Espiazione

di MissAdler
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il peccato ***
Capitolo 2: *** Il perdono ***



Capitolo 1
*** Il peccato ***


Questa storia è stata scritta per l'evento "Il tempo passa, la Johnlock resta", organizzata dal gruppo FB "Johnlock is the Way... and Freebatch of course!"

 

 

 

~ESPIAZIONE~

 


 

PARTE PRIMA - IL PECCATO


 

“Non esiste nessuno, nessuna entità superiore a cui si possa fare appello, per riconciliarsi, per ottenere il perdono. [...]ed è proprio questo il punto. Si risolve tutto nel tentativo.”

 

da “Espiazione” di Ian McEwan

 

 

Non ho mai pensato molto alla vecchiaia. Nella mia mente non sono mai riuscita a vedermi con la faccia incartapecorita, gli occhiali da presbite e la chioma canuta, non riuscivo ad immaginare come potesse essere vivere staticamente, senza perseguire uno scopo più alto, senza combattere, senza fuggire, e forse, più di ogni altra cosa, non riuscivo a vedermi in pace.

Eppure l'autunno della vita dovrebbe essere proprio questo, suppongo. La tranquillità definitiva, una sorta di quieta e malinconica rassegnazione nei confronti del passato, accettazione di quello che è stato, di ciò che non si è vissuto e di ciò che non accadrà mai.

Ho sempre saputo che questo non faceva per me, che era il dinamismo a tenermi in vita, a darmi forza ed energia per continuare a fare ciò che credevo fosse giusto, ciò che ritenevo la mia vocazione.

Non ho mai pensato che un giorno avrei avuto il privilegio di poter rimpiangere le mie scelte, magari seduta in poltrona, con le babbucce ai piedi e un paio di ferri da calza nelle mani artritiche, ripensando alle vite spezzate, alle mie mille identità, nessuna delle quali si confaceva a me fino in fondo, alla famiglia che avrei potuto avere e alla quale ho rinunciato ancor prima di poterla sentire mia.

Ho visto la felicità così da vicino da riuscire quasi a sfiorarla, ho conosciuto l'amore, perché ne ho ricevuto più di quanto non meritassi, perché lui mi ha amata, oh, sì, nonostante tutto, John Watson mi ha amata.

Non me, ovviamente. Come avrebbe potuto amare Rosamunde Mary Moran? Nemmeno la conosceva, quella donna, la consulente criminale che ha raccolto l'eredità di James Moriarty, che ha preso in mano con entusiasmo e dedizione il suo lavoro lasciato a metà, che avrebbe dovuto vendicarsi proprio di Sherlock Holmes, dell'uomo per cui John era erroneamente in lutto. Come avrebbe mai potuto amare colei che stava finendo di orchestrare segretamente Il Problema Finale?

Dio, no! Lui amava Mary Morstan, la versione di me che ho voluto mostrargli, la donna che, lo capisco solo ora, avrei disperatamente voluto essere.

Una parte di me è stata felice con lui, a modo mio l'ho amato. Del resto come si può non innamorarsi di John, con il suo grande cuore, la spiccata ironia e tutte le sue contraddizioni?

Non era nei piani, eppure era accaduto, nonostante una consapevolezza odiosa mi si insinuò nella testa già dal primo momento, da quando pronunciò per la prima volta il suo nome davanti a me, quel nome che Jim non smetteva mai di sussurrare con tono inquietante, mentre mi spiegava il suo folle disegno per distruggerlo.

Vidi qualcosa mutare in John, nei suoi occhi lucidi, una luce che per un istante aveva brillato come una stella remota e che l'aveva portato lontano, via da me, via da se stesso, probabilmente dov'era lui, in un ricordo che non mi avrebbe mai raccontato e in cui c'erano solamente loro due.

E allora capii. John Watson non avrebbe mai amato nessuno come amava Sherlock Holmes, vivo o morto che fosse, tantomeno la sottoscritta.

E sono certa che avesse continuato ad amarlo anche dopo il suo ritorno, anche mentre lo prendeva a pugni e gli gridava in faccia di odiarlo, anche mentre sceglieva me, per motivi che non sono mai riuscita a comprendere, mentre mi guardava negli occhi senza vedermi, mentre mi giurava amore eterno senza sapere che, quel voto, il suo cuore l'aveva già pronunciato per lui anni prima, forse dal primo momento in cui era entrato a far parte della sua vita. E la verità era che a me andava bene così, che quella gelosia imprevista avrebbe reso il mio compito più semplice: avrei dovuto insinuarmi tra loro, indebolire Sherlock Holmes, allontanarlo dall'unica persona che gli era davvero necessaria e tutto ciò non senza un punta di soddisfazione. Mi serviva scoperto, fragile, solo. Mi serviva un avamposto per tenerlo d'occhio, per poterlo colpire quando sarebbe stato il momento, e quell'avamposto era John.

Se fossi stata libera da ogni secondo fine, lontana dal compiere la mia missione suprema, probabilmente sarei scappata a gambe levate non appena mi fossi resa conto di cosa Sherlock rappresentasse per lui. Mi piace pensare che se fossi stata una donna come tante le amiche che non ho mai avuto mi avrebbero dissuasa dallo sposare un uomo innamorato irrimediabilmente di qualcun altro. Ma io dovevo farlo comunque, non per amore, sebbene ne provassi più del consentito, non per la speranza di una vita felice, non per il desiderio di una famiglia mia, ma solamente per lavoro, per una battaglia che ora, improvvisamente, non sembra più così importante.

Non è stato facile fingere di essere stupida, di non accorgermi di quegli sguardi, dei sorrisi che gli riservava, della felicità che gli faceva brillare gli occhi quando parlava di lui, o con lui, o semplicemente se erano entrambi nella stessa stanza.

Non è stato facile sentirlo pronunciare il suo nome nel sonno, una, dieci, cento volte, nelle notti in cui avrebbe solo dovuto stringermi a sé, baciarmi i capelli e sognare di noi.

Sì, accidenti, mi ero innamorata senza neppure rendermene conto, ed è stato ancor più difficile ammettere che non sarei mai stata in grado di allontanarlo da Sherlock come avrei dovuto, che iniziavo a desiderare di fallire, ché separarli sarebbe stato un peccato mortale, una bestemmia, un affronto all'amore stesso.

Ciò nonostante, ha prevalso la mia caparbietà, ho continuato a puntare il mio obiettivo, a mentire, ad essere la fidanzata ingenua di un compagno che non mi amava abbastanza, a tramare, manipolare e studiare da vicino l'uomo di cui mi ritrovavo mio malgrado ad essere gelosa, colui che intralciava il mio lavoro e il mio successo. La mia missione era più importante di qualsiasi altra cosa, Il Problema Finale doveva essere orchestrato fino in fondo e gli affari lasciati in sospeso da Jim andavano portati a termine.

Quello che non avevo calcolato era ciò che mai sarebbe dovuto accadere.

Rosie.

Ricordo lo shock sul volto di John il giorno del matrimonio, il panico nei suoi occhi e quel sorriso di plastica che a malapena dissimulava il terrore. Ricordo che non riusciva nemmeno a guardarmi, che non smetteva di toccare Sherlock, di cercare i suoi occhi, come se in qualche modo potesse aggrapparsi a lui per salvarsi, per restare legato ad una vita a cui aveva rinunciato per testardaggine e stizza, pentendosi finalmente di quella scelta e desiderando solo tornare indietro e restare con lui.

E ricordo il mio, di shock, la paura schiacciante, la consapevolezza che non avrei potuto più seguire il piano originale e che avrei dovuto trovare una soluzione efficace a quel tragico imprevisto.

Non volevo di certo essere madre, non ne avevo mai avvertito la necessità e con John non era mai capitato di parlarne seriamente, eppure, nonostante tutto, sapevo che se gli avessi rivelato di non voler portare a termine la gravidanza senza un valido motivo, avrei solamente peggiorato la situazione.

Perciò avevo deciso di aspettare, di recitare la mia parte fino a che Rosie non fosse venuta al mondo. A quel punto avrei potuto lasciarla a suo padre e sparire per dare inizio al gran finale.

D'altronde, già dopo le nozze, Sherlock sembrava sparito dalla circolazione, sapevo che era interessato a Charles Augustus Magnussen, che stava indagando su di lui, che voleva avvicinarglisi, e di certo per me sarebbe stato rischioso, perché quel verme sapeva ogni cosa di me e delle mie segrete collaborazioni, lui sì che poteva smascherarmi e mandare tutto a monte! Eppure, tenendo Sherlock lontano da John, forse sarei riuscita a gestire anche il resto, perfino Magnussen, a costo di sporcarmi le mani in anticipo.

Sembrava un ottimo progetto, ne ero convinta, ma quel che ancora non sapevo è che i bambini fanno cose strane al cervello degli adulti. O forse al cuore, più che altro.

Quel che è certo è che Rosie, già da quando nuotava dentro la mia pancia, doveva avermi rammollito parecchio, perché quando mi ritrovai, senza averlo previsto e con Magnussen a portata di tiro, a sparare una pallottola dritta nel petto di Sherlock Holmes, mi sentii sorprendentemente in colpa. Temetti di averlo fatto fuori, e non perché Jim mi avesse convinto che ucciderlo sarebbe stato troppo facile e a quel punto Il Problema Finale sarebbe rimasto irrisolto, bensì perché sapevo che John sarebbe letteralmente impazzito, che probabilmente stavolta l'avrebbe seguito senza rimpianti, che Rosie non avrebbe più avuto un padre con cui rimanere, quando io me ne fossi andata. E forse, in fondo, mi dispiaceva anche per Sherlock, sebbene non l'avrei mai ammesso nemmeno con me stessa.

Era stato allora che quei due mi avevano smascherata. Non del tutto, certo. Gli avevo propinato una sciocchezza su un qualche gruppo di mercenari chiamato AG.R.A., approfittando del fatto che su una pennetta usb in mio possesso ci fosse scritta questa sigla, e allora quella menzogna sembrava una storia plausibile, abbastanza tragica da toccarli, sebbene la pennetta in questione contenesse solamente dati criptati di una nostra fonte in India, che avevo prontamente eliminato prima di consegnarla a loro.

La gravidanza era stata provvidenziale, devo ammetterlo, perché in quell'occasione, non solo si bevvero quella storia assurda, ma John non ebbe nemmeno il coraggio di lasciarmi, nonostante la rabbia malcelata, desistendo solo poiché portavo sua figlia in grembo.

E dopo qualche mese mi perdonò, contro ogni mia più accurata previsione. John Watson e il suo senso di responsabilità! Non mi ero fatta illusioni, ovviamente, perché ormai lo vedevo, l'amore di un tempo non c'era più. Non che avessi mai pensato che fosse un sentimento forte e profondo, quello no, però c'era, mentre ad un tratto era svanito, insieme ai sorrisi che mi riservava quando ero ancora la sua Mary e alla fiducia che nutriva per me.

Non sarebbe stato facile allontanarli adesso, avevo perso ogni ascendente su di lui, e se non fosse stato per quel serpente di Magnussen, probabilmente tutto questo non sarebbe successo. Non così.

Quello schifoso si era fatto ammazzare. Aveva avuto le prove che il punto debole di Sherlock fosse John, e che quello di John fossi io (solo perché sua figlia cresceva dentro di me, non certo perché mi amasse ancora), eppure non aveva tenuto conto di un fattore fondamentale, non aveva capito fino a che punto Sherlock avrebbe potuto spingersi per amore di John, un amore talmente puro e implacabile da portarlo ad uccidere Magnussen a sangue freddo, per proteggere me, per mantenere quel giuramento assurdo pronunciato il giorno del matrimonio. Tuttora sono convinta che avesse preso molto più sul serio lui il suo voto, piuttosto che John ed io quelli nuziali.

In ogni caso, entrambi i propositi si rivelarono delle velleità, Sherlock era disposto a sacrificare ogni cosa per John, il suo cuore, la sua vita intera, credendo che con me sarebbe stato felice, ignorando che il suo migliore amico provava gli stessi identici sentimenti per lui e non per me. Non poteva proteggerci entrambi, perché il vero pericolo veniva da me, perché l'unica cosa che lo avrebbe salvato, alla fine, sarebbe stata la mia morte.

Fatto sta che il mio segreto era morto con Magnussen, che avevo ancora tempo per portare a termine la gravidanza, ma che avrei anche dovuto inventarmi qualcosa per non far spedire Sherlock chissà dove, in seguito al suo folle delitto.

Per un attimo, prima della sua partenza per quell'esilio definitivo, avevo creduto che John l'avrebbe abbracciato senza riuscire più a lasciarlo andare, che Sherlock gli avrebbe finalmente confessato ciò che provava, convincendolo probabilmente ad andare con lui. Guardavo da lontano quella scena con il cuore in gola, gli occhi di Mycroft Holmes su di me, gelidi ed indagatori, mentre Rosie si muoveva e tirava calci contro il mio stomaco sottosopra, mentre un vento gelido mi sferzava le guance e screpolava le labbra.

Mi aspettavo di vederli piangere da un momento all'altro, che John scattasse in avanti e baciasse Sherlock come aveva desiderato fare per tutti quegli anni persi inutilmente, liberando tutto l'amore tenuto legato e imbavagliato troppo a lungo nel profondo del cuore. Ma nulla di tutto questo era accaduto.

Sherlock aveva detto qualcosa che doveva sembrare esilarante, perché mio marito si era messo a ridere all'improvviso, poi si erano stretti la mano, nulla di più. Holmes si era tolto il guanto e aveva allungato le dita verso John, che le aveva guardate per un tempo decisamente troppo lungo e che poi le aveva strette nelle sue.

Potrei giurare che Sherlock avesse tutta l'intenzione di non lavarsi mai più quella mano, proposito che non perseguì mai, perché quello che era il mio piano per farlo restare a Londra venne messo subito in atto, e come quell'aereo era decollato, pochi minuti dopo stava atterrando di nuovo su quella pista, riportandoci uno Sherlock strafatto e in piena paranoia.

Moriarty era tornato, ma io non me n'ero mai andata, eppure nessuno sospettava di me, tantomeno Mycroft Holmes, il che era tutto dire.

Sherlock era stato scagionato, il filmato dell'omicidio di Magnussen falsificato, il ritorno di Jim reso noto al mondo. Sherlock si era convinto che Moriarty avesse in mente un'ultima sfida post mortem per vendicarsi di lui, ma non aveva idea che fossi stata io ad orchestrare tutto e che proprio io avrei portato a termine quel gioco sadico.

Si mise in attesa.

Aspettava e nel frattempo risolveva casi, in modo ossessivo e smanioso, diventando sempre più impaziente, preoccupando John e irritando me.

Mio marito aveva ripreso a trascorrere a Baker Street la maggior parte del suo tempo, lo aiutava come poteva, anche se più che altro si limitava ad osservarlo mentre scriveva messaggi e faceva ricerche al cellulare. Spesso Sherlock chiamava anche me, sosteneva che fossi un aiuto ideale vista la mia esperienza come mercenaria, ignorando che mi avrebbe reso molto più semplice mettergli i bastoni tra le ruote.

In ogni caso John lo detestava. Odiava essere messo da parte, lasciato indietro, non potergli stare addosso costantemente, non catalizzare tutte le sue attenzioni. Non riusciva a capire che tutto ciò che Sherlock faceva era per lui, che si era convinto di rendere ancor più felice John includendo me nel loro rapporto esclusivo, coinvolgendomi in quello che fino a poco tempo prima era stata la loro quotidianità. Sherlock era disposto anche a condividere l'amore della sua vita, pur di non perderlo.

La notte in cui nacque Rosie capii definitivamente che se avessi ucciso lui avrei ucciso entrambi, che non avrei potuto risparmiare uno dei due, che le loro vite erano legate da un filo impossibile da recidere, che facendo precipitare Sherlock, avrei condannato John a morire con lui, nell'abisso dove avevo intenzione di seppellire il mio nemico, e dal quale stavolta non sarebbe risorto.

Lo capii quando John accostò l'auto, scese e si rimboccò le maniche, mentre io gridavo e le contrazioni sembravano lacerarmi anche l'anima, quando fece nascere nostra figlia in mezzo al traffico di Londra, con le macchine che ci sfrecciavano a fianco, con Sherlock che sgranava gli occhi e si agitava come se non sapesse che è così che si viene al mondo. Lo capii quando finalmente John la prese tra le braccia, avvolgendola nel cappotto che Sherlock gli aveva prontamente messo addosso, ne ebbi la certezza quando mi resi conto che la prima persona a cui aveva rivolto lo sguardo non ero io.

John aveva guardato lui, solo lui, di nuovo pareva aggrapparsi a quegli occhi come se non volesse più lasciarli, come se rappresentassero la sua unica salvezza, il suo mondo intero.

Ed io guardavo loro due, li guardavo mentre sentivo di svenire e mi arrivavano da lontano le sirene dell'ambulanza che veniva a prendermi. Avevano le mani sporche del mio sangue, erano sfatti, e commossi, come se quella bambina fosse stata solo loro, come se per un attimo si fossero dimenticati di me, come se si fossero dimenticati di ogni altra cosa. Una parte di me odiava Sherlock e ne era dannatamente invidiosa. Quel che mi sforzavo di ignorare era che l'altra metà di me, per qualche assurda ragione, stava imparando a volergli bene, forse perché mi ritrovavo troppo spesso a guardarlo con gli occhi di John, forse perché non aveva mai cercato di portarmelo via, dimostrandosi giorno dopo giorno il primo ed unico amico che abbia mai avuto. E mentre l'immagine di un quadro perfetto del quale non facevo parte diveniva sempre più sfocata, sentivo che dovevo sbrigarmi, che Il Problema Finale doveva essere messo in atto al più presto, o il mio coraggio sarebbe venuto meno e il vero problema l'avrei avuto io.

 

***

 

Era una tiepida mattina di maggio quando me ne andai senza far rumore, lasciando John che dormiva abbracciato a Rosie, tenendole delicatamente il piedino, come per assicurarsi che restasse esattamente lì dov'era. Erano passati solo quattro mesi dal parto, ma non potevo più aspettare, così infilai in borsa i miei documenti falsi, la pistola che tenevo nascosta dove John non l'avrebbe mai trovata e i soldi che avevo messo da parte esclusivamente per la messa in atto del mio piano.

Gli lasciai una lettera in cui spiegavo che stavo fuggendo per proteggerli, per non attirare fino a loro gli altri membri di quella squadra inventata di sana pianta, quell'A.G.R.A. che non era altro che una città indiana che tenevo in considerazione esclusivamente per via degli affari ereditati da Jim.

Era una giornata mite, tanto da permettermi di indossare una giacca leggera, che John mi aveva regalato per quello che pensava fosse il mio compleanno, e che ovviamente non lo era affatto, eppure avevo freddo. Un freddo strano, una sensazione che per un istante mi fece gelare le ossa e che era come un presagio di morte.

Lo ignorai, così come ignorai il brivido che mi percorse la schiena mentre mi avvicinavo all'elicottero che mi avrebbe portato a Sherrinford entro l'ora di pranzo. Avevo ancora molto da fare e fu mentre fissavo il mare dall'alto, pensando a Rosie, a John, agli ultimi dettagli da sistemare prima che il gioco fosse pronto per Sherlock, che ricevetti la telefonata che fece precipitare ogni cosa, incluso il mio elicottero.

 

 

 

ANGOLINO DELL'AUTRICE

Eccomi qui con una storiella in due capitoli per una nuova challenge!

Dovevo scrivere una fanfiction su un prompt ben preciso che trascriverò per intero alla fine!

È la prima volta che uso il pov di Mary, spero di averlo trattato bene.

Se vi va di dirmi cosa ne pensate mi fa piacere!

Baci

MissAdler 

 

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Capitolo 2
*** Il perdono ***


 

PARTE SECONDA – IL PERDONO

 

 

“Ogni uomo è colpevole di tutto il bene che non ha fatto.”

Voltaire

 

 

 

Mio fratello si chiamava Sebastian Moran ed era il braccio destro di James Moriarty.

Era sveglio, spietato come una macchina da guerra, e ciononostante fu ucciso poco dopo la dipartita di Jim, da una di quelle cellule che Sherlock Holmes si era affannato a sgominare per ben due anni.

Quel che il mio sociopatico preferito non sapeva è che quelle cellule erano impossibili da debellare, crescevano e si moltiplicavano come parassiti, si modificavano, differenziandosi, e perfezionandosi, perseguendo nuovi scopi, sfruttando il lavoro di Jim e rivoltandosi contro chi cercava di detenere il monopolio di quel lascito.

Mio fratello era morto per delle informazioni che conosceva solo lui e ora qualcuno voleva uccidere me per lo stesso motivo. Me lo disse una voce che conoscevo molto bene, in quei tre secondi al telefono, prima che l'elicottero iniziasse a perdere quota. Una voce che mi minacciava di morte e che veniva proprio da quella città indiana che era alla base di tutte le menzogne raccontate a John.

Non era la prima minaccia che ricevevo, né il primo attentato alla mia vita, eppure stavolta la sensazione che provai fu diversa da tutte le altre volte.

Chiusi gli occhi un secondo prima dell'impatto, convinta che non li avrei riaperti mai più. Il mio ultimo pensiero fu per la giacca che avevo addosso, che la salsedine avrebbe irrimediabilmente rovinato. Cosa che effettivamente accadde, sebbene io fossi sopravvissuta. Il mio copilota era annegato ma io riuscii a trascinarmi sul gommone d'emergenza, a raggiungere la riva, poi un aeroporto.

Sherrinford poteva aspettare.

Capii di essere in un campo minato, per anni avevo trascurato gli affari per occuparmi di Sherlock Holmes, per scavargli la fossa e seppellirlo vivo, una volta per tutte, senza pensare che quegli affari mi si sarebbero rivoltati contro, accerchiandomi e minacciandomi con le mie stesse armi. Mi resi conto che la fossa che avevo scavato sarebbe stata la mia tomba e che il mio cadavere l'avrebbe riempita prima di quanto credessi.

Il giorno dopo ero ad Agra, determinata a ripristinare l'intoccabilità del mio ruolo. Grazie ai contatti che mi erano rimasti fedeli in India, feci fuori il traditore e sgominai la sua cellula, mi ci vollero due settimane per insabbiare tutto e cambiare nuovamente identità, e fu quando completai questa imprevista missione, in una calda serata di giugno, mentre passeggiavo per il mercato avvolta nel mio sari* di seconda mano, immersa nell'odore pungente delle spezie, che finalmente ebbi un'illuminazione.

Io non sarei mai invecchiata.

Osservai l'anziana che imbustava lentamente del cumino dopo averlo pesato su una vecchia bilancia arrugginita, le sue mani coperte di macchie scure, il tremore delle dita, le grinze del viso incartapecorito, e realizzai che a me non sarebbe mai successo, che non avrei fatto in tempo ad avvizzire, a consumarmi come una candela accesa da troppo tempo, ché qualcuno avrebbe soffiato su quella fiamma quando la cera era ancora a metà.

Sentire la morte che viene a prenderti, il freddo che ti lambisce la schiena, l'odore di putrefazione che ti sconquassa lo stomaco, la paura che ti torce le budella e ti fa galoppare il cuore, può cambiare completamente la prospettiva con cui guardi il mondo. Stavo rivalutando me stessa ed ogni mia singola scelta fino a quel momento, divenendo improvvisamente consapevole della mia inconsistenza.

Non avrei fatto in tempo a raggiungere i miei scopi criminali, né a mettere in atto la vendetta di Jim, quel gioco sadico che includeva l'apparizione sconvolgente della sorella psicopatica di Sherlock Holmes. Non avrei fatto ritorno a Londra, né in quella che una volta avevo chiamato casa e che ora mi mancava disperatamente. Non avrei rivisto mia figlia, quello scricciolo rosa che aveva i miei stessi riccioli biondi, a ricordarmi che forse una parte di me avrebbe continuato a vivere anche dopo la mia morte e che la mia esistenza non era poi stata del tutto vana. Non avrei più rivisto John Watson, non avrei potuto dirgli quanto avrei voluto essere la donna che credeva, quanto invidiavo Sherlock per l'amore che segretamente gli riservava, quanto sarebbe bastato poco per afferrare quella felicità che si erano sempre preclusi, se non fossero stati due perfetti idioti!

Non avrei messo in atto Il Problema Finale, nemmeno se avessi avuto più tempo, perché non potevo più fare del male alle uniche persone al mondo che avessero mai contato per me, che erano state la mia famiglia, la sola che avessi mai conosciuto e da cui mi ero sentita amata davvero.

 

***

 

Fu in quei giorni che Sherlock e John mi trovarono, che si presentarono nel tugurio che occupavo clandestinamente pagando i proprietari sottobanco, più per il loro silenzio che per le quattro mura ingiallite che mi ritrovavo attorno.

Arrivarono come l'esercito della salvezza, convinti che mi avrebbero riportato a Londra, difendendomi strenuamente da qualcosa che non esisteva, ignari che in realtà il vero nemico fossi io e che probabilmente meritavo la morte più di quanto la meritasse Moriarty stesso. Non potevano sapere che fossi già morta, che la spada di Damocle che mi pendeva sulla testa da troppi anni, stava ormai per conficcarmisi nella testa.

Ma lo capirono molto presto, perché nelle deduzioni Sherlock Holmes era pur sempre il migliore.

Le minacce di morte che avevo ricevuto in quelle settimane si riflettevano nei miei occhi, tutto ciò che mi circondava, in quel rifugio, parlava di me, di chi ero davvero, della mia missione, della mia vita sospesa ad un filo.

Gli ci volle più tempo del dovuto, si guardò attorno in silenzio per un paio di minuti, ma alla fine parlò ed io non potei fare a meno di confermare ogni sua parola.

“Perché?”

Fu tutto ciò che disse John, con un filo di voce e senza nemmeno guardarmi.

Era rimasto in silenzio fino ad allora, lo sguardo basso, i pugni stretti lungo le cosce fasciate dai Jeans. Per un attimo mi sorpresi a pensare che fosse bellissimo, che quella camicia azzurrina facesse risaltare il blu di quegli occhi che si rifiutavano strenuamente di posarsi su di me.

Fu una riflessione sciocca, come la maggior parte di quelle che occupavano la mia mente negli ultimi giorni, da quando avevo preso coscienza di quella che sarebbe stata la mia sorte.

“Perché?” ripeté incurvando leggermente la schiena e stringendo più forte i pugni.

Non si aspettava una risposta, forse quella domanda era rivolta più che altro a se stesso, alla vita, o magari a qualche dio, visto che poco dopo imprecò con furia tra i denti, eppure io parlai comunque, a voce alta e lentamente, come si fa con un bambino arrabbiato, spiegando ogni cosa, senza più distorcere niente, senza tralasciare nessun dettaglio, con una sola eccezione: non gli dissi in cosa consisteva Il Problema Finale.

Raccontai di mio fratello, della sua collaborazione con Moriarty, dell'ascendente che ebbe su di me, essendo l'unico parente che avevo al mondo, raccontai della sua morte e della mia decisione di consacrare la mia intera esistenza al suo scopo, a seguire il più grande consulente criminale al mondo, a spianare il terreno per una guerra che avrebbe richiesto ciò che solo noi avevamo e che potevamo vendere per cifre da capogiro: piani bellici, armi, segreti di stato, collaborazioni. Avremmo avuto il monopolio completo, il potere e la ricchezza. Non che a Jim importassero queste cose - dannato psicopatico! - lui voleva solo avere ragione. Lui voleva giocare.

“Come te, Sherlock” aggiunsi sorridendo, tentando di apparire disinvolta.

Per tutta risposta John mi puntò contro la pistola e finalmente alzò lo sguardo su di me.

“Sta zitta, non voglio sentire un'altra parola da quella tua bocca bugiarda.”

“John...” provai a dire, ma ormai era fuori di sé, lo capivo da quello sguardo torvo e vagamente lucido.

Ripensandoci, non credo che sarebbe stato in grado di uccidermi, quel che è certo è che mi odiava come non aveva mai odiato nessuno in tutta la vita e che quello sguardo ebbe il potere di farmi molto più male del proiettile che non arrivò mai.

“John” intervenne Sherlock con tono calmo, alzando le mani con fare pacifico, “avanti, mettila via, non servirebbe a niente, pensa a Rosie...”

Ma mio marito continuava a tenermi sotto tiro con la fermezza e la determinazione di un cecchino.

“John” continuò muovendo qualche passo verso di lui e sfiorandogli il braccio con quelle dita lunghissime, “l'hai sentita, ha le ore contate, tutto ciò che ha fatto non è servito a niente, ha fallito e sta già pagando per questo...”

Una scossa mi fece drizzare la schiena e senza nemmeno rendermene conto afferrai la mia pistola e la puntai alla testa di Sherlock, tenendola con entrambe le mani, fissando John dritto negli occhi con tutta la convinzione di cui ero ancora capace.

Furono quelle parole, quella frase pronunciata solo per tranquillizzare John, ma che aveva avuto l'unico effetto di far reagire me.

Tutto ciò che avevo fatto non era servito a niente.

Aveva ragione. La mia era stata una vita sprecata, un castello di sabbia costruito troppo vicino alla riva del mare, certamente non abitabile, fragile, condannato ad essere spazzato via dall'acqua, dal vento, dall'indifferenza o dal passare del tempo. Sarei morta comunque, da sola, perché il mio retaggio infine era solo questo: bugie, inganni, guerra e sangue. Sarei morta affrontando finalmente me stessa, guardandomi allo specchio e scoprendo di non conoscermi nemmeno, realizzando che nulla di tutto ciò in cui avevo creduto, per cui avevo lottato e mi ero sacrificata, aveva importanza, che non avevo mai fatto nulla di cui andare fiera, a parte Rosie, ma quello era stato involontario e mi ci ero semplicemente ritrovata dentro fino al collo. Sarei morta senza aver mai avuto senso d'esistere, sperando almeno d'essere gustosa per i vermi che avrebbero banchettato col mio cadavere.

“Mettila giù, John, o stavolta giuro su dio che lo ammazzo davvero.”

Solo allora vidi mio marito tentennare, gli tremarono visibilmente le mani e il suo viso perse ogni sfumatura di vita, divenendo pallido e segnato dall'angoscia.

Sherlock non si mosse, continuò a tenere le dita sulla manica della camicia di John, stringendo appena, portando gli occhi su di me come per studiarmi. Povero ingenuo! Ormai non gli sarebbe servito a niente, ero stata io a studiarli entrambi per anni e nulla mi avrebbe mai distolto dall'ultima missione che mi ero appena assegnata.

“Non lo farai, Mary...” provò a dire Sherlock mentre lo tenevo sotto tiro, ma non gli lasciai il tempo di dire altro e sparai nel vuoto accanto a lui, a cinque centimetri dalla sua guancia, ringraziando mentalmente d'aver messo il silenziatore alla pistola.

John scattò in una frazione di secondo, il terrore dipinto sul viso, il panico negli occhi sbarrati, attirando Sherlock più vicino a sé, tenendolo per la giacca e voltandosi immediatamente a guardare il foro sul muro dietro di loro. Poi lasciò la presa su di lui e gettò a terra la pistola, spingendola nella mia direzione con un calcio.

Era una follia, un'idea fottutamente assurda, eppure, in quel momento, mi sembrò la migliore che avessi mai avuto in tutta la mia inutile vita.

 

***

 

Mio marito era innamorato di un altro uomo. L'avevo sempre saputo, probabilmente, e se io per prima fossi stata senza peccato avrei potuto scagliargli contro pietre, lacrime e parole cariche d'odio.

Ma non ero certo meno colpevole di lui, anzi, ero una criminale, l'aveva circuito, manipolato e indotto a sposarmi solo per raggiungere i miei loschi scopi. Non mi amava più, non mi aveva mai amata abbastanza, ma sapevo che non potevo biasimarlo, che nonostante tutto era stato un compagno fedele, amorevole e sincero. Sì, John era sempre stato sincero con me, era a se stesso che aveva mentito per tutti quegli anni, ed era il suo cuore ad essere rimasto inascoltato, mentre martellava frustrato e gridava un solo nome e un solo desiderio, mentre John si tappava le orecchie, ignorandolo, memore di quel trauma che tuttora non aveva elaborato, terrorizzato e furioso per quella messinscena di morte architettata da Sherlock che l'aveva quasi ucciso, costringendolo poi a voltare pagina senza nemmeno aver finito di leggere, scoprendo troppo tardi che l'amore della sua vita era ancora vivo.

Era semplicemente una vittima degli eventi e delle macchinazioni altrui. Non aveva colpe, se non quella d'essersi in qualche modo messo in salvo dopo la sua scomparsa, cercando di sopravvivere e di dimenticare, riuscendo nel primo intendo e fallendo irrimediabilmente nel secondo. L'istinto di conservazione è insito nella natura umana e John non era certo meno umano degli altri, sebbene spesso si convincesse del contrario. Non perché si ritenesse superiore, questo no, ma era convinto di riuscire a fare sempre la cosa giusta, di non poter sbagliare, di doversi votare ad un ideale che si era costruito lui stesso e che non aveva alcun senso, perché il suo essere straordinario era direttamente collegato al suo essere imperfetto.

Ingenuo e imperfetto.

Un uomo che non riusciva a fidarsi, che aveva deciso di farlo solo due volte nella vita, con Sherlock e poi con me, le uniche due persone che avrebbero dovuto amarlo e che invece gli avevano mentito in modo imperdonabile.

Come potevo biasimarlo per aver confuso i sentimenti e formulato voti senza senso?

Mio marito era innamorato di Sherlock, ma non si fidava più di lui ed era rimasto fedele a me, anche quando quella sera l'aveva visto ricomparire in quel ristorante di lusso ed io avevo sentito il suo cuore ricominciare a battere e spezzarsi nello stesso momento. Anche quando avevo temuto che non sarei riuscita a trattenerlo, quando mi accorsi che il richiamo di quella casa, di quella vita, di Sherlock stesso, era talmente forte da attrarlo come una falena viene attratta dalla fiamma.

Era rimasto con me, ma nonostante questo continuava ad essere innamorato di lui, senza avere la più pallida idea di essere completamente ricambiato.

Ma io sì. Io lo sapevo bene.

Ecco il mio cammino di Santiago, la mia penitenza, il modo che avevo trovato di affrancarmi, di darmi un senso, di far nascere un fiore in quella montagna di merda che era stata la mia vuota esistenza.

“Accanto al letto! Subito!”

Certo, l'avrei fatto a modo mio, con le risorse che potevo sfruttare in quel momento, non avevo avuto il tempo di organizzare un piano decente, non ero un cupido con arco e frecce, circondato da cuoricini e nuvolette, ma avevo a disposizione una Beretta calibro 9 e quel buco di casa in cui vivevo abusivamente e dove per le prossime ore nessuno ci avrebbe interrotto.

Si trattava di una sorta di open space, le pareti erano di pietra bianca, il soffitto abbastanza basso che Sherlock avrebbe potuto toccarlo con la mano. Le finestre, piccole e con le tende rosse perennemente tirate, davano su un piccolo cortile sterrato, visitato spesso da una grossa vacca marrone che ruminava indisturbata l’erba che vi cresceva a sprazzi. I mobili erano in legno vero, pitturati con tinte accese, vivaci e improbabili. Quel che balzava agli occhi era che fossero tutti molto bassi, incluso il letto da una piazza e mezza che era addossato alla parete, ancora sfatto, perché non ho mai avuto l'abitudine di rifarmelo la mattina. Le lenzuola di cotone ingiallito giacevano appallottolate ai piedi del materassi. Non avevo mai riposato bene lì sopra, così come su altri materassi. Si dice che in qualsiasi letto si dorme male, se si ha la colpa per guanciale. Chissà, forse quella notte avrei finalmente chiuso gli occhi sentendomi più leggera.

John e Sherlock si guardarono per qualche secondo di troppo, costringendomi a sembrare più sadica di quanto non fossi e a minacciare di nuovo Sherlock, piegando le braccia che reggevano la pistola e stendendole nuovamente con più convinzione, puntando alla sua testa, distante solo pochi metri da me.

“Ho detto subito!” gridai ostentando un nervosismo che non mi apparteneva.

Lentamente, senza smettere di studiarmi per capire le mie intenzioni, indietreggiarono fino al letto, alzando le mani all'altezza del petto come per assicurarmi che avrebbero fatto ciò che chiedevo.

In realtà non sapevo bene nemmeno io cosa avrei fatto di lì a poco, o meglio, cosa avrei fatto fare a loro. Ero certa del mio obiettivo, ma non sapevo bene come raggiungerlo, soprattutto perché quei due testoni avrebbero trovato il modo di rendere vano ogni mio sforzo, perciò decisi di tentare il tutto per tutto ed esagerare, a costo di apparire una maniaca psicopatica.

Oh, no, un bacio non sarebbe stato sufficiente... né una dichiarazione forzata. Avrebbero semplicemente declinato ogni responsabilità, avrebbero finto che non sarebbe mai successo, si sarebbero addirittura allontanati ed io avrei tragicamente fallito.

No... doveva essere tutto o niente, dovevo buttare giù ogni singola pietra di quel muro eretto tra loro.

“Via i vestiti!” intimai, e spalancarono talmente tanto le palpebre che per un attimo temetti di vedere i loro bulbi oculari schizzare fuori dalle orbite. Provai a cambiare bersaglio, a spostare rapidamente la mira su John, sfidando Sherlock con lo sguardo e capendo di aver fatto centro, perché non trascorsero più di due secondi che lo vidi sfilarsi rapidamente la giacca nera, con quell'eleganza innata che gli apparteneva da sempre e che non lo abbandonava nemmeno in situazioni estreme. Mi venne da sorridere pensando che solo Sherlock Holmes poteva venire in India, in missione di salvataggio, con addosso un completo di Armani, ma mi trattenni e sfoderai un'espressione ancor più truce.

Solo quando le sue dita corsero ai bottoni della camicia mi resi conto che John non riusciva neanche a guardarlo, preferendo puntare gli occhi sulla mia pistola, che ora lo teneva sotto tiro, palesemente indeciso se obbedire al mio ordine e spogliarsi anche lui o restare immobile e diventare bordeaux come il tappeto sul quale poggiava i piedi. Non l'avevo mai visto così imbarazzato, teso e furioso al tempo stesso. Provai una stretta al cuore al pensiero di ciò che gli stavo facendo, eppure dentro di me sapevo che era la cosa giusta, che un giorno forse avrebbe capito e mi avrebbe perdonato.

“Non così, ovviamente!” la mia voce echeggiò improvvisamente tra quelle pareti di pietra, non mi ero resa conto d'aver gridato, facendo sussultare John.

Sherlock si bloccò, le dita immobili nell'atto di slacciare il terzo bottone della camicia bianca, l'espressione vagamente confusa. Abbassai la voce fino a farla diventare un sussurro, ma il mio tono rimase freddo e sicuro. “John, fallo tu.”

“Che cos...”

Gli occhi cerulei di mio marito tornarono finalmente su di me, sconvolti e terrorizzati.

“Dannazione, John, a chi dei due devo sparare per convincervi che faccio sul serio?”

Ovviamente non l'avrei mai fatto, ma dovevo portarli a collaborare o saremmo rimasti bloccati in uno stallo senza fine.

“Mary, per favore...” provò a dire Sherlock, col tono calmo e conciliante che avrebbe usato per far ragionare un folle, “non sei costretta a farlo, non ha nessun senso, metti giù la pistola e ce ne andremo senza dire niente a nessuno.”

“Ascoltalo.” gli venne in aiuto John. “Pensa a Rosie, non t’importa nemmeno di lei? Vuoi che rimanga sola al mondo?”

“Oh, ti prego, John, sta zitto! Dio, sei sempre stato melodrammatico!”

Certo che mi importava di Rosie, ero sua madre, ma sapevo anche che l'avrei lasciata in buone mani, quelle di suo padre e dell'uomo che amava, e non avrei potuto essere più serena a tal proposito. Ero sempre più convinta di star facendo la cosa giusta, forse nel modo sbagliato, che tuttavia era l'unico che conoscevo. Li avrei trasformati in una famiglia a tutti gli effetti e avrei tolto il disturbo senza rimpianti.

Ripresi subito a parlare a bassa voce, quasi sibilando.

“D'accordo, mettiamola così, questo è il piano di Moriarty per vendicarsi di voi e lo porterò a termine prima di farmi ammazzare, qualunque cosa accada. Potete scegliere di collaborare e restare vivi, perché vi garantisco che uccidervi non era nelle sue intenzioni, oppure potete beccarvi una pallottola in fronte e morire insieme, tragicamente, abbandonando a se stessa quella povera creatura sfortunata e facendola crescere orfana di entrambi i genitori. In tal caso dovrò solo decidere chi far fuori per primo...”

E mentre lo dicevo, spostavo la pistola da uno all'altro, lentamente e sforzandomi di apparire spietata, vedendo tremare e sussultare entrambi, Sherlock quando miravo a John e John quando miravo a Sherlock. Cristo santissimo! Era tutto così ovvio, accidenti a loro!

“Mary, per l'amor di dio...”

“Chiudi la bocca, John, e levagli di dosso quella camicia, non lo ripeterò un'altra volta.”

Puntai nuovamente la pistola contro Sherlock e solamente allora John mi obbedì. Si avvicinò a lui e lo fronteggiò senza guardarlo, tenendo gli occhi su quei bottoni che parevano scottare, mentre Sherlock s'irrigidiva e gli zigomi gli s'imporporavano.

Mi avvicinai di qualche passo, restando comunque a un paio di metri da loro, osservando i movimenti lenti di quelle dita tremanti che pian piano facevano scivolare i bottoni fuori dalle asole, che afferravano la stoffa inamidata e la strattonavano via dal torace niveo di Sherlock con finta noncuranza. Osservai John lottare contro se stesso, ostinandosi a non guardarlo, a non alzare gli occhi sul suo petto, sulla cicatrice che io stessa gli avevo procurato e che ora risaltava come un cratere violaceo su quel pallore perfetto.

Potevo percepire il battito dei loro cuori anche da dove mi trovavo, mi sentii talmente in imbarazzo da pensare di interrompere tutto e andarmene fuori di lì lasciandoli soli.

Ma sapevo che avrei vanificato tutto, che non sarebbero mai andati fino in fondo, se non li avessi costretti io stessa.

“Era così difficile?” canzonai mio marito, guadagnandomi un'occhiataccia carica d'odio a cui non badai. “Sherlock, adesso tocca a te.”

Tentennai, ma non lo diedi a vedere, perché mi resi conto che il genio dai riccioli neri non sembrava più lui, tremava e in quegli occhi cristallini potevo leggere uno smarrimento che mi strinse il cuore, pur senza convincermi ad interrompere quella tortura.

C'era reverenza, nei suoi gesti. Una lentezza rispettosa e solenne che somigliava ben poco all'irruenza di John nei movimenti di poco prima. Gli slacciò ogni singolo bottone come se fossero perle di un rosario, come se per ognuno di essi recitasse silenziosamente una preghiera segreta. Gli sfilo la camicia azzurra dalle spalle, facendo attenzione a non toccare la sua pelle, ma non mi sfuggì il tocco accidentale con cui gli sfiorò la cicatrice di guerra, impercettibilmente, col la punta del pollice. E John si tese appena, come se gli avesse fatto male, ma io sapevo che non era dolore quello che sentiva, che presto non avrebbe ricordato più nemmeno cosa volesse dire soffrire.

“Soddisfatta?” ringhiò in mia direzione, trafiggendomi con lo sguardo. “Cos'è, Moriarty voleva farci esibire in uno show alla Full Monty? O magari aveva intenzione di torturarci facendoci morire d'imbarazzo? Perché ti garantisco che non sta funzionando.”

Avevo sempre adorato il suo sarcasmo pungente, era una delle cose che amavo di lui, ma lo ignorai, avvicinandomi tanto da appoggiare la pistola sui capelli di Sherlock, costringendolo ad inclinare la testa da un lato.

Per poco John non mi carbonizzò con gli occhi. La rabbia e il terrore che si agitavano in quelle sfere infuocate mi fecero comprendere la portata dei suoi sentimenti, la determinazione nel difendere l'uomo che amava a qualunque costo, anche uccidendomi, se necessario. Magnussen aveva ragione, John era la damigella in pericolo di Sherlock, ma non aveva capito che la cosa era perfettamente reciproca.

“Guardalo, John, non è bellissimo?” infierii.

Con la mano libera accarezzai Sherlock sullo zigomo pronunciato, sulla guancia, scendendo lungo il collo, la spalla, lentamente, mentre il viso di John si contraeva in una smorfia disgustata, non certo per la nudità di Sherlock, quella aveva il solo potere di farlo arrossire come non aveva mai fatto con me, nemmeno quando mi ero spogliata davanti a lui per la prima volta. Ero io a disgustarlo, per tutto ciò che avevo fatto, per le bugie che gli avevo raccontato, perché ero la nuova Moriarty e, più di ogni altra cosa, perché osavo toccare Sherlock Holmes.

“È così liscio” continuai con voce languida e vagamente strafottente, ignorando di proposito quello sguardo inceneritore, “non credevo che un uomo potesse avere una pelle così bella, sembra seta...” sentii i pettorali di Sherlock vibrare sotto le mie dita, intanto che accarezzavo la peluria chiara al centro del suo torace, continuando a reggere l'espressione letale di John. “Vuoi toccarlo anche tu?”

Lo vidi scattare verso di me con i pugni serrati e mi rifugiai alle spalle di Sherlock, continuando a puntargli la pistola alla testa.

“Non ci provare, amore mio, resta dove sei o gli faccio un buco nel cranio.”

“Cristo, tu sei pazza!” gridò esasperato, abbassando le mani e arretrando leggermente. “Che diavolo vuoi da me?”

“Voglio guardarti mentre fai l'amore con lui.”

Le parole mi erano uscite ancor prima che decidessi cosa dire, ancor prima di ponderare le mie reali intenzioni, senza darmi il tempo di vergognarmi di quell'ordine assurdo e perverso.

Non riuscivo a vedere la faccia di Sherlock ma riuscii ad accorgermi dello shock che gli fece sobbalzare le scapole, mentre la mia pistola gli arrossava la nuca. Quel che è certo è che a John per poco non cadde la mascella, cosa che trovai esilarante e che mi avrebbe fatto sbellicare, se non fosse che in quel momento mi sentivo praticamente una sadica depravata.

Nessuno dei due parlò, restammo in silenzio per diversi secondi che parvero un'eternità, poi John si passò una mano tra i capelli, tirandoli indietro con forza, per poi massaggiarsi nervosamente una tempia.

“Non credo d'aver capito.”

“Oh, andiamo, hai capito benissimo!” strattonai Sherlock per un braccio e lo spinsi fino al bordo del letto, continuando a tenerlo sotto tiro dopo aver indietreggiato di qualche passo. “Voglio che tu lo prenda. Qui, adesso.”

Finalmente riuscivo a vedere Sherlock in faccia. Non saprei bene come descrivere la sua espressione... se quella di John mi aveva fatto ridere, la sua mi aveva spezzato il cuore. Mio marito lo amava disperatamente, ma forse non ne aveva mai preso piena coscienza. Negava come un imputato di fronte alla giuria, accampava scuse, contestava le prove, ignorava i fatti e l'evidenza, recitando tacite obiezioni al suo cuore consumato dall'insoddisfazione.

Sherlock, al contrario, era più onesto, genuino e puro. Sapeva di essere innamorato di John, riconosceva la sua debolezza e l'aveva accettata, sacrificandosi per lui, restando in silenzio, in un angolo a ballare da solo, certo di non poter essere ricambiato, indipendentemente dalla mia presenza nella vita di John. Già dal primo momento avevo capito che il geniale detective che Jim temeva più di chiunque altro, era in realtà un uomo estremamente fragile, assetato d'amore, sicuro di non meritarlo, o quantomeno di non riuscire ad ottenerlo da anima viva. Non avrebbe mai creduto che John potesse amarlo, così come John non sospettava, neanche lontanamente, di essere l'oggetto del desiderio di Sherlock Holmes.

In sintesi, due idioti: un testone ed un pulcino bagnato.

E il pulcino adesso aveva gli occhi che traboccavano di panico.

“Stai scherzando?”

“John, se non la smetti di parlare e non lo sbatti immediatamente su questo letto, giuro che lo faccio fuori davanti ai tuoi occhi!”

Fu allora che finalmente si guardarono, senza dire niente, studiandosi e cercando di leggersi a vicenda, cosa che evidentemente non funzionava quando si trattava di sentimenti.

“Uno.”

Iniziai a contare mentre se ne stavano ancora in piedi, mezzi nudi, a meno di un metro di distanza, Sherlock con i polpacci contro il materasso, John che apriva e chiudeva i pugni ad intermittenza, nervoso come non l'avevo mai visto.

“Due.”

Se Moriarty avesse potuto assistere alla scena, si sarebbe reso conto che la strada per il cuore di Sherlock Holmes passava inevitabilmente per John Watson, che non era mai stato necessario usare sua sorella, scavare nel suo passato e riesumare antichi fantasmi, che per colpirlo davvero bastava tirare in ballo il suo amore incondizionato per il dottore, che in fondo il vero problema finale era proprio quello.

Ma Jim pensava e basta, non conosceva l'empatia e non aveva mai compreso l'amore, al contrario di Sherlock, il cui cuore era perfino più grande del suo cervello.

“John...” la sua voce suonò a malapena udibile, ma i muri di quella stanza erano spessi e facevano rimbalzare i suoni come echi amplificati, “mi dispiace...”

“Non è colpa tua...” tagliò corto John prima di fare un passo nella sua direzione.

“Tre.”

Lo raggiunse con un balzo, spingendolo sul letto e stendendosi sopra di lui, restando un po' sollevato, puntellandosi goffamente su mani e ginocchia per non crollargli addosso. Istintivamente indietreggiai, continuando a minacciarli con la mia calibro 9.

Li sentivo bisbigliare mentre i loro occhi rimanevano agganciati, mentre si guardavano in quel modo, creando quell'incantesimo a cui avevo assistito fin troppe volte.

“Sherlock, io...”

Ma l'aveva interrotto immediatamente, facendogli capire che non avevano alternative, che se volevano rivedere Rosie quella era l'unica strada da percorrere, che andava bene così, davvero, non era importante. E mentre lo diceva una piccola lacrima solitaria gli scivolò lungo la guancia, senza mai arrivare alle labbra, perché John la catturò con le dita, chiudendola nel suo pugno, continuando a guardarlo con una tenerezza che non gli era propria, o che forse semplicemente non aveva mai riservato a me.

Tossicchiai senza ottenere in risposta nemmeno un minimo cenno, eppure John mi aveva chiaramente sentito perché la sua mano carezzò la mascella di Sherlock con dolcezza, spostandosi poi sulla sua cintura e allentandola quel tanto che bastava per sbottonargli i pantaloni e sfilarglieli completamente.

Non so bene come definire il sentimento che si impossessò di me in quei frangenti. Credo fosse un misto di soddisfazione, rammarico, imbarazzo, gelosia, sollievo e tristezza. Sicuramente mi sentivo anche in colpa, perché stavo prendendo parte ad un momento che avrebbe dovuto essere solo loro, stavo assistendo ad un qualcosa a cui non avevo minimamente diritto. Fu per questo che mi avvicinai in silenzio, recuperai il lenzuolo ai piedi del letto e lo gettai addosso a John, coprendolo dalle scapole in giù.

“Sono una cospiratrice, non una pervertita.” Precisai con un ghigno, camminando all'indietro per lasciargli un minimo di privacy, la Beretta sempre pronta a far fuoco. “Niente scherzi però, me ne accorgerei.”

Di nuovo parvero non sentirmi nemmeno, mentre mormoravano parole che non riuscivo a decifrare e che parevano melodiose e calde come le note di una canzone d'amore, mentre John si abbassava i jeans senza toglierli, chinandosi fino a sfiorare il corpo di Sherlock con il suo, trattenendo il respiro finché non sentì le braccia dell'amico circondargli le spalle e attirarlo ancora più vicino.

Vidi John chiudere gli occhi e strusciarsi su di lui, il naso sul suo collo, inspirando a fondo e contraendo ogni muscolo del corpo, anche quelli che erano nascosti dal lenzuolo e che non riuscivo a vedere.

Distolsi lo sguardo non appena lo vidi bagnarsi le dita di saliva e riportarle sotto di sé.

Presi a fissare il pavimento, pur continuando ad ascoltare, costringendomi a non abbassare la pistola.

Sentii altri bisbigli, sospiri e lamenti, tra cui un “siamo solo tu ed io” che mi arrivò ovattato alle orecchie, e capii che stava accadendo davvero, che in fondo era stato facile e che, per la prima volta nella vita, potevo essere fiera di me.

Un lamento di Sherlock, più basso e prolungato degli altri, mi diede ragione, perché al contempo John gemette di piacere, procurandomi sensazioni contrastanti, che andavano dall'invidia alla gioia più pura. Mi venne da alzare lo sguardo e quel che vidi mi spiazzò completamente.

John si muoveva lentamente su di lui, dentro di lui, il lenzuolo era scivolato fino a scoprirgli del tutto la schiena, le unghie di Sherlock gli si conficcavano nella carne all'altezza dei reni, le sue ginocchia gli circondavano i fianchi.

“Sherlock, guardami” sussurrava teneramente, “senti dolore?” domandava con tono apprensivo, “ti prego non girarti, fatti guardare...”

E Sherlock si lasciava prendere, scuotere e possedere, ondeggiando sotto di lui, abbandonandosi ai suoi affondi sempre più vigorosi, soffrendo più di quanto non riuscisse a godere, e non solo fisicamente, bensì per qualcosa di più profondo, che poco dopo soffiò fuori dalle labbra bollenti, agitandosi, lagnandosi sottovoce e farfugliando parole confuse.

“John... mi... mi dispiace... non riuscirai più nemmeno a guardarmi., lo so..”

“Sssshh... rilassati adesso, o finirò col farti male sul serio” tentava di calmarlo, accarezzandolo sul viso e baciandolo delicatamente sulla punta del naso. Ma non era sufficiente, Sherlock continuava a divincolarsi e a borbottare ad occhi chiusi.

“Ogni volta che mi guarderai ripenserai a questo... ti ricorderò sempre il momento più brutto della tua vita e non vorrai più vedermi...”

“Sherlock, smettila.” John parlò con la sua voce da soldato, con quel tono fermo e deciso che non ammetteva repliche, smise di muoversi e restò immobile senza tuttavia uscire da lui, infilandogli le dita tra i riccioli spettinati e costringendolo a guardarlo dritto negli occhi. “Il momento più butto della mia vita è stato quando ti ho visto precipitare nel vuoto, quando mi sono inginocchiato nel tuo sangue tastandoti il polso senza riuscire a sentire il tuo battito. Quello è stato orribile e non voglio provarlo mai più.” Poi gli baciò le labbra, sfiorandole delicatamente e ad occhi aperti, ostinandosi a non affondare di un solo millimetro in più dentro di lui. “Può suonare ridicolo ma questa è la prima cosa sensata che io abbia mai fatto in tutta la vita, perché sei tu, Sherlock, e tutto il resto non conta.” Lo baciò di nuovo, più profondamente, infilandosi nella sua bocca in un modo che mi era estraneo, con una passione e una sensualità che con me non aveva mai usato, mentre Sherlock finalmente si rilassava, si inarcava sotto di lui, premendogli le dita sulla schiena finché John non ricominciò a muoversi con più vigore, continuando a baciarlo e sussurrando un ti amo che arrivò fino alle mie orecchie, assordandomi e straziandomi il cuore.

Mi resi conto che non gli puntavo nemmeno più la pistola, che la mia mano armata ciondolava mollemente lungo la mia coscia, che la pistola era diventata incredibilmente fredda e pesante, più di quanto non fosse mai stata. Le lacrime mi rigavano le guance senza che riuscissi a fermarle, il cuore mi si sbriciolava sempre di più, ad ogni loro bacio, e non perché facesse male, bensì perché per la prima volta mi sentivo parte di qualcosa di bello.

Fu allora che me ne andai, che mi voltai uscendo in punta di piedi da quella casa davvero troppo stretta.

 

***

 

Non ho mai pensato molto alla morte. Non alla mia, almeno. Suppongo di non essermi mai soffermata troppo a valutare i rischi del mio mestiere, perché quelli come noi non possono permetterselo.

Se temi la morte non puoi uccidere, perché quando togli una vita per la prima volta la morte si segna il tuo nome.

Non ho mai pensato che un giorno l'avrei temuta, che avrei rimpianto tutte le mie scelte e che avrei implorato più tempo, eppure ora non so cosa darei per averne, usarlo per redimermi, per fare del bene, per imparare a conoscermi davvero.

Eppure so di avere le ore contate, so che stanno venendo a prendermi e che proveranno ad estorcermi informazioni con la forza, come hanno fatto con mio fratello prima di ucciderlo, e questo non posso permetterlo, non lo sopporterei.

Voglio morire come dico io, scegliere il luogo, il momento, il modo.

Voglio andarmene qui, adesso, con la felicità nel cuore, quei gemiti nelle orecchie, l’amore appiccicato addosso. Voglio andarmene mentre il sole rosseggia sull'acqua del fiume Yamuna, illuminando d'oro il Taj Mahal, riempiendomi gli occhi e scaldandomi come una coperta di luce aranciata.

Voglio andarmene mentre mi sento viva, mentre sono pienamente consapevole di aver fatto qualcosa di bello, di aver realizzato un miracolo, di aver donato qualcosa alle persone che amo.

Ora che me ne andrò per sempre, so bene cosa potranno diventare quei due, perché so chi sono veramente: un tossico che risolve crimini per sballarsi e un dottore che non è mai tornato a casa dalla guerra, innamorati e imperfetti, gli unici genitori a cui affiderei mia figlia, i migliori amici che potessi avere.

La mia Beretta calibro 9 è improvvisamente leggera, l'accarezzo sovrappensiero e mi godo l'ultimo tramonto.

 

 

FINE

 

 

 

*Il sari, saree o shari è un tradizionale indumento femminile indiano, le cui origini risalgono al 100 a.C., ed è intuibilmente uno dei pochissimi indumenti ad essere stati tramandati per così tanti secoli.

Esso consiste in una fascia di stoffa larga circa un metro, la cui lunghezza può variare dai quattro ai nove metri, che viene avvolta intorno al corpo dell'indossatrice con metodi che variano a seconda della sua funzione.

Ovviamente Mary ne indossa uno modesto, semplice, di cotone bianco.

(Fonte: Wikipedia)

 

***

 

Prompt: [Post s3 ma pre s4] Mary è la mente dietro al Did you miss me, la nuova Moriarty. Ma a causa di lotte tra criminali, Mary sa che i suoi giorni sono contati e prima di morire vuole compiere un'azione buona, fingendo di farne una cattiva: rapisce Sherlock e John e, pistola alla tempia, ordina a John di prendere la verginità di Sherlock. Mentre loro obbediscono, Sherlock cerca di nascondere il viso, ma per capire se gli sta facendo male o meno, John vuole guardarlo costantemente negli occhi. In lacrime, Sherlock comincia a dire cose come “non doveva andare così, me l'ero immaginato e doveva essere una cosa romantica, solo tu ed io, ti amo ma ora tu non mi vorrai mai perché ti ricorderò sempre l'ora più brutta di tutta la tua vita”. Ovviamente John lo rassicura e passano dall'obbedire a Mary a fare all'aMmoreH. Mary, soddisfatta, se ne va, e mentre John e Sherlock si scambiano il primo bacio (o il primo ti amo), lei si spara un colpo in fronte.

 

 

ANGOLINO DELL'AUTRICE

Mi sono presa la libertà di spostare appena la storia sulla linea temporale, contestualizzando il tutto durante il primo episodio della s4, “The six Thatchers”, altrimenti non avrei saputo come gestire Rosie. Chi mi conosce come scrittrice sa bene che non amo stravolgere troppo gli eventi e mi sarebbe dispiaciuto far sparire completamente questo personaggio dall'intera storia. In ogni caso, penso di essermi attenuta il più possibile alle indicazioni che mi sono state fornite.

Vorrei ringraziare Susanna per aver organizzato e gestito l'evento, chi mi ha fornito il prompt e chi è arrivato a leggere fin qui.

Ammetto di aver scelto quello che ritenevo il più difficile presa dalla voglia di mettermi alla prova, spero di aver tirato fuori qualcosa di piacevole, anche se un po' particolare.

Grazie anche a chi ha recensito, tanto amore per voi, non sapete che gioia trovare i vostri pareri!

 

Peace and love!

MissAdler

 

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