Morire, dormire. Forse sognare...

di Blackvirgo
(/viewuser.php?uid=42826)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La stanza accanto ***
Capitolo 2: *** Un incubo paralizzante ***
Capitolo 3: *** Affogare in un bicchier d'acqua ***
Capitolo 4: *** Lenzuola bianche ***



Capitolo 1
*** La stanza accanto ***


Note iniziali:
questa storia è stata scritta circa un anno fa aderendo all'iniziativa della scrittrice Lara Manni aka rosencrantz: Autori per il Giappone. Era stata una storia scritta in fretta, che oggi ho ripreso in mano e revisionato.
Questa è la prima storia di una raccolta che nasce dalla rielaborazione di esperienze più o meno personali, più o meno vissute, da notti più o meno passate a dormire. O a vegliare. 

Disclaimer:
- la frase che dà il titolo alla raccolta è una citazione di Amleto di William Shakespeare. 
- le situazioni, i personaggi e i luoghi citati nelle storie sono frutto della mia immaginazione. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a persone realmente esistenti o esistiti è puramente casuale. 



LA STANZA ACCANTO

Le notti in ospedale sono sempre imprevedibili. Quando squilla il cercapersone, la sorpresa è la regola: può essere qualcuno che non riesce a dormire oppure qualcuno che sta per morire.
Questa notte Carla non ci riesce perché la sua compagna di stanza sta morendo. È entrata un’inserviente, ha acceso la luce e ha chiesto cosa succede. Quindi sono arrivati gli infermieri e il medico. Hanno tirato la tenda tra i due letti e Carla si è chiesta se lo hanno fatto per nasconderle cosa stanno facendo oppure perché quel divisorio permette loro di isolarsi e di lavorare meglio. Ma le voci passano e Carla le sente: “Metti il monitor e prendi la pressione.”
“La saturazione cala!”
“Fai un’emogas!”
“Prepara un bolo di...”
Carla odia i nomi dei farmaci: alcuni sono incomprensibili, alcuni divertenti, certi quasi ridicoli. Ma nessuno è stato capace di impedirle di arrivare a quel punto, a quell’ennesimo ricovero. E dovrebbe anche ritenersi fortunata di essere finita in una camerina da due persone, invece che in quegli stanzoni enormi da cinque o sei. Ed è fortunata anche per la sua compagna: una brava signora. Era una brava signora, si dice. Tra poco non sarà più. Carla se lo sente, proprio come se lo sentiva Arcadia quel pomeriggio stesso. Non ho più fiato, diceva. Non ho la forza neanche di respirare.
Carla si infila le cuffie e accende la televisione. Non vuole sentire il medico e gli infermieri parlare, non vuole sentire i rantoli di Arcadia – “come l’astronave di Capitan Harlock!” aveva commentato il suo nipotino quando era venuto a trovarla –, non vuole sentire neppure i suoi pensieri. Non vuole pensare a quando sarà lei a dire questa volta non ce la farò. Perché questa volta lei ci ha messo fin troppo tempo a trovare un motivo che le desse la voglia e la forza di farcela.
Carla ci prova a guardare la televisione, ma poco dopo si trova a premere convulsamente il pulsante rosso che la zittisce. È meglio guardare lo schermo nero piuttosto che quelle immagini di devastazione. È meglio ascoltare frasi secche e concitate e rumori a cui non sa dare un nome dietro una tenda piuttosto che le parole di un cronista che parlano della morte di migliaia di persone e che sopra ci intreccia pure della poesia o della retorica.
Carla osserva la tenda e pensa che Arcadia era una bella persona. Fatta a modo suo, con tutti i suoi anni sulle spalle e la macchina sul comodino che la notte l’aiuta a respirare, ma che non la fa dormire perché gorgoglia e ronza. Anche se Carla sa che non è la macchina, ma è lei che non riesce a dormire bene da anni, ormai. Solleva piano le coperte e osserva le sue gambe: una termina sotto il ginocchio e una arriva poco sotto la coscia. Glielo hanno già detto che con le braccia che si ritrova le protesi sono fuori discussione. Guarda di nuovo lo schermo nero della TV e si toglie le cuffie: non c’è niente di poetico nella morte, si dice pensando ad Arcadia. E neppure nella vita. E questa è rivolta a se stessa. Poi riporta lo sguardo e la mente alla stanza: sono arrivate le figlie.
“Sta morendo, vero?” chiede una delle due. Ha gli occhi arrossati e i capelli scarmigliati. Probabilmente era a letto quando l’hanno chiamata.    
“Sta morendo... non riesco a pensare che non l’avrò più con me…” singhiozza l’altra, disperata.   
Ma Arcadia è vecchia, ha i polmoni malati e il cuore che perde colpi. Hanno provato a riprenderla, dice il medico, ma non ci sono riusciti. E un intervento più invasivo...
“No,” dice Maria. O era Marisa? “Lasciamola andare.” E l’altra piange più forte.
Lasciano le due donne sole con la madre.
Sole con la madre e con Carla, con una tenda in mezzo. Ma anche il medico non è uscito: si è fermato vicino al letto di Carla che è quello più vicino alla porta. Ha lo sguardo fisso verso le ombre e i singhiozzi e i mormorii che la tenda non contiene. Si volta appena, verso Carla che lo sta guardando. Accenna un sorriso che piega appena le labbra, ma che non ce la fa a arrivare agli occhi.
“Anche stanotte non ha dormito,” le mormora avvicinandosi.
“Almeno non è stato il dolore a tenermi sveglia.” Carla si volta appena verso la tenda, dove ormai si sentono solo singhiozzi sommessi e parole di conforto bisbigliate. Le due sorelle sono rimaste sole. Carla vorrebbe chiedere al dottor Ronchi se morire fa male, ma le sembra sciocco. Di sicuro alle figlie di Arcadia – che già sono madri a loro volta – fa male. E fa male anche a lei. Guarda di nuovo il medico e nota che ha le occhiaie grigie e gli occhi lucidi. È ancora giovane, Ronchi, si deve fare le ossa.
“È una brutta notte, dottore?” preferisce chiedergli.
“Sa, Carla,” le risponde il medico, sottovoce. “Il mio maestro sarebbe andato da loro e avrebbe detto: non pensate che è morta, pensate che ora la mamma è nella stanza accanto.” Muove  qualche passo, verso le due donne e  Carla si chiede se gli occhi lucidi sono per Arcadia, per le parole del suo maestro o perché ha toccato con mano i suoi limiti. Il punto in cui nessuno sforzo può cambiare le cose.
Carla lo sente mormorare parole di condoglianze, ma niente poetismi: non sarebbero da Ronchi. Lo osserva, con le mani nelle tasche già piene del camice, mentre le segue fuori dalla stanza. Maria – o era Marisa? – e sua sorella hanno smesso di piangere, ma non di abbracciarsi: camminano e si sorreggono a vicenda.
Hanno quattro gambe per reggere il loro dolore, pensa Carla. Lei invece può contare solo su quelle degli altri.
Accende la televisione, ma non si rimette le cuffie. Non ha più sonno, ormai. E soprattutto non ha voglia di dormire. Sente gli infermieri trafficare attorno al letto di Arcadia, poi la portano fuori con il volto coperto dal lenzuolo. Spengono la luce quando escono e di nuovo è buio e silenzio.
Le immagini della televisione non sono cambiate: la terra, in Giappone, ha tremato e il mare l’ha seguita.
La stanza accanto, pensa Carla. È un inganno, solo uno sciocco inganno. Un’illusione.
Una lacrima le sfugge dalle palpebre e scende lungo le sue rughe. Arriva sulle labbra, appena distese. Piega la testa all’indietro, sul cuscino e lascia che altre lacrime seguano la prima. Lascia andare la tristezza, il dolore. Non singhiozza, non sussulta. È rassicurante quel silenzio, ora, e di nuovo spegne la televisione, perché anche il buio la avvolga.
La stanza accanto, sorride. Deve essere un luogo davvero affollato in questi giorni

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Un incubo paralizzante ***


UN INCUBO PARALIZZANTE
 
“Dobbiamo attrezzarci anche per curare gli incubi!” esclamò il dottor Ronchi, appoggiandosi pesantemente alla macchinetta. Infilò la chiavetta per poi imprecare quando si accorse che non aveva neanche quei quaranta centesimi e qualcosa che costava quel veleno che spacciavano per caffè. Iniziò a frugarsi nelle tasche del camice, in quelle della casacca e in quelle dei pantaloni, ma niente: neppure dieci dannati centesimi.
La collega, rannicchiata su una sedia del cucinotto, che chiamavano pomposamente sala relax, andò in suo aiuto. “Offro io, stasera.”
Il dottor Ronchi si passò una mano sul viso. Era ufficialmente distrutto. Erano le quattro e mezza del mattino e, finalmente, fuori, in sala d’attesa c’erano solo un paio di codici bianchi: avrebbero potuto aspettare almeno il tempo di un caffè.
Ma in quel momento suonò il telefono dell’emergenza. “Chissà cosa arriva?” chiese ad alta voce la collega.
“Lo scopriremo presto,” rispose Ronchi, soffiando su quel liquido nero puzzolente a una temperatura tale che si chiedeva quotidianamente come faceva a non fondere il bicchiere. Perché con le dita – e con lo stomaco – ci riusciva benissimo.
“Raccontami di quello con gli incubi, dai,” disse la collega con il braccio puntellato al ginocchio e la mano a reggere il viso. “Ho bisogno di ridere un po’.”
Ronchi sospirò e appoggiò il bicchiere sul tavolo, in attesa che giungesse a più mite temperatura. “Che vuoi che ti dica,” cominciò. “È un settantenne che ha recentemente avuto un infarto. Questa notte si è svegliato e ha avuto la sensazione di non riuscire a muoversi e di far fatica a respirare, come se qualcuno fosse seduto sul suo petto. Il tutto compariva dopo un incubo che terminava in una lunga caduta.” Il mento del dottor Ronchi sprofondò sul suo sterno. “Non ha avuto dolore toracico, non ha avuto sudorazione, la sintomatologia si è risolta completamente nell’arco di un paio di minuti – forse meno, – e l’elettrocardiogramma è normalissimo, ma lui ha avuto paura di avere un altro infarto mentre dormiva.” Ronchi alzò lo sguardo per incontrare quello della collega. “Gliel’ho spiegato che è tutto a posto e ho anche provato a spiegargli cos’è una paralisi ipnagogica, ma niente!” Questa volta la testa la lasciò andare all’indietro, contro il muro. “Alla fine gli ho fatto il dosaggio degli enzimi, così, magari si tranquillizza.” Sbuffò, scocciato. “Ma perché la gente che può dormire nel suo letto non lo fa?”
La collega si mise a ridere. “Hai usato paroloni troppo difficili, Massimo caro!”
“E cosa avrei dovuto dirgli, scusa?”
“Che è stato il calcatrippe!”
Ronchi strabuzzò gli occhi. “Scusa?”
La collega scosse il capo mentre la sua risata svaniva nell’aria. “È una storia che mi ha raccontato mia nonna,” continuò. “Quando era giovane mi diceva che a volte si svegliava e si sentiva completamente immobilizzata, ma capiva benissimo cosa stesse succedendo intorno a lei. Era cosciente, ma paralizzata. Una paralisi ipnagogica, no? Quando andò dal medico – presente quei vecchi medici condotti che facevano da dentista a ostetrico a tutto quello che ci stava in mezzo? – ecco, quando andò da lui le disse, rigorosamente in dialetto: mo l’è ei chêicatreppel!” Di nuovo una risata. “Non ho mai capito che cosa fosse esattamente. E neanche mia nonna lo sapeva, ma la faceva ridere. Poi l’altro giorno, mentre aspettavo il treno, apro un articolo e mi trovo a leggere delle leggende riguardo le paralisi ipnagogiche. E, dalle mie parti, pare che il colpevole fosse appunto un folletto burlone a cui piace cavalcare la trippa della gente.”
Ronchi scosse il capo. A quell’ora aveva troppo sonno anche per queste storielle folkloristiche.
Improvvisamente sentirono, nel corridoio, un trambusto di barelle e barellieri. La collega si affacciò sul corridoio.
“Ti stavo giusto per chiamare,” la precedette l’infermiere. “È un’intossicazione.”
“La chiamata di prima?”
“No, questo l’ha accompagnato un amico che è già sparito.”
“Quindi cosa deve arrivare?”
“Un trauma.”
“Massimo, cosa preferisci? L’intossicato o il trauma?”
Ronchi fece spallucce. “Fai tu.” Prese in mano il suo caffè e ne trangugiò un sorso procurandosi contemporaneamente un’ustione alla lingua e un conato di vomito, a malapena soffocato dalla necessità fisica di sentire la caffeina in circolo.
“Allora mi prendo il trauma.”
Ronchi ingollò il resto del caffè senza badare alle conseguenze e buttò il bicchiere nel pattume. Non aveva neppure il tempo di condirlo con una sigaretta.
Sarebbe arrivata anche l’ora del cambio, cazzo.  
 
Disclaimer:
le situazioni, i personaggi e i luoghi citati nelle storie sono frutto della mia immaginazione. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a persone realmente esistenti o esistiti è puramente casuale. 
 
Note dell’autrice:
  • paralisi ipnagogica: detta anche paralisi nel sonno, è un disturbo del sonno in cui, nel momento prima di addormentarsi o, più spesso, al risveglio, ci si trova impossibilitati a muoversi. Questo stato di paralisi è dovuto alla persistenza dello stato di atonia che i muscoli presentano durante il sonno ed è causato da una discordanza tra la mente e il corpo: il cervello è attivo e cosciente, e il soggetto riesce spesso a vedere e sentire chiaramente ciò che lo circonda. Nonostante ciò il corpo permane in uno stato di riposo. Ciò solitamente incute terrore e angoscia nell'individuo affetto dal disturbo. Vanno distinte, ma possono accompagnarsi alle illusioni ipnagogiche causando sensazioni particolarmente vivide e talvolta terrificanti.
  • Articolo del CICAP citato: La Pandafeche che ti paralizza nel sonno
 
E dopo tanti anni aggiorno questa vecchissima raccolta…
Spero che vi divertiate a leggere questo raccontino quanto io mi sono divertita a scriverlo.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Affogare in un bicchier d'acqua ***


AFFOGARE IN UN BICCHIER D'ACQUA

“Lo vuoi bere tu?”
Massimo alzò lo sguardo dal bicchiere che reggeva in mano. “No.” Scosse il capo e lo appoggiò sul bancone.
Il medico più anziano che stava affiancando, Gabriella Lanzoni, lo guardava seduta, le spalle al computer, mentre mordicchiava l’unghia del pollice della mano. Aveva gli occhi di un azzurro torbido che parevano prenderlo in giro e, nello stesso tempo, sembravano dirgli: prova a capirlo da solo, dai! Non c’è gusto se te lo dico io.
Ma il giovane dottore proprio non ci arrivava. Forse aveva la mente troppo piena di quello che aveva appena visto e sentito.
Gabriella sbuffò. “Una donna, che da anni viene massacrata di botte dal marito, ha raggiunto quel limite di disperazione che sfocia nel coraggio di venire qui e di raccontare tutto a degli sconosciuti…”
Che altro avrebbe trovato in Pronto Soccorso se non il personale in turno? Se avesse voluto degli amici, allora aveva di sicuro sbagliato posto, pensò Massimo.
“E tu le offri un bicchier d’acqua?”
Massimo non ci vide niente di male: la paziente aveva cominciato a piangere e, da che mondo è mondo, si offriva sempre un fazzoletto e un bicchier d’acqua a chi piangeva. Era un atto di gentilezza, di consolazione, no?
“Te l’aveva chiesto?” Gabriella si sciolse i lunghi capelli biondi per poi legarli di nuovo in una comoda coda.
“No.”
“E tu perché glielo hai dato?”
Aveva il tono esasperato di chi aveva ripetuto questa domanda fino a seccarsi la gola.
Massimo si strinse nelle spalle: non riuscendo a capire dove o a cosa dovesse arrivare, optò per l’onestà. “Mi sembrava una cosa carina da fare.”
“Una cosa carina?” Gabriella inarcò le sopracciglia tanto da tirarsi dietro anche gli angoli della bocca.
Il dottor Ronchi abbassò il capo finché il mento non si incollò allo sterno. Sapeva che stava per arrivare il cazziatone. La dottoressa Lanzoni era un connubio straordinario di conoscenza e capacità, ma pretendeva che gli altri cogliessero subito al volo il suo pensiero, che viaggiava rapidissimo su binari costruiti uno per uno in anni di esperienza. Era brava, ma era tosto lavorare con lei: era sempre in anticipo su qualunque cosa.
“Hai ascoltato una singola parola di quello che ti ha detto?”
Massimo annuì con veemenza: certo che l’aveva fatto! Come faceva con tutti i suoi pazienti!
“Non credo proprio,” concluse Gabriella. “O meglio: forse le hai sentite, le sue parole, ma non le hai ascoltate. Però l’hai giudicata.”
Ronchi fece per prendere la parola, pronto a difendersi, ma la dottoressa più anziana lo interruppe con la mano aperta.
“Questo è il momento di imparare ad ascoltare, non di parlare. Quello lo sanno fare tutti, soprattutto quando si tratta di farlo a sproposito,” continuò la Lanzoni. “Ti invito piuttosto a ripercorrere quello che tu hai fatto.”
Massimo ci pensò: aveva ascoltato il racconto di una donna che continuava a vivere con un marito che la massacrava di botte. L’aveva visitata e aveva constatato che erano solo ecchimosi, niente di rotto. Le aveva offerto un bicchier d’acqua quando si era messa a piangere. E si era anche incazzato, senza dire nulla, quando la paziente aveva respinto l’offerta di un alloggio in emergenza, preferendo tornare alla sua casa degli orrori.
“Magari ti è dispiaciuto vederla ridotta così.” Gabriella interruppe il suo flusso di pensieri. E lui, per l’ennesima volta, annuì. “Probabilmente ti hanno fatto impressione i segni che portava addosso, anche se non ti sei fatto problemi a toccarli e a minimizzarli con un non è niente.”
“L’ho visitata!” esclamò esasperato. “Che dovevo fare? Non sono io ad averle fatto del male!”
“Hai toccato delle lesioni che la mano di un altro uomo le ha provocato.” Gabriella modulò la voce, una vibrazione di sfida ora risaltava fra le parole. “Glielo hai detto che ripetere quegli stessi gesti era necessario per curarla?” Lo osservò ironica, sapendo benissimo la riposta. “No, l’ho fatto io.”
Inutile. Ronchi si rassegnò, rabbioso, ad ascoltare e basta: tanto qualunque motivazione dietro ai suoi atti sarebbe stata smontata nei minimi dettaglio e, alla fine, ognuno di essi sarebbe stato sbagliato.
“Ascolta, Massimo, questo è un piccolo ospedale e non possiamo permetterci di avere sempre una donna in turno che possa trattare queste situazioni, come vorrebbero le linee guida. Qui siamo in quattro gatti e devi imparare a gestirle anche tu.” Fece una pausa. “Nel modo corretto.”
“Cosa devo fare?” Finalmente pareva aver posto la domanda corretta dato che il viso della dottoressa Lanzoni si rilassò.
“In primo luogo non devi giudicarla. Strappati dalla faccia quell’espressione che ti era venuta quando ha detto che sarebbe tornata a casa sua, del tipo allora questa situazione ti va bene, e poi dalle fuoco.”
Ronchi deglutì la saliva che aveva accumulato in bocca. Colpito e affondato.
“Se pensi che siano solo i lividi a far male sei un illuso o peggio.” Non disse idiota, ma Massimo lo sentì lo stesso. Anche se la cosa che gli fece davvero male fu sentirsi un idiota.
Gabriella lo guardò con un’espressione divertita. Doveva aver ottenuto quello che voleva. “Facciamo così: ora ti dico come funziona.”
Massimo pendeva dalle sue labbra. Nella sua mente, il suo assistente immaginario stava prendendo appunti.
“Non devi giudicare, non devi dubitare delle sue parole, non devi metterle in discussione. Probabilmente un sacco di persone lo ha già fatto, anche i suoi famigliari o le sue amiche, perché di fronte a certe situazioni chiudere gli occhi è la scelta più facile. Il tuo lavoro non è portare avanti un’indagine: non ne hai né l’autorità né la competenza. A tempo debito, nel caso, ci penserà chi di dovere.” La dottoressa Lanzoni fece una pausa per lasciare che quello che aveva appena detto si depositasse. “Devi ridarle libertà di scegliere per sé stessa, devi essere onesto con lei e non fregarla. Se ha delle ecchimosi le spieghi che non non metteranno a rischio la sua salute, ma non dici che non sono niente perché così tu, con le tue parole, neghi il dolore di cui quei segni sono solo la punta dell’iceberg.” Di nuovo una pausa, di nuovo una pietra sullo stomaco del dottor Ronchi. “Le devi spiegare quello che stai facendo o che vorresti fare per tutelare la sua salute e lei deve essere d’accordo a lasciarselo fare. Le spieghi la visita, la necessità di fare una radiologia o di sottoporsi a una visita specialistica. E le spieghi anche che quello che le sta succedendo è un reato, le spieghi che lei può sporgere denuncia e i casi in cui siamo obbligati a farlo noi.” Gabriella riempì i polmoni d’aria e buttò fuori un lungo sospiro. “Le devi ridare la libertà di scelta che, un uomo come quello che ha accanto, le ha tolto. Tu non sei qui per salvarla, sennò avresti l’aureola invece del camice. Sei qui per raccontarle cosa sia il ciclo della violenza, perché vada interrotto, per avvertirla che quello che sta vivendo è pericoloso. Sei qui per mostrarle che esiste una via di uscita: i centri antiviolenza, l’alloggio in emergenza… persino una barella qui in Pronto Soccorso se necessario. Le devi ricordare che di donne nella sua situazione ce ne sono tante e che qui può tornare in ogni momento, anche solo per parlare. Che qui è sempre aperto.”
Ronchi sospirò: dacché era studente, gli avevano ripetuto di togliersi dalla testa lo stereotipo del medico salvatore. Era una cosa che doveva aver fatto con somma perizia dato che, a volte, aveva l’impressione di non essere in grado di fare nulla. Di essere impotente di fronte a situazioni che erano troppo grandi per essere contenute tra le quattro pareti di un ambulatorio.
“Devi ricordarti che dai loro delle scelte, non delle certezze.” La dottoressa girò gli occhi verso la finestra che teneva fuori il buio della notte. “Le persone hanno bisogno di tempo, anche per prendere una vita di merda e buttarla nel cesso. Perché è sempre la loro vita, fatta di una quotidianità che hanno costruito, fatta di persone che amano o che hanno amato, fatta di sogni in cui hanno investito tutto. E ricominciare significa buttarsi da un aereo giocando alla roulette russa con il paracadute. È davvero così strano che tante donne, nella sua situazione, abbiano bisogno di pensarci? È così strano che tante tornino indietro perché non reggono lo stress, l’incertezza? Perché preferiscono aver paura di qualcosa che già conoscono e si illudono di poter controllare piuttosto che dell’ignoto?”
Massimo sentì il cuore sfracellarsi per terra. Rimase immobile: con i piedi incollati al suolo almeno non lo avrebbe calpestato. Gabriella, incurante di porre attenzione ai propri passi, gli si avvicinò.
“Ora sai dirmi a cosa serviva quello?”
Massimo la guardò inebetito per poi volgere lo sguardo verso il punto sul bancone che anche lei stava fissando. In tutto quel discorso se l’era pure dimenticato. Forse la Lanzoni aveva pensato di trovarsi di fronte un allievo più brillante. Che invece era appena letteralmente affogato in un bicchiere d’acqua.
“Le hai chiuso la porta in faccia,” mormorò piano Gabriella. “Hai preso le distanze dal suo dolore perché per te era troppo.” Si volse di nuovo verso di lui e gli appoggiò una mano sulla spalla. “In quel momento tu avevi bisogno di quel bicchiere d’acqua. Lei chiedeva soltanto di essere ascoltata.”

***
 
 
Disclaimer

Le situazioni, i personaggi e i luoghi citati nelle storie sono frutto della mia immaginazione. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a persone realmente esistenti o esistiti è puramente casuale. 

***
 
Black-notes:
  • Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it, prompt 2.Cliché.
  • Non sono neppure sicura che sia un cliché vero… ma nella mia testa porgere un bicchier d’acqua lo è diventato quando mi è stato fatto notare, a volta in maniera seria e a volte in maniera decisamente comica, della inutilità del gesto nella maggior parte delle situazioni. Ossia quando viene offerto a chi non ha sete.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Lenzuola bianche ***


Iniziativa: questa storia partecipa al #Writober2019 di Fanwriter.it
Prompt.03: lenzuola
Numero parole: 300

 

Lenzuola bianche

“Ogni volta che senti il pulsare delle arterie sotto le tue dita dopo lunghi minuti di sudore e adrenalina, il primo pensiero è di esaltazione. Perché il tiro alla fune tra la vita e la morte è andato nella direzione giusta, e in quel momento sai di aver fatto la differenza, che quell'uno percento di cui parlano le statistiche esiste davvero e sono state le tue mani e la tua testa a farlo accadere.”
“E poi?”
Il dottor Ronchi sorride. “Poi devi calmarti, anche se sei sudato marcio e nel sangue hai più adrenalina che globuli rossi. E stabilizzare il paziente, caricare, portarlo in ospedale. Magari cercare di capire perché è successo e dare ai tuoi colleghi del Pronto Soccorso qualcosa su cui lavorare. Poi c'è solo da sperare.”
“Perché? Che vuoi fare di più? L'hai tirato fuori da morte certa!”
Massimo si stringe nelle spalle. “Lo so, ma poi vedi le pupille che non reagiscono, un respiro che devi continuare a sostenere e ti chiedi cosa tu abbia rianimato. Se tornerà mai la persona che era prima o se rimarrà per sempre in uno stato vegetativo, a passare il resto della sua vita tra lenzuola pulite, collegato a tubi che ti fanno respirare, mangiare e pisciare.”
Alessandro fa il programmatore nella vita e non vede dilemma. Nel codice binario del linguaggio informatico in questo caso l'uno a zero è un risultato calcistico su cui c'è ben poco da sindacare. Così guarda l'amico piegando il capo verso la spalla, la fronte aggrottata e un'espressione a punto interrogativo sul volto.
“A volte mi chiedo se non vada meglio a quei novantanove che lasci sul posto coperti da un lenzuolo.”
“Allora perché lo fai?”
“Perché ogni tanto ci speri che la vita non faccia la stronza.”

***

Black notes:

  • ogni tanto devo tornarci su questa raccolta. Ogni tanto il dott. Massimo Ronchi mi chiama perché racconti una delle sue avventure/disavventure. È più forte di me. E stavolta l'ho fatto con tanta fatica e sudore. E, devo ammettere, che questa mini storia è stato un pugno nello stomaco da scrivere. In tutti i sensi.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=972307