Meglio le allodole degli usignoli

di Melisanna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una bella bambina ***
Capitolo 2: *** Il bandito, la bella e il bambino ***



Capitolo 1
*** Una bella bambina ***


Questo racconto partecipa al writober indetto da fanwriter.it
Il prompt di oggi è: #precanon e sono stata persino aderente alla richiesta! Che brava, mi faccio i complimenti da sola. In compenso è diventata una storia di due capitoli che incorporerà anche il prompt di domani (e poi basta spero).


Era una bambina molto bella. Lo sapeva, perché glielo dicevano sempre, Che bella bambina che sei Giulietta, la più bella di Verona, come splendono i tuoi occhi, come sono d'oro i tuoi capelli, se così bella Giulietta!

Per quanto la riguardava, essere bella era una seccatura, la nutrice cercava sempre di raccoglierle i capelli in trecce complicate che rendevano la sua bionda colombina adorata ancora più graziosetta e sua madre le ripeteva che una bella bambina non corre, sta con la schiena dritta e non si mescola ai servitori. Suo padre le diceva solo che era bella e con la sua bellezza l'avrebbe reso fiero e le accarezzava la testa. Giulietta avrebbe preferito che suo padre la portasse a cavalcare come i suoi fratelli, invece che accarezzarle la testa e avere sempre quell’aria di vago imbarazzo in sua presenza, ma a quanto pareva andare a cavallo nelle campagne non si addiceva a una damigella.

Giulietta sapeva di essere una bella bambina e lo riteneva tremendamente noioso. Sospettava che crescendo la faccenda non sarebbe migliorata: le belle fanciulle dei racconti non facevano mai niente di interessante. Aspettavano, di solito. A volte venivano rapite e venivano salvate e sempre si innamoravano.

Innamorarsi, a Giulietta, sembrava una terribile fregatura, erano sempre coinvolti pianti e sospiri e spesso dei morti e quando le storie finivano con si sposarono e vissero felici e contenti, Giulietta era piuttosto sicura che fosse un modo per dire che, da allora in poi, avrebbero vissuto come sua padre e sua madre, che non le parevano né molto felici, né molto contenti e, di certo, non particolarmente felici e contenti quando erano insieme.

La nutrice e suo marito non erano belli  ma sembravano più allegri. A Giulietta, però, la vita della nutrice, che passava tutto il suo tempo a correre dietro ai bambini suoi e altrui e a parlare di bei giovanotti e di belle fanciulle e di quanto poco dura la giovinezza e quanto una come Giulietta non doveva perdere tempo a trovarsi un marito e approfittare della sua bellezza per divertirsi che gli uomini son uno dei pochi piaceri di una donna – che cosa intendesse con queste parole a Giulietta sfuggiva, ma la nutrice sembrava trovarlo molto divertente – e a sfornare tanti marmocchi belli come lei, causava un rigetto che la rendeva ostile con quel donnone, che si occupava di lei da sempre e, a cui, in fondo, in fondo, Giulietta sapeva di voler bene. Ma per quanto le volesse bene, non riusciva a non rispondere con aggressività alle sue moine, a sfuggire ai suoi abbracci e ad atteggiare il suo viso a un broncio ai suoi scherzi grossolani e alle sue risate grottesche – il suo visino, tanto grazioso, soprattutto quando sorrideva, modestamente come devono sorridere le brave bambine, sorridi Giulietta, sei una brava bambina, sorridi Giulietta, sei una bella bambina, le belle bambine devono sorridere.

Giulietta non aveva voglia di sorridere, aveva voglia di ridere, correre nell’aia in mezzo alle oche, cavalcare il grande stallone sauro di suo padre, arrampicarsi fino alla colombaia per spiare i suoi occupanti e avere avventure.
Alcune ragazze avevano avuto avventure. I grandi non ne parlavano mai volentieri, ma Giulietta aveva spiato gli spettacoli degli attori in strada e ascoltato con attenzione i menestrelli e sapeva che c’erano state delle ragazze che, invece di aspettare, venire rapite, salvate e innamorarsi, si vestivano da uomo e avevano avventure. Alcune erano state piratesse, alcune andavano a cavallo come gli uomini, a cavalcioni e non con tutte e due le gambe da una parte –Giulietta trovava scomodissimo e molto stupido cavalcare all’amazzone, le sembrava ovvio che una cadesse, se doveva stare in sella in quel modo –, alcune ragazze sapevano perfino tirar di spada.

Nessuno sembrava però intenzionato a insegnarle nessuna di queste cose e per quanto Giulietta spiasse i suoi fratelli e i suoi cugini, ci sono dei campi in cui la conoscenza teorica e quella pratica difficilmente si equivalgono. E le avventure tardavano ad arrivare. Giulietta temeva che quando si fossero presentate, non l’avrebbero trovata pronta.
Perciò Giulietta, tre giorni prima del suo settimo compleanno, decise, un’avventura, di procurarsela da sola.

Da quello che aveva imparato sulle avventure c’erano due passaggi fondamentali per iniziarne una, travestirsi da ragazzo e scappare di casa – o fare naufragio e perdersi, ma questo a Giulietta pareva più complesso da organizzare.
Aspettò che la nutrice si distraesse, per sottrarre timidamente un paio di calzoni e una giubba dal bucato e, con quel gesto, si sentì già catapultata nel mondo affascinante del crimine. Era una fuorilegge adesso! Con molta più baldanza si impossessò di una cappa e di un cappello, lasciati in un angolo da uno dei cugini e, resa impudente da quei successi, si portò in camera, in rapida successione, una camicia con ampie maniche, una cintura e, tesoro dei tesori, un pugnale spezzato un palmo sotto l’elsa, ma dotato di fodero, che nascose sotto il letto con reverenza.

Giulietta meditò sulla possibilità di tagliarsi i capelli, odiava la sua chioma dorata e odiava quando la nutrice la pettinava tirandole i capelli e avvolgendoli stretti, stretti intorno alla testa. L’ira di sua madre, quando avesse scoperto un gesto del genere la faceva rabbrividire, ma d’altra parte stava per scappare di casa e sarebbe passato molto tempo prima che tornasse, i capelli avrebbero fatto in tempo a ricrescere. Probabilmente un paio di giorni dopo la sua fuga i suoi genitore, distrutti dal dolore, sarebbero stati disposti a perdonarle tutto, pur di riaverla indietro, ma lei non sarebbe tornata, finché non avesse compiuto gesta degne di Bradamante.
Come tagliarli era un ostacolo quasi altrettanto ostico del senso di colpa. Dopo un pomeriggio di riflessione, Giulietta si risolse a dare un colpo netto alla sua folta treccia con le forbici da cucito, appena sua madre le avesse augurato buona notte e la nutrice se ne fosse andata a letto lasciandola finalmente sola. Di colpi ce ne vollero diversi, in verità e il risultato fu piuttosto sbilenco. Giulietta si studiò cinicamente, alla luce della candela davanti allo specchio della camera. Non sembrava un cavaliere, né un paggio o un gentiluomo, piuttosto un ragazzino della città bassa. Assomigliava a Nicolò, che aiutava il cuoco in cucina, lavando le pentole e correndo su e giù tutto il giorno. Ma Giulietta era annoiata di essere una bella bambina e trovava persino la vita di Nicolò più divertente della sua.

Indossò le calze solate, si infilò la camicia e si strinse la giubba in vita con la cintura, nascose alla meno peggio i capelli straziati sotto il cappello e, con grande fierezza, si mise il coltello alla cintura. Non era proprio una spada, ma era a quanto di più simile Giulietta potesse aspirare. Per il momento.
E si preparò ad attendere. Non poteva uscire troppo presto, molti adulti sarebbero stati ancora svegli, Né nel cuore della notte, avrebbe attirato troppo l’attenzione. Il momento migliore era un’oretta prima dell’alba, quando paggi e servitori iniziavano a entrare e uscire dal palazzo.

Guardò la luna alzarsi e calare e, quando sparì alla vista, sgattaiolò nelle scuderie, sorprendendosi della facilità con cui passava inosservata, era convinta di dover superare una guardia molto più serrata, ma forse, rifletté amaramente, nessuno credeva che lei avrebbe mai potuto mai ordire un piano del genere. Lei era la bella bambina, la brava bambina, la bambina che avrebbe combinato guai con i cuori dei giovanotti, l’unico rischio da cui si doveva proteggerla – o verso cui si doveva spingerla, a secondo di chi parlava – era l’amore.
L’offesa alla sua scaltrezza la rese ancor più decisa. Spiò i cavalli da sopra le porte delle stalle. Il sauro di suo padre sbuffò facendo fremere le froge. Lo guardò affascinata. Giulietta aveva sempre desiderato cavalcarlo, pensò di aprire la porta, spingere la sella sulla sua schiena ampia, fargli scivolare la testiera sopra il capo. Ma Giulietta non era solo una bella bambina, era anche una bambina pratica e sapeva che il sauro era troppo focoso, potente e grande per lei. Non senza dispiacere, ripiegò sulla sua minuta giumenta grigia, che dopo aver rinculato sospettosa davanti al suo aspetto inusuale, le annusò il viso e le strofinò affettuosamente la fronte piatta contro la testa. Giulietta, fatta astuta dalle altrui avventure, le fasciò gli zoccoli con degli stracci, quindi la sellò orgogliosamente con i finimenti da uomo, mentre l’animale fissava incuriosito.
Guidò la giumenta fuori dalla scuderia e scrutò intorno per accertarsi che non ci fossero sentinelle, ma, ancora una volta, la sua speranza di iniziare subito le avventure venne delusa. A casa Capuleti dormivano tutti della grossa. Dopo aver giudicato l’altezza delle staffe irraggiungibile per lei, spinse, non senza un certo scorno, uno sgabelletto vicino alla cavalla e si trascinò faticosamente in sella, cercando di buttare al di là del dorso la gamba destra, con il gesto atletico che compivano tutti i suoi parenti maschi. Il gesto non fu particolarmente atletico, ma Giulietta giudicò il risultato sufficiente, in fondo era la sua prima volta. Infilò entrambi i piedi nelle staffe e si sentì subito forte e sicura come le eroine che desiderava imitare.
Attraversò il cortile, all’uscita del palazzo finalmente una sentinella si accorse della sua presenza e le gridò qualcosa, che Giulietta non capì. Il petto le vibrò di timore e di piacere. Agitò una mano in un gesto vago verso il portone, “Commissioni per la padrona” borbottò, la guardia non chiese altro, annuì e aprì la porta quanto bastava perché la giumenta e il suo cavaliere potessero uscire.

Giulietta si avviò lentamente per le strade di Verona, cercando di prendere confidenza con il nuovo modo di stare in sella. Si sentiva sbilanciata e non capiva bene come usare le gambe, ma Danae, oltre a essere una cavalla di buon carattere, era anche ben addestrata e rispondeva obbedientemente ai suoi comandi. Così Giulietta, la non più così bella bambina, Giulietta l’avventuriera, anzi, Giulio l’avventuriero, poté godersi la vista dei vicoli di Verona che si svegliavano, le drogherie che aprivano, gli sguatteri che correvano, il profumo del pane appena sfornato, il chioccolio delle galline e le grida dei mercanti che esponevano la merce.

L’aria iniziava appena a scolorare e ascoltando il canto dell'allodola che annunciava l'alba, Giulio, che era stato Giulietta, prese sufficiente coraggio da attraversare la porta est della città e avviarsi al piccolo trotto per la strada che si dipanava da lì.

 
 
#precanon #fanwriterit #writober2019 #halloween2019 #giorno3

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Capitolo 2
*** Il bandito, la bella e il bambino ***


Non ci speravate più eh? In verità avevo finito di scrivere questa storia da un pezzo,  ma trovavo sempre qualcosa che non andava e rimandavo la pubblicazione. Grazie a chi ha letto e a chi vorrà leggere, le vostre opinioni mi fanno sempre un grandissimo piacere

Quando il sole iniziò a ed essere alto sulla sua testa, Giulio, non più Giulietta, iniziò a temere di essere raggiunta dai cavalieri del padre, che non avrebbero avuto difficoltà a trovarla su una strada ampia e frequentata. Temeva di essere fermata da un momento all’altro da una guardia o da un cavaliere che l’avesse riconosciuta o da una dama sollecita che si preoccupasse della sorte di quel ragazzino solo, non sapendo che Giulio era un avventuriero. Danae, poi, era fin troppo riconoscibile, ma Giulio non aveva il cuore di lasciarla per una cavalcatura più anonima, per cui prese la prima deviazione che conduceva verso i boschi, sperando di far perdere le proprie tracce.
Continuò a cavalcare sbocconcellando il pane di cui aveva riempito la saccoccia: per fortuna, per la bella Giulietta, le dispense erano sempre aperte. Giulio avrebbe dovuto pensare a come procurarsi altro cibo, ben presto e non sarebbe stato altrettanto semplice. Si lambiccò il cervello. Non aveva arco e frecce per cacciare e, comunque, non era sicura che avrebbe saputo usarli, forse poteva rubare della frutta dai campi o magari persino delle uova. O rapinare una carrozza come un vero bandito. Giulio, il bandito di Verona, suonava bene.
I piccoli zoccoli di Danae, passata a un più confortevole ambio, battevano il terreno con ritmo regolare, facendo ondeggiare le lunghe spighe dorate intorno a sé, che le sfioravano i fianchi e le gambe di Giulio. Di tanto in tanto si sollevava uno stormo di allodole, che protestavano con  il loro canto arzigogolato, per il disturbo arrecato. Giulio le seguiva con lo sguardo, sentendosi complice della loro libera vivacità, il cuore che le balzava in gola per la gioia di essere davvero lì, con il cappello calcato sul taglio un po’ sbilenco, in sella a cavalcioni come un uomo e un pugnale infilato nella cintura. Si era procurata un’avventura! Qualcosa di eccitante sarebbe successo da un momento all’altro, appena girato l’angolo o quando avesse incrociato il prossimo gruppo di mercanti o contadini.
Nessuno sembrava far caso a lei, nessuna guardia e nessun cavaliere la fermò, né nessuna dama si mostrò particolarmente sollecita nei suoi confronti e Giulio si rilassò, lasciò Danae rallentare fino al passò e si godette il panorama intorno. Iniziava a scorgere l’ombra scura dei boschi delinearsi oltre l’oro dei campi, carica di promesse e gravida di minacce. Nei boschi si nascondevano banditi, streghe e folletti, nei boschi poteva succedere di tutto. Forse una fata le avrebbe donato una spada incantata o avrebbe incontrato un cinghiale feroce o forse un mago malvagio e potente.
Qualsiasi cosa era comunque meglio di stare ad aspettare, venire rapita, salvata e innamorarsi.
Soprattutto di innamorarsi.
Quando Giulio iniziò finalmente a inoltrarsi fra gli alberi, il giorno si avviava al declino, il pane nella saccoccia era quasi finito e le gambe le dolevano per lo sforzo inusuale. Mentre si addentrava nel bosco, i tronchi si facevano sempre più spessi e contorti, i rami uncinati come dita di una vecchia megera e al posto del canto delle allodole si diffondevano le note liquide degli usignoli.
Giulio voltava il capo da una parte e dall’altra, ad ogni fruscio inaspettato e ad ogni rumore sconosciuto. Si strinse nel mantello. Un grande animale passò rumorosamente tra i cespugli e Danae scartò, Giulio si strinse alle redini e la spronò, c’erano lupi in quei boschi, a volte scendevano a valle durante gli inverni. Facevano rumore i lupi quando si muovevano? Quanto erano grandi? Un brivido gelato le scese lungo la schiena. Sotto le fronde, il buio scendeva rapidamente. Il sentiero si aprì in una radura . Giulio sentì dell’acqua scorrere nelle vicinanze, il suono cristallino di acqua che si infrange su altra acqua. Scivolò giù dalla sella, dopo un gesto ancor meno atletico di quello con cui era salita, sentiva le gambe rigide e doloranti. Guidò Danae attraverso la radura, cercando con gli occhi, nel buio, da dove provenisse il rumore, finché scorse un abbeveratoio di pietra.
Rinfrancata dalla vista di quel segno di vita umana, lasciò la giumenta affondare il muso vellutato nell’acqua, mentre lei stessa beveva dalla cannella.
Liberò Danae dai finimenti, per poi realizzare di non aver portato una cavezza e di non sapere come fare a legarla. Avrebbe voluto rimetterle la testiera, ma si sentiva in colpa verso la bestia all’idea di tenerla tutta la notte con il morso, per colpa di una sua mancanza. La giumenta si mise a brucare vicino a lei e non parve intenzionata ad allontanarsi. Ma se durante la notte fosse successo qualcosa? Se Danae si fosse spaventata o avesse deciso di tornare alla stalla? Giulio strappò dei rampicanti e cercò di impastoiarla alla bell’e meglio, come aveva visto fare ai servi.
Versi di animali sconosciuti riempivano il silenzio, la luna non si era ancora alzata e il vento faceva stormire le fronde, disegnando ombre fantasmagoriche sull’erba impallidita dalla luna. Un usignolo gorgheggiava, la sua melodia stranamente funebre in quell’atmosfera. Era un’avventura senza dubbio, ma ora come ora, Giulio si sentiva più Giulietta che mai e avrebbe voluto avere la nutrice che l’avvolgeva nelle coperte, dopo averle pettinato i capelli dorati, tirandoli fino a farle venire le lacrime agli occhi.
Si avvolse il più stretta possibile nel mantello, cercando di scacciare l’umidità della notte e, nonostante l’inquietudine, sprofondò all’istante nel sonno.
 
La svegliò la luce del sole che filtrava tra gli alberi. Aveva il collo e la schiena irrigiditi, dopo aver dormito per terra e l’interno delle cosce le doleva il doppio del giorno precedente. La testa le pulsava, aveva fame, freddo e non ricordava dove si trovasse. La memoria le tornò lentamente mentre si guardava intorno, riconosceva la fontana, gli alberi e si ricordava di come si fosse procurata un avventura. Si passò una mano fra i capelli, ancora incredula e sì, erano davvero corti come ricordava, li aveva tagliati davvero. Ora era Giulio, l’avventuriero.
Si guardò ancora intorno e balzò in piedi, nonostante i dolori. Danae non si vedeva da nessuna parte. Stupida, stupida cavalla! Tese le orecchie, sperando di sentirla muoversi e brucare nelle vicinanze, ma l’unico rumore che sentì furono le grida d’allarme delle ghiandaie. Si infilò la testiera a tracolla e si affacciò al sentiero che proseguiva oltre la fontana, indecisa sulla direzione da prendere. Percorse pochi passi prima di sbucare fuori dagli alberi, credeva di trovarsi nel pieno di una foresta sterminata, invece aveva solo attraversato una lingua sottile tra terreni abitati.
Riconobbe subito la figura familiare di Danae, che aveva la testa abbassata per brucare, ma la sollevò per salutarla con un nitrito. Giulio fece per andarle incontro, quando si accorse che non era sola.
Accanto a Danae stavano un bel pony dorato, con ricchi finimenti da fanciulla e un fremente cavallino morello. Una bambina minuta con una pesante treccia di capelli neri avvolta intorno al capo, lo tratteneva per le redini, mentre un ragazzino dall’aria arrogante tentava di far scivolare una cavezza sul muso di Danae, che scrollava la bella testa, infastidita.
Giulio si fece loro incontro a lunghi passi.
- Ehi, tu! Quello è il mio destriero.
Destriero sembrava una definizione molto più adatta alla cavalcatura di un bandito che giumenta.
Il ragazzino non parve impressionato.
- L’ho trovata che vagava libera nelle mie terre. Se era tua avresti dovuto averne più cura, bambino. Adesso è mia. E la donerò alla mia gentile cugina Fiammetta, perché sia la mia dama al ballo di stasera.
La bambina arrossì.
Giulio li odiò all’istante, con tutta la forza dei suoi sette anni.
Squadrò il ragazzino dall’alto in basso. Doveva avere più o meno la sua età, ma Giulietta era stata una bambina alta e snella, di cui tutti lodavano le proporzioni e la statura e Giulio non era da meno, superava il bambino arrogante di una buona mezza testa.
Si mise due dita in bocca e fischiò, un fischio di cui era particolarmente fiera, perché era da ragazzo ed era vietatissimo a Giulietta, che aveva perciò imparato a modularlo alla perfezione.
Danae drizzò le orecchie e le si avvicinò con calma, le annusò i capelli e iniziò a brucarli con affetto, finché Giulio, non le dette uno spintone, cercando di recuperare un po’ di dignità.
- Come dicevo, questo è il mio destriero e nessun altro può cavalcarlo.
Le guance del ragazzino presero fuoco.
- Nessuno può entrare nelle mie terre senza inginocchiarsi davanti a me. Voglio quel cavallo e lo avrò.
- Io sono Giulio, il bandito di Verona e non mi inginocchio davanti a nessuno, tanto meno un ragazzino.
- Oh! Esalò Fiammetta, rivolgendo uno sguardo ammirato a Giulio, che aveva appoggiato la mano sul pomo del pugnale e tentava di sembrare quanto più temibile ed eroico possibile.
Il suo pretendente si voltò verso di lei incredulo, un’espressione sdegnata di orgoglio ferito dipinta sul viso.
- Maledetto furfante – esclamò rivoltò a Giulio, che ghignò, beandosi dell’appellativo – Osi forse attentare alla virtù della mia bella cugina, Fiammetta Montecchi?
Giulio perse di colpo tutta la baldanza che aveva acquisito negli ultimi minuti. La famiglia di suo padre e i Montecchi si detestavano da sempre, cosa sarebbe successo, se l’avessero sorpresa a scorrazzare per le loro terre?
Però questa era una vera avventura! Un’avventura come quelle che raccontavano i saltimbanchi.
- Ti sfido a duello, Giulio senza-cognome, per l’onore di mia cugina e il mio. Mi prenderò quel cavallo con la forza, se devo.
Con fare teatrale, il ragazzino si sfilò un guanto e lo lanciò a Giulio.
Giulio non ci pensò due volte. Aveva un pugnale spezzato e non sapeva tirare di spada, ma era un bandito. Appena il ragazzino mosse un passo verso di lui e si preparò a sguainare lo spadino, gli agganciò la caviglia su cui appoggiava con un piede e gli diede una spallata, mandandolo a ruzzolare nel fango. Prima che facesse in tempo a rialzarsi prese il pugnale, con la fodera e tutto e gli diede un bel colpo sulla testa.
Si girò verso Fiammetta che si era portata le mani al petto e la guardava con occhi adoranti – Madamigella è stato un piacere, ma è tempo che riprenda la mia strada. Permettete che prenda questo per Vostro ricordo.
Le sfilò uno spillone tempestato di perle e smeraldi con un sorriso che cercò di rendere il più possibile non da Giulietta, la bella bambina e il più possibile da Giulio, il bandito.
- E ora se volete scusarmi, per me è tempo di andare.
Il ragazzino si stava riprendendo, scuotendo la testa, nel tentativo di scacciare le lacrime e riconquistare lucidità.
Giulio afferrò le redini del morello, che cercò di mordergli una spalla e, complice la sua ridotta altezza, riuscì a salire in sella senza perdere la dignità. Diede una pacca sui quarti del pony per farlo scappare e galoppò verso il bosco, fischiando per farsi seguire da Danae. Sentì gli insulti del ragazzino seguirla ben dopo che sparì alla vista e rise a squarciagola per la felicità.
Era stata un’avventura, aveva vinto un duello contro un nemico giurato, si era travestita e non era stata riconosciuta, aveva rubato uno spillone e un cavallo, anche se il cavallo aveva intenzione di lasciarlo libero quanto prima, perché era pur sempre Giulietta, una bambina sufficientemente pragmatica da sapere che, per un cavallo come quello, i Montecchi l’avrebbero inseguita ben oltre le terre di Verona.

 

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