poppa, portandosi verso prua, incurante del vento più forte e una volta lì sollevò discreto un lembo del suo mantello, acciocché né il cugino Nicolò né il provier e la sentina potessero scorgervi le amare lacrime di delusione mescolarsi a quelle provocategli dalla malattia. Una piccola vertigine gli scombussolò l’equilibrio e fortunatamente il suo germano lo pigliò in tempio, ante che cascasse in acqua.

“Su, venite dentro”, lo condusse Nicolò per le spalle, costringendo il ragazzo a sedersi nell’accogliente ma affollato interno del burchio. “Vedrete che una volta a casa vostra, guarirete prima!”, tentò di consolarlo.

Avvolgendosi col mantello fin quasi all’orecchie, il “dai Scrigni” scrollò incurante le spalle, chiuse gli occhi e s’affidò alle cure lenitive del sonno, che lo strappassero per qualche ora dalle sue frustrazioni e dai rimpianti.

“Parlava come se il Momolo dovesse presentarsi a Trevixo da un giorno all’altro”, commentò atono Marco Miani, seguendo la sagoma scura e sempre più indefinita del burchio allontanarsi e poi svanire alla prima curva. S’avvolse il mantello a mo’ di toga fin sulla gola, rabbrividendo al contatto dell’armatura raffreddata dal vento settembrino. “Cosa sa ch’io invece ignoro?”, si domandò, sottolineando il pronome personale con malcelato livore, imbevendolo di quella sottile e irrazionale gelosia che gli scattava ogniqualvolta vedeva interagire il fratello col giovane Contarini, sentendosi infatti Marco spesso scalzato dal suo omonimo negli affetti del minore. Lui aveva visto crescere Hironimo, conosceva i suoi lati positivi quanto quelli negativi e ciononostante, il “dai Scrigni” sembrava sempre essere a due passi avanti di lui, quando si trattava di decifrare l’animo dell’amico.

Frustrante e fastidioso invero.

“Forse Marcolin semplicemente nutre più fiducia in nostro fratello, che riuscirà a trovare il modo di scappare”, gli confidò Helena, dirigendosi assieme al marito verso il suo cavallo, Aíthon. Perfino Eòo, chissà per quale capriccio nella sua testa equina, s’era rifiutato di lasciarsi cavalcare quella mattina, rimanendo testardo nelle stalle del Castello e manco per riposarsi o ruminare biada. Sicché Marco aveva dovuto riprendersi il suo destriero, nero e dalla muscolatura più possente rispetto all’agile corsiero bianco latte.

Il Miani era giunto direttamente dal Castello, non appena il suo turno di guardia era terminato, in modo da non perdersi la partenza del Contarini e d’accertarsi che la moglie non s’imbattesse in qualche birbo malnato: non che dubitasse della scorta di Donado Cimavin, ma la prudenza non era mai troppa, considerato che l’ultima volta che la greca se n’era andata in giro senza di lui, per poco non si faceva accoppare da quei ladri dei soldati del Bataja.

“Sono già trascorsi due giorni”, ribatté cupo Marco, accarezzando il muscoloso collo di  Aíthon, che fremette sotto il suo tocco. “Quel monaco, Fra’ Anselmo, m’ha raccontato di come si siano separati nel bosco del Montelo. A quest’ora, anche se Momolo si fosse perso, i nostri esploratori l’avrebbero in qualche modo recuperato. Invece …”, e il patrizio tacque, mordendosi l’interno della guancia. “Se soltanto Gradenigo m’avesse permesso d’andare in ricognizione quel giorno …”

“Dobbiamo soltanto attendere: vedrai che tornerà presto!”, gli pose Helena una mano sulla guancia ruvida d’un accenno di barba. “Non è morto”, reiterò inflessibile, guardandolo dritto negli occhi.

Digrignando i denti, Marco sibilò allora: “Perché dunque quelle sue parole? Perché mi ha parlato come uno che sa per certo di morire?”

“Hieronymos voleva soltanto riconciliarsi con te. Ambedue eravate in collera, non stavate ragionando e di sicuro nessuno di voi pensava veramente, ciò che vi siete urlati contro.”

“Abbiamo litigato a fine gennaio e per quasi due mesi l’ho ignorato”, precisò aspro Marco, sordo ad ogni tentativo della moglie d’acquietare i sensi di colpa. “Neanche mi sono presentato a salutarlo, quand’è partito per Castel Novo di Quer. E in quei cinque mesi, invece di tendergli una mano, invece di consigliarlo e magari aiutarlo, l’ho lasciato a sbrigarsela da solo, malgrado stesse commettendo una grossa sciocchezza a litigare coi soldati e i locali, arrivando perfino a denunciarli ai Dieci!” Sapeva che Hironimo non s’era comportato così aggressivamente per cattiveria, bensì perché Castelnuovo di Quero era stato devastato dagli scontri degli ultimi due anni e ogni giorno contava più dell’oro per riedificare e potenziare la fortezza. Solo, questa priorità egli l’aveva comunicata nel peggiore dei modi alla stremata e intimorita popolazione di Quero, Alano e Vas, da lui brutalmente precettata per i lavori di ricostruzione. “Avrei dovuto intervenire, portarlo a ragionare e invece che ho fatto? Sono stato a guardare e a compiacermi delle sue difficoltà. Non io, bensì sier Zuam Dolfin e sier Nicolò Balbi l’hanno aiutato.”

“Erano i podestà di Feltre e Cividal di Belluno, ovvio ch’erano i più indicati. Márkos”, lo interruppe decisa Helena, afferrandogli il volto con ambedue le mani e costringendolo a fissarla ben bene, “potremmo andare avanti così per tutto il giorno. A che pro fustigarsi? Il tempo non si riavvolge e, come sostiene il tuo avunculus, il passato è il passato e non possiamo sottrarci al futuro. Non hai soccorso allora tuo fratello, lo farai ora. Hieronymos non t’ha chiesto perdono allora, te l’ha chiesto adesso. I nostri errori non ci soffocheranno mai, fintanto che possiamo porvi rimedio. Ora l’occasione è giunta e su di essa ti devi focalizzare. La vita è troppo breve, per rimpiangere e pontificare su ciò che non possiamo più cambiare!”, dichiarò energica.

Non visto, protetti dai portici e dalle strette viuzze, Marco l’abbracciò forte, affondando il viso sul morbido incavo della sua spalla. “Megaleío. I zoí mou s’agapó”, mormorò piano e affranto, abbandonandosi al calore della dolcezza e comprensione d’Helena, delle quali, lo ammetteva, spesso si sentiva indegno per tutto il male fattole in passato. Non meritava d’avere una donna così al suo fianco, eppure Dio misericordioso gli aveva concesso una seconda possibilità. Avrebbe ripetuto il miracolo, permettendogli di porre rimedio ai suoi sbagli nei confronti del fratello minore?

“Forse avresti dovuto partire assieme a Marcolin per Veniexia. Il suo potrebbe oggi esser stato uno degli ultimi burchi a partire”, confidò di punto in bianco Marco ad Helena, rimanendo sempre avviluppato nell’abbraccio di lei. “Questo assedio potrebbe … ed io non sopporterei il saperti …” e non riuscì a definire a voce alta quei timori, che l’assillavano all’appropinquarsi delle truppe nemiche a Treviso. Di notte, infatti, l’ansia della sconfitta gli levava il sonno, presentandogli orridi scenari della città fluviale invasa dai Collegati, di massacri, di stupri, di devastazioni. Nello zenit di questi incubi, si vedeva raggiungere Helena e ucciderla di propria mano, piuttosto di saperla vergognata e schiava di quei cani stranieri.

“La Parthena Maria è qui per aiutarci”, ripeté ostinata la greca le medesime parole pronunciate dai Trevigiani a difesa dell’affresco miracoloso, salvato in extremis dalla loro bellicosa devozione. Il suo sguardo fiducioso contagiò un poco il marito, dissipandone i foschi dubbi. “Ti ricordi, come ci protesse e ci garantì la vittoria due anni addietro a Padova?”

Accidenti se il Miani se lo ricordava. In quei giorni febbrili e sanguinosi, una monaca si era presentata inaspettatamente a Palazzo della Ragione, chiedendo del provveditore sier Andrea Griti. Concessale udienza, ella gli aveva rivelato d’aver avuto una visione, nella quale la Madonna, apparsale, esortava d’inviare al suo santuario a Loreto un modellino d’argento di Padova del valore esatto di cento ducati, né più né meno. Soltanto così la città avrebbe trionfato contro i suoi nemici. Sier Griti – seguace del paradosso Credo quia absurdum – non aveva né dubitato né tentennato e di tasca propria aveva adempiuto a quel voto, informando subito Venezia del singolare accaduto. [2]

“L’anno addietro – ti ricordi? – i Tedeschi avevano tentato di sfondare la porta della chiesa di San Lorenzo a Feltre – là dove si trovava quell’antica immagine della Parthena Maria  - per saccheggiarne gli altari e uccidere quegli sfortunati, ch’ivi s’erano rifugiati. E invece, né le armi da fuoco sono riuscite a sfondare il portone né l’incendio a bruciare la chiesa!”, gli fece presente la greca, insistendo. “Sin dall’inizio di questa guerra, la Parthena Maria ci ha dimostrato che, malgrado tutto, anche la scomunica, Lei continua ad intercedere per noi presso Theos. Non ci abbandonerà. E vedrai che ci manderà un altro segno, a prova che Treviso non cadrà in mano dei Collegati!”

Un segno … Sì, ecco forse ciò che la città e i suoi abitanti aspettavano apprensivi: un segno, un qualsiasi cenno di favore di Dio e della Madonna verso di loro, la conferma di protezione contro la minaccia nemica. E non chiedevano nulla d’eclatante, anche una piccolezza ma comunque divina, inspiegabile se non tramite la fede. Avevano bisogno della certezza di non esser stati abbandonati, di combattere per una giusta causa.

Marco dischiuse le labbra per replicare, sennonché proferì tutt’altro: “E tu che ci fai qui?”, chiese accigliato alla figuretta comparsa quatta-quatta alle spalle della moglie.

Thomà si bloccò improvvisamente, come il gatto pizzicato a sottrarre il pesce dal banco del pescivendolo, anch’egli la bocca spalancata, un “Patron!” congelatosi in gola. Piegò a trombetta le labbra e, fatto dietrofront, s’apprestò a fuggir via, sennonché il Miani fu più lesto e l’acchiappò per il collo della casacca, costringendolo a fronteggiarlo. “Chi sei? E cosa vuoi da noialtri?”, l’apostrofò severo l’uomo, abituato già a Venezia alle ruberie di quei giovanissimi accattoni.

“Mi sun nissun, patron”, balbettò il fantolino, intimidito da quello sguardo inclemente e ciononostante sempre più famigliare. Infatti, per un istante aveva creduto … “No gh’ho fato gnente, mi. Gero qua a … a farme i fati mìi, patron, veo zuro su la Croxe Sancta!”

Aggrottando la fronte e studiando accorta i lineamenti del volto del fanciullo, madona Helena esclamò: “Oh, ma tu sei l’assistente di Fra’ Anselmo!” e rivolta al marito. “E’ giunto due giorni addietro, tra i fuggitivi, alloggia in ospedale assieme a noi. Che ci fai qui da solo? Non dovresti essere col tuo magister?”

Se il tono della greca appariva dolce e conciliante, quello di Marco al contrario suonava duro e accusatorio, così come la strizzata all’orecchio che si pigliò il ragazzino. “An, bravo ti! Mi menti pure! Varda a contarme la verità, o ti scuoto a testa ingiù finché non mi sputi le budella!”

“Márkos! Lo spaventi, povero pulcino!”

“Avanti, canta canarino!”

“Patron, per caritade, no me strupiate ea recia!”, pigolò Thomà, liberandosi dall’inflessibile stretta del patrizio, correndo a ripararsi dietro la più sicura sottana di Helena. “La patrona la gh’ha rason, mi sun vegnuo qua co la zente fuzita dil Montelo, perhò no vesto frate come el Fra’ Anselmo. Mi me ciamo Thomà di Feltre, fio dil Vitor El Marangon, et arlievo dil valentissimo Andrea Trepin di Vitor, bombardier, morto virilmente a Castel Novo di Quer” e mentre parlava, l’antica tracotanza riempì il corpicino del giovinetto, che si portò avanti, mettendosi in punta di piedi per sembrare più alto e importante. E tirando fuori il petto, annunciò solenne: “Et co’ no smissio polvare, mi me poxo anca vantar de ser el servidor dil mio patron, el magnifico sier Hironimo Miani dil nobeliximo cu-on-tam sier Anzolo, castelan de Quer, sença il qual ajudo, mi no saria qui a parlarve!” e detto questo tornò a rifugiarsi dietro madona Helena, poiché doveva aver in qualche oscura maniera offeso l’altro patrizio, se questi aveva assunto un’espressione terribile, allungando il braccio per acchiapparlo di nuovo.

“Oh!”, si coprì invece la bocca la greca, ricordandosi di quanto ascoltato dalle due contadine fuggite anche loro da Nervesa. “Tu sei il ragazzino che stava con lui, vero?”

“Patrona!”, s’appellò supplice Thomà, abbracciandole le ginocchia e baciandole il bordo della gonna. “Mi sun stà ladro, xé ver, perhò solo verso i franzosi e todeschi, i quali no xéi cristiani. No ruberave gnente a vuialtri. Mi gh’ho visto el vuostro sior marido co i colori dil mio patron e squasi el muso igual. Xéli do zorni che mi gheo zerco, che mi gheo speto: el patron me gh’ha promesso de tornar a Trevixo e mi ghe credo, perché senpre el gh’ha mantegnuo le soe promesse!”

La nobildonna scoccò al consorte una lunga e significativa occhiata, imponendogli la calma e d’abbassare il braccio, acciocché il fantolino non temesse una sua reazione negativa e raccontasse indisturbato l’intera vicenda. “Thomà”, invitò il fanciullo ad avvicinarsi a Marco, posandogli incoraggiante due mani sull’esili spalle. “Nessuno ti accusa di niente, anzi, è naturale che tu abbia scambiato mio marito per il tuo padrone: sono fratelli.”

“Fradeli?”, spalancò incredulo le fauci il giovinetto, manco si fosse trasformato in una Bocca di Leone. “Seu el magnifico sier …?”

“Marco Miani”, completò per lui il patrizio, cambiando impaziente peso da una gamba all’altra. Il cielo s’era chiuso nuovamente e la luce, malgrado l’ora mattutina, sparita manco fosse giunto in anticipo il crepuscolo, annunciante un secondo temporale. “Sicuramente il tuo padrone non avrà avuto tempo di …”

“… el mio patron me parlava di tre fradeli, perhò no cognossendove de fazza, donca no savevo dir chi - tra el Marco, el Carlo et el Lucha -  vuj geravate”, gli spiegò serissimo Thomà, interrompendolo. E ricordandosi improvvisamente delle buone maniere, il fantolino s’inchinò fin quasi a baciarsi le ginocchia, asserendo enfatico: “Lustrissimo a me rebuto a la vuostra clemenza!”

Marco venne colto da due sentimenti contrastanti, se roteare snervato gli occhi dinanzi a tanta pacchiana deferenza o se asciugarseli dalla subitanea commozione, d’esser stato nei pensieri d’Hironimo anche durante la prigionia, se quest’ultimo li aveva indirettamente presentati a quel piccoletto. E a proposito di quest’ultimo, stentava a credere che suo fratello si fosse preso a cuore la sua sorte, guadagnandosi una devozione quasi filiale da parte di Thomà, che lo descriveva alla stregua del miglior cavaliere del mondo, manco fosse uscito dal Roman de Troie.  

Onde tagliare la testa al toro e conservare asciutta la testa, il Miani optò saggiamente d’incamminarsi verso l’ospedale e lì proseguire la conversazione. “Seguici”, invitò spiccio il ragazzino, il quale si portò accanto a madona Helena, giudicandola più sicura del marito, anche perché avvezzo all’incostanza del caratteraccio miano. “Ti riporto da Fra’ Anselmo. Dopodiché tu mi racconterai per filo e per segno ogni cosa capitata a mio fratello. E non risparmiarmi alcun dettaglio! Capistu?”

“Siorsì!”, si mise quasi sull’attenti Thomà, felice di poter costì aiutare il suo benefattore, riferendo quanto visto e udito nell’accampamento e nell’Abbazia. Nessuno l’aveva interrogato perché mai si dava credito all’affidabilità delle parole dei bambini, eppure il fanciullo possedeva una memoria prodigiosa nell’enumerare i torti subiti.

Quanto a Marco, oltre che ad apprendere in quali condizioni si trovasse Hironimo l’ultima volta che lo si era visto vivo e vegeto, voleva conoscere esattamente a quali tormenti  Mercurio Bua l’aveva sottoposto, così da restituirglieli settanta volte sette al primo scontro.

 

***

 

Le bisbiglianti ombre, il loro tapetum lucidum e il loro sinuoso e frusciante scivolare lungo i muri, fin quasi a giungere a sfiorarlo, scomparvero tutti all’improvviso in sordi e rancorosi ringhi e Hironimo intuì che doveva esser ormai giunto il mattino e ch’era sopravvissuto ancora per qualche tempo a quella prigionia di buio totale e solitudine.

Rannicchiato seduto contro uno scomodo angolo, le ginocchia portate al mento, il giovane patrizio si guardò furtivamente attorno, gli occhi gonfi e pesanti dall’insonnia, la testa riempita di cotone da quanto gli pulsava. Appurò che gli unici rumori percepiti dalle sue orecchie – rumori tangibili, vivi, non sovrannaturali – corrispondevano alle gocce d’umidità filtrante dalle vecchie pareti, gli squittii dei delusi ratti lì pascolanti e il gorgoglio del suo rabbioso stomaco, preoccupatissimo di quella Quaresima anticipata.

Il Miani s’umettò a fatica le labbra secche e crostose dai morsi datisi, per forzarsi alla veglia e non lasciarsi sopraffare da quelle ombre spaventose. Ad ogni colpo di tosse la gola gli pizzicava, ricordandogli della sua disidratazione e di fatti egli non si sovveniva dell’ultima volta, ch’aveva bevuto dell’acqua. Lentamente, il giovane uomo staccò le mani gelide dai polpacci, arricciando le altrettanto fredde dita dei piedi divenutigli insensibili. Stiracchiò cauto una gamba, sentendo scrocchiare l’anca e poi l’altra. Aggrappandosi ad un’irregolarità del muro, Hironimo s’alzò incerto, tentando piccoli passi e stringendo i denti dal dolore ch’attraversava in un sol fascio l’intero suo corpo, denutrito, malmenato e intorpidito. Almeno, magra consolazione, i suoi occhi un poco s’erano abituati all’oscurità, sebbene non rendendogli per niente la sua cella meno spaventosa, al contrario, presentandogli i suoi sgraditi ospiti con maggior nitidezza.

Hironimo mosse il piede, avanzando di un passo verso la porta, là dove aveva intenzione di battere fino a scorticarsi la pelle, reclamando a viva voce dell’acqua. Volesse il Cielo, qualcuno forse avrebbe esaudito quella sua impellente necessità.

Invece, neanche avesse avuto un piede caprino, il giovane incespicò e cadde rovinosamente per terra, i suoi riflessi rallentati dalla malattia e dal digiuno forzato. Guaì sfinito all’impatto del suo ginocchio, della spalla e del braccio per terra, aggiungendosi alle altre costanti e lancinanti fitte. Spossato, neanche provò a rimettersi in piedi, accoccolandosi sul fianco e lasciando ch’accadesse quel che doveva accadere.

Quando il ragazzo riuscì ad aprire gli occhi, innanzitutto il suo corpo era pervaso da un dolore nuovo, bruciante, accompagnato da un fastidiosissimo prurito e mal di stomaco. In secondo luogo, il buio era scomparso, mitigato da una soffocante semioscurità: sopra di sé egli riconosceva un tetto di canne palustri, delle erbe appese e un grasso odore terroso gli riempì le nari, misto a paglia, latte, funghi, salumi, fumo …

Un viso olivastro gli si parò innanzi, contornato da riccioli scuri a malapena trattenuti da uno stretto velo bianco. “Resisti finché te pol”, lo istruì la donna e con delle pinze estrasse delle braci dal fuoco, che mise dentro un pitale pulito. Posizionò questi tra le due sedie sopra cui Hironimo era disteso senza camicia, lasciando la scia compatta di vescicole violacee lungo il dorso ben esposta al calore proveniente da sotto. “Ti te xé el puto pì corajoso, che mi cognossa!”, gli accarezzò la guancia la baba curandera, le sue dita scure e nodose più delle radici degli alberi e come tali odorose di humus e verzura. Dopodiché, inginocchiatasi, ella prese a soffiare sulle braci.

Momolo strinse i denti, tirando su col naso e s’irrigidì onde dar prova di virile audacia. Da giorni quelle bolle gli avevano provocato febbri, crampi allo stomaco, nonché una voglia matta di grattarsi e non vedeva l’ora di disfarsene, anche per poter ritornare a dormire in camera coi suoi fratelli o coi genitori, esiliato infatti in una stanzetta, onde non contagiare nessun’altro a Ca’ Miani.

“Resisti. El fogo va varirte: el va sugàr (asciugare, ndr.) le papule, che van farse en bronse!” (croste, ndr.)

Il pigolante fantolino annuì, il labbro inferiore che gli tremava violentemente dall’intima paura e, man mano che trascorreva il tempo, dal bruciore provocatogli dai bollenti vapori provenienti dalle braci. Avvertì le prime lacrime inumidirgli gli occhi, la pelle arrossarsi e i nervi pizzicargli imbizzarriti da quei dolorosi stimoli. Inconsciamente, prese ad anguillare via, sennonché la mano robusta della baba curandera lo bloccò, intimandogli di pazientare e di rimanere fermo.

Invece d’assuefarsi al calore, esso acuiva il malessere già provocatogli dalle gonfie vescicole, asciugandole e seccandole ma così anche scottando la carne sana lì accanto. La donna seguitava a soffiare imperterrita, la pelle color cannella resa ancora più scura dalle ombre gettatele dal caminetto alle sue spalle. La mente atterrita e sconvolta di Momolo la scambiò allora per una di quei diavoli bluastri, ch’aveva contemplato sul mosaico di Santa Maria dell’Assunta a Torcello e gli parve di soffrire la medesima pena dei condannati all’inferno, rosolati lentamente e a puntino per l’eternità.

Una vampata particolarmente bollente ruppe l’ultima fibra di resistenza in Momolo, il quale prese a scalciare e ad agitarsi, frignando dolorante e spaventato da tanto male. “Brucio! Brucio!”, gridò, mentre la baba curandera gli afferrava le caviglie, impedendogli che per azzardo mettesse il piede dentro le braci. “Tata! Tata! Mi fa male! Mi fa male! Tata!”, singhiozzò, allungando le braccia al cielo, aprendo e schiudendo i pugni, in attesa d’essere preso in braccio.

La mano grande e forte di Padre avvolse la sua piccolina, mentre la sua testa veniva appoggiata sul ginocchio paterno. “Sono qui”, lo rassicurò e la visuale di Momolo venne coperta solamente dal viso di Anzolo, seppur rovescio.

“Tata!”, aumentò il bambino la stretta, conficcandogli le unghie nella carne. “Tata, brucia tutto! Brucia come l’inferno!”

Suo padre scosse il capo. “No, non è l’inferno: questo è il dolore prima della guarigione. Resisti ancora un poco. Sei così bravo, così coraggioso …”

“Mi fa tanto, tanto male, Tata!”, pianse Momolo, rifugiandosi nella carezza paterna sulla guancia. “Mi sembra di bruciare vivo! Mi sembra … mi sembra d’essere una di quelle anime dannate a Torzelo!”

L’uomo lo guardò a lungo, scostandogli la frangia umida di sudore dalla fronte e dagli occhi umidi. “Pensa alla Madonna. Te la ricordi? Nel catino tutto dorato della basilica a Torzelo. Grande, maestosa, tutta bella avvolta dal maphorion blu.”

Il fantolino deglutì affranto, aggrottando la fronte e sforzandosi di ricordare l’immagine evocata dal genitore. Scandagliò nella sua memoria, s’impose di trovarla e quando la Vergine Odigitria gli riempì gli occhi, Momolo s’aggrappò alla vesta paterna quanto il Bambino a quella di sua Madre. “Sì!”, asserì trionfante. “Me La ricordo!”

“Concentrati su di Lei”, lo istruì Padre. “Odigitria, dal greco, vuol dire: Colei che conduce e che mostra la direzione. Lei ti guiderà sulla strada della guarigione, oggi, ma un domani, quando ti sentirai perduto o non saprai quale cammino intraprendere, pensa a Lei e a Lei soltanto e non ti perderai mai.”

Momolo prese un profondo respiro e, stringendo il braccio del genitore al petto, chiuse gli occhi e fermò l’immagine nella sua mente, serrando i denti allo scottante vapore. Quand’ecco che li riaprì interdetto, avvertendo l’arto di Anzolo farsi più inconsistente, scivolandogli via leggero. “Tata?”, inquisì disorientato, non comprendendo perché i contorni del viso di Padre si stessero muovendo e colorando di verde, quasi lo stesse contemplando da sott’acqua. “Tata?”, ripeté ansioso, cacciando fuori un urletto sorpreso dinanzi al balzo nervoso di una guizzante pinna, seguito dal sibilo di una freccia.

“Ha-ah! Te gh’ho ciapà, cancaro d’on pesse!”, giubilò trionfante Hironimo, appoggiando l’arco sul fondo basso della balotina e, tiratasi su la manica, issò rapido il pesce infilzato dalla sua freccia.

“Ma vardalo, come si vanta!”, lo canzonò Marco Contarini, appoggiandosi sul remo. Dietro di lui sghignazzarono i suoi fratelli gemelli Piero e Polo e anche Agustin Miani, biscugino d’Hironimo, coprì il suo risolino dietro la mano. “Dai, passami l’arco, prima che si deprima a furia d’esser scambiato per una lenza!”, non si trattenne il “dai Scrigni” e le gote del Miani si tinsero di rosso, pur ridendosela anch’egli.

“Puoah! Almanco io ho provveduto al pranzo!”

“Infatti l’ho sempre detto, come tu sia un eccellente pescatore!”

“Tasé-là! Od ancuò, rimani digiuno!”

Scambiandosi i posti, Marco a prua con l’arco e Hironimo dietro di lui, i ragazzi ripresero a vogare in sincronia perfetta e la balotina scivolò silenziosa tra i ghebi della laguna, aguzzando la vista in cerca di uccelli marini sostanti sulle barene.

Uno stormo li volò sopra nella nota formazione a “V”, rompendo le nubi chiare appena colorate dalla tenue tavolozza dell’alba. Il Contarini appoggiò appena il piede sul bordo della barchetta, tese l’arco, puntò la freccia dalla pallina d’argilla contro uno degli uccelli e il suo saettante sibilo s’unì al grido dell’animale, che cadde stordito in un tonfo in acqua. Rapidi i giovani ramarono onde raggiungerlo prima ch’affogasse, afferrando Marco la preda per il collo, torcendoglielo.

“In effetti”, ammise Piero Contarini, alimentando il fuoco con due ramoscelli, “se non fosse stato per Momolo, addio desinare!”

“Se tu avessi avuto la testa sulle spalle e non nell’Eneide”, gli ricordò velenoso suo fratello gemello Polo, “ti saresti ricordato l’arco e noi avremmo cacciato in tre!”

“Potevi ricordartelo tu!”

“Ero a preparare la balotina, sempio!”

“Poteva pensarci il Marcolin!”

“Il Marcolin è innamorato …”

“Di chi?”

“Di me!”

“Momolo, serra quella boccaccia!”

“Visto, Pierolin? Tutti hanno una scusa, tranne te! Ammetti che ti pesava troppo il culo, poltrone!”

Al che Piero elargì una linguaccia a Polo, l’unica argomentazione rimastagli, dirigendo la sua attenzione alla cottura dei pesci impalati nei bastoncini. I volatili uccisi erano stati legati e pronti per le cucine domestiche, mentre il resto della comitiva si riposava nel casoto, recintato da incannicci dove avevano attraccato.

“Toh, ciapa, Pierolin!”, aprì Agustin un piccolo fagottino di stoffa, cedendogli una fetta di polenta avanzata dalla sera precedente. Affamato, il minore dei Contarini “dai Scrigni” l’afferrò cupido, ficcandosela subito in bocca.

“Che si dice, Piero?”, lo rimbeccò accigliato suo fratello maggiore Marco.

“Grazie, Stin!”, sbiascicò il ragazzo e Agustin scrollò le spalle, addentando anch’egli la polenta dopo aver dato una fetta anche a Polo.

“Ma tu guarda, se alla sua età debbo ancora insegnargli l’educazione”, schioccò Marco la lingua, disapprovando appieno il comportamento talora un poco acerbo di Piero, così diverso da quello invece più socialmente spigliato del gemello. Appoggiando la testa sul suo grembo, Hironimo lo canzonò:

“L’hai proprio allevato male, mammina!”

“No, tu sei la mammina!”

“No!”

“Sì!”

“Bauco!”

“Macaco!”

E dopo gli insulti si fecero i due ragazzi un misto tra solletico e lotta libera, finendo a gambe all’aria per terra, tra grasse risate.

“Marcolin?”, ritornò d’un tratto serio Hironimo, approfittando della distrazione dei due minori, impegnati a controllare la rosolatura dei pesci.

“Dime.”

Puntellandosi sui gomiti, il giovane patrizio gli confidò un dubbio sortogli da molto tempo. “Secondo te, le persone possono seguitare ad essere giuste, anche se si sono allontanate da Dio?”

Il Contarini reclinò il capo, affievolendosi sul suo viso lungo e pallido l’ultima traccia d’ilarità. Qualcun altro avrebbe, forse, potuto scandalizzarsi dinanzi a tal impertinente e spinosa domanda; per fortuna del Miani, il suo amico possedeva il medesimo spirito inquisitore dell’intellettuale, ereditato dallo zio sier Hironimo, per il quale nessun argomento era troppo immorale da non esser sottoposto al vaglio della logica.

“Uhm … credo … credo si potrebbe definirle persone corrette, ma non esattamente giuste”, ci ragionò sopra il ragazzo, picchiettando pensoso l’indice sul mento.

“Perché corrette? Non possiede lo stesso significato di giusto?”

“Senza Dio come eterno riferimento e super partes, l’etica diventa soggettiva e interpretabile, anche qualora venisse istituzionalizzata in leggi. Morale  diventa ciò che è utile ad un dato scopo; similmente, amorale diventa ciò che può intralciarlo o danneggiarlo. Ma tutto questo, avviene in un dato tempo, in un dato luogo e talora anche per una data cerchia di persone rispetto ad altre. Non sono verità eterne e universali: per esempio, oggi è proibito uccidere i neonati che non si vogliono, magari un giorno invece lo sarà e nessuno si sentirà colpevole, perché verrà giudicato utile dunque giustificabile dunque morale. Ma è giusto? È sbagliato? Come lo sappiamo? Cosa ce lo conferma, quando il nostro intelletto al massimo ci aiuta a distinguere il vero dal falso, ma anche quello solo dopo molti anni d’esperienze di vita?”

“Quindi, anche se una cosa ci è per legge permessa ed è moralmente accetta, non è necessariamente giusta?”

“C’è ancora speranza per te, Momolo: ti ricordi la tua lectio paolina!”, sdrammatizzò Marco, avvertendo un certo disagio a parlare di tali argomenti, conscio di quanto l’amico saltasse su inviperito ad ogni accenno di religione, neanche lo stessero insultando. “Perché questa domanda?”, inquisì dolcemente.

Hironimo si tormentò una cuticola. “Volevo sapere se i meriti in terra veramente si rispecchiano nell’Aldilà. Si può essere stati in vita cittadini modello, eppure finire ugualmente all’inferno? Si può divenire grandi sovrani, grandi papi e portare il proprio imperio al massimo splendore, eppure finire ugualmente all’inferno, perché quella fama è stata costruita nel sangue e sulle ossa di popolazioni devastate dalla guerra?”, si chiese il giovane Miani, osservando sull’immensa parete la sezione di mosaico raffigurante i Superbi avvolti dalle fiamme, sospintivi dentro dagli Angeli e catturati dai diavoli.

Riconobbe Costantino Copronimo, Nestorio, Eudossia imperatrice, [3] a loro tempo famosi, potenti e forse pure motivati da valide ed etiche motivazioni, eppure niente dei propri meriti in terra li aveva salvati dalla dannazione eterna …  Avevano creduto d’aver operato nel giusto, invece sbagliando. Avevano creduto di fare la cosa giusta, quando al contrario avevano fatto la cosa in quel momento conveniente o concessali, in base al loro status sociale, alla loro cultura, all’essere membri di una data epoca e di una data società.

Hironimo si portò una mano alla gola, rendendosi soltanto ora conto del cerchio e della palla di cannone ritornati improvvisamente, il peso di quest’ultima ch’andava aumentando, fino a costringerlo in ginocchio a guardare la fascia inferiore del mosaico, il resto dell’inferno: i Lussuriosi …

Non si ricordava come la dama gli fosse letteralmente cascata tra le braccia: Hironimo, un poco alticcio e frastornato dai bagordi del Carnevale, s’era un attimo staccato dal rumoroso gruppo dei suoi altrettanti ebbri amici, quando lei, travestita da monaca, gli era inciampata addosso. La donna aveva riso allegra all’incidente, baciandolo in bocca senza manco scostarsi la maschera. “Quegli è mio marito”, indicò ella tramite un ampio gesto del braccio il gentiluomo travestito da frate, che stava scendendo i gradini del ponte, raggiungendoli. Hironimo s’esibì in un sardonico e ampolloso inchino. “A lui piace guardare”, gli sussurrò all’orecchia la dama, maliziosa, passandosi la punta rosea della lingua sui denti bianchissimi.

… gli Iracondi immersi nelle acque gelide ...

Lo schiaffo aveva martoriato la guancia incavata di quel carpentiere di Quero, prima ancora che il cervello d’Hironimo avesse elaborato in totum il messaggio dell’uomo.

“Non mi rifilare altre patetiche scuse del cazzo, per giustificare la tua pigrizia! Stanco? Tu sei stanco? Siamo in guerra – de diana! – se non lavori e non t’impegni alla ricostruzione della fortezza, ti darò io il riposo, quello eterno del cimitero! Parassita, pigro pane-perso, crapulone ingordo! Sempre pronto a chiedere, e mai a dare!”

“Se la mettete così, il castello ve lo ricostruite da solo, fazza-de-merda!”

Un pugno alla bocca dello stomaco chetò il ribelle e uno tra le scapole lo spedì a baciare la terra. Dopodiché Hironimo lo afferrò per i capelli, torcendogli indietro il collo.

“Ancora un insulto ed io ti lego una grossa balota di granito al piede, poi ti faccio buttare nella Piave! E vedremo, quanto ti divertirai ad insultare i pesci!”

Il carpentiere, ch’aveva anche moglie e figli appresso, scoppiò allora a piangere. “Sior castelan, de grassia, cercate di capirmi: siamo fuggiti da un saccheggio, abbiamo perso ogni nostro avere, sono settimane che dormiamo per terra, ridotti a mangiare erba! … Perfino alle bestie viene concesso un poco di riposo e di cibo, voi ci costringete a lavorare di giorno e di notte, senza tregua, lesinandoci anche le più basiche necessità! Trattate meglio i vostri asini di noialtri cristiani!”

Un piccolo spasimo sussultò nel cuore d’Hironimo, il quale si morse il labbro inferiore, ammettendo nel suo intimo d’essersi comportato ingiustamente nei confronti di quel poveraccio. In effetti, constatò, questi mostrava sul volto i segni di un’infinita spossatezza e denutrizione. I lavori potevano interrompersi per qualche ora, abbastanza per concedere un picciolo istante di tregua a quei disgraziati.

Ma si trattò d’un attimo di pietà.

“Appunto! Perché i somari sono più utili di te e di quel peso-morto della tua famiglia!”, gli diede un calcio sulle natiche, spintonandolo via. “Sei ti becco ancora a poltrire sul lavoro, o peggio a lavorare da culo”, gli puntò feroce contro l’indice, “ti rinchiudo dentro le stinche e spero che la tua pelle sia tanto dura quanto quella tua testaccia, perché stai certo che ti scuoierò vivo a furia di frustate!”

“Il vostro sior Pare – a chi Domeneddio perdoni! – non era così!”, commentò amaramente il carpentiere, dirigendosi zoppicante verso le impalcature.

Un sasso lo colpì alla spalla, rubandogli un sorpreso guaito di dolore.  

“Io sono meglio di mio padre!”, ruggì Hironimo, rivoltando in aria una seconda pietra e il viso trasfigurato in una maschera pressoché demoniaca. “Io ricostruirò in tempo questa fortezza e se salverete la vostra ingrata pellaccia, sarà unicamente per merito mio!”, ringhiò malevolo e lanciò il sasso in direzione degli attoniti operai. “Sempre a lamentarvi, voialtri! Dormire, mangiare, scopare … altro non riuscite a concepire dalla vita! Ecco perché vi ritrovate alla base della gerarchia! Non siete poveri a caso! C’è un motivo ed è la vostra invincibile stupidità! Sempre a borbottare alle spalle di chi si sbatte per voi! Incapaci di governarvi, pretendete di suggerirmi come farlo?! Siete buoni solo a nascondervi e ad invocare pietà, usando lo scudo trito e ritrito di Dio, la Verzene e tutta la Corte Trionfante! Beh, sapete che vi dico? Che se non vi date da fare, neanche Sen Michiel in persona vi salva dalla forca! Al lavoro, becchi fottuti! La scelta è vostra: se le picche dei lanzichenecchi o le mura ricostruite di Castel Novo! Al lavoro!”

Quella sera medesima Hironimo aveva informato il Consiglio dei Dieci dell’accaduto – assieme alla scoperta del passaggio di Scalon – e l’indomani aveva pubblicamente frustato un sodato perché, considerandosi quest’ultimo all’apice della saggezza, gli aveva consigliato di rallentare i ritmi serrati di ricostruzione del castello, ricordandogli della favola del cavallo e del somaro, dandogli infine sprezzante del “putachio imberbe, palorbo.”

“E tu che vuoi, pidocchio?”

Il biondino lo fissò tranquillissimo, aggiustandosi l’elmo in testa troppo grande per lui. “Non c’è vergogna nell’ammettere d’aver paura, patron”, gli confidò. “L’abbiamo tutti.”

Hironimo lo spintonò via, intimandogli d’andare alla malora.

… gli Invidiosi dai crani rosi dai vermi, come Hironimo s’era ognora roso di rabbia nel vedersi superato dagli altri in tutto: in bravura intellettuale, nelle amicizie, negli amori, nella ricchezza, nella popolarità, malgrado i suoi sforzi di migliorarsi, di primeggiare ad ogni costo.

… gli Accidiosi rappresentati come teschi ed ossa umane disperse. Perché invece d’ingegnarsi e non arrendersi dinanzi alle difficoltà, Hironimo s’era lasciato andare, una nave senza nocchiero, vivendo alla giornata, senza progetti, senza un futuro.

… i Golosi e gli Avari, gli ultimi con le teste ingioiellate. Tanto egli era stato ingordo nella sua ricerca di soddisfazione personale, da però risultare avaro d’amore e comprensione verso il suo prossimo, circoscrivendo l’intero universo ad io, me e me stesso, incurante di qualsiasi altra cosa esistesse fuori da esso, intrappolato nel culto pressoché idolatra dell’amor proprio.  

Hironimo ghermì la catena e provò a sollevarsi eretto, sennonché la palla aumentò di peso e dimensioni, ricostringendolo stavolta prono, faccia a terra.

Quant’era stato stupido e cieco, lasciandosi abbindolare dall’allettanti promesse dell’antropocentrismo! Cos’era l’uomo? Un minuscolo tassello del maestoso mosaico ch’era il mondo, creato e basato su leggi razionali e funzionanti, le quali s’infischiavano di ciò che l’uomo volesse o non volesse. Quante volte l’uomo aveva creduto d’aver domato la Natura e poi essa gli si ribellava e fagocitava ogni sua impresa? Quante volte aveva essa dimostrato di funzionare perfettamente senza l’ausilio umano? Similmente, quante volte l’uomo si vantava di conoscere Dio e invece non sapeva un bel niente di niente? Non era conoscenza, bensì interpretazione, spessissimo annacquata da esperienze e tornaconti personali. Si odiava Dio perché non si voleva odiare se stessi e i propri difetti e limitazioni; perché non si volevano accettare le personali sconfitte. Non si voleva ammettere l’impossibilità di governare il destino e il mondo, i quali andavano avanti per la loro strada, incuranti di progetti e desideri. Quante volte ci si gloriava dei propri successi, presentandoli come frutto dei meriti personali, dell’ingegno, della libertà umana? E invece, al primo sbaglio o vento contrario? Chi si biasimava immediatamente? Dio, quel Dio che, all’apice della gloria, s’era scartato, ritenendolo superfluo e ininfluente ma nelle miserie ecco che diveniva tiranno e vendicativo.

In realtà, ragionava Hironimo, in Lui si proiettavano le proprie frustrazioni, credendoLo una sorta di genio orientale, che tramite miracoli potesse risolvere ogni situazione così, a comando, con uno schiocco di dita. Se veramente esisti, fai questo … quest’altro … altrimenti a che servi? Mettendosi al centro dell’universo, s’era messo Dio in funzione delle necessità umane. O capricci? Hironimo aveva serbato livore contro Dio, perché aveva scambiato la durezza di cuore degli uomini per la Sua. Chi aveva condannato unanimemente Padre? Dio o la dottrina fatta istituzione? E da chi era composta e interpretata l’istituzione? Da uomini, ergo fallibili e limitati. Vero che la morte di Padre era stata ambigua e che soltanto lui sapeva cosa fosse esattamente successo quella maledetta mattina; ciononostante, la sua famiglia aveva dovuto agire con la vergogna dei colpevoli, elemosinando quasi un funerale cristiano e anche dopo Hironimo aveva vissuto l’ipocrita commiserazione e il giudizio negativo della gente, in primis di quella parte di clero a conoscenza della sordida vicenda. Non sapevano niente e avevano lo stesso condannato Padre, sostenendo di aver letto e capito ogni singola parola della Bibbia, di conoscerne alla perfezione il significato e quindi Padre ai loro occhi era necessariamente perduto, senza possibilità d’appello. Ma era davvero così?

... Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei ... E dunque non poteva Dio aver perdonato Padre, anche all’ultimo momento, scardinando la logica umana, rapida all’ira e lenta al perdono? Perché non aveva avuto fiducia nella Sua misericordia, piuttosto che in quella avara e saccente degli uomini?

Hironimo non aveva capito un bel nulla, troppo limitato dal suo rancore, dalla paura e dalla superbia che, aggiunti al suo modesto intelletto, avevano soffocato ogni speranza in Dio e di conseguenza la sua fede in Lui. Non aveva compreso che, così facendo, danneggiava se stesso, poiché s’era privato d’un punto fisso nella vita, della sua stella per navigare in quelle tempestose acque mortali. Aveva posto fiducia in ciò ch’era fallibile ed effimero. E di conseguenza, era divenuto insensibile e crudele; per difendere tale meschinità e non provare rimorso, aveva sminuito il suo prossimo al posto di guardarsi dentro e riflettere, più facile porsi su di un piedistallo e puntare gli indici. Maestro del nulla, aveva esaltato una vuota conoscenza, un’etica fondata sulla sua vanità. Che negli attuali tempi, mica era stupido farsi gli affari propri, ma … ma in quale persona s’era infine trasformato? Mediocre, inconcludente, antipatica.

Ed ecco ch’era giunto al termine della sua corsa – il patrizio lo percepiva nelle ossa. I maltrattamenti, la denutrizione, la febbre l’avevano minato nella salute e nel corpo e, per quanto possedesse una tempra e una volontà d’acciaio, egli non poteva competere contro l’imparziale falce dell’oscuro mietitore. Tergiversare, rallentarlo, magari, ma al suo appuntamento doveva presentarsi.

Oggettivamente, il giovane trovò la sua una fine piuttosto squallida. E la vide, quella baldracca, ghignargli dinanzi lugubre e golosa, assaporando la preda sicura e prossima. Almanco fosse morto virilmente, la spada in pugno e forse sbudellando La Palice e soprattutto Mercurio Bua … di certo avrebbe riscattato in quella sua morte eroica gli anni persi a correre dietro a fantasmi, sogni e chimere. Oh, beh, in molti muoiono esattamente come hanno vissuto e nel suo caso? Ingloriosamente, nel rancore, nella paura.

Strisciando, schiacciato infatti da quella gigantesca ballotta e dal bruciante calore attanagliargli le viscere, Hironimo si portò al centro del mosaico, là dove nella lunetta sotto la Psicostasia – soggetto nel suo caso quanto mai adeguato – si trovava la Madonna in posizione di orante. E non potendo sollevare né mani né braccia, il ragazzo s’accucciò in proskynesis e ripeté l’invocazione scritta sulla lunetta: Virgo Divinum Natum prece pulsa, terge reatum.

“O Vergine, prega il Divino Nato, purifica il peccato!” e che i demoni non riescano a pendere la bilancia di San Michele dalla loro parte, che i sacchi e le otri contenenti i miei peccati siano meno pesanti di quanto io so, che in realtà sono.

“Ignoro se queste mie parole saliranno fino a Te, perché sicuramente in questi orribili giorni starai ascoltando preghiere e suppliche provenienti da persone assai più meritevoli del sottoscritto.

Sono stato un ribelle, un indegno e un idiota, non il peggiore tra i peccatori, ma ugualmente ho perduto il senno e mi sono ostinato ad offendere a modo mio il Tuo Figlio. Non merito niente, io mi sono preparato questo letto ed è naturale che ora vi dorma sopra. Ho provato rancore nei Vostri confronti, perché Vi ho creduti lontani e indifferenti alla mia sorte e alla mia pena, quando al contrario Voi eravate sempre con me, nel mio cuore, mentre io mi assordavo volontariamente alla Vostra voce. Solo adesso mi rendo conto, quanto in realtà io sia stato protetto, scampando a punizioni ben peggiori per le mie malefatte, rispetto a  qualche pugno in faccia o una strigliata da parte dei miei parenti. Pretendevo amore e comprensione e non ho mai né amato né cercato di capire. Volevo, volevo, volevo e non davo niente. Ogni Vostro dono l’ho rifiutato, cieco, avido e stolto per apprezzarlo.

Dopo tante offese e ingratitudine, come posso sperare nel perdono?

Ciononostante, anche un cane può mendicare qualche briciola dal tavolo del padrone. E pertanto questo, o Madonna, io Ti chiedo, Ti supplico, Ti imploro: non permettere ch’io muoia in dannazione! Se la mia vita deve finire presto, che almeno io abbia la possibilità di mondarmi da ogni mio peccato mortale!

Provo un disgusto enorme verso me stesso, per le occasioni sprecate, per l’aver costruito il nulla, pur nato privilegiato, con mezzi e intelligenza a disposizione! Mi lamentavo della mia mediocrità, maledicendo di non possedere di più, quando non mi rendevo conto che Voi mi avevate munificato di ogni qualità per emergere, per agire e vivere glorificandoVi con la mia vita! Ho eguagliato il servo malvagio, ch’ha seppellito il talento donatogli per paura. Non ho fatto che compiacere me stesso e non ho amato nessuno al di fuori di me, crogiolandomi nel mio dolore senza affrontarlo, anzi, usandolo come scudo per giustificare la mia inettitudine e i miei fallimenti. Credendomi superiore, ho puntato il dito quando invece avrei dovuto puntarlo contro me stesso e migliorarmi. Non sapevo niente e mi vantavo di sapere tutto.

Che cosa posso offrire sulla bilancia di San Michele, se non il mio sincero pentimento? Mater Dei, non fare che i miei ultimi sentimenti mortali siano di paura: intercedi per me, ch’io possa morire nella speranza del perdono. Dammi un segno di grazia! Uno soltanto! Per amore di mia madre, che non mi sappia morto senza assoluzione! Per le lacrime che lei ha spento per me, per le sue preghiere di riportarmi sulla retta via, ch’io ho ignorato e dileggiato! Che non siano state invano! O Madonna! O Mater Dei! Un figlio t’implora! Un figlio ti supplica! Ho smarrito la via, Madonna Santa … Aiutami! Dammi un segno! Un segno! Se debbo morire, ch’io possa riconciliarmi …!”

Un possente colpo di tosse interruppe Hironimo, costringendolo a bocconi per terra e a vomitare bile e catarro. Puntellandosi a fatica sui gomiti, il patrizio si nettò il viso madido di sudore e di lacrime, bloccandosi d’un tratto.

S’era posto seduto facilmente e un buio pece l’avvolgeva. La sua mano anchilosata e infreddolita si portò all’altezza della gola, tastando e non vi trovò alcun cerchio né palla di cannone. E di sicuro, a giudicare dal puzzo indescrivibile di quella cella, egli non si trovava nella basilica di Santa Maria dell’Assunta a Torcello. S’asciugò le lacrime e si soffiò il naso col lembo della tonaca già di suo lercia, peggio di così tanto non poteva sporcarsi.

Hironimo si pizzicò il braccio, appurando il suo stato di veglia e, giusto per assicurarsi totalmente, si tirò anche i capelli. Sì, non dormiva. Non sognava. Ma veramente s’era trattato di un sogno, come la notte precedente? O di ricordi? O entrambi? O peggio, d’allucinazioni e visioni sovrannaturali, per tormentarlo più di quanto non stesse già soffrendo? Beh, un lato positivo in quell’infernal marasma esisteva: se era sveglio significava ch’era vivo, ergo che la sua ora non era giunta, non subito, non oggi.

Poteva ancora pregare. Rimediare.

L’unico inghippo rimaneva come: non allenata, la sua mente aveva scordato le orazioni insegnategli da Madre, da Crestina e da quel povero martire del suo precettore, il canonico del Monastero della Carità. Poco male, una tuttora se la ricordava a memoria, sebbene più per narcisismo letterario che religioso.

Affaticato e con la tesa che gli girava, Hironimo ritornò nella comoda posizione di proskynesis e, schiarendosi la gola, proferì lento e incerto quelle parole, come uno scolaretto alla sua prima declamazione pubblica: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio …”

E man mano che procedeva nella dantesca preghiera di San Bernardo alla Madonna, la sua lingua divenne più sciolta ed eloquente e il suo pensiero più stabile, svaniva la fatica dell’animo e una rara calma lo acquietava, aprendogli cuore e orecchie dopo anni di sordità volontaria. Il silenzio e il buio gl’incutevano meno paura, così come la solitudine, mitigata da una presenza forte e inafferrabile, per quanto indefinita. Se il corpo si stava indebolendo, lo spirito si rinforzava, temprandosi. Le ombre sparivano, sconfitte.

A questa nuova sensazione d’atarassia Hironimo s’abbandonò fiducioso, ripetendo l’orazione di nuovo e di nuovo, ininterrottamente, alternando versi, singhiozzi e invocazioni di pietà e soccorso.

… in gremio Matris iacet sapientia Patris …”

Il patrizio s’interruppe bruscamente: e quella da dove era saltata fuori? Di sicuro non apparteneva al canto dantesco né si sovveniva d’averla mai letta da qualche parte. Gli era balzata in testa così, spontaneamente, con la leggerezza di un pensiero banale e comune.

“Nel grembo della Madre giace la sapienza del Padre …”, ripeté egli interdetto la frase, studiandola e assaporandola sulla lingua. Da dove veniva? Non dal suo cervello, ché figurarsi se quel tordo concepiva concetti tanto complessi e di profondo significato … Da qualche trattato teologico? E quando mai aveva avuto tempo o voglia di leggerli? An, se avesse prestato un’ombra d’attenzione alle lezioni del canonico! “Nel grembo della Madre giace la sapienza del Padre … Nel grembo della Madre giace la sapienza del Padre … Nel grembo della Madre giace la sapienza del …”

La porta s’aprì in uno stridulo garrito di gabbiano barbaramente strangolato e la luce molesta d’una lanterna fendette l’offesissima oscurità e per un istante accecò Hironimo, costringendolo a schermarsi gli occhi dietro il dorso della mano.

“Che stai blaterando? Non ti sarai mica rincretinito?”, l’apostrofò acido un soldato, appoggiando di malagrazia per terra una ciotola ricolma d’acqua. “Christos, che tanfo!”, si coprì il naso all’interno del gomito e maledisse l’avverso fato, che l’aveva scelto per portare da bere al prigioniero, putente peggio del cadavere d’un ratto. “Beh, non la vuoi?”, gli avvicinò la scodella col piede, notando come il Miani se ne stesse lì imbambolato in ginocchio a contemplarlo incuriosito. “Tzé, il capitano ti ha proprio sconquassato il cervello!”, scosse il capo lo stradiota, chiudendo la porta dietro di sé e borbottando il suo malcontento lungo il corridoio, finché la sua voce non divenne un eco distante, scomparendo poi nell’aria mefitica.

Ripiombato nell’oscurità, il giovane Miani strabuzzò gli occhi, riflettendo su quel rapido contatto umano, dopo giorni d’isolamento forzato. L’aveva visto, quel greco o albanese, non l’aveva sognato. Apparteneva alla realtà. Anche la ciotola, misera e contenente semplice acqua – Hironimo vi tuffò dentro la faccia, bevendo avido a guisa canina – era solida, tangibile. La preghiera stava allontanando le allucinazioni, gli raddrizzava i pensieri e lo rendeva più lucido, presente. Gli allontanava la paura, la fame, il dolore fisico.

Ignorava se fosse giorno o notte, elementi di poca importanza ormai. L’unica certezza del giovane patrizio era che seguitava a vivere. Di più, si voleva ch’egli continuasse a vivere. O gli avrebbero rifilato la triste sorte del conte Ugolino della Gherardesca.

“Nel grembo della Madre giace la sapienza del Padre … Farò ammenda … Sono in tempo … Farò ammenda …”, ripeté tra sé e sé Hironimo, ripigliando a pregare e preparandosi ad un’altra lunga notte di veglia, a fronteggiare i suoi demoni interiori, il suo io-assassino.

Forse aveva capito la frase di Luzia: il demone gli aveva fatto credere di non necessitare di Dio nella sua vita, allontanandolo da Lui; adesso che aveva bisogno di conforto, gli aveva impedito di ritenersi degno di misericordia, dipingendo Dio come un giudice impietoso. Un trucco molto efficace.

“In gremio Matris iacet sapientia Patris … Virgo Divinum Natum prece pulsa, terge reatum.”

 

***

 

All’oscuro delle disposizioni regali, finite in mano della Serenissima, il maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice aveva  nel dubbio ordinato che fosse continuata la guerra dei nervi. Infastidito al limite dalla debacle di Musestre e dalla lentezza del rientro delle truppe imperiali dalla Patria del Friuli (il grosso impegnato sotto le mura di Gradisca) il generalissimo francese aveva inviato i suoi capitani in tutte le direzioni, fino al Barco, per confondere le spie veneziane e dare l’impressione di grande potenza. A tal scopo aveva perfino ingigantito la notizia dei rifornimenti provenienti dalla Patria, sia di cibo che di cannoni. Dopodiché, rientrate tutte le squadre e squadroni a Nervesa, progettava di levare in via definitiva il campo per un’avanzata frontale, costeggiando la Piave.

In esecuzione a questi ordini, le compagnie francesi s’erano presentate contemporaneamente a Porta Santi Quaranta, a Santa Bona, a Fontanella, a Melma presso Treviso, costantemente fronteggiate e tenute distanti dai vigilantissimi stradioti della Serenissima, in scontri sempre più violenti al che La Palice, notando come anche quella sera i suoi gendarmi, cavalleggeri e stradioti fossero rientrati a Nervesa malconci e abbattuti, si era reso conto che codeste scaramucce non gli portavano alcun vantaggio, semmai ringalluzzivano l’avversario e lo privavano di uomini utili all’assedio.

“Dobbiamo capire dove poterci accampare, senza temere incursioni notturne o peggio, bombardamenti notturni. Suppongo che i cannoni li tengano soltanto ai bastioni, giusto?”, ragionò ad alta voce il maresciallo nei suoi alloggi al Castello di Collalto di San Salvatore, avendo convocato il resto dei comandanti per un rapido consiglio d’aggiornamento.

Poiché Mercurio Bua non pareva affatto incline a rispondere, preferendo ascoltare impassibile, Leka Busicchio riferì al posto suo: “Da lì hanno sparato, quando abbiamo attaccato Treviso.”

“Il tiro?”

“Un miglio abbondante.”

“Bisognerà giungere e posizionarsi nei loro punti ciechi”, suggerì pensoso Teodoro Trivulzio, studiando concentratissimo la cartina.

“Certamente è da escludere Porta San Tomaso: lì si sono difesi assai bene”, commentò Soffrey du Molard.

“Ma è anche vero, che si trattava di una trappola”, puntualizzò Giulio Sanseverino. “Ci stavano aspettando.”

“Ovunque ci giriamo, quei dannati sbucano fuori peggio delle talpe!”, sbuffò invece monseigneur Artus du Boisy, snervato. “Noi li depistiamo, tentiamo differenti manovre e non li ingaggiamo mai in scontri nello stesso luogo e ciononostante, ogni dannatissima volta, riescono ad anticiparci! Come diavolo fanno?”

“Appunto per questo motivo dobbiamo fronteggiare les Vénitiens una volta per tutte”, reiterò La Palice. “Affinché non prendano coscienza della propria forza, così da venire loro da noi e non viceversa.”

“Se finora non ci hanno attaccati”, suggerì Leka, “significa che non possiedono i numeri sufficienti per farlo. Altrimenti, conoscendo i loro comandanti, avrebbero osato una sortita più massiccia di una qualche rapida imboscata.”

“Cosa ne dite voi, capitano Bua? Ultimamente ve ne state in gran silenzio, non è da voi”, richiamò il Trivulzio l’attenzione del greco-albanese, il quale levò due dita dalla guancia, arcuando incurante un sopracciglio.

“Non ho nulla d’aggiungere, che il capitano Busicchio già non abbia eccellentemente delineato”, disse sincero e il suo conterraneo lo fissò stralunato, avendo creduto la sua un’acida battuta, a seguito del loro recente diverbio.

Al contrario, il Bua appariva serissimo, ogni traccia di sarcasmo e strafottenza svaniti dal viso tirato di chi non dormiva bene da qualche notte. La barba gli s’era un poco allungata e infoltita e al braccio egli teneva una banda nera, a lutto per la morte del suo fidato Zilio Madalo. Dentro di sé, tuttavia, il condottiero piangeva un altro tipo di perdita, quella della fiducia e del rispetto da parte di Caterina, da lui disprezzati e presi per scontati. E ora non aveva più niente, pur avendo tutto: né i titoli conferitigli dall’Imperatore né la gloria in battaglia avrebbero potuto restituirgli sua moglie, sua figlia, suo fratello e Zilio. Si sentiva smarrito, inutile negarlo. Doveva fare il punto della situazione.

“Forse dovremmo inviare una squadra di stradioti in avanscoperta, onde scovare il punto debole delle loro mura …”, fu la proposta di Galeazzo Pallavicino, riprendendo il discorso.

“Se la vostra illustrissima signoria desidera mandare al macello altri uomini”, sibilò a quel punto Mercurio, gli occhi fissi su di un punto indefinito davanti a sé, “può ben inviare allo sbaraglio i suoi di soldati. I miei domani rimarranno qui, a riposarsi. Hanno già dato a sufficienza.”

Il marchese di Busseto s’imporporò piccato da quella sferzante replica, manco fosse l’ultimo dei paggi da sgridare. “Queste informazioni sono di vitale importanza, se vogliamo …!”

La Palice interruppe l’offeso Pallavicino, annunciando gravemente: “Domani prenderò tre squadroni e mi presenterò di persona a Trévise.”

Un coro d’esclamazioni contrarie accolse la sua inaspettata decisione.

C’est trop dangereux!”, esclamò subito du Boisy, gli occhi fuori dalle orbite. “Non possiamo rischiare che vi catturino!”

“I miei guasconi ed io possiamo recarci lì, se ne avete bisogno, ma non voi! E se vi sparassero dai bastioni? Quel satanasso di Jean-Paul Gradenigo è capace di tutto!”, insistette un esagitato du Molard.

“Starò a debita distanza e non m’apposterò presso i bastioni!”, dichiarò fermo il maresciallo. “Questa mia spedizione sortirà il duplice scopo d’intimidirli – sapendoci pressoché alle loro porte – e di capire in quale punto les Vénitiens si trovino più scoperti. Perché rifiuto di crederli ovunque preparati. Da qualche parte saranno pur vulnerabili. E sarà lì che li colpiremo!”, batté insistente l’uomo il pugno sulla cartina. A furia di pressionarli ed intimidirli, i marciani avrebbero prima o poi commesso un passo falso da sfruttare a loro vantaggio.

Ad oltre un miglio di distanza sarà difficile stabilirlo,  meditò distrattamente Mercurio, appoggiando la schiena al muro. Però è pur sempre un inizio su cui lavorare. Domani ne sapremo di più.

“Nel frattanto”, concluse La Palice, “stasera stessa invierò un ultimatum ai comandanti  allemands rimasti sulla sinistra della Piave: convocazione qui a Nervesa entro, e non oltre, domani fino al crepuscolo.”

“Mancheranno sicuramente quelli impegnati a Gradisca e, forse, a Marano”, puntualizzò du Molard.

“Costoro li possiamo esonerare”, licenziò in fretta la questione il maresciallo francese. “Quanto agli altri, verranno pubblicamente dichiarati disertori e costì trattati, dovessimo imbatterci in loro.”

“Mi par equo”, convenne Artus du Boisy, felice nel suo intimo di veder infine penzolare qualche tedesco ribelle.

Intanto che il segretario di La Palice abbozzava la lettera da inviare agli imperiali, Giulio Sanseverino avanzò un ulteriore suggerimento: “Maresciallo, forse potremmo sfruttare la vostra parata dimostrativa per un triplice scopo: incominciare lo sgombero del campo. Vedendoci quasi sotto le loro mura, i Veneziani si concentreranno su di voi e non avranno la pronta reazione di mandare esploratori al di là di Treviso. In questo modo, ci accamperemo in un luogo a loro sconosciuto.”

“Io suggerirei a Torre di Maserada fino a San Giorgio”, propose Galeazzo Pallavicino, ansioso di recuperare autorità dopo la strigliata di Mercurio Bua. “La prima si trova a cinque miglia da Treviso e la seconda ad un miglio da Ponte di Piave. Potremmo inoltre creare un blocco di barche, impossibilitando ogni comunicazione da quel fiume.”

Il maresciallo francese contemplò intensamente la cartina, nello specifico i luoghi indicatigli dal marchese di Busseto. “C’est bien”, convenne alla fine. “Incominceremo domani lo smantellamento, mentre una squadra avvertirà i nostri rimasti alla Badia del Pero a Monastier, con appuntamento a Torre di Maserada. Il resto delle truppe si sposterà sabato, all’alba, e brucerà ciò che resta del campo.”

Un mormorio d’assenso si levò nell’aria.

Enfin, cette fois ça commence pour de vraipensò La Palice, osservando uno ad uno i comandanti uscire dai suoi alloggi. Si portò alla finestra, terminando di dettare la missiva al suo segretario, la mente persa tra quegli scuri monti risaltati all’orizzonte dal bluastro nascente della sera. E questa volta, mon Dieu, si vedrà da che parte stai, se dalla nostra o quella dei Vénitiens.

Fuori, nel cortile del Castello, Leka Busicchio raggiunse Mercurio Bua, il quale stava conducendo il suo baio turco fuori dalla stalla. Impacciato, il capitano stradiota s’avvicinò al greco-albanese, bofonchiando: “Siamo … siamo a posto?”

Il Bua reclinò lentamente in avanti il capo, in assenso. “Siamo a posto”, confermò, inforcando la staffa e issandosi sopra la sua cavalcatura in un fluido movimento. “Sebbene le mie scuse non potranno mai riportarci indietro Zilio”, aggiunse, accettando la torcia dal suo palafreniere. “Così come una magra consolazione sarà vincere quest’assedio.”

Rapido, Leka imitò il suo collega, balzando anch’egli in sella e allungando la torcia verso lo scudiero, onde accenderla. “Almeno, combatteremo in sua memoria.”

Mercurio batté piano gli speroni sul suo destriero, iniziando una lenta e regolare marcia. “Rimpiango di non essere stato lì, anche solo per seppellirlo con le mie mani. Vedi”, gli confidò con voce un poco tremula, “Zilio ed io abbiamo militato assieme, quando ancora ci stavano crescendo i primi peli sulle guance. Ne abbiamo vissute di cotte e di crude, rendendomelo più di un semplice luogotenente. Era un amico. Ed io non ho neanche potuto augurargli appropriatamente buon viaggio verso l’Aldilà …”

“Zilio è morto virilmente: saresti stato orgoglioso di lui”, lo confortò Leka, rivivendo nella mente l’immagine dello stradiota colpito da un colpo d’archibugio e cascato in seguito in acqua. “Purtroppo, il fiume se l’è portato via … Avremmo dovuto fermarci e ripescarlo, però …”

“Hai fatto ciò ch’era giusto”, lo interruppe bruscamente il Bua. “Non ti rimprovero di nulla.” Cacciò fuori un grosso sospiro, levando in alto il capo e permettendo all’aria fredda della notte d’accarezzargli il volto. “Talvolta mi pento d’aver abbandonato la mia Morea.”

“Eh?”

Visto ch’erano in vena di confidenze, tanto valeva esplicare meglio al Busicchio quel suo intimo rimpianto. “Ti sei mai chiesto come sarebbe stata la tua vita, se tu non avessi mai abbandonato la tua terra? Io sì. E non sarebbe stata una brutta vita. Avrei vissuto a Napoli di Romania [4], avrei assunto il ruolo di mio padre di capo degli Albanesi di Grecia, avrei combattuto gagliardamente contro quei cani dei Turchi e magari pure riappropriandoci dei perduti territori in Morea e in Albania! Sarei stato acclamato come un eroe, un campione della cristianità, il degno successore del magnifico Gjergj Kastrioti Skënderbeu!”

“Ma non avresti conosciuto Aikaterinī”, ridacchiò Leka, provando a scuotere il compatriota da quella sua malinconia.

“Per lei, avrei assediato e riconquistato Durazzo, la patria di sua madre. Le avrei presentato la testa del Pascià e dei suoi figli su di un piatto d’argento. Sarebbe ritornata ad essere una principessa, al posto di Contessa del Niente!”, ringhiò frustrato. Anche se l’Imperatore gli aveva infeudato Soave e Illasi, de facto Mercurio non aveva mai veramente goduto dei profitti di quelle terre, il loro dominio tanto vacillante quanto le sorti di quell’infinita guerra. “Sarei dovuto rimanere in Grecia o al massimo trasferirmi nell’Albania Veneta. Lì perlomeno la questione è semplice: noi contro i Turchi. E basta. Invece, quest’Italia …”, scosse il capo, aspirando veemente l’aria. “Tanto bella quanto crudele, marcia fino al midollo, che ti ingoia pieno di speranze e ottimismo per poi risputarti l’ombra di te stesso. Se ti risputa. Quante casate s’è pappata, quanti Stati ha spolpato poco alla volta? È una bestia feroce, meschina e assassina, che anche se in gabbia, frustata e col collare, non appena il domatore si gira, ecco che gli elargisce alle spalle una zampata. È una femmina malvagia per il cui possesso tutti si scannano a vicenda … Perdonami, Leka. Stasera proprio non sguazzo nel buonumore!”, provò a sdrammatizzare Mercurio, rendendosi conto di quanto avesse sparlato a sproposito e a ruota libera, sfogando il suo intimo malessere.

Busicchio abbozzò ad un sorriso incoraggiante. “Sei stato troppo lontano dal campo di battaglia, amico mio. T’assicuro che appena sentirai il clangore delle armi e l’odore della polvere da sparo, ti si rischiariranno le idee e la malinconia prenderà il volo!”

“Ma certo …”, convenne debolmente Mercurio, aguzzando la vista e intravedendo la sagoma scura dell’Abbazia di Sant’Eustachio stagliarsi contro il cielo brunito. Un istintuale moto di rabbia gli scombussolò le viscere: guardandola, gli ritornò alla mente il confronto avuto col suo ostaggio veneziano e la simbolica pugnalata allo stomaco ricevuta tramite le sue rivelazioni. Era colpa di quel maledetto, se adesso il Bua si sentiva smarrito, demotivato.

Non poteva ucciderlo, però poteva rendergli quanto più amara possibile la prigionia, così avrebbe imparato a mordersi quella velenosa lingua, l’ingrato.

 

***

 

Il conte Guido Rangoni se ne stava dormendo beato nei suoi alloggi a Padova, quando all’improvviso sier Ferigo Contarini irruppe in camera sua, seguito a ruota dai famigli del modenese, tutti rossi in viso e contriti peggio della Maddalena.

“Vostra illustrissima signoria! Abbiamo tentato … Gli abbiamo detto …!”, balbettavano terrorizzati da un probabile castigo da parte del loro padrone, il quale, tuttora intontito, si pose seduto, stropicciandosi gli occhi gonfi di sonno.

“Quale villania, signor provveditore, vi ha condotto qui a quest’ora di notte? Nella mia camera?”, s’inviperì Guido, un poco imbarazzato da quella palese violazione della sua intimità. Ancora-ancora poteva tollerare tale atteggiamento nel campo, ma a Padova? Nei suoi alloggi? Non giovava al suo scontento il ritrovarsi in camicione da notte davanti al patrizio, vestito al contrario di tutto punto.

Impunito, Ferigo afferrò uno sgabello pieghevole e si sedette sopra enfaticamente. “Ordini da parte dei provveditori Moro e Capello e del governatore Fortebracci”, gli spiegò sbrigativo.

“E non potevate attendere il mattino?”

“No.”

Il Rangoni sbuffò irritato, scendendo dal letto e indossando alla bell’e meglio una casacca, giusto per darsi una parvenza di parità conversazionale, dinanzi allo sguardo perplesso del provveditore. “Dunque è un vizio veneziano, quello d’entrare non invitati nelle stanze altrui?”

Non riusciva sul serio, il giovane conte, a capacitarsi del disprezzo che i lagunari serbavano nei confronti della privatezza, molto probabilmente dovuta a quel loro vivere uno attaccato all’altro, in quella grande palafitta ch’era Venezia. Quando suo padre il fu conte Niccolò Maria gli aveva raccontato, di come i consiglieri ducali potessero entrare a loro piacere in camera del Doge e di come nessuna casa potesse rifiutarsi d’aprire la porta ai Signori di Notte, egli aveva giudicato quei resoconti dei pettegolezzi o favole da balia. Il risveglio invero non gli risultò né piacevole né gradito, costatandone l’autenticità.

Il Contarini scrollò incurante le spalle. “Se non avete nulla da nascondere, dove scorgete il problema?”

“E se mi fossi trovato – che so – in compagnia di una donna?”, ipotizzò Guido, porpora in volto al solo pensiero di venire per davvero pizzicato a braghe calate dal provveditore degli stradioti, il quale, stranamente, scoppiò in una grassa risata e un barlume d’antica spensierata gioventù gl’illuminò il volto solitamente serio e flemmatico:

“Oh-oh! Meglio ancora!” e tossicchiò, asciugandosi una ribelle ed ilare lacrima, godendo un poco dell’imbarazzo del minore. Quand’ecco, ripresosi, riassunse la sua consueta espressione pragmatica. “Voialtri, invece di guardarci a bocca aperta alla stregua d’inutili pesci, correte a chiamare le loro signorie, i messeri Ludovico e Francesco!”

Il codazzo di famigli gettarono un’occhiata perplessa al loro padrone, che annuì veloce, approfittandone per vestirsi appropriatamente, mentre Ferigo si serviva d’un bicchiere d’acqua.

“Fate come se foste a casa vostra!”, lo invitò ironico il Rangoni, passandosi una mano sui capelli in battaglia.

“Ma io sono a casa mia”, gli fece presente ineffabile il Contarini. “Ben svegliati, miei signori”, salutò egli i fratelli minori del conte, i quali entrarono circospetti nella stanza, chiedendo ansiosi con lo sguardo ulteriori informazioni al capofamiglia, giacché solo brutte notizie portavano le inaspettate visite notturne.

“Ebbene?”, lo spronò Guido, una volta congedati i servi.

“I nostri esploratori ci riferiscono, come Federico Gonzaga di Bozzolo sia impegnato in continui andirivieni da Verona a Vicenza, dove è stazionato il suo parente, Giovanni Gonzaga.”

“Questo già lo sappiamo: i due stanno rifornendo le truppe, per poi partire alla volta di Treviso”, rimarcò il Rangoni, accantonando imbarazzi e sdegni, per concentrarsi e ragionare sulla prossima missione. Anche i suoi fratelli avevano assunto la medesima espressione attenta, prendendo posto accanto al maggiore.

“Ma non che il Gonzaga di Bozzolo prende sempre la stessa via, quella di Soave.”

“Che si trova esattamente a metà strada tra Verona e Vicenza”, mormorò Ludovico Rangoni, illuminandoglisi il volto dalla realizzazione. “Ed è un “feudo” di Mercurio Bua, ergo un territorio sicuro e alleato.”

“Se lo catturassimo, quel Gonzaga ci frutterebbe parecchio!”, esclamò deliziato Francesco Rangoni. Anche perché, oltre ad appartenere ad un casato illustre, Federico di Bozzolo era un valido condottiero, tra i più capaci della Lega. La sua cattura sarebbe corrisposta ad un duro colpo, sia materiale che morale. “Sarebbe una preda di gran conto!”

“Nah, i Gonzaga non pagano i riscatti: cambiano direttamente bandiera! Guarda quel pluri-voltagabbana del Marchese di Mantova!”, scherzò Ludovico, contagiando il minore.

Sier Ferigo Contarini concesse ai modenesi qualche istante per sognare ad occhi aperti, trattenendo per sé il vero destino che la Signoria voleva riservare al Gonzaga di Bozzolo, che in quanto a ferocia contro la popolazione inerme non aveva nulla da invidiare ai franco-imperiali e al traditore Soncino Benzone. Inoltre, fonti sue certe confermavano il sospetto dei Dieci nei confronti di Francesco Gonzaga, la sua bugiarda incostanza ormai universalmente nota, e di fatti gli avevano accodato a sua insaputa delle vigili spie, cosicché, qualora tentasse una fuga per riparare da quella sua moglie “tutta franzosa”, lo facesse in mutande, senza un soldo né un sol soldato. Il giovane provveditore degli stradioti non concepiva come mai i Dieci fossero così riluttanti dallo strangolare il Marchese quando l’avevano imprigionato alla Torresella, magari nel sonno, o al campo mentre era congiunto a qualche puttana. Sarà anche stato l’eroe di Fornovo, però quel merito apparteneva ad un’altra epoca e ora come ora Ferigo non provava né rispetto né compassione verso quell’infida banderuola, che non si meritava, a sua detta, alcuna morte onorevole. Tanto più che a Mantova Francesco Gonzaga contava quanto un due di bastoni - lo sapevano tutti -  lo Stato retto dalla Marchesa sua moglie a nome del figlio Federico, ostaggio alla corte di Giulio II. A quale pro, dunque, tenere in vita quell’inutile zavorra mantovana, brava soltanto a mangiare a sbavo, peggio d’un parassita? Avessero compartito il medesimo accampamento, al patrizio non sarebbe servito un granché per spedirlo a marcire sottoterra … Se soltanto a Casaloldo l'avesse trafitto con la sua lancia ...

“Quindi i provveditori e il governatore vogliono che attacchiamo Soave?”, intuì Guido Rangoni le intenzioni dei suoi superiori, distogliendo il Contarini dai suoi cupi pensieri omicidi. “Tuttavia mi pare un azzardo verso il fato: Federico di Bozzolo potrebbe non trovarsi a Soave, o cambiare improvvisamente percorso o aver riparato già a Vicenza e lì stabilitosi in via definitiva …  Le varianti sono troppe per una certa cattura.”

“In ogni caso, riconquistare Soave significa erigere una barriera tra Verona e Vicenza, interrompendo ogni comunicazione tra i due Gonzaga”, gli spiegò paziente il provveditore degli stradioti. “La Palisse è stato chiaro: il signor Giovanni deve raggiungerlo a Treviso, ma senza il supporto del signor Federico e tagliandogli la via dei rifornimenti da Verona, le sue truppe ben magro supporto potranno offrire ai franco-imperiali.”

“Sappiamo chi è a guardia di Soave?”, s’informò d’un tratto Francesco, incuriosito.

Il Contarini prese fiato, incominciando la conta sulle dita: “Galeazzo Sforza, contino di Melzo e cognato dell’Imperatore; Sebastiano d’Este q. Nicolò, luogotenente di Federico di Bozzolo e germano del Duca di Ferrara; Manfredi Landriani di Milano; Benedetto de’ Rossi di Parma; il conte Ferrante dal Persico di Cremona e Jacomo Tristam, un manifesto ribelle veronese.”

“Una guarnigione totalmente italiana”, notò Ludovico.

“E’ un problema?”

“Per niente.”

“Quanto tempo abbiamo per prepararci?”, domandò Guido.

“Soltanto domani: al calar della sera, partiamo alla volta di Soave.”

Un sorrisetto furbo s’arricciò sulle labbra del giovane conte modenese. “Suppongo dunque voi abbiate già un piano, signor provveditore.”

Ferigo eguagliò felino la sua espressione complice, estraendo dalla scarsella un pezzo di carta e una sanguigna, delineando puntigliosamente ai tre fratelli Rangoni le dinamiche dell’attacco alla città.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Ed eccoci ritornanti alle vicende del “presente”. Lo stallo tra i franco-imperiali e i veneziani sta per finire e se ne vedranno delle belle, che mi auguro rendere al meglio.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] Narra il Sanudo: “Come in questa matina è venuti do dil campo nemico, tra li altri uno frate, era in la badia di Narvesa, dove è alozato monsignor di la Peliza, el qual è partito perchè el moria da fame e havea mala compagnia, dize, francesi sono di qua di la Piave e todeschi di là, e che il ponte era in man di todeschi e pur haveano comenzà a vegnir vituarie in campo, e ogni zorno più, e pur ancora haveano carestia, ma Conejan, Uderzo, Colalto e quelle ville mandano assai vituarie […]”

Il frate è il nostro Fra’ Anselmo (da noi ribattezzato perché Sanudo ha il vizietto di lasciare anonima la gente) e il secondo, visto che non si sa chi fosse, abbiamo deciso essere appunto Thomà! XD

[2] Narra il Sanudo:  “Item, che una serva di Dio parlò a esso Griti dicendoli aver auto in vision si 'l feva vodo mandar una Padoa d'arzento a la Madona di Loreto di valuta di ducati 100, e cussì Idio mantegniria Padoa. E fe' il voto. S'il par a la Signoria farlo, si no lui el pagerà e farà dil suo etc.

[3] Costantino V Copronimo fu uno dei più convinti iconoclasti ai tempi delle persecuzioni di ogni immagine sacra. Nestorio fu un noto eresiarca ed Eudossia, moglie dell'imperatore Arcadio, perseguitò San Giovanni Crisostomo. Questi tre personaggi storici sono quelli che si possono riconoscere tra i Superbi, nel mosaico della Basilica a Torcello.

[4] Napoli di Romania =  oggidì è Nauplia, nella regione del Peloponneso (noto all’epoca col nome di Morea), nel sud-est della Grecia.

 

 

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Capitolo 32
*** Capitolo Ventottesimo: 26 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 17.12.2021

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Capitolo Ventottesimo

Venerdì 26 settembre 1511

 

 

Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,

storcono le labbra, scuotono il capo:

 

“Si rivolga al Signore; Lui lo liberi,

lo porti in salvo, se davvero lo ama!”.

 

(Salmo 21)

 

 

 

 

 

Prima ancora della luce del giorno, l’accampamento di Nervesa sguazzava in grande agitazione: i soldati raccoglievano in fretta il minimo necessario per la cavalcata che li attendeva, avendo ricevuto l’ordine di viaggiare leggeri e delegando ai compagni lì rimasti il compito di caricare il resto nei carri e di smantellare la tendopoli, bruciando ogni traccia del loro passaggio, prima di raggiungerli nel nuovo luogo designato dal maresciallo.

Diversi gruppi militari presero dunque la via di Montebelluna, altri finsero di marciare verso il Barco, per dirigersi invece di soppiatto lungo la Piave fino alle basse. Artiglierie e carriaggi vennero diretti verso sud, con il Gran Maestro di Francia Jacques de Chabannes de la Palice in testa, armato di tutto punto e con la sua impresa ben visibile, acciocché a Treviso lo si riconoscesse da lontano, non giudicando savio avvicinarsi troppo alle mura.

Il suo piano consisteva in una parata dimostrativa, onde fiaccare lo spirito dei marciani e far loro credere della sua grande potenza e di ogni mancanza di via di fuga; ciononostante, il cuore del maresciallo gli martellava in petto d’una sottile ansia, anch’egli timoroso di una probabile reazione negativa da parte degli assediati che, interpretando la sua apparizione come un tentativo d’attacco, avrebbero a loro volta potuto nuocergli e in maniera affatto dimostrativa. Fortunatamente per La Palice, egli aveva tenuto a mente la lunghezza della gettata dei cannoni, grazie alle informazioni ottenute da Mercurio Bua e Leka Busicchio, e pertanto aveva ordinato ai suoi uomini per nessun motivo al mondo di oltrepassare il livello soglia di sicurezza.

“Les Allemands dovrebbero rientrare entr’oggi”, spiegò La Palice a Teodoro Trivulzio e a Galeazzo Pallavicino, i quali sarebbero rimasti all’accampamento. “Assicuratevi di distruggere il ponte, una volta che l’avranno attraversato.”

“Dove e quando ci riuniremo?”, s’informò il marchese di Busseto, intanto che il generalissimo montava a cavallo, aiutato da un suo paggio.

“A Torre di Maserada, non appena il grosso degli Allemands si sarà ricongiunto a noi”, rispose il francese. “Si Dieu le veut, potrebbe già essere stasera” e dopo essersi segnato, batté gli speroni sui fianchi della bestia e si pose a testa della colonna di gendarmi e cavalleggeri diretta a Treviso.

Galeazzo Pallavicino e Teodoro Trivulzio lo seguirono pensosi con lo sguardo lungo l’intera discesa dalla collinetta dell’Abbazia, per poi voltarsi e rientrare nel cortile interno. Quand’ecco che nel portone d’ingresso s’imbatterono in Mercurio Bua e un suo famiglio, ambedue a cavallo e vestiti solamente della loro lunga e pesante casacca scura, sul capo il rigido cappello di feltro nero al posto dell’elmo, da cui s’intravedeva sotto la fascia scura che tratteneva le trecce tipiche dell’acconciatura degli stradioti.

“Posso domandarvi dove vi recate?”, inquisì acido il Pallavicino, le cui gote ancora bruciavano al ricordo della rampognata da parte del greco-albanese avvenuta il giorno precedente.

Gli angoli della bocca del Bua si contrassero violentemente, gli occhi scuri attraversati da un luccichio infastidito. Il suo famiglio girò il capo nella sua direzione, anticipando da quell’espressione scocciata una replica feroce e mordace a danno del marchese, dei suoi antenati e della sua progenie. 

Contrariamente ad ogni suo prognostico, il viso di Mercurio si rilassò tranne per la sua presa alle redini. “A San Salvatore, dai Conti di Collalto, a porgere visita al povero conte di Gambara”, rivelò infine con sufficienza, come se stesse dialogando con un popolano e non un aristocratico.

“Non sarebbe un po’ troppo presto? Appena albeggia.”

“Vorrà dire che le loro illustrissime signorie m’offriranno la colazione”, non si scompose il condottiero, le cui nari dilatate tradivano una certa impazienza e insofferenza. Appunto per tagliar corto e terminare lì quella a lui fastidiosa conversazione, il capitano di ventura diede un’accelerata alla marcia del cavallo, il quale incominciò a trottare in direzione del Castello, abbandonando lì, imbambolati peggio di due allocchi, gli interdetti nobiluomini lombardi.

L’obiettivo finale della sua visita si presentava molto semplice: se il conte Gianfrancesco ormai non poteva seguirli fino a Treviso, sicuramente i suoi uomini non sarebbero stati altrettanto scusati e Mercurio meditava d’aggregarli alla sua compagnia, giacché ambedue i condottieri militavano per l’Imperatore. Sarebbe stato folle, a seguito delle numerose perdite subite dai vari agguati e dalla pestilenza, di permettere a chicchessia di disertare il campo, anche se legalmente, cioè rimanendo accanto al proprio capitano ammalato.

Tentar non nuoceva: i bresciani del Gambara sicuramente non appartenevano alla sua gente, però il Bua non voleva lasciare nulla d’intentato. Quei soldati avrebbero sempre fatto in tempo ad essere ridistribuiti tra le compagnie del Trivulzio, del Sanseverino e del Pallavicino, ma l’epirota voleva anticiparli e servirsi, alla peggiore, dei migliori di loro per lasciare a quei lombardi soltanto le briciole.

Come profetato dal marchese di Busseto, in effetti l’arrivo molto temprano di Mercurio scombussolò gli abitanti del Castello; nondimeno, lo si accolse ugualmente, indirizzandolo verso gli alloggi del Gambara mentre gli promettevano una pingue refezione.

La camera del conte bresciano puzzava dell’acre e pesante tanfo della malattia, un misto di sudore fresco e vecchio, di lenzuola umide e sporche, nonché d’umori e di feci che, malgrado la premura del servo di svuotare quanto più frequentemente il pitale, seguitava testardo ad indugiare nell’aria, ammorbandola. Mercurio storse inconsciamente per un istante il naso, grattandoselo come se potesse fisicamente strappare via quel lezzo dalle narici. S’avvicinò cauto al letto dell’ammalato, pigliando una sedia e sistemandosi a debita distanza.

Gianfrancesco di Gambara sbatté le ciglia confuso, aguzzando la vista come se non riuscisse a distinguere le forme del viso del greco-albanese, a malapena delineate dalla fioca luce mattutina.  Si scostò via dalla fronte cinerea qualche ciocca di capelli bagnati e appiccicati tra di loro, puntellandosi debolmente sui gomiti onde poter discorrere meglio con l’ospite inaspettato. Il suo valletto, rapido, si premurò di sistemargli meglio il cuscino dietro la schiena.

“Che posso fare per voi, capitano Mercurio?”, fu lo stanco saluto del conte, in attesa che il famiglio terminasse di prepararlo, avvolgendogli le spalle con un pesante scialle di lana, poiché i brividi avevano ripreso a tormentarlo.

“I vostri uomini”, venne subito al dunque il Bua, “volevo sapere che intenzione avete nei loro confronti.”

Il bresciano lo fissò lungamente, per poi chiudere le palpebre doloranti. “Starà al maresciallo La Palissa di decidere. Per me, io li riporto a Brescia. Alla fine non sono ancora morto e la mia compagnia non è ancora stata ufficialmente sciolta”, disse e i suoi occhi velati dalla malattia guizzarono d’un subitaneo fulgore di rimprovero.

“Indubbiamente”, ribatté ineffabile Mercurio, incrociando al petto le braccia. “Ciononostante, bisogna valutare ogni possibilità ed essere pronti all’evenienza.”

“E voi in questo siete maestro”, sbuffò sarcastico il conte Gianfrancesco, guadagnandosi un’incurante scrollatina di spalle da parte del condottiere.

“La morte corrisponde ad una nostra fedelissima compagna”, sentenziò quest’ultimo serafico. “Quando mangiamo, quando cavalchiamo, perfino quando scopiamo essa ci alleggia sempre sopra il capo. Perché questo vostro timore di discuterne apertamente? Ormai è risaputo che voi siete gravemente ammalato: potete guarire, potete raggiungere il Creatore, però io non sono così fatalista da dire: nulla ci garantisce il futuro. Io me lo voglio garantire ed eccomi qui per domandarvi di cedermi i vostri migliori uomini.”

“Mors tua vita mea?”, ridacchiò beffardo il Gambara, scuotendo il capo dinanzi a tanta pragmatica sfacciataggine.

“No, piuttosto: fallire nel pianificare è pianificare di fallire”, lo corresse inflessibile Mercurio.

“Io seguito a vivere e voi già vi volete servire dei miei soldati?!”, s’inalberò il nobile bresciano, verbalizzando finalmente il suo malessere e indignazione. “Non avete neanche la decenza d’aspettare?”

Il Bua arricciò maligno la bocca in un sogghigno. “Vi ricordo, signor conte, che voi mi avete sottratto il mio prigioniero quando caddi ferito. Non azzardatevi a farmi la morale, in avidità siamo colleghi.”

Il conte Gianfrancesco mosse le labbra violacee come se volesse difendersi da quella veritiera accusa; desistette, mordendosi frustrato l’interno della guancia. Soltanto lui sapeva che non si trattava d’ingordigia, la sua, però non poteva certo rivelarlo all’altro condottiero. “Ripeto: in caso di mia morte, starà a La Palissa di ridistribuire la mia compagnia. Fintanto che vivrò, essa rimarrà ai miei comandi”, fu la sua ultima parola e, stranamente, il greco-albanese non si scompose, chinando in accettazione il capo.

Pazienza, ci aveva provato.

“Si vocifera che i tedeschi stiano ritornando dalla Patria del Friuli e che il maresciallo abbia lasciato Nervesa”, riprese più conciliante il Gambara, interrompendo il teso silenzio interpostosi tra di loro.

“Corretto.”

“Quindi quest’assedio si farà.”

“Così parrebbe”, si grattò Mercurio il mento, osservando il paesaggio boscoso dalla finestra, là dove si stagliavano le sagome dei monti friulani sul cielo grigiastro e foriero dell’ennesimo acquazzone. “Stando ai nostri esploratori, la conquista della Patria è pressoché completa. Gradisca è flagellata da una pesante pestilenza e gli imperiali non demordono nell’assedio. Ed io ho come la sensazione, che lì i soldati non siano così devoti da lasciarsi morire di peste per la difesa di San Marco, non se hanno una minima possibilità di salvare la propria pellaccia. Le proposte di Georg von Liechtenstein alla fine non appaiono così malvagie e irragionevoli.”

“L’Imperatore ne sarà contento”, asserì ambiguo il nobile bresciano, appoggiandosi stancamente sui cuscini. “Tutto sta procedendo secondo i suoi piani: ora come ora, gli manca d’occupare solo il Cadore e Treviso. In questo mi dispiace di deludere la Sacra Cesarea Maestà, poiché mi trovo impossibilitato a contribuire di persona.”

Le orecchie vigili di Mercurio s’alzarono a mo’ d’antenna di lumaca alla menzione del Cadore, regione mai nominata apertamente nei piani di conquista del Re dei Romani, non a seguito della debacle del 1509. Che significava? Non dovevano limitarsi a Treviso? Già la Patria del Friuli era stato un fortunato fuoriprogramma, ma cos’erano tutte quelle deviazioni? Senza poi consultarlo, proprio lui che Maximilian aveva nominato suo consigliere di guerra!

“Abbiamo combattuto fianco a fianco a Fornovo e a Novara. Mi rincresce che non lo faremo anche a Treviso”, dichiarò il greco-albanese l’opposto dei suoi veri pensieri, studiando vorace ogni singola reazione sul viso stravolto del Gambara, in cerca della benché minima informazione su quella sgradita novità. In qualità di rappresentante dell’Imperatore in campo, forse egli sapeva qualcosa che Mercurio ignorava? In quel caso, doveva apprenderlo senza destare eccessivi sospetti. Non fosse mai che il conte Gianfrancesco riferisse al Re dei Romani della poca fiducia del Bua nei suoi confronti.

“Sia fatta la volontà di Dio”, mormorò stanco l’ammalato, sorprendendo il capitano degli stradioti, il quale strabuzzò disorientato gli occhi, sporgendosi inconsciamente in avanti, incredulo.

“Non v’immaginavo così rassegnato”, aggrottò la fronte, guardingo. “Guarirete e presto anche”, fu il suo burbero modo di consolarlo.

Peccato che il conte Gianfrancesco non seppe apprezzare quel suo gesto. “Nulla mi tange, nulla m’importa più di questa guerra”, asserì infatti, “voglio solo rivedere i miei figli e i miei nipoti prima di morire.”

“Ritornerete dunque a Brescia?”, si conformò mesto il Bua, rammaricandosi nel suo intimo della svanita prospettiva di giovarsi di quei valenti soldati. “Non sarà un viaggio troppo faticoso nelle vostre condizioni?”

“Dopo l’incontro col cardinale Federico Sanseverino, sì, ho ottenuto il permesso da La Palissa di rientrare nei miei possedimenti a Pralboino. Certamente sussiste il rischio che tiri prima le cuoia, però … ” però almeno sarebbe morto in sella, dignitosamente, non alla stregua d’un mendicante nell’altrui casa.

“Vi penserò, una volta a Treviso.”

“Sì, voi andrete a Treviso”, convenne il Gambara, abbozzando ad un sorrisetto cospiratore. “Come condottiere della Serenissima.”

Neanche l’avesse punto uno scorpione, Mercurio balzò su dalla sedia, la quale cadde rumorosamente per terra, provocando uno spaventato sussulto nel servo del conte.  “Giammai!”, ringhiò bellicoso il greco-albanese, arrossendo alla stregua d’una mela matura, indignatissimo da quell’insinuazione che, se udita dalle orecchie sbagliate, poteva costargli il collo per tradimento e diserzione.

“Suvvia, capitano Bua”, non si fece ingannare di certo il conte Gianfrancesco da quella violenta reazione, semmai aumentando l’estensione del suo ghigno pressoché scheletrico a causa della malattia. “Non nascondetevi dietro un dito: voi siete un pessimo perdente, il vostro orgoglio più forte del vostro onore. Non sopportate l’idea di perdere: vi ricordo che avete abbandonato la Signoria quand’era in difficoltà a Pisa contro Firenze; avete abbandonato il Moro, dopo la capitolazione di Novara; vi siete stufato di servire il Re di Francia dopo la sua sconfitta da parte dei Cattolici a Napoli. Appunto perché ormai vi conosco abbastanza bene, scommetto che, dovessero le sorti della guerra incominciare a pendere dalla parte di Venezia, voi ritornerete da lei, perché questa è la vostra filosofia di vita: vincere e sopravvivere ad ogni costo. E non vi biasimo, voi provenite da terre infelici, assediate da feroci e implacabili nemici, mentre noialtri …”, e il nobile bresciano scosse il capo, sospirando amaro, “noi ci siamo rammolliti e abbiamo perduto ogni dignità; ci siamo prostituiti per continuare a vivere nei privilegi, piuttosto di combattere per mantenere la nostra indipendenza ...”

“Massimiliano sta conquistando con successo la Patria del Friuli e lui stesso s’unirà alle nostre truppe nell’assedio di Treviso. Voi farneticate d’un futuro irrealizzabile”, si difese prontamente Mercurio, avvertendo gocce di sudore freddo scendergli lungo la nuca a causa della schietta e impietosa lista dei suoi cambi di partito. Di cosa l’accusava? Non era forse un mercenario? Non serviva il migliore offerente? Perché rinfacciargli quegli eventi passati?

“L’Imperatore scenderà certamente, per invadere il Cadore e per svernare o lì o in Friuli, al sicuro e rifocillato, mentre voi e La Palissa rischierete la vita e l’onore a Treviso”, continuò imperterrito il Gambara, tallonando serratamente cogli occhi ogni singolo movimento del Bua, il quale aveva meccanicamente raccolto la sedia, riprendendovi posto. “Massimiliano sta sfruttando l’esercito francese per i suoi piani di conquista e, una volta sottomessa l’intera Terraferma, forte della sua potenza punterà alla Lombardia ai danni del suo alleato il Re di Francia per rimettere sul trono ducale di Milano i figli esiliati del Moro, suoi cugini per matrimonio.”

Il volto del greco-albanese si tramutò in duro granito, inespressivo e imperturbabile, tuttavia al bresciano non sfuggirono le lievi contrazioni delle sue dita, tamburellanti indisciplinate sulle ginocchia. Né tantomeno sorpassò sul lento dilatarsi delle sue nari, come se il condottiero si stesse imponendo di non afferrarlo per la collottola e sguarattarlo fino a fargli vomitare le budella. “E se anche fosse?”, giocò al nesci Mercurio in un sibilo astioso, indeciso se arrabbiarsi di più contro se stesso o contro quell’infame dell’Habsburg, che ad ogni occasione tentava di fregarlo. “A me non cambierebbe nulla, poiché io servo l’Imperatore.”

“Il quale vi ha impedito di guadare la Piave e far provvista, equiparandovi ai suoi alleati francesi. Vi sfrutta, ma non v’apprezza”, puntualizzò il conte Gianfrancesco, rinvangando sadicamente quello spiacevole dettaglio, il medesimo che, tempo addietro, Hironimo Miani aveva fatto notare al Bua.

Non ti è sembrato strano l’ordine dell’Imperatore, che sanciva la Piave a limite invalicabile soltanto alle truppe francesi e ai tuoi stradioti?

“Io odio la Signoria e non cambierò mai bandiera!”, gridò subitaneamente Mercurio, onde chetare sia la voce del veneziano sia quell’assurde calunnie da parte del Gambara.

“Eppure, Massimiliano stesso sta nuovamente inviando proposte di pace alla Signoria. Mi spiegate come mai uno che sta vincendo così sfacciatamente, all’improvviso vuole terminare in fretta la partita? Perché sa che non potrà conservare a lungo le sue vittorie, dovesse il gioco proseguire imperterrito!”

“Se così fosse, allora vorrà dire che militerò di nuovo per il Re di Francia! Ma dalla Signoria non ci ritorno!”, ribadì, battendo le mani pesantemente sulle cosce, affatto contento di quel metterlo con le spalle al muro e al contempo di ridicolizzarlo. Passasse per il patrizio, che certamente agiva così per invidia e per confonderlo, ma pure ora il Gambara spargeva sale sulle ferite? Il rappresentante dell’Imperatore per di più? Una noce nel sacco non fa rumore, due però … Poteva sussistere la minima possibilità che ambedue stessero affermando il vero? Che Maximilian si stesse servendo vigliaccamente di loro, non stimandoli in realtà nulla?

Me lo vedo Massimiliano cinguettarti a lavoro terminato: “Ben fatto, Mercurio; bravo, Mercurio; ottimo lavoro, Mercurio! Grazie, Mercurio,  per aver sacrificato all’altare del mio prestigio la tua vita e quella dei tuoi uomini; grazie per aver rinunciato per amor mio a tua moglie e a tua figlia!”

“Ritornerete al servizio della Signoria, eccome, similmente al figliol prodigo e lei non vi lascerà mai più, perché è matrigna: tanto generosa quanto esigente ...”, concluse il discorso il conte Gianfrancesco, socchiudendo ieratico gli occhi, trionfante di quella sua certezza. Adesso il Bua negava e protestava, ciononostante non serbava amore per chi lo corbellava o non gli permetteva di guerreggiare a suo gusto, frenandolo nella vittoria. Maximilian lo stava sottovalutando, giudicandolo innocuo, invece del cavallo pazzo che in realtà era. Forse non oggi né domani né fra un mese o un anno, ma il dì della diserzione del greco- albanese quell’arrogante d’un Habsburg si sarebbe pentito di quella sua cecità e ciò sinceramente al Gambara non suscitava alcun sentimento di commiserazione.

“Voi vaneggiate, signor conte. Io non abbandonerò mai il servizio dell’Imperatore”, reiterò fumante il capitano degli stradioti, crocifiggendo con lo sguardo il serafico nobiluomo, che di fatti replicò velenosamente carezzevole:

“La vostra famiglia l’ha già fatto, Mercurio Bua Spata. E siete voi forse un Caino, che leva la sua spada contro il suo medesimo sangue?”

 

***

 

Il capitano Andrea Vassallo controllava con un occhio l’armizzo dei burchi, mentre con l’altro l’intenso viavai di marinai sul barcharezo, i quali stivavano al ritmo serrato e composto d’operose formiche le staie di farina sotto il bàito dell’imbarcazione. Appollaiato in testa all’albero di prua, stava di vedetta il gato, il quale scrutava vigile l’orizzonte in cerca d’eventuali sagome di saccomanni o stradioti nemici, prontissimo ad avvertire i suoi compagni e soprattutto i balestrieri giunti assieme a loro a mo’ di scorta.

Dal fallito attacco a Musestre, tutti i duecentouno marinai giunti da Venezia erano stati spediti a ritirare dai mulini le farine e ogni burchio e ganzàra ormeggiati lungo il Sile, i nervi a fiori di pelle dall’ansia di ritrovarsi a tu-per-tu coi Collegati. La trafelata staffetta proveniente da Treviso aveva avvertito il capitano Vassallo della partenza di buona parte dell’esercito nemico da Nervesa e di come si muovesse questi lungo la Piave con artiglierie e carriaggi: stessero pertanto in allerta e pronti a possibili assalti, avendo intravisto gli esploratori veneziani dei cavalleggeri francesi aggirarsi per la Callalta.

“Sior capetanio”, s’avvicinò il nochièr ad Andrea Vassallo, toccandosi il bordo della bereta a mo’ di rispetto. “Ghemo justo finio d’armizar l’ultimo burcio. Co’ volé, semo pronti per desarmizar.”

Il capitano annuì e ringraziò il nochièr per il rapido ed eccellente lavoro. “Levate el fèro!”, comandò ai marinai, una volta salito sul quartiero del burchio, mentre gli uomini scioglievano le cime dalle dame e drizzavano le vele ocra degli alborazi per navigare a daredosso. “Chiapar tuti i remi!”, ordinò Vassallo ai rematori, che si preparassero all’imminente voga.

Appena l’ancora veniva issata a bordo della prodiera, ecco che il gato dalla sua postazione lanciò il temutissimo allarme: “Cavali lizieri, sior capetanio!”

Andrea Vassallo girò di scatto la testa nella direzione indicata dal marinaio. Non scorgendo tuttavia niente, trovandosi troppo in basso, si diresse al poparìn dal pope e da lì a sua volta gridò: “Calar i remi in barba! Pupe, a stagando! Vogar a la desperada!”

In sincronia perfetta i vogatori sul lai de pope batterono i remi in acqua e il burchio virò velocemente sulla destra, per poi raddrizzarsi e proseguire dritto accodandosi a quelli già in navigazione, unitisi i prove sui lai de mèso alla voga, al grido di “Dai de longo!” e “Pògia la banda!”, avendo fortunatamente il vento in poppa, imbulando le vele e spingendo il burchio in avanti più agevolmente, malgrado la resistenza della corrente contraria del Sile. Il gato fece su cicogna e segnalò, facendo manto, al capitano dell’imbarcazione davanti loro dell’avvistamento dei cavalleggeri francesi. A catena venne l’informazione condivisa tra i burchi e costoro acquisirono improvvisamente velocità e l’eco di “Premi! Premi!” riverberava nella frizzante aria settembrina, mescolandosi al vento impetuoso foriero di temporale.

“Ala! Ala!”, s’incoraggiavano tra di loro i rematori del burchio del Vassallo, l’ultimo della colonna d’imbarcazioni e pertanto il più vulnerabile. Sia i pupe che i prove grugnivano dallo sforzo improvviso, i volti rigati da rivoli di sudore e la loro camicia divenuta semitrasparente, attaccandosi alla pelle. “Bativóga! Bativóga!”, li esortava il portolàn davanti al pope tra uno sbuffo e l’altro, dando il ritmo alla vogata, sempre più rapida e indiavolata. “Bativóga, fioi de Sen Marcho!”, si sgolava, sputando fuoribordo il sudore che gli colava in bocca.

Assicuratosi d’essersi ben allontanati dalla pericolosa riva, il capitano Andrea ritornò allora al quartiero, coordinando l’allineamento dei balestrieri all’impavesata a pògia, i quali sistemarono rapidi i loro pavesi rossi, tenendo i saccomanni francesi sottotiro, non appena questi si palesarono sulla riva del fiume, uscendo finalmente allo scoperto, anch’essi armati di balestre.

“Zòso! Zòso!”, fece cenno il capitano ai vogatori d’abbassarsi quel tanto da ripararsi dietro i pavesi, quest’ultimi che presero a tremare dal secco colpo incassato delle frecce nemiche. “Premi! Bativóga!”

“Ala! Ala!”

Un cavalleggero francese, seguendo il tragitto del burchio e giudicando d’aver trovato una fessura tra gli scudi difensivi sull’impavesata, finì puntualmente fiocinato prima ancora di prendere la mira da un balestriere marciano e con lui anche il compagno che l’aveva appena raggiunto; ambedue cascarono rumorosamente in acqua, dopo aver rotolato sulla riva fangosa e ricoperta di giunchi, tanto da persuadere gli altri francesi a desistere dall’impresa e ritornare sui propri passi, realizzando quanto pure loro si trovassero sulla traiettoria nemica.

Fortunatamente, Melma non distanziava troppo da Treviso e la sospirata sagoma del torrione di San Polo e del porto si palesò in fretta. “Quatro de bone!”, comandò giubilante il capitano Vassallo, acciocché l’equipaggio rinforzasse il ritmo e la spinta della vogata, in un’ultima accelerazione verso la salvifica meta finale. “Quatro de bone e semo salvi!”

“Premi! Premi!”

“Bativóga! Bativóga!”

“Oh … ehi! Oh … ehi!”

Ancora gli ultimi tratti di fiume …

“Vòge!”, giunse l’agognato ordine agli orecchi degli sfiniti rematori. “Leva remo!”, gridò il capitano Vassallo all’equipaggio di cessare la vogata, alzando i remi fuor d’acqua, non prima che i vogatori s’accasciassero per qualche istante su di essi, respirando a grosse boccate e detergendosi il sudore dalla fronte con le maniche altrettanto bagnate. Nel frattanto, delle barchette guidavano le manovre dei burchi, in modo ch’attraccassero al logo de sbarco e i morè assieme ai marinai meno stanchi si prepararono a scaricare le staie di farine.

Dalla fretta con cui venne sbrigata l’intera manovra e dalle facce tese dei soldati al porto, il capitano Andrea intuì lesto che lui e il suo equipaggio non erano stati i soli ad aver avvistato e incrociato dei contingenti francesi.

E la sua teoria venne confermata infatti dal serrato rullo di tamburi provenienti dalle casematte e da ogni angolo delle mura, seguito a ruota dalla campana del Campanón de 'l Cànpo e dal grido di “Arme! Arme!” dalle sentinelle a Porta San Tomaso.

“Dov’è il magnifico sier Provedador?”, afferrò il Vassallo un fante per il braccio, bloccandolo. “Debbo comunicargli un fatto molto grave!”

“Al bastion di la Madona!”

In brevissimo tempo, mentre il capitano correva da sier Zuam Paulo Gradenigo, i soldati marciani si posizionavano precisi e puntuali ciascun al suo posto, avvezzi ormai alle continue esercitazioni; Giorgio da Cattaro, Michiel Scariolo, Paulo da Venezia e Gasparo de la Mola - i bombardieri della porta e del torrione di San Tomaso fino a quello di San Bartolomeo -  presero rapidi posizione dietro ai loro sacri, falconetti e alle bombardelle e spingarde, mentre i balestrieri e gli archibugieri venivano diretti alle loro postazioni dal condottiero Carlo Corso, il quale mandò uno dei suoi fanti ad avvisare il capitano Renzo di Ceri.

Un timido sole fece capolino dalle densi nubi grigiastre, segnalando il raggiungimento di metà mattina e soprattutto illuminando i luccicanti corsaletti dei  tre distaccamenti di duecento cavalieri ciascuno, capitanati personalmente dal maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, ben visibile grazia alla sua imponente armatura e alle alte piume del suo pennacchio scosse dall’umido vento di levante. Un palafreniere teneva fermo il cavallo del maresciallo per il montante del filetto, mentre i due vessilliferi accanto a lui sventolavano i gigli di Francia, l’aquila imperiale e l’impresa della casata del generalissimo.

Malgrado la grande e minacciosa pompa e lo schieramento compatto, le tre compagnie se ne stavano cautamente a debita distanza, muovendosi piuttosto sul proprio lato quasi stessero costeggiando le mura, non osando avanzare verso di esse, chiaro segno che si trattava la loro di una manovra dimostrativa, senza alcun’intenzione di provocare uno scontro diretto. Questo finché un gruppo di sedici cavalieri francesi si portò più presso e fu allora che il comandante Carlo Corso diede ordine ai balestrieri di scoccare le loro frecce: nessun nemico venne colpito, ciononostante i francesi rincularono prontamente, avendo capito d’essersi appropinquati troppo, se le balestre potevano comodamente raggiungerli.

“Riusciamo a colpire la Palissa?”, s’informò Renzo di Ceri, fissando avido dalla finestrella il vessillo accanto a cui stava solenne e impettito il generalissimo francese, sovvenendosi l’Orsini del panico degli imperiali alla battaglia di Tai di Cadore, quando Rinieri della Sassetta aveva infilzato con la sua picca il comandante tedesco Sixt von Trautson. Uccidi il pastore e il gregge si disperde, chissà se la morte di La Palice non avesse sortito il medesimo effetto …

Più e più volte Giorgio da Cattaro posizionò e riposizionò la bocca del sacro, spingendolo quanto più possibile in avanti onde allungare il tiro. “No, si trova troppo lontano”, s’arrese infine il bombardiere, piccato quanto il capitano delle fanterie, che imprecò rabbioso tra i denti.

Improvvisamente, un colpo di colubrina fendette l’aria e la riempì sia d’acre odore di polvere da sparo sia di nitriti spaventati ed esclamazioni di sorpresa: Girolamo da Faenza, bombardiere al bastione della Madonna, aveva intercettato quei sedici cavalleggeri che, malgrado l’avvertimento dei balestrieri di Carlo Corso, imperterriti avevano continuato a girare attorno alle mura lungo il fiume Botteniga. Sicché, il comandante Cipriano da Forlì, infastidito da cotanta arroganza, aveva dato ordine di sparare un colpo, con la benedizione del provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, lì a controllare quelle manovre sospette. Dopodiché, sceso il patrizio veneziano dal bastione, salì egli a cavallo per raggiunse Porta San Tomaso e il capitano Orsini.

“Per l’intera Corte Trionfante, cosa crede di concludere La Palissa con questa sua buffonata?”, tuonò il capitano Vitello Vitelli, aggregandosi al duo. Era giunto di gran fretta dalla sua postazione e il suo cavallo, eccitato dalla corsa, ancora si ribellava agli ordini delle redini del morso, scuotendo nervoso il capo e indietreggiando.

“Sarà certamente venuto a studiare il territorio, in particolare dove piantare le artiglierie e dove accamparsi indisturbati”, riassunse Renzo di Ceri la sua personale teoria. “Di sicuro si sarà informato sul tiro dei nostri cannoni, poiché per il momento è impossibile colpirlo. E con seicento cavalieri dubito voglia attaccare. Vuole soltanto intimidirci.”

“Dunque risponderemo alla paura con la paura”, sentenziò spiccio sier Zuam Paulo Gradenigo. “Capitano Vitello, uscite assieme a tutti i vostri balestrieri. Vi faranno da scorta le nostre compagnie di stradioti al gran completo.”

“Volete ingaggiarli in combattimento?”, reclinò il capo il condottiero, assottigliando pensoso gli occhi, confuso da quella tattica assai drastica.

“La Palissa sa che non gli conviene: alla fine dei giochi, non può contare che su seicento uomini e per di più si trova sprovvisto d’artiglieria. Se vuole evitare un’inutile mattanza, non gli rimane altro che indietreggiare e ritirarsi, se voi avanzerete compatti”, capì invece Renzo di Ceri l’intenzione del provveditore, ritrovandosi d’accordo con lui: se il maresciallo voleva mostrare i denti, loro gli avrebbero risposto mostrando i propri.

In quel momento si presentò il capitano Andrea Vassallo, arrestando bruscamente la sua corsa e, piegatosi a metà, poggiò le mani sulle ginocchia, ansimando, prima di ripigliarsi e annunciare a sier Gradenigo: “Magnifico sier Provedador, zelenza. Abbiamo avvistato pattuglie di saccomanni a Melma: per un soffio siamo riusciti ad evitarli, portando al sicuro tutti burchi e le farine!”

Sier Zuam Paulo aggrottò la fronte, affatto contento di tale novità e al contempo non sorpreso da essa: se invero l’esercito nemico aveva levato il campo da Nervesa, era ovvio che prima o poi i rispettivi soldati si sarebbero imbattuti e scontrati tra di loro. “Non si tratta soltanto di una manovra dimostrativa o d’avanscoperta”, confidò infine il patrizio i suoi sospetti ai due capitani di ventura, “bensì di uno specchietto per le allodole: mentre noi ci focalizziamo su monsignore di La Peliza e i suoi gendarmi, i saccomanni e i cavalleggeri francesi ci saccheggiano alle nostre spalle i mulini del Sile e tutte le terre della bassa lungo la Piave. Astuto, il franzoso.”

“Non è improbabile che i suoi si trovino ancora lì”, commentò cupo l’Orsini, non avendo considerato anche quell’aspetto del piano del generalissimo francese.

“Allora ripaghiamolo della stessa moneta”, suggerì Vitello Vitelli, raddrizzandosi in sella. “Domanderò al capitano Piero da Novelon di darmi dodici dei suoi archibugieri per rimpolpare la mia compagnia, oltre a cento fanti, i quali si staccheranno e cavalcheranno fino a Melma a difesa dei mulini e in particolare per spazzar via questi molesti mosconi gallici.”

“Oramai quest’assedio avrà luogo, è ufficiale”, concluse il capitano delle fanterie, acconsento immediatamente alla richiesta del collega di cedergli gli uomini necessari alla sua manovra. “Possiamo soltanto posticiparlo di qualche giorno, ma non più evitarlo.”

“L’importante”, rimarcò gravemente sier Zuam Paulo, “è che i loro esploratori non s’avvicino mai a Porta Altinia, poiché sappiamo corrispondere al nostro punto debole. Mi recherò subito a conferire coi connestabili alla porta e ai bastioni adiacenti, nonché coi loro bombardieri. Anche il Castello che presidia la via per Mestre verrà allertato.”

“Alcuni nostri esploratori ancora non sono rientrati dalla loro perlustrazione: voglia il Cielo che già stasera scopriremo l’esatta ubicazione del nuovo accampamento nemico”, s’augurò Vitello Vitelli, mentre Renzo di Ceri domandò al provveditore:

“Orlando da Bergamo ha ripreso la sua postazione sul campanile di San Nicolò?”

“Dobbiamo ringraziare quel formidabile capo-bombardiere, se abbiamo avvistato immediatamente monsignore di La Peliza”, gli rivelò sier Gradenigo, trattenendo a stento un sornione sogghigno soddisfatto e ringraziando l’occhio di falco del bergamasco. “Bisognerà raddoppiare la guardia e rimanere vigilantissimi: la Peliza ha fatto la sua mossa e non si può escludere che sia perfino riuscito a convincere i Todeschi a riattraversare la Piave. Ricordatevi, che quest’ultimi ritornano con provviste, artiglierie e munizioni sottratte alle roccaforti della Patria del Friuli. Ergo, ora come ora dobbiamo attenderci ogni sorta d’iniziativa da parte dei Collegati.”

“Possano crepare all’inferno, se s’avvicinano a queste mura!”

“Dio v’esaudisca, capitan Lorenzo Orsini degli Anguillara, Dio v’esaudisca …”

Ignari di quanto si pianificava all’interno di Treviso, il maresciallo de La Palice, i capitani du Boisy, du Molard e Giulio Sanseverino studiavano in un misto di stupore e sgomento le nuove e robuste mura difensive, chiedendosi se in verità non avessero fatto stavolta il passo più lungo della gamba.

In tale massiccia opera bellica già altrove s’erano imbattuti, ma mai costruita in sì poco tempo, come se Treviso li avesse sempre attesi, pronta a combattere.

“Non è una città”, mormorò esterrefatto Sanseverino, “è una fortezza vera e propria!”

Sbatteva le ciglia, incapace di conciliare i vaghi ricordi d’infanzia, che possedeva della capitale della Marca, con quanto gli si stava presentando innanzi. Nelle occasioni in cui aveva transitato per Treviso – quando appena decenne aveva accompagnato i suoi fratellastri Galeazzo, Gaspare e Antonio Maria ad una giostra a Venezia o semplicemente quando da lì si recava per raggiungere i feudi di Cittadella di suo padre, il fu Roberto Sanseverino, condottiero della Serenissima -  Giulio si sovveniva di antiche e cadenti mura piombate, alte, merlate, costruite di pietre cotte come ai tempi degli Scaligeri, facilmente abbattibili da pochi colpi di cannone. Le undici porte cittadine le aveva viste chiuse poi da un risibile catenaccio, manco si trattassero del recinto di una fattoria. E la città, appunto, espansa notevolmente fuori dalla mura in otto popolosi borghi, gaudente e sonnacchiosa.

Nulla di tutto ciò era rimasto, tranne il vorticoso abbraccio del Sile e della Botteniga che assieme ai tre Cagnan circondava possessivo Treviso, due fiumi di risorgiva venerati sin dai tempi antichi, prima ancora dei Romani, dove valorosi guerrieri lanciavano le loro spade in offerta alla Grande Dea Madre loro protettrice.

“Abbiamo assediato fortezze ben più sofisticate”, scrollò le spalle Soffrey du Molard, che in diciassette anni di guerre in Italia poteva ben vantarsi di aver ammirato (e distrutto) numerose roccaforti e città, “queste mura, anche se nuove, non resisteranno ai cannoni che ci arriveranno dal Friuli. Men che meno a quelli ferraresi giuntici da Vérone. E non sarà certo un misero fossato e un po’ d’acqua sporca a fermarci”, aggiunse tracotante.

Al che il Sanseverino digrignò i denti, infastidito da cotanto pressapochismo. “I nostri cannoni non potranno niente contro la forza di ben due fiumi, poiché quest’ultimi ci impediranno anche solo d’avvicinarci alla città”, ribadì in un soffio. E proseguendo: “Il mio signor padre, il fu Roberto Sanseverino d’Aragona, mi raccontò che, nel 1356, il re Luigi d’Ungheria aveva provato a costruire delle gallerie sotto le mura di Treviso, ma il terreno era talmente impregnato d’acqua da far crollare la loro volta, seppellendo vivi i genieri!”, e il labbro inferiore del capitano delle fanterie guascone tremò impercettibilmente dinanzi a quella macabra vicenda militare, immaginandosi assai vivamente le urla di quei disgraziati, soffocati da fango e acqua.

“Tutte le fortezze posseggono un punto debole”, intervenne La Palice per togliere d’impaccio il suo ammutolito connazionale. “Basta trovare quello di Trévise e lì bombardarlo senza tregua, finché non s’otterrà una breccia. Dopodiché, costruiremo delle zattere per entrare in città.”

“Ma cosa ci attenderà, lì dentro?”, cogitò ad alta voce Sanseverino. “Se così velocemente hanno eretto una cinta muraria alla moderna, chi ci assicura che non abbiano avuto tempo e modo di costruire un controfosso all’interno, subito dopo le mura?”

In quel caso, gli assedianti si sarebbero trasformati in sorci in trappola, alla mercé della furia degli assediati, i ruoli rovesciati.

“Finora sembra che sparino soltanto dai bastioni …”, allungò il collo du Boisy, seguendo i movimenti dei sedici cavalleggeri mandati in avanti in esplorazione.

“Magari è quel che ci vogliono far credere”, storse la bocca La Palice. “Attendono che i nostri si spostino davanti ai bastioni e lì colpiscono, acciocché non si sospetti l’esatta ubicazione della loro artiglieria.”

“Le avranno posizionate anche lungo le mura? All’interno?”

“Non si deve escludere come possibilità.”

Un ritmico e sordo rullare di tamburi interruppe bruscamente il maresciallo, costringendolo a fissare interdetto il gruppetto di sedici che, disobbediente agli ordini impartitogli, aveva fatto scompostamente dietrofront e stava cavalcando rapidissimo verso le loro fila.

“Guardate!”, indicò allarmato Giulio Sanseverino, “hanno aperto Porta San Tomaso!”

I tre comandanti francesi aguzzarono la vista, afferrando di riflesso le redini delle rispettive cavalcature. Dietro ai fuggitivi, infatti, usciva una colonna compatta tra balestrieri a cavallo e stradioti, occupando a guisa di fiume in piena quasi l’intero orizzonte davanti a loro. Tra di essi riconobbero immediatamente i capitani Vitello Vitelli e Troilo Orsini che portava il vessillo dorato di San Marco, assieme agli altri capi degli stradioti - i Paleologi, Giorgio Rati, Andrea Pera, Dimitri Megaduca e Teodoro Clada.

“Tenete il passo!”, ordinò Vitelli, al che i giovanissimi tamburini tradussero musicalmente l’ordinata marcia da mantenere. “Se ad un tiro di balestra i francesi ancora non si schiodano dai loro posti, liberissimi di caricarli! Nessun prigioniero, tranne per: La Palissa, du Molart, il Boissi e Sanseverino!”

“Marco! Marco!”, risposero in coro i balestrieri e gli stradioti, quest’ultimi battendo la zagaglia sulle targhe a mo’ d’accompagnamento ai tamburi.

I marciani procedevano in tal guisa lentamente al ritmo cadenzato dettato dai tamburini, i muscolosi cavalli che battevano impazienti gli zoccoli sul fango, sollevandolo; al contempo, la loro marcia possedeva un ché di pesante e minaccioso, le armi di ogni soldato pronte all’uso, senza però mai cedere all’impulso d’accelerare e caricare l’avversario.

“Marco! Marco!”

Il messaggio appariva inevitabilmente lampante: se i francesi non avessero ceduto il terreno, avrebbero trovato guerra e morte sotto le mura. Mancò pochissimo che ambedue gli eserciti si squadrassero specularmente dritti negli occhi, respirando i soldati malamente e scoccando sguardi ora supplici ora ansiosi verso i rispettivi comandanti, che li dessero un ordine chiaro e preciso, se attaccare o indietreggiare o continuare a marciare, ma che non li abbandonassero lì nel dubbio.

“Per oggi ritiriamoci”, proferì infine il maresciallo La Palice dopo un lungo e meditabondo silenzio, cedendo dinanzi all’impossibilità d’uscirne vivo in caso di scontro e apprendendo quanto oramai la sua dimostrazione di forza avesse perduto efficacia, a confronto di quella veneziana. “Fate suonare la ritirata! Senza dare le spalle, non finché non saremo fuori tiro!” e i tamburini francesi fecero da contrappunto a quelli marciani, in un guerresco concerto.

Gradualmente, la linea dei Collegati indietreggiò, guadagnando terreno rispetto a quella veneziana, che anzi aveva rallentato il ritmo di marcia, una volta afferrato il piano dell’avversario.

“Ho commesso un errore”, ammise a malincuore La Palice a du Molard e du Boisy, aggiungendo poi a denti stretti: “Non saremmo dovuti venire in un sol gruppo. Domani ci presenteremo in più distaccamenti: uno qui a Porta San Tomaso; uno a Porta Santi Quaranta; uno a Santa Bona; uno a Fontane ed uno infine a Melma. E lo vedremo, se les Vénitiens posseggono abbastanza gente per rincorrerci in tutte le direzioni!” e detto questo calò irritato la celata dell’elmo, avendo incominciato a piovere.

Vous avez seulement gagné un autre jour de paix, pensò rancoroso il generalissimo francese, battendo gli speroni sul fianco del cavallo. “A San Giorgio e a Torre di Maserada!”, comandò ai gendarmi e lancieri.

Le milizie francesi sparirono così all’orizzonte dopo aver guadagnato sufficiente terreno per voltarsi e galoppare via, senza però accorgersi del drappello di marciani che, staccatosi dalle retrovie dei balestrieri e stradioti, le rincorrevano in via parallela in direzione di Melma.

 

***

 

Rientrato fumante d’ira eppure calmissimo all’Abbazia di Sant’Eustachio, Mercurio Bua prese subito da parte Leka Busicchio e, ordinato ai suoi stradioti di non essere disturbato per nulla al mondo, riferì al collega quanto svelatogli dal conte Gianfrancesco di Gambara, omettendo convenientemente la bislacca profezia da parte del bresciano, che più di ogni altra cosa l’aveva turbato.

Leka aveva ascoltato ogni dettaglio in rigoroso silenzio, le gote che gli si tingevano di vermiglio ad ogni spiacevole rivelazione, in particolare quando Mercurio gli presentò anche le dichiarazioni del suo prigioniero, confrontandole con quelle del Gambara. I due notarono troppe coincidenze da considerarle semplici calunnie per invidia o i vaneggiamenti di un moribondo, semmai vi scovarono una logica precisa, cinica e affatto onorevole nei confronti dei loro sforzi per vincere quella dannata guerra.

“E se corrispondesse ad una strategia per aizzarci l’uno contro l’altro?”, vociò infine Busicchio il suo intimo dubbio, tormentando i guanti di cuoio. Avevano favellato in greco, acciocché nessuno dei comandanti italiani e francesi potessero origliare per caso i loro discorsi. “Il conte di Gambara non ha mai dimostrato una grande trasparenza nelle sue alleanze …”, esplicò molto diplomaticamente la sua opinione, poiché neppure il Bua rifulgeva di cristallina fedeltà verso i suoi committenti.

Nondimeno, il greco-albanese non sembrò darsene cruccio, ribattendo piuttosto: “L’ho pensato anch’io, che credi? Tuttavia, congetture sospette a parte, nei fatti concreti né il Gambara né il veneziano hanno mentito” e si alzò dallo sgabello, pigliando la brocca e servendo sia lui che Leka di un abbondante boccale di mosto. “Certo, se davvero Maximilianos avesse per piano di pugnalare Loudovíkos alle spalle, dopo aver terminato la conquista della Terraferma veneta, obiettivamente a noi ciò non farebbe né caldo né freddo.”

“Purché l’Imperatore non cambi partito in piena guerra, ché noialtri saremo i primi a crepare, sgozzati nel sonno dai nostri ex-alleati. M’inquieta questa sua improvvisa richiesta di pace”, commentò secco Leka, paventando un voltafaccia del Re dei Romani ante di permettere alle sue truppe d’allontanarsi in un posto sicuro. “In ogni modo, non m’appare malvagia come strategia: alla fine, noi serviamo Maximilianos e ci troveremmo sul carro del vincitore, no?”

Mercurio roteò il boccale, studiando assorto il liquido spumoso dentro d’esso. “Io bado ai fatti”, asserì grave, “e quest’ultimi mi stanno parlando chiaro: riservandoci il medesimo trattamento dei francesi, Maximilianos ci ha dimostrato quanto poco gliene cali di noialtri, anzi, pure ci cava dalle spese.”

“Ma …”

“Se davvero ci considerasse alla pari dei suoi soldati, perché ci ha impedito d’attraversare la Piave e di rifornirci in Friuli?”, lo interruppe veemente il Bua, zittendo un intimidito Busicchio, che s’ingobbì quasi su se stesso, sopraffatto da quello scatto violento.“Se davvero ci tenesse a noialtri, perché non muove quel suo culo austriaco e non si presenta qui, a combattere al nostro fianco? Sul serio quell’inconcludente pusillanime è convinto, che per amor suo il re Loudovíkos gli regalerà altre milizie e danari? Per chi l’ha scambiato? Per un Monte di Pietà?”, proseguì furioso Mercurio, puntando l’indice contro Leka, che boccheggiava sconvolto una parvenza di replica, abortendola subito dopo, appurando la sua incapacità di ribattere a quelle lecite obiezioni. “Quello che abbiamo, abbiamo per quest’assedio: il Re di Francia non ci invierà altro, poiché, contrariamente a Maximilianos, non spreca né tempo né uomini a casaccio.”

“Di sicuro gli imperiali già staranno rientrando a Nervesa e …”, farfugliò spaesato Leka, sudando freddo. “E così … così … supereremo di gran numero i veneziani a Treviso … Insomma, non vuole il Re di Francia risarcirsi tramite bottino?”

Il condottiere greco-albanese sogghignò malevolo. “Quale bottino? La conquista di Treviso andrà soltanto a vantaggio di Maximilianos, non certo di Loudovíkos, poiché così hanno deciso nei patti di Cambrai: la terraferma veneta e tutte le sue ricchezze passeranno all’Imperatore. Quindi o il Re di Francia rompe l’alleanza con l’Imperatore e si prende per sé Treviso, oppure s’impegnerà il minimo indispensabile e il biasimo cadrà su Maximilianos, che non è intervenuto tempestivamente.”

“E noialtri?”

“Tra i due medici litiganti, chi ci rimette è il paziente”, sentenziò amaramente sardonico Mercurio, ritornando a sedersi accanto al collega. “Noi moriremo, amico mio, e nessuno ci ringrazierà.”

Il capitano stradiota abbassò il capo, colto da subitanea e frustrata rabbia: sapeva d’essere un mercenario, una spada in vendita, eppure possedeva abbastanza amor proprio da non voler essere sacrificato per colpa dell’altrui idiozia o avidità. E si dolse della sua miopia, per non aver saputo decifrare in tempo gli strani e contradditori atteggiamenti del Re dei Romani: tanto prodigo e affabile, quanto doppio e opportunista, che si cuciva il manto di gloria con le altrui pelli.

Leka si morse il labbro inferiore, spiando di sottecchi la figura immobile e bellicosa del suo collega; per un istante, nutrì una certa invidia verso di lui, rimpiangendo di non possedere il medesimo intuito né la sfacciata ambizione d’imporsi, anche di malagrazia, tra i grandi della terra. Mercurio Bua Spata dettava le sue condizioni per servire come voleva lui, non il suo committente.

“Che facciamo allora? Non possiamo disertare.”

Il Bua intrecciò pensoso le dita tra di loro, portandole sotto il mento. “Niente per il momento: tacciamo e fingiamo ignoranza, ma al contempo accarezziamo i francesi e ce li facciamo amici”, bisbigliò pianissimo a qualche centimetro dalla faccia di Leka. “Se la congettura del Gambara dovesse rivelarsi una calunnia e una strategia per seminare zizzania, rivelandola troppo presto a La Palice noi ci macchieremmo di tradimento e ci impiccherebbero senza neppure darci l’ultima assoluzione. Tuttavia, se il conte stesse dicendo la verità? T’immagini quali benefici possiamo trarne da Loudovíkos?”

“Il quale non sarà contento d’apprendere, come il suo alleato stia progettando di sottrargli Milano, per ridare il ducato ai due Sforza esiliati.”

“Utili marionette dell’Impero, riportando quest’ultimo alla medesima espansione dei tempi antecedenti al Barbarossa: questa è la grande missione di Maximilianos”, convenne il Bua, riproducendo nella sua mente l’ultimo suo incontro tête-à-tête con Maximilian, la sua faccia dal naso deforme, la sua stazza robusta, il suo carattere sanguigno e collerico ben mascherato da cavalleresca cordialità.  

Il greco-albanese riascoltò i progetti dell’Imperatore, pronunciati enfaticamente dinanzi ai suoi comandanti, cancellieri e cortigiani, di come rivendicasse all’Impero il Friuli e la contea di Gorizia; di come considerasse la maggior parte delle città venete appartenenti alla camera imperiale e soprattutto di come insistesse intransigente sui diritti ereditari che deteneva sulla Marca Trevigiana. L’Habsburg s’era perfino spinto a progettare per Venezia un destino di città libera assoggettata all’Impero, che avrebbe inglobato tra quelle della Lega Anseatica, fruttandogli enormi ricchezze e rendendolo il re dell’universo mondo, una volta che avrebbe sconfitto, grazie alle sue nuove galee, i Turchi.

Il condottiere ri-analizzava gli estasiati elogi dell’adulante seguito di Maximilian, di quel lodarlo come un rapido decisionista contrariamente a quel temporeggiatore di suo padre, il fu imperatore Friedrich. Decantavano la sua genialità e il suo coraggio fuori dall'ordinario, che lo precipitavano nelle avventure più arrischiate, chiamandolo osannanti “l'Ultimo Cavaliere”. E a Mercurio non era sfuggito lo sguardo di trionfo dell’Imperatore, quel suo darsi arie ieratiche da predestinato, da Cesare Augusto redivivo, da Carlo Magno, gloriandosi fino alla nausea delle sue vittoriose scaramucce contro i francesi di Louis XI e gli Ungheresi e le città venete che gli avevano praticamente aperto le porte senza manco combattere, cozzando contro la magra figura di Maximilian a Padova, in un vero, cruentissimo assedio.

Sicché, ripensando a tutto questo e specialmente al volto del Re dei Romani con la sua espressione perennemente soddisfatta e benevola di chi non aveva mai dovuto lottare in vita sua per il proprio posto al mondo, che Mercurio allargò perfido il sorriso mentre una sadica gioia gli fluiva nelle vene, realizzando che lui – un semplice condottiero, un nobile decaduto, uno straniero di poco conto – poteva intralciare questa sorta di semidio in terra, sconvolgendogli i piani; lui poteva competere con un sovrano; lui poteva umiliare un Habsburg.  

“Se il Gambara ha affermato il vero”, gongolò perversamente il Bua, tremando quasi dall’emozione che tale notizia gli procurava, “allora egli m’ha conferito un enorme potere sull’Imperatore, il potere di distruggere i suoi sogni di gloria e di conquista e di consegnarlo alla Storia come un perdente” e levando lo sguardo verso Leka, continuò esaltato: “Un potere, di cui ho intenzione di giovarmi alla prima occasione a noi favorevole. Noi non moriremo in questa guerra, amico mio. Noi sopravvivremo e pisceremo trionfanti sulle tombe dei nostri nemici!”

Busicchio grugnì un risolino, coprendosi velocemente la bocca onde soffocarlo e non destar sospetti.

“Nel frattempo”, decise pragmatico il greco-albanese, accomiatandosi dallo sgabello, “continuiamo la nostra recita. Pallavicino e Trivulzio si trovano al ponte in attesa degli imperiali: direi di recarci lì anche noi e di aiutarli.”

“La Palice ti tiene in grande stima”, puntualizzò Leka, trattenendo il collega all’ultimo. “Forse anche a lui interesserà salvare la pelle, dovesse quest’assedio presentarsi più complicato del previsto …”

Mercurio annuì pensoso: effettivamente, a quell’aspetto non ci aveva pensato. A Louis più di tanto non importava dell’esito dell’assedio, tuttavia sarebbe stato sollevato nell’apprendere del ritorno a Milano del suo maresciallo, sano e salvo e in un sol pezzo, no?

Di sicuro, considerato che fino a sera non potevano spostarsi comunque da Nervesa, al capitano di ventura non rimaneva altro passatempo, se non di riflettere e valutare i mille scenari  spiegatisigli innanzi.

 

L’ennesimo sgradito crampo serrò le viscere d’Hironimo, manco lo stessero straziando con le medesime tenaglie di San’Agata e Sant’Apollonia e di conseguenza interrompendo all’improvviso la sua litania di preghiere. Il giovane si strinse il ventre cogli avambracci, piegandosi in due in avanti, fin quasi a sbattere la fronte per terra, accucciandosi, le orecchie piene degli acquosi gorgoglii seguiti da spasmi muscolari. Aveva già vomitato appena destatosi, la bocca impastata d’un retrogusto rancido; in seguito, erano incominciati quei dolori atroci allo stomaco e una gran voglia d’evacuare, malgrado il patrizio si stesse trattenendo con tutto se stesso, serrando testardo le gambe.

Purtroppo per lui, la pressione aumentò al punto che Hironimo avvertì fluire liquidi anche involontariamente, eludendo la sorveglianza sempre più fiacca dei suoi muscoli. Sicché, costretto ad arrendersi all’evidenza che gli avevano dato da bere acqua marcia e che nulla l’avrebbe salvato dalla dissenteria, il giovane preferì sopportare ai suoi termini quell’ennesima umiliazione, piuttosto di lasciarsi cogliere impreparato. Oramai il suo naso aveva perduto ogni facoltà di distinguere gli odori, tanto l’aria mefitica della cella s’era ammorbata d’ogni sgradevole puzzo.

Alzandosi incerto sulle gambe, Hironimo avanzò a tentoni al buio, seguendo il perimetro murale fino a giungere al primo angolo disponibile. Lì si sollevò la tunica, si cavò di dosso le mutande, allargò le gambe e concesse quel breve sollievo al suo corpo, in realtà il primo passo verso la più umiliante delle morti. E mentre gli si bagnavano le gambe, il viso gli si rigò specularmente di lacrime: pur rassegnato del suo destino, al contempo non voleva lamentarsi con Dio e la Madonna anche di quello, non giudicandosi degno di altre richieste. Ciononostante, il suo cuore non riusciva a non protestare l’ingiustizia di crepare in maniera sì degradante, per quanto adeguato contrappasso per la sua naturale superbia.

Aveva già domandato troppo alla Vergine d’intercedere presso il Padreterno, onde risparmiarlo dal fuoco dell’inferno. Pure doveva rincarare la dose di pretese, di una morte onorevole e famosa? Non montarti la testa, Hironimo, ti basti ciò che t’è stato concesso.

Finito ch’ebbe, il giovane si trascinò cauto dalla parte opposta del suo gabinetto di fortuna, guidato dalla fioca luce della fessura della porta, raggomitolandosi lì accanto nel tentativo di respirare un poco d’aria fresca e di schiarirsi il cervello divenutogli una massa informe di lana grezza, tanto la scarsa ossigenazione unita alla febbre gli provocavano capogiri ed emicranie. Si leccò le labbra secche, raschiandosi la gola e sputando catarro. Dopodiché, spogliatosi della tunica, l’appallottolò e se la pose sulla pancia, così da riscaldarla e attutire i crampi.

Infine, riprese a pregare.

Ed orando, ricordava e meditava sulla sua breve vita, sugli errori commessi, sulle sue superficialità ed ingratitudine. In particolare, lo tormentava il pensiero angoscioso di non poter riappacificarsi con la sua famiglia, di non poter chieder perdono a coloro che aveva offeso e, rimpianto più pesante da digerire, di non aver alcuna possibilità di rimediare, di dare un senso e una direzione alla sua esistenza.

Sebbene nato nel privilegio e nell’abbondanza, mai aveva considerato d’usarli per dare un utile e cristiano contributo alla società; non aveva mai voluto migliorarsi né nello studio né in un’occupazione, vivendo sugli sforzi altri. Accecato dall’egoistica ricerca di felicità e di piacere personale, s’era trasformato in niente di meno d’un parassita, una sanguisuga. Eppure da bambino era sempre stato così proattivo e pieno d’idee! Quanto s’era impigrito nella mollezza degli agi, il suo ingegno impiegato soltanto al soddisfacimento delle sue immediate voglie. Ripensò invece ai suoi primi anni, quando progettava di divenire Capitano Generale da Mar e d’emulare le famose imprese del suo trisavolo sier Zuanne Miani; quando seguiva contento Madre nelle sue opere di carità; ripensò ai suoi maestri, all’agostiniano don Jacomo Batista Aloisi e ai Canonici Regolari, i quali avevano tentato d’educargli la mente e il cuore, per farlo crescere nella pietà e nel buonsenso.

Virtù ambedue per troppi anni bellamente trascurate, adesso però rifiorite spontaneamente: buonsenso perché Hironimo vedeva e comprendeva i suoi errori e altrettanto chiaramente progettava e anelava tantissimo di porvi rimedio; pietà perché comprendeva come Dio fosse sempre stato presente nel suo cuore e nella sua mente, per quanto il giovane patrizio l’avesse accantonato per idoli più appaganti e lusinghieri, soffocando e tacendo la Sua presenza nella melma dei vizi in cui era caduto, specialmente durante la sua breve carriera militare. Si dolse, Hironimo, di aver dovuto aspettare l’ora della sua morte per rientrare in se stesso, usando le parole della parabola del figliol prodigo, da lui conosciuta fino alla nausea e pertanto su cui mai s’era particolarmente soffermato a meditarne i profondi contenuti.

Ora si sentiva come quello stolto e viziato ragazzo, che aveva disprezzato l’amore del padre, la sua buona fortuna per una vita di vuota e inconcludente voluttà. Sarebbe però riuscito come lui, si chiedeva Hironimo, ad alzarsi dal porcile e partirsene per invocare perdono?

Era impossibile, si disse.

Anche se percepiva una certa purificazione della sua anima, che diveniva più leggera e serena, allo stesso modo essa si stava disancorando dal suo corpo sfinito dalla malattia e dalle sevizie. Umanamente prevedendo, era destinato a perire, forse quel giorno stesso, o l’indomani o fra qualche settimana … Hironimo pregava e piangeva, supplicando di morire bene, d’evitargli la morte eterna. E tuttavia … morire a neanche venticinque anni, nel fiore della sua giovinezza, all’apice delle sue forze sia fisiche che mentali … Aveva sprecato tante occasioni, lo ammetteva, ma terminare così la sua esistenza, senza una possibilità di riscatto?

Nell’angolo più oscuro e più tenace del suo cervello gridava una voce ben chiara, che no, non voleva un tale triste e anonimo epilogo, che non avrebbe gettato all’ortiche gli insegnamenti dei suoi genitori, dei suoi maestri, riducendoli ad una misera conversione in punto di morte. Sarebbe corrisposta all’ennesima ingratitudine da parte sua.

Ieri t’eri tutto rassegnato di morire e avevi accettato la tua sorte e oggi, all’improvviso, domandi di scamparla? Sei davvero un codardo!, gli rimproverò un’altra voce dentro di sé.

Taci! , gli rispose caparbia quell’altra. Sì, voglio vivere, voglio ritornare in libertà, ma non per continuare la vita di prima! Voglio porre rimedio ai miei sbagli, voglio genuinamente espiare le mie colpe, voglio riacquistare grazia presso Dio!

Parli così perché ti stai – letteralmente – cagando addosso all’idea di crepare in una cella buia, umida e puzzolente. Una volta libero ti dimenticherai di ogni tua promessa e saremo daccapo: muori invocando perdono, è più onorevole!

Hai ragione, sono sempre stato un bue tardo. Ma ciò non significa ch’io mancherò di provarci e riprovarci, anche nel fallimento! Padre mi disse, che un uomo che non sa mantenere la parola data non vale nulla ed io … io m’impegno a ritornare ad essere degno d’appellarmi cristiano …

“… qual vuol grazia e a Te non ricorre, sua disïanza vuol volar sanz'ali …”, mormorava Hironimo incessantemente la preghiera dantesca, riflettendo su ciascuna parola, dandosi coraggio e vigore nella sua risoluzione, che non fosse dettata dal capriccio di un momentaneo terrore, bensì di una concreta proposta di vita.

Un’altra reminescenza gli volò dinanzi agli occhi: Hironimo si rivide bambino, furtivamente zampettando in camera del suo omonimo prozio, sier Hironimo Miani “il Pizzochero”, il quale da giorni giaceva ammalato nel suo letto, confortato dai parenti ed in particolar modo dal suo padre spirituale, uno dei Canonici Regolari, che veniva ogni giorno a confessarlo, a pregare e a leggergli testi sia biblici che di teologia in generale. Sier Hironimo non aveva mai goduto di buona salute e ora che la fibra resistente della gioventù aveva lasciato posto a quella delicata della vecchiaia, pur avendo raggiunto un’età veneranda, egli soffriva più acutamente ogni malanno che si buscava e quello, alas, sarebbe stato quello fatale.

Hironimo aveva nutrito una particolare predilezione verso quel suo prozio, il quale si dimostrava comprensivo e dolce nei suoi confronti, quasi un benevolo nonno, invece di quel ruvido burbero di suo figlio, sier Zuan Francesco, che lo rimprovera costantemente, appellandolo “pendaglio da forca” due giorni su tre.

In quel ricordo, Hironimo era scivolato di nascosto nella stanza dell’ammalato, sedendoglisi accanto e cullando la sua grande mano rugosa e sottile tra le sue cicciotte e piccoline, quella mano appoggiata su “Le Confessioni” di Sant’Agostino. Il suo prozio s’era destato dal sonnellino, sorridendogli a mo’ di saluto e guardandolo teneramente con quei suoi grandi occhi buoni.

Il giovane patrizio non si sovveniva esattamente di ogni parola scambiatasi tra di loro in quell’ultimo incontro terreno, tranne del regalo che “il Pizzochero” gli fece, la famosa lettera di don Paulo Maffei, il canonico regolare che, moltissimi anni addietro, aveva rifiutato l’allora adolescente e postulante sier Hironimo, la cui salute fragile non lo rendeva idoneo alla vita ecclesiastica. Nondimeno, il religioso lo aveva rassicurato che anche da laico poteva vivere da buon cristiano e che anzi, i suoi sforzi sarebbero risultati doppiamente graditi al Signore, poiché chi viveva nel mondo subiva maggiormente il morso delle tentazioni, rispetto a coloro che vivevano fuori d’esso. All’epoca, Hironimo era rimasto assai deluso da quel dono, avendo sperando in un balocco e i contenuti di quella missiva puntualmente obliati. Ora, però, gli riaffiorarono nitidissimi dal profondo mare della sua memoria e poteva quasi udire la voce flebile del prozio recitarglieli: “Procuri Hironimo di condurre una vita ordinata, raccolta, laboriosa e devota; fugga le cattive compagnie e le occasioni di peccato con la custodia attenta e perseverante dei propri sensi. Col prossimo usi la massima carità, negli esercizi di devozioni non ricerchi lo straordinario. I miracoli, le visioni, le estasi sono dono di Dio, anziché questi doni cerchi sempre la grazia santificante che rende accetti a Dio e non concepisce neppure un sentimento di invidia verso i privilegiati del Signore. Un confessore pieno di prudenza e di santo timore di Dio gli farà da guida nel difficile cammino della perfezione.”

“E quando ti senti lontano da Dio o indegno ai Suoi occhi, prega la Sua Santissima Madre, poiché nessuna grazia a Lei nega: in gremio Matris iacet sapientia Patris, nel grembo della Madre giace la sapienza del Padre!”, gli aveva rivelato sier Hironimo, indicando la copia dell’affresco miracoloso di Treviso, un regalo dei Canonici Regolari al loro benefattore e che “il Pizzocchero” teneva esposta in camera sua, davanti al suo letto quando ormai da esso non riusciva più alzarsi.

Ecco! Ecco dove l’aveva sentita quella frase!

Il giovane Miani si puntellò sui gomiti, aggrappandosi al ruvido legno della porta della sua cella e si sedette scompostamente sui talloni. Si sforzava di delineare i contorni sfocati di quel dipinto, ché sapeva aver scorto sia nel piccolo altare di famiglia sia nel Monastero della Carità, gestito dai Canonici, gli stessi che si trovavano a Santa Maria Maggiore a Treviso. Non aveva mai avuto tempo di lì recarsi, né per curiosità né per devozione, non nei suoi anni adulti almeno, forse da bambino, ma senza serbarne alcun ricordo. Eppure tutti in famiglia avevano nutrito una grande devozione verso di Lei.

Pieno di fiduciosa speranza, Hironimo congiunse le mani rattrappite dal freddo e si rivolse piangendo alla Madonna, sperando che non si scandalizzasse per quel suo improvviso cambio d’idea, domandandoLe umilmente un altro tipo d’intercessione.

“Madona Sanctissima, Verzene Maria”, si raccomandò allo stremo delle sue forze, “tante sono le mie sofferenze per i maltrattamenti e gli insulti inflittimi, ma nulla paragonato alle offese da me perpetuate verso il Tuo Dilectissimo Fiolo Jesu Cristo. So che a malapena merito di morire a Lui riconciliato, eppure Ti supplico d’intercedere per me presso di Lui, affinché mi sia concessa una seconda possibilità. Sulla mia vita, sul mio onore, Ti giuro che non fallirò stavolta. Mi correggerò e mi riporterò sulla retta via. Non Ti deluderò! Prometto, se riuscirò a riacquistare la libertà, d’andare in pellegrinaggio al Tuo santuario a Treviso, dove graziosamente operi miracoli per avvicinarci a Nuostro Missier Domeneddio e contemplare la Sua Divina Misericordia: mi recherò lì scalzo e in camicia, da penitente; farò celebrare Messe di ringraziamento …”

Per molte, molte ore Hironimo ripeté quel suo voto, insensibile a qualsiasi stimolo esterno e perfino i crampi non lo tormentavano più. In lui era finita la paura, esisteva soltanto quella promessa alla Madonna.

Tanto questa sua determinata orazione lo aveva privato delle poche energie rimastigli e di conseguenza indotto ad un breve assopimento, da non accorgersi di come avesse appoggiato il capo sulla porta, sicché, quand’essa s’aprì, il patrizio si ritrovò scaraventato malamente per terra, la vista traballante dall’impatto.

Rapido, tentò goffamente d’indossare la tunica, grato sia del buio sia d’aver avuto sufficiente premura di rinfilarsi le mutande, dopo i dolorosi affari nell’angolino. Purtroppo per lui, l’indumento gli venne tolto malamente di mano, mentre lo si afferrava per i capelli e lo trascinarono fuori dalla cella, spintonandolo violentemente contro il muro tra beceri insulti ed esclamazioni disgustate in un misto tra greco e albanese.

Neanche il tempo di capire che accidenti stesse succedendo, che una gelida secchiata d’acqua gli venne scaraventata contro, strappando ad Hironimo un gemito di protesta per quell’ennesimo supplizio alla pelle già di suo infreddolita. Un panno pesante – che il giovane Miani non capì se si trattasse di una coperta o di una mantellina – gli venne avvolto sulle spalle, che fungesse sia da telo per asciugarsi sia da vestimento. Dopodiché, il famigliare e sinistro tintinnio delle catene rivelò al patrizio come, dopo tanti tentennamenti, il campo finalmente si fosse deciso a levarsi e che dunque erano venuti a pigliarlo più per quel motivo, che per accertarsi delle sue condizioni. Non che personalmente gli facesse alcuna differenza – sempre prigioniero rimaneva – però almeno Hironimo, in cella, non aveva quella fastidiosa palla al collo a piegarlo a momenti a metà, né il ferro a raschiargli a sangue l’epidermide.

Ma muoversi da Nervesa significava avvicinarsi a Treviso e dunque la piccola, minuscola prospettiva che qualcuno dei suoi compatrioti mandasse una squadra per far incursione nel nuovo accampamento, liberandolo e costì permettendo d’adempiere al suo voto.

Traballando, l’ex-castellano venne scortato dai due stradioti fino al cortile dell’Abbazia; il cielo s’era scurito senza tingersi del tipico arancio del vespro, ingrigito dalle nubi livide e gonfie di quella pioggia che cadeva incessante, impregnando il terreno di fango rossastro. Uno scenario deprimente, che tuttavia Hironimo assaporò dopo giorni confinato in quella tomba di cella, annusando a pieni polmoni l’aria fresca e terrosa, il profumo del fogliame autunnale, della resina degli alberi e della pietra umida del monastero. Gli parve di ritornare un poco alla vita.

Quand’ecco, che un odore più nauseabondo distrusse quel piccolo suo idillio: tanfo di stoffa bruciata, proveniente da fuori le mura dell’Abbazia, infiltrandosi sornione e ammorbando qualsiasi cosa su cui si posasse, uomini, animali, piante.

“Capitano, siete sicuro di non volerlo mettere sui carri? Neanche si regge in piedi, ‘sto qua!”, discuteva nel frattanto uno dei due stradioti che sorreggeva per le braccia Hironimo, il quale trasalì, realizzando all’improvviso di trovarsi davanti a Mercurio Bua: il temporaneo accecamento, dovuto alla brusca esposizione alla luce dopo giorni di rigoroso buio, e lo spaesamento generale avevano impedito al patrizio di valutare l’ambiente circostante.

Il condottiere lo studiava dall’alto della sua cavalcatura con un’espressione tra il crucciato e lo schifato, segno che ancora l’arrabbiatura per la sua tentata fuga non gli era passata. I rivoli d’acqua piovana sul suo volto esacerbavano quei suoi lineamenti accusatori, così come il riflesso delle torce accese, svanendo ad ogni istante che trascorreva la luce diurna per quella serale. Il suo odio e disprezzo nei confronti del veneziano apparivano palesi ed Hironimo non glielo rimproverava, non tanto per aver progettato di scappare – reazione ovvia e naturale nella sua condizione – bensì per aver infierito, insinuando cattiverie su cattiverie nei confronti della moglie del Bua, ch’egli doveva amare assai, a giudicare da come arruffasse le penne ogniqualvolta la si menzionasse.

“Camminerà”, sentenziò brutale Mercurio, battendo sui fianchi del cavallo per raggiungere il suo soldato, il quale gli cedette immediatamente le catene onde condurre a piedi il suo prigioniero. “E se non cammina, lo scuoio a frustate!”, gli promise minaccioso, iniziando la marcia fuori dall’Abbazia.

I primi passi si rivelarono una tortura per Hironimo, non avvezzo a camminare scalzo e soprattutto in un terreno così scivoloso, affondando quasi nel fango. Scendendo la collinetta sulla quale s’ergeva l’Abbazia, più volte dovette puntare i talloni onde non rotolare giù, sbilanciandolo in avanti la palla di cannone al collo, il cui peso aumentava anche grazie al trotto del baio turco del Bua. Giunti sulla piana, il giovane Miani ansimò sfinito, respirando male, il corpo e il viso bagnato di sudore, pioggia e limo.

Approfittando di un attimo di pausa, Hironimo gettò indietro il capo e, aperta la bocca, catturò l’acqua piovana, assetato. Così facendo scoprì anche da dove proveniva quell’immondo fetore: l’intera tendopoli ai piedi dell’Abbazia era stata bruciata, sennonché la pioggia battente, avendo reso difficoltosa l’operazione, aveva costretto i francesi ad applicare olio e pece per conferire presa e vigore del fuoco contro l’acqua, ricreando uno scenario pressoché infernale.

Tale opinione dovettero condividerla anche le truppe tedesche appena rientrate dalla Patria del Friuli, osservando disorientate la desolazione che li circondava. Il grosso d’esse aveva ripassato la Piave portando seco un soddisfacente bottino composto da viveri, artiglierie, munizioni e anche da gente a servizio, questo sotto gli sguardi vigili dei comandanti Teodoro Trivulzio e Galeazzo Pallavicino, i quali avevano poi ordinato ai guastatori e genieri di staccare il ponte dagli ormeggi di sinistra e di pilotare i barconi lungo la corrente, in attesa di nuove istruzioni. 

Malgrado quindi un ritorno vittorioso, nessuno dei soldati francesi e italiani guardava con amore quelli tedeschi, né li consolava né rallegrava la prospettiva di mangiare finalmente qualcos’altro che non fosse pane nero, carne secca e mosto, semmai li portava a scrutare gli imperiali pieni d’odio, giurando a quegli opportunisti disertori vendetta alla prima occasione propizia. Infatti, non sopportavano di contemplare i tedeschi pasciuti e ben equipaggiati d’armi e danari, mentre loro – pur in diversa misura - avevano dovuto patire la fame e la malattia per rimanere fedeli agli ordini impartiti.

Il capitano Jacob Empser e i suoi compari avanzarono verso gli altri condottieri, allegri, spavaldi e ignorati degli strali lanciatigli da costoro. “Una vero successo”, si vantò il tedesco a voce ben alta, “siamo penetrati nella Patria del Friuli a guisa di coltello nel burro, catturando prigionieri di spicco” e guardò con sufficienza Mercurio e Hironimo, il quale, nelle condizioni in cui si trovava, pareva invero un villano qualunque, “abbiamo ammassato un ricco bottino, specialmente un gran numero di cannoni che aspettano solo d’essere trasportati. A parte qualche città ostinata, non abbiamo incontrato grande resistenza: questo significa che la gente ben conosce quale sia il suo vero padrone.”

Teodoro Trivulzio abbozzò ad un sogghigno di scherno. “Anche qui nella Marca, la gente ben sa chi sia il suo padrone”, replicò ambiguo e il marchese Pallavicino, assieme al Bua, allargarono la bocca in un sorriso poco raccomandabile, ogni screzio estinto dalla comune antipatia nutrita verso il capitano tedesco.

“Dove si trova il resto delle vostre milizie?”, s’informò spiccio Galeazzo, vociando la collettiva curiosità.

“A Gradisca d’Isonzo, al comando di Georg von Liechtenstein e di Fran Krsto Frankopan”, rispose prontamente il capitano Jacob, “dopodiché si muoveranno a Motta di Livenza e da lì ci raggiungeranno. Non abbiamo scordato la missione affidataci dal Kaiser.”

“Me ne consolo, per un attimo avevamo temuto il contrario”, asserì falsamente sollevato Mercurio, provocando un lieve rossore nelle guance del comandante tedesco. “In ogni modo, avrete occasione di narrare di persona le vostre favolose avventure al maresciallo La Palice, il quale ci attende a Torre di Maserada, dov’è stato allestito il nuovo accampamento.”

Il capitano Empser strabuzzò gli occhi. “Partiamo immediatamente?”, balbettò, guardandosi intorno. “Ma … abbiamo marciato senza tregua per giungere qui in tempo, almeno un giorno per riposarci ce lo dovete!”

A quella protesta un’esclamazione indignata gorgheggiò in risposta dalle gole del Pallavicino e del Trivulzio, mentre il condottiere greco-albanese contorse il volto manco soffrisse di coliche, spronando il suo cavallo ad avvicinarsi a quello del tedesco. E una volta avutolo a qualche spanna dal suo naso, Mercurio gli scoccò una tale occhiata, da eguagliare quella del dantesco Minosse al momento del giudizio delle anime dannate.

“Potete immaginare”, sibilò velenosissimo, “quanto ce ne può fottere, che voialtri siete stanchi?” e puntandogli contro l’indice guantato. “Il Gran Maestro di Francia ha parlato chiaro: stasera partiamo per Torre di Maserada e lì vi ci porterò, capitano Jacob, se vivo o morto impiccato, starà a voi deciderlo!”

Dall’alto della collinetta, ritti in piedi davanti al portone dell’Abbazia, l’Abate e il monaci benedettini osservavano silenziosi la colonna di fiaccole che si spostava in direzione di Treviso, nonché i falò e i densi fumi neri provenienti dalla piana sottostante. Man mano che l’esercito franco-imperiale s’allontanava, alcuni frati caddero in ginocchio, congiungendo le mani e piangendo il loro sollievo per la dipartita di quei satanassi in terra.

“Dio mi perdoni, se per la prima volta in vita mia auguro a qualcuno di crepare e anche male”, mormorò livido l’Abate, le nari frementi di rabbia dinanzi allo sfacelo e contaminazione di quel luogo di pace e di preghiera.

 

***

 

“Maledetto il budello cane delle loro mamme, ch’el diavolo se li mangi e li caghi in eterno!”, imprecava il governatore di Gradisca, il conte Baldassarre Rimbotti di Scipione, afferrando abilissimo la picca di un lanzichenecco: tiratolo a sé, gli piantò il pugnale sotto il mento, facendo fuoriuscire dalla bocca la lama insanguinata. Sfilatala, il senese scansò via il moribondo con un calcio, preparandosi in contemporanea a fronteggiare il prossimo avversario e a raggiungere i suoi fedelissimi al porticciolo, dove li attendevano dei sandoli e zopoli pronti a navigare l’Isonzo per portarli in salvo.

La rabbia del condottiero non era rivolta unicamente agli imperiali, che stavano dilagando peggio delle cavallette nella conquistata Gradisca, bensì nei confronti della sua medesima compagnia – quei figli di troia malnata! – che, esausti e falciati dalla peste, s’erano ammutinati e avevano aperto le porte ai tedeschi, accettando le tentatrici condizioni di resa da parte dei comandanti Georg von Liechtenstein e Fran Krsto Frankopan, guidati quest’ultimi dal re dei traditori, quello spergiuro di Antonio Savorgnan, il medesimo al cui fianco, fino a qualche settimana addietro, Baldassarre aveva combattuto a Conegliano e a Sacile, fidandosi del valore e della dedizione del conte friulano.

Gran bella cosa, invero!

A peggiorare le cose, Georg von Liechtenstein aveva imposto una taglia fortissima sulla testa del conte senese, desideroso di distinguersi agli occhi dell’Imperatore portandogli in dono il governatore in catene e così sia i suoi uomini sia quelli del Frankopan stavano rivoltando sottosopra Gradisca pur di catturare il temibile condottiero, soprannominato dell’Occhio a causa di una ferita procacciatasi in un duello, che lo rese, giovanissimo, guercio ma non per questo meno letale in battaglia. Ed fu infatti la tracotanza e dappocaggine dei lanzichenecchi e pandur croati a salvare Baldassarre di Scipione, poiché quegli sprovveduti, notandolo losco, lo sottovalutavano e lo affrontavano sbadatamente, ignari della sua maestria nell’arte guerresca.

“Chi è ancora vivo e chi è ancora fedele a San Marco, mi segua alle barche!”, gridò il condottiero al gruppetto di soldati marciani allo sbaraglio, mulinando la spada grondante di sangue in direzione del porticciolo, sperando che suo figlio Giulio e suo nipote fossero riusciti ad imbarcarsi in tempo. Li aveva perduti ambedue di vista nel furore della zuffa, non appena quei maledetti cani traditori s’erano ribellati, rivoltandoglisi contro.

Gli ultimi rimastigli fedeli, riconosciuta la voce del loro capitano, lo seguirono velocissimi, approfittando del buio e del marasma generale: conquistata la fortezza, molti degli imperiali stavano pensando più a far bottino, che a catturare prigionieri. Baldassarre, correndo tra i vicoletti oscuri e infilzando chiunque gli sbarrasse il cammino, riconobbe di striscio il suo paggio, malmenato ma con la picca in mano e, afferratolo per la manica, lo trascinò seco.

Un acuto coro di nitriti li costrinse ad arrestarsi, appiattendosi contro il muro: una fila di centottanta fanti friulani era riuscita ad accedere alle scuderie e ad appropriarsi dei cavalli, galoppando e caricando i soldati tedeschi e croati, sciabolati e calpestati senza alcuna via di scampo, le strade troppo strette per scansarsi e trovar riparo. Li guidavano Mathio, Todaro e Franceschin Spiron dal Borgo, quest’ultimo fermatosi un istante davanti al conte di Scipione.

“Ci apriamo una via tra questa marmaglia, signor Governatore”, gli comunicò concitatamente il condottiere friulano, “non ci sono sufficienti imbarcazioni per tutti: Marano la raggiungeremo a cavallo. Iddio sia con voi!”, si congedò, battendo di piatto la lama sul fianco del corsiero, sparendo inghiottito dalla notte e dalla bolgia infernale cittadina.

“Muoviamoci!”, intimò Baldassarre al suo paggio, le armi levate e pronti ad ogni attacco.

Sulla riva dell’Isonzo fluttuavano sandoli e zopoli carichi di soldati e di civili, ognuno che portava il minimo necessario per affrontare il viaggio fluviale fino a Grado.

“Salite! Salite! Rapidi!”, incitava i fuggitivi il provveditore sier Alvixe Mozenigo, aiutando le donne e sollevando lui stesso di peso i bambini, dalle gambe troppo corte per salire a bordo da soli. “Vai, vai! Calar i remi in barba! Bativóga!”, incitò egli sia il pope sia il provier dello zopolo, che si staccò dal barcharezo, raggiungendo gli altri già partiti.

“Padre!”, corse incontro Giulio al genitore e Baldassarre, malgrado la situazione disperata, si tolse un piccolo e rapidissimo sfizio d’afferrare il figlio dietro la nuca e di baciargli la fronte, ringraziando Iddio, la Madonna e la sua concittadina Santa Caterina per aver impedito la sua cattura. Fu inoltre lieto d’apprendere come suo nipote già si trovasse al sicuro sulle imbarcazioni dirette a Grado.

“Ora sali, svelto!”, spronò il condottiero senese suo figlio e il paggio, spingendoli su di un sandolo. Poi, rivolgendosi a sier Alvixe: “Signor Provveditore, Gradisca è perduta, le nostre compagnie in gran parte ammutinate. I Dal Borgo sono riusciti a scappare a cavallo, si stanno dirigendo a Marano con 180 uomini e armi.”

“E’ stato quel giuda iscariota d’Antonio Savorgnan a fomentare la ribellione, vero?”, fu la domanda retorica del Mozenigo, i lineamenti stravolti dalla fatica di giorni d’assedio serrato, appesantito dall’epidemia di peste.

L’ex-governatore mostrò i denti, esauriente risposta.

“Le artiglierie?”

“Perdute, signor Provveditore. Non siamo riusciti a chiodarle tutte in tempo.”

Sier Alvixe aspirò a fondo l’aria, portandosi una mano sugli occhi brucianti dal fumo e dal sonno arretrato. “Se Trevixo verrà conquistata per mano dei miei stessi cannoni, giuro che non me lo perdonerò mai finché campo”, dichiarò sconfitto e umiliato per aver perduto quella preziosissima fortezza in terra friulana, deludendo la fiducia della Signoria, privata adesso di ulteriori territori e sempre più indifesa.

Di sentimenti meno drammatici rimaneva invece il conte Rimbotti, che gli posò incoraggiante una mano sulla spalla. “Appena saremo approdati a Grado, voi portate questa gente in salvo in Istria, mentre io mi recherò a Marano, ricongiungendomi alle milizie dei magnifici messeri Giovanni Vitturi e Girolamo Savorgnan. L’Imperatore Massimiliano ha vinto una battaglia, non la guerra! Finché respiriamo, non gli concederemo un attimo di requie!”

E Alvixe Mozenigo capì infine, il motivo per cui il Re dei Romani voleva in catene l’indomabile condottiere, del cui coraggio e cinque ferite frontali il medesimo Re di Francia s’era complimentato, una volta avutolo dinanzi tra i prigionieri di spicco dopo la sconfitta d’Agnadello.

“Mi domando”, aveva confidato il sovrano al suo gran scudiero Galeazzo Sanseverino, “se faccia o meno un buon affare ad accettare il suo riscatto e a liberarlo”.

Buono forse per Louis, pessimo per Maximilian.

 

***

 

Tanto le vittorie ottenute nella Patria del Friuli avevano resi giovali e baldanzosi i soldati imperiali, tanto quelli francesi li tolleravano a malapena, marciando accanto a loro di malavoglia, ogni occasione buona per bisticciare, sicché i rispettivi comandanti s’erano ritrovati costretti a formare due gruppi separati, onde evitare d’attirare troppo l’attenzione, nella marcia notturna da Nervesa a Torre di Maserada e San Giorgio.

Hironimo procedeva zoppicando e barcollando in stato pressoché sonnambolico, a momenti trascinato da Mercurio, che lo costringeva a proseguire, altrimenti si sarebbe accasciato sul primo ciuffo d’erba disponibile. I ceppi e le manette gli stavano scavando sulla carne viva e i piedi erano divenuti un’informe massa di piaghe e fango; quanto al cerchio al collo, il peso talvolta diveniva talmente insopportabile da impedirgli di respirare appropriatamente, il che non si presentava ideale, considerato il catarro nei polmoni.

Dietro di lui lo seguivano gli altri prigionieri d’ambo i sessi, anche loro fiaccati dai maltrattamenti, dalla fame e dalla pestilenza. Ogni tanto qualcuno tentava una disperata fuga, approfittando di un attimo di distrazione dei soldati e soltanto per via del buio pesto si rinunciava ad inseguirli. Chi invece cadeva per terra e non riusciva a rialzarsi, finiva seccato da un lanzichenecco, morendo tra le risate sue e degli altri imperiali, tra le occhiate di biasimo dei francesi e degli italiani e quelle impotenti dei loro compagni di sventura.

Poi, si riprendeva in silenzio la marcia.

Il giovane Miani socchiuse gli occhi, concentrandosi sul dolore fisico, acutizzandolo onde rimanere vigile: non dubitava che il Bua l’avrebbe difeso d’analogo destino, al contempo però non s’azzardava a tentare la sorte, cadendo, poiché sapeva che difficilmente si sarebbe rimesso in piedi. Le sue labbra secche pertanto ripetevano mute continue litanie di richieste di soccorso alla Madonna, di proteggerlo, di liberarlo, di dargli la forza di continuare a camminare.

“No! No! Per pietade, no! Nol coparme! Nol coparme!”

Sia il patrizio che il condottiere greco-albanese si girarono di scatto verso quel grido angosciato, proveniente da un contadino, disteso prono per terra, il volto talmente pallido e sudaticcio da riflettere l’arancio delle torce. Il giovane uomo era inciampato su una qualche radice e tanto la febbre e gli stenti lo avevano debilitato, da impedirgli di sollevarsi, le sue braccia e le sue gambe troppo deboli da sostenerlo. Immediatamente, un soldato tedesco gli s’era parato davanti, punzecchiandolo con la punta della propria picca, intimandogli di rialzarsi. Ma questi piangeva e strisciava per terra, invocando una pietà che non avrebbe ricevuto.

“Ajudo! Mariaverzene ajudo!”, supplicava, coprendosi d’istinto il capo, come se bastasse proteggere quello per salvarsi la vita. “Ajudo!”, levò le braccia in direzione dei suoi compagni, che s’ingobbirono, afflitti e impotenti, già scansati via dalle picche dei lanzichenecchi che simili agli avvoltoi pregustavano il pasto di carne e sangue.

“Oh, Mariaverzene! Oh, Mariaverzene!”, e quella maschera di terrore e disperazione s’incrociò allo sguardo d’Hironimo, che tremò da capo a piedi, nascondendosi il viso tra le mani.

“Avanti, ammazzalo! Che bisogno c’è di giocarci?”, gridò snervato un mercenario italiano della compagnia del Pallavicino.

Il tedesco lo fissò, sorrise e levò l’arma per infilzare l’indifeso contadino.

“No! No! No!”

“No!”

La picca cadde a metà, tranciata in due con precisione chirurgica, studiandola il lanzichenecco incredulo e spaventato a morte.

“No”, riecheggiò di nuovo il ruggito di Mercurio Bua, il quale portava la punta della spada alla gola del mercenario imperiale. “Non ci saranno più esecuzioni”, riprese lapidario il condottiero, la cui voce tremava impercettibilmente come la sua lama. “Chi cade e rimane indietro, verrà lasciato indietro alla misericordia di Dio”, sentenziò e nessuno, neppure i comandanti suoi colleghi, ebbero il coraggio di contraddirlo. “Incominciando da te”, strisciò bene le parole a mo’ d’avvertimento, imitato dalla sua spada, ch’accarezzava, arrossandolo, il pomo d’Adamo del soldato tedesco, che intimidito rientrò nella sua fila. “E tu”, scudisciò Hironimo, il quale incassò in silenzio e senza colpo ferire, “guai a te, se ti cimenti di nuovo in queste momarie!”

“Ripartiamo!”, l’appoggiò il marchese Pallavicino e tutte le compagnie lì presenti, a testa bassa, obbedirono per una volta obbedienti e mansuete. “Avrete tempo e modo d’uccidere Veneziani!”

Hironimo s’accarezzò imperturbabile la nuova ferita, neanche fosse stato un estraneo ad aver subito la frustata, ponendosi in ginocchio e liberando l’incredulo contadino dalla prigione del suo corpo. Si levò il panno dalle spalle, rimanendo praticamente nudo tranne per le mutande, e avvolse il corpo febbricitante e tremante dell’altro, nettandogli via il fango dal volto rigato di lacrime e muco. “Dammi la mano”, disse al giovane, passandosi il braccio sul collo, aumentando così il peso già di suo notevole a causa della palla di cannone. Cinse poi la vita del villano, issandolo su. “Cammina con me, fradelo. Ti sorreggo io.”

Stringendo i denti e ignorando il dolore, la fatica, la pioggia battente che gli colava sul collo e sulla faccia, lo sforzo di sorreggere sia la balota di granito sia il corpo non proprio leggero del contadino, Hironimo si riportò accanto ad un pallidissimo e basito Mercurio, superandolo. Il greco-albanese si costrinse a ripigliarsi dal suo torpore, il cuore che gli batteva talmente forte in petto, che gli pareva di sputarlo. Un istante, un istante e il suo prigioniero gli era sfuggito letteralmente di mano, gettandosi a guisa di scudo sopra quel villano, proteggendolo dal colpo di picca.

Se non avesse posseduto riflessi abbastanza pronti …

Mercurio scosse il capo, inducendo un lieve trotto al suo corsiero. Sporgendosi in avanti, riprese le catene d’Hironimo, il quale lo fissò appena, riabbassando docile il capo e proseguendo imperterrito nella sua ciondolante e scoordinata marcia.

Non era stato il gesto folle del veneziano ad aver sconvolto il Bua – no, a quelli s’era abituato, reputando quella peste bubbonica capacissima di ogni stramberia.

No.

Era stato il suo sguardo, così fermo, imperscrutabile, lontano.

Mercurio ancora non riusciva a dargli un nome, ma sicuramente in esso non vi trovava un uomo spezzato, semmai il contrario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Tre giorni di piogge consecutive portano consiglio  e mi sento molto solidale con ambedue gli eserciti, costretti a lavorare notte e dì sotto d’essa, cambiandosi soltanto in letto.

Ormai manca pochissimo al famigerato capitolo X e speriamo di renderlo al meglio!

Anticipo, ma lo ripeterò, che una volta terminata la seconda parte di questa storia, partirò con la revisione, che non sarà drastica, lo prometto, quindi non abbiate paura voi gentilissimi lettori che siete giunti fin qui.

Per una volta niente noticine: meglio per me!

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

 

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Capitolo 33
*** Capitolo Ventinovesimo, parte prima: 27-28 settembre 1511 ***


Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 17.12.2021

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Capitolo Ventinovesimo

Sabato 27 settembre 1511 – Domenica 28 settembre 1511

(prima parte)

 

 

“Se il malvagio si ritrae da tutti i peccati che ha commessi e osserva tutti i miei decreti e agisce con giustizia e rettitudine, egli vivrà, non morirà. Nessuna delle colpe commesse sarà ricordata, ma vivrà per la giustizia che ha praticata.

Forse che io ho piacere della morte del malvagio - dice il Signore Dio - o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?

[…] E se l'ingiusto desiste dall'ingiustizia che ha commessa e agisce con giustizia e rettitudine, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà."

(Ezechiele 18, 21-28)

 

 

 

 

 

 

Correva voce che nello Stato di Terra i campanili apparissero tanto alti da eguagliare l’animo beghino dei suoi abitanti; in realtà, cogitava Mercurio Bua mentre supervisionava i suoi stradioti montare le tende nell’accampamento, il motivo era quello di creare punti di riferimento e di avvistamento per colpa degli alberi svettanti e fitti che nascondevano gran parte dei paesi. Ciò creava un bel problema, concluse il condottiero, poiché le strade principali costeggiavano i fiumi e i canali: peccato che questi fossero battuti costantemente dagli stradioti marciani, vigili e rapidi nelle loro azioni di disturbo.

L’ultimo contingente dell’esercito franco-imperiale era giunto a Torre di Maserada alle prime luci dell’alba: appena il tempo di finire di sistemare le proprie tende, che già dovevano aggregarsi alla compagnia comandata direttamente da La Palice per tentare un secondo atto intimidatorio sotto le mura trevigiane. Una staffetta giunta dalla Patria del Friuli recava notizie dell’appropinquarsi del resto dell’esercito tedesco a Motta di Livenza, rincuorando il maresciallo che non solo vi leggeva tra le righe l’esito positivo dell’assedio di Gradisca e dunque l’arrivo di viveri e artiglierie, ma anche dell’intera forza bellica a disposizione, finalmente riunita e dai numeri decisamente promettenti, assieme alle truppe ausiliari comandante da Giovanni e Federico Gonzaga, stanziate a Soave.

Nonostante l’euforia generale, nel suo intimo Mercurio non era entusiasta all’idea di sfilare in parata dimostrativa a Treviso, ancora memore della sua debacle alcune settimane addietro, preferendo piuttosto guadagnare terreno fino ad accamparsi più vicino e da lì attendere gli ultimi contingenti rimasti. Perlomeno, si consolava, se proprio doveva obbedire, egli avrebbe avuto modo di studiare le mura onde trovare il punto debole dell’apparente impenetrabile Treviso. E scovato lo avrebbe, si ripromise.

Inoltre, aveva un conto in sospeso con un certo qualcuno in quella città, nello specifico il fratello del suo prigioniero, la cui ferita provocatagli sia all’orgoglio sia alla coscia tuttora gli bruciava, malgrado la seconda si fosse abbastanza rimarginata. Una sensazione di crudele compiacimento gli accarezzava l’animo alla prospettiva di sgozzare il Miani più anziano, anche per vendicarsi del più giovane, la fonte primaria di ogni suo malessere e disgrazia. Era d’altronde colpa sua e della sua doppiezza se il Bua non aveva potuto cavalcare a Musestre assieme a Leka, impedendo così che Zilio venisse ucciso … Colpa sua e del suo valore pressoché nullo, se quel disgraziato del suo barba ancora non rispondeva alla sua ambasciata, di scambiar lui per Caterina … Mercurio avrebbe intinto la sua casacca del sangue di Marco Miani e l’avrebbe sbattuta in faccia ad Hironimo, costringendolo ad inalare il sangue fraterno e se ciò non fosse bastato per spezzare definitivamente quella testa dura …!

Il condottiero greco-albanese lanciò un’occhiata di sbieco all’oggetto delle sue cupe elucubrazioni, il quale se ne stava legato alla ruota di un carro, a capo chino e talmente immobile, che da lontano lo si sarebbe potuto scambiare per morto, se non fosse stato per il lento alzarsi ed abbassarsi del petto. La bravata della notte scorsa era rimasta vividissima nella memoria del Bua, così come marchiata a fuoco era lo sguardo del giovane, ben lungi da quello di una persona sconfitta. Mercurio si scoprì detestare quella che lui giudicava infinita alterigia, domandosi come fosse mai possibile che, a seguito dei tormenti inflittigli, quel moccioso viziato seguitasse nella sua imperturbabilità, neanche da neonato avesse dalla sua balia poppato orgoglio al posto del latte.

Hironimo avvertì il passo del suo carceriere prima ancora di aprire gli occhi, rimpiangendo quel fragile sonno a fatica conquistato dopo un’estenuante marcia notturna. Era stato separato, ovviamente, dal suo compagno di sventura, cacciato quest’ultimo tra gli altri prigionieri – pregò si sentisse meglio rispetto alla notte scorsa.

Quanto a lui, il giovane Miani attendeva che il Bua si sbrigasse a montare quel suo dannatissimo padiglione, così da giacere finalmente su della paglia pulita poiché, per quanto un solido appoggio, la ruota ugualmente risultava sporca di fango e generalmente scomoda. Lo sterno poi gli doleva a causa degli sporadici colpi della ballotta da 9 libbre (circa 5kg, ndr.), quando le dita gli erano divenute troppo torpide per reggere il suo peso o tener ferma la catena. Le braccia gli dolevano, tremandogli i muscoli in lievi e continui spasimi fino ad irrigidirsi ribelli e le sue mani arrossate presentavano vene talmente grosse e sporgenti, da scambiarle per quelle di una vecchia lavandaia. Il collo gli grattava e così polsi e caviglie, mescolandosi rivoletti di sangue alle croste di melma e pus. Aggiungendo poi la faccia ancora mezza gonfia dai colpi ricevuti, i capelli sporchi e appiccicaticci nonché la barba incolta, il giovane patrizio ispirato dal macabro umorismo del rassegnato, si considerò né più bello né più comodo dei prigionieri dei Pozzi.

Un calcio alla coscia lo distrasse da quel suo intimo scherzo e costrinse Hironimo a sforzarsi di levare un poco lo sguardo verso l’alto, provocandogli un unico lampo di dolore dalla nuca fino agli occhi, che gli parvero volergli scoppiare dal cranio.

“In piedi!”, gli venne intimato; il giovane Miani strinse i denti e obbedì docile, ignorando le fitte alle piote sanguinanti e infreddolite. “Che fai? Rabbrividisci? Così impari a giocare al buon samaritano!”, lo derise Mercurio, notando il discreto ma costante tremore lungo il corpo del patrizio, sia per la fatica sopportata sia per l’aria decisamente autunnale, umida e fredda. Le mani rattrappite del veneziano avevano assunto una tinta vagamente bluastra sotto il rosso dello sforzo di reggere la ballotta, così come le unghie sporche e rotte.

Fosse stato il se stesso di una settimana addietro, Hironimo avrebbe rinfacciato aspramente al greco-albanese che, a furia di servire l’Imperatore, ne aveva ereditato la famosa tirchieria, visto che non si penava di dargli un altro cencio con cui coprirsi. Ora, però, la cosa non lo tangeva. Anzi, più il Bua lo tormentava, più gli suscitava la medesima commiserazione di un adulto che deve sopportare i capricci di un bambino particolarmente petulante.

Hironimo socchiuse le palpebre gonfie e nere: era stanco, davvero stanco.

Il condottiero lo trascinò alla sua tenda, indirizzandolo al famigliare angolino dove aveva trascorso parte della sua prigionia a Montebelluna, con la sola eccezione che il suo Thomà non si trovava più con lui a tenergli compagnia, mitigando la solitudine. Al pensiero del piccoletto, il cuore del patrizio fremette per un istante, sperando e pregando che sia lui sia Fra’ Anselmo fossero giunti sani e salvi a Treviso, lontani dal nemico e le sue insensate crudeltà. Quella consolazione gli avrebbe di gran lunga addolcito quell’ennesimo giorno di prigionia …

Un violento strattone lo riportò alla realtà, strappandolo un gemito di sorpresa: senza concedergli tempo d’acclimatarsi al giaciglio di paglia, Mercurio gli aveva levato le cavigliere e le manette “da marcia” (come li appellava giocosamente) per sostituirli con altri più costringenti. Quasi stesse assistendo alla scena fuori dal proprio corpo, Hironimo osservava stranito i due grossi chiodi di ferro che chiudevano i suoi nuovi ceppi, quest’ultimi uno passato nell’altro. Due manette senza chiodi ne chiusero un altro paio identico, mentre attraverso due al centro del petto venne fatta passare una catena di anelli schiacciati acciocché gli avvolgesse il corpo, serrandogli le gambe, e lo forzassero in posizione fetale anche da seduto. Infine, il Bua chiuse un lucchetto su due anelli del palo di legno; un secondo sulle manette e un terzo sui ceppi.

Ad operazione conclusa, Hironimo constatò come neanche il più sanguinario dei criminali della Serenissima fosse mai stato incatenato così, a guisa di cane rabbioso. Quasi ogni movimento gli era impedito, oppure reso particolarmente doloroso. Si chiese come se la sarebbe cavata quando natura avrebbe chiamato, rabbrividendo al pensiero di quell’ennesima umiliazione: finché si trattava di urinare in marcia, non visto, poteva anche sopportarlo, ma davanti al suo carceriere …

“Così non dovresti neppure essere in grado di grattarti il culo”, sentenziò Mercurio perversamente soddisfatto, specie allo scatto della chiave nell’ultimo lucchetto. “Figurarsi scappare via. Ma se anche ci riuscissi”, gli si inginocchiò accanto, sventolandogli malevolo la chiave sotto il naso, “se anche per miracolo tu riuscissi a liberarti da queste catene e a fuggire, sappi che non arriverai mai a Treviso. Ti farò cercare, ti farò ricondurre qui all’accampamento e ti scuoierò via la schiena a furia di frustate, non prima d’averti fatto fottere pubblicamente dai miei cani!”, gli promise crudele e premette sulla caviglia gonfia, onde ribadire il concetto tramite una fitta acutissima di dolore.

La gola d’Hironimo si serrò in conato di acida bile: aveva udito di tali pratiche ai danni dei civili, atti ad umiliare specialmente le donne. In tutta onestà le aveva credute leggende o usanze turche, incapace di concepire tale vile bassezza in un cristiano e il pensiero di dover subire uguale sorte – unita ai suoi ricordi circa gli accoppiamenti tra i cani – lo spinse a sputare a malincuore della saliva, non avendo alcun cibo in stomaco.

Mercurio contemplò la scena ridacchiando, divertito dall’ansante boccheggiare dello scioccato patrizio. “Hai inteso?”, reiterò, afferrando ora il giovane Miani per i capelli e torcendogli il collo sulla sinistra, creando una doppia fitta dolorosa, da una parte la frizione del cerchio di ferro sulla carne viva e dall’altra il bruciore dei muscoli tesi allo spasimo per sorreggere la palla di marmo. “Rispondi, che la lingua ce l’hai quando vuoi: hai capito cosa t’aspetta, se proverai di nuovo a scappare?”

Il veneziano annuì, guadagnandosi un secondo strattone allo scalpo. “Parla, perdio!”, lo assordò per poco il condottiero.

“Ho … ho compreso …”, gracchiò Hironimo, la gola secca e ruvida, l’ultimo rivoletto di saliva sulle sue ginocchia. “Acqua …?”, aggiunse timidamente, una volta libera la sua zazzera dalle tenaglie del greco-albanese.

“Uh?”, sbatté perplesso le ciglia Mercurio, preso un attimo di contropiede. Poi, riavendosi: “Hai sete?”, schioccò la lingua, arricciando la bocca in una maniera poco raccomandabile.

Stancamente, il Miani rispose di sì.

“Implorami, allora.”

Un altro giochetto, un’altra prova. Hironimo scorse con la punta della lingua il taglio e le piaghe sul labbro inferiore screpolato, assaggiandone il retrogusto ferroso. Il suo spirito si ribellava dinanzi a quell’ignominia, all’abbassarsi così codardamente dinanzi ad un volgare avventuriero. Era un figlio di Venezia, l’altera mai conquistata. Con che faccia si sarebbe ripresentato alla sua famiglia, non solo sconfitto ma pure supplice ai piedi del nemico? Un Miani si spezza ma non si piega, gli aveva insegnato Padre e suo figlio anche in quello non voleva deluderlo.

Ma non di solo orgoglio vive l’uomo ed Hironimo faceva gli equilibrismi sul filo del limite della sopportazione fisica: la disidratazione l’aveva fiaccato delle ultime energie, le orecchie gli fischiavano, la vista ormai s’era tramutata in un incessante dondolio e la febbre non cessava di tormentarlo, riempiendolo di brividi freddi pur bruciandogli la faccia. Pochi giri di parole: pur nella sua testardaggine, Hironimo voleva vivere e per farlo doveva considerare anche i compromessi. Doveva, poi? Non sapeva più niente, in quel mese ogni sua certezza gli era stata sottratta, abbandonandolo alla stregua d’una foglia preda dei capricci del vento autunnale.  

“Se questa è la volontà di Dio …”, mormorò infine il giovane Miani, le gote vermiglie sia per la temperatura sia per la vergogna suscitatagli dalle sue medesime parole, “allora ti supplico di darmi dell’acqua …”

Mercurio tirò indietro il capo, sedendosi sui talloni, interdetto da quell’affermazione che nulla aveva di disperato né di rassegnato, al contrario, gli suonava alle orecchie alla stregua d’una sfida. Cosa c’entrava adesso Dio e la Sua volontà in tutto questo?

Quel veneziano doveva invero essere uscito di senno.

“Ci voleva così tanto?”, si raddrizzò il condottiero, modulando la voce acciocché il prigioniero non vi catturasse alcuna traccia di sorpresa o tentennamento. “Per stavolta ti porto da bere e anche da mangiare. Ma bada di non allargarti troppo: al minimo sgarro, ti beccherai la giusta punizione”, disse, levandosi in piedi per dirigersi alla volta del tavolo.

“L'è miei jessi in disgraćie di Dio …”, [1] udì però subito dopo alle sue spalle e il Bua si voltò di scatto, il coltello rimasto incastrato nel pane nero che stava affettando.

“Cosa?”, fece confuso il condottiero, cogliendo qualche parola di quell’idioma a lui sconosciuto. “Di che blateri, adesso?”

Graffiando le unghie taglienti e mezze rotte sulla palla di marmo, Hironimo replicò calmissimo. “Lo hai ascoltato.”

Mercurio mulinò nervosamente il coltello. “Sì, ma che significa?”, l’incalzò spazientito, tirandogli addosso la fetta di pane, che lo centrò in pieno, rotolando per terra ai suoi piedi. Ineffabile, il patrizio raccolse goffamente il cibo e se lo portò alla bocca senza neppure soffiarci sopra, masticando lento e sul lato sinistro, laddove gli doleva di meno.

“Non ti dirò più niente”, chiuse in via definitiva Hironimo la conversazione, lo stomaco momentaneamente placato ma non soddisfatto. In silenzio bevve l’acqua mescolata al mosto, avvertendo una piccola e dolce sensazione di conforto nel corpo e nell’anima.

Che il greco-albanese lo insultasse, lo minacciasse, lo tormentasse pure: non gliene importava più nulla, il suo spirito era al sicuro da lui, irraggiungibile. Quanto al resto, hé, sebbene Hironimo si fosse genuinamente pentito della sua condotta passata, non poteva certo cambiare radicalmente costumi dall’oggi al domani – complice la sua testa dura –   e forse ancora peccava della sua innata superbia, ma su di una cosa non avrebbe ceduto: soltanto davanti a Cristo e al suo lieve giogo si sarebbe piegato, soltanto a Lui. Gli altri potevano impiccarsi tutti al primo albero disponibile.

E quella sua rinnovata determinazione dovette trasparire dai suoi occhi neri, giacché Mercurio non seppe cosa rispondere, o meglio lo sapeva ma non gli parve forse il caso, la sua coscienza pungolata da un’inusuale pesantezza.

Si morse dunque l’interno della guancia ed uscì dal padiglione, pronto a seguire il maresciallo La Palice a Treviso. Il Bua rimase in silenzio per tutto il tempo, mentre sistemava la sella e le briglie del suo cavallo, perfino quando il generalissimo francese dava le ultime istruzioni. Non reagì neanche alla scoperta della fuga di tre prigionieri, tra cui quel contadino difeso da Hironimo la notte precedente.

Perché, si domandava Mercurio, perché più lui tentava d’umiliare il Miani, più lui e non il veneziano ne usciva al contrario sconfitto?

 

***

 

Immerso in cupi pensieri sguazzava anche sier Marco Miani. Il patrizio veneziano aveva infatti accolto con gioia l’alba e l’inizio del suo turno di ronda al Castello, avendo trascorso la notte a fissare inquieto il soffitto del suo nuovo alloggio, non più allietato dal dolce solletico del respiro della moglie Helena, bensì dal fastidioso ronzio dell’irriducibili zanzare. Soltanto il vento, che per l’intera durata della breve funzione mattutina aveva graffiato sui vetri della chiesetta, riusciva a scuotere via il suo torpore mentale e lo distoglieva dalla malinconia, spronando il trentenne patrizio a concentrarsi sull’incarico affidatogli.

Lungo il lato del Castello prospiciente al Sile e lungo il canale Polveriera suo derivato, si stava costruendo di buona lena l’ennesima palada, ossia una palizzata in tronchi di rovere posta di traverso nel letto del fiume per impedire alle imbarcazioni nemiche di entrare in città. Gli esploratori marciani, infatti, avevano avvertito il Provveditore, il Podestà e i capitani delle imbarcazioni per il momento ancora ferme al porticciolo di Nervesa, chiaro segno che avevano intenzione di navigare sia la Piave sia la Piavesella raggiungendo poi Treviso tramite il Sile, sfruttando certamente le zattere sequestrate a Cividal di Belluno. A Porta Altinia, poco distante, si stava abbassando la torre e finendo di scavare il fosso, uno degli ultimi lavori rimasti per completare la difesa cittadina e sier Zuam Paulo Gradenigo aveva nuovamente arruolato sia uomini che donne per rispettare la sua personale scadenza di massimo due giorni.

Da un angolo della caminada del Castello, Marco osservava silente i genieri lavorare alla palada, ogni tanto spintonato all’indietro da una folata particolarmente violenta di vento, portandolo ad aggrapparsi al parapetto, divenuto più sobrio a seguito dello smantellamento delle inutili merlature scaligere. Il Miani, pur infastidito dai fischianti refoli d’aria malgrado l’elmo e la cuffia gli coprissero le orecchie, giudicò salvifico quel vento poiché arieggiava l’imponente baluardo e si portava via un po’ di zanzare e quel fastidioso tanfo di marciume, che da qualche tempo lo stava appestando.

Similmente a Treviso, anche il Castello aveva subìto un drastico cambiamento: sorto in qualità di fortezza quasi due secoli addietro per volere di Alberto e Mastino Della Scala, e successivamente ampliato da Francesco da Carrara che l’aveva trasformato nella sua residenza, originariamente esso era stato concepito a pianta quadrata con grosse torri agli angoli.  Ora, pesantemente rimaneggiato, il Castello appariva a forma pentagonale, inglobato nelle mura e di conseguenza trasformato in un unico e ampio bastione. I lati esposti sul canale Polveriera e sul Sile erano stati rinforzati da una spessa muraglia e provvisti di cannoniere alla base, mentre all’interno si trovava un terrapieno. I lati invece che davano verso la città presentavano cortine più leggere, i loro vertici adibiti a polveriere. La cappella gentilizia era stata convertita ed ampliata in una vera  e propria chiesa, nomata San Marco dei Bombardieri, subito meta di gran devozione da parte degli omonimi soldati, a giudicare dal numero di ceri accesi e rosari improvvisati.

Marco non si vantava di possedere grandi nozioni d’ingegneria, tuttavia aveva incominciato a sospettare che quel puzzo di marcio, non dissimile a quello sul litorale lagunare quando s’apprestava a piovere, significava che, in qualche punto del Castello, l’acqua s’era fermata, stagnando e di conseguenza rilasciando fetore e zanzare. Inoltre, aveva appurato non senza sudare freddo che la maggior parte degli ammalati di febbre proveniva proprio dal Castello, come suo cognato sier Nicolò Trivixan e sier Alvixe da Riva, ambedue rimpatriati a Venezia divorati dalla febbre. In aggiunta, anche sier Zuam Alvixe Dolfin e sier Aurelio Michiel, malgrado avessero fatto venire da Venezia dei medici apposta per curarli, erano dovuti rientrare velocemente. Sperò ardentemente di sbagliarsi, ma se avesse avuto ragione? Come intervenire e migliorare in fretta, con l’incombente ombra dell’assedio?

Quell’antica fortezza- residenza, d’altronde, non poteva rimanere uguale come ai tempi del Carrarese: collocata appena fuori dalle precedenti mura, se in passato era stata una geniale intuizione per evitare di finire vittima delle insurrezioni degli inquieti trevigiani, adesso essa rischiava di finire isolata in caso d’assedio e, se conquistata, poteva divenire una strategica roccaforte per i nemici, dove ripararsi e al contempo sferrare i loro attacchi. Per questo motivo, si erano interrati ambedue i fossati che circondavano sia un lato del Castello sia delle mura scaligere.

Per quanto puntigliosi e avvezzi ad opere idrauliche, l’acqua rimaneva per chiunque una bestia ostica da domare, portando ognora seco lo spettro tremendo della malaria.

“Christo d’on Christo!”, l’attirò da giù il ruggito del capo-geniere, a seguito del mancato rotolamento in acqua di uno dei tronchi di rovere per la palada. Evidentemente, il vento aveva intirizzito le mani dei genieri, ripercuotendosi negativamente sulla loro presa. “Man zànche! (sinistre, ndr.) Gh’avé man pì roèsse (rovesce, ndr.) di la crose di Sen Piero!”, continuava a sbraitare, rosso vino in faccia che pareva scoppiare da un momento all’altro e il più giovane dei genieri, magari perfino innocente, si beccò uno scappellotto sulla nuca per mondare i peccati di tutti. “Seti ‘no scandalo!”

“Poareti”, commentò comprensivo sier Alvixe da Canal, sporgendosi assieme al Miani onde assicurarsi che non si andasse al di là di qualche ceffone di rimprovero. “Non li biasimo: questo vento tira troppo forte, mi sta sguarattando il cervello!”, sospirò, massaggiandosi gli occhi arrossati dai colpi d’aria. “Novità?”, s’informò infine.

“Neanche un’ombra s’è mossa”, rispose stringatamente Marco, indicando col capo sia il bastione degli Spiriti sia Porta Altinia. Non appena La Palice aveva battuto la ritirata, il provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo e i capitani Renzo di Ceri e Vitello Vitelli avevano convocato un rapido consiglio di guerra, insistendo su turni serrati e specialmente sul lato meridionale, attualmente il più vulnerabile.

“Pensate che la Peliza ci onorerà di una seconda visita?”, domandò sier Alvixe, rabbrividendo e serrando stretto alla gola il pesante mantello.

“Ovvio”, mormorò accigliato il Miani, lo sguardo puntato sui vocianti genieri. “Hanno preso paura, ma non abbastanza. Soltanto rincarando la dose li spediremo in bocca diavolo!”, sentenziò bellicoso, stringendo le dita guantate sul parapetto.

“Se non lo fanno prima i nostri provvisionati”, ribatté sarcastico l’altro patrizio. “Non ho quasi più danari per mantenerli e la Signoria mi deve ancora i miei, di arretrati. Non si pretenderà certo che stiano qui a combattere amor dei!” (gratis, ndr.)

“Se non per amor dei, per timor mortis”, replicò sferzante Marco, il quale tuttavia riconosceva nel suo concittadino la difficoltà di placare le pance dei soldati assoldati a proprie spese, trovandosi infatti nella medesima situazione. “Dubito però che diserteranno, anche perché non hanno nulla dove andare, se non sottoterra”, rimarcò cupo, rivolgendo sconsolato lo sguardo al cielo livido e arrabbiato. Era stato il medesimo che il suo antenato, sier Zuanne Miani, aveva contemplato durante la liberazione di Treviso dai Carraresi?

Il Dì dei Morti ancora distava assai, tuttavia Marco rivolse una petizione a quel suo valoroso antenato, che aveva combattuto al fianco dei leggendari comandanti Vitor Pisani e Carlo Zen durante la Guerra di Chioggia; che da Capitano di Golfo aveva ottenuto la dedizione di Corfù, Durazzo, di Argo, di Napoli di Romania e del castello di Alessio; lo stesso che da provveditore era stato il primo ad entrare in questo Castello adesso presidiato dal suo discendente, la medesima fortezza dove Francesco da Carrara s’era rifugiato dai trevigiani insorti, offrendo come ultima spes di salvezza personale la città e la Marca ai viscontei guidati da Jacopo del Verme e Spinetta Malaspina. Invece anche quest’ultimi avevano trovato una ferrea resistenza nella popolazione, affatto disposta a finire sotto Milano. [2]  All’intrepida anima di Zuanne Miani, dunque, Marco domandò soccorso onde infondergli il medesimo ardore in battaglia e di condurre alla rovina i nemici della patria. Gli fece perfino voto che il prossimo nato a Ca’ Miani avrebbe portato il suo nome, specie se Marco fosse riuscito, in qualsiasi modo, a farla pagare ad un certo cittadino di Napoli di Romania, città da sier Zuanne assai nota.

La campana dalla torre di avvistamento del bastione della Madonna corrispose all’Amen delle sue preghiere, tosto seguito dal coro indiavolato dei tamburi che chiamavano all’assembramento i soldati, in risposta al lontano eco di quelli dei franco-imperiali, i cui vessilli incominciavano a far capolino all’orizzonte.

Marco batté le nocche sul palmo, infondendosi coraggio e cattiveria in corpo. “Fate rientrare immediatamente i genieri! Archibugieri e balestrieri si tengano pronti in direzione Porta Altinia! Idem per i bombardieri!”, ordinò il Miani ai connestabili e ai mastri bombardieri. “Notificate il sior provedador, che il Castello è pronto ad ogni suo cenno!”

Il bastione, dapprincipio silente, s’animò in un frenetico vespaio di andirivieni per poi chetarsi all’improvviso, stavolta in paziente attesa assassina.

 

***

 

Come il lupo osserva attento e feroce la preda ignara e tranquilla, prima di balzarle inatteso addosso e morderla alla gola, così sier Ferigo Contarini studiava la sagoma di Soave e le sue mura, a malapena illuminata dalla tenue luce mattutina e immersa nel suo placido sonno. La sua compagnia aveva cavalcato da Padova tutta notte senza imbattersi in alcun nemico, giungendo prima del previsto e straordinariamente freschi e vogliosi di combattere. Infatti, il Contarini aveva brillantemente persuaso i recalcitranti soldati a seguirlo, puntando sul suo naturale carisma e soprattutto titillando la loro avidità, avendoli promesso un grasso bottino a mo’ di risarcimento per le paghe arretrate. Astuta volpe, al giovane provveditore non era sfuggito il cupido luccichio negli occhi degli stradioti, i quali già gongolavano all’idea d’impadronirsi dei magnifici cavalli delle scuderie mantovane, tipici della compagnia di Federico Gonzaga di Bozzolo e di Giovanni Gonzaga.

“Ebbene?”, inquisì secco sier Ferigo all’arrivo di Pellegrino Busicchio, assentatosi per una rapida esplorazione del terreno.

“Rimangono solo due porte da cui entrare, tutte le altre sono state murate”, spiegò conciso il nipote di Domenico Busicchio, anche lui presente e accanto al provveditore degli stradioti.  

“Due ci bastano”, sentenziò il Contarini, girandosi indietro per calcolare come meglio suddividere i suoi uomini. Milleduecento cavalleggeri e quattrocento fanti, le sue forbici per tagliare la linea di comunicazione tra i due Gonzaga. Il patrizio diede di sperone al suo cavallo onde portarsi al riparo all’interno del bosco; dopodiché scese e, estratta una carta di Soave, la aprì e la stese per terra. Il resto dei capitani lo imitò, stringendosi a cerchio attorno a lui.

“Conte Guido: voi, tutti i vostri balestrieri a cavallo e cinquanta stradioti vi porterete davanti alla porta che va verso Vicenza”, ordinò al condottiero modenese, indicandogli sulla cartina con la punta della spada il punto in cui si sarebbe appostato. “Noialtri, invece, bloccheremo questa di Verona, acciocché nessuno della città possa uscire. Signor Sebastiano, voi invece disporrete la fanteria alla volta del monte, dietro la rocca. Sono pronte le scale?”

“Sissignore”, lo rassicurò il capitano bolognese. “In neanche un’ora avrete aperte ambedue le porte.”

“Ci conto, signor Sebastiano, ci conto”, esclamò Sier Ferigo soddisfatto, pur ridacchiando tra sé e sé per la tracotanza del condottiere. E ritornando serio: “Appena avrete superato la prima difesa, signor Sebastiano, urlate “Marco!” e il conte Guido ed io bruceremo ambedue le porte: ai nemici resteranno due opzioni, se attenderci dentro la rocca o tentare di fuggire, finendo dritti tra le nostre braccia. In ogni modo, li daremo battaglia. I capitoli li conoscete molto bene: una volta presa Soave, fate quel che più ritenete giusto per il vostro guadagno, ma il contino di Melzo, l’Estense e gli altri comandanti rimangono prede esclusive della Signoria”, e all’ultimo tuttavia aggiunse cupo: “Ricordate però che queste truppe le hanno destinate all’assedio di Treviso.”

Il Contarini aveva dovuto ingoiare la sua delusione nell’apprendere l’assenza a Soave sia di Federico che di Giovanni Gonzaga: mano sul cuore, l’aveva accarezzato la tentazione d’abortire il piano e di ritentare una seconda volta, quando sarebbe stato sicuro d’incrociare almeno uno dei due nobili mantovani. Tuttavia rimaneva l’annosa questione delle paghe arretrate, ch’aveva provocato gravi malumori tra gli stradioti, rifiutandosi quest’ultimi di trasferirsi alla custodia di Treviso come comandato dalla Signoria. Sicché per le leggi di “un ho val più di cento avrò” e di “prendere due piccioni con una fava”, Ferigo aveva deciso di risarcirsi con le teste di Galeazzo Sforza e di Sebastiano d’Este, conducendoli in catene a Padova assieme ad altri prigionieri di qualità, intanto che annientava l’armata ausiliare che doveva ricongiungersi a quella del La Palice. I provveditori sier Polo Capello e sier Christofal Moro avrebbero gradito assai quel suo sforzo e a Dio piacendo non si sarebbero accampate più scuse per posticipare la partenza per la capitale della Marca.  

Quanto ai soavesi unitisi all’impresa, avrebbero finalmente avuto la loro vendetta per la strage dei loro compaesani per mano dei Collegati.

 

***

 

Cento uomini in più rispetto al giorno precedente – contò sier Zuam Paulo Gradenigo dalla sua postazione al bastione di San Tomaso, ascoltando il rapporto di uno stradiota proveniente da Porta Santi Quaranta, laddove gli si spiegava come una divisione di gendarmi e cavalleggeri francesi fosse apparsa anche lì. Il suo capitano Teodoro Paleologo, alloggiato al monastero fuori dalle mura, già aveva disposto i suoi uomini assieme, bloccando l’entrata al nemico e domandava al provveditore se e quando attaccare.

“Continuate a tenere sotto tiro il contingente di La Peliza”, si raccomandò Gradenigo a sier Ludovico Querini e al connestabile lì accanto a lui. “Sapete come agire, in caso dovessero muovere un sol passo!”

Il suo concittadino rispose affermativamente col capo e il patrizio scese le anguste scale fino a giungere al suo cavallo, spronandolo in direzione di Porta Santi Quaranta, deciso infatti a guidare di persona gli stradioti e i cavalleggeri lì schieratesi.

“I capitani Thodaro Rali e Andrea Pera sono rientrati?”, chiese il provveditore a sier Lunardo Zustignan, riferendosi allo squadrone di stradioti partiti in esplorazione.

“Il signor capitano Vitello e il signor Lorenzo ancora attendono loro notizie”, negò il patrizio col capo, aggrottando preoccupato la fronte quanto l’altro veneziano.

Una sgradevole inquietudine incominciò allora a rodere le viscere di sier Zuam Paulo, cogitando questi furiosamente sul motivo di quelle continue visite da parte dei franco-imperiali: non si trattava solo di dimostrazioni di forza, dovevano essere venuti in esplorazione del terreno, alla ricerca di un punto debole delle mura … E forse anche per compiere azioni di disturbo e di saccheggio, laddove possibile. Colpendoli in punti diversi sarebbe stato più difficile contrastarli, anche se …

Poteva benissimo trattarsi di una trappola da parte del maresciallo francese, onde fiaccare il loro spirito e privarli di uomini.

Zuam Paulo Gradenigo sperò ardentemente che Vitello Vitelli, quel giorno a presidio di Porta Altinia, fosse esentato dalla presenza di un contingente franco-imperiale. Con Renzo di Ceri s’era raccomandato poi di non uscire dalla città, limitandosi a respingere a cannonate gli assedianti, giunti senza artiglieria e dunque più vulnerabili. L’Orsini – forse quella mattina innervosito dalle fitte di dolore alla gamba, provocategli dalla piaga del malfrancese – aveva ribattuto di lasciare agli sbarbatelli tali raccomandazioni. Gradenigo aveva per un soffio mancato di ricresimare senz’olio quel laziale impertinente.

“Inviate quest’ordine al capitano Andrea Vassallo: dite di armare i burchi di due falconetti ciascuno ed imbarcare archibugieri e balestrieri quanti che ne può portare e che si spostino a pattugliare il fiume all’altezza di Porta Altinia”, istruì il provveditore un suo provvisionato, il quale diede di sperone al cavallo, facendo dietrofront e sparendo rapidissimo tra le viuzze di Treviso. 

 

***

 

Sebastiano del Manzino e i suoi fanti camminavano silenziosissimi rasente muro a guisa di lucertola, e come tali appoggiarono le scale, pronti a scalare la rocca, le mani leggermente sudate dentro i guanti dalla tensione e respirando appena dal naso. Tra i suoi uomini s’erano uniti dei soavesi ribelli agli invasori, i quali, conoscendo a menadito il Castello, lo aveva condotto nel punto meno visibile al nemico.

Il condottiero bolognese aveva scrutato attentamente le caminade prima dal suo nascondiglio boschivo e poi dal basso, cercando di capire le dinamiche di ronda del nemico, in modo così da calcolare quanto tempo gli sarebbe occorso per salire senza imbattersi immediatamente in una sentinella. Finora aveva ne aveva contate quindici, però qualcuno in più poteva sempre sbucare fuori.

Accertatosi come ogni scala fosse stata posizionata a dovere, Sebastiano sguainò circospetto la spada e, appoggiando il piede sul primo gradino, incitò silenziosamente il resto dei fanti a seguirlo in fretta, in sincronia impeccabile. Ogni tanto, udendo qualche rumore sospetto, il bolognese e i suoi compagni si appiattivano contro le mura, trattenendo il fiato e serrando la presa, per poi ripartire più veloci di prima, finché non raggiunsero l’agognato parapetto con le sue merlature. Scoccando una veloce occhiata attorno e trovando la caminada sgombra di sentinelle, il condottiero s’infilò dentro tra lo spazio dei merli, scavalcando la balaustra ed aiutando il resto dei fanti a raggiungerlo, aguzzando l’orecchio e la vista, vigilantissimo.

Quand’ecco, che un rumore inaspettato di passi lo colse alle spalle e, girandosi di scatto, Sebastiano si trovò faccia a faccia con un soldato probabilmente mantovano, il quale rimase per un brevissimo attimo lì impietrito, il viso pallidissimo e sgomento per quell’inaspettata apparizione. La bocca della sentinella si piegò tuttavia in una smorfia allarmata, gridando a pieni polmoni: “Fate buona guardia! Fate buona guardia!” e girò fulmineo sui tacchi, correndo in direzione opposta onde avvisare i suoi commilitoni.

Il Manzino non gli concesse tal privilegio. “Fai tu buona guardia”, berciò al fuggitivo e peggio d’un bracco scattò al suo inseguimento. L’afferrò per i capelli rimasti scoperti dall’elmo e, tirato il mantovano a sé tramite uno strattone talmente forte e brusco da costringere quest’ultimo in ginocchio, affondò dall’alto la punta della sua spada tra spalla e gola. Un’altra guardia, giunta in tardivo soccorso del compagno, caricò il bolognese con la sua picca, prontamente deviata dalla posta di coda longa di quest’ultimo, che gli permise d’afferrare la lancia, di tirarla a sé e d’avvicinarsi quel tanto da trapassare la gola anche di quell’avversario.

Nettandosi via dal viso gli schizzi di sangue e i rivoletti di sudore, Sebastiano portò la lama in posta di donna destraza e, alla vista del resto del nemico appropinquarsi ma certo della massiccia presenza dei suoi uomini dietro di sé, urlò con quanto fiato avesse nei polmoni: “Marco! Marco!” schizzando incontro agli altrettanti determinati difensori della rocca. “Tagliateli tutti a pezzi, perdio!”

Appostato ad una delle due porte rimaste, Ferigo Contarini si calò la celata dell’elmo non appena le sue orecchie captarono il veneziano ruggito di battaglia tosto seguito da “Armi! Armi!” degli assediati che, a giudicare dal trambusto sempre più vicino, si stavano apprestando a serrare i ranghi e porsi in ordine, o per combattere o per fuggire.

“Bruciate la porta!”, ordinò allora il giovane provveditore degli stradioti. “Pronte le lance! Nessuno esce vivo da Soave, finché non s’arrendono!”

In un battibaleno, il legno dinanzi a loro divenne un’unica lingua di fuoco, guizzando in alto d’arancio e denso fumo nero verso il cielo a malapena rosato del primo mattino, accompagnato questo falò improvvisato dalla lugubre cadenza dei tamburi. Alte grida di stupore e panico si levarono nell’aria e Ferigo poteva ben immaginare le reazioni scomposte e isteriche dei soldati intrappolati lì dentro, del loro frenetico ragionare in cerca di una rapida soluzione. Tamburellò le dita sull’elsa della spada, in attesa della loro decisione finale.

Guido Rangoni, davanti alla porta vicentina, diede il segnale di bruciare anche quest’ultima, raddoppiando le grida di sconcerto degli assediati, finiti invero come il proverbiale sorcio.

La prima mossa era stata fatta: ora toccava ai Collegati.

“Si aprono le porte! Si aprono le porte!”

 

***

 

Mercurio, non vedendo ritornare il terzo squadrone staccatosi in direzione del Terraglio, aveva richiesto e ottenuto il permesso dall’altrettanto apprensivo La Palice di raggiungere i ritardatari, lasciando Leka a capo del resto degli stradioti, anche per distrarsi dalla guerra di nervi ingaggiata sia da parte dei Collegati che dei veneziani, schieratisi ora non soltanto a Porta San Tomaso ma anche a Porta Santi Quaranta, sfidandoli ad avvicinarsi.

Per questo motivo il greco-albanese non aveva interpretato favorevolmente la sparizione del terzo contingente, non famigliare del territorio nonché il più isolato rispetto agli altri e di conseguenza facile preda di agguati.

E di fatti, sopraggiungendo in un punto piuttosto remoto lungo il fiume, il Bua s’imbatté in quel che doveva esser stato uno scontro particolarmente violento, scovando dappertutto gendarmi riversi disordinatamente nel fango e spogliati dei loro averi, similmente agli otto sopravvissuti già incatenati e pronti ad essere deportati in città. I cavalli degli sconfitti – dodici in totale - nitrivano nervosi e tentavano di ribellarsi alla presa dei nuovi padroni, tutti stradioti tra i quali Mercurio riconobbe il capitano Teodoro Ralli e accanto a lui il suo ex-prigioniero e  fratello di Zilio, Teodoro Madalo.

Al pensiero del suo fedele luogotenente, il condottiero stringe convulsamente le redini mentre estraeva la scimitarra, deciso come non mai di ribaltare la situazione: da oggi, si ripromise, la fortuna avrebbe smesso d’arridere ai veneziani.

“San Giorgio! San Giorgio!”, gridò Mercurio, dando di sperone al suo corsiero e gettandosi quasi in braccio all’avversario, cogliendolo impreparato e disperdendolo, senza neppure concedere ai marciani il lusso di capire quanto stesse accadendo.

Gli sfortunati, che non ebbero abbastanza prontezza di riflessi di rimontare a cavallo, furono tra le prime vittime, falciati via dall’impeto del primo scontro; i cavalleggeri francesi puntarono sui loro compagni prigionieri, rompendo le loro catene con un colpo di spada, issandoseli poi in sella e galoppando distante dalla mischia.

Quanto a Mercurio, esauritosi l’effetto sorpresa, si trovava impegnato a forzare la fila difensiva improvvisata dal resto degli stradioti marciani, con a testa il Ralli e Andrea Pera che spingevano e pressavano i fianchi dei propri cavalli contro quelli dei francesi in una sorta di lotta corpo a corpo, oltre che scimitarra contro scimitarra. Sbattendo le ciglia madide di sudore sotto a celata, il Bua s’accorse, dagli scatti improvvisi del suo corsiero, del piano dei due capitani: il terreno progressivamente più scivoloso e instabile significava che li stavano costringendo ad indietreggiare verso le golene, per poi buttarli in acqua.

Inaccettabile, grugnì mentalmente il condottiero, schivando un affondo di Andrea Pera e battendo di piatto la sua scimitarra contro il cavallo del nemico; immediatamente l’animale, confuso e stizzito, s’innervosì e s’impennò, scalciando e rompendo la formazione, il suo cavaliere in crescente difficoltà. Sogghignando crudele, Mercurio si sbilanciò in avanti e colpì il capitano Pera prima al fianco, poi alla gamba e tentò di recidere la cinghia del sottopancia, sennonché il corsiero, roteando sulle braccia, rispose agitando gli zoccoli delle gambe contro il greco-albanese, che dovette rinculare velocissimo. Nel medesimo istante, l’improvviso scatto sbalzò di sella Andrea che già ferito cadde e batté la schiena per terra, in un sinistro scricchiolio di ossa, seguito da un flebile grido di protesta quando la bestia, libera da ogni controllo, prese a galoppare via senza direzione, trascinando seco lo stradiota, il cui piede era rimasto incastrato nella staffa.

“Theodoros! Vai a recuperarlo!”, ordinò il capitano Ralli al suo sottoposto, il quale, per tutta risposta, balbettò qualche inintelligibile parola di protesta. “Vai!”, ribadì suo fratello Giorgio, serrando i ranghi così da permettergli di staccarsi senza creare una breccia utile al nemico.

Mercurio, pur non afferrando ogni singolo e perfetto lemma di quel discorso, ne intuì il contenuto di base e girò il suo cavallo per partire all’inseguimento di Madalo; tuttavia, Teodoro Ralli gli si parò innanzi, bloccandolo e armeggiando così d’impossessarsi e manomettere i finimenti della sua cavalcatura. Vomitando una mezza imprecazione e una mezza bestemmia, il Bua girò l’elsa della sua scimitarra e sbatté il pomello contro l’elmo del Ralli col duplice effetto di disarmarlo e d’intontirlo. Dopodiché, portatosi appresso, gli circondò il braccio attorno al collo, serrandolo intanto che decideva se strangolare il conterraneo o di farlo suo prigioniero. Teodoro, abbandonate le redini, d’istinto afferrò invece avambraccio di Mercurio e prese a battere i pugni contro di esso e il gomito, sfinendo la presa ferrea del ringhiante greco-albanese.

D’un tratto, alle sue spalle, quest’ultimo si sentì trascinare all’indietro e sia lui che il Ralli rotolarono per terra in un groviglio di corpi e fango. Postosi rapido in piedi e alzandosi la celata lercia, il Bua, perduta momentaneamente la sua arma, sparò un gancio a Giorgio Madalo, venuto in soccorso del suo superiore, e lo spedì contro un albero che però per effetto di rimbalzo glielo riportò davanti e stavolta il fratello di Zilio non esitò a sfilare il suo pugnale da sotto la casacca, sennonché due uomini del greco-albanese gli si buttarono di peso addosso e lo costrinsero in ginocchio, tenendolo fermo per ambedue le braccia. Ciò permise a Mercurio di concentrarsi su Teodoro Ralli, ancora barcollante e in affanno per il mancato ossigeno: caricandolo a guisa di toro, il Bua atterrò l’uomo, ponendosi a cavalcioni sopra di lui, e gli scaricò una serie di pugni  ben assestati così da impedirgli ogni sorta di reazione, fino a renderlo totalmente innocuo.

“Oggi vinciamo noi!”, ansimò l’epirota, le cui nocche bruciavano pur coperte dal cuoio dei guanti. “Oggi la Signoria ha perso. Oggi inizia la fine di Treviso!”

Ridendo sguaiatamente, i denti macchiati di sangue, Teodoro Ralli gli sputò in faccia. “Malakas!”, gracchiò. “Hai vinto solo la tua tomba!” e prima che l’altro potesse esigere spiegazioni (o ammazzarlo per spregio) il sibilo di una freccia e il gorgoglio d’un cavalleggero morente indusse Mercurio a voltarsi di scatto e i suoi occhi si dilatarono d’impaurito stupore allo sgradito spettacolo dei capitani Vitello Vitelli e Renzo di Ceri sopraggiungere in fretta assieme ai loro balestrieri e fanti, già in schieramento d’attacco. La vista in particolare delle due anguille incrociate sull’impresa dell’Orsini degli Anguillara [3] rievocò nel Bua l’antica e terrificante ansia sperimentata durante la rotta del Garigliano, laddove anche in quel frangente i due condottieri s’erano affrontati da avversari.

Ghermito e issato Ralli per un braccio, Mercurio recuperò in fretta la sua cavalcatura e, una volta in sella, con dei lacci improvvisati legò al pomello i polsi del suo prigioniero. “Ritirata! Ritirata!”, ordinò infine ai suoi. “Prendete ostaggio chi potete e ritiriamoci!”

“Cammina, Madalo!”, grugnì uno stradiota a Giorgio, rimasto in camicia dopo che gli avevano levato ogni suo avere personale. Con la scusa di farsi ammanettare, ecco che il fratello di Zilio gli elargì un’inaspettata spallata, approfittandone per sottrarre al suo carceriere il pugnale e piantarglielo dritto nell’occhio; dopodiché, giratosi, recise la gola di un altro stradiota e scappò via per il bosco, zigzagando a sufficienza così da scoraggiare i cavalleggeri francesi dall’inseguirlo, temendo quest’ultimi la presenza d’eventuali nemici appostati tra i fitti alberi.

“Lasciate perdere! All’accampamento!”, diede di sperone il Bua e i suoi uomini lo imitarono svelti, evitando così uno scontro coi i marciani giunti in soccorso dei loro stradioti.

Tre prigionieri soltanto – redasse il bilancio finale Mercurio - tra cui il capitano Teodoro Ralli. Magro bottino, certo, tuttavia ciò che bastava per inviare un chiaro messaggio al provveditore Gradenigo: Treviso non era così imprendibile come credeva né i suoi soldati imbattibili.

Anche perché, ripensando al luogo dello scontro appena terminato, il condottiero credeva ora d’aver scoperto finalmente il punto debole della città.

 

***

 

Galeazzo Sforza ricacciò indietro un conato di vomito, detergendosi la fronte pallida e sudaticcia col dorso della mano guantata, maledicendo l’infelice connubio del morbo che da giorni lo tartassava e del tanfo di fumo, il quale non cessava di molestargli lo stomaco, sconquassandoglielo. Il suo scudiero, tenendolo per una gamba, lo aiutò ad issarsi fino a sedersi in sella, i suoi occhi scuri scrutanti apprensivi il suo signore, la cui salute non aveva minimamente accennato ad un qualsivoglia miglioramento. E adesso, ad aggiungere l’insulto all’ingiuria, i veneziani avevano attaccato all’improvviso Soave, quella che i gonzagheschi avevano creduto una fortezza insospettabile, fuori dal loro raggio d’azione, e pertanto perfetta come tappa di sosta prima di procedere verso Treviso. Invece, le grida inferocite dei marciani s’avvicinavano sempre di più alla cittadella, unito ai rantoli dei loro compagni passati a fil di spada, mentre dalle finestre s’oscurava il panorama, coperto da dense cortine di fumo puzzolente.

“Signor Galeazzo!”, avvicinò Sebastiano d’Este al contino di Melzo, scuotendolo leggermente sulla spalla. “Dobbiamo andare!”, lo esortò, nel frattempo che indossava l’elmo con la mano libera, l’altra impegnata a tenere la lancia.

Il figlio illegittimo del fu Duca di Milano sbatté le palpebre doloranti, aspirando in un battito di denti l’aria d’un tratto gelida, come freddi erano i brividi e il sudore che gli percorrevano la schiena, sotto l’armatura. Stringendo a malapena le redini, lo Sforza annuì docile e batté i fianchi del suo cavallo, seguendo i suoi compagni verso una delle due porte del Castello di Soave.

Resisi conto di trovarsi dinanzi a due scelte davvero spinose – se affrontare i veneziani dentro o fuori le mura – Sebastiano d’Este aveva convinto gli altri capi a tentare una sortita in campo aperto, confidando nella forza e nella compattezza della loro cavalleria, una volta che gli uomini d’arme avessero distratto il nemico. Non confidava certo di salvare tutti, però buona parte sì e forse qualche possibilità sussisteva di scampare alla cattura, riparando a Verona.

Dovevano però agire in fretta.

“Andiamo! Andiamo!”, incitò il capitano Estense i suoi cavalleggeri in direzione di ambedue le porte, così da dividersi e tentare di sfondare almeno uno dei contingenti nemici. I soldati risposero in bellicoso eco, risuonando il rimbombo di numerosi zoccoli per terra, unendosi al clamore di ferro dentro e fuori la fortezza.

Ferdinando dal Persico si portò accanto a Galeazzo Sforza, cavalcando accanto a lui nelle sicure retrovie, assicurandosi che l’uomo, ciondolante, rimanesse in sella. “State di buona voglia”, lo rassicurò, raddrizzandogli il busto ricurvo in avanti. “Presto raggiungeremo i signori Giovanni e Federico e vedrete che vi rimetterete in sesto!”, disse, ricevendo un sorriso tirato da parte dello Sforza a mo’ di ringraziamento.

Il conte cremonese ebbe appena tempo d’imitarlo, che la sua bocca si piegò in una smorfia terrorizzata: la sortita di Sebastiano d’Este e della sua compagnia non solo era stata respinta e la maggior parte dei soldati finiti nelle fosse a gambe all'aria ma, in una violenta contromossa, i veneziani li stavano costringendo a rientrare nella fortezza, i loro balestrieri a cavallo che scoccavano incessanti piogge di frecce mentre gli stradioti infilzavano e spingevano indietro gli assediati. Ferdinando dal Persico riconobbe con orrore in prima fila i Rangoni, combattendo i tre fratelli Guido, Ludovico e Francesco alla stregua di diavoli dell’inferno, aprendosi questi un varco tra i gonzagheschi e avanzando sui loro cadaveri, i quali s’accumulavano senza sosta, come le mosche affogate nell’aceto.

Difendendo col braccio il contino di Melzo, il cremonese provò ad arretrare e a giocarsi il tutto per tutto uscendo dall’altra porta; purtroppo per lui, il conte Guido lo aveva adocchiato e gli galoppava incontro, la zagaglia pronta a colpire o lui o lo Sforza. Fortunatamente, un cavalleggero mantovano si frappose tra i due e il modenese, permettendo a Ferdinando d’afferrare le redini di Galeazzo e di rifugiarsi all’interno della cittadella e poi dentro il dongione, avendo infatti scoperto come anche la seconda porta fosse ormai in procinto di venir forzata dai veneziani.

Avanzando a fatica tra la ressa di soldati sbandati e fuggitivi, il conte cremonese si salvò per un soffio dal compatto muro dei fanti di Sebastiano del Manzino, sbucati all’improvviso manco la terra li avesse vomitati, le armature, le armi fino al viso lordi di sangue, tanto da risaltare il biancore degli occhi, ingigantendoli.

Emettendo urla neppure associabili alla razza umana, i soldati veneziani partirono all’assalto, spazzando via avversario dopo avversario come se stessero mietendo spighe di grano; quelli in prima fila, poi, allungavano il braccio ai finimenti dei cavalli, cercando di reciderli o di sbilanciare i loro cavalieri, colpendoli alle gambe, ai fianchi, ovunque riuscissero a raggiungerli. Ferdinando dal Persico calava alla rinfusa fendenti in difesa sua e del contino di Melzo e al contempo si premurava di mantenere il controllo sul suo sempre più nervoso e spaventato destriero, insidiato dai marciani. Portando il cavallo ad impennarsi e a battere gli zoccoli delle braccia contro il nemico, il conte cremonese si creò infine un varco e, trasferito Galeazzo sulla sua sella, Ferdinando partì in galoppo verso il dongione senza guardarsi indietro.

Ma lo Sforza, pur semisvenuto dalla febbre, sì che non poteva sottrarsi dalla grottesca visione della strage in cui lo scontro, pian pianino, si stava trasformando: i cavalleggeri gonzagheschi, abbrancati dai fanti e soprattutto dai vendicativi soavesi, venivano trascinati per terra e lì trafitti una, dieci, venti volte. Oppure, scaraventati contro il primo muro disponibile e lì tramutati in bersagli viventi dai balestrieri. Galeazzo vide un soavese aprire a metà la faccia di un soldato, cui schizzarono via i bulbi oculari e parte delle cervella. Gli stradioti marciani, armati di picche, calando quest’ultime perforavano sia uomini d’arme sia cavalieri, fino a piantarli al terreno e una volta lì inchiodati lasciavano ai loro compagni a piedi l’onore di terminare l’opera, scannandoli.

Era questa la fine che sarebbe spettata anche a lui?

“Al dongione! Al dongione!”

Guido Rangoni, manovrando nervosamente il suo cavallo in modo da girarsi attorno, scrutava avido nel marasma generale alla ricerca dei due conti, sfuggitigli per il rotto della cuffia. Spronò la sua bestia in direzione della cittadella, saltando sopra ai cadaveri e passando a fil di spada chiunque gli sbarrasse la strada, i balestrieri dietro di lui a coprirgli le spalle.

“Sforza! Persico! E Rossi! Quei figli di puttana sono miei!”, gridò e scese da cavallo una volta giunto davanti al portone d’ingresso del dongione, che già ci si stava premurando di sfondare.

“Attenzione!”, l’avvertì suo fratello Ludovico, riparandosi sotto la targa e appiattendosi contro il muro, schivando la freccia scagliatagli dai balestrieri nemici dalla finestrella del dongione. Senza tanti complimenti, uno della compagnia dei Rangoni lo puntò e lo centrò in pieno: l’avversario, esalando un roco gemito, cadde all’indietro, sparendo all’interno dell’edificio.

“Sbarrate la porta! Sbarratela!”, ordinava nel frattanto Ferdinando dal Persico, portando Galeazzo lontano da essa e sistemandosi davanti a lui a mo’ di scudo, la spada sguainata. Un sudore freddo gli colava dietro la nuca e il cuore gli martellava in gola, attenendo inesorabilmente il momento in cui i veneziani li avrebbero raggiunti … Allo stesso modo, il contino di Melzo,  pur a stento in piedi, s’incoraggiava, ricordandosi delle battaglie affrontate. Sei sopravvissuto a quelle, sopravvivrai anche a quest’altra!

Non appena il portone d’ingresso venne distrutto, Guido e i suoi fratelli per poco non si tuffarono dentro il dongione: spada e daga in mano, presero a correre invasati verso le scale, balzando a due a due e liberandosi in fretta della strenua resistenza mossali. Non risparmiarono nessuno, neanche coloro che, nella ressa, inciampavano giù per le scale: subito i fanti e gli stradioti dei Rangoni, rimasti in basso, li impironavano e scalciavano via i morenti.

“Corpo d’un diavolo!”, imprecò il modenese, imbattendosi nell’immobile porta serrata e dalla frustrazione le diede un poderoso calcio. Sgomitando tra i suoi compagni, un soavese armato d’ascia si fece avanti e, chiedendo implicitamente al condottiero di scansarsi, calò la lama contro il legno, sullo stesso punto, finché la luce prese a filtrare dal buco creatosi e allargato dalle impazienti mani dei marciani, incuranti delle schegge.

Ferdinando dal Persico levò in alto la guardia, osservando stranito la porta finire sbrindellata pezzo per pezzo malgrado le sedie e i cassoni posti a mo’ di barricata. In uno schiocco essa cedette completamente e, scardinata, da essa sfociarono in un fiume in piena gli assedianti e in prima fila Guido Rangoni, il quale in un balzo felino si scagliò contro il conte cremonese con tal foga da distruggere in un battibaleno la difesa di Ferdinando, relegandolo in un angolo del muro. Il condottiero modenese ne approfittò per disarmare l’avversario, di cui afferrò e torse il polso, quando notò come si stesse preparando ad estrarre il pugnale dalla cintura.

“Due pesci in un colpo solo, gran pesca oggidì!”, scherzò macabro Guido, premendo lievemente il filo dritto della spada sulla gola del conte cremonese, intanto che suo fratello Ludovico toglieva ogni arma a Galeazzo Sforza, sconfitto dopo una debole resistenza. Francesco, invece, era proseguito oltre alla ricerca di Benedetto de’ Rossi, nascostosi da qualche parte nel dongione.

Occupato con successo il cortile del Castello, sier Ferigo Contarini seguiva impassibile l’andamento dell’assedio adesso mutatosi in una gara al massacro. Il giovane provveditore, circondato dai suoi stradioti, trottava in direzione della cittadella, preparandosi a terminare l’impresa prima d’issare sulla torre il vessillo dorato di San Marco.

“Ormai Soave è nostra”, lo informò soddisfatto Domenico Busicchio, capitano degli stradioti, “al vostro segnale, possiamo chiudere qui la faccenda e incominciare a far bottino e prigionieri.”

Il suo superiore strinse la bocca in una linea dura. “Bottino sì. Prigionieri no”, ribatté secco il veneziano. “Si continua ad oltranza.”

“Ma ormai abbiamo vinto!”

“Voi e i vostri uomini volete oro. Ma qui i soavesi vogliono sangue e vendetta. E l’avranno, signor Domenico, come promesso.”

Lo stradiota scoccò un’occhiata obliqua ad un gruppo di soavesi che s’accaniva sui gonzagheschi, tagliandoli letteralmente a pezzi e macchiando di rosso le mura del Castello, insultando dei peggiori epiteti loro, le loro madri, i loro morti e ovviamente quella “gran vaca putana di la Marchesana”.

Poco distante da costoro, dei soldati avevano incominciato a depredare i cadaveri degli sconfitti, mentre altri trascinavano delle urlanti donne fuori in cortile – prostitute, indubbiamente, a giudicare dai vestiti. Una di queste, ribellatasi, venne tenuta immobile per le ascelle da un fante, mentre il suo compagno, afferrato lo scollo dell’abito, glielo apriva strappandolo a metà fino a trovare sotto d’esso una cintura con una scarsella piena di danari. Dopodiché, intascato il bottino, l’uomo pugnalò la meretrice sul basso ventre e lei cadde bocconi vomitando sangue. Le sue colleghe subirono la medesima sorte, derubate prima e ammazzate poi, la fame d’oro più forte della carne.

“Quando allora, signor provveditore, potremo fare prigionieri?”

Il Contarini si calò la celata e diede di sperone al suo cavallo, rispondendo così a Domenico.

Ferigo aveva finalmente individuato il luogotenente del Gonzaga di Bozzolo, Sebastiano d’Este, il quale stava riorganizzando i suoi cavalleggeri in un ultimo disperato tentativo di resistenza. Il ghigno del giovane provveditore s’allargò in uno talmente ferino, da sembrar strappato al divino Marte.

I primi ad uscire dalle due porte di Soave erano stati gli uomini d’arme dell’Estense, evidentemente per aprire il passaggio ai cavalleggeri e ai loro capitani, diversivo che il Contarini aveva lodato per la sua audacia strategica. Ma lì finiva la sua cortesia cavalleresca: ai suoi occhi, costoro non soltanto erano invasori, ma anche complici dei francesi e dei tedeschi, di quegli assassini ch’avevano trucidato orrendamente  366 soavesi, bruciando il paese e infierendo sui loro corpi, negando a questi innocenti perfino una sepoltura cristiana. Un groppo in gola gli si era formato all’udire i tremendi racconti dei sopravvissuti, portando il patrizio ad accogliere prontamente le loro richieste di partecipare all’assedio per riprendersi la loro città e il Castello.

E il loro odio era divenuto il suo. A Ferigo non importava delle giustificazioni dei Gonzaga, degli Este, di qualsiasi famiglia signorile italiana ostile alla Signoria: a lui apparivano tanto sporche e vili quanto i franco-imperiali. Avevano voluto allearsi con quest’ultimi per saltare sul carro dei vincitori? Benissimo, ne avrebbero condiviso la sorte, saltando nella fossa comune.

Dunque, il giovane provveditore lasciò che codesta fredda collera vendicatrice guidasse la sua spada, quando ingaggiò un serratissimo duello a cavallo contro l’Estense, costringendolo ad alzare costantemente la guardia senza concedergli né respiro né una sola apertura per la controffensiva. Voleva proprio contemplare l’umiliazione della sconfitta sul suo volto, ridergli in faccia, se non addirittura staccargli la testa. Sangue. Sangue. Sangue!

Sebastiano d’Este bloccò infine un suo fendente, cadendo però nella trappola del veneziano: roteando in un stridulo gargarismo le lame, il Contarini allontanò il braccio dell’avversario, rendendogli accessibile il petto che colpì tramite una mirata e potente gomitata alla base del collo, mozzandogli il fiato. Agguantatolo, Ferigo lo denudò di malagrazia dell’elmo, afferrandolo per i capelli biondi e sudati, costringendolo a mostrare in sottomissione la gola.  

“Soave è nostra e voi, voi siete prigioniero della Signoria!”, sibilò trionfante Ferigo e quello corrispose all’agognato segnale, che decretava la fine di ogni combattimento e l’inizio ufficiale della tanto agognata corsa al bottino, cui i marciani s’abbandonarono esultanti.

Trecento bellissimi cavalli mantovani vennero raggruppati e accarezzati in genuino apprezzamento sia dagli stradioti che dai cavalleggeri, i quali discutevano animatamente tra di loro, decantandone le qualità e mangiandoseli a momenti cogli occhi adoranti. Alcuni controllavano i denti degli animali, altri sotto gli zoccoli, taluni ne accarezzavano dolcemente i fianchi nervosi, calmandoli. Più che dei reduci da uno scontro, parevano dei mercanti ad una fiera, se non fossero stati circondati da corpi seminudi e mutilati, dal tanfo di fumo, di sangue, di escrementi. Il nemico, sconfitto, giaceva agli angoli già dimenticato oppure in catene, come quei trenta fortunati uomini d’arme che, per aver resistito fino all’ultimo, erano riusciti a salvarsi dalla carneficina.

“Signor Pellegrino, quando avrete ripreso fiato, partite alla volta di Padoa per riferire la notizia di questa nostra vittoria”, istruì Ferigo Contarini il nipote del capitano stradiota, finendo di scrivere un veloce resoconto di quanto avvenuto e sperando che la sua calligrafia risultasse leggibile, in quanto redatto ancora in sella. “Signor Domenico, voi invece preparate i carri: voglio che i capi nemici siano ben visibili, quando entreranno in città! Riguardo noialtri, una volta raggruppata la compagnia dei Rangoni, proseguiremo fino a Montagnana e …”

All’udire ciò Sebastiano d’Este ebbe uno scatto d’orgogliosa ribellione e digrignò i denti, agitando i polsi costretti nelle manette. “Chi vi credete d’essere?!”, lo interruppe indignato, avanzando di qualche passo verso il giovane provveditore, sennonché due fanti lo bloccarono prontamente. “Esibirci su di un carro? Come schiavi? Vi pensate forse un generale romano in trionfo? Scipione l’Africano?”, berciò malevolo, deridendolo. “Siete bestie voialtri, senza alcun rispetto per l’avversario! Tipico di voi veneziani, così sprezzanti verso il prossimo e pieni di boria e rancore! Ma sappiate che il re Ludovico e l’Imperatore Massimiliano non lasceranno impunito quest’affronto, avremo la nostra  …”

“Ma per favore, chiudete quella fogna e smettetela di lagnarvi peggio d’un infante!”, lo zittì perentorio e a voce alta il Contarini, le cui gote però s’erano tinte di scarlatto e i suoi occhi incominciarono a brillare di una fredda luce assassina, la medesima quando s’apprestava a frustare sulla pubblica piazza gli stradioti indisciplinati.

Portandosi davanti al prigioniero, Ferigo afferrò il viso di Sebastiano, stringendolo fino ad imprimervi il segno delle unghie. “E non mi fate inutili e patetici predicozzi: credete che non conosca il vostro disprezzo per noi? Cani veneziani, gli odiatissimi veneziani, i nostri nemici giurati, ecco come ci chiamate! Noi saremo anche alteri e vendicativi, ma voi vi siete piegati alla stregua di puttane al Re Cristianissimo e all’Imperatore, credendoli dei Giove in terra e onnipotenti, pronti a correre in vostra difesa al minimo accenno, razza di donnicciole petulanti e invidiose! Incapaci nella guerra, ma abilissimi al tradimento e a persuadere gli altri a combattere per le vostre cause! Mi fate schifo quanti che siete!”, sibilò astioso il patrizio, lasciando trapelare tutto il veleno accumulato in due anni di guerra, depurandosi lui stesso dagli orrori cui aveva assistito e che aveva dovuto soffocare onde non perdere lucidità. Non si accorse dei soavesi riunitisi dietro di lui, del loro cupo mormorio d’assenso, degli sguardi feroci di chi aveva perduto casa, figli, genitori, consorti in nome delle altrui ambizioni e che ora esigeva la sua libbra di carne, anche se si trattava d’un misero sostituto.

“Concedetemi di darvi un motivo per cui odiarci sul serio, allora”, gli confidò Ferigo, reclinando beffardo il capo. “La Signoria ha destinato voi e i vostri compagni alle Orbe. Le conoscete?”, cinguettò crudele dinanzi all’espressione di puro sgomento dell’Estense. “Sono celle sotterranee, laddove non filtra il benché minimo raggio di sole e si dice che, a seconda della marea, esse si riempiano d’acqua”, gli descrisse minuziosamente, deliziandosi del terrore del suo nemico. “Prima perderete la vista; poi vi si spezzeranno le ossa; i reumatismi vi toglieranno ogni requie; vi piglierete un bel raffreddamento di polmoni e i granchi entrati assieme all’acqua semplicemente adoreranno nutrirsi della vostra nobile carne. In ogni caso, voi uscirete in bara dalle Orbe, ma non in breve tempo – oh no!-  questo ve l’assicuro: faremo il possibile per tenere voi e i vostri amici ben vispi e allegri, finché non impazzirete e invocherete la morte. E neanche allora vi sarà concessa e, se lo sarà, solamente quando ne avremo voglia e con arma a nostra discrezione. I vostri corpi deformi e ciechi serviranno a mostrare al mondo la misericordia della Signoria, verso coloro che vogliono distruggerla!”, ringhiò il giovane provveditore, mollando violentemente la presa dalla mandibola di Sebastiano.

“Ora odiaci pure, Estense, odiaci pure mentre rimpiangerai questo giorno, quello in cui vi ho risparmiato la vita!”, concluse gelido Ferigo. Ad un rapido cenno del capo del patrizio, i fanti a sua custodia spinsero il luogotenente sconfitto verso il carro, costringendolo a salire, mentre questi sputava maledizioni su maledizioni contro la Serenissima e i suoi diavoli che partoriva al posto di cittadini.   

Il Contarini, sordo e cieco a tali scenate, montò ineffabile a cavallo e si diresse verso il dongione per accertarsi che i fratelli Rangoni avessero catturato gli altri comandanti, come precedentemente raccomandatosi.

Quella sera, a Padova, i provveditori sier Christofal Moro e sier Polo Capello inviavano a Venezia una consolatrice lista per mitigare la dolorosa perdita di Gradisca:

 

Questi sono la nome di capi presi et sarano conduti im Padoa.

El contin di Melz, fo fiol dil ducha Galeazo Maria di Milan, naturale et cugnato di lo imperator, amalato.

El signor Sebastiano da Este, fo fiol dil signor Nicolò, loco tenente de signori di Bozolo et zerman dil ducha di Ferara, foraussito.

Domino Manfredo de Landriano, milanese, capo di balestrieri 50.

Domino Beneto di Rossi, da Parma, capetanio di homeni d’arme 50 et di balestrieri 100, al qual lo imperator à donato lochi per ducati XVI milia di valuta.

El conte Ferando dal Persico, cremonese, capo di balestrieri 50.

Jacomo Tristam, citadino veronese, rebello manifesto.

 

 

***

 

Hironimo strisciò sulla paglia fintanto che la catena fissata al palo glielo permetteva, cercando di scostare un lembo della tenda separatoria così da sbirciare quanto stava accadendo.

Un vivace brusio di voci più o meno alterate e di passi concitati lo aveva distratto dalle sue orazioni, l’unica consolazione che gli era rimasta onde mantenere la lucidità in quell’eterno limbo. Ad incuriosirlo erano stata la realizzazione che, tra i nuovi arrivati dentro il padiglione, non vi si trovavano soltanto a Mercurio, Leka e ai loro stradioti: sia il tono che il timbro di voce delineavano situazioni diverse dalle usuali conversazioni, cui il giovane patrizio s’era abituato. Sbuffi, imprecazioni, un rapidissimo e ostile scambio di botta e risposta in greco, elementi totalmente estranei a quelli di un comandante in procinto o di elaborare un piano d’attacco o di impartire degli ordini.

Appoggiandosi  sulla ballotta e allungando quanto più possibile il collo dolorante, Hironimo riuscì a scorgere le figure di Mercurio e di Leka, in piedi e in atteggiamento assai intimidatorio dinanzi al misterioso terzo interlocutore, costretto quest’ultimo su di uno sgabello, in camicia e le mani legate dietro la schiena. A giudicare dalla barba e dalle trecce, doveva trattarsi anch’egli di uno stradiota; tuttavia, il Miani notò come i due comandanti si limitassero a colpire il prigioniero solo all’addome, alla schiena e ogni tanto alla faccia ma senza molta convinzione, e ne dedusse che doveva trattarsi di un loro parigrado o comunque qualcuno di abbastanza importante da non torturarlo senza penarsi delle conseguenze.

Un pugno dritto al naso dello stradiota lo costrinse a gettar indietro il capo, mentre dalle nari straripavano già pingui rivoletti di sangue e Hironimo a quella vista rabbrividì, memore della medesima cortesia subita per mano di Mercurio, quando gli aveva gonfiato la faccia di cazzotti.

“Ebbene?”

“Ebbene niente.”

“Oh, fai il coraggioso adesso?”

“Insultami pure, tanto da me non saprai niente!”

Il Bua si sfilò la casacca, la ripiegò con cura, si arrotolò la camicia e piazzò un gancio all’addome di Teodoro Ralli, piegandosi quest’ultimo a metà in un sordo grugnito.

“Parla o quand’è vero Theos, ti ammazzo e non lentamente”, l’ammonì calmissimo l’epirota, girando intorno al prigioniero e colpendolo di nuovo stavolta tra le scapole. “In quale punto la difesa di Treviso è più debole? Quale porta è peggio difesa? Come sono messi con i rifornimenti? Armi? Quanti uomini ci sono alla custodia?”

“E quante domande fai? Chi sono io, il provveditore?”, rise Teodoro, sputando sangue e saliva. “Caro amico mio, anche se potessi risponderti – e non lo farò – queste mie informazioni ti saranno di poco aiuto. Voialtri” e indicò anche Leka, “state marciando verso la vostra morte. Voi credete di porre sotto assedio Treviso, ma non avete alcun’idea di ciò che si sta preparando alle vostre spalle, qualcosa di molto più grosso di una banale scaramuccia!”

“Mi hai scambiato per Megas Alexandros, che t’esprimi come la Pizia?”, ruggì stizzito Mercurio, afferrando Ralli per il colletto della camicia. “Treviso è la chiave per arrivare a Venezia: cosa vorresti insinuare con “una banale scaramuccia”?!”

“Sciocco! Anni e anni in questo paese e ancora non hai compreso che qui, in Italia, non sono gli eserciti a vincere le guerre?”

Mercurio aprì la bocca per ribattere, bloccandosi però all’improvviso. Si staccò bruscamente da Teodoro e si diresse a grosse falcate verso Hironimo, il quale d’istinto indietreggiò spaventato nel suo angolino, dove si girò sul fianco mentre fingeva di dormire in maniera assai profonda.  

La tenda venne scostata violentemente e il patrizio avvertì la presenza del greco-albanese dietro di lui, in particolare lo scricchiolio della paglia pestata finché un lieve movimento d’aria sulla sua pelle accaldata tradì la faccia del condottiero quasi sopra la sua, in attento studio dei suoi lineamenti rilassati ad arte.

Fai che non se ne accorga! Fai che ci caschi! O Mater, non farmi scoprire! Ti prego, non farmi scoprire! , si ripeteva ossessivamente Hironimo, il cui viso in apparenza inespressivo  in realtà celava dietro un panico furioso, il suo cuore battente la chamade in petto e lo stomaco stretto in un doloroso nodo, già risalendogli in gola i primi acidi sintomi di reflusso.

Non sarebbe sopravvissuto ad un altro pestaggio, lo sapeva. E il giovane Miani non poteva -  non voleva! -  morire così, senza aver avuto modo d’impiegare la sua vita in fini più nobili e utili. Senza riscattarsi. Senza render fieri Madre e Padre. Non voleva morire su di un pagliericcio, alla stregua d’un cane, seminudo, sporco, malato e ridotto ad una massa informe di sangue e ossa. Non voleva.

Confido in Te! Confido in Te! Confido in Te!

Due dita premettero sulla sua carotide e un occhio gli venne forzatamente aperto. Non reagire! Stai fermo!

“Dai, Maurikos, lascialo perdere! Non lo vedi che sta dormendo?”, lo richiamò annoiato Leka, un poco divertito dal modo in cui il suo collega pendeva minaccioso sul veneziano e lo punzecchiava coi suoi paranoici controlli, manco si fosse trasformato in un avvoltoio.

A malincuore e tuttora sospettoso, Mercurio si alzò lentamente, gli occhi fissi sulla figura immobile di Hironimo. Indietreggiò guardingo e senza mai distogliere lo sguardo, lasciando la tenda ben aperta così da controllarne ogni movimento, in caso si fosse destato. Anche se il giovane avesse visto e udito qualcosa, non sarebbe stato nulla di vitale importanza tranne assistere alla tortura di un suo alleato, rammentandogli quanto già inflittogli e quanto l’avrebbe atteso, in caso avesse giocato al furbo.

Conscio della trappola preparatagli, Hironimo non osò muoversi di una spanna per l’intera durata dell’interrogatorio,  ignorando il sordo formicolio dell’avambraccio  destro, su cui appoggiava la testa, finché di questi non ne perse la sensibilità. Non si “svegliò” neppure quando la vescica prese a pulsargli dolorosa, preferendo urinarsi addosso piuttosto d’attirare l’attenzione del suo carceriere, le orecchie insidiate e vinte dall’incessante schioccare di ossa, di grugniti e gemiti, d’impazienti domande rimaste senza risposta.

Pregò che il suo turno non arrivasse mai. Perché sapeva ciò che l’attendeva: in passato lui si era trovato al posto di Teodoro Ralli, sopravvivendo a stento; un suo passo falso e lui avrebbe potuto ritrovarsi al suo posto per il terzo e ultimo giro. Il Bua l’avrebbe ammazzato, l’avrebbe ammazzato di botte e stavolta sul serio.

Un tonfo, seguito da un forte lamento e poi da un gorgoglio strano, tipico di chi sveniva e anche malamente.

“Portatelo tra gli altri prigionieri. Fra poco si riavrà e sarà cura del maresciallo di farlo cantare.”

“Testa dura.”

“Testa di cazzo, vuoi dire.” Silenzio, rotto a malapena da un gentile rumore d’acqua, Mercurio e Leka molto probabilmente si stavano lavando via il sangue dalle mani.

“Ma ancora dorme ‘sto qua? Sicuro che non sia schiattato?”

“Di sicuro puzza come un cane morto.”

“Cosa intendeva dire il kyr Theodoros con quella frase?”

“Lo ignoro, ma forse il nostro veneziano qua potrebbe illuminarci: quegli intriganti sanno tutto di tutti e tra di loro non ci sono segreti. Quando finisce di ronfare …”

Rilassa il respiro. Non aprire gli occhi.

“Lo sveglio?”

Non fiatare …

“No, non c’è fretta. Possiamo sempre interrogarlo a Breda o a Ponte di Piave.”

“Eh? Ma se ci siamo appena accampati!”

… O finisci lì, su quello sgabello …

“Ordini del maresciallo.”

“Contento lui.”

“Contenti tutti, tranne i veneziani che non sapranno per un bel po’ dove trovarci!”

Oh, Madonna! Oh, Madonna! Salvami! Salvami!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Il prossimo aggiornamento arriverà speriamo a breve, stavolta l’attesa sarà meno lunga! Inoltre, incomincia da qui la revisione ufficiale della storia.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

Alla prossima,

 

 

Un po’ di noticine:

 

[1] Il proverbio friulano completo è: “L'è miei jessi in disgraćie di Dio che da justizie”, ossia “È meglio essere in disgrazia di Dio che della giustizia”, poiché Dio è più misericordioso degli uomini.

[2] In breve, la faccenda si svolse così:

Treviso, dopo la Pace di Torino che sanciva la fine del conflitto tra la Repubbliche di Venezia e di Genova, era rimasta sotto il Duca d’Austria, Leopoldo III d’Asburgo il bisnonno di Massimiliano (ecco perché l’Imperatore considerava la Marca “proprietà di famiglia”, non solo un feudo nell’orbita del SRI per tradizione carolingia.) Tuttavia, l’Asburgo s’era reso ben presto conto di come quei territori facessero troppo gola a tutti gli Stati confinanti, in primis i Carraresi di Padova, i Visconti di Milano e ovviamente la Repubblica di Venezia che rivoleva indietro ad ogni costo Treviso. Sicché, comprendendo la situazione precarissima, Leopoldo vendette la città ai Carraresi per un bel po’ ducati (e questo punto a Massimiliano dev’essere sfuggito) e se la diede in Austria, al sicuro da queste beghe italiche. Mossa saggia, poiché Venezia era uno Stato con una missione e tanta cattiveria in corpo dopo le pesanti perdite territoriali a seguito della Pace di Torino. In particolar modo, gliel’aveva giurata ai Carraresi.

Per farla breve, in un giro vorticoso di alleanze fatte e disfatte, nel 1388 Francesco da Carrara si ritrovò in guerra contro Gian Galeazzo Visconti e Venezia, finendo sconfitto su tutti i fronti e la sua famiglia pressoché in ostaggio a Milano, mentre l’anziano Carrarese s’arroccava nel Castello di Treviso, assediato dalla popolazione insorta. Come ultima mossa disperata, Francesco offrì a Jacopo del Verme e Spinetta Malaspina, i comandanti viscontei, Treviso e la Marca a Milano così anche da seminar zizzania tra gli alleati e guadagnar tempo. E il suo piano sarebbe pure andato a buon fine, se la popolazione trevigiana non si fosse ribellata anche alla prospettiva di finire sotto la biscia viscontea.

Infatti, il Del Verme sarebbe andato in giro in città a proclamare Gian Galeazzo signore di Treviso, ma ricevette un netto rifiuto, che risultò, stando alle cronache, in un bel tafferuglio tra soldati viscontei e i trevigiani, i quali costruirono barricate in città, in attesa dell’arrivo dei provveditori Guglielmo Querini e Giovanni Emiliani. L’esercito veneziano occupò dunque Treviso ed insieme ai trevigiani espugnarono appunto la fortezza il 13 dicembre 1388, giorno per Venezia simbolico poiché era la festa di Santa Lucia, verso cui i veneziani nutrivano una particolare devozione e di fatti ampliarono la chiesa di Santa Maria delle Carceri cui associarono il nome di Santa Lucia, indicendo un palio a commemorazione di questa vittoria.

Insomma, vox populi vox Dei. Va anche detto che Gian Galeazzo Visconti, intelligentemente, non contestò il ritorno di Treviso e della Marca a Venezia, rispettando i patti.

[3] secondo altri fonti, lo stemma degli Anguillara mostrerebbe invece due serpenti e non due anguille, secondo una leggenda riguardante la famiglia.

 

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Capitolo 34
*** Capitolo Ventinovesimo, parte seconda: 27-28 settembre 1511 ***


Seconda parte!

Ulteriori note si trovano a fine pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.

Avvertimenti: momenti assai sanguinolenti, depressione generale e altre peculiarità.

Un ringraziamento ai miei lettori e ai miei recensori: Alessandroago_94, Semperinfelix,  Sagitta72 e Mrosaria. Grazie a chi ha messo questa storia tra le seguite, preferite e ricordate.

Vi auguro una buona lettura,

H.

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Capitolo Ventinovesimo   

Sabato 27 settembre 1511 – Domenica 28 settembre 1511

(seconda parte)

 

 

 

 

 

Sier Marco Miani osservava impassibile, dal bastione del Castello, i dieci soldati borgognoni catturati spinti a frustate verso Porta Altinia, in una macabra e distorta rappresentazione dei misteri dolorosi del Venerdì Santo. Ridotti in camicia e scalzi, i prigionieri barcollavano sotto i colpi della sferza, delle canne e degli spintoni dei militi marciani, ingiuriati dalla folla che li seguiva, le donne in prima fila che non si risparmiavano certo di ricoprirli del loro catarro o di lapidarli di sassi o fango. Talora uno di questi borgognoni cadeva bocconi, sopraffatto; immediatamente il suo carceriere strattonava sbuffando la corda legatagli al collo, fin quasi a strangolarlo mentre una o più popolane, le quali magari avevano un vecchio conto in sospeso, anguillavano da sotto le braccia e le lance dei marciani per ghermire il malcapitato e graffiarlo fino a trargli sangue, per poi finire ricondotte bruscamente al loro posto. Un altro prigioniero inciampò e non riuscì più a rialzarsi: poco importò al suo conducente, che lo trascinò ugualmente nel limo, intanto che i civili, da dietro, lo randellavano senza sosta e Marco, pur da lontano e pertanto impossibile, giurò ugualmente d’aver udito qualche ossa rompersi.

“Morte! Morte al franzoso! Morte al todesco! Sangue! Vitoria a Sen Marco!”

La seconda parata dimostrativa del maresciallo La Palice s’era da molte ore conclusa; ciononostante, gli strascichi del nervosismo e dell’incertezza provocati tuttora indugiavano nell’animo dei Trevigiani ed essi, per acquietare tal sentimenti, avevano ottenuto la loro azione dimostrativa, gestendo a propria discrezione la sorte dei nemici catturati.

Il Miani e il suo concittadino sier Alvixe da Canal allungarono il collo, sporgendosi lievemente: il grottesco corteo aveva raggiunto il ponte e, in sincronia perfetta, le urla e i versi canzonatori si chetarono improvvisamente, imponendosi un silenzio ieratico dal gusto d’antico. In ginocchio o sporgendosi dalla Porta, dondolandosi avanti e indietro, le donne avevano incominciato ad intonare uno strano mormorio, non dissimile dal fluire irrequieto di un ruscello; i soldati marciani s’erano invece posti, silenti ed immobili, su ogni lato del ponte, impedendo il passaggio. Il loro caposquadra, che aveva preferito starsene al centro, rigirava impaziente eppur solenne la scure tra le mani. I due gentiluomini veneziani a presidio dell’Altinia – sier Zuam Badoer e sier Hironimo Bragadin – assistevano anch’essi dall’alto della loro postazione, trasfigurati in statue di sale, indecisi se intervenire o meno.

Marco ebbe una sgradevole sensazione di déjà vu, parendogli quasi d’assistere dal vivo ad uno di quei sacrifici narrati nei poemi d’Omero e non a caso - constatò ipnotizzato da tale arcaica scena -  s’erano condotti i borgognoni al fiume Sile, luogo d’antichissima venerazione in quelle terre ben prima dell’arrivo degli Antichi Romani e dei loro dèi.

Simil a docili giovenche, i prigionieri  furono costretti ad inginocchiarsi ai bordi del ponte; dagli acuti lamenti, Miani e Da Canal supposero stessero piangendo e supplicando pietà, forse perfino protestando eventuali nobili natali o comunque una loro qualche importanza all’interno dell’esercito nemico. Ultimi respiri sprecati: il caposquadra levò in alto la scure, calcolando bene la parabola mortale che avrebbe condotto la lama a tranciare la carne, le vene, le ossa del balbettante uomo ai suoi piedi. Un sibilo da carta stracciata, il duplice tonfo della testa che rotolava e cadeva in acqua, mentre il corpo, sobbalzando in spasimi, crollava sanguinante a terra, accanto ai terrorizzati compagni del morto, il cui turno presto sarebbe giunto. Un acuto grido di trionfo coprì i loro singhiozzi, distendendo le donne le loro braccia in un’umana apertura alare, il capo gettato all’indietro, balzando alcune di loro in piedi. I militi marciani serrarono i ranghi e incrociarono le picche, onde impedire che si gettassero a sbrindellare i miseri resti dei borgognoni uccisi.

Sier Alvixe distolse lo sguardo dalla parte opposta, il volto lievemente verdognolo e bastandogli la vista di quella prima esecuzione. Marco, dal canto suo, seguitò ad assistere indefesso finché la chioma verde-acqua del Sile non assunse tinte rossastre, come i capelli delle Anguane, le bellissime ninfe a protezione sua e della Piave. Il viscoso liquido scivolò via pigro e lontano da Treviso, malevole messaggero d’un antico tributo.

Il patrizio veneziano ignorava dove si trovasse ora l’accampamento dei franco-imperiali: nondimeno, pregò che quel sangue ivi giungesse, ammorbando le bevande del nemico.

“Sangue! Vitoria a Sen Marco! Sangue!”

 

***

 

All’Ospedale di Santa Maria dei Battuti, Zilio Madalo azzardò per la prima volta dall’inizio della sua degenza a porsi seduto, strizzando gli occhi e grugnendo non appena la ferita alla spalla incominciò a tirargli sotto la benda, costringendolo a rinunciare per qualche istante all’impresa. Cacciando fuori uno sbuffo assai frustrato si sistemò sul morbido cuscino, fissando il soffitto onde distrarsi dalla fitta di dolore.

Si sentiva indubbiamente in forze, complici le solerti cure dei monaci infermieri, sicché si trattava di una semplice questione di tempo, prima che lo stradiota fosse di nuovo capace di rimontare in sella. E tuttavia, questo promettente futuro gli era avvelenato dalla consapevolezza che, non appena i Veneziani lo avessero giudicato abbastanza in salute, ben presto lo avrebbero trasferito nelle prigioni, lì dove sarebbe stato assai ben esaminato, in quanto luogotenente di Mercurio Bua e dunque custode dei suoi piani di battaglia.

Madalo s’umettò il labbro inferiore, inquieto: da una parte, la sua assoluta lealtà verso il suo capitano gli impediva di spifferare alcunché al nemico; dall’altra, Zilio si conosceva piuttosto approfonditamente da ammettere senza vergogna che sprezzava sì la morte ma non la tortura, verso la quale nutriva un sacro terrore. Non si sarebbe messo a piangere come quei borgognoni, non dinanzi al boia pronto a recidergli il collo. Se invece costui gli si fosse avvicinato con le tenaglie roventi, allora lo stradiota non soltanto avrebbe pianto, bensì avrebbe spento con la sua urina gli strumenti del supplizio.

I suoi fratelli Teodoro e Giorgio non cessavano un sol giorno di raccomandarlo al buonsenso: Zilio il suo dovere verso Mercurio l’aveva compiuto; dunque badasse al proprio tornaconto personale, specie ora che si ritrovava prigioniero. Al che lo stradiota aveva rimproverato i suoi maggiori di viltà e doppiogiochismo, dichiarando che lui non si sarebbe mai macchiato di fellonia, che lui seguiva pedissequamente il codice d’onore degli avi. Teodoro e Giorgio gli avevano allora dato senza tanti giri di parole del cretino, lasciandolo ragionare sul perché lui si ostinasse a giocare al Rolando, quando al contrario serviva un Gano dichiarato. Non aveva il Bua per i suoi guadagni abbandonato la Serenissima Signoria? E Ludovico il Moro? E il Re di Francia?

Zilio si coprì il volto con le mani. Come agire? Quale decisione prendere? Non desiderava che il suo capitano perdesse l’assedio; al contempo però la vittoria dei franco-imperiali significava la morte dei suoi fratelli …

“Kyría Maria! Kyría Maria!”

Lo stradiota si pose di scatto sul fianco, ignorando la dolorosa stilettata figlia di quel movimento brusco; i suoi occhi si spalancarono apprensivi, mentre egli allungava il collo onde cercare di scorgere la fonte di quella supplica disperata. Aveva infatti riconosciuto la voce di Teodoro e già il suo cervello elaborava scenari tremendi, con il maggiore recante in braccio il corpo esamine di Giorgio.

“Kyría Maria! Kyría Maria! Soccorso! Soccorso!”

No, non si trattava del loro fratello; ciononostante, Zilio aveva ugualmente compreso quale agitazione stesse divorando Teodoro, il quale trasportava in braccio un rantolante Andrea Pera, sporco di fango e sangue, le braccia strette al petto come se un qualsiasi movimento lo stesse assassinando dal dolore.

Maria Malipiero Gradenigo  corse incontro a Teodoro Madalo, ponendo una mano sul volto contratto del capitano ferito, sia per valutare la gravità delle piaghe riportate sia per calmare l’esagitato paziente. “Seguimi”, intimò ella perentoria allo stradiota, conducendolo al primo letto vuoto disponibile. E utilizzando il medesimo tono autoritario del provveditore suo consorte: “Distendilo qui. Togligli i vestiti così respirerà meglio. Madona Helena, rimanete col signor Andrea fintanto che vado a cercare il cerusico.”

Teodoro, abbassandosi un poco, appoggiò quanto più delicatamente sul letto Andrea Pera, aggrottando mesto la fronte ad ogni guaito da parte di quest’ultimo, intanto che Helena Spandolina Miani gli reggeva accorta la testa, acciocché l’appoggiasse comodamente sul cuscino.

“Tranquillo … tranquillo …”, lo rassicurava teneramente la greca nella loro lingua natia, detergendogli con una pezza d’acqua la fronte sudaticcia e impolverata. Madalo assisteva lì in piedi, impotente, le mani tra i capelli arruffati. “Perché te ne stai lì imbambolato?”, lo rimbeccò aspra Helena. “Non hai sentito la kyrìa Maria? Devi spogliarlo!”

Lo stradiota annuì deglutendo saliva amara e con mani tremanti prese a slacciare la casacca del ferito, il quale però sobbalzò all’improvviso, mugulando e supplicando in pieno delirio; Pera si rannicchiò sul fianco nel vano tentativo di sottrarsi a quell’ulteriore supplizio. E ogni volta che Teodoro cercava di sfilargli una manica, ecco che Andrea gridava ancora, le ossa e i muscoli maciullati in congiura contro di lui. “Ochi … Ochi … No … No …”, piangeva impazzito, non riuscendo più a sopportare tale lame dentro il suo corpo martoriato.

Madalo indietreggiò di un passo, i palmi insanguinati verso madona Helena, pregandola tramite lo sguardo di trovare per lui una soluzione, incapace di continuare, d’infliggere ulteriore e non necessario dolore al suo superiore.

La giovane patrizia strinse la bocca in una linea dura, infondendosi coraggio. “Le forbici”, gli indicò infine, puntando il mobiletto dove si trovavano gli attrezzi. Lo stradiota eseguì senz’indugi, ghermendo le forbici col medesimo piglio di quando estraeva la spada in battaglia.

“Che gli è successo?”, interruppe Zilio la corsa del fratello verso la nobildonna, sporgendosi egli dal bordo del letto onde tirargli il bordo della casacca.

Il maggiore si bloccò e, stringendo le forbici al petto, gli berciò dietro astioso: “Secondo te? Il tuo preziosissimo capitano l’ha colpito a morte e forse, in questo momento, starà torturando nostro fratello per carpire informazioni su Treviso!”

Zilio abbandonò la presa dalla veste, come scottato, tremandogli il labbro inferiore dalla realizzazione che sì, non aveva scorto Giorgio in nessun luogo. Era stato fatto prigioniero? Come? quando? Avrebbe osato Mercurio suppliziare suo fratello, pur di sconfiggere i Veneziani? Avrebbe …?

Teodoro non gli concesse altre parole, tranne un’ultima occhiata di biasimo, ritornando al capezzale di un agonizzante Andrea Pera. “Sono qui, capitano, sono qui …”, l’incoraggiò lo stradiota. Recisi i lacci della casacca, l’uomo afferrò la camicia e s’affrettò a tagliarla sommariamente, per poi lacerarla in un unico strattone.

Helena guaì alla vista delle piaghe aperte e sanguinanti macchiare il candido lenzuolo sottostante; tuttavia seguitò a stringere la mano di Andrea, sempre più fredda e umidiccia …

***

 

“Cul del cancaro!”, ruggì un livido sier Zuam Paulo Gradenigo, battendo il pugno sul tavolo e, stranamente, il capitano delle fanterie Renzo da Ceri abbassò colpevole gli occhi, conscio di trovarsi in effetti dalla parte del torto. “Quando vi avevo detto di non uscire per nessun motivo da Treviso, pensavo d’essermi espresso in chiara lingua italica e non in armeno! Quale punto vi era oscuro, signor Lorenzo degli Anguillara?! E anche voi, signor Vitello? Da codesto galantuomo mi sarei aspettato ovvia disobbedienza, ma da voi?! Sacramento!”

Vitello Vitelli non osò ribattere, limitandosi a giocherellare nervosamente coi pennacchi del suo cimiero. Il podestà sier Andrea Donado si vergognava per lui, guardando un punto indefinito davanti a sé e similmente a lui anche il resto dei comandanti e patrizi riunitisi a Palazzo, malgrado l’ora tarda e al limite del coprifuoco.  

Infischiandosi dell’altrui riposo, il provveditore generale aveva convocato tutti onde far il punto della situazione; purtroppo, l’incontro era degenerato in una pubblica ramanzina non appena sier Zuam Paulo aveva appreso di come sia il Vitelli che l’Orsini avessero completamente ignorato i suoi ordini, abbandonando le loro postazione a favore di una sortita extra moenia. L’uomo era esploso di tal rumorosa collera da competere coi cannoni del capo-bombardiere Orlando da Bergamo e saggiamente non si osò contraddirlo finché non si fosse sfogato, non volendo finire in mezzo, accusati di connivenza. 

D’altronde, nessuno biasimava Gradenigo per quella sua sfuriata poiché la batosta subita dalla compagnia di Teodoro Ralli e di Andrea Pera aveva infuso una condivisa ansietà generale, sicché sapere i principali condottieri a zonzo fuori dalle mura senza un motivo apparente e a malapena armati non corrispondeva alla migliore consolazione.

“Oggi abbiamo perso contro i francesi perché si è mandato i nostri stradioti a schasafasso (di continuo, ndr.) senz’ordine e senza un dannatissimo piano! E adesso domino Todero non si sa se sia vivo o morto e domino Andrea invece …” e Gradenigo si passò una mano sul collo, là dove la cicatrice gli tirava, imponendosi di placare i suoi nervi e la sua rabbiosa disperazione.

La vista di Teodoro Madalo trasportare in braccio l’agonizzante capitano l’aveva sconvolto non poco, così come il resoconto di Giorgio Madalo, giunto in serata ferito, sfinito e in camicia, ma ancora abbastanza in forze da raccontare dettagliatamente l’accaduto. Assieme ai tre prigionieri fuggiti dal campo, lo stradiota aveva confermato i timori del provveditore: i Collegati si stavano muovendo cadaun giorno sempre più presso a Treviso, in attesa forse di rinforzi, ma soprattutto alla ricerca del punto debole della città. Dio li scampasse da quel pericolo …

“Come se non bastasse, uno delle vostre lance spezzate” proseguì furente il patrizio, mulinando accusatore l’indice contro Renzo da Ceri, che s’ingobbì e indietreggiò di un passo, “è venuto alle armi, non alle mani, alle armi con un caporale del capitano Mathio da Zara! Per colpa di quelle due teste balorde, tutta Trevixo è uscita per poco fuori di senno dalla paura, credendo essere penetrato il nemico in città!”

“Li avete … li avete puniti, però …”, borbottò l’Orsini, nel suo intimo affatto contento di aver visto penzolare un suo soldato per un motivo, in effetti, così sciocco.

Questi era venuto in questione con un caporale di Matteo da Zara per una ragione ancora non del tutto chiarita. In ogni modo, i due soldati avevano combattuto ferocemente in Piazza, creando scompiglio e un gran spavento, allarmando l’intera Treviso ch’era accorsa armata e ancora lorda del sangue dei dieci borgognoni, credendo i Collegati esser riusciti a creare una breccia. Sier Zuam Paulo, acquietati gli animi e fatti arrestare i due contendenti, aveva ordinato di giustiziarli proprio nel medesimo luogo dov’era nata la zuffa, la sua pazienza esaurita e specialmente nei confronti degli uomini dell’Orsini, cui non aveva ancora perdonato la tracotante minaccia di picchiarlo con la spada e di impiccarlo. S’assicurò dunque che la sua sentenza venisse scrupolosamente eseguita entro le cinque di notte (23 circa, ndr.)

“Sicuro che li ho puniti e ora il capitano Mathio da Zara mi biasima, perché ho dovuto mettere alla forca il suo caporale!”, sbottò Gradenigo, cui la situazione piaceva ancor meno, anche perché il caposquadra del comandante zaratino era benvoluto da tutti e ci si era invero rammaricati d’aver perduto sì stupidamente un tal brav’uomo. Nondimeno, la decisione del provveditore era stata lodata per aver finalmente riportato ognuno all’obbedienza e addirittura si commentava che, col senno di poi, tali provvedimenti forse si sarebbero dovuti applicare assai prima.

“Si potrebbe inviare domino Mathio assieme a sier Zuam Vituri a Marano o ad Osoppo ... Visto che i duecento stradioti di rinforzo non sono ancora partiti da Padoa …”, tentò di negoziare sier Andrea Donado, trasalendo dinanzi alla sferzante replica del suo concittadino:

“E mentre a Padoa fanno i loro porci comodi, cianciando che Trevixo non è ben fortificata, che quegli stradioti servono a loro etc. etc.  io mi debbo privare dei miei uomini, coi francesi accampati ad un tiro d’archibugio?! Adesso che arriveranno le artiglierie dalla Patria del Friuli, nonché le truppe tedesche e quelle gonzaghesche da Soave … Non sappiamo neppure dove e come attaccheranno! Non possiamo privarci di un sol soldato! È fuori questione che domino Mathio se ne parta con sier Zuam!”

“Ma al contempo”, insistette sier Marco Miani, “non possiamo certo tenerci un comandante che serve di malavoglia. O in quest’impresa combattiamo convinti e uniti, oppure per colpa di mai sopiti rancori rischiamo liti e divisioni e il nemico ne approfitterà! La coesione interna è sempre stata la nostra forza!”

“Affiancate Mathio da Zara e la sua compagnia a quella di sier Zuam. Noi attenderemo gli stradioti di sier Ferigo Contarini: la loro reputazione incute più timore e forse, nella disgrazia, ne ricaveremo un guadagno”, convenne sier Lunardo Zustignan. “Riguardo ai piani d’attacco del nemico, dobbiamo pazientare e attendere che rientrino le nostre spie.”

“Da quanto raccontato dai tre fuggitivi, i Collegati stanno divenendo sempre più diffidenti e impiccano al minimo sospetto”, puntualizzò amaramente Vitello Vitelli. “Questo rallenterà la rattezza delle informazioni.”

Umettandosi le labbra secche, Renzo da Ceri dichiarò infine: “Abbiamo contravvenuto ai vostri ordini, lo ammettiamo”, si cosparse il capo delle dovute ceneri. “Tuttavia, signor Provveditore, quello squadrone nemico si stava avvicinando troppo a Porta Altinia e dovevamo impedirgli ad ogni costo di avvicinarsi, prima che scoprisse le parti più deboli delle mura. Abbiamo battuto l’area attorno per tutto il giorno per accertarci che non si ripresentassero. Quanto accaduto ai signori Teodoro e Andrea è lamentevole, ciononostante avevano soltanto compiuto il loro dovere.”

Sier Zuam Paulo aspirò a fondo l’aria, grattandosi pensoso la cicatrice al collo. Il bilancio della giornata si presentava poco incoraggiante, mitigato soltanto dall’esecuzione sommaria dei dieci borgognoni, la cui notizia avrebbe forse smorzato la tracotanza dei franco-imperiali, sicuramente ubriachi del loro tipico delirio d’onnipotenza a seguito della scaramuccia vinta contro i comandati Ralli e Pera. In aggiunta, il provveditore riconosceva che l’impiccagione dei due militari forse gli aveva regalato il piccolo vantaggio di soggiogare finalmente quella bestia di Renzo Orsini, rampognato publice e perciò imboccato di sane cucchiaiate d’umiltà.

“Siamo sotto assedio, signori miei”, sentenziò infine il patrizio veneziano. “Ricordiamoci che ogni azione che intraprendiamo oggi, domani ne dovremo render conto. L’Imperatore ha giurato la morte a questa città: vedete bene, che non possiamo concederci il lusso di fallire. Per il resto, non ci rimane altro che affidarci alla Devotissima Signora di Trevixo, ch’è qui per proteggerci”, disse e scoccò un’occhiata feroce all’Anguillara, sfidandolo a contraddirlo.

A riunione terminata – ormai erano quasi le sette di notte - ognuno ritornò alla relativa postazione, chi per coricarsi e chi per incominciare il proprio turno di ronda.

Fuori dal Palazzo, nessuna stella impreziosiva il cielo annuvolato e privo di luna, nerissimo, notte ideale per i ladri. Le vie e le piazze erano pertanto state illuminate quanto più possibile, pattugliate da un continuo viavai di uomini d’arme, stradioti, balestrieri, fanti, nobiluomini e con la stessa intensità del giorno, temendo adesso Treviso un attacco a qualsiasi ora. Nei quartieri attigui a Porta Altinia si udiva il costante brusio degli operai e delle donne intenti agli ultimi lavori di perfezionamento al terzo ingresso cittadino. Quanto al resto, ovunque regnava un teso silenzio, rotto soltanto dalle violentissime folate di vento, che sbatacchiavano contro i legni delle imposte, i gonfaloni cittadini e i corpi dei due impiccati, scontrandosi questi l’uno contro l’altro come la ragione che li aveva condotti a tal infamante morte. 

“Sembrerebbe che si stia preparando un gran temporale. O che dal Paradiso stia per calare una legione celeste …”, mormorò trasognato Marco Miani, contemplando a naso all’aria la fitta volta sopra di sé: le nuvole, grosse e scure, si stavano muovendo in modo vorticoso, sempre più basso, quasi volessero formare una scala o un corridoio. Anche il sole vespertino, calando, aveva assunto una tinta inusuale, rossissimo. “Mi domando, se siano vere le parole di quel contadino  … se sia vero che abbiamo nauseato Nostro Signore al punto da far scendere Sua Madre in questo mondo travagliato e puzzolente …” [1]

“Chi se non Lei può intercedere per noi, prima che sia troppo tardi?”, fu la mesta domanda retorica di sier Alvixe da Canal. “Tuttavia mi trovate d’accordo: il tempo di questa notte mi pare assai strano. Il cielo è coperto, eppure non un accenno di pioggia … E quelle nubi non si muovono in accordo col vento … ”

“Siete fortunati”, commentò sier Zuam Badoer, “che potrete comodamente speculare in letto su tal meraviglioso fenomeno.”

“Sguaraguaito (ronda, ndr.) anche stasera?”, s’informò sier Alvixe, conoscendo però già la risposta affermativa.

“Alla custodia di Porta Altinia hanno collocato soltanto noi due”, sospirò il patrizio mentre indicava il suo collega sier Hironimo Bragadin, alludendo al fatto che al Castello presidiasse un maggior numero di gentiluomini, potendo quest’ultimi di conseguenza alternare più spesso i turni di ronda. “Per non dire che lì si sta piuttosto stretti, tra i capitani, connestabili, bombardieri, fanti, balestrieri e archibugieri …”

“… e le vivandiere …”

Sier Zuam roteò infelice gli occhi: magari ci fossero state delle donnine allegre ad allietare le ore tra una ronda e l’altra, così perlomeno quei masnadieri dei soldati avrebbero trovato una valvola di sfogo meno brutale e sanguinosa (ossia scannare ogni prigioniero su cui mettevano le zampe addosso, infischiandosene del rango) e più onorevole, finendola una volta per tutte d’insidiare le monachelle dei conventi attigui.

“Hé, guardate il lato positivo: almeno, nessuno a Porta Altinia s’ammala di febbre! Vi dovete solo preoccupare dei nemici”, esclamò perfido Alvixe da Canal, ridacchiando dinanzi all’espressione leggermente ansiosa di sier Zuam, intanto che sia Hironimo Bragadin sia Marco Miani ingoiavano le labbra onde soffocare le risate.

“Noi siamo arrivati”, annunciò sier Hironimo una volta davanti alla Porta. “Speriamo che, almeno per un po’, le uniche cannonate che sentiremo siano le urla di sier Zuam Paulo a domino Renzo.”

“Ben se lo merita: così impara a beccarsi con lui e a disobbedirgli.”

“Domino Renzo possiede molta esperienza tuttavia coi Francesi.”

“E sier Zuam Paulo ha sconfitto sulle montagne dell’Albania Veneta i Turchi, i quali non son certo più cortesi di quest’altri senzadio.”

“Sarà. In ogni caso, buonanotte e buona ronda!”

“Anche a voi, senza la ronda.”

“S-ciavo vuostro et voggieme ben!”

“No t’indubitare.”

Sier Alvixe e Marco proseguirono in silenzio fino al Castello, affidando una volta giuntovi ai loro scudieri i rispettivi cavalli, affinché li conducessero nelle stalle. Quand’ecco che da Canal, notando come il suo compagno si stesse recando in direzione opposta degli alloggi cioè verso la caminada, gli domandò perplesso:

“Non vi ritirate?”

“Non ho sonno.”

“Ve lo farete venire”, puntualizzò severo sier Alvixe, raggiungendo rapido Marco e, afferratolo per il braccio, lo costrinse a cambiar rotta, verso la sua camera. “Non potete continuare a strapazzarvi così, v’ammalerete!”, gli ricordò intransigente, in risposta alla testarda e stizzita resistenza mossagli dal Miani.

Marco si morse l’interno della guancia, cedendo momentaneamente alle pressioni dell’altro patrizio. Si ripromise, tuttavia, di levarsi presto al mattino per la ronda. Non si trattava soltanto di una questione di zelo marziale: in cuor suo, egli sperava di poter scorgere, tra i fuggitivi che giungevano alle porte cittadine, il volto di suo fratello …

In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti”, s’inginocchiò l’uomo, segnandosi, dinanzi al semplice crocifisso accanto al letto. “Non guardare le nostre colpe, o Signore, ma alla nostra fede in Te … Liberaci da ogni male, preservaci dall’inferno e spezza le nostre catene …”, gracchiava sommessamente Marco, abbandonandosi ad un pianto discreto e liberatore.

 

***

 

A furia di fingere di dormire, alla fine Hironimo s’era addormentato sul serio, piombando in un sonno nero pece senza sogni come se gli abissi delle tenebre l’avessero inghiottito, ghermendolo saldamente ed impedendogli di riaffiorare nella superficie della veglia.

Il suoi arti doloranti s’erano abbastanza adattati alle catene e all’innaturale posizione, cessando di conseguenza ogni fastidio; le sue orecchie avevano assunto una conveniente sordità ad ogni rumore circostante e perfino la sua epidermide sembrava troppo stanca, per sollevarsi dalla pelle oca a causa degli spifferi provenienti da sotto la tenda o dall’umidità della terra bagnata. Quello del giovane patrizio corrispondeva al sonno del morto, che non ristora la mente bensì affligge un corpo sfinito.

Una violenta folata di vento scosse il padiglione e un improvviso frastuono metallico, seguito da una sorpresa imprecazione, destò di soprassalto Hironimo, il quale assaporò il gusto del suo cuore in gola, soffocandosi per poco col collare quando tentò di balzare in piedi, giacché dimentico per un istante d’indossarlo. Sballottato, aveva creduto esser giunto Mercurio Bua ad interrogarlo e che quel sinistro rumore di ferro corrispondesse alla preparazione degli strumenti di tortura. Invece, la tenda divisoria non si accennava a scostarsi e, stando allo sbuffare di Nicho lo scudiero, dovette trattarsi o dell’armatura del suo capitano o del rastrello con le spade, forse caduti per terra a causa di quell’impetuoso vento.

In effetti, constatò Hironimo mentre si massaggiava stancamente il polso, le tende non cessavano per un istante d’ingrossarsi e poi afflosciarsi, manco fossero le vele di una galea sorpresa in alto mare da una terribile burrasca. Le ombre prodotte da dietro la tenda divisoria oscillavano vertiginosamente, come di sicuro anche le lucerne appese, accompagnate da un’infinità di rumori sotterranei, quali lo scricchiolio delle corde, il fruscio delle fronde piegate, l’andirivieni dei soldati di ronda, il sommesso chiacchiericcio dei bivacchi e i rantoli dei bracieri messi alla dura prova da un elemento di solito complementare, ma ora più potente.

Eppure, il giovane Miani non udiva il sordo borbottio dei tuoni appropinquarsi, né lo scalpiccio o il nitrito dei cavalli o il guaito spaventato dei cani, sempre nervosi e inquieti dinanzi agli sfoghi più violenti della natura.

E tal impressione dovette condividerla anche Mercurio Bua, che infatti espresse i suoi dubbi al maresciallo La Palice: “Pensate ancora di trasferirvi stanotte a Breda di Piave? In fede mia non ho mai visto un simile vento: pare che il Padreterno voglia soffiarci via in un colpo solo!”

“I cavalli, tuttavia, non paiono risentirne …”

“Ed è innaturale: solitamente s’innervosiscono parecchio quando sta per scoppiare un temporale.”

L’ennesimo scossone di vento allungò le ombre ballerine, finché una d’essa s’ingigantì, oscurando parte della tenda. Mercurio borbottò snervato qualche improperio inintelligibile, premurandosi di riaccendere la lucerna spentasi bruscamente.

“Se volete partire, bisognerà sbrigarsi: sono quasi le otto di notte.”

Hironimo strabuzzò gli occhi: così a lungo aveva dormito? D’accordo, aveva notato l’assenza della luce diurna, però non immaginava di ritrovarsi sveglio nel cuore della notte. Almeno aveva riposato – si consolò amaramente – ben presto gli sarebbe toccata l’ennesima faticosa marcia. L’ennesimo giorno di prigionia.

Breda di Piave, avevano detto? Quindi … quindi si stavano spostando sulla Callalta e significava che avrebbero puntato a Porta San Tomaso per l’attacco finale …

“No, forse avete ragione, capitaine. Il vento soffia troppo forte: anche se i cavalli non sembrano intimoriti, ugualmente ci rallenterebbe la marcia. Attendiamo ancora qualche ora, se non proprio la chiaria”, convenne meditabondo La Palice. “Alla fine non abbiamo fretta: i cannoni da Gradisca ancora non sono giunti, quindi non possiamo certo incominciare da domani l’assedio.”

“Quindi è confermato?”, s’inserì un’altra voce, probabilmente quella di Giulio Sanseverino. “Gradisca è sul serio caduta?”, non tratteneva l’entusiasmo nella sua voce.

Lo stomaco d’Hironimo s’attorcigliò dolorosamente alla notizia: Gradisca d’Isonzo era stata una delle loro fortezze di confine più importanti, non solo contro l’Impero ma anche contro i Turchi, pertanto fonte di continue spese di potenziamento delle mura e di stipendi per i soldati alla sua custodia. Perderla significava aprire la strada a nord-est, senza possibilità di impedire il riversamento delle truppe imperiali nella pianura friulana, fino alla Marca.

Alla fine era accaduto sul serio, insopportabile realtà: la Patria del Friuli era inesorabilmente perduta, un altro territorio conquistato da Maximilian e sottratto a Venezia, un’altra vittoria per l’ambizioso Imperatore che ora avrebbe arrogantemente sfogato la sua potenza contro la ribelle Treviso.

E se l’avesse espugnata … se l’avesse … Due anni di resistenza per cosa? Ora i nemici della Serenissima avrebbero rialzato la testa, ringalluzziti da questo successo e magari avrebbero attaccato a sud, puntando su Padova …

“Esatto”, rispose un quarto interlocutore, ad occhio e croce Teodoro Trivulzio. “Stando alla nostra staffetta, la fortezza era piagata dalla peste e la guarnigione a difesa s’è ammutinata al proprio governatore, il signor Baldassarre di Scipione. Una vittoria inaspettata, giacché Gradisca s’era fino a quel momento difesa bene e pareva imprendibile.”

“Come Treviso?”, ridacchiò sardonico uno dei comandanti, la cui voce però Hironimo non riconobbe. “Se non erro, i nostri informatori hanno sentito di una certa febbre mietere vittime in città. Chissà che la storia non si ripeta.”

“Non sottovalutate il provveditore Gian Paolo Gradenigo, signor marchese Galeazzo”, lo interruppe un serissimo Mercurio Bua. “Io ho combattuto al suo fianco e so per certo, che se anche a Treviso dovesse esserci la peste, piuttosto di cederla a noialtri egli di gran lunga preferirebbe riesumare le vecchie catapulte, per scagliarci addosso i cadaveri degli appestati!”

Il Pallavicino emise un indefinito verso ingolato, come se stesse per replicare a tal sferzante replica da parte del greco-albanese, sennonché La Palice seguitò ineffabile nell’esposizione delle ultime informazioni:

“Ho deciso di inviare Achille Borromeo al commissario imperiale Jean d'Aubigny, per invitarlo ad’incominciare ad organizzare le zattere da Cividal di Belluno, acciocché le artiglierie dalla Patria del Friuli possano essere trasferite all’accampamento il prima possibile.”

“E gli zattieri bellunesi obbediranno?”, inquisì scettico Giulio Sanseverino. “Mi pare assai improbabile che costoro, di propria spontanea volontà, accettino di trasportare i cannoni utilizzati per combattere contro i loro stessi conterranei.”

“I Bellunesi non sono più sudditi della Serenissima, bensì dell’Empereur”, tagliò corto il maresciallo francese. “Così come lo saranno ben presto i Trevigiani. D’altronde, les Italiens sono fatti così: pronti a servire zelanti il vincitore; irriconoscenti verso chi li ha beneficiati e codardi, sfacciati trasformisti che pensano soltanto al proprio guadagno personale anche a scapito della collettività. A loro basta sopravvivere o - come si dice qui? - cavarsela e poco importa chi sarà il loro nuovo padrone. Basta mangiare e vivere tranquilli. Per loro libertà significa fare ciò che vogliono, gli altri possono andare a farsi impiccare.”

Hironimo, a tali sprezzanti parole, digrignò i denti e si conficcò le unghie nei palmi delle mani, ribollendo di rabbia e sperò che una simil scintilla d’indignazione colorisse le gote anche di Sanseverino e Pallavicino, presi indirettamente in causa, giacché comportatisi esattamente come descritto dal generalissimo francese, a seguito della caduta del Moro e del Ducato di Milano. Il giovane Miani poi sbuffò sardonico, ricredendosi: come voleva che reagissero quelle facce di bronzo? Possedevano più peli nello stomaco d’una scimmia, incapaci di ricordarsi l’antico significato di parole quali dignità, fedeltà e amor patrio.

Nella mente del patrizio veneziano riaffiorarono i volti della sua guarnigione trucidata; dei suoi servitori Menego, Trovaxo, Vico e Nadalin e dei capitano Paulo Doglioni, Christofal Colle e Vetor dil Pozzo: erano quelli gli sguardi di vigliacchi, irriconoscenti trasformisti? Di gente che si credeva libera di fare ciò che voleva? Liberamente erano rimasti a presidiare Castelnuovo pur consci di perire; avevano sacrificato la propria vita di modo che i loro conterranei potessero seguitare a vivere liberi.

Hironimo ripensò a Thomà, alla sua famiglia, ai Feltrini che pur sapendo della crudelissima rappresaglia dell’Imperatore, ugualmente avevano scelto di ribellarsi, preferendo una morte da uomini liberi che da sudditi dell’Impero.

Ripensò a Lussia e a Zanze, ai contadini del Montello, che tutto avevano perduto, tutto li era stato strappato via, perfino l’onore e ciononostante seguitavano indefessi a combattere, a reagire, senza mai sottomettersi, più eroici dei paladini carolingii. Hironimo si ricordò delle parole del suo piccoletto quando parlava di Lussia, del sacrificio d’abbandonare il suo uomo pur di dare la possibilità alla sua creatura di nascere libera.

Ripensò a suo fratello Lucha, che avrebbe potuto cedere la fortezza della Scala e invece, solo contro un esercito più possente, non aveva esitato a mettere a repentaglio la sua stessa vita, perdendo per quattro mesi la libertà e per sempre l’uso del braccio destro e malgrado ciò ancora disposto a servire vigorosamente la Signoria.

Ripensò a Marco, a Carlo, ai suoi amici Ferigo e Marco Contarini e a tutti gli altri suoi conoscenti che s’erano armati a proprie spese pur di vincere, pur di conservare libera e indipendente la Serenissima, offrendo chi la propria giovinezza chi l’esperienza di mille battaglie, così come tutti i patrizi stavano impiegando ogni risorsa accumulata dai loro avi onde pagare e rifornire adeguatamente l’esercito. Cittadini, villani, religiosi, nobili, giovani, vecchi, uomini e donne, nessuno reputava alcun sacrificio troppo oneroso se significava rimanere liberi, in piedi, a testa alta.

E se fossi libero, tornerei subito a combattere … Rimarrei a Treviso fin quando non avremo cacciato questi barbari dalle nostre terre … E non per gloria mia personale, no! Bensì per onorare chi è morto anche per me, per riconoscenza verso chi ha sofferto nel corpo e nello spirito e, soprattutto, per difendere coloro che non possono combattere.

Difendere gli innocenti contro cui i veri vigliacchi si scagliano.

Difendere chi ha soltanto Dio e la Vergine rimasti come ultimo scudo.

La mano di Dio colpisce forte, quando la guida quella dell’uomo; dunque, qualora riacquistassi la libertà, voglio essere la manifestazione in terra della Sua protezione verso i più indifesi. Fuori da questo padiglione io sono qualcuno, ho i mezzi e la forza e la volontà di farlo. Se soltanto mi fosse concessa questa possibilità, io …!

“Quanto al resto dell’esercito imperiale”, ritornò Hironimo ad ascoltare attentamente il resoconto di La Palice, “stanno puntando a Motta di Livenza e da lì ci raggiungeranno, per poi dividerci a Fiera.”

“Come?”

“Attaccheremo su due lati”, spiegò meglio Mercurio Bua, il cui tono vibrava di grande eccitazione. “Una volta superata Melma, ci divideremo presso il borgo di Fiera: da lì, la parte dell’esercito guidata da monseigneur il maresciallo attaccherà a Porta San Tomaso; quella invece dei reparti tedeschi, a Porta Altinia.”

“A sud?”

“Corretto. Ho sempre trovato assai sospetta quella massiccia presenza di burchi e di stradioti sul Terraglio. All’inizio pensavo volessero semplicemente proteggere la strada per Mestre e Venezia; invece, sono giunto alla conclusione che Porta Altinia sia la parte meno fortificata della città, in quanto da quelle bande si trova il porto e il Castello, i quali innanzitutto creano ben due potenziali aperture per accedere a Treviso; in secondo luogo, l’antica fortezza scaligera sicuramente avrà conservato parte delle sue antiche mura, è impossibile modificarle completamente in neanche due anni.”

“Ma perché non concentrarci a Porta Santi Quaranta? È più veloce da raggiungere senza essere notati”, puntualizzò il marchese Galeazzo Pallavicino. “Inoltre, abbiamo visto come il monastero lì davanti non sia stato demolito: potremmo sfruttarlo come riparo per piazzare uomini e artiglieria.”

“Giusta osservazione”, gli concesse sincero il Bua. “Il problema è che Porta Santi Quaranta giace sullo stesso versante di Porta San Tomaso. Così facendo, otterremmo tutta Treviso schierata in un unico blocco compatto sull’intera fascia. Invece, attaccando a sud, dalla parte opposta, spaccheremo in due la città e rallenteremo le comunicazioni tra di loro. Mentre i Veneziani perderanno tempo preziosissimo - affrontando in sostanza non uno bensì due eserciti - noi al contrario guadagneremo terreno, impedendo alle loro forze di congiungersi e di far fronte unico.”

“Tuttavia, dovete considerare che anche noi saremo divisi, rischiando, di conseguenza, di finire nella medesima situazione del nemico”, obiettò Teodoro Trivulzio. “E se i Tedeschi dovessero venir sconfitti? I Veneziani si riconcentrerebbero tutti su di noi e saremmo daccapo.”

“Appunto per questo, non appena gli Imperiali avranno espugnato Motta di Livenza e ci avranno raggiunti a Breda di Piave, che prepareremo questo assedio nei minimi particolari, onde coordinarci alla perfezione! Signori miei, abbiamo appena conquistato la Patria del Friuli, restringendo ulteriormente i territori della Serenissima Signoria. Francia, Impero, i nostri alleati Gonzaga ed Este, quale chance credete che abbia una città di provincia quale Treviso contro siffatta coalizione? Niente e nessuno può salvarla, neppure la sua preziosissima Madonna dei Miracoli. Guardate Motta di Livenza: lì è apparsa la Vergine e vi pare che la stia proteggendo?”

Sentendo di nuovo quel nome – Motta di Livenza – Hironimo si sovvenne d’un tratto che laggiù, l’anno addietro, v’era effettivamente stata un’apparizione della Vergine Maria, tosto seguita dal prodigio del sole color del sangue. Un meraviglioso avvenimento ch’aveva suscitato un gran scalpore a Venezia, confermando quella mai sopita speranza che, forse, la Signoria non era stata completamente abbandonata al suo destino. Già la presenza della Madonna s’era manifestata prima ancora della riconquista di Padova, promettendo alla veggente la vittoria contro la Lega di Cambrai, se si fosse fatta per quattro giorni una processione in suo onore[2] e questo dopo la scomunica e l’interdizione papale, dopo la rotta di Agnadello, dopo la costruzione da parte di Re Louis di una chiesa votiva dedicata alla Madonna delle Vittorie, lì sul luogo della battaglia.

I peccati della Serenissima e dei suoi abitanti apparivano sì in gran numero, però instancabile l’Avvocata seguitava ad intercedere, a far sentire la Sua voce e a rendere nota la Sua presenza perfino nelle ore buie del periglio.

In partenza per Castelnuovo di Quero, Hironimo s’era attardato appena qualche giorno a Treviso, ma abbastanza per assistere alla folla di pellegrini che s’appropinquava a festeggiare l’Annunciazione a fine marzo. Gente ammalata, o bisognosa, o in cerca di conforto, o piena di riconoscenza riempiva il Santuario, accalcandosi davanti alla cappella onde ammirare e pregare davanti alla miracolosa immagine della Devotissima.

Hironimo realizzò che mai una volta s’era recato a Santa Maria Maggiore, neanche per curiosità - figurarsi per fede! -  malgrado a Treviso vi avesse risieduto in più occasioni. A Madre, che lo invitava ad accompagnarla anche solo per un rosario o una breve orazione, rispondeva scocciato quanto trovasse sciocco fare la fila per inginocchiarsi davanti ad un vecchio affresco; similmente, aveva liquidato il miracolo della puttina come una coincidenza, sostenendo impietoso come i suoi sprovveduti genitori si fossero sbagliati nel crederla sul serio morta [3]. Nel suo intimo, in verità, si era roso d’un invidia nera nei confronti di quei patrizi veneziani, poiché a loro era stata restituita la figlia dopo una sola preghiera, mentre il giovane Miani da fantolino giorno e notte aveva supplicato Dio e la Madonna di resuscitare Padre e nulla era accaduto.

Sentendosi tradito e abbandonato, Li aveva ripagati tramite anni di caparbia indifferenza e ostilità, voltandoLi le spalle, anche dinanzi alle chiare e manifeste prove dell’operato della Madre di Dio, sia in tempo di pace sia in tempo di guerra.

Sì, Lei era sempre lì, presente, a vegliare, ad ascoltare. E ora che Hironimo si stava avvicinando a Treviso, la città che L’aveva scelta a sua unica signora proprietaria [4], là dove risiedeva la Sua gloriosa immagine, ecco, forse, meditava speranzoso, forse la Sua presenza sarebbe stata più forte, forse stavolta Lei l’avrebbe ascoltato.

La mia promessa non cambia – chiuse il giovane gli occhi, stringendo forte le catene al petto – visiterò il Tuo santuario che da anni ho sdegnato; ci verrò scalzo e in camicia; farò dire Messe; userò la mia ritrovata libertà per il bene della mia gente e non per soddisfare la mia vanità …

E mentre ripeteva pieno di rocciosa convinzione questo suo sacro giuramento, il vento più non fischiava attraverso gli spifferi del padiglione, né il brusio dell’accampamento animava la notte dei suoi schiamazzi. Perfino la fitta discussione tra i comandanti franco-imperiali s’era affievolita, fino a zittirsi completamente. Una quiete solenne l’avvolse, come se gli elementi della natura non osassero disturbare la sua preghiera. Un silenzio paradisiaco, soave e ristoratore lo cullava e dopo tanti anni, Hironimo si sentì veramente contento, godendo la sua anima di una letizia mai conosciuta prima d’allora, una letizia che gli infondeva un coraggio e una forza al limite del preternaturale. Credeva, no, sapeva di poter superare qualsiasi ostacolo; avvertiva come un enorme macigno sollevatosi dal petto e finalmente riusciva a respirare, ma non con la bocca, bensì col cuore.

La paura era svanita: qualsiasi cosa gli fosse capitata, mai più si sarebbe lasciato catturare dagli spettri del dubbio e dello sconforto. Le sue catene gli divenivano sempre più leggere, impercettibili quasi …

Improvvisamente una fulgida luce accecò i suoi occhi a malapena socchiusi, portando il giovane Miani a coprirseli rapido, mentre balzava seduto e si rannicchiava nell’angolo, sopraffatto da tale violento biancore e chiedendosi se non fosse giunta l’ora della sua morte, giacché aveva udito di come i moribondi, prima di render l’anima, contemplassero una gran luce.

Ma no, di tutto si sentiva tranne che prossimo alla morte, per quanto i suoi cappelli si drizzassero dietro la nuca e il suo cuore martellasse violentemente. Circospetto, Hironimo osò sbirciare tra le sue dita, notando come la luce fosse scomparsa tanto velocemente quanto apparsagli. Che l’avesse sognata?

Oppure … oppure …

Hironimo, cercando di comprendere la natura di quel bizzarro fenomeno, prese a guardarsi spaesato attorno, studiando attento il famigliare ambiente: la tenda divisoria, il giaciglio di paglia, la ciotola, il palo con l’anello dove era stato legato e sulla sua destra … Oh?

Oh …

Davanti a sé, ritta in piedi, una giovane donna lo osservava, stringendo tra lunghe dita un pasciuto mazzo di chiavi, le stesse sventolategli beffardamente sotto il naso da Mercurio Bua.

Il labbro inferiore del veneziano prese a tremare dall’angoscia di quel ricordo, ingobbendosi egli e avvicinando quanto più possibile le ginocchia al petto, vergognandosi a morte d’apparire così brutto, sporco e in mutande, come se con la sua indecorosa presenza stesse offendendo la misteriosa visitatrice. La quale, oltre a possedere una bellezza che Hironimo in un nessun volto mortale aveva mai contemplato (e che, giudicò, nessuna donna del passato, del presente e del futuro avrebbe mai potuto eguagliare) indossava un lungo, ampio e pesante mantello bianco come se non più della neve, sfavillante, adorno di una fibbia dorata al collo e il cui cappuccio conteneva a stento dei morbidi e vaporosi capelli sciolti. Da sotto il mantello s’intravedeva una semplice camorra color verde-acqua, del medesimo color del Sile. Attorno alla giovane donna vorticava un’aura di leggiadra autorevolezza, da stimarla una gran dama, macché, una regina, ma neanche, un’imperatrice!

E ciononostante, quei suoi occhi grandi e benigni risplendevano d’immensa umiltà e carità, virtù troppo aliene a coloro ai vertici della gerarchia sociale. Quelle iridi vivacissime lo guardavano tanto amorevoli quanto una carezza, come se l’avessero conosciuto da una vita. E tale gioia la dimostrava anche quel soave sorriso, la stessa di chi aveva incontrato un carissimo amico da cui era stato crudelmente separato e che non vedeva più da lungo tempo. Eccoci dunque – parevano dire – tu ed io, uno di fronte all’altro, liberi di poterci parlare senza maschere, senza formalità. Ho tanto atteso quest’istante, d’averti qui meco, sin dal tuo primo vagito, poiché io ti osservavo e ti chiamavo per nome ancora nel grembo di tua madre.

Il Miani abbassò timido gli occhi e fece per chinare il capo in deferenza, sentendosi piccolo e indegno dinanzi alla bellissima sconosciuta; ma ecco che le dita di lei gli accarezzarono consolatrici la guancia (lui però giurò di percepire quel tocco fin nel profondo del suo cuore) per scivolare poi delicatissime sotto il suo mento, invitandolo paziente a guardarla.

Vi amo! Vi amo! Ed Hironimo si chiese perché la sua mente stesse elaborando queste illogiche parole e perché stesse piangendo peggio d’un infante e perché, senza apparente motivo, avesse afferrato adorante la mano della giovane donna, ricoprendone il palmo e il dorso di baci. Singhiozzava, rideva, stava per scoppiare di felicità, sebbene seguitasse ad ignorare l’identità di quella misteriosa dama, che tuttavia possedeva l’inspiegabile dono di sconvolgergli l’anima.

“Tolli queste chiave”, disse ella infine, porgendogli il mazzo di chiavi, la sua voce più avvolgente del primo bacio del sole ad aprile. Hironimo si mise di riflesso bene in ginocchio, sull’attenti, bevendo ogni sua parola. “Apri li cepi et fuge via.”

Non stava sognando. La mano morbidissima e profumata di rose della giovane donna; il fruscio del suo candido mantello; il peso delle chiavi tra le sue mani e il loro ferroso tintinnare, non potevano appartenere né al mondo onirico né ad un’allucinazione. Non dubito della fisicità di tale visione, neanche quando la sua soccorritrice scomparve nel momento in cui Hironimo distoglieva per la prima volta lo sguardo, onde studiare incredulo le chiavi cedutegli.

Dov’è andata? Perché non mi ha aspettato?

Non stava sognando e non si trattava dell’ennesimo giochetto di Mercurio Bua, anzi, il sospetto che il condottiero gli avesse teso una trappola non lo sfiorò minimamente. Il veneziano non possedeva alcune argomentazioni a riguardo, lo sapeva e basta. Si fidava della sua benefattrice, ciecamente.

Devo sbrigarmi, forse mi aspetta fuori dal padiglione. Non voglio che corra alcun pericolo per causa mia.

Sicché, deglutendo e infondendosi coraggio, Hironimo infilò una delle chiavi nel lucchetto che serrava il primo giro di catene e che lo costringeva piegato a metà.

Prendi queste chiavi. Apri i ceppi e fuggi via.

Un ordine semplice, diretto, senza ambiguità e facile da eseguire (Deo volente). Le energie avevano ripreso a scorrergli vivaci nelle vene, la malattia, la denutrizione e i maltrattamenti un lontano ricordo. Era da Castelnuovo di Quero che il giovane Miani non si sentiva così in forze.

Prendi queste chiavi. Apri i ceppi e fuggi via.

 

All’improvviso la serratura scattò e l’anello del lucchetto s’alzò, sfilandosi subito quelli delle catene, che caddero molli ai suoi piedi.  

Prendi queste chiavi. Apri i ceppi e fuggi via.

Hironimo obbedì, da bravo cavaliere.

 

***

 

 

Come tutti coloro appena morti da qualche ora, il viso di Andrea Pera riluceva marmoreo e perfetto alla luce arancione delle candele, infondendogli una preternaturale vitalità. I suoi medesimi stradioti l’avevano ripulito dal sangue, dalla polvere e dal fango e rivestito di una semplice tunica, utilizzando il suo gonfalone a mo’ di sudario e lasciandogli il capo scoperto. Una volta sistemata la bara sul semplice catafalco al centro della cappella di S. Croce dell’Ospedale di Santa Maria dei Battuti, Teodoro Madalo aveva insistito per calzarlo dei suoi stivali, secondo l’uso verso coloro deceduti o di parto o di morte violenta. In questo modo, si credeva, il capitano Pera avrebbe completato la sua vita terrena nell’Aldilà e non sarebbero rimasto sospeso, perseguitando i vivi così da sfogare su di essi la propria frustrazione.

A giudicare dalla faccia devastata della sua compagnia, rimasta ora orfana di comandante, Helena Spandolina Miani giudicò che la prospettiva di ritrovarsi accanto lo spirito del kyr Andrea non avrebbe spaventato affatto quegli stradioti, semmai avrebbero accolto il morto a braccia aperte e invitato a bivaccare assieme. In particolare Teodoro Madalo, con la casacca ancora sporca del sangue del capitano, fissava al limite del trasognato i lineamenti gelidi di Andrea Pera, quasi alla ricerca del benché minimo movimento su quel bozzolo di carne. Giorgio gli sussurrava frasi d’incoraggiamento, ricordandogli che più di così non aveva umanamente potuto fare: anche se avesse posseduto i cavalli del dio Febo, non sarebbe mai giunto a Treviso in tempo per salvarlo. Mercurio Bua l’aveva ferito troppo a fondo.

“E ti prego, non prendertela con nostro fratello: non è colpa sua, bensì del suo capitano”, non gli era infatti sfuggito lo sguardo fosco di Teodoro, mitigato appena dalla dolce sorpresa di stringere nuovamente il minore tra le braccia, vivo e vegeto anche se con una spalla dislocata.

“Ma respirava ancora … io … lui … lui mi parlava e … e … Forse, se l’avessi afferrato in tempo, se gli avessi impedito di porsi in prima fila  … ”

Ma sapeva ch’era inutile attaccarsi alle chimere della possibilità: l’uomo, già parecchio indebolito, era spirato stringendo la mano di Helena, ritornata al suo capezzale quando lo aveva sentito rantolare ed invocare disperato un prete. Purtroppo, non essendoci ortodossi nelle vicinanze, la gentildonna greca aveva richiesto ad un monaco infermiere un’immagine sacra e poi, ponendola di fronte al moribondo, dopo averla baciata i due s’erano messi a pregare incessantemente Dio e la Vergine Maria. E mentre la giovane Spandolina recitava energicamente O Panagia Despoina, me to Monogeni sou, ela tziai si voitha mas, tziai dws’ mas tin eftzin sou [5], ecco che Andrea Pera, in un ultimo guizzo d’energia, l’aveva ringraziata tramite un tremulo sorriso insanguinato. “Nelle … nelle tue mani …”, aveva ansimato in grandissimo affanno, per poi chetarsi bruscamente. La sua presa perse vigore, facendosi lasca, fino a scivolare dalle dita di lei per non muoversi mai più. 

Nella cappella dell’Ospedale , gli occhi incollati sulla bara scoperta, Helena notò che qualcuno doveva aver messo accanto al catafalco un piatto di koliva [6] e una piccola croce di legno tra le dita intrecciate del morto. Se il prete cattolico, che stava officiando la messa da requiem, disapprovava tal pratica, di certo stava dissimulando alla perfezione il suo dispiacere. Sospirando profondamente, la patrizia avanzò verso il defunto Andrea Pera, onde salutarlo e baciare la croce tra le sue mani. “Addio, kyr Andreas”, mormorò e, uno alla volta, anche il resto degli stradioti la imitò.

“Buon viaggio, capitano”, si congedarono uno ad uno, rimpiangendo di non poter rimanere lì tutta la notte a vegliare sul defunto, in quanto la guerra li obbligava a rientrare nei loro alloggi e riposare. Già il Provveditore e il Podestà erano stati così gentili d’accordare loro di restare fino ad un’ora così tarda; giudicavano quindi irriconoscente approfittare di tanta cortese comprensione. Nondimeno, gli stradioti si ripromisero di ritornare alla cappella alle prime luci mattutine per accompagnare Andrea Pera alla sua ultima dimora terrena.

La giovane greca reclinò il capo, acciocché lo zendale coprisse il suo sorriso amaro: ora, fratello, viaggerai in una patria laddove nessun conquistatore potrà mai scacciarti.

“Si è fatto tardi, madona Helena”, le s’avvicinò Fra’ Anselmo, provocandole un piccolo sussulto colpevole. “Dovreste rincasare e riposarvi. L’esperienza d’oggi vi deve aver notevolmente provata: siete molto pallida, mi preoccupate.”

La nobildonna si voltò verso il monaco, arcuando il sopracciglio. “Come posso aiutare i feriti durante l’assedio, se mi stanco per uno solo? Inoltre, ormai è notte fonda e non ho nessuno che m’accompagni né che mi aspetti a casa”, troncò brusca il discorso, rientrando all’ospedale mentre si nettava via le lacrime che le offuscavano la vista. Si segnò sovrappensiero, a guisa ortodossa, particolare che non sfuggì al benedettino, che rimarcò appunto:

“Ma egli era un vostro conterraneo, nonché fratello in Cristo e ciò vi ha doppiamente sconvolta, turbandovi e allontanandovi dai giusti precetti” e dinanzi all’espressione interdetta della giovane, Fra’ Anselmo proseguì, senza però alcuna nota di biasimo: “Voi orate con la bocca da cattolica, ma seguitate a rimanere ortodossa nel cuore. Piangevate mentre pregavate col signor Andrea, perché vi ha ricordato chi siete e cosa avete dovuto abbandonare.”

“Siamo tutti servi del medesimo Padrone, non vedo perché dobbiate sorprendervi che io da cristiana abbia dato conforto ad un altro cristiano”, replicò aspra lei, sulla difensiva, allontanandosi via in fretta.

Sì, vero, per sposare Marco s’era necessariamente convertita al cattolicesimo, tuttavia non aveva abiurato quella che i Greci consideravano la “Vera Fede”, rispetto alla sua versione imperfetta ch’era quella latina. Per non sentirsi né traditrice dell’una né bugiarda nell’altra, Helena aveva mischiato le due ed era giunta alla conclusione che, in fin dei conti, erano davvero come i due servi litigiosi e miopi della lettera di San Paolo ai Romani.

La patrizia si morse la lingua, conscia di aver incautamente sparlato, proferendo riflessioni sue personali e assai pericolose se udite da orecchie intransigenti o ignoranti.

Asciugandosi le ultime lacrime, Helena ritornò alla sua postazione nella speranza di divenire invisibile e di sfuggire da ogni sguardo accusatore. Controllò che le bende e gli unguenti fossero al loro posto, in ordine e pronti per l’uso; i letti preparati e le cortine di lino pulite, gli ancora pochi pazienti nutriti e confortati, cercando nel lavoro consiglio e forza morale. La giovane greca aveva dormito malissimo la notte precedente e soltanto aiutando madona Maria Malipiero Gradenigo e i monaci infermieri, ella sentiva di trovare la distrazione necessaria per dimenticare che oramai l’assedio era un fatto certo e inevitabile e che pertanto suo marito Marco non avrebbe più potuto assentarsi dal Castello, come invece aveva potuto fare prima, rientrando a turno finito.

Neppure il tempo di congedarsi le era stato concesso, essendo giunto uno dei provvisionati del suo consorte a ritirare rapidamente le sue cose. La perdonança, patrona – fu l’unica spiegazione che la nobildonna aveva ricevuto – ma da stanotte il vostro sior marido alloggerà del quartiere del Castello, assieme a tutti gli altri gentiluomini e soldati. Ordini del magnifico sier Provveditore.

Helena s’era ripromessa di non piangere nel suo letto vuoto; ciononostante la tentazione l’aveva sopraffatta e qualche lacrima l’aveva spenta, più che altro perché, senza il marito lì accanto, lo spettro funesto della guerra e dei suoi orrori le appariva adesso più concreto, minaccioso e soffocante. Forse per quest’ansia ultimamente soffriva di crampi allo stomaco e di lievi capogiri. Quella mattina aveva avuto perfino un po’ di nausea.

Anche madona Felicita aveva sofferto una semi-separazione dal suo Donado, il quale instancabile era corso di qua e di là ad aiutare lo sgombero dei mulini e a controllare che nessuno s’avvicinasse ai magazzini, dove si depositavano le farine. Contrariamente ad Helena, però, la giovane trevigiana poteva contare sulla presenza del suocero, della madre, della fantesca, del suo Jacopino nonché del pargolo in ventre per tenersi focalizzata sul presente e non rimuginare sul passato e sul futuro. La greca rimaneva al contrario sola coi suoi pensieri e, per non impazzire, aveva deciso che tra sofferenze peggiori poteva esorcizzare la sua. S’era consolata poi ripensando a sua sorella Chiara, appena sposata a sier Nicolò Trivixan e già rischiava di rimanere vedova.

Ma la morte di Andrea Pera le aveva sbattuto in faccia la durissima realtà, abbattendo le sue fragili difese; lui era soltanto il primo, chissà quanti ne sarebbero seguiti. Dio e la Vergine non volessero che anche suo marito passasse per quel tavolo chirurgico, agonizzante e mutilato …

“Nessuno è migliore del proprio Maestro né il servo è più importante del proprio Padrone, è vero”, raccolse Fra’ Anselmo un telo che le era inavvertitamente caduto. Helena strabuzzò gli occhi, impaurita, accelerando il passo d’istinto sicché il benedettino dovette a momenti rincorrerla. “E appunto per questo, per servire al meglio, che dobbiamo riposare. Per favore, rincasate: domani ogni cosa vi apparirà migliore. Il signor Andrea è con Dio, ma noi siamo ancora in questa valle di lacrime e dobbiamo farci forza e vivere anche per loro.”

La patrizia abbassò il capo, un poco vergognosa. “Mi dispiace d’avervi aggredito così.”

Grattandosi la fronte, il monaco ridacchiò a sua volta a disagio: si era, in effetti, lasciato trasportare dall’ognora insidioso peccato di superbia, considerandosi all’apice della saggezza e della conoscenza. Proprio lui era andato a fare un velato predicozzo alla giovane su cosa fosse o non fosse da degni cristiani, quando lui aveva mentito e disobbedito al suo Priore, drogato i suoi assistenti e pazienti e progettato una fuga? I lunghi anni all’Abbazia di Sant’Eustachio lo avevano insuperbito, dimenticando egli di essere un piccolo tassello del grande e variegato mosaico del mondo e Dio, mettendolo costantemente alla prova nelle ultime settimane, glielo aveva pazientemente ricordato.

“Figliola mia, non angustiatevi per me: vostro cognato sier Hironimo m’ha assai ben fortificato, quando si trattava di cantarmele. E se non nutro rancori verso di lui - ch’era lucido e cosciente delle sue parole -  debbo averne nei vostri confronti, che siete chiaramente affranta?”

“Hieronymos possiede un buon cuore”, obiettò la greca, accennando col capo a quel contadino ammalato, che le aveva raccontato di come Hironimo non soltanto lo avesse salvato da morte certa, ponendosi tra lui e il lanzichenecco, ma anche come gli avesse donato la sua coperta e lo avesse aiutato a proseguire nella marcia forzata. Mi ha dato la forza di reagire, di poter scappare! , aveva aggiunto, mostrando quel panno a mo’ di prova, manco corrispondesse ad una reliquia. 

“Sì lo so, per questo l’ho perdonato!”, scherzò debolmente Fra’ Anselmo. Le campane avevano preso a suonare mezzora dopo le sette e il frate si rassegnò a far da scorta all’ostinata gentildonna, non tanto perché temesse birbonate da parte dei pazienti, bensì per controllare che lei non collassasse a causa o della stanchezza o di un malore. 

“Bene, giovanotto!”, si rivolse il benedettino a Giorgio Madalo, indicandogli il muro. “Levati la camicia e appoggiati lì con la schiena …”, lo istruì e una volta avutolo tra le mani, Fra’ Anselmo in un’unica mossa secca e decisa gli rimise la spalla al suo posto, strappando allo stradiota un acuto, brevissimo e intenso urlo che svegliò chiunque si fosse addormentato in quella stanza, dai pazienti agli altri infermieri.

“Ti duole molto?”, domandò timidamente Zilio al fratello, sistematosi borbottante sul lettuccio accanto al suo. Teodoro aveva fatto ritorno ai suoi alloggi in contrada San Martino, mentre a Giorgio era stato consigliato, almeno per il resto di quella notte, di rimanere in ospedale, specie dopo aver ingollato una bevanda agli oppiacei onde attutire il dolore alla spalla. Libero inoltre dell’ingombrante presenza del monaco benedettino e spostatasi madona Helena in un’altra ala dell’ospedale (non sia mai che, scoperta la sua identità, lei andasse a riferire al marito e allora sì, che Zilio sarebbe arrivato baccalà dal boia), lo stradiota s’era infine risolto d’affrontare il maggiore, il quale s’era spesso dimostrato più aperto al dialogo rispetto a Teodoro.

“No, guarda … sto godendo come un riccio …”, biascicò Giorgio sia per l’intruglio sia per la naturale stanchezza, massaggiandosi di riflesso l’arto offeso. “E ora serra quella fogna, ché voglio dormire”, si girò sul fianco sano, sbadigliando sonoramente.

Zilio deglutì a disagio, tuttavia insistendo: “Come te la sei procurata?”

Suo fratello aprì un occhio, per poi sospirare pesantemente. Grugnendo infastidito, si portò supino e volse il capo in direzione del minore, rendendosi conto come in effetti egli ancora non sapesse ogni dettaglio di quanto accaduto il giorno prima. “Il tuo capitano”, esordì atono, “aveva disarmato il capitano Theodoros Ralli … e lo stava per strangolare col braccio ... Così gli sono saltato addosso e … e siamo caduti tutti e tre da cavallo …”,  sbadigliò di nuovo, le palpebre pesanti. Quand’ecco, che Giorgio indicò lo zigomo gonfio e spellato e già tendente al blu e giallo. “Ah, dimenticavo … anche questo è cortesia del tuo comandante …”, e rise, manco si fosse trattato di una zuffa tra amici, invece di uno scontro all’ultimo sangue.

“Non ti avrebbe mai ucciso”, gli confessò sincero Zilio, appoggiando una mano sull’addome e fissando infelice il soffitto, dilaniato da quei due fortissimi affetti, verso il suo capitano e l’unica famiglia rimastagli.

“Bah, gli dai troppo credito”.

“Credimi, ti avrebbe solo fatto prigioniero.”

“Grato di avergli rotto le uova nel paniere, allora”, commentò soddisfatto Giorgio, grattandosi la barba sul mento.

“Smettila, non sto scherzando!”, protestò Zilio.

“Manco io”, ribatté secco suo fratello. “Ho promesso alla mia donna e ai nostri pulcini di ritornare vivo e ho ogni intenzione di farlo. Quando finirà questa guerra, accenderò un cero grosso così a questa Madonna di Treviso, dopodiché invierò alla Signoria una petizione per qualche campo da coltivare e vivremo felici. Tutto questo”, e indicò vagamente l’ospedale con un rapido svolazzo della mano, “rimarrà soltanto un brutto ricordo e nulla più.”

Zilio annuì pensoso, realizzando d’un tratto come avesse trascorso gli ultimi sedici anni a combattere su questo o quel fronte, senza tuttavia preoccuparsi di costruire una propria vita al di fuori del campo di battaglia. Era diverso per Giorgio, che s’era sposato giovanissimo e che a Venezia lo attendevano la moglie e una nidiata di figli: la guerra per lui corrispondeva ad una mera parentesi, mica lo scopo principale della sua esistenza. Per questo Zilio e Teodoro s’intendevano meglio (quando non litigavano): nel bene e nel male, avevano in fin dei conti intrapreso le medesime strade.

“Tzé, contadino di nome e di fatto!”, lo sfotté giocosamente Zilio in un arguto calembour. [7]

“Taci e dormi, o ti do un pugno in testa che ti svegli l’anno prossimo”, borbottò Giorgio, fingendosi offeso. D’un tratto assunse però un’espressione grave. “Torna a casa da noi, Zilio. Ti prego”, lo scongiurò apprensivo. “Non devi nulla all’Imperatore, né al Re di Francia. Loro non c’erano quando i Turchi hanno conquistato le nostre città, rendendoci esuli e raminghi. Non ci hanno accolto, non ci hanno aiutato. Solo la Signoria ed è per riconoscenza verso di essa, ch’io combatto.”

“Siamo stradioti, mercenari. Non è nostro uso servire il miglior offerente?”

“Tu e Theodoros, forse. Io no”, sentenziò altero Giorgio, sistemandosi meglio il cuscino sotto il capo e chiudendo caparbiamente gli occhi, segno che la conversazione sul serio terminava lì, senza possibilità d’appello.

Zilio, al contrario, pareva di tutt’altro avviso e non demorse. Sforzandosi onde porsi seduto, provò ad attirare l’attenzione del maggiore, sennonché la porta dello stanzone s’aprì piuttosto rumorosamente, annunciando il concitato arrivo di due soldati. Madalo percepì del sudore freddo colargli lungo la schiena: che fossero venuti per condurlo alle prigioni e lì interrogarlo? Anche suo fratello s’era posto sull’attenti, rigido e immobile, temendo la cattiva notizia.

Invece, i due uomini li ignorarono completamente, passando oltre i loro letti. Sbuffavano ed imprecavano, o meglio, il milite dietro al primo non cessava di lagnarsi con quello che apriva la fila, asserendo come lo avesse inguaiato. Allungando il collo, i fratelli scoprirono che stavano trasportando qualcosa – o qualcuno? – usando un mantello a mo’ di lettiga improvvisata.

“Che accade?”, ruppe Giorgio ogni indugio, preferendo conoscere le cose direttamente dall’altrui bocca, al posto di dedurle.

Adagiato su di un letto vuoto il pesante fardello, uno dei due soldati gli andò incontro, mentre il secondo correva alla ricerca di un monaco infermiere. “Che accade?”, ripeté snervato quegli, stringendo la bocca in una linea dura. “Accade che se lo sanno, ci impiccano!”

“Ma chi?”, insistette lo stradiota, al limite dello sconcerto.

“Era il mio turno di ronda a Porta San Tomaso, d’accordo?”, ringhiò la sentinella, cambiando peso nervosamente da una gamba all’altra. “Era passata … che so … al massimo mezzora dopo le otto e me ne stavo lì tranquillo, quando …” e aspirò violentemente l’aria, indicando il compagno che ritornava con appresso Fra’ Mauro, uno dei canonici regolari di Santa Maria Maggiore trasferitosi all’ospedale assieme ai suoi confratelli. “Quando vedo ‘sto sempio che si dirige alla portella. Io ovviamente lo fermo e gli chiedo: Zò, Marchiò, razza de bauco, cossa fastu? E st’altro: Mi vago a verzer ea portela. Al che gli ricordo gli ordini del sior Provedador: non si apre a nessuno di notte, specie a ‘sta ora, senza speciale autorizzazione.  Ma la patrona a me g’ha dito de verzer ea portela!, insiste e tanto ha detto e tanto ha fatto, che l’ho dovuto seguire fin giù alla portella. E una volta apertala …”, si passò una mano sulla bocca, cangiando la sua espressione da indignata a confusa, quasi intimorita. “Abbiamo trovato ‘sto desgrasià, mezzo morto, lì per terra … Io … io allora gli domando: Ma ‘sta siora patrona, chi xéla? Indove tea g’ha vista?

“Co’elo!”, s’intromise Marchiò, indicando spazientito il fagotto sul letto. “Gelmo, te l’ho ripetuto mille volte: ho visto in due avvicinarsi alla Porta! E uno di questi era una donna, che m’ha ordinato d’aprire la portella!”

Giorgio, Zilio e Fra’ Mauro si guardarono l’uno l’altro sconvolti, neanche stessero assistendo alle farneticazioni di un pazzo. E medesimo parere lo condivideva Gelmo, il quale esplose frustrato: “E tu spiegami com’accidenti sei riuscito a sentire una donna dalla caminada! Dall’alto! Ancora-ancora se si fosse messa a gridare, ma allora l’avrebbe sentita l’intera nostra guarnigione! E invece l’hai sentita solo tu! Ti rendi conto, testa- da-bigoli, che abbiamo disobbedito al sior Provedador? Io non voglio, per colpa tua e delle tue idiozie, andare a fare compagnia al caporale di Mathio da Zara!”

“Te lo giuro sulla tomba di mia madre, che non ti sto mentendo! L’ho udita come sto ascoltando te in questo momento!”, divenne Marchiò rosso in volto, stringendo il pugno. “E se lo spieghiamo al sior Provedador, sono sicuro che capirà e …”

“… e forse sarebbe meglio, se voi due tornaste a Porta San Tomaso?”, tentò Fra’ Mauro di calmare gli animi, interponendosi tra i due litiganti, anche per evitare che svegliassero e coinvolgessero il resto dei pazienti, creando più confusione del necessario. “Il connestabile sa che siete qui?”

Gelmo confermò: “Sier Ludovico Querini ci ha dato il permesso di venire: ha pensato probabilmente trattarsi di un nostro commilitone svenuto per via di questa febbre …”, glissò abile sui dettagli. Resosi infatti conto del pasticcio combinato, lui e il suo complice avevano prontamente coperto quel poveretto con un mantello, in modo da nasconderlo dalle occhiate curiose ed evitare di rispondere a domande compromettenti. La semioscurità della porta d’ingresso aveva poi provveduto al resto.

“Perfetto!”, batté le mani il canonico regolare, un poco rincuorato. “Adesso però filate via, prima che s’insospettisca. A lui baderò io”, li esortò bonariamente, accompagnando Marchiò e Gelmo fino alla porta. Dopodiché ritornò al letto di colui ch’aveva inconsapevolmente creato tutto quello scompiglio. “Vediamo un po’ …”, mormorò tra sé e sé Fra’ Mauro, scostando delicatamente il mantello. Subito un pungente odore di rose gli invase le nari, stordendolo lievemente e costringendolo a strabuzzare gli occhi, incapace di conciliare quanto vedeva e quanto annusava.

“Che storia bislacca!”, confidava nel frattanto Zilio a suo fratello, il quale si ritrovava d’accordissimo. “Forse si salveranno dalla forca, ma non di certo da una solenne lavata di capo!”

“Fra’ Mauro, chi è?”

Il frate sobbalzò impercettibilmente dalla sorpresa, voltandosi poi verso i due fratelli Madalo. “E’ un giovane uomo … bruno … poareto, è ridotto davvero male …”, sospirò mestamente, scorrendo le dita sui piedi ricoperti di piaghe sanguinanti e risalendo lungo le caviglie spellate, le gambe piene di graffi, di croste, di punture d’insetto, nonché d’aloni di fango secco e fresco.

Fra’ Mauro tastò l’addome incavato e giallognolo, le costole sporgenti, storcendo la bocca dinanzi ai lividi sparsi, alla tenera cicatrice di una ferita recente, fino a giungere al volto lasco del paziente, pallidissimo, sudato, dalla barba incolta, ricoperto anch’esso d’escoriazioni ed ecchimosi. Colto da una grande pena nei suoi confronti, il canonico regolare gli accarezzò teneramente il capo, infischiandosene dei capelli aggrovigliati e sporchi. Ad averlo commosso, infatti, non erano state solo le condizioni fisiche di quel poveretto, bensì quegli orridi strumenti a prova di quanto doveva aver sofferto.

“Penso sia un prigioniero … di sicuro scappato, ma … ma da dove?”, cogitò ad alta voce, sollevando perplesso le catene ch’avvolgevano quel corpo sfinito e martoriato, sciolte abbastanza da permettergli maggiore libertà di movimento, ma in ogni caso pesanti ed ingombranti. “Da qualche posto vicino, perché con questi ceppi … con questa palla ... non può aver camminato a lungo né giungere da lontano …”

“Volete che vada a informare il Provveditore?”, s’offrì volontario Giorgio, alzandosi dal letto. Dalla finestra s’udiva intanto il coro delle campane annunciare le dieci del mattino (4 di mattina, ndr.)

“Che differenza vuoi che faccia? Fra due ore si sveglierà e lo verrà a sapere comunque”, scosse il capo Fra’ Mauro, arrotolandosi le maniche del saio. “Piuttosto, vieni qui ad aiutarmi a distrigare questa matassa di catene. Il ragazzo ha più bisogno delle nostre cure, che il sior Provedador d’apprendere del suo arrivo.”

Indossando la casacca e il sonno ormai volato per lidi oscuri, Giorgio ben volentieri accettò l’incarico del monaco infermiere. “O Panagia Despoina!”, fischiò impressionato, spalancando gli occhi. “Mai visto uno incatenato così, che diavolo stava pensando il suo carceriere?! E poi cos’è quest’odore di rose?”

“Mi vuoi aiutare o preferisci filosofeggiare sul senso del mondo?”

Lo stradiota si chetò all’istante alla stregua d’un fanciullino rimproverato dal proprio magister, comprendendo infine perché il canonico regolare e Fra’ Anselmo avessero stretto una pronta amicizia.

Con delicata discrezione, i due uomini sfilarono via uno ad uno gli strumenti di prigionia dal corpo del fuggitivo, appoggiandoli pianissimo per terra onde non destarlo. E sempre usando la massima accortezza, Fra’ Mauro lo coprì di una calda coperta di lana fino sotto il mento. Nel sonno il ragazzo si rannicchiò in posizione fetale sul fianco, cacciando fuori un grosso sospiro. “Lasciamolo dormire tranquillo”, sussurrò compiaciuto il frate, ponendo una mano sulla spalla di Giorgio a mo’ di ringraziamento. “Più tardi avremo tempo e modo d’apprendere la sua storia.”

Madalo reclinò il capo, seguitando a studiare incuriosito i lineamenti del giovane, i quali gli apparivano vagamente familiari: era certo infatti d’averli già scorti da qualche parte, peccato che al momento gli sfuggisse il raffronto esatto …

“Oggi è domenica, Fra’ Mauro”, si sovvenne all’improvviso Giorgio e all’occhiata interdetta del religioso, si spiegò meglio: “Riacquistare la libertà, dopo la prigionia, è come risorgere. Si torna a vivere. Me l’ha confessato mio fratello Teodoro, quand’è scappato dal campo nemico …” e ridacchiò impacciato, grattandosi il collo. “Di conseguenza stavo pensando; di domenica c’è stata la Resurrezione, no?  Allora dev’esser così, nascere una seconda volta … Bah! Non fateci caso! Pensieri miei”, si ricompose lo stradiota dalle sue cogitazioni a voce alta, tossicchiando imbarazzato. Farfugliò in fretta una scusa per congedarsi, ritornandosene assai porporino al proprio giaciglio ed ignorando perfino le domande rivoltegli dal fratello Zilio.

Fra’ Mauro lo seguì con lo sguardo, gli angoli della bocca piegati all’insù in un sorriso indulgente. Non avendo null’altro da fare, si portò uno sgabello al capezzale del suo giovane paziente ed estrasse il rosario, così da spendere in preghiera quelle poche ore rimastegli prima dell’alba.

Eppure, la mente del frate non riusciva ad astrarsi, seguitando egli a fissare la figuretta sotto le coperte e a chiedersi chi fosse costui, da dove fuggisse nonché chi lo avesse aiutato, accompagnandolo fino a Porta San Tomaso e addirittura persuadendo una sentinella a farsi aprire nel cuore della notte. Dove si trovava, ora, questa misteriosa compagna di viaggio? Nessuna delle guardie aveva più accennato alla sua presenza, dopo l’apertura della portella.

E soprattutto, il canonico regolare non capiva perché mai questo ragazzo olezzasse più d’un giardino di rose a maggio, quando neppure gli accattoni si presentavano tanto lerci quanto lui.

“Invero oggi è domenica”, asserì piano Fra’ Mauro, riponendo il rosario alla cintola non appena i primi timidi raggi mattutini s’infiltrarono in punta dei piedi dalle finestre, punzecchiando dispettosi le ciglia degli ostinati dormienti. Colto da un subitaneo impulso, il religioso accettò quella carezza di luce sul volto e, congiunte le mani, recitò un passo del Salmo 29, ritenendolo il più adeguato a quella straordinaria situazione: “Signore, a te ho gridato e mi hai guarito. Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi,  mi hai dato vita perché  non scendessi nella tomba. Alla sera sopraggiunge il pianto e al mattino, ecco la gioia. Ascolta, Signore, abbi misericordia, Signore, vieni in mio aiuto. Hai mutato il mio lamento in danza, Signore, mio Dio, ti loderò per sempre.

Terminata la sua orazione, il canonico regolare incominciò ad elencare mentalmente le mansioni della giornata, in primis la colazione da distribuire. Una morbida quiete indugiava nello stanzone, mentre il sonno ancora avvolgeva ciascuno degli astanti, pellegrini in quel mondo inaccessibile e personale, laddove traevano quel necessario attimo di respiro, prima d’immergersi nuovamente nell’oceano delle vicissitudini umane.

A Fra’ Mauro fece assai peccato doverli svegliare, sicché non s’affrettò a scendere nelle cucine, rimanendo lì a vegliare i suoi pazienti per un’altra mezzoretta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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I come, perché e quando nel prossimo capitolo! ;-)

Infinite grazie a Sagitta72 e a Semperinfelix per i loro consigli!

Alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] Il 9 marzo del 1510 vi fu un’apparizione della Madonna a Motta di Livenza, dove venne puntualmente costruito un santuario a Lei dedicato, a seguito anche dei prodigi che confermarono la veridicità della sopracitata apparizione e tutt’oggi fiorente meta di pellegrinaggi.

Il veggente era un contadino di nome Giovanni Cigana, il quale riferì di aver visto quella mattina, dinanzi  al capitello (cappella) della Madonna col Bambino dove lui soleva pregare, una bellissima giovinetta biancovestita. Rivelatasi come la Madre di Dio, Ella gli chiese di digiunare con la famiglia per  tre sabati consecutivi e di predicare il digiuno e la penitenza a tutta la gente di Motta e delle città e paesi di tutta la Marca Trevisana.  Coloro che avessero digiunato con vero pentimento, avrebbero ottenuto misericordia e perdono dal Signore, “sdegnato per i troppi peccati del popolo”, come gli disse la Madonna stessa.

Quanto al “mondo travagliato e puzzolente”, l’ho ripreso dal testamento dello stesso Marco Miani, quando questi suggerì alla figlia Cristina di farsi monaca o di vivere da pizzocchera, rifiutando il mondo. Poi dopo cambiò idea e le diede la dote per sposarsi.

[2] Narra il Sanudo (20.06.1509): “È da saper, eri sera achadete, cossa notanda, che nel borgo di San Trovaxo sta una povera dona, vedoa, con 3 fioli, dorme sulla paja, et filla lanna et nulla ha al mondo, par che a hore 1½ di note batesse a la sua porta una femena; et questa, meravegliata chi bateva a quella horra, dimandato chi fosse, disse: Apri. Et aperta, intrò in caxa, non havia luse, ma li paresse fusse una dona, vestita di biancho, la qual li disse: Va dal piovan et dili, che ’l faza precession fin el dì di San Zuanne (San Giovanni Battista, cioè il 24 giugno) con la madona di Ogni Santi, che questa terra haverà vitoria contra i soi inimici, dicendo: Cussì ho fato far a la Madona di San Zuane Pollo. La qual femena disse: Chome volè vu, che vada, che i non me crederà, e non si vede? E lei disse: Va pur via; e paresse la fosse spenta fuora, et che fosse torze accese. Andò dal piovan, e la dona rimase in caxa, et li disse la cossa. Lo qual ordinò la venisse la matina; et tornata a caxa, la dona era partita. Et fo fato la precession, comenzata questa matina.

[3] Dal Quarto Libro dei Miracoli di Santa Maria Maggiore: (1511) Come una putina morta resuscitò. Stendo morta una putina di uno patricio veneto, de anni quatro, havendo fede, et gran devotione in questa gloriosa immagine, viene de Venetia qui, co’ la sua consorte, et presentato la putina, sula altare, com lacrime pregano la Madonna che la facesse revivere. Et subito la putina resuscitò già molti giorni morta, et domandò da mangiare, li fu dato dele solete, et sul’altar mangiò: et cussì come piangendo veneno a Treviso co’ gaudio ritornorno alla patria sua Veneta, co’ la putina viva.

[4] A seguito della cacciata dei Caminesi e della restaurazione del libero comune, Treviso, oltre ad aggiungere nel 1313 l’immagine della Madonna al proprio gonfalone, negli statuti del 1314 aveva ribadito l’atto di vassallaggio alla Madonna, che il Podestà ripeteva pubblicamente a Santa Maria Maggiore il giorno dell’Assunta.

In questo modo, essendo la Vergine la Signora di Treviso, nessuna famiglia nobile poteva più aspirare ad instaurare una signoria, poiché sarebbe stata un’usurpazione sacrilega. Ciò non impedì purtroppo a Treviso di finire sotto il dominio dei Conti di Gorizia, dei Tempesta, degli Scaligeri, del Duca d’Austria e dei Carraresi: tuttavia, tali signorie ebbero vita assai breve (quasi a monito?) e di fatti la Repubblica di Venezia, cui Treviso s’era dedicata spontaneamente, ben si guardò dal contestare questo vassallaggio, anzi, conservò la tradizione di far recitare al Podestà in carica il dì dell’Assunta l’atto di sottomissione alla Madonna, donandoLe il pallio di seta e molte candele a mo’ d’offerta.

[5] (traduzione approssimativa) Oh Vergine Maria Despina, assieme al tuo Figlio Unigenito, vienici in soccorso e benedicici.

[6] Koliva = un piatto di grano e miele con una candela accesa al centro, per riprendere la parabola del chicco di grano dal Vangelo di San Giovanni (riferimento anche alla ciclicità della vita.)

[7] Giorgio (Georgios in greco) significa appunto “lavoratore della terra”, cioè contadino o agricoltore.



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Capitolo 35
*** Capitolo Trentesimo, parte prima: 28 settembre 1511 ***


Ecco qua il ventinovesimo capitolo!

Ulteriori note si trovano a fine pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.

Avvertimenti: altre peculiarità.

Un ringraziamento ai miei lettori e ai miei recensori: Alessandroago_94, Semperinfelix,  Sagitta72 e Vanya Imaryek. Grazie a chi ha messo questa storia tra le seguite, preferite e ricordate.

Vi auguro una buona lettura,

H.

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PARTE TERZA:

Treviso

(28 settembre – 20 ottobre 1511)

 

 

 

 

Capitolo Trentesimo

Domenica 28 settembre 1511

(prima parte)

 

 

 

 

 

Aveva incominciato il suo cammino determinato, sicuro e confidando nella presenza della dama fuori dal padiglione del suo carceriere, il quale se ne stava seduto immobile e reclinato in avanti, quasi l’avesse all’improvviso colto la morte.

Non s’era attardato a meditare su tale stranezza, spinto dall’urgenza di fuggire e di ricongiungersi alla sua salvatrice.

Che però non trovò ad attenderlo.

Ogni fiammella di coraggio gli si spense in cuore, righermendolo il gelido panico che fin a quel momento l’aveva tartassato; circospetto avanzò di qualche passo giusto per nascondersi dietro qualche carro, tenda, un qualsiasi angolo che potesse offrirgli protezione dalle occhiate vigili dei soldati intenti a smontare l’accampamento per l’imminente partenza.

Studiò il campo e ogni singolo movimento attorno a sé, sperando nell’altrui distrazione o di un punto poco sorvegliato dove sgattaiolare via indisturbato. La saliva gli si seccò in gola, percepiva lo stomaco contrarsi ogniqualvolta evitava, per il rotto della cuffia, di finire scoperto da una sentinella. Spuntavano militi da ogni angolo, parevano possedere mille occhi e mille orecchie, come i serpenti che s’accorgono della preda alla minima sua movenza.

Non esisteva via d’uscita. Erano dappertutto. Non ce l’avrebbe mai fatta, sicuramente l’avrebbero catturato e ricondotto davanti al suo carceriere.

E una volta lì … lo avrebbe … lo avrebbe … nel peggiore dei modi … delle umiliazioni … delle torture …

Tremò da capo a piedi, ricacciando indietro le lacrime di paura e frustrazione: a che pro sciogliersi dalle sue catene, se poi doveva rimanere intrappolato nell’accampamento? Un ultimo istante di gioia e speranza, prima della sua definitiva caduta nell’abisso della disperazione?

La strada, la strada! Dov’era la strada verso la libertà?

Non la trovava, non la conosceva, smarrito e solo, circondato da nemici.

S’accoccolò per terra, le ginocchia al petto, dondolandosi sempre più in affanno avanti e indietro, imponendosi di recuperare la fredda calma e d’elaborare una strategia di fuga. Peccato che la sua mente non cooperasse, ostaggio degli affilati artigli del terrore.

La strada! La strada! Dov’è? dov’è?

“Concentrati su di Lei”, udì all’improvviso e nitidamente la voce di Padre, che credeva averlo abbandonato, invece tramite i suoi insegnamenti continuava a vivere in lui, a guidarlo e proteggerlo. “Odigitria, dal greco, vuol dire: Colei che conduce e che mostra la direzione. Lei ti guiderà sulla strada della guarigione, oggi, ma un domani, quando ti sentirai perduto o non saprai quale cammino intraprendere, pensa a Lei e a Lei soltanto e non ti perderai mai.”

Disperato, in cerca di un segno, La invocò nuovamente. Vieni ancora in mio sostegno, indicami la strada … indicami …

Una mano gli si posò sulla spalla, afferrandolo e costringendolo in piedi …

Hironimo gridò angosciato, mulinando esagitato le braccia sia per difendersi sia per scacciar via chi stava tentando di tenerlo fermo per le spalle, chiamandolo ad alta voce e pregandolo di tranquillizzarsi, ch’era al sicuro.

In questo scontro da gatti i due indugiarono per un po’, finché il giovane Miani esaurì le poche energie accumulate durante il sonno, cedendo  sfinito e in attesa del suo destino, il quale possedeva il volto benevolo e preoccupato del monaco sedutogli accanto.

Non apparteneva all’ordine dei benedettini – constatò il patrizio, già di questo sentendosi un poco sollevato – bensì o di un agostiniano o di un canonico regolare. Il che significava che non si trovava più a Nervesa (e qua Hironimo si schiaffeggiò mentalmente: ovvio, che non era Nervesa) ed era capitato in un altro convento o monastero. Ma dove? Non riconosceva l’ambiente, o meglio, intuiva trattarsi di un’infermeria o comunque dove giacevano i malati in degenza, ma non il luogo esatto.

Dov’era finito? Dove l’avevano condotto? Possedeva della notte scorsa ricordi così confusi …

Una gentile presa dietro la nuca lo distolse dai suoi scoordinati pensieri, conducendolo in posizione seduta. L’orlo d’un bicchiere s’appoggiò alle sue labbra e il fresco liquido di un’acqua finalmente salubre e pulita s’infilò nella sua bocca, ammorbidendo la secchezza in gola.

“Piano, piano … bevi piano”, l’avvertiva il religioso, in una curiosa prova di forza tra i due, lui che tratteneva l’angolazione del bicchiere acciocché la bevanda scorresse lentamente; Hironimo, al contrario, che insisteva su di una sua accelerazione. Inghiottì a rumorose sorsate, avido e assetato, dimenticandosi sia di respirare sia le piccole dolorose contrazioni dell’esofago fuori allenamento, finché qualche goccia d’acqua sfuggì al suo controllo e scese nella trachea, provocandogli un improvviso colpo di tosse e conseguenti sputacchi di liquido in eccesso. “Ecco … che ti dicevo?”, roteò gli occhi il monaco, battendogli delicatamente dietro la schiena.

“A-acqua … acqua …”, gracchiò ansimando il giovane Miani, passando la lingua sugli angoli umidi della bocca, asciugandoli. “Acqua …?”

L’uomo annuì. “D’accordo, te ne porto ancora. Basta che mi prometti di berla senza fretta, sì?” e si alzò per riempire la brocca vuota, uscendo momentaneamente dalla stanza.

Così facendo, il religioso aveva privato Hironimo di uno scudo umano, rendendolo visibile ai pazienti in letto, che il patrizio s’affrettò a squadrare uno alla volta, alla ricerca d’indizi sulla sua nuova ubicazione. Quand’ecco, che il suo sguardo s’incrociò con uno a lui assai noto e non in circostanze felici. La sua mano corse istintivamente alla ricerca di qualcosa con cui difendersi, raccogliendo solo il cuscino che comunque afferrò.

“Tu!”, esclamò Zilio Madalo al limite dello sconcerto, gli occhi comicamente tanto sgranati da far concorrenza ad un paio di uova all’occhio di bue. “Che diavolo ci fai qui?”

Ad Hironimo, altrettanto sorpreso, risultò arduo formulare una risposta adeguata a quella domanda legittima, ignorando lui per primo il luogo e lo schieramento dov’era incappato. Il suo cervello, nel frattanto, formulava imbizzarrito mille teorie.

“Sei vivo …”, dichiarò infine il giovane, sbattendo disorientato le ciglia, neanche avesse le traveggole. “Tu sei vivo”, ripeté incredulo, mentre una rabbia montante gli ribolliva in petto: ogni sevizia subita per mano di Mercurio Bua, negli ultimi giorni, era figlia della collera del greco-albanese, il quale aveva creduto, erroneamente, morto il suo luogotenente per colpa (indiretta) della fuga d’Hironimo. Vederselo dunque lì, davanti a sé, vivo e vegeto anche se ridotto maluccio, la giudicò la più ingiusta delle beffe.

Simili ragionamenti attraversavano la mente dello stradiota, che contemplava tramite il Miani il fallimento del suo capitano, ogni suo sforzo per tenerlo presso di sé vanificati da una fuga che lui primo aveva sempre ritenuto impossibile.

“E tu non puoi essere qui!”, ringhiò Zilio, appoggiando una gamba per terra. Immediatamente, Hironimo levò in alto il cuscino, pronto alla pugna. “Tu non devi essere qui! Come sei scappato? Che cosa ne hai fatto del mio capitano?!”, poiché nella sua testa egli era giunto all’ovvia conclusione che, se l’ex-castellano si trovava lì, di sicuro Mercurio Bua o era stato ucciso o in ogni modo attaccato per privarlo del suo ostaggio.

“Niente, s’è soltanto addormentato, il brocco!”, gli disse la nuda e cruda verità Hironimo, ossia ciò che si ricordava della notte precedente.

Peccato che Zilio non la gradì. “Schifoso rospo di palude, io ti …!” e avanzò furioso verso il giovane, che gli tirò prontamente il cuscino contro, colpendolo alla spalla ferita. Al che lo stradiota afferrò uno sgabello e s’apprestò a spaccarlo in testa ad Hironimo, che si schermò con le braccia e …

“Ciò! Siete omeni o puteli?”, ruggì il monaco infermiere, ritornato dalla pompa dell’acqua potabile e osservando stupefatto e deluso i due contendenti. “Vi paiono atteggiamenti consoni alla vostra età?”, rincarò la dose severo. “Di domenica, poi, giorno di Domine Iddio!”

“Ha incominciato lui!”, indicò petulante Zilio il suo avversario, che, dopo avergli elargito una solenne linguaccia, si discolpò in fretta:

“Io non gli ho detto niente d’offensivo, m’ha attaccato così, senza motivo!”

Stringendo le labbra in una linea dura, il religioso si portò dubbioso accanto a Giorgio Madalo. “Chi dei due afferma il vero?”, lo interrogò e questi replicò salomonicamente:

“Ambedue e nessuno dei due, Fra’ Mauro. Mio fratello gli ha parlato da zaffo, mentre questo qua ha ingiuriato il suo capitano. Non che ci sia nulla di male in ciò, tuttavia mio fratello lo adora, di conseguenza l’ha presa sul personale.”

Il canonico regolare sospirò snervato. “E perché mai avrebbe dovuto insultare il capitano di tuo fratello?”

“Da quanto sto capendo”, asserì meditabondo Giorgio, “costui”, e indicò Hironimo, “dev’esser stato un prigioniero del signor Mercurio, ch’è riuscito a scappargli da sotto il naso, se non l’ha ammazzato nel processo.”

“Se l’ha fatto, lo squarto a mani nude!”, fu la macabra promessa di Zilio, nel frattanto che Fra’ Mauro, intuendo l’antifona, lo trascinava lontano dal giovane Miani, il quale protestava indignato che lui aveva visto il condottiere orizzontale in quanto addormentato, mica morto.

“Calmati, Oreste, siamo in guerra: morir uccisi rientra nell’equazione!”, lo rimbeccò scocciato Giorgio.

“Non a tradimento!”, digrignò i denti Zilio, posto forzatamente seduto da uno sbuffante Fra’ Mauro.

“Sì, perché io in battaglia t’avverto, prima d’aprirti le budella!”, lo sbeffeggiò il maggiore, provocando un rictus nel bizzoso minore, prontamente bloccato dal monaco infermiere.

“Ciò, basta voi due!”, brontolò quegli,  sfinito da tante bambinate. “Invece, raccontatemi un po’ questa storia della fuga dal capitano Mercurio Bua!” figurarsi se l’uomo non conosceva bene quel nome, pronunciato col medesimo timore riservato al Barababao. “Incominciando da te”, incalzò Hironimo che, riprendendo possesso del cuscino gentilmente raccoltogli da Fra’ Mauro, cercò di riassumere in maniera semplice ed esauriente l’intera faccenda:

“Mi chiamo Hironimo Miani, del fu magnifico missier Anzolo Miani da Carità-San Vidal. Sono un patrizio veneziano e castellano di Quero”, e deglutì, vergognoso e furente contro se stesso al ricordo della sua sconfitta militare. “Per un mese sono stato prigioniero del capitano Mercurio Bua Spata, da cui, come vedete, sono riuscito a fuggire la notte scorsa”, disse, glissando su di essa, fintanto che la memoria non gli si fosse raddrizzata, permettendogli di porre in chiaro ordine cronologico eventi e dinamiche.

Intanto, nelle cucine, Fra’ Anselmo combatteva la sua personale battaglia, onde impedire che Thomà ne combinasse l’ennesima delle sue: il giorno scorso, infatti, il capo-bombardiere Orlando da Bergamo era venuto all’Ospedale a riportargli indietro un imbronciato fantolino, spiegando al monaco come questi avesse approcciato i suoi uomini, domandando se avessero bisogno di qualcuno per mescere le polveri da sparo.

“Perché non posso aiutarvi? Odio quanto voi i Tedeschi e i Francesi e conosco bene il mestiere!”

“Stare tra i soldati nelle casematte non è il posto più adatto ad un bambino!”

“Balle di musso! Io ho servito a Castel Novo di Quer e ho condiviso il tetto con uomini, donne e bestie senza alcun problema!”

“Ugualmente non li servi, hanno già i loro aiutanti.”

“Allora prendetemi al vostro servizio!”

“No, in campanile non ci stai.”

“Perché no?”

“Perché mi saresti d’intralcio.”

“Non avete spazio per me, ma per ingrumarvi con la Zanze sì, eh?”

Fra’ Anselmo avvertì un certo calore avvampargli le gote al ricordo di tal prosaico litigio tra il bambino e il bergamasco, conclusosi con quest’ultimo che tirava le orecchie a Thomà, apostrofandolo irritato e chiamandolo birba, canaglia, manigoldo. Orecchie, a giudicare dal rossore, che ancora bruciavano all’indispettito fanciullo, concentrato in quel momento a girare la polenta, borbottando maledizioni e improperi in un misto di veneto-feltrino e ladino.

“Suvvia, mescere la farina di polenta non sarà entusiasmante quanto le polveri da sparo, ma almeno essa produce un pasto, che aiuterà i nostri ammalati a guarire presto e tornare a combattere. Anche se indirettamente, lo stesso ti renderai utile.”

Thomà gracidò un gutturale e profondo verso scettico.

“Ho promesso che avrei vegliato su di te, proteggendoti e assicurandomi che tu stessi al sicuro”, gli ricordò paziente il benedettino. “Fai torto al sacrificio del tuo padrone, arrischiando così sventatamente la tua vita.”

Il piccoletto s’arrestò brusco, tirando su col naso e guardando battagliero Fra’ Anselmo. “Punto perché xéo ancor prexon dil Bua, che mi vojo combatar: cussì quel cancaro lo gh’avarà da liberar, se lo spediamo a la malhorra!”

Il monaco tentò di controbattere quell’ostinata logica, sennonché Fra’ Mauro lo interruppe, scendendo a prendere la colazione per i suoi ammalati. “Sei in ritardo”, fu lieto l’uomo di cambiar discorso, nel frattempo che una conversa scostava Thomà in modo da levare la pentola dal fuoco e rovesciarla su di un panno steso previamente sul lungo tavolo da lavoro. Un’altra delle conseguenze della parata dimostrativa di La Palice era che gli oblati e i novizi sia provenienti dalla città sia tra i fuggitivi fossero stati precettati a montar di ronda assieme ai soldati, rimpiazzati dunque dalle converse e le suore meno schizzinose.

“Mea culpa”, ammise contrito Fra’ Mauro. “Purtroppo, mi sono ritrovato a separare due litiganti, che saranno pur ammalati, ma abbastanza pieni d’energie per menarsi …”, si lagnò, scroccandosi il capo indolenzito per la notte trascorsa sullo scomodo sgabello.

“Beati i costruttori di pace”, citò la conversa con ironica enfasi, intromettendosi, mentre dava una forma di cupola alla polenta con la punta del batocchio bagnato in acqua fredda. Thomà, in punta dei piedi, dopo aver immerso le mani sempre nell’acqua fredda, l’aiutava modellandola alla base.

“E’ pronta?”, tossicchiò il canonico regolare, ignorando l’espressione divertita di Fra’ Anselmo.

“Se mi aiutassi …”, brontolò sottovoce le donna, concentrandosi sul suo lavoro. “Bon da niente”, aggiunse e Thomà sogghignò d’accordissimo.

Fra’ Mauro, approfittando della distrazione di lei, si guardò sospettoso intorno, accostandosi poi al benedettino con fare cospiratore. “Appena avrò dato da mangiare a quelle belve, mi recherò subito dal sior Provedador: prima lo saprà, meglio sarà per noi.”

“Perché? Cos’è accaduto?”, inquisì perplesso Fra’ Anselmo, arcuando sospettoso il sopracciglio e conducendolo in un angolo più appartato. “Cos’hai combinato?”, corresse la domanda, intuendo l’imbroglio nel quale il religioso s’era ritrovato suo malgrado invischiato.

“Ebbene”, fissò contrito Fra’ Mauro i suoi piedi, “stamattina s’è aggiunto un … un paziente in più … e …”

“E …?”, pendeva il benedettino dalle sue labbra, spronandolo a non cincischiare e ad arrivare al dunque. Thomà, dal canto suo, s’era allontanato in punta dei piedi dalla conversa e origliava sfacciato, smettendo quasi di respirare, le orecchie drizzate a guisa di gatto.

“Avrei forse dovuto avvertire immediatamente il sior Provedador, però … Poareto, era giunto così malmesso e … e m’ha fatto pecà doverlo svegliare, anche perché, insomma, a quell’ora di sicuro il missier Zuam Paulo se ne stava dormendo e non mi pareva il caso di svegliarlo …”

“Ciò, stringi!”

“E niente! Ho scoperto che il nostro paziente non solo è un fuggitivo di quel barbaro di Mercurio Bua, ma addirittura il castellano della fortezza conquistata il mese scorso!”, gli rivelò Fra’ Mauro tra l’eccitato e l’apprensivo, strabuzzando gli occhi dinanzi all’espressione sconvolta dell’altro religioso.

“Me-Mercurio Bua? Mese scorso?”, balbettò stralunato Fra’ Anselmo, passandosi una mano sulla bocca asciutta e sulla barba pepe e sale. Vacillò indietro di un passo, rischiando così di pestare i piedi a Thomà, che rinculò anch’egli, finendo contro il muro. “Ne sei sicuro?”, esigette conferma, avvertendo la testa divenirgli leggera.

“Ovvio che sì, me l’ha raccontato lui stesso”, confermò Fra’ Mauro energicamente, nel suo intimo contento d’essere portatore di tale novità. “Il castellano. Sier Hironimo Miani.”

In un attimo, due reazioni contrastanti si svolsero sotto lo sguardo attonito del povero frate: la prima, in cui si vide spintonato via da Thomà che scattò a guisa di lepre verso l’uscita della cucina; la seconda, in cui dovette sorreggere un Fra’ Anselmo leggermente instabile sulle sue gambe, il tutto mentre la conversa li fissava disorientata.

“Fratello, che vi succede? Vi sentite male? Non sarà la febbre?”

“Oh, Misericordia Divina …”, si portò la mano al cuore l’uomo, accettando il bicchiere d’acqua dalla solerte donna, inginocchiatasi davanti a lui. “Quel … quel volpone ce l’ha fatta …”

“Cosa …?”

Sennonché, un impaziente Thomà lo distolse dai suoi confusi pensieri, tirandolo poco educatamente per il saio. “Ndove xélo? El mio patron, indove teo gh’ha messo?”, insistette, battendo nervoso il piede per terra. “Sto hospeal xé massa grando!”, fu l’unica spiegazione di cui lo degnò. “Mo’ via, vecio! Resussita, no me vardare sì inbaucato!”

E notando Fra’ Mauro totalmente imbambolato, Fra’ Anselmo si ripigliò dal suo incantamento e prese in mano la situazione e con essa il braccio del fantolino, dirigendosi a grosse falcate laddove sospettava trovarsi il patrizio.

“No! No!”, li corresse finalmente il canonico regolare, sbracciando mentre li inseguiva. “Dall’altra parte! Dall’altra!”

“Ma … e la polenta non ve la prendete?”, rimase interdetta la conversa, lì col tagliere in mano in mezzo alla cucina, per poi sbuffare e correre a sua volta dietro a quegli sciocchi invasati.

Sicché, entrando per l’ingresso principale dell’Ospedale dopo la Messa mattutina e domenicale, le madone Maria Malipiero Gradenigo ed Helena Spandolin Miani e le loro fantesche osservarono sbalordite la curiosa processione ch’attraversa in fretta e furia il cortile interno, con Thomà aprifila diretto da Fra’ Mauro che da dietro gli urlava le indicazioni, seguiti da Fra’ Anselmo che teneva la mano presumibilmente sulla milza e la conversa che li seguiva reggendo in equilibrio precario la polenta.

“Cos’è tutto questo trambusto?”, protestò indignata madona Maria, la cui bocca non riusciva a chiudersi dallo stupore e sconcerto. “Che razza di comportamenti sono questi? Dove si credono di essere? In un’osteria? In piazza il dì della fiera?”, s’inalberò, mettendosi subito alle calcagna dei gaglioffi col chiaro intento di rampognarli per bene. “Non tollero codesta gazzarra da bastasi! Di domenica, poi!”

All’oscuro di quanto avveniva fuori dallo stanzone, Hironimo e Zilio seguitavano a scrutarsi in cagnesco, sfidandosi a vicenda a compiere il primo passo; Giorgio, invece, spostava apprensivo lo sguardo dal fratello al veneziano, elaborando rapido un piano onde evitare che s’azzannassero ambedue alla gola.

“E così … siete fuggito?”, intavolò un tentativo di conversazione, sperando di distrarli tramite cicaleggio.

“Sì”, soffiò il giovane Miani, gli occhi tuttavia puntati guardinghi sull’altrettanto truce Madalo minore. “Quindi …”, esitò, neppure lui credendo a quell’inaspettata svolta d’eventi. “Quindi sul serio siamo a Trevixo? Non … non mi stai … ingannando?”

Giorgio scosse il capo. “Perché dovrei? Questa è Trevixo, dove siete giunto verso … boh, manco mi ricordo … comunque poco prima dell’alba. Due sentinelle vi hanno condotto qui all’Ospedale da Porta San Tomaso, purtroppo eravate svenuto o addormentato e non vi siete, immagino accorto di niente”, disse e indicandosi orgoglioso il petto: “Sono stato io che ho aiutato Fra’ Mauro a districarvi da quelle orride, orride catene. Ma che diamine pensava quel matto di Napoli di Romania? Manco un forzato nelle galee turche lo legano così! Io l’ho sempre detto, che quello là …” e fece un gesto sconciamente furbetto “Il kyrie Petros, secondo me, s’è pigliato una turca per seconda moglie, perché io non ho mai …”

Al che, balzando in piedi, Zilio ruggì, interrompendo bruscamente il fratello: “Avanti, bastardo! Confessa! Cosa gli hai fatto? Era impossibile fuggire dal capitano, mi ricordo bene come t’ha incatenato! Lo hai ucciso, vero?” e d’un tratto i suoi occhi si spalancarono inorriditi. “E’ stato il Gambara! Tu e lui eravate in combutta fin dall’inizio! Il capitano aveva ragione! Quell’infame traditore bresciano! Alla prima occasione, giuro che … che …”, sputò bile, impappinandosi, il collo rosso e gonfio dallo sforzo.

“Il Gambara, razza di cretino, si trova ammalato a San Salvatore, dai Collalto!” , lo sferzò snervato Hironimo, sporgendosi in avanti e mulinandogli contro il pugno. “E non ho ammazzato certo il tuo moroso” qui Giorgio ridacchiò a disagio e a Zilio andò di traverso la saliva, “anche se Iddio m’è testimone quante volte abbia accarezzato l’idea di strangolarlo con le mie catene. Ma non l’ho fatto: il tuo capitano l’ho visto addormentato sul tavolo assieme ai suoi degni compari, probabilmente ubriachi della loro stessa boria!”

“Ugualmente non potevi scappare!”, insistette Zilio, paonazzo in volto. “Non hai notato con che sorta di catene sei arrivato? Nessuno avrebbe potuto camminare fin qui senza attirare l’attenzione, nessuno! E non ti sei guardato allo specchio? Sei pelle e ossa, potrei spezzarti in due come l’ala d’un pollo!”, gli puntò contro l’indice. “Qualcuno ti ha aiutato a fuggire! Parla! Chi è il tuo complice? Che cosa ne avete fatto del mio capitano?”

Inconsciamente, il patrizio incrociò le braccia al petto, sulla difensiva. Non necessitava delle ovvie constatazioni di Madalo per ricordarsi che sì, grazie al trattamento del Bua era divenuto più emaciato d’un gatto randagio. “Figurati se a te vado a raccontare i fatti miei!”, ribatté altezzoso.

“Perché sei uno schifosissimo bugiardo, ecco il motivo!”

“Puoah! Non m’importa se mi credi o no; ho detto la verità e della tua opinione, in tutta franchezza, mi ci sciacquo le …”

“Patron!!”

Hironimo non riuscì a finire la sua prosaica arringa, essendosi infatti all’improvviso ritrovato scaraventato all’indietro sul materasso e il viso bagnato da quelli che suonavano come umidi schiocchi di labbra e singhiozzi. Avvertendo un certo peso molesto sullo stomaco, il patrizio si sciolse da quell’inaspettato abbraccio, afferrando il suo assalitore per le spalle e costringendolo seduto.

“Patron!”

Gli occhi del giovane Miani si riempirono d’istintive lacrime di gioia: davanti a sé, piangente e pure col moccoletto al naso, il suo Thomà si sforzava titanicamente di darsi un contegno, sorridendogli però beato. Immediatamente, il patrizio gli circondò il viso con le mani, studiandolo fino all’ultimo dettaglio e soltanto allora, in quel momento, la consapevolezza che era a Treviso, al sicuro, gli si presentò chiara e nitida nelle fattezze del suo fantolino, che mai più aveva sperato di riabbracciare in quella vita.

Ed eccolo là, invece, più paffuto di quando l’aveva lasciato nel bosco del Montello, le gote di nuovo rossicce e lo sguardo sveglio e limpido. Tremante, gli passò la mano tra i capelli biondi, decisamente più corti e meno ingarbugliati. Era così bello. Così perfetto. La speranza del futuro.

Dio l’aveva salvato. Aveva ascoltato la sua richiesta e l’aveva condotto, contro ogni aspettativa, in salvo. E nella Sua infinita e imperscrutabile misericordia, gli aveva concesso la grazia di poterlo stringere di nuovo a sé, a testimonianza che nulla Gli era impossibile.

Si portò il bambino al petto, cullandolo, appoggiando la fronte sulla sua piccola spalla; gli massaggiò la schienuccia, il battito eccitato del suo cuoricino tanto dolce e rassicurante quanto il coro angelico dell’intera corte celeste, i suoi baci teneri e puri come le preghiere dei santi.

“Gh’avé mantegnuo ea promesa, patron!”, cinguettò contento Thomà, mescolando risate a singulti. “Gh’avé mantegnuo ea promesa …” e per lui, maltrattato e disilluso dalle menzogne e dall’opportunismo degli adulti, essa corrispondeva alla più sublime dichiarazione d’amore. Il suo patron gli aveva giurato di ritornare e così era stato, aveva mantenuto la parola data, di non abbandonarlo e di vivere e lottare per proteggerlo.

“Brutto cancaro!”, s’intromise una voce più anziana ed Hironimo, senza aver il tempo di processare, venne circondato da un secondo paio di braccia e il viso mezzo soffocato dalla stola di Fra’ Anselmo. “Ti avevo creduto morto!”, farfugliò commosso.

“No!”, protestò bellicoso Thomà, sottraendogli il capo del patrizio, per tenerselo appresso, gelosissimo. “Teo ghavevo dito, che nol gera possibile ch’el mio patron se fasesse copar da quel turcho travestio da cristian!”

Il benedettino, sopraffatto dall’emozione, neanche si premurò di ribattere, annuendo demente e seguitando ad accarezzare la zazzera ingarbugliata del giovane Miani, tra i cui capelli sporchi indugiava ancora quell’intenso profumo di rose. Inoltre, quando il giovane levò la mano destra per detergere via i rimasugli delle lacrime dalle guance del fantolino, l’uomo s’accorse che detta mano si mostrava inspiegabilmente pulita, intatta, le unghie rosee e regolari, contrariamente alla sinistra che rimaneva sporca, graffiata, quasi una zampa d’animale. Com’era possibile? – si domandò confuso, girandosi verso Fra’ Mauro, in piedi dietro di lui, e il suo boccheggiare gli confermò che no, il canonico regolare non aveva avuto ancora occasione di lavare il patrizio e perfino la conversa assisteva in muta contemplazione, le narici dilatate dallo sforzo di annusare quell’odore così forte e avvolgente, più delle corone di rose sugli altari della Madonna a maggio.  

“Una fuga davvero straordinaria”, mormorò Fra’ Anselmo, avvertendo nel cuore una strana sensazione, conscio di trovarsi dinanzi a qualcosa di misterioso e magnifico, sebbene racchiuso in un avvenimento in apparenza normale, quanti fuggitivi prima del Miani s’erano presentati a Treviso? Ma nessuno di essi gli aveva provocato quello smarrimento e al contempo sollievo, sentendosi testimone dell’inizio di un progetto più grande e imperscrutabile.

“Hieronymos! Oh, Hieronymos!”

Degne emule di Marta e Maria davanti al fratello Lazzaro redivivo, madona Maria e madona Helena erano rimaste dapprincipio impietrite all’uscio della porta, le mani alla bocca o al petto; scuotendo il capo, avanzavano incerte verso Hironimo, gli occhi velati di stupore e per la greca di lacrime, la quale in un balzo sorpassò la nobildonna più anziana e raggiunse il capezzale del cognato. Si bloccò tuttavia all’ultimo, allungando cauta una mano, quasi temesse in un’allucinazione.

“Eleni”, la salutò Hironimo, le gote vermiglie perché, sotto il lenzuolo, non indossava alcunché, scoprendo che la premura di Fra’ Mauro e Giorgio Madalo s’era allargata a liberarlo dalle mutande sporche, oltre che dalle catene.

Sua cognata, infischiandosene del suo palese imbarazzo, l’abbracciò d’istinto, baciandogli ambedue le guance barbute. Thomà si scostò pieno di gentile discrezione, in paziente attesa però di riavere il suo patron non appena possibile. “Ci rodevamo dall’ansia per te! E quello sciagurato non ci ha mai contattato né per un riscatto né per uno scambio! Abbiamo scritto ai nostri fratelli e allo zio Baptistes per trovare una soluzione … anche mio padre è andato a negoziare con la moglie di quel tanghero …” Il giovane Miani trattenne il fiato, avvertendo un nodo allo stomaco: dunque la sua famiglia s’era attivata con ogni mezzo per liberarlo? Non s’erano dimenticati di lui? Malgrado i suoi difetti, le sue intemperanze e meschinità, gli volevano ancora bene?

“Abbiamo tentato di ottenere informazioni sul tuo conto, di metterci in contatto con te, però ci dicevano che eri sempre tenuto sottocchio dal Buas e che impossibile perfino avvicinarsi al suo padiglione … ma …”, farfugliò esagitata Helena e ghermitolo per il volto e strizzandolo per le guance, lo costrinse perentoria a guardarla dritto negli occhi: “Ma come sei riuscito a fuggire? Quand’è successo? Quando sei arrivato qui?”, lo scuoteva, incalzandolo.

“Dasin, dasieto, madona Helena, così finirà per ingoiare la lingua!”, le pose madona Maria le mani sulle spalle, invitandola a cessare il suo serratissimo interrogatorio. “Tre domande di fila sono troppe per questo poveretto”, scherzò, per quanto anche la sua voce tremasse impercettibilmente e anch’ella contemplasse stranita il giovane patrizio, il quale anguillava a disagio sotto le coperte. “Non potete immaginare quanta gioia ci arrechi il vostro ritorno”, confessò sincera ad Hironimo, che ricambiò in un debole sorrisetto, il lenzuolo fin quasi sotto il mento, da imitare il bozzolo d’un baco da seta.

“A tal riguardo”, l’assicurò Fra’ Mauro, cogliendo l’occasione favorevole per minimizzare l’impatto che tale notizia avrebbe avuto sul provveditore, “mi stavo giusto recando a Palazzo per notificare il vostro sior marido. Di certo vorrà anch’egli apprendere i dettagli della fuga di sier Hironimo.”

Come tutti all’interno di quella stanza, d’altronde.

“Indubbiamente”, convenne madona Maria, riacquistando il suo usuale piglio determinato e programmatore. “V’accompagnerò e per la via mi spiegherete quanto già sapete”, aggiunse, elargendo un’occhiata significativa al canonico regolare, che tartagliò qualche frase di circostanza su quanto la prospettiva gli recasse un immenso piacere. Dopodiché, sorridendo maternamente benevola al Miani: “E voi adesso badate a recuperare le forze. Mangiate, lavatevi, dormite. I vostri tormenti sono finiti: siete a casa, nella vostra terra. Sorella”, si rivolse poi alla conversa, che scattò sull’attenti. “Quando avrai finito di servire la colazione, corri a preparare una tinozza d’acqua calda e soprattutto vai a raccogliere della cenere di legna. Ne avrai molto bisogno …”, le ordinò, alludendo alla massa informe di capelli d’Hironimo, di sicuro impestata di pidocchi.

Ponendosi in piedi e lisciandosi la gonna, Helena aggiunse: “Io mi recherò invece dal barbiere e poi a casa dei Cimavin, a prendere i vestiti che il Marcolin ti ha lasciato.”

“Marcolin è stato qui?”, strabuzzò gli occhi Hironimo, incredulo e speranzoso. “Non era a Padoa?”

“No, s’è trasferito qui, ma poi s’è ammalato ed è dovuto rientrare a Veniexia e … oh, insomma! Non mi distrarre!”, protestò falsamente indispettita la greca, in realtà sorridendogli raggiante, tanto da ingarbugliarsi in un contraddittorio balletto, indecisa in quale direzione andare, se a destra o sinistra, tipica sua reazione quando presa dall’entusiasmo. “T’aggiornerò più tardi, promesso!”

E nell’allegra confusione creatasi, laddove ognuno s’affannava di qua e di là o ronzava attorno al Miani, ricoprendolo di domande e attenzioni, tre persone erano rimaste in disparte, aliene da tanta contentezza: la prima, Zuaneta, ch’era sgattaiolata via in direzione del Castello; e la seconda, Giorgio Madalo, che fosco in volto osservava suo fratello mangiare ignaro la sua colazione, temendo in cuor suo come il provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, venendo a conferire col fuggitivo, avrebbe potuto cogliere l’occasione per trasferire definitivamente Zilio nelle stinche e lì interrogarlo.

 

***

 

Solitamente, niente nuove buone nuove; peccato che l’ennesimo ritardo d’informazioni da parte delle spie nell’accampamento nemico più ch’ispirare ottimismo, formasse teorie d’opposta natura. Gli unici che ritornavano erano gli stradioti in esplorazione: il loro aspetto scarmigliato e le ferite riportate (uno di loro, piuttosto grave, era stato spedito immediatamente in ospedale) confermavano i sospetti del provveditore di Treviso, ossia di come i Collegati si stessero avvicinando sempre di più alla città.

Rientrato dalla funzione domenicale e seduto a tavola, sier Zuam Paulo Gradenigo, disertato dalla moglie, aveva invitato sier Lunardo Zustignan a colazionare con lui e non soltanto per della mera compagnia, bensì per confrontarsi su alcuni suoi dubbi. Infatti, quando il trentaduenne patrizio lo aveva raggiunto, il provveditore aveva già compilato una lettera lunga due mani per la Signoria, lamentando l’eterna penuria di uomini e di danari per le paghe e, di conseguenza, richiedendo ambedue in gran pressa.

“Di tasca mia ho già pagato buona parte della guarnigione”, lo informò Zustignan, addentando una fetta di pane, burro e lardo. “Cosicché per altri quaranta giorni i loro servigi – e il loro collo, in caso d’indisciplina – sono stati assicurati.”

“Ci basteranno, questi quaranta giorni?”, s’interrogò cupo sier Zuam Paulo, appoggiando il bicchiere vuoto.

“La Peliza ha scoperto le sue carte”, cogitò ad alta voce Lunardo, due dita sotto il mento. “E’ intenzionato a porre Trevixo sotto assedio e questo significa che si sente forte dei suoi numeri. Non tarderà d’attaccare.”

“Dunque o l’esercito di Zuanne Gonzaga o dei Todeschi s’è unito a quello dei Franzosi”, concluse amaro il provveditore, tamburellando scocciato le dita sulla tovaglia.

“Quello del Gonzaga dubito assai”, replicò il patrizio più giovane. “Ricordatevi la liberazione di Soave da parte di sier Ferigo: quella fortezza era un punto nevralgico per i nostri nemici, senza di essa come collegamento tra Verona e Vicenza il signor Zuanne faticherà non poco ad armarsi e a raggiungere in tempo La Peliza e se ciò dovesse accadere, sarà o per aiutarlo ad assedio incominciato oppure per coprirgli le spalle durante la ritirata.” Morsicò un altro pezzettino di pane, masticandolo lentamente e, deglutitolo, si nettò l’angolo della bocca. “A tal proposito, cosa risponderete alla lettera di sier Christofal e sier Polo?”

I due provveditori di Padova, oltre che ad informare il loro collega Gradenigo circa la vittoria riportata contro i Collegati a Soave, proponevano una seconda cavalcata e questa volta a Noale, onde rallentare le truppe gonzaghesche partite da Vicenza ed isolare ulteriormente La Palice. Sier Zuam Paulo aveva lodato tale iniziativa, aggrottando tuttavia la fronte quando sier Moro e sier Capelo gli avevano richiesto di spostare parte delle fanterie e della cavalleria appunto a Noale, inviando Renzo di Ceri e Vitello Vitelli a sostegno degli stradioti di sier Ferigo Contarini.

“E’ una decisione molto difficile”, ammise Gradenigo, “da una parte, riconquistare Noal a qualche giorno dall’assedio vero e proprio invierebbe un messaggio molto forte a La Peliza, dimostrandogli che non solo non temiamo né lui né la sua masnada di senzadio, ma che possediamo uomini e munizioni a sufficienza per muovere guerra contro i suoi alleati. Dall’altra parte, però”, aggiunse, servendosi di un altro bicchier d’acqua, “sappiamo benissimo che non possiamo permetterci questo lusso.”

Lunardo emise un profondo sospiro. “Stamane ne ho discusso col capitano Vitelli: purtroppo, siamo a quota millecinquecento di soldati ammalati di febbre, questo escludendo i nostri gentiluomini che sono dovuti rientrare a Veniexia. Io stesso ho dovuto congedare uno dei miei fanti e anche sier Hironimo Capelo, sier Piero Gradenigo, sier Alvixe Zorzi e sier Alvixe da Canal hanno perso alla malattia alcuni dei loro.”

“Ho già richiesto almeno mille fanti alla Signoria e ancora non ho ricevuto alcuna risposta a riguardo. Non capisco perché, ma sembra concentrata esclusivamente alla difesa di Padoa. Siamo forse noialtri i figli della serva? Questa terra per due anni s’è tenuta fedele a Sen Marcho, mai occupata, meriterebbe miglior considerazione!”, si sfogò l’uomo, frustrato. “Specialmente ora, con la Patria del Friuli occupata e il Cadore minacciato!”

“Quando le nostre spie ci avranno riferito i movimenti dell’accampamento nemico, otterrete migliori argomentazioni per supportare le vostre richieste”, lo consolò pragmatico Lunardo. “Dimenticatevi delle truppe del Gonzaga: non sono che delle formichine a confronto del vero avversario, ossia dei Todeschi i quali avranno di sicuro razziato ben bene la Patria del Friuli, portando a La Peliza vittuarie, genieri, guastatori, barche, artiglierie, etc. A costoro s’appoggia veramente monsignor il maresciallo, non a quell’esercito da parata dei Mantovani.”

Malgrado il futuro tutt’altro che roseo, un mezzo sorriso sfuggì a sier Zuam Paulo, nel suo intimo contento di quel colloquio col Zustignan, che pur giovane possedeva quei nervi saldi e spirito calcolatore necessari a progetti a lungo termine, affrontando a sangue freddo ogni situazione. Similmente ai suoi fratelli Lorenzo e Pangratio, Lunardo s’era formato nello Stato da Mar e nel Levante, l’unica esperienza a detta di Gradenigo che forgiasse appropriatamente alla guerra. Quando aveva letto per la prima volta la lista di patrizi veneziani inviati a Treviso, il provveditore s’era rallegrato nel riconoscere l’ex-sopracomito agli ordini del capitano delle navi stanziate sul Po, sier Hironimo Contarini detto “il Grillo.” Era stata la rapidissima squadra navale di Lunardo Zustignan, infatti, ad aver liberato Loreo e Torrenuova [1a] dal giogo dei Collegati: le sue barche armate avevano intercettato e affondato tutte le fuste dei ferraresi, i quali, forti della loro vittoria a Polesella, avevano puntato a riconquistare l’antico avamposto veneziano o perlomeno di distruggerlo tramite un devastante incendio. Sfruttando il momentum e senza dar tregua ai ferraresi, “il Grillo” e Zustignan avevano organizzato una controffensiva nonché spedizione punitiva nei confronti di Are [1b] e Ariano, colpevoli non tanto d’essersi arrese agli estensi, bensì d’averli fornito una base d’appoggio per le loro scorrerie a Loreo.

Di confrontarsi con una persona quindi avvezza alle fatiche e ai continui imprevisti della guerra aveva bisogno sier Zuam Paulo in quei momenti, non incontrando alcuna affinità né tra i condottieri dalla precaria lealtà né nel podestà sier Andrea Donado, abile come amministratore ma pessimo nelle questioni militari.

“Sospetto”, proseguì Lunardo, distogliendo Gradenigo dai suoi pensieri, “che il ritardo delle nostre spie sia dovuto ad uno spostamento del nemico …”

“Hanno appena montato l’accampamento a Torre di Maserada, perché cambiare così improvvisamente?”

“Lo scontro contro gli stradioti dei capitani Andrea Pera – a chi Dio perdoni – e Thodaro Rali li avrà instillato il dubbio circa la nostra conoscenza della loro esatta ubicazione, al punto da persuaderli a cercare un luogo a noi ignoto e lì riorganizzarsi.”

“Una bella gatta da pelare per noialtri”, constatò pensoso sier Zuam Paulo, disegnando sul tavolo con la punta del coltello dei ghirigori concentrici.

“Dobbiamo pazientare”, s’arrese Zustignan all’evidenza. “Anche se minaccia battaglia, La Peliza si muove comunque troppo lentamente per impedire una fuga di notizie e, in tutta questa confusione, è possibile che qualcosa trapeli o che qualcuno …”

Un deciso battito alla porta li interruppe.

“An, mojer, non v’aspettavo!”, s’alzò in piedi il provveditore, tosto imitato da Lunardo, che s’inchinò, esclamando: “S-ciavo, patrona.”

Madona Maria Malipiero Gradenigo entrò in un vivace sgonnellare nella stanza, avanzando dritta verso il marito, il quale le afferrò le mani offerte, baciandogliele lievemente. “Vi credevo all’Ospedale”, dichiarò, aggrottando preoccupato la fronte. “E’ successo lì qualcosa? Vi hanno insolentita?”

“Sì e no”, rispose ambigua la donna, deliziandosi un pochettino del tormento del consorte. “Nell’anticamera v’attende Fra’ Mauro, frate canonico regolare alla Madona Granda e infermiere: vi supplica, in tutta cortesia, urgente udienza.”

Sier Zuam Paulo cambiò peso da una gamba all’altra, figurandosi in anticipo la petizione del monaco, arricchita da lamentele circa la penuria di medici e cerusici e l’arruolamento forzato di novizi e oblati, che li aveva privati d’utili braccia. O  - Dio gliela scampasse –  il canonico forse era venuto a denunciare l’ennesimo tentativo di Renzo di Ceri d’abbattere la cappella di Santa Maria Maggiore.

“Sta bene”, sospirò svogliatamente l’uomo, “vedrò come posso accomodarlo.”

“Ora però sono io che vi supplico, sior marido, d’esercitare la vostra pazienza e clemenza sia nei suoi confronti sia dei suoi, per così dire, complici. Hanno agito spinti da mera carità cristiana, senza malizia alcuna né tornaconto personale; meritano pertanto la vostra comprensione e perdono, se necessario.”

“C’intrigate, madona Maria”, colmò Lunardo la momentanea incapacità di sier Zuam Paulo di replicare dinanzi a tal criptico discorso, seguitando infatti a fissarla perplesso. “Avete scoperto una piccola congiura?”

“A fin di bene”, reiterò la patrizia, la sua mano posata delicatamente sul braccio del marito, quasi a calmarlo preventivamente. “Fra’ Mauro si è preso cura di un fuggitivo, arrivato qui a Trevixo stamattina, poco prima dell’alba …”

“Cosa?!”, sbottò appunto Gradenigo, livido in volto e subito sul piede di guerra. “Hanno osato aprire il portello di notte?! Chi è stato il folle e a quale porta?”

“Forse … forse è avvenuto quando l’ultimo corriere è partito alla volta di Veniexia …”, tentò Zustignan di giustificare quel comportamento assurdo, in piena disobbedienza del chiarissimo regolamento.

Madona Maria li chetò ambedue tramite un deciso svolazzo della mano. “Avrete tempo e modo d’esigere spiegazioni, adesso vi limiterete per favore ad ascoltarmi perché vi confesso ch’io per prima sono basita dinanzi a quest’evento. L’unica mia certezza è che, per suo merito o per intercessione di questa Nostra Donna di Trevixo, sier Hironimo Miani è riuscito a scappare dall’accampamento nemico e ora si trova all’Ospedale e …”

E suo marito e Lunardo non le permisero di concludere il discorso, dimentichi della colazione ormai abbandonata sul tavolo. Il provveditore, silente e sbigottito quanto il concittadino, s’affrettò a pigliare sottobraccio la nobildonna e i tre si diressero quasi correndo nell’anticamera, pronti all’interrogatorio prima del frate e delle sentinelle e poi dello stesso Miani.

Chissà che non fosse l’ex-castellano di Quero la tanto sospirata “fuga di notizie” di cui tanto disperatamente necessitavano per la salvezza di Treviso, dei suoi abitanti e della Signoria. 

 

***

 

 

“Oh, xé la Zuaneta!”

“S-ciavo, Zuaneta!”

“Zò, splendore, ‘ndove corestu cussì de pressa?”

La ragazzina interruppe la corsa, riprendendo fiato e sistemandosi una ciocca umida dietro l’orecchio, sfuggitale dalla crocchia. Si lisciò il grembiule, nettandolo da dell’invisibile polvere e raggiunse il gruppetto di fanti all’entrata del Castello, tra la caserma e la chiesetta di San Marco dei Bombardieri.

Memore della terribile esperienza sul Montello, Zuaneta di solito s’aggirava guardinga tra i soldati, considerandoli tutti imprevedibili e violenti alla stregua d’animali selvatici, indipendentemente dal gonfalone che servivano. Coloro che l’avevano salutata, al contrario, non la intimorivano un po’ perché o avevano o le ganze o le mogli appresso a garanzia e un po’ perché appartenevano alla compagnia di sier Marco Miani, il suo salvatore, i quali a loro modo l’avevano un poco adottata, comportandosi piuttosto protettivamente nei suoi confronti.

“Mi voria parlar col magnifico sier Marco Miani, de grassia”, dichiarò forbitamente concisa la giovinetta, le braccia dietro la schiena e il capo reclinato vezzosamente su di un lato. “Gh’ho un’imbasata di la soa clarissima siora mojer …”, abbassò la voce, ponendo la mano a cuneo agli angoli della bocca in modo che nessun altro ascoltasse la loro conversazione.

I cinque fanti sghignazzarono maliziosi. “Ahi, ahi … cossa ghalelo combinà el missier, qua, per meritarse ambasador et imbasada?”, commentò Cabriel, strizzando l’occhio ed elargendo al commilitone una giocosa gomitata. “Demo, su”, le fece cenno di seguirlo dentro in caserma, intanto che gli altri, rimasti alle loro postazioni, confabulavano peggio delle comari sulla natura del misterioso messaggio di madona Helena al marito.

La peculiare coppia s’imbatté in sier Marco proprio mentre quest’ultimo stava uscendo dai suoi alloggi, appena cambiatosi per il suo turno di ronda. Cabriel attirò l’attenzione del superiore, fermandolo e traendolo in disparte, acciocché non intralciassero il viavai degli altri militi lungo il corridoio. “Zelenza colendissima, ea tosatela qua gh’ha da comunicharve qualcossa. Xéa vuostra siora mojer chea manda.”

Il Miani spostò circospetto lo sguardo su Zuaneta, la quale avvertì un familiare calore alle guance, avvampando pudicamente lusingata da quell’attenzione. “Donca?”, le domandò cortese, intanto che infilava i guanti di cuoio. “Cos’ha la mia siora mojer da riferirmi?” e manteneva un tono neutro, cosicché non tradisse alcun’ansia, non attendendosi infatti un messaggio da parte di Helena a quell’ora sì temprana e già la sua mente formulava lugubri scenari circa il suo contenuto.

“Patron”, soffiò eccitata la giovinetta, intrecciando le dita e saltellando quasi da un piede all’altro, “la vuostra siora mojer a me gh’ha comandà de dirve, ch’el sior vuostro fradelo xé fuzito da le man de’ inimici!”, gli annunciò tutto d’un fiato e sorrise complice, sperando di rallegrare il patrizio veneziano, la cui espressione invece si tramutò in pietra, irrigidendosi da capo a piedi in un battibaleno.

Marco strabuzzò gli occhi, deglutì di traverso e arretrò d’un passo, scuotendo la testa come per riordinare i pensieri d’un tratto impazziti peggio d’un vespaio. La lingua gli s’attaccò al palato, sicché solo mezzi versi e parole sconnesse uscirono dalla sua bocca, mentre il suo cervello ripeteva ostinato e all’infinito quella semplice parolina. Fuzito. Suo fratello, il suo Momolo, costretto alla prigionia, separati da un esercito e da un mercenario senza scrupoli, il suo fratellino della cui sorte poteva solo immaginare e per la cui liberazione aveva incessantemente sofferto e pregato, ecco, era scappato. Fuggito, evaso dalla sorveglianza del nemico, scavalcando quel triste ostacolo che gli impediva di ricongiungersi, di figurarsi assieme.

Fuggito, fuggito, fuggito.

Aveva tanto sperato in quell’evento, da non capacitarsi ora della sua concretizzazione. Momolo era libero. Libero. Gli era stato restituito. Gli pareva assurdo, una beffa. Troppo bello per essere vero.

“Non ti stai burlando di me?”, si sforzò l’uomo di rimanere calmo, ricordandosi che la ragazzina gli veniva incontro soltanto in veste d’ambasciatore e infierire su di lei non serviva a niente. “Mio fradelo …?”, sbiascicò, mordendosi a sangue le labbra, il petto stretto in una morsa dolorosa, neanche temesse che Hironimo si sarebbe volatilizzato, se avesse pronunciato ad alta voce quelle parole.

“Patron, ch’el liom di Missier Sen Marcho me squarti a morseghi, se ve conto el falso!”, si pose una mano sul cuore Zuaneta, levando contemporaneamente l’indice e il medio in alto. “Vuostro fradelo stà horra a l’Hospeal, lo gh’ho visto mi co sti ocij!”, gli raccontò celere e il suo visetto si deformò in una triste maschera. “Poareto, se savesse chome lo gh’han maltrattà! Xélo cussì secho-secho, pì dil fiol di la miseria!”

Marco cacciò fuori un secondo, profondo sospiro, sforzandosi di respirare normalmente. Gli sorse perfino un piccolo riflusso acido in gola. “Devo … devo informare sier Alvixe che … non posso assentarmi senza … Torna da Helena e dille … dille che la raggiungerò appena potrò … non ci impiegherò molto tempo …”, fu il suo distratto congedo dalla ragazzina, la quale scoccò un’occhiata perplessa a Cabriel, che replicò tramite una scrollata di spalle.

Dal canto suo, il Miani si diresse nella direzione opposta, alla ricerca di sier Alvixe da Canal, onde persuaderlo a coprirlo per qualche ora, giusto il tempo di recarsi all’Ospedale e lì verificare con mano della veridicità della notizia. Un po’ per la sua innata santommaseria; un po’ perché fremeva dalla voglia di stringere al petto il suo fratellino finalmente salvo; un po’ per valutare gli interessi da far pagare a quel maledetto di Mercuria Bua …

 

“Ciò! Ciò! Vacci piano col mangiare! Il tuo stomaco non è abituato!”

Cacciandosi in bocca un’intera fetta di soppressa, previamente arrotolata ad arte, Hironimo dissentì dal cauto approccio di Fra’ Anselmo, che sottolineava i suoi consigli tentando di sottrarre qualsiasi alimento nel raggio d’azione dell’affamatissimo giovane.

Tutto era incominciato quando Helena, chiedendo un’altra porzione alla conversa, s’era sentita rispondere: “Ma siora madona, quello era il pranzo!” e soltanto allora la greca s’era accorta della piccola pila di piatti appoggiata per terra, accanto al letto. “Cosa faccio? S’è mangiato due porzioni di stufato, un’intera pagnotta, una grossa fetta di formaggio, tre uova sode, mezzo pollo … gli servo l’altra metà? Gli preparo un brodetto di pan fritto e uovo?”

“Basta che te me s-ciopi!” (esplodi, ndr.), si contese il benedettino la ciotola della zuppa ad Hironimo, il quale premeva una mano al petto dell’uomo e lo allontanava da sé, intanto che, voltato dalla parte opposta, ingollava a grosse sorsate il delizioso brodo. Sarebbe stato più facile strappare una bistecca ad una tigre. “Nessuno ti toglie né il pranzo né la cena, non c’è bisogno d’ingozzarsi!”

“Hieronymos, Fra’ Anselmo ha ragione: potresti soffrire più tardi d’indigestione …”, mediò Helena tra i due avversari. “Per favore, sii ragionevole!”

“Ho fame!”

“Aspetta magari l’ora di pranzo, ti serviranno tutto il cibo che vorrai.”

“Ho fame adesso!”

Thomà convenne partecipe all’impellenti necessità del patrizio, approfittando dell’alterco a tre per pelarsi indisturbato un uovo sodo.

L’intera mattinata per fortuna era stata spesa in modo più proficuo, avendo avuto la conversa l’accortezza di servire ad Hironimo la colazione solamente dopo il bagno e l’incontro col barbiere. Infatti, una volta addentato il primo boccone, non c’era più stato verso di farlo smettere di mangiare, buttandosi egli a pesce su ogni portata.

Fra’ Anselmo e Thomà l’avevano aiutato ad entrare nella tinozza, in quanto zoppicante per via delle piaghe aperte sotto le piote. Il fantolino, armato di spugna e sapone, s’era arrotolato le maniche e gli aveva sfregato la schiena con tutta la forza delle sue braccine, mentre il Miani provvedeva al resto, di tanto in tanto interrotto da qualche proditoria secchiata versatagli in testa da uno sghignazzante benedettino, rendendo il bagno tutto fuorché rilassante. Del resto Hironimo per primo s’era adoprato alacremente a levarsi di dosso quell’insopportabile sudiciume, grattando via croste, pelle morta e altre schifezze appiccicatesigli, impaziente di contemplare infine il vero colore della sua pelle. Ad operazione terminata, l’acqua si presentava talmente sporca, d’aver assunto una tinta grigio-verdastra, manco l’avessero attinta da una palude. 

Dopodiché, il monaco benedettino gli aveva disinfettato le ferite e bendato i piedi, le caviglie, i polsi e parte del busto, aspettando la rasatura della barba prima di fasciare il collo, che comunque presentava escoriazioni meno profonde. Indossare gli abiti di Marco Contarini aveva poi sortito un insolito effetto nel patrizio, il quale continuava a scorrere deliziato le dita sulle maniche dello zipone e sulle braghe, assaporando il tepore e la morbidezza degli indumenti contro la sua pelle dopo un mese di forzata nudità, perennemente martoriata dal freddo e dagli insetti. Soltanto i piedi aveva per il momento lasciato scalzi, ragionando Helena e Fra’ Anselmo se fosse il caso di dargli delle pianelle piuttosto che delle vere e proprie scarpe, almeno fintanto che le piaghe non si fossero asciugate.

Non che Hironimo dovesse recarsi chissà dove, semmai era il mondo che veniva da lui, come il barbiere, il quale lo liberò sia dalla fitta barba irsuta sia dai fastidiosi pidocchi a furia di riempirlo di cenere di legna, questo però a scapito della sua capigliatura. Il giovane Miani aveva trattenuto fin allo stremo il doloroso fastidio ai tentativi del barbiere di districare i nodi ai capelli, alcuni di essi talmente duri e compatti, da sembrare dei ciuffi di lana. Sicché, scuotendo la testa, l’uomo aveva sbrigativamente pigliato le forbici e ad Hironimo s’era stretto il cuore nell’assistere, una ad una, le sue ciocche scure cascargli ora in grembo ora ai piedi, accomiatandosi da coloro ch’erano state un suo motivo di vanto.

Mo’ via, patron! Vi ha tagliato fino a quattro dita dall’orecchio! Sempre meglio di me, che sembro aver in testa le chiappe d’un pulcino!”

“Ecco, ed io faccio il nido!”

In tutta onestà? Malgrado i disagi delle ferite, della nuova acconciatura, dei crampi della fame e delle liti con Fra’ Anselmo, Hironimo scoppiava di felicità, beandosi della gioia di trovarsi circondato da persone che gli volevano bene e che lui ricambiava altrettanto appassionatamente. Non ricordava l’ultima volta, in cui aveva provato tanta pura e spensierata allegria, sentendosi leggero e in pace con se stesso. Svanita la sottile e ben radicata collera, la cupezza dell’invidia e del risentimento, ingoiati dalla luce di una nuova serenità interiore. I rami pieni di spine del suo cuore s’erano seccati, lasciandolo respirare e ritornare alla sua iniziale morbidezza. Da un lato non trovava in sé alcuna differenza da prima; ciononostante, il giovane Miani era sicuro che qualcosa invece fosse cambiato, ma non in maniera eclatante, bensì discreta, sottovoce ma persistente …

“Hé-oh! Posa quel coltello, razza di brigante! Non incominciare, ciò!”, sottrasse Fra’ Anselmo a Thomà la posata indispensabile per tagliarsi la soppressa, ponendola in alto cosicché il fantolino ebbe il suo daffare a saltare in alto onde afferrarla.

Hironimo ed Helena, davanti a quel giocondo quadretto, se la risero a crepapelle, specie quando il bambino cambiò tattica, optando per l’arrampicata diretta sul saio del frate.

Quand’ecco, che la greca scattò in piedi, correndo verso la porta. “Markos!”, esclamò felice, stringendosi al braccio del marito, i cui occhi fissavano indecifrabili il fratello. “Hai visto chi è arrivato? È riuscito a fuggire, a menare quel tartaro del Buas per il naso! Non è meraviglioso?”

Realizzando l’identità del nuovo arrivato, il sorriso svanì in un colpo dal viso d’Hironimo, rimpiazzato dal pallore della vergogna; d’istinto abbassò in fretta lo sguardo, concentrandolo sulle mani fasciate e artiglianti la stoffa delle braghe nel vano tentativo di zittire l’eco dell’ultimo suo diverbio col maggiore. Inconsapevolmente, Thomà gli coprì il dorso della mano con la sua più piccina, quasi indovinasse il suo malessere e volesse perciò consolarlo.

Le orecchie d’Hironimo riascoltavano nitidamente ogni crudeltà da lui vomitata contro Marco e gli altri suoi fratelli, così come l’occhio della sua mente assisteva di nuovo all’indecorosa scena, stupendosi ancora della sua stolta puerilità. Il ricordo del volto furioso e deluso di Marco, se all’epoca gli aveva provocato un leggero rimorso, adesso lo schiacciava, sopraffatto dal senso di colpa. Madre gli aveva suggerito di rinfoderare per una volta la spada dell’orgoglio e d’abbracciare il mite spirito di riconciliazione; ovviamente Hironimo non aveva seguito il suo consiglio, considerandosi nel giusto quando al contrario era ben conscio dei suoi sbagli e per questo aveva promesso di riappacificarsi con Marco, in caso di successo della sua fuga.

Perché allora se ne rimaneva lì seduto, imbambolato e muto?

Il problema era l’imbarazzo - unito al senso d’inadeguatezza e all’ansia di un eventuale rifiuto - che gli impediva di parlare e di conseguenza di compiere il primo passo. Marco lo avrebbe mai perdonato?, si tormentava interiormente Hironimo. Gli avrebbe concesso una seconda opportunità? Oppure era ancora arrabbiato con lui? E se lo avesse biasimato per il suo fallimento a Castelnuovo di Quero? E se fosse giunto fin lì all’Ospedale giusto per comunicargli la sua delusione? O come lo disconoscesse? O per deriderlo? O …

Tanto aveva desiderato riabbracciare il fratello, quanto adesso si vergognava anche solo di guardarlo negli occhi. L’amaro calice doveva esser bevuto fino in fondo, però. Qualsiasi fosse stato il risultato finale – se di perdono o di condanna – Hironimo doveva affrontarlo a testa alta, pur abbassandosi in umile supplica e accettare il verdetto. Defilarsi dall’inevitabile confronto gli avrebbe guadagnato soltanto ulteriori critiche, potenziate dall’accusa di viltà.

E così sia. Hironimo si pose con difficoltà in piedi, strascicando qualche instabile passo verso Marco. Anche in quel frangente il suo orgoglio si rifiutava d’abbandonarlo del tutto: pur rassegnandosi all’imminente sua aspersione di ceneri sul capo, ugualmente il giovane Miani voleva serbare una parvenza di dignità e non dar spettacolo. Che suo fratello si sfogasse pure su di lui, purché in privato, lontano da occhi e orecchie indiscrete, non giudicandosi Hironimo ancora pronto d’affrontare anche le altrui sentenze, oltre a quelle del parente.

E per quel legame speciale, che li aveva uniti sin da piccini, Marco dovette intuire la volontà del minore, giacché si voltò verso la moglie per congedarsi momentaneamente da lei, rassicurandola quando Helena, temendo in uno scontro tra i due, protestò con lo sguardo contro quella decisione.

I due uomini uscirono così dallo stanzone ed Hironimo, appoggiandosi alla parete mentre scendeva le scale lentamente, costrinse a prolungare il teso silenzio, spingendosi fino all’uscita interna. Avvertiva benissimo il peso dello sguardo insistente del maggiore sulla sua schiena, rimasto infatti Marco leggermente indietro, la testa reclinata appena sul lato, la medesima movenza di Madre quando scrutava i figli alla ricerca di che cosa li turbasse o quale menzogna le stessero rifilando. Suo fratello stringeva la bocca in una linea sottile, le nari appena-appena dilatate e il cuoio dei guanti sfrigolante a causa della ferrea presa del pugno stretto. Hironimo riconosceva alla perfezione i segni di quell’apparente calma, la quale preannunciava invece una montante collera gelida e su questo avevano sempre differito, essendo l’ultimogenito di Ca’ Miani vulcanico nell’ira, rumoroso e violento e privo di senno, contro l’opposta reazione di Marco, silenziosa, di ghiaccio e che non colpiva mai a caso, semmai laddove egli sapeva dolere di più alla sua vittima. E se Hironimo dopo l’esplosione si calmava e voltava tranquillamente pagina, Marco no, v’impiegava maggior tempo a perdonare senza però mai dimenticare. Se Hironimo era rapido nella vendetta, il tempo per Marco non significava nulla, se ciò gli avesse permesso di far soffrire doppiamente chi l’aveva contrariato.

Perciò, in quel momento, Hironimo avrebbe preferito che il fratello pronunciasse almeno una parola, che lasciasse trapelare una piccola spirale d’emozione, perfino di stizza. Pur avvezzo al suo carattere, il giovane patrizio non sapeva come intavolare il discorso, procedendo alla stregua d’un condannato a morte e, ironicamente, quando giunsero nel cortile interno dell’Ospedale egli udì l’eco di una campana, sicché anche il suo Malefizio era per lui suonato. [2]

Tanto Hironimo si stava auto flagellando in recriminazioni, da sbagliare l’interpretazione dell’umore di suo fratello: Marco ribolliva sì di rabbia a viva forza repressa, tuttavia non era il minore l’oggetto verso cui desiderava riversarla. La sua fronte aggrottata, i denti digrignanti dietro la bocca serrata e i guanti strizzati dalle dita non erano destinati a nessun altro se non a Mercurio Bua, lamentando di non averlo potuto torturare di più, se proprio il destino aveva decretato di sottrarglielo come prigioniero.

Che cosa gli aveva fatto quel maledetto, da ridurlo così?, s’interrogava furente e protettivo. Suo fratello, quand’era partito a marzo per Castelnuovo di Quero, lo ricordava bello, fiero, nel pieno del vigore e sicuro di sé, orgogliosamente in groppa al suo ubbidientissimo Eòo, il perfetto esempio dell’esuberante speranza della gioventù. Nulla di quel ragazzo rimaneva, al punto che Marco dubitava dell’identità della persona davanti a sé: quell’incedere circospetto, la testa china, le spalle ricurve, quel suo evitare ogni contatto fisico quasi Hironimo avesse paura di lui … No, non quasi. Il Miani conosceva bene ogni movenza del minore, quando questi provava timore verso qualcosa o qualcuno. Perché era spaventato? Non aveva nulla da temere da lui. Il litigio? Orrido, certo, ma ormai apparteneva al passato e dopo aver sperimentato l’angosciosa prospettiva di perdere per sempre il suo fratellino, esso gli appariva assai futile, indegno d’essere rivangato. Voleva soltanto abbracciare il suo Momolo, stringerlo al petto e scusarsi di non aver potuto né proteggerlo né aiutarlo.

Finalmente Hironimo individuò un angolino tranquillo dove discorrere, interrompendo quella loro deprimente marcia. S’appoggiò ad un muro, gli occhi puntati sulle pianelle da cui spuntavano le fasciature. Marco si morse l’interno della guancia alla vista delle macchioline rosse comparirvi, così come l’intero aspetto del fratello lo straziava quanto un pugnale conficcato e roteato tra le viscere. Pallido, pallido, malsanamente pallido tanto da risaltare le profonde occhiaie e le ecchimosi sparse sul viso, una bella tavolozza di blu e giallognolo che s’accompagnava alla macabra striscia rossa sul collo, là dove lo aveva stretto il collare e che il monaco infermiere non aveva ancora avuto tempo di fasciargli. I capelli più corti e arruffati, spenti, i vestiti decisamente più larghi, a Marco suo fratello appariva così giovane e indifeso, come il giorno del funerale di Padre. Sconfitto, annientato, un guscio vuoto.

Il Miani avanzò d’un passo verso il minore, un braccio teso in avanti onde accarezzarlo o scuoterlo dal suo guscio protettivo, quand’ecco che Hironimo sollevò inaspettatamente il capo, alzò il mento e nelle sue iridi nerissime fiammeggiò un ché di preternaturale, ma al contempo di limpido e sereno che da molti anni egli non contemplava nel fratellino.

Indietreggiò inconsciamente, interdetto.

“Menego, Trovaxo, Vico e Nadalin sono morti”, esordì infine Hironimo, sostenendo lo sguardo del maggiore che lo fissava stranito, non comprendendo il motivo dietro quell’incipit: perché non raccontava della sua prigionia e della sua fuga, o semplicemente non manifestava la sua gioia per la ritrovata libertà? “Mi sono rimasti accanto fino alla fine, non hanno ceduto d’un sol passo al nemico ed io … ed io non ho potuto neanche offrire loro una sepoltura cristiana, permettendo che venissero gettati nella Piave alla stregua di spazzatura …”, continuò il patrizio, grattandosi inconsciamente i polsi fasciati. “Non ho niente da restituire all’Orsolina su cui piangere … Niente a Zanetta … niente ad Eudokia … Io glieli ho strappati via per sacrificarli alle mie ambizioni, esponendoli al nemico … Ho giocato con le vite dei loro figli … Capisci? Ero già il loro padrone, già m’appartenevano i loro servigi e così … anche delle loro vite ho potuto disporre. Tanta devozione verso la nostra famiglia, ripagata versando il sangue della loro, mentre il mio … il mio continua a scorrere, malgrado sia colpa mia, mia, mia! …”, si batté forte tre volte sul petto. “Potevo scegliere chiunque altro, ma ho voluto loro perché non mi fidavo dei locali e come biasimarli? Non ho fatto nulla per meritarmi il loro affetto e la loro stima … Li consideravo alla stregua di strumenti utili  ai miei obiettivi e non m’importava un fico secco di loro; allo stesso modo ho trattato Menego, i suoi figli e Nadalin. Li ho dati per scontati. Sono stato cieco e imprudente, avrei dovuto congedarli acciocché rientrassero a Veniexia, una volta terminata la torre. Non erano soldati! Non dovevano morire così! Non … non dovevano finire gettati in acqua! Non ho mai … non mi sono mai fermato a pensare che … Sono morti per la mia negligenza e incapacità. Ed io ancora vivo.”

Marco aprì la bocca, tentò in svariate occasioni d’interrompere il cupo monologo del fratello, finendo sempre per tacere poiché neanche lui sapeva come replicare a quel severo esame di coscienza. “Sono sicuro che Menego, i suoi figli e suo nipote non abbiano mai nutrito alcun dubbio sulla bontà della loro scelta”, provò a contro-argomentare. “Erano uomini dabbene, leali, ti avrebbero difeso fino alla morte. A questo scopo ti avevano seguito a Castel Novo.”

“Mi erano fedeli per amore di Padre”, negò schietto Hironimo. “Io non mi sono mai meritato la loro lealtà.”

“Così fai torto al loro sacrificio”, s’intestardì Marco.

“E perché avrebbero dovuto rinunciare alle loro vite in favore della mia? Possiede forse la mia vita più valore delle loro? In che modo? Soltanto per via del mio rango di patrizio? Così si misura la sostanza di un individuo? Sul ceto? Quelli in alto sempre che se la cavano, sempre scusati per ogni loro porcheria e quelli in basso al contrario schiacciati, uccisi, umiliati peggio degli animali? Menego e i suoi erano uomini degni di ogni rispetto, eppure non ne hanno ricevuto, perché?!”

“Sono morti sapendo quale fosse il loro posto al mondo: di proteggere te e la Signoria Nostra! Hanno vissuto con onore e con altrettanto sono morti. Non c’è nulla di riprovevole in quanto successo! È stata la mano dei nemici ad averli uccisi, non la tua!”

“Allora il mondo gira in un buffo verso, senza giustizia e senza pietà, se risparmia i vili e uccide i valorosi …”, ridacchiò amaro Hironimo, per poi abbandonarsi ad un piccolo singulto.

“Vile?! Benedetta Trinità, in che modo sei stato vile? Vigliacco è stato il castellano di Covolo di Butistone, che pur avendo mezzi per resistere s’è arreso! Vigliacco è stato il Batagin Bataja che neppure ha sfoderato la spada per combattere, preferendo fare dietro-front e rifugiarsi sui monti!  Vigliacco è stato quel cane di Antonio Savorgnan, che pur di salvarsi la pelle s’è venduto al nemico! Tu, al contrario, sei rimasto! Potevi anche tu arrenderti, scappare o cambiar bandiera: niente di tutto ciò hai fatto, non ti sei schiodato dalla tua fortezza e hai virilmente affrontato la sorte. Potrei elencare molti tuoi vizi, ma la codardia non è certo uno di questi!”

“Perché dunque siete arrabbiato con me?”

Il Miani più anziano emise un ringhio frustrato. “E ti sorprendi? Da marzo che non ricevuto tue notizie, tutto ciò che ti accadeva lo apprendevo da Madre e Lucha! Poi, perdi Castel Novo e per un mese non sapevo neppure se tu fossi vivo o morto! E ora che sei riuscito - Dio solo sa come - a fuggire, mi vieni qui, mi imbastisci questo … sermone sulla vanità del mondo e mi domandi se sono arrabbiato?! Per chi mi hai preso?!”, berciò, schiaffeggiandosi subito mentalmente: no! no! non voleva dire questo! Idiota! Non voleva sfogare quei giorni di pena e ansia su suo fratello, non voleva finire di litigare come l’ultima volta! Il trentenne patrizio scosse il capo, appellandosi in tutti i modi stupido e attendendo la sfuriata del minore, il quale questa certamente non gliel’avrebbe perdonata. E come dargli torto? Aveva passato le pene dell’inferno, ovvio che si presentasse così scosso e d’umore pessimista! E al posto di trovare comprensione, ecco che il suo maggiore lo aggrediva e lo rimproverava alla stregua d’uno scolaretto.

“Capisco”, mormorò invece Hironimo, tranquillissimo. “Capisco …”, ripeté, sebbene il labbro inferiore avesse preso a tremargli, scivolando lungo il muro quasi volesse rimpicciolirsi e sparire in esso.

Marco scosse il capo in diniego, si passò snervato una mano sulla fronte. “Ascolta, ascolta”, afferrò il fratello per le braccia, guaendo intimamente dinanzi al sobbalzo dell’altro. D’altronde, non era stato così il loro ultimo diverbio? Con le mani addosso, afferrando violentemente lo zupone del fratello? “Ascoltami: è vero, sono arrabbiato. Ma è soltanto perché …” e si chetò bruscamente, notando infine i piccoli rii di lacrime che rigavano le gote smunte d’Hironimo.

“Ho disonorato il nome della nostra famiglia. Ho deluso la Signoria. Quanto costruito da Padre in anni di fatica, l’ho distrutto nel giro di neppure due giorni. Come non puoi essere in collera con me? Io sarei dovuto morire in quella fortezza, io gettato nella Piave! Avevi ragione: sareste stati meglio senza di me, ché solo rogne v’ho procurato, solo dispiaceri e vergogne! E ora dovrò comparire a giustificarmi davanti ai Cai di X e umiliare anche il nostro sior Barba! Sarei dovuto morire e sparire per sempre!”, si dolse acutamente Hironimo, affidandosi alla sincerità del suo pentimento, che lo soccorresse ponendogli in bocca le parole adeguate. “Quella volta vi ho insolentito, fradelo, merito il vostro odio e disprezzo. Voi e i vostri parenti avevate già messo a repentaglio la vostra vita per la salvezza dello Stato ed io ho onorato la vostra abnegazione con la calunnia, appellandovi codardi e meschini. La verità … è che nutrivo una fortissima invidia nei vostri confronti, perché avevate un vostro ruolo a questo mondo, un … uno scopo, una famiglia, dei figli … ed io … io mi sentivo un eterno minorenne, uno stupido incapace. Volevo dimostrarvi che potevo anch’io divenire qualcuno, volevo che foste tutti fieri di me. Volevo che Padre fosse fiero di me. Per anni mi sono considerato un fallimento, per quanto mi sforzassi ho procurato solo dispiaceri a Padre, a Madre e … e non ho potuto riconciliarmi con … dopo l’inchiostro lanciato al priore di Santo Stefano … E’ morto senza che potessi domandargli scusa … Ho creduto … ho creduto che fosse una punizione divina per la mia cattiveria e pertanto ho odiato me stesso, dopodiché anche gli altri, soprattutto gli altri che vivevano felici e spensierati e ignari delle loro fortune e mi dicevo: Perché loro sì ed io no? Li invidiavo e li detestavo, considerandomi a loro superiore e anche se nel processo per distinguermi ferivo le persone accanto a me e spezzavo cuori, ci passavo sopra perché tanto mi ripetevo come ormai peggio di così non potessi fare, io ero destinato a sbagliare sempre ogni cosa … Mi credevo all’apice della saggezza, quando al contrario voi tentavate di guidarmi … io facevo l’opposto credendo voleste intralciarmi …  Non volevo mai ammettere le mie colpe, preferendo attaccarmi a qualsiasi scusa, anche la più fantasiosa e improbabile, per scaricare altrove i miei sbagli. Smaniavo d’essere capito ed io per primo mi rifiutavo di prestare ascolto, denigrando e scartando qualsiasi cosa accadesse al di là della mia sfera …”

Hironimo parlava ormai a ruota libera, abbandonando ogni costruzione logica del suo discorso, neanche più lui sicuro dove volesse arrivare: aggiungeva, chiosava, riprendeva un concetto espresso poco prima, si sforzava, tra sospiri via via più tremuli e pesanti, di descrivere quel pus virulento che per quindici anni gli aveva imputridito l’animo. Ad un certo punto le gambe stanche gli cedettero e si ritrovò in ginocchio per terra, nascondendosi il viso tra le mani, sotto lo sguardo vuoto di Marco, il quale aveva preso a fissare impassibile le mattonelle del muro davanti a sé.

“… Se volete punirmi per le mie malefatte e fallimenti, se mi volete sottoporre al giudizio dei X, sono qui. Però sappiate, che nessun castigo inflittomi da voi o dalla Signoria potrà mai eguagliare la pena e il rimorso che porto nel cuore. Nutrivate per me un affetto disinteressato ed io vi ho ripagati vituperandovi e aggredendovi. Io … non sono degno d’essere chiamato vostro fratello … Ma ammetto il mio egoismo, sicché vi domando scusa per il male dettovi, fattovi e pensato nei vostri confronti e … Perdonatemi, fradelo. Perdonatemi. Vi supplico d’accordarmi il vostro perdono. Mi dispiace, mi dispiace dal più profondo del cuore per la mia stupidità, invidia, rancore, disobbedienza. Mi dispiace, mi dispiace tantissimo …” e man mano che lo ripeteva, Hironimo avvertì una dolce sensazione di sollievo, non dissimile al suo primo risveglio senza catene.

Ora poteva affrontare serenamente la decisione del fratello, qualsiasi essa fosse stata. Anche se sbrodolando talora maldestramente, la sua parte di promessa alla Madonna l’aveva mantenuta e quel benessere interiore, tipico di chi è in pace con la propria coscienza, risultò assai gradito al giovane Miani. Tirò su col naso, s’asciugò le guance bagnate col dorso della mano e attese.

“Alzati”, soffiò Marco a seguito d’un lungo silenzio, il capo reclinato all’indietro e gli occhi puntati al cielo plumbeo, manco stesse invocando dall’alto consiglio. “Su, in piedi!”, spronò con filino d’impazienza il minore, rimasto immobile al suo posto e sbattendo perplesso le ciglia.

Titubante, Hironimo tuttavia obbedì, meditando di che cosa quella richiesta fosse un preludio. “M-Marco …?”, s’azzardò, preoccupato dalla statuaria fissità del fratello. “Io … mi … mi dispiace, non … non ho altro d’aggiungere, se … se v’ho molestato me ne vado …”

All’improvviso, il giovane si ritrovò in un battibaleno contro il corsaletto di Marco, la sua mano destra alla nuca e l’altra sulla schiena. E anticipando ogni sua esclamazione e neanche concedendogli il lusso d’elaborare quanto stesse accadendo, suo fratello gli baciò freneticamente le gote, gli occhi, la fronte, le labbra, le tempie, stringendolo forte come se volesse impedirgli di prendere il volo, di scomparire di nuovo. D’istinto Hironimo ricambiò l’abbraccio, nascondendo il viso nell’incavo della spalla dell’altro e inumidendolo delle ultime lacrime, intanto che veniva ninnato e accarezzato dappertutto sul busto, volendo sincerarsi Marco d’averlo veramente tra le sue braccia, di non vivere un’illusione. Il più anziano inalò profondamente il profumo del fratellino, meravigliandosi dell’essenza di rose in esso, strusciando poi la guancia contro la sua, mentre Hironimo gli circondava il collo con le braccia, aggrappandosi a lui.  

Fradelo”, si staccò Marco dopo un po’ dal minore, incorniciandogli con le mani il viso stanco e provato dalla prigionia. “V’erano giorni in cui dubitavo di udire da te questa parola. E non negli ultimi cinque mesi, no, troppo il mio orgoglio da volerti anche solo sentirti nominare, bensì in questo mese, che mi ha aiutato a riconsiderare quanto accaduto tra di noi da una prospettiva diversa. Mi ha fatto capire che ho già seppellito una sorella, perché dunque scannarsi tra noi fratelli rimasti? Perché ostinarci in tali stupidaggini, quando invece dovremmo godere di ogni istante insieme? Anch’io ho le mie colpe, anch’io sono stato duro e ingiusto con te, gridandoti crudeltà che nessuno dovrebbe mai udire dal proprio sangue. Ti ho mentito quando m’auguravo la tua morte. Ti ho mentito quando dicevo che di te non importava a nessuno. Tutti ti vogliamo bene, a tutti importi. Ti sei guardato attorno? Hai visto come si sono rallegrati della tua fuga? Se veramente stessi sul gozzo alla gente, perché allora ti hanno accolto così festanti? Possiedi la tua buona dose di difetti, sicuro, come ogni uomo che cammina sulla terra. Non sei un mostro, un demonio, sei soltanto un uomo di carne e sangue, fallibile, ma non per questo indegno d’affetto. Perché tu sei amato, sai? Tu sei amato. Sei sempre stato amato, anche quando ci esasperavi, perché sappiamo che tu contraccambi il nostro amore con altrettanta forza. Ammetto d’aver perduto in più occasioni la pazienza con te, d’averti rimproverato talora anche quando non te lo meritavi. Mi rendo conto d’averti persuaso d’essere inutile, non ascoltando le tue opinioni anche quando erano sensate, credendoti quell’eterno decenne che mi supplicava al funerale di Padre di rammentargli il suo volto. T’ho indotto a credere che tu mi fossi invisibile, una zavorra da sopportare. Niente di tutto ciò: tu mi sei carissimo. No. Io ti amo, fratello mio. Ti ho amato da quando hai aperto gli occhi e ti amerò finché chiuderò i miei; ti amo per i tuoi pregi e per i tuoi difetti; ti amo per chi sei e per come sei, incondizionatamente. Ti amo alla stregua d’un figlio [3], perché ti considero parte della mia stessa carne. Sei il mio nome sacro [4]. A me importa il mondo di te, non dimenticartelo mai: ovunque andrai, qualsiasi scelta farai, non dimenticarti che il mio cuore è sempre con te e che ti amo fino all’ultimo mio pensiero. Ti perdono, ti perdono, ti perdono, purché tu ti ricordi che t’amo, t’amo, t’amo, fratellino mio.”

E dopo tale appassionata arringa, nella speranza che in quell’amatissima testaccia dura entrasse ben bene il concetto, Marco si concesse il piccolo sfizio di posare veloce un casto bacio sulla fronte del fratello. Ogni parola l’aveva pronunciata sul serio, non per piaggeria o per consolarlo al momento, dandogli un contentino. Mica si tirava indietro a cantargliele, se l’occasione lo richiedeva! Hironimo non gli appariva affatto orribile nelle sue colpe, nulla per la quale condannarlo ad una misera morte o per ostracizzarlo dalla famiglia; al contrario lo amava di più perché nonostante tutto dietro le sue cattiverie ancora resisteva la volontà sua di fare del bene. Un cuore generoso e sensibile seppellito e prigioniero da troppo tempo nell’oscurità della disperazione, ch’è il peccato più grande perché toglie fiducia nel prossimo, nella vita, in Dio. Marco si ripromise mille volte di far tesoro dell’esperienza vissuta, d’estirpare ogni futile tossicità dal loro legame: troppo breve e precaria la vita per avvelenarla di tali sciocchezze!

Hironimo, dal canto suo, non riuscì a trattenere un pudico sorrisino di compiacimento. Né un adorabile rossore. Era come se si stesse convincendo che forse sì, non era esattamente una creatura da disprezzare. L’opinione di suo fratello, dopo quella di Madre, valeva per lui il mondo e il suo rifiuto l’avrebbe spezzato in via definitiva. Amava ogni suo parente, però Marco era stato l’unico veramente accanto nei suoi periodi più bui, l’unico che si fosse mai fermato ad ascoltarlo sul serio, a cercare, pur fallendo, di capire tutto il malessere urlato da Hironimo dal fondo del suo pozzo di livido rancore e sofferenza. L’unico, sin da quanto erano bambini, che si fermava e si voltava per guardare indietro, onde assicurarsi che fosse lì e che lo stesse seguendo, per tendergli la mano incoraggiante.

Come gliel’aveva tesa quella bellissima dama, aspettandolo sorridente e fiduciosa fuori il padiglione del condottiero … La sua pelle fresca e leggera come l’acqua di fontana eppure la stretta forte e sicura da condottiero, che gli impediva d’inciampare e di cadere, guidandolo nelle tenebre antecedenti l’alba … quella compagna silenziosa che però attraverso quegli occhi ricolmi di luce gli dicevano tutto ciò di cui necessitava: tu sei amato.

“Momolo?”

L’ultimogenito Miani sbatté le palpebre, stropicciandosele imbarazzato. “Scusate …”

“Scusami, ancora non sono Missier il Doxe. Poi dopo, sì, mi darai del voi e pure ti toglierai il cappello, ogniqualvolta c’incontriamo per casa, per strada e per andare alla latrina!”

Il venticinquenne patrizio sputacchiò una risata, coinvolgendo il fratello, che contraccambiò di pancia, finché altro tipo di lacrime non spuntarono agli angoli dei loro occhi. “Scusami”, si corresse Hironimo, il petto sconquassato dagli ultimi risolini. “Mi sono incantato per un istante …”

Marco aggrottò la fronte, preoccupato. “L’ho notato”, asserì cauto. “Sei forse stanco? Ti riporto a letto. Anche perché” e la sua espressione ritornò furbetta, mentre indicava in direzione di una delle tante finestre affacciate sul cortile, “non vorrei che il tuo giannizzero venisse di notte per il mio scalpo.”

“Il mio giannizzero? Oh!”, esclamò Hironimo, accorgendosi di Thomà che li scrutava attentamente dalla finestra, spinto probabilmente dal desiderio di controllare che il suo padrone non venisse eccessivamente strapazzato. Un tenero sorriso si dipinse sulle labbra screpolate: levò in alto la mano e salutò il fantolino, che si nascose sotto la traversa inferiore del telaio fisso. Marco assistette alla scena in silenzio, studiando accorto i lineamenti dell’altro e stupendosi di leggervi il medesimo affetto riservato ai nipoti.

“Ti vuole molto bene”, asserì il trentenne patrizio, “poche volte ho assistito a tanta devozione in un bambino verso uno, che non sia un parente di sangue. Mi domando se per patron non intenda pare.”

Hironimo nicchiò, scostandosi una ciocca dalla fronte. “Spero di riuscire a mantenerla e di non deluderlo … E’ un briccone, ma è il mio briccone … In un certo qualmodo, mi ha salvato, aiutandomi a capire molti aspetti del mondo che prima ignoravo …” Quand’ecco che il giovane cambiò tono e argomento, fissando serissimo il fratello: “Non esageravo prima. Dovrò affrontare la Signoria … dovrò giustificare la perdita di Castel Novo e …”

“… ed io ti resterò accanto. Affronteremo anche questa assieme, come facevamo da fanciulli. Sempre uniti. Non ti abbandonerò, neanche se il mondo intero dovesse schierarsi contro di te”, s’affrettò a rassicurarlo Marco e lo prese sottobraccio, acciocché si sostenesse a lui, essendo il suo passo ancora incerto. “Sebbene non penso sia il caso d’angustiarsi: se ti ricordi, i X non hanno condannato Lucha e vedrai che neanche tu verrai punito, perché non hai mai dato voluntarie le chiavi del castello.”

“Non avrei ugualmente potuto”, gli confidò imbarazzato Hironimo. “Nella confusione della mischia, mi devono essere cascate in acqua …”

I due Miani si squadrarono per qualche istante, per poi sganasciarsi in una grassa risata di pancia.

“Lo dirò io ad Orsolina, ad Eudokia e a Zanetta”, dichiarò di punto in bianco Hironimo. “Forse già lo sanno o lo hanno intuito, ma voglio raccontarle, faccia a faccia, quanto eroicamente siano morti i loro figli e di quanto io sia loro riconoscente per la loro fedeltà e abnegazione. In fin dei conti”, contemplò pensoso le fasce ai polsi, là dove fino al giorno prima  lo feriva il duro morso delle manette, “io vivo grazie a loro sacrificio. E il mio modo di onorarlo, sarà di vivere e combattere questa guerra non soltanto per vincerla, ma soprattutto onde evitare che altre famiglie si spezzino e che altre madri piangano i propri figli. Che altre donne vengano vergognate come quelle poverette del Montello. Per evitare che aumenti il numero di altri Thomà, di bambini strappati dalle braccia delle madri, privati dei padri; bambini corrotti dall’odio, bambini torturati e violentati, bambini della cui sorte poi non importerà a nessuno, dimenticando che quella sorte gliel’abbiamo procurata noi …”

“E’ un proposito molto nobile. Ti fa onore”, convenne Marco, tradendo la sua espressione un orgoglio pressoché paterno. “Invero sei maturato”,  aggiunse.

“Spero soltanto d’essere all’altezza di questo compito”, si schermì il minore, un poco titubante dinanzi alla gravità del suo progetto, non trattandosi, infatti, di un progetto di facile realizzazione, considerate le insidie e le incognite della vita.

“Solo tentando e ritentando lo scoprirai, senza arrenderti dinanzi ai fallimenti e alle avversità”, gli spiegò incoraggiante Marco. “Niente a questo mondo ti viene concesso presto e subito. Ai tuoi obiettivi ci dovrai arrivare poco alla volta, un passo dietro l’altro. E tu sei nato per lottare.”

Hironimo gli afferrò la mano, portandosela al cuore. “Noi non siamo altro che un piccolo tassello …

“… nell’immenso mosaico ch’è il progetto di Dio”, concluse Marco quella massima da loro imparata da Padre.

Il minore assentì, chinando il capo socchiudendo gli occhi affinché essi evocassero la sua misteriosa compagna di fuga. Se all’inizio aveva considerato la sua sopravvivenza un peso se non proprio un castigo, adesso la percepiva come un secondo inizio.

Per un motivo che neanche lui si figurava, Dio lo aveva salvato dalla strage di Castelnuovo; lo aveva protetto durante la prigionia, sottraendolo a tormenti ben peggiori di quelli subiti per mano di Mercurio Bua. Pur ammalatosi, lo aveva tenuto in vita. Aveva disposto della sua fuga, inviandogli la dama dal mantello bianchissimo. Li aveva guidati lungo tutto il cammino, indisturbati fin sotto alle mura di Treviso.

Per anni Hironimo aveva accusato Dio d’indifferenza, quando invece mai lo aveva abbandonato, poiché contro ogni umana logica, la sua vita Egli aveva deciso che non dovesse finire tra le macerie insanguinate di Castelnuovo.

Tu, che hai l’anima di Lazzaro … e se in passato aveva badato più alle allettanti promesse di gloria eterna, adesso era l’incipit della profezia della zingara ad interessarlo e a turbarlo. Lazzaro l’amico di Cristo, Lazzaro ammalatosi e morto; Lazzaro per quattro giorni rimasto nel sepolcro finché non aveva incominciato a puzzare, Lazzaro per la cui morte il Figlio di Dio versò lacrime; Lazzaro che tra lo sconcerto e l’incredulità generale era stato resuscitato acciocché tutti potessero credere. Tu, che hai l’anima di Lazzaro … Perché proprio a lui l’aveva la gitana comparato? Cosa li accumunava? Era stata forse la sua un’anima morta e putente? O forse si riferiva al suo spirito orgoglioso? Oppure ai suoi propositi di vita, sterili e fini a se stessi in passato ma ora abbastanza chiari e volti a far del bene?

E sarebbe stato questo paragone a Lazzaro ad influire il tipo sentiero da intraprendere, onde raggiungere il successo profetatogli? Abbagliato dalla prospettiva della fama, Hironimo s’era illuso di raggiungerla attraverso qualsiasi mezzo disponibile, anche a costo di pavimentare la sua via di cadaveri. Ma egli, morto e risorto come Lazzaro, doveva seguire un percorso ben definito per compiere il suo destino. Ma quale?

Il giovane Miani aprì e chiuse la mano, la medesima ch’aveva stretto le delicate dita della signora durante l’intera marcia notturna. In quel frangente non s’era sentito né smarrito né confuso, bensì guidato e protetto da un’invincibile alleata.  

“Indicami la strada … indicami … non so dove andare, non  conosco la strada …”

“Dove andare, ora lo sai. La tua strada, ora la conosci.”

Ma a che si riferiva? Alla strada verso Treviso o alla strada della sua esistenza?

Se invero lui non era che un tassello di mosaico nelle mani di Dio, dove lo voleva collocare e in quale progetto?

Hironimo non negava la sua riconoscenza d’esser sopravvissuto al massacro di Castelnuovo, sebbene tale sentimento non rispondeva all’annosa questione: perché io sì e loro no?

Che anche l’apparente follia del caos fosse governata dalla volontà di Dio?

E se era così, di nuovo, perché io sì e loro no?

Cos’hai in progetto per me, o Signore?

Perché hai fatto di me un Lazzaro?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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E così siamo ufficialmente entrati nella terza e ultima parte di quest’avventura. Grazie mille a chi mi segue dal lontano 27 settembre 2019! Speriamo di finire la storia prima del terzo anniversario XD

 

Il Nostro è ufficialmente libero, urrà! Incominciano le prime reazioni alla sua fuga, non tutti i nodi al pettine sono stati affrontati (poverino, lasciamolo riprendere fiato!); nei prossimi capitoli vedremo anche le reazioni fuori Treviso, tra chi si rallegrerà e chi un po’ meno  …

 

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

Alla prossima,

 

 

Un po’ di noticine:

 

[1a] Torrenuova= oggi Tornova; [1b] Are =  oggi Adria

[2] “Malefizio”, o “Melefico”, “Renghera”, “Dei Giustiziati” era una delle più piccole campane del Campanile di San Marco. Essa annunciava che si stava preparando una condanna a morte e suonava per tutto il tragitto del condannato dalla prigione al patibolo. Il “Malefizio” suonava dopo la “Nona” per mezzora.

I Veneziani regolavano la loro vita a seconda del suono delle campane di San Marco, di cui oggi, dopo il crollo del Campanile nel 1902, è rimasta solo la “Maragona”, la quale suonava al sorgere del sole dei giorni feriali e annunciava l’inizio del giorno lavorativo, in particolare degli Arsenalotti. “Marangon” in veneto significa “falegname”. Un’ora prima del levar del sole, suonava il “Matutin”, la prima campana della giornata. A quell’ora avveniva il cambio della guardia alla Basilica, a Piazza San Marco e a Palazzo Ducale.

La “Mezzana” o “Mezzaterza” suonava nove tocchi verso le due del pomeriggio. Era anche detta “Dei Pregadi” e indicava la convocazione dei senatori a Palazzo Ducale. La “Trottiera” l’inizio delle sedute del Maggior Consiglio.

La “Nona” batteva a mezzogiorno dai sedici ai diciotto rintocchi. La campana “De Le Dò” o “De Le Do Ore” suonava dopo il tramonto del sole e a quell’ora montava la guardia notturna alla Basilica, Piazza San Marco e Palazzo Ducale.

[3] citazione ripresa dal medesimo testamento di Marco Miani: […] mio caro fratelo, che sempre lo abuto per fiol, come lui sa”.

[4] Girolamo/Gerolamo/Geronimo derivano dal greco e significa “nome sacro”.

 

 

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