Undercover

di Izumi V
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Storia scritta per l’evento “Il tempo passa, la johnlock resta”, indetto dal gruppo fb “Johnlock is the way… and Freebatch of course!”
(Verrà pubblicata in due capitoli)
 
Un grazie speciale a E., che mi sprona sempre, più di quanto meriterei. 
 
 
Prompt:
Lavorare sotto copertura pensava fosse più emozionante, ma ovviamente Mycroft non poteva che trovargli il lavoro più noioso del mondo. Il mercante di libri usati. Cosa c’era di peggiore che stare in un negozio tutto il giorno costretto ad avere rapporti con la gente? Era la sua prima indagine ufficiale ed era il più giovane detective in servizio, ma temeva che non avrebbe potuto fare molto. Stava preventivando l’idea di farsi scoprire da quei criminali per movimentare le cose, finché un giorno non compare sulla porta del negozio un ragazzo, più o meno della sua età, che da quel momento rende le giornate del giovane detective molto più interessanti.
 
 
 
 Undercover
Parte 1
 
 
 
Sfoglia distratto un libro preso a caso dalla pila che si è accumulata al suo banco. Lo fa spesso, lascia che l’ammasso di volumi cresca un po’ in modo da evitarsi inutili avanti e indietro. A volte, perso nelle proprie elucubrazioni, non si rende conto di quanto effettivamente la torre sia cresciuta, fino a occultargli la vista del povero cliente di turno.
Cosa può farci, si annoia.
Maledetto Mycroft e le sue stupide idee. Sono ormai nove giorni che lavora lì ed è un miracolo che non sia già morto di nullafacenza. È sicuro che quell’incarico sia tutto parte di un piano per indurlo ad abbandonare la professione che si è scelto. Conosce abbastanza bene il fratello maggiore per dedurre cosa esattamente si aspetti da lui e i subdoli modi che userebbe per convincerlo. Naturalmente, Mycroft si sbaglia di grosso se crede che un po’ di tempo perso a fare il libraio possa impedirgli di diventare un detective professionista.
Anzi, no. Non un detective.
Un consulente investigativo!
Sorride fra sé e sé trionfalmente, pregustando il momento in cui il fratellone dovrà arrendersi alla realtà dei fatti. Perché quel momento arriverà, può starne certo. Gli serve solo la giusta occasione.
Si guarda intorno e l’entusiasmo si spegne tutto d’un colpo. Un grugnito di disapprovazione e frustrazione abbandona le sue labbra. Certo che in quel postaccio c’è ben poco da entusiasmarsi.
Il locale è immerso nella penombra, benché sia pieno giorno. Questo probabilmente è dovuto non solo alle finestre piccole e locate troppo in alto, ma anche agli scaffali che spesso arrivano fino al soffitto, coprendo in parte o del tutto le poche fonti di luce. In realtà, gran parte dell’illuminazione arriva dalla porta d’ingresso, composta per la maggior parte da due grandi pannelli di vetro smerigliato incastonati in un’intelaiatura di legno scuro.
All’interno, lo spazio per muoversi è al minimo sindacale. Sugli scaffali i libri sono incastrati in ogni anfratto disponibile: verticale, orizzontale, diagonale. Se solo fosse disponibile una quarta dimensione, userebbero anche quella. Per non parlare delle pile per terra, da far concorrenza alle strutture druidiche degli antichi Celti. Ogni tanto, a movimentare la situazione, basta un lieve sfioramento per far crollare l’intera scultura. E lì sì che è un’impresa, rimettere tutto come prima.
Una volta gli è capitato.
 
Era il terzo giorno di lavoro. Facendo lo slalom tra un paio di piloni, per mettere via un tomo di milleduecentoventitré pagine, il ragazzo urtò accidentalmente un volume situato in seconda posizione dall’alto. Non l’avesse mai fatto. Non solo era crollata quella torre, ma ne aveva trascinate con sé altre tre.
Le imprecazioni tirate in quell’occasione è meglio non ripeterle.
Come se non bastasse, proprio mentre era intento a rimediare al danno, un cliente era entrato nel negozio. Anche il malcapitato si era beccato, a sua insaputa, un paio di improperi. Inoltre, il finto libraio non aveva alcuna intenzione di abbandonare la propria postazione solo per andare incontro allo sconosciuto. Quest’ultimo, avanzando nel negozio, procedette con cautela guardandosi intorno.
Era evidentemente la prima volta che metteva piede lì.
Si schiarì la voce. “Ehm, c’è nessuno?”
“Sì? Di cosa ha bisogno?” Aveva risposto il detective, sventolando un braccio per aria in modo da farsi notare. Forse in altri casi non si sarebbe nemmeno premurato di rispondere, ma quella voce, d’istinto, gli era piaciuta. Sbrigativa, asciutta ma senza scortesia, dava l’impressione di una persona pratica e molto concreta. E poi aveva un bel timbro – Ma perché diavolo dovrebbe interessarti il suo timbro?
“Ah!” Il nuovo arrivato raggiunse la fonte della voce, trovandosi davanti un giovane uomo, a occhio e croce della sua età, seduto in mezzo a – o meglio, sommerso da – una montagna di libri sparpagliati in ogni direzione. Corrugò la fronte confuso.
“Tutto bene? Vuole una mano?”
L’altro alzò appena il mento: “Assolutamente no, è tutto sotto controllo. Ma la ringrazio.”
“Uhm, ok.”
Trascorse qualche secondo di silenzio in cui, per un motivo ignoto a entrambi, mantennero il contatto visivo senza scambiare una sola parola. Fu poi il detective a interromperlo, sbattendo le ciglia imperturbabile: “Beh? Di cosa ha bisogno?”
Il cliente si riscosse e si morse l’interno della guancia.
“Ehm, nulla di particolare. Ero passato a dare un’occhiata. Sa, ehm, volevo…” Rimbalzò il peso da un piede all’altro e si mise le mani in tasca. “Beh, è stato un… piacere? Ci vediamo. E buon lavoro con quelli.” Indicò con un cenno e un mezzo sorriso le decine di volumi sparsi in giro, girò sui tacchi e uscì dal negozio.
Questa poi…!
Il ragazzo, suo malgrado, era rimasto interdetto. Ma almeno aveva avuto il tempo di scandagliare il nuovo venuto nei pochi secondi di osservazione reciproca che si erano concessi.
Niente male, proprio niente male.
 
Al ricordo di quel giorno, senza volerlo, un angolo della bocca si piega all’insù. Poi però la mano comincia a tamburellare impaziente sul piano del bancone: quel ragazzo non si era più fatto vedere. Il senso? Non lo capisce. Ogni suo gesto, in quell’occasione, dava a presagire che si sarebbe fatto rivedere. E invece sono passati sei giorni e di lui nessuna traccia.
Inutile nascondere a se stesso che l’idea di rivederlo lo intriga non poco.
Sbuffa ancora, sollevando involontariamente il sottile strato di polvere sul volume che tiene in mano.
Ah, giusto, la polvere.
La polvere forse è la vera sovrana di quel luogo. Altro che il libraio. Non che gli dia questo gran fastidio, eh. A dirla tutta, non gli importa molto di quanta polvere sia accumulata in ogni centimetro di superficie disponibile. Ma dà fastidio ai clienti, e loro si lamentano con lui. Tuttavia, non ha la minima voglia di mettersi pure a far le pulizie. Già è una tortura insopportabile star chiuso lì dentro otto-nove ore al giorno…
Uno scricchiolio improvviso dalla porta d’ingresso lo avvisa per tempo dell’arrivo di un cliente.
Il detective alza lo sguardo speranzoso – più speranzoso di quanto non vorrebbe lui stesso – per poi riabbassarlo due secondi netti dopo. Una donna giovane, sulla trentina, passeggia con noncuranza osservando la mole spropositata di libri che sembrano spuntare persino dai muri.
Si avvicina al bancone con un bel sorriso e lo sguardo basso.
Ok, è timida. Meno pericolosa di quanto temesse, più facile da liquidare in caso di necessità. Ottimo.
“Buongiorno!”
“Buongiorno. Ha bisogno?”
“S-Sì. Cercavo…” tenta di guardarlo negli occhi, ci riesce per una frazione di secondo. Li riabbassa e si arrotola una ciocca attorno al dito. Sembra pensarci su. “Cosa avete su Jane Austen?”
L’uomo trattiene a stento uno sbuffo impaziente. Troppo facile capire il suo gioco. “Se mi dice un titolo preciso posso controllare subito nell’archivio online.”
“Oh, certo,” risponde lei troppo in fretta. Si morde un labbro. “Northanger Abbey.”
Lui inserisce le lettere velocissimo. Nessun riscontro. “No, mi spiace.” La guarda. “Non ce l’abbiamo.”
“Che peccato!” La donna resta lì, sembra voler aggiungere qualcosa, tentenna. “Senta, mi chiedevo se…”
Ma lui è più veloce. “Ma certo, se dovessimo averne una copia in futuro l’avviseremo sicuramente!”
“N-no, io veramente…”
“E non si dimentichi di iscriversi alla nostra newsletter!” continua imperterrito con eccessivo, simulato, entusiasmo. Esce dal bancone e l’accompagna alla porta: “Ora mi scusi ma devo chiudere per qualche minuto per portare alcuni volumi in magazzino. Arrivederci e grazie!”
La poverina si lascia condurre fuori senza trovare nessun modo per ribattere. Prima ancora che possa rendersi conto di cosa è successo, la chiave gira nella toppa e il cartello viene preventivamente voltato con il “Closed” rivolto all’esterno.
“Ma che modi!” mormora lei. Rimane ancora un attimo a guardare sconfortata il vetro, prima di incamminarsi al prossimo impegno, ben decisa a dimenticarsi del bel libraio intravisto qualche giorno prima.
Il detective torna al proprio bancone senza rimorsi. Si ricorda di quella ragazza, è già venuta altre volte, senza mai rivolgergli la parola. Probabilmente non trovava il coraggio. E ora ha nominato un autore a caso, il primo che le è venuto in mente, e un suo romanzo, sempre a caso, pur di interagire con lui. Come fa a dirlo? Perché le altre volte ha guardato di tutto, dalla sezione storica a quella di medicina, dalla letteratura tedesca alla geologia. Se le fosse servita davvero Jane Austen, avrebbe puntato direttamente alla letteratura inglese, che è, tra l’altro, la più vicina all’ingresso. Quello che poi l’ha definitivamente messa fuori gioco è stata la scelta del libro. Ne aveva già uno in borsa, e il titolo era fin troppo visibile – per lo meno, per la sua vista acuta: Northanger Abbey. Per quale assurdo motivo avrebbe dovuto chiederne in prestito un altro, se quello già ce l’aveva? Come già detto, troppo facile.
Ne approfitta per portare davvero i libri in magazzino. Recupera i volumi da sotto il banco – una quindicina, anch’essi ammonticchiati da giorni – e un poco alla volta li riporta al loro posto, borbottando nel mentre contro le implicazioni di un lavoro del genere.
“Mycroft lo ammazzo sul serio. In che razza di situazione mi ha cacciato! E non è la prima volta…”
Finisce coi suoi avanti e indietro e con riluttanza riapre il negozio, dimenticandosi però di ribaltare il cartello. Inizia invece a vagare tra gli scaffali, sopraffatto dalla noia.
È distratto.
Ed è strano da parte sua, ma la frustrazione gli ruba troppe energie mentali. Ha risolto il caso già da quattro giorni, eppure è costretto a rimanere lì.
 
“Ottimo lavoro, fratellino. Ero certo che sarebbe stato fin troppo semplice per te. Ma abbiamo bisogno che resti lì, continuando a comunicarci i loro scambi. Più informazioni raccogliamo sui loro traffici, più facile sarà arrivare ai loro complici. Naturalmente, inutile dirti che non dovrai in alcun modo farti scoprire.”
 
Vana era stata ogni protesta, ogni minaccia, ogni parola tentata per fuggire a quell’orrenda situazione.
Mycroft era stato irremovibile. Dannazione.
Lo sguardo gli cade su una torretta che pare particolarmente stabile. La adocchia un attimo, come a chiederle il permesso, per poi sedersi su di essa. Ringrazia mentalmente il proprio fisico esile, ai limiti dell’eccessiva magrezza. Si appoggia con un gomito al ginocchio, il mento sulla mano chiusa a pugno.
Sì, il suo primo caso ufficiale da detective era stato davvero troppo facile.
Traffico di droga, nulla di così originale. Un gruppo aveva deciso di spostare la propria base operativa da Brighton, troppo fuori mano, a Londra. Con il risultato di finire immediatamente nel mirino di Scotland Yard, che come al solito non aveva idea di dove cominciare, e di Mycroft.
Non gli è stato subito chiaro il motivo, a dirla tutta. Il Governo inglese ha di meglio da fare che dare la caccia a un paio di cani sciolti. A meno che… non fossero dei semplici spacciatori. Qualche ricerca su internet, qualche domandina ad amici del giro e bingo! Aveva trovato quel che cercava. Gli uomini in questione non si erano spostati casualmente a Londra, ma per stare più vicini alla testa di un’organizzazione più vasta. Probabilmente sotto richiesta del capo stesso.
Il capo.
L’ultimo pezzetto del puzzle che ancora gli manca. Ha infatti compreso in pochi giorni la modalità di comunicazione della banda. Sfruttano proprio quella libreria. Utilizzano un metodo tanto antico quanto semplice da usare, ossia i codici: la mattina lasciano una scritta col gesso sul muro – due, tre numeri al massimo – che corrispondo alla pagina, alla riga e alla parola di un libro precedentemente definito. Quando il criminale in questione passa da lì, entra e trova il messaggio seguendo le cifre, per poi cancellarle andando via. Hanno poi verificato che i messaggi corrispondessero ai luoghi di scambio.
Insomma, gli manca solo di capire chi muova i fili di tutto.
La sua curiosità è ulteriormente stimolata dalle specifiche direttive di Mycroft, che gli ha severamente vietato di addentrarsi troppo all’interno della questione.
 
“Fammi capire, mi stai dicendo di continuare questa farsa per raccogliere più informazioni, e allo stesso tempo devo tenermene fuori? Che razza di contraddizione è?”
“Non mi aspetto che tu comprenda…”
“Meno male, perché sarebbe a dir poco impossibile.”
“Fratellino, ascolta. Fidati di me. Ci devi solo aiutare ad arrivare ai loro immediati complici. Quando avremo loro, il tuo compito sarà concluso.”
 
Certo, come no. Se crede davvero che al momento buono si ritirerà nel proprio angolino, di nuovo si sbaglia di grosso. O suo fratello è tremendamente ingenuo, o sta già ideando uno dei suoi piani per tenerlo fuori dai guai quando sarà il momento.
Povero stolto!
Non ha assolutamente idea che lui, per conto suo, ha già elaborato più di uno scenario allo scopo di movimentare le cose. Quello di far scoprire la propria copertura, mettendosi in bella mostra come bersaglio, è al momento l’opzione favorita.
Si tamburella distrattamente sul mento con le lunghe dita sottili. Potrebbe perfino dare il via al suo piano quel giorno stesso. C’è solo un ostacolo al momento, e questo gli brucia da morire.
Farsi scoprire avrebbe voluto dire terminare con il proprio lavoro di libraio, abbandonare la libreria, non rivedere più…
“Permesso?”
 
Quella voce.
È lui.
Il ragazzo dell’altro giorno.
Presto, devi andargli incontro.
Questi i pensieri che gli rimbalzano nel cervello, di norma dieci passi avanti rispetto al resto del corpo.
Di fatto, tutto ciò che si vede dall’esterno è lui, seduto su quella pila di libri, che sobbalza e cade rovinosamente per terra, trascinando con sé la massa verticale che lo sorreggeva.
“Ehi!”
Il ragazzo fa uno scatto nella sua direzione, per fermarsi a pochi passi da lui. Lo sbircia al di là di un tavolino, manco a dirlo coperto di volumi, ed emette uno sbuffo divertito.
“Allora il tuo è un vizio!”
“Dovrò pur avere un difetto.” Risponde prontamente lui, senza scomporsi. O almeno ci prova.
Incrocia lo sguardo del nuovo arrivato e ridono all’unisono.
Approfittando del momento, il ragazzo decide di circumnavigare il tavolino per raggiungerlo. Gli tende una mano per aiutarlo ad alzarsi.
È calda, leggermente callosa, la presa forte e decisa.
“Grazie,” borbotta il detective.
“Figurati.”
Le mani sono ancora strette l’una all’altra.
“Piacere, comunque. Sono John Watson.”
“Sherlock. Sherlock Holmes.”
Sherlock…” ripete lui con un accenno di sorriso, guardandolo fisso.
John.” Gli fa eco il detective, con un piccolo cenno del capo.
Un battito di ciglia spezza il silenzio di attesa che si era creato.
“Volevi tenere lontani i clienti, con quel cartello?” gli chiede John, ritirando con delicatezza la mano che era stretta alla sua e indicando la porta.
“Come? Cos- ah! Mi son dimenticando di voltarlo.”
“Allora era davvero per tenere fuori qualcuno?” ridacchia.
“Mmh, più o meno.” Poi ci pensa su e corruga la fronte. “E tu perché sei entrato? Se il cartello diceva chiuso…”
L’altro fa spallucce. “Mi sembrava strano fosse davvero chiuso, tutto qui. E soprattutto, molti più commercianti di quel che credi se lo dimenticano nella posizione sbagliata.”
Sherlock assottiglia gli occhi mentre un angolo della bocca si solleva appena all’insù. “Hai un buono spirito di osservazione.”
“Nah… ma sono spesso in giro. Finisci per notare questo genere di cose.”
È allora che il detective ne approfitta per guardarlo bene, questa volta. Nella precedente occasione aveva avuto giusto il tempo di notare la statura decisamente non alta, i capelli biondissimi, folti ma dal taglio corto, le labbra sottili e gli occhi.
Oh, i suoi occhi.
Oggi che ha tempo di analizzargli meglio, gli fanno perfino più effetto. È sempre stato abituato ai commenti che la gente fa sui suoi, di occhi – taglio felino, colore acquamarina chiarissimo, una macchiolina dorata in quello destro – ma adesso è lui che si sente magneticamente attratto da quello che vede.
Gli occhi di John non sono definibili.
Avrebbe giurato, dal ricordo che ne aveva della volta precedente, che fossero grigi. Ma oggi sono blu. Che diamine…?
Ok, non è decisamente il caso di costruirci sopra una teoria. Non in questo momento, per lo meno. Deve sfruttare i pochi secondi che ha prima che si accorga che gli sta facendo lo scanner.
Nota la rasatura fresca, probabilmente di quella stessa mattina. Nota le occhiaie, non sono estemporanee, è abituato a non dormire. Nota gli abiti, casual ma non casuali, gli piace curarsi del proprio abbigliamento non tanto per moda quanto per passione. Nota – ah, se nota – i quadricipiti definiti che tendono la stoffa dei pantaloni sulle cosce.
“È per questo che sei ‘spesso in giro’… Bici?”
 
Sciorina la domanda senza nemmeno rendersene conto. Quando si accorge che ha parlato ad alta voce, è già troppo tardi. John lo sta guardando interdetto.
Perché per lui sono passati solo un paio di secondi, ma nella testa di Sherlock hanno tutto un altro valore, il che gli rende possibile dedurre tutto ciò che gli serve sull’altra persona pur facendo trascorrere solo una manciata di attimi.
“Sì. Come accidenti- Hai visto la mia bici?”
“No. Ma ho visto… te.”
“Cosa sei, un sensitivo o qualcosa del genere?” chiede, gesticolando appena come a cacciare lui stesso quell’idea dalla sua mente.
“Per carità! Io osservo, tutto qui. Il tuo, ehm, tono muscolare fa pensare che tu vada spesso in bici. Per non parlare della fascetta magnetica che porti al polso. Quella la usi per i pantaloni, vero? Per non sporcarli con l’olio della catena.”
John abbassa gli occhi involontariamente sulla propria fascetta.
“È corretto, sì!” Ghigna, per poi dire qualcosa che getta Sherlock nel panico: “Beh, se volessi ingannare la gente facendoti credere ciò che non sei, ci riusciresti benissimo.”
Deglutisce pesantemente.
“C-Come prego?”
“Il sensitivo! Potresti far credere alla gente che sei un sensitivo.” E ride da solo all’idea.
Il detective tira un sospiro di sollievo: ci manca solo che venga scoperto da uno sconosciuto qualunque.
“Tutto ok?”
“Sì! Sì, certo.” Lo sbircia con la coda dell’occhio, stuzzicato da un’idea. “John. Tu cosa dedurresti di me, invece?”
“Io?” John tentenna, colto alla sprovvista. “Cosa centro io, mica ho le tue stesse capacità.”
“E che ne sai, ci hai mai provato? Non sono mica super poteri.”
“Esatto, che ne so. Magari sei un super eroe sotto copertura!”
Ma lo fa apposta?
Sherlock si trova di nuovo a sudare freddo, se ne tira fuori col sarcasmo. “Hai finito di dire cavolate? Avanti. Tu vedi esattamente quello che vedo io, devi solo osservare di più.”
“Facile a dirsi, Mister-sguardo-di-ghiaccio…” borbotta lui di rimando, ma in modo così sommesso da non renderlo comprensibile.
“Che hai detto?”
“Nulla, nulla,” sospira. “E va bene. Cosa devo guardare?”
“Tutto.”
John ha un singulto involontario. Comincia a credere che il ragazzo che ha davanti non abbia davvero piena coscienza di se stesso. Come potrebbe uscirsene con risposte del genere, altrimenti?
“Uhm, dunque. Vedo…” sposta il peso da un piede all’altro, come gli ha visto fare già l’altra volta. Si passa velocemente la lingua sul labbro inferiore. “Hai i capelli neri, mossi – no, ricci. Disordinati.” Gli lancia uno sguardo fugace, sembra un insulto? Va avanti lo stesso. “Quindi forse non ti interessa più di tanto, diciamo, il tuo aspetto.” Al mezzo sorrisetto di Sherlock, John acquista sicurezza. Anzi, il suo tono di voce, morbido e basso, si tinge di una nota nuova. “Però sai cosa ti sta bene addosso. Il completo scuro, la camicia viola… beh, ti stanno bene e credo tu lo sappia.”
John sta… flirtando?
“Anche se, a dirla tutta, non è l’abbigliamento che mi aspetterei da un libraio.”
Sherlock si riscuote da una sorta di torpore. La voce di John è calda e avvolgente, come una coperta. Ma quell’ultima affermazione gli ha fatto partire un campanello d’allarme.
“Che intendi, scusa?” La sua voce perde compostezza.
Perfino John si accorge del cambiamento, lo guarda sorpreso.
“Niente, che per uno che lavora in un posto del genere mi aspetterei abiti più comodi, visto che maneggi tutto il giorno ammassi di libroni impolverati. Ma evidentemente tu prediligi l’eleganza.”
Questo ragazzo comincia a preoccuparlo sul serio. Non riesce a capire quanto le sue affermazioni siano consapevoli o gettate lì per caso.
“Sì, mi piace vestirmi elegante, in effetti.” Gli concede, più per cambiare argomento che altro.
“Vedi? Allora almeno su una cosa ci ho preso!”
“Già. Almeno quella.”
“Ehi! Non puoi aspettarti grandi cose, non sono io quello con i super poteri.”
“Ma la finisci con sta storia?”
“Non credo proprio,” mormora John, facendogli l’occhiolino. E qualcosa nel petto di Sherlock fa una piccola capriola. “Adesso devo andare…”
“Oh, ok.”
“Ci vediamo presto.”
“Ah sì?”
“Beh, sì.
Sorride, John, ed esce dal negozio. Non prima di aver voltato il cartello nel verso giusto, lanciandogli un ultimo sguardo che sa proprio di arrivederci.
Scusa, puoi continuare a sorridere così per il resto della tua vita?
Il detective scuote la testa maledicendosi.
Ci mette un minuto buono a far mente locale su ciò che è appena successo, non è sicuro di aver elaborato tutto nel modo giusto. Si passa una mano sulla nuca, arruffando ancora di più i ricci scomposti. Poi, suo malgrado, un sorriso divertito fa capolino sulle sue labbra.
È da tanto che non si diverte così con qualcuno.
John Watson. Che tipo.
Poi, in completo contrasto con l’umore di poco prima, impreca. In tutto ciò, si è lasciato sfuggire una valanga di informazioni! Gira sempre in bici, ma perchè? Fa consegne? E qual è la sua occupazione? Perché è pieno giorno e non sta lavorando. Quindi cosa fa, è uno studente? Potrebbe. Ma ha più o meno la sua stessa età, quindi o è parecchio indietro, o frequenta una facoltà che richiede parecchi anni di studio.
Infine un’ultima domanda, forse quella che gli interessa più di ogni altra.
Che ci faceva alla libreria? È la seconda volta che viene, e ancora non gli ha chiesto nulla su nessun libro.
Vuole tutte le risposte, e le avrà. Parola di Sherlock Holmes.
 
 
John intanto si sta avviando nuovamente alla sua bici, pronto a sfrecciare in università. È un miracolo che quel giorno non avesse tirocinio, così da poter passare alla libreria.
Erano stati sei giorni di intensa attesa.
Una distrazione che non aveva assolutamente preventivato.
Tutta colpa di Stamford! Mike Stamford è, o meglio era, un suo compagno di università. Hanno conseguito la prima laurea in medicina insieme, poi le loro strade si sono separate. Mike ha deciso di continuare in ambito accademico, insegnamento e tutto il resto. John invece è riuscito a passare in chirurgia, il sogno di una vita. Ora Mike è “solo” un grande amico.
Probabilmente l’unico vero che ha.
Ed è stato proprio lui a farlo finire in quel piccolo guaio, come solo i grandi amici fanno.
 
“John!”
“Ehi, Mike, ciao. Che strano beccarti qui.”
“In università?! Guarda che studio ancora, anche se non frequentiamo più gli stessi corsi!”
“Hai ragione, hai ragione. Scusa.”
“Tempo che diventerai chirurgo a tutti gli effetti, ti dimenticherai pure che esisto.”
“Questo mai! Parola mia.”
“Vedremo, vedremo. Senti, avrei un favore da chiederti. Cerco un libro di medicina generale introvabile. Ho fatto qualche ricerca e ho scoperto che ne hanno una copia usata in una libreria vicino casa tua. Ti spiacerebbe fare un salto lì per me?”
“Che sono, il tuo fattorino?”
“Potresti pensarci, come carriera alternativa. La bici ti piace così tanto.”
“Mike, addio.”
L’altro era scoppiato a ridere.
“Dai, scherzo. Non ho davvero tempo in questi giorni, puoi farlo?”
Un sospiro. “E va bene. Ma non garantisco di riuscirci a breve.”
“Tranquillo, mi serve per la fine del mese.”
“Andata.”
“Lo sapevo, sei un amico!”
 
La prima volta che si era presentato lì non aveva assolutamente idea di cosa – o meglio, chi – lo aspettasse.
Un bellissimo, stranissimo e misterioso ragazzo seduto per terra in mezzo a una montagna di libri, che per di più affermava di avere tutto sotto controllo.
Si era sentito decisamente preso in contropiede, tant’è che non era stato capace di spiccicare più di due frasette una in fila all’altra.
Ecco, oggi è andata nettamente meglio.
Forse troppo.
Come evocato da questa stringa di pensieri, il telefono comincia a vibrargli in tasca. Di fatti, è Mike.
“Ehi, Mike.”
“Ciao amico! Ti disturbo?”
“No, assolutamente. Dimmi.”
“Per caso sei riuscito a passare dalla libreria?”
Cazzo. È andato e si è dimenticato completamente di chiedere per il libro.
“Ehm, no. Cioè, sì. Sto… andando ora.”
“Grazie mille! Scusami, non voglio romperti le scatole...”
“Non preoccuparti, vado subito.”
“Grande. Perfetto. Beh, fammi sapere allora! A più tardi.”
“Sì, a più tardi.”
Attacca.
Accidenti. Deve tornare indietro.
Fa dietro front e in un paio di minuti è di nuovo alla libreria. Entra in silenzio, la porta cigola appena. Non sa nemmeno lui perché si senta così agitato. È in procinto di dire qualcosa, almeno per palesare la propria presenza, quando sente la voce di Sherlock provenire dallo stanzino sul retro del bancone. Sta parlando con qualcuno al telefono, e i toni non sembrano particolarmente amichevoli.
John Watson, esci immediatamente. Non è carino origliare.
Ma la curiosità è più forte di lui. Si immobilizza sul posto.
Il tono gli giunge ovattato, ancora più basso di quanto non sia di solito. Ma la concitazione rende comprensibile ogni parola.
“Che diavolo vuol dire che devo starne fuori?!”
Silenzio.
“Esatto, Mycroft. Non capisco, perché non c’è niente da capire. Non puoi escludermi adesso, non ora che avete deciso di passare all’azione. Non-”
John lo sente sbuffare d’impazienza. Si passa la lingua sulle labbra, concentrato al massimo.
“Questa settimana?! E me lo dici ora?! Ah certo, facciamo fare al fratellino il lavoro noioso: lui fornisce i dannati codici, poi noi ci prendiamo tutta la parte divertente.”
Un altro breve silenzio. Poi la voce di Sherlock si tinge di una nota sorpresa, come se dicesse una cosa ovvia.
“Beh, catturare quei criminali è senza dubbio la parte più divertente. Altrimenti non ti divertiresti così tanto tu a lasciarmi fuori.”
“…”
“Ti avverto, Mycroft. Non ti aspettare che io sottostia alle tue regole senza dire niente. Ti fornirò l’ultimo codice, poi deciderò io cosa fare.”
Riattacca con decisione, poi un altro sbuffo frustrato.
John si ritira nel più assoluto silenzio. In pochi secondi è di nuovo fuori e sta camminando, anzi correndo, a prender la sua bici.
Non si rende nemmeno conto della velocità che prende la propria pedalata, tanto è intento a rielaborare quanto sentito.
Ha parlato di criminali. Per la precisione, di catturare dei criminali.
Altro che libraio. Altro che sensitivo. Un poliziotto? No, impossibile.
Un detective privato? Più probabile.
Ma così giovane? Mai dire mai. Le capacità sembra averle tutte.
E sa il fatto suo, su questo non c’è dubbio.
Forse qualcun altro, nella stessa situazione, avrebbe rinunciato. Dimenticata la libreria, dimenticato il favore all’amico. Addio e arrivederci.
Ma non John Watson.
Un sorriso a mala pena trattenuto gli stira le labbra, mentre un leggero pizzicore gli punge la pelle.
Il cuore accelera il battito.
Interessante, decisamente interessante.






Fine prima parte



Grazie per essere arrivati fin qui! 
Presto verrà pubblicato anche il secondo capitolo.
Nell'attesa, se vorrete farmi sapere cosa ne pensate, sicuramente sarà un piacere e un onore.
Al prossimo chap,
Izu

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Ciao a tutti, eccoci col secondo e ultimo capitolo. Grazie di essere qui!
Buona lettura!




 
Undercover
Parte 2



Sarebbe stata sua intenzione tornare già lì il giorno seguente. Un’altra sola giornata senza rivedere quel ragazzo, né scoprire definitivamente il segreto che nasconde, lo fa andare fuori di testa.
Peccato che non abbia calcolato il turno in ospedale, che lo tiene occupato tutta la giornata.
John deve ringraziare il cielo di essere una persona fermamente dedita al proprio compito, altrimenti in reparto avrebbe combinato un disastro dietro l’altro. Quando, a sera, può riporre finalmente il camice, non riesce a capacitarsi che siano trascorse solo 36 ore da quando ha origliato la conversazione di Sherlock con quello che, a quanto pare, è suo fratello maggiore.
Tutti detective, in famiglia?
Una volta a casa, tenta disperatamente di concentrarsi sui libri che lo attendono già aperti alle pagine su cui si era arreso il giorno precedente. Ma la sua mente è altrove.
Andiamo, John. Endocrinologia non si studierà da sola.
Tuttavia, niente, non c’è verso. Non fa che ripercorrere gli eventi della mattina precedente, dalla chiacchierata con Sherlock – se così si può definire – alla conversazione ascoltata di nascosto. Non sa se sentirsi più in colpa per l’una o l’altra cosa: nel primo caso, perché si è dimenticato del favore che doveva a Mike; nel secondo caso, perché non è stato affatto corretto.
Eppure… eppure non riesce a sentirsi totalmente colpevole. Non per aver origliato, quanto meno. Ha un certo presentimento, e non è affatto positivo. Quel ragazzo si metterà nei guai.
La certezza non gli viene tanto dall’ultima frase che ha pronunciato prima di riattaccare, quanto dall’impressione stessa che ha avuto di lui: Sherlock sembra un completo incosciente. Per di più, fin troppo sicuro di sé. Non che tali tratti non gli piacciano in una persona, ma se davvero fa il lavoro che fa (e di certo non è il libraio) ciò non gli darà che problemi. E per un qualche assurdo motivo, John non vuole che questo succeda.
Inoltre, se c’è un’altra cosa che ha capito di lui è questa: il pericolo gli piace.
A quel punto, un altro sorrisetto si dipinge sul suo viso.
Riconosci sempre un tuo simile quando te lo trovi davanti.
 
È con una leggera apprensione che John Watson arriva davanti alla libreria il giorno dopo. Avrebbe voluto passare già la mattina, ma non gli è stato possibile. Ha finito i corsi giusto in tempo per arrivare verso l’orario di chiusura.
Lega la bici, fidata compagna di viaggio, e rallentando inconsciamente il passo si appresta a entrare. Sente il proprio cuore aumentare lievemente il battito. Non sa se ad agitarlo di più sia la discussione che lo aspetta, o semplicemente l’idea di rivedere Sherlock. Qualcosa nel ragazzo lo spaventa e lo attrae contemporaneamente. Forse il mistero che lo circonda, forse quei suoi occhi magnetici, forse…
 
“E va bene. Cosa devo guardare?”
“Tutto.”
 
John prende un bel respiro e quasi si lancia verso la porta, notando solo all’ultimo un graffito – o era solo gesso? – sulla parete del locale. Non gli pare ci fosse anche l’altro ieri.
Ad attirarlo, più che altro, è la natura della scritta: sono soltanto tre cifre, separate da un trattino.
Ma i numeri sono presto dimenticati non appena la sua mano si stringe intorno alla maniglia, spalancando la porta nell’ormai familiare cigolio.
“Sei tornato davvero.” La voce bassa, involontariamente sensuale di Sherlock gli accarezza il timpano non appena mette piede nella libreria.
“Avevi dubbi?” risponde lui senza scomporsi, prima ancora di vederlo nella fioca luce della stanza. Soprattutto a quell’ora della sera sembra ancora più oscura.
La figura longilinea del ragazzo emerge finalmente da dietro uno scaffale, reggendo un paio di libri in mano e diretto al bancone. Gli scocca un’occhiata veloce.
“Perché, avrei dovuto?” si limita a ribattere, con un mezzo sorriso.
John ignora la domanda, ma sente il pizzicorino tornare prepotente a pungergli la pelle. È elettrica l’aria che respira in sua presenza.
Ancora non si rende conto che è la combinazione di entrambi a renderla tale.
“Pensavo di trovarti di nuovo per terra in balia di una mandria impazzita di libri.”
“Ho imparato qualche tattica di difesa,” ghigna lui. Si ferma davanti al banco, senza passare dall’altra parte. Apre uno dei due libri e inizia a sfogliarlo fino a trovare la pagina desiderata, a quel punto si china in avanti, poggiandosi coi gomiti al ripiano di legno. Osserva attentamente la pagina e riporta qualcosa a matita su un foglio lì di fianco.
John lo guarda in silenzio, senza rendersene conto trattiene il respiro.
Ammira le sue lunghe dita affusolate infilarsi tra una pagina e l’altra, accarezzando la carta sottile, percorrendola lentamente fino a far voltare la pagina.
E John può quasi immaginarsi come sia essere toccato a quel modo, da quelle mani.
Lo vede poi sfiorarsi distratto il labbro inferiore, perso in qualche pensiero a cui purtroppo non ha il minimo accesso.
Santo cielo, quelle labbra. Così carnose, così perfette. La maniera in cui l’indice le sfiora, seppur d’intenzione innocente, risulta quantomeno licenziosa.
E mentre è intento a scrivere, a quanto pare dimentico di ciò che lo circonda, si piega ulteriormente sul banco, la schiena che si adatta flessuosa all’inclinazione più comoda. John la nota, la linea perfetta della schiena. La nota perché in quel momento Sherlock è solo in camicia, la giacca abbandonata sullo schienale di una sedia poco distante.
Sì, nota la linea della schiena. E per quanto vorrebbe fermarsi a quella, proprio non ci riesce. Il suo sguardo procede implacabile fino a posarsi sul suo fondoschiena perfetto, fasciato da quei pantaloni scuri, eleganti, che gli stanno così bene.
Ecco, solo allora John si ricorda che deve anche respirare.
Il singulto che gli scappa dalle labbra, suo malgrado, basta a riportare Sherlock alla realtà.
“John, tutto ok?”
“Sì! Sì, assolutamente.”
“Ottimo!” esclama lui, abbandonando matita e libri e dedicando all’altro la sua completa attenzione. “Allora, oggi mi dirai che libro stai cercando?”
“Libro? Ah, ma certo, il libro” ridacchia nervoso, poco ci manca che si dimentichi di nuovo. Anche se oggi decisamente non è lì per quello. “Aspetta, ho qui il titolo…”
Gli porge il proprio telefono aperto sulle note, con titolo e autore del volume per Mike. Ma quest'ultimo particolare lo tiene per sé.
Sherlock legge veloce, la sua mente sta già andando visivamente all’esatta posizione del tomo: sezione scientifica, seconda scaffalatura, terzo ripiano. John può notare la velocità pazzesca in cui si muovono le sue iridi: non lo crederebbe possibile, se non lo stesse vedendo di persona.
“Ok, vieni con me.” Lo guida veloce tra pile e scaffali, fino a fermarsi davanti alla sezione di medicina. “Ecco cosa studi, medicina, giusto?”
“Già.”
L’altro annuisce piano, osservando il terzo ripiano alla ricerca del libro.
“Sai, non capita spesso che vengano qui a chiedere libri di medicina. Ti va bene che qui abbiamo di tutto.” Si volta verso di lui. “Si può dire che siamo ben forniti.”
Lo vedo,” mormora John di rimando, abbassando subito gli occhi. Ecco, non voleva esattamente dirlo ad alta voce.
Ma Sherlock non risponde, forse non ha nemmeno sentito. Torna con gli occhi sulla libreria e sorride soddisfatto. Si allunga appena e afferra il libro in questione, passandolo direttamente a lui.
“Grazie,” borbotta John, afferrandolo. Ma nota che l’altro non ha ancora mollato la presa. Alza lo sguardo: Sherlock lo sta fissando come se volesse trafiggerlo. Le labbra appena incurvate nell’ombra di un sorriso divertito. Un lampo gli passa fulmineo negli occhi.
“Ma tu non sei qui per il libro, giusto?”
Il cuore di John comincia a tuonargli nel petto. Può sentirlo rimbombare fin nelle orecchie.
A questo punto, tanto vale.
“E tu non sei un vero libraio, giusto?”
 
Tutto si sarebbe aspettato, John.
Che si arrabbiasse, che lo cacciasse malamente fuori dalla libreria, che gli desse del pazzo.
E invece no.
Sherlock Holmes scoppia a ridere.
“Ero abbastanza sicuro che lo avessi capito!”
Poco ci manca che a John non cada la mandibola fino a terra.
“Come, scusa?”
Il detective fa spallucce. “Intuito.”
“Quindi cosa sei davvero?”
“Un cacciatore di draghi.”
“Sì, scommetto che ti piacerebbe. Sul serio, Sherlock.”
“Tu che dici?”
“Mmh, detective privato, ho pensato.”
Lui oscilla con la testa, i ricci scuri che seguono il suo movimento. “Più o meno. Sono-”
Non fa in tempo a terminare la frase.
In quel momento la porta cigola segnalando un nuovo arrivato.
John è di spalle alla porta, ma vede chiaramente Sherlock cambiare espressione. Possibile che sia uno dei criminali di cui parlava?
Nel tempo netto di un secondo, lo vede trasformarsi. Diventa tutta un'altra persona.
Sherlock apre il libro che gli ha appena passato, e lo sfoglia con noncuranza.
“Ecco, questo è il libro che mi ha chiesto. Corrisponde?” gli domanda in modo del tutto naturale, scandendo bene ogni parola e ignorando totalmente il cliente che è appena entrato. E questi, in effetti, si dà la pena giusto di un “buonasera” biascicato.
“S-Sì,” sta al gioco. “Sì, è questo. Mi assicura che è in buono stato?”
“Guardi, può controllare da sé,” continua Sherlock, impassibile, sfogliando il libro a caso. “Questo ci è arrivato giusto tre settimane fa, da un medico in pensione. Seconda mano, ma sembra nuovo, non le sembra?”
“Ha ragione, lo darei per nuovo.”
Lo vede gettare di tanto in tanto un’occhiata alle sue spalle, controllando i movimenti dello sconosciuto. Quest’ultimo si avvicina con finta nonchalance alla sezione di storia, proprio di fianco a quella di letteratura inglese. Scandaglia per un po’ i ripiani, fino a che con uno scatto fin troppo veloce non afferra un volume. Lo sfoglia per qualche minuto, poi lo ripone.
“Perfetto, allora lo prende?”
“Certo.”
Si avvicinano entrambi al banco, fingendo di ignorare il terzo presente nel negozio.
L’uomo si gira appena verso di loro, borbotta un “Grazie. Arrivederci,” e si dilegua fuori dal negozio.
Non appena sparisce alla vista, Sherlock poggia con poco garbo il libro sul tavolo e corre ad afferrare quello consultato dall’uomo. Lo spinge nelle braccia di John e corre anch’egli fuori dal negozio.
Rientra dopo pochi secondi in preda a un attacco nervoso.
“Accidenti!”
“Che succede?”
“I numeri!”
“C-che numeri?”
Il detective sospira. Richiama a sé tutte le proprie energie per mantenere la pazienza e spiegare all’altro di che si tratta. Non si preoccupa nemmeno per un momento che ciò faccia parte di un’indagine riservata; gestita, tra l’altro, niente meno che da un rappresentante del Governo inglese, quale suo fratello è.
“Ascolta, la farò breve. Non sono un detective privato, sono un consulente investigativo. Professione di mia invenzione, per quanto ne so sono l’unico al mondo. Questo è il mio primo caso ufficiale. Mi hanno chiesto di indagare su una banda di spacciatori da poco insediatasi a Londra. Quello che hai appena visto è il loro modo di scambiarsi informazioni sui luoghi d’incontro, utilizzano un libro precedentemente concordato e lasciano fuori dalla libreria i numeri per codificare il messaggio. Di solito sono tre numeri: il primo è la pagina, il secondo la riga, il terzo la parola. Li scrivono col gesso sul muro: veloci da fare, ancora più veloci da cancellare. E soprattutto, nessuno ci fa caso. Mio fratello è sul caso, lui è- beh, lascia perdere, è una lunga storia e ora non ho tempo. In ogni caso, mi vuole tagliar fuori e io non ho intenzione di lasciarglielo fare.”
Non ha preso respiro nemmeno una volta – questa è la prima cosa che pensa John. Come diavolo è possibile?!
Cerca di focalizzarsi sul contenuto.
“O-ok. Quindi ora ci servono quei numeri, giusto?”
“Esatto! È la soluzione ma anche il problema, dannazione! Sono uscito, ma i numeri non c’erano già più. Deve averli cancellati prima di entrare. Eppure ho controllato una volta ogni ora, fino a che non sei arrivato tu per lo meno, e non li ho visti.”
“Sherlock…”
Affonda le mani nei capelli e fa un giro su se stesso.
“Sherlock…”
“Dannazione! Ero a un passo!”
“Sherlock! Io ho visto dei numeri, quando sono entrato.”
Il ragazzo si immobilizza all’istante. Ferma le sue piroette e si getta su John. Gli afferra il viso tra le mani e si avvicina fino a lasciare solo qualche centimetro di distanza.
“Chiudi gli occhi.”
“Ma che fai?!”
“Aiuto la tua capacità di memoria. Dobbiamo risalire a quei numeri.”
“G-Guarda che me li ricordo,” risponde lui, senza chiudere gli occhi e incapace di distoglierli dalla sua bocca così vicina. “418, 9, 5” sussurra.
Sherlock sente il suo soffio direttamente sulle labbra e per un attimo – una mera frazione di secondo – ne è stordito. Ma riacquista presto tutto il suo autocontrollo; scosta le mani dal suo volto, come scottato, e recupera il libro incriminato che era ancora in braccio all’altro. Si schiarisce la voce.
“Ottimo lavoro,” gli concede, non senza un’ombra di imbarazzo. Poi il caso lo rapisce nuovamente e torna quello di poco prima.
“Guarda!” esclama trionfante, allungando il volume verso John.
Vittoria? È questa la parola? E noi cosa ce ne facciamo?”
Sherlock scrolla le spalle impaziente. “Oh andiamo, ragiona! In una parola sola devono indicare un posto preciso, che non può essere confuso. Cosa potrà essere, se non il nome di una via? E qual è la via più vicina a questa libreria, che centra con la parola “vittoria”?”
“Oddio… Victoria Road! Sarà a duecento metri da qui!”
“Esattamente.”
“Va bene.” Sentenzia John, risoluto. Appoggia il libro e incrocia le braccia al petto. “Qual è il piano?”
Sherlock lo fissa come se fosse impazzito. “V-Vuoi venire anche tu?”
L’altro inarca un sopracciglio. “Mi sembra ovvio.”
Il sorriso di Sherlock che gli indirizza, elettrizzato e stupito allo stesso tempo, è impagabile.
“Li pediniamo. Li coglieremo noi sul fatto.”
“Ma siamo solo in due!”
“E io ho una pistola.”
“Tu… cosa?! Ok, è una follia. Ci metteremo in un mare di guai.”
“Questo è ovvio. Andiamo?”
“Andiamo.”
 
In fretta e furia Sherlock si adopera per chiudere il negozio. Controlla la cassa, le finestre, spegne le luci, chiude la porta e tira giù la saracinesca. Tutto questo nel giro di appena cinque minuti.
Sono ormai le otto di sera quando si allontanano insieme dalla libreria. Il passo, già all’inizio sostenuto, diventa presto una vera e propria corsa, ostacolata soltanto dal buio che comincia a calare.
Non una parola viene scambiata nel tragitto fino a Victoria Road, tanta è la concentrazione di Sherlock nell’elaborare un piano d’attacco decente e quella di John nell’idearne uno di fuga vagamente attuabile.
“È questa!” gli bisbiglia il detective, intravedendo in lontananza la targa della via. Lo afferra per il polso e lo trascina con sé verso l’incrocio della strada, schiacciandosi contro il muro. Si sporge appena con la testa per scorgere un qualsiasi segno di presenza umana nella via.
“Come fai a dire che sia l’ora giusta? E se se ne fossero già andati?”
“Improbabile. Il tizio si è mosso dieci minuti prima di noi, ma noi abbiamo corso. Non può averci dato così tanto stacco.” Fa per muoversi, ma si blocca e si volta verso di lui. “E no, non aveva né un’auto né una moto. Nessuno rumore di motore quand’è andato via. Se avesse avuto un veicolo, non lo avrebbe parcheggiato lontano, visto che la via è così vicina. Vieni!”
Senza preavviso, Sherlock abbandona il nascondiglio e si getta in Victoria Road, sfruttando le auto parcheggiate per celare la propria presenza. John lo segue senza fiatare, l’adrenalina che gli pompa nelle vene in un misto di ansia ed eccitazione.
A dirla tutta, non ha la minima idea di che diavolo faranno, e probabilmente nemmeno Sherlock.
Eppure non può fare a meno di trovarlo, in minima parte, divertente.
Una manata sullo sterno gli blocca la corsa facendolo quasi volare per terra.
“Diamine Sherlock, mi hai fatto male!”
“Scusa. Ma ti avrebbero visto… guarda, sono laggiù.”
Gli indica col dito un punto a una cinquantina di metri. Tra il buio e l’ombra gettata dall’albero al bordo della strada, John non li aveva minimamente notati.
Sono solo in due.
“Dobbiamo avvicinarci,” bisbiglia ancora il detective.
“Cosa?! Sei impazzito?”
“Da qui non possiamo fare proprio niente, penso te ne renda conto anche tu.”
Uno sbuffo irritato. “E va bene, forza…”
Non fanno in tempo a tirarsi su per spostarsi dietro l’auto seguente, che un gatto scatta fuori dalla stessa vettura. Probabilmente era acquattato tra le ruote e sentendoli muoversi, si è spaventato.
Sta di fatto che nel balzo della fuga finisce dritto dritto contro il bidone dell’immondizia, causando un fracasso metallico che, nel silenzio mortale della via, non può certo passare in osservato.
Sherlock e John si raggelano sul posto.
Si scambiano uno sguardo impanicato mentre una voce grezza, appartenente a uno dei due criminali, urla: “Chi cazzo c’è lì?” Seguita immediatamente dai suoi passi pesanti nella loro direzione.
Siamo spacciati – è il pensiero di entrambi.
Sono in piedi di fianco all’auto. Accucciarsi o correre via non sono opzioni consigliabili, li avrebbero presi in pochi secondi.
Devono distogliere da sé l’attenzione, ossia passare per inoffensivi.
Si guardano negli occhi. Un modo ci sarebbe.
L’idea attraversa la mente di entrambi nello stesso preciso istante.
Non c’è tempo nemmeno di analizzare la cosa, è l’unico piano che hanno.
John si avvicina a Sherlock, schiacciandolo contro il fianco dell’auto.
Deglutisce cercando di cacciare indietro il cuore che ha preso a martellargli in gola.
Non c’è tempo.
Prima di poter cambiare idea, lo afferra per il colletto della camicia e lo trascina giù, alla propria altezza, pressando le proprie labbra contro le sue.
Si aspettava rigidità, rifiuto.
E invece…
Le labbra di Sherlock lo accolgono morbide, lasciandosi plasmare dal contatto.
Incoraggiato dalla sua reazione, John inclina appena il viso di lato, sentendo poi una mano dell’altro chiudersi a coppa sulla propria nuca.
Sembra quasi che gli stia accarezzando i capelli.
Dimentica tutto, John.
L’ansia, il pericolo, ogni cosa. Sente solo un piacevole calore pervaderlo dallo stomaco e risalire pian piano fino al petto e al viso.
Incastra delicatamente le labbra tra le sue, catturando prima il labbro superiore poi quello inferiore. Lo morde appena, solleticandolo con la punta della lingua.
Si spinge involontariamente contro Sherlock, mentre questi gli circonda la vita col braccio libero.
Può sentire il suo cuore battere all’unisono con il proprio.
 
A riportarli al presente sono i passi strascicati dell’uomo, fermatosi a qualche metro da loro. Lo sentono borbottare qualcosa di incomprensibile, prima di tornare indietro e dire al compagno: “Lascia stare, sono solo due tizi che stanno pomiciando! Presto, muoviamoci prima che arrivi un piedipiatti.”
L'incontro si conclude in fretta e i due si separano, sparendo subito in qualche viuzza secondaria.
John si separa lentamente da Sherlock, mentre un sospiro leggero, che sa più di rammarico che di sollievo, abbandona la bocca di entrambi.
Il ragazzo indietreggia di qualche passo permettendo finalmente al cervello di elaborare.
E questo, naturalmente, lo getta nel panico. Si sente improvvisamente avvampare, cercando una scusa per quanto appena fatto. Nulla di coerente fa capolino nella sua mente in tilt.
Tuttavia, trova consolante constatare che il detective non versa in condizioni migliori.
Anch’egli si raddrizza e muove qualche passo avanti e indietro.
“Quello… quello che hai fatto… è… beh, buono.” Si gratta la nuca. “Ci ha salvati.”
John cerca disperatamente una scappatoia da una situazione che sembra perfino più pericolosa che essere beccati a spiare da una banda di criminali.
Si guarda a destra e sinistra e mormora: “Però li abbiamo persi.”
Bravo, John. Riporta il focus sul caso.
“Già. Accidenti, dovrò ricominciare da capo.”
“Ce la farai.”
Sherlock annuisce piano. “Meglio tornare a casa, per…” si blocca, voltato verso la fine della strada, in corrispondenza dell’incrocio da cui sono arrivati. Assottiglia gli occhi.
“L’hai visto anche tu?” gli chiede, improvvisamente lucido.
“Cosa?”
“Mi è sembrato di aver visto… qualcuno.”
“Beh, può darsi. Sarà un passante. Che stavi dicendo?”
“Un passante, a quest’ora?” Non è convinto. “Non ti sei sentito osservato?”
“Certo che mi sono sentito osservato! Quel dannato spacciatore ci è arrivato a tanto così!”
“No, non lui… fa niente, lasciamo stare.” Sospira. “Meglio andare.”
“Io torno verso la libreria, ho lasciato lì la bici.”
“Oh, ok.”
Si guardano intorno a disagio. Hanno intenzione di parlare di quel bacio? Ovviamente no. Era solo un espediente, dopo tutto.
Fanno per stringersi la mano, rinunciano.
“Bene, ci vediamo allora.”
“Sì, certo. Ci vediamo.”
Un semplice cenno, e le loro strade si dividono.
 
Che diavolo avrei dovuto fare?
Sherlock si avvia a piedi verso casa. È parecchio lontana da lì, ma ha bisogno di camminare e schiarirsi le idee. Ha fin troppi pensieri per la testa.
E John Watson è uno di quelli. O meglio, John Watson è ciascuno di quelli.
Ti tocca d’istinto la bocca, sfiorandola con un dito. Al solo ricordo, il cuore fa un piccolo tuffo.
Avrebbe voluto durasse di più.
E adesso cosa succederà? Lo rivedrà più?
Finiscila, Sherlock. Inutile perdere tempo a pensarci, rischierai solo di rimanerci male.
Le parole di suo fratello, con cui lo ha tormentato fin da quando era piccolo, tornano prepotenti a farsi sentire nella testa: “I legami non sono un vantaggio, Sherlock.”
Forse ha ragione.
Massì, ha ragione.
John gli ha detto “Ce la farai”, non “Ce la faremo”. Ha liberato le proprie spalle da quell’onere. E dopo tutto, come biasimarlo? Non ha scelto lui quella vita, è Sherlock che ce lo ha trascinato.
Strano, no? Come funziona il cervello umano.
Sembra aver dimenticato che è stato proprio John a chiedere “Qual è il piano?”
 
Il detective è quasi ormai nei pressi di casa propria, quando riceve una telefonata.
Sente il telefono vibrare in tasca e non ha nemmeno bisogno di chiedersi chi sia. Chi altri potrebbe essere a quell’ora della notte, se non suo fratello Mycroft.
Vorrà probabilmente discutere del caso, o meglio, del mancato report di Sherlock sull’ultimo scambio avvenuto, del quale non ha fornito i codici. Bene, adesso dovrà anche inventarsi una scusa che stia in piedi. Gli manca la voglia prima ancora di iniziare.
“Pronto?”
“Fratellino. Torni a casa a piedi sta notte?”
Sherlock sbuffa. “È mai possibile che tu debba controllare ogni mia singola mossa? Sono un criminale o cosa?”
La voce di Mycroft, dall’altro capo del telefono, è pacata e ferma. Nessuna traccia di irritazione. Strano.
“Meno male che lo faccio, Sherlock, vista la tua strabiliante propensione a metterti nei guai.”
“Non so di cosa tu stia parlando.”
“Lo sai benissimo, invece.” A quel punto, la voce del fratello si fa per un attimo più severa. “Che diavolo avevi in mente di fare, stasera? Non avevi un piano, non avevi rinforzi…”
“Ho una pistola. E avevo…”
John Watson. Non è così?”
Sherlock si morde un labbro, indeciso su come ribattere. Ma Mycroft riprende.
“In ogni caso, ti ho chiamato proprio per informarti che nonostante la tua mancata collaborazione di oggi i criminali sono stati catturati. Dopo l’incontro in Victoria Road si sono diretti entrambi alle rispettive basi operative. Stanarli è stato un gioco da ragazzi.”
Il giovane detective ferma all’improvviso il proprio passo, incredulo.
“Come diavolo avete fatto?! Non vi avevo fornito nessun codice!”
“Esatto, Sherlock. E questo mi ha insospettito. È bastato… seguirvi con cautela.”
A quel punto il ragazzo collega tutto. Sgrana gli occhi e suo malgrado un angolo della bocca si incurva in un sorrisetto ammirato. “Allora avevo visto bene, c’era uno dei tuoi che ci osservava.”
Dall’altra parte, uno sbuffo divertito.
“Quindi adesso che succede? Non mi coinvolgerai più?”
“Non dire sciocchezze. Un piccolo… sbandamento… una volta non significa nulla.”
Sherlock ci rimane di nuovo di sasso. Ha capito bene? C’è qualcosa di molto strano.
“Ma quello che sicuramente succederà è che dovrai lasciare la libreria, dal momento che la tua presenza lì non è più necessaria.”
Proprio ciò che temeva. Il fratello più piccolo si trattiene a fatica dall’esprimere una qualsiasi protesta in merito. Il silenzio è un invito per Mycroft a continuare: “Domani è il tuo ultimo giorno. Vedi di… usarlo bene. Buonanotte, fratellino.”
Click!
Che diavolo…?!
 
Il giorno successivo si rivela per Sherlock Holmes un’autentica tortura. Peggio di qualsiasi altra giornata trascorsa lì. Avrebbe anche accettato ore e ore di noia, piuttosto che quello.
L’attesa. La speranza.
Che odio!
Lui non vuole attendere, non vuole sperare.
Non vuole aggrapparsi all’idea di un evento che tanto non accadrà.
E invece no, maledizione. John Watson si è piantato nel suo cervello e non ha la minima intenzione di togliersi da lì.
Tamburella con le dita sul bancone, ogni tocco è una martellata. Per giunta, pare che quella giornata sia particolarmente impegnata. Sembra che abbiano deciso di venire tutti lì.
Ah già, è sabato.
Stupido week-end.
Ogni cigolio della porta, che finisce per rivelare solo un altro sconosciuto e inutile cliente, gli perfora i timpani come non era mai successo prima.
“Buongiorno, mi scusi…”
Sherlock è altrove, con la mente per lo meno. Ma l’altro non demorde.
“Ehm, mi scusi?”
“Ah! Ci sono. Mi dica.”
Un signore sulla sessantina lo osserva confuso per un attimo, prima di chiedergli aiuto circa un volume sulle guerre moderne nel Medio Oriente. “Potrebbe darmi un consiglio?”
“Certo.”
Il ragazzo, in realtà, si scopre più grato del previsto per la distrazione offertagli, tanto da prolungare la conversazione ben oltre i propri limitatissimi standard. Non solo gli mostra quello che hanno a riguardo, ma sfoglia insieme al cliente ogni singolo volume, illustrandone i tratti salienti.
Alla fine, la scelta ricade sul primo che gli ha indicato.
“Questo andrà benissimo, lo prendo!”
Lo accompagna perfino alla porta dopo il pagamento alla cassa, così da guadagnarsi una bella stretta di mano dall’uomo: “Lei è proprio gentile, lo sa? Arrivederci!”
Il sorriso sul viso del giovane detective si spegne non appena quello esce dal negozio. Fa una smorfia contrariata.
Sherlock gentile? Per piacere!
Guarda l’orologio per l’ennesima volta nel giro di poche ore. Il tempo sembra non scorrere più.
Una tortura, un’autentica tortura.
 
“Mike! Mike, fermati!”
John intravede l’amico nella folla di studenti intenti a tornare dalla pausa pranzo. Stamford si volta all’istante, riconoscendo la voce familiare, e gli fa un gran sorriso. L’altro non può fare a meno che sorridere a sua volta: Mike ha questo straordinario potere di infonderti buon umore anche quando non vuoi.
“Ehi, John! Mi avevi scritto che saresti venuto, ma non pensavo così presto.”
Si raggiungono facendo a gomitate nella ressa.
“Eh sì, era l’unico momento libero che avevo. Tra mezz’ora inizio in reparto.”
“Accidenti, mi spiace. Non volevo causarti problemi, ti avevo detto che l’importante era averlo entro fine mese.”
“Non preoccuparti, davvero. Prima ti do il libro, meglio mi sentirò.”
“Grazie mille,” gli risponde lui con calore, prendendo il libro e infilandolo subito in borsa. “Accidenti, è più grosso di quanto pensassi. Quanto ti devo?”
“Ma va’, lascia stare.”
“Scherzi? Sarà costato una fortuna, e ti ho fatto pure andare a prenderlo.”
Suo malgrado, John sorride. Un sorriso piccino, quasi timido. “Direi che siamo pari.”
“Che intendi?”
“Niente, lascia stare. Davvero, va bene così.”
Lui resta dubbioso, ma non vuole insistere. “Allora grazie mille! Lascia almeno che ti offra una birra quando avrai… a proposito! Come va con endocrinologia?”
In tutta risposta, l’altro si passa una mano tra i capelli disperato: “Non mi ci far pensare, sono indietrissimo.”
Mike sfodera un sorriso a trentadue denti e gli tira una pacca sulla spalla. “Nah, non preoccuparti. Tanto lo sappiamo che alla fine andrai alla grande. Sai perché?”
John scuote la testa sconsolato.
“Perché quando John Watson vuole qualcosa, va e se la prende. Hai sempre fatto così, e così farai sempre. O mi sbaglio?”
Gli fa un occhiolino e si incammina in aula. “Ci sentiamo!”
L’altro solleva appena una mano in saluto, pensando già a tutt’altro. Qualcosa che stava cercando di chiudere fuori dalla propria testa.
Mike ha ragione, accidenti.
 
Sherlock fissa per l’ultima volta l’orologio a muro: le sette e mezza. È proprio ora che chiuda.
Vorrebbe sbuffare, ma tutto ciò che gli esce è un sospiro malinconico.
Detesta ammetterlo, ma Mycroft ha ragione – i legami non sono un vantaggio, mai.
Ripone gli ultimi libri accatastatisi sul bancone e si avvicina alla porta per girare il cartello su “Closed” ed evitare ulteriori visite indesiderate.
La mano è già sulla maniglia quando, prima ancora che possa rendersene conto, una figura non ben identificata si schianta con forza contro la porta, spalancandola. Manco a dirlo, per evitare di fare la stessa fine, Sherlock si butta all’indietro, finendo però contro una pila di libri – posizionata in un punto non propriamente strategico. Risultato, la figura irrompe nel negozio, trovandosi però davanti il libraio letteralmente affondato in un mare di libri polverosi.
“Oddio Sherlock, scusami!”
John?!
Il ragazzo si morde un labbro, lo guarda e scoppia a ridere: “Non ti è passato il vizio, eh?”
“Ma se è tutta colpa tua!” ribatte il detective, senza riuscire a nascondere un ghigno.
John Watson è davvero lì, in piedi di fronte a lui. Spuntato come per magia, quando ormai aveva perso la speranza.
Fottiti, Mycroft!
“Te lo concedo. Scusami…” ammette lui, senza smettere di ridacchiare. Gli tende una mano e lo aiuta a tirarsi su. “È che ho fatto una corsa pazzesca, temevo di arrivare troppo tardi.”
Sherlock si aggiusta come può giacca e camicia, fingendo nonchalance mentre rimette in piedi la torretta abbattuta. “Ah sì? Tardi per cosa?”
John comincia a passargli i libri rimasti per prender tempo. La voce lo tradisce per un attimo, ma riassume presto il controllo. Non è lì per fallire.
Si schiarisce la voce. “Credo di aver dimenticato qualcosa qui, ieri.”
Al solo menzionare il giorno precedente, entrambi sentono il cuore mancare un battito. E allo stesso modo, fanno finta di nulla.
Sherlock va verso il bancone, controlla nei paraggi, si volta di nuovo verso di lui con la fronte corrugata: “Uhm, sono abbastanza sicuro che ieri tu abbia preso il tuo libro. Te l’ho visto mettere nello zaino quando siamo usciti.”
John muove qualche passo verso di lui. Un angolo della bocca si solleva appena, mentre la voce si abbassa di un tono: “Non parlavo del libro.”
Ora che l’altro lo ha raggiunto, il detective si schiaccia involontariamente contro lo spigolo del tavolo. Sente il legno premergli con forza nella schiena.
“Capisco. E quindi?” La sua voce è appena un soffio.
Così basso da vibrare lungo la spina dorsale di John in un unico brivido elettrico. Questi lo guarda senza rispondere, non verbalmente almeno. Il suo sguardo basta a coprire ogni inutile parola.
E Sherlock ne è come ipnotizzato.
Blu scuro. Adesso i suoi occhi sono blu scuro.
Blu come l’oceano, blu come la notte.
E lo guardano come nessuno lo aveva mai guardato prima.
Quando finalmente John parla, la sua voce arriva come un’eco distante.
“Sei un detective. Perché non lo deduci?”
Fa per aprire la bocca, ma nessuna brillante risposta gli arriva in quel momento. Ed è allora che Sherlock si arrende, sentendo improvvisamente il proprio corpo abbandonare ogni tensione, ogni ritrosia, ogni difesa.
John lo capisce. Forse perché è già a pochi centimetri da lui, forse perché, semplicemente, lo percepisce.
Solleva una mano lentamente, posandola sul suo viso, accarezzando col pollice lo zigomo perfetto. E con una leggera pressione lo tira giù verso di sé, facendo subito incontrare le loro labbra che quasi tremavano di desiderio.
È come tornare a casa. Come tornare a casa in un posto dove tutti sono come te, dove tutti sanno, semplicemente sanno.*
Questo pensa Sherlock, mentre John lo bacia.
Questo pensa John, mentre bacia Sherlock.
Ed è tutto tremendamente perfetto.
Spinge appena con la lingua contro le labbra serrate; il bacio diventa profondo. L’incontro tra le lingue è morbido e caldo, rassicurante ed eccitante allo stesso tempo. Si sfiorano, si inseguono, giocano e danzano insieme.
È Sherlock a scostarsi per primo, non per allontanarlo ma solo per osare di più. Gli lascia un bacio umido sul collo e risale all’orecchio, mordendo e succhiando il lobo sensibile.
“Sherl-” gorgoglia John, come un gatto che fa le fusa. Sente l’altro sorridere contro la sua pelle.
Il detective si scosta controvoglia, circondando però la schiena tra le braccia.
“Ho una proposta. Cena da me?”
A fatica John riapre gli occhi, le palpebre appesantite dall’eccitazione. Un bellissimo sorriso si apre sul suo viso.
“Muoio di fame.”
 
 

Fine. 

*Cit. da Call me by your name. Traduzione mia.
 

 

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