MtG Lore - Inktober 2019

di Crazymoonlight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ring - Sol Ring ***
Capitolo 2: *** Mindless - Rise of the Dark Realms ***
Capitolo 3: *** Bait - Mana Leak ***
Capitolo 4: *** Freeze - Winter Orb ***
Capitolo 5: *** Build - Urza, Lord High Artificer ***
Capitolo 6: *** Husky - Borborygmos ***
Capitolo 7: *** Enchanted - Gift of Orzhova ***
Capitolo 8: *** Frail - Human Frailty ***



Capitolo 1
*** Ring - Sol Ring ***



Day 1: Ring - Sol Ring

 
 





«Rakesh, Aditi! Svelti! A che punto siete con i serbatoi di etere? L'astrolabio ha bisogno di tempo per caricarsi!»

Le parole quasi si persero nel cadenzato frastuono di ingranaggi rotanti e negli sbuffi di vapore bollente che venivano risucchiati dagli aspiratori.

Quel giorno l'osservatorio era in pieno fermento: un intero squadrone di inventori e ingegneri e ancor più costrutti metallici erano all'opera, intenti ad azionare i macchinari che circondavano la stanza circolare. 

«Riempiti eeee… aperti! Stanno finendo di pompare in questo preciso momento.» rispose prontamente Rakesh, comparso alla sua sinistra con una serie di lunghe pergamene in spalla, poste in equilibrio precario; riusciva a malapena a mantenerle tutte senza che cadessero. Alla sua destra, Aditi, sempre efficiente, annotò l'informazione su un taccuino e continuò a tenere il passo a mo' di marcia.

«Perfetto!» esclamò con fare pratico poggiando la piuma da scrittura sui fogli, anche se il suo volto fu solcato brevemente da un'espressione di soddisfazione.

«Sembra essere tutto in ordine.»

Venya annuì e si diresse verso il parapetto che si innalzava lungo le pareti sul resto del laboratorio, con i suoi due assistenti alle calcagna. Di sotto, le principali macchine erano già in funzione e, al centro, l'astrolabio iniziava a brillare del caratteristico blu perlaceo tipico dell'etere.

Si trattava di uno strumento diverso da tutti quelli del suo genere: era una sfera metallica che raffigurava l’intera volta celeste e che era stata conficcata nel pavimento, da cui ne fuoriusciva solo una metà. Era circondata da una scala graduata per gli angoli e da numerose fenditure concentriche nelle quali fluiva l'etere. La sua superficie era decorata con incisioni arcaiche e formule matematiche in altorilievo, tranne che per un foro circolare delle dimensioni di una palla, che stava iniziando anch'esso a rilucere. Sopra, sospeso in aria come per magia, c'era un anello d'oro purissimo, inclinato in modo tale da essere perpendicolare al foro dell'astrolabio.

«...capo ingegnera Sangmi?» A giudicar dal tono, Aditi doveva averla chiamata più e più volte, ma lei si era assorta nei suoi pensieri. Tornata alla realtà, le fece segno di parlare con un gesto della mano e continuò a fissare la scena sottostante.

«Mi stavo chiedendo…» la sua voce si era fatta all’improvviso cauta, esitante «...se sia davvero il caso di continuare. Ritengo che l’Aetherflux Mini-Shuttle VS22b sia un progetto più adatto da presentare alla Fiera. È quasi ultimato, manca solo qualche piccolo ritocco estetico. Faremmo una gran bella figura.»

Venya le diede a malapena il tempo di terminare la frase, prima di controbattere, palesemente infastidita. «Fandonie!» scattò. «Mi rifiuto di partecipare alla Fiera degli Inventori con un misero razzo per le corse aeree. Abbiamo qualcosa di molto più ambizioso per le mani, qualcosa che vale più di mille riconoscimenti e che rivoluzionerà il nostro mondo!»

«Ma capo ingegnera!» cercò di obiettare l’assistente. «Gli ultimi tentativi non sono andati… diciamo che non hanno dato i risultati sperati, ecco. Stiamo utilizzando tutte le nostre risorse e le ultime esperienze sono state a dir poco… rischiose

L’altra sbuffò. «Rischiose? E perchè mai?!»

Aditi e Rakesh, il quale teneva ancora le lunghe pergamene in bilico su una spalla, si scambiarono un’occhiata d'intesa di sottecchi, come a voler ispirarsi coraggio a vicenda. Fu di nuovo Aditi a parlare, e questa volta la sua voce risuonò chiara e sicura, come se si fosse preparata a quell’eventualità e avesse ripetuto più volte il suo discorso.

«Ebbene, Jahangir e Ishan Mobo hanno abbandonato la squadra dopo i loro infortuni...» iniziò ad elencare.

«Non è colpa mia se non conoscono le norme di sicurezza di base per lavorare in un laboratorio!» sbottò Venya.

«Uno si è rotto un braccio e l’altro si è beccato un’ustione di secondo grado sul torso!» boccheggiò Rakesh in maniera appena udibile  e incredula alle sue spalle.

«...abbiamo dovuto faticare parecchio affinché non sporgessero denuncia. E poi c’è la questione del Consolato. Se continuano ad esserci altri incidenti, potrebbero tagliarci i fondi, chiudere il nostro laboratorio o addirittura toglierci la licenza!» 

«È vero, capo ingegnera Sangmi.» le diede man forte Rakesh. «È pericoloso e lei non ha più l’età per rischiare di…» tentò, ma aveva scelto le parole sbagliate.

«Stai forse insinuando che sono troppo vecchia per fare il mio lavoro, sciocco ragazzo?» 

A quello scatto d’ira, Rakesh trasalì e lasciò cadere alcune pergamene per terra. «Vi conviene tapparvi la bocca e tenervi pronti per iniziare o mi toccherà trovare altri assistenti!  E ora al lavoro!»

«Agli ordini!» risposero all’unisono i due e si dispersero a malincuore, ma prima Rakesh si calò a raccogliere le pergamene, che nel frattempo si erano srotolate rivelando disegni intricati e annotazioni varie. Venya li guardò allontanarsi e si recò alla centrale di comando, dalla quale aveva la visuale perfetta.

Questa è la volta buona, si disse armeggiando con delle ruote dentate, mentre gli altri andavano avanti con i preparativi. Se lo sentiva dentro, nonostante le premesse non fossero incoraggianti. Doveva farcela. Era un sogno che aveva da bambina, come una visione rivelatrice: un fascio di luce solare racchiuso in un anello. In giro si diceva che contenere la luce delle stelle in potenti artefatti fosse un’arte che gli artigiani avevano perso da secoli, ma, da quando l'aveva vista in sogno, era diventata la missione della sua vita. Forse era rimasta l’unica che ancora tentava di ricreare un simile prodigio: da quando Avaati Vya aveva trovato un modo per raffinare l’etere, gli altri inventori avevano utilizzato solo quello come fonte di energia e non avevano provato ad affidarsi ad altro. Tanto meglio, avrebbe avuto meno rivali ad ostacolarla. C’erano voluti anni e anni di studi e ricerche per acquisire le conoscenze adatte e, sebbene non avesse ancora raggiunto il suo obiettivo, di esperimento in esperimento c’era sempre un piccolo miglioramento che la portava più vicino alla soluzione e non le faceva perdere la speranza. 

Aveva controllato e ricontrollato i calcoli, scelto il giorno adatto affinché il Sole si trovasse nella posizione giusta, migliorato i suoi strumenti… anche gli ingegneri che la affiancavano erano ottimi e dotati di menti brillanti, anche se non lo diceva spesso per non farli adagiare sugli allori. Era tutto pronto. Questa è la volta buona, si ripeté. 

Aspettò che tutti ultimassero i propri compiti, dopodiché gridò: «Tutti in posizione?»

Un coro d'assenso fu la sua unica risposta. Osservò un complesso sistema di clessidre affisse alla parete retrostante che servivano a misurare il passare del tempo. Erano in perfetto orario.

«Bene! Orientare l'astrolabio alle coordinate AR 10h 17m , Dec 20° 06', TS  07h 37m !». Un trio di costrutti al piano inferiore si mosse verso una serie di leve e le tirarono. Con un leggero stridio, l’astrolabio ruotò su se stesso e si inclinò secondo l’angolo indicato. L’anello superiore si adattò automaticamente ai movimenti in modo da mantenere la sua posizione perpendicolare rispetto al foro della sfera.

«Aprire la cupola nel punto corrispondente!» 

La sopracitata cupola ricopriva l’intera stanza. Era interamente in vetro, in modo da osservare notte e giorno il cielo, e suddivisa in tanti tasselli, così da poter aprire solo la parte interessata. A ordine eseguito, l’atmosfera si fece appena più umida, per via dell’aria che proveniva dall’esterno. Fuori il cielo era sereno, senza neppure una nuvola, e il Sole era cocente e prossimo allo zenit. All’orizzonte era possibile vedere il panorama colorato di Ghirapur, pieno zeppo di alte spire e cupole sorrette da pilastri e decorate con mosaici.

«Perfetto!» esclamò, con un pizzico di eccitazione crescente. «Statemi bene a sentire: abbiamo penato parecchio per farci dare l'autorizzazione dalla Lega degli Aeronauti! L’atmosfera dovrebbe essere libera da dirigibili, Eteridi e altre creature, ma non voglio alcuna perturbazione permanente! In caso contrario, i responsabili pagheranno di tasca propria. Se seguirete alla lettera le istruzioni come vostro solito, non ci saranno problemi. Mettetevi a distanza di sicurezza e indossate le lenti polarizzate!»

Rakesh e Aditi la raggiunsero e la guardarono quasi esasperati, ma non osarono contraddirla. Indossavano già le lenti protettive e Venya li imitò. Tornò a guardare le clessidre. Dovevano attendere il momento giusto… Alzò un braccio per dare il segnale.

«Pronti e...» l’ultimo granello di sabbia si posò con delicatezza nel cono inferiore della clessidra, «...VIA!»

Rakesh spinse un pomello dalla centrale di comando e l’effetto fu immediato: l’etere fluido che scorreva nei cerchi concentrici circondanti l’astrolabio prese a brillare intensamente e dal foro iniziò ad uscire una colonna di pulviscolo blu ascendente a spirale, che acquisì rapidamente velocità fino a che il flusso divenne così spedito da diventare confuso e indefinito, come un fascio di luce sparato a raggio. 

Il flusso aumentò di intensità e superò la cupola attraverso il tassello aperto, su, dritto fino al Sole. Passarono pochi istanti prima che dalla stella stessa venisse risucchiato un raggio, che prese a contrastare il flusso di etere e scese ad altissima velocità giù, fino a quasi schiantarsi contro l’astrolabio. Un boato assordante ed una luce accecante, a stento trattenuta, si diffusero in tutto il laboratorio, e Venya dovette distogliere lo sguardo per non perdere la vista. L’anello d’oro, che era stato investito in pieno dal getto di luce, prese a ruotare furiosamente.

«Capo ingegnera Sangmi!» urlò Aditi dopo qualche minuto «Dobbiamo fermarci! Stiamo perdendo il controllo delle macchine!»

L’aria si era fatta estremamente calda, a causa del calore sprigionato dalla reazione in corso. L’etere stava sprigionando vapori a profusione e gli ingranaggi e le ruote dentate sferragliavano con un fragoroso stridio metallico.

«No!» ribattè lei. Con la coda dell’occhio, riuscì a vedere che al centro dell’anello si stava creando una piccola sfera di luce condensata. L’esperimento stava riuscendo!

«Aumentate la potenza degli aspiratori! Ricaricate i serbatoi, abbiamo bisogno di altro combustibile!»  

La squadra di ingegneri corse ad eseguire le istruzioni, con non poca fatica, ma Aditi continuò ad opporsi: «Capo ingegnera Sangmi! La supplico! Se continuiamo di questo passo, salteremo in aria!»

Probabilmente aveva ragione: l’aria si stava facendo incandescente e il flusso di etere sembrava non essere abbastanza potente da trattenere tutta la luce. Sprazzi di energia iniziarono a colpire tutto ciò che li ostacolava. Alcuni costrutti vaganti furono presi in pieno e si spaccarono. Ma la sfera nell’anello si faceva sempre più grande… mancava poco…

«Correte ai ripari! Non abbiamo ancora finito, ma ci siamo quasi! Al mio segnale!»

Il tempo sembrò rallentare. Tutti i presenti si nascosero alla bell’e meglio per evitare i raggi impazziti e trattennero il fiato, mentre le macchine stridevano, l’anello vorticava così velocemente che i suoi movimenti erano diventati inscindibili e avrebbe perso presto il controllo…. 

«ORA!»

Rakesh tirò un’altra leva e tutto finì. L’astrolabio cessò all’istante di emettere il flusso e la luce, non più risucchiata, esplose nella stanza: Venya fu sbalzata indietro dall’onda d’urto e andò a sbattere contro il muro. Quando si riprese, un fischio spaccatimpani le invase le orecchie. Le sue lenti protettive si erano spaccate nell’impatto e macchie nere a sprazzi le ostacolavano la vista. Una mano la afferrò per un braccio e la aiutò ad alzarsi.

«Capo ingegnera Sangmi! Come si sente? Sente dolore da qualche parte?» la voce allarmata di Rakesh le giungeva ovattata, distante. Con fatica, analizzò la scena circostante. Molti altri ingegneri si trovavano nella sua stessa situazione, ma non sembravano feriti in maniera grave. Le mura erano crepate in più punti, diversi vetri della cupola erano frantumati e i resti giacevano a terra insieme ai costrutti distrutti. L’etere non brillava più, ma continuava ad emettere dei vapori, mentre l’astrolabio emanava un bagliore arancione come prova dell’alta temperatura raggiunta. 

Tuttavia, fu solo una la cosa ad attirare il suo sguardo: sull’astrolabio, l’anello aveva smesso di vorticare con furia e ruotava debolmente, perdendo velocità. Dentro, una sfera di luce pura, bianca, brillava come la più lucente delle stelle. Era stranamente immobile e silenziosa dopo tutto il caos che aveva generato per essere intrappolata. Era una scena innaturale.

Prima che potesse fare alcunché, Venya sentì del liquido caldo solcarle le guance ormai piene di rughe. Lacrime calde presero a scorrere liberamente dai suoi occhi. 

Ce l’aveva fatta. Il sogno di una vita era stato portato a termine. Ce l’aveva fatta.

Si accasciò senza forze a terra, mentre l’Anello Solare proiettava la sua bianca luce dal centro della stanza.

 


Note dell'Autrice: Salve e benvenuti in questa nuova raccolta! Mi sento obbligata a fare una premessa: conosco la storia di MtG in via generale, quindi alcune storie potrebbero non avere alcun senso per i più esperti o essere inventate di sana pianta. 
Come ho scritto anche nella descrizione della storia, questa raccolta nasce dall'Inktober, una sorta di contest annuale che si tiene nel mese di ottobre e che serve a spronare gli artisti a scrivere, dipingere, comporre... seguendo dei temi prestabiliti. In base a ciò, ogni giorno dovrei scrivere e pubblicare una storia, ma metto subito le mani avanti: non è detto che io ci riesca, ovviamente non perchè non voglio, ma perchè purtroppo non esiste solo la scrittura e il mio tempo libero è abbastanza limitato (e sono pure fin troppo lenta a scrivere, quindi non ho nemmeno il tempo necessario a rileggere e correggere eventuali errori, dannata me). Ma voglio provarci! Dopotutto lo scopo dell'evento non è necessariamente quello di rispettare la scadenza quotidiana, ma di darsi una mossa e non fermare l'arte (se la mia può essere chiamata tale)! Se può essere di conforto, ho già una mezza idea di ciò che potrò scrivere nei prossimi giorni.
Per quanto riguarda la storia appena pubblicata: ebbene sì, il protagonista è l'Anello Solare, immancabile in ogni mazzo EDH. Venya Sangmi è un personaggio di Kaladesh citata nel flavor text della carta e che viene considerata la creatrice dell'Anello su quel piano. Dalla Wiki risulta essere ancora viva ma di età avanzata, quindi ho supposto che la sua scoperta sia avvenuta qualche decina di anni prima l'attuale timeline, poco dopo l'inizio del Grande Boom dell'Etere. 
Fatemi sapere cosa ne pensate e... alla prossima!

-Crazymoonlight

 

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Capitolo 2
*** Mindless - Rise of the Dark Realms ***



Day 2: Mindless - Rise of the Dark Realms





«Liliana. Vedo che sei di ritorno.» 

Erano soli nella sala imponente, un'enorme caverna scavata nella roccia nera, così alta e profonda che era arrivata ad assumere le fattezze di una cattedrale. Una miriade di drappi purpurei lacerati era appesa al soffitto da lato a lato, come a voler filtrare la fioca luce esterna che entrava dall'alto.

La negromante era in piedi all'inizio di quella che doveva essere la navata centrale e le sue vesti viola terminavano in un lungo strascico, che la faceva apparire come una bellissima e lugubre sposa. Sentendosi chiamare, la donna avanzò con passi lenti e pieni di eleganza, calpestando e frantumando senza riguardo i cumuli di ossa delle innumerevoli vittime che adornavano l’oscura dimora ormai da secoli; quando si fu avvicinata abbastanza, profuse in un profondo inchino: i suoi  setosi capelli neri ricaddero a cascata sul suo viso, nascondendolo alla vista.

«Ho portato a termine con successo il compito che mi avevi assegnato, o grande Accaparratore di Anime»

C'era del chiaro sarcasmo nelle sue parole, ma il demone non ci diede troppo peso e la degnò a malapena di uno sguardo. Liliana era stata insolente fin dal primo giorno, ma la sua sfacciataggine era ben lungi dall'intimidirlo: le aveva già fatto provare un assaggio delle pene che le avrebbe inflitto se avesse provato a mettersi contro di lui. 

«Ne sono compiaciuto. Sapevo che ti saresti rivelata utile… Dov’è il mio Velo di Catena?» 

«Puoi vedere da te.» rispose la donna e di primo acchito lui non capì; tuttavia, quando lei si rialzò e poté osservarla meglio, il demone inorridì: la sua faccia era coperta interamente dall'antico artefatto e le raffinate maglie di oro brunito erano appoggiate sulla sua pelle in modo così delicato da sembrare seta. Cercò di nascondere il tremito di paura che gli aveva pervaso il corpo, optando piuttosto per un ghigno di scherno e incredulità.

«Divertente. Ora cedimi il Velo.»

«No.» si oppose la strega. Sebbene il suo volto, fatta eccezione per gli occhi, fosse celato, il demone poteva ben immaginare il sorriso tronfio che le curvava le labbra.

«Sono venuta a porre fine al nostro contratto, Kothophed.»

A quelle parole, Kothophed, che fino ad allora era rimasto adagiato sulle spire attorcigliate della sua coda serpentina, si erse nella sua interezza: spianò le grandi ali da pipistrello e sul suo volto caprino comparve una smorfia d'ira. La sua figura sembrò eliminare ogni traccia di luce presente nella sala, gettando ombre inquietanti sulle pareti.

«Osi davvero sfidarmi nel mio dominio, Liliana?» ringhiò. 

«Devo forse ricordarti cosa è accaduto l'ultima volta che hai provato a ribellarti? Se cerchi di spezzare il contratto senza il mio volere, conoscerai la morte, dalla quale hai tanto cercato di scappare.  Sei vincolata a me, sei in mio potere. Obbedirai solo a me!»

La negromante non proferì parola, ma rispose lanciandogli contro un getto di mana nero. Il demone, preso alla sprovvista e colpito, si contorse dal dolore e quasi crollò a terra. La magia di Liliana era diventata enormemente più potente, senz'ombra di dubbio grazie all'influenza del Velo di Catena.

«Aspettavo solo il momento opportuno per attaccare.» constatò lei, con una punta di soddisfazione a stento trattenuta nella voce.

«Credi basti così poco per battermi?» gridò Kothophed, rialzandosi e avventandosi contro di lei. «Sai già che da sola non hai alcuna speranza!»

«Ed è qui che sbagli!» ribatté l'altra, andandogli incontro con sicurezza. Da dietro il Velo, i suoi occhi iniziarono a brillare di viola e un altro getto di puro mana nero lo investì, impedendogli di muoversi.

«Sai perché vinco sempre, o grande Kothophed?» lo canzonò, allargando le braccia, vittoriosa. «Perché sono sola. Perché non ho bisogno di affidarmi ad altri per raggiungere i miei scopi. Le persone sono capaci di tradire in qualunque momento, anche quando credi di tenerle in pugno. E infatti… Avevi bisogno di qualcun altro, di me, per recuperare il Velo di Catena, ma non avevi considerato che avrei potuto usarlo contro di te! Preparati a pagare le conseguenze della tua stoltezza!»

Dalle sue mani si liberò un miasma violaceo che si disperse tutto attorno a lei. Subito dopo, la terra tremò e dal suolo sbucarono mani, poi braccia, poi teste… una moltitudine di corpi, di cadaveri, si era alzata, evocata da chissà dove. I primi zombie partirono subito all'attacco, arrancando sulle ginocchia mal articolate, ma Kothophed trovò la forza per sferzare le sue ali e respingerli indietro. Liliana parve imperturbata dai suoi sforzi. Con un altro gesto delle mani, altri zombie fecero capolino dal terreno nero.

«Avresti dovuto scegliere con cura i tuoi servitori, Accaparratore di Anime. Le persone ti pugnalano alle spalle, ma i miei amici, d'altro canto… non hanno un cervello, non hanno una volontà propria che possa farli ribellare. Ascoltano ciecamente ogni mio comando, sono gli schiavi perfetti. Certo, dopo un po' possono risultare noiosi, ma… è stato il tuo volermi accomunare alla morte che me li ha fatti rivalutare in meglio.»

Le creature si moltiplicavano a dismisura. Si facevano strada con forza dal suolo, si alzavano incerti sulle gambe e si lanciavano all'attacco senza insicurezza, come manovrati da fili invisibili. Kothophed si ritrovò ben presto sommerso e incapace di liberarsi. Sopra di sé, vide Liliana ergersi su di una schiera dei suoi servitori, che la mantenevano in aria e si piegavano sotto il suo peso, fino a farla sedere su di un trono fatto di carne putrida e ossa rancide.

«E di questo volevo ringraziarti.» gli concesse, continuando il suo discorso. «In principio venni da te per riottenere la mia giovinezza e sfuggire alla morte; ma tu mi facesti aprire gli occhi: la morte non mi avrebbe mai abbandonata, perché ormai l'avevo accolta dentro di me, nella mia anima. La morte è il motivo per il quale sono diventata una Planeswalker. Sono io la sua padrona. E sarò anche la tua rovina.»

Su tutto il suo corpo iniziarono a comparire dei ghirigori viola, che parevano marchiarla a fuoco. I suoi occhi brillarono più intensamente che mai… un altro colpo della sua magia e Kothophed urlò come mai aveva fatto in tutta la sua esistenza.


 



Note dell'Autrice: Ed eccomi con il secondo aggiornamento dell'Inktober 2019! Riuscire a scrivere tutto in un solo giorno mi commuove... potrei abituarmi all'idea...
Ma bando alle ciance: la protagonista di questa storia è Liliana Vess, uno dei personaggi più iconici di MtG. Sono un po' dubbiosa riguardo ciò che ho scritto, più che altro perchè Liliana non è esattamente uno dei miei personaggi preferiti e ho paura di non essere riuscita a parlare di lei "come meriterebbe". Anche questa volta la storia è ambientata nel passato (la Wiki dice 4604 A.R.) e, come avrete ben capito, inscena la morte di uno dei demoni con con cui Liliana ha firmato un contratto per aumentare il suo potere e ottenere l'immortalità, diventando, in cambio, un burattino nelle loro mani. 
Per questa storia non mi sono attenuta al flavor text della carta che fa da tema centrale, ma mi sono lasciata ispirare dall'immagine: mi piaceva parecchio l'idea di Liliana seduta su un trono di zombie...
Non ho altro da aggiungere.
Alla prossima (che si spera sia domani)!

-Crazymoonlight

 

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Capitolo 3
*** Bait - Mana Leak ***




Day 3: Bait - Mana Leak





Crac.

 

Il piatto volò a terra e si frantumò. La zuppa che si trovava al suo interno si riversò sul pavimento, lasciando chiazze scure e indelebili sulle scene di caccia raffigurate sul tappeto prezioso. L'uomo barcollò, tossendo forte. Portandosi una mano sulle labbra, come per soffocare l'improvvisa crisi, sentì qualcosa di umido che la bagnava e un penetrante odore metallico gli riempì le narici: sangue. 

Un senso di debolezza lo pervase e la testa iniziò a girargli, le gambe a tremargli. Il respiro, quando non era interrotto dall'attacco di tosse, si era fatto affannoso e corto. Fece appena in tempo ad aggrapparsi con tutte le sue forze a un comodino prima di crollare sul letto. 

«Cosa… cosa mi hai dato da mangiare...» riuscì a fiatare; poi, un lampo di comprensione parve attraversargli il volto e ringhiò: «Tu non sei mia figlia.»

Una risata roca ed estremamente soddisfatta risuonò nella stanza buia. Era così diversa da quella gioviale e acuta di sua figlia, eppure l'uomo la riconobbe all'istante.

«Volrath!» sibilò, e lo sforzo di parlare gli causò un altro attacco convulso.

«Noto con piacere che la cecità ha sì offuscato i tuoi sensi, Starke il-Vec, ma il tuo acume è rimasto fortunatamente intatto.» rispose il sopracitato con una punta di sardonica vivacità nella voce. «Non ti agitare troppo o il veleno agirà più in fretta e aumenterai solo la tua agonia. Non provare a chiamare nessuno, sarebbe fatica sprecata. Manca poco, ormai.»

«Tu… brutto bastardo...»

«Suvvia.» lo incalzò Volrath. «Vuoi davvero rovinare così i tuoi ultimi istanti di vita? Invece di ricordare insieme i cari, vecchi tempi... Tsk tsk.» lo rimproverò, ma Starke lo ignorò.

«Takara… Dov'è? Dove è mia figlia?! Cosa le hai fatto?!»

La realizzazione di ciò che stava accadendo finalmente giunse e il panico lo travolse. Non aveva paura di quello che gli sarebbe successo a breve, ma sua figlia… era convinto davvero che fossero riusciti a salvarla dalla sua cella su Rath, perdendo definitivamente la vista nel processo. Se Volrath non aveva assunto le sue sembianze in quel momento, allora quando…?

«E speri davvero che io te lo dica, che ti conceda quest'ultima soddisfazione?»

Starke avvertì un movimento lieve sul pavimento e subito dopo la voce di Volrath si fece più vicina.

«Sembri tenere molto a tua figlia… una figlia che hai tenuto nascosto per tutti questi anni… eppure non ci è voluto nulla per scoprire il tuo piccolo segreto e per farti cadere nella mia trappola.» gli sussurrò in un orecchio.

«C'è un certo senso di giustizia in tutta questa situazione, non credi?» continuò, e questa volta la sua voce suonò più distante, segno che si era allontanato di nuovo. «Anni fa compromettesti il mio Rito di Passaggio, cospargendo di veleno la pittura per i miei tatuaggi. E, adesso, quella stessa tossina è stata utilizzata per avvelenare il tuo ultimo pasto.»

Anche se non poteva vederlo, Starke puntò gli occhi dritto dove doveva trovarsi la sua faccia, sorpreso e orripilato insieme. Volrath rise, ma questa volta non c’era alcun divertimento nel suo tono, quanto, piuttosto, un freddo e piatto risentimento.

«Cosa, sei stato così presuntuoso da credere che non lo avrei scoperto, dopo tutto questo tempo? Il tuo errore fatale è stato assumere di saperla più lunga di me.» lo schernì, riprendendo la sua storia. «Quella volta, dopo che cercasti  di uccidermi, sopravvissi solo perchè Gerrard, colui che ora ti diverti a chiamare Comandante, interferì con i tuoi piani. Come ben sai, mi salvò la vita, ma ormai la mia presenza nel clan di Jamuraa era stata compromessa, non avevo provato il mio valore. La morte sarebbe stata preferibile a un simile disonore. Per colpa tua, persi la mia eredità, la mia famiglia. E dopo anni, mi convincesti a vendicarmi contro il mio stesso padre.»

«Hai scelto di tua spontanea volontà di uccidere Sidar Kondo, non eri affatto obbligato!» obiettò debolmente Starke il-Vec. Poteva sentire le forze abbandonarlo definitivamente. Non gli restava ancora molto tempo… Muovendosi il più silenziosamente possibile, nel tentativo di non attirare l’attenzione, spostò piano una mano verso il cuscino.

«Certo.» gli concesse Volrath. «Ma fui costretto a farlo, capisci? Fosti tu a mettere in moto la serie di eventi che hanno portato alla morte di mio padre e del mio vecchio clan. Se non fosse stato per te, ora, forse… Tu mi cambiasti, mi facesti diventare ciò che sono ora, mi aiutasti a raggiungere il potere, e di questo te ne ringrazio, ma... Mi hai deluso quando sei passato dalla parte di Gerrard e sai bene che non tollero più il tradimento. Mi dispiace solo che mio fratello non fosse presente al momento opportuno… Mi sarei divertito molto a ucciderlo con le mie stesse mani, per dimostrargli chi è davvero degno!»

Starke il-Vec pregò con tutto se stesso che Volrath, preso com’era dal suo discorso carico di rancore vecchio di anni, non gli stesse prestando troppa attenzione e che la sua mano, che si era infilata sotto il cuscino e si era stretta intorno alla sottile e fredda lama del suo pugnale, passasse inosservata. Se non fosse riuscito nel suo intento… magari, almeno, avrebbe fatto abbastanza rumore da allertare qualcuno dell’equipaggio della Cavalcavento e Volrath sarebbe stato catturato… Non c’era tempo per pensare a un modo per sopravvivere. Non era importante.

«Qualcuno della banda si accorgerà subito della mia morte, prima che tu te ne sia andato, e allora non avrai possibilità di scampo.»

«Mi basterà cambiare di nuovo il mio aspetto e nessuno si accorgerà di nulla. E quando sarò tornato da Takara...»

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Starke non aspettò che Volrath finisse di elencargli tutte le orribili cose che avrebbe fatto a sua figlia: in un colpo di adrenalina improvviso, afferrò il pugnale e si scaraventò nella sua direzione con le ultime forze rimastegli in corpo; ma, prima che potesse colpire, sentì un’onda magica respingerlo e annullare il suo attacco. Non era stata una magia molto forte, ma il messaggio che gli aveva lanciato era chiaro: bastava davvero poco per sopraffarlo, ormai non aveva più alcuna speranza di ostacolarlo.

La lama che aveva in pugno scivolò e cadde chissà dove. Caracollò maldestramente all’indietro di qualche passo, dopodichè si accasciò a terra. Le sue mani finirono sui cocci del piatto spaccato in precedenza e si tagliarono. Una nuova crisi respiratoria lo prese e, quando iniziò a tossire e a sputare di nuovo sangue, si piegò in due per il dolore. 

Sopra di sè, udì un sospiro quasi deluso.

«Bene.» sentenziò Volrath. «Se è davvero così che vuoi che finisca...»

Un calcio lo colpì dritto nello stomaco e fu sicuro che, se avesse avuto ancora fiato in corpo, avrebbe rilasciato un urlo straziante. Lacrime iniziarono a sgorgargli dagli occhi, senza che lui riuscisse a trattenerle. Tanto non aveva più senso… 

Un altro calcio lo prese nello sterno prima che avesse la possibilità di riprendersi un attimo. Poi un altro calcio, ancora un colpo, un altro ancora…

La fine giunse con l’immagine di sua figlia, sola e intrappolata da qualche parte mentre aspettava invano che la salvasse, impressa nella mente.



 
 
Note dell'Autrice: Questa è la terza storia e già sono in ritardo di tre giorni. Che inizio promettente! Sapevo che prima o poi avrei avuto problemi con le scadenze, ma pensavo sarebbe successo a fine ottobre, non così presto... e invece. Anche la settimana prossima sarà parecchio problematica, quindi ho deciso che non è importante che io pubblichi qualcosa ogni giorno, quanto piuttosto che io scriva la storia nell'arco di una giornata. In più potrebbero uscire fuori storie anche più corte, ma visto il poco tempo che ho a disposizione, non credo di poter fare di più.
Parlando del capitolo corrente: mi ha dato non pochi problemi. All'inizio volevo incentrare la storia su Volrath e Starke il-Vec, poi su Volrath e suo padre, poi su due personaggi random che si lanciavano magie a caso (di cui almeno una veniva counterata) e alla fine sono tornata all'idea di partenza. Il Mana Leak (il counter) è stato raffigurato nell'annullamento dell'attacco "potenziato dall'adrenalina" di Starke. Non è stato semplice immaginare un counterspell contro un attacco fisico, lo ammetto, ma spero di aver fatto del mio meglio.
I personaggi e gli eventi qui descritti provengono dalle prime storie di Magic, ambientate su Dominaria e Phyrexia. Sono storie che purtroppo non ho letto e quindi ho paura di aver stravolto completamente i fatti e i personaggi, ma nelle note del primo capitolo avevo specificato che sarebbe potuto succedere, per cui... non linciatemi!
Alla prossima (si spera presto!)

-Crazymoonlight

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Capitolo 4
*** Freeze - Winter Orb ***


 
Day 4: Freeze - Winter Orb

 

Quando l’Inverno ha ormai preso campo,

non ritira mai volentieri il proprio gelido tocco, ansioso e carezzevole;

e l’aria stessa, incupita, dorme alla sua mercè.

Aline Corralurn, “Tardo disgelo”.


Bianco. 

Davanti a sé vedeva solo bianco. 

Il mondo intero era stato ricoperto dal manto gelido della neve; l’aria stessa si era fatta pesante, talmente solida da poter essere tagliata, una cappa candida che non faceva più distinguere il basso dall’alto, il vicino dal lontano. Ogni cosa si era fatta indistinta, senza contorno, e il solo cercare di discernere alcunchè faceva male agli occhi.

Neanche il vento che soffiava insistente e ininterrottamente poteva scuotere e infondere vita al paesaggio. Non un fiocco di neve rotolava sull’altro, non un minimo cambiamento si palesava nel cielo terso, non un’anima viva si scorgeva all’orizzonte. Tutto era immobile, congelato. 

Naromin aveva perso la cognizione del tempo e dello spazio. Non riusciva più a capire che momento esatto della giornata fosse, non riusciva a trovare alcun punto di riferimento, non riusciva a ricordare da quale direzione era giunto e verso quale era diretto. 

Era solo, un insignificante punto abbandonato in un piano infinito, freddo.

Il gelo gli entrava nelle ossa intorpidite, anche se era coperto da capo a piedi, sotto molteplici strati di pellicce, sulle quali si era formato un sottile strato di brina. Non una parte del suo corpo era scoperta, fatta eccezione degli occhi, che tuttavia di tanto in tanto copriva con un lembo della sua sciarpa. 

Il solo respirare gli faceva male, i suoi denti non smettevano di battere, incontrollati, così forte che si era più volte morso la lingua al punto da assaggiare il sapore del suo stesso sangue.  Non ricordava l’ultima volta che aveva pronunciato una parola, perché parlare era un'agonia, un bruciore infernale che grattava contro la sua gola come se il suo stesso corpo urlasse per il dolore, in assurdo contrasto con il freddo che c'era all'esterno.

Persino i suoi pensieri si erano fatti lenti e sconclusionati, abituati a focalizzarsi solo sul trovare un modo per sopravvivere.

 

Quella mattina aveva detto addio al suo ultimo compagno. Erano rimasti solo loro due da qualche tempo e le loro scorte di cibo erano terminate da ancor prima. Avevano continuato a vagare senza una meta apparente, senza sapere se fosse valso a qualcosa o se il loro era solo un andare incontro a morte certa. Il giorno prima si erano addormentati, ormai senza forze, abbracciati, con le punte dei loro nasi che si toccavano e i respiri corti che si combinavano in nuvolette ghiacciate. Avevano sperato che il calore dei loro corpi bastasse a tenerli in vita... 

Invece, al risveglio, la prima immagine che lo aveva accolto era quella del suo amico rigido come un tocco di ghiaccio, con la pelle che aveva assunto un'inquietante sfumatura di blu…

Era morto. 

Naromin si era ritrovato a ringraziare il cielo che almeno i suoi occhi non fossero aperti. Così non li avrebbe impressi nella mente, come era già accaduto con tutti gli altri che lo avevano accompagnato ed erano rimasti indietro... Le loro pupille fisse e le espressioni vitree e vuote erano un continuo ricordo del suo fallimento, una condanna verso il rimorso eterno...

Lo aveva spogliato e aveva indossato i suoi panni, chiedendogli silenziosamente perdono. Dopotutto, non gli sarebbero serviti più… 

Lo aveva lasciato lì, nudo sulla terra fredda, senza voltarsi indietro.

 

Come poteva chiunque sperare di sopravvivere a tutto ciò? C’era qualche forza all’opera, che soffocava persino la volontà di andare avanti. 

Se solo avesse raggiunto la fonte di quel maleficio…

Se solo…

Se…

..

.

 
 

Note dell'Autrice: Questa volta sono più o meno puntuale, con una storia più corta e di cui non sono per nulla convinta, yeeee!
Quando ho visto che il tema era "Freeze", la prima cosa a cui ho pensato è stata una delle frasi di Mei di Overwatch: "Freeze, don't move!" e mi è subito venuto in mente "Winter Orb", una delle mie carte preferite. Perfetta per bloccare il gioco e far arrabbiare gli avversari...
Naromin è un esploratore che viene citato in una delle versioni della carta, così come Aline Corralurn e il suo componimento. Questa volta sono sicura di non aver stravolto il mondo di Magic (o almeno spero).
Ah, ho notato che in tutti i capitoli (tranne che nel primo) i personaggi non fanno una bella fine. Dalla prossima storia spero di risollevare un po' il morale.
Alla prossima!

-Crazymoonlight

 

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Capitolo 5
*** Build - Urza, Lord High Artificer ***


 

Day 5: Build - Urza, Lord High Artificer


 






«Urza! Urza, dai! Aspettami!»

Urza si voltò, infastidito, con le gambe tese e i piedi in avanti, già pronti a ripartire. Suo fratello Mishra era diversi metri più in alto, affacciato da una delle impalcature che facevano da strada sicura verso il fondo della cava. Urza lo osservò mentre la corda alla quale si era appoggiato con foga oscillava pericolosamente, ma non si preoccupò di intimargli di fare attenzione: Mishra si era già allontanato e aveva preso a correre rumorosamente sugli assi di legno per raggiungerlo. 

Anche se avevano la stessa età, non potevano essere più diversi, come sole e luna. Urza aveva capelli chiari, di un biondo paglia, le guance scarne che lo facevano sembrare più grande e una sempre presente espressione seria, torva, dipinta in faccia; Mishra, invece, era più basso di almeno una testa e robusto, il volto tondo rifletteva la sua mancanza di maturità e i suoi capelli erano neri come il buio delle notti senza stelle. 

Urza attese che il fratello scendesse di qualche piano ancora, prima di riprendere la sua passeggiata, con falcate lunghe ma lente. Dopo qualche istante, sentì il fiato corto di Mishra alitargli all’altezza della spalla. 

«Allora...» la sua voce era affaticata, ma nondimeno incuriosita, energica. «Oggi ti degnerai di farmi vedere a cosa stai lavorando?»

Urza ci mise un po’ per rispondere, come se stesse soppesando attentamente la risposta, ma in realtà voleva solo tenerlo ancora un po’ sulle spine. Dopotutto, il suo progetto poteva considerarsi ormai ultimato. Dubitava che Mishra sarebbe stato in grado di cavarne un ragno dal buco senza una sua spiegazione, ma, almeno, c’erano scarse probabilità che distruggesse qualcosa per sbaglio

«Sì.» rispose semplicemente. Girò a destra e scese le scale che portavano a un lungo corridoio scavato nella roccia. Era mattino presto e il resto della troupe non era ancora arrivato per continuare gli scavi nel sito, di conseguenza non c’era nessuno in giro. «Vieni, prima che il posto inizi a brulicare di gente.»

Il corridoio si snodava in una serie di curve, bivi, vicoli ciechi, un vero e proprio dedalo sotterraneo nel quale sarebbe stato facilissimo perdersi se non si fosse conosciuta la strada a menadito. Lungo le pareti facevano capolino numerose porte, dalle dimensioni e fattezze diverse, ma tutte chiaramente antiche e usurate dal tempo; per il resto, non c’era nulla di significativo che facesse distinguere una strada da un’altra. Camminarono ancora per qualche minuto, finchè non raggiunsero un varco stretto e corto, alla cui estremità si trovava una porta rotonda e arrugginita, posta a diversi piedi da terra; sembrava più l’apertura di una cassaforte che l’ingresso di una stanza. Urza cacciò un mazzo di chiavi dalla tasca del mantello, facendo ben attenzione a posizionarsi di fronte la porta in modo da coprire la visuale al fratello. Il rumore secco di serrature che scattavano rimbombò nel corridoio di pietra e la porta schizzò in avanti, senza altri stimoli. Urza si arrampicò nell'apertura e gattonò nella bassa galleria circolare che si nascondeva oltre. Dietro di lui, Mishra si lasciò sfuggire un'esclamazione sorpresa e carica di entusiasmo, come se si stesse preparando a partire per un’avventura. 

Giunti alla fine del cunicolo, si ritrovarono in una stanza non molto grande, dove dinamo e macchinari vari erano già in funzione e rendevano l’atmosfera in qualche modo più calorosa, viva. Numerosi scaffali erano stati posizionati lungo le pareti, straripanti di libri dalle copertine sgretolate; molti altri erano sparpagliati disordinatamente in giro per la stanza, aperti su passaggi importanti o posti precariamente in pile altissime. Artefatti e reliquie di vario genere e proveniente da epoche passate erano appoggiati con cura dentro teche o su piedistalli. Alcuni di essi erano stati smontati sui tavoli da lavoro e riprodotti schematicamente su pergamene. 

Mishra esordì con un fischio di approvazione. 

«Dunque è questo l’antro in cui ti nascondi tutto il giorno, eh? E io che pensavo che perdessi tempo...» chiese in maniera retorica mentre ficcanasava in giro per la stanza. La sua espressione si riempì di gioia quando si avvicinò a una reliquia particolarmente ben tenuta. 

«Ma questa risale a ben prima del 4795!» esclamò, tenendosi a distanza di sicurezza. «Dalle incisioni sulla superficie, direi addirittura a poco dopo la fondazione di Halcyon! Per tutti i… davvero la vecchia Tocasia ti permette di tenere tutta questa roba solo per te? Si potrebbe ricostruire l’intera storia di Thran qui dentro!»

Urza lo ignorò. Si slacciò distrattamente il mantello e lo lanciò su una sedia libera, dopodichè si mise subito in azione, come se fosse da solo. Su un tavolo posto al centro della stanza, c’era il frutto del suo lavoro e di innumerevoli notti insonni: un modellino costituito da una cabina a forma di guscio di noce, munita di una coppia di ali laterali e da una lunga coda posteriore: un ornitottero. 

«È davvero quello che penso?!»

Urza sobbalzò violentemente al suono della voce squillante del fratello, improvvisamente più vicina di quanto si aspettasse. Mishra afferrò il modellino prima che potesse fermarlo e prese a studiarlo avidamente. 

«No, fermo…!» provò ad opporsi Urza, ma ormai era troppo tardi: Mishra doveva aver premuto il punto giusto, perché, con un lieve ronzio metallico, l’ornitottero spiegò le ali da pipistrello e si sollevò dalle sue mani aperte, prendendo a volteggiare pigramente in giro. Urza osservò l’artefatto volante con apprensione, poi, vedendo che la situazione era stabile, lo lasciò girare in tondo nella stanza.

«Già.» confermò riferendosi alla domanda precedente e finalmente la sua voce perse la sua tipica tonalità apatica e si riempì di orgoglio. «Ho avuto l’onore e l’onere di riprodurre un ornitottero, come indicato negli appunti di Abbas ibn Firnas, anche se ho avuto modo di migliorare il design originario. Ho apportato qualche piccola modifica, il lavoro di partenza era grandioso, ma poteva essere reso più efficiente, così... questo è solo un prototipo su scala. Ho intenzione di costruire un velivolo abbastanza grande e sicuro da essere in grado di trasportare anche delle persone. Chissà, magari, in qualche modo, il mio lavoro mi ha appena fatto guadagnare un posticino tra le persone che hanno cambiato la storia.»

I due continuarono a osservare l’ornitottero come se fosse la cosa più bella che avessero visto in vita loro. Urza notò con piacere che, per la prima volta da che ne avesse ricordo, Mishra era a bocca aperta, senza parole. Il fratello maggiore non si fece scappare l’occasione per punzecchiarlo ancora un po’.

«Allora… Ti piace ciò a cui sto lavorando, fratello


 
 
Note dell'Autrice: Sono tornata, con un altro personaggio iconico di MtG e con il rischio di aver stravolto ancora il mondo di gioco, evvai! Almeno questa volta non è morto nessuno, su (forse). 
Ho deciso di ambientare questo racconto agli albori della storia dei personaggi riportati, così da far sembrare abbastanza verosimile il tutto. Urza (che finalmente è comparso come carta in Comman... - ehm, in Modern Horizons) e Mishra sono stati entrambi degli inventori e artificieri prodigiosi (anche se qui Mishra sembra un po' scemo e alla fine hanno scatenato una guerra che ha devastato interi continenti) e gli ornitotteri sono stati tra le loro prime invenzioni. Per il tema "build", scrivere qualcosa al riguardo mi sembrava più che azzeccato.
Ultima nota: Abbass ibn Firnas non è un personaggio inventato, ma uno scienziato e inventore realmente esistito, ricordato per essere stato il primo in assoluto a costruire una macchina volante. Mi è sembrato giusto omaggiarlo in qualche modo.
Alla prossima!

-Crazymoonlight

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Capitolo 6
*** Husky - Borborygmos ***


 
Day 6: Husky - Borborygmos

 


 





«Al-be-ro. Albero. Siamo il Clan Bru-cia Al-be-ro.» tentò per l’ennesima volta Revanna, facendo ben attenzione a scandire le sillabe così che fosse facile ripeterle; tuttavia, la sua pazienza era giunta al limite dell’umana sopportazione ed era ormai chiaro che il suo studente non era affatto interessato alla lezione. Borborygmos era seduto a gambe incrociate sul tronco di un vecchio frassino caduto, spaccato e annerito in verticale come se fosse stato colpito da un fulmine. Anche in quella posizione, il ciclope era così alto che le sue corna arcuate rischiavano di incastrarsi tra i rami più bassi degli altri alberi che facevano loro da riparo. Si trovavano nelle antiche rovine di quello che secoli prima doveva essere stato un santuario di qualche tipo. Il soffitto dell’edificio principale era crollato da chissà quanto tempo; non restavano che alcune parti delle mura, ora ricoperte da edera e altri rampicanti, mentre l’erba aveva preso a ricrescere sul pavimento. La natura si stava riappropriando dei propri spazi, reclamando ancora una volta il suo dominio.

Erano passate ormai settimane da quando si erano accampati nella zona, il che non era un evento che si ripeteva tanto spesso: il clan non restava mai troppo a lungo nello stesso posto, preferendo vagare per le Red Wastes e portando un po’ di sano caos laddove ce ne fosse stato bisogno -in particolar modo, in prossimità del Decimo Distretto. Revanna adorava darle di santa ragione a qualche spocchioso Boros in armatura o  a qualche prelato Orzhov che credeva di poterle impartire ordini-.  Il resto del clan, comunque, per una volta non sembrava dispiaciuto della sedentarietà e si era ben presto adattato all’ambiente circostante, erigendo palizzate approssimative, attaccando arazzi con il simbolo della gilda all’esterno delle tende o ai rami e organizzando grandi falò nelle navate, attorno ai quali i membri dei Brucia-Albero danzavano, mangiavano o facevano semplicemente baldoria.

Anche quella sera, infatti, dei centauri avevano preso a inseguirsi sbizzarriti, intonando canti di guerra e urlando minacce attorno al falò centrale, dove il fuoco scoppiettava vivace sprigionando scintille ardenti e volute di fumo che trasportavano un penetrante odore di muschio bruciato. I tatuaggi tribali sui dorsi delle creature rilucevano velocemente e i loro movimenti frenetici alla luce delle fiamme generavano ombre ipnotizzanti tutto intorno. Borborygmos osservava la scena con il suo unico, piccolo occhio posto al centro della fronte, e con una risata gutturale che metteva in mostra le sue zanne appuntite. Di tanto in tanto addentava con foga una coscia di cinghiale arrosto; masticava così maldestramente che molti pezzi di cibo cadevano dalla sua bocca e finivano per perdersi nella sua barba ispida. 

Ignaro degli sforzi della donna, Borborygmos finì di mangiare la coscia e lasciò cadere l’osso a terra, ghignando da solo per qualcosa di buffo che doveva essere capitata di fronte al falò. Revanna raccolse l’osso e lo usò per bastonarlo su un braccio.

«Testone, guarda che sto parlando con te!»

A quel ridicolo sfogo di rabbia, finalmente il ciclope sembrò ricordarsi della sua presenza, girando pigramente la testa nella sua direzione. Revanna lo fissò imperterrita, in segno di sfida. Se qualcun altro avesse osato tanto, sarebbe partita all’istante una rissa: il suo capogilda non era solito lasciar passare comportamenti che mettessero in discussione la sua autorità e aveva bisogno di dimostrare a tutti chi fosse il più forte, per continuare a comandare. Con lei, però, si trattenne: Revanna non lo stava affrontando per il potere. Era stato lo stesso Borborygmos a chiederle, tra un ruggito e un ringhio, di insegnargli a parlare la Lingua Comune.

I due continuarono la loro lotta silenziosa, impugnando come arma solo sguardi pieni di indignazione e rimprovero. Alla fine fu il ciclope a doversi arrendere: dalla sua bocca fuoriuscì un suono grottesco e minaccioso, ma incrociò forte le braccia al petto, come un bambino che fa i capricci. Revanna sapeva benissimo cosa voleva dire: “Non trattarmi così”, ma non si lasciò impietosire.

«Ah ah!» lo rimproverò. «Non posso capirti se grugnisci come un maiale.»

Di tutta risposta, Borborygmos le mostrò le zanne come avvertimento, ma subito dopo brontolò: «È… noioso… Revanna.»

Suo malgrado, Revanna sorrise. Il suo capo faceva ancora fatica a parlare e ad articolare frasi complesse, ma stava migliorando in fretta, anche se doveva patire parecchio per farlo concentrare. Quando riusciva a farlo parlare, però, doveva ammettere che ne valeva davvero la pena: la sua voce era rauca, ma vibrante, furiosa, profonda. Pericolosamente eccitante. Le sarebbe piaciuto ascoltarla più spesso. 

«È noioso, lo so.» gli concesse. «Ma sei stato tu a chiedermelo. Forza, ripeti. Siamo il clan…?»

Ma per quella sera non avrebbe avuto risposta. Non appena ebbe finito di pronunciare la domanda, infatti, si sentì un corno di guerra suonare fragorosamente in lontananza. Subito dopo, un centauro e un elfo corsero da loro, affannati ma euforici, mentre il caos iniziava a dilagare nell’accampamento.

«Un plotone Boros in avvicinamento, capo!» urlò raggiante l’elfo, sbracciandosi. 

«Sono pronti ad attaccare!»

Borborygmos non aspettò oltre: si alzò dal tronco e afferrò il suo enorme maglio, che aveva posto vicino ai suoi piedi. Spalancò le fauci e un urlo rabbioso si propagò nella notte, facendo spaventare e volare via diversi uccelli dalle fronde degli alberi in alto. 

Ci fu un solo secondo di silenzio assoluto, dopodichè il clan esplose in un boato di grida e di acclamazioni. Presto altre urla estasiate e selvagge si unirono a quelle di ciclope e i combattenti alzarono le armi al cielo, pronti a far scorrere sangue. Revanna si unì subito a loro, scattando all’impiedi e impugnando la sua ascia, divertita. Girandosi verso Borborygmos, lo trovò che la guardava con uno sguardo folle. 

«Ora...» ringhiò «Noi… schiacciamo… loro.»

Forse, si disse Revanna mentre seguiva il suo capo in battaglia, correndo e ululando alla luna, quella lezione non era stata una totale perdita di tempo.

 
 
Note dell'Autrice: Ehm... forse "husky" non è l'aggettivo che uno userebbe per descrivere la voce di un ciclope, ma... con Borborygmos secondo me può funzionare, anche con risultanti sorprendenti (eh eh eh). Revanna è un personaggio inventato da me. Per scrivere questo racconto mi sono lasciata ispirare dalla storia  "The Gathering Storm", in cui Borborygmos, in un incontro tra le Gilde, ha bisogno di un "traduttore" per farsi capire dagli altri.
Alla prossima!

-Crazymoonlight

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Capitolo 7
*** Enchanted - Gift of Orzhova ***


 
Day 7: Enchanted - Gift of Orzhova






Segui l’oro e troverai gli Orzhov, così recitava il detto. 

Maggiore era il denaro, maggiore era il prestigio, maggiore l’autorità. Certo, gli Azorius potevano promulgare tutte le leggi che volevano, i Boros potevano assicurarsi che la gente le rispettasse, ma solo gli Orzhov erano in grado di piegarle a proprio favore.

Milana, alto prelato della Chiesa di Vizkopa lo sapeva bene; pertanto, era solo logico che continuasse a fare di tutto per mantenere l’ordine delle cose (così che anche lei continuasse ad accrescere il suo potere, ovvio). 

«Mia signora!» piagnucolò l’anziano signore dal fondo dei gradini che portavano alla cattedra cerimoniale. Milana lo guardò dall’alto verso il basso, raddrizzandosi sul suo scranno fino ad assumere una posa rigida ed austera, quasi regale. Chiudendo gli occhi e concentrandosi abbastanza sullo spirito dell’uomo, poteva vedere delle pesanti e spesse catene dorate avvolgerlo: erano i contratti che egli stesso aveva siglato e che lo obbligavano all’obbedienza verso la Gilda e tutti i suoi funzionari. Gli Orzhov non si servivano di inchiostro per stipulare un patto: l’unica garanzia che parevano in grado di accettare, l’unica davvero sicura che non prevedesse l’esistenza di alcun cavillo o scappatoia, era l’anima della persona che aveva chiesto loro aiuto.

L’uomo era prostrato a terra, con la fronte, le mani e le ginocchia appoggiate sul freddo marmo del pavimento in segno di supplica, ma Milana non si lasciò impietosire. Non era una scena insolita: ogni giorno decine e decine di disperati -o finti tali- si presentavano al suo cospetto, in cerca di grazia. La donna li osservava con una certa soddisfazione brancolare incerti nelle lunghe navate della Chiesa, dove i rosoni erano posti talmente in alto e la loro luce era così fioca che creavano un’atmosfera lugubre e angosciosa, ben lontana dall’idea di ambiente sereno e pacifico che ci si sarebbe aspettati di trovare in un luogo di preghiera. Ognuno di loro giungeva sempre con la speranza di trovare un modo per fuggire dai propri doveri, per non pagare più i propri debiti, e ognuno di loro se ne andava con quelle stesse speranze infrante, senza aver trovato soluzione. Milana non ne era affatto dispiaciuta: dopotutto sapevano bene a cosa sarebbero andati incontro nel momento in cui si erano rivolti alla Gilda e avevano chiesto dei prestiti. Gli Orzhov erano generosi, non si facevano scrupoli sulle persone che avrebbero dovuto finanziare; per questo, era solo giusto che il denaro tornasse nelle loro casse -con i dovuti interessi, ovviamente. Coloro che cercavano di tirarsi indietro, non erano nient’altro che degli inetti, piccoli omuncoli insignificanti da trattare con disprezzo. 

«Mia signora...» ripeté l’uomo, più debolmente e Milana fu richiamata al presente. 

«Vi prego… ormai sono anziano… ho pagato i miei debiti per più di quarant'anni, in pratica per tutta la mia vita… Non passateli anche ai miei figli, vi scongiuro! Ormai manca poco da pagare, è come se avessi restituito tutto...»

«Ed è qui che si sbaglia.» lo interruppe Milana, indifferente ma con un sorriso di cortesia stampato sul suo volto, come da prassi. 

«Non avrai restituito davvero tutto fin quando non avremo avuto indietro fino all’ultimo zib di rame. Se così non fosse, il tuo debito non potrebbe essere considerato saldato per davvero e la Chiesa ne risentirebbe. Non possiamo di certo permetterlo, non crede?» spiegò con aria di sufficienza. Frugò tra la pila di antiche pergamene che le erano state portate per l’occasione, trovò quella che le serviva e la passò al suo apprendista, un giovane uomo dall’aria pomposa che si trovava in piedi al suo fianco.

«Ah, Velek, sii così gentile da elencare al qui presente Delcho Sojka i termini del suo contratto.»

Milana accavallò le gambe ed ascoltò distrattamente il suo apprendista che leggeva diligentemente lo scritto con voce atona.

«...In data 29 Golgar, dell’anno 10.036 ZC, il sopracitato Delcho Sojka chiede in prestito numero 30.000 zino di platino dalla banca di Vizkopa… il sopracitato Delcho Sojka acconsente a versare, in cambio, numero 50 zib di elettro al mese come risarcimento… il debito non è da considerarsi estinto in caso di prematura morte, ma va trasferito ai suoi consanguinei diretti secondo linea di successione...»

«Ah ah!» esclamò trionfante l’alto prelato. «“Il debito non è da considerarsi estinto in caso di prematura morte...”! C’è la sua firma, signor Sojka, lei ha accettato! Il contratto è valido e vincolante, e, in quanto tale, va rispettato, punto per punto. Se contravvenissimo alla nostra parola, altri verrebbero da noi con le sue stesse pretese. Come può ben immaginare, non sarebbe molto vantaggioso per la nostra Chiesa. Ci ritroveremmo presto senza denaro e non saremmo più in grado di elargire altri prestiti. Pertanto dovrà continuare a pagare e se,  disgraziatamente, il suo spirito dovesse lasciarla prima del tempo, il debito sarà ereditato dai suoi figli. Questione conclusa.»

Ci fu un lungo attimo di silenzio, durante il quale Milana prese a far dondolare la gamba accavallata sorridendo ancora in maniera cordiale, mentre l’uomo aveva sollevato il busto ma rimaneva immobile, come se non credesse davvero alle proprie orecchie.

«Ma...» obiettò con voce tremula, prima di farsi prendere dal panico ed iniziare a inveire: «Ho restituito da tempo la somma che mi era stata prestata, ciò che resta sono solo gli interessi! Sto pagando per del denaro che non vi è stato sottratto in alcun modo! Non ci sarebbe alcuna perdita! I miei figli non hanno alcuna colpa!»

«Credo di essere stata abbastanza chiara. Il debito non è da considerarsi saldato.» sibilò Milana a denti stretti, perdendo ogni traccia di simpatia e mostrando per la prima volta il suo sdegno. «Il prossimo.»

«No!» gridò l’uomo in un impeto di ira. Si alzò di scatto, sorprendentemente agile sulle sue vecchie e fragili ossa, e iniziò a salire i gradini che li separavano.  Le guardie al suo fianco fecero per muoversi, ma lei le trattenne con un gesto della mano.

«Il prossimo, ho detto.» ripetè la donna in modo minaccioso, dandogli un’ultima possibilità, ma ormai l’anziano signore aveva perso la ragione. 

«Siete dei ladri! Promettete la redenzione, ma non c’è che dannazione per chi varca le vostre porte! Non avete pietà… Non siete umani! Gioite della sofferenza di chi viene da voi, strisciando...»

Milana ne ebbe abbastanza. Prima che chiunque altro potesse intervenire, si alzò. Con una mano strinse lo sfarzoso medaglione recante il simbolo della Gilda che aveva in petto e serrò l’altra a pugno. L’effetto fu immediato: una luce dorata si sprigionò dal medaglione e colpì in pieno l’uomo. Vide le catene che imprigionavano l’anima del vecchio asserragliarsi in maniera dolorosa attorno al suo corpo e avvertì la magia che li vincolava tirare e farsi più intensa, incandescente. L’uomo prese a gridare più forte, questa volta per il dolore, le braccia aperte e tese, il capo tirato all’indietro, la bocca spalancata. 

«AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!»

Le sue urla strazianti si fecero spazio nelle lunghe e buie navate della Chiesa di Vizkopa, scontrandosi e riecheggiando contro le pareti...

«BASTA! Vi prego… AIUTO! QUALCUNO MI AIUTI!»

Nessuno andò in suo soccorso. 

Le persone presenti nella sala rimasero a guardare, senza muoversi, completamente indifferenti a quanto stava accadendo. Milana strinse ancora più forte il pugno, fino a far diventare le sue nocche bianche e a piantarsi le unghie nel palmo. Le catene si strinsero sul prigioniero al punto che parvero schiacciarlo. Il suo animo cominciò ad uscire e ad essere risucchiato dal medaglione e Milana si sentiva rinvigorita, rinata. Ogni ondata di energia proveniente dalla sua anima la rendeva più leggera, libera, facendola librare, ascendere, verso un piano di esistenza superiore

 

Solo quando il vecchio non emise più alcun suono e cadde a terra esamine, rilasciò la presa. Riaprì gli occhi -che non si era accorta di aver chiuso, in preda all’estasi- ed esaminò ciò che restava dell’ormai defunto uomo. Rivoltò il suo corpo con la punta dello stivale, per osservare meglio la sua opera: la sua pelle era diventata grigia e tirata, scarnificata, le orbite dei suoi occhi erano cavità nere e vuote e la sua bocca era spalancata nel suo ultimo grido di terrore.

Con un altro leggero tocco del piede, lo spinse via e il cadavere rotolò giù per i gradini. 

«Portatelo via.» ordinò. Dei thrull comparvero subito come per magia e lo afferrarono e lo portarono fuori senza attendere oltre, attraverso una delle uscite laterali. Milana aspettò che se ne fossero andati, dopodichè si sedette nuovamente sullo scranno, in posizione rilassata. Velek attese i suoi ordini, del tutto imperturbato da quanto appena accaduto. 

«Il prossimo.»

 



Note dell'Autrice: Sono tornata con mooooolto ritardo (ormai è ovvio che non finirò la raccolta per fine mese...)
Sono molto insicura riguardo questo capitolo: l'ho scritto ascoltando in loop la soundtrack di Bloodborne, quindi mi è salita un'angoscia incredibile, che purtroppo non credo di essere riuscita a trasmettere. Ci ho provato!
La carta che fa da tema è Dono di Orzhova, che c'entra poco e niente con la storia scritta, ma almeno ha come flavor text una frase di Milana, protagonista di questo racconto.  È stata una delle primissime carte che ho giocato e ai tempi mi sembrava una delle carte più forti in assoluto... Beata gioventù. Alla prossima!

-Crazymoonlight

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Capitolo 8
*** Frail - Human Frailty ***


 

Day 8: Frail - Human Frailty

 





 

Olivia inspirò a fondo l'aria gelida della notte, finalmente in pace. Il freddo era così intenso da penetrarle nelle ossa, ma, ciononostante, non fece nulla per riparare le sue spalle scoperte: la sua pelle diafana e liscia non era più la debole copertura di un corpo umano; non un brivido, non un fremito potevano attraversarla.

Un soffio di vento improvviso le scompigliò i ricci vermigli e la vampira sistemò qualche ciuffo ribelle dietro la maschera di airone che le copriva il volto. Portò alle labbra un calice finemente intarsiato e sorseggiò il liquido rosso che vi era all'interno, con una delicatezza tale che quasi non ne increspò la superficie. Dalla balconata della sua magione poteva vedere le irte cime delle Alture Geier espandersi a perdita d’occhio per tutta la Stensia. Le loro scure pareti rocciose erano acuminate come artigli; il Passo di Ziel, unico sentiero che permetteva il passaggio in quella regione tortuosa, terminava a miglie di distanza. Solo avvoltoi, pipistrelli e altre creature della notte potevano sopravvivere in quella zona. Per raggiungere la sua tenuta, dei semplici umani avrebbero dovuto arrampicarsi, rischiando di precipitare o di fronteggiare geist, ghoul e altri esseri tormentati a loro ostili. 

In alto, oltre le dense nubi, la Luna D’Argento non era altro che una piccola falce calante. La sua pallida luce gettava ombre lugubri sul paesaggio, come a volerne attutire il dolore. Non una stella era visibile per fare da guida sulla triste terra. Era come se il mondo stesso si fosse accorto dell’assenza della sua protettrice e ne piangesse la scomparsa. A quel pensiero, Olivia ghignò. A lungo aveva aspettato il momento in cui Avacyn sarebbe morta e, allo stesso tempo, non avrebbe mai creduto che sarebbe successo in un modo così patetico e semplice. Per secoli lei ed altri della sua razza avevano vissuto nella paura, nascondendosi dalla forza purificatrice dell’arcangelo, non più liberi di agire come volevano. Inoltre, si diceva che, dal suo ritorno, l’angelo non fosse più in sé. Strane voci avessero iniziato a pervaderle la mente: voci che le dicevano cosa fare, che le avevano fatto capire che l’umanità non era da proteggere, ma da condannare alla stregua dei mostri. In realtà, quella diversione di interessi aveva sorpreso la vampira: vedere un angelo bruciare interi villaggi era una vista spettacolare, che la rendeva cieca di folle euforia; tuttavia, era chiaro che ormai Avacyn era del tutto fuori controllo. Era bastato chiedere al suo creatore, Sorin Markov, di occuparsi della faccenda e le notti del terrore erano improvvisamente finite. 

Certo, Olivia sapeva che Sorin aveva agito solo perchè ormai Avacyn non aveva più senso di esistere; ma, soprattutto, lo aveva fatto perché aveva bisogno del suo aiuto e solo in questo modo lo avrebbe ottenuto. E ora che l’aveva accontentata, spettava a lei fare la sua parte: radunare tutti i vampiri fedeli alla famiglia Voldaren e prepararsi a combattere contro la litomante

In molti avevano già risposto alla sua chiamata. In quel momento si trovavano nelle grandi sale del suo palazzo a festeggiare e banchettare. Per l'occasione Olivia aveva organizzato la sua solita Corte della Regina Vampira: tre giorni prima alcuni dei suoi sgherri erano andati al villaggio più vicino e avevano rapito una fanciulla. Era stato sorprendentemente facile. Gli umani, con tutte le armi che cercavano di buttare loro contro, erano comunque così fragili. Da allora la giovane era stata trattata come se fosse una vera sovrana; avevano obbedito ad ogni suo ordine (tranne a quello di essere liberata, ovviamente), le avevano fatto indossare le vesti e i gioielli più pregiati, le avevano dato da mangiare cibi squisiti e raffinati. Il suo destino in fin dei conti era comunque migliore di quello di tanti altri: non avrebbe sofferto il decadimento degli anni, non avrebbe contratto alcuna malattia, non avrebbe rischiato di morire di parto, di veder perire qualcuno a lei caro.  Meglio andarsene così, adorata e vezzeggiata come una dea, con la possibilità di dire addio alla sua misera vita da mortale. La fanciulla avrebbe fatto bene ad esserne grata, invece di piagnucolare tutto il tempo. 

In fondo, non era colpa sua se, dopo averla viziata così tanto, il suo aspetto si era fatto più succulento, se l’odore del suo sangue era diventato irresistibile. Chi avrebbe potuto rifiutare una simile prelibatezza? Era normale che quelli della sua gente non avevano saputo aspettare troppo a lungo; Olivia non aveva avuto il cuore di farli attendere oltre. Ormai dovevano averla prosciugata fino all’ultimo capillare.

Dopotutto non potevano di certo vincere una guerra a stomaco vuoto, no?



 




Note dell'Autrice: E continuiamo con la nostra raccolta di donne spregevoli! Per Halloween avere dei vampiri come protagonisti mi sembrava solo appropriato. La carta che fa da tema a questo racconto è "Human Frailty" dall'espansione "Blessed vs Cursed" ambientata su Innistrad. All'inizio volevo scrivere molto di più (descrivendo una scena di battaglia tra vampiri e umani), ma correvo il rischio di dilungarmi troppo e purtroppo non ho tempo. Come si può intuire, comunque, la storia si colloca tra la morte di Avacyn e lo scontro di Sorin contro Nahiri, un po' prima della vicenda di Emrakul, insomma. 
Olivia Voldaren è un personaggio esistente nella storia di Magic, raffigurata più volte nelle carte e raffigurata anche in diversi racconti originali. 
Anche se non ho avuto di ricontrollare o di adattare quanto scritto, spero comunque che vi piaccia!
Alla prossima.
E... Buon Halloween.


AGGIUNTA DEL 06/11/19: Ci ho pensato su e ho deciso di chiudere qui questa raccolta visto che ottobre è finito (e di conseguenza anche la sfida dell'Inktober) e non mi sembrerebbe giusto continuare. Alla fine ho pubblicato una storia ogni 3-4 giorni, in media. Posso ritenermi soddisfatta! Spero che la raccolta vi sia piaciuta almeno un po' e se in futuro vorrete farmi sapere cosa ne pensate, ne sarò davvero molto felice. Grazie!
-Crazymoonlight

 

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