Writober 2019

di HellWill
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Plant ***
Capitolo 2: *** Weather ***
Capitolo 3: *** Moon ***
Capitolo 4: *** Failed science experiment ***
Capitolo 5: *** Demon ***
Capitolo 6: *** Instrument ***
Capitolo 7: *** Sweets ***
Capitolo 8: *** Element ***
Capitolo 9: *** Fear / Phobia ***
Capitolo 10: *** Manmade material ***
Capitolo 11: *** Rock ***
Capitolo 12: *** Music ***
Capitolo 13: *** Toxic ***
Capitolo 14: *** Missing feature ***
Capitolo 15: *** Super power ***
Capitolo 16: *** Glow ***



Capitolo 1
*** Plant ***


01 ottobre 2019
P L A N T
 
Un risveglio tranquillo l’aveva accolta quel mattino. Sua madre le aveva sfiorato il viso con i capelli, come per farle il solletico, dopodiché si era spostata per farle prendere quanto più sole possibile, in quel giorno di primavera così frizzante e promettente. 
Eppure, le sue zie sussurravano; qualcosa stava per accadere, come prima di una tempesta, ma forse peggio. Sua madre lasciò la propria corteccia per venirle incontro e fuggire, scappare, ma dove mai avrebbero potuto andare? E insieme alle zie si strinsero tutte, tutte loro ninfe di quel boschetto dimenticato da tutti. 
Ma a quanto pare qualcuno ancora ricordava che lì c’erano degli alberi, e a nulla valsero le loro grida disperate e i solchi scavati nelle loro pance ad ogni colpo d’ascia, a nulla valsero i pianti e i corpi di quelle creature un tempo così delicate e che ora già si dissolvevano, come pozzanghere che il terreno assorbiva dopo un giorno di pioggia. 
Solo lei restò con la corteccia intatta: era un albero troppo giovane, e con il tempo avrebbe generato altri alberi. 
Questo era il suo destino.
Quello era il disegno.
Restò sola, inginocchiata fra le radici di coloro che aveva conosciuto, e quasi desiderò scomparire in esse per sempre.

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Capitolo 2
*** Weather ***


02 ottobre 2019
W E A T H E R
Ci aveva messo poco, in realtà, a capire che qualcosa non andava con il tempo atmosferico. Sin da piccolo, quando era triste pioveva e quando era allegro il sole non mancava. Ma aveva sempre dato per scontato che le cose andassero così per tutti, dato che nel villaggio sembravano scontenti quando pioveva e felici se c’era il sole, il tutto con poche eccezioni. 
Eppure, un giorno gli scappò qualcosa con sua madre.
«Oggi c’è il sole, ma non sono sicuro di essere felice» le disse, e lei lo guardò interrogativamente, come se quella notizia le giungesse nuova. «Sai, quando sono felice c’è sempre il sole» e la mamma sorrise scuotendo il capo: 
«Che sciocchezza, non c’è certo il sole perché sei felice».
Un tuono in lontananza interruppe il loro discorso, e il bambino fece una smorfia. 
«Lo sapevo che non ero davvero contento… ora verrà a piovere» borbottò.
La madre restò impressionata dalla coincidenza, ma non disse nulla. 
Gli anni passarono: la madre testò il potere del figlio, assegnandogli compiti a lui sgraditi ed osservando la reazione del cielo, e ogni volta che il suo umore cambiava così faceva anche il tempo. Spaventata, lo confessò al marito, che lo disse al capovilaggio, che lo disse al vecchio saggio. 
«E così» esordì quest’ultimo «tu puoi controllare il tempo atmosferico?».
Il ragazzino annuì piano.
In breve fu organizzata una pira.
«Per cos’è?» chiedeva il ragazzino, legato ad un palo lì vicino. 
«Per far caldo» rispondevano gli uomini che portavano le fascine, ridendo. 
Ma la pira non era per far caldo; era per il ragazzino che controllava le nuvole, e che presto non avrebbe più controllato nulla e mai sarebbe diventato un uomo.

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Capitolo 3
*** Moon ***


03 ottobre 2019
M O O N
Scappare, scappare, correre. Non importava dove, non importava come, doveva scavare, fuggire da quella fossa nel terreno. Disperato gemette, e infine lo accolse l’aria fresca della notte: i suoi polmoni la risucchiarono avidamente, tossendo e respirando convulsamente, e subito dopo senza neanche darsi un attimo di tregua, il ragazzo scappò nudo per la campagna, nascosto dalle spighe di grano alte fino al suo petto.
E mentre correva piangeva: la sua famiglia lo credeva morto, i suoi amici anche, e persino il suo branco lo reputava bello che ammazzato… non aveva più niente. Più nessuno. Nulla che lo attendesse, in alcuna casa calda con un fuoco e della zuppa, e nulla che valesse la pena ricordare: farlo significava solo soffrire per ciò che aveva perso. 
Il peso nel petto che lo stava facendo piangere lo spinse a fermarsi senza fiato nel mezzo del nulla: delle fatine sussurravano fra le chiome di un paio d’alberi costeggiavano la stradina che serpeggiava fra le spighe, i grilli frinivano, e c’era un odore di estate così familiare che scoppiò a piangere rumorosamente, come un bambino. 
Il branco lo aveva messo all’angolo, decapitato, sgozzato, e infine ammazzato e abbandonato dopo che sua sorella era morta durante i loro esperimenti malati. Ma lui non era morto, nonostante tutto. Era un mannaro, ora: e questo voleva dire che per morire ci voleva qualcosa di più di una semplice coltellata. Quasi lo rimpiangeva: almeno non avrebbe dovuto vivere con quel peso. Almeno non avrebbe dovuto continuare a camminare da solo, verso l’ignoto, con il pensiero di non essere riuscito a salvare sua sorella, con solo la luna a far da testimone a quella notte.

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Capitolo 4
*** Failed science experiment ***


04 ottobre 2019
F A I L E D   S C I E N C E   E X P E R I M E N T 
«Cosa ne facciamo ora?».
La voce maschile era profonda e preoccupata, mentre la femminile che le rispose era più seccata che altro:
«La buttiamo in una fossa fuori la città, mi pare ovvio». 
Da un angolo veniva un pianto a singhiozzi, come quello di un bambino. Rumore di qualcosa che sbatteva contro del ferro, forse un calcio dato a delle sbarre.
«Piantala di piangere, cosa sei un bambino?» un’altra voce maschile, più untuosa e ringhiata, esortò quel qualcuno a smettere di piangere.
«L’avete uccisa, l’avete uccisa» mormorò la voce proveniente dall’angolo: sembrava effettivamente quella di un ragazzino, non più di quattordici o quindici anni, ma lei non poteva vederlo. Non poteva più vedere nulla, in effetti.
Il corpo della bambina giaceva senza vita sull’altare sconsacrato di un vecchio tempio dedicato ad Ayana. Al ragazzino sembrava ironico come un luogo un tempo dedito alla vita, ora fosse teatro di una tragedia così grande: la bambina era morta, ed era solo colpa sua. 
Aveva rigettato il veleno di mannaro, e per questo aveva attirato l’attenzione del suo branco: formato da soli mannari – volpi, lupi, orsi – che volevano guarire da quella che consideravano come una “maledizione”. Se una bambina non diventava mannara, allora voleva dire che dentro di lei c’era la cura. Tutti insieme l’avevano rapita, sgozzata, ne avevano bevuto il sangue e mangiato le interiora, ma nulla in loro era cambiato. E ora il suo corpicino martoriato giaceva immobile lì ad occhi spalancati, perché nessuno aveva avuto la decenza di chiuderglieli. 
L’esperimento era fallito.
«Tanto farai la stessa fine fra poco, datti poca pena» rispose la voce della donna, acida. «Liberiamoci di lui».
E la bambina continuò a fissare con i suoi occhi vacui il soffitto del tempio, senza poter più sperare in un futuro migliore per suo fratello.

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Capitolo 5
*** Demon ***


05 ottobre 2019
D E M O N
Era un giorno invernale gelido: un vento infido si infilava sotto i vestiti pesanti della ragazza, che però camminava stoicamente imperterrita attraverso la neve, nonostante i piedi fasciati da garze ormai sanguinassero per il ghiaccio che le aveva lacerato la pelle. Sin da quando potesse ricordare c’era stata dentro di lei quella determinazione costante, quel fuoco di rabbia continuamente alimentato da una vocina che gli diceva di uccidere, uccidere, uccidere; eppure farlo non le provocava alcun piacere, ma solo altra rabbia per aver ceduto a quell’istinto. 
Oh, ma ora l’avrebbe fatta pagare a se stessa: si sarebbe fatta impiccare, come strega o quel che dir si voglia. 
Quando arrivò al villaggio era l’alba, e la neve si era accumulata sui tetti pigramente durante la notte; eppure nonostante fosse appena finita la notte già c’erano dei camini fumanti che promettevano tepore. 
Bussò ad una casa, con i capelli scuri bagnati e il resto del corpo tremante come una foglia d’autunno; quando qualcuno le aprì, la pelle pallida era ormai di una strana sfumatura violacea. 
«Per gli déi, entra, scaldati».
Erano le prime parole che sentisse dire da qualcuno in settimane, e aveva altrettanta fame di parole e calore quanta di cibo. 
«Se ti dicessi chi sono, non mi offriresti ospitalità» mormorò lei, con i denti stretti dal freddo. 
«Sono solo un uomo con una casa calda» rispose lui gentilmente, e la invitò ad entrare con un gesto.
In breve lei gli sciorinò tutta la propria storia; lui le offrì altra zuppa in silenzio, provando pena per lei, ma la moglie stette ad ascoltare, scosse il capo, si infilò la cappa di lana pesante ed uscì di casa. 
Presto tutti gli uomini del villaggio furono fuori la porta, e le legarono una corda al collo mentre la portavano via. L’uomo la seguì, trovando in qualche modo ingiusta la condanna: si mise in testa al corteo silenzioso che portava via quella ragazza infreddolita, vicino l’albero più alto del villaggio, e quando lanciarono la corda sul ramo più basso e robusto per impiccarla, lui voltò il viso per non guardare in momento in cui i suoi piedi sanguinanti si sarebbero sollevati dalla neve.
«Ultime parole?».
«Non posso pulire la mia coscienza, sono diversa dagli altri. Ma dovrei forse scappare e nascondermi? Non ho mai detto di volere questo demone che mi possiede da quando sono nata, questo fardello è venuto da me e ha fatto di me la sua casa. Uccidetemi, prima che vi uccida tutti».
Detto questo, tre uomini la sollevarono di peso per la corda e un quarto la picchettò al terreno, così che la sua agonia non venisse interrotta dalla stanchezza di nessuno.

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Capitolo 6
*** Instrument ***


06 ottobre 2019
I N S T R U M E N T
«Desidererei comprare uno strumento». 
L’uomo gli sorrise, e incrociò le mani sul bancone. 
«Dipende da cosa ha bisogno, milord. Ne desidera uno forte, o uno più delicato? Le posso fornire il migliore repertorio in città, su questo non ho dubbi».
«Ne volevo uno delicato, che incanti chiunque con i suoi arpeggi. È per mia figlia, sa… Ovviamente ho qualcuno che lo curerà con le massime attenzioni».
«Allora credo proprio che una Lira le andrebbe bene. La guardi: è piccola, facilmente portabile ovunque, molto adattabile a chiunque e specialmente adatta per i bambini… Ha una musicalità meravigliosa, un’ampia scala di arpeggi e soprattutto ha poca necessità di essere corretta, in quanto ha carattere dolce e mite. Allora, che ne dice?».
Il cliente studiò lo strumento, poi annuì soddisfatto. 
«La prendo».
Pagò, ed uscì con la schiavetta – non più di quattro anni per gamba – che incespicava a piedi nudi nel nevischio.

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Capitolo 7
*** Sweets ***


07 ottobre 2019
S W E E T S
Un giorno il figlio stupido di una famiglia povera era a raccogliere legna secca nel bosco. Si era portato dietro il pranzo, ma tanto era goloso che entro mezzodì aveva già finito tutto, e cercando bacche edibili per continuare a mangiare aveva smarrito il sentiero.
Fortunatamente, vagando nel bosco tutto il giorno, incappò in una casetta; era brutta e decrepita, e sembrava abbandonata, ma essendo ormai quasi buio si arrischiò a bussare per ottenere ospitalità. 
Gli aprì una vecchina assai confortante d’aspetto: bassa e tozza, con il viso colmo di rughe che esprimevano dolcezza ed allegria, appena sentì che il giovanotto si era smarrito subito lo invitò ad entrare. 
«Ho appena sfornato questi deliziosi dolcetti, amo mettermi davanti al camino la sera con questi a leggere un buon libro! Ma tu sei infreddolito e spaesato, mangia pure mentre preparo qualcos’altro!».
E così il bimbo si mise a mangiare, goloso com’era, e finì tutti i biscotti; ma non passò molto che la vecchina gli offrisse qualcos’altro, e qualcos’altro ancora, sempre dolcini ben gustosi che lo tenevano lì a mangiare volentieri.
Si organizzarono battute di ricerca, fu ritrovato il suo sacchetto vicino al confine; ma nessuno udì più voce di quel bambino scomparso nel territorio dei goblin.

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Capitolo 8
*** Element ***


08 ottobre 2019
E L E M E N T
Era tanto tempo che era vivo; non riusciva a ricordare un tempo in cui non fosse stato l’adulto sgangherato che era in quel momento, e ciò la diceva lunga sui ricordi che serbava della sua infanzia. L’unica cosa che ricordava erano anni e anni interminabili di fuoco.
Il fuoco era il suo elemento: lo teneva al sicuro, caldo e asciutto in quei sotterranei che conosceva da almeno cent’anni. Ma forse erano di più, non lo sapeva: i giorni erano tutti uguali, senza luce se non quella data dal suo fuoco. Ci viveva dentro, era la sua casa. Il fuoco, ovviamente, e non quei sotterranei che altrimenti sarebbero stati umidi e oscuri. 
A volte fra le fiamme intravedeva fantasmi del passato, come una moglie che non riconosceva, e che era triste nel vederlo così consumato da quelle fiamme meravigliose. 
Sapeva che le utilizzavano in qualche modo; un tempo gli era stato detto, ma non lo ricordava più; un tempo gli avevano detto che era una grande causa, ma ora non sapeva qual era; e un tempo un re gli aveva fatto i suoi ringraziamenti, perché il castello sarebbe stato caldo grazie a lui. Ma forse era solo un’altra allucinazione per la solitudine; anche se con le fiamme non era mai solo. 
Il fuoco era il suo elemento, e finché fosse stato vivo, non sarebbe mai morto.

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Capitolo 9
*** Fear / Phobia ***


09 ottobre 2019
F E A R / P H O B I A
Da che potesse ricordare, Erin aveva avuto paura del fuoco. Da piccola era solo paura, certo, ma con gli anni si era trasformato in terrore. E dopo la morte di suo marito, in fobia vera e propria. 
Quello era un inverno freddo persino per gli standard mamiani: le bestie erano state chiuse tutte nelle stalle e le famiglie ci dormivano insieme, ma chi come lei aveva dovuto vendere o uccidere tutte le bestie per nutrirsi, ora poteva fare affidamento solo alla legna e al tepore di un fuoco… tutti, eccetto lei. 
Così si stringeva tremante nel pagliericcio e nelle coperte, nella sua casetta gelida, sperando che la notte passasse di nuovo; e intanto il terrore la attanagliava ogni volta che pensava di fare un fuoco per scaldarsi un pochino, giusto il po’ per sopravvivere ad un altro giorno. 
Venne una notte più buia e gelida delle altre; stremata dal freddo, Erin non uscì dalle coperte neanche per mangiare, stanca com’era neanche aveva fame.
E così si addormentò, mentre una spessa coltre di neve seppelliva il suo tetto gocciolante, e nessuno seppe nulla di lei fino a primavera, quando ormai era troppo tardi.

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Capitolo 10
*** Manmade material ***


10 ottobre 2019
M A N M A D E   M A T E R I A L 
La prima volta che aprì gli occhi, non vide nulla: era buio, e lei ebbe paura; poi la scatola si aprì, e uno strillo eccitato la spaventò ancora di più.
«Grazie! Grazie papà!» furono le prime parole che sentì. Poi delle manine la afferrarono delicatamente, ma lei non poteva muoversi. Si vide le mani per la prima volta: erano di cristallo purissimo, trasparente e delicato, ed ebbe ancora più paura che quella bambina la rompesse in mille pezzi, rendendola un inutile ammasso di schegge. 
«È delicata e può parlare» le disse il mago, poi si portò un dito sulle labbra. «Non dirlo mai a nessuno!».
La bambina annuì, e le chiese: 
«Come vuoi che ti chiami?».
«Non ho un nome» sussurrò statuina di vetro, e si stupì della propria voce così sottile e cristallina. «Chiamami come vuoi tu» sorrise appena, e la bimba ci pensò su. 
«Ti chiamerò Anna. Io mi chiamo Terenie». 
«Piacere Terenie. Stai attenta, sono fragile» mormorò, e la bimba annuì.
La vide crescere, sempre compagna di avventure gelosamente custodita in panni di velluto morbido; tramandata alla figlioletta di Taranie, e poi alla figlia della figlia, in un’esistenza sempiterna di vetro e graffi del tempo, cristallizzata nell’esatto momento in cui da fatina la sua coscienza era stata intrappolata in quella forma carina di ballerina.

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Capitolo 11
*** Rock ***


11 ottobre 2019
R O C K 
Quando suo padre tornò dalla guerra, Lisbit era stata contentissima: le aveva regalato una pietra che brillava in venature intense come il cielo, di una luce azzurra ipnotizzante e forse pericolosa. 
«È magica» le disse. «Abbine cura, porta fortuna».
Lisbit crebbe, e con il tempo iniziarono a manifestare degli strani eventi: ad esempio sapeva in anticipo se una vacca era incinta oppure no, o che tempo avrebbe fatto il giorno dopo – e sempre, sempre aveva ragione. I compaesani si stupirono di Lisbit: era sempre stata una ragazza comune, ma a quanto pare era incredibilmente fortunata… beato chi se la prendeva in moglie! 
E i pretendenti non le mancavano; lei accettò la corte di un giovane mugnaio, che la conosceva sin da bambina, quando giocavano insieme nei campi del padre di lei. 
Quando si sposarono, Lisbit sapeva già di essere fertile, e dopo la prima notte di nozze sapeva anche che stava concependo. Desiderando donare la propria fortuna al nascituro la ragazza inghiottì la roccia luminosa, e così condannò la sua prole: quando il bimbo nacque era in perfetta salute, ma aveva i capelli blu e la pelle pallida come l’avorio. Un demone! Un mostro! Com’era potuto accadere? Eppure aveva gli occhi della madre, il naso del padre! Un tradimento era fuori questione. 
Era autunno quando Lisbit fu costretta dai saggi del villaggio ad abbandonare suo figlio neonato nel bosco, perché segno di sventura; e man mano che tornava al villaggio e passava per le strade con il suo pianto disperato, quelli che prima considerava amici chiudevano le imposte delle finestre e le porte, per far sì che il suo dolore non entrasse nelle case dove non era il benvenuto.

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Capitolo 12
*** Music ***


12 ottobre 2019
M U S I C  
La sua non era stata una vita semplice, fino a quel momento: nonostante avesse solo sette anni, Luke aveva dovuto imparare a suonare un liuto che cantava melodico come la sua voce. Il che era quasi comico, dato che il liuto era alto quanto lui. Eppure, era l’ultima cosa che restava di suo padre: liutaio rinomato, era morto nella guerra del 680, lasciando a casa il figlio maggiore, Luke, e la madre con due infanti di uno e tre anni. A quel punto, l’unica cosa era vendere i materiali per i liuti, gli strumenti per fabbricarli, e infine anche i liuti stessi; l’ultimo era quello, e Luke lo usava per chiedere l’elemosina in piazza, nel caos del mercato della capitale. 
Era l’ultima forma di sostentamento della sua famiglia: chi lo conosceva gli dava dei soldi, ma non era raro che si fosse beccato anche calci e minacce con pugnali e spade, soprattutto da qualche guardia prepotente. 
L’ultima cosa che lo teneva in vita era la musica: conosceva tutte le ballate, comprese quelle che cantava suo padre per provare e accordare i liuti, e durante le feste di piazza a volte aveva suonato lui per i danzatori che si esibivano sotto i festoni colorati.
Quel giorno Luke però non si sentiva tanto bene: erano settimane che tossiva incessantemente, e quel giorno aveva tossito sangue. Ma non se ne preoccupava: un sacco di persone grandi tossivano sangue, eppure stavano benissimo. Non lo disse neanche a sua madre, occupata a cucinare l’ennesima zuppa di cavolfiore quella settimana. Prese il liuto ed uscì. Cantando, sentiva un gran peso nel petto, e la testa leggera. Cantò a squarciagola, pensando fosse il potere della musica. 
A sera tarda, sulla strada di casa, stava tossendo così forte che dovette reggersi al liuto per non cadere: gli girava la testa, gli girava il mondo, e cielo e terra si confusero mentre cadeva a terra. 
Un rivolo di sangue gli uscì dalle labbra e alzò gli occhi al cielo, sentendosi piccolo e debole… ma sorrise, perché le stelle cantavano mentre lui chiudeva gli occhi per sempre.

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Capitolo 13
*** Toxic ***


13 ottobre 2019
T O X I C
Al contrario di quello che potesse pensare l’essere umano medio del Regno di Mame, Thomas era affascinato dalla magia. Sin da piccolo faceva incessantemente domande ai suoi genitori al riguardo, e le risposte evasive e vagamente negative non poterono nulla con la sua passione. 
Ma ahimé, Thomas era umano; e ciò significava che non era dotato di poteri magici, neppure minuscoli, nessuna magia scorreva in lui. Si informò, si documentò, ed ecco apparire una speranza: la linfa azzurra! Si trattava della linfa di alcuni magici alberi, che veniva raccolta e raffinata in maniera da farne le basi delle pozioni magiche… Ma se veniva bevuta, assicurava grandi poteri magici a chiunque! 
Thomas vagò per queste e quelle terre cercando boccette di linfa azzurra, e infine ne trovò e comprò una decina; per dieci giorni le bevve e si dilettò con qualunque incantesimo avesse studiato che gli veniva in mente. In breve si fece fama di rinomato mago umano, e quindi accettabile: ad Alya trovò lavoro in uno studio notarile, per incantare i contratti, e fece anche un sacco di soldi. 
Ci mise un po’ a capire che qualcosa non andava: le unghie gli stavano diventando azzurre, e con il passare delle settimane anche le dita, e poi con i mesi le mani, e i polsi. Ma Thomas non si preoccupava: finché il suo sogno di essere un mago era realizzato, era tranquillo. 
Ma l’azzurro sottopelle gli si infilò nelle vene e risalì lungo le braccia fino al cuore, fino al momento in cui non si presentò al lavoro un mattino e lo ritrovarono disteso nel letto, con gli occhi un tempo castani completamente azzurri, stroncato da un sogno proibito che era diventato realtà. 

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Capitolo 14
*** Missing feature ***


14 ottobre 2019
M I S S I N G   F E A T U R E 
La nebbia la faceva da padrona, in quel giorno uggioso di fine autunno. Il piccolo Jim era appollaiato sul patio di casa, guardando le galline beccare il mangime che distribuiva ogni tanto pigramente, lanciandolo a manciate nel cortile davanti alle scalette di legno. Erano passati ormai tre mesi da quando suo padre era stato chiamato in guerra: era iniziata tempo prima, quando lui era molto piccolo, ma evidentemente avevano davvero bisogno di uomini su al nord, per arrivare così al sud alla ricerca di reclute dopo quattro anni di insuccessi. 
Quel giorno però stava per cambiare: da noioso e tetro diventò allegro e colmo di gioia, perché una figura con una stampella e un sacco sulle spalle si stava avvicinando faticosamente a casa, facendosi strada nella nebbia. 
«Spero non abbiate mangiato la mia Dorothy» disse, nominando la sua gallina preferita, un uccello nero grande quanto un draghetto del grano e così aggressivo da essere quasi l’animale da guardia della casa. Il bambino scattò in piedi nel sentire la voce del padre, e gli corse incontro a perdifiato, lasciando uscire lacrime di gioia dai suoi occhi di decenne. 
«Papà! Papà!».
L’uomo sorrise e lo abbracciò, ma subito il bambino si separò da lui, spalancando gli occhi. 
«Papà… dov’è la tua gamba?». 
«Se la son presa gli elfi, quei figli di… Anne, moglie mia» mormorò poi, abbracciando anche la donna che li aveva raggiunti al suono delle grida del figlio. 
«Jimmy, va’ a raccogliere la legna nel bosco… non ti allontanare troppo per favore. Io e tuo padre dobbiamo parlare un attimo» gli ordinò la mamma, e Jim si mise sull’attenti, correndo via verso il sentiero che attraversava il bosco. 
Man mano che raccoglieva legnetti, Jim rimuginava: suo padre era un eroe di guerra, si era impegnato a combattere e quel polpaccio mancante era la prova di ciò… come poteva fare per ottenere lo stesso rispetto? Mentre raccoglieva un ramo bello grosso, vide qualcosa scintillare nelle foglie. Si avvicinò incautamente, curioso, e una tagliola per orsi si richiuse sulla sua gamba, proprio sotto il ginocchio, tranciando l’osso con un sonoro “crack”. Il grido del bambino fece fuggire tutti gli uccelli nei dintorni, e attirò l’attenzione della madre, che quando lo vide urlò anche lei, piangendo per la disgrazia. 
«Non ti preoccupare, mamma» pianse Jim, «così papà non si sentirà solo».

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Capitolo 15
*** Super power ***


15 ottobre 2019
S U P E R   P O W E R 
«Ammirate! L’uomo dai super poteri! Può sollevare un carro con una sola mano!».
Frederick per dimostrarlo lo sollevò sopra la propria testa, e Ken urlò a squarciagola: «Fantastico! Meraviglioso!!». La gente del villaggio applaudiva, e lanciava soldi che Ken raccoglieva in fretta, mentre gli faceva segno di mollare il carro e filarsela prima che arrivassero le guardie. Recuperarono al volo Gareth, che si tolse il cappuccio. 
«Come sono andato??» chiese il ragazzino, e Frederick sorrise. 
«Uno spettacolo al giorno come oggi e siamo a cavallo, ragazzo». 
«Mi darete da mangiare oggi? Sono parecchio stanco per l’incantesimo di levitazione» si lamentò a bassa voce, e Ken gli diede uno scappellotto. 
«Ti daremo da mangiare quello che riusciamo a raccattare con i pochi soldi che ci fai fare, coso». 
Gareth abbassò le orecchie a punta e si scostò nervosamente i capelli verdi dal viso, mentre si rimetteva il cappuccio. Frederick rimase in silenzio, mentre svelti si infilavano in un vicolo per contare i guadagni. 
«Ci hai fatto fare solo quattro misere corone, pezzente» sibilò Ken, e gli mollò un calcio. «Neanche il mago sai fare!». 

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Capitolo 16
*** Glow ***


16 ottobre 2019
G L O W
Si narravano tante leggende sulle paludi vicino Huyton, fra cui le preferite di Hilma, quelle sui fuochi fatui. Si diceva conducessero alla sventura, e tutte le storie che narravano di ragazzi che si perdevano nelle paludi inseguendo la speranza che un fuoco fatuo fosse una lanterna, illuminando un sentiero che non c’era, affascinavano Hilma senza alcuno sforzo. 
Hilma conosceva bene le sue paludi: vi si recava a prendere la torba con il babbo, sin da quando era piccina. E ora, che era in età da marito, suo padre era riuscito a comprare un pezzo di palude tutto loro, in modo da vendere la torba agli altri nel villaggio che non volevano rischiare la vita negli acquitrini. 
Un giorno un bel giovanotto si interessò ad Hilma, ma sfortunatamente essendo sua madre morta quando lei era piccola, non le aveva lasciato in dote un corredo; e i soldi erano troppo pochi per ordinarne uno, essendo l’attività di torbiera appena sufficiente a mandare avanti il padre e lei. 
Così Hilma si struggeva per questa terribile storia, e si recò nella palude del padre per pensare: conosceva tutti i sentierini e i passaggi, segnati dalle orme della sé più giovane. E mentre rimuginava e seguiva il sentiero, non si accorse che si faceva sempre più buio, finché non riuscì a vedere più nulla se non qualche passo più in là. Hilma non era una che si faceva prendere dal panico, così aguzzò la vista e, meraviglia: un fuoco fatuo era pochi passi più in là. Sapeva dove mettere i piedi, quindi lo seguì per quanto possibile. Un altro ne spuntò più in là di dieci passi, e lei seguì il baluginare delle fiammelle finché non arrivò in una radura asciutta, una collinetta nel mezzo della palude, dove approdavano legna umida e le cose più disparate. In quel caso, c’era persino un baule nel buio, con i cardini arrugginiti e il fondo marcio; ma Hilma riuscì ad aprirlo, e dentro c’erano tante di quelle corone che splendevano alla luce della luna che le venne un capogiro. 
Così Hilma riuscì a tornare a casa, il giorno dopo, e narrò tutto al padre, che così poté far sposare la sua adorata e fortunata figlia al bel giovanotto figlio del cerusico; e Hilma insegnò ai suoi figli che il bagliore dei fuochi fatui sa dove condurti, se hai un cuore puro e senno in zucca.

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