Haru no toki

di SusanTheGentle
(/viewuser.php?uid=136446)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Di opportunità e un nuovo inizio ***
Capitolo 2: *** 2. Di una ragazza e il suo sogno ***
Capitolo 3: *** 3. Con il piede sbagliato ***
Capitolo 4: *** 4. E sfida fu ***
Capitolo 5: *** 5. Furia scatenata ***
Capitolo 6: *** 6. Rivincita sul ghiaccio ***
Capitolo 7: *** 7. Un aiuto da Danny ***
Capitolo 8: *** 8. Quasi amici ***
Capitolo 9: *** 9. Potrebbe esser gelosia ***
Capitolo 10: *** 10. Una parola di troppo ***
Capitolo 11: *** 11. Ripartire da zero ***
Capitolo 12: *** 12. Complicazioni ***
Capitolo 13: *** 13. Invito ***
Capitolo 14: *** 14. Volersi bene ***
Capitolo 15: *** 15. Piani di conquista ***
Capitolo 16: *** 16. Un'altra giornata, un nuovo disastro ***
Capitolo 17: *** 17. Inevitabile conclusione ***
Capitolo 18: *** 18. Nuove prospettive ***
Capitolo 19: *** 19. La festa delle stelle innamorate ***
Capitolo 20: *** 20. Vittorie e sconfitte ***



Capitolo 1
*** 1. Di opportunità e un nuovo inizio ***


1. Di opportunità e un nuovo inizio

 

La primavera in cui inizia la nostra storia fu ricordata soprattutto per la straordinaria pioggia di petali che i ciliegi riversarono sulle strade di Tokyo. Gli abitanti della capitale furono costretti a rastrellarli e ammonticchiarli agli angoli di strade, case e negozi, quasi come fossero stati foglie d’autunno. 
Ma la stagione fredda non poteva essere più lontana dai ricordi della gente. 
In un clima di estate prematura, gli alberi esplosero in una fioritura rigogliosa, espandendo il loro profumo in ogni dove. Era il periodo dell’Hanami. (1)
La mattina del dodici aprile, Mark Lenders uscì di casa in una tempesta color confetto, pallone da calcio al piede.
Lo attendeva il suo primo giorno di scuola media, il primo giorno alla Toho School. (2)
Ricordava il suo grande stupore quando i talent scout di uno dei più rinomati istituti medio-superiori della regione del Kanto si erano presentati al campionato nazionale giovanile, per offrire una borsa di studio comprendente un ingaggio nel club calcistico della loro scuola. Mark e il suo eterno rivale, Oliver Hutton, erano stati i candidati in lista. Uno soltanto si sarebbe accaparrato l'ingaggio: colui che avesse sventolato la bandiera della vittoria, risultando così il migliore tra le giovani promesse. 
Spinta dall'indecisione iniziale, la presidente del club della Toho, Daisy Osburne, aveva soppesato l'idea di reclutare entrambi. Hutton e Lenders avrebbero formato una coppia di attaccanti formidabile, con il gioco tecnico del primo e la potenza del secondo. 
Al momento di prendere la decisione definitiva, però, Holly preferì rimanere alla vecchia scuola e nella vecchia squadra. Così, pur non avendo portato la Muppet alla vittoria, ad avere l’ingaggio fu soltanto Mark.
Non ci aveva pensato due volte prima di accettare. Quella borsa di studio era arrivata al momento giusto. Gli dei parevano aver deciso di sorridergli da lassù, per una volta.
I Lenders non erano ricchi e far studiare quattro figli, per una madre vedova, non rappresentava una sfida facile. Mark e famiglia abitavano in una tradizionale e modesta casa alla giapponese, in un quartiere ancor più modesto della prefettura di Saitama, la quale distava da Tokyo poco più di un’ora di treno. 
Nonostante fosse ancora un ragazzino, Mark
aveva sempre cercato di aiutare la sua famiglia in ogni modo. Da quando aveva nove anni si prodigava in vari lavoretti per aumentare le entrate famigliari, come consegnare i giornali o aiutare il signor Sugimoto al chiosco di oden. (3)
Dopo la sconfitta contro la New Team, Mark aveva creduto seriamente di aver compromesso ogni cosa. Non sarebbe mai andato alla Toho, non gli avrebbero mai dato quella borsa di studio, avrebbe continuato a lavorare dopo la scuola rinunciando all’opportunità di entrare in una squadra che gli avrebbe aperto le porte del calcio professionistico. Invece, con sua somma incredulità e gratitudine, la signorina Daisy tornò a rinnovare la sua proposta. Aveva creduto in lui. 
«Adesso è venuto il momento di pensare a te», aveva detto sua madre il giorno in cui Daisy si era presentata a casa loro, informando la signora Lenders che suo figlio maggiore sarebbe diventato, senza alcun dubbio, uno dei più promettenti giocatori di calcio dell’intero Giappone.
E incontrando lo sguardo fiero di sua madre mentre venivano pronunciate quelle parole, come a significare che presto le sue giovani spalle sarebbero state libere dal peso di responsabilità giunte troppo presto, Mark aveva deciso di dedicarsi anima e corpo al calcio ancor più di prima, per assicurare un futuro migliore alla sua famiglia. Anche loro credevano in lui. Non poteva e non voleva deluderli.
Giocare alla Toho non era il suo fine ultimo, aveva delle ambizioni ben più grandi per l’avvenire. Ma era meglio fare un passo per volta. Prima doveva assolutamente battere Oliver Hutton ai prossimi campionati nazionali, solo così avrebbe dimostrato a quelli della Toho che non si erano sbagliati sul suo conto. 
Passò l’ultima mezz’ora di treno a riflettere su questo obiettivo, una specie di chiodo fisso. Non vedeva l’ora di incontrare Hutton sul campo con i colori della nuova squadra.
«Sei nervoso?» gli chiese sua madre, seduta accanto a lui. 
Mark distolse lo sguardo da un paesaggio che non stava realmente osservando, mentre Tokyo scorreva davanti a loro.
«No, sto bene».
Sua madre lo guardava e sorrideva, sapendo quali pensieri occupavano un posto di riguardo nella sua mente. Suo figlio non s’innervosiva per un normalissimo primo giorno di scuola. Scostò una mano dalla borsetta che teneva in grembo, posandola su quella del ragazzo.
«Andrà benissimo»
«Certo, lo so. Non preoccuparti»
«Non lo sono. So che sai cavartela in qualsiasi situazione, ma lascia che ti incoraggi un po’» gli sorrise.
Lui le sorrise di rimando. Quel giorno, la mamma non indossava il solito grembiule o la divisa da lavoro del supermercato, ma un bel completo rosa pastello, con una borsetta in tinta che lui e i suoi fratelli le avevano regalato un paio d’anni prima per il compleanno, dando fondo al contenuto dei loro salvadanai. Il suo viso portava i segni di un invecchiamento precoce, del quale dispiaceri e fatiche erano colpevoli. Ma se fosse riuscito a mettere insieme le parole giuste, Mark le avrebbe detto che non era mai stata più bella. Forse si vergognava troppo per farlo, tutto qui, però non provava vergogna nel pensarlo, perché era sua madre ed era lì per lui, per accompagnarlo alla cerimonia d’apertura nella nuova scuola. 
La fermata della metro distava due isolati soltanto dalla Toho School, isolati che Mark percorse – e avrebbe sempre percorso – con il pallone da calcio incollato alle scarpe… non di certo le più adatte per calciare. Troppo lucide, troppo nuove, come la divisa così scura e seriosa: la cravatta che gli segava il collo, i bottoni della giacca troppo stretti, le maniche della giacca ingombranti. Detestava le divise scolastiche, alle elementari non si portavano. Se fosse stato permesso dal regolamento ne avrebbe fatto volentieri a meno. L’unica divisa che riusciva a tollerare era quella che indossava in campo.
Resistette fino alla fine della cerimonia d’ammissione, dopo il noiosissimo discorso del preside e gli inchini, gli applausi, la finta compostezza dei suo coetanei, i quali si scatenarono in chiacchiere e saluti non appena il direttore pronunciò le parole finali: 
«Vi auguro un piacevole e produttivo anno scolastico!»
Mark slacciò i bottoni della giacca che si aprì sulla camicia bianca, allentando il nodo della cravatta quel minimo da non dar modo ai professori di riprenderlo.
«Scuola privata, regolamento inflessibile» disse una voce conosciuta, il cui proprietario era un po’ più alto e un po’ più magro di Mark, i capelli neri e lunghi sulle spalle. «Ciao, capitano»
«Allora ce l’hai fatta» rispose Mark, voltandosi con un sorriso; uno dei suoi, non troppo aperti, sempre accompagnati da un non so che di sarcastico.
Ed Warner gli rispose con un’alzata di spalle. «I miei non hanno fatto troppe storie, purché porti a casa i voti di sempre»
«Avranno sborsato una bella cifra per iscriverti a questa scuola»
«Se lo possono permettere con la scuola di karate». Ed vagò automaticamente con lo sguardo tra la folla di genitori venuti ad assistere alla cerimonia d’inizio anno, in cerca di suo padre e di sua madre. Li individuò qualche metro più in là chiacchierare con la madre di Mark.
«Lo studio per loro è molto importante, perciò sono rimasti piuttosto compiaciuti della mia scelta: la Toho è un ottimo istituto. Comunque, non ho nascosto la vera ragione per cui ho voluto iscrivermi qui». Ed tornò a guardare l’amico e allargò le braccia. «Non potevo lasciarti senza un portiere, ti pare?»
«Chiaramente no».
Perché era indubbio: Mark sarebbe diventato capitano e Ed portiere titolare della nuova squadra. Pochi potevano eguagliare il loro livello di fuoriclasse e...diciamolo, i portieri come Warner erano una rarità.
Modestie a parte, non era nemmeno quella la vera ragione, ma nessuno dei due avrebbe mai ammesso apertamente che a spingere Ed a seguire Mark alla Toho era stato l’affetto e la stima che li legava da anni. L’intesa tra loro andava oltre il campo da calcio. Si equivalevano come il giorno e la notte. Da quando si erano incontrati parevano quasi aver stretto un patto silenzioso dove l’uno sarebbe sempre stato vicino all’altro. Era un giuramento d’amicizia profonda e sincera che nessuno dei due avrebbe mai infranto.
Per questo Mark non si era stupito nel conoscere la decisione di Ed alla fine delle vacanze primaverili; e non era nemmeno impossibile che di lì a due anni anche l’altro suo migliore amico, Denny Mellow, sarebbe approdato alla Toho School una volta terminate le elementari.
Avere degli amici al proprio fianco in un ambiente del tutto estraneo poteva essere la cosa migliore. Mark temeva in cuor suo di non riuscire ad ambientarsi completamente. La Toho era una scuola per borghesi, una buona fetta dei ragazzi iscritti proveniva da famiglie benestanti, per non dire ricche. Lui sarebbe stato una mosca bianca in mezzo a loro.
Poco dopo, i due ragazzi furono raggiunti dai rispettivi genitori. Ed salutò il padre e baciò la madre sulla guancia, mentre la signora Lenders aggiustava la cravatta di Mark.
Il portiere scoccò un’occhiata divertita al suo capitano, il quale gliela restituì con l’aggiunta di una sfumatura che sembrava tanto dire: ‘se ridi ti ammazzo’.
«Grazie per essere venuta» disse Mark alla madre. «Spero tu non abbia avuto problemi con il lavoro»
«Non preoccuparti, ho chiesto un permesso speciale. Non sarei mancata questa cerimonia per niente al mondo. Sono fiera di te».
Mark si chinò leggermente per permettere alla madre di appoggiare appena le labbra sulla sua guancia.
Un gesto più unico che raro.
Lui non amava le smancerie, gli bastavano le parole; lei non era una donna che aveva potuto permettersi il lusso di coccolare i suoi figli quanto avrebbe desiderato. Ormai Mark stava crescendo, e lei comprendeva il rischio di creargli imbarazzo davanti ai nuovi compagni se avesse osato chiedere un abbraccio.
I signori Warner si offrirono gentilmente di riaccompagnare a casa la signora Lenders con la loro auto. Mark la guardò allontanarsi, promettendosi ancora una volta di fare del suo meglio per non deluderla.
«Non pensavo che tua madre venisse alla cerimonia d’apertura» commentò Ed. «Alle elementari non è mai venuta»

«Nemmeno io ci credo» rispose Mark. Ma era felice, tanto.
Quando la campanella richiamò gli alunni nelle rispettive classi, i genitori se ne andarono. Lo sciame di divise bianche e nere si divise in gruppi: studenti delle medie a sinistra, studenti delle superiori a destra, in due differenti edifici.
«In che classe sei?» domandò Ed, ricordandosi all’improvviso di non averlo ancora chiesto.
«1B» rispose Mark, osservando l’espressione soddisfatta del portiere.
«Allora siamo in classe insieme».
Mark annuì in silenzio, voltandogli le spalle.
Ed sorrise di nuovo. Sapeva che non avrebbe mai ammesso di essere contento per una cosa del genere, non era da Mark Lenders...
Tutti i ragazzi e le ragazze di prima esibivano un’aria un po’ persa ma eccitata: nuova scuola, nuova classe, nuovi compagni e insegnanti. Mark non aveva mai capito tutta quell’ansia, la preoccupazione del come comportarsi, come vestirsi, fare una buona prima impressione. Di sicuro, con il carattere che si ritrovava, si sarebbe inimicato metà della classe nel giro di dieci minuti.
Fu quasi come se i suoi pensieri si riflettessero sul suo volto. Quando un gruppetto di compagni si avvicinò per scambiare due chiacchiere, Mark e Ed si presentarono educatamente. Ma oltre al nome, Lenders non aggiunse altro, e il suo mutismo e disinteresse per la conversazione spinse gli altri ragazzi ad allontanarsi in fretta.
«Ti troverai molto meglio di me in questa scuola, Warner»
«Perché dici così?»
«Eri il secchione della classe» ribadì Mark.
«Temo non sarà la stessa cosa, qui» lo corresse Ed. «La Toho ha la reputazione di avere degli insegnanti molto severi. Basta pensare che all’esame d’ammissione non accettavano una percentuale inferiore all’ottantacinque»
Mark lo fissò mentre prendevano posto nella penultima fila di banchi. «E com’è andato il tuo esame?»
«Piuttosto bene» si schermò Ed, messo spalle al muro.
«In sostanza?»
«Ho preso novanta su cento… »
«Appunto». Mark gli diede una pacca sulla spalla.
«Il tuo invece com’è andato? Non mi hai detto niente»
«Da schifo. Ma a quelli della Toho non importa molto, purché giochi bene a calcio. La borsa di studio serve a questo, e finché mi daranno la garanzia di pagarmi gli studi me ne frego dei voti che prendo».
La bocca di Ed si piegò in un sorrisetto. «La fortuna sfacciata di essere il miglior cannoniere del campionato nazionale giovanile».
«Non sfottere»
«Bè, non è forse vero?».
Ed non mentiva. Mark aveva sudato sangue per arrivare a quella finale, purtroppo perduta. Non si era trattato solo di fortuna, quella borsa di studio era il risultato di duri allenamenti e corse sul campo fino allo sfinimento.
Il primo giorno, i nuovi studenti conobbero diversi professori. La professoressa di giapponese li costrinse ad alzarsi in piedi uno alla volta e presentarsi davanti alla classe.
Mark detestava quel genere di cose, era uno strazio dover centellinare informazioni completamente inutili da dei perfetti estranei, e lo fu il doppio quando toccò a lui doverle elargire.
«Mi chiamo Mark Lenders, vengo dal distretto di Saitama. Frequentavo la Muppet e giocavo nella squadra di calcio della scuola».
E basta.
Silenzio…
«Cosa ti piace fare nel tempo libero?» provò a venirgli in aiuto l’insegnante.
«Gioco a calcio».
Faceva quello, nient’altro. Non aveva hobby particolari, non ascoltava musica (a casa non avevano lo stereo), non andava al cinema né a Shinjuku a divertirsi. La sua vita era fatta di scuola, lavoro, allenamenti, casa. Ma come glielo spiegava ai compagni che la sua infanzia era praticamente finita a nove anni?
«Va bene, Lenders, puoi sederti».
Grazie al Budda e a tutti i kami dell’universo.
Mark r
iprese posto pesantemente sulla sedia. Ed, accanto a lui, sbuffò ironico il suo disappunto.
«Pessima presentazione»
«Odio queste cose»
« Sì,sì, lo so, ma potevi almeno fare uno sforzo»
«Non avevo niente da dire». Mark incrociò le braccia sopra il banco. «Lo ripeto: ti troverai meglio di me qui in mezzo. A me stanno già parecchio sulle palle. Tutti».
Ed rise di gusto. «Non sono ancora iniziate le lezioni, capitano, datti una calmata!».

 

Durante l'ora di pranzo, gli studenti del primo anno vennero scortati da alcuni senpai (4) a visitare l’intero complesso scolastico. L’edificio più grande era diviso in ala ovest e ala est, occupate rispettivamente dalle classi medie e da quelle superiori. Più in là, in una seconda struttura adiacente, vi era l’edificio universitario. Il dormitorio, utilizzato dagli studenti che venivano da lontano, si trovava dietro la scuola, nella zona sud. Accanto all'istituto ovest sorgevano i campi sportivi, poco lontano c’erano la piscina, il palazzetto del ghiaccio e le palestre. Visitarono i laboratori di chimica, la biblioteca, l’aula di arte, di musica e le aule dei club pomeridiani (ce n'era per tutti i gusti). La scuola aveva persino un teatro, dove il club omonimo si esibiva durante i festival scolastici.
Terminato il giro della scuola rimasero pochi minuti prima che suonasse la campanella delle ore pomeridiane. Le prime classi si divisero in gruppetti per dare un'occhiata alle varie attività extrascolastiche e decidere a quale club iscriversi. La 1 A si riunì tutta al campo da calcio, dove Mark, Ed e un altro paio di compagni avrebbero fatto il provino per entrare in squadra.
Girarono un angolo del cortile e finalmente avvistarono il campo delle scuole medie. L'allenatore stava parlando con alcuni ragazzi in pedi vicino a lui, altri erano seduti in panchina a chiacchierare. Indossavano tutti pantaloncini neri e maglia nera a maniche bianche, con una T rossa ricamata sulla parte sinistra del petto.
Vedendo arrivare un'intera classe, uno dei ragazzi si fece loro incontro.
«Quelli di voi che vogliono fare il provino possono rimanere in campo, gli altri devono uscire, per favore»
«Possiamo guardare?» chiese una ragazza di nome Yumi.
«Sì,ma dagli spalti».
Mark, Ed e due loro compagni di classe, Ian Mellin e Nicholas Loson, non si mossero; tutti gli altri presero posto sulle tribune al di là della rete divisoria.
«Ciao, sono Eddie Bright» si presentò il ragazzo che li aveva accolti. «Venite, vi porto negli spogliatoi, così potete cambiarvi»
Mark seguì in silenzio insieme agli altri il suo futuro compagno di squadra. Si cambiò in fretta, ansioso, eccitato, determinato. Tutti lo erano, e allo stesso modo ognuno sperava di ottenere un posto da titolare.
Una volta tornati fuori sul campo, l'allenatore li richiamò all'appello. Il chiacchiericcio formatosi si spense all'istante. Il mister aveva un aspetto severo, un volto per nulla incline al sorriso, lo sguardo attento scrutava la trentina di ragazzi tra prima, seconda e terza media, venuti a sostenere il provino.
«Nervoso?» chiese Ed a Mark.
«Non più di tanto» mentì lui, lo stomaco stranamente attorcigliato.
Perché tutti gli chiedevano se era nervoso quel giorno? Sì, lo era, non c'era bisogno di indagare e farlo innervosire di più.
«Andrà bene». Ed gli diede una pacca solidale sulla schiena, prima di mettersi in fila con gli altri davanti all'allenatore. 
Come al solito si capivano senza parlare. Ed raggiungeva il suo livello di nervosismo e questo servì a far sentire Mark un po' meglio.
«Il mio nome è Makoto Kitazume» si presentò il mister, «sarò il vostro allenatore per i prossimi tre anni. Vi siete presentati in molti, ma sappiate che solo i migliori sedici formeranno la nuova rosa. Tutti i giocatori che hanno fatto parte della vecchia squadra negli scorsi tre anni ormai sono passati alle superiori, perciò siete tutti nuove leve, tutti allo stesso livello, e nessuno sarà privilegiato in qualche modo».
Il mister fece una pausa ad effetto. Per una frazione di secondo e qualche millesimo in più, lo sguardo dell'uomo incontrò quello di Mark.
Forse fu un'impressione del ragazzo, forse no, ma il giovane attaccante non poté fare a meno di chiedersi se Kitazume già sapesse chi lui fosse e il modo in cui gli era stato permesso di essere lì.

«La Toho è una scuola da cui sono usciti i migliori atleti del paese» continuò Kitazume, «non solo nel calcio ma anche in molte altre discipline sportive. Attualmente, la migliore squadra di calcio che abbiamo è quella universitaria. Perciò mi aspetto molto da voi»
«Sì, mister!» rispose un coro di voci.
«Molto bene. Ora ditemi i vostri nomi, in quale squadra giocavate e il ruolo da voi ricoperto».
Mister Kitazume si fermò di fronte a ognuno dei ragazzi, annotando mentalmente le informazioni.
Un'altra volta... , pensò Mark, ricordando la presentazione in classe di quella mattina. Bè, non poteva essere così male visto che si trattava di calcio.
«Mi chiamo Mark Lenders e vengo dalla Muppet, dove giocavo come centravanti».
Kitazume rimase su di lui un attimo di più.
Così era quello il ragazzo tanto favorito da Daisy. Forse si aspettava un trattamento particolare solo per essere stato praticamente già scelto, ma Kitazume non l'avrebbe favorito, lo avrebbe sottoposto al provino come tutti gli altri.

Il mister passò oltre senza aggiungere nulla, né tanto meno prodigarsi in congratulazioni a Lenders per aver vinto una borsa di studio o lodare il suo talento. Dopotutto, Kitazume quel talento doveva ancora appurarlo.
Iniziarono con una serie di palleggi per riscaldarsi, poi passarono ai tiri in porta.
Già dal principio fu chiaro a tutti che Ed Warner sarebbe diventato il portiere titolare. Era di una bravura fuori del comune. Non lasciò passare una palla, e il mister non si congratulò con lui dopo una parata particolarmente acrobatica solo perché era obbligato a mantenere una certa fermezza e imparzialità con tutti. Ma, dalla sua espressione, Ed doveva aver già superato l'esame con larga aspettativa.
Ma la vera sorpresa, dopo Warner, fu senza alcun dubbio Mark Lenders.
Kitazume li divise in due squadre per una partita di prova. 
Era quello che tutti aspettavano.

Ed sorvegliava una rete, ritrovandosi Mark come avversario e riuscendo a parare tre quarti dei suoi tiri; l'altra porta toccò a un ragazzo mingherlino che di fare il portiere non sembrava proprio capace. Ian Mellin giocò sull'ala destra, ma fu spostato indietro come difensore, ruolo che pareva adattarglisi maggiormente. Nicholas Loson venne schierato in attacco insieme a Eddie Bright, e quando Mark riuscì a segnare il gol partita su assist di quest'ultimo, gli parve di giocare con il suo vecchio compagno Denny Mellow.
Non appena toccò palla, Mark partì dalla metà campo avversaria senza fermarsi mai, dribblò tutti gli avversari e in un lampo fu in area di rigore. Pareva avere il pallone incollato ai piedi. Saltò due giocatori e riprese la sua corsa, per poi tirare un destro micidiale da vero fuoriclasse.
Tutti i presenti restarono ammutoliti per qualche secondo.
«Ottimo assist, Bright» disse Mark.
«Grazie. Tu sei veramente incredibile. Dove hai detto che giocavi?»
«Nella Muppet».
Eddie Bright unì le sopracciglia, fissandolo. «Non è la squadra che è arrivata seconda l'anno scorso al campionato nazionale?»
«Sì, lei».
Il viso di Eddie si illuminò. «Allora avevo visto giusto! Tu sei quel Lenders!»
«Ragazzi, basta chiacchiere, ricominciamo!» li richiamò il mister.

Eddie seguì Mark a centrocampo, un'espressione ammirata sul volto.
Nel secondo tempo della partita, Kitazume scambiò la formazione dei ragazzi per testare le potenzialità di tutti anche in ruoli diversi. Ma ben presto gli fu chiaro che la squadra in cui Lenders giocava aveva sempre la meglio sull'altra. Si erano dimostrati tutti quanti dei ragazzi volenterosi e appassionati, ma nessuno, nessuno era come lui. Il gioco di Mark era ciò di cui la Toho aveva bisogno.
Alla termine della prova, il mister fischiò per decretare la fine dell'incontro e li fece rimettere in fila come all'inizio.
«Ottimo ragazzi, siete stati tutti molto bravi. Purtroppo, come vi ho detto, solo alcuni di voi faranno parte della squadra. Fate un passo avanti quando chiamo il vostro nome». Dispiegò meglio il foglio su cui aveva scritto i nomi dei sedici scelti ed iniziò a declamarli.
« Ed Warner, Eddie Bright, Nicholas Loson, Harry Sail, Steven Newton, Michael Spencer, Ian Mellin, Justin Filler, Lucas Milton, Mark Lenders... »
Era fatta!
Mark non li udì neppure gli altri nomi. Ce l'aveva fatta veramente, anche se aveva sempre saputo che sarebbe andata così, borsa di studio o meno.
Inghiottì un'esclamazione di trionfo, un brivido di euforia lo percorse. Incontrò lo sguardo di Ed e un sorriso nacque spontaneo.
Compagni ancora una volta.
D'ora in avanti li attendevano giorni di prove e di battaglie.
Mark sentiva le mani prudere per la voglia di giocare su quel nuovo campo, la sensazione di essere ancora una volta nel posto che gli apparteneva.

Il calcio era la sua unica certezza.
Aveva invidiato chi poteva giocare solo per il gusto di farlo, perché lui non aveva più potuto. Trasformarsi in un surrogato di padre per i suoi tre fratellini era stata una scelta personale e non se n'era mai pentito. Tuttavia, un tempo giocare a calcio era stato un divertimento oltre che un appiglio alla volta di un futuro migliore. Giocare non gli aveva più dato la stessa soddisfazione, ma quel pomeriggio aveva riscoperto il piacere di tirare a calci un pallone. Era un modo per dirsi 'me lo merito' .
A quanto pareva, le parole della mamma si erano rivelate autentiche: era realmente arrivato il momento di lasciare indietro le troppe responsabilità e pensare a sé stessi.





*** *** *** *** ***
Note:

1. Hanami: Letteralmente significa “ammirare i fiori”. Il periodo dell’anno in cui i giapponesi organizzano picnic e feste nei loro parchi per ammirare la fioritura dei ciliegi.

2. In Giappone, l’anno scolastico inizia ad aprile e finisce a marzo dell’anno seguente.

3. Oden: un tipo di spaghetti giapponesi.

4. I senpai sono gli studenti più grandi, anche solo di un anno. I giapponesi hanno una vera ammirazione per i loro senpai, sia a scuola che sul lavoro, a volte li vedono come degli esempi da seguire e ammirare. Il compagno più giovane è invece chiamato kohai.

*** *** *** *** ***

-Spazio autrice-

Inizio quest'avventura in punta di piedi, con tanta ansia e tanta voglia di immergermi in questo nuovo fandom. A dirla tutta non è affatto nuovo, visto che seguivo Holly e Benji da bambina quando ancora esisteva Bim Bum Bam. Su Efp sono sempre stata una lettrice silenziosa e basta. Ultimamente, vuoi per i mondiali, vuoi perché è uscito il remake dell'anime in Giappone, vuoi perché mi sono riletta il manga, ho sentito il bisogno di creare qualcosa a riguardo. In più era da moltissimo che non mettevo mano alla tastiera e volevo riprendere a scrivere presentando una storia dai toni diversi dal mio solito.

Spero che il capitolo non vi abbia annoiato. So che su Mark sappiamo già tutto e forse sono stata ripetitiva, ma quando scrivo mi metto sempre nei panni di chi in un fandom ci viene per la prima volta, e forse sa poco o niente dei personaggi e delle loro vite.

Vi ho lasciato delle piccole note in fondo al capitolo. Qualche piccola nozione sulla cultura nipponica che magari non tutti conoscono.
Se vi ho incuriosito almeno un po', vi sarei grata se lasciaste un commento.
 Alla prossima!

Susan♥

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2. Di una ragazza e il suo sogno ***


2. Di una ragazza e il suo sogno



L'arrivo nella nuova scuola era stato molto meno traumatico di quanto Kira Brighton avesse pensato. Non aveva mai amato particolarmente andarci, ma non era tanto lo studio a disturbarla, quanto la difficoltà a relazionarsi con i suoi coetanei.
In una società dove uscire dagli schemi significava minare l'armonia della comunità, Kira era sempre stata considerata un po' troppo diversa, e per questo suscitava il disagio altrui.
I problemi erano iniziati sin dall'asilo, aumentando mano a mano fino agli ultimi due anni di scuola primaria. La quinta e la sesta elementare (1) avevano suscitato in lei un'avversione tale da portarla quasi a desiderare di continuare gli studi a casa. Se fosse vissuta negli Stati Uniti avrebbe potuto facilmente ottenere il consenso dei suoi genitori – sapeva che era una pratica piuttosto in voga laggiù - ma Kira era giapponese, e sua madre non avrebbe mai speso soldi per un insegnante privato quando poteva benissimo andare a scuola con le sue gambe. La mamma avrebbe detto che era solo un capriccio e lei una sciocca.
Malgrado tutto, Kira non lo avrebbe fatto davvero. Quest'idea era stata, appunto, solo un'idea. Per contro, la mamma non poteva capire il disagio creatosi con i compagni, perché la mamma sembrava una giapponese a tutti gli effetti. Lei no.
Kira aveva sempre pensato che i suoi tratti fossero strani. Il suo viso non presentava linee dolci e tonde, era un po' troppo allungato per essere davvero bello e le gambe avevano qualche centimetro in eccesso. La ragazza giapponese perfetta era piccolina, fine, una bambolina. Lei si guardava e desiderava non essere sempre la più alta della classe; voleva una carnagione lattea come la mamma, il viso dalle guance morbide e tonde come quelle di una ragazzina dolce e carina, con tutte le caratteristiche del caso. Nel suo paese, per essere graziosa e giusta, non era previsto essere brave nello sport quanto e più dei maschi o parlare troppo senza curarsi dell'opinione altrui, come le veniva immancabilmente ricordato dagli insegnanti.
Forse, ora che era una signorina e si apprestava a iniziare la scuola media, avrebbe dovuto correggere i suoi atteggiamenti, diventare più silenziosa e posata. Ma a cosa sarebbe servito? Cambiare dentro non l'avrebbe fatta cambiare anche fuori.
Oltre ai tratti particolari del suo viso, la cosa che saltava subito all'occhio e sembrava creare disturbo agli altri, erano i suoi capelli: castani invece di neri come quelli di mamma, o come quelli delle compagne che la prendevano in giro chiamandola gaijin. Straniera. (2)
Spesso le era stato chiesto se li tingeva. La risposta era ovvia: certo che no!, anche perché non era permesso dal regolamento scolastico. La direttrice della scuola elementare l'aveva tartassata a riguardo. Non venendone a capo aveva chiamato sua madre, per provare che la bambina dicesse la verità nell'affermare che erano sempre stati così.
Ma il vero problema di Kira erano gli occhi...
Lei sognava occhi scuri e profondi invece del colore glaciale che la natura le aveva donato: occhi azzurri chiari, leggermente allungati ma non a mandorla. Ed essi, unitamente al resto, la faceva somigliare davvero a una gaijin.
Ma che colpa aveva lei se qualche lontano avo doveva aver pensato di intercorrere una relazione con qualche bella forestiera? Una volta aveva persino preso in considerazione di telefonare a tutti i suoi parenti per ricreare l'albero genealogico della famiglia, così da venirne a capo. Ma no, troppo caos, troppo lungo e noioso, e poi i parenti di mamma nemmeno vivevano a Tokyo, eccetto la nonna.
Kira si era sempre piaciuta molto da piccola, pensava alle sue diversità come a qualcosa di bello e unico. Ultimamente, però, diventava sempre più difficile accettarsi e farsi accettare.
Io non voglio essere diversa, si diceva. Eppure certe volte voleva. Rifletteva di continuo su quella contraddizione e ne era combattuta.
D'altro canto, il suo aspetto diventava un problema solo quando aveva a che fare con gente troppo stupida per capire l'impossibilità di scegliere come nascere, perché il DNA fa quello che vuole.
La verità era che non aveva preso nulla dalla mamma, lei somigliava a suo padre. Anche lui aveva i capelli castani, seppur di una tonalità molto più scura dei suoi. E Kira somigliava a papà anche per carattere e caparbietà, come non mancava mai di ricordarle la mamma nei momenti in cui aveva qualcosa da rimproverarle.
I suoi genitori erano l'uno l'opposto dell'altra. Spesse volte, Kira si era chiesta come una persona 'forte' come papà avesse potuto sposare una cinica dittatrice come sua madre.
Kira amava in egual misura i suoi genitori, ma con la mamma aveva da tempo un rapporto conflittuale. Il motivo andava a ricongiungersi alla passione sfrenata che la ragazzina nutriva per il pattinaggio artistico, altamente contestato dalla genitrice.
Risa Brighton era la classica donna - e madre - amante delle regole e dell'impeccabilità. Desiderava essere una moglie perfetta, avere uno coniuge perfetto, una casa sempre in ordine, e una figlia obbediente che seguisse le orme dei genitori, laureandosi e trovando un lavoro sicuro per divenire un'adulta seria e responsabile.
Kei Brighton non era spesso a casa per via del suo lavoro presso un giacimento petrolifero in medio oriente, con il quale era impegnato molti mesi all'anno. Risa gestiva un salone di bellezza per una catena di cosmetici e anche lei, quanto a impegni, non scherzava. Kira si ritrovava spesso sola a casa. Quand'era piccola c'era stata la nonna ad occuparsi di lei; ora che iniziava a crescere riusciva a gestirsi anche da sola, cucinandosi i pasti e facendo qualche lavoretto domestico.
Kira ammirava suo padre e adorava i suoi racconti sui paesi esotici che visitava, ma non voleva finire a lavorare all'estero come ingegnere, né aspirava a diventare abile nell'indovinare i colori giusti di fondotinta e ombretti per tutti i tipi di pelle.
Lei voleva diventare una campionessa di pattinaggio artistico.
Era stato così dall'età di cinque anni. Aveva iniziato a quattro con la danza classica su volere della madre, mentre suo padre le regalava un paio di pattini a rotelle definendoli più adatti a lei. Successivamente era passata alle lame da ghiaccio.
Dal primo momento in cui aveva messo piede su una pista di pattinaggio, assaporando la sensazione di scivolare su quella superficie liscia e fredda, non aveva più voluto smettere. Quello sport le era entrato dentro ed era la cosa che più la rendeva felice.
Li per lì, la signora Brighton aveva lasciato che la figlia si iscrivesse a un corso di pattinaggio, credendo fosse una passione momentanea. I bambini si stancano in fretta, aveva pensato. Ma si era sbagliata, e di grosso, anche.
Per sua madre lo sport e i club scolastici erano una perdita di tempo. Invece, Kira si era appassionata e impegnata così tanto che all'età di nove anni aveva sostenuto la sua prima gara nelle regionali giovanili. Nessun risultato eclatante, tuttavia ne era stata così entusiasta da voler tentare ancora.
Sfortunatamente, il corso di pattinaggio non le dava ulteriori possibilità di avanzare come avrebbe voluto. Frequentarlo una volta o due a settimana non era abbastanza, non avrebbe mai progredito a livello agonistico seguitando ad allenarsi in quel modo. Ciò di cui necessitava era un percorso che l'avrebbe portata a migliorare sempre più, aprendole le porte delle competizioni più importanti.
Per questa ragione, tra tutte le scuole medie a cui avrebbe potuto iscriversi, Kira ne aveva scelta una che le permettesse di continuare a praticare quella disciplina sportiva a livelli più alti.
Quella scuola era la Toho.
Tra i suoi club sportivi - che spiccavano per importanza e grado quasi professionistico, tanto da permettersi di iscrivere gli studenti ai vari campionati nazionali - ve n'era uno di pattinaggio artistico di tutto rispetto.
Senza dir nulla a nessuno, Kira aveva studiato come una forsennata per sostenere l'esame di ammissione alla Toho, con un ottimo risultato di quasi cento su cento.
Laddove ci si metteva...
«Quando pensavi di dirci che hai tentato l’esame d’ammissione per una scuola del genere?»
I suoi genitori si erano arrabbiati nel momento in cui si era presentata davanti a loro con la lettera di iscrizione. Scavalcandoli, Kira sapeva di aver fatto male, non avendo tenuto conto dei loro consigli e del loro volere. Ma si era preparata a quell'eventualità, oltre che alle rimostranze di mamma.
«Perché vuoi frequentare questo istituto?»
«Mamma?»
«Sono rimasta piacevolmente stupita del risultato del tuo esame, questo non lo nego» aveva detto Risa Brighton. «Non sei mai stata una gran studiosa, Kira, e saprai certamente che la Toho è un istituto di altissimo livello»
«Con questo non stiamo insinuando che non sarai in grado di star dietro al loro programma di studi» aveva subito aggiunto il signor Brighton, «anzi, siamo molto contenti che tu abbia deciso di impegnarti così tanto; è una delle scuole migliori della città»
«È vero, la Toho School è ottima. Però, dicci la verità» aveva ripreso Risa. «Perché ci vuoi andare?»
Kira aveva stretto i pungi sotto il tavolo al quale stavano cenando. «Perché mi piace quella scuola ed è anche vicina a casa» aveva risposto, ma senza guardarli negli occhi. Al che sua madre aveva intuito che mentiva.
«Kira...»
«Scusa mamma, scusa davvero. Ma se ti avessi detto il vero motivo per cui voglio andare alla Toho non mi ci avresti mandata».
Risa rimase attenta su quel 'ti avessi detto'. Ti...vale a dire tu. A te, ovvero non a papà.
Kei Brighton aveva smesso di mangiare e aveva guardato sua figlia con un sorriso. L'arrabbiatura era sparita.
«Rispondi alla mamma, Kira. Perché vuoi andare in quella scuola?»
«Voi volete che io studi e che mi laurei, ma una scuola vale l'altra, purché lo faccia, no? Così ho pensato che avrei potuto farlo in una buona scuola vicino a casa invece che andare in qualche istituto fuori città»
«E poi...?»
«E...e poi...» Kira aveva riabbassato lo sguardo sulle proprie mani, per poi rialzarlo risoluta. «E poi l'ho scelta perché la Toho ha un team di pattinaggio artistico!»
Kira aveva sostenuto le sue ragioni con forza, sotto il sorriso di papà e lo sguardo severo di mamma.
«Per me va bene, però avresti dovuto dircelo» aveva detto Kei Brighton dopo un attimo.
«Mi sembra una decisione alquanto avventata, nonché un po’ sciocca, dare l’esame per una scuola soltanto perché vuoi far parte di un team sportivo» aveva invece ribattuto sua moglie.
Kira era balzata dalla sedia. «Una studentessa della Toho ha vinto la medaglia d'argento ai campionati nazionali di pattinaggio su ghiaccio, mamma! Una ragazza poco più grande di me! Inoltre, se farò parte del club della scuola non dovrete più accompagnarmi al palazzetto tutte le settimane»
«Lascerai il vecchio team? Non mi sembra un atteggiamento onesto»
«Ho già parlato con l'allenatrice. Era dispiaciuta ma le ho spiegato le mie ragioni e quando ho nominato la Toho si è congratulata della scelta. Dice che da lì sono usciti molti atleti famosi»
«Questo è vero» aveva detto Kei alla moglie. «La Toho è una delle scuole sportive più rinomate delle cinque isole»
La signora Brighton aveva arricciato le labbra in una smorfia di disapprovazione.
«Risa, perché vuoi che nostra figlia rinunci allo sport? È ottimo per i ragazzi della sua età, aiuta a stringere nuove amicizie»
«Non ho affatto detto di volere che rinunci allo sport. Sto solo pensando che lo sport debba venire in secondo piano. Ciò su cui devi concentrarti, Kira, è lo studio, non un hobby»
«Pattinare non è un hobby per me!» aveva ribattuto Kira con enfasi. «Io voglio diventare una campionessa!»
«Non hai ancora tredici anni, non puoi ancora sapere cosa farai nella vita. Inoltre, penso che un istituto con un programma di studio così impegnativo non sia conciliabile con lo sport»
«Una cosa non esclude l’altra. Tantissimi ragazzi studiano sodo e praticano allo stesso tempo qualche sport»
«Sì, però tu sai che non potrai concentrarti solo ed esclusivamente sul pattinaggio»
«Certo, lo so. Te l’ho detto, l’ho fatto anche per far felice te. Studierò, avrò i voti che ti aspetti io abbia, non ti deluderò. La Toho include anche corsi universitari, per cui inizierò le medie e potrò conseguire tranquillamente il diploma e anche la laurea, se è davvero questo che vuoi. Ma tu cerca di capire quello che voglio io, mamma, ti prego».
Kira sapeva che mamma parlava con le migliori intenzioni, ma avevano due concezioni troppo diverse su quale fosse questo meglio. Papà era diverso, papà l'appoggiava e non la rimproverava troppo.
Al termine della cena, la signora Brighton aveva riletto la lettera d'ammissione della Toho School per l'ennesima volta. Non poteva credere davvero che la sua bambina avesse preso una decisione così importante senza consultarla, solo per inseguire un obiettivo incerto. Purtroppo, Kira aveva ragione: se le avesse avanzato una richiesta simile, lei non avrebbe approvato.
«Voglio che tu rifletta sulla scelta che hai fatto».
Ma ormai, Risa non poteva più aver voce in capitolo. A esame sostenuto, Kira non poteva tirarsi indietro.
L'argomento Toho non era più stato toccato per tutto il corso delle vacanze primaverili. Marzo era passato e i ciliegi avevano trasformato i loro boccioli rosa in magnifici fiori. Quello era il periodo dell'anno che Kira amava di più.
Infine, giunse il giorno del debutto alla scuola media...

La sera prima, la signora Brighton entrò in camera di sua figlia sedendo sul bordo del letto. Kira, già pronta per dormire, l'aveva osservata con curiosità.
«Hai preparato tutto per domani?»
« Tutto pronto » rispose la ragazzina, lanciando un'occhiata alla divisa nuova fiammante appesa alla porta, ancora dentro il cellophane della sartoria, così come gliel'avevano consegnata. L'aveva provata solo una volta per poi lasciarla lì in bella vista, dove poteva osservarla ogni volta che voleva. La scuola media – quella scuola media in particolare – rappresentava l'inizio di qualcosa di nuovo. O almeno così sperava. Era andata a prendere tutto l'occorrente con papà prima che lui partisse per il nuovo viaggio di lavoro: una divisa alla marinaretta composta da una giacchetta nera e una gonna a pieghe appena sopra il ginocchio di uguale colore, un fiocco legato sotto il colletto, calzettoni bianchi e scarpe in vernice nere con cinturino. Seria ed essenziale, come quelle di tutti gli istituti privati.
«Ho preso una cosa per te» ricominciò la mamma, senza girarci troppo intorno. Era una donna a cui non piaceva tergiversare. Mostrò a Kira una scatoletta di plastica bianca. «Le ho comprate oggi dopo il lavoro, ho pensato potessero esserti utili. Ovviamente non sei costretta ad usarle».
Con gesto deciso, la signora Risa mise la scatoletta nelle mani aperte di Kira. Lei l'aprì subito senza domandare, ritrovandosi a fissare un paio di lenti a contatto nere.
Lenti a contatto? Sul serio?
«Credo ti risolveranno un bel po' di problemi. Così non si ripeteranno gli episodi degli scorsi anni. Ti va l'idea?»
Kira non sapeva se le andava. No, non le andava per niente, però, alla luce di quanto la mamma aveva detto... Non voleva ricominciare tutto daccapo: le domande, le spiegazioni, le occhiate stranite, le battutine sussurrate...
«Non so metterle» rispose, porgendo di nuovo la scatola alla mamma.
«Ti insegnerò io. Sono lenti usa e getta, dovrai buttarle dopo un giorno. Domani te ne prenderò delle altre. Le ragazze del canale sette le usano spesso ultimamente, sembra che diventerà una moda tra le giovani».
Kira annuì in silenzio, fissando la scatoletta di plastica con risentimento. Le lacrimarono gli occhi quando mamma le mostrò subito come indossarle.
Ma non erano lacrime di bruciore o fastidio, bensì di rabbia.
Perché doveva portare le lenti a contatto? Perché doveva coprire il colore naturale dei suoi occhi? Perché non era nata con gli occhi scuri?
«Dovrai tenerle con cura e stare attenta che non vengano via. Certo, sarebbe molto più facile se non facessi sport»
«Non si leveranno, starò attentissima» assicurò Kira.
«So di avertelo già ripetuto un milione di volte, ma dalle medie il bagaglio di studio aumenterà e sai che è mio desiderio che ti concentri su quello. Non voglio distrazioni, né vederti stressata per sciocchezze come il dover giustificare come sei fatta. Sei d'accordo?»
Madre e figlia si guardarono a lungo in silenzio. Non erano mai state brave a comunicare a parole.
«Grazie, mamma» disse infine Kira, riponendo le lenti con cura nel cassetto del comodino.
La signora Brighton fece per uscire dalla stanza, indugiando ancora un momento sulla soglia. «A proposito...domattina, prima di andare, dovrò mostrarti un'altra cosa»
«Cosa?»
«Ho detto domani. Buonanotte».
Kira dormì bene nonostante l'agitazione, d'altra parte non mangiò nulla percolazione. Le sembrava di avere un sasso nello stomaco e non riuscì ad ingoiare una briciola. Prese la cartella, controllò ancora una volta di avere tutto e seguì la mamma fuori di casa... bloccandosi improvvisamente.
Sul vialetto faceva bella mostra di sé una bicicletta bianca con il suo grazioso cestino di vimini.
«Ma questa...?»
Risa armeggiò distrattamente con la borsetta. «Bé, cosa c'è? Sono settimane che dici di volere una bicicletta nuova per andare a scuola. E poi non avevo ancora avuto modo di farti un regalo per il bel voto all'esame d'ammissione»
Kira impazzì di gioia, saltando al collo della madre. Le stava dicendo che se l'era meritata?
«Grazie, mamma! È bellissima!»
Aveva desiderato una bici per non costringere sempre mamma ad accompagnarla, tanto più che adesso la scuola sarebbe stata solo a qualche isolato da casa. Una bella pedalata ogni mattino non poteva che farle bene oltre a concederle un allenamento extra. A una pattinatrice era utile rinforzare gambe e braccia.
«Posso usarla subito? Ti prego!»
«No, Kira. Per oggi avevamo concordato che ti avrei accompagnata alla cerimonia, quindi prenderemo la mia auto, così potrò andare al lavoro con quella»
«Ma non la usi quasi mai per andare al lavoro»
«Ho deciso così e così faremo. Non permetterò che mia figlia arrivi nella sua nuova scuola in bicicletta, il primo giorno. E poi come dovrei seguirti io? A piedi? Non scherziamo. Su, sali in macchina o arriveremo tardi. La tua bici la potrai usare da domani»
Kira fece un sospiro e obbedì, dando un'ultima occhiata al suo nuovo mezzo di trasporto mentre si accomodava sul sedile anteriore dell'auto.
A domani, mio gioiellino...
L'euforia per quel regalo mitigò l'ansia per ciò che l'aspettava.
La Toho era enorme, come minimo il doppio della sua vecchia scuola. Kira ricordava la sensazione soffocante dell'ultimo anno delle elementari: ogni volta che entrava in classe le si chiudeva la gola, le mancava il respiro. Per contro, anche se ora si trovava in un cortile pieno zeppo di persone tra studenti, professori e genitori, non c'era nessun nodo alla gola a impedirle di respirare.
Sta tranquilla. Non sei più una bambina, sei una studentessa delle medie. Quelle stupide ragazze non sono più qui a prenderti in giro.
Al termine del discorso del preside, Kira si fece scattare qualche foto da spedire a papà, che non aveva potuto assistere alla cerimonia.
«Io vado, sono già in ritardo per il lavoro» le disse poi la mamma, scrutandola attentamente. «Le lenti ti danno fastidio?»
«No, è tutto a posto»
«Bene. Fa la brava»
«Sì mamma, non preoccuparti».
La signora Brighton non baciò la figlia, la strinse solo in un breve abbraccio. Poi, impettita ed elegante come sempre, attraversò il cortile diretta all'auto.
Kira rimase immobile a guardare lei, e poi i ragazzi lì vicino. Tutti salutavano con sorrisi i propri genitori, i quali restituivano con frasi d'incoraggiamento e pacche sulle spalle. Li invidiava un po'. Avrebbe voluto che anche la mamma fosse meno rigida. Ma era sempre sua madre e le voleva un gran bene; aveva persino escogitato quell'espediente delle lenti per risparmiarle domande imbarazzanti e fastidiose. Pregò con tutta sé stessa che il trucco funzionasse non solo quel giorno, ma nel tempo. Sarebbe stato mentire, e se fosse stato per lei le avrebbe gettate via; ma mentire era l'unica cosa che le rimaneva se voleva essere guardata, per una volta, come una ragazza qualunque.
La seconda campanella suonò nel momento in cui varcò la soglia dell'aula. Era finita nella sezione A. Davanti alla piccola folla che componeva la sua classe fece un profondo respiro ed entrò, individuando subito un posto a sedere nell'ultima fila. Notò che tutti sembravano un po' nervosi e questo la rincuorò. Sarebbe stata imbarazzata quanto loro e non avrebbe dovuto nasconderlo.
E se non piaccio a nessuno?
Invece, a qualcuno sembrò piacere, e la simpatia fu subito reciproca.
«Posso sedermi vicino a te?» le chiese una ragazzina con i capelli sulle spalle e leggermente mossi.
Kira sfoderò un sorriso. «Certo!»
La sua compagna di banco sembrava piuttosto timida, perciò Kira ruppe il ghiaccio per prima.
«Piacere, io sono Kira Brighton. E tu?»
«Mi chiamo Jem Edogawa. Piacere mio»
Presentarsi non era stato per nulla difficile, nemmeno quando il professore chiese ad ognuno di fare una breve descrizione di sé davanti alla classe.
All'ora di pranzo, lei e Jem mangiarono vicine, chiacchierando del più e del meno. Cosa più importante, l'altra non aveva ancora domandato il motivo del colore più chiaro dei suoi capelli – nessuno lo aveva fatto.
«Hai già deciso a quale club iscriverti?» chiese Jem. «Ce ne sono parecchi»
«Sì, io farò pattinaggio artistico» rispose Kira con sicurezza.
«Hai le idee chiare»
«Lo pratico da quando andavo in prima elementare»
«Accidenti, che costanza. E sei brava?»
«Beh... sì» Kira arrossì. Non voleva apparire troppo presuntuosa ma era la verità.
Jem parve non curarsene. «Anche a me piacerebbe praticare qualche sport, però non so... Può darsi che verrò con te a dare un'occhiata a quello di pattinaggio»
«Mi piacerebbe se ci iscrivessimo allo stesso club»
Jem annuì. «Sarà divertente»
Kira era speranzosa: che avesse già trovato un'amica?
Quando finalmente suonò la campanella annunciante l'inizio delle attività pomeridiane, balzò come una molla fuori dalla classe.
Jem era molto nervosa, continuava a borbottare e chiedersi se stava facendo la cosa giusta.
«Dopotutto non so pattinare tanto bene...»
«Sta tranquilla. Respira a fondo, così...». Kira chiuse gli occhi ed espirò lungamente, rilasciando il fiato a bocca semi aperta. «Fai entrare aria nei polmoni, ti aiuterà a rilassarti»
Jem si morse un labbro. «Tu sei calmissima» Era una constatazione.
Kira rise e scosse il capo. «No, non è vero. Però so quello che sto per fare, so che lo voglio e che ne sono capace. Questo mi da fiducia in me stessa»
«Io non sono molto sicura di me». Jem si fissò i piedi, abbattuta.
Kira la prese per un braccio, spiccando una corsa verso l'entrata del palazzetto del ghiaccio. «Coraggio, andrà benissimo, te lo dico io!».
Il palazzetto era diviso in due sezioni: da una parte il club di pattinaggio, dall'altra quello di hockey.
Dato che per tenere attiva la pista era necessaria una temperatura inferiore a quella esterna, bisognava indossare delle tenute adatte. Vennero consegnati ad ognuno un paio di pantaloni della tuta neri e una maglia bianca a maniche lunghe con il simbolo della scuola. Sarebbero divenuti la loro divisa da pattinaggio. Ragazzi e ragazze si divisero nei due spogliatoi per cambiarsi, tornando successivamente a bordo pista, dove li aspettavano i loro futuri coach e i senpai già appartenenti al club.
Kira notò che oltre a una buona dose di ragazze vi era anche un nutrito gruppo di maschi.
« Tutti qui, per favore. Silenzio!». Uno dei due allenatori batté le mani e richiamò l'ordine. «Dò il benvenuto a tutti voi. Sono il signor Hiro Kanagawa, e lei è la signorina Sachiko Fukushima. Saremo i vostri coach in questo club che, ci teniamo a precisare, non sarà un semplice circolo scolastico in cui divertirsi. Qui alla Toho School prendiamo molto sul serio le discipline extrascolastiche, soprattutto quelle sportive. In questa prima giornata valuteremo le vostre capacità, in modo da determinare il vostro livello attuale». Kanagawa passò la parola alla sua collega.
«Il nostro club non esclude nessuno. Siamo lieti di insegnare questa disciplina a ragazzi volenterosi come voi. Però, è anche vero che da qualche anno abbiamo costituito un team vero e proprio, che prevede la partecipazione alle varie competizioni annuali. Saremo felici se alcuni di voi riusciranno a raggiungere un livello tale da unirsi a questo team. Siete le giovani promesse del pattinaggio artistico giapponese, uno sport che nel nostro paese non ha ancora raggiunto i massimi livelli. Impegnatevi a fondo e non abbiate paura di sbagliare. Ricordate che tutti i grandi sono partiti dall'ultimo gradino per arrivare in cima alla scala»
Con queste parole, i nuovi allievi si sentirono rincuorati, sorridendosi tra loto e scambiandosi occhiate incoraggianti.
«Molto bene» riprese Kanagawa, «indossate i pattini ed entrate in pista. Faremo un paio di esercizi di prova».
Kira fece il primo passo sul ghiaccio e le sembrò di avere le ali ai piedi. Era il suo elemento, anche se lei amava la primavera.
Uno alla volta eseguirono le richieste dei coach, partendo dalla postura esatta per passare agli esercizi di fondamento; sequenze di passi consistenti in una serie di girate, trottole e salti semplici, esecuzioni basilari che tutti avrebbero dovuto saper eseguire. Troppo presto, però, si scoprì che molti dei ragazzi accorsi non avevano la minima idea di cosa dovevano fare.
Kanagawa fu costretto a dividere il gruppo in due, spostando i più esperti a lavorare con la collega. I senpai stavano a bordo pista ad osservare i nuovi aspiranti pattinatori.
Kira finì nel secondo gruppo, quello dei più esperti, mentre la sua amica Jem nel primo.
«Brighton... Kira Brighton, fermati» la richiamò a un tratto la signorina Fukushima.
Kira frenò a metà del suo esercizio, voltandosi subito verso l'insegnate.
«Mi scusi, ho fatto qualcosa di sbagliato?» Non le sembrava, però...
La signorina Fukushima disse agli altri di continuare, avvicinandosi a Kira con un sorriso rassicurante. «Non era sbagliato, andava più che bene. Ho notato che compi la rotazione dei salti in senso orario e atterri sulla gamba sinistra. Sei mancina»
«Ehm...sì». Era un problema?
«E ho notato anche che hai una buona tecnica e padronanza degli esercizi. Dimmi, da quanto tempo pratichi questo sport?»
«Da quasi sette anni»
La signorina Fukushima rimase stupita. «Capisco... Hai già preso parte a qualche competizione?»
«Ho partecipato alle regionali giovanili. Mi sono piazzata diciassettesima. Non è un gran risultato» ammise Kira, non senza una leggera vergogna. Per quanto si considerasse esperta, non aveva mai vinto nulla.
«Sei molto giovane, la tecnica si apprende con gli anni e l'esperienza»
La signorina la osservò a lungo e attentamente. Quella ragazzina era la migliore del gruppo presentatosi quel giorno. Pattinava con leggerezza e sicurezza, aveva un perfetto equilibrio e controllo del proprio corpo, sapeva come spostarlo, come muoverlo in base ad ogni esercizio eseguito sin d'ora. La padronanza di sé era fondamentale in quello sport, ma c'era più di questo. Sembrava nata per muoversi come una pattinatrice.
«Sai farli i salti puntati?» domandò l'allenatrice, curiosa di testare le sue capacità.
«Sì»
«Puoi farmi un doppio toe-loop?»
«V-va bene». Era il salto più facile tra tutti, l'aveva imparato in fretta.
Senza indugio, Kira prese la rincorsa dal punto in cui si trovava, pattinando prima in avanti sulla gamba destra, poi all'indietro spostando il peso sulla sinistra; puntò i denti della lama del pattino sul ghiaccio, si diede la spinta e saltò. Braccia strette all' altezza del busto per assestare l'equilibrio dell'asse del proprio corpo, due giri in aria su se stessa e atterraggio sul piede sinistro, scivolando indietro spalancando le braccia come le ali di un uccello.
Kira si fermò, chiedendosi se l'allenatrice fosse soddisfatta della sua esecuzione. La signorina Fukushima non aveva smesso di sorriderle.
«Hai un potenziale, Brighton. Cercheremo di sfruttarlo, sei d'accordo?»
«Sì, certo!». Il cuore le batté forte per la contentezza.
«Continua così. Puoi soltanto migliorare».
Kira rimase immobile per qualche secondo, assaporando il significato di quelle parole. Era cosciente di essere solo all'inizio, delle difficoltà che avrebbe incontrato. Per essere un'atleta non solo per passione, ma soprattutto per capacità, non bastava avere un paio di pattini ai piedi ed eseguire i passi giusti. Ci voleva tanta costanza, tanto tempo e tanta fatica per padroneggiare la perfezione. Lei era equipaggiata con basi solide che aveva potenziato non solo durante le due ore settimanali del vecchio corso, ma anche individualmente. Sapeva di aver sempre avuto la giusta conformazione fisica e le doti innate per fare quello che faceva.
Dannazione, al diavolo la modestia: era brava e l'avrebbe dimostrato a tutti.

 

Il signor Sugimoto, famoso per i suoi oden in tutto il quartiere, si costrinse a chiudere il chiosco per un pomeriggio intero tanti petali c'erano nell'aria. Non voleva rischiare di offrire ai suoi clienti un piatto condito con salsa di soia e petali di ciliegio in omaggio offerti dalla casa.
Mark passava ogni mattino a salutarlo prima della scuola. Amico di vecchia data della famiglia Lenders, Sugimoto aveva conosciuto suo padre da ragazzo, a scuola; le strade si erano divise per poi tornare ad incrociarsi di nuovo quand'erano stati adulti.
Il signor Sugimoto era stato un aiuto prezioso per la famiglia Lenders dopo che John era morto. Aveva fatto tutto ciò che era in suo potere, economicamente e non, senza che gli si chiedesse nulla. La madre di Mark diceva sempre che non avrebbe mai potuto ripagarlo come avrebbe voluto, Ma Sugimoto non aveva voluto indietro un soldo, era la classica persona di cuore che dava senza ricevere e senza pentirsi mai.
Per non smentirsi, una mattina diede a Mark un sacchetto di carta marrone colmo di petali di ciliegio.
«Dalli a tua madre, così potrà fare una buona marmellata, di quelle sue»
«La ringrazio, glieli darò dopo la scuola»
«Tua madre è la più bava del mondo a fare marmellate»
Era una verità di quelle inutili da affermare, ma Mark annuì ugualmente.
«Allora, ragazzo, come ti vanno le cose nella nuova scuola? Sono già due settimane, ormai» chiese Sugimoto, arrotolando la tenda del chiosco.
«Vanno bene. Mi sto ambientando nella nuova squadra»
«Ah, certo, certo, la tua squadra!» esclamò Sugimoto con fierezza, quasi ci giocasse lui.
A dirla tutta, Mark non la sentiva ancora propriamente sua, ma era pur vero che era stato eletto capitano all'unanimità e i suoi nuovi compagni erano ragazzi a posto.
«Mi raccomando, impegnati al massimo, Mark. Questo è il primo passo verso una grande carriera!»
«Lo spero davvero. Però, al momento, preferisco camminare un passo dietro l'altro»
Sugimoto annuì più volte. «È giusto. Hai detto una cosa molto saggia. Ma pensa anche a divertirti, eh, non solo a studiare e giocare a calcio. Sai cosa voglio dire, vero?»
No, in realtà non lo sapeva. Per Mark era il calcio il suo divertimento. Quanto allo studio, non c'erano problemi finora.
«Dimmi una cosa». Il signor Sugimoto gli mise un braccio intorno alle spalle con fare cospiratorio. «Con le ragazze come sei messo? Hm?»
«Con le...?» Ma sul serio?
«Su, figliolo, a me puoi dirlo»
«Ehm...Ora devo andare, se no perdo il treno»
Sugimoto scoppiò in una risata. « Ho capito, non vuoi rispondere. Non fa niente, vedrai che ci sarà l'occasione anche per quello. Buona scuola, e salutami la mamma!»
«Senz'altro». Mark si allontanò di fretta, prima che a Sugimoto venisse un'altra brillate domanda in mente.
Ragazze? Veramente era convinto che lui pensasse alle ragazze?
Primo, non ci pensava. Secondo, non ne aveva bisogno. Terzo, se le ragazze erano tutte come le sue compagne di classe, meglio soli che mal accompagnati.
La sua testa era concentrata sullo sport, era sempre stato così e non aveva alcuna intenzione di cambiare atteggiamento in proposito.
Mark aveva sempre pensato che fosse Ed il più adatto a trovarsi una ragazza tra di loro. In generale, Warner non era granché prolisso con la gente, ma dalla sua aveva cordialità e una nutrita dose di buonsenso. Sapeva quando parlare e quando tacere - aveva le sue uscite, ma si trattava per lo più di impulsività pronunciate in circostanze dove la collera prendeva il sopravvento - al contrario di Mark, che con la gente proprio non ci parlava e, in quanto ad autocontrollo, necessitava di un corso accelerato.
Anche Danny avrebbe avuto delle possibilità se non fosse stato così insicuro col gentil sesso.
Ma Mark no. Le ragazze non gli si avvicinavano pur se alcune avrebbero potuto trovarlo bello. Non che ci facesse caso... Più spesso lo definivano troppo rozzo e insolente per catalogarlo tra i maschi interessanti. Non che la cosa gli desse fastidio, anzi, più stavano lontane meglio era. Se pensava a Patty, non invidiava Holly: isterica, chiassosa, appiccicosa. In una parola: fastidiosa. A onor del vero non la conosceva poi molto bene, ma da quel poco che aveva visto di lei, questa era stata l'impressione suscitatagli dal capo della tifoseria della New Team.
E a proposito di New Team... era venuto il momento di pensare al campionato nazionale. Mancavano quattro mesi, ma per esperienza Mark sapeva che l'estate sarebbe arrivata in un baleno, affacciandosi a una simbolica finestra per avvertire che era ora di una nuova sfida.
La soddisfazione all'idea che Hutton si trovasse impreparato alla nuova squadra, alle sue nuove tecniche, gli mandò un scarica di adrenalina in corpo. Salì le scale della metropolitana palleggiando con le ginocchia, senza mai far cadere la palla. Qualcuno si girò ammirato a guardarlo, altri protestarono per la poca considerazione dei giovani d'oggi.
«E' pericoloso giocare in mezzo alla strada!» gli gridò un impiegato impettito agitando la valigetta.
Mark gli rispose con un veloce «Mi scusi», continuando dritto per la sua strada. 
Colpì la palla di testa, la stoppò di petto e la portò sui piedi, iniziando la solita corsa del mattino lungo il viale alberato che portava a scuola. I petali danzavano allegri, alcuni fiori cominciavano a lasciare il posto alle foglie verdi. Aprile andava verso la sua fine. Mancava poco meno di un mese all'inizio delle partite eliminatorie di distretto.
«Questa volta ti batterò, Oliver!»
Con la strada deserta davanti a sé, Mark spedì il pallone dritto verso il muro di una grande casa dall'altro lato della strada, accanto alla curva. La forza del tiro costrinse la palla a una specie di gioco solitario al rimbalzo, da una parete all'altra del viale, poi di nuovo verso la curva. Prima di perderla d'occhio, Mark balzò in avanti, la gamba destra tesa per calciare nuovamente, con tutta l'intenzione di spedire la sfera alta nel cielo. E proprio nel momento in cui il pallone iniziava la sua ascesa verso l'azzurro, dalla curva della strada spuntò una bicicletta. Mark - testa all'indietro, occhi diretti al cielo, la gamba destra ancora tesa in avanti - la vide solo quando la ragazzina che guidava urlò: «Togliti di lì!»
«Ma che…!» Mark sgranò gli occhi dallo spavento.
«Spostati, spostati!»
Mark cercò rapidamente di appiattirsi contro la parete, augurandosi di non essere travolto dalla bici. La ragazzina riuscì a schivarlo all'ultimo secondo, peccato non si potesse dire lo stesso sul tempismo con cui frenò. Mark la vide perdere il controllo della bici e finire dritta dritta giù dal pendio erboso che portava verso il fiume, sempre più veloce, sempre più veloce, finché sparì alla sua vista.
SPLASH!
«Oh, porca...!» Mark si rimise in piedi, correndo appresso alla sconosciuta.
La ragazzina se ne stava semi sdraiata in mezzo all'erba della discesa a massaggiarsi il fondoschiena. Aveva ginocchia e gomiti sbucciati, il contenuto della cartella sparso per il prato... insomma, un disastro!
Per lo meno non era finita dentro il fiume, pensò Mark, al contrario della sua bicicletta...povero rottame giacente immobile tra le acque placide, il cui unico segno di vita era una sgangherata ruota anteriore che girava su sé stessa.
«Ehi, tu! Tutto bene?»
La ragazza alzò il viso in sua direzione. Esitò un istante prima di rispondergli, tastandosi il corpo qua e là. Mark notò in quel momento che indossava la divisa femminile della Toho School.
Lei non sembrava ascoltarlo, stava invece guardandosi introno con frenesia. Quando infine realizzò l'accaduto, schizzò in piedi ed emise un gemito disperato.
«No che non va bene! Oh, che disastro!» esclamò, mettendosi letteralmente le mani nei capelli. «La mia bella bicicletta nuova!»
«Mi sa che ti tocca comprarne un’altra» commentò Mark, facendo qualche passo in avanti per recuperare il pallone da calcio, finalmente tornato sulla terra.
Ancora, lei lo ascoltava a metà. Come in una specie di trance, la ragazza si incamminò con passo leggermente zoppicante verso la riva del fiume, continuando a parlare da sola.
«Non ci posso credere! Ce l’ho da appena due settimane!» borbottò. «E adesso cosa faccio? Mamma mi ammazzerà!»
La ragazza tolse scarpe e calze ed entrò in acqua. Con una mano sollevò di un poco la gonna della divisa per non bagnarla, mentre con l'altra tentava di raddrizzare il mezzo.
Guardandola, Mark pensò che non era tutta a posto. Una persona normale si preoccuperebbe prima della propria incolumità, lei invece pensava alla bicicletta. D’accordo, era una bella bici, si vedeva che era nuova fiammante, col suo grazioso cestino sul avanti, lo smalto lucido – beh, non più tanto lucido ora che stava nel fiume, ma comunque…
«Senti, guarda che stai sanguinando» provò di nuovo, e stavolta ottenne la sua attenzione.
La ragazza studiò per la prima volta con attenzione il proprio stato. «Non è niente di grave. Piuttosto, aiutami a tirarla fuori dall'acqua. Non ce la faccio da sola»
Mark lasciò il pallone e la cartella sulla riva. Imitandola levò scarpe e calze, arrotolando i pantaloni sui polpacci. In quel punto, l'acqua arrivava appena sotto le ginocchia. Era una gran seccatura a dirla tutta, però non poteva lasciarla lì.
«Certo che hai fatto proprio un bel volo»
Lei gli regalò uno sguardo furioso. «E’ tutta colpa tua!»
«Veramente hai fatto tutto da sola»
«Se non fossi sbucato dal nulla non sarei caduta»
«Sei tu che mi hai tagliato la strada, ragazzina!». L’atteggiamento di Mark cambiò come un cielo in tempesta. Lui l'aiutava e lei lo aggrediva. Bel ringraziamento, davvero. «Non ti hanno insegnato a rispettare i segnali stradali?»
«E a te non hanno insegnato a non giocare per strada? » ribatté lei sul piede di guerra. «Tutto questo è successo per evitare che ti tranciassi una gamba! Se non avessi avuto quello stupido pallone… »
«Stupido pallone?» Questo era troppo.
«Sì! Stupido! Non guardavi neppure dove mettevi i piedi, guardavi solo la palla!»
«E tu guardavi per aria! Ti ho vista, sai?»
«Casomai guardavi per aria tu! Io guardavo il tuo stupido pallone arrivare da non so dove!»
L'aveva detto ancora! L'aveva detto!
Se ci fosse stato Holly le avrebbe spiegato che il pallone era un amico, lei non avrebbe assolutamente dovuto insultarlo dandogli dello stupi...
Che cavolo dici, Lenders!
Che discorsi partoriva la sua testa?! Si metteva a ragionare come Hutton, adesso? Mai!
«Stammi a sentire, piccola ingrata: tu e la tua bicicletta siete stupide, tanto per cominciare! E sai che ti dico? Avrei anche potuto aiutarti ma, dal momento che mi stai insultando, la tua bici te la riporti sulla strada da sola!»
Mark abbandonò l'atteggiamento cordiale. Le voltò le spalle e a gran passi tornò sulla riva, si rimise le calze, le scarpe, riprese cartella, pallone e s’inerpicò per la discesa.
«Ehi! Torna indietro!» gridò lei da lontano.
«Te lo puoi scordare!».




*** *** *** *** ***

Note:

1. Le elementari in Giappone durano sei anni (dai 6 ai 12). Le medie tre (dai 13 ai 15 anni), tre anche le superiori (dai 16 ai 18). L'università dura in media quattro anni.

2. "Gaijin" significa letteralmente “persona esterna” (al Giappone). Usato anche in termine dispregiativo per indicare gli stranieri. Prende un significato più duro rispetto al termine ufficiale “gaikokujin”, che significa “persona di una terra esterna (al Giappone)”.

*** *** *** *** ***

 - Spazio Autrice -

Perdonate se ci ho messo molto per pubblicare il secondo capitolo, ma in quanto volontaria presso una colonia felina sono stata impegnatissima con i piccoli pelosi appena nati *^*
Ma veniamo a subito a noi, ho diverse cose da dire...
Non ho parlato molto di Mark in questo capitolo, perché era doveroso introdurre come si deve la protagonista femminile della storia. Io non so quante di voi non sopportino Maki Akamine ma...ecco, io non la reggo proprio, per cui ho sentito la necessità di inventare Kira. Chiedo scusa a chi invece piace Maki, ma io proprio...mmmbheeee, no. Addio e arrivederci.
Come vi è sembrata invece Kira? Tengo molto al parere dei lettori, perciò fatemi sapere che impressione vi ha fatto. Ho scelto di farle praticare il pattinaggio su ghiaccio perché lo amo, amo guardare le competizioni ma non pretendo di essere un'esperta. Cercherò di scendere nei dettagli di questo sport come meglio posso e senza essere tediosa, perché spiegare per filo e per segno come si esegue un solo salto o un passo del pattinaggio è veramente difficile. Se tra di voi c'è qualcuno più esperto di me, si faccia vivo!

Per quanto riguarda i canoni di bellezza giapponesi, di cui ho letto in vari articoli, sono molto diversi dai nostri. Se in occidente una ragazza alta, con le gambe lunghe e formosa è considerata il top, per i giapponesi la vera bellezza femminile è avere un corpo piccolo e delicato, pelle chiara e modi di fare gentili, timidi e affabili. Una ragazza che esce da questi canoni non sarà apprezzata per la sua diversità, al contrario! Per la cultura giapponese, se un giapponese -attenzione, non un occidentale, ma uno di loro - esce dalla canonicità, è generalmente escluso. Come ho scritto nel capitolo, l'essere sopra le righe disturba quel che noi chiameremmo 'quieto vivere', la normalità, e in Giappone l'armonia tra i membri della società è tutto. Ovviamente ci sarà anche chi apprezzerà la diversità o addirittura non ci fa nemmeno caso, soprattutto oggigiorno. Comunque calcolate che la mia fanfiction sarebbe ambientata più o meno tra gli anni ottanta e novanta, e i comportamenti dei ragazzi, quanto lo stile di vita e le abitudini, erano molto diversi.
Kira non l'ho immaginata esattamente statuaria (la disegnerò), però ha diversi problemi con il suo aspetto. Ho voluto renderla 'diversa' per alcuni motivi che capirete più avanti.

Un'ultima cosa, poi vi lascio. Mi sono resa conto di non aver detto cosa significa il titolo di questa storia XD (il tontismo acuto). Sperando di averlo tradotto correttamente, “Haru no toki” vuol dire “Il tempo della primavera”, o “il momento della primavera”. Il perché ho scelto questo titolo lo lascio per la prossima volta, ho già scritto troppo!

Se volete lasciare un commento, mi farebbe piacere ^^
Vado a sognare il mare, lunedì parto! Holydays!!!

Ringrazio tutte voi che avete iniziato a leggere questa storia. Alla prossima!

Susan♥

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3. Con il piede sbagliato ***


3. Con il piede sbagliato
 
 
 
Una giornata iniziata male era sempre sinonimo di giornata orrenda.
Mark avrebbe potuto descrivere così quel mattino. Erano solo le nove e glie n’erano già capitate di tutti i colori.
Dopo lo scontro con la ragazza con la bici si era sporcato i pantaloni di terra ed erba, e se fosse arrivato in classe con la divisa in disordine i professori avrebbero avuto da ridire.
Se doveva farsi notare preferiva aspettare di scendere in campo davanti a tutta la scuola.
Lasciatosi alle spalle il fiume proseguì di corsa l’ultimo isolato. Rallentò, spazzolandosi i calzoni alla bell’è meglio, quando udì la campana suonare in lontananza. Era la prima o la seconda campanella? Se era la seconda era fritto.
Appuntò mentalmente che aveva bisogno di un orologio. Con la paghetta delle ultime consegne dei giornali poteva comprarsene uno a pochi yen.
Mark scattò come un fulmine attraverso la strada, verso il cancello della scuola. Non vide un buco sul marciapiede e vi infilò dentro una scarpa. Imprecando in tutte le lingue che non conosceva, liberando la caviglia e ringraziando di non essersela storta.
Dov’era la manutenzione scolastica?
Si infilò nell’atrio, sorpassò gli armadietti e puntò le scale, quando udì una voce esclamare: «Mark, cosa fai?»
Era il mister Kitazume, in cima alla prima rampa di scale.
«Porta subito quel pallone nel tuo armadietto. Non sai che è vietato introdurre un oggetto simile nell’istituto?»
Merda, il pallone…
«Mi scusi, ha ragione». Se ne stava completamente dimenticando. Lo metteva sempre nell’armadietto. Poteva portarlo a scuola ma non in classe.
Mark tornò indietro in tutta fretta, sgommando con la suola delle scarpe sul pavimento lucido del corridoio producendo un suono stridente.
«Apriti, apriti»
Armeggiò con il lucchetto, aprendo e richiudendo l’anta così velocemente che si schiacciò un dito. Maledisse chiunque, sempre in svariate lingue sconosciute.
Sorpassò l’allenatore, un inchino accennato e su di corsa per le scale.
«Mark!»
Cosa, ancora? «Sì, mister?»
«Le scarpe!» esclamò indignato Kitazume.
Merda, le scarpe… Non le aveva cambiate. (1)
Mark ritornò agli armadietti, aprì il suo e agguantò il paio di ricambio, ficcandoci dentro quelle che aveva indosso. Una cadde, la rimise dentro, poi cadde anche l’altra, poi il pallone. Mark disse più parolacce in quei pochi secondi che in tutta la sua vita passata, presente e futura.
Era in un ritardo mostruoso.
«Buona giornata, mister». Il ragazzo si lanciò su per le scale a tutta la velocità possibile. Se Kitazume aveva risposto al suo saluto, non l’aveva udito.
Arrivò trafelato a lezione già inoltrata. Spalancò la porta della classe, ottenendo l’attenzione generale. Tutti gli sguardi si erano puntati su di lui, compreso quello dell’inflessibile professoressa di Giapponese. Alcuni bisbigliarono ma lui era troppo concentrato sull’espressione della prof.
Mark la detestava dal primo giorno, non sapeva bene il perché. Forse era quella sua aria da aguzzina, gli occhiali ovali con le lenti all’insù e quelle gonne improponibili da governante di inizio secolo.
«Vuoi accomodarti o hai deciso di seguire la lezione in piedi, Lenders?»
«Mi scusi per il ritardo, professoressa Amada». Mark fece un inchino profondo.
«La tua giustificazione?»
Mark rifletté: poteva dirle di essersi fermato ad aiutare una compagna che si era quasi ammazzata dentro il fiume con la bici?
No.
A parte il fatto che sarebbe stata una mezza bugia, perché aveva piantato l'operazione di soccorso a metà. 
«Ho avuto un contrattempo»
«Quando si ha un contrattempo è bene avvisare la scuola del ritardo» puntualizzò la professoressa.
Geniale, pensò lui. Come la chiamava la scuola dal ciglio del fiume? Non avrebbe potuto nemmeno volendo .Impossibile tanto quanto prevedere che una ragazzina scema gli facesse perdere un sacco di tempo.
Mark fece un altro inchino rincarando le scuse, per poi prendere posto vicino a Ed.
Il portiere gli lanciò un’occhiata interrogativa.
Dopo, mimò Mark con la mano: la Amada era rivolta alla classe, non potevano rischiare che li vedesse parlare.
Warner era piuttosto curioso. Non era da Mark fare tardi a scuola. Agli allenamenti era sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene. Alle elementari, quando ancora lavorava al chiosco di oden del signor Sugimoto e consegnava i giornali, Mark lasciava i compagni di squadra al campetto mezz’ora prima proprio per non rischiare di arrivare fuori orario al lavoro. Il suo migliore amico poteva avere tanti difetti, ma non si poteva proprio dire che fosse un ritardatario.
«Che ti è successo?» chiese Ed a bassa voce, quando finalmente l’insegnante si voltò per scrivere alla lavagna un esercizio di grammatica. Ed credeva si trattasse di questioni familiari: forse Mark aveva indugiato nell’aiutare la madre a vestire e far fare colazione ai fratelli più piccoli. O forse si era semplicemente svegliato tardi.
Mark si nascose dietro il libro di grammatica. «Una cretina mi ha quasi ammazzato con la sua stupida bici».
Dapprima perplessa, l’espressione di Ed cambiò rapidamente a divertita.
«Ridi, Warner, e le ragazze non avranno più commenti per il tuo sorriso smagliante»
Ed gli diede una gomitata nello stomaco da sotto il banco. «Non prendermi per i fondelli e non minacciare. Stavo solo cercando di immaginare la scena»
«Mi sembra piuttosto che tu abbia voglia di prenderle in questi ultimi tempi».
La voce dell’insegnante richiamò l’attenzione della classe. Mark recuperò in fretta l’astuccio e il quaderno, iniziando a copiare dalla lavagna.
«Più tardi ti racconto» fu l’ultima cosa che disse a Ed per tutta l’ora.
L’irritazione divampata in rabbia così a sorpresa ardeva ancora. Sfogandosi con Ed sarebbe riuscito a smaltirne un bel po’.
Non era mai un buon segno quando le giornate iniziavano col piede sbagliato.
Era tutta colpa di lei se si sentiva così sin dal mattino. Tutta colpa della ragazza con la bici.
 
 
Jem Edogawa aspettava la sua amica da diversi minuti davanti al parcheggio delle biciclette della scuola. La puntualità non era il punto forte di Kira, ma quel mattino ci stava mettendo veramente troppo. Jem iniziò a preoccuparsi. Fu sul punto di passare in segreteria a domandare se per caso la madre di Kira avesse chiamato per avvisare che la ragazza sarebbe stata assente.
Proprio nel momento in cui rifletteva sul da farsi, però, ecco spuntare un'arrancante Kira Brighton che si trascinava dietro la sua bici.
Jem si chiese perché la portasse a mano e non vi fosse seduta sopra. Kira adorava quella bicicletta tanto quanto amava i suoi pattini da ghiaccio.
Dopo aver continuato ad osservare la figura dell’amica avvicinarsi, Jem iniziò a intuire che la bicicletta aveva qualcosa di sbagliato. Quando infine Kira fu a pochi metri da lei, riuscì finalmente a giudicare in che stato si trovavano entrambe.
«Kira-chan, che hai combinato?!»
«Un deficiente mi ha quasi spedita nel fiume con la bici!».
Lo sguardo cupo, i capelli in disordine, un ginocchio che ancora sanguinava e la cartella chiusa a metà, Kira trasportava la sua preziosa bicicletta attraverso il cortile deserto.
Jem la seguì da vicino, guardandola cercare di raddrizzare quello che era ormai una specie di trabiccolo.
«Ma come è successo? Chi era?»
«Non ne ho la minima idea! È spuntato fuori dal nulla» iniziò a spigare Kira, sistemando la bicicletta nel vano apposito del parcheggio. «Stavo pedalando in tutta tranquillità, quando a un tratto compare questo energumeno con un pallone da calcio che, tra parentesi, quasi mi colpisce in pieno. Ero proprio sulla curva del fiume. Ho dovuto sterzare all’ultimo per schivare la palla e non investire lui, solo che la manovra non mi è riuscita tanto bene…»
«Sei finita nel fiume?!» domandò Jem allarmata.
«Non io, la bici. Non vedi com’è conciata?».
«Nemmeno tu hai un bell’aspetto, Kira-chan»
«Grazie tante… Andiamo, sta dritta!». Kira trafficò per un po’ con la sua bicicletta. Anche con il cavalletto abbassato faticava a reggersi in piedi. Il vero problema era la ruota anteriore: i raggi si erano danneggiati nell’impatto della caduta.
«Ecco!» fece speranzosa. Provò a lasciarla andare, le braccia tese, pronta a sorreggerla nel caso fosse caduta di nuovo.
E infatti cadde.
La ruota sgangherata sbilanciò tutto il peso del mezzo.
«È inutile, è distrutta!». Kira si accasciò contro la bicicletta, piangendo amare lacrime. Un secondo dopo si rialzò con sguardo omicida. «Se lo becco lo ammazzo!».
«Hai detto che aveva il pallone…» Jem si fece pensierosa. «Era uno studente della nostra scuola?»
Kira rifletté. «Ora che mi ci fai pensare, credo avesse la divisa della Toho»
Jem era curiosa di scoprire l’identità del ragazzo in questione, mentre a Kira non importava un fico secco. Lei voleva solo trovarlo e dirgliene quattro.
«Che ne dici di andare prima in infermeria?» suggerì Jem. «Sanguini, non sei un bello spettacolo. Se ci sbrighiamo faremo in tempo prima dell’inizio delle lezioni, e così potrai raccontarmi com’è andata».
Salirono in infermeria, dove rimasero più del dovuto. L’infermiera era un tipo tanto apprensivo che costrinse entrambe nel suo ufficio, chiedendo vita e miracoli sull’accaduto. Era una donnona alta e corpulenta, dal viso rubicondo. Somigliava tanto a una di quelle zie da romanzo che pizzicano sempre le guance del povero nipote di turno.
Per sua fortuna, Kira non si prese i pizzicotti; in compenso arrivò una bella ramanzina. L’infermiera le ordinò di non muoversi dall’infermeria finché il ginocchio non avesse smesso di sanguinare.
«Farò tardissimo a lezione!» protestò la ragazza, soffiando sulla ferita. Il disinfettante bruciava da morire.
«Ci penserò io a dire al professore perché non sei arrivata in classe in tempo, non ti preoccupare» la rassicurò Jem, che era stata obbligata a farsi visitare per far contenta l’infermiera.
«Voi giovani non avete la minima considerazione per la vostra salute» ricominciò questa, quando Jem fu uscita. «Fa vedere in che condizioni sono le altre sbucciature».
Kira sospirò e si lasciò mettere garze e cerotti anche sui gomiti e l’altro ginocchio. Tutta quell’apprensione le parve eccessiva. Dopotutto era solo ruzzolata giù da un pendio erboso. Insomma, roba da nulla se paragonato a quando si era rotta il gomito dopo una brutta caduta sulla pista da ghiaccio. Il medico da cui mamma l’aveva portata non l’aveva fatta così lunga. Essere una sportiva comprendeva il potersi ferire molto peggio di così, era abituata a lussazioni e ammaccature. Quelle sbucciature nemmeno facevano così male.
A far più male era l’idea di quel che avrebbe detto la mamma quella sera, quando avesse scoperto in che stato si trovava la bicicletta. Le si aggrovigliava la pancia se ci pensava.
La mamma non era il tipo che ti accompagnava da un ciclista a verificare se era possibile far qualcosa per la ruota rotta. Più probabile l’arrivo di un rimprovero, e che la bici fosse poi rinchiusa in cantina – o peggio, che finisse direttamente nel cassone dell’immondizia – e che mamma avesse aggiunto di scordarsene una nuova almeno fino a Natale.
Risa era così, intransigente su tutto.
«Mi raccomando» disse ancora l’infermiera. «Non dovrai assolutamente prender parte agli allenamenti questo pomeriggio, intesi?»
«Ehm…sì, sì». Kira se ne andò dall’infermeria dopo un quarto d’ora, acciaccata e abbattuta, arrivando in classe a passo svelto quanto le gambe glielo concedevano. La pelle lacera sulle giunture tirava e dava un fastidio tremendo. Ma non avrebbe rinunciato ad allenarsi, l’infermiera poteva attaccarsi al primo tram che passava.
Il professor Holland, l’insegnante di matematica, non si pronunciò sul suo ritardo, tanto che Kira pensò che le scuse di Jem avessero funzionato.
Purtroppo, a fine lezione ebbe una brutta sorpresa.
«Brighton, vieni un momento qui» le disse il professore.
Kira si alzò in fretta e andò alla cattedra. «Sì, signore?»
«Sei arrivata tardi, stamani»
Kira si scusò con un inchino. «Mi dispiace. Ho avuto un piccolo incidente stamattina e ho dovuto recarmi in infermeria. Per questo ho tardato»
«Sì, lo so, Edogawa me lo ha spiegato. Niente di rotto?»
«No, niente»
«Mi fa piacere. Tuttavia, questo non ti esonera da un punto di demerito». Holland fece scattare la chiusura della valigetta. «Alla fine delle lezioni ti fermerai a fare le pulizie in classe»
Kira scattò sulla difensiva. «Non è il mio turno di pulizie, oggi» (2)
«Lo so»
«Ho gli allenamenti di pattinaggio, nel pomeriggio!» protestò più viva. «È importante!»
Al professore dispiacque ma le regole erano regole. «La puntualità è essenziale quando si ha un dovere da compiere. Il dovere di uno studente è lo studio, e tu sei arrivata in ritardo venendo meno a parte di quel dovere. Non è una punizione, è solo un richiamo, Brighton».
Il professor Holland salutò e uscì dall’aula.
Kira rimase davanti alla cattedra a fissare il nulla. Rimanere per il turno di pulizia significava perdere almeno venti minuti di allenamento.
Non era giusto.
Possibile che quella scuola fosse così severa? Le medie erano davvero diverse dalle elementari. La mamma aveva avuto ragione a metterla in guardia. E pensare che Kira aveva creduto fossero soltanto esagerazioni. Bastava così poco per punire uno studente? Perché Holland poteva dire ciò che voleva, per lei quella era una punizione.
«Non ci posso credere» sbuffò tornando al posto.
Jem la guardò preoccupata. «Ti ha castigata per il ritardo?»
«Pulizie extra. Salterò l’inizio degli allenamenti»
«M-ma il mister Kanagawa ha detto che questa settimana cominciamo a prepararci per la festa dello sport»
«Lo so, non mi ci far pensare». Kira appoggiò le braccia al banco e vi posò il mento. Avrebbe deluso la signorina Fukushima non presentandosi puntuale agli allenamenti. La co-allenatrice del club puntava molto su di lei, glielo aveva fatto intuire sin dalla prima lezione.
La Fukushima programmava di far partecipare anche le nuove leve all’annuale festival sportivo che si sarebbe tenuto in giugno. Per tradizione, da quando era nato il team di pattinaggio, i suoi allievi aprivano la manifestazione scolastica con un’esibizione collettiva. Kira voleva pattinare insieme ai suoi senpai. Non poteva saltare nemmeno mezzo secondo di allenamenti se voleva mantenere la fiducia che l’allenatrice riponeva in lei.
«Mi spiace, Kira-chan. Forse avrei dovuto essere più convincente con Holland»
«Ma quale mi dispiace, non è mica tua la colpa, Jem» la rassicurò Kira. «La colpa è dell’energumeno che mi ha tagliato la strada stamattina!». Alzò un pugno in un gesto determinato. «Lo troverò! Mi deve delle scuse e una bici nuova!». 
 
 
 
Alla fine della prima ora, Mark ripercorse insieme a Ed l’incidente – anzi, gli incidenti – di quella mattina. I due ragazzi se ne stavano sulla porta, come molti altri studenti delle altre classi, a sgranchire un po’ le gambe mentre i professori veleggiavano da un’aula all’altra per il cambio d’ora.
«Ora capisco perché non hai trovato una scusante adatta. Non è facile giustificare una serie di disgrazie» fu il commento di Ed. Non aveva mai abbandonato l’espressione divertita. «Come hai fatto a farti quasi travolgere da una biciletta? Non guardavi la strada?»
«Certo che guardavo la strada! Mi sono solo…distratto un attimo»
«Mark Lenders che si distrae e perde il controllo?»
«Ero impegnato in un palleggio particolarmente difficile»
«E la povera malcapitata dove l’hai lasciata?»
«L’ultima volta era ancora al fiume» disse Mark con nonchalance. «Poi…boh. Sarà arrivata a scuola, presumo»
«L’hai abbandonata?!»
«Abbandonata…che esagerazione». Non l’aveva abbandonata, pensò Mark – il senso di colpa che faceva capolino da un angolo misero misero della coscienza – aveva solo lasciato che il destino facesse il suo corso.
Ed si corresse. «Okay, diciamo che hai lasciato una ragazza nel fiume. E' la stessa cosa». 
«Non era nel fiume, era in riva al fiume. L’acqua era bassissima in quel punto».
«Va bene, ma l’hai lasciata sola»
«Cavolo, Warner, perché la fai tanto lunga? Mica l’ho affogata!»
Ed si coprì la faccia con una mano. «Da te me lo potrei aspettare»
Mark incrociò le braccia ed emise un verso annoiato.
«Lenders?»
Era la professoressa Amada che usciva dalla classe. Mark e Ed si spostarono all’istante per lasciarla passare.
«Grazie, ragazzi. Lenders, visto il tuo ritardo, alla fine delle lezioni dovrai trattenerti in classe alcuni minuti in più: recupererai il tempo che hai perso questa mattina»
«Cosa? Perché?» esclamò Mark, risentito.
«Te l’ho appena spiegato il perché, Lenders. La puntualità fa parte della disciplina che impartiamo in questo istituto. Se gli alunni non avvisano la scuola, siamo costretti a dare una punizione per far capire loro l’importanza di certe mancanze. Una persona puntuale è anche una persona affidabile». La Amada calcò sull’ultima parola.
«Non mi è stato possibile avvisare, altrimenti lo avrei fatto» replicò Mark con vivacità. «Non sono una persona incoerente».
Ed accennò un movimento della mano, come a intimargli di non esagerare.
La Amada strinse le labbra. Non ammetteva un atteggiamento ribelle nella sua classe. Lei era l’insegnante e lui lo studente. I ruoli erano chiari.
«Misura il tono, Lenders»
Mark si zittì, ingoiando i tanti insulti e le rimostranze che gli salivano alle labbra. Avrebbe voluto dirle ‘non è stata colpa mia’, ma suonava terribilmente classico e patetico...
«Un domani potresti trovarti ad arrivare tardi sul lavoro, Lenders, e all'ora non avrai un insegnante indulgente come lo sono io a risolvere la faccenda con un provvedimento tanto semplice». La professoressa raddrizzò gli occhiali sul naso. «Rimarrai in classe e userai quel tempo per fare i compiti che ti ho assegnato. Ti ho lasciato il foglio con degli esercizi sul banco. Li voglio pronti per le tre. Consegnali in sala professori, sarò là».
«Sì» ripose Mark afono.
«Bene. Buona continuazione, ragazzi».
La professoressa Amada scivolò fuori dall’aula. Non appena fu lontana, Ian Mellin e Nicholas Loson accorsero per sapere che cos’era accaduto.
«Ti trattiene in classe alla fine delle lezioni?» fece Ian. «Non sei arrivato così in ritardo! Io arrivo sempre in ritardo ma non ho mai…»
Ed gli diede di gomito. «Non rigirare il coltello nella piaga, se non vuoi che esploda».
«Scusa, Mark» disse Ian.
Ma Mark sembrò ignorarlo. Tornando al posto trovò sul banco un foglio scritto di pugno dalla professoressa con una serie di esercizi grammaticali. «Evidentemente, per i suoi standard, tu arrivi in orario, Ian»
«Poteva anche fartela passare, dopotutto» aggiunse Nicholas.
Mark strinse il foglio degli esercizi nel pugno, gettandolo sotto il banco e augurandosi che la Amada inciampasse in quella palandrana che portava addosso.
Per completare quei compiti extra occorrevano parecchi minuti. Non poteva far tardi anche agli allenamenti! Kitazume non era ‘indulgente’ quanto la Amada…sempre se lei si potesse definire tale.
«Ci penseremo noi a parlare con il mister» lo incoraggiò Ed, cercando di tirargli su il morale. Ma quando Mark sfoderava il solito cipiglio, fargli cambiare umore era come sperare di vincere la lotteria.
«Sì, vedrai che parlerà lui alla Amada e le dirà che non puoi assolutamente restare in classe» disse Ian.
«A lei non importa niente se tu salti gli allenamenti» riprese Ed, «quella odia ogni tipo di attività fisica sulla terra. Ma a Kitazume importa eccome! Se gli spieghiamo perché ti ha messo in punizione sono sicuro che la reputerà una sciocchezza e ti dispenserà da questo stupido reclamo».
Mark giocherellava con la biro, picchiettandola ritmicamente sul quaderno. «Tu dici?». Riteneva arduo un gesto benigno da Kitazume, ma apprezzò il sostegno di Ed. «Va bene, proviamoci»
Ed annuì. «All’ora di pranzo andiamo a parlargli»
Così fecero.
Trovarono il mister nel suo ufficio, il quale li accolse con aria un po’ sospetta. Era assai raro che i ragazzi entrassero lì dentro se non era lui a chiamarli, o se non dovevano chiedergli qualcosa di urgente che riguardasse la squadra.
«Sicché volete l’esonero da una punizione impartita da un insegnante»
«Non noi, Mark» precisò Ed.
Kitazume rifletté. «Ho capito. Mi dispiace, non vi posso accontentare»
Quattro voci si unirono e mischiarono in protesta.
«Ragazzi, per favore! So benissimo che ai vostri occhi appare come una cosa da niente, ma secondo il giudizio della vostra insegnante non lo è. E ad essere franco, anch’io avrei penalizzato un ritardo del genere»
«Una manciata di minuti!» protestò Ed.
«Erano più di una manciata di minuti, Warner. Stamattina ho incontrato Mark io stesso, ed era molto in ritardo».
Ed sospirò, avvilito.
«Non ho tardato per pigrizia!» replicò Mark con enfasi. «Sarei entrato in classe in perfetto orario se non fosse stato per…» una stordita, cretina, imbranata, «un inconveniente che mi ha trattenuto».
«Che tipo di inconveniente?» indagò il mister.
«Ecco…ehm, una ragazza è caduta sulla strada mentre venivo a scuola e mi sono fermato ad aiutarla»
Bugia.
Ian e Nicholas si scambiarono un’occhiata. Ed – che sapeva la verità - strabuzzò gli occhi come un gufo.
«Non è vero!» sibilò. Se Mark non aveva fatto altro che insultare il ricordo di quella poveretta per tutta la mattinata!
«Taci» soffiò Mark. Non aveva tempo né intenzione di spiegare la faccenda a Kitazume.
«Un gesto gentile» si congratulò il mister. «Tuttavia mi dispiace, non posso scavalcare un mio collega. Se la professoressa Amada crede sia bene per Mark rimanere in classe, non sarò io a lamentarmi con lei»
«Ma mister, non sì è trattato di una violazione alle regole» esclamò Ian.
«Mister, per favore…» pregò Nicholas.
Sebbene non fosse totalmente contrario al punto di vista dei ragazzi, Kitazume non poteva mostrarsi parziale. Mark era senza dubbio la punta di diamante della squadra che stava costruendo, un elemento essenziale. Però, se avesse parteggiato per il ragazzo, sia Mark che tutti gli altri si sarebbero aspettati di venir salvati da lui ogni volta che fosse sorta una difficoltà.
Un po’ di disciplina non faceva male. Kitazume stesso era di quel partito.
«Non posso, ragazzi. Non fatemelo ripetere di nuovo. Adesso sbrigatevi e andate negli spogliatoi. L’intervallo del pranzo è finito, vi voglio sul campo tra dieci minuti. Mark, tu devi tornare in classe».
Amareggiati e arrabbiati, i quattro ragazzi uscirono dall’ufficio dell’allenatore. Ed, Nicholas e Ian tagliarono per gli spogliatoi e poi scesero in campo, ognuno al suo posto. Mark si trascinò di malavoglia di nuovo dentro l’edificio.
«Dov’è Mark? È assente?» chiese Eddie Bright.
La squadra si riunì attorno ai tre compagni di classe di Lenders per saperne di più, mentre si esercitavano ai rigori.
«Siete stai troppo ottimisti» disse Eddie, posizionando la palla sul dischetto. «Pensavate veramente che il mister esonerasse Mark dalla punizione della Amada?». Eddie tirò, angolato in basso a destra.
Ed si tuffò e agguantò la palla. «Tentar non nuoce, no?» disse rialzandosi. «Anche se, in effetti, non ci speravo poi molto. Sail, tocca a te tirare!»
«Mark deve stare attento» disse Lucas Milton, mentre Henry Sail si metteva in posizione. «Mia sorella è in seconda media e non brilla in grammatica. Fa parte del club di pallavolo, e l’anno scorso è stata costretta a perdere l’inizio di ogni allenamento perché la Amada la tratteneva in classe di continuo».
«Può farlo?» chiese Ian.
Lucas alzò le spalle. «Penso di sì, visto che lo ha fatto. Mia sorella dice che ogni anno prende di mira uno studente e lo tartassa per un po’. Per me è sadica»
«Non esagerare»
«No, è vero, Ian»
«A me non sembra così male» ribatté Steven Newton.
«Tu sei un secchione» lo apostrofò Eddie – che era in classe con Steven – come fosse un insulto. «Non fai testo. Per te gli insegnanti hanno ragione a prescindere»
«Bè, è una brava insegnante» disse ancora Steven. «Sì, ha un brutto carattere: è isterica, severissima e tutto il resto, ma basta prenderla per il verso giusto».
Ed parò il rigore di Sail e rilanciò. «Speriamo non si faccia prendere di mira lui» pensò a mezza voce.
Era proprio quello il punto: Mark non la prendeva affatto per il verso giusto. Non prendeva nulla per il verso giusto, né la Amada né nient’altro. Per lui il bicchiere era sempre mezzo vuoto. Finché ogni rimprovero si trasformava in un affronto personale, Ed dubitava che la vita scolastica del suo capitano cambiasse in positivo. Mark non era un ragazzo irrispettoso, solo non sopportava di essere comandato da nessuno, nemmeno dagli insegnanti. Questo poteva trasformarsi in un serio problema se la Amada avesse scelto Mark Lenders come prossima vittima sacrificale.
 
 
«Al diavolo…» mormorò a denti stretti, mordicchiando distrattamente il fondo della penna.
Mark era chino sugli esercizi di grammatica da quasi un quarto d’ora, ma non riusciva a concentrarsi. Si accorse di aver commesso un errore, fece uno scarabocchio e riscrisse la risposta esatta accanto. Erano esercizi abbastanza facili, la testa però non c’era, se ne stava da tutt’altra parte.
Le finestre dell’aula erano chiuse ma da fuori risuonava ugualmente l’eco dei campi sportivi.
Se non si decideva a terminare quei compiti extra non sarebbe mai sceso.
Concentrazione, concentrazione…
Cosa gli avrebbe detto il signor Kitazume? Ai suoi occhi sarebbe apparso come una persona indolente e ritardataria? Mark non voleva prendersi i rimproveri del mister. Poteva sopportare quelli di tutti gli insegnanti messi assieme ma non quelli del suo allenatore. Anche con Jeff Turner era stato così. Lo sport era la materia più importante, benché non fosse una materia. Per Mark, una lode dal mister significava molto più che un bel voto in pagella.
Cancellò un altro errore, quando l’inchiostro della penna lo abbandonò.
«Dai!». Mark la agitò un poco ma quella decise di non scrivere più. Frugò nell’astuccio, sperando di averne un'altra.
Non l’aveva.
Si alzò dal banco per prenderne una dal portapenne sulla cattedra. Fortuna che i prof ne lasciavano sempre alcune di riserva.
Tornò a sedere, chinandosi sul foglio con una mano tra i capelli.
Quella giornata si stava rivelando un record di sfortune dopo l’altra.
Maledetta strega dalla palandrana a fiori… e maledetta la ragazzina che aveva incontrato sulla sua strada quel mattino!
Era cominciato tutto così. Era colpa sua se la sfortuna sembrava esserglisi attaccata come una sanguisuga.
Palleggiava così bene su quel viale da solo, non c’era quasi mai nessuno a disturbarlo. Era diventato una specie di rituale: passare sotto la cortina di petali danzanti nella brezza mattutina era rilassante, e correre con il suo pallone lungo i muri delle case gli dava la giusta carica. Il viale dei ciliegi era la sua scorciatoia segreta, un angolo di pace che sbucava sul fiume, quasi surreale nella caotica Tokyo. Passava poca gente da quel punto. Non esisteva un vero marciapiede sul greto del fiume, solo una svampita poteva pensare di pedalare a tutta velocità dove non c’era che una striscia di asfalto tra il muro delle case e il pendio erboso. Camminarci – correre – era un conto, ma andarci in bici…
In pochi secondi aveva trasformato in un incubo quella che doveva essere una normalissima giornata di scuola.
L’incubo finì mezz’ora più tardi.
Mark sospettava che la Amada avesse calcolato appositamente il tempo in cui quegli esercizi andavano svolti.
Gettò dentro la cartella le sue cose alla rinfusa, uscendo a passo spedito dall’aula, diretto in sala professori. Accontentata la vecchia ciabatta poteva raggiungere i suoi compagni di squadra, sperando che il mister non se la fosse presa troppo. Avrebbe chiesto a Kitazume di potersi allenare mezz’ora in più. Quello sì che era un buon modo di recuperare il tempo.
 
 
Kira si concedeva un minuto di pausa, mentre aspettava che uno dei due due compagni di pulizie tornasse in classe con il secchio d’acqua pulita..
Aprì la finestra, godendosi il venticello primaverile. Forse prima di sera avrebbe piovuto, l’aria sembrava cambiata, più pungente. Guardò giù, verso i campi sportivi. Da quel lato dell’edificio si vedeva benissimo quello da calcio. Il tizio di quella mattina doveva essere tra i ragazzi che si stavano allenando in quel momento. Le sarebbe piaciuto scendere e andare dritta là in mezzo, scovarlo e costringerlo a chiederle scusa.
Non poteva passarla liscia dopo averla lasciata giù al fiume in quel modo.
Quando Kira si legava una faccenda al dito, non c’era verso di distoglierla.
Il compagno di classe tornò con il secchio. «Brighton, se vuoi puoi andare, ci pensiamo noi a finire. Dopotutto era il nostro turno di pulizia, non il tuo»
«Veramente?»
«Certo» disse il secondo compagno. «Però fatti mettere in detenzione più spesso, così ci aiuterai di nuovo e anche noi termineremo prima»
«Spiritosi! Non credo proprio. Voi finite prima ma io faccio tardi». Guardò il suo orologio da polso. Venti minuti persi. L’ultima volta, il coach Kanagawa aveva detto che quella settimana avrebbero scelto la musica di accompagnamento per l’esibizione collettiva. Ci sarebbe voluto più di qualche minuto per mettere d’accordo tutti. Forse non avevano ancora cominciato il vero e proprio allenamento.
«Bè, allora vado. Bye bye».
Kira uscì dalla classe e attraversò il corridoio correndo. Non c’era nessuno in giro, perciò nessuno l’avrebbe rimproverata. Doveva sempre starsene tanto composta e zitta durante le lezioni, era una tale noia. A lei piaceva correre, era una ragazza energica. Mamma però voleva che sua figlia si comportasse adeguatamente, e Kira obbediva per farla contenta.
La mamma… la bici.
No, non voleva pensarci adesso. Più tardi, prima avrebbe dovuto prepararsi un discorso per affrontare la cosa… o magari poteva nascondere la bici in garage e non dirle niente. Già, e dopo? Lei non era capace di aggiustare una bicicletta e non aveva nessuno a cui chiederlo.
Accidenti!
Kira imprecò mentalmente, e nella sua memoria apparve il volto del ragazzo in riva al fiume. Stava diventando una fissazione, ma non poteva evitare di pensarci ogni secondo.
Era così grande e grosso che avrebbe potuto essere uno studente di terza media. Avrebbe anche tirato fuori la bici dal fiume in un secondo con il suo aiuto; invece era stata costretta a far tutto da sola, impiegandoci un tempo interminabile.
Tutta-colpa-sua.
Quella faccia dall’espressione insolente…se lo avesse rivisto, era sicura che lo avrebbe riconosciuto in un…
«AH!»
«Non si corre in corridoio!»
Un ragazzo era sbucato da una classe senza preavviso, e per poco Kira non era andata a sbatterci contro. Un ragazzo alto con un’espressione insolente...
Kira trattenne il fiato e gli puntò un dito contro. «Ti ho trovato!»
Mark la guardò fisso un secondo. Cosa voleva quella da lui? Poi… «Ma tu sei…»
«Mi fa piacere che ti ricordi di me. Mi devi delle scuse»
Mark alzò un sopracciglio. «Io? A te? Non credo proprio»
«Oh sì, invece! E anche una bici nuova»
Lei gli si parò davanti, fissandolo insistentemente. Lui pensò di scansarla con un gesto rapido ma cambiò idea. Aveva di fronte la causa dei suoi guai: non le avrebbe risparmiato nulla.
«Io non ti devo un bel niente, ragazzina. Casomai è il contrario».
Lei dover delle scuse a lui? «È la seconda volta che quasi mi investi, oggi».
Il tono di Mark si inasprì. «Non rimproverare me per la tua sbadataggine! Stamattina eri tu a correre con la bici, e adesso in corridoio. In entrambi i casi, vedi bene che la cosa non parte da me. Sei un pericolo per gli altri e per te stessa».
Kira boccheggiò. «Tu…tu mi hai lasciata a mollo nel fiume!»
«Sei tutta intera, mi pare»
«Che c’entra? Solo per il fatto che sono una ragazza, avresti dovuto dimostrare un minimo di spirito cavalleresco»
Mark le sbuffò in faccia una risatina. «Siamo quasi negli anni novanta, svegliati: la cavalleria è morta».
Kira era a bocca aperta. Cercò un insulto che non venne.
Mark non aspettò che ne trovasse uno, fece per andarsene ma Kira lo trattenne per un braccio. Non aveva intenzione di mollare.
«Voglio le tue scuse. E mi deve risarcire la bici»
Mark la inchiodò con un’espressione degna di un predatore. «Spostati»
«No» rispose Kira fissandolo. Se pensava di intimidirla facendo il duro, sbagliava.
Si guardarono, entrambi con le mani sui fianchi.
Mark si chinò verso di lei. «Mi hai quasi investito».
«E tu mi hai distrutto la bici. Sono anche dovuta andare in infermeria»
Mark la esaminò velocemente, notando che aveva un cerotto piuttosto grande su un ginocchio. Ma non si sarebbe scusato, non per primo.
«Possiamo risolvere in fretta la faccenda, anche perché ho da fare» riprese lui. Stava ritardando agli allenamenti. «Chiedimi scusa e sparisci»
«Nemmeno per sogno! Tu chiedi scusa»
«Non ti entra in testa, vero? La vittima sono io».
Lei per poco non scoppiò a ridere. «La vittima? Sei grande e grosso, non ti si addice il ruolo della vittima»
«Nemmeno a te, se è per quello» Quella ragazzina aveva una lingua fastidiosamente lunga
«Per causa tua ho avuto una giornata tremenda» continuò Mark, sfogando tutta la sua irritazione. «Sono arrivato tardi a lezione, mi sono beccato una punizione dalla prof, e sto facendo tardi agli allenamenti di calcio. Senza contare le varie sfortune che, senza dubbio, hai disseminato sul mio cammino».
«Per tua informazione, nemmeno io ho avuto una bella giornata» protestò lei.
«Allora dovresti capirmi»
«E tu dovresti capire me»
«Non ci tengo a entrare nella testa di una ragazzina stupida e maleducata»
«Chi sarebbe la stupida, brutto spilungone?»
Ribatteva di nuovo. Era veramente impertinente. «Tu credi sul serio di essere dalla parte del giusto?»
«Ovviamente»
Svampita, maleducata e…
«Presuntuosa»
Gli occhi di Kira mandarono scintille. Lei era la presuntuosa? Lei era la maleducata? Ed era anche stupida? Bè, se era così, lui vinceva il primo premio per la cafonaggine.
«Sei la persona più fastidiosa che abbia mai incontrato!».
«Ma guarda, finalmente siamo d’accordo». Mark non capiva perché lei gli suscitasse tanto nervosismo, a prescindere da quante glie n’erano capitate da quando era apparsa sul suo cammino. Dopotutto era solo una ragazzina come tante. Razionalmente sapeva che era sciocco farla tanto lunga, eppure non riusciva a sopportarla.
«Senti, svampitella, non ho nessuna intenzione di perdere altro tempo con te»
L’occhio destro di Kira parve preda di un tic nervoso. «Come mi hai chiamata?» Svampitella?
«Adesso ho da fare, se non ti spiace» le disse infine, tirando dritto per la sua strada.
Mentre lui scendeva i gradini di corsa, Kira si affacciò alla tromba delle scale e la sua voce si diffuse fino a lui.
«Ti defili di nuovo?» gli gridò dietro. «Non ti libererai di me!»
La voce di Mark risuonò per le scale. «Aspetto le tue scuse, svampitella»
«Nemmeno morta!». Se non fosse che non aveva da perdere altri minuti preziosi, non l’avrebbe lasciato andare. Ma ci sarebbe stato tempo per una rivincita.

 


 
***** ***** ***** ***** *****
Note:

1. Come si vede in tutti gli anime/manga, i giapponesi si tolgono le scarpe appena entrano in casa, questo perché non si portano le stesse calzature usate per camminare in strada dentro un luogo pubblico, che sia sul lavoro, nei ristoranti, negli alberghi, nei templi e ovviamente anche a scuola. Ad esempio, nelle case giapponesi esiste una piccola zona chiamata genkan, appena oltre la porta l’ingresso, dove ci si cambia le scarpe. Nelle scuole esistono apposite scarpiere/armadietti posti nell’atrio dell’edificio. Esistono persino le ciabatte da bagno, che non sono le stese da casa! Insomma, le scarpe ‘da esterno’ si lasciano all’ingresso. È una regola da osservare con molta attenzione.

2.​ Nelle scuole giapponesi non esistono i bidelli, la pulizia delle aule, dei corridoi e dei vari ambienti interni è affidata agli studenti e gli insegnanti. Tutti gli studenti, a turno, devono occuparsi delle pulizie della propria aula (di solito a gruppetti di due o tre), mentre per gli ambienti più grandi come i corridoi o le palestre, si fanno turni speciali che coinvolgono più studenti o intere classi. Per gli ambienti esterni, invece, le scuole utilizzano imprese con operai specializzati, i quali si occupano di curare i giardini tenere pulito il cortile. Le pulizie sono considerate come una parte fondamentale dell'educazione dell'alunno, che deve imparare a rispettare l'ambiente comune. Meno sporchi, meno pulisci, no?

***** ***** ***** ***** *****
-Spazio Autrice-
 
Bentornata a me!
Non sono molto soddisfatta di com’è uscito questo capitolo, lo trovo lentuccio… Sì, mi sto criticando da sola, è una cosa che faccio spesso. Spero che a voi piaccia un po’ di più XD
Si aprono le danze: se nei primi due capitoli li ho presi singolarmente, da qui in avanti i due protagonisti iniziano ad intrecciare le loro vite. Sarà un po’ complicato riuscire a farli andare d’accordo, ma ci arriveremo. Voi seguitemi e non ve ne pentirete, promesso ;)
Volevo spiegare su una cosa che mi è stata fatta anche presente nelle recensioni: ho scelto di mantenere i nomi dell’adattamento italiano per Mark e tutti i personaggi originali (eccezioni a parte, vedi Kitazume, che ho scoperto nel manga poiché nell’anime non viene mai menzionato) perché sono troppo affezionata a questi nomi. Per quanto riguarda i personaggi originali, invece, avranno quasi tutti nomi giapponesi. Questo mix potrà risultare confusionario, ma l’ho valutato proprio in base al fatto che i protagonisti sono giapponesi e hanno nomi inglesi, perciò, perché mettermi paletti? Dopotutto siamo nel mondo delle fanfiction, posso pure prendermi un bel po’ di licenza poetica ;)
 
L’altra volta vi avevo detto che avrei spiegato il significato del titolo della storia. Allora: “Haru no toki” – ripetiamo – significa “Il tempo ( o momento) della primavera”. Dovrebbe almeno, io non so il giapponese, mi sono aiutata col traduttore XD In ogni caso, il titolo è questo per tre motivi: il primo è che la primavera rappresenta la rinascita dopo l'inverno e alcuni la considerano la stagione dell'amore; ancora, il termine 'primavera' viene usato a livello sportivo per indicare le squadre giovanili in cui non si superano i veni anni di età; in ultimo, il termine deriva dal latino "primo"-inizio, e "ver", che a sua volta viene dal una radice indoeuropea “vas”-“splendente”. Qui abbiamo Mark che sta affacciandosi a una nuova vita, giovane atleta promettente come lo è Kira, il cui nome in russo significa “luce”. Mi è piaciuta particolarmente una definizione di primavera che ho trovato sul web:
"La primavera è inizio. Inizio di splendore per tutti. Così, anche gli equilibri del cuore tendono ad allungare il giorno dei sentimenti, nuova energia di nascita e creazione fluisce intorno a noi, e dentro - ed è bene non farsela sfuggire, che ci metterà un anno a tornare"  
Bene, dopo questo io vi lascio alle recensioni se volete. Sapete che mi fanno sempre piacere.
Spero di aggiornare prima del solito. Stay tuned!
 
Un bacio a tutti e un grazie a chi mi segue.
Susan <3

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 4. E sfida fu ***


4. E sfida fu



Kira non avrebbe saputo come descrivere quella giornata scolastica. Disastrosa? Orrenda? Non c’erano parole adatte per riassumerla nell’insieme.
Tornata a casa si gettò a peso morto sul letto, ancora vestita della divisa, ripensando alle ultime due ore al club di pattinaggio. A poco era servito l’aiuto di Jem – di nuovo – quando aveva dovuto giustificare – di nuovo – il suo ritardo agli allenamenti; giustificazione tra l’altro inutile, visto che i coach Kanagawa e Fukushima ne erano già al corrente. Ovviamente li aveva avvisati il professor Holland.
Kanagawa si era sprecato in una tirata sull’importanza della puntualità che Kira aveva già udito. Fosse stato solo per il rimprovero l’avrebbe anche sopportato. Ciò che le aveva pesato fastidiosamente sullo stomaco, era stato il dare una delusione alla co-allenatrice Fukushima. La signorina si era mostrata comprensiva quando aveva notato le sbucciature della ragazza, e forse avrebbe ascoltato tutta la storia se Kanagawa non avesse trovato la cosa irrilevante.
«Sono certa che Kira è profondamente dispiaciuta, Hiro» aveva detto.
«Non importa quanto sia dispiaciuta, Sumire. Qui non si gioca, mi sembrava lo avessimo spiegato il primo giorno» aveva ribattuto Kanagawa.
«Sono veramente mortificata per aver causato problemi» aveva risposto Kira. E ne aveva creati, lo riconosceva: tutti la stavano aspettando, l’allenamento non era ancora iniziato. «Vado subito a cambiarmi»
«Puoi anche non farlo, Brighton. Oggi non ti allenerai».
Quelle parole avevano fatto male, ancor più degli sguardi scocciati dei suoi compagni di club, più della delusione della Fukushima.
Costretta a seguire l’intero allenamento a bordo pista, Kira si era sentita preda dell’incertezza e dell’apprensione. La morsa allo stomaco aveva iniziato a farsi risentire, accompagnandola durante tutto quell’interminabile pomeriggio, a rafforzarla il dubbio di essere esclusa dal club.
Solo alla fine la Fukushima le si era avvicinata per rassicurarla che alla festa dello sport si sarebbe comunque esibita con gli altri.
«Dopotutto è solo un ritardo. Sono sicura che non accadrà più»
Kira aveva sospirato e la tensione allo stomaco si era allentata.
Non era fuori.
Aveva davvero temuto che Kanagawa la estromettesse dal programma.
L’indomani avrebbe dovuto affrontare il malanimo dei compagni, lo sapeva, ma chi se ne importava? Li avrebbe zittiti recuperando quanto prima l’allenamento perduto. Anzi, era un incentivo a sfoderare il doppio della determinazione. L’importante era avere la certezza di non essere stata punita con l’esclusione.
Per il momento, la situazione “festa dello sport” era sotto controllo. Ma aveva altre due faccende da sistemare: il conto in sospeso con il ragazzo che aveva causato le sue disgrazie e, più imminente, il discorso ‘bicicletta’ con la mamma.
Bentornata morsa allo stomaco…
Le cose andarono esattamente come Kira aveva temuto.
Quando Risa Brighton tornò a casa e vide la faccia colpevole della figlia, indovinò immediatamente che c’era qualcosa sotto.
Kira non era brava a mentire, e così snocciolò la verità.
«Sei stata un’irresponsabile! E non dare tutta la colpa a quel ragazzo. Per ridurre la bicicletta in quello stato avrai avuto la testa tra le nuvole»
«Ma mamma…»
«Niente ‘ma mamma’. Ringrazia il cielo di non esserti rotta l’osso del collo!»
«Mi metterai in punizione?»
«No»
Kira non credeva alle sue orecchie.
No?
La mamma che perdeva un’occasione di impartirle una lezione?
«Credo tu ti sia già punita abbastanza da sola. Non avrai una bici nuova, signorina, se è questo che speri»
Questo Kira se l’era aspettato. Quando mai mamma rendeva le cose facili?
Adesso doveva assorbire il colpo del terzo rimprovero della giornata…e poi tramare vendetta contro quel ragazzo.



Mark sbadigliò.
L’ondeggiare della metropolitana non era il massimo per restare svegli, il suo dondolio era rilassante… o forse gli dava quest’impressione solo perché aveva un sonno tremendo.
La nottata non era stata delle più riposanti. Matt era stato male verso l’una del mattino. A quanto pareva, il più piccolo dei Lenders si era preso un virus allo stomaco e nemmeno lui era riuscito a riposare bene, riaddormentandosi solo alle prime luci dell’alba. Mark aveva fatto a turno con la mamma per accudirlo durante tutta la notte e preparargli qualcosa per placare il malessere. In fatto di rimedi naturali, mamma era un’esperta.
Non avevano l’assicurazione medica(1), perciò si era reso necessario arrangiarsi con qualcosa di reperibile in ogni evenienza, che costasse poco e che funzionasse.
In ogni caso, la mamma aveva deciso di portare Matt al pronto soccorso la mattina seguente molto presto, così era toccato a Mark accompagnare Teddy e Nathalie al bus della scuola.
Sprofondò nel sedile incrociando le braccia al petto. Era maggio, ma la mattina faceva ancora freddino.
Il treno frenò alla penultima fermata. Aveva ancora dieci minuti per fare un pisolino.
«Scusa, è libero?» chiese una voce femminile.
Mark sobbalzò. Il sedile accanto a lui sarebbe stato vuoto se non vi avesse appoggiato la cartella e il pallone da calcio, perciò era effettivamente libero.
«Sì, prego, è…» fece lui.
«Ah…» fece lei.
Rieccola! pensò uno.
Rieccolo! pensò l’altra.
Mark fissò di sotto in su la ragazzina della bici. «Chi si rivede, la svampitella» sogghignò.
Kira fece una smorfia, come se avesse davanti un insetto particolarmente disgustoso e molesto. «Risparmiati i nomignoli, per carità. Ti ho chiesto se il posto è libero»
«Bè, per la verità…no». Mark allungò il braccio sopra la propria cartella, come fosse una persona degna della sua protezione. «Mi spiace, dovrai stare in piedi»
Lei capì che era una balla colossale, ma lui sembrava gioire nel prenderla in giro. Sul volto abbronzato aveva un sorrisetto così…così…
«Ma come sei gentile» disse sarcastica.
Il treno riprese la sua corsa. Kira sbuffò e si aggrappò alla sbarra accanto alle doppie porte, proprio vicino al sedile di Mark.
Certo che, con tutto lo spazio che avrebbe potuto esserci… Ma non ce n’era. La metro era gremita di pendolari e studenti.
Si ignorarono per un po’, ma troppo forte fu la voglia di lui di stuzzicarla.
«Non sapevo prendessi il treno per andare a scuola» disse Mark senza guardarla.
«Si è reso necessario» rispose lei senza guardarlo.
«E la tua bici che fine ha fatto? Hai deciso di non investire nessuno, stamani?»
Kira si girò con uno scatto della testa. «La mia bici è andata distrutta, se non te lo ricordi. Per colpa tua»
Mark si voltò dall’altra parte. «Oddio, non ricominciare»
«Smetterò di parlarne solo quando mi risarcirai».
Mark soppesò l’impossibilità del fatto. «È fuori discussione. Piuttosto, lascia che ti ringrazi per aver reso le strade di Tokyo un posto più sicuro».
Lei se ne stava muta, col volto rivolto allo scenario di palazzi e strade che sfrecciava al di fuori.
Imponiti la calma, imponiti la calma, la giornata è appena iniziata, pensò Kira. Non era proprio il caso di farsi venire il sangue amaro fin dal mattino.
«Il gatto ti ha mangiato la lingua?»
Lei espirò forte dal naso. «Sto pensando»
«Dev’essere molto difficile per una svampita come te»
«Sto pensando a come riuscire a farti ammettere le tue colpe»
Mark vide comparire sulle sue labbra un sorriso soddisfatto.
«Ieri ti ho avvertito: non ti libererai di me»
Lui mosse le gambe, nervoso. «Senti, non posso ripagartela». Non le avrebbe assolutamente spiegato la propria situazione economica. «E se anche potessi, non lo farei»
«Troverò il modo di costringerti» rimarcò Kira, imperterrita, tornando ai suoi pensieri.
Mark voltò metà del busto nella sua direzione. «Ascoltami bene, perché te lo dirò una volta ancora e sarà l’ultima: falla finita con questa lagna»
Kira mosse piano la testa, un’espressione tranquilla sul volto. «No».
Se a lui piaceva stuzzicarla, lei adorava rispondergli negativamente. Sembrava qualcosa di detestabile a quel ragazzo.
Mark la fissò insistentemente ma lei continuava a non guardarlo. Sì, lui detestava essere ignorato, e ancor più ricevere un no come risposta.
«Ragazzina…»
«Ho un nome»
«Non mi interessa saperlo» tagliò corto lui. «Hai capito quello che ho detto?»
«Certo, non sono sorda»
«Ma sembri stupida»
Finalmente lei si rigirò. «Tu invece non sembri, sei irritante. Pretendi di avere ragione quando non ce l’hai»
Mark si alzò in piedi, afferrando la stessa sbarra che stringeva lei per impedirsi di perdere l’equilibrio sul treno in movimento.
Kira si ritrovò a fissarlo da vicino e…cavolo, quant’era alto? Non si era resa conto di tutta quell’altezza il giorno prima. Era di sicuro uno studente di terza.
«Sei anche più grande di me, non hai un po’ di buon senso?»
«Frequento la prima media» precisò Mark, che desiderava glissare sui particolari inutili. «Comunque, anche tu sei irritante, con questa insensata storia della bici. D’accordo, io palleggiavo per strada, ci siamo scontrati, tu sei caduta. Pace. È andata»
Kira batté le palpebre, in viso un’espressione sorpresa. «Sul serio frequenti la prima media?»
«Mi hai ascoltato o no?» esclamò Mark, rabbioso.
«Eh? Ah, no, stavo riflettendo che con quella corporatura sembravi uno di terza»
Mark precipitò nell’incredulità più totale. Era schizofrenica o cosa? Prima iniziava un discorso, poi passava a un altro…
«Bè, se proprio lo vuoi sapere, anch’io prima di notare la tua divisa credevo frequentassi ancora le elementari»
«Non sembro così piccola»
«Non è questo, è che sei talmente piatta che pensavo…». Non terminò la frase.
La cartella di lei gli arrivò dritta ad altezza di faccia, e se Mark non avesse avuto i riflessi pronti lo avrebbe colpito.
Kira fumava di rabbia. Strattonò la cartella.
Lui la teneva stretta.
Lei la strattonò ancora.
Lui non mollava.
«Certo che la tua testolina deve avere qualche rotella mancante» commentò Mark, restituendole il corpo contundente.
«Ripetilo»
«Cosa, che sei piatta?»
«Che ne sai tu se sono piatta o meno!» esclamò lei, rossa in faccia. Il seno non le era ancora cresciuto tanto, va bene, ma non era così…non era…
«Scusa. Non ti volevo offendere» disse Mark, per la prima volta sincero, senza ombra di sarcasmo. A differenza di lei, non era arrossito per niente. Non c’era molto da guardare in fin dei conti, ed era talmente ovvio che non pensava lei si offendesse tanto. Insomma, doveva essere consapevole della sua triste situazione.
Inevitabilmente, lo sguardo gli cadde proprio là…
«E non fissarmi, idiota!» gridò Kira, facendo voltare tutta la carrozza.
Mark provò un’acuta fitta di vergogna mentre le persone intorno si domandavano cosa stesse accadendo. E se lo avessero preso per un molestatore?
Quando il treno si fermò un istante più tardi, Kira vi si lanciò fuori. Non era solo irritante e maleducato, ma anche maniaco!
Mark la seguì, recuperando le sue cose dal sedile, caricandosi la cartella su una spalla. Si tenne a distanza da lei, iniziando a paleggiare piano mentre attraversavano il viale dei ciliegi.
Kira udiva i passi di lui sulla strada tranquilla misti ai propri, accompagnati dal ritmico rimbalzare della palla.
«Non seguirmi» disse perentoria, fermandosi e voltandosi.
Mark la imitò. «Un po’ difficile, visto che andiamo nella stessa direzione»
«Prendi un’altra strada»
«Prendila tu»
«No, mi piace questa»
«Questa è la mia scorciatoia» precisò Mark.
«Non c’è scritto il tuo nome su un cartello» rimbeccò Kira, riprendendo a camminare.
Lei voleva avere sempre l’ultima parola. Era veramente indisponente. Mark osservò i capelli chiari sulla sua schiena ondeggiare leggermente alla brezza primaverile. Capelli più chiari del normale.
Glieli avrebbe strappati uno alla volta!
Al diavolo, non sarebbe rimasto alle sue spalle!
Camminò svelto e in poche falcate l’affiancò. Percepì senza vederlo davvero il movimento di lei che accelerava il passo. Gli venne da ridere. Era veramente infantile.
Kira spiccò una corsa verso il cancello della Toho. Non aveva alcuna intenzione di stare vicino a un maniaco buzzurro.
Mark la osservò raggiungere un’altra ragazza con i capelli scuri sulle spalle. Entrambe gli lanciarono un’occhiata e poi entrarono dentro l’edificio.
Tsk, ragazzine di prima…
Ah…ma anche lui era un ragazzino di prima.
Sì, però lui non era così stupido e irritante.
Okay, forse oggettivamente lo era.
In ogni caso, ai suoi occhi le ragazze apparivano proprio strane. Ad un certo punto iniziavano a svilupparsi, si alzavano in statura e diventavano sceme.
Sua sorella sarebbe diventata così, da grande? Sperava sinceramente di no. Mark avrebbe preferito che Nathalie prendesse dalla mamma, anche se da quando aveva iniziato le elementari sembrava più orientarsi verso un’impronta caratteriale tipicamente Lenders. Dei suoi tre fratelli minori era Teddy ad assomigliare maggiormente a mamma: responsabile, tranquillo, diligente. I più piccoli erano due vere pesti.
«Secondo te mia sorella Nathalie diventerà come le nostre compagne, quando avrà tredici anni?» chiese Mark a Ed durante il cambio dell’ora.
Con la schiena piegata verso la cartella, il portiere si bloccò nell’atto di tirare fuori i libri per la nuova lezione. «E io che ne so!»
Mark aveva un’espressione pensierosa.
«Che ti frulla nella testa, capitano?»
«Nulla. Pensavo solo che sarebbe devastante avere per casa una di quelle». Mark indicò con un cenno del capo tre compagne che ridacchiavano nei banchi davanti. Una di loro, notando di essere fissata, spense il sorriso e in un nano secondo sfoderò l’espressione di un troll con la rabbia. Mulinò i capelli e diede loro la schiena.
«Sono ragazze» disse Ed, come se quelle due parole potessero dare una spiegazione esauriente.
In qualche modo però, Mark capì.
In quelle due parole erano racchiusi una montagna di significati.
Ragazze - uguale voce del verbo essere strane, dolci, isteriche, carine, insopportabili, allegre, lunatiche, gentili, scorbutiche, attraenti, detestabili.
Ragazze.
«Come mai questi pensieri?» fu la domanda curiosa di Ed.
«Così»
Ed annuì una volta. «Chiaro» disse ironico. «Tua sorella dà già segni di squilibrio mentale?»
Squilibrio mentale…Sì, era proprio quello.
Mark si voltò verso Ed, in viso l’espressione di chi ha finalmente la risposta a tutto. «Esattamente» Warner aveva centrato il punto. «Sono delle squilibrate. Hai notato che passano da un discorso all’altro come se fossero delle schizzate? Non si comportano in modo normale»
Le tre compagne avevano smesso di ridere, le loro espressioni si erano fatte molto serie, quasi tetre.
«Guardale» Mark le indicò con la mano.
«Non si indica la gente!» Ed gliel’abbassò bruscamente. «Qual è il problema? Ti sei innamorato di qualcuna?»
«In…in…» Mark non riusciva nemmeno a pronunciare quella parola oscena. «Vuoi scherzare?!»
Ed alzò le mani come uno scudo. «Scusa, scusa. Chiedevo solo. Sai, è troppo strano sentirti reclamare delucidazioni sull’universo femminile».
L’unica volta in cui Ed e Mark avevano parlato di ragazze era stato…mai?
Erano entrambi consapevoli che esistessero cose di cui le ragazze parlavano, e i maschi di più. Tra amici ne avevano discusso ma, per quanto riguardava loro, le ragazze non erano mai state il soggetto principale, di attenzione o interesse, all'interno di un loro discorso. Non in quel senso.
Non era strano, dato che avevano un unico e solo amore comune: il calcio.
La Muppet non aveva mai avuto nemmeno una manager – che solo il Buddha sapeva il perché dovessero essere per forza femmine – e nemmeno la squadra della Toho ne aveva una. Quindi, quando si parlava di calcio, partite e allenamenti, era tutta roba al maschile. Mai un solo elemento di disturbo al femminile era entrato nel perimetro della loro quotidianità.
Le uniche donne con cui avevano a che fare erano le loro madri, la sorellina di Mark, e la sorella maggiore di Danny, la quale però era già l’ultimo anno del liceo, perciò era troppo grande per avere interesse a frequentare dei ragazzini della loro età.
Troppo incuriosito per lasciar cadere il discorso, Ed cercò di carpire il senso delle frasi sconnesse del suo migliore amico.
«C’entra la ragazza della bicicletta?» buttò lì a caso, senza rifletterci.
Mark chiuse gli occhi e inspirò profondamente.
«Che le hai fatto, stavolta?»
«Non le ho fatto niente! Né stavolta, né prima!» saltò su Mark, sbattendo il palmo della mano sul banco. «Che cavolo, perché dev’essere colpa mia?!»
«Non ti scaldare! Sto solo cercando di capire la situazione»
«Non c’è niente da capire» tentò di spiegare Mark. «Il fatto è che non la sopporto. Non la conosco, lo so, ma non posso fare a meno di trovarla antipatica. L’ho incontrata anche stamattina: è infantile, sciocca, noiosa e insistente. Continua a dire che sono responsabile di averle rotto la bici e vuole che gliela ripaghi»
«Capisco, ma…perché hai tirato in ballo tua sorella?»
«Ho solo pensato che non voglio che mia sorella diventi così»
Ed sorrise per la preoccupazione che traspariva dalle parole del capitano. «Sembri un padre apprensivo»
In un certo senso lo era. «L’ho tirata su io», rispose Mark. Come aveva tirato su Teddy e Matt, mentre la mamma si ammazzava letteralmente di lavoro per dare una casa e da mangiare a tutti. Ma questa era un’altra storia, una storia che Ed conosceva fin troppo bene.
«Non ho ancora capito dov’è il problema, però» disse quest’ultimo, passandosi una mano sulla nuca. «Non è detto che tua sorella sia portata per il bipolarismo. È solo questo che ti preoccupa?»
«No è…no» Certo che no. «Vorrei sbarazzarmi di quella ragazzina svampita, ma sembra sia destino che me la ritrovi davanti»
«Non si sfugge al destino» disse Ed con aria saggia.
«Vuoi davvero prenderle in questi giorni, vero?»
«E dai, scherzavo».
Il professore entrò in classe in quel momento e gli alunni si alzarono in piedi per porgere il saluto(2).
«Comunque è facile» bisbigliò il portiere. «Se ti sta antipatica, ignorala».
Per Ed la conclusione era semplice. Per Mark un po’ meno.
Era come con la New Team: Ed si limitava a non parlare con i membri della squadra se poteva evitarlo, proprio per la reciproca antipatia; Mark, invece, cercava la lite di proposito. Non sapeva frenarsi dal lanciare frecciatine e assumere un atteggiamento arrogante.
Nel bel mezzo della lezione, il capitano della Toho si ritrovò a pensare di nuovo a quella ragazza e alla sua bici, alla fortuna che lei aveva ad averne una.
I suoi fratellini non sapevano andare in bicicletta. Mark aveva imparato perché suo padre gli aveva regalato una bici per il suo sesto compleanno, e gli aveva insegnato. Dopo essersi ritrovati sul lastrico in seguito alla sua morte e la chiusura della ditta in cui lavorava, Mark l’aveva venduta per racimolare qualcosa.
Non ne avevano più avuta una tutta loro.
Per un certo periodo, Mark aveva usufruito di quella prestatagli dal signor Sugimoto, ma quando l’inverno precedente aveva smesso di lavorare, l’aveva restituita. E comunque, anche se Sugimoto gli aveva permesso di tenerla per un po’, era stato vietatissimo usarla per fare qualsiasi cosa che non fossero le consegne del chiosco...anche se, a dire il vero, i suoi fratelli si erano divertiti a salirci.
Mark aveva permesso loro di provarla solo se avessero promesso di non romperla. Teddy era l'unico che riusciva a sfiorare i pedali, così Mark spingeva Nathalie e Matt lungo il marciapiede fuori casa, tra grida infantili e risate; poi scappava al lavoro, promettendogli che un giorno avrebbe avuto i soldi per comprare una bici che fosse solo loro.
Parole vuote, perché non c’era mai riuscito.
Più volte Ed e Danny avevano cercato di fargli un regalo, ma Mark non accettava regali da nessuno, nemmeno dai suoi migliori amici. Per lui era una questione di onore e orgoglio. Accettare un regalo era come accettare elemosina, e la sua famiglia ne aveva ricevuta fin troppa durante il loro periodo più buio. Per questo aveva deciso di lavorare, per non essere costretto a vedere la vergogna sul volto di sua madre e la compassione su quelli degli altri.
Da un lato, Mark poteva capire perché quella ragazza fosse tanto arrabbiata con lui, ma non poteva attribuirgli tutte le colpe. Non le aveva rotto la bici di proposito. Mica l’aveva presa e c’era saltato sopra!
Lei si lamentava di niente, perché era certo che avrebbe potuto benissimo acquistarne un’altra con facilità. Lei faceva sicuramente parte della grande cerchia di fortunati che frequentava la Toho perché aveva due genitori pieni di soldi, o comunque abbastanza benestanti da permettersi una scuola come quella.
Avesse avuto lui problemi stupidi come quelli di lei… Se anche lui avesse potuto preoccuparsi solo di una bici rotta…
Era superficiale, viziata. Era una persona privilegiata, per questo la detestava.
E no, non le avrebbe risarcito uno solo yen.



«Ma lo sai chi è quello lì?» disse Jem a Kira in tono concitato.
«No, chi?»
«Mark Lenders, l’ex capitano della Muppet, la squadra che è arrivata seconda ai campionati nazionali delle scuole elementari»
«Mark Lenders…» Kira rifletté, cercando di ricordarsi la faccia del capitano della squadra di Saitama.
Chiunque fosse solo un minimo interessato a qualche sport e comprava giornali specializzati, sapeva chi erano la Muppet e la New Team. La scorsa estate queste due squadre avevano fatto furore tra decine di ragazzi, bambini e persino adulti. C’era chi aveva imparato a snocciolare nomi e cognomi di ogni singolo giocatore, e quelli dei due capitani erano stati sulla bocca di tutti gli appassionati di calcio e non.
Kira, che acquistava regolarmente una rivista sportiva per giovani, era incappata diverse volte in quei nomi e nelle facce dei giocatori. Aveva anche assistito alla finalissima tra New Team e Muppet con la sua vecchia classe, ma non aveva collegato il viso di Lenders a quello del ragazzo che le aveva distrutto la bici.
Lì per lì non lo aveva riconosciuto, ma poteva benissimo essere lui.
Ora che ci pensava, Kira ricordava che quando una sua ex compagna le aveva indicato il capitano della Muppet chiedendole se lo trovava carino, lei aveva risposto: «No, ha una faccia antipatica».
«Mark Lenders» ripeté. «Cavolo, ma lo sai che hai ragione, Jem? Non me n’ero accorta». La faccia antipatica però era rimasta quella.
«Lascia perdere la storia del risarcimento, tanto non te la ripagherà la bici». Jem la implorò a desistere con occhi giganteschi.
«Nemmeno per sogno! È una questione di principio»
«Tu non sai contro chi stai facendo guerra».
Guerra… le sembrava eccessivo. «In che senso? Non capisco»
«Kira-chan, se insisti a punzecchiarlo, quello è capace di aggredirti. Ho sentito dire da alcuni studenti che alle elementari Lenders era uno dalla rissa facile, e non faceva differenza tra maschi e femmine»
«Stai dicendo che potrebbe picchiarmi?» chiese Kira, scettica.
Jem annuì forte.
«Oh, andiamo…». L’aria da pessimo elemento l’aveva, ma da qui ad arrivare alle mani con una ragazza…
«Non puoi semplicemente dimenticare tutta questa storia?»
«Perché ti preoccupi tanto, J-chan? Non lo voglio sfidare a un incontro di lotta libera, voglio solo che lui…». Kira si interruppe. Lo sguardo le cadde sul nulla. Vedeva appena quel segno più scuro, opera del tempo, sul pavimento di linoleum sotto il suo banco. Concentrò tutta sé stessa su quel segno, come fosse una rivelazione. Era lì e non le era venuto alla mente prima.
Una sfida.
Sicuro! Lei poteva costringerlo davvero a ripagarle la bici!
«Jem, sei un genio!» esclamò facendo un balzo sulla sedia.
«Ah sì?» fece l’altra, trovandosi le mani strette in quelle di Kira.
«Una sfida, capisci? Se lo metto in condizioni di non poter rifiutare, il senso dell’onore lo spingerà a non venir meno al suo dovere. Lui ha fatto il danno, lui pagherà. Oh sì! Non vedo l’ora di vedere la sua faccia quando glielo dirò, ahah!»
Jem la guardò preoccupata mentre Kira la ringraziava con un sorriso e una luce maniacale negli occhi. Quella faccenda della bicicletta l’aveva segnata nel profondo, povera Kira-chan, aveva subito un trauma.
«N-non fai sul serio»
Kira continuava a sorridere in quel modo orribile. «Certo che faccio sul serio, eheheh»
Nella sua testa presero forma un paio di idee piuttosto fattibili, finché non ebbe chiaro cosa si sarebbe dovuto fare.
Una sfida con quell’energumeno non poteva basarsi sulla forza fisica, ma nemmeno sull’intelletto. Lui sembrava un buzzurro, ignorante e maniaco, ma sotto la pelliccia da vichingo poteva benissimo nascondersi un maledetto genio. Non voleva fare la figura della stupida; dopotutto, lei non prendeva tutti novanta e cento nelle verifiche.
Ci voleva qualcos’altro, qualcosa che li mettesse d’accordo entrambi, qualcosa che lui avrebbe accettato senza esitazioni, magari sicuro di vincere.
Doveva puntare sullo sport.


Ci vollero un paio di giorni perché Kira trovasse la maniera di organizzare il suo proposito. Jem si rifiutò di aiutarla, continuando a insinuare che era una gran stupidaggine e Lenders pericoloso.
Kira non considerava quella faccenda una stupidaggine, per lei era molto importante, e non temeva affatto Mark Lenders. Non capiva perché dovesse farlo. D’accordo, faceva un po’ paura quando alzava la voce, e con lei lo faceva spesso, soprattutto la mattina sul treno – sì, era stata costretta a prenderlo di nuovo e l’aveva incontrato di nuovo – ma al di là di quello, Kira non provava il minimo timore nel tenergli testa.
Dal canto suo, Mark avrebbe potuto far avverare i timori di Jem. Kira lo esasperava, non perdeva occasione per rammentargli il suo debito, ed ogni incontro era una battuta al veleno e una risposta al vetriolo.
Poiché all’uno infastidiva la presenza dell'altro, tentavano di ignorarsi – Mark cercò di mettere in pratica il consiglio di Ed con scarso successo. Nessuno dei due aveva realmente qualcosa da dire, eppure sembrava inevitabile bisticciare.
Lui, per Kira, rimaneva un odioso zotico. Mark, invece, iniziava a trovarla divertente. Irritante, ma divertente.
Non sapeva nemmeno il suo nome, ma non gl’importava, non erano amici.
Oltre al fatto che lei sembrava fare apposta a sedersi dove sedeva lui sul treno, e a percorrere la stessa scorciatoia per arrivare a scuola – sempre ignorandosi e mantenendo la dovuta distanza di almeno sei metri e mezzo – Mark se la ritrovava tra i piedi un po’ troppo spesso perché fosse una coincidenza.
In realtà lo era per quanto riguardava i primi due aspetti, ma lui non sbagliava a dubitare sulle coincidenze.
Le loro classi si trovavano sullo stesso corridoio, e quando Kira se n’era resa conto aveva iniziato ad osservarlo di nascosto ogniqualvolta le capitasse. Lui non si avvedeva mai di lei, ed era un bene: Kira non voleva essere scoperta a studiarlo, ma era effettivamente quello che faceva. E, in questi momenti di osservazione, si era accorta che forse aveva ragione Jem: lui poteva anche incutere un certo timore.
Mark era un tipo schivo, parlava poco e con pochi altri, e quello sguardo sempre corrucciato che lo accompagnava non facilitava a renderlo simpatico ai compagni. Certo, il suo aspetto parlava da sé: la divisa non era mai perfettamente in ordine, teneva la cravatta allentata e il primo bottone della camicia slacciato. Si faceva notare, e che lo facesse di proposito o meno, per Kira era fonte di sdegno.
Lei lavorava ogni giorno per omologarsi il più possibile ai suoi compagni e alla società, si era perfino messa lenti a contatto scure per coprire il colore dei suoi occhi naturali, eppure doveva assistere alla vista di Mark Lenders che con quei capelli neri un po’ troppo lunghi, l’atteggiamento spavaldo e la pelle abbronzata, spiccava prepotente in mezzo alla folla come nulla fosse.
Forse, la verità era che Kira avrebbe voluto avere la stessa sfacciataggine, fregarsene di cosa avrebbe detto tutti e togliere quelle lenti, slegarsi i capelli, anche se non era permesso portarli sciolti a meno che non fossero corti(3). Voleva essere come lui ma non avrebbe mai potuto.
«Se si accorge che lo stai fissando è capace di venire qui» le bisbigliò Jem durante l'intervallo del mattino. «Non voglio che si avvicini, mi intimorisce»
«Non ti facevo così paurosa, J-chan»
«Non voglio avere niente a che fare con quell’elemento, e non voglio che nemmeno tu abbia a che fare con lui»
«Non intendo certo iniziare a farmelo amico, voglio solo sfidarlo»
«Ma perché?»
«Perché mi ha rotto la bici, mi ha lasciata in balia delle acque e non vuole ripagarmi»
«In balia delle acque? Kira-chan, non era il diluvio universale»
«Fa lo stesso. Ormai ho deciso».
Alle tre del pomeriggio, terminati gli allenamenti di pattinaggio, Kira marciò decisa verso i campi da calcio.
La squadra delle medie stava concludendo una partita che aveva attirato sugli spalti alcuni studenti di varie classi. C’era molta aspettativa per le imminenti eliminatorie di distretto.
Quando il mister Kitazume fischiò la fine dell’incontro, la squadra della Toho si trascinò stanca e soddisfatta verso la panchina.
«Mark, lavora sui tackle, non entrare troppo bruscamente. Meno falli farai in partita, meglio sarà per tutti»
«D’accordo mister». Mark finì di asciugarsi il sudore, prendendo l’ultima bottiglietta d’acqua lasciata dai compagni.
Kitazume si ritirò verso il suo ufficio, lasciando i ragazzi a chiacchierare come ogni giorno.
«Vuole correggerti, eh?» disse Ed, fregandosi i lunghi capelli. Le scivolate e i tackle di Mark erano state leggenda alla Muppet; se entrava in scivolata, poco c’era da fare per gli avversari.
«Cercherò di accontentare il mister per quanto possibile» Mark piegò le labbra in un sorrisetto. «In campo non ci sarà lui, ma io».
Ed gli assestò una pacca soddisfatta sulla schiena. Mark giocava quasi al limite della fallosità, questo lo doveva ammettere. Ma fermare l’avversario prima di qualsiasi mossa era una strategia che aveva sempre usato e che non aveva intenzione di cambiare. Ed lo appoggiava in pieno, anche perché lui stesso adottava quella strategia in porta. Tutto pur di vincere, era il loro motto segreto.
«Non ho mai ricevuto molti cartellini gialli per un tackle, questo Kitazume non lo sa»
«Si ricrederà alla prima partita» disse ancora Ed, venendo poi interrotto da una voce che gridò:
«Mark Lenders!»
Il nome echeggiò per il campo.
Mark si bloccò a metà di un sorso. Abbassò il braccio con cui reggeva la bottiglietta d’acqua, voltandosi per capire chi avesse urlato come un pescivendolo.
Il pescivendolo era una lei.
Un pallone volò dalla direzione della voce fino a lui. Mark lo stoppò di petto e lo guardò cadere ai suoi piedi, Poi alzò il capo, perplesso, mentre la proprietaria della voce si avvicinava a passo di marcia.
La riconobbe immediatamente: era la ragazza della bici.
Aveva tirato lei quel pallone? Se sì, doveva darle atto: era stato un bel tiro.
«Ancora tu, svampitella? Questa volta cosa c’è?»
«Sono qui perché ho una cosa da dirti» Kira si fermò di fronte a lui, Jem alle calcagna insieme ad un latro paio di compagne impaurite.
Vedendo gli animi scaldarsi in panchina, gli studenti che avevano assistito come pubblico alla partita si fermarono incuriositi a guardare cosa succedeva.
Mark roteò gli occhi. «Non ancora quella dannata bici!» mormorò a mezza voce, più a sé stesso che a Kira.
«Che bici?» chiese Eddie, sistemandosi la maglia.
«Niente, è…»
«Niente un corno!» esclamò Kira. «Ora risolveremo questa faccenda, così non ne parleremo più». Si chinò ad afferrare il pallone che aveva lanciato prima, e sotto lo sguardo attonito di tutta la squadra lo porse a Mark.
«Questo è il mio guanto di sfida!»
«Come prego?»
«Hai capito bene». Con uno scatto, Kira allungò il braccio libero e gli puntò contro il dito indice. «Io ti sfido!»
Silenzio.
«Tu…cosa?». Mark sbuffò in una risatina senza riuscire a trattenersi. «Che razza di sfida potresti propormi, tu
«Un incontro sportivo». Kira sogghignò subdolamente, tirando fuori una monetina da dieci yen da una tasca della gonna. «Ho pensato che non c’è altro modo per appianare le nostre…uhm, divergenze. Per cui sistemeremo la questione in questo modo» Kira mostrò la moneta a Mark, tenendola sul palmo della propria mano. Warner e gli altri avevano fatto capannello attorno a loro due, curiosi.
Mark fissava Kira a bocca aperta.
Schizzata, ma proprio tanto…
«Allora, ci stai?» chiese lei.
Una sfida era sempre allettante per lui, e poi aveva voglia di sapere cosa aveva in mente.
Chiuse gli occhi e gli scappò un altro sorrisetto. «Va bene, ci sto» rispose con leggerezza.
«Perfetto. Reggi questo». Kira cacciò il pallone tra le braccia di Ed, il più vicino a loro, e lanciò la moneta.
Uno scintillio d’argento volteggiò nell’aria soleggiata del pomeriggio, ricadendo quasi subito verso il basso. Kira la riprese al volo, ruotando il polso, trasferendo la monetina sul dorso della mano destra, coprendolo con la sinistra.
«Se esce testa, ci sfideremo in un incontro di calcio. Se esce croce, sulla pista di pattinaggio artistico».
«Perché sulla pista di pattinaggio?» chiese Mark.
Giusto, lui non sapeva… «Perché sono una pattinatrice»
Lui annuì. «Va bene».
Kira tolse la mano e rivelò l’esito del tiro a sorte.
Dodici paia di occhi puntarono sulla facciata della moneta.
«Testa» scandì Mark con un ghigno beffardo. «Ti è andata male, svampitella. Campo da calcio»
Kira arricciò il naso in una smorfia risentita. Porca miseria…
«Fa lo stesso. Tanto non sarà uno contro di forza, ma di tecnica»
«Tu non sai giocare a calcio, mi pare» la canzonò lui.
In effetti no. «Chi te lo dice? Potrei anche essere capace, per quel che ne sai» Che bugia clamorosa! A lei piaceva guardarlo il calcio, anche giocarci era divertente, ma non era proprio capace.
Mark alzò il mento e rise di gusto. «Non dire balle. Saprai solo saltellare sul ghiaccio con quei buffi scarponcini ai piedi»
Kira mostrò i denti come una volpe rabbiosa. «Pattini! Io metto i pattini, non scarponcini, brutto ignorante! E non saltello!»
«Sì, sì, ho capito»
Maledetto! Lo odio, lo odio!
«Venerdì alle tre» disse poi Kira. «Ci incontreremo qui e ti spiegherò lo svolgimento della sfida. Ricordati, Mark Lenders: se vincerò dovrai ripagarmi la bicicletta»
«Vincerò io» rispose lui con sicurezza. «In ogni caso, non ti sembra che anch’io dovrei dare le mie disposizioni in merito a una vittoria o una sconfitta?»
Kira ci pensò su un secondo. «Mh. Mi sembra equo. D’accordo, dì pure»
«Ottimo» Mark le si avvicinò tanto che furono quasi naso contro naso. «Se vincerò io, smetterai una volta per tutte anche solo di nominare la tua stupida bicicletta. Non ne parlerai più in mia presenza e mi lascerai in pace. È chiaro?»
«Chiaro». Kira non batté mai le palpebre, fissandolo dritto negli occhi neri. «Ma se perdi?»
Il sorrisetto insolente ricomparve sul viso di Mark. «Nel caso perdessi – cosa impossibile se la sfida si svolgerà su questo campo – allora potrai chiedermi tutto quello che vuoi»
Kira abbassò la guardia. La proposta era veramente allettante. «Farai veramente come hai detto?»
«Hai la mia parola»
La sua parola. «Affare fatto». Kira allungò la mano.
Mark gliela strinse. «A venerdì»
«A venerdì»
Sancita la promessa, ognuno si incamminò per la sua strada.




***** ***** ***** ***** *****
Note:
1.L'Assicurazione sanitaria pubblica giapponese è privata, come quella americana. Lo stato copre circa il 70% dei costi medici, mentre il rimanente 30% è pagato dal paziente. Le tariffe sono fissate secondo il reddito familiare annuo. Esistono tariffe mensili fisse, e quelle famiglie che superano la soglia non vengono rimborsate dallo Stato. Tali tariffe non sono addebitate per le famiglie a basso reddito che ricevono un sussidio statale. I pazienti non assicurati devono invece accollarsi il 100% delle spese mediche. (fonte Wikipedia)

2. Forse lo avrete visto in molti anime: quando un professore entra in classe, gli studenti si alzano, si inchinano e salutano. Non è un semplice saluto, è una vera forma di rispetto per l’insegnante.

3.In alcune scuole nipponiche vigono regole molto severe. Gli studenti, sia maschi che femmine, non possono portare i capelli più lunghi di un determinato numero di centimetri, previa punizione o richiamo. Non si possono indossare fermagli, orecchini, collane, a meno che non siano approvati dalla direzione scolastica. Sono escluse le pettinature eccentriche e ancor più le tinture e i tatuaggi.

***** ***** ***** ***** *****

-Spazio Autrice-

Bentornate con Haru no toki!
A parte la lentezza con cui scrivo, sono soddisfatta di come sta uscendo questa storia, e del riscontro che sta avendo tra voi lettrici. Mi auguro perciò di avervi regalato qualche piacevole minuto anche con questo capitolo.
È sfida tra Mark e Kira! Chi vincerà e cosa succederà dopo? Sarei curiosa di sapere i vostri pronostici :)
Una piccola anticipazione: presto si vedrà un personaggio a noi tutte caro (mi auguro), e anche alcuni nuovi che daranno più pepe alla storia. Se riesco, vorrei anche postare i disegni dei vari characters che ho creato io stessa. Spero di riuscire a finirli per la prossima volta.
Vi lascio alle recensioni, che fanno sempre tanto tanto piacere.
Ringrazio tutte voi che mi seguite e che siete così pazienti con la mia lentezza!
Alla prossima, un bacio
Susan♥

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 5. Furia scatenata ***


5. Furia scatenata
 
 
Ed Warner aveva sempre saputo che Mark avrebbe riscosso una certa fama alla Toho School, solo non credeva accadesse così presto e, soprattutto, non in quelle bizzarre circostanze.
Il martedì mattina, tutta la scuola parlava dell’imminente sfida tra il neo capitano della squadra di calcio e una delle nuove leve del club di pattinaggio. In molti vennero a chiedere a Ed chiarificazioni sull’incontro, il luogo e l’ora. Il portiere era indeciso se parlarne o meno; sospettava che a Mark avrebbe dato parecchio fastidio avere troppo pubblico. Agli occhi altrui poteva apparire come un’esibizionista incallito, ma a lui non piaceva farsi notare se non si trattava di mettere in mostra le proprie doti atletiche. Ed lo sapeva perché la pensava esattamente come lui.
Tuttavia, credette non ci fosse nulla di male nel fare un po’ di pubblicità al suo capitano e, di conseguenza, alla squadra intera. Così, Warner cantò, e la notizia corse veloce come il fulmine attraversa il cielo, dando il via a una reazione a catena di voci incontrollate che il mercoledì si era già tramutata in una serie di teorie selvagge.
Le chiacchiere distorte facevano passare Mark come il carnefice e Kira come la povera vittima indifesa, benché indifesa non fosse per nulla. C’era chi credeva che la Brighton fosse stata tirata dentro qualche strana scommessa, o che si fosse ritrovata per caso in una bisca sospetta dove Lenders l’aveva pescata in situazioni indicibili e l’avesse poi ricattata. C’erano i maestri dell’ io ho visto tutto, quelli che pretendevano di sapere come si fosse svolta ‘in realtà’ la sfida, ma la realtà era che avevano scoperto l’esistenza della tale solo un’ora prima. E poi c’era chi conosceva la reputazione non proprio immacolata di Mark ai tempi delle elementari, presagendo sfortune e infortuni per la sfidante.
Il giovedì, le teorie selvagge portarono tutte e sei le sezioni di prima media a dividersi in due fazioni. Sia Mark che Kira non riuscivano a varcare una classe o girare l’angolo di un corridoio che, prontamente, sbucava qualcuno ad augurare loro in bocca al lupo. Alcuni avevano persino scommesso!
Ovvio più dell’ovvio, il capitano della Toho trovò la cosa assolutamente fastidiosa, data l’intolleranza alla vicinanza di altri esseri viventi che non fossero i compagni di squadra. E quando una cosa infastidiva Mark, il suo umore scendeva sotto la media. Sfoderava occhiate intimidatorie ben poco incoraggianti, così nessuno osava avvicinarglisi.
Al contrario di lui, Kira Brighton sembrava non mostrare alcun segno di turbamento. Non si vantava di essere la prima e unica sfidante femmina che Mark avesse mai avuto, ringraziava quando qualcuno si complimentava per il suo coraggio, ma a parte questo manteneva la concentrazione sul suo obiettivo senza farsi distrarre dalle lusinghe. 
Infine, giunse il venerdì.
Yumi Ito, una compagna di classe di Ed e Mark, Ian e Nicholas, si fece largo tra i banchi durante l’intervallo, attirando l’attenzione dei quattro compagni che stavano chiacchierando. Di cosa? Ma di calcio, ovviamente!
«Lenders, c’è Kira Brighton che vuole parlarti»
«Mh?» Mark si voltò e la vide sulla porta della classe, le braccia incrociate e l’espressione risoluta. «Che seccatura» sbuffò alzandosi.
«Non so proprio come si faccia a pensare di far del male a una ragazza che è la metà di te. Dovresti vergognarti!» disse Yumi in tono contrariato, tornando poi a prendere posto nei banchi davanti. Appena sedette, il solito capannello di amiche le si fece intorno.
Evidentemente, non tutti a scuola aspettavano la sfida con entusiasmo.
Mark raggiunse Kira sulla soglia dell’aula e li si fermò. Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, fissandola dall’alto del suo quasi metro e ottanta. A guardarla bene, lei era effettivamente la metà di lui, ma aveva uno sguardo così penetrante che – Mark poteva giurarci – non avrebbe avuto paura nemmeno se avessero fatto a pugni per davvero.
«Cosa sei venuta a fare? La gara è oggi pomeriggio»
«Sono venuta a sincerarmi che tu fossi a scuola»
«Credevi mi tirassi indietro?»
«Non si sa mai». Kira strinse gli occhi, intensificando lo sguardo. «Ricorda la posta in gioco»
La faccia incavolata di Mark sarebbe bastata come risposta. «Pagherò il debito, bambinetta. Se vincerai»
«Vincerò!»
«Credici fino alle tre»
Una vena si mise a pulsare sulla fronte della ragazza. La stava sottovalutando.
«Tutto qui quello che dovevi dirmi?»
«Sì, tutto qui. Vedi di non tardare». Kira si allontanò a gran passi verso la propria classe. Sentiva lo sguardo di Lenders sulla schiena.
Era assolutamente certa di batterlo. Si era allenata a giocare a calcio per una settimana intera, con scarsi risultati, era vero, ma aveva messo a punto un’idea che poteva funzionare. E se tutto filava liscio, la settimana ventura avrebbe avuto la sua bici riparata e pronta a tornare sulla strada.
Per uno strano scherzo del destino, però, c’era qualcosa che le impediva di mantenersi serena come lo era stata durante tutta la settimana. Le prudevano le mani, le quali iniziarono a diventare sudaticce. Il quadrante del suo orologio parve assumere la funzione di un magnete per i suoi occhi, i quali ne venivano attirati ogni mezzo minuto come calamite. Contava i minuti.
Al cambio d’ora, uscì a sbirciare cosa faceva Mark Lenders. Lui era come sempre fuori dalla sua classe, appoggiato alla parete accanto alla porta a chiacchierare con il solito amico capellone, alias Ed Warner, leggermente più alto di lui.
Alto.
Lei non era bassa ma paragonata a quei due…
Con la scusa di veleggiare verso il bagno, passandogli davanti, l’altezza di Mark le parve considerevolmente aumentata. Era senza dubbio una visione soggettiva. Le persone non acquistano centimetri nell’arco di due o tre ore, era scientificamente impossibile.
«Kira, ti senti bene?» le chiese una apprensiva Jem.
«Sì. Benissimo. Perché?»
«Sembri preoccupata»
«N-no, per niente»
«Oh, io te l’avevo detto di lasciar perdere, ma tu non mi hai voluto ascoltare»
Kira emise una risata tremula che voleva essere rassicurante. «T-tranquilla, tranquilla»
Non era preoccupata, era solo…
Okay, magari un pochino…
Durante le ore del club, le sue gambe divennero improvvisamente instabili e il suo corpo rifiutava di fare ciò che gli comandava.
Non c’era ragione perché si sentisse così.
Non sono nervosa, non sono nervosa…
Un paio di compagni del pattinaggio le si fecero incontro con espressioni ammirate.
«Ehi, Brighton, è vero che oggi sfiderai il capitano della squadra di calcio?»
Kira cercò di darsi un tono, alzando il mento e puntando i pugni sui fianchi. «Ma come, ancora non lo sapevate? Se ne parla da giorni!»
«Certo, lo avevamo sentito ma stentavamo a crederci» risposero i compagni.
«Accidenti, che coraggio!» disse una ragazza. «Io avrei paura anche solo ad incrociarlo per strada, quel Lenders»
«Verremo tutti a fare il tifo per te!»
«Grazie, siete molto gentili» rispose Kira, ostentando una sicurezza che stava venendo meno. Non aveva temuto la sfida fino a quel momento, perché ora sì?
Mentre si allontanava in un’altra parte della pista, udì i compagni bisbigliare: «Certo che ha fegato. Poverina, speriamo vada tutto bene, perché lui è proprio un armadio…»
Un armadio, un muro, un pezzo di marmo, qualcosa di solido e impenetrabile spesso come…
«La barriera…»
«Eh?»
«Kira-chan, attenta alla…»
SBAM! Kira andò a cozzare bruscamente di schiena contro la barriera della pista, e per poco non rotolò dall’altra parte.
Era così che si sarebbe sentita quando si fosse scontrata contro Mark Lenders? E per scontrata intendeva proprio scontrata, sbattuta addosso, percossa, tagliata a pezzettini, frullata, impastata, cotta e impacchettata.
«Kira!» esclamò Jem, correndo da lei.
«Sto bene, sto bene. Ero un po’ distratta». Aveva male al fianco destro, alle costole, un gomito indolenzito. Bè, poteva sopportarlo quel dolore… o lui le avrebbe fatto più male?
«Brighton, stai sbagliando tutti i passi!», le gridò il coach Kanagawa. «Che cosa combini?»
«Mi scusi!»
No e poi no. Non era nervosa e non aveva paura. Era…era… aveva mangiato qualcosa di indigesto. Ecco. Lo stomaco le si contorceva come una serpe selvaggia ma non per colpa di Mark Lenders. Non perché pensava che era almeno dieci centimetri più alto di lei, tanto muscoloso; e non era nemmeno il pensiero di doverlo battere di lì a un’ora e mezza in una sfida di calcio, disciplina sportiva in cui lei faceva completamente schifo.
In pochi secondi, Kira si rese conto del tremendo casino che aveva combinato.
Chi diamine voleva prendere in giro? Lei non sapeva giocare a calcio, non avrebbe mai imparato e sarebbe stata battuta. Che umiliazione! Avrebbe sicuramente fatto la figuraccia più colossale della sua vita davanti a mezza scuola, e Mark Lenders l’avrebbe presa in giro vita natural durante.
Alle tre, la sua temperatura corporea sembrava essere salita eccessivamente. Goccioline di sudore le scivolavano sulla schiena. Di lì a un minuto sudava come una fontana.
Il caldo. Era solo il caldo.
I ragazzi del team di pattinaggio avevano deciso di andare a fare il tifo, saltellando dietro la compagna con espressioni eccitate in viso.
Man mano che si avvicinavano al campo sportivo videro che una gran bella folla di spettatori gremiva gli spalti. Alcuni tra i più esaltati avevano preparato persino degli striscioni di incoraggiamento, chi per Kira, chi per Mark.
Proprio lui, se ne stava a centro campo, in attesa. Le braccia incrociate al petto, il viso serio e impassibile, con un piede sollevato teneva fermo il pallone sull’erba. Era la calma fatta persona. Solo le grida degli spettatori sembravano dargli fastidio.
Mark non concepiva tutto quel baccano. Quegli idioti si erano dati tanto da fare per un incontro che sarebbe durato una manciata di secondi. Qualsiasi cosa avesse architettato quella svampita, lui l’avrebbe mandata a monte con un solo tiro.
«Guarda la sua faccia!» fece Jem in un’esclamazione strozzata. «Spietato e crudele. I suoi scarpini sono sporchi di sangue di povere vittime innocenti»
Un brivido freddo corse lungo la spina dorsale di Kira. «Ugh…Jem, non starai esagerando, ora?»
I compagni del pattinaggio si raccolsero attorno a lei con facce di chi sta per dare l’ultimo saluto a un defunto. «È stato bello conoscerti», piagnucolarono.
«Oh, basta!» esclamò la ragazza. Gli altri fecero un salto indietro. «Che diamine! Mica sto andando in guerra!». No, stava solo per incontrarsi con la versione tredicenne di Kenshiro. «Non temete, sono perfettamente padrona della situazione». 
«Ripensaci, sei ancora in tempo» pregò Jem per l’ultima volta.
Kira gonfiò il petto. «Ho dato la mia parola».
«Muoviamoci, non ho tutto il giorno» esclamò Mark da centro campo.
Kira inspirò lungamente ma dimenticò di espirare mentre camminava verso Lenders, arrivando davanti a lui con le guance gonfie come un palloncino.
«Sembra tu abbia ingoiato un rospo».
Kira si sgonfiò e deglutì più volte. Alzò un dito tremante, cercando di nascondere la sua…e va bene, la sua paura.
«Oggi decideremo il nostro destino!» enunciò con enfasi.
Mark la fissò con espressione assente. Certo che ne diceva di cavolate…
Il capitano della Toho fece scattare il piede, diede un calcetto al pallone prima con la punta della scarpa, poi con il ginocchio, con la testa. Infine, con un leggero colpo di testa, lo lanciò verso Kira, la quale lo prese al volo.
«Spiegami le regole»
«È molto semplice» iniziò lei. «Non faremo una vera partita, sarebbe troppo complicato. Dovremo soltanto cercare di rubarci la palla a vicenda. Chi per primo farà tre goal all’altro avrà vinto»
Mark si era aspettato una stupidaggine del genere. Come avrebbe potuto organizzare qualcosa di più complesso una che non conosceva le regole del gioco?
«E i portieri?» 
«Niente portieri»
«Niente portieri?» esclamò lui, incredulo.
«È una gara solo tra noi due, Lenders» gli ricordò Kira. «Lo scopo è impedire all’altro di rubargli la palla, nient’altro»
Nient’altro? «Ma questo non è calcio, allora!»
«Tu sceglieresti di sicuro quel tuo amico capellone, e io perderei» disse Kira indicando Ed. «Ho visto come gioca: è al limite dell’impossibile, peggio di una scimmia ammaestrata»
Scimmia?
Una fugace visione di Ed Warner appollaiato sulla traversa, con coda a ricciolo e banana alla mano, passò per la mente di Mark. Non cadde a terra per l’incredulità solo perché il proprio carattere gli imponeva di mantenere una parvenza di serietà.
Lei era assurda, però aveva ragione: se avesse schierato Ed in porta sarebbe stata una cattiveria. E poi doveva tenere a mente che non era una vera partita.
«E va bene, come vuoi tu» le rispose. «Ho praticamente già vinto»
«Lo vedremo!». Kira si erse in tutto il suo metro e sessantacinque. Era alta per la sua età e per essere giapponese. Oh, lui non sapeva che le sue gambe lunghe le avevano dato grandi problemi e grandi vantaggi. Alle elementari tirava un sacco di calci a chi la infastidiva e arrivava sempre prima nei giochi in corsa. Quelle gambe si erano allenate per anni a sostenere il peso di tutto il suo corpo quando atterrava su un solo piede sopra il ghiaccio dopo un salto doppio o triplo.
Poteva farcela se sfruttava quella peculiarità.
«Ci serve un arbitro» aggiunse lei dopo qualche secondo.
«Lo faccio io» si offrì Eddie Bright, andando a recuperare velocemente un fischietto dagli spogliatoi.
Il sole era alto in cielo, la temperatura si era alzata.
Eddie tornò poco dopo con un fischietto nero al collo, posizionandosi tra i due avversari. Come aveva fatto Kira, prese una moneta. «Testa per la palla, croce per il campo»
«Testa» disse subito Kira. La prima volta aveva scelto croce e le aveva portato sfortuna.
«Va bene se prende lei la palla» disse Mark, l’aria strafottente. «Le darò un vantaggio»
«Non accetto favoritismi» replicò subito la ragazza. Per chi l’aveva presa, per una mollacciona?
Eddie guardò il suo capitano per capire cosa fare. «Mark?»
«D’accordo, nessun vantaggio. Croce. Vai»
Eddie lanciò la monetina. Il pubblico trattenne il fiato.
Uscì testa, per cui Kira ebbe il pallone e Mark scelse il campo.
«Pronti?» disse infine Eddie, camminando all’indietro per lasciare spazio ai due giocatori.
Mark fece schioccare le nocche di una mano.
Kira strinse i pugni con tutta la forza che aveva e deglutì più volte.
Mi romperà le ossa…ma non mi arrenderò.
Eddie fischiò l’inizio dell’incontro, subito seguito da un coro di incoraggiamenti dagli spettatori.
Kira cominciò immediatamente a correre verso la porta, mettendoci tutta la tecnica che aveva cercato di apprendere in una sola settimana. Ma il suo controllo di palla era pessimo.  
Scarsa, pensò Mark parandosi davanti a lei. Avrebbe potuto toglierle il pallone con facilità e partire in contropiede realizzando subito un goal, ma decise che non ci sarebbe stata soddisfazione senza averla presa un po’ in giro. Le avrebbe lasciato fare qualcosa prima di mettersi a giocare sul serio.
Le permise di tenere il pallone e superarlo. Lei era piuttosto veloce e in pochi attimi arrivò in area di rigore. Provò a tirare ma inciampò su sé stessa e la palla andò per conto suo.
«Ops…»
Smira totale. Mark trattenne una risata dietro la mano che andò a coprire il viso, mormorando un sincero: «Poveri noi…».
Kira fece diversi nuovi tentativi di tirare in porta, vanificati uno dopo l’altro dagli interventi dall’attaccante. Mark prevedeva facilmente i suoi spostamenti, facendo saltare la palla da tutte le parti con un'agilità e un equilibrio inimitabili che la mandavano in confusione. Qualche volta Kira riusciva a riacchiappare la sfera, ma subito lui se ne rimpossessava.
Poi, cercando di non farle troppo male, Mark allungò un piede e le rubò il pallone.
«Oh, no!» gemette Kira.
«Ti arrendi?» fece Mark, prendendo la via dell’area assegnata alla pattinatrice. Senza il portiere avrebbe potuto tirare tranquillamente anche dalla metà campo.
«Ti sembro una che si arrende?». Kira partì all’inseguimento del capitano della Toho. Lui era di una rapidità incredibile nonostante l’altezza. L’unica cosa che poteva fare era buttarsi e provare.
Kira si tuffò sul terreno tentando una scivolata; in fin dei conti era quasi come eseguire una strisciata(1) sul ghiaccio, solo al contrario. Nel momento in cui Mark sollevò la gamba destra allontanandola dal pallone, lei insinuò la propria in quello spazio provvisorio, spedendolo la sfera fuori dal campo.
I compagni sugli spalti che parteggiavano per lei scoppiarono in un applauso.
Mark la guardò stupito, tentando di non sembrare troppo impressionato. «Niente male per una bambinetta. I miei complimenti»
Kira gli mostrò un sorriso compiaciuto. «Grazie» rispose, ancora semi distesa fra l'erba verde del campo.
Lui sorrise in quel modo insolente. «Ma forse non sai che sono conosciuto come il migliore centrocampista del calcio giovanile di tutto il paese»
«Non sopravvalutarti troppo. Una principiante ti ha appena portato via la palla da sotto il naso»
«Non fare l’insolente» l’avvertì Mark. Certo, ci era riuscita solo perché lui non stava facendo sul serio. Glielo aveva permesso, povera illusa.
Mano a mano che la sfida proseguiva, spinta da rinnovata caparbietà, Kira si lanciò senza tregua all’inseguimento del suo rivale. Nonostante non riuscisse a riprendere la palla, ottenne di tenerlo lontano dalla porta sfoderando le sue doti atletiche, inventandosi acrobazie eccezionali, volteggi in aria, ruote e capriole.
Mark la guardava perplesso saltellare da una parte all’altra. Se avesse continuato così si sarebbe stancata in fretta.
«Di grazia, che diavolo stai facendo?»
Kira sogghignò. «Dì la verità, non ti aspettavi che fossi così abile, vero? Ti ho messo in crisi, ammettilo. Non sai come liberarti di me se ti giro intorno con queste mosse speciali. Ahahah!»
«Veramente sto pensando che sembri uscita da un circo» …e che sei anormale.
«Mi stai dando del fenomeno da baraccone?!»
«Più o meno».
Lei ringhiò indispettita. «Ti faccio vedere io!».
Kira gli corse incontro come una furia, pensando ti provare di nuovo con la scivolata. Ma stavolta fu un tentativo a vuoto.
Con un movimento improvviso, Mark spinse la palla in aria con un calcio potente. Corsero fianco a fianco per impossessarsene una volta che fosse ricaduta a terra. Mark, gli occhi fissi sul pallone, aveva solo una lieve percezione dei movimenti di Kira. Sentiva i suoi respiri accelerati, i suoi passi, vedeva la sua ombra sul terreno. Mai si sarebbe aspettato di vederla lanciarsi in avanti e spiccare un salto così alto che pensò volesse fermare la palla di testa. Invece ruotò su sé stessa, eseguendo una mossa che lui non capì, anche perché, invece di colpire il pallone, Kira colpì lui in piena faccia.
Il fischietto dell’arbitro – cioè di Eddie – risuonò nell’aria.
«Fallo!»
I due sfidanti erano ricaduti a terra, uno sulla schiena, l’altra a pancia in giù.
«Cosa?» fece Kira, voltandosi per vedere Eddie Bright attraversare il campo per raggiungerli. Poi udì un gemito e guardò al suo fianco, raggelandosi.
Aveva praticamente steso Mark Lenders.
«M-mi dispiace» provò con una vocina piccola piccola. 
Lui la fissava con uno sguardo che dire omicida era poco, una mano sul viso a coprire il naso sanguinante.
«Mark, stai bene?!» esclamò Eddie.
«Starò meglio quando l’avrò strangolata!». Il capitano della Toho si rialzò, allungando le mani come se volesse afferrare il collo di Kira. L'avrebbe volentieri fatto sul serio.
Eddie si frappose fra loro per evitare una tragedia. «Calma, calma! Sono sicuro che non l’ha fatto apposta. Comunque, è fallo» disse a Kira, estraendo un cartellino giallo.
«Non mi puoi ammonire!» protestò lei. «Non è una partita di campionato!»
«Questo che c’entra? Io sono l’arbitro, ho il diritto di ammonirti»
Mark si tastò il naso per sincerarsi delle condizioni in cui gravava. Non sembrava rotto ma sanguinava e faceva un gran male.
«Vuoi andare in infermeria?» gli chiese Eddie.
Mark rispose con un secco «No»
«Sicuro?»
«Non sono una femminuccia. Per un po’ di sangue dal naso non è mai morto nessuno»
«No, certo, però…»
«Eddie, falla finita e dammi il pallone!»
Eddie obbedì all’istante, senza insistere ulteriormente. Quatto quatto se ne tornò alla sua postazione.
«Non volevo» cercò di scusarsi ancora Kira. «Davvero, non l’ho fatto apposta»
«Riprendi a giocare» disse Mark. La sua voce aveva il tono del comando.
Era un ordine.
Le aveva dato un ordine.
Kira Brighton non prendeva ordini da nessuno.
La ragazza abbandonò l’atteggiamento conciliante. Lui non accettava le scuse? Bene. Non avrebbe perso tempo a rinnovargliene.
«Ehi tu!» esclamò, voltandosi verso Eddie, del quale non sapeva il nome. «Avanti, fischia!»
Eddie portò il fischietto alle labbra e la sfida riprese.
Ma Mark aveva sfoderato gli artigli ormai.
Era stato umiliato davanti a un sacco di gente, metà della quale era lì per giudicare quanto fosse cattivo e violento.
Era stato umiliato da una ragazzina sciocca, pazza, sfacciata e insulsa.
Lei voleva il calcio acrobatico? Avrebbe avuto il calcio acrobatico, allora.
Il ragazzo ricominciò una giocata del tutto nuova – nuova per Kira ma non per i tifosi che sapevano fin troppo bene cosa sapeva fare l’ex capitano della Muppet.
Kira gli girava intorno, accortasi del cambiamento sia nel modo di muoversi, sia dall’espressione del suo volto. Non la guardava più con quel sorrisetto insolente, anzi non la guardava proprio. Era come se fosse stato improvvisamente assorbito da una sorta di dimensione diversa, distante.
Erano lui e il pallone.
«Eh no, non ti lascerò vincere!» esclamò la pattinatrice.
I due sfidanti si ritrovarono nuovamente faccia a faccia, i piedi di uno incastrati tra le caviglie dell’altro.
«Puoi essere veloce quando vuoi, fare tutte le acrobazie che ti pare, ma non riuscirai mai a bloccare uno dei miei tiri»
«Finora te l’ho impedito, mi pare» lo provocò lei. «Non sei tutta questa gran bravura come dicono»
Mark ebbe un fremito.
Aveva toccato un tasto dolente.
Eccola, la ragazzina viziata di buona famiglia. Certo, lei poteva anche fare schifo a scuola, tanto erano i suoi a pagare la retta. Cosa ne sapeva di lui, dei suoi sacrifici, delle difficoltà? Come si permetteva di metterlo su una bilancia senza nemmeno conoscere il suo valore?
«Tu mi avresti impedito di tirare? Svegliati, Brighton!» ruggì Mark, notando con piacere il sussulto di lei.  «Ti ho solo lasciata giocherellare. Ma adesso mi sono stancato! Adesso farò sul serio!»
Mark colpì la palla di tacco, compì un mezzo giro su sé stesso e la riprese, spiccando una rovesciata che lasciò Kira letteralmente a bocca aperta.
La porta era vuota, lui fuori dall’area. Ora le avrebbe mostrato la vera potenza del suo tiro, così forse avrebbe desistito nel voler risolvere quell’insensata faccenda con giochetti da prima elementare.
«Ora prova a prenderla!»
Ma Kira non si sarebbe arresa, né quella volta né dopo. Senza paura – o più probabilmente con molta imprudente fermezza – gli si parò davanti con un’altra delle sue acrobazie nell’esatto momento in cui Mark calciò con tutta la forza di cui era capace.
«La prender…!»
«Ah…»
Un silenzio di tomba.
Una scena al rallentatore, quasi immobile nell’aria calda del pomeriggio.
Kira crollò a terra come una pera dall’albero, con un tonfo e un gemito, la faccia tutta rossa e dolorante.
«Ooooohhhhhhhh!!!!!» fu il grido unanime del pubblico.
«KIRA-CHAN!» fu quello di Jem, più forte di tutti gli altri. Facendosi largo tra la gente, corse verso il campo in un fiume di lacrime.
I tifosi che sostenevano la pattinatrice iniziarono a protestare a gran voce.
«L’ha stesa!»
«L’ha fatto apposta!»
«Villanzone!»
«Picchi le ragazze!»
Mark dava ascolto alle rimostranze solo in parte. Osservava Jem stesa sul corpo esanime di Kira Brighton. Stavolta l’aveva fatta grossa.
«Forse ho esagerato» disse, sfregandosi la nuca.
«Esagerato?!» urlò Jem, isterica. «Guarda cos’hai combinato!»
«Ma io non…». Non era mai stata sua intenzione concludere le cose in quel modo. La detestava, d’accordo, ma detestava anche Hutton e tutta la New Team; e detestava ancor più visceralmente quel gradasso di Benji Price, ma non aveva mai voluto mandarli al creatore.
Gli sembrava di aver già visto una scena simile, ma dove? Oh, certo! Quando Bruce Harper si era immolato per salvare la porta di un Benjamin Price infortunato, respingendo il pallone di faccia.
Diverse persone erano scese dagli spalti e fatto irruzione in campo. I ragazzi del club di pattinaggio stavano litigando con la squadra della Toho.
«Non è stata colpa di Mark se si è lanciata sulla traiettoria del tiro!» lo stava difendendo Ed, faccia a faccia con una ragazza bassina con i capelli castani tendenti al rossiccio.
«Non volevo farla fuori» ammise Mark.
Jem, dal capezzale di Kira, ululò disperata. Poi prese a scuoterla afferrandola per il colletto della maglietta. «Kira, ti prego, dì qualcosa!»
«… Gha … »
«Ha detto ‘gha’» fece Ed, speranzoso.
«Ma non vuol dire niente!» gridò di nuovo Jem.
«Fatele aria, non statele tutti intorno» intervenne Eddie, inginocchiandosi sul terreno accanto a Jem. «Si chiama Kira, giusto?»
Jem annuì.
«Kira?» la chiamò Eddie, sventolandole davanti le cinque dita della mano. «Quante sono queste?»
Gli occhi della ragazza rotearono un po’ prima di riuscire a mettere a fuoco. «Sono…eeehhh…ventitré»
Eddie si fissò la mano con perplessità. «Okaaay… Sarà meglio andare in infermeria»
«Ci penso io a portarla» disse il più alto dei membri del team di pattinaggio, sollevando Kira da terra. Jem teneva la mano dell’amica, come un parente al capezzale di un moribondo.
«Jem, non mi sento tanto bene»
«Non ti preoccupare, ti rimetterai. Non permetteremo mai più a quel bruto di avvicinarsi a te»
«Eeeehhh…»
I ragazzi del team partirono di gran carriera verso la scuola. Sul campo scese il silenzio.
Delusi e arrabbiati, i tifosi lasciarono gli spalti. Alcuni seguirono il drappello diretto all’infermeria, altri si avviarono verso casa, altri ancora rimasero insieme alla squadra di calcio per sapere cosa sarebbe successo a questo punto.
«Insomma, alla fine chi ha vinto?» chiese qualcuno.
«Già, è vero!» disse Ian. «Eddie, chi è il vincitore?»
Tutti fissarono il numero nove della Toho. Eddie lanciò un’occhiata a Mark. Non sarebbe stato felice di sapere la verità.
«Ecco, date le circostanze…nessuno»
«Come sarebbe a dire?» sbottò Mark.
«Vedi, hai appena commesso un fallo epocale, da cartellino rosso, perciò sarei stato costretto ad espellerti. E, dato che in campo non sono rimasti altri giocatori e l’unico avversario disponibile è stato messo K.O, la sfida termina in parità»
«Parità un corno!»
«Mi spiace Mark, ma nessuno di voi due è riuscito a fare goal all’altro. Non posso decretare un vincitore, capisci?».
Ed annuì concorde. «Ha senso. Se Kira Brighton non si fosse infortunata sarebbe ancora in campo, e con l’espulsione di Mark avrebbe potuto segnare almeno un goal e vinto la sfida. Ma, dal momento che siete stati messi entrambi in condizioni di non poter continuare…», Ed mise un braccio sulle spalle di Mark, «mi dispiace, capitano, dovrete sfidarvi di nuovo»
«Cosa?! Non ci penso neanche! E togli quella mano!»
Sfidarla di nuovo? Ripetere ancora quella baggianata? No, nemmeno sotto tortura! La sfida si sarebbe conclusa quel giorno o niente.
«Mark dove vai?»
«In infermeria»
Mark e Ed trottarono fianco a fianco per il cortile, seguiti dal resto della squadra e dai tifosi rimasti, ansiosi di sapere l’esito della battaglia.
«Non puoi andarci adesso»
«Perché no?»
«Non penso tu possa vederla se sta male. Dovrai aspettare»
Mark frenò di colpo, voltandosi verso Ed con la faccia più cattiva di sempre. «Chi è che vuole vedere quella là?!»
«Ma come? Io credevo…»
«Credevi male, Ed. Non ci vado per sapere come sta! Ci vado esclusivamente per risolvere la questione»
Non era affatto preoccupato per lei. Figurarsi. Perché mai doveva?  Una con la testa così dura non sarebbe stata costretta a letto a lungo per una pallonata in faccia. Era una ragazza, d’accordo, ma Mark sospettava fosse dotata di una tempra niente male. Una qualunque non avrebbe mai nemmeno avuto il coraggio di sfidarlo, questo le faceva onore. Avrebbe potuto congratularsi con lei per il fegato dimostrato, anche se a calcio giocava da far schifo.
Segretamente, una piccola parte di lui pensava che non gli sarebbe dispiaciuto sfidarla di nuovo. La parte razionale del suo cervello, invece, continuava a ripetersi – e convincersi – che tutta quella storia era stata una gran seccatura sin dall’inizio, e lo sarebbe diventata il doppio se lui avesse continuato ad auto-coinvolgersi nei piani di quella svampita rompiscatole.
Dopotutto, però, non poteva ignorare di essere lui la causa dell’infortunio di Kira, perciò era suo dovere domandarle scusa. Era un semplice gesto di cortesia, nient’altro.
 
 
«Ahi, ahi, che mal di testa…»
Kira era sdraiata nel letto dell’infermeria da qualche minuto, la borsa del ghiaccio posata sulla fronte. Jem e gli altri membri del team di pattinaggio erano rimasti con lei fino a pochi istanti prima, poi l’infermiera li aveva mandati a casa, rassicurandoli che non c’era nulla di cui preoccuparsi: si era presa una bella botta, niente che non potesse guarire nell’arco di un paio di giorni. Per precauzione, comunque, le era stato ordinato di sdraiarsi e aspettare che il dolore cessasse.  
Sospirando chiuse gli occhi. Udì l’orologio nell’ufficio dell’infermiera battere le quattro del pomeriggio. A scuola non doveva essere rimasto praticamente nessuno.  
Che figura barbina aveva fatto…
Chissà com’era andata giù al campo... Lenders era stato decretato vincitore ad interim?  
Poteva cantar vittoria per adesso, ma presto… presto lei si sarebbe ripresa e allora...
Avvertendo una presenza nella stanza, Kira aprì un occhio per sbirciare.
Ed eccolo di nuovo. Non voleva proprio lasciarla in pace.
Mark rimase fermo sulla soglia della stanza. Gli faceva sempre uno strano effetto vedere una persona distesa in un letto dalle lenzuola bianche. Detestava l’odore del disinfettante e non amava i luoghi come ospedali, le sala d’attesa di un pronto soccorso e nemmeno l’infermeria della scuola. Suscitavano in lui ricordi troppo spiacevoli.
Il ragazzo alzò una mano in segno di saluto. «Ehilà»
Una vena iniziò a pulsare minacciosa sulla tempia della ragazza. «Sei un incubo»
«Veramente sei sveglia»
«Lo so, non intendevo in quel senso. Intendevo che sei il mio peggiore incubo»
«Ho ricevuto insulti peggiori, ti ringrazio»
«Mi hai quasi ammazzata, delinquente!» Kira saltò su a sedere, togliendosi la borsa del ghiaccio dalla fronte. «Hai una vaga idea del dolore che provocherebbe un meteorite di mille tonnellate se ti arrivasse sulla faccia?»
«No»
«I tuoi tiri fanno questo effetto!»
«Oh. Wow»
«Come ‘wow’?!» Kira digrignò o denti, i canini sporgenti come una belva assatanata.
«Bè, ero consapevole che i miei tiri potessero provocare un gran male; Alan Crocker deve saperne qualcosa, tanto per fare un esempio. Ma non avevo mai pensato a una definizione». Mark incrociò le braccia, meditandoci su. «Un meteorite…no, non mi piace. Trova qualcosa di meglio»
«MI STAI PRENDENDO IN GIRO!» sbraitò Kira, cercando un oggetto per colpirlo.
Mark si avvicinò al letto e le mise una mano sulla spalla, facendo pressione. «Sta calma, o starai male sul serio»
«Io sto male sul serio!»
La porta si aprì ed entrò la signora Koike, l’infermiera della scuola. «Che sta succedendo? Tu che fai qui, ragazzo?»
«Niente, sono venuto a trovare la mia amica» mentì Mark, tappando la bocca di Kira con entrambe le mani. «Le ho detto di star calma ma non vuole ascoltarmi»
Dimenandosi, Kira gli lanciò occhiate incenerirtici.
«Oh, che amico premuroso» chioccò l’infermiera. «Non stare in pensiero, non è niente di grave».
«Koike-san, non minimizzi la mia situazione» protestò Kira, liberandosi dalle mani di Mark.
«Calma, tesoro, calma». L’infermiera prese a rimboccarle le coperte, le rimise la borsa del ghiaccio sulla testa e il termometro in bocca. «Ti gira ancora la testa?»
«Uhm…un pochino»
«Rimani distesa ancora qualche minuto. Quando la testa smetterà di girare potrai andare a casa. Intanto dammi il tuo numero, così posso già avvertire i tuoi genitori»
«Non c’è nessuno a casa a quest’ora» disse Kira, sprofondando nelle coperte.
«Allora dammi il numero di tua madre o tuo padre, li chiamerò sul lavoro»
Kira trasalì. «No, non chiami mia made!» pregò l’infermiera, rimettendosi a sedere in fretta. Mamma non doveva venire a conoscenza di nulla, avrebbe come minimo messo in piedi il finimondo, denunciato qualcuno e reso la vita impossibile a lei e a…
Kira mosse solo gli occhi per guardare Mark, in piedi vicino alla finestra.
Qualcosa scattò dentro di lui quando ricevette quello sguardo.
«La riaccompagno a casa io» disse automaticamente. «Non ci sarà bisogno di chiamare nessuno»
«Bene, allora» L’infermiera si chinò verso Kira, ammiccando. «Sei fortunata, è anche un bel ragazzo»
«Cosa dice, Koike-san?» strillò Kira, disgustata. «Lo guardi bene. Le sembra bello?»
L’infermiera attraversò la stanza ridendo come una ragazzina, salutando e rammentando a Kira di stare a riposo e prendere un analgesico in caso di dolore. Poi se ne andò.
Mark afferrò la sedia accanto al letto e vi si accomodò. Tanto valeva sedersi se doveva stare ad aspettarla.
«Perché devi sempre farmi venire i nervi?»
Kira sbuffò. «Dico solo la verità. Non sei bello»
«E io che mi sono offerto di riaccompagnarti»
«Posso tornare a casa da sola». Kira si massaggiò la fronte, sussultando.
«Hai un bel bernoccolo davvero» commentò Mark, notando con divertito interesse il bozzo rosso spuntatole all’attaccatura dei capelli.
Kira mise il broncio, rifiutandosi di farsi provocare. «Che cosa sei venuto a fare qui?»
Lo mise in difficoltà. Mark abbassò la testa, la frangia lunga andò a coprirgli metà del viso. Scosse le spalle, incapace di trovare subito una risposta.
Non era del tutto convinto di essere venuto solo per scusarsi di averla colpita, sotto sotto provava una certa apprensione per lei, anche se non ne aveva motivo; Kira sembrava piuttosto in forma a vederla così.
Tempo dieci minuti e la ragazza era balzata dal letto con rinnovata energia. Vedendola di nuovo padrona di sé stessa, la sensazione di disagio sparì e per Mark fu molto più facile parlarle.
«Non volevo» disse d’un tratto, mentre si avviavano verso la stazione.
«Eh?»
«Colpirti. Non l’ho fatto apposta»
Kira aguzzò le orecchie, appoggiandovi una mano per sentire meglio. «Sono delle scuse queste?»
«Non quelle che credi tu». Mark voltò il capo verso il lato opposto della strada. «Non ti sto chiedendo scusa per la bici ma per averti fatto male. Non è stato intenzionale»
«Guarda che lo so». Kira continuò a massaggiarsi la fronte. «Però apprezzo che tu sia venuto a scusarti»
«Per chi mi hai preso?»
Kira rise imbarazzata. «Anch’io dovrei chiederti scusa»
«Per cosa?»
«Il tuo naso»
Mark tastò in automatico il setto in tutta la lunghezza. Doleva un poco. «Tutto a posto, come vedi»
«Meglio così. Ti voglio in forma per la prossima volta»
Mark la guardò senza capire. «La sfida è finita zero a zero»
«Lo so. Koike-san me lo ha detto»
«Eh? L’infermiera?»
Kira annuì. «A quanto pare sa tutto quello che succede a scuola, sospetto anche più del preside stesso. Non le sfugge nulla»
Scendendo le scale della metropolitana, Mark si chiese come avesse potuto l’infermiera vedere l’incontro da quel punto della scuola, ma era meglio non divagare in discorsi inutili. «Senti, non potremmo metterci una pietra sopra?»
«Cosa?». Lei non capì.
«L’incontro è concluso. Sono stato espulso per averti messa fuori gioco»
«Ma come? Non ti importa se è finita in parità?» chiese la ragazza, stupita. Non era l'atteggiamento che si era aspettata da lui.
«Sì, è più o meno così» rispose Mark. Sperò andasse bene anche a lei, ma a quanto pare era più cocciuta di un mulo.
Kira fece un respiro e le sue narici fremettero. «Eh no! Non te la darò vinta così facilmente, bello mio! Voglio la rivincita!»
La mascella di Mark si aprì lentamente. «Ma perché? Vuoi finire direttamente al pronto soccorso? Non ti è bastato vedere l’esito di questa sfida?». Lui non sarebbe stato disposto ad avvantaggiarla una seconda volta, avrebbe giocato come sapeva e sarebbe stato un suicidio.
Kira balzò di fronte a lui, un dito puntato contro il suo petto (in realtà avrebbe voluto puntarglielo all’altezza del viso, ma non ci arrivava). «Deve esserci un vincitore. Io non accetto che finisca così!»
«Per il tuo bene, Brighton, non ti conviene, davvero. La prossima volta farò sul serio fin dall’inizio»
«Ah, è così». Kira avanzò minacciosa, costringendolo ad arretrare. «Tu pensi che io non sia abbastanza brava, che non sia alla tua altezza, che non possa riuscire a batterti»
Lui non avrebbe voluto darle un dolore, ma se insisteva tanto... «In effetti sì, lo penso. Guarda come ti sei ridotta»
Kira fissò il proprio riflesso nel finestrino del treno appena arrivato. Un abnorme bozzo rosso spuntava sul lato della fronte.
«Oh mio Dio!!! È orribile!» gridò disperata, le mani nei capelli. Si voltò da una parte all’altra in preda al panico, frugando nella cartella alla ricerca di qualcosa per coprire quell’obbrobrio, ma non aveva niente con sé. Per di più, lui l’aveva visto! Adesso avrebbe ricominciato a prenderla in giro.
«Non guardarmi, non guardarmi!»
«Non ti sta male» rise Mark. «Lascialo lievitare ancora un po’, così coprirà la tua brutta faccia»
Il gancio destro di Kira arrivò dritto sul naso già dolente.
Cavolo, pensò Mark, è riuscita a colpirmi.
Non era da tutti riuscirci. Ma aveva la guardia abbassata, per questo lei ce l’aveva fatta, era l’unica spiegazione, altrimenti…
Quella ragazza non andava sottovalutata.
«E va bene, ti concedo una rivincita» disse lui senza guardarla, facendosi largo tra la folla di pendolari per salire sul vagone.
Kira lo seguì con aria sorpresa e soddisfatta al contempo. «Sul serio accetti?»
Mark non sapeva perché, ma non era riuscito a dirle di no. Il suo animo fremeva ogni volta che si prospettava una sfida all’orizzonte. Non ne avrebbe ricavato nulla, Kira Brighton non era uno dei suoi soliti rivali, eppure…
«In fondo» sorrise Mark, «potrebbe essere divertente farlo di nuovo»
La risposta lasciò la ragazza spiazzata. Lui…si era divertito? Oh, bè, a dirla tutta anche lei l’aveva trovato divertente, anche se ne era uscita sconfitta e ferita. Inoltre si era preoccupato per la sua salute, in qualche modo.
Sul volto di Kira apparve un sorriso compiaciuto. «La prossima volta ci sfideremo sulla pista di pattinaggio».

 
 
***** ***** ***** ***** *****
Note:
 
1-La ‘strisciata’ è un passo del pattinaggio artistico. Non è esattamente come una scivolata nel calcio, ma dato che la posizione può ricordarla l’ho fatta eseguire a Kira al contrario, diciamo. Nella foto un esempio di ‘strisciata’, la quale può subire delle varianti.
 Nana-Takeda-2005-Croatia-Cup-Ex

2-Probabilmente lo sapete già, ma lo scrivo ugualmente.
San è il suffisso onorifico più comunemente usato in Giappone, fra persone di tutte le età, in contesti sia formali che informali. Il ‘san’ corrisponde al nostro ‘signore’, ‘signora’. Viene aggiunto al nome della persona a cui ci si rivolge (nel nostro caso Koike-san, ovvero ‘signora Koike’). Il ‘san’ si usa spesso anche tra coniugi e può anche essere collegato ai nomi degli animali (un gatto verrebbe chiamato Neko-san). Certe volte, il suffisso ‘san’ è utilizzato per abbinare il nome di una persona al suo posto di lavoro (ad esempio un fruttivendolo si chiamerà Yaoya-san  , cioèsignore della frutta).


***** ***** ***** ***** *****

- Spazio Autrice -

Sono tornata!!!
Scusate, scusate, scusate l’estrema lentezza, so che può essere esasperante non vedere aggiornata una storia seguita. Mi mancano i tempi in cui riuscivo a scrivere ogni giorno…sigh…
Secondo i programmi, la sfida e la rivincita dovevano rientrare nello stesso capitolo, ma non sono riuscita a farcele stare entrambe. Fosse per me scriverei capitoli di venti pagine e oltre, ma ho paura che possano risultare troppo lunghi e di conseguenza pesanti, perciò mi costringo ad accorciarli e spezzarli. Spero che la mia versione di Mark/Kojiro vi stia piacendo. Cerco di rimanere il più fedele possibile al personaggio.
Non sono riuscita a terminare nemmeno i disegni *piange*. Anche se non è una cosa indispensabile ai fini della fanfiction ci tengo molto. Mi metterò d’impegno.
Visto che non mi è stato possibile trovare il tempo per rispondere alle recensioni della scorsa volta, lo faccio brevemente qui.


Per Barby_Ettelienie91: Come hai visto, la sfida questa volta è finita pari. Chissà se Kira riuscirà a vincere alla prossima... Tu che dici? Di sicuro ne vedremo di nuovo delle belle ;) E poi non posso rinunciare a far indossare a Mark i pattini da ghiaccio XD Vedrai cosa combinerò a questi due!
Per JessAndrea: I fratellini di Mark si vedranno di più strada facendo. Nel prossimo capitolo sarai accontentata, vedrai Kira pattinare sulla sua amata pista…e anche Mark! Descriverò ancora anche lui nelle vesti del numero dieci quando sarà il momento. Allora, per il volto di Kira mi sono in effetti ispirata a una pattinatrice reale, Ashley Wagner, che amo molto come atleta. Però, se devi immaginare Kira pattinare, la tecnica è quella dell’ex campionessa olimpionica Evgenia Medvedeva. Cercale su youtube, le trovi di sicuro.
Per innominetuo: la madre di Kira è un tipo molto severo e il padre è spesso all’estero, come ho spiegato nel secondo capitolo. Approfondirò la situazione famigliare dei Brighton un po’ più avanti. Come hai ben previsto nella tua recensione, Kira ha finito per farsi male, e come poteva accadere diversamente? Ma non sottovalutarla, è molto furba e sa il fatto suo. Che bello, anche tu segui il pattinaggio? Non conosco quasi nessuno che ne è appassionato. Anche io amo la nostra Carolina*^*
Per Amily Ross: Spero di riuscire a farti amare il ‘mio’ Mark. Prevedo di toccare temi più ‘seri’ man mano che proseguirò nella storia. Per ora hanno tredici anni, ma cresceranno, e allora verrà il momento in cui Mark, Ed e gli altri non penseranno più che le ragazze siano tutte un mucchio di schizzate, ahah! È vero, non ci sono mai state manager nella Muppet né nella Toho…provvederemo ;) Io sono cattiva, sì, e mi diverto pure XD Per questo, la prossima volta vedrai Mark indossare i pattini da ghiaccio, ahahah!!!
 
Vi ringrazio tutte, siete carinissime a recensire. Mi scuso per la brevità, rimedierò!
Ho tante di quelle idee per Mark e Kira! Spero di riuscire a portarle tutte alla luce, prima o dopo. Io sono fiduciosa, siatelo anche voi, please!
 
Un abbraccio e un bacio grandi,
Susan

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 6. Rivincita sul ghiaccio ***


6. Rivincita sul ghiaccio
 
 
 
A casa Brighton si era consumata una tragedia greca quando la signora Risa era rientrata dopo il lavoro.
Kira aveva cercato in tutti i modi di nascondere il suo bernoccolo, ma ovviamente non c’era riuscita. Si era calata un cappello sulla testa, fingendo di dover prendere parte a una recita scolastica inesistente. Non appena si era distratta, però, sua madre glielo aveva sfilato, esaminandole attentamente e in silenzio la fronte per lunghi secondi.
Dalla bocca di sua madre erano uscire tre o quattro domande di fila, per le quali Kira aveva imbastito una scusa veloce ma credibile, dicendo di essere andata a sbattere contro la barriera della pista di pattinaggio.
Risa aveva urlato, ripetendo mille volte che il pattinaggio era uno sport pericoloso, e che un giorno o l’altro si sarebbe ammazzata. Aveva alzato il telefono più volte per chiamare non si sa bene chi, forse il marito, come se lui avesse potuto risolvere la questione mentre si trovava dall’altra parte del mondo.
Dal canto suo, Kira aveva desiderato ci fosse papà: Kei avrebbe saputo come calmare gli animi, ma senza di lui si trovava sola contro una persona che faceva per mille.
Ogni volta che Kira si infortunava in maniera più o meno grave, Risa insisteva per giorni interi che cambiasse sport, se proprio doveva praticarne uno. La signora Brighton era assolutamente contraria allo spirito competitivo tra ragazzi; se sua figlia doveva competere in qualcosa, che lo facesse sui banchi, non sulla pista.
Risa punì Kira con una settimana di coprifuoco: a casa da scuola alle tre e mezza in punto. Niente chiacchiere dopo le attività dei club, niente passeggiate con le amiche in centro, e soprattutto niente allenamenti extra.
Alla luce di ciò, la nuova sfida con Mark Lenders veniva per forza di cose rimandata.
Ai primi rimproveri avrebbero potuto aggiungersene di ben peggiori: se Kira avesse danneggiato le lenti a contatto sarebbe stata una catastrofe. Invece, per somma fortuna, erano miracolosamente scampate alla pallonata di Lenders.
Nel frattempo, lui si allenava come un matto insieme a tutta la squadra. All’inizio di maggio, la Toho si sarebbe battuta nel primo girone del campionato con la squadra della scuola Nakagi, la favorita del distretto di Chiba.
I ragazzi di Kitazume iniziarono ad allenarsi anche il mattino presto. Mark e compagni raggiungevano la scuola alle sei e lavoravano sodo fino alle otto e mezzo. Poi c’erano le lezioni, e nel pomeriggio ancora allenamenti fino alle tre.
Concentrato su questa prospettiva, Mark non prese male la notizia che la sua rivale fosse in punizione. Tanto meglio, si disse, non l’avrebbe avuta tra i piedi per un po’. 
Una settimana passò piuttosto in fretta, e la punizione di Kira terminò in concomitanza con la sparizione del bernoccolo.
Il primo di maggio, durante l’intervallo, la ragazza si presentò davanti alla 1B, sbirciando dentro per trovare Mark. Solitamente se ne stava sulla porta assieme al suo amico portiere. Strano che quel giorno non ci fosse…
«Cosa stai facendo?» disse la voce di lui.
Kira si girò. «Oh. Ciao. Ti stavo cercando»
Ian e Nicholas lanciarono un paio di fischi, ridacchiando. «Ehi, ehi, capitano! Una ragazza è venuta a cercarti in classe! Accidenti!»
«Tacete, imbecilli!» esclamò Mark infastidito.
Ian e Nicholas si defilarono dentro l’aula. Alcuni compagni allungarono il collo per vedere cosa avesse suscitato la loro ilarità.
«Ti aspetto dentro» disse Ed a Mark. Si astenne da ulteriori commenti, anche perché dubitava che al capitano sarebbe andata a genio qualsiasi cosa avesse detto. Ed salutò Kira con un inchino e un sorriso, la quale ricambiò.
«Allora, cosa vuoi?» incalzò poi Mark. Meno tempo parlavano, meno Mellin e Loson avrebbero fatto i deficienti.
«Ricordi che ero in punizione?» esordì la pattinatrice.
Mark annuì appena. Erano stati sette giorni di pace. Lei era talmente preoccupata di non uscire tardi da scuola che non gli aveva rivolto la parola. Di solito, quando si incrociavano, litigavano inevitabilmente e perdevano sempre un mucchio di tempo.
«Volevo dirti che è finita» continuò Kira con soddisfazione. «Da oggi tornerò a fermarmi a scuola un po’ di più, quindi possiamo disputare la nostra nuova sfida. Ti aspetto domani alla pista di pattinaggio terminati gli allenamenti. Ciao!»
Kira si girò e saltellò per il corridoio, quando la mano di Mark si richiuse sulla sua spalla come un artiglio.
«Ehi, frena un attimo! Come sarebbe domani
«Perché, non va bene?» chiese lei.
«S-sì, va bene. Cioè, avrei la partita con il Nakagi tra pochi giorni»
«Lo so. Per questo ho scelto domani. Oggi ho da fare dopo le tre, e dopodomani tu inizi le eliminatorie. Per cui, domani è perfetto» puntualizzò Kira, notando che lui sembrava in difficoltà. «Qualcosa non va?».
«No, niente» rispose Mark in fretta. «Solo… facciamo alle quattro, okay? Alle tre è troppo presto. Può darsi che il mister ci faccia restare sul campo un po’ più del solito»
«Allora, va bene. Domani alle quattro. Adesso puoi lasciarmi andare? Devo tornare in classe». Kira indicò la mano con cui lui le stringeva ancora la spalla.
Mark la lasciò andare e tornò in classe a passo lento.
Domani.
Domani.
D-O-M-A-N-I!
Assorbito com’era dal pensiero di giocare la prima partita ufficiale con la maglia della Toho, non aveva più pensato alla sfida con Kira.
La Brighton si era allenata in vista della sfida di calcio, mentre lui non si era preparato affatto.
Aveva mai indossato un paio di pattini? Forse, ma non ricordava né quando né dove.
Era nei guai.
Una strana, sinistra aura oscura iniziò ad aleggiare su di lui. Camminò verso il suo banco avvolto da una nube nefasta.
«Che cosa è successo?» gli chiese Ed, intimorito e preoccupato dalla strana nuvola nera.
Mark si voltò verso l’amico con aria tetra. «Non so pattinare»
Si guardarono in silenzio.
«Ah…» fu il commento del portiere.
«Tutto qui quello che sai dire? ‘Ah’?»
«No, no, è…accidenti, è un bel problema». Ed portò una mano sotto il mento, iniziando a pensare.
L’aura oscura attorno a Mark si intensificò. «La sfida è domani. Domani, capisci? E io non so pattinare!»
«Sì, ho capito, ho capito. Fammi pensare». Ed fece qualche smorfia buffa, si grattò il naso, la testa, si passò una mano tra i capelli.
Mark sbatté una mano sul banco. «Allora?!»
Ed sollevò le braccia, palmi delle mani in su. «Non ne ho idea» disse, muovendo una volta le spalle.
«Sei un essere inutile!» Mark si abbandonò sulla sedia, le braccia strette al busto. La sua espressione di quel mattino avrebbe tenuto lontano anche gli spiriti maligni.
Le lezioni ripresero, ma lui non riuscì a mandare a mente niente di quel che spiegò la professoressa di storia. Alla fine dell’ora, i suoi appunti erano praticamente in bianco.
Doveva riuscire a battere la Brighton, assolutamente, o ne sarebbe andata della sua reputazione – oltre al fatto che non aveva i soldi per comprare una bicicletta nuova.
Probabilmente sarebbe stata un’altra sfida sciocca e avrebbe vinto senza problemi. Restava il fatto chelo aveva pensato anche la volta precedente, ed era quasi rimasto fregato. Si era ripetuto varie volte che la Brighton non andava sottovalutata, perché sotto l'aria da svampitella si celava una persona piuttosto furba e ostinata come pochi altri. Chissà cos’altro aveva architettato…
«Perché non vai a dirle che domani non puoi?» tentò Ed quando andarono a pranzo, indovinando già la risposta negativa.
«Non posso tirarmi indietro! Che figura ci farei?» sbottò Mark.
Il sospirò del portiere si perse in un boccone di cibo. Orgogliosa testa calda che non era altro… «Non è una sfida contro la New Team, capitano. È solo una ragazza che rivuole la sua bici»
«Una sfida è una sfida, e io ho dato la mia parola giorni fa. Se accampassi scuse per ritardarla ne andrebbe della mia credibilità»
Non aveva tutti i torti, pensò Ed. Uno come Mark non poteva e non voleva essere da meno della Brighton - una ragazza! - la quale aveva dimostrato un gran fegato. Al pari di lei, Mark non avrebbe rinunciato, anche se non conosceva nemmeno le regole base del pattinaggio.
«Senti, non dovrebbe essere complicato, no?» disse Mark poco dopo.
«Io non so niente di pattinaggio» rispose Ed in tono di scuse. «Ascolta, perché non andiamo a fare un paio di prove alla pista, più tardi?»
«Non possiamo usarla senza permesso, noi non facciamo parte del loro club»
«No, ma possiamo intrufolarci ugualmente prima che chiudano la scuola. Abbiamo tempo fino alle diciotto»
Mark valutò l’idea di Ed. Non era male, però… «Guarda che non ho bisogno che ti preoccupi tanto. In fondo è solo una sciocca questione»
«Dai, Mark…» commentò il portiere sorridendo. Non sarebbe cambiato mai. Non avrebbe ammesso di aver bisogno di una mano nemmeno in una situazione peggiore di quella.
Mark era combattuto. Ci pensò su ancora un momento e infine annuì. Dopotutto lo avrebbe saputo solo Ed, non c’era bisogno di vergognarsi.
Tuttavia, il loro breve ‘allenamento’ fu un totale disastro.
Mark non credeva di incontrare tante difficoltà nel pattinare. In definitiva bastava stare in equilibrio, una cosa da nulla, un po’ come andare in bicicletta.
Equilibrio ne aveva.
Sfortunatamente, scoprì presto che non era semplice come sembrava.
Ed non era un bravo maestro, sapeva stare in equilibrio meglio di lui. Ma a parte consigli che chiunque avrebbe saputo dargli, non fu di molto aiuto.
Mark si sentiva un completo idiota. Con le braccia spalancate e il passo arrancante sembrava una specie di pinguino zoppo. Cadde una, due, tre volte, finché non riuscì più a contarle. E intanto Warner se la rideva sotto i baffi da bordo pista, dove aveva deciso di restare dopo esser ruzzolato malamente sul ghiaccio a sua volta.
Traditore.
Dolorante e di cattivo umore, il capitano della Toho si trascinò verso casa.
Non era fatto per stare sui pattini, assolutamente no. La sfida dell’indomani si prospettava un ostacolo veramente difficile.
 
 
Kira era carica, motivata dal pensiero che la sua bella bici sarebbe stata presto di nuovo in mano sua.
Finì di allacciarsi i pattini, alzando la testa per osservare la pista bianca davanti a lei. Poi guardò l’orologio che aveva tolto dal polso e posato su una panchetta lì vicino.
«È in ritardo» mormorò tra sé e sé.
«Magari non viene» disse Jem, seduta su una delle panche assieme agli altri membri del team.
Gli studenti che assistevano come pubblico alla nuova sfida erano più o meno gli stessi della prima volta, anche se a guardare bene parevano aumentati di qualche decina.
«Verrà. Probabilmente è stato trattenuto agli allenamenti» sentenziò Kira con sicurezza. Sapeva poco di Lenders, ma aveva perfettamente inteso che non era il tipo che mancava di parola, di questo era certa. «Intanto faccio un giro della pista».
Prima di una competizione – quale che fosse – era sempre meglio scaldarsi un po’.
Kira non era preoccupata questa volta, tutt’altro: la calma la faceva da padrone. Il ghiaccio era il suo elemento, il suo migliore amico. E Mark Lenders era spacciato.
Un ghigno malefico deformò il grazioso viso della ragazza.
Poco dopo, la squadra della Toho fece il suo ingresso nel palazzetto, con tifosi annessi, Mark in testa.
Immediatamente, le due fazioni iniziarono a lanciarsi occhiate roventi. La squadra di calcio non andava molto a genio al team di pattinaggio, e il sentimento era reciproco. Per non parlare dei sostenitori, i quali iniziarono a sventolare cartelli e cartelloni di incoraggiamento.
Mark gettò un’occhiata attorno e sul viso gli comparve un’espressione infastidita.
Di nuovo tutta quella gente ad assistere. Perché mai, poi? Erano così interessanti le sue sfide con la Brighton?
La cercò tra i suoi compagni di club, ma non era in mezzo a loro. Solo in un secondo momento si avvide di una figura solitaria già sulla pista, ed era proprio Kira.
Mark la seguì con lo sguardo. «Non sembra difficile» commentò rivolgendosi a Ed.
D’un tratto, Kira iniziò una serie di rotazioni su una sola gamba, piegando schiena e testa all’indietro. Acquistò velocità e, senza smettere di ruotare, afferrò la gamba libera sollevandola dietro la testa.
Guardarla faceva venire quasi il mal di mare. Come faceva a non girarle la testa?
«Vattene, capitano, sei ancora in tempo» commentò Eddie Bright con voce rauca, tirandolo per la giacca della divisa.
Mark strattonò il braccio e si liberò, avanzando deciso verso bordo pista.
Che la Brighton fosse una specie di contorsionista lo aveva capito durante il loro primo scontro, ma vederla snodarsi in quel modo…
Era finito.
Accortasi dell’arrivo del rivale, Kira scivolò fuori dalla pista, raggiungendolo con un sorriso che sapeva di sfida.
«Lenders»
«Brighton»
Se fosse stato un film sarebbe partita la musica di duelli tra cowboy.
«Credevo avessi cominciato senza di me» disse Mark.
«Mi stavo solo scaldando»
Lui la fissò un momento, stampate in mente le sue acrobazie di poco prima. «Come fai a… ?»
«Cosa?»
Mark scosse il capo, raddrizzando le spalle. «No, niente. Iniziamo?»
Lui faceva il falso duro, in realtà gli sudavano le mani. Si mise seduto su una delle panchette in prima fila, tenute libere per i due sfidanti e i loro amici.
Da una parte, Kira sistemava i lacci dei pattini, dall’altra, Ed Warner massaggiava le spalle di Mark come farebbe un allenatore al suo boxeur prima di entrare sul ring.
«Ricorda, capitano: non tenere le gambe tese, piega leggermente le ginocchia e allarga le braccia per mantenere l’equilibrio. Non è difficile»
Mark alzò gli occhi al cielo. «No, Ed, sarà una passeggiata, vedrai»
I due sfidanti si alzarono. I membri del team di pattinaggio e i componenti della squadra di calcio schierati alle spalle di Kira i primi, e di Mark i secondi.
Mark faticava a stare in piedi solo portando i pattini ai piedi. Se avesse posato un passo sul ghiaccio aveva idea che sarebbe partito in orbita senza possibilità di ritorno. Si sbilanciò all’indietro e i compagni di squadra lo afferrarono prima che potesse cadere ed esibirsi nella prima di una lunga serie di figuracce.
Kira si accinse a spiegare le regole; intanto, un paio di ragazzi del team di pattinaggio iniziarono a sistemare dei coni gialli di plastica, creando due file lungo tutto il perimetro della pista.
«Sembra lo stesso percorso con cui ci alleniamo noi» commentò Mark.
«Ehm, ecco…in effetti l’idea mi è venuta guardandovi» ammise Kira.
Mark la squadrò allibito. «Sei venuta a vedere i nostri allenamenti?»
«Non di proposito» si affrettò a rispondere la ragazza. «Il vostro campo si vede dalla finestra della mia classe» spiegò. Era praticamente inevitabile non vederli allenarsi ora che Kitazume li faceva sudare a ogni ora del giorno.
«Quindi… dobbiamo fare uno slalom su ghiaccio?» chiese ancora Mark. Se era così poteva anche farcela.
«Sì, più o meno» rispose Kira. «Sarà più che altro una gara di velocità, ma anche di equilibrio. Faremo due giri della pista slittando attorno ai coni; chi li completerà per primo avrà vinto. Ma se durante il percorso uno due di noi cade, avrà perso anche se l'altro non ha terminato il percorso»
Perfida calcolatrice, pensò Mark. E certo! Quando mai sarebbe caduta? Dal poco che aveva visto sembrava esserci nata coi pattini ai piedi!
Accidenti a lei…e a sé stesso per aver accettato!
«Questa volta sarà Yusuke a fare da giudice» disse infine Kira, spostandosi per lasciar avanzare un ragazzo alto e snello.
«Farò anche la telecronaca» sorrise Yusuke, mostrando un megafono preso in prestito da uno dei tifosi. «Gli sfidanti entrino in pista» disse poi, dando una pacca amichevole sulla spalla della ragazza.
Un verso sprezzante uscì dalle labbra imbronciate di Mark. Si erano attrezzati per benino, comportandosi come se lei avesse già vinto.
Il capitano della Toho si voltò solo una volta a guardare i compagni di squadra. Ed gli fece un segno d’incoraggiamento alzando il pollice. Mark fece un respiro profondo ed entrò in pista, tenendosi alla barriera con entrambe le mani, come un naufrago aggrappato all’ultimo pezzo di legno galleggiante. Rimase così per alcuni secondi.
«Ehm, scusami, dovresti avanzare fino ai coni» gli suggerì gentilmente Yusuke.
«Sei sicuro di saper pattinare, Lenders?» chiese Kira, ferma davanti alla seconda fila di ostacoli.
«C-certo»
Lei si coprì la bocca con una mano e sogghignò. «Hi-hi-hi, no, non è vero»
«Sono fuori allenamento!» esclamò Mark, arrossendo di vergogna. Non le avrebbe permesso di prenderlo in giro. Era lui che pendeva in giro lei, non il contrario.
Impavido, staccò entrambe le mani contemporaneamente, facendo qualche zoppo passo e provando subito una sensazione di instabilità.
«Piega le ginocchia!» gridò Ed alle sue spalle. Qualcuno sugli spalti ridacchiò.
Mark voltò la testa solo per fulminarlo con uno sguardo. «Ho capito!» Lui le piegava pure, ma non succedeva niente di diverso da quando non le piegava. Qual era la differenza?!
«Su, cominciamo» lo incitò Kira, quando finalmente lui si fu sistemato davanti al percorso.
«Ehi, Lenders! Mica avrai paura!» gridarono ancora dalle tribune.
Vaffanculo. Mark irrigidì tutto il copro e riuscì a stare dritto.
Adesso veniva il bello.
«Bene. La sfida può avere inizio» annunciò Yusuke. «Ricapitolo brevemente le regole, così non ci saranno fraintendimenti: farete due giri della pista pattinando tra i coni. Quando arrivate in fondo toccate la barriera e poi tornate indietro da me. Vince chi completa per primo i due giri senza cadere. Ma il primo di voi che cadrà avrà vinto anche se l’altro non completa i due giri. Se al termine dei due giri nessuno dei due è ancora caduto, si ricomincia. Patirete al mio tre» Yusuke alzò un braccio. «Uno, due…»
«Let’s go!» gridò Kira, partendo lancia in resta.
«Ehi!» Mark la guardò scivolare sulla pista, veloce e leggera. Come diavolo riusciva a stare in equilibrio su quei cosi? «Dovevamo partire al ‘tre’, non al ‘let’s go’!»
«È uguale!»
Le gambe di Mark tremavano e sembravano non voler trovare l’equilibrio. Iniziò a scivolare in avanti ad una lentezza esasperante.
Mossa a pietà – o più semplicemente per divertirsi un po’ a suo discapito – Kira tornò sui suoi passi e gli assestò una bella pacca sulla schiena. «Andiamo, un po’ di coraggio!»
«No, non lo fare!»
Troppo tardi. Era bastata una spintarella per farlo partire in quarta. Inutile dire che dopo nemmeno un metro barcollava sulle lame, ogni passo un rischio di finire con il sedere per aria.
«Stupida cretina!»
«Ma io volevo solo aiutarti» si giustificò falsamente la ragazza, tirando fuori la lingua.
«Le braccia, Mark, usa le braccia!» urlò Ed al di sopra delle voci dei tifosi.
Agitandole come un forsennato, sentendosi un totale imbecille, Mark continuò ad avanzare con gli arti spalancati come un aeroplano, finché riuscì ad assestare la pattinata. Non c’era metodo, solo istinto: zigzagò tra i coni sempre più veloce, pregando in cirillico di non cadere. La cosa strana era che più prendeva velocità, più sembrava facile stare in equilibrio.
Nel frattempo, Kira era già arrivata dall’altro lato della pista. Si guardò un momento indietro per controllare la situazione e, quando vide Mark alle sue spalle, se ne stupì non poco. L’aveva praticamente raggiunta.
«Allora ci sa fare» mormorò a sé stessa con disappunto. Forse era solo la fortuna del principiante.
«Levati! Levati!» fece lui, agitando le braccia come un polipo impazzito.
Come non detto. Kira evitò lo scontro balzando di lato. Lui la superò in corsa, girò malamente attorno all’ultimo cono della sua fila e tornò indietro sfrecciandole accanto.
Lo spostamento d’aria le scompigliò i capelli. Kira rimase immobile e confusa per alcuni secondi, sbattendo le palpebre un paio di volte. Risvegliatasi dalla momentanea trance, riprese a pattinare e riguadagnò terreno in fretta.
«Incredibile, signore e signori!» diceva intanto Yusuke attraverso il suo megafono. «Sorprendentemente, Lenders passa in vantaggio e si prepara a completare il primo giro»
Mark continuava – non sapeva bene come – a saettare tra gli ostacoli senza farne cadere neanche uno. Improvvisava strane coreografie e una volta rischiò di esibirsi in una spaccata che non gli avrebbe sicuramente giovato alle parti basse. L’altro capo della pista si avvicinava troppo velocemente – anzi no, era lui che stava andando troppo veloce. Sperò nuovamente nell’aiuto della dea bendata, ma ella doveva essersi distratta proprio nel momento in cui si schiantò contro la barriera blu. Vi si aggrappò disperatamente e rimase lì per qualche secondo, ansimante.
Yusuke si sporse oltre il bordo. «Ti serve una mano?»
«No, grazie» rispose Mark con voce strozzata.
C’era mancato pochissimo… La barriera l’aveva salvato dalla caduta.
Imprecando a bassa voce, il capitano della Toho ritrovò stabilità.
Intanto, Yusuke aggiornava gli spettatori sul da farsi.
«E mentre Lenders tenta di tornare in pista, la nostra Kira-chan prosegue la gara da sola e anche lei completa il primo giro. Forza Kira!»
La pattinatrice riconquistò il vantaggio. Lasciandosi indietro Mark, alle prese con i suoi problemi di equilibrio, volteggiò tra i coni per cominciare il suo secondo giro.
Aveva praticamente vinto. Dubitava che Lenders potesse rimettersi in piedi.
Mia cara biciclettina, tra poco ci riabbracceremo.
Con un ringhio di battaglia che fece saltare sulle seggiole i tifosi delle prime file, Mark appoggiò tutto il peso sui muscoli delle gambe, scalciò forte la superficie ghiacciata e si rimise in piedi.
Se ci riuscivano tutti, perché lui no? Il pattinaggio era solo uno sport come tanti altri di cui non conosceva le regole. Ma non doveva per forza seguirle, e nemmeno era costretto a seguire le direttive della sfida. Anche lui poteva inventarsi qualcosa per depistare la Brighton. Lei aveva usato le sue acrobazie per metterlo in difficoltà, e lui a sua volta avrebbe inventato qualche trucchetto per farla finire gambe all’aria. Non si sarebbe presa gioco di lui a quel modo!
«Lenders riparte! Sembra determinato a non arrendersi, benché appaia ovvio che non sappia andare nemmeno sul triciclo – no, no, scusami, sto scherzando!» Yusuke si schiarì la voce. «Guardate la sua espressione, signore e signori: il suo viso splende della voglia di rivalsa!»
«Coraggio, capitano!» gridarono i membri della Toho.
«Yusuke, da che parte stai?!» esclamò stizzita Kira, voltandosi un momento.
Mark riacquistò parte dell’assetto e della velocità perduti. Si avvicinava sempre di più a Kira.
Lei sembrava temporeggiare. Pattinava piano, volteggiandogli intorno canticchiando a labbra chiuse con un sorrisino sul volto.
«Allora, come va?»
«Sparisci dalla mia vista, Brighton!»
«Come siamo indisponenti. Perché fai quella faccia scura? Sapevi che ti avrei sfidato sulla pista»
«Tu volevi solo umiliarmi, per questo hai architettato questa…» Mark sentì il peso del corpo trascinarlo all’indietro e mosse le braccia per tornare in posizione eretta, «…questa pantomima»
«Non ho bisogno di umiliarti, stai già facendo abbastanza da solo» Kira compì una giravolta e tornò da lui, prendendolo per un braccio.
«Che diavolo…?!» esclamò il ragazzo.
Senza permettergli di formulare la domanda intera, lei gli afferrò anche l’altro e iniziò a roteare su sé stessa, trascinandolo con sé.
Se Mark avesse fatto resistenza lei non sarebbe riuscita a spostarlo – visto che pesava almeno quindici chili più di lei – ma in quelle circostanze, più instabile di un ubriaco, era come un pupazzo nelle sue mani.
Kira girò e girò, simile a un lanciatore di disco, come se volesse lanciare lui!
«Che cosa vuoi fare?!». Mark sbiancò come un fantasma e cacciò un urlo di puro terrore quando lei lo lasciò andare. Schizzò via a una velocità folle, incontrollabile.
Reduce dalla sua esperienza di arbitro, Eddie Bright saltò in piedi gridando: «Fallo!» beccandosi una marea di fischi dagli spettatori.
«Che caspita sta dicendo quello?!» vociò la folla. «Guarda che non siamo più sul campo da calcio!»
Rosso in faccia per l’enorme figuraccia, Eddie si risedette e da quel momento non parlò più.
«Un altro colpo di scena, signori!» disse Yusuke. «Kira Brighton ha letteralmente lanciato il suo avversario!»
Mark colpì i coni gialli sul suo tragitto, facendone cadere più della metà. Arrivò di nuovo in fondo al percorso, ma il nuovo scontro con la barriera non lo spedì a terra nemmeno stavolta. Avrebbe desiderato vi fosse realmente una qualche regola che penalizzasse la Brighton per quella scorrettezza. Era stato un atto deliberato! In che modo veniva deciso il regolamento in quello sport?
Facendo pressione con le mani contro il bordo, Mark si diede la spinta giusta e ripartì all’attacco.
Le tecniche di sfondamento erano quelle che gli riuscivano meglio.
Mark si abbassò, quasi in ginocchio, e quando capì che poteva arrischiarsi allungò la gamba destra simulando una delle sue micidiali scivolate.
Voltata di spalle, Kira non lo vide arrivare. Solo la famigliare graffiata dei pattini sul ghiaccio, e il grido unanime degli spettatori, la fece girare appena in tempo. Seguendo l’istinto, la pattinatrice allungò le mani, fece leva sulle spalle di Mark e si diede uno slancio saltando a spaccata oltre la sua testa, atterrando dietro di lui a piè pari come la migliore delle ginnaste.
«Meraviglioso!» esclamò Yusuke attraverso il megafono. «La sfida si è tramutata in una gara di pattinaggio di coppia! Solo che la coppia non collabora, anzi, si odia a morte - nonostante io debba ammettere che sarebbero perfetti per questa disciplina. È ormai uno scontro all’ultimo sangue! Brighton ha eluso splendidamente un micidiale tackle di Lenders, che scivola in ginocchio sul ghiaccio ma non cade. Ora lo vediamo rialzarsi… sta tornando all’attacco! Attenta, Kira-chan!»
«Ehi! Non vale così! Razza di imbroglione!» protestò lei rivolta a Mark.
«Imbroglione perché?»
«Non stai rispettando le regole!»
«Non accetto prediche da una boriosa esibizionista come te»
Ah, era un’esibizionista? Ora gli avrebbe fatto vedere.
Kira spiccò un salto, e prima di atterrare allungò una gamba imitando una famosa mossa di karate. Mark evitò il calcio e la lama del pattino di lei si piantò nel ghiaccio.
«Che colpo mortale, ragazzi! Lenders è stato molto fortunato!» disse Yusuke.
«Non puoi essere ancora in piedi!» esclamò Kira, spintonandolo con un ringhio di rabbia.
«Prima le signore» fece Mark di rimando. Essendo più forte di lei, una spallata bastò per spedirla in orbita.
Altre spinte, altre scivolate, salti, mosse improponibili e cadute scampate in extremis.
La pista si era tramutata in un ring di lotta libera, altro che pattinaggio a coppie! I due rivali pattinavano tra i coni sparsi qua e là. Non c’era più logica di regole, e ne conseguì un’esilarante quanto bizzarra e pericolosa battaglia all’ultima caduta. Nessuno dei due demordeva.
Era Kira ad avere la meglio, Mark poteva solo contare sul caso. Lui tentò ancora con le scivolate, che sul ghiaccio erano abbastanza facili, in quanto doveva solo piegarsi con una gamba tesa in avanti, il resto veniva da sé. Anche schivare gli assalti della ragazza non fu così complicato, visto che era più o meno come dribblare un avversario. L’unico problema era il suo precario equilibrio, che solo per un qualche miracolo divino non aveva ancora perduto.
Kira si lanciò nell’ennesimo attacco, agilissima e all’apparenza instancabile. Mark lo sarebbe stato altrettanto se al posto del ghiaccio avesse avuto l’erba sotto i piedi.
Mai più su una pista come quella. Mai più.
Iniziava a sentirsi intirizzito. Non gli piaceva il freddo e ancor meno il pattinaggio, al contrario: aveva scoperto di detestarlo.
Una goccia di sudore scivolò da entrambi i visi, entrambi avevano il fiato corto.
Si studiarono per un istante, poi Kira tornò all’assalto. Il suo unico obbiettivo, ormai, era farlo cadere. Scivolarono insieme per qualche metro, lui barcollò pericolosamente all’indietro. Si sostennero l’un con l’altra, tuttavia Mark le ricordò troppo presto che non era lì per aiutarla.
«Eh no!» Con un balzo all'indietro, Kira si allontanò da lui, atterrando in scivolata con un sorriso trionfante. «Non ce la farai a fregarmi, sono troppo in gamba per te»
«Non diventare modesta, mi raccomando» la punzecchiò il ragazzo.
«Oh bè, tu non sei esattamente il re dell’umiltà»
Kira fece per scattare in avanti e prendere una bella rincorsa prima di lanciarglisi contro per l’ennesima volta. Invece, fu strattonata all’indietro, percependo una morsa ferrea chiudersi attorno al suo polso.
«Presa!»
«Che cosa fai?! Lasciami subito!»
Inciamparono tra i coni sparsi sulla pista. Mark le prese entrambe le mani e per quanto lei tentasse di liberarsi non ci riuscì.
«Sei stata sleale» inveì contro di lei.
«Io sarei sleale?»
«La prima volta che ci siamo sfidati ho voluto darti un vantaggio su di me, mentre tu hai pensato di mettermi in difficoltà fin da subito sapendo che non so pattinare. Non finirà di nuovo in parità!»
Mark fece esattamente la stessa cosa che aveva fatto lei prima: compì un giro su sé stesso e poi la lasciò andare.
Frenare in quelle circostanze era fuori discussione, a quella velocità si sarebbe ribaltata e sfracellata al suolo. L’unica cosa che Kira poté fare fu continuare a pattinare, provando ad esaurire la forza d’inerzia in una spread eagled(1). Prese un respiro di sollievo quando rallentò, poi si voltò e con grandi falcate si gettò su Mark, saltandogli in groppa.
«Sei impazzita? Mollami, subito! Così ci ammazziamo!»
Il calciatore tentò in tutti i modi di levarsela di dosso, ma pattinare e lottare non erano due cose che potevano viaggiare in coppia.
«Se io vado giù, tu vieni giù con me!». Kira si aggrappò meglio alle sue spalle e strinse le gambe attorno al busto del ragazzo. «E adesso vediamo quanto resisti prima di cadere!»
«Maledetta!»
Kira gli stringeva la maglietta rischiando di strangolarlo. Mark riuscì a farle staccare la braccia dalle sue spalle, lei finì a testa in giù ma seguitò a tenersi a lui con la sola forza delle ginocchia.
La pista e tutto il palazzetto erano un vortice confuso di bianco accecante e sprazzi di colori. Su tutti e quattro i lati incombeva la barriera, contro la quale stavano per andare a sbattere di nuovo.
Per Mark era la… non ricordava più quante volte aveva rischiato di frantumarsi qualcosa contro di essa.
«Come faccio a girare?» chiese lui, in preda a un panico che poche volte aveva mostrato.
«Come hai fatto prima. Fletti le ginocchia e inclinati sui pattini» disse Kira al suo orecchio.
Ancora queste ginocchia! «Ci ho già provato, non sono capace!»
«Devi piegarti sul filo interno delle lame»
«Sul cosa?!»
«Il filo interno, è… Oh, insomma, piegati e inclina i piedi in dentro!»
Ora era chiaro.
Mark fece come aveva detto e riuscì malamente nell’intento. Ma la barriera era ancora troppo vicino.
«Tienimi!» disse Kira, stringendo di nuovo le braccia attorno alle spalle di lui.
Mark percepì le gambe di lei svolgersi dal suo busto e fu istintivo afferrarla sotto le ginocchia. Kira tenne le gambe rigide e con i piedi colpì la barriera, dandosi la spinta per allontanarsi.
Lo slancio all’indietro li gettò a una velocità ancora maggiore. Filarono nella direzione opposta ancora avvinghiati l’una all’altro.
«Brava» fece Mark.
Il complimento fu inaspettato. «Grazie», mormorò Kira. Poi intuì il sarcasmo nella sua voce.
«E adesso come si frena?!»
Già. Frenare.
Una manovra che Mark non sarebbe mai stato in grado di compiere. Fin ora era rimasto in piedi solo perché non aveva mai dovuto fermarsi.
Kira iniziò a dargli velocemente indicazioni su come fare. «Girati di lì! No, di là! Non così! AIUTO!», Ma non gli fu di nessuna utilità.
Il capitano della Toho non capiva più niente, e molto presto avvenne lo schianto definitivo.
Yusuke si abbassò appena in tempo, evitando di venire travolto dai due.
Kira fu la prima a decollare. Perse la presa sul rivale e volò oltre la barriera, finendo dritta in braccio a Ed Warner, il quale se la ritrovò in grembo senza aver compreso le dinamiche.
Mark, invece, si scontrò di reni contro la barriera. Con la convinzione immediata di essersi fratturato tutte le duecentosei ossa, ruzzolò al di là della pista, travolgendo il team di pattinaggio artistico al completo (Yusuke e Kira esclusi).
Il pubblico andò in una sorta di delirio.
Chi aveva vinto? Chi era caduto per primo?
Yusuke si rialzò tremante, asciugandosi una goccia di sudore freddo. «Signore e signori, non vi preoccupate, io sono ancora intero»
«Non interessa a nessuno!» gridò il capo ultras della Toho, un ragazzone con la barba che non apparteneva di sicuro alla schiera di studenti delle medie.
I tifosi di entrambe le fazioni si sporgevano minacciosi verso Yusuke. I più lasciarono i sedili e gli si fecero intorno come un’orda di rivoluzionari impazziti. Il capo ultras della Toho era il più terribile di tutti.
«Dicci chi ha vinto! Non siamo venuti qui per niente!»
«Bè, ehm, ecco…» balbettò Yusuke, «non sono in grado di dire con esattezza chi dei due sfidanti abbia toccato il suolo per primo. Perciò…»
«Perciò, cosa?»  
«P-p-perciò…». Yusuke cercò sostengo negli amici, ma i ragazzi del pattinaggio erano ancora occupati con Mark. «S-sarebbe meglio controllare come stanno, prima di decretare la vittoria di uno dei due».
I tifosi si scambiarono brevemente qualche parola, poi annuirono concordi.
I loro beniamini non si erano rotti l’osso del collo, ma non avevano nemmeno terminato la sfida nel pieno della forma.
Kira si sentiva leggermente stordita e un po’ dolorante. Ed la teneva ancora in braccio.
«Puoi mettermi giù adesso» gli disse, picchiettandogli sulla spalla. «Ti ringrazio per avermi salvata prima che mi schiantassi sulla folla. C’è mancato poco»
«Oh, figurati» rispose Ed. «Non che abbia avito scelta, mi sei atterrata addosso»
Il portiere si sfregò la nuca, imbarazzato che tutti lo avessero visto tenere in braccio una ragazza. Kira, al contrario, sembrava non dar peso alla cosa. Piuttosto, controllava il suo stato per capire se ci fosse qualcosa di rotto. Le doleva un gomito e una caviglia, forse si era presa una leggera storta quando aveva colpito la barriera coi piedi. Per il resto, nulla di rilevante. 
Quello messo peggio era di sicuro Mark.
Se ne stava a gambe e braccia larghe da qualche parte tra il pavimento e i sedili della prima fila. Aveva colpito almeno tre persone ed ora le sentiva lamentarsi. Non le vedeva, poiché teneva gli occhi ancora chiusi. Non osava nemmeno muoversi.
All’interno del palazzetto scese un silenzio preoccupato, inframezzato da mormorii che tessevano le sue sorti. 
«Non si muove» udì dire a Lucas Milton.
«Oh mamma! E adesso come facciamo per il campionato?» fece la voce di Eddie Bright.
Grazie, Eddie, veramente, penso Mark. Piccole rughe gli incresparono la fronte.
«Respira, almeno?» chiese Ian Mellin.
«Certo che respira» disse una voce femminile fin troppo conosciuta. «Per me non è nemmeno svenuto. Guardate, ha contratto la fronte. Vuol dire che ci sente. WAH!»
Mark aprì di scatto gli occhi e il suo braccio saettò verso alto, stringendosi attorno a quello di Kira.
Lei sobbalzo spaventata, come se fosse stata afferrata dal braccio di uno zombie fuoriuscito dalla tomba.
«Sempre con quella lingua in movimento»
«Capitano, ti senti bene?». La squadra della Toho gli si fece intorno preoccupata.
«Sto bene, è solo una botta». Mark si rialzo barcollante, una mano posata sui reni. «Tu vuoi uccidermi! Di la verità!»
Kira si liberò dalla presa. «Ti brucia perché hai perso, eh Lenders?»
«Tu…» Mark si morse la lingua per non dire quello che avrebbe voluto. «Potevi dirmelo che era così pericoloso!»
«Macché pericoloso» rise Kira, sinceramente divertita.
Lei se la rideva un mondo, mentre lui aveva fatto la figura del demente zoppo. Per lo meno non era caduto al primo giro di pista, aveva resistito e questo gli evitò di divenire lo zimbello della scuola. Tutti si congratularono con lui per tutto l’impegno che aveva messo in quella sfida, benché fosse finita di nuovo in parità.
Ebbene sì. Né vinti né vincitori. I due ragazzi erano caduti entrambi fuori della pista, entrambi nello stesso momento.
Kira ingoiò la sconfitta come una pillola amara, accrescendo così l’astio nei confronti di Mark, che in qualche modo riusciva ancora a sottrarsi al debito che aveva con lei.
Il capo ultras della Toho istigò una mezza rivolta: volevano un vincitore. Quando Ed azzardo' l'ipotesi di rifare tutto da capo, Mark lo minaccio di staccargli entrambe le mani e la proposta evaporò dalle labbra del portiere sostituita da un’altra proposta. Proposta che, nonostante gli incidenti già subiti e le disgrazie future, Mark e Kira accettarono di buon grado.
Di lì a qualche giorno vi fu una nuova sfida, un'altra è un'altra ancora. Tra un allenamento e una partita, contesero in tutti gli sport possibili. La Toho School non era certo sfornita di palestre, campi e attrezzature.
Iniziarono con una partita di basket: dieci tiri a testa divennero molti di più e si continuò ad oltranza, finché tirarono giù il canestro.
Fu la volta della pallavolo, ingarbugliandosi nella rete quando entrambi schiacciarono nello stesso momento.
La piscina si tramutò in un tentato omicidio-suicidio, visto che passarono metà del tempo a chi riusciva a tenere la testa dell’altro sott'acqua più a lungo.
Il match di rugby fu annullata per rissa in campo, mentre quello di tennis per perdita di sensi. Così provarono con la ginnastica semplice, ma quando Mark diede del rinoceronte a Kira durante un esercizio e lei gli scaraventò contro l’asse di equilibrio, vennero cacciati dalla palestra.
Toccò poi al salto con gli ostacoli, alla staffetta (il testimone finì da qualche parte oltre gli alberi e nessuno lo trovò più), alla corsa campestre, perfino il pingpong, ma non ci fu proprio nulla da fare.
Sfiniti ed esasperati, sfoderarono la loro ultima arma: il baseball. Purtroppo, l’unico lancio di Kira andato a segno centrò la finestra della presidenza, segnando l’epilogo delle loro innumerevoli battaglie.

 
 
 
 
***** ***** ***** ***** *****
Note:
 
1. Spread Eagled: un passo del pattinaggio artistico, la vedete qui sotto nella gif.
 
 

***** ***** ***** ***** *****


- Angolino di Sue - 

Da quanto non aggiorno? Un sacco!!! >.< Mi vien da piangere, ci tengo così tanto a questa storia e non riesco a starle dietro. Uffaaaaaaaaaarrrgggghhh!
Okay, basta.

Duuunqueee… le sfide sono terminate, all’orizzonte prevedo una tregua più o meno lunga, e anche qualche problema, soprattutto per Kira. La prossima volta si vedrà finalmente un personaggio che già volevo inserire, ma al quale non sono riuscita a dedicare spazio. Chi è? Non ve lo dico :P
Tra poco ci sarà anche un piccolo salto temporale.

Non sono soddisfattissima, ma lascio a voi l’ultima parola, perciò ditemi cosa pensate di questa stramberia di capitolo nei vostri commenti.
 
Ringrazio tutte voi che leggete, commentate e avevte aggiunto la sfanfic a qualche categoria. 
Spero a presto!
  
Susan
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 7. Un aiuto da Danny ***


7. Un aiuto da Danny
 
 
 
Il preside della Toho convocò Mark e Kira nel suo ufficio seduta stante. Fece un paio di telefonate, avvisando le madri dei due ragazzi di venire a scuola per una questione piuttosto urgente.
Il preside era un uomo alto e pienotto sulla cinquantina, i capelli già bianchi e l’aria benevola. Invece di punire i due studenti senza neanche interpellarli, preferì ascoltare la loro versione.
Mark e Kira non avrebbero saputo dire se avesse creduto o no alle loro voci. Lo misero al corrente dell’ultima gara a baseball, fingendo si fosse trattato di una semplice partitella nata così per caso, tanto per fare due tiri. Non erano intenzionati a spiattellargli la verità sulle altre mille sfide.
Per la prima volta si sostennero l’un con l’altra senza battibeccare. Incredibile come venne facile ad entrambi trovarsi in accordo in una situazione critica.
La signora Brighton e la signora Lenders - l’una con la chiara intenzione di strangolare la figlia, l’altra solo molto preoccupata che fosse successo qualcosa al suo ragazzo - vennero accolte dalle facce colpevoli dei figli.
La professoressa Amada completava il quadretto. In quanto presidentessa del consiglio di classe e rappresentante dei genitori, le fu concesso di assistere alla piccola riunione. Superava appena i trent’anni, ma quell’aria da cornacchia la invecchiava incredibilmente. Definiva quanto avvenuto 'un atto di vandalismo deliberato'.
Ma il preside non fu della stessa opinione. Ad essere danneggiata era stata solo la finestra del suo ufficio. E pur comprendendo che non era mai stata intenzione dei due ragazzi far del male a nessuno, un richiamo era doveroso.
«Ci sospenderà?» chiese Kira con il cuore in gola.
Risa Brighton le assestò una pacca sulla spalla per intimarle il silenzio. «Non essere impertinente» sibilò.
«No, no, nessuna espulsione» rassicurò il preside. «Tuttavia, dovremo pensare a qualcosa»
La Amada fece un passo avanti. «Signor preside, io penso che dovrebbe esser loro impedito di partecipare ai rispettivi club scolastici, per un certo periodo»
Mark sarebbe saltato dalla sedia se sua madre non gli avesse stretto forte un braccio.
Le partite, il campionato, la sfida con Holly… non potevano togliergli tutto questo, non adesso che era appena all’inizio.
Soffiando la rabbia dal naso, il ragazzo si impose la calma.
Il preside si grattò il mento, pensieroso. Non sembrava convinto. Poi guardò proprio Mark, il nuovo capitano della squadra di calcio delle medie. Da troppo tempo la Toho School non si aggiudicava la coppa dei campionati di medie e superiori. Come gli ripeteva all’infinito la signorina Daisy, la squadra universitaria era l’unica a superare il girone d’andata. Non poteva mettere il ragazzo in condizione di non giocare. Lui, Daisy e il mister Kitazume contavano molto su Mark Lenders.
Quanto a Kira, sembrava sul punto di piangere e il buon cuore del preside si addolcì a quella vista.
«Su, su, Brighton, non c’è bisogno di far così. Non vi impediremo di partecipare alle vostre attività sportive. Piuttosto, sarebbe maggiormente utile impiegarvi in qualche lavoretto tra queste mura. Per l’esattezza, riparerete ciò che avete danneggiato»  
Il preside mosse una mano verso il vetro della finestra: il buco provocato dalla pallina era stato coperto da un semplice foglio di giornale fermato ai lati con dello scotch.
Per un istante, gli occhi dei due ragazzi e del preside si incrociarono, e Kira e Mark seppero che lui sapeva. Come, fu loro ignoto, ma intuirono che non si stava riferendo unicamente a quel danno. Il preside sapeva tutto, ma proprio tutto.
«Signore, devo dissentire» intervenne subito la Amada. «Lenders e Brighton hanno usato l’attrezzatura scolastica senza permesso, introducendosi senza il consenso di un insegnante dentro spogliatoi che non appartengono ai loro club»
 «Signorina Amada… lei è signorina, vero?»
La professoressa arrossì. «S-sì. Non ho marito» ammise, aggiustandosi nervosamente gli occhiali sul naso.
E chi se la sposa quella, pensò Mark dalla sua poltroncina.
«Non mi pare giusto impedire ai ragazzi di partecipare ai club in un momento così delicato» continuò il preside. «Lenders ha le partite eliminatorie, e Brighton si starà allenando duramente per la prossima stagione. Non è così?»
«S-sì, è vero». annuì Kira. In verità era più concentrata sulla festa dello sport, la stagione del pattinaggio terminava in marzo e fino al prossimo settembre non sarebbe ricominciata. Ma non era questo il momento di informare il preside dei piani dei suoi coach.
«Preside, hanno danneggiato l’edificio scolastico, benché in minima parte. Devono capire che in questa scuola la disciplina è tutto» si infervorò la Amada, che dalla prima volta in cui aveva messo Mark in punizione sognava di testare la sua arroganza innata. Se ne andava sempre in giro con l'aria tracotante e la divisa in disordine. Quel ragazzo andava corretto.
La professoressa insisté che la punizione doveva essere più severa, ma il preside ebbe l’ultima parola: una nota di demerito sulla pagella per la condotta, qualche lavoretto a scuola dopo le ore dei club, e il resto a discrezione delle madri.
«Penso che la punizione peggiore potrete dargliela voi, signore»
Mark e Kira si scambiarono uno sguardo silente. Era andata fin troppo bene con lui, ma il peggio veniva adesso: le mamme!
A fine colloquio, le due donne obbligarono i figli a esibirsi in una serie di inchini che – i ragazzi ne erano sicuri – non li avrebbero costretti a sfoggiare nemmeno se si fossero trovati al cospetto dell’Imperatore in persona.
Una volta fuori in cortile, Judith Lenders(1) ripeté una serie di riverenze simili davanti a Risa.
«Signora Brighton, non so dirle quanto sono desolata per averle arrecato tanto disturbo»
«Le credo, signora Lenders. Lei mi sembra una brava persona»
«Oh, ma Mark non è un cattivo ragazzo! Lui…» Judith si passò una mano sul viso. «Vede, il suo atteggiamento aggressivo è dovuto alla mancanza del padre. È sempre stato un bambino caparbio ma, dopo la morte del mio John, Mark ha sofferto moltissimo e da quel momento…»
Risa non la trovava una giustificazione appropriata, ma annuì ugualmente. «Capisco, e me ne dispiace. Tuttavia, non significa che possa sovvertire al regolamento scolastico quando ne ha voglia per una qualche sciocca battaglia sportiva, per lo più coinvolgendo mia figlia»
La signora Lenders non seppe cosa dire. Non aveva ancora avuto il tempo per capire le dinamiche della questione. Il preside aveva solo spiegato loro che i due ragazzi avevano rotto il vetro con una palla da baseball, improvvisando una partita fuori dell’orario permesso. Cosa poi ci facesse suo figlio su un campo da baseball era una cosa che ancora le sfuggiva, e soprattutto non capiva in che modo era stata coinvolta la ragazza.
«Ovviamente, riconosco che la colpa non è tutta di Mark» continuò la signora Brighton, «Kira ha fatto senza dubbio la sua parte. Tuttavia le rammento che è stata coinvolta in un incidente di cui anche suo figlio è responsabile, distruggendo una bicicletta che mi è costata parecchio»
«Se c’è qualcosa che posso fare per sdebitarmi…»
«No, nulla, suppongo» rispose Risa, squadrando brevemente la signora Lenders con aria compassionevole.
La signora Brighton era fasciata in un tailleur elegante, le scarpe col tacco, gli orecchini di brillanti e i capelli a caschetto perfettamente in ordine come fosse appena uscita dal parrucchiere; la signora Lenders, che aveva solo qualche anno più di Risa, appariva sfortunatamente più vecchia. I suoi capelli mossi erano tirati sul capo in una comoda crocchia, indossava una gonna di cotone e una camicetta senza fronzoli, un paio di sandali ai piedi e nessun accessorio.
A vederle insieme, le due madri non potevano essere più diverse. Diverse fuori ma soprattutto dentro.
Lì stava la vera differenza. Quando la scuola aveva chiamato, la priorità di Judith Lenders era stata quella di sapere se Mark stava bene; Risa Brighton aveva invece anteposto la reputazione di Kira, augurandosi che non avesse combinato guai irreparabili a discapito di essa.
«Non posso certo chiederle un risarcimento, dal momento che mia figlia non guardava dove stava andando» disse ancora Risa, controllando il suo sottile orologio da polso. «Ora mi scusi, ma devo tornare al lavoro»
Le due donne si congedarono con un inchino. Anche Kira si inchinò alla signora Lenders, prima di seguire sua madre verso il parcheggio delle auto.
Mark restò un momento a guardare la sua rivale allontanarsi, a studiarne l’atteggiamento remissivo. Non sembrava la stessa ragazza dalla lingua lunga e lo sguardo impertinente con cui aveva a che fare a scuola.
«Mark» lo chiamò sua madre.
Lui distolse lo sguardo dalle sagome di Kira e della signora Brighton. «Sì?»
La signora Lenders puntò i pungi sui fianchi. «Vuoi aiutarmi a capire cosa diavolo hai combinato?»
 
 
 
Risa non fu per nulla comprensiva, ma Kira era preparata, come sempre. Fin da quando era entrata nell’ufficio del preside e visto i suoi occhi lampeggiare, la ragazzina aveva capito che una volta a casa sarebbero state urla. La disciplina era il sale per Risa, la quale si aspettava lo stesso atteggiamento dalla figlia.
Ma Kira non era come sua madre. Non era mai stata come sua madre.
«Ti sei presa fin troppa libertà fin ora. Anzi, te ne ho data fin troppa! Ma da oggi le cose gireranno diversamente!». Risa misurava a gran passi il tappeto del salotto, passando davanti al divano dove Kira stava seduta con la schiena dritta e lo sguardo basso, la fronte aggrottata. «Un mese di scuola e hai già un richiamo in presidenza! Non era mai successo che la scuola mi chiamasse!»
«Certo che è successo, non ti ricordi le elementari?» disse Kira. Era stata la volta in cui Risa aveva dovuto spiegare alle maestre che il colore dei capelli e degli occhi di sua figlia erano naturali, e che la bambina non cercava di mettersi in mostra.
La signora Brighton ricordava, ma liquidò la risposta con un gesto della mano. «Non stiamo parlando di questo. Quella volta non eri nel torto, ma oggi lo sei. Perché ti sei fatta coinvolgere da quel ragazzo?»
«Non è proprio così» rispose Kira. In effetti era stata lei a proporre per prima la sfida di calcio… però ero stato Mark a fomentare l'odio.
«Non sarai diventata amica di quel tipo, spero!»
«Non direi che siamo amici»
Risa emise un sospiro. «Questo mi toglie un pensiero. Desidererei che ti facessi degli amici un po’ più vicini a te, Kira»
«In che senso?»
«Persone di un certo ceto»
Kira emise l’inizio di una risata. «Mamma, non siamo nel medioevo»
«Tu sei figlia mia e i Brighton non frequentano quella gente»
«Quella gente?»
Risa mosse di nuovo la mano nell’aria. «Sì, gente… come quei Lenders. Santo cielo, la madre sembrava una povera mendicante»
«Mamma!». Kira schizzò in piedi. «Come puoi dire certe cose? A me la madre di Mark è sembrata una signora molto gentile»
Risa alzò un sopracciglio. «Tutto ciò che voglio è che non ricerchi la compagnia di certe persone. E voglio, anzi esigo, che inizi a rigare dritto. Io e tuo padre non abbiamo mai dato tanti problemi ai nostri genitori, e non sarai tu a cominciare!»
«A fare cosa?» chiese Kira con voce annoiata, alzando gli occhi al cielo senza potersi trattenere.
Risa si fermò, parandosi di fronte alla figlia. Destava le interruzioni, peggio ancora se la ragazza dava segno di disubbidienza.
«Cominciare a fare la ribelle, Kira. Nessuno mai in questa famiglia…»
«Non vedi la tua famiglia da quando ti sei sposata, che ne sai di cosa fanno i figli degli altri!»
«KIRA!» Le narici di Risa Brighton fremettero dall’indignazione. Diventò rossa in viso, stringendo le labbra in una riga sottile.
«Scusa mamma»
Risa alzava spesso la voce, ma mai come quando si accennava alla sua famiglia. Era un argomento che rasentava il tabù.
I parenti di Kira vivevano nel Kyushu e non si vedevano da… praticamente mai. La ragazza conosceva a malapena i loro nomi, il loro aspetto solo tramite le fotografie dell’album di famiglia che mamma teneva ben chiuso nell’armadio. Kira non conosceva esattamente le dinamiche dei fatti passati, nessuno le aveva mai raccontato niente nel dettaglio. Probabilmente i suoi non la ritenevano abbastanza grande e matura per comprende. Sapeva solo che mamma aveva litigato duramente con il nonno e dopo il matrimonio si era trasferita a Tokyo. La ragazza sospettava che la causa della rottura andasse ricollegata a quell’unione: Kei non doveva essere stato il partner che il padre di Risa avevano pensato per lei, e il fatto che avesse deciso di dare il proprio cognome al marito (2) poteva essere stata interpretata come una provocazione.
L’unica parente con cui la mamma aveva mantenuto i contatti era la nonna, anche lei residente nella capitale.
Nonno e nonna non erano divorziati – in una famiglia come la loro, strettamente legata alle tradizioni, il divorzio era inconcepibile così come molte altre cose – ma non vivevano più insieme da diversi anni.
Risa si passò una mano tra i capelli neri. «Sei ancora una bambina, non parlare di cose di cui non hai la minima idea. Sai quanto mi irrita» 
«Non volevo dire niente di male» si scusò Kira, fissandosi i piedi.
Risa prese grandi respiri, facendo ancora un paio di volte avanti e indietro sul tappeto. «Va bene…va bene. Tornando a noi, ho deciso che se il preside si accontenta di farvi fare dei lavori manuali, io ti toglierò la possibilità di partecipare alla festa dello sport»
Kira rialzò il capo, gli occhi spalancati. «Cosa?! NO!»
«Puoi continuare ad allentarti, questo te lo concedo, ma non insieme ai tuoi compagni di club. Per quello che mi riguarda, tu col pattinaggio per questo trimestre hai chiuso»
«Ma mamma, la mia coach…»
«Parerò personalmente con la tua coach. Le dirò di escluderti dal programma»
Quella punizione fu per Kira una doccia ghiacciata. Sentì pizzicare gli occhi, le lacrime che facevano capolino. Con la scusa di togliere le lenti a contatto, si precipitò su per le scale proprio nel momento in cui suonò il campanello. Non le importò sapere chi fosse, voleva solo chiudersi in camera sua e piangere tutta la sua rabbia.
 
 
 
Mentre tornavano a casa in treno, la signora Lenders fissò suo figlio così insistentemente che il ragazzo non ebbe altra scelta se non confessare tutto dal principio alla fine.
La donna ascoltò tutto il racconto con pazienza, da com’era nata la rivalità con Kira Brighton a com’erano finite tutte le loro sfide.
«Lei è fastidiosa come nessuno, te lo giuro. Ha improvvisato questa cosa della sfida solo per riavere la bici, e io mi ci sono fatto tirare dentro. È stato stupido da parte mia, lo so mamma, però non ho potuto dargliela vinta. Proprio no»
Judith aveva già capito che non era mai stata intenzione di Mark far del male alla ragazza, tanto meno creare disagio e imbarazzo alla scuola. Le parole di lui ne furono la conferma. Suo figlio non era un teppista, era solo molto, molto competitivo e orgoglioso. Troppo.
«Quindi anche le ammaccature dei giorni scorsi non erano dovute soltanto agli infortuni in campo»
«Ehm… no»
«E con l’incidente della bicicletta come la mettiamo?»
«Non le ho rotto io la bici! Ha fatto tutto da sola» scattò subito Mark.
«Sì, ma tu eri presente. Perché non me lo hai detto?»
«Non volevo farti preoccupare» tagliò corto lui. «E nessuno si è fatto male»
«La signora Brighton sembrava pensarla diversamente»
«Non ho idea di cosa abbia raccontato quella a sua madre e non me ne frega. Sta di fatto che non l’ho spinta io nel fiume, la colpa è stata di Kira. Punto»
«Ah, Mark…». Se poteva evitarlo, la signora Lenders non alzava mai troppo la voce con i suoi ragazzi. Un rimprovero fermo e deciso era molto meglio di una sfuriata. «Io e tuo padre non ti abbiamo insegnato a venir meno ai tuoi doveri. Chi rompe paga, caro mio»
Mark cincischiò con la spallina della cartella posata tra i suoi piedi, senza più parlare. Quando la mamma lo riprendeva non aveva il coraggio di guardarla in viso. Era abituato a camminare con le sue gambe, per certi versi si sentiva più grande del tredicenne che era. Ma se da una parte i rimproveri della mamma lo mortificavano, dall’altra comprendeva che era giusto e che aveva ancora bisogno di lei per comprendere molte cose.
Il discorso fu interrotto brevemente, e ripreso subito dopo esser scesi a Saitama. Si incamminarono verso casa, Mark che palleggiava pigramente col pallone, il rumore ritmico dei sandali di mamma sul selciato.
Benché comprendesse l’innocuità dell’antagonismo con la compagna di scuola, Judith Lenders non evitò al figlio la punizione meritata.
«Telefonerò alla signora Brighton e le dirò che ripagherai la bicicletta a sua figlia»
Lui fermò il pallone e lo prese in mano. Distolse lo sguardo dal suo viso, notando la stoffa della gonna incresparsi sotto le dita di lei.
«Mamma non… possiamo». Gli costò uno sforzo ammettere la realtà.
«Questo lo so. Non la ripagherai con il denaro» rispose la signora Lenders, la voce tranquilla. «Ci ho pensato su mentre venivamo a casa. Credo che il modo migliore per concludere la faccenda sia aiutare quella ragazza a rimettere in sesto la sua bicicletta»
Mark si fermò davanti alla porta di casa. «Per rimetterla in sesto vuoi dire aiutarla a ripararla»
«Sapevo che avresti capito subito»
«Mamma, io non ho la più pallida idea di come si ripari una bici. Non l’ho mai fatto prima». Si era prodigato in diversi lavori: sapeva dipingere casa, riparare i buchi nel tetto, i tubi del lavandino, ma una bici… E se poi sbagliava a mettere insieme i pezzi? La sentivi la Brighton, con quel suo modo di fare così…
«Sinceramente, mi sembra una pessima idea»
«Lascia che prima ne parli con la madre della ragazza» ripeté Judith, infilando le chiavi nella serratura. «Cercherò di rintracciarla stasera e vedere cosa si può fare. Adesso devo tornare di corsa al lavoro. Tu va a prendere i tuoi fratelli alla fermata dall’autobus e fa merenda con loro, poi fila a fare i compiti»
Judith scese i gradini dell’ingresso, lasciando la porta aperta per lasciarlo entrare. «Chiuditi dentro, mi raccomando»
«Aspetta» Mark la fermò, incredulo. «Tutto qui? Voglio dire, non mi rinchiudi in camera ma per un mese, non mi impedisci di partecipare alle partite… niente?»
«Oh, Mark, potrei mai impedirti di giocare proprio in un momento così importante?»
Il ragazzo arrossì di fronte agli occhi fieri di sua madre.
Questa si incamminò per la strada, ma d’un tratto si volse indietro. «Un’altra cosa, Mark»
«Sì?»
«Non so come stiano le cose tra voi, ma ringrazia la tua amica per averti spalleggiato oggi, nell’ufficio del preside»
«Eh?»
Mark ci pensò solo in quell'istante. Era vero: Kira avrebbe potuto raccontare qualche scusa per scaricare la colpa su di lui. Furba com’era, sarebbe potuta venirne fuori indenne, eppure…
«Non l’avrebbe fatto» disse con sicurezza. Conoscendola, aveva capito che, nonostante la scaltrezza, era onesta.
«Oggi hai rischiato seriamente di buttare all’aria il tuo futuro» aggiunse Judith. «La signora Brighton avrebbe potuto chiedere la tua espulsione se avesse visto in te un pericolo per la carriera scolastica di sua figlia. Non è successo per merito della tua amica: perché non ha detto a sua madre nulla che potesse metterti nei guai per davvero. Ricordati di questo, Mark»
«Lei non è mia…»  … amica.
Mark guardò sua madre allontanarsi lungo la strada, iniziando a prendere mentalmente nota di quali parole avrebbe dovuto usare per ringraziare Kira l’indomani a scuola.
 
 
 
In quel momento detestò sua madre come nessun altro al mondo, la detestò ancor più di Mark Lenders.
Kira sbatté con forza la porta sui cardini, chiuse a chiave e si gettò sul letto in lacrime.
La mamma non aveva sogni, lei viveva solo di lavoro, lavoro, lavoro. Non aveva mai capito cosa significasse avere un obiettivo, quanta dedizione e fatica erano necessari per raggiungerlo. Per lei i sogni erano soltanto giochi.
Qualcuno bussò alla porta un paio di volte. Kira alzò di poco la testa dal cuscino.
«Lasciami in pace!» esclamò contro la stoffa a cuoricini verdi. L’ultima cosa che desiderava fare ora era parlare di nuovo con sua madre.
«Kira, apri, sono la nonna»
La ragazzina comprese chi aveva suonato il campanello poco prima. Quanto amava quella voce un po’ roca e gentile! Andò subito ad aprire, cercando di trattenere le lacrime.
I capelli grigi raccolti in una crocchia alla vecchia maniera, gli abiti semplici ma raffinati, Kaori Brighton aveva superato i sessant’anni ma non li dimostrava affatto. Era la madre di Risa ma questa non aveva preso nulla da lei. Evidentemente, l’ereditarietà di carattere non era il punto forte della famiglia.
La nonna guardò preoccupata il viso rigato della nipote, gli occhi rossi e gonfi. Era arrivata proprio nel momento in cui la ragazza era sfrecciata di sopra piangendo.
«Posso entrare?»
Kira la fece passare e una volta richiusa la porta aveva ricominciato a piangere tra le braccia della nonna, che ascoltò il suo racconto tra un singhiozzo e una carezza sui capelli. Dieci minuti più tardi erano sedute al tavolo della cucina, due tazze di tè che aspettavano di essere riempite e il bollitore sul fuoco. Risa era tornata al lavoro lasciandole sole.
«Risa non è mai stata un modello di comprensione» disse Kaori amaramente, riconoscendo i difetti della figlia. «Sviluppò questa attinenza al comando da bambina: le sue sorelle maggiori non riuscivano mai a scamparla con lei. Era incredibile»
«Mh» fece Kira, le guance gonfie di rabbia posate sulle mani, i gomiti sul tavolo. «Perché hanno litigato?»
«Oh, sai, non è una storia piacevole» rispose la nonna con tranquillità.
Kira la fissò con insistenza.
«Vedi cara, tua madre rifiutò la dirigenza dell’azienda di famiglia, preferendo lavorare come truccatrice ed estetista. Tuo nonno non la prese bene»
«Solo per questo?»
«Certamente no. Anche perché scelse di sposare tuo padre»
«Lo sapevo»
La nonna si alzò per spegnere il fuoco, aggiungere le foglie di tè nelle tazze e versarvi l’acqua calda.
«Cos’aveva papà che non andava?»
«Non era l’uomo giusto secondo tuo nonno». La nonna mise davanti a Kira la sua tazza. «Ma non parliamo di questo. Parliamo di te»
La ragazza accettò il tè e un dolcetto di riso. «Non c’è molto da dire»
«Tua madre mi ha chiesto di farti ragionare»
«Ragionare?» Kira addentò rabbiosamente il dolce, parlando con la bocca piena. «Io coo a amma nun ragiono, ii itigo»
«Kira, manda giù»
Kira deglutì sonoramente. «Non c’è niente da fare ormai. Lo sai meglio di me che quando prende una decisione non c’è verso di farle cambiare idea. Dovrò rinunciare alla festa dello sport». Stava per addentare un altro boccone di dolce ma improvvisamente la fame venne meno.
«Cara, lo sai che sono dalla tua parte» disse la nonna, accarezzandole il dorso di una mano. «Proverò a parlare con la mamma»
 Kira fissò le foglie sul fondo della tazza attraverso le piccole volute di fumo, giocherellando con un dito sui rilievi delle decorazioni. «Pensi che me lo sia meritata?»
«Non saprei. Forse sì. Danneggiare una finestra della scuola non è una cosa gravissima, però poteva capitare di peggio. Pensa se la pallina avesse colpito in piena fronte proprio il preside»
Kira rise. «O la professoressa Amada»
La nonna si unì alla risata. «C’è niente che posso fare per rivedere questo sorriso?»
Kira arrossì. La nonna era una persona veramente dolce.
La cosa che più desiderava era pattinare sulla pista della Toho davanti a tutta la scuola. Ma dal momento che nemmeno la nonna sarebbe riuscita ad aiutarla su quel fronte...
«Una cosa ci sarebbe: vorrei tanto trovare qualcuno che mi aiuti a riparare la mia bici»
Kaori assunse un’aria pensosa. Sorseggiò il suo tè con calma, poi posò la tazza e sorrise.
«Forse ho la soluzione»
Il volto di Kira si illuminò di pura gioia.
«Conosco un bravo ciclista a Saitama»
«Ma nonna, con tutti quelli che ci sono a Tokyo perché dobbiamo andare a Saitama?»
«Perché è il nipote di una mia amica e le ho promesso di trovargli clienti» confessò Kaori, sorridendo con un certo imbarazzo.
Kira non fu contentissima di trasportare la sua bici sgangherata sul treno fino a Saitama, ma a quanto pareva la nonna aveva a cuore la causa del bravo giovane di cui tessé le lodi durante il tragitto.
Comunque fosse, la nonna era davvero un portento di donna. Conosceva un sacco di gente e aveva sempre la soluzione a tutto.
Un’ora dopo erano al negozio di biciclette.
Si trattava di un’officina meccanica più che un vero e proprio negozio. Sul davanti era esposta la merce nuova – non più di una decina di bicilette – sul retro vi erano una serie di rottami di varie dimensioni e colori. Kira aveva fiducia nella nonna, e se diceva che il proprietario sapeva il fatto suo in quanto alle due ruote, doveva essere così.
Il padrone era un bel ragazzo sulla ventina, gioviale, con le mani sporche di olio e una tuta marrone macchiata in più punti. Salutò Kaori con cordialità e una certa confidenza. Mentre parlavano, Kira si aggirò curiosa per il magazzino, adocchiando cassette degli attrezzi, ruote solitarie, manubri arrugginiti e anche un paio di moto.
«Oh, Kira, mi sono ricordata di dover andare a comprare una cosa. Rimani qui con Gary e aspettami»
«Va bene, nonna»
La ragazza rimase volentieri con Gary. Era simpatico. In più, dopo una dimostrazione pratica della propria abilità, agganciando in un batter d'occhio delle rotelline posteriori a una bici per bambine, Kira iniziò ad avere più fiducia.
«La nonna mi ha detto che oltre a lavorare studi ancora» disse ammirata.
«Già. Le tasse universitarie sono molto alte, così ho pensato di rilevare il negozio di un amico di mio padre per venire incontro ai miei con il denaro. Con le mani ci so fare e le bici mi appassionano» spiegò Gary. «Ma vediamo la tua»
«Non c’è un altro cliente prima di me?»
Gary si voltò nella direzione in cui guardava Kira. Nel negozio c’era solo un altro ragazzino che osservava la merce. «No, Danny è il mio aiutante, non un cliente. Anche lui sta cercando di mettere da parte qualche soldo»
«Capisco…».
Kira e Gary si chinarono sulla bici. Purtroppo, lui non ebbe buone notizie per lei.
«La ruota anteriore è ridotta maluccio. Dovrò tenerla qui per qualche giorno»
Kira sospirò sconsolata.
La porta si aprì tintinnando e un signore entrò nel negozio insieme a un bambino.
«Buon pomeriggio» li salutò Gary.
«Vorremmo comprare una bici»
«Vengo subito. Danny, per favore, vieni qui. Scusa Kira, torno subito».
Gary prese uno straccio e si pulì le mani, raggiungendo i clienti, mentre il ragazzino di nome Danny si avvicinò a Kira.
«Posso aiutarti io. Dimmi, che problema ha la tua bici?» le disse quest’ultimo.
«Sai ripararla?» chiese lei, stupita. Ora che lo vedeva bene da vicino non dimostrava più di undici anni.
Per risposta, Danny annuì con vigore. «Le bici sono la mia seconda passione»
«E la prima qual è?»
«Il calcio!»
Un grande sorriso si aprì sul viso del ragazzino. Kira, al contrario, trasformò la sua espressione curiosa in una smorfia atroce, che spense il sorriso sul viso di Danny.
«Hai qualcosa contro il calcio?» chiese lui, deluso.
«Potremmo metterla così. Diciamo che è colpa di un calciatore se la mia bicicletta è ridotta in questo stato». Ed era colpa di un calciatore per un mucchio di altre cose…
I due ragazzi osservarono il rottame davanti a loro.
Danny si passò una mano sui cortissimi capelli. «Eh sì, è ridotta veramente…»
Kira emise un grugnito e le parole morirono sulla lingua del povero Danny.
«N-no, cioè, volevo dire… la rimetteremo a posto, vedrai» balbettò lui, afferrò la cassetta degli attrezzi e iniziando a trafficare con la ruota.
Per Kira non aveva alcun senso quello che faceva, ma era veramente bravo. Peccato avesse scelto il calcio come prima passione. Negli ultimi tempi non era tra le sue preferenze.
«Hai detto che è stato un calciatore a romperti la bici?» domandò Danny, spezzando il silenzio.
«Esatto»
«E come ha fatto, si può sapere?»
Kira si ritrovò a raccontare di nuovo l’accaduto. Il ricordo le lasciava sempre addosso un certo nervosismo. Ma sfogare il risentimento verso sua madre scaricando la rabbia su Mark Lenders le portò una sorta di calma interiore.
«Ho visto schizzare un siluro a forma di pallone da calcio proprio sulla mia traiettoria. Poi è spuntato lui e io sono rotolata giù dal pendio e la bici è finita nel fiume»
Danny fermò le mani al lavoro, osservando Kira accucciata accanto a lui e scoppiò a ridere.
Kira nascose il viso tra le ginocchia.
«Scusami, non volevo prenderti in giro»
«Non è una cosa di cui ridere, infatti»
«Ma dai… Sono sicuro che non l’ha fatto apposta»
«Forse no, però non mi ha neanche chiesto scusa. E con quale arroganza pretende di avere ancora ragione! Un tipo così è colpevole solo per la sua presunzione»
«È un tuo compagno di scuola?»
Lei storse il naso. «Non proprio. Frequentiamo lo stesso istituto, ma quasi non ci conosciamo»
Mentre l’ascoltava parlare, davanti a Danny prese forma l’immagine di un ragazzo a lui conosciuto, con le stesse caratteristiche descritte da lei. Quel tipo era l’immagine sputata del suo ex capitano…
«Come va, ragazzi?» fece la voce di Gary dopo un po’. Aveva congedato i due clienti; il bambino era uscito dal negozio con la sua nuova bici e un sorriso felice sul viso.
«Così così» rispose Danny. «La ruota ha perso dei raggi, il cerchione è danneggiato e anche la catena. Forse possiamo salvare il mozzo ma non ha molto senso se il resto è andato»
Gary si inginocchiò accanto a loro. Lui e Danny lavorarono insieme mentre lei li osservava senza fare niente.
«Posso darvi una mano? Mi sento abbastanza inutile»
«Certo!» disse Danny con entusiasmo. «È più bello lavorare in gruppo. E poi c’è maggior soddisfazione nel vedere un lavoro finito se sei anche tu a contribuire»
Kira rispose al sorriso del ragazzino, prendendo dalle sue mani una chiave inglese – o almeno credeva che fosse una chiave inglese…
La nonna ricomparve al negozio un’ora e mezza più tardi, con un paio di sacchetti sottobraccio. Era ora di tornare a casa.
«Dovremo aspettare che arrivi la nuova attrezzatura» disse Gary alla fine.
«Quanto ci vorrà?» chiese Kira.
«Due o tre giorni, non di più. Nel frattempo possiamo fare una revisione completa di tutte le altre parti. Se l’è vista proprio brutta questa ragazza». Gary accarezzò il manubrio della bicicletta come fosse un dolce cucciolo indifeso.
Kira sorrise a quel gesto, riconoscendo l’espressione sul suo viso: anche lui aveva un sogno, il sogno di lasciare quel capannone e aprire una vera attività.
«Non preoccuparti, rimetteremo a nuovo la tua bici» aggiunse Danny. «Bisogna impegnarsi per avere il meglio»
Kira fece un profondo inchino. «Grazie davvero!»
Era stato divertente lavorare insieme a quei due. Non aveva mai fatto nulla di manuale in vita sua, la mamma non glielo avrebbe permesso. Quelli erano lavori da proletari, diceva, con una mentalità tutta sua che Kira non avrebbe mai capito. Sperò di poter tornare presto al negozio a vedere come procedeva il lavoro. Gary e Danny la invitarono per il giorno seguente.
 
 
 
 
Faceva un caldo tremendo ed erano appena le otto e mezza del mattino. Se il calendario non avesse segnato il dieci di maggio, Mark avrebbe giurato di essere balzato in avanti nel tempo di almeno due mesi. Fermo sotto il sole del cortile, aspettava di veder comparire la Brighton con la solita amica al fianco.
Dopo l’episodio della presidenza con conseguente punizione – lui e Kira dovevano fare manutenzione alle palestre e lavorare nell’orto della scuola ogni giorno, fino a data da destinarsi –  non aveva avuto modo di parlarle da solo. Avrebbe seguito il consiglio della mamma e l’avrebbe ringraziata, ma non davanti a tutti, soprattutto non davanti alle amiche di lei.
Mark strizzò gli occhi alla luce del sole. Una massa di lunghi capelli castani chiaro era appena comparsa in lontananza.
Kira correva come una forsennata per arrivare abbastanza in anticipo da non beccarsi una punizione. Scoprì con sollievo di essere in tempo quando vide un considerevole numero di studenti riuniti nel cortile per le ultime chiacchiere del mattino.
La ragazza si fermò ansimando, piegandosi su sé stessa e appoggiando le mani sulle ginocchia.
«Riprendi fiato, svampitella, o ti scoppierà il cuore»
Kira aprì gli occhi, fissando prima la sua ombra, poi lui. «Lenders». Pronunciò il suo nome come se fosse una maledizione.
«Di corsa, testa dura?»
«Mi sono svegliata tardi, tutti qui»
Si fissarono per alcuni secondi.
Un gruppo di ragazzi passò in quel momento congratulandosi con Mark per il trionfo contro la squadra di Chiba. «Ah, è vero, complimenti per la partita» disse Kira, ricordandosi solo in quel momento. Si vergognò un po’ a dirlo, non seppe perché. Perciò aggiunse subito: «Sono contenta che la Toho sia passata al girone successivo». Ecco, così Mark non poteva fraintendere. I complimenti erano per la squadra, non per lui solo.
«Grazie» rispose il capitano con tutta la freddezza possibile.
La Toho aveva giocato la prima partita di campionato stracciando il Nakagi per sette a zero. «Senti, volevo dirti…» riprese, ma fu interrotto da Jem Edogawa e Millie Benson, una ragazza con i capelli rossicci, anch’ella membro del club di pattinaggio.
«Kira, ma è vero?» gridò Millie preoccupata, correndo verso di loro. «È vero che tua madre ha parlato con i coach e che non parteciperai alla festa dello sport?»
Kira si fece triste triste e abbassò il capo facendo cenno di sì con la testa.
Mark la fissò provando un senso di… dispiacere. Non era abituato a vederla in quel modo, proprio come nell’ufficio del preside: abbattuta, silenziosa, remissiva.
«Perché la stai fissando, Lenders?» sbottò Jem. «La colpa è tua se lei è stata estromessa dal club per oltre un mese»
«Jem…»
«Mia?» fece Mark. «Siete proprio un bel gruppo di amiche, sempre pronte a dare la colpa agli altri»
«Piantatela» disse Kira con voce quasi inespressiva. Non era dell’umore per litigare né per alzare la voce.
Millie guardava la scena senza sapere che fare, e preferì restare in silenzio.
«Lo difendi?» chiese un’incredula Jem. «Da quando?»
Kira scosse la testa. «Non lo sto difendendo. Forse me la sono andata a cercare. Smettila, dai»
«Non ti ha nemmeno ripagato i danni alla bici!»
«La mia bici è in buone mani. Non è più un problema»
Jem la fissò incredula. «Ma… non mi hai detto niente»
«Non ce n’era bisogno. È acqua passata, credimi».
Dopo aver perso l’opportunità di pattinare all’evento scolastico, Kira aveva rivalutato molte cose. La bici non era niente in confronto a quello: alla festa dello sport avrebbe potuto mostrare le sue doti atletiche e invece l’opportunità era sfumata. La colpa non era solo di Mark. C’era stata lei su quel campo a porgergli il guanto di sfida, lei aveva preteso la rivincita, lei aveva lanciato la pallina contro la finestra della presidenza. Anche se tutto era iniziato a causa di lui, Mark c’entrava ben poco. Questa volta non poteva imputargli le proprie sfortune.
Kira congedò le amiche, dicendo loro che doveva discutere con Mark. Jem e Millie entrarono nell’edificio, la prima dopo avergli scoccato un’occhiata penetrante.
«Mi devi dire qualcosa?» domandò lui, curioso.
«Io niente. Mi sembrava fossi tu a dovermi dire qualcosa»
«Ah…sì, io…» Mark si umettò le labbra, fissandosi i piedi per un istante. Poi rialzò la testa. «Insomma, volevo ringraziarti»
Le sue parole la colsero di sorpresa. «Per cosa?»
«Per l’altro giorno, sai, quand’eravamo dal preside» specificò Mark. «Tu non hai detto a tua madre tutto quello che è successo tra di noi, vero? Delle sfide, voglio dire»
Kira scosse il capo. «Le ho detto qualcosa. Non le ho raccontato poi molto. In fin dei conti era una cosa nostra»
Si fissarono ancora.
Una cosa nostra… suonava molto strano, innaturale. Non erano nemmeno veramente amici, come potevano aver condiviso qualcosa?
«Mia mamma sarebbe stata capace di piantare un gran casino, specialmente dopo l’avventura del bernoccolo» disse ancora Kira. A pensarci faceva ancora male. «
Mark fece una faccia divertita al ricordo. «La testolina non ha più dato problemi?»
«Sei proprio antipatico». Lei sbuffò, decisa a non farsi provocare. Di solito non le dico niente di quello che faccio, ma quel giorno in cui sono tornata a casa con la bici fracassata, ho dovuto». Non poté impedirsi di rimandargli una mezza occhiata di rimprovero.
«Immagino tu abbia dato la colpa a me»
«Certo»
«Cretina»
Lei tirò fuori la lingua, ma fu un gesto scherzoso. «Non ringraziarmi, Lenders, sto ancora aspettando il risarcimento che mi spetta»
Mark alzò gli occhi al cielo, al contempo chiedendosi se poteva riferirle l’idea di sua madre a riguardo.  
«Bè, è tardi» disse Kira muovendosi verso l’edificio. «Ci si vede in giro, ciao!»
Dopo un attimo di esitazione, Mark la seguì.
«Aspetta, Brighton!» La raggiunse in un paio di falcate. «Ci sarebbe un’altra cosa»
«Dimmi»
«La tua bici…»
«Mh?»
«Ecco, mia madre pensa che dovrei ripagarti il danno aiutandoti ad aggiustarla»
«La biciletta, dici?». Kira incrociò le braccia, chiuse gli occhi e rifletté, muovendo la testa da una parte all’altra come un uccellino. «Va bene, accetto»
Mark sbatté le palpebre. «A-aspetta, non così in fretta!»
«Non dovevo accettare?»
«Presumo di sì» Mark si strofinò la nuca con una mano. Veramente non si era aspettato che accettasse, aveva piuttosto previsto un rifiuto totale con la scusante che lui era un buzzurro e lei non voleva averci niente a che fare.
«So benissimo che non lo fai perché ti sono simpatica» disse Kira, riprendendo a camminare.
«Infatti mi sei antipatica»
«So anche questo» disse lei, entrando nell’atrio della scuola per dirigersi verso le scarpiere. «In realtà ho già trovato un ciclista che fa al caso mio, ma dal momento che sei proprio tu a chiedermelo…»
«Non mi farà piacere passare del tempo con te»
«Chiaro. Nemmeno a me»
«Allora com’è che sei così contenta?»
«Oh, ma sei ottuso!» Kira aprì l’armadietto della scarpiera e vi si appoggiò per togliere quelle che aveva indosso. «Era quello che aspettavo da un mese! Finalmente hai ammesso le tue colpe». Batté le mani una volta e fendette con l’aria il pungo della vittoria. «Che soddisfazione immensa!»
«No, un attimo! Non ho detto… non ti ho… EHI!». Mark cercò di fermarla ma si ritrovò sommerso da un’ondata di studenti ritardatari che si affrettavano su per le scale al suono della campanella.
Kira era già sfrecciata sul primo pianerottolo.
«Buona giornata Lenders! E ricordati che oggi abbiamo l’orto da pulire!»

 
 ***** ***** ***** ***** *****
Note:

1. La madre di Mark non ha un nome, per cui ho pensato di dargliene uno io :)

2. Come nel resto del mondo, anche in Giappone è consuetudine che la molgie prenda il nome del marito dopo il matrimonio. Accade il contrario nell'eccezione in cui in una famiglia di antiche origini nascano sole figlie femmine, e quindi si rischi l'estinzione' del cognome. Allora, di comune accordo, è il marito a prendere il cognome della moglie, e di conseguenza anche i loro figli manterranno il cognome della donna. Qualche volta si usa anche il doppio cognome.

 
***** ***** ***** ***** ***** 

Salve a tutte, ragazze, come vi va?
Io un po’ influenzata, la pancina duole, ma nonostante questo sono riuscita a finire questo nuovo capitolo. Mi auguro che non siano troppo lunghi. Di solito il mio standard è di una decina di pagine o poco più. Vi annoiano?
L’altra volta avevo anticipato due cose: la prima era che sarebbe stata tregua per un po’ tra Mark e Kira, e difatti è così. Non so se avete notato i toni soft della loro conversazione.
La seconda era che sarebbe arrivato un personaggio amato. Ovviamente parlo di Danny Mellow :) Non volevo aspettare la terza media per introdurlo, così ho pensato di inventarmi questa seconda passione per le bici, di modo da intrecciare i personaggi tra di loro. A proposito di bici, non me ne intendo proprio, perciò sono andata a vedere un po’ di cose su vari blog.
Ho voluto introdurre anche il personaggio della nonna di Kira, e ho introdotto l’argomento ‘famiglia’, del quale si tornerà a parlare più avanti. Ci sono dei segretucci…
Vi chiedo di tenere d’occhio il personaggio di Millie. Prossimamente potrebbe avere un po’ più di rilievo ;)
Ah, per chi aspetta un po’ di fluff tra Mark e Kira, pazienti che devono crescere ancora un pochino. Vi farò penare, sappiatelo xD Comunque, tra qualche capitolo, farò il salto temporale dalla prima alla seconda media.
 
Ringrazio tutte voi che avete messo la storia tra le seguite/preferite, e che avete recensito.
Un bacio immenso e alla prossima!
 
Susan 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 8. Quasi amici ***


8. Quasi amici
 
 
Appoggiato allo stipite della porta socchiusa del minuscolo salotto, le braccia conserte, Mark ascoltava la voce di sua madre parlate al telefono con la signora Brighton. Anche se l’aveva incrociata una volta sola, la madre di Kira non gli piaceva, per via di quella puzza sotto il naso e l'aria di chi pensa di essere migliore a prescindere. Mark detestava la gente così. Solo perché avevano qualche zero in più nel conto in banca non dovevano essere necessariamente migliori.
«Allora siamo d’accordo, signora» udì la mamma dire. «Ma certo, Mark è più che disponibile, e se il negozio è a Saitama è ancora meglio, noi abitiamo lì. Gliene avrei indirizzato uno io ma visto che lo avete già trovato... Certo, Kira potrebbe venire da noi dopo la scuola... Come preferisce lei»
Judith riattaccò pochi secondi dopo, voltandosi verso il figlio maggiore. «Sabato pomeriggio la tua compagna verrà a casa nostra»
A Mark cadde la mascella. «Viene qui?»
«Sì. Perché tanto stupore?»
Perché non voglio che venga qui, avrebbe voluto dirle. Non voglio che veda dove abitiamo, perché capirà che siamo poveri.
Non disse niente, per non ferire la mamma.
Mark non aveva mai provato vergogna per la propria situazione famigliare. Non erano né i primi né gli ultimi in precarie condizioni economiche. La sua riluttanza era tutta rivolta al presumibile atteggiamento che Kira avrebbe assunto una volta messo piede sui gradini di casa. Probabilmente era una snob come sua madre.
«Vai a un appuntamento con una ragazza, Mark?» gli chiese Matt, il piccolo dei Lenders, seduto sul pavimento del salotto a giocare con un camioncino dei pompieri.
Nathalie ridacchiò dietro il quaderno dei compiti.
«Assolutamente no!» sbottò il ragazzo. «È solo una compagna di scuola a cui devo una specie di favore»
«Se esci con una ragazza è di fatto un appuntamento» Teddy, seduto sul divano, trattenne un sorriso.
«Non è un appuntamento, piccoli impiccioni. Sarà solo una gran seccatura». Ma ormai la frittata era fatta.
La mamma gli mise in mano un pezzetto di carta sul quale aveva preso un appunto mentre era al telefono.
«Tieni. Questo è l’indirizzo del negozio di biciclette»
Mark lo prese e una ruga gl’increspò la fronte. «Un negozio di Saitama? Perché non a Tokyo? Quella lì avrà un sacco di soldi, cosa se ne fa di un rigattiere di Saitama?» sputò fuori con avversione.
«Non sta a te decidere» replicò la signora Lenders. «Avrà delle conoscenze da queste parti. Ora va a finire i compiti, io devo preparare la cena»
 
 
 Kira camminava con gli occhi incollati al foglietto sopra il quale era disegnata la mappa per arrivare a casa Lenders. La cartina era stata disegnata a pugno dalla mamma, che le aveva raccomandato più e più volte di stare attenta, di non combinare ulteriori guai, di essere gentile con i Lenders e di tornare a casa per le otto in punto.
Risa non si smentiva mai. La sua fiscalità era leggenda.
La mamma aveva parlato al telefono con la madre di Mark e si erano accordate perché lei andasse a Saitama quel sabato pomeriggio. Kira non aveva idea che lui abitasse proprio a Saitama, era veramente una coincidenza allucinante. Ovunque andava, sembrava che Mark dovesse incastrarsi nella sua vita. Era dappertutto, come il prezzemolo! Chissà di quale colpa la accusavano i kami per averle dato una punizione tanto scocciante.
Ora che non doveva più allenarsi per la festa dello sport, Kira aveva tutto il weekend libero. Si sarebbe annoiata a morte senza Jem, con la quale andava sempre a fare un giro a Shibuya, Shinjuku o Akihabara. Il negozio di bici era un’alternativa ai pomeriggi con la sua amica, alternativa in cui poteva unire l’utile al dilettevole. Inoltre, dopo che Mark si era offerto di sua sponte per aiutarla a riparare la bici, trovava la cosa ancora più entusiasmante.
Le indicazioni condussero Kira su una strada dove sorgevano una serie di vecchie abitazioni tutte più o meno uguali, costruite in stile tradizionale giapponese (1). In una Tokyo straripante di moderne case di cemento e alti palazzi in vetro e metallo, non se ne vedevano più molte fatte in quel modo. Lei stessa viveva in una villetta all’occidentale. Ma nelle periferie e nelle zone rurali era ancora possibile trovare le tradizionali case fatte di legno, paglia e carta, semplici e minimali.
A Kira erano sempre piaciute, come quella della nonna, con il suo portico in legno e il bel giardino zen. Ad un’occhiata più attenta, però, la ragazza capì di essere in un quartiere dove viveva gente non propriamente ricca.
Le abitazioni si alternavano sui due lati della strada: numeri dispari sulla sinistra, numeri pari a destra. La casa dei Lenders la seconda sulla sinistra.
Kira salì i tre gradini che la separavano dal piccolo pianerottolo e pigiò il campanello sotto al numero tre. Un istante dopo la porta si aprì ed apparve il viso gentile della signora Lenders.
«Buongiorno» salutò educatamente la ragazza.
«Buongiorno, cara. Entra pure». Judith si spostò per farla passare. «Accomodati. Vado a chiamarti Mark»
La donna sparì nel corridoio, mentre Kira si fermava a togliere le scarpe nell’ingresso. Avanzò timidamente verso l’interno della casa, udendo le voci di Mark e di sua madre. Poco dopo se lo ritrovò davanti, il solito cipiglio sul viso abbronzato.
«Ciao»
«Ciao» rispose lui.
Mark si prese un momento per studiarla. Era strano vedersi fuori dal contesto scolastico. Senza quella divisa nera e austera indosso, Kira assumeva un’aria più sbarazzina. Indossava un paio di pantaloni azzurri invece della gonna, un orsetto disegnato sulla maglietta rosa che attestava tutti i suoi tredici anni.
Infantile.
Ma le trecce in cui aveva legato i capelli le conferivano un’aria quasi simpatica. E poi pettinata così era…
«Mark, fai accomodare la tua amica» lo riprese la signora Lenders, tornando con sei bicchieri su un vassoio.
«Non siamo amici, mamma, quante volte te lo devo dire?»
«Ma Mark!»
«Oh, non ci badi, signora» la rassicurò Kira. «Sono abituata alla sua boccaccia»
Mark ringhiò qualcosa di indefinito, precedendola in salotto. Se mamma aveva già preparato delle bibite era inutile cercare di svignarsela al più presto. Accidenti, non gli andava di avere la Brighton sotto il suo tetto.
Entrando nel piccolo salotto, Kira fu sorpresa di trovarci tre bambini tra i quattro e i nove anni. Non aveva idea che Mark avesse dei fratelli, non avevano mai discusso di cose personali.
 «Ciao» li salutò con un bel sorriso.
«Ciao» risposero timidamente i piccoli Lenders in un coretto scordato.
«Tu sei Kira-san?» esordì Nathalie fissandola con l’innocente impertinenza di bambina di sette anni. Suo fratello Mark non aveva mai portato amiche femmine in casa, era una novità per tutti loro.
Kira annuì alla domanda, porgendo la mano a Nathalie. «Kira Brighton. Piacere di conoscervi. E voi come vi chiamate?»
«Io sono Nathalie. Lui è Teddy e lui Matt»
Matt nascose il visetto dietro il suo cagnolino di peluche.
«Fa il falso timido» disse Teddy, «di solito non sta mai zitto»
Kira si fece guidare dalla mano sicura di Nathalie verso il basso tavolino al centro della stanza. La bambina sembrava particolarmente felice, ed espresse la contentezza sedendo in braccio alla ragazza, la quale si accomodò sul tatami (2) vicino a Mark.
La signora Lenders posò al centro del tavolino il vassoio che aveva in mano. «Ho pensato fosse meglio un’aranciata fresca piuttosto che una tazza di tè, vista la temperatura quasi estiva» disse, distribuendo i bicchieri ai ragazzi e tenendo l’ultimo per sé.
«La ringrazio, signora. Non doveva disturbarsi tanto» ringraziò Kira, assetata dopo il viaggio in treno e la camminata sotto il sole.
«Nessun disturbo. Siamo noi che ne abbiamo creato a te e a tua madre»
«M-ma no, che dice?». Kira abbassò lo sguardo sulla superficie del tavolino. «Dopotutto, l’ho rotta io la finestra della presidenza»
Non avrebbe mai detto nulla contro Mark davanti a sua madre, anche se continuava ad attribuirgli parte della colpa e dei guai che li avevano condotti fino a lì. Non era così insensibile da affliggere una signora così gentile. La signora Lenders non aveva dispensato Mark da una punizione; ciononostante, una mamma avrebbe sempre ripeso le difese del figlio per quanti errori potesse commettere, dai più gravi ai più sciocchi. Bè, tutte tranne Risa. La signora Lenders, invece, sembrava proprio quel tipo di mamma.
«In fin dei conti, la colpa è anche mia» disse Kira a Mark, quando Judith si chinò verso Matt che si era rovesciato un po’ d’aranciata sulla maglietta.
Rimasto in silenzio fino a quel momento, Mark la guardò con tanto d’occhi. «Ti stai scusando?»
«Con tua madre, non con te» precisò la ragazza, soffocando le parole con un lungo sorso dal suo bicchiere. «È una donna tanto gentile, a differenza del primogenito»
«Sempre simpatica, mi raccomando». Mark sbuffò, posando il gomito sul tavolo.
Nel frattempo, Nathalie era scesa dalle ginocchia di Kira e si era spostata in mezzo ai due ragazzi. Li osservava a intervalli in base a chi parlava, ridacchiando del loro continuo beccarsi.
«E tu che hai da ridere?» la provocò scherzosamente il fratello.
Nathalie continuò a sghignazzare, con Mark che aveva preso a farle il solletico sotto il tavolino. La bimba si dimenava divertita, mentre Kira osservava quel piccolo siparietto fraterno con una consapevolezza tutta nuova. Nei venti minuti in cui rimase seduta nel salotto dei Lenders notò molte cose di Mark di cui non si era mai accorta – se non fosse venuta da lui, probabilmente non se ne sarebbe accorta mai – capendo che sotto la scorza dura esisteva un animo gentile. Ebbene sì, gentile. Capì anche che lui non era del tutto a suo agio, ma Kira sospettava che ciò accadesse solo perché c’era lei. Normalmente, senza estranei intorno, fu quasi certa di potersi immaginare un Mark molto più rilassato e perfino spiritoso, oltre che premuroso e giocoso.
«Sai, Lenders, non sapevo abitassi proprio a Saitama»
«Eh già, che coincidenza»
Kira alzò gli occhi al cielo e rinunciò. Fare conversazione non era proprio il forte di Mark. Poteva avere dei lati positivi, ma quelli negativi prevalevano.
La ragazza sorseggiò la bibita fresca, rispondendo amabilmente alle domande della signora Lenders sulla scuola, la salute, la famiglia. Mentre discorrevano, Kira osservò intorno a sé i dettagli della casa: pochi soprammobili, niente di costoso; qualche fotografia sulla mensola sopra il divanetto all’occidentale, unica nota stonata nell’arredamento ma che in qualche modo si sposava bene con i mobili tradizionali. Un vecchio televisore era incassato dentro un mobile dalle gambe rovinate. Un paio di piantine verdi rallegravano l’ambiente. Non somigliava affatto alla casa che Risa aveva arredato con mobili costosi e strambi quadri di artisti pressoché sconosciuti, ma era ugualmente accogliente e c’era tutto l’indispensabile. I Lenders forse non erano ricchi, ma a una prima occhiata, davano l’idea di una famiglia unita. Kira li invidiò.
«Tu sei la ragazza di mio fratello?» disse il piccolo Matt all’improvviso.
Il gomito di Mark scivolò giù dal tavolino. A Kira andò di traverso l’aranciata.
«Scherziamo?!» esclamarono in coro.
Matt e Teddy scambiarono uno sguardo furbesco con Nathalie. Il primo disse qualcosa nell’orecchio al secondo e soffocarono le risatine in una mano.
«Con voi farò i conti più tardi» li minacciò Mark, suscitando maggiore ilarità in tutti e tre i fratelli.
«Su, bambini, non siate impertinenti» li rabbonì la madre.
«Ma noi volevamo solo sapere se loro…» iniziò Teddy.
«Dobbiamo proprio andare» lo interruppe Mark alzandosi, prendendo Kira per un braccio e facendo alzare anche lei. «Ci vediamo dopo»
«A più tardi» salutò la signora Lenders. «È stato un piacere conoscerti, Kira-san»
«Anche per me»
«Ciao, torna a trovarci presto!» salutarono i tre piccoli Lenders.
Mark rivolse loro un’occhiata feroce, trascinandosi dietro Kira come un pupazzo fino all’ingresso, uscendo e sbattendo la porta alle loro spalle.
«Aspetta un attimo» disse lei, saltellando su un piede alla volta nel tentativo di rinfilarsi le scarpe. «Non ho nemmeno finito di bere la mia bibita, uffa»
«Siamo in ritardo»
Kira alzò gli occhi al cielo. «Ti ha imbarazzato la domanda del tuo fratellino?»
Mark fece schioccare la lingua. «Figuriamoci». Ficcò le mani nelle tasche dei jeans, camminandole davanti di un paio di metri.
Insieme ai jeans scoloriti, lui indossava una camicia a maniche corte che aveva arrotolato sulle spalle. Kira aveva notato già da tempo quel vizio particolare: anche in campo avvolgeva le maniche della maglia per lasciare scoperte le braccia. Se ne avesse avuto la possibilità, Mark avrebbe dato l’addio alla giacca della divisa scolastica e tirato su le maniche della camicia.
Lui era uno spirito libero.
«La tua famiglia mi piace. Hai tre fratellini adorabili e tua madre è veramente gentile. Mi sarebbe piaciuto conoscere tuo papà. Lavora anche di sabato?»
Le sopracciglia di Mark si incurvarono per un attimo, tornando a spianarsi quando nei suoi occhi comparve qualcosa… malinconia forse.
«No», fu l’unica cosa che le disse.
Kira capì di aver sbagliato qualcosa. Non aveva intenzione di impicciarsi, era stata una domanda automatica.
«Scusa, non…»
«Impara a farti gli affari tuoi». Lei sapeva essere indiscreta come un elefante in un negozio di cristalli.
«Ho solo fatto una domanda». Kira inspirò e trattenne il respiro per qualche secondo, impedendo ad altre parole sbagliate di uscire. Riconosceva la sua innata curiosità, ma sospettava che Mark l’avesse tradotta in invadenza.
«La strada è quella giusta?» domandò lui.
«Eh?»
«Non sono mai stato in quel negozio di bici, guarda che mi sto affidando a te. Stiamo andando dalla parte giusta?»
«Sì, è questa. Me la ricordo. Dobbiamo girare a destra» rispose lei, continuando poi a camminargli a fianco in silenzio. Perché lui non voleva parlare di suo padre?
«Allora?» chiese lui dopo un po’.
Kira lo guardò. «Cosa?»
«Non dici niente?»
«A proposito di…?»
«Di casa mia. Non fai commenti pungenti? Sono la tua specialità»
«Che dovrei dire di preciso? È carina»
Mark rallentò il passo per tornarle accanto. Non si era aspettato una risposta candida come quella.
«È vecchia» puntualizzò lui.
«Una casa vecchia non è necessariamente brutta. A me piacciono le vecchie case giapponesi. Somiglia un po’ a quella di mia nonna».
Sembrava che Mark stesse provocandola di proposito. Forse voleva sviare il discorso su suo padre, pensò Kira. Avrebbe voluto chiedergli cosa ci fosse che non andava, ma quello sarebbe stato davvero essere invadente.
«Se vuoi che dica qualcosa di sgradevole sulla tua casa, caschi male, Lenders. L’ho trovata deliziosa»
Mark sbuffò, quasi scontento della risposta. Non gli piaceva questa Kira calma e tranquilla, preferiva quella pungente e vivace. Era dal giorno in cui il preside li aveva convocati nel suo ufficio che la vedeva così abbattuta. «Casa tua com’è?» le domandò poi.
«Una villetta all’occidentale. Ma secondo me è troppo grande per viverci solo in due»
«Vivi sola con tua madre?»
«Per la maggior parte dell’anno sì. Mio padre non c’è quasi mai e mamma sta sempre al suo negozio. Spesso mi sento un po’ sola». Kira fece un mezzo sospiro, spostandosi una delle trecce dietro la spalla.
Mark osservò il gesto. Nel tentativo di farla reagire allungò una mano e tirò.
«Ahia!» esclamò Kira sussultando, esibendo uno sguardo contrariato che le accese lo sguardo. «Perché lo hai fatto?»
«Perché sei troppo musona» rispose Mark. Il suo viso rimase impassibile ma dentro di sé sorrise di soddisfazione.
«Cosa?»
«So che sei triste per la festa dello sport e me ne dispiace. La colpa è anche un po’ mia. Però non ti devi abbattere, non serve a niente»
Kira sistemò il nastro della treccia, annuendo piano. «È la prima cosa intelligente che ti sento dire da quando ti conosco»
«Cretina»
«No, sul serio. Hai ragione ad affermare che non devo abbattermi, ma tu non puoi capire come ci si sente. Tu hai davanti un intero campionato nel quale sai che giocherai tutte le partite; io invece sarò costretta a guardare i miei compagni pattinare senza potermi unire a loro». Il viso di Kira tornò triste. «Mettiti nei miei panni. È normale che stia così»
Mark tentò di immaginare come avrebbe potuto sentirsi se mai il mister lo avesse costretto in panchina per un qualche motivo. Sarebbe stato frustrante assistere alle partite non potendo far nulla per aiutare i compagni a vincere. Il solo pensiero lo fece star male. Il pattinaggio non era uno sport di squadra, ma in un certo modo capì cosa suscitava in Kira quella sorta di innaturale apatia.
«Quanto durerà questa specie di squalifica?»
«Fino al prossimo trimestre». Kira strinse i pungi, il viso illuminato di risolutezza. «Per l’inizio dei campionati scolastici sarò in pista. Ci sarò assolutamente!»
 
 
Arrivarono al negozio di Gary pochi minuti dopo. Lui era fuori ad aspettarli insieme a un'altra persona che Mark non si sarebbe aspettato di incontrare.
Danny Mellow si aprì in un sorriso che dire enorme era dire poco. Nemmeno lui credeva a quello che stava vedendo, anche se una parte del suo inconscio forse lo sospettava.
«Quando mi hai detto che un calciatore ti aveva distrutto la bici, ho subito pensato che avessi descritto Mark alla perfezione» fu la prima cosa che Mellow disse a Kira. «Però non credevo si trattasse veramente di lui»
Mark scoccò alla ragazza un’occhiataccia delle sue, mentre Danny continuava a sorridere allegramente. «Come mi avresti descritto, esattamente?»
Lei incrociò le braccia al petto. «Come un gorilla peloso e pericoloso, ovvio»
Danny scoppiò a ridere. «Non sapevo andaste così d’accordo!»
«Noi non andiamo d’accordo!» esclamarono in coro gli altri due.
Gary si avvicinò, interrompendo educatamente i saluti per presentarsi a Mark. «Tu devi essere il ragazzo che aiuterà Kira a riparare la bici»
«Piacere, sono Mark Lenders».
«Sì, sì, Danny mi parla di te»
Imbarazzato, Mark si strofinò la nuca. «In realtà non so nulla di biciclette, sono stato coinvolto mio malgrado»
«Tuo malgrado un corno» protestò subito Kira. «La bici me l’hai rotta tu»
Mark alzò gli occhi al cielo. «Giuro che se inizi anche oggi con questa lagna…»
«Non preoccupatevi, Danny non vi perderà d'occhio» assicurò Gary, invitandoli tutti ad entrare nel negozio. La temperatura era molto più fresca e piacevole lì dentro. Si spostarono tutti nel retro bottega, dove l’odore di olio e pneumatico impregnava l’ambiente.
«Scusa se veniamo a romperti le scatole la domenica, ma tra gli allenamenti, le partite e i compiti, durante la settimana non c’è molto tempo» disse Mark a Gary.
«Figurati, ti capisco» lo rassicurò quest’ultimo. «Comunque, nessun problema. Anche se il sabato pomeriggio solitamente sono chiuso, vengo ugualmente qui per recuperare il lavoro arretrato».
La bicicletta di Kira era stata sistemata in un angolo in fondo. Gary lasciò i tre ragazzi a lavorare tranquillamente, mentre lui si spostava accanto alle due motociclette. Danny faceva avanti e indietro tra l’uno e gli altri amici, di modo da poter essere utile a tutti.
«Non avevo idea che tu e Danny vi conoscete» disse Mark a Kira, notando la confidenza con cui si parlavano.
«Ci siamo conosciuti solo qualche giorno fa. Il merito è di mia nonna» spiegò Kira, aprendo la cassetta degli attrezzi. Stava diventando brava a riconoscerli. «Gary è il nipote di una sua amica e così ha pensato di rivolgersi a lui per le riparazioni»
Mark finalmente capì. «Ah, ecco perché sei venuta qui invece di rivolgerti a un negozio di Tokyo» 
«Già. Ma ti dirò che sono contenta: Gary è veramente efficiente e Danny è altrettanto bravo. La mia bici non potrebbe essere in mani migliori»
«Sapevo che a Danny piacevano le bici e che ultimamente era stato assunto come apprendista, ma non immaginavo fosse proprio questo il posto»
«E io non sapevo conoscessi Danny». Kira sospirò. «Gira che ti rigira ti ho sempre tra i piedi»
Mark afferrò un cacciavite, rigirandoselo tra le dita. «Non piace nemmeno a me, svampitella. Ma sarà divertente vederti alle prese con i lavori manuali»
«Me la cavo egregiamente»
«Sì, certo, come con l’orto della scuola, vero?»
Kira arrossì di vergogna. Se c’era qualcosa in cui poteva affermare di essere stata battuta da Lenders, era proprio la manutenzione dell’orticello(3). Come punizione non c'era male, di sicuro molto meglio che riordinare e lavare pavimenti e vetri di palestre e spogliatoi. Tuttavia, per qualche strana ragione, la parte di terreno in cui aveva lavorato Mark dava già i suoi frutti; la parte di Kira, invece, sembrava un deserto in miniatura.
«I miei spinaci hanno già messo i germogli. Tu hai fatto morire le piantine di pomodori» sogghignò di nuovo lui.
Kira gli tirò la chiave inglese. «Sta zitto e lavora! Sei qui per questo, non te lo scordare»
Mark schivò il colpo e se non fosse arrivato Danny avrebbero preso a scagliarsi addosso oggetti contundenti…
Senza più perdere tempo, si dedicarono finalmente all’aggiustatura della bici. I pezzi di ricambio erano stati consegnati quel mattino stesso, ed ora stavano tutti in fila sul pavimento di pietra sporco e vecchio in attesa di andare tutti al loro posto. Danny era entusiasta di aver rimediato quelli che per Kira erano solo parti di metallo. Lei e Mark erano dei profani in materia, non sapevano i nomi e neppure dove andassero disposti; avrebbe potuto esser facile intuirlo, ma Mark non si prese alcuna responsabilità e non mosse un dito, avendo già una vaga idea di cosa avrebbe fatto Kira al suo collo se avesse montato qualcosa al contrario... Così si affidò ai consigli di Danny, e solo dopo che ebbe detto loro dove collocare ogni cosa iniziarono a vederci la fisonomia di una ruota nuova.
Fecero parecchi progressi. Kira osservò ammirata Danny maneggiare abilmente il tutto: lavorava con facilità e precisione, rallentando il ritmo per permettere a loro di stare al passo. 
Il tempo passò piacevolmente. Kira e Mark si divertirono come non avrebbero mai pensato, e a lui non sembrò più un obbligo l'essere lì ad occuparsi di quella bicicletta.
Danny era ansioso di sapere di più sulla tanto rinomata Toho School, così Kira e Mark si persero in racconti sulla difficoltà delle lezioni, sulla severità delle regole e dei professori. Presero in giro la Amada facendo ridere Danny, che a sua volta mise al corrente il suo ex capitano su come andava la vita alla Muppet: Keith Coleman era diventato capitano e aveva ereditato la maglia numero dieci che una volta indossava Lenders. Tutti i vecchi compagni erano molto felici per lui. Era anche merito loro se Mark aveva avuto quella borsa di studio.
«Keith è un bravo giocatore, sono scuro che starà guidando bene la squadra» disse quest’ultimo.
Danny annuì. «È così. Ma sta attento capitano, siamo molto agguerriti»
«Siamo?» ripeté Kira senza capire. «Ma scusa, Danny, tu non frequenti ancora le elementari?»
Mellow arrossì e sorrise. «Sì ma…vedi, il mio mister mi ha voluto nella squadra delle medie»
Kira fece un’espressione ammirata, mentre Mark emetteva un fischio compiaciuto.
«Questo non me l’avevi detto!» sorrise il ragazzo, strofinando una mano sui corti capelli di Danny.
Kira li osservò scambiarsi un sorriso e si rese conto di non aver mai visto sorridere veramente Mark fino a quel giorno. Quei due dovevano essere veramente molto amici ed avere una gran sintonia tra loro. Benché a scuola si fosse fatta delle amiche, non poteva affermare di essere riuscita a costruire un rapporto così solido.
«Ah, lo sapevi che Turner è rimasto alla Muppet?» continuò Danny. «Aveva ricevuto un incarico da una scuola di Okinawa ma ha deciso di restare ancora per qualche anno e passare ad allenare la squadra delle medie»
«Sì, lo avevo sentito» ripose Mark, una punta di nostalgia nel ricordare il suo ex allenatore. Jeff Turner era stato il suo mentore, quasi un padre in certe occasioni, consigliandolo e aiutandolo a crescere non solo a livello atletico.
«Il campionato lo vincerà la Toho» disse d’un tratto Kira.
Mark la guardò con tanto d’occhi. «Da quando tifi per noi?»
«Tifo per la scuola. Passami la tanichetta dell’olio, per favore»
Mark gliela passò, pensando se quelle giornate premature di sole cocente non le avessero fuso il cervello. Lei detestava il calcio… o così aveva sempre creduto.
«È giusto tifare per la propria scuola» disse Danny. «Perché non fai la manager della Toho, Kira?»
La tanichetta dell’olio rischiò di caderle di mano. «Non ci penso nemmeno! Lavare le divise di quei gorilla puzzolenti? Bleah! No, no, e poi non avrei comunque tempo»
Mark sfoggiò un’espressione annoiata quando Kira iniziò a parlare del pattinaggio artistico. Finse di non ascoltarla, anche se di tanto in tanto sbirciava la ragazza gesticolare e sorridere a Danny, il quale sembrava bendisposto ad ascoltarla tanto da ritrovarsi a farle domande alle quali lei rispondeva con entusiasmo. Mark si chiese perché Kira non potesse essere sempre così amichevole come quel giorno.
«Magari non ti interessa, perdonami» disse poi lei a Danny, interrompendosi. Quando parlava del pattinaggio si emozionva così tanto da non riuscire più darsi un freno.
«Non c’è alcun problema» la rassicurò Danny. «A me piace ascoltarti, è interessante conoscere altri sport così diversi dal calcio»
«Il suo sport è una trappola mortale» mormorò Mark, armeggiando con una chiave a cono.
«Solo perché hai avuto una brutta esperienza, non significa che lo sia per tutti» ribatté Kira brandendo la tanichetta dell’olio, che schizzò goccioline untuose qua e là.
«Mark, sei andato sui pattini?» indagò Danny, incuriosito.
Kira soffocò una risatina malvagia. «Oh, avresti dovuto ved…AHIA!»
«Mark, che fai?!» esclamò Danny.
«Oh, scusate, mi è sfuggita di mano la chiave…» disse Mark con indifferenza, dopo aver calato senza pietà la chiave a cono sulla testa di Kira.
«E guarda a caso ti è sfuggita sulla mia testa!» ringhiò lei, massaggiando nel punto i cui l’aveva colpita.
«Succede…»
Gary chiamò Danny accanto a sé in quel momento. Approfittando della momentanea assenza di Mellow, Mark puntò di nuovo la chiave sotto il naso della ragazza. «Non dire una parola»
«Perché?»
«Non dire niente a Danny della sfida di pattinaggio, né di quella di calcio, né delle altre»
«Ti vergogni, Lenders?»
«Non è per quello, è…» la motivazione gli morì sulla punta della lingua. Okay, sì, era per quello. «Non dire niente e basta»
Kira sbuffò.
«Non sbuffarmi addosso! Se quella lingua lunga fa uscire una sola sillaba sulla sfida, ti rapo a zero»
Kira spalancò la bocca ed emise un suono indignato, portandosi le mani sul capo.
«Allora, cosa stavamo dicendo?» domandò Danny tornando da loro.
Mark sviò l’argomento pattinaggio puntando di nuovo sul calcio e il campionato nazionale. I due ragazzi ripercorsero alcuni aneddoti del tempo in cui giocavano nella Muppet, mentre Kira si teneva le trecce per proteggerle e fissava guardinga il suo rivale. Selvaggio com'era Lenders, non si sarebbe stupita se avesse decise di farle lo scalpo...
Ma invece di lasciarli ai loro discorsi e perdersi nei suoi pensieri, la pattinatrice si ritrovò con suo stesso stupore ad ascoltare i loro racconti con una certa curiosità. Sentirli parlare era come aprirsi un varco nella sfera personale di Mark Lenders, uno spiraglio sulla sua infanzia in cui lei non aveva mai tentato di addentrarsi.
Benché da diverse settimane condividessero molteplici disavventure, Mark non provava nessuna interesse nei suoi confronti; ma Kira aveva scoperto di provarne per lui. In Lenders c’era qualcosa che stuzzicava il suo interesse. Se le avessero domandato che cosa avesse smosso la sua curiosità, non sarebbe riuscita a rispondere. Era il suo aspetto in generale, misto a un carattere tutt’altro che servile. Mark era molto rispettoso con gli altri pur non sopportandoli, ma non si tratteneva dal dirti in faccia quello che pensava, se doveva, e non aveva paura di farlo. Era molto diverso dagli altri compagni di scuola, tutti così tremendamente perfetti da risultare finti come manichini in una vetrina, attenti a fare e dire la cosa giusta, quasi avessero studiato un copione. Mark invece no. Lui era un mistero, una personalità spiccata, uno spirito ribelle che si trasformava nel più feroce degli avversari sul campo quanto nel più dolce dei fratelli in famiglia. Kira ne aveva avuto la prova proprio quel pomeriggio.
E quel pomeriggio, accucciata sul pavimento sporco di un vecchio magazzino, le mani sporche di olio, Kira scoprì di avere molte più cose in comune con Mark Lenders di quante ne aveva con le sue amiche.
Alla fine della giornata avevano gambe e schiena intorpiditi per essere rimasti troppo tempo nella stessa posizione. Osservarono i progressi del loro operato, soddisfatti per essere riusciti quasi riusciti a terminare il lavoro.
«La prossima volta potremmo anche finire» disse Danny, stirando le braccia.
«Per essere la prima volta che fate una cosa del genere, ve la siete cavata molto bene» aggiunse Gary, a cui spettava l’ultimo giudizio.
«Mi piacerebbe tanto decorarla, quando avremo terminato» disse Kira, donando sguardi adoranti alla sua bici. 
«Si può fare» annuì Gary. «Cosa vorresti disegnare?»
«Ancora non lo so di preciso. Forse qualche ghirigoro floreale. Sarebbe carina, non credete?»
«Roba da femmine» fu il commento di Mark.
Kira alzò gli occhi al cielo. «E allora?» Lo faceva apposta a darle contro in ogni cosa, ormai era assodato. «Non ti obbligherò ad aiutarmi anche in quello, se non vuoi»
«È già uno strazio doverti aiutare a rimettere in sesto il tuo trabiccolo»
«A me sembra che tu ti sia divertito, invece» obiettò Danny.
Mark ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni macchiati d’olio e polvere, avviandosi verso l’uscita del magazzino.
Gary chiuse la saracinesca con il pesante lucchetto di ferro, scortando i ragazzi per un tratto di strada. Il sole calva rapidamente e la frescura della sera li accompagnò facendo loro venire la pelle d’oca. Nessuno aveva pensato di portare un giacchetto, vista la calura del pomeriggio.
«Possiamo finire il lavoro con pezzi di ricambio usati» stava dicendo Danny, «ne abbiamo tanti in magazzino e non ti costeranno nulla, Mark. Se vuoi posso anche non farteli pagare subito»
«Sarebbe un favore troppo grande» rispose il capitano della Toho, posando una mano sulla testa di Danny in un gesto affettuoso.
Un paio di passi più avanti, Gary stava lodando la bici di Kira come fosse un personaggio famoso, lei che lo fissava con occhi adoranti. Mark li fissò qualche istante, provando una punta di fastidio. Perché lei discorreva con gli altri con il sorriso sul viso, mentre verso lui si mostrava sempre così caustica? Beh, lui non si impegnava granché per renderle le conversazioni facili, questo doveva ammetterlo. Mark respinse l’incomoda sensazione, pensando che alla fin fine non era un problema non andarci d’accordo. Non gli cambiava la vita, benché quel pomeriggio in sua compagnia fosse stato piuttosto piacevole, bisticci a parte.
Gary riaccompagnò Danny a casa, salutando Kira e Mark, i quali svoltarono verso la stazione più vicina.
Lenders la fissava di sottecchi, udendola canticchiare allegramente sottovoce.
«Sei contenta» constatò.
«Sì, molto» Kira gli si mise di fronte, camminando all’indietro. «Sono contentissima di come abbiamo lavorato. Siamo a buon punto. Se ce la mettiamo tutta anche la prossima volta, potremmo tranquillamente già finire, l'ha detto anche Danny. E poi mi sono divertita»
Mark la guardò ancora. Adesso stava parlando con lui sorridendo. Eppure lui non riusciva a ricambiare quell’entusiasmo.
«È stato utile per imparare a fare qualcosa che non sapevo» disse invece, ridimensionando la situazione.
«Anche questo, certo» annuì Kira, tornando a camminare normalmente al suo fianco. «Così, la prossima volta che avrò dei problemi con la bici, non ti scoccerò più»
«Se non fosse stato per la bici non ci saremmo nemmeno mai parlati» gli uscì detto.
«Eh?». Kira trattenne il respiro per un attimo. Come frase suonava ambigua...
«Sicuramente sarebbe stato molto meglio per me. Mi hai reso questi primi mesi di scuola un inferno» concluse Mark con il solito tono scocciato.
Lei sbuffò. Come non detto. «Non voglio arrabbiarmi, è stata una giornata troppo bella. Quindi non rovinarla»
Si fermarono davanti alla stazione. Kira fece per salutarlo ma lui la seguì all’interno.
«Che cosa fai?»
«Ti accompagno a casa» rispose Mark senza guardarla.
«Non serve»
«È sera, c’è buio, ormai»
«Non sono ancora le sette»
«Kira, smettila di protestare. Ti accompagno e basta» Mark si buttò su una panchina, appoggiando la schiena al muro. «Se tornassi a casa e dicessi a mia madre che ti ho lasciata rientrare sola, mi costringerebbe a tornare indietro»
Rimasta in piedi a fissarlo, Kira spostò lo sguardo su uno dei tanti cartelli pubblicitari appesi ai muri della stazione. «Beh, allora grazie» disse, arrossendo leggermente.
Troppe stranezze tutte insieme, quel giorno… Aveva visto Mark sotto tante luci differenti: il fratello maggiore scherzoso, il figlio affezionato, l’amico fidato…
Kira sedette sulla panchina accanto a lui, aspettando il treno in silenzio. Il primo, lungo silenzio tra loro, fatto di riflessioni e forse di leggero imbarazzo.

 
 
 
 
***** ***** ***** ***** *****
 
Note:
 
1. Le case tradizionali, dette ‘minka’, sono costruite in legno (travi, pareti, soffitto, tetto, pilastri strutturali), paglia (copre il tetto e il pavimento in tatami) e carta (usata per rivestire i shoji, cioè le porte scorrevoli). Tutte le pareti interne sono mobili, costituite dai shoji, tranne dove ci sono gli armadi a muro e le zone chiuse per i servizi. Le pareti esterne vengono aperte nella bella stagione, formando una sorta di veranda che guarda sul giardino, protetta da un tetto sporgente. La veranda può servire anche come corridoio esterno o come comunicazione fra gli spazi interni ed esterni. Nella stagione fredda, questo portico diviene parte della casa. Nelle abitazioni tradizionali giapponesi ci sono pochi mobili d’arredamento. In camera da letto si ripone tutto negli armadi a muro. Nelle stanze, i mobili variano a seconda del giorno o della notte. Ad esempio, al mattino si ripone il futon nell’armadio per lasciare spazio a un piccolo e basso tavolino e dei cuscini sui quali sedersi sul tatami. In casa non può mancare l’irori, il focolare ricavato da una cavità nel pavimento, che ospita il fuoco per il bollitore e serve a riscaldare l’ambiente. Le abitazioni giapponesi tradizionali hanno un angolo destinato ad ospitare un altare domestico, buddhista o scintoista, dove poter pregare. Ci sarebbe ancora tanto da dire, ma approfondirò poco a poco.
 
2.Tatami: una stuoia rettangolare, di paglia di riso, usata tradizionalmente in Giappone come copertura del pavimento.
 
3. In alcune scuole giapponesi sono presenti degli orticelli, delle aiuole o piccoli animali di cui gli studenti si prendono cura. Spesso, nelle mense della scuola, si consumano verdure tratte proprio dall’orto botanico.
 

***** ***** ***** ***** *****
 
Salve lettori!
Non mi dilungo tanto perché ho poco tempo, sorry.
Come al solito non sono completamente soddisfatta di questo lavoro, ma ecco l’ottavo capitolo. Si smuove qualcosa finalmente, Mark e Kira iniziano a conoscersi fuori dalla sfera scolastica. Stavolta non si è visto Ed, ma mi rifarò largamente la prossima volta.
 
Già vi lascio, devo scappare. Perdonate se ci sono errori, non ho avuto tempo di rileggere.

Grazie a tutti quelli che leggono, recensiscono e hanno aggiunto la storia a seguite/prefeite/ricordate
Un bacio,

Susan <3

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 9. Potrebbe esser gelosia ***


9. Potrebbe esser gelosia
 
 
 
«Tu e la Brighton che lavorate spalla a spalla… Accidenti, avrei voluto vederlo» fu il commento di Ed il lunedì successivo a scuola.
Concluso l’allenamento del mattino, lui e Mark attendevano il suono della campanella seduti sul basso pendio erboso che circondava il campo da calcio. Solitamente, per chiacchierare se ne stavano volentieri in classe o sulla porta, come di rito. Ma la prima ora del lunedì avevano giapponese, vale a dire la Amada, così cercavano di temporeggiare il più possibile prima di entrare in classe. Meno la vedevano e meglio era per tutti, soprattutto per Mark. La professoressa gli stava addosso come un mastino, fiutando ogni minima mancanza per il puro gusto di riprenderlo. E da quando era stato messo in punizione, lei aveva rafforzato la sorveglianza. Se non era un errore nei compiti era la camicia fuori dai pantaloni, o la voce troppo alta, i capelli in disordine… Dopo gli allenamenti mattutini, Mark si faceva una doccia negli spogliatoi senza curarsi di sistemare la chioma bruna, lasciandola asciugare al sole di maggio.
«La prossima volta vieni anche tu» disse Mark a Ed, giocherellando con i fili d’erba. «Danny sarà contento di rivederti»
«Sì, in effetti è un po’ che non ci si vede». Il portiere rifletté qualche istante. «Mi piacerebbe. Ma non sarà un problema?»
«No, non penso»
«Io però non so riparare biciclette, capitano»
«Nemmeno io, e Kira neanche. Ci siamo affidati a Danny, infatti. Comunque, mica ci devi aiutare, vieni e basta»
Le labbra di Ed si piegarono in un sorriso malizioso. «Kira? Sei già passato a chiamarla per nome e senza l’onorifico?»(1)
Per un momento, Mark si sentì disorientato. «È il suo nome». Già, l’aveva chiamata solo per nome anche quel sabato alla stazione: Kira, senza il suffisso. Forse non avrebbe dovuto. Non c’era tutta questa confidenza. La loro frequentazione si era limitata agli insulti, le sfide e una punizione. Però… a lei non aveva dato alcun fastidio. Ora che Mark ci pensava, Kira avrebbe potuto esprimere una viva protesta per l’impertinenza con la quale gli si era rivolto, ovvero come fossero amici di vecchia data. Invece niente.
«A lei non secca se la chiamo solo Kira»
«Oh, quindi devo dedurre che non usi il ‘chan’ nemmeno quando ti rivolgi direttamente a lei?»
«È successo solo una volta!»
«Sì, sì, va bene…»
«Warner, cosa vai insinuando?»
«Nulla» rispose Ed con falsa innocenza. «Però sai, da quel che mi hai detto sembrava foste diventati amici»
Mark si alzò dall’erba con un movimento agile. «Amici è una parola grossa». Recuperò la cartella e si avviò verso la scuola seguito da Ed.
«Bè, lascia che ti dica una cosa in tutta onestà» proseguì quest’ultimo, risalendo il breve declivio. «Qualcuno pensa che la tua rivale sia una delle ragazze più carine del nostro anno»
«Carina?» Mark pensò che carina non era l'aggettivo più adatto a lei. Per la verità non aveva nemmeno mai fatto molta attenzione al suo aspetto. L’unico particolare balzatogli all’occhio era stato il colore dei suoi capelli. «Bah, se lo dici tu…»
«Andiamo Mark, non dirmi che non hai mai pensato che fosse carina. Voglio dire, è evidente»
In effetti sì, Mark lo aveva pensato. Era stato un pensiero fugace che quasi aveva scordato di formulare, ma lo aveva fatto. Ovviamente, non lo avrebbe confessato a Ed.
«Non sarebbe una tragedia se scoprissi che ti piace una ragazza, capitano»
«A me non piace Kira!» esclamò Lenders, gli occhi lampeggianti.
«Io non ho detto che ti piace la Brighton» si difese Warner, alzando le mani. «Parlavo in generale. L’hai detto tu»
Mark sbuffò come un bufalo infuriato, marciando per il cortile tra gli sguardi spaventati degli altri studenti che si spostavano al suo passaggio.
«Non è affatto come pensi, Ed! Posso anche passarci un pomeriggio piacevole, ma lei resta comunque una ragazzina stupida, insopportabile, svampita, pazza, antipatica…»
«Mi hai chiamato?»
Mark fece un salto indietro, interrompendo la lista di insulti: Kira si era materializzata alle loro spalle, una mano sul fianco, un sopracciglio sollevato. Quanto aveva ascoltato di ciò che avevano detto?
«Buongiorno, Brighton» la salutò Ed con un inchino.
«Buongiorno» ricambiò lei, per poi rivolgersi a Mark. «Di che parlavate? Penso che l’argomento interessi anche a me»
Ed scoccò un’occhiata al suo capitano. «Ehm, noi…stavamo parlando di quanto Mark si sia divertito sabato»
«Ma davvero?» Il sopracciglio di Kira si arcuò ancor di più. «No, perché mi era parso di sentire un ‘svampita, pazza e antipatica’. Non è che stavate parlando di me?»
«Figurati!» esclamò il portiere, accompagnando la negazione con una risatina nervosa.
«No, infatti. Perché mai dovrei darti della svampita?» aggiunse Mark con palpabile sarcasmo, gli occhi puntati davanti a sé. Per qualche strana ragione non voleva incrociare lo sguardo di Kira. «Stavamo parlando del negozio di bici: Ed vorrebbe venire con noi il prossimo sabato»
La ragazza si volse verso il portiere con malcelato stupore. Warner la metteva un po’ in soggezione con quell’aria seria e composta, la lunga frangia scura che qualche volta ricopriva l’occhio destro celando parte dello sguardo. Era come Mark: un tipo da scoprire.
«Non vorrei sembrare invadente ma, sai, anch’io sono amico di Danny Mellow» disse il portiere, «e approfitterei volentieri dell’occasione per stare un po’ insieme. Ultimamente non ci riusciamo spesso»
«Ah, è vero! Anche tu frequentavi la Muppet»
Mark le picchiettò sulla testa. «Toc-toc. Io e Danny avremo nominato Ed un migliaio di volte, sabato scorso. Non ti ricordi già più?»
«Uffa!» Kira scacciò la mano di Mark come si scaccia una zanzara. «Me n’ero scordata»
«Vedi che sei svampita?»
Kira lo ignorò, voltandosi di nuovo per parlare a Ed. «Vieni pure se ti fa piacere. Danny sarà contento. Ma ti avverto» aggiunse, alzando il dito indice in segno di avvertenza, «quello che facciamo non è un passatempo»
«Sì, lo so. Mark mi ha detto tutto» sorrise Ed. «Non sarà un problema»
Kira conosceva l’amicizia che legava i due ragazzi e non fu stupita di quell’affermazione. «Bene, allora sei dei nostri» Poteva rivelarsi utile avere un paio di mani in più, e poi Warner sembrava molto più a modo del suo capitano.
Ed e Kira cercarono di conversare con maggiore scioltezza nel tragitto dal campo all’edificio scolastico. La cosa non risultò facilissima: era la prima volta che si parlavano da quando lei gli era piombata addosso dopo il volo epocale fuori dalla pista di pattinaggio. Con il senno di poi, Kira si vergognava molto di quella pessima figura.
«Avrai pensato che fossi una specie di Tarzan in gonnella» cercò di sdrammatizzare lei.
«Solo un po’. Però è stato divertente» rispose Ed, sorridendole.
Mark, un passo dietro a loro, li fissava accigliato. Aveva lo strano presentimento che quei due sarebbero andati d’accordo. La cosa non gli fece piacere. Pensieri funesti albergavano nella sua mente... Non voleva ragazze tra i piedi; non desiderava una Patty della situazione. Ci mancava solo che Kira si prendesse una cotta per Ed!
Non aveva ancora terminato di prendere considerazione l’idea che, subito, provò una punta di fastidio al pensiero che potesse succedere davvero. No, no, Warner non poteva tradirlo. Si erano promessi niente distrazioni finché non avessero alzato insieme il trofeo del campionato nazionale. Ma il dubbio rimaneva, accompagnato da due fastidiose paroline: e se…
Riflettendo sulle possibilità, il capitano della Toho si frappose fra loro quando entrarono nell’atrio della scuola. Complice la folla, il gesto passò inosservato.
Quando misero piede sull’ultimo gradino del secondo piano, apprestandosi a raggiungere le rispettive classi, Ed notò qualcosa che attirò l’attenzione di tutti e tre.
«Ehm, Mark… qualcuno ti cerca» disse, arrivando davanti alla 1B. Un gruppetto di ragazzine stava sulla porta. Sembrarono animarsi di una strana elettricità quando si avvidero dell’arrivo di Lenders.
Mark inarcò un sopracciglio mentre quelle, indecise se avvicinarsi o meno, chiocciavano ammiccando nella loro direzione. Mark capì immediatamente che l’oggetto del loro interesse non era Ed, tantomeno Kira. Puntavano lui.
«Credo abbiano qualcosa per te» disse Kira, avida di sapere cosa volessero quelle ragazze da uno come Lenders. «Sono tue ammiratrici?»
«E io che ne so, non…Che diamine fai ancora qui! Vai nella tua classe!». Mark la spinse via, ma lei lottò per rimanere con i piedi ben piantati dove stavano.
«No, voglio vedere!»
«Non c’è niente da vedere. Vattene subito!»
«Forse dovresti andare da loro, capitano» suggerì Ed molto saggiamente.
«Per dire cosa?»
«Qualcosa di carino, possibilmente» raccomandò Warner.
«E senza quell’espressione sulla faccia» aggiunse Kira.
Mark grugnì. «È la mia di sempre. Ma te ne vuoi andare, brutta impicciona?!»
«No»
«Lenders, possiamo parlarti un attimo?» disse una vocina flebile. Le ragazze avevano infine trovato il coraggio e, a passetti incerti, si erano accostate loro. Confabulando rapidamente su chi dovesse far da portavoce, lasciarono andare avanti la più bassa del gruppo. Ella allungò titubante le mani, imitata dalle altre: tutte mostrarono un pezzetto di stoffa rettangolare (2), sopra il quale era ricamato l’ideogramma di ‘fortuna’.
«Ecco, n-noi…» disse la ragazza, «v-volevamo dirti che la partita contro il Nakagi ci è…ehm, piaciuta molto e… volevano augurarti in bocca al lupo per la prossima»
Vi fu qualche secondo di silenzio in cui Mark fissò interdetto gli amuleti. «Ah…Okay»
Kira gli diede una gomitata nelle costole. «Avanti!» sibilò. «Prendili, che aspetti?» Possibile che non ci arrivasse da solo? E magari avrebbe anche dovuto ringraziare, perché quel striminzito ‘okay’ non si poteva considerare un ringraziamento.
«Siete molto gentili» intervenne Ed in vece del suo capitano.
Mark represse uno sbuffo. Quel giorno sembrava che Warner e Brighton si fossero coalizzati per irritarlo. Si decise e allungò una mano verso quelle tese della ragazza di fronte a lui(2), che quando sentì le proprie dita sfiorate da quelle del capitano della Toho, arrossì come un pomodoro. Poi fece un inchino, indietreggiò e fuggì via. Terrorizzate, le compagne misero i loro portafortuna in mano a Lenders e la seguirono dentro una classe.
«Che bello! Anche io vorrei che qualcuno mi regalasse un amuleto!» esclamò Kira, battendo le mani una volta.
«Non dirmi che sei un tipo da amuleti?»
«Sono utilissimi! Vado sempre al tempio a comprarne uno prima degli esami»
«Anch’io lo facevo» confessò Ed.
«Che cosa?!» Mark cadde dalle nuvole.
«Quando praticavo il karate, durante le gare, ne legavo uno alla cintura»
«Wow! Facevi karate, Warner?» si interessò Kira.
«I miei gestiscono un dojo. L’ho praticato per alcuni anni, poi sono passato al calcio»
Mark portò uno degli amuleti a livello del viso, facendolo dondolare avanti e indietro. Cinque. Cinque amuleti della fortuna. Come se lui, l’ex fuoriclasse della Muppet e presto della Toho, ne avesse bisogno.
«Adesso che me ne faccio?»
«Tienili per sicurezza» propose Kira. «Non si sa mai, potresti inciampare in campo e romperti qualcosa»
«Romperò le tue ossa, Brighton, se non la finisci!»
«Quanto sei violento! Non capisci nemmeno le battute»
Mark fece un verso ironico. «La tua non era una battuta»
«Uff! Non te li meriti proprio quegli amuleti, lo sai?» Kira girò sui tacchi e si incamminò a passo svelto verso la propria classe. «Allora, se non ci becchiamo in giro prima, ci si vede sabato». Sorrise e salutò con la mano. «Buona giornata, Warner…. Ciao, Lenders» terminò, cambiando il tono cordiale in un’inflessione indolente. 
Odiosa. Impertinente. Impicciona.
Mark riformulò le conclusioni fatte riguardo il pomeriggio di sabato: era stata divertente, ma non perché c’era lei. Era stato merito di Danny. E basta. Ed si sbagliava di grosso: Kira non avrebbe mai potuto suscitare in lui nessun sentimento al di fuori dell’irritazione più pura.
 
 
All’ora di pranzo, dopo due ore di giapponese con quell’arpia della Amada, e un’ora infruttuosa di matematica dove aveva preso la sua prima insufficienza, Mark tirò fuori da sotto il banco i cinque amuleti, fissandoli come se dovessero esplodergli in mano da un momento all’altro.
Non portavano affatto fortuna.
Solo ragazzine come lei potevano credere a simili idiozie. Probabilmente le piaceva anche credere agli indovini, e l’unica domanda che poneva loro doveva riguardare un ragazzo.
Oh, quando troverò un fidanzato?
Sì, era senza dubbio così. Altro che fortuna per gli esami…
Ma Kira era un conto. Quello che non si era aspettato era…
«Sul serio compravi amuleti come questi?» chiese Mark a Ed, seduto alla sua destra.
«Ero un bambino, all’epoca ci credevo» si giustificò il portiere.
«Bah. Io non ci ho mai creduto»
«Ooh! Talismani portafortuna!» esclamò ammirato Nicholas Loson, voltandosi dai banchi davanti al loro. «Chi te li ha dati, capitano?»
«Nessuno in particolare» rispose Mark, dando un peso minimo alla faccenda.
«Un gruppo di ammiratrici» lo corresse Ed, scuotendo il capo con indulgenza.
«Ah, che fortuna!» esclamò Ian. «Anche a me piacerebbe avere qualcuno che me li regali»
Eccone un altro, pensò Mark, spingendo gli amuleti verso Loson. «Se vuoi te li regalo, io non me ne faccio niente»
Nicholas sbarrò gli occhi, incredulo, scambiandosi uno sguardo con Ian e Ed.
«Non vedo perché si debba regalare alla gente questi cosi inutili» aggiunse ancora Mark, sistemando i libri per l’ultima lezione del mattino.
«Non sei contento del regalo?» chiese Ed, perplesso.
«Neanche un po’»
«Io lo sarei al posto tuo. Avere delle ammiratrici non è male, te l' assicuro»
In quel momento, un nuovo gruppo di ragazze passò davanti alla loro classe. Ed e Mark, che sedevano nei banchi in fondo, erano ben visibili dal corridoio. In quei giorni caldi, finestre e porte venivano lasciate aperte durante il cambio d’ora e la ricreazione, per permettere alla brezza fresca di rinfrescare le aule.
Le ragazze si voltarono nella direzione dei ragazzi proprio mentre Ed riavviava i lunghi capelli scuri. A quel gesto, le studentesse ridacchiarono eccitate.
«È Ed Warner» sibilarono dietro mani che nascondevano sorrisini imbarazzati, rallentando il passo per poter sbirciare dentro la classe ancora qualche secondo.
Il portiere della Toho ammiccò in una muta risposta agli sguardi d’apprezzamento, gesto che le sovreccitò parecchio.
«Ti prego, mi viene da vomitare» commentò Mark, una mano posata sullo stomaco. Ma cos’era? La giornata delle ammiratrici?
«Non è colpa mia se piaccio alle ragazze»
«Bè, è inevitabile» si vantò Ian, «dopo la partita contro il Nakagi, siamo diventati famosi»
«E le ragazze ci cadono ai piedi» concluse Nicholas, annuendo sapientemente.
«Ma fatemi il piacere! Pagliacci!» Mark tirò un calcio da sotto il banco alle sedie dei due compagni, i quali si sbilanciarono rischiando di cadere.
L’insegnante di lingua straniera entrò in quel momento a rimettere ordine. Era un tipo severo, suscettibile, nervoso, uno di quelli che detestano sentir volare una sola mosca nella propria classe. Gli studenti sospettavano fosse in qualche modo imparentato con la Amada, anche se faceva Jhonson di cognome ed era madrelingua inglese.
«Tra poco avremo un fan club, vedrete se non ho ragione» sussurrò Ian Mellin, allungandosi appena all’indietro così che Mark e Ed lo sentissero.
«Io ne avevo uno, alla Muppet» confidò Warner agli amici.
«Non avevi un fan club» puntualizzò Mark. «C’erano solo quattro galline starnazzanti che sbandieravano cartelli scritti male»
Ian e Nicholas soffocarono le risate.
Ed si incupì. «Erano più di quattro. E comunque è il pensiero che conta!»
Un’ombra minacciosa piombò come una nube temporalesca sui loro banchi. I quattro compagni alzarono gli occhi, incontrando quelli cisposi e cattivi del professore.
«Allora? Si fa salotto negli ultimi banchi, vedo»
«Noi…»
Nessuno riusciva mai ad accampare scuse con Johnson. Iniziava a sbraitare, sputacchiando sugli studenti malcapitati prima che questi riuscissero a dire ‘bah’. Ciò che non lo rendeva particolarmente odioso e lo differenziava dalla Amada era che, pur essendo incline all’urlo, non puniva mai nessuno; al massimo, un paio di esercizi in più per casa.
«E adesso zitti tutti! Iniziamo la lezione!»
Mark si arrischiò ad un ultimo commento. «Ti avverto, Ed: se ti trovi la ragazza, non contare su di me per le uscite a quattro»
«Ma come, capitano? Io già ci immagino al liceo con una lista infinita di appuntamenti»
Mark fece scoccare la lingua in un suono contrariato.
Vi era una differenza sostanziale tra i due amici. Al contrario di Mark, Ed già si affacciava a quella fase dell’adolescenza in cui la comprensione della sessualità dà il via ad una strana battaglia interiore. La consapevolezza di Warner di poter piacere, di considerare anche solo un’innocente relazione sentimentale, e il semplice fatto di apprezzare i complimenti senza più denigrarli a qualcosa di sgradito, lo rendeva più maturo. Non erano più bambini, non c’erano più giochi innocenti, bensì pensieri e sensazioni nuove dei quali le ragazze erano il fattore scatenante. Emozioni ancora acerbe ma vive, lontane da quella spensierata noncuranza infantile nell’esser maschi e femmine, ignorando tutte le complicazioni del futuro.
 
 
 
«È proprio un maleducato. E io che speravo che dopo sabato avrebbe cambiato atteggiamento». Kira sbuffò, le sopracciglia aggrottate che le oscuravano il viso grazioso.
«Tu ti illudi, Kira-can. Cosa pensavi, che diventasse gentile da un momento all’altro?» disse Jem, appoggiata di schiena al muro accanto alla finestra, dove Kira posava i gomiti sul davanzale, guardando le nuvole bianche rincorrersi nel cielo limpido.«Per lo meno, adesso riavrai la tua bici»
Kira annuì.
«Avresti potuto dirmelo, però, sarei venuta anch’io ad aiutarti, e non quel Mark Lenders!»
«Jem, te l’ho già spiegato» sospirò stancamente Kira. «L’hanno deciso le nostre mamme»
«Sì, sì, lo so. Ma non mi piace che tu stia in compagnia di quel tipo»
Kira alzò gli occhi al cielo. Quando Jem faceva così le ricordava sua madre. «Guarda che puoi venire se ti fa sentire più tranquilla, non è un circolo chiuso. Anche Ed Warner vuole aggregarsi per sabato prossimo»
Jem esitò. «Non so… non mi va di avere a che fare con quelli lì»
«Warner è abbastanza simpatico. Ci ho scambiato qualche parola stamattina»
Jem rifletté qualche secondo, fissandosi le ballerine nere con cinturino che facevano parte della divisa scolastica. «Warner è il portiere, giusto?»
«Già»
«Mh. No, passo. Ne ho abbastanza di portieri» mormorò, staccandosi dal muro.
Kira sollevò i gomiti dal davanzale, l’attenzione tutta per la sua amica. «Che vuoi dire?»
«Come? Oh, niente, niente» fece Jem, muovendo le mani come per cancellare le parole appena dette. «Andiamo a pranzare in cortile?» propose, afferrando rapida il cestino del pranzo.
«No, non mi va di pranzare con gli altri membri del team» proseguì Kira in tono aspro. «So che me lo chiedi per spingerci a riappacificarci, ma non è dipeso da me quello che è successo. Se loro non lo capiscono possono anche smettere di essermi amici. Io ho già chiesto scusa a tutti»
Non servì il nuovo debole tentativo di Jem di convincerla. Kira si scusò ma rimase in classe. Era in una sorta di lutto interiore da quando Risa le aveva imposto di non frequentare più il club di pattinaggio fino al prossimo trimestre. Mancavano due mesi! Sessanta giorni! Non avrebbe resistito a una costrizione così prolungata. Le sole volte in cui rinunciava a mettere piede sul ghiaccio era quando doveva riprendersi da un infortunio. Era l’unica ragione sopportabile.
Oltre ciò, la coach Fukushima non aveva preso bene la notizia, meno che mai Kanagawa, anche se entrambi avevano compreso le ragioni. Dal canto loro, Yusuke e agli altri compagni del club l’avevano presa ancora peggio. Si era reso necessario ridimensionare l’intero programma di allenamento ora che c’era un elemento in meno, e non era stato facilissimo. I senpai, poi, l’avevano strapazzata per bene. Kira capiva perfettamente perché erano arrabbiati, lei sarebbe stata furiosa se uno di loro avesse dato forfait facendo saltare i piani di tutto il team. Il punto era che, pur avendo chiesto perdono e spiegato le dinamiche della faccenda – benché tutti la conoscessero bene – non aveva ottenuto nulla. Voleva che capissero questo, e invece nessuno sembrava intenderlo. Doveva trovare un modo per rimediare…
«Kira-chan, mangiamo insieme?» domandò Milly Benson, chiamandola al suo banco dopo che Jem se ne fu andata.
Kira si allontanò dalla finestra e le sorrise. «Va bene. Come mai non sei andata con J-chan?»
«Nemmeno tu sei andata con lei» rispose Milly, posizionando una sedia per Kira.
«J-chan cercherà di fare da mediatore con gli altri ragazzi del club» rispose quest’ultima.
«Non sono veramente arrabbiati con te. Sono solo un po’ delusi, tutto qui»
«Mh» Kira annuì, incerta, giocherellando con le bacchette e un gambero fritto. «Mi dispiace molto. Non avrei voluto causare del malumore»
«Vedrai che due mesi passano in fretta» cercò di consolarla Milly. «Ora dovresti approfittare del tempo libero iniziando a studiare per gli esami di fine trimestre»
A Kira andò di traverso il gambero. «Cavolo, Micchan, come fai a pensare già agli esami?»
A ben pensarci, poteva essere utile avere tanto tempo a disposizione per studiare. Se prendeva un bel voto avrebbe fatto felice la mamma e lei avrebbe potuto riconsiderare la durata della punizione.
«Piuttosto…» Kira si piegò in avanti verso la compagna. «Sai per caso cos’ha Jem contro i portieri?»
«I portieri?» Milly alzò lo sguardo al soffitto. «Mmm… no, a dire il vero non ne ho idea. Perché?»
«Perché prima abbiamo fatto un discorso e… bè, a un certo punto J-chan ha detto che dei portieri ne ha abbastanza». Kira inarcò un sopracciglio. «Non ti sembra una frase ambigua?»
Milly annuì vigorosamente. «Oh, sì, molto. Pensi che J-chan abbia una cotta per qualcuno?»
«In realtà pensavo piuttosto a un ex fidanzato»
«Un ex fidanzato?!» Milly arrossì davanti alla spudoratezza dell’amica. «Oh, Kira-chan, come riesci a parlare di certe cose con leggerezza?»
«Come ne dovrei parlare, scusa?»
«Non ti imbarazza?»
«Va bene, va bene, allora diciamo che c’era una simpatia tra la nostra Jem e un presunto portiere». Nella mente di Kira aveva preso forma un’intera pellicola cinematografica di possibilità e misteri a sfondo romantico, quando in realtà non aveva nulla di concreto per affermare che le cose stessero così. «Sai, è stata davvero una strana uscita. Le ho proposto di venire con me al negozio dove ho portato ad aggiustare la mia bici. Ma non appena ho nominato Ed Warner, lei ha declinato l’invito»
«Ed Warner? Ma chi, il portiere della nostra squadra?»
A Kira non sfuggì il rossore accentuatosi sulle guance di Milly, e nemmeno l’enfasi sulle parole “nostra squadra”. «Non è che ti piace, vero?»
Milly diventò rossissima. «Ehm, no…io… a me piace Lenders»
A Kira caddero le bacchette di mano dallo stupore, la bocca spalancata. «T-tu…CHE COSAAA?!» Balzò in piedi, picchiando i palmi sul banco. I contenitori del pranzo furono sorpresi da una scossa di terremoto, mentre chicchi bianchi di riso e pezzetti di verdura saltellarono spaventati qua e là. «Non può piacerti proprio lui!»
«P-perché no?» fece Milly, sbalordita dall’eccessiva reazione dell’amica.
«Perché NO! Lui… lui è un maleducato, un buzzurro, presuntuoso, un… un gorilla pulcioso!»
Milly rise di gusto. «Un gorilla pulcioso? Ma Kira-chan…»
«Non lo accetto! Non può veramente piacerti un tipo simile!». Milly era così piccolina, timida, educata, mentre lui era un grosso pezzente arrogante.
«Lui probabilmente non sa nemmeno che esisto»
Kira fissò il viso sconsolato di Milly Benson e provò una fitta al cuore. Cavolo, doveva essere una cosa seria se l’amica faceva quel faccino afflitto.
Si risedette con calma. Per fortuna la classe era mezza deserta, c’erano solo un altro paio di compagni nei banchi davanti che si erano voltati alla sua esclamazione, ma che dopo un attimo erano tornati ad ignorarle.
«Jem lo sa?»
Milly scosse il capo. «Non l’ho mai detto a nessuno prima di oggi, perché so che tu lo detesti e nemmeno a lei è simpatico. Capisco, certo, in fondo i suoi atteggiamenti sgarbati non lo rendono popolare in quanto persona. Però, da quando durante la prima partita di campionato ho visto di quanta determinazione è dotato, ho iniziato ad ammirarlo. E… e anche durante la vostra sfida alla pista… si è impegnato molto nonostante non sapesse pattinare»
«Perdonami, Micchan, ma la tua mi sembra più ammirazione che attrazione»
«Anche, certo. Lo è. Lui sa quello che vuole, per questo ha iniziato a piacermi». La ragazza si alzò per andare verso la finestra alla quale si era affacciata Kira poco prima. «La scorsa settimana era il mio turno di pulire la classe. Ogni tanto mi fermavo a guardare la squadra»
Kira le si accostò, fissando a sua volta il campo da calcio delle medie. Mancava ancora un’ora alla fine della pausa pranzo, ma i ragazzi della squadra si stavano già allenando. Non era difficile individuare Mark tra tutti loro. Come sempre, la sua figura spiccava tra le altre; i capelli più lunghi, la carnagione abbronzata…
Perché proprio lui? Perché a Milly non poteva piacere un altro? Uno qualsiasi di loro, ma non Mark.
«Kira-chan?»
«Sì?»
«Puoi farmelo conoscere?»
Kira trasalì dallo stupore. «Perché io?»
«Ti prego!» Milly prese le mani di Kira nelle sue e le strinse. «Non conosco nessun altro che gli sia amico, solo tu»
«No, no, noi non siamo amici»
«Però vi parlate spesso negli ultimi tempi» insisté Milly, «e da quello che hai detto prima, deduco che vi vedete fuori dall’orario scolastico»
«Sì, per la bici. Ma Micchan…»
«Vorrei solo provare a conoscerlo, nient’altro. Se lui ne avrà noia non lo infastidirò più». I grandi occhi neri di Milly la fissarono imploranti. Era proprio una cosa seria, anzi serissima…
Sicuro come il sole spunta ad est e tramonta ad ovest, Mark ne avrebbe avuto certamente a noia, Kira lo sapeva. Ma non era sicura di voler rivelare la verità a Milly. Non voleva darle un dispiacere, lei stessa era già abbastanza abbattuta per tutti.
«Va bene» si arrese con un sospiro. «Vedrò che posso fare»
«Grazie, grazie!» esclamò Milly, alzandosi in punta di piedi per abbracciarla.
Sta a vedere che ora a Jem piace Warner… e poi siamo a posto, pensò la pattinatrice in preda a funeste previsioni.
Picchiettò un paio di volte sulla schiena di Milly, poi si separò dal suo abbraccio. In quell’istante, un siluro attraversò la finestra per schiantarsi contro la sua testa. Kira ci vide doppio per alcuni secondi, aggrappandosi con una mano all’amica e con l’altra al davanzale della finestra, dalla quale guardò giù gridando: «Si può sapere chi diavolo ha tirato questo pallone?!»
«Scusa, Kira! Non sapevo fosse proprio la tua classe»
Lui.
Chi se non lui?!?!
«Sei un deficiente, Lenders!». E con queste dolci parole, afferrò il pallone e lo rispedì al mittente.
«Grazie!»
«Vai a quel paese!»
Lui rise, tornando a giocare.
Kira si voltò verso Milly, lo sguardo feroce. «Sei davvero convinta di volerlo conoscere?»

 
 
 
***** ***** ***** ***** *****
 
Note:

1. Gli onorifici, o suffissi, sono una parte fondamentale della lingua giapponese. Ci sono delle regole da rispettare nel rivolgersi alle persone, parole specifiche da usare accanto al nome o cognome, e non usare un titolo onorifico quando necessario è una grave mancanza; si verrà visti come poco rispettosi e arroganti. Usare un onorifico particolare implica avere un grado di intimità più o meno elevato con l'individuo a cui ci si rivolge. Esistono molti tipi di onorifici e suffissi. Abbiamo già visto il 'san', (signore/signora). C'è poi il 'chan', traducibile con il nostro 'piccolo/a". È un vezzegiativo, o un diminituvo (es. Giulietta, Davidino per noi), riservato ai membri più giovani della famiglia, e tra amiche femmine, compagne di scuola, amici d'infanzia e fidanzati/coniugi. per questo si accompagna al nome di una persona con cui si ha un rapporto stretto. Sarebbe molto maleducato usare il 'chan' con una persona appena conosciuta, o non usarlo affatto. Lo stesso con gli adulti.
I maschi usano invece il suffisso 'kun' tra amici e compagni di scuola, per indicare una certa forma di rispetto. Anche gli adulti possono usare il 'kun' verso una persona molto più giovane come segno di confidenza. È utilizzato anche in ambito lavorativo. A scuola o al lavoro, i maschi non usano l'onorifico 'chan' con le femmine, ma si rivolgono loro con il cognome seguito dal 'san'.
 Nelle squadre sportive, dove si crea molta fiducia e cameratismo, si può anche usare Il nome senza suffissi.

2. Gli amuleti portafortuna (in giapponese Omamori) li avrete sicuramente visti negli anime e manga. Si acquistano generalmente nei tempi shintoisti o buddisti, ma si possono anche fabbricare in casa. Sono sacchettini di stoffa al cui interno è racchiusa una preghiera scritta su un pezzetto di legno o un pezzo di carta ripiegato, con lo scopo di proteggere chi lo possiede, o per far si che raggiunga un obiettivo, che si avveri un desiderio ecc. esistono diversi tipi di omamori; per proteggere dagli spirit, quelli per augurare buona fortuna, quelli per gli esami scolastici, per gli affari di lavoro, per una pronta guarigione, e ovviamente per trovare o rafforzare l’amore.
 
3. In Giappone, quando si porge un dono, lo si fa con due mani, come a dare all’altra persona qualcosa di molto prezioso. È un segno di educazione, di considerazione verso il prossimo, non solo una formalità, che tale apparirebbe se lo si facesse con una sola mano. Donare qualcosa a qualcuno con due mani è sinonimo di sentimenti profondi.



Buona domenica fanciulle!
Oggi sono contenta! Sono riuscita ad aggiornare prima di quanto mi aspettassi, solitamente ci metto un mese! Inoltre, so che vi farò felici perché in questo capitolo iniziano i primi inciuci e prese di consapevolezza. Bè, in verità non proprio, diciamo che ho gettato le basi ;)
Faccio una piccola anticipazione, soprattutto per chi non vede l’ora che i nostri protagonisti inizino a fluffare (? Fluffare: termine che ho inventato adesso O.o) Intorno al capitolo dieci, se le cose vanno come ho programmato e non mi vengono idee nuove nel mentre, avverrà il salto temporale dalla prima alla seconda media. Da quel punto, le cose tra Mark e Kira inizieranno a svilupparsi. Contente?
 
Un grazie di cuore a chi ha scelto di leggere, recensire, inserire la fic in qualche sezione.
Un bacio e alla prossima!
 
Susan <3

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 10. Una parola di troppo ***


10. Una parola di troppo
 
 
«Abbiamo finito!» esclamò Kira, alzando le braccia al cielo. 
«Evviva! Evviva!» Danny e Ed si unirono alla sua esclamazione, mentre Gary sorrideva alle loro spalle annuendo di soddisfazione. Mark, infine, si gettò a sedere sul pavimento del magazzino.
«Era ora» mormorò sbuffando. 
Gli occhi di Kira brillarono di lacrime trattenute. La vista le si annebbiò per qualche secondo così che non riuscì più a vedere bene la bicicletta che aveva di fronte. «E' bellissima, sembra nuova!»
«Peccato che sia già terminata» disse Ed, sinceramente dispiaciuto. «Questo pomeriggio è stato molto istruttivo. Mi sono divertito»
«In realtà manca ancora il ricamo floreale» ricordò loro Gary. «Se vi fa piacere, ragazzi, potrete venire al negozio ogni volta che vorrete»
«Davvero?»
«Sì, dai, venite ancora!» esclamò Danny, speranzoso. Era un ragazzino timido, non aveva molti amici oltre Lenders e Warner, e conoscere Kira era stato un piacevole arricchimento della sua ristretta cerchia. Gli sarebbe dispiaciuto non vederla più.
«Io verrò senz’altro» assicurò lei, come se avesse letto nel pensiero del ragazzino.
«Beh, se la metti così…mi aggrego volentieri Gary-san» disse Ed.
Kira estrasse dallo zainetto un foglio da disegno lievemente spiegazzato. Lo dispiegò davanti a quattro paia di occhi curiosi, mostrando il grazioso ghirigoro di fiori, steli e foglioline tracciato con inchiostri diversi.
«Questo è il disegno che vorresti riprodurre sulla bici?» chiese Danny.
«Sì. Ho usato delle penne colorate per ripassare la bozza a matita. Ti piace?»
«Sì, è carino»
«Dipingerlo su una bici non sarà come disegnarlo su un foglio» disse Gary, mostrandole le difficoltà del lavoro.
«Certo, lo immagino, ma ce la metterò tutta. La mia bici sarà più bella di pima!»
«Fa vedere». Mark si alzò da terra per guardare meglio il disegno, prendendolo dalle mani della rivale. «Passabile»
«Mai un complimento, tu, vero?»
Mark sbuffò. Quel pomeriggio era nervoso e più silenzioso del solito.
Kira aveva già notato qualcosa di strano durante l’ora di punizione, e se aveva pensato riuscissero ormai a chiacchierare in modo abbastanza pacifico, negli ultimi giorni Mark aveva sfatato ogni pia illusione decidendo di tornare il musone dell’inizio. Kira sospettava che la causa fosse da ricercarsi nella prossima partita di campionato: per passare le eliminatorie ed accedere agli ottavi di finale, Lenders e compagni avrebbero dovuto battere la fortissima Mambo di Julian Ross.
Kira sapeva abbastanza di calcio da sapere che Ross era stato soprannominato il principe del calcio, per via del suo modo di giocare elegante e preciso, nonché per il suo bell’aspetto. A soli tredici anni rasentava la perfezione e in campo era in grado di ricoprire qualsiasi ruolo.
«Io ho fame. Chi viene con me a prendere un gelato?» chiese Danny, afferrando il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans.
Non si poteva rifiutare un buon gelato, così lui e Ed si offrirono di andarne a prenderne per tutti alla gelateria sull’angolo. Nell’attesa, Gary si mise a rassettare un po’. Mark e Kira sedettero fuori dal negozio, lui sul marciapiede e lei su alcuni bancali di legno ammucchiati accanto all’entrata.
«Perché hai la faccia così scura, in questi giorni?»
Mark, gli avambracci molleggiati sulle ginocchia, la guardò di sottecchi. «Ho delle cose per la testa»
«Sei preoccupato per la partita contro la Mambo, vero?» gli chiese Kira, diretta come solo lei poteva essere. «A scuola ne parlano tutti»
«Non sono preoccupato» rispose Mark, guardandola in segno di sfida. Lei fece lo stesso. 
«Bugiardo»
«Che ne vuoi sapere, tu?»
«Julian Ross è davvero così forte?» domandò ancora lei, ignorando l’inflessione sgarbata della sua voce.
La mascella di Mark ebbe un guizzo. Non c’era bisogno di dire nulla, quel nome parlava da sé. «L’anno scorso non hai seguito il campionato nazionale?»
«Sì, ma non tutte le partite. So chi è Ross, però non l’ho mai visto giocare»
«Allora vieni a vederci e giudica tu»
«Verrò» assicurò Kira.
La Mambo era uno degli ostacoli maggiori di tutto il campionato. Mark non era così ingenuo da sperare che la squadra di Julian venisse sbattuta fuori così presto, ma gli sarebbe piaciuto dare una lezione a quel dannato damerino. Si era promesso di mostrare a tutti i suoi vecchi avversari la squadra che stava costruendo, squadra che sarebbe arrivata a strappare la vittoria alla New Team.
«Julian è un giocatore essenzialmente completo» riprese Mark, gli occhi fissi sul fondo della strada dove il traffico del sabato risuonava dei suoni di motori monotoni. «Non ha più nulla da imparare, anche se può ancora migliorare»
«Se consideri questo, allora tu hai una marcia in più» osservò Kira. «Un atleta che non ha ancora raggiunto il massimo può ancora dare tanto. Ma se hai già raggiunto il limite delle tue capacità, il tuo futuro sarà solo in discesa»
Una ruga s’increspò sulla fronte di Mark. Lei non aveva tutti i torti, ma… «Non è questo il punto. Ross potrebbe diventare il miglior calciatore del Giappone se non fosse costretto a frenarsi. Attualmente ha raggiunto il massimo livello consentitogli dal suo fisico, ma se non avesse problemi di salute potrebbe arrivare più in alto. Però...» il tono di lui si fece amaro, «non è consolante potersi vantare del fatto che Julian Ross ha problemi cardiaci e io no»
«Soffre di problemi al cuore? Sul serio?» domandò Kira, molto colpita. «Non ne avevo idea»
«Non lo sanno in molti. Julian vorrebbe tenerlo nascosto ma, dopo la partita dell’anno scorso, la notizia sta girando»
Kira si sforzò di riportare alla memoria gli incontri a cui aveva assistito l'estate precedente. Ricordò quello di Mambo contro New Team: Julian Ross, famoso per giocare solo pochi minuti a partita, era invece entrato in campo sin dall’inizio, accusando un grave malore sul quale la famiglia aveva chiesta il silenzio stampa. I genitori di Julian erano molto ricchi, suo padre un noto avvocato.
«Capisci, ora perché sono di malumore?» chiese Mark, distogliendo lo sguardo dalla strada.
«Sì, credo di sì». Kira batté piano sulla cassetta con il tallone, ritmicamente. Un gesto inquieto. Era tutto il pomeriggio che tentava di introdurre l’argomento ‘Milly’, ma se si fosse azzardata a parlargli di romanticherie varie in un momento per lui così critico, l’avrebbe spedita a quel paese senza invito né complimenti. Il muro dietro cui Mark si escludeva dal mondo in quei momenti no, era un ostacolo che Kira non aveva ancora imparato a varcare.
«E così» riprese lui poco dopo, «abbiamo quasi finito con la bici»
«Già. Abbiamo fatto un buon lavoro, non trovi?»
«Abbiamo?»
«Si chiama lavoro di squadra»
«L’ho fatto perché era mio dovere, non ti mettere in testa strane idee»
Lei fece roteare gli occhi. «Oh, santo cielo, Lenders, smettila! Ti sei divertito e lo so. Me lo hai detto anche tu. Che ci vuole ad accettarlo? Io ci sono venuta a patti»
«Con cosa?»
«Con il fatto che può essere gradevole passare del tempo in tua compagnia. A volte riusciamo a parlare in maniera quasi umana, e non è male. Anche se sei sempre piuttosto odioso»
«Ha parlato miss simpatia»
Kira gli fece una smorfia.
«Quanto ci metterai a dipingere la bici?»
«Non ne ho idea. Il tempo che ci vorrà. Ma non sei obbligato ad aiutarmi anche in questo»
«Se la metti così...» lui tentennò, «potrei già considerarmi libero dall’impegno?»
Kira lo guardò un momento, incerta. «Direi di sì» rispose lentamente. Una parte di lei non pensava di continuare a frequentarsi una volta terminato di sistemare la bicicletta. Dipingerla era un extra non calcolato in precedenza che non comprendeva la presenza di Mark. Ciò che lei voleva lui facesse, lo aveva fatto. «Però, se tu volessi comunque aiutarmi ad abbellirla, insomma, puoi venire. Gary ci ha dato il permesso di scendere al negozio ogni volta che ci va»
«Mmm… non lo so, ci devo pensare. Non è nelle mie aspirazioni riparare biciclette». Ma era stata proprio la bicicletta a farli incontrare e far nascere la loro rivalità. E, forse, a Mark tutto questo sarebbe mancato almeno un po’.
«In ogni modo, ci vedremo a scuola» notificò Kira. «Dovremo lavorare nell’orto tutti i giorni, fino a che il preside non fisserà il termine della punizione»
«Già. Ti avrò ancora per i piedi»
«Possibile che tu non sappia dire nulla di carino?»
«Io non dico cose carine, dico cose pratiche»
«Ah, lasciamo perdere». Gli aveva appena detto che non era così male stare in sua compagnia e lui sembrava non farci neanche caso.
La realtà era che Mark non sarebbe mai stato amico di nessuno al di fuori di pochi eletti.
 
 
 
«Allora, ci hai parlato?»
«Veramente ancora no»
«Oggi lo vedrai?»
«Sì, siamo ancora in punizione»
«Puoi provare, più tardi, allora». Milly tirò Kira per la manica della maglietta, costringendola a chinarsi leggermente per parlare all’orecchio. Milly era più bassa di lei di tutta la testa.
«Attente, il prof ci sta guardando» sibilò Jem in tono di avviso.
Milly e Kira si portarono contemporaneamente una mano alla bocca, controllando se il signor Onda le avesse viste confabulare.
Falso allarme.
Di tutti i professori, Onda era quello che preferivano, forse per il fatto che insegnasse educazione fisica o magari perché il suo temperamento gentile e il perenne sorriso lo rendevano inevitabilmente simpatico. Quel mattino erano usciti in cortile per dedicarsi ad un’ora di giochi di squadra. Si era optato per palla prigioniera. Le tre amiche erano momentaneamente eliminate dal gioco; avrebbero potuto liberarsi non appena la palla fosse finita nella zona demarcata ‘prigione’, ma sembravano più interessate a confabulare piuttosto che rientrare.
«Scusami se insisto così tanto, Kira-chan, è che sono così impaziente…»
«Lo so, Milly, non ti preoccupare. Vedrai che presto troverò il momento giusto»
«Datemi retta, una buona volta» soffiò Jem alle altre. «Ne ricaverete solo delusioni. Lenders non si metterà con te, Micchan, poco ma sicuro»
Milly arrossi e gonfiò le guance in uno sbuffo trattenuto. «Sei cattiva, J-chan»
«Mi dispiace, dico solo il vero». Quando aveva saputo – o meglio, quando Kira si era lasciata scappare – che Milly provava interesse per il capitano della Toho, a Jem erano spuntati i capelli bianchi.
«Lo sapevo, non dovevo dirti niente» sospirò la Benson. «Io vorrei solo che le mie amiche condividessero il mio entusiasmo romantico»
Jem fece roteare gli occhi. «Come si può essere entusiaste se a una tua amica piace uno come quello! Santo cielo, Micchan, con tutti i ragazzi che ci sono alla Toho…»
Il discorso continuò su questi toni finché il professore non fischiò la fine della partita. Era ormai ora di pranzo. Kira e le sue amiche volarono di sopra a prendere i loro bento(1) per poi ridiscendere in cortile a mangiare. Il loro posto preferito era un angolo di prato dietro la palestra piccola, all’ombra di un grande castagno. Seguitarono a fare piani per ‘incastrare Lenders’, anche Jem, la quale, nonostante non lodasse i gusti di Milly, era decisa ad aiutarla. Kira, costrinse quest’ultima ad esibirsi in una breve simulazione del suo incontro con Mark. Jem scuoteva la testa e rideva mentre osservava Kira fingere di essere Lenders, incitando un’imbarazzatissima Milly a dichiarare il suo interesse.
«Sarà un fallimento» sentenziò la Benson con le lacrime agli occhi.
«Andrà benone» assicurò invece Kira, stringendo le mani dell’amica nelle proprie. «Su riproviamo. Cosa gli dirai quando sarai lì?»
Milly prese un respiro, aprì la bocca… e rinunciò. «Kira-chan, non ci riesco. Davvero, mi vergogno troppo»
«Devi solo fingere che io sia lui. Su, non è difficile»
La piccola recita proseguì finché il vero Mark non fece capolino in cortile insieme all’inseparabile Warner, più Loson e Mellin. Kira li fissò per lungi secondi. Non ci sarebbe mai stato un vero e proprio momento giusto, bisognava acchiappare la palla al balzo. Lui era lì, Milly era lì; non c’era ragione di aspettare ancora.
«Milly, guarda chi c’è?»
Milly e Jem seguirono il suo sguardo. La prima tremò quando li riconobbe, deglutendo sonoramente.
«Dai, vieni!» Kira abbandonò il suo pranzo sull’erba e si alzò.
Jem diede in un colpo di tosse, strozzandosi con un boccone. «Volete andare là adesso?!»
Kira le venne in aiuto, picchiettandole sulla schiena. «Dici di no?»
Jem la guardò con tanto d’occhi. «Con i suoi amici presenti?!»
Milly tremò alla sola prospettiva di parlare faccia a faccia con l’oggetto dei suoi desideri. «Kira, vai avanti tu, ti prego»
«Sapevo me lo avresti chiesto» sospirò quest’ultima. «E va bene. Cercherò di liberarmi dei suoi amici, ma voi tenetevi pronte. Appena vi faccio un cenno, avvicinatevi»
Kira si avviò attraverso il cortile a passo sostenuto, tagliando per il prato e calpestando aiuole che non avrebbe dovuto calpestare, palesando la propria presenza alle spalle dei quattro ragazzi quando li raggiunse.
«Lenders, posso parlarti un secondo?» lo chiamò, facendoli voltare tutti insieme.
«Che vuoi, Brighton?»
Kira fece vagare lo sguardo su Warner e gli altri. «Da soli, se non ti spiace»
Loson e Mellin iniziarono a fare strane facce, ma Mark li ignorò. «Perché?» protestò.
«Uffa, perché sì»
«E su, capitano, vuole parlarti da sola» sussurrò Nicholas Loson con voce melliflua. «Sicuramente vorrà dichiararsi»
Mark gli assestò una botta nello stomaco. «Chiudi il becco, cretino»
Kira grugnì indispettita. «Dobbiamo solo parlare della punizione» riprese a voce più alta e decisa. Loson era così scemo da pensare che non avesse sentito?
«Bè, allora noi ci avviamo» disse Ed, «fate pure con calma. Ci trovi agli spogliatoi, capitano». Un sorrisetto fece capolino sul suo viso mentre si allontanava insieme a Nicholas e Ian.
Mark avrebbe voluto fermarli o seguirli, invece si ritrovò lì in mezzo al cortile, Kira di fronte a sé pronta a sfornare chissà quale strambo argomento. Con lei non si poteva mia sapere.
«Ho detto una piccola bugia» confessò lei.«Non è per parlare della punizione che ti ho cercato»
«Senti, se sei venuta a chiedermi del pagamento della bici, sappi che sono già d’accordo con Danny su tutto»
«Eh? Oh, no, non volevo parlare di soldi»
«Mh. Meglio così». C’era imbarazzo nella voce di lui. Parlare di denaro non era mai facile. «Te la pagherò, in qualche modo»
«Danny però non mi ha accennato nulla»
«Lo farà»
«Ah, va bene. Ehm…sei pronto per la partita?» domandò poi lei, con un tono che più fasullo non si poteva. Niente temporeggiamenti!
Lui non rispose, sbuffando dal naso. «Posso andare?»
«Oh, no, no, un attimo» Kira allungò una mano per fermarlo. «Non era questo che volevo dirti, in realtà»
«Non sono in vena di cretinate, ti avverto»
«È una cosa seria, infatti». Perché era sempre così cafone? Sarebbe stato molto più semplice avere a che fare con uno dei suoi amici.
«Non vorrai propormi un’altra sfida?»
Lei scosse il capo. «Niente sfide»
«Bene. Quindi? Avrei fame, per cui muoviti»
«Un attimo! È una cosa un po’ delicata, non so come dirtelo». Pensare di farlo era stato molto più facile che farlo davvero.
«Devo preoccuparmi?»
«No, no, è una cosa del tutto innocente». Kira si mordicchiò un labbro. «Senti, c’è qualche ragazza che ti piace a scuola?»
Din-don! Un campanello d’allarme suonò nella testa di Mark. Una volta aveva sospettato che a Kira potesse piacere Ed. Non era per caso venuta a dirgli… No, un attimo: se fosse stata lì per sapere qualcosa su Ed, non gli avrebbe posto quella domanda.
Din-don, din-don! Ma Ed aveva insinuato che era lui stesso, Mark, a provare interesse per Kira (cosa assolutamente falsa!); ma se fosse stato il contrario? Se avesse avuto ragione Nicholas e ora lei fosse stata lì per...
Din-don, din-don, din don!
«Scusami, che hai detto?!» riuscì a domandare il ragazzo, quando riprese possesso delle facoltà mentali e fisiche. Questa poi!
«Ma sì, hai capito» Kira lo fissò insistentemente. «Ti piace qualcuno?»
Un principio di sudore freddo iniziò a condensarsi sulla pelle del calciatore. Perché glielo stava chiedendo?
Fa che non sia come credo, … pensò disperatamente, mentre i pensieri si mescolavano prendendo nuova forma senza che potesse farci nulla. Il dubbio si insinuò guardingo. Di nuovo: lui aveva ipotizzato che a Kira potesse piacere Ed; Ed aveva insinuato che gli piacesse Kira; a lui non piaceva Kira, piuttosto era a lei che…
No, no, ferma tutto! Calma. Smettila di pensarci. Non è così!
«Non c’è nessuna» sputò Mark d’un fiato, con convinzione. Dopotutto era vero. C’era la remota, remotissima possibilità che potesse trovarla carina. Ma la di là di quello, nient’altro.
«Accidenti, come sei categorico». Kira fu delusa dalla sua risposta. Proprio non ci voleva! Sarebbe stato difficile presentargli Milly, eppure doveva tentare.
«Non ho alcun interesse verso certe cose. Non ho tempo» provò di nuovo Mark, deciso a sfatare ogni possibile ombra di aspettativa nella sua controparte.
L’espressione pensosa di lei mandò una scintilla di di speranza. «Oh, allora non è che non vuoi. Lo faresti se avessi tempo»
«Fare cosa?» Istintivamente, Mark fece un mezzo passo indietro. «Io con te non faccio proprio niente!»
Kira gli mostrò un’espressione perplessa. «Chi ha parlato di me?!»
«Tu stessa lo stai dicendo!»
«Dicendo cosa?»
«Che ti piaccio!» Non seppe come riuscì a continuare a guardarla, mentre sentiva uno strano calore sul viso. Stava arrossendo? No, lui non arrossiva.
Kira si tramutò in una statua di sale. L’affermazione era stata disarmante.
«C-c-che COOOSAAA?!» esclamò con voce strozzata e acuta. Sollevò un braccio come per proteggersi e anche lei indietreggiò di un paio di passi, provando l’imbarazzo più atroce della sua vita. «Tu non mi piaci affatto!» Gli aveva dato quell’impressione? Com’era potuto accadere?!
Mark si grattò la punta del naso. «Ah...» Oddio, aveva preso una cantonata mondiale! «Bè, scusa se ho frainteso» le rispose, seccato da tanta avversione nei suoi confronti. Non è che faceva così schifo, dopotutto.
«Altroché frainteso!» Kira incrociò le braccia con patinata naturalezza. «N-non avrai dato ascolto a ciò che ha detto il tuo amico, vero? Che sono venuta qui per dichiararmi?»
«Chi, Nicholas? No di certo! Però sai, se fai tutta la misteriosa, scarichi i miei amici per iniziare a vaneggiare e chiedere se mi piace qualcuno…posso farmela un’idea sbagliata, non ti pare?»
«Bè, non fartela Non pensare che io possa interessarmi a te solo perché passiamo del tempo insieme»
«Tu nemmeno»
Lei? Mark pensava veramente che lei si facesse idee di quel tipo? «Figuriamoci se mi interessi, Lenders! Non sei nemmeno il mio tipo»
«Né tu il mio, se è per questo»
«Perfetto»
«Perfetto. Allora perché stiamo facendo questo discorso?»
Kira sbatté le palpebre, scuotendo il capo come per schiarirsi la mente. «Giusto, perché lo stiamo facendo?»
«E io che ne so!» Lui non ci capiva un accidente di niente. Cosa gli era saltato in mente di fermarsi con lei a parlare di…cosa? «Bah, tu sei tutta matta. Ci vediamo»
«No, aspetta, non puoi andartene!» Kira si liberò dell’imbarazzo e recuperò la distanza creatasi, afferrandogli la camicia sulla schiena. «Devo farti conoscere una persona»
«Ti ho detto che non mi interessa conoscere nessuno»
«Ma è proprio per questo che sono venuta a disturbarti. Dimentica quello che abbiamo detto prima, okay?»
«Sì, va bene, ma non ne ho voglia»
«No, fermo!» Kira afferrò la stoffa con entrambe le mani. Piantò i talloni nel terreno e non mollò la presa quando Mark riprese a camminare trascinandosela dietro. «Solo cinque minuti»
«No»
«Tre»
«Finiscila»
«Uno»
«Sai che sei una rompiballe?» le ringhiò a un centimetro dalla faccia.
«Andiamo, che ti costa?»
Mark imprecò a denti stretti. La sua insistenza era esasperante. Poco le importava se lui non voleva rimanere, se non lo incuriosiva nemmeno un po’ conoscere chissà chi, l’importante era che lo volesse lei, e degli altri chi se ne frega. Non aveva nemmeno chiesto per favore.
«Ascolta…» riprese lei, quando una voce la chiamò…
«Ehm, Kira-chan?» 
Kira e Mark si voltarono nel medesimo istante. A un paio di metri da loro, Jem e Milly li guardavano in attesa.
«Ragazze…». Nella confusione del piccolo battibecco, Kira si era totalmente dimenticata del suo obbiettivo originario e non si era nemmeno accorta della presenza delle amiche.
«Visto che ci mettevi tanto, siamo venute noi» rispose Jem, lanciando sguardi incerti al capitano della Toho.
Kira emise una risatina impacciata, prendendo le debite distanze da Lenders. Sperò che Milly non avesse frainteso nulla di ciò che era stato detto – se aveva sentito, ovviamente – ma di questo decise che si sarebbe occupata più tardi. Non perse altro tempo e spinse Milly di fronte a Mark.
«Lenders, ti presento la mia amica Milly Benson. Voleva conoscerti»
Mark fissò con impassibilità la ragazza davanti a lui. Così, tutta quella messinscena era per farli incontrare? Che assurdità.
«Io…» cominciò Milly con voce flebile. «Io…» riprovò, schiarendosi la gola quanto più le riuscì. «Ti guardo sempre giocare, sai? Il vostro campo si vede dalla nostra classe e…»
Mark infilò le mani in tasca dei pantaloni e sbuffò. Ora capiva tutto. Se solo Kira si fosse spiegata prima invece di fare tanti giri di parole inutili... 
Milly sollevò di poco la testa. «Non voglio infastidirti, vorrei solo conoscerti un po’ meglio». Lanciò un’occhiata alle amiche, le quali gesticolarono per incoraggiarla a continuare. «Il fatto è che tu…tu…»
«Senti…» Mark la interruppe, passandosi una mano nei capelli e sulla nuca. Ci mancava solo questa. «Ho già cercato di dirlo a Kira: non ho tempo per queste cose. Non mi interessa». Non avrebbe voluto esser brusco, ma non gli riuscì di tirar fuori un tono più cortese. Se ne pentì, ma ormai la frittata era fatta.
Gli occhi di Milly si velarono di lacrime. Non aveva avuto tempo di dirgli nulla e Lenders già la rifiutava. «Non ti piaccio neanche un po’?» trovò il coraggio di chiedere.
«È meglio che lasci perdere. Non sono il tipo che fa per te»
«Se potessi darmi una possibilità...» insisté debolmente Milly, la voce che veniva di nuovo meno. «Non sto parlando di uscire insieme, solo conoscerci. Tu mi piaci e…»
«Sei sorda? Ti ho detto di no!»
Alle loro spalle, Kira e Jem trattennero il fiato.
«C-certo, ho capito» disse Milly, sconsolata. «Scusa se ti ho fatto perdere tempo». Prima di iniziare a piangere davvero scappò via, mortificata.
Jem le corse subito dietro per tentare di consolarla, chiamando Kira quando vide che non si muoveva. Ma Kira rimase ferma dove si trovava.
Mark si era voltato per dirigersi agli spogliatoi, quando la voce di lei si levò nel meriggio.
«Dove stai andando?»
Il ragazzo si ritrovò a fissare occhi pieni di rimprovero. Per qualche strana ragione, come sempre quando si trattava di lei, lo prese un’insensata e improvvisa irritazione.
Se qualcuno fosse passato di lì e li avesse sentiti discutere di una cosa tanto sciocca, avrebbe sorriso. Ma loro erano Mark e Kira e non discutevano mai per cose intelligenti.
«Ti avevo avvertita. Non mi hai voluto stare a sentire»
«Potevi almeno ascoltarla»
«L’ho ascoltata»
«Non le hai dato il tempo di dire praticamente niente!»
«Per inteso, nemmeno mi interessava»
Kira emise un’esclamazione indignata. «L’hai ferita!»
«Dovrei tormentarmi per questo? No. Non doveva insistere. Anzi, tu non dovevi insistere»
Kira si premette una mano sul petto. «Adesso è colpa mia?»
«Se mi avessi dato retta fin dall’inizio, invece di ostinarti tanto, ce la saremmo risparmiata. E comunque, se voleva conoscermi poteva venire a parlarmi lei, che bisogno c’era di mandare te?»
«Ah, non capisci proprio un tubo, Lenders»
«Capisco che sono stanco delle tue cazzate»
«Ehi!» lei ebbe uno scatto rabbioso. «Non parlarmi in questo modo!»
«Ti parlo come mi pare, ragazzina!»
«Non puoi trattare male la gente solo perché sei nervoso per una semplice partita!»
Mark emise un suono seccato misto a una risata. «Dio, sei così bambina, Kira. Tu non hai la minima idea di cosa significhino queste partite, per me»
«Lo so, invece. Ho visto quanto ti impegni. Siamo molto più simili di quanto pensi» Lui credeva che il pattinaggio fosse un hobby, per lei?
«Tu non hai mai dovuto faticare per avere niente, quindi non dire che siamo simili, perché non è vero»
Lei si rannicchiò nelle spalle. «Ora sei ingiusto. Anch’io ho i miei problemi»
Mark scosse il capo. «Tu pattini per passione, ma io gioco perché il calcio è la mia vita!» Si batté una mano sul petto, come a farle capire che la sua stessa esistenza dipendesse da quello. «Se non avessi vinto quella borsa di studio non sarei qui a giocare. Avrei dovuto trovarmi un lavoro, rinunciare a studiare e forse anche allo sport, perché mia madre non aveva abbastanza soldi per pagarmi la scuola(2)».
Mark avrebbe voluto mordersi la lingua, ma ormai lo aveva detto. Aveva giurato a sé stesso di non parlarle mai di faccende troppo personali, dubitando della sua possibilità di comprendere.
Kira ne rimase colpita. Non aveva capito che la famiglia di lui vivesse una condizione così delicata. Certo, non facevano una vita agiata, ma non credeva che… Fu tentata di domandargli dove fosse stato suo padre mentre la moglie cresceva quattro figli tra le difficoltà finanziarie, ma si frenò prima di commettere un enorme sbaglio e lo lasciò continuare.
«Vincere mi permetterà di ripagare tutte le persone che hanno creduto in me, altrimenti non sarà servito a niente. Non ho tempo per altro, e non voglio altro. Poi sei spuntata tu, e nella mia vita scolastica è successo un casino dopo l’altro. Se mi becco una sospensione, se mi cacciano, dovrò rinunciare a tutto!»
«Stai di nuovo dando la colpa a me». Ora era Kira a sentirsi ferita. Aveva davvero preso in considerazione che potessero provare ad essere amici dopo i bei pomeriggi trascorsi al negozio di Gary, ma ora… «E comunque, non hai affatto capito. Il pattinaggio non è un divertimento, è l’unica cosa che ho». Le poche amicizie erano legate a quella disciplina. Kira non ne avrebbe avute altrimenti, sarebbe stata sola. Il pattinaggio era qualcosa di così prezioso che nemmeno lei sapeva come spiegarlo.
«Se è davvero così importante, avresti dovuto essere più accorta. A quest’ora ti staresti allenando per la festa dello sport»
Lei ebbe un nuovo fremito. «Vuoi sentirmi dire che mi sono pentita di averti sfidato? Sì, un po’ mi sono pentita, e sì, ho fatto dei casini; ma non sono il tipo che si piange addosso quando commette uno sbaglio»
«Tu non sbagli, Kira, te le cerchi proprio. E porti guai a chiunque»
«E che dovrei fare?»
«Smettere di ronzarmi intorno e trascinarmi ogni volta nelle stupidaggini che ti inventi»
«Non ti ronzo affatto intorno!». Kira lo squadrò quasi con disgusto.
«Ma se mi stai sempre appresso! Da quando ti ho conosciuta non fai altro che trovare pretesti per rendermi l’esistenza impossibile. Prima la biciletta, poi le sfide e adesso questo»
«La bici è un’altra storia. Per quella mi servivi» disse lei, più velocemente di quanto non avrebbe voluto.
L’espressione di Mark non richiese interpretazioni. «Ti servivo
«N-no aspetta… non intendo…lo sai!»
Lui tacque, furibondo.
Kira non mirava ad offenderlo. Forse, inizialmente le era importato solo che lui le ripagasse la bici e lo aveva detestato a morte, ma in seguito…
«Bè, non ti preoccupare» riprese Mark poco dopo, «quando riuscirò a finire di pagartela, e quando la punizione sarà finita, potremo dirci addio». Tremava di rabbia. «Non so nemmeno perché ti ho dato corda in questi mesi. Non me ne importava niente di te»
Quelle parole suscitarono in lei un’ondata di furia che scemò improvvisamente nella delusione più dolorosa. Aveva davvero pensato che quel ragazzo potesse esserle amico?
«Puoi evitare di venire al negozio, sabato prossimo. Per dipingerla non mi servi»
«Perfetto, non verrò»
«E smetti di chiamarmi per nome! Se vuoi farlo, almeno usa l’onorifico!»
Lui ebbe un attimo di smarrimento. «Che c’entra questo?»
«Non lo so. C’entra»
Mark sbuffò. «Come vuoi. Prenderò le distanze»
«Fallo». Kira alzò il mento, sfoderando il tono più menefreghista di cui era capace. «Tanto nemmeno a me importa»
Mark la fissò un momento, poi affondò di nuovo le mani in tasca dei pantaloni, con rabbia, e girò i tacchi per andarsene.
 
 
 
La Toho affrontò la Mambo nell’ultimo dei tre turni preliminari di campionato. Entrambe avevano conquistato solo vittorie fino a quel momento, perciò non cambiò assolutamente nulla quando, alla fine del match, il risultato fu un pareggio. Tutte e due sarebbero passate alla fase a gironi.
A scuola, il giorno dopo la partita, ci fu festa grande: finalmente, dopo quasi dieci anni che la squadra delle medie non passava la fase eliminatoria, la situazione si era sbloccata. I professori sembrarono più buoni e comprensivi, tranne la Amada, ovviamente, sebbene se quel giorno richiamò una 1B fin troppo chiacchierina soltanto due volte in un’ora.
Ma Mark non era soddisfatto.
Kitazume aveva fatto le congratulazioni a tutti, definendosi molto orgoglioso della squadra che aveva messo in piedi in pochi mesi dall’inizio della scuola. L’affiatamento tra i ragazzi era già molto solido, Mark era un eccellente capitano e il gruppo lo seguiva senza batter ciglio. Eppure, il ragazzo avrebbe voluto strappare una vittoria a Julian Ross con un tre a zero al minimo.
Julian era entrato in campo solo verso la fine della partita, giocando i soliti venti minuti. I due capitani si erano scontrati in una serie di attacchi, dribblate e falli che sapevano poco di gioco. Julian era uno dei più grandi rivali di Mark, insieme a Philip Callaghan e, ovviamente, Holly Hutton.
In quei venti minuti, Julian aveva dato sfoggio della sua tecnica impareggiabile, del suo controllo di palla e senso del goal innati. Era un connubio perfetto tra tecnica ed eleganza. Mark si era allenato tutto l’anno per arrivare a superare tutti i rivali, sperando di poter mostrare loro quanto fosse migliorato e cresciuto. Ma confrontandosi con Julian aveva capito che era ben lontano dal raggiungere quell’obiettivo. Avrebbe subito lo stesso smacco affrontando anche Philip e soprattutto Holly?
Per un momento, la sua spavalderia vacillò.
Il sabato successivo alla partita, non si presentò al negozio di Gary. Kira, la faccia scura mascherata da un sorriso forzato, dipinse la sua bici con il solo aiuto di Danny e Ed. Mark si risentì anche con il portiere, considerando quel gesto come una specie di tradimento.
Ed cercò di capire cosa avesse scatenato questa spaccatura tra Mark e Kira. Non credette alla versione ‘non voglio avere ragazze per i piedi’. Quella poteva essere una parte di verità, ma non tutta. Se così fosse stato, Mark avrebbe lasciato perdere Kira Brighton settimane fa. Tra i due esisteva un legame, benché sottile, e le cose stavano pian piano cambiando in positivo; poi, improvvisamente, qualcosa si era spezzato. Una parola di troppo detta in un attimo sbagliato e quel filo sottile aveva ceduto.
«Davvero non vuoi più vederla?»
«Sì, davvero, Ed. Perché fai quella faccia incredula? Credi io senta la sua mancanza?»
In tutta sincerità, Ed lo pensava, ma tale pensiero rimase inespresso. 
Mark si alzò dal suo posto, muovendosi per uscire in corridoio. Attraversandolo, diretto ai bagni dei maschi, intravide Kira fuori dalla sua classe chiacchierare animatamente con le solite due amiche. Milly tacque quando Mark passò loro accanto, arrossendo e fuggendo dentro l’aula. Jem, non si avvide della sua presenza, continuando a leggere un articolo da una qualche rivista di musica. Kira, invece alzò il viso e i suoi occhi incontrarono quelli di lui. Solo un istante, per poi concentrarsi nuovamente su ciò che stava facendo.
«Rileggi da capo, Jem, scusa. Mi sono distratta»
Mark passò oltre.
Nelle settimane successive, lui non fece nulla per impedirle di credere di essersi sbagliata sul suo conto, che forse aveva sempre avuto ragione Jem e non sarebbe mai diventato nulla per lei, se non un estraneo con cui aveva diviso parte dei primi due mesi di scuola media. Per breve tempo ricominciarono i litigi, sottili battute che facevano di Mark un prepotente i cui unici divertimenti erano il calcio e provocarla. Le parlava solo per sfogare la rabbia. Kira, da parte sua, non fece nulla per migliorare la situazione, tanto meno gli permise di essere il suo capro espiatorio. Poi, pian piano, tornarono ad ignorarsi. Quando si incrociavano nei corridoi, lui tirava dritto senza guardarla e lei faceva lo stesso.
Pochissime erano le occasioni di parlarsi, comunque. Kira prendeva ancora il treno per andare a scuola, ma non incrociava più Mark da un pezzo, ormai. Lui arrivava almeno un’ora e mezza prima di lei per allenarsi. Gli ultimi pomeriggi di punizione, ognuno badò al proprio lavoro senza disturbarsi vicendevolmente. Poi, la prima settimana di giugno, il preside comunicò a Mark e Kira la fine della loro punizione, augurandosi che ne avessero tratto giovamento e scherzando sul fatto che ormai dovevano esse talmente esperti da poter aprire una società agricola. La battuta non fece ridere nessuno. I due ragazzi lasciarono l’ufficio del direttore senza scambiarsi una parola.
Mark non mise piede al negozio di Gary per molto tempo. Una volta in cui decise di recarvisi, non trovò più la bici di Kira in fondo al magazzino. Gary gli disse che era venuta a prenderla molti giorni fa. Mark aveva desiderato che il giorno in cui non avesse più dovuto avere a che fare con lei arrivasse presto, ma non aveva calcolato quanto il non averla più intorno rendesse la sua vita un po’ più monotona.
Una mattina, a scuola, il ragazzo fermò Kira a metà di una rampa di scale, buttandole in mano con malagrazia una busta.
«I soldi per la bici» le disse senza guardarla.
Lei li fissò per un momento. «Non servono» disse, restituendogliela.
Mark la fissò a bocca aperta. Dopo tutto quel casino, tutto quel tempo perso dietro a lei…
«Mi avevi detto di esserti già messo a posto con Danny, ricordi?» disse Kira, fissandolo con impassibilità. «Bè, ho fatto la stessa cosa. Gli ho pagato l’attrezzatura di tasca mia. Mia madre non lo sa».
Giugno passò in un lampo. L’esibizione di gruppo del club di pattinaggio aprì la festa dello sport alla Toho School, riscuotendo un enorme successo. Kira, costretta in un angolo a guardare i compagni e rammaricandosi grandemente per non essere in mezzo a loro, ripensò alle parole di Mark. Forse aveva ragione, la colpa di essere stata esclusa era anche un po’ sua. Ma con la conclusione della festa dello sport, anche la sua punizione giunse all’epilogo. Risa Brighton si presentò a scuola un giorno a sua insaputa, chiedendo di parlare con gli allenatori della figlia. Fu così che Kanagawa e Fukushima annunciarono a tutto il team che, all’inizio del secondo trimestre(3), Kira sarebbe tornata ad allenarsi con loro. Freschi di un’esibizione perfetta e molto soddisfatti, i compagni del club ricominciarono a parlarle, ben felici di riaccoglierla.
Arrivò luglio, e con esso la fine del primo trimestre e le vacanze. Il campionato nazionale di calcio giovanile volgeva al termine.
Negli ottavi di finale, la Toho affrontò e batté la Hot Dog dei gemelli James e Jason Derrick, e la Flynet di Philip Callaghan, altre vecchie conoscenza di Mark e Ed. Accedettero ai quarti e alle semifinali senza particolari difficoltà, e il primo di agosto si scontrarono in finale con la New Team di Oliver Hutton. Sfortunatamente, la squadra di Lenders si piazzò seconda.
Nonostante l’amarezza iniziale, tutta la Toho School festeggiò il successo della seconda posizione. La signorina Daisy, della quale Mark era il pupillo, cercò di aiutare Kitazume a consolare la squadra parlando in qualità di presidentessa, assicurando che non avrebbero potuto giocare meglio di così. I ragazzi ringraziarono, chi ancora con gli occhi lucenti di lacrime, chi temendo il giudizio dei compagni di scuola, chi pieno di rimorsi. Ma ringraziarono.
Purtroppo, l’incoraggiamento non sortì l’effetto sperato su Ed Warner, ma soprattutto su Lenders.
Mark si barricò dietro un rabbioso silenzio. Lui e Ed passarono giorni e giorni a cercare di capire dove avessero sbagliato, perché ancora la squadra di Holly risultasse la più forte. Non erano forse migliorati anche loro? Non si erano allenati duramente durante tutto l’anno? Essere battuti per la seconda volta dalla New Team, a un passo dalla vittoria, era un’altra cicatrice sul loro orgoglio di calciatori.
Kira aveva seguito tutte le partite insieme al resto della scuola. Durante i novanta minuti della finale aveva dimenticato di essere ancora arrabbiata con Lenders, pregandolo mentalmente di battere quel nanerottolo dalla rovesciata impossibile di nome Hutton. Era stata proprio una di quelle rovesciate a fregare Warner, regalando alla New Team il goal della vittoria. Ed era un portiere fenomenale, ma quell’Holly da solo era stato in grado di far faticare l’intera squadra della Toho.
Sotto un cielo color piombo che annunciava un temporale estivo, Kira scese dagli spalti e si intrufolò in campo. Sapeva benissimo di non poterlo fare, ma non c’era più nessuno ormai. L’unico era Mark, rimasto a camminare sull’erba, a calciare quella dannata palla che non aveva saputo penetrare la difesa avversaria al momento giusto. A Kira non importò di importunarlo, se desiderava essere lasciato in pace a crogiolarsi nella delusione della sconfitta. Voleva sapere come stava. Voleva aiutarlo.
Lui si accorse della sua presenza quando si voltò per andare a recuperare altri palloni con cui sfogarsi, dopo aver disseminato per tutto il campo quelli a sua disposizione. Si immobilizzò un istante, riprendendo a camminare spedito verso la panchina. Kira era ferma in piedi appena fuori dal perimetro di gioco.
«Ho visto la partita» gli disse quando fu a portata d’orecchio.
«Sì, e allora?» Mark afferrò una cesta di metallo colma di palloni. «Sei venuta a sfottere?»
«No. Sono venuta a dirti che mi dispiace. Per quello che vale». Fissò il suo viso scuro, sconfitto, tormentato.
Mark non la guardò nemmeno per sbaglio. «Non cercare di essermi amica. Hai già chiarito la tua posizione con me. L’amicizia si dimostra, non si sfrutta»
«Ma io…»
Le si fermò accanto, sfiorandola solo con un’occhiata piena di risentimento. «Fai un favore a tutti e due: sparisci»
Mark tornò in campo, posò il cesto a terra e ricominciò a calciare.
Kira gli voltò le spalle e se ne andò.
Quella fu l’ultima volta che si parlarono per tutto il resto della prima media.

 
***** ***** ***** ***** *****
 
Note:
1- Il bento è un contenitore di varie forme, dimensioni e decorazioni, usato in Giappone per accogliere una porzione di cibo preparato in casa o preconfezionato. Nelle scuole giapponesi, gli studenti possono portare il bento da casa o acquistarlo nella mensa scolastica. Può essere portato al lavoro, ed è comune l’uso durante i picnic (vedi la festa dell’Hanami). Per questo motivo, è molto pratico da portare in giro: la scatola del bento è dotata di più reparti in cui dividere le pietanze (alcuni sono termici per mantenerle in caldo) e, come spesso si vede negli anime, viene avvolta in un fazzoletto di stoffa o inserito in borse speciali insieme alle bacchette. Il bento ha anche un valore sentimentale: infatti, spesso le ragazze portano all'innamorato un bento fatto in casa; lo stesso fa la moglie con il marito. Esistono diversi tipi diversi di bento in base alle pietanze con cui è preparato.

2- In Giappone la quasi totalità dei genitori iscrive i figli a scuola private, per il fatto che gli istituti pubblici hanno un livello qualitativo estremamente basso. Si pensa che se uno studente frequenti una buona scuola abbia più possibilità di entrare all’università e ottenere in seguito un buon lavoro. I genitori cercano di dare ai figli l’istruzione migliore possibile, per cui preferiscpno gli istituti privati, dove ovviamente si paga una retta più o meno alta in base alla qualità e alla fama della scuola.

3- Come già detto, dato che la scuola in Giappone comincia in aprile, le vacanze estive - che iniziano a luglio e terminano a settembre - non consistono nella fine dell’anno scolastico come da noi, ma sono un intermezzo di due mesi tra il primo e il secondo trimestre.

 ***** ***** ***** ***** *****
 
Salve ragazze, finalmente riesco ad aggiornare! Questa volta il mio ritardo non è dovuto a particolari impegni, ma al carica batteria del mio portatile che mi è caduto e si è rotto XD Fortunatamente sono riuscita a reperirne un altro piuttosto in fretta, e mi sono rimessa subito al lavoro.
Allora, allora… Come avevo detto, questo è il capitolo della svolta. È da quando ho iniziato a scrivere ‘Haru’ che ho in mente un litigio per concludere la prima fase di storia. Niente di tragico, per carità, ma nemmeno privo di fondamento. 
Diamo pure la colpa a una serie di parole pronunciate in un momento di rabbia, alla lingua senza freno di Kira e al caratteraccio di Mark, e il resto lo avete letto. Poi, ricordiamoci sempre che hanno tredici anni, perciò se pensate che il motivo di tale litigio sia un po’ stupido, di fatto lo è ;) 
 La prossima volta, i nostri eroi saranno in seconda media! 
Tutto ciò che sembra lasciato in sospeso, verrà ripreso. Non vedo l’ora di mostrarvi cosa ho in mente! 
 
Grazie a tutte voi che leggete, commentate e avete aggiunto la storia a qualche sezione.
Un bacio,
Susan <3

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 11. Ripartire da zero ***


11. Ripartire da zero
 
 
 
Il trillo del campanello segnalò la sua presenza agli altri studenti davanti al cancello principale. La bicicletta bianca sfrecciò tra sagome di ragazzi e ragazze pronti ad affrontare un nuovo anno scolastico. Un paio di voci urlarono un saluto e il suo nome. Kira ricambiò alzando un braccio per far capire loro di aver sentito.
«Vai più piano con quella bici!» gridò qualcuno altro.
«Scusate!»
Andare in bici era un po’ come pattinare. Non poteva fare a meno delle sensazioni di libertà, velocità e leggerezza riunite in una sola volta. 
Con un’agilità che la contraddistingueva da sempre, inclinò il mezzo per fermarsi grattando l'asfalto con le gomme, saltando direttamente giù dal sellino senza usare i freni. Sistemò la bici accanto alle altre in una delle rastrelliere, agganciando la catena alla ruota anteriore. Da quella posizione accucciata poté notare una scrostatura nel disegno a fiori lilla dipinto sul telaio. Necessitava di un ritocco. Sarebbe passata al negozio di Gary non appena gli allenamenti glielo avessero permesso.
Era stato un inverno di allenamenti intensivi per il team di pattinaggio artistico. Kira si era distinta durante il torneo interscolastico, eseguendo un programma corto perfetto. Purtroppo, a un passo dalla terza posizione, l’opportunità di salire sul podio era sfumata per una caduta su un doppio lutz (1) nel programma libero, caduta che aveva abbassato il suo punteggio collocandola al quinto posto. Non aveva pianto sulla propria sconfitta ad imitazione di altre pattinatrici, al contrario: questa esperienza l’aveva aiutata ad accrescere la sicurezza in sé stessa, sia come persona che come atleta. A fine torneo non si era riposata, continuando ad allenarsi in pista e in palestra, risoluta a salire ancora più in alto sulla scala che portava alla realizzazione del suo sogno. Confrontandosi con pattinatrici di altre scuole, Kira aveva capito di non poter più pattinare come alle elementari. Nei suoi programmi doveva inserire elementi più difficili, saltare più in alto. Non aveva più dieci anni, ne aveva quasi quattordici. Era ora di cambiare, di diventare un’atleta più matura.
«Ehi, stai più attenta, potevi investire qualcuno!» disse una voce sconosciuta. In realtà non proprio, perché l’aveva udita solo poco prima urlarle quasi la stessa frase.
Kira si voltò. Un ragazzo alto e snello, con una frangia ben curata pettinata sul lato destro della fronte, stava raccogliendo alcuni libri cadutigli di mano al suo passaggio.
Un flash back balenò nella mente della ragazza, sfolgorante come il sole.
Un anno addietro era accaduta la stessa cosa: lei che tagliava la strada a un ragazzo con la bici, lui che imprecava e…
«Sto parlando con te» le disse il ragazzo.
Kira trasalì lievemente. «Cos..? Scusami, ti ho colpito?»
«C’è mancato poco, ma sto bene». Il ragazzo controllò che i libri fossero a posto. Il volume di scienze era quello messo peggio. Nella caduta, la rilegatura aveva ceduto, separando un grosso blocco di pagine dal resto del libro.
«Mi dispiace» si scusò Kira, aiutandolo a recuperare le sue cose.
«Non importa, tanto era questione di tempo prima che si rompesse». Il ragazzo infilò il libro nella cartella già zeppa di quaderni e altri volumi. «Era il libro di mio fratello, ed è piuttosto malmesso. Comunque… non dovresti correre in quel modo. Potresti farti male oltre che farne agli altri»
Kira arrossì leggermente di vergogna. Gli era sfrecciata accanto e aveva addirittura parcheggiato senza rendersi conto di nulla.
«Hai ragione, starò più attenta. Ecco, tieni». Gli porse un raccoglitore e il diario. «Ma quanta roba hai messo in cartella? È solo il primo giorno»
Il ragazzo le rivolse uno sguardo imbarazzato. «Non sono proprio affari tuoi» disse, cercando di non suonare sgarbato.
«Ehm, scusa». Non ci riusciva proprio a stare zitta. «Bè, buon anno scolastico», salutò poi, affrettandosi per la cerimonia di inizio anno.
Non doveva pensare a Mark Lenders, si disse. Era acqua passata, roba vecchia. Quel tipo era stato meglio perderlo che trovarlo, proprio come diceva il proverbio.
«Kira! Kira, siamo qui!» Jem Edogawa sventolò una mano in aria, alzandosi sulle punte dei piedi per sovrastare la folla di studenti ammassati nel cortile. Milly Benson le era accanto. «Sei da sola?»
«Purtroppo sì» annuì Kira, dopo aver salutato le amiche con un abbraccio. «Mia madre non è potuta venire. Sapete, il lavoro». Ci fu amarezza nella sua voce. Per lei era importante dividere con Risa momenti speciali e significativi della sua vita scolastica. Non che la cerimonia d’apertura fosse chissà quale grande evento, però…
Risa non aveva assistito neanche a una delle sue gare scolastiche, mentre Kei aveva fatto di tutto per non perdersi la finale, abbracciando la figlia con orgoglio nonostante la sconfitta.
Kira e le amiche occuparono il posto a loro assegnato, nelle sedie disposte all’aperto in diversi blocchi divisi per classi. Gli alunni di prima media occupavano la prima fila. Osservavano intimoriti il palco sul quale un docente stava sistemando il microfono, dentro cui il preside, col suo sorriso posato e i piccoli occhi a mandorla, salutò e parlò alla scuola pochi minuti dopo.
Al termine della cerimonia, le tre ragazze corsero verso l’aula magna, dove erano state affisse le liste delle nuove classi.(2)
«Oh, no!» si lamentò Milly, scorrendo in fretta gli elenchi. «Sono finita nella sezione E»
«Io dove sono? Non mi vedo» disse Kira allungando il collo oltre le teste degli studenti davanti alla parete.
«Brighton Kira. Eccoti là in alto. Sei ancora nella A»
«Io sono nella B» disse Jem sconsolata. «Accidenti, ci hanno divise»
La folla scemò lentamente, ognuno diretto nelle proprie aule; chi felice di essere con i vecchi amici, chi preoccupato di doversi approcciare con dei perfetti estranei. Kira era tra questi ultimi.
La prospettiva di trovarsi nuovamente davanti una buona fetta di facce sconosciute non era per nulla allettante. Kira non aveva mai capito perché si dovessero rimescolare le classi tutti gli anni, era una cosa che le metteva ansia.
Salutò Jem e Milly, quest’ultima diretta a un piano più su del loro. Arrivata davanti alla sua vecchia classe la travolse l’insicurezza. La 2°A era già gremita. Diversi gruppetti formati da ragazzi che provenivano dalla stessa classe parlavano esclusivamente tra loro; altri cercavano di fare amicizia con gli sconosciuti per non rischiare di restare isolati. Guardandosi attorno per capire se il suo vecchio banco fosse già stato occupato, Kira non vide nessuno che conosceva. Possibile?
Come sarebbe stato senza le sue amiche? Se ne sarebbe fatta delle altre?
«Tutto bene, Brighton?»
Kira si girò in fretta, scorgendo un paio di facce conosciute: Sano e Tadai, due ex compagni di prima media. La loro presenza la rassicurò. Non poteva dire fossero suoi amici, ma almeno non era totalmente sola.
«Sì, grazie, tutto a posto. E voi?»
«Non c’è male» rispose Sano. «Ehi, ehi, hai visto chi abbiamo in classe?»
Il compagno indicò un punto in fondo alla classe. Kira cercò di capire di chi si trattasse, ma la visuale veniva ostruita da alcuni ragazzi fermi in piedi accanto agli ultimi banchi.
«Bè, suppongo lo scoprirò presto» disse poi, affrettandosi a raggiungere la sua posizione prediletta. I posti in fondo erano sempre i più ambiti.
Ma non aveva fatto bene i conti con chi si sarebbe trovata di fronte...
Si fermò davanti al banco che aveva occupato per tutto il primo anno, al quale sedeva niente meno che Mark Lenders.
«Tu che ci fai nella mia classe?»
Lo sguardo rivolto alla finestra, al suono della sua voce Mark si voltò e un sorrisetto sarcastico nacque spontaneo sul suo viso abbronzato. «Chi si rivede. Ciao, svampitella»
Una vena pulsò sulla fronte della ragazza. Detestava quel soprannome. «Quello è il mio posto»
«Non c’è scritto il tuo nome» rispose lui guardandola dritta negli occhi. Tra loro era stata sfida sin dal primo istante e lo era ancora, anche per una sciocchezza simile. «Se vuoi puoi sederti di fianco a me, è libero»
«Non siederei vicino a te nemmeno sotto tortura»
«Fa un po’ tu. I posti sono tutti occupati». Mark evitò il suo sguardo, tornando a guardare fuori.
Kira si prese un momento per fare una panoramica della classe e…dannazione, aveva ragione. Non ebbe altra scelta: posò la cartella sopra il banco accanto a quello di Lenders, sedendo con poca grazia sull’unica sedia ancora a disposizione.
L’imbarazzo si fece strada in lei, accompagnato da una forte consapevolezza: erano più di sette mesi che non si trovava vicino a lui, che non si rivolgevano mezza sillaba neanche per caso. Mark non sembrava provare lo stesso disagio, o magari era solo bravo a nasconderlo.
Provò a studiarlo un istante, accorgendosi immediatamente di alcuni cambiamenti. Benché fosse seduto dava l'impressione di aver acquistato centimetri, le spalle erano più larghe e il petto più ampio. Non aveva mai sbagliato ad affermare che poteva passare per un senpai di terza. I neri capelli ribelli, invece, erano sempre gli stessi, così come l’espressione del viso corrucciata, in qualche modo distaccata da ciò che lo circondava e non considerava degno della sua attenzione. Probabilmente nemmeno lei veniva considerata, ma questo non l’aveva mai fermata.
«Insomma…» esordì incerta. «Come…come stai?»
Lui sollevò lo sguardo, nascondendo la sorpresa. «Bene»
La sua risposta fredda la fece irrigidire da capo a piedi. Kira annuì piano.  «Comunque» riprese risoluta, «il posto vicino alla finestra è sempre stato mio»
Evitando di guardarla Mark scosse il capo, dondolandosi con le gambe posteriori della sedia. «Sembri una bambina piccola»
«Se ti piace guardar fuori ci sono altre due finestre da cui poterlo fare»
«Non mi piace sedermi nei posti davanti. E poi da qui si vede meglio»
«Che cosa?»
«Il campo da calcio»
Kira non credette alle sue orecchie. «Vuoi vedere il campo? Scherzi? Lo vedi tutti i giorni!»
Non poteva essere per quel motivo. Di sicuro, lui aveva voluto il banco accanto alla finestra nell’ultima fila per pensare indisturbato ai fatti suoi, così che gli insegnanti non si accorgessero di nulla.
«Per tua informazione, da qui non si vede solo il campo dove ci alleniamo noi, ma anche quello del liceo». Mark indicò con il pollice la finestra alla sua sinistra. «Potrebbe tornarmi utile per imparare qualcosa in più»
«Ah, giusto». Kira spostò la sua attenzione sul paesaggio esterno: tre rettangoli verdi si stendevano uno accanto all'altro da sinistra a destra.
Aveva una sua logica: la squadra del liceo si allenava a orari leggermente diversi rispetto alle medie, ma non era chiaro come lui avrebbe potuto scorgere i giocatori da lassù.
«Hai capito, ora?»
«Sì, più o meno»
Mark sospirò, facendo vagare gli occhi su di lei. «Non sei diventata più sveglia, vedo. E non ti sono nemmeno cresciute le tette»
Le narici di Kira fremettero e poco mancò che ne uscisse del fumo. Le dolsero i muscoli del collo per la velocità con cui si voltò per fulminarlo. «Io invece vedo che non hanno ancora inventato la cura per far crescere il cervello!».
Lo schiaffo di Kira lo colpì in piena nuca, facendogli male. Mark smise di dondolarsi con la sedia, che tornò al suo posto con un tonfo. Alzò le mani per proteggersi da un secondo attacco…che non arrivò.
Kira incrociò le braccia sul costato in modo che la ‘parte interessata’ non fosse vivibile. «Sei il solito deficiente»
«Ci sei abituata»
«Mio malgrado»
«Tu cercavi di fare conversazione…» si giustificò lui.
«Taci che è meglio». Kira grugnì indispettita, iniziando a tirare fuori cose a caso dalla cartella «E poi io con te non ci parlo»
«Come vuoi».
Scambiandosi uno sguardo in tralice, per un attimo sembrò loro di essere tornati al punto di partenza. Era malinconia quella che sentivano solleticargli lo stomaco? O che altro?
Erano stati a un passo dal costruire un’amicizia - un po’ precaria in verità, ma la volontà c’era stata, soprattutto da parte di Kira. Poi, lei aveva pronunciato parole che su Mark avevano avuto l’effetto di una pugnalata, piombandogli addosso più dolorosamente di quanto avrebbe potuto immaginare. Ad oggi non c’era stata occasione per capire se quelle parole fossero state il riflesso dei reali pensieri di lei, o se la ragazza avesse voluto punirlo per aver ferito una sua amica. Mark avrebbe potuto chiederglielo adesso, ma sarebbe servito a qualcosa dopo tutto quel tempo? Sarebbe servito cercare di risanare la rottura? Non erano nemmeno sicuri di volerlo.
Quando il professor Holland, l'insegnante di matematica, entrò in classe, entrambi assunsero l’atteggiamento più distaccato possibile, ignorandosi per il resto della mattinata.
 
 
Il primo giorno di scuola si svolgevano i provini per esaminare potenziali nuovi membri dei vari club sportivi. In quanto capitano, Mark dovette restare a bordo campo con il mister Kitazume ad osservare i nuovi arrivi.
Negli sguardi impauriti di quei ragazzini di prima non c’era né la determinazione né il sentimento di un vero futuro campione; erano venuti lì solo per divertirsi, non per vera passione.
Kitazume se ne rese conto quanto Mark, perciò, alla fine dei provini, senza troppi giri di parole ma con tatto, annunciò che nessun nuovo giocatore si sarebbe aggiunto alla sua squadra.
«Poverini, un po’ mi dispiace» disse Ed mentre tornavano negli spogliatoi.
«Non è un gioco. Meglio che lo capiscano subito»
«Non essere severo, Mark»
«Sono il capitano» tagliò corto Lenders, come se questo bastasse. In realtà bastava eccome. Guidare la squadra era qualcosa che non aveva mai preso alla leggera. Spesso riprendeva i compagni più duramente di quanto facesse il mister. «Giocare non deve mai essere solo ‘giocare’» terminò, aprendo la porta dello spogliatoio.
«Mi sembra di sentir parlare Kira Brighton» disse Ed. Il paragone fu istintivo.
Mark raggiunse il suo armadietto con le labbra ostinatamente serrate e la faccia scura, aprendolo con un gesto nervoso. Sapeva che Warner frequentava ancora il negozio di biciclette di tanto in tanto, dove Kira andava a trovare Gary e soprattutto Danny, col quale aveva legato parecchio.
«Ci dovrai passare vicino tutto l’intero anno» disse Ed in tono spiccio. «Fattene una ragione»
«Sarà un incubo» rimbeccò Mark togliendosi la maglietta e gettandola nell’armadietto. «Le lezioni non erano ancora cominciate e già lei rompeva le scatole»
«Cerca di vedere il lato buono: potrebbe essere l’occasione per chiarivi»
«Non abbiamo più niente da dirci da un pezzo»
«Mark, tu hai un sacco di cose da dirle» disse Ed con voce stanca.
Il portiere credeva fosse più una questione di vergogna che altro. Mark fingeva che lei fosse ormai un’estranea ma, ogni volta che il nome di Kira saltava fuori per qualche motivo, iniziava a fissare con ostinazione il pavimento e un leggero turbamento accelerava il suo respiro. Quel comportamento tutto lasciava intendere tranne che indifferenza.
«Sai come la penso». Ed sedette su una delle panchette dello spogliatoio, cominciando a togliersi gli scarpini sporchi di terra. «È stata una cretinata, un malinteso. Dovresti ricominciare a parlarci»
«Dovrò parlarle per forza, ma non ho nessuna intenzione di tornare ad essere…». Mark si interruppe, non sapendo come continuare.
Cosa? Essere cosa? Lui per primo aveva sempre sostenuto di non esserle amico. «Non le ho parlato per un anno e mi è andata benissimo così»
«Lei ti manca» affermò serenamente Ed.
«Non mi manca affatto». La sua sentita affermazione risuonò per lo spogliatoio semi vuoto. Tutti gli altri ragazzi erano già a fare la doccia. Mark rimase in piedi di fronte all'armadietto aperto, riflettendo.
Lei non avrebbe dovuto rappresentare una parte importante delle sue giornate, ma c’erano stati giorni difficili, stressanti – a casa, a scuola, agli allenamenti – in cui avrebbe dato qualsiasi cosa pur di sentire la voce di Kira distrarlo con qualche sciocchezza. Gli mancava vederla spuntare all’improvviso, combinare qualche casino come al solito o bisticciare.
Detestò l’idea di dover dare ragione a Ed. D’altra parte, avere un migliore amico comprendeva il rischio di non riuscire più tenersi i propri segreti e rielaborare problemi da una nuova prospettiva.
«Non riesco a capire perché tu ci tenga tanto, Ed»
Il portiere si passò una mano sul viso stanco. Avevano fatto quel discorso centinaia di volte.
«Per me non farebbe differenza se sapessi che davvero non ti importa; ma ti importa, è inutile che continui a negare. Ti piaceva stare con lei come non ti è mai piaciuto stare con nessun’altra ragazza. Era evidente»
«Ti prego, risparmiami la tirata sui sentimenti»
«No, non hai capito» Ed si mosse nervosamente sulla panca. «Non sto insinuando nulla. Semplicemente c’era qualcosa che vi legava e tu rivuoi quel qualcosa. Ho torto?»
Mark finì di levarsi la divisa da calcio, afferrando dall’armadietto la busta con l’occorrente per la doccia e l’asciugamano, rigirandoseli per qualche secondo tra le dita, la fronte aggrottata.
Kira non gli era simpatica, ma nemmeno antipatica. Non avrebbe saputo dire cosa fosse per lui; tutto ciò che sapeva era che la voleva nella sua vita.
Le esatte parole con cui formulò il pensiero non furono propriamente queste ma, in concreto, era ciò che il suo animo solitario chiedeva. Affermare di desiderare una persona nella propria vita era qualcosa di ancora troppo profondo, di cui Mark avrebbe compreso il significato e il valore solo molti anni dopo.
«Sì, bè…non ha più molta importanza, no?»
«Non lo so. Ne ha?» Ed fissò il suo capitano nel silenzio dello spogliatoio. L’unico suono era quello delle voci ovattate dei compagni di squadra al di là della parete del bagno, e il cervello di Mark che lavorava frenetico.
Bastava un sì, ma Warner non si aspettava un’ammissione tanto presto. Il portiere rilasciò un sospiro, abbassando il capo. «Va bene, ci arriverai»
«Non le devo nulla» disse Mark, ancora in cerca di una risposta per Ed. «Non le chiederò scusa per qualcosa che non ho fatto. Non stavolta. È lei che… ah, lascia perdere». Mark richiuse l’armadietto con forza, marciando poi verso la porta e spalancandola con un gesto brusco.
Ed lo guardò sparire, scuotendo il capo.
Adesso che erano compagni di classe non sarebbe stato facile ignorarsi. Probabilmente avrebbero ripreso a litigare se si fossero parlati di nuovo; tuttavia, Ed credeva fosse meglio così piuttosto che continuare a recitare quell’insulsa tragedia greca.
 
 
 
«Ancora non posso credere che tu sia finita in classe con Mark Lenders» rise Jem durante l'ultimo giro di pista prima della fine degli allenamenti. I coach lasciavano loro sempre un quarto d’ora per divertirsi e pattinare liberamente.
«Fai poco la spiritosa, Jem. Sbaglio o qualcuno mi ha detto che tu sei in classe con Warner?»
Jem smise subito di ridere. «Te l’ha detto Milly, vero?»
«No, il senpai Yusuke, che ha sentito te mentre lo dicevi a Milly»
«Ah, quell’impiccione di Yusuke» Jem sbuffò. Non sembrava granché contenta.
«Ed-san è a posto» la tranquillizzò Kira. «Io lo conosco abbastanza»
«Chi va con lo zoppo impara a zoppicare» ribatté Jem. «È pur sempre il migliore amico di Lenders»
«Lenders è un tipo complicato» disse Kira rabbuiandosi, prendendo a fissandosi la punta dei pattini che si muovevano lenti sulla pista. «Ma non sono cattivi, te lo posso assicurare»
Jem non era mai riuscita ad apprezzarli e vedere oltre l'apparenza. Li aveva fin troppo idealizzati, considerandoli come delle sottospecie di teppisti solo perché Ed portava i capelli lunghi e Mark esibiva quell’aria strafottente... Kira detestava i luoghi comuni, dei quali Jem pareva essere un’accanita sostenitrice.
«Come ti senti a stare vicino a lui?»
La domanda dell'amica lasciò Kira molto confusa. Era stata troppo diretta, come un boomerang lanciato a tutta velocità.
«Strana» rispose abbassando ancora il capo. Una ciocca di capelli le ricadde sul viso. «Ho pensato di chiedere a un insegnante di cambiarmi posto»
«E perché non lo hai fatto?»
Kira mosse le spalle come a dire che non lo sapeva. «Va bene anche così»
Una parte di lei sussurrava al suo orecchio che non le dispiaceva poi molto dividere il banco con lui. Quella vocina interiore scavava attraverso l’ostinazione più dura, bisbigliando verità che si sforzava di respingere.
Tu non sei dispiaciuta di averlo in classe…
Non è vero, la sua presenza mi infastidisce.
Solo perché ti ignora. Ma tu sai perché lo fa…
Perché è un cretino?
No, perché con lui sei stata perfida…
Oh, va bene, gli ho detto una cattiveria. È stato un errore, lo ammetto, ma lui…
«Kira-chan, mi ascolti?» la chiamò Jem.
«Eh? Sì, scusa»
«Sai che metà delle ragazze delle medie vorrebbe essere al tuo posto, vero?»
Kira sbatté le palpebre. Come c’erano arrivate a quella parte? Doveva essersi persa un lungo ragionamento mentre vagava tra i propri pensieri.
«Che…che cosa intendi?»
«Bè, dobbiamo essere oneste» sospirò Jem. «Mark Lenders è diventato uno degli eroi della scuola dopo il secondo posto al campionato. La sua bravura è indiscutibile, mi sono ricreduta persino io. E sai come vanno certe cose, no?»
«Avanti, Jem, arriva al sodo. Cosa stai cercando di dirmi?»
«Che sarai oggetto di chiacchiere, mia cara. Tu dividerai il banco con uno dei ragazzi più popolari della Toho». Jem fu tradita da una breve smorfia. «Io non riesco a comprendere come un centinaio di ragazze si siano innamorate di un tipo che due giorni prima nemmeno consideravano, ma suppongo sia l’effetto della fama»
«Pensi che potrei suscitare la gelosia delle sue fans? Oh, per favore…»
«Io ti ho avvertito» concluse Jem alzando le mani, come a dire che da quel momento in avanti non sarebbe stata responsabile di nulla.
Le due ragazze erano rimaste le uniche ancora in pista, tutti gli altri se n’erano già andati verso gli spogliatoi. Erano le quattro meno un quarto quando uscirono dal palazzetto. Dalla seconda media in avanti, gli allenamenti si prolungavano di mezz’ora per tre giorni la settimana.
Kira raggiunse le rastrelliere dove aveva lasciato la sua bici quel mattino e salutò Jem, la quale si incamminò verso la stazione più vicina.
Kira preparò a saltare in sella quando una voce la chiamò. «Ciao, ci si rivede»
Seduta sul sellino, un piede sul pedale e uno ancora a terra, la ragazza si voltò incuriosita. Il tipo alto e snello con la frangetta sulla fronte era fermo alle sue spalle e le sorrideva.
«Ciao» lo salutò con leggera sorpresa.
«Che coincidenza incontrarsi due volte nella stessa giornata e nello stesso posto» disse lui.
«Già. Strano, vero?»
«Si vede che era destino»
«Mh?»
Il ragazzo sorrise. «Niente, niente. Non mi sono presentato: mi chiamo Darren Grant. Piacere»
Allungò la mano verso di lei e Kira non poté fare a meno di osservarla. Una mano bianca e sottile, quasi da ragazza, con unghie ben curate e i polsini di camicia e giacca perfettamente inamidati. Di sicuro, quel tipo non faceva parte di un club sportivo. Doveva essere uno studente modello, impeccabile sia a scuola che in ogni altro aspetto della vita.
«Piacere mio. Mi chiamo Kira Brighton». Decise di presentarsi, se non altro per cortesia.
«Hai una bella bici, Kira Brighton»
«Grazie»
«Torni a casa con quella?»
«Sì, non abito molto lontano»
Lui fece una breve risatina. «Sta attenta a non investire nessuno, mi raccomando»
Kira arrossì davanti all’insinuazione. «Non ho fatto apposta, stamattina»
«Non arrabbiarti. Lo so che non hai fatto apposta». La voce di Darren era calma e leggera, controllata. «Spero di vederti ancora in giro. Ciao»
Lei lo osservò allontanarsi con curiosità. Visto di schiena sembrava ancora più magro. Aveva un’andatura tranquilla ed era un bel ragazzo, anche se per nulla il suo tipo. Ma lei aveva un tipo?
«Stai intralciando il passaggio» disse qualcuno dietro di lei.
A differenza della voce di Darren, questa aveva un tono deciso, forte, stabile.
Kira si voltò con una smorfia rabbiosa sul viso, gli occhi ridotti a due fessure. «Il cancello è spalancato, c’è un sacco di spazio, Lenders»
«Lo dicevo per gli altri, mica per me». Lui le passò accanto colpendola con un pugnetto sulla testa.
«Perché?» chiese lei.
«Perché mi andava. A domani»
Rimase ferma in sella alla bici ancora in momento, guardandolo allontanarsi. Mark camminava con sicurezza, la cartella appoggiata sulle spalle larghe, la giacca slacciata e i capelli al vento.
Jem non capiva, ma Kira credeva di poterlo: comprendere perché lui suscitasse l’interesse femminile di una buona fetta di studentesse. Doveva ammetterlo, in un anno era cresciuto ed era diventato belloccio. E va bene, bello.
Soltanto allora fece vera chiarezza: avrebbe passato un anno accanto a uno dei ragazzi più ammirati della scuola, il ragazzo al quale una delle sue migliori amiche andava dietro; il ragazzo che detestava da quando aveva messo piede su quel terreno; che per intere notti non l’aveva fatta dormire dopo averci litigato, e per il quale provava un sentimento che non poteva definirsi affetto, ma qualcosa di molto più complesso e instabile.
Lo seguì senza volerlo, non stupendosi nel vederlo percorrere la stessa scorciatoia lungo il fiume che prendeva lei. Avrebbe potuto pedalare più veloce e superarlo in un lampo, ma per qualche bizzarra ragione decise di affiancarlo.
Come di consueto, lui si mise a palleggiare per strada, immerso nei suoi pensieri.
«Ti serve qualcosa?» le chiese.
«No»
«Allora perché mi vieni appresso?»
«Sto tornando a casa. Lo sai che passo di qui tutti i giorni nella bella stagione». Kira prendeva il treno solo in inverno, quando iniziava a far troppo freddo e le si paralizzava la faccia intera a contatto con l’aria gelida.
«Lo so. Ti ho notata spesso» disse Mark, maledicendosi per le ultime quattro parole. Per lui fu una debolezza ammettere di averla osservata da lontano. «L’esperienza non ti ha insegnato niente, comunque». Il ragazzo indicò il fiume. «La prima volta che ti ho vista passare di qui in bicicletta ci sei finita dentro»
«Sto sempre attentissima» replicò lei, assumendo una postura perfetta: testa eretta, schiena dritta, sguardo avanti.
«Non distrarti, potresti cadere» la punzecchiò il ragazzo. Fu più forte di lui, non c’era verso.
Kira non rispose e proseguì lentamente la sua pedalata.
Mark iniziò a palleggiarle attorno per indispettirla. Lei sottrasse la propria attenzione dalla strada solo per pochi secondi, guardandolo muoversi – nonostante l’altezza – agile come un gatto.
«Ti stai distraendo, ragazzina»
«Tu lo fai solo per farmi dispetto»
«Kira, se volessi farti un dispetto ti spingerei giù dalla discesa legandoti alla tua dannata bici»
Improvvisamente e senza sapere perché lo trovasse divertente, lei rise. Un accenno improvviso che si spense quasi subito, ma del quale le rimase un’ombra sulle labbra. Avrebbe dovuto arrabbiarsi, e invece l’immagine di una sé stessa urlante che rotolava dalla discesa legata come un salame alla bicicletta, ebbe la meglio sulla sua risolutezza.
«Non ce la faresti ad acchiapparmi»
Mark emise un verso sprezzante. «Cos’è, una nuova sfida?»
«Più o meno»
«Tu sei fissata». Mark si fermò in mezzo alla striscia di asfalto tra il muro del quartiere accanto e il ciglio del declivio erboso. Kira gli rivolse uno sguardo divertito e, incoscientemente, lui diede un calcetto al pallone iniziando a correrle dietro lungo la strada deserta.
Lei lo distanziò, rallentò e sterzò tornando indietro. Voleva giocare con lui, non sfidarlo veramente.
Mark non l’avrebbe mai raggiunta a piedi, ma poteva acchiapparla in un altro modo… Alzò la gamba destra e spedì la palla a pochi metri da Kira con un colpo di media potenza.
Lei emise un urletto spaventato. «Col pallone non vale!»
Approfittando di quel momento di distrazione Mark la raggiunse, afferrando al volo il portapacchi della bici e strattonandolo all’indietro per salirvi.
«Presa»
Kira sentì di perdere il controllo della bicicletta. Gli intimò di scendere ma lui ovviamente non ne volle sapere. Lei mise giù i piedi di scatto per mantenere maggior equilibrio ma il peso del corpo di Mark li spinse sul limitare della breve discesa.
Se la bicicletta avesse potuto parlare avrebbe imprecato a squarcia gola contro quei due disgraziati. Mancò poco che rotolassero giù come sacchi di patate. Mark si staccò al volo e Kira abbandonò il sellino, preferendo lasciarsi cadere con lui sull’erba fresca del pendio. La bici cadde producendo un tonfo e un tintinnio di campanello, scivolando qualche metro più in basso rispetto ai due ragazzi ma senza ribaltarsi e senza danni.
«Tu vuoi proprio male alla mia bici» si lamentò Kira, stesa di schiena sul prato.
Mark rise. «Siamo due deficienti»
Kira scoppiò in una nuova risata. Le loro voci si mescolarono in un suono che echeggiò contro il cielo, rimbalzò sulle acque del fiume e tornò a loro, rendendoli consapevoli di essere di nuovo – e forse per la prima volta davvero – in sintonia.
Ridere. Ridere insieme. Un aspetto tanto semplice quanto meraviglioso. Lo avevano mai fatto, prima?
Rimasero distesi sul terreno per alcuni minuti, placando l’ilarità ma non il sorriso.
«Comunque ti ho presa»
«Solo perché te l’ho permesso»
Mark voltò la testa, ritrovandosi a fissare il profilo di lei da vicino. «Ah sì?»
La guardò annuire, poi voltò di nuovo il capo e rimase sdraiato vicino a lei a fissare il cielo azzurro di aprile.
C’erano molte cose da dire ma nessuno dei due pronunciò una sillaba. Il silenzio che seguì si riempì di quiete, e forse era proprio questa quiete ciò di cui avevano bisogno.
«Mark?»
«Mh?»
«Perché mi chiami per nome?» disse Kira d’un tratto.
«Perché mi va. Ti dà fastidio?»
Kira alzò le spalle. «Non troppo»
«Anche tu mi hai appena chiamato per nome» le fece notare lui.
Fu il turno di Kira di voltarsi e fissare il profilo di Mark, il viso serio e l’espressione impenetrabile. La ragazza si stupì di quanto fosse stato facile e naturale pronunciare il nome di lui. Solo il nome. Forse non avrebbe dovuto.
«Tutti quegli onorifici mi danno a noia» continuò Mark, portando le braccia dietro la nuca. «Perché una persona non può usare il tuo nome e basta?»
«Non hai torto. Ma a me mette un po’ a disagio non usarli. Nessuno mi chiama per nome eccetto i miei genitori»
«Le tue amiche non ti chiamano per nome?»
«Non sempre»
«Ti mette a disagio perché non siamo amici, vero?». Sentendosi osservato, Mark tornò a guardarla. «Se non vuoi non lo farò più»
«No. Non è per quello». Kira si mise a sedere. «Anzi, forse sì. Non lo so. Il fatto è che con te non ci vorrei parlare. Eppure lo faccio»
«Lo so. Non puoi farne a meno». Anche per lui era lo stesso. Era riuscito a evitarlo fino a quel momento, ma quando si trovava con lei c’era qualcosa che…
Ed aveva parlato di un legame.
Kira lo fissò con un misto di confusione e di irritazione. Dando quella risposta, era come se Mark sapesse di essere stato il centro dei suoi pensieri per lunghe settimane. Afferrò una manciata di foglioline dal terreno, lanciandogliele contro.
«Non fare lo sbruffone»
Per proteggersi dall’attacco, Mark rotolò di fianco dandole la schiena. Voltò solo la testa per rivolgerle uno sguardo interrogativo.
Kira alzò il mento, assumendo un’aria strafottente. «Non credere di essermi mancato»
«Chi ha detto niente?» Mark si tirò su a sedere spalla a spalla con lei. «Nemmeno a me sei mancata»
«Per l’appunto»
«Al contrario, sto per rimpiangere i mesi tranquilli trascorsi senza di te. Ma ora che ti avrò accanto ogni giorno sarà un incubo»
Kira giocherellò con i fili d’erba passandovi una mano sopra ripetutamente. «Mi…dispiace per…ciò che ti ho detto quella volta»
Lui non fiatò.
Un piccolo pesce balzò fuori dall’acqua attirando la loro attenzione. Osservarne l’ombra guizzante sotto la superficie limpida fu di comodo per non essere costretti a guardarsi.
«Sono stata perfida» ammise finalmente lei. Non avrebbe voluto essere la prima a scusarsi, ma se avesse atteso ancora a lungo tanto valeva aspettare in eterno. Si disse che doveva fare la persona matura e prendere l’iniziativa. «Ero arrabbiata perché avevi offeso una mia amica. Ma a pensarci bene, la colpa non è stata solo tua. Non pensavo quello che ho detto. Non mi servivi per la bici»
«Sì, ho capito». Mark distolse lo sguardo dall’acqua. Il pesce era scomparso.
Kira era sincera, Lo capì.
«Va bene, dai. Non c’è bisogno». Mark si rimise in piedi in fretta, liquidando le sue parole con un gesto della mano. «Sei stata un po' stronza e dovrei detestarti a morte»
Lei lo guardò dal basso. «Ma non mi detesti»
«Nemmeno tu»
«Già. No». Kira si mise in piedi di fronte a lui. «Ho deciso che non mi va più di fare la sostenuta. So di non avere un bel carattere. So di parlare troppo, a volte; di creare casini e di essere strana. Ma sono fatta così»
«Bè, se è per questo nemmeno io ho un carattere facile, lo riconosco» Mark emise uno sbuffo sprezzante. «Dovremo sopportarci»
Kira non poté credere che proprio lui gliela stesse dando vinta. Pensava avrebbero litigato sul chi avesse ragione o torto, su che lei era una svampita infantile e lui un gorilla senza pelliccia. E invece no.
Lo osservò camminare in direzione della bicicletta, raddrizzarla e appoggiarsi il manubrio quasi l’aspettasse.
«Sembra tutta intera» le disse Mark. «Muoviti, riportala su. Io vado a prendere il pallone»
Kira tentò di non sorridere mentre lo raggiungeva e saltava in sella, aspettando che recuperasse la palla finita da qualche parte in mezzo all’erba.
Risalirono il breve tratto di pendio e lei ricominciò subito a chiacchierare come se nulla fosse mai accaduto.
In quanto a Mark, non ci fu pericolo che sfoderasse un sorriso che fosse uno. Ma dentro di lui una ferita fu sanata.

 
 
***** ***** ***** ***** *****
 
Note:
 
1- Il ‘Lutz’ è uno dei sei salti del pattinaggio artistico, il secondo in ordine di difficoltà. Si esegue pattinando all'indietro sulla gamba sinistra, inclinando il pattino sul filo esterno (piede inclinato in fuori), si compiono due o tre rotazioni in aria e si atterra sempre sul filo esterno ma del piede opposto a quello di partenza. Nella gif un triplo Lutz.

2- Nelle scuole giapponesi si usa rimescolare le classi all’inizio di ogni anno scolastico per permettere maggiore interazione tra gli studenti.
 
***** ***** ***** ***** *****
 
Sono un po’ emozionata perché da questo capitolo inizia una nuova parte della storia, una parte che ci porterà ad approfondire il rapporto tra Mark e Kira come Dio comanda; l’introduzione di nuovi personaggi chiave e situazioni che daranno una vera svolta alla trama. So che avrei potuto accelerare le cose ma io non scrivo di fretta, tutt’altro, per cui mi scuso se in questi primi undici capitoli vi aspettavate qualcosa che non è arrivato.
Comunque! Ciancio alle bande (XD) e state in campana! Tenete d’occhio il ragazzo misterioso che ho solo nominato un paio di volte, e ricordate che tutto quello che era stato sospeso verrà ripreso e approfondito. Quindi occhio anche a Milly.
Purtroppo, il Signore non mi ha dotato di capacità sintetiche, quindi vi è toccato aspettare mesi per un misero momento puccioso tra Mark e Kira. Ecco, aspetterete altri ventordici mesi per il prossimo XD No, sto scherzando, le fluffosità arriveranno e saranno sempre più numerose, anche se far fluffare uno come Mark sarà arduo! Non vorrei uscire dall’ IC.
 
Ringrazio tutti voi per aver letto, recensito e aggiunto la storia a qualche sezione. Vi si ama!!!
Un abbraccio e un bacio grandi dalla vostra affezionata
Susan
 
P.s. Mi scuso per aver risposto molto in ritardo alle recensioni. Sappiate che tengo moltissimo a parlare con voi, siete tutte carinissime.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 12. Complicazioni ***


12. Comlpicazioni
 
 
Darren Grant era un tipo strano, o almeno così pensava Kira. Nelle ultime settimane lo incrociava un po’ troppo spesso per chiamarla coincidenza, anche se il più delle volte lui non faceva assolutamente nulla, se non limitarsi a salutarla o ad accennare un inchino da lontano. Kira non era il tipo da allarmismi ma trovava quel comportamento leggermente inquietante. Potendo scegliere, avrebbe preferito che lui le parlasse piuttosto che fissarla da lontano in silenzio.
Da principio tenne questa enigmatica conoscenza per sé: se l’avesse raccontato alle sue amiche, Milly si sarebbe portata le mani alla bocca con aria terrorizzata e Jem avrebbe iniziato a parlare con sospetto di pedinamenti; poteva immaginare le loro reazioni come fossero state lì di fronte a lei. Meno che mai l’avrebbe confidato a Mark, il quale avrebbe liquidato la faccenda con un ‘non me ne frega niente, peggio per te’, o una frase simile.
Darren non le risultava concretamente fastidioso, anzi non lo era affatto. La ragazza era curiosa di sapere qualcosa in più su di lui, ad esempio quale classe frequentasse, se fosse un senpai o avesse la sua età – lei lo salutava chiamandolo per cognome, in quel modo non sbagliava – di quale club facesse parte… Il suo nome, inoltre, le ricordava qualcosa, ma per quanti sforzi facesse non riusciva a collegarlo a niente. Eppure… Grant… dove lo aveva già sentito?
Un giorno, durante gli allenamenti, cadde in avanti sul ghiaccio dopo aver tentato un salto triplo – con scarso successo – senza riuscire a frenare la caduta con le mani e provocandosi così un vistoso taglio sul mento. La Fukushima la spedì di corsa in infermeria, e fu all’ora che Kira trovò la persona che poteva aiutarla a risolvere il mistero.
«Koike-san, lei che sa tutto…ha mai sentito il nome di Darren Grant?»
La donna smise per un attimo di tamponare la pelle della pattinatrice. «Grant….Grant…» mugugnò, mettendo ancora un po’ di disinfettante sul batuffolo di cotone. «Mi pare ci sia un Grant nella squadra di Hockey»
«No, non è lui» disse Kira, muovendo piano la bocca per non interferire con la medicazione. «Il club di Hockey si allena sull’altra pista nel nostro stesso palaghiaccio. Lo conosco di vista. Il tipo di cui parlo ha i capelli neri corti e una frangetta sul lato destro della fronte»
«Beh, ci sono molti ragazzi alla Toho pettinati in quel modo» osservò Koike con eloquenza. «Di solito sono una buona fisionomista, ma non così buona da ricordare i volti di ogni singolo studente; solo di quelli che passano da me». L’infermiera posò il cotone, controllando la fuoriuscita di sangue. «Stai ferma qui, prendo il cerotto. Fortuna che non devo metterti i punti»
«Oh, è una cosuccia da niente»
«Voi sportivi siete proprio incredibili». Koike si spostò verso l’armadietto dei medicinali, tornando con una garza e un cerotto piuttosto grande. «Vi ammaccate ma non fate una piega»
«Si vede che abbiamo un’alta soglia del dolore» si vantò Kira con un sorriso che si trasformò lentamente in una smorfia. La pelle sul mento tirava.
«Meglio se eviti di ridere per qualche ora»
La pattinatrice annuì.
«Tornando a quel ragazzo…sai se fa parte di qualche squadra sportiva? Hockey escluso»
Kira ripensò al suo aspetto ben curato. «No, non direi. Non ha mai un capello fuori posto e veste impeccabilmente. Uno così non correrebbe il rischio di spettinarsi correndo o di ferirsi cadendo»
«Per aver notato questi particolari, significa che lo conosci bene»
«Non proprio. Però da qualche giorno lo incontro spesso mentre arrivo o esco da scuola. Mi saluta sempre»
Koike notò una punta di apprensione nella voce della paziente. «Questo ti preoccupa?»
«Forse un po’». Kira rimase immobile mentre l’infermiera le aggiustava la garza. «Lei non lo trova strano? Voglio dire, sa esattamente dove trovarmi, quasi mi aspettasse»
Koike-san emise una risata corposa e bonaria. «Cara, fossi in te non starei in ansia. Il ragazzo ti vuole avvicinare, è evidente. Probabilmente è timido e non sa come attaccare bottone, così si fa trovare sempre nello stesso posto per farti capire che vorrebbe fossi tu a cominciare a parlargli»
«Non saprei che dirgli. Non lo conosco»
«Devi conoscere una persona per poterci parlare?»
Kira pensò immediatamente a Mark. Si erano conosciuti due volte e, in entrambi i casi, la bici era stata il collante per dare il via al loro singolare rapporto. Parlare con Mark le veniva facile, invece con quel ragazzo… Poteva tentare, anche se l’idea non la esaltava, ma almeno avrebbe capito cosa voleva da lei e perché sembrava pedinarla. 
Uscì dall’infermeria con il grande cerotto bianco che le copriva tutto il mento e le dava un'aria un po' buffa. Iniziò a correre verso la porta che dal corridoio dell’infermeria dava direttamente sul cortile, spalancandola. Non voleva perdere gli ultimi minuti di allenamento.

«Attenta!»
«Ops!» Kira fece un salto indietro, pronta a scusarsi con chi stava entrando. «Ciao, Mark»
«Non guardi mai dove vai, vero?»
«Sono di fretta. Che ci fai da queste parti?»
«Ah, nulla di grave». Lui indicò la macchia rossa sopra il calzettone bianco, che in seguito abbassò. «Un tackle troppo irruento»
Kira fece una smorfia alla vista del taglio trasversale lungo una decina di centimetri, poco sopra la caviglia sinistra. «Cavolo… Ti fa male?»
La porta alle loro spalle sbatté sui cardini per una frustata d’aria, soffocando leggermente il tono piuttosto preoccupato che usò per domandarlo.
«È successo altre volte e comunque avevo i parastinchi». Mark liquidò la faccenda con un’alzata di spalle. «Tu che hai fatto al mento?»
«Niente. Sono caduta»
«Sembri una col mal di denti»
Kira gonfiò le guance sbuffandogli contro. Si trattenne dal ribattere solo perché la loro amicizia era appena risorta dalle ceneri. Voleva essere buona con lui, per quanto possibile.
«Questa battuta te la restituisco domani, adesso devo finire di allenarmi»
Tra loro aleggiava ancora una sorta di imbarazzo. Durante quei primi giorni di seconda media erano stati molto attenti a non azzuffarsi più del dovuto, quasi a voler testare la loro nuova ‘convivenza’. Kira, in particolare, era divenuta molto più amichevole con lui. Mark non avrebbe saputo dire se lo facesse perché si sentisse attualmente in colpa, tuttavia pensava che provare un po’ di rimorso ancora non le avrebbe fatto male. Così imparava a trattare la gente a pesci in faccia.
A dirla tutta, Mark trovava inutili gli sforzi di lei per evitare i litigi. Sospettava che quelli avrebbero sempre fatto parte del loro rapporto. In fondo era divertente stuzzicarla, e poteva giurare che Kira pensasse lo stesso.
Lui fece un sorrisetto dei suoi prima di salutarla con un gesto della mano, zoppicando leggermente lungo il corridoio. Kira, invece, uscì di corsa dalla porta rimasta aperta e quasi investì Milly Benson.
«Micchan! Scusa». L’afferrò per un braccio per evitare che cadesse dopo lo scontro.
«Nulla, nulla»
Kira la squadrò da capo a piedi. «Non dirmi che ti sei infortunata anche tu!»
Milly sorrise rassicurante. «Oh, no. Il coach Kanagawa mi ha detto di venire a controllare se stavi bene. Ci stavi mettendo molto…»
«Colpa mia: mi sono trattenuta a chiacchierare un attimo con Koike-san» Kira unì i palmi delle mani come in preghiera. «Non lo dire a Kanagawa»
«No, sta tranquilla»
Camminarono a passo spedito verso il palazzetto del ghiaccio, in silenzio. Milly non possedeva la parlantina di Kira e spesso se ne stava ad ascoltarla facendo solo dei cenni con il capo, ma in quel momento erano entrambe assorte nei loro pensieri.
«Ti sei fermata a parlare solo con l’infermiera?» chiese Milly ad un tratto.
Quella domanda a Kira suonò ambigua. «Ehm…sì». Non voleva nominare Mark. Era ancora un tasto dolente per Milly.
«Non mentire» disse quest’ultima.
«Beh, ho incrociato Mark Lenders. Un attimo fa è entrato in infermeria. Sì è fatto un taglio alla gamba»
«Un taglio? Sta bene?» chiese Milly con apprensione.
«Sì, nulla di che»
«Capisco» Milly accennò un sorrisino. «Come ti trovi con lui?»
«Bene» ammise Kira. «Abbiamo fatto pace»
«Oh. Ciò significa che siete tornati a frequentarvi?» Il modo in cui Milly lo disse sembrò quasi un rimprovero, o un’accusa.
«Non ci frequentiamo, siamo solo compagni di banco» puntualizzò Kira. Non si erano più visti fuori dagli orari scolastici, e forse non sarebbe più successo.
«Ero convinta non sopportasse nessuno eccetto i suoi compagni di squadra» continuò Milly. «Però con te va d’accordo». Abbassò lo sguardo verso terra. I codini le ricaddero sui lati del viso nascondendo la sua espressione. «È una cosa abbastanza strana, non trovi?»
«Non saprei. No» Kira si grattò la punta del naso, imbarazzata. Avevano evitato di parlare di Mark per moltissimo tempo. Se ora Milly introduceva l’argomento significava che aveva qualcosa da dirle. Si trovò a disagio a quella prospettiva.
 «Mentirei dicendo che non provo più niente per lui, anche se mi ha rifiutata». Milly rialzò il capo facendo un sorriso affettato. «Ti invidio»
«Micchan…» Kira la prese per un braccio, facendola fermare. «Non devi. Tra me e lui c’è solo amicizia»
Il sorriso scomparve dal viso di Milly. «Perdonami. So che non posso impedirti di parlargli se vuoi farlo, anche se pensavo avessi deciso di ignorarlo». La sua voce tradì nuovamente quel tono di rimprovero ma subito dopo tornò a sorridere.
Kira, invece, si rabbuiò. «Come ti è venuto in mente di rivangare questa storia?»
«Perché vi ho visti parlare, prima. Scusami, non volevo spiarvi». La Benson scattò in avanti senza dare all'altra il tempo di aggiungere altro.
La situazione era tutt'altro che semplice. Non avevano mai litigato per quella faccenda e Milly non aveva veramente intenzione di farlo dopo tutto quel tempo. Ma il pensiero che la sua amica potesse godere della compagnia del ragazzo di cui era innamorata, e ancor più vederli insieme, suscitava in lei sentimenti contrastanti. Kira non poteva e non doveva essere un ostacolo, eppure lo era.
Con gli occhi dell’amore, Milly Benson era stata in grado di guardare oltre i modi bruschi del capitano della Toho, proprio come c’era riuscita Kira con gli occhi dell’amicizia. Ma, con gli occhi della gelosia, Milly aveva scrutato lontano, avvertendo una sorta di pericolo e capendo quel qualcosa di ancora oscuro agli altri: Mark e Kira si piacevano. Questa consapevolezza l’aveva impaurita al punto da incolpare l’amica per il rifiuto subito da Lenders. Era durato un momento e, in seguito, Milly si era scusata con Kira solo per averlo pensato. Da quel giorno in avanti avevano deciso di non parlarne più.
Kira non aveva mai preso sul serio la gelosia che Milly aveva nutrito nei suoi confronti per breve tempo, e che ancora nutriva ad ondate più o meno intense. Ma Kira non sapeva quante volte lei li aveva guardati litigare, beccarsi, deridersi, sfidarsi, desiderando di essere al suo posto anche solo per scambiarsi con Mark una battuta, un saluto. Milly credeva di non essere abbastanza per lui e così pensavano molte delle ammiratrici di Lenders. Il capitano sembrava inavvicinabile, eppure Kira era riuscita a smuovere qualcosa in lui. Anzi, Milly era sicura che l'amica riuscisse a smuovere quel qualcosa ancora adesso, altrimenti non sarebbero tornati ad essere amici come e, forse, più di prima. Kira aveva insistito molto per farle comprendere che tra lei e Lenders non c’era mai stato nessun interesse amoroso, ma Milly non era disposta a crederci fino in fondo. Se lo avesse detestato come spesso aveva affermato in passato, perché cercare di riallacciare i rapporti? No, Kira non lo detestava affatto, e di questo Milly aveva paura; paura che da un giorno all’altro potesse divenire sua rivale. Se fosse accaduto, non era certa di poter escludere una crepa sulla loro amicizia, perché non sapeva se poteva essere disposta a cederle Mark.
 
 
***
 
«Ehi, ragazzi, andate già via?» chiese Eddie Bright vedendo Lenders e Warner uscire dagli spogliatoi con la cartella in mano. «Non vi fermate a fare ancora due tiri con noi?»
«No, Eddie, mi spiace» rispose Warner. «Oggi ho il doposcuola»
«Ah, capisco…Mark?»
«Devo rientrare prima. Ho promesso a mia madre che sarei andato a prendere i miei fratelli a scuola. Scusami, Eddie»
«Va bene, non importa» rispose il numero nove. «Sarà per un altro giorno»
Portiere e centrocampista attraversarono il cortile disseminato di studenti in uscita da altri spogliatoi, altre palestre, laboratori, aule esterne... Il gruppo di teatro sbucò da una porta laterale trasportando tra le braccia pesanti stoffe colorate, tagliando la strada ai due calciatori.
Mark sbuffò quando due ragazze si voltarono a indicarlo. Udì Ed emettere una risatina. «Dì un po'...» disse Mark rivolto all'amico, ignorando le due ragazze. «Sei sempre stato il primo della classe. Perché i tuoi insistono che tu vada al doposcuola?»
«Sono solo due giorni a settimana» rispose Ed, «e se non mi porta via tempo per gli allenamenti, a me va bene»
Ed era sempre stato bravo a scuola e i suoi voti non erano mutati una volta approdato alla Toho. Lo scorso anno era partito in sordina, per poi scalare tranquillamente la graduatoria dei migliori studenti fino al secondo posto. Persino la Amada si era complimentata con lui e aveva quasi sorriso…quasi. Era bravo, oltre perché si impegnava, semplicemente perché gli veniva facile studiare.
«Non andrei se i miei genitori non insistessero tanto» continuò il portiere, «ma sai, com’è»
«Sì, credo di saperlo» rispose Mark, benché sua madre non avesse mai insistito perché lui portasse a casa tutti cento. Sarebbe stata contenta di qualcosa in più di una sufficienza, ma lei sapeva qual era la sua priorità, e non si trattava certamente dello studio.
«Tuo padre è sempre dell’idea di farti tornare a praticare il karate?» proseguì Mark con aria molto seria.
«Mmm…» Ed fece un lungo sospiro. «Non me ne ha più parlato, per cui immagino si sia rassegnato all’evidenza che ho scelto il calcio». Appoggiò una mano sulla spalla di Mark. «Tranquillo, capitano, non ti abbandonerò»
«Questo lo so» disse il numero dieci. Sì, lo sapeva, come sapeva che, da principio, il padre di Ed non aveva apprezzato la scelta sportiva del figlio minore.
Essendo nato in una famiglia tradizionalista, il signor Warner si aspettava che i suoi figli impugnassero le redini della scuola di karate proprio come aveva fatto lui, che a sua volta aveva preso il posto di suo padre nella gestione. Il loro dojo vantava una lunga linea di successione amministrativa in seno alla famiglia.
Era merito delle arti marziali apprese fin dalla tenera età se Ed riusciva a compiere quelle parate acrobatiche divenute il suo segno distintivo. Amava il karate, Ed, ma una volta provato il calcio se n’era letteralmente innamorato e non aveva più voluto fare altro. La madre lo aveva appoggiato, ma il padre e il fratello maggiore si opponevano ancora all’idea che vi rinunciasse definitivamente.
«Ehi, Mark!» Kira arrivò di corsa alle spalle dei due, sorridendo nel vedere Warner accompagnarlo.
«Buon pomeriggio, Kira-san» la salutò lui con un cenno non troppo profondo della testa e del busto. Vi era maggior confidenza fra loro, ma non tanta da sottrarsi ad un inchino.
«Ciao, Ed-kun. Tutto bene?»
«Sì, ti ringrazio. Ti sei fatta male agli allenamenti?»
Kira fece una breve risata, indicando il cerotto sul mento. «Non sono stata l’unica. Oggi è stata la giornata dei capitomboli, a quanto pare: anche Jem e altri due miei compagni sono fini in infermeria»
«In effetti mi chiedevo dove fosse. Di solito, tu e la Edogawa state sempre insieme»
«Tranquillo, si è solo sbucciata un ginocchio»
«Perché sei così preoccupato, Ed?» chiese Mark in tono sospettoso.
Il portiere si grattò la nuca nervosamente. «È una mia compagna di classe e mi sembrava giusto chiedere»
«Mmm…va beh. Non trattenerlo oltre, Kira, deve andare al doposcuola» disse Mark in tono sbrigativo.
«Oh, scusami Ed-kun» fece lei. «Magari ci vediamo un sabato pomeriggio da Gary-kun, che ne dici?»
«Mi piacerebbe, è tanto che non lo facciamo», Ed stava per aggiungere qualcos’altro, quando una voce lo interruppe.
«Ciao, Brighton»
I due calciatori e la pattinatrice si voltarono nello stesso istante.
Fu un attimo. Gli sguardi di Mark Lenders e Darren Grant si incrociarono. I volti di entrambi esibirono la medesima espressione: sospetto. E antipatia.
«Ciao, Grant» salutò lei, titubante. Accidenti, aveva sperato di evitarlo, quel giorno.
Darren le sorrise, poi spostò l’attenzione sul ragazzo più vicino a lei.
Mark ricambiò lo sguardo compassato dell’altro, sentendosi sotto esame, valutato. Passarono lunghi istanti, ma quel tipo rimaneva immobile a scrutare lui e Warner senza il minimo disagio.
«Salve» disse finalmente Darren, rompendo il breve silenzio carico di ostilità con un inchino composto e perfetto.
Ed ripeté educatamente il saluto. Mark, al contrario, non rispose né ricambiò l’inchino di Grant. Una qualunque reazione diversa dall'indifferenza sarebbe parsa una debolezza, perciò rimase immobile, le mani in tasca.
«È un tuo amico, Kira?» chiese.
«Non proprio». Lei si trovò in difficoltà. Di fatto non lo era, ma preferì optare per una risposta più neutra. «Ci incontriamo spesso all’uscita da scuola»
«In verità ci conosciamo a malapena» ammise Darren con un sorriso pacato.
«Se non la conosci, non dovresti parlare con tanta confidenza». Il tono di Mark andò oltre l’avvertimento. Chi era quel damerino sbucato dal nulla, e cosa voleva dalla sua amica?
«Non era mia intenzione mancare di rispetto». Darren spostò lo sguardo sulla ragazza. «Mi scuso se ti ho dato fastidio»
«M-ma no… Mark, non esagerare». Kira ebbe un fremito d’incertezza. Avrebbe voluto dire a Grant che sì, forse si prendeva un po’ troppa confidenza per essere solo un conoscente. E se voleva qualcosa da lei, che glielo dicesse! Oh, quanto avrebbe desiderato mandare al diavolo le buone maniere, per una volta! Ma non lo fece, si limitò a negare, così che il sostegno di Mark risultò nullo e privo di valore.
Gli occhi neri e sottili di Darren vagarono nuovamente su Lenders e Warner, continuando a sfoderare un sorriso contro i loro sguardi diffidenti. «Sarebbe educato presentarsi, ma non c’è bisogno che lo facciate, in fondo; so perfettamente chi siete»
«Io però non so chi sei tu» sbottò Mark. Con che diritto rivendicava una presentazione quando nemmeno lui l’aveva fatto?
Come rendendosene conto a sua volta, Darren fece un altro inchino. «Il mio nome è Darren Grant. Sono il presidente del comitato organizzativo delle medie. E tu sei Mark Lenders: indiscusso centravanti nonché capitano della squadra di calcio; e tu Ed Warner: portiere dalle doti impareggiabili, e secondo nella classifica dei migliori studenti. Appena dopo di me»
Il portiere avvertì disagio. Quel Grant aveva un modo di fissare le persone che metteva soggezione. «Mi ricordo di te» disse Ed, rammentando all’improvviso. «Ci siamo visti nell’ufficio della Amada lo scorso febbraio, quando ha convocato i migliori dieci alla fine dell’anno»
«Esatto. Credo sia stata l’unica volta che ci siamo parlati, eccetto oggi». Dietro la postura altera dello studente modello era intravisibile una sottile punta d’acredine. «Beh, non posso trattenermi oltre. Ho il doposcuola». Un altro inchino per Mark e Ed, un altro sorriso solo per Kira. «Ero intenzionato a chiederti una cosa quest’oggi ma, visto che sei in compagnia, aspetterò un altro momento. Arrivederci».
Darren si allontanò lentamente, accarezzando la strada con passo misurato.
«Mette i brividi» fu il commento di Ed.
«Lo penso anch’io» disse Kira. «È così perfetto da sembrare quasi finto». Già, era proprio quello: il suo modo di parlare, di muoversi, di sorridere… tutto studiato nei minimi dettagli, come un attore su un palcoscenico chiamato scuola.
«Oh cavolo, io devo andare!» esclamò Ed all’improvviso, congedando in fretta e furia i due amici e attraversando lo spiazzo anteriore del cortile con grandi falcate.
Kira e Mark si incamminarono fianco a fianco, in silenzio, lei trasportando la sua bici a mano lungo la strada. Molto presto, il cicaleccio degli studenti divenne un brusio lontano, sostituito gradualmente dallo scrosciare del canale e dal ronzio di qualche insetto. Un’ape a caccia di polline passò davanti al viso di Kira, che l’allontanò con una mano.
«Ecco dove avevo già sentito il nome Grant» rifletté la ragazza ad alta voce, «lo avrò sicuramente letto sui tabelloni delle classifiche scolastiche»
«È un idiota» disse Mark sbuffando.
«Non direi...»
«Si può sapere che cazzo aveva da fissare?»
«Non dire le parolacce!» lo rimproverò Kira, tirandogli un pugno su una spalla che lasciò il ragazzo impassibile.
«Non fare la finta scandalizzata. Come se tu non le dicessi»
«Io non le dico mai» affermò lei con aria fiera. «È un tipo veramente strano» disse poi, tornando seria.
«Ma lo conoscevi?»
Lei scosse il capo. «No, per niente. Ha iniziato a salutarmi e io ricambiavo per gentilezza. Poi ha cominciato a fermarmi sempre più spesso, tranne quando ero con le amiche; in quel caso mi faceva solo un cenno da lontano»
«Mmm»
«Trovi sia un comportamento preoccupante?» chiese Kira, ansiosa. «Perché io sì»
«Dipende» Mark si inumidì le labbra. «Di cosa parlate?»
«Di niente, in verità. Ogni tanto mi chiede qualcosa riguardo la scuola, ma sono per lo più domande sparse, di convenienza»
«Ti infastidisce?»
Il sì fu sulle labbra di Kira, ma riconsiderando la situazione optò per il no. «Non fa nulla di male, però mi urta il fatto di essere tampinata senza che mi dica mai nulla. Se capissi cosa vuole da me, non mi darebbe i brividi». Staccò una mano dalla bici e prese a giocherellare nervosamente con il fiocco della divisa. «Non mi fido della gente dagli atteggiamenti ambigui. A me piacciono le persone trasparenti»
Mark accennò un sorrisetto. «Io sarei trasparente?». Fu bizzarro sentirle affermare certe cose, dal momento che lui era tutto fuorché quello.
«Ho detto che mi piacciono le persone trasparenti. Tu non sei una persona. Sei uno scimmione»
«Cretina...»
Lei ridacchiò. Anche se non era ancora riuscita a capire tutto di Mark, pur coi suoi modi bruschi e non sempre piacevoli, lo trovava genuino e questo lo apprezzava. Ma non si sarebbe mai azzardata a dirglielo.
«Da quanto tempo va avanti questa cosa?»
«Da quando è iniziata la scuola»
Il viso di lui si rabbuiò. «Tutti i giorni?»
«Ehm…sì. Quasi». Anche lei tornò seria.
«Quasi o tutti?»
Kira alzò gli occhi al cielo. «Come sei fiscale… Quasi tutti»
«Ho capito». Mark si fermò al bivio che dava sul viale alberato e una strada leggermente in salita. Non era il caso di trarre conclusioni che al momento avrebbero dato solo preoccupazioni senza possibilità di risposta.
«Ora devo andare, altrimenti perdo il treno. Senti…» Le si avvicinò di un passo. «Se quel tipo dovesse iniziare a infastidirti sul serio, dimmelo, d’accordo?»
La richiesta aleggiò nell’aria per parecchi secondi prima che Kira dicesse un «Okay» striminzito. «Non ti devi preoccupare» aggiunse, prendendo la distanza di quel passo con cui lui si era accostato.
«Non sono preoccupato. Ma smetti di tormentare quel povero fiocco, o lo sarò»
La ragazza lasciò immediatamente la stoffa rossa. Si era accorto della sua inquietudine.
Kira era fin troppo trasparente a volte, o forse era lui che riusciva a capirla.
Mark continuò a guardarla in silenzio, capendo che stava per dire qualcos'altro.
«Mark...». Kira pronunciò il suo nome con leggera incertezza. Un formicolio le solleticò lo stomaco, propagandosi dalle parti della schiena. «Puoi fare la strada con me anche domani?»
Vergogna. Quella sensazione era pura e semplice vergogna.
 
 
***
 
Milly cercava con tutta se stessa di essere quella di sempre. Si sforzava di sorridere, e ancor più reprimere i sentimenti di antagonismo nati in lei dopo aver sentito in giro che Kira era uscita da con Mark Lenders. Poteva non significare nulla, non era detto che lui l'avesse per forza accompagnata a casa. Forse erano solo usciti dal cancello insieme e poi ognuno per la sua strada.
Milly era consapevole di non poter rivendicare nulla come suo: Mark non aveva mai neppure contemplato l’idea di impegnarsi con qualcuna, tanto meno con lei. Il punto era che, se si fosse trattato di un’altra ragazza, avrebbe potuto sopportarlo, ma non se a stargli vicino era una sua amica. Probabilmente avrebbe dovuto essere il contrario: di Kira si sarebbe dovuta fidare, poiché una persona a lei affezionata non avrebbe mai fatto nulla per farla soffrire; ed era altrettanto sbagliato incolparla per quelle voci che circolavano da un giorno soltanto.
Chi avesse effettivamente visto Mark e Kira insieme non era dato sapere. Milly sospettava di almeno una delle tre fondatrici del fan club della squadra di calcio, nonché sue nuove compagne di classe. Che a quelle tre sfuggisse qualcosa sui giocatori era praticamente impossibile. Conoscevano tutto di tutti in ogni minimo particolare, quasi avessero piazzato delle cimici addosso ai ragazzi. Non ci si sarebbe stupiti se avessero saputo anche quante volte andavano al bagno…
«Ieri l’ha accompagnata di nuovo a casa, vi dico»
«Ma, no, si sono fermati all’angolo»
«Lei dove abita, lo sapete?»
«E chi è, soprattutto!»
«Ma sì, quella che lo ha sfidato numerose volte. Credo faccia pallavolo, è piuttosto alta...»
«No, è del club di pattinaggio artistico. L’anno scorso è arrivata quinta al torneo scolastico»
«Beh, ma se anche lui l’avesse accompagnata che ci sarebbe di strano? È stato gentile»
«Oh, ma dai! Non accompagni a casa una ragazza per gentilezza...»
Le congetture delle tre ragazze continuarono per tutta la mattinata, proprio alle spalle di Milly. Stanca di ascoltarle, la Benson si alzò dal banco e andò a sgranchirsi le gambe fuori dalla classe. Doveva ripassare storia per la prossima lezione, ma non riusciva a concentrarsi con i pettegolezzi di quelle tre nelle orecchie. Si affacciò a una delle grandi finestre del corridoio, quando un ragazzo le si avvicinò.
«Un penny per i tuoi pensieri, Milly-san»
«Oh! Ciao, Grant»
Gli occhi sottili di Darren Grant scrutarono attentamente la ragazza con i codini. «Qualcosa non va?»
Milly annuì una volta, sconsolata.
«Se hai bisogno, non farti scrupoli»
«È molto carino da parte tua» sorrise Milly.
«Sei la mia compagna di banco»
Lui era un ragazzo gentile, il più gentile della loro classe, e il più intelligente. Si conoscevano da poco ma avevano in comune molte cose, primo fra tutti l’amore per lo studio.
«In effetti avrei bisogno di qualcuno che mi ascoltasse»
«Sono un bravo ascoltatore». Darren si appoggiò al davanzale con la parte bassa della schiena, concentrando tutta la sua attenzione su di lei.
«Mi piace un ragazzo, ma io non piaccio a lui». Milly provò molta vergogna nel confessare i suoi problemi di cuore ad un maschio, per questo distolse lo sguardo parlando. «Non è un tipo dal carattere docile, ma non è cattivo. Sono sicura che se mi desse una possibilità potrei dimostrargli quanto tengo a lui, dargli una prova dei miei sentimenti. Il vero problema è che sono convinta che a lui piaccia una delle mie migliori amiche»
«Capisco…» Darren parlò a sua volta senza guardarla, per non metterla in ulteriore difficoltà. «E a lei piace lui?»
«Lei ha sempre negato. Ha anche tentato di aiutarmi a conquistarlo, una volta, ma hanno finito col litigare per una serie di motivi e io… io ero contenta». Milly strinse il davanzale con tutte e due le mani. «Quest’anno sono finiti in classe insieme e sono tornati amici. Avrei preferito che si detestassero». Non avrebbe voluto pensarlo, ma lo pensava. Gli occhi le si inumidirono.
«Non fare così» disse Darren, posandole le mani sulle spalle in un gesto affettuoso. «Ne hai parlato apertamente con la tua amica?»
Milly rialzò il capo. «Sì, ma non so come gestire la cosa. Mi sento sbagliata per la gelosia che provo nei confronti di Kira, ma vederli insieme mi fa male. Non posso nemmeno confidarmi con l’altra mia migliore amica: a Jem non piacerebbe quello che penso, e poi sono molto legate; Kira lo saprebbe e mi odierebbe. L’unica cosa che posso fare è starmene in un angolo in silenzio. Tanto, non ho speranze»
Darren le tolse le mani dalle spalle. «Non dire così. Se la tua amica non prova nulla per questo ragazzo, niente ti impedisce di farti avanti»
«Ci ho già provato, te l'ho detto»
«Ritenta. Quel tipo doveva essere cieco per non accorgersi di te»
Milly arrossì vistosamente. Nessuno le aveva mai detto una frase così esplicita.
«Lui ha un nome?» domandò poi Darren.
«Lui è Mark Lenders, il capitano della…»
«Ah, sì…» Grant abbandonò il tono cordiale. «Sì, so chi è. Ma se lui è Lenders, lei deve essere una certa Kira Brighton»
Milly lo fissò con stupore. «Conosci Kira?»
«La vedo tutti i giorni al cancello. Ci siamo presentati. L’ho notata, sai, è piuttosto carina»
Milly arrossì. «Per caso, lei ti interessa?» «Mi piacerebbe avvicinarla ma non è quasi mai sola. Anzi, credo di averle messo paura continuando a pedinarla». Darren sorrise per le proprie parole, ignaro della bomba che aveva appena innescato.
Le labbra di Milly tremarono leggermente. Kira usciva spesso accompagnata da Jem, ma poteva essere che Grant l’avesse vista anche con…
«Tu…tu li hai visti insieme?»
La risposta fu prima nello sguardo che nelle parole di Darren. «Per la verità, sì. Ieri li ho visti insieme. Non so se fosse la prima volta»
Qualsiasi altra parola sarebbe stata superflua. Milly provò un senso di smarrimento al pensiero che Kira le avesse mentito. Continuava a intensificare le sue negazioni, assicurandola che tra lei e Mark non vi fosse niente, ma era evidente che le cose non stavano così.
«Se fosse vero, come dovrei comportarmi con lei?» continuò Milly sforzandosi di non piangere. «Se un tuo amico iniziasse a frequentare la ragazza che ti piace, che faresti al posto mio?»
Darren irrigidì il viso e tutto il corpo. «Gli direi di farsi da parte, se tiene alla mia amicizia»
«Non potrei mai dire a Kira-chan una cosa del genere!»
Darren sciolse i nervi. «Quasi certamente non lo direi davvero, lo penserei soltanto. Certe volte, però, non si dovrebbe rinunciare a qualcosa per riguardo a una persona che per te non ha premura». La mano del ragazzo si chiuse di nuovo sulla spalla di Milly. «Però sono sicuro che non è il tuo caso. Perché non provi a fare chiarezza? Aprirsi con un’amica è sempre la cosa migliore. Prova di nuovo a parlare e falle capire quanto ci stai male. Non nasconderle ciò che provi. Sono sicuro che vi capirete e risolverete la questione».
Le parole di Grant l’aiutarono a capire cosa doveva fare.
Ogni volta che Milly aveva chiesto a Kira di spiegarle perché lei e Lenders avessero litigato, la Brighton le aveva risposto senza mezzi termini quanto lui fosse rozzo e antipatico, e che di ragazzi al mondo ce n’erano altre migliaia, affermando che anche lei, Milly, non aveva perso nulla. Avevano anche riso insieme quando la Benson si era convinta dell'infondatezza delle proprie gelosie. Poi, però, Kira si tradiva con affermazioni troppo forti, quasi a mascherare l’incomoda sensazione di mancanza che l’assenza di Mark aveva suscitato in lei. Milly lo sapeva ma non aveva speso una parola per consolarla. Non aveva avuto riguardo della sua amica, ma nemmeno Kira ne aveva avuto per lei quando era tornata a frequentare Mark come nulla fosse; come se non le importasse approcciarsi con il ragazzo che aveva respinto e umiliato lei, Milly, una delle sue migliori amiche. Kira era stata insensibile.
Ciò che la Benson decise di fare ora fu una battaglia contro l’affetto che provava per lei, ma quando all’ora di pranzo si arrestò sulla scala che portava dal secondo al terzo piano, e guardò in basso udendo le voci dell’amica e di Lenders levarsi al di sopra delle altre, provò un moto di fastidio. Stavano bisticciando per qualcosa ma non era un vero e proprio litigio – non lo era mai – soltanto quel giocare a prendersi in giro a cui ormai tutti i loro amici avevano fatto l’abitudine. Qualcuno lo trovava divertente, come Ed Warner; qualcuno non riusciva a capire come due persone potessero andare d’accordo nonostante quella maniera di approcciarsi, come Jem. Milly lo aveva trovato buffo per un certo periodo, ma in quel momento detestò tutto di loro.
«Kira-chan, ti posso parlare?»
Kira si voltò e fece un gran sorriso vedendo Milly a metà della scala del terzo piano. Le mancava avere le sue amiche nella stessa classe.
«Ciao, Micchan! Vieni a pranzare con me e Jem, oggi?»
«Non posso, ho già un impegno» mentì la Benson, sperando di essere convincente. Evidentemente fu così, perché Kira assunse un tono dispiaciuto.
«Che peccato…non ci vediamo mai»
«Ci vediamo tutti i giorni al club di pattinaggio» fu la laconica risposta di Milly.
«Sì, ma non è la stessa cosa. Mi manchi» Kira l’abbracciò di slancio. L'altra ricambiò l’abbraccio per metà. «Cosa c’è, Micchan? Sembri preoccupata»
Le due ragazze rimasero a fissarsi per qualche istante, ferme sui gradini, mentre gli studenti scendevano per pranzare. La primavera era calda come era stata quella dell'anno precedente e invogliava a godersi l’intervallo del pomeriggio fuori in cortile. Ma a Kira sembrò che il sole venisse offuscato da nubi temporalesche.
«Milly?»
«Devo chiederti una cosa. Una cosa molto importante»
«Certo, dimmi pure» Kira salì un gradino, prendendole una mano e sorridendole. «Sai che per le mie amiche ci sono sempre»
Il sorriso di lei fece tremare Milly di rabbia.
Bugiarda.
«Io… io non voglio più che tu rivolga la parola a Mark Lenders»
Per un attimo, Kira non sembrò capire di cosa stesse parlando. «Che sciocchezza è questa?»
«Non è una sciocchezza, per me»
Kira smise di sorridere, aggrottando la fronte. Non era da Milly parlare in quel modo.
«Nella mia classe, alcune ragazze hanno detto di averti vista uscire da scuola insieme a lui»
Kira prese un profondo respiro, lasciando la mano dell’altra. Jem lo aveva detto che sarebbero girate chiacchiere sul suo conto.
«Sì, Mark mi ha accompagnata a casa. Gliel’ho chiesto io» ammise senza sensi di colpa, senza immaginare quanto l’affermazione potesse smuovere ancor più dubbi nell’altra.
«Se tenessi alla nostra amicizia, non continueresti a giocare con Lenders alle mie spalle» l’accusò Milly, i pungi serrati sulle pieghe della gonna.
«Santo cielo, Micchan, slegati dal dito questa ossessione e smetti di essere gelosa! Tra me e Mark non c’è niente di niente!». Kira iniziava a stancarsi di ripetere le stesse cose e rivivere la stessa scena.
«Oh, allora tu gli dici di fare una cosa e lui la fa senza replicare, vero? Solo perché sei tu a dirglielo!»
«No, mi ha semplicemente fatto un favore!»
«Tu ti disinteressi dei me e dei miei sentimenti, Kira-chan. Anzi, inizio a pensare che tu lo faccia apposta»
«Fare cosa?»
«Indispettirmi con il tuo comportamento». La voce di Milly tremò. «A te non importa se io sono ancora innamorata di lui»
«Certo che mi importa, e mi dispiace che tu stia soffrendo, ma io cosa… come dovrei comportarmi?! Non posso ricominciare ad ignorarlo!» Kira non voleva. Non più. Non dopo che erano riusciti a dimenticare quella brutta litigata.
«Allora non sei mia amica»
Il battito di Kira accelerò, furioso. «Non puoi chiedermi di barattare la tua amicizia con la sua!»
«Mi dispiace, ma devi decidere. Se continuerai a parlargli, sarò io a non rivolgerti più la parola»
Kira si pietrificò, tenendo le pupille fisse sulla figura di Milly. Non comprese il dilemma. Non comprese nulla, ferita da calunnie del tutto soggettive. Chiuse gli occhi e li riaprì, trovando una dolorosa conferma di quell’assurdità nello sguardo ostile di Milly.
 
 
Non si parlarono durante le ore del club, e Kira fece di tutto per non cedere alle insistenze di Jem, la quale, conoscendo bene entrambe le amiche, intuì subito che qualcosa non andava. Ma Kira era brava a mascherare ciò che la impensieriva. Usava la stessa tattica da sempre per non far arrabbiare mamma. Il più delle volte funzionava. Non era pronta a parlarne con Jem, più per paura che quest’ultima prendesse le parti di Milly e l’appoggiasse in quella patetica battaglia a suon di gelosie inesistenti. Sì, proprio patetica.
Promise a Jem che ne avrebbero parlato più tardi al telefono, uscendo dal palaghiaccio nel modo più disinvolto possibile. Di Milly non v’era già più traccia: doveva essersi lavata e cambiata in fretta e furia per non incontrarla. Meglio così, pensò Kira, perché se le fosse ricapitata davanti ci avrebbe litigato.
Trascinandosi verso il cancello in uno stato di malumore e agitazione, camminò a capo chino tenendo la cartella con due mani, senza avvedersi di chi le passasse accanto. Si fermò a pochi metri dall’uscita, rialzando la testa e voltandosi rapida.
Mark la fissava perplesso e un po’ scocciato appoggiato alle rastrelliere delle biciclette, le braccia conserte. «Mi chiedevo quando ti saresti ricordata di me»
«Scusa, ero sovrappensiero». Kira tornò sui suoi passi.
«Se hai cambiato idea e oggi vuoi tornare da sola, basta che lo dici. Solo che…» lui posò una mano sul manubrio della bici bianca, «non credo tu voglia lasciarla qui»
Kira si grattò una guancia. «Ehm…no, infatti»
«Mi domando dove hai la testa»
«Uffa, non mi scocciare». Kira sganciò la catena e la ripose nel cestino di vimini, trasportando la bicicletta a mano per tenere il passo con Mark. Lui le camminò a fianco in silenzio.
«Ho avuto una discussione con un’amica» spiegò Kira, e li si fermò. Non aveva intenzione di raccontare proprio a lui perché si sentiva giù. Santo cielo, se Milly li avesse visti tornare insieme…
«Ti deprimi sempre così quando discuti con le amiche?» chiese Mark. «Hai una faccia…»
«No, è che…». La pattinatrice si arrestò un istante. Darren Grant la fissava da lontano. Le sorrise facendo un cenno con la mano al quale lei rispose, titubante. «Uh, anche oggi l’ho scampata»
«Credo abbia paura di me» disse Mark, voltandosi una volta per guardarlo.
«Sì, lo penso anch’io». Lei sapeva di aver fatto bene a chiedergli di accompagnarla, e comunque era stato Mark a offrirsi.
Varcarono la soglia del cancello, cominciando a percorrere il primo tratto di strada.
Il calciatore sbuffò. «Non pensavo avessi bisogno di me per affrontare una situazione tanto semplice»
…avessi bisogno di me…
Kira ebbe un sussulto. «Non ti ho usato per evitarlo! Pensavo soltanto che se mi avesse visto in compagnia non si sarebbe avvicinato, tutto qui»
«Ehi, calma» Mark la fermò e posò una mano sul manubrio, accanto a quella di lei. «Non insinuavo niente». La guardò a disagio. Si era preoccupata di…ferirlo? «Coda di paglia?» la prese in giro.
Per risposta, lei gli fece una breve linguaccia ma non aggiunse niente. Le sfuggì un sospirò triste.
«Non puoi dirmi cosa ti preoccupa tanto?»
Lei scosse il capo. «Per ora no»
«Kira?» Mark spostò la mano dal manubrio e la posò sotto il suo mento, dove un cerotto più piccolo rispetto al precedente copriva i residui del taglio. «Va tutto bene?»
Lei si immobilizzò e gli occhi scattarono verso quelli di lui. «Sì. Tutto bene»
Il fruscio delle foglie al vento fu l’unico rumore per lunghi secondi. L'aria si fece più fresca, rendendo Kira conscia del lieve calore che le aveva solleticato le guance. Si accorse di stare trattenendo il fiato. Se ne accorse anche lui.
La mano di Mark indugiò un secondo ancora dalle parti del suo collo, poi la ritrasse di scatto, infilandola in tasca. Seppe di aver sbagliato qualcosa. Toccarla solamente fu sbagliato. (1)
«Devo solo…» Kira abbassò il capo, confusa. Tornò a guardarlo. «Devo solo risolvere le cose con la mia amica. Ma sto bene»
Non c’era convinzione nelle sue parole, lo dicevano soprattutto i suoi occhi. Occhi grandi che Mark si ritrovò a fissare – questa volta fu lui – allungati ai lati esterni, ma non della tipica forma a mandorla. Tondi, non obliqui, totalmente speculari al naso dritto e sottile. Capì di avere osato ancora e di averla fissata troppo a lungo quando lei distolse lo sguardo per prima.
«Forse è meglio se oggi vado da sola»
«Eh?» Perché?
Kira sistemò meglio la cartella nel cestino. «Ho bisogno di riflettere su un paio di cose. Scusa, non è colpa tua, è solo…»
«Okay». Mark fece un passo indietro.
«Ci vediamo domani». Assomigliava a una domanda. Kira sorrise lentamente, in maniera quasi impercettibile.
Lui capì. Non gli stava dicendo ‘ci vediamo a scuola’, stava rinnovando il loro appuntamento all’uscita. Volle confermarlo anche lui.
«A domani»
Poi lei saltò sulla bici e in pochi metri fu lontana.
Mark rimase fermo dov’era.
L’aveva già vista così abbattuta, una volta. Aveva scoperto che non gli piaceva.
Da quando aveva incontrato Kira erano accadute un mucchio di cose diverse, alcune strane, altre spiacevoli, altre belle. Ogni giorno acquistava un sapore diverso, migliore. Non discorrevano di cose immensamente interessanti, anzi, in verità non sapevano ancora quasi nulla l’uno dell’altra. Tutto considerato, i momenti in cui rimanevo in silenzio durante le lezioni erano molti di più di quelli in cui parlavano. Passavano semplicemente del tempo insieme. Ma ogni giorno che veniva era condivisione, affiatamento, confidenza e affetto in piccole gocce.
Generalmente, Mark non si impicciava di ciò che riguardava persone non comprese nella sua ristretta cerchia di conoscenze, meno che mai di una compagna di classe. Quindi non avrebbe dovuto interessarsi nemmeno di lei, solo che il concetto rivaleggiava contro il suo attuale stato d’animo.
Mark non si affeziona facilmente. Non si affeziona quasi mai. Ma lei era diversa. Lei era Kira.
Gli sarebbe bastato comprendere il motivo, non doveva per forza fare chissà quale gesto plateale; capire cosa non andava e cercare un modo per farla stare bene.



***** ***** ***** ***** *****
Note:
 
1. In Giappone non sta bene scambiarsi effusioni in pubblico, di qualsiasi tipo. E' veramente raro vedere due fidanzati tenersi per mano, scambaiarsi un bacio o persino un abbraccio (!) anche solo per salutarsi; al massimo si tengono a braccetto. Potete ben capire, quindi, che il gesto di Mark nei confronti di Kira sia stato abbastanza audace, considerata la loro cultura. 

***** ***** ***** ***** ***** 

Carissime, come state?
Io sono stranamente soddisfatta di questo capitolo che spero abbiate apprezzato. Iniziano gli intrighi alla Toho, aka inciuci! Ho dedicato una parte di capitolo agli antagonisti, Darren e Milly; lei già so che non l’apprezzate molto, ma è giusto che sia così in fondo ;) Mi raccomando, NON saltate le parti dove non ci sono Mark e Kira! Con una vecchia fanfiction era capitato che un paio di lettrici non leggessero l’intero capitolo e c’ero rimasta un po’ male. Anche queste parti hanno la loro importanza, e dato che e io non narro dal solo punto di vista dei protagonisti, leggete tutto, se no poi non capite.  
Okay, dopo questo preambolo… mi rivolgo a voi, fan di Ed Warner! Non disperate, arriverà prestissimo un capitolo dove parlerò largamente di lui. Proprio in questo abbiamo aperto una questione che lo riguarderà da vicino… chi ha visto/letto Captain Tsubasa penso ricorderà di che si tratta…
E anche stavolta c’è stato un po’ di fluff *^* perché sì xD Vorrei disegnare Kira e Mark in una scena fluffosa, ma non ho mai tempo…sigh.
Cosa succederà adesso? Lo scoprirete tra circa due settimane (io spero sempre di aggiornare prima!!!)
Ringrazio tutte voi che avete recensito, inserito la storia in qualche sezione o anche solo letto.
Siete tutte preziose, vi voglio bene <3
 
Susan

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 13. Invito ***


13. Invito



«Io non volevo dirtelo, Kira-chan, ma Milly era contenta quando tu e Lenders avete smesso di parlarvi»
L’affermazione di Jem mise Kira in agitazione. «Un momento, tu lo sapevi?! Sapevi che era contenta, che covava dei dubbi, e non mi hai detto niente?!» esclamò indignata, mentre afferrava la scatola con l’impasto per i pan-cake dall’armadietto sopra il ripiano della cucina. Jem stava tirando fuori dal cappello verità di cui era rimasta all’oscuro per un anno intero! Non si mise le mani nei capelli perché le aveva sporche, altrimenti se li sarebbe strappati dalla disperazione mentre la mente ricostruiva ad una velocità pazzesca pensieri e fatti passati e presenti.
«Non era mia intenzione tenertelo nascosto per tutto questo tempo» proseguì Jem dall’altro capo del telefono, «ma Milly mi fece promettere di non ditelo e, proprio quando decisi di farlo, voi due avevate già risolto le cose ed eravamo di nuovo tutte amiche. Lì per lì non mi sembrò più necessario dirti nulla»
Kira grugnì il suo dissenso, terminando di versare il composto nella terrina insieme a latte, burro e uova.
Jem sospirò, cercando di restare neutrale. «È stato solo un attimo di rabbia. Sono sicura che oggi ti abbia detto quelle cose solo perché era nervosa, perché vi ha visti insieme. Devi comprenderla: ha continuo bisogno di essere rassicurata»
«Lo so, lo so…ci sto provando a capirla ma…»
«Non sei riuscita a parlarle nemmeno oggi, dopo gli allenamenti?» proseguì Jem.
«Macché!» esclamò Kira, posando la scatola dell'impasto. «Hai visto anche tu come scappa via in tutta fretta e si rinchiude nelle docce finché non me ne sono andata. Mi evita, è chiaro come il sole». Incastrò il cordless tra l’orecchio e la spalla sinistra, afferrando un cucchiaio di legno dal cassetto delle posate. Dove diavolo aveva messo lo sbattitore elettrico? «Cos’altro c’è che non so?»
«Uhm, beh…Milly pensava fosse un po’ colpa tua se Lenders l’ha respinta…solo un po’!»
«Questo lo sospettavo». Kira mischiò con più energia, e un po’ del preparato si sparse fuori dalla terrina sopra il ripiano immacolato. «Quella ragazza non ragiona bene. Pensavo avessimo superato questa fase»
Doveva assolutamente prendere in mano la situazione, come aveva già fatto tempo addietro quando, ormai un anno prima, aveva rassicurato Milly che non le piacevano gli scimmioni, e che di ragazzi, oltre Mark Lenders, ce n’erano a bizzeffe.
«Non piangere per un tipo simile, Micchan. Non ti merita. Guardati attorno e stagli alla larga, a meno che tu non voglia avere le pulci…»
Milly aveva persino riso, ma dietro quel sorriso a Kira parso così sincero, era stato covato del risentimento. Anche se poteva comprenderlo non riusciva ad accettarlo. Certo, a Milly poi era passata, quindi avrebbe dovuto perdonarla a sua volta. Eppure, poche ore prima sulle scale sembrava tutt’altro che pentita… sembrava volesse veramente impedirle di vedere Mark.
«Sai, ci ho riflettuto spesso…» riprese Jem in tono pensoso.
«A cosa?»
«Non è che, in fondo, Micchan un po’ ci ha preso?»
Kira non capì. «Preso che?»
«Beh, che non sia poi lontana dalla verità»
«In sintesi?»
«Che un po’ Lenders ti piace davvero»
Kira si immobilizzò. Un grumo di impasto le colò dal cucchiaio dritto sulle ciabatte, ma non se ne accorse nemmeno tanto era il suo stupore. «Non parli sul serio…»
«Guarda che non ci sarebbe niente di male, anche se non salterei di gioia…»
«Ho capito, ma è no
«Mah… se posso dire la mia, la vostra è una strana amicizia» borbottò Jem per nulla convinta.
«Perché?»
«Prova a darmi torto: non avete mai smesso un giorno di bisticciare da quando vi siete conosciuti; lui ti affibbia nomignoli scortesissimi, tu dici che è maleducato e arrogante… sembra tutto fuorché un’amicizia. Se non lo sapessi, direi che vi detestate come all'inizio»
Kira rifletté, immaginando Jem elencare quelle cose sulle dita della mano. «Forse hai ragione, ma l’amicizia ha varie forme» Che frase profonda… «Comunque sia, mi serve il tuo aiuto J-chan: dobbiamo convincere Micchan che si sbaglia, una volta per tutte!»
«Farò tutto il possibile…»
Kira riattaccò poco dopo e terminò di preparare i pan-cake, apparecchiando la tavola solo per lei: Risa rientrava tardi e, come quasi tutte le sere, la ragazza mangiava da sola davanti alla tv. Avrebbe invitato nonna, necessitava dei suoi consigli, ma Kaori era già ospite dalla sua amica di Saitama – ovvero la nonna di Gary. Mise i piatti in lavastoviglie e lasciò in caldo la cena per la mamma insieme alla porzione più grande di pan-cake: l’avrebbe fatta felice, mamma adorava i dolci americani. Infine si trascinò di sopra a finire i compiti, si lavò, mise i panni sporchi nella cesta e tirò fuori la divisa di ricambio; tolse le lenti colorate, controllò le condizioni del taglio sul mento e, quando udì la pota di casa aprirsi, si era già infilata sotto le coperte.
Rimase sveglia ad ascoltare sua madre muoversi per casa e a pensare alle parole di Jem…
Cosa c’era di strano se un ragazzo e una ragazza erano amici? Perché era sicura fosse quello il problema, la parte più sconcertante e strana agli occhi degli altri. Jem per prima rientrava in quella fetta di persone assolutamente convinte che tra maschi e femmine non può esserci altro che amore. Luoghi comuni, pensava Kira.
Tutte le sue compagne del pattinaggio consideravano i ragazzi una sorta di entità equidistante, quasi aliena, unicamente un oggetto di interesse amoroso. Era quasi come se non fossero persone, ma appunto maschi. Una specie a parte.
Che assurdità!
Probabilmente c’erano ragazzi che pensavano la stessa cosa sulle femmine, ma per quanto riguardava lei, gli uomini rappresentavano il semplice equivalente delle donne, con tutte le differenze poste da Madre Natura.
Certo, alla loro età era normale iniziare a guardare all’altro sesso con occhi più consapevoli di queste differenze. Kira le vedeva bene in Mark: a quattordici anni possedeva un bel paio di muscoli ed era tanto alto e grande rispetto a lei, nonostante fosse la più alta tra le ragazze del club e della classe. Ma a parte l'altezza, Kira non poteva dire di essere totalmente sbocciata: aveva iniziato a portare il reggiseno solo lo scorso inverno e le sue gambe erano ancora troppo magre…
Corrugò la fronte ad occhi chiusi nel ripensare alle tristissime battute di Mark sulle sue forme. Come se lui potesse avere un metro di misura per catalogare la grandezza del suo seno!
Il suo cuore sussultò. Spavento e imbarazzo le fecero riaprire gli occhi mentre si alzava di scatto a sedere.
Non doveva preoccuparsi se lui faceva certe osservazioni, vero? Insomma, Mark scherzava, la prendeva in giro come sempre, anche su quello. Era questo. Però…se lo aveva notato significava che l’aveva guardata… Sì, ma sempre per scherzare. Non c’era stata della malizia nelle parole di Mark, e comunque era successo solo un paio di volte: la prima involontaria, e la seconda volta a farla arrabbiare.
Prese un respiro e si rimise sdraiata.
No, non c’era di che preoccuparsi. Lui aveva solo il calcio nella testa: nel centro un pallone e i suoi compagni che giravano in tondo come indiani attorno a un falò.
Sorrise. Già, lui non la guardava in quel senso, figurarsi! Dopotutto, era solo Mark.


***


«Mark! Mark, aspetta!» Judith Lenders fermò il figlio maggiore sulla soglia di casa, togliendo in fretta le ciabatte per infilarsi le scarpe da esterno.
Già sul vialetto d’ingresso, il ragazzo si voltò con sguardo curioso.
«Ieri sera mi sono dimenticata di darteli…ecco, tieni». La signora Lenders gli mise in mano tre rettangoli di cartoncino dai disegni multicolori. «Sono dei buoni per il Luna Park. Li hanno consegnati ieri al supermercato e sono andati a ruba. Questi sono gli ultimi»
Mark osservò il disegno di una ruota panoramica sovrapposta a quella di un ottovolante e un cavallo da giostra. «Fantastico! I piccoli ne andranno matti! Quando pensi che potremo andarci?»
«Oh, caro, pensavo preferissi andare con gli amici» sorrise Judith, intenerita. Il primo pensiero di Mark era sempre per lei e i fratellini. «Ogni biglietto vale per due persone, quindi puoi invitarne fino a cinque»
«Ma scusa, e voi?»
«Ci andremo lo stesso. Per i bambini posso pagare il ridotto, non costa molto»
«Sarebbe uno spreco, mamma. Abbiamo la possibilità di andarci gratis» replicò Mark, ben sapendo quanto anche solo uno yen fosse prezioso.
«Sì, ma noi siamo in cinque e se li usassimo tutti ci sarebbe posto per una sola persona in più. Credevo ti facesse piacere l’idea di invitare Ed e Danny, e la tua ragazza»
Mark contrasse così tanto la fronte che le sopracciglia scure andarono a formare un unico arco. «Non ce l’ho la ragazza, mamma»
La signora Lenders nascose il sorriso dietro una mano. «Ah, va bene…comunque pensaci. Io chiederò a qualche collega di procurarmi almeno un altro biglietto, e poi decideremo sul da farsi. Tu intanto prendili»
Mark tornò a guardare i tre rettangoli di carta, mentre sua madre glieli pigiava nel palmo della mano con insistenza. «Va bene. Grazie, mamma»
Incamminandosi verso la stazione, Mark continuò a fissarli, riflettendo come se dovesse decidere le sorti del mondo.
La signora Lenders rimase ad osservarlo allontanarsi, quel sorriso affettuoso sul viso dolce di mamma. Le sarebbe piaciuto che lui si aprisse con lei riguardo certi aspetti, che le esponesse i suoi dubbi, ma ogni volta che introduceva l’argomento, Mark scappava via in fretta e furia. Forse non prestava ancora assidua attenzione a certe cose, il che per lei era un sollievo. Potendo, lo avrebbe voluto bambino ancora per un po', ma Judith sapeva che a breve sarebbe stato necessario affrontare apertamente l'argomento. Ormai era tempo, anche se qualcosa le diceva che Mark sapeva già abbastanza su ciò che c’era da sapere. I giovani d’oggi affrontavano conversazioni di quel tipo prima a scuola con gli amici che a casa con i genitori, e suo figlio non doveva fare eccezione. Il fatto che non avesse ancora trovato riviste compromettenti nascoste sotto il letto la rinfrancava, ma era un sollievo momentaneo.
Già, strane riviste…
Judith ridacchiò da sola chiudendo la porta di casa, ripensando ai tempi dell’università: Sugimoto aveva nascosto delle foto imbarazzanti sotto il banco del povero John Lenders e per poco i professori non lo avevano scoperto. Era stata lei a salvare la situazione, infilandoli in fondo alla propria cartella come nulla fosse, mentre ribolliva di imbarazzo.
Sugimoto aveva avuto molte ammiratrici in gioventù, al contrario di John, la cui unica preoccupazione era il calcio, proprio come Mark.
Con malinconia, guardando il cielo, Judith ricordò gli svariati tentativi di Sugimoto di organizzare un appuntamento al suo grande amico John, il quale però aveva sempre rifiutato tutti gli inviti delle ragazze che gli presentava. Finché sulla sua strada non era comparsa quella giusta…



***


Kira arrivò a scuola con largo anticipo, aspettando nell’atrio vicino alle scarpiere di veder comparire Milly. La Benson arrivò insieme alla prima ondata di studenti, i ‘puntuali’. Alla Toho c’erano quattro categorie di alunni: ‘gli stakanovisti’, quelli che entravano a scuola quasi prima dei professori; ‘i puntuali’ delle otto del mattino; ‘i ritardatari’ delle otto e mezza passate, e infine ‘i senza speranza’, che raggiungevano margini di ritardo al limite delle possibilità umane. Una volta, Kira aveva fatto parte di questa categoria; ora riusciva a svegliarsi ad un orario decente, anche se qualche volta il suo ago della bilancia pendeva ancora dalla parte dei ritardatari.
Quando vide Milly entrare avanzò verso di lei con calma innaturale. L’amica si era fermata a cambiare le scarpe, ridendo con Erika e Fuyumi, due compagne del pattinaggio.
«Micchan, posso parlarti?»
Milly si voltò, spegnendo il sorriso. A disagio distolse lo sguardo, ignorandola. Kira ci rimase malissimo, ma in fondo cosa si aspettava? Un benvenuto con tanto di festoni?
«Per favore» riprovò. «È importante. Riguarda la nostra discussione di ieri»
Le altre ragazze schizzarono via per lasciarle sole, bisbigliando tra loro: «Te l’avevo detto che era successo qualcosa…»
Milly continuava a tenere ostinatamente lo sguardo sul pavimento. Kira rimase in piedi davanti a lei, immobile ad aspettare.
Milly sospirò. «E va bene. Parla, dai»
Muovendo un paio di passi in avanti, Kira l’abbracciò.
Milly si ritrovò controvoglia le sue braccia avvolte attorno al corpo. Fu colpita da quel gesto ma anche infastidita.
«Scusami, non avevo idea che fossi ancora innamorata di Mark» esordì Kira in tono accorato. «Capisco che il mio comportamento ti infastidisca, però non voglio che smettiamo di essere amiche e…ti prego, non chiedermi nemmeno di smettere di essere amica di Mark»
Milly sciolse l’abbraccio con un gesto di stizza. «È così che pensi di risolverla? Venendo a dettare le tue condizioni?»
«No, io…»
«Vedi come sei fatta? Sei egoista! Purtroppo, questa è la base dei tuoi difetti, Kira: tu non hai pensato a me quando hai cercato una soluzione, hai pensato solo a tuo vantaggio»
«Se sono qui è perché ci ho pensato a te, invece! Altrimenti me ne sarei fregata!» si infiammò Kira, le guance arrossate. No, decisamente non era così che aveva immaginato di parlare con Milly. Doveva cambiare atteggiamento. Era chiaro che Micchan fosse adirata e anche lei doveva placare la propria rabbia o sarebbe tornata punto e a capo.
«Puoi lasciarmi finire prima di trarre conclusioni? Per piacere»
Milly stava per andarsene ma decise di darle un’altra opportunità.
«Sì, forse sono un po’ egoista, non lo nego» ammise Kira, «ma prova a metterti nei miei panni»
«Non posso farlo. Io non sono te» rispose Milly, risoluta.
«Lui è mio amico, esattamente come lo sei tu!» specificò Kira in tono vivo. Milly metteva alla prova la sua pazienza. «Scusami per averti dato un’impressione sbagliata. Sei arrabbiata e lo comprendo, ma credimi quando ti dico che le tue paure sono infondate»
L'unica reazione di Milly fu rimanere ferma e in silenzio. Vagamente incoraggiata dal fatto che fosse disposta ad ascoltarla, Kira proseguì. «Il motivo per cui Mark mi ha accompagnata fuori da scuola è perché c’è un ragazzo che mi segue di continuo e io mi sono un po’ allarmata; così gli ho domandato di aspettarmi per fare la strada insieme»
Milly si portò una mano al mento, riflettendo. «Era questo il favore che gli avevi chiesto?»
«Sì». Kira si concesse un mezzo sospiro. «Solo questo»
«È stato gentile»
«Sì, beh… diciamo che gli scoccia ma lo fa perché lo obbligo». Kira tentò di ridimensionare la realtà, trascurando con tutte le forze il fatto che era stato Mark a chiederle, con aria preoccupata, di avvertirlo se Darren l’avesse infastidita di nuovo… Non c’era bisogno che Milly sapesse anche questo. «E poi sai, con quella faccia burbera, Lenders fa paura a tutti»
Milly stirò le labbra in un sorriso.
«Micchan…perché non mi hai detto prima come ti sentivi?»
Quando parlò, Milly lo fece meno freddamente. «Non credevo che il vostro legame fosse già così forte. Credevo non vi sareste più parlati. Ne ero assolutamente convinta»
“E ne avresti gioito” pensò Kira, ma si frenò da pronunciarlo.
«Mi sono sentita inadeguata quando lui mi ha cacciata via in quel modo brusco, ed ero arrabbiata con te perché non avevi fatto nulla per impedirlo» continuò Milly. «Nemmeno io vorrei essere costretta a questo, ma tu non capisci! L’ho osservato e ho ascoltato i suoi discorsi da lontano per un anno intero; sono andata a vederlo giocare tutte le partite, cercando di trovare il coraggio di farmi avanti una seconda volta però…non mi ha nemmeno notata. Per lui non esisto. Non esiste nessuna…ma ci sei tu»
«Oh, Milly, ti prego…»
«Davvero non lo hai capito?»
«Che cosa?». Kira mostrò le mani come a dire che no, non capiva.
«Tu gli piaci!»
«Ma non è vero!»
«Certo che è vero! Per questo non ti credo quando mi dici che tra voi non c’è nulla»
«Non da parte mia!»
«Ma dalla sua?» insisté Milly. «Ti ha mai sfiorato il pensiero che Lenders possa essere interessato a te?»
L’aveva mai sfiorata il pensiero?
No, si rispose Kira.
«Credo tu stia confondendo l’affetto con l’amore, Micchan». Era un concetto semplicissimo, come poteva non capire ancora?
«Tu mi giuri che non provi nulla per lui?»
Kira alzò le mani in un gesto esasperato, facendole ricadere lungo i fianchi. «L’altro giorno mi ha minacciata di gettarmi da una discesa! Secondo te potrebbe piacermi uno così? O piacere io a lui?»
Milly piegò il capo. «Allora mi scuso anch’io per averti aggredita, ieri»
Un ‘però’ aleggiò nell’aria, inespresso. Milly avrebbe voluto delle prove, Kira lo sapeva. Capì la necessità di doversi comportare diversamente d’ora in avanti: se si fosse presa meno confidenza con Mark, lei e Milly sarebbero rimaste amiche. Non era quello che desiderava, l'affetto per il capitano della Toho si opponeva alle sue decisioni, ma curarsi del prossimo era giusto e voler bene a una persona significava impegnarsi a far questo, rinunciando a qualcosa. Lei non si era curata di Milly, sottovalutando i suoi sentimenti e bisogni.
Quando suonò la campanella, Kira si trascinò su per le scale in cerca di Jem. Voleva aggiornarla subito sugli sviluppi. La incrociò sul pianerottolo, sul quale si fermarono per parlare con calma.
«Quindi siete tornate amiche?» chiese la Edogawa in tono poco convinto.
«Credo…boh, non lo so. Micchan ha detto di aver bisogno di un po’ di tempo»
«Per cosa?»
Kira mosse le spalle. «Più di questo non so che inventarmi». Forse Milly voleva che srotolasse uno striscione dal tetto della scuola con scritto ‘non mi piace Mark Lenders’?
No, non le piaceva Mark, le piaceva stare con Mark, erano due cose diverse.
La sua compagnia non era sempre delle migliori, ma averlo accanto ogni giorno la stava aiutando ad assimilare e accettare molte cose che prima aveva detestato. Ora capiva il motivo per cui lui stava sempre per conto suo: non perché fosse un asociale, ma solo perché era un ragazzo introverso. Non amava il caos, Mark, e benché lei fosse abbastanza socievole, talvolta condivideva questo bisogno di rifuggire la massa. Non badava più nemmeno al suo muso lungo, poiché aveva capito che certe persone non possono cambiare, sono fatte in un certo modo e basta; proprio come a lei era impossibile mutare il proprio aspetto.
Chissà se lui aveva imparato a capirla a sua volta?
Piena di buoni propositi, da quel giorno Kira si impose di iniziare a comportarsi come le altre ragazze: mantenendo le dovute distanze dai compagni maschi, quindi anche anche da Mark. Ciò andava contro la sua voglia di scherzare con lui, contro il proprio carattere e le propria indole. Ma doveva pur sacrificare qualcosa per riavere Milly.

***


«Non dev’essere male. Ci vuoi venire?» chiese Mark a Ed mostrandogli i biglietti del Luna Park, mentre aspettavano il suono della campanella davanti alla 2°A.
«Mi spiace, capitano, questa domenica ho in programma di uscire con i miei» si scusò Ed con aria dispiaciuta.
«Ah, va bene. Non importa…»
Warner incrociò le braccia e rifletté. «Potrei liberarmi prima e raggiungerti. Ovviamente pagherei il biglietto, ma non è un problema. Perché tu non lo domandi a Danny? O alla Brighton»
Mark annuì, rigirandosi il biglietto tra le dita. «Ci stavo pensando...no, aspetta, perché a Kira?»
«Così…»
«No» disse Mark, secco, fissando con più insistenza i biglietti che ancora teneva in mano. Avrebbe anche potuto, però…
«Hai ragione, meglio di no» convenne Ed. «Se la invitassi si saprebbe e tutti potrebbero pensare che avete un appuntamento»
Ecco… «Un momento: chi direbbe che abbiamo un…» Mark non riuscì a pronunciare l’ultima parola.
«Le tre fondatrici del nostro fanclub» rispose Ed come se fosse una cosa ovvia. «L’altro giorno vi hanno visti fare la strada insieme e ne è sorto un caso di stato»
Mark fece una faccia smarrita.
«Non lo sai?»
«Cosa?»
«Cavolo, capitano, ma dove vivi?»
«Cosa vuoi che me ne freghi di quello che fanno quelle galline!» esclamò Mark, infastidito dall’idea di essere stato spiato.
«Dovresti avere un po’ più di considerazione per le tue fans…» sospirò Ed, sconsolato.
«Sì, sì, va bene, ma cosa dicono? Si può sapere?»
«Le solite cose… fanno congetture sul se siete semplici amici o no. Roba così»
Roba così… ci poteva essere molta roba così nella testa della gente, soprattutto nella mente contorta di un trio di ragazzine in piena crisi ormonale. Mark sudò freddo: e se Kira avesse pensato male? Se avesse frainteso qualcosa? Forse era per quel motivo che l’altro giorno lo aveva lasciato a metà strada…
«L’hanno anche messo sul giornale della scuola…»
«COSA?!» Con uno sguardo omicida divampante, Mark afferrò il povero Ed per il colletto della giacca.
«Scherzo, capitano! Stavo solo scherzando…». Il portiere alzò le mani in segno di resa.
«Deficiente!» Mark lo lasciò andare, sbuffando come una belva inferocita. «Ci manca solo questo…»
«Warner, dobbiamo andare in aula» li interruppe Jem Edogawa arrivando dal corridoio. «Sei il capoclasse, devi tenere la riunione del mattino» (1)
«Vengo subito» ripose il portiere. «Intanto fammi un favore: vai avanti e inizia a scrivere alla lavagna i turni di pulizia di oggi»
«Va bene» Jem fece un inchino per salutare Lenders, poi entrò nella 2°B.
«Sei stato eletto capoclasse?» domandò Mark con l’aria di chi ha appena annusato un odore sgradevole.
«Non è la fine del mondo». Ed non sembrava dispiaciuto. Se l’era aspettato dopotutto, visti i suoi voti eccellenti.
«Non stai facendo un po’ troppe cose, nell’ultimo periodo? Gli allenamenti, il doposcuola, il capoclasse…»
«Mi hanno eletto a tradimento» spiegò il portiere con un sorriso disteso. «Comunque c’è la Edogawa a darmi man forte: è la mia vice e ha un ottimo senso dell’organizzazione»
Mark alzò un sopracciglio.
«Che c’è?» fece Ed.
«No, niente. Ma come farai quando inizierà il campionato?»
«Sì, ci ho pensato…» annuì il portiere. «Dovrò farmi sostituire. Tutto dipenderà da come riuscirò a gestirmi»
In fondo, Ed non aveva mai aspirato ad essere capoclasse. Non si era nemmeno candidato alle elezioni. Anche lo scorso anno gli era stato proposto, ma aveva sempre rifiutato per via degli impegni sportivi. Quando sarebbero cominciate le eliminatorie di campionato sarebbe stato sul campo praticamente da mane a sera. La seconda sconfitta consecutiva bruciava ancora, doveva impegnarsi a fondo…
Fortuna che c’era Jem Edogawa ad aiutarlo. Lei era veramente brava a coordinare la classe. Chissà, avrebbe potuto passare a lei il ruolo... no, meglio di no... anche Jem aveva il suo daffare con il club di pattinaggio. Eppure era convinto che lei potesse destreggiarsi tra le due cose molto meglio di lui.
«Credo che Lenders abbia ragione» esordì Jem quando Ed terminò di parlare alla classe, istruendoli sui nuovi turni di pulizia. «Sai, a proposito del tempo a tua disposizione»
Il portiere sollevò lo sguardo dal diario di classe che stava aggiornando, la penna a mezz’aria.
«Non volevo origliare, ma ero lì…» si scusò Jem.
«Già, non ha torto». Ed si adagiò sullo schienale della sedia. «Stavo pensando di passare le mie mansioni a qualcun altro, infatti»
«Ma sei stato eletto da pochissimo! Vuoi già lasciare?»
«Non ho detto che lascerò il ruolo di capoclasse, solo che ho intenzione di non occuparmene per un po’»
«Le eliminatorie più campionato durano circa tre mesi» osservò Jem.
«Sei un tipo attento» la lodò Ed, vedendola rispondere al suo sorriso compiaciuto.
«Abbastanza» rispose la ragazza. «Allora, come farai?»
«Beh, contando che a luglio inizieranno le vacanze estive, mi assenterò si e no per quattro settimane. Tu ce la faresti a sostituirmi fino alle vacanze?»
«Io?» chiese lei, sorpresa.
«So che hai gli allenamenti di pattinaggio e che vi state preparando per la festa dello sport, ma non saprei a chi altro chiederlo: penso tu sia la più adatta a ricoprire questo ruolo»
Jem ne fu lusingata, ma… «Siamo in venticinque in classe, c’è un mucchio di gente a cui chiedere. Ad esempio ad Aono: lei è il segretario, ma sono sicura che potrebbe essere un buon sostituto capoclasse e…» Jem celò una smorfietta fingendo di grattarsi il viso, «e sono più che convinta che non ti direbbe di no»
Ed non nascose il proprio compiacimento, passandosi una mano tra i lunghi capelli neri. «Non sarebbe giusto scegliere la Aono solo perché è una mia fan»
Jem arricciò il naso. Vanitoso…
«Potresti chiederle di affiancarti e assumere il tuo ruolo di vice», insisté Ed. «La verità è che non mi sento tagliato per questo ruolo» ammise con tranquillità.
«Sei il secondo miglior studente della Toho» replicò Jem, come se quello bastasse a renderlo idoneo. «Se rinunci, i professori potrebbero averne a male e non fidarsi più di te né del tuo giudizio. Lo stesso i nostri compagni»
Lui si accigliò. «Stai dicendo che dovrei fare qualcosa che non mi piace per far contenti gli altri?»
Jem gli posò sul banco un plico di compiti in classe da consegnare al professor Holland. «No, solo che non vorrei si pensasse questo se tu dovessi lasciare il ruolo a qualcun altro»
«Non mi interessa quello che dicono gli altri. Se non mi va di fare una cosa non la faccio»
Jem rimase molto colpita dalle sue parole. Poteva giurare che fosse in quel modo che ragionasse Lenders, ed era così che certe volte ragionava Kira. Ma se Kira era spesso costretta a cedere e abbassare il capo per via di sua madre, Ed e Mark si facevano seriamente un baffo del parere altrui. Jem non riusciva a concepire l’individualismo come qualcosa di positivo. C’era il rischio di venire etichettati, emarginati. I professori scoraggiavano quel tipo di atteggiamento.
Per questo che non riusciva ad andare d’accordo con quei ragazzi, mentre Kira si accordava perfettamente al loro pensiero. Ecco perché era diventata loro amica, ed ecco perché lei non ci sarebbe riuscita mai.
«Ti darò una mano» acconsentì ugualmente, «ma vedi di non gettare tutto il carico su di me»
«Ti ringrazio, Edogawa» esclamò Ed, alzandosi dal banco per andare a sistemare i compiti dentro il cassetto della cattedra.


***


Quando Mark entrò in aula, il banco di Kira era ancora vuoto.
Ritardataria…
Lei entrò dopo un paio di minuti a passo lento, gli occhi al pavimento come fosse assorta in gravi pensieri.
«Buongiorno» lo salutò senza sorridere.
«Buongiorno. Di umore nero anche stamani?»
«Ti prego non chiedermi niente» fece lei sedendosi.
«Ancora problemi con la tua amica?»
«Ti ho detto di non chiedere…»
Si fissarono un momento, entrambi con la medesima espressione: sopracciglia incurvate, fronte aggrottata.
«Piuttosto, come va la gamba?» domandò lei poco dopo.
«Bene. Non fa più male. La tua ferita?»
«Prude» fece Kira, strofinandosi il cerotto sul mento. «Non vedo l’ora di toglierlo»
«Peccato, sei carina con quella roba» scherzò lui.
«Uffa…»
Mark ci rimase quasi male. Non ribatteva? Doveva preoccuparla qualcosa di molto serio se non aveva nemmeno la voglia di rispondere. C’era la possibilità che si trattasse davvero di un grosso litigio.
«Oggi ti devo aspettare al cancello?»
«Ehm…» Kira ci pensò per un lungo istante. Cosa fare? «…no. Oggi vado via con Jem. Scusa». Non poteva farsi accompagnare, lo doveva a Milly.
«Okay, tranquilla. Non abbiamo un contratto». Se preferiva andare con le amiche, a lui cosa importava? Era giusto. «Quel tipo non ti ha più infastidito?»
«Negli ultimi giorni non l’ho visto. Comunque, se sono con qualcuno non mi parla»
«Ah, perfetto». Mark aprì il quaderno di giapponese, chinando il capo sugli esercizi.
Kira si morse il labbro inferiore. Non le era dispiaciuto dire di no a Mark…vero? Il piccolo buco allo stomaco non era niente, solo fame… Insomma, non significava troncare nuovamente ogni rapporto con lui, anche perché sarebbe stato impossibile dato che erano compagni di classe e di banco. Si sarebbe limitata ad essere semplicemente quello: la sua compagna di banco.
Però…
«Davvero non preferivi tornare con lui?» disse Jem mentre uscivano da scuola quel pomeriggio.
«Oggi volevo far felice Micchan» rispose Kira in sella alla sua bici, voltando appena la testa per rispondere a Jem seduta sul portapacchi dietro di lei.
Quand’era suonata la campanella alla fine delle attività di club, le tre amiche si erano fermate un momento a parlare all’uscita. Di lì a un attimo, Mark aveva risalito il cortile e l’aveva salutata con un breve sorriso dei suoi. Kira aveva risposto incerta al saluto, per poi ritrovarsi a incrociare lo sguardo implorante di una Milly dagli occhi lucidi. ‘Hai promesso’ sembravano dirle, così aveva distolto in fretta lo sguardo da lui per evitare che si scatenasse una lite sul posto. In quel momento, Milly era molto vulnerabile.
Ci aveva riflettuto tutto il giorno, continuando a cambiare idea, ma ora se ne stava convincendo: avrebbe dovuto fare una scelta. Non voleva rinunciare a nessuno eppure doveva mettere qualcuno al primo posto.
«Kira, sei sicura che giusto comportarsi in questo modo?»
«Non voglio più litigare con nessuno dei due, Jem» rispose Kira, stringendo le mani sul manubrio della sua bici.
«Lo so, ma non penso vada bene negarsi a ogni costo la compagnia di una persona solo per farne felice un’altra. Ci deve essere una soluzione alternativa»
«Sei fuori strada, J-chan, non mi sto negando a Mark. Sto solo cercando di ridimensionare le cose»
Jem prese un respiro, rilasciandolo lentamente mentre puntava lo sguardo sulle case che sfrecciavano davanti a loro.
Jem capiva il suo conflitto: Kira voleva bene a Lenders ma l’ultimatum di Milly era stato una pugnalata al petto. Non avrebbe mai tradito un’amica, anche se fosse stata pazzamente innamorata di Mark; piuttosto si sarebbe fatta del male per rispetto a Milly.


***


Da alcuni giorni, Kira si comportava in modo strano. C’era qualcosa che non andava, solo che Mark ancora non capiva cosa fosse.
Entrava in classe ogni mattina salutandolo come al solito, ma appena lui domandava come andavano le cose, lei si stringeva nelle spalle e diceva che era tutto a posto. Non gli aveva più chiesto di aspettarlo per accompagnarla; alla fine dei rispettivi allenamenti si incrociavano e salutavano, poi lei prendeva la scusa di dover tornare a casa prima o se ne andava di fretta insieme alla Edogawa e qualche volta anche alla Benson. Vedendole nuovamente tutte insieme, Mark intuì che le cose con ‘la sua amica’ dovevano essere risolte. Con chiunque delle due avesse litigato, ora sembravano andare d’amore e d’accordo.
A quel punto, il malumore di Kira doveva essere legato a qualcos’altro. Ma di qualunque cosa si trattasse, doveva essere colpa sua.
Se quella situazione si fosse presentata un anno addietro, Mark avrebbe reagito diversamente ma, ora come ora, era troppo turbato per incollerirsi. Lo fu soprattutto nel momento in cui Kira smise di rispondere a tono alle sue provocazioni.
«Sei riuscito a finire gli esercizi di scienze naturali?» chiese lei un giorno, aprendo il quaderno. «Perché io no»
«Sì, li ho finiti. Non erano difficili»
Kira lo fissò come fosse un mostro alieno. Rispetto a lei, Mark in quella materia era un genio.
«Se Shimada ci chiede di controllare i quaderni, sei fottuta» disse lui.
«Lo so…» Kira poggiò la fronte sul banco.
Mark sbuffò allungando una mano. «Che scocciatura! Dà qua».
Lei rialzò la testa. Aveva il disperato bisogno di finire quei dannati esercizi, però…
«Ehm, no, non fa niente», rifiutò con debole fermezza. «Sarà meglio che ci provi da sola». Aveva deciso solo pochi giorni prima di mantenere una certa distanza da lui, per Milly, non poteva già mandare all’aria i piani.
Kira mise il gomito sul banco, posando il viso alla mano destra e afferrando la penna con la sinistra. «Con lo studio non ho problemi, ma da quando abbiamo iniziato con le equazioni e i grafici non ci capisco niente. Non ti sembrano esercizi troppo difficili per noi di seconda?»
Mark l’ascoltò a metà. Allungò un braccio e lo posò sullo schienale della sua sedia. «Perché mi eviti, Kira?» domandò a bruciapelo.
La vide aggrottare la fronte, concentrata sui compiti arretrati. «Non ti sto evitando»
«Allora perché non vuoi che ti aiuti?»
«Perché voglio riuscirci da sola»
«Non parlo solo degli esercizi»
«E di cos’altro?» chiese ancora lei, cancellando il primo errore.
«Perché non mi dici cosa c’è che non va?»
Lui non era arrabbiato né seccato e questo spinse Kira ad allentare la corda. «Ci sono stati dei problemi con una mia amica, te l’ho detto. Sono un pochino in ansia per questo, ma ora va meglio»
Kira non voleva che Mark scoprisse. Che avrebbe potuto fare, lui? Nulla. Lei doveva continuare su quella strada almeno finché…
Già, fino a quando? Quand'è che Milly si sarebbe definitivamente convinta che erano solo amici?
«Non sei sincera» proseguì Mark, insistente.
«Come, scusa?»
Lui spinse la sedia verso di lei, la schiena piegata, un braccio sempre sullo schienale della sua sedia, l’altro sulle ginocchia. «La timidezza non fa parte di te. Sei un tipo diretto, fin troppo a volte, e sei l’unica ragazza che riesce a guardarmi dritto negli occhi quando mi parla. Non lo fai più. Perché?»
Kira posò la penna, prese un respiro e alzò gli occhi su di lui. «Ora ti guardo, sei contento?»
Dalla posizione assunta da Mark, lei lo sovrastava di pochi centimetri. La fissò, Kira fissò lui. Non un’ombra a scalfire lo sguardo d’intesa.
«Perché pensi che sia colpa tua?» gli chiese.
«Perché di solito sono io che ti faccio incazzare»
Lei alzò un sopracciglio. «Ti piace proprio questa parolaccia, eh?»
Mark piegò la testa sbuffando una risatina, risollevandola subito dopo. «Però è vero che il più delle volte la colpa è mia»
«Sì, è vero. Ma stavolta no». Inesatto, poiché la causa del malcontento comprendeva il tenerlo distante: una regola che si era autoimposta ma che rifletteva soltanto i desideri di Milly, non i suoi. «Dai, Mark, non ci pensare troppo. Non ho niente»
Lo credeva tanto ingenuo? «Non sei sincera quando dici che non hai niente» ripeté lui. Non era una brava attrice e il suo strano comportamento degli ultimi giorni parlava da sé.
«Non mi conosci così bene da capire se sono sincera o no» rispose tranquilla.
Ah, sì? «È un’ipotesi o un’ammonizione?» chiese Mark, altrettanto pacato.
«Un’ipotesi»
Era cosa rara sentirlo parlare così, un’ottava più bassa del normale. Non le si era mai rivolto con quella calma ponderata, Kira pensava non fosse nella sua indole. Era abituata a sentirlo alzare la voce, arrabbiarsi… Ma in quel momento sembrava davvero inquieto; non infastidito, proprio inquieto.
«Veramente ti preoccupi per me?»
Veramente devi essere sempre così dannatamente diretta?, pensò Mark. Crebbe l’imbarazzo ma riconobbe la veridicità della domanda. Spezzò il contatto visivo per primo, picchiettando le dita sullo schienale della sedia di Kira. Non rispose, non c’era bisogno.
«Beh, grazie» disse lei, posando la mano su quella di lui per un secondo soltanto.
Gli occhi di Mark si concentrarono in quel punto; troppo tardi, perché era già scivolata via. La guardò e incontrò un sorriso disteso, il calore di una mano estranea ancora sulla propria.
«Sei mia amica, Kira». Mark supero l’intoppo e riprese il solito sguardo accigliato. «Cerco solo di capire cos’hai»
«Va bene». Le aleggiò un altro sorriso sulle labbra. «Ora però torna a fare l’antipatico. Mi riusciva più facile parlare con la personalità burbera»
Mark emise uno sbuffo secco. Raddrizzò il busto di scatto e si mise a rovistare nella cartella, mentre lei lo osservava curiosa. Poi le allungò sul banco un biglietto spiegazzato. Lo portava a presso da giorni.
Kira lo prese tra le dita cercando di lisciarlo. «Che cos’è?»
«Un biglietto per il Luna Park, non lo vedi?»
«Sì, ma…perché lo dai a me?»
«Ecco…» Mark tossicchiò. «Li hanno dati a mia madre al lavoro, tre in tutto. Un biglietto vale per due persone»
«Oh, gentile da parte tua regalarmelo. Potrei invitare Jem»
Cos…? «Io sto invitando te, cretina! E metà di quel biglietto è mio!» Mark sbatté un pungo sul banco, facendo sobbalzare i due compagni davanti a loro.
Kira scoppiò in una risata. «Ti sto prendendo in giro! L’avevo capito!»
Mark si calmò, sentendo subito il bisogno di chiarire il punto. «Mi mancava una persona per arrivare a sei, per questo te l’ho dato»
«Non è granché carino invitarmi solo per arrivare al numero giusto» ribatté Kira facendo un finto broncio. Ma dentro si era già entusiasmata.
«Ci verresti?» le chiese Mark apertamente. Non gli aveva ancora risposto.
«Sì! Adoro i parchi a tema! Quando ci andiamo?»
«Questa domenica, se non hai impegni»
Kira scosse il capo. «Domenica va bene».
La preoccupazione stava quasi fuggendo via da lei, quando un’ondata di biasimo le invase lo stomaco. Non doveva accettare. Mark si stava preoccupando per lei ma lei non si stava preoccupando per Milly, di nuovo! Si stava disinteressando della sua amica e pensava solo a sé stessa.
Ma se non avesse accettato, anche Mark si sarebbe risentito. Era stato carino a preoccuparsi, a osservarla per capire cosa l’amareggiasse. Era stato…dolce.
«A chi hai dato gli altri due biglietti?»
«A nessuno. Li useranno mia madre e i miei fratelli» rispose lui in tono spiccio.
Kira fissò il cartoncino che aveva tra le mani. «Toglimi una curiosità»
Lui ascoltò.
«Perché non hai invitato Ed o Danny al mio posto?»
Ah… Mark si portò una mano sulla nuca. «In realtà l’ho fatto, ma nessuno dei due poteva»
«Quindi sarei un rimpiazzo?» Scemo. Poteva anche non dirglielo con tanta indifferenza.
«No, una degna sostituta» disse lui.
Sostituta? Però aveva detto ‘degna’… «Mm…»
«L’ho fatto per tirarti su di morale, stupida» sbuffò Mark, voltandosi verso la finestra. Che permalose scocciatrici le ragazze… non capivano mai niente!
«Ehm, senti...»
«Che vuoi?» La guardò. Lei aveva sollevato il quaderno all’altezza del viso e lo spiava da là dietro con occhi imploranti.
«Non è che mi aiuteresti a finire questi esercizi prima che arrivi il prof?»
«Rompiballe…» sbuffò ancora lui, strappandoglielo di mano. «Te li scrivo a matita. Poi ripassali a penna con la tua calligrafia e cancella tutto, altrimenti ti beccherà subito»
«Grazie! Mi sdebiterò, lo prometto» Kira unì le mani e chinò la testa.
Mark le lanciò uno sguardo. «Sdebitati tornando la Kira di sempre. Non ti si addice il ruolo dell’eroina triste. Non siamo in uno shojo manga»
«Che hai contro gli shojo manga? A me piacciono». Kira gli allungò un calcetto sotto il banco, osservandolo scrivere per alcuni secondi in silenzio. Sorrise.
Per quanto brusco, Mark Lenders era un bravo ragazzo.




***** ***** ***** *****
Note:
  1. In Giappone, ogni mattina viene tenuto un discorso dal capoclasse per decidere o ricordare le varie mansioni giornaliere. Ogni classe deve avere un capoclasse, un vice-capoclasse, un segretario, uno o due contabili, più altri vari ruoli organizzativi ricoperti da un membro della classe. Tutti gli studenti sono tenuti a far parete di un comitato: di pulizie, di disciplina, di biblioteca, di giornale ecc… Ogni capo delle ‘squadre-comitato’ di ogni classe compone il Comitato della scuola, del quale uno solo tra tutto gli studenti è il presidente, affiancato dal vice-presidente, uno o due segretari, uno o due contabili, che vengono scelti con elezione ogni anno. Sono tutte piccole responsabilità che aiutano i giovani a prepararsi alla vita. Il discorso vale a partire dalle medie, poiché alle elementari, tali compiti vengono svolti solo dagli studenti dal quarto anno in avanti.

    ***** ***** ***** *****

Avrei voluto intitolare questo capitolo ‘turbe mentali insensate di Kira che si incasina la via da sola’, ma non mi piaceva per niente xD Anche se, di fatto, è quello che fa. Ha una mente contorta ‘sta ragazza…se ci capite qualcosa voi, fatemelo sapere, ahahah!
Mi piace descrivere Mark in veste più ‘buona’ *^* Non avrei saputo come altro fargli invitare Kira, sotto sotto è timido, il ragazzo. Ah, perdonate certe uscite poco simpatiche del nostro capitano, come 'galline' XD Non è sua intenzione offendere nessuno, è solo Mark.
Immagino sarete già lì a gongolare al pensiero del primo appuntamento di Mark e Kira… furbette. Ho già in mente tutto per il Luna Park, ma non si anticipa niente. Tenete comunque presente che ci saranno anche mamma e fratellini Lenders, quindi non sarà un’uscita romantica (quando mai Mark fa qualcosa di romantico?) anche se un po’ di fluff sparso lo metterò lo stesso. E ricordate pure che in teoria – ma solo in teoria – Kira non avrebbe dovuto accettare. Sottigliezze… e altri casini in vista.
Vi avevo detto che avrei iniziato a parlare meglio anche di Ed ;) In questo capitolo vi è un altro piccolo assaggio. E Jem? Eehh, so che alcune di voi già li shippano, ma anche su questo non mi sbilancio.

E anche per questa volta vi devo lasciare. Grazie come sempre a tutte per ogni singolo momento e parola che spendete per me e la mia storia.

Un baciotto e a presto!
Susan

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 14. Volersi bene ***


14. Volersi bene
 
 
 
«Hai preso tutto?»
«Sì»
«Sicura di avere abbastanza soldi?»
«Sì, mamma, mi bastano i miei. Le giostre sono gratis»
«D’accordo. Mi raccomando ancora una volta, Kira: attenta alle lenti a contatto»
«Certo, stai tranquilla. Non salirò su nulla che vada troppo veloce, così non rischierò»
«Mh». Risa le lisciò la maglietta sulle spalle e scese con lo sguardo fino ai piedi. «Non sono un po’ troppo corti quei pantaloncini?»
Kira sospirò. «Uffa, mamma…fa caldo, è quasi estate»
Ultimamente, Risa stava diventando esigente anche sul modo di vestire della figlia. Arricciò le labbra in una smorfietta critica ma arrendevole. «Mm…va bene. Vai e divertiti. Ah, vedi di non creare problemi alla signora Lenders» la rabbonì in ultimo. «E ti voglio a casa per le otto, intesi?»
Kira corse via salutandola con la mano, rassicurandola con parole convenzionali che, da lontano, Risa non udì.
«Calmati, figliola, non è il suo primo appuntamento» disse la voce di Kaori Brighton proveniente dal salotto.
Risa tornò in casa e sedette lentamente sulla poltrona di fronte a sua madre, riprendendo la tazza di tè lasciata sul tavolino poco prima. «Lo so, non è questo che mi preoccupa»
«Allora non c’è nulla per cui stare in ansia» sentenziò Kaori.
«Anche tu, quando io avevo l’età di Kira, eri molto apprensiva, mamma» replicò Risa da sopra il bordo della tazza finemente ricamata. Era un vecchio servizio regalatole proprio da Kaori per il matrimonio. Risa sapeva che l'anziana madre teneva a prendere il tè con lei proprio in quel servizio ogni qualvolta veniva a trovarla. «Inoltre, permettimi di ricordarti che a quattordici anni io ero molto più assennata di quanto lo sia Kira»
«Assennata, posata e coscienziosa, certo. Tutte qualità che a vent’anni avevi già scordato, mia cara ragazza»
Risa ingollò una sorsata con un suono molto poco elegante. Tossicchiò. «B-beh… a vent’anni ho fatto qualche sciocchezza, lo ammetto»
«Ma certo. Come tutti, del resto» ridacchiò Kaori. «Non tenere quella ragazza al guinzaglio, Risa. Dopotutto lo sai: Kira è figlia di suo padre e sappiamo entrambe che nessuno potrà mia cambiare questo»
Risa posò la tazza sul piattino di fine porcellana. «Mi hai giusto ricordato che devo telefonare a Kei. Avrà una licenza tra pochi giorni ma ancora non mi ha saputo dire la data precisa». Si alzò dalla poltrona, diretta verso l’anticamera. «E comunque, perché tu lo sappia, mamma, non sono preoccupata per il fatto che Kira esca con un compagno di classe. Ci sarà anche la famiglia del ragazzo questo pomeriggio, perciò non saranno da soli, altrimenti non le avrei mai permesso di uscire con quel Lenders!»
Rimasta sola in salotto, Kaori Brighton sollevò gli occhi sul vano della porta lasciato vuoto da sua figlia. Un sorriso le increspò le labbra. Risa era veramente un’ingenua: quanto potevano metterci due ragazzi di quell’età a creare la giusta occasione per stare da soli, se lo desideravano?
 
 
 
Alle due del pomeriggio Kira arrivò puntuale alla stazione di Shibuya per accogliere i Lenders, e dieci minuti dopo ancora erano tutti sulla metropolitana che fermava direttamente davanti al Tokyo Magic Land. Sorrideva allegramente e pareva non avere un problema al mondo. Mark ne fu felice e in qualche modo soddisfatto: dopotutto, quell’aria serena sul viso di lei era anche un po’ merito suo e dell'invito al parco. Quel giorno gli sarebbe piaciuto capire cosa preoccupasse tanto Kira ma non voleva forzarla a parlare. Lei non credeva nelle sue capacità osservative, ma Mark era veramente in grado di comprendere diverse cose, oltre a percepire i suoi malumori. Anche se, per certi versi, c’erano cose che, per quanto si impegnasse, non riusciva proprio ad afferrare…
«Cosa stai facendo?»
«Uhm…niente» mentì Kira. Era da parecchio che tentava di specchiarsi nelle nel finestrino del treno per attestare se i suoi pantaloncini fossero troppo… audaci, per dirla come avrebbe detto sua madre. Ma non riusciva a vedere bene e la propria immagine, c’era troppa luce sulla metro esterna, e anche troppa gente in piedi per avere una visuale libera; lei stessa e Mark avevano ceduto il posto a due anziani signori, accontentandosi di rimanere in piedi accanto a una delle sbarre di ferro nel mezzo del vagone.
«Dio, che vanitosa…è mezz’ora che non fai altro che ammirarti» continuò Mark, guardandola con una faccia poco meno che schifata.
«Non mi sto ammirando!» sibilò lei, intimandogli con un gesto seccato della mano di abbassare la voce. «Sto cercando di stabilire se siano troppo corti»
«Cosa?»
«I miei pantaloncini. Li trovi troppo corti?» insisté.
Mark non ci aveva fatto caso. «Boh. No, vanno bene credo. Sono pantaloni corti, come devono essere? Corti»
Lei fece roteare gli occhi. Che considerazione incredibile…
«Non ho capito qual è il problema, Kira»
Lei sospirò. «Lascia stare, non importa…»
Mark alzò le spalle e si perse nella conversazione tra Nathalie e Teddy su chi avrebbe avuto il coraggio di salire sulle montagne russe.
Ecco, su certe questioni era veramente ignorante. Se lei provava imbarazzo ad indossarli perché li aveva messi? Effettivamente, quei pantaloncini lasciavano scoperta una porzione abbondante di gambe, o forse era l’impressione che davano addosso a lei. Mark aveva quelle gambe sotto gli occhi ogni giorno, dal ginocchio in giù – il regolamento scolastico non permetteva alle studentesse di accorciare le gonne – ma vederle quel giorno senza una barriera… Gambe lunghe, snelle e toniche, da sportiva. Il più bel paio che Mark avesse mai visto.
Si imbarazzò per il proprio pensiero, spostando lo sguardo su tutto e niente per non guardarla ancora.
Era diventato un maniaco? Beh, no.
Una volta, Ed aveva detto che Kira era carina e... sì, lo era, ma affermarlo non significava nulla. Insomma, era normale notare un bel paio di gambe.
«Quanto ci mettiamo ad arrivare?» chiese il piccolo Matt, inginocchiato sul sedile arancione del treno, le manine premute contro il vetro che sua madre tentava in vano di fargli staccare.
«Tra trenta minuti esatti» gli rispose Teddy.
«Quanti sono trenta minuti? Quanti?»
«Guarda, Matt» Kira si sporse dal suo posto per attirare l’attenzione del bambino. «Vedi il mio orologio? Ecco, quando la lancetta lunga punterà sul sei, saranno passati trenta minuti»
«Uhm». Gli occhi di Matt passarono dal viso di lei al quadrante.
Kira lo slacciò dal polso per metterlo a quello del piccolo. «Tieni. Controllalo per me, ti va?»
Matt annuì, sistemando l’orologio sull’avambraccio, dove si incastrò meglio che sul polso, e lasciando che la ragazza glielo allacciasse per bene fino all’ultimo buco del cinturino. Dopodiché accettò di sedere composto come sua madre richiedeva da diversi minuti.
«Peste» ridacchiò Mark, vedendosi arrivare in risposta una bella linguaccia. Gli altri bambini, Kira e la mamma risero.
«Tu non eri poi tanto diverso alla sua età» rivelò Judith Lenders, scoccando un’occhiata al figlio maggiore e alla sua compagna di scuola.
Kira sorrise. «Non fatico a immaginarlo»
«Mamma, non dire cose di cui potresti pentirti» protestò Mark, coprendosi il volto con la visiera del cappello bianco che portava sul capo. La mamma ne aveva portati per tutti, prevedendo che sotto il sole del pomeriggio i bimbi avrebbero potuto lamentarsi. Ma Mark continuava a preferire quel vecchio berretto dai bordi leggermente consunti, comprato con le prime paghette dell’epoca in cui consegnava i giornali o faceva commissioni per il signor Sugimoto.
«Eccolo, eccolo!» esclamò d’un tratto Matt.
In lontananza erano apparse le sagome delle attrazioni più imponenti del parco. Dal treno in movimento, la ruota panoramica somigliava a un grosso fiore stampato nel cielo e le cabine minuscole nuvolette immobili. Le rotaie dell’ottovolante somigliavano alle spire di un enorme serpente metallico ingarbugliate tra loro, e le punte delle torri di un piccolo castello facevano capolino coi loro colori vivaci.
Judith Lenders faticò a tenere a bada Matt e Nathalie, e l’aiuto di Mark fu provvidenziale. Il ragazzo prese il fratellino più piccolo sulle spalle, mentre la bambina si aggrappò alla mano della madre saltellando allegramente come un piccolo folletto. Kira e Teddy chiudevano il gruppo. Il secondo genito dei Lenders si guardava in giro con le guance accese ma deciso ad imitare Mark e comportarsi da ‘grande’, nonostante i suoi dieci anni.
Kira recuperò una piantina del parco da una bancarella di souvenir accanto all’entrata. Il complesso era molto grande e c’erano un mucchio di cose da fare. Da dove cominciare?
«Tanto vale iniziare da qui» propose la signora Lenders molto saggiamente, indicando la giostra dei cavalli che accoglieva i visitatori nel centro del grande piazzale di ingresso.
Grazie ai biglietti omaggio tutte le giostre erano gratis e alla piena portata dei tre piccoli Lenders, che quel giorno sfogarono la loro inesauribile energia salendo su quante più attrazioni possibili. Teddy suscitò l’invidia di Nathalie e Matt quando fu ritenuto abbastanza grande per concedersi la sua prima corsa sugli autoscontri insieme a Mark e Kira. Una volta a bordo, per i due ragazzi fu quasi inevitabile competere. Ben presto, Teddy si schierò dalla parte del fratello maggiore per tamponare Kira quante più volte possibile.
«In due è scorretto!» gridò la ragazza accerchiata dai due Lenders.
«Valle addosso, valle addosso!»
«Mark!» tentò di frenarli Judith, ma vedendo che anche Kira rideva con loro decise di non intervenire oltre. Dopotutto erano ragazzi…
Provarono diverse altre attrazioni scegliendo quelle dov’era possibile salire tutti insieme. Evitarono perciò una nave pirata che oscillava come un pendolo da sinistra a destra, optando invece per un percorso sull’acqua che simulava il letto di un fiume, accompagnato da due discese e molti spruzzi. Passarono poi ad un percorso a piedi: una foresta incantata popolata da creature fiabesche. Quando attraversarono un punto che rappresentava la tana di un drago, Nathalie e Matt, che avevano otto e cinque anni e credevano ancora alle fiabe, si aggrapparono l’una alla mano della mamma e l’altro a quello di Mark, osservando con i grandi occhi scuri le figure misteriose che si muovevano nell’ombra. 
«Non avrai paura, vero giovanotto?» disse Mark al più piccolo dei fratelli.
«N-no, non ho paura!» Il bambino allentò la presa sulla mano del ragazzo e strinse il pugnetto di quella libera in un gesto determinato.  
Mark intercettò lo sguardo di Kira, che gli sorrise intenerita.
L’antro degli specchi fu un altro tranquillo e divertente labirinto di corridoi e riflessi buffi e distorti. In seguito, per lasciare i due ragazzi liberi di provare qualche giostra più estrema, e visto che Teddy, Matt e Nathalie insistevano per le montagne russe, Judith portò i tre bambini sui Vagoni del Far West, una sorta di ottovolante per piccini senza giri della morte ma con un percorso disseminato di un discreto numero di curve, lunghe salite e discese piuttosto veloci.
«Allora siamo d’accordo» raccomandò la signora Lenders a Kira e Mark. «Ci vediamo alle cinque per lo spettacolo all’anfiteatro sotto il castello»
Kira tenne d’occhio l’orologio che Matt le aveva restituito non appena entrati nel parco: erano le quattro, avevano un buon margine di tempo.
«Dove vogliamo andare?» chiese la pattinatrice quando la madre di Mark si fu allontanata con i bambini.
 
 
 
Il treno dell'ottovolante sfrecciava sulle rotaie verso il suolo veloce come un razzo. Le persone sul loro stesso vagone urlavano, chi di terrore chi di divertimento. La corsa era assolutamente fantastica e loro due si divertirono un mondo. Al primo giro della morte Mark e Kira si aggrapparono forte all’imbragatura e lei chiuse gli occhi per proteggerli dal vento forte.
«Se non guardi ti perdi metà del divertimento» le gridò Mark al suo fianco.
Il reticolato si appianò e il treno rallentò un poco, si inclinò a destra, poi a sinistra, una breve salita ingannevole, poi curvò e in lontananza apparì la seconda salita.
«Sei pronta?»
«No!»
Si guardarono, ridendo e urlando forte insieme. Di nuovo giù verso terra e ad una nuova curva il convoglio si capovolse, lasciandoli sospesi in aria mentre il mondo intero vorticava sottosopra.
Seduti – anzi stravaccati – su una panchina all’ombra di un albero poco lontano dalla giostra, inspirarono a boccate profonde. Una volta scesi, la corsa iniziò a far sentire i suoi effetti: testa che girava, stomaco sottosopra... Niente che un poco d'aria non potesse sistemare e magari una bibita fresca.
«Hai chiuso gli occhi, ti ho vista. Vinco ancora io» disse Mark.
«Ma non era una sfida»
«È sempre una sfida con te»
Voltarono il capo per guardarsi. Sorrisero.
Mark si alzò con un movimento fluido. «Vado a prendere qualcosa da bere»
«Oh sì, è un’ottima idea» annuì Kira, facendosi aria con una mano ad occhi chiusi, mentre con l’altra sollevò i capelli che le facevano caldo.
«Ehi, stai bene?»
«Mi gira tutto ma sì, sto bene»
«Fifona…»
Lei intuì il sorriso sarcastico senza vederlo e aprì gli occhi guardandolo seccata. Allungò una gamba per tirargli un calcetto. «Vammi a prendere quella bibita invece di fare il cretino»
«Ci metto un attimo, stai seduta»
«Grazie, Mark, sei davvero un tesoro» gli gridò dietro in tono sarcastico. Per tutta risposta lui le mostrò il dito medio.
Kira ridacchiò in solitaria, scivolando più giù con la schiena in modo da riuscire a posare la nuca sulla sponda della panchina. In quella posizione armeggiò con la borsa a tracolla, estraendo prima un nastro con cui legò la lunga chioma in una coda di cavallo, poi prese uno specchietto tondo e vi guardò dentro. Controllò con attenzione le lenti a contatto, sbattendo le palpebre più volte. A posto. Non si erano spostate di un millimetro. Quella sì che era fortuna!
Mark fu di ritorno con le bibite acquistate a un distributore automatico. C’erano un mucchio di chioschetti per la ristorazione ma costavano di più ed era sempre meglio risparmiare.
«Tieni, mollacciona». Allungò una lattina di limonata a Kira, sedendo di nuovo accanto a lei stappando quella di coca cola che aveva preso per sé.
Kira ringraziò e bevve con calma. La bevanda la rimise in sesto e la rinfrescò. Il malessere da montagne russe passò a poco a poco.
«Oh, aspetta» disse, frugando nella borsa. «Ti restituisco i soldi della bibita»
«No, lascia stare» rifiutò il ragazzo.
«Ma ci tengo»
«Posso permettermi di offrirti una bibita, Kira»
«Non è per quello…» Lei bevve un lungo sorso, lanciandogli un’occhiata in tralice. «Non vergognarti di me»
«Non mi vergogno di niente» chiarì lui, laconico.
«Ora non ti arrabbiare» Kira si sollevò dallo schienale e si sporse un poco verso il calciatore. «Non mi va di essere in debito, tutto qui»
«Sono solo pochi spiccioli». Mark bevve un altro sorso e spostò lo sguardo su di lei. «Posso offrire una bibita a un’amica che sta male?»
Un’amica. Quelle due parole le scaldarono il cuore. «Non sto più male»
«Okay, allora riformulo: posso offrire una bibita a un’amica e basta?»
Lei sorrise e gli diede un colpetto alla spalla con la propria. «Come sei docile, oggi. Che ti hanno fatto?»
«Se stai male e tua madre lo viene a sapere mi classificherà come individuo pericoloso»
«Ma tu sei un tipo pericoloso, Lenders» scherzò ancora lei.
Mark ricambiò il gesto di prima con una spallata poco calibrata che fece accasciare Kira dal lato opposto della panchina. «Mi dispiacerebbe se venissi rinchiusa in casa solo per essere salita sulle montagne russe»
Lei si raddrizzò a sedere massaggiandosi la spalla, ostentando molto più dolore di quanto ne avesse provato. C’era molto di più dietro quella frase e ne fu lusingata. «Stai dicendo che ti dispiacerebbe non uscire più con me?»
Mark non rispose. Si alzò e andò a gettare la lattina vuota nel bidone dell’immondizia. «Andiamo a provare un’altra attrazione, dai» disse senza guardarla.
Kira terminò la limonata con un ultimo, lungo sorso e la lanciò al volo in un altro cestino. Raggiunse Mark e si aggrappò alle sue spalle dal dietro. «Tu mi adori»
L’andatura sicura di lui vacillò quando se la ritrovò avviluppata al collo. Cosa le saltava in mente? Lo stava…abbracciando. Lui non voleva essere abbracciato!
«Dai, dillo» Lei spostò il viso da una spalla all’altra di lui per poter vedere entrambe le angolazioni del suo volto. «Mi adori e non puoi più fare a meno di me»
Mark le afferrò i polsi e la costò da sé con un gesto un po' brusco. «Dev’esserti volato via il cervello sull’ottovolante. Vallo a riprendere»
Kira rise e cercò di liberare i polsi dalle grandi mani del calciatore. Le sue sembravano tanto esili a confronto… Era strano persino che quel giorno le sue battute non la innervosissero. Forse perché finalmente aveva trovato un’ottima espediente per contrattaccare: metterlo in imbarazzo era molto più divertente che arrabbiarsi. Sì sentì un po’ perfida ma in fondo era solo un gioco. Si era affezionata a Mark Lenders alla velocità della luce, tra alti e bassi, e sapeva – lo capiva – che anche lei era diventata importante per lui. Non pretendeva si sciogliesse e le dicesse che le voleva bene, si sarebbe accontentata delle sue gentilezze velate e quelle attenzioni distaccate, tutrici del grande cuore che batteva dentro l’ampio petto dello scontroso capitano della Toho.
«Attenzione, attenzione!» annunciò d’un tratto una voce all’altoparlante. «Il trenino del Tokyo Magic Land sta per partire dall’area uno! Venite a scoprire l'avventura nel Paese degli Animali!»
«Carino! Ci andiamo?» esclamò Kira in tono animato.
«No»
L’entusiasmo di lei evaporò in un istante. «Ma che palle… quando propongo qualcosa io non ti va mai bene»
«Tu fai cose stupide da bambina dell’asilo e mi fai vergognare»
Lei grugnì indispettita. Le ci voleva qualcosa di più tranquillo, soprattutto per le lenti a contatto… ma non poteva spiegarglielo, ovviamente. «Beh, io vado sul trenino. Tu sei vuoi aspettami qui»
«Ehi, un momento…» Non era una prospettiva allettante, pensò Mark. Sarebbe stato indubbiamente più seccante restare lì da solo a far nulla, seduto su una panchina come un genitore apprensivo, o peggio, come un fidanzato apprensivo…
No e poi no.
Ancora leggermente sgomento per l’abbraccio – dal quale si era definitivamente liberato borbottando un «Staccati, stupida femmina» che lei aveva deliberatamente ignorato – Mark la seguì verso la stazione ferroviaria che avevano sorpassato all’ingresso, vicino alla giostra dei cavalli.
La locomotiva ricalcava la fisionomia di un normale treno in miniatura, ma il resto del convoglio non somigliava quasi per niente a un vero e proprio trenino. Mark osservò con dubbio la serie di vagoncini a forma di animali della foresta e della giungla. Le ampie groppe fungevano da sedile, sulle quali era possibile gustarsi una tranquilla gita su rotaia lungo l’intero perimetro del parco, fingendo di viaggiare a dorso di animale. Alcuni bimbi erano abbastanza grandi da poter montare da soli, mentre i più piccini dovevano essere accompagnati dai genitori o dai fratelli più grandi. Non c'era molta coda, però... lui non poteva salirci, era pieno zeppo di marmocchi! E la maggior parte non superava il metro di altezza.
A capo del treno c’era un signore grassoccio vestito come il domatore di un circo, che agitava il berretto rosso e tirava una cordicella annunciando l’imminente partenza.
«Su, stanno aspettando solo noi» disse Kira prendendolo per mano e trascinandolo verso gli animali-sedile più vicini: una giraffa e un…
«Io sul gorilla non ci salgo»
Appena messasi a cavalcioni della giraffa, Kira soffocò le risate piegandosi sul lungo collo.
«Che hai da ridere?!»
«N-niente» rispose evasiva. «Trovo solo che il gorilla si adatti perfettamente alla situazione»
Lui l’avrebbe strangolata seduta stante se il trenino non avesse fischiato.
Stupida...
Mark gettò una gamba dall’altro lato del dorso del gorilla.
fastidiosa…
Sedette sul sedile e si aggrappò alla maniglia di ferro sopra le spalle dell’animale.
ragazzina.
«Visto che non era difficile salire?» disse Kira voltandosi per parlargli.
Mark si sentiva molto sciocco. Si sistemò meglio sul sedile, sbirciando intorno per assicurarsi che non ci fossero conoscenze in giro… sembrava di no. Pensò fosse un peccato, dopotutto, che Teddy e gli altri non fossero lì: gli sarebbe piaciuto quel trenino. Magari poteva provarlo prima lui per poi risalirci tutti insieme a fine giornata. Ecco, insieme alla sua famiglia sarebbe stato meno imbarazzante.
In seguito riportò l’attenzione su Kira: aveva una visuale completa della sua schiena e anche di qualcos’altro poco più in basso che preferì evitare di guardare. Si prese un attimo per ammirarle ancora una volta le lunghe gambe snelle.
«Anche la giraffa si adatta perfettamente alla situazione»
Kira, davanti a lui, voltò il busto. «Mh? Che vuoi dire?»
«Spilungona…»
Lei aprì la bocca in una ‘O’ indignata. «Ha parlato quello alto quanto una pertica!»
Il trenino partì tra urletti di bambini e risate di genitori, soffocando il resto della breve lite.
Il conducente tirò nuovamente la cordicella e in aria si levò un fischio insieme a uno sbuffo di fumo. 
«Aspettateciiii!!!» gridò un gruppo di ragazzi in corsa verso il trenino.
Quelle voci…
Mark si voltò e, non appena notò la testa quasi rasata di Bruce Harper si rigirò di scatto, tornando a guardare avanti a sé.
Ditemi che non è vero, ditemi che non è vero…
«Saltiamo su, forza!» esclamò la voce di Holly Hutton, seguita da un coretto di: «Hop!»
«Attento, Tom!»
«Ci sono, Alan, ci sono!»
Tom Becker e Alan Crocker. Mark volle sprofondare.
«Evviva, ce l’abbiamo fatta!» esultò la voce di Paul Diamond. E se c’era lui non potevano mancare Johnny Mason e Ted Carter: il trio della Saint Francis. E infatti…
«Non possiamo stare in due su un sedile, Ted»
«Ma ormai il treno è partito, e poi non c’è più posto»
Mancava solo…
«Dovevamo aspettare la prossima corsa» concluse Bob Denver.
C’era praticamente tutta la New Team! Perché diamine uscivano sempre in gruppo?! Non voleva che lo vedessero a bordo di un ternino per bambini, assolutamente no! D’accordo, c’erano saliti anche loro ma… Ma loro erano Hutton e compagni, lui era Mark Lenders, soprannominato la tigre della Toho School e prima della Muppet. Non poteva permettere che i suoi più acerrimi rivali lo vedessero in quelle vesti.
Fissò lo sguardo sulla schiena di Kira, restando immobile. C'era la possibilità che non lo notassero, bastava non voltare troppo la testa. Fortuna che la mamma e i fratellini non fossero lì. Non c’era pericolo che i piccoli attirassero l’attenzione. Doveva avvertire Kira di fare la stessa cosa, o meglio di non fare: non farsi notare.
«Ehi…» Mark allungò un braccio per tirarle la coda di cavallo.
«Ahi…che c’è?» Kira ruotò il busto a metà.
«Non girarti!» ringhiò.
Spaventata, lei ritornò a guardare avanti.
Mark fece leva sulle ginocchia e si sporse in avanti sulla testa del gorilla per arrivarle più vicino possibile. Non c’era molta distanza tra un animale e l’altro. Le tirò di nuovo la coda come se stesse suonando una campana.
«Ahia! Si può sapere cos’hai?» protestò lei.
«Non alzare la voce e non girati, ti ho detto»
«Va bene, va bene…»
«Non rivolgermi la parola, chiaro? Per tutto il tragitto non mi parlare e non chiamarmi per nome»
Perché mai avrebbe dovuto non fare una cosa tanto bizzarra, si chiese Kira. «Che succede?»
«Ci sono delle persone a bordo che non voglio mi vedano» bofonchiò il calciatore.
«Chi…?»
Il trenino imboccò una curva e saltellò. Kira scivolò dal sedile e non cadde solo perché Mark era ancora aggrappato ai suoi capelli. L’urlo di dolore che la ragazza lanciò attirò inevitabilmente l’attenzione di alcune persone sia dietro che davanti a loro.
Dannazione!
Il treno tornò a muoversi normalmente. Kira piangeva dal male, tastandosi la testa per assicurarsi di avere ancora i capelli attaccati al cranio e imprecando verso Lenders.
«Stronzo, demente, imbecille! Mi hai quasi staccato le testa!»
«Ringrazia il cielo che ti ho tenuta, cretina, o ti saresti ribaltata sulle rotaie!» Quando lei si incavolava dava sfogo al francesismo più puro. Che ragazza fine…
«Cretino sarai tu e quelle tue zampacce maledette! Che diavolo ti sei attaccato a fare ai miei capelli?!»
Una mano picchiettò sulla spalla del capitano della Toho. «Mark? Sei tu?»
Kira alzò lo sguardo sul ragazzo alle spalle di Mark, notando a poca distanza altri cinque o sei estranei della loro età sfoderare sguardi curiosi in direzione di Lenders.
«Sono loro che non devono vederti?»
Cretina, deficiente, linguaccia della malora…
Ormai era inutile nascondersi. Mark prese coraggio e si voltò, salutando Bruce, Holly e gli altri con voce inespressiva. «Ehilà»
Immediatamente, Paul, Ted e Johnny sghignazzarono. Holly invece lo salutò con un sorriso.
«Che sorpresa, Mark! Come stai?»
«Ehm…bene» Beh, rannicchiato su quel gorilla non stava poi tanto bene.
Il viso di Bruce Harper si deformò in un ghigno ebete. «Non sapevo ti piacessero queste attrazioni, Lenders. Che vergogna, non sei più un bambino»
«Potrei dire la stessa cosa di voi altri, se è per questo»
Bruce rimpicciolì, il trio della Saint Francis smise di ridacchiare e Holly e gli altri sfoggiarono sorrisi imbarazzati.
«In effetti hai ragione, ma ogni tanto è bello tornare bambini» disse Tom. Tra i ragazzi della New team, Becker era quello ad avere più confidenza con Mark per il fatto di essere stati compagni per un anno alla Muppet.
«Sei da solo?» continuò Holly come nulla fosse. «Perché se sì puoi unirti a noi»
Nemmeno se mi paghi… «Non sono solo»
«Oh, capisco». Holly allungò il collo per guardare meglio la ragazza sul vagoncino antistante.
Kira incrociò lo sguardo del numero dieci della New Team. Holly le sorrise, lei ricambiò.
«Ciao» la salutò timidamente Hutton. «Sei una parente di Mark?»
«Ehm, no. Sono una sua compagna di classe. Mi chiamo Kira Brighton, piacere»
Era certamente uno strano modo di conoscersi, e ancor più lo era il luogo.
«Ooohhh! Lenders si è trovato la ragazza!» cantilenò Bruce sfoderando un sorriso stupidissimo. Si sporse verso Mark e gli diede un paio di manate sulla schiena. «Ma bravo! Invece di allentarti per il campionato porti fuori la tua fidanzata, eh?»
«Dai Bruce, smettila…» lo ammonì Tom, conoscendo fin troppo bene il temperamento di Lenders e sapendo quanto lo infastidissero certe cose.
In risposta, Mark allontanò bruscamente la mano di Bruce, alzandosi in piedi con aria aggressiva. «Tieni a freno quella lingua, Harper, o te la farò ingoiare alla prima partita di campionato!»
«Sto solo scherzando» si difese Bruce, ma ormai la bomba era innescata.
Mark puntò un dito contro i ragazzi della New Team. «Statemi a sentire, mezze calzette: quest’anno la vittoria sarà della Toho! Allenatevi per bene o sarò io a ridere di voi la prossima volta che ci vedremo!»
«Ma noi non…» riprese Holly senza avere il tempo di concludere.
«Mark, dove vai?» esclamò Kira.
A una nuova curva il trenino rallentò un poco e Mark e saltò a terra.
Kira ignorò gli altri ragazzi e scendendo dalla giraffa, lo seguì.
 
 
 
«Ma insomma, qual è il problema?». Lei cercava di farlo parlare ma Mark si era chiuso all’improvviso in un mutismo ostinato. Possibile che i giocatori della New Team avessero un effetto così incendiario sul suo umore? Tutte le volte in cui Mark aveva affermato di non sopportarla si convertivano in un eufemismo di fronte all’odio palpabile di quel momento.
«Senti, anche se ti hanno visto su quel trenino che importanza vuoi che abbia? Ci sono saliti pure loro»
«Non è questo, Kira!» Mark parlò per la prima volta dopo diversi minuti di silenzio. Camminava a passo spedito davanti a lei, poi si voltò a fronteggiarla. «Sono loro il problema! La New Team al completò lo è, Hutton in prima linea!»
Nessuno riusciva a fargli saltare i nervi come lui! Bastava incrociarlo a smuovere il suo animo suscettibile.
«Una volta abbiamo giocato insieme. Due anni fa, dopo il campionato nazionale, nell’estate tra la sesta elementare e la prima media vennero convocati i migliori giocatori under quindici per formare la nuova nazionale giovanile giapponese» ricominciò, voltando di nuovo le spalle alla pattinatrice. Lei rimase ferma ad ascoltare. «Io, Ed e Danny fummo chiamati nella squadra insieme a molti altri ragazzi che avevamo affrontato durante il campionato. Ci fu un ritiro in Francia per giocare i mondiali juniores. Arrivammo secondi». Kira non trattenne un’esclamazione ammirata ma Mark la fermò dal fare altri commenti. «Da quando abbiamo giocato come compagni, le cose tra me e Holly sono un po’ cambiate. C’è rispetto tra noi, ma io…»
«Tu non sei soddisfatto» concluse Kira per lui. Fece un paio di passi e azzerò la distanza. «Anch’io non sono contenta di me stessa. L’anno scorso sono arrivata quinta ai campionati scolastici: c’è chi dice sia un buon punteggio per una principiante, ma io non mi accontento. Io voglio la medaglia d’oro, anche se è solo una gara tra scuole»
Mark annuì lentamente, le labbra socchiuse in un’espressione di stupore. Sì, era esattamente quello: la prima posizione, l’essere riconosciuti come i migliori, i più forti.
Lei lo capiva.
Kira sorrise appena. «È un chiodo fisso, vero?»
«Lo è»
«Lo so, Mark. Anch’io quando sono tornata sulla pista e in palestra dopo le gare continuavo a ripetermi: “devo recuperare. Devo diventare più forte”»
«Vedere la New Team mi ha…dato fastidio» proseguì lui stringendo i pugni. «Ogni volta che penso al campionato so di essere indietro rispetto a Holly. So che mi manca qualcosa per fare il salto di qualità, per raggiungerlo in tecnica e bravura, per diventare come lui. Ma non so cosa!»
Lo ammise con difficoltà. Non era abituato a esternare i propri sentimenti a qualcuno. Solitamente teneva tutto dentro e si sfogava giocando a calcio, non parlando. Solamente con Ed e Danny riusciva ad aprirsi e nemmeno sempre. Aveva un carattere chiuso per natura.
Avvertì il tocco leggero di lei sul braccio.
«Ti capisco, Mark. Comunque non devi rovinarti la giornata per questo»
«Eh?»
«Io non conosco bene Oliver Hutton ma ho visto come gioca e se qualcuno può eguagliarti, quello è proprio lui. Avete un modo molto diverso di giocare ma possedete la stessa determinazione. Però ti devi ricordare che tu non sei lui»
Gli faceva la predica? «Questo lo so bene!» scattò, allontanando il braccio così che lei non poté più toccarlo. Si era sbagliato, non capiva.
Kira indurì lo sguardo restando immobile. «No, non lo sai. Se lo sapessi ti impegneresti per affinare le tue capacità e non per imitare le sue.  Non sarete mai uguali per quanto ci provi»
Istintivamente, Mark chiuse di nuovo le mani a pungo. «Cosa vuoi dire con questo? Che dovrò rassegnarmi a rimanere in seconda linea?!»
«No, ma tu stesso hai affermato poco fa di voler essere come lui»
«Non intendevo dire che il mio scopo è emularlo!»
«Appunto!» Kira puntò le mani sui fianchi. «Sostieni di voler diventare come Oliver Hutton, ma tu sei Mark Lenders!»
Mark rilasciò le dita, le spalle si distesero. Holly era il suo rivale, la sua nemesi, non un avversario qualunque ma il peggiore e il migliore al tempo stesso. Da lui poteva imparare ma non doveva imitare. Lui era Mark. Holly era Holly.
E Kira aveva ragione.
«Scusa» le disse. «Non volevo aggredirti»
«Oh, figurati». Lei gli sorrise. «Sai, spesso anch’io cerco di copiare le grandi campionesse che vedo gareggiare in tv, ma poi riconosco il mio errore. Posso arricchirmi guardando le tecniche altrui, capire dove sono debole rispetto a un’avversaria e dove sono più forte, ma non devo mai ricalcare le orme di qualcun altro»
«Cavolo…»Mark sbuffò una risatina.
«Che c’è?»
«Sembrano le parole di Jeff Turner»
Kira fece un'espressione smarrita. «Chi?»
«Il mio vecchio mister. Parlava sempre di non prendere mai a modello nessuno, nemmeno i nostri idoli»
Kira mosse brevemente la testa da una parte. «Mh. Non aveva torto»
Mark tirò un respiro. Si era calmato.
Era destabilizzato da come lei riuscisse a infondergli sensazioni positive. Non era bravo a dare una definizione alle cose ma in fondo lo sapeva: voleva bene a Kira, solo che ogni volta era una rivelazione rendersene conto e molto più difficile era esprimerlo. Non considerò nemmeno per un istante la possibilità che lei iniziasse a piacergli, ma dovette dare atto alle tesi di Ed: c’era un legame tra loro, viaggiavano sulla stessa lunghezza d’onda e sembrava che qualsiasi cosa accadesse si ritrovassero comunque destinati a condividere ogni cosa. Provò una nuova sensazione che null’altro poteva essere se non empatia.
«Coraggio, decidiamo la prossima meta» lo invogliò Kira tirandolo per un braccio.
Mark voltò lo sguardo intorno con trascuratezza. «Fai tu, per me è uguale»
«Oh, guarda!» disse lei, indicando un punto poco avanti a loro nascosto da alte siepi incolte. Erano giunti nei pressi della Casa degli Orrori. «Entriamo?»
Lui osservò la casa con poco entusiasmo. «Sei proprio sicura di voler andare là?»
«Sì, certo. È da quando siamo arrivati che non vedo l’ora di provarla»
Kira sembrava elettrizzata alla prospettiva ma lui non era per nulla convinto. «Va bene, ma vedi di non starnazzare come una papera ad ogni mostro che salta fuori. Sarebbe estremamente fastidioso nonché imbarazzante»
 
 
L’attrazione più terrificante del Tokyo Magic Land era una casa in stile vittoriano dalle mura fatiscenti e un incolto giardino sul davanti. Evidentemente era una delle strutture più frequentate poiché vi era un mucchio di gente in fila. Due attori vestiti e truccati da macabri portieri sogghignavano agli astanti che varcavano il cigolante portone a doppio battente, il quale si apriva e richiudeva autonomamente dando su una sala d’attesa quasi totalmente avvolta nel buio. Mark si sentiva un po’ stupido e forse soffriva anche un po’ di claustrofobia; al contrario di Kira che sembrava divertirsi un mondo.
«Non sapevo ti piacesse questo genere di cose» le sussurrò piegandosi leggermente verso di lei quando furono all'interno.
«Oh, sì. Amo il brivido» rispose la pattinatrice, guardandosi attorno per capire da che punto avrebbero dovuto proseguire.
D’un tratto una voce cavernosa spezzò il silenzio, presagendo il peggio per i visitatori che avessero osato varcare la soglia della casa. Un tuono risuonò nell'atrio semibuio, qualcuno gridò alla luce del lampo.
Mark udì Kira dire: «Comincia a farsi interessante».
Sul lato destro della stanza si aprì una parete, rivelando al di là un corridoio dove altri attori truccati con facce bianche simili a scheletri dividevano gli ospiti in gruppi di dieci persone. Non c’erano rotaie come Mark aveva immaginato, era un tour a piedi.
In sottofondo partì una strana musichetta accompagnata da suoni sinistri. Salirono un’ampia scalinata che conduceva al primo piano, dove iniziarono gli orrori veri e propri. Nel salone, un camino grande come una caverna sprizzò fuoco all’improvviso e forme grottesche presero a danzare nelle fiamme. Proiezioni di fantasmi svolazzanti passavano loro accanto, sparendo e apparendo tutto intorno con le loro facce deformi, le mani scheletriche.
Tutte le luci si spensero e le figure bianche iniziarono a vorticare per la stanza. Poi, il pavimento prese a muoversi, a salire.
Kira si riteneva piuttosto coraggiosa ma in quel momento non poté fare a meno di aggrapparsi forte al braccio di Mark, notando con stupore che anche lui cercava un contatto.
Il calciatore cercò di vedere il viso di lei nel riflesso delle proiezioni degli spettri. Kira gli restituì un sorriso nervoso. Quello faceva paura.
La pavimentazione tornò immobile e si riaccesero le luci: tenui, bluastre candele appese in candelabri sulle pareti di un lungo corridoio. La scenografia era cambiata. Iniziarono a percorrerlo e dalle mura subito spuntarono altri mostri urlanti, facendo urlare anche la gente. Poi, dalle pareti scesero enormi ragni e altre creature non ben identificate.
Kira cacciò un urlo assordante. «NOOOO! I RAGNI NOOO!!!»
Chiunque fosse il costruttore di quell’attrazione aveva lavorato proprio bene. Era tutto molto credibile, i ragni sembravano veri e per un attimo anche Mark vacillò di fronte alle grosse bestie nere che zampettavano sul pavimento. Non doveva aver paura, erano solo altre proiezioni, o magari pupazzi animati. Era anche sicuro che senza la musica lugubre, le luci che si accendevano e spegnevano abilmente e tutta la gente che gridava, avrebbe fatto molta meno impressione.
Kira gli si appiccicò addosso come se avesse l’intenzione di saltargli in braccio. Molte persone attorno a loro sembravano condividere il suo stato d’animo.
Dopo il corridoio sbucarono dentro una serra putrescente che dava su un cimitero, dal quale i morti viventi iniziarono a saltare fuori dal terreno: mani, braccia, corpi interi, proprio nel mezzo del passaggio.
«AIUTOOO!» esclamò la pattinatrice quando una mano le sfiorò la caviglia.
«Kira! Mi stai strozzando!» Mark tentò invano di levarsi le braccia di lei dal collo. «Ma non avevi detto di amare il brivido?!»
«S-sìsìsì ma…la casa dei fantasmi di Disneyland Tokyo non era così spaventosa!»
«Non sono tutte uguali, genio»
Un cadavere salì da una pozza d’acqua stagnate, la pelle e i vestiti a brandelli. Allungò le braccia e si sporse verso i visitatori generando un grido unanime, Mark incluso.
«Ma che razza di posto è questo?!»
«AAARGH!!!!!! VOGLIO USCIRE DA QUIII!!!» ululò Kira sconvolta. All’urlo successivo si riattaccò a Mark come un marsupiale all’albero.
In realtà, se lui avesse potuto si sarebbe messo a correre per raggiungere l’uscita prima di subito. Purtroppo era impossibile, ovviamente, dovevano attendere che il tour della casa finisse.
Alla fine del cimitero entrarono in una cripta dove i vampiri si alzavano dalle tombe facendo versi terrificanti. Poi fu il turno della tana di un lupo mannaro, anzi più lupi, che digrignavano i denti insanguinati e sparivano e apparivano dalla foresta fittizia che contornava la corsia. Gli ululati li accompagnarono fin nell’ultimo tratto, dove un calderone ribolliva e il pupazzo di una strega orrenda salutava i visitatori. Infine…l’uscita.
«Mio Dio, che esperienza terribile…» mormorò Mark sorreggendosi a un muretto.
«A me è piaciuto un sacco! Faceva paura, vero?» disse Kira, rabbrividendo d’entusiasmo.
Mark spostò gli occhi sbarrati sul viso di lei: era la serenità in persona. «Ma se hai urlato tutto il tempo! Come puoi trovarlo divertente?»
«È proprio questo il bello! Se entri senza avere un minimo di paura è del tutto inutile entrarci» Sogghignò, guardandolo appoggiato al muretto che tentava ancora di riprendersi. «Hai avuto paura, eh?»
Mark si staccò dalla parete. «Tu non sei normale»
«Ammettilo, non c’è mica niente di male»
«Tu-non-sei-normale» ripeté il ragazzo, agguantandola con un braccio attorno al collo.
Lei rise. «Mark Lenders ha paura dei fantasmi» lo canzonò.
«Facevano più orrore i ragni»
«Brrr! Sono d’accordo. I ragni facevano proprio schifo. E anche quegli zombie che saltavano fuori ovunque…»
«E quello che è sbucato dal lago…»
«I lupi mannari non mi hanno impressionato tanto, però erano fatti bene»
«Bugiarda, hai urlato anche con quelli»
Continuarono a parlare della Casa degli Orrori, percorrendo la strada fino al Castello delle Fiabe. Con un braccio molleggiato sulle spalle di Kira, Mark la ascoltava raccontargli quanto meno impressionante fosse stata la Casa dei Fantasmi di Disneyland Tokyo, anche se altrettanto credibile e affascinante. Mark non c’era mai stato, così Kira gli promise che la prossima volta che fossero andati in un parco divertimenti sarebbe stato proprio a Disneyland, magari anche in compagnia di Ed e Danny.
In seguito, lei volle sapere chi aveva vinto quella sfida. Mark ricordò di averle detto che sull’ottovolante era stato lui ad avere la meglio perché lei aveva serrato gli occhi, ma per quanto riguardava la Casa degli Orrori potevano considerarsi pari.
«Mm…aspetta» fece lei pensierosa. «Messa in questi termini vorrebbe dire che siamo uno a zero per te». Se tutte le vecchie sfide erano finite in parità e lui aveva vinto sull’ottovolante… «Accidenti! Voglio la rivincita!»
«Potrei anche dartela, ma saresti sempre sotto di un punto». Mark usò un tono leggermente divertito. Vide che lei attendeva una spiegazione più chiara. Ora l’avrebbe fatta arrabbiare. «Ricordi la partita di baseball?»
Kira annuì. Certo che la ricordava.
«Beh, mia cara, prima che tu rompessi la finestra della presidenza, io avevo segnato un punto. Se tu in seguito non avessi spedito la palla fuori avresti potuto pareggiare, ma…»
Una piccola ruga le increspò la fronte. Lei a questo particolare non aveva più pensato, se n’era perfino dimenticata. «Quel punto era nullo. La sfida era stata sospesa»
«Ma era pur sempre un punto. Perciò, siamo due a zero per me». Lui mimò il numero con le dita.
«Tu non hai vinto quella partita, Mark»
«Oh, sì che ho vinto»
«No!»
Il calciatore si allontanò pacatamente ai piedi del Castello, dove si trovava un gazebo per il tiro a segno. «Allora, svampitella: la vuoi la rivincita?»
«Certo che sì!» Kira lo raggiunse a gran passi, sistemandosi le maniche della maglietta arrotolandole sulle spalle. (1) «Ora ti faccio vedere io…»
«Salve ragazzi, volete provare?» li accolse l’uomo dietro il banchetto.
«Che bisogna fare?» chiese Mark.
«Prendi il fucile ad aria compressa e spara a quanti più palloncini possibile. Hai dieci tiri a disposizione»
Una ruota metallica a cui erano agganciati una decina di palloncini colorati iniziò a girare lentamente, acquistando velocità man mano che il gioco continuava. Mark afferrò il fucile mettendosi in posizione. Chiuse l’occhio sinistro e mirò: uno, due, tre palloncini in sequenza. Mancò il quarto, il quinto lo prese, i successivi due gli sfuggirono; l’ottavo scoppiò, acchiappò il nono e di nuovo mancò l’ultimo.
Il giostraio gli regalò un sorriso soddisfatto, insieme ai suoi complimenti e al premio. «Sei su dieci. Mica male, ragazzo, mica male. Per te c’è questo». L’uomo parve imbarazzato e dispiaciuto nel porgerli il pupazzo di un cagnolino bianco con un gran fiocco rosso al collo. Ma Mark accettò comunque.
«Lo regalerò alla mia sorellina, le piacerà sicuramente». Il capitano della Toho infilò sottobraccio il pupazzo, poi, con l’aria di chi sa di aver già vinto, passò il fucile a Kira. «Prego, miss»
«Grazie». Kira lo afferrò e prese posizione, busto piegato e sedere in fuori.
Mark le scoccò uno sguardo incerto. C’era proprio bisogno di mettere in mostra le chiappe? «Tanto non ne beccherai che un paio»
«Un giorno ti pentirai di avermi sempre sottovalutata, Lenders». Kira iniziò a sparare ai palloncini, un colpo dopo l’altro – giallo, rosso – precisa e paziente – blu, arancione. Quando non fu sicura di centrare il bersaglio si fermò. La ruota cominciò a girare appena più lenta e lei riprese a sparare – rosa, verde e giallo andati – era una questione di attesa, Mark aveva troppa poca pazienza – viola, azzurro, fucsia. Finiti.
Si rimise dritta, soffiando sopra la canna del fucile. «Che classe, eh?»
Il giostraio rise allegramente. «Accidenti, ragazzina, dove hai imparato a sparare così?»
«Giocando ai videogame» rispose Kira, impaziente di ricevere il suo premio. «Cosa vinco?»
Mark la fissò sbuffando a braccia conserte, mentre lei accettava un enorme tigre di peluche con un gran sorriso di soddisfazione e gioia. Sbagliava davvero a sottovalutarla ogni volta.
«Non te ne andrai mica in giro con quella roba lì in braccio, vero?»
Kira affondò la guancia nel morbido pelo sintetico. «Non è un amore? È super morbidosissimo»
«Cos’è?!» Mark fece uno sguardo da miope ma lei non gli diede retta.
«Credi che faremo in tempo a fare qualcos’altro prima di tornare da tua madre?». Kira guardò l’orologio. Segnava le cinque meno un quarto. 
Mark non rispose. Teneva il viso contratto dal dispetto, facendo roteare in aria il cane di peluche e riprendendolo al volo.
«Oh, non farla lunga perché hai perso» lo apostrofò Kira, battendogli su una spalla. «Capisco, è seccante per uno scimmione nerboruto come te che una fanciulla bella e aggraziata come la sottoscritta abbia avuto la meglio al tiro a segno»
Mark le strofinò il cagnolino di peluche sulla faccia. «Non vedo fanciulle aggraziate né tanto meno belle, solo una ragazzetta boriosa con la lingua lunga»
«Smettila!» Kira gli strappò il cagnolino dalle mani. «Avrò pietà di te e un giorno ti inviterò da me per insegnarti a migliorare la mira»
Lui si riprese il peluche, sollevando un sopracciglio. «Giocando ai videogame?»
«Certo! Guarda che è vero che ho imparato così, mica l’ho detto tanto per dire»
Mark sembrò non crederle.
«A casa abbiamo una consolle Nintendo» spiegò allora Kira. «A mio padre piacciono molto i giochi sparatutto, quelli in cui si utilizza la pistola ottica (2). Gli ho regalato giusto un mese fa uno degli ultimi usciti, per il suo compleanno»
«Parli sul serio?» Il padre di Kira giocava con il Nintendo?
«Lo trovi strano?»
«N-no... Anzi sì, un po’»
A Mark scappò un sorriso imbarazzato, ma lei parve capirne il motivo.
«Mio padre è un tipo bizzarro. Adora questo genere di cose come i videogame, e colleziona modellini di robot che si vedono negli anime fantascientifici. Mia madre dice che è un bambino cresciuto e che io sono uguale a lui»
Mark la fissò a bocca aperta. «Aspetta: mi stai dicendo che tuo padre è un otaku?!»
Kira rise di gusto. «Non proprio. Credo lo sarebbe se avesse più tempo per coltivare le sue passioni, ma sai, è sempre in medio oriente per lavoro e spesso manca da casa per mesi»
«E quando è a casa, tu giochi con lui a questi giochi sparatutto?» le chiese Mark. Non ce la vedeva, ma lei sfatò i suoi dubbi una volta per tutte.
«Si capisce! Ti ho detto o no che ho imparato grazie ai videogame? Appena possiamo facciamo delle lunghe partite, anche se mia madre rompe le scatole» Kira arricciò il naso. «Dice che le facciamo venire mal di testa con tutti quei rumori. Mia madre è abbastanza noiosa»
Mark provò ad immaginare Risa Brighton rimproverare Kira e suo padre seduti sul tappeto di casa a sfidarsi. Provò un moto di nostalgia non desiderata, eppure inevitabile. Lui non aveva mai giocato ai videogame con suo padre... Però, allo stesso modo in cui si era divertita Kira, anche lui aveva corso e riso insieme a John per pomeriggi interi sul campetto pubblico di Saitama, o nel parco dietro casa. Lunghe giornate spensierate passate con papà a giocare a calcio, finché la luce svaniva dietro i tetti delle case di un bel quartiere residenziale e la mamma non li richiamava perché era pronta la cena. Matt non era ancora nato a quel tempo. Sembrava una vita fa ma erano passati solo pochi anni.
«Sei mai stata al Luna Park con tuo padre? Disneyland a parte»
Kira annuì, gli occhi che brillavano mentre parlava di Kei Brighton. «Ero piccolina quando mi ha portato in un parco giochi come questo per la prima volta. Volevo salire sulle giostre dei grandi, come i tuoi fratelli»
«Io non ricordo l’ultima volta che sono venuto al Luna Park con mio padre». Erano stati al mare, allo zoo, al planetario, alla mostra sui dinosauri… ma al Luna Park forse mai. Non lo rammentava affatto.
Mark scacciò quei pensieri e si accorse che Kira lo stava fissando. Immobile, stringeva tra le braccia la sua enorme tigre e sembrava sul punto di parlare. Mark intuì la domanda in arrivo. Fu pronto ad erigere un muro, ma il momento fu interrotto da un coro di voci che li chiamavano entrambi.
Camminando e parlando si erano spinti sotto il Castello delle Fiabe, dove li stavano già aspettando la signora Lenders con i bambini. Quando li raggiunsero, i fratellini si strinsero intorno a Mark, lanciandosi nel racconto di ciò che avevano visto mentre lui e Kira non c’erano.
«Allora andavano veloci i vagoni del Far West?» domandò ai fratelli.
«Sì!!!» gli rispose un coretto perfettamente sincronizzato.
«E voi cosa avete fatto?» chiese Nathalie, ammirando la gigantesca tigre di peluche in braccio a Kira.
«Siamo andati sulle montagne russe, sul trenino degli animali nella Casa degli Orrori, fatto una gara di tiro a segno… e questo è per te» Mark tirò fuori da dietro la schiena il cagnolino di peluche.
«Oohh! Che carino!» Nathalie strinse il pupazzo al petto e abbracciò il ragazzo in vita. «Grazie, fratellone!»
Lui le accarezzò il caschetto nero sorridendo affettuosamente.
«Avete giocato al tiro a segno?» chiese Teddy con l’aria di chi ha voglia di provare. «E chi ha vinto?»
«Io» risposero all’unisono Mark e Kira, scambiandosi un’occhiata ostinata.
«E noi? E noi?» si fece sentire il piccolo Matt.
Mark lo prese in braccio, rivolgendosi sia a lui che a Teddy. «Volete un peluche anche voi?»
Teddy sorrise esitante. Si sentiva un po’ grandicello per un peluche ma gli sarebbe piaciuto provare a vincere qualcosa. «Mi piacerebbe un pupazzo grande come quello di Kira-san» ammise.
«Io voglio un pesce rosso» esclamò invece Matt, lasciando tutti perplessi.
«Un pesce?» fece Mark, chiedendosi dove mai potesse prendergliene uno in quel parco.
Il piccolo Lenders indicò con la manina un altro gazebo simile a quello in cui il fratello e Kira avevano sparato ai palloncini. «Là ci sono i pesciolini. Me ne vinci uno, Mark?»
«Oh, la pesca dei cigni» disse Judith, capendo a cosa si riferisse. Era passata davanti al chioschetto con i bambini solo pochi minuti prima. Matt doveva aver visto i pesci allora.
Il meccanismo della pesca era molto semplice: bastava far passare l’occhiello di una canna da pesca attorno al collo dei cigni di plastica sistemati in una vasca. La difficoltà in questo caso stava nel fatto che la vasca era sistemata su un piano girevole. Ma Mark fu abile e ne acchiappò il numero giusto per vincere proprio ciò che il fratellino aveva chiesto.
«Ecco qua» disse, consegnando a Matt un sacchettino trasparente al cui interno nuotava pigramente un grazioso pesciolino. Nathalie e Teddy – col suo nuovo elefante azzurro di peluche sottobraccio – si chinarono per ammirare l’animaletto e decidere quale fosse il luogo migliore per collocarlo una volta a casa.


Un’altra voce all’altoparlante avvertì i visitatori del parco di prendere posto nell’anfiteatro ai piedi del Castello per lo spettacolo degli eroi, durante il quale era previsto l’intervento di alcuni attori vestiti da celebri personaggi dei cartoni animati.
Le gradinate erano già gremite e fu difficile trovare un posto per sedere tutti vicini. Kira e Judith si accomodarono così su uno degli ultimi gradini in alto, mentre Mark condusse i fratelli un po’ giù, dove il palco si vedeva meglio.
«Kira-san, non sei costretta a rimanere qui con me» disse la signora Lenders. «Va pure a raggiungere Mark e gli altri»
La ragazza scosse la testa con un sorriso. «No, rimango qui. Se scendessi, lei rimarrebbe da sola e mi dispiacerebbe»
«Sei molto cara, grazie»
I bambini riuniti nell'anfiteatro esultarono quando partì una musica nota ai più: la sigla di un famoso cartone di supereroi. Kira vide la signora Lenders allungare il collo per controllare che i figli più piccoli facessero i bravi. Fece la stessa cosa e vide Matt e Nathalie che battevano le mani a ritmo; Mark doveva avere la situazione sotto controllo.
Le sorse spontanea la domanda. «Sono molto legati, vero?»
Judith si voltò verso di lei a intervalli. «Oh, sì, moltissimo»
«Mark è quasi irriconoscibile quando sta con loro. A scuola non è mai così spontaneo»
La signora Lenders si mosse sul gradino, mettendo le mani in grembo una sopra l’altra. «So bene che mio figlio possiede un carattere difficile, ma è un bravo ragazzo»
«Ma certo che lo è. Ho imparato a conoscerlo, ormai: è un tipo introverso ma non è cattivo. Io sto molto bene con lui»
Judith ammirò la sincerità con cui quella ragazza parlava agli altri. Non era un tratto tipico della loro società. «Sono felice che Mark abbia trovato una persona come te»
«Oh, no!» negò la pattinatrice in tono acceso. «Io e suo figlio non stiamo insieme!»
Judith piegò le labbra davanti a tanta risolutezza. «Certo che no. Siete solo amici»
«Sì, esatto». Kira prese a giocherellare con i baffi della grossa tigre di peluche. Era in imbarazzo. Anche la madre di Mark pensava che…
«Non è sempre stato così intrattabile» riprese la signora Lenders. «È cambiato molto dopo la morte del padre»
Kira sentì la terra aprirsi sotto i piedi. Il padre di Mark era…
Provò una sensazione di completo smarrimento. Tante erano state le sue congetture a riguardo e sì, doveva ammettere di aver considerato anche quello, ma non per davvero. Immaginava piuttosto un genitore assente, o che avesse lasciato la famiglia dopo un divorzio, ma non che…
Judith notò la sua espressione attonita. «Non…non te lo aveva detto?»
«No» esalò Kira con un filo di voce, scuotendo il capo lentamente.
Judith sostenne il suo sguardo smarrito per qualche istante, poi distolse gli occhi. «Mark non ne parla volentieri, perciò non mi stupisce che non l’abbia fatto. Sai, era molto legato a suo padre e quando è venuto a mancare è stato come se anche una parte di lui fosse svanita con mio marito. Ha sempre avuto un carattere introverso e caparbio ma era anche un bambino molto dolce. È cresciuto così in fretta rispetto ai suoi coetanei…»
Non dica altro, pensò Kira. Aveva voluto saperlo ma adesso sentiva che era un discorso troppo personale. Eppure rimase seduta ad ascoltare.
«Ricordo che una volta Mark sfidò tre bambini più grandi di lui per il possesso di un pallone da calcio (3). Vennero quasi a botte e quando suo padre lo scoprì non lo sgridò, anzi, si congratulò con lui per la sua tenacia». Judith si lasciò andare ad un sorriso ricordando l'episodio, tornando malinconica subito dopo. «Quando John ci lasciò, Mark mantenne entrambe le promesse che gli fece poco prima che morisse: diventare un calciatore professionista e prendersi cura della famiglia. Aveva solo nove anni ma si assunse il compito di badare ai fratellini come fosse stato loro padre, e così è tutt’oggi. Il mio Mark è un ragazzo di gran cuore»
Lo so, avrebbe voluto dire Kira, ma le si era formato un groppo in gola che proprio non riusciva a scacciar via. Era comprensibile il perché Mark non le avesse mai confidato nulla. C’era una crepa profonda dentro il suo animo che nessuno sarebbe mai riuscito a ricucire.
Spostò lo sguardo verso i quattro fratelli Lenders ma si rese conto di non riuscire a vederli bene. Un velo di lacrime le offuscava la vista. Il breve racconto della signora Lenders l’aveva segnata più di quanto pensasse.
«Ahi…». Con uno scatto, la ragazza si portò la mano all’occhio destro. Oh cavolo, le lenti a contatto!
«Cosa c’è?» Judith si chinò verso di lei.
La pattinatrice piegò in fretta la testa. «Niente. Mi scusi, vado un attimo in bagno» Si alzò dalla gradinata e corse verso i servizi pubblici più vicini.
 
 
 
Qualcosa lo spinse a voltarsi per controllare che la mamma e Kira fossero ancora dove le aveva lasciate. Le vide parlare tra loro tranquillamente. Chissà cosa stavano dicendo…? Tornò a prestare attenzione allo spettacolo, tenendo Matt sulle ginocchia perché avesse una visuale migliore. Poco dopo si voltò di nuovo e vide Kira alzarsi in fretta e correre via. Sembrava...sconvolta. Ma non era possibile che mamma avesse detto qualcosa di male e l’avesse offesa. Sua madre era sempre altamente rispettosa con tutti, sapeva ponderare bene le parole, al contrario di lui.
«Venite» disse ai fratelli, facendo scendere Matt dalle proprie gambe.
«Dobbiamo già andare via?» chiese Teddy.
«No, ma finirete di guardare lo spettacolo vicino alla mamma. Forza»
Obbedienti come sempre quando Mark disponeva qualcosa, i tre bambini si alzarono dal loro posto arrampicandosi tra la gente verso i gradini più alti.
Vedendoli arrivare, Judith rivolse loro uno sguardo perplesso. «È successo qualcosa? Come mai siete saliti?»
«Nulla, è tutto okay» rispose Mark, lasciando la mano di Matt che andò a sedersi accanto alla madre. «Dov’è Kira?»
Judith gli rivolse uno sguardo mortificato. «È corsa in bagno tutt’a un tratto. Oh, caro, temo di averla turbata»
«Perché?» La mamma che turbava qualcuno? Impossibile.
«Stavamo parlando e le ho raccontato di tuo padre…»
Mark non fece commenti. Posò una mano sulla testa della grossa tigre di peluche che Kira aveva lasciato sui gradini. Per un attimo pensò che avesse deciso di andarsene. Se così fosse stato, lui non le avrebbe perdonato di aver rovinato una giornata praticamente perfetta. Ma se aveva lasciato il pupazzo significava che aveva intenzione di tornare.
«Mi dispiace, tesoro»
«Non è colpa tua, mamma, tranquilla». Ma nemmeno colpa di Kira. «Torno subito»
Mark si avviò a passo spedito verso le toilette poste in un angolo del castello, sotto una delle torri. Attese al di fuori per quelli che parvero minuti interminabili, pensando a cosa dirle una volta che fosse uscita.
Non ci stava mettendo un po’ troppo?
La porta si aprì, ma erano solo tre ragazze sconosciute che sghignazzavano di qualcosa che non afferrò. L’uscio rimase socchiuso: uno spiraglio lo invitava a guardare all’interno. Guardingo come un ladro, Mark spinse piano per sbirciare. Poi spalancò la porta, mettendo piede sul pavimento asciutto. Si complimentò intimamente per l’ottima manutenzione di quel parco; grazie a Dio i giapponesi erano un popolo molto rispettoso verso il prossimo. Richiuse l’uscio e sgattaiolò nell’antibagno dove c’erano altre due porte: uomini a sinistra, donne a destra.
Non poteva assolutamente entrare là dentro! Però…
Ma sì, chi se ne frega.
Afferrò la maniglia della porta di destra ma qualcuno dalla parte opposta l’aprì prima di lui.
«Kira…»
Lei trasalì nel trovarselo davanti. «Che diavolo fai nel bagno delle donne?!»
«Ah…ecco…» Mark indietreggiò come un animale in trappola. Era sicuro che lei avrebbe dato il via a una filippica sui maniaci, ma l’espressione del suo viso divenne così triste che quasi non la riconobbe.
«Stai bene?» Era la seconda volta in poche ore che Mark glielo domandava. «Mia madre ha detto che sei scappata via»
«Sì, io…». Kira aveva sciolto la coda e i capelli le circondavano il volto dagli occhi arrossati. Fece una lunga pausa, indecisa se dirgli o meno la verità. «Tua madre mi ha raccontato di tuo padre»
Di nuovo silenzio. Si guardarono. «Sì, me l’ha detto». Mark infilò le mani in tasca, puntando gli occhi a terra. In qualche modo lo infastidiva il pensiero che Kira lo avesse saputo. Non voleva la sua pietà. Non aveva bisogno di pietà. Nessuno ne aveva avuta quando suo padre era morto, tutt’altro: li avevano lasciati soli, solamente Sugimoto era rimasto ad aiutarli.
«Perché ne avete parlato?»
Kira alzò le spalle e scosse il capo una volta. «Non lo so. È successo». Sentì una lacrima scenderle su una guancia e l’asciugò in fretta. Ma ne scese un’altra e un’altra ancora. «Non pensavo che le cose stessero così. Mi domandavo spesso su tuo padre, solo che non credevo potesse essere questa la risposta»
«E che cosa pensavi, allora?»
«Che fosse sempre in giro per lavoro, come il mio, o…non lo so. Avevo diverse ipotesi»
«Perché piangi, Kira?» La voce di Mark tradì una nota seccata.
Lei abbassò il capo, i capelli davanti al viso. «Perché mi dispiace. Perché ora capisco tante cose» Kira tirò su col naso, tornando a guardarlo. «Sai, all’inizio mi eri antipatico a causa del tuo atteggiamento. Sembrava che tutto ti infastidisse e niente ti interessasse. Te ne fregavi dei commenti altrui, quando dicevano che eri lì solo per la borsa di studio invece che per la tua bravura. Poi ti ho visto la prima volta insieme alla tua famiglia e ho scoperto il tuo lato gentile; ho capito di sbagliarmi e ho iniziato ad affezionarmi a quella nuova parte di te»
Mark si mosse a disagio. Cosa aveva dato sua madre a Kira? Il siero della verità?
«Però non mi spiegavo perché a scuola continuavi a fare il prepotente e mi prendevi sempre in giro, soprattutto dopo che avevamo litigato» proseguì lei cacciando via altre lacrime. «E ti avrei mandato al diavolo definitivamente se non ti volessi bene, se non mi fossi resa conto che il tuo carattere chiuso e aggressivo, quando sembri non degnare nessuno della tua attenzione…sono tutte forme di difesa. Il fatto che tu abbia affrontato la morte di tuo padre quando eri solo un bambino ti ha costretto a cambiare. Adesso lo so»
Mark non parlò. Ordinò a sé stesso di rimproverarla, perché era stupida a frignare per una persona che non aveva conosciuto, non aveva senso. Non gli piaceva vederla così vulnerabile. Kira non era quel tipo di persona, lei era forte e decisa.
«Mi dispiace, Mark. Tanto»
Le lacrime sul suo viso stonavano come una macchia d’inchiostro su un lenzuolo bianco.
«Dai, smetti». Mosse mezzo passo in avanti allungando le braccia e semplicemente la strinse. Fu così naturale che gli sembrò di averlo fatto per tutta la vita. Kira non si spostò, ricambiando automaticamente la stretta.
Mark non pensava potesse rimanere tanto scossa. Rimase fermo con lei contro il petto, posando il mento sulla sua testa in attesa che si calmasse. Non singhiozzava ma lui sapeva che stava ancora piangendo.
Poi capì: non erano lacrime di pietà ma di amicizia.
«Grazie» mormorò contro i suoi capelli.
«Di cosa?» soffiò lei contro la sua spalla.
«Di piangere per mio padre»
«È stato un fulmine a ciel sereno. Non ero pronta»
Ora anche lui stava scoprendo un nuovo lato di lei: c’era tenerezza sotto il velo di orgoglio ed energia. Una Kira meno individualista, capace di condividere con lui un dolore tanto grande.
«È paradossale, lo sai?»
«Cosa?»
«Che io stia consolando te». La sentì ridere. Allentò la presa per guardarla: un sorriso stentato le attraversava il viso sottile. «Sei più carina quando ridi».
Così da vicino, Mark notò immediatamente il rossore farsi largo lentamente sulle sue guance.
Conscia di essersi imbarazzata, Kira partì al contrattacco. «Smettila immediatamente di provarci con me»
«Che schifo. Ma chi ci prova con te?»
Lei lo spinse via, sbuffando offesa. «Non cambierai mai! Sei e sarai sempre il solito arrogante buzzurro!»
Lui fece un sorrisino sghembo, felice di avere di nuovo di fronte la Kira che conosceva meglio. «Ehi, aspetta. Dove vai?» tentò di fermarla vedendola voltarsi di nuovo verso il bagno. «Dobbiamo tornare allo spettacolo»
«Devo sciacquarmi il viso, faccio in un secondo». Kira fece per richiudere la porta ma Mark la bloccò infilando un piede nel mezzo. «Mark, non seguirmi! Non puoi entrare qui!»
Lui ignorò la protesta. «Sicura di star bene?»
«Sì, certo» Lei si coprì gli occhi con una mano dandogli la schiena. Le si era spostata di nuovo una lente e bruciava da morire. Pazzesco, avevano tenuto sulle montagne russe e ora per poche lacrime minacciavano di levarsi.
«Kira…»
«Sto bene, ma tu esci di qui. È il bagno delle donne, e se non te ne vai subito ti spedisco giù per la tazza del water»
 

 
 
***** ***** ***** ***** *****
 
Note:
 
1 - Come tutti sappiamo, una delle peculiarità del personaggio di Mark Lenders è la maniera caratteristica di tenere le maniche della maglietta sempre arrotolate sulle spalle. Qui ho voluto creare un parallelismo con Kira ;)
 
2 - La pistola ottica, detta anche light gun, è una periferica a forma di arma da fuoco, usata nei videogiochi sparatutto delle sale giochi e in seguito con console Nintendo e SEGA, negli anni ottanta e novanta. L’uso delle pistole ottiche è diminuito nel tempo causa l'impossibilità di utilizzarlo con monitor di televisori LCD. (fonte Wikipedia)
 
3 - Piccolo riferimento alla serie originale di Captain Tsubasa, dove si racconta la morte del padre di Mark.
 
***** ***** ***** ***** *****

 
Hello carissime, come state? Io mi sto lentamente sciogliendo, vivo di ghiaccioli e piscine sognando il mare della Liguria (arriveròòòò!!!). Amo l’estate, ma quasi quaranta gradi con il sessanta per cento di umidità non sono esattamente il massimo.
Va bene, basta, tanto so che non ve ne frega niente di sapere cosa faccio io. xD Però io vorrei tanto sapere cosa state pensando in questo momento. Mi auguro come sempre che il capitolo sia stato di vostro gradimento anche se piuttosto lungo, ma non volevo dividerlo. E, soprattutto, spero tantissimo di non essere andata OC con il nostro Mark, né con Kira, visto che ho mostrato il suo lato fragile per la prima volta. Sto facendo grandi progetti per questi due, sappiatelo!!
Vi è piaciuto il piccolo cameo della New Team? Lo so, Tom in teoria non dovrebbe esserci visto che sarebbe in Francia e non tornerebbe in Giappone fino alla terza media, ma volevo che apparisse. Un po' di licenza poetica, dai xD
Forza, commentate e non trattenetevi!
 
Ringrazio tutte voi che leggete, avete inserito la storia nelle preferite/seguite/ricordate, e che mi aspettate sempre con pazienza.
Se volete conoscere il prossimo aggiornamento di "Haru no toki", vi invito a iscrivervi al mio gruppo Facebook Chronicles of Queen. Vi aspetto!
Un bacio grande,
Susan <3

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 15. Piani di conquista ***


15. Piani di conquista 




Darren Grant richiuse la cartelletta blu scuro contenente gli appunti del discorso che avrebbe tenuto alla festa dello sport (1). Era pressoché identico a quello dello scorso anno ma la professoressa Amada riteneva fosse abbastanza esaustivo e perciò non necessitava né di aggiunte né cambiamenti, doveva solo accorciarlo un poco.
In quanto presidente del comitato studentesco, nei periodi in cui la scuola organizzava vari eventi, era sua responsabilità accertarsi di molte cose. Alla Toho era consuetudine che ogni anno fosse una sezione diversa ad occuparsi dell’allestimento, perciò era necessario stilare un elenco degli aspiranti organizzatori, dividere i compiti e dirigere insieme i lavori da svolgere. 
Ogni giorno, al termine delle lezioni, lui e gli altri membri del comitato studentesco si riunivano come piccoli adulti per parlare delle disposizioni da prendere in merito ai turni di pulizia, eventuali segnalazioni agli insegnanti sulla manutenzione dentro e fuori della scuola, raccogliere il denaro per gite o uscite didattiche e coordinare i festival scolastici.
Essendo Darren il miglior studente della Toho, non ci si aspettava nient’altro da lui se non che svolgesse il ruolo di presidente più che egregiamente. I compagni lo guardavano con ammirazione, soprattutto i kohai. 
Sistemò ordinatamente sul banco i libri per la prima lezione del lunedì mattina, quando la sua compagna di banco entrò in classe e gli sette accanto.
«Buongiorno, Milly-san. Hai passato bene il weekend?» domandò con garbo Darren.
«Abbastanza bene, grazie. Ho studiato per il compito in classe di questa settimana»
«Caspita: passare il sabato e la domenica a studiare… Quasi quasi non lo faccio neppure io» 
Milly afferrò la sfumatura sarcastica e gli restituì un sorriso pacato. «Ho dovuto: temo di non essere abbastanza preparata. Sai, ho diverse cose per la testa» 
«Hai ancora problemi con la tua amica Kira?»
Milly sospirò, aprendo il libro di inglese. «Un po’. Abbiamo avuto una discussione amara la settimana scorsa. Ma negli ultimi giorni le cose sono andate meglio»
Milly Benson era una ragazzina timida e insicura. Inizialmente, Darren non l’aveva trovata un minimo interessante ma col passare del tempo aveva visto in lei qualcosa di affine. Lui non era una persona insicura come si poteva supporre: la sua pacatezza, la padronanza di sé, erano il punto forte su cui faceva leva per ottenere il rispetto degli altri. Non avrebbe mai fatto niente per mettere in pericolo la propria reputazione, piuttosto sarebbe morto mordendosi la lingua.
Milly era come lui ma, sfortunatamente, non era equipaggiata né di freddezza né di furbizia; non possedeva altre armi oltre l’autocommiserazione e non aveva minimamente idea di come costruirsene. In questo, Darren sarebbe stato più che disposto a darle una mano se lei ne avesse data una a lui.
«Vorrei poter dire di essere contenta di come vanno le cose, invece non lo sono» proseguì lei. «Sai, ho chiesto a Kira-chan di smettere di vedere Lenders, almeno al di fuori delle ore scolastiche»
Darren capì che aveva seguito i suoi consigli. Bene. «Brighton si sta impegnando a restare fedele al patto?»
Milly fece un cenno vago con la testa che non volle dire sì e neppure no. «È un grande sforzo per lei»
«Sì, lo immagino. Da quello che si dice in giro, sono molto legati»
«È così»
Rimasero in silenzio. Milly strinse le mani sulle ginocchia, lo sguardo rivolto ad esse. Darren picchiettava con le unghie sulla superficie liscia del banco. I penetranti, sottili occhi neri di lui si fissarono in quelli lacrimosi della compagna. 
«Avanti, Milly san, su col morale. Senti, se vuoi posso darti una mano»
«N-non vedo cosa tu possa fare, Grant. E poi ti ho già disturbato abbastanza con le mie sciocche confidenze»
«Ognuno di noi crede che i suoi problemi siano i problemi del mondo. È normale». Le porse un fazzoletto di stoffa immacolato che lei accettò. «Ti aiuterò, a patto che tu aiuti me»
Milly lo guardò, accettando il fazzoletto. «Ti sarei molto grata, e sarei felice di fare qualcosa per ricambiare la tua gentilezza ma... non capisco perché ti interessano tanto questa faccenda» 
«Perché mi interessa Kira. Te l’ho già detto». Darren abbozzò un sorriso che non volle essere ironia, solo soddisfazione. Milly stava valutando la proposta senza sapere di aver già accettato.
«C-cosa dovrei fare, secondo te?» chiese, incerta.
«Tanto per cominciare, combinami un appuntamento con la Brighton»
Milly arrossì. «V-vuoi un appuntamento con Kira? Non credevo ti piacesse fino a questo punto»
«Veramente pensavo a un’uscita in gruppo: io e la Brighton, tu e Lenders. Potresti chiederle di convincerlo a far coppia con te. Che ne dici?»
«Lo vorrei più di ogni altra cosa». A Milly si arrossarono anche le orecchie. Poi capì. «Vuoi uscire con Kira-chan per far ingelosire Lenders?»
Darren annuì. Ingenua ma non del tutto sciocca. «Non so se lui sia tipo da ingelosirsi, ma con il suo carattere è altamente probabile. Credo che ogni ragazzo provi almeno una punta di gelosia vedendo la ragazza per cui ha interesse uscire con un altro»
«Oh. Quindi, tu sei geloso di Kira-chan perché è uscita con Mark?»
«Un po’» rispose Darren, evasivo. Prese a sfogliare il suo libro, alla ricerca di un foglio scritto che aveva infilato tra le pagine come segnalino. 
«C-credi che lui mi noterebbe?»
«Ci devi provare. Se sei ancora convinta che tra Lenders e Brighton ci sia qualcosa…»
«Lo sono»
«Allora devi plasmare quel rapporto a tuo piacimento, Milly-san. Qualunque cosa sia adesso, tu puoi impedire che diventi altro. In fin dei conti, mi era sembrato di capire che la loro amicizia sia piuttosto altalenante»
«Beh…l’anno scorso non si sono più parlati per mesi» ammise Milly, ricordando l’accaduto. In quell’occasione, Kira aveva preferito lei a Mark, ma ora…
«Facciamo in modo che litighino di nuovo» continuò Darren. «Mentre io mi occuperò di distogliere l’attenzione di Brighton da lui, tu ti occuperai di accenderla in lui, verso di te»
Milly si morse le labbra, incerta. Tentata dall’illusione proiettata dalle parole di Grant, iniziò a costruire una possibilità che sembrava remota anni luce – ma pur sempre una: se Kira avesse accettato un appuntamento da un altro ragazzo, forse Mark ne avrebbe avuto a male e ciò li avrebbe spinti a discutere di nuovo. A quel punto, lei si sarebbe incastrata fra loro, prendendo il coraggio a due mani per tentare di diventare per Mark quello che era Kira adesso. Doveva portarlo a stancarsi di lei.
Milly era disposta a tutto per stare con lui, a conquistare quella possibilità tanto sospirata, la stessa che a causa dell’amica aveva perduto. Nessuno riusciva a capire il tipo di sentimento che la smuoveva ogni volta che incontrava Mark. Era bello, deciso, stava diventando estremamente popolare: tutto ciò che lei non era. Tutto ciò che non sarebbe mai divenuta con Kira sempre in prima linea. 
Tuttavia…
«È scorretto. Dovrei iniziare ad inventare bugie»
«È necessario» Darren sfilò dal volume il foglio che cercava e richiuse il libro con un tonfo, facendo trasalire Milly. «Devi liberarti dell’avversario se vuoi vincere. Nello sport si fa così, no?»
Sorrise. 



***


«Mio padre era a capo di una piccola impresa come elettricista. Si occupava di manutenzione di impianti e riparazioni. Era un buon impiego, aveva qualche dipendente sotto di sé e gli rendeva bene». Mark teneva gli occhi fissi sull’incarto vuoto del suo panino. La brezza del meriggio soffiava piacevole sul tetto dell’edificio dove lui e Kira avevano deciso di pranzare. Seduti uno davanti all’altra a gambe incrociate avevano ripercorso insieme la giornata di domenica, arrivando inevitabilmente a parlare di quello. «Nell’aprile in cui iniziai la quarta elementare, mio padre cominciò a stare poco bene. All’inizio i medici dissero che non era nulla di serio, solo stress, ma un giorno stette male sul lavoro e mia madre lo portò di corsa in ospedale. Gli diagnosticarono una malattia in fase molto avanzata. Mamma cercò di non perdersi d’animo. Non ricordo di averla vista versare neppure una lacrima davanti a noi, ma so che quando non potevamo vederla piangeva molto. Di notte la sentivo spesso»
«Tua madre è una donna forte» disse Kira con profonda ammirazione. «Quanti anni avevi?» chiese, delicata. La signora Lenders glielo aveva detto ma non lo ricordava. 
«Nove»
«E i tuoi fratelli?» Se aveva fatto bene i conti dovevano essere piccolissimi.
«Teddy cinque, Nathy tre e Matt era appena nato». La voce di Mark perse un tono. «Nutro un profondo rispetto per lei. Non dimenticherò mai la dignità con cui affrontò la situazione. Oltre alla preoccupazione per le condizioni di papà, c’erano un mucchio di cose di cui occuparsi mentre lui era in ospedale. Mamma dovette mandare avanti l’azienda da sola per mesi, badare a noi. In quel periodo non avevamo problemi economici ma la nostra assicurazione non arrivava comunque a coprire il totale delle spese mediche. Mamma non riusciva a retribuire i dipendenti e quelli decisero di licenziarsi per trovare impiego altrove. In più, per aprire l’attività, mio padre aveva chiesto un finanziamento bancario che non era ancora riuscito ad estinguere». Mark serrò i pugni, la mascella contratta. La sua voce riprese volume e si riempì di disprezzo. «Il giorno in cui papà morì, tutta quella gente venne in ospedale a reclamare il suo schifoso denaro. A nessuno fregava un cazzo se stava morendo, se aveva solo trentaquattro anni e un cancro lo stava mangiando dentro. Vennero lì a scusarsi, accanto al suo letto di morte, senza ritegno. Ci fu un momento in cui avrei voluto prenderli e picchiarli fino a vedere quelle facce indifferenti e pietose piene di lividi». Si coprì il volto con una mano, inspirando. «Ovviamente non feci nulla. Ero solo un bambino. Potevo soltanto restare a guardare mia madre disperarsi e mio padre finire i suoi giorni attaccato a una flebo»(2)  
Mark si voltò improvvisamente verso il paesaggio per nasconderle il suo volto. Kira ne osservò il profilo: non c’erano lacrime, ma solo perché era certa che non avesse mai dato libero sfogo ai suoi sentimenti davanti a qualcuno. Mark era forte. Il suo cuore si era indurito in mancanza di alternative.
Lei non fece commenti. Era atroce. Il più giovane dei fratelli non aveva nemmeno avuto il tempo di conoscere il genitore. Frenò la propria lingua prima di commettere la sciocchezza della giornata e porgli la domanda più stupida del cosmo: ti manca? Ovvio che gli mancasse… 
Non seppe che altro dire, così rimase immobile di fronte a lui, allungando soltanto una mano per prendere la sua. Mark non si ritrasse ma continuò a rimanere voltato verso il nulla. 
A disagio, Kira provò a rimediare. «Possiamo non parlarne più se non vuoi»
«Sono io che ho iniziato io a parlarne» 
«Sì, lo so, però non devi sentirti obbligato»
Il ragazzo si passò velocemente la mano libera sul naso, come si fa quando si ha il raffreddore. «Se te l’ho raccontato è perché di te mi fido»
Fiducia. Valeva tanto per lei.
Kira annuì. Non sarebbe stata invadente, lo promise a sé stessa.
«Mark?» Lui non rispose. Lei proseguì ugualmente. Sapeva che ascoltava. «Senti, lo so che noi due bisticciamo spesso, però siamo amici, giusto?»
«Sì»
«Beh, se hai bisogno di qualcosa, io sono qui»
Lui la guardò, un’espressione quasi curiosa sul viso. Fu strano per Kira vederlo intimidirsi, quando invece era sempre così spavaldo e sicuro di sé. In quell’istante le parve un bimbo vergognoso. Quella scena la fece intenerire. 
Impercettibilmente, Mark tenne più stretta la sua mano solo per un secondo. Lei capì che era il suo grazie. 
Rimasero in silenzio per lunghi minuti, ascoltando l’eco delle voci giù nel cortile che il vento trasportava fin lassù. Nuvole grandi e bianche come batuffoli di cotone passavano sopra il sole a gruppi alterni, gettando ombra sul suolo e sul terrazzo. Le mani continuavano a toccarsi, senza stringersi, un semplice contatto che scaturiva conforto e unione. 
Mark non era abituato a questo genere di cose ma fu…piacevole. Poi, quando fu sicuro di non esser più tradito dai propri occhi, rivolse nuovamente l’attenzione su di lei e colse il suo sguardo preoccupato. Kira aveva addosso la stessa espressione di qualche giorno prima. 
«Hai risolto quel problema con la tua amica?» chiese lui, cambiando discorso.
La pattinatrice si grattò una guancia, scostando un filo di capelli svolazzanti. «Ehm, non proprio. Contavo di parlarci ancora oggi e vedere come va». 
Kira non sapeva da dove avrebbe iniziato a spiegarsi, ma la situazione andava sbloccata, nel bene o nel male. Milly l’avrebbe presa malissimo sapendo che era uscita con Mark. Tuttavia, era meglio estirpare subito il dente che farlo marcire, no? Anzi, avrebbe già dovuto toglierlo da tempo…
«Perché me lo chiedi?»
Mark lasciò andare la sua mano e distese le gambe. «Volevo sapere quando smetterò di vederti metter su quello sguardo abbattuto»
«Non sono abbattuta»
«No, sei allegrissima»
Lei sbuffò al suo tono sprezzante.
Durante il pomeriggio al Luna Park, Kira non aveva avuto un secondo libero per pensare a Milly e alle sue gelosie, ma una volta tornata a scuola la tensione era ricomparsa pesante come un masso che le pressava lo stomaco. La disturbava essere preda di quella strana e assurda paura al pensiero di incontrare Milly, e detestava non riuscire ad argomentare senza poter evitare di ripetersi decine di volte. 
«Pensavo che la giornata al Luna Park avesse funzionato» riprese Mark. Il suo tono si era inasprito.
«Ha funzionato. Mi sono divertita molto» rispose lei, guardandolo confusa. «Perché ti sei arrabbiato, adesso?»
«Non sono arrabbiato» borbottò lui, fissando il cielo. 
«Sul serio, Mark, mi è piaciuto un sacco uscire con te»
Lui non ne fu del tutto lieto. «Volevo che ti passasse, non solo che ti divertissi». 
 Kira aggrottò la fronte, facendo scattare la testa per spazzare via una nuova una ciocca di capelli con un gesto deciso. «È una cosa complicata» gli disse, sapendo di suonare sulla difensiva.
La risposta di lei non lo sorprese. Il capitano della Toho la studiò come se sapesse già cosa le passava per la testa. «Mi spiegherai, prima o poi, o dovrò indovinare?»
«Te lo dirò, Mark, promesso. Quando avrò capito come risolverla».
Lui avrebbe voluto sapere ma aveva come l’impressione che tutto sarebbe degenerato in un discorso stravagante in perfetto stile Kira. Così provò a indovinare.
«Ci ho riflettuto un po’. Al tuo problema, intendo» proseguì. «Non è che c’entra quel tizio? Grant?» 
Lei corrugò la fronte. «Grant? No. Perché hai pensato a lui?»
«Perché ti pedina»
«Ah…» Giusto. 
«Stamattina lo hai visto?» domandò di nuovo Mark, sospettoso.
«Lo vedo di continuo» rispose Kira, alzando gli occhi al cielo. «Mi vede, mi saluta, si avvicina, mi dà il buongiorno…e se ne va». Come al solito, ma non era Darren Grant il problema. Era Mark. Ma come poteva accusarlo? Dopotutto non aveva colpe se mezzo universo femminile della Toho aveva una cotta per lui e lei aveva un’amica con le paranoie.
«Se quel Grant dovesse infastidirti sul serio…» 
«Lo so, lo so, mi proteggi tu». Kira sorrise vedendolo arrossire e ringhiare indispettito. Le venne improvvisamente voglia di abbracciarlo ma non lo fece. Lui non avrebbe gradito.
La campana che annunciava la fine della pausa pranzo echeggiò in lontananza, richiamando gli alunni alle attività pomeridiane. 
«Cavolo, è già suonata! Sono super in ritardo!» Kira schizzò in piedi, infilando il contenitore vuoto del bento dentro la sua sacca senza chiuderlo bene. «Oggi dovevamo essere alla palestra del palaghiaccio dieci minuti prima!»
Mark la guardò con espressione vacua. «Oca. Se lo sapevi che ti sei fermata a fare?»
Kira gli allungò una gomitata. «La colpa è tua se me ne sono scordata. Ero troppo presa dal tuo discorso»
Recuperarono le cartelle dalla classe e schizzarono via veloci, ognuno verso la propria area prediletta: campo da calcio e palaghiaccio. La ragazza stava già imboccando la curva in fondo al cortile ovest quando Mark la richiamò all’ultimo istante.
«Aspetta, ragazzina! Dimenticavo di dirti una cosa»
Lei frenò coi talloni, facendo una giravolta su se stessa. «Sbrigati, o Kanagawa mi strangola»
«Oggi è il mio turno di riordinare gli spogliatoi». Mark si bloccò, incerto se continuare a spiegare quello che avrebbe voluto dirle.
Ma Kira lo intuì. «Non fa niente» gli sorrise. «Non devi per forza accompagnarmi tutti i giorni»
«Sicura?»
«Sì»
Mark fece un’espressione strana. Lasciò dietro di sé il campo per raggiungerla. «Senti…»
«Guarda che fai tardi»
«Stai zitta un attimo». Respirò. «Non me ne frega granché se facciamo la strada insieme o meno. Non è questo». Dannazione, non era bravo coi lunghi discorsi. «Voglio dire, mi piace chiacchierare con te per strada ma non è indispensabile che diventi un’abitudine, va bene anche se lo facciamo una volta ogni tanto. E…» abbassò la testa per permettere ai capelli di coprirgli gli occhi. Gli veniva più facile così. «…puoi metterci tutto il tempo che vuoi a risolvere le cose con la tua amica, basta che non ricominci a prendere le distanze».
«Non le sto prendendo» affermò lei con pacata convinzione. «Non le prenderò» 
Mark rialzò il capo. Un raggio di sole filtrò tra i suoi capelli scuri rendendoli corvini, lucidi come il manto di un felino.
Se non lo avesse da tempo classificato come parte di una sottoclasse dell’ordine dei primati, Kira sarebbe stata costretta ad ammettere di capire perché Micchan avesse una cotta per lui. Ma il fatto che lo considerasse più un gorilla che un uomo la salvava dall’esporre un giudizio.
«Ora devo correre». Kira scattò indietro, salutandolo e sparendo oltre la curva.
A discapito delle sua aspettative all’inizio di quell’anno scolastico, il suo rapporto con Mark non si era soltanto risanato ma si stava evolvendo in qualcosa di solido dove anche la fiducia giocava un ruolo importante.
Bisognava mettere ordine in quella storia. Continuando così non mentiva solo a Milly ma anche a Mark, e mentire a lui era l’ultima cosa che voleva dopo essere divenuta depositaria di una parte del suo cuore. Kira si sentiva importante per questo, poiché era assolutamente convinta che lui non andasse in giro a raccontare i fatti suoi a chiunque.
Quanto a Milly, c’era un equilibrio precario tra loro e Kira non possedeva ancora il coraggio di infrangerlo. Incerta sul da farsi, non sapeva se scatenare il delirio totale – ovvero confessare apertamente di essere uscita con Mark – o continuare a tastare un territorio già minato – cioè dirle chiaramente di non esser più disposta a preporre un’amicizia a danno di un’altra. In entrambi i casi, l’aspettava comunque una sequela di nuove scenate… 



Si ritrovarono l’una accanto all’altra alla sbarra della palestra del palaghiaccio. La stanza spaziosa con un buon odore di legno e una parete fatta di specchi serviva ai pattinatori per scaldarsi prima di scendere in pista. In palestra si eseguivano tutti gli esercizi necessari a migliorare la flessibilità e l’equilibrio del corpo, a studiare le coreografie prima di provarle sul ghiaccio. La preparazione fisica di un pattinatore di figura era molto simile a quella di un danzatore classico.
«Un’uscita di gruppo?»
«Ti andrebbe?» chiese Milly con un sorriso che Kira non le vedeva da giorni.
Riflettendo velocemente, quest'ultima sperò fosse un segno di riappacificazione. «Mi piacerebbe! Sarà bello tornare a uscire insieme, io, te e Jem! È da un po’ che non lo facciamo»
«Oh». Milly si portò una mano alla bocca. «In realtà pensavo più a un’uscita a quattro. Ma se vuoi dirlo anche a Jem, per me va bene»
Il piede di Kira scivolò dalla sbarra. «Un’uscita a quattro? Non vorrai mica dire che dovremo andar fuori con dei ragazzi?!»
«Kira-chan, non parlare così forte!». Milly controllò che i coach non l’avessero sentita, poi afferrò un braccio della compagna e tirò per farla chinare sulla sbarra. 
Kira riprese la posizione di prima. «Da quando sei diventata così audace, Micchan? E si può sapere con chi vorresti…?» Alt. Non le stava chiedendo di…
Milly arrossì. «Ecco, io… io vorrei tanto uscire con Lenders, ma so che se glielo chiedessi io non accetterebbe mai»
«Non è detto, Micchan. In fin dei conti non ci hai mai provato»
«So che non lo farebbe e basta. Però, se fossi tu… se glielo chiedessi personalmente, forse lui… » Milly la fissò con occhi penetranti e leggermente umidi. «Ho riflettuto durante il weekend, Kira-chan, e se tu mi giuri che tra te e lui non c’è niente, io…io ti credo» 
Kira scattò in su col busto. «Finalmente!» le scappò dalle labbra. «No, scusa, è che sono giorni interi che aspetto di sentirtelo dire»
Milly appoggiò il piede a terra e sorrise. «Allora glielo chiederai? Per me?»
Kira esitò il tempo di un secondo. Uno di quelli in cui il cervello elabora velocissimamente mille cose alla volta. Milly sorrideva, non era più arrabbiata e, cosa più importante, le credeva e aveva di nuovo fiducia in lei. Non poteva mandare all’aria tutto per l’ostinazione di esser sincera ad ogni costo. Decise di tacere riguardo al Luna Park. Per quello che la riguardava ora, quel segreto poteva portarselo nella tomba. 
«Ci posso provare, ma sai com’è fatto»
«Grazie Kira-chan!» Milly le strinse le mani, felice alla prospettiva di uscire con il ragazzo che le piaceva e soddisfatta che i consigli di Darren stettero dando i loro frutti.
Quanto a Kira, non era affatto sicura che Mark avesse accettato. Le ci sarebbe voluto molto impegno per persuaderlo. Ma ce l’avrebbe messa tutta, lo promise in nome della ritrovata amicizia con Milly.
«Io però non io ho idea di chi invitare» disse pensosa. Magari Ed? Era amico di Mark e anche suo.
«Non preoccuparti di questo. So io con chi puoi venire» sorrise Milly. «Nella mia classe c’è un ragazzo a cui piaci e vorrebbe un appuntamento con te. Sai, in verità è stato lui a propormi questa uscita in gruppo, per conoscerti».. Milly fece un sorrisino. « E...beh, io ho preso la palla al balzo per tentare un nuovo approccio con Lenders. Che dici, credi che funzionerà? Oh, non sto nella pelle! Come mi dovrei vestire?»
Kira ascoltava a metà. Sembrava le si fosse incastrata la mascella.
Non era preparata. Non poteva essere. Lei piaceva a un ragazzo? E chi era? Come si chiamava? 
Sembro mia madre…
«U-un momento! Micchan, io non ho nessuna intenzione di uscire con un tipo che neanche conosco!»
«L’idea non ti va?» domandò Milly, delusa.
«Non molto, ad essere sincera…»
«Brighton, cos’hai da urlare?» la rimproverò Kanagawa.
Kira si premette una mano sulla bocca. «Mi scusi, coach. Riflettevo ad alta voce»
«Spreca il fiato per allenarti, non per parlare!»
Kira si profuse in un inchino, riprendendo gli esercizi alla sbarra insieme a Milly.
«Ti prego, non dire di no» la implorò quest’ultima.
«Ma scusa, Micchan, perché non uscite tu e Mark e basta? Cosa c’entro io?»
Milly scosse forte il capo. «Sono sicurissima che se saprà che ci sei anche tu sarà molto più propenso ad accettare. E poi, se so che verrai sarò meno nervosa anche io. Oh, Kira, ti supplico!»
Kira rifletté: forse Milly aveva ragione, ma per quanto riguardava lei.. «Prima presentami il tipo con cui dovrò uscire, poi deciderò cosa fare»
«Ma gli ho già promesso che saresti venuta!»
«Accidenti, Micchan…». Che strazio! Non aveva alcun interesse a farsi un potenziale ammiratore.
Di lì a un attimo, dall’altra estremità della sbarra, Jem lasciò la sua posizione per venire ad allenarsi accanto alle due amiche.
«Che state confabulando?» domandò con un sorriso curioso.
«Parlavamo di organizzare un’uscita in gruppo» rispose Kira.
«Carino! Posso unirmi a voi?»
Milly si animò. «Sicuro, ma dovrai trovare un ragazzo che ti accompagni»
Jem e Kira si scambiarono uno sguardo, la prima cercando di capire. «Oh, è un’uscita a coppie? Chi altri avete invitato?»
«Mark Lenders» rispose Kira. 
«Ah». Jem le guardò entrambe. Non chiese, ma ragionò a fondo su chi delle due sarebbe stata la compagna di Lenders per un giorno. «Ehm, io posso anche venire da sola. Non preoccupatevi per me»
Kira prese l’occasione al balzo. «Ben detto! Ci vengo da sola anche io. Anzi! Che idea!» afferrò Jem da braccetto lasciandola perplessa. «Io e Jem ci veniamo insieme!»
«Ehm…non per offenderti, Kira-chan ma come ragazzo non sei affatto il mio tipo»
Kira rise. Milly si infuriò. 
«Uffa! Non potete venire da sole! Che razza di uscita di gruppo sarebbe?»
«Stavamo scherzando» la tranquillizzò Jem. «Troveremo un accompagnatore. Vero, Kira?»
Il sorriso svanì dal suo viso. «Io già ce l’avrei» confessò. «Micchan deve farmi conoscere qualcuno»
Jem si illuminò tutta e passò il resto del tempo a tentare di convincere Milly a farsi dire chi fosse lo spasimante di Kira. Ma Milly aveva promesso al misterioso lui di non rivelare nulla, per cui rimase con la bocca cucita.
«Un appuntamento al buio» commentò Jem alla fine della giornata. «Interessante, non trovi?»
«Non più di tanto» commentò Kira seccata, slacciandosi i pattini con gesti nervosi. «Non mi va per niente di uscire con uno sconosciuto. Ho dovuto accettare perché Micchan mi ha chiesto di combinarle un’uscita con Mark, e perché spero sia la soluzione migliore per mettere la parola fine alle sue gelosie». Infilò i pattini in una sacca celeste più piccola, poi prese il borsone in cerca dell’occorrente per fare la doccia.
«Ma ci verrai lo stesso» sentenziò Jem, una mano sul fianco, l’altra sul suo armadietto.
Kira sospirò. «Devo. Mi ha obbligata»
Jem la guardò con affetto, «Non è che sei un po’ gelosa?»
«Di chi? Di Mark?»
«Sì»
«No». Kira continuò a frugare dentro il borsone, indifferente. «Mi manca lo shampoo»
«Lo ha preso la senpai Reiko. Il tuo al latte di mandorle piace a tutte»
«E chiedere prima di prendere…?» Kira fece per marciare verso il bagno, rimettendo dentro la testa nello spogliatoio all’ultimo istante. «Tu perché non inviti Ed Warner?»
Jem si schiacciò un dito nell’armadietto. «Ahi! C-cos…? Perché proprio lui?»
Kira la fissò con un misto di furbizia e sospetto. «Ed è decisamente carino. E se non sbaglio, da quando sei la sua vice andate più che d’accordo»
«Chi te l’ha detto questo?»
«Mark»
Jem fece una smorfia e si voltò verso l’interno dell’armadietto per nascondere la vergogna. «Beh, sì, andiamo abbastanza d’accordo. Di sicuro non ci prendiamo a male parole come te e Lenders»
Kira rispose alla smorfia, sparendo oltre la porta a vetri.
Jem rimase sola negli spogliatoi. Richiuse lentamente l’anta, attenta a non schiacciarsi null’altro, restando in piedi a fissare il metallo grigio chiaro. 
Ed Warner era un ragazzo intelligente, leggermente impulsivo, facile al contrasto se provocato, ma essenzialmente gentile. Era un grande campione ed era bello. Accidenti a lei se lo era! Ma Jem non voleva cascarci un’altra volta. Si diceva che una delusione provocata da un fenomeno del calcio – un portiere – le bastava per tutta l’adolescenza. Certo, con Ed poteva anche andare meglio, solo che non aveva nessuna voglia di scoprirlo. Forse…



***


«Dimmi un po’: domenica com’è andata?» chiese Ed, sfilandosi i guanti rossi e bianchi da portiere. Aveva appena lasciato il posto in porta al suo sostituto, Nick Anderson, dopo essere riuscito a parare una serie di calci di punizione senza farne passare nemmeno uno, compreso quello di Mark. 
Gli altri ragazzi tornarono in posizione davanti a Nick per ricominciare il giro. Visto che era stato l’ultimo a tirare, Lenders si sistemò in fondo alla fila. «Bene. È andata bene» rispose.
Breve e conciso, ma Ed non si accontentava. «Tutto qui?»
«Benone?» riprovò Mark. «Benissimo. Super bene. Quale preferisci?»
«Esistono altre parole oltre ‘bene’ per definire una cosa bella»
Mark roteò gli occhi verso il cielo. «Non fare il saccente, non ti sopporto»
Il portiere soffermò la propria attenzione sul profilo dell’amico, la cui espressione concentrata e seria era accompagnata da una scintilla diversa, nuova. Credeva di sapere qual era la ragione di questa nuova sfumatura ma poteva anche sbagliarsi. Forse si trattava semplicemente dell’emozione da pre-eliminatorie di campionato. 
«È stato divertente» proseguì Mark, cercando significati diversi per ogni singolo momento. «L’ottovolante una figata e la casa degli orrori uno schifo, anche se a Kira è piaciuta. Ma lei è stramba… Però è stato...bello. Kira è diversa quando non è a scuola, sembra più…sé stessa; più sciolta, sorridente e anche gentile»
Warner notò una punta di apprensione. Lui non la conosceva bene quanto Mark. Avevano passato diverso tempo al negozio di bici durante la prima media, nel periodo in cui lei e il capitano avevano smesso di parlarsi. Incontrandola quasi sempre fuori del contesto accademico non era in grado di capire la differenza. «Pensi abbia qualche problema a scuola?»
«Non lo penso. Ne ha» affermò Mark. «Ci sono alcune divergenze con un’amica, a quanto ne so. Negli ultimi giorni era molto giù per via di un bisticcio. Sto cercando di capire che cosa l’assilla ma non me ne vuole parlare»
«Nessuno racconta tutto di sé agli altri, Mark»
«Va bene ma… dopo quello che le ho raccontato io potrebbe anche aprirsi di più e darmi maggior fiducia»
Il portiere si incuriosì. «Che cosa le hai detto?»
Mark sistemò distrattamente le manche della maglia. «Le ho raccontato di mio padre»
Ed non riuscì a fare altro che fissarlo con occhi leggermente spalancati. I più sapevano solo che suo padre era mancato prematuramente; quanto ai fatti, pochi conoscevano i particolari nei dettagli. Non ebbe bisogno di spiegazioni per intendere che una tale confessione comprendeva un enorme rispetto verso la ragazza.
Ed e Mark si erano conosciuti in quarta elementare, quando erano stati smistati nella stessa sezione. A quell’epoca, Lenders si faceva già notare per le sue capacità calcistiche, mentre Warner praticava il karate presso il dojo di famiglia. Un pomeriggio, il non ancora capitano della Muppet lo aveva invitato a fare quattro tiri sul campo, dove il futuro portiere aveva gustato per la prima volta la sensazione di calciare il pallone. Soltanto in seguito alle molte insistenze di Jeff Turner – e di Mark – che a quel tempo era alla ricerca di un portiere formidabile per la sua squadra, Ed aveva deciso di unirsi a loro. (3)
Mark non aveva mai avuto molti amici per via del suo carattere difficile e scontroso; era riuscito a formare un legame con i ragazzi della Muppet perché condividevano la stesa passione per il calcio, ma parlare del padre deceduto era stato un blocco che il capitano aveva superato col tempo grazie a Ed e Danny. Loro due e Jeff Turner erano le uniche persone al di fuori della famiglia con cui Mark si era confidato apertamente… fino a quel momento.
«Se pensi che sia stato giusto dirglielo…»
«Lo penso» affermò Lenders. 
«Allora non c’è nient’altro da dire» sorrise Warner. «E, fossi in te, non mi preoccuperei troppo. Sono del parere che Kira-san sia dotata di tutta l’intraprendenza necessaria a risolvere il suo problema anche da sola»
Mark stirò le labbra in un sorrisetto. «Questo è indubbio. Mi dà solo fastidio vederla continuamente pensierosa»
Ed infilò i guanti nell’elastico dei pantaloni, osservando Mark avanzare per calciare. Era di nuovo il suo turno.
Non era sicuro che fosse proprio fastidio quello che provava il capitano...
Terminati gli allenamenti, Kitazume fece ai suoi ragazzi un discorso molto serio sull’inizio delle eliminatorie. Le squadre erano pressoché le sesse dello scorso anno e, come c’era da immaginarsi, la New Team era la favorita. 
«Comunque, la commissione nutre ottime aspettative anche su di noi. Non deludetemi, ragazzi»
Congedati dal mister, i giocatori si diressero negli spogliatoi. Mark ne uscì cupo e pensieroso, e quel che successe di lì a poco non lo aiutò a migliorare l’umore. 
Ad occuparsi di sistemare gli spogliatoi rimasero lui, Justin Filler e Henry Sail, i quali si occuparono di raccogliere le divise dei compagni e portarle nella lavanderia, mentre Mark iniziava a sistemare le ceste dei palloni. 
«Avreste bisogno di una manager» 
Mark sollevò il capo vedendo arrivare Kira dal fondo del campo con un pallone in mano. «Tira».
Lei mise la palla sull’erba e calciò forte. Lui la stoppò di petto, iniziando a palleggiare con ginocchia e piedi.
Kira puntò i pugni sui fianchi, scuotendo la testa. «Esibizionista…».
Lui ridacchiò. «Perché sei qui? Ti avevo detto che avevo il turno di pulizia»
«Devo dirti una cosa». Kira gli si avvicinò, osservandolo ammirata tenere in equilibrio la palla sulla fronte. «Come fai?»
Mark si mosse e il pallone gli ricadde tra le mani. «Rovescia la testa all’indietro»
Kira obbedì, lasciando che lui glielo appoggiasse tra il setto nasale e la prima parte della fronte. 
«Ops!»
La palla cadde praticamente subito. 
«Che imbranata…»
Kira gli rivolse un brontolio rabbioso, riprendendo il pallone da terra per riposizionarlo dov’era prima. 
«Non stare ferma. Devi continuare a muoverti, soprattutto il collo, così potrai bilanciare la posizione della palla»
Il pallone le cadde una seconda volta. «Ah! Non ci riesco!»
«Se ti innervosisci non ce la farai mai». Mark raccolse la sfera, mostrandole nuovamente come fare. «È un gioco di concentrazione, devi rilassarti»
Kira rimase a guardarlo per un poco. Sangue freddo, come in pista. «Fammi riprovare. Questa volta ci riuscirò». 
Al terzo tentativo, la palla rimase in equilibrio per circa cinque secondi, ma Kira esultò ugualmente. 
«Brava. Ci sei» si congratulò Mark. Non capiva come riuscisse a entusiasmarsi per così poco ma era una parte di lei che iniziava ad apprezzare. «Che sei venuta a dirmi? Sbrigati, devo tornare al lavoro»
«Mi serve un favore» Kira andò subito al sodo. «Ti ricordi della mia amica Milly Benson?»
Mark strinse gli occhi per rievocare il volto appartenente a quel nome. «Ah sì. La ragazza coi codini». Non che l’avesse presente benissimo…in verità ricordava solo quel particolare. Non si soffermava a guardare le persone, di solito.
Kira prese a torturarsi le mani. «Ha una cotta mostruosa per te dall’anno scorso e vorrebbe un appuntamento per domenica prossima» disse tutto d'un fiato.
Lui si pietrificò. C’era puzza di intrigo femminile. «Giovedì prossimo iniziano i campionati nazionali. Non avrò tempo per fare nient’altro per almeno sei settimane». 
«Lo so, ma puoi liberarti per un pomeriggio, quando non giochi» 
No. Nonono. Mark sollevò il canestro metallico pieno di palloni. Kira lo seguì dentro gli spogliatoi fino a una stanza dove la squadra teneva tutto l’occorrente per gli allenamenti.
«Se non fosse importante non te lo chiederei» insisté lei. «So che a te scocciano queste cose, però se accettassi di uscire con Milly mi toglieresti un peso dallo stomaco»
Mark si voltò a guardarla. Lei stava ferma sulla porta. Sembrava indecisa e, di nuovo comparve sul suo volto quello sguardo inquieto.
Dapprima stupita, l’espressione di lui divenne consapevole. «È questo che ti preoccupa in questi giorni, vero?» 
Lei si mordicchiò un angolo del labbro inferiore. «Non esattamente. Però…sì. Ho litigato con Micchan per causa tua»
Mark mollò la cesta dei palloni e le si avvicinò, fissandola con gli occhi neri penetranti. Voleva una spiegazione.
Chiunque sarebbe indietreggiato di fronte a quello sguardo ma non lei. Kira si sistemò i capelli dietro le spalle con un gesto nervoso. «Milly è gelosa. Crede che tra noi due ci sia qualcosa. Mi ha fatto una scenata l’altro giorno e mi aveva imposto di smettere di parlarti»
«E tu ci hai provato» l’accusò Mark, gli occhi fiammeggianti. 
Lei aprì e richiuse la bocca. «Non è mai stata mia intenzione farlo davvero. Solo che non sapevo come comportarmi, perché per me siete importanti entrambi» 
Mark spostò il peso del corpo da un piede all’altro, a disagio. Svelto, le voltò le spalle, sistemando la cesta in un angolo accanto a uno scaffale. «Mi dispiace essere la causa dei tuoi pensieri, ma non ho voglia di uscire con lei»
Kira sospirò forte. «Non è proprio colpa tua. È Milly che tira le sue conclusioni da sola e si mette in tesa cose che…» 
Lui tornò a fronteggiarla. «D’accordo, ma stai dicendo che sono io la ragione del tuo malumore» Lo stesso per cui si era preoccupato tanto. «Potevi dirmelo prima»
«Come facevo a dirtelo?! Saresti andato su tutte le furie. Insomma, sì, lo sei, ma potresti essere anche la soluzione ai miei problemi»
Causa e soluzione. Lei lo guardava come se fosse veramente in grado di risolvere la situazione. 
«Mark, oggi mi hai detto che lo scopo di portarmi al Luna Park era quello di tirarmi su il morale. Di aiutarmi. Beh, io adesso ti sto chiedendo di farlo: aiutami. Esci con Milly, solo una volta»
Lui non capiva come avrebbe potuto esserle utile facendo ciò che chiedeva. Sarebbe cambiato qualcosa? Probabilmente si trattava di un mero litigo tra ragazze condito di gelosia repressa; nondimeno, Kira era apparsa davvero sconsolata e Mark si era promesso di fare qualcosa. Lo voleva, perché quando Kira sorrideva le giornate divenivano più belle anche per lui.
«Ci penserò»
«Non sareste da soli» tentò di nuovo di convincerlo lei, seguendolo qua e là per la stanza degli attrezzi. «Mi sono scordata di dirti che sarà un’uscita di gruppo. Verremmo anche io, la mia amica Jem e…uhm, altri due ragazzi»
Mark inarcò le sopracciglia.
Kira allargò un poco le braccia. «Non chiedermi chi sono perché non lo so ancora. È una specie di appuntamento al buio... non mi interessa, sinceramente. Lo devo fare per Milly. Se riuscirò a mostrarle che tra noi non c’è niente, potremo tornare amiche come prima»
Con quanta convinzione lei lo affermava... Non che a lui piacesse Kira, per inteso, ma lei poteva aver più cura della sensibilità altrui. 
La ragazza gli si piazzò di fronte con le mani alte sopra la testa china, i palmi uniti in un gesto di supplica, gli occhi serrati. «Ti prego Mark. Farò tutto quello che vuoi, lo giuro»
«Se accettassi, smetteresti di assomigliare a una a cui è morto il gatto?»
Kira si incupì. «Guarda che è una cosa seria, per me»
Sì, Mark lo aveva capito. Accidenti a lei... Se ne sarebbe pentito. Anzi, sicuramente. 
«Non ho mai fatto queste cose, prima» borbottò. «In che cosa consiste un’uscita a quattro?»
«Grazie!!!» Kira gli si lanciò addosso. «Grazie! Grazie! Grazie! Mi sdebiterò, lo prometto!»
«Piantala, donna appiccicosa!» Le proteste di Mark vennero ignorate. Lui detestava tutte quelle smancerie. Che bisogno c’era di abbracciarlo? Era fissata con gli abbracci! «Kira, staccati, se entra qualcuno…»
Clack.
Un rumore.
Una porta che si apriva.
«Oh…scusate». Sulla soglia, Justin Filler e Henry Sail li fissavano con le bocche aperte e due sorrisini attoniti. 
«Potevi anche chiudere la porta, capitano, se volevi fare le cosacce con la tua fidanzata» disse Henry.
«Macché fidanzata!» esclamò Kira.
Mark la spinse via. «Non avete capito un tubo!»
Gli altri due fecero un inchino, indietreggiando svelti. «Togliamo il disturbo…» 
«No, aspettate!» gridarono Kira e Mark a una sola voce, ma la porta si era già rischiusa.




***** ***** ***** ***** *****
1. Ho recentemente scoperto - vergognaaa!!! - che la Festa della Sport si tiene in ottobre, mentre io l'ho fatta cadere in giugno. Chiamatela licenza poetica xD

2. Gran parte del discorso di Mark sulla terrazza della scuola rispecchia la sua storia presentata nell'anime ma, dato che non veneiva specificato tutto, ho inventato qualcosa. Era palese che il padre avesse una malattia molto grave e, vista l'età di Mark che è il primogenito, ho pensato fosse credibile attribuirgli un'età intorno ai trentacinque anni.

3. Non viene detto quando, di preciso, Mark e Ed si siano conosciuti. Ho pensato fosse giusto collocare l'incotro nel periodo più tragico della vita di Lenders. Mark, Ed e Danny sono BROTP all'ennesima potenza per me <3 Il resto - le insistenze di Turner per farlo giocare nella Muppet - è uguale alla storia originale.

***** ***** ***** ***** *****


Hello girls! Come vi va la vita?
Io conto i giorni che mi separano dalle vacanze e intanto cerco di scrivere il più possibile.
Capitolo di transizione dove non succede granché, ma importante perché traccia le basi per il prossimo. Ci sarà da ridere… o da piangere? Dipende dai punti di vista. Kira avrà una bruttissima sorpresa quando saprà chi è il suo spasimante, e speriamo che Mark si comporti bene con Milly. Lei, sotto l’aspetto insicuro, è una piccola iena, anche se non è la rivale definitiva di Kira! :P Devo ancora presentarvi l’ultimo (anzi, penultimo) personaggio originale di questa storia. Ci arriveremo, ci arriveremo… e sempre attente a Darren!
Intanto, ho gettato l’amo per le fan di Ed e Jem. Chi indovina l’identità della delusione d’amore della Edogawa? Dai che è facilissimo xD  In ogni caso, lo saprete nel prossimo chappy, visto che anche loro saranno presenti all’appuntamento di gruppo! Chissà come andrà tra loro…eh, non si dice. 

Ringrazio come al solito chi ha messo la storia nelle preferite/ricordate/seguite. Se volete sapere quando posterò il prossimo capitolo potete passare su mio gruppo facebook Chronicles of Queen, dove piano piano posterò i disegni dei personaggi della storia. Se decidete di iscrivervi, vi chiedo anche gentilmente di mandarmi un mp e dirmi chi siete qui su Efp. Thankiuzz! 
Un bacione a tutte e a presto! 

Susan <3

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 16. Un'altra giornata, un nuovo disastro ***


16. Un’altra giornata, un nuovo disastro
 
 
 
 
«Ricordami perché lo sto facendo»
«Perché te l’ho chiesto per favore»
«Faccio in tempo a cambiare idea?»
Kira afferrò il braccio di Mark e lo tenne stretto. «Non ci pensare nemmeno! Tu resti dove sei!»
Camminavano da alcuni minuti nel centro di Harajuku, il quartiere più frequentato dai giovani di Tokyo. Il regno dei cosplayers, delle mode sfrenate, dello shopping; negozi di ogni tipo, gente di ogni tipo. Milly aveva dato appuntamento a tutti accanto ad uno dei tanti negozi di musica.
Mark non era mai a suo agio in mezzo a tante persone, e la domenica Harajuku ne straripava letteralmente. Si sentiva in difficoltà soprattutto alla prospettiva di dover passare l’intero pomeriggio con una ragazza di cui gli importava poco.
«Guarda che carini. Devono essere studenti delle medie» disse una ragazza sui vent’anni al suo fidanzato, passando loro accanto.
Mark se ne vergognò. Li stavano scambiando per una coppietta.
«Kira, lasciami»
«Rischiando che tu ti dia alla fuga? No». Kira non si era accorta del suo disagio, troppo occupata a fargli raccomandazioni. «Prometti di essere gentile» lo supplicò.
«Certo che sarò gentile! Per chi mi hai preso?»
«Prometti, Mark»
Lui sbuffò, liberandosi dalla presa che stava lentamente trasformandosi in un gesto troppo...intimo. «Sì, sì, prometto. Sarò gentile» disse in una seccata cantilena.
«Milly è una ragazza sensibile, non puoi trattarla come tratti me»
Lo sguardo di lui fu pura innocenza. «Perché, scusa, come ti tratto?»
Kira si finse pensierosa. «Ahm…vediamo… Malissimo»
«Non è vero. Non sempre»
«Il più delle volte. Mi chiami cretina e ti fai sempre beffe di me»
«Perché so che non ti offendi»
«Non è una buona scusa»
«Ah, va bene! Sarò gentile». Mark chiuse gli occhi e piegò la testa all'indietro in un gesto disperato. «So di avertelo già chiesto ma…cosa si fa ad un’uscita di gruppo?» disse poi.
«Nulla di che», rispose Kira con un’alzata di spalle. «Niente di così diverso da quello che abbiamo fatto al Luna Park: passeggeremo, andremo in qualche posto carino, prenderemo un dolce…cose del genere»
Non sembrava così atroce, pensò Mark. Poteva resistere.
Kira si fermò, posizionandosi di fronte a lui per sistemargli la frangia lunga. «Potevi almeno pettinarti stamattina, prima di venire all'appuntamento. E srotola le maniche di quella maglia, per una volta!»
«Kira, piantala!» Lui allontanò le sue mani con un gesto brusco, passandosi le dita tra la chioma nera per spettinarla di nuovo. «Lascia stare le maniche, mi danno fastidio. E non è un appuntamento!»
«Più o meno sì»
«Beh, se la tua amica spera che lo sia, o che io la inviti ad uno vero dopo questa giornata, si sbaglia di grosso. Mi auguro che tu glielo abbia detto»
Kira non aveva avuto il coraggio di infrangere i sogni di Milly, sogni che avrebbe potuto vivere in altre galassie e in un’altra vita. Sperava più che altro che Micchan non fosse così ingenua e cieca da credere che lei e Mark sarebbero convolati a nozze l’indomani stesso.
«Tu pensa solo a comportarti bene»
«E tu mi devi un favore, ragazzina, ricordatelo».
Lei non replicò: era giusto. Lo aveva quasi obbligato e sapeva che Mark aveva accettato solo perché Milly era sua amica. Se si fosse trattato di un vero appuntamento al buio le avrebbe risposto con un no categorico e nessuna possibilità di negoziazione.
«Kira-chan! Siamo qui!» La voce allegra di Jem risuonò contro i rumori di Harajuku. Lei e Ed Warner stavano fermi sotto un grande albero vicino ad un semaforo. Appena scattò il verde attraversarono la strada e li raggiunsero.
«Micchan non è ancora arrivata?» chiese Jem dopo i saluti.
«Dovrebbe essere qui a momenti» rispose Kira controllando l’orologio.
Approfittando del momento in cui le due amiche iniziarono a parlare tra loro, Mark si avvicinò a Ed, notando il sorriso entusiasta che lo accompagnava da giovedì scorso – e la prima partita di campionato vinta dalla Toho per cinque a due c’entrava fino a un certo punto.
Lenders aveva cercato appoggio e consiglio nell’amico per capire come sopravvivere a un appuntamento a quattro, scoprendo che anche Ed era stato coinvolto nell’affare. Solo che il portiere sembrava tutto fuorché seccato.
«Tu dì quello che vuoi, Ed, ma io sono sempre più convinto di essermi perso un passaggio». Mark gli lanciò uno sguardo risentito. «Non mi ero per nulla accorto che ti interessasse la Edogawa»
Warner si massaggiò la nuca, imbarazzato di fronte allo sguardo incredulo del suo capitano. «Non prendertela se non te l’ho detto, Mark. Dopotutto, non c’è granché da dire».
Mark percepì delusione nella sua voce. «Hai stole di ammiratrici e porti fuori l’unica a cui non interessi»
«Può essere positivo» rispose il portiere con serenità. «Io e Edogawa andiamo d’accordo e poi lei è molto carina».
Ed sorrise ricordando com’era avvenuto l’invito. Jem si era seduta al suo banco come ogni giorno, appena dietro di lui, iniziando a parlargli confusamente di un’uscita di gruppo, di lei che avrebbe voluto andarci ma non sapeva chi invitare. Poi era arrossita come un’aragosta bollita, aggiungendo che se lui voleva e non aveva impegni, poteva accompagnarla come amica. Ed aveva aspettato che Jem rialzasse lo sguardo fisso sulle proprie mani. Quindi le aveva sorriso, accettando con piacere di essere il suo accompagnatore per un giorno.
«Comunque, è buffo che tu sia uscito con Kira-san e io Edogawa-san, vero?»
«No, patetico. Non vedo l’ora che questa giornata finisca». Mark ficcò le mani in tasca con un gesto rabbioso, notando Kira e Jem salutare i nuovi arrivati che venivano loro incontro.
Ci siamo.
«Scusate il ritardo. Spero non stiate aspettando da molto» disse Milly con un inchino. Non perse tempo e fece subito le presentazioni. «Kira-chan, lui è il ragazzo di cui ti ho parlato. Si chiama Darren ed è un mio compagno di classe»
Darren fece un inchino salutando tutti, riservando un breve sorriso per la Brighton.
«E lui cosa ci fa qui?» esclamò Mark, riconoscendolo immediatamente. Guardò rapido Kira, la quale sembrava rispecchiare la stessa incredulità.
«Non c’è bisogno che tu faccia le presentazioni, Milly-san. Io e Brighton ci siamo già conosciuti» disse Darren.
Milly voltò il capo da lui all’amica, confusa. «Veramente? N-non lo sapevo»
«Non è che proprio ci conosciamo…» balbettò Kira, palesemente a disagio.
«Io e Brighton ci incontriamo tutti i giorni in cortile» spiegò Darren, «ma non ci siamo mai parlati per più di due minuti»
«Non la incontri, la segui» lo accusò Mark con voce chiara e decisa. Era assolutamente contrario all’idea che Kira facesse coppia con quel tizio.
Darren increspò le labbra. «Buongiorno, Lenders. Buongiorno, Warner»
«Conosci anche loro?» chiese Milly, sempre più perplessa.
«Chi non conosce i campioni della Toho School?».
Ai due calciatori quel tono beffardo non piacque. «Stai sfottendo?» domandò Ed in tono d’avvertimento.
«Oh, no. Sottolineavo solamente la verità» si scusò Darren. «Milly-san è una vostra grande sostenitrice e parla così spesso di voi in classe, soprattutto di Lenders, che mi è inevitabile ripetere le sue parole. Vi considera due grandi campioni. Vero, Milly-san?»
Milly arrossì, annuendo e torturandosi l’orlo della gonna.
«Ma che significa 'lui ti segue?'» domandò Jem d’un tratto, l’aria allarmata, lo sguardo che andava da Kira, a Grant, a Lenders.
Mark intercettò lo sguardo di Kira. La vide volgere di scatto gli occhi verso Milly Benson e cambiare l’espressione tesa in un sorriso costruito alla perfezione.
«Niente, Jem, tranquilla. Mark esagera»
Lui sobbalzò. «Cos…?»
Kira sgranò gli occhi, fulminandolo con uno sguardo d’avvertimento: aveva promesso, non poteva mettersi a litigare con Grant in quel momento.
«Comprendo il fraintendimento di Lenders» disse Darren, rivolgendosi a Jem per rassicurarla. «Ogni giorno attendevo nello spiazzo davanti al cancello della scuola per vedere passare la tua amica Brighton. Riconosco di essere stato inopportuno, ma il mio unico intento era quello di attirare la sua attenzione. Forse l’ho fatto nel modo sbagliato, al punto da suscitare il sospetto dei suoi amici».
Mark detestò la sottile superiorità con cui Grant parlava, la falsità di cui era intrisa ogni sillaba. Attirare l’attenzione? Sì, pedinandola. Questo, per lui, si chiamava molestia.
«Capisco…» mormorò Jem, non del tutto convinta ma decisa ad accettare la spiegazione. «Mi scuso anch’io se ho pensato male di te, Grant. Sai, esco da scuola molto spesso insieme a Kira-chan e non ricordo di averti mai visto»
«Non sono un tipo che si nota molto, vero?» Darren annuì con quieta consapevolezza. Poi si voltò verso Kira con in viso un’espressione amareggiata. «Brighton, perdonami se ti ho dato fastidio»
Kira sussultò. Non si fidava di quel ragazzo ma non poteva mandare all’aria tutti gli sforzi per far andare bene quella giornata. «Non c’è alcun problema» disse. La sua voce era priva di convinzione.
«Tutto quello che desideravo era poterti conoscere» aggiunse Darren.
«Beh, oggi avrete modo di fare amicizia» esclamò Milly allegramente. «Che ne dite di incamminarci? Vorrei portarvi in un locale molto carino dove si beve un thè delizioso».
Mentre gli altri ricominciavano a parlare, Mark prese Kira da parte un istante. «Non mi avevi detto che era lui il tuo partner per questa giornata»
Lei gli rimandò lo stesso sguardo risentito. «Non sapevo fosse proprio Grant. Non ho deciso io, è stata Micchan ad organizzare tutto»
«Quello ti ha pedinato per più di un mese e adesso si presenta qui con la pretesa di volerti conoscere»
Lei tentò di calmarlo. «Mark, non è un vero appuntamento»
«Ma se prima hai detto di sì!»
«No, ho detto ‘più o meno’»
«Kira, quel tipo non mi piace!» ringhiò lui a bassa voce.
«Nemmeno a me! Ma oggi dovremo fare buon viso a cattivo gioco».
Mark rifiutò la prospettiva di dover fingere. «Questa si chiama ipocrisia, Kira»
«Dal mio punto di vista si chiama ‘fare un favore a un’amica’».
Il ragazzo emise un’esclamazione sdegnata. «Oh, quindi farai la carina con lui?»
Kira emise un verso spazientito. «Oh, santo cielo! È solo per un giorno! Dobbiamo soltanto…»
«Ragazzi?» La voce di Milly interruppe il battibecco. Lanciò all’amica un’occhiata perentoria.
«Arriviamo!» Kira si voltò un’ultima volta verso Mark, sibilandogli a un centimetro dal naso: «Comportati bene».
 
 
 

Jem aveva un bruttissimo presentimento oltre ad uno spiacevole senso di dejà vu. Milly che chiedeva a Kira di organizzarle un incontro con Lenders era un tentativo già sperimentato l’anno scorso, e il risultato era stato davvero scoraggiante. Eppure, la Benson perseverava ostinatamente nel corrergli dietro.
«J-chan. Il tuo vestito è un amore» squittì Milly mentre iniziavano a incamminarsi lungo la strada.
Jem stropicciò appena la gonna del suo abito verde pastello a fiorellini. «Grazie, anche il tuo».
Milly era agghindata in una gonnellina bianca a balze e fiocchetti insieme a una magliettina ricamata con scollo a V.
«Kira-chan, tu potevi vestirti meglio» proseguì Milly, scrutando con aria critica i jeans e la maglietta lilla con la grossa farfalla nera dell’amica.
Kira tirò i lembi inferiori della sua maglia. «Perché, non va bene?»
«È un appuntamento! Dovevi indossare un abito!» la rimproverò Milly.
«Ma sarei stata scomoda, mica è una serata galante»
Milly tamburellò con un piede a terra, sbuffando insoddisfatta.
«Siete tutte e tre molto carine» intervenne Ed, indugiando un momento in più sul vestito di Jem. «Ognuna con il suo look preferito»
«Sei gentile». Jem apprezzò il complimento, ma si era messa quel vestito perché le piaceva, non per lui.
Warner aveva fatto un apprezzamento a tutte e tre, eppure il suo sguardo si era soffermato su di lei quell’attimo in più che poteva voler dire solo una cosa: un maggiore interesse nei suoi confronti. Jem si trovò leggermente in difficoltà. Il fatto che lo trovasse bello non voleva dire che gli avrebbe concesso l’opportunità di farsi avanti.
Proseguirono verso il centro di Harajuku a due a due. Milly e Lenders non spiccicavano parola, tanto meno Kira e Grant. Era già comparso il primo sprazzo di tensione e la giornata era appena cominciata.
«Sembri preoccupata» disse Ed, chinandosi leggermente in avanti per vedere bene il suo viso.
Jem portò una ciocca di corti capelli dietro l’orecchio. «Un pochino. Ho già assistito a un tentativo di approccio da parte di Micchan verso Lenders, ed è stato un disastro»
«Non ero presente ma so come è andata. Mark me l’ha raccontato»
Jem lo guardò attentamente. «Perciò tu sai cosa sta succedendo e perché siamo qui»
«Da ciò che ho intuito, a grandi linee tutto dovrebbe concludersi con un ‘vissero per sempre felici e contenti’»
«Ehm…più o meno, a sentire Milly». Jem emise un risolino che sapeva di disperazione. «Vuole a tutti i costi fare colpo su Lenders. E, a quanto pare, quel Grant ha adocchiato Kira-chan». Tornò pensierosa. «Ora che mi ricordo, avevo notato un ragazzo guardarla spesso, ma credevo si trattasse di un suo compagno di classe dal momento che lo salutava. Perché Kira-chan non mi ha detto nulla?»
Ed comprese la sua leggera delusione. «Non voleva farti preoccupare»
«Lo so. Sta di fatto che non si è confidata con me ma con Lenders». Il tono di Jem fu quasi un’accusa. «So che sono molto legati e comprendo la sua decisione, però ci sono rimasta un po’ male»
Ed cercò un modo per consolarla. «Edogawa, nemmeno Mark mi dice tutto quello che fa, ma so che nonostante questo mi considera uno dei suoi migliori amici». Le sorrise quando lei lo guardò dubbiosa. «Ci sono cose che preferiamo tenere per noi, non è vero?»
Già. Nemmeno lei aveva mai detto nulla a Kira riguardo… lui. «Hai ragione. Beh, speriamo che le cose si risolvano per il meglio»
«Andrà come andrà. Sinceramente, in questo momento mi interessa passare un bel pomeriggio insieme a te».
L'esplicita intenzione di lui la spiazzò. Jem osservò il sorriso di Ed. Iniziava a piacerle il modo in cui lo faceva. «Sai, Warner, inizialmente avevo un’opinione diversa su di te» ammise.
Ed cercò di valutare la risposta. «...Brutta?»
«Non proprio. No. Purtroppo ho la tendenza a giudicare troppo in fretta cose e persone. Pensavo tu fossi un tipo più schivo, come Lender, un po’ rozzo e maleducato». Jem gli rivolse rapida un’occhiata mortificata. «Oh, perdonami! Non volevo parlar male di un tuo amico»
Ed le rimandò un sorriso debole. «Mark non ti piace, vero?»
«Non molto. Non lo capisco». Jem rivolse al portiere un sorriso di scuse. «Ha dei modi che non mi piacciono. Sembra che non consideri nessuno alla sua altezza»
«Probabilmente è così», ammise Ed con una risatina. «È un ragazzo forte e determinato. Lo stimo moltissimo, non solo come capitano e amico, ma proprio come persona. Tutti noi della squadra lo ammiriamo per la sua tenacia. Non ha il carattere più affabile del mondo ma ha un cuore enorme, te lo posso assicurare».
Lo sguardo di lui si era indurito, nonostante il tono della voce fosse non tradisse risentimento. Ma Jem capì ugualmente di essere stata maleducata e se ne pentì. «Non era mia intenzione offenderti»
«Lo so, tranquilla. Hai detto quello che pensi»
Lei non fu appagata dal proprio comportamento. «Di solito non lo faccio»
«Apprezzo che tu abbia deciso di farlo con me» continuò Ed con sincerità. «Il fatto che tu ti sia sentita libera di esprimerti mi fa sperare di poterti conoscere meglio».
Gli occhi di Ed rimasero fermi su di lei provocandole una reazione inaspettata. Jem distolse lo sguardo. «Con me sei sempre carino»
«Suona come una critica»
«Al contrario. Mi fa piacere»
«Forse perché ti considero degna della mia gentilezza, Edogawa-san»
Il tono più basso con cui lui pronunciò il suo nome diede vita a qualche farfalla nello stomaco.
 
 
 
 
Al suo fianco, Milly Benson cercava di intavolare una conversazione degna di questo nome. Mark non era molto collaborativo, era più occupato a fissare Kira e Grant che procedevano davanti a loro. Per lunghi minuti non fece altro che quello, quasi non prestando attenzione a dove metteva i piedi. Vide Grant dirle qualcosa, Kira scuotere il capo e poi voltarsi verso di lui. Mark provava un forte disprezzo verso l’atteggiamento condiscendente dell’amica, ma non poté ignorare il modo in cui lo guardò: Kira appariva tremendamente a disagio e Mark capì che aveva bisogno di un qualunque tipo di supporto. Le fece un cenno con la testa come a dirle ‘se hai bisogno sono qui, ti basta girarti’.
Se lei fosse uscita con chiunque altro, non gli sarebbe importato di tenerla d’occhio. Kira era libera di frequentare chi voleva; ma di Darren non si fidava, gli dava l’impressione di un tipo non del tutto a posto.
«Allora…» esordì Milly, attirando finalmente l’attenzione su di sé. «È passato parecchio tempo dall’ultima volta che ci siamo parlati. Ti ricordi?»
«Ehm… sì». Mark ricordava perfettamente. Era stata colpa di Milly Benson se lui e Kira avevano sprecato un anno ad ignorarsi. Nondimeno, forse avrebbe dovuto scusarsi per il modo in cui si era comportato quella volta.
Lei era la tipica ragazzina delle medie con classici sogni romantici a suo parere a dir poco svenevoli. Da quanto gli aveva detto Kira, Milly vedeva in lui una sorta di eroe intrepido, bello e maledetto, ma che all’improvviso l’aveva respinta disintegrando i suoi sogni d’amore. Probabilmente le avrebbe spezzato il cuore anche questa volta, quindi era bene prepararsi un bel discorso per scusarsi doppiamente. Dopotutto non era né un eroe, né maledetto. Bello magari sì…
Si concesse l’apprezzamento, pensando che se avesse detto una cosa del genere davanti a Kira, si sarebbe messa a ridere e poi lo avrebbe sistemato con una battuta poco garbata. Potendo scegliere, Mark avrebbe preferito passare quel pomeriggio con lei. Si era già pentito di aver accettato l’invito della Benson.
Milly gli si accostò maggiormente, a piccoli tentativi, intimidita dalla sua presenza, dalla prestanza fisica e l’espressione corrucciata.  «Che ne dici se ricominciamo da capo?»
«Mh?»
«Chiamami pure Milly e basta»
Perché tanta confidenza? «Come vuoi»
«Io…io posso chiamarti Mark?»
«No» rispose seccamente lui, avvedendosi immediatamente dell’errore. «Cioè…non credi sia meglio, ehm, conoscerci un tantino di più prima di eliminare gli onorifici?»
Lei si ritirò in sé stessa. «Oh. V-va bene. Allora ti chiamerò con il cognome. Scusami, sono stata troppo audace».
Cavolo, l’aveva già delusa. Mark cercò un modo per rimediare, rammentando la promessa. Diede un’occhiata al suo abbigliamento tipicamente kawaii(1), la gonna piena di balze e trine. Sospirò lentamente, dicendosi che doveva fare uno sforzo, o Kira e la sua amica avrebbero litigato di nuovo a causa sua.
Buon viso a cattivo gioco, eh? Chissà se…
«Sei…mm…graziosa». Faceva pena, ma lei sembrò apprezzare perché si rianimò tutta.
Milly Benson aveva un bel visino tondo, morbido, due occhi neri e dolci. Era piuttosto bassina, ma dovette ammettere di apprezzare la maglietta che indossava e quello che conteneva. Per essere una quattordicenne era ben formata e piuttosto piena nei punti giusti. Ma non era il suo tipo.
«Kira-chan parla sempre di te» ricominciò lei.
«Ah, sì?»
«Continuamente». Milly lo fissò come per valutare una reazione.
«Sì, andiamo d’accordo» cercò di minimizzare il più possibile lui. «Ma è anche una gran rompiscatole»
«Non ti dà fastidio se è uscita con un altro?»
«No. Perché dovrebbe?»
Milly sorrise. Emise un respiro lungo, cambiando improvvisamente argomento. «Sei stato ammesso alla Toho per merito di una borsa di studio, vero?»
«Già». Lo sapevano tutti ormai. Mark capì che era una domanda retorica nel tentativo di approfondire la conversazione a livelli più personali.
«I tuoi genitori devono essere molto fieri di te. Dimmi, vivi in città?»
«No, abito nel distretto di Saitama»
«Oh, ci sono stata» disse lei, con un entusiasmo che gli parve eccessivo. «Hai fratelli o sorelle?»
«Due fratelli e una sorella più piccoli». L’improvvisa intrusione nella sua vita privata fu un po’ troppo per lui. Non aveva intenzione di mettersi a parlare della sua famiglia con lei.
«Anch’io ho un fratellino più piccolo» continuò Milly. «Per un po’ di tempo ha giocato a calcio ma adesso pratica il karate»
Mark si zittì. Se non le avesse risposto forse avrebbe cambiato argomento.
«Ti ammiro moltissimo, sei un giocatore davvero incredibile. Avreste dovuto vincere voi il campionato, l’anno scorso. Sai, non mi sono persa una partita»
«Segui il calcio?» le chiese Mark in tono basito.
«Sì. Seguo la nazionale, e…v-voi»
Allora era no. Come molte ragazzine della loro scuola, Milly Benson non era veramente interessata a quello sport, veniva a vedere le partite solo per gridare quanto fossero belli i calciatori. Patetico.
«Appena posso, scappo via prima dagli allenamenti di pattinaggio per vedere gli ultimi minuti dei vostri. L’anno scorso ero nella sezione A e la nostra classe si affacciava proprio sui campi da calcio. Quest’anno sono nella E, ma sfortunatamente la nostra aula guarda sull’altra parte del cortile. Così non riesco più a seguirti come vorrei»
Mark non diede segnali di voler continuare quel discorso, così lei iniziò a parlar d'altro: della scuola, dei negozi che le piaceva visitare…
Mark la lasciò continuare. Non l’aveva immaginata così ciarliera. Quasi certamente stava cercando di far colpo su di lui mostrandosi spigliata e simpatica ad ogni costo. Qualcosa nei modi di fare di Milly gli ricordò un po’ Kira, quasi stesse…imitandola.
«Lenders, ti va di prendere il thè o preferisci andare da qualche altra parte?» gli chiese poi lei.
«No, va bene il thè»
Milly annuì felice. «Conosco tantissimi posti carini in questa zona, abito nei dintorni»
Mark alzò gli occhi al cielo. Il sole splendeva di un giallo accecante. Aveva sperato piovesse appena alzato dal letto, così magari poteva scampare a quello strazio che...
D’un tratto si sentirono spingere da dietro. Un paio di bambini correvano sul marciapiede senza guardare dove andavano. Milly sarebbe caduta se Mark non l’avesse presa.
«Ehi, attenta»
Lei arrossì come mai in vita sua. Non aveva pensato a un contatto. «S-s-sto bene»
«Non ti sei fatta male?»
«N-n, no. Ma solo grazie a te». Con un braccio, Milly si strinse titubante al suo come se avessero già una relazione.
Sentirsi ghermito così repentinamente gli provocò una sensazione spiacevole. Mark non amava il contatto ravvicinato, non ne sentiva il bisogno, gli dava l’impressione di essere in gabbia. Ma proprio perché inatteso, totalmente spaesato lui la lasciò fare. Si stava confrontando con qualcosa con cui non gli capitava spesso di avere a che fare: un essere arrendevole e disponibile.
Milly gli rivolse dal basso un sorriso accompagnato da due gote imporporate, come la più inibita delle fanciulle.
Kira gliel’aveva descritta timida e fragile, ma l’impressione che gli diede in quel momento fu molto diversa. Quella ragazza sapeva benissimo cosa stava facendo.
 
 
 
 
Una volta seduti in un accogliente locale dai tondi tavolini color caramello, Kira incrociò le braccia al petto lanciando a Jem e Ed sguardi rabbiosi. Quei due erano gli unici che si stavano divertendo e non sarebbero nemmeno dovuti venire! Le sarebbe tanto piaciuto ascoltare cosa stavano dicendo di così divertente, dal momento che Jem rideva di gusto. Lei invece era costretta ad ascoltare Darren Grant parlare di sé e dei suoi alti profitti scolastici. Quel ragazzo adorava il suono della propria voce... Non le era proprio antipatico ma nutriva per lui una diffidenza naturale.
Mark non doveva passarsela molto meglio di lei: se ne stava seduto accanto a Milly - trasformatasi improvvisamente nella persona più ciarliera di questo mondo – in un atteggiamento annoiato, a braccia conserte, guardandosi attorno distrattamente e annuendo ogni tanto.
Kira aveva pensato che, in presenza del suo idolo, Micchan si fosse come rimpicciolita sino a diventare trasparente. E invece...
Non le andava a genio tutta quella loquacità.
«E tu, Brighton? Qual è la tua media scolastica?» chiese Grant, risvegliandola dalle sue riflessioni.
«La mia? Boh. No, cioè… credo sia sul settanta per cento»
«Non male».
Kira tamburellò con le dita sulla superficie del tavolo. Lui le fissò la mano e ridacchiò. Sembrava divertito all’idea che lei non fosse a suo agio. Si era detta che quel sorrisino bieco sulle labbra di Darren significasse un ‘non preoccuparti, sono in imbarazzo anch’io’; ma col proseguire della giornata Kira capì che lui godeva nel vederla così impacciata. Darren aveva capito che lei lo temeva, ma invece di offendersi lo stava trovando divertente.
Irritante!
Forse aveva ragione Mark: simulare un atteggiamento positivo era da ipocriti. Tuttavia, doveva collaborare…per Milly.
Darren portò la tazza di thè alle labbra e Kira approfittò del momentaneo silenzio per porgli una domanda che suscitava la sua curiosità.
«Senti, perché sei voluto uscire con me, oggi? Micchan mi ha detto che l’idea dell’uscita di gruppo è stata tua».
Darren alzò lo sguardo, riabbassando la tazza. «So della cotta di Milly-san per Lenders e ho deciso di aiutarla»
Kira sostenne lo sguardo di lui. Quegli occhi sottili la insospettivano più di tutto il resto. Afferrò la sua tazza prima che la bevanda si raffreddasse troppo. «Non sapevo che tu e Micchan foste compagni di classe. Andate d'accordo?»
«Abbastanza» disse lui, come se non fosse del tutto vero. «Se te lo stai chiedendo, sì, mi ha detto tutto: della sua gelosia verso il rapporto che hai con Lenders, dei vostri litigi a causa sua…»
Kira provò una punta di risentimento. Da quanto stava sentendo, Darren non era un semplice compagno per Micchan. Doveva essere nata una certa familiarità tra loro.
Quasi leggendole nei pensieri, Darren disse: «Milly-san si è confidata con me perché non aveva nessuno con cui poterlo fare. È una ragazza molto insicura, ha bisogno di amici fidati»
Kira si sollevò dallo schienale della sedia. «Io sono sua amica!»
«Sembra che tu non sia stata molto solidale, ultimamente»
Lei vacillò, stringendo la mascella, risentita di fronte alla critica di un estraneo. «Beh, se sai tutta la storia, non c’è bisogno che approfondisca l’argomento»
«Direi di no». Darren sorseggiò un altro po’ di thè.
Kira posò la sua tazza e si schiarì la gola. Doveva sapere una cosa. Adesso o mai più.
«Posso farti un'altra domanda?»
Darren ingoiò un sorso. «Prego»
«È dall’inizio di quest’anno che mi talloni ogni giorno. Perché lo fai?»
Lui posò la tazza, sistemando i gomiti sul tavolino e intrecciando le dita delle mani. «Non ti tallono. Ti studio»
La risposta la lasciò sbalordita.
«Vedi, Brighton, non ho potuto farne a meno. Sei un tipo che si nota con quei capelli lunghi e chiari. Nessuno a scuola li porta così e nemmeno tu potresti»
Kira si toccò automaticamente la ciocca che le ricadeva sciolta sulla spalla. A scuola li legava quasi sempre in una coda proprio perché sapeva di non avere il consenso di sfoggiarli liberi, anche se talvolta le piaceva ignorare il regolamento. Le erano sempre piaciuti i suoi capelli, e da quando mamma le aveva permesso di farli crescere non aveva più messo mano alla forbice se non per spuntarli. «Sono miei, non li tingo. E non mi faccio notare»
«Oh, no, non intendevo accusarti di vanità. Perdonami. Il fatto è che sei molto carina»
«Ah…» Kira aprì la bocca e la richiuse. Era la prima volta che un ragazzo le diceva una cosa simile. Ne fu lusingata ma non imbarazzata al punto di arrossire.
«Trovo tu sia un tipo interessante, non solo nell’aspetto ma anche nella personalità». Darren intensificò lo sguardo. «Sei esattamente come Lenders: mi piacete entrambi ma in due modi totalmente differenti. In verità è dall’anno scorso che ti ho notata, durante il torneo interscolastico di pattinaggio artistico. Ma solo poco tempo fa ho trovato il coraggio di parlarti»
Lei fu ancora più stupita. «Hai seguito le gare?»
Darren parlò con calma, attento a scandire bene ogni parola. «Per me è quasi inevitabile seguire questo sport. Anche mia sorella è una pattinatrice di figura»
Kira rimase immobile a soffiare sul thè caldo. La sua fronte si contrasse alla ricerca frenetica di un ricordo. Non era la prima volta che aveva la netta sensazione di aver già sentito il cognome Grant da qualche parte.
«Anche mia sorella ha frequentato la nostra scuola e ha fatto parte del tuo club» proseguì Darren.
«Sul serio? Come si chiama?»
«Se fai parte del team di pattinaggio della Toho, non puoi non aver sentito parlare di Amber Grant».
Qualcosa scattò nella mente di Kira, come un meccanismo inceppato che si sblocca, e finalmente ricordò dove aveva letto quel nome: era stato su una rivista sportiva, poco prima di tentare l’esame d’ammissione alla Toho School.
 «Ma certo che ne ho sentito parlare! Tua sorella è quella che ha vinto la medaglia d’argento ai campionati nazionali juniores due anni fa!»
Darren le sorrise amichevolmente. «Proprio lei. Sapevo che la conoscevi»
Kira restò a bocca aperta. Una volta ammessa alla Toho aveva sognato di incontrare quella ragazza che aveva solo un anno più di lei, e che era così brava da essere stata ammessa alle gare nazionali. Sfortunatamente, Amber aveva lascito la scuola per trasferirsi in Russia ad allenarsi con un coach di fama mondiale.
«I miei genitori avrebbero preferito che rimanesse in Giappone» continuò Darren con lieve rammarico, «ma lei ha insistito per studiare da privatista. È molto impegnata con il pattinaggio e non ha tempo di frequentare i corsi»
Kira annuì. «Sì, lo immaginavo».
Adesso era tutto chiaro. Ecco perché quando Darren si era presentato la prima volta le era sembrato di...
Grant… ma sicuro! Al club di pattinaggio si nominava spesso la famigerata senpai Amber. Tutti la ammiravano, solo che nessuno aveva mai usato il cognome, e per questo Kira non era riuscita subito a collegare le cose.
«Mi piacerebbe conoscerla» ammise, alzando gli occhi verso il soffitto, come se potesse figurarsi la scena di lei che stringeva la mano alla sua eroina.
«Mi farebbe piacere fare qualcosa che ti rendesse felice, Kira-san».
Kira corrugò le sopracciglia, scattando sull’attenti. «Non ti ho dato il permesso di smettere di usare il mio cognome».
Troppo sgarbata? Forse. Troppo diretta? Di sicuro. Darren era riuscito ad accendere il suo interesse in una conversazione che non le stava affatto dispiacendo, ma ciò non significava prendersi confidenze gratuite.
«Perdonami, Brighton, mi è uscito senza pensare» le sorrise lui, comprensivo. «So di non piacerti. L’ho capito subito. Ma sappi che farò qualsiasi cosa per farti cambiare idea. Tu mi piaci molto»
Kira spalancò gli occhi e aprì di nuovo la bocca, dalla quale però non uscì alcun suono. Darren era un ragazzo oggettivamente carino, ma non suscitava in lei nessuna sensazione.
Milly l’aveva informata dell’interesse del ragazzo verso di lei, solo che sentirlo a chiare lettere…
Sollevò un angolo delle labbra, trattenendo un rantolo di angoscia. Per darsi coraggio riprese la propria tazza e ingollò i rimasugli del suo thè ormai freddo.
 
 
 
 
La giornata proseguì su toni tranquilli. Darren, Mark e Ed raggelavano l’atmosfera ogni volta che si rivolgevano la parola, per questo Jem, Kira e Milly pensarono fosse saggio fare in modo che non si parlassero affatto. Un buon modo per stare tranquilli e appartati a coppie fu visitare l’Ota Memorial Art Museum, dedicato alle stampe ukyo-e, le "immagini del mondo fluttuante", opera dei più grandi artisti giapponesi. (2)
Ancora scossa dopo la dichiarazione, Kira tentò di schivare Darren in tutti i modi, approfittando del fatto che nel museo non si poteva parlare ad alta voce e c’erano molteplici sale in cui ci si poteva accidentalmente perdere di vista. Quando vide Mark infilarsi solo soletto nella stanza dedicata ai souvenir, decise di seguirlo e nascondersi lì dentro con lui.
«Cosa stai facendo?» le chiese il calciatore con aria perplessa.
Kira si guardò attorno per vedere se Darren era nei paraggi. «Scappo da Grant», rispose nervosa. Preferì spostarsi dietro Mark, in modo da non essere vista nel caso Darren fosse comparso all’improvviso. Probabilmente stava ancora guardando i dipinti insieme agli altri.
«Al locale vi ho visti parlare» disse Lenders, asciutto. «Sembravi piuttosto allegra. Perché ora fai così?»
«La situazione si è fatta un tantino complicata». Kira giocherellò distrattamente con una ciocca di capelli. «Ha detto che gli piaccio»
Il capitano della Toho si voltò rapidamente verso di lei con tutto il corpo, colpendo accidentalmente l’espositore delle riproduzioni delle stampe in vendita.
Kira emise un grido strozzato. «Attento! Se rompi qualcosa te la faranno pagare»
Insieme allungarono le braccia per evitare una caduta che non avvenne. L’espositore non si era mosso di un centimetro.
Mark riportò rapidamente l’attenzione su di lei. «Cos’hai detto?!»
«Che se rompi qualcosa…»
«Non quello. Prima»
Kira lo osservò stringere gli occhi con fare minaccioso. «Di…di Grant?»
«Sì. Lui. Mister sorriso cretino permanente»
Lei emise una risata dentro uno sbuffo. «Micchan mi aveva avvertita, per cui un po’ me lo aspettavo. Anche se sapere che si tratti proprio di lui non mi fa fare i salti di gioia»
Mark sembrò rilassarsi.
«Per lo meno ora mi spiego perché mi segue sempre» continuò ragazza. «Ci trova interessanti, sai? Tutti e due»
Mark inarcò un sopracciglio. «Ti dispiacerebbe essere un filino più chiara?»
«Penso si riferisca al fatto che sei un campione». Kira assunse un’aria pensosa. «Chissà, magari sogna segretamente di essere come te»
Lui fece schioccare la lingua. «Figuriamoci. Quel secchione damerino?»
«Anche Julian Ross lo avevi definito un damerino»
«Julian ha il cervello e le doti per arrivare ad essere qualcuno di un certo calibro, oltre che impersonare il signorino di buona famiglia. Ma Grant…». Mark parlò con disprezzo. «Non me lo immaginerei avere il coraggio di sporcarsi il completo firmato»
«Che male c’è se è un secchione?» replicò Kira. «Il mondo non è fatto di atleti e ginnasti, Mark»
«Cosa vorresti dire? Che sono uno zotico ignorante capace solo di calciare un pallone?»
«Ma no». Kira sospirò di nuovo, ignorando la punta d’irritazione che solo lui era capace di farle montare tanto in fretta. «Tutto considerato, mi domando se sia stato il caso di preoccuparmi tanto. Voglio dire, ora che conosco la ragione della sua insistenza non mi sembra più così inquietante, solo un po’…strano». Le apparì un sorriso sul viso. «E poi sai, ho scoperto che gli interessa il pattinaggio artistico!»
«Lui segue il pattinaggio?» chiese Mark, afono. «E tu ci credi?»
Kira mosse le spalle. «Perché non dovrei?»
«Perché sa di balla grande come una casa, ecco perché. Kira, svegliati! Sta cercando di guadagnare punti»
C’era la possibilità che Mark avesse ragione, ma quando Darren le aveva parlato di Amber non le era sembrato che… «Lo pensi davvero?», domandò delusa.
Mark le rivolse uno sguardo che sembrava dirle ‘vuoi scommettere?’. Si allontanò piano da lei, per spostarsi verso un'altra parte della stanza.
Kira lo seguì. Il sospetto dell’inganno l’amareggiò. Allora non era vero nemmeno che era il fratello di una campionessa? Possibile che avesse inventato tutto?
Ci avrebbe pensato dopo alle bugie di Darren – se lo erano – ora era curiosa di sapere altro.
«Senti…a te come sta andando?» chiese a Mark, dandogli un colpetto con il gomito.
Lui sbuffò. «Mi sto annoiando»
Già. Anche lei. «Intendevo con Micchan»
Mark prese una guida del museo e iniziò a sfogliarla pigramente. «È appiccicosa e sta cercando di abbindolarmi come un pollo. Tu che ne pensi?»
Kira sorvolò prudentemente sul fatto che Milly si fosse tramutata in un’accalappia scimmioni. «Quindi ti stai comportando bene?»
«Sono buono come un agnellino».
La pattinatrice arricciò il naso. Certo, la tigre che diventava agnello, come no?
«Sto facendo quello che mi hai chiesto, Kira. Non aspettarti di più»
«La cosa importante è che tu sia gentile. Le hai fatto almeno un complimento?»
Sfuggente, lui continuò a sfogliare la guida. «Uhm… le ho detto che è graziosa».
La cosa non le fece piacere. Kira rivolse un’occhiata fugace al pavimento, sforzandosi di ignorare il lieve peso sul petto. «Ehm…bene». Ma… «Solo questo?»
Mark ripose il libretto e afferrò una delle stampe in facsimile fingendo di guardare i prezzi. «Non abbiamo nulla in comune. Non saprei cos’altro dirle»
«Cerca di farle qualche altro apprezzamento» suggerì Kira. «Potresti…non so, potresti dirle che trovi carina la sua pettinatura, o fare una battuta di…» …spirito.
Lui inarcò le sopracciglia.
«…Okay, niente battute»
Mark le parlò aspramente. «Mi sembrava di dover passare la giornata con la tua amica, non farle le avance»
Aveva ragione, ma Kira era del parere che incrementare un po’ le cose non avrebbe fatto male a nessuno.
No, vero?
«Dobbiamo convincerla che tra noi non c’è nulla, ricordi?»
Mark emise un suono sprezzante. «Me lo ripeti in continuazione, come faccio a dimenticarmene?»
Posò ciò che aveva in mano con indelicatezza e infilò le mani in tasca. «Lei è bellina» bofonchiò, «e pure ben fatta. Ma se devo essere sincero, trovo più bella te».
Lei trattenne il respiro e divenne di sasso.
Mark la fissò con tanto d’occhi e improvvisamente gli si seccò la gola. «Non sto dicendo che mi piaci. È solo che preferisco le ragazze slanciate»
«Ah». Quindi lui non intendeva che lei gli piaceva, ma che gli piacevano le ragazze come lei. Più alte, più longilinee… Aveva un senso: essendo Mark così alto era normale che preferisse ragazze testualmente alla sua altezza. Lui era quasi un metro e ottanta e Kira aveva il presentimento che negli anni a venire si sarebbe alzato ancora, e parecchio. Attualmente c’erano almeno dieci centimetri a separarli. Lei non era ancora sbocciata totalmente, come notava tristemente ogni mattino guardandosi allo specchio. Milly, per quanto piccola di statura, aveva già un bel seno e fianchi pronunciati; eppure Mark aveva detto di preferire lei. Anzi, no: che la trovava più bella.
Darren le aveva detto che era carina, ma il compimento non aveva percosso il suo cuore come la grancassa di un’orchestra.

 
 
 
Poco lontano dal santuario shintoista Meiji, dedicato all’imperatore Mutsuhito e a sua moglie, l'imperatrice Shōken, sorgeva un parco dove era possibile godersi una gita sul lago usufruendo del noleggio imbarcazioni. Le barchette a remi erano grandi giusto giusto per portare due persone.
Milly non perse occasione per trascinarvi Mark.
Kira salì sulla barca insieme a Darren con passo pesante, incrociando le braccia al petto lasciando che lui afferrasse i remi e li portasse al largo.
Jem e Ed, quasi esternatisi dal quartetto che li accompagnava, presero una terza barca ricominciando a parlare tranquillamente.
Warner conduceva con abilità. Era una cosa che non aveva mai fatto ma gli venne piuttosto facile ed era divertente.
«A quanti anni hai iniziato a pattinare?»
«Dieci» rispose la Edogawa. «Ho cominciato un po’ tardi. Per me era solo un divertimento, ma da quando ho iniziato a frequentare la Toho mi sono decisa a fare sul serio»
«Sei brava?»
Jem tentennò. «Credo di sì. Non come Kira, però. Lei è la più brava del corso»
«È ammirevole il modo in cui la sostieni. Però sono sicuro che anche tu te la cavi benissimo»
Jem sorrise. «È quello che mi dice sempre lei. A me pattinare diverte e mi andrebbe bene continuare così, per il semplice gusto di farlo. Ma Kira è una futura campionessa: lei e il senpai Yusuke. Dovresti vederli».
Ed le rivolse uno sguardo di scusa. «Mi dispiace dover confessare di non essere ma venuto una volta a vedere una vostra gara». La fissò attentamente ma lei non parve molto delusa e questo lo rincuorò.
«Puoi venire quest’anno» propose allegramente Jem. «I campionati inizieranno a settembre, poco dopo il termine delle partite di campionato»
Ed annuì, continuando a remare. «Verrò, se tu verrai a fare il tifo», le disse ammiccando.
Jem sorrise timidamente. «Lo scambio mi sembra giusto ed equo. Perché anch’io ammetto di aver visto pochissime partite»
Lei distolse lo sguardo dal suo. Ed sapeva di averla imbarazzata ma doveva pur iniziare da qualche parte se voleva osare un po’ di più.
«Per cui, alle elementari non praticavi nessuno sport»
«I primi anni no. Però ero manager della squadra di calcio della mia scuola»
Ed smise di remare. «Facevi la manager?»
«Perché ti stupisci?»
«Non so. Non ti ci vedo lavare divise puzzolenti di sudore»
Jem rise. «Eppure lo facevo volentieri»
«Quale istituto frequentavi?»
Lei si umettò le labbra. «Ehm, la… Saint Francis, nella prefettura di Nankatsu»
Ed si immobilizzò. La guardò. Jem lo fissava quasi come se stesse per chiedergli perdono. Lui capì che c’era qualcosa che non sapeva, qualcosa che forse lei non voleva dire. «Eri manager della squadra di calcio della Saint Francis?»
«Già» annuì lei, stropicciandosi le mani. «Mi sono trasferita prima di iniziare la sesta. Mio padre ha cambiato lavoro e siamo venuti in città. Mi dispiacque moltissimo lasciare i ragazzi»
I ragazzi…
Ed fece mente locale e, in due millesimi di secondo, le facce dei giocatori di mezza New Team gli balenarono davanti agli occhi: Paul Diamond, Ted Carter, Johnny Mason, Bob Denver e Benji Price. Tutti loro provenivano dalla Saint Francis, unica scuola elementare di Nankatsu insieme alla Newppi. Le due squadre erano avversarie da tempi immemori. Poi, entrambe le società scolastiche avevano preso i migliori giocatori da entrambe le rose per dar vita all’attuale New Team.
«Prima che me lo domandi, sì, conoscevo tutti i giocatori» lo anticipò Jem, intuendo senza fatica ciò che Ed stava per dire.
«Capisco» balbettò lui. «Beh, non è un problema se sei loro amica»
«In realtà è da molto che non li vedo» disse Jem con chiara amarezza. «Quando la New Team ha partecipato al campionato nazionale io non ero già più la manager, anche se sono andata allo stadio a vedere ogni incontro. Ho cercato di mantenere i contattati, ma sai come vanno certe cose»
«Sì…». Ed ebbe uno strano presentimento. Jem lo guardava in un modo strano. «E… dimmi, ti piaceva qualcuno nella tua vecchia scuola?». La domanda gli sorse spontanea.
Lei si ritrovò scoperta, senza la possibilità di ritrattare. Fece un sorrisino come a dirgli grazie per averle risparmiato lunghi giri di parole. «Lui faceva il portiere»
«Benji». Ed ripeté quel nome come una maledizione. Dovette sapere. «Lui ti piaceva?»
Jem si morse un labbro. «C’era una reciproca simpatia. Si può dire che stessimo insieme»
Già, per quanto potesse essere giusta la frase ‘stare insieme’ per due ragazzini delle elementari, pensò Ed. Non gli fu difficile figurarsi un piccolo e pomposo Benjamin Price mano nella mano con la sua fidanzatina. Ma perché proprio lei? Perché proprio lui?!
Non gli fu difficile fare due più due. «Ho capito». Warner abbassò la testa, sconfitto. «Stai cercando di dirmi che non ho speranze, vero?»
«Scusami» Jem si strinse nelle spalle senza il coraggio di guardarlo. «Sono ancora legata a lui, anche se ora è lontano»
Ed strinse i denti per un secondo, tornando padrone di sé un attimo dopo. «Già. Lui è in Germania e tu sei qui. Pensi non si sia trovato una ragazza in questi due anni?»
Jem trasalì, ferita dall’insinuazione. Ed si diede dell’idiota ma la gelosia era stata più forte. Lei stava iniziando a piacergli sul serio ma poi, d’un tratto, spuntava Price, il ragazzo ricco e perfetto che a uno schiocco di dita aveva tutto ciò che voleva. Non l’aveva mai sopportato e ancor più lo detestò adesso.
Per quanto il sentimento fosse stato sincero, trovò quantomeno sciocco che Jem si aggrappasse a un’affettuosità infantile che molto probabilmente non sarebbe mai divenuta null’altro.
«Non è bello sparlare di una persona che non è presente e non può difendersi» disse lei, sostenendo il proprio prezioso ricordo.
«Scusa. Sono stato impulsivo». Ed tentò di sorriderle ma non ci riuscì. «Perciò, se ti chiedessi di uscire di nuovo, non accetteresti, vero?»
Jem strinse le mani in grembo. «Warner, mi dispiace veramente. Non mi sei indifferente, altrimenti non ti avrei chiesto di uscire con me. Sei un bel ragazzo e mi sei simpatico. Ci ho provato, solo che…»
«Ma certo». Ed si strofinò la nuca imbarazzato, fingendo di ridere per la gaffe. «Accidenti, mi sarebbe piaciuto approfondire la nostra conoscenza ma, se le cose stanno così, non mi resta altro che farmi da parte»
Jem gli rivolse uno sguardo penoso che lui non accettò. Si voltò, non riuscendo neppure a tradurre in parole quello che provava.
Lei aveva tentato di dimenticare Benji uscendo con lui, e forse era vero che non l’era indifferente ma poco contava. Ed non sarebbe stato il rimpiazzo di Benji Price.

 
 
 
«Non avrei mai immaginato che un parco del genere si trovasse così vicino al centro» disse Milly con aria sognante. «Sembra quasi di non essere nemmeno a Tokyo. C’è così tanta natura… la pensi anche tu così, Lenders?»
«Sì, è un bel posto». Ogni volta che lui apriva bocca, l'ammirazione di Milly sembrava crescere, come se non avesse mai incontrato un ragazzo più intelligente.
La vide annuire. «Sì. A-anche a me piace tanto…il parco, voglio dire».
Lui non aveva afferrato il doppio senso dell’ultima frase.
Le guance Milly erano spruzzate di porpora e, invece di ammirare il paesaggio, se ne stava a capo chino. Mark, al contrario, remava godendosi la tranquillità di quel luogo. 
Milly stava diventando più sciolta in sua compagnia ma non sarebbero mai stati in grado di conversare in maniera naturale. Non c’era nulla da fare, le cose stavano così. Milly non parlava a sproposito, aveva molte qualità che un ragazzo qualunque avrebbe apprezzato, ma le mancava qualcosa. Quei suoi modi docili quasi lo irritavano. Non aveva mai compreso perché la maggior parte delle ragazze distogliessero lo sguardo quando ti rivolgevi a loro.
Smise di remare quando furono al largo, lasciando che la barca navigasse sospinta delle acque placide che scintillavano al sole. I suoi tranquilli del parco erano un toccasana per il suo animo inquieto. Lo sguardo vagò, poi Mark si voltò un momento per capire dove fossero finiti gli altri. Alle sue spalle individuò Ed e Jem sulla loro barca, chiacchierando fitto. Darren e Kira erano poco più lontano alla loro sinistra. Grant le parlava ma la pattinatrice ascoltava e basta, o forse nemmeno. I capelli di lei, rilucenti al sole, acquisivano sfumature di un intenso oro ramato.
«Non è carino fissare la gente in quel modo, soprattutto se sei in compagnia di qualcun altro»
«Mh?» Mark si voltò verso Milly. Non si era reso conto di essersi messo a fissare Kira. «Scusa, mi ero incantato». Doveva essere rimasto in quella posizione per lungo tempo, poiché la Benson sembrava arrabbiata.
«Se sei geloso di lei, non saresti dovuto venire».
«Non potrei mai essere geloso di una mia amica, di Kira tanto meno. Sarebbe ridicolo».
Ma di fatto è così.
«La chiami col suo nome di battesimo» notò Milly, mordicchiandosi l’unghia del pollice. «Tieni molto a lei, non è vero?»
La domanda spiazzò Mark. «Io…sì. Anche se il più delle volte mi fa saltare i nervi»
Milly gli rivolse uno sguardo lacrimoso. «T-ti stai divertendo…con me?»
No. «Certamente».Mark era convinto di non preoccuparsi troppo del giudizio altrui, ma alla fine stava sempre attento a non fare brutte figure.
«Eri mai uscito con qualcuno?» domandò la Benson.
«Certo, con Kira. La settimana scorsa siamo andati al Luna Park»
Milly iniziò a tremare. Mark lo notò e capì di aver sbagliato qualcosa.
Oddio, non piangerà mica?!
Kira doveva aver taciuto riguardo la loro gita al parco divertimenti. Milly sembrava così gelosa che non farglielo sapere si era probabilmente rivelata la cosa più saggia. Mark lo trovò logico, anche se mentire non funzionava sempre come soluzione migliore.
Provò a correggersi. «Comunque sia non lo considero un appuntamento. Lei è mia amica e basta»
Milly annui senza aprire bocca, per poi distogliere lo sguardo.
Bene, si disse Mark. Lo scopo della giornata era stato raggiunto. Se era lui stesso a dirglielo, lei avrebbe finalmente creduto che tra lui e Kira non c’era niente di niente anche senza una prova concreta. Almeno sperava.
Si concentrò di nuovo sulla Benson per capire se avesse funzionato. Lei rialzò lo sguardo e le sue guance si tinsero nuovamente di rosa. Gli dava come l’impressione che fosse capace di arrossisse a comando.
«Io…» ricominciò lei. «Io t-ti piaccio almeno u-un pochino?»
Mark sussultò e arretrò col busto.
E adesso? Doveva seguire il consiglio di Kira e farle un altro apprezzamento? Forse, ma aveva l’atroce dubbio che se si fosse azzardato, lei…
«Mi piaci davvero tanto, Mark». Milly si sporse sulla barca.
Lui si ritrasse. «Ma cosa…?»
Lei gli si lanciò praticamente in grembo aggrappandosi alla sua maglia, chiuse gli occhi e tese le labbra.
 
 
 
 
Dopo aver cercato di introdurre nuove argomentazioni, Darren aveva smesso di parlare. Kira, al pari di lui, non fiatava. Il ragazzo remava piano e lei se ne stava con la schiena piegata, i gomiti puntellati sulle ginocchia e una mano a sorreggere il viso. In lei si era risvegliata la fastidiosa vocina interiore che le punzecchiava la mente con elucubrazioni dalle quali si sarebbe volentieri tenuta alla larga.
Lei non piaceva a Mark. Mark non piaceva a lei. Lui aveva solo espresso un giudizio soggettivo. Un amico poteva dirle che era bella. Però… Dannazione, perché aveva dovuto usare quella parola?
Era abituata a pensare a sé stessa e Mark come un duo mal assortito ma fatalmente compatibile. Un’antica leggenda giapponese narrava che c’era un filo rosso che legava le anime di due innamorati…forse ne esisteva uno anche per gli amici.
Kira era felice che Mark la apprezzasse in quel senso, faceva bene alla sua autostima, solo che certe parole in bocca a lui suonavano veramente strane, soprattutto perché il capitano non le aveva mai fatto intendere che pensasse una cosa simile di lei.
Sapeva che non significava niente. Non era roba per loro due, quella, ma il suono di quella parola le stava trapanando il cervello.
«Qualcosa non va?» domandò d’un tratto Darren.
Kira sollevò il viso dalla mano. Doveva essere stanco di essere ignorato. «Scusa, ero distratta».
«L’ho notato». Darren continuò a remare lentamente, il solito sorriso tranquillo sempre al suo posto.
Improvvisamente, Kira ricordò che voleva chiedergli qualcosa.
«Senti, Grant, è vero che sei il fratello della senpai Amber?» domandò a bruciapelo.
Lui sollevò le sopracciglia. «Certo che è vero»
«Scusa, non volevo darti del bugiardo. Solo che…beh, tu hai detto che ti piaccio e io…»
«...hai pensato che ti abbia raccontato una frottola per impressionarti» concluse lui.
Kira annuì. Non era lei che lo pensava, ma Mark. Comunque non c’era bisogno di specificare. «Se ti fossi inventato tutto sarebbe inquietante, perché significherebbe che mi hai studiata veramente per carpire ogni più piccolo particolare»
Darren ridacchiò con lei per la battuta. «Già, sarebbe allarmante. Ma per tua fortuna non è così; Amber è davvero mia sorella maggiore, e appena potrò te lo dimostrerò»
Kira rimase sorpresa e sollevata. Poteva stare tranquilla. Non era uno stalker. Finora, l’aspetto più preoccupante era sapere che lei gli piaceva. La dichiarazione l’aveva lasciata abbastanza indifferente, per cui non avrebbe potuto affermare che le avesse provocato realmente fastidio. Se si fosse fermata ad ascoltarlo una delle tante volte in cui lo aveva incontrato a scuola, invece di fuggire via, forse il timore per quel ragazzo non sarebbe nemmeno esistito. Kira non nutriva particolare interesse a farselo amico o approfondire la conoscenza, era solo contenta di averlo capito.
«Sai, è stato davvero un bel gesto quello di accettare di venire per farli incontrare» riprese Darren, spostando lo sguardo verso Mark e Milly sulla barca più vicino a loro. «Credo che, dopotutto, tu sia riuscita a fare felice Milly-san».
Lo stomaco di Kira si contorse come una serpe malefica, ricordandole la propria bassezza: stava fantasticando sul ragazzo che piaceva alla sua amica. Che razza di persona era?
«Credo che se quei due si mettessero insieme, sarebbe la soluzione migliore per appianare le vostre divergenze» continuò Darren.
Kira si voltò rapida a fissare Mark e Milly. Mettersi insieme? Forse Grant aveva ragione: se avessero fatto coppia, lei avrebbe potuto continuare ad essere amica di entrambi senza che Micchan soffrisse di gelosia.
«Kira-san», Darren le afferrò una mano, tenendola così stretta da non permetterle di liberarsi. «Sii una buona amica per Milly-san. Un’amicizia sincera si vede anche da ciò che siamo disposti a rinunciare per il prossimo. Lascialo a lei»
No.
L'ondata di dolore si diffuse rapidamente nel suo corpo come una scarica elettrica. Kira non voleva assolutamente che quei due facessero coppia, erano troppo diversi.
Ma gli opposti si attraggono, sussurrò la vocina antipatica.
Taci!
Era escluso! Mark non avrebbe mai potuto innamorarsi di Milly. Sì, poteva trovarla graziosa ma non avrebbe mai…non avrebbe…
Si sporse sulla barca per accertarsi che quello che stava vedendo non fosse reale: Mark e Milly stavano per…
«Ehi?! EHI!!!» Kira balzò in piedi con violenza. Il movimento fece vacillare la barca. Darren le intimò di risedersi o avrebbe rischiato di cadere.
Troppo tardi.
La barca si rovesciò ed entrambi finirono in acqua, e non furono gli unici. Sull’altra imbarcazione, Mark lasciò i remi schizzando in piedi a sua volta, più per evitare Milly che per il grido di Kira. Nel tentativo di riprendere l'equilibrio, lui finì per appoggiare tutto il peso su un lato facendoli ribaltare.
«Milly! Kira!» esclamò Jem da poco lontano.
«Capitano!» le fece eco Ed, scoppiando inevitabilmente a ridere quando la testa di Mark fendette la superficie. Dire che in quel momento era furioso sarebbe stato riduttivo.
«Kira, che cazzo urli?!». L’imprecazione di Lenders era per lei.
Appena riemersa, Kira respirò a pieni polmoni. Si tenne al fasciame dell’imbarcazione capovolta, rivolgendogli un identico sguardo collerico. «E tu che cazzo facevi, Lenders?!»
Si fissarono per un momento e in quello sguardo passò tutto ciò che nessuno dei due avrebbe avuto il coraggio di esprimere. Ma era sempre la rabbia a farla da padrone.
Poi, Mark rammentò all’improvviso: dov'era finita, Milly? Si guardò attorno e notò la figura di lei che si dibatteva goffamente nell’acqua. «Stai bene?»
«S-sì, ma non si tocca» boccheggiò la Benson.
«Non sa nuotare bene» lo informò Kira con voce seccata.
«Lenders, tu stai bene?!» piagnucolò Milly.
«Certo. Dobbiamo tornare verso la riva. Riesci a nuotare fino a lì?»
Milly annuì ma ebbe bisogno di un aiuto.
«Capitano, la riportiamo a riva noi» disse Ed, sporgendo un braccio fuori dalla barca. Lui e Jem, gli unici rimasti illesi, fecero salire Milly.
«Accidenti, Kira-san!», esclamò indignato Darren Grant. Era stato praticamente ignorato e nessuno si era premurato di sapere se stesse bene. «Si può sapere cosa ti ha preso?»
«Niente!» grugnì lei, cominciando a nuotare verso la riva a grandi bracciate. Mark la affiancò in poco tempo e la superò senza degnarla di uno sguardo.
Le barche furono lasciate nel lago. Un paio di guardie del parco erano accorse, avvertite da altri passanti. Ed parlò con loro, scusandosi per il disagio e promettendo di pagare i danni se ce ne fosse stato bisogno. Essendo tutti poco più che adolescenti e capendo che non avevano provocato gravi danni alle barche né di proposito, le guardie fecero ben poche storie.
Jem aspettava un po’ più in là della riva, seduta su una panchina insieme a Milly, tenendole le spalle con un braccio. Milly tremava ma non certo per il freddo; la giornata era decisamente estiva. La caduta nel lago l’aveva spaventata a morte.
Ansimanti e grondanti acqua, Mark e Kira arrivarono fino al piccolo molo. Lui si puntellò con le mani al ponticello, issandosi fuori dall’acqua. Allungò una mano verso Kira, che lo guardò titubante. «Faccio da sola. Tu va da Milly» disse lei, velenosa.
Mark non si mosse, invece sedette con lei sull’erba quando la ragazza vi si lasciò cadere.
Darren li raggiunse pochi secondi dopo, i capelli di solito perfetti appiccicati alla testa. Scavalcò Lenders e Brighton in silenzio, per dirigersi verso le panchine esposte al sole.
«Stai bene?» chiese Mark a Kira.
«Sì». No.
Mark la squadrò con attenzione per trovare qualcosa che non andasse. «Che cos’hai, si può sapere?»
«Hai il coraggio di chiederlo?»
«Ma che vuoi? Che ho fatto?»
Kira gli lanciò un’occhiata furibonda. «Ti stai impegnando molto, vedo, e la cosa mi stupisce dal momento che trovavi Milly noiosa» rispose poi, marcando ogni parola.
«Ha cercato lei di baciarmi» si giustificò Mark. Ne sentì il bisogno anche se non le doveva niente.
«E chi se ne frega se la baci?!» esplose, Kira, rimettendosi in piedi alla svelta. «Quello che fai con lei non è affar mio. Anzi, sai cosa ti dico? Che forse ha ragione Grant: dovreste mettervi insieme, sarebbe la soluzione a tutto quanto». Ma non lo era per l'affanno nella sua voce e del dolore che fin da prima le attanagliava lo stomaco e il cuore.
Al nome di Grant, la mascella di Mark ebbe un guizzo. «Vedo che ti sei fatta abbindolare di nuovo dal damerino da strapazzo»
«Per tua informazione, il damerino era sincero e i tuoi dubbi infondati»
Lui si alzò per fronteggiarla. «Immagino che il giro in barca ti abbia chiarito le idee riguardo a lui, non è vero?»
Kira non riuscì a capire di cosa stava parlando. «Beh, non molto»
«Davvero?» Mark parlò in tono derisorio. «Ti ho vista tenerlo per mano. E oggi al locale a parlare, a sorridere…»
Lei indietreggiò di mezzo passo. «Non ci tenevamo per mano! Lui me l’ha presa e io l’ho ritratta»
«Non sono cieco, Kira»
«Mi hai spiata, scusa?!»
«Ti ho tenuta d’occhio». Mark le si fece più vicino. «Ammetti che stavi ridendo con lui»
Lei aveva sorriso, sì, quando Darren le aveva raccontato di sua sorella, mai prima, né per altri motivi. Kira scosse il capo. «Non significa niente»
«Significa tutto, invece!» Mark mosse un braccio nell’aria per indicare un punto non ben preciso dove avrebbe dovuto trovarsi Grant. «Fino all’altro giorno ti sei lamentata del suo comportamento ambiguo. Mi hai chiesto di accompagnarti fuori da scuola per paura che ti seguisse, lo evitavi come la peste, e ora amoreggi con lui!»
Kira annaspò. Lei non amoreggiava con… «Guardami bene! Ti sembro il tipo che si fa raggirare dal primo che passa?! Invece di giudicare me pensa a te stesso, che ne vai a braccetto per strada con una che hai appena conosciuto!» proruppe rabbiosa.
Mark non batté ciglio. «Se riesci a fare rewind con il cervello, ricordati che sei stata tu a insistere perché mi prodigassi in complimenti per la tua amica. Poi non stupirti se tenta di baciarmi!»
«Se la trovi così appiccicosa come mi hai detto, l’avresti allontanata, non ci saresti rimasto attaccato come una cozza allo scoglio!»
«È stata la Benson a provarci con me! Mi è praticamente saltata in braccio e io…»
«Oh, risparmiami, Lenders! E comunque…» Kira gli picchiettò un dito contro il petto, «…se tu puoi trovare Milly graziosa, anch’io posso guardarmi un po’ intorno!»
Mark fece una smorfia disgustata. «Seriamente? Tu e Grant? Dio, come coppia fareste schifo»
«Nemmeno tu e Milly somigliate alla coppia dell’anno, sai?!» Kira girò sui tacchi prima che potesse uscirle dalle labbra un’offesa peggiore. Non doveva guastare l’atmosfera, ma era incredibile il modo in cui Mark riusciva a smuovere i suoi nervi.
«Aspetta un momento». Mark la raggiunse, tentando di guardarla in viso mentre camminavano. «Mi stai dicendo che ti piace?»
«Pensa ciò che vuoi, non mi interessa»
Lui l’afferrò bruscamente per un braccio e la costrinse a voltarsi. «Guardami in faccia e dimmi che non ti piace»
Kira guardò dentro quegli occhi neri, rabbiosi, e ne fu intimorita. Mai lo era stata. «Non mi piace»
«Stai mentendo»
«Non sto mentendo affatto!»
«Non voglio che tu stia vicino a lui». Le parole di Mark suonarono come un comando.
«Sei assurdo». Lei emise una breve risata irosa. «Ma cosa sei, geloso?»
«E tu allora?» ringhiò Mark senza lasciarle il braccio. «Questa mi è sembrata una scenata in piena regola»
Kira si liberò dalla presa. «Non illuderti, Lenders. Non potrei mai innamorarmi di te»
«Io non ho parlato di innamorarsi».
Lei arrossì leggermente. Già, infatti, chi mai aveva parlato di…
Richiamati dagli altri, tornarono a camminare fianco a fianco raggiungendo le panchine. Poco dopo lasciarono il parco, spostandosi nuovamente verso il centro. La strada al sole li aiutò ad asciugarsi un poco, ma entrarono ugualmente nel primo negozio di abiti che trovarono per acquistare dei vestiti di ricambio, domandando gentilmente alle commesse se potevano usufruire del bagno per sistemarsi.
Milly si avvicinò lentamente a Mark. I suoi occhi erano pieni di lacrime trattenute, i capelli in disordine e l’abito sgualcito.
«Tutto a posto?» chiese lui.
Lei annuì, appoggiandosi contro il suo petto piangendo. «Grazie, mi hai aiutata. S-se non ci f-fossi stato tu p-probabilmente sarei affogata»
Mark si immobilizzò, le mani alzate a mezz’aria come se dovesse abbracciarla oppure respingerla. Optò naturalmente per la seconda ma non troppo bruscamente.
«Dai, sta tranquilla. Non è successo niente»
Kira osservava la scena dai camerini del negozio, in uno dei quali aveva appena finito di cambiarsi. Se le avessero dato un pugno nello stomaco non si sarebbe sentita così male. Non riusciva a dare un nome alla sensazione che provava, ma era chiaro che Mark aveva torto: non era lei ad essersi invaghita del suo accompagnatore, quel pomeriggio.
Senza dire una parola, si avviò verso l’uscita.
«Kira, dove vai?» chiese Ed, incrociandola mentre usciva da un altro camerino.
«Me ne torno a casa. Dillo tu a J-chan, d’accordo?»
«Ma…»
«Bye-bye». Kira salutò il portiere con un gesto pigro della mano. Dopotutto non serviva più lì. Aveva compiuto il suo dovere di amica.

 
 
 
 
***** ***** ***** ***** *****
 
Note:
 
1. Kawaii è un aggettivo della lingua giapponese che può essere tradotto in "carino" o "adorabile". Viene usato per indicare qualcosa di piccolo e grazioso, come anche molti personaggi di anime e manga con occhi grandi e scintillanti, lineamenti graziosi, atteggiamenti timidi, e tutta una serie di particolari che ne hanno fatta una vera e propria moda. Molte ragazze in Giappone parlano, si atteggiano e vestono ‘kawaii’, con abiti graziosi spesso ispirati allo stile delle bambole europee. Una moda sopra tutte è quella della Lolita o Gothic Lolita.
 
2. L'ukiyo-e (tradotto "immagine del mondo fluttuante") è un genere di antica arte nata nel periodo Edo (tra il XVII e il XX secolo). È una stampa artistica giapponese su carta, impressa con matrici di legno. Se non ne avete mai sentito parlare vi consiglio di cercare sulle immagini di Google queste meravigliose e caratteristiche creazioni del Sol Levante.
 
***** ***** ***** ***** *****
 
Questo è il capitolo più lungo di tutta la fanfiction, d’altra parte era necessario postarlo senza interruzioni. Spero si capisca tutto e che non abbiate fatto confusione tra i vari point of view. C’erano tante cose da dire e fare, e sei personaggi da muovere.
 
Non siate troppo gelose fans di Mark e Kira, dopotutto bisogna creare un po’ di casini per smuovere la situazione, non vi pare? (Era pure ora, direte, vero? xD).
I nostri cari protagonisti sono vittime delle manipolazioni più disparate: Milly si è trasformata da ragazzina innocente e timida in una personcina alquanto sicura di sé. Sarà stato l’amore a ispirarla o i ‘consigli’ del suo amico Darren? Lui non si è fatto problemi a dichiararsi apertamente a Kira, e in più ha sfoderato un’arma quasi vincente: la sorella Amber. MUAHAHAHA-AH-AH! *risata satanica*. Avrà ragione Mark e sarà tutta una bugia per attirare l’attenzione di Kira, o avrà ragione lei e Darren ha detto la verità? Voi che ne dite? ;) Sicuramente, Milly e Kira avranno di che discutere.
Scusate se Mark sembra uscito un po’ dall’IC: avrei potuto fare tranquillamente che dicesse a Milly di non scocciarle e di andarsene a quel paese, ma sono del parere che Mark Lenders non si permetterebbe di fare il prepotente con una ragazza (Kira esclusa, ovvio), ma nemmeno con le persone in generale, a meno che non siano suoi avversari. Mark non sa bene come dire di no a Milly e d'altronde non ne ha motivo: lei non gli è concretamente odiosa e Kira è ancora troppo in modalità ragazzina per sconvolgergli la vita. A quello ci arriveremo ;)
Mi scuso con le fans di Ed e Jem se sono rimaste deluse, ma per adesso Jem è ancora innamorata del suo vecchio amico d’infanzia. Vi aspettavate fosse Benji? E Ed avrà davvero rinunciato a lei? Eh, vedremo…
I miei piccoli si avventurano nel mondo degli appuntamenti e delle prime gelosie *^* Crescono in fretta.
 
Di solito aggiorno ogni due settimane, ma se volete sapere la data esatta vi ricordo che potete iscrivervi al gruppo facebook Chronicles of Queen (magari mandatemi un messaggio privato per dirmi chi siete qui si Efp, così vi riconosco).
Ringrazio come sempre chi ha inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate (JessAndrea, palesati! Non mi arrabbierò XD). Grazie a tutte voi che spendete il vostro tempo per leggere ‘Haru’, siete tutte preziose e io vi adoro.
 
Susan<3
 
P.s. Per eventuali errori chiedo scusa.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 17. Inevitabile conclusione ***


17. Inevitabile conclusione

 
 
 
Kira era tornata a casa a metà del pomeriggio, con indosso vestiti che sua madre non le aveva mai visto e quelli bagnati in borsa. Non c’era stato motivo per non dire la verità alla mamma, e del castigo che avrebbe potuto giungere immediato le era importato poco.
Comunque, Risa non l’aveva punita. C’erano volte in cui le sue parole bastavano a far sentire Kira in colpa e ad autoinfliggersi un giudizio negativo su di sé. La tiritera era sempre la stessa: «Quando crescerai, Kira? … Non pensi mai prima di agire… Sei un disastro come tuo padre»
Povero papà! Come riuscisse a sopportare il dispotismo di mamma da tanti anni era ancora un mistero per lei.
D’altro canto, Risa non aveva torto: era impulsiva, insolente e immatura. Riusciva sempre a rovinare tutto e a far star male gli altri.
Kira aveva accettato il rimprovero a testa bassa, simbolo di sottomissione, per poi ritirarsi nella sua stanza senza neanche cenare. Jem le aveva telefonato per sapere cosa fosse successo, ma nessuna delle due ebbe molta voglia di parlare del pomeriggio appena trascorso.
Passò la notte insonne nel tentativo di comprendere cosa l’avesse spinta a fare a Mark una scenata del genere, ma come risultato ottenne solo un paio di occhiaie e nessuna risposta.
Non poteva tornare a scuola il lunedì mattina come se nulla fosse. Per iniziare, sarebbe stato giusto scusarsi con tutti gli altri. Così li riunì in un angolo del cortile prima dell’inizio delle lezioni, piegandosi arrendevole in un profondo inchino che si protrasse per molti secondi.
«Mi dispiace. Mi sono comportata male ieri, non ho scusanti. Perdonatemi, per favore».
Li lasciò di stucco. Nessuno parlò. Kira rimase in quella posizione, i capelli a coprirle il volto, le palpebre serrate, finché Jem mormorò il suo nome.
«Kira-chan…non c’è bisogno»
«Nessuno è arrabbiato con te» le fece eco Warner. «Vero, capitano?»
Kira ebbe un lieve sussulto. Sollevò la testa e raddrizzò la schiena, osservando gli altri e Mark sopra tutti. Le mani infilate in tasca, lui la fissava ostile.
«Io invece sono arrabbiata!» esclamò Milly con una vocetta acuta. «Ci hai mollati lì come fossimo degli estranei. Non ti sei comportata bene, Kira-chan, per niente!»
«Mi dispiace»
«Se ti dispiaceva avresti dovuto pensarci prima di andartene! Ma come al solito pensi solo a te stessa. Sei una grande egoista!»
«Micchan!» fece Jem, tentennando tra il difendere Kira o evitare una crisi di pianto a Milly.
«Non difenderla! Lo sai anche tu com’è fatta: non si cura dei sentimenti degli altri». La voce di Milly si incrinò leggermente. «Avevi promesso che saresti rimasta!»
«Non lo avevo promesso» si ribellò Kira. «Avevo solo detto che sarei venuta»
«Milly-san, non fare così» disse Darren in tono pacato. «Forse Brighton non si è comportata al meglio ma non devi darle contro in quel modo. Avrà sicuramente avuto le sue ragioni»
Kira non poteva credere alle sue orecchie: Darren Grant la stava difendendo e Mark…Mark no. Lui se ne stava immobile e muto a guardare la scena, magari dando pure ragione a Milly. Doveva sapere cos’era successo dopo che aveva lasciato Harajuku…
«Ci è dispiaciuto che tu sia andata via prima» riprese Jem. «Cosa ti è successo? Non sei stata bene?»
«Io…ecco…sì», mentì Kira. Tentò nuovamente di incrociare lo sguardo di Mark: lui aveva riconosciuto quel balbettio per la bugia che era. Ma non poteva ammettere davanti agli altri di essersi defilata a causa di un improvviso attacco di gelosia. Dopotutto nessuno aveva ascoltato la lite tra lei e il capitano della Toho in riva al lago. Solo Ed sembrava essersi accorto di qualcosa dentro al negozio; ma Ed era dotato di discrezione e ne faceva buon uso. Anche se avesse compreso cosa stava succedendo, non si sarebbe impicciato in faccende che non lo riguardavano. Kira lo ringraziò intimamente per essere una persona con molto tatto.
«Potevi dircelo, ti avremmo accompagnata a casa» proseguì Darren facendo un passo verso di lei.
Kira mosse le mani confusamente, quasi per non permettergli di avvicinarsi. «Non c’era bisogno. Non è stato nulla di preoccupante».
«Ora stai bene?»
«Sì, sì»
Darren le sorrise. «Ottimo, allora è tutto chiarito».
«N-non è affatto tutto chiarito!» si accese Milly.
«Certo che lo è» intervenne Ed in tono risoluto. «Non è colpa di Brighton se la giornata è andata male per tutti. Scommetto, anzi, che alcuni di noi sapevano già come sarebbe andata ancor prima di mettere piede ad Harajuku».
Milly si morse le labbra dalla rabbia, scoppiando in un pianto nervoso per poi correre via di corsa verso l’entrata della scuola.
Kira non tentò di fermarla.
La prima campana suonò in quel momento. Avevano ancora una decina di minuti prima che iniziassero le lezioni. Darren fu il primo a muoversi frettolosamente verso la scuola.
«Dobbiamo andare anche noi» disse Ed rivolto a Jem. In quanto capoclasse era suo dovere tenere l’assemblea del mattino prima dell’arrivo dell’insegnante.
Jem si avvicinò a Kira prendendole una mano. «Magari oggi pranziamo insieme, così parliamo un po’. Va bene?»
Kira annuì, ringraziandola. Fece un sorriso debole a Ed, il quale le posò affettuosamente una mano sulla testa passandole accanto, salutando poi Mark con una pacca sulla spalla.
Lei ci mise qualche secondo per voltarsi verso il capitano della Toho, che per tutta risposta le indirizzò uno sguardo di sufficienza. Subito dopo iniziò ad incamminarsi, ignorandola completamente.
«Mark, aspettami», lo chiamò, ma lui proseguì senza voltarsi. «Mark?» Kira lo raggiunse. Dovette accelerare leggermente per tenere il passo con le sue lunghe falcate. Lo trattenne per un braccio con entrambe le mani, cercando di arrestare la sua camminata. Ci riuscì. «Mark, parlami»
«Io?» Lui finalmente le rivolse la parola, gli occhi lampeggianti. «Io non ho niente da dirti. Sei tu che devi»
Kira rimase immobile.
«Cos’era la scenata di ieri?». Mark la fissò con le sopracciglia aggrottate, la mascella contratta.
«Ero…» cominciò lei, ma si interruppe. Cosa? Era cosa? Stufa di vederlo insieme a Milly? Stanca di Darren Grant che le faceva la corte? Delusa e arrabbiata per qualcosa che…? «Non avevo più voglia di continuare quella farsa». Non era la completa verità, ma ne rispecchiava una parte. «Ho già chiesto scusa. Non ignorarmi»
Mark scosse la testa velocemente. «Hai fatto le scuse agli altri. Non a me».
Lei capì cosa intendeva dire. Voleva una spiegazione e un confronto faccia a faccia senza nessuno in mezzo. Una scusa non bastava.
La campanella suonò annunciando l’inizio delle lezioni. I suoni della scuola si spensero, gli alunni dovevano essere entrati tutti quanti in classe. Gli unici ad essere fuori posto erano loro.
«Dovremmo proprio sbrigarci» suggerì Kira.
Mark ficcò le mani ancora più a fondo nelle tasche dei calzoni, riprendendo a muoversi. Lei lo seguì a testa bassa. Solo dopo qualche minuto si rese conto che lui stava prendendo la strada opposta a quella per andare in classe.
«Dove stiamo andando?»
Ancora mutismo.
«Mark, la campanella è suonata»
«Vai tu»
L’implicito rifiuto la sorprese. Lui stava pensando di… «Non vorrai saltare la prima ora?»
Il ragazzo alzò le spalle come a dire che non gli importava.
«Abbiamo la Amada, e se arriviamo tardi, ci sgozza»
«Si fotta quella megera» bofonchiò Mark con insolenza.
Kira trattene un sorriso. L’avversione che Lenders nutriva per la professoressa di giapponese era storia. «Forse ho voglia anch’io di saltare una lezione».
Mark le rivolse un’occhiata veloce come a dirle che poteva fare ciò che voleva. Kira non chiese, lo seguì e basta, finché non giunsero sulla terrazza dell’edificio. Lui lasciò la porta aperta dietro di sé: un invito per lei a raggiungerlo. Kira dubitava che potesse salire qualcuno – chi mai lo avrebbe fatto nel pieno svolgimento delle lezioni? – ma si premurò in ogni caso di sbarrarla con il chiavistello una volta che l’ebbe oltrepassata.
Come nascondiglio, la terrazza della scuola era perfetta, e lo era egualmente per poter parlare indisturbati.
Si appoggiarono alla ringhiera, fianco a fianco, vagando con lo sguardo sul cortile deserto sotto di loro, sul paesaggio intorno – una piccola porzione della grande e caotica Tokyo con i suoi alti palazzi e i grattacieli di metallo e vetro – ma senza afferrarne i particolari. Il vento fischiava nelle orecchie portando via il resto dei rumori; persino il traffico non si udiva da lassù.
«Tu sei strana», esordì Mark dopo diverso tempo.
Kira alzò il viso verso di lui, le sopracciglia aggrottate.
«Dopo le mille raccomandazioni – trattala bene, Mark. Sii gentile, Mark – mi fai una scenata del cavolo e mi pianti in asso»
Kira stropicciò un piede a terra. «Ero…»
«Gelosa. L’ho capito. Ma voglio capirne il motivo»
«Non ero proprio gelosa, solo…», disse lei, maledicendosi per la vergogna che inaspettatamente l’attanagliò alla gola. Santo cielo, cosa avrebbe pensato Mark se avesse ammesso che aveva ragione? Nemmeno a sé stessa era in grado di dare una spiegazione degna di questo nome, figuriamoci a lui. Ciò nonostante, per quanto si almanaccava su quell’aspetto, non c’era un’altra parola che giustificasse il suo comportamento.
Si arrese. «E va bene. Hai ragione. Ero gelosa»
Mark sussultò. Solo lei poteva rimangiarsi così velocemente quel che aveva appena affermato senza scomporsi.
«Perché?» chiese, incredulo.
Kira lo guardò più intensamente di quanto avesse mai fatto. «Perché ho avuto paura di perderti». Si morse l’interno della guancia riflettendo sulle parole appena pronunciate. Esprimevano solo verità. «Quando ho visto quanto sei stato gentile con Milly, ho avuto paura» riprese. «Grant aveva insinuato che se vi foste messi insieme si sarebbe risolto tutto. Potrei essere amica di entrambi – mi sono detta – senza più problemi di sorta. Però, se tu ti fossi innamorato di Milly avresti finito per stare più tempo con lei che con me, e in quel momento mi sono sentita abbandonata. Tu sei…il mio migliore amico».
Era la prima volta in tutta la vita che lui si sentiva così importante per qualcuno. Aveva sempre pensato di essere un elemento essenziale per la sua famiglia e per la squadra, ma mai per una singola persona.
Mark provò a mettersi nei suoi panni; nei panni di qualcuno che riesce ad instaurare un’amicizia speciale, la quale d’improvviso subisce l’intrusione di un elemento indesiderato.
«Hai altri amici oltre me, Kira»
La pattinatrice fece spallucce. «Se per ‘amici’ intendi i ragazzi del club di pattinaggio…sì, ci vado d’accordo, ma con loro non parlerei mai come sto facendo con te adesso. Con te riesco ad aprirmi, ad essere me stessa, a dire quello che penso veramente. Con Milly e Jem non sono mai riuscita ad esprimermi completamente, nonostante voglia ad entrambe un gran bene, soprattutto a J-chan».
Lui le lanciò un’occhiata in tralice. «Credevo che tu e la Edogawa foste molto legate»
Kira annuì. «Lo siamo. ma alcune volte mi rendo conto che con lei non c’è quella completa sintonia che due amiche dovrebbero avere. Jem è una ragazza pacata che cerca sempre un modo per essere utile al prossimo, mentre io sono egoista e spesso penso solo a me. Io non ho paura di esternare ciò che gli altri temono di sentire, invece lei trova normale assecondare gli atteggiamenti altrui per non incorrere in un giudizio negativo. A me non importa di essere antipatica: se qualcuno mi offende attacco e graffio; Jem si ritira nel suo guscio e aspetta che passi la tempesta. Sono davvero affezionata a lei ma siamo così diverse… Non credo troverò mai un’amica in grado di sopportarmi e comprendermi pienamente. Per questo qualche volta mi sento un po’ isolata».
Era stato un breve, bizzarro e confuso monologo, ma in qualche modo Mark riuscì a capirlo. C’era più di una semplice incomprensione tra amiche sotto le parole di Kira, e lo racchiuse nell'unico termine plausibile: solitudine. Benché non fosse una ragazza scostante, si sentiva sola.
Spesso anche lui, in mezzo a mille persone e pur con la compagnia degli amici più fidati, si sentiva estraniato, come se tutto il globo parlasse una lingua sconosciuta.
«Non potrei abbandonarti». Mark sollevò un braccio e le circondo le spalle in una presa salda, portandola contro il fianco. «Sei troppo svampita per cavartela da sola. Combini sempre un mare di guai»
Kira si appoggiò a lui, guardando quel viso marcato dal solito cipiglio. «Davvero non lo faresti?»
Mark abbassò lo sguardo su di lei. «Non lascerei mai da parte i miei amici per una donna»
Il tono del capitano tradì un velo di insofferenza che la divertì. «Lo dici come se la cosa ti svilisse. Guarda che sarebbe normale essere molto presi dalla propria ragazza. Sono io che baglio atteggiamento, lo so»
Mark sbuffò. «È un problema che per ora non mi pongo. Non ho tempo e nemmeno voglia di averne una»
Kira rimase appoggiata al suo fianco, circondandogli il busto con le braccia. «Prima o poi succederà»
«Molto più poi che prima. E comunque, sono stato gentile con la Benson esclusivamente perché me lo hai chiesto tu» ribadì il calciatore in tono quasi stanco.
Lei sporse le labbra in un piccolo broncio. «Però sembrava sul serio che tu stessi per baciarla»
Mark ringhiò sommessamente, già pronto per l’ennesimo battibecco. «Non farmi questo, Kira»
Lei mosse la testa a metà. «Cosa?»
«Hai rotto per mesi con la storia della bicicletta; adesso non impuntarti su un bacio che non esiste!»
«Voglio solo sapere la verità!»
«La sai già!» Mark si staccò da lei, rivolgendole uno sguardo accusatore. «Ma continuando a tirare da sola le tue conclusioni senza mai stare a sentire gli altri, finisci per capire tutto il contrario di quello che è!»
Lei si sporse verso di lui. «Come posso capire se tu non mi spieghi?»
«Perché non me ne dai il tempo! Se per una volta tenessi la bocca chiusa, potrei parlare un po’ io!»
Riluttante, Kira serrò le labbra tra loro con forza.
Mark la guardò con incertezza. Non era sicuro che lei potesse resistere tanto. Comunque, tentò.
«Quando te ne sei andata, me ne sono andato anch’io»
Kira non si trattenne. «Ma… e Milly?»
Mark la fulminò con un’occhiata contrariata. La pattinatrice mimò il gesto di chiudersi la bocca con un lucchetto e gettar via la chiave.
Lui riprese a spiegare.
 
 
 
Quando Milly era scoppiata a piangere sul suo petto, Mark l’aveva allontanata con fermezza ma gentilmente. Lei aveva spalancato gli occhi, consapevole che quel gesto significava che non l’avrebbe consolata come sperava.
«Oh, perdonami! I-io…»
«Perché non ti siedi?» le aveva suggerito Mark, invitandola a prendere posto sulla poltroncina all'interno di uno dei camerini vuoti.
Lasciata aperta la tenda per far passare aria, una delle commesse del negozio aveva portato alla ragazza un bicchiere di acqua fresca.
Mark aveva pensato che non fosse il caso di buttarla in tragedia, ma probabilmente non era in grado di decifrare il reale stato d’animo della Benson. Stava avendo una mezza crisi di panico, quasi certamente per essere caduta in acqua senza saper nuotare. Jem, Ed e Darren si erano riuniti intorno a lei sulla soglia del camerino per vedere come stava, ed era stato allora che Mark si era accorto dell’assenza di Kira. Fino a pochi istanti prima era lì con loro, ne era sicuro, l’aveva vista entrare in uno degli stanzini in fondo.
«È tornata a casa» lo aveva informato Ed a bassa voce, mentre Jem e Darren parlavano con Milly.
«Ti ha detto perché?»
Ed aveva scosso il capo. «Però ne ho una mezza idea: credo sia per via di voi due»
Warner aveva indicato la Benson con un gesto del capo.
«Kira non può pensare veramente che io e lei…»
«Evidentemente lo ha pensato, capitano. E se mi permetti, poco fa l’ho sospettato anch’io»
Mark si era rabbuiato. «Cosa, esattamente?»
«Che la Benson stia iniziando a piacerti»
«Fammi il favore, Ed! Non ci prendiamo nemmeno! E se Kira non lo ha capito, tanto peggio per lei. Io ho cercato di spiegarglielo»
«Per cui non la seguirai?» aveva chiesto un perplesso Ed. Sembrava si aspettasse che Mark facesse proprio questo.
Il capitano della Toho aveva guardato il suo portiere come se avesse detto la barzelletta del secolo. Non sarebbe corso dietro a quella ragazzetta arrogante.
Mark era tornato verso i camerini, incontrando il viso corrucciato di Milly. Non gli ci volle molto per comprendere cosa aveva guastato il suo buonumore; e non era la sola...
Avrebbe voluto chiedere a Ed cosa fosse andato storto con la Edogawa, ma in quello stesso momento Milly aveva annunciato di stare meglio e così erano usciti dal negozio per iniziare un lungo giro di Harajuku, con l’impossibilità di conversare liberamente.
Ma le coppie, ormai, si erano disgiunte.
Mark aveva passato alcuni istanti ad osservare il cipiglio di Grant con una cera soddisfazione, nel contempo disprezzando l’atteggiamento accomodante della Edogawa che, invece di difendere Kira, preferiva anteporre le frivole esigenze di Milly. Forse Jem lo faceva in modo da evitare ulteriori crisi di pianto, ma Mark non condivideva ugualmente la sua scarsa presa di posizione.
«Kira si comporta come una bambina piccola» stava lamentandosi Milly. «È una tale egoista! Non lo pensi anche tu, Lenders?»
Anche tu lo sei , avrebbe voluto dirle Mark. «Benson, ti devo parlare un secondo»
Lei si era fermata accanto a uno stand di vestiti esposto fuori da una boutique. «Dimmi»
«Credo che possiamo terminare qui»
Milly aveva sbattuto gli occhi senza capire.
«Non è il caso di continuare questo appuntamento»
«Non ti sei divertito?»
«Non molto a dire la verità. Sono venuto solo perché me lo ha chiesto Kira».
La mano di Milly si era stretta a pugno sulla stoffa di un abito. «Non…n-non ti andrebbe di riprovarci?»
«Mi dispiace. No».
«Perché?» aveva insistito debolmente lei.
Mark aveva preso il respiro più lungo della sua vita. «Perché non penso che noi due siamo compatibili. E poi non voglio avere una ragazza in questo momento». Spiegazione stiracchiata ma sostanzialmente vera. C’erano molteplici motivazioni, ma non era molto sicuro di possedere la pazienza per elencarle tutte. A Milly piaceva ammirarlo perché era un campione; lui la trovava carina; ma al di fuori di ciò non c’era altro. Era convinto che anche lei lo percepisse: quando lui rimaneva in silenzio, Milly attaccava con un discorso qualunque, come se non parlare fosse segno che qualcosa tra loro non andava per il verso giusto. Difatti era così.
Milly gli aveva sorriso stentatamente, trattenendo altre lacrime di delusione. «Capisco. Beh, non importa. Magari ripensaci, va bene?»
«Non credo. Mi spiace». Infine, Mark si era voltato e aveva imboccato la via per la stazione senza rimpianto alcuno.
 
 
 
 
Kira piegò le labbra in un sorriso amaro. «Sono un vero disastro. Tutto quello che volevo era rendere felice Micchan, ma ho finito di nuovo per far stare male lei e anche te»
Si erano spostati di nuovo vicino alla porta del terrazzo per cercare la frescura di un punto in ombra, lasciandosi scivolare a sedere lungo il muro.
Mark aggrottò le sopracciglia. «Io non sto male. Mi arrabbio perché ti comporti come una pazza»
Kira rimase in silenzio a riflettere. Si rese conto di aver sfruttato la gentilezza di Mark per assecondare il capriccio di Milly, e lui l’aveva assecondata a sua volta con una pazienza che aveva superato la media dei suoi standard.
«Scusami per averti coinvolto. Ho sbagliato proprio tutto».
Lui la fissò attentamente. «Non hai pensato nemmeno per un momento che anch’io mi sia sentito come te, vero?»
Lei sollevò rapidamente lo sguardo sul suo viso, gli occhi leggermente più grandi. «Eri geloso di Grant?»
«Non geloso. Infastidito». Mark grugnì. Sempre troppo diretta, accidenti a lei.
«Per quale motivo?»
«Grant è falso, subdolo. Vuole qualcosa da te ma non ho ancora capito cosa». Il calciatore non aggiunse che aveva trovato insopportabile pensare a lei che rideva, si divertiva e stringeva amicizia con quel tipo ambiguo. Era con lui, Mark, che Kira doveva ridere e divertirsi, non con un altro.
«Io non penso volesse qualcosa, a parte conoscermi» minimizzò lei, piegando le gambe sotto il corpo per cercare una posizione più comoda. «Dopotutto il suo scopo era solamente farsi notare e, ora che ci è riuscito, dovrebbe desistere dal seguirmi»
«Ne sei proprio sicura?»
«No, ma se continuerà lo farò smettere. Sai, credo che Darren Grant sia quel tipo di persona bisognosa di qualcuno che gli presti continuamente attenzione. Io non sono stata molto collaborativa in questo».
Mark studiò la situazione per qualche secondo: niente più damerino tra i piedi? Decisamente un buon cambiamento. Forse era stato avventato pensando che Kira potesse farsi ingannare da un tipo privo di spina dorsale.
«Per cui, non vi rivedrete?»
«No, non credo» dichiarò la ragazza con decisione. «E tu e Micchan?»
«Oddio, no». Mark riversò la testa all’indietro. «L’avrei apprezzata maggiormente se fosse stata più genuina nel porsi. Ma era così concentrata ad apparire educata e dolce che ho percepito falsità a chilometri di distanza. A Milly Benson non piaccio davvero, le piace la confezione ma dubito che il regalo sia quello che si aspetta».
Già, anche Kira non lo credeva. Milly non conosceva il carattere di Mark: ingestibile, irruento, indipendente. Micchan aveva bisogno di un ragazzo pacato che sapesse riempirla di attenzioni ad ogni ora del giorno. Mark non poteva essere questo per lei, né per nessuna ragazza avvenire. Chiunque si fosse fidanzata con il capitano della Toho in futuro, avrebbe dovuto mettere in conto che Lenders era un cavallo brado a cui redini fatte di regole e prevaricazioni stavano troppo strette.
«Oggi la dovrò affrontare» sospirò Kira alludendo a Milly. Si prospettava un confronto difficile tenuto conto della facilità con cui poteva sconvolgeva.
«Ti serve una mano?»
«Oh, no, per carità!» esclamò Kira battendosi sulla fronte. «Era già in pieno dramma questa mattina; meglio che non ci facciamo vedere insieme, oggi»
Seduta accanto a lui sulla pavimentazione di pietra del terrazzo, Mark la guardò stiracchiarsi. Sembrava più serena di poco prima. Forse dipendeva dal fatto che avevano chiarito l’incomprensione. Non c’era quasi stato bisogno di litigare. Era un record.
Avrebbe voluto raccomandarle di nuovo di badare a Grant, ma non era un tipo a cui piaceva ripetersi.
«Che scusa ci inventiamo per aver saltato la prima ora?» gli domandò poi Kira.
«Possiamo dire che sei stata male» suggerì lui.
Lei non fu d’accordo. «Perché io? Dì che sei stato male tu»
«Io non mi ammalo quasi mai. Non sarebbe credibile. E poi gli altri già credono tu sia sentita poco bene ieri. Potresti aver avuto una ricaduta»
Kira ci pensò su una manciata di secondi. «E va bene. Allora dovremmo andare in infermeria, non credi?»
«Qui però si sta bene» replicò Mark. Non era necessario andarci subito.
«Sì, è vero». Kira sbadigliò. «Mi è venuto sonno».
Il capitano le afferrò il polso sul quale portava l’orologio. «Kira, sono le nove e un quarto del mattino»
«Lo so, ma stanotte ho dormito malissimo per colpa tua».
«Colpa mia?» Certo che non aveva ritegno ad affermare certe sciocchezze. Si faceva venire una sincope per un bacio inesistente visto da una prospettiva sbagliata e dava la colpa a lui! Pazzesco…
«Fammi da cuscino» bofonchiò la pattinatrice, poggiando la guancia sulla sua spalla.
Mark sussultò. «Non vorrai dormire sul serio?»
Lei annuì, gli occhi già serrati. Li riaprì, guardandolo incerta. «Ti dispiace?»
Mark capì a cosa alludeva. «Ehm…no». La guardò richiudere le palpebre e sospirare in un sorriso.
Fu veramente felice di vederla più rilassata, e ancor più di sapere che era lui a farle quell’effetto.
Era strano. Era piacevole. Sentirla vicina non risvegliò il fastidio provato quando Milly Benson gli si era avvinghiata al braccio. Con Kira era tutto diverso.
Piegò la testa, strofinando la guancia sul capo di lei, sui capelli morbidi.
«Cosa stai facendo?»
La voce della ragazza lo riscosse dall’attimo di accidentale tenerezza. «Niente». Sollevò la testa.
Kira gli rivolse un sorriso lento. «Puoi appoggiarti se vuoi». Richiuse le palpebre.
Mark sospirò pianissimo. Non credeva l’avrebbe rifatto. Piuttosto le avvolse di nuovo un braccio sulle spalle. Quello gli veniva naturale anche con gli amici e non se ne vergognava.
Una leggera brezza calda soffiò sulla pelle. Tutto era silenzioso. Lui percepiva la sensazione del corpo caldo di Kira contro il suo, il respiro regolare dentro il sonno. Il suo braccio rilassato pesava nel contatto sulla spalla di lei. L’impasse iniziale svanì, non c’era imbarazzo adesso.
Poi, Mark ebbe la sensazione di cadere nel vuoto e sollevò di scatto la testa, riaprendo gli occhi. Forse si era appisolato anche lui. Girò lo sguardo sull’orologio di Kira: le dieci meno dieci. Sì, aveva dormito, e avevano pochissimo tempo per sgattaiolare in infermeria senza essere visti. Tra poco i corridoi si sarebbero riempiti di studenti che sgranchivano le gambe e insegnanti che veleggiavano attraverso le aule.
Mark ritirò il braccio da lei, spostandosi di poco per svegliarla meno bruscamente possibile. Non ci fu bisogno di chiamarla: Kira si mosse prima che potesse sfiorarla.
«Dobbiamo scendere» le disse.
Lei annuì, strofinandosi gli occhi.
«Che succede?» Mark la vide stringere lo sguardo come per mettere a fuoco la vista.
«Mh? Niente, tutto a posto» rispose lei, evasiva. «Andiamo?»
«Di corsa».
 
 
 
***
 
 
«Avete saltato la prima ora?» chiese Ed a Mark durante il pranzo, con un sorriso tra l’ammirato e l’incredulo.
«Per forza. Se fossimo entrati in ritardo alla lezione della Amada, quell’avvoltoio impagliato ci avrebbe demolito»
Warner sorrise. «In effetti hai ragione. E che scusa avete inventato per Kioke-san?»
«Il solito: Kira ha finto di star male. E comunque, Koike-san non fa mai troppe domante».
Per la fortuna di ogni studente, la signora Koike era un’infermiera efficiente e sempre dalla parte dei ragazzi. Per tutti rappresentava una specie di mamma premurosa con l’animo eternamente giovane. Quello che succedeva dentro le mura dell’istituto non sfuggiva al suo occhio vigile e al suo intuito sopraffino, ma non una parola usciva dalla sua bocca, né tanto meno raggiungeva le orecchie degli insegnati. Quando Mark e Kira si erano presentati in infermeria e la pattinatrice aveva raccontato di aver avuto un capogiro improvviso appena arrivata a scuola, Koike non aveva chiesto come mai ci avesse messo un’ora per venire da lei. Non aveva domandato nemmeno perché Mark se ne stesse sulla porta a braccia conserte ad aspettare invece di tornare in classe. Forse stava male anche lui? Poi la donnona aveva fatto stendere Kira su uno dei lettini e, canticchiando, le aveva misurato la pressione. Dopo una diagnosi incoraggiante, i due ragazzi erano entrati in classe con una giustificazione firmata dall’infermiera. Alla faccia della Amada...
«Quindi avete passato tutta l’ora in infermeria? Noioso» disse Ed, che avrebbe saputo come impiegare un tempo tanto prezioso in compagnia di una ragazza carina come Kira.
«No, siamo stati sul terrazzo» rispose Mark con una genuinità che spiazzò il portiere.
Ed fece un sorrisetto malizioso. «E…» si chiarì la gola, «che avete fatto?»
Mark si accigliò. «Nulla di quello che la tua mente malata sta immaginando. Abbiamo solo parlato un po’»
Ed percepì lo sforzo con cui il capitano stava decidendo se proseguire oppure no. Non aveva mai forzato la sua riservatezza, ma andava anche stimolata qualche volta. «Hai capito perché Kira-san ieri se n’è andata all’improvviso?»
«Sì, è tutto a posto», rispose Mark, lapidario. «E a te com’è andata con Edogawa? Non mi hai ancora detto nulla»
Warner abbassò lo sguardo a terra, scurendosi in volto. «Male»
«Così male?»
«A lei piace già un altro. E se ti dicessi chi è non ci crederesti». Ed fece un sorriso amaro, suscitando la curiosità dell’amico. Fece una lunga pausa, appoggiandosi al tronco di un albero. «Il nome Benji ti dice qualcosa?» domandò ironico.
Mark rimase per qualche secondo a fissare un punto lontano. «Price?»
Warner non si aspettava altro che una risposta praticamente immediata. Mark detestava l’ex portiere della New Team tanto quanto lui. Annui lentamente più volte. «Proprio Benji Price»
«Mi prendi in giro?»
Ed rise ma i suoi occhi non ridevano. «No»
«Ma lui è in Germania!» fece Mark in tono sprezzante, come se non concepisse l’inverosimile capacità del Super Great Goal Keeper(1) di fare un affronto a Ed anche trovandosi dall'altra parte del mondo..
Era esattamente quello che aveva pensato il portiere della Toho mentre sedeva sulla barca con Jem ad assimilare quell’assurdo scherzo del destino. Price aveva ancora una volta la meglio su di lui benché non avesse fatto nulla di concreto. Non poteva contrastarlo né accusarlo visto che, tutto considerato, Benji non sapeva affatto quanto Jem fosse ancora legata al suo ricordo.
«Non avevo idea che Edogawa lo conoscesse» proseguì Mark, ancora nello stesso tono sdegnoso.
«Frequentavano entrambi la Saint Francis. Jem si è trasferita a Tokyo durante la sesta elementare»
«Kira non me lo ha mai detto»
«Non credo che Kira-san lo sappia». Ed aveva l’impressione che Jem avesse preferito tenere quel tenero ricordo custodito nel cuore senza condividerlo, come se parlarne avesse potuto infrangere lo scrigno in cui ancora lo conservava gelosamente. «Probabilmente sarebbe andata male comunque con lei. Avevi ragione, capitano: non le piaccio in quel senso».
Mark lo guardò con poca convinzione. «Per cui ti arrenderai?»
«Aspetterò un po’ di tempo». Ed gli rimandò un’occhiata calma. Nessun segno di turbamento scalfiva il viso del portiere. Sapeva che Lenders conosceva quello sguardo: non si sarebbe arreso, anche se l’ultima cosa che Warner voleva era correre dietro alla ex ragazza di Benji. Il suo orgoglio ne era uscito ferito; non in quanto calciatore questa volta, ma come persona.
Fingendo di rimproverarlo, Mark disse: «Fossi in te lascerei perdere le ragazze. Sono solo una fonte di stress e guai. Non ti distrarre proprio adesso, Ed: la prossima settimana abbiamo una partita importante contro i gemelli Derrik».
Warner non poté fare a meno di sorridere. Il capitano aveva un modo tutto suo di tirare su il morale alle persone, ma con lui funzionava sempre.
 
 
 
 
Lo sguardo di Milly era astio puro. Kira sapeva che prima della fine dell’allenamento sarebbe esplosa una bomba. Iniziò a sentire quella familiare morsa allo stomaco, senso di colpa misto a irritazione. Ma non aveva nulla di cui scusarsi stavolta. Non era colpa sua – non lo era stata nemmeno in precedenza – se Mark l’aveva definitivamente scaricata.
Il coach Kanagawa scandiva il ritmo della coreografia in numeri mente provavano i passi per l'annuale esibizione di gruppo per la festa dello sport. Mancavano due settimane e il team era più euforico che mai. Durante la manifestazione scolastica potevano inventare mosse di loro iniziativa e decidere i passi insieme ai coach; durante le gare era invece la commissione a decidere quali elementi dovevano eseguire gli atleti obbligatoriamente.
Dopo una serie di passi in singolo, i ragazzi si gettarono ai quattro angoli della pista, mentre le ragazze al centro avrebbero dovuto afferrare le mani di una compagna, compiere un paio di giravolte insieme e poi dividersi di nuovo per una serie di elementi singoli. Kira era in coppia con Milly, ma quando allungò le braccia verso l’amica quella si scansò e Kira perse il ritmo.
«Stop!» esclamò Kanagawa soffiando in un fischietto. Gli allievi emisero un mormorio. «Benson, perché ti sei spostata?»
«Brighton ha sbagliato il tempo» rispose Milly.
Non aveva sbagliato affatto! Kira la vide arrossire per la bugia. Kanagawa non se ne avvide.
Il coach le osservò con aria dubbia. «Va bene, riprendiamo».
Il team tornò al lavoro ripetendo la coreografia dall’inizio. Una volta arrivati al punto di prima, Milly scansò di nuovo la compagna.
«Micchan!» esclamò Kira, tra il seccato e l’incredulo. La stava schivando apposta.
«Non sono io, sei tu che sei lenta»
«Ragazzi facciamo una pausa» disse la signorina Fukushima, richiamandoli tutti a bordo pista.
Kira non si mosse. Prima che Milly potesse raggiungere gli altri la trattenne per un braccio e non lasciò la presa quando l’altra tentò di divincolarsi.
«Lasciami!»
«Non finché non parliamo a quattrocchi».
Milly indietreggiò stringendo una mano al petto. Kira capì che temeva quel momento ma era inutile rimandare l’inevitabile.
«Senti, mi di spiace che con Mark sia andata male…»
«Ah, te l’ha già raccontato?». Milly fremette di collera. «Non dovrei stupirmi, vero? Dopotutto siete così uniti che se tu decidi di scaricare i tuoi amici a metà di un appuntamento deve farlo anche lui»
«Oddio, piantala! Sono stanca delle tue paranoie». La voce di Kira echeggiò per il palaghiaccio. Alcuni dei compagni si voltarono verso di loro.
«No, piantala tu!» Milly diede uno strattone e si riprese il proprio braccio.
Kira respirò profondamente. «Senti, non ho chiesto io a Mark di mollarti a metà pomeriggio»
«Non è solo questo!» esclamò Milly già sull’orlo delle lacrime. «Avevi promesso che con Lenders non avresti più avuto nessun tipo di rapporto al di fuori delle lezioni, invece ci sei andata al Luna Park! Non negare, me lo ha detto lui!»
Kira si fissò i pattini per un istante, poi sollevò la testa, risoluta. «Sì, e allora? Non ho mai promesso niente, Milly! Quando lo avrei fatto?»
«Avevi detto…»
Kira la fermò. «Esatto. Detto. Non promesso. E avevo detto che sarei stata più attenta ai tuoi bisogni, non che mi sarei fatta comandare a bacchetta. Ma ho deciso che non ci sto più. Non mi va».
Le labbra di Milly tremarono. Kira sapeva di averla ferita con quella brusca affermazione ma doveva essere sincera. Basta bugie.
«Voglio essere libera di poter vedere Mark quando mi pare»
«Non puoi averlo tutto per te, Kira!». Milly singhiozzò balzando all’indietro, le mani strette al petto. «Non era difficile quello che ti avevo chiesto ma tu ci sei passata sopra e me lo hai tenuto nascosto. Siete usciti insieme: quale idea dovrei farmi secondo te? Sei una bugiarda oltre che un’insensibile egoista!»
Bugiarda, egoista, insensibile. Erano i vocaboli preferiti di Milly da un po’ di tempo a questa parte, ed erano sempre, sempre rivolti a lei. Kira era stanca di quelle offese, di farsi dire cosa fare.
Fece un passo avanti sul ghiaccio. Era più alta di Milly e in quel momento di rabbia, davanti alla sua figurina, appariva minacciosa. «Ti ho assecondata fin troppo a lungo ascoltando le tue minacce da bambina di prima elementare. Non vuoi più essere mia amica? Fa come ti pare. Ma sappi che io insieme a Mark posso fare quello che mi pare e andare dove voglio. Posso farmi accompagnare fuori da scuola, andarci al Luna Park, posso anche dormire a casa sua se mi va, e soprattutto posso parlare con lui quanto piace a me senza dover rendertene conto. Non puoi mettere un veto alla mia amicizia con Mark, perché è mia, non tua. Lui nemmeno ti guarda! Anzi lo infastidisci».
Kira prese fiato, il respiro leggermente affannoso. Non avrebbe davvero voluto essere tanto cattiva ma le parole defluivano da lei come un torrente impazzito. Era stanca, stressata, non poteva passare le giornate concentrata su come dovesse parlare a Mark, su cosa fosse bene dirgli o no in base a ciò che Milly approvava. Le era piaciuto quando al Luna Park lui l’aveva abbracciata, e quella mattina sul terrazzo, quando gli aveva confessato quanto fosse importante per lei la sua amicizia. E se voleva ringraziarlo e fare un gesto carino per lui, poteva; se voleva mandarlo a quel paese quando la faceva arrabbiare, poteva pure quello. Non ci sarebbe più stata nessuna Milly a dettare legge.
 
 
 
 
Jem uscì dagli spogliatoi per ultima, trovando Kira ancora sulla pista. «Kira-chan, andiamo a casa?»
Kira frenò grattando con le lame sulla superficie immacolata. «Rimango ancora un po’ ad allenarmi» rispose tornando indietro verso Jem. «La Fukushima mi ha detto il permesso».
Titubante, Jem picchiettò con le unghie sulla barriera, guardando l'amica fermarsi dall'altra parte di essa. «Negli spogliatoi, Micchan ha detto che non vuole parlarti mai più»
«Non mi interessa». Kira guardò impassibile il viso mortificato dell’altra. «Tu lo sai che Milly ti chiederà di scegliere tra lei e me, vero?»
Milly. Non più Micchan. Non erano più amiche.
«Non potrei scegliere» affermò debolmente Jem.
«Sì, lo so». Kira le sorrise, poi si voltò e tornò ai suoi esercizi. «E non ce l’avrò con te se deciderai di stare dalla sua parte. Mi sono comportata male, lo so, però non ho più voglia di assecondarla».
Kira calcò sul ghiaccio con le lame e si allontanò in fondo alla pista. Quando si voltò, scorse un guizzo della gonna nera di Jem svolazzare oltre la porta del palazzetto.
Non avrebbe mai obbligato J-chan a scegliere, doveva fare ciò che sentiva giusto. Se avesse potuto, nemmeno lei avrebbe cessato di essere amica di Milly, ma la conosceva troppo bene per sperare in una riappacificazione.
Si rifiutava di credere che un viso così dolce e tenero nascondesse un animo prevaricatore...
Senza neanche accorgersene si ritrovò con il sedere sul ghiaccio. Aveva sbagliato un salto, un triplo toe-loop. Magnifico. Di solito le riusciva sempre. Si rialzò per riprovare ma aveva troppi pensieri in testa e non riusciva a concentrarsi.
La verità era che, anche se si era comportata malissimo, era stanca delle angherie di Milly. Se significava perderla… beh, l’aveva sempre saputo che poteva succedere. Doveva smettere di pensarci.
Prese velocità, spinta da una collera incontrollabile verso sé stessa per non aver saputo risolvere la situazione così da aver perduto un’amica, che al momento detestava ma alla quale ancora voleva bene. Collera verso Milly stessa, che l’aveva costretta a scegliere tra lei e Mark. Kira non aveva scelto, il suo cuore lo aveva fatto per lei. Lui poteva avere tutti i difetti del mondo, ma almeno non la costringeva a fare tutto ciò che voleva alla stregua di una schiavetta.
Improvvisamente fu ispirata da un impulso. Era da qualche tempo che le frullava nella testa e quello poteva rivelarsi il momento più giusto per provare.
Un salto quadruplo.
Poche pattinatrici ci riuscivano. I quadrupli erano per i maschi, i quali avevano gambe più muscolose, più robuste, di conseguenza in grado di darsi uno slancio abbastanza forte da compiere quattro giri in aria. Era un’incoscienza provarlo senza la supervisione di un coach. Se fosse caduta avrebbe potuto farsi veramente male. Ma se fosse riuscita a produrre un salto quadruplo, la rabbia si sarebbe dissolta lasciando posto alla soddisfazione di essere riuscita a far qualcosa di buono e giusto per sé stessa.
E saltò. Un quadruplo lutz. I quattro giri in aria riuscirono perfettamente, ma il piede sul quale atterrò cedette sotto il peso del suo corpo. Emise un’esclamazione di dolore quando sbatté sul ghiaccio, una lacrima le rigò una guancia.
Poi, una voce gridò il suo nome.
Kira alzò la testa mentre sedeva sulla fredda pista, osservando con stupore Mark scendere le gradinate del palaghiaccio. Lui non aveva più messo piede lì dentro dalla loro sfida sui pattini.
Mark raggiunse la barriera, camminandovi rasente per trovare un passaggio. «Da dove diavolo si entra?»
«Non puoi entrare senza pattini» lo ammonì Kira mettendosi in piedi.
Lui trovò lo sportello aperto sul lato della barriera e mise piede sulla superficie del ghiaccio. Scivolò all’istante, imprecando a bassa voce.
Kira lo raggiunse, venendo scrutata con aria critica da un paio di occhi neri. «Che fai qui?»
«Ti aspettavo al cancello. Hai tardato e sono venuto a cercarti».
Lei non seppe perché ma i suoi occhi si velarono di pianto.
«Ti sei fatta male?» chiese lui, senza staccare lo sguardo da lei.
«No» Kira abbassò la testa facendo un cenno col capo. «Stavo provando un salto». Si fissò le mani. Sui palmi erano comparse strisce rosse di sangue.
«No?» fece Mark prendendole i polsi, esaminando le piccole ferite sulla sua pelle.
«Succede quando non si indossano i guanti» spiegò lei, tentando di soffocare il groppo che sentiva in gola. «Quando si è troppo sicuri di qualcosa non si prendono le dovute precauzioni e ci si può far male»
Mark stava studiando il suo stato d’animo: aveva capito che non parlava solo dei tagli sulle mani. Kira chinò la testa in avanti, posando la fronte sulla sua spalla nascondendo le proprie emozioni.
«Che cos’hai?» le chiese lui, con un tono gentile che non gli aveva mai sentito.
«Niente. Fammi stare un po’ così, per favore».
Sentì il respiro di Mark contro i capelli, le mani grandi posarsi sui fianchi. Il contatto espanse le sue sensazioni che si tramutarono in lacrime lente e copiose. Allo stesso tempo, percepì il suo animo galleggiare di sollievo. Era come se la testa le si fosse improvvisamente svuotata di ogni pensiero e problema, donandole un benessere anche fisico. Kira non seppe se attribuire quella piacevole e amara sensazione al pianto liberatorio oppure alla vicinanza di Mark.
Rimase così, con le braccia lungo i fianchi e quelle di lui che la tenevano vicino. Lo ringraziò silenziosamente per non averle chiesto niente, anche se probabilmente sapeva già tutto.
Con tutta probabilità, aveva perso l’amicizia di Milly per sempre. Ma aveva lui. E quando Mark le stava vicino in quel modo, solo con il suo silenzio, valeva più di tutte le parole del mondo.
 



***** ***** ***** ***** *****
 
Note:
  1. Super Great Goal Keeper (SGGK), per chi non lo sapesse è il soprannome di Benji Price/Genzo Wakabayashi.
 
***** ***** ***** **** *****
 
 
Salve cari lettori, come va?
Se qualcuno ha pensato che il titolo di questo capitolo fosse associato alla conclusione della storia, sappia che si è sbagliato. E' invece il punto di rottura tra Kira e Milly. Prima o poi doveva succedere. Ho mostrato un Mark molto premuroso questa volta, che a mio parere non si discosta dall’IC in quanto tutti sappiamo che grande cuore si nasconde dietro i modi a volte bruschi del nostro protagonista.
Mi è piaciuto un sacco scrivere le scene fluff tra Mark e Kira *^* I miei piccini…hanno ancora così tanta strada da fare <3
Fan di Benji, non detestatemi se lo metterò leggermente in cattiva luce. Lungi da me sia odiare il personaggio di Price, anzi mi piace molto, ma è logico che il nostro Ed Warner pensi a lui come a una specie di maledizione che lo perseguita non solo sul campo ma anche in amore XD
And now, un casino va e un casino viene. Non pensiate che siano finiti i guai! Eh eh… quelli veri devono ancora cominciare!!! Nel frattempo preparatevi ad assistere alla festa dello sport e a una Kira come Mark non l’ha mai vista ;)
 
Mi sto impegnando per portare gli aggiornamenti di questa storia a una volta a settimana invece di due. Spero di riuscirci, mi piacerebbe davvero tanto.
Ringrazio tutti per le recensioni (mi scuso se in questo momento non trovo tempo per rispondere) e grazie anche a chi ha aggiunto la fanfic alle seguite/preferite/ricordate.
Se volete sapere quando sarà il prossimo aggiornamento di Haru no toki vi rimando al mio gruppo facebook Chronicles of Queen.
 
Besos,
vostra Susan<3

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** 18. Nuove prospettive ***


18. Nuove prospettive
 
 
 
L’ultima settimana di giugno per gli studenti della Toho voleva dire tre cose: esami di fine trimestre, conto alla rovescia per le vacanze estive(1) e festa dello sport.
Regno incontrastato degli atleti della scuola, delle sfide lasciate in sospeso, dei pareggiamenti di conti tra rivali storici e nuovi, diventava una specie di mini olimpiade tra sezioni oltre che una giornata dedicata alle famiglie. Cadeva di proposito in un giorno festivo, così da permettere a genitori, fratelli e altri visitatori di venire ad assistere alle competizioni più disparate.
Il comitato organizzativo, capeggiato da Darren Grant, aveva assegnato ad ogni singolo studente un compito specifico: tutta la scuola doveva partecipare agli allestimenti. In soli sette giorni la Toho si riempì di festoni, cartelli con scritte colorate, palloncini e ghirlande.
A una settimana dalla manifestazione, il coach Kanagawa annunciò un cambiamento dell’ultim’ora nella coreografia, mandando leggermente nel panico tutto il team di pattinaggio. Milly si rifiutava di collaborare con Kira e aveva chiesto che le fosse affiancata un’altra compagna. Ferita e umiliata ma a testa ben alta e con voce limpida, Kira aveva risposto che andava bene ugualmente far coppia con qualcun altro.
I coach si erano stupiti di questa ribellione ingiustificata da parte della Benson, dal momento che lei e Brighton erano sempre andate molto d’accordo. Kanagawa era assolutamente contrario a modificare le mosse proprio agli sgoccioli della festa dello sport, ma la Fukushima trovò la soluzione… 
«Kira, vieni un momento, per favore»
Al cenno dell’allenatrice, la ragazza le si era avvicinata sulla pista.
«L’anno scorso sei stata assente dal programma e non voglio che quest’anno si ripeta la stessa cosa» le ricordò l’allenatrice, una punta di riprensione nella voce.
«Ehm…già». Kira fece un sorrisino colpevole. «Ho combinato qualche guaio lo scorso anno, vero?
«Sì, e mi è dispiaciuto molto doverti escludere dal team per cattiva condotta» continuò la Fukushima.
Kira credeva di sapere cosa voleva dirle e l’anticipò. «Mi dispiace che lei e il signor Kanagawa abbiate di nuovo dei problemi a causa mia. Vede, io e Milly…»
La Fukushima scosse la testa, benevola. «Non ti ho chiamata per questo. Milly eseguirà quel passaggio con Ethan invece che con te. La faccenda è risolta».
Kira sbatté le palpebre, smarrita. Se Ethan prendeva il suo posto accanto a Milly, lei dove sarebbe stata collocata?
«Ho sempre puntato su di te, non lo nascondo» proseguì l’allenatrice. «Ecco perché quest’anno vorrei che aprissi la manifestazione. Da sola».
La ragazza sgranò gli occhi. Da sola, valeva a dire in singolo. Non era bello ostentare il proprio orgoglio ma non poté evitare di sfoggiare un sorriso che enorme era dire poco. «Sarebbe magnifico! Ma come faccio? Non ho neanche mezzo programma pronto. La festa dello sport è tra due settimane!»
«Calma, calma». La Fukushima trattenne il vulcano prima che esplodesse di gioia e ansia al contempo. «Abbiamo un margine ristrettissimo per esercitarci, lo so, ecco perché pensavo sarebbe una buona idea se riproponessi il programma che hai portato alle gare scolastiche della scorsa stagione; con qualche piccola modifica, magari»
«Sì…giusto». Kira fremette di felicità. Quasi non riusciva a contenersi. Avrebbe voluto girarsi per correre ad annunciarlo alle sue amiche, ricordando improvvisamente che Milly non le parlava più e Jem…anche con Jem negli ultimi tempi non aveva parlato granché.
Dal giorno in cui l’amicizia tra lei e Milly era finita, la Edogawa si era trovata tra due fuochi, cercando dividere il proprio tempo tra le due amiche ma senza riuscirvi. Come Kira aveva amaramente previsto, Jem si era pian piano allontanata da lei, forse a causa della scarsa resistenza con cui sapeva gestire certe scomode situazioni, o forse per sostenere Milly in un momento di estrema fragilità. Questo faceva soffrire enormemente Kira e ancor più si doleva per il fatto che J-chan non facesse nulla per impedire alla Benson di continuare a comportarsi da martire incompresa. Non ci voleva molto sforzo a indovinare ciò in cui quest’ultima si stava operando: far sentire in colpa lei, Kira, per averle rovinato la piazza con Mark, privandola delle amicizie e spingerla all’isolamento.
«Esci un momento dalla pista, Kira» riprese la Fukushima. «Devo farti un discorso molto serio». Kira obbedì, raggiungendo insieme a lei lo sportello d’uscita. Afferrò un paio di paralame di gomma da un cesto di plastica posato sopra una panca, li infilò e seguì l’allenatrice su un’altra panchetta appena sotto la prima fila di tribune. Incrociò le gambe, lo sguardo attento e tutta orecchi.
«È da molto tempo che proponiamo lo stesso numero di danza collettivo per l’apertura della festa dello sport» proseguì la Fukushima. «Per questa stagione, io e Hiro – voglio dire, Kanagawa – avevamo pensato a qualcosa di diverso ma non siamo riusciti a realizzarlo come speravamo, perciò abbiamo optato nuovamente per l’esibizione di gruppo. Però è anche vero che alcuni di voi non riescono a dare il meglio di sé in una prova comune. Non siete tutti danzatori». (3)
No, convenne Kira. A dire il vero i danzatori del gruppo – ed attualmente gli unici – erano Erika e Neil. Il resto del team comprendeva cinque pattinatori singoli, ovvero lei, Jem, Milly, il senpai Yusuke e Ethan, più le due coppie di artistico formate dalla senpai Fuyumi e Takeiko, e dal senpai Shin e la senpai Reika.
La Fukushima puntò le mani nella sua direzione. «Ti ho seguita molto durante l’ultimo anno, Kira. Sei una ragazza competitiva, una giovane atleta che potrebbe già aspirare di andare oltre i campionati scolastici. Ho avuto più volte prova della dedizione e della passione che hai per questa disciplina, oltre che delle tue eccellenti doti fisiche e tecniche. Per questo credo sia giusto darti un’ulteriore opportunità».
Kira sentì la pelle d’oca sulle braccia. Cosa poteva esserci di più che aprire la manifestazione scolastica da sola, come una vera pattinatrice?
L’allenatrice proseguì con tutta la calma del mondo. «Ci abbiamo riflettuto a lungo io e Kanagawa: ti consideriamo la più qualificata, insieme a Yusuke, per tentare l’iscrizione ai prossimi campionati nazionali di pattinaggio di figura nella categoria juniores»
I successivi trenta secondi furono per Kira una specie di buco nero di cui non in seguito non ebbe memoria. Entrò in una specie di trans onirico e poté giurare di aver intravisto il Nirvana.
Aveva capito bene? Campionati nazionali juniores?
Emise un verso strozzato con la gola, immagazzinando aria come se volesse gridare. «N-n-non sta scherzando, vero coach?»
«No, non sto scherzando» rispose la Fukushima con un sorriso aperto. «Avrai senz’altro sentito parlare di Amber Grant dai tuoi senpai»
Kira annuì vigorosamente. 
«Con la partenza di Amber abbiamo perso una grande risorsa per la scuola, anche se per lei è stato indubbiamente meglio lasciarci», continuò l’allenatrice. Nella sua voce c’era del rammarico. «Al nostro team manca un’atleta del suo calibro, ed io e Kanagawa conveniamo tu possa esserne una degna erede. Il nostro presente non è più Amber Grant, sei tu»
«Io non so fare quello che fa la Grant» cercò di contraddirla Kira. Non era ipocrisia, sapeva di essere brava; ciò nondimeno non credeva di potersi paragonare a una campionessa, non ancora.
«Kira, ti ho visto riuscire in salti tripli che un paio delle tue compagne ancora non eseguono nonostante gli sforzi»
«Alle gare scolastiche sono caduta su un triplo se non lo ricorda. E ho perso»
La Fukushima scosse la testa come a voler dire che non aveva importanza. «Sì, hai perso, e con ciò? Pensi che Amber non abbia mai perso una gara? O non sia mai caduta dopo un salto? Kira, hai quattordici anni: a mio avviso hai aspettato fin troppo per tentare con le nazionali»
«Non ho mai pensato di arrivarci così presto» ammise alzando le spalle.
«E io sono qui per fartici arrivare» ribatté l’allenatrice con un sorriso fiero, battendo una mano sulla gamba della ragazza.
La ragazza abbassò un momento il capo. «Lei pensa veramente che io sia pronta per i campionati nazionali?»
«Sinceramente?» L’allenatrice rise. «Penso che tu sia pronta anche per i mondiali, se è per questo, ma sei ancora un po’ troppo giovane. Andiamo con calma: per il momento ci concentreremo sulla festa dello sport»
«Sarà una specie di test?» chiese Kira con una punta di perplessità.
«Un test?» ripeté l’allenatrice. «Più o meno. È altamente probabile, anche se non certo, che un membro della federazione giapponese di pattinaggio venga ad assistere alla vostra esibizione. Gli abbiamo parlato di te»
Kira ce la mise tutta per rimanere seduta e non schizzare in piedi per darsi alla fuga. Doveva essere sbiancata, perché la Fukushima le picchiettò su una guancia.
«Sta tranquilla, non è un esame. Non è nemmeno sicuro che verrà, perciò non ci pensare troppo così non rimarrai delusa»
«O-okay». Sì, però, ora che glielo aveva detto come faceva a non pensarci?
«Tira un respiro e torna in pista, adesso. Domani ci metteremo al lavoro sul tuo programma» furono le ultime parole della Fukushima.
 
 
 
 
«…Così, se farò bella impressione e realizzerò un programma perfetto, i miei coach parleranno con questo tipo della federazione di pattinaggio giapponese e il prossimo settembre potrei seriamente partecipare alle gare nazionali!»
Kira saltellò sul posto, il contenuto della sua cartella sbatacchiò da tutte le parti e Mark ebbe l’impressione che, se avesse continuato a percuoterla in quel modo prima o dopo si sarebbe aperta sparando penne e quaderni sulla strada. Stavano tornando a casa passeggiando come al solito sulla riva del fiume e lei non aveva fatto altro che parlare delle sue future possibilità. Ascoltandola, un sorriso soddisfatto si era disegnato sul viso di Lenders, mentre lei gesticolava per mostrargli e fargli capire la propria euforia. Mark la comprendeva perfettamente. Si era sentito più o meno allo stesso modo quando la Muppet era stata convocata per partecipare ai suoi primissimi campionati nazionali. In realtà non bastava raccogliere elogi dai membri di commissioni e giurie per essere ammessi, ma questo lo tenne per sé. Kira era troppo felice, non se la sentì di riportarla subito sulla terra; era giusto che per qualche ora ancora credesse di aver già la qualificazione in pugno e la medaglia d’oro al collo. Non era un’illusa né tantomeno stupida, si sarebbe resa conto molto presto che la strada da percorrere era ancora lunga. Ma Mark sapeva che gli ostacoli a cui sarebbe andata incontro non avrebbero fatto altro che accrescere la sua determinazione. Non era tipo da intimidirsi di fronte alle sfide. Non Kira.
«Io però sono arrabbiata con te»
Mark le rivolse uno sguardo interrogativo, sollevando le mani in segno d’innocenza. «Non ho ancora fatto niente, oggi!»
Lei sporse le labbra in un broncio insoddisfatto. «Non sei mai venuto a vedermi pattinare, nemmeno una volta»
«Oh, per quello…»
Purtroppo aveva ragione: in prima media, nei mesi in cui era stata impegnata nel campionato scolastico, Mark ce l’aveva ancora a morte con lei e si era rifiutato di assistere ad una gara che fosse una.
«Vorrà dire che mi rifarò delle mie mancanze» promise.
Lei gli fece un enorme sorriso, appagata e felice. «Promettiamo di sostenerci a vicenda». Sporse una mano, chiudendo le dita tranne il mignolo.
Mark lo fissò con aria contrariata. «Io non le faccio queste cose da ragazzine»
«Dai, per favore!»
«No»
Kira sbuffò sonoramente, afferrandogli la mano a tradimento. Lottarono per pochi secondi finché lei riuscì a fargli allungare il dito desiderato incastrandolo col proprio.
«Ecco! Non ci vuole niente. Ora promettiamo»
Mark borbottò qualcosa con disappunto, mentre lei rideva del suo imbarazzo. «Hai finito?»
«Sì» disse lei, soddisfatta, un’altra domanda già pronta sulle labbra. «Tua madre riuscirà a venire alla festa dello sport?»
«Dovrebbe farcela» rispose il capitano. Sua madre, insieme al più piccolo dei figli che frequentava ancora l’asilo, avrebbe raggiunto la Toho nel pomeriggio dopo aver passato la mattina alla scuola di Teddy e Nathalie. In questo modo avrebbe accontentato tutti.
A Mark venne naturale porre a Kira la stessa domanda. «Tua madre ci sarà?»
La ragazza abbassò la testa, emettendo un suono che sapeva d’incertezza. «Dubito fortemente. Ha l’inventario di metà stagione, le commesse avranno bisogno di lei»
«Proprio quel giorno?»
«Non fa differenza. Mia madre lavora sempre»
«Cavolo, Kira, ma è festa!»
«Lo so, ma che ci posso fare? Non è che ci sperassi molto, mi aveva avvertita per tempo. Può anche darsi che riesca a liberarsi nel pomeriggio e riesca a passare...non so».
Mark la osservò attentamente per capire il suo reale stato d’animo. Non era triste, solo delusa. Per sua sfortuna, doveva essere abituata alle mancate presenze di sua mare. Era abbastanza assurdo pensare che Risa Birghton non potesse impegnarsi almeno un po’ per avere almeno due ore libere da dedicare all’unica figlia che aveva, mentre Judith Lenders, che di figli ne aveva quattro, trovava il tempo per accontentarli tutti.
All’improvviso, però, Kira si rianimò tutta. «Oh, ma non ti ho ancora detto la novità più bella di tutte!»
Mark fece un’espressione meravigliata. «Più bella che l’essere ammessi alle nazionali?»
«Mmm…forse. Beh, sta a sentire: mio padre torna stasera dal medio oriente per la sua licenza estiva! Verrà lui al posto di mamma! Non vedo l’ora di fartelo conoscere! Sono certa che ti piacerà!»
Le si illuminò il viso e per un istante Mark si aspetto di vederla nuovamente saltare letteralmente di gioia. Kira aveva una vera a propria adorazione per il genitore. Mark non aveva idea di quanto lunghi fossero effettivamente i tempi di lavoro su una piattaforma petrolifera ma dovevano esserne trascorsi almeno tre dall’ultima volta che Kira e suo padre si erano parlati di persona; sospettava ne trascorressero anche molti di più.
Dopo che Kira gli aveva parlato di lui, Mark aveva provato diverse volte ad immaginarselo e doveva ammettere di essere piuttosto curioso di incontrarlo.
 
 
 
 
La mattina dell’ultimo giorno del trimestre e giorno della festa dello sport, gli studenti accompagnati dai parenti si ritrovarono nello spiazzo anteriore del cortile. C’era un gran chiacchiericcio, gli adulti si salutavano garbatamente con inchini e sorrisi cordiali, mentre i ragazzi facevano chiasso scherzando tra loro, intimidendosi scherzosamente, o magari per davvero. Quel giorno, gli amici delle diverse sezioni erano i nemici da sconfiggere nell’imminente gara in cui, alla fine, l’importante era divertirsi. Ragazzi e ragazze portavano la stessa maglietta bianca con lo stemma della scuola, abbinata a un paio di pantaloncini rossi o neri. I tre colori della Toho.
Kira, Mark e Ed arrivarono ognuno con i propri genitori e fratelli. Ed presentò i suoi familiari a Kira, che non aveva mai avuto occasione d’incontrarli. Lei adocchiò con interesse il fratello maggiore del portiere, prendendosi una botta nel fianco da Mark che grugnì il suo disappunto.
Erik Warner somigliava molto al fratello, e se non avesse tenuto i capelli corti li si sarebbe scambiati quasi per gemelli. Aveva diciannove anni e frequentava il primo anno alla Todai, la più prestigiosa università di Tokyo. Inutile aggiungere quanto alti fossero i suoi voti. Tentava di conciliare le sue aspirazioni accademiche con il karate studiando economia aziendale, indirizzo che lo avrebbe preparato un giorno nella gestione del dojo di famiglia, com’era desiderio del padre. Un po’ più basso di Ed, robusto e scattante, Erik era un karateka eccellente. Gli mancava un grado per diventare cintura nera.
Kira, invece, presentò per prima la nonna agli amici e poi, orgogliosa ed emozionata, suo padre.
Kei Brighton non era esattamente come Mark se lo era immaginato. In base a ciò che gli aveva detto Kira aveva elaborato due possibili versioni: da una parte si era figurato un uomo sì gioviale, ma contenuto, forse persino distinto visto il lavoro importante che svolgeva. Mark non ne sapeva molto sull’ingegneria meccanica ma era questo che faceva il padre di Kira: l’ingegnere su una piattaforma petrolifera. Doveva essere un impiego richiedente pazienza, autocontrollo, capacità di sopportare lo stress e anche una certa dose di coraggio tenendo conto dei possibili incidenti. Dall’altra parte, la variante dell’otaku appassionato di videogame cozzava con l’immagine del lavoratore instancabile, che forse alla loro età era stato un ragazzino insicuro e un po’ asociale. Ora, Mark poté constatare che il vero Kei si avvicinava più alla seconda versione che alla prima, anche se la miglior tesi finale sarebbe stato un mix tra le due.
Mark si ritrovò davanti un uomo che somigliava più al fratello maggiore di Kira piuttosto che a suo padre. Kei Brighton portava un paio di occhiali scuri appoggiati su un ciuffo di capelli pettinati all’indietro(4), di una sfumatura più chiara del normale, più scuri rispetto a quelli di Kira ma similmente atipici nella massa di teste scure. Nei suoi blue jeans e maglietta, la giacca appoggiata alle spalle, portava cucito addosso l’aspetto del più puro anticonformista; un ragazzo che a scuola non doveva aver avuto molti amici a causa delle sue particolarità, un teppistello circondato da pochi eletti e sul quale nessuno avrebbe scommesso uno yen, ma la cui intelligenza e caparbietà avevano superato le aspettative di professori, compagni e genitori. Laureato, sposato, con un ottimo lavoro, una volta adulto aveva imparato a socializzare con il prossimo, mettendo la testa a posto senza comunque soffocare la libertà del proprio spirito. Libertà che, a sentire la signora Brighton, aveva trasmesso anche alla figlia.
«Sono felice di conoscervi» disse a Mark e Ed, svolgendo le braccia della figlia dal proprio collo. «Kira mi ha scritto di voi nelle ultime lettere»
«Le ha parlato di noi?» chiese Ed in tono realmente stupito. Né lui né Mark se lo sarebbero aspettato.
«Certamente» affermò il signor Brighton. «Lunghe, tediose lettere dove la mia scimmietta si lamenta di sua madre, occupa almeno tre fogli a parlare di pattinaggio artistico e, quando ha tempo, mi dice come va la scuola»
«Non sono così noiose!»
«Terribilmente, cara... No, sto scherzando!» rise forte suo padre, facendo ridere anche lei.
«Più tardi ti presento anche Jem. Dev’essere qui da qualche parte» riprese Kira, guardandosi intorno per vedere se fosse nei paraggi.
«Ah, allora c’è anche una ragazza tra i tuoi amici» sospirò Kei con sollievo. «Iniziavo a preoccuparmi che fossi circondata solamente da bei ragazzi».
Fu il turno di Ed e Mark di mettersi a ridere.
Parlare con il signor Brighton era facile come approcciarsi a un coetaneo. Ora Mark capiva cosa intendeva la madre di Kira: col passare del tempo, Risa era certamente divenuta una donna matura e responsabile , mentre Kei era rimasto il ragazzino di un tempo. Non parlava di scuola e di voti ma di sport e di musica, di videogame – che aveva scoperto in età adulta, poiché «Ahimè, quando avevo la vostra età non li avevano ancora inventati» (4) – argomento nel quale tenne impegnati lui e Ed per parecchi minuti. Mark non era un grande appassionato di videogiochi a dire il vero, tuttavia li trovava divertenti e aveva trascorso lunghi pomeriggi in sala giochi insieme a Warner e Mellow.
Kira era così felice di averle lì suo padre da non riuscire a contenere l’euforia, abbracciandolo ogni dieci secondi come se non sopportasse di separarsi da lui. Mark provò una fitta di nostalgia guardandoli scherzare e ridere come i migliori degli amici. Forse, in un’altra vita, anche lui e John avrebbero parlato di videogiochi, di calcio, di un mucchio di cose sciocche o importanti che fossero.
Alle otto e trenta in punto, dopo una sfilata lungo il cortile di tutti i team sportivi accompagnata da una musica suonata dalla band della scuola, la folla di adulti e ragazzi si spostò dentro il palaghiaccio: duemila posti a sedere, una pista di quattrocentocinquanta metri quadri, era la struttura più grande dell’intero complesso. Gli atleti si allinearono all’interno della pista di pattinaggio, dov’erano state posizionate delle passatoie antiscivolo. Esattamente come si usava per la cerimonia d’inizio e fine anno, il preside salì su un podio per una breve introduzione. Si intonò l’inno nazionale e poi vi fu un discorsetto dove il direttore illustrò il programma della giornata e incoraggiando tutti a partecipare alle attività e divertirsi.
«E adesso, come da tradizione, il nostro club di pattinaggio ci introdurrà a questa giornata con un’esibizione incantevole. Prego, ragazzi!». Il preside scese dal podio tra gli applausi, mentre le squadre prendevano posto sugli spalti.
Alcuni ragazzi addetti all’allestimento arrotolarono le passatoie, scoprendo la superficie di ghiaccio tanto brillante e immacolato da far quasi male agli occhi. Mark, a metà delle tribune insieme ai compagni, dovette strizzarli per un secondo a causa del riverbero. Poi un faro si accese illuminandola con forza, scatenando qualche urletto da parte degli spettatori. Le note di un violino risuonarono acute e leggere. Dopo alcuni secondi, una figura solitaria scivolò sul ghiaccio, leggera come se avesse le ali ai piedi.
Kira.
Indossava un abito di un blu violetto che sfumava in un lilla tenue sulle maniche lunghe, intrecciato sulla schiena e tempestato di piccoli strass sfavillanti. I capelli erano raccolti in uno chignon elegante, la corta gonna di veli a più strati le svolazzava attorno alle gambe ad ogni più piccolo movimento. 
Lei era aria, impalpabile leggerezza sulla superficie che scalfiva con le lame. Non produceva quasi un suono, veloce e sicura, una mossa dopo l’altra, un saltello che fu l’interludio di una trottola. Ogni movimento era studiato nel dettaglio. Si fermò, allargò le braccia come per spiccare il volo. E poi volò quasi per davvero. Una rincorsa all’indietro accompagnata da movimenti leggiadri, preludio di un salto, un altro subito dopo e a Mark si mozzò il fiato per la paura di vederla cadere. Poteva essere tanto stupido? Lei sapeva cosa stava facendo e sapeva di poterlo fare. Si ritrovò incantato, con gli occhi ben aperti e un brivido lungo la schiena mentre Kira, l’espressione rapita dalla musica che l’accompagnava, si perdeva invece nella dimensione onirica in cui si era rinchiusa. Come una farfalla dentro la crisalide aspettando che le spuntassero le ali. Ali invisibili che parve aver preso in prestito da una divinità del vento. Eseguì un terzo salto. Il pubblicò apprezzò in maggior misura dei precedenti. Mark ignorava la differenza tra di essi, si era disinteressato per troppo tempo allo sport di Kira e in quel momento se ne pentì. Durante la prima media nessuno dei due aveva prestato molta attenzione allo sport dell’altro, contando anche che per diversi mesi non si erano minimamente parlati; Kira si era poi ripromessa di assistere a quante più partite possibili ma Mark pensava che non fosse un obbligo appassionarsi l’uno allo sport dell’altra, non importava. Prima o poi gli sarebbe capitato di vederla pattinare; a ben pensarci l’aveva già vista, solo che questa era la prima volta in assoluto che la vedeva da sola sulla pista. Era stato un vero stupido si disse. Se non fosse stato così concentrato solo su di sé, l’avrebbe vista prima in quelle vesti. Quasi non sembrava lei. No, era lei, ma era come se all’improvviso Mark avesse realizzato chi fosse veramente Kira. In quell’istante gli parve di averla finalmente conosciuta.
L’ultima nota prolungata del violino venne accompagnata da una splendida trottola sul finale dell’esibizione. Una gamba sollevata sopra la testa tenuta ferma da entrambe le mani, il corpo ruotava su sé stesso a una velocità quasi impossibile. Infine, con una facilità estrema, Kira si fermò e il suono scemò con il suo respiro.
Tutto il palaghiaccio applaudì e Mark non si rese conto di farlo più forte degli altri. Non vide nemmeno lo sguardo stranito che Ed gli rivolse misto a un sorriso consapevole. Pochi secondi dopo partì un’altra musica e il resto dei pattinatori si riversò sulla pista. Ma nessuno, nessuno era uguale a lei.
Il team di pattinaggio eseguì una bellissima coreografia alla quale seguirono altri consensi dagli spettatori. All’unisono, Kira e i suoi compagni terminarono l’esibizione in una breve strisciata in ginocchio sul ghiaccio, braccia aperte sollevate verso l’alto e un trionfale sorriso.
Il breve spettacolo era durato non più di cinque minuti ma sembravano molti di più.
«Capitano, dobbiamo andare» disse Ed battendogli su una spalla.
Mark sbatté le palpebre e tornò alla realtà. «Eh? Sì…»
«Ti eri incantato?».
Effettivamente sì. Probabilmente, Ed pensava fosse un completo idiota, seduto lì immobile come un allocco ad aspettare il nulla.
Invece, Ed sorrise. «I pattinatori sono laggiù». Indicò un punto sotto di loro, davanti alla prima fila. «Dai, scendiamo, così puoi dirle quanto ti è piaciuta»
Mark non commentò l’ultima frase di Ed, anzi, glissò sopra ogni sillaba facendo orecchie da mercante. Sì alzò in fretta, scendendo dalle tribune seguito dal portiere. Lei corse loro incontro appena li vide.
«Ehi!»
«Complimenti, Kira-san» disse subito Ed, facendo uno sforzo per non voltarsi verso Jem che li stava fissando.
«Grazie mille, Warner. So che non dovrei dirlo, ma sono orgogliosa di me stessa»
«Fai bene, invece. Non c’è nulla di male»
Bastò un’altra occhiata e Kira notò dove lo sguardo di Ed desiderava posarsi. Di certo non su di lei. «Avete più parlato dal giorno ad Harajuku?» sibilò, una mano a lato della bocca.
Il portiere sobbalzò, fissandola. «N-no, noi non…»
Kira parve delusa. «Perché non le parli adesso?»
«Smettila, impicciona» mormorò Mark a bassa voce.
«Uffa, ma perché?»
Ed esitò. «Credo sia meglio di no, Kira-san. Ci sono le altre ragazze, adesso, rischierei di metterla in imbarazzo»
«Oh… okay».
Ed si scusò, allontanandosi verso i genitori che richiamavano la sua presenza. Passò di fronte al punto in cui Jem e le altre pattinatrici stavano chiacchierando. Le rivolse un saluto e un sorriso leggero al quale lei rispose, suscitando qualche risatina da parte delle compagne.
«Chissà come andrà a finire tra quei due?» disse Kira con un sospiro.
Mark la guardò, sentendosi a disagio. Andandosene, Ed lo aveva lasciato solo con lei e all’improvviso, senza capire da dove provenisse tutto quel nervosismo, gli parve di avere la gola secca, arida come un deserto. Dovette deglutire un paio di volte, e si sentì un emerito imbecille.
Il problema si pose maggiormente quando percepì qualcosa di anomalo muoversi dentro il suo stomaco agitarsi follemente quando lei gli sorrise, in quel modo così… splendente. Quel sorriso che non vedeva da un po’ e che lui stesso aveva cercato di restituirle dopo le disavventure vissute a causa di Milly Benson. Da quando era iniziata la seconda media, Mark aveva visto Kira rattristarsi più e più volte, ma quella mattina… quella mattina era arrivata a scuola a testa alta e la vecchia scintilla fiera negli occhi. Mark era stato lì lì per chiederle dove avesse lasciato la maschera. Niente più musi lunghi, né sguardo meditativo, né sospiri sconsolati. Quella mattina c’era Kira. Nemmeno si ricordava sorridesse così bene e… era sempre stata così carina?
«Sai…ehm, sai se poi quel tipo della federazione di pattinaggio è venuto?» domandò per togliersi d’impiccio.
Kira fece un saltello sul posto. «Sì! Kanagawa me lo ha appena detto! Solo che non ho idea di che impressione possa avergli fatto». Rise, euforica, raggiante. «Ma dimmi, ti è piaciuta la mia esibizione?»
«Sì. Sei stata bravissima».
Penoso. Bravissima. Era un complimento che tutti le avrebbero potuto rivolgere ed era piatto, vuoto, banalissimo. Non era stata solo brava. Era una delle cose più belle che lui avesse mai visto: lei e il ghiaccio come una cosa sola, uno spirito appassionato che plasmava l’infinito attraverso movimenti che…
Ma lui sapeva di fare schifo nel dire le cose, per cui non perse tempo a metterle insieme le parole.
«C’era una piccola sbavatura nell’atterraggio dell’ultimo salto» disse Kira, un sorrisetto imbarazzato.
Sbavatura? Lui non l’aveva vista. «Sei stata perfetta. Eri…». Mark alzò le mani, mosse le dita, scosse una volta la testa.
Kira rise brevemente. «Grazie. Per me vuol dire tanto che tu mi abbia vista, sai?»
Veramente? Lei davvero lo considerava tanto importante? Avvertì sul viso un leggero calore quando lei gli prese le mani in segno di gratitudine.
«Ma sei arrossito?» commentò la ragazza con un’altra risatina leggera e un poco impacciata.
Mark sbuffò, allontanando lo sguardo. «Tutte queste smancerie inutili…»
Lei gli lasciò le mani senza smettere di sorridere. «Mi aspetti? Devo andare a cambiarmi»
Lui le rivolse un’occhiatina. Annuì.
In quel momento non avrebbe potuto negarle nemmeno la più piccola richiesta.
 
 
 
Durante il mattino, le sei sezioni della Toho si scontarono nelle gare di corsa dei cento metri, corsa nei sacchi, tiro alla fune – nella quale il signor Brighton fu un aiuto provvidenziale per fare arrivare la sezione della figlia in testa alla classifica provvisoria – e infine la gara di nuoto.
Sebbene fossero compagni di squadra, in quell’atmosfera competitiva Kira e Mark non riuscirono proprio a contenersi e la vecchia voglia di rivaleggiare sorse spontanea. Non bastò loro perseguire il punteggio che avesse permesso alla loro squadra di vincere, dovettero ingaggiare una segreta sfida personale, nella quale però nessuno dei due riuscì a emergere sull’altro. Era destino.
Verso le dodici si fermarono per la pausa pranzo. Studenti e famiglie mangiarono il bento seduti sull’erba e sugli spalti dei campi sportivi, panchine e muretti. Nessuno volle prendere posto nelle classi o nella mensa in una giornata ventilata come quella, dove il sole non picchiava.
La signora Lenders, insieme al piccolo Matt, arrivò in tempo per mangiare con Mark e i suoi amici, salutando con confidenza i signori Warner e il fratello di Ed che già conosceva, e facendosi presentare il padre e la nonna di Kira.
Verso le due del pomeriggio si riprese con un breve riepilogo del punteggio ottenuto dalle sezioni. La A era prima seguita dalla E, poi veniva la B, D e F a pari merito e C all’ultimo posto.
Durante la gara di dribbling sul campo da calcio – che a Mark ricordò molto la sfida che lui e Kira avevano disputato sulla pista da ghiaccio – la sezione D recuperò punti e passò al terzo posto. Inutile specificare chi dei ragazzi primeggiò in quel gioco...
Fu divertente per Kira vedere Lenders e Warner rivali per la prima volta. Nel secondo turno di gara si trovarono faccia a faccia. Ed fece schioccare le dita, Mark gli rivolse un sorriso sghembo e poi partirono alla velocità della luce in palleggi scattanti attorno ai coni di plastica disseminati lungo tutto il campo da calcio. Giunsero alla fine del percorso quasi contemporaneamente e i giudici ci misero qualche minuto per decidere chi avesse effettivamente toccato la riga del traguardo per primo. Alla fine vinse Mark.
In seguito ci si spostò nuovamente sulla pista di atletica.
Nella corsa a tre gambe, Ed si ritrovò a far coppia con Jem. Lui le fece un sorriso al quale lei rispose con titubanza. Da quando aveva esternato i propri sentimenti, lei era divenuta molto più fredda con lui. Ed non capiva il motivo di tanta scontrosità. Non l’aveva accusata di nulla, non era insistente nei suoi confronti sebbene non avesse alcuna intenzione di rinunciare. Forse, Jem, in fondo sospettava una nuova mossa da parte sua e proprio per questo cercava di scoraggiarlo assumendo un atteggiamento distaccato. Peccato che dietro il carattere apparentemente tranquillo del portiere si nascondesse un ragazzo dall’animo caparbio quasi quanto il suo capitano. Warner non rinunciava facilmente a ciò che desiderava.
A metà del percorso, Jem mise un piede in fallo e cadde in avanti in malo modo. Ed, la caviglia destra legata a quella sinistra di lei, si sbilanciò a sua volta frenando la caduta con le mani.
«Ahia…»
«Edogawa, stai seduta» le disse, armeggiando velocemente con il nodo della corda. Quand’ebbe liberato entrambi le si inginocchiò davanti. Gli altri corridori li avevano ormai superati. Le prese delicatamente la caviglia tra le mani, facendola roteare lentamente. «Se faccio così ti fa male?»
«Un pochino» rispose lei, arrossendo vistosamente.
«Okay». Il portiere le sorrise, rassicurante. «Non è rotta. Forse hai preso una piccola storta. Niente di grave»
Lei sospirò di sollievo, tentando di rimettersi in piedi. Lui le fu accanto e il suo braccio si mosse automaticamente per sorreggerla.
«Non c’è bisogno che mi aiuti. Faccio da sola»
Trafitto dal rifiuto, Ed abbassò le mani lungo i fianchi. «Dovresti metterci qualcosa sopra. Vai da Koike-san»
Jem annuì e saltellò sul posto fino a reggersi in equilibrio. Vide che il piede la sosteneva, Ed aveva detto il vero: nessuna frattura, solo una lieve distorsione. Zoppicò fino al prato, il ragazzo sempre dietro di lei.
«Warner, ti ho già detto…»
«Lo so. Ma lascia almeno che ti accompagni»
Jem non parlò. Pregò tutti i kami del cielo per evitare uno di quei silenzi tremendamente imbarazzanti e fu ascoltata. Kira arrivò di corsa insieme a Mark dagli spalti sui quali stavano riprendendo fiato dopo la loro ultima gara. Non avevano partecipato alla corsa a tre gambe.
«J-chan, stai bene?»
«Niente di rotto, tranquilla». Jem si appoggiò a lei ignorando il portiere. «Mi accompagni allo stand dell’infermeria?»
Kira non rispose. Forse avrebbe dovuto comportarsi da amica, togliere Jem da quella situazione imbarazzante e scomoda accompagnandola dall’infermiera come l’era stata chiesto. Ma proprio non riuscì ad ignorare il povero Ed, immobile alle loro spalle a guardarle con occhi pieni di delusione.
«Warner, l’accompagni tu, per favore?»
Il portiere trasalì. «Certamente». Un secondo dopo, Ed si sostituì a lei.
«Kira-chan?!»
«Scusa, Jem, ma io e Mark dobbiamo andare a prepararci per la staffetta»
«Ma la staffetta è l’ultima gara» replicò Jem con sospetto. «Prima di quella c’è ancora la corsa degli ostacoli».
«Ahm, sì ma dobbiamo scaldarci. Vero, Mark?»
Lui cadde dalle nuvole. «Sì, noi dobbiamo, ehm, riscaldarci»
«Vedi? Ci vogliono in squadra a tutti i costi, dobbiamo essere ben preparati». Kira rivolse a Jem un sorriso di scuse. Lei non le credette, lo capì dalla sua espressione, eppure non aveva detto una frottola. Certo, avrebbe avuto tutto il tempo per accompagnare l’amica da Koike-san e rimanere con lei, ma perché privare Ed del piacere di essere utile a Jem?
«Kira, questa me la paghi» sibilò quest’ultima separandosi tornando tra le braccia del portiere.
«Perché, cosa ho fatto?». Kira esibì un sorrisetto furbo, osservando con soddisfazione Jem arrossire mentre Warner posava una mano attorno al suo fianco. Li guardò allontanarsi, lui voltarsi un attimo per farle un sorriso. Ricambiò con un occhiolino.
Jem aveva ogni senso all’erta. Sedette sul prato accanto al chiosco allestito per le emergenze di pronto soccorso. Koike-san venne da lei con una borsa del ghiaccio da mettere sulla caviglia.
«Caro, aiutala a sedersi in un luogo più comodo» disse a Ed.
«No, va bene qui» disse Jem, tentando di frenare di nuovo il tentativo di lui di toccarla. Le dava sensazioni che la confondevano.
«Ci hai già provato una volta a sbarazzarti di me» le disse Ed sedendole accanto, rivolgendosi poi all’infermiera. «Stia tranquilla Koike-san, resto io con lei»
La donnona picchiettò sulla spalla della ragazza. «Allora sei in buone mani». Si sollevò da terra con un mezzo gemito. «Se il ghiaccio si scioglie venite a dirmelo»
Jem si strinse nelle spalle, sollevano la gamba sana circondandola con le braccia, come se volesse proteggersi da qualcosa.
«È da qualche giorno che cerco di parlarti» riprese Ed, «ma sembra impossibile riuscire a trovarti da sola»
«Perché dovresti parlarmi mentre sono sola? Se mi vuoi dire qualcosa puoi farlo davanti alle mie amiche»
Lui sorrise, puntellandosi sull’erba con le mani, le gambe stese.«Vorrei ringraziarti per quello che hai facendo per me» Lei non capì subito.
«Le mansioni di capoclasse»
«Oh. Prego» balbettò Jem. «Lo avevamo praticamente già deciso, ricordi? Non è un peso sostituirti, si è trattato solo di un mese, da domani saremo in vacanza. Quando torneremo a scuola potrai tornare a ricoprire il tuo ruolo»
Il volto di lui si contrasse leggermente in un serio cipiglio. «Ricordi quando ti dissi che non ero sicuro di essere tagliato per fare il capoclasse di classe?»
Jem spostò lo sguardo dalla pista al viso di lui. «Ti dimetterai?»
«Ancora non lo so»
«Sarebbe un peccato»
«Perché sono bravo o perché ti dispiacerebbe non passare più del tempo con me come facciamo ora?»
Jem lo guardò con occhi sgranati e un po’ di sospetto. La stava incastrando. «Entrambe, direi» ammise. E comunque non è che passassero insieme così tanto tempo. S’incontravano ogni mattina prima delle lezioni per discutere sulle varie iniziative scolastiche o su un appunto lasciato dagli insegnati, e qualche volta si fermavano a scuola dopo l’orario dei club per aggiornare il registro di classe. Ma a parte quello… possibile che per Warner quei brevi momenti quotidiani fossero realmente preziosi? Possibile che lei gli piacesse veramente così tanto?
«Mi dispiace» disse, senza il coraggio di sostenere ancora il suo sguardo.
«Anche a me». Ed si mosse per controllare la sacca con il ghiaccio. Sollevò il viso all’improvviso, cercando quello di lei nascosto sotto il caschetto nero. «E non solo per i piccoli momenti a cui rinuncerò»
«Se ti dispiace allora non rinunciare»
«Non ho mai detto che avrei rinunciato a te»
Il cuore le balzò in gola. «Io non…ma…Accidenti, non è leale!»
Ed rise. «Il calcio mi prende troppo tempo e poi ho scoperto di non essere tagliato per fare il capoclasse. Ho accettato per gentilezza verso i nostri compagni che mi hanno votato». Afferrò la sacca e si alzò. «Sarà meglio andare da Koike-san a far aggiungere un po’ di ghiaccio. Torno subito».
 
 
 
La corsa a tre gambe terminò con la rimonta della sezione E. Aveva spodestato la sezione A ed ora era prima in classifica. La B aveva perso punti a causa dell’impossibilità dei suoi concorrenti – Ed e Jem – di proseguire la gara, finendo al quarto posto. La F aveva superato la D, scesa in ultima posizione, mentre la C recuperava alla grande dopo le ultime gare fino a toccare il terzo posto.
«Se vi serve una mano nelle prossime gare, ragazzi, io sono disponibile!» esclamò Kei Brighton con entusiasmo dalle tribune.
«Papà, non esagerare» lo redarguì Kira con apprensione. «Non hai più l’età per fare certe cose»
«Come osi parlare così a tuo padre?! E poi sono nel fiore degli anni!»
«Ma io mi preoccupo! Potrebbe capitare una disgrazia!»
«Pensa per te, Kira»
Il signor Brighton ignorò la figlia, profondendosi in qualche breve flessione, gonfiò i muscoli e sorrise mostrando una fila di denti splendenti, suscitando apprezzamenti dalle donne sedute in prima fila.
Kira avrebbe voluto sprofondare. «Andiamocene» mormorò a Mark, nascondendo il volto in una mano.
Raggiunsero un angolo del prato dove i compagni di sezione stavano decidendo i concorrenti per la prossima gara. Il capo squadra era un ragazzo di terza, il quale esonerò Brighton e Lenders dalle successive competizioni per sfoggiarli come arma segreta durante la staffetta. Mark e Kira si ritirarono allora in fondo al perimetro della pista di atletica, appoggiandosi al muro appena dietro le tribune.
«Perché ci siamo nascosti qui dietro?» domandò il ragazzo, incrociando le braccia al petto quasi ne fosse seccato.
«Ho detto a Jem che dovevamo allenarci. Se ci vede fermi là davanti con gli altri capirà che ho fatto apposta a lasciarla sola con Warner»
«Kira, guarda che lo ha già capito…»
Lei ridacchiò. «Sì, però quando si inventa una bugia è meglio fare le cose per bene».
Un fischio risuonò nell’aria e le tribune esplosero in applausi. La gara corsa a tre gambe era terminata.
«I nostri non hanno fatto una buona prova, questa volta» commentò la pattinatrice, sbirciando il tabellone elettronico attraverso i sedili che le ostruivano la visuale. Così facendo si sporse di lato verso Mark, finendogli praticamente addosso.
Lui tossicchiò, improvvisamente nervoso. Di nuovo. Perché quel giorno diventava nervoso stando accanto a lei?
Quando Kira si spostò prese un respiro.
«Qualcosa non va?» chiese lei.
«Mh? No, niente. Stavo pensando che tuo padre è una forza» disse il capitano della Toho in tono divertito.
Lei si grattò distrattamente una guancia. «Qualche volta capisco mia madre. Papà possiede un lato esibizionista che può diventare imbarazzante»
«Ecco da chi hai preso».
Kira gli fece una piccola linguaccia scherzosa, tornando a concentrarsi su ciò che avveniva in pista. «Secondo te sarebbe il caso di riscaldarci per davvero?». Inclinò la testa di lato per osservare di nuovo il cartellone con il punteggio, sfiorandogli la spalla con il viso. «Tu che ne pensi? Insomma, se nelle prossime gare rimaniamo fermi su questo punteggio, dubito che la nostra sezione vincerà»
«È solo una manifestazione sportiva organizzata dalla scuola, non ti crucciare troppo» tagliò corto lui, muovendosi per allontanarsi da lei. Non rifletté, lo fece e basta. La vicinanza di Kira, il suo viso a poca distanza dal suo, il suo fiato sulla pelle mentre gli parlava…tutto ciò gli aveva contratto i muscoli dello stomaco e…
Intuendo l'indesiderata vicinanza, la ragazza scattò in su con la testa, irrigidendo la schiena. Ci rimase un po' male. «Credevo ti importasse vincere»
«Non è importante» disse lui, secco.
«Oh». Kira lo fissò. L’espressione accigliata, le braccia strette al torace… Aveva fatto qualcosa? Sì.
Mark era allergico alle manifestazioni d’affetto, per lui erano quasi un’invasione alla propria sfera personale. Non cercava quasi mai un contatto per primo, anche se negli ultimi tempi a Kira era parso che con lei facesse un’eccezione. Ma forse non si trattava di quello. Forse, ad infastidirlo era altro.
Gli si accostò di più, quatta quatta. «Mark, ascolta…»
Lui sospirò dal naso. «Uffa, ma non ti stanchi mai di parlare?». La vide mordicchiarsi le labbra, una cosa che non faceva spesso. Era nervosa. «Cosa c’è?»
«Scusami. Come al solito penso solo a me e non ho riflettuto». Gli sfiorò un braccio con dita leggere.
Il capitano restò immobile.
«Sono stata così contenta di avere mio padre con me, oggi, e non ho considerato che tu…».
Kira deglutì, guardandolo con occhi tanto grandi ed espressivi che per un momento il cuore di lui fece un balzo. Poi capì.
«Non è colpa tua se mio padre non è qui, stupida»
La carezza di lei sul braccio divenne una stretta salda. «Non ho pensato che potesse farti soffrire»
«Da quando ti preoccupi di farmi soffrire?»
«Non scherzare, Mark, sono seria»
Il capitano si girò col busto verso di lei. «Se in quella tua testolina matta stai pensando di dover scusare la tua felicità, non farlo».
La osservò trattenere il respiro per un secondo e lasciarlo andare nel più sollevato dei sospiri. Era molto dolce a interessarsi a ciò che provava, alle sue emozioni. Sì, Kira era forse un po’ egoista, ma in quel momento gli diede prova di una grande sensibilità. Vedere i compagni di scuola felici insieme ad entrambi i genitori non era mai facile per lui. Il tempo trascorso dalla morte di papà era ancora troppo poco.
«Mi farebbe tanto piacere se poteste conoscervi meglio. Tu e mio padre intendo» confessò Kira con sincerità. «Sono sicura che andreste d’accordo»
Mark le fece uno dei suoi sorrisi sbiechi. In un gesto non pensato le portò una mano sotto il mento, sfiorandoglielo piano con due dita. «Non devi preoccuparti per me»
«Non posso». Kira si ritrovò a fissarlo negli occhi, tutti i sensi concentrati nel calore improvviso di quell’azione inaspettata. La mano di Mark si spostò sul suo collo, giocherellò per qualche istante con sottilissimi fili color rame dorato che le sfuggivano dallo chignon. Era grande la sua mano, se l'avesse posata sul suo viso sarebbe riuscito ad attorniare tutta la lunghezza della guancia e della mascella, solo che… solo che non lo avrebbe fatto. No, vero?
«Scioglili», disse lui ad un tratto. Toccò le forcine che fissavano l’acconciatura sulla nuca, provocandole un brivido.
«Meglio di no, mi darebbero fastidio» ripose lei, perdendo e riprendendo il fiato.
Vicini. Un po’ troppo vicini.
«Approfittane, è l’ultimo giorno di scuola. Si fanno strappi alle regole. E poi stai meglio coi capelli sciolti»
«Ah…grazie». Kira si rese conto di avere ancora le dita attorno al braccio di lui. Le ritirò in fretta.
Mark tossicchiò, allontanandosi a sua volte e riacquistando prima di subito il solito cipiglio. Le diede la schiena, senza curarsi di quanto lei potesse trovare strani i suoi sbalzi d’umore. Di sicuro Kira si stava chiedendo che cosa gli fosse saltato in mente di avvicinarsi e toccarla. Anzi, di… accarezzarla. Già, e se lo domandava anche lui.
Tornando verso la pista di atletica, percepì i movimenti di lei al suo fianco e, quando guardò di nuovo nella sua direzione, sobbalzò stupito. Una cascata di capelli lisci che parevano attirare la luce del sole si sciolsero sulla schiena di Kira. Lei infilò le forcine in una tasca dei pantaloncini; srotolò dal polso quello che Mark aveva scambiato per un bracciale nero e che invece si rivelò essere un elastico di emergenza con cui la pattinatrice legò parte dei capelli dietro la nuca in una mezza coda.
Lei intercettò il suo sguardo, sorridendogli timidamente. «Dopotutto hai ragione. Sciolti piacciono di più anche a me».
 
 
 
«I corridori in pista» gracchiò l’altoparlante mentre prendeva il via l’ultima e decisiva gara del giorno: la staffetta.
Quattro gareggianti per sezione si posizionarono lungo il perimetro della pista di atletica. Ogni cento metri ci sarebbe stato lo scambio del testimone. Chi avesse fatto cadere il cilindro veniva squalificato. Vinceva la sezione che avrebbe tagliato per prima il traguardo. La sezione A schierava Mark, Kira, un ragazzo di prima di nome Akito, e Seto, un tipo allampanato del terzo anno che faceva parte della squadra di basket. Sulla schiena era stato loro appuntato un cartellino con la lettera A.
«Parto io per primo» disse Seto. «Poi Akito, Lenders e per ultima Brighton. Ti va bene se sei ultima?»
«Sì, sì, nessun problema» annuì Kira.
I gareggianti si inginocchiarono sulla riga di partenza. A. Il silenzio calò sugli spalti.
«Pronti. Attenti…»
Ognuno dei sei ragazzi e ragazze alzarono il bacino pronti per lo slancio. Uno sparo percorse l’aria e iniziarono a correre. Le grida coprirono la voce del professor Onda che, accompagnato dal vicepreside, cercava di fare una radiocronaca della gara.
Seto percorse velocemente i primi cento metri cedendo il posto ad Akito. Due corsie più in là, la sezione C sbagliava il passaggio del testimone e perdeva un membro della squadra, rimanendo indietro.
Pur non essendo uno sportivo, Akito teneva un buon ritmo. Ma venne quasi raggiunto da uno della sezione B, contendendosi il primato del secondo centinaio di metri.
«Lenders!» Con il fiato corto, passò il testimone a Mark.
Il calciatore scattò in avanti, rapidissimo, tallonato dal ragazzo della B. Se si fosse trattato di Ed avrebbero potuto dare inizio a una bela sfida: Ed era veloce quanto lui, ma non partecipava alla staffetta, sedeva sugli spalti a tifare per la propria sezione dopo una bellissima prova nel salto in lungo.
Sugli ultimi quaranta metri, Mark aumentò la velocità spingendosi più avanti di tutti gli altri.
«Il corridore della sezione A supera gli avversari La sezione A è in testa!» esclamò la voce del professore di ginnastica all’altoparlante. «Ecco che raggiungono i trecento metri!»
Dritto davanti a Mark ora c’era Kira, il braccio teso all’indietro pronta a ricevere il testimone.
«Vai!» gridò il calciatore, accorgendosi che lei allungava la sinistra invece della destra. La vide voltare la testa e un sorrisino spuntarle sul viso. In quella che fu una frazione di secondo, Kira piegò il gomito all’indietro e l’avambraccio le toccò la schiena, così a Mark bastò spostare il proprio in diagonale rispetto al busto per effettuare il cambio, anche se con un poco di difficoltà. Il testimone scivolò elegantemente nella mano di Kira, che partì velocissimamente in testa a tutti quanti. Solo in un secondo momento lui si rese conto di chi la stava tallonando.
Lei era concentrata sulla corsa quando si sentì chiamare. Al suo fianco apparve l’ombra e poi la figura intera di Darren Grant.
Né lei né Mark poterono crederci. E accidenti a lui, era pure veloce!
«Come va, Kira?» la beffeggiò Grant, i capelli perfetti anche con il vento in faccia.
«Kira, concentrati sulla gara!» le gridò Mark, fermo sulla riga dei trecento metri.
Lei guardò dritto avanti, un unico pensiero: più veloce, più veloce! Non avrebbe fatto vincere Darren.
«Mancano solo 50 metri! La sezione A è sempre in testa, tallonata dalla E! La B e la D rimangono indietro. La C purtroppo non ce la fa»
«E tu ce la farai, Kira-san?»
La pattinatrice lanciò a Grant un’occhiata rapida e infastidita. Poi schizzò in testa, lesta come una lepre. Superò la linea del traguardo, udendo il fischio della fine.
Darren Grant si fermò dietro di lei, gettando a terra il testimone in un gesto di rabbia per la sconfitta subita. Kira, piegata in avanti con le mani sulle ginocchia, lo guardò con un sorrisetto.
«Mi spiace. È andata così»
Darren si sforzò di sorriderle. Si avvicinò, porgendole la mano. «Non andrà sempre così, Kira-san. Prima o poi avrò quello che desidero»
«Non è detto». Lei ricambiò la stretta. La mano di lui era fredda, affilata come un giunco. Kira la lasciò andare in fretta, guardandolo allontanarsi verso i compagni della E.
Un momento dopo fu raggiunta da Seto e Akito Poi, due braccia forti la sollevarono da terra. Si ritrovò a un metro dal suolo, Mark che la teneva per i fianchi, le sue mani posate sulle spalle di lui per non cadere.
«Siamo grandi!»
«Meno male che era solo una manifestazione scolastica, Lenders», lo prese in giro, ricordando le parole di poco prima.
Mark rise. Kira non ricordò di averlo mai visto ridere così spontaneamente. Quando la fece scendere lei gli circondò il collo con le braccia, rimanendo abbracciata a lui nella contentezza del momento. Dondolarono qualche istante nel mezzo della pista straripante di studenti felici o delusi, i parenti che si riversavano dagli spalti per venire a lodare e consolare.
«Attenzione, prego». La voce del professor Onda risuonò all’altoparlante per annunciare il punteggio dell’ultima gara. «Con il tempo migliore, vince la gara di staffetta la sezione A»
Le parole furono seguite da urla di gioia. Onda continuò ad annunciare la classifica definitiva. Chi aveva tenuto bene il conto del punteggio di tutte le sfide sapeva già quale sarebbe stato il risultato. All’ultimo posto c’era la sezione C, poi la F; la B al quarto posto, superata di pochissimi punti dalla D, al terzo. La E era seconda. La sezione A era la vincitrice delle gare sportive di quell’anno.
Un fragore assordante riempì l’aria circostante.
Trasportata dalla folla, Kira fece un giro su sé stessa senza capire da dove spuntavano braccia e complimenti, chi le dava pacche sulle spalle, chi le scompigliava i capelli, chi la abbracciava. Rimase stretta a Mark per evitare di essere sommersa dalla fiumana di compagni. Si scambiarono un altro sorriso. Poi, le mani di lui salirono ad afferrarle il viso e avvicinarlo al suo, per lasciarle un rapido bacio a stampo. Sulla bocca.
Il tutto durò una manciata di secondi.
Durante il contatto, Kira si ritrovò a chiudere gli occhi, spalancandoli un istante dopo. Mark fece lo stesso, separandosi da lei con un suono assolutamente imbarazzante.
Oh porca miseria…

 
 
***** ***** ***** ***** *****
 Note:
 
1- Come ho già spiegato una volta, le vacanze estive in Giappone non corrispondono alla fine dell’anno scolastico, ma sono un intermezzo tra il primo e il secondo trimestre. 

2- Nel pattinaggio artistico esistono quattro categorie: singolo maschile, singolo femminile, pattinaggio di coppia e danza su ghiaccio. Tutte e quattro presentano durante le gare due programmi: un corto e un libero (o lungo). I giudici decidono alcuni elementi obbligatori da far eseguire agli atleti, mentre il resto dei passi viene deciso dal pattinatore, dal suo coach e dal coreografo. Una coppia di danzatori si differenzia da una coppia di pattinatori su base degli elementi tecnici eseguiti. Nella gara a coppie il programma deve essere eseguito all'unisono, e comprende figure quali prese, sollevamenti e salti lanciati che non sono possibili nell'artistico individuale. La danza su ghiaccio, invece, è la specialità meno acrobatica del pattinaggio artistico, in quanto non sono consentiti né sollevamenti della donna oltre la linea delle spalle dell'uomo, né salti. Nella danza viene messa maggiormente in risalto la coreografia e il piacere della danza

3- In Giappone avere ‘il ciuffo’, era/è sinonimo di ribellione. Una su tutte è la pettinatura a banana (ispirata a quella di Elvis Presley), e che appare su personaggi di diversi anime e manga, equivale a quella del teppista.

4- Il padre di Kira dice che quando lui era adolescente i videogame non erano ancora stati inventati. Questo perché la storia è ambientata tra la seconda metà degli anni ottanta e novanta e i primi videogiochi sono usciti in Giappone sulla fine degli anni settanta. 
***** ***** ***** ***** *****
 
Helloooooooo!!!
Sono spiacente di essere mancata per tre settimane, ma ho avuto l’occasione di fare un viaggio in Russia (a scrocco, lo ammetto) e non ho assolutamente potuto rinunciarvi. Una sola parola: magnifica. Il resto è storia, letteralmente.
Ma non vi interessa, lo so, voi volete sapere del capitolo, wahahah!!! Insomma, al capitolo diciotto (!) Mark e Kira non si sono ancora baciati, e partendo dal presupposto che lui dopo averla vista pattinare si è un po’ svegliato, le premesse c’erano tutto per fargli fare smack smack, picù picù :* :*  Dopotutto devono fare esperienza prima di passare alle cosacce XDDD). Scommetto che volete sapere quale sarà la reazione di Kira, lol.  Aspetto i vostri commenti a riguardo, e anche sull’evoluzione-non evoluzione del rapporto tra Ed e Jem. Per adesso, Ed sembra non arrendersi ma è meglio che lei non tiri troppo la corda. Warner ha molte ammiratrici.
Ho voluto presentare il padre di Kira perché tra un po’ di tempo gli darò più spazio. Vorrei sapere voi come lo immaginavate ;) E la prossima volta iniziano le vacanze estive!
 
Questa volta ci sono tante notine non solo sul Giappone ma anche sul pattinaggio artistico. Scusate se vi ho annoiato.
 
Non mi dilungo oltre. In ultimo ringrazio sempre tutti voi che aspettate con pazienza gli aggiornamenti, e chi ha inserito la storia nelle seguite/preferite/ricordate. Se volete potete anche seguirmi su Facebook nel gruppo Chronicles of Queen, e da oggi anche sulla pagina Instagram @susanthegentle_efp.
 
Vi saluto e vi do appuntamento tra due settimane… se va bene anche una.
Baciotti,
vostra Susan♥

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** 19. La festa delle stelle innamorate ***


19. La festa delle stelle innamorate
 
 
 
Si riprese il proprio spazio, le proprie mani, finite non seppe come attorno al volto di lei. Mark fece un paio di passi indietro, guardandola con un misto di stupore e discolpa.
«Scusa…scusa», si affettò a dire prima che lei esplodesse. Perché sarebbe esplosa, giusto? Quasi sicuramente gli avrebbe rifilato uno schiaffone come si deve, perché era arrabbiata adesso. Doveva esserlo. Insomma, lui aveva appena fatto l’ultima cosa che avrebbe dovuto fare: baciarla.
Kira stava immobile, le braccia lungo i fianchi, la bocca semi aperta e gli occhi spalancati come se nemmeno lei ci cedesse. Non si era ancora ripresa dallo shock, perché di quello si trattava. Mark la vide portarsi le mani al viso, le quali corsero poi a coprire parzialmente le labbra, le guance in fiamme.
«M-ma che ti salta in mente?»
Una domanda posta in tono debole quando avrebbe dovuto essere un’esclamazione, un grido di terrore. Mark non riuscì a decifrare lo stato d’animo della ragazza; a capire se stesse elaborando la situazione in bene o in male.
Male. Indubbiamente male.
Allora perché non lo picchiava? Perché non cominciava a sbraitare quanto fosse rozzo e cafone?
«Non volevo» aggiunse lui, muovendo le mani per enfatizzare la propria negazione. «È solo che…»
Kira chiuse la bocca, deglutì e scosse la testa una volta.
No? Cosa no?
«Non…fa niente»
«Ah…». Okay, si disse lui, non era arrabbiata. Andava bene per una volta ma…non benissimo. Mark avrebbe preferito che lo fosse. Si sarebbe sentito in qualche modo più sicuro affrontando una situazione familiare. Infuriarsi sarebbe stato un atteggiamento…da Kira. Così, invece, non aveva scappatoie per arrabbiarsi a sua volta, magari litigare su chi fosse lo stupido della situazione, mettere il broncio, e tra un paio di giorni punzecchiarsi nuovamente e poi riderci sopra.
Da una parte era forse meglio che lei non urlasse, o avrebbe attirato l'attenzione di tutta la scuola, solo che se Kira non iniziava a dire qualcosa di concreto prima di subito, Mark avrebbe pensato che…
«Kira-chan, sei stata velocissima!» esclamò la voce di Jem nel mezzo della folla. Giunse alle spalle dell’amica con passo zoppicante, Ed appena dietro di lei.
Kira ricambiò l’abbraccio di Jem meccanicamente, ringraziandola con voce stentata. Guardò verso Mark mentre altre persone le si avvicinavano e la ressa li separava lentamente, sospingendoli in direzioni diverse.
Mark avvertì il tocco di una mano sulla spalla e si sforzò di distogliere gli occhi sulla figura della pattinatrice. Un profluvio umano si chiuse su di lui e non la vide più fino al termine della premiazione.
Tutti gli atleti si misero in fila per sfilare un’ultima volta. I più meritevoli ricevettero delle piccole medagliette placcate in oro come ricordo della giornata, mentre la sezione vincitrice ebbe in premio, oltre alla medaglia, una statuetta rappresentativa della giornata dello sport. Il preside consegnò personalmente i trofei, congratulandosi coi ragazzi e ringraziando i genitori che avevano partecipato.
Infine, la folla si disperse. Dappertutto risuonavano auguri di buone vacanze, gli amici si abbracciavano e tutti si davano appuntamento allo stadio a fare il tifo per la squadra di calcio.
«Complimenti per la vittoria, capitano. Siete stati proprio forti» si congratulò Ed più tardi, appoggiato a un muretto nei pressi del cancello insieme a Mark, in attesa che i rispettivi genitori terminassero i saluti. Chissà per quale motivo gli adulti finivano sempre per prolungarsi più del dovuto.
«Grazie, Ed. È stato un peccato che la vostra sezione non ce l’abbia fatta»
Ed alzò le spalle. «Non importa. In fondo, il pretesto di questa competizione era quello di divertirsi, no?»
«Suppongo di sì». Mark giocherellò con la statuetta di metallo e resina che rappresentava un ragazzino in corsa nell’atto di tagliare un traguardo. Ogni dieci secondi i suoi occhi scattavano verso Kira. Lei stava un poco più in là accanto a suo padre e sua nonna, aspettando pazientemente il momento di andare a casa. Tra le mani reggeva la borsa con gli indumenti del pattinaggio, facendola dondolare piano mentre spostava il peso da un piede all’altro in un ondeggiare nervoso. Guardava il suolo, sollevando solo ogni tanto la testa per sorridere e annuire agli adulti.
Notando dov’era indirizzato lo sguardo del suo capitano, Ed sfoderò un ghigno faceto, appoggiandosi comodamente al muretto a braccia conserte. «Dai, racconta. Com’è stato?»
«Com’è stato cosa?»
«Baciare Kira»
La statuetta cadde dalle mani di Mark e una gambetta si ruppe. Il ragazzo si affrettò a raccoglierla. Sua madre non sarebbe stata felice di sapere che l’aveva rotto il trofeo.
«Così disastroso?» ironizzò il portiere.
Com’era stato baciarla?
Mark considerò solo ora la domanda.
Era stato piacev… No. Non era stato un bel niente, perché lui non provava assolutamente niente e non aveva provato assolutamente niente. C’era solo stato il viso di Kira troppo vicino al suo, le braccia di lei attorno al suo busto. Gli si era stretta contro per non essere assalita dalla folla di compagni in festa, e quando lui aveva abbassato il viso incontrando quel sorriso, cervello, bocca e mani avevano fatto tutto da soli. 
Con un gesto rabbioso, Mark ficcò la statuetta spezzata nella sacca da ginnastica. «Non era un bacio»
Ed finse di pensare. «Appoggiare le labbra su quelle di un’altra persona a casa mia è baciarsi»
«Baciarsi comprende che entrambe le parti siano d’accordo nel compiere l’atto. Io e lei non ci siamo baciati. Non abbiamo intenzione di farlo e non lo faremo mai!»
«Okay, l’hai baciata tu, ma è praticamente lo stesso»
Mark gli assestò un calcio negli stinchi. «Se vuoi arrivare con tutti gli arti interi alla partita con la Flynet, chiudi quella boccaccia!»
Lievi lacrime di dolore salirono agli occhi di Ed. «Ahi…ma perché?»
Mark si rabbuiò. «Non volevo farlo, ero solo…contento per la vittoria». Il che era vero, però… Niente però!
«Per favore, capitano, abbi la decenza di non negare»
«Non sto negando! Non l’ho fatto per un motivo preciso e lei lo sa!». Doveva saperlo.
Mark fissò le tenui ombre sul terreno con la fronte aggrottata. Il sole non era ancora calato ma la luce diminuiva lentamente mentre l’azzurro brillante del cielo si tingeva di una tonalità più pallida. Sollevò lo sguardo intercettando improvvisamente quello di Kira. La ragazza fece saettare gli occhi di nuovo a terra, poi di nuovo su di lui a intervalli irregolari. Mark fece lo stesso per un breve minuto.
«Allora arrivederci» udì il signor Brighton dire, salutando un’ultima volta i genitori di Ed, la madre di Mark e i rispettivi fratelli. 
I due ragazzi si staccarono dal muretto per raggiungere i familiari. Quando furono vicini, Kira si voltò verso di loro.
«Mio padre sta cercando di persuadere le vostre madri ad accettare di venire con noi alla festa di tanabata» disse (1). «A voi andrebbe di andarci insieme?»
«Tanabata, eh?» fece il portiere, pensandoci su. «Io e i miei andiamo sempre al festival che organizzano a Saitama. Però possiamo cambiare programma e venire a Tokyo»
«E tu, Mark?» domandò ancora Kira. «Puoi chiederlo a tua madre?»
Mark fu lieto di non scorgere rossori sul viso di lei né imbarazzo nella voce. Anche se nei suoi occhi era riconoscibile una strana tensione affatto dissimile da quella che provava lui. «Ci verrei anche senza mia madre». Per inteso. Il permesso lo avrebbe ottenuto con facilità: la mamma diceva sempre sì quando si trattava di Kira o dei ragazzi della squadra.
Contenta, la pattinatrice annuì, inumidendosi le labbra come se stesse per iniziare un altro discorso. Gli sorrise, ma distolse lo sguardo per riposarlo su Ed. Kira non voleva parlargli direttamente, Mark lo capì. Quella era la chiara indicazione che qualcosa non andava. Lei non distoglieva mai lo sguardo.
«Beh, allora fatemi sapere nei prossimi giorni» concluse poi, alzando una mano per salutarli. «Ciao, e in bocca al lupo per la partita con la Flynet. Verrò a fare il tifo!»
Mark la guardò andare via e per un istante ebbe l’impulso di fermarla.
«Dovreste parlarne» disse Ed come leggendogli nel pensiero.
«Per dirle cosa?»
«Lei ti piace, Mark»
Mark spalancò gli occhi come se avesse appena udito un’eresia. «Fammi il favore!»
«Dai, ammettilo. Non baci una ragazza tanto per fare»
Mark non rispose. Non sapeva decidere cosa fosse meglio chiarire subito o meno. Lei sembrava deliberatamente ignorare la faccenda e, forse, avrebbe dovuto imitarla. Kira aveva sempre negato che tra loro potesse esserci qualcosa, non poteva accadere che per un bacio dato a quel modo si trasformasse in una ragazzina languida e spasimante amore. Kira non era un tipo romantico e lui neanche. Non sarebbe cambiato niente tra loro, nemmeno se ne avessero discusso per ore ed ore. Eppure, un noioso solletico in fondo allo stomaco gli diceva che prima o dopo l’argomento andava affrontato. Perché Mark voleva assolutamente sapere se era l’unico stupido tra i due a sentirsi d’un tratto così tremendamente confuso.
 
 
 
***
 
 
Mentire era qualcosa che aveva imparato a fare per necessità. Detestava le bugie ma ne riconosceva l’utilità, soprattutto in certe situazioni. Qualche volta la tradiva un lieve tremore nella voce, ma riusciva comunque a mantenere un atteggiamento disinvolto così che il suo interlocutore finiva per crederle.
Da quando si era resa conto del bene che voleva a quel ragazzo, si era promessa di non dirgli mai bugie, anche se in verità gli mentiva ogni giorno. Ma nascondere il vero colore dei suoi occhi era un conto, un altro era far finta di niente quando sapeva benissimo che anche lui ci stava pensando.
Tornata a casa, Kira fece un bagno, cenò, riassettò la sua stanza e chiese a mamma se per caso non ci fosse qualche lavoro domestico arretrato in cui poterla aiutare.
«No, è tutto in ordine. Ho appena messo i panni in lavatrice. Vai pure a dormire, sarai stanca».
Kira annuì, ritirando la testa dall’ingresso del salotto. Mamma e papà si erano appena accomodati sul divano, una coppa di liquore sul tavolino di vetro. Dopo tanto tempo lontani avevano evidentemente bisogno di un po’ di intimità.
Si ritirò di sopra, desiderando di poter chiamare Jem per farsi dare un consiglio. Ma era troppo tardi, la sveglia a forma di gallinella sul comodino segnava le undici. Jem andava sempre a dormire prima di quell’ora, lo sapeva.
Cercò di tenersi impegnata con qualcos’altro, ma dopo aver riordinato anche i libri di scuola non ebbe più nulla da fare. Era riuscita a tenere a bada la confusione che le albergava in testa finché non si ritrovò sola con i suoi pensieri. Il ricordo del bacio saltellò nella sua mente senza darle tregua. Kira si abbandonò sul letto tenendo tra le braccia la grossa tigre vinta al tiro a segno al Luna Park, permettendo all’inevitabile di venirle incontro.
Mark Lenders l’aveva baciata.
Non era stato un gran bacio in verità, e a tormentarla non era tanto la circostanza in sé, né che le avesse rubato qualcosa di prezioso che avrebbe preferito conservare per il suo primo amore. No, la cosa peggiore di tutte stava nel fatto che le era piaciuto.
Corrugò la fronte, spedendo il cuscino contro l’armadio di fronte a sé con un verso rabbioso. Si girò su un fianco, sempre abbracciando la grossa tigre di peluche.
Ecco perché non aveva gridato. Era rimasta troppo allibita per poter dire qualsiasi cosa, troppo concentrata sulla sensazione di quell’irruente morbidezza provocata dalla bocca di lui.
Doveva fare finta che non fosse successo, strappare il ricordo di quella giornata come il foglio di un compito sbagliato e gettarlo via insieme alle farfalle che svolazzavano fastidiosamente nello stomaco.
D’altra parte era pur sempre il suo primo bacio, ed era logico che un gesto tanto intimo e così improvviso avesse generato in lei della confusione.
Per tanabata, però, doveva riuscire a mandar via quell’imbarazzo. Non poteva permettere a un semplice contatto di labbra di farla precipitare in un tale caos mentale. Doveva assolutamente riprendere il controllo di sé stessa.
Dopo lunghe riflessioni durate una notte quasi insonne, giunse alla più probabile delle conclusioni: tutte le peripezie a sfondo amoroso delle settimane precedenti – l’amore non corrisposto di Milly, la confessione di Darren, la consapevolezza che tra Ed e Jem stesse nascendo qualcosa – dovevano aver suscitato in lei una sorta di condizionamento sentimentale. Si era data talmente da fare per Milly da rimanere incastrata dentro emozioni che concretamente non le appartenevano.
Sì, era senz’altro così.
Lei non aveva quel tipo intenzioni nei confronti di Mark, per cui doveva prendere quelle sensazioni e direzionarle verso qualcun altro. Se si fosse innamorata avrebbe compreso la differenza tra baciare il ragazzo che ti piace e baciare per sbaglio un amico.
Giorno dopo giorno, riuscì a ristabilire un equilibrio nella propria pancia: le farfalle erano migrate da qualche altra parte, e senza quello sfarfallio inquietante, guardare Mark in faccia sarebbe stato semplice come sempre.
La prima settimana di luglio, la Toho affrontò la Flynet di Philip Callaghan, ottenendo il primo pareggio di quel campionato. Kira andò ad assistere al match ma non ebbe modo di vedere Mark dopo la partita. Nemmeno a dirlo, lui era insoddisfatto dell’esito e ci volle tutta la volontà di sua madre per convincerlo che proprio perché si trovava in quello stato d’insoddisfazione avrebbe dovuto andare dai Brighton per tanabata. La famiglia Lenders era stata invitata al completo e Judith aveva accettato con piacere da parte di tutti i suoi figli. Kira stessa si era premurata di chiamare per conoscere le loro intenzioni in proposito, ma quando aveva chiesto alla signora Lenders di poter parlare con Mark per rivolgergli qualche parola di incoraggiamento dopo la partita, il ragazzo si era fatto negare.
Lui era l’unica persona al mondo che riusciva a scatenare in lei belle sensazioni il minuto prima e malumore l’istante dopo. Mark aveva la capacità di capirla tanto quanto di non farsi comprendere, e Kira detestava non capire cosa gli passasse per la testa. Esattamente com’era accaduto alla festa dello sport. La spiazzava, si sentiva indifesa come fosse una giocatrice di scacchi che non riesce a indovinare la prossima mossa dello sfidante.
Infine, giunse la sera del sette luglio.
 
 
 
***
 
Mark mugugnava imbronciato, mentre aiutava sua madre a sistemare dentro un grosso vaso nel cortiletto di fronte a casa i rami di bambù che il signor Sugimoto aveva procurato loro per la festa. Da piccolo aveva creduto davvero che quella fosse la pianta dei desideri. Ora, invece, non trovava nulla di eccitante nell’appendere foglietti di carta agli alberi nella speranza che i desideri scritti sopra si avverassero. O forse era colpa dell’insoddisfazione post partita.
«Cos’è quel broncio?» lo ammonì sua madre sbirciando il suo viso attraverso le foglie.
«Niente»
«Tu pensi ancora alla partita». Quando il figlio non rispose, Judith sospirò. «Hai giocato benissimo come sempre. Dovresti essere solo soddisfatto di aver pareggiato contro la squadra di un amico e avversario tanto forte»
«Philip non è mio amico» 
«Oh, giusto» ironizzò Judith. «Il mio ragazzo non ha amici. Eppure mi sembrava che questa sera andrà ad una fiera insieme a quelli che hanno tutta l’aria di esserlo»
Mark non fiatò.
Judith gli rivolse uno sguardo preoccupato. «Passare il tempo con gli amici ti fa solo bene, Mark»
«Non ho mai detto di non averne. Solo che a volte mi va di stare per conto mio». Soprattutto quand’era di malumore. Conosceva il suo carattere e se aveva la luna storta rischiava di rovinare la piazza a tutti quanti. Sarebbe stato meglio evitare di andare da Kira o ci avrebbe senz’altro litigato.
La signora Lenders emise un altro sospiro quasi rassegnato. «Dimenticavo. Il mio ragazzo è una tigre solitaria che si lecca le ferite da sola»
Mark si rabbuiò ancor di più. Detestava quando sua madre lo trattava come un bambino da consolare. Per quanto impegno ci avesse messo, lei non poteva capire fino in fondo come si sentiva. Una vittoria mancata equivaleva perdere terreno sulla strada della promessa fatta a sua padre. Philip era tra gli avversari più forti che poteva incontrare e quegli avversari andavano annientati uno dopo l’altro. Kitazume lo teneva già abbastanza al guinzaglio impedendogli di giocare come sapeva, plasmandolo in un attaccante in cui Mark iniziava a non riconoscersi.
Perso tra i pensieri tornò dentro casa dove i fratelli avevano già indossato i loro yukata(2). Quello di Teddy gli era diventato un po’ corto sulle braccia ma poteva ancora andare. L’anno prossimo, sia lui che Nathalie, avrebbero necessitato di due capi nuovi. Quasi certamente non sarebbero riusciti a comprarli, ma la mamma era una sarta provetta e li avrebbe certamente aggiustati come aveva fatto con il suo.
«Fratellone, vieni a preparare i tanzaku insieme a noi!»(3) esclamò Nathalie, picchiettando sul cuscino vuoto accanto a sé. Lei e gli altri avevano sistemato sul basso tavolino del soggiorno un pacco di fogli colorati che Teddy stava già tagliando in tante striscioline.
Mark si accomodò di fronte a lui, tra la sorella e Matt. Il piccolo di casa Lenders teneva la lingua tra i denti in un atto di concentrazione pura.
«È storto» sbuffò quando finì di dare la forma al suo tanzaku.
Mark prese le forbicine rosse dalle sue dita. «I tanzaku devono essere rettangolari, come un segnalibro, ma non importa se non vengono tutti della stessa misura». In due gesti rapidi eliminò l’eccesso di carta mostrando al fratellino come fare. «Traccia le righe con una matita prima di tagliare. Verrà più dritto. E ricorda di fabbricare un forellino sull’estremità più alta per farci passare il filo, altrimenti non riuscirai ad appenderlo»
«Ma perché si fa?» domandò il piccolo, guardando il fratello maggiore compiere tutte quelle azioni su nuovo foglio. «Perché si esprimono i desideri alle stelle?»
«È una vecchia tradizione legata alla leggenda di tanabata, per via delle stelle che rappresentano due divinità celesti». Continuando a disegnare linee a matita, Mark raccontò la storia. «La stella Vega, Orihime, figlia dell’Imperatore Celeste, amava tessere col telaio e passava le sue intere giornate a fabbricare abiti per gli dei. Impietosito dalla sua solitudine, il padre decise di trovarle un marito. Scelse un giovane pastore di nome Hikoboshi, la stella Altair, a guardia delle greggi del cielo. Tra loro fu amore a prima vista, ma dopo il matrimonio furono così presi l’uno dall’altra da abbandonare i rispettivi compiti. Orihime non tesseva più abiti, così che gli dei si ritrovarono privi di vestiti, e Hikoboshi lasciò che i suoi buoi scorrazzassero per le praterie del cielo senza controllo. Questo fece infuriare l’Imperatore del Cielo, che per porre rimedio separò gli innamorati ai due lati del fiume celeste - ossia la Via Lattea - permettendo loro di incontrarsi solo una volta all'anno, il settimo giorno del settimo mese. La notte di tanabata»
«Ooohhh…» fece Matt con occhi pieni d’innocente meraviglia.
«È così romantico» sospirò Nathalie, stringendo le mani al petto.
«Romantico?» fece Mark. «Ma sei matta? Sono due sfigati»
«Non è vero!» Nathalie mise il broncio. Matt e Teddy scoppiarono a ridere.
«Quindi, noi scriviamo i nostri desideri a Orihime e Hikoboshi» disse ancora Matt.
«Esatto»
«E loro poi li leggono?»
«Eh?». Mark guardò il fratello con espressione smarrita. Era una domanda logica per un bimbo di cinque anni. A quell’età ci aveva creduto anche lui, un po' come con Babbo Natale. «Certamente. Appendiamo ai rami di bambù preghiere in nostro favore»
Matt fece un’espressione soddisfatta, mettendosi poi a tracciare con la sua stentata grafia il primo di una lunga serie di desideri. Anche se andava ancora all'asilo era già in grado di scrivere il suo nome e qualche semplice parola.
«Facciamone qualcuno in più» suggerì Nathalie. «Così possiamo attaccarli stasera insieme a Kira-san quando andremo al festival»
«Giusto!» approvò Teddy. «Lì sarà pieno di alberi di bambù»
Mark terminò di aiutare i fratelli a preparare quanti più tanzaku possibili. Poi, dopo che la mamma fu rientrata in casa, si alzò dal tavolino per andare a indossare il suo yukata. Una mezz’ora più tardi furono in viaggio verso casa Brighton.
 
 
***
 
 
Davanti allo specchio appoggiato alla parete della sua stanza, Kira cercò di guardarsi da ogni angolatura per verificare se la fascia che le legava in vita lo yukata arancione chiaro fosse dritta.
«Mmm…no, papà, non va bene. Hai sbagliato di nuovo»
Kei passò le dita di una mano nel ciuffo ribelle, l’espressione concentrata a fissare la schiena della figlia. «Sto facendo del mio meglio». Lanciò un’occhiata alla rivista di moda che aveva agguantato dal cassetto di sua moglie. Un inserto speciale dedicato agli abiti tradizionali mostrava come allacciare correttamente uno yukata passo dopo passo. Le immagini erano piuttosto esaustive, era lui che pareva negato.
«Ci rinuncio» sbuffò come se avesse corso per chilometri. «Non ho idea di come si allacci l’obi di uno yukata da donna.(4) Perché non vai giù a chiederlo a tua madre?»
Kira osservò il proprio riflesso arricciare il naso. «Mi ha già detto di non scocciarla perché è appena tornata dal lavoro e sta riordinando casa. Come se ce ne fosse bisogno».
Risa aveva passato tutta la settimana a pulire ogni angolo per accogliere i Lenders e i Warner nel massimo ordine possibile. Aveva tirato l’aspirapolvere almeno tre volte in un giorno, lucidato gli specchi, mobili e mobiletti, cambiato le tende, e Kira si era stupita di non vederla girare con una lente d’ingrandimento a caccia dell’ultimo granello di polvere.
«Allora aspetta che arrivi la nonna per finire di vestirti» disse Kei, disfacendole il nodo sulla schiena per rifarlo un’altra volta.
«Non posso aspettare, è già tardi!» Kira non voleva farsi trovare in disordine all’arrivo degli ospiti. Adocchiò la sveglia sul comodino: erano quasi le otto e venticinque di sera. Gli amici sarebbero stati lì a momenti.
«Hai fatto tardi perché hai perso tempo con i capelli» disse Kei in tono critico.
Kira si portò una mano sulla lunga treccia alla francese. Una pettinatura semplice per chi si destreggiava con le acconciature, ma per lei che era una principiante era stata una sfida, soprattutto quando si era trattato di intrecciare le ciocche sulla parte alta della testa.
«Dì un po’, signorina: non è che ti sei fatta bella per il tuo amico Mark, vero?»
Lei incontrò gli occhi indagatori di suo padre attraverso lo specchio. «Ma che dici?»
Kei mugugnò una critica. «Sei arrossita»
La ragazza portò le mani sulle guance, fissandosi attentamente nello specchio. Non era affatto arrossita. «Accidenti, papà!»
Kei sghignazzò. «Mark mi piace, sembra un bravo ragazzo. Non avrei nulla incontrario se decidessi di volerlo frequentare. Dopotutto è giusto, alla vostra età…»
Kira si voltò con uno scatto fulmineo. «Oh, no, non ti ci mettere anche tu, adesso! Ne ho abbastanza di insinuazioni su me e Mark!» Strappò l’obi dalle mani di suo padre. «Dammi qua. Faccio da me»
In quel momento suonò il campanello. Kira trasalì. Non potevano essere già arrivati, erano in anticipo!
«Tranquilla, deve essere la nonna» sorrise suo padre alla vista di tanta agitazione. «Vado a dirle che hai bisogno di una mano con quella fascia».
Sola davanti allo specchio, Kira armeggiò senza successo con i lunghi lembi di stoffa sulla schiena. Poco dopo, attraverso la fessura nella porta lasciata da suo padre udì le voci di mamma e papà salutare gli ospiti in arrivo.
Non c’era solo la nonna: con lei erano arrivati anche Mark e la sua famiglia.
«Kira, vieni giù!» la chiamò Risa dalla curva delle scale.
Non poteva scendere, non era pronta. «Un attimo!» gridò in risposta. Litigò con in nodo dell'obi ancora per un poco, poi udì dei passi salire lungo le scale. Poco dopo, la testa di sua nonna spuntò nella sua camera.
Kaori entrò nella stanza della nipote e in pochi gesti le sistemò ad arte l’obi attorno alla vita terminando di legarlo in un bel fiocco. Estasiata dalla destrezza delle vecchie mani, Kira le diede un bacio.
«Adesso sì che è perfetto. Grazie, nonnina!»
«Ti insegnerò come si allaccia l’obi. Ma adesso scendiamo. Sai che a tua madre non piace aspettare»
Risa aveva fatto accomodare la famiglia Lenders in salotto e da brava padrona di casa offrì loro qualcosa da bere. Abituata a intrattenere amiche e colleghe nella totale tranquillità della propria dimora, lanciava occhiatine inquiete ai tre fratellini di Mark Lenders, osservandoli muoversi e vociare nel suo salotto pieno di soprammobili di valore. Era elegantissima nel suo yukata blu a ricami astratti e il caschetto raccolto da un fermaglio di piccoli diamanti; un regalo di nozze di Kei. La signora Lenders invece ne indossava uno molto semplice color ocra con una fascia scura in vita. Niente fronzoli tra i capelli.
Non appena Kira vide Mark, un sorriso nacque spontaneo sul suo viso. Le sorrise anche lui, alzandosi dal divano dove era tutto fuorché a suo agio. Nel suo yukata blu scuro sembrava ancora più alto.
«Ma Ed non c’è?» chiese la pattinatrice. «Voglio dire Warner» si affrettò a correggersi.
«Chiamalo per nome, non c’è problema» disse Mark. «Sarà qui a momenti. Veniva in auto con i suoi, forse hanno trovato traffico»
«Voi siete venuti in treno, vero? Non avete la macchina?»
Mark corrugò la fronte. «Ti pare che possiamo permettercela?» disse bruscamente.
«Scusa. Ho soltanto chiesto». Kira strinse i denti. «Di umore nero, stasera?»
«Mi passerà, lasciami stare»
La risposta di Mark la deluse. La serata cominciava male se lui aveva già la luna storta. Possibile che fosse ancora giù di morale per la partita?
Lontani da orecchie indiscrete, Kira ebbe la tentazione di introdurre subito l’argomento ‘bacio’, ma Teddy, Nathalie e Matt le si avvicinarono prima che potesse aggiungere altro, mostrandole con entusiasmo ciò che avevano in mano.
«Kira-chan, guarda! Guarda cos’abbiamo fatto!» disse Matt, mettendo in mano alla ragazza una manciata di foglietti.
«Oh, avete fabbricato i tanzaku da soli! Che bravi!»
«Ci ha aiutati anche Mark a farli» disse Nathalie.
«Volevano appenderne qualcuno insieme a te mentre siamo al festival» spiegò lui.
Kira sorrise ai tre bambini. «Ho delle piante di bambù anche in giardino. Perché non ne attaccate uno lì?»
I tre fratelli non si lasciarono scappare l’occasione.
Lasciarono i genitori a chiacchierare in salotto, facendo il giro della casa per raggiungere il giardino sul retro. Non era molto grande ma era abbastanza spazioso perché una bambina potesse imparare ad andare in bici. La bicicletta di Kira era infatti appoggiata al muro a ridosso della casa, all’ombra di un grosso albero le cui fronde sfioravano la parete del piano superiore. Due grandi vasi di piante di bambù erano stati sistemati nel centro del prato.
«I tuoi tanzaku sono diversi» notò Teddy.
Kira rispose con leggero imbarazzo. «Perché li ho comprati già pronti in cartoleria. Ma immagino sia molto più divertente realizzarli a mano». Incrociò lo sguardo grato di Mark, facendogli l’occhiolino. I tanzaku costavano poche decine di yen, ma laddove era possibile risparmiare, i Lenders non dicevano di no. «Ne volete qualcuno dei miei per scrivere altri desideri?»
«Grazie!» esclamarono in coro Nathalie, Teddy e Matt.
Kira recuperò da un cassetto della cucina un pennarello e altri foglietti decorati con fiori, pesciolini, ghirigori e altro ancora. Ognuno ne scelse un paio per appenderli agli alberi del giardino, lasciandone altri per quelli della fiera.
Per tutta l’operazione, lei e Mark non si rivolsero quasi la parola. Divisi dai fratellini di lui che parlavano allegramente, si scambiarono pochi sguardi incerti, indecisi se cominciare una conversazione scomoda che pareva avessero deciso in tacito accordo di rimandare all’infinito.  
Di lì a pochi minuti suonò di nuovo il campanello e i Warner fecero la loro entrata. C’erano solo Ed e i suoi genitori; il fratello Erik aveva cenato fuori con gli amici, ma si sarebbero certamente incontrati alla festa.
Verso le nove presero la strada verso Asakusa, la zona di Tokyo in cui veniva allestito il più bel festival della città. Fecero un giro tutti insieme lungo le vie principali mangiando una granita ghiacciata, comprando un pacchetto di bastoncini pirotecnici da accendere a fine serata ma che furono esauriti nel giro di pochi minuti.
Ad un certo punto, i genitori lasciarono i figli a divertirsi da soli, raccomandando più volte di stare attenti. La madre più apprensiva era senza dubbio la signora Brighton, come se sua figlia avesse quattro anni invece di quattordici. Al contrario di lei, la signora Warner non era minimamente preoccupata al pensiero di lasciare Ed libero di andare in giro per la fiera. Similmente, la signora Lenders era più che tranquilla sapendo i tre figli più piccoli nelle ottime mani del fratello più grande.
Così i ragazzi cominciarono il loro giro tra strade costellate di lanterne di carta, festoni colorati a strisce in rappresentanza dei fili da tessitrice della principessa Orihime; stelle filanti, ghirlande, alberi pieni di luci come a Natale; bancarelle di ogni tipo e vasi di piante di bambù ovunque, colme di tanzaku che sussurravano i loro desideri ondeggiando leggiadri nella brezza. Si fermarono vicino al tempio Sogenji (5), dov’erano situati gli alberi più grandi. I fratellini di Mark corsero ad appendere gli ultimi tanzaku agli ormai zeppi rami sottili che si piegavano leggermente sotto il peso di tante preghiere.
«Senti, io adesso vi mollo qui così parlate» sibilò Ed all’orecchio del suo capitano.
Mark, che teneva Matt sulle spalle per permettergli di arrivare al ramo più alto, lo incenerì all’istante. «Non ti azzardare o ti frantumo le ginocchia!»
Ed sbuffò. Quando Mark minacciava di rompere arti era un chiaro segno di agitazione. «Vi state praticamente ignorando dall’inizio della serata. Vuoi dirle qualcosa oppure no?». Mark rimise a terra Matt e non rispose.
«D’accordo, capitano, fa come vuoi. Ma se un altro ragazzo dovesse adocchiare Kira, stasera, poi non venire a cercare aiuto da me»
«Ti fai i fatti tuoi, Warner?»
Ed fece per protestare di nuovo, quando la pattinatrice li interruppe.
«Mi spiace che Jem non sia venuta» disse rivolta al portiere.
«Cosa? Oh, non preoccuparti. Purtroppo me lo aspettavo» minimizzò lui. In verità gli sarebbe piaciuto passeggiare con Jem per le vie di Asakusa in un’occasione così speciale, ma aveva l'impressione che la Edogawa desiderasse evitarlo finché poteva, soprattutto dopo che le aveva detto di non voler rinunciare a lei.
Kira gli rivolse uno sguardo mortificato. «L’ho invitata, sai? Ma aveva già promesso a Milly di andare con lei»
Ed le posò una mano sulla spalla. «Vedrai, si renderà conto di ciò che sta perdendo»
«In che senso, scusa?»
Ed lanciò un’occhiata a Mark, rimasto accanto all’albero con i fratelli. «Intendo dire che sono certo che capirà di stare trascurandoti e tornerete amiche come prima»
«Oh. Mah, spero di sì» sospirò la pattinatrice con un mezzo sorriso.
«Mi fa piacere che tu abbia pensato a me, Kira, ma sto cercando di guardarmi intorno»
«Davvero?» fece lei un poco stupita.
«Davvero?!» le fece eco Mark, sbalordito. Sbagliava o qualche tempo prima Ed gli aveva detto di non volersi arrendere? E che cosa ci faceva la sua mano ancora sulla spalla di lei?
«Sì» proseguì il portiere, serio in volto. «Non posso aspettarla per sempre, e se Jem non mi vuole…»
«Oh, non dire così!» esclamò Kira, dispiaciuta. «A me piacerebbe se voi due faceste coppia. Sinceramente»
Ed le sorrise. «Ti ringrazio, ma ci sono un mucchio di ragazze carine in giro»
«Ehm…sì, suppongo di sì…». Che strano, pensò lei. Ed non le aveva dato l’impressione di un ragazzo così frivolo. Possibile si fosse già stancato di Jem? All’improvviso sussultò, assolutamente presa in contropiede: Ed le aveva appena preso una mano. La ragazza fissò il portiere con occhi sgranati, ma mai tanto quanto quelli di Mark. Ci mancò poco che gli schizzassero fuori dalle orbite.
Ed la tirò in avanti. «Che ne dici se facciamo un giro noi due? Senza impegno»
Lei tentennò, voltandosi verso il capitano. «Veramente…»
«No» disse secca la voce del numero dieci. Mark si frappose tra i due, afferrando il polso del compagno di squadra.
Ed gli sorrise in un misto di sarcasmo e soddisfazione. «Scusa, Mark, ma dovrebbe decidere lei»
Kira guardò dall’uno all’altro, perplessa. O forse comprese perfettamente. «Sì, infatti ho appena deciso che andrò a prendermi dei takoyaki(6). Magari da sola» disse con tranquillità, liberandosi dalla stretta del portiere e voltando loro le spalle.
I due ragazzi si fissarono un momento. Mark aveva capito cosa stava cercando di fare Ed. «Sei un idiota»
«Mai quanto te, capitano»
Con un’esclamazione seccata, Lenders mollò la presa sul suo braccio. «Dai un’occhiata ai miei fratelli» raccomandò, incamminandosi nella direzione in cui era sparita Kira.
«Senz’altro», sorrise Ed salutandolo allegramente.
 
 
***
 
 
Era una serata strana. Lei che non riusciva ad essere naturale nei confronti di Mark, lui con le scatole girate al contrario…ci mancava solo che Warner si mettesse a farle la corte e quei due iniziassero a bisticciare tra loro… per lei. Che pagliacciata! Cosa volevano dimostrare? Anzi, cosa voleva dimostrare Ed! Era così stupido da pensare che avesse creduto a quella messinscena? Messa in atto per cosa, poi? Per far ingelosire Mark? Figurarsi, lui non era geloso, e non lo sarebbe mai stato nemmeno se Warner le avesse fatto la corte per davvero. Tra l’altro, per un attimo ci aveva persino creduto. Scema pure lei.
Kira affondò lo stecchino nel il primo takoyaki, addentandolo gustandosi tutto il sapore del polpo in pastella. Erano una delle cose più buone del mondo.
Mark la trovò seduta sulla panchina a meditare e masticare. Lei alzò lo sguardo fissandolo nel suo.
«Ne vuoi uno?»
«Sì, grazie». Lui le sedette accanto, prendendo cautamente un paio di polpettine tonde e fumanti mettendosele in bocca una dopo l’altra.
«Non con le mani!»
Mark sollevò le spalle. «Non ho lo stuzzicadenti».
Restarono in silenzio a mangiare per alcuni minuti. Lui evitò di guardarla anche se sapeva che Kira lo stava sbirciando di sottecchi per capire cosa gli passasse per la testa. Lui si disse che la sensazione tra irritazione e imbarazzo che provava solo sfiorandola con lo sguardo era dovuta esclusivamente alla sua inesperienza e vergogna.
Infine, lei spezzò il silenzio. «Perché Ed fingeva di farmi la corte?»
Mark le rubò un’altra polpetta, concentrandosi su di essa con estremo interesse. «È un imbecille, lascia stare»
«Stava cercando di farti dire qualcosa che non vuoi dire?»
Nella testa di Mark risuonò l’allarme.
Mayday, mayday! Situazione di pericolo in avvicinamento!
«Lui pensa che dovremmo parlare» borbottò.
Lei fece la finta tonta. «Di cosa?»
«Di quello». Mark mosse una mano nell’aria. «Del…»
«Oh, del bacio. Forse dovremmo». Kira masticò tranquillamente per qualche altro secondo. «Mi pesano i tuoi silenzi, Mark»
Lui la guardò fissare il suo cibo con aria sofferta. Perché doveva essere sua la colpa se non parlavano? «Nemmeno tu sei stata molto loquace, stasera».
Lei emise un sospiro angosciato. «Il fatto è che sono molto confusa! E se tu non ti esprimi, io non so che pensare»
«Allora comincia tu»
«Ma sei tu che hai baciato me!»
«Che c’entra?»
«C’entra eccome»
Un velo d’ombra passo sul viso del ragazzo, ma ancora non parlò.
«Poi con quel muso lungo non mi aiuti di certo»
«È la mia espressione»
«Ne hai altre di espressioni, oltre quella».
Kira gli picchiettò con l’indice sulla fronte. Infastidito, Mark le afferrò la mano per fermarla. Il contatto sbloccò la situazione. Ritrovare quella familiare vicinanza che a nessun altro concedevano fu così naturale che lei non rinunciò a giocare. Kira sfuggì alla sua presa, tentando di colpirlo in altri punti del viso, delle braccia, del petto. Prima di rendersene conto iniziò a ridere, mentre l’espressione sul viso di lui cambiava a sua volta.
«Kira, piantala! Farai cadere i takoyaki a terra»
La pattinatrice raddrizzò sulle ginocchia la vaschetta in cartoncino in cui erano adagiate le polpette. «Dunque?»
«Cosa?»
Lei avvertì le guance scaldarsi. Non voleva apparirgli come una sciocchina confusa e impacciata. Eppure in quel momento era così che si sentiva. «Vuoi dirmi perché mi hai baciata?»
Per lui fu strano vederla arrossire. Kira non arrossiva praticamente mai. Mark prese un quarto takoyaki, cercando le parole da pronunciare. Solo che non ne aveva.
«Non so perché l’ho fatto. Ero contento per l’esito dei giochi sportivi. Tutto qui»
«Perciò si è trattato solo di questo»
«Ovviamente. Cosa pensavi?»
Lei scosse forte il capo. «Non ho pensato niente». Bugia. Un pensiero sopito albergava ancora da qualche parte. Solo che non poteva dirglielo. «Tutto considerato, sapevo che non mi avevi baciata perché ti piaccio»
«Con tutte le belle ragazze che ci sono a scuola pensi che mi metterei a baciare una bambinetta come te?»
«Ah, grazie mille!». Kira addentò l'ennesima polpettina con fare rabbioso.
«È stato solo un momento di euforia incontrollata» affermò lui, mandando giù l’ultimo takoyaki. «Un errore»
Kira annuì, deglutendo a sua volta un boccone. «Allora era come pensavo». Già, proprio un errore. Eppure quella parole le fecero un po’ male al cuore. Una leggerissima fitta, acuta come la punta di uno spillo ma subito dimenticata. Dopotutto era quello che avrebbe voluto sentirsi dire.
«Non dovevo farlo, mi dispiace», disse Mark, posando le braccia sullo schienale della panchina.
«Non fa niente. Non parliamone più» Kira si portò una mano sul petto. «Mi sento sollevata, sai?»
Mark la osservò sorridere serenamente. «Non sei arrabbiata, allora»
Kira si portò un dito sul mento. «Uhm…no, non direi. Oddio, forse un pochino sì». D’un tratto gli prese le guance tra le dita, pizzicando e tirando tanto forte da lasciargli segni rossi sulla pelle.
«Ma che fai?!»
«Questo te lo meriti perché mi hai rubato il mio primo bacio! Non ti perdonerò mai, Mark Lenders!»
Un sorrisetto ironico spuntò sul volto di lui. «Vorrà dire che quando sarò un calciatore famoso in tutto il mondo ti potrai vantare di avermi baciato per prima»
«Oh!» Kira si portò una mano alla bocca, gli occhi spalancati. «Allora era il primo bacio anche per te?»
«S-no!» Mark scattò all’indietro. «Certo che no!»
«Bugiardo!» Lei gli punzecchiò le spalle con colpetti insolenti. «Ti vergogni…che carino!»
«Piantala, cretina!»
«Non chiamarmi sempre cretina!». Il sorriso di lei si trasformò in un broncio. «Comunque non mi vanterò affatto di aver baciato un tipo rozzo come te! E se lo vuoi sapere, non è stato nemmeno questo granché!»
L’orgoglio maschile di lui venne profondamente ferito. «Ah, davvero?»
«Sì, davvero! Però, forse, è piaciuto a te»
Mark la fissò a bocca aperta. Mancò poco che le ridesse in faccia. «Ti piacerebbe!»
«Neanche tra un milione di anni, Lenders»
«Nemmeno a me è piaciuto, se è per quello!» confermò Mark in tutta sfrontatezza. «Potremmo rifarlo in qualsiasi momento e non proverei nulla!»
«Neppure io»
«Bene!»
«Bene».
Lui la guardò.
Lei guardò lui.
Ansia. Palpabile.
Per un fugace attimo, Kira pensò che l’avrebbe baciata di nuovo.
«Ah, che stupidaggini» sbuffò invece Mark, voltando la faccia altrove. «Smettiamo di parlare di queste scemenze. Questione chiusa». Si alzò dalla panchina e senza dire più nulla iniziò ad incamminarsi.
Kira gettò velocemente la vaschetta di takoyaki vuota nell'immondizia e gli fu dietro, percorrendo lentamente la strada a ritroso a qualche passo di distanza da lui. Era una vera liberazione per lei sapere che non c’erano secondi fini. Ovviamente aveva mentito dicendo che non le era piaciuto baciarlo. Mark non avrebbe mai capito la differenza tra l’apprezzare un bacio e il trasporto verso la persona che l’aveva baciata. Forse non lo capiva bene nemmeno lei che aveva formulato il pensiero. Guardando il profilo della sua schiena provò un’indecifrabile sensazioni di calore e turbamento. Mark non le piaceva in un modo romantico, ma non le era affatto dispiaciuto che fosse stato lui il primo fra tanti a farle provare l’esperienza di un contatto così intimo e speciale. Però mica poteva andare a dirglielo, no? Anti romantico com’era non avrebbe compreso il suo ragionamento ingarbugliato.
Ritornarono verso il tempio dove avevano lasciato gli altri, ma non appena vi arrivarono non videro anima viva.
Kira emise un lamento. «E ora come facciamo a trovarli?»
Rimasero per qualche minuto fermi in quel punto sperando di vedere Ed tornare con i tre bambini. Ma era chiaro che nessuno sarebbe riapparso. Poteva darsi che Matt avesse fatto i capricci per tornare dalla mamma, o che Nathalie avesse voluto andare a fare un giro per le bancarelle, o che Teddy si fosse stancato di aspettare… o che Ed si fosse defilato di proposito per costringerli a restare da soli.
Mark digrignò i denti e assottigliò gli occhi, una tempia pulsava di rabbia. «Lo strozzo. È un cretino. Ma che cavolo vuole?»
«Parli da solo?» chiese Kira. «Che facce fai?»
«Niente…».
Fecero un altro giro ma senza scovare traccia né di Ed né dei bambini né dei genitori. Incontrarono una volta Erik Warner insieme agli amici, al quale Mark chiese se avesse visto suo fratello minore da qualche parte. La risposta fu però negativa. 
Più stufi che stanchi di camminare, tornati nuovamente al tempio si accomodarono su uno dei muretti che circondava l’entrata. Kira frugò nella sua kinchaku(7), estraendone un pennarello e l’ultimo paio di tanzaku.
«Visto che siamo di nuovo qui ne approfitto per scrivere un altro desiderio». Tracciò poche prole nella sua grafia piccola e arrotondata. «Ecco fatto. Tieni, scrivi qualcosa anche tu»
Mark fissò con un certo stupore il tanzaku che lei gli porgeva insieme al pennarello nero. «Il mio l’ho già scritto. L’ho appeso all’albero che abbiamo a casa»
«Uno desiderio solo?» chiese stupita.
«Quanti dovrei scriverne?»
«Tutti quelli che vuoi»
Mark afferrò il foglietto tra due dita. «Tu cos’hai chiesto?»
«Diverse cose» rispose lei, evasiva.
«Per esempio?»
«Beh, quello che mi preme di più è essere scelta per i campionati nazionali. L’ho scritto almeno tre volte»
«Che banalità...»
Kira sollevò un sopracciglio, facendo roteare il pennarello tra le dita. «Indovino il tuo?»
Mark le strappò l’oggetto di mano. Tolse il tappo posizionando la punta sopra il foglio, fissandolo come se avesse dovuto comporre il poema del secolo. «Si può chiedere più volte la stessa cosa?»
«Pensò di sì. Io l’ho fatto, tanto per essere sicura»
«Avrei giurato avessi espresso un desiderio come ‘voglio trovare un fidanzato’»
«E perché dovrei volere un fidanzato?»
«Non lo so. Di solito le altre ragazze a tanabata lo chiedono»
Lei corrugò la fronte come se il paragone la infastidisse. «Io non sono le altre ragazze»
«Sì, questo lo so…» mormorò Mark a bassa voce.
«Eh?»
«No, niente». Il capitano della Toho fissò ancora il semplice foglietto bianco dai bordi dorati. Per quanto ci pensava non gli veniva in mente nulla di diverso dal volere vincere i campionati nazionali di calcio. Era tutto ciò che aveva sempre desiderato nel corso della sua breve vita.
Kira lo guardò tenere il foglietto sulla mano sinistra e scarabocchiare solo qualche ideogramma. «Posso sapere cos’hai scritto?»
«No». Lui le rilanciò il pennarello. Lei lo afferrò al volo.
«Quanto sei indisponente! Io il mio desiderio te l’ho detto!»
«È la stessa cosa che hai chiesto tu»
«Cosa? Essere ammesso ai campionati di pattinaggio?»
Mark si voltò per legare il tanzaku ad un ramo. Non poté fare a meno di sorridere.



Vagarono a vuoto per le vie, tra le bancarelle, cercando di indovinare dove potessero essersi fermati gli altri. Ma in mezzo a quella ressa era veramente impossibile capirlo. L’istinto li portò nei pressi del banchetto della pesca dei pesci, dove ritrovarono Ed e i bambini intenti ad acchiappare pesciolini rossi con racchette di carta. (8) Matt voleva un compagno per quello che Mark aveva vinto per lui al Luna Park qualche settimana addietro.
Mentre Kira guardava Teddy compiere l’ennesimo tentativo, un’ombra minacciosa incombé su Ed.
«E allora?»
Accucciato sui talloni davanti alle vasche, il portiere si voltò. «Capitano?»
«Mi hai scaricato, eh?»
«Ti è servito, lo so. Non ringraziarmi»
Mark si abbassò accanto a lui. «La prossima volta trovati qualcosa da fare, invece di ficcare il naso nei fatti miei»
«Beh, sto badando ai tuoi fratelli come mi ha chiesto, e mi sto anche divertendo. Sono uno spasso»
Lenders increspò le labbra come se stesse valutando la sincerità dell’amico. Ma sembrava che a Warner piacesse davvero fare il babysitter e pescare pesciolini.
«L’ho preso! L’ho preso!» disse Teddy, saltellando sul posto. «Ed, guarda!»
«Bravo, ce l’hai fatta! Vieni, andiamo a farci dare un sacchetto per portarlo a casa».
Il portiere si alzò lasciando uno spazio vuoto accanto a Mark. Dopo pochi secondi Kira si acquattò accanto a lui. «Ti va una sfida?»
Mark osservò la racchetta di carta che lei gli porgeva. L’accettò, mentre il padrone della bancarella metteva davanti a loro due piccole bocce di vetro piene d’acqua per accogliere i pesci. Questa volta vinse Mark.
 Ritrovarono i genitori poco prima dello spettacolo pirotecnico sul fiume. L’appuntamento era nei pressi della fontana della stazione, ma li individuarono molto prima vicino a una sala giochi dove il signor Brighton stava tenendo banco. Erik, il fratello di Ed, era da poco tornato dal giro con gli amici e sedeva con loro al tavolino di un bar poco lontano. Gli altri genitori guardavano in disparte con aria imbarazzata. Kira sospettò che sua madre facesse finta di non conoscere il marito…
Lei e Mark liberarono i pesci rossi nel fiume, guardandoli guizzare allegri nell’acqua illuminata dei colori dei fuochi d’artificio. Le scintille dipingevano il cielo di rosso, giallo, verde e oro, facendo da ornamento al già ricco firmamento che, là sulla riva, lontano dalle luci artificiali della festa e della città, splendeva chiaro e ricco di stelle ammiccanti attraverso i fuochi.
«Vega è quella laggiù, la vedete? E Altair è l’altra poco lontano» stava dicendo Mark, indicando ai fratelli la posizione dei due astri.
«Che bello!» squittì Nathalie, le manine strette tra loro come in preghiera. «Orihime e Hikoboshi si sono incontrati». Seduta sull’erba accanto a Kira, si sporse verso quest’ultima. «Sai che Mark dice che sono due sfigati?» sussurrò.
Kira si portò una mano a lato della bocca. «Tuo fratello maggiore non capisce niente, dà retta a me».
Nathalie rise.
Il ragazzo scoccò loro un’occhiataccia, scrutando la ragazza di sottecchi. Poche ore prima non avrebbe scommesso sull’esito di quella serata. C’era stato il rischio di sfociare in una litigata, ma Kira si era mostrata matura e disposta al perdono. Forse aveva compreso che sarebbe stato del tutto inutile infuriarsi, quel che era fatto era fatto e indietro non si poteva tornare. Vederla serena lo convinse dell’assenza di rancore, e fu certo che anche senza il rombo dei fuochi a riempire il silenzio non ci sarebbe nato il minimo imbarazzo tra loro. Dopotutto, cos’era mai un bacio sulla bocca dato in quel modo?
«Sai, Mark, in fondo non è così grave» disse lei all'improvviso, gli occhi puntai sul cielo cosparso di tracce multicolore. «Voglio dire, anche se due amici si baciano non c'è nulla di male. Non è come se fossimo innamorati, no?»
Mark si voltò per guardarla restando in silenzio.
Kira portò gli occhi su di lui. «Qualche volta ci ho pensato»
«A cosa?»
Lei abbassò la voce al di sotto del rimbombo dei fuochi, anche se non c’era pericolo che gli altri sentissero; nemmeno Nathalie, che adesso applaudiva e commentava le forme e i colori stampati sulla volta oscura. «Se noi due dovessimo davvero stare insieme, come tante volte hanno insinuato, diventerebbe tutto troppo complicato». Un sorriso lento le increspò le labbra. «Finiremmo per lasciarci e la nostra amicizia verrebbe rovinata per sempre. Quando mi hai baciata, ho pensato che non avrei mai voluto che accadesse»
Mark la guardò con un’espressione indecifrabile negli occhi.
Quindi, se lui si fosse reso conto di provare qualcosa per lei, Kira non gli avrebbe offerto nemmeno mezza possibilità? Non che lui avesse dei dubbi su di loro, chiaro. Tuttavia provò un moto di delusione al pensiero che, se in un altro tempo e in un altro luogo si fosse improvvisamente preso una cotta per lei, lo avrebbe respinto a priori.
«Perciò, se ti innamorassi di un amico, ti costringeresti a non rivelargli mai i tuoi sentimenti basandosi solo su questo presupposto?»
Il sorriso di lei divenne incerto. «Non ho detto questo, però ci rifletterei a lungo prima di farlo»
Mark tornò con gli occhi fissi al cielo. «Per cui, escludi ogni possibilità che tra noi potrebbe funzionare?»
Kira sorrise di nuovo. Quelli erano discorsi da adulti. «Forse siamo troppo simili. Litigheremmo costantemente, non credi?»
«E se invece funzionasse proprio perché siamo simili?»
Lei perse un respiro, improvvisamente sopraffatta dall’espressione seria di lui. «Parli per ipotesi»
«Certo che sì»
Okay. Lei si rilassò. «Si dice che gli opposti si attraggono» proseguì con un’alzata di spalle.
«Patetico luogo comune. Cosa mai potrei trovare in una ragazza che non ha niente in comune con me? Neanche ci parlerei»
Lei si sporse un poco verso di lui. «Così ti escludi la possibilità di conoscere persone diverse»
«A cosa mi serve conoscere qualcuno? Ho già te»
Improvvisamente le mancò il respiro. Avrebbe voluto mettere una discreta distanza tra loro ma non le riuscì di muoversi. «Io…io non sono la tua ragazza»
«Nella mia vita non vorrò bene solo alla mia ragazza». A volte Mark l’avrebbe volentieri strozzata per quanto sapeva essere invadente, altre le avrebbe tagliato la lingua per la sua insolenza. Ma altre volte ancora l’avrebbe stretta forte se avesse avuto solo un po’ della sua sfacciataggine. Non si sarebbe mai permesso di prendere un'iniziativa simile con una che non fosse lei; o forse sarebbe stato più giusto dire che non avrebbe toccato nessuna eccetto lei.
«Volersi bene è spesso meglio dell’essere innamorati, perché si è più liberi di esprimere un sentimento senza complicazioni» insisté Kira.
Mark scosse il capo una volta, incerto. «Credo che l’affetto comprenda amore, ma non penso che per amore debba intendersi  soltanto quello di coppia. Io amo mia madre, amo i miei fratelli e in un certo qual modo credo… di amare anche te». La voce di lui perse tono, tremolando.
Kira spalancò gli occhi e divenne di tutti i colori possibili. Poi lo spintonò sull'erba. 
«Non dire cose del genere, deficiente! Mi fai vergognare!»
Mark agitò furiosamente le mani. «No, no, no, aspetta! Non intendevo…»
Che cavolo aveva detto? CHE CAVOLO AVEVA APPENA DETTOOO?!?!?!
«Sì, sì, ho capito!» esclamò Kira, riprendendo un colorito normale. «Mi piace l’idea che tu tenga tanto a me, ma non puoi dirlo in quel modo!»
Mark respirò, decelerando il battito furioso che sentiva fino in gola. «Quando non ci sei mi manchi» confessò con ritrovata calma, abbassando il capo. «Quando sei felice lo sono un po’ di più anch’io. Ma non è un sentimento esclusivo. Lo comprendi?»
«Sì». Kira gli sfiorò la stoffa dello yukata sul braccio, cauta. «Ecco perché dico che non vorrei mai innamorarmi di te. Chi si lascia inevitabilmente si allontana, si perde, e io non ti voglio perdere. Abbiamo questo: ci vogliamo già bene e a me basta così»
Mark la inchiodò con uno strano sguardo. «Hai ragione. Forse bisognerebbe rifletterci».
Afferrò il senso di quelle parole e non fu totalmente in disaccordo con esse. Capì l’urgenza di affermare un legame che era affetto smisurato, ma che solo di affetto si trattava. Tuttavia, se a fargli un discorso del genere fosse stata la ragazza di cui era innamorato, si sarebbe sentito preso in giro da un ragionamento simile. Ma l’amore non era una gara sportiva, ed era forse per questo lui non riusciva a capirne le regole. Era un gioco a due in cui la sua indipendenza avrebbe finito per risentirne insieme a quella di lei. Mark non era fatto per legarsi sentimentalmente a qualcuno, non ne era in grado. La natura lo aveva dotato di una personalità difficilmente sopportabile, dubitava che avrebbe trovato una ragazza tanto paziente da tollerare i suoi sbalzi di umore; senza contare che, nella sua vita, il calcio aveva e avrebbe sempre avuto la priorità assoluta.
Sua madre diceva il vero: lui era un solitario. E per quanto quella sera avesse iniziato a capire quel che Kira poteva diventare per lui, decise di mettere a tacere i sentimenti.
 
 


***** ***** ***** ***** *****
 
Note:
 
1-Tanbata Matsuri: è una festa tradizionale giapponese che si tiene in estate. Tanabata significa ‘settima notte’ e viene solitamente festeggiata il sette di luglio, ma in alcune zone del Giappone si festeggia anche in agosto, tenendo conto del calendario lunisolare. Celebra il ricongiungimento delle divinità Orihime e Hikoboshi, identificazioni delle stelle Vega e Altair. La leggenda l’ho già raccontata nel capitolo ;)
 
2- Da non confondersi con il kimono, lo yukata è un indumento tradizionale giapponese che viene indossato in genere durante eventi estivi. A differenza del primo, lo yukata è considerato un indumento molto informale. I colori e i disegni variano in proporzione all’età di chi lo indossa. Ad esempio, bambine e ragazze possono sfoggiare molte sfumature, prevalentemente con pattern floreali o di vario genere; le donne adulte o anziane, invece, metteranno colori più sobri e scuri, con trame geometriche. Queste restrizioni non si applicano invece allo yukata da uomo, di solito molto più semplice rispetto a quello femminile. 
 
3- I tanzaku sono desideri/preghiere scritti su rettangoli di carta tradizionale giapponese (fatta con rafia di riso) simile a un segnalibro, a volte ornata con bordi dorati o disegni. I Giapponesi solitamente li acquistano in due misure standard. Si appendono ai rami degli alberi di bambù durante il tanabata. Il bambù, per i giapponesi, è l’albero dei desideri, apprezzato per la sua sacralità e le doti curative.
 
4- L’obi è la fascia, o cintura, che si mette in vita per chiudere lo yukata e il kimono. Indossata sia dagli uomini che dalle donne, l’obi femminile è però più lungo, largo e colorato rispetto a quello maschile (anche se dipende sempre dall’età di chi lo porta e dallo stile dell’abito). Gli uomini lo portano sulla parte bassa della vita, le donne invece sulla parte alta, sotto il seno. Esistono vari tipi di nodi per chiudere la fascia, che per le donne termina sempre con un fiocco al centro della schiena, mentre per gli uomini leggermente spostato su un lato.

5- Il tempio Sogenji esiste realmente e si trova nel quartiere di Asakusa a Tokyo.
 
6- I takoyaki sono polpette fritte di polpo in pastella di forma tonda. Sono considerati uno spuntino veloce da mangiare caldo, appena pronto, solitamente con uno stuzzicadenti. Li avrete sicuramente visti praticamente in ogni anime e manga ;)
 
7- Le kinchaku sono tradizionali borsette a forma di sacco con cordoncino, usate per trasportare piccoli oggetti e chiamate anche ‘kimono bags’, proprio perché si utilizzano in genere quando si indossa questo abito. Per fabbricarle si usa la stessa stoffa dell’obi in modo da poterle coordinare all’abito.
 
8- Anche in questo caso, penso che tutti sappiate di cosa parlo. Il gioco della pesca dei pesciolini rossi con racchette fatte di carta (di riso) è tipico delle feste estive giapponesi. Lo scopo è riuscire ad acchiappare il pesce prima che la racchetta si rompa. E non è cosa facile, a quanto pare.
 

***** ***** ***** ***** *****
 

Per la serie chi non muore si rivede, sono di nuovo qui! Il lavoro e la casa mi portano via tanto tempo, perdonatemi ma agli impegni quotidiani non si più dire no.
Questa volta vi ho riempito di notine sul tanabata ^ ^ Ho sempre adorato questa festa, dovevo per forza inserirla come sfondo di un capitolo. Che dite, vi è piaciuto? Io aspetto i vostri commenti per sapere cosa ne pensate, anche a te lettore che passi di qui per caso, orsù non impigrirti e non aver vergogna di dire la tua, farai una ragazza felice. xD
Mi scuso con le fan di Ed, che oggi abbiamo messo a fare il baby sitter, ahaha! La questione ‘bacio’ andava chiarita al più presto, anche se Kira e Mark non sembrano convinti nemmeno loro, non so se avete notato, eh eh eh… Mark ha fatto un passo avanti enorme, lei si è fermata a metà, convinta che sia meglio non innamorarsi del suo migliore amico…o forse sta solo cercando di convincersi che è meglio così. A voi la sentenza!!! Aahhhh, quanto mi piace scavare nelle menti dei giovani innamorati! Nemmeno loro sanno dove stanno andando, ma io si! :D Quando si metteranno insieme, vi chiederete? Ne parlavo l’altro giorno sul gruppo facebook di Efp: io amo le storie che si sviluppano nel tempo, piano piano, senza affrettare niente. Quando ho iniziato Haru no toki mi sono tuffata nel passaggio tra infanzia e adolescenza di questi personaggi, e non è una cosa da nulla, credetemi. Con tutte queste elucubrazioni mentali c’è da diventar matti. Comunque sappiate che ne succederanno ancora di ogni prima dei cuoricini, per cui preparatevi e sclerate con me xD
 A tal proposito, se volete seguirmi sui social, vi invito sul gruppo Facebook Chronicles of Queen, e su Instagram @susanthegentle_efp.
 
Un grazie mille a chi ha inserito la storia nelle seguite/preferite/ricordate e a chi recensisce.
 
Un bacio e alla prossima!
 
Susan<3

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** 20. Vittorie e sconfitte ***


 
20. Vittorie e sconfitte
  
 
 
Durante le vacanze estive, molti dei club sportivi della Toho rimanevano aperti benché la scuola fosse chiusa. Gli atleti avevano il permesso di continuare gli allenamenti, alcune squadre dovevano sostenere incontri importanti. Quella di calcio pensava al match finale del campionato nazionale.
Erano l’ultimo club a chiudere la stagione; il team di pattinaggio artistico, invece, si preparava ad aprire la nuova.
Le gare cominciavano intorno ai primi di ottobre, ma i pattinatori dovevano preparare due nuovi programmi da presentare davanti ai membri della Japan Skating Federation entro settembre. Ciò valeva soprattutto per chi era in lista per le competizioni nazionali.
L’ultimo giorno di luglio, letteralmente al limite delle possibilità umane, Kira aspettava ancora una risposta.
Seduta rigidamente davanti al tavolo dell’ufficio dei suoi coach, aspettava che Kanagawa e Fukushima si decidessero a parlarle invece di continuare a girare fogli e borbottare tra loro. Sapeva perfettamente cosa stava per succedere, il problema era rimarginare la ferita che si sarebbe aperta dopo il no. In caso contrario, sarebbe corsa per il cortile ad annunciare ai suoi amici la sua felicità.
Il suo stomaco si era tramutato in un pezzo di marmo, la stessa sensazione che si ha quando si è mangiato qualcosa di molto pesante o di indigesto. Deglutì un paio di volte, scoprendo di non avere saliva.
«Allora, Brighton…» esordì Kanagawa.
Al suo cognome, Kira raddrizzò la schiena, rigida come un ciocco di legno. 
«Respira, ragazza mia, non stai andando al patibolo» la rimproverò bonariamente il coach.
«Mi scusi…» esalò lei, liberandosi dell’aria in eccesso. Sentiva il petto pesante.
«Visto che sei così nervosa, il resto te lo dico dopo», disse ancora Kanagawa richiudendo la cartelletta color senape. «Sei ufficialmente ammessa ai campionati nazionali»
Kira schizzò in piedi emettendo un grido. «Scusate, scusate…» disse subito, riprendendo posto sulla sedia. Il sangue prese a scorrere più veloce per l’eccitazione, facendola fremere fin nelle ossa.
Kanagawa e Fukushima si scambiarono un sorriso compiaciuto.
«I membri della nostra federazione hanno valutato i tuoi risultati della scorsa stagione regionale», disse la Fukushima, che come il suo collega mostrava in volto un’espressione fiera. «Nonostante tu non abbia sfiorato neanche il bronzo hai totalizzato un punteggio complessivo che, in base alle regole, può essere considerato sufficiente per qualificarti. Ora, i tuoi compagni di club avranno un paio di mesi di riposo, ma tu dovrai continuare ad allenarti.»
«Certo, signorina!»
«Quest’anno compirai un percorso diverso dai tuoi compagni» riprese Kanagawa.
Kira notò che il suo viso si era fatto di nuovo serio, severo.
«Dovrai lavorare separatamente, e potrebbero nascere delle gelosie». Il coach fece una pausa. «So che hai avuto dei problemi con delle compagne, ma ti chiedo di lasciare i malanimi da parte, qualsiasi cosa possa succedere.»
«Non si preoccupi, coach. È una storia dimenticata» disse Kira con sicurezza. I litigi con Milly erano stati accantonati da tempo. Qualche volta pensarci le faceva male, ma non molto di più che un sassolino in una scarpa. Un po’ appuntito ma sopportabile.
«Mi fa piacere saperlo, Brighton, però ho esperienza in queste cose e so che possono nascere gelosie fastidiose. Ho allenato parecchi ragazzi: non sarebbe né la prima né l’ultima volta.»
«Non succederà» assicuro nuovamente Kira. «Tutto quello che voglio è partecipare a questi campionati. Non mi lascerò distrarre da niente.»
Kanagawa si scambiò uno sguardo con la Fukushima e annuì. «Mi fa piacere sentirlo. Hai una grande responsabilità, Brighton; tutta la scuola si aspetterà di vederci sul podio, visti i precedenti atleti che hanno trionfato grazie al nostro team. Abbiamo piena fiducia in te e sappiamo quanto tu sia determinata.»
«Mi impegnerò al massimo, coach. Lo prometto!»
«Su questo non abbiamo dubbi» disse la Fukushima, regalandole uno sorriso complice.
Oh, sì, nessuno l’avrebbe fermata, si disse Kira. Dovevano solo provare a metterle i bastoni tra le ruote. Questa volta non avrebbe ascoltato nessuno che si fosse intromesso tra lei e i suoi propositi, al contrario! Lo avrebbe invece mandato al diavolo ancor prima di cominciare a discuterne.
Kanagawa si abbandonò contro lo schienale della sedia e un sorriso gli attraversò il viso da una parte all’altra. «Ottimo! Da domani comincerai a lavorare sul nuovo programma. Per adesso puoi andare.»
 
 
***
 
 
Gli spogliatoi della squadra di calcio erano di per sé un luogo chiassoso, spesso teatro di scherzi, battute illogiche tra maschi e palleggi a casaccio che finivano quasi sempre dentro l’ufficio di Kitazume, il quale aveva l’abitudine di lasciare una fessura nella porta per controllare ciò che avveniva in corridoio.
Negli ultimi giorni, però, le battute e gli schiamazzi si erano ridotti. I ragazzi della squadra erano molto tesi per via dell’imminente finale di campionato e se ne stavano nelle docce quasi totalmente in silenzio, la mente concentrata sugli allenamenti e i suggerimenti del mister.
In quell’anomala e piacevole quiete, proprio Kitazume stava chino sul tracciato del campo da gioco dispiegato sopra la scrivania. Rifletteva sugli ultimi possibili cambiamenti disegnando linee di diverso colore, cancellando, riscrivendo… quando il silenzio venne infranto da un uragano che irruppe negli spogliatoi scardinando la porta.
«MARK! MI HANNO PRESA!»
La punta della matita con cui il mister stava scrivendo scivolò sul foglio, prima tracciando una spessa linea nera e infine spezzandosi.
«Cosa succede?! Chi è che urla?!». Kitazume, gli occhiali storti sul naso, si precipitò fuori dal suo ufficio per capire cosa o chi facesse tanto baccano. «Brighton! Cosa fai qui?!», barrì quando la vide.
Giunta in fondo al corridoio d’ingresso, già con la mano sulla maniglia della porta dello spogliato, Kira si voltò facendo un rapido inchino. «Oh-ehm, buon pomeriggio Kitazume-sama…»
«Buon pomeriggio un’accidenti! Come osi urlare come se fossimo al mercato?! Non ti hanno insegnato l’educazione?»
«Scusi, scusi, ma devo assolutamente dire una cosa a Mark»
«Brighton!» gridò ancora Kitazume, il viso dell’uomo deformato dall’indignazione. «Quello è lo spogliatoio dei maschi
Kira fissò la porta davanti a sé e solo allora realizzò che Kitazume aveva ragione: non poteva entrare là dentro per nessuna ragione al mondo. Staccò la mano dalla maniglia come fosse arroventata e fece per allontanarsi, quando la porta le si spalancò di fronte.
«Chi fa tutto questo casino?»
Mark.
Quando lo vide, Kira gli balzò davanti afferrandolo per le spalle. «Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!» ripeté per diverse volte, scuotendolo un poco.
Lui aveva sempre saputo che fosse un po’ matta, poi vide l’espressione di lei cambiare da imbarazzata a sorridente, euforica, raggiante. E capì.
«Avevi il colloquio coi tuoi coach, oggi.»
Kira annuì con energia.
«Vuoi dire che…?»
«Esatto! Tieniti forte, perché hai davanti a te la futura campionessa nazionale di pattinaggio su ghiaccio!»
Mark mollò il borsone da palestra che aveva in mano e l’afferrò per le spalle a sua volta. «Ma è magnifico! Sapevo che ce l’avresti fatta!»
«Io ancora non ci credo!» strillò la ragazza, colma di un’incontenibile euforia tanto da gettare le braccia al collo di Mark. Si sentì sollevare di poco da terra…
Come quella volta alla festa dello sport.
Lo stomaco di Kira sussultò.
Lui profumava di buono, le punte dei capelli ancora umide dopo la doccia, le spalle forti sotto le dita. Prima di rendersene conto si svincolò gentilmente dalla presa delle sue braccia, cercando di darsi un contegno. Non stava bene abbracciarsi in pubblico, lo sapeva e poteva infastidire anche Mark. Lui la guardava in modo strano, quasi deluso. Ma durò poco, perché di lì a un momento anche gli altri ragazzi della squadra vennero a congratularsi con lei. Non la conoscevano bene, ma era pur sempre un’atleta della scuola.
«Congratulazioni, Kira!» esclamò Ed. «Sapevamo che ce l’avresti fatta!»
«L’ho già detto io» puntualizzò Mark spingendolo indietro. Per qualche motivo si era rabbuiato.
«Cerca di vincere, Brighton! Facciamo il tifo per te e per la scuola!» disse Eddie.
«Vogliamo assolutamente avere una campionessa alla Toho!» disse Ian.
«Ci sono già tanti altri campioni qui, ma grazie del sostegno!» rispose Kira sorridendo a tutti loro.
«Adesso basta con questo chiasso!» esclamò Kitazume facendo trasalire tutti.«Tutti fuori se avete finito di cambiarvi! Tu per prima, Brighton, screanzata che non sei altro!»
Kira non se lo fece ripetere due volte e fuggì in un lampo al di là della porta principale. Attese Mark fuori sul campo, risalendo insieme a lui e Ed il breve declivio erboso.
La pattinatrice ricominciò a parlare a raffica, a gesticolare ampiamente raccontando loro l’incontro con i suoi coach e tutto ciò di cui avevano parlato, delle idee che aveva per i suoi programmi, della voglia di farsi valere.
Mark l’ascoltava con in volto un sorriso misurato ma solidale. Lei era al settimo cielo e il ragazzo si ritrovò a condividere ogni più piccola emozione, paura e aspettativa.
«Promettiamo» disse poi Kira quando riprese fiato, fissandoli entrambi con decisione. «Promettiamo di impegnarci al massimo per vincere, tutti e tre.»
Mark e Ed la guardarono alzare una mano e tenderla in avanti. Un attimo dopo fecero lo stesso, Mark la mano sopra quella di Kira e Ed sopra quella di Mark.
«Promessa» pronunciarono a una voce.
 
 
 
***
 
 
L’ultima settimana prima della partita, la squadra di calcio entrava in ritiro e i ragazzi si fermavano a dormire nel dormitorio scolastico. Era un modo per agevolare chi arrivava da fuori città, di modo che non ci fossero ritardi la mattina agli allenamenti. Il mister li faceva alzare all’alba per conquistare le ore più fresche del mattino, intercalando le ore di lavoro sul campo a pause più o meno lunghe per mangiare e fare i compiti delle vacanze.
Niente svaghi, niente incontri con gli amici o le ragazze.
Mark vedeva Kira ogni giorno passare davanti al campo per andare al palaghiaccio, ma non si fermavano mai a parlare, al massimo un ciao gridato da lontano.
Calma, concentrata, Kira pareva stesse preparandosi per una semplice scampagnata invece che in attesa di una serie di competizioni che potevano cambiare il suo futuro.
Mark avrebbe voluto saper mantenere la calma al pari di lei. Kira rilasciava gli accumuli di stress attraverso l’esercizio fisico. Lo faceva dopo una sessione di studio particolarmente pesante o in qualsiasi altra situazione snervante. Lui, al contrario, pur riuscendo ad allentare la pressione rimaneva sempre troppo teso. Prima di una partita importante raggiungeva livelli di suscettibilità tremende e solo l’isolamento riusciva ad aiutarlo. Invidiava Ed, il quale riusciva a vincere l’irrequietezza pre-partita adottando la pratica della meditazione insegnatagli da bambino. I karateka ne facevano uso ogni volta che dovevano prepararsi per un incontro. Non era raro trovare Ed in un angolo tranquillo per permettere a mente, corpo e spirito di liberarsi dall’energia negativa. Anche Mark cercava di imitarlo ma non sempre funzionava. 
La sera prima della finale Kitazume fece un discorso alla squadra sull’importanza del gioco di squadra. Secondo lui, contro Hutton e compagni la tecnica migliore era la compattezza. Li mandò tutti a letto presto e il mattino dopo li svegliò di buon’ora per allenarsi ancora. Nel pomeriggio, all’ora stabilita, i ragazzi salirono accompagnati da un teso silenzio sul pullman della scuola, che li avrebbe portati allo stadio in cui si sarebbe giocata la finale. Lo scorso anno avevano giocato alla Toho.
Mark segnava una media di tre goal a partita, ma la New Team aveva rafforzato la difesa. Nei primi venti minuti di gioco lo marcarono così strettamente che non gli fu possibile ricevere nessun pallone. Dei quattro difensori che la squadra avversaria schierava sul perimetro, due di essi si occupavano esclusivamente di lui. Bob Denver e Bruce Harper non gli lasciavano spazi, quasi non difendevano la porta lasciando quel compito ad altri compagni. Il loro gioco era concentrato esclusivamente sul non far passare lui. Denver, alto e possente, faceva per due.
Intanto, gli altri ragazzi della Toho perdevano tutti i duelli a centrocampo a causa della perfetta regia di Holly.
Mark fremeva per la rabbia. Non era quasi riuscito a toccare palla da quando era iniziato l’incontro. I compagni schierati al centro non trovavano sbocchi per passargli il pallone. Mark si voltò verso la panchina. Kitazume gli fece cenno di mantenere la calma: niente azioni impulsive, nemmeno per smarcarsi. Il ragazzo strinse i denti, impotente, non potendo fare a meno di pensare che se ci fosse stato Jeff Turner non gli avrebbe detto di calmarsi, ma di rompere con la forza la strettissima opposizione dei difensori o di chiunque altro, e andare in rete senza pensare a niente.
E intanto, Holly segnava il primo goal.
Patty, sugli spalti, saltellava accanto al solito gruppo di amici e sostenitori più accaniti della New Team, incitando il suo Holly sopra tutti. Sull’altra curva, Kira si accasciava sul suo sedile imprecando a bassa voce.
Il gioco riprese e lo svantaggio smosse gli animi dei ragazzi della Toho. Eddie Bright intercettò un pallone eludendo l’intenzione di Hutton di passare a Ted Carter sulla fascia. Eddie si lanciò come un razzo in direzione della porta avversaria, seguito da Nicholas Loson, Henry Sail e Lucas Milton. Il quartetto mise in piedi un’azione straordinaria di cui Kitazume sarebbe stato fiero: era puro gioco di squadra. Eddie scattò a destra e scivolò via da un assalto avversario, passando a Lucas così che la Toho non perdesse possesso di palla. Lucas avanzò ancora e lanciò a Henry, che lanciò a Nicholas, che la ripassò a Eddie davanti all’area di rigore.
Qui, Bruce fu costretto ad andare in aiuto del terzo difensore della New Team, rimasto l’unico contro i quattro avversari, lasciando Bob da solo ad occuparsi di Lenders.
Vedendo che Harper si spostava in sua direzione, Eddie Bright si lasciò andare a un ghigno soddisfatto. Era quello che volevano: costringere uno dei due difensori ad allontanarsi da Mark. Nel frattempo erano accorsi in difesa anche Paul, Johnny e Ted. Ma prima che i tre ebbero tempo di fare qualcosa, Eddie li lasciò tutti di stucco passando all’indietro, deponendo la palla tra i piedi del suo capitano.
Mark non ebbe quasi bisogno di correre verso la porta. Con un destro poderoso tirò dritto in rete. Alan Crocker alzò entrambe le braccia per fermarla ma nemmeno la sfiorò.
Uno a uno.
La curva nera e bianca esplose d’entusiasmo per le prodezze del suo capitano, mentre la massa bianca e azzurra si profuse in fischi di disapprovazione.
Il gioco ricominciò e dopo una punizione Mark ebbe un brutto scontro con Paul Diamond a centro campo. L’arbitro fischiò e i tifosi della Toho emisero esclamazioni di protesta quando estrasse il cartellino giallo.
Lenders era stato ammonito.
Mark si rialzò alla svelta mentre Eddie Bright gli si avvicinava. «Non importa, capitano. Non te la prendere» gli disse mettendogli una mano sulla spalla come per impedirgli di commettere un altro errore.
«Lasciami, Eddie»
Bright esitò, ma in seguitò decise di dargli ascolto. Aveva imparato a convivere con gli scatti d’ira di Mark in quei due anni, così come gli altri compagni. «Il mister ci aveva avvertito: gli arbitri quest’anno sono veramente severi»
Mark non disse nulla, si limitò ad annuire con la testa, lo sguardo fisso su Lucas Milton e Justin Filler che cercavano di ragionare con il giudice di gara. Serrò i pugni, sedando la rabbia che gli montava dentro. Per una volta che non lo aveva fatto intenzionalmente…
In ogni caso, anche se moriva dalla voglia di protestare, non aveva intenzione di correre dall’arbitro e mettersi a discutere, né di fare nient’altro che avrebbe potuto compromettere la squadra.
«Dì a quei due di piantarla o verranno ammoniti anche loro» disse a Eddie, facendo un cenno con la testa verso Lucas e Justin.
Mark si allontanò per recuperare la palla, camminando lentamente. Incrociò una volta lo sguardo di Ed, fermo in mezzo ai pali. Fra i due vi fu uno scambio di cenni d’assenso, come a dire che era tutto okay. Ignorò gli avversari che lo guardavano stupiti, probabilmente chiedendosi perché non avesse reagito in alcun modo. In verità, Mark ribolliva dentro.
Era tutta la partita che si tratteneva dal far saggiare alla New Team una delle sue famose scivolate, ma no. Doveva tenere a bada l’istinto e seguire alla lettera le indicazioni di Kitazume.
Per questo alla fine del primo tempo, mentre il risultato rimaneva fermo sull'uno a uno e lui aveva evitato d’un soffio una seconda ammonizione per un altro paio di entrate troppo irruente, Kitazume annunciò che nel secondo tempo Lenders avrebbe giocato nello stesso ruolo di Hutton.
«Vuole mettere Mark a centrocampo?» chiese un basito Ed Warner, dando voce all’unanime pensiero della squadra. Gli altri erano ammutoliti per il troppo stupore.
«Mark rischia l’espulsione» tagliò corto Kitazume, «non posso espormi e farvi giocare in dieci contro la New Team. Lenders, giocherai a centrocampo.»
«Ma mister…»
«E non tenterai più di andare al goal, Lenders. Voglio che ti occupi esclusivamente di marcare Hutton impedendogli di passare la palla ai suoi compagni. Mi hai capito?»
Mark rimase senza parole al pari dei compagni.
«Lenders, ti ho chiesto se hai capito.»
«S-sì, mister.»
«Bene. Tornate in campo, adesso, svelti.»
Non appena Kitazume ebbe voltato loro le spalle, Warner, Bright, Mellin, Loson e tutti gli altri si fecero intorno al loro capitano.
«Cercheremo ugualmente di passarti il pallone» lo rassicurò Lucas Milton.
«Giusto. E poi», rincarò Ian Mellin «sono sicuro che prima della fine dell’incontro Kitazume ti riporterà in attacco. Vedrai che…»
«State zitti» ordinò bruscamente Mark, voltando nuovamente le spalle. Uscì dall’ombra della panchina e strinse gli occhi alla luce accecante del sole. In quel modo non poté vedere gli sguardi attoniti degli avversari e dei tifosi.
Tutti si chiedevano se l’allenatore della Toho fosse pazzo o cosa: fare arretrare Lenders sarebbe stato come premere un simbolico tasto di autodistruzione. Ciononostante, le grida d’incoraggiamento della Toho continuavano a riecheggiare per tutto lo stadio.
Nei primi minuti del secondo tempo la New Team rallentò il suo gioco. Con Mark a centrocampo, Holly incontrò non poche difficoltà a dirigere la sua squadra. Lenders gli stava alle costole senza mai lasciargli un piccolo spazio, senza dargli tregua.
Poi Hutton fece una finta per eludere la marcatura di Mark e quasi segnò un goal che solo grazie ai riflessi di Ed non entrò in rete. Dandosi uno slancio impossibile Warner acciuffò il pallone uscendo dai pali, regalando a Hutton uno sguardo compiaciuto.
«Di qui non passi» lo avvertì, per poi rilanciare con forza verso i compagni.
Il pallone, catturato dai ragazzi della Toho, finì di nuovo tra i piedi di Mark, il quale partì da metà campo fino a ricoprire una buona fetta di terreno.
Quasi al limite dell’area avversaria Lenders vide Eddie arrivare sulla fascia destra. Gli passò la palla quando i difensori della New Team gli si gettarono praticamente addosso. Volendo avrebbe potuto benissimo eliminarli tutti e quattro, ma aveva già disobbedito al mister lasciando il centrocampo, non era il caso di farlo infuriare gettando giocatori gambe all’aria come solo lui sapeva fare…
La partita era agli sgoccioli.
In area di rigore, Mark dribblò Bruce Harper, Bob Denver e gli altri due difensori della New Team, per poi scontrarsi con il suo nemico di sempre.
Holly lo accolse quasi serenamente, Mancavano pochi minuti e se Mark non fosse riuscito a segnare un altro goal tutto sarebbe andato perduto.
Lenders si guardò attorno per cercare un compagno, ma tutti erano marcati strettamente.
Con una serie di finte si liberò di Hutton, ma prima che potesse raggiungere la porta, Johnny Mason arrivò alle sue spalle e gli rubò la palla per poi passare ad Holly. Il capitano della New Team corse velocemente nell'altra metà del campo, passando a Paul che passò a Ted sulla fascia, allontanando sempre più il pallone da Mark. Poi Ted ripassò a Holly in prossimità dell’aera della Toho. Ed scattò fuori dai pali per intercettare il tiro ma lo mancò di pochi centimetri.
Fu un tripudio di urla ed acclamazioni.
Mark si morse un labbro rabbiosamente. Il tiro di Holly era un tiro ad effetto e Ed era riuscito a fermarlo per ben tre volte in quella partita. Questa volta non ce l’aveva fatta. Vide il portiere piegato sulle ginocchia scuotere la testa in sua direzione. Mark fissò uno sguardo determinato in quello dell’amico: non era ancora finita. Fino alla fine non bisognava mai arrendersi.
Si voltò verso Holly e restò qualche secondo ad osservarlo pensando a come fermarlo. Il gioco riprese e di nuovo i difensori della New Team gli furono addosso. Ebbe l’impulso di sfondare la difesa come sapeva fare ma un’occhiata fugace verso il mister frenò la sua iniziativa.
Niente falli, aveva detto Kitazume, bensì gioco di squadra.
E gioco di squadra sia, pensò.
Mark corse con tutte le sue forze verso il portiere avversario dopo aver abilmente recuperato il pallone in scivolata. I difensori gli si gettarono di nuovo addosso e fu allora che passò il pallone a Nicholas Loson. Inaspettato per i giocatori della new Team, a un comando di Holly cercarono di ricompattarsi in direzione di Loson che all’ultimo secondo passò a Eddie Bright che si produsse un assist pazzesco verso Mark in un tiro diagonale davanti alla porta. Alan Crocker, il portiere della New Team, non era pronto e la palla calciata da Mark si incassò in rete.
Un tripudio di voci esultò stavolta dalla curva della Toho. Pochi secondi di gloria, ma l’arbitro fischiò.
Goal non valido.
«CHE COSA?!» fu il ruggito di Mark, che sovrastò le urla della squadra intera. I ragazzi si strinsero attorno all’arbitro un’altra volta. Egli gesticolò per ripristinare l’ordine e fu irremovibile sulla sua decisione.
Mark sputò a terra un eccesso di saliva, il respiro affannoso. La partita era quasi terminata e la fatica accresciuta dal caldo iniziava a farsi sentire.
Gli occhi neri del capitano si concentrarono sulla New Team, su facce sorridenti di chi sa già di avere la vittoria in pugno.
L’incontro riprese ma si era ormai ai minuti di recupero. Solo due, nei quali Mark si lanciò in un’impresa impossibile. Spedì Ted Carter gambe all’aria in una scivolata che non venne fischiata come fallosa, riprese palla e corse, corse e dribblò lasciando la posizione a centro campo per riperdersi il suo ruolo di attaccante. Arrivò di fronte all’area di rigore, ma prima di riuscire a tirare il fischio dell’arbitro risuonò tre volte nell’aria.
La partita era finita. La New Team aveva vinto.
Senza fermarsi, Mark calciò il pallone con rabbia. La sfera andò comunque a incassarsi in porta. Alan protestò ma lui non lo udì neppure.
Gli faceva male il petto, il fiato corto, la delusione cocente che gli bruciava la gola arida e gli occhi.
Per il secondo anno di seguito, la Toho arrivò seconda ai campionati nazionali delle scuole medie.
«Complimenti ragazzi, avete giocato bene» disse loro la signorina Daisy Osbourne, talent scout e presidentessa del club di calcio.
Era stata lei a caldeggiare l’ingaggio di Mark nella scuola e il ragazzo aveva sempre avuto massima stima per la donna. Ma in quel momento non ebbe nemmeno il coraggio né la voglia di darle retta e salutarla, chiedendosi perché mai lo avesse scelto.
Kitazume, si limitò a dare una pacca sulle spalle a tutti i suoi giocatori. Negli spogliatoi sarebbe seguito un discorso deluso ma più o meno incoraggiante.
Prima di prendere posto in panchina in attesa della premiazione, Mark si scostò la frangia bagnata di sudore dagli occhi con uno scatto della testa, guardando in su verso le tribune. Sua madre, i suoi fratelli, tutta la scuola, lo avevano visto perdere. Di nuovo. Non importava quante partite avesse vinto nel corso dell’anno, la finale era perduta.
E poi c’era Kira. Kira che, mani e mento appoggiate sulla sbarra dove, appena sopra il campo, occupava il posto il fan club della Toho, lo fissava con i suoi grandi occhi così espressivi.
Troppo.
Mark distolse lo sguardo anche da lei, proprio nel momento in cui gli parve di vederla accennare un sorriso. Non aveva affatto voglia di ricevere sorrisi.
Mentre la New Team festeggiava e ritirava – si riappropriava – lo stendardo del campionato, le squadre che avevano partecipato si schierarono in campo per applaudire.
Quanta ipocrisia…
Fingere di ringraziare il presidente della lega calcio giovanile, fingere di essere comunque soddisfatti per il secondo posto, fingere di congratularsi con i vincitori. Fingere, fingere, fingere, quando avrebbe solo voluto prendere a calci qualcosa e romperla, sfogare la rabbia e gridare perché.
Fu ciò che fece quella sera, l’ultima nel dormitorio.
Gli altri avevano preferito rintanarsi nelle camere a riposare o discutere, provati dalle prestazioni fisiche del pomeriggio. Lui invece scese al campo, gridando contro il nulla la sua rabbia, colpendo la palla ancora e ancora, fino ad esaurire di nuovo le forze.
Per quale motivo continuava a perdere contro la New Team e Holly? Essere un campione di calcio era il suo sogno, come mai non riusciva a realizzarlo?
«Perché urli tanto quando calci il pallone?» domandò a un tratto una voce.
Mark sollevò lentamente lo sguardo, per nulla sorpreso di vederla.
Kira era ferma in un punto poco lontano da lui; un’intromissione desiderata che stupì lui stesso. La parte di sé che avrebbe voluto chiederle di lasciarlo in pace combatté contro il sollievo che provò solo sapendola lì, nei suoi shorts di jeans e una semplice maglietta nera.
Kira ricoprì la distanza in pochi passi, rimanendo immobile fino a quando lui non pronunciò in un borbottio poche parole. «Non te ne torni a casa?»
«Non c’è nessuno a casa, adesso». Ferma sul prato, Kira osservò Mark prendere un altro pallone, posizionarlo sul limite dell’area e tirare un bolide che si incassò in rete con una forza pazzesca.
Alle loro spalle, il sole morente proiettava lunghe ombre sull’erba tinta un arancione vivo.
«Mi dispiace per com’è andata» riprovò la ragazza.
Mark ricominciò a calciare con la medesima intensità di poco prima, ignorandola. Kira si morse la lingua per non commettere errori e dire qualcosa che l’avrebbe portata a discutere con lui. Non era venuta per quello.
«Scusa. Se vuoi ti lascio solo.» Non ricevendo risposta gli voltò lentamente le spalle, amareggiata.
«Ferma.»
Kira si girò all’istante. Non si mosse finché Mark non parlò di nuovo.
«Perché non sei tornata a casa dopo la partita?» ripeté il calciatore.
«Volevo stare un po’ con te» rispose lei con una semplicità disarmante.
Mark la guardò negli occhi, mentre riconoscenza e rabbia si mischiavano. «Non ho bisogno di essere consolato» protestò dandole le spalle.
Kira sorrise senza essere vista; un sorriso fiacco ma condiscendente. Quando qualcosa lo affliggeva, Mark tendeva a non parlarne. Ma Mark aveva un bisogno disperato di parlare, sfogarsi, buttare fuori la rabbia e gridare. Purtroppo non poteva obbligarlo, doveva capirlo da solo.
«Vuoi che vada via, allora?». Lo guardò chinarsi e preparare qualche palla per altri, innumerevoli tiri. «Se vuoi me ne starò in silenzio e immobile a guardarti calciare quei palloni. Non farò nient’altro.»
«Fa come vuoi» bofonchiò Mark, posizionandosi davanti alla porta vuota.
Sul suo viso contratto nello sforzo di non dare libertà alle emozioni, Kira riconobbe lacrime occultate dall’orgoglio di un guerriero sconfitto, lacrime che non sarebbero scivolate da quegli occhi neri nemmeno per sbaglio. Entrambi sapevano che nel momento in cui Mark lo avesse permesso, avrebbe perso per davvero.
Kira non fiatò nemmeno per sbaglio quella sera. Una volta tanto cercò di comportarsi da buona amica e fu pronta all’ascolto nel caso Mark avesse deciso di spezzare il suo forzato silenzio. Per lunghi minuti, però, ascoltò solo il rumore del cuoio percosso dai calci di Mark, i ringhi rabbiosi di una tigre ferita gli salivano dalla gola. Rimase dietro di lui, passandogli nuove palle, recuperando quelle che finivano troppo lontano. La violenza con cui Mark si gettava contro quel pallone smosse qualcosa dentro di lei rassomigliante alla paura. Ma comprendeva che quello era l’unico modo in cui lui riusciva a reagire. Era come se lui stesse cercando di replicare alcune azioni compiute durante l’incontro, nel tentativo di capire dove avesse sbagliato e perché. Non c’erano perché, e Kira lo trovò un inutile e doloroso auto-infliggimento di domande senza risposta. Era andata così e prima Mark lo avesse capito, prima sarebbe uscito da quello stato di furioso sconforto.
Stanco, lui si lasciò infine cadere sull’erba. «Basta. Non serve a niente» ansimò, passandosi un braccio sulla fronte sudata.
Kira gli sedette accanto qualche secondo dopo. «Va un po’ meglio ora che ti sei sfogato?» domandò.
«No». Mark si passò una mano sul viso in un gesto esausto, poi la guardò. Si guardarono.
Per un fugace istante il ragazzo si domandò perché lei continuasse a stargli accanto. Nemmeno Ed insisteva tanto, al contrario, sapeva lasciargli i suoi spazi comprendendo il suo bisogno di solitudine. Kira invece era venuta lì a offrirgli un sostegno non richiesto, perseverante anche nel silenzio, con quei suoi grandi occhi che lo scrutavano attenti come se accertarsi che stesse bene fosse per lei la cosa più importante al mondo.
«Smetti di fissarmi in quel modo, mi dà fastidio» disse, distogliendo lo sguardo.
«In quale modo?»
«Come se dovessi crollare da un momento all’altro.»
«Cerco solo di capire se stai bene.»
«Sto da schifo, come vuoi che stia?»
Le sopracciglia della ragazza crearono un arco di contrarietà.
Mark represse uno sbuffo. Lei faceva sempre così quando qualcosa non le andava, inarcava le sopracciglia e ti guardava in un modo che…
Gli faceva saltare i nervi.
Mark capiva perché era lì ma non le avrebbe dato soddisfazione: non si sarebbe lasciato andare allo sconforto, non voleva che lei vedesse la sua debolezza. Si sentiva un perdente, e un bruciante buco nero che gli si era aperto dentro il petto gli ricordava quanto doveva apparire penoso il suo atteggiamento agli occhi altrui. Per questo aveva rifuggito la compagnia di Ed e dei compagni preferendo scendere al campo da solo.
«Sai che c’è?» riprese dopo lunghi minuti di silenzio. «Che tutti alla Toho credevano in me e io li ho delusi. Non sono riuscito a portare in trionfo la squadra nemmeno quest’anno.»
Kira lo squadrò con rimprovero. «Eravate in undici su quel campo, non giocavi da solo.»
«Già. Hai centrato il punto». Mark si passò le dita nei capelli, sulla fronte, e lì le tenne. «Io sono un individualista, credo tu lo abbia capito. Ho cercato di fare gioco di squadra come ha detto il mister, e va bene, posso farlo, non è un problema. Ma essere messo a centrocampo no. Questo non lo accetto.»
Kira rifletté bene prima di parlare. «Non prenderla come un affronto personale. Il tuo allenatore sa cosa è meglio per la squadra. Può darsi veda in te altre potenzialità e stia cercando di sfruttarle.»
«Che si fotta quello stronzo! Non ha capito un cazzo di me né di come si allena una squadra!»
Mark scattò in piedi, lasciando Kira da sola sull’erba.
Lei lo seguì con lo sguardo, turbata. Era la prima volta che vedeva il suo amico così sottosopra.
«Mark…»
«Va a casa» quasi le ordinò, marciando in fretta verso l’uscita del campo.
«Aspetta!» lo chiamò lei senza successo. Si rimise in piedi a sua volta, indecisa su cosa fare.
Le ci vollero due secondi per decidere.
Lo seguì a passo spedito fino all’ingresso del tunnel da cui uscivano i giocatori. Mark era scivolato contro il muro in ombra, le braccia abbandonate sulle ginocchia e il capo chino tra di esse.
Kira rimase a fissarlo per qualche secondo. Tutte le parole che aveva deciso di usare per farlo star meglio le apparvero improvvisamente troppo deboli.
Si chinò in ginocchio di fronte a lui, lentamente. Sentì il lieve respiro accelerato di lui sopra il frinire dei primi insetti della sera. Non era venuta per imporsi su di lui, perciò non disse niente. Semplicemente aspettò.
Gli posò una mano sopra un ginocchio, cauta, come se stesse toccando una bomba pronta a esplodere.
«Senti, spesso nemmeno io comprendo le decisioni dei miei coach» tentò Kira, sistemandosi meglio sui talloni. «Alla scuola di pattinaggio in cui andavo prima avevano tutto un modo diverso di insegnarci, però cerco di adeguarmi»
Mark girò la testa, fulminandola. «Certo, tu ti adegui perché ti va bene! Perché tu parteciperai ai tuoi campionati e probabilmente li vincerai anche. Ma a me non va bene affatto!» Mark picchiò un pugno a terra. Ignorò il dolore sordo. La sua voce si alzò di diversi toni, graffiando l’aria. «Non capisci? Non posso giocare in un altro ruolo solo perché Kitazume lo vuole. Lui sa benissimo che sono il giocatore con il tiro più potente e cosa fa? Mi fa indietreggiare? No! È escluso, Kira!»
«Mark, lo ha fatto per evitarti un altro cartellino giallo!»
«Sì, e questo è il risultato! Eddie, Lucas e gli altri sono stati bravi, però non hanno avuto la prontezza di andare in rete come l’avrei avuta io. Hanno sprecato un sacco di occasioni, per non parlare dei palloni che si sono fatti soffiare da Holly a centrocampo perché Kitazume ha ordinato di non esagerare in fase d’attacco. Ma non ci si può frenare: la palla la devi recuperare e correre, attaccare, sempre, non solo quando hai la strada spianata; devi andare dritto verso la porta e fare qualsiasi cosa per vincere! Se non lo facciamo rimarremo sempre secondi e io sono… stanco.»
Mark liberò un respiro, asciugandosi una lacrima che gli bagnava il volto. Lanciò un’altra occhiata a Kira, immobile e silenziosa ancora inginocchiata davanti a lui.
Lentamente lei si alzò da terra ma solo per risedersi un istante dopo al fianco del ragazzo.
«Non vergognarti se piangi» Gli posò una mano sui capelli che lo indussero ad alzare il viso e voltarsi.
«Potresti non farmelo notare? È già abbastanza umiliante che tu sia qui»
«Oh, smettila, Lenders. Piangere è assolutamente normale dopo una delusione come questa. E comunque, non andrò a raccontarlo in giro»
Il ragazzo espirò seccamente. «Non è questo il punto. Io non ho bisogno…»
«…di me. Va bene. Ma non puoi costringermi ad andar via.»
«No, non intendevo…». Lui non voleva consolazioni e frasi fatte ma voleva lei lì. Non riuscì a dirglielo ma Kira capì ugualmente.
«Anche l’anno scorso mi cacciasti via quando cercai di parlarti dopo la finale. Dev’essere un tuo vizio» tentò di ironizzare, ma nella sua voce c’era del sarcasmo.
«L’anno scorso non volevo nemmeno vederti, ero incazzato con te»
«Vero. Quindi è già la seconda volta che tenti di cacciarmi, ma stavolta non vale la regola del ‘non c’è due senza tre’»
«Kira…»
«No!» rispose lei, secca. «Tu vuoi che me ne vada solo perché non vuoi che ti veda piangere, ma è una motivazione stupida.»
Mark voltò la faccia dall’altra parte e lei lo udì sbuffare. Ringhiare per meglio dire. «Sei tremendamente fastidiosa»
«Prima mi hai detto che posso fare come voglio» puntualizzò lei. «Perciò faccio ciò che voglio e resto. Ma se proprio detesti la mia presenza, guardami in faccia e dimmelo».
Mark affondò lo sguardo dentro al suo per un attimo lungo milioni di secondi, e ancora non riuscì a capacitarsi di come averla vicina lo facesse stare bene anche in un momento in cui odiava il mondo intero.
Rimasero per lunghi minuti seduti l’uno accanto all’altra, quasi immobili, silenziosi.
Mark tenne gli occhi fermi sul suo viso, rivivendo un ricordo amaro. Kira sembrò quasi leggergli dentro e riviverlo con lui…
 
«Sono venuta a dirti che mi dispiace. Per quello che vale»
«Non cercare di essermi amica… Fai un favore a tutti e due: sparisci»
 
Quella conversazione era avvenuta esattamente dodici mesi prima.
Quando lui aveva iniziato a considerarla un’amica e in seguito aveva creduto di essere stato sfruttato unicamente per raggiungere uno scopo infantile, Mark si era sentito trafiggere. In quei giorni si erano feriti a vicenda. Non gli era importato, nemmeno nel periodo in cui erano diventati due estranei, o se n’era voluto solo convincere. Ma ora lei era lì, per lui. Poche persone spendevano il loro tempo per lui, non aveva mai avuto molti amici e Kira aveva iniziato a diventare…preziosa.
«Perdonami» le disse, occultando il proprio viso lasciando che la lunga frangia lo coprisse. Parlò senza guardarla. «Un anno fa mi apparivi solo come una ragazzina boriosa e superficiale che non aveva niente in mente se non la sua bicicletta»
Kira gli rivolse un sorriso di scuse. «E tu come uno scimmione maleducato capace solo di giocare a pallone.»
«Abbiamo perso un mucchio di tempo ad ignorarci per niente, ma non voglio più che succeda. »Mark prese un respiro. «Va bene se resti» gli uscì detto, mentre avrebbe voluto dirle “Sono felice che tu sia qui”.
Kira sorrise, lenta. «Ti confesso una cosa»
Lui ascoltò in silenzio.
«Io non ti ho mai ignorato» disse tranquillamente. «Tu non te ne sei mai accorto ma qualche volta ti guardavo dalla finestra della mia classe mentre ti allenavi. Anzi, ti osservavo ogni volta che mi capitava l’occasione. Però se ti accorgevi di me fingevo di fare altro e cercavo di non farmi notare.» Rise di sé stessa per un attimo, poi tornò seria. «Mi mancavi, ma ero troppo orgogliosa per chiederti scusa. Qualche volta mi sono domandata se anche tu sentivi la mia mancanza. Te ne stavi quasi sempre solo, parlavi soltanto con Ed e i tuoi compagni di squadra... Certe volte avrei voluto avvicinarmi e dirti qualcosa. Ma i tuoi modi ostili mi frenavano.»
«Non hai mai avuto paura di avvicinarti a me» disse lui. La guardava, ora.
Lei scosse la testa. «Non era paura. Però mi dicevo che, se mi odiavi, non mi avresti voluta intorno e così mi sono imposta di fare lo stesso.»
«Tu non rifletti prima di parlare. È questo il tuo errore» le disse Mark, posando lo sguardo sul campo ricoperto dalle ombre. «Non pensi, sei troppo impulsiva e così finisci per ferire gli altri.»
«Lo so. Mi dispiace.»
«Non serve che tu lo dica adesso. Ma, di sicuro sei riuscita a non farti notare mentre mi spiavi, spiona.»
Lei emise una risata leggera, poi fu di nuovo il silenzio.
Mark continuò a fissare il campo, sentendo la spalla di Kira scontrarsi con la sua. «Sono cambiate diverse cose in un anno.»
«Siamo cambiati noi» disse la ragazza. «Siamo cresciuti.»
«Ma il risultato è sempre lo stesso». Mark emise un sospiro irato. «Scusami. Tu cerchi di distrarmi ma io non riesco a pensare ad altro che alla partita. Il fatto è che quest’anno ci credevo veramente»
«L’anno prossimo vincerai, Mark.» Era convinta mentre lo diceva, e lo disse tutto d’un fiato. «Hai pensato ancora una volta che Holly fosse il più forte, e questo lo ha reso realmente il più forte. Così hai perso. »
Kira irrigidì le spalle, pronta al litigio. Quelle erano le parole che avrebbe voluto rivolgergli sin dall’inizio. Sapeva benissimo che lui non avrebbe accettato una critica simile. Si stupì infatti di non vederlo lanciarsi contro di lei immediatamente, definendola una scema che parlava a vanvera e di calcio non capiva niente. Forse stava preparandosi all’attacco, mettendo assieme gli insulti più…
«Sì, hai ragione» affermò invece Mark, alzandosi in piedi, i pugni serrati.
Ancora seduta a terra, Kira lo guardò stupendosi del fatto che Mark stesse… dandole ragione. Non era una cosa che capitava spesso.
Il viso del ragazzo era teso ma non più angosciato. Una nuova luce di determinazione brillava già dentro i suoi occhi, come le prime stelle della sera che facevano capolino sopra il campo da gioco.
«Più di tutto, anche più dell’astio che nutro per il mio mister, a impedirmi di dare il meglio è stato quello». Mark abbassò il viso per guardarla. «Ma sono io il più forte!»
Kira si alzò in piedi per essergli di fronte. «L’anno prossimo crederai di più in te stesso e ce la farai. Sei tu il migliore, capitano.»
Un sorriso sincero nacque sul suo grazioso viso e contagiò anche lui.
Era la prima volta che Kira lo chiamava in quel modo. Era un appellativo che gli trasmetteva importanza, responsabilità, ma sulle labbra di lei suonò diversamente, fu…piacevole. No, più di questo...
Ebbe bisogno di fermarsi a guardarla per lunghi secondi, osservarla con più attenzione di quanto avesse mai fatto prima d’ora per cercare di capire una volta ancora cosa rappresentasse per lui quella ragazza.
Fece un passo avanti e in un attimo chiuse le braccia attorno a lei.
Kira rimase ferma con le braccia lungo i fianchi per qualche lungo secondo. Poi alzò a sua volta le braccia e gli circondò la schiena. Era una stretta che trasmetteva affetto e gratitudine. Volle dire qualcosa ma non lo fece.
Abbracciarsi in silenzio, senza dire niente e comprendere tutto, lasciando da parte ciò che non serviva, i bisticci e la vergogna, la tristezza e la rabbia.
«Grazie, Kira»
Era strano per lei non aver nulla da dire, ma non le uscì niente a parte un «Di nulla».
«Se ti incontrassi oggi per la prima volta, non credo ti detesterei.» disse Mark, accorgendosi troppo tardi di aver pensato ad alta voce.
«Co…?» Kira spalancò gli occhi e quasi le sembrò che lui stesse chinandosi in avanti verso di lei… e poi il suo orologio emise una serie di ‘bip’, segnando le otto di sera.
Gli occhi di entrambi fissarono automaticamente il quadrante illuminato.
«Caspita, è tardi» fece lei alzando il polso.
Mark si allontanò di un passo. «Vieni, ti accompagno a casa»
Lei tentennò, le guance tiepide. «Non…non devi rientrare in dormitorio?»
«Il ritiro è praticamente terminato. È l’ultima notte qui, domattina torniamo a casa»
«Va bene, ma… se il tuo mister ti becca uscire da scuola senza il permesso ti declassa a raccattapalle. Altro che cartellino giallo.»
La battuta pungente costrinse Mark a lanciarle un’occhiataccia delle sue. «Sei venuta in bici?» chiese poi.
«Sì. Ma non ti devi disturbare, Mark, davvero. »
«Non è un disturbo. »
Kira esitò. «Ce la farai a rientrare in tempo?»
«Sì, no ti preoccupare. » Mark infilò le mani nelle tasche dei calzoni della tuta. «Quanto ci si mette da qui a casa tua?»
«Se pedalo veloce, quindici minuti»
«Allora andremo velocissimo. Guido io, tu salta dietro.»
Kira non era certa che fosse una buona idea per Mark sgattaiolare fuori dalla scuola, ma lo lasciò fare perché lui fu irremovibile, e anche perché le sembrò un’avventura eccitante. Lui in sella, lei seduta sul portapacchi aggrappata alla sua vita, sfrecciarono lungo la scorciatoia rasente il fiume e giù per il viale alberato. Le luci delle case strada disegnavano sulla strada ombre rettangolari e le foglie verdi degli alberi parevano acquisire un colore bluastro nella notte che avanzava.
Mark era stato a casa di Kira solo una volta ma ricordò la direzione da prendere per arrivarci. Passarono di fronte alla stazione e poi lungo altre due lunghe vie. Una volta davanti a casa Brighton, Mark si fermò dall’altro lato del marciapiede per evitare che la madre di Kira li sentisse arrivare. Qualcosa gli diceva che non sarebbe stata felice di sapere che aveva accompagnato a casa sua figlia. Ma guardando in su, si stupì di vedere tutte le luci spente.
«Non c’è nessuno in casa?» chiese, scendendo dalla bici insieme a Kira e riconsegnandola nelle sue mani.
«Ancora no. I miei sono andati fuori a cena con dei vecchi amici. Sai sono gli ultimi giorni di licenza di papà»
«Si fidano a lasciarti sola?»
«Certo. Mia madre non rientra mai prima delle nove di sera, quando lavora»
Mark vide una strana espressione sul suo viso. «Ti dà fastidio stare sola?»
Lei alzò le spalle. «Ci sono abituata. E poi di solito c’è la nonna»
Il ragazzo osservò la grande casa deserta, i muri bianchi, il tetto color ocra. «Qualche volta vorrei poter stare un po’ da solo anch’io. A casa mia c’è sempre un tale casino…»
Kira sorrise. «Lo immagino. Con tre bambini scatenati...». Lo vide sospirare e il sorriso si ampliò. «Senti, io tra qualche giorno parto per le vacanze. Starò via un paio di settimane. »
Mark apprese la notizia solo in quel momento. Fu un attimo. Avvertì una sensazione strana dalle parti dello stomaco che subito si dissolse e che non riuscì a riconoscere come delusione.
«Allora ci vediamo quando torni.»
Lei annuì. «Quando rientrerò, mi piacerebbe passare le ultime settimane di vacanze facendo qualcosa insieme. Ti andrebbe?»
«Qualcosa di che tipo?»
«Non so, magari andare in piscina o fare una gita in bici, o andare ancora al negozio di Gary»
«Va bene» rispose lui, semplicemente. «Io devo ancora iniziare i compiti, a dire la verità; ma va bene»
Kira si grattò la punta del naso, imbarazzata. «Già, anche io devo ancora iniziarli».
Nessuno dei due aveva aperto mezzo libro da quand’era finita la scuola un mese prima.
«Che scansafatiche!» la rimproverò Mark. «Tu hai avuto un mese per farli, io avevo gli allenamenti e le partite»
«Ehi, anch’io mi sono allenata! Il nostro club è rimasto attivo tutta l’estate, cosa credi? E poi sono venuta a tutte le partite»
“Non scaricare sempre la colpa su di me» disse Mark, iniziando ad allontanarsi. “Prendi la mia bici» lo fermò Kira.
Lui squadrò la bicicletta arricciando il naso.
«Non preoccuparti, i miei non si accorgeranno che non c’è. Me la riprendo domani mattina quando vado agli allenamenti»
«Non è questo…» balbettò Mark.
«E allora cosa? Non sembri convinto»
Mark fissò ancora i fiorellini dipinti sulla canna e il manubrio. «Kira…è una bici da femmina»
«Che ti importa? Tanto non ti vede nessuno. Non puoi tornare a scuola di corsa»
«Faccio una corsa tutte le mattine dalla stazione fino a scuola, sono allenato. E poi so correre vocissimo.»
«Sì, ma casa mia è più lontana della stazione e poi è sera. E se incrociassi qualche male intenzionato?»
Mark non poté credere a ciò che sentì e quasi rise della sua preoccupazione. «Non se ne parla, non mi farò vedere in giro con quella»
«Oh, sei così cocciuto…»
«Divertiti in vacanza» disse lui abbassando la voce il più possibile, alzando una mano in segno di saluto.
«Grazie. E tu non farti beccare a rientrare» rispose Kira in un avvertimento altrettanto sommesso. Lo guardò correre veloce come il vento fino in fondo alla strada e voltare l’angolo. Allora si mosse verso casa, aprì il cancelletto dell’ingresso e trascinò la sua bici nel giardino sul retro, poi entrò in casa.
Il suo ultimo pensiero prima di andare a dormire fu per Mark, sperando che riuscisse a raggiungere il dormitorio senza avere problemi.
Era stata felice di essere riuscita a consolarlo, anche se avevano dovuto beccarsi come al solito. Credeva che quell’aspetto non sarebbe mai cambiato, lei e Mark avrebbero sempre discusso per qualcosa, però… andava bene. Se poteva stare con lui andava bene anche così.
Stava quasi per addormentarsi, i pensieri si susseguivano senza un filo logico, confondendosi, mescolandosi nella calma che precede il sonno. E tra quei pensieri rifiorì il momento in cui Mark l’aveva abbracciata. Le era piaciuto essere abbracciata, tanto, e forse aveva anche sperato, per un fugace momento, che lui si chinasse su di lei e la baciasse.
Ma quando si svegliò la mattina seguente, non rammentò affatto di averlo pensato.

 
 
Pics-Art-08-19-06-35-09-2 
[Immagine creata da me. Non prelevare]  

***** ***** ***** ***** *****
Note:
 
Il Japan Skating Federation, (JSF) è l’organizzazione sportiva giapponese che si occupa degli sport su ghiaccio, con la funzione di regolamentare le gare a livello nazionale. Questi organi di governo sportivo possono includere azioni disciplinari per infrazioni alle regole, o la decisione di modificare le regole nello sport che governano.
 
***** ***** ***** ***** *****
 
 
Ci ho messo un bel po’ per tornare ad aggiornare ma alla fine ce l’ho fatta, anche se a me non piace per nulla come è uscio questo capitolo... A voi sì?
 Comunque... Mi sono presa un po’ di tempo per riflettere su questa storia, che nella mia testa sta prendendo un’impronta un po’ più adulta di come l’avevo pensata all’inizio. Man mano che cresceranno ho in programma di alzare un pochino il rating, che da giallo diventerà arancione. Ma non è ancora il momento.
Per ora concentriamoci sui successi e gli insuccessi sportivi. In questo capitolo ho lasciato grande spazio alla descrizione del match Toho vs New Team. E come si sa, anche stavolta Mark e compagni hanno perso, così ho sfruttato l’occasione di un Mark sconfortato e di una Kira premurosa e un po’ più dolce rispetto al solito. Li avete trovati carini quanto me? *___* La prossima volta i ragazzi saranno ancora in vacanza, ma il nuovo trimestre è alle porte e perciò ci concentreremo su Kira e la sua ammissione alle gare nazionali, sempre ritagliando dello spazio per un po’ di fluff.
 
Vi ho lasciato un disegnino :) se volete vederne altri potete seguirmi sul mio account Instagram @susanthegentle_efp e il mio gruppo Facebook Chronicles of Queen per sapere gli aggiornamenti.
Ringrazio come sempre tutti voi che leggete, recensite e avete messo la storia nelle seguite/preferite/ricordate, e chi ha commentato lo scorso capitolo.
 
Se ci sono errori scusate, non ho riletto.
Un baciotto grande e alla prossima!

Susan <3

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3779608