Questa vita di cristallo

di Arianna_Zago
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo: Zoe ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo: Vittore ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo: Zoe ***


Zoe era rimasta per tre ore immersa nell’acqua dolce e profumata della sua vasca da bagno. Cominciava ad avere freddo. Le bolle di sapone si erano completamente sciolte nell’acqua, erano morte nel calore di quel bagno che si era ormai dissipato per tutta la stanza, come farfalle in primavera sembravano essere scomparse nel nulla. Ora Zoe poteva vedere la forma delle sue cosce abbronzate attraverso la trasparenza di quella vasca piena e fastidiosamente tiepida: abbastanza calda da non convincerla ancora ad uscire, ma già troppo gelida per poter pensare di voler trascorrere un’altra ora a mollo come un anfibio nel suo stagno. Aveva chiuso gli occhi, per alcuni minuti, e aveva immaginato per davvero di essere dentro ad una verde pozzanghera, mimetizzata tra il verde delle piante d’acqua dolce, mentre la sua pelle diventava verde e ruvida come una fresca corteccia nel tentativo di trasformarsi per sempre in una pianta: solida ed eterna, senza dolore e senza pensieri. Non aveva funzionato: quando si era risvegliata le piastrelle color crema del suo bagno e il vapore che si alzava in piccole nuvole verso il soffitto l’avevano accolta nuovamente in quell’ambiente silenzioso, asettico, vuoto. Sulle sue gambe non c’era nessuna traccia di verdi squame o foglie secche. La sua pelle era rimasta intatta, così come era stata quella mattina e come sarebbe stata quella successiva. A meno che… Inizialmente, quando era entrata in bagno la prima volta e davanti allo specchio che tanto odiava aveva cominciato a spogliarsi, rivelando ogni centimetro della sua pelle ai suoi occhi arrabbiati, non aveva di certo immaginato quanto una lametta argentata, luminosa e affilata potesse risultare tanto affascinante e appetitosa. Il suo richiamo era stato il canto della sirena, l’inno alla libertà che stava tanto cercando, il segno che aveva tanto chiesto a Dio nei precedenti giorni. Il rasoio sarebbe scivolato sui suoi polsi proprio come l’acqua bollente che l’aveva accarezzata lievemente appena si era immersa nella vasca bianca, pura e pulita. Poi però, quando si era decisa ad appoggiare la lama sulla carne viva, sull’evidente pulsazione nella vena che proveniva direttamente dal suo cuore colmo di sangue, su quel così lampante simbolo della sua esistenza reale, della sua vita concreta, non aveva avuto abbastanza coraggio. Si era detta e ripetuta diverse volte che non sarebbe stato così facile, che il fallimento sarebbe stato necessario tante volte: il cervello non smette di far battere un cuore, nonostante la ferrea volontà del proprietario di quel corpo. Non sarebbe bastata la convinzione che, qualunque cosa ci fosse stata al di là di quel labile confine tra vita e morte, si sarebbe rivelata comunque migliore della vita terrena; che Dio, se è vero che perdona proprio tutto, allora avrebbe perdonato anche un gesto di tale ed estrema disperazione. Si sussurrava sottovoce che dopotutto, se non avesse voluto darci la libertà di rinunciare a questa vita, allora non ci avrebbe dato la possibilità di scegliere su nient’altro. La sua vita sarebbe stata un romanzo già scritto, da sfogliare lentamente anno per anno, privo di colpi di scena e dal finale prevedibile. La morte avrebbe dovuto scovare tutti, prima o poi, anche quelli meglio nascosti. Così non si era stupita quando il suo corpo si era nuovamente ribellato al goffo tentativo di addormentarsi in meno di mezzo metro d’acqua. Le bruciavano ancora gli occhi per il sapone che aveva aggredito le sue iridi verdi smeraldo e delicate quando l’istinto primitivo del terrore l’aveva spinta a fuggire di nuovo dall’eterno sonno: aveva aperto gli occhi senza pensare a quello che stava facendo. Tuttavia, non era ancora troppo tardi. Guardò la lametta splendente, dimenticata sul bordo cristallino della vasca da bagno e avvicinò nuovamente la mano. I suoi polpastrelli grinzosi e intorpiditi avevano quasi ormai perso del tutto la sensibilità: non riusciva a sentire quanto fosse affilata la lama, quanto fosse ghiacciata e spietata tra le sue dita deboli. Sperò che lo stesso effetto di inesistenza e volatilità potesse permanere sui suoi polsi. Inspirò profondamente. Sarebbe stato il suo ultimo respiro: stava aspettando un segno che le dicesse di fermarsi, un’interruzione che la convincesse che, per quell’occasione, si era ormai fatto troppo tardi. Il treno era passato, aveva portato con sé anime più temerarie e libere della sua, lei era stata troppo debole quel giorno per fare un passo più in là dei suoi limiti così ridicolmente umani. Effettivamente quel segno arrivò: da poco più lontano il limpido cigolio della porta d’entrata si fece strada attraverso il corridoio deserto e silenzioso, falciò il buio e spezzò l’incantesimo. Suo padre aveva sempre saputo come interrompere i migliori attimi della sua esistenza. Zoe ne era certa: di tutta la sua vita sarebbero rimasti solo pochi attimi, vergini ancora dall’influenza dispotica di quella figura nera e opprimente che era suo padre. Un uomo irremovibile, severo, cieco e ottuso. Lei aveva così tante domande su come fosse possibile che un uomo solo fosse capace di prendere decisioni sulla vita degli altri. Un uomo che Zoe aveva creduto non aver mai neanche aver avuto il tempo di conoscere il vero calore di una donna, nonostante lei fosse lì, viva e vegeta, nata da un corpo femminile diciassette anni prima. Un uomo come suo padre non avrebbe mai dovuto avere la possibilità di catapultarla, ribaltarla e spostarla da un capo all’altro della sua esistenza come fosse un soprammobile scomodo. Eppure Zoe era lì, con un polpastrello tagliato stretto tra le labbra nel tentativo di fermare il sangue rosso e bollente che stava già gocciolando nell’acqua intonsa, nuda e spaventata, triste e arresa alla realtà che presto quello non sarebbe più stato il suo bagno, che forse non avrebbe più nemmeno avuto una vasca da bagno nella sua ennesima nuova casa, che avrebbe nuovamente dovuto spostare tutti i suoi poster, che il suo armadio sarebbe stato grande la metà e che, di nuovo, per l’ennesima e molto probabilmente non ultima volta, avrebbe dormito in un letto privo della forma del suo corpo e del suo odore. Sola. Sempre, nuovamente, ma inesorabilmente sola. Uscì dal bagno avvolta nel suo vecchio asciugamano ruvido e una folata di aria fredda cominciò a pungerla come tanti spilli appuntiti e si dimenticò del dito sanguinante. Suo padre non ebbe nemmeno bisogno di voltarsi: la vide di sfuggita, con la coda dell’occhio, troppo concentrato a guardare il caffè nero uscire timidamente dalla macchinetta lenta. Era già nervoso prima di varcare la soglia di casa, dopo un’intera giornata trascorsa a firmare le ultime carte per il trasloco, a saltellare di casa in casa per salutare gli amici appena trovati, a correre in ufficio per ritirare le scartoffie che stava per dimenticare. Presto Genova sarebbe diventata l’ultima tappa del suo viaggio inarrestabile, ne era fermamente convinto: Paolo era un uomo severo, ma non duro di cuore ed era convinto anche di questo. La vita gli stava dando una nuova occasione, una che questa volta non si sarebbe lasciato sfuggire come il resto dei suoi tentativi svaniti come fumo. Aveva continuato a muoversi sinuosamente come una serpe di casa in casa, ma era giunto tempo di mettere radici: non si sarebbe sentito giovane in eterno e la vita con una figlia femmina e adolescente si era rivelata più impegnativa del previsto. Forse sarebbe stato meglio se non si fosse mai condannato alla paternità, ma non tutto ciò che accade nella vita è frutto delle proprie scelte e no, lui non aveva certo scelto Zoe. Nonostante tutto aveva imparato ad amarla e, in qualche modo, l’aveva cresciuta. Di Zoe aveva imparato che, benché dotata di un’intelligenza brillante, non le piaceva studiare, che adorava gli sport di squadra perché non era mai stata brava a stringere amicizie da sola, che si abbuffava di focaccia in ogni occasione possibile e che faticava a capirlo. Non che ci fosse da stupirsi: un uomo solo, nelle sue ferree convinzioni, non sarebbe mai riuscito a crescere una femmina nel modo corretto. Non esiste il padre perfetto senza la madre perfetta, dunque perché crucciarsi? Tutto ciò che Zoe doveva sapere sulle mestruazioni e sui ragazzi le sarebbe stato insegnato a scuola, così come leggere e scrivere, tutto ciò che avrebbe dovuto imparare sulle relazioni e sulle persone lo avrebbe scoperto dalla vita stessa, la necessità e le regole l’avrebbero obbligata a gestire le proprie emozioni. Lui lavorava, la vestiva e la nutriva, le aveva pagato le lezioni di musica quando lo aveva desiderato e, ovunque si trasferissero, non aveva mai rinunciato a cercare un palazzetto del ghiaccio dove la ragazza potesse giocare ad hockey in una nuova squadra. Paolo era un uomo impegnato; ancora si stupiva di come una sola estate in Liguria avesse potuto regalargli l’amore dopo tanto tempo. Aveva preparato tutte le valigie e i pochi cartoni per il trasloco di cui avrebbero avuto bisogno. Gli effetti personali di cui disponeva si erano ridotti al minimo indispensabile dopo tutti quegli anni di viaggi, ma non era affatto un problema: avrebbe trovato tutto ciò che gli mancava nella nuova casa, nella nuova città, nella nuova famiglia. Sperava che Zoe potesse finalmente placare la propria rabbia inspiegabile e irrazionale e che si decidesse a seguire l’esempio affidabile e assennato della nuova sorella. -Ti sei tagliata- disse, finalmente vedendo il dito rosso e un po’ gonfio della figlia. Zoe annuì senza aggiungere nulla, cominciando a rovistare in un cassetto in cucina per trovare un cerotto. -Sai che voglio che pulisca il bagno dopo che ti sei depilata- aggiunse lui, sorseggiando il caffè appena fatto. -Non ho mai detto di essermi depilata, ma pulirò la vasca perché mi sono fatta un bagno- rispose lei, noncurante dell’espressione vagamente interrogativa, ma per lo più disinteressata del padre. -Devi chiudere tutti i cartoni e tutte le borse entro questa sera. Domani alle sette e trenta del mattino sarà qui il furgone per il trasloco, deve essere tutto pronto- continuò lui, sedendosi a quel tavolo stretto e lungo, così piccolo da risultare scomodo persino per un pasto veloce e leggero. -È già tutto pronto, papà- rispose lei, uscendo dalla stanza senza voltarsi. Entrò nella sua camera da letto, indossò il pigiama e, con i capelli ancora bagnati, si addormentò per l’ultima volta su quel letto troppo stretto su cui aveva dormito in quell’ultimo anno della sua vita.

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo: Vittore ***


Vittore non poteva essere più felice di abbandonare finalmente ed una volta per tutte quel bilocale che aveva finito per odiare con tanta foga ed intensità da non riuscire più neanche a dormire, a mangiare, a ricordarsi di doversi fare una doccia almeno due volte a settimana. Nonostante fosse inverno inoltrato, Vittore non si era mai sentito ribollire ed eruttare di rabbia con tanto calore e altrettanta forza. L’impiego come supplente in una scuola pubblica di periferia non lo retribuiva di certo con un’ingente paga, anzi! Il secondo lavoro come bibliotecario durante il pomeriggio si era rivelato necessario. Non si era mai lamentato, non conosceva la pigrizia o la fatica e comunque si ripeteva che doveva valerne la pena. I sacrifici non sono poi tali se li si accetta per amore e Vittore era veramente innamorato di Maddalena. Tuttavia, evidentemente, si era lasciato ingannare dalla castità di quel nome, o dai suoi occhi dolci e compassionevoli, o dalla sua bocca rosea e carnosa come un bocciolo di primavera. Sta di fatto che mai, mai e poi mai Vittore avrebbe potuto immaginare di tornare a casa, quell’infausto giorno di qualche mese prima, con una busta della spesa stretta sotto il braccio, fradicio per l’acquazzone che stava inondando Varese quel giorno, con il cuore ricolmo di gioia per la cena che progettava di cucinare insieme alla sua fidanzata, con una scatola speciale in tasca nella speranza di ricevere il sì che da settimane ormai desiderava poter sentire provenire da quella bocca benedetta e trovare la sua Maddalena là, in ginocchio di fronte al loro letto, scoprendo quanto poco sacre fossero effettivamente quelle labbra. In quell’occasione era divenuto consapevole della sua follia e di come sia paradossale l’attimo prima del dolore: la mente umana non è capace di assimilare subito la verità come tale, non è capace di accettare l’evidenza dei fatti con immediata chiarezza e lucidità, così si avvale della pazzia. Vittore era impazzito tanto che la sua prima reazione, per quanto inspiegabile e priva di buon senso potesse sembrare, fu quella di scoppiare a ridere. Una fragorosa, enorme e sboccata risata, che riecheggiò ovunque nel piccolo appartamento in affitto che il giovane tanto faticava a pagare ad ogni fine del mese, una risata che si tramutò in lacrime amare ed eternamente pesanti quando uscì nuovamente dall’abitazione, restando fermo sotto la pioggia, in piedi sullo zerbino zuppo d’acqua fredda, finché Maddalena non uscì di casa con una borsa, l’amante e la breve affermazione della loro separazione. Non l’aveva più vista da quel dì. Ora detestava la pioggia, le cene e i matrimoni, ma soprattutto detestava quell’appartamento. La proposta di lavoro in un liceo privato di Milano gli era sembrata l’occasione che aspettava da tempo, la possibilità di ricominciare. Aveva trovato un nuovo appartamento in affitto in una casa di ringhiera nel centro città in meno di due settimane e in meno di due giorni aveva liberato la triste e deserta casa da tutte le sue poche cose, tra cui la montagna di libri che aveva completamente riempito il bagagliaio della sua vecchia station wagon blu. Benny, il suo gatto certosino, dormicchiava tranquillo nella portantina mentre lui guidava attraverso la nebbia verso la sua nuova vita. Non era mai stato a Milano prima di quel giorno, nonostante avesse viaggiato in lungo e in largo per tutta l’Italia: non aveva mai sentito la necessità di mimetizzarsi tra la folla di una grande metropoli. Ora però aveva bisogno del caos, aveva bisogno che i suoi pensieri fossero costantemente sedati dal rumore insistente del traffico, dalla frenesia di centinaia di sconosciuti intorno a sé su di un mezzo pubblico, dallo stridio delle rotaie di una metropolitana, dalle risate degli adolescenti in corsa attraverso i corridoi di una scuola mai frequentata prima, dagli occhi di decine di colleghi sconosciuti che sperava non facessero troppe domande riguardo la sua vita personale. L’unico con cui avrebbe continuato a condividere la sua solitudine sarebbe stato Benny, almeno per un po’. Non aveva perso fiducia nell’amore, ma di certo aveva perso interesse. I suoi progetti di stabilità, di famiglia e di serenità erano svaniti come le nuvole d’estate: galleggiavano ancora da qualche parte nel profondo dei suoi pensieri, ma non sarebbe tornati a farsi vedere fino al prossimo autunno. Arrivato al casello autostradale Vittore si concesse un sorriso, deciso a dimenticarsi per un po’ le sue sventure, accese una sigaretta e scelse di godersi le prime luci di Milano che sembrava essere sempre più vicina in quella sera uggiosa.

Milano era follemente viva, incredibilmente luminosa e terribilmente chiassosa, proprio come l’aveva pitturata nei suoi pensieri. Non riusciva proprio a capacitarsi del fatto che gli fosse servita un’altra ora abbondante di viaggio attraverso la città per riuscire a raggiungere il condominio. Aveva guidato lungo la circonvallazione fino alla zona sud della metropoli, per poi continuare la tratta fino alla darsena: qui confluiva la rete intricata di navigli che attraversa la città, dandole un sapore poetico e romantico in quella notte d’inverno. Pioveva, ma lì la pioggia non aveva quel suono orrendo e osceno che sembrava risuonare nelle sue orecchie ogni qual volta ci fosse stato brutto tempo a Varese. I lampioni erano come miliardi di stelle allineate, illuminavano la via con una calda brillantezza della quale difficilmente si sarebbe abituato. I locali erano tutti aperti, il temporale sembrava non aver fermato niente e nessuno. “Bene” pensò tra sé e sé mentre guidava di fianco a Porta Ticinese, ammirandone la maestosità e l’eleganza in quella rete di movimento incessante “proprio quello che mi serve”. Una manciata di minuti dopo riuscì miracolosamente a parcheggiare nel garage che il proprietario di casa gli aveva gentilmente concesso di occupare: l’entusiasmo del giovane e la sua imminente volontà di trasferirsi avevano travolto anche lui, a quanto pare. Era sembrato entusiasta di liberarsi finalmente di quel monolocale, troppo piccolo per ospitare più di una persona, ma troppo centrale per essere ceduto ad un inquilino con un esiguo affitto mensile. Vittore non aveva stabilito prezzi, non aveva fatto troppe domande, non si era lamentato delle dimensioni deprimenti del locale, nemmeno del fatto che probabilmente sarebbe stato troppo alto per la doccia striminzita del bagno. Aveva annuito, sorriso e chiesto dove avesse dovuto firmare per averlo. Vittore era stato felice della sua decisione, euforico. Scese dall’automobile e si diresse verso l’appartamento coprendosi la testa con un giornale e tenendo la portantina del gatto con l’altra mano. Si fece notare cercando di allargare goffamente le braccia quando vide il proprietario di casa di fronte all’imponente portone di mogano scuro. -Buonasera!- urlò, e l’altro uomo annuì facendogli segno di avvicinarsi. Quando Vittore riuscì a ripararsi al di là della soglia aperta allungò la mano e l’altro la strinse con vigore. -Mi dispiace averla disturbata in questa sera piovosa- disse il giovane uomo, che era in realtà impaziente di entrare e di mettersi a dormire su un caldo letto. -Si figuri signor Padovano, anzi! Mi rammarico del fatto che si debba trasferire in questo periodo dell’anno, fa parecchio freddo quest’inverno- rispose l’anziano uomo, allungandogli un magro mazzo di chiavi. -Tutto ciò di cui ha bisogno lo troverà nell’appartamento- continuò -il riscaldamento è già acceso ovviamente, ma troverà una stufa elettrica nel caso dovesse avere freddo e mi sono premurato di fornirle una cuccia per questo bel gattone- concluse, battendo dolcemente la mano sulla portantina impermeabile. Vittore gli strinse nuovamente la mano e lo ringraziò immensamente prima di vederlo allontanarsi e salire su un taxi poco più in là. Corse su per un piano di scale e quando chiuse finalmente la porta di casa sua alle sue spalle si sentì sereno per la prima volta da mesi: non gli interessavano le dimensioni estremamente ridotte dell’unica stanza, la cucina minuscola e poco funzionale dimenticata in un angolo buio e la sua poca previdenza. Non aveva pensato a comprare niente, né per la cena, né per la colazione della mattina successiva. Era a digiuno, ma la stanchezza sembrava voler prevalere. Liberò l’insofferente Benny, che aveva cominciato a miagolare incessantemente da quando aveva spento la macchina e fortunatamente si ricordò di quell’unica scatoletta di pesce che aveva portato con sé per il viaggio. Era deciso a sedersi solo per una manciata di minuti sul divano, per riposare le gambe rigide e le palpebre stanche. Continuava a ripetersi che presto si sarebbe alzato per recuperare almeno dei vestiti puliti per il giorno successivo, ma la luce era fievole e tiepida, il materasso del divano era caldo, morbido e accogliente, Benny era finalmente tranquillo e il ticchettio della pioggia si era fatto ritmico e piacevole. Vittore non avrebbe aperto gli occhi fino all’alba del giorno seguente.

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