What Was Left Behind

di NemracEroif
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***
Capitolo 3: *** Terza Parte ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prima Parte ***


Al mio Si bemolle. 

Ci troveremo.

 

I


L'aria umida della notte mi accarezzava il viso leggermente sudato mentre le fioche luci bianche  e tremolanti dei lampioni persistevano inarrendevoli ad illuminare uno dei posti più belli - e pericolosi almeno per quella notte - di Manhattan. Riuscivo a sentire le sirene di alcune volanti della polizia che sfrecciavano a tutta velocità sulla strada, pronte a verificare una soffiata anonima, e gli usignoli sugli alberi di pino che come ogni notte cominciavano a cinguettare proprio mentre tutti gli altri andavano a dormire come se dessero il cambio turno ai loro colleghi.

Steso a terra, percepivo il freddo delle mattonelle di ceramica a contatto con la mia schiena facendomi provare un brivido lungo tutto il corpo e sentivo il cuore sussultare ad ogni rumore ovattato che somigliava a delle grida, che significava pericolo e minaccia imminente. Con un ritmo preciso e misurato ascoltavo il sangue che pulsava forte nelle orecchie e nelle punte delle dita delle mani girate con i palmi all'insù. Forse era così forte la voglia di lasciarmi tutto alle spalle, distrarmi e far finta di non essere lì, o forse lo feci inconsciamente, ma le pulsazioni che scandivano il tempo mi riportarono con la mente a quando non avrei mai potuto immaginare quello che sarebbe successo, il momento che segnò l’inizio della fine. 

Sarebbe sciocco ingannare me stesso e fingere di non ricordare la data del giorno che cambiò le cose. Al contrario delle giornate che passano veloci e fugaci e scivolano sotto la stretta delle persone, alcune date restano fisse, immobili e immutabili: così per me, ho motivo di credere, il 20 Maggio non sarà più un giorno qualsiasi. 

Come era già successo innumerevoli altre volte, mi svegliai di soprassalto tornando alla realtà dopo aver fatto per l'ennesima volta il sogno che mi perseguitava ormai da tempo: fuggivo nel buio pesto di una strada dritta e interminabile fino a quando stanco e sfinito mi accasciavo per terra. Poi, ogni volta, una melodia dolce mi ridava speranza e fiducioso iniziavo a rincorrerla fino a quando mi svegliavo, puntualmente di soprassalto, come se avessi corso davvero, con la maglietta sudata e delle sfumature di grigio scuro sulla schiena. Me ne sbarazzai e feci una doccia. Controllai il telefono: erano le 08:17 e Cam mi aveva mandato un messaggio appena dieci minuti prima. “Vediamoci davanti il Dunkin Donuts sulla 1st Avenue tra mezz'ora. Devo parlarti.” 

Non sentivo Cam da quasi un mese, quando un coyote mannaro, un omega (cioè senza branco) di passaggio a New York aveva deciso di fare uno spuntino in un fast food nel Lower East Side con l’unica complicazione che lo spuntino aveva finito per essere il ragazzo che ci lavorava. Cam era stata da poco promossa a detective della omicidi e alcuni dei casi che aveva risolto e le avevano fatto avere la promozione erano di natura soprannaturale. L'avevo aiutata per due motivi: primo, perché spesso era molto difficile tenere la polizia lontana e molto più semplice invece era avere qualcuno di loro dalla mia parte che sapeva la verità e copriva quello che c'era da coprire. Secondo, potevo fidarmi. Era l'umana più in gamba che avessi conosciuto (fino a quel momento). 

Il motivo che la spingeva a vedermi non poteva che riguardare qualcosa del mio mondo, un omicidio troppo brutale persino per un umano o qualcosa di simile, nulla che potesse spaventarmi. 

Dalla finestra del mio appartamento potevo vedere il flusso costante di gente indaffarata che correva da una parte all'altra: in ritardo per il lavoro con la ventiquattrore che schizzava nel vento, in ritardo per accompagnare i bambini a scuola tirandoli per una mano tra la folla e chi forse un motivo per andare di fretta non ce l’aveva neanche, ma la frenesia della città, è risaputo, è contagiosa. Tutto era reso meno meccanico e cupo dal sole primaverile che illuminava di sguincio i palazzi e riscaldava la giornata.

Usando l'udito da lupo sentii dei passi lenti e stanchi che si avvicinavano al palazzo: il mio segnale. Lasciai la tazza di caffè nel lavandino, presi il giubbotto di pelle poggiato sul divano e afferrai le chiavi sul tavolino vicino la porta. Scesi le scale dal secondo piano e arrivai davanti il portone principale proprio quando le mani anziane e tremolanti stavano iniziando a cercare le chiavi per entrare. Aprii e gli occhi acquosi e azzurri di Mrs. Crowford alzarono lo sguardo per raggiungere i miei.

«Oh caro, sei tu!» disse. 

Era così minuta che mi arrivava all'altezza dello stomaco, le rughe sul suo volto ricordavano la più antica delle querce e i capelli grigi le davano un’aria saggia e gentile. Il sorriso, timido e sincero mostrava i denti piccoli e leggermente consumati. 

Come ogni mattina usciva presto per andare a fare un giro di tre isolati con il suo carrellino viola scuro e tornava sempre alla stessa ora (intorno alle 8) con il pieno di frutta e verdura come se dovesse sfamare una famiglia con 5 figli adolescenti. Abitava al primo piano, in corrispondenza del mio appartamento. Purtroppo, nel nostro palazzo antico di anni e anni mancava l'ascensore, e lei che si era operata da non molto ad un’anca, per quanto fingesse di essere perfettamente in grado di fare «due gradini» come li chiamava, faticava e non poco considerando anche il peso della spesa. Così, ogni mattina, casualmente, stavo sempre per uscire proprio quando lei apriva il portone e, sempre casualmente, ero in anticipo quindi non mi costava niente aiutarla a salire.

«Buongiorno Mrs. Crowford, come sta?» le sorridevo. 

Lei mi tirava giù per la spalla per darmi un bacetto sulla guancia e in quei secondi sentivo benissimo il profumo di dolci e zucca che emanava. Mentre salivamo pian piano le scale mi cingeva stretto il braccio, con più forza di quella che si potrebbe pensare abbia una signora di più di ottant'anni e con l’altra mano si appoggiava allo scorrimano. In quei momenti, con lei da un lato e il carrellino in spalla, facevo una delle cose che mi rendevano, mi piaceva pensare, migliore di quello che ero. Lei non se ne sarebbe mai accorta, intenta com’era a salire le scale, ma le mie vene sul braccio che impugnava diventavano nere e per un paio di minuti, il tempo che impiegavamo per raggiungere il pianerottolo, il suo dolore diventava il mio. All'inizio non era stato facile concentrarsi e contemporaneamente salire le scale, conversare, mantenere la spesa. Col tempo, avevo imparato a fare tutto insieme e anche se solo per poco il suo dolore all'anca, la sua stanchezza e il bruciore alle articolazioni li sopportavo io. Sentivo il suo respiro più regolare e mi chiedevo se lei si sentisse di nuovo giovane in quel breve momento. Quando arrivavamo in cima e lei apriva la porta insisteva sempre per farmi prendere un biscotto («almeno uno caro, altrimenti come ti mantieni così forte?») e non potevo rifiutare, non ci riuscivo e forse non volevo. 

Mentre mi stava raccontando della sua amica Betsie che aveva incontrato nel reparto della carne, guardai l'ora sul telefono e mi resi conto che dovevo andare se non volevo fare tardi.

«Mi dispiace io... devo andar via» dissi indicando l'uscita.

«Se ha bisogno mi chiami, va bene?»

«Certo, non ti preoccupare, caro» sorrise e mi accompagnò fino all'uscio della porta come faceva sempre, passando nel corridoio in cui erano appese le foto dei suoi due figli e dei nipoti che vivevano a Pearl River e andavano a trovarla soltanto una ogni tre domeniche. Suo marito, invece, era mancato da diversi anni, ma il suo ricordo era così vivo tra le pareti di quella casa che anche se non lo avevo mai conosciuto mi sembrava un amico di quelli che non si incontrano da anni. Ogni volta che la lasciavo sola andando via mi sentivo terribilmente in colpa. 


Al 2340 di Powell Jr Boulevard l'aria era fresca e il trambusto che avevo visto poco prima dalla finestra lentamente si era calmato. Per arrivare da Dunkin' Donuts occorrevano 20 minuti e camminare non mi dispiaceva (mai), quindi mi avviai con le orecchie e gli occhi insolitamente tesi, pronti a captare ogni traccia e possibile indizio di quello che poteva essere successo. Passai davanti due edicole ma nessun titolo di cronaca nera era riportato, almeno nulla che facesse pensare ad un attacco animale o un mistero inspiegabile. Quando arrivai sul luogo dell'appuntamento, due minuti in anticipo, ancora non notavo nulla di insolito. Cam non era ancora arrivata e io temporeggiavo sul bordo del marciapiede studiando i dettagli del posto. Da Dunkin' Donuts tutti i tavoli erano occupati e i clienti mangiavano le loro ciambelle e bevevano i loro caffè parlottando rumorosamente, due camerieri molto giovani e probabilmente sottopagati sfrecciavano e si dimenavano tra un ordine e l'altro. Nel locale a fianco - Teng Dragon, consegna a domicilio gratuita - l'odore di salmone affumicato e tempura usciva prepotente dal ristorante cinese e si mescolava agli altri mille odori della strada (spiacevolmente anche con quello delle ciambelle fritte) che alle 9 di mattina era un bel colpo da sopportare. Ancora più avanti, una lavanderia aperta h24 - Sapoara - era quasi vuota, e un solo cliente aspettava di essere servito dalle due sorelle, anziane proprietarie, dietro il bancone.

«6 verticale, è acceso nelle tribune politiche» diceva una mentre l'altra cercava la gruccia col numero della ricevuta del cliente. 

«9 lettere, inizia con la D»  insisteva dopo non aver ottenuto nessuna risposta. 

«Cosa vuoi che ne sappia? Vieni qui a darmi una mano!» le aveva replicato l’altra. Mi avevano fatto sorridere senza neanche vederle e con le labbra serrate per non farmi sentire dai passanti tra me e me avevo sussurrato la risposta: «Dibattito.»

 

Cam arrivò puntuale come sempre, nella sua aura di eleganza spontanea e composta. Non mi ritenevo (e tutt’ora non mi ritengo) un grande intenditore di bellezza. Ero sempre rimasto ammaliato dalle persone singolari, quelle che rimanevano impresse nella mente per un paio d’ore prima di scomparire anche quando erano soltanto volti di passanti o viaggiatori della metro e più che i pregi fisici che rientravano negli standard di bellezza mi incuriosivano i difetti e le particolarità ma ero sicuro che Cam potesse essere universalmente definita bella (Mrs. Crowford avrebbe pagato oro e avrebbe donato l’anca buona per vedermi sistemato con una donna come lei). La simmetria del suo viso tondo, il colore roseo delle sue guance, gli orecchini a cerchietto e il trucco sempre molto leggero - eccetto le labbra glossate abbondantemente - la rendevano una visione incredibilmente appagante per gli occhi. Diverse volte avevo osservato i suoi occhi cercando di coglierne le sfumature impercettibili ma ero arrivato alla conclusione che fossero di un mix perfetto tra il caramello e il caffè. In ogni caso, i capelli lisci e scuri le cadevano appena sulle spalle dell’impermeabile beige chiaro che le stava a pennello. 

«Hale» mi chiamò. 

«Cam» le porsi la mano e lei la strinse. 

«Siamo qui per una ciambella?» chiesi indicando la vecchia insegna bianca di Dunkin' Donuts. 

«Cosa? No, ti ho fatto venire qui perchè ero in zona. Vieni, camminiamo.»

Non mi sembrava particolarmente preoccupata ma qualcosa non andava, di questo ero abbastanza certo. Quando iniziò a muoversi e mi passò davanti per indicarmi la direzione sentii il suo profumo dolce alle rose con una punta di iris e gelsomino (avere l'olfatto sviluppato di un lupo è piacevole quando si è vicini a profumi e odori gradevoli). 

«Allora, cos'è successo?» chiesi guardandola mentre percorrevamo la 1st Avenue verso Nord. Vidi il suo sguardo incupirsi e le labbra stringersi leggermente. 

«Stanotte intorno le 3 e mezza è arrivata una segnalazione in centrale. Una donna, Jenny Temper, ha detto che sul Billis Avenue Bridge - sai, quello che collega il Bronx a Manhattan - stava succedendo qualcosa. Nulla di più, non sapeva altro. Tu sai chi è la Temper?» 

«No, non ne ho idea» ammisi.

«È una negromante abbastanza conosciuta a New York, ha un buco sulla 146esima strada e fa un po’ di soldi grazie alle vedove che vogliono salutare i mariti morti. Insomma, nessuno l'ha presa sul serio, molti pensano che sia pazza.»

Ci fermammo al semaforo rosso e aspettammo di poter passare. 

«Ma dopo pochi minuti sono arrivate altre chiamate. Gente comune, chi portava a spasso il cane e chi faceva jogging.» 

«Di notte?» chiesi stranito. 

«Lo so, la gente è strana» agitò la mano in aria come a dire Non è importante adesso. «Hanno chiamato per riferire che sul ponte stava nevicando e che avremmo dovuto fare qualcosa - a destra, qui.» 

Girammo intorno ad un palazzo in ristrutturazione per cui alzai il tono di voce per sovrastare i suoni del cantiere: «Stava nevicando?! A metà maggio?» 

«Lo so, ha dell'assurdo. Ho mandato due agenti a controllare. Hanno riferito che c'era della neve sui lati del ponte ma in dieci minuti era tutto sparito, c’erano comunque più di 15 gradi» spiegò.

«Stiamo andando lì, sul ponte, giusto?» 

«Sì. Scusami se ti ho disturbato ma ho paura che ci sia qualcosa sotto e voglio essere sicura che non sia così prima di dimenticare questa storia» ammise. Eravamo quasi all'inizio della rampa che portava al ponte e stavo guardando il cartello con la scritta "Busses Only" sulla corsia riservata ai pullman quando mi accorsi che l'aria primaverile e il sole timido di quella mattina non erano più lì, non per me. Fui avvolto da una nube invisibile di freddo che mi fece venire la pelle d'oca. Eppure, non si trattava di una semplice nuvola di passaggio. Sentivo le ossa più deboli, facevo fatica a camminare e la cosa peggiore di tutte: ero triste, angosciato e addolorato senza motivo. Cam si accorse che camminavo più lentamente.

«Tutto bene?» mi prese sottobraccio quando stavo per cedere sotto il peso delle mie gambe. «Tu non senti niente?» chiesi quasi sbattendo i denti dal freddo.

«No... vuoi che andiamo via?» 

Quando tornammo verso East Harlem ripresi a respirare regolarmente. 

«Cos'è successo?» Cam era ansiosa di sapere e le usciva dalla voce più preoccupazione di quanta volesse lasciar trapelare. Non avrei voluto allarmarla ma fui onesto e prima di parlare diedi una rapida occhiata intorno per assicurarmi che nessuno ci stesse ascoltando. 

«Quella era una traccia demoniaca. Significa che qualcosa o qualcuno è stato sul ponte e non credo che avesse buone intenzioni.»

«Cos'hai sentito?»

«Freddo. E angoscia. Una stretta allo stomaco, brutta sensazione.»

La vidi confusa.

«Credevo che i lupi mannari non provassero freddo» aggrottò le sopracciglia. 

«Anche io.»

«Adesso cosa facciamo?» si guardò intorno come se potesse trovare un libretto di istruzioni. Se le avessi detto che c'era da buttarsi in mezzo al fuoco non ci avrebbe pensato un attimo.

«Aspettiamo. O meglio, aspetto. Stanotte, quando la traccia sarà più debole andrò lassù e seguirò la traccia, cercherò di capirci qualcosa.»

Non aggiunse altro ma vidi un briciolo di delusione nei suoi occhi. 

Nel nostro rapporto c'erano dei confini invisibili che non avevamo mai stabilito ad alta voce ma di cui entrambi eravamo coscienti. Cam sapeva che in quella situazione era meglio che sbrigassi la cosa da me e non perchè fosse troppo pericoloso per lei - non avrei mai pensato che fosse una vigliacca, aveva molto più coraggio di diversi lupi mannari che conoscevo - semplicemente quello era il mio mondo. Difatti, neanche io entravo in merito agli affari della polizia o a questioni burocratiche: quello era il suo. 

«Tienimi aggiornata. Se hai bisogno chiamami» mi guardò fisso negli occhi per farmi capire che diceva sul serio. Poi aggiunse: «La Temper aveva sentito davvero qualcosa…» ragionando a voce alta. Sorrise e mi fece un cenno con la testa prima di andar via, con entrambe le mani nell’impermeabile e il rumore dei tacchi sul cemento.  

 

II


Non è facile prepararsi per qualcosa che non si conosce. L'ultima volta che avevo avvertito una traccia demoniaca era stato all'incirca quattro anni prima, a Giacarta, in Indonesia. Mi chiamò un vecchio amico che si era trasferito lì per lavoro. Aveva radunato tutti gli esseri soprannaturali che conosceva per affrontare un demone che identificammo come un Pendakian - che significa letteralmente arrampicarsi in indonesiano - che di fatti era salito sul monumento nazionale che gli abitanti del luogo chiamavano Monas, una torre di 145 metri. Combattere a quell'altezza era stato uno dei momenti più spaventosi ed eccitanti della mia vita. Ad ogni modo, la sua traccia non era così forte e soprattutto, non aveva fatto nevicare, anche se con un po' di esperienza avevo capito che quasi ogni demone ha una propria traccia e che spesso sono influenzate dalla natura stessa del demone, da come è nato, dai suoi poteri. Questo significava che non avevo niente su cui prepararmi se non al freddo, ed optai per un allenamento base con guantoni e sacco da boxe.

Ricordo perfettamente che mentre colpivo (destro, sinistro, destro, calcio col destro, schiva a sinistra, ripeti) con tutta la forza ed entravo in una sorta di trance allontanandomi da quello che mi circondava, dai miei pensieri e il mio passato, per un secondo o forse anche di più, riuscivo a sentire di nuovo la stessa melodia che mi dava speranza nel sogno che facevo spesso. Bastava rinsavire perchè fosse del tutto scomparsa e mi domandavo se non l'avessi sognata di nuovo. Smisi di allenarmi, dovevo conservare le forze per la notte.

 

Aspettai l'una e mezza ma ero troppo agitato per i miei standard (solitamente mantenevo il sangue freddo in ogni situazione) e continuare a muovermi su e giù per l'appartamento, fissare continuamente l'ora e ascoltare con l'udito da lupo il film che stavano guardando i coniugi Carter al piano di sopra non sarebbe servito a nulla. Per questo presi le chiavi di casa e uscii facendo molta attenzione a non fare rumore chiudendo il portone principale. Powell Jr Boulevard era quasi deserto. D'altronde, il lunedì notte non c'era troppo da fare in giro. Pochi taxi passavano per strada accompagnando i turisti che avevano preso alloggio ad Harlem dove costava molto meno verso la vita vera di Manhattan, quella che si vede nei film e che inizia a Time Square. I lampioni illuminavano i negozi chiusi e davanti alle vetrine dei ristoranti dove passai vidi i camerieri sistemare i tavoli e la mise en place per i clienti del giorno dopo. Incontrai il cameriere del ristorante messicano - El Paseo - e chiamarlo ristorante era fargli un grande complimento, dove prendevo il cibo da asporto ogni tanto. Il giovane magro come uno stuzzicadenti e visibilmente stanco dopo una giornata di lavoro stava portando un sacco dell'immondizia nero che pesava il doppio di lui sul retro. 

«Cómo vas Derek?!» mi aveva sorriso. 

«Hola Felipe» gli avevo risposto e avevo tirato dritto. Dovevo rimanere concentrato. Per un momento, mentre continuavo a camminare, mi soffermai a pensare che lui, come quasi nessuna delle persone che conoscevo a New York, poteva avere idea di chi fossi davvero, dei miei poteri, della mia natura, di quello che facevo davvero per vivere - dicevo di essere un detective, non volevo allontanarmi troppo dalla realtà e sembrava essere credibile - e nessuna di quelle persone lo avrebbe mai saputo. E se anche l'avessi raccontato a qualcuno nessuno mi avrebbe creduto. E se anche qualcuno mi avesse creduto (eppure mi sembrava uno scenario possibile quanto Mrs. Crowford che mangia cibo messicano da asporto) nessuno avrebbe voluto avere a che fare con tutto quello: demoni, lupi mannari, scontri, sangue, morte. Girai a destra sulla 131esima strada. Certe volte mi chiedevo se io l’avrei scelto: nascere in un branco non ti pone in condizione di compiere molte scelte e alcune volte mi sono immaginato come un umano qualsiasi, un vero detective forse, ma poco prima di cadere nel baratro dei "forse", dei "se" e degli "avrei potuto" facevo un passo indietro e piantavo i piedi nel cemento. Ero quello che ero e non potevo cambiarlo, non sapevo neanche se lo volevo davvero.

 

Quando arrivai in prossimità del ponte avvertii la traccia, decisamente più debole di quella mattina. Il freddo glaciale era una leggera aria fresca e non sentivo, fino a quel momento, nessuno dei sintomi che avevo sperimentato prima. Ero teso e concentrato e mentre salivo sul ponte mi guardavo intorno in cerca di qualsiasi cosa. Quando arrivai su non c'era nulla degno di nota. Passai il cartello con lo sfondo verde con su scritto Willis Avenue Bridge all'inizio della struttura di ferro intrecciato che fungeva da tetto. Sfrecciarono due pullman entrambi provenienti da Manhattan e diretti verso il Bronx, nessun'altra macchina, nessun passante. I rumori della città non arrivavano lì su, dove tutto sembrava essersi fermato, compreso il tempo. Mi accorsi che il ponte era molto più buio del solito, le luci dei faretti collocati nell'impalcatura non funzionavano e la poca luce che c'era veniva da lontano, dall'insegna della iHeart e dal ponte vicino. Smisi di camminare, respirai profondamente e concentrai tutti i miei sensi nell'udito. Cominciai a sentire il rumore dell'acqua del fiume Harlem che scorreva metri sotto di me, sia quella in profondità sia quella sul bordo che camminava sui ciottoli vicino le sponde. Continuai, e sentii le voci degli operai della fabbrica di tessuti sulla 132esima, i motori delle macchine che passavano sulle strade vicine, le voci che uscivano dalle radio e dalle televisioni. Ascoltavo e scartavo quello che non mi serviva. Arrivai a coprire un’area di circa due chilometri quando finalmente sentii qualcosa di interessante: urla di dolore. Iniziai a correre prima di rendermene conto lasciando spazio all'istinto e al fiuto. Correvo verso le strilla agonizzanti e non perdevo la traccia, segno che ero sulla strada giusta. Quando arrivai davanti il cancello chiuso con il lucchetto del St. Mary's Park non avevo più bisogno dell'udito da lupo: anche le orecchie di un umano avrebbero sentito lo strazio di quelle urla. Tutto il parco era circondato da una recinzione alta due metri ma saltare e atterrare dall'altro lato non fu un problema. Ricominciai a correre e presto sentii di nuovo il freddo che quella mattina mi aveva quasi pietrificato. Si insidiava sotto la pelle, sentivo i peli delle mie braccia rizzarsi e sfiorare l'interno del mio giubbotto di pelle. Mi concentrai e continuai. Non potevo tornare indietro, non potevo abbandonare chiunque stesse soffrendo. Eppure... eppure ad ogni passo verso quella cosa che ancora mi era estranea la paura, il terrore - non miei, sentivo che mi venivano impiantati nella testa e non mi appartenevano - mi facevano desiderare di girarmi e andarmene, far finta di niente, tornare alla mia vita. Come avrei potuto?

Il parco era completamente deserto, sentivo soltanto il bubolare di un gufo ma avrei potuto anche averlo immaginato. Passo dopo passo (camminavo come se portassi blocchi di cemento ai piedi) arrivai nel cuore del parco. Al centro di 350 metri quadrati come avrebbero potuto sentirci? La prima cosa che notai fu la pozza di sangue attorno il ragazzo, steso per terra, con gli occhi spalancati, la bocca aperta in un grido disperato. Sopra di lui, una delle bestie più spaventose che avessi mai visto. I muscoli gonfi come bombe pronte per scoppiare, girato di spalle e chino sul ragazzo. Non riuscivo a vedere cosa gli stesse facendo ma sapevo che non avrebbe resistito ancora a lungo. Per questo mi imposi di fare qualcosa anche se ogni particella del mio corpo mi diceva di scappare. 

«HEI!» gli gridai. 

Girò la testa nella mia direzione e i suoi occhi con le pupille rosso sangue mi fissarono. Mi sentii gelare nelle vene. In quel momento più che in nessun altro, forse per la prima volta nella mia vita, ebbi paura. Si alzò, si girò completamente verso di me. Era alto due metri, forse di più. Ringhiò e mi mostrò i suoi denti, lunghi, appuntiti, di numero indefinito. Dalla fronte uscivano due corna nere e spesse che giravano su se stesse. Quasi senza naso, solo due fori schiacciati sopra la bocca sproporzionata e le orecchie alte ed appuntite. Quando fece un passo verso di me si trovò sotto la luce fioca di un lampione e ogni spaventoso dettaglio mi saltò agli occhi. La sua pelle era visibilmente spessa ma si intravedevano le vene in cui scorreva sangue demoniaco, nero pece. All'estremità delle sue mani giganti lunghi e spessi artigli avrebbero potuto strappare via qualsiasi cosa. Il ragazzo steso per terra con le braccia aperte non gridava più, finalmente, ma sentivo il suo respiro debole e sussurrava “aiutami” con le poche forze che gli rimanevano. Prima di continuare verso di me il mostro si girò verso di lui, lo guardò dall'alto, sollevò in braccio infernale come una ghigliottina pronta a calarsi.

«No!!!» gridai con tutta la forza che avevo, tesi un braccio come se potessi fermarlo nonostante i dieci metri che ci separavano, ma la ghigliottina colpì e gli artigli squarciarono la gola del ragazzo che non respirava più. Era rimasto con gli occhi aperti, con il viso piegato da un lato e la bocca semi aperta. Quello che successe negli attimi successivi lo ricordo come se un ubriaco avesse tentato di raccontarlo, a me che ero ubriaco come lui. Ricordo una cosa meglio di qualunque altra: il senso di colpa. Mai così forte, mi stritolava e rigirava lo stomaco e mi fasciava la testa. Le ultime parole di quel ragazzo - aveva meno di 25 anni probabilmente - erano state una richiesta disperata di aiuto a me, che l'avevo fatto ammazzare. Ricordo i passi pesanti del demone, il pavimento che vibrava quando il suo piede colpiva per terra. Venne verso di me e alzò lo stesso braccio che aveva usato per finire il lavoro di prima e quando già potevo sentire la ventata d'aria smossa dal suo movimento e lo vidi calare su di me, mi spostai così lentamente che mi prese di striscio e sentii un graffio sulla spalla. 

Non avevo forze, ero paralizzato dalla paura e dal senso di colpa, impalato come una statua mentre il demone più grande che avessi mai visto stava per finirmi. Provai a concentrarmi. Stava per partire di nuovo all'attacco ma vide i miei occhi da lupo illuminarsi di azzurro nella notte e questo lo distrasse abbastanza perchè potessi sferrargli un pugno secco sullo stomaco. Quello che incontrò la mia nocca non fu che una corazza dura come l'acciaio e il colpo finì per ferire più me che lui con tutta probabilità. 

Il primo destro che mi tirò in faccia arrivò completamente inaspettato e mi scaraventò indietro di quattro, forse cinque metri facendomi sbattere la schiena sul tronco di un albero. Rimettersi in piedi non fu facile. Sentivo quasi tutte le ossa della mia schiena nel posto sbagliato e la guarigione accelerata non avrebbe potuto fare molto in così poco tempo. Ringhiai, mostrai i denti come lui aveva fatto prima. 

Gli corsi incontro, deciso a colpirlo con un calcio, nella peggiore delle ipotesi a graffiarlo con i miei artigli. Prima che potessi anche solo toccarlo afferrò il mio piede e lo scaraventò alla sua sinistra insieme a tutto il mio corpo. Per un secondo pensai che si fosse staccato dalla gamba ma vidi la sneaker ancora lì, anche se dalla caviglia, nel punto in cui mi aveva afferrato, scendevano abbondanti rivoli di sangue. Dopo due tentativi falliti miseramente capii che dovevo smetterla di attaccare - un tempo questa scelta mi avrebbe causato una ferita nell'orgoglio molto più dolorante di tutte quelle che avevo portavo fisicamente in quel momento - e dovevo cominciare a difendermi. 

In una visione molto ottimistica avrei potuto farlo stancare, in un'altra molto meno felice avrei potuto farlo incazzare molto di più di quanto già fosse. Aspettai che fosse lui a colpirmi e schivai il primo, poi il secondo, poi il terzo colpo e quando all'ennesimo gancio sinistro mi spostai a destra lui urlò selvaggiamente verso il cielo con i pugni serrati: l'avevo fatto arrabbiare. Iniziò a colpire con molta più foga e molto più velocemente e io non riuscivo a stargli più dietro. Difatti, mi colpì in pieno petto e mi scaraventò nuovamente lontano. Mentre mi trovavo a terra, dolorante e sanguinante, e guardavo il demone venirmi incontro, pensai che avrei potuto chiedere scusa a quel povero ragazzo di persona, perchè sicuramente l'avrei raggiunto molto presto. 

Un fischio assordante mi riempiva la mente costringendomi a spremermi le tempie, credevo che mi sarebbe esplosa la testa. Quando arrivò ai miei piedi e mi prese per la maglia sollevandomi in alto come se pesassi quanto un sacchetto di patatine mi ritrovai a penzolare nell'aria e, pronto a morire, non ero più un lupo. I miei artigli si erano ritirati, le mie zanne anche. Ero solo un uomo, nelle mani di un demone, che stava per andarsene in una notte di primavera al chiaro di luna (suonava molto più romantico in questi termini, invece l'odore ripugnante del suo fiato rendeva tutto meno glorioso, più viscido e nauseante). Poco prima di sferrare il colpo decisivo mi lasciò andare. Si comportò come se qualcuno alle sue spalle lo stesse chiamando e gli stesse dicendo di smetterla. Mi lasciò cadere dall'alto come un sacco di patate e si girò. Andò via, ma non prima di girarsi un'ultima volta verso di me per lanciarmi uno sguardo violento che diceva Non finisce qui.

 

Quando potei finalmente abbassare la guardia mi resi conto di quanto l'adrenalina mi stesse aiutando a mascherare il dolore che in quel momento cominciavo a sentire dieci volte più forte. Le palpebre mi cadevano e tenerle su era troppo difficile. Guardai per l'ultima volta il ragazzo, steso a terra, indifeso, con tre grandi squarci sul collo. Quella fu l'ultima volta in cui lo vidi ma non ho mai potuto dimenticare il suo volto, impresso a fuoco nella mia mente. L'ondata di senso di colpa che seguì fu decisiva per convincermi a chiudere gli occhi - mi ero detto “solo per un minuto” - ma svenni molto prima di rendermene conto e l'ultima cosa che vidi, steso per terra e con il viso rivolto al cielo, furono i fiocchi di neve che cadevano ondeggianti e creavano un sottile strato di ghiaccio sul terriccio. 

 

III


Quando tornai in me (dire che mi svegliai sarebbe incorretto) sentii una voce lontana, come se qualcuno avesse gridato in una scatola prima di chiuderla e io l'avessi riaperta cento anni dopo. Sentivo ma non capivo, ero troppo stanco. Qualcuno mi strattonava le spalle cercando di svegliarmi, di farmi riprendere, ma io non ci riuscivo. Avevo male alla testa - dentro e fuori -, alla caviglia, alle gambe, alla spalla, al petto. Non volevo alzarmi, non potevo. L'idea di restare su quel pavimento gelato era improvvisamente diventata più confortevole dinanzi alla prospettiva di alzarsi e affrontare quello che c'era da affrontare e ignorare la voce che stava cercando di spronarmi era facile. Svenni di nuovo. 

 

La volta dopo, mi trovavo in macchina. Un taxi, capii dai numerini rossi e sbiaditi del tassametro sopra la radio. C'era un autista, c'era qualcuno al mio fianco e io, mezzo morto, che non sapevo neanche come ero arrivato sul sedile posteriore. Provai a girarmi per vedere di chi fossero le gambe che vedevo con la coda dell'occhio ma non appena mossi il collo una fitta di dolore mi fece svenire di nuovo. 

 

Tutti i ricordi dei successivi due giorni sono confusi nella mia mente e anche cercare di ricordarli ora, a distanza di così tanto tempo, mi fa venire il mal di testa. Sono solo dei flash, spiragli, ricordi di ricordi e anche metterli in ordine mi è difficile. Quasi sicuramente la prima volta che mi svegliai dopo il taxi era giorno, o meglio, c'era luce ma era così docile che forse era il tramonto, forse l'alba. Ero steso e nonostante i mille dolori e il bruciore ero comodo, su un letto alto, coperto da un lenzuolo sottile e bianco. Vidi una finestra, bianca, nuova, semiaperta e al di fuori di questa le finestre del palazzo di fronte che non fui in grado di riconoscere. Con un grande sforzo mi toccai la ferita sulla fronte e sentii il filo da sutura che mi aveva chiuso il taglio. Poi, di nuovo il buio.

 

Quando mi risvegliai era notte, la finestra che avevo visto prima era chiusa, le veneziane erano abbassate e non passava luce, ma la lampada a qualche metro da me illuminava di luce gialla la stanza e mi permise di notare delle gambe che riconobbi come quelle del taxi. Un ragazzo, giovane, capelli corti, viso preoccupato, seduto sulla sedia della scrivania e che non si era accorto che ero sveglio, fissava il palmo della sua mano come se dentro ci fosse chissà cosa. Prima di poter attirare la sua attenzione, però, mi riaddormentai.

 

L'indomani ero abbastanza in forze per rimanere sveglio e smetterla di crollare all'improvviso. Finalmente la testa non mi faceva così male e gli altri dolori erano sopportabili. Avevo un cattivo sapore di sonno in bocca e mi sentivo indolenzito per tutto il tempo in cui ero stato fermo. Da sveglio potevo finalmente guarire più velocemente e forse in meno di un giorno sarei stato in grado di tornare perfettamente in forma. Mi tirai su facendo forza sulle braccia e riuscendo a poggiare la schiena sulla tastiera del letto. Sulla stessa sedia che avevo visto quella notte il ragazzo dormiva serenamente  di fianco al mio letto e potevo notare un'infinità di dettagli che prima mi sfuggivano sia perchè finalmente vedevo bene e gli occhi non mi si chiudevano da soli, sia perché dalle fessure della veneziana entravano spiragli di luce gentili. 

L'intero appartamento - un monolocale non troppo grande - era un mix perfetto di semplicità e disordine (quel disordine accogliente che fa la differenza fra un appartamento da copertina e uno in cui vive una persona vera: poche magliette sparse in giro, un paio di piatti e di tazze da colazione nel lavandino, un paio di converse ai piedi del divano, un altro paio sotto la scrivania). L'arredamento era tutto sulle sfumature del bianco: il pavimento, le pareti, il divano, i pochi mobili che c'erano. Due cose però mi avevano stupito e distratto per un paio di minuti dalle fitte alla spalla. 

Primo, la libreria che separava il letto dalla zona cucina: piena di libri di ogni tipo, ordinati per genere. Riuscii a leggere alcuni dei titoli di quelli posizionati sullo scaffale alla mia altezza: Criminologia e vittimologia; Sociologia del diritto, della deviazione e della criminalità; Elementi di psicologia dinamica; Diritto penale. 

Per un attimo pensai di essere stato “salvato” da uno psicopatico, prima di girarmi a guardarlo di nuovo per trovarlo a dormire tutto storto e con la bocca aperta: un criminale non avrebbe dormito in un modo così buffo. In mezzo ai libri c'erano delle fotografie, una famiglia felice in riva al mare con un bambino piccolo che riconobbi essere lui mentre in tutte le altre in cui era poco più grande di un bambino c’era solo il padre o degli amici. 

Secondo, nella parete di fronte, non lontano dal divano, c'era un pianoforte a muro, del tipico color marroncino dei mobili antichi, con la scritta Blankenstein sopra la tastiera dove in tutti quelli - non chissà quanti - che avevo visto fino a quel momento c'era sempre il nome di una marca famosa come Yamaha, Schimmel e altri che in quel momento mi sfuggivano. Perfino da così lontano potevo notare che mancasse un tasto nero, un Si bemolle in basso e mi chiesi che strana storia poteva starci dietro un pianoforte a cui manca un tasto (neanche con la più fervida immaginazione mi sarei avvicinato a quella che adesso sapevo essere la sua vera storia). 

A distogliere la mia attenzione dall'appartamento fu il ronfare leggerissimo del ragazzo alla mia sinistra. Adesso lo guardavo sul serio per la prima volta.

Aveva i tratti gentili di un ragazzo che sembrerà sempre più giovane della sua età, la pelle liscia e gli zigomi alti. Dalla bocca appena aperta si notavano i denti bianchi e perfetti, contornati da labbra carnose, chiare come la sua carnagione, e che facevano contrasto con il colore scuro dei suoi capelli lisci, tirati verso l'alto, spettinati e confusi. Sotto gli occhi - non sapevo di che colore fossero perché stava dormendo, ma avrei scommesso castagno mischiato al verde scuro sui bordi, se proprio avrei dovuto provare ad indovinare - aveva le occhiaie quasi impercettibili di chi ha perso troppe ore di sonno e non potevo non immaginare di esserne responsabile. Vari nei di diverse dimensioni (molti così piccoli che se non fosse stato così vicino non li avrei notati) costellavano il suo viso sulle guance, sul mento, sul naso dritto e con la punta lievemente all'insù. E di certo, come ho già detto, non ero un grande esperto di bellezza e giudicare le persone se non per catalogarle come buone o cattive non mi veniva facile, ma su di lui non avevo molti dubbi: pensavo di non aver mai visto qualcuno di così bello e probabilmente avrei continuato a fissarlo ancora se non si fosse svegliato.

 

Si destò dal sonno come se qualcuno lo avesse scosso e io distolsi lo sguardo immediatamente. 

«Sei sveglio!» mi disse con un tono sollevato e quasi sorpreso - aveva paura che sarei morto? - feci sì con la testa. Avevo indovinato, quasi: occhi marroni, senza punta di verde, soltanto un castano pieno ed intenso. Più che il colore fu la luce che attraversava i suoi occhi a colpirmi, così come le piccolissime linee (chiamarle rughe non avrebbe reso giustizia alla loro delicatezza) che li contornavano, indice di una persona che rideva o sorrideva spesso e senza inibizioni, e cugine a quelle che gli bordavano gli angoli della bocca.

«Come ti senti? Ti faccio del thè» disse alzandosi per prendere il bollitore senza aspettare una risposta. Dopo aver messo l'acqua sul fuoco tornò ai piedi del letto.

«Come sono arrivato qui?» gli chiesi. 

Sembrò ricordarsi solo in quel momento che non sapevo nulla di lui, e forse si mise nei miei panni cercando di capire quanto quella situazione potesse sembrarmi strana. 

«Oh, sì... Sì, certo scusa.»

Si sedette sul divano davanti a me e iniziò a parlare così velocemente che dovevo prestare la massima attenzione per non perdere delle parole.

«Allora io stavo camminando nel parco, no? E poi ho sentito delle urla e quando sono arrivato c'eri tu per terra e per un attimo ho pensato che fossi morto, - beh evidentemente non lo sei! - e poi c'era quell'altro ragazzo...» il suo voltò si incupì all'improvviso al ricordo di quello che aveva visto e continuò dopo una breve pausa: «e lui... stavo per chiamare un'ambulanza ma poi tu hai bisbigliato che non potevi andare in ospedale e mi hai detto che dovevi andartene ma ti muovevi a mala pena allora ti ho portato qui e ho fatto una chiamata anonima per lui.» 

Siccome non dissi nulla, preso ad elaborare tutto quello che aveva detto, continuò: «Lo hanno detto al telegiornale ieri, si chiamava Tyron e aveva 22 anni. È stato un animale, un orso forse, così dicono.»

Il tono di quelle ultime parole fece capire quanto poco ci credesse. 

«Così dicono?» ripetei. 

«Beh, anche io pensavo che fosse un animale all'inizio, sai ho visto la sua gola quando mi sono avvicinato, ma un orso nel Bronx? Insomma... e poi tu eri ferito, cioè sei ferito, e un orso ti avrebbe fatto quello che ha fatto a lui, no?» 

Non capii se era una domanda ma non risposi. La testa mi pulsava e tutto sembrava troppo confuso. Il ragazzo sparì di nuovo dietro gli scaffali e tornò con una tazza fumante dal quale pendeva il filo della bustina di infuso. Me la porse e io l'accettai, prendendola tra le due mani, mentre lui tornava indietro a prendere la sua tazza e si sedeva di nuovo sul divano. Avevo delle domande: come avevamo fatto ad uscire dal parco se il cancello era chiuso, lui cosa ci facesse lì, come era entrato, perchè si era fidato di me. Di tutte quelle domande però non ne posi neanche una, vuoi perchè mi girava la testa e non riuscivo a connettere troppi pensieri alla volta, vuoi perché nulla in quel ragazzo faceva pensare ad un motivo per non fidarsi. Per questo misi a tacere quella parte di me, predominante nella maggior parte delle situazioni, che non si fidava di nessuno mi spingeva a diffidare persino di chi mi aveva (probabilmente) salvato la vita. Bevvi un sorso del thè bollente (lampone e melograno). Lui riprese: «Siamo riusciti ad arrivare al cancello d'uscita e tu hai strappato il lucchetto e tirato via il catenaccio con le tue mani, non te lo ricordi?» raccontava quasi euforico. Scossi la testa, ovviamente non me lo ricordavo.

«Siamo venuti qui in taxi, il tassista pensava che tu fossi ubriaco.» 

Di questo almeno avevo una qualche reminiscenza. Di colpo, una fitta alla testa mi spinse quasi involontariamente a toccarmi la ferita. Lui se ne accorse. 

«Ho cercato di medicarti, non sono proprio un infermiere... ma avevo un kit di pronto soccorso e tu insistevi a non voler andare in ospedale.» Si stava davvero scusando per non avermi medicato da professionista dopo avermi raccolto dalla strada e portato in casa sua? «Sai... so che sembra assurdo ma nel parco, quando ti ho trovato, c'era della neve per terra e sugli alberi. Non lo trovi strano?»

Oh, certo che lo trovavo strano. 

«Comunque io sono Stiles» mi sorrise, un sorriso buono, che diceva puoi fidarti di me. «Derek» gli risposi.

«Piacere di conoscerti. Va bene se apro un po’?» chiese mentre si stava già dirigendo verso la finestra. Aprì le tende facendo entrare fasci di luce bianca. 

«A proposito, ieri hai dormito tutto il giorno. Il telefono ti è suonato un bel po’ di volte» indicò il comodino al lato del letto. Presi il mio telefono (aveva dei nuovi graffi sui bordi). Cam mi aveva chiamato quattro volte e mi aveva lasciato tre messaggi in segreteria. Mi aveva anche scritto: “Hale, tutto bene?”. Poi “C'entri qualcosa con quello che è successo al St. Mary's Park, vero?” e infine “Chiamami appena puoi.”

Posai la tazza sul comodino, mi tolsi il lenzuolo da dosso.

«Ascolta, Stiles, ti ringrazio per quello che hai fatto, davvero. Adesso devo andare» feci per alzarmi anche se una volta in piedi la stanza prese a girare così forte che fui costretto a sedermi di nuovo. Avevo bisogno di più tempo per guarire ma speravo di potermi riprendere a casa mia. Mentre mi premevo le tempie cercando inutilmente di far scomparire le fitte alla testa, Stiles mi chiese: «Puoi dirmi cos'è successo prima che arrivassi?» esattamente come temevo. Avevo già captato la sua indole curiosa ma speravo che il terrore per quello che aveva visto potesse impedirgli di interessarsi. Optai per la verità. 

«Ho sentito delle urla provenire dal parco, sono entrato e ho trovato una specie di bestia che attaccava quel ragazzo. Ho cercato di aiutarlo ma è stato inutile.»

Quasi la verità, una versione meno soprannaturale. 

«Non è colpa tua, sai» mi disse guardandomi negli occhi come se mi avesse letto nei pensieri che nascondevo persino a me stesso. Penso che nessuno fino a quel momento mi avesse capito come fece lui con una sola frase, senza conoscere che il mio nome, e credendo ciecamente a quello che gli stavo dicendo.

«Già» dissi con nessuna convinzione. Quello che Stiles non sapeva è che io non ero solo un uomo indifeso contro una bestia di qualche tipo. Ero un fottuto lupo mannaro e non avevo concluso nulla.

«Devo proprio andare.» Mi alzai di nuovo, con più calma. «I tuoi vestiti sono lì, li ho lavati... erano sporchi di sangue» disse imbarazzato e tornò verso la cucina, forse per darmi un momento di privacy mentre mi cambiavo. Piegati e poggiati sul mobiletto sotto la finestra il pantalone e la felpa che avevo la notte dello scontro profumavano di lavanda. Dopo essermi infilato i pantaloni e le scarpe mi tolsi la maglietta che Stiles probabilmente mi aveva prestato (me l'aveva messa lui?) e il rumore di una tazza che cadeva sul pavimento e andava in pezzi mi rimbombò nelle orecchie. Quando mi girai i cocci di una tazza rossa stavano ai piedi di Stiles che mi guardava con gli occhi sbarrati e leggermente lucidi. Aveva la bocca aperta dallo stupore, vedevo le punte delle sue dita tremare appena.

«Cosa c'è?!» chiesi preoccupato. Lui abbassò lo sguardo, raccolse i tre pezzi più grandi da terra facendo attenzione a non tagliarsi e li buttò via. Lo vidi sforzarsi mentre cercava di far uscire le parole: «Il tuo tatuaggio…» non riuscì a finire la frase. Stava parlando di quello - l'unico - che avevo sulla schiena, in mezzo alle scapole, e che aveva visto mentre mi cambiavo. 

«È un triskelion» gli dissi. Tre spirali che partono dal centro e ruotano nello stesso senso. 

«Mi puoi dire che cosa significa?» domandò come se avesse paura della risposta. Non era facile trovarne una semplicemente perché di significati quel simbolo ne aveva tanti e quello che aveva per me era collegato a cose del mio passato, sulla mia famiglia (il mio branco) che non avrei potuto raccontargli e che neanche volevo ricordare. In ogni caso, il triskelion era da sempre associato al mondo soprannaturale e il comportamento di Stiles era strano, insolito. 

«Ci sono tanti significati... per ognuno ha un concetto diverso ma sono sempre tre cose, come le spirali» mi guardava attento, con gli occhi di chi vuole saperne di più. 

«Per esempio, la madre il padre e il figlio oppure passato presente e futuro, capito?»

Lui fece sì con la testa, poi alzò la mano destra, se la porta al collo e tirò fuori il ciondolo della collana che aveva appesa al collo e della quale prima si vedeva solo il cordoncino. Fece tre passi verso di me, tenne in mano il pendente per mostrarmelo: un triskelion. 

«Me l'ha dato mia madre» disse, poi fece una lunga pausa in cui il dolore che provava aleggiava tutto intorno a lui.

«Prima di morire» aggiunse. 

«Mi ha detto che un giorno mi sarei trovato nel posto giusto al momento giusto, poi se n'è andata. Ero solo un bambino» la sua voce si spezzò un'ultima volta prima che lui potesse imporsi di farsi forza. Non sapevo cosa dire, ero abbastanza scioccato anche io, quindi aspettai che continuasse. 

«Sono anni che cerco informazioni su questo simbolo e non mi portano a niente. E adesso, una notte decido di salvare dalla strada uno sconosciuto che ha questo simbolo sulla schiena...» potevo vedere gli ingranaggi nella sua testa che ruotavano. Mi guardava cercando disperatamente una spiegazione, ma io non l'avevo.

Poi, cambiò completamente espressione che da smarrita diventò seria, con le labbra strette e nessuna traccia di confusione. Come se si fosse ricordato qualcosa di fondamentale e avesse collegato tutti i pezzi del puzzle mi disse: «In tutti questi anni di ricerche c'era una cosa che tornava a spuntare fuori e io non gli ho mai dato peso, perchè ragionavo in modo razionale.»

Iniziò a parlare con più convinzione, alzò il tono di voce, gesticolava. 

«Ma adesso... Dici che c'è una bestia - non un animale - e io ho visto cosa ha fatto a quel ragazzo e tu? Tu sei sopravvissuto? E ieri avevi una caviglia slogata mentre adesso ti sei messo in piedi come se nulla fosse?»

Fece una lunga pausa poi sussurrò: «So che cosa sei.» 

 

Ricordo perfettamente quel momento: quando un giovane ragazzo che non avevo mai visto prima aveva scoperto - o credeva di averlo fatto - il mio mondo e mi smascherava, lasciandomi con un pugno di giustificazioni in mano, con le regole che mi erano state insegnate fin da bambino (“Gli umani non devono sapere, non devono neanche dubitare della nostra esistenza!” potevo ancora sentire il tono severo di zio Peter che mi spiegava “le basi dell'essere un lupo”, come le chiamava lui) mentre tutto quello a cui riuscivo a pensare era di dirgli la verità perché forse meritava di saperla, perchè se non l'avessi fatto io avrebbe passato chissà quanto altro tempo a chiedersi cosa volesse dire sua madre, a provare rabbia perchè non poteva chiederglielo lui stesso. Fu in quel momento che mi resi conto che ero io lo Stiles che aveva bisogno di risposte e che voleva parlare con qualcuno che potesse dargliele. Ero io che avevo perso mia madre che avevo neanche sedici anni, quando una mattina qualsiasi ero andato a scuola e tornato a casa avevo trovato il nastro giallo della polizia che circondava l'edificio in fiamme, con i pompieri che gridavano tra loro e le sirene delle autopompe che strillavano. Ero io che volevo parlare con mia madre, salutarla un'ultima volta, chiederle cosa desiderava per me, sapere se era fiera di quello che ero diventato. Se mi avesse lasciato con parole diverse da “Ci vediamo dopo, buona giornata, ti voglio bene” (che ripetevo nella mia testa nei momenti peggiori simulando la sua voce, riproducendole come un nastro rotto a ripetizione) mi chiedevo come e se avrei potuto superare certi giorni. Se una delle ultime cose che mi avesse detto fosse stata una frase misteriosa, se mi avesse lasciato una collana con un simbolo indecifrabile, non avrei trascorso anche io il resto della mia vita a scoprire cosa volesse dire? 

 

Ma non potevo rompere le promesse fatte, non potevo infrangere il codice. “Gli umani non devono sapere” era la regola numero uno.

«Non so di cosa stai parlando» gli risposi cercando di nascondere quanto avrei voluto raccontargli tutto e aiutarlo.

«So che lo sai, dimmi che ho ragione, che non sono pazzo.»

Il suo tono non era accusatorio né implorante, mi stava solo facendo capire che ne era consapevole, sapeva che sapevo e tutto quello che avrei detto sarebbe stata palesemente una menzogna ma non mi avrebbe incolpato, non era da lui. 

«Non posso» insistetti. Il suo sguardo si indurì ancora di più. 

«Va bene allora, non sono questo tipo di persona ma... me lo devi. Ti ho quasi salvato la vita e se non fosse per me adesso staresti in una stanza d'ospedale dove tanto non vuoi andare» era visibile lo sforzo che faceva per sembrare un duro, ad interpretare una parte che non gli apparteneva. Non mi aveva aiutato per chiedermi qualcosa in cambio, lo aveva fatto perché era palesemente una brava persona. Presi dalla discussione ci eravamo inavvertitamente avvicinati e non me ne accorsi fino a quando il suo profumo fresco e leggero mi arrivò alle narici e mi deconcentò per un attimo. 

«Ti prego» sussurrò Stiles, così piano che non lo avrei sentito se non fosse stato così vicino. Tutte le mie difese caddero e la determinazione a mantenere una promessa fatta anni e anni prima si assopì come sotto l'effetto di un sedativo dinanzi a quella richiesta di aiuto. 

«Siediti» gli dissi. Si mise sulla sedia dove fino a qualche momento prima stava dormendo e io - con grande sollievo per la mia caviglia che ancora non era guarita del tutto - mi accomodai di nuovo sul letto. Non avevo (ovviamente) mai fatto un discorso simile e trovare le parole adatte fu più difficile di quello che pensavo. 

«Non dovrai dire mai nulla a nessuno di quello che sto per dirti.»

«Lo prometto» mi rispose serio.

Pensai all'ironia della situazione: stavo facendo promettere ad un altro quella stessa promessa che io stavo infrangendo. Strappai via il cerotto: «Sono un lupo mannaro» dissi, guardandolo negli occhi. Stiles tirò un sospiro, quasi sollevato dal fatto di avere ragione. Annuì leggermente con la testa per farmi capire che potevo continuare. 

«Sono nato in un branco centenario di lupi mannari quindi lo sono dalla nascita. Esistono anche altre creature soprannaturali come coyote mannari, giaguari mannari, berserker, wendingo, kitsuni, banshee e via dicendo. Ogni creatura ha le sue caratteristiche, le sue debolezze e soprattutto i suoi poteri.»

«Quali poteri hai?» mi interruppe curioso, con gli occhi indiscreti di chi ha fame di conoscenza. 

«Forza, velocità, riflessi più veloci, guarigione accelerata, assorbimento del dolore, udito e vista migliori, cose così.»

«Wow... E la storia della luna piena?»

«Vera... porta un po' di scompensi, sai, rabbia immotivata, sete di sangue» lo vidi sbiancare un po'. 

«Davvero?»

«Sì ma è una cosa che si impara a controllare, soprattutto se ci nasci.»

Mi resi conto della leggerezza con cui ne stavamo parlando. Avevo svelato ad un umano uno dei segreti più antichi e protetti del mondo e ne discutevamo come se fossero chiacchiere da bar. La verità è che sentivo il cuore più leggero ad ogni domanda che Stiles mi faceva e sapere che ero io l'oggetto del suo interesse gonfiava il mio ego più di quanto avrebbe dovuto. 

«Mi fai vedere?» osò chiedermi sapendo che non aveva troppe possibilità di essere soddisfatto. Difatti il mio carattere duro e severo stava già aprendo bocca per affermare di non essere uno spettacolo da circo quando mi misi nei panni di Stiles, costretto a credere ciecamente a tutto quello che dicevo e senza uno straccio di prova. Per questo, chiusi la mano destra a pugno in mezzo a noi e quando la riaprii di scatto feci uscire gli artigli. «Cavolo!» Stiles quasi saltò su dalla sedia. A differenza di come avrebbe reagito chiunque, nei suoi occhi non vedevo paura, né ribrezzo. Era semplicemente curioso, e non di quella curiosità avida e invadente, bensì di quella genuina, dove l'interesse è autentico. Eppure il pensiero di apparire ai suoi occhi come un mostro mi infastidiva e mi disturbava immaginare che questo sarebbe stato il ricordo che avrebbe avuto di me se mai mi avesse pensato (lo speravo?) dopo quel giorno. Fu per questo che ritirai la mano mentre la stava ancora osservando a bocca aperta. Pensai a cosa potevo fare per scacciare quel ricordo e l'unica cosa che mi venne in mente fu il sostituirlo con un altro (fortunatamente il mio corpo era abbastanza in forze per questo anche se non avrebbe potuto sopportare una trasformazione completa). 

«Okay, aspetta, guarda qui» gli dissi e chiusi gli occhi per concentrarmi. 

«Cosa devo guard-» si interruppe a metà quando sollevai le palpebre e le piccole iridi verdi erano diventate blu, luminose e brillanti. Stiles mi fissava, come ipnotizzato, senza dire nulla. Quando il silenzio rese la situazione più strana di quanto già non fosse, disse: «Sono bellissimi» con il tono di chi non crede a quello che vede e facendomi sentire in imbarazzo (non ricordavo l'ultima volta che era successo, se era successo) per cui richiusi gli occhi e li feci tornare normali. 

«Sono belli anche così» mi sorrise. Feci finta di niente perchè non sapevo cosa dire. Cambiai argomento.

«Dunque, il triskelion è un simbolo legato ai lupi mannari ma come ti ho detto significa molte cose e non so cosa volesse dire per tua madre» spiegai dispiaciuto.

«Pensi che lei fosse un lupo mannaro?» 

«Non posso dirlo con certezza ma doveva avere a che fare con questo mondo... sarebbe potuta diventarlo dopo averti avuto se un lupo mannaro l'avesse morsa e se eri così piccolo potresti non essertene accorto.» 

«No, ci ho pensato a lungo in questi anni e non credo che lo fosse» disse come rassegnato. «Adesso puoi dirmi cos'è successo davvero l'altra notte?» 

Gli raccontai della mattina in cui avevo sentito la traccia, di quella notte, di come avessi trovato il demone e del ragazzo che non ero riuscito a salvare. La prima cosa che mi disse fu: «Come ho detto prima, non è colpa tua.»

«Avrei potuto salvarlo» mi lasciai sfuggire pensando a voce alta. 

«Non hai fatto forse il possibile per riuscirci? Non è colpa tua ma di quel coso, quel demone, okay?» Stiles alzò la voce per assicurarsi che avessi capito. Mi fece sentire un po’ meglio e provai dopo un'infinità di tempo il sollievo che viene dopo aver condiviso un'angoscia con qualcuno, come se il peso si dividesse in due e una parte cominciasse a portarla l'altro. 

 

«A proposito del demone, scusa se non te l'ho detto prima» si alzò e andò a rovistare in una scatola rettangolare nel ripiano più alto della sua libreria. Mi alzai per vedere cosa facesse e quando si girò aprì la mano davanti la mia. 

«L'ho trovato per terra quando ti ho visto, non so perchè l'ho preso però forse può aiutarti?» Nel suo palmo era poggiato un artiglio (più lungo e appuntito dei miei), quasi completamente nero e molto sporco, di quelli che avevano lacerato la gola di Tyron e che probabilmente il demone aveva perso. 

«Sì, è decisamente utile, bel lavoro» gli dissi mentre allungai la mano per prenderlo ma lui la chiuse a pugno. 

«Fammi venire con te» disse guardandomi determinato fisso negli occhi. 

«No, non se ne parla.»

«Andiamo, posso aiutarti! Sono un criminologo e imparo in fretta!» supplicò. 

«No. Non voglio averti sulla coscienza.»

«Ma non mi avrai sulla coscienza se non mi succede niente e poi te lo sto chiedendo io, so che è pericoloso.»

Mi avvicinai bruscamente, forse troppo. 

«No. Tu non lo sai, non sai proprio niente. Basta un errore, uno solo, e siamo spacciati. L'ho visto con i miei occhi quel coso, quello che sa fare.» Volevo spaventarlo, è vero, ma lo stavo facendo per il suo bene. 

«Tutto questo... potrebbe avvicinarmi a mia madre» disse con lo sguardo basso.

«Ti prego, non mi chiudere fuori adesso che so finalmente qualcosa!» mi guardò per farmi capire quanto fosse importante per lui tutto questo. L'idea di andarmene via da quella stanza e non rivederlo mai più mi amareggiava, lo avevo ammesso a me stesso, ma non potevo assumermi quel carico di responsabilità. Non ero più un lupo da branco, il lavoro di squadra non era il mio forte e da anni me la sbrigavo da solo. Mi voltai per andare a prendere il mio telefono, me ne sarei andato e basta. Poi Stiles aggiunse: «Se non potrò venire con te, lo farò da solo. E sai che questo è ancora più pericoloso.»

L'immagine di Stiles ai piedi del demone con la gola aperta come la scena a cui avevo assistito mi fece venire i brividi. 

«E poi» aggiunse sorridente (perchè aveva già capito dalla mia espressione che mi aveva fregato) «questo l'ho trovato io e tu sei ancora in debito con me.»

Mi scappò un sorriso. 

«Credevo che la storia del debito fosse finita quando ti ho raccontato un segreto millenario infrangendo una promessa di sangue» (la feci più tragica di proposito). Lui rise, poi mi lanciò l'artiglio che afferrai al volo. 

«Ascolta. Regole» gli dissi. 

«Spara.» 

«Non farai cazzate. Non ti metterai in pericolo. Non mi contraddirai. E se ti dico di scappare tu scappi.»

«Chiaro. Allora, dove andiamo?» si mise le mani sui fianchi. 

«A trovare un vecchio amico, ma prima devo passare da casa. Ci vediamo alle 16 alla clinica veterinaria in Leadwell Street, la conosci?»

«La troverò.»

«Bene, a dopo allora.»

«A dopo» disse con tono pacato ma cercando chiaramente di nascondere l'euforia che lo avrebbe fatto scalpitare come un bambino prima di andare al luna park. Mi accompagnò alla porta. «Hei» mi chiamò prima di chiuderla alle spalle. Mi voltai dopo aver sceso qualche gradino. «Non te ne pentirai» mi sorrise riconoscente. Mi limitai a sorridere di rimando perchè in quel momento non lo sapevo, e non lo avrei saputo per altro tempo ancora - un periodo in cui mi torturai sulle decisioni che avevo preso - ma contrariamente a quanto suggerivano i dubbi che mi sorgevano mentre tornavo a casa, quella fu una delle decisioni migliori della mia vita. 

 

IV


Per tornare a casa impiegai poco tempo, Stiles abitava a due isolati da me come mi resi conto appena lasciai il suo appartamento, per cui dopo dieci minuti di camminata (non troppo veloce perchè la caviglia mi faceva ancora male) stavo già aprendo il portone di casa. Con l'udito da lupo cercai di capire se Mrs. Crowford fosse in casa e appena tesi l'orecchio sentii lo sportello del suo forno che si apriva e la televisione della sua cucina parlare dei benefici del caffè ma solo dopo che ebbi bussato il campanello della sua porta mi resi conto che sembravo uscito da una rissa da bar, con un taglio in fronte e zoppicante. Prima che potessi ripensarci venne ad aprire con i guanti da forno ancora indosso. L'ondata di profumo di dolce mi fece capire quanto mi fosse mancata.

«Caro, sei tu! Mi hai fatta preoccupare! Stai bene?» mi prese la testa tra le mani e la abbassò all'altezza dei suoi occhi per esaminare da vicino la ferita. 

«Mrs. Crowford! Sto bene, non si preoccupi, sono passato a dirle che è tutto apposto, stia tranquilla. Ho avuto un po' di grane a lavoro» le sorrisi e alzai le spalle per farle capire che non era nulla di grave. 

«Forza entra, ho fatto i biscotti allo zenzero» disse mentre già si voltava per tornare dentro senza lasciarmi altra scelta che seguirla lungo il corridoio d'ingresso sulle mattonelle di graniglia di marmo anni '70. Fortunatamente dopo sei biscotti e due bicchieri di succo capì che avevo bisogno di andare a casa e mi rilasciò come si fa con un ostaggio.

 

Nel mio appartamento c'era l'aria pesante di un posto che non aveva preso aria per due giorni e la terra nei vasi delle piante era decisamente secca. C'era qualcosa di tremendamente suggestivo nel prendermi cura di quelle piante (due edere dorate sulle mensole in salotto, una medinilla sul davanzale in cucina, una palma areca all'ingresso) e capii presto essere il nesso con la casa della mia infanzia - adesso in cenere - immersa nel bosco, dove ogni mattina potevamo correre senza nascondere la nostra natura, liberi e affamati, pronti alla caccia. Quando mi ritrovai di fronte allo specchio del bagno dopo una doccia calda e rigenerante notai che ero pallido, col volto più scavato del solito, ma almeno il taglio stava guarendo molto in fretta e un paio d'ore dopo avrei potuto togliere i punti che Stiles mi aveva messo. Pensare a lui così vicino al mio volto mi fece sorridere per meno di un attimo ma in fretta scacciai il pensiero. Dopo aver mangiato quello che non era andato a male in frigo dopo la mia assenza, mi stesi sul divano ed ero così stanco e lui era così comodo che scivolare nel sonno fu molto più facile che tenere gli occhi aperti. Prima di crollare scrissi a Cam: “Sto bene. Sì, c'entra il St. Mary's Park. Ho una pista, ti terrò informata.”

Mi addormentai prima di rendermene conto. 

 

Alle 16 meno cinque minuti mi trovavo davanti la clinica veterinaria in Leadwell Street, soleggiata e primaverile, circondato da persone di ogni tipo che andavano e venivano ad entrambi i lati della strada. Quasi completamente rigenerato, senza punti alla fronte, con la caviglia completamente guarita, lo stomaco pieno (anche se avevo sempre fame, uno dei lati negativi dell'essere un lupo mannaro) aspettavo Stiles sui gradini del palazzo di fronte la clinica, meravigliato dal via vai di cani, gatti, conigli e porcellini d'india domestici a cui avevo assistito solo negli ultimi cinque minuti. Stiles arrivò dopo poco. 

«Ehi» disse. 

Si era cambiato anche lui i vestiti e vederlo con tutta quella luce attorno, all'aria aperta, mi fece apprezzare di più le sfumature dei suoi occhi, le diverse gradazioni di castano nei suoi capelli e la tonalità chiara della sua pelle, resa palese dalle braccia lasciate scoperte dalla maglietta a maniche corte. 

«Sei in ritardo» mi finsi irritato. 

«Di un minuto!» mi mostrò l'orologio digitale sul polso sinistro che indicava le 16:01.

«Per questa volta passi» gli sorrisi. Quasi non mi riconoscevo. Ero passato dal non volerlo con me a scherzarci come uno scemo nel giro di qualche ora. 

«Andiamo» mi imposi di essere più professionale. Attraversammo la strada e ci dirigemmo a pochi metri dalla porta della clinica da cui stava uscendo un cliente con un cane grande il doppio di lui tra le braccia. 

«Dove siamo?» chiese Stiles, ma prima che potessi rispondergli ci eravamo già fermati davanti la piccola porta in legno antico che passava completamente inosservata a chiunque a causa della dimensione estremamente modesta del negozio. Sollevò la testa e lesse ad alta voce l'insegna in alto: «Emporio Walgreen - Dove le cose girano per il verso giusto. Andiamo in un emporio?» 

«Non esattamente.» Impugnai la maniglia, molto più nuova e moderna rispetto al legno venoso e pregiato della porta, come avevo avevo già fatto diverse volte. Al posto di spingere verso il basso, però, indirizzai il manico verso l'alto. Un fascio di luce blu illuminò i brodi dell'infisso, scivolando sotto e ai lati. 

«Che cavolo…» Stiles fece un passo indietro meravigliato. 

«Il verso giusto? È questo che vuol dire l'insegna? Di tirare verso l'alto?»

Mi sentivo pieno di orgoglio per quel trucco da quattro soldi che Walgreen aveva messo su, solo perchè ero riuscito a stupirlo. 

«Vai avanti tu» gli feci cenno con la mano. Non esitò neanche un attimo prima di spingere la porta ed entrare. Lo seguii e chiusi la porta alle mie spalle che emanò di nuovo un lampo di luce, ma Stiles non se ne accorse perchè stava già ammirando l'interno di uno dei posti più ammalianti e mistici di Manhattan. 

 

Un manto di nuvole bianche e sfumate aleggiava molto al di sopra delle nostre teste nascondendo il soffitto (molto più alto di quello che sarebbe dovuto essere) da cui scendevano innumerevoli lampadari carichi di candele luminose. Nonostante fuori il sole ancora illuminava la città, dentro l'atmosfera di mistero era accentuata dalla luce soffusa che creava delle ombre bluastre. 

Come sempre quando venivo qui, non riuscivo a vedere le pareti, troppo lontane e semi nascoste dalla nebbia, e tutta la stanza sembrava un unico ambiente interminabile. Stiles camminava lentamente davanti a me, visibilmente scioccato. Migliaia di libri erano disposti in centinaia di librerie troppo alte per vederne la fine, interi scaffali erano zeppi di piccole ampolle di vetro e flaconi con tappi di sughero ripieni di liquidi di tantissimi colori diversi, molte statue a mezzo busto erano sparse in giro e in generale la confusione regnava sovrana in mezzo a strumenti di ogni tipo. 

Un'infinita varietà di cimeli erano poggiati su mobili altrettanto antichi molti dei quali ricoperti o rifiniti d'oro scintillante, cavalletti di legno su cui poggiavano dipinti autentici raffiguranti paesaggi e volti di ogni tipo e numerosi specchi di tutte le forme con cornici placcate d'oro. La bottega così piccola che veniva facilmente trascurata (scelta intenzionale del proprietario) si rivelò essere così un luogo sconfinato dove i margini della stanza non erano neanche lontanamente visibili. 

Stiles si girò verso di me mentre continuavamo a camminare e senza far uscire nessun suonò mimò con la bocca le parole «Oh mio Dio!» con un'espressione tra lo sconvolto e il meravigliato di cui faceva una buffa caricatura. Passai di fianco la teca con la piccola iguana (non più tanto piccola, cresciuta almeno il triplo rispetto all'ultima volta che ero andato lì) e la salutai con un colpetto sul vetro. 

«Come va Murph?» le sussurrai. Stiles che nel frattempo aveva continuato ad avanzare si girò verso di me e, non potendo più frenare il suo entusiasmo, esclamò: «È più grande all'interno!» attestando l'ovvio, con le braccia spalancate verso l'alto.

 

«Adoro quando lo dicono» rispose la voce alle sue spalle che non aveva mai sentito facendolo sobbalzare e fare un passo indietro. Il tipo di ingresso ad effetto per cui viveva Walgreen. Apparve di soppiatto, in piedi, in uno dei suoi migliaia di completi chic. Gli occhi gialli e felini si incastravano alla perfezione nel volto appuntito dal taglio di zigomi inusuale - che ricordava il più sofisticato dei gatti - e con l'incarnato scuro che palesava le sue origini ivoriane. Aveva i capelli sempre perfettamente sfumati dal collo alla linea delle orecchie dove corti ricci afro - neri e rossi - spuntavano ordinati. I piccoli orecchini luminosi illuminavano il volto truccato. La pelle liscia e tirata e il naso piccolo ma schiacciato lo ringiovanivano e si sposavano alla perfezione col suo fisico asciutto. Indossava una sfarzosa giacca di lustrini in tutte le sfumature conosciute del blu che simulavano l'effetto del mare e un pantalone nero classico per bilanciare. Nonostante tutti gli elementi presi singolarmente (i capelli rossi, il make up, gli orecchini, le giacche pompose) potessero sembrare troppo, nell'insieme era l'incarnazione della raffinatezza e nulla sembrava fuori posto, come se fosse nato così. 

 

«C...Ciao» gli disse Stiles. 

«Un umano!» si portò la mano al petto in un gesto teatrale mentre mi guardava in cerca di spiegazioni ma già col sorriso sornione di chi si godrà la situazione. 

«Stiles, lui è Walgreen. Walgreen, Stiles» li presentai. 

«Chiamami Wal» gli porse la mano. 

«No, non farlo» aggiunsi. 

Stiles gliela strinse imbarazzato. 

«Una parola?» Walgreen mi sorrise e si voltò senza aspettare la mia risposta. Guardai Stiles per rassicurarlo: «Non preoccuparti, rimani qui e... non toccare niente.»

Gli diedi una pacca sulla spalla prima di rendermene conto e mi chiesi se non fossi stato inopportuno mentre pensavo che quella era la prima volta che ci toccavamo (che io ricordassi, perchè non avevo memoria della notte in cui mi aveva trovato e sicuramente ci eravamo toccati. Ma poi che importava?)

 

«Dimmi tutto» dissi a Walgreen quando lo raggiunsi dietro un paio di librerie. 

«Oh, secondo te cosa voglio dirti? Gli hai raccontato tutto?»

«Sì, ma possiamo fidarci. Sua madre sapeva di noi... probabilmente.»

«Probabilmente?»

«Senti, mi ha salvato la vita e aveva già capito tutto prima che glielo dicessi io.»

«Spero che tu sia sicuro di quello che fai, Hale.»

«Lo sono» mi mostrai più convinto di quanto fossi in realtà. 

Quando tornammo da Stiles lui stava guardando con adorazione un pianoforte a coda color  avorio, mentre con una mano ne accarezzava delicatamente il profilo (immaginai di essere il pianoforte e allontanai subito il pensiero). 

«Si vede che hai buon gusto» disse Walgreen per richiamare la sua attenzione. 

«Allora, che cosa vi porta qui?» Walgreen battè le mani e se le sfregò. 

Gli raccontai tutto quello che era successo negli ultimi tre giorni e Stiles riportò tutto quello che aveva visto quando mi aveva trovato. Walgreen si tamburellava le dita sul labbro inferiore, annuiva con la testa e quando finimmo di spiegare chiuse gli occhi in due fessure nello sforzo di concentrarsi.

«Dimmi di più del suo aspetto» chiese. 

«Due metri, occhi rossi, corna lunghe e curve, artigli e zanne appuntiti, pelle dura come il marmo e sangue nero nelle vene» elencai tutto quello che ricordavo tralasciando le sensazioni di terrore e paura che provocava la sua presenza. Tirai fuori l’artiglio che Stiles aveva raccolto quella notte.

«Abbiamo questo. Appartiene al demone» lo poggiai nel palmo di Walgreen. Lui si girò per afferrare due delle boccette sulla mensola di uno degli scaffali alle sue spalle. In uno dei piccoli vasi vuoti sul tavolo che ci separava inserì l’artiglio, poi la polvere gialla e quella rossa delle boccette. Prese dalla sua sinistra una pozione fumante trasparente e la versò fino a riempire quasi completamente quel piccolo calderone dal contenuto ormai rossastro che emanava fumo come una vecchia ciminiera. 

«Oh» disse alzando l’indice ricordandosi l’ultimo ingrediente necessario. Schioccò le dita e nella sua mano apparve l’ennesima provetta. Con la precisione di un chirurgo fece cadere una sola goccia del contenuto. Sollevò la miscela e inspirò i vapori. Per qualche secondo perse conoscenza e sotto le palpebre chiuse le sue pupille viaggiavano alla velocità della luce. La sua testa provava a stare dietro a tutte le informazioni che gli arrivavano zigzagando nell’aria. Guardai Stiles che per tutto il tempo aveva osservato in silenzio con l’attenzione di chi dopo dovrà replicare quello che vede. 

«Tutto apposto, è normale» gli dissi per rassicurarlo. 

Pochissimo tempo dopo Walgreen tornò fra noi, tirò un sospiro e sentenziò: «Come pensavo, un Ghul.»

Vide le nostre facce interrogative e partì in una descrizione degna dei documentari di National Geographic Channel in versione soprannaturale col suo accento straniero. 

«Okay allora, sono demoni, come avevi detto giustamente tu» mi indicò «ma un tipo abbastanza raro perché per venire al mondo... beh la situazione è piuttosto rara. Sono demoni collegati» mimò con le dita delle virgolette immaginarie per aria «ad esseri umani comuni. Spesso loro imparano a controllarli, per questo ho motivo di credere che quando stava per attaccarti il suo padrone - o la sua padrona - lo abbia richiamato, altrimenti non avrebbe perso l’occasione di ucciderti. A parte l’essere terribilmente forti e schifosamente brutti ognuno di loro ha una caratteristica che proviene dalle situazioni in cui sono nati: nel nostro caso la neve.»

Io e Stiles ascoltavamo rapiti. 

«Ne ho incontrato uno, decine di anni fa, in Cile. L’aspetto è sempre lo stesso ma quello… Era nato durante un terremoto che scatenò un terribile tsunami. Un uomo aveva perso la moglie e le due figlie piccole durante il disastro e il suo dolore fu così forte da creare un Ghul. Sono creature potentissime proprio perché fondono un dolore e una rabbia molto forti. Ogni volta che il padrone lascia libero il Ghul e questo uccide qualcuno si verifica l’evento. Quindi… potete immaginare la tragedia di uno tsunami così di frequente. Mieteva molte più vittime di quante neanche intendesse ucciderne.»

I suoi occhi riflettevano la disperazione di quella situazione. 

«Come lo avete fermato?» chiese Stiles. 

«C’è solo una cosa che può fermare un Ghul: il Dirkey, un pugnale molto potente» alzò la mano in aria e dal nulla uno dei libri antichi molto lontani da noi gli volò nelle mani. Walgreen lo poggiò sul tavolo, cercò una pagina specifica e ruotò il libro nella nostra direzione. Sulla pagina ingiallita dal tempo indicò con l’indice la figura di un pugnale. 

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«Come lo troviamo?» chiesi. 

«Questa è la parte difficile. Questo pugnale si compone di tre pezzi: primo, la lama, secondo al centro, la guardia, terzo ed ultimo, l’elsa, ossia il manico. Quando sconfiggemmo quello in Cile ognuno dei tre Supremi ne prese un pezzo e lo nascose. Non ci diranno mai dove sono, l’unica cosa che possiamo fare è cercarli, ma non andremo al buio. Ho toccato il pugnale con le mie mani, quindi posso cercare di stabilire una connessione e darvi degli indizi.» Stiles non sembrava affatto preoccupato, anzi. L’espressione accesa sul suo volto sembrava gridare Sono pronto! come se si preparasse a questo da una vita. 

«Cosa succederà all’umano dopo che avremo ucciso il Ghul?» chiesi. Walgreen parve meravigliato dalla mia domanda. 

«Quello in Cile si salvò, ma non è una certezza.» Fui parzialmente sollevato della risposta. Un conto era far fuori demoni assetati di sangue, un altro era uccidere umani consumati dalle tragedie della vita. 

«Bene allora, vi terrò aggiornati e quando avrò qualcosa vi contatterò» concluse Walgreen. «Nel frattempo, il mio consiglio è di non provare a combatterlo. È troppo forte e hai visto cosa può fare» mi guardò. Un moto di rabbia mi partì dallo stomaco. Non poter combattere era una delle cose che più mi infastidiva, soprattutto quando questo voleva dire lasciare a piede libero un fottuto demone. 

«Ragazzo, fallo ragionare in caso voglia buttarsi in una missione suicida.» si rivolse a Stiles che imbarazzato non rispose. 

«Puoi prestarmi qualche libro sui Ghul?» chiese quasi intimorito. 

«Certo! Allora fammi pensare» iniziò a schioccare le dita in aria e ad ogni colpo sul tavolo si materializzava un libro (il più esile era spesso poco più di 10 centimetri) pieno di polvere. Al quinto schiocco Stiles iniziò visibilmente a preoccuparsi per la sua schiena, che avrebbe dovuto sopportare tutto quel peso nel viaggio fino a casa. Fortunatamente Walgreen si fermò. 

«Indirizzo?» gli chiese. Stiles non capì subito cosa intendesse ma, troppo sveglio per non arrivarci, dopo pochi secondi rispose: «2080 Madison Avenue, scala A, secondo piano, appartamento 6.»

Un ultimo schiocco e i libri non c’erano più. 

«Fighissimo!» si lasciò scappare Stiles. 

«Ultima cosa» ci disse Walgreen mentre stavamo per andar via «Quando credete di essere vicini al pezzo del pugnale che state cercando ringhia silenziosamente» mi guardò puntandomi l’indice. 

«E adesso fuori, sto aspettando un caro amico.»

 

V

 

Quando uscimmo il sole era ancora abbastanza alto nel cielo e non sarebbe tramontato prima delle 20. 

«Wow, decisamente più spassoso di un emporio» commentò Stiles. 

Iniziammo a camminare sul marciapiede verso Ovest. Lui alla mia destra aveva le mani nelle tasche del pantalone, una camminata non troppo sicura e il sole proiettava le nostre ombre per terra. Non mi preoccupai di definire dove stavamo andando perché la possibilità che ci dovessimo separare non mi piaceva, così preferii rimanere nell’ignoto e mettere un passo dietro l’altro. 

«Walgreen… cos’è esattamente?» chiese. 

«Un Nissen. Non ce ne sono molti, soprattutto a New York.» 

«È tipo uno stregone?» 

«Non esattamente. Lui non è una creatura magica ma è nato col dono di poter imparare ad usare la magia e insomma… ci è riuscito molto bene» parlavo a voce non troppo alta per far in modo che nessuno dei passanti potessi sentirci. 

«Il terremoto di cui parlava in Cile… è successo nel 1960. Questo significa che ha più di settant’anni!»

Il suo entusiasmo mi metteva di buon umore. Non avevo mai riflettuto su alcune cose in quella prospettiva e guardarle con gli occhi di Stiles rendeva anche le cose più scontate che sapevo da quando ero un bambino, curiose. 

«Ha molto più di settant’anni» gli sorrisi. 

«Oh mamma, mi sembra di essere in una di quelle storie che inventavo quando avevo 10 anni e volevo credere nella magia e sconfiggere i cattivi con la mia spada laser» ammise. Risi di gusto come non facevo da un bel po’. 

«La prossima volta puoi chiedere a Walgreen se ne ha una da prestarti.»

Fece una faccia sconvolta: «Aspetta, stai dicendo sul serio o mi stai prendendo in giro?» e mi fece ridere ancora di più. Quando si rese conto che stavo scherzando mi diede un colpetto sotto la spalla: «Non farlo più! Ci ho quasi creduto!» rise anche lui. Continuando a camminare arrivammo su Park Avenue dove il marciapiede diventava più largo, le persone diminuivano e il Garvey Park era alla nostra sinistra, con gli alberi in fiore che profumavano di tiglio e magnolie. 

«Sai, sento che devo chiarire questa cosa» cominciò. 

«Quando stamattina ho detto che sono un criminologo ho esagerato un po’... in realtà sono all’ultimo anno di college, poi potrò diventarlo.» 

Mi chiesi quante volte in quelle ore avesse pensato alla piccola bugia che aveva detto. «Però è vero che imparo in fretta e mi metterò subito a lavoro su quello che mi ha dato Walgreen.»

Dovevo averlo proprio spaventato se ci teneva così tanto a dimostrarmi di potermi aiutare. La verità era che mi faceva comodo un cervello in più se c’era da risolvere rompicapi e svelare misteri ma non gli avrei mai permesso di combattere o anche solo provarci per poi avere un’altra anima sulla coscienza.

«Bene, dobbiamo muoverci. Ogni giorno che passa il Ghul potrebbe uccidere qualcun altro.» «Già…» rispose. 

«Ti va se ci sediamo?» disse mentre con l’indice indicava uno degli ingressi del parco. 

«Certo» lo seguii. 

«Adoro questo posto, è meno affollato di Central Park ma alcuni punti sono anche più belli.» Scendemmo le scalinata di pietra. Tutto intorno il verde primeggiava e lasciava spazio solo ai colori dei fiori e al grigio degli enormi massi sparsi che d’inverno gelavano così tanto da diventare blocchi di ghiaccio. Passammo davanti numerose panchine ma nessuna sembrava soddisfare Stiles che continuava a camminare tra gli alberi secolari e i piccioni confabulanti. Le uniche volte in cui ero stato lì era in pieno inverno e i rami secchi erano macchiati dalla neve così come alcuni punti del terriccio. Ma, ammettevo in quel momento a me stesso, la primavera gli conferiva un’aria dinamica ed energica che vinceva decisamente su quella pigra e cupa dell’inverno. Il sole docile del pomeriggio inoltrato rendeva tutto ciò che ci circondava giallo miele come in una vecchia polaroid. Pensai a quanto avrei voluto che mia madre fosse stata lì per vederlo. Quando arrivammo di fronte l’unico albero di olmo del parco (così grande che avrebbe potuto ospitare una colonia di scoiattoli, con le foglie nuove miste tra il giallo e il verde chiaro) Stiles decise di sedersi.

 

Poggiava i gomiti sulle ginocchia e si manteneva la testa sotto il mento quando mi disse: «Adoro i posti come questo… mi ricordano mia madre, le passeggiate che facevamo quando era viva. Spesso non riesco a dormire, per questo ci vengo anche di notte, quando sono chiusi. Ecco perché ti ho trovato» girò la testa verso di me ma continuò a guardare dritto. «Immagino che dovessi saperlo» concluse. Solo in quel momento realizzai che non gli avevo effettivamente fatto quella domanda e poi semplicemente l’avevo dimenticato, fidandomi quasi ciecamente già dal primo momento che mi aveva parlato. 

«Posso farti delle domande?» chiese. 

«Sentiamo.»

Lo vidi ragionare per decidere l’ordine e scegliere la prima. 

«Tutti i lupi mannari hanno gli occhi azzurri come i tuoi?» 

«No. La maggior parte li ha gialli. Gli alpha, cioè i leader di un branco, li hanno rossi. Gli unici ad averli azzurri sono quelli che… beh quelli che hanno commesso un omicidio importante.»

Dissi la verità. Non volevo mentire (né omettere facendo finta che non fosse ugualmente una menzogna) e non sentii Stiles giudicarmi, né avere paura. Potevo vedere solamente il suo profilo e non batté ciglio. Di una cosa ero inspiegabilmente convinto: non volevo che pensasse male di me (al contrario di chiunque altro avessi mai incontrato prima di cui ignoravo totalmente le opinioni) per cui aggiunsi: «Mio zio. Lui ha appiccato l’incendio in cui è morta quasi tutta la mia famiglia e tutto il mio branco.»

Mi chiesi cosa ne pensasse e se nella sua testa si fosse detto Poteva evitare di ucciderlo.

Ad ogni modo, ancora una volta, la sua espressione rimase la stessa. 

«Non te l'avrei chiesto» disse. 

«Adesso non hai un branco?» 

«No, non più.» 

«Beh, hai qualcosa di meglio di un branco, adesso» tornò indietro con il busto sulla panchina per guardami.

«Uno Stiles!» indicò con gli indici il suo volto e sorrise. 

«Che idiota» mi fece ridere. 

«Non mi chiedi quali super poteri ho?» 

«Sentiamo.»

Iniziò a fare un elenco portando il segno con la mano destra e partendo dal mignolo. 

«Studio molto, bevo grandi quantità di thè, so suonare il pianoforte e sono un criminologo quasi finito» sorrise con aria convinta. 

«Oh credo che sia molto utile» dissi. 

«Se sai suonare così male da spaccare i timpani al Ghul potremmo avere una possibilità.» «Allora forse dovremmo provare a buttargli addosso del thè bollente perché sfortunatamente non faccio così schifo.»

Lo immaginai seduto sullo sgabello nel suo appartamento intento a suonare. 

«Sono già finite le tue domande?»

Rifletté ancora. 

«Puoi diventare un vero lupo?»

Quella domanda fece un po’ male ma come prima, scelsi la verità. 

«Potevo. Adesso non ci riesco più.» 

«Oh, mi dispiace.» Seguì un momento di silenzio. 

«Com’è essere un lupo?».

Ci pensai, ritornando con la mente a quando avevo corso nelle foreste tropicali dell’Indonesia dopo aver sconfitto il Pendakian, ma in realtà non avevo bisogno di sforzarmi per ricordarmelo, ci pensavo ogni giorno. 

«A volte lo sogno ancora, di correre nella foresta da lupo. È come essere un tutt’uno con quello che ti circonda. Vedi a 360° anche se continui ad avere solo due occhi perché i sensi sono così acuti che ti senti completamente immerso nella realtà e non la stai solo vivendo, la stai assorbendo. Non si tratta solo di sentire il terreno sotto i piedi e il vento in faccia mentre corri, non è assolutamente solo quello, è molto di più. E quando l’hai provato e poi non puoi più farlo… fa schifo.»

Non avevo raccontato a nessuno di non riuscire più a diventare un lupo, neanche a coloro che avrebbero potuto aiutarmi dicendomi perché mi stava succedendo. Me ne rendo conto adesso, mentre allora forse lo nascondevo a me stesso e facevo finta che non ci fosse un problema di fondo ripetendomi che fosse qualcosa che poteva capitare.

«Puoi trasformare gli altri in lupi mannari?» si passò una mano tra i capelli per sistemarli, un gesto più automatico che necessario.

«Sì, ogni lupo può trasformare un umano con il morso.»

Stiles mi guardò e alzò le sopracciglia in modo suggestivo. 

«No. Levatelo dalla testa. Questa non è una cazzo di commedia allaTwilight dove mi preghi di trasformarti e alla fine della fiera ti accontento.»

Ridemmo di gusto. 

«Okay okay stavo scherzando» ammise.

«Anche se per adesso vedo solo lati positivi.»

«Oh, capisco. Ma non è facile come sembra, soprattutto all’inizio. Perdere il controllo è un attimo.»

«E cosa mangi? Ti prego non dirmi scoiattoli, non potrei sopportarlo. Meglio se mi dici che ti pappi i criminali.»

«Niente scoiattoli. Ma comunque carne fresca, almeno ogni tanto. Nel giro della carne umana ci sono stato qualche anno fa ma ho smesso, troppo impegnativo e crea dipendenza.»

Di nuovo, parlavamo di mangiare carne umana come se fosse una conversazione sul tempo. 

«Ma mangio soprattutto cibo normale, non potrei rinunciarci.»

Sorrise. «Credo di aver finito le domande, per adesso.»

 

VI


Circa due settimane dopo Walgreen ancora non ci aveva fatto sapere il primo indizio per trovare la lama del pugnale. Avevo informato Cam su quello che era accaduto e le avevo spiegato a grandi linee la faccenda del Ghul e dei pezzi da trovare del Dirkey. 

“Fammi sapere se posso aiutarti” aveva risposto. In realtà temevo che il suo aiuto ci sarebbe servito per nascondere la scia di corpi che avrebbe portato con sé il demone. 

La notizia di Tyron aveva creato scalpore e panico generale e se ci fosse stata un’altra vittima la cosa sarebbe diventata molto più difficile da gestire. 

 

Avevo sentito Stiles un paio di volte, mi chiedeva se Walgreen avesse novità. Poi, un pomeriggio, mi disse che aveva scoperto qualcosa sui Ghul e che sarei dovuto andare da lui, per cui mi avviai a piedi. L’arrivo di giugno aveva colorato ancora di più i viali di New York e persino la freneticità degli abitanti in abiti eleganti da ufficio e dei turisti che non avevano mai abbastanza tempo per visitare tutto quello che avrebbero voluto acquistava un senso di spensieratezza. 

Svoltai in Madison Avenue e pochi minuti dopo bussai al campanello della porta di Stiles. Aveva un aspetto trascurato nonostante l’odore del suo bagnoschiuma mi invadeva le narici e i capelli fosse splendenti. Eppure le piccole occhiaie sotto i suoi occhi e la felpa grigia stropicciata da casa mi facevano pensare che si fosse davvero buttato nelle ricerche come aveva promesso di fare dimenticandosi di continuare a vivere la vita che conduceva fino a due settimane prima. 

«Vieni entra» disse facendosi da parte per lasciarmi passare e chiuse la porta alle mie spalle. Anche l’appartamento infondeva la stessa sensazione di negligenza nonostante non fosse polveroso o mal messo. In quel caso, dipendeva tutto dalla confusione di libri aperti (sulla scrivania, sul pavimento, sul coperchio del pianoforte), da fogli stampati e incollati alla parete con un pezzo di scotch trasparente (tra cui riconobbi un articolo di giornale sugli inspiegabili maremoti in Cile negli anni ‘60) e dal nuovo pezzo di arredamento che non era presente l’ultima volta che ero stato lì: una lavagna bianca di un metro per un metro appesa al muro con su scritto tutte le informazioni che avevamo fino a quel momento, parole chiave scritte con il pennarello rosso e una foto di Tyron al quale mi auguravo non se ne sarebbero aggiunte altre.

«Wow, ti sei dato da fare.» Sembrò non farci neanche caso, come se tutta quella indagine non fosse nulla di che. 

«Questo? Oh sì, te l’ho detto, studio molto. thè?»

«Sì, grazie» mi chiesi se avrebbe continuato a bere thè bollente per tutta l’estate anche quando fuori ci sarebbero stati più di trenta gradi. 

«Tieni, prova questo» mi porse una tazza fumante. Non avevo mai assaggiato nulla di più strano ma in qualche assurdo modo piacevole. 

«Zenzero, arancia e datteri» mi disse soddisfatto come se stesse svelando il trucco dietro la magia. 

«Buono. Allora cos’hai scoperto?» chiesi dal divano vicino la scrivania. Lui, in piedi di fronte a tutte le sue ricerche, iniziò: «Allora ho studiato i libri di Walgreen e dicono quasi tutto quello che ci ha già detto lui ma in uno di quei libri c’era una specie di paragrafo minuscolo in una lingua assurda che ho scoperto essere moabito cioè una lingua estinta da secoli e parlata da un popolo che abitava sulle coste del Mar Nero. Ma!» esclamò sorridente alzando l’indice «per fortuna in questa lingua ci hanno scritto la stele di Mesha - in cui praticamente si vantava di aver conquistato i moabiti - e sono riuscito a dedurne una specie di alfabeto che mi ha permesso di decifrare il paragrafo.»

Ero allibito. Avevo capito che Stiles fosse molto intelligente e che sapesse molte cose ma da lì a decifrare una stele in una lingua morta ce ne passava parecchio. Avrei potuto sentirlo parlare di quelle cose per ore.

«E cosa dice?» 

«In pratica che uno dei poteri dei Ghul consiste nell’amplificare a dismisura le emozioni di chi gli sta intorno. Cioè, in poche parole, se lo vedi e ti fa molta paura, potresti morire di crepacuore.»

Riflettei. «Ha senso ora che ci penso… Quando l’ho affrontato ho provato molta più inquietudine del solito nonostante non era il primo demone contro il quale combattevo.»

A differenza di quello che mi ero ripromesso, non dissi l’intera verità. Allora potevo solo immaginare che non sarebbe cambiato nulla se avessi detto a Stiles che il senso di angoscia più profondo che avessi mai provato mi aveva quasi paralizzato e che avevo sentivo un vuoto dentro grande quanto una voragine.

«Effettivamente, tutto torna con le condizioni in cui nascono i Ghul, per questo funziona solo con le sensazioni negative: ansia, panico, terrore» ragionò a voce alta. 

«Quindi questo significa che quando lo affronterai dovrai cercare di non pensare in negativo e cercare di non farti condizionare da lui.» 

«Ah beh, un gioco da ragazzi!»

Lo squillo di un messaggio mi distrasse. 

«È Walgreen, dice di avere qualcosa.» 

«Bene! Andiamo lì?» 

Scrissi la risposta: “Siamo da Stiles, arriviamo”.

Dopo neanche dieci secondi il filo precario dal quale penzolava la lampadina che scendeva dal soffitto iniziò a muoversi e sentii i piatti della cucina sbatacchiare tra di loro. A pochi metri da noi un cerchio fatto di scintille aumentava la sua circonferenza rapidamente lasciando intravedere l’emporio stracolmo di libri. Non appena Walgreen lo oltrepassò e il passaggio si chiuse alle sue spalle i fogli di Stiles che non erano attaccati al muro ma semplicemente poggiati per terra e sul tavolo smisero di vorticare nell’aria. 

«Oh! Mio! Dio!» Stiles non stava più nei suoi panni. Per un momento pensai che sarebbe impazzito dato che quasi tutto il suo sistema d’ordine era andato alle ortiche (perché anche se poteva sembrare un’accozzaglia di fogli sparsi un’ordine c’era) invece stava solo sorridendo istericamente per aver visto per la prima volta un portale. 

«Scusate l’intrusione» disse Walgreen sistemandosi il giro manica della giacca rossa sgargiante abbinata con l’eyeliner. 

«Ho pensato che così avremmo fatto molto prima.»

Stiles aveva ancora l’euforia dipinta sul volto. 

«Figurati!» gli disse, come se gli fosse riconoscente del fatto di essergli piombato in casa. «Ho cercato di stabilire il contatto con il Dirkey e sono riuscito ad avere soltanto una visione.» 

«Cos’hai visto?» chiesi. 

«Un leone con degli artigli dorati» 

«E basta?» 

«Purtroppo sì, dovremmo farcelo bastare. Ma è un primo indizio almeno, per trovare la lama.» 

«Bene, ci mettiamo subito a lavoro» disse Stiles determinato. Walgreen si guardò finalmente intorno: «Cavolo, vi siete proprio impegnati» sfiorò con la mano la parete piena di fogli. 

«Fatemi sapere, bacioni» e sparì più in fretta di come era arrivato. 

 

VII


L’entusiasmo per la ricerca non durò molto, almeno per me. Ci mettemmo poco prima di realizzare che una cosa generica come un leone (nonostante il particolare degli artigli d’oro) poteva riferirsi a qualsiasi cosa e dopo aver passato le prime due settimane a girare sottosopra internet e tutti i libri della New York Public Library che potessero avere un vago riferimento con i leoni tutto quello che sapevamo erano informazioni inutili come gli stemmi delle famiglie nobili della Francia nel 1600. Ci imbattemmo anche nella forma del trono di Tutankhamon che a quanto pare aveva delle teste di leone alla fine dei braccioli e degli artigli dorati ai piedi del trono e andammo addirittura al Met credendo di poter trovare un indizio nella sezione egizia che ovviamente fu un buco nell’acqua. 

Dopo un mese di ricerche non avevamo fatto nessun passo avanti. Come se non bastasse, il Ghul aveva attaccato di nuovo, uccidendo una signora di quarant’anni che tornava a casa dal lavoro in tarda sera. Fortunatamente Cam riuscì a coprire tutto, o almeno che fosse stata orribilmente sfigurata e che mancassero delle parti (la cena del Ghul) e il fatto che a luglio, a New York, nevicasse in un quartiere soltanto, fece molto più clamore. 

Stiles, a differenza mia, non si buttava mai giù. Era sempre pronto a seguire una nuova pista, a leggere il prossimo articolo, a trovare collegamenti anche dove non esistevano. Se non fosse stato per lui, in quel periodo avrei provato a combattere nuovamente il demone (e con tutta probabilità sarei morto). 

Quando accanto alla foto di Tyron aggiunse quella di Mrs. Walker gli chiesi perché le metteva lì, siccome sembravano soltanto essere un promemoria del nostro fallimento.

«Mi ricordano perché non posso mollare la ricerca e mi spingono a continuare perché non voglio mettercene altre vicine» fu la risposta. 

In tutto quello, studiava anche per i suoi esami. Mi chiesi se le sue giornate durassero 36 ore a differenza delle mie e quelle di tutti gli altri perché non si fermava un attimo e riusciva a fare mille cose. Ogni giorno per tre o quattro ore ci vedevamo, o a casa sua, o alla Public Library, o in un caffè con i nostri portatili pronti a fare ricerche. Quando si faceva tardi ordinavamo cinese (il suo preferito) o messicano, o da Domino’s Pizza (io bianca col salame, lui rossa con doppia mozzarella anche se finivamo sempre per dividercele). 

Una volta, quando avevamo appuntamento a casa sua per esaminare dei libri che aveva preso in prestito alla St. Agnes Library, mi fermai sulle scale d’ingresso prima di bussare. Per la prima volta da quando l'avevo conosciuto lo sentii suonare. Rimasi di sasso, come se non avessi mai ascoltato un pianoforte in vita mia, e usai l’udito da lupo per sentire meglio. Era una musica calma e travolgente, forse triste, di quelle che si usano nei film quando uno dei personaggi si sacrifica per salvare gli altri, e nonostante non fossi un grande esperto mi dicevo che era eseguita alla perfezione e che era davvero bravo come aveva detto il primo giorno che l’avevo visto. Provai ad aprire la porta e la serratura scattò sotto la mia mano. Stiles non si rese conto che ero entrato fino a quando non mi vide con la coda dell’occhio. «Ehi» smise di suonare. 

«Continua» gli chiesi. 

Riprese ripetendo le ultime due battute e io mi sedetti sulla sedia della sua scrivania. La sua postura era impeccabilmente dritta e le mani si muovevano scaltre ma senza fretta da un punto all’altro della tastiera sapendo perfettamente dove andare. Era delicato ma allo stesso tempo i polpastrelli usavano la giusta dose di forza per spingere i tasti e far uscire un suono pulito, deciso, che si alternava con i ritmi incalzanti del brano. Di profilo potevo vedere i suoi occhi scorrere sullo spartito. Quando finì poggiò i palmi sulle cosce in quella che capii essere una sorta di posa di riposo. 

«Piaciuto?» 

«Sì, cos’è?»

Sorrise prima di rispondere: «È abbastanza ironico ora che ci penso. Si chiama Claire de lune»

Scappò un sorriso anche a me. 

«È di Debussy... credi che fosse un lupo mannaro anche lui?» 

«Chi può dirlo» alzai le spalle. 

«È la mia suite preferita» disse. Avrei voluto saperne molto di più, avrei voluto fare un commento pertinente, avere dei gusti intriganti, poter sostenere un dialogo e magari sembrare anche interessante. 

«Sei bravo per essere un pianista a cui manca un tasto» fu l’unica cosa che mi venne in mente. Sorrise e andò a sfiorare il vuoto che aveva lasciato il Si bemolle mancante. 

«Ho trovato questo pianoforte da un antiquario sulla 84esima, Mr. John Koch, un vecchino tutto sorridente, che me lo ha offerto a metà prezzo perché mancava un tasto. All’inizio ho pensato di farlo aggiustare ma adesso… sono passati già due anni e mi sono abituato… non lo cambierei mai.»

 

Nei libri non trovammo nulla di utile ma quella sera, dopo aver visto Stiles suonare per la prima volta e aver colto dopo tanto una nuova sfumatura di marrone nei suoi occhi sotto la luce bianca della lampadina nel suo salotto, capii di essere stato stregato e finito irrimediabilmente in qualcosa che però non aveva nulla a che fare con la magia (almeno del tipo di cui si occupava Walgreen).

 

VIII


La mattina di due settimane dopo Stiles aveva un esame, Comunicazione e socioterapia, che lo costrinse ad accantonare le ricerche nei giorni precedenti con suo grande dispiacere. Quasi a mezzogiorno, mentre uscivo dalla doccia dopo l’allenamento della mattina, ricevere la sua chiamata mi sembrò insolito. 

«Stiles?» risposi. 

«Derek!» la sua voce allarmata mi fece scattare. «Derek! Ci siamo!» 

«Cosa? Hai fatto l’esame? Tutto bene?» sentivo i clacson e i rumori della strada in sottofondo. 

«Sì, sì, sto bene ma l’ho trovato! Il leone! Vieni subito qui, ti mando la posizione» e riattaccò prima che potessi aggiungere altro. Neanche cinque secondi dopo arrivò il messaggio. 

Si trovava nel Lower East Side, al numero 58 di Delancey Street. Mi vestii in tutta fretta e uscii di casa quasi dimenticando le chiavi. Purtroppo dovevo attraversare quasi tutta l’isola e quindici chilometri nell’ora di punta a Manhattan avrebbero richiesto molto più tempo di quello che ci si poteva aspettare. Armato di tutta la pazienza che trovai, sollevato almeno dal fatto che Stiles fosse riuscito a trovare finalmente il nostro leone, presi la metro alla Street Station, scesi dopo 17 fermate alla Grand Street Station e dopo trecento metri a piedi iniziai a cercare Stiles nella folla. Il sole bollente di metà luglio scottava fin troppo e l’unico sollievo era dato dall’ombra dei palazzi alti almeno quattro o cinque piani con gli angoli arrotondati e le scale antincendio esterne. Un vigile urbano regolava il traffico assistito dai semafori roventi e decine e decine di persone si riunivano nell’attesa di attraversare le strisce pedonali. Vidi Stiles in lontananza con lo zaino in spalla che guardava tra la folla cercandomi. In pochi secondi lo raggiunsi. 

«Derek! Oh mio Dio, non puoi immaginare! Stavo uscendo dall’università e stavo andando da Starbucks per prendermi un thè freddo quando l’ho visto!» iniziò a camminare. Dopo pochissimo tempo si fermò di nuovo e io, di fronte a lui, ancora non vedevo nulla.

«Oh, giusto» disse e mi fece fare mezzo giro su me stesso tenendomi per le spalle. Ci misi un secondo per focalizzare e poi lo riconobbi. Al primo piano di un edificio in mattoni rossi, su tutta la fiancata non illuminata dal sole, un murales alto dieci metri raffigurava un leone dalla criniera arancione e dal portamento fiero. Sulla parte sinistra del volto aveva una specie di scacchiera gialla e rossa e poggiava su un pavimento fatto di lava le zampe con gli artigli dorati. 

«È lui! È per forza lui!» disse Stiles alle mie spalle. 

«Ascolta, ho fatto un po’ di domande mentre ti aspettavo. Ho chiesto ai negozianti qui intorno e il murales è stato completato soltanto ieri da un artista di strada piuttosto conosciuto.» 

«E che mi dici della scritta?» chiesi.

Stiles mi guardò come se avessi chiesto come mi chiamavo. 

«Quale scritta?» disse con gli occhi stretti e dubbiosi. 

«Quella sopra la criniera, vicino la firma dell’artista» indicai con la mano il punto sopra l’animale dove l’iscrizione era stata fatta con una bomboletta spray bianca in uno stile semplice e lineare. 

«Derek… io non vedo nessuna scritta» ammise. 

«Allora significa che siamo sulla pista giusta. Forse solo le creature soprannaturali possono vederla.» 

«E cosa dice?!» chiese ansioso. 

«When nothing goes right, go left.» 

«Quando le cose non vanno bene, che significa anche destra in inglese, va a sinistra» ripetè Stiles. 

«Che può voler dire?» 

«Non lo so… Ma abbiamo fatto un passo avanti, no?» mi sorrise fiducioso. 

 

L’entusiasmo per aver risolto il primo mistero ci fece prendere una boccata d’ossigeno di cui avevamo bisogno dopo settimane di stenti. Però non avevamo trovato ancora nessun pezzo del Dirkey e potevamo soltanto ricominciare a spremerci le meningi con la differenza che questa volta l’indizio che avevamo era meno vago e generico, ma allo stesso modo incomprensibile. Provammo a salire sul tetto dell’edificio quella stessa notte prendendo quasi alla lettera le ultime parole dell’indizio (“va a sinistra”) ma non portò a nulla così come esaminare le mappe della rete fognaria, quelle della metropolitana che passava lì vicino, quella urbanistica e fognaria, il che ci fece capire che si trattava di un doppio significato o almeno, di un’interpretazione diversa da quella letterale. 

 

Due giorni dopo, io e Stiles eravamo seduti sul mio divano a guardare svogliatamente un quiz televisivo. A differenza della volta precedente non avevamo da fare ricerche poichè “andare a sinistra” poteva significare di tutto e nessun libro ci avrebbe dato la soluzione. Nonostante questo, Stiles continuava a raggiungermi e iniziai a credere che avesse un interesse per me che non era fine soltanto alla nostra «missione» e alla rivelazione del passato di sua madre, ma cercai di non montarmi la testa. 

«Da te c’è il condizionatore» diceva.

La sua cultura era tale che mentre guardavamo i quiz lui sapesse ogni risposta, certe volte anche prima che il conduttore terminasse la domanda. 

«È la a.» «È la c.» «Tappeto.» «15 se conti anche quelli cinesi.» Sapeva tutto. L’unico gioco in cui potevamo competere era quello in cui bisognava trovare la parola che si collegasse alle altre due. 

«Siamo due pari» disse «Chi indovina questa vince e l’altro paga la pizza» ed era anche piuttosto competitivo, ma non più di me. Il presentatore (un uomo alto e magro curato in ogni aspetto e scandiva ogni parola con assoluta precisione, “il bell’uomo” lo chiamava Mrs. Crowford) disse agli sfidanti: «Ultima parola, siete pronti? Fiscale e strada, cosa collega queste due parole?» 

«Codice!» gridammo in coro. Mi venne da ridere per quanto eravamo presi da quella competizione improvvisata ma Stiles non rise, fissò la televisione con la bocca semiaperta prima di scattare in piedi dal divano, girarsi verso di me dando le spalle alla tv e gridare: «CODICE! È un codice!»

Si diresse sul tavolo del soggiorno, prese un foglio bianco e una penna e si sedette a terra appoggiandosi sul tavolino di vetro davanti il divano. 

«Come ho fatto a non capirlo prima? Che idiota…» si diceva da solo. 

«Stiles, mi vuoi dire cos’hai capito?»

«La scritta, tutta la scritta, è un codice dove ad ogni lettera corrisponde un numero o un simbolo, ma bisogna risolverlo da sinistra verso destra!»

Rimasi sconcertato. Iniziò a scrivere la frase in piccolo, all’inizio del foglio. Appena finì la ricopiò sotto ma scrivendo ogni lettera in stampatello, distanziata dall’altra e nel verso opposto: T F E L O G T H G I R S E O G G N I H T O N N E H W. Poi sbarrò una G e una N dicendomi «Le due vicine si tolgono, non possono esserci due lettere uguali una di seguito all’altra. Il codice per decifrarlo è internazionale, aspetta un attimo» disse mentre cercava sul suo telefono. Quando trovò il codice lettera dopo lettera inserì il corrispondente sotto. Il risultato finale fu:  

40° 48' 13.2" S 73° 57' 41.4" W.

Ci guardammo negli occhi consapevoli di quello che volesse dire: «Sono coordinate» dicemmo di nuovo insieme. Afferrò di nuovo il telefono e le inserì.  

«È un punto in mezzo all’Oceano Pacifico» disse deluso. 

«Prova a cambiare i riferimenti, anziché Sud prova Nord» proposi. Lui eseguì. 

«La Cattedrale di Saint John» decretò concitato.

«Bene, andiamo» dissi mentre mi alzavo. 

«Adesso? È quasi mezzanotte e la cattedrale sarà chiusa.» 

«Non voglio perdere neanche un minuto con quel coso ancora in giro.»

Lo convinsi subito. Otto fermate di metro e cinque minuti di camminata dopo ci trovavamo ai piedi della Cattedrale illuminata dalla luna crescente. La strada, affollata in un estivo giovedì notte, era immersa nella freneticità, e potevo sentire i bicchieri toccarsi nei brindisi, le voci chiamare i taxi liberi di passaggio, la musica provenire dai locali in fondo la strada. 

Diverse volte ero passato davanti quella cattedrale ma soltanto in quel momento mi resi conto della sua bellezza. Lo stile gotico e quello bizantino si mescolavano sapientemente e tutta la struttura brillava di autenticità nel quartiere dai grandi grattacieli moderni. Per qualche secondo mi sentii infinitamente piccolo rispetto alla struttura imponente. 

«Come facciamo ad entrare?» chiese Stiles. 

«Dalla porta» gli sorrisi. I due portoni, chiusi a chiave e dipinti di un verde così scuro da sembrare nero, erano intagliati e raffiguravano scene cristiane. Diedi un’ultima rapida occhiata dietro di noi per assicurarmi che nessuno ci stesse guardando e misi le mani sul legno freddo iniziando a spingere. Sentii la porta, spessa almeno 20 centimetri e pesante come una nave, cedere a poco a poco e aprirsi. Sgattaiolammo dentro e la richiusi alle nostre spalle insieme a tutti i rumori della città. Quando mi girai rimasi senza fiato. L’atrio era immenso, le colonne ai lati arrivavano a metri e metri d’altezza e la luce della luna e della città passavano dai vetri illuminando l’interno. Il silenzio era così profondo che potevo sentire il fiato di Stiles uscire dalla sua bocca anche se come me ne era rimasto a corto dalla meraviglia. 

«Wow» gli sfuggì. 

Prese il telefono tra le mani e cercò nuovamente le coordinate. 

«Dobbiamo avanzare.» Sul suo telefono il simbolo della destinazione distava ancora alcuni metri. I nostri passi rimbombavano nella quiete del posto. 

«Ci siamo, stop.» Stiles bloccò il telefono e lo rimise in tasca. 

«Siamo nel punto giusto, dobbiamo solo capire cosa fare.»

Ci guardammo intorno, nella navata centrale, a pochi passi dall’altare dove dietro sette colonne robuste si alternavano ai rosoni colorati. Sulle nostre teste sette lampadari scendevano dal soffitto e le volte si intrecciavano ordinate. 

«Penso che dovresti…» Stiles non finì la frase e si toccò la gola. 

«Cosa?» 

«Sai quella cosa che fai tu.» alzò le spalle. 

Ringhiai come mi consigliò, non troppo forte ma neanche troppo piano, senza bisogno di trasformarmi. Sentimmo un tintinnio provenire dall’alto. 

«L’hai sentito anche tu?» chiesi. Fece sì con la testa. 

«Fallo di nuovo» mi intimò. 

La seconda volta il tintinnio fu più forte. 

«Viene da qui.» Stiles si spostò sotto uno dei lampadari e indicò il soffitto: «Eccola, la vedo!» La lama, incastrata fra i cristalli e la placcatura d’oro a forma circolare, passava completamente inosservata se non si sapeva cosa e dove cercare. 

«Come la prendiamo?» chiese Stiles. 

«Posso saltare fino a lì, ma farei cadere tutto il lampadario…» 

«Direi di no» sorrise. 

«Se tu mi alzi, la prendo io» propose. Un minuto dopo, sollevavo in aria Stiles afferrandolo da sotto le ginocchia e lui cercava di prendere il primo pezzo del pugnale che ci avrebbe aiutato a sconfiggere il Ghul. Un paio di «Ci sono quasi» dopo finalmente esclamò «Preso!» e lo lasciai andare, inavvertitamente troppo di fretta, così che i nostri volti si incontrarono - così vicini che il suo naso quasi sfiorò il mio - e in quel momento, nell’euforia di aver trovato il primo pezzo dei tre, in un posto così sacro e intimo, immerso nel silenzio, per un secondo (forse dieci) rimanemmo fermi, come pietrificati. Osservai il suo viso da una vicinanza che non mi era mai stata concessa (sperai che non si accorse di quanto mi soffermai sulle sue labbra) ad un passo dal percorrere gli ultimi due centimetri che ci separavano. 

 

Non lo feci. Non che non volessi - lo volevo, tanto - semplicemente mi persi nelle sue ciglia lunghe e il momento passò. Ci separammo come se non fosse successo nulla e mi consegnò la lama sottile vigorosa e lunga che rifletteva la luce attraverso le vetrate. 

«Gran colpo» dissi imbarazzato. Uscimmo senza difficoltà rimettendo la porta esattamente com’era prima del nostro arrivo. Decidemmo di tornare a casa a piedi, camminando nella folla, tra le luci dei grattacieli e dei lampioni, così ubriachi di felicità che quasi barcollavamo ridendo senza un motivo preciso. 

 

IX


Stiles non era come tutte le persone che avevo incontrato fino a quel momento. Un aura di autenticità lo accompagnava ovunque andasse. I suoi interessi finirono col sembrarmi le cose più giuste cui interessarsi, le cose più intelligenti, stimolanti, intriganti. Nonostante fosse un po’ impacciato - quel tipo di impacciatezza amorevole che lo faceva balbettare ad inizio frase quando non era sicuro - il suo ingegno non finiva mai di stupirmi. Suonava, componeva (di rado, “quando ho lo spirito giusto” diceva lui), studiava ed era il primo del suo corso, leggeva, dai classici ai libri più improbabili che trovava nei negozi piccoli come tane di talpa, anche usati con le copertine logore e ingiallite (in quella settimana stava leggendo Tutto quello che non sai sugli Upupa, e io non sapevo neanche cosa fossero gli Upupa fino a quando non mi spiegò che erano uccelli bucerotiformi e finsi di sapere cosa significasse, non perché avesse un chissà quale interesse per i volatili bensì per il gusto di leggere e di sapere). 

Ovviamente ad equilibrare la bilancia per far sì che non potesse essere perfetto non sapeva: cucinare (una volta gli preparai della pasta al pesto e quasi cadde dalla sedia dall’euforia), guidare, nuotare e se iniziava a mangiare dolci non riusciva a fermarsi fino a stare male quindi evitava da tre anni di cominciare. Eppure, quelle cose contribuivano solo a renderlo ancora più originale e autentico ai miei occhi. 

Quando quella sera, con la lama al sicuro nella mia tasca, arrivammo sulla 129sima ci fermammo davanti il museo del Jazz ed entrambi sapevamo che avremmo dovuto separarci: io avrei proseguito a sinistra mentre lui sarebbe andato destra. Non avrei voluto lasciarlo. «Ci vediamo domani» sorrise. 

«Non fare tardi» replicai. 

«Io non faccio tardi, sei tu che sei sempre in anticipo!» scherzavamo di nuovo. «Buonanotte» mi disse e mi sfiorò la spalla con la mano destra come saluto. 

«Buonanotte» gli risposi. Non so per quale motivo (non lo avevo mai fatto con lui fino a quel momento e avevo perso l’abitudine di farlo in generale con chiunque) ma tesi l’orecchio da lupo cercando il suono che mi interessava, scartando i motori delle auto che passavano, le voci delle persone, delle radio e delle televisioni fino ad isolare il battito del cuore di Stiles che si era già girato e tornava a casa con la sua camminata regolare e le mani nelle tasche dei pantaloni. Il suo cuore batteva a un ritmo puntuale eppure… accelerato e più veloce rispetto a come avrebbe dovuto essere. Così per la prima volta la mia mente si aprì alla possibilità che tutta la matassa confusa di sentimenti che fingevo di ignorare fossero simili a quelli che Stiles provava per me.  

 

Quella notte impiegai ore per addormentarmi. Mi giravo e rigiravo, con il lenzuolo ai piedi del letto, il condizionatore acceso che mi salvava dal caldo appiccicoso e nessun suono particolare a farmi compagnia: nel palazzo dormivano tutti e il Signor Carter al piano di sotto (vicino di pianerottolo di Mrs. Crowford) russava. Finalmente presi sonno, verso le 3 o 4 del mattino e il solito sogno venne a torturarmi. Di nuovo, per l’ennesima volta, c’ero io che correvo sulla strada dritta e infinita. Stremato mi fermavo, prendevo fiato, e la stessa musica dolce mi tirava su, dandomi speranza. Anche quella volta, come le altre centinaia di volte che erano già successe e le altre innumerevoli che seguirono, mi svegliai prima di arrivare in fondo. Ma soprattutto, come sempre, non riuscivo, per quanto mi sforzassi, a ricordare la melodia che mi salvava. 

 

A svegliarmi fu il telefono che suonava, ancora attaccato al caricatore, sul comodino. Cam. Con la voce ancora impastata e un leggero mal di testa a causa del poco sonno risposi: «Pronto, Cam?» 

«Hale, è successo di nuovo.»

Una fitta mi colpì allo stomaco. 

«Chi è la vittima?» 

«Uomo, 54 anni. Una moglie, tre figli.»

Un’altra fitta. Non risposi, non sapevo che cosa dire. Mi sentivo colpevole come se avessi ucciso io stesso quelle persone innocenti.

«Hale? Ci sei?» chiese Cam dall’altro lato. 

«Sì, sì, sono qui» sussurrai. 

«Coprirò la cosa ma vorrei fare di più per questa storia, permettimi di aiutarti.» Il suo tono era sincero, dispiaciuto. 

«Abbiamo un pezzo dei tre, oggi scopriremo un nuovo indizio, ti chiamo appena so qualcosa.» 

«Va bene, e stai tranquillo, lo prenderemo.»

La sua voce dolce mi ricordava quella di mia madre, il suo approccio sempre gentile e positivo. Erano le nove e mezza e nonostante avessi molta voglia di tornare a dormire e far finta che tutta quella storia fosse un incubo dal quale mi sarei svegliato presto, all’appuntamento con Stiles mancava poco e dovevo prepararmi. 


Sotto il sole timido di una mattina calda - che di fresco aveva solo il leggero venticello che passava indisturbato di tanto in tanto - sedevo sugli stessi gradini su cui due mesi prima avevo aspettato Stiles per la prima volta, in Leadwell Street, davanti la clinica veterinaria che, in quel momento ne ebbi la certezza, aveva il più largo giro di clienti dell’Upper West Side. Stiles arrivò poco dopo di me, puntuale, ed entrambi avevamo visibilmente perso tutto l’entusiasmo che la notte prima ci aveva invaso la mente e fatto gioire come bambini. 

«Hai saputo?» gli chiesi. 

«Sì, ho sentito al telegiornale dell’ennesimo caso di neve» disse dispiaciuto. 

«Sono stanco, Stiles» confessai. 

«In altri tempi avrei già dato la mia vita per tentare di uccidere quel demone, mentre adesso cosa sto facendo? Raccolgo gli indizi di una stupida caccia al tesoro?»

Si sedette con me sui gradini e mi parlò con gentilezza in modo onesto e trasparente.

«Quando è morta mia madre… tu lo sai cosa si prova, non c’è bisogno che te lo spieghi. Ero arrabbiato, tanto. Ma soprattutto avevo un vuoto dentro che non si sarebbe più riempito. L’unica cosa che volevo fare era stare sdraiato, a letto, a non pensare a niente. Avrei voluto farlo per sempre» vidi i suoi occhi diventare lucidi. 

«Ma poi guardavo mio padre, che oltre ad una moglie stava perdendo anche il contatto suo figlio e che mia madre non avrebbe voluto quello per me, lei avrebbe voluto vedermi di nuovo in piedi per continuare a vivere come un bambino dovrebbe fare. Quindi ricominciai a parlare e a sorridere di nuovo, perché glielo dovevo. E tu lo devi a tutte le persone che possiamo ancora salvare se finiamo questa stupida caccia al tesoro. Non servirebbe a nulla morire adesso nel tentativo di riuscire in qualcosa di impossibile» mi guardava premuroso, gli occhi di nuovo asciutti.

«Lo prenderemo» concluse. 

«Sì» cercai di convincermi. 

«Adesso andiamo a sentire qual è il prossimo rompicapo.» si alzò e mi porse la mano per aiutarmi a fare lo stesso. 

«Come se non ti stessi divertendo» lo stuzzicai. 

«Ho un debole per i misteri, lo ammetto» sorrise colpevole. Nonostante non ne avessi bisogno afferrai la sua mano per tirarmi su. 

 

“L’ufficio” di Walgreen non era cambiato di molto dall’ultima volta che eravamo stati lì anche se avevo l’impressione che tutto fosse in un posto diverso, come se le librerie, gli armadi, gli scaffali, tutte quelle cianfrusaglie e persino le mura avessero vita propria e di tanto in tanto decidessero di cambiare posizione. L’odore di fiori secchi e mistero e la foschia sopra le nostre teste era la stessa e Murph, l’iguana verde con la testa di drago era cresciuta ancora, spostata in una teca molto più grande con delle piccole piante e dei rami su cui si sedeva pigra ad osservare tutto quello che la circondava da dietro il vetro. 

Walgreen ci sentì arrivare e ci venne incontro. Aveva cambiato colore di capelli, di nuovo, e ciocche di verde spuntavano tra il nero dei suoi ricci. Sempre ben vestito, con una giacca dorata così splendente da annebbiare la vista sotto il giusto riflesso e che creava un contrasto lampante con la sua carnagione, il make up impeccabile e la manicure fresca di un verde serpente che richiamava le sfumature dei capelli. Ci trovammo allo stesso tavolo - non nello stesso punto - in cui due mesi prima avevamo scoperto che cosa dovessimo affrontare, con l’unica differenza che adesso, sul ripiano che ci separava, era poggiata la lama, il primo dei tre pezzi e anche il primo dei nostri successi.

Gli spiegammo come l’avevamo trovata e Stiles, nonostante il merito fosse quasi esclusivamente suo, parlava con grande umiltà considerando il nostro come un lavoro 50 e 50. Walgreen ascoltava interessato e quando la spiegazione terminò disse: «Vediamo cos’ha da dirci questo gioiellino» prendendo la lame tra le mani come la più preziosa e delicata delle cose. Chiuse gli occhi e inspirò forte. Io e Stiles assistevamo alla scena incuriositi, impazienti di sapere il prossimo mistero da risolvere, e alla mia destra con le mani poggiate sul tavolo tamburellava leggermente le dita ansioso. Gli occhi di Walgreen si sbarrarono tutto d’un tratto ma mi resi conto che non stava guardando noi, bensì molto oltre: stava avendo una visione e presto ce l’avrebbe rivelata. Durò pochi secondi durante i quali il silenzio rimbombava in tutto l’ambiente e io e Stiles trattenevamo il fiato. Quando rinsavì non proferì parola, si guardò intorno in cerca di qualcosa, poi afferrò un foglio di pergamena e una penna dall’aria antica e importante e iniziò a disegnare. Non sapevo se fosse magia o vero talento, ma il risultato fu un ritratto incredibilmente realistico: il volto scavato di un uomo, con i capelli corti e gli zigomi pronunciati, le sopracciglia folte e lo sguardo spento. «Chi è?» chiese Stiles prima di me. 

«Non lo so…» rispose Walgreen confuso, come se si fosse appena destato da un sogno lungo un centinaio di anni. 

«Ci pensiamo noi» dissi. 

 

Almeno per quella volta avevo una strategia, o quantomeno, una possibilità di fare la cosa giusta. Usciti da lì chiamai Cam e le chiesi di incontrarci. Mezz’ora dopo io e Stiles la aspettavamo seduti sulla panca di una tavola calda. La parete vetrata alla mia destra perfettamente lucidata, e dalla quale proveniva ancora il profumo alla lavanda del sapone usato poche ore prima, si affacciava sulla 96esima inquadrando il via vai di persone a cui passavamo inosservati, come dietro il vetro di una sala interrogatori. Il sole era nel punto più alto e scottava tremendamente in una delle giornate più calde dell’estate. All’interno del locale, arredato come se fossero gli anni ‘90 ma pulito e ordinato, il vociare delle persone sedute ai tavoli e al bancone copriva il suono monotono del condizionatore, tranne che per le mie orecchie. 

Stiles, di fianco a me, studiava il menù nello stesso modo attento e concentrato di quando leggeva i tomi dei suoi esami. Poi, mentre io mi ero lasciato distrarre dalle urla dei cuochi nelle cucine («Tre cheeseburger al tavolo quattro, due risotti al tavolo otto. Datti una mossa, Rick! E non guardarmi in quel modo, ti vedo!») Stiles, sempre con gli occhi fissi al cartoncino plastificato con le portate scritte in un rosso fastidiosamente acceso, disse: «C’è qualcosa fra te e Cam?»

In un secondo con la mente ripercorsi tutto quello che gli avevo detto su di lei, per capire da dove venisse questa supposizione. Gli avevo detto che era sveglia, intelligente, l’unica detective di New York che meritava davvero un riconoscimento. E adesso, che avevamo un nuovo indizio, la prima cosa che avevo fatto era stato contattarla. 

«È un’amica» risposi, cercando di mantenere un tono calmo e indifferente. 

«Mh» rispose senza alzare gli occhi. 

Cam non tardò. La vidi spingere la pesante porta d’ingresso dal maniglione nero e cercarci con lo sguardo tra i tavoli. Mentre ci veniva incontro notai, non per la prima volta, che anche se indossava abiti semplici, a tinte unite, e nulla di troppo elegante e sfarzoso, portava sempre con sé un’aura di raffinatezza nobile che faceva sembrare tutti gli altri fuori luogo. I tacchi non troppo alti degli stivali estivi sbattevano sul pavimento. Si sedette di fronte a noi, sorridendoci gentile e appoggiando il suo zainetto di marca accanto a lei. 

«Buongiorno» disse e tese la mano verso Stiles: «Cam» si presentò con sicurezza nella voce. Stiles la strinse rispondendo con il proprio nome e arrossì leggermente quando lei gli fece: «Finalmente conosco il genio dietro la scoperta del primo pezzo.»

Se Stiles descriveva la faccenda in modo umile e facendo sembrare ciò che era accaduto il frutto di un lavoro di squadra, io non lo facevo affatto. Almeno non l’avevo fatto mentre raccontavo a Cam come erano andate le cose e forse mi ero lasciato trasportare dalla descrizione di quanto fosse intelligente, sicché quelle parole imbarazzarono me molto più che lui. Prima che potessi iniziare a spiegarle quello che c’era da sapere la cameriera dall’uniforme giallo chiaro con il cappellino bianco poggiato sui capelli raccolti maldestramente si avvicinò per prendere le ordinazioni con il taccuino alla mano. 

«Prego» disse quasi gridando mentre masticava una gomma. Prendemmo tre sandwich, uno vegano per Cam, uno doppio formaggio per Stiles. La cameriera si allontanò e tornò subito con due grandi bicchieri pieni di acqua e ghiaccio e una coca cola. Quando finalmente ebbi la certezza che non ci avrebbero interrotti tirai fuori dalla tasca il ritratto fatto da Walgreen, lo poggiai sul tavolo e lo girai in direzione di Cam. 

«Il nostro prossimo indizio» spiegai. Lo prese fra le mani osservandolo con attenzione. «Sappiamo chi è?» 

«No, speravo che potessi aiutarci tu.» 

«Posso chiedere un paio di favori... ma potrò trovarlo solo se è nel database, quindi se ha la fedina penale sporca, sai come funziona.»

Annuii. La aggiornammo sulle cose che per telefono non le avevo detto: i poteri del Ghul, il suo aspetto, tutto quello che ci aveva raccontato Walgreen del Cile. Lei ascoltava, rapita e concentrata, senza neanche un accenno di timore. Quando ci separammo, davanti la porta della tavola calda, ci salutò promettendo che avrebbe fatto il possibile. 

 

Mentre percorrevamo la Columbus Avenue, diretti alla fermata della metro della Street Station, Stiles era insolitamente silenzioso e guardava le nostre ombre muoversi sul pavimento. Non ero un grande conversatore (non lo sono mai stato) ma in quei momenti di silenzio avrei voluto avere il dono di quelle persone che sanno sempre cosa dire, di cosa parlare e hanno sempre una domanda pronta dalla quale può nascere una conversazione. Meglio ancora, avrei voluto saper leggere il suo silenzio. 

Attribuii quella quiete fin troppo profonda alla mancanza di uno scopo. Difatti, dopo mesi trascorsi con un pensiero fisso adesso non avevamo più molto da fare, nulla da cercare. Potevamo solo aspettare e sperare che Cam trovasse qualcosa. Finalmente Stiles parlò: «Lei è umana…Glielo hai detto tu?» chiese continuando a guardare dritto. Mi accorsi di quanto fosse lecita quella domanda. 

«No… era fidanzata con un lupo mannaro.»

«Era?» 

«Anche lui era un poliziotto ed è stato ucciso durante una retata della polizia finita male, cercando di proteggerla.»

Ricordare mi intristì. Non avevo mai conosciuto Henry ma in alcune poche occasioni Cam mi aveva raccontato di lui, di quanto fosse coraggioso e, diceva sorridendo, cocciuto. Ogni tanto mi fermavo a pensare su quello che aveva passato Cam e mi chiedevo se fosse successo a me come mi sarei comportato. Lei, dall’animo buono e sempre sorridente, era incredibilmente brava a nascondere qualsiasi cosa la affliggesse e anche se aveva continuato il suo lavoro ancora più determinata di prima, le leggevo chiaro negli occhi che qualcosa si era rotto per sempre. 

«Mi dispiace» disse Stiles sincero. 

 

Continuammo a camminare in silenzio fino a scendere le scale della metro. Al binario sotterraneo a momenti la linea 2 avrebbe sfrecciato davanti a noi per poi fermarsi e Stiles sarebbe partito, appena pochi istanti prima che la linea 3 arrivasse sul binario opposto per portarmi a casa. Aspettavamo in piedi, nel caldo soffocante e con decine e decine di persone che ci passavano accanto. La melodia della chitarra acustica di un cantante di strada che racimolava spicci e banconote da un dollaro ci raggiungeva da lontano. 

«Non ci resta che aspettare adesso, no?» disse guardandomi negli occhi. 

«Già, non c’è molto che possiamo fare» ammisi.

Ricordo bene quello a cui pensavo in quel momento, ancora adesso. La verità mi colpì duramente dopo essere stata sotto il mio naso per tutto quel tempo e decise di smascherarsi proprio all’ultimo secondo, come il più scontato dei colpi di scena, pochi istanti prima che Stiles salisse su quel treno che pregavo segretamente avrebbe avuto un improvviso guasto meccanico concedendomi minuti in più. 

Semplicemente, mi accorsi che Stiles mi sarebbe mancato. Dopo due mesi trascorsi quasi sempre insieme mi ero abituato così tanto alla sua presenza che sarebbe stato incredibilmente problematico adattarsi alla sua assenza adesso che una scusa per vederci non c’era più. Lo realizzai soltanto in quel momento e una parte di me, per quanto minuta, mi faceva sperare (non troppo ad altra voce) che era questo il motivo del silenzio di Stiles e che lui, come sempre, era arrivato a questa conclusione molto prima di me. 

«Spero di poter tornare presto a risolvere misteri» sorrise con un lato della bocca, poi aggiunse: «Potrebbe addirittura mancarmi il tuo muso da lupo.»

Prima che potessi pensare ad una risposta il frastuono del treno che correva sui binari unito al fischio dei freni invasero l’ambiente. Le porte si aprirono, fiumi di persone cominciarono a scendere. Stiles salì sul vagone e si rigirò verso di me, la sua immagine chiara dietro il vetro delle porte. Mi fece l’occhiolino nel secondo stesso in cui il treno ripartì a tutta velocità. 

Per tutto il tragitto verso casa non feci altro che pensare a quanto fosse un gesto enigmaticamente troppo complicato e forse anche audace per uno come Stiles, che di tanto in tanto balbettava.

 

X

 

Nei giorni successivi trovai il mio appartamento molto più grande.

Avrei potuto scrivergli (ci pensai più volte) ma non lo feci. Mi era capitato di scrivere un messaggio, ma lo avevo cancellato prima di inviarlo. Temporeggiavo, nella speranza che Cam trovasse qualcosa, per avere un pretesto per rivederlo. A stento mi riconoscevo. A salvarmi da quel limbo di esitazione ed incertezza ci pensò Cam. La chiamata arrivò intorno alle 23, mentre guardavo un film senza attenzione. Subito tolsi il volume e mi sedetti composto sulla punta del divano. 

«Cam?» risposi. 

«Hale» la sua voce era ovattata dal silenzio. 

«Hai novità?» 

«Ho un nome e un indirizzo. Non è stato facile, ho fatto prima che ho potuto.»

Tirai un sospiro di sollievo.

«Dal database non risultano condanne, nessun crimine, per questo c’è voluto tempo. Alla fine l’ho trovato perché si è trovato coinvolto in una rissa quando aveva 16 anni, nulla di più.» 

«Gli faremo visita domani mattina. Tu vieni?»

Sentii il silenzio dall’altra parte per un secondo di troppo, probabilmente non si aspettava la mia domanda. 

«Sì...sì, certo! Chiederò un cambio turno al distretto. Ti mando nome ed indirizzo. Ci vediamo lì domani mattina, allora?» 

«Sì, alle 9 in punto. E Cam… grazie.» 

«A disposizione.»

 

Neanche un minuto dopo lo schermo del telefono si illuminò alla notifica del suo messaggio. Rimasi sconcertato nel leggerlo. “Bram Crowford. 121 East 38th St.”

Avevo sentito parlare di Bram Crowford innumerevoli volte senza averlo mai visto.

Mrs. Crowford mi aveva parlato di suo nipote, il figlio del fratello del suo defunto marito descrivendolo come “un giovanotto sveglio, educato, sempre a lavorare per racimolare qualche soldo.”

Mi trovai interdetto e senza parole. Poteva essere un omonimo? Quasi impossibile: Mrs. Crowford mi aveva anche detto che abitava nel quartiere di Murray Hill e l’indirizzo corrispondeva. Era una coincidenza troppo grande. Ma allora cosa aveva a che fare lui con tutto questo? Avrei dovuto informare Mrs. Crowford? E per dirle cosa, che suo nipote era apparso nella visione di un Nissen ed in qualche modo era coinvolto con il ritrovamento di un’arma secolare usata per combattere creature soprannaturali? 

Mrs. Crowford, che diffidava anche delle previsioni meteo, non mi avrebbe mai creduto, e non avrebbe saputo aiutarmi in ogni caso, anche se fosse sopravvissuta all’infarto che le sarebbe preso se avesse capito che era tutto vero. Per cui decisi di tenere la cosa per me e che l’indomani avremmo fatto chiarezza su questa faccenda. 

 

Fingevo di non provare felicità nel dover contattare Stiles e nel timore che la mia voce potesse tradirmi gli scrissi un messaggio conciso con il luogo e l’ora dell’appuntamento dicendo che Cam aveva trovato il nostro uomo. 

Dormii poco e male, feci per l’ennesima volta lo stesso sogno (iniziavo a credere che avrei dovuto conviverci per tutta la vita) e mi alzai l’indomani di mal umore. 

 

Dopo sei fermate della metro scesi a Time Square e presi la linea 7 per altre 2 fermate. Camminavo tra la gente lentamente, cercando di scollegare l’udito da lupo che curioso percepiva anche i rumori più lontani e leggeri. Il quartiere di Murray Hill era un susseguirsi di antichi edifici ben conservati e casette a schiera in mattoncini rossi. Tranquillo, lontano dall’idea frenetica di Manhattan, era il tipo quartiere che le famiglie sceglievano per crescere i figli in serenità. 

Trovai Stiles a pochi passi dall’edificio. 

«Ho fatto prima io oggi» mi sorrise. 

«Andiamo?» mosse la testa verso la porta del numero 121. 

«Aspettiamo Cam, arriverà a momenti» risposi. Vidi l’espressione stupita, leggermente dispiaciuta, cambiare sul suo volto. 

«Ah, viene anche lei?» 

«Ci sarà d’aiuto. Non possiamo bussare a metterci a fare domande dal nulla.»

Ci pensò su, poi concluse che avevo ragione. Non avemmo il tempo di dirci altro che Cam girò l’angolo e venne verso di noi. 

«Buongiorno, siete pronti?» Annuimmo con la testa. 

«Qual è il piano?» chiese. 

«Dobbiamo riuscire ad entrare in casa, per cercare il pezzo. E se necessario dovrete distrarlo il tempo necessario perché io lo prenda» dissi. 

«Tutto chiaro» rispose Stiles. Lasciammo che fosse Cam ad andare avanti verso il campanello, rimanendo sulle scale un passo dietro di lei. Non venne ad aprire nessuno. Cam bussò di nuovo. Nulla. Usai l’udito per capire se qualcuno fosse in casa ma non sentivo la tv accesa, n’è un fornello che emanava gas o un asciugacapelli acceso. Pochi secondi dopo Bram Crowford in persona venne ad aprire. Dall’aspetto ancora più cupo di quello che aveva nel ritratto con profonde e scure occhiaie e la barba non fatta di chi aveva avuto cose da fare molto più urgenti che prendersi cura di sé. 

Era in pigiama, coperto con una vestaglia blu estiva macchiata sulla spalla, una tazza di caffè in mano e una sigaretta accesa nell’altra. Sembrava stanco, come se gli avessero risucchiato tutte le energie e stesse cercando di sopravvivere con quello che gli rimaneva. Notai che l’appartamento alle sue spalle era ampio e caotico. Giochi per bambini erano sparsi per tutto il salone e la cucina che si intravedeva da lontano era colma di piatti e stoviglie sporche. 

«Desiderate?» chiese. 

Cam estrasse il portafoglio ed esibì il distintivo. 

«Detective Bennet. Questi sono i miei colleghi: Hale e… Holmes» improvvisò non sapendo il cognome di Stiles. 

«Posso fare qualcosa per voi, detective?» chiese mentre con la mano si stropicciava gli occhi stanchi. 

«Mr. Bram Crowford?» Ovviamente conosceva già la risposta. 

«Sì, sono io.»

«Dovremmo farle alcune domande, possiamo entrare?»

Cam sembrava perfettamente a suo agio e infondeva sicurezza anche a me che ero più teso del solito. Non aspettò la risposta e mosse il primo passo verso l’interno. Senza perdere tempo cominciai a guardarmi intorno in cerca di qualsiasi indizio. Nel frattempo, Cam faceva domande di circostanza e Bram si limitava a rispondere senza sospettare nulla. Aveva due figlie che in quel momento si trovavano una all’asilo e l’altra scuola mentre sua moglie era dovuta partire per lavoro. Faceva due lavori e per questo aveva l’aria sfinita. 

Cam accettò di buon grado il thè che le offrì, concedendoci minuti preziosi. Osservavo con attenzione ogni particolare ma spostandomi tra i giocattoli delle bambine, libri da colorare, bambole e puzzle con i pezzi sparsi da ogni parte, nulla mi sembrava assomigliare a quello che cercavo. 

Stiles si avvicinò: «Trovato niente?» chiese.

«No, ma deve esserci qualc-» non finii la frase. Finalmente vidi qualcosa che poteva avere un senso, o quanto meno era l’unica cosa che mi avesse risvegliato un ricordo. Appoggiato vicino al muro dell’ampio soggiorno un grande orologio antico era appeso poco sopra l’altezza delle nostre teste e, lungo almeno mezzo metro, aveva l’aria di essere molto pesante. Le lancette sottilissime segnavano l’ora esatta e il pendolo oscillava silenziosamente chiuso il una piccola teca di vetro e circondato dai giri ornamentali del legno.

«Ho già visto questo orologio» spiegai a Stiles. A casa di Mrs. Crowford, poco dopo essermi trasferito. Mi aveva raccontato, mentre prendevamo il thè un pomeriggio, che apparteneva alla famiglia di suo marito da generazioni e che adesso che il suo caro Donald non c’era più suo fratello stava per riprenderselo. Pochi giorni dopo l’orologio non c’era più e Mrs. Crowford riempì la parete con una foto dei suoi nipotini. 

E adesso, arrivai a pensare, anche il padre di Bram doveva essere mancato e così l’orologio era passato a lui, che in suo ricordo lo aveva appeso in un posto in cui passava spesso e che glielo avrebbe ricordato, noncurante del fatto che l’antichità di quel pendolo contrastava con tutti gli altri mobili e l’arredo moderno.

«Ci penso io» disse Stiles. Si girò, di colpo, andando nella loro direzione. 

«Mr. Crowford, devo farle alcune domande sull’edificio qui di fronte, le dispiace?» mimando con la testa in quella direzione per intimarlo a muoversi. 

«Sì… nessun problema» rispose e si incamminò verso la porta d’ingresso seguito da Cam, leggermente titubante. Quando si fermarono fuori sentii Stiles iniziare a parlare: «Vede quel palazzo grigio di fronte a lei?» 

«Sì.» 

«Ha mai notato qualcosa di strano? Nulla di anomalo?»

Non mi lasciai distrarre dal diversivo e approfittai del momento per avvicinarmi all’orologio ed emettere un ringhio basso e profondo. L’orologio tremò e per un momento ebbi paura che potesse cadere al suolo facendo un fracasso che avrebbe attirato l’attenzione di tutti.

Era lì, l’avevamo trovato. 

«Non dovrei dirglielo, ma ho l’impressione di potermi fidare di lei, Mr. Crowford. Abbiamo motivo di credere che ci sia un punto di spaccio di droga che parta proprio da lì» sentii Stiles. Come gli venivano in mente quelle idee? 

«Davvero? In questo quartiere?» rispondeva sconvolto il poverino. Nel frattempo cercai di aprire con non poca difficoltà la teca di vetro che proteggeva il pendolo. 

«É proprio un quartiere tranquillo come questo quello ideale per non destare sospetti» cercava di convincerlo Stiles. 

«Sì, ha ragione…» 

La teca si aprì con uno scatto e iniziai a tastare con i polpastrelli tutta la superficie all’interno e sui bordi fino a sentire uno spessore sospetto sul fondo. Con una leggera pressione il doppio fondo si rivelò e come un coperchio che viene via, rivelò uno scomparto nascosto.

«Ci pensi bene, non ha notato nulla?» incalzava Cam. Mentre Bram si sforzava di ricordare qualcosa che non poteva aver visto, la mia mano (se fosse stata più piccola avrei fatto più in fretta) cercava di afferrare il pezzo che si incastrava alla perfezione nello scomparto. 

«Ma… non sarà pericoloso? Per le mie bambine…» rifletteva. 

Mi arresi, ritirai fuori la mano, e come avevo fatto quella volta per mostrare a Stiles la mia vera natura chiusi la mano a pugno e la aprii di scatto tirando fuori gli artigli. 

«Non si preoccupi, la polizia se ne sta occupando.» Cam cercava di essergli di conforto. Con l’artiglio dell’indice finalmente riuscii a farmi spazio nella fessura e a sollevare il pezzo tanto quanto bastava per afferrarlo e tirarlo fuori. Sentii i loro passi tornare dentro e chiusi in fretta la teca. Nel momento esatto in cui rientrarono mi girai, con aria innocente (speravo) e con la guardia, il secondo pezzo del pugnale, stretta nella mia mano, nascosta dietro la schiena. 

«Fatto» mimai con le labbra a Cam mentre Crowford era distratto. 

«Bene, la ringrazio per il suo aiuto, e stia tranquillo, se ne occuperà la polizia» gli fece un sorriso caldo e rassicurante. 

 

Una volta fuori camminammo per un po’, allontanandoci dall’appartamento. Appena svoltammo sulla 40esima strada ci fermammo, guardandoci negli occhi, e cominciammo a ridere. La tensione si disperse mentre le risate galleggiavano in mezzo a noi. 

«Mi hai chiamato Holmes? Come Sherlock Holmes???» Stiles parlava a Cam continuando a ridere. 

«Ho improvvisato! E tu! Con quella storia della droga! Quel poverino sarà preoccupatissimo.» 

«È stato divertentissimo! E quando siamo rientrati tu ti eri appena girato, con il pezzo dietro la schiena! Dovremmo rifarlo» concluse Stiles. 

«Sì, certo, così perderei il lavoro in tre giorni» continuò a scherzare Cam. Mi piaceva vederli andare d’accordo. 

Quando tornammo seri (ma comunque euforici come dopo una rapina riuscita) tirai fuori il pezzo. Stiles lo prese tra le mani esaminandolo da cima a fondo. 

«Dobbiamo metterli insieme, vedere se succede qualcosa» propose. 

«Io devo andare, ma tenetemi aggiornata su tutto.» Cam ci salutò con il sorriso e la guardammo andare via sotto il sole caldo della mattina. 

 

XI


Tornammo al mio appartamento e la prima cosa che facemmo fu prendere la lama (nascosta nella cassaforte dietro la porta della mia camera). In piedi, tesi come due corde di violino, non so cosa ci aspettavamo che potesse accadere, ma trattenemmo il fiato mentre feci combaciare i due pezzi che si unirono perfettamente. 

Nulla, ovviamente non successe nulla. 

«Oh…» fece deluso Stiles «Immaginavo che si sarebbe sprigionata un’onda d’urto, ma credo di avere troppa fantasia.»

Mi fece ridere, forse perché anche io mi aspettavo qualcosa di simile. 

 

Portammo i pezzi da Walgreen che ci accolse stupito dal fatto che ci avessimo messo così poco a risolvere il mistero. Smise di coccolare Murph e la ripose con molta cura nella sua teca. 

«Allora, vediamo cos’ha da dirci questo pezzo» tese la mano e gli consegnai la guardia. Inspirò, chiuse gli occhi e si concentrò. Rimase immobile per qualche secondo, poi cominciò ad infastidirsi e riprovare ancora e ancora ma niente. Non vedeva nulla, non sentiva nulla, nessuna forza si impossessava di lui facendolo diventare un pittore o un musicista, niente.

«Proviamo con i due pezzi insieme» suggerì Stiles. Li unimmo e Walgreen riprovò.

Si sedette, cercò di stare comodo, di concentrarsi ma… niente. «Non so cosa dirvi, ragazzi, non funziona» concluse. 


Di nuovo, dopo neanche due settimane, ci trovammo al buio, senza un indizio o una pista da seguire. La cosa peggiore: il Ghul attaccava ancora, imperterrito. Il numero delle vittime aumentava mese dopo mese. Continuava a uccidere persona dopo persona e la frustrazione cresceva in me, come in Stiles, Cam e Walgreen, costretti a restare a guardare.

Dopo un mese di ricerche generiche e tanti buchi nell’acqua capii che le nostre possibilità si erano esaurite. Non c’era nulla che potessimo fare. Era stato bello illudersi di riuscirci ma dovevamo guardare la realtà dei fatti: non avevamo più speranza. Una parte di me pregava che la soluzione ci sarebbe piovuta dal cielo, come era successo con il murales, visto per caso mentre non lo stavamo neanche cercando. Il fatto che Walgreen non avesse avuto nessuna visione, però, era un segno abbastanza forte di quanto la situazione fosse arrivata al capolinea.

Un dobbio, di tanto in tanto, continuava a ronzarmi nella mente, di soppiatto, quasi come una voce che volesse suggerirmi qualcosa. Perché il secondo pezzo si trovava nell’orologio che era appartenuto a Mrs. Crowford? Se dopo il Cile ognuno dei tre Supremi aveva nascosto un pezzo del pugnale, perché proprio lì? Mi sentivo come se un pezzo mancante del puzzle ci impedisse di vedere il quadro completo (mentre ricordo questa storia so quanto poco conoscessi della verità allora). 

Raccontai a Stiles dell’orologio a pendolo e anche lui, come me, capì che un collegamento doveva esserci: con me, con Mrs. Crowford, con tutta quella faccenda. Oppure era una sorta di avvertimento, un segno del destino? Sapevo poco di quello che i Supremi fossero in grado di fare, ne avevo solo sentito parlare e non mi ero mai interessato troppo, ma se in qualche modo loro avessero potuto prevedere quello che sarebbe successo? 

«Stai dicendo che hanno visto il futuro e hanno pensato di nascondere i pezzi vicino a noi per aiutarci a ritrovarli?» Stiles parlava chiaro, sempre. 

«Se lo dici così… non ne sono più così convinto.» 

«Tanto valeva metterli tutti sotto il tuo letto, così ci saremmo risparmiati le ricerche, no?» 

Dopo aver accettato il fatto che non c’era più niente che potessimo fare sul fronte Dirkey ci misi poco a decidere che avrei affrontato il Ghul, di nuovo. Avevo meno di un mese per migliorare e diventare ancora più forte, prima che lui attaccasse, puntuale come al solito, e io potessi seguire la sua scia che già al pensiero mi faceva rabbrividire. 

Tornai a correre tutte le mattine. Salutavo Mrs. Crowford e cominciavo a correre. Le prime volte arrivavo alla Cattedrale di St. John dove avevamo trovato il primo pezzo. Mentivo a me stesso sul fatto che avrei potuto trovare qualcosa di utile (anche se in fondo ci speravo sempre), ma la verità era che continuavo a rivivere il momento in cui Stiles era piombato dal soffitto a pochi centimetri dalla mia faccia. 

In ogni caso, il percorso era piacevole e la mattina presto la strada non era affollata. Preferivo infinitamente correre tra i palazzi moderni e l’odore delle caffetterie, spostandomi da un marciapiede all’altro, schivando persone e ostacoli rispetto a girare in tondo nei parchi (per quanto stupendi questi fossero). Mi sforzavo di tenere anche i sensi da lupo attivi, aggrappandomi ad un suono molto lontano e cercando di non perderlo fino a quando non lo raggiungevo. Mi costringevo a restare vigile e attento.

Al pomeriggio mi allenavo a casa, sacco da box (rinforzato per non rompersi ai pugni di un licantropo), esercizi, pesi. Rivivevo con la mente le mosse del Ghul, gli errori che avevo commesso. Quali erano i suoi punti deboli? Ne aveva? Era forse questa una missione suicida? 

 

Il caldo asfissiante dell’estate stava finalmente cedendo il passo ad un clima più mite, non ancora autunnale ma tipico settembrino, dove il giorno si respirava aria fresca e la notte bisognava dormire sotto un lenzuolo sottile. 

Un pomeriggio, mentre con i guantoni ed un asciugamano appoggiato sul collo mi sfogavo contro il sacco, sentii la porta bussare. Non sapevo chi fosse, sentivo soltanto un cuore che batteva dall’altro lato. Lasciai i guantoni nella piccola palestra ed andai ad aprire mentre cercavo di asciugarmi il sudore come meglio potevo. Era Stiles. 

«Ciao, disturbo?» sorrise. Non lo vedevo da una settimana. Dal rossore sulle sue guance capii che doveva essere venuto a piedi senza prendere la metro. Si aggiustò i capelli verso l’alto con un gesto involontario anche se rimasero esattamente come prima. 

«No, vieni, mi stavo allenando.» Mi scostai per lasciarlo entrare. 

«È successo qualcosa?» chiesi. Si girò verso di me, vedevo che non riusciva a guardarmi per troppo tempo senza abbassare lo sguardo. Adesso lo intimidivo? Puzzavo così tanto?

«No. Sono venuto per chiederti se… se ti sei arreso. Visto che è una settimana che non…» gesticolava. 

«Stiles… Non credo che troveremo qualcosa ormai» ammisi con tanto dispiacere. 

«Ho capito. È per questo che hai deciso di affrontare di nuovo il Ghul?» Mi colpì di sorpresa. Era così ovvio? Come avrei potuto dirgli che non era vero? Non sarei mai riuscito a mentirgli. Non ce l’avevo fatta la prima volta con la storia dei lupi mannari, figurarsi adesso.

«Devo fare qualcosa, capisci? Non posso lasciare che continui ad uccidere.»

«Quindi hai deciso che a morire devi essere tu?»

 

Non aveva più il sorriso che conoscevo ed in cui mi ero perso innumerevoli volte. Sembrava ferito, come se gli avessi fatto un torto imperdonabile. 

«Stiles, cerca di capire. Ho delle responsabilità.» Fissava il pavimento. 

«C’è qualcosa che posso fare per farti cambiare idea?» 

«No» risposi e cercai di usare un tono fermo ed irremovibile. In realtà, avrei fatto tutto quello che mi avrebbe chiesto in una situazione in cui non c’era la vita di persone innocenti in ballo. 

Si lasciò cadere sul divano dietro di lui poggiando le braccia sulle gambe. 

«Quindi adesso ti stai allenando? Credi che servirà?»

Feci qualche passo verso di lui. «Ho circa un mese di tempo per prepararmi, non è molto ma l’ho già affrontato, so come ragiona.» Lo vidi riflettere. Si rialzò dal divano. 

«Permettimi di allenarmi con te» non sembrava affatto una domanda. 

«Stiles, assolutamente no! Cosa ti avevo detto prima di tutto questo? Che non volevo averti sulla coscienza. E adesso cosa mi stai chiedendo?» Rabbrividivo all’idea che potesse succedergli qualcosa. 

«Ascolta, non ti sto chiedendo di affrontarlo insieme, ti sto dicendo che vorrei aiutarti e che vorrei allenarmi insieme a te. Quando arriverà il momento me ne starò buono, a casa mia, a pregare che non ti strappi via la faccia.»

Sorridemmo. «Grazie, molto gentile.»

«Allora?» 

Avevo due possibili scenari di fronte. Il primo: essere irremovibile, dirgli di no, allontanarlo dalla mia vita. Avrei continuato ad allenarmi da solo e avrei affrontato la situazione come sempre avevo fatto quando si trattava di combattere: da solo. 

Il secondo: gli avrei permesso di restare. Avrei potuto continuare a vederlo ogni giorno come nel periodo in cui cercavamo di risolvere il primo indizio.

«Va bene.» Avevo ceduto. Ma il sorriso che si allargò immediatamente sul suo volto mi fece dimenticare subito dei timori che provavo. 

«Sul serio?!» non ci credeva neanche lui. 

«Promettimi che quando arriverà il momento ne starai fuori» dissi. 

Non stavo sorridendo, mi aspettavo che capisse quanto era fondamentale per me quella promessa. Perché quasi ogni notte prima di addormentarmi rivedevo il volto di Tyron che mi chiedeva aiuto e mai, mai, mi sarei perdonato se qualcosa fosse successo a Stiles. «Promesso» rispose, serio come speravo. 

«Domani mattina alle 7 e 30 sotto casa tua. Corriamo.» 

«Alle 7 e 30 del mattino?!» 

Alzai le sopracciglia. «Vuoi già tirarti indietro?» 

«No, no, 7 e 30 va benissimo» sorrise. 

 

Nonostante Stiles fosse magro dire che fosse in forma sarebbe del tutto incorretto. Cercavo di non lasciarlo dietro mentre correvamo e tenevo un passo volutamente più corto ignorando il fatto che quel tipo di allenamento non mi era quasi di nessuna utilità. 

«I lupi mannari non sudano mentre corrono?» mi disse quasi senza fiato dopo neanche dieci minuti. 

«Suderei, se corressi sul serio» alzai le spalle. Si fermò di colpo sul marciapiede quasi deserto.

«Ti stai per caso trattenendo, Hale?»

Mi fece sorridere e per evitare di rispondere alzai gli occhi al cielo. 

«D’accordo. Vediamo chi arriva prima a quella fermata dell’autobus» indicò con l’indice la pensilina ad un centinaio di metri davanti a noi. 

«Stiles… è inut-» 

«Via!» gridò a pieni polmoni e cominciò a correre molto più velocemente di quanto avesse fatto prima. Lo feci arrivare a metà percorso prima di partire. Lo superai a venti metri dalla fine, tagliando il traguardo sotto i suoi occhi sbalorditi. Stiles stava per sputare un polmone dalla fatica, era rosso come l’insegna del Burger King dietro di noi e poggiava le mani sulle ginocchia per riprendersi. 

«Non è stato molto intelligente sfidare un licantropo in una gara di velocità, vero?» trovò la forza di dire. 

«No, non è stata proprio una gran mossa» risi. Il profumo della sua pelle rimbombava nelle mie narici così forte che dovevo concentrarmi per ignorarlo. 

«Comunque non dovresti trattenerti per stare al passo con me, possiamo trovare un altro modo.» 

«Cosa proponi?»

 

Da quel giorno Stiles corse lungo tutta Park Avenue da Nord verso Sud, e io mantenendo la mia andatura sostenuta giravo intorno ad ogni palazzo del lato Ovest. In questo modo riuscivamo a percorrere insieme alcuni tratti di strada. Ogni giorno Stiles mi sfidava ancora a chi arrivava primo a qualsiasi cosa fosse nel raggio di cento metri e ben identificabile. Ogni giorno gli lasciavo un po’ di vantaggio e quando era vicino alla fine lo battevo. 

«Non mi lascerai mai vincere, neanche per pietà?» 

«No… No, non credo che lo farò» ridevamo. 

 

Al pomeriggio Stiles veniva da me per l’allenamento col sacco da boxe. Durante le pause gli raccontavo dello scontro con il Ghul cercando di analizzare il suo tipo di attacco (che fondamentalmente si basava tutto sulla forza bruta) e tentavamo di mettere su una strategia di difesa/contrattacco. 

 

Un pomeriggio, mentre Stiles faceva le trazioni (già visibilmente più in forma di quando avevamo cominciato), il ricordo dello scontro si fece più vivido nella mia mente e un moto di rabbia mi spinse a colpire il sacco con più forza di quanta credevo di averne. In un decina di colpi il sacco cedette e si staccò dal soffitto, andando a finire sulla parete della stanza. «Cavolo.» Stiles si staccò dalla sbarra e tornò con i piedi per terra. 

«Ogni tanto mi succede, chiamerò qualcuno per ripararlo» lo rassicurai mentre riprendevo fiato. Camminò fino a raggiungere il cesto nell’angolo e ne estrasse due paracolpi. Li indossò mentre io sistemai il relitto del sacco in modo da non essere di intralcio. 

«Allora, proviamo questi?» fece per battere le mani per attirare la mia attenzione. 

«Stiles, ancora non hai capito che con me potresti farti male?» dissi. 

«No, non credo che tu mi farai del male» rispose guardandomi fisso negli occhi. Mi chiesi se stavamo ancora parlando della boxe.

«Coraggio, proviamo» mi incitò, piegando leggermente le ginocchia e mettendosi in posizione. Diedi un primo pugno con il sinistro. Naturalmente non usai tutta la forza che avevo. Stiles indietreggiò di un passo. 

«Tutto qui?» mi provocò. Tirai un destro, leggermente più forte. Indietreggiò ancora e si rimise in posizione. Poi veloci un destro e un sinistro. Stiles allungò il destro e io lo schivai. In poco prendemmo il ritmo: destro, sinistro, destro, schiva a destra. Poi il contrario. Mi concentrai così tanto sui miei colpi che dimenticai che era Stiles quello di fronte a me (impossibile, eppure) e i miei sensi da lupo mi portarono ad essere sempre più veloce, fino a quando lui non seppe mantenere il mio ritmo e il mio destro lo colpì in pieno volto sull’occhio sinistro. 

«Cazzo!» gridai d’istinto. 

«Ahia.» Stiles strizzò gli occhi. Mi tolsi rapidamente i guantoni e gli presi il volto tra le mani avvicinandomi per analizzare il danno. L’occhio sarebbe diventato sicuramente nero e gonfio. 

«Stiles, mi dispiace… perdonami» gli sussurrai. Realizzai di essere incredibilmente vicino, come quella volta al St. John, e la tentazione di riascoltare di nuovo il suo battito fu troppo forte per ignorarla. 

Di nuovo, il suo cuore era incredibilmente veloce. Mi dissi che era per lo sforzo fisico. Riuscivo a sentire il suo alito fresco di menta senza il bisogno di usare l’olfatto da lupo e mi persi di nuovo nel colore dei suoi occhi. 

«Non… non fa niente» rispose. Non avevo ancora lasciato la presa dal suo volto. Mi accorsi che mi stava guardando le labbra. 

«Vado a prenderti del ghiaccio» dissi e mi separai di scatto fiondandomi in cucina. Con le mani poggiate sul marmo gelido del ripiano mi concessi qualche secondo per riprendermi. Mai nella mia vita avevo resistito ad un istinto così forte. Il desiderio di annullare quei pochi centimetri che ci separavano era così risonante nella mia testa e in tutto il resto del mio corpo che ero cosciente del fatto che se fosse successo di nuovo non avrei saputo trattenermi. Preparai un impacco di ghiaccio e tornai da lui. Stiles si era seduto a terra con le gambe incrociate e la testa tra le mani. 

«Tieni» gli porsi la bustina ghiacciata. 

«Grazie.» La poggiò sull’occhio sussultando a contatto con la superficie gelida sulla palpebra.

«Stiles, davvero mi dispiace.»

«Non fa niente, sul serio. Non è niente. E poi ti ho chiesto io di farlo.» Si alzò. 

«Comunque è meglio che vada adesso, grazie per il ghiaccio.»

Si incamminò verso la porta. Lo seguii e poco prima che chiudesse la porta alle sue spalle lo chiamai. 

«Ci vediamo domani mattina?» (ripensandoci adesso temo che il mio tono fosse più supplichevole di quanto avrebbe dovuto, ma tutto quello che volevo sapere era se fra di noi le cose erano apposto). Con mio grande sollievo sorrise: «Certo, 7 e 30. Non fare tardi» mi minacciò scherzosamente con il dito e andò via chiudendo la porta. 

Le cose tra di noi continuarono come se non fosse successo nulla. O meglio, come se non ci fosse stato nessun momento bloccato nel tempo in cui eravamo rimasti pericolosamente vicini e l’unica prova tangibile dell’accaduto era il contorno viola dell’occhio di Stiles che mi faceva provare una rabbia incommensurata verso me stesso, mi fissava come costante promemoria che gli avevo fatto del male.

 

XII


Una sera di qualche giorno dopo mi addormentai molto presto, stanco e sfinito dall’allenamento. Come un appuntamento fisso venne a trovarmi il sogno dalla melodia bianca che mi sforzavo di memorizzare mentre correvo (nel sogno) inseguendola senza mai riuscire a raggiungerla.

Mi svegliai a causa di un rumore in soggiorno. Quando varcai la soglia della cucina vidi Walgreen intento a prepararsi un thè. Non aveva acceso le luci ed era immerso nella penombra e nel chiarore della luna che passava attraverso le finestre. Indossava una vestaglia di raso rosso con motivi floreali antichi cuciti a mano. Portava un make up più leggero del solito e i suoi capelli erano raccolti in un bun disordinato che faceva risaltare i suoi lineamenti felini. 

«Wal? Che ci fai qui?» chiesi mentre mi stropicciavo gli occhi ancora sonnolenti. Alzò la testa colto quasi di sorpresa dalla mia voce. 

«Oh, caro» disse con naturalezza, come se non si aspettasse di vedermi nella mia stessa casa. 

«Sono passato per un saluto» prese il barattolo con gli infusi e ne scelse uno a caso 

«E un thè» aggiunse sollevando la bustina. Mi sedetti sullo sgabello che si affacciava sul ripiano di marmo e nel silenzio della notte aspettammo che il bollitore facesse il suo dovere. «Gradisci?»

«No, grazie» scossi la testa e lui prelevò soltanto una tazza dallo scomparto sopra i fornelli. Versò l’acqua bollente e cominciò a far girare la bustina da infuso in senso orario, con l’indice, senza toccarla, usando la magia e un movimento costante del polso. Era appoggiato sul ripiano di fronte a me. 

«Allora… una voce mi ha detto che intendi affrontare il Ghul» finalmente esordì. 

«Stiles è venuto da te?» chiesi. Walgreen annuì senza smettere di girare il suo thè fumante. «Cosa ti ha detto?» 

«Mi ha chiesto di dissuaderti dal morire.» 

«Non ci credo» mi sfuggì dalle labbra. 

Un senso di tradimento mi attraversò lo stomaco. 

«Hale, so che sei forte ma credimi… lui è più forte. Ho visto di cosa sono capaci questi cazzo di demoni.» Mi alzai dallo sgabello. 

«Lo so, ci ho combattuto, ricordi?» 

«Sì, infatti! E sei quasi morto o sbaglio?»

Le nostre voci quasi rimbombavano, il tono molto più alto del normale. 

«Sì, ma adesso lo conosco meglio e posso batterlo.» Walgreen posò la tazza sul ripiano e fece un passo verso di me. 

«Invece no! Sono passati quattro mesi e adesso sarà forte almeno il doppio di prima, a questo ci hai pensato?» 

No. Non ci avevo pensato. 

«Cosa dovrei fare? Eh? Rimanere a guardare mentre mese dopo mese un innocente muore?»

Non seppe rispondere. Avevo paura che avremmo svegliato Mrs. Crowford con le nostre urla. 

«Non puoi salvare tutti, Hale» concluse. Ma invece dovevo. O almeno, avrei dovuto provarci. Era tutta la vita che provavo a far tacere quella voce che mi diceva di non poter far niente per proteggere persone innocenti. Innocenti erano mia madre, le mie sorelle, tutto il mio branco e io loro non li avevo salvati. Se avessi potuto scambiare la mia vita con la loro l'avrei fatto senza neanche pensarci. Sarei voluto morire io tra le fiamme, soffocato dal fumo, con gli occhi che bruciavano. Innocente era Tyron, che mi guardava speranzoso appena prima che gli squarciassero la gola. 

«Se devo morire provandoci, lo farò. E tu non puoi fermarmi.» Walgreen tirò un respiro profondo, poi abbassò le spalle. 

«Allora verrò con te.» E prima che io potessi parlare aggiunse: «Non si discute.» 

Non risposi. Un aiuto mi sarebbe servito. Riprese la tazza e fece un lungo sorso. 

«Dopo tutto questo tempo, Hale, mi tieni ancora in pugno. La mia proposta è sempre valida.» Arrossii ma speravo che la penombra mi aiutasse a nasconderlo. 

«Io… non posso accettare.» Sorrise con la metà sinistra della bocca. 

«No, certo, soprattutto adesso che hai il ragazzino.» 

Quelle parole mi colpirono come una frusta in pieno volto ma prima che potessi ribattere Walgreen aveva già aperto un portale per il suo appartamento e sorridendomi, dopo aver sussurrato «Buonanotte» ci sparì dentro. 

 

Il mattino dopo piovve. La prima vera pioggia dopo mesi di caldo e sole. Non faceva freddo ma l’aria era leggera e sembrò che finalmente qualcuno avesse alzato il coperchio che creava una cappa afosa sulla città. Non avevo nessuna voglia di allenarmi ne tanto meno di vedere Stiles e il pensiero di non presentarmi al nostro appuntamento per la corsa della mattina mi stava ronzando intorno da quando ero tornato a dormire dopo che Walgreen era andato via. Decisi di essere troppo nervoso per affrontarlo, così non ci andai. Rimasi a letto, con il mal di testa e il rumore della pioggia che sbatteva sul vetro. 

Quindici minuti dopo le 7 e 30 (l’orario in cui avremmo dovuto vederci sotto casa sua) suonò il citofono. Lo ignorai. Suonò ancora. Mi alzai. 

«Chi è?» domanda inutile: era Stiles. 

«Mi apri?» 

«Non mi sento bene, Stiles. Ci vediamo domani» chiusi il contatto. Suonò di nuovo. 

«Derek, andiamo, apri, voglio parlarti.» Aprii il portone. Venti secondi dopo bussò alla porta. La pioggia lo aveva bagnato come un pulcino e la sua felpa grigio chiaro era diventata di tre tonalità più scura. I suoi capelli erano completamente zuppi e appiccicati alla fronte. Aveva goccioline di pioggia sul volto, sulle gambe scoperte sotto il ginocchio. Profumava di muschio e fiori bagnati ma cercai di non pensarci e concentrarmi su quanto fossi arrabbiato con lui. 

«Non avevo visto che pioveva» alzò le spalle. 

«Posso entrare?» chiese. Mi scostai per lasciarlo entrare. 

«Hai visto Walgreen, immagino» rimase fermo al centro del soggiorno, in piedi di fronte a me. Annuii. 

«Perché sei andato da lui, Stiles?» 

Guardò per terra. «Mi dispiace… ma dovevo fare qualcosa!» 

«Perché siete contro di me in questa cosa? Perché non mi lasciate fare l’unica cosa che so fare?» il mal di testa mi stava uccidendo dal dolore. Ero stanco di gridare, di litigare. 

«Non siamo contro di te» disse. Feci due passi verso di lui. 

«Allora perché sei andato da Walgreen alle mie spalle? Pensi che io non sia consapevole del pericolo che corro?» Stiles fece un passo verso di me. 

«Speravo che lui sarebbe riuscito a farti cambiare idea» ammise. 

«Ma io non posso cambiare idea, lo capisci?» mi resi conto che gli stavo urlando addosso troppo tardi. 

«Devo fare qualcosa, devo provare a salvarli.»

Notai che gli occhi di Stiles erano diventati acquosi. 

«Non puoi morire così!» urlò ancora più forte di me. 

«Perché non puoi lasciarmelo fare?» gli gridai di rimando. Fece un finto sorriso e guardò in alto per rimandare indietro le lacrime. Alzo le mani e tirò su le spalle. 

«Non l’hai capito ancora?» disse con la voce rotta. Percorsi il restante metro che ci separava prima di rendermene conto e presi tra le mani il suo volto umido. Finalmente le mie labbra si unirono alle sue, morbide, lisce. Aveva il sapore del caffè e del cacao e ricambiò il mio bacio. Mentre le sue mani si agganciavano al mio collo e non c’era più nulla a separarci mi dimenticai della paura, del Ghul, del mal di testa. C’erano solo Stiles e le sue labbra, i suoi capelli umidi, la sua pelle di porcellana. Riprendemmo fiato. Potei guardarlo più vicino di quanto avessi mai fatto e mi specchiai nella profondità del marrone dei suoi occhi. Gli accarezzai lo zigomo con il pollice come avevo fatto tantissime volte nella mia mente, seguendo quel contorno perfetto. Sentivo di camminare metri e metri da terra e non sarei mai voluto scendere. 

«Devi farlo per forza, vero?» sussurrò Stiles con la fronte poggiata alla mia. «Mi dispiace» risposi. 

 

XIII


I giorni che seguirono furono scanditi dal ritmo lento dei nostri baci alternato alla dinamicità dell’allenamento. Stiles diventava visibilmente più in forma (o almeno, i miei occhi clinici ci avevano fatto caso) e riusciva a correre più velocemente stancandosi meno, anche se non fu mai in grado di arrivare per primo nelle nostre sfide di velocità.

Una volta ci ritrovammo stesi sul divano di casa sua, con un canale musicale alla tv che faceva da sottofondo e la finestra semi aperta che faceva passare l’aria fresca del pomeriggio straordinariamente assolato. Gli accarezzai delicatamente il contorno dell’occhio ancora pesto. 

«Ti fa male?» chiesi. 

«Un po’, ma non fa niente.» 

«Fammi provare una cosa, okay? Stai fermo.» 

«Okay.» Mentre io osservavo concentrato la sua palpebra scura e le sfumature di viola e verde scuro che si mescolavano come in un dipinto, i suoi occhi fissavano i miei, verdi, facendomi sentire completamente allo scoperto eppure… non vulnerabile. In poco tempo le vene leggermente sporgenti del mio braccio sinistro diventarono nere, piene del dolore di Stiles. Quando se ne accorse sfuggì quasi dalla mia presa, impressionato. 

«É così strano» disse stupito. 

«Ti fa male?» chiese. 

«Un po’» gli sorrisi, imitando la sua risposta. Interruppi il contatto e portai la mano sulla sua schiena per stringerlo ancora più vicino a me. 

«Sei incredibile» bisbigliò. 

«Questa è quasi l’unica cosa bella, Stiles. Sono un lupo mannaro, non c’è niente di affascinante.»

«Oh sì che c’è, invece. Sei tu che non lo vedi. Se ti vedessi con i miei occhi capiresti.» 

Pensai che mia madre avrebbe adorato Stiles. Che per me avesse voluto qualcuno in grado di apprezzarmi come faceva lui. Desiderai che potessero incontrarsi e soffocai una lacrima al pensiero che non avrei mai potuto dirle quanto fossi felice in quel momento. 

 

Forse spinti dalla paura sorda che quelli fossero gli ultimi e unici giorni in cui potevamo stare insieme (entrambi sapevamo che dallo scontro sarei potuto non tornare ma non ne parlavamo, fingevamo apertamente che non fosse una possibilità mentre io ne soffrivo e sapevo che anche Stiles temeva l’ipotesi della mia morte) o forse perché l’inizio di una relazione è sempre il periodo più roseo, in cui l’attaccamento è così forte che separarsi per anche solo un’ora provoca lo stesso dolore della perdita di un arto, trascorremmo quasi l’intero periodo insieme. A casa mia, a casa sua, giravamo per la città, passavamo le ore seduti sulle panchine del St. Nicholas Park in una cornice di alberi mezzi spogli che abbracciavano l’inizio dell’autunno. Stiles non aveva ancora iniziato i corsi del nuovo anno e aveva già dato tutti gli esami di quello precedente quindi non doveva studiare e poteva dedicarsi completamente (mi sembra stupido dirlo, mi sento come un bambino che ha bisogno di attenzioni) a me. 

 

Avevo trovato per puro caso un negozio in Claremont Avenue che vendeva infusi da thè dai gusti più improbabili e con nomi assolutamente singolari come “Notte di agosto sulla sabbia bagnata dal mare” e “Fuoco di caminetto a gennaio inoltrato” così ne comprai un paio per Stiles. 

«Finalmente quel caldo terribile è finito e io posso tornare a bere thè in santa pace senza dover raggiungere i cinquanta gradi corporei» diceva quasi ogni volta che cominciava a piovere e per uscire c’era bisogno di indossare la giacca. 

Rise per quindici minuti quando mi presentai alla sua porta con una confezione di thè “Bosco selvaggio bagnato da pioggia autunnale”. Con nostro grande dispiacere sapeva di muschio, terra, castagne e aveva un retrogusto legnoso. Dovemmo buttarlo, anche se Stiles disse almeno un centinaio di volte che aveva adorato il pensiero e che avremmo dovuto provarli tutti (io rabbrividivo al pensiero). 

 

Non gli raccontai mai che ascoltavo il battito del suo cuore. Lo facevo mentre ci baciavamo, prima di aprire la porta di casa per vedere come accelerava quando mi vedeva. Ma anche in momenti insospettabili, quando stava seduto sulla poltrona a leggere un libro e cambiava posizione ogni due pagine. 

Lo ascoltavo suonare per un tempo che adesso non sono in grado di quantificare. Certe volte non resistevo e lo interrompevo per un bacio, oppure lo abbracciavo da dietro mentre stava seduto sullo sgabello da pianista mezzo rotto ma lui non si fermava e io sentivo le sue braccia dondolare sotto le mie. Di tanto in tanto componeva. Poggiava la matita sull’orecchio il tempo necessario per appuntare le note sui pentagrammi disegnati a mano. 

«Scriverai un brano per me un giorno?» gli chiesi una volta. Mi guardò, sorrise e disse: «Forse.» Mi fece l’occhiolino e riprese a suonare. 

 

Nei momenti di intimità mi baciava la schiena (nessuno lo aveva mai fatto prima, c’era una dolcezza in quei gesti che non avrei mai creduto esistesse) e mi sfiorava con i polpastrelli i contorni del tatuaggio. Capivo che in quei momenti si perdeva in posti della sua mente a cui non avrei mai avuto completamente accesso ma dove ogni tanto mi permetteva di affacciarmi, fare una rapida perlustrazione e uscire. 

«Ti manca molto?» chiesi senza bisogno di specificare.

«Terribilmente. Penso a lei ogni giorno.» 

«Ti capisco.» 

«Vorrei sapere dov’è adesso, se mi vede, se sta bene.» 

«Mi piace pensare che siano in posto tranquillo» ammisi. «Magari mia madre e tua madre si sono conosciute, in quel posto» sorrise. 

«Già, magari.»

 

Stiles non perse mai le speranze nel pugnale. Non me lo diceva ma io mi ero accorto che alcuni libri di Walgreen cambiavano spesso ordine e ne trovai addirittura uno incastrato nello spazio tra i cuscini del divano. Gli avevo lasciato i due pezzi che avevamo trovato e di tanto in tanto se li girava tra le mani, li separava per studiarli separatamente e poi li rimetteva insieme. 

«Mi ricorda così tanto qualcosa…» borbottava. Una volta passò tutto il giorno ad analizzarli sotto la lente d’ingrandimento per cercare un incisione o qualcosa di utile, ma nulla. Alla fine lasciava i pezzi sul coperchio del pianoforte e finivano per diventare pezzi d’arredamento. Sembrava arrendersi… fino al giorno dopo. 

 

Mancavano pochi giorni all’attacco del Ghul e la tensione ci faceva sentire come se una bomba potesse esplodere da un momento all’altro. Intensificai gli allenamenti e iniziai a correre anche di notte, quando le strade erano quasi completamente deserte e potevo spingermi fino alla massima velocità. Rispetto al mio primo incontro con il demone sarei stato molto più forte, ma mi chiedevo se sarebbe bastato. Alternavo momenti di massima fiducia in me stesso in cui mi vedevo trionfante con la testa del Ghul tra le mani, a momenti di incertezza in cui mi screditavo così tanto da credere che mi avrebbe messo fuori gioco al primo pugno, perché come aveva detto Walgreen, anche lui era diventato più forte. In più, il solo pensiero della sensazione di terrore e i brividi causati dalla sua scia di freddo mi mettevano agitazione. 

 

Un pomeriggio dopo un’intensa sessione di allenamento e una doccia andai a casa di Stiles. Avevamo in programma di vedere un film ma lui stava finendo di comporre il suo pezzo e mi disse: «Ci metto poco, giuro» e mi fece gli occhi da cucciolo abbandonato. 

«Finisci con calma» gli diedi un bacio sulla fronte (mi faceva morire il fatto che fosse solo pochi centimetri più basso di me). Dal divano lo osservai silenziosamente di profilo mentre alternava la scrittura alla pratica e sventolava la matita che faceva avanti e indietro sull’autostrada dall’orecchio al foglio. C’era una sola cosa in quel quadro perfetto che mi disturbava distraendomi dal momento: quel singolo tasto mancante che con la sua ombra buia interrompeva l’armonia dei pezzi bianchi alternati ai neri. Vedevo le sue dita, molto spesso l'anulare della mano sinistra, che ci si fermavano ogni tanto perchè avrebbero voluto suonarlo ma non lo trovavano e rimanevano sospese proprio come se fosse lì e immaginavo che nella sua testa Stiles sentisse il suono esatto che avrebbe dovuto riprodurre. 

«Un giorno ti comprerò un pianoforte» lo interruppi. Si girò per guardarmi e aggrottò le sopracciglia come per dire Come ti viene? così aggiunsi: 

«Non sopporto che uno bravo come te debba suonare un pianoforte senza un tasto, è inconcepibile. Te lo regalo io, tu dimmi solo che colore lo vuoi.» 

Si mise a ridere facendo comparire la fossetta che amavo tanto a sinistra della sua bocca.

«Ma a me piace tantissimo questo… forse proprio perché gli manca quel tasto» poggiò la mano sulla fessura e ne tracciò i bordi. Sembrò che un fulmine gli fosse caduto a pochi centimetri di distanza. Mi guardò con gli occhi sbarrati e la bocca semi aperta.

«Cosa c’è?!» mi preoccupai. Ma avevo già visto quello sguardo, era lo stesso della sera in cui guardando quello stupido programma televisivo aveva capito che il messaggio scritto ai piedi del leone era un codice. 

«Dirkey è il nome del pugnale, no?» chiese.

«Sì, certo» mi sembrava ormai assodato, ne parlavamo da mesi. 

«Ma è Dirk che significa pugnale. Key invece significa chiave.» Senza bisogno di alzarsi allungò la mano per afferrare i due pezzi del Dirkey poggiati sul coperchio del pianoforte e li separò come aveva fatto tante volte. Rimise cautamente la lama a posto e si girò nella mano la guardia del pugnale in un gesto automatico fino a tenerla tra l’indice e il pollice della mano sinistra.

«Ma key ha così tanti significati… Piano key, ad esempio, significa» non finì la frase. Si posizionò esattamente sopra il tasto nero mancante e io ebbi un sussulto quando, di profilo, constatai che la misura era perfetta. La mano gli tremava leggermente ma calò sulla tastiera con precisione e la guardia si incastrò perfettamente. 

«Tasto del pianoforte» conclusi io. Stiles mi guardò come per cercare la conferma che non stesse sognando, che tutto quello stava accadendo veramente. 

«Stiles sei un genio!» gridai alzandomi. Lui non aveva parole, era troppo sconvolto. Con l’indice premette il tasto che ridava armonia all’insieme anche se il marrone antico in cui era tinto il metallo risaltava tra gli intervalli di nero e bianco. Ne uscì un suono composto, accordato, equilibrato. 

«Adesso cosa facciamo?!» chiese Stiles. 

«Non lo so… prova a suonare qualcosa» improvvisai. Mi sentivo elettrizzato. Stiles cominciò a suonare un brano che gli avevo già visto eseguire diverse volte e notai la differenza adesso che le sue dita incontravano un peso dove fino a poco prima galleggiavano. Stiles suonava con enfasi e si faceva trasportare ma rispettava i cambi di andatura e alternava il forte al piano come il compositore aveva indicato nello spartito che lui sapeva a memoria. Quando il brano finì non accadde nulla. Cosa ci aspettavamo che sarebbe accaduto?

«Credi che possa essere un caso?» mi chiese Stiles. Poteva esserlo? 

«Per tutto questo tempo la risposta è stata qui? In casa mia?» continuò. 

«Dopo il coinvolgimento di Bram… adesso questo? Allora c’è davvero un collegamento con noi» replicai. 

«Se la risposta è qua, in questo pianoforte, mi darai tempo per trovarla?» si girò sullo sgabello per guardarmi negli occhi. La situazione non era delle migliori: da un lato il Ghul avrebbe attaccato da un giorno all’altro e io avrei dovuto seguire la sua traccia, provare a combatterlo, probabilmente rimanere ucciso, molto meno probabilmente l’avrei ucciso. Dall’altro lato, eravamo un passo più vicini al ritrovamento dell’ultimo pezzo del pugnale che ci avrebbe permesso di avere una valida arma dalla nostra parte e che faceva schizzare la mia possibilità di non morire ad un 50% in più. Eppure, quanto effettivamente eravamo vicini a trovare l’elsa? Per quanto ne sapevamo il punto in cui eravamo ora avrebbe potuto condurre soltanto ad un altro indizio, che avrebbe richiesto ancora altro tempo, e questo sarebbe costata la vita ad una persona innocente. Ed io ero così stanco di vedere le foto delle vittime accumularsi sulla lavagna investigativa di Stiles. 

«Non lo so, Stiles» risposi. 

 

XIV


Invitammo Cam e Walgreen per un thè a casa di Stiles, così dicemmo, aggiungendo che c’era qualcosa che dovevano vedere. Loro sapevano già del fatto che avrei affrontato il Ghul ed ero certo che se avessero potuto mi avrebbero legato ad una sedia fino a quando non ci sarebbe stato più uno straccio di traccia da seguire. Erano tre delle persone a cui più tenevo e avrei dato la vita per loro.

 

Cam si presentò puntuale come un orologio svizzero e portò con sé una scatola di cioccolatini firmato Jomar Chocolate, una delle cioccolaterie più rinomate di New York (vidi Stiles trattenersi dallo strappargliela di mano e infilarsi tutto il contenuto in bocca in meno di un minuto). 

«Tutto bene?» chiese a Stiles indicando l’occhio ancora leggermente sfumato di viola chiaro. Stiles parve quasi essersene dimenticato. 

«Oh, sì! Questo! É stato lui» disse indicandomi e di proposito mantenne un tono neutrale facendo credere che fosse una cosa che capitava tutti i giorni. Cam si girò a guardarmi sorpresa. 

«Che cosa hai fatto a questo poverino?!» domandò. 

«Niente! É stato un incidente!» mi difesi. Stiles intanto rideva già sotto i baffi. Cam capì l’andazzo e ci sorrise. Volevo dirle di noi ma non sapevo esattamente come fare. Sapevo che non sarebbe stata altro che contenta ma avevo paura che le ricordassimo Henry e che questo avrebbe potuto farle male. A risolvermi ogni paranoia ci pensò Stiles che mi mise il braccio intorno al collo in un gesto automatico e poco mal interpretabile. 

«Ho scoperto che è pericoloso fare a pugni con un lupo mannaro» le disse. Lei sorrise ancora: «Oh, lo so. E quello è niente» ammiccò. Con grande piacere non vidi tristezza nei suoi occhi, solo una punta impercettibile di nostalgia che però forse non l’avrebbe mai abbandonata completamente. 

 

Quando Walgreen fece uno dei suoi ingressi appariscenti attraversando il vortice di scintille una coltre di fumo passò insieme a lui posandosi sul pavimento così densa che non eravamo più in grado di vederci le scarpe. 

«Buonasera.» si presentò. Aveva una una camicia verde sgargiante piena di ornamenti e ghirigori cuciti a mano leggermente sbottonata sul collo che lasciava intravedere dei tatuaggi ad inchiostro bianco che decoravano il suo petto scuro. Il contorno dei suoi occhi e sfumato da un ombretto verde luminoso e un generoso strato di illuminante delineava il suo zigomo alto. 

«Oh, finalmente ce l’avete fatta?» disse guardando il braccio di Stiles che mi circondava. Arrossii, non potei farne a meno, e anche Stiles che si ritirò d’istinto e borbottò: «Apro la finestra prima che questo fumo ci intossichi.»

«Oh, giusto.» Walgreen con un gesto della mano chiuse il portale alle sue spalle. Cam rimase parzialmente scioccata dall’entrata ad effetto. Non sapevo quanto conoscesse le creature soprannaturali al di fuori dei lupi mannari ma anche se avesse fatto la conoscenza di cento Nissen diversi, Walgreen sarebbe comunque risultato abbastanza stravagante.

«Oh, salve» le disse Wal quando la notò e le porse la mano. Cam la strinse e mantenne tutta la compostezza che la caratterizzava: «Detective Bennet, piacere di conoscerla.»

Lui rispose con un sorriso felino: «Walgreen, incantato.»

Stiles nel frattempo aveva messo l’acqua nel bollitore e preparato il suo amato servizio da thè con quattro tazze in ceramica poggiate su quattro piattini della stessa fantasia. Ci raggiunse attorno al tavolo e prese i due pezzi del Dirkey iniziando a spiegare: «Sapete che avevamo quasi interrotto le ricerche del terzo pezzo, giusto?» Loro annuirono. 

«Okay, forse prima è meglio che vi spieghi che quel pianoforte» lo indicò con la mano «l’ho acquistato un paio di anni fa da un antiquario qui a New York a un prezzo abbastanza basso perché gli mancava un tasto. E… oggi abbiamo scoperto per caso questo.» Prese i due pezzi e li separò, andò vicino il pianoforte e inserì la guardia proprio come aveva già fatto poche ore prima, fino a che quella fece uno scatto impercettibile. Le loro facce furono visibilmente sorprese. 

«Curioso» disse Walgreen. 

Presi la parola: «E questo si unisce al fatto che Bram, l’uomo del tuo ritratto» feci cenno a Wal «fosse il nipote della signora che abita nel mio palazzo al piano di sotto. Insomma, pensiamo che questa storia sia collegata in qualche modo a noi.» 

«Wow.» Cam sussurrò tra sé e sé. 

«Potrebbe essere, anche se non mi spiego ancora come» ammise Walgreen. 

Il bollitore iniziò a fischiare e Stiles andò a riempire le tazze dell’acqua fumante e le distribuì attorno al tavolo insieme al suo prezioso raccoglitore con gli scomparti contenente almeno trenta varietà diverse di infusi. 

«Al di là di questo» chiarii, «il Ghul colpirà da un giorno all’altro. E non sappiamo quanto potrebbe volerci per trovare quest’ultimo pezzo» conclusi mentre facevo galleggiare un infuso dal filo sottile. 

«Oh, ma potreste essere così vicini!» disse Cam. 

«Grazie! Ti prego, diglielo anche tu! Posso suonare fino a rompermi le dita se serve a trovare l’ultimo pezzo, ho solo bisogno di tempo.» Stiles faceva avanti e indietro dalla cucina portando una volta il miele, poi lo zucchero, poi dei biscotti in un piattino. 

«Ma la sua scia durerà poco dopo l’attacco, se dovrò cercarlo-» Walgreen mi corresse «dovremo» con sguardo severo, «se dovremo cercarlo andrà fatto subito. Altrimenti passerà un altro mese e un’altra persona dovrà morire.» 

Seguirono istanti di silenzio in cui l’unico rumore in tutta la stanza era lo sbattere dei cucchiaini che giravano nelle tazze. 

«Allora non dovete perdere neanche un minuto e cercare l’ultimo pezzo fino a quando non saprò della prossima vittima. A quel punto potrai andare a sacrificarti» suggerì Cam. «Potremo» la corresse Walgreen. «Potrete» ripeté lei. 

«Ma un giorno potrebbe fare la differenza e avere o no il pugnale è determinante!» provò a convincerci Stiles. 

«Il ragazzo ha ragione.» Walgreen accavallò le gambe con un movimento agile in una posa signorile. 

«Nessuno di noi vuole che tu muoia, Hale» Cam mi guardò fisso negli occhi. 

«Lo so, neanche io ho questo desiderio impellente di morire. Men che meno adesso. Ma non posso sopportare che altre persone muoiano.» Calò di nuovo il silenzio. 

«Se hai deciso è così che deve essere» concluse Cam. 

«Ma tu non arrenderti fino all’ultimo minuto» guardò Stiles negli occhi e gli sorrise infondendogli fiducia. 

«Bene, allora è deciso. Il ragazzo cercherà il pezzo, tu continuerai ad allenarti fino a quando la detective non troverà il prossimo cadavere. Io verrò con te.» Walgreen finì in un sorso il suo thè e si alzò.

«Adesso scusatemi ma devo andare, ho un appuntamento con una coppia di korrigan.» Si girò verso Cam: «É stato un piacere conoscerla» poi verso Stiles: «Buona fortuna» e infine verso di me: «Speriamo di non morire, eh?» 

Aprì il portale e ci si fiondò dentro e solo all’ultimo, quando si stava già richiudendo alle sue spalle, aggiunse: «Grazie per il thè!»

Cam ci lasciò poco dopo con la promessa che mi avrebbe contattato appena avesse saputo qualcosa e, cosa che non aveva mai fatto, mi salutò con un abbraccio, che se pur breve fu intimo e tenero e lo interpretai come l’addio che non sarebbe mai stata in grado di darmi. Solo in quel momento capii cosa avrebbe significato per lei perdermi dopo aver perso Henry e realizzai che a volte ci vuole tanto coraggio per andare via quanto ce ne vuole per lasciare andare via. 


Stiles cominciò a suonare appena fummo di nuovo soli. Suonava qualsiasi cosa ricordasse a memoria e quando non gli veniva nulla in mente prendeva uno spartito a caso fra quelli appoggiati al lato del coperchio. Alle 10 di sera, quando le regole condominiali impedivano di suonare, spinse il pedale centrale dei tre collocati in basso al pianoforte e sentii un rumore meccanico provenire dall’interno. Mi spiegò che era il pedale della sordina e che questo gli avrebbe permesso di continuare a suonare perché serviva ad attutire il suono. Avrei voluto aiutarlo, tanto. Avrei voluto dimostrargli che non era una sua battaglia personale ma che anche io volevo trovare l’elsa del pugnale e che non volevo morire. Però non sapevo come farlo e me ne stavo lì seduto sul divano ad osservarlo senza stancarmi mai. Sporadicamente si alzava e tirava fuori libri, antologie, raccolte di brani. Il tempo passò molto più velocemente di quello che percepivamo e a notte fonda sembrava che una pioggia di spartiti si fosse abbattuta nell’appartamento lasciando pozzanghere di fogli sparsi ovunque. 

Convinsi Stiles a fare una pausa alle quattro del mattino e si addormentò immediatamente tra le mia braccia. Ricordo di aver pensato a quanto sarebbe stata poetica l’immagine di noi addormentati circondati dal bianco e dal nero delle note se da quelle stesse non fosse dipesa la mia vita e di conseguenza la nostra storia. 

 

XV


Quella mattina fu incredibilmente difficile scivolare via dalla stretta di Stiles per andare a correre. Forze invisibili mi tenevano legato a lui e mi costringevano a rimanere ancora un minuto… ancora cinque minuti… solo altri cinque minuti. Ma dovetti farlo. Era trascorso un mese esatto dall’ultimo attacco del Ghul e questo significava che se il messaggio di Cam non fosse arrivato oggi, sarebbe stato domani oppure il giorno dopo. 

 

L’alba a New York profumava di erba appena tagliata e di donuts appena sfornate. Nell’aria fluttuava il rombo dei motori dei taxi gialli e ogni giorno mi accorgevo di come il sole diventava più pigro e arrivasse sempre poco più tardi rispetto al giorno prima accorciando le giornate. Ottobre era arrivato taciturno ma la differenza di temperatura cominciava ad avvertirsi e le prime sciarpe svolazzanti avevano potuto mettere piede fuori dall’armadio. 

Riuscii a concentrarmi molto poco. L’immagine di Stiles al pianoforte che tentava di trovare l’unica cosa che mi avrebbe permesso di avere una possibilità mi rimbalzava nella testa. Continuavo a pensare a quanto fossi fortunato ad averlo trovato. A quando, per una volta, avevo preso una decisione giusta e gli avevo rivelato l’esistenza del mio mondo nonostante ogni regola e principio me lo impedisse. Tornai al mio appartamento per salutare Mrs. Crowford e dare da bere alle mie piante, fare una doccia veloce e tornare di nuovo da lui. 

 

Ovviamente lo trovai seduto al vecchio sgabello, con la sua postura dritta e una canotta pulita indosso. 

«Ho trovato anche il tempo di farmi una doccia» mi sorrise quando notò che l’avevo notata. Stava suonando degli spartiti che non avevo visto prima: la carta su cui erano stampati era ingiallita dal tempo e stropicciata in alcuni punti, con le orecchie in pochi angoli. Notai che un’intera pila di questi era poggiata sul divano e altri li aveva già accantonati sul pavimento. «E questi da dove vengono?» chiesi. «Avrei dovuto pensarci prima, lo so. Me li ha dati il proprietario dell’antiquario quando mi ha venduto il pianoforte. Disse che erano compresi nel prezzo o che me li regalava, non ricordo… comunque li avevo messi da parte senza mai suonarli e mi ero anche dimenticato di averli fino a stamattina.» spiegò. 

«Ma è fantastico! La risposta deve essere qui, Stiles! Ci siamo!» esclamai, ma lui non sembrava così contento. 

«Cosa c’è?» chiesi. Si alzò e venne verso di me. Mi cinse in un abbraccio stretto. Non disse niente e rimanemmo in silenzio per un po’, in piedi nel mare di pentagrammi, fino a quando non sentii il suo petto vibrare ed iniziò a singhiozzare. 

«Scusa» sussurrò e tirò su col naso. Gli presi il volto fra le mani: «Che succede?» 

«Io… sono solo molto stanco.» Ma i suoi occhi acquosi e lucidi facevano trasparire molto altro. 

«Stiles, andrà tutto bene.» 

«Ne sei sicuro?» Oh, no che non lo ero. Ma ci speravo. Davvero tanto. 

«Ce la faremo» lo rassicurai.

«Ho paura, Derek» disse con la voce spezzata e mi strinse di nuovo. Dovetti concentrarmi a fondo per non stringerlo con tutta la forza con cui avrei voluto farlo (non avrei mai voluto rompergli una o più costole). Per un solo, brevissimo, momento, pensai che quello era il destino di chi stava al mio fianco: anche se quella volta ce la saremmo cavata, la mia vita sarebbe stata un continuo rischio e quindi quella di Stiles, di riflesso, una vita scandita dalla paura di perdermi. Ma chiusi questo pensiero in una scatola e poi la scatola in un’altra scatola e questa in un armadio. Poi chiusi l’armadio a chiave e gettai la chiave in un fiume. Quello non era il momento per certi pensieri e forse, sarebbe stato meglio non pensarci mai più.

 

Stiles riprese a suonare, anche se le sue energie erano visibilmente diminuite e le sue dita si muovevano meno agili del solito. Cercai di essere d’aiuto preparando la cena e passando in rassegna i brani che non aveva ancora suonato cercando di capire quale potesse essere quello giusto. Diversi “Metamorphosis” ed “Étude” numerati, alcuni senza nome, altri di compositori Anonimi. Facevo scorrere le dita sulla pila come se fosse uno schedario. “Crossing Oceans” “thè Unforgettable” “Solstice D’été” “Allewind” “Golden Butterfly”. Nessuno che risaltasse. Cercare un collegamento con i compositori mi sembrava un processo lungo e che avrebbe impiegato troppo tempo. Ne notai uno più spesso degli altri e nello sgranare il foglio scoprii che si era, forse involontariamente, attaccato ad un altro e quello di sotto, dall’aria ancora più remota e con uno strato di polvere sul lato inferiore, portava il nome di “Downbeat of your heart”. Un brivido mi corse su tutta la schiena. 

«Stiles» richiamai la sua attenzione e lui smise di suonare. 

«Cosa c’è?»

«Forse l’ho trovato.» 

«Davvero?» La mano che reggeva il foglio mi tremava leggermente. Allungai il braccio per porgergli lo spartito. 

«Cos’ha di speciale?» chiese. Era soltanto una pagina, autore sconosciuto. Ma il suo titolo… L’ennesima prova che un collegamento con noi c’era.

«Suonalo per me» gli chiesi. Lui lo posò sul leggio davanti quello che aveva appena interrotto e lo studiò con occhi curiosi per un minuto. Poi posizionò le mani sulla tastiera in un gesto automatico e grazioso. Stiles cominciò a suonare e le sue dita accarezzavano e talvolta colpivano i tasti con la stessa sicurezza di una persona che aveva già suonato quel pezzo e lo aveva fatto suo. In realtà era la prima volta che lo eseguiva, ma la sua abilità era così grande e il suo talento così considerevole da ingannare. Il pezzo era piacevole e ritmato, la mano destra seguiva la melodia principale e la sinistra si limitava ad accompagnarla con gli accordi, usando di tanto in tanto il famoso Si bemolle da poco ritrovato. Cercai di portare il segno ma ero troppo inesperto e mi persi dopo poco. Capii che ripetè il tema centrale due volte e poi alla fine seguì l’indicazione «piano» appuntata in alto e il suo tocco diventò leggero. Quando l’ultimo accordo rimase appeso nell’aria e Stiles alzò le dita dalla tastiera un clic ci fece scattare sull’attenti. Uno scomparto prima invisibile uscì fuori di pochi centimetri dalla cassa armonica. Stiles trattenne il respiro inconsciamente quando andò a tirare fuori il piccolo spessore che si rivelò incavato dell’esatta dimensione dell’elsa, perfettamente incastrata al centro. 

«Derek…» sussurrò pieno di meraviglia. Riuscì con abilità ad estrarre il pezzo e lo guardammo quasi ipnotizzati. La punta in basso era ricoperta d’oro mentre il resto era di un rosso antico e intarsiato con effetti di rilievo e giochi di ombre. Stiles si alzò, mi guardò negli occhi: «Ce l’abbiamo fatta davvero?» chiese. Mi porse il manico e poi prese gli altri due pezzi, già uniti, e me li diede nell’altra mano. 

«Okay, vado» dissi. Con estrema cautela (come se un movimento troppo affrettato potesse farci saltare in aria) avvicinai i due pezzi fino ad unirli. Sentii che la guardia non si era incastrata perfettamente così in un tentativo quasi casuale feci ruotare la lama e il pezzo centrale di 360 gradi. Quando completai il giro una luce calda e verde si diffuse dall’interno per tutta la lunghezza del pugnale per un breve istante e poi si attenuò fino a scomparire.

«Wow» disse pianissimo Stiles. 

«Adesso cosa facciamo?» chiese, e con una concreta possibilità di successo risposi: «Adesso combattiamo.»

 

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Capitolo 2
*** Seconda Parte ***


I


Thomas Fletcher nacque in una famiglia benestante che risiedeva nel quartiere di Greenwich Village - Manhattan - da generazioni («da quando il padre del padre di mio padre smise di essere il capo settore nelle cave minerarie del Vermont» ripeteva sempre Thomas Fletcher Senior a suo figlio). 

Iniziò il college dopo un anno sabbatico in cui aiutò suo padre con gli affari di famiglia. Spigliato, sveglio, talvolta anche troppo, non aveva mai avuto difficoltà di apprendimento e studiava tanto quanto gli bastasse per non sentire suo padre lamentarsi. Diventò un medico perché suo padre aveva deciso così e disobbedire non era un’opzione. 

Al college ebbe poche ragazze, per lo più storie di una notte, ma non si innamorò mai, tant’è che iniziò a credere di essere una di quelle persone non predisposte ad amare e di questo diede la colpa ai suoi genitori: per lo più assenti, quando presenti autoritari e freddi nei suoi confronti. Certe volte pensava che neanche lo avessero voluto, un figlio, e che quando era arrivato lui un aborto sarebbe stato un disonore più grande che crescere un figlio.

Si ricredette quando incontrò Harriet Carter, del primo anno di psicologia, in un giorno piovoso mentre dalla libreria si dirigeva verso i dormitori. Lei non aveva l’ombrello e i suoi bellissimi capelli rossi stavano diventando completamente bagnati così lui si offrì di accompagnarla sotto il suo ombrello grande e nero. Lei disse che lui era molto gentile e lui notò le lentiggini che lei aveva sotto lo strato superficiale di cipria. 

Si incontrarono due volte all’interno del campus: la prima in biblioteca e la seconda ad una festa di venerdì sera nei dormitori (piena di birra e nebbia a causa dell’erba che passava in giro e a cui Thomas odiava partecipare ma che gli avrebbe permesso di poterla rivedere).

Il loro primo appuntamento si tenne nel drive-in appena fuori dal campus dove tutti gli appuntamenti che necessitassero un po’ di privacy e tranquillità avvenivano. Quando uscirono dopo che ebbe pagato il conto lei disse che aveva freddo e lui le appoggiò sulle spalle il suo cardigan nero. I capelli di lei profumavano di vaniglia e disse che lui era davvero un bravo ragazzo. 

 

Il semestre dopo Thomas pensò che avrebbe potuto portare Harriet a casa sua per il ringraziamento, che era così perfetta che persino i suoi genitori non avrebbero saputo trovare un difetto in lei (nonostante i suoi genitori avessero origini russe). 

Ma Thomas Fletcher Senior morì proprio due settimane prima, di infarto, mentre fumava un sigaro alla sua scrivania, e lui rimandò la conoscenza quasi sollevato che la bocca di suo padre non avesse potuto parlare della sua Harriet e che i suoi sporchi occhi non avessero potuto poggiarsi su di lei. 

Harriet disse che le dispiaceva della sua perdita, lui rispose che dispiaceva anche a lui, ma in realtà pensò che tutti, prima o poi, dobbiamo morire. 

 

Decise di non abbandonare gli studi di medicina nonostante suo padre non potesse fare più nulla per opporsi e sua madre fosse troppo debole perfino per parlare. Si laureò e iniziò la specializzazione in chirurgia perché il mestiere pagava bene e lui aveva la mano ferma, abbastanza stomaco e nessun motivo per non farlo. 

Restò vicino al college per continuare a vedere Harriet quasi ogni sera, lei era l’unica cosa bella della sua vita e l’amava così tanto che avrebbe ucciso per lei. 

La trattava con la gentilezza ed il rispetto che suo padre aveva sempre negato a sua madre e per questo lo ringraziò, nella sua mente, perché gli aveva insegnato com’è che un uomo non deve essere. 

Anche Harriet lo amava molto e fantasticava con le sue amiche su quanto sarebbe stato bello sposarsi, avere una casa e costruire una famiglia con lui. 

Quando entrambi finirono gli studi e trovarono un lavoro comprarono una piccola villa nell’Upper West Side utilizzando i risparmi e parte dell’eredità del suo defunto padre. 

Lei disse che le sarebbe piaciuto uno stile moderno ma umile, lui le fece scegliere l’arredamento e gli accessori. 

Furono felici, molto. Lui la portava fuori a cena ogni giovedì sera, al suo compleanno le regalava sempre un mazzo di camelie perché erano i suoi fiori preferiti e passeggiava con lei in Central Park nelle domeniche pomeriggio. 

 

II


Quando Harriet ebbe il primo malore lui si trovava a lavoro e lei non disse nulla perché pensò di essere solo molto stanca. La seconda volta che accadde stava portando un piatto dalla cucina al tavolo da pranzo e le scivolò di mano, rompendosi in pezzi. A quel punto confessò che le fosse già capitato e Thomas la convinse a fare delle analisi. 

Lei scoprì di avere la sindrome di Cherbourg. 

 

Le arterie alla base del suo cervello si restringevano fino a chiudersi completamente e per compensare il sangue usava vie traverse, vasi che esistevano già, talvolta ne creava di nuovi apposta, ma questi non erano abbastanza forti e potevano capitare delle emorragie cerebrali. 

Thomas cercò di essere forte anche per lei. Un suo collega neurochirurgo spiegò loro che era una sindrome molto rara e genetica che si manifestava molto più di frequente nelle donne. 

 

Il mese dopo lei scoprì di essere incinta. Lui pianse di nascosto. 

Harriet volle tenere il bambino pur sapendo che non avrebbe potuto vederlo crescere. Sperarono che fosse un maschio, così che ci fossero meno possibilità che lei gli trasmettesse la malattia. 

Lei lasciò il lavoro. Iniziò a pregare tutte le sere, non per se stessa ma per il suo bambino. Thomas la accompagnava a tutti gli appuntamenti e le sedute necessarie e la cura, ancora sperimentale, sembrò funzionare. 

Al quinto mese di gravidanza scoprirono che avrebbero avuto un maschio, piansero insieme mentre lui la teneva stretta.

Non ci furono enormi complicazioni durante il parto e in un giorno freddissimo di febbraio nacque il piccolo Rasmus Fletcher, una settimana prima rispetto a quanto previsto ma in salute. Aveva gli occhi verdi di sua madre. Suo padre si emozionò quando gli strinse l’indice con la mano piccola come una chiave e pensò che quella fosse  la cosa migliore che avesse fatto nella sua vita. Poi, due settimane dopo, arrivarono i risultati delle analisi del dna e scoprirono che anche il gene con la sindrome era stato tramandato. 

 

III


Otto anni dopo Rasmus Fletcher era alto 127 centimetri, come indicava la tabella nella sua cameretta dove suo padre lo misurava ogni quattro mesi. Aveva i capelli rossicci di sua madre, lisci alla radice e boccolosi alle punte e le sue stesse lentiggini. Il taglio degli occhi e il naso li aveva presi da suo padre e Miss. Corcoran, la sua insegnante preferita, diceva era “un bambino molto educato, intelligente, ma soprattutto un bambino buono.”

Gli piacevano i supereroi, il suo gusto preferito di gelato era il pistacchio e amava la pioggia. Desiderava tanto un cane ma suo padre disse che gliene avrebbe preso uno solo quando avrebbe compiuto dodici anni e di cui si sarebbe dovuto occupare esclusivamente lui, così si sarebbe responsabilizzato. Così cominciò a scrivere una lista di possibili nomi da dare al suo futuro cane anche se aveva molto tempo per pensarci. 

 

Da grande voleva fare il pittore ma sapeva che quella era solo una risposta temporanea e che avrebbe capito col tempo quale sarebbe stata la sua strada. Gli piaceva accompagnare la sua mamma all’ospedale perché sapeva che così sarebbe stata meglio e dopo lei lo portava sempre a fare un giro a Central Park, che era il suo parco preferito, dove poteva dar da mangiare alle anatre. Le chiedeva sempre se si sentisse meglio e lei rispondeva sempre di sì anche se non sembrava una risposta sincera. 

 

Quando all’uscita da scuola un pomeriggio non la vide al solito posto dove lei lo aspettava si preoccupò ma suo padre disse che si era solo sentita stanca. 

Quando compì nove anni sua madre non riusciva più ad alzarsi dal letto. 

Nei due anni successivi fece i compiti nella stanza dove lei era confinata, troppo debole per muoversi, per tenerle compagnia. Le raccontava quello che imparava a scuola, dei suoi amici, del libro che stava leggendo in quel periodo. Lei sorrideva sempre dolcemente, avrebbe voluto essere più forte per il suo bambino. 

Suo padre si chiuse ogni giorno di più nel suo dolore. Lo vedeva poco, passava molto tempo a lavoro. Una volta gli sentì dire che stava studiando la malattia della mamma, le promise che avrebbe trovato una soluzione «per lei e per Rasmus» disse. Così lui capì quello che non gli avevano mai detto e trovò il motivo nascosto dietro gli sguardi compassionevoli che non era mai stato in grado di decifrare. 

 

IV


Sua madre decise di voler tornare in Russia prima di morire. Partirono in una mattina gelida all’alba senza sapere quando sarebbero tornati. Ad aspettarli all'aeroporto di Magadan c’erano i nonni che non aveva mai conosciuto. La temperatura media era di -20°. Quando rimaneva fermo per più di dieci minuti non sentiva più le dita dei piedi e la punta del naso. 

 

In quei giorni vide sua madre in una versione più serena, distesa e pacata. Aveva interrotto la cura. Suo padre gli disse che avrebbe dovuto godersi ogni momento con lei, che non ce ne sarebbero stati molti altri. La casa dei suoi nonni era su due piani, con una coperta su ogni divano e ogni sedia, il riscaldamento quasi sempre acceso e le finestre con il doppio vetro. 

Suo nonno Mattej gli regalò dei guanti imbottiti di lana e uno slittino. 

Rasmus scoprì di amare la neve più di quanto amasse la pioggia. Quando cominciò l’anno scolastico decise con l’approvazione di suo padre di studiare a casa, così avrebbe potuto passare più tempo con sua madre. 

I capelli rossi di Harriet persero vita giorno dopo giorno, proprio come lei. Poi, in una notte gelida di novembre, volò via. 

 

Suo padre lo abbracciò così forte da fargli quasi male. «É andata via» disse con la voce rotta. Rasmus aspettò di essere solo per piangere. Cercò di ricordare le ultime parole che le aveva detto: una banale buonanotte.

Al funerale c’erano poche persone, per lo più amici e pochi familiari dei suoi nonni. La tomba era di un legno rossiccio che ricordava i suoi capelli. La seppellirono nel silenzio delle preghiere e con il sottofondo delle parole del parroco che non era in grado di comprendere perché in un russo troppo stretto. Capì che gli sarebbe mancata per tutta la vita. 

 

Non parlarono di quando sarebbero tornati a Manhattan. 

Una sera suo padre gli disse con la voce mista tra rabbia e dolore che avrebbe fatto di tutto per non perdere anche lui, che era vicino ad una cura teorica e che presto avrebbe potuto iniziare ad effettuare dei test.

Lo vide sempre meno, quasi costantemente chiuso nel suo piccolo ufficio colmo di strumenti da laboratorio. Si chiese quando la sindrome si sarebbe manifestata. Avrebbero potuto volerci anni o pochi minuti. Talvolta si fermava a pensare che raggiungere sua madre non sarebbe stato affatto male, poi scacciava il pensiero prima che mettesse radici troppo profonde. In primavera superavano gli 0° e gli piaceva immaginare di essere di nuovo a Central Park in una giornata vicina a Natale nonostante fosse Aprile inoltrato.

I suoi nonni morirono a distanza di poco tempo l’uno dall’altro. 

 

V


Suo padre gli fece fare una risonanza magnetica e delle analisi. Dopo diversi giorni gli fece la prima iniezione. Gli chiese se fosse sicuro, se ce ne fosse davvero bisogno. Lui rispose che era necessario. Il suo sguardo non era più come un tempo ma languido e severo. Le iniezioni gli procuravano forti dolori alla testa, spesso si sentiva svenire e doveva sedersi prima di crollare sul pavimento. Sopportò, credendo di farlo per il suo bene e per il volere di suo padre. 

Ogni giorno la dose aumentava. Quando fece la seconda risonanza suo padre sbatté il pugno sul tavolo in un gesto di frustrazione. Rasmus chiese se c’era qualche problema, lui rispose che avrebbe risolto la situazione. A differenza dei suoi anni di vita precedenti iniziò a mostrare dei sintomi che lo turbavano: forti emicranie, difficoltà di concentrazione, difficoltà a ricordare le cose più semplici. Eppure le iniezioni continuarono. Giorno dopo giorno. Periodicamente suo padre gli prelevava un campione di sangue e lo analizzava.

 

Quando fu di nuovo inverno decise che non ne poteva più. 

«Mi stai facendo solo del male» trovò il coraggio di dire. Lui rispose che non aveva scelta, che non poteva perderlo come aveva perso sua madre. Cercò di immaginare il suo dolore. Sopportò ancora. 

Poi, un giorno, decise che non si sarebbe sottoposto alla “cura”. Suo padre assunse un’espressione che non aveva mai visto. Lo colpì in pieno volto con la mano aperta trasformandosi nell’uomo che aveva promesso a se stesso di non diventare. 

Rasmus cercò di diventare un estraneo all’interno del suo corpo per non sentire tutto quel dolore. Si chiedeva se si fosse meritato quello che gli stava accadendo, si sforzava di ricordare il sorriso di sua madre per paura di dimenticarlo. 

Non riuscì a perdonare suo padre per tutta la sofferenza che gli stava facendo provare. Ai sintomi vecchi si aggiunsero i lividi, i segni sui polsi delle cinture che lui usava per farlo stare fermo. Non sarebbe riuscito a sopportarlo ancora a lungo. Sentì il tormento e l’angoscia mischiati alla rabbia crescere dentro di lui giorno dopo giorno e attecchire a quello che rimaneva del suo corpo quasi fino ad avere spirito proprio.

Iniziò a provare sensazioni così cupe che non riconosceva essere sue. Quando una mattina si soffermò a guardare il suo riflesso nello specchio faticò a riconoscersi. 

 

Nel giorno del suo quattordicesimo compleanno nevicò per tutta la notte. Decise che non avrebbe più sopportato gli abusi di suo padre e quando lui tentò di strattonarlo rispose spingendolo. Cominciarono a battersi. Incassò dei pugni nello stomaco e uno sull’occhio sinistro ma ne diede molti di più. Prima di rendersene conto si ritrovò sopra suo padre, che non riusciva più ad opporre resistenza, eppure fermare la scarica di pugni gli sembrò la cosa più difficile che avesse mai fatto. Urlò a pieni polmoni tutto il dolore che aveva accumulato. Rallentò solo quando vide le vene sulle sue braccia tingersi di nero dall’interno e risalire per tutto il petto fino al collo. Chiese a suo padre cosa gli stesse succedendo ma lui non era più cosciente. Di colpo una fitta lo costrinse ad inarcare la schiena, poggiato con le ginocchia sul pavimento, e gridò a pieni polmoni mentre un fascio di fumo nero usciva dalla sua gola. Il fumo si materializzò davanti a lui in un essere infernale dalla pelle spessa e gli occhi rossi e piccoli. 

Terrorizzato, immobile, non riusciva a muoversi. Il mostro lo guardò perplesso, poi notò il corpo di suo padre steso a terra. Si avvicinò con uno scatto, pronto a finirlo, ma Rasmus gli gridò di lasciarlo stare e lui si allontanò subito. Capì in quel momento che lui avrebbe obbedito a tutto quello che gli avrebbe detto. Così gli gridò di andare via e dopo un verso di lamento il mostro se ne andò facendo perdere le sue tracce nella neve. 

 

VI


Una settimana dopo, nella stanza di un motel a poco prezzo, lesse la notizia sul giornale del ritrovamento di suo padre. Era in coma all’ospedale di Magadan. I giornali ipotizzavano che dei rapitori avessero picchiato lui e rapito suo figlio. 

 

Nel cuore della notte un rumore terribile di lamenti e crepitii alla finestra lo svegliarono. Quando aprì il mostro che era fuoriuscito dal suo corpo si sollevò sulle zampe anteriori e notò che era cresciuto a dismisura. Si comportò come se fosse felice di vederlo. 

Rasmus lo lasciò entrare per paura che il suo baccano svegliasse qualcuno e attirasse l’attenzione su di lui. Quando gli disse di tacere lui smise di emettere versi confusi. Notò che aveva del sangue sulla mascella e parte del volto. La mattina dopo sentì al telegiornale la notizia di un uomo massacrato da una bestia selvatica nel bosco. 

Aveva paura. Si sentiva responsabile. Avrebbe voluto che sua madre fosse lì per aiutarlo, per dirgli cosa fare. 

 

Scoprì che la bestia, a cui non diede un nome per paura di creare un legame ancora più forte di quello che già condividevano, era in grado di rientrare nel suo corpo sotto forma di fumo anche se questo gli procurava dei dolori alla testa e al petto molto forti. Decise che sarebbe tornato negli Stati Uniti, stanco del freddo glaciale della Russia e di sentirsi solo. Pieno di desiderio di rivedere i luoghi che gli ricordavano giorni più felici. 

Appurato che il mostro non si sarebbe mai separato da lui e avrebbe sempre trovato un modo per raggiungerlo decise di portarlo con sé. Prese del denaro dalla cassetta di sicurezza di suo padre e si procurò dei documenti falsi, ringraziando il cielo che dimostrasse più anni di quanti ne avesse in realtà e che fosse plausibile che ne avesse 18. 

 

L’aereo per Mosca impiegò 7 ore e 40 minuti durante i quali vomitò nel bagno di un metro quadrato due volte. Riposò una notte e il giorno dopo prese il volo per l’aeroporto JFK di New York. Altre 9 ore infernali. Pianse quando la chiave che rubò a suo padre prima di partire entrò perfettamente nella serratura della casa che aveva lasciato più di sei anni prima. 

 

Visse i seguenti mesi come qualcuno a cui semplicemente non importava di vivere. Usciva di rado, soltanto di notte, e girovagava per i luoghi che ricordava con affetto e che non facevano altro che ricordargli tutto quello che aveva perso. Era cosciente del fatto che quel mostro fosse il frutto del suo dolore ma non era abbastanza interessato dal fare ricerche e interrogarsi. 

 

Una notte sentì una fitta lancinante nel fianco ma capì che quel dolore non era il suo. Così richiamò a sé la bestia che, come immaginava, era ferita in vari punti. La medicò come aveva visto fare suo padre diverse volte alle sue ginocchia sbucciate e alle ferite tipiche di un bambino curioso. Neanche questo fu abbastanza perché potesse interessarsi a qualcosa e la sua depressione lo riportò a letto, dove si muoveva a stento e la sofferenza lo consumava. 

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Capitolo 3
*** Terza Parte ***


I


Quella notte feci molta attenzione a non svegliare Stiles mentre sgattaiolavo fuori dal suo letto. Fui lieto di essere estremamente silenzioso e di vedere bene anche al buio grazie ai sensi del lupo. Nel freddo scivoloso e tetro mi incamminai con il cappuccio della felpa sollevato verso Columbus Avenue. La calma piatta di quella passeggiata immersa nel silenzio mi fece sperare che quello non fosse l’ultimo momento di tranquillità che avrei assaporato prima che gli eventi delle ore successive accadessero. 

 

All’incrocio con la 101esima strada svoltai e arrivato al numero 23 citofonai al nome Neerg Law. Non rispose. Suonai di nuovo. Solo al terzo tentativo la voce assonnata parlò: «Chi diavolo è?» chiese. 

«Sono Derek. Mi apri?» Pochi secondi di silenzio, poi sentii il rumore meccanico del portone che si apriva. 

Salii le scale fino al secondo piano e trovai la porta dell’appartamento socchiusa. Quando entrai mi saltò in mente il ricordo dell’ultima volta che ero stato lì, imbarazzato dalle avance che non avevo previsto arrivare. 

Walgreen era seduto con le gambe accavallate sul divano dai cuscini dorati con i capelli racchiusi in una fascia di raso rossa e una vestaglia maculata. Il suo appartamento era la versione meno confusa del suo ufficio: ugualmente pieno di libri e oggetti dall’aria preziosa (molti in oro luccicante) ma tutto era ordinato e aveva una collocazione studiata. Il pavimento era ricoperto quasi in ogni angolo da tappeti persiani e dal soffitto non scendevano lampadari, sostituiti con delle imponenti piantane, in quel momento spent, vicino le pareti con la carta da parati in una fantasia chic che ricordava le sue giacche. 

 

«Cosa ti porta qui di notte, Hale?» chiese. 

«Scusa il disturbo, ma avevo bisogno di parlarti.» Lui si accese una sigaretta con uno zippo. 

«Avete tutti i pezzi del pugnale, vero?» 

«Sì, sì, come ti ho scritto. Quando li ho uniti ha emanato un lampo verde, è un buon segno, no?» 

Cacciò fuori il fumo dalle narici: «Sì, ottimo» rispose. 

Sentivo tensione tra noi, nata proprio in quelle mura quando Walgreen mi aveva baciato e io mi ero allontanato confuso. E mentre riuscivamo a far finta che non fosse successo nulla quando erano presenti altre persone e ci trovavamo in luoghi diversi, in casa sua e da soli era difficile ignorarlo. 

 

Desistevo dal chiedergli quello che mi aveva spinto ad andare fin lì. 

«Devo chiederti un favore» iniziai, e mi sedetti sul divano dorato, gemello di quello dove era seduto, di fronte a lui. Il suo sguardo apprensivo sembrò rispondermi Tanto lo sai che lo farò, per te ma non disse niente. 

«Ho motivo di credere che Cam e Stiles non staranno solo a guardare, la notte dello scontro. Li conosco entrambi, non si faranno da parte e io non potrò fare molto per impedirlo.» 

Lui fece un ultimo tiro di sigaretta e la spense nel posacenere dorato alla sua sinistra. 

«Lo penso anche io. Mi stai chiedendo di chiuderli da qualche parte?»

All’inizio pensai che stesse scherzando ma la sua espressione mi fece capire che diceva sul serio. 

«No, no, non potrei mai fargli questo. Sono qui per chiederti di proteggerli.»

 «Oh» disse lui. 

«Non pensare a me, io so cavarmela e anche se dovesse succedermi qualcosa non sarebbe la fine del mondo. Ma loro… Ti prego, Wal, proteggili.» 

Lui mi guardò, quasi immobile, poi tirò un sospiro profondo. 

«Va bene, ci proverò» disse infine. Ma la tensione non si sciolse e io rimasi bloccato, perché quello che gli avevo chiesto era solo la punta dell’iceberg. Indagò il mio silenzio poi chiese: «C’è dell’altro?» sospettoso. 

«Un’ultima cosa» parlai piano, «se dovesse succedergli qualcosa...» lui mi bloccò capendo dove volevo andare a parare: «No, Hale, non lo dire. Non ci pensare neanche.» Fu categorico. 

«Se dovesse succedergli qualcosa» ripresi io con voce più forte, «dobbiamo salvarli, e tu sai come. E sai che io non te lo chiederei se non fosse necessario» finii. 

Lui si alzò dal divano e parlando mi puntò un dito contro: «Hale, no. Ho promesso che non lo avrei fatto più. Ho giurato!» 

«Lo so, e non vorrei chiedertelo. Spero che non sia neanche necessario, che io mi stia preoccupando per niente, ma non posso sapere come andrà a finire e vorrei che tu mi aiutassi, perché sei l’unica persona che può farlo.» 

Si sedette di nuovo, si lasciò cadere come un corpo stanco. Passò la mano piena di anelli sulla fronte, lo vidi riflettere e riflettere ancora. 

«Speriamo che non sia necessario allora» concluse. 

Ebbi la conferma che quello sguardo di poco prima diceva sul serio che avrebbe fatto di tutto per me e mi chiesi se meritassi un amico come lui. 

 

II


Tornai a casa accompagnato dalle luci dell’alba che rischiaravano la strada. Scrissi un messaggio a Stiles avvisandolo che ero andato via perché avevo alcune cose da sbrigare ma che avrebbe potuto raggiungermi in qualsiasi momento. Come una persona che avrebbe perso di lì a poco tutto ciò che aveva di più caro iniziai ad apprezzare qualsiasi cosa mi circondasse e che avevo sempre dato per scontato. Annaffiai con cura le piante del mio appartamento, sistemai il leggero disordine che si era creato negli ultimi giorni. Scesi al primo piano per salutare Mrs. Crowford e lei mi sgridò amorevolmente perché l’avevo fatta preoccupare, non mi vedeva da giorni. 

Mentre preparava il thè e serviva in tavola dei biscotti alla zucca fatti quella mattina aggiunse: «Ma ti perdono» scherzosamente.

«So come ti senti, caro, non preoccuparti»

«Dice sul serio?» le sorrisi. Lei versò l’acqua fumante in due tazze identiche.

«Oh sì! Mi sembra ieri che il mio caro Donald mi portò per qualche giorno negli Hamptons - ci misi un mese intero di preghiere a convincere mio padre a lasciarmi andare - e ricordo benissimo che in quei giorni non riuscivo a pensare a nient’altro.» 

Si sedette di fronte a me al piccolo tavolo della cucina con gli occhi sognanti di chi avrebbe dato tutto pur di tornare a quei momenti. 

«Oh, ma io…» tentai di farle capire che non era proprio la stessa cosa. Che sì, mi ero innamorato (lo realizzai pienamente soltanto in quel momento) ma che altre tantissime preoccupazioni orbitavano nella mia testa. Spiegarle tutto sarebbe stato difficile se non impossibile e lei mi interruppe prima che potessi provarci. 

«No, no, non serve caro. So di avere una certa età ma non sono mai stata una persona dalla mente chiusa, mi offenderesti se pensassi il contrario. E poi a me quel giovanotto piace, dico davvero. L’ho incontrato qualche volta nelle scale e mi ha sempre aiutata a salire, mi teneva la porta, mi piace davvero. Abbiamo anche parlato di te, ma non ti aspettare che ti dica qualcosa!» Fece un sorriso furbo. Non seppi cosa dire. Mrs. Crowford non avrebbe mai finito di stupirmi. Lei si accorse di avermi colto alla sprovvista e con un gesto affettuoso poggiò la sua mano sulla mia e la strinse un po’. 

«Io voglio solo che tu stia bene, tesoro. E che tu sia felice!» Quasi mi girarono negli occhi delle lacrime che trattenni con tutte le mie forze. Non avrei voluto piangere di fronte a lei ma l’unico pensiero che avevo era quanto lei fosse la figura più vicina ad un madre che avessi. Sapevo che mia madre le avrebbe voluto molto bene e avrebbe voluto ringraziarla per esserci per me. Mi chiedevo se mi avrebbe detto le stesse parole, poi mi convinsi di sì. 

«Ne parlavamo giusto l’altro giorno con Mrs. Medley» tornò a girare il suo thè. «Lei ha un nipote che si è dichiarato da poco, un giovane veramente bello, l’ho visto un paio di volte. Comunque, dicevamo proprio che il mondo sta cambiando, nel senso che sta andando avanti, ovviamente!»

Io le sorridevo sempre più sorpreso. 

«Oh! Ma ti prego, l’unica cosa» continuò. «Stai molto attento, d’accordo? La televisione parlava delle malattie che si possono prendere, roba brutta. Certo, tutte le malattie lo sono, ma… insomma hai capito, va bene? Non te lo deve dire certo una signora anziana come me!» Per poco non sputai il thè che stavo bevendo. Riuscii a trattenermi dal ridere nervosamente ma l’imbarazzo si manifestò sulle mie guance bollenti. Immaginai che questa conversazione facesse parte del pacchetto figura materna. Le tenni compagnia per un altro po’ di tempo dirottando l’argomento su di lei, le sue amiche, il meteo e le sue medicine. Sapeva benissimo prendersi cura di sé da sola ma avrei voluto che se mi fosse capitato qualcosa ci fosse stato qualcun altro a farle compagnia e ad andarla a trovare oltre le sue amiche (non molto più giovani di lei). 

 

III


Stiles venne da me ad ora di pranzo carico del cibo da asporto del nostro ristorante preferito. 

Decidemmo che per quella giornata non avremmo parlato di Ghul, Dirkey, strategie, combattimenti, possibile morte. 

Guardammo la tv con disinteresse (perché ciò che ci interessava davvero era l’altro). Lesse un libro poggiato sulle mie gambe. Ci dimenticammo di cenare.

Sapevamo che quella era con tutta probabilità l’ultima notte prima dello scontro e la vivemmo con la calma piatta e instabile della tempesta che ci avrebbe investiti a distanza di ore. 

 

Approfittammo di quei momenti, illuminati soltanto dalla luce che proveniva dalla finestra accanto al letto dalle insegne dei locali e dei ristoranti e il chiarore fioco e giallo dei lampioni della strada, per scoprirci meglio di quanto non avessimo mai fatto. Stiles sotto quei riflessi rossastri e dorati prendeva le sembianze di una divinità mai esistita e affabile, dai tratti delicati ma decisi, spigoloso nei punti giusti e levigato negli altri ma con la pelle ovunque liscia come velluto. Mi persi nella distesa di nei distribuiti senza criterio eppure proporzionalmente sulla sua schiena, fino alle spalle, per poi girare sulle braccia e disperdersi come una folla di persone che finisce gradualmente. Lasciai baci su ogni centimetro del suo corpo mentre le mie mani a turno accarezzavano i suoi capelli morbidi. Creavamo sottili ombre al nostro fianco e le immaginai come i Derek e Stiles di un mondo parallelo, anche loro intenti ad esplorarsi. 

Fu tutto molto lento, sfumato (nei ricordi, non nelle emozioni, quelle chiare e decise bruciavano nella stanza e sotto la pelle), graduale. 

Era un gioco di saliva, labbra rosse, gemiti silenziosi. Un calore avvolgente che ci legava come colla ed esaltava l’odore della pelle di Stiles di cui mi nutrivo avidamente, da cui diventavo dipendente. Si trattò di fiati spezzati, pressioni leggere, invasioni momentanee. Poi stimoli, spinte. C’era stato dolore, ma durò poco, e poi piacere. Una sensazione di completezza, una visione di pezzi che si incastravano perfettamente. Spinte scostanti, nomi sussurrati, baci fugaci e il battito del suo cuore che correva. E poi il desiderio (che provavamo a sottomettere per far sì che quell’istante durasse una vita) colpì, entrambi, d’improvviso. Un’energia che si diffondeva, si diramava e annullava la gravità. La pressione che si diluiva sotto le note dell’ultimo gemito interrotto. I nostri occhi si tenevano incollati, poi i miei brillarono di azzurro e si riflessero nel suo marrone ma lui non fu spaventato da quella reazione non umana, al contrario, sembrò guardarmi con ancora più desiderio. Il piacere allora si liberò con sollievo e lentamente il respiro tornò regolare. Non servirono parole, sarebbero state d’intralcio. C’erano soltanto carezze, gesti gentili e premurosi, le lenzuola sotto cui ci rifugiammo quando il calore dei movimenti si disperse e una leggera pioggia iniziò a farci compagnia mentre ci addormentavamo.

 

L’indomani mattina avrei voluto che il giorno tardasse ad arrivare. Stiles dormiva sotto la mia spalla, poggiato sul mio petto, con aria angelica e incredibilmente serena. Non avrei mai voluto svegliarlo. Il telefono sul comodino vibrò come per ricordarmi di non essere in grado di sfuggire dalle mie responsabilità e anche se ero cosciente del fatto che quel messaggio sarebbe arrivato, prima o poi, mi procurò ugualmente una sensazione di gelo interiore e mi chiuse lo stomaco. 

Cam: “Ci siamo. Sulla 131esima, a West Harlem, sotto la strada panoramica di Riverside drive. La vittima, Andrew McCoy, 32 anni.” Provai un misto di rabbia e frustrazione, promisi a me stesso che quella sarebbe stata l’ultima volta, l’ultima vittima. 

Risposi: “Vediamoci oggi pomeriggio da me.”

Lei disse: “A dopo.”

 

Stiles fece dei piccoli versi pieni di sonno per attirare la mia attenzione. Mi girai verso di lui, gli accarezzai il viso e lui sorrise mantenendo gli occhi chiusi. 

«Possiamo restare così?» chiese con la voce più bassa di chi si è appena svegliato. 

«Certo» risposi mentre giocavo con i suoi capelli. Lui si strinse ancora un po’ a me. 

«Intendo per un sacco di tempo» aggiunse. 

«Vanno bene circa sei ore?» 

«Perché poi che succede?» aggrottò le sopracciglia. 

«Avremo ospiti, dobbiamo organizzare un piano. E dovremmo anche allenarci, almeno, io dovrei farlo.» 

«É arrivato il famoso messaggio?» 

«Già.» 

Finalmente aprì gli occhi e mi guardò dal basso, con la testa poggiata sulla mia spalla. 

«Mi prometti che non morirai?» chiese serio. 

«Stiles…» 

«Promettilo.»

«Io non-» 

«Ti prego» i suoi occhi grandi mi stavano torturando. 

«Va bene» cedetti e lui si ricollocò con la testa sul mio petto iniziando a tracciare cerchi immaginari con le dita sul mio petto. 

«Ieri notte ho avuto paura» confessai. 

«Di cosa?» chiese mentre si alzava sui gomiti e si girava per guardarmi dritto negli occhi rendendomi ancora più agitato. 

«Di farti male… di non sapermi controllare» dissi, ma guardai un altro punto nella stanza, incapace di tenere il contatto con il suo sguardo. Con la mano girò delicatamente il mio volto verso di lui e mi lasciò un bacio leggero sulla guancia. 

«Non mi hai fatto male» sussurrò. «Anzi» aggiunse con un sorriso «si può dire il contrario.» Fece sorridere anche me. 

«E posso sopportare molto pur di vedere di nuovo quegli occhi brillare.» 

Mi colse di sorpresa come un’onda di due metri in una giornata di mare piatto. In tutte le volte che c’erano state prima di quella (che adesso rivalutavo come vuote, certo piacevoli, ma vuote) mi ero concentrato a chiudere gli occhi, a chinare la testa, a nascondermi in quel momento di vulnerabilità così forte da non essere in grado di controllare il colore dei miei occhi, la mia vera natura, come un lupo appena morso durante la sua prima luna piena. Lo strinsi a me e mi sforzai di contenere l’emozione che quelle parole mi davano. 

 

IV


Cam e Walgreen arrivarono quasi nello stesso momento. Lui, con un abito nero che gli fasciava il busto e scendeva morbido fino alle caviglie, lei con l’impermeabile che la rendeva distinta e di classe ma informale. Seduti al tavolo rettangolare del mio soggiorno chiarimmo le dinamiche della notte che sarebbe venuta: io mi sarei recato sotto la Riverside drive dove era avvenuto l’omicidio e avrei seguito la traccia (mi venivano i brividi solo a pensare alla sensazione di gelo) fino al punto di cui avrei trovato il Ghul. Poi, armato di pugnale e con l’aiuto della magia di Walgreen avremmo combattuto. 

«Dovrai colpirlo al cuore o alla testa» precisò Walgreen. 

«Se lo prendi da qualche altra parte potrai ferirlo ma non lo ucciderai e corriamo solo il rischio di farlo arrabbiare di più» aggiunse. 

Ci fermammo a discutere per qualche minuto di alcune strategie che avremmo potuto adoperare, trucchetti per confonderlo e distrarlo. Poi dal nulla Cam, che fino a quel momento era stata in silenzio e aveva soltanto ascoltato con attenzione disse: «Verrò anche io.».

E neanche un secondo dopo Stiles aggiunse: «E anche io.»

Non mi finsi sorpreso, non lo ero, ma provai comunque a sviarli. 

«No, è troppo pericoloso.» 

«Non te lo stiamo chiedendo» disse Cam. 

«Non posso mettervi in pericolo» insistetti. 

«Ascolta Hale. Noi ti seguiremo con la mia macchina, okay? E poi interverremo solo se avete bisogno di noi.» Mi chiesi da quanto tempo aveva programmato quella fase. 

«E in quel caso cosa farete? Gli chiederete gentilmente di arrendersi?» 

«No, gli scaricherò dodici caricatori della mia 9 millimetri addosso, qualcosa devono pur fargli, non è vero?» e guardò Walgreen in cerca di approvazione. Lui sorpreso tirò su le spalle e disse: «Beh, sì, sicuramente non gli faranno bene.»

«Forse questo è il momento giusto per dirvi» intervenne Stiles «che mio padre era un commissario di polizia e mi ha insegnato a sparare.»

Mi girai nella sua direzione con lo stupore dipinto sul volto e un’espressione che gridava Se stai mentendo ti picchio e lui si affrettò ad aggiungere: «È vero, te lo giuro!»

Presi un respiro profondo. Li guardai entrambi negli occhi. 

«Non fate niente di stupido. Non fate niente che possa mettervi in pericolo. Se io o Walgreen vi diciamo di fare qualcosa voi la fate e se vi diciamo di scappare voi scappate.» 

Il mio tono così come il mio discorso mi ricordarono le parole che dissi a Stiles dopo che gli raccontai la verità sul mondo soprannaturale, quando gli concessi di venire con me da Walgreen e lo avvertii che non avrebbe dovuto invischiarsi più di tanto. 

Un bel fallimento di discorso, viste come erano andate le cose.

Loro dissero quasi in coro: «Va bene» e vidi il volto di Walgreen scurirsi sotto il peso del nostro accordo e farsi carico della mia richiesta di proteggerli. Esaminammo ancora delle possibili strategie e ci demmo appuntamento a mezzanotte in punto. 

 

Quel pomeriggio io e Stiles ci allenammo insieme e dopo una breve doccia ci forzammo a mangiare nonostante entrambi i nostri stomaci fossero chiusi dalla tensione. 

«Non mi hai mai detto di tuo padre» gli dissi mentre prendevo due piatti dallo scaffale della cucina. «Non è mai capitato… Comunque lui sta a Pittsburgh adesso. Mi chiede di andarlo a trovare spesso ma credo che ci andrò dopo la laurea.» 

Non sapevo cosa dire, se fare altre domande. Non ero ferrato sui rapporti familiari. 

«E tuo padre?» mi chiese. 

«É morto prima che io nascessi, non so molto di lui.» Quell’argomento non mi faceva male (non quanto parlare di mia madre e delle mie sorelle) ma semplicemente non ero a mio agio e, notai, neanche Stiles. Così lasciammo cadere la conversazione. 

Dopo cena non sapevamo più come occupare il tempo. Avevo controllato l’orologio tre volte nell’ultimo minuto. Feci un’altra doccia nella speranza di alleviare la tensione. 

Rimasi piacevolmente colpito quando Stiles mi raggiunse sotto il getto d’acqua calda dicendo: «Pensavo volessi compagnia.» 

 

Ci vestimmo, io con un pantalone e una maglia di cotone a maniche lunghe neri, lui con una felpa scura e un jeans nero. Mancava mezz’ora all’appuntamento quando lo vidi prendere dei fogli dalla sua giacca appesa all’ingresso. Si venne a sedere vicino a me e notò il mio sguardo curioso. 

«Questo è per te» mi sorrise porgendomi i tre fogli bianchi da un lato e pentagrammati dall’altro. «Mi hai chiesto se un giorno avrei composto qualcosa per te e ho pensato che avrei dovuto farlo prima di stanotte.»

Non avevo parole, non uscivano, si incastravano in gola, così lui continuò: «Ma ovviamente te lo farò ascoltare solo domani, quando tutto questo sarà finito, e ci saremo lasciati alle spalle questa storia.» E così dicendo indicò il titolo del brano, in alto al centro del primo foglio, che si era impegnato a scrivere in modo originale, con una calligrafia corsiva: What was left behind.

«Muoio dalla voglia di ascoltarlo, Stiles» provai ad intenerirlo. 

«Vedi pianoforti in giro? Comunque no, conservalo. Domani» mi scoccò un bacio sulle labbra. 

«Ti dispiace se li piego?» chiesi. 

«No, fai pure. Tanto è tutto qui» si indicò la fronte con l’indice. Piegai accuratamente i tre fogli a metà e poi ancora a metà fino ad ottenere un rettangolo di una misura tale che potesse entrarmi nella tasca anteriore dei pantaloni, dove li conservai. 

«Allora li porto con me, fino a domani.» Vidi i suoi occhi illuminarsi di soddisfazione. 

 

Il citofono suonò un quarto d’ora prima della mezzanotte, era Cam. Anche lei vestita di nero con una giacca blu scuro di pelle e la fondina attaccata alla cintura dei pantaloni. Portava con sé un borsone dall’area pesante che fece cadere sul pavimento provocando un rumore metallico. 

«Scusate l’anticipo ma volevo farvi vedere alcune cose» disse in un sorriso teso. Non sembrava particolarmente nervosa, probabilmente perché di retate e cose del genere da poliziotti ne aveva fatte tante, era ben addestrata, eppure un demone soprannaturale metteva i brividi anche a me, per cui pensai che fosse semplicemente molto coraggiosa e anche abbastanza brava a nascondere le emozioni scomode. 

Aprì il borsone e lo poggiò sul tavolo. Tirò fuori per prima una piccola cimice auricolare che mi lanciò e afferrai al volo. 

«Questa la metti mentre segui la traccia, così possiamo seguirti e restiamo in contatto.» Annuii. «Questo invece è per te» disse a Stiles e cacciò dal borsone un giubbotto antiproiettile. 

«Prima che mi guardiate male, so che il Ghul non ci sparerà ma questo potrebbe servirci in ogni caso. Attutisce i colpi ed è comunque una protezione.» Stiles si tolse la felpa e lo indossò collegando le strisce di velcro laterali, poi la rimise. 

«E per ultima» Cam tirò fuori dal borsone una pistola e gliela porse. Stiles la prese senza titubare, con un gesto esperto e rapido estrasse il caricatore, controllò che fosse carico e lo inserì di nuovo. Poi tolse la sicura, mirò con la pistola nella mano destra e la sinistra che la sorreggeva, il braccio leggermente piegato e una posizione che sembrava gli venisse regolare. Poi reinserì la sicura e si accorse delle nostre facce sconvolte. 

«Beh, non credo serva che ti spieghi come si usa» disse Cam. 

«Sì… no… va bene così» balbettò Stiles e mise la pistola dietro la schiena coperta dalla felpa. 

«Ho preso abbastanza caricatori dall’armeria della centrale, dovremmo essere apposto.» Annuimmo. 

Prima di uscire dal palazzo usai l’udito per controllare che Mrs. Crowford stesse bene e sentii il suo respiro lento e regolare nel sonno. 

 

Fuori l’aria non era particolarmente fredda e dalla strada si intravedevano delle zucche illuminate dalle finestre delle abitazioni. Cam aveva parcheggiato la sua auto di fronte al portone. Prima che loro salissero in macchina mi rivolsi a Cam: «Stà attenta, va bene?»

«Tranquillo, Hale, andrà tutto bene» mi sorrise. 

Non riuscivo proprio a capire come facesse. Le diedi un abbraccio e mi rifocillai nel suo buon odore. Poi fece il giro dell’auto ed entrò al posto del guidatore dando a me e Stiles un po’ di privacy. Gli presi il volto tra le mani, lo baciai. 

«Non fare stronzate» gli sussurrai all’orecchio. Lui emise un ridolino. 

«Neanche tu» rispose. «E ricordati» aggiunse, «che quello che provi lui lo amplifica. Quindi cerca di essere fiducioso, okay? E non avere paura.» mi disse apprensivo. 

«Va bene» cercai di sembrare tranquillo e gli rubai un ultimo bacio (rievocai così tante volte quel momento dopo quel giorno che ad un certo punto iniziai a temere di star consumando la mia memoria). 

Stiles salì in macchina e Cam mise in moto. Si avviarono sul Clayton Powell Jr Boulevard sapendo che li avrei superati presto. 

 

Presi un momento per me, per fare un respiro profondo. Immaginai mia madre accanto a me, le parole che mi avrebbe detto, il coraggio che mi avrebbe trasmesso. Un ultimo momento prima di andare. Tirai fuori il Dirkey dal fianco dei pantaloni. Lo girai e rigirai nelle mani pregando che quella sera facesse il suo dovere. Poi una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare: «Nervoso?» Walgreen uscì dall’ombra rivelandosi in un completo verde scuro, perfettamente elegante anche in occasioni come questa.

«Mi hai quasi spaventato» dissi. 

«Sei pronto?» chiese. 

«Farai quello che è necessario?»

Lui aveva l’aria rassegnata. «Sì» ammise infine. 

«Allora andiamo a fargli il culo.» 

Riposi il Dirkey e cominciai a correre verso Riverside Drive. 

 

V


Sfrecciavo nei vicoli e nelle strade principali, pronto, concentrato. Walgreen mi seguiva teletrasportandosi attraverso i portali. Nell’orecchio in cui avevo posizionato la cimice sentii la voce di Cam: «Hale, mi ricevi?» 

«Forte e chiaro. Sono quasi arrivato.» La distanza da casa al luogo dell’omicidio era di un chilometro e mezzo circa, in una manciata di minuti mi trovai sul posto. Walgreen arrivò pochi secondi dopo di me. Percepii la presenza della scia che il Ghul si era portato dietro, chiara come la prima volta che l’avevo avvertita. Mi provocò un brivido lungo la schiena. Ampliai i sensi da lupo e mi concentrai al massimo, cercando di immergermi in quella sensazione nonostante non fosse per niente piacevole ma gelida, subdola e terrificante.

«Ragazzi, ci siete?» 

«Sì» rispose Cam. 

«Ho la traccia, sono sulla Broadway.» 

«Ricevuto.»

Continuai per quasi un chilometro senza rallentare mai. 

«Ho svoltato sul Martin Luthèr King Boulevard.» 

«Ti stiamo dietro.»

Correvo così veloce che le luci dei lampioni e della strada sembravano stelle cadenti. Sentivo il vento che mi sfiorava la faccia, le gambe che andavano da sole, l’adrenalina che faceva il suo corso. 

«Morningside Avenue» dissi ma dopo neanche un minuto mi fermai. Davanti a me il cancello in ferro battuto alto più di due metri era chiuso con un catenaccio spesso e un lucchetto grande quanto una pesca. 

«Ragazzi…» ruppi il silenzio radio, «Il nostro amico è entrato a Central Park.» 

 

Sentii la voce di Stiles lontana attraverso la cimice di Cam: «Che problemi ha questo coso con i parchi?»

Avanzai fino a trovarmi a pochi centimetri dal cancello per assicurarmi che la scia andasse in quella direzione. Ero certo che il Ghul avesse saltato senza troppi problemi per raggiungere l’altro lato e pensai di fare la stessa cosa. Tornai indietro di qualche metro, fino all’altro lato della strada, presi un respiro e corsi, saltando all’ultimo secondo, nel punto giusto. Vidi la punta delle assi di ferro simile a quella delle frecce di un arco passarmi sotto e atterrai sul terriccio semi morbido dell’altro lato con le ginocchia piegate per attutire il colpo. «Sono dentro» comunicai. Seguii il percorso asfaltato che saliva e scendeva, curvava ed era affiancato da numerose panchine. La quantità di alberi intorno a me era impressionante. Dalle foglie gialle e rosse, sparse sull’erba fresca e umida perfettamente curata mi spostai sul sentiero della pista ciclabile, molto più larga e centrale. Cercavo di ignorare il tremito involontario che mi faceva tremare le mani: mi stavo avvicinando. Sentii la presenza di Walgreen alle mie spalle, felpato e silenzioso come una sfinge. La voce di Cam nell’orecchio mi comunicò che erano all’ingresso. 

«E adesso come entriamo?» sentii Stiles. 

«Non entrate, non ce n’è bisogno» provai. Ma Cam era troppo determinata per farsi fermare da un catenaccio. Sentii il rumore del cofano della sua macchina che si apriva e Stiles sussultare un’esclamazione che non afferrai. 

«Non era questo il piano, Hale» rispose Cam. Il rumore di una tenaglia che spaccava il catenaccio mi schioccò nelle orecchie. 

«Ti seguiamo» confermò. 

 

Continuai a correre ma a ritmo più lento ed arrivai a costeggiare il lago in cui si riflettevano le luci della città. Avrei voluto che quella fosse una situazione diversa, in un momento diverso, in cui Stiles fosse accanto a me e insieme ci saremmo goduti quella vista stupenda. Mi appuntai mentalmente di portarlo lì quando tutto sarebbe finito. 

Ripresi la mia corsa per minuti interi fino a quando il brivido lungo la schiena diventò costante quasi paralizzandomi e mi fermai per riprendere fiato. Walgreen mi raggiunse. 

«Ci siamo, Hale» disse indicando pochi metri davanti a noi, dove il sentiero circondato dagli alberi finiva e lasciava spazio all’ampissima piazza che avevo visitato soltanto due volte, molto tempo prima, e che adesso ricordavo perfettamente. 

 

VI


La fontana era collocata esattamente al centro e la statua dell’Angelo delle Acque si ergeva a metri sopra le nostre teste, con le ali spalancate, sulle quali dei piccioni sostavano e borbottavano fra loro. 

L’acqua era piatta ai piedi della fontana, spenta, e riproduceva perfettamente a specchio il contorno della piazza che da un lato affacciava sul lago dall’acqua più verde e meno trasparente di quello di prima. 

Dall’altro lato, invece, il Bethèsda Terrace con le due ampissime scale ai lati che conducevano in alto, alla terrazza vera e propria, sorretta da  sette archi a volta. Sapevo che il Ghul era lì e lo sapeva anche Walgreen. Ci guardammo con circospezione intorno, pronti, con i sensi a mille. Cercai di fare come mi aveva detto Stiles: essere fiducioso. Presi tutta la preoccupazione che avevo, pesante sulle spalle, e la spazzai via.

Acuii l’udito e sentii il suo respiro. Prima che potessi fare altro, però, i suoi occhi rossi e grandi si illuminarono nel buio sotto gli archi a volta. 

«Ci siamo» lo indicai a Walgreen, che intento a mettere in atto una delle nostre strategie si teletrasportò in cima ad una delle scale, quasi sulla terrazza. Il Ghul mi vide, fece un ringhio profondo. Passo dopo passo uscì allo scoperto, alla luce della luna crescente di quella sera. Tirai fuori il pugnale e me lo passai da una mano all’altra. Lui avanzò fino a rivelarsi completamente e dovetti sforzarmi per non far vacillare la mia fiducia. 

Dire che fosse diventato la versione più grossa e forte di quella che avevo incontrato quasi sei mesi prima non sarebbe bastato a rendere l’idea. Cresciuto di almeno un metro e mezzo (adesso ne contava circa tre) in altezza e con il busto largo, molto più largo, la sua pelle adesso era più scura, visibilmente ancora più spessa e dura come una corazza. Continuò a camminare nella mia direzione fino a che solo pochi metri ci separassero e emise una specie di suono gutturale quando mi riconobbe: ero colui che lo aveva ferito e che per poco non aveva ucciso. Incalzò la rincorsa e abbassò la testa puntandomi con le corna appuntite. Poco prima che impattasse mi spostai di lato. Tentai due fendenti ma lui, per quanto grosso, non mancava di agilità. I due colpi mancati lo fecero innervosire. Quando provò a colpirmi con il destro (adesso la sua mano chiusa a pugno aveva la forma di un pallone da calcio) una corda dal bordo scintillante trattenne il suo braccio. Ci girammo entrambi a guardare l’estremità dell’altro lato e vidi Walgreen, distante da noi, che usava la sua magia e tirava con tutte le sue forze. Approfittai del momento per usare il Dirkey ma riuscii ad arrivare soltanto alla gamba e a sfiorarlo appena, prima che la corda si spezzasse sotto la sua forza e con un calcio mi facesse volare di un paio di metri sul bordo della fontana che come una frusta mi colpì appena sotto le scapole. Lui guardò dove il Dirkey lo aveva colpito e un piccolo graffio gli stava facendo uscire del sangue demoniaco, nero come la pece, che gli scorse il un rivolo sottile. Almeno sappiamo che funziona, pensai. Urtato dalla sua nuova debolezza il Ghul lanciò un grido straziato in aria prima di cominciare a correre verso di me, ancora in terra. Ma poco prima che arrivasse il pavimento sotto i suoi piedi si aprì in un vortice di scintille rosse e lui cadde, sparendo. 

«Vediamo se sai anche volare» disse Walgreen mentre agitava le mani in senso circolare. Un altro vortice si aprì alto nel cielo e il demone precipitò sbattendo per terra con un tonfo fragoroso che fece spaccare sotto il suo peso alcune delle mattonelle del pavimento. Acciaccato si tirò subito in piedi, visibilmente irritato. Mirò Walgreen da lontano e a grandi falcate percorse la distanza dal centro della piazza macinando quattro gradini alla volta. Iniziò allora una specie di acchiapparella tra i due che vedeva il Ghul inseguire Walgreen e lui sparire all’ultimo secondo per ricomparire soltanto una manciata di metri lontano. In più, lui lo stuzzicava con frasi del tipo «Che c’è? Non riesci a prendermi?» e non ero sicuro che lui capisse la nostra lingua (la maggior parte dei demoni non lo fa) ma si innervosiva lo stesso. 

Questo mi diede il tempo per riprendere le energie e distratto com’era, mi preparai all’attacco. Con il pugnale stretto nella mano destra iniziai a correre alle sue spalle e saltai per raggiungere il suo collo. Prima che potessi affondare la lama nella sua armatura fatta di pelle si girò e di nuovo: lo graffiai appena. 

Seguì una rapida sequenza di pugni e fendenti (alcuni li schivai, uno mi prese allo stomaco creando un taglio netto e abbastanza profondo, un altro in volto) ma quando Walgreen arrivò in mio soccorso per permettermi di riprendere fiato tutto ciò che avevo ottenuto erano delle insignificanti lacerazioni che non gli avevano causato quasi nessun dolore. Con uno scatto tirai fuori gli artigli e le zanne trasformandomi del tutto in un lupo mannaro. Con un ruggito profondo attirai la sua attenzione e lui si girò nella mia direzione pronto al prossimo scontro. Mentre con la destra brandivo il pugnale, in cerca del momento giusto per colpirgli il petto, con l’altro braccio tentavo di difendermi dalla scarica di colpi. Poi, con la mano girata, riuscì a colpirmi in pieno viso e nel cadere il Dirkey volò lontano da me. Walgreen cercò di intervenire ma lui fu più veloce e con due rapidi falcate arrivò per primo prendendo il pugnale tra le mani (così grandi che quello sembrava un coltellino da burro). 

Espresse la sua frustrazione verso quell’oggetto con un ruggito rivolto verso l’alto e lanciò il pezzo lontano, negli alberi fitti e scuri. Mi accorsi solo in quel momento che la cimice che mi aveva dato Cam mi era caduta durante il conflitto, chissà dove, perché la voce di Stiles mi arrivò poco più lontana, grazie ai sensi che involontariamente tenevo allerta. 

Disse: «Vado a recuperarlo io» e vidi un cespuglio in lontananza muoversi, dove immaginai che loro due erano stati nascosti fino a quel momento. Avrei voluto gridargli di non andare, anzi, di scappare via molto lontano, che in qualche modo ce la saremmo cavata ma che lui doveva stare al sicuro. Ma avrei solo attirato su di lui l’attenzione del Ghul, quindi mi trattenni e tornai all’attacco. 

 

Senza il pugnale e con la sua pelle inscalfibile c’era un unico punto che avrei potuto mirare per procurargli un qualche tipo di danno: gli occhi. Feci cenno a Walgreen di trattenerlo e lui afferrò al volo. Di nuovo, questa volta due corde che uscivano direttamente dalle sue mani si legarono agli avambracci del mostro trattenendolo. Sfruttai il momento per correre a tutta velocità nella sua direzione mirando alle piccole fessure rosse. Saltai appoggiandomi con il piede sul suo stesso ginocchio e affondai gli artigli sulla parte sinistra del suo volto. Lui urlò dal dolore e del sangue nero gli scivolò sulla guancia. Nonostante si dimenasse Wal riuscì a tenerlo fermo ancora un pò, tempo che mi permise di saltare nuovamente, girando su me stesso, per lanciargli a mezz’aria un calcio in pieno volto.

A quel punto, in un impeto d’ira, riuscì a liberarsi dalla presa e cominciò a colpirmi. Non me ne accorsi neanche quando il primo pugno, veloce come un proiettile, mi schizzò in faccia. Poi il secondo nella pancia, il terzo sul petto. Non riuscii a reagire. In pochissimo ero steso a terra, lui mi sovrastava e assestava un colpo dopo l’altro. Sentivo il dolore crescere secondo dopo secondo, diramarsi da un punto all’altro raggiungendo ogni muscolo, ogni osso, ogni centimetro di pelle. Poi smise di colpire. Immaginai che Walgreen fosse intervenuto ma non avevo quasi la forza di muovermi, a mala pena mi girai su un fianco per sputare fuori del sangue. Riuscivo ad ascoltare i suoni dello scontro fra loro due e cercavo di aggrapparmi a qualsiasi cosa mi tenesse sveglio perché se avessi ceduto in quel momento… Invece avevo bisogno che i miei poteri di guarigione facessero il loro corso e anche un solo secondo in più avrebbe fatto la differenza. Fu in quel momento che iniziai a riflettere su quando tutto era cominciato, quella mattina del 20 maggio, appena sei mesi prima. Allora mi aggrappai al suono delle sirene delle volanti della polizia e gli usignoli cinguettanti nel cuore della notte, al suono delle campane di St. Jean Baptiste Church, al ritmo del sangue che pulsava forte nelle orecchie e che mi rimandava a quella maledetta melodia che sognavo da mesi ma che non riuscivo a ricordare. Resisti, tieni gli occhi aperti. Ancora un po’. Fallo per loro pensavo. E poi lentamente sentii le fibre del mio corpo ricongiungersi nei punti in cui erano state brutalmente percosse e il dolore che da insostenibile diventava tollerabile, almeno quanto bastava per cercare di aprire gli occhi, tornare alla realtà. 

 

Ma la realtà fu più atroce di quanto immaginavo. Walgreen, dal volto stremato e lucido di sudore, con diverse ferite e un livido già ben visibile sullo zigomo, cercava in tutti i modi di resistere agli attacchi del Ghul con poco successo. Indebolito all’inverosimile anche la sua magia non gli era più di molto aiuto. Con tutte le sue forze bloccava nell’aria i fendenti sempre più rapidi e li spingeva indietro, ma il demone guadagnava terreno ad ogni passo e presto gli fu addosso. Chiusi gli occhi, incapace di guardare. Quando li riaprii Wal era accartocciato sui gradini, immobile. Usai l’udito per verificare che il suo cuore battesse ancora: era vivo. 

 

Iniziavo solo allora ad avere più sensibilità nelle gambe e nel giro di un minuto avrei potuto mettermi in piedi. Ma il Ghul, con tagli superficiali e un occhio fuori uso (certo stanco e affaticato) sembrava battere in ritirata. Poi accadde tutto rapidamente. Un grido provenne dalla mia destra e attirò la sua attenzione facendolo girare nuovamente. Cam uscì dal cespuglio, in piedi in una postura dritta e ordinata con la pistola nella mano destra aspettò che il demone si avvicinasse passo dopo passo e solo quando arrivò alla distanza che lei riteneva idonea cominciò a sparare. 

Scaricò tutto il caricatore senza mancare un solo colpo. 15 spari in sequenza. Molti nel petto, un paio nelle gambe, uno sul collo, uno in fronte. Avevano appena scalfito la sua buccia fatta di cemento ricadendo in terra. Lui continuò a camminare, imperterrito, verso di lei. Scappa, ti prego scappa ma lei rimase lì. Pronta a ricaricare la pistola con altri 15 colpi. Fece in tempo a spararne tre prima che lui la sollevasse con la mano possente dalla gola fino a tenerla sospesa diversi metri da terra. Ma anche allora cercò di divincolarsi dalla presa stretta agitando le gambe e le braccia nel tentativo di colpirlo. Dal nulla, la voce di Walgreen, di nuovo in piedi, anche se esausto, ruppe il silenzio: «Ei!» gridò a pieni polmoni, «Sono qua! Allora, vuoi venire o no?» con tono di sfida. Il Ghul (che per quanto forte era incredibilmente stupido) lasciò cadere Cam come un peso morto e si diresse verso di lui. Provai a muovermi con tutte le mie forze ma dovevo avere diverse ossa rotte che impiegavano più tempo per guarire e che mi impedivano di alzarmi da quel maledetto pavimento. Walgreen, quasi allo stremo, aprì un portale alle sue spalle e cominciò a tirar fuori con rapidi movimenti nell’aria una serie infinita di spade, coltelli, armi affilate di ogni tipo e dimensione. Le scagliava addosso al demone che tentava di schivarle ma anche quando non ci riusciva queste semplicemente rimbalzavano sulla sua pelle. Come ultimo, disperato, tentativo, attirò nella sua mano una granata dalla forma di un piccolo gufo. 

«Vediamo se questa ti piace» disse prima di strappare la linguetta e tirargliela ai piedi. Dopo due secondi l’esplosione rimbombò nell’aria e le ceneri delle scale di marmo adesso in polvere riempirono la piazza. Il Ghul, steso a terra, finalmente riportava qualche acciacco. Fu allora che Cam, zoppicante, si alzò e raccolse da terra una delle daghe sul pavimento avvicinandosi cautamente. Sapeva di non avere la possibilità di ucciderlo ma lui quasi fermo, steso sul pavimento, era un’occasione ottima per continuare a colpirlo. Così fece quello che mi aveva visto fare poco prima: mirare agli occhi. Cercò di essere silenziosa e si mosse con estrema cautela fino ad essere ad un metro dalla sua rivoltante faccia demoniaca. Alzò il braccio con la daga fra le dita e appena prima che potesse calarsi e affondare nei suoi occhi la mano del Ghul schizzò in alto e le afferrò il polso. Le posizioni si invertirono rapidamente e lui la sovrastò, usando quella stessa arma per procurarle un taglio netto e profondo da parte a parte del collo. Poi si alzò e si diresse verso Walgreen, che ancora a terra a causa dell’esplosione cercava di reagire. 

Sentii una ferita interna bruciare, nulla che avesse a che fare con le altre. Riuscii a strusciare fino al punto in cui Cam, distesa con gli occhi al cielo, si muoveva convulsamente. 

«Cam… Cam, no. Ti prego, no. Guardami, guardami» le dissi con gli occhi pieni di lacrime. Le posai le mani sul collo cercando di contenere l'emorragia ma tantissimo sangue continuava ad uscire e si raccolse in una pozza scura sotto di noi. Lei non riusciva a parlare. Tentai di portarle via il dolore e per poco le vene delle mie braccia diventarono nere ma dopo poco tornarono normali e il battito debole del suo cuore che facevo risuonare nella mia testa si fermò. Il suo corpo rimase immobile fra le mie mani e nei suoi occhi, aperti e languidi, si spense la luce. Poggiai la mia fronte sulla sua in un gesto disperato sussurrandole: «Non lasciarmi, ti prego non lasciarmi» mentre le mie lacrime scendevano fino al suo volto, asciutto, perché lei non ne aveva piante. Era stata coraggiosa fino all’ultimo secondo. 

Non c’era più nulla da fare. I fiocchi di neve iniziarono a scendere silenziosi, mischiando il bianco del ghiaccio alla cenere sporca dell’esplosione: la firma del suo assassino. 

 

VII

 

Quando alzai lo sguardo lasciai andare un urlo e sentii gli occhi brillare di blu. Tutto quel dolore si trasformò in rancore e poi in una furia aggressiva che mi diede la forza di rialzarmi. 

Quello che vidi, però, mi provocò di nuovo una fitta interna che sapeva di senso di colpa e paura. Walgreen utilizzava le mani, unite alla base dei palmi, per creare uno scudo protettivo attorno a Stiles che, rapido, correva verso di lui con il Dirkey tra le mani. Il Ghul colpì Walgreen, ancora, e lui non riuscì a difendersi. Poi si diresse verso Stiles. Riuscì a schivare i primi colpi del demone, poi finalmente mi vide correre nella sua direzione, così con un lancio curvo tirò il pugnale ma la neve fitta gli oscurò la visuale e il Ghul lo prese al volo, prima che potessi farlo io, conficcandolo nel suo fianco, dove il giubbotto antiproiettile non lo proteggeva. Il respiro gli si spezzò in gola dal dolore. 

 

Rimasi paralizzato per pochi istanti. Fermo, ancorato al pavimento, con i brividi di freddo lungo tutto il corpo. Era tutta colpa mia. Prima Cam, adesso Stiles. Entrambi innocenti, travolti dalle mie responsabilità. Che cosa avevo fatto? Perché avevo permesso che tutto ciò accadesse? Avrei dovuto essere io quello steso a terra nel suo stesso sangue, non loro. Tutto quello che avevano fatto era stato aiutarmi. E io li avevo condotti alla morte.

E il Ghul, davanti a me, era impassibile. Forse conscio di quello che mi aveva tolto, mi guardava soddisfatto con in mano lo stesso pugnale che avrebbe dovuto ucciderlo. Mi fiondai su di lui prima che potesse reagire. Lo colpii con tutta la forza che avevo in corpo, quella su cui lavoravo da quando ero nato. Lo facevo per Cam, priva di vita e avvolta dal manto di neve spessa ormai centimetri, per Stiles, il cui cuore batteva ancora anche se molto debole, e per Walgreen, consumato e privo di energie. Il Ghul provava a difendersi ma io ero più veloce questa volta, troppo arrabbiato. Assestavo un pugno dietro l’altro fino a quando non riuscii a rubargli il Dirkey e a conficcaglielo in profondità nella spalla destra. Lui urlò di dolore. Ne avrebbe avuto per un po’, così lo lasciai agonizzante a terra e andai da Stiles. 

«Che diavolo hai fatto?» gli dissi mentre controllavo la ferita, ma con un tono non arrabbiato, che voleva solo fargli capire quanto ci tenessi. 

«Mi… mi  dispiace» balbettò. Mi concentrai, con le mani poggiate sul suo fianco nudo per prendere il suo dolore che era così forte da farmi tremare. 

«Derek» mi chiamò ma io continuai senza ascoltarlo «Derek» mi prese le mani nelle sue interrompendo il contatto. 

«Smettila, va bene così» aveva la voce flebile e sottile. Capii che non ce l’avrebbe fatta. Mi avvicinai al suo viso sporco di cenere in alcuni punti e gli lasciai un bacio sulle labbra, poi vicino all’orecchio gli sussurrai: «Tu non morirai. Risolverò tutto, vedrai. Starai bene» e vidi una lacrima scendergli dall’angolo dell’occhio. Non disse nulla così lo baciai di nuovo, un bacio casto sulle sue labbra gelide, e mi allontanai.

 

Walgreen era appoggiato ad uno dei pilastri degli archi a volta, il fiato corto e un profondo taglio sul braccio. 

«Mi dispiace, Hale» teneva le mani sulla fronte. Non lo avevo mai visto così, gli occhi spenti e disperati, sinceramente dispiaciuto. 

«Ci ho provato, te lo giuro» continuò. 

«Lo so» lo tranquillizzai. Mi piegai sulle ginocchia per essere alla sua stessa altezza a guardarlo bene negli occhi. 

«Adesso c’è solo una cosa che possiamo fare» dissi con tono calmo e piatto. Lui mi guardò fisso, ragionò. Poi mi porse una mano e io lo aiutai ad alzarsi. Mi allontanai di un paio di metri lasciando impronte ben definite nella neve. 

«Basteranno 30 minuti» proposi. 

«Hale… Sono davvero stanco… Ho paura di poter combinare un macello» confessò. 

«Va tutto bene. Ce la puoi fare. Si tratta di un salto temporale brevissimo» cercai di tranquillizzarlo. Annuì, prese un respiro profondo e cominciò a vorticare le braccia in movimenti studiati ed eleganti. Pronunciò delle parole in latino, per me incomprensibili, e vidi lo strato più fresco di neve poggiato a terra levarsi lentamente e salire di pochi centimetri alla volta riempiendo la piazza di bianco. Quando Walgreen concluse l’incantesimo chiusi gli occhi d’istinto. Sapevo che stavamo per infrangere una delle tre regole inviolabili dei Supremi e presto avrei dovuto affrontare quello scontro nuovamente, dall’inizio, evitando che Stiles e Cam rimanessero coinvolti. Un fascio di luce rmi investì gli occhi anche da sopra le palpebre chiuse, dove il buio nero si dipinse di rosso fuoco. Eppure, quando li riaprii, era l’alba e il sole si affacciava appena alle spalle degli alberi in fiore. La piazza era deserta e io, solo e spaesato, giravo su me stesso in cerca di… non so bene cosa. Ricordo di aver sussurrato fra me e me: «Che cosa abbiamo combinato, Wal?» pieno di paura che non sarei riuscito a salvarli, ma anzi, di averli abbandonati. 

 

VIII


Una voce mi riportò alla realtà: «Ei ragazzo! Non puoi stare qui!»

Mi girai. Un uomo sulla cinquantina con una grande pancia tonda chiusa in una divisa un po’ antiquata era seduto su un tagliaerba verde. Quando mi focalizzò (i lividi, i tagli, il sangue sui vestiti) mi chiese se stavo bene e se avevo bisogno d’aiuto. 

«No, grazie» risposi e poi aggiunsi: «Sa dirmi che giorno è oggi?» 

«Il 10 Aprile.»

Perfetto, pensai. Avevamo sbagliato “solo” di qualche mese. Grandioso! Avrei voluto spaccare qualcosa. Andai via, zoppicante e acciaccato com’ero. 

Mi ritrovai sulla 5th Avenue. Il mio stomaco fece due capriole quando dando un’occhiata in giro vidi che il palazzo all’incrocio sulla 64esima dove ero passato innumerevoli volte era in costruzione, che le poche persone che circolavano erano vestite come in un film di Zemeckis degli anni ‘90 e che una ragazza alla fermata del pullman aspettava con le cuffiette collegate ad un walkman. Mi sentii svenire: stanco, pieno di dolori, adesso accaldato dal sole, decisi di sedermi sulla prima panchina che trovai (ancora oggi, quando passo davanti quella panchina, che è rimasta lì per tutti gli anni che seguirono, il ricordo di quel giorno mi travolge). 

Mi accorsi solo dopo un po’ che una copia del New York Times era stata abbandonata proprio lì affianco. La data diceva: 8 aprile 1996. 

La lessi tre volte. Il giornale era di due giorni prima e io... ero 23 anni nel passato. 

 

Partì da lì una profonda riflessione che da una parte mi portava all’altra e perfino mettere a posto i pensieri fu difficile. Per prima cosa pensai che avevo 8 anni in quel momento, ovvero il me che si trovava al posto giusto in quella linea temporale, ed era dall’altra parte dell’America, in California. Ma soprattutto pensai che quel bambino aveva ancora una mamma, delle sorelle e un branco, e così sarebbe stato per altri 8 anni circa. 

Avrei potuto prendere un aereo, raggiungerli, uccidere mio zio oppure avvertire mia madre. Ma mi avrebbe creduto? Mi avrebbe riconosciuto? Certo che lo avrebbe fatto. Fino a poche ore prima avrei fatto qualunque cosa per poterla riabbracciare soltanto una volta, per sentire di nuovo la sua voce, il suo profumo. E adesso… era a qualche migliaio di chilometri da me. 

 

Seconda cosa: Stiles, Cam e Walgreen. Cos’era successo nel momento in cui ero sparito? Quando sarei tornato indietro? Sarei tornato indietro? Cosa dovevo fare adesso?

Stiles, con le sue passioni da nerd, avrebbe saputo esattamente cosa fare. Si perdeva il conto dei film e le serie tv che aveva visto sui viaggi nel tempo per non parlare dei libri che aveva letto. 

«Regole base.» Avrebbe detto. «Non parlare e non farti vedere dal te del passato, morirete entrambi all’istante. Non cambiare gli eventi, questa è difficile, lo so. Non portare oggetti del futuro nel passato e soprattutto non lasciarli lì.» 

Mi mancava tantissimo. 

Capii che c’era soltanto una persona che poteva aiutarmi anche se l’avrei conosciuta soltanto più di vent’anni più tardi: Walgreen. 

 

In Leadwell Street la clinica veterinaria non era ancora aperta e al suo posto c’era un negozio di dischi. Eppure la piccola porta accanto era la stessa anche se l’insegna non c’era più, o meglio, non c’era ancora. 

Bussai. Dopo qualche secondo di attesa venne ad aprire un bambino, dalla carnagione scura come quella di Walgreen, di circa 10 anni. 

«Chi sei?» mi chiese con aria incuriosita. 

«C’è Walgreen? Sono un suo amico.» Lui si fece da parte per lasciarmi passare. 

«Certo! Accomodati» disse entusiasto. Il posto non era molto diverso: stesse cianfrusaglie, solo in minore quantità. Il bambino mi superò per farmi strada e parlò ad alta voce: «Wal! C’è un tuo amico! Vieni!» poi mi indicò un divano di pelle di coccodrillo e si sedette su un pouf grigio lì vicino. 

«Io sono Murph» si presentò. Portava dei pantaloncini che gli arrivavano alle ginocchia e una maglietta a maniche corte infilata dentro i pantaloncini. Ai piedi, riconobbi un modello di scarpe che avevo avuto anche io alla sua età. 

«É un piacere conoscerti Murph» risposi con un groppo alla gola. Quando Walgreen fece il suo ingresso dovetti trattenermi dal ridere. I suoi ricci erano molto più stretti e i capelli così lunghi da superargli l’altezza delle spalle. Sembrava piuttosto ridicolo, ma di certo, quella era la moda del momento. Per il resto, non c’era nulla di diverso dal Walgreen che avevo lasciato solo poco tempo prima, ne un giorno in più ne un giorno in meno sulla sua pelle. Anche la camicia di raso che indossava sembrava identica alle sue solite, solo con un taglio più ampio e meno aderente. Mi squadrò da testa a piedi. «Ci conosciamo?» chiese circospetto. 

«Non ancora» mi alzai dal divano per stringergli la mano e lui mi porse la sua come un gatto che accetta diffidente di farsi dare una carezza. 

«Murph, và a giocare fuori per qualche minuto» gli disse e quando lui passò in mezzo a noi gli passò una mano sui capelli in modo affettuoso. 

«Ti manda il Supremo Kadeem? Senti, devi dirgli che ho smesso con i viaggi nel tempo, sul serio.» 

«Non mi manda il Supremo, ma dovresti smetterla sul serio, prima che te la facciano pagare» risposi.

«Tu che ne sai?» Mi sedetti di nuovo sul divano. 

«Forse è meglio se ti siedi anche tu» dissi e stranamente mi diede ascolto. 

«Mi chiamo Derek Hale e sono un lupo mannaro.» 

«Sì, questo l'avevo capito» mi interruppe. 

«E noi non ci conosciamo perché succederà solo tra vent’anni, qui a New York.» 

La sua espressione rimase identica eccetto per i suoi occhi, gialli e felini come al solito, che strabuzzò fuori dalle orbite. Poi si mise le mani nei capelli in un gesto terrorizzato. 

«Oh Dio. Oh Dio che cosa ho fatto? Cos’è successo? Sono in pericolo? Tu non dovresti essere qui! Tu non dovresti per niente essere qui!» parlò velocissimo. 

«Ascolta, calmati. Adesso ti dico cos’è successo» provai a dire ma lui attaccò di nuovo: «No!!! Assolutamente no! Io non devo sapere! Perché poi cambierebbe tutto, capisci? Tu non puoi dirmi niente!»

E la situazione si fece piuttosto complicata perché se non mi avesse aiutato lui non avrei saputo cos’altro fare. Poi mi venne un idea. 

«Okay, cosa ne pensi se io ti parlo, tu mi aiuti, e poi ti fai cancellare la memoria da un altro Nissen?» proposi. 

Lui ci pensò, si tamburellò le dita sul labbro inferiore come faceva sempre, e poi alzò le spalle e abbassò gli angoli della bocca: «Massì, penso che possa andare. Dimmi tutto, sto morendo di curiosità.» Incrociò le gambe poggiando il mento sotto le mani in una posa pettegola. Non sapevo neanche da dove cominciare. 

Partii dal fatto che venivo dal 2019 e che sei mesi prima che ero tornato indietro un Ghul si trovava a New York al che lui commentò: «Oh, terribili bestie. Una volta ne ho affrontato uno in Cile-» 

«Sì, ce l’hai raccontato» lo interruppi. Lui fece un cenno con la testa di continuare. Così gli spiegai del ritrovamento dei pezzi, il primo nella cattedrale, il secondo nell’orologio, il terzo nel pianoforte, senza mancare alcun dettaglio sui collegamenti, gli indizi, le stranezze che erano successe. Lui mi guardava come catturato dal mio racconto, non mi staccava gli occhi di dosso e lo vedevo, si tratteneva dal commentare qualsiasi cosa. Arrivai a raccontare della battaglia, della morte di Cam, la ferita di Stiles. 

«... e allora ti ho chiesto di tornare indietro nel tempo. Di mezz’ora. Il tempo necessario per ricominciare lo scontro e avere una possibilità perché le cose andassero in modo diverso. Tu eri molto stanco, me lo avevi detto che qualcosa poteva andare storto, ma non avrei mai potuto lasciarli morire capisci?» 

Lui annuì serio. 

«E tu lo hai fatto anche se non avresti dovuto perché hai promesso davanti il Supremo di non usare mai più i viaggi nel tempo, altrimenti-» mi fermai. Non avrei dovuto infilarmi in questa storia. Ero stato stupido. Ovviamente il Walgreen di quel tempo, che non riusciva a smettere di farlo ed era entrato in un circolo temporale vizioso, non potè fare a meno di saperne di più. 

«Dimmelo, ti prego. Tanto poi lo dimenticherò!» mi supplicò. Pensai che dopo tutto quello che lui (non proprio lui, il lui del futuro) aveva fatto per me, questo glielo dovevo. 

«Non molto tempo dopo che ci siamo conosciuti mi hai raccontato che avevi passato un periodo della tua vita in cui, contro la legge, utilizzavi spesso i viaggi nel tempo, fino ad esserne diventato quasi dipendente. Mi dicesti che il Supremo ti avvertì diverse volte intimandoti di smettere ma tu non gli desti ascolto. Così, per dare una punizione esemplare a chi cominciava ad imitarti, trasformò una delle persone a te più care in quel momento in un’iguana che sarebbe cresciuta, vissuta, e una volta morta sarebbe rinata dalle sue ceneri per sempre.» 

«Chi? Chi trasformò?» chiese con il terrore negli occhi. 

«Il piccolo Murph.» Lui si portò una mano sulla bocca, scioccato e terrificato. Poi fece un respiro profondo facendo un gesto della mano per scacciare i pensieri. 

«Allora? Stavi dicendo che per sbaglio ti ho portato venti anni nel passato?» 

«Beh ecco… sì.» 

«Sai mi sembra un po’ difficile da credere. Sono piuttosto bravo con i viaggi nel tempo.» «Pensi che stia mentendo?» alzai la voce quasi arrabbiato. 

«No, no, assolutamente. Sto dicendo che certe volte le cose che devono accadere accadono e basta.» Vide la mia espressione interrogativa e continuò: «Davvero non hai notato il collegamento? Okay, ascolta: avete trovato due dei tre pezzi del Dirkey in posti che erano connessi a te, alla tua vicina, no? E a lui, nel pianoforte. E un antiquario ha venduto il pianoforte al tuo amico. Ma qualcuno deve avercelo messo questo pezzo dentro al pianoforte, no? E nell’orologio, stessa cosa. Non capisci? Sei stato tu! Adesso! In questa linea temporale.» 

Mi sentii le gambe di gelatina. Come avevo fatto a non capirlo prima? Prevederlo, quello sarebbe stato impossibile, ma adesso… tutto aveva senso. 

«Quindi adesso…» cominciai ma Walgreen mi anticipò: «Quindi adesso devi trovare i pezzi e nasconderli per fare in modo che il te del futuro li trovi esattamente nello stesso punto.» Aveva senso. 

«Ma perché?» 

«Cosa perché?» 

«Perché è successo tutto questo? Quando è cominciato?» chiesi, rivolgendomi a lui come ad un oracolo. 

«Questo non lo so» ammise. «Ma un motivo c’è sempre. E se un motivo non c’è allora si chiama destino.» 

 

IX


Walgreen mi cedette una stanza per riposare e mi medicò quelle poche ferite così profonde che ci avrebbero messo più tempo per guarire. 

Mi stesi sul materasso scomodo che in quel momento mi sembrava la cosa più confortevole del mondo per quanto ero stanco. Erano più di trenta ore che non dormivo e sorrisi fra me e me pensando che Stiles mi avrebbe corretto dicendo che erano ventitré anni che non dormivo. Cominciai a pensare e pensare. Che fosse stato davvero il destino a creare tutto questo? Ma qual’era lo scopo? Forse che qualcuno riuscisse a sconfiggere il Ghul? O che io impazzissi? L’unica cosa che faceva grandi giri e poi si presentava di nuovo era Stiles o meglio, me e Stiles. Mi resi conto di quanto sembravo ingenuo alle mie stesse orecchie. Un mostro demoniaco, un viaggio nel tempo di vent’anni, uno scontro che provoca la morte di una persona, forse due, per cosa? Per far sì che noi ci conoscessimo? Che noi ci amassimo? Avevo ammesso davvero di amare Stiles? E pure non glielo avevo detto. Così giurai, su quel letto scomodo immerso nell’odore di spezie da cucina che passava dalla piccola finestre aperta appena dal ristorante indiano adiacente, che quando sarei tornato indietro la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata dirgli che lo amavo più di quanto avessi mai amato qualsiasi cosa. 

Poi caddi in un sonno profondo e senza sogni. 


Mi svegliai l’indomani mattina, quasi completamente guarito e con un grande appetito. Walgreen mi aiutò nella ricerca dei tre pezzi del Dirkey. Dopo le dovute raccomandazioni su quello che non avrei dovuto assolutamente fare (ad esempio parlare con chiunque a meno che non fosse indispensabile) usò i suoi poteri per darmi indizi sulla collocazione del primo pezzo. La ricerca, che non aveva senza Stiles lo stesso sapore di avventura ed entusiasmo, ci condusse il Senegal. Viaggiare con i portali di Walgreen rese le distanze di migliaia di chilometri percorribili in un battito di ciglia e invidiai il suo potere per questo. 

Il secondo prima eravamo nel suo studio, quello dopo sulla costa del lago Retba. E mentre da noi erano appena le tre del pomeriggio lì il sole cominciava a tramontare, infuocato, nel cielo dalle sfumature arancioni. 

«Nel lago» di cui non avevo mai sentito parlare, mi spiegò Walgreen, «ci sono delle alghe che producono un pigmento rosso e che fanno sì che l’acqua del lago sia rosa.» 

Sembrava di essere in un dipinto. L’assenza di vento rendeva la distesa d’acqua immobile, uno specchio rosa che all’orizzonte incontrava il cielo arancione. Alcune piccole barche a remi erano appoggiate sulla riva, vicino a piccole montagne di sale, prodotte dal lago stesso. La lama si trovava sul fondale, per cui dovetti tuffarmi, quasi dispiaciuto di rompere quella quiete naturale, e nuotare con difficoltà (la salinità del lago rendeva molto facile galleggiare, quasi impossibile andare in senso opposto) verso il fondo. Quando ruggii un piccolo luccichio provenne da alcuni metri di distanza e tornammo vittoriosi a casa - solo un minuto dopo! - con la lama del pugnale fra le mani. 

 

L’indizio seguente ci spinse in Germania, più precisamente in Baviera, al Castello di Neuschwanstein (nome che non fui in grado di pronunciare malgrado i numerosi tentativi). Scoprii che Walgreen era a conoscenza di così tante informazioni che mi fece sospettare di aver usato un incantesimo per iniettarsi una dose di cultura smisurata oppure che potesse leggere da un’enciclopedia invisibile tutte le informazioni che dispensava. La verità, mi spiegò, era che amava leggere e aveva sfruttato il suo potere di teletrasporto molte più volte di quelle che potevo immaginare (furono le sue parole), in più, aveva avuto decenni per farlo. «Hai presente Ludovico II di Baviera?» chiese prima di aprire il portale. Io feci un cenno della testa che si traduceva in un timido «sì» ma che voleva dire “Non ho idea di chi sia ma tanto so che stai per spiegarmelo” e di fatti lui continuò: «È stato il re che ha ordinato la costruzione di questo castello. Il suo popolo pensò che voleva rifugiarsi dal mondo reale, fuggire dalle sue responsabilità e restare solo in quella fortezza immensa, per cui gli diedero il nome di Re Pazzo. Ma la verità è che lui era un Nissen, come me, e amava viaggiare attraverso i portali magici.»  

Il castello fu una delle cose più belle che io avessi mai visto. Walgreen ci fece arrivare prima sulla collina a poche centinaia di metri da dove si poteva ammirare completamente. Due torri gemelle affiancavano la struttura e poi altre di diverse altezze con pinnacoli ornamentali, balconate e sculture lo rendevano irregolare ed asimmetrico ma proprio per questo, ancora più armonioso. La vastità del castello era bilanciata dallo sfondo quasi magico del fiume pöllat e dalle alte montagne con la cima innevata. Sento che nessuna mia descrizione potrebbe descrivere la maestosità di quei posti e dargli giustizia. Come due comuni visitatori gironzolammo tra le stanze (oltre 200) del palazzo fino alla sala del trono, dove la guardia del pugnale era nascosta. 

 

Ci misi una settimana a capire il terzo indizio a cosa portasse (Stiles ero sicuro ci avrebbe impiegato mezza giornata, forse anche meno) e Walgreen quasi pianse di gioia quando venne fuori che saremmo dovuti andare a Tokyo. Inizialmente non capii da cosa derivasse quella sua felicità quasi commossa fino a quando non mi spiegò che ci trovavamo nell’hanami, ossia il periodo di fioritura dei ciliegi. Ne avevo sentito parlare, certo, ma la sua gioia ai miei occhi appariva ancora immotivata. Disse che era la quarta volta che avrebbe visto la fioritura e non stava nella pelle.

Scoprii che il Giappone non era come me lo ero immaginato, anche perché non ci avevo pensato troppe volte prima di allora. Mi colpì la grandezza e il grigiore della maggior parte dei palazzi, la tranquillità degli edifici religiosi, la cordialità degli abitanti. Venne fuori che il pezzo che cercavamo si trovava proprio nel parco di Ueno, al che Walgreen mi disse: «Adesso vedrai con i tuoi occhi perché ero così contento di venire qui.»

Il parco di Ueno si trovava nel quartiere di Taitō e contava circa 8000 alberi di ciliegio. Non posso descrivere, e non riuscirei a farlo neanche tra decine di anni, le sensazioni che provai camminando sotto gli alberi in fiore. 

«Questa è la vera magia» disse Walgreen in un sussurro. Sembrava di camminare dentro nuvola. L’elsa del pugnale si trovava all’interno del tempio buddista collocato al centro del parco. Continuammo ad esplorare intorno, rapiti dal fascino dei ciliegi, anche dopo aver trovato il pezzo. 

Quando tornammo a New York sentii di aver lasciato un pezzo di me in ognuno dei tre posti in cui eravamo stati. 

 

X


Il giorno seguente il piano era quello di collocare le parti del pugnale dove le avevamo trovate io e Stiles a ventitré anni di distanza. Con Walgreen ci dirigemmo al 58 di Delancey Street, dove la New York che conoscevo stava appena nascendo e molti dei grattacieli che ero abituato a vedere non c’erano ancora, mentre due, maestose e ancora in piedi mi provocarono un brivido lungo la schiena. 

Gli indicai il punto in cui la scritta avrebbe dovuto essere, sul muro di mattoni rossi dove il murales del leone sarebbe comparso. Lui la incise con la magia in una calligrafia che riconobbi solo in quel momento essere la sua, perfettamente uguale a quella che avevo visto.

Quello stesso giorno ci recammo sulla 84esima e cercammo l’antiquario di cui Stiles mi aveva parlato. Il signore che lui aveva descritto come anziano era solo un quarantenne. «Posso aiutarvi, signori?» chiese gentilmente. 

«Stiamo cercando un pianoforte, antico, ne ha?» disse Walgreen. Gli si illuminarono gli occhi: «Oh sì! Vi accompagno» e ci fece strada lungo il negozio che quanto a cianfrusaglie faceva concorrenza all’ufficio di Walgreen. Era proprio lui, il pianoforte dal color marroncino con la scritta Blankenstein al centro poco sopra la tastiera. Feci cenno a Wal che era quello giusto. Il giovane John Koch tolse il panno protettivo in lana rossa per farci notare il buono stato della tastiera ma tutto quello che notai io fu che il Si bemolle che fino a quel momento era mancato adesso riempiva lo spazio vuoto in armonia con gli altri tasti. 

Se ne accorse anche Walgreen che disse con straordinaria convinzione: «Cercavamo anche degli spartiti, uno in particolare anzi, com’è che si chiama, Hale?» 

«Downbeat of your heart» risposi pronto. Lui si spostò di pochi metri cercando in una libreria da pochi dollari tra libri sparsi e pieni di polvere. 

«Forse questo?» mi porse il foglio, lo stesso che avevo passato a Stiles quella sera, solo la versione più giovane, non ancora ingiallita. 

«Sì, è lui. Può darmi anche gli altri?» nell’altra mano notai tutti quelli che Stiles aveva suonato disperatamente. 

«Bene» intervenne Walgreen con i suoi modi garbati e felini: «Ci può concedere un attimo?» con un sorriso quasi subdolo, ma che convinse il proprietario a tornare all’ingresso. 

«E adesso che facciamo?» chiesi. 

«Facciamo un po’ di magia» mi rispose alzandosi teatralmente le maniche della camicia. Prese lo spartito (quello che avrebbe azionato il meccanismo) e lo posizionò di fronte a lui, poggiandovi affianco l’elsa, l’ultimo pezzo che avremmo trovato. Bisbigliando parole indecifrabili aprì il pianoforte e le note dal foglio si levarono come piume leggere incastrandosi tra le corde e i martelletti. Prima di richiuderlo creò un varco all’interno del quale inserì il pezzo e poi rimise tutto come pochi istanti prima. L’ultima cosa che fece fu muovere l’indice e il medio della mano sinistra in aria, verso l’alto, facendo sollevare il Si bemolle mancante. Lo poggiò nella mia mano. 

«Cosa devo farci?» chiesi. 

«Non so, quello che vuoi.» 

«Ma come facevi a sapere che la fessura sarebbe stata proprio in quel punto? E che il Si bemolle fosse proprio quello? Io non ti ho detto queste cose.» 

Mi guardò come si guarda un bambino a cui vanno spiegate le addizioni. 

«Non dovevi dirmelo tu. Tu sapevi che sarebbero quelle cose sarebbero state così perché lo hai visto dopo che io l’ho fatto, capisci?» 

«Più o meno… In ogni caso, adesso come facciamo a dirgli di vendere il pianoforte a Stiles? Con gli spartiti?» 

«Lascia fare a me» disse, e si diresse verso la cassa con un braccio dietro la schiena. 

«Mi dica, quanto vuole per il pianoforte?» L’antiquario parve immensamente felice di poter concludere la vendita: «1500 dollari, sapete l’ho fatto accordare da poco.» (In realtà mi sembrava un prezzo stracciatissimo ma mi ricordai solo dopo dell’inflazione.)

Nella mano nascosta di Walgreen comparvero due mazzette di banconote. 

«Questi sono tremila» li poggiò sul bancone e il volto di John Koch impallidì. 

«Le farebbero comodo, no?» 

Lui ci pensò, poi disse: «Beh sa… sono tempi difficili.»

«Lasci che le dica cosa succederà adesso. Lei prenderà quei soldi e conserverà il pianoforte. Non lo venderà per i prossimi ventun’anni. Poi un ragazzo, giovane, uno studente universitario, lo riconoscerà, vorrà comprarlo. Lei glielo darà alla metà del prezzo perché al pianoforte manca un tasto e gli regalerà anche gli spartiti che poco fa ha dato a questo signore. Cosa ne pensa?» Quasi non si mise a ridere pensando che fosse uno scherzo, ma lo sguardo fermo di Walgreen gli fece capire che non era così. 

«Affare fatto» rispose. 

«Perfetto. Oh e non si preoccupi del tasto mancante, lo abbiamo già tolto noi.»

Uscimmo dal negozio prima che potesse replicare. 

«Ma come sai che lo farà davvero?!» sbottai preoccupato dalla superficialità con cui aveva trattato la faccenda. Lui smise di camminare e si girò nella mia direzione: «Vedo che il concetto del viaggio nel tempo non ti è troppo chiaro, eh?» 

Lo guardai ancora più innervosito. «So che farà quello che gli ho detto perché tu mi hai detto che lo farà! É così difficile da capire?» 

Se ci fosse stato Stiles al posto mio avrebbe afferrato tutto al volo. 

 

Aspettai che fosse notte per entrare nella Cattedrale di Saint John. Posizionai la lama nel lampadario e mi presi un attimo, seduto sulle mattonelle fredde della grande navata, per ricordare quel momento, così distante nel tempo eppure così vivo nella mia mente, in cui avevo ascoltato per la prima volta il battito del suo cuore. Mi mancava da morire. Non aveva senso, eppure mentre per me la vita continuava a scorrere, immaginavo loro bloccati come in una palla di vetro con la neve, congelati in un momento grigio. Da soli, in pericolo, senza protezione. Avevo fallito, su questo non c’erano dubbi. Ma avrei rimediato. Li avrei salvati, a costo della mia stessa vita. 

 

XI


L’indomani mattina rifiutai l’aiuto di Walgreen per collocare il secondo pezzo nell’orologio a pendolo che in quel momento si trovava, secondo i miei calcoli, ancora (o di già, a seconda della prospettiva) a casa di Mrs. Crowford che abitava al 2340 di Powell Jr Boulevard, sempre al primo piano, dove anni dopo l’avrei raggiunta. 

Arrivai lì a piedi, camminando per le strade che conoscevo bene ma che sembravano appartenere ad un mondo parallelo per i dettagli talvolta piccoli come i segnali stradali e talvolta grandi quanto interi palazzi che non erano ancora stati costruiti. Prima che potessi attraversare la strada, senza neanche un piano, fui colpito di sorpresa dalla versione più giovane della Mrs. Crowford che conoscevo, incredibilmente somigliante alle foto di sua figlia Laura che aveva appeso nelle cornici di casa e che mi aveva mostrato, la stessa adolescente che camminava vicina a lei sorridente. 

Con lo stesso taglio di capelli, soltanto neri anziché bianchi, il volto più levigato e pieno, la postura più eretta. Davanti a loro di pochi passi camminava suo figlio più piccolo, anche lui somigliante alla mamma. Vederla così in forze, giovane e felice mi fece sentire sollevato. 

Aspettai che girassero l’angolo per avvicinarmi al portone del palazzo (lo stesso di sempre) e usando la giusta forza sulla maniglia - di un tipo vecchio e quasi arrugginito - riuscii ad entrare. Tesi l’orecchio per accertarmi che non ci fosse nessuno in casa e nel silenzio entrai manomettendo anche la porta del loro appartamento. 

L’arredamento, molto più antiquato di quello attuale, era nello stesso stile rustico e accogliente. Senza perdere tempo aprii la teca di vetro e posizionai il pezzo del pugnale nello scomparto che trovai con facilità. Richiusi la teca e uscii dalla casa, assicurandomi di non aver toccato nulla. Scesa la prima rampa di scale un signore di bell’aspetto con il cappello poggiato sulla testa mi salutò educatamente ma io impiegai più del dovuto per rispondergli, scosso dal fatto che nonostante non l’avessi mai visto prima lo avessi riconosciuto quasi subito: Mr. Crowford. 

Dovetti mantenermi alla ringhiera liscia e lucida delle scale, colpito dalla consapevolezza che avrei potuto parlargli. Sapevo che sarebbe morto di lì a pochi anni ma dirglielo non avrebbe potuto cambiare le cose, avrei solo infranto una regola sacra. D’altronde, cosa dirgli? Di godersi quegli anni? Di abbracciare più spesso i suoi figli e baciare più spesso sua moglie? Non avrebbe dato peso a queste cose dette da uno sconosciuto e prima che potessi pensare a qualcos’altro aveva già aperto la porta di casa sua e l’aveva richiusa alle sue spalle. 

 

Soltanto quando Walgreen mi chiese se ci fosse qualcos’altro di cui dovessimo occuparci mi resi conto che rimaneva soltanto una cosa che avrei dovuto fare e che era forse la più importante di tutte. Neanche un’ora dopo un portale mi lasciò in un corridoio isolato dell’University of Charleston e chiesi a Walgreen di non seguirmi dicendogli che ci saremmo rivisti in quello stesso punto dopo 40 minuti. Immerso nel clima studentesco in cui non mi sentivo per niente a mio agio partii alla ricerca della facoltà di lettere. Lì chiesi in giro fino a quando un ragazzo non mi indicò il gruppo di ragazze sedute vicino la fontana al centro della piazza. Quando mi avvicinai a loro la riconobbi subito: «Claudia?» chiesi. 

Avrei voluto aggiungere il suo cognome ma non lo conoscevo, non quello da nubile. 

Lei mi guardò timida, con espressione confusa. 

«Sì?» Vidi le sue amiche scambiarsi dei sorrisi eloquenti e emettere ridolini buffi. 

«Posso parlarti in privato?» Lei senza dire nulla si allontanò intimandomi di seguirla. Camminammo per poco fino a fermarci in un corridoio poco trafficato e lei finì casualmente rivolta verso un'alta finestra da cui entrava il sole caldo di mezzogiorno. Sotto la luce di quei raggi notai che aveva gli occhi di Stiles, la sua pelle liscia e le lentiggini sulle guance, le sue labbra carnose e il ramato dei suoi capelli (anche se quelli di lei erano acconciati in una pettinatura tipica degli anni ‘90 che ora sembrerebbe bizzarra a dir poco). 

«Dimmi tutto» sorrise curiosa e io non sapevo proprio da dove cominciare. 

Tirai fuori la collana con il triskele che Walgreen aveva creato su mia richiesta fondendo il Si bemolle del pianoforte. 

«So che sembrerà una cosa impossibile da credere, quindi non tenterò di spiegartela, ma ho bisogno che ti fidi di me. Non posso dirti quando, ne come lo so, ma avrai un figlio, un maschio.» 

Lei rimase scioccata. «Sei pazzo?!»

«No, no, ti giuro che non lo sono» il mio tono era così implorante che la convinse a continuare ad ascoltare. 

«Ho bisogno che tu dia questa a tuo figlio poco prima di…» mi bloccai. Non avrei potuto dirle che sarebbe morta. 

«Saprai quando sarà il momento.» Lei si sforzò visibilmente di cercare di capire quello che stavo tentando di dirle. 

«È importante» continuai. 

«E ti aspetti che io ti creda?» chiese sospettosa. 

«Sì… in realtà so che farai quello che ti chiedo ma non so ancora cosa ti convincera a farlo…» mi lasciai sfuggire. 

«Ma di cosa stai parlando?!» Mi bloccai. Non sapevo cosa dire, cosa fare, come convincerla e non avrei potuto costringerla. Lei era l’unica che avrebbe spinto Stiles a cercare un significato dietro il simbolo, a non lasciare andare via dal suo appartamento senza avergli detto la verità. Immobile, senza speranza e alcun appiglio, rimasi senza parole. Lei confusa mi superò per andar via e mi voltai implorandola: «Ti prego! Prendi questa e digli che un giorno si troverà nel posto giusto al momento giusto!» Lei si fermò e mi guardò di nuovo. «Se lo farò mi lascerai in pace?» 

«Sì.» Prese la collana dal laccetto penzolante nella mia mano. 

«Bene allora» e se la infilò in tasca scomparendo dietro il muro di mattoni grigi nella folla di studenti che uscivano da un’aula. 

 

«Tutto bene?» chiese Walgreen pochi minuti dopo avermi riportato indietro mentre fumava una sigaretta lunga e sottile. 

«Non sono sicuro che farà quello che le ho chiesto» confessai sprofondando nella poltrona davanti a lui. 

«Se da dove vengo io lo ha fatto vuol dire che lo farà di nuovo, giusto?» chiesi gesticolando disperato e consapevole che la mia domanda era confusa e intricata. 

«Non è una certezza» rispose soffiando via il fumo dalla bocca. 

«Ma tu dall’antiquario hai detto che-» 

«Diciamo che ne sono sicuro al 80%, okay?» mi interruppe, poi fece un tiro e continuò: «Adesso hai fatto tutto quello che dovevi fare?» Pensai e ripensai. 

«Credo di sì.» 

«Bene, allora chiamo Hebert.» 

«Chi è Hebert?» 

«Il Nissen che deve cancellarmi la memoria, ricordi?» 

«Io come torno indietro?»

«Ci penso io a te. Domani mattina. Cerca di riposarti, c’è un Ghul ad aspettarti dall’altro lato» spense la sigaretta schiacciandola nel posacenere dorato (lo stesso che gli avevo visto usare anni dopo). 

 

La mattina seguente indossai gli stessi vestiti di quando ero arrivato nel 1996 due settimane e mezzo prima (non che avesse importanza, mi spiegò Walgreen, sarei stato lo stesso Derek che ero allora). 

«Wal… prima che io vada…» cercai di trovare le parole ma non ero mai stato un campione ad esprimermi. «Grazie» tagliai corto, sperando che capisse quanto significato c’era dietro quella singola parola. Sorrise mostrando i denti scintillanti e perfetti. 

«É stato un piacere, Derek. Ti direi di passare a trovarmi quando vuoi ma… immagino che dovrò semplicemente aspettare qualche anno per incontrarti di nuovo» poi ci pensò su e commentò tra sé e sé: «E comunque allora non mi ricorderò di te.» 

Poi tornò alla realtà: «Allora!  Devi dirmi il momento e il luogo esatto in cui vuoi che ti porti» disse mentre si arrotolava le maniche della camicia e piantava i piedi saldi nel pavimento. Sul luogo non avevo dubbi ma il momento esatto… ripercorsi in mente gli eventi di quella notte: sicuramente prima che Stiles e Cam rimanessero feriti, prima che io rimanessi quasi svenuto a terra. Poi ricordai: le campane di St. Jean Baptiste Church che scoccavano all’1. Cercai di quantificare il tempo che era passato da quando avevamo lasciato il mio appartamento a mezzanotte fino a quando ero arrivato nella piazza di Central Park ma dovevo essere estremamente preciso, avevo una sola occasione e se avessi sbagliato momento, magari successivo alla morte di Cam, non avrei potuto rimediare. Il momento giusto sarebbe stato appena prima che iniziasse lo scontro, anche se il Ghul sarebbe stato al pieno delle sue forze. 

«Allora?» mi intimò Walgreen. 

«Bethèsda Terrace, Central Park. Il 13 Ottobre 2019, alle 00:40.» 

Lui annuì e cominciò a muovere le braccia con la grazia che gli apparteneva, quasi danzando, creando dal nulla un vortice di energia e bisbigliando le parole latine che riconobbi. Chiusi gli occhi come quando la stessa magia mi aveva portato indietro, vidi il nero delle mie palpebre tingersi di rosso e poi lo stomaco sembrò attorcigliarsi e il fiato mi mancò. Ero pronto a combattere per riprendermi quello che avevo perso. 

 

XII


La prima cosa che mi accolse di nuovo nella mia linea temporale fu l’aria gelida di quella notte e poi il calore che proveniva dalla ferita all’altezza dello stomaco che avevo. Ci misi poco tempo per adattarmi alla realtà e riallinearmi con me stesso. Per una volta la vita era stata clemente con me: il Ghul portava i tagli leggeri e sparsi che ero riuscito ad inferirgli e combatteva con Walgreen che, in forze, tentava di trattenerlo con la magia. Mi girai in direzione del cespuglio dove sapevo fossero nascosti Cam e Stiles e la vidi, viva, con gli occhi agili e vispi, la pelle ancora rosea, il cuore che batteva. Avrei voluto correre verso di lei per abbracciarla. Stiles non c’era, ma questo lo immaginavo: nei paraggi non c’era il Dirkey 

e lui lo stava cercando dall’altra parte del parco. 

Come avevo fatto la prima volta presi la rincorsa in direzione del Ghul e saltando, mentre Wal lo teneva immobile, gli conficcai gli artigli a fondo, rendendolo cieco all’occhio sinistro. Luì urlò di nuovo (mi sembrava di avere un deja-vu ma tutto si muoveva più lentamente ed esattamente come ricordavo) e poi assestai il calcio a mezz’aria. La sua reazione fu la stessa, uno scatto d’ira feroce verso di me, con un’unica differenza: questa volta sapevo che avrebbe colpito. Paradossalmente fu proprio quello il punto che aveva cambiato le sorti dello scontro: la scarica di pugni che mi aveva inferto e che mi aveva costretto a terra era stato l’evento che aveva permesso che Walgreen venisse messo fuorigioco, che Cam intervenisse morendo e così via. Quello, fu il momento che cambiai schivando un colpo dopo l’altro e mentre mi spostavo agile e cercavo di sfruttare il suo punto cieco a sinistra (la mia destra) mi accorsi che Walgreen sparì in una nuvola di fumo. Quella distrazione quasi mi costò un colpo dritto sul viso. Ripresi a concentrarmi, convinto che avesse un buon motivo per sparire in quel modo, ma in realtà tremavo al pensiero di non sapere cosa sarebbe successo adesso che avevo assaggiato il sapore della certezza (era questo che aveva spinto Walgreen nella spirale dei viaggi del tempo?). 

Riuscii a colpirlo nel punti in cui il Dirkey gli aveva procurato dei tagli - anche se superficiali - e capii che quella non poteva essere una soluzione. Si trattava solo di temporeggiare nell’attesa che Stiles tornasse con il pugnale tra le mani e soprattutto di non farsi abbattere per evitare l’intervento di Cam. Mentre tiravo un gancio destro sull’occhio fuori uso del Ghul sentii chiamare il mio nome alle mie spalle. Mi girai, nei pochi istanti che la sua instabilità mi concedevano, e vidi Walgreen, quasi una visione ancestrale, al centro delle scale, illuminato dalla luna come un riflettore puntato su di lui: stringeva il Dirkey tra le dita. 

Lo tirò nella mia direzione e lo vidi vorticare e tagliare l’aria senza sforzo. Il contatto con il manico mi diede una scarica di energia e con un gesto rapido infilai la lama appuntita nel cuore del Ghul. Urlò disperato, cadde sulle ginocchia e poi si accasciò sul pavimento, dove diventò cenere e polvere disperdendosi nel vento. Quando di lui non rimase più traccia il silenzio della piazza piombò su di noi, ancora increduli, con il fiato corto che iniziava a riprendersi. Piccoli e gelidi fiocchi di neve iniziarono a scendere posandosi sulle mattonelle del pavimento e sciogliendosi nell’acqua della fontana. Raccolsi il pugnale da terra, girandomelo tra le mani come un trofeo. Quando mi girai Walgreen mi sorrise, con gli occhi quasi lucidi, stanco ma contento. 

«Ce l’abbiamo fatta, Hale!» mi corse in contro, ci stringemmo in un abbraccio vittorioso. Cam ci raggiunse. La strinsi così forte che pensai di averle fatto male. Il suo profumo era lo stesso e non fui mai tanto felice di sentirlo. 

«Non immaginate quanto sono felice di vedervi» dissi loro. Mi guardarono - giustamente - confusi ma non dissero nulla. Non riuscivamo più a smettere di sorridere, Cam fece una giravolta con le braccia spalancate e il viso rivolto al cielo sotto i fiocchi di neve. 

«Dov’è Stiles?» chiesi ancora raggiante. Cam fermò la sua giravolta per guardarmi, come Walgreen, con le sopracciglia corrucciate. 

Dissero quasi in coro: «Chi è Stiles?» 

Quello, fu l’esatto momento in cui il mondo mi crollò addosso e non sentii più il pavimento sotto i piedi. 

 

Mentre la neve continuava a scendere calma, circondandoci come in una cartolina di Natale, Walgreen aveva già capito cos’era successo, troppo esperto e bruciato sulla sua stessa pelle per non riconoscere un viaggiatore del tempo, e più precisamente, uno che aveva fatto casini. Senza che io dicessi nulla (anche perché sentivo di avere un’espressione terrorizzata e affranta che parlava da sola) mi chiese: «Dove ti ho mandato?» con un velo di colpevolezza nella voce. Cam ci guardò senza capire. 

«Nel 1996» risposi. 

«Abbiamo molte cose da dirci, è meglio se andiamo via di qui» concluse. 

 

Ci sedemmo nella prima tavola calda che trovammo aperta, non ricordo la strada, non ricordo il nome del posto: camminavo per inerzia seguendo loro due. Ordinammo tre caffè doppi (come se l’adrenalina della battaglia non fosse abbastanza per renderci frenetici ed irrequieti). Ci sedemmo nel tavolo più lontano possibile dall’ingresso nonostante il posto fosse quasi completamente vuoto. La cameriera ci guardò con circospezione a causa dei tagli e dei vestiti sporchi di sangue. 

Io fissavo un punto a caso sulla parete spoglia. 

«Allora» disse Cam stanca e agitata dal silenzio «potete spiegarmi cos’è successo?»

Io non mi mossi, lasciai parlare Walgreen: «Per quello che posso immaginare, Derek viene da una linea temporale diversa da questa.» Mi guardarono entrambi in attesa di un cenno di conferma, così annuii. 

«Deve essere successo qualcosa durante lo scontro che ci ha costretti ad usare l’ultima arma che avevamo a disposizione, dico bene? Altrimenti non mi avresti convinto a farlo.» Restai immobile. 

«Ma ti ho mandato troppo indietro nel tempo e quando sei tornato, cioè ora, durante lo scontro, questo... Stiles non era con noi, e noi non sappiamo chi sia.» 

Un’altra coltellata mi attraversò lo stomaco. Avrei voluto urlare fino a perdere la voce oppure chiudermi nel silenzio della mia mente, a torturarmi chiedendomi dove avessi sbagliato, a ripensare a quello che avevo perso. Ma dovevo loro una spiegazione. Così cominciai dal principio, dalla mattina in cui Cam mi aveva scritto portandomi sul luogo del primo omicidio. Gli raccontai del mio primo scontro con il Ghul, di essere rimasto quasi ucciso e che Stiles mi aveva salvato, della collana che aveva, del tempo che avevamo passato insieme cercando le soluzioni degli indizi che ci dava Walgreen, di come ci eravamo avvicinati. Ascoltavano attenti, non si smossero quando dissi loro che ci eravamo innamorati. Raccontai dettagli che sarebbero serviti per fargli capire quello che era successo dopo: il pianoforte con il tasto mancante, il pezzo dentro il pianoforte. Dello scontro: la parte che fece più male. 

«Mi ha colpito ancora e ancora, fino a lasciarmi sanguinante e incapace di muovermi a terra. E poi ha messo KO anche te» dissi guardando Walgreen. 

«Così tu sei intervenuta e gli hai scaricato un caricatore intero addosso, ma lui non si è fatto niente.» Non ce la facevo a rivivere quei momenti pezzo dopo pezzo. Non volevo dirle quanto fosse stata ingenua a volerlo colpire con un pugnale che non fosse il Dirkey perchè aveva fatto esattamente quello che avrei fatto io. 

«Ti ha uccisa» dissi in un fremito. 

«E poi ha ferito Stiles, sarebbe morto anche lui.» Loro mi guardarono sconvolti. Cam si portò una mano sul collo in segno di stupore, nello stesso punto in cui il Ghul aveva reciso la sua pelle in un taglio profondo (mi chiesi allora se fosse una coincidenza o se i nostri gesti non fossero altro che ripercussioni di altre versioni di noi stessi). 

«Per questo ho acconsentito» commentò Walgreen. 

«Eri stanco, sfinito. E mi hai avvisato. Ma io non ti ho dato retta. Così da un salto che doveva farmi tornare 30 minuti indietro mi sono trovato nell’aprile del 1996.»

«Oh mio Dio» si lasciò sfuggire Cam. 

«Ti ho trovato» dissi a Walgreen. 

«Ho conosciuto Murph. E tu mi hai aiutato a capire che tutte le cose che erano successe, la collana di Stiles, i pezzi del pugnale che erano collegati a noi, il pianoforte di Stiles, era tutto collegato a quel viaggio nel tempo. Lo hai detto tu. Così abbiamo cercato i pezzi insieme e li abbiamo messi dove noi due li abbiamo ritrovati 23 anni dopo. Abbiamo trovato il pianoforte, lo abbiamo lasciato all’antiquario dove Stiles lo avrebbe comprato, abbiamo pensato a tutto» la voce iniziava a cedermi e tremava dietro il mio nervosismo. 

«Quel maledetto pezzo mancante. Gli spartiti. A tutto. E poi ho trovato la madre di Stiles, le ho chiesto di dare la collana a suo figlio e lei ha detto che lo avrebbe fatto» gli occhi mi diventarono umidi ma non mi importava: anche loro due li avevano bagnati. 

«Tu mi hai portato indietro a stanotte» conclusi. 

«E mi sono fatto cancellare la memoria perché altrimenti avrei cambiato la linea temporale che conoscevi» spiegò da solo. 

«Hebert» confermai. 

«Certo» annuì, come per dire che quella era la scelta più logica. 

«Quindi cos’è che è andato storto?» chiese Cam. 

«Non lo so» risposi. 

«Neanche io» disse Walgreen sovrappensiero. 

«Ma non è detto che sia stata la collana.» Si interruppe perché vide la cameriera portarci i caffè. Aspettò che lei andasse via per riprendere: «Potrebbe anche darsi che lei ha fatto quello che le avevi chiesto, ma se Stiles non si trovava nel parco in cui hai affrontato il Ghul la prima volta e non ti ha mai visto, non ti ha mai salvato… è lì il problema. Perché nella linea temporale in cui siamo ora quella notte hai chiamato me e io sono venuto a salvarti. Io ho trovato l’artiglio per terra.» 

La tazza scottava troppo anche solo per toccarla e io cercavo di concentrarmi su qualsiasi altra cosa che non fosse Stiles anche se dovevo continuare ad ascoltare. 

«Siamo stati noi ad aiutarti a trovare i pezzi del Dirkey» continuò Cam. 

«Il primo nella Cattedrale di Saint John, il secondo nell’orologio nell’appartamento di Bram Crowford, il terzo nel pianoforte dell’antiquario sull’84esima che si è aperto con un incantesimo di Walgreen.» 

 

Non sapevo cosa dire. Se era stato il destino a mandarmi nel 1996 quello stesso destino mi aveva tradito e adesso si prendeva gioco di me. 

«Cosa posso fare adesso?» chiesi in direzione di Walgreen disperato e afflitto. 

«Non penso ci sia qualcosa da fare, Hale.» 

«Non può tornare di nuovo indietro e sistemare le cose?» provò Cam, e la ringraziai mentalmente per averlo chiesto perché io conoscevo già la risposta a quella domanda ma avevo bisogno di sentirla. 

«No, quella è la cosa più stupida che possiamo fare. Sconvolgerebbe tutto ancora di più e farebbe danni ben peggiori di questo. In più, non sappiamo neanche cosa sia andato storto» Walgreen concluse la frase e bevve un sorso dalla sua tazza. 

 

XIII

 

Nei giorni che seguirono vissi una vita al rovescio in cui tutto sembrava uguale a prima tranne per il fatto che nulla lo era. Le giornate diventavano sempre più fredde e il sole tramontava sempre prima ma assistevo alla mia vita da spettatore silenzioso all’interno di casa mia, uscendo solo per fare la spesa e salutare Mrs. Crowford. 

Fortunatamente lei non era cambiata per niente, era ancora la vecchietta vispa e arzilla che ricordavo. Si accorse subito che qualcosa non andava in me ma non potevo rispondere alle sue domande con sincerità, quindi mentivo dicendo che non mi sentivo molto bene e lei si lasciava convincere aggiungendo raccomandazioni sul fatto che bisognava coprirsi per bene e non uscire senza sciarpa in quel periodo.

 

Meditai molto su quello che era successo. Ripercorsi centinaia di volte mentalmente le tappe di quel viaggio mai esistito in un anno che adesso odiavo follemente. Misi in discussione ogni scelta che avevo preso. Se non avessi convinto Walgreen a farmi viaggiare nel tempo forse sarei riuscito a portarlo in ospedale abbastanza in fretta perché vivesse (forse!) ma Cam sarebbe morta e io avevo promesso di salvarli entrambi. 

Vivere in quella casa piena dei nostri ricordi fece ancora più male: quello che mi rimaneva non era altro che il ricordo di qualcosa che non era mai accaduto, un’ombra sottile che diventava ogni giorno più sfocata e io avevo paura che avrei dimenticato quello che c’era stato tra di noi, che avrei dimenticato di Stiles come avevano fatto tutti gli altri. 

 

Walgreen venne a trovarmi. Disse che aveva una buona notizia: era riuscito a scovare il ragazzo che aveva dato vita al Ghul. Mi raccontò che la notte dello scontro era stato così male (perché le ferite del demone avevano impatto su di lui, in qualche modo) che si era trascinato in strada, aveva chiesto aiuto e qualcuno lo aveva portato all’ospedale. 

«La morte del Ghul lo ha liberato di tutto il dolore che si portava dietro» disse sollevato. «Certo, porta ancora i traumi di quello che ha passato, ma sta molto meglio. Sono andato a trovarlo.» 

Preparai meccanicamente del thè cercando di ignorare il fatto che nello scaffale mancassero le confezioni che mi aveva regalato Stiles. Walgreen mi chiese come stavo, visibilmente preoccupato per me. Disse di essere molto dispiaciuto, che si sentiva responsabile. Lo rassicurai del fatto che non fosse colpa sua. Prima di andar via e sparire in un vortice nuvoloso precisò che se avessi avuto bisogno di qualsiasi cosa avrei potuto chiamarlo. 

 

Il giorno dopo trovai finalmente il coraggio di uscire per cercare Stiles. Forse sua madre non gli aveva dato la collana o forse qualcosa gli aveva impedito di essere al St. Mary's Park quella notte, ma ero certo che esistesse, che fosse nato e che la sua vita non fosse troppo diversa da come la conoscevo (senza l’unico dettaglio che io non ne facessi parte).

Meditai molto sul fatto di cercarlo. Quello che mi frenava era la paura di vedere una sua versione che non conoscevo, uno Stiles diverso da quello che amavo, e cosa peggiore di vedere i suoi occhi passare su di me con indifferenza, senza riconoscermi. Nei giorni precedenti Cam era passata a trovarmi diverse volte e avevamo parlato (lei molto più di me). Mi aveva consigliato di provare a cercarlo, di conoscerlo. Nella sua visione ottimistica del mondo aveva previsto che potessimo innamorarci ancora, come la prima volta. Ma io non sapevo come già fosse stato possibile una volta. Trovavo assurdo che un umano potesse vedere in me - un lupo mannaro con artigli e zanne lunghe fatte per squarciare - una persona meritevole di amore. Poi capii che quello che ci aveva uniti era stata la caccia di quei pezzi, il brivido della ricerca, vivere giorno per giorno uno accanto all’altro con la consapevolezza di fare qualcosa che salvi delle vite. Certo, questo poteva essere lo stesso Stiles, ugualmente curioso, intelligente e capace di vedere il buono dentro di me, ma io non ero più lo stesso e le circostanze che ci avevano unito, neanche quelle erano le stesse. Presentarmi alla sua porta con una verità pesante come quella del mondo soprannaturale senza una spiegazione nella mia testa non aveva senso e ogni scenario che immaginavo finiva con me che lo spaventavo o una vita di menzogne. 

Peggio ancora sarebbe stato presentarsi a lui dicendogli che in un’altra linea temporale eravamo felici insieme e che poi lui stava per morire così per salvarlo avevo viaggiato nel tempo ma qualcosa era andato storto e lui non si ricordava più di me. Avrebbe chiamato la polizia o l’ospedale per farmi internare.

Pensavo a tutte queste cose mentre mettevo un passo dopo l’altro senza neanche dover prestare attenzione alla strada perché anche le mie gambe l’avevano imparata a memoria: quella per andare al suo appartamento. 

Non avrei mai bussato, ovvio. Il suo nome sul citofono era scritto con lo stesso carattere di quello che ricordavo e questo mi fece sentire un po’ meglio. E adesso? Avrei potuto aspettare che uscisse di casa, o che tornasse a casa - impossibile saperlo -, ma decisi di camminare. Gironzolai a vuoto per un po’, realizzando soltanto in quel momento quanto mi fosse mancata New York e in particolare la New York che ricordavo. Calpestavo le foglie secche di diverse tonalità di marrone e arancione che formavano immensi tappeti folti sui marciapiedi di Manhattan e che scricchiolavano sotto il mio peso. Un leggero venticello muoveva le insegne dei locali appese ai pali della luce spenti e l’ombra più alta e sottile di me mi seguiva silenziosa. 

Finii per trovarmi in Delancey Street senza accorgermene (o facendo finta di non accorgermene) e di proposito continuai fino a cercare con lo sguardo il leone sul palazzo di mattoni rossi. E lui lì, immobile e fiero, mi guardava dall’alto in basso quasi giudicandomi. Tutto era rimasto uguale. Entrai nello Starbucks lì vicino, ordinai e mi sedetti sullo sgabello vicino al bancone aspettando il caffè. 

Che il destino ce l’avesse con me lo capii quando la porta si aprì e Stiles entrò mentre parlava con una sua amica (Kat mi sembrò fosse il suo nome, l’avevo vista un paio di volte). Riconobbi la sua voce e mi girai di scatto. Con una fitta al petto notai che era lo stesso identico Stiles che ricordavo, stessi capelli scompigliati, la stessa camicia azzurrina sotto il cappotto leggero che indossava la prima volta che l’avevo visto suonare, lo stesso sorriso luminoso. Parlavano di un esame ma non riuscii a concentrarmi troppo su quello che dicevano, terrorizzato dal fatto che io fossi a soli due metri da lui e che mi avesse visto (i suoi occhi erano passati sulla mia figura, ne ero certo) ma non mi avesse riconosciuto. Per lui non ero che una persona qualsiasi, seduta in un bar, con lo sguardo triste. Ordinò un thè freddo, pensai che quella fosse l’ennesima prova che lui era lo stesso Stiles che conoscevo. Andarono via non appena la cameriera gli consegnò l’ordinazione. Restai a rimuginare davanti il mio caffè per un altro po’ fino a quando notai il sole abbassarsi e decisi di tornare a casa a piedi. 

 

La conclusione a cui arrivai mentre percorrevo la 5th avenue era quella che avrei voluto evitare di accettare, ma che alla fine continuava a bussare alla porta del mio cervello presentandosi come la verità che non avrei potuto ignorare. C’era un fatto tangibile e reale (per quanto accaduto in una linea temporale diversa, cancellata, non saprei) ma che comunque era esistito: Stiles era stato ferito mortalmente. E per quanto una parte di me continuasse a ribadire il fatto che, materialmente, era stato il Ghul a trafiggergli il fianco, una parte molto più rumorosa continuava a ribattere che era successo perché io avevo lasciato che si trovasse coinvolto in quella situazione. L’altra parte allora diceva che Stiles sapeva a cosa andava incontro, che era consenziente e che aveva insistito per partecipare allo scontro, alla ricerca, a tutto. La parte rumorosa chiuse la discussione chiarendo che non sarebbe successo nulla se non ci fossimo incontrati. Difatti, lo Stiles di adesso camminava felice e sereno, senza pericoli e mostri che tentassero di ucciderlo. Ecco qual era la verità: che il mio mondo era una minaccia per la sua vita. Che se non fosse stato il Ghul sarebbe stato il demone successivo o quello ancora dopo, ma sarebbe rimasto ferito. Ero io il pericolo. Come uno stupido avevo lasciato che lui fosse coinvolto in una situazione buia e infida che conduceva inevitabilmente alla morte. Non ragionavo più, avevo solo pensieri che non mi appartenevano e cercai di smettere di pensare, a tratti con successo a tratti sprofondavo, e temevo che Stiles sarebbe stato per sempre il mio Si bemolle, il pezzo mancante che avrebbe reso la mia vita incompleta, perso nel tempo insieme a tutti i ricordi che avevo di lui. 

 

XIV


Tre giorni dopo mi svegliò il rumore del citofono. Mi trascinai stanco vicino la porta. 

«Chi è?» 

«Sono Cam, apri.» Feci scattare il portone e lascia la porta d’ingresso socchiusa così da tornare con la faccia sui cuscini del divano. 

«Hale, questo posto fa schifo» fu la prima cosa che disse quando entrò in casa chiudendosi la porta alle spalle. 

«Mmmmh» farfugliai senza muovermi. La sentii appoggiare la borsa e il cappotto sul tavolo e tirare su le tende facendo entrare fasci di luce bianca. 

«Dio mio, da quanto tempo non esci?» Non risposi. Lei aprì due balconi per cambiare l’aria. Riempì una brocca d’acqua e la distribuì tra le piante che ne avevano visibilmente bisogno. La sentivo muoversi da una parte all’altra dell’appartamento. 

«Cam, fermati» la pregai. Lei venne a sedersi di fianco a me. 

«Senti, non puoi continuare così» disse. 

«L’ho incontrato» confessai. Lei non parve particolarmente stupita. 

«Anche io l’ho visto.» 

«Che cosa?!» 

«Che ti aspettavi, scusa? Faccio la detective di professione. Volevo vederlo. Come ti è sembrato?» 

«Vivo» dissi ironicamente ma senza sorridere. «E felice.» Lei si incupì. 

«Potresti provare a parlargli» consigliò. Non me la sentii di tornare sull’argomento Sono la causa della sua quasi morte e rappresenterei un pericolo per la sua vita. 

«Non so se è una buona idea.» 

«Ho scoperto che ogni venerdì sera suona da Brandy, il bar sulla 84esima ad Est. Potresti andarci stasera.» Quella era la prima vera novità nella nuova vita di Stiles. 

«Va bene» dissi ma non avevo nessuna intenzione di andarci, stavo già abbastanza male così. 

«Adesso devo andare, promettimi che metterai un po’ apposto.» 

«Promesso» e riprese in mano borsa e cappotto e andando via lasciò una scia di profumo. 

 

Impiegai un paio di ore per convincermi ad alzarmi e solo quando ci riuscii mi resi conto delle condizioni pietose del mio appartamento. Raccolsi prima tutta la spazzatura (cartoni di pizza e scatoli di take-away principalmente) poi lavai i piatti sporchi e le tazze che usavo per la colazione (non ne avevo più di pulite) che strabordavano dal lavandino. Infine raccolsi i panni sporchi sparsi in giro e li misi nella cesta per il bucato. Feci una doccia infinita e scesi nella lavanderia nel seminterrato con i gettoni in tasca. Non facevo una lavatrice da settimane. Riempii il cestello capo dopo capo fino a quando non mi passò per le mani quello che mi fece sussultare per un secondo: il pantalone che indossavo la notte dello scontro con il Ghul. 

Ma era impossibile, mi dicevo, una fantasia mi saltellava come un grillo nella mente. 

Con un gesto lentissimo portai la mano nella tasca destra anteriore del pantalone nero, macchiato di sangue in alcuni punti e sporco di terriccio in altri. Sentii il formicolio della carta sotto i polpastrelli. Tirai fuori il pezzo di carta come se stessi disinnescando una bomba, e lei, la bomba, era proprio lì nelle mie mani: il tre fogli pentagrammati dal titolo What was left behind. Mi sforzai di fare respiri profondi. Come diavolo era possibile? Se in quella linea temporale non ci eravamo mai conosciuti perché lo spartito era lì? Sentii la testa girarmi. L’ennesimo scherzo del destino? Adesso una rabbia irruenta stava prendendo il sopravvento. Non bastava quello che avevo subito? Chiamai Walgreen che rispose al terzo squillo. 

«Hale, che piacere sentirti!» 

«Wal devo chiederti una cosa» continuavo a fissare il foglio come se fosse un’allucinazione. «È possibile che una cosa che mi ha dato Stiles quella notte e che io avevo con me quando sono tornato indietro adesso sia ancora qui?» Sperai di essermi spiegato. 

«Non sono sicuro di aver capito bene, ma da quello che ho capito… direi che è impossibile.» «Allora perché sto guardando uno spartito che Stiles mi ha dato quella sera e che avevo in tasca?» 

«Non lo so, non dovrebbe essere possibile… quel foglio non è mai esistito in realtà.» 

Ignorai la fitta che mi provocarono quelle parole, ferme e convinte, che rendevano il periodo più felice della mia vita “una cosa che non era mai esistita in realtà”. 

«Ti dico che ce l’ho qui» insistetti. 

«Hale, non ho risposte a tutto. Sarà un’anomalia, un residuo temporale, non lo so.» 

Restai in silenzio. 

«Perché non ci vediamo stasera?» propose. 

«Lo dico anche a Cam, vediamoci da te alle 20» organizzò prima che potessi dissentire e mise giù il telefono. Misi la moneta nella lavatrice e tornai in casa. Lo spartito, come un cadavere trovato nel bosco nei film polizieschi, era immobile sul tavolo e io camminavo in tondo, avanti e dietro, come se da un momento all’altro potesse cominciare a parlare. Ma (ovviamente) non disse nulla. Avrei voluto essere una di quelle persone che riescono a leggere la musica dal pentagramma ma non ne ero in grado. Non avevo nessuna idea di quello che avesse da dire e non potevo fare a meno di pensare che le note, le chiavi di violino e quelle di basso disegnate all’inizio di ogni rigo e i tratti, segni che non riconoscevo, erano tutto quello che rimaneva dello Stiles che conoscevo. 

Era sua la grafia virgolettata e corsiva che aveva scritto pianissimo in alto in un punto preciso. Decisi di chiudere lo spartito in una scatola e di riporla nell’ultimo cassetto del comò in soggiorno facendo finta che non esistesse. 

 

Alle 20 Walgreen e Cam uscirono da un portale materializzandosi davanti il divano. «Bussare non si usa più?»

«Però bisogna ammettere che è una cosa molto comoda» Cam sorrideva mentre si spolverava (senza motivo) il cappotto bianco. 

«Sei pronto?» chiese Walgreen che per l’occasione aveva indossato la più brillante delle sue camicie di raso e un trucco tutt’altro che modesto, dello stesso rosso scuro delle sue scarpe coccodrillate. 

«Non voglio uscire» dichiarai cambiando posizione sul divano e facendo finta di concentrarmi sul quiz televisivo che guardavo sempre con Stiles. 

«Dai forza, ti distrai un po’» Cam si sedette vicino a me. 

«Non mi va, uscite voi, dico sul serio.» 

 

Mezz’ora dopo uscivamo tutti e tre dal palazzo e io non ero in grado di ricordare come mi avessero convinto per cui arrivai alla conclusione che Walgreen avesse usato la magia su di me. Non mi dispiaceva troppo infondo, perché sapevo di aver bisogno di aria fresca. Li seguii senza far caso alla strada, concentrandomi sui suoni della città, le luci dei locali e dei ristoranti accese, i profumi più diversi mescolati insieme. Era una cosa che non facevo da tempo: utilizzare i sensi da lupo. Era come se si fosse assopito, riposava dentro di me senza ricevere stimoli e piano piano lo stavo risvegliando. 

Camminando un passo dietro di loro notai anche quanto Cam e Walgreen fossero diventati amici, cosa che non ricordavo affatto e che capii solo in quel momento fosse una conseguenza del mio viaggio nel tempo: probabilmente avevano legato durante la ricerca dei pezzi del Dirkey e adesso camminavano sottobraccio come due vecchi amici di lunga data chiacchierando serenamente: un’accoppiata che non avrei saputo descrivere per quanto fossero diversi tra loro ma che evidentemente funzionava. 

 

Ero così distratto dal concentrarmi sui suoni che sentivo che finii per non accorgermi dove fossimo quando entrammo in un locale con le luci soffuse e tinte di blu. Ci sedemmo in uno dei pochi tavoli liberi laterali alla sala, vicini alla vetrata che dava sulla strada. Quando il cameriere venne ad ordinare Walgreen chiese tre vodka martini senza consultarci. 

«Lo sai che non riesco ad ubriacarmi» commentai dopo che il ragazzo in camicia bianca e taccuino elettronico era già andato via. 

«Perché smettere di provarci? Offro io stasera» sorrise. In poco tempo i drink furono serviti al nostro tavolo. Brindammo. Buttai giù in un sorso. La gola mi bruciò per meno di un secondo e poi basta, come se avessi bevuto acqua. Cam bevve il suo a piccoli sorsi. Il nostro cameriere salì su quello che riconobbi solo in quel momento essere un piccolo palco improvvisato e annunciò qualcosa a cui non prestai attenzione. Continuavo a finire con la mente allo spartito chiuso nella scatola, quell’inspiegabile incidente del tempo. 

 

Poi Stiles apparve sul palco. Pensai che Walgreen avesse messo qualcosa nel mio bicchiere, invece lui era proprio lì e girando lo sguardo sopra il bancone degli alcolici notai l’insegna al neon rossa che diceva «Brandy’s». Collegai che quel giorno era venerdì. «Siete… siete due…» la voce mi tremava. 

«Belle persone?» provò a finire Walgreen. 

«Non è quello che stavo per dire.» Stiles sorrideva al pubblico, ringraziò tutti di essere lì e andò a sedersi dietro il pianoforte, sul palco rialzato e illuminato di luce bianca che faceva contrasto con l’atmosfera blu e scura. Lo raggiunsero un chitarrista e una cantante e iniziarono a suonare musica calma e di sottofondo. 

«Tutto bene?» chiese Cam. Non sapevo come rispondere. Avrei voluto alzarmi e andarmene, correre via da quella realtà che non era la mia, eppure qualcosa mi teneva incollato alla sedia, con lo sguardo fisso su di lui, incapace di interrompere quel momento. Mentre lui suonava il tempo sembrava non essere trascorso, o meglio, non essere cambiato. Era lo stesso che suonava per me nel suo appartamento come se fosse la cosa più semplice del mondo. Non riuscii a focalizzarmi su altro, neanche sulla cantante vestita da cerimonia che reggeva con una mano l’asta del microfono fino a quando annunciò una piccolissima pausa e si diresse verso il bancone per bere. Stiles non si mosse dallo sgabello da pianista e iniziò a suonare da solo, forse la prima cosa che gli venne in mente. Paradossalmente il chiacchiericcio di fondo delle persone sparse ai tavoli si placò solo in quel momento e tutti ipnotizzati lo guardavano in silenzio. 

«Hale, dove hai lo spartito?» mi sussurrò Walgreen all’orecchio. 

«Eh?» 

«Dove hai lo spartito che hai trovato nei pantaloni?» 

«A casa, perché?» 

«A casa dove?» 

«In una scatola in uno dei cassetti del comò nel soggiorno» risposi automaticamente, senza neanche connettere il significato della domanda. Vidi un piccolo fascio di luce verde nascere e morire in fretta sotto il nostro tavolo e il secondo dopo Walgreen spostò i bicchieri quasi completamente vuoti per far spazio alla scatola rettangolare che conoscevo bene. 

«Ma che fai?» chiesi quasi innervosito. 

«Un esperimento» rispose tranquillo mentre sollevava il coperchio e prendeva il contenuto. «Wal, sarà meglio che tu non-» non feci in tempo a finire la frase che lui soffiò teatralmente sul foglio e questo iniziò a fluttuare in alto, sulle teste ignare dei clienti, fino a materializzarsi sul leggio del pianoforte di fronte a Stiles. Smise di suonare, non bruscamente, ma accorciò il brano terminando in un punto che sicuramente non era la fine. 

Seguì un applauso (anche Cam e Walgreen applaudirono, io riuscivo a stento ad avere l’autonomia per respirare e battere le ciglia) ma Stiles osservava accigliato lo spartito che gli era comparso davanti, lo prese fra la mani e lo sfogliò per guardarne anche il secondo e il terzo foglio. 

«Se lo ricorda?» chiese Cam leggendomi nel pensiero. Non avevo il coraggio di sperare tanto. Lo ripose di nuovo sul leggio e tirò su le spalle in un movimento rapido come per dire È uno spartito? Lo suono. 

Mi dimenticai come respirare. Il silenzio caldo del bar fu interrotto dolcemente dalle sue dita sapienti, concentrate e misurate nei movimenti. Dalla prima nota capii. Fu come essere tenuti saldamente al terreno dalla gravità dopo aver viaggiato per secoli nello spazio, una consapevolezza che esplose senza avvisare, rivelandosi per quello che era sempre stata: una verità nascosta ma in bella vista. E io, che sciocco, io! Per tutto quel tempo non avevo capito. Avrei potuto? Avrei dovuto. Eppure ad ogni accordo che lui suonava una luce bianca e familiare mi investiva, mi avvolgeva e mi spingeva fuori dal tunnel che avevo percorso decine e decine di volte nel buio dei miei sogni. La riconobbi da subito. La musica dolce che mi aveva tormentato per mesi, molto prima che conoscessi Stiles. Forse anche lei era un incidente temporale, ma mi piaceva pensare che fosse un indizio, lasciato dal tempo, dal destino, dal me stesso del passato, che diceva “sei nel posto giusto” e “stai vivendo la vita giusta”. Ricordi che credevo dimenticati, sbiaditi, cancellati per sempre, temevo, adesso scorrevano davanti a me come un film su una pellicola che corre all’impazzata. Dal primo momento, in cui con il sorriso aveva esclamato «Sei sveglio!» fino all’ultimo, in cui una lacrima gli era scesa in orizzontale dall’occhio sinistro, consapevole che sarebbe morto, e io gli promettevo che non sarebbe finita. Fu come vivere tutto per la seconda volta, come se qualcuno avesse preso la vita al contrario che stavo vivendo e l’avesse girata, poi rimessa al suo posto, si fosse pulito le mani simbolicamente e avesse detto “Così va meglio”.

Intanto la musica di Stiles continuava a galleggiare nell’aria, morbida e poi impetuosa, poi forte e infine calma, come le acque rosa del lago Retba. What was left behind. Stiles aveva costruito la chiave per aprire il lucchetto molto prima che questo fosse inventato. Lasciò le mani immobili, premute sull’ultimo accordo che sfumò lentamente. Poi le alzò dal pianoforte. Mi guardò e allora capii che aveva visto tutto ciò che avevo visto io. Che era lo Stiles che conoscevo. La sala si svuotò, così mi parve, perché l’unica cosa che vedevo era lui, in piedi, con una mano alla bocca e gli occhi pieni di lacrime. Si toccò il fianco nel punto in cui la ferita non era mai esistita. Mi avvicinai al palco con passi lenti, che si portavano dietro il peso e la paura che quello fosse solo un sogno, e che pregavano se così fosse di farlo durare quanto più possibile. Arrivato ai piedi del palco guardai Stiles dal basso, poco più alto di me, e lui si lasciò andare nelle mie braccia. Lo sentii tremare sotto la mia stretta, con il mento poggiato sul mio collo. Aveva lo stesso profumo. Ascoltai il ritmo accelerato del suo cuore. Sollevandolo gli feci fare mezzo giro e lo portai a terra senza allontanarlo da me neanche per un attimo. Mi sussurrò nell’orecchio: «Mi ricordo tutto» con la voce rotta.

Lo presi per mano e lo condussi fuori dal locale, nel retro poco illuminato dal lampione in fondo alla strada e quasi deserto, perché avevo bisogno che quel momento fosse solo nostro e non volevo condividerlo con una massa di sconosciuti curiosi. Gli presi il volto tra le mani e lo esaminai a fondo, ogni particolare, ogni piccolo neo, ogni ciglia folta e curvata. Poi finalmente poggiai le mie labbra sulle sue, in un bacio che sapeva di fresco e di cose perdute e poi ritrovate. Lo tenni stretto a me tutto il tempo necessario per convincermi che stesse accadendo davvero. 

«Sto sognando?» chiesi a pochi millimetri dalla sua bocca. 

Sorrise appena: «No… non credo.» 

«Non credi?!» mi allontanai con una faccia sconvolta per scherzo. 

«Mi sei mancato» sussurrai con la fronte poggiata sulla sua. 

«Anche tu» poi ci pensò e aggiunse «per una vita intera.» Gli passai una mano nei capelli morbidi e sottili. Sembrò avere come una rivelazione e spalancò gli occhi: «Ma il Ghul?! L’avete sconfitto?! E Cam?! Sta bene?» Prima che potessi rispondere la voce di Walgreen arrivò da pochi metri: «Avevi dei dubbi?» disse con lo sguardo felino e gli occhi gialli che risaltavano nell’ombra. «Walgreen! Cam!» gli corse incontro e si gettò tra le loro braccia disorientate. 

«Dovremmo dirglielo?» disse Cam guardandomi. Annuii. 

«Che cosa?» chiese Stiles. 

«Ragazzo, noi non ci ricordiamo di te» Walgreen sapeva essere coinciso quando serviva. «Oh, giusto. Comunque, potete spiegarmi cos’è successo?» 

Ci guardammo con sguardi complici e sorrisi luminosi, sinceri, di chi aveva vinto, questa volta sul serio. Gli avvolsi il braccio attorno al collo e tutti e quattro iniziammo a camminare senza meta, tra una risata e l’altra, raccontando la storia che ci eravamo lasciati alle spalle e che, in un modo o nell’altro, aveva cambiato le nostre vite per sempre.

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Capitolo 4
*** Epilogo ***


Walgreen fece rapporto al suo Supremo sull’intera faccenda del Ghul e del viaggio nel tempo non autorizzato, prima ancora che le autorità soprannaturali lo cercassero, rischiando di essere punito duramente per aver infranto la promessa fatta. La sua sincerità fu apprezzata dal Supremo che indagando sulla faccenda arrivò alla conclusione che quello fosse uno dei Ghul più potenti mai esistiti. Si complimentò per il lavoro svolto e decise di ritrasformare Murph da iguana a bambino. Adesso lui è di nuovo l’assistente di Walgreen e vivono insieme in Leadwell Street. 

La clinica veterinaria si rivelò essere una copertura per lo spaccio di droga e armi. Cam seguì una pista fortunata e guidò l’assalto che beccò tutti con le mani in pasta. Questo le valse la promozione a Capitano del dipartimento di polizia di New York. Fu la prima donna di sempre ad ottenere l’incarico.

Rasmus Fletcher iniziò un percorso di terapia al Bellevue Hospital Center. I medici non gli diagnosticarono nessuna sindrome: suo padre lo aveva guarito.  

Mrs. Crowford non rimase sola a lungo: sua nipote Mary si trasferì da lei quando cominciò a frequentare il college (mise 3 chili nel primo mese di convivenza con sua nonna prima di minacciarla di trasferirsi altrove se non avesse ridotto le porzioni).

Stiles si laureò in estate. Quando suo padre finalmente andò a trovarlo a New York conobbe Derek, i due si piacquero fin da subito. Al collo portava la collana con il triskele che sua madre gli aveva dato prima di morire. Non ricordava dove si trovasse la notte tra il 21 e il 22 Maggio, quando avrebbe dovuto essere al St. Mary's Park.

Derek riuscì a trasformarsi di nuovo in lupo: scoprirono che la sua incapacità di farlo derivasse dalla “frammentazione” che la sua anima aveva vissuto a causa del viaggio nel tempo. 

Stiles e Derek viaggiarono molto insieme e i primi luoghi che visitarono furono quelli in cui si trovavano i pezzi del pugnale nel 1996. 

 
Il viaggio nel tempo, infido e rischioso, era proprio questo: superiore e sfuggente al controllo delle creature mortali. Non scoprirono mai il motivo per cui Stiles non fosse entrato nella vita di Derek come aveva fatto la prima volta. La sola cosa di cui erano certi era che l’unico oggetto tangibile dell’amore che provava nei suoi confronti, lo spartito che aveva composto, avesse resistito alle insidie del tempo, così potente e intenso da risvegliare il ricordo assopito di una vita che non aveva mai vissuto.  
E il destino sorrise, furbo, al lupo e l’umano che avevano superato gli ostacoli del tempo.

Fine





Ringraziamenti:

 

Questa storia è nata in una notte insonne e ha impiegato esattamente un anno per venire alla luce. Ogni strada, insegna, ristorante, locale, monumento e grattacielo esiste davvero. Ogni indirizzo, ogni distanza, ogni tragitto, ogni percorso della metro e ogni tempistica è reale. Ringrazio Google Maps per avermi permesso di esplorare New York dalla mia scrivania. Ringrazio Donna Tartt per avermi insegnato a mettere il cuore in quello che scrivo. Grazie ad Arianna per l’entusiasmo che non ha mai risparmiato. Grazie a Chiara per il supporto emotivo. Grazie a Matej per avermi fatto capire che un cattivo è soltanto un buono a cui sono capitate cose brutte. Grazie a Camilla per aver ispirato il primo vero personaggio di mia invenzione anche se non glielo lo dirò mai e non leggerà mai questa storia. Grazie ad Annalisa per i chiarimenti tecnici. Grazie a Flavia B., Federico e Domenico per il supporto nerd sui viaggi nel tempo. Grazie a Flavia A. per il sostegno. Grazie a chiunque è arrivato fino in fondo e anche a chi lo ha fatto saltando qualche parte. Grazie a chiunque io abbia raccontato di questa storia o del fatto che scrivessi e mi ha spinto ad andare avanti. Grazie mamma e scusa se questa storia non parla di te come credevi. 

 

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