Da qualche parte

di Retsuko
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Superman ***
Capitolo 2: *** La Cosa ***
Capitolo 3: *** Hulk ***
Capitolo 4: *** Il numero uno del Giappone ***



Capitolo 1
*** Superman ***


 

Disclaimer: I personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Takehiko Inoue e degli aventi diritto; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

Intro: eccomi di nuovo con la serie, perché portare a termine le cose se puoi cominciarne altre?!? Ho in testa questa roba da anni (Hanamichi: te sei veramente malata) e alla fine sta venendo fuori. Ovviamente, completamente diversa da quella che speravo. Anche questa storia è legata all’anno pubblicazione del manga, quindi il 1992. 

E’ una Rukawa X Sawakita. 

Povera me.

Buona lettura

 

 


 

Rukawa, ti odio! Hanno scelto te solo perché io non ero disponibile a causa dell’infortunio alla schiena!! 

Di certo è andata cosi!

Hanamichi Sakuragi

Takehiko Inoue, Slam Dunk, capitolo 276, Il club di basket del liceo Shohoku

 

Quando Kaede Rukawa vide Eiji Sawakita sdraiato sul letto pensò subito ad uno scherzo. Sembrava proprio una di quelle scemenze che avrebbero potuto architettare Mitsui e Miyagi per fargli la festa, poi si rese conto che quei due deficienti di certo non aveva l’autorità necessaria a decidere sulla disposizione delle stanze dei convocati.

La seconda cosa che pensò fu quella di fare marcia indietro e andare dal mister a chiedere di cambiare camera, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa Sawakita parlò.

«Ciao» disse con un sorriso sornione dipinto in faccia.

«Ciao» replicò lui chiudendosi la porta alle spalle. Buttò a terra il borsone e si sdraiò sul letto rimasto libero senza nemmeno togliersi le scarpe. Avrebbe preferito quello vicino alla finestra, però testa rapata era arrivato prima e se l’era accaparrato lui. 

Kaede sbadigliò, il viaggio in treno fino a Chiba lo aveva stancato più di quanto si aspettasse.

«Non addormentarti, fra mezz’ora dobbiamo essere di sotto per l’accoglienza» si raccomandò Sawakita alzando a malapena lo sguardo dalla rivista che stava leggendo.

«Nh»

«Ehi, mi hai sentito?»

E Rukawa scivolò nel sonno.

 

Una ventina di minuti dopo venne svegliato da leggeri colpetti sulla spalla.

«Ti addormenti sempre così di schianto?» domandò il suo compagno di stanza piuttosto perplesso.

«Si. E non perdono chi disturba il mio sonno, vedi di ricordartelo» replicò Rukawa minaccioso, prima di alzarsi. Andò nel piccolo bagno annesso alla camera grattandosi la testa, si lavò il viso e quando riapparve, Sawakita lo stava aspettando sulla soglia.

«La chiave» disse mollandogliela in mano. Rukawa lo guardò, un sopracciglio alzato come a chiedere “perché dovrei tenerle io?” e Sawakita comprese.

«Se non avessi la testa attaccata al collo perderei anche quella. Tienila tu per favore»

spiegò prima d’incamminarsi verso le scale.

«Come sta il vostro rosso?» esordì l’asso del Sannoh giunti ai primi gradini.

«Schiacciamento vertebrale. E’ in riabilitazione» rispose Rukawa sperando che una risposta secca bastasse a dissuaderlo dal conversare e invece l’altro sembrava proprio aver voglia di continuare.

«Bel casino»

«Ha la pellaccia dura, se la caverà»

«Meglio per voi» commentò aprendo la porta che dava sulla hall dell’albergo, poi fece un cenno con la mano, incoraggiando Rukawa a passare per primo. Kaede indugiò, involontariamente gli sfuggì lo sguardo sull’osceno taglio di capelli di Sawakita, sui suoi occhi dalle palerebbe pesanti e alla fine si ritrovò ad esaminarlo completamente, chiedendosi se il loro corpi si somigliassero davvero, così come berciava Sakuragi.  

«Tranquillo, non è mia intenzione farti lo sgambetto mentre mi cammini davanti» disse Sawakita sogghignando. Il giocatore dello Shohoku emise una specie di breve grugnito ad intendere d’aver compreso, e lo oltrepassò.   

 

La Commissione Nazionale per lo Sport e le Discipline Atletiche li aveva radunati nell’auditorio dell’albergo in stile occidentale in cui alloggiavano per una presentazione ufficiale. C’erano persino alcuni giornalisti e, con sommo orrore di Rukawa, quella tizia assurda della televisione scolastica che aveva preso l’abitudine di seguirlo ovunque. Sawakita raggiunse Kawata e Fukatsu, gli altri due convocati del Sannoh mentre lui si sistemò in ultima fila, vicino ad un ragazzo che non riusciva a riconoscere. Poco dopo gli si sedette affianco Hiroshi Morishige, incastrandosi a stento sulla poltroncina blu.  

«Te sei quello di Kanagawa giusto?» chiese il pantagruelico centro del Meihou e Kaede annuì «Sai siamo le uniche due matricole convocate. Senti se mi addormento, mi svegli?» 

Decisamente stava chiedendo alla persona sbagliata. Inaspettatamente, però, Rukawa riuscì a mantenersi sveglio per l’intera durata dell’incontro, un pò perché stare schiacciato fra lo sconosciuto e Morishige era scomodissimo, e un pò perché sentiva uno strano bisogno di restare vigile. Si dovette sorbire i discorsi dei presidenti di quello e di quell’altro e rifilare un paio di gomitate ad un russante Morishige, prima di poter ascoltare l’intervento del coach, l’unico che gli suscitasse un minimo d’interesse. All’apparenza l’allenatore Mhiamotho Kaneda era il tipico ex atleta sulla quarantina. Alto, folti capelli scuri, indossava un completo blu e camminava sul palco disinvolto, con la sicumera di coloro a cui piace stare al centro dell’attenzione. La maggior parte del suo discorso risultò banale e ritrito, eppure riusciva a mantenere alto l’interesse del pubblico  alternando perfettamente le pause alle parole. Indubbiamente si trattava di una persona intelligente, dotata di una grande eloquenza, ma Rukawa non fu particolarmente convinto dal suo stile, più che un’allenatore di una nazionale sportiva giovanile sembrava una via di mezzo fra mental coach e un venditore di pentole. 

Arrivarono alla consegna delle divise che ormai si era fatta ora di cena e nella sala cominciavano a sentirsi chiaramente i borbottii degli stomaci di dodici adolescenti.

 

In mensa il tavolo del buffet fu svuotato in un paio di secondi. Rukawa lasciò perdere i piatti singoli, optando per un bento a base di pesce e riso, poi si guardò intorno, alla ricerca di un tavolo passabile in cui collocarsi. Normalmente non si sarebbe fatto scrupoli a sistemarsi da solo in un tavolo qualunque, ma quello era un contesto diverso dalla normalità. Lì le cose si facevano serie. Lì era l’ultimo arrivato, un semplice novellino e tanti cari saluti al brillante campione. Anche se non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto la peggiore della torture, Kaede sapeva, intimamente, che quella sensazione di allerta era dovuto ad una sorta di timorosa soggezione. Insomma, Kaede Rukawa era abbastanza nervoso da sentire il bisogno di qualche riferimento, forse addirittura di una rassicurazione, e c’era un’unica persona in quella stanza di cui vagamente si fidasse.

«Ciao, posso?» domandò affiancandosi al tavolo di Shinichi Maki. 

«Ohi, ciao Rukawa! Certo» rispose l’altro sorridendo. Kaede ringraziò con un veloce cenno del capo e si sedette di fronte al capitano del Kainan. Vennero immediatamente raggiunti da Dai Moroboshi, che a malapena salutò, era impaziente di aggiornare Maki su una questione che gli stava molto a cuore.

«Natsumi ed Eri» esordì pimpante posando il vassoio sul tavolo.

«Chi?»

«Come chi? Le ragazze della reception» chiarì prima di infilarsi in bocca un onigiri e ingoiandoselo praticamente intero «sono matricole della facoltà di lingue a Chiba e lavorano qui per un stage estivo».

«Non posso credere che tu sia già andato ad importunarle» disse Maki, sebbene avesse l’aria di crederci benissimo «Moroboshi, due ragazze universitarie non usciranno mai con un liceale»

«Ed è qui che ti sbagli vecchio mio. Hanno già accettato. Merito del mio fascino animale» ribatté l’altro rigirandosi le bacchette fra le dita, mostrando un sorriso sfavillante che forse sarebbe stato più efficace se non avesse avuto dei residui di riso fra i denti. 

«Probabilmente si sono impietosite»

«Che ci sarebbe di male nella pietà? La pietà sta alla base di molte  relazioni!» fece una pausa per bere un bicchier d’acqua «però dobbiamo trovarci altri due, perché loro si porteranno dietro le sorelle più piccole.»

Detto ciò Moroboshi ispezionò la sala con gli occhi, passò in rassegna i tavoli e si fermò su Rukawa, che aveva seguito quello scambio di battute in religioso silenzio, continuando a mangiare, indifferente agli altrui piani di conquista. 

«Tu potresti fare al caso nostro, sei carino. Che dici Maki, svezziamo il ragazzino?» domandò tamburellandosi l’ indice sulle labbra e Maki alzò un angolo della bocca in un mezzo sorriso.

«Non saprei, Moroboshi, sarebbe rischioso. Questo qui fa bagnare un sacco di ragazze, finirebbe con l’attirare troppa attenzione» commentò tranquillo il veterano di Kanagawa guardando il super rookie, che restituì lo sguardo, scioccato. 

Vecchiaccio maledetto, e lui che si era fidato. 

«Mh dici? Sembrerebbe proprio uno di quelli che se lo tira fuori solo per pisciare.»  

A quel punto Rukawa giunse al culmine, era stanco di sentirli chiacchierare di lui come se non fosse stato presente, e poi, stella di Aichi o no, quel Moroboshi era un pò un’idiota.

«E voi sembrate proprio due che si sentono minacciati dall’ultimo arrivato» disse truce. 

«Ehi marmocchietto!» eruppe, improvvisamente alterato, Moroboshi, cercandosi di alzarsi. 

Maki lo trattenne seduto, premendogli una mano sulla spalla. 

«Lascia perdere, abbiamo cominciato noi a provocare. Scusaci Rukawa» tagliò corto, usando lo stesso tono di voce profondo che aveva quando doveva placare Kiyota. 

Moroboshi e Rukawa continuarono a studiarsi a vicenda per altri lunghi secondi, poi il giocatore dell’Aiwa si scrollò di dosso la mano dell’amico e sospirò rumorosamente.

«Si, si ok» biascicò «Allora, ci viene con noi?» 

«No grazie» rispose alzandosi «buona serata.»  

Portò il bento vuoto alle rastrelliere sistemate in un angolo e si diresse a grandi passi verso l’uscita. 

 

Quando Sawakita tornò in camera Rukawa aveva già svuotato la valigia e, seduto sul letto a gambe incrociate, stava leggendo il programma giornaliero del ritiro, consegnato loro insieme alle divise. Erano quindici giorni decisamente intensivi, descritti nel dettaglio e in una lettera di raccomandazione-minaccia allegata dal mister.

Sveglia alle 7 e mezza, avete un'ora di tempo per prepararsi e fare colazione, poi si scende in campo, per le 09:30 vi voglio tutti pronti per cominciare la prima seduta di allenamento. Chi ritarda dovrà recuperare, in che modo lo deciderò io di volta in volta. Al mattino solitamente si cura la parte fisico-atletica, utilizzando anche i macchinari della palestra. Si sta in campo fino a mezzogiorno, dopo la doccia il ritorno in albergo per il pranzo delle 13. Sarete liberi fino alle 15, io vi consiglio di ritirarvi nelle vostre camere a riposare, ma non è obbligatorio, dovrete però restare nei pressi dell’albero e non fare casino. In caso non rispettiate queste due semplici regole sarete puntiti. Quindi di nuovo in campo per l'allenamento pomeridiano, dalle 15.30 alle 18.30. Questa volta il lavoro sarà più incentrato sul gioco, tecniche e tattica. Si cena alle 20.00, poi tutti nelle proprie camere entro le 23.00. Chiunque verrà beccato fuori dai letti dopo quell’ora verrà gentilmente riaccompagnato in stanza a fare le valigie in vista della ripartenza forzata del giorno successivo. Lunedì mattina libero, salvo comportamenti scorretti da parte vostra. 

Inoltre erano state fissati amichevoli con due squadre universitarie. Rukawa sperò che Maki e Moroboshi fossero abbastanza svegli da non farsi scoprire a progettare fughe notturne, altrimenti avrebbero dovuto affrontare la Shintai decimati dai playmaker. 

Nel frattempo Sawakita stava riponendo i suoi vestiti nell’armadio con una pignoleria estrema, sistemando ogni maglietta in una gruccia diversa. Lo guardò di sottecchi tirar fuori le mutande da una tasca laterale del borsone, praticamente erano tutte colorate, a righe o decorate con motivi strani. Kaede pensò alle sue; quelle più fantasiose che possedeva erano grigie con le cuciture verdi. 

«Ma che caz…» sbottò ad un certo punto Sawakita, trovandosi fra le mani un paio di slip particolarmente appariscenti. Cercò di ricacciarle in valigia, ma i suoi riflessi furono meno pronti del solito. 

«Hai le mutande di Superman?» chiese sfottendolo il compagno di stanza, che aveva fatto in tempo ad adocchiare l’orrido capo d’abbigliamento. 

«Deve averle messe mia madre per sbaglio, di solito non le indosso» pigolò l’asso del Sannoh diventando della stessa tonalità di rosso della S disegnata sulle mutande. 

«Hai le mutande di Superman e ti fai fare la valigia dalla mamma? Cos’hai 5 anni?» infierì l’altro, sogghignando.

«No che non mi fa la valigia, intendevo dire che le avrò prese io senza accorgermene» farfugliò, cercando di ritrattare «comunque sono un regalo.»

«Di Clark Kent?» continuò Rukawa. Si stava divertendo da matti a stuzzicare il rivale.

«Di un’ammiratrice, ne ho diverse» ribatté Sawakita incrociando le braccia al petto, in segno di sfida, ignaro del fatto che sfidare il bel giocatore di Kanagawa in fatto di ammiratrici pazze fosse una gara persa in partenza. 

«A me hanno regalato anche biancheria intima femminile, ma di certo non la tengo» disse Rukawa facendo spallucce e Sawakita divenne impossibilmente ancora più rosso. 

Ammutolì e si lasciò andare seduto sul letto.

«Come si può pensare di conquistare un ragazzo regalandogli la propria biancheria intima?» chiese meditabondo, cominciando a giochicchiare distrattamente con la cinghia del borsone. Quando aveva visto il ridicolo pezzo di pizzo dentro il pacchettino, Rukawa si era posto la stessa identica domanda, poi aveva liquidato la riflessione con un “puah” disgustato, e gettato il pacchetto semi aperto nella spazzatura, attento a non sfiorare nemmeno una porzione della stoffa. Da allora aveva sempre buttato via ogni regalo senza più lasciarsi tentare dalla curiosità di aprirlo.

«A proposito, di sotto ho incontrato Moroboshi» interloquì Sawakita «nemmeno a me sta particolarmente simpatico» aggiunse vedendo la smorfia sul viso dell’altro «mi ha fermato per chiedermi se sono interessato ad uscire domenica sera con lui, Maki e delle ragazze. Lo hanno chiesto anche a te?» chiese piegando leggermente la testa da un lato e Rukawa annuì.

Quindi testa rapata lo aveva osservato durante la cena. 

«E andrai?» 

«No»

Ci fu un momento di stallo. Sawakita stiracchiò la bocca, lasciò scivolare il labbro inferiore sotto quello superiore, nascondendolo, cosi facendo i suoi occhi sembrarono più grandi. Kaede aveva già visto quell’espressione sul viso di Sawakita, era lo stesso cipiglio che assumeva quando si metteva in posizione di difesa sul campo, e si chiese cosa lo spingesse a mettersi sulla difensiva proprio in quel momento. 

«Se tu vuoi andarci, io mi farò i cazzi miei. Però se vi becca il mister non aspettarti che ti copra» chiarì, prima di sdraiarsi sul materasso.

Aveva già parlato abbastanza per l’intera settimana.

«Non ci voglio andare, io...»

La frase rimase lì, ad aleggiare sospesa nell’aria. Sawakita ebbe il buon senso di chiudere la bocca altro e Rukawa lo vide con la coda dell’occhio scrollare la testa, recuperare un beauty case nero e andare in bagno.

Le mutande di Superman erano ancora sul suo letto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note: la pazza della tv scolastica è Mari Kawai, personaggio esistente solo nell’anime. 

 Stavo pensando di pubblicare capitoli un pò più lunghi accorpandoli. O di darmi all’ippica. 

Non so.  

 

Un abbraccio a tutti e tutte 

A presto 


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Capitolo 2
*** La Cosa ***


Ciao, per ora sono avanzata con questa semi follia, che alla fine sarà una storia complessa e a tratti personale. Il capitolo è lunghetto, spero susciti abbastanza interesse da essere letto tutto. Grazie a chi ha letto quello precedente e Ste_exLagu per l’incoraggiamento sul crack pairing 

 

Buona lettura

 

 

 

 

 

 

Rukawa senti…confido nella tua forza di volontà. Quindi ti prego, diventa il numero uno del Giappone.

Mitsuyoshi Anzai

Takehiko Inoue , Slam Dunk, capitolo 189 La patria del basket

 

Eiji testa rapata Sawakita si stava rivelando un compagno di stanza più che accettabile. Era pulito, ordinato e sopratutto non rompeva le palle. Trascorreva la maggior del tempo libero in stanza, leggendo oppure ascoltando musica dal walkman. Ogni tanto parlottava da solo. Era un’abitudine comune a molte persone - Sakuragi si lanciava in soliloqui che avrebbero fatto invidia a Shakespeare - e Kaede decise che avrebbe potuto tollerarlo, anche perché - a differenza di Sakuragi - le sue parole erano un sussurro quasi impercettibile. Presto però si rese conto che quello di Sawakita non era un vezzo, bensì esercizi di allenamento alla lingua americana. Una mattina, di rientro da una corsa sulla spiaggia, lo trovò sdraiato sul letto, intento a ripetere una frase con gli auricolari nelle orecchie: 

«And a few years from now, maybe we'll meet up again and fall in love for real.»

«Che frase imbecille!» disse poi stizzito tornando alla lingua madre «non capisco perché gli esempi di questi corsi debbano essere sempre così scemi! Oh ciao» disse togliendosi un auricolare, quando si rese conto di non essere più solo.

Nella mente di Rukawa si affilarono un sacco di domande (“Quando parti?”, “Dove andrai?”) che ovviamente rimasero la dov’erano, inespresse.

«Sempre meglio delle moltitudini di penne sui tavoli» commentò scrollando le spalle. Sawakita rimase pensoso un attimo prima di capire che Kaede Rukawa aveva appena fatto una battuta. Scoppiò in una risata tranquilla e pigiò il pulsante STOP del walkman.

 

Ogni sera Rukawa si prendeva una mezz’ora di solitudine. Saliva sul tetto dell’albergo a guardare l’orizzonte oscuro, in contrasto al brulicare di luci della città e cercava di svuotare completamente la mente da qualsiasi pensiero. Contemporaneamente Sawakita scendeva nella hall per telefonare, trascorrendo in chiacchiere più o meno la stessa mezz’ora che Rukawa passava in totale mutismo. S’incontravano davanti alla porta della loro stanza senza farsi domande, finché, il mercoledì, quarto giorno di ritiro, Sawakita si rivolse a Rukawa cercando di essere il più discreto possibile.

«Senti, non è che voglia farmi gli affari tuoi...»

«Ecco bravo, non farteli»

«...volevo solo ricordarti che il coach ci ha detto di chiamare a casa, ogni tanto» concluse senza scomporsi minimante. A malincuore dovette ammettere che Sawakita aveva ragione. Controllò l’orologio Casio al suo polso, erano le 22:00, tardi per gli standard della sua famiglia, avrebbe dovuto rimandare al giorno dopo.

Circa dieci minuti dopo bussarono alla porta della camera e il giocatore dello Shohoku andò ad aprire di malavoglia.

«Cosa vuoi?» sbottò in faccia ad un sorridente Hiroshi Morishige.

«Spuntino!» rispose tutto allegro mostrando i pacchetti che teneva fra le braccia. 

Sembrava aver svuotato i distributori automatici dell’albergo.

«Abbiamo cenato due ore fa» gli fece presente un po’ esasperato.

«Quella miseria che ci danno da magiare tu la chiamo cena? Dai, dai fammi entrare» disse, e senza aspettare un consenso il centro entrò nella stanza, spostando Rukawa di peso con una sola mano.

«Ciao Sawakita!» salutò sedendosi a terra. Occupavo tutto lo spazio libero fra i due letti.

«Ciao Morishige. Grazie per lo spuntino»

«Figurati, mi piace condividere le cose con chi è gentile con me»

Decisamente sconcertato da quel l’affermazione innocente, Rukawa intercettò lo sguardo di Sawakita, la cui espressione diceva evidentemente una sola cosa: zitto e mangia. Kaede, che comunque non aveva nessunissima intenzione di ribattere, si sedette sul letto, lievemente a disagio, riflettendo sulla singolarità della situazione. Morishige gli si era incollato addosso sin dal primo giorno. Ai pasti si sistemava al suo stesso tavolo, gli si accostava durante gli allenamenti e lo cercava nei momenti liberi, seguendolo ovunque. Ad un certo punto Rukawa gli aveva esplicitamente chiesto il perché di tanto accanimento nei suoi confronti e Morishige aveva motivato il suo comportamento con un candido: «mi sei simpatico». 

Cosa esattamente lo rendesse simpatico agli occhi altrui restava un mistero insoluto, ma, giunto a metà della prima settimana, Rukawa si era abituato ad avere intorno quella gigantesca presenza. In fin dei conti Morishige accettava di buon grado i suoi prolungati silenzi e, soprattutto, quando Rukawa gli chiedeva poco gentilmente di togliersi dalle scatole, obbediva senza batter ciglio. 

«I miei genitori lavorano entrambi alla Toyota, i tuoi cosa fanno?» chiese Morishige a Sawakita, e Rukawa si ridestò dalle sue considerazioni. La conversazione era scivolata, apparentemente senza nessun nesso logico, dal Dream Team alla famiglia. 

«Mia madre ha una libreria e mio padre è professore di antropologia culturale all’università di Akita» rispose il ragazzo più grande, aprendo un pacchetto di patatine. 

«Antro che?» 

«Antropologia culturale. In poche parole è quella disciplina che studia le somiglianze e le diversità fra le varie culture umane» tradusse Sawakita. Il ragazzone di Aichi corrugò le sopracciglia e guardò verso il basso, socchiudendo e riaprendo gli occhi come un obiettivo fotografico che mette a fuoco un’immagine. Dopo qualche istante fece schioccare la lingua.

«Sembra una roba che può mandarti fuori di testa» commentò infine.

«Papà è fuori di testa, però non credo sia colpa dell’antropologia, piuttosto di tutte le canne che si è fumato durante le occupazioni studentesche del ’68. A dire la verità, sospetto che se le faccia ancora» 

Morishige reagì con una risata simile ad un basso latrato e persino Rukawa mosse le labbra, in una specie di piccola contrazione che poteva rassomigliare ad un sorriso.

«E i tuoi Rukawa?» domandò il centro, dopo aver ripreso fiato. 

Il campione dello Shohoku sentì la schiena irrigidirsi.

«Mio padre è architetto» rispose piatto, piegando un ginocchio e posandovi sopra il mento. A quelle parole Sawakita si mosse inquieto, mollando il pacchetto di patatine, che si riversarono sul letto. «Aspetta un momento» disse, incurante del disastro di briciole «Tuo padre è quel Rukawa che ha disegnato il Land mark Tower in costruzione a Yokohama?» chiese sorpreso. Lentamente, Rukawa annuì. Sebbene non lo desse a vedere era altrettanto stupito. Rukawa Tsukuru era una celebrità nel mondo dell’architettura, ma normalmente sconosciuto fra i coetanei del figlio.

«Una torre?» si chiese perplesso Hiroshi

«Torre?!? Sarà il grattacielo più alto del Giappone! Lo completeranno l’anno prossimo» disse esaltato testa rapata. Nonostante stesse rispondendo a Morishige, Sawakita continuava a guardare fisso Rukawa, quasi si trattasse del centro di un vortice.

«Abbiamo studiato alcuni suoi progetto a scuola, il Sannoh è un istituto tecnico industriale e abbiamo anche dei corsi a scelta di introduzione all’architettura, a me piace tantissimo la materia» aggiunse a beneficio di entrambi «cacchio! Tuo padre è una leggenda!»

Sawakita di batté entrambi i palmi sulle cosce, poi si alzò sulle ginocchia, raddrizzando il busto e cominciò a sbrodolare nozioni dettagliate sull’edificio. La sua voce arrivava alle orecchie di Rukawa smorzata, come se provenisse dalla stanza adiacente. 

«È solo uno stupido palazzo. Non fartelo venire duro» sbottò interrompendo il compagno di stanza, guardandolo con occhi che avrebbero potuto perforare il cemento armato. Calò un pesante silenzio. Senza badare alle espressioni attonite degli altri due, Kaede tirò fuori il pigiama da sotto il cuscino, e, dopo aver scavalcato Morishige con un salto elegante, si chiuse in bagno.

 

Riempì il lavabo di acqua fredda, vi tuffò la faccia e restò fermo sinché i suoi polmoni glielo permisero. Nel riemergere la frangia inzuppata gli si era appiccicata alla fronte, coprendogli gli occhi. Lasciò la forza di gravità libera di agire, sentì le gocce scivolare verso il basso, dalle labbra lungo il mento, al collo, sino ad incontrare la stoffa della t-shirt. L’acqua aiutava a riordinare gli eventi, a concentrarsi sulla realtà e sopratutto a placare il rancore che lo assaliva quando sentiva gli estranei elogiare la grandezza di Tsukuro Rukawa. Ogni qualvolta aveva la sensazione che tutto il corpo si torcesse. Si tamponò i capelli alla buona con un asciugamano e finì di prepararsi velocemente. 

Quando uscì dal bagno il loro ospite non c’era più. Sawakita aveva gettato le cartacce degli snack nel cestino, e lo stava aspettando immobile al centro della stanza, laddove poco prima era seduto Morishige. Si osservarono in silenzio. Rukawa tentò inutilmente di scoprire il significato dell’espressione sul volto di Sawakita, era imperscrutabile, diversa dal solito. Vagamente assomigliava all’espressione di un bambino che si ritrova davanti ad uno sconosciuto e ne è incuriosito, invece di esserne impaurito.

«Scusami Rukawa, sono stato inopportuno» disse, ma Rukawa non avvertì in quella frase nessun senso di colpa o disagio. Degnandolo appena di un’occhiata distratta, s’infilò sotto le lenzuola. Sbadigliò, portandosi una mano pallida davanti alla bocca, poi si rigirò su un fianco e diede le spalle a Sawakita. 

Avrebbe preferito che restasse zitto. 

 

Kaede aprì la porta, massaggiandosi la tempia sinistra con la punta delle dita. Era uscito all’alba come al solito, ma, quando il sole era sorto del tutto, la luce gli aveva trafitto dolorosamente gli occhi e un improvviso mal di testa lo aveva costretto a dimezzare la durata della sua corsa mattutina. L’asso del Sannoh era sveglio e si stava vestendo per scendere a colazione. 

«Buongiorno» lo salutò dopo aver infilato la maglietta della nazionale.

«Nh» 

Ripetendo la stessa dinamica della sera prima, i due si guardarono, fermi al centro della stanza, però, a differenza della sera prima, Rukawa in quel momento riusciva ad interpretare perfettamente lo sguardo di Sawakita, perché ero lo stesso sguardo intenso che aveva in campo quel giorno di agosto. D’istinto Rukawa pensò ad abbassarsi per mettersi in posizione di difesa. Fortunatamente il cervello lavorò abbastanza velocemente da impedire ai muscoli di scattare. 

«Faresti meglio a smetterla di correre ogni mattina. Il ritiro vero non è ancora cominciato, i primi giorni sono di ambientamento, servono più che altro a voi novellini per abituarvi ai ritmi, ma da oggi diventerà sempre più dura. Tu non sei abituato a questo tipo di allenamenti, non reggerai e  finirai con l’arrivare alle partite distrutto dalla fatica. Dammi retta Rukawa, rallenta.» 

Il giocatore dello Shohoku pensò al suo compagno di squadra Hanamichi Sakuragi e ai suoi metodi per risolvere le controversie. Il naso di Eiji Sawakita avrebbe retto una testata ben assestata? Rovinato il suo bel faccino, avrebbe avuto ancora fans disposte a regalargli biancheria intima di dubbio gusto?

«Cosa ne sai tu della mia preparazione atletica?» chiese infine, incrociando le braccia la petto e  lasciando perdere ogni dubbio sulla resistenza ossea dell’avversario. 

«Ne so abbastanza. Ricordati che so come giocate» replicò l’altro affondando le mani nelle tasche. Rukawa alzò un sopracciglio e contemporaneamente un angolo della bocca, mostrando la sua migliore smorfia di derisoria provocazione.  

«Io mi ricordo che vi abbiamo battuto»

«Già, e avete vinto perché siete un manipoli di testoni. E’ stato grazie alla vostra determinazione se ci siete riusciti, non di certo per merito della vostra preparazione come squadra» replicò Sawakita tranquillo. Oltrepassò il compagno di stanza, diretto alla porta.

«Comunque io parlavo della partita con l’Aiwa» precisò prima di uscire dalla camera.

Stupito, Rukawa si voltò di scatto, giusto in tempo per vedere la porta chiudersi alle spalle di Sawakita. 

 

Quel giorno Rukawa pranzò in solitaria. Il suo nuovo ciclopico “amico” era stato costretto a svolgere giri di campo supplementari per aver violato una delle regole alimentari prescrittogli. Ad ognuno di loro era stata assegnata una dieta specifica e ovviamente quella di Morishige non prevedeva spuntini serali a base di schifezze. Rukawa, al contrario, era praticamente stato messo all’ingrasso, o meglio, all’ingrosso. Incoraggiato dal mister, il nutrizionista aveva preparato per lui una dieta finalizzata ad aumentare la massa muscolare. 

Il primo giorno, coach Kaneda aveva assistito alla visita medica di ogni giocatore.

«Rukawa Kaede. Dalla tua cartella risulta che assumi farmaci specifici quotidianamente» aveva detto osservandolo mentre saliva, coperto solo dalle mutande, sulla bilancia gelida dell’ambulatorio. Il ragazzo aveva annuito, stringendo i pugni. Era tutto scritto su quelle dannate prescrizioni mediche, bastava leggerle, non c’era bisogno che chiedesse, e comunque lui non aveva nessunissima intenzione di parlarne. 

«Di solito è un adulto che te le somministra o sei autonomo?» si era informato il dottore spostandolo schiena al muro per misurarlo in altezza. 

«Sono capace di ingoiare un paio di pillole al giorno» 

Kaneda aveva ridacchiato del suo tono ringhiante. 

«Bravo il nostro campione. Vedi di ricordarti di prenderle però, qui nessuno vuole vederti stramazzare in campo» 

Rukawa s’immaginò saltargli alla gola e recidergli la giugulare a morsi. Come se non bastasse, un secondo dopo, Kaneda gli aveva piantato un dito all’altezza del plesso solare, facendolo sussultare impercettibilmente.

«Qui bisogna aumentare un po’ la massa muscolare, eh ragazzo?»

Kaede, che riteneva la sua fisicità leggera un punto di forza, avrebbe volentieri risposto “Fottiti”, ma, conscio di trovarsi davanti al tizio che lo aveva convocato, si era limitato ad accennare un movimento del capo vagamente interpretabile come un assenso. Abituato ai pasti semplici che preparava sua nonna, basati sopratutto su riso, verdure fresche e pesce, Rukawa sarebbe stato felice di barattare la sua bistecca rossa con il merluzzo di Morishige. Alla proteine, l’immancabile frutta secca a merenda - probabilmente finito il ritiro non avrebbe più mangiato mandorle - si aggiungevano gli esercizi in palestra. La prima volta Kaede aveva guardato sospettoso il leg extension quasi fosse una bomba pronta ad esplodere. Maki gli si era affiancato, circondandogli le spalle con un braccio.

«Andiamo matricola d’oro, ti faccio vedere come funziona» aveva detto ridacchiando.

«Lo so come funziona» aveva ribattuto burbero il moretto, scostandosi da lui.

«Allora siediti che ti sistemo i pesi»

Mentre lavorava sulle gamba si era ritrovato a guardare di sottecchi verso la panca per gli addominali, sopra la quale Kawata si stava esibendo a petto nudo, regalando alla squadra uno spettacolo agghiacciante. Poco dopo Sawakita si era sdraiato su quella affianco e il compagno di squadra lo aveva spinto, facendolo rotolare a terra. Qualcuno aveva riso, la maggior parte aveva fatto finta di niente. Maki aveva stretto gli occhi, diffidente e concentrato sugli sviluppi della situazione, risoltasi banalmente; infatti Sawakita, con un’espressione neutra, si era rialzato e aveva ricominciato i suoi esercizi senza dire nulla. Rukawa sbocconcellò gli Udon di malavoglia, ancora infastidito da un persistente mal di testa. Forse avrebbe fatto meglio a chiedere qualcosa al medico. Guardò il tavolo dello staff sistemato dall’altro capo della sala mensa, oltre al mister e al suo vice, c’erano i preparatori atletici, il nutrizionista e due massaggiatori, figure dalla quali Rukawa avrebbe cercato di tenersi lontano, perché l’idea di farsi palpeggiare da sconosciuti non gli piaceva per niente. Trovava strano essere accompagnato da un numero così alto di adulti specializzati in campo sportivo. Ripensò alle parole di Sawakita: tu non sei abituato a questo tipo di allenamenti. Probabilmente da quel punto di vista aveva ragione. 

In quel momento Morishige si palesò in tutta la sua gigantesca essenza.

«Fame» disse lasciandosi andare sulla sedia, che protestò scricchiolando. 

«Oh no, di nuovo i broccoli! Mi fanno schifo i broccoli! Li vuoi?» domandò mostrando il piatto a Rukawa.

«No, se te li hanno dati significa che lo devi mangiare» 

«Sembri mia madre» borbottò in risposta e Rukawa alzò gli occhi al cielo. Oltre le spalle di Morishige, a due tavoli dal loro, il trio del Sannoh insieme al tizio del Daiei di Osaka li stavano fissando. Quest’ultimo diede una gomitata a Kawata, che cominciò a fare boccacce sguaiate, poi disse qualcosa che Rukawa non potè sentire e tutti risero, tranne Sawakita. Lui rimase inespressivo sinché non intercettò gli occhi zaffiro del compagno di stanza, allora arrossì lievemente e si precipitò a chinare il capo. 

«Come ha fatto Kaneda a scoprirti?» domandò improvvisamente Rukawa.

«Boh, mi avrà visto. Mica sono facile da nascondere» replicò scrollando le enormi spalle.

No pensò il moro se ti avesse beccato sarebbe intervenuto subito, sequestrandoti il cibo. Qualcun’ altro ti ha visto e ha deciso che sarebbe stato divertente farti punire. 

«Andiamo» disse alzandosi quando Morishige finì di mangiare.

«Ma che hai oggi?» domandò perplesso il centro, mentre s’incamminavano verso l’uscita.

«Mal di testa»

E la discussione morì li.

 

Il rumore del palleggiare rimbombò nella testa di Rukawa fino a dopo cena, quando, sconfitto, si rivolse al medico per avere qualcosa che alleviasse il dolore. 

«Mi raccomando Rukawa, cerca di dormire il più possibile» gli aveva detto dandogli in mano un pastiglia di iboprufene. Dormire più di quanto già facesse probabilmente corrispondeva al coma. Venne trascinato da Morishige in sala TV, dove si accosciò su una poltrona. Il farmaco aggiuntivo gli aveva messo addosso una gran sonnolenza e poco dopo scivolò in una dolce bruma, cullato dal sottofondo dei suoni che provenivano dalla trasmissione in onda.

«Rukawa»

Una voce bassa e una mano lieve sull’avambraccio lo ridestarono dal suo stato di incoscienza. Aprì un occhio, individuando i lineamenti di Sawakita. Eppure lo aveva avvertito dei pericoli che avrebbe corso  nello svegliarlo.

«Scusami, ti stanno chiamando dalla reception. C’è tuo padre al telefono»

«Rispondi tu, no? Così potrai salutare il tuo grande idolo» replicò, scazzato ma completamente sveglio. Sawakita lo mandò a quel paese con un gesto, poi si allontanò.

Sospirando, Kaede si alzò e, con molta calma, andò a rispondere. Dopo una telefonata lampo e addirittura quattro parole pronunciate (Ciao, bene, si, notte) Rukawa poté finalmente andare a dormire.

 

 

 

Se speri di impressionare uno come Maki sei in anticipo di dieci anni!

Nobunaga Kiyota

Takehiko Inoue, Slam Dunk, capitolo 199, La notte prima dell’inizio.

 

 

 

Il venerdì mattina Rukawa incrociò Sakuragi sulla spiaggia e colse l’occasione di sfotterlo silenziosamente. Sapeva che la clinica di riabilitazione si trovava a Chiba, però non si sarebbe mai aspettato di incontrarlo. Vederlo provocò in lui un’ inaspettata sensazione, qualcosa di simile alla sensazione del rientro dopo una vacanza, quando appoggi le valige sul pavimento di casa tua e, nonostante la bellezza dell’esperienza vissuta, ti rendi conto che casa un po’ ti era mancata. L’abitudine era il motore della vita di Kaede, e trovarsi risucchiato in un contesto sconosciuto lo metteva in difficoltà. Per quanto fastidioso, il Do’hao era familiare, ormai parte di una quotidianità che lo facevano sentire al sicuro.

 

Su quella spiaggia Rukawa non ci tornò più. Le previsioni di Testa rapata si rivelarono esatte, le sessione di allenamento si erano fatte davvero dure e la stanchezza ebbe la meglio sull’orgoglio  della matricola dello Shohoku. Di base il piano d’allenamento somigliava a quello che conosceva, riscaldamento statico e dinamico, lavoro sui fondamentali, strategie di squadra, partitella e scarico finale. Nemmeno i singoli esercizi erano troppo diversi dal solito, ciò che differiva era la precisione pretesa dal coach e il livello di atletismo.

Ad ogni piè sospinto Kaneda si vantava di aver rielaborato la struttura dell’allenamento da un programma dell’UCLA, senza però rendersi conto che alcune delle sue scelta spingevano ad una competizione interna piuttosto elevata. Magari quei metodi potevano andar bene in California, lì complicavano una situazione già abbastanza tesa. Un paio di ragazzi facevano uso di un trash-talking talmente spinto da rasentare il fallo tecnico, e il fatto che il mister lasciasse correre su quegli insulti contribuiva a far dilagare i comportamenti scorretti. Se Kaede reggeva quella guerra psicologica sussurrata senza scomporsi minimamente, altri erano meno bravi ad ignorarli, primo su tutti Morishige, ormai evidentemente bersaglio di spiacevoli prese in giro anche al di fuori del campo. Durante le partitelle, immancabilmente il centro reagiva perdendo la calma e si lasciava sopraffare dal gioco sporco degli avversari, finendo col commettere un fallo dopo l’altro, fino all’espulsione. 

 

«Lo so che dovrei far finta di niente, però non ci riesco» disse quella sera Morishige, che aveva preso l’abitudine di trascorrere il dopo cena in camera delle due ali piccole.

«Dagli un pugno in faccia. Vedrai che dopo essersi ripresi dallo svenimento la smetteranno di prenderti per il culo» disse semplicemente Rukawa, rimanendo sdraiato a guardare il soffitto. Morishige ridacchiò, Sawakita no.

«Bel consiglio del cazzo. Così lo espelleranno dalla squadra» replicò in tono di rimprovero.

«Non voglio che mi buttino fuori!» biascicò il gigante sull’orlo del pianto.

«Basterà farlo sembrare un fallo accidentale» spiegò Rukawa col massimo della tranquillità. Trovava inconcepibile che quel bestione seduto sul letto di Sawakita preferisse venire a farsi consolare invece di difendersi sistemandoli con un cazzotone. Meditò di farsi raggiungere da Sakuragi per una dimostrazione pratica.

«Non ascoltarlo Morishige, passeresti un guaio» disse Sawakita, dandogli dei leggeri colpetti sulla spalla. Rukawa s’innervosì.

«Cosa dovrebbe fare secondo te, andare a piagnucolare dal coach? Finirebbe solo col peggiorare la situazione» ribatté animandosi tanto dal mettersi in posizione seduta.

«Potrebbe farlo presente al capitano»

«Tzk» fece il giocatore dello Shohoku, con aria di sufficienza, pensando a quel coglione di Moroboshi.

«Risolvere i problemi parlando con le persone è più efficace che picchiarle!»

«Ah si? Allora vai a dire al tuo gorilla tondo e al quell’altro bippatore di piantarla!» rispose Rukawa incrociando le braccia al petto. Sawakita sembrò sgonfiarsi improvvisamente, curvò un poco le spalle e lasciò andare le mani in grembo, poi spostò i suoi grandi occhi scuri su Rukawa, mordicchiandosi il labbro inferiore. Il senso di colpa rendeva il suo viso piacevolmente affascinante.

«Cos’è un bippatore?»

La domanda innocente di Morishige spezzò di netto la tensione silenziosa che si era venuta a creare. Con il corpo scossa da un attacco di lieve risarola il giocatore del Sannoh fece presente a Morishige la singolare abitudine di Fukatsu di aggiungere un bip alla fine di ogni frase.

«Singolare abitudine?» domandò retorico Rukawa alzando un sopracciglio «probabilmente è il  sintomo  di psicopatologia. Andrebbe fatto visitare» aggiunse e il sorriso di Sawakita si trasformò in una risata piena. Aveva un modo di ridere stranamente aggraziato e dolce, che, in una certa misura, rassomigliava a quello dei personaggi femminili dei cartoni animati Disney.

«Mh, ridi, ridi. Ne riparleremo quando vi avvelenerà tutti»

 

Nel corso della giornata di sabato le cose non parvero migliorare granché. Sotto la doccia Rukawa si ritrovò a pensare alla pacata autorevolezza di Anzai, provandone una certa nostalgia. Il loro Buddha avrebbe saputo stroncarle sul nascere quelle dinamiche velenose.

«Ehi Cosa, evita di rompere anche gli armadietti!»

Cosa era il nomignolo affibbiato a Morishige e la voce strafottente apparteneva a Tsuchiya del Daiei. In mattinata Morishige si era seduto malamente su una panca di legno dello spogliatoio, rompendola in due pezzi perfettamente identici. Dal suo cubicolo Rukawa sentì partire una serie sghignazzi e, nello stesso momento, il rumore di una tenda di plastica aprirsi di scatto.

«Maki ci sono io qui!»

«Lo so»

Evidentemente Maki aveva interrotto brutalmente la doccia del capitano.

«Moroboshi, devi fare qualcosa. Stanno esagerando»

Maki fu duro, quasi intimidatorio. Si sentì nuovamente la tendina muoversi, verosimilmente Moroboshi stava cercando di coprirsi i gioielli di famiglia.

«Uh andiamo! Qualche sfottò e un po’ di trash-talking aiutano a mantenere alta la tensione. Anche Larry Bird lo usa»

«Qui nessuno è Larry Bird. Poi il fatto che si utilizzi un certo tipo di linguaggio in NBA non autorizza automaticamente tutti noi ad usarlo. Dovresti intervenire» ripeté Maki.

«Che impari a difendersi» sbottò Moroboshi. La conversazione s’ interruppe e per un momento lo scorrere dell’acqua fu l’unico suono a riempire la stanza.

«Francamente Moroboshi, la tua poca risolutezza sembrerebbe premeditata. Dimmi che non ti stai vendicando perché lui ti ha spedito fuori dal campo in barella alle finali prefettorie»

«Certamente no!» ribatté là stella di Aichi, eccessivamente scandalizzato per essere sincero.

«Allora dimostramelo»

«Oh va bene, va bene» acconsentì infine Moroboshi «posso prima mettermi l’accappatoio o mi costringerai ad andare di là con l’uccello in bella vista?»

«Stai tranquillo, è talmente piccolo che nessuno lo noterà»

Rukawa sorrise al miscelatore della doccia e, coperta dallo scroscio dell’acqua in un altro box, riconobbe il suono di una morbida risata conosciuta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note sparse:

Il Sannoh. Allora, non mi è ben chiaro se sia il termine Kogyo a fare la differenza comunque, nella traduzione inglese è Sannoh Industry Affiliated High School ed è ispirato ad una vera scuola di Akita che è il Noshiro Industry Affiliated High School, il quale, secondo il caro vecchio Wiki, ha vinto il campionato nazionale studentesco di basket per 58 volte. E’ impreciso tradurlo letteralmente come istituto tecnico perché il sistema scolastico è diverso, ma passatemela. Riguardo all’architettura invece è pura invenzione, cioè a parte il grattacielo che esiste davvero. 

 

Sawakita. Nella mia testa è un pò uno sfigato finito in una scuola di fighetti. Mi ha sempre affascinato (e perplesso) il fatto che sia l’unico personaggio del manga con una storia genitoriale  definita. Lo dico perché su questa cosa ci lavorerò e perché suo padre è fantastico. 

 

In generale il fatto di scrivere di personaggi secondari mi sta entusiasmando, mi sembra di poter azzardare di più, siccome le caratteristiche dei singoli sono meno evidenti. Mi rendo conto che il “mio” Morishige è la versione liceale giapponese di Hagrid, è voluto, invece Kawata è uno stronzo banalmente perché mi è sempre stato antipatico. 

 

Giuro che certe cose buttate qua e là nel capitolo saranno chiarite più avanti :)

Alla prossima e grazie della lettura. 


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Capitolo 3
*** Hulk ***


Ben ritrovati e ritrovate! 

Sto lavorando un pò su tutte le storie, ma questa mi ha presa particolarmente. Semplicemente buona lettura. 

 

 

 

 

 

“Chiudete il becco deficienti! Mi fa male sul serio! Kawata, controllati!

Ahioo! Chemalechemalechemale!!!”

“Ha proprio le lacrime in tasca quello. Bip “

 

Eiji Sawakita e Kazunari Fukatsu 

Takehiko Inoue, Slam Dunk, capitolo 218, Anatomia dello Shohoku

 

La domenica Hiroshi Morishige decise di portarsi il bento in camera e pranzare da solo, lasciando Kaede Rukawa al solito tavolo vicino alla finestra. Una squadra di baseball universitaria particolarmente casinista era arrivata all’albergo in mattinata, le loro chiacchiere sguaiate rimbombavano fra le mura della mensa, rendendola un inferno. L’hotel sorgeva di fronte al centro sportivo della città, uno dei più grandi delle nazione, e in quel periodo la maggior parte della clientela era  composta da squadre in ritiro. 

«Disturbo se siedo qui?» 

Rukawa alzò gli occhi su Sawakita e fece spallucce. Il suo compagno di stanza interpretò il gesto come un sì e si sedette, cominciando a smangiucchiare svogliatamente il pasto. Ogni tanto lanciava occhiate cariche di biasimo agli altri due giocatori del Sannoh.

«Alla fine ho parlato con loro» esordì, di colpo, spostando la sguardo su Rukawa. 

«E ora, oltre a infastidire Morishige, infastidiscono anche te. Ottima mossa, imbecille» replicò freddo Rukawa, accortosi che gli atteggiamenti derisori, al limite della prepotenza, di Kawata e Fukatsu nei confronti del loro asso erano peggiorati.

Quella mattina, in palestra, si erano divertiti a sperimentare su di lui alcune leve del judo e Sawakita, a un certo punto, aveva battuto la testa. Anche se non lo diede a vedere doveva essersi fatto male, il parquet non era morbido quanto un tatami e, di contro, la sua testa rasata non era dura come quella di Sakuragi. Moroboshi era finalmente intervenuto, più preoccupato per le sorti delle partite in vista che per le condizioni di Sawakita.

«Smettetela o ci toccherà affrontare il Mei Dai con le riserve»

Rukawa aveva osservato la scena allibito dalla passività del suo rivale e commentato il tutto con un”deficiente” sdegnato. 

«Con me è un’altra faccenda» disse Sawakita, riportando Rukawa al momento presente «io ci sono abituato, mi prendono per il culo abbastanza spesso, credo che sia il loro modo per darmi la carica. Di solito però sono meno aggressivi, sensei Domoto sa mantenere il controllo, è severo quando serve, e loro abbassano la cresta. Qui ci sono equilibri diversi. Non mi è chiaro il motivo, ma si lasciano trascinare da Tsuchiya. Lui è veramente meschino» concluse facendo una smorfia, prima di portare alla bocca un pezzo di pollo. Il giocatore dello Shohoku, gomito piegato sul tavolo e testa appoggiata alla mano, aveva ascoltato quella stupida analisi di contesto con distaccato interesse. 

«Menali e falla finita» commentò.

Sawakita finì di masticare lentamente e inghiottì il boccone. 

«Rukawa, non sono il tipo che risolve le discussioni con le botte. Preferisco altri mezzi per difendermi e affrontare le prepotenze» 

«Si, e poi hai paura di Kawata»

«Certo che ho paura di Kawata! Ma dico lo hai visto?» 

«Quindi quale sarebbe il tuo metodo per affrontare le prepotenze, subirle?» 

«No, si tratta di offese, di solito le ignoro, dopo un pò si stancano, è noioso sfottere qualcuno che non s’incazza. Se le cose si complicano cerco il sostegno di altre persone che mi possano aiutare, anche adulti in casi estremi» spiegò Sawakita con una stolta semplicità che lasciò l’interlocutore allibito. 

«In una parola vai a piangere dai grandi come una femminuccia» ribatté Rukawa e testa rapata scrollò le spalle, guardandolo noncurante.

«E’ inutile provare ad offendermi dandomi della femminuccia. Credo che le ragazze siano di gran lunga più forti di noi maschi. La mia migliore amica, ad esempio, è decisamente più coraggiosa di molti cretini seduti in questa sala» 

«Di te sicuramente. Vigliacco» rispose Rukawa senza esitare. Aveva lasciato andare quel commento ingiusto senza crederci fino in fondo, tuttavia voleva verificare il tasso di tolleranza dell’idiota sedutogli di fronte. Nella scala di valori di Rukawa niente era peggio dell’essere tacciato di vigliaccheria. Sawakita finì il suo piatto e bevve un lungo sorso d’acqua.

«Sono prudente. Nella quotidianità non mi piace azzardare. Si, talvolta potrei essere definito vigliacco» ammise, lasciando la matricola definitivamente esterrefatta. Era disarmante.

«Forse ho fatto del basket la mia ragione di vita proprio perché da spazio all’istinto e mi costringere ad agire senza pensare troppo» disse Sawakita fra sé e sé. Fissò brevemente un punto imprecisato alla sua destra, poi tornò a guardare Rukawa, sorridendo. 

«O forse perché Testu Sawakita è un cazzo di fanatico che ha regalato un pallone regolamentare al figlio di otto mesi» buttò lì allegramente

«Senti, andiamo in giardino durante la pausa?» 

«Nh»

Sawakita inclinò la testa di lato, dopo una breve esitazione, confessò:

«Faccio ancora un po’ fatica a interpretare i tuoi “nh”. Questo sarebbe un si, un no o un vaffanculo?»

Rukawa cominciò a tamburellare le dita sul tavolo, chiedendosi se valesse la pena dargli una spiegazione oppure lasciarlo nell’ignoranza.

«Non è mai un vero si» rivelò infine «al massimo è traducibile in “posso adeguarmi”»

 

Quello era il “Nh” del “posso adeguarmi” e Rukawa si spostò in giardino insieme a Sawakita. Si sistemarono all’ombra di un grande albero, seduti su delle poltroncine di tela che, sebbene dovevano aver visto tempi migliori, riuscivano ancora a sostenere il loro peso. Altri avevano avuto la stessa idea, tanto che l’ampio giardino interno si era popolato di giovani sportivi. Tutti mantenevano un tono di voce moderato, sembravano intenzionati a non disturbare la quiete dei salici. Era strano, in quel luogo si aveva la sensazione che lo scorrere del tempo rallentasse.

Ad occhi chiusi, Kaede si stava godendo i raggi del sole che filtravano dalle fronde dell’albero , mosse da una lieve brezza di fine estate.

«Maki!» si sentì in lontananza.

«Moroboshi, t’ho già detto di no, basta rompermi le palle!» 

Il giocatore dello Shohoku socchiuse un occhio, individuando i due camminare proprio verso di loro. O meglio, Maki si stava avvicinando e Moroboshi gli stava alle costole. 

«Che strazio! E’ da ieri che bisticciano. Oh no stanno venendo qui» si lamentò Sawakita.

Rukawa aprì del tutto entrambi gli occhi nello stesso istante in cui Maki si sedette su una delle  altre poltroncine, a poco distanza da loro. Morosboshi rimase in piedi, evidentemente intenzionato a continuare fino a spuntarla sulla questione. 

«Forse è meglio se andiamo» disse il giocatore del Sannoh.

«No Sawakita, resta pure. Noi abbiamo finito» replicò Maki.

«Col cavolo che abbiamo finito!» 

Confuso dalle due informazioni opposte, Sawakita si congelò a metà strada, con le ginocchia piegate e il sedere di poco sollevato dalla seduta della poltrona. Rimase in quella stupida posizione finché Rukawa, sbuffando, lo strattonò ad un polso. Testa rapata perse il punto d’appoggio sui braccioli e ricadde sulla poltrona.

«Vuoi restare ad assistere?» mormorò Sawakita. Lo stupore aveva fatto inarcare le sue sopracciglia altrimenti dritte e definite.

«Si» 

«Pettegolo» 

Kaede avrebbe volentieri fatto a meno di ascoltare la discussione, che nel frattempo stava continuando sempre più accesa, però aveva notato un’ombra sul viso di Maki, un cipiglio incazzato che, secondo Rukawa, sarebbe stato meglio monitorare.

«Sei proprio uno stronzo. Piantarmi in asso in questo modo, all’ultimo momento!» 

«Qui nessuno ti sta piantando in asso all’ultimo momento. Sei tu che hai fatto lo gnorri per tutta la settimana. Ti ho spiegato subito che la cosa non m’interessava. Pare che dovrò spiegartelo di nuovo: sono già impegnato» 

«Uff…dai!» insistete Moroboshi allargando le braccia «quello che succede in ritiro, resta in ritiro» 

Maki alzò gli occhi al cielo, poi gettò la testa all’indietro, mimando uno svenimento da esasperazione. 

«In ritiro non succederà proprio un bell’accidente di niente! Dovrai cavartela da solo, Moroboshi, perché io con quelle lì non ci esco! Ora ti prego di darci un taglio, sto perdendo la pazienza» puntualizzò stizzito il capitano del Kainan. Era un’affermazione piuttosto forte, detta da uno che doveva vedersela quotidianamente con Nobunaga Kiyota. 

«Quindi neanche tu uscirai con le ragazze della reception?!?» domandò Sawakita, aprendo leggermente la bocca in un moto di sorpresa mentre Rukawa non riuscì a trattenersi dal passarsi una mano sulla faccia, allibito dalla stupidità del compagno di stanza. Effettivamente nemmeno lui era a conoscenza del fatto che Maki, come loro, avesse declinato l’invito, eppure chiedere delucidazioni in quel momento, oltre ad essere superfluo, poteva diventare pericoloso.

«Proprio così» confermò la stella di Aichi, incrociando le braccia al petto «e voi due che dite, ancora convinti di restare qui stasera?» domandò poi, concedendo loro un fugace sguardo distratto.

«Ehm...sì, convinto» rispose Sawakita, accompagnato da un silenzioso cenno di conferma da parte di Rukawa. 

Moroboshi sospirò. 

«Dio, sono circondato da un branco di finocchi» borbottò, pinzandosi la base del naso con l’indice e il pollice. Gli eventi della vita di Rukawa avevano rafforzato la sua naturale tendenza a prestare attenzione ai dettagli. Spesso i suoi silenzi erano sospinti dal bisogno interiore di osservare e sentire la realtà in modo preciso, quasi scientifico. Quasi sempre, il suo sguardo allenato sapeva scorgere cose che alla maggior parte delle persone sfuggivano, come il lievissimo tremore che mosse le dita di Maki alle parole di Moroboshi. 

«Invece di preoccuparti dei nostri gusti sessuali, dovresti concentrarti sulle tensioni che si sono venute a creare nel gruppo. Hai parlato con gli altri? O con Kaneda sensei?» domandò il capitano del Kainan, senza caricare la voce di nessuna emozione.

«Dopo lo farò»

«Lo hai detto anche ieri» replicò Maki mettendosi in piedi «sappi che se esiterai ancora lo farò io, la situazione a meno di tre giorni dalla partita è troppo precaria e tu non stai facendo abbastanza» 

«Ma sentitelo! Chi cavolo ti credi di essere Maki?» 

«Il vice capitano di questa squadra e uno che si sta preoccupando per te, cosa ti prende Moroboshi?»

«Fatti gli affari tuoi» 

Sawakita aveva cominciato a seguire la discussione muovendo la testa rasata da destra a sinistra, come lo spettatore di una partita di tennis dal risultato imprevedibile. 

«Se hai dei problemi che si riversano sul tuo atteggiamento in squadra, questi diventano automaticamente anche problemi miei!» sbottò il giocatore di Kanagawa, cedendo alla rabbia «non vuoi che mi faccia i cazzi tuoi? Benissimo, allora, devi lasciarli fuori dal campo e ricominciare a comportati come il capitano che sai essere, perché adesso sembri solo un vigliacco»

«Ohi, ohi. Mi sa che lui non la prenderà sportivamente come me» sussurrò Sawakita a Rukawa.

«Vediamo se invece tu sei abbastanza coraggioso, Maki. Prova a darmi di nuovo del vigliacco» 

«Vigliacco» 

In pochi secondi accaddero diverse cose, Moroboshi si avventò su Maki, Rukawa sbuffò, poi scattò sui provvisori compagni di squadra, contemporaneamente Sawakita compì gli stessi identici movimento, e i due diedero vita ad una fulminea coreografia perfettamente sincronizzata. Per quanto lesti, non riuscirono ad impedire al capitano e al suo vice di darsi un paio di cazzotti. Rukawa afferrò Maki da dietro, stritolandogli le braccia in una morsa decisa, sufficiente a fermalo. Sawakita invece s’interpose tra i due ragazzi arrabbiati e Rukawa, dall’alto della su esperienza in fatto si risse, visualizzò nella propria mente il pugno di Moroboshi schiantarsi sul malcapitato giocatore del Sannoh ancor prima che accadesse. 

Sawakita crollò a terra, fra le gambe di Maki.

 

Ovviamente ne venne fuori un gran trambusto. Quando il mister accorse, il preziosissimo numero uno del Giappone si era già rialzato da solo.

«È stato un incidente» disse ad un terrorizzato Kaneda. A parte il rosato abbozzo di un ematoma sulla mascella e uno sguardo frastornato, Sawakita sembrava illeso.

«Rukawa accompagnalo in infermeria»

«Posso andarci da solo!» sbottò, divincolandosi dall’allenatore, che lo stava sostenendo per i gomiti.

«Ovvio che puoi, però Rukawa ti accompagnerà. Voi due, con me» aggiunse rivolto ai due litiganti. Maki e Moroboshi, impietriti, si risvegliarono dallo shock e obbedirono senza emettere fiato.

Oh ma per piacere! pensò Rukawa sentendo il medico ipotizzare una radiografia alla mandibola di Sawakita. Era assolutamente convinto che tante attenzioni per un misero pugnetto fossero immeritate. Lo aveva accompagnato in infermeria, dove il medico lo aveva fatto sedere sul lettino, e, conclusa una serie di minuziosi controlli, venne decretato “un trauma contusivo di lieve entità”.

Insomma, un misero pugnetto.

«Fortunatamente non ti ha colpito sul naso o sulla bocca» commentò il medico «ora scusatemi ma devo andare a tranquillizzare Kaneda. Aspettatemi qui per favore» disse mollandoli lì. Rukawa guardava Sawakita premersi la borsa del ghiaccio sulla mascella, pensando all’assurdità della situazione. Quell’idiota stava bene, non aveva nemmeno emesso i suoi tipici piagnucoli da femminuccia.

«Ahi!» si lagnò Sawakita provando ad aprire e richiudere la bocca.

Senza un motivo ben preciso, Kaede si mosse, posizionandosi di fronte a lui.

«Mai mettersi in mezzo a due che si stanno picchiando se non si è capaci di fermare o schivare i colpi» disse serio.

«Potevi anche dirmelo prima!» borbottò, imbronciando le labbra «Ahi!»

La porta si aprì e il medico rientrò con in mano alcune confezioni di ghiaccio istantaneo e una pomata.

«Bene, puoi andare» disse consegnando al contuso tutto l’armamentario per la guarnigione «Rukawa, permetti due parole» aggiunse e il ragazzo annuì, cercando di ignorare lo sguardo incuriosito di Sawakita. Se lo avesse guardato così ancora un altro secondo si sarebbe ritrovato un nuovo livido sull’altra guancia, a far pendant con quello lasciatogli da Moroboshi.

«Come stai?» domandò il dottore, quando testa rapata uscì dalla stanza.

«Bene» rispose piatto.

«Hai più avuto mal di testa?»

«No»

«Ti stai riposando a sufficienza?»

«Si, posso andare?»

Rukawa odiava lo sguardo con cui il medico lo stava scrutando. Silenziosamente lo stava avvertendo della sua condizione di sorvegliato speciale. “Noi ti teniamo d’occhio” diceva senza parlare.

«Si puoi andare» concesse infine, e il giocatore si congedò velocemente. Il compagno di stanza lo stava aspettando appagato al muro della saletta antistante l’infermeria e Rukawa non si stupì più di tanto quando gli chiese:

«Tutto bene?»

«Nh»

«Ok, questo sicuramente era un vaffanculo»

Ottimo. Sawakita stava cominciando a capire.

 

Prima degli allenamenti pomeridiano furono sottoposti ad un terzo grado in quanto testimoni privilegiati del fattaccio. Le informazioni raccolte andarono a confluire in un cazziatone rivolto a tutta la squadra a tema rispetto reciproco. Kaede riteneva che fosse un po’ tardi per intervenire, però giudicare il metodo del mister non era suo compito, così come non sarebbe dovuto essere solo compito del capitano e vice capitano gestire la situazione, eppure era andata in quel modo. Passata il senso di mortificazione iniziale Maki e Moroboshi comunicavano fra loro con imbarazzata cordialità, mentre Sawakita era stato trattato con la cura di chi maneggia un cristallo, sinché lui stesso non si ribellò a quelle attenzioni esagerate. Nonostante l’atmosfera fosse un po’ forzata, filò tutto liscio. A beneficiare maggiormente di quello stato di quiete fu il gioco di Morishige, più pulito ed efficace. 

«Oggi è andata proprio meglio» disse allegro alle due ali piccole dopo cena, mentre attraversavano la hall, diretti agli ascensori «quando il mister ha urlato non è stato bello, però è servito a tranquillizzare gli animi, quindi…»  

«Visto? Una bella rissa risolve tutto» disse semplicemente Rukawa, camminando distratto con le mani nelle tasche. Sawakita lo guardò scandalizzato.

«Si, ma il cazzotto me lo sono beccato io!» fece presente indicandosi il livido «mercoledì dovrò andare in campo chiazzato di viola!» 

«Mai detto che sarebbe stato indolore» puntualizzò Rukawa compassato. Sawakita borbottò qualche improperio, bellamente ignorato, e si fermò ai telefoni del corridoio.

«Faccio una telefonata e arrivo»

«Nh» 

Kaede buttò l’occhio sulla file di cabine, tre in tutto. Quella centrale era occupata Maki, che sorrideva ebete nella cornetta grigia. Appena si accorse di essere osservato, il playmaker si girò di scatto, dandole le spalle al corridoio. Chiunque fosse il “suo impegno” sapeva metterlo di buon umore.


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Capitolo 4
*** Il numero uno del Giappone ***


Mi sono resa conto che i miei tempi di aggiornamento coincidono più o meno con i tempi di uscita delle stagioni di Stranger Things. Forse quando Undi avrà sessant’anni riuscirò a finire una storia.
Ho paura di aver scritto questo capitolo solo per me, ma vorrei tanto che qualcun* (semmai  arriverà fino alla fine) possa ritrovarvi un pò di sé stess*
Buona lettura.

Retsuko 

 

…Eiji ha combattuto a lungo contro la noia.
Tetshuaro Sawakita
Takehiko Inoue, Slam Dunk, capitolo 255 Sawakita

Eiji Sawakita era cresciuto in una casa bellissima fra foreste e risaie. Il legno la rendeva un luogo caldo, accogliente e il campo da basket in giardino poteva definirsi semplicemente wow. Il primo agglomerato urbano degno di questo nome distava dieci chilometri, un delizioso villaggio ai piedi delle montagne, rinomato per le sue terme e popolato principalmente da anziani. I pochi bambini delle zone limitrofe frequentavano la scuola elementare in quel paese. La scuola era un piccolo edificio circondato da un giardino curato dagli alunni e le alunne sotto la supervisione della maestra Aoki. Quando Eiji cominciò le elementari l’insegnante era già avanti negli anni, ma il suo spirito era rimasto quello fresco e curioso di una ragazzina. Era una maestra fantastica, autorevole ma non autoritaria, accogliente eppure mai iperprotettiva e dopo anni di esperienza aveva trovato il metodo di insegnare divertendo la classe, senza mai cadere nella frivolezza. I bambini e le bambine adoravano Aoki. La compagna preferita di Eiji era Sumiko, una bambina schietta e sveglia con la lingua pungente e il caschetto corto. In seconda elementare si giurarono eterna amicizia. Lui voleva così bene a Sumi-chan  che se lei gli avesse chiesto di lasciare il basket, lui l’avrebbe fatto senza obbiettare. 

Eiji Sawakita era cresciuto in mondo che sapeva di aria pura e libertà. Un mondo dove d’estate si andava al lago in campeggio e d’inverno ci si radunava davanti al camino ad ascoltare mamma che leggeva un libro o un vecchio vinile. Eiji era un bambino allegro dagli occhi grandi. Trascorreva la maggior parte del tempo da solo con il suo ruvido pallone arancione, eppure sapeva apprezzare anche la compagnia dei coetanei, gli piaceva conoscere persone nuove. Tetsu e Aimi gli avevano insegnato che la vita è relazione con l’altro. Gli avevo detto che poteva esprimere le proprie emozioni e i propri pensieri, senza però giudicare ed offendere la diversità. «Ogni persona ha una storia che non conosci» diceva spesso mamma «quindi sii gentile, sempre»

Eiji Sawakita si rese conto che qualcosa non tornava in quinta elementare. Quell’anno Aoki andò in pensione e venne sostituita da un giovane insegnante alla sua prima esperienza. Il nuovo maestro era un appassionato di calcio, sport in cui il piccolo Eiji si dimostrò una schiappa totale. In occasione della giornata nazionale dello sport, la sua classe partecipò ad un piccolo torneo di calcetto a squadre miste che si svolgeva ad Akita. Durante una delle partite, si scontrò con un’avversaria. Involontariamente finirono per darsi una testata ed entrambi si accasciarono a terra, prima di scoppiare a piangere entrambi. Lei venne consolato, lui sgridato.
Per Eiji fu uno shock. 

 

«Smetti di piangere» 
«Ma fa male» si lamentò Eiji tra i singhiozzi. L’insegnante gli scoccò un’occhiata severa prima di premergli una borsa del ghiaccio sulla fronte.

«Resisti al dolore. I ragazzi non piangono»
Eiji ricacciò indietro le lacrime e tirò su col naso, finendo per ingoiare il suo stesso moccio. Seduto sulla panchina, piegò la testa all’insù alla ricerca dello sguardo del maestro. Non era un’impresa facile con quell’impacco gelato che gli ostacolava la visuale. Alla fine fu l’insegnante ad accovacciarsi per guardarlo in faccia. Gli occhi liquidi del ragazzino incontrarono quelli duri dell’adulto. 
«Solo i bambini piangono, Sawakita. Gli uomini non piangono e tu diventerai un uomo prima di quanto tu creda»
Era una cosa che non sapeva, peggio, del tutto contraria a ciò che aveva imparato. Lui aveva visto Tetsu piangere qualche volta e mamma diceva che il pianto è espressione di umanità, che piangere è una reazione normale. Anche la maestra Aoki non si era mai arrabbiata se lui piangeva, al massimo, quando Eiji scoppiava in lacrime per delle banalità, lei gli spiegava pazientemente il perché la sua fosse una reazione eccessiva. In quell’occasione, invece, il motivo gli era oscuro.
«Perché gli uomini non piangono?»
«È così e basta. Ora torna in campo»
I ragazzi non piangono.

Poi arrivarono le scuole medie. Si abbatterono su Eiji come una scure che trancia di netto un misero ramo secco. Nella vita di Eiji le medie erano state lo spartiacque fra un prima e un dopo. Nonostante rimanesse uno dalla lacrima facile, era riuscito ad interiorizzare la lezione “i ragazzi non piangono”, anche grazie al gentile contributo dei compagni che si erano impegnati a canzonarlo, sbattendogli in faccia quanto sia  vergognoso per un maschio piangere in pubblico. In maniera incredibilmente pragmatica per un ragazzo della sua età, Eiji aveva preso a guardarsi intorno con l’obiettivo di sviluppare una sorta di ricettario dell’essere maschio basato sulle emozioni socialmente accettabili. La rabbia era ok e tutto sommato anche la gioia veniva tollerata, mentre la tristezza solo in determinate occasioni, giustificata da motivi specifici e consentita solo se espressa in un certo modo, un modo che ovviamente non prevedeva il pianto. Ad esempio a lui era concesso mostrarsi triste dopo aver perso una partita, ma entro certi limiti, altrimenti sarebbe sembrato un debole e la debolezza provocava il disgusto. La paura era totalmente inaccettabile. Quella era un vero e proprio tabù, un’emozione da tenere nascosta ad ogni costo.
Un giorno, all’inizio della seconda media, un gruppetto di compagni di classe avevano portato a scuola un’asse di legno abbastanza lungo da poter essere appoggiato ai cornicioni di due edifici adiacenti, distanti l’uno dall’altro circa un metro e mezzo. Intenzionati a cominciare un pericoloso esercizio di equilibrismo, si erano sfidati vicendevolmente a camminarci sopra.

Eiji sbirciò il vuoto oltre il bordo del cornicione. 
«Andate a quel paese. Io mi rifiuto.»

«Palle mosce, palle mosce, palle mosce!»
Ignorando il coro derisorio dei quattro compagni di classe, Eiji girò i tacchi, diretto verso la porta che conduceva alla scale. Se ne fregava degli insulti, niente lo avrebbe convinto a fare una cazzata del genere. Soffriva terribilmente di vertigini, inoltre perdere la vita così giovane non rientrava esattamente fra i suoi propositi. Probabilmente sarebbe stato meglio se nessuno di loro tentasse l’impresa, forse avrebbe dovuto avvertire gli insegnanti e avrebbe dovuto farlo in fretta… Pochi secondi dopo la porta venne spalancata con violenza. Tre insegnanti, ansanti e terrorizzati, piombarono su di loro. 

«Eiji, torna immediatamente qui!»
Il ragazzo salì le scale di corsa e si rifugiò in camera sua. Tetsu poteva benissimo continuare a sbraitare sino a perdere la voce, ma lui non si sarebbe scusato proprio con nessuno. Il preside aveva intenzione di sospenderli tutti? Tanto meglio, qualche giorno lontano da quella scuola di merda gli avrebbe fatto solo bene. Informato dell’accaduto suo padre si era incazzato come una belva ed Eiji aveva reagito allo stesso modo. Per la prima volta in vita sua provò una rabbia viscerale, totalizzante e insopportabile nei confronti dei suoi genitori. Era solo colpa loro se si era trovato in quella situazione assurda. Lo avevano cresciuto nel bel mezzo del fottuto niente per poi lasciarlo da solo ad esplorare il resto del mondo con una preparazione totalmente inadeguata. Era stato preso in giro proprio dalle persone che dicevano di amarlo, gli avevano insegnato ad esprimere le sue emozioni quando invece avrebbero dovuto educarlo a contenerle. Maledetti loro e la loro educazione da hippie. Perché gli avevano detto solo bugie? Perché non gli avevano insegnato che i ragazzi non devono avere paura?

Alle scuole medie Eiji dovette combattere a lungo contro la noia. Provava quel malessere interiore sia durante gli allenamenti del club sia durante le ore di lezione. Nonostante tutta la sua buona volontà trovava noioso stare con i compagni, facevano cose stupide, parlavano sempre degli stessi argomenti e ridevano per delle battute imbecilli che Eiji squallide Schiacciato dalla malinconia per la mancanza di Sumiko, iscritta dai genitori in un’altra scuola, aveva infine deciso di rinunciare ad andare d’accordo coi maschi: preferiva di gran lunga la compagnia femminile. Disgraziatamente anche quella scelta divenne motivo di sfottò, ma Eiji, giunto alla fine del secondo anno, ormai sapeva ignorare gli atteggiamenti di scherno nei suoi confronti, allora venne definitivamente etichettato come quello strambo e finalmente fu lasciato in pace. Del resto che Sawakita fosse un pò strano era risaputo sin dall’inizio, lo dicevano persino i compagni di squadra. Su di lui giravano alcune storielle buffe, la maggior parte erano falsità accuratamente sparse nei corridoi da alcuni compagni di squadra invidiosi e umiliati.
L’episodio della doccia, però era veritiero.
Risaliva al primo anno di scuola media, quando gli allenamenti del club erano cominciati da una decina di giorni. Per Eiji si trattava della prima esperienza all’interno di una squadra, una squadra che già gli era ostile a causa della sua schiacciante superiorità su ognuno dei giocatori. Un pomeriggio, mentre si asciugava dopo essersi lavato, adocchiò casualmente un ragazzo più grande. Eiji se l’era trovato davanti completamente nudo e non aveva potuto far a meno di notare le dimensioni abbondanti del pene altrui. Nello sguardo di Eiji c’era solo la curiosità del confronto, nessuna malizia o doppio senso. Il proprietario di quel grosso arnese, però, aveva mal interpretato e aveva reagito malamente: «Che cazzo hai da guardare, frocetto?» Eiji aveva abbassato silenziosamente lo sguardo, inorridito dall’uso di quella parola. 

 

«La vuoi smettere?!?» domandò Eiji piuttosto seccato. Raccontare a Sumiko l’episodio della doccia era stato un grande, grandissimo errore. Eiji cercava da lei spiegazioni, ma finora l’unica cosa che era riuscito ad ottenuto era un attacco di ridarella isterica. Proprio quando era sul punto di rompere il loro patto di eterna amicizia, Sumiko finalmente riuscì a darsi un contegno. 
«Non devi fissare il pene degli altri ragazzi, Eiji» gli spiegò pazientemente. 

«Non lo stavo fissando! Era lì e mi è sfuggito lo sguardo. Ho solo notato la differenza fra i nostri così, tutto qui»
Eiji conosceva il senso del pudore e non voleva passare per il guardone di turno.
«È uguale» lo liquidò Sumiko in fretta. Pensieroso, Eiji la osservò prendere il pallone e mettersi in posizione per tentare un tiro dalla linea dei liberi.
«Scusa, tu e la tua amica Kaori state sempre a confrontarvi la crescita del seno. Ve lo siete pure toccato una volta. Eravamo al lago, vi ho visto» insistette lui. 
«Oddio, hai provato a toccarlo?!?» domandò lei ad occhi sgranati. Per lo stupore la palla le sfuggì dalle mani.
«No, certo che no!» ribatté Eiji, scandalizzato.
«Senti, le ragazze in privato possono guardarsi i seni a vicenda, i ragazzi non possono guardarsi il pene.»
«Perché per i maschi è diverso?»
«E che ne so! Non c’è un motivo, è così e basta» aveva concluso Sumiko scollando le spalle. Di nuovo qualcosa che gli era vietata solo perché maschio. Non che Eiji volesse mettersi ad esaminare tutti i peni che gli fossero capitati sottocchio in futuro, piuttosto sentiva il bisogno di comprendere i motivi alla base di certe differenze fra ragazzi e ragazze, ma nessuno era capace di dargli una risposta, inoltre gli sembrava di essere l’unico interessato alla faccenda. Forse avevano ragione su di lui; era un tizio strano che faceva un sacco di domande strane su questioni semplici. Sumiko aveva intuito la sua confusione e gli aveva dato qualche pacca d’incoraggiamento sulla spalla.
«Eiji, quando tuo padre usa quei paroloni complicati sul genere e gli stereotipi parla più o meno questo» 
«Lui la fa sembrare una roba semplice, ma in realtà è un gran casino» 
«Altroché» annuì Sumiko con aria solenne. 
«Ehi, voi due!» li richiamò Aimi affacciandosi sul porticato «è pronta la cena.»
«Arriviamo, mamma.» 
Eiji sospirò e non fece mai più domande sull’argomento. 

Una settimana dopo Eiji si ritrovò sdraiato a terra a guardare il cielo. Non sentiva nemmeno più il dolore delle botte, soltanto una gran voglia di restarsene lì ad ammirare quel pezzo di azzurro.
«D’ora in avanti stai attento a come parli, moccioso. Capito?!» 

«Eh eh, guardate, sta piangendo, il frocetto!!» 
Spostò gli occhi pesti e pieni di lacrime sui senpai che lo circondavano. 
«Coraggio, rispondi! Oppure vuoi prenderne ancora?!?» 
Si sentiva così stanco…
«Voialtri, siete proprio una noia» 

Oltre a dover fare i conti con una realtà deludente e avversa, Eiji in quel periodo era piuttosto preso dalle sensazioni legate agli improvvisi cambiamenti del suo corpo. Il ricordo della sua prima erezione era legata ad una domenica d’estate, calda e appiccicosa. A undici anni compiuti era stato preallertato dell’imminente arrivo della pubertà, ma né le parole pazienti di sua madre, né le fredde spiegazioni di anatomia nell’ora di scienze, lo avevano preparato davvero ad affrontare quel momento. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, Eiji aveva preso sempre più confidenza con il suo nuovo corpo e in qualche modo, attraverso una misteriosa crescita parallela, era perfino riuscito a scendere a patti con tutti i suoi perché. Alla fine delle scuole medie si era sentito miracolosamente vicino ad un equilibrio. 

Cominciare le superiori fu come riprendere a respirare dopo minuti di apnea forzata. Grazie alla squadra Eiji ritrovò l’entusiasmo del gioco e ritrovò la serenità nella presenza di Sumiko, ammessa al Sannoh con una borsa di studio per merito scolastico. Essere la stella nascente della squadra di basket gli aveva conferito un’indiscussa popolarità ed Eiji, che si era sempre ritenuto una persona socievole, aveva trovato quella novità tutto sommato positiva. 

«E’ la tua ragazza?»
Eiji alzò lo sguardo dal proprio pranzo e lo puntò sul viso di Nobe. Aveva lineamenti così duri che sembravano tagliati con l’accetta. 

«Chi?» domandò perplesso.
«Quella di 1^B con cui vai a casa tutti i pomeriggi» rispose Nobe con un sorrisetto complice. 
«Oh ti riferisci a Sumiko. No, non è la mia ragazza, siamo solo amici, ci conosciamo praticamente  da una vita» spiegò Eiji.
D’istinto si guardò intorno alla ricerca dell’amica, ma di fatto sarebbe stato impossibile individuarla nella folla. Il caldo afoso di fine estate aveva finalmente lasciato spazio ad un mite sole d’autunno e gli studenti si erano riversati in massa nel giardino per la pausa pranzo. Lui e Nobe erano riusciti ad accaparrarsi un bel posticino all’ombra di un salice, su un fazzoletto d’erba ai margini del piazzale centrale. Nel via vai di persona un gruppetto di ragazze ciarliere si fermò proprio davanti a loro. Dopo una serie di gomitate vicendevoli e risatine imbarazzate, una di loro si fece avanti con audacia. 

«Ciao, Sawakita» disse decisa, fissandolo dritto in viso. Lui ricambiò il saluto sorridendo educato, poi riprese tranquillamente a mangiare, mentre un allibito Nobe guardava quella ragazza dai lunghi capelli lucidi rientrare fra i ranghi delle amiche.
«E quella chi è?» domandò appena il gruppetto ridacchiante si fu allontanato abbastanza. 
«Boh» fece Eiji alzando distrattamente le spalle. 
«Certo che sei proprio strano tu» 
«Sai che novità»

Il fatto che Sawakita non approfittasse della sua notorietà per uscire con le ragazze divenne motivo di stupore fra i suoi coetanei e lo stupore si concretizzò sotto forma di un chiacchiericcio più o meno sussurrato. Eiji era abbastanza temprato da ignorare quei pettegolezzi e sopratutto, a contare davvero era solo il basket.

Il giorno in cui il mister aveva annunciato che durante le vacanze primaverili la squadra sarebbe partita per un ritiro negli Stati Uniti, Eiji aveva seriamente temuto di pisciarsi sotto dall’emozione. L’ultimo giorno di scuola, Tetsu lo aveva portato fuori per festeggiare l’evento imminente. Il ristorante cinese in cui stavano cenando era famoso in tutta la zona per l’ottima cucina a prezzi modici. Si trovava a Noshiro, ad una decina di minuti a piedi dal Sannoh, e occupava il pianterreno di un fabbricato cadente che risaliva almeno ad una quarantina di anni prima. Subito accanto all'entrata c'era la cassa, vecchia e polverosa; poi spiccava un paravento molto sgargiante; e alle pareti erano appese varie fotografie paesaggistiche sbiadite dalla luce. I pochi tavoli in legno del piccolo locale erano spartani e il colore originale delle pavimento era indefinibile. Mentre la cameriera portava via i piatti degli antipasti Tetsu sospirò sonoramente e disse:
«Fra poco compirai sedici anni, Eiji» 

Ohi, ohi. Niente di buono in vista. Quando Tetsu esordiva in quel modo, puntualizzando la sua età,  Eiji finiva sempre invischiato in una di quelle assurde conversazioni padre-figlio.
«Sei un adolescente adesso. Come è giusto che sia sentirai il bisogno di avere momenti e spazi tutti tuoi per costruire la tua individualità o per restare in intimità con un’altra persona. Capisci cosa intendo?»
Accidenti, era peggio di quanto pensasse.
«Se stai cercando di farmi il discorsetto sulle api e i fiori, sappi che sei arrivato in ritardo» 
Suo padre scrollò la testa.
«Non esattamente come lo intendi tu, Eiji. Io e mamma vorremo che tu possa sperimentare la tua sessualità in maniera serena, con tutti gli strumenti adeguati»
Eiji uggiulò come un cane trascinato dal veterinario.
«E io vorrei tanto che mi aveste insegnato a credere in un qualsiasi Dio solo per poterlo pregare di uccidermi all’istante» borbottò a bassa voce, sentendosi arrossire. Si guardò intorno, quasi alla ricerca di aiuto. Quella sera, a parte loro due, c’erano una coppia sulla cinquantina alquanto taciturna, tre uomini in tuta da lavoro che gustavano rumorosamente un piatto di râmen e un'allegra famiglia con una bambina di quattro o cinque anni. Forse avrebbe potuto farsi adottare da quelli là.
«Per favore, papà, siamo in pubblico» lo supplicò, lamentoso. Tetsu agitò una mano con noncuranza.
«Nessuno ascolta le conversazioni altrui al ristorante»
«Senti, conosco anche il resto; ok? Usare sempre il preservativo, prestare attenzione al partner,  accertarsi del consenso, eccetera, eccetera» disse spiccio, sperando che bastasse a chiudere la questione, invece Tetsu tornò alla carica e sembrava più agguerrito di prima.«Ascolta» disse appoggiando i palmi sul tavolo per sporgersi un poco verso Eiji «mi rendo conto di quanto questo confronto possa metterti in imbarazzo…»
«Oooh io non credo proprio, invece» intervenne lui. 
«…però è importante parlarne, con delicatezza, ma senza liquidare l’argomento» continuò imperterrito «perché vedi, Eiji, per quanto tu possa essere informato, sei inesperto. In quei momenti è facile cedere a compromessi, le emozioni confondono e si possono commettere imprudenze senza pensare alle possibile conseguenze» 
«Papà, il sesso non m’interessa.»

Tetsu aveva creduto che il figlio gli stesse confessando di non avere una relazione, cosicché gli aveva sorriso indulgente e si era lanciato in un epico pippone sull’importanza della sfera affettiva nel sesso. Eiji lo aveva lasciato andare a briglia sciolta, ben intenzionato ad evitare di chiarire l’equivoco.
Il sesso non m’interessa.
Con quelle parole lapidarie, affiorate d’improvviso alla coscienza, Eiji non voleva sottintendere proprio nulla. Le ragazze, l’attrazione, il sesso, tutte quelle cose che riempivano una buona fetta delle conversazioni dei suoi compagni, lo lasciavano indifferente. Gradualmente imparava nuovi kanji, si approccia a calcoli sempre più complicati, ma quel compito di crescita, che agli altri sembrava venire così facile, lui non riusciva proprio a superarlo. Non sapeva nemmeno da dove cominciare. La sua testa si riempì di nuovo di domande che gli inceppavano il cervello, cosa avrebbe dovuto provare? Come si sarebbe dovuto comportare? A che pensavano gli altri ragazzi mentre si masturbavano? Eiji dedicava quel momento solo a se stesso. Scivolava in una bruma leggera e soddisfava i suoi desideri senza immaginare nulla. Ad un certo punto aveva pure rimuginato sulla possibilità di farsi prestare da Kawata uno dei suoi numerosi manga hentai, poi aveva desistito. Gli era già capitato di sfogliarne qualcuno durante un ritiro, i ragazzi si divertivano un mondo a portarseli dietro di nascosto per guardarli tutti insieme la sera. Eiji aveva finto che anche lui piacessero da morire, ma in realtà quelli disegni così espliciti lo ripugnavano. Tutti intorno a lui si muovevano in quella direzione, persino Sumiko aveva cominciato ad uscire con un ragazzo. Eiji aveva la sensazione di essere rimasto indietro. Ormai era impossibile ignorare l’anomalia della sua condizione, senz’altro c’era qualcosa di sbagliato in lui. Il fragile equilibrio raggiunto si era spezzato. 

Trovò casualmente Sumiko in un’aula vuota del terzo piano, seduta ad un banco ingombro di libri e appunti. Anche i banchi intorno a lei erano ricoperti di fogli zeppi di schemi e mappe concettuali tutte colorate. Ad ogni colore era associato un significato preciso, in un’ordine maniacale. Eiji si avvicinò all’amica, che seguitava a a sfogliare convulsamente il manuale di scienze. 
«Puoi interrogarmi?» chiese allungandogli impaziente il libro. Eiji lo prese solo per chiuderlo e metterlo da parte.

«Basta così, Sumi-chan. E’ inutile ripassare a questo punto, gli esami cominciano domani» 
Nonostante gli occhi rossi e il viso stravolto dalla stanchezza, Sumiko tentò un ultimo assalto.
«Per favore, Eiji, fatico a memorizzare le combinazione delle basi azotate del DNA» 
«Non è vero, le sai» la rassicurò sorridendole «comunque; Apple in the Tree, Car in the Garage. Adenina con Timina, Citosina con Guanina. E’ tardi, andiamo a casa.» 
S’incamminarono verso la stazione sotto una cappa di calore asfissiante. Il temporale abbattutosi sulla città nelle prime ore del pomeriggio si era lasciato dietro un’umidità insopportabile. Eiji sentiva la camicia aderire alla schiena bagnata di sudore e una gran bisogno di sfogare le sue preoccupazioni con Sumiko, ma ormai non parlavano più come prima. Lo studio e la disciplina quasi militaresca imposti alla squadra gli avevano riempito la vita come mai prima. Per Eiji quei ritmi estenuanti erano stati una benedizione perché non gli concedevano il tempo di soffermarsi sui suoi pensieri confusi, da l’altra parte l’amicizia con Sumiko ne aveva risentito tanto. Lei faceva parte di ogni genere di club e dedicava i week end al suo ragazzo, un tizio di un’altra scuola conosciuto alle olimpiadi di matematica. A malapena riuscivano a ritagliarsi qualche minuto durante l’intervallo. Eiji la sbirciò di sottecchi, Sumiko era assorta, probabilmente ancora impegnata a ripassare mentalmente. 
Attraversato l’incrocio davanti alla scuola, lei gli tirò piano una manica. 
«Vieni, tagliamo per il parco» 
Una volta lì, invece di seguire il sentiero coperto di ghiaia che attraversava il parco, sbucando proprio davanti alla stazione, svoltò a destra, verso l’area giochi. Salì su uno scivolo e si sedette sulla piattaforma, dando le spalle alla discesa, poi fece cenno ad Eiji di avvicinarsi. Lui mollò la cartella per terra e si piazzò alla base delle scale. La metà sinistra del viso di Sumiko era illuminata dalla luce del tramonto, mentre la destra era immersa nella penombra. 
«Ultimamente ci siamo un pò allontanati l’uno dall’altra, non è vero?» domandò di punto in bianco, piegando un poco la testa di lato. Eiji inghiottì lentamente la saliva e annuì. D’improvviso si sentì tremendamente in colpa. Fissò il piccolo naso ricoperto di lentiggini di Sumiko e disse a bassa voce: «Mi dispiace»
«A me no» 
Incapace di aprir bocca, stupefatto, Eiji si limitò a guardare l’amica chinare il capo. 
«Mi ha aiutata ad abituarmi all’idea che da settembre sarai ad un oceano di distanza» mormorò con lo sguardo fisso sulle sue ginocchia «vorrei poter dire di essermela cavata bene…» poi le venne meno la voce. Eiji esitò qualche istante prima di prendere le mani di Sumiko fra le sue. Rimasero così, mani nelle mani, a lungo, senza dire niente. Nel parco regnava una quiete incredibile, tanto da far dubitare che lì intorno potessero esistere edifici e strade brulicanti di persone. Ad Eiji quasi dispiacque rompere quel silenzio miracoloso.
«Mi mancherai molto anche tu, Sumiko, ma ricordati che c’è un voto di eterna amicizia fra noi e nemmeno il Pacifico può rompere un patto fatto con lo sputo a sette anni. Quindi ti toccherà sopportarmi per tutta la vita» disse abbozzando un vago sorriso. Al che Sumiko rialzò lo sguardo, trasse un profondo sospiro e ricambiò il sorriso.
«Prometti solo una cosa, Eiji» disse, stranamente solenne.
«Cosa?»
«Promettimi che non fisserai il pisello degli altri ragazzi»

Con gli esami alle spalle le giornate cominciarono a scorrere più velocemente. Poco prima dei campionati nazionali Eiji e Sumiko si presero una serata solo per loro, conclusasi a vomitare vodka scadente nel giardino di casa Sawakita. Nemmeno da sbronzo era riuscito a condividere con Sumiko le sue preoccupazioni. Tuttavia il loro dialogo nel parco era servito a scuoterlo; Eiji si era rientrato su sé stesso e sui suoi obiettivi. Gli Stati Uniti. Eiji sapeva che l’America sarebbe stata tutt’altro che un sogno, era conscio degli immensi ostacoli che lo aspettavano, delle fatiche che avrebbe dovuto affrontare, eppure nel suo cuore non nutriva alcun dubbio. Aveva fatto del basket la sua ragione di vita ed era solo quello a contare davvero, tutto il resto poteva essere messo da parte. 

Poi c’erano stati i campionati, la sconfitta e infine Kaede Rukawa.

 

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