I prati di asfodelo - Sequel de Gli Eletti

di PiscesNoAphrodite
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** CapitoloIV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** I prati di asfodelo, capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***



 


 

[…] Il manufatto baluginò percorso da un guizzo di vita, da una luce in grado di fendere l'oscurità più profonda. E non fu solo Misty a percepire il fulgore che si era sprigionato dall'oggetto di forma cubica: lame di luce si proiettarono a raggiera investendo di chiarore immacolato ogni anfratto occultato alla vista; lui stesso ne fu avvolto senza subirne l'abbaglio, bensì pervaso da una serenità ineffabile e da un calore tale da contrapporsi al gelo che gli induriva il cuore. Dai singoli lati dello scrigno si era aperto uno spiraglio e il suo contenuto si animò come permeato da pura energia, le varie parti si scomposero per ricomporsi dopo aver aderito singolarmente alle membra del cavaliere. Un brusio sovrastò il silenzio sacrale per poi zittirsi in un istante. Il bagliore si attenuò svelando agli occhi dei Santi il loro compagno bardato d'oro... […] “Gli Eletti”, capitolo V

***

In un ipotetico post-Ade Misty è riuscito a conquistare le Sacre Vestigia di Libra, a dispetto di trascorsi poco brillanti; ma è possibile che nel raggiungimento di uno status ambito ed elevato non risieda la felicità? Dove cercarla, dunque? In bilico tra la vita e la morte? In gesta eroiche o in qualcosa di più ordinario?


 

(Disclaimer – I personaggi che compaiono in questa storia non mi appartengono ma sono proprietà di M.Kurumada.)

Avvertimenti: situazioni e personaggi rispecchiano l'headcanon dell'autrice. Grazie infinite per il vostro interesse, in ogni caso.



☆☆☆

 



I prati d'asfodelo
(Sequel de “Gli Eletti”)


misty214

 

 

I

 

Santuario di Atene, settembre 1990.


Sfiorai la fronte febbricitante e deglutii un sorso d'acqua prima di affacciarmi alla finestra: il sole mattutino lambiva le pietre, i marmi, e le rose di cui percepivo l'odore al dischiudersi delle corolle di petali. La tranquillità mi avrebbe di sicuro aiutato ad alleviare quel malessere persistente che mi privava della capacità di concentrazione, ma non dell'inquietudine. Mi domandavo dove trovassi la motivazione per adempire a ogni compito realizzando, in un battito di ciglia, che non erano mai state semplici scelte, non c'era quasi nulla che decidessi di mia spontanea volontà in questa vita. Rinfrescai il viso con l'acqua fredda, avevo gli occhi gonfi, dolenti, come se avessi pianto, come se vi fossero conficcati all'interno pagliuzze o minuscoli aghi. Indossai una tunica grigia con una sfumatura acquamarina, l'avevo estratta a caso tra gli altri indumenti, e mi avviai in direzione del roseto scrutando per un istante il cielo turchino solcato da uno stormo di uccelli. Materializzai una rosa accostandola alle narici e inalando il profumo mi sovvenne il ricordo della sera precedente.

 

Non avevo l'abitudine di attardarmi davanti allo specchio. Indugiai ancora un poco, appuntando un fiore tra i capelli, convinto che sarebbe stata una notte insonne, ma all'improvviso vidi il mio riflesso tremolare. Puntai un dito contro la superficie e questa si deformò alla stregua di uno schermo d'acqua in cui piomba un sasso. L'immagine riflessa si dissolse come risucchiata da una corrente vorticosa e fui catapultato in un'altra dimensione.

 

Dopo un breve attimo di smarrimento mi ero finalmente deciso a percorrere il sentiero sterrato che si diramava dal crocevia. La brezza stormiva tra le fronde diffondendo l'odore resinoso degli abeti. Dalla fitta vegetazione filtrava il chiarore della luna che dominava dal punto più alto di un cielo di velluto nel quale brillavano incastonate le stelle. Passo dopo passo, attento a non incespicare nelle radici che affioravano dal terreno, mi approssimai alla meta di un pellegrinaggio arcinoto sebbene il declivio fosse alquanto impervio. Si delineava una viuzza tortuosa, cosparsa di aghi di pino, nel bosco di conifere denso di un sentore umido e acre ma al contempo inebriante. Il Tempio sorgeva sulla spianata di un'altura nella cornice di altre vette innevate, lo si poteva scorgere in lontananza, evanescente, quasi fosse una visione onirica e si materializzò davanti ai miei occhi, tra nembi cumuliformi, erto sulle rocce del monte. I marmi candidi rifulgevano del bagliore lunare.

Percorsi la scalinata, costeggiata da bracieri nei quali ardevano fiamme azzurre, fino a giungere nei pressi dell'atrio colonnato e, da lì, mi inoltrai all'interno celandomi all'ombra del timpano scolpito che sormontava l'architrave.

Trovai la servitù ad attendermi, come di consueto e con l'ordine di scortarmi fino a destinazione. Tuttavia mi feci largo senza preoccuparmi di sembrare scortese, incamminandomi risoluto verso la sala principale: in quella dimensione d'intangibile realtà così concreta nella solidità delle strutture dove echeggiava la melodia di un dolce arpeggio. Rischiarata da torce e bracieri che proiettavano ombre bizzarre contro le pareti istoriate. Avevo dapprima indugiato, inspirando la gradevole fragranza dell'ambiente, per poi piegare il ginocchio e rendere omaggio all'anfitrione.

Avete bisogno dei miei servigi, padre? È per questo che mi avete aperto le porte del vostro regno?”

No, mio prediletto. Necessitavo di un poco della tua compagnia” rispose Apollo, sdraiato sul triclinio. Una luce soffusa lambiva la sua figura enfatizzandone l'aura sovrannaturale.

Distolsi l'attenzione dalle decorazioni del pavimento a mosaico, dalle ninfe che allietavano il mio divino congiunto, e assursi ritto sulle gambe volgendo un labile sguardo alle unghie ben curate: “Gli dèi non sono soliti lagnarsi a causa della noia.”

Non vi sono pretesti per una guerra, se ciò può rasserenarti. Il modo in cui i mortali contendono tra loro non mi tange né impensierisce gli altri dèi; se sono così stolti da volersi estinguere che facciano pure” sospirò con noncuranza l'immortale, scostando un ciuffo di capelli da davanti agli occhi limpidi. “Al momento mi aggrada la pace, trovo impagabile un tale idillio. Athena è irreprensibile.”

In cosa posso rendermi utile?” domandai, staccando un acino dal grappolo d'uva che mi aveva sporto. Non sapevo se credere alle sue parole, tuttavia in esse avevo colto bastante franchezza per trarre un sospiro di sollievo e volevo crederci, senza lambiccarmi la mente con altre inutili e fuorvianti congetture.

Tuo fratello, parlami di tuo fratello. Dicono somigli a Giacinto.”

Perdonate il mio ardire ma voi siete onnisciente, perché mi domandate cose che già sapete?”

Tu limitati a rispondere come se io non sapessi. È indice di insolenza rispondere a una domanda con un'altra domanda.” Apollo mi trafisse con un'occhiata implacabile per poi addolcirsi, probabilmente sedotto dai miei modi. Avevo sfilato la rosa dai serici petali, dapprima inserita tra i capelli, rigirandola tra le dita, e dal fiore si sprigionò un dolce profumo che si fondeva con gli altri aromi.

Soprassederò alla tua protervia in virtù del legame di sangue che ci unisce.”

Non volevo offendervi" replicai distogliendo l'attenzione, sebbene con un occhio lo avessi scrutato di sottecchi. “Misty è l'attuale Santo di Libra." Risolsi di assecondarlo rispondendo alla sua richiesta, conscio del fatto che i potenti bramassero un'adulazione indiscussa.

Sappi che un giorno potrei reclamare la vostra presenza al mio fianco” esordì lui e al contempo fui scosso da un brivido senza scompormi. Mi sentivo osservato e mi voltai di scatto, indugiando a contemplare i vacui occhi in pasta vitrea delle statue di cui era adorno il Tempio. “Siamo votati ad Athena, la nostra presenza nelle sue schiere è insostituibile” risposi pacato, ma schietto. Apollo era perfettamente consapevole di questo ma non avevo esitato a ribadirlo affinché non sorgessero equivoci. Non mi fidavo di quell'ostentata benevolenza e dopotutto, noi mortali, da tempi immemori, siamo come burattini nelle mani degli dèi. Non aveva ribattuto, limitandosi a schiarirsi la voce dopo essersi attardato a riflettere, avrei dato qualunque cosa per avere la possibilità di sondare in quella mente imperscrutabile.

Athena vi ha riportato in vita, ed è naturale vi sentiate in debito” aggiunse dopo, abbandonando il triclinio per apprestarsi ad attingere del vino da un cratere di ceramica a figure rosse.

Perché mi avete convocato?”

Desideravo contemplare la bellezza di mio figlio, frutto dell'unione con una mortale.”

Già” esordii con un sorriso a fior di labbra, quel pretesto era fin troppo labile per essere convincente. “A volte le divinità amano tramare inganni sotto mentite spoglie.”

Non essere irriverente. I privilegi ti sono stati concessi in virtù della benevolenza degli dèi. Se così non fosse, tu e tuo fratello, vivreste un'esistenza ordinaria in qualche anonimo ricetto del mondo: in un villaggio in Provenza e nell'isola di Värmdö in Svezia” rimbeccò, dispiegando il manto immacolato dietro le spalle, e vidi i suoi occhi brillare da sotto le folte ciglia, come le stelle del firmamento.

Quelle sue parole mi avevano indotto a riflettere e ricordavo quanto – alcune volte – avessi desiderato vivere una vita normale, tra la gente comune, e rimpianto l'infanzia serena che non avevo mai vissuto. “Scusate la franchezza, ma non è lusinghiero essere considerati il frutto del divertimento di una notte” insinuai distogliendomi da quelle riflessioni.

Non ho mai detto questo, Aphrodite. Non è questo il punto, ma veniamo al dunque. Tuo fratello sa di esserlo?”

Mi strinsi nelle spalle perché mi sentivo in difetto, colpevole, in qualche modo: “Non gliel'ho mai confidato.”

Per quale motivo?” domandò, porgendomi una coppa. Era sempre così premuroso, mi avrebbe perdonato qualsiasi mancanza – o almeno era quello che credevo.

Non l'ho ritenuto importante. Non volevo che Misty divenisse oggetto di favoritismi. Ciò che ha conquistato è dovuto alle sue doti e non a interferenze esterne quali la discendenza divina. E, poi, non vorrei mi credesse disposto a concedergli un trattamento di favore in quanto fratelli. Non gioverebbe al suo ego, alla sua personalità fragile e instabile” risposi scuotendo il manufatto d'oro allo scopo di mescere il liquido all'interno. Speravo che le mie ragioni facessero presa su quell'indole caparbia ma, al tempo stesso, ero tranquillo, forte della sincerità insita nelle mie affermazioni.

Una motivazione encomiabile, non c'è che dire. Dunque, tu puoi ostentare il tuo ego e a lui sarebbe precluso?” sorrise, ironico. “In merito ai favoritismi potrei tranquillamente affermare che la mia progenie non ne abbia beneficiato, a differenza dei pupilli di Athena.”

Mi avete rassicurato sul fatto che vogliate mantenere la pace...” rimarcai dopo aver leccato una goccia del vino che, con tutta certezza, mi aveva imporporato le labbra a giudicare dalla consistenza corposa. Il cuore mi era balzato in gola.

E sarà così, non temere. Sarebbe insensato scatenare un conflitto per un motivo così futile." Il viso rifulse splendente di luce e sembrava davvero sincero, ero certo avesse colto il mio stato d'animo sondando nel mio cuore com'era solito fare. Prese la cetra per poi accingersi a intonare una soave melodia.

Febo...

Sedetti in un angolo intento ad ascoltarlo – soggiogato dalla grazia con cui le dita affusolate pizzicavano le corde – dovevo avere gli occhi languidi di malinconia.

 

Mi riscossi dal rivivere quei momenti, da quei pensieri, ero imbambolato al punto di non sapere come iniziare la giornata e risolsi di sedermi su un gradino a fissare il riverbero del sole che s'infrangeva sulla pietra.

Tutto aveva avuto inizio qualche tempo fa, quando avevo notato pendere dal collo del mio apprendista un ciondolo che recava impressa l'effigie dell'astro diurno. Ne ero sorpreso poiché possedevo un pendaglio di eguale fattura – praticamente identico nella sua unicità – e avevo iniziato a pormi delle domande: non avevo pensato all'esistenza di un fratello mai conosciuto ma la curiosità non si era spinta oltre, non m'interessava. Si trattava soltanto di illazioni. Non sapevo chi fossero i miei genitori né avevo interesse a scoprirlo; come potevo preoccuparmi di coloro che mi avevano abbandonato in tenera età come fossi un fardello?

Apprendere di essere progenie di un dio, in parte, non mi aveva sorpreso in quanto nelle nostre vite si avvicendava un costante connubio di eventi ordinari e sovrannaturali. Avevo dovuto ricredermi in merito ai dubbi che mi ero posto sulla predestinazione.
I Santi di Athena sono dei predestinati – nella buona o nella sfavorevole sorte.
Febo, dopo la rivelazione, non si era premurato di mantenere stretti i contatti. Sembrava volermi abbandonare di nuovo al mio destino...
ma adesso si è rifatto vivo.

 

Smisi di rimuginare sul passato, avevo già deciso di non trattenermi al Dodicesimo Tempio bensì d'intraprendere il percorso alla volta della valle sacra.

 

...

 

“Chi si rivede... non hai una bella cera, dormito male?”

Dopo aver udito quelle parole afferrai un pugno di sabbia, gliel'avrei scagliata in faccia, ma lasciai scorrere la rena tra le dita aperte; mi levai in posizione eretta incrociando quello sguardo traboccante di sfrontatezza e indolenza.

“Irritato?” esordì lui, con le mani intrecciate dietro la nuca.

“Non mi metto allo stesso livello di un imbecille” sibilai, voltandomi col chiaro intento di abbandonare l'Arena per raggiungere la postazione più vicina sugli spalti.

Sedetti strofinando i palmi delle mani impolverate contro le ginocchia: forse non era stata una buona idea spingermi fin quaggiù, lo avevo fatto per schiarirmi le idee invece ero ancora più confuso, conclusi scoccando un'occhiata in tralice ai Santi intenti ad allenarsi. Ponderai sulle ragioni che mi avevano indotto a rifuggire la quiete della Dodicesima Casa ed esse mi sovvennero all'istante: desideravo condividere il mio turbamento con qualcuno in particolare e quella persona indisponente non era altri che Death Mask di Cancer, con cui ero solito scherzare, ma anche renderlo partecipe di argomenti che richiedevano un certo riserbo. Instaurammo una comunicazione non verbale, senza tuttavia avvalerci di espedienti telepatici, era uno scambio gestuale. Mi raggiunse e mi ghermì un braccio esortandomi a uscire dall'Anfiteatro: “La tua espressione corrucciata tradisce qualche problema” disse inducendomi a imboccare il percorso lastricato che conduceva fino alla polis. Ripiegai verso la strada sterrata dove avrei potuto parlare lungi dalle orecchie indiscrete delle genti del Santuario, nonché semplici soldati e servitori.

“Nessun problema” negai, in un primo momento. “Solo un po' di preoccupazione dovuta all'intemperanza degli dèi” soggiunsi dopo aver riflettuto.

“Ti ha richiamato?” domandò. Era più arguto di quanto molti pensassero ed era l'unica persona al Santuario, insieme a Capricorn, a essere al corrente di ciò che serbavo gelosamente, quasi fosse un segreto inconfessabile, ma in realtà non avevo mai avuto la necessità di condividerlo con chissà chi. Ero solo un tipo dall'indole riservata, forse troppo.

“Sì, a breve distanza di tempo” annuii facendomi strada tra le fronde. “Credo voglia incontrare mio fratello" confidai emettendo un sospiro di rassegnazione. Non volevo riconoscerlo ma quella situazione mi indisponeva.

“Non sembra essersi mai interessato delle vostre sorti prima d'ora.”

“Esattamente, ma adesso qualcosa, qualcuno, ha risvegliato il suo interesse. Non per affetto, sia chiaro... amore e affezione sono sentimenti umani.” Strinsi i pugni, percorrendo il tratto in discesa che sbucava su un rigagnolo d'acqua dolce ombreggiato da piante ad alto fusto. “Per un semplice capriccio. Tu non puoi immaginare quanto i vizi degli dèi ricalchino quelli dei mortali.”

Sedetti su una sporgenza rocciosa che si affacciava sul ruscello e ansimai rendendomi conto di sudare freddo.

“Dovresti dirgli la verità, prima che la scopra da sé" suggerì Cancer dopo essersi seduto al mio fianco, lanciando un sassolino nell'acqua, un secondo, e poi un terzo. Infrangendo volutamente quel silenzio che si era interposto tra uno scambio di battute e l'altro. Una tranquillità dalla quale sembravo trarre beneficio e che lui stava violando. Gli afferrai il polso in malo modo.

“Ci ho già pensato, ma non ho trovato il sistema di...”

“Cosa ti trattiene?”

“In teoria nulla” ribattei, sebbene dal tono della voce temevo si potesse evincere un certo nervosismo. “Ma ho paura che l'idillio si spezzi. Misty è migliorato, tuttavia l'indole di un individuo non può mutare radicalmente” sbottai, incapace di trattenermi. Dopodiché tacqui intento a fissare una foglia ingiallita trasportata dalla corrente. Si scorgevano i sassi nell'alveo: l'acqua era così limpida da riflettere l'argentea corteccia degli alberi e la chioma cangiante che li sovrastava.

“Non dovresti fasciarti la testa prima di rompertela...”

“Intendo dilatare i tempi il più possibile.”

“Non gli dirai la verità?”

“Non ora” conclusi, pur sapendo che l'attesa di ulteriori sviluppi sarebbe stata solo una scusa per temporeggiare.

 

***

 

II

 

Mi soffermai a scrutare tra il folto fogliame degli alberi, alla ricerca dello scorcio di mare che non si sarebbe mai potuto intravedere da quella posizione. Il pendio sul quale si ergeva il Tempio era distante da quelle sponde e la boscaglia che lo circondava troppo fitta.

Scesi qualche gradino giungendo sullo spiazzo antistante la dimora sacra, affacciandomi sulla scalinata sottostante intervallata da colonne doriche, una svolta a gomito, e poi altre scale bianche e polverose. Sfilai l'elmo trattenendolo sotto un braccio, mi piaceva sentire il vento tra i capelli. Non mi sarei più potuto prendere la libertà di imboccare il sentiero verso il mare Egeo, all'alba, né rompere quei rigidi schemi imposti.

 

Trattenni il respiro per poi rilasciarlo in silenzio, rilassando i muscoli del dorso e delle spalle, mi sentivo rigido e impacciato. Ricollocai l'elmo sul capo come per darmi un contegno autorevole, con lo sguardo vigile, fisso sulla persona che stava sopraggiungendo diretta verso l'ingresso della Settima Casa.

Kanon di Gemini protese un braccio avanti ponendo il palmo della mano contro il pettorale della mia corazza: “Spostati, smidollato, se non vuoi che ti spedisca in un'altra dimensione.” Mi indusse a indietreggiare con malagrazia, affinché gli consentissi di varcare la soglia indisturbato. Assolutamente calmo, ligio al suo temperamento schivo e ombroso, la sua non era un'esternazione scherzosa di quelle cui ero avvezzo udire dalla bocca dei miei ex-commilitoni e, d'istinto, a passarci sopra. No, qualcosa mi suggeriva che Gemini fosse davvero convinto di ciò che affermava. Dischiusi le labbra, dovevo essere rosso in volto sul punto di prorompere in insulti o scagliare un turbine di vento per travolgere quell'insolente. Ma fu solo un fugace pensiero a passarmi per la mente ed evitai di servirmi del mio potere poiché in tal modo avrei infranto il protocollo con gravi conseguenze.

“Non mi hai chiesto il permesso di passare” replicai, limitandomi all'uso della diplomazia. “Se non ti fermi dovrò farlo io. Dovremmo essere tutti rispettosi delle regole, non è il rango o l'età a fare la differenza” insistetti.

Si arrestò a metà strada farfugliando qualcosa e si voltò atteggiando le labbra in una parvenza di riso sardonico, ma nel contempo sembrava serio, imperturbabile. Mi sentivo così a disagio da non riuscire a sostenere il suo sguardo, come se avesse il potere di minare la mia autostima, sebbene fossi insignito dell'onere di presidiare la Settima Casa. Ricordai il passato, le testimonianze degli eroi. La differenza abissale che intercorreva tra me e loro, tra le mie e le loro imprese. Il mio labile passaggio in questo mondo, l'insignificante ricordo che vi avevo lasciato sprofondando negli Inferi dove il mio spirito era stato destinato al Cocito e le mie spoglie all'oblio sulla Terra.

Invece lui – come altri – era assurto a gloria nella morte, forte di eclatanti gesta a edificazione dei prescelti, di atti eroici che gli erano valsi la redenzione.

“Sono stato convocato al Tredicesimo Tempio, e non sono tenuto a dare spiegazioni a uno come te” sentenziò, destandomi da un triste rimuginare.

Sì, aveva quasi il doppio dei miei anni, ma proprio per questo avrebbe dovuto rapportarsi con un certo riguardo e porsi da esempio. Fremetti, non risposi ma gli girai le spalle temendo di far trasparire emozioni che mi avrebbero reso vulnerabile ai suoi occhi. Era una replica inammissibile, la sua, intrisa del peggior disprezzo.

Rientrai attraversando le sale del Tempio per raggiungere il naos. Serrai le labbra per non imprecare e sfilai l'elmo. Pezzo dopo pezzo, mi liberai dagli altri elementi disponendoli con deferente attenzione a ricomporre il Totem che riluceva con rinnovata intensità in quell'antro semibuio, rischiarandolo, investendo anche il mio volto di un bagliore fulgido: era magnifico, regale. Non ne sono degno... mi dissi con un groppo in gola, imboccando il corridoio per giungere nelle stanze private al fine di recuperare la semplice uniforme di addestramento. A cosa mi sarebbe servito indossare le Sacre Vestigia se non avevo voce in capitolo tra i parigrado? A nulla, non mi sarebbe servito a nulla. Eppure l'armatura mi aveva scelto nonostante i più sembrassero reputarmi un incapace, ero confuso, di chi dovevo fidarmi? In cosa dovevo credere? Ero combattuto tra il sentirmi una persona speciale o una completa nullità; il modo in cui mi trattavano mi esortava a convincermi di una cosa o dell'altra, ogni volta, neanche fossi una banderuola in balia del vento.

Uscii per inumidirmi le mani sotto il getto della fontana e passarmele sul viso per lavare via le lacrime, dovevo cancellarle affinché nessuno le scorgesse solcarmi il volto. Inspirai lentamente, ero riuscito a mantenere la calma con un atteggiamento consono al mio ruolo. Dovevo ritenermi orgoglioso di me stesso.

Occupai lo spazio a ridosso del basamento di una colonna, smarrendo lo sguardo tra le fronde ondeggianti delle piante a foglie caduche che circondavano il Tempio. Riflettei e pervenni alla conclusione che alcuni timori fossero fondati: non era più una questione di scarsa fiducia nelle mie possibilità. Dovevo affrontare la fase più difficile, alcuni Santi mi erano ostili a causa di una radicata avversione; purtroppo il passato non si poteva cancellare perché era ben impresso nella memoria di ognuno – disonorevole o edificante che fosse – e il mio era stato inglorioso, non riuscivo a dimenticarlo del tutto. Mi rialzai prendendo un respiro, non potevo più permettermi di soggiacere alle insinuazioni, più o meno esplicitate, di alcuni Santi. Tutto ciò non faceva che ferirmi nell'orgoglio e provocarmi dolore, come una lama che affonda nella carne. Avevo bisogno di nuove e costanti conferme ma erano passati solo pochi giorni dall'investitura ed era assurdo pretendere che lo stato attuale mutasse come per magia; sentivo di dover agire affinché qualcosa si smuovesse. Savoir-faire... non era una dote che mi mancava sebbene, a volte, stentassi a reprimere l'istinto di affrontare le incomprensioni in modo diretto.

 

...

 

Le bandelle dei battenti ruotarono nei cardini, mi apprestai ad accedere nella Sala delle Udienze senza previa autorizzazione; avevo glissato sulle domande poste da Aphrodite ed eluso il presidio di sentinelle preposte alla sorveglianza con una scusa. I sentimenti avevano sopraffatto il raziocinio – come spesso accadeva.

Il rumore echeggiò nella volta a cassettoni. Dohko si stava intrattenendo a parlare col gemello di Saga – due sagome ammantate da un'aura argentea sullo sfondo cinereo – ma udì e scorse la mia presenza da lungi. Alzò una mano nell'atto di interrompere la conversazione e, con l'altra, fece cenno di avanzare. Non ero ancora riuscito a inquadrare i sentimenti di quell'uomo: a volte sembrava ostile, a volte conciliante, sebbene presumessi che in quel frangente mi avrebbe trattato come terzo incomodo. Ero convinto che l'udienza fosse già terminata da un pezzo e mi sbagliavo perché era stata più lunga del previsto, sembrava avessero ancora molte cose da dirsi. Avevo calcolato male i tempi ma non m'importava, ero determinato più che mai a esporre le mie ragioni.

Mi piegai per poi assurgere – odiavo quei convenevoli – e, nel mentre, i due persistettero a fissarmi in silenzio. Provai un fastidioso imbarazzo.

“A cosa dobbiamo questa intrusione inopportuna?”

“Dovrei parlare con voi...” ribattei avvolgendo come d'abitudine un ricciolo tra le dita e rivolsi al tempo stesso uno sguardo obliquo a Kanon, lo scrutai da capo a piedi a sua insaputa. “In privato” sottolineai, scandendo le parole.

“Stai abusando della mia pazienza, oltre ad aver violato uno dei precetti. Ma, grazie agli dèi, mi trovi ben disposto, terminata quest'udienza mi premurerò di ascoltarti” disse Dohko indicandomi la biblioteca adiacente alla sala, e a quelle parole un rivolo di sudore mi colò lungo il volto, forse avevo osato troppo senza avvedermene per tempo.

 

...

 

Ero assorto, intento a sfogliare un libro illustrato, quei manoscritti avevano già catturato il mio interesse in altre circostanze. Mi voltai quando udii Dohko schiarirsi la voce in modo da destare la mia attenzione, non avevo avvertito la sua presenza alle mie spalle.

“Esponi pure il tuo problema" esortò, dopo essersi sfilato il copricapo e averlo deposto sul tavolo. Lo fissai badando a non lasciar trapelare alcuna emozione.

Deposi il volume sul ripiano dove lo avevo preso, sperando che il disagio improvviso non trasparisse dal volto che sentii avvampare. Presagii che la mia determinazione sarebbe ben presto sfociata in argomentazioni prive di mordente. Il Sommo sedette senza invitarmi a occupare la poltrona di fronte alla scrivania, forse intenzionato a liquidarmi in fretta.

“Quell'individuo mi esaspera...” esordii, esponendo i dettagli dell'alterco con Kanon, mentre con un dito rimuovevo un velo di polvere dalle volute di uno specchio barocco appeso alla parete; soffermandomi – con discrezione – sull'immagine riflessa. Mi ero ripromesso di non esternare il mio nervosismo ma stavo fallendo miseramente.

Il Sommo non interloquì lasciando che continuassi aggrottando, di tanto in tanto, le sopracciglia folte. Ascoltò con infinita pazienza lo sfogo che definì puerile senza mezzi termini, ferendo i miei sentimenti, incurante di avermi recato un'offesa. Credetti di odiarlo in quel momento. Abbandonò le mani in grembo rigirando i pollici.

“E sei giunto fin qui per tediarmi con queste sciocchezze?” soggiunse dopo aver afferrato i braccioli del seggio per levarsi in piedi. Il pesante scranno si mosse stridendo contro il pavimento.

“Sciocchezze? E se lo avesse fatto con voi!?”

Dohko arrivò a fronteggiarmi in modo che ci trovassimo viso a viso, occhi negli occhi, serrai le palpebre intimorito perché temevo fosse intenzionato a colpirmi.

“Kanon di Gemini ha agito con cognizione di causa. Sta a te saper distinguere tra buone o cattive intenzioni ma non hai ancora maturato capacità di discernimento” incalzò.

Mi stavano salendo le lacrime agli occhi e deglutii facendo attenzione a non sbattere le ciglia.

“Non m'interessano gli improperi che vi scambiate. Ciò non costituisce un problema, una motivazione valida che giustifichi l'azione di aver varcato la soglia del Tredicesimo Tempio senza essere stato convocato. E sono magnanimo... se ci fosse stato Shion, al mio posto, non l'avresti passata liscia.” Mi redarguì. Quelle parole sottintendevano e confermavano quanto il Santuario fosse un'istituzione permeata da ipocrisia; falso moralismo da esibire a seconda delle occasioni.

“Le vostre affermazioni contraddicono il fatto che io sia deputato alla custodia delle dodici armi” ribattei con tutto il coraggio di cui potessi disporre ma Dohko ignorò – di proposito, credo – le mie provocazioni, senza lasciarsi prevaricare dalla collera che stava montando poco a poco, riuscivo a percepire l'intensità del suo cosmo.

“Adesso torna a presidiare la Settima Casa, non è un compito così difficile” ordinò gelido, indicando la porta.

“Gran Sacerdote...” insistetti lottando con lo sguardo, sebbene stentassi a sostenere l'intensità di quelle iridi smeraldine che mi scrutavano con piglio inquisitorio. “Ho saputo che alcuni apprendisti si contenderanno le Sacre Vestigia d'Argento. Perché non mi avete assegnato alcun allievo?”

“Perché devi ancora assimilare le competenze relative al ruolo che ricopri, e quest'oggi ne hai dato ulteriore prova. Alcuni Santi non sono predisposti all'insegnamento. Niente di personale" spiegò facendo strada verso l'uscita. Provai rancore verso di lui, verso quel luogo... nei confronti dei Santi di Bronzo che avevano il privilegio di condurre un'esistenza normale a villa Kido. Quella conversazione aveva rievocato fantasmi dalla mia coscienza, un astio che credevo ormai sopito.

 

 

Percorsi il tragitto all'inverso, costeggiando la distesa di rose occhieggianti al mio passaggio. Udii il frullo d'ali di una civetta che mi tagliò la strada, distraendomi, facendomi volgere gli occhi al cielo e alle prime stelle che si accendevano all'imbrunire.

Quell'atteggiamento ostile dimostrava quanto a Dohko non fosse andato giù il fatto che avessi ottenuto l'armatura di Libra al posto di Shiryu. Non avevo le prove ma ne ero più che certo. Oltrepassai la soglia della Dodicesima Casa e svoltai in direzione del roseto, imboccando il portico colonnato che mi avrebbe condotto all'ingresso sul giardino. Sapevo che, a quell'ora, il mio mentore era solito concedersi un diversivo leggendo un libro, sorseggiando una tisana o del tè che avrebbe condiviso volentieri. Desideravo confidargli l'ennesima disavventura, forse avrei trovato una spalla su cui piangere; oppure no, e Pisces avrebbe rincarato la dose ponendo l'accento sulla mia stupidità. Cambiai idea, non gli avrei detto nulla.

Lo trovai seduto sulla panchina, sotto il pergolato, sembrava confondersi con le ombre del crepuscolo. Quella sua figura solitaria rifulgeva di una pallida aura contrapposta al vermiglio delle rose che ondeggiavano nella brezza come un mare inquieto. Mi avvicinai notando gli occhi cerchiati spiccare sul volto terreo. Aphrodite languiva avvolto nel mantello di lana, con un'aria stanca, ma si riscosse in mia presenza ravviandosi la chioma fluente come la spuma del mare – era sempre così bello, perfetto come le sfaccettature di un diamante. Sganciò l'alamaro che tratteneva la clamide bianca per riporla con cura accanto a sé.

“Ho pensato che non ti saresti fermato. Avevi qualcosa d'importante da comunicare al Gran Sacerdote?” Si premurò di versarmi del tè nell'unica tazza di cui disponeva al momento.

“Niente d'importante. Tu, invece? Andavo di fretta ma non mi è sfuggito il tuo volto stanco, posso rendermi utile?” interloquii staccando un frutto dalla pianta di agrumi.

“No, piccolo Misty. Sono un po' debilitato. Sarà a causa dell'insonnia, ma non è niente di preoccupante.”

“Hai provato con un infuso di valeriana? Dicono sia efficace contro i disturbi del sonno.” Gli suggerii mentre ero intento a dividere il limone a metà con un temperino per spremerne il succo nella bevanda. Accostai la tazza di tè fumante alle labbra, deglutendo a piccoli sorsi, dopodiché la riposi: la mia attenzione fu catturata da un oggetto, appoggiato sul medesimo tavolo, che rifletteva il fastidioso riverbero di una lanterna. Era un piccolo specchio dall'impugnatura e dalla cornice d'argento, finemente cesellato. Lo afferrai per guardarci dentro ma Pisces mi dissuase strappandomelo di mano e abbozzò un sorriso pervaso da blanda insofferenza.

“Ti infastidiscono i miei vezzi...” confermai, incrociando le braccia sul petto.

“Dovresti saperlo” replicò e ripose l'oggetto badando che la superficie riflettente fosse rivolta contro il tavolo. Una reazione prevedibile? Forse no. Mi strofinai il naso, credevo di conoscere Aphrodite come le mie stesse tasche, ma in alcuni momenti non riuscivo a comprenderlo. Mi convinsi che dietro quella forzata e ingiustificata indignazione ci fosse ben altro; il mio mentore sembrava geloso di quell'oggetto insignificante, ma importante per lui a giudicare dalla rapidità con cui me l'aveva sottratto.

 

...

 

Stupido che sono... nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile. Ma adesso sono uno di loro a tutti gli effetti. Cosa temo, di non essere all'altezza? No di certo... sono anche meglio e lo dimostrerò. Ma prima dovrei vincere questa maledetta ritrosia, pensai scrutando i Santi nell'Arena da una posizione elevata: con una mano mi schermavo il viso per riparare gli occhi dal sole aguzzando la vista. Sentii una goccia di sudore scendere lungo le tempie e il collo, un brivido mi percorse la spina dorsale. Assicurai le bende attorno agli avambracci, annodando e tirando con i denti i lembi di tessuto all'estremità. Mi apprestai a scendere le gradinate raggiungendo il cerchio di mura che delimitava l'Arena, spinto da un impulso incontenibile.

Scorsi alcuni membri della mia Casta, tranne Aphrodite, Saga, e pochi altri: osservai Milo e Kanon ingaggiare un fittizio combattimento, poco più di una scaramuccia. Li studiai in silenzio, quel poco che sarebbe servito a carpire alcuni dettagli. Quando Milo decise di abbandonare il campo, allora, mi feci avanti delineando un circolo virtuale con i passi intorno al Santo di Gemini, e questi sorrise. Un prevedibile riso di scherno.

Kanon raccolse tacitamente la sfida e si mosse al contrattacco. Gli altri non interferirono supponendo – probabilmente – che si trattasse di uno scontro amichevole; sebbene credevo ricordassero che non amavo partecipare a quel tipo di giochi, tanto meno frequentare l'Arena. Realizzai di essere mosso da interessi personali e questo era in antitesi con la vocazione di un Santo di Athena, ciononostante non riuscivo a sentirmi in colpa perché non tolleravo l'ingiustizia.

Rifuggivo il contatto fisico e schivai i primi colpi sferrati dall'avversario. Incurante della polvere che si sollevava dal suolo, infiltrandosi tra le vesti, insudiciando volto e capelli, sarei stato altrettanto indifferente alle ferite? Ero certo che alcuni non si spiegassero lo strano comportamento di chi aveva sempre sostenuto il contrario di tutto in contrasto con le virtù di un guerriero. Era strano per loro vedermi rotolare nella sabbia avvinghiato al contendente, per poi svincolarmi, spiccare un balzo e assestargli un paio di poderosi calci in pieno volto. Strano anche per me, in quanto non avrei mai immaginato che l'orgoglio ferito mi spingesse a tal punto – al punto da rendermi incline a lavare l'onta col sangue.

Kanon sputò benché in un primo momento non avesse dato segni di aver accusato il colpo che lo aveva fatto barcollare senza gettarlo a terra. Si ripulì poiché sanguinava anche dal naso. Doveva aver subodorato che facessi sul serio, ravvisando nel mio gesto sleale un sentimento di rivalsa, equiparandolo a un affronto, e se questo fosse stato il suo pensiero, beh... non s'ingannava.
A buon rendere. Accennai quello che doveva essere un vago sorriso.

Era indubbiamente molto forte anche senza ricorrere al cosmo: si avventò contro di me afferrandomi le mani, obbligandomi a una prova di resistenza, e il confronto era impari in quanto a forza. Mi vidi costretto a cedere piegandomi sulle ginocchia. Quando non riuscivo a eguagliare gli avversari ricorrevo ad altri espedienti che, immobile in quella posizione, non mi sovvenivano. Se avesse continuato avrei, di sicuro, avuto la peggio. Dovevo arrendermi? Ebbi un sussulto d'orgoglio e mi rialzai lentamente, quel poco da destabilizzare l'antagonista che lasciò la presa; ma fu un susseguirsi di colpi da parte di quest'ultimo, ripetuti colpi al costato, calci all'addome, al basso ventre. Aveva deciso di reagire alla mia provocazione, con pari se non maggior veemenza, e a giudicare dall'accanimento nei miei confronti realizzai di averlo istigato al punto giusto. Fui sopraffatto da un dolore sordo, viscerale. Resistere, dovevo resistere. Con gli occhi semichiusi e la vista annebbiata osservai quello che aveva fama d'essersi redento, ma – a mio giudizio – privo del carisma di suo fratello Saga. Un essere subdolo. Tossii tenendomi una mano sul ventre, percepivo l'odore e la consistenza della polvere nelle narici e in gola, il sapore del sangue, tuttavia mi trattenni dallo sputare saliva. Non ebbi il tempo di formulare altri pensieri che fui scaraventato contro le mura che racchiudevano l'Arena. Piegato su me stesso dal dolore aprii gli occhi e notai i miei ex-commilitoni discutere – sagome nere contro il cielo terso – non potevo udire le loro parole ma riuscii a intendere che Asterion fosse sul punto di intervenire e Algol lo dissuase. Perseus sapeva bene che non avrei tollerato ingerenze su questioni che non li riguardavano.

Nel frattempo scorsi Milo strattonare a forza Kanon, me ne compiacqui poiché avevo già ottenuto ciò che volevo, ma il mio entusiasmo si raffreddò quando Camus mi si parò davanti puntandomi il dito contro: “Sors d'ici” intimò con la tranquillità abituale. Aquarius era di un'antipatia unica. La favilla di orgoglio che ardeva nel mio cuore non si smorzò nonostante l'imposizione. Fu l'amor proprio a spronarmi a rimettermi in piedi malgrado fossi prossimo a un travaso di bile. La sfida si era conclusa e non potei esimermi dal rallegrarmi vedendo Kanon col volto tumefatto e il naso rotto: una lezione che non avrebbe dimenticato.

 

Algol mi raggiunse apostrofandomi: “Sei un idiota.”

“Come osi...” rimbeccai indignato, accettando di porgli un braccio intorno al collo per farmi aiutare. L'arroganza con cui si poneva nei miei confronti era intollerabile ma faceva ormai parte del nostro rapporto d'amicizia, da lui avrei potuto accettarla senza battere ciglio, o quasi. Era difficile ammettere che, seppur trascorsi solo pochi giorni, ne sentivo la mancanza: mi mancava quella feccia, brillare in mezzo a loro mi faceva sentire importante. Avevo nostalgia della valle sacra, dei Santi d'Argento. Tra i membri di un'élite è arduo primeggiare... realizzai ripensando alla levatura dei Santi con cui dovevo condividere l'onere del mio nuovo status e ciò mi rattristava. La loro nobiltà sembrava mettermi in ombra.

“Senti dolore inspirando? Fai fatica a respirare?” La sua domanda mi destò da quei pensieri e annuii con un flebile cenno. Sì, provavo dolore a tratti insopportabile, tuttavia la soddisfazione riusciva a compensare la sofferenza.

“Allora, è probabile che ci sia qualcosa fuori posto.”

“Hai visto la sua faccia?”

“Sì, l'ho vista, ma adesso andiamo...” Mi rispose Algol con un tono un po' brusco ma usuale da parte sua.

“Non so perché tu l'abbia provocato, ma qualcosa mi dice che avevi una buona ragione per farlo. Quel marciume non ti romperà più le palle, stanne certo...” Una terza persona si era intrufolata nel discorso. Death Mask aveva fatto capolino alle nostre spalle, con un'espressione sibillina impressa sul volto; una favilla baluginò in quegli occhi blu pervasi dall'arroganza di chi è sicuro di sé.

“Devo prenderlo come un complimento?” ribattei con sarcasmo.

“Prendilo come vuoi” soggiunse, allungando il passo per dirigersi altrove.

 

...

 

Avevo lasciato Algol là fuori, seduto su un gradino della rampa, sapeva che sarei comparso da un momento all'altro. Avrebbe desiderato aiutarmi, accertate le mie condizioni; ma nulla poteva se non rispettare la mia volontà, malgrado avessi l'assoluta certezza che non sarebbe riuscito a contenere l'impulso irrefrenabile. Infatti squarciò quella cortina di riservatezza, eludendo il divario gerarchico successivo all'investitura che si era frapposto tra noi, inoltrandosi per la prima volta nelle stanze private della Settima Casa.

Languivo immerso nella vasca quadrangolare e rilevai la sua presenza dopo aver udito alcuni passi. Feci finta di nulla, ero concentrato su me stesso – sul dolore che provavo, un vanto per qualcuno, ma non secondo la mia personale concezione del valore – mi sforzai di inspirare più a fondo sebbene fitte lancinanti mi trafiggessero a ogni tentativo. Avevo rimosso gli indumenti temendo di scorgere lividi, graffi e abrasioni. Erano ferite superficiali, di poco conto, ma non riuscivo a sopportare l'idea che deturpassero la mia purezza... Alzai gli occhi e mi riscossi dai pensieri, degnando Algol della mia attenzione. Ero troppo stanco per rispedirlo indietro. Mi alzai in piedi uscendo dall'acqua. Mi lusingava la consapevolezza di quanto ad altrui sguardo apparissi alla stregua di una visione sublime – fuorviante – nella cornice dei marmi, delle statue opalescenti: l'emblema della perfezione esteriore, a dispetto delle contraddizioni che si dibattevano del mio animo. Scorsi miriadi di scintille luminose attraverso le palpebre chiuse e il capo iniziò a dolermi. Non dissi nulla lasciando che si accostasse alle mie spalle offrendomi il telo per asciugarmi.

Gli concessi di accompagnarmi nella mia stanza. Era una sala rivolta a nord - dove la luce del tramonto filtrava attraverso i tendaggi e ne riproduceva la trama, riflettendosi contro le pareti - di un'eleganza austera, dovevo ancora abituarmici.

“Non hai chiesto spiegazioni riguardo ciò che è successo” esordii mosso da semplice curiosità.

“Non credo tu me ne debba, hai agito in accordo con i tuoi principi.”

“Ti ringrazio” replicai, riconoscente a mio modo per la sua discrezione; un insolito riserbo, a dire il vero, considerando l'indole del personaggio. Meglio così, conclusi senza pormi altre domande.

“Ricordati di non trattenerti dall'inspirare profondamente, anche se fa male.” Mi raccomandò prima di andarsene. “A domani.”

 

***

 

III

 

Mi ero messo in disparte, dopo aver visto Saga intenzionato a discutere con suo fratello Kanon, il quale era giunto all'improvviso interrompendo la nostra conversazione.

“Cos'è successo l'altro giorno? Conosco quella persona abbastanza bene, e non è sua abitudine attaccare briga senza un motivo valido.” Saga interrogò Kanon di ritorno da un breve incarico assegnatogli dal Gran Sacerdote. Stazionava immobile sulla soglia della Terza Casa – tra i bassorilievi speculari dei Gemelli – intenzionato a impedirgli l'accesso, e Kanon, dal canto suo, fece spallucce avendo notato il cipiglio del fratello. Prese tempo...
Mi domandavo di chi stessero parlando.

“Non ti smentisci. Sempre a sentenziare come se tu fossi un esempio di perfezione...” sbuffò Kanon, levando gli occhi al cielo. In verità sembrava essere lui a non smentirsi. Continuai ad assistere, appartato in un angolo, senza prendere parte al diverbio.

“Non mi reputo migliore di te.” Gli rispose Saga con una certa condiscendenza. In fondo lo aveva perdonato, conosceva il suo percorso, quantunque alcuni difetti insiti nell'indole umana non si potessero cancellare, né smussare.

“Se proprio insisti... ti dirò che l'attuale Custode della Settima Casa è quanto di meno adatto possa esserci a ricoprire quel ruolo” esordì il gemello minore, un vago sorriso s'impresse sul volto che recava i postumi di una lotta. “Ma l'ho apostrofato per divertimento, come si fa tra compagni d'arme.” Si schermì con un contegno tutt'altro che scherzoso.

Era finalmente chiaro a chi si riferisse. Le solite bambinate di cui ne avevo fin sopra ai capelli...

“Allora ha fatto bene a spaccartela quella faccia di bronzo. Ed è stato astuto a farlo in un contesto neutro.” Uhm, interessante... Saga sembrava essersi fatto serio, il suo tono si era inasprito, ma in realtà era un riflesso condizionato, istigato dalla pungente ironia dell'altro, una peculiarità che sembrava persistere anche nella nuova vita. Lo vidi sospirare, concentrarsi sulla visuale splendida dell'Attica che si stagliava da quella posizione – forse per prendere tempo – lasciando libero l'accesso al Tempio.

Kanon increspò le labbra abbozzando un sorriso, ponendo una mano sulla spalla del fratello. “Non cambio opinione in merito” concluse.

La controparte scosse il capo in segno di disapprovazione e fece un passo indietro, non sembrava intenzionato a infierire.

 

Mi scostai dalla balaustra rigirando la rosa tra le dita, ne collocai lo stelo tra i denti per avere le mani libere in modo da poter calzare l'elmo. Mi congedai da Saga, avevo discusso con lui di problemi relativi alla ripartizione degli oneri prima di assistere al siparietto con Kanon...

E così il mio discepolo e il gemello di Saga si erano accapigliati per un motivo talmente futile da rasentare il ridicolo. Misty avrebbe dovuto soprassedere, ma era più permaloso e vendicativo di quanto non si evincesse dal suo serafico contegno. Risolsi di far finta di nulla... non ne avrei fatto parola con lui, nemmeno per avere un chiarimento dal suo punto di vista.

Mi approssimai alle scale intraprendendo il percorso in salita. D'un tratto, dalla svolta che precedeva la rampa verso la Settima Casa, comparve il Santo di Perseus. Mi rivolse un saluto di circostanza che non degnai di ricambiare se non con un cenno d'insofferenza. Quell'incontro ebbe l'effetto di smuovere qualcosa dentro di me e non era un sentimento conciliante.

Si trattava di un Santo di rango inferiore e non doveva trovarsi qui, bensì nell'area che circoscriveva la valle sacra. Era quello il compito dei Santi d'Argento. Mi si contorsero le viscere dall'indignazione perché intuivo da dove provenisse. Un momento, mi dissi, se è giunto fin quassù è perché qualcuno gliel'ha consentito... e come mai non l'ho incrociato prima?

Doveva essere sbucato alla Settima percorrendo un sentiero alternativo. Malgrado quella considerazione razionale non riuscii a frenare i miei istinti. Emisi un sospiro e inspirai per incamerare una sufficiente quantità d'aria nei polmoni e ossigenare il cervello. Calmo, dovevo restare calmo.

Incontrai Misty in prossimità dell'ingresso ad arco aperto tra le colonne e la trabeazione del Tempio: la consueta espressione innocente impressa sul volto d'angelo, uno sguardo annacquato, languido, dal quale traspariva quella parte d'indole remissiva e senza nerbo che aborrivo – in antitesi al suo contegno arrogante. Come se due personalità distinte convivessero nello stesso essere.

“Ciao, Pisces” esordì il mio dolce fratellino.

“Non indossi la tua armatura, come mai? Durante il presidio quotidiano dovresti indossarla” osservai.

“Ah, sì. È vero” replicò senza opporre alcuna giustificazione, un simile atteggiamento denotava una leggerezza imbarazzante. Mi infastidiva quella superficialità da parte sua.

“Mi sono imbattuto in uno dei tuoi ex-commilitoni, i Santi di rango inferiore non dovrebbero mettere piede sull'Acropoli, a meno che non siano convocati dal Sommo in persona.”

“Io lo facevo.” Si schermì. Forse credeva che quel pretesto gli avrebbe offerto una scusante.

“Tu sei il mio discepolo. Perseus chi sarebbe? Cosa rappresenta per te?” sbottai in preda a un incontenibile furore. Mi balenò un dubbio: che la mia non fosse gelosia? No, che assurdità!

Misty mi fissò perplesso, e convenni si fosse persuaso di non rispondere.

“Sei pregato di porre fine alla vostra tresca, almeno in questo luogo, per decenza. Sei deputato a presidiare una dimora sacra, e l'accesso all'Acropoli è precluso ai Santi d'Argento e di Bronzo. Qualunque rapporto tu abbia con quell'individuo, fa che non si consumi tra queste mura. Non puoi fare sempre tutto ciò che vuoi.” Ebbi appena il tempo di pronunciare l'ultima parola che un vortice di vento mi travolse scaraventandomi contro una colonna. Mi si oscurò la vista, la schiena doleva in modo atroce, come se una lama si fosse conficcata tra le vertebre; realizzai di aver sbattuto la testa udendo lo sferragliare dell'elmo scalzato che rotolava giù dalle scale. Saggiai il sapore metallico del sangue in bocca.

“Non è accaduto nulla di ciò che sospetti, le tue sono solo vergognose insinuazioni.”

Quelle parole giunsero alle mie orecchie come un sussurro appena percettibile. Mi riebbi, incolume, il tempo di mettere a fuoco l'immagine che si stagliò nel mio campo visivo: un turbine di fiamme parve sfavillare in quello sguardo altero, simile al bagliore del sole che permeava di riflessi la chioma fulva. Mi soffermai a guardarlo, istupidito, prima di riprendermi completamente.

Presi un respiro per raccogliere le idee, se la mia collera si fosse abbattuta su di lui lo avrei annientato in virtù dei miei poteri. Lo fissai con uno sguardo che forse ebbe facoltà di intimorirlo, si evinceva dal pallore che il volto acquisì in brevi istanti, dagli occhi sbarrati... vacui. Avrebbe pagato il fio per la sua insolenza.

“Adesso basta.” Lo afferrai per la tunica e il tessuto cedette, strappandosi, forse era l'ira ad accrescere il mio impeto. Privo delle Sacre Vestigia mi dava l'impressione di essere fragile come un vaso di vetro, lo sospinsi scagliandolo contro la parete, dove sbatté violentemente il capo. E poi lo riagguantai per un brandello di stoffa, senza alcun rimorso per la mia condotta. Ricordai di aver avuto degli screzi non dissimili in passato ma, nel momento in cui mi apprestai a colpirlo, ebbi un ripensamento. No, non dovevo abbassarmi allo stesso livello di quel narciso tronfio di presunzione, ritrassi la mano e lo lasciai andare.

Udii la voce di qualcuno, alle mie spalle, del quale riconobbi l'intensità del cosmo: “Che succede qui!?”

Scorpio...

Non risposi e non mi voltai, soffermandomi a osservare il volto angelico di mio fratello: corrugò le sopracciglia dal disappunto e una favilla luccicò negli occhi azzurri, li aveva alzati sfoderando un enigmatico sguardo. Non si era pentito, ne ero certo, tuttavia qualcosa in quell'espressione sprezzante tradiva arrendevolezza – o disillusione – che mi indusse a trattenermi dall'accanirmi con insulti. Mi riscossi da quella fascinazione senza lasciarmi intenerire, era di sicuro una tattica per manipolarmi a suo piacimento. Misty non aveva ancora acquisito la maturità necessaria per svolgere il suo compito.

“Farò rapporto” sentenziai lapidario.

Il Santo dell'Ottava Casa mi guardò esterrefatto, non aveva idea di cosa avesse innescato la mia reazione.

“Ha usato il cosmo contro di me senza alcun motivo.”

Milo non si oppose, apprendendo le mie ragioni, forse perché il comportamento del mio discepolo non aveva scusanti; sebbene lessi in quello sguardo un'esortazione che mi voleva incline alla diplomazia. Ma non riuscivo a immedesimarmi nel suo sentire, io ero io... non tolleravo un attacco alla mia persona, sarei stato intransigente.

Girai sui tacchi recuperando l'elmo ai piedi della rampa, e mi diressi verso il Tredicesimo Tempio.

 

...

 

Dopo avermi annunciato, un servitore mi condusse in uno dei giardini racchiusi nell'intimità silente della corte. Non ci speravo, temevo che il Sommo mi negasse l'udienza in un ordinario momento della giornata. Invece mi aspettava all'ombra del portico nel quale, a spezzare la quiete, echeggiò il solo scandire dei miei passi e il soffio blando del vento che spirava a recarmi un po' di sollievo. Ero accaldato e stanco.

Dohko indossava gli abiti civili, mi scrutò con attenzione avanti di pronunciare qualsiasi parola, mi stava studiando, forse non ero così abile a dissimulare l'inquietudine come avevo sempre creduto di saper fare. Doveva essere a causa dei miei trascorsi: mi ero dimostrato così subdolo in passato da ritrovarmi a essere fin troppo trasparente nel presente, quasi per contrappasso. Il Sommo mi indusse a rilassarmi in virtù di un espressivo moto dello sguardo, trasponendomi la tranquillità necessaria.

“Sei nervoso” esordì, infrangendo la solennità del silenzio che pervadeva quel luogo, esortandomi a levare lo sguardo che avevo sviato ostinandomi a mantenerlo fisso sul lastricato di pietra. “Solo a mente fredda sarai in grado di riportare correttamente i fatti.”

Sospirai. Dokho conservava immutato il discernimento – ad appannaggio del vegliardo – nelle sembianze di un uomo giovane e forte; e le sue parole erano rassicuranti, quel tanto da indurmi a riordinare i pensieri nel tentativo di esporli senza eccessivo trasporto. Risolsi di confidargli ogni cosa e lui se ne stette in ascolto con due dita accostate al volto, investito di lodevole compostezza e, di concerto, anche la mia collera sbollì.

Sfilai l'elmo deponendolo sul parapetto di marmo, scostando ciocche di capelli impregnate del sudore che mi colava lungo la fronte.

“Cosa dovrei fare secondo te, Pisces?” Domandò, dopo essersi attardato a pensare, probabilmente immerso in una riflessione volta a produrre la conclusione adeguata. Quell'interrogativo sortì l'effetto di accrescere il mio disappunto, ma speravo che il mio scaltro interlocutore non se ne avvedesse, dopo avermi esortato, già una volta, a mantenere la calma.

“Ma voi non siete indignato?” replicai.

“Hai le prove di ciò che sostieni? Hai assistito con i tuoi occhi a riprova di quanto affermi?” Ebbene sì, dovetti ammettere che Dohko mi colse impreparato e la sua replica mi ridusse al silenzio.

“Vedi? Non sai rispondermi. Pertanto le tue sono semplici illazioni, nulla di più. Accusare una persona sulla base di mere supposizioni equivale a calunniarla” soggiunse in difesa di Misty, volgendomi le spalle. No, era troppo, non riuscivo a concepirlo nella mia mentalità gretta e rigida.

“Concordo con voi in merito a questo punto, ma che dire a proposito dell'aggressione nei miei confronti? Se avesse avuto la coscienza pulita non avrebbe osato!”

“Calmati. Non puoi affermarlo con certezza. È sbagliato generalizzare basandosi sul principio di causa-effetto.” Si voltò fissandomi con gli occhi di giada, non lo si poteva contraddire poiché, pur senza imporsi, si poneva con disarmante assennatezza. Ma ero così adirato da volerlo istigare contro Misty, e purtroppo quell'affronto aveva riesumato il lato più spregevole del mio essere.

“Non prenderete provvedimenti? Lascerete correre!?” incalzai con insistenza tanto ch'egli – ne fui certo – colse il mio intento malevolo.

“Anche le parole possono offendere se usate a sproposito, si dice feriscano più della spada. Possono ledere o rafforzare l'autostima di un individuo. Pensaci.”

“Provo troppo sdegno per essere concorde con voi.”

“Sei orgoglioso. È diverso. Metti da parte l'orgoglio; il tuo discepolo ha bisogno del tempo necessario per assuefarsi a quello che per lui è stato un drastico cambiamento.” Dohko riuscì a zittirmi, non riuscivo a discernere che sagome distorte, gli occhi si erano velati di lacrime, di lì a poco mi avrebbero solcato le guance. Avevo ancora un lungo percorso da compiere per giungere a quella rettitudine che credevo a portata di mano.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


 

I prati d'asfodelo, capitolo II

 

 

IV

 

Cosa avrà da guardare? Quello da ricucire è più di uno strappo sulla camicia, pensai sondando negli occhi di Milo. Dopo di questo... Aphrodite non vorrà più saperne ma non sono in errore e la colpa è soltanto sua; le sue insinuazioni mi hanno ferito.

“Va tutto bene?”

“Sì” risposi, destatomi dal torpore indotto da foschi pensieri. Il Santo dell'Ottava Casa si stava ponendo con gentilezza nei miei confronti, facendo breccia nella mia corazza virtuale in punta di piedi. Non avevo mai interagito con Milo se non in veste formale, lo avevo percepito – da sempre – come una persona scostante, la cui tendenza all'ironia mi aveva esortato a tenermi alla larga. Ma adesso eravamo vicini di casa, c'era solo una rampa di scale a distanziare i nostri Templi e a dire il vero, né lui, né Shaka di Virgo – che dimorava nel Tempio sottostante – mi incuriosivano come persone; uno mi metteva soggezione, l'altro era investito da un'aura di spiritualità così intensa da rendersi inavvicinabile... chissà se sarei mai riuscito a rivolgergli la parola.

“Non ci conosciamo, se non superficialmente, e questa sembra una buona occasione per approfondire la nostra conoscenza.” Mi disse mentre ero ancora sovrappensiero, preoccupato di ricomporre parte dei miei indumenti.

“Sì, certo” risposi dissimulando una condiscendenza ben lungi dalla verità. Ero talmente deluso che mi sarei rifugiato nel mio Tempio, o meglio in un altro luogo più distante, lontano da tutto e da tutti.

“Cos'è accaduto? Puoi parlare, se vuoi. Non sono qui per giudicarti” insisté, sfilandosi la tiara per detergere il sudore dalla fronte.

Temporeggiai, non sapevo cosa dire, e infine riuscii ad articolare qualche parola: “Pisces ha parlato a sproposito.” Conclusi, ma non dovevo essere stato del tutto convincente a giudicare dall'espressione del mio interlocutore, una linea verticale s'insinuò nello spazio tra le sopracciglia folte e ben delineate.

“Uhm... e Kanon? Anche lui avrebbe parlato a sproposito?” esordì a bruciapelo, ricollocando la tiara sul capo con tutta tranquillità.

Kanon? Cosa c'entra il fratello di Saga? Ci siamo affrontati nell'Arena come tutti i Santi fanno di routine al Grande Tempio.


“Non è difficile immaginare cosa stai pensando. È normale per i Santi affrontarsi nell'Arena, fa parte del rituale di addestramento quotidiano e c'è chi – più o meno – vi prende parte” continuò Scorpio. Avevo subodorato dove volesse arrivare, e lui doveva aver intuito a sua volta che desideravo controbattere.

“La sfida che hai ingaggiato con Kanon non è stata per niente amichevole. Posso capire il risentimento per qualcosa che non mi interessa sapere, credimi. Ma ciò non collima con i doveri di un Santo, nei quali non dovrebbero essere contemplati interessi personali.” Mi anticipò, prima che potessi replicare.

“Vuole essere un rimprovero da parte tua?” domandai senza celare una nota di risentimento nelle parole.

“Sì e no” osservò. “È, più che altro, sottolineare un codice di comportamento.”

Chinai il capo, non sapevo cosa rispondere, Milo era nel giusto perché non avevo fatto che anteporre le mie ragioni – o presunte tali – nelle ultime scelte fatte. E le conseguenti azioni non erano state consone al mio ruolo. Ma neppure gli altri avevano dimostrato rispetto nei miei riguardi, lo pensavo ma non potevo dirlo. No? E perché no? Per paura, o ipocrisia? Forse la verità sta nel mezzo. Alzai gli occhi al cielo, e poi mi voltai appoggiando la mano contro una colonna.

“Sì, ho disatteso i precetti che sono priorità del nostro status. Sono stato impulsivo, a dispetto dell'emblema dell'equilibrio che contraddistingue il mio segno.” Affermare ciò mi costò molta fatica ma non avevo scelta.

“Tuttavia questa tua ammissione avalla la scelta dell'armatura, ne sei un degno possessore, ma che ne diresti di indossarla?” Milo di Scorpio stava esprimendo una sorta di apprezzamento, non me lo aspettavo, quelle parole erano una schiarita nel buio profondo in cui brancolavo. Non risposi, se non con un silenzioso assenso e con un sorriso, muovendo un passo indietro per procedere verso l'ingresso della Settima Casa. Lo vidi allontanarsi, rimpicciolirsi fino a scomparire sulla sommità della scalinata, dopo essersi congedato con un saluto.

 

...

 

Dal giorno in cui mi sono trasferito in questo Tempio vivo in perenne imbarazzo, c'è un via vai di servitori e ancelle; ma cosa credono, che non sappia cavarmela da solo?

 

“La cena è servita, non vi resta che prendere posto a tavola.”

 

Replicai con un cenno del capo alla persona che mi aveva avvisato. Avevo incontrato poche volte quel tizio al Santuario, doveva essere in servizio da qualche tempo. Era un tipo strano, non riuscivo a dargli un'età, non era di bell'aspetto – per come intendevo io essere di bell'aspetto – ma in compenso era dotato di buona dialettica. Mah, strano per un inserviente.

Mi incamminai verso la sala da pranzo e, dopo aver occupato il mio posto, mi ritrovai di nuovo in compagnia dell'uomo che sedette di fronte a me come fosse comparso dal nulla. Era una situazione insolita – dovevo riconoscerlo – a cui non diedi eccessivo peso. Pensavo e ripensavo alla breve conversazione con Milo...

“Un po' sfacciato, non credi?” esordii istintivamente, non avevo intenzione di redarguirlo. No, ero afflitto da ben altre preoccupazioni; abbassai gli occhi sulle portate, senza appetito, soffermandomi a osservare la fattura di quei suppellettili e i dettagli che li impreziosivano. Ero abituato a grezze terraglie dai bordi sbeccati. Soppesai un coltello rigirandolo tra le dita, insinuando un'unghia nelle incisioni che decoravano l'impugnatura.

“Pensavo che reagissi male, invece sei tollerante con i sottoposti.”

“Non ho voglia di affrontare un'altra discussione. Per oggi ho sopportato abbastanza, ragion per cui mi adatterò, volente o nolente, alla tua presenza” sentenziai riponendo il coltello accanto alle altre posate.

“Puoi chiamarmi Sileno.”

“Non te l'ho chiesto.” Gli risposi con un tono non del tutto conciliante, desideravo rimarcare il divario tra un Santo di Athena e la servitù. “Tuttavia – non so perché – è un nome che mi suona familiare” soggiunsi alzando lo sguardo, dovevo aver sgranato gli occhi senza rendermene conto. Il mio commensale aveva iniziato a interloquire in modo formale per poi rapportarsi da pari a pari. Mi soffermai su quei lineamenti con più attenzione: forse uno spirito, un'entità ultraterrena poteva ostentare fattezze così inconsistenti, ma reali al tempo stesso. E il suono di quella voce incantava, era pervaso da una sovrumana malia, era così persuasivo... rassicurante.

“Infatti, sei un ragazzo colto.” Sileno colpì la brocca di vetro con la punta di un dito, anzi no, con un artiglio, e io sbattei le ciglia. Non avevo notato avesse unghie così lunghe. L'acqua contenuta all'interno del recipiente si tinse di porpora.

“Sembrerebbe un prodigio!” esclamai, dondolandomi sulla sedia.

“Già, ma non sono un prestigiatore. Diciamo qualcuno più affine all'arte della vinificazione.”

“Non sono abituato a berlo senza dapprima diluirlo con dell'acqua” replicai con noncuranza, ma quel suo modo di fare riuscì comunque a strapparmi un sorriso.

“Sei esigente, signorino. Ma per il figlio di Apollo posso fare un'eccezione.”

“Stai farneticando?” sussultai.
Che cosa?! Cosa ha detto?

“No, mio caro. Dico la verità.”

Mi grattai il mento, Sileno era una figura enigmatica e conversare con lui mi aveva riportato alla memoria antiche leggende. Sileno era il nome di un fauno, finalmente ci ero arrivato; un fauno che, per mia fortuna, aveva deciso di palesarsi in veste di emissario senza sfoggiare connotati animaleschi. Potevo ben comprenderlo... con corna e zampe caprine avrebbe attirato l'attenzione; scostai la sedia indietro per mantenermi a debita distanza, tale consapevolezza mi indusse a provare ribrezzo. Eppure mi auguravo di non risultare troppo scortese, la mia preoccupazione era quella di apparire sempre amabile agli occhi degli altri. Evitai, di proposito, lo sguardo indagatore della creatura.
Che motivo avrebbe di ingannarmi?

Le sue affermazioni non facevano che confermare il mio sentirmi speciale e mi ero già calato nella parte senza difficoltà. Lo specchio me ne dava conferma ogni giorno, avevo sempre sospettato una discendenza divina. Ne ero certo. Ero figlio di un dio... invero c'era una spiegazione a tutto.

“La rivelazione non sembra averti colto di sorpresa” convenne prendendomi le mani nelle sue, e in quel frangente rabbrividii.

“So dissimulare per bene i miei sentimenti, ma in un certo senso non ne sono sorpreso. Sai perché? È una conferma di quanto io sia speciale” risposi leccandomi le labbra. Stavo già sognando a occhi aperti, sebbene avessi la pelle d'oca.

“Sì, trovo tu sia davvero speciale. Dunque puoi accettare la mia offerta, non sortirà effetto alcuno su di te, non obnubilerà la tua mente” sorrise maliziosamente e io trangugiai mezzo bicchiere di vino. Si lisciò la barba crespa e appuntita, riempendo di nuovo il bicchiere che vuotai con un paio di sorsi percependo un pizzicore al naso. Ebbi il primo capogiro, quella bevanda era così inebriante; i suoni si attutirono e fui sopraffatto da una leggera euforia che mi indusse a scordare gli avvenimenti della giornata appena trascorsa. La compagnia di Sileno era piacevolissima ed erano esilaranti gli aneddoti che raccontava a proposito della sua vita silvestre. Mi solleticò le gote con le unghie, affondò le dita tra i miei capelli – oddèi, mi sta toccando – e lo allontanai con garbo, un po' disgustato, la sua sfrontatezza mi ricordava il Santo di Perseus.

Lodava la mia bellezza: “Somigli a Giacinto.” Mi sussurrò a un orecchio. Le sue esternazioni audaci gonfiavano il mio ego, e d'un tratto percepii un calore salirmi al volto... pensai a Shaina sebbene fossi conscio che il suo cuore appartenesse a un altro. Algol... pensai anche a lui, alla sua devozione nei miei confronti e a quanto ne fossi compiaciuto. La testa... mi girava la testa. Avevo bevuto senza toccare cibo, mi smarrii in quegli occhi ardenti; scuri e profondi – al contempo – come un abisso senza fondo, come la notte senza stelle. Dovevo aver perso l'equilibrio giacché mi trovai letteralmente tra le braccia del satiro che riscoprii dotato di un fascino ambiguo e sottile, affatto sgradevole come poteva esserlo una creatura irsuta e sgraziata.

“La mia vita è vuota... vorrei brillare per la grandezza di atti che non ho compiuto, e non di luce riflessa.” Quella confessione mi sfuggì dalle labbra a discapito della volontà.

“È probabile che ciò che cerchi non sia veicolo della felicità cui ambisci, quanto possano esserlo semplici atti di altruismo...” replicò lui. Si esprimeva come un essere dotato del dono della preveggenza e io chiusi gli occhi senza riuscire a decifrare l'arcano, senza comprendere il significato di ciò che aveva appena affermato: avevo l'impressione di fluttuare o levitare a mezz'aria, incapace di formulare una frase di senso compiuto e di sorreggermi sulle gambe. Mi aveva sollevato di peso... sentivo le palpebre pesanti, molto pesanti.

 

***

 

V

 

Ho vissuto con la nomea di vecchio saggio e adesso ho come la sensazione che la mia pazienza stia venendo meno. Sarà a causa del giovane volto riflesso allo specchio... pensai distogliendomi dall'immagine che balenava di fronte a me, falsata dalla flebile illuminazione nella sera. Mi allontanai e presi posto alla scrivania, soffermandomi a leggere alcuni vecchi appunti sparsi su fogli ingialliti. Mentre assemblavo quelle carte per rimetterle a posto mi sovvenne una considerazione inevitabile rivolta ai Santi con i quali mi ero relazionato durante la giornata. Il fatto che stessimo vivendo in pace non implicava l'assenza di dissidi all'interno dell'istituzione, e il colloquio con Pisces ne era stato un chiaro esempio. Forse stare con le mani in mano non era una condizione ottimale per loro sebbene i Custodi delle Dodici Case dovessero – salvo, in casi estremi – presidiare i rispettivi Templi. Forse qualcuno necessitava di essere spedito in missione, magari ricoprendo incarichi di scarsa importanza che fungessero da distrazione o placassero gli ardori. Serrai uno di quei fogli volanti appallottolandolo tra le dita.

In realtà non ero così insensibile da ignorare le esigenze e le ragioni di ognuno, ma tutto ciò suonava davvero futile – e irritante – se comparato alle imprese del passato dove il susseguirsi tragico degli eventi non aveva lasciato il tempo per pensare e infondeva un senso di precarietà all'esistenza stessa. Proprio come questa falena che si sta avvicinando incauta al lume...

Eppure gli stessi Santi, i quali avevano vissuto l'odio e la guerra, ora redivivi, avevano bisogno di sperimentare una parvenza di normalità in quanto esseri senzienti fatti di carne, ossa, e sentimenti. Forse ne avevo bisogno anche io e la stessa Saori che, col suo candore, me lo ricordava ogni volta.

Mi levai in piedi dopo aver messo tutto in ordine, accostandomi alla portafinestra che si affacciava sulla terrazza; un'altra stagione si era conclusa lasciando spazio alla quiete silente e ovattata dell'autunno. Inspirai l'aria frizzante e mi soffermai a contemplare la sagoma della statua di Athena – avvolta dall'oscurità –, la quale dominava il vasto spiazzo stagliandosi contro la volta del cielo cui brillavano alcune stelle. Era un po' velato ma alcune si distinguevano meglio di altre. Nei giorni seguenti mi sarei premurato di consultare gli astri sebbene percepissi un confortante sentore di tranquillità. Probabilmente il mio presentimento non era correlato al destino del mondo o a quello di Athena, né a quello del Santuario stesso; bensì a qualcuno all'apparenza insignito di minore importanza e tuttavia parte integrante. Forse un singolo Santo, o alcuni di loro...

Sospirai indietreggiando per rientrare all'interno della biblioteca. Pensavo al mio ruolo e, a volte, lo percepivo come un gravoso fardello sebbene fossi consapevole che nessun altro avrebbe potuto ricoprirlo; né Saga, né Aiolos. Il passato era passato ma non si poteva annullare. Se Shion fosse sopravvissuto, se il suo destino fosse stato differente, avrebbe sicuramente assolto questo compito; pensavo spesso a lui, sentivo la mancanza di chi era stato un buon amico e mi chiedevo come si sarebbe comportato al mio posto.

 

***

 

VI

 

Dopo aver reciso l'ultimo fiore allungai lo sguardo alla distesa cremisi e alle propaggini che si abbarbicavano lungo la scalinata, per poi affacciarmi sporgendomi di poco oltre il parapetto della terrazza a strapiombo sulle pareti verticali della falesia e contemplare il mare: il cielo era limpido e proiettava riflessi sulle acque increspate e spumeggianti. Rimembrai le parole del Sommo scorgendo il Tempio principale ergersi alla mia destra: l'aurora tingeva le mura millenarie di un bagliore color arancio. Il riposo notturno mi aveva giovato, ero più tranquillo e – trascorsi alcuni giorni – riuscivo a vedere la realtà da una prospettiva differente. Sbirciai il calendario: era l'undici di ottobre, il giorno del compleanno di Misty. Decisi di scendere per fargli gli auguri mettendo da parte l'orgoglio, proprio come mi aveva suggerito Dohko.

 

Giunto alla Settima Casa non percepii il suo cosmo, mi sembrava strano poiché non aveva ricevuto l'ordine di allontanarsi dal Tempio, né gli era stata assegnata qualche missione altrimenti sarei stato il primo a saperlo. Varcai l'ingresso attraversando le sale scarsamente illuminate. Regnava un silenzio lugubre, infranto dal rumore scandito dai miei passi che rimbombava sordo nelle volte. Imboccai il vasto corridoio inframezzato da sprazzi di luce e ombre proiettate da statue e pilastri; il tratto finale fece capolino nel naos: quivi il totem giaceva splendente fendendo l'oscurità circostante. Mi attardai dinanzi al simulacro in rispettosa contemplazione, dopodiché abbandonai quel luogo inoltrandomi nell'ala privata del Tempio dove trovai tutto in perfetto ordine, ma di Ariele non vi era traccia. Stetti fermo a pensare fissando un anfratto buio tra le colonne, un punto cieco in cui non convergeva luce, né proveniente dall'esterno, né dalla fiamma dei bracieri. Il Tempio, nella sua vastità, era assimilabile a un antro desolato e tetro... in cui non c'era nulla che rimandasse alla presenza di mio fratello – o meglio – al suo temperamento egocentrico e solare. Come se quel luogo ancora non gli appartenesse, e viceversa. La porta della stanza da letto cigolò, era socchiusa, così come la finestra dalla quale spirava un refolo di vento. Una stanza luminosa, a dispetto delle premesse, ma disadorna: nella nicchia tra due lesene era posto uno specchio mobile a ruote, uno specchio...

Mi sorse un dubbio. Febo non poteva essersi palesato proprio nel giorno in cui avevo deciso di rivelare a Misty la verità sulle nostre origini, avrei preferito essere io stesso a confidargliela. Non volevo mi serbasse rancore per averglielo nascosto troppo a lungo e, con certezza, quella scoperta ci avrebbe allontanati ancor di più. Il sospetto mi fece perdere, sì, il lume della ragione perché invocai Febo col pensiero, lo pregai di aprirmi le porte del suo regno come spesso aveva fatto negli ultimi tempi, ma niente... sulla superficie dello specchio non comparve nulla all'infuori del mio riflesso. Serrai la mano a pugno, un fragore di vetri infranti sovrastò quel disarmante silenzio. Mi soffermai inebetito a guardare l'avambraccio sanguinante, le schegge avevano lacerato pelle e carne.

“Sei impazzito?!?” Dopo aver udito quella voce mi voltai con lentezza a causa del dolore e dello shock, e poi lo vidi: il mio fratellino. Misty...

Gli tremavano le labbra, era pallido e sgomento. Si precipitò verso di me strappando un lembo di stoffa dalla camicia per avvolgerlo a monte e rallentare il flusso del sangue che si riversava a gocce sul pavimento, mi avvidi che stava lottando contro se stesso per non cedere al disgusto. Mi trascinò fuori dal Tempio senza dire una parola; raggiungemmo la fontana e lavò la ferita sotto l'acqua corrente. Rimosse i frammenti di vetro con molta cautela estraendoli, uno a uno, con le dita sottili ed effettuò un bendaggio di fortuna. Ero sconcertato dalla sua capacità di mediare tra autocontrollo e impulso irrazionale; di porsi in perfetto equilibrio tra sentimenti contrastanti che contendevano nel suo stesso essere. Appose una mano sulla parte lesa e la sua aura mi lenì il dolore.

“È meno grave del previsto, non necessita punti di sutura.” Mi disse col volto imperlato di sudore, avevo la vaga sensazione di udire i battiti accelerati del suo cuore.

“Da dove sei sbucato?” Gli domandai.

“Ti piacerebbe saperlo, vero?” replicò con uno sguardo aperto che svelava tutto il suo acume. “Te lo racconterò; ma prima dovresti rilassarti mentre ti preparo una tisana... fratello” soggiunse, schietto, corrugando la sottile linea delle sopracciglia.

Chinai il capo e Misty, nel frattempo, era già scomparso all'interno del Tempio. Presi il volto tra le mani massaggiandomi le tempie e poi sedetti accostandomi contro lo schienale della panchina di pietra, osservando alcune foglie che si staccavano dalle piante sovrastanti il declivio inferiore.

Non si fece attendere molto. Sedette al mio fianco dopo aver riposto con mano tremante il vassoio sulla superficie libera. La bevanda annacquata contenuta nella tazza stava per traboccare, a dire il vero non aveva un aspetto invitante.

Misty sospirò, forse non sapeva da dove iniziare, ma io non affrettai i tempi rispettando il suo silenzio. Percepivo gli ansiti e notai il suo volto che non aveva ancora ripreso colore. Si alzò in piedi, iniziando a passeggiare avanti e indietro come se volesse scaricare il nervosismo che il linguaggio del corpo tradiva. Cominciò a raccontare, scrocchiò le dita prendendo un respiro, e poi proseguì rievocando i momenti salienti della sua esperienza.

 

Mi ero svegliato all'ombra delle fronde di un albero, una brezza diffondeva l'odore acre di muschio e licheni. Avevo rivolto gli occhi al cielo che s'intravedeva tra i rami di abete. Era una foresta di conifere, così diversa dalla macchia mediterranea che si estendeva attorno e sui pendii più bassi al Santuario. Quando scorsi il volto gioviale di Sileno realizzai di aver oltrepassato un varco dimensionale... non era una possibilità accessibile a chiunque, ma sapevo che poteva verificarsi per volontà divina.

Sei perspicace.” Il fauno sorrise tendendomi una mano e mi rialzai barcollante per scrollarmi il fogliame dalle vesti. Egli aggiunse, inoltre, che non mancava molto per raggiungere il Tempio di Apollo. Lo pregai di compiere un'altra sosta dopo quelli che erano sembrati estenuanti minuti di cammino – ero spossato – ma quell'essere non volle sentire ragioni.

Raggiunta la meta, non potevo negare a me stesso che fosse un luogo maestoso come mi aspettavo. Di una bellezza indescrivibile. Se il complesso architettonico del Santuario di Atene era monumentale, questo lo era di più e si confaceva alla magnificenza delle entità divine che vi dimoravano. I marmi candidi e preziosi si armonizzavano integrandosi con la natura circostante; i Templi si ergevano incastonati entro il circolo dei picchi montani, svettanti, a lambire il cielo stellato.

Misty...” Il fauno mi esortò a incamminarmi lungo la scalinata, presi un respiro perché il percorso era ripido e faticoso. Ero emozionato.

 

 

Questo è quanto...” Mi soffermai ad ammirare il volto dell'essere divino: era freddo, impassibile, di una spigolosa perfezione non dissimile alle figure scolpite nella pietra che ornavano i bassorilievi. Desideravo abbracciare mio padre ma dall'istante in cui lo avevo visto: assiso sul trono, bardato in sete preziose, adorno d'oro e di gemme, mi riscoprii distaccato a mia volta. Realizzai che nulla ci accomunava al di là della discendenza, concludendo che – probabilmente – i sentimenti comuni a noi mortali fossero avulsi dal mondo degli dèi o, in qualche modo, la natura divina fosse lungi dal nostro modo di concepire i rapporti umani.

Concluse il discorso dopo avermi messo al corrente di tutto ciò che, fino a quel momento, avevo ignorato – o quasi. E io non replicai in risposta alle sue parole, al contrario, mi asserragliai con diffidenza nel mio guscio.

Gli occhi vagavano a scandagliare il luogo che non avrei mai immaginato di vedere se non nei miei sogni: le decorazioni a festoni e girali, i mosaici; gli affreschi dipinti sull'intonaco narravano storie di dèi e di uomini come arazzi in cui s'intrecciano i fili del destino. Ogni dettaglio era caratterizzato da concreta inconsistenza; persino la figura del dio sembrava avvolta da un alone di luce spettrale, la quale, come un sudario, riluceva congiunta alle fiammelle di fiaccole e bracieri facendomi dubitare si trattasse di un essere in carne e ossa.

Non posso trattenermi nella vostra dimora, padre. Mi sono stati assegnati determinati compiti al Santuario, e non posso esimermi dallo svolgerli senza passare per disertore” dissi, riscuotendomi da quella fascinazione. Apollo aveva abbandonato il seggio elevato fermandosi a pochi passi.

Sei molto diverso da tuo fratello, il tuo modo di porti è differente.”

Aphrodite è un ipocrita, sì, siamo diversi.” (Il modo in cui avevo appreso che Aphrodite fosse mio fratello non mi era piaciuto affatto, e non potevo negare che mi avesse lasciato anche indifferente.)

Taci, sfrontato. Forse non ti è chiaro con chi stai parlando, o preferisci sia Athena a fare ammenda per l'insolenza dei suoi Santi?” Replicò Apollo, con una vena di scherno mista a indignazione. (Dovevo avergli mancato di rispetto. Ero convinto di essermi rapportato con i dovuti riguardi, o forse era il modo in cui mi ero espresso nei confronti di Aphrodite ad averlo irritato? Chissà... tuttavia, se così fosse stato, avrei avuto la conferma che mio fratello maggiore fosse un privilegiato anche agli occhi degli dèi.) Sospirai in silenzio mettendo ordine nei pensieri. Athena... pensavo alla dèa che fino a poco tempo fa avevo disprezzato, a quanto sembrasse misericordiosa e umana a confronto. Mi sovvennero le considerazioni di Algol a proposito degli dèi: di quanto fossero lungi dalle nostre debolezze, di quanto poco – o nulla – se ne curassero, e di come fossero immorali e abbietti.

No. Non lo farete, non coinvolgerete Athena.” Il mio era un atto di forza e in verità non ero in apprensione per Athena, mi premeva soltanto affermare me stesso e forse mettermi in mostra. Il dio si adombrò in viso sovrastandomi con la propria imponenza. Realizzai di essere stato investito da una sfera di luce nel frangente in cui mi destai riverso sul pavimento con gli occhi aperti rivolti al soffitto ligneo del Tempio, e con un sapore dolciastro in bocca. Mi voltai carponi cercando di rimettermi in piedi, nonostante le vertigini. Incredulo e frastornato per l'umiliazione levai lo sguardo ravviando la chioma scarmigliata, e tra i volti dei cortigiani scorsi quello triste e preoccupato di Sileno che doveva temere per le mie sorti. Mi aveva avvertito del fatto che Apollo avesse un temperamento irascibile e non dovevo contraddirlo ma, ahimè, avevo scordato le sue raccomandazioni.

Buona creanza... tu ne ignori il significato" sibilò il dio, costringendomi a guardarlo in faccia dopo avermi afferrato per i capelli. In realtà fissai un punto senza guardare nulla, senza sbattere le ciglia, sentivo qualcosa scendere lungo le guance e dovevano essere le lacrime che non riuscivo più a trattenere. Apollo allentò la stretta, mi prese il mento, passando con delicatezza un pollice sulle labbra per rimuovere il sangue. (Emersero dei ricordi in cui mi ero rivisto costretto a subire il medesimo trattamento per mano di mio fratello.)

Non puoi vantare trascorsi onorevoli, ma sei bello e l'avvenenza va preservata come un gioiello in una teca.” Detto ciò mi voltò le spalle riguadagnando il trono.

 

Lasciai che Misty si ricomponesse ridestandosi dai suoi ricordi, da qualcosa che credevo avesse omesso dal racconto; non voleva esternare il proprio sgomento ma io avevo intuito quanto fosse turbato. “Ti ha permesso di tornare indietro, al Santuario” affermai esterrefatto.

“Non per molto, esige la mia permanenza nella sua dimora. Ha detto che gli ricordo un certo Giacinto.”

“Giacinto era il suo amante. Il dio del Sole ne ha avuti molti, molte...

“Non ricordavo questo particolare inerente il mito.” Misty fece ricadere le sue bianche mani in grembo, pensoso. “Ma credo il suo sia un interesse platonico...”

“Da cosa lo hai dedotto?”

“È una semplice sensazione" disse piegandosi per raccogliere una foglia trasportata dal vento.

“E, così, vuole che tu torni da lui.”

“Sì, ed è meglio che io lo assecondi per il bene di tutti.”

“Mi aveva assicurato di non voler scatenare una guerra per un motivo del genere.”

“Infatti, credo non sia sua intenzione, ma è meglio non contraddirlo e farò come desidera” rispose, convinto, mentre rigirava il picciolo della foglia secca che si sbriciolò tra le dita.

“E, a parte questo... tu, mi odi?” azzardai temendo di infierire su una ferita già aperta.

“No, non ti odio. Ci sarà pure una ragione per cui tu riesca a entrare nelle grazie di molti, laddove io fallisco" disse stentando a dissimulare una velata amarezza che scaturì parola per parola. Riuscivo a comprendere la frustrazione che gli derivava dal competere con me anziché sforzarsi di migliorare se stesso.

“Grazie per avermi soccorso, Ariele” risposi, prendendogli la mano. D'incanto il mio livore svanì, si dissolse in quella stretta, e lui doveva essersene reso conto ma sgusciò via scostante, rigido come un pezzo di legno. Alzò il mento. La sua freddezza inibì un secondo tentativo di approccio da parte mia ma, d'altronde, era un tratto della personalità che non si smentiva... era solo un piccolo arrogante.

“Chiunque lo avrebbe fatto in simili circostanze, ma ti conviene andare in infermeria per una medicazione adeguata” replicò seccamente, passandosi una mano tra i capelli.

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


 

 

 

I prati d'asfodelo, capitolo III

 

(Un breve estratto di questo capitolo partecipa all'Advent Calendar 2019 del gruppo Hurt/Comfort Italia – Fanfiction & Fanart. Finestrella numero 17 – seconda opera del giorno, parola chiave n.4: foglia.)

 

VII

 

Talvolta mi recavo al villaggio di Rodorio, dopo aver svolto le solite mansioni, e quel giorno imboccai il sentiero opposto evitando il tragitto che mi avrebbe condotto a destinazione. Era stata la distrazione a farmi deviare da un percorso prestabilito. Troppe preoccupazioni si sommavano al mio consueto rimuginare: Febo... la dimensione parallela nella quale mi ero risvegliato; la scoperta esecrabile del legame con Aphrodite di cui non sapevo se rallegrarmi o detestare. Confidavo nella speranza che il dio si fosse scordato di me e mi lasciasse in pace perché avevo avuto l'impressione di non essergli molto simpatico; erano passati diversi giorni e non aveva dato segno della sua presenza. Forse si trattava di una falsa illusione e avevo il presentimento che quel silenzio preludesse in realtà a qualcos'altro di ben peggiore. Proprio adesso... proprio nel momento in cui credevo di essere sulla strada giusta. Mi fermai stringendomi nelle spalle, avvolto nel mantello, il soffio della brezza mi blandiva il collo attraverso uno spiraglio tra i capelli. Mi imbattei in un viottolo accidentato tra la boscaglia, d'estate rigogliosa e ora brulla, a tratti, non completamente spoglia. Scossi il capo, percorrendo il declivio fino al punto in cui si estendeva una piana ondulata.

Mi appollaiai sul moncone di una colonna in rovina e, in lontananza, riuscivo a scorgere le lapidi emergere dal terreno frammisto a erbacce incolte, fiori bianchi di cui non rammentavo il nome ma sapevo costituissero un nesso con le divinità ctonie e il mondo sotterraneo. Fredde lastre di pietra la cui epigrafe era stata cancellata dal tempo... ormai non si leggevano nemmeno più i nomi. In quel luogo sacro e profano giacevano le spoglie di eroi senza nome. Strano... veder ripagati il sacrificio e la devozione con l'oblio. Ciononostante, coloro che avevano qualcuno da ricordare ne rimembravano altresì la tomba anonima: eccola, è lei, mi dissi dopo aver adocchiato una figura longilinea – bardata d'argento, in controluce – contrapposta all'alchimia di sfumature rossastre del cielo al tramonto.
Shaina è venuta di sicuro a porgere omaggio al suo allievo, dunque la morte non cancella i ricordi e la tomba è un anello di congiunzione tra noi e i defunti. Io non ho nessuno da compiangere nell'aldilà, ma forse riesco a immedesimarmi nei sentimenti di chi resta... soprattutto se si tratta di conti in sospeso o rimpianti.

Mi sovvenne il ricordo di quando le avevo donato un fiore per deporlo sulla tomba di Cassios, mi lusingava l'idea lo facesse d'abitudine dopo il mio suggerimento.

Cassios, il discepolo di Shaina, un energumeno senza arte né parte, si era sacrificato per amore guadagnandosi l'Elisio. Per amore... che idiozia! È questa la ricompensa dei reietti dall'animo nobile? Se è così, allora, posso ancora confidare nella Giustizia.

Avvolsi un ciuffo di capelli a spirale tra le dita e socchiusi gli occhi, l'effluvio delle foglie intrise di pioggia mi salì alle narici. Avrei voluto palesarmi davanti a lei per scambiare qualche parola e, di contro, mi sentivo profondamente inibito.
Timidezza? Oh, santa Athena! Non sono mai stato timido in vita mia.
Allora cosa poteva essere? Sbattei le palpebre destandomi a forza da quello stato d'irragionevole esitazione, balzando giù come un gatto dal mio nascondiglio.

Sbucai alle sue spalle con discrezione, si udì lo sferragliare dell'armatura malgrado la mia accortezza, ed ero certo lei avesse avvertito la mia presenza pur permanendo immobile.

“A volte vengo qui... vecchi ricordi.” Shaina infranse il silenzio.

“Io, invece, vi sono capitato per caso.”

“Sentiamo la mancanza delle persone quando non ci sono più.”

“Non ho mai sperimentato questa sensazione.” Le risposi in tutta onestà.

“Perché sei freddo come il ghiaccio” ribatté, ridendo attraverso la maschera. La manopola mi impedì di affondare le unghie nel palmo, non sopportavo di essere giudicato sebbene alcune osservazioni suonassero legittime.

“Oh no, Misty, non prendertela. Lo so bene il tuo cuore è puro, dopotutto hai un animo gentile, non fraintendermi” rettificò, portandosi le mani ai fianchi con un movimento elegante. Distolsi l'attenzione da quella visione sensuale temendo si facesse idee strane su un mio presunto interesse nei suoi confronti.

“Non ho ancora conosciuto persone degne della mia attenzione o interessamento.”

“Tu lo dici, o ne sei semplicemente convinto.” Quell'affermazione mi lasciò interdetto. Cosa significa? Avrebbe fatto meglio a pensare per sé, alla sua debolezza, alla svenevole predilezione – non contraccambiata – per uno indegno. Io ero molto più interessante di quel ronzino alato e anche quest'ultimo, tutto sommato, era un povero illuso perché qualsiasi sentimento nutrito nei confronti di Athena Parthenos non poteva essere che platonico...

D'un tratto sentii il tocco della sua mano contro il mio viso, afferrò una ciocca di capelli scostandola dietro l'orecchio, come per darmi un contentino che ebbe l'effetto di un buffetto sulla guancia. Sentivo caldo, dovevo essere arrossito e ne ebbi la conferma vedendo il mio volto riflesso sulla superficie della maschera. Ricollocai l'elmo, che trattenevo sotto un braccio, sul capo.

“La vita è fatta di sentimenti non corrisposti” sentenziò, come se avesse letto nei miei pensieri, chinandosi sulla lapide per deporvi il fiore. Senza dubbio... mi dissi di rimando pensando al sacrificio del povero Cassios.

 

Anticipai Shaina piantandola in asso, ero ipersensibile, il mio orgoglio ne aveva risentito. Mi incamminai verso la valle giungendo a ridosso dei suoi confini. Quella sensazione di inadeguatezza si stava nuovamente impadronendo di me; l'amazzone non aveva occhi che per quel Santo di Bronzo, era innegabile, ed ero sicuro fosse ancora innamorata di lui. Nemmeno le Sacre Vestigia d'oro riuscivano a catturare l'attenzione di quella donna. Calciai un sasso, a volte mi sentivo così inutile.

Scendeva la sera, le ombre tra gli arbusti s'infittivano e la vista, assuefatta all'oscurità, sembrava acuirsi. Gli ultimi residui di luce, filtrando attraverso le fronde, si rifransero contro l'armatura la quale rifulse avviluppata da un'aura di cosmo. Non avevo motivo di celare la mia presenza. Incrociai sentinelle di guardia lungo il percorso, gli uomini mi rivolsero un cenno. Forse quella parvenza di rispetto era dovuta più al mio rango che non a un sentimento di ammirazione; per molti Santi la devozione era indiscussa, ma al di là di ossequi formali non percepivo alcunché. Ero abituato ad apprezzamenti sul mio aspetto fisico e se, un tempo, bastavano a gratificarmi adesso mi lasciavano un senso di vuoto. Volevo di più. Volevo essere ammirato non soltanto a cagione dell'esteriorità di cui andavo fiero. Sospirai scalzando l'elmo per deporlo sul muretto di mattoni antistante, e mi accostai a ridosso come se abbisognassi di essere sorretto. Non era difficile fare un parallelismo tra la mia vita effimera e le foglie.

La falce d'argento brillava fendendo stralci di nubi che si sfilacciavano come un drappo a brandelli, illuminando i sentieri che si dipanavano tra cespugli e rovine. Avevo effettuato un sopralluogo non molto tempo fa, ed ero consapevole fosse stato l'istinto a condurmi laggiù perché, in cuor mio, desideravo incontrare qualcuno. Qualcuno solito presidiare la zona. Ero così assorto da non accorgermi che l'oggetto dei miei pensieri mi stava osservando da lontano.

Vidi sfavillare, al chiaro di luna, la sagoma inconfondibile della tiara e le protuberanze sugli spallacci della corazza.

Gioia? Sollievo? Non riuscivo a dare un nome alle innumerevoli sensazioni provate in quel momento e restai in silenzio col respiro bloccato in gola. Inibizione...

Algol mi aveva già raggiunto e, in barba alle solite formalità, mi sfiorò il volto con la punta delle dita gelide, mi sollevò il mento. Quello era il suo modo di darmi il benvenuto. Un ripiego, per me era soltanto un ripiego, lo avevo capito facendo una sorta di autoanalisi: il Santo di Perseus era senza dubbio attraente e io – come lui – non ero indifferente al fascino della bellezza. Ma poteva anche essere sgradevole... perché non disdegnavo quelle attenzioni... Mi scostai di poco, e quel poco fu sufficiente affinché avvertisse la mia riluttanza.

“Non ti piace più?” domandò. Non riuscivo a distinguere l'espressione del volto, nell'ombra, ma colsi il suo probabile disappunto.

“Non so se il mio sia sincero interesse, o tornaconto personale” affermai sottovoce. Perseus rise, ed era un riso beffardo il suo.

“Conoscendoti propenderei più per la seconda opzione” replicò in risposta alle mie perplessità espresse involontariamente. Alzai gli occhi su di lui, indispettito, come se l'intimità dei miei pensieri fosse stata violata. Non ebbi modo di ribattere poiché riuscì a zittirmi nel modo a lui più congeniale.

Mi asciugai le labbra col dorso della mano.

“I sentimentalismi lasciamoli alle donne” concluse, e non mi restò che annuire in silenzio. Aveva ragione, la nostra relazione era fondata sull'opportunismo e, forse, volta a soddisfare le pulsioni più basse – o, da parte mia, a colmare una profonda solitudine – malgrado la stretta amicizia.

 

...

 

“Tra non molto sarà giorno e devo rientrare al Tempio. Quest'oggi è in programma la visita di milady, ci saranno anche... i suoi protetti, ma credo tu lo sappia. Si tratterranno per qualche tempo al Santuario.”

“Sì, lo so, ma è ancora presto e io ho terminato il mio turno di guardia." Mi disse, facendomi cenno di seguirlo. Lo assecondai perché desideravo prolungare quell'incontro e, come supponevo, mi stava conducendo alla solita spiaggia. Percepivo la brezza salmastra sul volto, il sentore umido preannunciava un inverno mite.

Si accostò contro la parete rocciosa della falesia e mi approssimai non distante da lui, fermo, con lo sguardo orientato laddove la superficie increspata del mare – ancora adombrata dall'oscurità punteggiata di stelle – svaniva congiungendosi con lo sfondo.

“Le Sacre Vestigia d'oro si addicono al tuo portamento altero, ma sei diventato più algido. Sei peggiorato” interloquì lui. Non replicai, aveva ragione. Mi ero allontanato da tutti a causa del mio ruolo; da persona ligia al dovere qual ero avevo pensato fosse giusto mantenere le distanze, oltre a credere che fosse tutto più facile al fine di ottenere maggior considerazione presso i Santi d'Oro, invece non era affatto così. Le responsabilità mi pesavano enormemente, tanto da non immaginare di ritrovarmi in quella situazione. I miei pari non percepivano quella condizione di disagio dall'esterno ma era insostenibile.

Avevo le mani gelide e sudate. Sospirai sfilando l'elmo e, meccanicamente, mi liberai dai restanti elementi della corazza, deponendoli sulla sabbia con accortezza benché sapessi che la consistenza aurea non ne avrebbe risentito. Rimasi con i semplici indumenti sottostanti.

“Ho rimosso l'impedimento” puntualizzai mettendo a tacere sul nascere una sua possibile replica. Avevo compiuto quel gesto per metterlo a proprio agio, affinché potessimo relazionarci da pari a pari come un tempo, o forse no? Forse, a livello inconscio, desideravo essere subordinato a lui... cosa mi stava succedendo? Riconobbi di avere bisogno di calore umano, ma più che calore saggiai l'asperità della fredda corazza contro le mie membra gracili, avvinto in quella stretta, e non osai lamentarmi. Per la prima volta mi sentii a disagio in contrapposizione alla sua indole dominante.

 

...

 

Sbattei le ciglia umide, mi trovai disteso sulla battigia con granelli di sabbia ovunque: nelle pieghe degli indumenti in disordine, tra i capelli che scostai dalla fronte. Il sole stava sorgendo e mi feriva gli occhi sensibili, realizzai di essermi perso in chiacchiere e, successivamente, dovevo essermi assopito con lo sciabordio delle onde nelle orecchie. Un breve frammento della nostra conversazione mi tornò in mente proprio in quel momento.

 

Non sei l'unico a vivere una specie di dramma esistenziale. Il mondo non ruota intorno a te, damerino.”

Cosa ti fa pensare che io stia vivendo un dramma?”

Spiacente, ma sei come un libro aperto. Ognuno di noi dovrebbe avere un conto in sospeso con qualcun altro o essere combattuto tra mille dilemmi, ma non è una soluzione continuare a rimuginare sul passato...”

Esatto. E tu non dovresti essere tra quelli più propensi a dimenticare... non così facilmente come vuoi far credere.”

Infatti non ho dimenticato, ma il rancore verso coloro che reputavo nemici si sta attenuando col passare del tempo.”

Ne abbiamo già discusso. Vale anche per me, purtroppo eravamo schierati dalla parte sbagliata della guerra... anche se...”

Non avevo continuato il discorso perché negavo le mie insicurezze anche a me stesso, e sarebbe stato illogico confermarle in presenza del mio migliore amico.

 

Ero certo si fosse soffermato a contemplare l'opera d'arte che aveva giaciuto sotto il suo sguardo concupiscente, mi piegai sulle ginocchia mordendo il labbro inferiore per trattenere un sorriso. Soppesai i vari componenti dell'armatura soffiando sulla superficie fulgida per rimuovere i granelli di sabbia, si appannò, e non esitai a lustrarla con un lembo di stoffa: era un dono prezioso – forse troppo prezioso per me – non avevo ancora realizzato del tutto quale fosse l'entità del privilegio concessomi. Procedetti alla vestizione col solito timore reverenziale e tuttavia sentivo le Sacre Vestigia sempre più affini al mio essere, come sigillate alla mia anima.

Mi ricomposi, ritrovando la dignità che credevo di aver perso, eppure qualcosa non tornava... mi guardai intorno, affondai le dita tra i capelli... l'elmo.

“L'elmo!” esclamai. Algol mi guardò con un'espressione attonita, grattandosi il mento. La leggerezza mi aveva portato a commettere una grave infrazione, e chissà quali conseguenze avrebbe avuto proprio nel momento in cui avrei dovuto dar lustro alla mia immagine.

“Presto, aiutami a cercarlo. Non può essere svanito nel nulla.” Perseus trasalì udendo la mia sollecitazione, doveva aver intuito la gravità del problema.

“Sta' calmo” disse per tranquillizzarmi, probabilmente aveva letto nei miei occhi la disperazione e lo sconforto in cui versavo. “Non può essersi volatilizzato, e nessuno lo ha trafugato dal momento che non abbiamo avvertito presenze, né benevole, né ostili.”

 

Le ricerche furono vane, perlustrammo la zona circostante ma dell'oggetto non vi era traccia. Nascosi il volto con le mani, non volevo lui notasse il mio smarrimento, mi avrebbe deriso. Ma la sua reazione al mio atteggiamento fu differente, inaspettata. Mi scrollò per le spalle obbligandomi a mostrare il viso, senza schernirmi: “Sei un Santo d'oro, comportati come tale. C'è solo una cosa che puoi fare: assumerti le tue responsabilità, non ci sono scappatoie” esordì, determinato come non lo avevo mai visto, ma in quel momento non capivo volesse aiutarmi, infondermi il coraggio che avevo smarrito.

 

***

 

VIII

 

Saori Kido aveva, forse, deciso di rendersi partecipe della vita dei Santi a lei devoti. Eravamo nuovamente riuniti per ricevere i Santi di Bronzo, i campioni indiscussi, e chissà se Misty – era così bello vederlo insignito del suo titolo – fosse guarito dal proprio rancore. A quel punto credetti proprio di sì, non aveva nulla da invidiare a nessuno e le imprese cui ambiva sarebbero presto giunte, ne ero certo. Mi mossi un poco per sciogliere le articolazioni da una postura che stava divenendo troppo rigida, volgendogli un fuggevole sguardo: stava allineato tra Scorpio e Virgo ma notai qualcosa di insolito. La sua chioma d'oro ricadeva ben oltre le spalle incorniciando il volto delicato e pallido; le singole parti dell'armatura, decorate a volute e intarsi, concave e a sbalzo, ne valorizzavano la figura aggraziata... ma mancava qualcosa. Cosa? M'interrogai realizzando, subito dopo, si trattasse dell'elmo – elmo o tiara – il quale ognuno di noi calza come parte integrante delle Sacre Vestigia.
Santi numi, dove aveva la testa, come aveva fatto a dimenticarselo?

Athena interloquiva con noi presenti e con Dohko, era maturata molto ma ai miei occhi era ancora una ragazzetta ingenua malgrado i gioielli e l'aria altezzosa. Da una parte tale constatazione mi rasserenava in quanto la sua gaiezza avrebbe distolto l'attenzione del Sommo dalla mise incompleta di mio fratello e, forse, avrei fatto in tempo a farglielo notare affinché rimediasse. Spezzai il gambo della rosa tra i denti. Per il momento nessuno sembrava aver notato il particolare dell'elmo ma, ahimè, Dohko non era uno sprovveduto e interruppe con garbo i convenevoli. Si rivolse verso la schiera dei Santi d'Oro, e il mormorio tacque nell'istante in cui vidi guizzare un bagliore nei rubini scarlatti incastonati nella maschera aderente al volto.

“Libra” esordì e, in quel frangente, vidi Misty impallidire ancor di più, era dunque consapevole della propria dimenticanza. “La tua armatura è incompleta, manca il copricapo. Potresti spiegare il motivo?” Lo interrogò.

Abbassai gli occhi portando il fiore spezzato all'altezza del mento, come a voler dissimulare i sentimenti che sarebbero trapelati dal mio viso, e in quel mentre calò il silenzio; ebbi l'impressione di essere investito da un'ondata di gelo, schiusi un occhio: mio fratello avanzò di qualche passo ponendosi sulla guida rossa per interloquire col Gran Sacerdote. Si chinò in ottemperanza al galateo scostando una ciocca fulva dal volto cereo, vessillo di purezza e... innocenza. Gli occhi bassi, fissi sulla passatoia cremisi. Era un déjà-vu, io – e anche lui, probabilmente – stavo rivivendo il non lontano passato.

Le Sacre Vestigia tintinnarono al minimo movimento sfavillando nella semioscurità dell'aula: “L'ho smarrito” replicò conciso, senza provare nemmeno a giustificarsi. Non riuscivo a comprendere quella sorta di inspiegabile candore sebbene la sua incuria nel custodire l'armatura fosse palese e ingiustificabile. Eppure non era da lui, era così attento e scrupoloso in certe cose.

“In quali circostanze? Dove?”

“Nel tratto finale di spiaggia ai confini con la valle sacra.”

“E cosa ci facevi in spiaggia?” Quella domanda, permeata da sottesa ironia, suscitò l'ilarità dei presenti. Non distolsi l'attenzione dal volto serafico dell'interrogato, il quale ebbe – nonostante tutto – la prontezza di spirito di non scomporsi mantenendo un distacco che mi lasciò esterrefatto. E, in quell'attimo, come folgorato da una fugace intuizione o chissà cos'altro, guardai in direzione dei Santi d'Argento e notai Algol... sempre lui; il Santo di Perseus aveva l'aria di chi la sapesse lunga, e malgrado l'apparente sicumera qualcosa nel suo atteggiamento tradiva inquietudine...

“Ho l'abitudine di passeggiare sul lungomare nei ritagli di tempo libero” replicò Misty, impassibile, rialzando il capo come nell'atto di penetrare la maschera inespressiva per incontrare quello sguardo insondabile.

“Avrai tolto l'armatura per farti il bagno, suppongo... Siamo in tempo di pace e non sei nemmeno in grado di custodire le Sacre Vestigia. Affermare di averne smarrito un pezzo non è una giustificazione, ne converrai, mi auguro.” Il timbro della voce risuonò metallico dietro la maschera. Le parole del Sommo erano come un pugnale conficcato tra costole: pesavano come macigni e, stranamente, mi ferivano sebbene non fossero rivolte a me medesimo. Fui indotto a chinare, di riflesso, il capo verso il basso.

“Ne convengo” annuì l'altro. Il suo tono parve sereno e cristallino e mi rasserenai sospirando per liberarmi dall'aria trattenuta nei polmoni.

“Neanche la semplice ammissione costituisce una scusante, sappilo.”

“Ho sempre custodito le Sacre Vestigia con la massima cura.” Si schermì Misty, assottigliando lo sguardo, e da quegli occhi cerulei trasparì l'usuale sicurezza. Ma quella parvenza di sincerità non sarebbe valsa a emendarlo dalla mancanza, ne ero convinto. Mi soffermai a fissare la punta degli stivali.

“Non si direbbe a giudicare dai fatti. Sei una persona superficiale e confermo che non sei adatto a questo ruolo, come ho sempre sostenuto a dispetto dell'opinione favorevole di Athena.” Dohko non gli risparmiò i rimproveri, quella era l'occasione propizia per vomitare ogni perplessità nei suoi confronti. Guardai Athena le cui sopracciglia s'incresparono, la commessura delle labbra curvò verso il basso; il volto gentile s'incupì come per effetto di una cocente delusione ma, purtroppo, non mi era dato sapere cosa pensasse.

“Sommo Sacerdote, d'ora in avanti mi asterrò dal fare scelte avventate e delego a voi l'ultima parola. Forse è stato un errore occorso a causa della fiducia mal riposta” esordì lei abbassando gli occhi, probabilmente per evitare di incrociare i nostri sguardi. Non riuscivo a spiegarmi il perché di quella sensazione; a cosa fosse dovuta la mia convinzione che la fanciulla non desiderasse confrontarsi con noi, ma quasi sfuggirci – sottrarsi al compito più gravoso – delegando una decisione, benevola o avversa, ma che sarebbe spettata a lei soltanto.

Mi punsi con le spine, quelle parole furono uno schiaffo in faccia, un duro colpo inferto all'autostima di mio fratello. Solo io sapevo quanto gli avrebbero fatto male stravolgendo il suo labile equilibrio; un equilibrio raggiunto malgrado i problemi, gli ostacoli, e a discapito di tutte le maschere da lui indossate... ora prossimo a sgretolarsi come un castello di sabbia.

Ma... avrei dovuto essere indifferente, anzi, il fatto che non ci fosse nessuno a difenderlo sarebbe stato utile a forgiargli il carattere, a fargli abbassare la cresta; io stesso lo avevo definito un viziato arrogante, tuttavia non riuscivo a pormi nei suoi confronti col dovuto distacco.

Avevo un nodo in gola e mi portai una mano al petto per alleviare l'oppressione al torace, stavo somatizzando il mio malessere. Alzai gli occhi, lo guardai; le gote gli si imporporarono forse era collera malcelata o imbarazzo. Levò lo sguardo da terra: uno sguardo vacuo, disincantato.

“Certo, milady. Ma voi dovreste sapere su chi riporre fiducia incondizionata, a prescindere” affermò, a testa alta, come destatosi dalle illusioni di cui si era nutrito a lungo. Ormai lo conoscevo così bene da leggergli quasi dentro.

Gli errori si pagano, fratellino. Nella posizione elevata in cui ti trovi a maggior ragione.

“E, secondo te, la dèa dovrebbe perdonare la leggerezza di un vanesio imbecille che ha smarrito un pezzo dell'armatura?!”
Sobbalzai dopo aver udito quel commento inopportuno. Tatsumi, il maggiordomo di milady, si era intromesso anche lui come se non bastasse l'ostilità del Sommo. Il sangue pulsò alle tempie ma non potevo intervenire e mostrarmi di parte.

Misty indugiò abbassando di nuovo gli occhi sul pavimento, quasi volesse raccogliere le idee, e poi si riscosse come destato da un blando torpore. “E tu sei un esperto ad adulare i potenti e a trattare con i più deboli” infierì, rievocando i deprecabili trascorsi dell'uomo. Chi voleva intendere avrebbe carpito l'ambiguità velenosa insita in quelle parole. Avevo rilevato una nota d'indignazione nella sua voce, la quale tradì il risentimento per l'affronto ricevuto, ammiravo il suo ardire nonostante tutto.

“D'altronde cosa ci si può aspettare da uno che non ha riguardo che per se stesso.”
Un'altra frecciata indirizzata al mio discepolo – e fratello – mi esortò a trasalire nuovamente e stavolta scoccai un'occhiata di traverso all'algido Camus, in piedi accanto a me, ma questi non fece una piega. Eh sì, anche lui aveva dovuto metterci il becco.
Dannazione.

Dohko si scoprì il volto deponendo la maschera blu cobalto a lato dello scranno dorato. La pazienza stava degenerando in collera, era evidente, trapelava dallo sguardo – fisso e penetrante – ma confidavo nel suo notorio autocontrollo. “Basta così” ordinò, e poi si rivolse ai Santi di Bronzo. “Recuperate l'elmo di Libra, perlustrate ogni anfratto del Santuario e dintorni al fine di ritrovarlo; e con esso chi potrebbe averlo trafugato, sebbene quest'ultima mi sembri un'eventualità assai improbabile.”

Tamburellò le dita sui braccioli del trono. “E tu, incapace che non sei altro, sei oppresso dalle troppe responsabilità a quanto pare, e avresti bisogno di riposo. Di un diversivo lungi dal Santuario. Raccogli le tue cose e attendi che ti siano date istruzioni sul luogo dove dovrai recarti a prestare servizio per qualche tempo. Il tempo utile a riflettere. Se in passato ho sorvolato su alcuni comportamenti, da oggi non sono più disposto a tollerarli” stabilì, e quello aveva tutta l'aria di essere un provvedimento irrevocabile. Sapevo che mio fratello non si sarebbe abbassato a invocare misericordia, le sceneggiate patetiche non erano nelle sue corde e ciò precludeva il buon esito della vicenda, anche un bambino sarebbe riuscito a intuirlo.

La serafica strafottenza di Death Mask non mi tangeva più di tanto; richiamai l'attenzione di Saga con un cenno, ma quello, da lontano, replicò scuotendo il capo, nemmeno lui stavolta avrebbe potuto metterci una buona parola.
Misty... volevo parlargli, raggiungerlo, ma ero come incapace di muovermi, paralizzato contro la mia volontà; sdrammatizzò rivolgendomi un'occhiata di sottecchi per rassicurarmi. Lui... voleva rassicurare me.

 

***

 

IX

 

C'era mancato davvero poco a che perdessi il controllo, ero riuscito a trattenermi e, in altre circostanze, avrei agito con maggior fermezza. Varcai l'uscio a doppio battente che mi introdusse nell'ala del Tempio riservata alle Stanze di Athena; le ancelle a servizio della dèa si dileguarono dopo avermi annunciato. Lei era lì, sul terrazzo, le mani appoggiate sulla balaustra di marmo, la silhouette avvolta da una fioca luminescenza contrapposta al cielo notturno, scuro, insondabile come la voragine del Tartaro. Una figura eterea, leggiadra, ma sapevo in quella dolcezza risiedesse la sua forza.

“Non è stato ritrovato, immagino” esordì, ancora voltata di spalle. L'affermazione mi suggerì lei avesse intuito di quale tenore fossero le informazioni che dovevo riportarle.

“Niente. Seiya e gli altri non hanno trovato nulla” replicai, sudando sotto i paramenti sacerdotali.

“È strano” sospirò, ritraendosi verso l'interno mentre il vento gonfiava i ricchi drappeggi dei tendaggi. Il fruscio delle vesti accompagnò i suoi movimenti misurati. Estrasse un fiore con i petali frastagliati da un vaso decorato, rigirandolo con grazia tra le dita scarne, per poi abbandonarsi sul proprio seggio, come assorta nei pensieri.

“Già, è strano che un oggetto smarrito per una semplice distrazione non si ritrovi” replicai confermando i suoi dubbi.

“È molto più probabile che qualcuno se ne sia appropriato indebitamente” soggiunse, deponendo il crisantemo sul bracciolo del seggio. “Ci siamo già imbattuti in un inconveniente del genere, in passato.”

“Sebbene in passato ci fossero in gioco circostanze differenti, particolari concatenazioni di eventi quali un conflitto intestino al Santuario. Ma, ora, a quale scopo sottrarre l'elmo di un'armatura che preso singolarmente è inservibile; inoltre non ci è pervenuta alcuna rivendicazione a proposito di un furto.”

“Non lo so, Dohko.” Saori abbassò gli occhi sulle mani deposte in grembo, serrandole in un intreccio. “Ma ne verremo a capo, ne sono sicura.”

Non riuscivo a darmi delle risposte concrete e mi voltai a braccia conserte, smarrito, nella vastità di quella sala: un ampio rettangolo, cinto da una doppia fila di colonne, dove le fiamme nei bracieri brillavano come fuochi fatui. Un fulmine illuminò a giorno l'ambiente; avvertivo una strana inquietudine e, nello stesso momento, osservai Saori, la quale sembrava in procinto di dire qualcosa giacché aveva schiuso le labbra sottili e il volto, rischiarato da quella luce, si adombrò di mestizia.

“Mi dispiace.”

“Per cosa, milady?” Le domandai.

“È una decisione irrevocabile, la vostra?”

Stavolta fui io a emettere un sospiro. Quella sensibilità era tipica delle donne. Mi attardai a riflettere prima di concederle una risposta, e infine convenni che l'empatia non fosse prerogativa del genere femminile.

“I Santi hanno bisogno di maturare e, ancor prima di acquisire consapevolezza del proprio valore, dovrebbero essere consci dell'importanza del ruolo che sono deputati a svolgere. E poi, suvvia, non sarà allontanato dal Grande Tempio per sempre; non posso privarmi a lungo di uno dei Santi d'Oro. Giusto il tempo di ravvedersi e ponderare sui propri errori.”

“Capisco, non voglio mettere in discussione la vostra autorità. Dalla vostra esperienza non ho che da imparare” rispose distendendo con le mani le pieghe dell'abito, e un poco d'ansia trapelò da quel gesto lezioso. “Mi rendo conto di essere così giovane e, a volte, il pensiero di detenere diritto di vita e di morte sui miei Santi mi indispone moralmente. Un destino che loro non hanno scelto.”

“Perdonatemi... neanche voi avete scelto di essere ricettacolo di una divinità, sbaglio? Eppure lo accettate, e adempite senza indugi al vostro compito di predestinata.”

“Predestinazione...” mormorò. Lo sguardo fisso nel vuoto, gli occhi le cui pupille dilatate occultavano il colore delle iridi...

“Non si può eludere la sorte. Questo vale per voi, per me, per i Santi di ogni Casta. Di conseguenza, Misty non soffrirà troppo per la mia decisione. Quando accerterò la sua buona fede annullerò il mio provvedimento e potrà tornare alla Settima Casa” le spiegai cercando di rasserenarla.

“Non dubito sia in buona fede. Non possiamo esserci sbagliati sul suo conto. Non è un irresponsabile, la sua efficienza è nota in tutto il Santuario, quanto occorsogli è un incidente di percorso... lo sento.”

Sbagliare è umano e noi siamo esseri umani, mi sentivo in disaccordo con lei ma non replicai. Non riuscivo a scrollarmi di dosso i pregiudizi riemersi nei confronti di quel Santo, sapevo che avrei dovuto evitarli data la mia posizione di assoluta imparzialità. Ma... non mi fidavo ancora: un giovane dall'indole egoista, insulso e vuoto, a dispetto di un bel viso - ingannevole - non poteva aver ereditato le Sacre Vestigia di Libra... non riuscivo ad accettarlo, suonava come una beffa. Serrai il pugno. Forse lo stavo giudicando ingiustamente e sulla base di elementi esteriori – in relazione a ciò che sembrava, e non a ciò che realmente fosse – perché non lo conoscevo a fondo, non abbastanza per elargire giudizi. Ricordai di aver accusato Pisces d'incappare nello stesso errore che stavo per commettere... ma avevo bisogno di tempo.

 

L'ingresso di un servitore in sala interruppe la mia riflessione e l'annuncio che quest'ultimo recava con sé non era dei più graditi – non in quel momento. Tuttavia lasciai che fosse la dèa a decidere se ricevere il Santo della Dodicesima Casa, il quale chiedeva udienza.

Athena si levò dallo scranno, scostando la lunga veste da un lato, e impugnò lo scettro stringendo l'asta con le dita bianche e sottili; come intenta a darsi un contegno autorevole quasi in contrapposizione alle affermazioni proferite poc'anzi. Forse era un meccanismo di difesa volto a consolidare la fiducia – ottenuta a fatica – dei Santi, e a imporre la propria autorità, chi poteva dirlo?

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** CapitoloIV ***


 

 

I prati d'asfodelo, capitolo IV

 

 

X

 

Avrei dovuto avere più cura delle Sacre Vestigia, inutile recriminare ostinandomi a credere che il destino si sia voluto accanire contro di me, dovevo essere più attento non c'è altra spiegazione, mi dissi scoccando un'occhiata furtiva ad Algol. Anch'egli ammutolito, come incapace di esprimere il suo reale pensiero. E chissà cosa stava pensando, molto probabilmente che fossi un idiota, al solito.

Mi voltai indietro apprestandomi ad attraversare la teoria di stanze che si susseguiva nella Settima Casa: lo sferragliare dell'armatura e il volteggiare delle falde del manto fendevano l'aria immobile impregnata del fumo oleoso delle lampade, infrangendo quel pesante silenzio. Mi sentivo soffocare e desideravo uscire all'aria aperta. In fondo, quell'ambiente non mi era mai appartenuto. Mi soffermai al riparo, sotto il portico colonnato del Tempio, emettendo un sospiro dopo aver udito i passi del mio ex-compagno d'arme. Mi aveva raggiunto, fermandosi a breve distanza, ma non mi preoccupai della sua presenza.

Algol aveva molti difetti ma avevo appurato non ignorasse del tutto la virtù della discrezione di cui avvalersi al momento opportuno. Stette in silenzio, forse aspettando che fossi io a intraprendere una conversazione, ma la sua sarebbe stata un'attesa inutile perché non ero propenso al dialogo in una situazione del genere.

Avevano leso la mia dignità, offendendomi in presenza dei Santi di Bronzo. Chissà come stavano ridendo alle mie spalle... e chissà dove mi avrebbe spedito il Sommo, ero davvero impaziente di conoscere la mia nuova destinazione. Con tutta certezza mi avrebbe assegnato un incarico proporzionale al disprezzo che nutriva, ma questa volta mi detti pace, non potevo sempre incolparmi di tutto. Non potevo pretendere comprensione da chi non aveva mai nutrito la minima stima nei miei confronti e non potevo ostinarmi a rincorrere l'approvazione di quell'uomo, dopotutto egli non era stato il mio maestro.

Chiusi gli occhi lasciandomi trasportare dal suono costante della pioggia: sembrava evocare la melodia prodotta dal tocco di una corda, di più corde tese e pizzicate all'unisono ed era simile a una nenia malinconica che suonava di eternità...

Al mondo esistono persone che di considerazione non ne nutrono a prescindere perché stigmatizzano a pelle chi non gli va a genio, e nulla può convincerle del contrario. Per loro vali poco e sarà sempre così.

Dohko era tra quelli e qualunque fosse il mio atteggiamento ero certo che mi avrebbe frainteso e condannato a priori. Nell'immaginario del Gran Sacerdote continuavo a essere un inetto insignificante e avevo avuto finalmente la conferma di come la sua opinione non fosse affatto cambiata. Questa era la verità e dovevo adeguarmi con rassegnazione.

“Non ti sei fatto nessuna idea?” domandò Algol insinuandosi con prepotenza nelle mie riflessioni. Schiusi le palpebre indugiando a fissare la fiamma tremula di una torcia, come inebetito, ridestato dall'aria fredda sul volto e dalla furia del vento che, di lì a poco, mi avrebbe strappato la clamide adagiata sulle spalle.

“Riguardo a cosa?” ribattei con un'altra domanda.

“Quello che è successo è inspiegabile. Quando siamo arrivati in spiaggia calzavi l'elmo regolarmente, per poi deporlo accanto agli altri elementi della corazza, e non li abbiamo mai persi di vista. Non abbiamo incontrato nessuno lungo il cammino, non c'era anima viva!” esordì lui, con un tono aspro, palesemente irritato. Non replicai, ponendo una mano sulla fronte sudata, il suo sbraitare mi aveva distolto dal tumulto incessante dei pensieri e per un momento ebbi la mente sgombra, invasa soltanto dallo scroscio ipnotico della pioggia. Fu solo un attimo però perché saggiai il sapore salato delle lacrime sulle labbra, non riuscivo più a trattenerle sebbene non volessi dare a vedere la mia tristezza, le asciugai – non visto – passando una mano sul volto con noncuranza. A dissimulare quello stato d'animo mi fu complice l'oscurità notturna.

Mi sovvenne un pensiero a indurmi a smetterla di commiserarmi. “No, nessuna idea” mentii, in quanto ebbi un'illuminazione proprio in quel preciso istante benché non riuscissi a spiegarmi le congetture strane che mi erano balenate in mente.

“È solo sfortuna” rispose Algol. Stava cercando forse di rimediare, dopo essere stato sgarbato con me? “Non sanno riconoscere il tuo valore e non perdono occasione per sminuirti.”

“Ti stai preoccupando troppo, il problema è soltanto mio! La cosa ti inquieta oltre misura. Sentiamo: tu, cosa avresti da perdere?” Gli chiesi. “Sappi che non ho bisogno della tua commiserazione.”

“Certo che no! Sei autosufficiente” replicò lui, imperioso. Dovevo averlo infastidito. Mi ritrovai a ridosso della parete e per poco non ci sbattei il capo, mi aveva prevaricato e non ero riuscito ad anticiparlo. Davvero avrebbe osato colpirmi? Si sarebbe preso una tale libertà nei confronti di un superiore? Staremo a vedere. E tuttavia la sua reazione mi aveva inibito al punto che non sarei riuscito a reagire. Stetti immobile con le braccia lungo i fianchi, con la sensazione di avere la mente confusa, si stavano addensando molte ombre e interrogativi a turbare la mia serenità.

“Non devi permetterti di parlarmi così. Non lo tollero” soggiunse lui. Aveva le caratteristiche di uno scorpione fatto e finito, peccato... perché non avrebbe mai avuto il privilegio di aspirare a conquistare le Sacre Vestigia del proprio segno. Quel pensiero mi fece sorridere. Era un povero illuso con arie di superiorità, non sarebbe mai riuscito a eguagliarmi eppure, in qualche modo, incuteva rispetto. Deferenza... d'un tratto pensai ad Aphrodite e a quel connubio d'invidia e adorazione nei suoi riguardi. Ne fui sgomento e tuttavia mi riscossi immediatamente da quel divagare.

Quella figura, di poco più alta, troneggiava, ne percepivo il respiro sulla pelle accaldata. Algol non aveva smesso di fissarmi: potevo avvertire il suo sguardo di biasimo trafiggermi nonostante il buio.

Sbattei un paio di volte le ciglia, per lenire il bruciore agli occhi, ed ebbi l'impressione di scorgere un vago riflesso in direzione della rampa di scale antistante il pronao sebbene quella serata fosse particolarmente buia, e l'impeto del vento, e l'infuriare del temporale avessero affievolito i fuochi. Algol, essendo voltato verso di me, non si era accorto di ciò che probabilmente era stata un'illusione. Mi svincolai da quel contatto, opprimente e inopportuno, afferrandogli i polsi con forza obbligandolo a togliere le mani che erano già scivolate dietro la nuca, tra i capelli; non sopportavo mi toccasse senza la mia approvazione... era un mio limite e lui non doveva oltrepassarlo.

Ed ecco, in quel preciso istante, vidi di nuovo un fievole lucore espandersi a distanza, alle sue spalle. E subito dopo udii una voce suadente: “Buonasera, Misty... mio caro, vedo che sei in compagnia del tuo amichetto.”

Quella voce mi suonava così familiare e fece trasalire anche Algol, il quale si voltò all'improvviso frapponendo lo scudo con l'effigie di Medusa tra noi e lo sconosciuto.

“Fermati!” intimai al mio ex-commilitone. “Credo di conoscerlo e viene in pace.”

Algol abbassò la guardia, avanti che il simulacro ritraente la Gorgone schiudesse le palpebre svelando il suo sguardo letale, e lo esortai a farsi da parte e a porsi tranquillo al mio fianco.

E infine scorgemmo le fattezze dell'intruso. Sileno si era palesato in forma antropomorfa ma la sua aura luminosa metteva in risalto le caratteristiche di una creatura ibrida dal sembiante caprino: con barba, capelli incolti e due protuberanze sul capo simili a corna.

Sileno...

“Chiedo venia per avervi interrotto ma il tema della vostra discussione non può essere più importante della mia presenza, qui, in questo frangente” disse sorprendendoci entrambi. Algol non proferì verbo e indietreggiò di un passo, una saetta balenò nel cielo e intravidi il suo volto terreo; mi sfuggì un sorriso blando sulle labbra, non avevo potuto esimermi dallo scoccargli uno sguardo di sottecchi, gli era forse venuto meno il coraggio?

“Cercavi questo?” domandò il fauno e, al contempo, la forma di un oggetto conosciuto si materializzò nelle sue mani ossute. Sileno recava con sé l'elmo di Libra, dunque le mie ipotesi avevano fondamento. Forse era stato lui a farlo sparire, forse no, e se sì... perché? Mi domandai.

“Perché?”

“Che diavolo significa?” Algol riuscì finalmente ad aprire bocca, doveva aver realizzato, senza attendere alcuna spiegazione, che si trattasse di un avvenimento sovrannaturale.

“Lascia che sia lui a spiegare.” Lo zittii con una gomitata nel fianco.

“Prendilo, Misty. Ti appartiene di diritto” soggiunse Sileno avanzando verso di noi, per poi fermarsi a breve distanza, deponendo il manufatto aureo sull'abaco di una colonnina decorativa.

Sospirai con un cenno affermativo del capo e mi decisi, dopo una breve esitazione, a oltrepassare l'atrio a colonne di pietra procedendo sotto la pioggia battente. Recuperai l'elmo e, dopo averne tastato la consistenza, soppesandolo, lo collocai sul capo.

“Non ti è ancora chiaro il motivo di tutto ciò? Ti facevo più arguto.”

“Non ho tempo per i giri di parole. No, non mi è chiaro ed esigo una spiegazione” risposi trattenendo un'imprecazione a stento poiché stavo per perdere la pazienza.

“Ebbene, l'avrai” soggiunse il fauno, mellifuo. “E... avrai appurato di quanta considerazione godi in questo ambiente, presumo” insinuò con malcelato sarcasmo.

Sbattei di nuovo le palpebre e riuscii a percepire sul volto il calore delle lacrime che si confondevano con la pioggia. Riflettei brevemente: le parole di Sileno sollecitavano il mio orgoglio ferito confermando alcune supposizioni. Perché di certezze si trattava, non stavo farneticando: la mia figura era sottovalutata al Santuario malgrado fossi il legittimo possessore delle Sacre Vestigia di Libra, riuscivo a cogliere la totale indifferenza di alcuni Santi ogni qualvolta mi ci dovessi imbattere. Mi sovvenne il loro contegno sfuggente e la riluttanza a esprimere anche una sola parola di apprezzamento.

“Hanno riversato su di te accuse infondate, non supportate da alcuna prova... e mosse solo da sterili pregiudizi. Ti hanno sminuito riguardo una tua presunta inadempienza, esponendoti al pubblico ludibrio alludendo a un improbabile bagno al mare” spiegò. “Ti basta?”

“Come fai a saperlo?” domandai.

“A Febo non sfugge nulla.”

A tal sentire dovetti sgranare gli occhi dallo stupore: “Allora sei stato tu a trafugare l'elmo di Libra. Mi hai messo in un bel guaio, lo sai?” insinuai, ansioso di ottenere una risposta che confermasse i miei sospetti.

“Più che guaio il mio gesto è servito a dare una conferma di ciò che rappresenti qui. Quantomeno ad aprirti gli occhi.” Si giustificò Sileno i cui tratti inconsistenti viravano in forma sempre meno umana, ma forse ciò era l'effetto di un'illusione volta a irretirmi.

“Continuo a non capirci niente.” S'intromise Algol.

“Non intrometterti nel discorso, Algol di Perseus! Fammi finire e capirai.” Lo rimbrottò Sileno spazientito, il quale continuò rivolgendosi direttamente a me: “Febo non ha gradito affatto questo trattamento di sfiducia nei confronti del proprio figlio.”

“Direi che nemmeno il dio mi abbia riservato un'accoglienza con i guanti” replicai istintivamente, sforzandomi di dissimulare ogni incertezza e soprattutto quanto mi atterrisse la consapevolezza che quell'entità fosse comparsa di nuovo nella mia vita. Provai paura, lo stesso terrore cieco della preda ghermita da artigli rapaci e senza via di scampo. Ne ero certo: Apollo, prima o poi, si sarebbe palesato tramite il suo messaggero, tuttavia avevo rifuggito quella possibilità assimilandola a un brutto sogno da scacciare. Purtroppo non era un sogno, né un avvenimento spiacevole da relegare nel dimenticatoio, ma una realtà cui dovevo far fronte.

“Non essere stupido. L'episodio è valso a farti riflettere, ancorché tu non abbia scelta. E, sulla base di questi presupposti, lasciare il Santuario sarà per te un atto indolore” continuò Sileno e le sue parole ebbero facoltà di sottrarmi a quel doloroso rimuginare.

“Gli dèi che si manifestano ai mortali lo fanno perché hanno velleità di conquista e non per convenevoli” affermai, col cuore in gola, esponendo quali fossero le mie preoccupazioni.

“Sei il solito presuntuoso, Misty. Queste sono mere ipotesi: le tue ipotesi suffragate dal nulla. Tu, non sei nella sua mente, non puoi conoscere le ragioni che determinano le sue decisioni.” Si oppose il fauno, contraddicendomi. Non sapevo se credergli sebbene mi fosse parso sempre così sincero, fin dal principio. In ogni caso – indipendentemente dall'accordargli la mia fiducia o meno – dovevo fare quanto comandava e reprimere la paura.

“Tu sei consapevole che non abbandonerei il Grande Tempio a cuor leggero” deglutii a vuoto. ”Ma se ciò implicasse una pace duratura, allora, lo farei, nonostante il Gran Sacerdote e Athena non meritino il mio sacrificio.”

“Non è un sacrificio ma obbedienza a una volontà superiore, la quale trascende quella dei mortali vincolati alle trame che il destino tesse per loro.” Mi ricordò quella creatura, con un tono grave.

“Non l'ho dimenticato” biascicai con le labbra tremanti, nel vano tentativo di nascondere la mia condizione, e ponendo successivamente una mano sulla spalla di Algol per sorreggermi poiché stavo vacillando. Il Santo di Perseus taceva, ma io lo sapevo abbastanza intelligente per capire.

“È surreale. Vantare una discendenza divina ed essere trattato con sufficienza!” esclamò lui, trafelato quanto me, alludendo alla mia condizione.

“Qui non lo sanno, come non lo sapevi tu, e sono sicuro che, quando ne verranno a conoscenza, la loro opinione nei miei confronti non cambierà” sottolineai con risentimento.

“È una considerazione abbastanza sensata, mio caro Misty. La prova dell'elmo è bastata a farti comprendere con chi hai a che fare: se prima avevi remore nel prendere la giusta decisione, adesso non dovresti più averne” concluse Sileno. Lo guardai: rifulgeva ancora avvinto da una pallida luce e, nonostante stesse sotto la pioggia, la sua chioma crespa era completamente asciutta come le vesti che indossava.

“Non è sufficiente. Questa spiegazione difetta di molti dettagli” insisté Algol infrangendo di nuovo il silenzio.

“Aphrodite di Pisces, mio fratello, saprà darti una spiegazione esaustiva” replicai laconico, non avevo voglia di ripetere la solita solfa.

“Quel cicisbeo imbellettato? Tu saresti il fratello del bellimbusto che ti ha fatto da mentore? Ora si spiegano tante cose.” Ignorai quella replica infelice ma, in altre circostanze, avrei scaraventato il Santo d'Argento giù dalle scale.

“Adesso, che vi siete chiariti, possiamo andare.” Mi sollecitò con impazienza la creatura dal muso caprino.

“Ma... le Sacre Vestigia di Libra?”

“Quelle ti appartengono di diritto, ripeto” rispose Sileno con una scrollata di spalle. “Lo vedi? Aderiscono al tuo corpo come una seconda pelle, rifulgono maestose, ed è un baluginare d'approvazione. Sta' tranquillo.”

Quella risposta mi rincuorò. Abbassai gli occhi inspirando l'odore di pioggia che promanava dal lastricato di pietra e poi rialzai la testa guardando i Templi: si ergevano solenni sull'Acropoli di Atene, avvolti dalla foschia e illuminati in parte da blande luci riflesse. Forse avrei avuto nostalgia di quel luogo e di pochi tra quelli che vi dimoravano, non ultimi Asterion e Algol, ma dubitavo mi sarebbe mancato Aphrodite, sentivo un nodo allo stomaco ogni qualvolta pensassi a lui.

 

***

 

XI

 

Sapevo che quello non era il momento adatto per chiedere udienza ma non riuscivo più ad aspettare, era giunta l'ora di vuotare il sacco perché avevo un presentimento e dovevo liberarmi da quel fardello sempre più pesante. E, con stupore, constatai che nemmeno questa volta l'udienza mi fu negata: quando pervenni in aula l'atmosfera era alquanto tetra e greve, ma ciò era assolutamente comprensibile dopo gli avvenimenti odierni. Era un ambiente cupo, i drappi amaranto rivestivano le ruvide mura di pietra; ed era illuminato – al solito – dalla parca luce di lampade a olio e bracieri che proiettavano ombre tremolanti come una ridda di spettri. L'ampia stanza semivuota, simile alla Sala delle Udienze, era però caratterizzata da un tocco femminile quale la presenza dei fiori disposti in alcuni vasi; suppellettili e reperti, a prima vista, di scarso valore ma che, a uno sguardo più attento, avrebbero smentito la mia superficiale impressione. Ed era fredda come quei volti severi e inespressivi, immobili, simili a statue di marmo.

Fu Athena a ricevermi, in piedi, ed esibiva l'alto scettro stretto in pugno sormontato dal circolo con inscritto l'emblema di Nike, la Vittoria alata, come a voler sottolineare il proprio ruolo formale. Il Sommo, invece, occupava il soglio d'ebano dietro il tavolo da riunione, accanto al posto spettante a Saori Kido. Lo scranno riservato alla dèa sembrava di fattura meno elaborata rispetto al solito trono, ma non meno prezioso a giudicare dalle decorazioni in oro zecchino.
Dohko era privo della maschera ma indossava il copricapo con la chimera e le vesti sacre usuali; mi scrutò con un cipiglio tutt'altro che conciliante, doveva essere di pessimo umore ma scorsi un mutamento repentino in quell'espressione: quasi una disponibilità a voler ascoltare suo malgrado. Espirai chinandomi al cospetto di entrambi. L'acqua scorreva a rivoli lungo le piastre dell'armatura d'oro riversandosi e stagnando sul pavimento di pietra grezza, e un insopportabile brivido di freddo mi pervase le membra, penetrando fin nelle ossa, ma permasi stoico.

“In cosa possiamo aiutarti, Aphrodite di Pisces?” domandò Athena con voce gentile ma ferma. “Devi avere argomenti davvero importanti per spingerti fin qui in un momento così cruciale.”

Quella considerazione, espressa con una sorta di condiscendenza forzata, avrebbe dovuto inibire il mio coraggio tuttavia ebbi l'ardire di affrontare lo sguardo della dèa indugiando in quelle iridi di colore cangiante.

“Puoi alzarti in piedi.” Mi esortò con autorevolezza e, a dire la verità, era uno stile che non le apparteneva o quantomeno in parziale antitesi con la sua personalità. Forzato avrei detto. “Sarai scomodo in quella posizione” soggiunse poi, addolcendosi.

“Sì, ho qualcosa d'importante da dirvi, nonostante questa non sia l'occasione più adatta per farlo” affermai, e le mie parole dovettero suscitare disappunto nei presenti poiché l'espressione, quasi neutrale, sul volto del Sommo, mutò impercettibilmente e riuscii a coglierla in quanto prestavo molta attenzione a entrambi.

“Se sei qui per giustificare il tuo discepolo, sappi che non sarai ascoltato.” Fu ancora Athena a parlare mentre Dohko rimase in silenzio.

“Non è per questo che sono qui. Egli è consapevole della gravità delle proprie azioni, non si opporrà ai vostri provvedimenti in merito, e io non intendo giustificarlo” replicai, forse mettendo in imbarazzo le due autorità poiché ero certo si aspettassero un'arringa in difesa del mio discepolo. Ma Misty non necessitava di alcuna intercessione a suo favore perché era perfettamente in grado di farsi carico delle proprie responsabilità. Era evidente che non avessero capito nulla di lui e nemmeno che io non fossi così di parte.

“Ebbene, dunque, sbrigati a parlare perché non abbiamo tempo da perdere.” Il Sommo proferì finalmente parola, sorprendendomi per la mancanza di tatto scaturita dalla sua affermazione. Ma almeno era stato sincero e quella schiettezza mi rese inquieto, impaziente di esporre la mia confessione. Scrutai entrambi, prima uno e poi l'altra, quest'ultima aveva deposto lo scettro, per raggiungere poi il proprio scranno con un movimento inudibile, simile al frullo delle ali sfrangiate di un gufo, che sortì l'effetto di spargere la fragranza di cui erano intrise le vesti candide. Un'essenza floreale, delicata come quella emanata dalle mie rose. Mi strofinai alla base del naso per inibire il solletico.

“Misty è mio fratello ma questa, per voi, è solo una quisquilia. Il fattore determinante è che ho avuto delucidazioni sulle origini di entrambi” presi un respiro e poi continuai. “Possiedo un ciondolo, un pendaglio prezioso, fin dalla nascita, e una copia identica dello stesso oggetto la vidi al collo di Misty alcuni anni fa.”

 

Mi occupavo del giardino, come quasi ogni giorno, e il mio discepolo mi aveva raggiunto attardandosi a guardarmi mentre ero dedito alla cura delle piante. Era assorto, più riflessivo che incline all'azione, ma non mi disturbava quella sua indole così pacata, quasi meditabonda. Gli avrei dato qualcosa da leggere, nel frattempo, perché desideravo emulasse le mie abitudini e volevo trasmettergli il mio sapere, plasmarlo a mia immagine e somiglianza. Da autodidatta potevo già vantare una buona erudizione, velleità forse pretenziosa, per alcuni, in un luogo come il Grande Tempio.

A volte, Misty era fin troppo taciturno. Anche io, a dire il vero, non spiccicavo una parola quando ero intento a svolgere il mio lavoro, o ero immerso nei pensieri, e a causa di una banale distrazione avevo notato il pendaglio. Lui si era chinato per raccogliere uno dei fiori recisi: avrebbe inserito la rosa tra i capelli come un vezzo e io mal tolleravo quell'atteggiamento lezioso, ma avevo lasciato correre poiché attratto dalla cosa che gli luccicava al collo. Un bambino di otto anni non può possedere nulla in proprio se non... “Dove lo hai rubato?” Lo interrogai dopo aver guardato meglio l'oggetto.

Non l'ho rubato", rispose sgranando gli occhioni blu e guardandomi con un'aria di rimprovero. “Non mi credi?!”

No, no... non è che non ti credo ma... vieni con me.” Lo strattonai ma, subito dopo, mi pentii per essere stato brusco. Lo condussi nelle stanze private della Dodicesima Casa, precisamente nella stanza dove conservo il pendaglio che non sono solito indossare. Aprii il piccolo scrigno di legno custodito in un cassetto... e il ciondolo era ancora lì: lo soppesai confrontandolo con quello del mio discepolo ed erano identici.

“Scusami per aver dubitato di te" dissi a Misty posandogli un bacio sulla fronte. Forse era stata solo una convinzione – sbagliata – che del ciondolo non esistessero altre copie oltre alla mia. Mi ero convinto di come tutto ciò fosse solo frutto di una coincidenza e avevo smesso di preoccuparmene decidendo di non indagare.

 

“Solo qualche tempo prima della sua investitura a Santo d'Oro ho avuto una conferma del nostro legame e della discendenza divina.”

“Discendenza divina?!” Il Sommo Sacerdote inarcò un sopracciglio, un connubio di stupore e incredulità trasfigurò i tratti impassibili del suo volto.

 

Quando lo incontrai, per la prima volta, mi era comparso in sogno ma non avevo idea di chi fosse e dopo essermi soffermato a contemplarne le fattezze ricondussi quel nobile sembiante alla perfezione delle icone artistiche che tramandano il mito. Senza attendere che proferissi parola, lui confermò di essere il dio del Sole: Apollo, Febo, o come piace ai mortali chiamarlo. Mi aveva letto nel pensiero. Sbattei le palpebre poiché un sogno lucido sembrava concreto, tangibile. Percepii l'aria asciutta e tagliente a quell'altitudine ed era assai diversa dal clima temperato a cui siamo abituati al Santuario.

Da questo pianoro puoi ammirare il sito dove dimorano gli Olimpi, sebbene io preferisca la residenza di Delfi ubicata in prossimità delle pendici del Parnaso” disse Febo, e guardai laddove aveva indicato, estasiato per lo splendore delle architetture di marmo le quali si stagliavano contro il cielo riflettendo la luce del sole.

Che significa? Perché mi trovo al vostro cospetto e mi state mostrando tutto ciò?”

Se ti ho cercato è perché abbiamo qualcosa in comune.”

Sembrerebbe un ragionamento coerente, ma non...” Gli dissi indugiando, incantato dall'armonia dei Templi inscritti in un virtuale rettangolo aureo.

Ti sarai guardato allo specchio qualche volta, immagino" soggiunse, e mi attardai a riflettere sul significato di quelle parole senza riuscire a comprenderle. Non avevo mai dato eccessiva importanza all'aspetto esteriore, non quanta ne dessi alla beltà della vittoria in battaglia. “La nobiltà dei tratti ci accomuna, ma non solo quella." Mi fece notare lui.

Non ho ricordi felici legati alla mia infanzia, non ricordo di aver avuto dei genitori” replicai, avendo finalmente intuito dove volesse arrivare.

Non è detto tu debba ricordare; anzi, in verità, le esperienze legate ai primi anni dell'infanzia non si annoverano nei ricordi e ciò non esclude la sovrapposizione di eventi sovrannaturali connessi a esse” rispose volgendosi a contemplare lo scenario onirico che si stagliava innanzi a noi. “Ti dirò di più: è un bene che alcuni disegni risultino per lo più incomprensibili ai mortali.”

Lo guardai, incuteva timore, e in quel mentre mi balenò un altro interrogativo. Febo si voltò di nuovo verso di me ponendomi dolcemente le mani sulle spalle, dopodiché mi accarezzò il viso con un gesto amorevole: “Sono qui altresì per sciogliere ulteriori dubbi.”

Voi riuscite a leggermi dentro...”

Il ciondolo del tuo apprendista. Sì, è come hai sospettato, non sono banali supposizioni. Egli è tuo fratello unilaterale" confermò, allungandomi un oggetto: uno specchio d'argento di forma circolare che afferrai per l'impugnatura. “Custodiscilo con cura quale mezzo per volgere uno sguardo anche a questo mondo” disse e, d'un tratto, la visione svanì dissolvendosi.

Sbattei le palpebre, immerso nelle tenebre notturne, in un bagno di sudore, realizzando di non essermi mai mosso dal mio letto. Dopo aver recuperato a tentoni la lucerna sul tavolino da notte, per distinguere qualcosa nel buio, vidi le pareti nude della stanza; e sul materasso, tra le lenzuola disfatte, trovai il piccolo specchio d'argento ricevuto in dono da Febo. Sapevo che gli dèi non fossero solo rassicuranti archetipi attraverso i quali giustificare la nostra esistenza, ma ero ugualmente sconvolto.

 

 

Guardai indietro, verso il fondo della sala, tanto per distogliere l'attenzione dai miei interlocutori ora avidi di apprendere altri dettagli della storia e poi ripresi: “Apollo mi ha richiamato di recente alla sua corte, rassicurandomi riguardo al suo impegno a voler mantenere una pace duratura, perché non è la guerra che vuole. È molto più probabile che reclami la nostra presenza – mia e del Santo di Libra – al suo fianco.” Finalmente avevo trovato il coraggio di arrivare al dunque, dopo essermi voltato, scrutando negli occhi di entrambi.

“E hai taciuto per tutto questo tempo...” soggiunse Dohko corrugando le sopracciglia, sembrò riscuotersi dall'iniziale perplessità. Si era lasciato lo scranno alle spalle, dopo essersi alzato scostandolo dietro di sé bruscamente.

“Non è trascorso molto tempo” commentai lapidario, senza rendermi conto di come quel commento suonasse fuori luogo e irrispettoso.

“Non sei autorizzato a contraddirmi e l'omertà è un'azione deprecabile. Sei uno stolto. Davvero confidi nella trasparenza delle sue affermazioni?! Un conflitto tra dèi è sinonimo di catastrofe, devastazione e morte” affermò, dopo aver percorso il breve spazio che intercorreva tra il tavolo ovale e il centro della sala, posizionandosi di proposito alle mie spalle. Era probabile volesse mettermi in difficoltà. “Ma non è il caso che io te lo ricordi.”

“Sono stato ingenuo, lo riconosco, ma converrete con me: qualunque sia la decisione del dio noi non potremo contrastarla. È per questo motivo che mi sono deciso a sciogliere il riserbo.” Cercai di rimediare, ma Dohko non rispose aggirando la mia persona per arrivare a fronteggiarmi ed esibire un sorriso velato da sarcasmo, o compatimento?

“Sì, ti sei dimostrato molto ingenuo, Pisces. Nonostante sfrontatezza e malizia traspaiano da tutti i pori. Voi siete Santi consacrati ad Athena e, di fatto, non potete passare ad altre milizie” replicò infine. Si approssimò nuovamente al tavolo oblungo e sfilò il copricapo deponendolo sulla superficie di legno massiccio, affondando le dita nel groviglio di capelli rossi. La sua insinuazione fu una frecciata indirizzatami con nonchalance e alla quale dovetti soprassedere a malincuore.

“In teoria non sarebbe possibile, no. Ma, in pratica, Apollo potrebbe arrogarsi in qualsiasi momento il diritto di esigerlo” disse Athena. Dalla sua voce sembrò trapelare una sorta di rassegnazione ed ebbi quasi l'impressione di percepire un'ombra di malinconia offuscarle gli occhi chiari. “Ed è curioso che i figli di Apollo si trovino a militare nelle schiere dei Santi di Athena. Non trovate?”

“No, milady. Non è un caso fortuito: se è così è perché così dev'essere, abbiamo discusso poco fa a proposito di quanto è scritto nelle stelle” asserì Dohko con l'usuale franchezza e ciò ebbe l'effetto di infondermi una certa tranquillità. Quell'esternazione sembrò dissipare anche l'ombra di amarezza che aveva incupito il bel volto della fanciulla, la quale annuì con un garbato cenno di assenso.

 

Ma fu una tregua effimera alle mie teorie disfattiste, spezzata dall'ingresso di un inserviente in sala, il quale annunciò la richiesta di un colloquio da parte di un altro Santo. Trasalii udendo quel nome.

“Non è il momento adatto, la richiesta di udienza è respinta. Riferiscilo al diretto interessato” replicò Dohko rivolgendosi al servitore, e io mi portai il dito indice sulle labbra soffermandomi per un attimo a pensare...

“Gran Sacerdote, aspettate. Ho come la sensazione che Algol di Perseus abbia qualcosa d'importante da dire" affermai. Alcuni elementi del recente passato, analizzati in fretta e furia, tra me e me, mi avevano portato a formulare quella conclusione che avrebbe dovuto sollecitare Dohko a ritornare sui propri passi.

“Avevi insinuato ci fosse più di una stretta amicizia tra quel Santo e il tuo allievo... se ti riferisci a questo, ricordo di averti già risposto in merito.” Mi redarguì con un tono aspro, evidentemente non era solito dar credito alle malelingue e, almeno in questo, sembrò confermare la sua imparzialità.

“No, non mi riferivo a quella storia" chiarii. “Ho solo il presentimento che Perseus potrebbe avere qualcosa d'importante da comunicarvi.”

“Lo penso anch'io” interloquì Athena, per nulla turbata dalla precedente allusione a Misty e ad Algol che avrebbe incuriosito chiunque. “È inusuale chiedere udienza per futili motivi, in simili circostanze, quando si dovrebbe farlo in orari e occasioni più consoni. Pertanto vorrei ascoltare il suo rapporto.” Concluse.

Dohko assentì in silenzio e risolse di consentire l'ingresso del Santo d'Argento in aula.

 

Algol sembrava sorpreso di vedermi e rilevai il suo sguardo obliquo. Ebbi finalmente una risposta alla domanda perpetuata in merito a cosa potesse trovarci Misty in un gradasso del genere. Non mi stupii di ravvisare in quella persona i tratti salienti che rendevano interessante il Santo della Quarta Casa.

Si chinò per poi assurgere e io mi defilai a lato, a distanza dalla sua presenza ingombrante, infastidito da quegli occhi grigi, i quali sembravano scandagliare in modo osceno. Ero consapevole fosse solo una percezione errata dovuta al disgusto. Tuttavia avevo come la sensazione che sapesse qualcosa di troppo sul mio conto.

Athena e Dohko occupavano ora i rispettivi scranni e il Sommo esortò il Santo d'Argento a parlare. Algol ci scrutò uno a uno quasi abbozzando un sorriso sardonico: uno sprazzo di luce baluginò sulla tiara argentea che gli cingeva la fronte lasciando liberi i capelli dietro le spalle, e parimenti la stessa favilla brillò in quello sguardo sinistro. Sbattei le palpebre, al fine di umettare le sclere asciutte, e incrociai le braccia.

“Abbiamo perso armatura e possessore in un solo colpo...” esordì. “Il Santo di Libra è passato nei ranghi del dio del Sole avanti che voi pronunciaste il verdetto” disse sintetizzando in una frase più che concisa la notizia sconcertante. E, per me, non lo era del tutto perché sapevo ciò sarebbe accaduto presto o tardi. Più sconcertante fu venire a conoscenza delle concause in merito alla sparizione dell'elmo – che Algol ci illustrò subito dopo – ma ora, almeno, era tutto più chiaro: Misty non aveva smarrito l'oggetto per incuria e distrazione ma gli era stato sottratto di proposito. Era limpido il piano di Febo: la tattica di cui si era avvalso per trarci in inganno e far leva sul narcisismo di mio fratello.

“Non ha posto tempo in mezzo...” soggiunse Dohko con una nota d'indignazione, ed era palese si riferisse a Misty.

“Diserzione e appropriazione indebita; coercizione o libera scelta?” Questionò rivolgendosi alla dèa. Aveva davvero una gran faccia tosta, con quale coraggio avanzava accuse del genere? Mi indignai sperando di non darlo a vedere.

Athena tergiversò appoggiando i gomiti sul tavolo e il mento sulle mani. Dopodiché si riscosse replicando alla provocazione di Dohko: “Coercizione, direi, viste le circostanze” affermò, e mi parve una conclusione assennata. “E tu cosa ne pensi, Aphrodite?” Mi chiese, raddrizzando le spalle per accostarsi allo schienale del proprio seggio.

Quella domanda mi lasciò attonito, percepii una vampata di calore salirmi al volto ma fui sollecito a riprendermi dallo sbigottimento: “Concordo, milady. Sarebbe ingiusto, insensato, muovergli delle accuse infamanti come diserzione e appropriazione indebita dell'armatura; dato che è evidente – ne abbiamo le prove, con la testimonianza di Perseus – che non si sia trattato di una libera scelta” sospirai ormai prossimo all'esasperazione. “E vi assicuro di essere assolutamente imparziale malgrado si tratti di mio fratello.”

“Sembra sappiate già tutto” aggiunse Algol, alludendo con certezza all'ultima affermazione con cui avevo sottolineato il mio legame di sangue con Misty.

“Ci ha pensato Pisces, poco prima, a darci delucidazioni in proposito... ma non avremmo mai immaginato che gli eventi sarebbero precipitati così in fretta.” Gli rispose il Gran Sacerdote.

“Cosa faremo?” m'interposi tra loro rivolgendomi ad Athena.

“Nulla. Non faremo nulla, per il momento” replicò la dèa. “Opporremo cautela e uso dell'intelletto all'eccentricità di un dio. Non possiamo fare nulla se non pazientare.”

 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


 

 

I prati d'asfodelo, capitolo V

 

 

XII

 

Osservavo il totem di Libra e, nel frattempo, sorseggiavo vino annacquato da una coppa, stretto nel mantello adagiato sugli indumenti fradici. Sileno mi aveva introdotto nel momento lieto di una celebrazione, la quale ricalcava la ricorrenza ateniese Πυανέψια*, solitamente festeggiata nel settimo giorno del mese di Πυανεψιών – così mi aveva spiegato – ma non ero sereno sebbene avessi ricevuto un'accoglienza cordiale.

Vidi altri esseri dotati di corna, orecchie d'asino o di capra che con sguardi lascivi concupivano le ninfe dalla pelle di luna; e tra quegli occhi riuscivo a individuarne altri – presbiti, furtivi e languidi – che brillavano come biglie di vetro sbirciando tra le fronde alla luce dei fuochi: forse erano civette, allocchi o caprimulgi. La melodia del flauto a canne accompagnava le creature danzanti e allietava i convenuti. Immerso nell'atmosfera bucolica, che si respirava in quell'angolo di foresta, percepivo la fragranza delle piante aromatiche, ed era qualcosa di simile al profumo delle foglie di lauro e delle bacche di ginepro. A notte fonda s'intravedevano le sagome di bassi cespugli e contro lo sfondo limpido si profilava la chioma degli alberi, alcuni di forma allungata come quella di tassi e cipressi il cui apice sfiorava il cielo.

Non era lo stesso posto in cui Sileno mi aveva condotto la prima volta: la vegetazione ricordava la macchia mediterranea e il clima era mite. Che fossimo a Delfi? La Delfi del IV secolo a.C. in una dimensione parallela? E... il Tempo? Mi domandavo se scorresse in modo analogo alle nostre latitudini o permanesse immoto; è probabile che scorra, mi dissi, poiché il giorno si alternava alla notte e le stagioni sarebbero dovute susseguirsi di conseguenza, con i cambiamenti annessi e connessi. Sbattei le ciglia, dopo aver dato un'occhiata alla panoplia che scintillava di tanto in tanto nell'oscurità, e distolsi l'attenzione in quanto l'entità divina sembrava reclamarne per sé.

Rivolsi, riluttante, il mio interesse a Febo lo splendente senza esimermi dal domandarmi se l'immortale avesse ereditato anche l'umanità dal bell'involucro di carne che ne ospitava lo spirito, ma ne dubitavo. Mi sovvenne l'immagine di colei la cui debolezza era solo un'illusione, l'illusione di chi si fa traviare dalla mera esteriorità: non potevo negare che Saori Kido avesse dato prova della sua benevolenza, nonostante il passato e a dispetto di quanto è narrato nei racconti del mito che ci sono pervenuti. Un ramoscello spezzato scricchiolò sotto i piedi e sbattei di nuovo le palpebre per aggirare rivoli d'acqua che dai capelli scivolavano lungo il viso. Forse mi angustiavo senza averne motivo, serrai la coppa tra le dita e ne accostai il bordo alle labbra per bere.

Indugiai, osservando quel volto enigmatico: il riverbero aranciato delle fiamme gli conferiva una sfumatura sinistra. Apollo incontrò il mio sguardo fissandomi di rimando, staccò le dita dalle corde della cetra che impugnava con tanta grazia, e il cicaleccio dei cortigiani cessò con la musica.

Quelli erano gli occhi vitrei di una belva in procinto di avventarsi sulla preda. Raggelai, il calice mi sfuggì di mano e rotolò a terra e il vino, in esso contenuto, si rovesciò disperdendosi al suolo. Era simile a sangue...

Non capivo quali fossero le intenzioni di Apollo, ma sentivo il cuore pesante, ero sgomento, come pietrificato da un terrore ignoto che mi spezzava il fiato e mi avrebbe impedito di pronunciare una sola parola. E se il suo intento fosse quello di uccidermi? Avrei dovuto richiamare l'armatura su di me ma, seppur protetto dalle Sacre Vestigia, sarei riuscito a prevaricare un dio? A rigore di logica sarebbe stato impossibile... indietreggiai, reso impotente da quei dubbi. Ma poi perché avrebbe dovuto farlo?

Febo si alzò in piedi e fece un cenno esplicito col quale reclamò per sé una delle prede del bottino di caccia di Artemide, la sua gemella divina: avevo notato colei che recava l'emblema della falce lunare sul diadema, e avrebbe preso parte al convivio nonostante rifuggisse la compagnia degli uomini... trovavo imbarazzante il modo in cui mi guardava.

Deposero un cervo ai piedi del trono ligneo ricavato da rami e ramoscelli intrecciati. Realizzai quale fosse il suo intento solo nell'attimo in cui i servi approntarono la carcassa, lasciandola ciondolare dal ramo più basso di un albero, affinché lui si adoperasse a compiere lo stesso gesto con cui si era vendicato del povero Marsia.

La lama del pugnale catturò un raggio di luna e brillò. “Guarda!” Ingiunse il dio.

Strizzai gli occhi per non vedere lo scempio che stava per perpetrare, ma udii il suono delle ossa spezzate degli stinchi e lo strappo brutale della pelle staccata dai muscoli, e lo sgocciolio del sangue ribollente che colava sul terreno. Le mie viscere si contrassero.

“Non hai la capacità di sgombrare la mente dai pensieri, Santo di Athena.” Mi rinfacciò. “Volevi lumi sull'indole di una divinità ed eccoti accontentato.”

Trasalii, e in un baleno realizzai che Febo aveva – dapprima – sondato la mia mente e, a causa di ciò che avevo osato pensare sul suo conto, si era adirato. Non provai a ribattere per giustificarmi, sebbene lui avesse fatto di peggio scandagliando spudoratamente i miei pensieri.

Fui sopraffatto dall'orrore suscitatomi dall'olezzo nauseabondo della morte e dalla viscosità del sangue ancora caldo. Dovetti reprimere i conati di vomito nel frangente in cui mi resi conto che Apollo mi aveva scagliato addosso la pelle insanguinata dopo averla scollata dai poveri resti dell'animale. Quell'essere crudele doveva conoscere il mio punto debole e forse si compiaceva di quanto il contatto col sangue mi disgustasse e, con tutta certezza, mi reputava un codardo ma, in quel momento, non m'importò più di nulla.

Sentii mancare la terra sotto i piedi, e non fu una conseguenza dovuta al ribrezzo poiché vacillai a causa della breccia che si era aperta nel terreno. D'un tratto mi ritrovai al buio, sul fondo del baratro in cui ero stato sprofondato.

 

***

 

XIII

 

Lo specchio rimandava l'immagine di un volto stanco, con gli occhi infossati e l'incarnato terreo, i troppi pensieri mi disturbavano il sonno. In un tardo pomeriggio come tanti fissavo il mio riflesso nella tonda lastra argentata che impugnavo e in cui, in realtà, speravo di scorgervi frammenti dell'universo dal quale, da qualche tempo a questa parte, mi era stato precluso l'accesso e non sapevo perché. Mi ponevo innumerevoli interrogativi su quali fossero le reali intenzioni di Febo e tuttavia ero certo che volesse soltanto divertirsi un po' e poi, finito il divertimento, stanco del suo trastullo, avrebbe scaricato Misty... O, forse, era quello che mi auguravo e sarebbe stato il male minore.

La cosa più sconcertante era stata la decisione di Athena di abbandonare mio fratello al suo destino. Non credevo però in un completo disinteresse da parte sua e, di sicuro, dietro doveva esserci la reale necessità di prendere del tempo. Non pensavo fosse nelle sue intenzioni lasciare vacante la Settima Casa e, inoltre, c'era la questione spinosa dell'armatura che non poteva permanere al di fuori da questi confini ancora per molto; ma sfidare Apollo era rischioso per l'equilibrio del mondo – già fragile come un calice di cristallo – il quale avrebbe potuto incrinarsi e andare in frantumi. Sospirai, estenuato dal monologo interiore, e fissai le iridi turchesi del mio doppio, le fissai a lungo smarrendomi nel dedalo di striature che percorrevano la membrana oculare fino a quando non mi resi conto di aver divagato troppo e la vista non si sdoppiò. Comparve come un velo: una cortina cremisi insanguinò la superficie riflettente dello specchio.

Sussultai, pur realizzando che si trattasse di un'allucinazione nella quale, però, ravvisai un presagio nefasto. Non stavo sognando, ero sveglio e ben vigile poiché udii alcuni passi pesanti - di piedi calzati in armatura - avanzare sul lastricato che conduceva al roseto. Alzai gli occhi.

“Ti stai arrovellando, Aphrodite di Pisces?”

Perseo... mi dissi scrutando la figura del Santo d'Argento, la quale mi sovrastò stagliandosi contro il cielo al crepuscolo che avrebbe svelato le stelle più brillanti. Avrei dovuto indignarmi per il tono irriverente usato in mia presenza, ma poi d'un tratto ricordai di non essere sempre stato quello che sono: una volta ero Søren, un ragazzino emaciato cresciuto in un villaggio di pescatori nella fredda Svezia; non molto diverso dai Santi di rango inferiore le cui umili origini ci accomunavano. La discendenza divina rimaneva per me un concetto astratto da imputarsi più che altro a uno scherzo del destino.

“Non sono venuto a sorbire una tazza di tè.” Algol di Perseus mi distrasse, continuando a esprimersi con la solita supponenza, sebbene riuscissi a cogliere un'ironia amara in quelle parole anziché il vero e proprio intento di irridere.

Så vad vill du ha?” chiesi, deponendo lo specchio sul tavolo di pietra, e mi alzai in piedi per fronteggiarlo, mani sui fianchi. “Sono passati alcuni giorni da quando Libra ha lasciato il Grande Tempio ed è ovvio che, Athena e il Sommo, stiano ancora deliberando.”

“E secondo te quale sarà il responso?” pungolò con sarcasmo, inarcando le sopracciglia.

“Non ho la sfera di cristallo! Il consesso, mediante il quale i vertici si stanno premurando d'informare le varie Caste sull'accaduto, è ancora in corso e al termine, forse, avremo le risposte che cerchiamo” affermai, contenendo l'irritazione a malapena, ma Algol si accostò con le spalle vicino al muro con metà volto celato nell'ombra.

Lo studiai, perplesso: “Siete due persone che hanno poco in comune, tu e mio fratello. Com'è nata la vostra amicizia, al di là del fatto di essere stati parigrado?” Ebbi il coraggio di domandargli infine, nel tentativo di eludere il discorso e accorciare le distanze tra noi.

“Uhm... poco in comune, dici?” atteggiò le labbra fini in un sorriso forzato, senza allegria. “Non direi. Tuttavia non siamo mai stati amici nella vita precedente, se ci tieni così tanto a saperlo, non c'è stato il tempo per instaurare rapporti che non fossero più che formali. C'era però un legame intrinseco, sotteso, di cui non parlavamo” rispose.

Quegli occhi... mi voltai come incapace di sostenere a lungo il suo sguardo, osservando lo spicchio di sole che si eclissò definitivamente dietro la linea dell'orizzonte. Ricevetti così la conferma che Misty fosse attratto da ciò che vedeva in quegli occhi, e si dice che gli occhi siano specchio dell'anima. Uno sguardo distaccato, di primo acchito, estraneo a qualsiasi sentimento di compassione.

“Lo molestavano per il suo aspetto, ma è intoccabile. Vanta un'irresistibile combinazione di fascino e forza” affermò, infrangendo il momentaneo silenzio, e dovetti annuire perché concordavo con la sua osservazione.

 

Udimmo i passi di alcuni Santi e il fragore metallico delle armature proveniva dal livello superiore. Mi voltai, accorrendo in prossimità della soglia della Casa da me custodita; il raduno doveva essere terminato e non vedevo l'ora d'interrogare i miei pari per sapere se le alte sfere fossero pervenute finalmente a conclusione. Algol mi aveva seguito, desideroso quanto me di apprendere qualcosa di definitivo in proposito.

Alcuni di loro procedettero oltrepassando l'atrio colonnato e il Dodicesimo Tempio, imboccando il sentiero scosceso di scale che conduceva ai Templi sottostanti inglobati dall'oscurità. I commilitoni che annoveravo tra gli amici più stretti si fermarono per scambiare qualche parola; notai anche Asterion, il Santo d'Argento del Segugio, il quale afferrò Algol di Perseus per un braccio, forse intenzionato a condurlo via.

“Credo che la loro decisione riguardi soprattutto me” esordii rivolgendomi a colui che figurava tra gli ex-commilitoni più affezionati di mio fratello.

“È di interesse comune” replicò Asterion.

“Il Sommo vorrebbe comunicarla di persona a te e ad Algol, dal momento che siete più o meno coinvolti nella vicenda e avete deciso di non prendere parte al dibattito, rimanendo all'esterno della Sala delle Udienze” soggiunse Saga, mentre Death Mask e Shura continuavano a tacere. Distinguevo appena i loro volti, la sera era calata in fretta ammantando il Santuario di cupe ombre, e le armature dei Santi baluginavano alla debole luce dei fuochi.

“D'accordo” risposi incrociando lo sguardo acuto di Perseus, che rilevai alla luce di una torcia, ed egli annuì a sua volta.

Saga di Gemini si aggiustò il mantello sulle spalle e poi prese la parola: “Il Sommo avrebbe dovuto inviare ad Apollo una delegazione formata dai Santi più rappresentativi, per parlamentare. Ma Saori Kido, alias Athena, ha deciso che ci andrà di persona” commentò.

Athena? Mi domandai esterrefatto.

“Che cosa!?” proruppe Algol, ma gli feci segno di temporeggiare ponendomi il dito indice sulla bocca. Esitai cingendomi le tempie con le dita e, dopo, incrociai gli sguardi, più o meno rassegnati, dei presenti. Anche Asterion di Canes Venatici mi riservò un'occhiata acquiescente. Sospirai, impotente a mia volta, ma d'un tratto riuscii a spiegarmi una decisione che non ero il solo a reputare priva di senso, a giudicare dall'atteggiamento passivo degli altri e dal disappunto impresso nei loro volti, resi quasi torvi dalla funerea illuminazione che li lambiva.

“È chiaro. Athena e il Sommo vogliono evitare uno scontro diretto con Apollo, e tenteranno la via della mediazione, del dialogo, pur di riportare indietro Misty e l'armatura di Libra” affermai con sicurezza.

“Sì e no, Aphrodite. Dohko si è detto disposto a voler riportare indietro l'armatura, con o senza il possessore.” Spiegò Saga, costernato. Aveva pronunciato con difficoltà quelle parole non sue e prive di riguardo verso un Santo di Athena. Vidi Algol sgranare gli occhi, sorpreso. Riuscivo a immaginare cosa stesse passando per la mente del Santo d'Argento, ma egli evitò di esprimersi a favore o contro rendendosi meritevole della mia stima per questo.

Disilluso e perplesso, replicai al suo posto: “Se è ciò che vogliono non ci rimane che attendere gli sviluppi di questa situazione assurda.” Sorvolai, evitando di esprimere appieno le mie considerazioni in proposito, ma non condividevo affatto la decisione dei più alti esponenti del Santuario; mi sarei aspettato un coinvolgimento in prima linea nella vicenda, non di esserne estromesso, e per me era come ricevere una pugnalata a tradimento.

“Comunque il Sommo vuole vederti” Death Mask mi strizzò un occhio con aria complice. “Il più presto possibile.”

Quelle parole ebbero l'effetto di rincuorarmi, assentii con un cenno e poi ammiccai Algol di Perseus: “Accompagnami” ordinai. Ero così impaziente che mi sarei fiondato al Tredicesimo Tempio percorrendo i gradini della rampa quattro a quattro.

 

***

 

XIV

 

Provai a voltarmi dal lato opposto, con la sola preoccupazione di scrollarmi di dosso la pelle viscida e marcescente di quella povera bestia, ma non riuscivo a muovere il fianco destro sul quale ero rovinato con l'intero peso del corpo. Gemetti di dolore, imprecai. Forse avevo qualche frattura ma l'unico pensiero fu quello di liberarmi da quell'orrore e, a stento, ci riuscii. Aguzzai la vista nella speranza di vedere qualcosa, ma l'oscurità spadroneggiava così fitta da annebbiare la mente e sembrava inibire ogni pensiero razionale. In quel silenzio di tomba percepivo soltanto il battito accelerato del mio cuore, sudavo, rabbrividendo al pensiero delle vesti intrise di sangue impuro e che volevo strappare via dal corpo. Il cosmo era svanito e non riuscivo a evocarlo dentro di me: avevo pensato stupidamente di congiungermi in un tutt'uno con le Sacre Vestigia e d'un tratto, nello stesso istante, mi sovvenne – armatura compresa – ciò che mi ero lasciato indietro: il Santuario; la brutta opinione che dovevano essersi fatti di me, ma anche la consapevolezza che non avessero tutte le ragioni del mondo. Forse...

La mente si riempì di altre immagini, doveva essere a cagione del delirio e della febbre, e comparvero frammenti di un passato recente in cui vidi mocciosi vestiti con stracci logori e, come me, iniziati a un gioco della cui pericolosità eravamo ignari. Ricordai un bambino che indossava il kefiah e di cui diffidavo per via dello sguardo inquietante e del nome: si chiamava Al-ghul, come la stella del diavolo. Ora sentivo la sua mancanza...

Ma, in fondo, siamo sempre stati due bastardi, e forse deve esserci anche in me qualcosa di demoniaco... Riderebbe vedendomi in questa situazione paradossale e grottesca, mi dissi, e poi finii per languire spiaccicato al suolo – come un pesce senza lisca – nel punto in cui ero precipitato. Abbassai le palpebre, rassegnato, in procinto di sopportare il freddo e il dolore. Tuttavia nel delirio irrazionale dei pensieri mi aggrappai a un residuo di speranza, ovvero la probabilità che tutte le mie vicissitudini avessero uno scopo finale.

 

...

 

 

Dovevo essermi addormentato, mi svegliai privo della cognizione dello spazio e del tempo, e le palpebre appiccicaticce stentavano a schiudersi. Percepii il contatto con una mano calda: il dorso ruvido delle dita sfiorò la guancia, poi si spostò affondando nei capelli umidi e indugiò in una carezza, ma restai calmo e non ne fui spaventato perché non avvertivo alcuna aura negativa. L'oscurità di quell'antro parve diradarsi poco a poco – oppure la vista si stava adattando al buio – e spuntarono due occhi di ossidiana che spiccavano su un muso barbuto, brillanti e permeati da vivida intelligenza, in contrasto con l'incarnato lattiginoso e ricoperto di fine lanugine come il vello di una capra. Ero riuscito a mettere a fuoco l'immagine, dopo aver sbattuto le ciglia un paio di volte, e fecero capolino anche due corna bianche e ritorte su quella testa arruffata. Non seppi se ricoprirlo di insulti o ringraziarlo per essere accorso in un momento difficile. L'idea di un contatto ravvicinato con lui mi suscitava orrore e repulsione. Almeno, la prima volta, al Grande Tempio, aveva avuto la delicatezza di manifestarsi con una forma che non mi atterrisse, invece che come ibrido tra uomo e animale – ed era più bestiale che umano. Sospirai dallo sconforto, privo della forza sufficiente a indietreggiare.

Sbattei ancora le ciglia, cercando di raccogliere le idee: “Fauno Sileno...” richiamai la sua attenzione. “È possibile tu debba sempre presentarti con questo aspetto disumano e sgradevole?”

“È l'aspetto che più mi aggrada ed è quello che più si addice alla mia natura” rispose lui, stizzito, accostando una pezzuola al volto per ripulirmi. “Mi trovo entro i confini del mio regno e avrò pure il diritto di apparire come voglio. E poi sono un satiro e non un fauno, come te lo devo spiegare!?” sbottò. “Inoltre, sì, ti avevo detto che puoi chiamarmi Sileno ma, in realtà, non sono che uno dei tanti sileni.”

“Quindi, avresti un nome proprio?” insinuai.

“Sta' zitto, per favore.”

Niente da fare, doveva essersi offeso. Ignorai le sue lamentele cambiando argomento: “Dov'è la mia armatura?” domandai, consapevole che dovesse saperne qualcosa.

“Al sicuro” commentò conciso, e quel suo rassicurarmi fu consolatorio almeno in parte.

“Lui... mi odia” soggiunsi poi, col filo di voce che mi restava, sovvenendomi il gesto poco gentile di Apollo nei miei confronti.

“Io non lo credo.” Sileno alzò le spalle, rimarcando così il proprio diniego. “Ha solo un modo diverso di ragionare rispetto a voi mortali” affermò, ponendo poi le mani scarne sulla parte indolenzita del mio corpo e, al contempo, beneficiai del suo calore. “Adesso starai meglio o, perlomeno, il dolore si attenuerà.”

“Temo di avere le ossa rotte.”

“No, è solo l'effetto della caduta.” Mi rassicurò.

 

Esitai ad accondiscendere all'invito a rialzarmi, temevo di non farcela, ma poi risolsi di tendergli la mano ed egli la serrò nella sua, imprimendo lo slancio necessario a rimettermi in piedi, come volesse scrollarmi dall'apatia in cui ero sprofondato. E non s'ingannava, perché mi sorpresi constatando di non avere niente di rotto. Ero certo che non fosse l'apatia il problema, non si trattava d'indolenza o quant'altro perché mi sentivo davvero senza forze come se qualcosa avesse assorbito tutta la mia energia.

Lo seguii, stringendomi negli indumenti fradici e sporchi, quasi barcollando. Dovetti socchiudere le palpebre perché percepivo una luminosità d'intensità maggiore man mano che procedevamo lungo il cammino: le pareti dell'ampio cunicolo, scavato nella roccia, brillavano incrostate di cristalli, forse di quarzo e altri minerali, amplificando il riverbero luminoso generato dalla probabile presenza di una polla d'acqua, che trovammo infatti, a fine percorso. In realtà si trattava di un lago sotterraneo che colmava una vasta cavità attorniata da stalattiti e stalagmiti affusolate come canne d'organo.

Quando ci fermammo in prossimità dello specchio d'acqua, in cui sembrava riflettersi la volta celeste, realizzai di avere la mente sgombra, finalmente libera da ogni pensiero, ma forse ciò era dovuto alla stanchezza e alla fame. Esalai un respiro, mi sentivo davvero esausto, svuotato...

Fu quell'essere a farmi trasalire, attentando al mio equilibrio già precario con una spinta: “Va'”, disse esortandomi a saggiare la temperatura dell'acqua.

“Ma sarà fredda! E poi non ho indumenti di ricambio” protestai, sebbene fossi davvero tentato di liberarmi dalle vesti sudice.

“Non è fredda” insinuò. “Davvero non mi spiego tutta questa inibizione, di solito non ne mostri alcuna. E se il problema sono i vestiti, posso procurarteli.”

D'un tratto ebbi caldo e lo stesso calore improvviso mi inondò il volto. Provai un repentino imbarazzo dopo aver constatato che quella creatura conosceva davvero a menadito le mie abitudini. Non replicai limitandomi a rimuovere gli indumenti, che sembravano essersi incollati addosso, non resistevo più e fui vinto da un impulso irrefrenabile. La parte dolorante del mio corpo era cosparsa di graffi ed ecchimosi che mi fecero inorridire e tuttavia evitai di lamentarmi.

L'acqua incontaminata e cristallina avvolgeva le mie membra stanche e, come ogni volta in cui mi beavo del suo abbraccio carezzevole, sembrava alleviare il tormento dell'anima e lenire la tristezza. E... aveva ragione lui: non era fredda, mi lambiva i fianchi, riuscivo a scorgere il mio riflesso sulla superficie ora increspata, ora immobile, e mi smarrii a contemplare la proiezione meravigliosa di me stesso. Ma d'un tratto l'immagine s'infranse dissolvendosi in un moto ondulatorio. Sileno aveva gettato un sasso e mi riscosse così da quella malia: “Vanesio...” schernì con piglio serioso. “L'acqua simboleggia altresì morte e rinascita” affermò dopo, tetro, e mi voltai di scatto verso di lui ma non disse altro, e nemmeno io ebbi il cuore di chiedergli una spiegazione lasciando, così, insoluto l'enigma che permase latente.

 

 

Passai le mani sul volto, dopo aver guadagnato la terra ferma, torcendo poi i capelli intrisi d'acqua. La creatura mi attendeva con dei vestiti in mano, come aveva promesso in precedenza, e non gli domandai dove li avesse trovati avendo intuito fosse opera di un prodigio. Li indossai, dopo essermi dapprima soffermato a osservare i ricami a foglie dorate che ornavano la passamaneria della tunica.

“Mi sarei aspettato un'accoglienza più calorosa. Un bagno con al seguito un trattamento a base di oli ed essenze profumate.” Gli confidai, sedendomi in un angolo, a terra, per guardare lo schermo d'acqua nel quale sembravano riflettersi le galassie del firmamento in uno sfolgorio di luci e colori.

“Non ne hai bisogno. La tua è una bellezza pura e sublime, non necessita di orpelli o artifici” affermò materializzando una ghirlanda di narcisi con cui mi adornò il capo. Fui lusingato da quella semplice osservazione.

Chiusi gli occhi e, beandomi del profumo stordente dei fiori, ascoltai il silenzio ma, poco dopo, mi giunse alle orecchie il tintinnare della pioggia che rimbalza a terra: suono non dissimile a una litania, a quella stessa cantilena pervasa da dolce malinconia che avevo avuto l'impressione di udire sulla soglia della Settima Casa. Ma non stava piovendo, non poteva essere la pioggia, e realizzai che la melodia fosse solo il frutto dell'ennesima illusione; un miraggio fugace come le immagini distorte che si rincorrono in un labirinto di specchi. Sbattei le palpebre ritornando alla realtà: “Si dice che le grotte sotterranee risuonino di echi in cui s'intrecciano storia e mito...”

“Sì, un compendio di racconti il cui confine tra fiaba e realtà è labile: dalla nascita dell'Inferno, alla leggenda della ninfa che si suicidò a causa dell'amore non corrisposto per il dio Pan” confermò Sileno, e le sue parole mi suscitarono un brivido lungo la schiena.

“A dire la verità mi sono più familiari le leggende del mio paese d'origine, e l'atmosfera di questo posto mi rimanda alla storia della fata Melusine, che finì i suoi giorni mutata per metà in serpente” risposi, avvicinando le ginocchia al corpo e chinandovi la testa stancamente, “tu sai molte cose.”

“Sono storie ordinarie e sulla bocca di tutti...” replicò lui con leggerezza, poi sedette accanto a me, mi guardò avvolgendo una ciocca dei miei capelli tra le dita raggrinzite, e fui sorpreso di non provare più alcun disgusto per quella creatura dall'aspetto singolare.

 

 

 

 

 

*Πυανέψια, le Pianepsie erano una ricorrenza ateniese celebrata - in onore di Apollo -, il settimo giorno del mese di Pianepsione; e nel corso dei festeggiamenti era contemplata l'usanza di offrire al dio fave cotte, in memoria dell'episodio in cui i ragazzi salvati a Creta da Teseo le avevano mangiate.

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


 

 

I prati d'asfodelo, capitolo VI

 

 

XV

 

Ero certo che le lusinghe di Sileno mi avrebbero condotto di nuovo al cospetto di Apollo, nella sua dimora sontuosa, per la precisione. Io non volevo vederlo, lo temevo ed ero risentito per come mi aveva trattato; ma quel genio teriomorfo, che ormai reputavo alla stregua di un confidente – non riuscivo ancora a definirlo alleato a causa della mia diffidenza innata –, mi aveva convinto, rassicurandomi, per poi guidarmi con passo saltellante attraverso un dedalo di cunicoli sotterranei il quale, dalle fondamenta, aveva accesso diretto alla residenza di Delfi.

 

Allungai una mano prendendo un frutto dalla cornucopia, in mostra al banchetto ridondante di allettanti leccornie, fingendomi parco sebbene avessi ancora molta fame. Non ero riuscito a soddisfare del tutto il mio appetito che il dio mi avvicinò con la solita subdola grazia. Avevo imparato la lezione, sebbene non fossi certo di saper dissimulare i miei pensieri e sentimenti in sua presenza. Trattenni il respiro, per poi modularlo in silenzio, alla ricerca affannosa di un'improbabile tranquillità interiore. Febo affondò nei miei capelli la mano affusolata districando il groviglio di steli dei fiori intrecciati i quali, a mo' di corona, mi cingevano il capo. Quella stessa mano scivolò poi, dalla tempia, lungo il viso percorrendo l'escoriazione prodotta dai rovi che mi ero trascinato appresso precipitando nel fosso. Con la medesima gentilezza sfiorò il braccio destro lasciato scoperto dalla tunica e i lividi svanirono, come per incanto, nel modo in cui presumevo fossero svaniti anche i graffi sul volto.

Alzai lo sguardo e finalmente trovai il coraggio d'incontrare quello fulgido di mio padre... per la prima volta riuscivo a definirlo tale. Mi strinsi nelle spalle e lo scrutai con attenzione come non avevo mai fatto in precedenza: era coronato di lauro e notai il colore dei capelli – biondo tendente al rosso – uguale al mio.

“La paura rende fragili, e il disgusto per il sangue si manifesta in risposta a un istinto di conservazione ancestrale” disse.

Fui colto dal dubbio che stesse giustificando una debolezza per cui venivo spesso deriso, e il suo atteggiamento amichevole mi disorientava. Non scorgevo alcun indizio di disappunto sul volto serafico e ne desumevo una propensione al dialogo e indulgenza inaspettati. Pur senza comprendere le sue motivazioni, realizzai che sarebbe stato saggio non pormi altre domande investigando oltre quanto mi fosse consentito, era frustrante ma non potevo pretendere di saperne di più. Sospirai, godendomi l'insperato momento di quiete, e di tregua, tra noi.

“È stata una piacevole sorpresa saperti consapevole di non poter prevaricare un dio” continuò Apollo. “Questo ti fa onore.”

Trasecolai... lo avevo pensato davvero, ed era una considerazione sorta in sua presenza benché nutrissi alcuni dubbi: nelle gesta degli eroi si contemplava anche il trionfo sugli dèi, o si trattava soltanto di leggende architettate ad arte per esaltare le imprese dei campioni di Athena? Dopotutto la storia è sempre narrata dalla prospettiva dei vincitori e spesso alcuni aneddoti vengono omessi. Sostenni il suo sguardo, incantato dall'intensità di quegli occhi – brillanti come stelle ma profondi e colmi di antica saggezza – desideroso di esporre il quesito che mi logorava senza però averne il coraggio. Abbassai la testa per guardare le figure incasellate tra girali sul pavimento a mosaico, sfregandomi il naso, infastidito dall'odore di carbone affumicato esalato dai bracieri e frammisto all'aroma d'incenso.

“Nell'universo vige una gerarchia e va rispettata, opporvisi equivale a sovvertire l'ordine naturale” esordì il mio interlocutore inducendomi a guardarlo in faccia, e mi morsi inavvertitamente l'interno della guancia. Apollo carpiva i miei pensieri, soppesava ogni stilla del mio tormento interiore.

“Quello che ti hanno raccontato corrisponde a una mezza verità” affermò. “E lo scoprirai da solo.” Il suo volto sembrò incupirsi, adombrato da un'oscurità inesistente, come per effetto delle sue stesse parole. Parole che mi incuriosirono instillando altri dubbi: “Vorreste dire che la storia è stata abbellita?”

“Osserva la veste che indossi.” Egli indicò il mio abito, e in risposta tastai il tessuto grezzo dell'indumento il quale, privo della passamaneria dorata, sarebbe stato dozzinale.

“Le divinità non potrebbero dirsi tali se così non fosse” conclusi, dopo aver riflettuto, e addentai il frutto. La mia riflessione fu prodotta dal riconsiderare il pensiero comune sugli immortali: gli dèi non sono affatto crudeli ma incarnano la sovranità degli elementi naturali su cui l'arroganza umana non può prevalere; e a questo proposito ricordai le parole di Sileno, le allusioni ambigue sul significato e il presunto fine insito nelle azioni del dio.

Febo mi prese il mento e lo fece con dolcezza, smisi di masticare deglutendo il boccone e sentii scorrere il sudore lungo il dorso. “Non leggerò più i tuoi pensieri poiché sei stato lesto a comprendere quel che dovevi” sentenziò, cogliendomi alla sprovvista. Sospirai allentando la presa sul torsolo della mela lasciandola cadere a terra e in quel preciso istante lui si scostò da me, dandomi le spalle.

“Durante la tua permanenza qui potrai dilettarti con ciò che preferisci: dal cibo allo svago; intrattenerti con donne...” Si voltò di nuovo per guardarmi e poi sorrise. “Oppure uomini.”

Febo ignorava, o era molto più probabile fingesse d'ignorare, le consuetudini osservate da chi è votato ad Athena Parthenos; sebbene le regole esistano per essere infrante e talvolta si eludono con discrezione affinché nessuno sappia e se ne dolga... Il mio viso avvampò nel vedere uno dei convitati leccarsi le labbra unte con la lingua; forse avevo cambiato colore e mi chinai, con la scusa di raccogliere la mela masticata dal pavimento, per distogliere l'attenzione altrui dal mio imbarazzo.

“Vieni” soggiunse il dio e, dopo aver recuperato il mantello di lana deposto sullo scranno, mi apprestai a seguirlo, succube del suo fascino e senza indugi oltre la soglia della residenza.

Il vento m'investì il volto accaldato scompigliando i capelli, e assicurai la clamide intorno alle spalle col fermaglio. Le solenni vestigia dalle colonne di tufo e di ordine dorico, che ci lasciammo indietro, s'integravano alla perfezione al contesto naturale: quel luogo idilliaco e remoto, che nella mia fervida immaginazione evocava la leggendaria Arcadia, aveva un qualcosa di familiare ancorché sorgesse ubicato fuori dal tempo.

Fui condotto nei meandri intricati della foresta, probabilmente a lui cara, Febo si soffermò in un punto riparato dalle fronde dei sempreverdi che stormivano sospinte dall'aria frizzante.
Inebriato dall'essenza odorosa di timo e rosmarino, nonché assorto a rimuginare le mie inquietudini, non mi ero accorto che il dio portasse con sé un arco e delle frecce infilate nella faretra. Lo strumento di legno di tasso sembrava così flessibile nelle sue mani esperte, lo maneggiava senza l'uso dei guanti e lo tese in atto dimostrativo evitando d'incoccare la freccia. Lo rilasciò poi deponendolo accanto al tronco di un albero e in quel momento una lepre, celata tra gli arbusti, sbucò fuggendo via.

“Sapresti usarlo?” domandò.

“Non lo userei contro una creatura inerme” replicai, aspettandomi di udire le sue risa di scherno. “Ai Santi di Athena è interdetto l'uso delle armi” puntualizzai subito dopo.

Arricciò le labbra ben definite: “Tu stesso sei il custode delle dodici armi che completano le Sacre Vestigia di Libra.”

Sì, era una contraddizione bella e buona, ed esitai prima di esporre il mio pensiero: “Non so darmi una risposta per tutto perché ogni cosa è in contrasto sulla Terra.”

“L'essere umano è incoerente per natura” replicò Apollo, lisciando la piuma di una freccia con le dita. “Ma lo sono anche gli dèi” soggiunse in tono così pacato da farmi sospirare di sollievo.

“Armi a parte, io so cosa cerchi” insinuò ricollocando il dardo nella faretra. “O meglio, ciò di cui abbisogni.”

Dovetti rimanere a bocca semiaperta e con gli occhi spalancati, come un idiota, perché non riuscivo a interpretare le parole di colui che si esprimeva per enigmi. Non stavo cercando nulla ed ero semplicemente il custode della Settima Casa, strappato quasi a forza dal proprio Tempio! Afferrai la stoffa della tunica stringendola nel pugno senza badarci.

Febo corrugò la fronte, il suo sguardo tagliente – ingentilito da seriche e folte ciglia – si assottigliò; gli indumenti candidi catturavano col movimento i tenui riflessi della vegetazione circostante, egli sedette su un masso esortandomi, con un gesto, a pormi accanto a lui. Lo assecondai e rimasi in silenzio sfregando le mani sudate contro il tessuto della veste.

“Cosa saresti disposto a fare per gli altri?” Mi sorprese con una domanda del tutto inaspettata.

“Nulla di mia iniziativa, credo” affermai quasi meccanicamente, non potevo nemmeno vantarmi di essere altruista. “Se non quello per cui sono abilitato.”

Mi irrigidii avvertendo la sua mano tra i capelli, li accarezzò percorrendone la lunghezza. “Sei sincero e l'onestà è una virtù che paga quasi sempre, a tempo debito.” Erano delle belle parole, non ricordavo di aver ricevuto simili elogi al Santuario, nella nuova vita, e malgrado ciò non riuscivo a esprimere nemmeno gratitudine se non un silenzio col quale annuii. Doveva essere davvero lungimirante, magnanimo come si conviene a un'entità dotata di poteri taumaturgici, ma implacabile al punto da scagliare strali venefici contro il genere umano. D'un tratto sentii gli occhi umidi di lacrime e un nodo mi strinse la gola, sganciai l'alamaro del mantello che scivolò dietro la schiena.

“Sei conscio di servire una divinità ingrata – per quanto prevalga una componente umana a influire nelle sue scelte?”

Immaginavo alludesse all'infatuazione idealistica della dèa vergine per il suo campione, e riuscì quasi a strapparmi un sorriso, ma mi limitai ad annuire con ritrosia: “Siamo pedine sullo scacchiere degli dèi. Con alcuni di noi, Athena, ha dato sfoggio d'ingratitudine e poi ha fatto ammenda.” Gli risposi, sebbene fossi consapevole della sua onniscienza, supponendo però che sarebbe stato gratificante per lui apprendere quella verità dalle mie labbra.

“Sono Cloto e Lachesi a tessere il filo del fato” esplicitò. “E tu, Santo di Libra, rinnegheresti la dèa della guerra, della sapienza e delle arti, a cagione della sua grettezza?”

“Già una volta l'ho rinnegata, ma ora non potrei farlo e nemmeno vorrei” dissi, tormentando un ricciolo di capelli tra pollice e indice.

“Non vorresti, hai detto...” Si elevò occultando la luce del sole che filtrava attraverso le fronde degli alberi; mi prese per le spalle inducendomi ad alzarmi a mia volta e poi catturò il mio volto tra le mani rimuovendo col dito quella lacrima che mi aveva bagnato le ciglia a scapito della volontà. “Per auto incensarti?”

“Non per vanagloria, ma per fedeltà alla divinità cui sono votato” risposi e indietreggiai inciampando in una radice che spuntava dal terreno. Apollo mi afferrò per il polso, impedendomi di cadere, e mi fissò dritto negli occhi per poi lasciarmi andare. “Una lealtà che non va disattesa e perseguo a prescindere... seppur non sia incluso nella cerchia dei prescelti” tagliai corto con una punta di amarezza. Se il dio stava cercando di fomentare rancore nei confronti di Athena vi riuscì in parte perché non potei esimermi dal rivangare il passato, ma ormai era un risentimento indebolito dalla mera accettazione del ruolo risicato tra i grandi – e io non ero che un'ombra sbiadita paragonato a loro.

“La gloria ha un prezzo, Misty” sentenziò asciutto.

“Lo so” convenni. Ero pervenuto a quella verità apprendendo, con invidia e a malincuore, l'importanza dei sacrifici degli altri, pur sapendo che in tutto giocasse un ruolo fondamentale l'ineluttabilità del destino. Ciò instillò altri interrogativi nella mia mente: cos'altro intendeva dire Apollo con quelle parole? Avevo, da sempre, rincorso la gloria come un fatuo vagheggiamento, senza mai raggiungerla, e non ne avevo sperimentato il prezzo. Pertanto egli alludeva a un riconoscimento che non mi era dovuto, sebbene tale insinuazione non suonasse al pari di una considerazione sprezzante...

 

...

 

Sbirciai da sotto le ciglia, ancora immerso in una sorta di dormiveglia, fluttuavo in bilico tra sogno e realtà ma poi realizzai di essere sveglio e di trovarmi nell'alcova in una stanza che non riconoscevo. Una stanza semicircolare, in parte priva di mura, circondata da un diptero di colonne doriche e adorna di drappi svolazzanti attraverso i quali scorgevo uno scenario boschivo e la luce diurna. Sentivo il tepore dei raggi solari sulla pelle, era un calore inusuale nella stagione che precedeva l'inverno, ma il tempo – che al Santuario scorreva con la rapidità di una freccia che fende il vento – in questa dimensione aliena sembrava dilatarsi all'infinito. Sbattei le palpebre col risultato di focalizzare di nuovo le stesse immagini; inumidii le labbra con la lingua percependo un sapore gradevole come il profumo di kipros di cui erano impregnate le vesti spiegazzate e intrise di sudore che ancora indossavo dalla sera prima. Dovevo aver trascorso la notte in compagnia di qualche etèra, ninfa, o cortigiano... chissà? Non ricordavo nulla, ma non era poi così importante ricordare benché il sospetto di aver giaciuto con qualcuno mi desse la nausea. Affondai il viso nel cuscino e le dita tra i capelli umidi, ma d'un tratto qualcosa mi sfiorò il capo cosicché fui indotto a rialzarlo. Vidi planare una penna e allungai la mano per prenderla, la lisciai con le dita per sistemare le barbule, doveva essere di un uccello dal piumaggio marezzato e poco appariscente. Infatti la civetta si palesò appollaiandosi sulla spalliera del letto e mi scrutò per un breve istante, prima di librarsi in volo e scomparire. Athena...

Stavo divenendo parte del mondo al quale mi ero assuefatto poco a poco, lasciandomi cullare da una dolce inerzia, così insoddisfacente per chi cerca un riscatto onorevole dalla propria vita vuota; da un'esistenza piatta, in ombra, talvolta scossa e illuminata da labili sprazzi di luce. Da mio padre avevo udito parole gentili, dovevo esserne compiaciuto ma probabilmente non ero che un gingillo da esibire: il clone del compianto Giacinto, la parvenza di un ricordo. Mi domandavo se avesse intenzione di includermi nelle sue schiere, nella sua Guardia, o quantomeno – con la mia condiscendente presenza – mi ero illuso di stornare le sue presunte mire di conquista e sventare così un cataclisma. Ma egli non sembrava essere in procinto di muovere guerra ad Athena... allora cosa stava tramando?

Rotolai tra le lenzuola sgusciando fuori dal letto, forse in modo così brusco da vacillare a causa di un capogiro. Dovetti accostarmi di schiena a ridosso di una colonna, scivolai contro la superficie di pietra e sedetti a terra inspirando profondamente; percepii rivoli di sudore colare lungo le tempie e divenne buio per un attimo. Era un malessere passeggero, ne ero sicuro, dovuto più che altro al mio stato d'animo che non a un vero e proprio disagio fisico. Mi riebbi pian piano con quella consapevolezza, approssimandomi carponi al bacile per rinfrescarmi il viso bianco come calce che fece capolino riflesso nell'acqua.

Sfilai la tunica dalla testa, e me ne procurai un'altra che indossai fermandola in vita con una cintura. Calzai i sandali dorati e recuperai la clamide ponendola intorno alle spalle. Una volta giunto all'esterno sostai tra le colonne, per poi sedermi sullo stilobate di roccia calcarea e sospirare annoiato, c'era troppa quiete.

“Non riesci neanche ad apprezzare la bellezza che ti circonda” esordì una voce. Avevo riconosciuto l'amico Sileno e alzai la testa, che tenevo dapprima china sulle ginocchia, per accingermi a guardare all'orizzonte: sì, il paesaggio era ridondante di colori inimmaginabili sulla Terra. La foresta lussureggiante, smeraldina, esibiva l'oro e l'argento delle foglie scintillanti al sorgere del sole, e risuonava del canto degli uccelli...

“Preferisco concentrarmi su me stesso.”

“Ti gioverebbe distogliere per un po' l'attenzione da te stesso” rispose Sileno accoccolandosi sul gradone più basso di fronte a me per poi ergersi sulle zampe caprine. “Coglieresti dettagli importanti che ti sfuggono”

Si sporse in avanti prendendomi il volto e percepii gli artigli affondare di poco nelle guance, ne fui intimorito e ciò mi indusse a ritrarmi ma il satiro mollò per tempo la presa.

“Non mi piace il tuo atteggiamento passivo” disse.

“Passivo?”

“Sì, passivo. Hai la tendenza a lasciarti trascinare dagli eventi... ma cambierai.”

“Cosa vorresti dire? Mi nascondi qualcosa?” domandai. “Dovrei farti ubriacare per estorcerti la verità...” insistetti lasciandomi sfuggire una risata.

Non rispose e quel suo fissarmi con insistenza mi lasciò del tutto indifferente, abbassai le palpebre rivolgendo i miei pensieri altrove. Mi destai poco dopo rigirando lo stelo di una rosa che avevo evocato tra le dita, accostai il fiore alle narici e al tempo stesso scoccai un'occhiata di traverso a Sileno.

“È stato lui a insegnartelo?” chiese, stringendo gli occhi a fessura.

“Lui, chi?”

“Il tuo fratellino” commentò. “Quello schivo e altezzoso...”

“Aphrodite” sospirai con insofferenza repressa. “Non me lo ha insegnato.”

“Continui a emularlo.”

“Non ho bisogno di emularlo” replicai accartocciando la rosa nel pugno, irritato. Gli aculei penetrarono nelle carni. “Ma non posso negare sia un buon esempio” ammisi a malincuore.

“E perché dovrebbe essere un buon esempio?” domandò lui, e poi mi prese la mano accostandola alle labbra per succhiare il sangue da un dito. Lo guardai, frastornato, in balia della sua sfrontatezza.

“Si è redento compiendo un gesto eroico e di grande altruismo.”

“Sai che ti dico, Misty? Rodersi il fegato per il successo degli altri è sinonimo d'infelicità. È controproducente” disse, lasciandomi la mano e puntando quegli occhi scuri dentro i miei.

Il successo degli altri...

 

***

 

XVI

 

Il Sommo Sacerdote ci attendeva all'esterno del Tredicesimo Tempio, sullo spiazzo che ospitava la statua di Athena, e da quell'angolazione si poteva ammirare la valle sacra – ora immersa nelle tenebre notturne. Raggiungemmo la sua figura ammantata dopo aver percorso il breve tragitto rischiarato dalla luce dei bracieri. Dohko non proferì parola, sembrava assorto in un momento di profondo raccoglimento, benché avesse preso atto della nostra presenza esternandolo con un cenno. Emise un sospiro, uno sbuffo di condensa fuoriuscì dalle labbra, e poi decise di degnarci della sua attenzione voltandosi, poiché girato di tre quarti, in modo da guardarci in faccia. Le fiamme di alcune torce dissipavano l'oscurità e notai con chiarezza l'espressione sul volto giovane, ma forse confondevo tranquillità con rassegnazione. Rassegnato? A cosa? Mi riscossi dal dubbio, probabilmente indotto dalla paura. Paura dell'ignoto, paura di apprendere qualcosa che non mi piacesse o mi sgomentasse al punto da rendermi inerme. Perché non c'era niente di peggio, per me, che languire senza poter far nulla.

Un colpetto sulla spalla mi fece sussultare. “Sembri immerso in sogni tutti tuoi” disse Algol di Perseus, sottovoce, riportandomi in qualche modo alla realtà.

Fissai con impazienza il volto imperturbabile del Sommo ed egli finalmente si destò: “Ho pensato ti premesse accompagnare Athena per assisterla nel corso delle trattative.”

Restai in silenzio, in parte compiaciuto per la considerazione dimostratami, ebbi la conferma che un mio coinvolgimento fosse implicito... e non poteva essere altrimenti. L'affermazione del Sommo Sacerdote smentiva in qualche modo il presunto disinteresse o avversione nei confronti di mio fratello, e sottintendeva gli stesse a cuore anche la sua sorte oltre l'armatura. Forse Saga e gli altri avevano interpretato male le sue parole, chissà. Dohko era, sì, pedante, indisponente, talvolta burbero, ma anche saggio e dal cuore nobile ed era plausibile avesse perso le staffe in un momento di rabbia. Doveva essere stato senz'altro così. Materializzai una rosa, come se cingere il gambo del fiore tra le dita assumesse per me una connotazione rituale. “Come desiderate” replicai.

Dohko si rivolse ad Algol di Perseus: “Sei stato convocato in quanto unico testimone alla defezione del Santo d'Oro di Libra. Ma, pensandoci bene, ho deciso che non prenderai parte alla missione, se così si può definire.”

“Una missione che avrebbe più lo scopo di voler conseguire un accordo tra le parti” dedusse il Santo d'Argento. “Ed è meglio non presentarsi al cospetto di Apollo con al seguito una folta schiera di Santi.”

“Esatto. Una negoziazione è ciò che Athena si propone di attuare” confermò il Sommo, e poi lo vidi volgere un fugace sguardo al cielo. “Nella speranza che non sopraggiungano imprevisti.”

Imprevisti... chinai il capo e dopo lo sollevai, che non abbia già interrogato le stelle? Scrutai nell'oscurità inframezzata dal brillio sparuto delle fiaccole che punteggiavano la valle in lontananza simili a capocchie di spilli. Trassi poi un sospiro: “Sommo Sacerdote”, proferii rompendo gli indugi. “Siete stato sull'Altura delle Stelle? Avete consultato gli astri?”

“Sì” affermò laconico, e la risposta telegrafica fu una limpida esortazione a indurmi a rispettarne il riserbo. Avevo imparato a conoscere Dohko, in poco tempo, abbastanza da comprendere quando ritenesse chiuso un argomento.

“Avete rilevato astri negativi, in opposizione, o in congiunzione favorevole?” insistetti, rigirando ripetutamente lo stelo della rosa. Perseus mi guardò notando il gesto liberatorio ma, forse, così melenso da fargli imprimere sul volto una smorfia di scherno.

“Da quando ti diletti con lo studio dell'astrologia?” chiese il Sommo con smaccato sarcasmo e un sorriso gli increspò le labbra, mi stava letteralmente prendendo in giro anche lui.

“Non me ne intendo, infatti” rettificai, indignato. “E, da profano, mi rivolgo a voi.”

“Non crucciarti, non c'è nulla da temere per il momento”, fece Dohko tornando serio. “Adesso c'è qualcosa di più urgente a cui pensare, Athena ti sta aspettando.”

Così, su due piedi... non immaginavo Athena avesse intenzione di agire subito perché mi era sembrata titubante l'ultima volta, ma forse aveva riflettuto risolvendo di affrettare i tempi. Mi congedai muovendo un passo all'indietro e Dohko rivolse uno sguardo verso l'alto, dopo aver ammiccato accennando un sorriso.
Algol di Perseus si accostò al mio fianco. “Hza saeidaan” disse. “Mi sarebbe piaciuto partecipare, ma gli eventi hanno preso un'altra piega a quanto pare” concluse alzando gli occhi al cielo.

Emisi un profondo sospiro e annuii col capo senza proferire parola. Non avevo parole, o meglio, non trovavo quelle giuste e strinsi la cappa intorno alle spalle affrettando il passo.

 

 

Feci un inchino scrutando di sottecchi quella sua figura gracile – spenta, priva dell'emanazione di cosmo che solitamente l'accompagnava – seduta sullo scranno maggiore nella Sala delle Udienze. Le dita esili stringevano i braccioli del trono, e poi cambiò posizione scostandosi dallo schienale dello scranno per congiungere le mani in un intreccio; il volto era messo in ombra dalla fioca illuminazione alle spalle. Quasi mi vergognavo di me stesso perché, nonostante mi fossi sempre approcciato con rispetto, riconobbi di aver tenuto la dèa in scarsa considerazione; ma l'ipocrisia era un tratto distintivo del mio carattere e ci convivevo senza troppi sensi di colpa. Saori Kido sciolse l'intreccio delle dita con cui teneva avvinghiate le mani in grembo, esortandomi ad alzarmi in piedi. Assentii. Dopo essermi alzato arretrai di un passo e sfilai l'elmo ponendolo sotto un braccio, e nel mentre cercai invano il suo sguardo celato nel fitto delle ombre.

“Aphrodite” disse. “So bene cosa significa essere in pena per qualcuno.”

Trasecolai, quello non era un pensiero che avrei attribuito alla dèa Athena. Dovetti schiarirmi la voce per sciogliere il groppo in gola: “Credevo che l'armatura fosse la priorità.”

“Ci tengo a recuperare entrambi: le Sacre Vestigia d'Oro di Libra e il possessore.” Si alzò in piedi. “Ho sempre messo i Santi tutti sullo stesso piano" affermò scendendo i gradini di pietra e un fascio di debole luce le lambì il volto eburneo. Sembrava triste e provai compassione per lei, ma stentavo a credere a quelle parole, sebbene avesse ormai conquistato la mia fiducia e quella degli altri.

Avanzò sulla passatoia scarlatta fino a giungermi di fronte: così minuta e fragile da mettermi quasi a disagio nel sovrastarla con la mia ombra imponente. Mi prese la mano libera stringendola nella sua e infondendomi calore.

“Gli interessi personali non dovrebbero essere contemplati negli obiettivi di un Santo di Athena” soggiunse. “Ma io, per prima, ho anteposto i sentimenti alla causa giusta e non vedo perché ciò debba essere precluso a chi annulla se stesso – reprimendo altresì i propri desideri – per devozione.”

“Vi accompagnerò perché il Sommo Sacerdote me l'ha ordinato, e non per ricongiungermi con mio fratello” risposi. “Sappiate che, per quanto possa sentirmi legato a lui, non antepongo l'affetto al mio status. Sono un Santo di Athena ancor prima d'essere un mortale.”

D'un tratto l'aura dorata la pervase irradiando anche il volto addolcito da un timido sorriso. “Ho apprezzato il gesto del Santo di Libra e ho come la sensazione ch'egli, col suo ruolo, in questa vicenda fungerà da ago della bilancia.”

“Da paciere, intendete dire? Senz'altro”, convenni. “Voglio credere abbia agito con consapevolezza e forse, per una volta, non spinto da mire opportunistiche.”

“Non sembrano parole di elogio, le tue.”

“No, milady, non lo sono. Tutto sommato seppure con qualche riserva, nutro sincera ammirazione nei confronti di Misty” dissi calcando l'elmo sul capo.

Avvertii la presenza di un cosmo arcinoto, ma non mi scomposi. Una figura bardata in un'armatura di bronzo era emersa dalle ombre, lo riconobbi dopo, alla luce: il Santo di Pegasus si accostò a braccia conserte accanto a una colonna. Esibiva sempre un contegno sostenuto in presenza della dèa come a voler rimarcare il proprio status di eroe. Seiya, ai miei occhi, rimaneva un bambino cresciuto e tracotante. Sospirai, mesto, perché quasi mi infastidiva interpormi tra lui e Saori.

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


 

 

I prati d'asfodelo, capitolo VII

 

 

XVII

 

Realizzai d'essere in grado di ammirare qualcuno senza provare invidia, e questo avvenne non in virtù dalle sagge osservazioni di Sileno, sebbene le sue parole avessero facoltà di aprirmi gli occhi ed erano illuminanti come uno spiraglio di luce nelle tenebre.

Mi ero lasciato l'audace creatura indietro, avventurandomi nella quiete che avevo contemplato dalla stanza riservatami in quella residenza; aggirando le genti che popolavano il luogo, compresa la servitù e lo stuolo di guardie alle quali avevo riservato un'occhiata con cui mi ero premurato di ribadire il mio status privilegiato. Ruolo privilegiato? Forse, a loro avviso, ma non ne ero ancora del tutto convinto.

Il dio del Sole si crogiolava nella tranquillità di quei boschi e sapevo amasse circondarsi di bellezza. In un primo momento lo avevo odiato per poi riscoprirmi devoto, e affascinato da tanto splendore, non aveva niente a che vedere con l'incarnazione di Athena. Apollo simboleggiava la forza e la grazia al tempo stesso... Era blasfemo il solo pensarlo, ma non negavo l'evidenza nascondendomi dietro la facciata dell'ipocrisia. Rifuggivo la falsità e in questo mi distinguevo con orgoglio da mio fratello.

Febo era un arciere e un atleta straordinario, sembrava dare sfoggio di abilità solo per compiacermi e bearsi del mio sguardo estasiato. Ci eravamo confrontati in una prova di tiro con l'arco, dopodiché ci fermammo a riposare ai piedi di un albero secolare, nei pressi di un rigagnolo d'acqua limpida.

Disteso sull'erba, e incurante di una radice che mi pungolava la schiena, continuai a guardarlo con la coda dell'occhio. Apollo sedeva accanto a me e ricambiai il suo sorriso. Ne stavo conquistando la fiducia pur essendo semplicemente me stesso? Sembrava strano e doveva essere senz'altro a causa del mio aspetto...

“Alzati.” Col volto incupito dall'ombra delle nuvole - che aveva mitigato il calore del sole - mi indusse a smetterla di rimuginare.

Mi sollevai, non avevo avuto l'accortezza di stendermi sul mantello e gli indumenti si erano appiccicati addosso. L'umidità del terreno si era infiltrata attraverso il tessuto. Erano inezie a cui solitamente badavo, per eccesso di zelo sostenevano alcuni. Sedetti accanto a lui e mi cinse un braccio intorno alle spalle facendo aderire il mio corpo al suo. Quel mostrarsi così confidente quasi mi indisponeva.

“L'idillio non si protrarrà a lungo” disse, ponendomi un fiore rosso sangue tra i capelli.

Rammentai all'improvviso ciò che aveva affermato in merito alla sorte. Il destino è svincolato dalla volontà degli dèi, Apollo stesso aveva sperimentato quanto fosse inclemente nel momento in cui gli aveva strappato dalle braccia il suo giovane amato: Giacinto. Mi riscossi dai pensieri nell'attimo in cui percepii quel profumo... ma fu una reminiscenza che scacciai dalla mente con tutte le mie forze. Mi scostai da lui, tremante, ravviando un ciuffo ribelle di frangia che si era insinuato in mezzo agli occhi.

“Hai parlato di fedeltà ad Athena” proferì il dio in tono stentoreo, e aumentò il distacco dalla mia persona alzandosi in piedi. “Ma le semplici promesse necessitano di essere avallate dai fatti.”

“Pensate che le mie siano solo parole vuote?” domandai, ergendomi sulle gambe malferme, intento a raggiungere l'entità suprema per ottenere la sua attenzione. “Avevate detto di reputarmi sincero. Vi state rimangiando tutto?” Strinsi i pugni.

Febo si fermò - girandosi - quindi mi rivolse di nuovo la parola: “No.” I suoi occhi vitrei mi trafissero come spuntoni acuminati, provai una sorta di dolore fisico e in risposta abbassai lo sguardo.

“E, con i fatti, intendo: la dimostrazione che la tua non è stata una defezione volontaria. Io conosco la verità ma, ti avverto, potrei anche negarla in presenza di Athena, e la responsabilità ricadrebbe in pieno su di te. Non si farebbero remore a infierire nemmeno dinanzi al tuo volto angelico" esortò con autorevolezza.

“Conosco le regole del Santuario, sono molto rigide” confermai nel tentativo di dissimulare l'angoscia alimentata da quell'affermazione subdola. Afferrai una ciocca di capelli rigirandola tra le dita, espirando lentamente l'aria che avevo dapprima trattenuto a fatica nei polmoni, e scorsi con orrore una riga di sporco sotto un'unghia.

“Sai cosa potrebbe accadere?” Febo sospirò inarcando un sopracciglio, questa volta con un'espressione che avrei definito intelligibile. “Ti infliggerebbero un castigo peggiore della morte.”

Mi parve di cogliere un vago e sinistro compiacimento in quelle parole. “Peggiore della morte!?” replicai stringendomi nelle spalle.
Non è possibile, loro sono i buoni.

“Sì. E, tu, cosa definiresti più terribile della morte?”

Ci pensai su e dopo un po' risposi: “L'umiliazione...”

Febo mi sfiorò la fronte. Non riuscivo più a tenere gli occhi aperti e abbassai le palpebre sopraffatto dal torpore; mi si ottenebrò la mente e al risveglio provai la sensazione di annaspare in un mare di densa foschia che si diradò poco a poco.

 

Scorsi con nitidezza le caratteristiche di un luogo non dissimile a un'aula di tribunale. Ma quando mi riscossi dall'ottundimento riconobbi la Sala delle Udienze del Tredicesimo Tempio: vi stanziavo sotto gli occhi di tutti e affiancato da un paio di guardie. Vidi Athena e il Sommo – che in quell'occasione indossava la maschera blu cobalto insieme ai soliti paramenti . C'erano i Santi, ma anche subalterni, gli inservienti, e le genti del Santuario... Non ricordavo la sala fosse tanto grande da contenere una folla così imponente stipata tra le colonne e a ridosso delle pareti.

Che vantaggio pensi ti avrebbe portato disertare il Grande Tempio, e schierarti col nemico?” tuonò il Sommo Sacerdote. Accuse taglienti come il gelo che si stava insinuando nelle ossa.

Non replicai, non avevo scusanti, e anche se ne avessi avute non mi avrebbero creduto. Guardai i miei interlocutori: Athena non si pronunciò ma il suo bel viso era sfigurato da una smorfia di disapprovazione congiunta a dolore ed ebbi l'impressione di veder luccicare una lacrima tra le sue ciglia; ero certo che, nonostante tutto, mi amasse ancora allo stesso modo in cui amava gli altri Santi. Ma avevano stabilito che avessi tradito la sua fiducia e sul mio capo pendevano gravi accuse impossibili da confutare. Nemmeno mio fratello si era trattenuto dal contenere l'indignazione e mi aveva schiaffeggiato prima di consegnarmi alle guardie. No. Aphrodite non poteva avermi fatto questo, mi ero detto, ma poi rammentai che, sì, lui era così integerrimo da non cedere ad alcun tipo di favoritismo. Osservavo i volti trasfigurati dal ghigno contorto del disprezzo e della riprovazione; e quelli imperturbabili di coloro che mi erano stati amici e, ora, giustamente, mi voltavano le spalle. Nessuna traccia di compassione... solo risentimento e, forse, brama di vendetta.

Athena impugnò lo scettro aureo di Nike, elevandolo, per poi inclinarlo verso di me. D'un tratto ne avvertii il cosmo, non un'aura amorevole ma una scarica di furente energia che mi fece vacillare privandomi con dolore dalle Sacre Vestigia. Le figure intorno a me divennero sfocate, doveva essere a causa delle lacrime salitemi agli occhi che si riversarono incontenibili lungo il viso al primo battito di ciglia. Incapace di pensare, chinai il capo nel vano tentativo di celare la mia condizione, mi sentivo come se fossi stato denudato sebbene indossassi ancora le vesti ordinarie.

Una spinta mi fece rovinare ai piedi dei due scranni dorati, provai a rialzarmi ma fui costretto, con una picca puntata al costato, a permanere in ginocchio. In quel momento udii la voce del Sommo vibrare attraverso la maschera. La solita calma imperturbabile, irritante.

La morte sarebbe troppa grazia per chi si macchia di nefandezze quali il tradimento, ma soprattutto troppa indulgenza per chi, come te, si fregia di vanagloria ed è traviato dal peccato di superbia; da uno smisurato e inguaribile orgoglio" ammonì. “Non abbiamo concordato la pena capitale per i tuoi reati ma, in alternativa, languirai nel profondo di una segreta senza mai più vedere la luce del sole e delle stelle.”

 

Uno schiocco di dita mi destò dall'incubo, dalla visione, che racchiudeva in sé un barlume di vivido e terrificante realismo. Stavo tremando e aver riaperto gli occhi su quell'angolo pacifico di mondo non fu sufficiente a rassicurarmi.
In realtà non ci sono buoni o cattivi ma solo servi e padroni; comuni mortali al servizio degli dèi. Siamo predestinati, pedine, schiavi...
Affondai le unghie nel palmo della mano con risentimento.

“Credi che tutto questo sia ingiusto?” Mi interrogò, prendendomi il volto sudato tra le mani.

“No” constatai razionale, reprimendo l'impeto di collera e disillusione che mi aveva colto. “Avrebbero tutte le ragioni per accanirsi contro un traditore... ma credo che potrei morire dalla vergogna.” Gli confidai, nonostante il tremito delle labbra m'impedisse di esprimermi al meglio.

“Athena è pur sempre una dèa e non è possibile disattendere agli oneri che la fedeltà nei suoi confronti impone. Quello che hai visto potrebbe verificarsi se non riuscirai a chiarire la tua posizione.” Avvicinò le labbra alla mia fronte lambendola con un bacio, come farebbe un padre per consolare il proprio figlio. “Ti troverai nelle condizioni di dover provare la tua devozione.”

Ebbi l'istinto di sottrarmi alle lusinghe e indietreggiai, atterrito: “Ma io non volevo abbandonare il Santuario, non l'ho fatto di mia sponte!”

“E, davvero, pensi darebbero credito alla versione di un Santo che reputano debole e vanesio? Alle sole parole?” Mi sollevò il mento con la punta di un dito e poi lo ritrasse. “Che rilevanza possono avere le affermazioni di un mortale, se nemmeno gli dèi possono contrastare i disegni del fato. Tuttavia a dispetto dell'opinione fallace che si sono fatti al Santuario, io ti considero nobile, Santo di Libra, e possiedi il senso dell'onore.”

Abbassai gli occhi e poi rialzai la testa ritrovandomi solo. Febo si era dileguato inoltrandosi nel dedalo della foresta, avevo udito il fruscio delle fronde accompagnare i passi che calpestavano rami e foglie di quercia sparsi a terra. Forse voleva esortarmi a riflettere ma ero scosso e avevo la mente obnubilata, impossibilitato a ripercorrere con la logica gli avvenimenti e, tanto meno, a cogliere appieno il senso della sua ultima affermazione la quale mi inorgogliva. Lui sembrava giudicarmi in tutt'altro modo rispetto agli altri.

Inalai l'odore di muschio trasportato dalla brezza che s'infiltrava tra i capelli e scrutai l'orizzonte, distratto dal gorgoglio delle acque. Mossi alcuni passi e, dopo aver raggiunto il ruscello, mi chinai per raccogliere un poco d'acqua nel cavo delle mani, la lasciai fluire tra le dita e bagnai il viso per schiarirmi le idee. Il fiore appuntato tra i capelli cadde nel rigagnolo e fu trascinato via dalla corrente.

Mi auguravo che gli elogi di mio padre fossero dettati dalla sincerità, ma sapevo di non dover cedere all'adulazione perché le blandizie avrebbero potuto celare un qualche inganno finalizzato a farmi finire stritolato tra le spire del serpente. Eppure volevo confidare nella sua lealtà, lo desideravo con tutto il cuore... serviva a rafforzare la mia autostima benché, spesso, dessi a vedere il contrario. Morsi il labbro inferiore fino a farne sgorgare il sangue che colò da un lato.

... Ero stato un bambino la cui unica aspirazione era quella di correre spensierato per i campi di lavanda.

Adesso, invece, anelavo considerazione e notorietà universale ma nelle mani ritrovavo solo i cocci dei miei sogni infranti. Il mio bell'aspetto era una maschera, a detta di alcuni, dietro la quale celavo inconsistenza. Un fallimento.

 

***

 

XVIII

 

“Non amo essere estromesso quando si tratta di intraprendere una missione importante” esordì Seiya ignorando la mia presenza apertamente. Quella sicumera mi strappò un sorriso compassionevole, il suo atteggiamento era sempre così puerile, a dispetto dei trascorsi che l'avevano portato a essere ciò che in realtà era.

“Ho già deciso chi dovrà accompagnarmi, Santo di Pegasus.” La fanciulla si voltò nell'atto esplicito di riguadagnare il seggio e, senz'altro, il gesto era premeditato ad hoc per ribadire la propria autorità davanti a quel presuntuoso.

“Il tuo fratellino ha combinato proprio un bel pasticcio ma... già sapevo che non avrebbe concluso niente di buono neanche in veste di Santo di Libra” replicò il Santo di Bronzo. La sua risposta accrebbe la mia insofferenza ma, d'altro canto, ne comprendevo la perplessità e la preoccupazione.

“Possiamo fare a meno delle tue polemiche.” Lo guardai dritto negli occhi. “Tu avresti qualche suggerimento per risolvere questo pasticcio?”

Seiya soppesò il proprio elmo nelle mani e rimase in silenzio. Supponevo che nemmeno lui avesse la verità in tasca né sapesse come affrontare il problema se non, come sua abitudine, avvalendosi della forza. Ma la forza e l'impulsività che lo contraddistinguevano non sarebbero servite, anzi, avevo sentore – conoscendo mio padre – che sarebbero state controproducenti.

“Il Santo di Libra ha agito in modo corretto se, come crediamo, è stato costretto a scegliere di assecondare il dio.”

“Conoscendo il soggetto, penso di no. Non credo che Misty sia capace di compiere un gesto di disinteressato altruismo. Secondo me non gli importa nulla di Athena e del Santuario ma ha ceduto alle false promesse di vostro padre e, naturalmente, ambisce privilegi che qui non potrà mai ottenere” insinuò Seiya grattandosi il capo.

“Può darsi” affermai. “Ma dovremo accertarlo e, in tal caso, prendere provvedimenti. Non è così, milady?” Mi girai verso la dèa facendo volteggiare il mantello. L'espressione inebetita di Seiya mi divertiva un sacco, certo, non si aspettava una simile replica da parte mia, era più probabile pensasse che avrei difeso Misty a spada tratta.

“Sì, esattamente. È come dici tu, Pisces” confermò la fanciulla dopo essersi seduta sullo scranno e un bagliore percorse lo scettro di Nike riflettendosi sul volto pallido.

Seiya ricollocò l'elmo sulla zazzera scarmigliata: “Non condivido la vostra decisione, milady. Non riesco a concepire una missione che non mi veda al vostro fianco.”

“Lo so, Pegasus, ma cerca di capire. Questa, in realtà, è una semplice delegazione in cui non si prevedono risvolti bellicosi” sospirò Saori.

“Così sembrerebbe ma il nemico è astuto. Io non mi fido.”

“Per una volta devi fidarti.” Lo redarguì, perentoria.

Rivedevo la dèa imporsi e non la donna, sebbene non si trattasse di due entità distinte. Seiya di Pegasus fu costretto a cedere ma sottolineò la propria lealtà con una vigorosa stretta di mano che mi sorprese e, finalmente, si congedò lasciandomi solo con Athena. Per una volta la sua testardaggine non prevalse, e tuttavia provai tenerezza per quel sentimento innegabile emerso nel contendere con la dèa: così tenero e romantico, una blanda reminiscenza dell'amor cortese.

La dèa mi raggiunse sulla passatoia scarlatta, si soffermò al centro dell'aula e colpì, dolcemente, con l'estremità dello scettro, il pavimento. La superficie di marmo ondeggiò generando cerchi concentrici, passando allo stato liquido. Athena mi tese la mano e io la presi nella mia, quindi allungò un passo per calpestare lo specchio d'acqua...

 

 

 

Avevamo oltrepassato il varco dimensionale e, giunti nel cuore della residenza di Apollo a Delfi, ritrovai un ambiente familiare. Un dolce arpeggio echeggiava nella volta, ricavata dal legno di cedro, del Tempio ma la melodia s'interruppe nel momento in cui i presenti appurarono la nostra presenza. E fu come se la malia, che permeava quel luogo, si spezzasse alla stregua del risveglio nel bel mezzo di un sogno.

Athena si spinse verso il centro della sala - lo scettro in pugno - ma con l'atteggiamento dimesso e appropriato a un intruso consapevole di essere fuori posto. Era avvolta da una blanda aura di cosmo accentuata dal lucore che s'infiltrava tra le colonne del peristilio. La situazione mi metteva a disagio, ero guardingo. Non mi soffermai a contemplare la magnificenza del luogo come avevo fatto in passato e la mia attenzione fu catturata dal quadretto che si stagliava innanzi a noi.

Misty occupava il posto d'onore accanto al dio: col busto inclinato, il gomito puntellato sul bracciolo del seggio e la testa appoggiata sulla mano; una gamba dondolava accavallata sull'altra. Aveva la fronte cinta di lauro ed era vestito con una semplice tunica corta e pantaloni bianchi, simili all'uniforme abituale indossata al Santuario; i capelli sparsi, sciolti fino alla vita, incorniciavano l'incarnato di ragazzo efebico dagli occhi di cielo. Si raddrizzò, ricomponendosi, e assunse quello che per lui doveva essere un contegno autorevole ma in realtà era solo il piglio di un adolescente arrogante. Sondai in quegli occhi vitrei ma erano come specchi in cui rimbalzava l'immagine riflessa. Freddi e impenetrabili.

È passato dall'altra parte, la convivenza con Febo lo ha irretito definitivamente, avrei dovuto aspettarmelo.

Presi un respiro, quasi temendo che qualcuno potesse captare quei pensieri nel silenzio di tomba calato al momento della nostra comparsa, e che si protrasse per un tempo indefinito. Rivolsi ancora l'attenzione a mio fratello: rifulgeva offuscando il candore delle statue e delle colonne di marmo. Pagliuzze d'oro si riflettevano sulla criniera fulva, corrugò le sopracciglia e abbassò lo sguardo sulle mani quasi strette a pugno. Poi, come volesse stemperare la tensione, afferrò il calice deposto sulla mensola accanto a sé e ingollò quello che pensai fosse del vino dopo aver scorto l'alone purpureo che gli aveva dipinto le labbra. Non sembrava felice di vederci. Quell'atteggiamento mi aveva persuaso che fosse stato vittima di plagio o, forse, nella più favorevole delle ipotesi, manteneva un distacco emotivo al solo fine di assecondare il dio, e sapevo si fosse adoperato di compiacerlo sin dall'inizio. Non avrei potuto biasimarlo per questo.

“Giungete in questo luogo sacro senza preavviso, ciononostante non ignoro il motivo della vostra visita.” Febo prese la parola, deponendo la cetra che tratteneva in mano, e dopo indugiò soppesando con lo sguardo la mia persona.

“Presumo Athena voglia reclamare ciò che le spetta ma, parimenti, immagino lei sappia che i suoi Santi hanno facoltà di avvalersi del libero arbitrio. Dunque...” Allungò una mano verso mio fratello e gli lambì una guancia pallida col dorso delle dita. Misty fece come per annuire, in silenzio, sebbene non capissi a cosa stesse annuendo.

“Divino Apollo, non reclamo ciò che voi asserite mi spetti - come un capriccio - ma lo faccio perché il Santo di Libra è deputato all'onere di porsi a custodia del Settimo Tempio e non può svolgere il suo compito stando seduto al vostro fianco.”

Se ci fosse stato il ronzino alato avrebbe dovuto tenere a bada i bollenti spiriti per non mandare tutto all'aria. Conoscevo Febo ed ero certo avrebbe apprezzato i modi di milady. La fanciulla si mostrò infatti determinata, ma nel contempo abile nell'uso della diplomazia.

Il dio abbandonò lo scranno e ci venne incontro fermandosi a breve distanza, sembrava snobbare la sua controparte divina e, nonostante il nostro legame, provai un moto di avversione in risposta a tanta impudenza.

“Preferivo invitarti di persona anziché incontrarti in una situazione spiacevole come questa” affermò facendomi trasecolare.

“In verità ho guardato nello specchio invano.” Lo puntai fisso negli occhi mentre, sullo sfondo, Misty si mosse per porre le mani sui braccioli del seggio e li afferrò facendo sbiancare le nocche.

Febo non replicò alla mia provocazione ma accennò un sorriso, la sua pacatezza era disarmante e m'inquietava; portai una mano alla gola ma non potevo rimuovere la gorgiera dall'armatura d'oro.

Athena sembrò riscuotersi, dopo aver osservato la scena in silenzio, e si accigliò: “Santo di Libra, ti facilito il compito ordinandoti di fare ritorno al Santuario.”

Misty sgranò gli occhi. La dèa lo stava esentando da ogni responsabilità esponendosi a una possibile ritorsione da parte di Febo? In altre circostanze avrei definito un passo falso la decisione, probabilmente da lei ponderata e pianificata. D'altronde non poteva permettersi scelte avventate, ma questa opzione mi spaventava. Era una svolta imprevista e pericolosa.

“Non è detto che lui voglia ritornare” sibilò una voce melodiosa quanto subdola. Tra le colonne sbucò il muso caprino di uno dei satiri che stava allietando la corte del dio scuotendo cimbali ritorti, e doveva trattarsi proprio della creatura di cui aveva parlato Algol di Perseus. L'essere che con le lusinghe aveva traviato mio fratello. Serrai il pugno, la rabbia mi salì in corpo e gli avrei piantato una rosa bianca nel cuore se solo avessi potuto reagire.

“Allora commetterebbe reato d'insubordinazione con tutte le conseguenze che esso comporta. E sarebbe riportato indietro, ugualmente, e con la forza” replicò Athena, costernata. Vidi mio fratello impallidire e io dovevo essere sbiancato parimenti perché non mi aspettavo una simile conclusione. La dèa della Giustizia stabilì quale sarebbe stata la sentenza; Misty non poteva tirarsi indietro e doveva seguirci al Santuario con tutti i rischi che il suo gesto implicava. Se Apollo si fosse impuntato la posta in gioco poteva essere la Terra stessa. Ne ero consapevole e la dèa doveva aver concluso fosse un pericolo che valeva la pena di correre per ristabilire la propria autorevolezza dinanzi a un suo pari. Una decisione che sottintendeva l'amor proprio di milady, rievocando gli spettri del passato, e mi sconvolgeva. Era quello il vero volto di Athena? Un volto all'apparenza spietato ma in verità equo, perché chi è posto ai vertici ha il diritto e il dovere di prendere una posizione che sia chiara e determinante, altresì amministrare la Giustizia per quanto scomoda.

Apollo scostò il mantello da parte, si voltò, e guadagnò nuovamente il posto eminente sullo scranno. Accarezzò la lunga chioma di mio fratello avvolgendo un ricciolo dorato tra le dita, l'accostò alle narici per poi rilasciarlo. Dopodiché si raddrizzò ed esordì: “Athena è debole e l'insana predilezione per i mortali non fa che rafforzarne la debolezza.” Scoccò uno sguardo – che pareva d'intesa – a Misty e, a quel punto, temetti di avere le traveggole. Che i due fossero davvero in combutta!?

“Qual è la tua scelta?” Gli domandò.

Misty si alzò in piedi senza parlare e, come se stesse recitando una parte, scese le scale di pietra che innalzavano lo scranno dal pavimento. Si avvicinò con lentezza a noi ma il suo volto – che ravvisai delicato e puro – non tradiva alcuna emozione. Guardò Athena con occhi vacui e inespressivi, sbatté le ciglia, poi ci diede le spalle; allargò le braccia nell'atto di farci da scudo e indietreggiò di un passo guardando in direzione di nostro padre.

Fu in quel momento che il dio dichiarò: “Hai scelto, dunque. Ora mostra la tua devozione ad Athena perché anche qui vigono delle regole e non si abbandona il regno senza il mio consenso.” Parole subdole come l'essere che le aveva pronunciate. “Se riuscirai a proteggerli, la Terra sarà salva allo stesso modo. Oppure perirete insieme.”

 

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


 

 

I prati d'asfodelo, capitolo VIII

 

 

XIX

 

Un turbine sfolgorante, simile al vorticare delle fiamme, invase il mio campo visivo e sbattei le palpebre per alleviare il fastidio agli occhi. Mi trovai bardato nell'armatura dopo averla richiamata.

“Abbassate la guardia, e non vi accadrà nulla” esordii determinato.

“Cosa significa, Santo di Libra?” Athena inarcò le sopracciglia, con mano salda impugnava lo scettro. Doveva avermi sottovalutato fino a quel momento, senza volerlo mai ammettere, o forse ero io a essere estremamente sospettoso.

“Dovete stare sulla difensiva.” Il tono di cui mi ero avvalso ebbe un effetto persuasivo su entrambi. Aphrodite non espanse il cosmo e Athena abbassò l'emblema della propria autorità facendo scorrere l'asta nel palmo della mano, fino a far coincidere l'estremità inferiore con la superficie del pavimento. La guardai: la commessura labiale formava una linea sottile, la mandibola era serrata e i muscoli contratti. Avvertivo il suo stato d'animo, la frustrazione e l'impotenza di chi potrebbe agire ma desiste al fine di adempire a una sorta di codice d'onore.

Il destino è davvero beffardo... e se mi fossi schierato con Apollo? No, non avrei potuto farlo. Lo sapevamo entrambi: io e il nume. Io e Aphrodite siamo Santi votati ad Athena e nemmeno gli dèi possono sfidare la sorte malgrado il loro potere.

La Parthenos era giunta avanzando pretese in un momento inopportuno, di conseguenza la reazione del dio del Sole era comprensibile e tuttavia fin troppo pacata, equilibrata più di quanto mi aspettassi, e percepivo un'amorevole indulgenza nei miei confronti. Ma ancora non capivo, l'intento di Febo mi era alquanto oscuro.

Parve intercorrere un lasso di tempo lunghissimo tra le mie riflessioni e il frangente in cui evocai la barriera – frapponendola tra noi e Apollo – ma in realtà era trascorso relativamente in fretta, nello stesso modo in cui una manciata di granelli di sabbia scorre attraverso le ampolle della clessidra. Persistevo in silenzio, concentrato, ma percepivo la sua energia aumentare, trascendere i limiti dell'impossibile come un boato assordante che infrange il muro del suono intensificandosi di ottava in ottava. Non immaginavo di possedere così tanto coraggio essendo da sempre preoccupato di preservare la mia incolumità. Dalla tragica esperienza vissuta nella vita precedente avevo imparato una lezione fondamentale: mai sottovalutare l'avversario.

Una forza sovrumana squassava il Tempio dalle fondamenta. Non vedevo il dio ma avvertivo la potenza delle onde di luce collidere e rimbalzare contro lo scudo d'aria e per un po' riuscii a stornare la sua offensiva. Diedi fondo a tutto il vigore che avevo in corpo: il turbine di vento spazzò in lungo e in largo la sala, ribaltò i bracieri, squarciò i drappi, infine svelse le colonne di marmo il cui basamento si sbriciolò con l'effetto di spezzare l'architrave facendo sprofondare la struttura soprastante che scomparve inghiottita dalle voragini aperte nel terreno. Piovevano detriti, frammenti d'intonaco, si alzarono cumuli di polvere e mi parve di non discernere più nulla nella caligine ma si trattò di un breve istante. Esortai la dèa a farsi da parte e vidi Aphrodite cingerle la vita con un braccio, per trattenerla sul lembo di superficie ancora intatto del suolo sacro che vedeva me e Apollo contendere. Confidavo nella mia forza sebbene conoscessi l'immenso potere di mio padre, rendendomi finalmente conto di come Athena avesse scherzato col fuoco istigando uno degli Olimpi più potenti, se non il più possente in assoluto. D'un tratto mi sovvenne l'immagine della ragazzina petulante che mi aveva sottratto all'oblio della morte per servirla; vidi le vesti immacolate, il luccichio dell'oro e delle gemme sopperire a una figura insignificante... il virtuosismo di orpelli che colma la vacuità della sostanza...

La barriera d'argento sfavillò, vibrò, e infine s'incrinò... avevo profuso tutte le energie e realizzai come l'impresa avesse travalicato i miei limiti. Vacillai e arretrai di un passo, non potevo prevedere come sarebbe finita, sudavo freddo e mi piegai su un ginocchio nel preciso istante in cui il muro d'aria sembrò sgretolarsi infrangendosi in minuscoli cristalli, infinite particelle, quasi fosse fatto di vetro.

No! Non può essere.

Il Santo di Pisces si era interposto tra me e Febo - lo notai attraverso uno spiraglio tra le palpebre semichiuse - nonostante gli avessi intimato di starsene in disparte. Realizzai che in quell'attimo fosse stato lui ad averci fatto da scudo col proprio cosmo... Confidavo nel suo buon senso, credevo si fosse ripromesso di non interferire; non avrebbe mai dovuto farlo allo scopo di salvaguardare il mio onore e, invece, mi stava infliggendo l'ennesima umiliazione!
Collera. Scarti di pensiero.
Udii lo sferragliare metallico dell'armatura: Aphrodite era crollato privo di sensi al suolo strabuzzando gli occhi, ma l'elmo doveva aver attutito l'impatto proteggendogli il capo. Con un ultimo sforzo mi accostai a lui prendendolo tra le braccia, sebbene l'armatura limitasse i movimenti.
Rivolsi una labile occhiata al dio del Sole appurando come anch'egli avesse desistito a sua volta: era fiero, compassato, la chioma baluginava simile alle fiamme ormai spente che dapprima erano arse nei bracieri, e il manto candido volteggiava gonfiandosi dietro le spalle. Tronfio, come un'arpia che drizza a ventaglio la corona di penne sul capo, Febo avrebbe avuto la meglio in ogni caso perché...

Non si può vincere un dio.”

Il monito echeggiò nella mente, egli anticipò i miei pensieri mentre sfilavo l'elmo dalla testa che Aphrodite reclinò incosciente contro il pettorale intarsiato della corazza. Era successo tutto così in fretta, troppo in fretta per riuscire a crederlo.

Scostai i capelli dal volto terreo: mio fratello mi fissava con una vacuità inespressiva, lo scrollai con cautela nella speranza che reagisse ma, rassegnato, risolsi di coprire gli occhi sbarrati con una mano e, dopo, con le dita mi premurai di chiudergli le palpebre. Un fiotto di sangue scuro fluì dall'angolo della bocca come un guizzo d'inchiostro su un foglio bianco. Il suo cuore non aveva retto. Ero esterrefatto, sconvolto, affranto, percepivo le sclere asciutte riscoprendomi incapace di esternare i miei sentimenti con le lacrime.

“Avevamo disquisito a proposito del prezzo della gloria ma, quest'oggi, hai avuto la dimostrazione di quanto essa possa rivelarsi un concetto astratto” sentenziò Apollo, enigmatico. “Ho deciso che siete liberi di tornare al Santuario e, per ripagare il coraggio di entrambi, la mia ira non si abbatterà sui mortali.”

“Ma...” balbettai.

La gloria... certo, avevo bramato la gloria in tempi non remoti. Il coraggio? A quale coraggio alludeva? Sì, forse avevo mostrato più ardimento del solito, ma con la consapevolezza di aver fatto una cosa ovvia, tra le più scontate, ovvero proteggere la mia dèa, e mi sarei sacrificato non tanto per appagare l'ego quanto per sincera fedeltà nei miei ideali.

Le mani di Saori mi lambirono a coppa il volto e mi destai dallo sbigottimento, si era chinata, forse nell'intento di condividere il mio dolore composto e silente. Lei non disse nulla e io non levai lo sguardo per incontrare il suo, avevo voglia di ritrarmi, non la guardavo per non mortificarla.

“Avevo sognato che almeno uno dei miei figli ti voltasse le spalle, invece il senso del dovere è in loro così profondo e radicato...” Febo si era rivolto ad Athena e una nota di disprezzo e rancore risuonò in quelle parole. “Lo spirito di abnegazione che li contraddistingue non si è rivelato inferiore a quello millantato dai tuoi protetti” concluse, laconico.

 

 

Avevamo fatto ritorno al Santuario recando un doloroso fardello sulle spalle, quantunque agli occhi attoniti dei miei pari e delle altre Caste di guerrieri sembrasse scivolarmi tutto addosso e, forse, non si sbagliavano. Ne avevo percepito sulla pelle gli sguardi inquisitori, era naturale mi ritenessero responsabile dell'accaduto e quasi riuscivo a empatizzare con loro odiando me stesso. Eppure la morte di un Santo poteva essere l'ordinario scotto da pagare in una simile impresa. Le Sacre Vestigia di Pisces sarebbero state assegnate a un nuovo aspirante possessore. Niente di nuovo o di strano, era la norma. Per una volta la mia presunta insensibilità mi faceva orrore, e presagivo che presto o tardi quel muro fragile d'indifferenza mi sarebbe rovinato addosso...

Mi ritirai nella Settima Casa al fine di preparami psicologicamente per l'ultimo compito che dovevo svolgere al termine della giornata, il tempo necessario a liberarmi dell'armatura e bere un sorso d'acqua. Sbirciai nei frammenti dello specchio che Aphrodite aveva infranto con un pugno – da quella volta non mi ero più preoccupato di sostituirlo con uno nuovo – l'uniforme era spiegazzata e sporca, sebbene rimuovendo la corazza mi fossi scoperto del tutto indenne. Sbattei le ciglia, come infastidito da un corpo estraneo che raschiava le cornee, trattenendomi però dallo stropicciare gli occhi arrossati.

Al calar del sole mi apprestai a lasciare il Tempio per dirigermi ai livelli superiori. Procedetti con lento incedere seguendo il cammino illuminato dalla disposizione dei bracieri e, guardando oltre il confine delimitato dal lato esterno delle scale, mi parve di barcollare suggestionato dall'altezza vertiginosa delle rocce a picco su cui si snodava il sentiero. Intravidi uno scorcio sul mare Egeo, placido alla stregua di uno specchio che, in breve, avrebbe riflesso il manto nero della notte ma non la luce pacata delle stelle. Levai gli occhi al cielo nel quale si rincorrevano dense nubi.

Udii lo squittio di una civetta e varcai con ritrosia l'ingresso del Dodicesimo Tempio presidiato dalle guardie, per poi introdurmi in una delle sale più appartate. Le ancelle si dileguarono in mia presenza. L'ultima volta che avevo messo piede nella Casa di Pisces era stata un giorno in cui ero soltanto di passaggio...

Pochi passi mi separavano dalla figura giacente sul letto funebre, mi ci approssimai con deferenza. Era un addio definitivo perché non ci sarebbe stata un'altra occasione di rinascita, ne ero più che convinto e avvertii un profondo senso di solitudine. Mi presi il volto tra le mani per poi ravviare la massa dei capelli all'indietro, ma ricaddero di nuovo, ribelli, sugli occhi. Umettai le labbra asciutte con la punta della lingua.
Credo di odiarti, Aphrodite, perché in realtà vorrei essere al tuo posto.

Lui era lì, a capo scoperto: i tratti come cesellati nel marmo, di una perfezione tale da rasentare l'inespressività; il colorito livido dell'incarnato riprendeva la sfumatura bluastra dei capelli, sottolineata dal riverbero della corazza nella stanza semibuia e lugubre. Accostai le dita al volto che finalmente ebbi il coraggio di percorrere con una carezza, gli lambii una guancia, le ciglia folte, fino a ritrarre la mano dopo aver tastato senza volerlo la sporgenza ossea dell'orbita. In cuor mio rifuggivo, inorridendo, il pensiero della morte, ancorché fossi conscio che un Santo non poteva avvizzire alla stregua di un fiore reciso...
La vita dei Santi è effimera come la fiamma di una candela che si spegne con un soffio di vento, ma perlomeno i nostri corpi sono incorruttibili e non soggiacciono all'ingiuria del Tempo.

Aphrodite era ancora bardato nelle Sacre Vestigia e bisognava rimuoverle, dovevo farmi forza perché mi ero accollato – e mi era stato concesso – l'onere di prendermi cura delle sue spoglie in quanto parente più prossimo. In un canto vidi riposte le vesti e i monili che avrebbe dovuto indossare, li soppesai incuriosito: erano di ottima fattura ma lui era così nobile e bello, al pari di un simulacro divino, avrebbe brillato anche avvolto in un semplice sudario. Trattenni il fiato per poi emettere un lungo sospiro e apprestarmi a rimuovere le manopole, distendendogli le dita chiuse sul palmo: erano serrate come artigli ricurvi, graffiate dagli aculei delle rose, con le unghie spezzate e sporche. Poi sfilai i bracciali dopo averne allentato le fibbie. Mi vidi costretto ad approcciarmi in modo brusco strattonando il corpo inerte, pesante come piombo, che in quel particolare frangente ebbi il timore di spezzare. L'operazione sembrò richiedere uno sforzo non comune, come se i singoli elementi dell'armatura non volessero staccarsi dal possessore opponendo una strenua resistenza. Insolito, mi dissi tra un'imprecazione e l'altra, passandomi il dorso della mano sulla fronte grondante sudore.

Ripresi ad armeggiare con gli altri elementi che componevano le Sacre Vestigia: sganciai gli spallacci dal pettorale dell'armatura, i cosciali e gli schinieri, per riporli singolarmente e comporre il totem. Il Santo di Aries avrebbe poi provveduto a riparare l'armatura.

Rimanevano gli indumenti sottostanti: la tunica corta senza maniche andava sfilata dalla testa, non disponeva di intagli laterali che mi facilitassero il compito, ma risolsi di allargare la scollatura e finii per strapparla sul petto, scoprendo il torace tumefatto che recava i macabri postumi dell'impatto con la corazza ammaccata e divelta. Realizzai quello non fosse un trattamento rispettoso nei confronti del mio maestro, ma ero consapevole di non aver ancora metabolizzato il dolore. In verità ero arrabbiato per la sua dipartita. Se solo Saori avesse temporeggiato ancora un po'... ma gli dèi sono lungi dal concepire sentimenti paragonabili a quelli umani e, con ingenuità, mi ero illuso fossero a dir poco in grado di comprenderli...

Affondai le dita nei capelli morbidi, li scostai dalla fronte per posargli un bacio con una sorta di rammarico: rare volte avevo manifestato affetto nei confronti di qualcuno, mi sovvenne il dubbio di non essere mai stato in grado di amare e di come, al pari, mi sentissi poco amato.
Sembrava sorridere: si era reso fautore di un gesto eroico degno di un Santo di Athena, ed era ciò che io desideravo sopra ogni cosa e letteralmente invidiavo ad altri Santi, miei pari e non. E ora? Lui mi aveva rubato l'occasione e la scena e avrei dovuto odiarlo per questo, eppure ogni emozione era come bandita dal mio essere. Gli sarebbero stati tributati tutti gli onori e io sarei incorso nell'ennesima reprimenda del Sommo Sacerdote: c'erano le guardie ad attendermi fuori dal Tempio e mi avrebbero scortato al Tredicesimo.
Hai la coda di paglia, Misty? No, ero solo consapevole di cosa mi aspettasse ed ero stato avvertito. A causa della legge del contrappasso o della sorte infausta? Mi chiesi, immergendo in un bacile d'acqua un panno con il quale inumidii il volto di Aphrodite, immoto nella sua apparente beatitudine. Indugiai prima di procedere e rimuovere il sangue rappreso dall'angolo della bocca.
Percepii una folata di vento che sibilò nell'ampiezza della sala ma la ignorai e finii per completare la vestizione.

La Dodicesima Casa non mi era mai sembrata così tetra – col suo perimetro regolare e incastonata come un diamante tra le pareti verticali del monte – benché non la ricordassi come un luogo ridente, se non per la presenza dei fiori i quali però aulivano, anch'essi, di un sentore di morte. Tesi le orecchie riconoscendo lo scroscio cristallino della pioggia. Le volte monumentali del Tempio avevano facoltà di amplificare anche i suoni più flebili. Lasciai la mano rigida di mio fratello, che mi ero premurato di stringere nella mia, e mi diressi a sbirciare oltre la soglia della stanza, percorrendo poi il tratto di deambulatorio il quale sbucava sul pronao. Mi attardai qualche minuto ad ascoltare il tintinnio cadenzato della pioggia: si riversava al suolo variando d'intensità, e non ero in grado di distogliere gli occhi dal velo d'argento che alla luce delle torce catturava il mio sguardo. Il cielo piangeva lacrime che non riuscivo a versare.

Poco dopo ritornai sui miei passi per dare ad Aphrodite l'ultimo saluto prima del rito funebre che si sarebbe celebrato il terzo giorno, affinché fosse tumulato e riposasse in pace senza vagare errante ai confini dell'Ade, ma una volta rientrato nella camera ardente percepii una presenza estranea, non ostile o indesiderata. Nell'attimo in cui mi predisposi a difesa scorsi le sembianze sgradevoli del satiro, il quale aveva fatto capolino da dietro la testiera del letto funebre su cui mio fratello giaceva. Lo scrutai, interdetto. Quello scherzo della natura accennò un saluto per poi svolgere una benda e cingerla attorno al volto di Aphrodite annodandogliela sul capo.

“Dimenticavi un particolare importante” spiegò, prima che riuscissi a farfugliare qualcosa.

Già, in effetti, non ricordavo tale accorgimento avesse lo scopo di mantenere serrata la mandibola prima del sopraggiungere del rigor mortis. Aveva ragione ed evitai di replicare, dopotutto non conoscevo le sue reali intenzioni quindi lo esortai, con un silenzio che doveva essere persuasivo, a fare il primo passo e darmi una spiegazione. Mi domandavo cosa volesse Sileno dal momento che il suo padrone ci aveva congedato dal proprio regno in virtù di una tregua, seppur pagata a caro prezzo con una grave perdita.

“Hai affrontato il dio Apollo con estremo coraggio, ma ciò non ti è stato riconosciuto” soggiunse. “Non sono affatto sorpreso.”

Adagiai il braccio, dal lato in cui cingevo una rosa, lungo il fianco. Sperai, in tal modo, di aver messo fine alla conversazione e mi avvicinai a mio fratello ponendogli il fiore tra le mani giunte in grembo. No. Questa volta Sileno non mi avrebbe persuaso fomentando risentimento verso le autorità che presiedevano il Grande Tempio. Silenzio.

“Sei una persona solare sotto la scorza labile con la quale ti fai scudo, proprio come una gemma racchiusa in uno scrigno. Aphrodite, invece, lo ricordo cinico e scostante... eppure hanno dato rilevanza solo al suo nobile gesto e ignorato il tuo altrettanto encomiabile. La stessa Athena non ne ha fatto menzione. Sui piatti della loro bilancia buone e cattive azioni hanno lo stesso peso se provengono da te.”

“Non me ne importa.” Gli risposi con falsa tranquillità, per poi chiedermi cosa mi avesse indotto a non perdere il controllo. Quell'essere era detentore di un curioso potere, di un'intrinseca propensione ad ammaliare, irretire, sedurre... istigare, ma al contempo sembrava del tutto esente da malvagità. Ci avrei scommesso, e di rado l'intuito mi ingannava. Il suo approccio amichevole confermava che Febo non avesse mai celato mire di conquista, in realtà, e il fine ultimo del dio poteva essere stato diverso. Ma quale, se non quello di soddisfare il capriccio di avermi trattenuto al suo fianco seppure per poco tempo?

“Ne sei proprio sicuro? Davvero non te ne importa nulla?” insisté, lisciandosi la barba ispida.

“Sì. Non nutro più alcuna ambizione, velleità, o speranza” deglutii nel vano tentativo di alleviare un senso di oppressione alla gola.

“Ma potresti ancora fare qualcosa. Diciamo, per...” replicò Sileno. “Essere almeno in pace con te stesso.”

In pace con me stesso? Lo fissai, probabilmente a occhi sgranati, ma lui si premurò di sviare il discorso, spesso faceva allusioni vaghe senza arrivare al nocciolo della questione ed era molto abile a instillare dubbi nella mia mente esasperata.

“Dimentichi ancora qualcosa, Santo di Libra” osservò, interrompendo la mia riflessione.

“Cosa?”

“L'obolo per il traghettatore dell'Ade.”

Sì, certo. “Giusto" rovistai nella scarsella appesa alla cintura ed estrassi due dracme che non sapevo di possedere, senza proferire verbo le soppesai avvicinandomi al corpo di mio fratello. Sfilai la rosa che poco prima gli avevo inserito tra le dita, deponendola sul petto, e mi premurai di porgli le monete in mano richiudendo le falangi sul palmo. Dopodiché alzai gli occhi e Sileno era già scomparso. Compresi di aver avuto una visione, ero così provato che dovevo essermi immaginato tutto.

In compenso avvertii un'energia alle mie spalle e nello stesso tempo udii alcuni passi, mi voltai scorgendo nell'ombra i volti di Asterion e di Algol: “Poteva finire diversamente” dissi incrociando il mio sguardo con il loro. Dopo alcuni istanti pervennero anche i Santi d'Oro...

“Credo tu abbia agito nel modo giusto a prescindere da cosa sostengono gli altri.” Il Santo di Canis Venatici mi pose una mano sulla spalla, Perseus annuì con un cenno degli occhi grigi che balenarono da sotto le ciglia e sembrò concordare con la sua affermazione.

Ti esprimi così perché sei un mio amico.

Non sapevo se volessero rassicurarmi, se agivano per amore della verità o cameratismo, ma nonostante il dubbio ero più che convinto si stessero rapportando con lealtà nei miei confronti. Ignorai la presenza di tutti gli altri, sperando che a loro volta non mi rivolgessero la parola, e mi congedai dai miei ex-commilitoni, volgendo loro le spalle per dirigermi in fretta verso l'uscita e col presentimento che non li avrei rivisti per qualche tempo. Mi imbattei in Saga, non appena giunto sulla soglia, ma il Santo di Gemini fu magnanimo nel rivolgermi uno sguardo conciliante e si fece da parte senza emettere alcun giudizio. “Grazie.” Gli dissi, e lui annuì con un sorriso blando.

I soldati mi aspettavano fuori dal Tempio, aveva smesso di piovere e un soffio d'aria gelida mi riscosse dal torpore: un quarto di luna faceva capolino attraverso le nubi diradate che ancora velavano il cielo, e lambì d'argento la distesa di rose abbarbicate alla scalinata di pietra come un rigagnolo di nero sangue. Erano splendide e vitali, malgrado il cosmo del Custode fosse ormai spento. Strano, mi dissi dopo aver constatato il fenomeno innaturale, ma l'estremità aguzza di una lancia puntata alla schiena mi spronò a distogliermi dai pensieri. Rilevai il piglio derisorio di quegli uomini i quali, con un ghigno sghembo e uno sguardo obliquo, mi scrutarono dalla testa ai piedi per poi distanziarsi senza provare a toccarmi. Li seguii docilmente fino all'ingresso del Tredicesimo Tempio, oltre il quale mi accompagnarono con mio sommo disappunto che malgrado tutto non palesai. La Sala delle Udienze era vuota, avvolta dalla penombra e fredda, trassi un sospiro constatando con sollievo che la convocazione si sarebbe tenuta a porte chiuse.

Giunsi ai piedi dei seggi preposti ad accogliere le autorità e mi chinai come al solito sulla passatoia cremisi, dopodiché scorsi la loro presenza: avevo fatto correre lo sguardo fino alla sommità delle scale con la sensazione di trovarmi al cospetto di due statue di marmo, o di sale, un tutt'uno col soglio che occupavano. Fissai la dèa con insistenza: dopotutto, lei stessa, aveva appurato la mia onestà e devozione nei suoi confronti, in teoria non avrei avuto nulla da temere... ma l'espressione del Sommo non esternava la stessa disponibilità al dialogo. Già, non si stava apprestando a ricevere il suo allievo prediletto, docile e perfettino... Era prevenuto nei miei riguardi ma saperlo onesto e imparziale mi rassicurava, in un certo senso, sebbene non potessi dirmi sereno a causa del trapasso di mio fratello.

“Si sarebbe preservata l'incolumità di un Santo d'Oro, e con un esito ben diverso della missione” interloquì Dohko. “Se non fosse stato per l'avventatezza di un altro.”

Ingoiai un bolo di saliva. Come? Mi sta accusando deliberatamente evitando di rendersi partecipe del mio dolore... Non replicai subito, soppesando con attenzione le sue parole in attesa ch'egli continuasse il discorso, ma tacque e la mia reazione fu inevitabile dopo la riflessione: “Incolumità?! Ma Aphrodite è...” Mi detersi il sudore dalla fronte.

“È in stato catatonico ed è il cosmo di Athena a preservarne le funzioni vitali” svelò il Sommo. “Lo hai lavato e vestito e nemmeno te ne sei accorto, razza di idiota. La tua superficialità è eclatante!”

Dovetti impallidire dallo sconcerto, ma la rivelazione riuscì a infondermi un briciolo di speranza, tanto da farmi sorvolare sull'invettiva crudele che in altre circostanze avrei considerato come un serio affronto.

“Non dovevi agire di testa tua.” Mi rimproverò alzandosi dal seggio, deponendovi elmo e mantello.

“In che senso?” replicai di rimando e senza riflettere.

“Nel senso che avresti dovuto consultarci prima di lasciare il Santuario di tua iniziativa, sentenziando cosa fosse giusto o sbagliato.”

“Non è stata una mia scelta.” Ravviai la solita ciocca di capelli che ricadeva davanti agli occhi, per poi avvolgere distrattamente uno dei legacci dell'uniforme attorno a un dito. “Non ho agito di mia iniziativa e voi lo sapete benissimo.”

“Non ci risulta tu sia stato trascinato con la forza alla corte del dio Apollo.”

“Nessuno lo ha trascinato con la forza, è vero, ma potrebbe aver agito per paura. È andata così, Santo di Libra?” S'intromise Athena, ma se avesse davvero intenzione di difendermi non era molto chiaro. Febo mi aveva messo in guardia, e ricordavo la nostra ultima conversazione durante la quale aveva avanzato dubbi sull'eventualità che credessero alla mia versione.

“Ho creduto di agire nel modo giusto” replicai, distogliendo l'attenzione dalla stringa avvolta tra le dita, per incontrare lo sguardo interrogativo della dèa e proponendomi di riuscire a interpretare quale fosse il suo reale pensiero. Tuttavia non trovai risposta.

“Invece il tuo gesto ha prodotto il risultato tipico di chi agisce mosso da individualismo, per tornaconto personale, e con la pretesa arrogante di operare a beneficio della comunità. È sempre bene agire in squadra, e non in solitario per poi pavoneggiarsi” insinuò Dohko, il quale si apprestò a lasciare il proprio scranno premurandosi di raggiungermi, e si stagliò torreggiando di fronte a me. “Non staremmo qui a dibattere sul tragico epilogo se solo tu avessi ponderato alcune scelte con discernimento.”

Mi levai in piedi – senza attendere l'ordine per farlo – allo scopo di pormi al suo stesso livello e sondare nei suoi occhi verdi: “Athena possiede un cosmo molto potente, superiore a quello di noi Santi, ma non è intervenuta...” affermai senza esserne realmente convinto, ma più per reazione istintiva al modo ingiusto in cui la seconda carica del Santuario si stava rapportando nei miei confronti.

Egli mi penetrò di rimando con lo sguardo, e nello stesso istante rovinai al suolo sopraffatto da un dolore sordo. Percepii un fluido caldo e dolciastro inondarmi la bocca, avevo la guancia sinistra in fiamme. Realizzai di aver suscitato la collera del Sommo del quale scorsi l'orlo dei paramenti dalla posizione in cui mi trovavo. Aveva disatteso la sua calma proverbiale colpendomi con un manrovescio.

“Dovrei farti fustigare a causa di ciò che hai detto, invece te la cavi così, a buon mercato, perché disapprovo l'utilizzo di certi metodi arcaici per imporre la disciplina.”

Certo, nonostante l'antipatia malcelata nei miei riguardi per aver sottratto l'armatura di Libra al suo discepolo Shiryu, Dohko era un uomo giusto e non era il caso disattendesse quella nomea proprio adesso... Guardai verso l'alto e soppesai di sottecchi quegli occhi ardenti velati da un'ira repentina e funesta, rendendomi conto della gravità di parole avventate, ma ormai non potevo più tornare indietro perché l'orgoglio me l'avrebbe impedito. Non avrei mai ammesso la legittimità della reazione del Sommo, una replica che trascendeva la sua pacatezza abituale a dire il vero. Preferii ingoiare il mio sangue anziché sputarlo davanti a lui, e poi mi riscossi con un battito di ciglia vedendo Athena assurgere; mi aspettavo si proponesse d'infierire a sua volta per averla chiamata in causa. Scese trafelata i gradini del trono.

“Non tollero si ricorra alla violenza.” La dèa redarguì Dohko, neanche si trattasse di un sottoposto d'infimo livello.

“Perdonatemi, milady. Non succederà più, è stato un imperdonabile accesso d'ira il mio.” Si scusò il Gran Sacerdote, neanche troppo dispiaciuto mi era parso di capire, dandomi le spalle dopo aver celato le mani nelle ampie maniche dei paramenti. “In quanto a te, in risposta alla tua ignoranza, sappi che uno scontro diretto tra divinità avrebbe comportato un evento catastrofico e il buonsenso di Athena lo ha scongiurato” chiarì ripiegando verso i gradini di pietra del seggio. Lo raggiunse, calcò l'elmo sul capo, e poi vi sedette sospirando.

Chinai la testa. L'umiliazione subita bruciava più dello schiaffo ma mi proposi di soffocare l'ultimo moto d'insofferenza... in realtà Athena aveva fomentato lo scontro con Febo – in cuor mio lo sapevo – e tuttavia non potevo sottolineare quel particolare benché desiderassi farlo.

I Santi fungono da capro espiatorio nella contesa tra gli dèi, così come lo sono i popoli in un conflitto tra i potenti che decidono le sorti del mondo.

Il peggio si sarebbe potuto evitare ma io non avrei mai avuto facoltà di presagirlo.

Non ho il dono della preveggenza.

Infine fui vinto dall'impeto di ribellione e, malgrado la sensazione di nausea causatami da un capogiro, ebbi la forza di levarmi in piedi girando sui tacchi per avviarmi in direzione del portale a doppio battente. Ma le guardie furono solerti a precedermi sovrapponendo le picche per sbarrarmi il cammino. In realtà non c'erano vie di fuga.

“Dove credevi di andare?” Mi redarguì Dohko, che dal tono di voce intuii avesse ritrovato la calma.

Non replicai perché quanto accaduto suggellava per me la morte di ogni ambizione.
Non voglio più essere un Santo di Athena... cancellate la mia memoria ed esiliatemi.

Udii alcuni passi alle mie spalle e una pacata esortazione la quale suonava come un ordine: “Voltati.”

Chiusi i pugni e le unghie si conficcarono nei palmi, mi tremavano i polsi, ma serrai le palpebre e inspirai lentamente. Obbedii con riluttanza alla gentile richiesta di Saori. In passato ero stato sempre ligio alle regole, anche le più ferree; ma qualcosa stava cambiando dentro di me o forse era già mutato. Come una corda tesa al parossismo che inevitabilmente si spezza.

 

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


 

 

I prati d'asfodelo, capitolo IX

 

 

XX

 

Sapevo che Saori cercasse conferme pur senza formulare domande specifiche. Ma fui io ad avere la certezza di come il sistema di valori in cui credevo si stesse sgretolando.

“Non sono più tanto propenso a voler continuare a militare nelle vostre schiere.”

Non provai alcun timore o ritrosia a esporre il pensiero che balenò all'improvviso, e anche la tensione accumulata parve sciogliersi con quelle parole. Sbollita la collera ebbi l'impressione di vacillare. Presi un respiro scrutando in quegli occhi che divennero quasi morti, assenti: una barriera impenetrabile a chiunque cercasse di indovinare cosa le passasse per la mente. Come se ciò che avevo appena affermato mi avesse – in via definitiva – precluso ogni dialogo con Athena. Distolsi l'attenzione, perdendomi nelle sagome generate dallo stagliarsi di ombre proiettate dalle colonne e dai singoli elementi decorativi, per poi soffermarmi di nuovo sui volti rigidi e impietriti dei presenti. Ma il Sommo, a capo leggermente chino, si scompose: passò le mani sul volto, che poi sollevò, appoggiando i palmi sulle ginocchia. Era accigliato benché l'espressione del viso non fosse riconducibile a collera, ma più consona a un sentimento di resa incondizionata, esasperazione?

Era come se Dohko non si aspettasse una svolta del genere, ma la mia indole sospettosa mi indusse a supporre l'avesse anelata per avere finalmente il pretesto di spogliarmi del mio ruolo. Avevo operato una scelta determinante, senza rimorso e, ora come ora, non mi preoccupavo della gravità né delle possibili conseguenze.

Le labbra di Saori si schiusero, con un tremito, come per liberare un pensiero finora inespresso: “Lo credi davvero?”

Potevo correre ai ripari e rimangiarmi tutto, ma annuii con distacco e un cenno laconico del capo, incurante del cinismo ostentato. Saggiare lo smacco di una ferita all'amor proprio non le avrebbe fatto male... Non ero mai stato così sicuro, sebbene non negassi la devozione indiscussa dimostrata ad Athena fino a poche ore prima. Non rinnegavo il passato, ma forse quello che era successo ad Aphrodite aveva influito ai fini del cambiamento che per molti sarebbe stato incoerente e inspiegabile.

“Sei scosso, Misty. Hai bisogno di un periodo di tranquillità per riflettere” replicò Saori volgendo gli occhi lucidi verso il basso, mi diede le spalle approssimandosi ai gradini del trono; ma poi si fermò e fece per svoltare, dirigendosi verso l'uscita secondaria celata dietro ai drappi che pendevano dalle mura, tra le colonne.

Il Sommo la indusse ad arrestarsi sulla soglia, poco prima di abbandonare l'aula: “Converrete, milady, che a cagione di un'affermazione così importante il periodo di riflessione cui alludete non potrà essere trascorso in libertà” sospirò, con un tono di voce che sembrò pervaso da triste rassegnazione. Non riuscivo a credere provasse pietà per me e di sicuro mi sbagliavo...

“Almeno fino a quando non accerteremo ch'egli sarà rinsavito e l'affermazione folle proferita, qui, al nostro cospetto, non sia stata frutto delle circostanze attuali anziché di una reale convinzione.”

“Farete come riterrete opportuno” convenne la dèa, monocorde. “Ma non credo sia del tutto convinto di ciò che sostiene” riprese - guardandomi - per poi scomparire al di là del passaggio retrostante al periptero.

Con la coda dell'occhio osservai il milite posto a fianco, in attesa di eseguire un nuovo ordine che tardò ad arrivare, dopodiché sviai l'attenzione con noncuranza. La stessa noncuranza che Athena aveva dimostrato nei miei confronti: nei riguardi di un Santo non appartenente alla cerchia dei suoi protetti. Di certo il suo atteggiamento sarebbe stato diverso se avesse assistito alla defezione volontaria di uno di loro. Atteggiamento che giustificava l'ostinazione nel pormi con disincanto verso quel mondo. E chissà se sarei rinsavito, come auspicava il Sommo Sacerdote, o la reclusione avrebbe esacerbato la mia ostilità...

 

 

Fui confinato in una prigione sotterranea dove regnava un'umidità malsana che trasudava a gocce dalle pareti. Non avevo mai visto le segrete del Santuario prima di allora. Trassi un profondo respiro: era un ambiente, sì, inospitale ma non claustrofobico e in cui filtrava dell'aria; per lo più vani scavati nella roccia, impregnati di un sentore salmastro e pungente. Mi guardai alle spalle calpestando una pozzanghera d'acqua stagnante: ecco da dove proveniva il riverbero di luce sulle pareti irregolari. Provai a svuotare la mente dai pensieri ma senza riuscire a produrre nemmeno un alito di vento... non mi restò che sospirare, sconsolato. Scorsi le sagome degli uomini che stazionavano al di là della grata e mi sovvenne il contegno supponente con cui mi rapportavo ai subalterni. Indietreggiai fino a sfiorare la parete dalla quale mi scostai con ribrezzo portandomi una mano al petto, avevo il fiato corto, inspirai a fondo e a stento riuscii a calmarmi.

Il Sommo avrebbe potuto optare per un'altra soluzione ma avevo capito che non aveva agito per farmi un dispetto, bensì perché solo in tal modo si sarebbe assicurato di precludermi la fuga. Ebbi così l'opportunità di constatare come, entro queste mura, ogni potere fosse inibito e annullato proprio come si narra nelle leggende. Mi guardai intorno, tastando con un dito la parete incrostata di sale: non era possibile scavare un tunnel nelle radici del monte e parimenti piegare o svellere le inferriate di un antro permeato da chissà quale sortilegio. Eppure non mi importava di nulla – dell'oggi o del domani – e nemmeno di fuggire, ma cosa potevano saperne loro?

Ero stanco, sul punto di cedere a un sonno profondo. Sedetti in un angolo asciutto del terreno evitando di accostare le spalle alla parete; avvicinai le gambe al corpo cingendole con le braccia, e diedi uno sguardo agli arredi in disuso da anni: una sedia, uno scrittoio, e una branda sulla quale non mi sarei azzardato a sdraiarmi. Chinai la fronte sulle ginocchia, non avrei faticato ad addormentarmi.

 

Girava tutto intorno, sembrava un movimento illusorio come poteva esserlo quello provocato dalle vertigini. Il sentore acre della brezza marina mi tormentava le narici e finii per destarmi da un riposo alquanto disturbato. Socchiusi gli occhi e sbattei le ciglia, dopo aver rilevato il bagliore della luce diurna attraverso le palpebre: constatai di essere in uno spazio aperto e non confinato al chiuso in una cella. Non c'erano le pareti a nascondere la visuale, erano svanite come se si fossero dissolte. La prima cosa che vidi fu il mare sconfinato ma non l'astro che avrebbe dovuto sovrastarlo.

Mi trovavo in mare aperto in balia del rollio a bordo di un'imbarcazione precaria. Com'era possibile? Non ebbi il tempo per pensarci e trovare una spiegazione logica. Stavo vivendo un'esperienza surreale, proprio come l'inconsistenza di un sogno, ma i sensi suggerivano stessi sperimentando un qualcosa di più concreto. Il fasciame del ponte scricchiolava a ogni passo. Tastai gli indumenti inzuppati d'acqua e passai la lingua sulle labbra riarse percependo il sapore del sale. Il moto impetuoso delle onde che s'infrangevano contro lo scafo mi indusse a cercare un saldo appiglio per evitare di finire sbalzato in mare. Il garrire aggressivo dei gabbiani strideva nelle orecchie, rimbombava nel cervello con tale assiduità da farmi balzare il cuore in gola; vidi rifulgere una scintilla rossastra in quegli occhi demoniaci, un brivido mi corse lungo la schiena e sgattaiolai a rifugiarmi sull'ìkria. Non c'erano altri passeggeri sullo scafo, non c'era nessuno a governarlo, tuttavia una forza ignota manovrava il timone mantenendo una rotta costante.

Ero sgomento, atterrito dall'impeto, dal fragore delle acque e dal sibilare del vento che gonfiava l'unica vela di cui disponeva il natante sospingendolo verso una destinazione sconosciuta. Avevo sempre amato il mare ma l'idea di navigare al largo della costa mi ispirava terrore. Con quale coraggio mi ero avventurato in una simile impresa, come avevo fatto a eludere le sentinelle piantonate all'ingresso della prigione e, soprattutto, perché?

Mi pizzicai provando dolore... Volsi gli occhi al cielo e alla distesa marina: al calare delle tenebre sembravano fondersi in una spirale vorticosa che avrebbe occultato il luccichio degli astri, se solo fossi riuscito a scorgerli; e perché non riuscivo a vederli? Che fossi sprofondato nel mondo sotterraneo?

Sospinto dal moto inquieto delle onde fui traghettato in una sorta di dimensione onirica avulsa dal mondo conosciuto, e la folle traversata cessò quando lo scafo, deposto dalle acque, scivolò su un lembo di battigia nero come la pece, come il cielo notturno in assenza di stelle.

Non osai sbarcare ma da quel punto rilevai una debole luce; guardai meglio, appurando promanasse da una breccia aperta nel tratto di falesia che si stagliava al di là della costa, oltre la chioma degli alberi. La curiosità mi persuase a mettere piede a terra e affondai con un balzo nella rena fredda. Mi soffermai per un momento ad ascoltare lo sciabordio quieto delle acque, inalando l'aria densa e salmastra. Forse non ero solo e avrei trovato rifugio tra simili in una landa all'apparenza disabitata e spettrale.

Attraversai a rotta di collo l'esigua striscia di spiaggia, caddi e mi rialzai, d'un tratto indotto da un impulso incontenibile, improvviso, come in risposta a un richiamo incessante nella mente. Mi fermai, esitante, al confine tra il breve tratto di spiaggia e la macchia scura, indistinta, per poi addentrarmi nel fitto delle ombre della vegetazione: vi scorsi un sentiero sinuoso che al buio emetteva un flebile lucore per contrasto e si diramava serpeggiando.

Vacillavo, un po' per la paura, un po' per il freddo. Il silenzio innaturale fu spezzato dal fruscio della brezza tra le fronde e dagli strepiti degli animali notturni che facevano da contrappunto ad altri suoni acuti, grevi, lugubri come il chiurlare del barbagianni e il verso dei caprimulgi. Malgrado ciò, per inerzia, come un automa, mi approssimai all'origine della luce. E chissà che tutto questo non rispondesse a un disegno prestabilito... Sbirciai verso l'alto nella speranza di scorgere una trama intessuta di stelle ma il cielo era piatto e uniforme, fuligginoso. Continuai a percorrere il dedalo intricato della foresta, nonostante i rami e le radici nodose e contorte intralciassero il cammino. Una pulsione interiore mi esortava ad andare avanti ed era molto più forte del terrore.

Stropicciai gli occhi nella speranza di destarmi da un incubo, ma al di là della fenditura – che da vicino appariva più simile a una gola tra le montagne – osservai una piana ospitare una moltitudine di fiori bianchi: emanavano una luminescenza tenue e confortante in quel luogo tenebroso.

Mi arrestai all'ingresso del varco, senza oltrepassarlo, come se un dictat supremo mi ingiungesse di non proseguire. Sagome, figure umane, fluttuavano come ombre sul campo dei fiori.

Le anime dei morti... In verità nessuno mi aveva suggerito lo fossero per davvero ma io ne avevo assoluta contezza, una certezza che promanava dal cuore e dai recessi più profondi della mente. Mi irrigidii illudendomi di trarre calore dagli indumenti fradici. Una di quelle sagome eteree catturò la mia attenzione.

No. È impossibile!

Riconobbi l'uomo rivestito della propria armatura, il volto nobile, la chioma fluente come la spuma del mare... Ricacciai un grido in gola. L'entità volse gli occhi trasparenti verso di me, ed ebbi la sensazione esaminasse la mia persona con lo sguardo: uno sguardo amorevole che mutò repentino e divenne penetrante, fiero.

Lo sguardo del mio maestro...

Cingeva una coppa d'oro nelle dita affusolate: un calice colmo di sangue traboccante. “Non ho bisogno di berlo affinché mi sia concessa facoltà di poter parlare” inclinò la coppa rovesciando il contenuto. Le ombre dei defunti vi si avventarono per dissetarsi, come avvoltoi su una carcassa putrida.

Portai una mano all'altezza della bocca dello stomaco e deglutii saliva per contrastare i conati. Ero crollato in ginocchio quasi senza rendermene conto, sentii qualcosa pungere l'interno delle palpebre e poi scendere lungo le guance.

“Non piangere, Ariele. Non sei più un bambino.”

“Aphrodite...” sussurrai alzando il capo e protendendo le mani in avanti per toccarlo, pur essendo consapevole si trattasse del vago riflesso di ciò ch'era stato nella vita terrena. “Cos'è questo posto? L'Ade?” realizzai in virtù di un barlume di lucidità.

“I prati di asfodelo” sospirò. “Un luogo dell'Ade nel quale regnano una quiete e una serenità artefatti. Credimi, fratellino, mi diletterei a spiccare dal busto le teste di questi disgraziati – se fossero fatti di carne e ossa – soltanto per alleviare il tedio mortale.”

I prati di asfodelo... sì, in quel mentre mi sovvenne la fama del luogo. “Sei stato tu a inseguire la morte, non hai voluto ascoltarmi” risposi.

“Taci. Cosa puoi saperne, tu, dell'empatia?” Mi zittì, categorico.

Empatia? Le parole del mio fratellastro mi esortarono a riflettere: perché mi ero arrovellato tanto fino a quel momento? Ero davvero dispiaciuto per la sua sorte o mi dolevo per il riflesso negativo che il suo gesto di altruismo gettava su di me; su quanto mi mettesse in cattiva luce agli occhi degli altri? Temevo la risposta perché era affermativa. Non era per lui che piangevo ma per me stesso...

“E tuttavia vorrei abbracciarti.” Aphrodite gettò il calice agli assetati, rigirando il gambo di una rosa tra le dita dell'altra mano. “Ma non posso” soggiunse, rilasciandola.

“Søren...” mormorai, chiamandolo col suo vero nome – come lui si era premurato di fare con me – e osservai la rosa volteggiare per poi ricadere a terra.

Si piegò sulle ginocchia per lambire i fiori col palmo della mano, alzò lo sguardo: “Sei ancora in tempo per scusarti con i tuoi superiori.”

“Tu sai che non lo farò.” Gli confidai con una punta d'orgoglio.

“Io so che non sei realmente convinto delle tue azioni. Il tuo posto è lì soltanto: alla Settima Casa” insisté.

Scossi il capo, avevo le parole bloccate in gola e non replicai.

“Sei sempre il solito, testardo e arrogante.” Le labbra gli si incresparono in un sorriso mesto.

“Saresti dovuto finire nell'Elisio, e non in una sorta di Purgatorio nel quale sono confinati coloro che non si sono distinti per virtù né malvagità” dissi cambiando argomento.

“È una tua idea, sbagliata. In verità siamo perfettibili, ma assai distanti dalla perfezione che ci renderebbe degni di aspirare alla beatitudine.” Aphrodite allungò una mano verso di me e fece per sfiorarmi il viso, invano...

 

Trasalii. Un refolo d'aria fredda mi indusse ad aprire gli occhi e alzare il capo. Ero circondato dalle mura di pietra e mi soffermai a fissare la fiamma della lampada a olio: ancora imprigionato in quella segreta semibuia come un topo in trappola. Mi raggomitolai: battevo i denti e rischiavo di ferirmi la lingua, avevo le membra intirizzite e c'era della sabbia tra le pieghe degli indumenti intrisi d'acqua. Eppure ero ancora appartato nello stesso anfratto dove dovevo essermi addormentato.

“Chi ti assicura sia stato davvero un sogno?” sussurrò una voce all'orecchio facendomi sussultare. Ne avevo percepito il fiato sul collo ed era, infatti, una sensazione fin troppo tangibile per essere relegata alla sfera dei sogni.

“Sembrerebbe tutto reale, ma puoi avvalerti del beneficio del dubbio” confermò la voce, come avesse facoltà di leggere nel pensiero.

Sì, è lui. Può essere lui soltanto.

La creatura si materializzò davanti a me, la riconobbi e, una volta tanto, fui lieto di naufragare nella profondità di quegli occhi nerissimi, insondabili ed eterni come lo spazio senza tempo. Sfiorai il vello che ne ricopriva le sembianze caprine e carezzai anche la superficie ruvida delle corna. L'odore selvatico mi fece storcere il naso. Gli sorrisi. Non poteva manifestarsi con fattezze più reali...

“Sileno!” esclamai e, al tempo stesso, fui solerte a comprendere che solo io dovevo essere in grado di percepire la sua presenza e udirne la voce. Infatti, il satiro pose il dito indice sulla bocca per indurmi a tacere.

Forse è già mattina inoltrata... dello stesso giorno o del giorno seguente?

Una guardia fece irruzione nella cella e depose un vassoio con su qualcosa da mangiare, ignorando la presenza aliena di Sileno che, di fatto, non poteva passare inosservato. “Sta' zitto, imbecille, cosa fai? Parli da solo? Allora è vero quello che dicono: devi essere uscito di senno. Non fai che dormire, è da giorni che non tocchi cibo” inveì.

Da giorni?! Mi domandai, incredulo.

“Spiegami: cosa hai dedotto da questa esperienza?” chiese Sileno, incurante della presenza dell'inserviente che dapprima mi aveva apostrofato per poi dileguarsi.

“L'aver rivisto mio fratello” bisbigliai laconico.

“Sei pallido.” Sileno mi sollevò il mento, temevo scorgesse le lacrime che ancora mi inumidivano gli occhi, le ciglia, il volto, ma non se ne curò e sgusciò alle mie spalle. Non feci nulla per impedirgli di affondare le dita nei capelli, scostarli di lato e porre i palmi delle mani alla base del collo. Reclinai un poco il capo in avanti, percependo il suo calore, e lasciai scivolare le mani in grembo: gli indumenti erano asciutti.

“È giunto il momento di gettare la maschera” sospirò, doveva aver poggiato il mento sulla mia testa, poiché ne avvertii il peso, e dopo si spostò ponendosi di nuovo chino di fronte a me; mi fissò a lungo. Avevo ricambiato, molto probabilmente guardandolo con aria interrogativa.

“L'ultima volta che ci incontrammo ti dissi che avresti potuto fare ancora qualcosa... Qualcosa per essere finalmente in pace con te stesso. Ricordi?” soggiunse.

Annuii. Sì, mi era sovvenuto quel momento e mi si strinse il cuore. Sileno mi prese il viso, che avevo rivolto verso il basso per guardare alcune linee tracciate a caso nella polvere, si avvicinò come volesse posarmi un bacio sulla fronte ma poi, come dissuaso da qualche altro pensiero, si tirò indietro.

“Sì, ricordo" risposi.

“Cosa saresti disposto a fare; cosa faresti per essere in pace con te stesso?”

Mi si sciolse la lingua, i pensieri presero forma in parole che fluirono incontrollate: “Søren... vorrei che Søren fosse qui. Vorrei che ritornasse a essere il Custode della Dodicesima Casa. Lui... non è morto, non ancora.”

“Oscilla come un pendolo tra la vita e la morte, come sospeso a un filo invisibile. Sai che per ricondurlo qui, al Santuario, dovresti intraprendere un percorso molto speciale? A dire il vero, mi stupirebbe scoprirti disposto a intraprenderlo – e non per mancanza di coraggio, ma perché non hai svelato del tutto il tuo lato altruista.”

“Non è difficile immaginare di cosa si tratti” dissi, indietreggiando, ma incontrai l'impedimento oppostomi dalle mura gelide. E, con certezza, Sileno riuscì a captare quel timore, tanto da spingersi ad affrontarmi precludendo ogni possibilità di sottrarmi a quella che – ne ero ormai certo – si sarebbe rivelata l'ennesima opera di convincimento da parte sua. Mi sovrastò, sovrapponendosi al fragile lume che riluceva nell'antro, con la sua ombra inquietante.

“Un vivente non può varcare la soglia degli Inferi.” Mi opposi con fermezza.

“La storia e il mito ci insegnano che non è proprio così. E tu non sei un comune mortale, bensì un semidio” sbottò, afferrandomi per il bavero dell'uniforme e poi scandagliò, come con un ferro arroventato, nei miei occhi. “Sebbene Apollo non possa intercedere a tuo favore, lui veglia su di te.”

“Mi lusinga gli stia a cuore la mia sorte” replicai, svincolandomi con decisione dalla stretta ferrea.

“Egli ti ama.”

“Perché gli ricordo Giacinto...”

“Sei ostinato, Misty. Ma non hai molto tempo per perderti in chiacchiere, se desideri davvero concretizzare il tuo desiderio. La vita di tuo fratello è in bilico, sulla lama di un pugnale.”

Distolsi l'attenzione dal mio interlocutore udendo il clangore dell'inferriata.

“Non siamo più soli e questa è stata la mia ultima apparizione...”
Dopo aver sentenziato, Sileno svanì nel nulla così com'era comparso.

No... non andartene. L'idea di non rivederlo mai più, come aveva preannunciato, mi atterriva. Il tempo di emettere un sospiro di rassegnazione e mi alzai in piedi sulle gambe tremanti. Mi avvicinai a ridosso della grata per scorgere le sembianze della persona la quale ormai stanziava al di qua, dopo aver oltrepassato la soglia della segreta.

“Tu? Cosa ci fai qui?” La flebile illuminazione disegnava la sagoma caratteristica del diadema d'oro, le cui estremità aguzze erano emerse dall'ombra. Riconobbi i tratti del volto. Non mi aspettavo una visita dal Custode della Quarta Casa. Mi ispirava simpatia, benché non fossimo accomunati da un legame di stretta amicizia come avveniva con i Santi d'Argento.

“Sono stato inviato col compito di scoprire cosa ti stia passando per la testa. Il Sommo e Athena sono abbastanza frastornati” rise.

“E me lo spiattelli così?” incrociai le braccia, replicando con una domanda senza celare perplessità.

“Lo avresti capito, inutile perdere tempo con giri di parole.” Mi guardò di traverso con tracotanza malcelata, quasi volesse schernirmi. “Hai i capelli arruffati, sei sporco, ma ciò non pregiudica la somiglianza con tuo fratello. Tuttavia lui è un adulto fatto e finito e, non a torto, ti definisce un adolescente arrogante... e saccente.”

Non menzionarlo... strinsi i pugni, affondando con stizza gli incisivi nel labbro inferiore. “Forse, quello che mi sta passando per la mente lo avete pensato in tanti, e più di una volta.” Lo sfidai, alzando il mento, e colsi la favilla d'orgoglio che brillava nei suoi occhi ferini.

“Può darsi” affermò. “Ma hai già sperimentato quanto sia controproducente esprimere il proprio malanimo, in una comunità dove i primi ipocriti sono le autorità preposte a presiederla.”

“La prima volta avevo qualcosa da perdere, ora non più” dissi, passando la punta della lingua sulle labbra.

“Non sono tenuto a convincerti e non me ne importa, ma Pisces non sarebbe contento di questa tua scelta. Qualcosa mi dice si sia sacrificato per te, e mi irrita non poco il dubbio che lo abbia fatto invano" si confidò con la solita nonchalance.

“Non per me, non lo credo. Ha fatto solo il suo dovere come Santo di Athena” replicai facendo spallucce.

Death Mask di Cancer schioccò la lingua contro i denti, senza pronunciarsi.

“La rinascita non ha portato a nulla, nemmeno un'opportunità di crescita personale. Credo di aver smarrito la mia fede e non voglio più essere un mero strumento nelle mani della dèa...” continuai, e nel mentre mi voltai dall'altra parte. Speravo con tutto me stesso se ne andasse.

“Vane speranze" interruppe Cancer. “Ed è vero: sei un saputello petulante. Inoltre volgere le spalle al proprio interlocutore, durante una conversazione, è irrispettoso” soggiunse e, in quel frangente, realizzai mi avesse afferrato per un braccio. Me lo scrollai di dosso con difficoltà.

“Non lo speravo ma ho voluto crederci” protestai, dopo essermi ritrovato con le spalle contro al muro. “Nella vita precedente godevo della stima dei miei pari, ero l'orgoglio del Santuario" dissi tentando di riprendere fiato.

“Hanno preso una cantonata, perché in realtà hai sbroccato nel bel mezzo di un combattimento per uno schizzetto di sangue” replicò sghignazzando e credendo così di mettermi a tacere. Dèi... quant'era odioso. Forse voleva solo scrollarmi dal mio languire rassegnato, ma quell'insinuazione non fece che farmi salire un improvviso calore al volto.

“E tu sei stato abbandonato dalla tua stessa armatura! Edificante, non trovi?”

“È un marchio d'infamia che ci portiamo addosso. Siamo, e saremo, perennemente reietti nell'immaginario dei giusti.” Si era fatto serio tutto a un tratto, e chissà che le mie parole non avessero toccato un tasto dolente. “Ti consiglierei di ripensarci, prima che Dohko decida di rimpiazzarti” insinuò, con un'illazione che aveva il sentore di un ragguaglio da non sottovalutare, e parve così ritrovare il decoro appropriato a un Santo del suo rango.

“No.” Mi limitai a rispondere, conciso.

“Potresti almeno fingere o preferisci marcire quaggiù finché piacerà a loro?”

Fingere... sospirai, cercando di scrollarmi dalle vesti l'impronta virtuale della sua mano insieme allo sporco. Simulare una sorta di pentimento, dopotutto, non era un cattivo consiglio e sarebbe stato utile a conseguire il mio obiettivo. Fare buon viso a cattivo gioco, perché no? Pensando a quante volte lo aveva fatto Aphrodite conclusi che avrei potuto farlo anch'io.

“Dimmi, Cancer. Conosci un accesso che conduca nell'Ade?” Lo interrogai eludendo il discorso, e poi mi accoccolai a terra, stremato.

“Potrei spedirtici io stesso, se proprio ci tieni” esordì con la solita baldanza congiunta alla vena umoristica. “Però qui dentro non ho alcun potere. Ma cosa c'entra il regno delle ombre adesso? Cosa stai tramando?” Si grattò il mento, probabilmente dopo aver ponderato sul significato della mia richiesta.

“Niente... una curiosità sciocca” rettificai. “Sul vassoio ci sono anche una brocca con dell'acqua e un bicchiere.”

Finalmente si scostò dalla parete – che non aveva bisogno di essere sorretta – e non fece obiezioni. Si apprestò a riempire il bicchiere d'acqua e me lo porse senza battere ciglio.

Lo afferrai per bere un sorso, guardandolo di sottecchi attraverso il vetro mentre con la mano si appoggiava di nuovo al muro. Quel piglio così disinvolto mi indusse a sorridere, malgrado ciò non palesai le mie impressioni sul contegno del soggetto in questione.

“Secondo te è possibile uscire da qui, senza però dovermi rimangiare ciò che ho affermato in presenza di Athena?” Speravo in una soluzione alternativa, perché mi disturbava alquanto l'idea di dovermi sottomettere e annichilire l'orgoglio.

“Spiacente. L'unica opzione - per vedere la luce del sole - credo sia proprio il dover porgere le scuse alla dèa.” Una smorfia di disappunto gli trasfigurò i lineamenti del viso. “Ma fa' in fretta a deciderti, perché il tempo che abbiamo a disposizione per conversare è scaduto.”

 

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


 

 

 

I prati di asfodelo, capitolo X

 

 

XXI

 

Non sapevo per quanto tempo ancora Saori Kido fosse intenzionata a trattenersi al Santuario, ma dopo gli ultimi avvenimenti aveva un'aria cupa e malinconica e il suo umore era peggiorato.

Le rivolsi uno sguardo: era seduta dietro la scrivania, nella biblioteca, assorta nella lettura in circostanze del tutto informali. La vita procedeva scandita dalle solite incombenze e momenti di stasi usuali in un periodo di pace. Nonostante ciò ero consapevole – e ne avevo avuto la dimostrazione – che quella tranquillità sarebbe potuta finire in qualsiasi momento. I Santi non erano poi così responsabili – a dispetto della fiducia loro accordata – ma, almeno per un po', quel presuntuoso arrogante non avrebbe fatto danni. Ne avevo abbastanza di lui, non mi ero ancora abituato all'idea che l'armatura di Libra avesse scelto un possessore così inadeguato.

I disegni del fato sono incomprensibili...

Feci correre un dito lungo la fila di testi allineati nella libreria per sceglierne uno, ma un inserviente sopraggiunse nella sala, distraendomi, e annunciò la visita che stavo aspettando. Ero curioso di sapere ciò che Cancer era riuscito ad apprendere da quell'irresponsabile.

“Venerabile maestro” esordì il Custode della Quarta Casa. Faceva sorridere l'appellativo con cui mi si rivolgeva ormai d'abitudine. “Ho fatto come avete chiesto: accertato il ravvedimento del Santo di Libra, mi sono premurato di condurlo presso di voi.”

Cosa?!

Questo era davvero un risvolto inaspettato. Mi girai verso Saori la quale, simultaneamente, alzò gli occhi dal libro che stava sfogliando.

Cancer si levò in piedi al mio cenno: “Se volete lo faccio entrare, così potrà darvi delle spiegazioni e scusarsi con voi.”

Delle spiegazioni? Scusarsi con noi? Indugiai, ammutolito, studiando l'espressione del mio interlocutore, caso mai avesse voglia di scherzare, ma risolsi che Death Mask non era mai stato così serio. Guardai di nuovo la dèa e lei ricambiò con un gesto affermativo, il volto era disteso, non aveva un muscolo contratto. Quel contegno sostenuto suggeriva che non avesse digerito l'affronto, pur dando prova di saper incassare il colpo con classe e compostezza.

“E va bene. Va' pure, Santo di Cancer, e comunica al tuo commilitone che è autorizzato a entrare.”

In realtà non credevo Misty fosse propenso a cedere, non così presto, era alquanto strano. Comparve ed esitò, come al solito, soffermandosi tra gli stipiti della porta a due ante per poi muovere qualche passo avanti. La sua figura elegante era avvinta da una debole emanazione di cosmo, il cui riflesso guizzò sulla superficie degli specchi affissi nella sala. Faticavo ad ammettere che quella presenza eterea, ammantata da una parvenza di superiorità, mi mettesse a disagio. Ma congiunto al disagio realizzai mio malgrado di provare un sentimento del tutto diverso – quasi benevolo – nei suoi confronti; sensazione già sperimentata l'ultima volta in cui ero stato costretto a relazionarmi con lui.

Si chinò. Alcune strisce grigie solcavano il velo di sporcizia impresso sul volto. Sembrava strano e non in sintonia con l'indole del personaggio, lo avevo sempre reputato insensibile e distaccato, seppur lungi dal definirlo malvagio. Qualcosa doveva averlo turbato in questi giorni di reclusione forzata oppure si trattava di un semplice ravvedimento.

“Cos'hai da dire a tua discolpa?” spezzai il silenzio, interloquendo con una banale frase fatta.

“Avevo affermato di non voler più servire Athena...” abbassò gli occhi distogliendo l'attenzione. “Ma non lo penso veramente.”

Evitai di rispondere e mi avvicinai per esortarlo ad alzarsi in piedi, recuperando una sedia che accostai con prontezza al suo fianco. Sedette. Aveva lo sguardo vacuo.

Temporeggiai, assorto nella riflessione, e d'un tratto mi balenò il sospetto che stesse mentendo, forse non era sincero; eppure non ebbi il coraggio di inveire come mi era capitato di fare in altre occasioni. Era mio dovere dargli ancora una possibilità e sarebbe stata Saori ad avere l'ultima parola. La dèa non si era nemmeno degnata di lasciare il proprio scranno e, dopo aver chiuso il libro, accantonandolo sul ripiano, si limitò a osservare la scena con freddezza.

“Dubito sia sufficiente” sfilai un fazzoletto dalla tasca per porgerlo al mio interlocutore.

Misty assentì, assottigliando lo sguardo, approfittò della cortesia e ripulì il volto che svelò un pallore mortale. “Mi scuso con entrambi” soggiunse, quasi esitante, e sembrava un'asserzione estorta con le tenaglie.

“Sapevo che lo avresti fatto” replicò Saori, la quale recuperò il libro facendo scorrere le pagine sotto le dita. “Sappi: tutti sono utili ma nessuno è indispensabile. Shiryu ha ottime referenze, per quanto concerne l'acquisizione delle Sacre Vestigia di Libra, in caso di defezione o inadempienza da parte dell'attuale possessore.”

Sembrava riluttante a metterci una pietra sopra e una simile affermazione suggeriva che, no, non avesse affatto gradito l'affronto. La sua risolutezza mi colse impreparato intristendomi al tempo stesso.

“Ti concedo il perdono per l'ultima volta” sentenziò la dèa emettendo un sospiro pervaso da insofferenza e noia. Si alzò poi, procedendo verso l'uscita. Che si stesse calando nella parte del lupo travestito da agnello? Probabile, dal momento che il Santo aveva osato intaccarne l'ego spropositato tenendole testa come pochi, o forse, come nessuno aveva mai fatto prima d'ora.

Rimasto solo con lui mi soffermai per cogliere un qualche indizio che esplicitasse i suoi sentimenti. Nulla. Misty non reagì e languì inerte come una bella statua di cera, con le mani strette ai braccioli della sedia di legno, dettaglio che, a dispetto del volto serafico, esternava una sorta di fragilità e turbamento.

I modi di Saori mi avevano lasciato perplesso ancorché dovessi ritenermi compiaciuto per la stima – meritata – di cui il mio allievo godeva agli occhi di Athena. Non era quello che volevo?

Sviai l'attenzione dal ragazzo biondo, di sicuro si era giocato la benevolenza della dèa. Un'occasione sprecata, perché lei, almeno i primi tempi, sembrava davvero ben disposta nei suoi confronti. I nostri ruoli si erano, come dire, d'un tratto, invertiti e adesso ero io a propendere verso un atteggiamento più conciliante. Mi apprestai a selezionare qualcosa dal carrello delle bevande, malgrado l'orario. Indossavo abiti civili e potevo concedermi uno strappo alla regola.

Ero disorientato, la mia abituale sicurezza stava vacillando. Per una volta riuscii a immedesimarmi, a provare empatia, e quell'intolleranza e risentimento repressi malamente potevano essere del tutto legittimi – in risposta alla partigianeria, ora non più tanto velata di Athena – o forse no, e chi è predestinato deve rassegnarsi a stare quieto nei propri ranghi senza fiatare? Anche il saggio a volte si pone delle domande, sbagliando a trarre le conclusioni. Rinunciai a deglutire il liquore dopo averne versato due dita in un bicchiere. Convenni: il destino doveva seguire il suo corso né io né altri avevamo la possibilità o il diritto di impedirlo. Avevo creduto di risolvere tutto confinando Misty in una segreta, invece mi resi conto di aver peccato della stessa superbia di cui avevo tacciato l'altro.

“Non ti ho chiesto se desideri qualcosa da bere.”

“No, grazie” replicò lui, con la solita aria di sufficienza.

“Se preferisci posso farti preparare un tè.”

Scosse il capo.

“Come vuoi.” Mi arresi, volgendomi a ritroso e occupando il posto vuoto dietro la scrivania. “Ho bastante esperienza, sebbene non sia esente da errori di valutazione talvolta dovuti a pregiudizi.”

“Pregiudizi?” fece eco il mio interlocutore, di rimando.

“Ne ho molti, lo riconosco” ammisi, abbassando lo sguardo sulle solite carte disposte sul ripiano ligneo e finsi di riordinarle allo scopo di evitare un confronto diretto. “Alcuni sono riuscito a superarli, altri permangono.”

“Non ne avete mai fatto un mistero. La vostra avversione nei confronti di alcuni Santi – i quali, un tempo, erano schierati nelle fila della fazione contrapposta – è velata, eppure si percepisce” rispose, stringendosi nelle spalle.

“Non riuscirò a cambiare atteggiamento e fare pace col passato, non ora. Non credo i tempi siano ancora maturi.”

“Capisco.” Misty ravviò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Alzò il mento e sospirò. “Ma... permettete: gli esseri viventi non chiedono di essere messi al mondo, così come i Santi non hanno chiesto di essere riportati in vita” soggiunse, dopo, sbirciando verso la finestra.

Ma che razza di risposta è questa!?

La sfrontatezza del ragazzo era sconcertante al punto che, per un attimo, avevo pensato di rispedirlo in prigione e gettare via la chiave. Lo trovavo indisponente, riconoscendo così di concordare con l'opinione della maggior parte delle persone al Santuario che non lo sopportavano. Lasciai in sospeso la conversazione, per poi giungere alla conclusione che una simile schiettezza implicasse, al contempo, sincerità. Ebbi un'illuminazione a tale proposito...

Che la schiettezza non sia una delle qualità per cui l'armatura lo ha scelto?

Sebbene, per paradosso, sembrasse proprio quell'onestà a tradire un secondo fine espresso in uno sguardo sfuggente, nel modo di interagire evitante.

“Presuntuoso. Hai davvero il coraggio di prendermi in giro?”

Misty sgranò gli occhi. La mia insinuazione doveva averlo colto di sorpresa.

“Perché non credo a una sola parola proferita in merito al tuo presunto e improbabile ravvedimento” insistetti.

Impallidì, aggrappandosi di nuovo alla sedia come per contrastare un mancamento, ma poi si riscosse raddrizzando la schiena. “E cosa vi proponete di fare, visto e considerato che non mi credete?” delineò col dito i contorni della sfinge intagliata sul bracciolo di legno e smarrì lo sguardo nel vuoto.

“Questa volta non interferirò.”

Schiuse le labbra serrate. “Sappiate: non ho nessuna intenzione di tradire Athena né di defilarmi per presentarmi al cospetto di mio padre ed essere integrato nelle sue schiere, come temete” affermò, fissandomi con gli occhi azzurri ombreggiati dalle lunghe ciglia. “Però la mia fede nei valori che accomunano i Santi è venuta meno... non è più la stessa di un tempo.”

“È un sentimento che traspare da tutto il tuo essere” confermai con tristezza. “E mi duole riconoscerlo perché non saranno le imposizioni a cambiarlo, a farti cambiare idea. Tutto sommato mi accontento di averlo udito da te in persona e non da qualcun altro in vena di pettegolezzi – ed è, comunque, sempre meglio apprendere questa amara verità anziché vivere nel dubbio che tu sia uscito fuori di senno” ammisi. “È stato a causa di Aphrodite?”

“Forse. Ho provato a interrogarmi in proposito, ma sono molto confuso” replicò. “È possibile che gli ultimi avvenimenti abbiano risvegliato in me un rancore affatto sopito.”

“Nella nostra condizione non dovremmo lasciarci trasportare dai sentimenti.” Gli rammentai.

“Bensì atteggiarci alla stregua di marionette votate alla causa, ed è per questo che siamo stati insigniti del nostro titolo...” insinuò lui, con ironia, e stavolta dovetti trattenermi dal colpirlo con uno schiaffo. Mi prudevano le mani, in verità avrebbe meritato solo schiaffi, e mi ero già pentito di averlo trattato con fin troppa gentilezza.

“Sei un invidioso.” Lo guardai dritto negli occhi sgranati. “Se figurassi nella rosa dei prescelti di Athena, ti atteggeresti in modo compiacente. Già una volta mi sono premurato di sottolineare che pecchi nel darti eccessiva importanza.”

“E va bene. Ammetto che dev'essere gratificante l'essere inclusi nella cerchia degli eletti...” Si accigliò, arrossì, e per un istante fu scosso da un lieve tremore.

Stava tollerando l'affronto a stento, ne ero sicuro, perché avevo fatto leva su ciò che credevo fosse un suo punto debole e una tale spocchia non presupponeva alcun riguardo da parte mia. Lo fissai ancora: “Nonostante tutto apprezzo la sincerità con cui ti esprimi e ti reintegro nel tuo ruolo ma, d'ora in avanti, sarai guardato con sospetto.”

 

 

***

 

XXII

 

Ero stato riammesso, come speravo, e non era stato un confronto piacevole. Saori mi aveva ignorato e umiliato, rendendomi così la pariglia, me lo aspettavo, disposto a subire mio malgrado. Neanche Dohko si era mostrato prodigo di gentilezza, avevo già avuto un vago sentore fosse un uomo scaltro, ma non fino a questo punto, peccando così di ingenuità nel reputarlo uno sprovveduto.

Ma, per fortuna, è andata... sono libero.

Affrettai il passo, non volevo imbattermi nella visione del corpo esanime di Aphrodite né essere costretto ad affrontare gli altri Santi messi a presidio delle rispettive Case Zodiacali. Ero determinato a ripiegare sul sentiero che svoltava nei pressi della rampa da cui si accedeva alla Dodicesima. Attraversai in tutta fretta lo spiazzale antistante il Tredicesimo Tempio ignorando l'eco di risatine sommesse delle ancelle, le quali facevano comunella alle mie spalle, avevo imparato a non curarmi di loro e tanto meno preoccuparmi di cosa stessero blaterando. Era probabile mi considerassero un diverso a causa delle dicerie, che passavano di bocca in bocca, sulla mia visione distorta, deviata, del mondo e l'incapacità di amare qualcuno tranne me stesso.

Sopraffatto dai pensieri ricacciai le lacrime in gola. No, non dovevo sfuggire alla realtà, lo sapevo: rivederlo in quello stato mi avrebbe fatto male, equivaleva all'ennesima pugnalata al cuore, ma evitarlo non avrebbe cambiato le cose. Indugiai sulla soglia del Tempio di Pisces – i raggi del sole invernale non alleviavano la sensazione di gelo nelle ossa – e desistetti decidendo di introdurmi nell'atrio. Avevo l'impressione di udire ancora le parole di Dohko nelle orecchie, secondo lui ero traviato da uno dei vizi capitali più degradanti: l'invidia. Ma perché stavo ancora rimuginando? Ormai ero a un punto di svolta senza ritorno.

Eppure... un cosmo, una presenza sgradita, che rilevai immersa nella penombra dell'aula dove Aphrodite giaceva – abbigliato di tutto punto come lo avevo lasciato – su un letto di rose, riesumò i demoni del passato in un battibaleno. Avevo i nervi tesi. Fui costretto a dissimulare la collera perché le ripetute offese, subite per bocca del Gran Sacerdote, mi stavano mettendo a dura prova inducendomi a reagire d'impulso. Deglutii a vuoto e presi un respiro.

Quella bastarda era lì, davanti ai miei occhi, in un luogo dove non era degna di mettere piede; non solo si era resa colpevole di aver oltraggiato i parigrado a mezzo d'inganni, lo aveva fatto anche con Aphrodite! Se non fosse stato per il tradimento, attuato per favorire quella mezza tacca del suo discepolo, la mia – la nostra – fama, oggi, sarebbe stata diversa.

Dèi... perché continuavo a pensare al passato? Alla vita precedente? Avrei dovuto voltare pagina eppure il passato era vivo come un cuore palpitante e l'umiliazione bruciava alla stregua del fuoco che arde sotto le ceneri.

“Misty.”

“Non ti autorizzo a usare questo tono confidenziale, sono un tuo diretto superiore” dissimulai l'ira dietro un contegno pacato. “Alla luce dei tuoi trascorsi non dovresti essere qui.”

“Perché?” incalzò Marin.

“A prescindere da chi risultasse schierato con le forze oscure, il tuo non è stato un comportamento cavalleresco. Non ti ho mai concesso il perdono né dimenticato l'episodio, e poco importa se ti è stato accordato dai tuoi pari.”

“Lo so, ma la tua semplice opinione non può precludermi il diritto di porgere omaggio al dodicesimo custode.”

Omaggio, a chi?! Faccia di bronzo... con la tua presenza stai profanando questa Casa.

Mi bruciavano gli occhi e un nodo mi serrava la gola. Concentrai la visione sulla maschera. La superficie d'argento fu percorsa da una linea sottile, una spaccatura aveva incrinato il metallo. Le due porzioni simmetriche si dissaldarono e caddero scoprendole il volto.

Parai il colpo che l'amazzone sferrò di rimando, bloccandole il polso. Ansimò. La osservai: le sue fattezze non mi suscitavano alcuna emozione. Provavo una specie di attrazione soltanto verso Shaina, sebbene non conoscessi il suo viso, probabilmente erano la lealtà e il rispetto mostrato nei miei confronti a renderla desiderabile.

Questa ragazza dall'espressione attonita, e con la quale un tempo mi relazionavo da eguale perché appartenenti alla medesima Casta, poteva dirsi donna a tutti gli effetti; gli occhi a mandorla l'accomunavano al discepolo ed era un particolare che concorreva a esasperare il mio astio. Nelle mie fantasie avevo immaginato di sedurre e possedere tutte le donne che gravitavano intorno al ronzino pendendo, più o meno inconsapevoli, dalle sue labbra...

Adesso fui sul punto di colpirla ma non sarebbe stato un gesto appropriato al mio rango né rispettoso del luogo in cui ci trovavamo. Mi trattenni e tuttavia il fatto di averla smascherata si sarebbe potuto rivelare la miglior vendetta...

Lasciai la presa, scagliando via Marin con una folata di vento, e mi apprestai a precipitarmi all'esterno ma un fascio di luce abbacinante saettò nell'oscurità e inibì la prontezza di riflessi pur lasciandomi incolume. Sbattei le palpebre.

“So molto bene che non è corretto infierire contro chi è inerme, e ancor meno si dovrebbe farlo nel contesto sacro dell'Acropoli.”

Aiolia?!

“Ma ciò a cui ho assistito conferma che una mela marcia non può redimersi. È già concluso il tuo periodo di confinamento!?” inveì il custode della Quinta Casa. Non mi ero reso conto di aver scaraventato Marin letteralmente tra le sue braccia nel momento in cui era comparso sulla soglia...

Non replicai, attardandomi a pensare: di cosa stava parlando? Anche in veste di Santo d'Argento ero sempre stato votato ad Athena, ignaro di militare al servizio di un demone. Ma aveva ragione Cancer: agli occhi dei prescelti saremmo stati per sempre degli emarginati. Mi rialzai da terra, confuso. Aiolia sembrava davvero convinto fossi intenzionato ad aggredire Marin quando, in realtà, volevo solo togliermela di torno, e comunque non gli avrei fornito alcuna spiegazione volta a chiarire l'equivoco, era solo tempo sprecato col prototipo dell'imbecille che sbava dietro una sottana.

“Non ti interessa.”

“Saprai sicuramente distinguerti per alcune doti, ma ricoprire un ruolo di responsabilità non è da tutti” replicò.

Fui pervaso da una strana calma, come se tutto il risentimento si stesse stemperando volgendo in impotenza e rassegnazione. Lo fissai senza palesare segni di cedimento, avevo intuito a cosa stesse alludendo e, in questa sede, suonava dissacratorio.

Povero idiota... dillo che sono un sodomita, sii esplicito! Ah, no, è più comodo nascondersi dietro allusioni ambigue...

Ero certo si aspettasse una mia reazione e sarebbe stato un alibi per menare le mani, fremeva, non mi avrebbe perdonato di aver fatto cadere la maschera dal volto di Marin. Godevo, beandomi del piacere perverso ricavato dal privarlo di quella soddisfazione. Ero ormai assuefatto alle voci – presunte o reali – che circolavano sul mio conto e i pettegolezzi mi scivolavano addosso. Se Aphrodite avesse potuto assistere alla scena sarebbe stato orgoglioso di me. La mia attenzione si spostò sull'amazzone: si affannò a recuperare i due frammenti della maschera cercando di porli sul volto; mi era parso di vederla arrossire, imbarazzata e forse indignata per la volgarità e il disprezzo con cui lo spasimante mi aveva trattato. Era così impacciata da strapparmi un sorriso di compatimento. Poco male, conclusi, voltandomi verso mio fratello per scostargli un ciuffo di capelli dalla fronte, sulla quale, dopo, appoggiai le labbra. La pelle emanava un lieve tepore. Il cosmo di Athena lo ancorava alla vita terrena, lo percepivo blando e labile proprio come un filo sul punto di spezzarsi da un momento all'altro.

Alzai la testa e mi voltai per guadagnare l'uscita, ignorando entrambi: il Leone e l'Aquila.

 

 

 

Secondo Aphrodite il mio posto è qui: nella Settima Casa.

Mi chinai contemplando il Totem di Libra ricomposto nel naos, dissipava l'ombra in cui era immersa la sala. Avevo la sensazione reclamasse il possessore ma non volevo servirmi dell'armatura per i miei scopi personali, avevo deciso di non utilizzarla e per niente al mondo avrei cambiato idea. Lambii la superficie del manufatto con una carezza, in segno di rispetto, e mi rialzai. Mi tremavano le mani, le labbra. Non desideravo altro se non ritirarmi nella tranquillità delle mie stanze, avvolgermi in una coperta e riposare. Rilassarmi, perché ero ancora sconvolto, e in seguito riflettere sul da farsi. Mi lasciai guidare dalla luce delle torce inserite nei relativi supporti, per poi giungere nell'ala del Tempio preposta ad alloggio.

Il chiarore del giorno irrompeva nella camera da letto e filtrava attraverso lo spiraglio lasciato dalla porta socchiusa, la spinsi e sussultai scorgendo una sagoma stagliarsi contro il sole. Stavo per tornare sui miei passi, ma un istante dopo mi persuasi di entrare.

“Di nuovo tu?” riconobbi il Santo di Cancer, il quale sedeva allo scrittoio. Doveva aver occultato di proposito il cosmo. “Non tollero certa gente tra i piedi e nei luoghi più impensati” protestai riferendomi anche a qualcun altro, oltre a lui, per poi rendermi conto di essere così turbato da aver proferito al suo indirizzo uno sproloquio del tutto evitabile.

“Con chi ce l'hai?”

Mi morsi la lingua per non rispondere.

“Ti stavo aspettando” continuò. “Non hai l'aria del lettore assiduo, credevo trascorressi il tempo libero davanti allo specchio” disse soffermandosi sulla copertina di un libro che aveva tra le mani e, soppesandolo, lo rigirò più volte. Come si permetteva di rovistare tra le mie cose?

La regina strangolata... interessante, conosco gli intrighi che hanno adombrato il regno di Filippo IV. E, di lui, si narra fosse un tipo algido...”

“Sarebbe più appropriato definirlo coerente per un uomo del suo tempo” scalzai la coperta dal materasso avvolgendola intorno alle spalle. “Qualsiasi atto ingiusto, commesso per una causa giusta, porta con sé una maledizione...

“La Giustizia è sempre dalla parte di chi riesce a imporsi; così come la verità, essa ha molti volti, dipende dalla prospettiva in cui si guarda” replicò lui, greve.

“Del più forte, del vincitore” dissi, sfilandomi le scarpe per poi distendermi sul letto. “Faccio fatica ad accettarlo.”

“Ascolta, saputello... È un problema tuo se non riesci a familiarizzare col concetto di Giustizia – al di là delle balle che ci propina il Sommo con le sue prediche – e non è per una lezione di storia che sono qui” affermò, deponendo il libro chiuso sullo scrittoio. “Non me la racconti giusta e non credere sia così facile prendermi per i fondelli.” Detto questo si alzò in piedi e mi mostrò un oggetto, dopo averlo fatto comparire con la destrezza del prestigiatore che estrae un coniglio dal cappello a cilindro.

“Ma...” balbettai, guardandolo di sottecchi. “Quello specchio l'ho già visto, appartiene a mio fratello.”

“Lo so.”

“Che significa?” domandai, voltandomi per fissare il soffitto.

“Cercavi un modo per giungere negli Inferi...” insinuò, cogliendomi impreparato. Pensavo avesse rimosso la domanda che gli avevo fatto in prigione, ritrattando poi in tutta fretta, e invece no...

“No” negai, ancora più perplesso, stringendomi nella coperta e guardandolo con la coda dell'occhio. “Forse stavo delirando. Sai, in certi ambienti è impossibile rimanere a lungo sani di mente. E poi alcuni pensavano fossi davvero impazzito, magari hanno ragione.”

“Non fare del sarcasmo, ti riesce male. Credo di aver capito qual è il tuo scopo e mi compiaccio della nobiltà d'intenti, ma non posso aiutarti perché non ho facoltà di catapultare un vivo nell'aldilà. Giungervi da morto sarebbe inutile per conseguire l'obiettivo che ti sei prefisso, o sbaglio?”

Mi morsi il labbro, riflettendo, avevo sottostimato la sua intelligenza ma ancora non capivo il nesso del suo ragionamento con lo specchio. “No” convenni, scuotendo il capo. “Non credo.”

“Com'è inconcepibile poltrire in pieno giorno.”

“E a te cosa importa se voglio passare la giornata a dormire?” replicai, insofferente. La sensazione di freddo non accennava a placarsi e gli occhi lacrimavano, dovevo avere la febbre alta. Nonostante avessi la mente annebbiata riuscii a scorgere l'espressione risoluta del Santo, il quale si era avvicinato.

“Ti farebbe bene un ritorno alla vita sociale, al refettorio hanno appena finito di servire il pranzo.”

Il pranzo?! Pensare al cibo, in quel determinato frangente, mi provocava il voltastomaco.

La sua figura parve ingigantirsi, non lo perdevo di vista sebbene continuassi a guardarlo con gli occhi semichiusi. Mi sovrastò, allungando una mano sopra la testa, e d'istinto serrai le palpebre.

Percepii una sensazione di calore, la sua aura avvolgente. La mente tornò limpida e i pensieri presero a fluire cristallini. Mi sovvenne il gesto simile da me compiuto per aiutare Aphrodite... ed era un vero peccato non si potesse operare con la stessa efficacia su noi stessi.

“Lo specchio. Søren mi aveva confidato di utilizzarlo come mezzo per varcare portali che si affacciano su altre dimensioni. È un dono di vostro padre” affermò Death Mask, togliendo la mano. Lo seguivo ancora con lo sguardo e lo vidi sedersi al mio fianco.

Indietreggiai, appiattendomi contro la spalliera del letto, e celai il volto sotto la coperta.

Mi ha tenuto nascosto anche questo...

“Ignoravo tale proprietà dello specchio. Credevo fosse un gingillo come un altro, a cui però il mio fratellastro dimostrava di tenere particolarmente” scoprii gli occhi per guardarlo di nuovo in faccia, fingendo un certo distacco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


 

 

 

I prati di asfodelo, capitolo XI

 

 

XXIII

 

Rimasto solo, sedetti a letto allungando il braccio per afferrare con la punta delle dita l'impugnatura dello specchio rotondo abbandonato al mio fianco; ero curioso di guardarci dentro al fine di constatare di persona i prodigi di cui parlava Cancer ma, fissandolo a lungo, non riuscii a vedere nient'altro che me stesso.

Ero pallido da far spavento. Lo scostai dal volto imperlato di sudore, per poi riavvicinarlo e indugiare nell'azzurro dei miei occhi come se non avessi nulla di meglio da fare. Un battito di ciglia, e fui indotto a soffermarmi ancora per qualche istante. Uno schizzo, una chiazza vermiglia, comparve sulla superficie dello specchio sovrapponendosi all'immagine riflessa: mi sovvenne l'illusione della pelle strappata dal volto o l'impatto del volto stesso contro l'asperità di una roccia. Vedevo solo del sangue. Battei più volte le palpebre per dissipare ciò che, senz'altro, doveva essere una macabra fantasia, un sogno a occhi aperti, o uno scherzo di pessimo gusto.

Presi un respiro, mi riebbi destato da un olezzo acre realizzando fosse l'odore del sudore, e rilasciai l'impugnatura del manufatto che sgusciò dalle dita tremanti.

Mi riscossi dallo sconvolgimento solo dopo aver fatto appello alla ragione: niente era dovuto al caso, sciocco è colui che si affida al caso o crede alle coincidenze fortuite, e di peggio non poteva accadere, oppure sì? L'allegoria del sangue – dei fatti di sangue, o della morte (?) - evocata dallo specchio, poteva essere un avvertimento oppure un presagio.

Il filo della vita, il sentiero, è già tracciato e non mi resta che percorrerlo.

Sospirai lasciandomi ricadere sul fianco, mi avvolsi nella coperta e abbracciai il cuscino.

Ero sprofondato in un sonno privo di sogni dal quale mi destai dopo alcune ore, quasi a notte fonda; e il primo pensiero, al risveglio, fu quello di impossessarmi di nuovo dell'oggetto per farlo scomparire all'interno della borsa di cuoio che avevo sfilato insieme alla cintura. Con l'ausilio della lucerna mi avviai all'esterno della stanza. Necessitavo di un bagno o, meglio, di una doccia fredda.

 

Barcollai, dopo aver incespicato su qualcosa che intralciava il cammino, rischiando di rovinare faccia a terra. Ogni cosa sembrava mutare nottetempo: le forme così come i pensieri. Le insidie celate nella boscaglia non mi atterrivano quanto l'idea di affrontare i Santi d'Oro nei rispettivi Templi, da qui la scelta di ripiegare su un percorso alternativo per giungere alla valle sacra. In realtà ero confuso e scrutai verso l'alto cercando conforto nel luccichio degli astri, nei meandri delle costellazioni delineate nel cielo. Era tenue la luce di quelle stelle che campeggiavano, isolate, nello spazio siderale e remoto.

Avevo indossato un'uniforme pulita assicurando ai fianchi la cintura dalla quale pendeva la scarsella in cui avevo nascosto l'oggetto. La tastai per accertarmi che lo specchio fosse ancora al suo posto ma il solo pensiero di dargli un'occhiata mi terrorizzava. Non avevo le idee chiare e brancolavo nel buio in tutti i sensi. Sbucai a ridosso del villaggio, riconobbi l'odore caratteristico delle piante aromatiche e scorsi, tra le fronde dei pini marittimi, il viottolo che conduceva alla casa sita in prossimità del mare: era la dimora riservata alla persona che i Santi d'Argento eleggevano come guida; avevo passato il testimone a Shaina, dopo l'investitura, e adesso era lei a occuparla. Deviai con sollecitudine dal percorso.

 

L'odore di salsedine mi invadeva le narici, mi strinsi nelle braccia concentrato sul movimento altalenante delle onde, ignorando la brezza umida che mi faceva drizzare i capelli sul collo. Le tavole della banchina scricchiolavano in modo assai poco rassicurante sotto i piedi, sedetti con le gambe penzoloni, dondolando un piede su e giù, smarrendo lo sguardo all'orizzonte per guardare i frammenti di luna che si ricomponevano sulla superficie increspata dell'acqua come le tessere di un mosaico.

Non mi scomposi, udendo alle mie spalle lo scricchiolio delle assi e uno sferragliare metallico, ma continuai imperterrito a contemplare l'Egeo senza voltarmi. Di solito era Asterion a sorprendermi durante le mie sortite sul lungomare. Conosceva le mie abitudini. Sei prevedibile, diceva...

“Hanno aperto il serraglio?”

Infine fui indotto a destarmi riconoscendo il tono autoritario di Algol, e scossi il capo. “Cosa fai da queste parti, Perseus?”

“Ho percepito il tuo cosmo, e questo è il territorio che mi compete di notte.”

“E tu devi aver occultato il tuo...” dedussi risolvendo di alzarmi in piedi per girarmi verso di lui. “Dohko si è arreso” replicai in risposta alla sua domanda idiota e provocatoria.

“A cosa? Alle tue abilità oratorie? Non essere ridicolo.”

“Gli ho detto quello che penso.”

“Sei un incosciente” sbottò.

Trovavo abbastanza patetico quel suo atteggiamento paternalistico ma non gli diedi peso. “Non ha battuto ciglio è probabile che, nonostante tutto, si fidi” sospirai.

“Dicono tu sia recidivo, avendo rinnegato di nuovo Athena; e che Pisces sia in catalessi a causa del tuo ego e della tua ambizione. Ti trovi in una posizione ambigua al Santuario” asserì parandosi davanti.

“Parole grosse, gonfiate. Accuse infondate. Illazioni. Come, del resto, è esagerato tutto ciò che blaterano sul mio conto. Anche tu e Cancer avete fama di essere due individui perversi e malvagi, appena un po' meno sadici a redenzione avvenuta. Invece siete solo degli sbruffoni patentati. Questa è la verità.” Gli dissi, spingendolo con malagrazia per farmi largo.

“Cos'hai intenzione di fare?”

“Un'idea l'avrei, ma non ho ancora pianificato nulla” ripercorsi con lentezza la banchina fino a raggiungere la spiaggia. “L'unica cosa che mi resta da fare è intraprendere il viaggio nell'Ade per recuperare Søren.”

Algol mi incalzò con rapidità fulminea, tanto da farmi percepire il fiato sul collo, agguantandomi per la casacca dell'uniforme.

“Nessuno spiegamento di forze è dovuto per salvarlo! Ti ha disconosciuto come fratello fino a quando gli è convenuto, usandoti per mettersi in mostra. Si è giustificato dicendo di avere buone intenzioni, infarcendo menzogne con belle parole. Ha creduto di abbindolarmi e per poco non ci stava riuscendo.”

“Non toccarmi” ammonii, ma lui non demorse, sembrava infuriato. Un raggio di luna palesò i suoi occhi ardenti di gelosia, o dispotismo? “Hai frainteso le sue intenzioni e, fosse anche vero quello che dici, non mi dissuaderai dall'intraprendere una missione volontaria” soggiunsi.

“Sei affetto da sindrome di Stoccolma...” affermò grattandosi il mento. “E per cosa saresti disposto a varcare l'ingresso dell'oltretomba – sempre tu sappia come farlo. Per la gloria? Per sentirti dire quanto sei stato bravo?”

Questa volta Algol era davvero fuori strada se credeva di aver intuito le mie ragioni...

Soffocai un gemito di dolore, realizzando che il Santo d'Argento mi aveva atterrato con un calcio nello stomaco. Allungai una mano alla scarsella, infilandovi le dita, per appurare se lo specchio fosse ancora intatto. “Non riuscirai a impedirmelo” comunicai attraverso il cosmo.

Avrei potuto scaraventarlo in mare con un semplice gesto, ma ingaggiare un duello avrebbe destato mezzo Santuario e attirare l'attenzione non era quello di cui avevo bisogno in quel momento. Dovevo mantenere un profilo basso ed ebbi compassione di lui; preferii soggiacere al suo delirio di onnipotenza e, magari, dandogli il contentino, si sarebbe rassegnato all'idea di non riuscire a persuadermi. Sapeva benissimo che tutto era permesso finché acconsentivo, sebbene la sua reazione fosse sproporzionata.

“Dici? Difficile muoversi con le ossa rotte.”

“Sei pazzo” risi.

“Non osare schernirmi. Non sono un'ameba come Dohko.”

“Farò rapporto. Dalle segrete del Santuario non si esce. E, se mi uccidi, sarai messo a morte” risi ancora, ma all'improvviso una tosse convulsa mi spezzò il fiato. Un singulto, e inalai il sapore salato delle lacrime misto a granelli di sabbia. Un altro calcio in pancia mi aveva fatto piegare con la fronte china sulle ginocchia. Rimasi in quella posizione con la testa serrata tra le mani.

Algol, nel suo sproloquio delirante, aveva insinuato altri dubbi a rafforzare alcuni sospetti; i quali, comunque, rimanevano tali perché il mio rapporto con Søren non era mai stato idilliaco, anzi, per certi versi, era piuttosto freddo. Era evidente: un simile distacco era percepito anche da osservatori esterni... ma non riuscivo a comprendere se la reazione spropositata del Santo d'Argento fosse motivata dalla relazione tormentata che avevo col mio fratellastro – dalla scarsa considerazione, reale o presumibile, che Aphrodite dimostrava nei miei confronti a dispetto della mia ammirazione repressa – o dal ruolo che Algol stesso ricopriva al servizio di Athena.

“A dire il vero dovrei essere io a denunciarti per diserzione, essendo al corrente delle tue intenzioni folli. Da quanto ho capito il piano è frutto di una tua iniziativa, come al solito” esordì.

“Ti credevo un amico.”

“Non illuderti di sedurmi con le lusinghe.” Algol desistette dall'accanirsi, si era calmato, arguii dall'inflessione di voce.

Era palese: difficilmente lo avrei convinto a votarsi alla mia causa e poi lui, sì, avrebbe avuto molto da perdere, in quanto stava percorrendo la strada della redenzione dalla quale mi ero allontanato. Il Santo di Perseus si atteneva ancora alle regole, malgrado tutto.

“E vorresti inoltrarti nel regno delle ombre così, come sei, privo dell'armatura? Rare volte ti ho visto indossarla, eccetto nei turni di guardia. Sei ridicolo, Misty.” Fu lui a ridere, stavolta, distraendomi dalla babele di pensieri che si avvicendavano nella mente, senza posa.

Doveva aver intuito che, sotto sotto, non mi sentivo un degno portatore delle Sacre Vestigia di Libra, o doveva essere stato Asterion a confidargli le mie insicurezze dopo avermi letto nel pensiero.

No! Non può essere, Asterion non è il tipo da prestarsi a un simile gioco, nemmeno per sbaglio.

Algol era troppo astuto e doveva averlo capito da sé. Sputai a terra e alzai il capo, asciugando la bocca col rovescio della manica: non vedevo il suo viso ma soltanto una sagoma nera e incombente, corazzata d'argento, che si stagliava sovrapponendosi alla luna.

“L'uso dell'armatura non è contemplato quando ci sono di mezzo questioni personali” chiarii.

“Vorresti farmi credere che quel damerino ti sta a cuore?”

“Perché non dovrebbe? Dopotutto siamo figli dello stesso padre.”

“Perché chi ha l'abitudine di mentire non viene creduto nemmeno quando asserisce il vero.” Si inginocchiò ponendosi al mio livello, in modo che la luce dell'astro gli illuminasse il volto.

“Io non mento quasi mai” replicai cercando di sondare nei suoi occhi grigi.

“Uhm... questo è da vedere. Comunque, suppongo che non riuscirò a dissuaderti perché sei un bastardo, ostinato e arrogante” sfilò la tiara e la gettò sulla sabbia, mi afferrò per le spalle ponendo la fronte sulla mia. “Pertanto – così sia – affronteremo le insidie dell'oltretomba armati soltanto del mio scudo e del tuo cosmo.”

Trasecolai udendo la sua affermazione, eppure... non si evinceva ironia dal timbro della voce.

“Sembri sorpreso. Mi avevi sottovalutato...”

Sottovalutato? Probabile... ma, in verità, ormai disilluso, non credevo che qualcuno nella cerchia del Grande Tempio mi sarebbe stato solidale rischiando di compromettersi – tanto meno uno come Algol di Perseus.

Non mi dette tempo di replicare, prendendomi il volto nelle mani guantate per poi lambire il labbro inferiore con un dito. Avvertii il contatto, il suo calore, in quel mentre mi irrigidii, inerte, insensibile alle emozioni che in altre circostanze mi avrebbero sopraffatto. Un dolore acuto mi trafisse il petto come uno stiletto piantato nel cuore. Lo sapevo, presto o tardi, la barricata dietro la quale mi asserragliavo sarebbe crollata e mi adoperai con un impegno sovrumano allo scopo di tenerla in piedi.

Da tempo non saggiavo il sapore del suo sangue.

Devi stare al tuo posto, Perseus.

Si ritrasse di scatto, passando il dorso della mano sul labbro spaccato.

“Contravverresti alla volontà della dèa disertando il Santuario senza il suo consenso, e poi non mi serve una guardia del corpo” assursi, scrollando la sabbia dagli indumenti. “Ciononostante, se decidessi di accettare la tua proposta mi scorterai al cospetto del Signore degli Inferi, ma sappi: sarebbe una scelta irrevocabile.”

“Ade è stato destituito, sconfitto, l'Inferno è piombato nel caos” rettificò Perseus ricollocando la tiara sul capo, come se la mia determinazione non l'avesse scalfito.

“Così si dice, ma una disfatta di tale portata comporterebbe il sovvertimento dell'ordine costituito...”

“Cosa stai insinuando?”

“Che non è credibile...” distolsi l'attenzione dalla figura imponente del Santo, il quale aveva guadagnato la stazione eretta, e smarrii lo sguardo nell'immensità del mare.

“Mettere in discussione il successo dei campioni di Athena, così com'è stato tramandato nei racconti, suona come una bestemmia. Dovresti fare attenzione a come parli perché qualcuno potrebbe essersi appostato ad ascoltare a nostra insaputa” osservò. “In tal caso, se fosse vero, non saremo accolti a braccia aperte.”

Scrollai le spalle in merito alla prima osservazione, e sulla seconda mi soffermai un istante: il rischio di non essere i benvenuti nel regno dei morti era una possibilità sulla quale non avevo ponderato.

 

...

 

 

Inghiottii il boccone a fatica restando con la forchetta sospesa a mezz'aria.

“Ti ci vorrebbe qualcosa da bere” insinuò il Santo d'Argento – che mi aveva trascinato a forza alla solita bettola di Rodorio, dopo aver dismesso l'armatura – e poi mi versò del vino nel bicchiere. “Sei bianco come un lenzuolo.”

Lo assecondai per non contrariarlo, sebbene non avessi alcuna voglia di bere né di mangiare, e nel frattempo prestai attenzione al locale, sempre troppo affollato per i miei gusti.

Immerso nei pensieri, continuavo a domandarmi perché le condizioni della Casta dei Santi d'Argento non fossero migliorate nonostante la riabilitazione dei componenti; Algol mi aveva ceduto la sua branda affinché riposassi, ma ero riuscito a prendere sonno solo in tarda mattinata, dopo aver pensato e ripensato allo squallore di quelle baracche fatiscenti infestate da centopiedi. Sì, tutto sommato, si trattava di alloggi singoli e non dormitori di quelli riservati alle reclute eppure, sebbene il Santuario fosse un'organizzazione strettamente gerarchica, trovavo iniquo un divario così marcato tra le Caste. Se fossi rimasto al Grande Tempio avrei di sicuro perorato la loro causa al tavolo dei superiori, ma...

Esitai col bicchiere stretto tra le dita facendo vorticare il contenuto, ne gustai un sorso trattenendolo in bocca: puro aveva un sapore aspro e pungente, di solito lo diluivo con acqua. Alzai gli occhi incontrando lo sguardo del mio commensale, anch'egli sovrappensiero.

No!

Quella parvenza di tranquillità non era destinata a durare. Mi alzai senza preavviso e, rovistando nella scarsella, afferrai alcune monete lasciandole cadere sul tavolo.

“Che succede?” Algol corrugò le sopracciglia. Girato di spalle, non poteva aver visto i due avventori che stavano entrando nell'osteria.

“Andiamo via” dissi puntando verso l'uscita.

Algol si voltò per guardare cosa avesse attirato la mia attenzione. “Ma sono solo Aiolia di Leo e suo fratello Aiolos” assottigliò lo sguardo.

“Appunto” annuii senza dargli alcuna spiegazione. Pur essendo nascosti nel folto della folla non eravamo passati inosservati, – come uno stupido – avevo creduto di riuscire a defilarmi in sordina. “Avanti, sbrigati!” sollecitai.

“Cos'hai combinato con quei due?”

“Ho visto il viso di Marin, ma ti assicuro che è successo per puro caso.”

“Per caso? Non è una spiegazione convincente, sapendo del tuo disprezzo nei suoi confronti.”

“Anche tu, come quell'imbecille di Aiolia, credi l'abbia fatto di proposito?”

“Vedo che nutriamo la medesima stima del soggetto...” L'accenno di un sorriso si dipinse sul suo volto ambrato. “Se ti ritieni innocente non dovresti temere di confrontarti.”

L'osservazione del Santo di Perseus mi indusse a ragionare e, per quanto rapida fosse stata la riflessione, raggiunta l'uscita – e dopo aver percorso un pezzo di strada – risolsi di fermarmi per consentire ai due di raggiungerci. Avevano un'aria tronfia da regolamento di conti, impettiti come galli da combattimento...

“Athena avrebbe dovuto evitare di riabilitare gente inutile, e la feccia con cui ti accompagni ne è la prova.” Aiolia mi ghermì per il bavero dell'uniforme, scoccando ad Algol un'occhiata di traverso, e mi ritrovai scaraventato a ridosso di un albero. “Sei una nullità, capace solo di prendertela con una donna. Ti eri illuso di sfuggirmi, ma ho aspettato di incontrarti al momento opportuno al di fuori dall'Acropoli.”

Lo fissai, sistemando alla meglio l'indumento, e rilasciai un silenzioso sospiro per poi rivolgere l'attenzione ad Algol, il quale smaniava con i pugni chiusi – costretto all'impotenza pur di rispettare la promessa fattami di farsi gli affari propri. Aiolos mi esaminava a sua volta con un cipiglio interrogativo congiunto a rimprovero. Non avevo avuto l'opportunità di relazionarmi da vicino col Santo del Sagittario, e Aphrodite, forse, era ancora un apprendista quando lui e Saga di Gemini gestivano le reclute al Santuario sotto la supervisione di Shion.

“Sei davvero insicuro al punto di temere che Marin possa invaghirsi di me? Ma forse hai ragione... io sono infinitamente migliore e più bello.” La provocazione mi sfuggì repentina come il pugno sferrato da Aiolia che schivai con prontezza.

Aiolos si precipitò a contenere l'irruenza del fratello, sul punto di replicare l'affondo, e gli bloccò il braccio. Quel ragazzo palesava un'ingenuità e un'innocenza inusuali, quanto rare, al Santuario nel quale avevo appurato celarsi un covo di vipere. Doveva essere tra i pochi in grado di capirmi, mi rammaricai di non aver avuto altre occasioni per conoscerlo a fondo.

“Nessuno potrebbe infatuarsi di un essere tra i più inutili su questa Terra. So che hai paura di misurarti in un combattimento corpo a corpo. Non sei rinomato per il coraggio.”

Il Santo di Leo era furente, ma le sue invettive dovettero strapparmi un sorriso blando, in realtà non tolleravo quegli insulti gratuiti.

Infine vacillò portandosi una mano al torace, un rivolo di sangue sgorgò dal naso e dalla bocca: “Credi di impressionarmi con una padronanza da dilettante della telecinesi?!” Una smorfia di disappunto gli increspò le labbra e tentò di divincolarsi dal ripetuto intervento del fratello, il quale si frappose tra noi esortandolo a non abbandonarsi a gesti inconsulti.

“Calmati, Aiolia” esordì quest'ultimo. “Ascoltiamo la sua versione dei fatti.”

“Quale versione, Sagittarius?” incrociai le braccia sul petto incontrando quegli occhi scuri. Aiolos, a differenza dell'altro, era riflessivo e pacato. “La sola presenza di Marin mi infastidisce, ma non mi abbasserei ad alzare le mani – su un mio pari o subordinato – senza motivo, nemmeno per fare un dispetto a quell'energumeno di tuo fratello.”

“Allora perché l'hai privata della maschera? È un imperdonabile affronto per un'Amazzone, e potrebbe risolvere di ucciderti lei stessa.”

“È stato l'epilogo inaspettato del nostro incontro. Mi capita spesso di rivangare il passato e quella donna è colpevole di tradimento, non solo nei miei confronti. Pensate, ciecamente, di essere – in quanto, acclamati e conclamati, buoni – gli unici passibili di tradimento?” sentii un fuoco ardere nel petto, di rado esternavo con veemenza i miei sentimenti.

“No, riesco a capire” ribatté Aiolos. “Sono stato perseguitato, eppure mi guardo bene dal portare rancore a Saga di Gemini e a Shura di Capricorn. E mio fratello ha vissuto come un reietto sobbarcandosi le conseguenze delle mie presunte colpe.”

“Sappiamo cosa si prova a sentirsi vittime di un'ingiustizia” aggiunse Aiolia di Leo, abbassando i toni, e quel cambio di atteggiamento mi esortò a riflettere ancora una volta. Chissà che Aiolia non avesse deciso, tutto a un tratto, di mettere da parte l'orgoglio o reprimere il proprio furore per non contrariare il fratello e procuragli un dispiacere.

Soppesai con attenzione i miei interlocutori privi dell'armatura e bardati di piastre di ferro e cuoio - a protezione delle spalle e degli arti - sovrapposte alle uniformi ordinarie: “Ma voi siete integerrimi...” affermai con velata ironia mista a risentimento. Deglutii il sapore amaro delle lacrime e feci un breve cenno al quale Algol replicò all'istante, destandosi dall'immobilità con cui aveva assistito suo malgrado all'alterco. Lo raggiunsi e ce ne andammo.

 

***

 

XXIV

 

 

“Maestro!”

Mi voltai dopo aver udito la voce di Mu di Aries, scostando dalle labbra la tazza di tè che ero intento a sorbire. Il Santo aveva fatto irruzione nel mio alloggio privato sospingendo le ante della porta a doppio battente senza farsi annunciare. Aries mi stava cogliendo alla sprovvista e, nonostante fossimo legati da una profonda amicizia e tale amicizia esulasse dal distacco imposto dai nostri ruoli, mi riscoprii insofferente. I pensieri corsero alla conversazione tenuta col Santo di Libra, qualche giorno prima, e mi sovvenne quel tacito – e talvolta fin troppo spudorato – rimarcare l'esistenza di favoritismi verso persone investite di presunti privilegi. Gli avevo fatto notare di essere un invidioso, sebbene avessi colto un fondo di verità nel livore che muoveva le sue accuse.

Le simpatie esistevano altrimenti era impensabile, per un qualsiasi Santo, relazionarsi in scioltezza col Gran Sacerdote; in teoria nemmeno un amico, caro e fidato, come il Custode della Prima Casa si sarebbe potuto prendere la libertà di farlo. Dovevo ammettere che il problema sussisteva, ma solo nel momento in cui era uno come Misty a farlo notare con alterigia irritante perché il punto di vista di una persona arrogante è opinabile; alcune insinuazioni sortiscono l'effetto di infastidirci o lasciarci indifferenti a seconda di chi è a pronunciarle.

Mi attardai a osservare le decorazioni sulla tazza di porcellana, poi deposi l'oggetto sul tavolo di ebano nero alzandomi in piedi: “Qualcosa ti turba, amico mio?” domandai, approfittando della natura informale che sarebbe potuta emergere dal colloquio.

“Mi sono imbattuto in Marin dell'Aquila e ho dovuto riparare la sua maschera” esordì Aries sfilando l'elmo che indossava, per riporlo sotto un braccio in segno di deferenza.

“Cos'è successo alla Sacerdotessa dell'Aquila? Qualcuno ha violato i precetti nell'Arena?”

“No, Dohko. Qualcuno, al quale avete concesso troppa fiducia, ha approfittato del vostro buon cuore aggredendola deliberatamente per motivi personali.”

“Chi?” mossi qualche passo avanti, e poi indietro, per alleviare l'inquietudine, quindi ripiegai di nuovo verso il tavolo in fondo alla stanza.

“Il Santo della Settima Casa.”

Sospirai mesto e deglutii un sorso di tè. Malgrado le informazioni provenissero da una persona del tutto degna di rispetto ne fui sorpreso al punto di dubitarne: “Ho capito, e quali sono le fonti?”

“Marin, naturalmente, ma anche Aiolia che era presente nella Dodicesima Casa dove ha assistito alla scena.” Mu depose l'elmo e si apprestò a sfilare anche il mantello che accantonò sullo schienale di una sedia.

Nonostante i trascorsi non deponessero a suo favore ero certo che non fosse nell'indole di Misty riversare le proprie frustrazioni su parigrado o subalterni o, peggio, mancare di rispetto a un'amazzone. “La terza persona coinvolta nell'episodio cosa dice?” domandai.

“Perdonatemi, maestro, ma non è sufficiente la testimonianza di Marin e di Aiolia?”

Gli scoccai un'occhiata in tralice, distogliendo l'attenzione dai dipinti appesi alla parete che fingevo di ammirare per guadagnare un po' di tempo: “Stai suggerendo di avviare un procedimento arbitrario per un atto non avvalorato da alcuna prova.”

“Ma... maestro. Di quale altra prova abbiamo bisogno, se due testimoni confermano un tentativo di aggressione?”

“State invocando una punizione nei confronti di un vostro compagno, con la pretesa di essere dalla parte della ragione, e cosa vi conferirebbe il diritto di ergervi a giudici?” interrogai il mio amico scrutando nel fondo dei suoi occhi tersi. “Sarebbe, forse, il pretesto di essere stati schierati dalla parte giusta della guerra a rendervi idonei a porvi al di sopra di un vostro pari, senza preoccuparvi di conoscere la sua versione?”

“No, Dohko...” indugiò con lo sguardo rivolto a terra, forse assorto in una riflessione. “Il mio intento non è questo.”

“Bene” annuii con sollievo, conoscevo Mu e sapevo fosse contraddistinto da virtù quali razionalità e discernimento. “Ne sono lieto. Andrò a parlargli di persona e più tardi conferirò con gli altri due.”

 

 

I paramenti sacerdotali erano un vero intralcio nelle attività quotidiane ma, dovendo intraprendere il percorso dal Tredicesimo Tempio alla Settima Casa, mi ero dovuto adeguare.

Faceva sempre un certo effetto vedere un'altra persona con indosso la mia armatura – una persona che non fosse il mio discepolo – l'attitudine era diversa, il portamento, e tuttavia le Sacre Vestigia si adattavano alla corporatura sottile armonizzandosi con grazia al volto delicato. Strizzai gli occhi per sfuggire al riverbero del sole che s'infrangeva sulla corazza.

Il Santo di Libra si spostò all'ombra delle colonne e, in silenzio, indietreggiò per cedermi il passo. Procedetti di poco più avanti e poi mi arrestai voltandomi: “Il mio cammino termina qui.”

“Credevo foste intenzionato a procedere in direzione della Prima” affermò orientando lo sguardo in linea con la svolta che curvava verso il Tempio successivo.

“Invece sono qui per te” dissi togliendo il copricapo e, soppesandolo, lo collocai su un ripiano di pietra. "La Prima? E perché proprio la Prima?"

Il ragazzo inarcò le sopracciglia per poi fissarmi con gli occhi cerulei senza distogliere l'attenzione.

“Così... è un pensiero che mi è sorto del tutto spontaneo” replicò, sfregandosi alla base del naso e sbirciando da sotto le folte ciglia.

“Sarò conciso” insinuai. “Temi forse che Marin dell'Aquila possa – in tempi brevi – concorrere per l'armatura di Pisces? Perché, detto onestamente tra noi, il Custode della Dodicesima Casa pare si stia lasciando andare, e il cosmo di Athena nulla può trattandosi di abdicazione della volontà.”

Misty schiuse le labbra, si riscosse dalla postura rigida e impettita che il contesto formale gli imponeva. “No! Søren non verrà soppiantato da quella... Tornerà alla Dodicesima Casa, lo riporterò indietro!” esclamò, stringendo i pugni, ma all'improvviso impallidì e si morse il labbro. Non mi aspettavo una reazione del genere: che fosse davvero preoccupato per suo fratello? Si stava maledicendo per non essere stato in grado di tacere?

Non risposi, sebbene quell'affermazione imponesse una severa replica da parte mia. Qualsiasi piega avesse voluto prendere il destino mi ero ripromesso di non interferire, e le parole del Santo sottintendevano molto più di quanto si potesse immaginare.

“La tua risposta conferma l'astio nei confronti di Marin.” Mi limitai a osservare, curioso di apprendere con quale faccia tosta si sarebbe giustificato.

“Voi sapete...” Si voltò verso una colonna di pietra, forse per dissimulare l'imbarazzo.

“Ho i miei informatori” ribattei asciutto.

Finse di sistemare il mantello – già perfettamente agganciato – agli spallacci dell'armatura: “Non è stato un gesto premeditato privarla della maschera; provenivo dal Tredicesimo Tempio, avevo appena discusso con voi ed ero stato umiliato. Dulcis in fundo... ho incontrato quella donna nella Dodicesima Casa e ho pensato non fosse degna di rendere omaggio al Santo di Pisces per la slealtà dimostrata nei suoi confronti. È probabile voi non riusciate a capire, in quanto persistete in una visione unilaterale dei fatti.”

Un'esternazione veemente e coraggiosa, non c'è che dire...

“Non approvo ma riconosco di non biasimarti” confessai, riprendendo possesso dell'elmo per collocarlo sul capo. “Un'altra cosa: vedo che non hai perso l'abitudine di agire di testa tua, ma non ne farò parola con Saori Kido per il momento. Hai già designato colui che ti accompagnerà nel viaggio?” esternai, in tono confidenziale.

Ebbene, sì, avevo realizzato che l'incidente occorso con la Sacerdotessa dell'Aquila non fosse dovuto a una casualità, ma era un chiaro segno del destino affinché io e Misty potessimo fronteggiarci ancora una volta...

“Viaggio? Quale viaggio?” spalancò gli occhi, impallidendo ancor più di quanto già non fosse.

“Non negare e rispondi: su chi grava la tua decisione? Devo sapere chi si assenterà dal Grande Tempio per un periodo relativamente lungo.”

“Algol di Perseus” replicò, senza indugiare oltre, doveva aver capito che non gli sarebbe servito mostrarsi reticente di fronte all'evidenza. “Ma voi, come fate a conoscere le mie intenzioni? Non ne ho parlato con nessuno.”

“Niente più di un'elementare intuizione. È ciò che ho dedotto dall'affermazione che ti è sfuggita in risposta allo stato attuale in cui versa Aphrodite, o Søren, come preferisci. L'aver vissuto per oltre due secoli è sufficiente affinché le azioni dei Santi; le parole e i gesti, risultino per il sottoscritto abbastanza eloquenti.”

Iniziavo a far luce sulla scelta dell'armatura, ricaduta su un individuo il quale – a suo modo – si stava dimostrando adatto. I pregiudizi nei suoi confronti erano sul punto di crollare e mi stavo quasi preoccupando per lui.

“Potresti non fare ritorno, mettendo altresì a repentaglio l'incolumità di un Santo privo dell'ottavo senso. Ne sei consapevole?”

“Ma Algol si è detto disposto a sacrificarsi di buon grado per me, e non sarò certo io a impedirglielo.”

 


 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


 

 

 

I prati di asfodelo, capitolo XII

 

 

 

“Come pensi di oltrepassare la soglia di questo mondo?”

“Tramite un oggetto: lo specchio che permetteva ad Aphrodite di catapultarsi a Delfi, o nella dimora olimpica di Apollo. Un dono che il dio stesso gli aveva consegnato di persona, così mi è stato riferito.”

È assolutamente plausibile che ci sia lo zampino di Apollo ad aver ispirato una scelta intrepida e folle, ma a che pro? A conferma di un atto amorevole nei confronti della progenie? E perché no? Mi sovviene proprio ora la rappresaglia del dio, in combutta con Artemide, in risposta all'oltraggio perpetrato a Latona. Da questo e altri miti si evince l'interesse degli dèi o l'attaccamento – morboso – per la propria stirpe. Pertanto dovrei essere più propenso a considerare l'opzione di un'intercessione indiretta – subliminale – del dio, che abbia influenzato Misty in qualche modo. Dopotutto il suo proposito, di voler ricondurre l'anima del dodicesimo Custode nel regno dei viventi, potrebbe realizzarsi e costituire un atto di abnegazione peraltro disinteressato; ma al contempo utile a riabilitarlo agli occhi degli scettici. Io stesso evito di entrare in sintonia con individui non perfettamente allineati – quale lui è – negli schemi di una comunità controversa come quella del Santuario.

“Chi te l'ha detto?” chiesi, dopo essermi riscosso dai pensieri.

“Una delle persone più vicine a lui: il Custode della Quarta Casa.”

“Non comunicavate tra voi?”

“Aphrodite è molto riservato” concluse Misty con tono lapidario. Doveva essere un aspetto del carattere del fratellastro che non condivideva o non sopportava rivolto a se stesso.

Annuii e calò un breve silenzio.

“Dovrai muoverti con diplomazia una volta giunto nel regno delle ombre, dopotutto nemmeno tu hai acquisito l'ottavo senso perché quello con Apollo non è stato uno scontro vero e proprio” raccomandai, poco dopo.

“Pensate che io sia debole?” replicò, seguendo con lo sguardo la sagoma di un uccello che volteggiava nel cielo. “In molti lo pensano ma non lo dicono, sono convinti che io abbia avuto solo fortuna con l'armatura e preferirebbero vederla indosso a Shiryu...”

“No” contestai. “Ciò che altri assimilano a debolezza lo definirei più semplicemente: esitazione. Paura di esporti. Tutto qui. E poi non curarti delle opinioni altrui, tutti hanno il diritto di averne.”

“Non voglio provocare una guerra ma solo giungere a patti, pertanto è implicito l'intento di andarvi in pace.” Si schermì chiudendosi a riccio.

Sapevo che la mia onestà lo avrebbe ferito – come ogni volta in cui avevo dovuto esprimere un parere spassionato nei suoi riguardi – ma la menzogna, le false lusinghe, sono di gran lunga più degradanti della verità per quanto essa sia scomoda.

“Non credo la diplomazia costituisca un tratto distintivo del tuo carattere, tuttavia la motivazione che muove questa scelta sembra forte e determinante al fine di indurti a impegnarti a condurla con successo” soppesai l'espressione del ragazzo per un momento, i tratti erano rilassati, benché lo sapessi lungi dall'aver ritrovato una sorta di pace interiore, ma non esitai a puntualizzare alcune cose.

“Ripeto, avallare i tuoi propositi è una mia generosa concessione, ma c'è un nodo da sciogliere prima di ottenere il permesso di allontanarti in via definitiva.”

“Quale?” spalancò gli occhi chiari come colto alla sprovvista.

“Ti sei reso responsabile di un gesto grave che avrebbe potuto costarti l'espulsione o qualche altra sanzione poco piacevole a discrezione di Athena. Ho promesso che manterrò il riserbo su tutta la questione accollandomi una bella responsabilità, ma...” indugiai, conscio che la mia richiesta sarebbe risultata sgradevole. “Dovrai fare ammenda innanzi alla Sacerdotessa dell'Aquila.”

“È senz'altro generoso da parte vostra” riconobbe abbozzando un mezzo sorriso, e poi s'incupì. “Ma scusarmi con Marin... è difficile per me.”

“È difficile ma giusto” incalzai determinato.

Misty iniziò a passeggiare sul ballatoio adiacente alla facciata del Tempio, consapevole di non avere alternative in quanto l'esortazione costituiva di fatto un ordine.

“È un ricatto?” Si arrestò poggiando le mani sulla balaustra.

“Pensavi che ci sarei passato sopra?”

“In verità, no” desistette, catturando con due dita una ciocca di capelli che gli era sfuggita da sotto l'elmo.

“Quindi va da sé che non è del tutto un compromesso perché le scuse alla parte lesa, vituperata, oltraggiata, sono un atto imprescindibile.”

Stette in silenzio volgendo uno sguardo assente all'orizzonte, poi chiuse gli occhi mormorando qualcosa tra sé e sé. Aveva ceduto nonostante la riluttanza iniziale. Arguii che doveva essere davvero fermo nei suoi propositi. Si sentiva responsabile del fatto che lo spirito del proprio congiunto fosse intrappolato nell'Ade, ed era un fardello troppo pesante anche per un tale orgoglio smisurato.

“Ti aspetto al Tredicesimo Tempio, domani, nel pomeriggio” conclusi.

 

***

 

XXV

 

 

La statua di Athena si ergeva imponente, la ammiravo dalla vetrata della portafinestra che si apriva sulla terrazza; socchiusi le palpebre, abbagliato dal riverbero del sole che inglobava il pulviscolo, e indietreggiai volgendo un'occhiata ai ripiani stipati di libri. Ero sempre molto paziente ma l'attesa si era protratta oltre le aspettative, snervante. Sfilai l'elmo ravviando la chioma aggrovigliata, soffiando sui riccioli che ricaddero davanti agli occhi. Dovevo restare tranquillo, calmo, malgrado mi sentissi turbato, come pervaso da una strana inquietudine. Deposi il copricapo sulla scrivania iniziando a vagare nella stanza, soffermandomi davanti agli specchi incorniciati d'oro che pendevano dalle pareti alternandosi a vecchie croste. Ammiccai me stesso, compiaciuto.

Uno stridore di cardini mi fece trasalire e, d'istinto, mi voltai notando un inserviente sulla soglia.

Finalmente!

Dohko si era deciso a convocarmi nella Sala delle Udienze, dopo avermi fatto languire nella solita biblioteca per un lasso di tempo imprecisato. Ignoravo cosa avesse in mente ma ebbi subito conferma dei miei sospetti poiché, malgrado non si fosse pronunciato in precedenza, il Sommo aveva il pregio di essere diretto, esplicito, nelle sue intenzioni. Esitai prima di uscire e ricollocare l'elmo sul capo, dovetti trattenere un'imprecazione affondando gli incisivi nel labbro.

C'erano anche Marin e Aiolia, come supponevo, e stanziavano dinanzi al trono del Sacerdote, li scorgevo dalla posizione appartata in cui mi trovavo, attraverso l'apertura a due colonne, sormontata dall'architrave, che immetteva nella sala. Indossavano l'armatura pertanto si trattava di un incontro formale.

Insignificante – una. Il petto in fuori; le spalle possenti; immedesimato appieno nella parte dell'eroe e caricaturale come una parodia di se stesso – l'altro...

Seppure investito da una parvenza di nobiltà, il Leone non possedeva l'eleganza e la levatura morale del fratello Aiolos: era una caratteristica acquisita in linea diretta e non in virtù di qualche pregio, avevo iniziato a supportare quella tesi dal momento in cui avevo avuto l'occasione di metterli a confronto per la prima volta. Marin, d'altronde, non poteva che simpatizzare per uno così... una macchina da guerra, certo, ma anche – e soprattutto – sbruffone con poco cervello.

Sono dei trogloditi entrambi.

Ruotai gli occhi al cielo e con estrema riluttanza mi premurai di muovere alcuni passi. Lo sferragliare metallico echeggiò nel silenzio solenne in cui era immersa l'aula, annunciando la mia presenza agli astanti. I due figuri, che sostavano ritti sulla passatoia cremisi, si riscossero e li affiancai, senza tuttavia avvicinarmi troppo, chinandomi ai piedi della gradinata dalla cui sommità si innalzava il soglio del Gran Sacerdote.

Ma perché non ha convocato soltanto lei?

Non osavo alzare la testa. Dohko continuava a osteggiarmi, altrimenti non si spiegava un simile accanimento. Ma ben presto trovai il coraggio di studiare i lineamenti dell'uomo: sembrava neutrale, impassibile, come dovrebbe esserlo un giudice coerente col proprio ruolo. No, non mi odiava, gli ero semplicemente indifferente, alla stregua di una recluta o di un soldato semplice. Deglutii a secco, raspando la lingua asciutta contro il palato, con la solita disillusione che mi accompagnava dal giorno della rinascita.

“Alzati. Non dovresti rivolgerti a me, ma ai due Santi che hai guardato di traverso, con la coda dell'occhio, senza degnarli della tua preziosa attenzione” commentò. “Sai a cosa mi riferisco, non è vero?”

Annuii con un cenno, alzandomi in piedi, e finsi di soprassedere al sarcasmo alquanto inopportuno. Non mi sentivo in difetto nei loro confronti, distante dal comprendere che, forse, era il risentimento verso quella donna a rendermi così ostinato dal prendere ogni sciocchezza come un affronto personale.

“Sono qui per scusarmi con te, Marin. Ho esagerato a causa dell'antipatia che provo nei tuoi confronti, agendo d'impulso, ma non volevo mancarti di rispetto...” Mi posizionai di fronte a lei evitando di guardarla in faccia. La maschera era integra, Mu di Aries era stato sollecito a ripararla... quindi – tutti – al Santuario dovevano essere venuti a conoscenza dell'episodio, giudicandomi al di là delle mie effettive intenzioni a riguardo.

Mi proposi infine di penetrare la vacuità rigida del metallo interposto tra i nostri occhi. “Non l'ho fatto di proposito” sintetizzai, al culmine del disagio, sperando che per Dohko fosse sufficiente.

Non tolleravo la presenza di Aiolia e mi trattenni dal chiedere perché si trovasse lì.

“Se qualcuno non avesse tradito, come ti ostini a pensare tu, Misty, il Santuario – se non il mondo intero – sarebbe in balìa delle forze oscure.” Marin mi tese una mano e Aiolia annui alle sue parole con un'espressione soddisfatta e trionfante.

Con la stoccata finale, lei, mi aveva fatto passare per un egoista, immaturo, pretenzioso e arrogante, se non come un perfetto idiota. Abbassai gli occhi, con la sensazione di avere un cappio stretto intorno al collo, fissando la voluta di fumo esalata da un braciere per poi distogliere lo sguardo e incrociarlo con quello del Sommo. D'un tratto percepii un calore improvviso. Il volto bruciava.

Il silenzio dell'uomo era eloquente, assordante più della nota stentorea impressa nella sua stessa voce quando impartiva gli ordini o affibbiava insulti, e fui così sollecitato a stringere la mano alla donna, controvoglia. Sfilai la manopola emulando il gesto di Marin e poi ritrassi la mano che sgusciò via senza indugiare nella stretta. Sfregai il palmo sudato in un lembo del mantello.

“Aiolia è qui soltanto perché era presente nel momento in cui è avvenuto il disguido” precisò Dohko, come se mi avesse letto nel pensiero.

Schiusi la bocca senza mormorare alcunché. Quelle parole mi furono di conforto e confermavano che, in realtà, il Sacerdote non aveva convocato il Santo di Leo per umiliarmi.

“Mi auguro che non succeda più una cosa del genere” ammonì, in conclusione. Si levò dal seggio percorrendo la gradinata e si soffermò una volta giunto al livello del pavimento. “Marin, Aiolia, ora potete tornare alle vostre mansioni. Tu, invece, resterai qui” disse.

I due Santi si chinarono rispettosi e dopo si voltarono per raggiungere l'ingresso principale. La silhouette della donna; il suo movimento ondeggiante, ipnotico – come il meccanismo a oscillazione del moto perpetuo – catturò il mio interesse, tanto che non mi resi conto di accompagnarla con lo sguardo fino a quando non si dileguò.

Dohko si schiarì la voce. “È arrivato il momento di esonerarti dagli oneri che vincolano i Santi al servizio di Athena e del Santuario. Tu e Algol di Perseus vi allontanerete col pretesto di un banale incarico.”

Mi ricomposi con un battito delle ciglia, umettando le labbra secche. Il Sommo mi esortò a seguirlo, precedendomi nel cammino. Dopo essersi sfilato il copricapo aureo si liberò anche dai paramenti – che sistemò in un apposito armadio a muro ricavato da una nicchia – e rimase in abiti civili.

“Ti concedo alcuni giorni di riposo da trascorrere entro le mura del Tempio che custodisci, saranno utili a riflettere sulle mie raccomandazioni; dopodiché potrai lasciarlo senza preavviso” precisò, imboccando il corridoio che conduceva fino al giardino annesso alle vestigia dell'edificio.

La luce diurna mi riscosse dalla rigidità acquisita all'interno di quell'ambiente austero, e replicai alle direttive del Sommo con una sorta di silenzio di assenso. Avevo trascorso parecchie giornate all'ombra di quelle piante, non molto tempo fa, in attesa di recuperare la memoria, ed emersero diversi ricordi inerenti quel periodo di amnesia.

Dohko si rivolse a un'ancella ordinandole uno spuntino, doveva essere una consuetudine a quell'ora del pomeriggio, forse di ausilio per spezzare la monotonia del tempo trascorso a sistemare gli archivi o a pianificare eventi. Dopodiché si accostò a una colonna, a braccia conserte. Probabilmente anche lui stava rimuginando qualcosa. Mi sovvenne un argomento che mi era caro e da tempo desideravo sottoporgli, ma temevo risultasse inopportuno.

Mi distrassi guardando il sentiero di lastre sconnesse che divideva il quadrilatero del giardino botanico in due aree simmetriche. Presi un respiro trattenendo l'aria per un momento. La primavera era ancora lontana e l'inverno era mite in Grecia, sopportabile; giusto in quell'attimo riuscii a trovare il coraggio necessario per esporre la mia richiesta.

“Trovo inadeguata la sistemazione riservata ai membri della Casta intermedia.”

“Alludi ai Santi d'Argento?” Dohko sedette, riscuotendosi dai pensieri. “Ti hanno promesso qualcosa in cambio?” domandò sfoggiando una sorta di umorismo becero.

Forse non credeva alla bontà delle mie intenzioni, ma questa volta – davvero – non tramavo secondi fini. Sarei riuscito a convincerlo? La mia reputazione era così irrimediabilmente compromessa? Se sì, perché la decisione di resuscitare dei reietti?!

Per infoltire le schiere di Athena con pedine sacrificabili... le parole che avevo affermato in passato in presenza di tutti – dal Sommo alla recluta – riecheggiavano impresse nella memoria come un marchio a fuoco, ma avevo giurato a me stesso di non ripetere lo stesso errore. Non dirlo, però, non mi esentava dall'esserne convinto, dal pensarlo... Di riflesso serrai la mano a pugno per poi abbandonarla in grembo.

“Pensatela come volete, ma abbiate la compiacenza di valutare e prendere in considerazione la proposta. La parità di trattamento assicura un esercito coeso e incorruttibile.”

“Ne parlerò con Athena quando ritornerà al Santuario, sappiamo che a lei spetta l'ultima parola” rispose quasi con leggerezza.

Sfilai elmo e mantello riponendoli sulla panca di pietra. Sedetti di nuovo guardando il baklava contenuto nel vassoio che l'ancella aveva riposto di fronte a noi, ma avevo lo stomaco chiuso e non sarei stato nemmeno in grado di inghiottire la saliva.

“È mio unico interesse intraprendere la missione, e sapete che lo scopo non riguarda Athena né il Santuario. Ragion per cui cedo l'armatura. Il vostro discepolo saprà sicuramente farne buon uso.”

“Arrogante. Non hai facoltà di prendere una decisione del genere. Che tu faccia ritorno o no dal tuo viaggio, le Sacre Vestigia di Libra ti hanno scelto come legittimo possessore; e nella peggiore delle ipotesi esse si ricomporranno al Settimo Tempio in attesa di un nuovo destinatario” affermò Dohko, per poi accingersi a consumare il dolce.

 

***

 

 

XXVI

 

 

Spalancai gli occhi nel buio, immobilizzato come per effetto della paralisi indotta da un morso velenoso.

Preferisci rimediare una cicatrice indelebile?” Una voce femminile vibrò attraverso la maschera inespressiva; la quale rifulse plasmata da un sinistro bagliore d'argento. Quello che doveva essere un corpo contundente premette di taglio sulla guancia. “Lasciarci la vita?”

Schiusi le labbra senza parlare e di riflesso provai a ritrarmi, a divincolarmi – seppur inibito da pastoie invisibili – realizzando che, col filo tagliente dell'arma, la donna stava tracciando una linea per giungere alla base del mento, scivolò sul collo e indugiò puntando alla gola.

Qualsivoglia rigurgito di ribellione si spense. Rabbrividii. Avevo percepito il tessuto della tunica tendersi per poi udire uno strappo, e il percorso della lama si consumò lungo il plesso solare, sulla linea alba.

Oppure potresti scegliere di lasciarti andare...” sibilò, come un rettile, la voce distorta e demoniaca. Percepii un peso, un calore umido, come se la presenza si fosse accovacciata su di me. Si mosse con lentezza calcolata, strusciò, mi stava cavalcando?! Ero troppo inebetito per riuscire a comprendere cosa stesse succedendo e scivolai dentro di lei assecondando una pulsione istintiva. Una sensazione di disgusto mi fece accapponare la pelle. È aberrante concedersi a chi si odia, no, di più, è orribile! Sperimentai ammettendo che, spesse volte, avevo fantasticato immaginando il contrario. Tutto ciò suonava beffardo e inesorabile come la legge del contrappasso nel momento in cui si compie...

Tentai di dimenarmi, urlare – invano – intrappolato come una crisalide nel bozzolo, sondando nella notte con gli occhi sbarrati. Il sudore ruscellava lungo le tempie e mi ero destato respirando a fatica, ma riscoprendomi finalmente libero come se anima e corpo si fossero ricongiunti in un tutt'uno.

Mi guardai intorno con circospezione: il riverbero della luna filtrava attraverso la finestra inondando la stanza vuota, tastai gli indumenti appiccicati addosso ed erano intatti; non percepivo alcuna ferita sul volto. Era stato un incubo, sì, doveva essere stata una sorta di allucinazione. Mi raggomitolai nel letto nonostante avessi le membra intorpidite, avevo voglia di vomitare, di strapparmi la pelle di dosso, e cedetti a un pianto liberatorio.

Mi aveva sconvolto a tal punto l'essere stato costretto a scusarmi con Marin, in modo tale che la bastarda riusciva a perseguitarmi anche in sogno?

Mi alzai procedendo a tentoni verso il corridoio che conduceva nell'ala pubblica del Tempio e, una volta giunto all'esterno, caracollai su per le scale illuminate dai bracieri, come un automa.

 

“Misty?!”

Riconobbi il Santo di Scorpio alla luce delle torce. “Sei sicuro di stare bene?” domandò dopo avermi scrutato a fondo.

Avevo la mente annebbiata, ottenebrata, mi ero svegliato di soprassalto giungendo, senza rendermene conto, fino al vestibolo dell'Ottava Casa. Ero reduce da una giornata che non avrei dimenticato facilmente. Passai le mani prima sul volto e dopo tra i capelli umidi. D'un tratto percepii qualcosa gravare sulle spalle per poi realizzare che Milo mi aveva ceduto il mantello. Me lo strinsi addosso.

“Sì” risposi. “Vorrei solo raccontare un sogno che ho fatto... a mio fratello.”

“Certo, lo capisco” replicò Milo, perplesso. “Ma Aphrodite non può ascoltarti” soggiunse con aria compassionevole, come se si stesse rivolgendo a un disgraziato che aveva perso il senno.

Battei le palpebre, dovevo avere ancora le lacrime agli occhi poiché le sentii scorrere, calde, lungo le guance. “Hai ragione, lo avevo rimosso, non ricordavo.”

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


 

 

I prati di asfodelo, capitolo XIII

 

 

“Puoi raccontare a me il sogno, se lo desideri.”

Guardai Milo, ricomponendomi: “No, non credo sia il caso, è imbarazzante quanto basta e non è così importante” risposi girando sui tacchi per ripercorrere la scalinata all'indietro.

“Come preferisci” replicò. “Forse l'inquietudine che provi è l'effetto dei rimorsi, del pentimento.”

“Quale pentimento e per cosa?” domandai, voltandomi di nuovo verso il Santo dell'Ottava Casa.

Quella sicumera mi infastidiva. Milo non era uno stupido ma l'ostentata fede – cieca – in Athena lo avviliva. Un Santo dovrebbe possedere senso critico al di là dell'essere ostinatamente ligio al dovere.

“E lo domandi?” insisté, provocatorio.

“Hai forse presenziato ai fatti, per essere così sicuro che io abbia commesso qualcosa di cui dovermi pentire?”

“La fama delle persone coinvolte mi dà certezza delle mie convinzioni” affermò corrugando la fronte e, in risposta, sorrisi, tanto per sdrammatizzare.

“Sono i soliti pregiudizi ma non posso convincerti del contrario, forse il tempo mi darà ragione” sospirai sfilando il mantello per restituirlo al legittimo proprietario. “Se permetti, ci ho ripensato. Voglio salire lo stesso al Dodicesimo Tempio per vedere Søren, anche se lui non può ascoltarmi... e domani è un altro giorno.”

Lasciai Milo con un'espressione inebetita impressa sul viso. Aveva deciso di farmi passare senza battere ciglio, dopotutto sapeva che lo stimavo e lo reputavo una persona intelligente.

 

***

 

XXVII

 

Saori?!

Alzai gli occhi dal piano della scrivania tralasciando il faldone di documenti che stavo esaminando. La dèa irruppe a sorpresa nella biblioteca, con l'impeto di una raffica di vento. Aveva fatto ritorno al Santuario senza alcun preavviso.

“Dohko!” esclamò. “Non sopporto mi si scavalchi, che mi si tratti come una ragazzina priva di discernimento, sempre ultima a sapere le cose.”

Scarabocchiai alcuni ghirigori su un foglio a parte e poi scostai la sedia all'indietro, alzandomi in piedi, incapace di trattenere lo stupore. “A cosa vi riferite, milady? Non capisco.”

“Non fate il finto tonto” sibilò lei con le labbra tremanti. “Adesso è troppo, ho sorvolato troppe volte ma adesso basta, è ora di farla finita.”

“Farla finita con cosa?”

“Con quel presuntuoso che crede di essere chissà chi. Non gli è bastato svignarsela dal Santuario col pretesto di intrattenere rapporti diplomatici con un mio pari, senza averne facoltà, e di conseguenza giocarsi la vita del dodicesimo Custode per vanagloria. No! Si è permesso anche di umiliare la maestra di Seiya” passò le mani sul volto e prese un respiro iniziando a percorrere lentamente il perimetro della stanza. “E voi, cosa fate? Assecondate le sue manie di grandezza reggendogli il gioco a mia insaputa.”

Seiya, Marin...

Saori forse avrebbe chiuso un occhio su altre faccende ma non in merito a qualcosa che coinvolgesse – in modo diretto o indiretto – il suo pupillo, i suoi favoriti. In cuor mio temevo, presumevo, reagisse come una bambina viziata e per questo avevo mantenuto il riserbo.

Ho ancora molto da imparare – sono parole vostre riferite a voi stessa, divina Athena, le ricordate? Pensavo mi aveste accordato fiducia a sufficienza da prendermi la briga di agire senza consultarvi, evitando di annoiarvi con la bravata della maschera.”

“Sì, sono parole mie e voi siete un impertinente – in realtà – privo dell'autorità che vi siete arrogato in questo caso specifico. Come si suol dire: il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, e queste mura hanno occhi e orecchie” disse armeggiando con gli oggetti posti su questo o quel ripiano, scaffale o mensola. Afferrò la bacchetta preposta a evidenziare le aree geografiche sulla cartina. Ne saggiò la resistenza, flettendo l'oggetto con le mani, per poi fendere l'aria a vuoto un paio di volte tanto che mi soffermai a guardare la scena perplesso.

“Allora saprete che Libra si è già scusato con Marin, si sono chiariti” replicai dopo essermi riavuto dallo straniamento. “In merito alle altre questioni... credevo fosse tutto risolto, non è da voi rivangare eventi – per così dire – spiacevoli.”

“Le scuse non sono sufficienti, considerata la gravità dell'offesa perpetrata a danno dell'amazzone” sbuffò, passando dalla collera all'insofferenza. “Meritereste di essere sollevato dall'incarico di Gran Sacerdote per aver liquidato l'episodio con tanta leggerezza.”

Non mi lasciai intimidire, attardandomi a guardare il cielo limpido attraverso la vetrata: “Sono spiacente. Potrei aver commesso l'ennesimo errore di valutazione ma non credo di aver agito con leggerezza, dopo aver appurato l'onestà del Santo di Libra” detto questo recuperai il plico di incartamenti per inserirlo nell'archivio.

“Non difendetelo. È il vostro buon cuore a trarvi in inganno, Dohko. Anche io ho sbagliato con lui confidando erroneamente – innumerevoli volte – nella sua buona fede, irretita dal suo viso d'angelo. Questa volta non sentirò ragioni.”

Il mio timore era fondato quando avevo preso la decisione di non informare Saori sull'accaduto, benché non credessi – fino a prova contraria – che si sarebbe infuriata al punto da esternare l'aggressività latente nella sua personalità. L'errore di Misty non risiedeva nelle mancanze che gli venivano rimproverate ma nell'essersi rapportato con impudenza nei confronti di Saori, ferendola ripetutamente nell'orgoglio. Lei se l'era legato al dito serbandogli rancore. L'incidente occorso a Marin era stato l'ulteriore goccia a far traboccare il vaso.

Saori è la reincarnazione di Athena, malgrado l'aspetto fragile, e alcuni Santi si ostinano a dimenticarlo. Maledizione...

“Convocate subito i vari ranghi a consiglio, sullo spiazzale dove sorge il Tredicesimo Tempio, cosicché io possa impartire a quell'insolente la lezione che merita.”

Mi voltai di scatto, ahimè, senza avere il tempo di reagire poiché Saori aveva già raggiunto l'uscita.

 

Il Santo di Libra mi stava studiando a fondo e sembrava privo di risentimento. Ciò che leggevo nei suoi occhi azzurri era pura disillusione, impazienza di avere delucidazioni sul mio ruolo nella vicenda: se lo avessi tradito con un voltafaccia oppure fossi un ignavo. Non avrebbe avuto tutti i torti a sospettarlo vista la pantomima – più o meno discutibile – che avevo recitato, per anni, impassibile sulle montagne di Goro-Ho, mentre la guerra civile imperversava decimando i Santi al Grande Tempio. Chinai la testa e poi sbirciai di sottecchi le espressioni degli altri. Alcuni Santi erano esterrefatti. Saori sfoggiava il piglio usuale in chi brandisce le armi e le redini del comando. Energie sprecate – a mio avviso – le quali profuse in circostanze diverse sarebbero risultate ben più proficue.

La supponenza di uno dei suoi aveva risvegliato l'indole autoritaria – non autorevole – dissimulata dietro il sembiante innocente di fanciulla. Mi sentivo in colpa per aver sottovalutato ogni possibile risvolto di quello che avevo ritenuto uno screzio trascurabile tra due Santi; in colpa per Misty, che persisteva a trafiggermi con uno sguardo interrogativo, inquisitorio.

“Chi ha creduto che l'oltraggio alla dignità di una Sacerdotessa passasse inosservato avrà la dimostrazione dell'esatto contrario” sentenziò la déa.

In risposta Misty sfilò l'elmo, col decoro che lo contraddistingueva, e sostenne il di lei sguardo senza proferire verbo; il volto pallido, l'ovale perfetto lambito da nastri di capelli scompigliati dal vento. Somigliava molto ad Aphrodite. Strano che non avessi mai ponderato – prima di apprendere dell'esistenza del legame di sangue – sulla loro similitudine. Mi grattai il capo, riflettendo sul fatto di essermi reso complice dei propositi che mi auguravo riuscisse ad attuare, senza considerare eventuali imprevisti. E adesso? Forse il suo piano si sarebbe ridimensionato a mera utopia nell'impossibilità di realizzarsi.

Il mio ruolo, la mia presenza, non aveva alcun peso in quel frangente, purtroppo ero relegato ad assoluta impotenza.

Saori attraversò il breve spazio, che si estendeva tra il seggio allestito per l'occasione e il consesso dei Santi, ponendosi di fronte al Santo di Libra distanziato di qualche spanna rispetto agli altri.

“Ti avevo già avvertito a proposito dell'utilità di ciascun elemento nelle rispettive Caste. Utilità proporzionale al valore, alla condotta, nel tuo caso deprecabile per non dire riprovevole.”

Il ragazzo alzò un sopracciglio, senza aprire bocca; che fosse colto alla sprovvista da non riuscire a pronunciare due sillabe in croce? Eppure non era incapace di argomentare, al contrario, dava spesso prova di essere disinvolto con le parole, ed era probabile non avesse alcuna voglia di mettersi a discutere con Athena.

Chi tace acconsente e in questo modo stai avallando le accuse che ti sono imputate, ma perché lo fai?

Saori si accigliò. “Giustificati, ora. Sempre tu abbia una giustificazione valida” insisté, ma in risposta vi fu ostinato silenzio. Il volto della dèa era divenuto color melanzana. Il modo di porsi dell'interlocutore doveva averla fatta inviperire come non mai.

Il Santo di Libra si riscosse con fare quasi impercettibile da una postura ingessata, forse dovuta al sentirsi come un pesce fuori dall'acqua e invischiato in una trappola dalla quale non riusciva a liberarsi. Ero certo non si capacitasse del mio silenzio. Alzò il mento e con un moto dello sguardo indugiò sugli acroteri che coronavano l'apice del frontone del Tempio. Atteggiamento da interpretarsi come una chiusura definitiva al dialogo.

“Niente. Non ho nulla da dirvi che non sappiate” esordì poi, con parole selezionate con cura, e d'un tratto serrò le palpebre destandosi bruscamente dalla dimensione parallela in cui fluttuava, indotto a toccarsi la guancia dove era comparso un taglio obliquo. Divenne bianco come la cera, dopo aver scorto del sangue sulle dita, e si chinò per recuperare da terra l'elmo sfuggitogli dalle mani. Esitò, prima di rimettersi in piedi, come se il gesto di colei in cui riponeva la propria fiducia lo avesse destabilizzato emotivamente.

Strabuzzai gli occhi, allibito. In quel mentre mi sovvenne l'episodio in cui Saori mi aveva contestato l'uso della violenza che lei non tollerava. Ipocrita. La sua mente doveva essere molto contorta o ero io lo stolto.

Udii un mormorio d'indignazione nel gruppo degli astanti. Quello scatto d'ira fu percepito come imbarazzante – inammissibile – anche per coloro i quali ritenevano Misty una persona indisponente. Mi precipitai alle spalle di Saori poiché la vidi in procinto di sferrare il secondo colpo sul malcapitato, ma la anticipai.

“Smettetela! Il mancato autocontrollo, in pubblico, è inaccettabile e denota immaturità.” Le sussurrai all'orecchio. “Stride con ciò che rappresentate.”

“Ma, Dohko... avete perso la pazienza anche voi con lo stesso soggetto, e più di una volta. È impossibile rimanere calmi.” Mi rinfacciò abbassando il braccio lungo il fianco e guardandomi negli occhi con aria sommessa, quasi delusa per il mio intervento che le aveva scombussolato i piani.

“Ma io sono un uomo semplice, fallibile, riflesso delle proprie debolezze, ho ammesso di aver sbagliato e mi sono pentito. Voi siete l'incarnazione della dèa della Giustizia, della Guerra, delle Arti. È diverso. Dovreste porvi come esempio: una sorta di modello di virtù da seguire” soggiunsi, sempre sottovoce. “Autorevolezza, milady. Autorità e abuso di potere non sono sinonimi di autorevolezza, io l'ho imparato a mie spese. Seguite il mio consiglio è per il vostro bene.”

“Ma.”

“Volete perdere il rispetto e la fiducia dei Santi, a fatica conquistati? È questo che volete?”

“No.”

“Allora vi prego di non continuare su questa china” ripresi.

Saori abbassò gli occhi e spezzò la bacchetta di legno a metà scagliandola via. Mi allontanai da lei e, nel frattempo, qualcos'altro attirò la mia attenzione.

“Divina Athena, si è già scusato con me.” Marin dell'Aquila aveva spezzato i ranghi dei Santi allineati, infrangendo la fittizia linea di demarcazione che sanciva il divario tra i militi e l'autorità superiore. “Per me è più che sufficiente.”

“Non sarai tu a stabilirlo, Marin dell'Aquila, per quanta considerazione e fiducia riponga nei tuoi confronti” precisò Saori.

L'amazzone fece un passo indietro e chinò il capo assicurando la fascia rossa che le cingeva la vita e Misty, dal canto suo, sgranò gli occhi come colto da stupore poiché la donna lo aveva dapprima sfiorato con un braccio inducendolo a incrociare lo sguardo stralunato con il proprio.

Congiunte al brusio di disapprovazione si dipinsero espressioni di sdegno su alcuni volti, non ultimo quello di Aiolos: “Milady, anche io ho parlato col Santo di Libra e ho avuto l'impressione che le scuse rivolte a Marin siano sincere.”

Se lo sosteneva Aiolos doveva essere senz'altro vero. Sistemai il mantello sopra agli abiti civili, Saori non mi aveva neanche dato il tempo di indossare i paramenti. Mi voltai per raggiungere lo scranno situato accanto a quello vuoto della dèa, sedetti accavallando le gambe, mi guardai le mani e poi le unghie. Ero stato sollecito a dissuaderla dal mettersi in cattiva luce. Sollecito ma non tempestivo nel prevedere e fermare il gesto incivile che aveva gettato un'ombra di discredito rischiando di pregiudicare quanto di buono era stato costruito finora. Avevo salvato il salvabile ma la protervia e l'impulsività di Saori avrebbero inasprito antichi rancori e infervorato gli animi, me lo sentivo.

“Hai un animo nobile, Sagittarius. Non dimenticherò questa propensione a prodigarti con generosità anche nei confronti di chi non lo merita.”

“Permettete, divina Athena. Sarebbe già tutto risolto con le scuse presentate dal responsabile e accolte dalla controparte. Credo che il Sommo Sacerdote abbia agito con saggezza, concedendo il perdono – al posto vostro – al Santo della Settima Casa” esordì Mu di Aries. Si era pronunciato con schiettezza in difesa del Santo di Libra, conscio che le sue parole avessero un peso determinante.

Anche Saga si unì al coro delle proteste: “Sono d'accordo” disse, seguito da Capricorn il quale annui in silenzio. Ai due sembrava non importare di essere invisi dai più, e anche Cancer fu sul punto di intervenire ma lo indussi a tacere per tempo con un cenno. Lo spettro del passato acuiva un sentimento di solidarietà in alcuni di loro, era innegabile.

“In queste circostanze, non per defezione ma per inadempienza – sommando tutta una serie di infrazioni – decreto il passaggio delle Sacre Vestigia di Libra a Shiryu” sentenziò Saori. “E... tu, invece, tornerai in prigione a languire nella sporcizia e nell'indigenza, e ci resterai fino a quando non avrò deciso cosa fare con te: se mandarti in esilio o trovarti una sistemazione più consona, dato che in veste di Santo d'Oro sguazzi nella mediocrità.”

Misty roteò gli occhi al cielo condensando nella labile espressione di disappunto il disprezzo per le scenate plateali. Sospirò limitandosi a prendere un fazzoletto dalle mani di Babel e tamponare la ferita. “Subordinato alla vostra autorità, accetterò qualsiasi decisione prendiate, divina Athena; ma non posso esimermi dall'avvisarvi che siete sulla rotta dell'incidente diplomatico” ribatté raccogliendo metaforicamente il guanto di sfida.

Guardai in basso poiché rilevai una sorta di instabilità causata da un movimento tellurico, mi sovvenne un sospetto, rialzai la testa con apprensione e constatai ciò che temevo: era come se in quegli occhi adombrati dall'ira vorticasse un bagliore di fiamme, il Santo di Libra era circonfuso da una potente aura. “Basta!” esclamai al suo indirizzo, incurante del dolore causatomi dall'emicrania, e fu allora che Misty desistette. Si spense e abbassò il capo in segno di resa.

Saori era impallidita ma la rassicurai con uno sguardo. L'esternazione del ragazzo non suonava come una minaccia, bensì come un pretesto per rinfrescarle la memoria su quali fossero i suoi nobili natali. Non riuscivo a biasimarlo visto il modo indecente in cui era stato trattato, ma stava oltrepassando i limiti e – considerato come il Santuario fosse un ambito di semplice apparenza – intervenire era d'obbligo.

Shiryu alzò la voce nel brusio delle altre: “Trovo disonorevole acquisire le Sacre Vestigia senza un duello o una prova regolamentare.”

Il mio discepolo si dimostrava saggio, come sempre, e sapevo non avrebbe approfittato della situazione per elevarsi a un rango superiore per quanto ci tenesse.

“Silenzio” replicò Saori, irremovibile.

Affondai le mani tra i capelli, dopo mi voltai cogliendo Asterion di Canes Venatici nell'atto di fulminare con un'occhiata Algol di Perseus.

Cosa avrà letto nella mente del saudita?

Scacciai l'interrogativo ed eventuali dubbi, irrilevanti in quel momento, per dirigermi verso Saori, determinato ad accompagnarla nei suoi appartamenti. Da sola avrebbe avuto la possibilità di riflettere a mente fredda, ed ero certo sarebbe ritornata sui suoi passi quando le acque si sarebbero calmate. La sua era una decisione avventata, quasi folle, e sembrava più una ritorsione. Dimenticava, o fingeva di ignorare, che l'armatura di Libra aveva scelto spontaneamente il Santo da lei declassato senza un processo equo?

 

***

 

XXVIII

 

Ricordai le fattezze del caprone che puzzava di stantio: la creatura che, per qualche tempo, aveva vegliato su Misty quasi fosse stata la sua stessa ombra, ma fu una visione astratta e svanì all'istante. Nessun intervento umano o divino avrebbe cambiato le cose, non era un privilegiato, non figuravamo nella lista dei raccomandati. Impossibile confidare nel miracolo, ne eravamo consapevoli entrambi.

Il sangue pulsava alle tempie, sopraffatto dall'ira stavo rimuginando invano. Avevamo vissuto l'intera esistenza devoti a una dèa, reincarnatasi in una mocciosa viziata, che si era permessa di infliggere dolore a piacimento a un Santo d'Oro nemmeno fosse un blando oggetto di piacere, l'ultimo dei servi.

Che sia maledetta in eterno e gli dèi mi perdonino. E Dohko? È un lacchè, indolente, ma onesto.

Mi ero addentrato con fare circospetto nelle segrete – dopo aver esibito il lasciapassare – e pervenni cauto nel luogo dove era stato confinato il mio amico. Sapevo che il cosmo fosse inibito nei sotterranei del Santuario, pertanto fui indotto a soffermarmi in silenzio sulla soglia della cella. C'era poca luce ma quel poco bastava per distinguere una figura familiare tra le ombre. Mi indisponeva vederlo così: spogliato dell'armatura, con indosso solo l'uniforme, degradato e umiliato.

Scivolò lungo la parete giungendo a contatto col terreno sul quale si abbandonò mollemente, disteso con le braccia lungo i fianchi a fissare il vuoto, smarrendosi nel buio della volta che lo sovrastava come un abisso.

Eh, no! Non è il momento di dormire.

“Alzati, su, coraggio” esordii senza annunciarmi. Il suo atteggiamento rinunciatario mi aveva convinto ad agire.

Misty si voltò lentamente sul fianco e alzò la testa. Sembrò riconoscermi ed ebbe un sussulto di dignità, buon per lui perché stavo perdendo la pazienza. Si alzò in piedi e – non senza difficoltà – mi raggiunse.

Si abbandonò con riluttanza in un abbraccio rigido, malgrado l'impedimento della grata. Gli sfiorai la fronte che poi chinò sulla sbarra orizzontale dell'inferriata dopo essersi distaccato. Avrei voluto trattenerlo ma lui era sgusciato via, come infastidito dal contatto con l'armatura. Saggiai sulle labbra un sapore acre, un connubio di sudore e salsedine.

“Algol” disse. “Non dovresti essere qui di tua iniziativa perché è impossibile senza il permesso di Athena o del Sommo Sacerdote, e non esiste cosmo che possa annullare il sortilegio che pervade queste mura. Come hai fatto a passare? Hai corrotto le guardie?”

“Il cosmo è annullato ma non lo è il potere del mio scudo, è bastato intimare alle sentinelle che le avrei lasciate di sasso.” Lo presi in giro bonariamente perché le cose erano andate in modo diverso da come immaginava.

“E cosa vorresti fare, adesso? Perché sei qui?” Un sorriso gli ravvivò il volto terreo, di un pallore mortale.

“Sta' tranquillo. Sono qui di mia sponte poiché ho convenuto di non avere più nulla da spartire con quegli individui.” Mi voltai sputando a terra, non riuscivo a trattenere lo sdegno. Ciò a cui avevamo assistito doveva essere stato troppo anche per me.

“Sono crollato sotto il peso della disperazione.” Misty tornò serio, prese un profondo respiro e rimosse il sudore dalla fronte col dorso della mano. Gli tremavano le labbra e aveva le sclere arrossate. “Nemmeno un uragano abbatterebbe queste mura e non ho dimenticato l'obiettivo che mi sono ripromesso di perseguire, ma sono in trappola e forse lo sarò per sempre...”

Tacque, restando con la bocca semiaperta, nel frangente in cui estrassi il mazzo di chiavi per inserirne una nella serratura e aprire. Mi aveva visto armeggiare con lo specchio, e uno sprazzo di luce rimbalzò sulla superficie dell'oggetto che non esitò a strapparmi dalle mani.

“E questo? Come hai fatto a procurartelo!?” domandò con protervia.

Piccolo arrogante, adesso avrai la risposta.

“Non guardarmi con quell'aria da imbecille. Sì, so esattamente a cosa serve. Ho ricevuto un piego sigillato a nome del Sommo Sacerdote con cui mi informa di conoscere le tue intenzioni e desidera ancora aiutarti, nonostante tutto. Mi ha dato delucidazioni anche in merito allo specchio. Quindi mi sono diretto alla Settima percorrendo il solito sentiero, e non ho faticato a trovare l'oggetto sapendo dove hai l'abitudine di custodire le cose sacre.”

 

A differenza di altri non serbavo rancore nei confronti di Marin perché il suo essere di parte non mi aveva mai coinvolto in prima persona. Sì, sono un fottuto egoista. Tuttavia l'avevo evitata guardando al lato opposto dell'arena: l'atteggiamento stucchevole, languido – da gatta morta – specialmente quando si intratteneva con l'idiota della Quinta Casa, mi innervosiva. Soprattutto se pensavo agli ultimi sviluppi in cui il nostro ex-leader era fuoriuscito di scena, e giaceva rinchiuso in una fetida prigione da diversi giorni. Lei ne aveva una colpa, oh se l'aveva. Bastarda, ipocrita, infame. Non aveva mai smesso di provocarlo, più o meno volontariamente, ma poteva permetterselo perché la responsabilità sarebbe sempre ricaduta sull'altro. Mi ero trattenuto dal manifestare un gesto di rabbia, dovevo fare attenzione a non espormi. I favoriti di Athena erano intoccabili, ne avevo avuto la prova definitiva. L'avevamo avuta, perché i vertici continuavano a trattarci come ratti di fogna. Avevo incrociato lo sguardo con quello di Asterion e lui aveva annuito, squadrando Marin di sfuggita, per poi abbozzare un sorriso sardonico simile a una smorfia di disgusto. Pazienza se mi aveva letto nel pensiero... eravamo d'accordo. Ci eravamo guardati anche con Moses e Babel. Concordavamo sullo stesso argomento ma eravamo rimasti in religioso silenzio a rimuginare.

Shaina si era congedata da Marin dopo le ultime battute di allenamento nell'arena. Avevo alzato il mento all'indirizzo della rossa, scambiando un riso di scherno con i miei pari. Quel giorno nessuno aveva avuto voglia di cimentarsi in un duello fittizio e oziavamo in disparte, chi sugli spalti, chi a braccia conserte a ridosso del circolo di sabbia.

C'era stato qualcosa di insolito nel comportamento dell'amazzone, quasi una sorta di imbarazzo – e avrebbe fatto bene a vergognarsi – che l'aveva persuasa di non interagire con noi.

Mi ero staccato dalla muraglia di pietra, dal punto in cui mi ero attardato a gustarmi la scena, poiché un messo, inviato per conto di qualcuno dal Tredicesimo Tempio, mi aveva raggiunto sporgendomi una missiva con apposto il caratteristico sigillo. La gatta morta lo aveva notato e supponevo stesse impazzendo dalla curiosità di sapere cosa avessero in serbo per me – non per lei – dai piani alti...

 

 

Misty spalancò gli occhi. “Athena è all'oscuro di tutto” osservò distogliendomi da quel breve excursus di ricordi.

“Sì” confermai.

“Quindi Dohko ha mantenuto il segreto e ha deciso di aiutarmi, sebbene Saori si sia messa di traverso” soggiunse, ponendo la superficie riflettente contro la casacca. “Non sono così sicuro che lo specchio funzioni, non qui dentro, e sono senza armatura.”

“Avevi affermato che avresti oltrepassato la soglia degli Inferi senza armatura.” Gli ricordai con un tono brusco perché mi indisponevano i cambi repentini di atteggiamento ma, al tempo stesso, riconoscevo che non si fosse ancora ripreso dallo sconvolgimento.

“Sì, ed è quello che farò” replicò dopo una pausa che avevo attribuito al coraggio esitante.

“Dovremmo provarci. Non ci resta che provare, non abbiamo alternative.” Lo incoraggiai allungando una mano verso il suo viso, e sfiorai con le dita i margini sollevati del taglio che lo deturpava. Un vero e proprio sfregio a un'opera d'arte.

Questa è la conferma di come l'incarnazione di Athena sia una sciacquetta insulsa e ignorante.

Strinsi i denti. “Sono i fatti a fare la differenza e non le parole, o hai cambiato idea su tuo fratello?”

“Taci...” biascicò lui, con un'aria corrucciata che mi indusse a sorridere.

“E... così, l'incantesimo che pervade i sotterranei non inficia l'aura taumaturgica dei Santi.” Misty accostò la mano dove – dapprima – pulsava la ferita aperta, ora risanata. “Voglio riportarlo al Santuario. Voglio riportare Søren al Santuario” confermò dopo un attimo di smarrimento misto a incredulità.

 

 

 

 

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


 

 

I prati di asfodelo, capitolo XIV

 

XXVIII

 

Sembra immerso in un sonno profondo, e in effetti lo sarebbe se il suo spirito non dimorasse altrove.

Era straziante vedere un Santo ridotto in quello stato ed evitavo, per quanto possibile, di varcare l'ala del Tempio dove il suo corpo giaceva ricomposto su un letto funebre. Malgrado ciò, dopo le ultime peripezie, avevo sentito il bisogno di vedere Aphrodite, di contemplare la sua grazia in silenzio. Desideravo risposte, segni, che – ahimè – non arrivavano. Era prematuro, se non puerile, sperare di riceverne ora e non sapevo nemmeno se Perseus, dopo aver ricevuto la mia missiva, si fosse attivato per raggiungere Misty e consegnargli l'oggetto che avrebbe consentito a entrambi di accedere negli Inferi. Le sentinelle erano state allertate e nessuno li avrebbe ostacolati, non temevo nemmeno il rischio che trapelasse qualcosa sulla loro dipartita in sordina perché, prima o poi, avrei dovuto renderne conto alla dèa. Ma non adesso, ero impaziente di ricevere buone nuove ma altrettanto consapevole di dovermi muovere con circospezione perché i tempi non erano ancora maturi.

Presi una rosa rossa, di quelle deposte accanto al Santo di Pisces, ponendola tra il naso e le labbra per annusarla, scrutai attraverso la penombra e poi abbassai le palpebre assorto. Avevo passato alcune consegne ad Aiolos – in futuro avrebbe potuto essere il mio successore ideale – al fine di concedermi qualche giorno di pausa e di riflessione.

Deposi il fiore, nauseato dal profumo dolciastro che emanava - o forse era solo una sensazione. Mi voltai dopo aver avuto l'impressione di udire il contraccolpo dell'anta di una porta a doppio battente, poco dopo il rumore di alcuni passi si amplificò nel vuoto delle sale che si susseguivano una dopo l'altra e riconobbi Saga di Gemini farsi avanti. Sospirai, raggiungendo l'uomo bardato nell'armatura, per abbandonare quella stanza lugubre rischiarata soltanto dalla fiamma tremula dei ceri nei candelieri.

“Vi stavo cercando, maestro. Avrei proseguito fino al Tredicesimo ma una guardia mi ha informato dell'eventualità di trovarvi qui.”

“Non ci vengo spesso. Oggi ho sentito la necessità di farlo” risposi.

“C'è qualche speranza di un risveglio?” chiese Saga, riservando da lontano uno sguardo triste al dodicesimo Custode.

“Parrebbe di sì, ma è meglio essere cauti evitando di fomentare false illusioni. Le ancelle provvedono alla mobilizzazione del corpo, se ne prendono cura ogni giorno. Athena lo mantiene in vita...”

“Sì, è meglio essere prudenti, voi lo siete sempre stato.”

“Cosa posso fare per te? Volevi chiedermi qualcosa, Gemini?” domandai con scarso entusiasmo. “Possiamo parlare anche qui, se la questione non è troppo riservata.”

“Riservata potrebbe esserlo... ma non del tutto” chiarì il Santo della Terza Casa. “Ciò che accade al Santuario è di dominio pubblico, ormai.”

“D'accordo” dissi guardandomi intorno.

Feci strada verso l'ingresso principale. Non c'erano altre persone all'infuori di noi nella Casa di Pisces, ma preferivo discutere sullo spiazzale esterno, ansioso di respirare una boccata d'aria. Anzi, no. Risolsi di incamminarmi verso il roseto, sarebbe stato il luogo più idoneo per intavolare una qualsiasi conversazione.

“Maestro, serpeggia molto nervosismo, rancore represso, tra i Santi e l'armonia sembra essersi spezzata... da quel giorno” esordì Saga, accostandosi alla balaustra che si affacciava sul mare.

“Non mi sorprende” replicai, beandomi dell'aria frizzante del mattino. “Saori non ha dato un bell'esempio di sé, ma gli dèi sono volubili lo sappiamo. Lei non è così capricciosa in realtà e sono convinto si sia già pentita. Sono state le circostanze ad averla indotta ad agire di impulso, in parte la responsabilità è anche mia perché non avrei dovuto liquidare una questione – reputandola banale – senza interpellarla prima.”

“Lo so, ma purtroppo alcuni si sono risentiti per la sua condotta...”

“Poco divina è l'espressione giusta” completai la frase che il mio interlocutore aveva lasciato, volutamente, in sospeso. “Infatti ha violato l'integrità personale di un Santo infierendo su quanto egli ha di più caro.”

“Se stesso. Amor proprio e vanità” soggiunse Saga con mesta rassegnazione, ma senza ironia o intento di scherno.

“Per i più superficiali è un argomento futile, ma i più accorti si sono avveduti che futile non lo è poi così tanto. Si tratta di rispetto. È stata una cattiveria premeditata, un colpo basso, da parte di Saori.”

“Concordo con voi, Dohko. È stato un approccio abbastanza rude – per non dire sleale – da parte sua, conoscendo la più grande debolezza del Santo di Libra. E non finisce qui: pare abbia inasprito le regole – di per sé già ferree – senza motivo. Nessun congedo, svago, ricreazione. In tempo di pace, per qualcuno, è insostenibile persistere in ritmi così serrati. Non si tratta di automi, macchine, ma esseri umani.”

“I Santi di Athena sono un po' più di esseri umani, dovresti ricordarlo a chi si lamenta. Tuttavia dovrebbe trattarsi di un contrattempo passeggero. La situazione migliorerà quando Saori ritroverà la serenità” commentai, intuendo che Saga si fosse fatto portavoce delle rimostranze altrui.

“Aiolia è preoccupato per Marin” riprese.

“Marin?”

“Pare abbia intenzione di abdicare al suo ruolo e non tarderà a chiederlo, a voi o ad Athena in persona.”

“Impossibile, ma...” esternai, perplesso. I Santi non potevano decidere per loro stessi perché predestinati, e una richiesta del genere era inesaudibile. “Temo sia a causa dei sensi di colpa.”

“Sensi di colpa? Pensate abbia dei sensi di colpa?” Saga distolse l'attenzione dal mare Egeo, che si stagliava placido, per guardarmi negli occhi.

“Sì, sono giunto a questa conclusione” affermai sedendo sulla panchina di pietra e intrecciando le dita delle mani dietro la nuca: “Presumo abbia assunto una consapevolezza tardiva del peso che ha il trovarsi inclusa nel novero dei favoriti di Athena. Dello svantaggio di chi non gode del beneficio di essere nelle sue grazie. Delle conseguenze che un passo falso possa comportare.”

“Potresti farglielo presente tu stesso, Santo di Gemini, hai l'autorevolezza per farlo: solo la dèa può privare – a ragione – chicchessia della sua armatura, ma non è una decisione di competenza dei Santi stessi” soggiunsi.

“È un compito assai gravoso, Dohko. Non spetta a me essere latore di un concetto così pregno di significato.”

“Perché no? Sei stoico e accorto a sufficienza e sono sicuro che Marin comprenderà.”

 

***

 

XXIX

 

 

“Il cosmo è inesistente, eppure il tocco della tua mano ha sigillato la ferita” constatò Misty, mentre esaminava il manufatto d'argento. Lo reggeva per il manico sbirciandovi dentro ma l'approccio parve non sortire effetti di sorta.

“Forse perché si tratta di un gesto di altruismo” esordii, deconcentrandolo.

Prese a fissarmi con le pupille dilatate schioccando la lingua contro il palato e mise da parte l'oggetto: “Sono sempre stato scettico riguardo al tuo altruismo, ma oggi mi hai quasi convinto.”

“Impaziente?” continuò, sollevando un angolo della bocca. “Sei sempre stato il più scaltro, dunque cosa proponi?”

“È affar tuo, semidio. Non mi azzarderei a rubarti il palcoscenico.”

“Non ho nessuna voglia di scherzare” scrollò le spalle, ignorandomi, malgrado lo avessi stuzzicato senza pudore.

Strano ragazzo, mi dissi dal momento che aveva reagito indenne alla provocazione, ero convinto di conoscerlo così bene da aspettarmi una replica di ben altro tenore...

Si inginocchiò, ponendo il palmo della mano a contatto col terreno e smosse lo strato di sabbia per collocarvi lo specchio al centro. Mi curvai per assistere a un presunto prodigio, senza muovere un muscolo, nonostante mi passassero innumerevoli pensieri per la mente.

Farfugliò qualche frase sconclusionata di cui non riuscii ad afferrare appieno il significato, dopodiché si alzò in piedi e sbuffò soffiando sul solito ricciolo di capelli.

“Hai invocato l'intercessione di tuo padre?” domandai incuriosito.

“Mi hai preso per un codardo?” curvò ancora le labbra in un riso amaro. “Non oserei e, anche se volesse, non potrebbe aiutarmi.”

“Ragionevole, ma volevo una conferma” replicai senza dargli soddisfazione. Era tutto fuorché un pusillanime, lo aveva dimostrato a quelli della mia Casta, ne era consapevole e nonostante ciò voleva essere rassicurato. Non da me, ero poco incline all'adulazione, alle parole melliflue, alle lodi. E... a proposito di elogi, era curioso non esternasse il minimo risentimento nei confronti della dèa per il trattamento degradante da lei riservatogli. Avevo la certezza si stesse trattenendo a causa dell'orgoglio.

Seppur devoti, i Santi sono mortali inclini all'errore e gli dèi dovrebbero avere contezza dei nostri limiti invece di considerarci alla stregua di servitori ineccepibili.

“Algol...” fece Misty, irritato, richiamandomi all'ordine. “Dormi in piedi? Presta attenzione.”

Raddrizzai la schiena e lo assecondai: sulla superficie dello specchio comparve una crepa dalla quale si diramarono altre linee sottili. Dalle spaccature fuoriuscì uno sbuffo di vapore, o di fumo, e l'esalazione sulfurea appestò l'atmosfera già rarefatta. La coltre caliginosa ci avvolse, avviluppandosi ai nostri corpi come con dita invisibili.

Incredibile. Ci siamo.

Ero inquieto, non volevo darlo a vedere. Calarsi nel regno delle ombre come intrusi non era affatto rassicurante e in principio l'avevo ritenuta un'idea folle, ma dovevo ammettere che per qualche motivo ero impaziente di intraprendere il viaggio. Era molto più stimolante degli incarichi svolti negli ultimi tempi per conto del Grande Tempio. Aveva un senso, era quasi un'opportunità per esercitare il mio potere e rendermi utile, sebbene della sorte del dodicesimo Custode non mi riguardasse un granché a titolo personale. Per una volta l'obiettivo non era salvare quella insulsa ragazzina, mi era ben chiaro nella mente, Dohko stesso lo aveva ribadito nella sua missiva. La causa era onorevole ed ero disposto a mettermi in gioco, forse ci avrei lasciato le penne ma era altrettanto vero che il Santo di Libra si proponeva di agire in via diplomatica e, dopotutto, egli vantava una discendenza divina.

In teoria non dovrebbero torcergli un capello, ma talvolta la pratica riserva ben altre sorprese.

Trasalii avvertendo un brivido lungo la spina dorsale. La cortina di fumo si diradò e una mano gelida mi si accostò al volto delineando il contorno della mandibola.

Misty...

“Rilassati” avevo riconosciuto la sua voce sussurrarmi all'orecchio. “Percepisco la tua inquietudine e l'insicurezza veicola energie negative.”

Lo afferrai per un braccio affondando le unghie nella carne, lui abbassò la testa – imperturbabile – per poi rialzarla e mi fissò. Allentai la stretta e gli scostai dalla fronte un ciuffo di capelli, stavolta non reagì e stette immobile senza indietreggiare. D'un tratto vacillai come risucchiato in quegli occhi acquosi e insondabili; rivoli di sudore scivolarono lungo le tempie e la tensione si allentò: destatomi dalla fascinazione imbracciai lo scudo quasi senza rendermene conto e ci ritrovammo, schiena contro schiena, in una landa sovrastata da un cielo tinto di sangue, attraversato da una miriade di stelle o qualcosa di simile; non vi era buio totale e le tenebre preponderanti si fondevano al modesto lucore.

“Dì a Medusa di stare quieta.”

“Mi sono solo messo in posizione di difesa” obiettai.

“Deponi il simulacro, Algol. In caso contrario daremmo l'impressione di essere ostili quando in realtà giungiamo in pace” esortò, perentorio. “Ecco, quella che vedi deve essere la Porta.”

La Porta dell'Inferno... realizzai dopo aver letto le parole, incise a bulino, dell'epigrafe sull'attico.

“Essendo redivivo dovrei avere memoria di questo posto” constatai esprimendo disappunto a voce alta.

“Invece non ricordiamo nulla...” osservò Misty, massaggiandosi le tempie. “A te posso dirlo: non sono più tanto sicuro di voler proseguire, ma devo. Ho fatto una scelta, e avvalersi del libero arbitrio implica delle conseguenze.”

Gli avrei riso in faccia per un simile sfoggio di ingenuità. Lungi dal suonare patetico, era più che altro bizzarro si lasciasse sfuggire una tale ammissione in mia presenza pertanto mi morsi la lingua.

“Chi te lo impone? Sei ancora in tempo per fuggire alla chetichella” affermai.

“Non posso, lo specchio è rimasto nelle segrete del Santuario” soggiunse – senza aver colto il sarcasmo nelle mie parole – nel tentativo di rilevare qualcosa di concreto oltre le ombre che si addensavano all'orizzonte, al di là del fornice. “E poi farei un torto a me stesso.”

La risposta era credibile, coerente con la fierezza che lo caratterizzava, benché fossi certo esistesse un'alternativa per fare ritorno sulla Terra – la storia di Orfeo ne era un perfetto esempio – ma qualcosa non quadrava. Continuai a rimuginare, accodandomi, mentre Misty si fece strada spingendosi attraverso l'arco monumentale.

“Sensato” tagliai corto riponendo lo scudo sulle terga dell'armatura. “Affatto insolito da parte tua, hai sempre anteposto l'ego a qualsiasi altra cosa.”

Il mio mentore mi avrebbe dato dell'idiota per essermi compromesso assecondando le paturnie di un Santo egocentrico che Athena avrebbe, di sicuro, esiliato o declassato al ruolo di servo. Follia e incoscienza allo stato puro.

Tuttavia sono savio... ma non scevro da passioni...

Diedi un'occhiata al cielo cremisi che ci sovrastava, affrettando il passo. Appurai in quell'istante di aver oltrepassato la soglia dell'oltretomba senza conseguenze, eravamo entrambi incolumi. Né io né Misty possedevamo l'ottavo senso, che l'avessimo acquisito in precedenza oppure nel momento di intraprendere la catabasi?

Procedevamo fianco a fianco, in silenzio, attenti a cogliere il più flebile sussurro tra le fronde. Le ombre che avevamo scorto in precedenza si erano materializzate in un bosco lugubre e decadente, fitto e disseminato di cespugli irti di spine, con piante prive di frutti o fiori, svuotate, morte, le cui radici ci insidiavano il passo. Mi arrestai per un momento, in ascolto. Scricchiolii, lamenti, suoni non umani colmavano a tratti una quiete palpabile, pervasiva, come una lama di coltello che fende carne... e sangue.

“Non vivono di vita propria ma in esse albergano altre entità” disse Misty tastando con mano il legno di una pianta. Si era fermato a sua volta per osservare l'ambiente circostante. “Sta' attento agli aculei, potrebbero essere velenosi.”

Tesi le orecchie, il battito del cuore riverberò contro la cassa toracica.

Anche lui doveva aver udito qualcosa. “Non è un corvo” sospirò dopo essersi attardato a sondare attraverso il groviglio dei rami. “È possibile si tratti di qualche altra bestia. Un ibrido come la Gorgone scolpita sullo scudo che ti porti appresso.”

Sapevo di dover mantenere la calma, il viaggio era appena iniziato, e la foresta doveva per forza essere infestata da chissà quali esseri immondi. Stridevano come rapaci...

“Arpie? Mai sentito parlare di arpie, Algol?” impossibile mi avesse letto nel pensiero.

“Hanno artigli affilati come sciabole” risposi a tono, soppesando la sua faccia da schiaffi.

“Potrebbe essere qualsiasi cosa, ma non si curerà di noi” disse stringendosi nell'uniforme, senza lamentarsi per il freddo, anch'egli percepiva le entità incorporee permeare la foresta della loro presenza. Riuscivamo anche a vederle poiché fluttuavano, pallide, come le misteriose creature che dimorano negli abissi oceanici.

“Abbiamo gli occhi dell'oscurità puntati addosso: qui tutti sanno che ci stiamo dirigendo verso l'Acheronte, dove è attraccata la chiatta sgangherata del barcaiolo e intorno alla quale si affolleranno le anime che ci precedono nel cammino. A loro non importa se siamo vivi o morti.”

“Non ne sarei così sicuro.”

Increspò le labbra sfoggiando un sorriso di compatimento e, di rimando, gli avrei sferrato un calcio dove non batte il sole ma ebbi la decenza di trattenermi. Sviai l'attenzione da quel volto di porcellana e mi concentrai sul percorso da compiere. L'arco che avevamo oltrepassato era intatto, le radici degli alberi avvinghiate alla terra, e i sentieri non definiti. La sensazione di calpestare il suolo di un universo inviolato non mi abbandonava.

Misty si arrestò un istante: “A cosa pensi?” domandò inducendomi a fare altrettanto dopo averlo superato di qualche passo.

“Che dovrebbe regnare l'anarchia, invece ogni cosa sembra rispondere ai dettami dell'architetto dell'universo. Regna una quiete sovrumana” constatai, osservandolo, mentre si soffermò come per indugiare in una riflessione.

Si chinò prendendosi la testa tra le mani e ravviò la chioma scomposta. “L'attuale scenario coincide con le mie aspettative” affermò.

“Cosa stai blaterando?”

“La storia non è come ce l'hanno raccontata, Apollo ha ragione.”

“La storia è scritta dai vincitori, e gli dèi fanno il buono e il cattivo tempo" rammentai tendendogli una mano.

“Gli dèi sono responsabili di ciò che gli compete e a noi non è dovuto confutare le loro decisioni.”

“A giudicare dalle tue scaramucce con Saori avrei detto il contrario.”

“È vero, ho cambiato più volte opinione nei suoi confronti. In sostanza, si è rivelata una delusione... ma è il ricettacolo di Athena” ammise, arrendevole. “A parte questo, è possibile che non ci siano stati vincitori né vinti, e se la mia tesi è giusta lo scopriremo” concluse, rimettendosi in marcia.

Annuii mio malgrado, senza ribattere. Ero scettico. Ricordavo avesse accennato a una cosa del genere e tuttavia non mi fidavo della sua sicurezza, la troppa fiducia in se stesso l'aveva già precipitato una volta nel baratro. Forse mi stavo preoccupando senza una ragione plausibile: l'esperienza della vita passata doveva averlo temprato, avergli insegnato qualcosa. Anche se continuavo a ripetermi che la disfatta era stata determinata in primis dal fatto di esserci ritrovati dalla parte sbagliata della guerra. Serrai il pugno. Lo spettro del passato mi logorava ancora.

Mi avvidi che Misty stava osservandomi con la solita aria disincantata e innocente, era disarmante. Lo presi per le spalle e gli sfiorai la fronte con le labbra. “Andiamo” esortò lui, strattonandomi per un braccio.

“Chi avrà preso il posto degli Specter?”

“Che t'importa? Fossero altri o gli stessi che hanno preso parte alla guerra sacra non li riconosceremmo. Saranno stati resuscitati dal Signore degli Inferi e riabilitati, a tregua ristabilita, se non tutti, almeno una parte di loro” insinuò con sicumera, sistemando una ciocca bionda dietro l'orecchio.

“È illogico. Il Signore degli Inferi è stato sconfitto” protestai. Mi irritava l'atteggiamento di chi crede a tutti i costi di essere detentore della verità assoluta.

“Ripeto, Algol. Vedi forse rovina e devastazione; sovvertimento dell'ordine naturale delle cose? Non può sussistere un universo privo dell'ordine e, comunque, prima o poi, il cerchio tenderebbe a chiudersi, è un ciclo cosmico.”

“Finora è tutto regolare, ma potremmo trovare delle sorprese al diradarsi della selva” risposi cercando di mantenere il contatto visivo con il flusso di anime che attraversava la foresta. Perderle di vista equivaleva a smarrirsi nel labirinto degli alberi avvizziti e deformi.

 

Fui tentato di turarmi il naso, l'odore sgradevole mi aveva investito in pieno. Sembrava tutto tranquillo come aveva previsto il mio compagno d'armi: al limite comparve il sabbione lambito da un fiume limaccioso dalle acque rossastre, avremmo potuto definirlo un lago oppure un mare poiché si estendeva a perdita d'occhio. Mi sovvenne l'Averno tinto dalle alghe come presagio di sventura, ma non dissi nulla e mi appostai accanto a Misty in attesa del traghettatore di anime che aveva già preso il largo recando con sé l'ennesimo carico.

“È nero come uno scarafaggio” dissi intravedendo nella foschia la sagoma del barcaiolo che sopraggiungeva manovrando il singolo remo a poppa.

“Le buone maniere non sono il tuo forte, Algol, è risaputo, ma dovresti sforzarti di essere gentile” insinuò Misty, accigliandosi. “In alternativa, tenere la bocca chiusa.”

“Hai paura?”

“Non temo la morte ma il fallimento.”

Riuscì a tapparmi la bocca con una risposta lapidaria. Le circostanze imponevano l'uso della diplomazia, era ovvio, e vederlo in quella veste era insolito perché neanche lui brillava in quanto a prudenza, tatto, e via dicendo. Ero curioso di scoprire come se la sarebbe cavata confrontandosi con i figli di buona donna, infidi e malvagi, che spadroneggiavano negli Inferi. Avremmo dovuto affrontarli con le stesse armi o porgere l'altra guancia!? Un bel dilemma.

Il silenzio fu sovrastato dal frangere dei flutti contro un ostacolo, mi voltai e scorsi la tetra imbarcazione di Caronte sgusciare sulla battigia come il carapace rovesciato di un insetto. Arretrai di un passo, pronto a mettere mano allo scudo, ma stetti immobile – come paralizzato – e guardai il mio compagno d'armi: aveva gli occhi sbarrati e la sua espressione rimase così – congelata – per qualche istante, fino a quando non si riebbe sbattendo le lunghe ciglia.

“Avete due facce conosciute” insinuò la figura – d'uomo o demone, un aborto sgraziato e infelice tra i due – che era emersa, curva, dalla nebbia lattiginosa.

“Ah sì? Poco male perché la tua, invece, dubito di averla mai vista” replicò Misty, con spirito, ormai destatosi dal raccapriccio.

“Un angelo all'Inferno è quanto mai improbabile... Non sembri morto; non sembrate morti, e se non siete morti allora cosa volete?” intuì Caronte, con un sorriso storto, dopo averci additato scrutandoci entrambi. “La traversata del fiume è preclusa ai viventi.”

“Stai mentendo sapendo di mentire, vi sono state delle eccezioni in passato e ce ne saranno in futuro” rettificò Misty, lottando per sostenere l'intensità di quegli occhi di fuoco. “Se la causa è nobile, l'accesso non può esserci precluso in alcun modo.”

“Stai insinuando che sareste spinti da una causa giusta?” Caronte brandì il remo in modo minaccioso, forse infastidito dall'insistenza con cui l'altro si impegnava a tenergli testa. “È impossibile. Siete malvagi! I vostri occhi sono torbidi come acque palustri e tradiscono le malefatte compiute in Terra. Il tuo aspetto è, sì, fuorviante, ma sta' pur certo: nell'Inferno non troverai intelligenza che non sia avvezza a smascherare ogni sorta d'inganno.”

“Non pretendo di essere lodato per atti di generosità, perseguo soltanto un obiettivo” precisò Misty portandosi la mano vicino allo scollo della casacca. “Così come riconosco la devozione dei servitori del mondo sotterraneo verso il loro Signore. Ma a vostro sfavore depone il fatto di essere opportunisti, traditori, crudeli e, soprattutto, avidi” soggiunse strappando dal collo il pendaglio che avevo già notato altre volte senza avergli dato alcun peso.

Solo ora – nelle viscere del regno contrapposto alla luce – riuscivo ad attribuirgli un valore incommensurabile. Dovette avvedersene anche il traghettatore poiché il suo volto orrendo si deformò quasi assumendo i connotati del marabù in procinto di affondare il becco tagliente nella carcassa, ma Misty ritrasse la mano allontanandosi dalla sua portata.

“Suppongo ciò non ti aggrada e, conoscendo la tua fama, so che non saresti disposto a trattare” esordì poi, nascondendo l'oggetto dietro la schiena. “Sarebbe meglio un obolo a testa di cui non disponiamo, quindi presumo non se ne faccia nulla.”

“No, no, razza di impertinente. Quel pendaglio è un pegno sufficiente per entrambi” schiumò l'essere abominevole. L'avrei mutato in pietra per mera gratificazione personale.

“Lo avrai solo dopo averci imbarcato e, più precisamente, condotto a destinazione sulla riva opposta dell'Acheronte” puntualizzò Misty. “E niente scherzi o lo getterò nell'acqua putrida e dovrai andarlo a prendere. Bello rischiare di affogare nel lezzo di uova marce, no?”

“Vorresti intimidirmi. Chi credi di essere, damerino.” Il barcaiolo inveì agitando il remo ancora una volta, pronto a colpire. “E la guardia del corpo che se ne sta lì, zitta, sui carboni ardenti, cosa dice? Ha un'opinione propria o pende dalle tue belle labbra?”

Ti darei il benservito eccome, e non solo a parole, menagramo!

“Algol non può eguagliare la mia dimestichezza nel negoziare. Non è diplomatico. Meriti di essere ripagato con la stessa moneta, barcaiolo. Siamo malvagi. Tu lo hai detto e non ti sbagli, faresti bene a stare attento.”

Dopo aver ponderato sulla risposta il traghettatore ridacchiò e abbassò la guardia. Avevo compreso quanto fosse stato saggio non soggiacere all'istinto e rinunciare all'ausilio di Medusa, mi voltai per calciare un ciottolo, non visto. L'idea di imbarcarmi al seguito di quel demone mi ripugnava ma non esisteva un percorso alternativo per approdare all'altra sponda.

Lo tenevo d'occhio – mentre remava alternando una stoccata all'altra, instabile, come un ubriaco – senza perdere di vista il mio compagno d'armi che si era adagiato nella parte concava della barca, a prua, con gli occhi chiusi e la mano stretta a pugno sul cuore. Mi sconcertava l'apparente tranquillità di Misty, dal canto mio non sarei riuscito ad assopirmi, nemmeno indotto dall'effetto ipnotico dello sciabordare delle acque contro il natante o stordito dall'effluvio malsano che ne scaturiva. Ma era stata una buona mossa quella di ricattare Caronte, lo scontro diretto sarebbe stato controproducente se non addirittura pericoloso. La brama di ottenere il ciondolo come ricompensa per i suoi servigi avrebbe dovuto tenerlo a bada ancora per un po'.

Certe bestie selvagge si domano soltanto con l'arma del ricatto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


 

 

I prati di asfodelo, capitolo XV

 

XXX

 

“Torno in Giappone, non c'è nulla che mi trattenga al Santuario in tempo di pace. Ho ancora degli affari da sbrigare, laggiù, ed è un lascito del nonno anche questo, purtroppo” disse Saori, svuotando il cassetto della scrivania da pochi effetti personali: una stilografica d'oro con le iniziali, l'agenda, una calcolatrice portatile, un pacchetto di fazzoletti di carta...

Potrebbe delegare qualcuno di fiducia, per il disbrigo pratiche.

Evitai di risponderle immediatamente perché la decisione mi lasciò esterrefatto. Non avevo sorvolato sull'esternazione infelice con cui mi aveva accusato di leggerezza, lasciandomi intendere che non si sarebbe fatta remore a destituirmi. No, non riuscivo a connettere.

“Dohko, aspettate. Per favore, non giudicate in modo affrettato” riprese. “Sono dispiaciuta, in quanto consapevole di avervi recato delle offese, ma quel giorno ero fuori di me.”

“Ero più che certo non fosse vostra intenzione mancarmi di rispetto.” Le risposi – sollevato dal fatto che si fosse decisa a fare marcia indietro – ma non era a me che doveva delle scuse.

“Siete senza dubbio la persona più adatta a ricoprire il ruolo. Lascio il Grande Tempio sotto la vostra reggenza. Seiya verrà con me, e agli altri Santi di Bronzo lascio facoltà di decidere se prendersi una vacanza.”

Sprofondai nella poltrona, a braccia conserte, travolto da un improvviso impeto di pensieri.

Mi lascia carta bianca? Passi per la gestione ordinaria del Santuario; la distribuzione dei compiti tra le rispettive Caste è una cosa di cui mi sono sempre occupato.

C'erano però questioni sulle quali – in teoria – non avevo potere decisionale: Aphrodite? Ovvio che sarebbe rimasto in stato catatonico a tempo indeterminato poiché il cosmo di Athena, in certe circostanze, aveva il dono dell'ubiquità. E il Santo di Libra? Secondo milady sarebbe dovuto marcire murato in perpetuo!?

Tirando le somme mi tranquillizzai avendo avuto conferma di aver agito responsabilmente. Schiarii la voce: “E le altre faccende in sospeso di cui non avete fatto parola? Presumo rimanga tutto invariato.”

“Sì, Dohko. Per il momento è così finché non darò nuove disposizioni. Devo ancora riflettere sul da farsi e sono stanca. Nel frattempo assicuratevi che Shiryu abbia eseguito i miei ordini” replicò Saori, e si levò in piedi appoggiandosi con le mani sulla superficie della scrivania. Restò a capo chino, evitando di guardarmi negli occhi, sembrava combattuta e non ricordavo di averla mai vista così prostrata.

Stavo per cedere alla collera che montò in pochi istanti. Afferrai i braccioli del seggio e presi un respiro. In quel mentre mi si schiarirono le idee e optai per la scelta più razionale: mi accomiatai da Saori Kido con un ossequio rispettoso. Dovevo darmi una mossa.

 

Trovai Aiolos – impeccabile nella sua tenuta di addestramento – ad aspettarmi sulla soglia del Tredicesimo, mi ero appena congedato da Saori ed ero uscito ben determinato a effettuare un sopralluogo nei sotterranei del Santuario. Volevo sincerarmi che il progetto si fosse svolto secondo i piani.

“Avete ancora bisogno di me, maestro?”

“No, Sagittarius. Sei libero di tornare alle tue occupazioni” tagliai corto, ma la stima e la fiducia che nutrivo per il giovane mi invogliarono ad aprirmi a confidenze. Se i piani fossero andati per il verso giusto non avrei potuto nascondere la verità ancora a lungo. Almeno i Santi d'Oro sarebbero dovuti venirne a conoscenza e, per quanto riguardava Athena, con lei, avrei temporeggiato appurato il suo scarso entusiasmo per le incombenze che ricorrevano, di quando in quando, al Santuario. Il tutto concorreva a lavarmi la coscienza. Al momento opportuno sarebbe stata informata.

“Pensandoci bene avrei ancora bisogno di te ma, questa volta, per un sostegno morale.”

Aiolos mi guardò, confuso. Era così ingenuo da non sospettare nulla di anomalo.

“Seguimi.” Gli ordinai, conciso.

Il Santo della Nona Casa obbedi senza porre indugi e domande. Lungo il sentiero che percorremmo a ridosso delle morbide pendici del monte – eludendo il percorso ordinario che si dipanava attraverso le Dodici Case – lo misi a conoscenza dell'accordo stipulato con il suo parigrado della Settima e del piego sigillato che avevo inviato ad Algol di Perseus.

Il Santo procedeva con gli occhi bassi, fissi sulla strada sterrata, in diligente ascolto. Non si era sbilanciato a proferire alcun commento ma avevo percepito in lui un crescente imbarazzo. Aiolos, tra i Santi, era forse quello più devoto ad Athena. Di una fedeltà indiscussa e incondizionata.

Mi fermai sganciando il fermaglio che tratteneva il mantello, per scrollarlo dalla polvere accumulatasi nel cammino. Lo scrollai per indossarlo di nuovo.

“È una fredda primavera” spezzai così il pesante silenzio che era calato dopo il mio racconto. La misura era colma come un fiume pronto a esondare. Imboccai il primo anello di scale, ricavato nella roccia, che conduceva nel sottosuolo.

“Già, insolita” replicò Aiolos a denti stretti. “Comunque non vi biasimo per quello che avete fatto” sospirò, quasi desideroso di trarsi d'impiccio.

“Sono lieto che approvi la mia decisione, motivata più dal sentimento che dalla ragione. Forse non avrei dovuto, ma è stato come assecondare un disegno del destino.”

“Non siete il primo venuto, Dohko. Ogni vostra scelta è dettata da estrema consapevolezza” disse Aiolos, precedendomi all'ingresso del sotterraneo.

“Anche io commetto errori” ammisi. “Amministrare il Grande Tempio, dopo la resurrezione dei Santi, è più difficile di quanto non sembri.”

“Nessuno di noi è esente dal commetterne” convenne il giovane.

Le guardie – piantonate nei vari punti sensibili nel reticolo dei cunicoli – si fecero da parte, e quando raggiungemmo il luogo prestabilito non potei trattenermi dall'emettere un sospiro liberatorio provando – al contempo – infinita tristezza.

“È fatta” mormorai, spingendomi al di là dell'inferriata aperta. “I ragazzi ce l'hanno fatta” supposi dopo aver notato le crepe sullo specchio d'argento abbandonato a terra.

Il riverbero delle fiaccole svelò l'espressione interdetta di Aiolos, quasi addolcendogli i tratti. Il Santo si adoperò per raccogliere l'oggetto dal suolo.

“No” obiettai, mosso da una repentina intuizione. “Lascialo stare. Lascialo esattamente nel punto in cui si trova.”

Allora, egli ritrasse la mano e si alzò in piedi: “Avete ragione, maestro. L'oggetto potrebbe fungere da tramite tra questo e l'altro mondo. Stavo per commettere una sciocchezza.”

Sempre se torneranno...

“Bene, Sagittarius. Dimostri un certo ottimismo” dissi.

“Sì, sebbene non abbia avuto l'opportunità di frequentarli né di confrontarmi con loro nell'Arena, Misty e Algol mi sono parsi determinati” incrociò le braccia sul petto, aggrottando le sopracciglia. “Non vorrei sottovalutarli, ma il Regno degli Inferi è un posto assai insidioso.”

“Sono consapevoli del rischio che corrono senza la protezione degli dèi” soggiunsi. “Ma è una prova che vale la pena di affrontare. C'è insito in essa qualcosa di più profondo della mera ambizione o crescita personale.”

“Per questo avete dato il benestare al Santo della Settima Casa?” domandò Aiolos, riposizionando la fascia che gli cingeva la fronte. “È privo dell'armatura!”

Assentii. “Si asterrà dall'ingaggiare qualsiasi scontro” replicai al mio interlocutore. Avevo colto la sua comprensibile preoccupazione ma non ero in grado di dargli risposte concrete.

“E Athena?”

“Approverà la mia decisione a suo tempo. Ritengo non abbia raggiunto la maturità necessaria per comprenderla nel momento attuale.”

“Vi capisco, Dohko. È troppo presa dal suo ruolo. Secondo me non ne ha raggiunto la piena consapevolezza, pur essendo cresciuta e migliorata molto.”

 

***

 

XXXI

 

 

“Custodiscilo con cura, se non vuoi finire freddato da uno strale in mezzo agli occhi” raccomandò Misty, lanciando in aria il pendaglio che Caronte afferrò al volo con la mano ossuta.

Gli dèi sono vendicativi...

Il ragazzo che conoscevo ne avrebbe fatto motivo di orgoglio di possedere un oggetto così prezioso e simbolico anziché disfarsene con tanta facilità.

Eppure, da quando era venuto a conoscenza delle proprie origini, non ne aveva mai rimarcato l'importanza. Un tempo si sarebbe pavoneggiato per molto meno, ma forse la discendenza divina era un argomento troppo serio persino per farsene un vanto. Forse non era tutto rose e fiori. L'unica certezza era l'estrema riservatezza di Misty sulla faccenda, di cui alcuni passaggi mi erano oscuri, e malgrado tutto lo vedevo determinato. Non lo facevo così smaccatamente altruista e continuavo a dubitare di ciò che aveva affermato in merito al suo cambio di atteggiamento nei confronti di Aphrodite di Pisces – essere figli dello stesso padre era un pretesto troppo labile – era molto più plausibile che il soggiorno a Delfi lo avesse indotto a fare scelte oculate. Ma non era stato plagiato, no.

La decisione di Dohko era del tutto in contrasto con i meri interessi del Santuario – non concerneva la pace né la guerra – poiché il Sommo Sacerdote sembrerebbe aver riposto nel mio amico più della fiducia che sarebbe stata legittima da parte del fratello, il quale – al contrario – l'aveva disattesa.

Al posto suo non avrei perdonato Pisces per essersi intromesso, col risultato di sminuirlo agli occhi di Athena, e fargli fare la figura del disadattato, frustrato, e in cerca di stupide attenzioni, perché questa è la verità a dispetto della realtà travisata dai pettegolezzi delle malelingue al Grande Tempio. Il dodicesimo Custode era un malato di protagonismo, spocchioso e tracotante. Forse era un giudizio affrettato il mio, ma nessuno sarebbe riuscito a togliermi dalla testa quell'idea.

Ero incapace di scacciare dalla mente i pensieri che, di tanto in tanto, affioravano con prepotenza nonostante il metallo dell'armatura gravasse in modo inconsueto sulle spalle. Doveva essere per via del percorso, reso impervio dalla scalinata accidentata che si inerpicava lungo un declivio infinito. Mi stavo annoiando a morte.

Misty rallentò l'andatura spedita, lo avevo osservato con la coda dell'occhio. Tossì, prese fiato, e sondò in direzione della sommità delle scale; lo emulai, sollecito, senza scorgere alcuna struttura innalzarsi contro lo sfondo cupo.

“Siamo ancora distanti” avevo constatato, volgendo uno sguardo indietro, al percorso vertiginoso compiuto in bilico tra cielo e terra.

Misty si stiracchiò, gettando la chioma dietro le spalle, e sedette su un gradone, i gomiti sulle ginocchia e il mento appoggiato sulle mani. Stette per un momento immobile, assente, con gli occhi vacui sul nulla: “Non ho fretta. Sento che Søren mi sta aspettando e non si lascerà andare prima di avermi incontrato.”

“Sei troppo ottimista.” Lo avevo messo in guardia dal rischio onnipresente di confidare in un tentativo vano.

“Non si tratta di semplice ottimismo” affermò, asciugandosi il sudore col bordo sdrucito della casacca.

“Uhm...” mormorai, grattandomi il mento, senza dissimulare lo scetticismo. “E sei sicuro che i tuoi buoni propositi si realizzino anche in barba al destino?”

“Ignoro l'esito finale della missione, ma sono stato esortato a tentare.”

“Per la gloria?” Quasi mi divertivo a rigirare il dito nella piaga.

“Mi è stato detto che la gloria ha un prezzo” replicò trafiggendomi con gli occhi di cielo, i quali irruppero come diamanti fulgidi nelle tenebre costringendomi a guardare altrove, verso sparuti ciuffi d'erba che spuntavano da sotto cumuli di pietra, formazioni laviche, ossidiana.

“È una conclusione abbastanza ovvia” ribattei, sfilando le manopole e la tiara per detergere la fronte, poi sedetti accanto a lui.

“Non per tutti. Non per chi vive nell'illusione che ogni cosa gli sia dovuta.”

“Una volta eri convinto che tutto ti fosse dovuto, dovresti esserlo ancora, o mi sono perso qualcosa?”

“Forse, sì. O forse vale la pena di azzardare l'impossibile pur di raggiungere un obiettivo più nobile che non sia la gloria.” Mi confidò, con un sorriso, raccogliendo l'oggetto che avevo deposto sul gradino di pietra. Ci soffiò sopra facendo volare i granelli di polvere dagli intarsi che decoravano le ali d'argento.

“Magari è più gratificante.”

“Oppure no, ma credo valga la pena di osare” concluse, senza troppi preamboli, e mi restituì la tiara. “È sufficiente che ne parlino i posteri” riprese, orgoglioso. Dopodiché abbassò lo sguardo e prese a svolgere le bende che gli cingevano avambracci e mani.

È determinato a non combattere.

Mi chiesi come fossimo arrivati a tutto questo. Al di là delle solite buffonate, per le quali era sottovalutato, Misty aveva svelato, poco a poco, la sua vera indole lasciando cadere gli ultimi veli di ambiguità. Aveva una volontà di ferro e perseveranza innate, insieme con i miei pari eravamo tra i pochi ad aver saggiato le sue qualità; se il Sommo Sacerdote non era ancora arrivato a questa conclusione, non dovevano esservi pervenuti nemmeno i Santi d'oro che sbandieravano una presunta intelligenza. I più si dimostravano ciechi e tronfi.

 

Gli ultimi tratti del percorso si erano snodati lungo un ripido costone di roccia sferzato da correnti gelide. La cima del monte ospitava un ampio pianoro erboso; il mio amico spalancò gli occhi, dalla sorpresa o dal sollievo, in quanto eravamo prossimi dal dare una svolta al nostro peregrinare. Si distese sull'erba, allargò le braccia con i palmi delle mani rivolti in su, smarrendosi a contemplare quel surrogato di cielo rossastro e fuligginoso. Lo vidi abbassare le palpebre e arguii desiderasse riposare. Era stanco o forse teso, preoccupato. Lo lasciai tranquillo, assopito o assorto nei pensieri, e rimasi vigile aguzzando la vista. Dopo un po' sentii la necessità di scuoterlo dalla sonnolenza, dal torpore, come spronato da incipiente senso del dovere, e mi chinai presso di lui scostando i capelli che fluttuavano ribelli sul volto roseo.

Misty rimase a fissarmi per un momento, dopodiché annuì. “Sento le membra pesanti come piombo” confidò levandosi da terra.

Imboccammo un viale delimitato da filari di pioppi e, nel silenzio, l'unico alito di vita era lo stormire del vento tra le fronde. Avevo alzato la testa, invano, speranzoso di scorgere l'aureola del sole fare capolino attraverso la chioma degli alberi secolari.

Che idiota...

Col fiato corto avevamo eluso la presenza del cane infernale – messo a custodia del luogo inaccessibile per i mortali – era stranamente addormentato, forse a cagione di un oscuro incantesimo. Qualunque fosse stata la causa del suo sonno profondo non poteva esserci che propizia. Malgrado la perseveranza, il cammino si era rivelato estenuante ed ero stanco di arrancare in mezzo alle erbacce incolte. Notai Misty, il sudore scorreva a rivoli sul suo volto imporporato. Non aveva fiatato lungo l'intero tragitto, e si astenne dal parlare persino quando scorgemmo profilarsi all'orizzonte il palazzo tetro presieduto dal giudice infernale e dal suo vice. Si limitò a schiudere le labbra e a trarre un lieve respiro, percorrendo con lo sguardo le linee solide e imponenti della residenza.

Raggiungemmo la meta affrettando il passo con rinnovato vigore, ma il mio entusiasmo si smorzò dopo aver constatato le condizioni dell'intero sito. Il lastricato di pietra, la struttura, e gli elementi architettonici che la componevano non riportavano una singola crepa. Le lastre di marmo erano lisce e lucenti, non recavano postumi di nessuna guerra, possibile che quel letamaio fosse stato ricostruito nell'arco di breve tempo?

“Non è possibile!” esclamai.

Misty annuì con un battito delle ciglia, masticava uno stelo d'erba, il suo colorito era divenuto nuovamente pallido. Tacque e indugiò ancora, prima di proseguire. Giungemmo nei pressi del vestibolo del palazzo non sorvegliato – il fatto che versasse in perfette condizioni, pur sembrando abbandonato a se stesso, era inquietante.

Ancora scale mi dissi, titubante, piantonato di rimpetto alla rampa che s'innalzava nei pressi dell'atrio e scompariva nell'oscurità del soffitto a cassettoni.

“Forza” incitò il mio compagno d'armi, doveva aver intuito l'entusiasmo trapelato dall'espressione stampata in faccia che dovevo avere in quel momento.

Di malavoglia, come sconfortato da un brutto presentimento, mi affrettai a seguirlo.

 

“Come osano i non morti profanare il regno degli Inferi?” Tuonò una voce.

Uno schiocco, una frustata non andata a segno si era infranta sullo scudo d'aria che Misty doveva aver innalzato per proteggerci dalla furia distruttiva dello Specter assiso in cattedra, e che ora riuscivo a vedere. Trattenni il fiato dallo stupore.

Come? Tutta la manfrina sul non levare le armi, e poi...

Guardai di traverso il mio compagno d'armi e lui inarcò un sopracciglio, alzò il mento, sicuro di sé.

“Rasserenati, Algol. È tutto a posto, avevo preventivato anche questo” chiarì, laconico.

“Come hai osato interferire con un atto di ribellione?” inveì lo Specter.

Avresti preferito farci a strisce, eh!? Dannato sciacallo.

“Nessuna volontà di prevaricazione, vice-procuratore Lune di Balrog – mi è sovvenuto il nome narrato nelle cronache dei vincitori – suppongo siate voi...”

“E perché proprio Lune di Balrog e non Minosse del Grifone?”

“Perché maneggiate una frusta” arguì Misty.

Il volto dello Specter parve più disteso, si limitò ad alzare un sopracciglio senza interrompere. Lo lasciò parlare, quasi incuriosito, (affascinato?) Ma il Santo di Libra non era Orfeo della Lira, non era uno strimpellatore da strapazzo che – armato di cetra – irretiva il malcapitato di turno con l'abilità di un incantatore di serpenti. La situazione era molto più complessa e delicata, difficile districarsi in mezzo agli avvoltoi.

“Avevo previsto la vostra reazione e non ci sarebbe stato alcun modo di anticiparla a parole. Non ho intenzione di arrecarvi nessun danno” proruppe Misty, serafico, come una placida nave che solca le acque. I lineamenti d'avorio risaltavano nella parca luminosità, come riprodotti in un cammeo, e abbassai gli occhi disorientato. Chissà se, con le sue pseudo-lezioni di diplomazia, avrebbe conseguito l'effetto voluto senza che l'impegno si risolvesse in una sterile arrampicata sugli specchi, ma... dalla sua aveva la bellezza, era davvero bello.

“Sì, sono io, Lune di Balrog” confermò lo Specter, corrugando la fronte, e depose la frusta sul piano marmoreo della cattedra.

Si trattava davvero di Lune di Balrog e ciò provava che non tutti gli Specter fossero deceduti nella Guerra Sacra, oppure che il loro Signore – anch'egli assurto nel pieno delle forze, dopo essersi incarnato sotto nuove spoglie – ne avesse resuscitati alcuni per reinsediarli nei rispettivi ruoli in un secondo tempo. La logica mi suggeriva questo scenario, che coincideva altresì con le congetture fantasiose (?) del mio compagno d'armi. E ciò a cui avevo appena assistito era un segno di tregua? Non potevo prevederlo, ma dovevo pur convincermi che Misty avesse i numeri per riuscire a persuadere quell'essere. Sollevai il capo, rincuorato dal fugace ottimismo.

Il vice-procuratore scandagliò ogni particolare e si soffermò con gli occhi severi, immobili nelle orbite come quelli di un gufo – non era deturpato dalle fattezze di una bestiaccia immonda, sembrava più uno scialbo damerino – e sputò la prima sentenza: “Possiedi buona creanza, ragazzo. Potrebbe essere un punto a tuo favore e indurmi a temporeggiare evitando di annientarvi seduta stante.” Sospirò con aria compassionevole o si stava prendendo gioco di noi, il farabutto? “Siete vivi e vegeti e, prima di tutto, esigo una spiegazione sul motivo della vostra presenza nel regno dei morti.”

“Avrete delucidazioni.”

“Sei vestito come un pezzente ma il volto e le fattezze, nel complesso, ti conferiscono un aspetto nobile, Santo di Libra – degradato – giusto? Mi vergognerei fossi in te. Colui che ti accompagna invece è bardato con la corazza dei Santi di Athena, insignito appieno del proprio titolo.” Il cicisbeo dai capelli bianchi rimboccò le maniche della palandrana. “Se non giungete in missione per conto della dèa, è probabile che siate disertori, pertanto vi ritengo in difetto.”

Fui sollecito a prendere la parola, mi facevano venire l'orticaria certi tentennamenti perché era implicito che, colui il quale deteneva il possesso del libro delle anime, sapesse vita, morte, e miracoli degli impavidi – o pazzi – che osano oltrepassare la Porta dell'Inferno. Inutile girarci intorno. Non eravamo di certo stupidi, forse sprovveduti, ma affatto stupidi.

“C'è una mezza verità nella vostra affermazione, signore. Una verità con molte sfaccettature e che saremmo lieti voi ascoltaste.” Sì, stavo facendo passi da gigante in termini di diplomazia, Misty – sorpreso – era rimasto in silenzio, mi aveva lasciato parlare.

Lune tamburellò con le dita sul tomo chiuso innanzi a sé, e al tempo stesso vidi schiudersi una delle porte, di legno lavorato a intarsi, dietro di lui. Era un'esortazione a seguirlo che mi indusse quasi a indugiare. Non c'era nulla che ispirasse fiducia in quella sorta di mausoleo spettrale – niente a che vedere con gli arabeschi eleganti che ornano cupole e moschee; o col candore etereo dei Templi al Santuario di Athena – e mi guardai alle spalle.

Misty posò la mano sullo spallaccio dell'armatura, ammiccò ironico: “Stavolta sono io a esortarti a proseguire, ormai siamo invischiati in questo pantano fino al collo e non possiamo più uscirne.”

Il vice-procuratore ci aveva condotto in un'altra stanza poco illuminata. La pavimentazione constava di vecchie cementine bicolori; tra una lesena e l'altra campeggiavano neri dipinti simili a pale d'altare – di rascia nera erano coperte le mensole su cui erano sistemati candelabri a tre braccia – appartato, ma non l'avrei definito informale, che fosse il suo studio? Ad ogni modo escludevo intendesse metterci a nostro agio. Negli Inferi è utopia aspettarsi una qualsiasi dimostrazione di gentilezza.

Trasse dei calici, da un'apposita vetrina, deponendoli sul piano della scrivania, e vi versò qualcosa: “Prego” disse. “Servitevi.”

Non credo voglia avvelenarci, a che scopo?

Misty mi scoccò un'occhiata e, per una frazione di secondo, mi lasciai trasportare. Nello sguardo celava interrogativi più che legittimi.

Si può bere? È questo che vuoi sapere?

Prese tempo, osservando incuriosito le fiere urlanti in rilievo sulla coppa di peltro: “E chi sarebbero questi mostri? Tisifone, Aletto e Megera?” esordì esaminando il liquore - denso come petrolio - contenuto all'interno del calice, con aria sospettosa.

Incrociai le dita, mi auguravo non esordisse con un: “gusto dell'orrido.”

“Finiscila di fare la commedia. È potabile” sbraitò Lune, con un cipiglio torvo, e sorseggiò dalla coppa per indurci a seguire il suo esempio. “Così sareste Santi di Athena, redivivi, in missione segreta.”

“Credo dovremmo conferire col Signore degli Inferi – o chi ne fa le veci – per perorare la nostra richiesta” conclusi, dopo avergli esposto i fatti intercorsi nei minimi dettagli. Ma il vice-procuratore era terribilmente serio e non cedette di un millimetro.

“Sei la personificazione del demonio, Santo di Perseus. Subdolo fino al midollo, non ti sei del tutto redento in questo ciclo di vita e non illuderti sia così facile ottenere ciò che chiedi. Di sicuro non l'otterrete con uno schiocco di dita” focalizzò mentre si apprestava a ravvivare il fuoco nel camino, e rimestando con l'attizzatoio sollevò un nugolo di cenere, fumo, e scintille ammorbando l'aria.

“Non potete nascondervi dietro un dito, mortali” riprese, col volto trasfigurato dal riflesso delle lingue di fuoco.

Deglutii a vuoto, restai a bocca chiusa, scornato, e fu Misty a sopperire al mio imbarazzo: “Quindi siete a conoscenza del fatto che lo spirito del dodicesimo Custode è prigioniero nel prato degli asfodeli.”

“Aphrodite di Pisces è il tuo fratellastro, appartenete alla medesima schiatta. Tuttavia discendenza e titolo nobiliare, qui, perdono il loro significato terreno. Per farla breve, non godete di alcun privilegio.” Lune di Balrog aveva delucidato il mio compagno d'armi con estrema franchezza, puntandogli contro l'attizzatoio che brandiva come uno strumento di tortura.

“Si nasce nudi e si muore senza portare nulla appresso” convenne l'altro, impassibile.

“Sei perspicace, quindi eviteremo discussioni superflue a riguardo.”

“Che significa?” domandai.

“Espiazione” sentenziò il cicisbeo, deponendo l'arnese sul tripode.

Misty alzò gli occhi distogliendo l'attenzione dallo sfrigolare delle fiamme.

“Non potete essere condannati per i vostri peccati, in quanto redivivi, ma avrete la possibilità di presentarvi col cuore immacolato al cospetto del Signore degli Inferi al fine di perorare la vostra causa.” Lune bevve un altro sorso per poi deporre il calice sulla mensola del camino. “Ma non garantisco esito favorevole.”

“Potrebbe finire male” insinuai.

“Molto male” sottolineò il vice-procuratore, che riprese il calice, annuì, e si soffermò a contemplare le figure macabre sulla superficie: “A chi ha il vizio di guardare di sottecchi, per invidia, dovrebbero essere cucite le palpebre col filo di ferro, e gli empi scaraventati nel Tartaro.”

Non mi piaceva e mi insospettiva la minaccia, priva di contesto. Il mio sguardo corse di rimando a Misty.

“Se credete d'impressionarmi, sappiate che non sono un codardo.” Si schermì quest'ultimo.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 16
*** I prati di asfodelo, capitolo XVI ***


 

 

I prati di asfodelo, capitolo XVI

 

XXXII

 

Scrutai nelle tenebre dopo aver spalancato gli occhi, stordito e con un sapore metallico in bocca, in preda a una strana amnesia. Solo più tardi mi resi conto dell'interminabile caduta nel vuoto, e poi ricordai il detto: la leggenda dell'incudine che impatta sul fondo del Tartaro dopo tre lune. Sì, il Tartaro. Quel bastardo del vice-procuratore doveva avermi scaraventato nella voragine più profonda degli Inferi dopo aver emesso la sua pseudo-sentenza.

Il pettorale dell'armatura era incassato contro lo sterno e le schegge del metallo contorto penetravano nella carne; gli altri elementi sembravano essersi accartocciati come cartapesta. Sganciai lo scudo dalle terga della corazza e feci scorrere le dita sul simulacro in rilievo: era intatto e lo imbracciai senza esitare. Mi ero destato dal sopore, sebbene l'intorpidimento e un dolore sordo pervadessero ogni fibra del mio essere. Le Sacre Vestigia o la provvidenza dovevano avermi preservato dagli effetti devastanti dello schianto. L'oscurità sembrò diradarsi fino a ridursi a un fluttuare di ombre nel vuoto, tastai a tentoni la terra intorno a me, ergendomi e permanendo ritto sulle gambe per miracolo; l'unico suono udibile era lo sferragliare dei pezzi informi dell'armatura assemblati contro il corpo.

Misty...

Un pensiero, fugace come un lampo guizzante nella notte, mi attraversò la mente e invocai l'aiuto del compagno d'armi del quale non scorgevo traccia. D'un tratto mi riebbi del tutto dall'ottundimento, dal torpore che mi avvinceva e mi aveva fatto languire – chissà per quanto tempo – imbelle.

Dov'è finito? Dove si è cacciato?!

Fui trafitto da una stilettata alle tempie e strizzai le palpebre per sfuggire a un bagliore accecante; davanti agli occhi scese un velo scarlatto, dopodiché prevalse di nuovo il buio che si attenuò svelando delle immagini.

Lo avevo veduto, finalmente: incatenato a un muro di pietra, inerte, il volto livido con i tratti inespressivi – peculiari della morte – e le palpebre chiuse dalle quali stillavano sangue e acqua, o lacrime? No. Non doveva essere privo di vita. La visione aveva il sentore di una premonizione lugubre, di un responso insoddisfacente al mio quesito, che gettava un'ombra d'inquietudine...

Che lo avessero torturato a morte?

Animato da un sussulto di ribellione borbottai qualcosa di osceno tra i denti e serrai i pugni. Un fascio di luce abbacinante mi ferì gli occhi e indietreggiai di un passo: l'oscurità si era dissipata davanti a un muro di fuoco.

Eccoli i demoni dell'Inferno.

La mia presenza e le imprecazioni blasfeme dovevano averli destati. Ebbene sì, li avevo risvegliati e convocati a singolar tenzone nelle viscere della Terra.

 

***

 

XXXIII

 

La tensione è palpabile, pensai, appartato in un angolo sulle gradinate, mentre mi apprestavo a supervisionare lo svolgimento delle attività quotidiane. Il Santo di Gemini mi aveva avvisato riguardo allo stato di cose che, in quell'occasione – approfittando di un momento di distacco dalle priorità da sbrigare entro la cerchia delle mura elitarie del Tredicesimo – avevo avuto modo di constatare di persona.

C'era maretta e il rapporto di cooperazione tra i membri delle Caste sembrava essersi incrinato per motivi futili, quasi i Santi risentissero della mancanza di una figura di riferimento stabile. Avvertivo un ritorno di tendenza a schierarsi in fazioni, una rivalità che non avrebbe avuto ragion d'essere e non sarebbe giovata a nessuno.

Il bene della comunità sarebbe dovuto prevalere sull'amor proprio e Saori Kido aveva la testa sul collo, malgrado l'ego spropositato. Dovevo solo pazientare.

 

“Maestro” Shiryu mi esortò a destarmi dal rimuginare.

“Siedi pure” dissi.

“L'armatura...” esordì lui, prendendo un respiro profondo, e subito dopo prese posto accanto a me. Lo fissai, incuriosito, domandandomi cosa intendesse dire. Dove volesse andare a parare.

“Quale armatura?” replicai cadendo dalle nuvole.

“L'armatura di Libra, maestro. Non mi riconosce come possessore, è inerte come accadde nel malaugurato giorno dell'investitura.”

Ah, sì... l'armatura.

Dovevo essere proprio distratto da essermene dimenticato, e anche inadempiente poiché avevo rimosso l'ordine di Saori Kido riguardo al desiderio di trasferire le Sacre Vestigia di Libra al mio allievo Shiryu, constatando se egli ne avesse preso possesso. Continuavo ad avere delle perplessità in merito ma, allo stesso tempo, non avrei potuto prendermi la libertà di contraddire la dèa...

Alzai gli occhi studiando l'espressione contrariata del mio interlocutore: “Non serbare rancore immotivato” dissi poi, alzandomi in piedi per spostarmi in direzione del luogo dei combattimenti.

Provavo un sincero dispiacere nei suoi confronti, Shiryu era deluso ma, purtroppo, il rifiuto dell'armatura era un risvolto della vicenda abbastanza scontato e prevedibile date le premesse.

“Le Sacre Vestigia hanno un possessore ed egli è ancora vivente” tagliai corto, con un poco di amarezza.

“È stato declassato” rimbeccò Shiryu, senza nascondere un certo disappunto. “Tuttavia se l'armatura mi avesse riconosciuto non l'avrei considerato un riconoscimento legittimo, senza una qualsivoglia prova che ne attestasse la mia idoneità.”

“Infatti la decisione di Athena è stata presa per mero puntiglio, e la dèa dovrà prenderne atto perché è l'armatura stessa ad aver decretato – a suo tempo – il possessore” spiegai, secondo il mio punto di vista, accingendomi ad attraversare i settori in compagnia del mio allievo. “Ti ricorda qualcosa?”

“Death Mask di Cancer” replicò con prontezza il Santo di Bronzo, dopo aver frugato lesto nelle pieghe della memoria. “Durante il nostro combattimento fu abbandonato dalla sua stessa armatura che lo aveva ritenuto indegno.”

“Esatto, Shiryu. Vedi, sono sempre le Sacre Vestigia a decidere. Tu però – al contrario – non sei affatto privo di merito, ma esiste un altro Santo predestinato a onorare l'impegno.”

“Le vostre parole dovrebbero essere sufficienti, diciamo, a convincermi. Non ho nessuna velleità, forse mi sono spiegato male” riprese.

“No. In questo caso si tratta di semplice predestinazione, al di là del merito.”

Speravo di aver concluso il dibattito in modo convincente, avevo l'impressione di essere stato brusco ma non di una schiettezza fine a se stessa. Shiryu avrebbe capito, si sarebbe messo l'animo in pace, ma ora dovevo affrettarmi e sincerarmi che i toni alzatisi fra Marin e Shaina fossero parte dell'allenamento e non frutto di un alterco come temevo.

“Maestro, finalmente...”

L'arrivo di Shun sopraggiunse inaspettato a distogliermi dai buoni propositi. Tornai sui miei passi voltandomi indietro, verso il ragazzo, per ascoltare cosa avesse di così urgente da dirmi.

“La divina Athena mi ha incaricato di rintracciarvi perché desidera vedervi e parlare con voi, vi aspetta al Tredicesimo” esordì il Santo di Andromeda.

Come? Non aveva deciso di levare le tende? Che abbia cambiato idea...

“Credevo fosse in procinto di partire per il Giappone, infatti non mi sarei aspettato di vederti, qui, insieme con gli altri” risposi aguzzando la vista verso gli spalti, al versante opposto, dove – proprio in quel momento – avevo notato i restanti membri del quintetto di Santi di Bronzo a lei cari.

“Non saprei rispondervi, maestro Dohko, forse ha cambiato idea oppure ha deciso di rimandare la partenza” replicò Shun con aria altrettanto interrogativa.

Mi grattai il mento, immerso nei pensieri, e tuttavia non riuscivo a credere che Saori avesse altri argomenti da esporre perché nell'ultimo incontro sembrava aver chiarito quale fosse la sua posizione, seppur provvisoria.

 

***

 

XXXIV

 

Avevo risalito la china del precipizio a tronco di cono rovesciato, un abisso impraticabile e insidioso, dopo aver visto il bagliore di un astro. La luce divina sembrava aver guidato i miei passi incerti; infondere linfa vitale, acuire l'istinto, risvegliare i sensi, ma non era la stessa luce che aveva condotto Shiryu alla vittoria, non proveniva dalla stessa sorgente e non era da attribuirsi alla medesima entità. Non potevo contare sulla protezione di Athena per svariati motivi...

Impossibile!

Da dove veniva, a chi apparteneva, allora? A chi apparteneva il cosmo che mi aveva preservato dalla furia dei demoni e dal fuoco, il quale – invece di annientarmi – mi aveva temprato e aveva potenziato lo scudo di Medusa. Questa e altre domande erano sorte durante il cammino disseminato di statue di pietra che mi ero lasciato alle spalle.

 

...

 

“Maledetto demonio, bastardo infame, e così sei ancora intero dopo aver affrontato le schiere dell'Inferno...”

Il vice-procuratore che ritrovai in piedi sulla soglia del Palazzo del Silenzio – tronfio, le mani infilate nelle ampie maniche della palandrana – mi aveva ricevuto imprecando.

“Hai un brutto aspetto, tuttavia sembreresti aver superato la prova in modo del tutto inatteso” soggiunse.

Sogghignai con soddisfazione. Il cicisbeo e gli altri vermi infernali che lo attorniavano stavano esprimendo incredulità. Ero avvezzo agli insulti e quel trattamento sprezzante non mi scalfì.

“Ho combattuto. Adesso sta a voi mantenere i patti” esternai con ardire, conscio che la parola lealtà non fosse contemplata nel vocabolario di quegli esseri.

“Abbiamo qualcosa da mostrarti” ridacchiò, baldanzoso, il giudice che vestiva l'armatura della Viverna. “Affinché tu non ti attribuisca un valore immeritato in battaglia.”

Non fui in grado di interpretare il significato delle sue parole, non possedevo lucidità sufficiente per farlo in quel frangente. Fui cauto ed evitai di ridergli in faccia. Nessuno di loro ispirava fiducia, ma dopo quello che avevo passato avrei sopportato i peggiori tormenti – forse.

Misty...

Il mio pensiero corse repentino a lui, al Santo di Libra, perché ancora non scorgevo traccia della sua presenza e stavo perdendo le speranze, auto-convincendomi che ci avesse rimesso la vita nell'impresa. In verità stavo commettendo l'errore grossolano che spesso molti avevano commesso al Santuario: lo stavo sottovalutando. Non poteva essere morto. Non doveva. Sussultai, sconcertato dai miei stessi dubbi.

“Radamante, accompagnalo” disse Lune del Balrog rivolgendosi a quell'uomo spregevole.

L'energumeno smaniava dal desiderio di battersi, ma probabili direttive impartite dai superiori gli imponevano un contegno condiscendente, ne ero certo. Risi sotto i baffi limitandomi a seguirlo.

Meglio così, eviterò di sporcarmi le mani con questo sacco di letame.

 

...

 

Che razza di posto è questo?!

Oltrepassato il Tribunale del Silenzio e un crocevia che avrebbe condotto a varie destinazioni, la landa infernale aveva assunto un aspetto differente: il cielo era lattiginoso e le esalazioni sulfuree avevano smesso di appestare l'aria nonostante predominasse perenne desolazione. Due cipressi millenari si ergevano addossati alle colonne di un arco decadente, al di là del quale comparve un giardino privo di recinzione o muraglia. Poteva essere un cimitero poiché la sensazione di pace che ne scaturiva era la stessa, ma non lo era; non c'erano lapidi, statue, stele funerarie a commemorazione dei defunti, solo una distesa sconfinata d'erba e fiori.

Stetti al passo del mio guardiano, che procedeva in silenzio e, a mia volta, evitai di imbastire un dialogo a scanso di equivoci. Avevo la mente leggera – come se ogni sfida affrontata mi avesse privato persino della facoltà di ragionare – e proseguii il cammino in direzione della meta che ignoravo. Ci arrestammo nell'attimo in cui si stagliò un edificio sullo sfondo etereo, quasi si trattasse di una zona franca sospesa oltre la cortina surreale di tenebre. Strabuzzai gli occhi scorgendo nel campo visivo le vestigia di una singola torre dalle mura intonacate di bianco.

“Il mio compito termina qui, adesso sparisci, scagnozzo di Athena” esordì imperiosa la Viverna. “Entra e percorri la scala fino all'ultimo gradino.”

Nella mente si affollarono nuovi pensieri sorti dal nulla, avevo il cuore pesante. Deglutii a secco, ripromettendomi di non replicare, e assecondai l'uomo malgrado gli interrogativi sempre più incalzanti fossero un deterrente a proseguire. Dopo aver imboccato l'ingresso, che mi aveva condotto all'interno dell'edificio, intrapresi il percorso lungo la scala tortuosa; la luce eterea che filtrava dalle feritoie illuminava il cammino... una sorta di cammino mistico, infinito. Il freddo pungente si smorzò e un lieve tepore mi indusse a rilassare i muscoli contratti; nell'etere udii un suono dolce – via via più nitido – incantevole. Realizzai che le note provenissero dalle corde di un unico strumento e la musica dalla sola stanza, sita in cima alla torre, sbarrata da un portale bronzeo adorno di immagini sacre. Stavo per sferrare un calcio ma poi esitai risolvendo di spingere con le mani.

Orfeo?!

Sì, quella che avevo udito era la musica di Orfeo della Lira, e colui che mi si era parato davanti agli occhi era proprio il Santo d'Argento che aveva deciso di schierarsi al soldo del Signore degli Inferi dopo la morte dell'amata, rinnegando così la vita al Santuario. E cosa ci faceva Orfeo al capezzale del mio compagno d'armi? L'altra persona, che avevo notato subito dopo, sembrava proprio il Santo di Libra. Dovevo aver sgranato gli occhi dallo sconcerto o dalla meraviglia.

Entrambi erano avvolti dal chiarore innaturale che illuminava l'aula priva di mura, ma circondata da colonne doriche che sembravano perdersi nel soffitto altissimo. Strofinai gli occhi e sbattei le palpebre: non stavo dormendo e quello non era un sogno.

Misty...

Giaceva ricomposto su un letto funebre (?) era vivo o morto?

Possibile?!

Possibile che quel damerino se la dormisse beato mentre io avevo dovuto affrontare fiamme e distruzione? Soffocai un moto di collera per riflettere, soppesando con attenzione la scena.

Orfeo mi rivolse uno sguardo che sprizzava velato sarcasmo ma seguitò a ignorarmi, impegnato com'era a pizzicare le corde dello strumento. Non mi restava che trovare la risposta da me...

Il ragazzo, che giaceva con indosso il chitone sfoggiato il giorno dell'investitura, i capelli acconciati e la fronte cinta di alloro, non sembrava moribondo né agonizzante. Osservai il lieve movimento del torace: dormiva. Mi soffermai come inebetito a contemplare l'incarnato pallido, mi salì il fuoco ai lombi e provai un pizzico di vergogna.

“Il tuo amante è vivo, le ferite sono state sanate ma – in verità – è lui l'artefice del tuo successo e non solo...” Orfeo aveva scostato le dita dalla cetra interrompendo bruscamente la melodia, nello stesso modo con cui si era insinuato, inopportuno, nelle mie riflessioni.

Che significa?

“Non essere sorpreso, Perseus. Qui si sa tutto di tutti anche ciò che credi non si sappia... ma non è di questo che parleremo” disse con un sorriso vago.

Mi aveva preso per un dissoluto ma trovai utile, date le circostanze, non dare peso alle allusioni maliziose dell'idiota.

“Ci sono cose che hanno la priorità.”

Orfeo si era rivolto implicitamente a Misty, il quale schiuse un poco le palpebre – era sveglio, aveva udito il nostro accenno di conversazione – e abbandonò con lentezza la posizione distesa in cui giaceva. Si raddrizzò sedendo sul letto e infilò il piede in uno dei sandali dorati.

“Lascia che sia lui a raccontare” insisté il Santo d'Argento. “Non vedeva l'ora di rivederti.”

“Sapevo che ci saremmo ritrovati. La tua forza d'animo è incomparabile, Algol di Perseus, sebbene i più decantino aspetti poco lusinghieri della tua personalità ma io – per fortuna – ti conosco.”

Ascoltai, impassibile, il commento del mio compagno d'armi. Nonostante la sua proverbiale sicurezza – che avrei definito mera ostentazione o sicumera – sembrava debilitato e ciò sarebbe stato coerente con l'allucinazione che avevo avuto nel Tartaro.

Lo raggiunsi tendendogli entrambe le mani e assicurando le sue nella stretta, il calore che emanava contribuì a darmi tregua dal gelo penetrato fin nelle ossa. Si alzò in piedi ma avevo l'impressione vacillasse. Anche la collera che mi aveva sopraffatto in pochi istanti sembrò placarsi, soppiantata dalla curiosità di ascoltare la sua versione... e doveva essere convincente, sarebbe stato meglio per tutti!

Mi scrutò con due occhi vitrei e taglienti: “Hai il fuoco dentro, Algol, ma faresti bene a calmarti” affermò con piglio autorevole. “È reale quel che hai visto” continuò, e dopo abbassò lo sguardo per poi incrociarlo con quello di Orfeo.

“Sei libero di parlare. Algol di Perseus è qui per ascoltarti, anche io ancorché già conosca la tua storia, Santo di Athena.” Lo incoraggiò quest'ultimo.

Misty si toccò il volto privo di qualsiasi cicatrice che rimandasse all'immagine orribile del viso sfigurato sovvenutami nella visione. Doveva essere stata la melodia di Orfeo, il di lui cosmo, a cancellare lo scempio delle ferite. Ovvio, non avrei perso tempo a chiedergli conferma.

Il mio compagno d'armi mi degnò di nuovo della sua attenzione e lo fece con la prontezza di spirito di chi è in grado di sondare nei pensieri: “Inorridii vedendo Lune di Balrog applicare la sentenza nei tuoi confronti” disse. “Ma il nostro era un tacito accordo suggellato a suon di sguardi e che mi imponeva passività. Mi lasciai imprigionare, con i ceppi ai polsi e alle caviglie, e come pattuito ebbi le palpebre cucite col filo di ferro.”

Mi ostinavo a non capire: “Tutto questo è raccapricciante...”

“Espiazione. Non ricordi? La prova consisteva nello scrutare di sbieco attraverso uno spiraglio lasciato tra le suture, malgrado il sangue – che scendeva a rivoli – offuscasse la vista: passato, presente e futuro. Sospirare d'invidia rimembrando i successi altrui faceva parte del supplizio, così come subire senza poter reagire o, peggio, assistere impotente alle traversie che avresti dovuto affrontare da solo.”

Fece una breve pausa dopo quel racconto conciso, quasi telegrafico, ma al tempo stesso esaustivo. Ebbi la forza di immedesimarmi e infine compresi che non doveva essere stato facile per lui. Il livello di difficoltà affrontato era pari al mio, se non superiore, e dovetti arrendermi all'evidenza.

“So che non è semplice...” Orfeo lo esortò a continuare.

“Fu così che, a un tratto, elevai il mio cosmo al limite estremo. Prigioniero, senza armatura, ma non importava. Avresti avuto la meglio, Algol, se solo non fossi stato un Santo d'Argento privo dell'ottavo senso...”

“L'aura, la luce divina, non era dunque il cosmo di Athena. Lo supponevo.”

“Era il mio” confessò Misty. “Fu quella prodezza improvvisa – di cui non mi reputavo capace – a permettermi di aiutarti. Per questo sono qui, privo di forze.”

Gli presi il volto tra le mani. Il mio atteggiamento cambiò. No, non dovevo sentirmi umiliato a causa del suo intervento, date le circostanze estreme avrei dovuto considerarlo del tutto legittimo.

“I giudici infernali – appurato ciò, e loro malgrado – optarono per la sua liberazione affidandolo alle mie cure” disse Orfeo guardandomi dritto negli occhi.

“Già, per quegli infami equivale a una sonora sconfitta. Uno smacco non da poco” fui solerte ad ammettere. “Sarebbe stato bello vedere le loro facce.”

“Ritengono sia degno di presentarmi al cospetto del Signore degli Inferi per presentare la mia richiesta. E tu mi accompagnerai come stabilito fin dall'inizio, Algol.”

Nessuno al Santuario crederebbe a un simile atto di abnegazione. Ha raggiunto l'ottavo senso ma non si è preoccupato di liberare se stesso.

“Ho pensato prima a te e ora mi occuperò di Søren” disse Misty, sottraendosi con garbo alle mie attenzioni. “Quanto tempo è passato da quando abbiamo lasciato il Santuario di Athena?”

“Sembrerebbe un'eternità.”

“In realtà non molto. Il trascorrere del tempo è una percezione illusoria, ad Atene è solo primavera” precisò Orfeo.

 

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** capitolo XVII ***


 

 

I prati di asfodelo, capitolo XVII

 

XXXV

 

Non disconoscevo quel lato del carattere. Da qualche tempo si atteggiava con la stessa supponenza dei mocciosi che giocano a fare i grandi; incomprensibile, considerando l'entità del suo ruolo, e al contempo coerente con l'indole volubile degli dèi. Cambiava idea o atteggiamento in modo del tutto imprevedibile e – pur essendo consapevole che i suoi capricci fossero prerogativa di una divinità – lo trovavo sospetto.

Abbandonai con discrezione il ruolo del supervisore – un semplice diversivo, anch'esso parte della quotidianità – lasciando le Amazzoni alle prese con le loro dispute, presunte o reali, da risolversi sul suolo dell'Arena.

Che si arrangino.

All'orizzonte si prospettava qualche nuova incombenza, forse spiacevole, per il sottoscritto. Mi incamminai, con flemma, seguendo il sentiero accidentato – che si dipanava nella macchia di sporadica vegetazione – dalla valle, fino a raggiungere la scalinata che serpeggiava lungo i fianchi scoscesi del monte. Mi apprestai a varcare indisturbato la soglia di ogni singola Casa Zodiacale, incrociando il personale di servizio impegnato nel consueto andirivieni. I Santi rimasti a sorvegliare i Templi non avevano alcun quesito da porre al Gran Sacerdote.

Ottimo.

Dal canto mio non avevo voglia di perdermi in chiacchiere e di conseguenza li avevo ignorati, procedendo dritto per la mia strada, indenne da domande o commenti. Evitai a tal proposito lo sguardo stranito di Capricorn e trassi un sospiro di liberazione dopo aver eluso, con ampie falcate, il silenzio tombale che avvolgeva la Dodicesima Casa.

C'era Aquarius a fare la spola tra il proprio Tempio e quello di Pisces, prestandosi a una duplice sorveglianza, ma erano semplici ancelle ad accudire le spoglie del Custode immerso in una parvenza di sonno ipnotico – definirlo morte apparente era più consono alle sue condizioni – e l'aria persisteva satura del sentore delle sue rose. Avvertivo un discreto disagio e pensai al ruolo di Athena nella vicenda. La dèa, per quanto ne sapessi, non si era ancora degnata di fargli visita, benché si premurasse di mantenerne intatte le funzioni vitali in virtù dei propri poteri; ragion per cui non potevo nemmeno biasimare chi sosteneva la tesi blasfema di ritenersi un mero strumento nelle sue mani. Erano idee sovversive, balzane, che a cagione dell'importanza della mia carica avrei dovuto rintuzzare sebbene balenassero impietose ogni qualvolta mi soffermavo ad analizzare la situazione.

Giunto sul grande spiazzo, di rimpetto al Tredicesimo Tempio, respirai a pieni polmoni la stessa brezza che disperdeva le nubi spazzando il cielo e svelando la luce intensa del sole.

Se avessi indosso i paramenti sacerdotali sarei già in un bagno di sudore.

“Eccellenza” annunciò una delle sentinelle di guardia. “La divina Athena vi sta aspettando.”

Non replicai, affrettandomi a raggiungere il portale d'ingresso, e attraversai la sala gelida, dirigendomi risoluto verso il trono. L'aria era pesante, impregnata dell'odore acre d'incenso; e l'illuminazione – parca, più del solito – lasciava intravedere gli arredi sacri e il seggio sul quale intravidi, assisa, l'inconfondibile sagoma della fanciulla vestita di bianco.

Raggiuntala mi premurai di relazionarmi con l'usuale accortezza prevista dal protocollo.

“Dohko, non sono necessari questi convenevoli” la sua voce gentile spezzò l'atmosfera greve che permeava il luogo. “Avevo già pensato di ricevervi senza badare alle solite formalità e vedo che – casualmente – indossate abiti civili” soggiunse.

“Ero sugli spalti dell'Anfiteatro ad assistere alle esercitazioni” replicai. “In particolari contingenze le formalità sono superflue e i paramenti sono d'intralcio.”

“Non fa nulla, il vostro anticonformismo non mi ha mai turbato più di tanto” riprese Saori, e si alzò sistemando il cuscino di velluto rosso sullo scranno di marmo prima di raggiungermi. “Desidero fare due chiacchiere con voi, ma non discuteremo qui o nella solita biblioteca. Ho bisogno di prendere una boccata d'aria.”

Mi lasciai guidare dalla giovane donna e, passando per l'accesso secondario, attraverso il colonnato, imboccammo il corridoio adiacente alla Sala delle Udienze che sbucava, tra l'altro, anche nei pressi del giardino. Ero indeciso se rompere il ghiaccio, infine risolsi di evitare di mostrarmi invadente: dall'espressione del volto non riuscivo a evincere alcun sentimento né a percepire una qualche aura di negatività. Saori sembrava del tutto neutrale sebbene, con una punta di malizia, fossi più propenso a credere che l'incontro mi avrebbe riservato delle sorprese.

Sedette sulla sedia di ferro battuto, all'ombra di una pianta d'ulivo, passando un dito sul piano marmoreo del tavolo, dopodiché indicò il posto vacante di fronte a lei.

L'assecondai senza battere ciglio, d'altronde altro non avrei potuto fare.

“C'è un po' d'incuria da un po' di tempo a questa parte” esordì, riferendosi alla polvere accumulatasi sulla superficie del tavolo, ma avevo intuito fosse un espediente – un po' goffo – per introdurre una sorta di conversazione e di rimando continuai a tacere.

“Comunque non è così importante...” osservò, alzando la testa per incontrare il mio sguardo. “Ho trascorso molto tempo a pensare a tutto quello che è successo, cose sgradevoli o meno. Sono stata impulsiva, ma sono certa voi abbiate compreso la situazione che per me non è affatto facile.”

Chiuse gli occhi rivolgendo il viso contro il sole, per poi interloquire con un tono piatto e monocorde: “Non sono preparata ad affrontare determinate situazioni né a tenere testa all'arroganza di alcuni Santi, riottosi e ribelli alla mia autorità; ma probabilmente, come voi avete osservato, è colpa mia. Non sono abbastanza autorevole” sottolineò con un pizzico d'ironia malcelata.

Mi domandai se stesse facendo la vittima o se una simile affermazione implicasse l'esito di una ferita insanabile all'amor proprio.

“Forse, milady, si tratta soltanto di un errore di comunicazione. Ci sono state incomprensioni e alcuni Santi – credo, non a caso – si rapportano nei vostri confronti con diffidenza. Se mi consentite il paragone: si sentono come burattini da manovrare a piacimento per i vostri scopi” affermai con audacia, senza mezzi termini, e traendo un sospiro liberatorio per essermi tolto un grosso peso dallo stomaco.

“Ma voi sapete che non è vero” Saori aveva reagito quasi scomponendosi.

“Confido nella vostra buona fede e non oserei metterla in dubbio, ma non sta a me lavorare sulla comprensione. Però sono convinto abbiate il dovere di chiarire” dissi, assolutamente poco incline all'idea di metterci una pezza, e sarei stato intransigente.

“Infatti...” Saori scostò la sedia all'indietro, accigliandosi, come per sfuggire al tepore del sole che le ingentiliva il volto. “Vi ho fatto chiamare perché ho deciso di posticipare la partenza e, per quanto concerne il mio ruolo, qui, al Grande Tempio, ritengo sia giusto provare ad assumermi le mie responsabilità.”

Responsabilità? Di quali responsabilità sta parlando? È in vena di scherzare?

Ero riluttante a credere si fosse ravveduta in così breve tempo, ma pian piano stava entrando in quei panni che dal principio sembravano essere troppo stretti; combattuta tra sentimenti umani e qualcosa di dissimile, agli antipodi dall'umana debolezza. Dovevo dimostrarmi aperto a ogni possibilità.

“Non ho mai detto che sarebbe stata una passeggiata. Avete, da sempre, tutta la mia collaborazione e il mio sostegno” dissi cercando di pormi in modo amichevole, sebbene sapessi non fosse affatto facile rimediare agli stessi errori reiterati nel tempo.

Nel mentre, Saori si sgranchì le braccia alzandosi in piedi per distendere le pieghe che avevano preso gli indumenti, e mosse qualche passo girando intorno al tavolo. La nota cristallina e soave della sua voce infranse il silenzio: “A proposito di Shiryu, ho notato che non ha ancora preso possesso delle Sacre Vestigia di Libra. Gli avete già ribadito i miei ordini o state ancora temporeggiando?”

Abbassai lo sguardo. Temevo avrebbe toccato l'argomento, pur senza cogliermi impreparato a esternare una replica della quale – ci avrei scommesso – era consapevole. La reputavo inesperta ma intelligente, l'arguzia è un tratto distintivo della dèa Athena...

“È l'armatura ad aver decretato il possessore e questi è ancora in vita. Lo sapete, milady, avete assistito voi stessa al momento dell'investitura e vi siete gustata il colpo di scena. L'abbiamo accettato tutti, volenti o nolenti. Anche io avrei preferito che l'armatura di Libra scegliesse il mio allievo Shiryu, non per parzialità ma per una questione di giustizia nei suoi confronti e come ricompensa per i suoi sacrifici, ma il destino ha ordito trame differenti” insinuai, senza porre un freno a parole e sentimenti che provenivano dal cuore e che non potevo rinnegare. “In fondo siamo tutti predestinati.”

“A prescindere dal valore, dalla tempra, e dall'attitudine?” domandò, smettendo di girare in tondo.

“Scrollatevi di dosso i preconcetti. Non che io ne sia stato sempre libero, ma credo di averli superati. Quel ragazzo merita di indossare l'armatura d'oro e avrà tempo di dimostrarlo a tutti” ribattei, passandomi una mano in mezzo ai capelli sudati.

“Quel merita suona come una nota stonata. Ne siete davvero così convinto?” Un lieve rossore le tinse le gote. “Mi ha minacciata, di sicuro spalleggiato da suo padre, ed è un oltraggio imperdonabile che non posso tollerare” insistette, inasprendo il tono della voce, sforzandosi poi di ritrovare la solita pacatezza. “Non credo di essere disposta a ignorare l'affronto.”

“Non credo suo padre lo spalleggi, il rapporto tra Misty e il dio del Sole non è propriamente quello che intercorre tra genitori e figli. È facile intuirlo e lo sapete, non siete sprovveduta” obiettai. “E voi, invece, come vi siete relazionata nei suoi confronti? Nei confronti di un Santo a voi subordinato, intendo.”

In un gioco di forza chi prevale? Gli dèì o i mortali? La risposta è più che ovvia, direi scontata...

Calò di nuovo il silenzio. Tetro, eloquente. Dovevo aver toccato le corde giuste e non credevo ci sarebbero state contestazioni. Sì, chiaro, l'atteggiamento di Misty era stato inqualificabile in più di un'occasione, tuttavia colei che occupava il ruolo più eminente nella gerarchia avrebbe dovuto dare esempio di maggior saggezza e lungimiranza rispetto a un semplice sottoposto. Erano ormai lontani i tempi in cui poteva giustificarsi con l'alibi di essere una ragazzina. Ero ansioso di ascoltare la sua replica.

“Trovo siate di manica troppo larga, Dohko, e in suddette circostanze mi sorprende. In altri tempi lo avreste spedito a pulire le latrine del Santuario. Stento a riconoscervi, vi siete rammollito” piegò le labbra in un sorriso stentato. “Suppongo che, a riprova delle nostre buone intenzioni, dovremmo dimostrargli fiducia... sembrate suggerirmi in modo più o meno velato” parve arrendersi, malgrado la stoccata finale avesse il retrogusto di un calcio sui denti.

La bestia ferita si dimena e morde.

Saori aveva sfoderato gli artigli, le ripetute ferite all'orgoglio sembravano aver avuto un effetto, per così dire, terapeutico.

Sarebbe una dimostrazione di umiltà che i Santi apprezzerebbero... mi dissi senza pronunciare a voce alta il mio pensiero ed evitando così di cedere alla provocazione.

“Mi ero chiesta se liberarlo” soggiunse, soffermandosi con le mani dietro la schiena. “So che non ve lo aspettavate, Dohko. Avete creduto risolvessi di relegarlo a vita in una lugubre e sudicia prigione, per ripicca.”

“A cosa vi riferite?” domandai, sospettoso.

“Sono vissuta nella bambagia ma non mi ritengo stupida. Ho riflettuto sulle mie ultime decisioni, forse dovute a eccesso di zelo e affetto sconsiderato verso i miei protetti – come taluni con sarcasmo li definiscono – predilezione che, in qualche modo, mi ha reso ciò che appaio ai vostri e ad altri occhi” confessò, chinandosi per strappare un fiore giallo che spuntava dalle spaccature del lastricato di pietra. “Ciononostante mi avete sottovalutata, poco importa il fatto che io abbia disatteso le promesse dimostrandomi non all'altezza come avete fatto chiaramente intendere. E sebbene sia in pieno diritto di rivalermi nei vostri confronti – prendendo un provvedimento disciplinare per la vostra condotta irrispettosa – vi perdono e non pretendo scuse per aver interferito nelle mie decisioni.”

Interferito?

Credevo di aver capito cosa intendesse dire con l'ultima affermazione, ma seguitai a replicare, per nulla turbato: “Vi sono grato per la comprensione.”

Saori, o meglio, Athena mi aveva colto in fallo ed ero in dovere di darle una spiegazione accettabile, alla quale non ero preparato. Rimasi seduto al mio posto, scostando un ciuffo di capelli dalla fronte e riflettendo per un breve istante: aveva ragione, mi ero permesso di scavalcare la sua autorità, il mio gesto era stato scorretto eppure non provavo alcun rimorso!

“Avete provveduto voi a farlo trarre dalle segrete, sottraendolo al giudizio del Grande Tempio, per poi inviarlo chissà dove... Chi altri, se non voi? E manca anche un Santo d'Argento all'appello.”

“Come avete fatto a scoprirlo?”

“Desideravo un valletto personale di bella presenza e avevo deciso, dopo molti tentennamenti, di liberarlo” confidò, levandosi in piedi e gettando il fiore a terra con noncuranza. “Ecco come ho scoperto di essere stata preceduta ma, ribadisco, – in virtù della vostra buona fama – non discuto e non vi condanno, Dohko, anche se sarebbe ragionevole farlo.”

“Se vi confidassi che il motivo è nobile e rappresenta un'occasione di riscatto per quel Santo, vedreste ancora il mio atto d'insubordinazione come un affronto?”

 

 

Saori mi aveva indotto in modo inequivocabile a seguirla – mentre esponevo il mio racconto – e aveva ostentato un mutismo che avrei definito ovvia rassegnazione.

Giungemmo così al di fuori dal Tredicesimo Tempio, non avevo idea di dove ci avrebbero condotto i suoi passi e non si era ancora espressa in merito alle mie rivelazioni. Questa volta – nel bene o nel male – sembrava dimostrare un buon autocontrollo, quasi discostandosi dalle recenti cadute di stile. Ma forse era presto per cantare vittoria e magari avrebbe palesato una qualsivoglia reazione più tardi.

Si fermò sullo spiazzale antistante l'edificio, contemplando la disposizione scenografica del complesso dei Templi sull'Acropoli.

Sospirò – dopo aver rivolto un ultimo sguardo a ponente dove si stagliavano le acque cristalline del mare Egeo – e intraprese il tratto di scale che conduceva alla Dodicesima Casa. “Quest'odore, Dohko. Lo percepite? Inebriante e sgradevole al tempo stesso” disse.

Era la stessa sensazione che provavo ogni volta costeggiando il sentiero di rose scarlatte abbarbicate ai gradini di pietra grezza, alle mura, e a ogni sorta di appiglio. Non spiccicai parola, avevo già parlato abbastanza, intuendo che forse il mio racconto aveva spronato Saori a muovere i primi timidi passi in direzione della Dodicesima Casa. La decisione arrogatami, e che per un breve periodo avevo custodito con riserbo, l'aveva esortata a prendere atto delle condizioni fisiche in cui versava uno dei suoi Santi, a constatare di persona il suo stato. Probabilmente preservare le funzioni vitali con il cosmo non bastava più a mettere a tacere la coscienza.

“Fatemi strada, Sommo Sacerdote” esordì rallentando l'andatura e ponendosi al mio fianco.

L'assecondai, arrestandomi all'ingresso dell'aula allestita in principio come camera ardente. “Prego” l'esortai a prendere coraggio e, dopo un poco di esitazione, Saori si avvicinò al corpo all'apparenza senza vita.

Biascicò qualche parola sommessa. Si destò poi, alzando la testa, e sfiorò il volto del dormiente con le dita. “Non ho parole, Dohko. Ciò che mi avete rivelato è illuminante, mi apre gli occhi su molte cose, tuttavia ho delle perplessità.”

“Quali perplessità, milady?”

“Un passo falso di quei due scellerati e potremmo trovarci in guerra contro le orde degli Inferi.”

“Mi credete così ingenuo da non aver considerato tutti i rischi che la missione comporta né di essermi premurato di ragguagliare entrambi sul comportamento da tenere?” replicai di rimando, trattenendo a stento una punta di sdegno.

“Non vorrei dubitare della vostra risolutezza, ma...” Il tono di voce e la gestualità di Saori mi persuasero che la sua titubanza fosse dettata da un timore più che legittimo. Era sincera nell'esternare i propri sentimenti.

Scorsi la sua espressione alla luce dei ceri che rischiaravano appena la sala: contemplava ancora il volto del Santo di Pisces e negli occhi le si palesò un velo di commozione.

Era sceso di nuovo il silenzio tra noi – come il sipario che cala tra il palcoscenico e gli spettatori – ma ben presto fui costretto a destarmi dalle mie riflessioni. Avevo udito un brusio di voci poco distante e adocchiai la parte opposta dell'aula riconoscendo sulla soglia, nella penombra, le sagome inconfondibili delle armature di due Santi d'Argento.

Non mi sovveniva un legame d'amicizia tra Asterion, Moses, e Aphrodite...

Cosa ci fanno qui?

Constatata la nostra presenza ci rivolsero un inchino rispettoso, quasi meccanico, dato dall'osservanza dei dettami enunciati dal protocollo.

Asterion aveva colto il mio stupore e mi anticipò: “Volevamo testare le sue condizioni, qualcuno paventa la possibilità di un risveglio ma è molto probabile siano solo voci prive di fondamento” detto questo fece una pausa, poi riprese. “Dopotutto si tratta di un nostro superiore nonché fratello e mentore di una persona che ci è cara.”

Esternazione fuorviante ma credibile che celava un altro motivo più plausibile della visita. Qualcosa mi diceva che i due si erano avventurati fin quassù in cerca di informazioni sulla sorte del loro ex-parigrado e amico, di sicuro si chiedevano per quanto tempo ancora quella ragazzina viziata aveva intenzione di tenerlo rinchiuso nei sotterranei del Santuario. Non mi preoccupai di sgombrare la mente dai pensieri perché mi premeva che Asterion vi leggesse dentro, benché fossi conscio che non avrebbe osato in virtù delle regole di comportamento che ognuno di loro osservava. Mi fissò con due occhi attenti, arguti.

“E, a proposito della persona che definite cara, presumo vogliate apprendere notizie a riguardo” risposi, rivolgendomi a Saori.

A lei spettava l'ultima parola ed era a lei che i Santi erano in dovere di rivolgersi, dopotutto Moses era tornato alla vita privo di cicatrici grazie all'intervento divino di Athena, checché ne dicessero gli altri sul suo modo di gestire il Santuario; a tutti – dal primo all'ultimo esponente di ogni Casta – era stato concesso il dono prezioso della vita.

“Non dovrei essere bendisposta nei confronti di uno che si è dimostrato superficiale a tal punto...” replicò lei, non troppo convinta, rivolgendo di nuovo l'attenzione verso colui che giaceva ignaro con le mani congiunte in grembo, come per implorare aiuto; le parole giuste; la risposta giusta. Vacillava.

“Divina Athena, perdonatemi, ma la superficialità di cui parlate è solo la punta dell'iceberg di una personalità complessa, della quale la maggioranza si limita a vedere i difetti.” L'intervento di Asterion fu provvidenziale a trarre d'impiccio entrambi. Adesso non si poteva più tacere. Scoccai uno sguardo a Saori e lei fece un cenno affermativo in risposta.

 

 

***

 

XXXVI

 

Orfeo aveva risolto di lasciarci soli dileguandosi chissà dove, il che accrebbe il disagio dovuto alla situazione insolita che si era creata.

Osservai il mio compagno d'armi, il quale – chiuso in se stesso – parve smarrirsi in qualche riflessione simulando un'odiosa indifferenza, voleva farmi credere che gli stesse scivolando tutto addosso. Già, fingeva, lo conoscevo fin troppo bene da poterlo affermare con sicurezza, e il suo era solo un pretesto per guadagnare tempo ma era turbato quanto me.

L'ignoto incombe come una lama che pende sulle teste di entrambi.

Era circondato da un'aura blanda eppure visibile in tutto quel candore, un brillio etereo e sovrannaturale quasi fastidioso. Mi attardai osservando i rimandi all'architettura classica: l'aula che ricordava il tempio a thòlos e gli arredi lignei con elementi decorativi in oro...

Misty sedette, senza sdraiarsi, su di un kliné mostrandomi le terraglie disposte sul basso tavolo a tre gambe sistemato a lato. Era davvero così imbecille da pensare che fossi interessato a mangiare e a bere? Gozzovigliare era l'ultimo dei miei pensieri. Forse Radamante sperava che ci ingozzassimo al fine di farci recuperare le forze per sopportare altri tormenti, non era stato di sicuro un gesto di altruismo quello di dispensare del cibo a piene mani. Mi era sovvenuto il ghigno di scherno impresso sul muso di quel bastardo e dei suoi degni compari.

“È idromele, Algol. Potrebbe essere d'aiuto a distrarti, a sbollire l'insofferenza che covi nelle viscere” esordì lui, mettendo un freno all'impeto violento dei miei pensieri, dopo aver dato un'occhiata fugace alle proprie vesti.

“Non ti ricordavo dedito a certi vizi.”

“C'è sempre una prima volta” ribatté, allungando la mano per stringere la coppa tra le dita. “Ci hanno dato tregua, ma la tregua durerà poco, e sarebbe saggio approfittarne.”

“Infatti, eviterei distrazioni di sorta; tutto sommato, trovarmi faccia a faccia con te – senza il terzo incomodo – non potrebbe farmi che piacere in circostanze favorevoli ma, visto il luogo in cui siamo, non mi azzarderei a definirle tali” sottolineai con malizia.

“Non ti aggrada il musico?” insinuò con un sorriso abbozzato, mesto, e affatto sfrontato come lo sarebbe stato di consueto.

“Sempre tutti a venerarlo e a lodarlo al Grande Tempio, rincitrulliti – neanche avessero un palo ficcato su per il deretano – quando in realtà è solo un voltagabbana e disertore” sbottai, quasi sul punto di perdere la pazienza. “Ma certe persone, si sa, hanno un'abilità innata nel prendersi qualsiasi merito.”

“Che frasario, Perseus... Eppure non sei un buzzurro – chi più, chi meno – vantiamo tutti un certo decoro come Santi di Athena” avrebbe voluto ridere ma in qualche modo si trattenne. “Non mi sono mai spiegato i salamelecchi per esaltare una stucchevole storiella d'amore...”

Misty aveva rincarato la dose, dandosi un'occhiata intorno, forse sospettando la presenza di qualcuno appostato a origliare. “Ho sempre bramato l'approvazione riservatagli dagli abitanti del Santuario, soprattutto quella del Sommo Sacerdote. Sai, Algol, tutto quel clamore l'avevo anelato per me stesso e rosicavo come una recluta alle prime armi” confessò poi, facendo sbiancare le nocche della mano libera chiusa a pugno e inerte lungo il fianco, ma si lasciò sfuggire il calice stretto nell'altra.

“Avresti dovuto impegnarti di più per meritarlo.” Gli rinfacciai, ridendogli quasi in faccia.

Misty aveva incassato il colpo, non si curò del fragore dei cocci né della bevanda rovesciata sul pavimento: “Tutto sommato – in sostanza – lo strimpellatore non è così male e credo mi abbia sottratto da morte certa; poi qualcuno mi ha lavato e vestito con cura mentre la sua musica continuava a lenire le ferite, in particolare quelle dell'anima...” affermò ponendo le mani sui fianchi e raddrizzando la schiena.

L'assoluta franchezza con cui spiattellava quella specie di confessione non si confaceva alla sua indole, non era inficiata dal solito orgoglio. Mi esortò a tacere e dissimulai lo stupore nell'atto di accettare il calice d'idromele offerto, ancora riposto sul tripode.

“Tuttavia c'è un ulteriore strappo da ricucire” soggiunse, saggiando il sapore della bevanda sulle labbra con la lingua...

Lo fissai per un lunghissimo istante e lui ricambiò con uno sguardo quasi lascivo.

Strappo? Quale strappo?

Alcune affermazioni sembravano senza senso, impossibili da decifrare, ma sorvolai vedendolo di nuovo assorto nei pensieri.

“Questo abito...” disse, indicando il chitone che valorizzava il suo corpo statuario. “Sembra quello assegnatomi per la cerimonia d'investitura a Santo d'Oro.”

Concordavo. Sì, era un fatto strano che aveva destato la mia curiosità fin dal principio.

“Ciò potrebbe avere una valenza simbolica? Cosa ne pensi, Algol?”

“Non ne ho la più pallida idea” risi, con l'intento di alleviare la tensione.

Misty accennò un sorriso di rimando ma non pervaso da eccessivo entusiasmo. Mi scrutò da sotto le folte ciglia e finalmente si adagiò sul kliné rivolgendo due occhi languidi di tristezza nel vuoto. “Semmai dovessimo fare ritorno al Santuario di Athena, sfigureresti conciato in quel modo.”

“Alludi all'aspetto della mia armatura?”

“Esattamente” commentò. “Per un momento avevo pensato di rimetterla in sesto con l'ausilio del mio sangue...”

“Sciocco ragazzo. Perché non ti tagli le vene, allora, invece di blaterare invano?” sbraitai come in preda all'esasperazione, iniziavo a cedere ai postumi – sul piano fisico e psicologico – delle vicissitudini da poco trascorse.

Il mio compagno d'armi ridacchiò di gusto, sembrava aver ritrovato l'allegria, e sapevo quanto si divertisse a stuzzicarmi. “Però ho cambiato idea perché desidero colgano la portata del tuo sacrificio il quale, nell'imperfezione, è tangibile, a differenza di un'armatura integra e lucente” disse, e in quelle parole balenò una fierezza mai sopita del tutto. “Voglio che sia Athena a profondere il suo sangue per un Santo d'Argento nobile e valoroso. Troppo comodo prodigarsi di attenzioni sempre per i soliti noti...”

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII ***



 

I prati di asfodelo, capitolo XVIII

 

XXXVII

 

“Tuo fratello vive grazie al cosmo di Athena.”

Avrei evitato di ricordarglielo ma ciò che avevamo passato — e che stavamo passando — mi imponeva di riportare Misty con i piedi per terra.

“No, Algol. Ti sbagli. Se Søren è con un piede nel mondo dei vivi è perché — prima di tutto — egli stesso lo desidera” obiettò lui con la sempiterna sicumera.

La sua teoria poteva essere fondata ma, se Misty avesse avuto ragione, ciò avrebbe sminuito ancor di più il ruolo di Athena. “Vorresti insinuare che il ruolo della dea è solo di facciata?” domandai, senza troppa enfasi, come se conoscessi già la risposta.

“Mi dispiacerebbe smontarla agli occhi degli altri Santi, ma so che con te posso essere schietto. Viviamo in un mondo di apparenze e le parole dolci sono spesso ingannevoli, così come gli atti di generosità compiuti con la pretesa di essere disinteressati ma, forse, te l’ho già detto una volta” sospirò giocherellando con un ricciolo di capelli.

“Senti da che pulpito…” insinuai, “vorresti farmi credere di essere cambiato?”

E magari sei cambiato per davvero, ma dubito tu lo sia al punto di essere diventato integerrimo…

Mi ignorò. Le sue affermazioni sembravano più il frutto della disillusione che una realtà concreta, ma chi di noi aveva la verità in tasca? Malgrado ciò, Misty riusciva a essere persuasivo perché a quelle sue parole cominciavo già a dare un certo peso e avrei finito per crederci del tutto. Non confidavo nel lieto fine e la partita era ancora tutta da giocare.

La conversazione intrapresa sembrava utile al fine di chiarire alcune cose poco limpide.

“Credo tu abbia raggiunto l’ottavo senso immediatamente dopo avermi tirato fuori dai guai… inoltre, non dovremmo essere qui” dissi, senza temere di esporre le mie perplessità.

Misty replicò con il solito mezzo sorriso a fior di labbra, a metà tra l’essere sarcastico o supponente: “Lo specchio, Algol. Lo specchio donato da Apollo al mio fratellastro è un lasciapassare! Dohko lo ha dedotto subito, dopo il mio racconto, e per questo non ha mosso obiezioni al mio desiderio di raggiungere Søren nell’oltretomba. Credevo fosse abbastanza chiaro” alzò gli occhi. “E poi chi ti assicura che la facoltà di possedere l’ottavo senso, come requisito per accedere negli inferi, non sia un deterrente per dissuadere i mortali dall’intraprendere la catabasi?”

“Arrivati a questo punto non dovrebbe più interessarci” conclusi. L’insinuazione del mio compagno d’armi avrebbe sollevato altri interrogativi, tuttavia non aveva senso arrovellarsi su quanto ormai era stato detto e fatto dal momento che non saremmo più tornati indietro — o era quello che credevo? D’un tratto mi riscoprivo pessimista sebbene non provassi alcun timore per il futuro, tantomeno mi lambiccavo il cervello per l’esito della missione.

Sedetti accanto a Misty, sul triclinio, ma lui si affrettò a sfuggirmi lasciando il posto libero.

“Vieni qui” dissi, e lo trattenni per un lembo del chitone. Dopo una iniziale ritrosia — come lottando contro se stesso —  sembrò gradire il mio approccio.

Reclinò la testa sulla spalla, fissandomi per alcuni istanti, e poi socchiuse gli occhi. “Sei maldestro, Algol, ma…” soggiunse con un sorriso labile.

Credevo di sapere cosa volesse, cosa desideravamo entrambi, e lo indussi ad avvicinarsi. Deciso, seppur con una cauta discrezione per non contrariarlo. Non che me ne fossi mai preoccupato più di tanto prima d’ora, ma dovevo ammettere che il contesto incuteva una certa soggezione e alcuni pensieri e brame audaci sarebbero risultati dissacranti, dovevamo esserne consapevoli entrambi. 

Saggiai il sapore di idromele sulle sue labbra e lo esortai a schiudere la bocca. Indugiai lentamente fino al momento in cui egli non ricambiò le mie attenzioni. Avevo frugato tra le pieghe dell’indumento succinto che indossava e lo guardai di sottecchi per gustarmi la sua espressione languida e compiaciuta; d’un tratto rivoltò le iridi sotto le palpebre lasciandosi sfuggire un gemito sommesso. Avevo catturato la sua attenzione. L'ingenuità con cui era solito lasciarsi andare tradiva una certa innocenza, mi faceva letteralmente impazzire.

A dispetto della mia volontà Misty si scostò e mi trafisse con due occhi di ghiaccio: “Non dovresti distogliermi dall’obiettivo principale” protestò leccandosi le labbra. “Ma sei un fottuto bastardo, sai essere convincente quando vuoi” rise con ironia malcelata e un poco di malizia. Si era ricomposto ergendo la cosiddetta barriera virtuale che interponeva quando voleva eludere il contatto fisico nel senso più stretto della parola. Convenni a malincuore di seguire il suo esempio e, come destato da un incantesimo, ritrovai il senno, perché le circostanze non erano favorevoli e non era saggio abbassare la guardia. 

“Non è il posto adatto” osservò.

Qui sanno tutto di tutti, ha detto il musico, quindi a che pro nascondersi? Sei, siamo ridicoli con il nostro finto perbenismo.

“Eppure sarebbe più logico, e anche divertente, sbattere tutto in faccia a questi infami” realizzai in un impeto di ribellione, stentando a reprimere una risata di soddisfazione. 

Misty tacque ma il rossore che gli si era dipinto sul volto palesò il suo stato d’animo: “Ti capisco, dopotutto la nostra relazione è poco più di un passatempo, niente a che fare con pseudo romanticismo, e non posso darti torto. Sarebbe divertente dare spettacolo, dopotutto ci siamo sempre trattenuti. L’ambiente formale del Santuario lo impone. Il regno dell’oltretomba — forse ancor di più — richiede un contegno appropriato… Una volta Søren mi rimproverò una sorta di predilezione morbosa nei tuoi confronti, mio fratello ci ha sempre visto lungo.” Mi diede corda fino a un certo punto, volgendo gli occhi al cielo e, subito dopo, tutt’intorno con circospezione. Sbuffò, insofferente: “Ma anche qualche blanda effusione potrebbe mandare tutto all’aria…”

Oppure no.

“Non dovremmo temere di esternare le nostre pulsioni” ribattei quasi per istinto.

“È strano udire affermazioni così avventate da colui che reputo un astuto e cauto stratega.” 

L’esternazione di Misty nei miei confronti suonava abbastanza beffarda ma sapevo che nonostante tutto era sincero. 

“Non è il momento di mettere un freno all’ipocrisia, lo sai benissimo. Essere se stessi non paga, l’ho sperimentato sulla mia pelle, Algol.”

Mi grattai il mento. Il pregio o il difetto più eclatante del mio compagno d’armi era il suo mostrarsi senza filtri. L’essere puro e senza veli, nella realtà dei fatti, non paga se non in rarissime e fortunate occasioni. Ed era proprio così, mi dovetti rassegnare ad accettarlo. Dopo la rinascita lo avevano sempre trattato in malo modo. Se fosse a causa di invidia, o di pregiudizi ormai radicati e legati alla fama non proprio edificante della Casta dei Santi d’Argento, lo ignoravo. Era probabile si trattasse di una combinazione delle due opzioni con l’aggravante dell’investitura perché a qualcuno dava fastidio che l’armatura di Libra avesse scelto come possessore proprio uno di noi reietti, in barba agli eroi conclamati. Per molti era una beffa e non si facevano problemi a nasconderlo.

Eppure dovrebbero accettarlo perché l’epilogo della vicenda è un palese risvolto della sorte. Non ci si può mettere di traverso al destino. 

Sbuffai disteso sul triclinio a braccia conserte e fissai la volta cassettonata, che finalmente riuscivo a scorgere. Misty si rilassò stringendosi al mio fianco con un’aria annoiata. Dopodiché mi voltò beatamente le spalle.

“Se un giorno Shaina cedesse alle tue avances metteresti fine alla nostra relazione?”

Mi resi conto di avergli fatto una domanda stupida e del tutto fuori luogo, ma non potevo rimangiarmi le parole.

“Non c’è nulla di serio tra noi, tra me e te intendo, Algol” sospirò, poco propenso a intavolare un discorso. “E neanche con lei ci sarebbe, è impossibile imbastire un rapporto che sia più di un diversivo, e nemmeno il diversivo sarebbe contemplato nella nostra condizione di Santi… Eppure potrei aver bisogno di entrambi.”

Un ménage à trois.

Non mi sarei aspettato tanta schiettezza e soffocai una risata per non mancargli di rispetto. Sapevo quanto ci tenesse a essere preso sul serio in certe cose.

“Prendiamoci dell’altro tempo per riposare un po’” esordì, poi,  con quello che doveva essere un consiglio. “Sempre che tu riesca a riposare con quella ferraglia addosso...”

Schioccai la lingua contro il palato e annuii con un cenno: , forse non è una cattiva idea, mi dissi dando un’occhiata alla porta che si sarebbe spalancata da un momento all’altro.

 

 

Mi riscossi da quello che sembrava essere stato un lungo sonno ma che in realtà era stato un dormiveglia popolato da incubi e pensieri inquietanti. 

Era stato Orfeo a riportarci alla realtà, ce lo ritrovammo davanti agli occhi, piantonato a un palmo di distanza, quello sfacciato.

“Ho il compito di condurvi in un certo luogo e colgo l’occasione per ringraziarvi della buona creanza.”

Misty sbadigliò coprendosi la bocca con la mano: “Buona creanza?” Domandò dopo aver presumibilmente preso atto della realtà circostante — lui, sì, doveva aver dormito come un sasso.

“Sì, buona creanza. Se aveste perso il controllo saremmo incorsi  in qualche problema…” soggiunse Orfeo.

Non lo lasciai finire: “Avevi ragione” dissi a Misty. “Eravamo osservati.”

Il mio compagno d’armi assentì, per nulla turbato, anzi abbozzò un sorrisetto di sfida sulle belle labbra.

Ci apprestammo a seguire Orfeo e nel mentre mi chiesi: perché proprio Orfeo, e non Radamante, era stato scelto per farci da guida? Il cicisbeo godeva di così tanta popolarità persino nel mondo sotterraneo? Avrei voluto condividere il mio disappunto con Misty ma non osavo proferire parola ed ero concentrato sul sentiero ombroso che d’un tratto si era aperto, nel candore della sala, a un semplice gesto di quel rinnegato di Orfeo. Come per incanto lo scenario era cambiato, si era fatto cupo e sembrava aver assunto le caratteristiche proprie del regno sotterraneo. Il cielo era nero come la pece e sullo sfondo si stagliava una boscaglia tetra e intricata pervasa da strepiti e lamenti.

In quel frangente avevo udito Misty farfugliare qualcosa.

“Esprimiti meglio.” Gli dissi.

“Credo di aver già visto questo posto in sogno” rispose, quindi si morse il labbro inferiore facendo sgorgare un rivolo di sangue e continuò a tacere fino al momento in cui proruppe con una domanda rivolta al nostro accompagnatore. 

“Perché c’è tutta questa quiete? Non mi aspettavo una simile tranquillità durante il viaggio, c’è stata una guerra sacra e il regno degli Inferi dovrebbe essere ancora in subbuglio, devastato, per non parlare del Signore che sembra essere ancora in carica invece di stare a leccarsi le ferite.”

A dispetto di quel che si poteva evincere dalla domanda, Misty aveva da tempo avuto sentore che le cose fossero andate diversamente da ciò che avevamo appreso alla rinascita… Mostrarsi ingenuo doveva essere una tattica, forse per saperne di più, ma come avrei potuto affermarlo con certezza? Non avevo idea di cosa gli passasse per la testa.

“Perché nei racconti ci sono sempre delle sfumature, dei dettagli che vengono omessi a discrezione di chi racconta la storia” replicò Orfeo.

“Ah…” mi lasciai sfuggire.

“La guerra è come una partita a scacchi e gli dèi siedono al tavolo da gioco; immagina i rispettivi campioni, che combattono all’ultimo sangue, come pedine. I potenti assistono alla battaglia senza muovere un dito e, soprattutto, senza sporcarsi di sangue” continuò Orfeo. “Perché devastare un intero regno se ci sono i subalterni a scannarsi? È chiaro adesso?”

Il cicisbeo era stato esplicito, cogliendomi di sorpresa, tuttavia il mio compagno d’armi non si era mostrato affatto stupito ed era rimasto impassibile come se avesse avuto una qualche conferma. Ricordai: Misty mi aveva parlato di suo padre, il dio del Sole, accennando a una conversazione in cui l’immortale insinuava dei dubbi sulla reale condotta della guerra e dei supposti eroi. Apollo non lo aveva ingannato, aveva detto la verità.

“Non sei il primo a parlare così. Deduco che il ronzino e la sua cricca abbiano vinto la sfida con gli Specter, e poi entrambe le parti siano giunte a un accordo; presumo che la testa di Athena non sia mai rotolata via e il corpo di Ade appartenga ancora al legittimo proprietario. In quanto a te, Orfeo, se non sei un fantasma, allora, non sei mai morto. Il resto è solo un bel ricamo che impreziosisce l’arazzo” replicò Misty. “Dopotutto non potrebbe sussistere il mondo dei viventi avulso dal regno dei morti così come lo conosciamo, sono due realtà che debbono necessariamente coesistere. Nell’oltretomba è implicito che debba regnare un ordine perenne e non sia consentito il caos.”

“Queste sono parole tue e non ti dirò altro. Non ho mai dubitato della tua intelligenza, Santo di Libra.” Detto questo, Orfeo tacque, sembrò volerci dare un taglio pur senza dare l’impressione di essersi pentito per averci spiattellato, oltretutto in modo abbastanza subdolo, un sunto plausibile della storia.

Tuttavia Misty lo incalzò di nuovo: “Perché indosso un chitone simile a quello che indossavo il giorno della consacrazione a Santo d’Oro; coronato di alloro come un condottiero vittorioso, quando di imprese degne di nota in realtà non ne ho mai compiute?”

Povero Misty… sei proprio un ragazzo ingenuo se davvero speri che questo bastardo ti assecondi ancora. Ha già cantato abbastanza.

“Prendilo come un indizio, un segno” aveva invece risposto — ambiguo — il musico, sorprendendomi ancora. Al contempo agitò una mano e si aprì un varco tra le fronde, tra i rovi e le sterpaglie che invadevano la stretta strada sterrata e luminescente nell’oscurità.

Mi voltai di scatto verso Misty, che procedeva al mio fianco, e lo vidi sgranare gli occhi: era più pallido di uno straccio lavato ma non ebbi il coraggio di chiedergli cosa gli stesse succedendo da turbarlo in quel modo. Che la spettrale distesa di fiori bianchi, comparsa oltre la breccia, gli fosse familiare?

“Il supremo Sommo Ade ha — a sua volta — in serbo una richiesta per te prima di esaudire il tuo desiderio, Santo di Libra” riprese Orfeo.

“Quale richiesta?” 

“Desidera una bellissima scultura che adorni per l'eternità questo luogo di tedio mortale. Uno scambio alla pari, come sanciscono le regole di questo mondo.”

No!

Deglutii a vuoto, temevo di aver compreso il messaggio che non necessitava di eccessiva perspicacia per essere interpretato.

“È una vigliaccata! Non è una richiesta ma un colpo basso!” Protestai. “Abbiamo, anzitutto, chiesto di incontrare il Sommo Ade per perorare la nostra causa di persona, ma a quanto pare l’incontro non ci sarà. Avremo pur il diritto di contestare in sua presenza questa pretesa folle!”

“Santo di Perseus, potrei comprendere il tuo disappunto ma negli inferi non esiste possibilità di contraddittorio” ribadì Orfeo con un’indifferenza che non gli era propria ma sembrava più consona all’ignavia di un infimo traditore. Di cosa mi stupivo? Quel damerino in quali valori doveva credere per aver avuto l’insolenza di passare nelle file del nemico e restarci impunemente a tregua ristabilita?!

“Come mio subordinato non muoverai obiezioni, Algol.” L’intervento di Misty non diede adito a repliche da parte mia, il tono aspro della sua voce arginò sul nascere un’ondata di pensieri contrastanti, la sua determinazione gelò il mio sangue nelle vene. Non potevo oppormi agli ordini di un superiore e avevo la morte nel cuore. Se fosse stata la legge del contrappasso ad attuarsi, in quelle circostanze, non potevo saperlo. Mi crollò il mondo addosso.

Indugiai per un istante in contemplazione delle sagome leggiadre e fluttuanti che sorvolavano la vastità del campo, poco dopo scorsi una figura avvinta da un'aura debole e pallida. Aguzzai la vista e riconobbi il Santo dei Pesci bardato nella sua corazza dorata. Assente, con gli occhi vitrei, inespressivi, sembrava ormai inghiottito in quel vortice di ombre e ignaro della nostra presenza…

“Lo scudo!” Esclamò Misty. “Mostrami lo scudo. Non è un caso che sia l’unico elemento della tua armatura a essere rimasto intatto.”

Non è un casoesattamente, nulla è dovuto al caso, non lo è mai stato nelle nostre vite. 

Non dovrei farlo, non vorrei, ma è impossibile disattendere agli ordini; impossibile contrariarti fratello d’armi, amico, amante…

Imbracciai lo scudo e Misty fissò gli occhi cerulei sul simulacro di Medusa. 

Sto vivendo un incubo atroce e se sopravviverò a questa avventura non ne uscirò mentalmente indenne.

 

***

 

XXXVIII

 

Che succede? Cosa sono questi fuochi fatui? Dove sono?

 

Avevo preso coscienza poco a poco della mia condizione e non me ne capacitavo del tutto. Avevo aperto gli occhi e dinanzi mi si era stagliata la volta in penombra di una sala, una volta sontuosa decorata a stucchi. Riconobbi una delle sale del dodicesimo tempio.

Aprii la bocca ma non avevo parole né voce per chiamare qualcuno e implorare aiuto, in quanto realizzai di essere completamente privo di forze da non riuscire nemmeno ad alzare un braccio. Rigido, con le membra intorpidite riuscii infine a portare una mano al volto e notai un anello al dito. Non era mia abitudine indossare monili di alcun tipo ma, nel momento in cui mi imposi di cambiare posizione, notai qualcosa di insolito oltre ai monili e alla tunica elegante che indossavo. Non stavo dormendo nel mio letto ed ero circondato da rose, una distesa di rose scarlatte, e tutto quello che mi attorniava sembrava far parte di un corredo funebre. Sembrava una burla, uno scherzo orribile e di pessimo gusto. Cinsi le tempie con le dita, pulsavano, mi doleva il capo nel tentativo di spremere le meningi per ricordare gli avvenimenti che mi avevano portato lì. 

Nel vano tentativo di concentrarmi emerse il barlume di un ricordo: il mio fratellastro, mio padre, la dea, lo scontro per un motivo apparentemente futile… Misty avrebbe dovuto provare la sua fedeltà ad Athena e io mi ero messo in mezzo per proteggerlo, non confidavo nella sua forza in quel frangente e lo amo così tanto da aver temuto per la sua incolumità. 

Oh idiota che sono stato! L’esistenza terrena di un Santo è effimera, il mio intervento è stato vano ed è servito solo a umiliarlo, perché egli sarebbe potuto perire in altre circostanze… Ma è pur sempre mio fratello. 

E poi… poi,  il buio, l’oblio. Dovevo aver perso i sensi. Sarei dovuto essere morto eppure sono qui come destato da un incubo dopo un sonno profondo. 

Dondolai un piede posandolo a terra e infine mi alzai dal letto, stordito, barcollante, con le gambe molli come gelatina, tremavo ma decisi di avventurarmi fuori dalla Dodicesima Casa. 

Non trovai anima viva a cui chiedere una spiegazione. Doveva essere successo qualcosa di grave o di importante al punto da aver indotto i Santi a lasciare i presidi sguarniti; o mi stavo preoccupando troppo perché eravamo in tempo di pace, e la troppa tranquillità lasciava spazio alla noia… i miei pari avevano molto tempo libero a disposizione se non erano impegnati in qualche missione.

Trovai una conferma nel rilevare le vestigia del tempio intatte e c’era un tepore quasi estivo, confortante, il sole per poco non mi accecava. Dovevo essere stato a lungo in quelle misere condizioni. 

 

“Oh, santa Athena! Pisces?! Non credo ai miei occhi! Si vociferava che ormai non ci fosse più nulla da fare.”

“Aquarius!?”

Camus mi aveva sorpreso alle spalle ed era impallidito nel vedermi.

“Sono io a dover avere delle spiegazioni, e in fretta” replicai incurante del mio stato.

“Sei debilitato, dovresti pensare prima a ristabilirti” affermò lui, cingendo un braccio intorno alle mie spalle per sorreggermi. “Mi sono allontanato un momento. Sono stato incaricato di presidiare il tuo tempio insieme al mio.”

“Capisco, Camus, ma pretendo di saperne di più” dissi, esausto,  scivolando a sedere su un gradino di pietra e con le mani afferrai la testa che mi doleva incessantemente.

Il mio interlocutore tacque come se volesse guadagnare del tempo di proposito.

“I Santi sono riuniti a consesso. Quando l’udienza sarà terminata ti accompagnerò dal Sommo Sacerdote e lui ti racconterà ogni cosa nei dettagli” interloquì, finalmente, dopo aver esitato. Che non trovasse le parole giuste?

“Cos’è successo? Devo essere svenuto dopo aver fatto da scudo a mio fratello e a milady… ma non ricordo il dopo.” Gli avevo risposto con quel poco di fiato che mi restava in gola. “E Apollo? Se sono qui significa che ci ha lasciato andare…”

“Sì, ha decretato una tregua. E noi credevamo tu fossi morto ma eri solo in catalessi” rivelò Camus con il proverbiale contegno impassibile.

“E perché, se ero in catalessi, non mi hanno portato in infermeria ma tenuto in una sorta di teca di vetro in attesa di tumularmi?” Domandai sempre più impaziente.

Per un attimo ebbi l’impressione che il Santo di Aquarius, sempre tutto d’un pezzo, fosse sul punto di essere sopraffatto dai sentimenti ma si riscosse repentinamente dall’imbarazzo ricomponendosi.

“Il cosmo di Athena. Il Cosmo di Athena ha preservato le tue funzioni vitali e non c’è stato bisogno di alcun palliativo, nessuna cura postuma. Era sufficiente la tua volontà di restare ancorato alla vita. Da qui è scaturita la speranza” sospirò come se fosse svuotato, privo di qualsiasi velleità di replica. “Ma sono stato un idiota a tergiversare, questo epilogo inaspettato mi ha colto di sorpresa. Non c’è riunione che tenga, dobbiamo immediatamente portarli a conoscenza del tuo risveglio!”

Lo fissai stranito.

“Credi di farcela?” soggiunse Camus, tendendomi la mano.

“Certo che sì, non posso perdere altro tempo.”


 

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Capitolo 19
*** Capitolo XIX ***


I prati di asfodelo, capitolo XIX

 

XXXVIX

 

L’entrata in scena mia e di Camus aveva messo a tacere i convenuti, ma Dohko fu rapido a dissipare stupore, sgomento, e forse imbarazzo. 

Non mi spiegavo il perché eppure avevo percepito qualcosa di insolito, soprattutto nel linguaggio del corpo e nell’espressione della giovane dea… ma era lecito. Non si aspettavano di vedermi e, di sicuro, mi avevano già dato per spacciato. Lo stesso Camus, vedendomi, aveva reagito come se gli fosse comparso un fantasma davanti agli occhi. Approfittai del momento di esitazione per scrutare a fondo i presenti; avvolto in una spessa coperta di lana e seduto su uno scranno con una tazza di tè fumante tra le mani.

 

“Che cosa è successo dopo la nostra visita a Delfi, mia signora? Non vedo il Santo di Libra allineato insieme con gli altri, è stato trattenuto laggiù, è perito nello scontro o, più semplicemente, non lo avete convocato?” Chiesi dopo essermi guardato intorno con attenzione.

 

“Troppe domande in una volta sola, Pisces. Dovresti prima pensare a ristabilirti” esordì Dohko, elusivo.

 

Captai mormorii di insoddisfazione in aula, vidi Milo e Athena adombrarsi in volto. La dea intervenne: “No, Sommo Sacerdote, il Santo di Pisces avrà modo di riposare e riguardarsi ma è giusto che sappia la verità —visto come sono andate le cose — e sarebbe opportuno foste voi a dargli delucidazioni. Dopotutto ne stavamo discutendo, ed è il motivo della riunione a porte chiuse di quest’oggi alla quale sta assistendo con un tempismo perfetto...” Dopo la schietta affermazione, Saori Kido abbassò gli occhi e si abbandonò sullo scranno con l’aria di essere esausta. Non la ricordavo così determinata. “Però, prima, Aphrodite, devi sapere che io e il Santo di Libra — dopo la tregua decretata da Apollo — ti abbiamo riportato al Santuario privo di sensi. Ti credevamo morto, invece abbiamo appurato di esserci sbagliati.”

 

Sospirai, afferrando con la mano libera il bracciolo del seggio, e studiai con attenzione i volti degli altri: c’era chi languiva con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto e chi come Aiolos, Death Mask e qualche Santo d’Argento, era insofferente ma stando alle regole era impossibilitato a esprimersi. E, a proposito di Santi d’Argento, notai l’assenza di colui che di solito spiccava sugli altri: Algol di Perseus, mancava proprio lui…

 

Gli unici assenti sono loro due: Misty e Algol.

 

“Al ritorno dalla delegazione alcuni sospetti sono ricaduti sul tuo allievo, e fratello” iniziò Dohko.

 

Mi premurai di interromperlo: “E perché, eccellenza? Quali sospetti se è stato costretto a ingaggiare un duello per dimostrare la sua lealtà ad Athena?”

 

“Abbiamo dubitato di lui pensando che non fosse in buona fede. Il dio del Sole ha desistito troppo in fretta, inoltre il tuo discepolo aveva lasciato il Santuario per recarsi a Delfi senza consultare le autorità. Ha agito di sua iniziativa, come al solito.”

 

No. Non mi sorprende il fatto che Apollo sia stato così condiscendente con Misty: il dio ha un debole per lui; nelle loro vene scorre il medesimo sangue e non sarei affatto sorpreso se se ne fosse infatuato.

 

Non aveva senso confutare le accuse di Dohko, in quel momento, nonostante quello che avevo dedotto in pochi istanti. “Quindi?” Mi limitai a domandare con impazienza.

 

“Malgrado tutto non ci sono state ripercussioni da parte nostra nei suoi confronti: al suo ritorno, la vita al Santuario è continuata a scorrere come se nulla fosse accaduto, sebbene tra il Santo di Libra e Saori Kido siano sorte delle incomprensioni.” Dohko si scambiò uno sguardo con la dea e con alcuni dei presenti quali Aiolia e Marin, che sembravano voler prendere parte al dibattito. Li aveva messi a tacere con un gesto. “Si è reso protagonista di uno screzio — ormai chiarito — con la Sacerdotessa dell’Aquila, ma il fatto più grave è stato di aver negato a chiare lettere la propria fedeltà ad Athena.”

 

Perché è arrivato a tanto? Mi interrogai incredulo.

 

“Immagino tu ti stia facendo tante domande, Aphrodite. Ed è naturale. Misty, in un primo tempo, si è scusato con Saori.”

 

“Sarebbe tornato sui suoi passi?”

 

“Purtroppo è ricaduto nell’errore e il rapporto con Athena si è ormai incrinato: si è dimostrato incapace di relazionarsi con la dea o si è trattato di un mero fraintendimento. Mi auguro che in futuro entrambi abbiano la possibilità di chiarirsi. Dopo aver scoperto l’incidente con Marin, la dea lo ha rispedito nelle segrete del Santuario.”

 

Provai un forte imbarazzo che cercai di dissimulare sorseggiando la mia bevanda ormai fredda. Scostai la tazza dalle labbra, disgustato, deponendola in grembo. “Mi scuso per lui” dissi di rimando. “Immagino che sia ancora lì, confinato nei sotterranei.”

Vidi il Sommo scambiarsi un gesto di intesa con Athena per poi rivolgermi uno sguardo che avrei definito compassionevole, carico di umana comprensione.

 

Che diavolo sta succedendo?! 

 

“Forse lo sarebbe ancora se non gli avessi dato una dispensa particolare all’insaputa di tutti.” Il Sommo corrugò la fronte e sospirò come dopo essersi liberato da un peso.

Tutti gli sguardi ricaddero su di lui, con certezza aveva già discusso con gli altri Santi perché non sembravano affatto sorpresi. Alcuni erano contrariati, avrebbero espresso il loro disappunto se non fossero stati dapprima indotti al silenzio, e conoscevo abbastanza bene i miei pari da non equivocare il loro atteggiamento.

 

“Avevo parlato, tempo addietro, con Misty e dalla nostra conversazione è emerso il suo desiderio di scendere negli Inferi per incontrarti. Aveva qualche speranza di riportarti indietro, nel mondo dei vivi, sapendoti ancora in bilico tra la vita e la morte.”

 

Il silenzio fu infranto dal fragore dei cocci della tazza che era sgusciata via da dove l’avevo riposta. Non mi scomposi ma intervenni esternando quanto fossi in disaccordo: “E voi avete assecondato il capriccio di un ragazzino viziato!? Non gliel’avete impedito! E come avrebbe fatto a varcare la soglia dell’aldilà, privo dell’ottavo senso?”

 

“Apparentemente sì,  il Sommo avrebbe assecondato un capriccio” soggiunse Milo di Scorpio dando man forte, “anteponendo gli interessi personali di un singolo individuo all’incolumità di Athena e alla sicurezza del Santuario.”

 

L’osservazione di Milo non faceva una piega perché l’intrusione da parte di un Santo di Athena nel mondo sotterraneo —seppur in tempo di pace, ma senza previo invito — avrebbe potuto scatenare una rappresaglia. Mi meravigliavo di Dohko — e, a prima vista, sembrava non fossi il solo — per una scelta del tutto sconsiderata. Eppure il Sommo Sacerdote era saggio e assennato… Indugiai, osservando la voluta di fumo che si esalava dalla fiamma tremula di un braciere, fino al momento in cui Dohko non mi indusse a destarmi dai miei pensieri.

 

“Lo state sottovalutando” disse con aria di rimprovero. “Sminuendo oltremodo l’autorevolezza della mia decisione.”

 

“È lungi da me biasimarvi, Sommo Sacerdote, ma sono esterrefatto” osai insistere, dopo aver visto Kanon fare spallucce con un sorrisetto abbozzato sulle labbra.

 

“Non sei l’unico. Lo è stata dapprima Athena e, poco prima del tuo ingresso in sala, lo sono stati tutti gli altri”, riprese Dohko e, al suo chiarimento, parte del consesso assentì con un mormorio.

 

“Le nostre perplessità sono più che legittime e non potrebbe essere altrimenti” convenne Shaka di Virgo rilassando la postura impettita. “Ma si tratta di una decisione del Sommo Sacerdote avallata da Athena, non spetta a noi sentenziare, e dobbiamo rispettarla” disse, rivolgendo un’occhiata di biasimo prima a me e dopo a Milo e a Kanon.

 

“Pisces…” esordì Death Mask facendomi trasalire.

 

Cosa avrà da aggiungere alla nostra discussione?

 

“In teoria non ci sarebbe bisogno dell’ottavo senso per varcare la soglia dell’oltretomba, o giungere in altre dimensioni, utilizzando un oggetto apposito. Ti sovviene?” sottolineò quasi con voluto sarcasmo, e Dohko confermò la veridicità della sua insinuazione con un cenno del capo. Gli era piuttosto chiaro il concetto che stava esponendo il mio compagno d’armi. “Ho dato io lo specchio a tuo fratello” sintetizzò quest’ultimo rivolgendosi a me.

 

“Come ti sei permesso!?” 

 

“Rilassati, custode della dodicesima Casa. Avrete modo di chiarirvi in privato. In merito allo specchio: Misty mi aveva confidato di volerlo usare per raggiungere il suo obiettivo di riportarti al Santuario.” Il Sommo Sacerdote era riuscito a indurmi al silenzio con garbo. 

 

Era tutto molto semplice, cristallino, lampante. D’un tratto mi resi conto di sudare e le mie labbra si serrarono, ammutolii come privato della capacità di argomentare. Forse ero solo ostinato e realizzai, dall’alto della mia saccenza, di essere stato talmente accecato dall’orgoglio da non riconoscere che Misty sarebbe stato in grado di fregiarsi di un atto di altruismo privo di altre velleità. Tuttavia mi stupivo di Dohko, il saggio mentore di Shiryu non poteva essere così avventato. Era, doveva essere, responsabile delle proprie azioni…

“Dunque, se io sono qui, suppongo che Misty si trovi nel regno delle ombre.”

 

“Lo sono entrambi: Misty e Algol” confermò Dohko.

 

“Torneranno?” Domandai senza più nascondere la mia apprensione.

 

“Non si sa” replicò il Sommo Sacerdote con franchezza, e Athena annuì di rimando alle sue parole.

 

“Ma perché? Perché gli avete dato il permesso?” 

 

“Perché non è consigliabile mettersi contro il destino, assodato che il destino è già definito a prescindere dalla volontà di uomini e dei. Qualcosa mi ha suggerito che questo era il sentiero giusto da percorrere” replicò, lapidario, Dohko e vidi Athena accigliarsi dopo aver udito la sua affermazione. “Se il Santo di Libra e Perseus si atterranno alle mie raccomandazioni non assisteremo a nessuna ritorsione da parte di chi presiede attualmente il Regno e dei suoi sottoposti.”

 

“La mia liberazione presuppone vi sia un prezzo da pagare” ribattei, in palese contraddizione con quanto appena affermato da Dohko.

 

“Sei perspicace. Sappi che ho previsto anche questo” osservò.

 

Non dovevate permetterlo, non dovevate lasciarli andare! Mi ero detto, esasperato. Un tempo non l’avrei fatto e sarei rimasto indifferente, ma ora mi stavo preoccupando per Misty, ero seriamente angosciato per lui benché mi fossi imposto di reprimere i miei sentimenti negandoli persino a me stesso. Non avrei mai rinunciato alla mia fedeltà ad Athena ma era disumano il fatto che la devozione ci annullasse come individui, concorrendo a reprimere ogni interesse per quanto concerne la sfera personale e affettiva. Misty invece aveva anteposto un suo desiderio a tutto questo, era degno di biasimo eppure ebbi un sussulto di ammirazione nei suoi confronti. Celai il volto tra le mani trattenendo il respiro.

 

Alzai gli occhi cercando di darmi un contegno, azzardai a decifrare l’espressione di Athena e a un tratto la vidi impallidire, erano impalliditi entrambi: lei e Dohko. Osservai il resto dei convenuti, i quali all’improvviso volsero l’attenzione al portale d’ingresso. Sbirciai alle mie spalle a mia volta, incuriosito.

 

Algol… quello è Algol di Perseus!

 

Per un istante avevo sperato di vedere Misty insieme a lui, ma realizzai che non c’era nessun altro ad accompagnare quel Santo d’Argento. Algol era solo e apparentemente incolume ma l’armatura era in pessime condizioni. 

Prestai attenzione: il suo incedere era risoluto, privo di qualsiasi sorta di esitazione. Perseus si approssimò ai due seggi autorevoli, sotto gli sguardi attoniti dei presenti - nessuno escluso - aveva deposto l’armatura ai piedi della dea dopo essersene liberato con molta calma, elemento dopo elemento.

“È compito vostro riportarla al suo antico splendore” disse a testa alta e con la solita tracotanza. “Il Santo di Libra ha voluto assicurarsi che provvediate voi stessa a farlo.”

 

Quindi si voltò per guardarmi, probabilmente aveva notato da subito la mia presenza, fissandomi con un’aria sibillina che tradiva un connubio contrastante di soddisfazione e mestizia. “La missione è stata portata a termine con successo, vedo…” aveva esordito senza esternare alcuna emozione.

 

Al che tacque, seguito da un pesante silenzio sceso a un tratto come se nessuno osasse interrogarlo. Io stesso avevo paura di sapere… 

 

“Bene, siamo lieti di rivederti qui, Santo di Perseus.” Dohko aveva finalmente deciso di ovviare all’imbarazzo generale con poche, scontate, parole e soprassedendo al contegno arrogante con cui il Santo si era rapportato. “Sì, Pisces è qui con noi, come tu stesso hai osservato.”

 

“Voi presupponevate, immagino…” rispose Algol. “E ho dedotto a mia volta a cosa avrebbe portato compiacere il desiderio del Santo di Libra, infatti mi sono offerto di mia sponte ad accompagnarlo. Sebbene avessi sperato, fino all’ultimo, in una conclusione differente della nostra avventura.”

 

“Cos’è successo?” Athena inarcò un sopracciglio, si era riscossa dalla postura impietrita palesando un qualche sentimento.

 

Perseus si voltò di nuovo verso di me sfoggiando la solita parvenza di sorriso privo di allegria che conoscevo: “Il Santo di Libra ha preso il tuo posto nel famigerato prato degli asfodeli. Adesso l’incanto della sua bellezza è preservato per sempre nella pietra.”

 

Una statua, l’ha trasformato in una statua di pietra…

 

Emisi un sospiro di rassegnazione, in silenzio. Quella rivelazione aveva inibito la volontà di esprimermi e tacqui. Turbato ma non sconvolto; realista come se, tutto sommato, mi aspettavo di ricevere brutte notizie.

 

“Il… hanno preteso un equo scambio. Questo è tutto” soggiunse Algol.

 

Che mi piacesse o meno quella era stata la volontà di mio fratello… e non solo.

 

Dohko abbassò gli occhi e Athena rimase inerte, persa nei suoi pensieri.

 

“Perdonatemi, eccellenza. Ma quale sarebbe stato il beneficio della vostra scelta se recuperato un Santo ne abbiamo perso un altro?!” Esordì Milo, con evidente vena polemica.

 

Dohko parve riscuotersi da qualche sua probabile elucubrazione mentale: “È stata, sì, una mia scelta ma condizionata da altri fattori. Il primo è stato quello di concedere a un vostro compagno la possibilità di mettersi alla prova; il secondo movente invece è di trovare la risposta allo strano comportamento del simulacro di Libra, in apparente contrasto con la volontà di Athena.”

 

Shiryu si distaccò dai suoi pari: “Il maestro ha ragione: l’armatura di Libra non ha voluto accettarmi, nonostante l’ordine della dea” confermò quasi indispettito.

 

“Mi riferivo proprio a questo” rispose Dohko. “Adesso, con la dipartita definitiva del Santo di Libra, l’armatura dovrebbe riconoscere un nuovo possessore” soggiunse con evidente tristezza e forse rammarico.

 

Strinsi i pugni, in cuor mio non riuscivo ad accettarlo, non capivo perché Athena avesse voluto privare mio fratello del suo status, potevo comprendere i dissapori ma sembrava un provvedimento troppo drastico. Però era pur vero che l’apparenza fragile della giovane donna era solo un involucro e la fama di Athena non si smentiva, come quella delle altre divinità olimpiche tra l’altro. Guardai Algol, desideravo parlargli con tranquillità e dovevo solo aspettare l’occasione giusta per farlo, fuori da qui…

Il Santo di Perseus, come se avesse intuito il mio pensiero, mi guardò negli occhi e quel suo sguardo insondabile quasi mi disorientava. Avevo la netta sensazione che desiderasse chiedere qualche chiarimento a Dohko e ad Athena, eppure risolse di tenere a freno la lingua e persistette in silenzio con una freddezza invidiabile.

E, dopo, la mia attenzione si spostò agli scranni presieduti dalle due autorità. Athena si levò in piedi con la solita grazia e sussurrò qualcosa a Dohko, il quale fece un breve cenno affermativo.

Interpellò un valletto che accorse al suo cospetto. Vi fu qualche minuto di silenzio cui seguì una breve attesa. Il servitore, quindi, si allontanò e poi giunse portando con sé una piccola cassetta decorata che porse al Sommo Sacerdote. 

Dohko estrasse la daga riposta all’interno dello scrigno e la consegnò nelle mani della giovane dea. Fu facile intuire il gesto che stava per compiere, un’azione che avrebbe potuto delegare a Mu di Aries ma che, forse, aveva risolto di compiere lei stessa malgrado il risentimento coltivato nei confronti di mio fratello. Avrebbe potuto sorvolare su una pretesa dalla quale si evinceva la solita presunzione di Misty, ma assecondare la sua volontà sarebbe stato un segno di tregua da parte della dea; avrebbe rappresentato il perdono definitivo e, di lui, ne avrebbe anche onorato il coraggio e la memoria.

Con un rapido movimento Athena si tagliò i polsi, e lasciò scorrere il sangue in modo da bagnare direttamente le sacre Vestigia di Perseus.

 

***

XL

 

“Dannato, maledetto idiota…” avevo sbottato all’indirizzo di Death Mask. “Non dovevi permetterti di appropriarti di un mio oggetto personale e fare quello che hai fatto! Non saremmo in questa situazione.”

Avevo smarrito il mio abituale autocontrollo ma non sarei arrivato al punto di piantargli una rosa nel petto, conservavo ancora un briciolo di razionalità nonostante tutto.

 

“Sta’ calmo pesciolino, Misty voleva solo rimediare al suo danno, perché impedirglielo?” rispose Cancer per poi sedersi al mio fianco. “Ho compiuto un gesto caritatevole.”

 

“Mi stai prendendo in giro sapendo che non potrei infierire, se non con le parole” replicai alzandomi in piedi per raggiungere la terrazza che si affacciava sul mare. Il calore della tarda primavera mi infondeva conforto e sapevo che Cancer non era stupido come si stava atteggiando in quel momento; buttare tutto sullo scherzo era solo un pretesto per sdrammatizzare. Era possibile che fosse dispiaciuto allo stesso modo perché ero riuscito a leggergli la tristezza negli occhi. Mi voltai di tre quarti per osservarlo e lui si limitò a sbuffare il fumo della sigaretta con nonchalance.

 

“Tanto, quella testolina, avrebbe fatto lo stesso a modo suo, lo sai meglio di me” esordì con l’aria di voler concludere la discussione e giustificarsi, pur essendo consapevole di non poter minimizzare la questione con faciloneria. 

 

Dal canto mio non ero dell’umore adatto e non avevo neanche energia a sufficienza per sostenere la conversazione e, forse, nemmeno lui, appurata la facilità con cui lo avevo visto arrendersi. Dovevo ancora metabolizzare il tutto, accettare l’esito e le conseguenze degli avvenimenti che mi avevano travolto…

 

“Parlerai con Dohko?” Death Mask aveva infranto di nuovo il silenzio.

 

“Per dirgli cosa?”

 

“Immagino che non ti sia piaciuto quello che ha detto l’ultima volta, in conclusione” soggiunse lui.

 

“A proposito dell’ armatura di Libra?” Domandai senza pensarci su neanche un attimo. “Non credo che affronterò l’argomento, il Sommo mi è parso abbastanza chiaro seppur abbia sbagliato il contesto.”

 

“Sei del mio stesso avviso allora” aveva esordito Death Mask con un’affermazione del tutto inaspettata. 

 

Non lo avevo mai ritenuto dotato di eccessiva empatia per le vicissitudini altrui. Mi sorprendeva ogni volta sebbene fossi certo di conoscerlo a sufficienza.

 

“Mi è sembrato fuori luogo parlare di un nuovo possessore dato che non ci sarà nemmeno una tomba per compiangere mio fratello…” Gli confidai una mia considerazione, senza farmi remore, tornando a sedere accanto a lui. Smarrii lo sguardo oltre la distesa scarlatta delle mie rose che ricopriva la scalinata verso il Tredicesimo Tempio.

 

“Non siamo avvezzi a certi sentimentalismi, tanto meno lo è il venerabile maestro. Tuttavia poteva risparmiarsi lo scivolone sulla buccia di banana, o perlomeno affrontare l’argomento in un secondo tempo” detto questo, il mio compagno d’armi risolse di alzarsi in piedi e si stiracchiò. “Dovrei tornare alla Quarta Casa, anche se non ne ho nessuna voglia.”

 

“Ti accompagno.” Gli dissi. “Ho intenzione di scendere a valle.”

 

“Se devi parlare con qualcuno non faresti prima a convocare il diretto interessato tramite un messo?”

 

“Sarebbe l’opzione più comoda ma, essendo in tempo di pace, gli obblighi che mi vincolano a presidiare il tempio di Pisces non sono poi così stringenti. Voglio distrarmi e sgranchirmi le gambe.”



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Capitolo 20
*** Capitolo XX ***


I prati di asfodelo, capitolo XX

 

XLI

 

Mi ero reso conto che avrei fatto meglio a pazientare e attendere, senza accelerare i tempi per avere delle risposte. Era solo una stupida pretesa la mia. Ero stanco, terribilmente stanco, e temevo che non avrei recuperato le forze in breve tempo. Attraversai le dodici case e quando sbucai a valle realizzai di aver smarrito del tutto l’entusiasmo iniziale, eppure non avrei fatto marcia indietro come un codardo, non ero un vigliacco senza spina dorsale. Mi ero ripromesso di parlare con quell’individuo.

 

Trovai sollievo all’ombra di un cipresso, il sole picchiava forte all’ora di punta e nelle condizioni in cui versavo ero restio dal sopportarlo. Mi appostai per qualche istante, assorto, a osservare il viavai di Santi e di reclute che si avvicendavano nei pressi della grande arena, ma non intendevo mettere piede nell’anfiteatro. Sapevo che, presto o tardi, mi sarei imbattuto nella persona che cercavo.

Quando finalmente lo adocchiai fu lui a prendere l'iniziativa.

 

“Non immaginavo di incontrarti da queste parti così presto.”

 

“Ho appena iniziato il mio periodo di convalescenza, ma il fatto che tu mi veda con indosso l’armatura d’oro non significa che io sia in perfetta forma. Ero solo impaziente di ritornare alla quotidianità.”

 

“Ciò potrebbe aiutarti a superare il trauma. Lo capisco” aveva esordito Perseo, guardando in direzione dei suoi pari, come se l'avessi messo in imbarazzo.

 

Tuttavia egli sembrò palesare il suo desiderio di aprirsi a confidenze. Certo, non era il tipo, dava l’impressione di essere molto riservato. Eppure quella riservatezza non aveva celato ai miei occhi — e presumevo anche agli occhi degli altri— l’esistenza di una sorta di relazione con Misty. I più avrebbero insinuato che fossero una coppia, e io lo sospettavo da molto tempo benché non ne avessi alcuna prova. E se lo erano,  oramai, non avrebbe avuto più importanza… 

Trassi un sospiro, immerso nei miei foschi pensieri, e mi soffermai a osservare il mio interlocutore: così fiero, le sacre vestigia benedette dal sangue di Athena sembravano conferirgli un’aura solenne e divina. 

Ma Perseo mi destò, lesto, dalle mie riflessioni.

 

“Suppongo tu non giunga a caso, Aphrodite di Pisces. Bene, anche io vorrei scambiare due chiacchiere con te” disse con due occhi penetranti inarcando un sopracciglio.

 

Annuii, distogliendo lo sguardo con un gesto sfuggente. Di comune accordo provammo ad allontanarci dal luogo più o meno affollato, ma la mia presenza indusse alcune persone a farsi avanti, forse desideravano scambiare qualche parola. Sapevo che non sarei passato inosservato. 

Asterion strizzò un occhio a Perseo per poi assestargli una lieve gomitata nel fianco.

 

“Buongiorno, Pisces. Vedo che ti stai riprendendo, meglio così altrimenti avremmo dovuto sorbirci qualcun altro al tuo posto…” detto questo, il segugio scoccò un'occhiata ferina in direzione di Marin, la quale,  poco distante, si stava approssimando a noi.

Le insinuazioni poco gentili di Asterion, nei confronti della donna, mi indussero a pensare che i Santi d'argento non fossero in buoni rapporti con lei. Tutto sommato non erano affari miei e trassi un sospiro, annoiato. 

L’incontro culminò in una sbrigativa conversazione con cui rassicurai i presenti sul mio stato di salute.

Mi sforzai di scacciare  pensieri inopportuni dalla mente in presenza di Asterion di Canes Venatici e, sebbene ne conoscessi la discrezione, mi metteva a disagio con la sua presenza. Per rispetto a Misty non avrebbe infierito sondando nella mia mente, ma non potevo darlo per scontato. 

Marin mi strinse la mano come per darmi il benvenuto. Ricordavo i pettegolezzi a proposito dei suoi presunti sensi di colpa; il Santuario in tempo di pace era terreno fertile per i discorsi futili e le chiacchiere correvano di bocca in bocca, ma avevo finto di ignorarle. La donna si sentiva responsabile per quello che era accaduto a Misty, e se erano solo dicerie e pettegolezzi senza fondamento non mi era concesso saperlo; ma Cancer mi aveva confidato, inoltre, che mio fratello aveva preso la decisione di scendere negli Inferi –per riscattare la mia anima– molto tempo prima del disguido con l'amazzone. Chissà, forse un giorno avrei rassicurato Marin, meritava anche lei di ritrovare un poco di serenità, ma al momento mi congedai con un saluto asettico. La maschera mi impediva di discernere i sentimenti della donna, ciononostante mi rilassai, avevo dovuto ammettere che i suoi patemi mentali non mi turbavano più di tanto.

Infine io e Algol riuscimmo ad aggirare il piccolo drappello di Santi e altri curiosi. Perseo mi condusse nelle vicinanze della piazza principale attorniata dalle casupole bianche della polis e, laggiù, dovetti effettuare una sosta durante la quale mi attardai a bere un sorso d’acqua dal rubinetto della fontana. Sfilato elmo e manopole mi bagnai il viso e i polsi.

 

Il Santo di Perseus si appostò in un angolo, sbuffò, e attese, all'ombra della chioma di un pino marittimo, che fossi pronto a rimettermi in marcia. Ravviai le ciocche di capelli dietro le orecchie e indossai l'elmo, dopodiché feci un cenno ad Algol; il Santo fece spallucce e si avviò, lemme, imboccando il vicolo che costeggiava la vecchia casa dove un tempo risiedeva Misty, e che attualmente era la dimora di Shaina. Gli diedi uno sguardo fugace e abbassai gli occhi a terra. Avevo come un nodo in gola ma scacciai senza remore la malinconia. 

 

Il Santo di Perseus si voltò a guardarmi come se avesse percepito il mio disagio. “Questa strada conduce al lungomare ma non ti sto portando in spiaggia” sorrise, forse un po’ per sdrammatizzare. 

 

Accennai un mezzo sorriso di rimando e per cortesia. Durante la passeggiata mi soffermai un'istante a contemplare il dondolio delle imbarcazioni attraccate al molo, intento ad ascoltare il rumore dei flutti che si infrangevano contro la superficie dei natanti. 

 

Il mare… 

Chissà perché mi ha condotto proprio qui, nei pressi della banchina. 

 

“Non sono in grado di sondare nei meandri della mente come Asterion, ma posso intuire quello che stai pensando. Ti si legge in faccia, Pisces.” 

Il suono della voce del mio interlocutore si era frapposto tra i miei pensieri e il garrire dei gabbiani che si udiva in lontananza. 

 

“Ebbene?” Avevo replicato alla sua insinuazione spocchiosa, quasi infastidito.

 

“Si recava qui nei momenti bui e, anche se non era solito confidarsi con noi, lo sapevamo per certo” esordì Perseo, persistendo con la solita spavalderia, e incrociando le braccia sul petto.

 

“Che a Misty piacesse il mare è cosa nota” replicai sfilando l’elmo dalla testa per contrastare la calura.

 

“Ma non scontata” soggiunse il mio interlocutore.

 

Stetti in silenzio lasciando che il vento mi scompigliasse piacevolmente i capelli.

 

“Adesso siamo soli, lontano da orecchie indiscrete. Cos’è che vuoi dirmi?”

 

La domanda mi indusse a prolungare il silenzio. D’un tratto mi accorgevo di non avere più argomenti, come se il tempo protrattosi dal momento del nostro incontro avesse rimosso ogni interrogativo dalla mia mente.

 

“Beh, posso comprendere la tua esitazione. Immagino che tu voglia sapere se Misty fosse sincero, se il suo gesto di altruismo nei tuoi confronti fosse stato scevro da interessi personali…” Perseo emise un sospiro di circostanza sfilando la tiara che gli cingeva la fronte a sua volta, la soppesò come se volesse tenere occupate le mani con qualcosa. “Non lo so. Non mi confidava mai cosa gli passasse per la mente, però dal modo risoluto in cui ha deciso di immolarsi si evincevano buone intenzioni.”

 

“Non lo avrebbe fatto per la gloria…” ribattei senza scetticismo ma quasi affermativamente.

 

“No, e nemmeno affinché i posteri ne parlassero, sebbene durante il viaggio avesse manifestato velleità di una fama postuma. Ma non credo mirasse a questo, in tutta onestà” confermò lui, fissandomi di nuovo con intensità come per imprimere a fuoco quella convinzione nei miei occhi.

 

“Dici?” Esordii.

 

“L’eroe trapassato non può bearsi della fama postuma, e conoscendo Misty escludo si sia sacrificato per questo.”

 

La considerazione ultima di Algol non faceva una piega, era il risvolto più logico. Mio fratello non aveva ottenuto alcun vantaggio dal fatto di essere stato promosso a Santo d’oro… "L'investitura è stata solo una via, un mezzo, per giungere a redimere se stesso.”

 

“Può darsi, ed è certo che abbia pagato. In realtà abbiamo pagato tutti: lui, tu, io…” riprese Perseo.

 

“In che senso?” Replicai con perplessità a un’affermazione poco chiara.

 

“Nel senso che sono sempre i mortali a farne le spese per i capricci degli dèi. Le divinità non le scalfisci” disse stringendosi nelle spalle. “Il tuo fratellastro ha pagato il prezzo della sua vanità perdendo se stesso. Tu stai pagando le conseguenze per averlo sottovalutato, avendo influito —in modo del tutto inconsapevole— sul suo destino, e lo hai perso definitivamente.”

 

“Anche tu lo hai perso” osai aggiungere, tuttavia Algol non vacillava nonostante avessi proferito  un’insinuazione che suonava intollerabile quanto una bestemmia. Possedeva un autocontrollo invidiabile e io lo avevo punzecchiato senza pietà, provocandolo. Continuava a sorprendermi malgrado tutto.

“Se sinceramente si è adoperato per riscattare il mio spirito dall’oltretomba, allora è probabile che non ti abbia usato per sfogare i suoi bassi istinti da adolescente insoddisfatto.”

 

Gli avevo afferrato il polso con decisione giacché mi ero ritrovato con la sua mano stretta intorno alla gola. Finalmente ero riuscito a farlo infuriare, e aveva reagito alla provocazione abbattendo il muro d’omertà che aveva innalzato tra noi.

“Intendo dire che ti amava” soggiunsi con un tono soave ma con fermezza, ed evocai con il cosmo una rosa tra le dita.

 

Perseo indietreggiò, non fu la minaccia velata ad ammansirlo ma le ultime parole che mi ero arrogato il diritto di pronunciare…

 

Ti amava.

 

Quelle parole lo avevano colpito come un fendente tra capo e collo. Si voltò a guardare la distesa marina, dandomi le spalle, e lo vidi fremere dalla collera. Chiaro. Misty non era stato l’unico a pagare… e poi per cosa? Per aver assecondato il delirio di un pazzo, nella vita precedente; per aver negato Athena, da redivivo? E noi tutti, quelli che gravitavano intorno a lui, condannati a essere travolti dalle conseguenze delle sue scelte? Era da considerarsi una sorta di redenzione anche questa? Dunque, non era bastata la morte a redimerci e necessitavamo di un ulteriore percorso?

 

No, Aphrodite, non pensare… tu sei un Santo di Athena ed è l’unica cosa che conta in questo momento.

 

Che dire? Stavo solo cercando di illudermi ed era un tentativo abbastanza infantile —se non risibile— il mio, sebbene fosse utile a mettere a tacere la coscienza.

D’un tratto Algol si voltò e i miei occhi catturarono il suo sguardo nel quale colsi un impeto fugace di odio e di rivalsa. 

 

Mise una mano sulla fronte e di riflesso chinò la testa in segno di resa e rassegnazione. “E tu come definiresti una realtà differente da quella che ti hanno raccontato?” Domandò, piegandosi per raccogliere la tiara dal muretto di pietra che delimitava la passeggiata dal tratto di spiaggia. “Disillusione, inganno, menzogna?”

 

Quelle parole mi esortarono a riflettere ma ancora non riuscivo a inquadrare il significato della sua affermazione. “Cosa stai dicendo? Vorrei che fossi più chiaro” lo incalzai.

 

“Il letargo ha inibito il tuo acume” replicò il Santo d’argento con insolenza. 

 

Strinsi i denti, trattenendo il fiato per un istante, e in quel mentre Algol si limitò a fissarmi increspando le labbra con un sorriso beffardo.

 

“Il regno degli Inferi è intatto e prevale una quiete assoluta, ogni singolo elemento che compone le vestigia del Tribunale è integro. I prevosti occupano i rispettivi scranni, compreso il vice-procuratore. Nessun sostituto. Niente caos” insinuò.

 

“Avete incontrato il Sommo Ade?” Chiesi dissimulando ogni perplessità.

 

“No, ma Orfeo ci ha fatto —per così dire— da guida, da anfitrione” rispose Perseo soppesando la tiara per poi collocarla sul capo.

 

Scese di nuovo il silenzio, mi ero soffermato di nuovo a pensare. Perseo aveva taciuto allo stesso modo e forse stava rimuginando qualcosa. Strano, era tutto così strano per non dire assurdo. Eppure ero convinto che Algol fosse sincero, non avrebbe avuto motivo di mentire anche perché ciò non gli avrebbe arrecato alcun vantaggio. Fui sopraffatto da una profonda delusione, infine rilassai le membra rigide, come intorpidite,  distendendo le braccia lungo i fianchi, rassegnato. 

 

Orfeo? Ma Orfeo non è stato ucciso da Radamante della Viverna?

 

I miei dubbi si rafforzarono: “Hai menzionato Orfeo che dovrebbe essere morto. Forse ti riferisci al suo spirito.”

 

“Oh, no, Pisces! Si trattava del musico in carne e ossa, e posso assicurare che non era un fantasma.”

 

Mi grattai il mento. “Dal tuo racconto dovrei desumere che il Sommo Sacerdote, Athena e i suoi pupilli, abbiano raccontato delle frottole. È così?”

 

“Sei libero di non crederci: di non credere che gli dèi abbiano stipulato un accordo dopo che i rispettivi campioni si sono sfidati a singolar tenzone. Di non credere che ci abbiano rifilato una storia abbellita e infarcita di menzogne edificanti sulle imprese dei presunti eroi. Credi pure a quello che ti fa più comodo” disse Perseo sul punto di girare sui tacchi per abbandonare il terreno della discussione. E tuttavia non credevo volesse piantarmi in asso per davvero. “Ciò non toglie né annulla la nostra fedeltà ad Athena. Siamo come cani obbedienti con la coda tra le gambe.”

 

“Hai ragione, è sbagliato porsi domande e non dovremmo nemmeno osare di mettere in discussione una narrazione condivisa all’unanimità” fui costretto ad ammettere.

 

“È più semplice” convenne Algol con un tono più rilassato, quasi liberatorio.

 

È più semplice per quelli come me…

 

“È più semplice per coloro i quali, per indole, sono sempre stati come cani obbedienti, come li definisci tu” affermai a malincuore. “Ma è arduo, per gli spiriti indomiti come te, accettare una simile realtà.”

 

“Anche io eseguivo gli ordini” ammise.

 

Io sono sempre stato connivente e forse non esiterei a esserlo ancora per conservare la mia posizione di prestigio… dopotutto Misty non c'è più e non esiste una seconda possibilità di rinascita per lui, nemmeno implorando Zeus ci sarebbe.

 

“Ad ogni modo ci tenevo che almeno tu lo sapessi. Non ci resta che ingoiare la sbobba che ci hanno propinato dal giorno della rinascita, e senza proferire verbo. È per questo che ho taciuto in presenza di tutti. Non avrebbe avuto senso che sbattessi loro in faccia la verità rivendicando, al medesimo tempo, il mio ruolo dopo aver deposto l’armatura in frantumi ai piedi della dèa. Sarei caduto in contraddizione se lo avessi fatto” confidò Perseo. “Sebbene in fondo al cuore avevo pensato di rinunciare a tutto.”

 

“Misty non lo vorrebbe, non dopo il suo sacrificio. Ne sono convinto” avevo arguito. “Il suo sacrificio implica la riconciliazione con Athena e l’accettazione incondizionata del proprio status. Vale anche per te.”

 

Perseo annuì ma non aggiunse altro a quanto avevo detto. Aveva fatto uno sforzo enorme a intavolare la conversazione al fine di vuotare il sacco –lo avevo intuito dai suoi modi e dal tentativo forzato di apparire accondiscendente– e dovevo solo ringraziarlo per la sua disponibilità a confidare un segreto che non avrebbe svelato nemmeno ai parigrado.

 

La rivelazione di Perseo avrebbe dovuto farmi sentire umiliato per il modo becero e infame in cui eravamo stati ingannati, ma l’umiliazione lasciò posto al blando  risentimento per la sorte riservata al mio fratellastro e della quale —in un certo senso— mi ero reso responsabile. Entrambi, io e Algol, avevamo convenuto di non divulgare quanto lui e Misty avevano appreso nell’Ade. Avremmo seppellito il segreto nel profondo dei nostri cuori, e non avremmo rinfacciato alle autorità di avere tenuto nascosto alla collettività il vero epilogo della guerra sacra. Era più semplice reprimere rancore e sconcerto continuando a vivere nella nostra beata ignoranza come avevamo sempre fatto. Dopotutto non era in nostro potere —nel potere di semplici subordinati quali eravamo— avere il controllo sugli eventi. 

 

Ci sono cose che non si possono controllare, mi dissi con le lacrime agli occhi.

 

Se ci hanno nascosto la verità lo avranno fatto senz’altro per il bene comune. 

 

Questa possibilità non poteva che concorrere a mettermi con l’animo in pace. Ero tornato al tempio dove avevo trascorso il resto della giornata tranquillo. Per una volta nella vita non mi era dispiaciuto languire nell’ozio, complice lo stato di prostrazione e debolezza fisica che mi stava affliggendo e, mio malgrado, stavo affrontando. 

Il giorno volgeva al termine e osservai il sole scomparire gradualmente all’orizzonte. Dalla solita terrazza, con le braccia incrociate sulla balaustra di marmo, indugiavo contemplando la vastità del mare mentre un alito di vento spargeva la fragranza dolciastra delle rose. Se non mi fossi imposto di ritirarmi nell’alloggio privato mi sarei addormentato nel roseto.

 

Quella sera avevo rinunciato a bere la solita tisana rilassante, ero così prostrato e affondai il capo nel cuscino con la sensazione di avere la testa leggera. Nella penombra, rischiarata dalla luce della lampada a olio ancora accesa, indugiai a sondare nella profondità della volta affrescata… il particolare mi indusse a riflettere, e mi sovvenne l’aspetto austero e sobrio della stanza per come la conoscevo. No, non c’erano mai stati affreschi o decorazioni. Le immagini nitide che vedevo in quel preciso istante sembravano animarsi. Doveva essere un sogno,  un delirio, o un’allucinazione, ogni tentativo di destarmi da quello stato di inerzia e di impotenza fu vano perché ero impossibilitato a gridare e a muovermi.

 

“Dovresti essere avvezzo a distinguere tra sogno e realtà, dopo la tua esperienza.”

 

Avevo udito una voce dolce, come un sussurro, unitamente al soffio leggero della brezza notturna che profumava di lavanda e gelsomino. Era una voce il cui suono avevo imparato a riconoscere nel tempo, tuttavia le visite di mio padre erano state sempre meno frequenti da quando il mio fratellastro si era imbattuto in lui.

Sedetti sul letto aggiustando la tunica sulle spalle e gettai i capelli all’indietro. Fui avvolto da una luce soave che illuminò l’ambiente circostante e lo vidi: il dio Apollo era bello e luminoso come sempre, la capigliatura fulva, la fronte cinta di alloro… Ma la meravigliosa immagine svanì e al posto del dio comparve il volto caprino di quell'essere, quel tale: Sileno. Mi ricordai di quella creatura e del ruolo che aveva svolto in tutta la vicenda. 

 

“Dopo quello che ho passato i miei sensi si sono un po’ attenuati insieme alla prontezza di spirito.” Gli avevo risposto dopo essermi preso un momento per realizzare cosa stesse accadendo.

 

La creatura mi tese la mano: “Vieni” disse. “So che hai già trovato risposte alle numerose domande che ti sei posto al momento del risveglio.”

 

Assecondai il gesto del satiro, alzandomi in piedi per apprestarmi a seguirlo. Rimasi silenzioso ma nella mia mente si dibattevano altri interrogativi e, infine, esternai: “Perché? Perché mai dovrei seguirti?”

 

Quello mi scoccò un'occhiata sibillina e  —completamente soggiogato—  appurai il fatto che fosse cambiato lo scenario. Le immagini che si erano susseguite, vivide e reali davanti ai miei occhi, come proiettate su uno schermo, si erano tramutate in un universo concreto. Io e Sileno avevamo già varcato la soglia dell’oltretomba percorrendo i sentieri del bosco tetro e maledetto dove echeggiavano gli strepiti delle arpie. In principio non avevo idea di dove fossimo capitati —paradossalmente non ricordavo l'aspetto del mondo sotterraneo nonostante il mio spirito vi avesse dimorato per un certo periodo— e lui aveva dovuto spiegarmelo. 

Come per istinto coprii le orecchie ma il satiro mi guardò con aria divertita. Poco dopo l’espressione sul muso dell'essere si addolcì.

 

“Per un suo capriccio —potrei affermarlo e senza ombra di dubbio— siamo giunti a questo epilogo, perché lui desiderava godere della presenza di tuo fratello. Ma…”

 

“Ma questa scelta è costata molto a entrambi, entrambi lo abbiamo perso, e non credo che ad Apollo sia concesso riscattare l'anima di Misty dal purgatorio” risposi.

 

“Non gli è concesso, infatti” confessò mesto, Sileno. 

 

Non mi aspettavo una reazione così conciliante perché in realtà —in atto di rabbia— lo avevo sfidato con le mie parole taglienti e tra noi non correva buon sangue. Tuttavia tolleravo la sua presenza.

 

“È stata opera del destino. Come tu sai sono le Moire che manovrano i fili del fato al di sopra della volontà divina. Doveva succedere quel che è successo” aveva sentenziato il satiro.

 

“Aveva un debole per lui? Apollo era innamorato di lui? Parla!” Lo interrogai distogliendo lo sguardo dal sentiero che serpeggiava tra gli alberi avvizziti. Non avevo avuto ritegno, ormai ero senza vergogna, spudorato come non lo ero mai stato, ma non me ne importava nulla.

 

Sileno non reagì, ignorò la mia insolenza mantenendo un contegno di superiorità, il suo atteggiamento era esaustivo più di mille parole. “È difficile rimanere insensibili dinanzi a quel volto d'angelo…” riconobbe poi, in tono sommesso, infrangendo il silenzio.

 

Giungemmo sulla soglia di un varco, come una breccia aperta tra due speroni di roccia, e allora Sileno alzò il mento e si grattò la zazzera lanuginosa che gli spuntava tra le corna. Il muso caprino incorniciato dal vello biancastro si contrasse in una smorfia.

“Adesso non devi fare altro che guardare” disse..

 

Il mio cuore perse un battito quando la vidi: nel campo di fiori si ergeva una scultura che ritraeva le fattezze di un giovane efebo, il quale indossava un chitone lungo ed era coronato di alloro come il dio Apollo.

Sbattei le palpebre, incurante delle lacrime che rotolavano lungo le guance, e mi concentrai sulle innumerevoli sagome  fluttuanti a mezz'aria, le cui ombre si allungavano sul prato. Le stetti a guardare, inebetito, fino al momento in cui non notai una silhouette —avvolta da un'aura dorata che aveva facoltà di disperdere le ombre che aleggiavano nel luogo tetro— aveva le stesse fattezze del ragazzo immortalato nella pietra. Inginocchiato a terra,  bellissimo, e vestito con il medesimo chitone bianco che lasciava scoperta una spalla; la fronte cinta di lauro; lui non sorrideva ma aveva lo sguardo vacuo e triste, fisso sulla ghirlanda che stava intrecciando…

 



 

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Capitolo 21
*** Capitolo XXI ***


I prati di asfodelo, capitolo XXI

 

XLII

 

Un uomo con indosso l’armatura dei Santi di Athena si era avvicinato alla figura china sul campo dei fiori. Lo riconobbi dopo alcuni istanti, la silhouette era quella del personaggio di cui tutti commemorano le gesta: Orfeo della Lira. La visione che mi era comparsa davanti agli occhi divenne comprensibile e non c’erano dubbi perché dimostrava che il racconto di Perseo era stato sincero, Orfeo era vivo, dimorava nel regno degli Inferi, e ora potevo vederlo al fianco del mio fratellastro.

“Se stai più attento puoi anche udire ciò che dicono” disse Sileno. Lo guardai torvo ma dovetti annuire in segno di conferma poiché, dopo essermi concentrato, riuscii dapprima a leggere sulle labbra dei due per poi udire distintamente quello che si stavano dicendo.

Il satiro tacque e si accoccolò —dopo esservi balzato con un salto— su un frammento di ossidiana. Io rimasi silente sulla soglia del varco senza oltrepassarlo, obbedendo così al suggerimento della creatura. 

Le sagome che fluttuavano a mezz’aria sul prato sconfinato non percepivano la mia presenza, e anche Misty e Orfeo sembravano non essersi accorti di me. Scorgevo in modo chiaro, inequivocabile, i tratti dei volti, finanche le pieghe degli indumenti, e udivo il fruscio delle vesti e il crepitio degli steli che il ragazzo inginocchiato annodava meticolosamente con le dita delle mani; ne udivo le voci, delle quali una era talmente familiare da farmi provare una sensazione strana, qualcosa di simile a disagio misto a commozione.

 

“Inutile piangere sul latte versato” insinuò Orfeo come per consolare il giovane che intrecciava la ghirlanda di fiori bianchi. “Quella per chi sarebbe?”

 

“Per me” replicò Misty, dopo aver alzato la testa, trafiggendo con uno sguardo di sufficienza l’interlocutore che gli aveva domandato un’ovvietà. “Mi annoio a morte” aveva risposto lui come per giustificarsi.

 

“Lo hai voluto tu, saresti potuto vivere se ti fossi fatto gli affari tuoi” aveva sospirato il musico, deponendo la cetra sul prato. “Ma hai preferito assecondare il tuo ego nella sciocca convinzione che le tue imprese sarebbero state celebrate con tutti gli onori… e invece sei qui, con un pugno di mosche, a soccombere alla noia” soggiunse ridacchiando, e poi sedette accanto a mio fratello.

 

Misty sbuffò corrugando le sopracciglia e si scostò di lato,  evidentemente infastidito, dopodiché chinò la testa concentrandosi sull’opera che stava portando a termine con tanta cura.

 

“Lassù se ne infischiano. Non importa a nessuno di te. L’armatura di Libra è passata a Shiryu” sentenziò Orfeo, senza peli sulla lingua, ma io non lo ricordavo così privo di tatto. Nella sua provocazione si evinceva un significato intrinseco, come vi fossero pensieri sottesi e di ben altra levatura  non paragonabili a un volgare pettegolezzo. Vi coglievo un messaggio più profondo diretto al destinatario.

 

“Intendi umiliarmi?” Domandò Misty distogliendo l’attenzione in modo brusco da ciò che aveva tra le mani, e nei suoi occhi chiari si palesò l’orgoglio indomito. “Se intendi umiliarmi, o fomentare in me un sentimento d’invidia, non ci riuscirai.”

 

Orfeo strappò un fiore di asfodelo che campeggiava nell'erbetta tenera e lo rigirò tra le dita,  indugiando, assorto, come per schiarirsi le idee. Non era facile trattare con mio fratello e,  di sicuro, il musico stava riflettendo sul modo più consono di approcciarsi a lui.

 

“Non mi importa di come mi giudicano gli abitanti del Santuario e dell’impressione che ho lasciato in loro. Piuttosto… Algol.” Dopo aver pronunciato il nome del saudita, l’espressione di Misty cambiò e sul volto si delineò un lieve sorriso. “Ha fatto come ho detto?”

 

“Cosa gli avevi chiesto?” Replicò, a sua volta, Orfeo dopo aver taciuto per alcuni istanti.

 

“Desideravo che fosse la divina Athena a riparare –consacrando con il proprio sangue– l’armatura di Perseus.”

 

“Una richiesta pretenziosa, non ti pare?”

 

Misty abbassò gli occhi come per annuire senza esprimersi verbalmente.

 

“Eppure la dea ha deciso di accontentarti. Algol ha avuto l'ardire di esprimere il desiderio in tuo nome, e lei ti ha accontentato.”

 

Vidi Misty spalancare i grandi occhi azzurri, sussultare, come scosso da un tremore o da un colpo di tosse improvviso, forse non si capacitava di essere stato preso in considerazione. Ma lo vidi ricomporsi repentinamente passandosi una mano sul volto umido di lacrime.

 

“Non dovresti preoccuparti di quel farabutto, egli non è da annoverare tra gli individui che meriterebbero una menzione per i propri meriti o relativa al proprio valore” aveva rettificato Orfeo, ed era stato schietto esponendo la sua opinione a tal proposito, tuttavia il musico era scaltro e credevo di aver intuito dove volesse andare a parare in realtà. Voleva suscitare una qualsivoglia reazione in mio fratello.

 

“Sta’ zitto. Non si può giudicare una persona senza conoscerla.” Misty infatti non aveva tardato a reagire, come avevo previsto, e, subito dopo, allungò una mano per recuperare la ghirlanda di fiori. Si soffermò a pensare e d’un tratto parve rasserenarsi. “Potresti recapitargliela?” Chiese, raggiante, come un barlume di luce che filtra tra le nubi.

 

“A chi?”

 

“A lui… ad Algol di Perseus.”

 

“Non è possibile interagire su piani dimensionali differenti: il tuo amante è vivo e tu sei morto” ammise Orfeo con un velo di tristezza mal dissimulata nello sguardo.

 

“Ma tu sei vivo e con te interagisco, come si spiega?” Rispose mio fratello, come se fingesse di non comprendere la situazione. Il suo atteggiamento caparbio mi rattristava perché ero convinto che in verità se ne fosse reso conto perfettamente pur negando a se stesso.

 

“Io sono un servitore del Sommo Ade, posso beneficiare di qualche banale privilegio e intrattenermi a parlare con gli spiriti dei defunti.” Orfeo aveva chiarito la sua posizione e si appropriò nuovamente della lira per strimpellare un breve stralcio di melodia. La musica si diffondeva, soave, in quel luogo spettrale dove le ombre prevalevano in contrapposizione al fievole chiarore della distesa dei fiori che sembrava espandersi all’infinito.

 

Misty accantonò la ghirlanda, forse realizzando di aver fatto un lavoro inutile, perché era ormai  abbastanza chiaro che l'avesse intrecciata per Perseo. Afferrò la testa tra le mani in segno di disperazione e poi si coprì il volto per nascondere i propri sentimenti. Mi chiedevo se la musica di Orfeo avesse facoltà di lenire il dolore di quello spirito inquieto… perché a me infondeva malinconia. 

 

“Non disperarti” sussurrò il Santo d’argento dopo aver intonato l’ultima nota di una melodia struggente. “Ho ancora qualche quesito da porti prima di condurti alla fonte dell’oblio dalla quale berrai per dimenticare…”

 

“Ci sono cose che non voglio, che non posso dimenticare…” Misty strinse i pugni con la voce che sembrava rotta dal pianto.

 

“I tuoi successi? Le effimere soddisfazioni raggranellate nel breve periodo vissuto al Santuario?”

 

“Continui a fraintendermi perché la questione del successo dovrebbe preoccuparmi meno, anzi, non mi preoccupa affatto! Algol, Asterion, Babel… Shaina e altri che non potrò mai più rivedere. Lasciare tutto alle spalle, questo, sì, è deprimente.” 

 

L’affermazione di Misty ebbe il potere di mutare l’espressione risoluta e un po’ saccente che caratterizzava il volto di Orfeo: “Quindi rimpiangi di non essere più un Santo di Athena?”

 

“Sono stato uno stupido a voler rinnegare il ruolo per cui ero predestinato. Lo rimpiango, adesso che non posso più tornare indietro” confessò Misty guardando la propria ciocca di capelli avvolta intorno alle dita. “Søren? Come sta Søren? Si è risvegliato, è di nuovo il custode della dodicesima Casa?”

 

“Certo che lo è. Il signore degli Inferi ha mantenuto la parola data, i patti sono stati rispettati. Vi è stato un equo scambio: la tua vita in cambio della sua. Il tuo sacrificio, in fondo, non è stato vano” aveva confessato Orfeo e, al tempo stesso, ricomparve il sorriso sul volto d’angelo di mio fratello.

 

“Søren sta bene, e Jalal —oh, santa Athena, non ho mai avuto, come ora, l’impulso di chiamarlo con il suo vero nome— è stato ricevuto con tutti gli onori… la sua armatura è stata benedetta col sangue della dea!" Ansimò Misty,  in un sussulto di contentezza,  sistemando il chitone –che si dispiegava delineando in modo sensuale il suo corpo– al fine di assumere un contegno decoroso. “Sarà benvoluto e rispettato come un Santo d’oro, questa è la massima aspirazione che ho per lui!”

 

Si rallegra per qualcuno che non è lui stesso…

 

Orfeo si limitò ad ascoltare mio fratello, stranito, quasi incredulo di udire la prova dell’amore incondizionato nei confronti di colui che era stato un suo pari. Sbalordito lo ero anch’io —in particolar modo a proposito delle parole udite nei miei confronti— affermazioni che non si potevano più confutare. Misty non era nelle condizioni di mentire e non ne avrebbe avuto alcun motivo.

 

“La gattamorta —la definivano così— cosa mi dici di Marin? L’hai odiata.”

 

“Sì, Orfeo. L’ho odiata per il suo tradimento nei nostri confronti e per aver fatto il doppio gioco, l’ho anche invidiata per essere stata inclusa nella cerchia dei favoriti. Ma è stato solo tempo sprecato perché il rancore si è trasformato in un senso di vuoto” disse Misty mettendosi a giacere di schiena, sul prato, con le mani intrecciate dietro la nuca, per volgere lo sguardo vacuo al cielo avvolto dalle tenebre. “In questo posto non hanno senso le futilità della vita terrena, mi rendo conto di quanto siano state inutili. Di come sia stato tutto vano e controproducente. I problemi che mi tormentavano,  ora, sono inezie.”

 

Orfeo trasse come un sospiro di compassionevole rassegnazione, seduto accanto a lui, con le mani appoggiate sul terreno, le braccia un poco inclinate dietro la schiena, per sorreggersi. Si raddrizzò e cambiò posizione per porre una carezza sulla chioma scarmigliata del ragazzo biondo. 

“Dobbiamo andare, è ora di andare” disse.

 

“Dove?” Chiese mio fratello con aria stralunata.

 

“A bere dalla sorgente dell’oblio.”

 

“Il Lete? Ne ho sentito parlare, ho sentito parlare della facoltà di quelle acque… ma io non vorrei dimenticare. In primo luogo il mio sentimento per…”

 

“Ma così è stabilito” aveva sentenziato,  categorico, Orfeo della Lira,  e malgrado il piglio intransigente sembrò cedere al fascino o alla dolcezza con cui l’interlocutore si era rapportato a lui. “Ma puoi scegliere tra due opzioni.”

 

“Non so se avrò voglia di fare una scelta a queste condizioni. Ti prego non costringermi, io non voglio…” 

 

Quando vidi Orfeo prendergli il volto tra le mani e porgli un bacio sulla fronte ebbi una stretta al cuore. Avevo compiuto anch'io quel gesto di affetto nei suoi confronti, qualche volta, nella vita.

L’ultima immagine che vidi davanti agli occhi fu quella di Orfeo seguito da Misty:  si erano allontanati entrambi dal prato degli asfodeli percorrendolo fino al momento in cui non erano diventati due sagome sbiadite in lontananza. 

Stropicciai gli occhi stanchi e balenò un altro frammento, una sorta di visione scaturita dal nulla: era Misty,  immerso fino alle ginocchia, che si bagnava nelle acque limpide di un fiume cui aleggiava una foschia blanda. Indossava ancora il chitone ma doveva aver smarrito la corona di alloro tra i flutti. Raccolse l'acqua nel cavo delle mani e si bagnò il viso, sembrava riluttante a bere perché sapeva che bevendo avrebbe smarrito per sempre i ricordi della vita precedente nelle nebbie dell’oblio. Infine si apprestò a bere, a malincuore, l'acqua del Lete. 

 

E solo gli dei sanno…

 

***

XLIII

 

Nel periodo estivo il Santuario sembrava immerso nella quiete,  con le persone affaccendate, e i vari ranghi dediti allo svolgimento degli impegni quotidiani. Avevo fatto una breve sosta sugli spalti dell’anfiteatro per assistere agli allenamenti giornalieri, per poi risolvere di fare ritorno al tredicesimo tempio. Imboccai il viale costeggiato da filari di cipressi che mi avrebbe condotto alla prima Casa. 

Il Santo di Aries si era buttato a capofitto nelle incombenze di sua competenza da qualche giorno —si udivano i colpi del martello, che percuoteva il metallo, risuonare nell’aria— e c'erano varie armature da rimettere in sesto, alcune delle quali appartenenti a Santi elevati di rango. Aveva fatto un ottimo lavoro con quella di Libra, tirandola soltanto a lucido perché la superficie non aveva nemmeno un graffio, il precedente possessore l’aveva custodita come una reliquia. 

Mu era quindi abbastanza impegnato e non aveva badato troppo alla mia presenza, porgendomi un saluto dalla soglia della prima Casa e senza farmi perdere tempo in chiacchiere amene come al solito. Avevo svoltato a largo della rampa, girando intorno all’edificio evitando di attraversarlo, per sostare giusto il tempo di bere un sorso d’acqua dalla fontana. 

A volte mi defilavo appositamente dall’anfiteatro, nel bel mezzo delle esercitazioni, perché intraprendendo il cammino delle dodici case non mi sarei imbattuto nei rispettivi custodi,  dal momento che erano quasi tutte vuote. Nell’ultimo periodo ero diventato di poche parole. Non rammentavo di essere mai stato così schivo, non era un aspetto caratteristico della mia personalità. Probabilmente ero vittima di un malumore passeggero dovuto alle circostanze. 

Indossai i paramenti sacerdotali prima di presentarmi nella Sala delle Udienze, dove avevo un appuntamento per discutere con Saori. 

Dopo avervi messo piede realizzai che la dea non fosse presente, era strano perché di solito era puntuale a differenza del sottoscritto.

 

“Sommo sacerdote?” Avevo udito finalmente la sua voce nella penombra della sala, nella quale brillavano soltanto le fiamme fioche dei bracieri, e ciò mi esentò dal pormi superflui interrogativi. “Scusatemi, ma credevo di aver specificato che vi avrei atteso nella biblioteca. Devo essermene dimenticata.”

 

“Nessun problema, divina Athena” esternai rispettosamente, per poi pormi e procedere al suo fianco. Ci eravamo riappacificati dopo le molte incomprensioni sopravvenute dopo la resurrezione dei Santi, e l'atmosfera era molto più rilassata, quasi come all'epoca in cui ero stato designato a ricoprire la mia carica attuale. 

Facemmo ingresso nella biblioteca e immediatamente constatai che non eravamo soli. Aphrodite e Shiryu avevano annunciato la loro presenza con un lieve inchino. 

Provai una sorta di emozione nel vedere il mio discepolo con indosso l’armatura di Libra: gli donava, esaltando alla perfezione la sua forma fisica, eppure, al contempo, avvertii una sensazione sgradevole di sconforto o disagio che non riuscivo a scacciare. Dovetti sforzarmi di reprimere quel sentimento inspiegabile che, forse, era dovuto all’abitudine di vedere le sacre vestigia aderire a una figura più sottile e slanciata, insomma mi ero assuefatto nel riconoscere come familiare il volto delicato di un altro possessore. Sbattei le palpebre come destato da un sogno.

 

“Maestro, non mi avevate ancora ammirato in questa veste ufficiale” Shiryu doveva aver avvertito il mio disagio riscuotendomi dalla fugace meditazione.

 

“No, ragazzo. Devo ammettere che ti dona” replicai con un commento tanto scontato quanto lapidario, e anche con la volontà di distogliere il focus dal mio imbarazzo. 

 

Athena annuì con un cenno di approvazione al mio commento e con aria semi soddisfatta, ma non sembrava al massimo del buonumore. Persisteva con un atteggiamento neutrale, come consuetudine, dispensando l’ordine di servire qualcosa da bere al servitore di turno. Riuscivo però a cogliere l’insoddisfazione repressa del Santo di Pisces che –di tanto in tanto,  come per distrarsi– volgeva uno sguardo fugace alla porta finestra che dava sulla terrazza dove le azalee giapponesi esibivano sfumature di una splendida fioritura.

 

“Vi ho fatto convocare, Dohko, perché intendo condividere il frutto delle mie riflessioni. Mi sono presa la libertà di consultarmi con  Shiryu e ho deciso che sarebbe opportuno per loro —i Santi di Bronzo— trasferirsi in pianta stabile al Santuario.”

 

“Mi sembra una decisione sensata, divina Athena” risposi.

 

“Tuttavia io non intendo restare. A villa Kido ho lasciato troppi impegni in sospeso e preferisco vigilare su voi tutti da lontano. Sono sincera nel confessarvi che non riesco ad abbandonare del tutto la vita mondana e, di conseguenza, a conformarmi in modo adeguato all’ambiente austero del Santuario” trasse un sospiro, accomodandosi sulla solita poltrona in stile rococò,  dietro la scrivania. “Ho commesso ripetuti errori di cui mi sono resa conto troppo tardi, e vorrei non commetterne più.”

 

“Immagino quanto vi sia costato prendere questa decisione, mettendomi anche nei vostri panni, milady, ma l’onere è troppo grande. Non posso amministrare tutto da solo, e non è una questione di mera forza fisica altrimenti vi darei il benestare.” Le avevo risposto cercando conferme nell’espressione interrogativa dei due Santi che erano stati convocati per prendere parte al dibattito. Aphrodite e Shiryu annuirono avallando le mie non poche perplessità.

 

“Ho deciso di fornire un ausilio. Ho pensato a un Santo d’oro che abbia facoltà di essere promosso – per i propri meriti– al ruolo di primo ministro, in modo da sostituire il mio posto vacante” disse Saori. “La persona scelta dovrà cedere l'armatura d'oro passando il testimone a un Santo d'argento.”

 

L’affermazione di Saori sortì l’effetto di un inevitabile silenzio,  calato all'improvviso tra noi presenti. Mi lasciò sorpreso, ed esterrefatti sembravano anche i due Santi convocati insieme a me. Aphrodite sfilò l’elmo dalla testa soppesandolo nelle mani e continuò a sbirciare  fuori dalla finestra. Era insofferente, come avesse fretta di congedarsi, e non avevo il cuore di  biasimarlo dopo tutto quello che aveva passato. Inoltre sembrava reduce da una notte insonne, ma non era stato il suo turno di guardia.

 

Interrogai il mio discepolo allo scopo di spezzare la tensione che si era creata: “Shiryu, tu cosa ne pensi?”

 

Il ragazzo si grattò il mento, era un po’ riluttante a esprimere la propria opinione per primo: “Mi sembra una buona idea” replicò.

 

“I Santi d’oro, in quanto a valore e spirito di abnegazione, sarebbero tutti pari merito, pertanto è arduo scegliere chi designare per l’incarico” esordii dopo aver tratto le mie conclusioni.

 

“Avete ragione, Dohko. Per questo motivo ho pensato a un sorteggio tra i dodici custodi” disse Athena sfoggiando finalmente un sorriso liberatorio sulle labbra.

 

Aphrodite, che sembrava distratto —ma non lo era— si schiarì la gola: “Bene” soggiunse. “Sono tutti buoni propositi, nobili e belli. Ma non colgo il nesso della mia presenza qui, mia dea. Perdonate i modi: ma ho l'impressione di fare da tappezzeria…”

 

“Hai ragione, Santo di Pisces, e perdonami tu per aver lasciato la tua questione per ultima” ribatté la dea,  togliendo il cappuccio dalla sua stilografica preferita per imprimere qualche linea a caso su un foglio volante. “Mettetevi comodi” disse indicando le poltrone libere disposte nella stanza.

 

“Mi dispiace per… Misty. Il suo gesto di riscattare la tua anima,  cedendo in cambio la propria vita, è andato contro le mie aspettative. Ho sbagliato tutto perché non mi sono presa la briga di conoscere meglio i miei Santi. Quelli che combattono per me. C’è un legame speciale tra voi, e non solo cameratesco.”

 

“La parentela non distoglie dalla devozione nei vostri confronti” affermò con freddezza disarmante Aphrodite.

 

“Lo so. Il vostro ruolo trascende ogni velleità e debolezza umana, ma non è giusto sminuire tutto così” disse Saori, alzando gli occhi dal foglio su cui si stavano allargando macchie d'inchiostro. Finalmente ebbe il coraggio di guardarci in faccia. Soprattutto Aphrodite. “Farò erigere una stele funeraria in suo onore in modo che chiunque possa ricordarlo.”

 

“È un bellissimo gesto da parte vostra, divina Athena. Ammetto che l’avrei suggerito io stesso se non ci aveste pensato per tempo” convenni.

 

Aphrodite fece un cenno affermativo con il capo, ero certo che non serbasse il benché minimo rancore,  ma nutrisse solo una profonda amarezza. Si lasciò sfuggire un laconico: “Grazie.”




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