Pride

di Badboy116
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

Eravamo in terza elementare, quando un giorno di fine Ottobre il bidello entrò in aula e con mezza voce si rivolse al maestro dicendo:

“Salve Maestro Brandi, le affido questa giovane ragazza. Il suo nome è Elena Esposito e da oggi in poi prenderà lezioni in questa classe”

Il maestro, un uomo sulla quarantina, con capelli bianchi brizzolati e vestito in modo molto elegante, giacca e cravatta, la invitò ad accomodarsi vicino a me. Lei, con lo sguardo basso e le spalle larghe, si avvicinò, prese il suo quaderno a righe e iniziò a scrivere e ad appuntare ciò che diceva il maestro. La osservai attentamente: i gesti, lo sguardo, i modi di fare. Era un po' più bassa di me, capelli scuri legati in due trecce e pelle olivastra. Portava l'apparecchio ai denti e vestiva sempre in modo molto sciatto. Emanava un cattivo odore: o di sigaretta, poiché i suoi genitori fumavano entrambi in casa, o di cibo. Non fece molta amicizia con gli altri compagni di classe. D'altro canto nemmeno io avevo mai avuto un buon rapporto con loro. Appartenevano tutti a famiglie illustri del Vomero: chi era figlio di medici, chi, invece, di importanti avvocati, chi di celebri letterati. Io, spesso, mi vergognavo quando mi chiedevano quale fosse il mestiere dei miei genitori. Rispondevo sempre che entrambi facevano lavori importanti, spesso inventavo. Ma non era così: mia madre era casalinga mentre mio padre era un pescivendolo nel mercato rionale. Tutti sapevano che mentivo e frequentemente mi prendevano in giro oppure mi escludevano dalle loro chiacchierate. Ciò andò avanti fino alla quinta elementare. Ma quando arrivò Elena, tutto cambiò. Anche lei aveva umili origini come me.

Nei primi giorni non ci rivolgevamo nemmeno il saluto. Era molto dispettosa. Ricordo ancora quando si impose che voleva sedersi al lato del muro per appoggiarci la schiena e restare più nascosta dal Maestro Brandi. Mi opposi. Così un giorno spalmò cioccolata sulla mia sedia e quando mi sedei disse divertita:

“Guardate, Giovanni si è fatto cacca sotto”

Provai molta vergogna in quel momento e la odiai con tutto me stesso. La spinsi e corsi subito in bagno a piangere. Oppure quella volta in cui, senza alcuna motivazione, mi buttò la merenda per terra e disse con disprezzo:

“Adesso mangiatelo”

Non capivo se lo faceva per farsi accettare dagli altri oppure perché era proprio lei cattiva. Sopportai queste cose per molto tempo fino a quando lei un giorno mi chiese scusa. Si pentì dicendo:

“Scusami Giovà, sono stata cattiva con te. Vogliamo essere amici della pelle?”

Il mio non-reagire alle sue cattiverie la stancarono e quindi voleva diventare mia amica. Quando eravamo bambini esisteva un grado di amicizia: amici, amicizia distaccata, quasi conoscenti, amici della pelle, amicizia di cui ci si poteva fidare e amici del cuore, ovvero i migliori amici. Ero contento di quella tregua, di quel trattato di pace che avrebbe placato l'astio che provavo nei suoi confronti e il desiderio di prendermi in giro suo. Inizialmente riuscii a dire soltanto “ci penserò”, ma poi, dopo qualche giorno, le dissi di sì. Così, durante l'ora di matematica, strappammo un foglietto di carta e scrivemmo: Giovanni e Elena giurano di non litigarsi mai più e che devono essere amici per sempre.

Da lì iniziò la nostra amicizia, ricca di alti e bassi, solida e duratura ma anche fragile.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

Quando iniziai la quarta elementare, tutto divenne strano e particolare. La mia amicizia con Elena andava a gonfie vele e anche il mio rendimento scolastico non era da meno. Ogni giorno mi recavo a casa sua e studiavamo insieme. Teresa, sua madre, era molto felice della nostra amicizia. Mi riteneva un ragazzo fantastica, un ragazzo raro, che a Napoli ragazzini come me non esistevano: belli, educati e buoni. Al contrario, criticava molto Elena. Diceva sempre che le signorine dovrebbero fare il letto la mattina, aiutare le madri a pulire la casa e cose del genere. Ma Elena non lo faceva. Preferiva leggere storielle oppure truccarsi. Inoltre era maleducata. Tuttavia le voleva un gran bene e né lei e né Nando, suo padre, le avevano mai messo una mano addosso.

Ricordo una mattina di Aprile, andai a casa sua per studiare storia, l'antica Grecia, quando mi disse:

“Giovà, ma tu ti sei mai baciato con una ragazza?”

“No, Elena. E' presto, siamo piccoli”

“Non è presto. Mamma e babbo si sono conosciuti alla nostra età e si sono sposati molto presto. Lei aveva sedici anni”

Io non ricordavo quando i miei si fossero sposati o quando diedero il loro primo bacio. L'argomento non mi piacque, preferii continuare con lo studio dell'Antica Grecia, delle Poleis e delle prime colonizzazioni greche. Studiavo, sottolineavo e apprendevo le parole del libro mentre lei sbuffava oppure disegnava cose sul libro. Io cercavo di coinvolgerla nella lezione ma lei ad occhi bassi, precisa e concentrata nel suo lavoro mi diceva

“Studia tu, io mi scoccio”

Dopo varie ore, mi mostrava i suoi capolavori. Era molto brava a disegnare e il soggetto era sempre una donna che indossava ogni volta diversi abiti.

“Da grande voglio fa la stilista e voglio essere famosa come quella donna rifatta che fa abiti per le sfilate”

“Versace?”

“Si”

Le cose andarono così fino a quando una mattina di metà Ottobre della quinta elementare ricevei una terribile notizia: Teresa si era ammalata ai polmoni. Per questo motivo, Elena si assentò spesso a scuola per assistere alla madre e per starle vicino il più tempo possibile. Le puliva la casa, si allarmava se durante la notte tossiva più del dovuto, si preoccupava di cucinarle buoni pranzi. Teresa fu aiutata anche da sua madre che le pagò tutte le operazioni da effettuare per guarire da quella malattia. Sostenni molto Elena in quel periodo che appariva sempre sorridente e, come un adulta, apriva e ospitava le persone in casa e spiegava cosa dicevano i medici. Insomma già da bambina, Elena aveva dovuto affrontare le difficoltà della vita ed era già matura per la sua età. Gli ospiti che si preoccupavano per la salute di Teresa ascoltavano i discorsi di quella bambina che aveva poco più di undici anni con ammirazione. Una volta uno di essi disse:

“Tesoro, perché non vai a giocare con le bambole? Qua ci pensano i grandi”

Lei indisposta disse: “Giocaci tu con le bambole, io devo pensare a mamma”

I mesi passarono e le condizioni di Teresa peggiorarono sempre di più. Mia madre, donna molto pettegola ma allo stesso tempo con un gran cuore, mi propose di ospitare per qualche giorno Elena a casa nostra perché non riteneva adatta per una bambina quell'atmosfera. Ma Elena si rifiutò sempre, voleva vivere con sua madre quegli ultimi istanti della sua vita. Oramai era già pronta al peggio. Nando, d'altra parte, era distrutto e amareggiato. Trattava tutti in malo modo a lavoro, era capo di una falegnameria a Piazza Mercato, e piangeva ogni sera al letto della moglie. Al contrario, Elena non piangeva e non mostrava segnali di cedimento. Ogni giorno si alzava, preparava la colazione alla madre e al padre, puliva la casa, cucinava il pranzo e la cena, faceva accomodare gli ospiti e poi a fine giornata andava a dormire.

Un pomeriggio di dicembre, Anna, sua nonna, ci incaricò di andare a comprare delle medicine nella farmacia vicino al comune. Uscimmo e ci dirigemmo nella via quando, tra una chiacchiera e l'altra, Elena cominciò a piangere. Era molto strano vederla piangere, l'avevo sempre raffigurata come una statua da ammirare ma priva di sentimenti. Ma vederla in quel momento fragile e impotente mi sorprese molto. L'abbracciai fortemente e lei mi diede un bacio sulla bocca. Fu il nostro primo approccio fisico: l'abbraccio, il bacio. Io mi scostai subito e le sorrisi. Lei anche, poi asciugò gli occhi da cerbiatto con la manica della maglia e continuammo a camminare. Conoscevo Elena da tre anni ma non l'avevo mai vista così: fragile, in cerca di aiuto e soprattutto d'amore. Aveva trovato in me una spalla su cui piangere, un amico della pelle, un fratello. Una luce splendente alla fine di un tunnel buio e scuro. Una mano pronta a salvarla dalle intemperie del mare. Una figura solida e forte, anche se non lo ero. Mi piacque il fatto che mi considerasse importante nella sua vita, ma ciò che mi sorprese di più fu il bacio. Ora penserà che siamo fidanzati? Come le dico che non mi piace e che non voglio essere fidanzato con lei? Tante domande mi afflissero e iniziai a creare nella mia mente una storia: io e Elena ci saremmo innamorati, si saremmo fidanzati e poi sposati.Avremo avuto tanti figli e un lavoro solido. Infine lei si sarebbe ammalata e sarebbe, infine, morta (Si, ero e sono sempre stata una persona molto drammatica...). Arrivati a casa, dopo quell'evento, Elena si rivolse a me sempre allo stesso modo. Come se quel bacio e quel pianto non ci fossero mai stato. Si mostrò sempre forte sia ai genitori che con me.

A Gennaio, dopo mesi di sofferenze e di sacrifici per trovare dottori bravi, Teresa morì da sola nel suo letto, pallida e con gli occhi spalancati: la malattia le aveva strappato la vita dalle mani senza pietà, lasciando una figlia di soli undici anni e un marito che l'amava più della sua stessa vita.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

I funerali furono stremanti: tutti piansero la bella Teresa e la lodarono come fosse una Venere. La chiesa era stracolma di persone: amiche, familiari, conoscenti. Avanti all'altare la sua bara, muta e silenziosa, era ricca di fiori di tutti i colori. Non pensavo che Teresa conoscesse così tante persone; difatti molti di loro parteciparono solo per spettegolare. Vedevo le donne del rione fuori la chiesa che parlavano e buttavano fango sulla figura di Teresa. Io ero con mia mamma che consolò in tutti i modi Elena, la quale non cacciò dai suoi occhioni nemmeno una lacrima. Nando, invece, si mostrò fragile. Fece molte sceneggiate e, mentre portavano la bara nel carro funebre, svenne. La chiesa mi parve un teatro: c'era chi piangeva anche se non conosceva Teresa, chi porgeva finti omaggi a Elena e Nando, chi si disperava chino sulla tomba del defunto. Guardavo Elena e capii che la pensava come me. La cerimonia terminò due ore dopo. Elena restò qualche giorno a dormire da me. Non mostrò più segnali di cedimento.

Un giorno mi disse:

“Non voglio tornare a casa con quello”

Quel quello mi rabbrividì: si riferiva a Nando. Provava odio nei confronti di suo padre, colui che avrebbe dovuto sostenerla in questo momento difficile della sua vita ma che preferiva starsene da solo col suo dolore.

“Perché?” le domandai “E' tuo padre, devi volerlo bene”

“No, piange sempre”

“Amava tua mamma”

“Pure io, ma non piango”

Dopo pochi giorni ritornò a casa da suo padre. Quando l'anno scolastico terminò, io riuscii a prendere la licenzia elementare con nove mentre Elena con il sei. Le fu regalato a causa della triste vicenda che aveva afflitto la sua vita. Per tutta l'estate non la vidi. Restò sempre a casa a pulire, lavare, cucinare e fare cose da adulte. Quella fu un'estate da dimenticare. I miei genitori litigavano sempre per vari motivi. Ogni sera mio padre tornava a casa ubriaco e metteva di continuo le mani addosso a mia madre. Io restavo chiuso nella mia camera con mia sorella più grande, Alice, che mi sussurrava all'orecchio che a breve sarebbe finito tutto, che loro si volevano bene e che avrebbero chiarito. Una sera di luglio mio padre tornò sbronzo come non mai e chiamò mia madre puttana. Di conseguenza, lei gli lanciò un piatto colpendolo al braccio. Lui, rabbioso come un cane in gabbia, la afferrò per un braccio e la scaraventò per terra. Iniziò a darle calci, pugni e schiaffi. Mia sorella si cimentò prontamente per separarli, ma ottenne anche lei uno schiaffo. Io ero impaurito e restai chiuso nella mia camera a piangere. Successivamente egli abbandonò l'appartamento e passò la notte su una panchina nel parco vicino casa. Mia madre stava bene, aveva solo il naso gocciolante di sangue, volto coperto di chiazze violacee e il labbro spaccato. Ma mi ripeteva più volte: “Giovà, mamma sta bene... tuo padre è un uomo di m***a!”

La mancanza di Elena fu incolmabile: i giochi estivi nel parco, i bagni nella piscina della signora Carmela, sua vicina, le gare di ballo. Il mio cuore piangeva quel vuoto, quella figura. Provavo molta tristezza, soprattutto in quel periodo in cui i miei non facevano altro che litigare.

Una mattina di settembre decisi di andare a casa sua. Volevo rivederla, sentirla vicino a me, e dirle: vedi come siamo belli insieme, siamo un unicum e nessuno deve separarci. L'avevamo promesso che nel bene e nel male saremo restati sempre amici della pelle. Desideravo abbracciarla e avere conforto, come quello che le diedi quando Teresa perse la vita. Ma fu una mattina dura. Mia madre prese tutti gli abiti di mio padre e li lanciò dal balcone aggiungendo tantissimi insulti. Volevo spostare quella visita ad un altro giorno, ma non ce la facevo: avevo bisogno di Elena. Così uscii di casa e, tra i mormorii delle vicine circa la scena dei miei genitori, aprii il cancello della palazzina e mi diressi verso casa della mia amica. Incontrai mio padre sulla via e con voce fiera disse ad altri uomini:

“Guardate, questo è Giovanni. Mio figlio”

Ovviamente era ubriaco, come sempre. Non aveva un soldo nelle tasche e dormiva in mezzo alla strada. Provai pena per quell'essere: povero, senza l'amore di una moglie, di una madre e dei figli. L'unica sua consolazione era la birra. Ma ciò che si semina quello si raccoglie: mia madre più volte lo aveva avvertito delle conseguenze e lui, testardo come sempre, aveva preferito intraprendere la strada sbagliata. Sapevo che se ne sarebbe pentito, ma la cosa non mi turbò più di tanto. Arrivato al palazzo di Elena, distante dal mio qualche chilometro, bussai al citofono. Mi rispose Nando con mezza voce.

“Chi è?”

“Nando sono Giovanni. Elena c'è?”

Aprì il cancello senza rispondere. L'appartamento era all'ultimo piano e le scale erano abbastanza ripide. Il palazzo, come il mio, era scuro e triste. Dai finestroni entrava poca luce e sui muri spesso vi erano scarafaggi mentre sulle scale per il seminterrato circolavano giganti topi grigi. Giunto all'ultimo piano, entrai nell'appartamento. La porta era aperta. Pareva che un tornado avesse invaso tutto l'appartamento: abiti, oggetti e cibo erano sparsi per terra. Sui mobili era possibile disegnarci per la troppa polvere. Entrai in cucina e quando Nando mi vide fece tante feste. Mi lodò e mi disse che ogni giorno mi facevo sempre più bello. Sapeva di ciò che stava succedendo tra i miei genitori e mi chiese se avessi bisogno di aiuto. Io ribattei che stavo bene e che capita a tutti di litigare. Chiesi dove fosse Elena e lui indicò la sua camera. Aprii la porta in legno. Era stesa sul letto a disegnare su un piccolo quadernino a righe.

“Elena”

Si girò con cautela, mi fissò incerta.

“Che ci fai qui”

Aveva occhi febbricitanti, le guance erano più incavate del solito, eppure era cresciuta molto. Aveva raggiunto quasi la mia altezza. Aveva superato positivamente l'estate senza Teresa e ciò mi fece molto piacere. Volevo abbracciarla ma non osai, pensavo che il nostro rapporto non fosse più come prima. Che mi odiava per averla abbandonata tutta l'estate nelle grinfie di suo padre che tanto odiava. Fu lei, invece, che si alzò dal letto e mi strinse per attimi lunghissimi. Sentivo il suo pigiama addosso che emanava un odore ancora più offensivo di quello che sprigionava l'ambiente. Ci separammo e mi portò fuori al balcone e mi fece sedere sul pavimento. Da quel luogo si intravedeva tutto, persino casa mia. Mi offrì un gelato e qualche merendina, ma rifiutai. Restammo in silenzio qualche secondo, poi iniziai io:

“Sono venuto qui per te”

“Babbo ha detto che tua mamma e tuo padre si stanno lasciando”

“Si, li schifo”

“Non li dare retta. Sono st****i.”

Mi chiese in dialetto se volessi rimanere a casa sua per qualche giorno ma non accettai. Non volevo lasciare mia madre e mia sorella. Anche se la mia presenza era inutile, avevo paura di perderle come era successo con Elena. Nonostante non andassi molto d'accordo con la mia famiglia, ogni giorno temevo che qualche evento avrebbe potuto mettere fine alle loro vite. Quindi, sicuro che ciò non accadesse, volevo restare lì insieme a loro.

“Domani pure vieni?” chiese lei alzandosi con l'ausilio della ringhiera del balcone.

Annuii.

Lei ne fu molto contenta e mi baciò la guancia.

Ritornai a casa felice perché quel vuoto nel mio cuore durato tutta l'estate si era colmato. Ma quella felicità fu molto breve: mio padre era ritornato a casa e aveva massacrato di botte di nuovo mia madre. Così lei chiamò la polizia per farlo arrestare.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

I giorni a seguire furono davvero tremendi e tristi. Mio padre fu rilasciato dal commissariato ma era controllato da agenti della polizia. Mia madre chiese il divorzio e mio padre accettò la proposta. Mi dissero che faceva bene ad entrambi separarsi per un breve periodo, che si facevano del male a vicenda, che spesso quando due persone si vogliono molto bene si finisce sempre per litigare. Quella decisione non mi dispiacque molto, anche perché avrei avuto molta più serenità e tranquillità senza le loro grida e i loro inutili litigi.

A metà settembre iniziammo le medie, un mondo così strano e da adulti. Il primo giorno di scuola avevo molta ansia: principalmente la mia paura maggiore era di essere nuovamente escluso. Elena ed io andammo nella stessa classe. Giunti fuori l'edificio, accompagnati da mia madre, corremmo verso gli altri bambini che aspettavano con le loro madri l'elenco delle classi. Capitammo nella sezione C in una classe composta da ventitré alunni, 13 maschi e 10 femmine. Ci sedemmo in fondo all'aula immensa e molto spaziosa, con grandi finestroni e larghi davanzali. La lavagna era molto più ampia di quella delle elementari e anche la cattedra sembrava più grande. Alla prima ora venne la professoressa Giuntoli che insegnava italiano. Era una donnina bassa, grassottella e con capelli biondi. Il suo accento era particolare, probabilmente proveniva dal Nord. Non fu poi così tragico, i professori sembravano quasi tutti tranquilli – eccetto musica – e molto comprensivi. Feci prontamente amicizia con molti ragazzi: Simone, un ragazzino intelligente e con grandi conoscenze politiche, Agata, furba e testarda, e Vittoria, sensibile e determinata. Elena, al contrario, non fece amicizia con nessuno. Chiunque le si avvicinasse, diceva con tono arrabbiato:

“Che cavolo vuoi?!”

Avvertivo la sua gelosia nei miei confronti. Ogni volta che iniziavo a discutere o ridere con qualcun altro lei sbuffava oppure diceva di smetterla.

Nei primi mesi di Ottobre i professori ci riempirono di compiti e di interrogazioni. Superai il primo quadrimestre con la media dell'otto e con splendidi elogi da parte di tutti i docenti. Mia madre era molto fiera di me e mi considerava, a differenza di mia sorella che non amava studiare, un piccolo Leopardi. In realtà lei non aveva molte conoscenze in campo letterario, tanto meno in campo politico. Ma mi ripeteva spesso che le era rimasto impressa la figura di Giacomo Leopardi perché le piaceva il suo stile di vita e una celebre frase detta dalla sua professoressa: l'essere umano è solo un errore della natura. Elena, invece, non andò molto bene. Era maleducata, non studiava ed era parecchio superficiale. La sua media fu quella del cinque. Cercavo di stimolarla, di farle piacere le materie e di aiutarla ma lei non si impegnava. Nando mi ringraziò per la mia pazienza ma giustificava la figlia dicendo che era ancora affranta per la morte di Teresa.

Alla fine della prima media riuscii a prendere una buona pagella. Tutti otto e nove, tranne sette in inglese siccome non mi piaceva. Mia madre mi regalò un cellulare nuovo e le fui molto grato. Discorso inverso per Elena. I professori decisero di bocciarla a causa della media troppo bassa e per l'alto numero di assenze. Ci rimasi molto male perché non saremo potuti più essere compagni di banco. Lei a differenza accettò la cosa con normalità e si ritirò da scuola. Diceva che doveva aiutare il padre e doveva cercarsi un lavoro.

Passai l'estate a leggere molti libri: Madame Bovary, gialli di Edgar Allan Poe, romanzi di Nicholas Sparks. In quei libri mi immergevo completamente, mettendomi nei panni dei personaggi. Condividevo ciò che leggevo con Agata che preferiva le commedie o trailer. Ogni fine settimana ci recavamo nella biblioteca della città e prendevamo in prestito nuovi libri. Mia madre iniziò a rimproverarmi per i troppi volumi sparsi per la casa dicendo:

“Giovà, a mamma, tu perdi la testa così!” All'inizio della seconda media Elena mi mancò tantissimo. Per tutta l'estate aveva lavorato e nel mese di Agosto partì con suo padre in Calabria a casa di una parente. Mi sedei vicino ad Agata, che ne rimase molto felice. Il senso di colpa iniziò a tormentarmi: per tutta l'estate non ero mai andata a trovare Elena, ma avevo preferito starmene con Agata a leggere libri e parlare di letteratura. E se Elena mi odiasse per questo? E se non volesse essere più mia amica? E se mi avesse dimenticato per sempre? Tanti dubbi e tanti dilemmi mi circolavano nella mente, ma preferii pensare a me, almeno una volta. Ero stufo di essere sempre pronto ad aiutare Elena senza mai un grazie.

Quell'anno in classe nostra venne un ragazzo un anno più grande di noi. Si chiamava Salvatore. Ricordo vagamente quel suo sorriso perfido ma allo stesso tempo carino. Ma non posso mai dimenticare il suo dialetto napoletano antico, stretto e volgare. Un giorno mi venne vicino e con tono crudele iniziò a prendermi in giro. Diceva che stavo sempre con le ragazze, che ero un ricchione, termine che mi fu attribuito fin dalle elementari di cui ignoravo il significato. Spesso mi faceva sgambetti, mi spingeva, mi rubava i pranzi: insomma mi bullizzava. Ero indifeso e subivo quei tormenti. Avevo paura di parlarne con i professori o con mia madre. Mi minacciava frequentemente con un coltello dicendo che se avessi parlato mi avrebbe strappato le viscere come si fa con i maiali. Per questo motivo la seconda media andò con questo ritmo: prese in giro, minacce, schiaffi senza un valido motivo, ma solo l'odio imperterrito di un ragazzo che probabilmente aveva una situazione familiare disastrosa come la mia. A volte speravo che diventassimo amici: io parlavo dei miei problemi e dell'odio per mio padre, lui dei suoi, cercando modi per affrontare e superare quegli eventi. Ma non successe mai. Gli altri ragazzi della classe erano tutti dalla sua parte. Lo ritenevano una divinità e un Dio a cui non bisognava contraddire. Le ragazze, invece, ne erano tutte innamorate, eccetto Agata che era innamorata di me. Un giorno di dichiarò avanti tutta la classe, durante l'ora di sostituzione. Scrisse sulla lavagna in stampatello: Giovanni mi piaci, vuoi essere il mio fidanzato? E sotto erano collocate due opzioni: Si o No. Preso dall'imbarazzo e per far rimangiare la polvere a Salvatore e i suoi compagni selezionai l'opzione si. Quella relazione durò solo una settimana, la lasciai e lei, offesa per il mio comportamento, si sedé vicino a Simone. Restai completamente da solo in una classe in cui i principi di Salvatore erano legge. Il mio rendimento scolastico scese vertiginosamente e i professori lamentavano il fatto che facessi molte assenze. Così, nel mese di maggio, decisi di cambiare sezione passando nella A. Lì i ragazzi erano magnifici, mi fecero ambientare nel contesto classe velocemente.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

Elena lavorava nella macelleria del paese. Tagliava e affettava i pezzi di carne come fossero argilla. Inoltre, per avere un salario maggiore, portava la spesa nelle case delle persone. Un giorno me la ritrovai avanti alla porta con la busta della spesa.

“Tua mamma voleva due fette di bistecche”

“Te la chiamo?”

“Vuoi stare lì a guardarmi?”

Mi era mancato quel tono ostile, colmo d'ira e di odio. Era cresciuta parecchio: le si intravedevano già i seni, le gambe le si erano allungate e anche le braccia. Portava i capelli neri legati in una coda e il volto era pieno di trucco. Mamma accorse alla porta facendo fatica a camminare. Prese i soldi da un borsello marrone e gli diede qualche moneta di mancia.

“Come ti sei fatta bella” esclamò accarezzandole il viso.

Elena le sorrise e andò via. Non la vedevo da quasi un anno. Mi aveva fatto bene rivederla. Avrei tanto voluto raccontarle il cambio di sezione, i libri che leggevo, il mio fidanzamento con Agata durato una settimana. Ma sapevo anche che a lei non le sarebbe fregato. Aveva altri problemi nella testa.

Il rione in cui abitavamo era diviso in due parti: nuovo e vecchio, entrambi collegati da un ponte. Prima delle scuole elementari, non avevo mai visto Elena per il rione ma conoscevo altri ragazzi: Michele Cirillo, più grande di me di quattro anni, Gennaro e Massimo Ruggiero, i due bulli del rione, Emanuela Pizzuto, figlia del macellaio, e Anita e Carmela Ciampi, figlie del proprietario del supermercato rionale. Conoscevo bene le loro storie e tutti i loro segreti grazie ad Elena. Ad esempio che Emanuela Pizzuto uscì incinta all'età di 14 anni ma dové abortire perché il padre era assolutamente contrario. Oppure che Anita Ciampi, per guadagnarsi da vivere, faceva la prostituta. Riusciva a guadagnare fino a 600 lire a sera. Non sapevo come Elena facesse a sapere tutte quelle cose, ma non mi importò. Quei segreti erano oggetto di chiacchiera tra me e lei.

Nel capodanno 1999 la famiglia Cirillo, ricca e benestante per i traffici di droga, aveva organizzato una piccola festicciola per le vie del rione. Erano invitati tutti: uomini, donne, bambini e anziani. Si trattava di una lunga tavolata per festeggiare l'arrivo dell'anno 2000. Mia madre non volle partecipare per via della presenza di mio padre e impedì me e mia sorella di andarci. Le due litigarono ferocemente fino ad arrivare ad una tregua: non dovevamo rivolgere la parola a nostro padre. Mia sorella desiderava a tutti i costi partecipare a quella cena perché era innamorata di Michele Cirillo, figlio maggiore. Era non solo bello ma anche conteso da tutte le ragazze del rione e non solo. Accettammo il patto con nostra madre e, preparandoci molto in fretta, scendemmo per la strada dove donne e uomini univano, montavano e sistemavano i tavoli. Il tempo premetteva bene: c'era qualche scarsa nuvola non troppo minacciosa. Tra gli uomini intravidi anche Nando, con una sigaretta tra le mani rosse spaccate per il troppo lavoro in falegnameria. Con i ragazzi del rione non avevo mai avuto un buon rapporto. Mi ritenevo superiore a loro: più colto, più intelligente. Loro usavano sempre il dialetto per parlare mentre io lo odiavo. Anche mia sorella lo usava sempre in casa e a me dava un gran fastidio. La serata fu lunga ma intensa: tanto cibo, tanto alcol e tanti fuochi d'artificio. Mia sorella ed io ci sedemmo vicino a nostro padre, nonostante il divieto di nostra madre. Sentivo nella testa la sua voce squillante che ci malediceva o ci rimproverava per la parola mancata. Dall'altra parte della tavolata vi era Elena seduta accanto a Nando, che divorava la zuppa di scarole voracemente. Non parlammo, restammo a fissarci per tutta la durata della festa. La mezzanotte si avvicinava e l'ansia tra i compaesani era alta: un nuovo millennio, una nuova epoca. Con l'arrivo della mezzanotte un epoca ricca di guerre, stragi, questioni storiche, politiche e letterarie sarebbe finita. Gli adulti afferrarono i fuochi d'artificio e li posizionarono il più lontano possibile da noi ragazzi. Quando scoccò la mezzanotte, tutto il vicinato esultò, festeggiò, si ubriacò. Mio padre, insieme a Don Matteo Cirillo, capostipite della famiglia Cirillo, accesero le micce dei fuochi e in brevissimo tempo il cielo divenne tutto colorato: rosso, verde, giallo. Sembrava un dipinto fatto su una tela blu con acquerelli e pittura. La signora Cirillo decise di fare un discorso a tutti. Le sue parole erano minacciose e di rimprovero, ma anche ricche di speranza. Malediceva coloro che pensavano che loro campassero con il lavoro nero, vendendo la droga e facendo la malavita. Loro erano persone oneste e lavoratori, come tutti noi. Diceva che la famiglia Cirillo decise, a proprie spese, di organizzare quella festa per placare gli animi e di iniziare un nuovo anno di serenità. Celebrò la fama di suo suocero, Don Gennaro Cirillo, per aver sempre aiutato tutti i cittadini del rione ma che purtroppo la morte lo aveva strappato dalla vita terrena. Ovviamente questo discorso fu fatto in napoletano. Dopo, tutti iniziarono ad applaudire e a porgere le proprie scuse ai due coniugi. Infatti, in tempi passati, la famiglia Cirillo fu nella bocca di tutto il rione per un incredibile scandalo. Nell'estate 1996 una chiamata anonima alla polizia assicurò che nella casa dei Cirillo ci fossero quintali di droga (erba, fumo e hashish). Così la polizia si presentò in casa e ciò riferito dalla chiamata era vero: trovarono droga ovunque. Di seguito Don Matteo e sua moglie furono portati in caserma ma senza alcuna motivazione furono rilasciati. La cosa turbò molto i cittadini e condannarono i due. Probabilmente l'autore di quella chiamata fu uno del rione, un uomo presumibilmente. Quella festa di capodanno fu soltanto una strategia per ripulirsi l'immagine e farsi amare dagli altri. Ma né io e né Elena avevamo creduto al loro finto buonismo. Tutti hanno degli scheletri nell'armadio, e spesso nel vero senso della parola. Erano criminali che uccidevano a sangue freddo chiunque intralciasse i loro piani.

Finita la festa, mi avvicinai a Elena che se ne stava seduta su una panchina.

“Ti stai divertendo” feci io

“No, sono gente falsa. MI fanno schifo”

“Pure a me, menomale che non siamo come gli altri”

“Menomale che non sei come gli altri”

“Perché?”

Ma a quel mio interrogativo non rispose, filò via come un gatto quando avvista da lontano un cane. Si avvicinò al tavolo per strappare un altro pezzo di pane secco e, in modo violento, lo morse. Finita la festa, ritrovai mia sorella con il rossetto sparso per il viso e il mascara sciolto sotto agli occhi.

Entrati in casa, verso le due del mattino, ricevemmo due schiaffi da mia madre.

“Così state dalla sua parte? Che vi avevo detto?”

Si riferiva a mio padre. Aveva spiato dalla finestra ogni nostro movimento, ora ci malediceva, ora piangeva. Disse che se preferivamo stare con lui, dovevamo andare via da quella casa. Che lei faceva tanti sacrifici per noi mentre lui pensava solo a bere. Che era uno stronzo, un ubriacone, un uomo che non aveva mai pensato alla famiglia, un violento. Restammo così fino a quando decise di finirla

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

Quando si è bambini non si capisce l'importanza e il valore dell'amicizia. Si vive in un mondo parallelo fatto di fantasie. Ma solo a partire dall'adolescenza si capisce il vero senso. Elena mi era entrata dentro come un meteorite che si abbatte nell'oceano. Senza di lei mi sentivo perso, completamente inutile in questo mondo. Con lei stavo bene e ogni preoccupazione svaniva. Tra di noi c'era un legame solido come l'acciaio, forte e resistente. E ancora oggi sono convinto che lei provava lo stesso. Solo che il suo carattere ferreo e freddo le impediva di dimostrarlo. Tra i due, io senza dubbio ero l'anello debole. In lei, infatti, cercavo protezione e sicurezza dal mondo esterno. Ricordo che una mattina stavo attraversando la strada per buttare l'immondizia nel bidone di fronte casa mia. Un auto si fermo proprio avanti ai cassonetti e uscirono Gennaro e Massimo Ruggiero. I due erano fratelli e mi conoscevano molto bene perché frequentammo le stesse scuole elementari. Iniziarono ad umiliarmi, girandomi attorno come due cani randagi. Mi insultarono in tutti i modi usando un linguaggio volgare: lo vuoi indietro?! Ricchione e nel frattempo facevano gesti con le mani. Trattenni a malapena le lacrime e li pregai di lasciarmi andare. Ma Gennaro mi afferrò un braccio e disse con tono minaccioso:

“Qui i ricchioni ci fanno schifo”

Mi strattonarono entrambi e ricevei anche uno sputo in faccia. Ma la cosa che mi fece più schifo fu che nessuno dei passanti corse in mio aiuto. Pensarono tutti: sono cose da ragazzi. Tutto continuò liscio come l'olio. Solo una persona corse in mio aiuto: Elena Esposito. Era appena tornata da una commissione e nel vedermi in quella situazione difficile, iniziò a lanciare pietre massicce contro i due fratelli e di seguito verso l'auto. Aveva tra le mani un grosso coltello per tagliare la carne e gridò contro i due offese e bestemmie. Gennaro e Massimo, spaventati come due bambini nel vedere quel grosso coltello, salirono nell'automobile e scattarono a tutto gas. Elena mi si avvicinò e mi chiese come stessi. Risposi ancora un po' confuso ma senza piangere che stavo bene. Mi sorrise e si rimise il coltello in tasca. L'abbracciai e le sussurrai all'orecchio: grazie.

“Se ti toccano ancora, gli taglio la gola a loro e a tutti quanti”

Ritornò in macelleria. Quell'evento mi resto dentro e capii che Elena era l'unica persona della mia vita che mi amava veramente. Dubitai persino che l'amore che provava per me superasse di gran lunga quello dei miei genitori. Vidi Elena, dopo quella scena, ritirarsi nella bottega come un eroina, una guerriera dopo la battaglia. Ero innamorato della mia migliore amica, ma non nel senso che conosciamo tutti. Era un sentimento profondo che andava oltre all'amore, alla stima e all'amicizia. Sentivo che lei fosse una parte di me, che fossimo entrambi uniti da una mega calamita. Che senza di lei, la mia vita non aveva senso. Una parte necessaria per svolgere tutte le funzioni vitali. Il nostro rapporto funzionava proprio come i polmoni: uno senza l'altro faceva fatica a vivere. Dopo quella vicenda ci perdemmo nuovamente.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

L'esame di terza media lo vissi con tranquillità e con fierezza. Era la fine di un breve ma intenso percorso di studio ed era il mio primo esame. Era composto da tre parti: un compito di italiano, uno di matematica e, infine, una prova orale. Superai gli scritti eccellentemente, mentre negli orali entrai in agitazione, tuttavia riuscii a cavarmela. Ebbi nove come voto, un buon traguardo. Ricordo che il presidente di commissione mi venne incontro e mi elogiò magnificamente. Mi chiese cosa volevo fare dopo la licenzia media e io risposi che ero indeciso tra liceo classico o scientifico. Lui mi consigliò il liceo scientifico vista la mia ricca conoscenza e bravura nei calcoli, nella logica e nell'apprendimento di metodi scientifici. Mi indirizzò in un liceo nel centro storico di Napoli, il Liceo scientifico Mercalli.

“E' una prestigiosa scuola in cui vanno studenti e studentesse molto bravi e diligenti”

Accettai il consigliò, riflettei per tutta l'estate su quel liceo e la cosa mi fece paura. Quella frase - è una prestigiosa scuola in cui vanno studenti e studentesse molto bravi e diligenti – provocò in me una reazione di spaesamento. Avevo paura di non essere all'altezza, di non essere bravo come gli altri, di essere sottovalutato solo perché provenivo da una famiglia povera che abitava in un posto oscuro, di poter essere antipatico ai professori, della loro severità.

Quell'estate mia madre vinse una buona somma di denaro al bingo. Ottenne circa un milione di lire. Decise, con mia grande sorpresa, di portarci in vacanza fuori da Napoli. Mi chiese se volevo portare con me Elena, ma in un primo momento rifiutai. Successivamente riflettei a lungo su quella richiesta: sarebbe stata un'opportunità per riallacciare i rapporti Così una mattina mi recai a casa sua – non era andata a lavoro. Percorsi la stessa strada, salii le stesse scale sporche e maleodoranti, salutai Nando che pelava delle patate e giunsi infine nella sua stanza, piantato sulla soglia della porta.

“Giovà, che paura che mi hai fatto” esclamò alzandosi dal letto spettinata.

“Ti devo fare una richiesta” le dissi tutto di un fiato.

“Vuoi qualcosa di soldi? Non ne ho, mi dispiace” ironizzò.

Le spiegai tutto: che mia madre aveva vinto al bingo una buona somma di denaro, le dissi, e che voleva portarci in vacanza. Le chiesi se voleva venire con me e che mi avrebbe fatto molto piacere. Lei borbottò qualcosa di incomprensibile, di un napoletano stretto e antico. La pregai di ripetere ciò che aveva mormorato. E lei con la crudeltà che la caratterizzava disse:

“Giovà, qua non ci sono soldi! Dopo chi lo aiuta a papà? La madonna?”

Restai lì a fissarla senza né parlare e né andare via.

Nel frattempo lei sistemava dei fogli sulla scrivania della sua cameretta. Mi avvicinai e frugai con lo sguardo il contenuto di quei fogli

“Cosa sono?” chiesi

“Disegni”

“Che disegni?”

“Di tua madre” e aggiunse una risata.

Era solita ironizzare in questo modo, citando nei suoi discorsi i familiari degli altri. Ma si accorse che non sorridevo come lei per quella battuta di poco gusto.

“Sto scherzando, sono vestiti”

“Che vestiti?”

“Ti ho detto che da grande voglio fa la stilista. Mi sto preparando da mo”

Mi fece osservare tutti quei vestiti. Erano modello estivo e autunnale, molto carini ma allo stesso tempo infantili. Scrutinavo quei schizzi con molta attenzione e quando le facevo una critica lei mi diceva o che non ero buono o che non mi intendevo di moda. Tra quelli, uno mi colpì particolarmente. Un abito rosso con i fuori gialli e molto corto: era l'abito che indossava Teresa quando partorì Elena.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8

Partimmo il 7 luglio 2000 da Napoli. La nostra destinazione fu la Calabria, in un campeggio munito di ben tre piscine e un mare cristallino. Era situato nella costa sud – occidentale, sulla riva del mar Tirreno. Elena si decise e venne con noi. Il villaggio era organizzato in numerosi bungalow, molto spaziosi e ariosi. La padrona del villaggio ci spiegò che il frigorifero era vuoto e bisognava recarsi al supermercato del paese per munirlo. Mia madre, non essendo mai andata in un campeggio, si lamentò molto dicendo che lei aveva pagato anche per il cibo, per rilassarsi, invece doveva fare la spesa e doveva pure cucinare. Su indicazione della padrona, una signora non troppo anziana, raggiungemmo una trattoria sempre nel villaggio. Ci accomodammo titubanti e mangiammo velocemente. Mia madre si complimentò con la cuoca per l'ottimo cibo. Successivamente ci dirigemmo nel bungalow: mia madre e mia sorella sistemarono le valigie e pulirono mentre Elena ed io calammo in spiaggia. C'erano molti ragazzi calabresi e pugliesi. Di napoletani, invece, non ce n'erano. Ragazze indossavano costumi nuovi molto colorati e, per farsi notare dai ragazzi, mettevano il seno in rilievo. Io portavo il solito costume di tutti gli anni che mi andava molto stretto mentre Elena un costume di sua madre che le andava largo. Infatti nella parte inferiore il sedere non si vedeva, uguale nella parte superiore in cui il suo piccolo seno era scomparso. Si buttò in acqua e iniziò a nuotare tra le onde del mare, che in quella giornata era abbastanza agitato. Nuotava, andava sott'acqua, schizzava, rideva, si bagnava i capelli. Non l'avevo mai vista così contenta. Sembrava una rondine guarita e libera nel cielo celeste e limpido. Improvvisamente la sua faccia s'impallidì. Mi alzai dalla sabbia e le feci cenno si tornare in riva. Ritornò con gli occhi spalancati mantenendosi sotto. Aveva le mani rosse, di rosso erano anche entrambe le gambe.

“Ma che è successo?” chiesi impaurito


“Mi sono venute”

“Cosa?”

“Le mestruazioni”

“Cosa sono?”

Non mi rispose, si affrettò nel prendere l'asciugamano dalla sabbia e se l'avvolse attorno. Per fortuna gli altri ragazzi non videro quella scena. Non stavo capendo cosa stesse succedendo e non sapevo cosa fossero le mestruazioni. Temei per la mia amica: cos'era tutto quel sangue? Sta morendo? Si è ferita? Dobbiamo portarla all'ospedale? Iniziai ad agitarmi e lei se ne accorse. Mi tranquillizzò dicendo che era normale e che tutte le donne lo avevano.

“Mia mamma e mia sorella no”

“Pure loro lo hanno, altrimenti come sei nato?”

“Non l'ho mai viste col sangue”

“E' normale, loro si nascondono. E' una cosa intima delle donne, mica te lo vengono a dire a te”

Tornati nel bungalow, mia madre capì subito cosa fosse successo e la portò nel bagno dicendomi di aspettare fuori la mia amica. Così feci.

Dopo che uscì dal wc, era di nuovo come prima ma con un nuovo costume. Festeggiai la sua pronta guarigione ed ero pronto per andare di nuovo al mare quando lei mi fermò.

“Non posso andare ora al mare”

“Perché? Non ti senti bene?”

“Ho il ciclo, sono diventata signorina. Ora posso fare i figli”

Il giorno successivo passeggiammo sulla spiaggia, mano nella mano come due fidanzati. Parlammo di tante cose che adesso non ricordo bene. Il sole splendeva nel cielo e l'aria era pesante e calda. La sera ero così bruciata che mi sembrò di avere la febbre.

Una sera – il 12 luglio se non ricordo male – facemmo amicizia con dei ragazzi pugliesi: Luca, Alessio, Marta e Claudia. Avevano qualche anno più di noi ed erano molto divertenti. Simpatizzai con Luca, un ragazzo alto, biondo e fisicamente ben messo. Andava al secondo liceo scientifico ed era molto intelligente. Parlammo per ore e ore sul bordo della piscina del più e del meno; io gli esposi i numerosi libri letti nel corso degli anni e sfoggiai la mia ottima preparazione in tutte le discipline scientifiche. Lui ammirava ciò che dicevo e acclamava la mia preparazione: future vetture spaziali, improvvise collisioni di asteroidi sulla terra, esistenza degli alieni, presenza di mondi come il nostro, lo sviluppo della genetica, il problema dell'aumento della popolazione. Avevo perso di vista Elena, l'ultima volta che la vidi era vicino al bar della piscina che beveva un'aranciata con le altre due ragazze. Alessio, invece, ritornò nel suo bungalow costretto dalla madre. Il dialogo tra me e Luca passò ad altro. Mi chiese se fossi fidanzato ma risposi di no.

“Io, invece, mi sono lasciato da poco”

“Come mai”

“Vivevamo troppo lontani”

Mi fece cenno di alzarmi per andare a prendere una cola al bar, dove stava anche Elena, Marta e Claudia. Nel tragitto continuammo la conversazione. Dissi:

“Io ho provato solo una volta nella mia vita a dare un bacio, ma non mi è piaciuto”

“Ah, con chi”

“Con Elena, la mia migliore amica”

“Perché non ti è piaciuto”

“Non lo so”

Arrivammo al bar. Ordinò due cole: una per me e una per lui. Ritornammo nuovamente nella postazione di prima.

“Stavamo dicendo” riprese il discorso

Gli feci un riepilogo di ciò che ci eravamo detti poco prima e che evidentemente aveva dimenticato. Poi prese lui la parola:

“Sai, a volte mi manca: le sue labbra, i suoi occhi, le nostre carezze”

“Descrivimela” chiesi io

“Non è una lei... è un lui”

Quella frase mi spiazzò, non riuscivo a capire: perché aveva detto non è una lei... è un lui? Attualmente ho molta più consapevolezza, ovvero che Luca era omosessuale. Ma all'epoca non riuscivo a comprendere un rapporto gay. La mia limitata concezione della realtà, i limitati spazi del rione, della gente in cui abitavo mi impedirono di comprendere sfaccettature della società. “Sai quante cose non so della realtà che mi circonda” pensavo. Lo guardai senza fiatare. Lui mi chiese se andava tutto bene. Io risposi di si, ma qualcosa in me era cambiato. Provavo in quel ragazzo un qualcosa di particolare, che non avevo mai provato prima con nessun altro, nemmeno con una ragazza. Gli guardavo fisso gli occhi, le mani, il petto, la bocca. Dall'imbarazzo, mi alzai a sedere e filai via. Luca fissò i miei movimenti da lontano chiedendomi cosa succedeva. Afferrai Elena per un braccio e la pregai di seguirmi. Lei ordinò, borbottando. Mi rimproverò per averla sottratto da un intensa chiacchierata con Marta e Claudia sulla moda. Io ribattei dicendo che eravamo amici della pelle e che doveva ascoltarmi.

“Che succede?” chiese ora più seria

“Non lo so nemmeno io”

“Allora che cazzo mi hai chiamato a fare?”

“Voglio ritornare a casa”

Mi guardò con ira e poi rise: “Tu mi hai fatto venire qui, mi volevi qui e adesso vuoi andare via? Ma sei scemo Giovà?”

E ritornò di nuovo al bar. Io, invece, me ne andai nel bungalow e mi addormentai vicino mia madre. Il giorno successivo mi sentivo molto depresso. Non volevo uscire dal bungalow e mia madre temé che avessi la febbre. Me la misurò ma notò che ero sano come un pesce. Elena non capiva il mio stato d'animo e avvertì che qualcosa in me non andava.

“Cos'hai?”

“Niente”

“Bugiardo”

“Mi sento strano”

“Come strano?”

“Non lo so”

Volevo ritornare a Napoli, la mia permanenza lì era giunta al limite. Nei giorni successivi uscii dal bungalow contro voglia.

Il penultimo giorno andai sulla spiaggia con Elena e, mentre lei se ne stava con Marta, Claudia e Alessio, restai sulla riva con i piedi immersi nell'acqua salata. In lontananza si intravedeva il sole rosso che tramontava, creando lungo l'acqua una scia rossastra. Il cielo era violaceo e le nuvole erano molto basse, quasi da toccare la superficie dell'acqua. Rimasi a guardare quel clima tranquillo per minuti. Mi trasmetteva serenità e intesa riflessione.

“Ciao” mi sentii dire da dietro.

Mi girai di scatto: era Luca. Mi alzai velocemente. Rimanemmo immobili, l'uno di fronte all'altro. Non parlammo. I suoi muscoli parevano congelati e per un attimo pensò che non l'avessi riconosciuto. Provai un profondo senso di colpa per essermene andato quella sera, sulla riva della piscina dopo quella notizia. Pareva più bello: abbronzato, i capelli ancora più biondi, le spalle più larghe e quasi più alto. Sembrava fossero passati anni dall'ultima volta che lo vidi, ma in realtà trascorsero solo quattro giorni. Iniziò lui:

“Mi accompagni?”

“Dove?”

“A prendere una cola?”

Obbedii.

Mi pulii i piedi imbarazzato e con molta ansia. Non sapevo come comportarmi, non avevo mai avuto una conversazione con un ragazzo. Una volta giunti al bar, ordinò due cole. “Non ho soldi addosso. Dovrei andare alla casetta per prendermi...”

Ma mi fermo dicendo che me l'avrebbe offerta lui. Successivamente ritornammo sulla spiaggia e ci sedemmo sotto un'ombrellone, lui steso su una sdraio mentre io seduto a gambe incrociate sulla sabbia cocente. Iniziai a scusarmi per il mio atteggiamento, per essere stato scortese ad andarmene e che non avevo mai avuto idea che potessero esserci persone omosessuali. Spiegai brevemente la realtà in cui vivevo: nel rione nessuno mai aveva baciato un uomo, erano tutti molto cattolici e ritenevano questa cosa un peccato capitale. Mi vergognai profondamente e temevo di una sua reazione. Pensavo che mi avrebbe riempito di insulti, che mi avrebbe lasciato lì e se ne sarebbe andato. Ma tutto il contrario, iniziò a ridere. Gli si intravedevano i denti bianchissimi e quel sorriso mi rimase impresso. Non ne avevo mai visto uno così bello.

“Non ti devi scusare. Comprendo, anche nel quartiere in cui vivo sono tutti molto limitati. E so anche che tu hai bisogno di aiuto”

Aiuto? Che aiuto? Non riuscivo a spiegare quella frase. Chiesi per quale motivo avessi bisogno di aiuto. Lui disse che era evidente che anch'io fossi omosessuale, lo aveva capito da come lo guardavo, da come guardavo gli altri ragazzi e che, parlando con Elena, aveva constatato che avevo solo amicizie femminili. Inoltre il bacio che avevo dato ad Elena non mi aveva suscitato nulla. Ascoltai quel discorso con confusione. Tutto ciò che diceva era vero, ma facevo finta di non comprendere. Chinai la testa in basso con lo sguardo proiettato verso la sabbia.

“Sai cos'è un coming out?” Dissi di no.

“Il coming out è dichiarare pubblicamente il proprio orientamento. Sai quando lo feci? Quando avevo la tua età. Mi recai un giorno in cucina da mia madre che guardava la TV. Ero deciso e soprattutto ero convinto che io fossi omosessuale. Le dissi che provavo un interesse per un ragazzo. Sai lei che fece?”

“Cosa fece?”

“Si vergognò di me. Diceva che sarebbe diventata la zimbella del quartiere. Provai odio nei suoi confronti. Scappai di casa e fui ospitato da Marta, la mia migliore amica. Però successivamente capì che un figlio lo si ama sempre. Così mi invitò di ritornare a casa. Fui davvero molto felice di quel suo gesto, anche se il nostro rapporto è cambiato. Non la amo più come prima, quella sua reazione mi ferì"

“Tuo padre, invece?”

“Lui è uno stronzo, non sa nemmeno come mi chiamo. Non lo sa e non voglio che lo sappia”

Alla fine di quel discorso, mi alzai per abbracciarlo e lo ringraziai per avermi parlato e perdonato. Andai via.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

Ritornai da quella vacanza molto cambiato: divenni più aperto mentalmente, lessi riviste, iniziai a compiere indagini sul termine omosessualità e l'amicizia con Elena si saldò sempre di più. Cominciai le scuole superiori e mi iscrissi al liceo scientifico Mercalli di Napoli, proprio come suggeritomi dal presidente di commissione all'esame di terza media. La classe era numerosa: 28 ragazzi. Appartenevano tutti a famiglie molto ricche e prestigiose. Facevano a gara a chi avesse più soldi: feste, abiti costosissimi, automobili, orologi. I professori erano tutti severi, soprattutto il professore Gallo, che insegnava matematica e fisica. Aveva ben quattro lauree: matematica, fisica, informatica e ingegneria. Era un uomo alto, ben messo fisicamente e con capelli bianchi folti. Insegnava fisica all'università degli studi di Napoli Federico II. Tutti ne parlavano con alta stima e con devozione, ma allo stesso tempo lo ritenevano il professore più rigido dell'intero liceo. Ricordo che il primo giorno di scuola – l'11 settembre 2000 – chiamò due maschi e due femmine alla lavagna. Tra quelli c'ero anche io. Ci chiese i nomi e ci scrisse due disequazioni alla lavagna. Dovevamo svolgerle di gruppo: maschi contro femmine. Iniziarono le femmine: le due ragazze svolsero con qualche difficoltà l'esercizio che non risultava corretto. Infatti c'era un errore di conto nell'ultimo passaggio:

x – 4 > 5. Il risultato ottenuto da loro fu: x > 1.

Capii subito qual'era l'errore e alzai la mano.

“Ferraro, vuole aggiungere qualcosa?”

“Si, professore. Vi è un errore di conto nell'ultimo passaggio”

Mi avvicinai alla lavagna e aggiustai l'errore compiuto dalle mie compagne che mi guardarono in modo ostile. Il risultato giusto era: x > 9. Spiegai anche il motivo di quel risultato, parlando come un libro stracciato. Il linguaggio matematico mi risultò molto complicato. Il professore disse che mi trovavo e mi pregò di sedermi. Chiesi:

“l'altro esercizio?”

E lui mi rispose:

“me lo risolve il tuo compagno, tu hai già dato.”

Fui molto fiero di me stesso e per quell'intervento, ma sentivo gli occhi addosso di tutta la classe. Il pomeriggio studiavo senza sosta.

Il primo quadrimestre andò abbastanza bene, avevo solo un'insufficienza lieve in latino: cinque. Avevo sempre meno tempo per Elena, che continuava a lavorare nella macelleria. I nostri rapporti erano ottimi, spesso ci telefonavamo, ci vedevamo, giocavamo insieme. Ma solo quando né io e né lei avevamo da fare. Nei lunghi anni di superiori non ricordo granché. Feci amicizia con la mia compagna di banco, Carmen, una ragazza molto carina, alta, capelli neri come la pece e denti bianchissimi. I suoi genitori avevano una villa gigantesca a Posillipo, che affacciava sul lungomare di Mergellina. Una volta mi invitò a casa sua per studiare. La struttura era totalmente in stile moderno e, sul lungo corridoio che faceva da raccordo per tutta la casa, vi erano appesi giganteschi quadri di uomini e donne vestiti in modo molto antico. Lei mi spiegò che la sua famiglia in passato fu molto importante nel settore letterario. Suo nonno fu un politico nel periodo della seconda guerra mondiale e lottò duramente contro il fascismo. Suo padre non era mai presente in casa. Viaggiava in tutta l'Europa per congressi, lavori, convegni, assemblee. Era uno dei più importanti ingegneri d'Italia. Aveva collaborato nella realizzazione della costruzione di numerosi edifici in Francia, Spagna, Finlandia e persino in Arabia Saudita. La madre, invece, era una scrittrice di romanzi. Aveva pubblicato ben otto libri e col passare del tempo ottenne un pubblico molto vasto. Anche lei non era mai in casa: infatti era anche proprietaria di una casa editrice a Piazza Medaglie d'Oro, al Vomero.

Ricordo che una sera sia il padre che la madre di Carmen mi invitarono a cena in un prestigioso ristorante a Mergellina, vicino la villa comunale. Non ero mai stato in quei luoghi così raffinati e, soprattutto, non ero mai stato con persone così eleganti sia nello stile e sia nei modi. Mangiai tantissimo, anche perché approfittai che me lo avrebbero offerto i genitori della mia amica. Parlai a Diana, madre di Carmen, della mia passione per le scienze e per l'astronomia. Lei mi chiese se avevo qualche idea di cosa volevo fare dopo il liceo, ma risposi vagamente. Non ero ancora preparato per quel mondo.  

“Mia figlia di sicuro farà giurisprudenza” Ma vedevo negli occhi di Carmen non tanta allegria per quella facoltà. Infatti odiava giurisprudenza, ma i suoi genitori la obbligarono a compiere quel percorso visto che la maggior parte della famiglia era composta da avvocati e giudici.

Finita la cena, mi riportarono a casa con una Toyota Prius. Nel rione guardarono quell'auto come fosse un'astronave aliena. C'era chi commentava, chi urlava insulti, chi sputava a terra nel passaggio della vettura. Mi vergognai profondamente e Diana se ne accorse. Mentre scendevo mi disse quasi sussurrando:

“Non è il luogo che caratterizza una persona”

Mi commossi per quelle parole, feci un sorrisetto e filai nel palazzo.

 

Il mio compleanno capitava di Giugno. Il compleanno è un giorno in cui le persone smettono di essere falsi e ti scrivono cose del tipo ti voglio bene, sei speciale. Non avevo mai organizzato una festa di compleanno, ma nel periodo del secondo superiore mia madre decise di organizzarne uno a casa. Si impegnò molto nel cucinare, preparare e organizzare tutto. Invitai Elena, Carmen e tutti i miei compagni di classe. Ero molto nervoso perché non mi piaceva stare al centro dell'attenzione. Inoltre mia madre mi obbligò ad indossare una giacca di pelle. Sudai come un maiale anche perché per via della stagione calda. L'orario della festa era alle otto. Elena era rimasta con me già dal mattino per aiutarmi nell'organizzazione. Quando l'orologio scoccò le otto in punto, il campanello suonò per tutta la casa. Corsi ad aprire il portone in legno che separava l'appartamento dal resto del piano ma mi accorsi che c'erano soltanto Carmen e Michele, un nostro compagno di classe. Chiesi dove fossero gli altri ma mi risposero che nessuno poteva venire. Tutto il mondo mi crollò da sotto ai piedi. Volevo annullare tutto e andarmene, mia madre mi vide molto abbattuto e mi consolò dicendomi che i ricchi erano gente di merda, non importandosene di Carmen e Michele. Ma quelle parole non mi consolarono, anzi peggiorarono la situazione. Ma fu Elena ad rallegrare la situazione. Si avvicinò alle casse della musica e selezionò una canzone che ad entrambi piaceva.

“Gli amici sono la famiglia che ti scegli”

disse prendendomi le mani e muovendole a suon di musica. Accennai appena un sorriso e l'abbracciai. Le feci conoscere Carmen e Michele, andò subito d'accordo con entrambi. Dopo la musica, mia madre ci fece mangiare un panino con hamburger e patatine, qualche rustico e infine la torta. Michele e Carmen andarono via verso le undici mentre Elena restò a dormire da me. Da quel giorno odiai profondamente i miei compagni di classe. Non volevo che quelle brutte persone facessero parte della mia vita. Ci rimasi altamente male per quel loro gesto. Mi starete chiedendo perché ci rimasi male. Tempo dopo l'inizio del terzo liceo, verso la fine di settembre, scoprii che era tutto organizzato. Tutti pianificarono quell'assenza al mio compleanno per via dell’odio e dell’invidia nei miei confronti.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

Avevo sempre odiato il capodanno. Mia madre diceva che era la festa in cui si verificavano più morti ed era vero. Già da qualche tempo nacque una sfida di potere tra la famiglia Cirillo e la famiglia Ruggiero. Come successo due anni prima, la famiglia Cirillo organizzò una festa in cui invitarono tutto il rione, eccetto i Ruggiero, questa volta a casa loro per festeggiare l'arrivo dell'anno 2002. Tutto il rione collaborò nelle compere degli alimenti, nell'allestimento della tavola e nella preparazione dei pasti. La mattina del 31 dicembre era solito che le madri mandavano i figli a fare la spesa. Elena ed io ci incontrammo a mezzogiorno sotto al mio palazzo e ci dirigemmo verso il supermercato, nel rione nuovo. C'era una marea di gente proveniente non solo dal rione ma anche da Fuorigrotta e Bagnoli. Attendemmo due ore di fila e, verso le tre del pomeriggio, ritornammo a casa. Don Matteo Cirillo ci accolse con grande cordialità, anche se era evidente la sua depressione. Il viso era pallido e i capelli bianchi non erano al loro solito posto. Non si presentarono tutte le famiglie del rione, ma la cosa non dispiacque la famiglia Cirillo. La cena fu squisita, anche se mangiammo molto scomodi. Infatti la casa era molto grande, ma non poteva contenere troppe persone. Io mi sedei vicino ad Elena che rideva a crepapelle con Anita su fatti imbarazzanti durante i suoi rapporti sessuali. Parlavano del pene maschile con ironia e la cosa mi diede ribrezzo. Scattata la mezzanotte e fatto il consueto brindisi di inizio anno, tutti i ragazzi, accompagnati dai loro genitori, scesero di giù per sparare i fuochi d'artificio. Poiché mio padre non era presente, dissi a mia madre che sarei sceso con Nando. Lei sembrò tranquilla. Gli adulti erano tutti ubriachi, compresa mia madre che iniziò a ridere senza alcun ritegno raccontando alle altre donne momenti imbarazzanti della sua vita. Il rione, visto dal basso, sembrava un grosso cimitero oscurato dalla nebbia, a causa della polvere da sparo. In un momento mi venne in mente quando andai in uscita scolastica alla solfatara, in mezzo a quei fumi che emanavano un odore sgradevole, simile a quello delle uova marce. Intorno a me vedevo ragazzi e bambini felici che sparavano ogni tipo di botto. Il cielo di tutta Napoli fu squartato dalle esplosioni, la quiete fu spezzata dal rumore e l'odore fu inquinato dalla polvere da sparo. Tutto divenne nitido: i palazzi, gli alberi, le auto scomparirono e al loro posto intervenne una fitta nebbia bianca. Restai sulla soglia del portone d'ingresso del palazzo per qualche istante a vedere quella scena. Elena non c’era , ma solo Nando che aiutava gli altri bambini con le stelline. Mi guardai intorno e finalmente la vidi seduta per terra sulle scale della macelleria, posta di fronte al palazzo dei Cirillo. Temevo per la sua vita, dovevo metterla a sicuro come fece lei in passato quando mi difese dai Ruggiero. Attraversai lo stradone e la raggiunsi, ma lei mi respinse. Voleva starsene lì seduta ad osservare i fuochi che esplodevano nel cielo, ai bambini divertirsi e a pregare per sua madre. Non replicai. Appoggiò la testa sulla mia spalla e mi strinse forte la mano. Accanto al palazzo dei Cirillo, giunse la famiglia Ruggiero con tre pacchi di fuochi. I due fratelli, in compagnia di altri familiari, iniziarono a sparare senza sosta e a gareggiare contro i Cirillo e gli altri del rione. Elena ed io eravamo disposti di fronte a quella battaglia di spari, come se fossimo due giudici pronti a proclamare il vincitore di quello la gara. Questo era certo: i fuochi dei Ruggiero erano più belli.  

“Ad ogni capodanno cerco sempre un luogo rumoroso per pregare mia madre. Lo faccio da quando è morta”

La guardai di scatto e le sue labbra sibilavano un padre nostro con le mani congiunte. Quella gara fu interrotta da un grido disumano proveniente dal palazzo dei Cirillo: Elena si alzò dalle scale della macelleria e accorse, senza fregarsene dei detriti che cadevano dal cielo, dall'altra parte del marciapiede. Un bambino era stato ferito gravemente al volto. Sanguinava dal naso e sul lato sinistro della faccia aveva una profonda ferita. Nando e il signor Ciompi portarono il bambino in ospedale. Si salvò. Di quella notte, di festa e pericolo, mi rimase impresso il volto di Elena mentre pregava. Non mi aveva mai detto che dopo la morte di Teresa, pregava ad ogni capodanno. Inoltre non mi spiegavo perché andava alla ricerca di luoghi rumorosi. Questo, ancora oggi, rimane uno dei tanti misteri che avvolgeva la figura di Elena Esposito.

Quando avevamo sedici anni, una notizia ci colpì particolarmente: il suicidio di Don Matteo Cirillo. Era quasi il tramonto quando Don Matteo si recò con la sua Ford Ka sul molo del porto di Pozzuoli. Quel mattino, infatti, aveva detto ai suoi familiari che sarebbe partito per Milano per alcuni lavori e che avrebbe passato la notte fuori casa. L'uomo aveva debiti fino al collo e tutte le sue ricchezze erano scomparse in seguito all'incendio che coinvolse la fabbrica di droga, situato nei pressi di Nola. Si fece prestare molto denaro per salvaguardare la posizione di nobile ricco nel rione. Erano le sette di sera quando aprì il portiera della vettura e si accostò al mare amareggiato per il forte vento. Le onde che si infrangevano sul molo creavano una schiuma biancastra e il vento forte schizzava gocce di acqua sul volto dell'uomo, in procinto di buttarsi. Estrasse una pistola dalla giacca di seta blu e se la puntò alla tempia. Uno sparo e pose fine alla sua vita. Il suo corpo cadde nel mare in burrasca. Di seguito il suo corpo fu trasportato sulla spiaggia di Miseno. Fu ritrovato sulla riva da dei marinai che lo soccorsero e lo portarono all'ospedale inutilmente. Era morto. La notizia si diffuse nel rione. La sua morte non stupì nessuno di quelli che gli erano affezionati. Il suicidio di Don Matteo fu accolto positivamente, senza nessun dramma o scenata da parte né della famiglia e né delle sue numerose amiche. Oramai tutti sapevano che il poveretto era zeppo di debiti ma lo illudevano e lo facevano vantare che fosse ricco e che la sua fosse la famiglia più ricca del rione e di Napoli. Dopo il funerale mi angosciai molto sul significato di morte. Dov'è adesso Don Matteo? Posi questo interrogativo a Elena, la quale si mostrò molto indifferente per la notizia. Diceva che se lo meritava e che adesso la famiglia Cirillo avrebbe finito di fare i signori col sudore altrui. Era momento di alzare le maniche e andare a lavorare. Diceva quelle cose con molto odio e astio. Mi spaventò il suo linguaggio, i suoi occhi arrabbiati, per i modo in cui gesticolava.  

“Perché sei così cattiva?”

“Sei tu troppo buono, qua se non sei cattivo non vai da nessuna parte”

Elena diceva che ora l'anima di Don Matteo era all'inferno, tra le fiamme ardenti e lacerato e squartato da lame affilate. La sua anima doveva affrontare quelle torture per l'eternità e che non aveva via di fuga. Chi commette peccati in terra deve pagarli all'inferno. Lo diceva persino Dante Alighieri della Divina Commedia. Quelle parole mi turbarono e me ne andai. Raccontai quell'evento a Carmen che si mostrò molto comprensiva. Diceva che nessuno doveva morire in quel modo e che aveva sbagliato ad uccidersi, solo i codardi lo fanno.

Dal quarto liceo il rapporto mio e di Carmen andò oltre l'amicizia.

Una sera stavamo studiando biologia sul terrazzo di casa sua. Studiavamo la riproduzione sessuale quando di punto in bianco iniziò a toccarmi sotto con le dita dei piedi. La guardai imbarazzato e le sorrisi. Le dissi che c'erano i genitori a casa e che non era il momento. Lei si alzò dalla sedia e si sedé sulle mie gambe e iniziammo a baciarci appassionatamente. Ci fidanzammo e rendemmo ufficiale la cosa: i suoi genitori erano molto felici. Ma la persona più felice di tutti era mia madre che già pensava ad un eventuale matrimonio con una donna ricca come Carmen. Si vantava con tutti per il mio legame con la figlia di un ingegnere che viveva a Posillipo, luogo sempre invidiato da tutte le donne del rione. Presto la portai a conoscere i miei suoceri. Era abbastanza turbata perché non sapeva come comportarsi di fronte a signori di alta fama. Ma presto si mise a suo agio e parlò soprattutto con Diana, la madre di Carmen. Elena, invece, mi trattò con freddezza. Non capivo quel suo comportamento e mi fece molto male. Le chiesi cosa le prendeva. Aveva paura che mi sarei sposato con quella e che non l'avrei mai più considerata. Quella paura mi giovò e ne rimasi felice perché ci teneva a me, ma allo stesso tempo vederla soffrire mi rattristiva. Diceva che era gelosa, ero la sua unica famiglia, non voleva perdermi, iniziò a maledire quella signora del cazzo di Carmen. La conversazione terminò con una difficile scelta: continuare l'amicizia con lei o l'amore per Carmen. In effetti quello per Carmen non lo chiamavo amore, ma solo interesse. Mi piaceva perché era una ragazza molto bella ma non provavo le cosiddette farfalle allo stomaco. Ma soprattutto quando voleva fare sesso con me, svincolavo. Al quinto liceo, diventammo la coppia più invidiata dell'intero Mercalli: io ero bellissimo, denti bianchi, con un bel fisico nonostante non facessi nessuno sport, capelli ricci molto folti e lei capelli neri, un po' più bassa di me, magra e soprattutto ricca. Scoprii che ero amato da tante ragazze del liceo, anche di classe nostra. La notizia del nostro fidanzamento giunse anche ai professori. Lo capimmo quando un giorno il professore Gallo ci chiamò entrambi alla lavagna e ci fece disegnare un grafico. L'equazione era

(x2+y2-1) 3 – x2 y3 = 0

Carmen non riuscì a svolgere l'esercizio mentre io si: dal grafico sbucò proprio un cuore. Guardai il professore con occhi imbarazzati mentre lui se la rideva sotto ai baffi bianchi. Poi con un'ironia mai vista prima urlò

“Viva i piccionncini”

In cinque anni di liceo, non avevo mai visto il professore Gallo così ironico. Mi chiamò persino per nome, cosa mai successa a nessuno dei suoi alunni. Preferiva avere le distanze e chiamare i suoi studenti per cognome.

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