Calm, still waters

di Ink_
(/viewuser.php?uid=374977)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***



Capitolo 1
*** I. ***



I.

“I mostri sono reali e anche i fantasmi sono reali.
Vivono dentro di noi e, a volte, vincono.”
Stephen King
 
 
 
Lucinda Dhale sedeva sull'erba, la schiena sostenuta dal tronco dell'albero su cui Toby era appollaiato ormai da diversi minuti, mentre al suo fianco due giovani stagiste chiacchieravano allegramente. Come lei, Toby osservava dall'alto il pigro trascinarsi degli altri pazienti per il cortile della clinica. Vagavano alla cieca come falene attratte dalla luce, a volte si bloccavano a metà di un passo con lo sguardo perso nel nulla, rapiti da chissà quale epifania. Immobili e avvolti dal paesaggio autunnale, inconsapevoli protagonisti di un quadro impressionista.
 
Il vecchio vedovo Rogers sedeva sulla sua sedia a rotelle poco distante da loro, vicino alla siepe perfettamente curata e quasi appassita di rose canine.
 
Lucinda soffocò una risata e le ragazze si voltarono a guardarla «Che c’è da ridere  Lucy?» le chiese Brooke sfoggiando un sorriso complice.
 
Brooke era un tipo socievole e sbarazzino, avvezza ai pettegolezzi e alle frivolezze, mentre Holly, l’altra ragazza, era più riservata e pacata. Se vedeva qualcuno in difficoltà si precipitava in suo soccorso, animata dalla scintilla di chi è stato posto su questa Terra con l’unico scopo di aiutare gli altri. Lucinda aveva subito preso in simpatia le due specializzande (le ricordavano molto le sue defunte nipotine) e il sentimento doveva essere reciproco poiché le ragazze passavano molto tempo in sua compagnia.
 
«Avanti Signora Dhale, ci racconti cosa la fa sorridere» disse gentilmente Holly. Al contrario di Brooke, lei non era una gran cacciatrice di scoop, ma se nessuno dava di matto la vita alla clinica poteva essere piuttosto monotona perciò Lucinda non poteva biasimare la sua curiosità.
 
«Rido, mie care ragazze, perché la gente in questo posto non cambia mai» sospirò «È come se avesse una palla al piede, ma invece che portarla alla caviglia se la tengono tra le braccia, e di loro spontanea volontà per giunta! Come possono cambiare? Come possono guarire?» scosse il capo divertita. Holly si stava mordicchiando il labbro, segno che stava riflettendo: «È una cosa a cui penso spesso» mormorò.
 
«Io temo di non aver ben capito, invece» disse Brooke spostando lo sguardo tra la compagna e l’anziana signora.
 
Se c’era una cosa che Lucinda stessa non aveva ancora compreso era che cosa ci facesse quella ragazza in una clinica psichiatrica. Quello non era decisamente il posto adatto a lei.
 
«Vedete quell’uomo, care?» ed indicò Timothy Rogers ed il groviglio di spine dove poche rose pallide resistevano ancora. Brooke ed Holly si trovavano lì da qualche settimana e ancora stavano imparando i nomi e le tragiche storie dei pazienti, insieme alle dosi di farmaci e a chi fosse permesso o meno di maneggiare posate di plastica.
 
«Quello è il caro Signor Rogers, la moglie si chiamava Rose, ora chiedo, cogliete l’ironia della cosa? Riuscite a vedere la palla al piede che si porta appreso?» Le ragazze annuirono. «Tiene una fotografia sul comodino, è la moglie la donna ritratta?».
 
«Esatto, mia cara»
 
 Il signor Rogers era uno dei pochi pazienti ad avere il permesso di tenere con sé una foto in una cornice di vetro, nonché uno dei pochi a condividere la stanza quando tutti gli altri avevano camere singole. Ma questo poteva essere dovuto al fatto che il signor Bright era in stato catatonico da decenni ormai e come Timothy non era un tipo particolarmente loquace, ragion per cui qualcuno dello staff doveva aver pensato che nessuno dei due pazienti si sarebbe lamentato per la propria sistemazione.
 
«Vedete ragazze» riprese Lucinda «il fatto è che il vecchio Rogers amava davvero sua moglie. La conobbe al college …  Era un uomo innamorato Tim Rogers, anche dopo quasi un ventennio di matrimonio. Cosa rara vi dico! Dunque, quel pomeriggio aveva preso permesso dall'ufficio per poter tornare all'appartamento che condivideva con la sua dolce metà e organizzarle una seratina romantica» Brooke si era totalmente girata verso di lei, gli occhi illuminati. Dall’alto del ramo Toby fece schioccare la lingua amareggiato e borbottò che questo non era decisamente il posto adatto a lei. Toby era molto bravo a capire quando la gente era fuori posto.
 
«Se qualcuno uscisse prima da lavoro per organizzarmi una serata romantica lo sposerei all’istante» commentò Brooke con una risata.
 
«Se fossi in te ci penserei due volte cara la mia ragazza … è colpa della moglie se è finito in questo posto! Come stavo dicendo, aveva rincasato presto: le luci accese, il letto disfatto e lo scrosciare della doccia furono buoni indizi per Timothy, nel caso in cui il pungente odore di sesso che impregnava le lenzuola non fosse stato abbastanza. Le stesse lenzuola che il dolce Tim aveva pensato di coprire di petali di rosa, le stesse lenzuola su cui il volto spiegazzato di Benjamin Franklin lo scrutava per tre volte con un mesto sorriso». Le stagiste tacquero. Holly perché scioccata dall’udire la parola “sesso” uscire dalle labbra di un’anziana signora e Brooke perché trecento dollari erano davvero una bella tariffa.
 
Soddisfatta del silenzio Lucinda riprese a raccontare: «Venne fuori che la dolce Signora Rogers arrotondava il suo stipendio da maestra d'asilo con un lavoretto part-time e come succede nelle piccole città, la scandalosa notizia si sparse più velocemente di un virus virale, arricchendosi di dettagli succulenti ogni volta che veniva masticata e sputata da una bocca diversa … Ogni volta che Rose Rogers si azzardava ad uscire di casa veniva accolta da smorfie di disgusto e occhiatacce affilate come rasoi! Inutile a dirsi che venne licenziata in tronco circa dodici ore dopo che il marito si era lanciato in mezzo alla strada piangendo e urlando, pregando gli automobilisti di passaggio perché lo investissero».
 
«È perché lo ha tradito che il signor Rogers è uscito fuori di testa? Mi sembra una reazione eccessiva» commentò Brooke. Holly le rifilò un’occhiataccia «Uscire di testa non è un termine appropriato …» borbottò lanciando una sguardo di scuse alla signora Dhale, che le rispose con un sorriso.
 
«Non preoccuparti cara. Il tradimento fu un duro colpo per il povero Rogers, ma quello di grazia gli arrivò due settimane dopo, quando tornò in città dopo una “pausa di riflessione”» disse mimando le virgolette con le dita ossute «La povera Rose aveva riflettuto anche lei ed era giunta alla conclusione che la soluzione migliore era appendersi alla ventola del soffitto. Fu così che la trovò il marito, a penzoloni, blu come un mirtillo e senza nemmeno un biglietto! Il poveretto non ha retto».
 
«Be’ wow … gli ha rovinato la vita» mormorò Brooke.
 
«È piuttosto informata signora Dhale, come conosce tutti questi dettagli?» chiese Holly cercando di alleggerire l’atmosfera.
 
«Me l’ha raccontato Toby» rispose allegramente l’anziana, poi si sporse in avanti con aria cospiratrice e abbassò il tono della voce «Me lo ha sussurrato all’orecchio sinistro – quello per i segreti - due notti dopo l’arrivo del signor Rogers». 
 
Holly si ritrasse impercettibilmente e Toby schioccò nuovamente la lingua: «Proprio non vuole accettare che la gente qui è pazza. Crede che siate qui per essere curati, che lei vi possa salvare».
Lucinda alzò lo sguardo verso le fronde gialle e arancioni, dicendo che presto si sarebbe resa conto che non era così semplice, che c’erano persone che non potevano essere salvate. Mentre parlava, le ragazze alzarono lo sguardo sgomentato sul ramo vuoto.
 
«Ehi … guarda un po’ chi e’ uscito dal guscio» esclamò Brooke indicando con un gesto il portone che dalla clinica dava sul cortile. «Il grande Dean Winchester ci onora con la sua presenza».
 
Lucinda storse il naso e scosse la testa, sistemandosi dietro l’orecchio i capelli che erano scivolati fuori dallo chignon. Nessuno usciva dal guscio in quel posto, il guscio era la loro unica difesa, una spessa corazza, costruita su misura con anni di negazione e auto convincimento che va tutto bene! stai bene! non hai un problema!
 
Sotto il guscio qualcuno aveva eretto anche un muro, come il vecchio Rogers, un muro in cemento armato coperto di filo spinato per avere la mera illusione di essere al sicuro da quella cosa che li aveva costretti in una stanza con i muri bianchi e le cinghie ai letti.
 
L’aveva avuto anche lei un muro per un po’, ma la cosa era persistente, scalciava e grattava come una bestia feroce e con il tempo piccole crepe avevano cominciato ad aprirsi nel muro e il filo spinato aveva preso ad arrugginire. Alla fine tutto era crollato con l’impeto di una diga mal costruita.
 
I dottori avevano affibbiato alla cosa un nome lungo ed articolato, difficile da ricordare, ma lei preferiva chiamarla Toby.
Lucinda Dhale credeva che ogni cosa andasse chiamata con il suo nome e lei sapeva perfettamente chi fosse Toby:era un angelo – con brillanti occhi azzurri e soffici boccoli dorati – che il Buon Dio le aveva mandato perché la scortasse in paradiso.
 
Aveva sempre saputo che Toby l’avrebbe portata là un giorno, ma lui insisteva perché prima facesse ammenda. Da buona cattolica quale era pregava ogni giorno, inginocchiata a terra nonostante i dolori alla schiena, gli occhi rivolti verso il crocifisso che arredava la sua stanza. Aveva chiesto perdono per ogni cosa, per le caramelle che aveva rubato dal droghiere da bambina, per essersi ubriacata alla festa del paese e persino per aver rovesciato per sbaglio la marmellata di fragole sulla tovaglia la mattina prima, ma Toby continuava ad insistere perché ammettesse la sua colpa più grande. Poteva essere davvero insistente a volte, ma lei era più testarda e continuava a ripetergli che le sue nipoti se l’erano cercata, dannazione.
  
«Santo cielo, non è un sogno quel uomo? Quasi quasi … ».
 
«Oh mia cara, quel ragazzo è tanto bello quanto svitato!E ad ogni modo mettiti in coda, prima ci siamo io e la capoinfermiera Tess» disse Lucinda scatenando l’ilarità delle specializzande.
«Che c’è? Solo perché una donna ha settantacinque anni suonati non può sognare?» chiese fingendo indignazione. Quelle ragazze avevano il singolare dono di farla sentire giovane.  
 
«E vediamo Lucy, Toby ha qualche aneddoto anche sul bel Winchester?». Holly si irrigidì alla domanda. Aveva stilato un regolamento tutto suo che andava ad aggiungersi a quello ufficiale della clinica, non dar corda alle illusioni dei pazienti! era in cima alla lista, appena sotto a mostra tatto!
«Ma certo! Toby è un gran chiacchierone» disse con un sorriso. «Sai Brooke, penso che dovresti andare a parlarci. Il giovane Dean è una persona piuttosto socievole da quando gli hanno cambiato i farmaci. Prima soleva avere pessimi attacchi d’ira e deliri, ma è migliorato moltissimo negli ultimi anni! È un vero peccato che si perda così spesso però».
 
«Cosa intende per “perdersi”, signora Dhale?».
 
«Be’ vedi il signor Rogers, cara? È perso in questo momento. Da qualche parte nella sua testa presumo … I medici lo chiamano estraniarsi o catatonia, come se fossero imprigionati nei loro stessi ricordi ed illusioni. Personalmente? Io credo che si trovino esattamente dove vogliono essere» ed annuì soddisfatta. Holly pensò che quanto detto dalla signora Dhale andasse contro tutto ciò che aveva studiato al corso di psicopatologie, ma dovette ammettere che era una maniera piuttosto ottimistica di vedere le cose. Un po’ di ottimismo in un posto del genere non poteva far male.
«Dai Lucy! Raccontami qualcosa di lui» incalzò Brooke.
 
«Vediamo … La sua famiglia è morta in un incendio, mamma, papà e il suo fratellino di appena sei mesi. Davvero un brutto colpo per un bambino di quattro anni devo dire. Non trovarono fughe di gas, né guasti al circuito elettrico, per cui si archiviò il caso come incendio doloso ahimè. Insomma, che razza di mostro potrebbe appiccare fuoco alla cameretta di un neonato? Perché è proprio lì che ebbe origine l’incendio! Una vicenda terribile … ne parlarono diversi giornali sapete? Era il 1983».
«Immagino che Dean ne rimase traumatizzato.»
 
Lucinda annuì severamente. «Andò a vivere con i genitori della madre, crescendo si fece un amico immaginario o almeno è quello che tutti pensavano visto che non aveva mai rivelato il suo nome. Venne fuori che l’amico tanto immaginario non era in effetti … Lo chiamava Sammy, diminutivo di Samuel, il fratellino morto nell’incendio.
 
«Lo fecero visitare da un psicologo infantile … e più tardi da uno psichiatra infantile. Per un po’ parve migliorare, ma quando raggiunse l’adolescenza le cose precipitarono. Passava più tempo nella sua testa che fuori e per lui Sammy era reale. Litigava con lui, parlava con lui, rideva e piangeva con lui e preparava panini al burro d’arachidi e marmellata che non venivano mangiati da nessuno. Il giorno del compleanno del fratello preparava sempre una torta e comprava un regalo … Una storia davvero triste insomma. La goccia che fece traboccare il vaso fu quando scomparve per tre giorni. Tornò con gli abiti laceri, sporchi di melma e sangue non suo. Disse che Sammy era stato rapito da uno spirito che infestava la palude o una stupidaggine del genere. E non fu né la prima né la più scioccante delle sue azioni, sapete! Aprì tombe e diede fuoco alle ossa dei defunti! Rubò carte di credito ed armi … nel 2005 irruppe nella casa di una deliziosa studentessa di Stanford, Jessica Moore se non sbaglio … Ed, ecco, diede fuoco all’appartamento della poveretta, uccidendola naturalmente.
Lo trovarono in Colorado. Disse che era stato un demone dagli occhi gialli, lo stesso che aveva ucciso sua madre, che il padre era scomparso e che era andato in California per chiedere l’aiuto del fratello.
Ovviamente il tribunale dichiarò l’infermità mentale … ed eccolo lì» concluse indicando con un cenno del capo un fazzoletto d’ombra dove l’uomo si era seduto.
 
Una spessa cappa di silenzio era calato sul piccolo circolo. Toby dondolava le gambe sul ramo, canticchiando un motivetto che arrivava alle sole orecchie di Lucinda.
 
«Temo che la voglia di parlarci mi sia quasi passata» ammise Brooke
 
«Quasi» e si alzò di slancio per raggiungere il paziente.
 
Lucinda scoppiò a ridere «Sai Holly cara, quella ragazza mi ricorda terribilmente me stessa alla sua età … speriamo non faccia la stessa fine!».
       
 


 
 
 
***
L’idea di questa storia è così vecchia che ormai non la riconosco nemmeno io, un po’ come una vecchia fotografia rovinata dalle infiltrazione di umidità. L’ho ripresa mesi fa e l’ho quasi terminata prima che l’università mi afferrasse per le caviglie trascinandomi in un baratro di esami.
Ora che ho un po’ più di tempo ho deciso di terminarla e pubblicarla, mi dispiaceva lasciarla lì a prendere polvere insieme alle altre trecento storie che non finirò mai.
A parte questo mi sembrava carino pubblicarla nel mese di ottobre, un po’ perché ci tenevo a scrivere qualcosa per Halloween (il che può in parte suggerire i temi affrontati nella storia) e un altro po’ perché a breve usciranno gli episodi nell’ultima stagione di Supernatural e volevo fare – forse – un ultimo saluto a questo fandom che mi ha sempre ispirato tanto.
Ho riletto questo capitolo così tante volte che il solo leggere la prima riga mi da la nausea quasi, spero non sia lo stesso per voi (non che lo rileggiate all’infinito, ma che vi dia la nausea).
Ci tengo a sottolineare che, benché la storia sia letteralmente ambientata in un manicomio, ci sono andata (spero) leggera con i temi per non urtare la sensibilità di nessuno e specialmente perché non sono una psichiatra, perciò non contate troppo sull’accuratezza.
Detto tutto ciò spero che questo primo capitolo abbia fatto il suo lavoro nell’ incuriosirvi e che possiate aver voglia di iniziare questo piccolo viaggio in mia compagnia :)
 
Un abbraccio,
~Ink
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II. ***



II.
 
 
Brooke superò velocemente il signor Rogers e le sue rose e si diresse a passo sicuro verso l’uomo. Se ne stava ai margini del prato lo sguardo fisso su un’aiuola di primule sepolte dalle foglie cadute, il giardiniere insisteva per lasciarle lì dov’erano dicendo che portavano un po’ di colore in quel posto così grigio.

«Ciao, io sono Brooke» le parve un approcciò abbastanza neutro, meglio di un “Ehi” seguito da un languido sorrisino.
Il giovane sobbalzò, ridestandosi dai suoi pensieri e si voltò verso la stagista. Le sue labbra si distesero in un mezzo sorriso affabile «Ehi».

Brooke realizzò che il mezzo sorriso era in effetti un languido sorrisino. Ligón! Avrebbe abbaiato Trish, la donna delle pulizie messicana che lasciava sempre qualche fetta di dulche de leche sul ripiano della reception.

Winchester la stava scandagliando con lo sguardo, su e giù come una radiografia. «Dean Winchester. Sei nuova? Non ti avevo ancora visto da queste parti».

Nella sua testa Trish strillò Ligón! un po’ più forte, esasperata. Brooke era alta un metro e ottanta quasi, difficile non notarla, ma si disse che in posto dove tre quarti della gente era pazza, catatonica o imbottita di farmaci era plausibile che passasse inosservata.

«Lavoro qui da qualche settimana».

«Non è un bel posto per una così brava ragazza» osservò Dean, poi scoppiò a ridere alla pateticità della sua stessa battuta. Dovresti vedere Holly allora pensò Brooke. Holly, con i suoi grandi occhi scuri e il cuore d’oro; la piccola, buona samaritana che avrebbe redento l’America dalla pazzia, un istituto di igiene mentale alla volta.

Una volta Lucinda le aveva confidato che la clinica era proprio il posto giusto per la sua collega “Me l’ha detto Toby!” le aveva confidato “E lui non sbaglia in queste cose!” “Già” aveva replicato lei “Holly ha una vera vocazione per questo lavoro”

“Oh mia cara, io non ho mai detto che dovrebbe stare qui per lavorare”. Un brivido le aveva scosso la colonna vertebrale e aveva deciso di lasciar cadere lì il discorso, ma ancora si irrigidiva quando Holly si avvicinava troppo ad un paziente, quasi temesse che potesse esserne contagiata.

«Mi dispiace, era pessima, ma cerca di capirmi, sono fuori allenamento» si scusò Dean.

«È da molto tempo che sei qui?».

«Definitivamente troppo» rispose amareggiato. «Sam ci sta mettendo un’eternità a tirarmi fuori di qui» mormorò tra sé. Brooke finse di non aver appena sentito un resoconto inquietantemente e sospettosamente dettagliato della vita di Dean Winchester.

«Chi è Sam? La tua ragazza?». Lui scoppiò a ridere e piccole grinze gli strizzarono i lati degli occhi «Oh no, è mio fratello».

Tre anni di recitazione alle medie si rivelarono assai utili per dissimulare una piacevole sorpresa: «Davvero? Hai un fratello? E che tipo è?».

Dean sospirò ma senza smettere di sorridere «Be’ è alto, molto alto. Ha dei capelli ridicoli, li porta lunghi, come un ragazzino. Ha gli occhi chiari, a volte sono castani, a volte verde-azzurro, dipende dalla luce sai. Oh ed è un asso nel fare quello sguardo da cucciolo bastonato, il genere di occhi dolci che riescono a convincerti a fare il suo gioco, non so se mi spiego. Ed è sveglio, molto sveglio …  Ha studiato legge a Stanford».

«Ma non mi dire!» intervenne Brooke «Mio padre voleva mandarmi a studiare legge in California e invece guarda un po’ dove sono finita! Gli ho sempre detto che tra burocrati e pazzi non c’è poi molta differenza» Dean rise con lei, massaggiandosi il collo con un gesto che le parve nervoso.

«Prima hai detto che tuo fratello ci sta mettendo un’eternità a tirarti fuori di qui, che cosa intendevi? Questa non è una prigione da cui puoi uscire pagando una cauzione».

«Ah quindi mi stai dicendo che le sbarre alle finestre sono solo decorative?» Brooke rise – questa volta con sincerità, lieta che i farmaci avessero lasciato intatto il senso dell’umorismo di almeno un paziente.

«Rispondi alla mia domanda, se tuo fratello è sveglio come dici dovrebbe averti tirato fuori di qui già da un pezzo». Era una tattica rischiosa e lo sapeva, una delle regole di Holly consigliava di non istigare i pazienti! Specialmente se sono violenti! Ma aveva bisogno di risposte. Quanto detto da Lucinda – che Sammy per Dean era reale – era stato più che confermato, anzi, nella testa di Dean non solo Sammy era cresciuto, ma si era anche laureato a quanto sembrava.

Mancavano delle tessere però per completare quel puzzle e sperava vivamente di poterle ottenere senza rischiare di venir strangolata.

Dean pareva titubante, continuava a portare la mano al petto chiudendola a pugno, come se stesse stringendo un ciondolo immaginario o come se stesse meditando se colpirla. Nel dubbio, Brooke fece un passo indietro e tentò un’altra tattica, quello dello scambio.

«Facciamo così, tu mi dici perché tuo fratello Sam dovrebbe tirarti fuori dalla clinica e io ti spiego perché una brava ragazza come me si trova in un posto che ha le sbarre alla finestre e non certo per decorazione». Fece leva sull’ironia e sull’empatia, sperando che abboccasse.

Se c’era una cosa che aveva imparato era che ciò che i pazienti di una centro di recupero mentale desideravano più ardentemente che uscirne, era un po’ di sincero contatto emotivo, che non coinvolgesse sedie di plastica e un cerchio di squilibrati.

«D’accordo» acconsentì Dean.

Bingo.

«Prima le signore, però».

Merda. Non aveva ancora pensato ad una balla plausibile da propinargli.

«Sediamoci, ti va? Passo tutto il giorno in piedi quando sono qui dentro».

«E io lo passo legato ad un letto se mi comporto male» ribatté Dean con un ghigno, benché i polsi arrossati confermassero il vero.

Presero posto su una panchina di plastica rosa porcellino, posto sotto un olmo mezzo spoglio. Brooke cercò di recuperare altro tempo guardandosi intorno: non un sasso sul prato, non una panchina di pietra o di legno, non un albero a cui avessero lasciato un ramo abbastanza basso da poter essere raggiunto, nemmeno una fontanella o uno specchio d’acqua. Solo erba, fiori e foglie secche. Niente che potesse prendere fuoco, niente contro cui sfondare il cranio di altri pazienti, niente da cui lasciarsi penzolare.

Il 
perfetto parco giochi  per i cattivi bambini.

«Allora? Il tuo oscuro segreto?» incalzò Dean. Optò per dirgli la verità e per infrangere un’altra regola di Santa Holly e in parte della clinica niente di personale! Non raccontare nulla di vero! Non è un tribunale ma potrebbe essere usato contro di te! Non aveva idea di chi fosse suo padre, ma chissà, magari se lo avesse conosciuto avrebbe scoperto che lui voleva davvero mandarla a Stanford a studiare Legge.

«Vorrei entrare nel Dipartimento di Analisi Comportamentale Federale» disse tutto d’un fiato «I normali crimini – ed intendo ladri o sporadici omicidi, piromani, rapinatori  – commettono crimini per ragioni semplici: soldi, vendetta, gelosia. Ma quando la cosa si fa seria, quando qualcuno comincia ad ammazzare tutte le ragazze bionde che incontra perché la fidanzata che al liceo l’ha lasciato era platinata, be’ allora c’è qualcosa sotto. Qualcosa di malato, di marcio. E io voglio capire cos’è, voglio capire cosa li spinge a fare quello che fanno, per fermarli, capisci?» Dean annuì, serio.

«So di aver scelto la strada lunga decidendo di frequentare prima psichiatria e poi arruolarmi in polizia, ma ci tengo davvero … ecco io voglio essere preparata …». Lasciò in sospeso la frase, non sapendo che altro aggiungere, consapevole che Holly l’avrebbe uccisa.

«È il tuo turno».

Dean ripeté quel gesto con la mano un paio di volte prima di parlare. «So che ti sembrerà ridicolo e probabilmente sentirai questa frase mille volte al giorno, ma io non sono pazzo».

Brooke sorrise gentilmente «Sì, mi pare di averla già sentita un paio di volte».

Il ragazzo le sorrise, riconoscente. «Sono un cacciatore. E lo sono anche mio fratello e mio padre. Cacciamo demoni, mostri, fantasmi, spiriti di scarafaggi, lupi mannari, magia nera. Tutto quello di cui possono essere fatti gli incubi noi gli abbiamo piantato una pallottola d’argento nel cervello o ne abbia bruciato i resti».

Bruciato i resti. Era quello ciò che stava facendo quando aveva aperto quelle bare? Un esorcismo? La ragazza si sforzò di tenere a freno l’immaginazione e concentrò la parte più professionale di sé su quanto Dean stava raccontando.

«E tutto questo» con un ampio gesto abbracciò tutto il giardino, la clinica e i pazienti e gli infermieri che si aggiravano con le divise bianche come fantasmi «Tutto questo non è reale. Non lo è questa gabbia di matti, non lo è questo rigurgito di mercatino solidale su cui siamo seduti e non lo è l’erba sotto i nostri piedi. Tu non sei reale, Brooke».

La stagista si sforzò di mantenere la mente lucida, anche se i termini medici per descrivere quanto stava sentendo le balenavano davanti agli occhi, anche se le sembrava un episodio di quelle serie TV sulle cospirazioni che trasmettono alle tre del mattino e cercò di fare una domanda che le avrebbe dato qualche risposta.

«E tu Dean? Tu sei reale?».

Un accenno affermativo del capo.

Bene. E ora, la domanda da un milione di dollari.

«E Sam? Lui è reale, Dean?». 

«Certo che Sammy è reale». Diverse lucine rosse si acceso nella mente della ragazza: è sulla difensiva! Sta marcando il territorio! Non tollera che si esprimano dubbi sul fratello! E poi la luce più forte di tutte, una sirena che strillava Disillusione! Disillusione! Disillusione clinica!

Deglutì. «E allora che senso ha tutto questo? Se tu sei reale e io non lo sono, significa che sono frutto della tua immaginazione, giusto?».

Dean scosse la testa, lo sguardo fisso sulle loro scarpe di gomma bianca «Non è così semplice, tu non sei il prodotto della mia immaginazione, non ti ho creata io, ma sì, sei un’illusione».

Brooke annuì cautamente «E come puoi esserne certo?».Winchester lanciò una rapida occhiata al suo deludente decolté coperto dalla divisa «Fidati, saresti leggermente diversa se ti avessi pensata io». La specializzanda si sforzò di non reagire, tenendo a mente che si trovava davanti ad un malato mentale e che dopotutto era stata lei a fargli quelle domande.

«Ho motivo di credere che sia opera di un Djinn».

«E che cosa sarebbe?».

«Lascia stare, è lunga da spiegare. Quello che ti interessa sapere, per quanto possa interessarti visto che non sei reale, è che mi sta tenendo prigioniero e che prima o poi mi ucciderà».

 Paranoia!

«Tutto questo non è reale perché è un’illusione creata da questo … mostro» sputò l’ultima parola quasi sapesse di marcio. «L’ultima cosa che ricordo era che ero in Nebraska con Sammy, stavamo lavorando ad un caso e-»
«Stavate lavorando ad un caso?» lo interruppe.

«Te l’ho detto, siamo cacciatori. Troviamo una pista, di solito gente morta in circostanze inspiegabili o sospette, indaghiamo, staniamo la bestia e la facciamo fuori cercando di non rimetterci la pelle. Poi passiamo al caso, alla caccia, successiva».

«Non sembra un bel lavoro».

«Non lo è, ma qualcuno dovrà pur farlo, no? Molto meglio che star dietro alle scartoffie burocratiche».

«Ce ne sono altri di … cacciatori come voi?» chiese ignorando la frecciatina.

«Così sexy? No, non credo proprio. Ma sì, siamo abbastanza».

Desiderava chiedergli altri dettagli della sua fantasia, ma si stava avvicinando l’ora di rientrare e Brooke voleva capirci di più sulla faccenda del mostro che lo teneva prigioniero. Ci sarebbero state altre occasioni per scoprire dei dettagli, dopotutto Dean non se ne sarebbe di certo andato tanto presto.

«Hai detto di aver motivo di credere che si tratti di un Diaig- … Daij- …».

«Djinn».

«D’accordo, ma che cosa te lo fa credere?».

«Come ti stavo dicendo mi trovavo in Nebraska con mio fratello, stavamo lavorando ad un caso semplice ed io sono uscito per comprare qualcosa da mangiare. Stavo per entrare nel fast food quando qualcuno mi ha aggredito alle spalle. Quando mi sono svegliato ero qua dentro, legato ad un letto e con una lista di medicine lunga un chilometro. Continuo a rivivere dei ricordi … come se li prendesse dal mio cervello e me li spiattellasse davanti agli occhi per tormentarmi. E c’è una donna. L’ho già vista diverse volte e sono piuttosto certo che non sia una paziente della clinica. Ho ragione di credere che sia lei a tenermi prigioniero, che sia lei il Djinn.
«Ma so anche che Sammy mi starà cercando. Anzi, in questo momento sarà nel motel o in biblioteca a digitare su quel suo portatile da universitario per trovarmi … Non so dove mi tenga nascosto, ma so che Sammy riuscirà a scovarlo, ammazzerà quel bastardo ed io me ne andrò da questo posto infernale».

Rimasero in silenzio per qualche minuto, il tempo necessario a Brooke per metabolizzare «Perché ti tiene qui? E perché dovrebbe farsi vedere?».

Dean rise «Diciamo per controllarmi, per indebolirmi e per bersi il mio sangue goccia a goccia mentre sono intrappolato nella mia testa».

Un’ombra scusa si allungò su di loro. «È ora di rientrare Dean».

Tess, la capoinfermiera si incombeva su di loro in tutto il suo metro e ottanta, un sorriso benevolo ad addolcire i tratti duri del viso. Aveva la corporatura di un armadio, il genere di infermiera che ci si aspetterebbe di trovare in una clinica psichiatrica.

«Vengo subito dolcezza» le rispose Dean con un occhiolino e Tess si voltò svelta nella direzione opposta per nascondere il rossore che le tingeva le guance.

«Bene Brooke, è stato un piacere chiacchierare con te» le disse l’uomo alzandosi.

Le tese una mano, in segno d saluto e forse si riconoscimento. Un’altra regola della Santa Holly era di evitare il contatto fisico quando non necessario! ma di regole Brooke ne aveva infrante parecchie quel pomeriggio e si disse che una di più non avrebbe fatto male a nessuno.

Mentre Dean si allontanava con Tess, lei rimase a fissare l’aiuola e le venne in mente Lucinda, la dolce e cara signora Dhale, che seppelliva i corpi delle nipoti nell’orticello dietro casa. Spostò immediatamente lo sguardo dalla terra smossa e lo posò su qualcosa che le paresse meno raccapricciante, come l’orizzonte. L’orizzonte dove il sole stava iniziando a calare, inondando gradualmente il giardino di una luce dorata. Le ombre proiettate degli alberi si allungavano e le foglie iniziavano a vorticare spinte dal vento di ottobre.

Brooke si strinse nel camice e ripercorse mentalmente la conversazione, appuntandosi i suoi comportamenti, il modo in cui pronunciava determinate parole, come stringeva le mani sul petto e stilò una nuova lista di domande.

Rimase sulla panchina ancora un po’, il tempo necessario per notare il minaccioso avanzare di grosse nuvole grigie.

Avrebbe tempestato a breve, ne era certa. La stessa ferrea certezza ch le suggeriva che Dean Winchester fosse davvero intrappolato nella sua testa.




***
Grazie a chi segue, ricorda, preferisce la storia o si prende anche solo un momento per leggerla.




 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III. ***


III.
 

“L’essere che, sotto il letto, aspetta di afferrarmi la caviglia non è reale.
 Lo so.
E so anche che se sto bene attento a tenere i piedi sotto le coperte,
non riuscirà mai ad afferrarmi la caviglia.”
Stephen King, A volte ritornano.
 

 
«Il signor Abes, la signorina Wood ed il signor Winchester non si sono presentati per la dose serale» annunciò Tess, la lista tra le mani e un occhio critico.  «Qualcuno vuole andare a controllare?».

Holly si allontanò dal vetro di plexiglass che separava il corridoio dalla farmacia della clinica. «La signorina Wood è ancora sotto sedativi dopo la crisi di oggi pomeriggio. È probabile che stia dormendo».

«Oh giusto». Tess tamburellò la penna sulle labbra, poi appuntò qualcosa sulla cartelletta «Degli altri due pazienti avete notizie?».

Holly scosse la testa, mentre Brooke si offriva volontaria per andare a controllare Dean Winchester; era l’occasione ideale per fargli qualche altra domanda prima che finisse il turno.

«D’accordo allora … Holly ti dispiacerebbe controllare il signor Abes? È molto importante che prenda i suoi sonniferi se le ragazze del turno di notte vogliono passare una serata tranquilla».

«Ma certo Tess, me ne occupo io».

Brooke uscì dalla stanzetta, chiudendosela a chiave alla spalle. Percorse velocemente il corridoio tenendo la mano poggiata sulla tasca della divisa, dove aveva messo il sacchettino contenente le pillole per Dean. Buffo come le ricordassero innocue caramelle, quando la combinazione sbagliata poteva lasciare un paziente agonizzante sul pavimento con la schiuma alla bocca. Cercò di non pensare troppo ad Izzy Wood e alle sue labbra cianotiche quella mattina.

La stanza di Dean si trovava sul lato est del corridoio, a tre camere di distanza dalle spesse doppie porte d’acciaio che dividevano la zona d’isolamento dal resto dell’ospedale. Al di là di quelle porte si trovavano altre porte di metallo, ognuna con una piccola finestrella grande abbastanza per sbirciare all’interno. Brooke aveva sbirciato una sola volta e quello che aveva visto le era bastato per il resto della vita. Sapeva che la mente umana poteva spingersi oltre l’inimmaginabile se privata del controllo, ma ridursi in quello stato? Non l’aveva mai creduto possibile prima.

Entrò nella stanza di Dean. L’uomo sedeva sul letto e le dava le spalle, una gamba piegata sotto di sé e l’altra lasciata a penzolare. Teneva lo sguardo rivolto fuori dall’unica finestra sbarrata, là dove le chiome degli alberi venivano frustate dal vento e dalla pioggia. Brooke si schiarì la gola, ma il paziente non diede prova di averla sentita entrare.

«Dean?».

Lo chiamò più volte, ma senza risultati. Con riluttanza camminò intorno al letto fino a pararglisi di fronte: lo sguardo vacuo, fisso nel vuoto, la mascella contratta, l’aria sfinita. Allungò la mano decisa a scuoterlo delicatamente, ma la ritrasse all’ultimo. Doveva essere cauta, un paziente in quelle condizioni, se destato bruscamente dal suo stato di catatonia poteva avere reazioni imprevedibili e, nella maggior parte dei casi, violente.

Lasciò vagare lo sguardo per la camera, incerta sul da farsi.

Come la maggior parte degli altri abitanti della clinica non aveva oggetti personali ad abbellire in qualche modo la stanza, l’unica traccia di personalizzazione veniva dalle macchie di dentifricio secco alla parete.

Tess le aveva raccontato che ogni due settimane doveva portare via diversi ritagli di giornale che Dean appiccicava meticolosamente al muro con la pasta dentifricia – e per ritagli intendeva ovviamente trafiletti strappati con precisione, perché di fobici in quel posto non se n’erano mai viste. Le aveva riferito la conversazione che avevano avuto in merito lei e Dean, come se fosse un simpatico aneddoto da pausa caffè.

«Mi disse – e cito testuali parole! “Andiamo Tess! Posso anche scendere a compromessi con l’assenza di forbici o nastro adesivo, posate di gomma e vetri antisfondamento, ma le tende almeno?” Era davvero esasperato il poveretto!» e qui era scoppiata in una grassa risata «E poi sai cosa mi ha detto? Ci ha pensato un po’ e poi mi fa: “Ma forse hai ragione Tess, se fossi costretto a passare anche solo un’altra ora tra queste quattro mura spoglie le userei per fabbricarmi un cappio”». Né lei né Holly l’aveva trovato affatto divertente.

Non aveva pensato di chiederle che cosa riportassero quelli articoli di giornale, né perché Tess insistesse nel portarglieli via, ma la risposta ora le pareva chiara dopo quel pomeriggio. Troviamo una pista, di solito gente morta in circostanze inspiegabili o sospette, indaghiamo, staniamo la bestia e la facciamo fuori cercando di non rimetterci la pelle. Probabile che la capoinfermiera avesse decretato che tenere in camera necrologi e resoconti di omicidi non dovesse giovare alla già precaria salute mentale di Dean Winchester.

Mancava mezz’ora alla fine del suo turno e il picchiettare violento della pioggia la stava facendo innervosire. Prese coraggio e poggiò la mano sulla sua spalla, strizzandola delicatamente, ma mantenendo un braccio di distanza nel caso dovesse difendersi. Dean non si mosse né vacillò il suo sguardo. Tentò ancora scuotendolo un po’ più forte, lo chiamò nuovamente dicendogli che doveva prendere le medicine.

Tornò con la mente alla discussione avuta con Lucinda, a come aveva definito il signor Rogers “perso”, come se non riuscisse a trovare la strada per uscire dalla propria testa per tornare alla realtà. O non volesse farlo.

Lasciò cadere la mano lungo il fianco e si avvicinò all’uscita. Lanciò un ultimo sguardo al paziente, poi accostò la porta.

Poggiò la fronte sulla superficie liscia e fredda, la mano che faceva ancora presa sulla maniglia.

«Ma dove sei Dean?» sospirò. 
 
 

 
Dean sedeva sul letto, una gamba piegata sotto di sé e l’altra a penzoloni, la punta dell’alluce che sfiorava il pavimento gelido.

Fuori infuriava un temporale, una fitta cascata d’acqua scrosciante colpiva il vetro appannato della stanza, mentre le cime degli alberi venivano scosse dal vento. L’acqua colpiva violentemente le foglie secche cadute a terra, inzuppandole e mischiandole al fango in un’unica marcescente poltiglia .

Si chiese a che punto fosse Sammy, se ci avrebbe messo ancora molto a trovarlo. Si stava indebolendo, ogni giorno – se di giorni si trattava – si trascinava lento ed identico ai precedenti ma lui era sempre più stanco, più affaticato. Stava perdendo il controllo e con quello probabilmente anche litri di sangue.

Sempre più sovente apriva gli occhi per ritrovarsi in un’ala della clinica dove non ricordava di essersi recato o peggio, si concentrava sull’orologio di feltro della sala ricreativa e quando sbatteva le palpebre scopriva che le lancette avevano avanzato di un’ora e venti minuti. Dov’era stato lui in quell’ora e venti minuti? Non ne aveva idea. Forse a sbavare sulla sedia. Soltanto l’idea di trovarsi in un tale stato di vulnerabilità gli dava la nausea.

Ma si era detto di avere fede, fede in Sam. Sam l’avrebbe tirato fuori di lì, ne era certo. Avrebbe trovato una soluzione, una maniera per ammazzare quel bastardo e l’avrebbe riportato indietro, avrebbero mangiato cheeseburger, bevuto un paio di birre e dopo una sacrosanta doccia Dean avrebbe dormito per una settimana.

Sentì il rumore della pioggia affievolirsi gradualmente e cercò di mettere a fuoco il giardino oltre le sbarre e i vetri anti sfondamento, ma il temporale creava uno spesso muro d’acqua.

Un sibilo gli penetrò nell’orecchio, acuto come un fischio e la vista vacillò. Per un secondo gli parve di vedere una stanza buia, forse un magazzino, vide i propri piedi, gli scarponi sporchi e oscillanti da terra. Si sforzò di alzare lo sguardo ma la testa ondeggiava così tanto da fargli venire il voltastomaco. Gli sembrò di intravedere una figura esile a qualche passo da lui, un pallido fantasma dai capelli neri, sfuocato e indistinto, che rideva di lui.   

Così com’era arrivato il fischio se ne andò, la stanza smise di vorticare come l’acqua nello sciacquone e il suo sguardo si fissò sul pavimento piastrellato, lucido e immacolato. E bagnato. C’era dell’acqua, una pozzanghera cristallina proprio sotto ai suoi piedi. Il fondo dei pantaloni bianchi della divisa era fradicio e piccole gocce gli costellavano le dita, come rugiada la mattina. Dean alzò la testa, ma sul soffitto non vi erano né tubi né perdite e la finestra non poteva di certo lasciar entrare la pioggia.

Da dove diavolo veniva quella pozza allora? Sentiva una sensazione di umidità e freschezza intorno alle caviglie e sui piedi, erano indubitabilmente bagnati, non poteva non essere reale.

Una goccia in bilico sotto l’alluce cadde e la superficie dell’acqua si increspò generando piccoli cerchi concentrici che andavano allargandosi. Gli ricordò l’effetto di una pietra fatta rimbalzare su un lago, lo specchio d’acqua che si distorce creando cerchi concentrici e piccole onde.

Piccoli cerchi concentrici che dal centro si allargano fino a riva, ma senza disturbare quel che sta sotto.

Sentì il respiro tornargli regolare mentre una piacevole sensazione di torpore lo avvolgeva, come un déjà-vu.  



 
Sam continuava a sbuffare, lanciando sasso dopo sasso con gesti che tradivano nervosismo, osservandoli puntualmente affondare nelle acque scure del lago.

«Dean» lamentò quando esaurì la scorta che si era  procurato passeggiando lungo la sponda pietrosa «Non ci riesco».

«E’ una questione di polso, Sammy, è come lanciare una stella ninja » rispose alzandosi dal masso su cui si era appollaiato. Avrebbe desiderato poter dire di aver scelto quella postazione casualmente, magari per ammirare come le chiome degli alberi si specchiassero nel lago, trasformando l’acqua in una pozza di gialli, rossi e arancioni. La verità era che da lì aveva una chiara visione a trecentosessanta gradi di tutto ciò che li circondava. Qualsiasi cosa che si fosse avvicinata non l’avrebbe colto di sorpresa.

«Io non ho mai lanciato una stella ninja» rispose irritato il ragazzino.

«È facile, è come lanciare un sasso».

«Davvero divertente » grugnì Sam.

Dean saltò giù dal masso e scelse una pietra levigata e striata di bianco tra quelle della riva. Si erano fermati per riposare e svuotare la vescica, assecondando così le lamentele di Sam che li avevano accompagnati per gli ultimi otto chilometri.

«Guarda il maestro all’opera». Impugnò il sasso tra il pollice e l’indice, portò il braccio indietro, ruotando appena la spalla e con un movimento fluido e coordinato del polso lanciò verso il lago, mollando la presa sulla pietra all’ultimo secondo.

Tre salti. Tre piccoli cerchi concentrici che si allargavano fino a disperdersi nell’acqua, nascondendo ogni traccia del suo passaggio.

Sam emise un fischio di apprezzamento e Dean si raddrizzò con un sorriso compiaciuto.

«Ora hai capito come si fa?».

Sammy fece un cenno affermativo con il capo, gli occhi fissi nel punto in cui la pietra era affondata, poco prima di compiere il quarto rimbalzo. Dean gli spettinò i capelli che andavano allungandosi, un gesto affettuoso a cui il ragazzino cercò di sottrarsi.

«Piantala Dean!». Al che il maggiore dei Winchester lo afferrò per il braccio, tirandolo verso di sé e bloccandogli la testa tra il gomito e il fianco. Chiuse la mano a pugno e prese a strofinarlo sulla testa del fratello mentre quello cercava di liberarsi dalla sua presa.

«Ma che bei capelli Samantha!».

Sam si spinse indietro e piegando le gambe colpì il ginocchio di Dean, costringendolo a mollare la presa per non perdere l’equilibrio. Prima di poter riprendere la lotta, il grido di John gli intimò di piantarla con quelle sciocchezze e tornare immediatamente in macchina. Spintonandosi a vicenda si avviarono verso il ciglio della strada dove avevano parcheggiato l’Impala.

Prima di salire sul sedile posteriore, Dean lanciò un ultimo sguardo alla riva pietrosa del lago, alle acque scure al centro e pensò alla pietra grigia striata di bianco.

Era stato davvero un ottimo lancio.

 
Era probabile che sprofondando verso il fondo il sasso si sarebbe posato tra una radice marcia e un mucchietto di piccoli pietruzze levigate, se in quel momento un pesce non fosse passato di lì, agitando l’acqua con un colpo della coda e cambiandone la traiettoria. Si adagiò invece sul fondo fangoso, vicino ad un amo da cui pendevano ancora i resti maciullati di un verme.

Ma questo nessuno poteva saperlo se non la trota forse,così  come nessuno poteva sapere che loro erano stati lì quel giorno, a tirare sassi sulle pietrose sponde di un anonimo laghetto del Montana.
 


 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3863652