Addio, Stansbury

di JoSeBach
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cremisi ***
Capitolo 2: *** Metallo splendente ***
Capitolo 3: *** Bianco candido ***
Capitolo 4: *** Buio pesto ***
Capitolo 5: *** Senza titolo ***
Capitolo 6: *** Oro angelico ***
Capitolo 7: *** Trasparente ***
Capitolo 8: *** Seppia ***
Capitolo 9: *** Caeruleus ***
Capitolo 10: *** Lividus ***
Capitolo 11: *** Oltremare ***
Capitolo 12: *** Rosso mogano ***
Capitolo 13: *** Non so come chiamarti ***
Capitolo 14: *** Pece e carbone ***



Capitolo 1
*** Cremisi ***


Hershel Layton POV

Anche oggi Angela non è venuta a scuola. E siamo a due settimane di assenza. Due settimane dalla... scomparsa di Randall. Due settimane da quando le nostre mani si sono perse per il sudore e per la paura. L'ultima volta che ho visto Angela è stato quando sono tornato da Akubadain. Poi, nulla: mi disse ciò che doveva dire e se ne andò a casa sua. Erik mi ha guardato con fare caritatevole, ma non mi ha rivolto la parola. Il signor Ascot... mi ha dato una sberla. Avrebbe fatto molto di più se non fosse stato per mamma. Un altro schiaffo lo meritavo. E anche altro...

Dopo qualche giorno da... dall'incidente (almeno così lo definiscono mamma e papà) sono tornato a scuola. Mi fa troppo male stare qui: i miei compagni parlano male di me alle mie spalle, ma non osano fiatare appena entro nei loro paraggi. Se chiedo qualcosa agli insegnanti, mi rispondono controvoglia, con frasi brevi, con un volto dove traspare la loro rabbia e frustrazione per la mia presenza, come se fossi una punizione. Posso persino andare in bagno senza chiedere, non battono ciglio! Vado spesso lì più che altro per nascondermi: stare in mezzo a tutta quella gente mi fa venire la nausea. Però il silenzio non mi dà conforto, anzi: non è in grado di placare i miei... rimorsi. La caduta di Randall, la disperazione di Angela, la furia del signor Ascot... è successo tutto così in fretta.

Se solo fossi riuscito a farlo ragionare. Se solo non fossi venuto con lui, non avrebbe avuto accesso alle rovine. Mi avrebbe dato del guastafeste, sì ma almeno Stansbury non mi avrebbe chiamato assassino... Se solo non fossi mai venuto qui a Stansbury, non ci sarebbe tutto questo dolore. Angela sta soffrendo più di tutti noi: i suoi genitori la spronano a maritarsi, ma la perdita dell'amore è troppo per lei. Si fidava di me. Le avevo promesso che l'avrei protetto a ogni costo. Anche Erik sta penando amaramente: ha perso colui che considerava un fratello. Per colpa mia. I miei- I Layton soffrono per il mio silenzio. Se solo fossi stato più forte da salvarlo, se solo non avessi attivato la trappola. Se solo... fossi stato io al posto suo.

Angela ha ragione a odiarmi: non ho versato alcuna lacrima. E ora...? Sono a scuola, di fronte allo specchio e non vedo altro che una figura pallida, che si mimetizza con le pareti, che piange fiumi di lacrime.
Ridicolo.

Guardo le gocce cadere nel lavandino.
Si confondono. Voglio anch'io essere trasparente come l'acqua.
Come vorrei morire.

Non merito l'aria che respiro: appartiene a Randall e agli altri.


Premo il rasoio nella mano. Le dita sanguinano, ma le lacrime non sono dedicate al dolore; il tremore, il sudore e la nausea indicano la vera causa: ho paura.

Stupido, non sei altro che un vigliacco. Osi versare lacrime per questo?! Mi punisco con uno schiaffo.
Ora una macchia rossa è rimasta sulla guancia, ancora più evidente per il pallore.

Poi sollevo la mano destra ed estendo l'altro braccio. Inizio a tracciare alcune righe, poi altre e altre ancora, più profonde e precise, più dolorose, come per scrivere un testamento. La perdita di sangue va crescendo, sporcando di sangue il bagno candido.
Era così chiaro prima. Mi chiedo quanto tempo ci abbiano dedicato i bidelli per pulirlo alla perfezione e quanto a-

Non distrarti.

Ora mi dedico all'altro braccio. Mi è un po' difficile marchiarlo, il braccio non vuole stare fermo, e con lui la mia mente. Riesco a tracciare pochi tagli su quel braccio, voglio precipitarmi immediatamente alla gola. Sono stanco, ansimo, ma questo non mi ferma dall'atto finale. Elevo il braccio a livello della gola. Sì, devo. Ma esito.

Che aspetti? Muoviti! Avvicino la lama lentamente. Fa' un favore al mondo e AMMAZZATI!

Aggredisco la gola subito, d'istinto. Tutto si fa più lento, leggero e pesante allo stesso tempo. Mi manca il respiro ma non ci faccio caso: non mi appartiene. Mi lascio vincere, vittima delle forze esterne. Non oppongo resistenza. Il mondo si capovolge e infine un tonfo. Un colpo alla testa che scombussola tutti i nervi. Ho appena raggiunto il fondo. Non ho più lacrime da versare, non me lo posso permettere.

Certamente qualcuno avrà sentito la caduta, altrimenti non si spiegano i passi che martellano le tempie. Chiunque sia si ritroverà con uno spettacolo patetico: l'assassino ha avuto paura delle conseguenze e ha deciso di farla finita. Codardo.

L'ombra alla soglia della porta si accorcia, presentando il soggetto proiettato: Alphonse Dalston.
Non sembra contento, anzi, puntando le pupille verso il sangue si dilatano dall'orrore. Corre verso di me, non ferma alcune lacrime che evadono dagli angoli degli occhi. Mi tasta il polso rovinato e sente il battito.

«Hershel... cosa hai fatto...»
Cosa piangi?
«Hershel, mi senti?»

Non voglio rispondere, ma anche se volessi, il mio corpo è freddo, ogni movimento impossibile. Ma stanno arrivando altri passi e altre figure: ci sono alcuni studenti... o insegnanti, non distinguo quelle macchie confuse alla soglia dell'uscio.

Alphonse si alza e si volta verso di loro. «Chiamate un'ambulanza.» dice severamente.

Sento vari bisbiglii indecifrabili provenire da l?

«Allora?!» Prende un asciugamano e preme il mio collo. La superficie ruvida gratta, la ferita mi fa più male.

Le figure si dileguano. Le palpebre si fanno più pesanti, la luce troppo accecante.
«Shh... andrà tutto bene. Si sistemerà tutto.» mi rassicura con le stesse parole che mamma mi ha detto due settimane fa, ma è inutile: il respiro è limitato e instabile, le palpebre tendono verso l'inferno. Non faccio in tempo a sentire le sirene che perdo i sensi.

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[Grazie a chiunque abbia letto questa introduzione. Nonostante abbia letto molte fanfiction, non sono molto pratica nello scrivere testi, però sentivo il dovere di pubblicare questa... roba? A ogni modo, per favore, recensitemelo, commentatelo: ogni correzione e giudizio saranno accolte. Grazie e a presto!]
Aggiornato

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Capitolo 2
*** Metallo splendente ***


Alphonse Dalston POV

Hershel è scappato dall'aula non appena è suonata la campanella della prima ora. È vero, sta sempre di più saltando le lezioni, non allarmando nessuno degli insegnanti o compagni: è sua abitudine dirigersi al bagno a fissare le diverse ante che occasionalmente oscillano per il vento o per la gente. Ma saltare anche la prima ora... forse è perché adesso, oltre a essere considerato un assassino, alcuni professori e studenti lo chiamano psicopatico o maniaco. Grazie tante, lo state proprio aiutando... Se Randall è morto non è certo per colpa sua. Randall è sempre stato uno sbruffone che ha sfidato le leggi della fisica e del buon senso. Il Bratscot non era dato a caso e le severe punizioni del signor Ascot erano in parte giustificate per la spavalderia di quell'idiota. Ma ora che è venuto a mancare... tutti a fare i comprensivi e i compassionevoli. «Povero Randall...» «Non meritava una fine del genere». Persino Erik continua a ripetere queste frasi come un disco rotto, non che lui abbia mai avuto un'idea diversa a riguardo. Ma cosa c'è da rintristirsi per un ragazzino opportunista ed egoista come lui, da far persino piangere Angela per i suoi desideri folli? Morire in delle rovine come il fratello della sua ragazza... bravo, complimenti!
Ma comunque lei come si è permessa di incolpare Hershel? Poteva proprio risparmiarselo. Però, a causa della sua influenza, la gente le ha dato corda, arrivando anche a dire che è un assassino, che se lo ha ucciso di proposito è per conquistarsi la mano di Angela, o per i soldi, o per altri motivi assurdi e senza fondamento.

Ciò non toglie che dopo tre settimane di torture l'esasperazione porta la vera vittima ad andarsene dall'aula già alla prima ora. Ho chiesto al prof Smith se potevo andare a vedere come stava Hershel, ma mi ha completamente ignorato. L'ho chiesto anche alla prof Brown ma in tutta risposta mi ha lanciato uno sguardo fulmineo e minaccioso, persino quando ha augurato a tutti buona giornata. Augurato a tutti, forse anche a Randall, ma non a Hershel. Pare che l'intera città sia quasi alla ricerca del suo sangue-

«Signor Dalston―si rivolge a me il prof Collins―può rispondere alla mia domanda?»
I miei compagni (fatico a chiamarli così) ridono sotto i baffi, vedendomi preso alla sprovvista: sono sicuri che farò una figuraccia.

«Scusi, professore, può-»
Un pesante tonfo. Caduta libera. Non è troppo lontano. Proviene dal bagno.
Non mi faccio attendere e mi rizzo in piedi, pronto a correre quei corridori che mi avrebbero portato al bagno. I richiami del prof non mi fermano.

Rischiando di scivolare, raggiungo il bagno. Posso intravedere delle dita coperte di... sangue?! Inizialmente, mentre avanzo verso il centro della stanza, osservo i particolari più marginali: forse la mia coscienza mi dice di analizzare una cosa per volta. O forse è per non guardare l'inevitabile.
Ma insieme ad alcune lacrime, lo sguardo cade sul ragazzo coperto di sangue, le maniche arrottolate all'altezza della spalla, gli avambracci completamente tagliati e la gola rovinata. Tasto il polso lacerato, c'è battito.

«Hershel... cos'hai fatto?» Mi inginocchio immediamente dopo aver preso un panno e lo premo sulla ferita più profonda. Sento dei passi avvicinarsi alla scena del delitto: alcuni studenti e il prof Collins. A giudicare dalla sua espressione, mista tra rabbia ma anche preoccupazione e compassione, pare lui sia l'unico ad aver compreso la gravità della situazione. Nonostante ciò, è immobile. Come gli altri del resto: alla mia richiesta di chiamare l'ambulanza non ho visto alcun muscolo muoversi.

«Allora?!» insisto. Ora corrono verso la segreteria. Alcuni sono rimasti alla soglia a osservare. Tra questi c'è Josh, che sospetta Hershel come un assassino e responsabile anche della scomparsa del suo gatto, Robin. Ha una faccia da pesce lesso, più del solito: le palpebre non sembrano muoversi, lasciando che l'occhio esplori per il meglio lo scenario. La bocca è cascante, il mento insieme a lei, scoprendo la lingua supina e impedendo ogni suono. Che idiota. Ma il mio sguardo si focalizza su Hershel. L'esasperazione l'ha portato a tanto?
«Andrà tutto bene...» lo rassicuro anche se, non riuscendo a garantirlo a me stesso, come posso farlo credere agli altri? Il suo volto è sporco solo di sangue. Gli occhi sono vuoti, quasi senz'anima. Le palpebre cadono coprendo l'assenza di vita, un primo velo sul cadavere. Prima di potermi disperare, mi accorgo che il battito è ancora lì. Il respiro è debole, ma c'è.

I soccorsi sono arrivati immediatamente, subito dopo la chiamata del pro, hanno preso Hershel e si sono dileguati. Ora mi ritrovo con la camicia e le mani zeppe di sangue. Identifico l’arma del delitto, facilmente individuabile per la sua superficie lucida e tagliente: un rasoio. Non ho il coraggio di toccare quell’arnese, così lo spingo con la punta della scarpa verso l’angolo ancora puro. Mi sento vuoto quanto gli occhi di colui che è più di là che qua. Ma cosa gli impedisce di diventarlo? E se-

Una mano si appoggia sulla mia spalla, fermando i miei pensieri. Volgo la testa verso l'individuo: il prof Collins. È ovviamente sconvolto: non ha mai avuto niente contro Hershel, forse un po' di delusione, ma niente di più. Certo però che non ha mai provato a confortarlo. Almeno io ho tentato, anche non mi rispondeva mai. Si allontanava e basta.

«Dalston, ti chiedo un favore. Dimmi che lo farai.»

«Ma cosa dovrei-»

«Prima dimmi che lo farai.»

Rispondo titubante. «Spari.»

«Io non posso lasciare le mura scolastiche: ho degli studenti da visionare.» Si sente il boato dei ragazzi che chiedono spiegazioni. «Ma so di potermi fidare di te...―continua―Quindi vai dai Layton e informali dell'accaduto."

Lo guardo negli occhi. Si può vedere la sua incredulità riguardo agli eventi di pochi minuti fa. Voglio dire, sembrava quasi ovvio che sarebbe potuto succedere tutto questo dopo il discorsetto di Angela e il comportamento degli altri, eppure ho sempre cercato di negarmelo, inutilmente. Cosa starà pensando il professore? E i Layton come reagiranno? Ma non posso tirarmi indietro ora. Devono saperlo. «Vado subito.»

Con un cenno del capo, il professore mi dà un silenzioso bocca al lupo. Io faccio altrettanto con la mano e mi precipito per i corridori verso l'uscita.
Corro fuori dal cancello della scuola. Qualcuno mi sta gridando dietro, forse uno studente o un altro insegnante ignaro dell'accaduto, ma non m’interessa. Busso freneticamente alla loro porta. Non so cosa dire esattamente e come. Prima che mi possa preparare psicologicamente, mi apre la signora Layton. Sono molto evidenti le occhiaie: le rughe le rendono più difficile nascondere gli effetti collaterali delle sue preoccupazioni.

«Alphonse? Non dovresti- Mio Dio, cosa ti è successo!?» I suoi occhi sono spalancati dall'orrore provocato dal liquido cremisi.

«Hershel è all’ospedale.»

Il suo volto si contrae, come se le rughe stessero lottando tra di loro. Ma gli occhi non sanno cosa fare nel panico. È molto preoccupata, ma cerca di contenersi almeno nella voce. «Alphonse. Cos’è successo?»

Esito. «… Non lo so.» Cerco di formulare qualcosa come scusa, ma non mi chiede l'intera storia. Veloce come il vento, chiama a gran voce il marito. Nel fare ciò, prende la giacca e il berretto. Dalle scale vedo raggiungerci il signor Layton. Anche lui non è da meno in preoccupazione.

«Lucille, cos’è successo?»

«Arthur, dobbiamo andare all’ospedale.»

«Perché? Non ti senti bene?―poi, notando la mia presenza all’uscio―E cosa ci fa Dalston qui?»

«Ti spiegherò dopo, tesoro. Ora, andiamo.» Gli lancia le chiavi dell’auto. «Alphonse, verrai con noi.»

Mi limito ad annuire e li seguo verso l'automobile. Salgo nella vettura. Notando lo sguardo terrorizzato di Lucille, chiudo la giacca, per nascondere la macchia cremisi sulla camicia. Sembra averla tranquilizzata un po', ma credo sia solo una mia impressione.

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Aggiornato. Non ritengo Mascotte sia un'offesa degna di Randall e Alphonse, quindi ho utilizzato la forma inglese Bratcot.

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Capitolo 3
*** Bianco candido ***


Alphonse Dalston POV

Per dieci minuti il silenzio ha fatto da padrone alla situazione: la signora Layton, preoccupata, due minuti fa ha deciso di riposarsi, finendo per dormire. Il signor Layton è alla guida, attento alla strada. Faccio ancora fatica a credere che questi arzilli vecchietti siano così svegli... Manca ancora mezz'ora per arrivare all'ospedale. Prima che potessi proferir parola, Arthur mi precede.

«Allora, cos'è successo?»

Esito: non sono sicuro del modo più adatto per rispondere. Ogni parola deve essere misurata con cura, specialmente in situazioni così delicate.

«Non lo so esattamente, ma mi sono fatto un'idea a riguardo.»

«Allora posso farti qualche domanda?»

«Certo.» Ho paura di cosa potrebbe chiedermi.

«Di chi è quel sangue?»

«... Hershel.»

«Hershel?!―sopraggiunge subito―Cosa diamine-»

«La prego, signor Layton. Ora le spiego tutto... almeno quello che posso immaginare.»

Posso notare l'ansia del padre che tamburellava le dita sul volante. Piuttosto che alleviare la tensione, la amplifica.

«Ecco...―esito―Ha tentato di suicidarsi.»

L'uomo era stranamente silenzioso, elaborando quelle dure parole. Quei suoni si sono materializzati in gemme di piombo nello stomaco del vecchio, facendogli spalancare gli occhi, ora vulnerabili dal sole. La barba non li protegge, in trappola. Deve averlo realizzato.

«Dimmi―a me―cosa ha fatto... esattamente?» Ha paura di chiederlo, ma non posso mentirgli.

«Si è tagliato la gola con un rasoio.» Cerco di rispondere senza ascoltare le mie stesse parole, altrimenti mi è impossibile parlare.
Vedo gli occhi dell'uomo lucidi, umidi, quasi fossero pieni di...

«Oggi mi ero anche chiesto dove fosse il rasoio. L'ho cercato ovunque, eppure...―un singhiozzo―Perché spingersi a tanto?»

«Be', Angela di certo non ha migliorato la situazione.»

Arthur si volta di scatto. Sarà stato il nome della fanciulla ad attirare la sua attenzione.

«Angela? Che cosa ha fatto?» il suo tono è rigido.

«Quando Hershel è tornato dalle rovine...» Voglio che il silenzio risponda per me, ma gli occhi di Arthur me lo vietano. Proseguo. «Gli ha detto cose poco... rincuoranti.»

L'auto frena di colpo. Se non fosse per la cintura, il mio volto sarebbe appoggiato al parabrezza. Fortunatamente la signora Layton sta russando, ignara del tema in discussione. Nel silenzio Arthur mi indirizza uno sguardo supplichevole, come se sperasse nelle contraddizioni. Rompe il silenzio.

«Cioè?»

«Che... è colpa sua se Randall è... scomparso e... che doveva morire lui al posto suo.»

L'abitacolo non fa circolare l'aria, soffocandoci in un silenzio solenne, quasi di condoglio. Ma Lucille ci risveglia dalle paranoie con i suoi rumorosi ronfi. Il signor Layton è sconvolto: sicuramente non si aspettava, ma soprattutto, non voleva quella risposta. Ma posso dedurre che se l'era immaginata.

«Arriviamo all'ospedale e lasceremo lì Lucille quando avranno finito l'intervento a Hershel. Poi... noi due torneremo a Stansbury. Voglio far capire a quella mocciosa che le parole feriscono più della... spada.» L'ultima parola viene soltanto balbettata: sembra che Arthur non sia molto convinto della sua idea. Non è un uomo vendicativo, ma è comprensibile qualche eccezione. Non sarà una scelta clemente, ma credo sia necessario darle una lezione.

In dieci minuti raggiungiamo la destinazione. Il cigolio del freno ha svegliato Lucille dal mondo immaginario dove il piccolo Hershel è tra le sue braccia (l'ho sentita parlare nel sonno). Povera...

«Dobbiamo andare!» esclama uno dei due coniugi. Scendo immediatamente e ci precipitiamo all'entrata, dove veniamo accolti da una segretaria. La donna è vestita con una camicia bianca, riferimento alla sterilità e all'odore dei disinfettanti. Lineamenti molto semplici, quasi anonimi.

«Buongiorno signori. Come posso esservi utile?»

Arthur guarda la sua consorte che ha le lacrime che la soffocano. La avvolge col suo braccio destro, stringendo con la sua mano quella di lei.

«Stiamo cercando un paziente entrato qui qualche ora fa. Si chiama Hershel Layton.»

La donna rovista tra le tante cartelle, trovando quella con la L. Da questa estrae un modulo compilato, ma non completamente. Arthur cerca di alleviare la sofferenza della moglie rassicurandole che loro figlio sta bene. La donna, senza riguardo, comunica la notizia.

«Il paziente è ancora sotto i ferri. In una decina di minuti avranno finito l'operazione. La sua stanza è la 289.»

Ci accomodiamo alle scomode panche blu, ma non facciamo caso al dolore alla schiena procurato dalle postazioni poco ergonomiche. Gli occhi di Lucille non sono ancora asciutti, Arthur è impegnato a coccolarla, mentre la mia bocca non ha saliva, impedendomi di distrarre i due signori con altri discorsi. Il silenzio ci ha soffocati per quelli che sembravano anni.
Noto una signora, sulla trentina e anche meno, che, a giudicare dalla veste candida, dal cappello e dalla targhetta appuntata si direbbe una infermiera, inizia a parlare con la segretaria. Questa, dopo aver compreso la domanda della prima, punta un indice verso di noi. Quindi l'infermiera si fa avanti. I Layton si accorgono della sua presenza quando ormai era a pochi passi da noi.

«Siete voi i Layton?»

Si limitano ad annuire. Poi l'infermiera mi indirizza uno sguardo perplesso.

«E tu saresti?»

«Un amico di Hershel.» rispondo prontamente. Forse i Layton non ce l'hanno, ma un po' di speranza mi è rimasta.

«D'accordo, puoi venire. Vi porto alla sua stanza.»

I coniugi non proferiscono parola. Arthur si limita a seguirla. La giovane aiuta Lucille ad alzarsi e la accompagna per le numerose rampe di scale. Non sembra più la Lucille Layton di un tempo che, nonostante la veneranda età, si era fatta sempre valere.
Mentre saliamo i gradini, l'infermiera ci informa delle condizioni di Hershel.

«Ha perso molto sangue, ma fortunatamente è stato preso in tempo. Ha rischiato molto, quel ragazzo...» il silenzio parla da sé.

Raggiungiamo l'uscio coi numeri cubitali. 289. Lascio aprire la porta dai Layton che, un po' titubanti, girano la maniglia.
La stanza 289 non è molto diversa da quelle precedenti, come la 285, la 245, la 167 e tante altre: stesso colore bianco sterile, stesso odore di alcool. Hershel è disteso immobile sulla barella e avvolto dalle stesse e identiche delicate coperte bianche. Insieme a queste, delle garze bianche stringevano le zone dove è ancora visibile l'emorragia. Il suo volto non traspare alcuna emozione, forse a causa della maschera respiratoria, forse è una mia impressione, come quella che mi ricorda il volto di un morto. Ma il ritmo prodotto dalla macchina vicina è le sue curve normali sullo schermo sfatano questa possibilità.

Lucille corre immediatamente verso il figlio, stringendogli la mano cicatrizzata per fargli sentire la sua presenza. O il contrario? Stringe, accarezza, bacia la mano, sperando quasi di far sparire il segno che fino a quella mattina non c'era.

«Tesoro―gli parla, come se le parole possano raggiungerlo―sono qui. Non ti succederà più niente di male. Andrà tutto bene.»

Notando la stanchezza di lei, Arthur le avvicina la poltrona che si trovava all'angolo. Lei si siede, tenendo stretta la presa con la mano di Hershel. Non osa.

«È in pericolo di vita?» Chiede Lucille, rivolgendosi all'infermiera che è in procinto di andarsene.

«Non più. Come vi ho già detto è stato soccorso in tempo. Ora bisogna aspettare che si riprenda.―anticipando l'altra domanda che tormenta Lucille―Domani si dovrebbe risvegliare, al massimo dopodomani, ma niente impedisce possa essere oggi. Però... tenetelo d'occhio: non so quanto sia stabile mentalmente.»

Lucille non le chiede altro. Spera solo questo incubo finisca (lo leggo dai suoi occhi). Arthur le dice all'orecchio che torniamo a Stansbury.

«Non preoccuparti, tesoro. Torneremo subito.»

«Cosa dovete fare?» gli chiede titubante. Non sembra volerlo sapere ma non può far altro che chiedergli: non vuole essere più messa all'oscuro di niente.

«Spiego agli altri cos'è successo. Sta' tranquilla, tesoro. Se vuoi posso rimanere-»

«No no. Non preoccupatevi per me.―le labbra formano un sorriso rassicurante―Andate pure.» Noi le ricambiamo la sua serenità: Hershel è fuori pericolo, almeno.

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Aggiornato

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Capitolo 4
*** Buio pesto ***


Hershel Layton POV

Un'alta marea di oscurità e paura ci investe, terrorizzando me e... Randall...

Non posso più vedere questa scena. Mi fa troppo male. Basta. Ma gli eventi proseguono implacabili sul retro delle mie palpebre.

Sono al limite delle forze, oltre che dello strapiombo che divide il regno dei vivi da quello ultraterreno. Randall invece è sospeso in quest'ultimo, ancora aggrappato alle mie dita, inerme, gli occhi per la prima volta dilatati come mai prima d'ora. Quel rimpianto inghiotte il suo stomaco, stringendo a sé il cuore e i polmoni. La bocca cascante cerca di raccogliere i pochi rimasugli di ossigeno presenti nelle rovine, facendo uscire tonnellate di panico che occupano ogni pensiero e preoccupazione. Forse è la prima volta che vedo Randall così vulnerabile.

Le sue dita avvolgono le mie in una morsa mortale, mentre l'altra mano stringe il volto dorato ridente. L'unico sorriso che non ha perso la speranza ma che non ha mai avuto un'anima.

Tiro più che posso per poterlo trarre in salvo, contraendo i muscoli antagonisti del braccio allo stremo delle possibilità, insieme a quelli del torace e aggrappandomi alla roccia calcarea vicina. Nonostante i miei sforzi e le mie richieste e preghiere, Randall pare rimanere passivo alla forza di gravità. Non azzarda neanche un tentativo per la sua salvezza...

Aspetta...

«Randall! Coraggio! Dammi l'altra mano!»

Solleva la maschera e la porta al volto... Però non ricordavo mica questa scena... Indirizza uno sguardo verso di me: gli occhi vuoti mi danno i brividi, il sorriso sbeffeggiante mi provoca e irrita. Non è il momento di scherzare!

«Tu hai attivato la trappola...―la bocca, insieme a tutto il corpo, trema in una risata folle colma di isteria―TU! Buffo, vero?! Tu e le tue precauzioni! Guarda dove mi hanno portato!»

La sua ilarità provoca delle vibrazioni che amplificano la fatica, strattonandomi da tutte le parti. Fatico a tenere la presa. Le unghie di lui infilzano la carne che ci lega, quasi da farmi sanguinare.

La sua voce si fa sempre più cupa e provocatoria. «E ora osi anche darmi ordini, perché vuoi sempre avere ragione. Provi a fare l'eroe. Allora coraggio-»

«Basta! Dammi l'altra mano!» Il panico prende il sopravvento.

Ma proprio quando le parole abbandonano le mie labbra, quegli aghi hanno tracciato diverse righe di sangue bollente. Randall precipita, mi scruta l'anima con occhi vuoti, la imago mortis d'oro indossata dal suo volto, perfettamente. La risata rimbalza sulle pareti anche dopo la scomparsa della figura inghiottita nel buio più pietoso. Il sudore riveste il mio corpo, ma non la bocca. Sento che dovrei urlare, ma non ne esce alcun suono. Ansimo alla ricerca della pace invano, indebolendo il mio metabolismo e la mia mente. Percepisco una presenza alle mie spalle. Silenziosa. Eppure so che eravamo solo noi due nelle rovine. La sagoma nera che si proietta su di me mi è familiare: lineamenti femminili, corporatura esile e giovane, capelli corti che incorniciano il volto con dei boccoli ai lati- Aspetta, Angela!?

Mi volto per poter sfatare le mie teorie. Ma è lei. Il suo sguardo è vuoto, non troppo lontano dalla natura della maschera. Il suo volto è rigido. Sembra quasi che non stia respirando.

Ma sono dannatamente sicuro che lei non-

«Me lo avevi promesso.» Il suo volto è omogeneo, non lasciando trasparire emozioni e pensieri. Ricordo il giuramento stipulato quella sera, e ho fatto di tutto per seguirlo: ho affrontato io gli enigmi più pericolosi, le robomummie-

«Dovevi proteggerlo ad ogni costo.―Solo la sua voce ricorda la sua delusione, tradita dall'amico di cui si fidava―tu potevi salvarlo.» Hershel, è tutto un incubo. Inspira col naso, espira con la bocca, inspira, espira, inspira, espira... PERCHÉ NON SI FERMA?!

Avanza, l'ombra sempre più grande mi invade. «È tutta colpa tua.»

Cerco di persuadermi, di convincermi della natura onirica, inverosimile e folle della scena, ma il dolore e il rimorso mi ricordano che è tutto vero. Sono sensazioni che ho provato e pare che neanche il sonno mi allevierà la colpa. La sua figura copre anche il più piccolo residuo di luce. Con la poca forza che mi rimane, già poca per provvedere ai bisogni vitali, mi è impossibile rispondere alle sue accuse, figuriamoci ad alzarmi e affrontarla. Sono disteso a terra, con la schiena appoggiata alla roccia calcarea. Le mani pulsano dal dolore e bruciano dalle lesioni, le braccia strappate dalla tensione, i polmoni addoloranti per lo sforzo, la bocca serrata per il rimorso. Ha ragione. Fossi stato più forte... Se lo avessi fermato...

Sento le sue delicate mani spingere la mia spalla slogata verso la voragine. La catacomba degli Aslant.

«Tu.» Preme senza ricevere resistenza. L'ansia dilata i miei occhi, l'isteria combatte contro la mia razionalità.

Non è possibile- STO SOGNANDO, NIENTE DI QUESTO È REALE! ANGELA NON ERA CON NOI, NON POTEVA, RANDALL AVEVA CERCATO DI SALVARSI, AVEVA CHIESTO DI DIRE TUTTO ALLA SUA FAMIGLIA, DI MOLLARLO- Eppure sembra tutto così reale, troppo reale. Cosa dovrei fare?

«Tu.―Non mostra pietà. Lo sguardo lo conferma―TU LO HAI UCCISO!»

Al termine dell'ultima sillaba, il mio corpo libra nell'aria, contorcendosi. La figura di Angela è sempre più piccola, smarrendosi nelle tenebre delle rovine. Non ho le forze per contrastare la caduta. Né per la chiusura della trachea che inibiscono la respirazione. Sento ancora le risate del fantasma di Randall che mi tormenterà per l'intera vita. Forse anche nell'aldilà.

L'aria fischia nelle mie orecchie finché un tonfo indica l'arrivo a destinazione. Il mio cranio fracassato, la materia responsabile della mente completamente a brandelli. Il battito cardiaco è rapido o inesistente? Dalle palpebre semichiuse sbircio una figura poco definita, ma quel sorriso malefico mi fa capire immediatamente della sua identità. Si avvicina. Mi osserva con sguardo ebete. La risatina sciocca raggiunge ancora i timpani miracolosamente intatti. Si trasforma in un grido folle al divertimento più oscuro. La figura trema incontrollatamente, fuori di senno. Poi, tranquillizzandosi, alza una gamba, pronto a pestare la mia testa con la suola destra. Non ha pietà. Non merito pietà.

All'impatto, l'oscurità mi proietta in un altro mondo. Le palpebre sono ancora troppo pesanti per poterle sollevare, come il torace e le dita. Rilasso la mente e analizzo l'ambiente con l'udito: sento dei suoni meccanici monotoni. Sono forse sincronizzati col mio cuore? Una mano stringe la mia. Nonostante la presa salda, non mi procura dolore, rimorso o colpa, ma mi conferisce sicurezza.

Sono vivo. Purtroppo.

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Aggiornato

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Capitolo 5
*** Senza titolo ***


Hershel Layton POV

Sollevo le palpebre, ritrovandomi a fissare il soffitto. Il suo pallore è simile al mio, se non identico. La sua rigidità è comune ai miei muscoli che non vogliono rispondere ai miei comandi.

Come i polmoni: vorrei far loro smettere di farmi respirare, ma ecco che il diaframma dondola donandomi respiri profondi.

Come il cuore: vorrei far cessare il battito per poter sentire il silenzio dall'estenuante suono monotono sincronizzato, ma quello rimarrà solo un desiderio. Eppure credevo di aver tolto tutto il sangue necessario per il funzionamento del macchinario.

Anche quella volta ho chiesto, pregato, implorato alla mia mano di tenere la presa, ma ecco che il sudore vieta il compimento dell'ordine.

Una tessera di domino caduta nel verso sbagliato, un castello di triangoli diventato mucchi di carte. La causalità è una macchina perfetta e parassita: senza la sventura degli uomini essa non avrebbe scopo. Il suo unico obiettivo è portarci alla follia con la più semplice ma anche alta logica. E ci sta riuscendo bene.

Una mano stringe la mia fatale con un'improvvisa forza imprevista, procurandomi dolori allucinanti. Un grido fugge dalla muraglia di denti, svegliando la figura oscura da immobile, poi facilmente riconoscibile e familiare.

«Mamma» è tutto ciò che posso dire.

Nei suoi occhi traspare la gioia... fittizia? Non saprei come descriverla. Se il suo intento è fingere serenità, non è efficiente quanto la causalità. Questa svanisce alla vista del mio broncio, proiettando la mia stessa espressione. Fisso i tagli celati da delle bende che hanno una presa solida sulla mia pelle. Nascondere le ferite non serve a nulla. Il suo sguardo segue il mio, riflettendo ironicamente i miei dubbi.

«Che c'è, tesoruccio?―mi chiede con fare provocatorio―ti fa ancora male?»

Non ricevendo risposta, decide di verificarlo lei stessa, tastando con forza inverosimile per una donna della sua età le bende. Queste corrodono la pelle e la carne che torna a prendere vita sputando la linfa cremisi. Il grido al dolore è inevitabile e le dita si contorcono in cerca di una distrazione.

Aumenta l'adrenalina, il battito. Straripa il sangue. Scarseggio d'ossigeno, procurando altra adrenalina e così via, contorcendosi in una spirale mortale, circondando le mie speranze in una morsa eliminatoria.

Ma la ribellione è un istinto innato, invincibile. Un guardiano che ti getta nella mischia verso la libertà. Si nutre esclusivamente della perdita di sangue e si alimenta di scandali, dicerie, paranoia, il peggior flagello della paura. Paura di sé, del prossimo, del mondo, della realtà.

L'impulso prende possesso del mio agire, scorre nel mio sangue, ora nei miei muscoli, nel cuore che, come per masochismo, accellera il motore. Le convulsioni gli incidono sulle articolazioni delle strisce rosse e procura dolori alle ossa a causa delle catene-

Un momento. Ho detto catene?


I polsi sono fusi con i gelidi anelli ancorati alle sbarre laterali del letto, bloccandomi in una posizione pentagonale deformabile ma indistruttibile. Come lo so? Lo so e basta.

La donna dai capelli sbiaditi si volge verso la porta, facendo entrare i visitatori che hanno gentilmente bussato. Con molta cautela (sia maledetta la premura!) gira la maniglia e la porta fa accedere gli ospiti nella stanza con il loro regalo: la consapevolezza. La massa è costellata di mille volti familiari e conosciuti: il signor Ascot, Angela, Erik e il volto dorato senza valore. Lucille non sembra turbata, nonostante la presenza del primo dovrebbe scaturirle rabbia e disgusto, l'uomo che ha osato dare una sberla-

«Quindi siete arrivati, finalmente.» sorride lei maliziosamente, voltandosi verso di me. Gli altri fanno lo stesso.

Mi dimeno, procurando più dolore, comportando più panico e istigando l'istinto di fuga-

Sono ancora bloccato. No, non di nuovo...!

NonoNoNOOoonoNO!


Si avvicinano. Non hanno ostacoli che impediscono l'avanzata, ma il tempo non dà loro fretta. La collisione tra suole e pavimento aumenta di frequenza, insieme al mio battito. Mani sulle orecchie. Chiusi gli occhi. Ma i sensori trapassanole barriere immaginarie.

O è tutto nella mia testa? Forse dovrei dare ascolto ai miei pensier-

Basta. BASTA!


Non posso parlare, le corde vocali troppo tese, respiri troppo stretti. Mi manca l'aria. Lucille alla mia sinistra, il signor Ascot sul lato opposto e l'Uomo con la compagna di fronte a me, le loro dita fuse tra di loro, gli anelli fonte del raggio che mi abbaglia occasionalmente. Finché le lampadine saltano e le tapparelle sono in caduta libera.

L'oscurità ora mi uccide, traditrice. Sento una risatina provenire dalle sagome dorate che circondano un'area mimetizzata con l'ambiente circostante. Lei è di fronte a me, ora sussurra alle mie orecchie.

«Chi la fa, l'aspetti.»

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Aggiornato.

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Capitolo 6
*** Oro angelico ***


Alphonse Dalston POV

Come il viaggio di andata, il rientro a Stansbury è silenzioso, ma non mancano occhi sgranati, madidi di rabbia e vendetta. Se non fossi qui con lui, non avrei immaginato che questa situazione potesse turbarlo così tanto. Voglio dire, lo comprendo perfettamente, non lo posso biasimare; è solo che faccio fatica a vederlo così crucciato. Deve volergli un mondo di bene e amare sua moglie per poter mascherare tutte le sue preoccupazioni, per non contagiarla, già troppo malata per la paura.

L'autista si volge verso di me, indirizzandomi uno sguardo stanco.

«Sai dove vive Angela?»

«Sì. Le do le indicazioni.»

Tracciato chilometro per chilometro il tragitto, raggiungiamo la villetta, come la chiama lei, questo perché la mette in confronto con la magione di Bratscot. E pensano anche di perdere tempo vantandosi delle proprietà dei loro genitori e giocando agli "esploratori". Bene, guardate dove siamo finiti per la vostra infantilità, idioti!

Scendiamo dalla vettura e chiudiamo le portiere contemporaneamente. Altrettanto raggiungiamo l'ingresso, dove un bel campanello con il nome Foster ci invita a suonarlo. Ma preferiamo bussare direttamente. La manona dell'uomo colpisce ripetutamente l'uscio, ma non troppo da dare sospetti, né troppo poco da non essere sentita. Seguono dei passi rumorosi. Tacchi. Deve essere la signora Foster.

La signora ci fa attendere solo un minuto, magari era già in prossimità dell'ingresso. Ad ogni modo apre inavvertitamente la porta: appena scorge gli ospiti, il suo sorriso si demolisce. Ma è troppo tardi per i ripensamenti: il signor Layton piazza il piede sullo spiraglio e poi poggia la mano sulla porta, spalancandola completamente a 120 gradi. La signora indietreggia, sentendosi minacciata.

«Cosa vuole lei?» la sua voce è tesa. Ma saprà cos'ha fatto la figlia?

«Voglio parlare con Angela.»

«Lei non è in casa-»

«Signor Layton,―punto l'indice sulle scale―è da questa parte.»

Arthur mi segue, non dando riguardo alle minacce della padrona di casa.

«SIETE IN PROPRIETÀ PRIVATA! CHIAMO LA POLIZIA!» Ma non si dirige verso il telefono più vicino, no: ci segue, cercando invano di fermare la furia di Arthur. Quindi lei pensa bene di raggiungere in anticipo l'entrata per la camera di Angela, dove si è rinchiusa in queste settimane. Quante volte ho provato a farla uscire senza successo. Speriamo che questa sia la volta buona. L'omone raggiunge la donna e non esita a bussare prepotentemente alla porta chiusa a chiave.

«Esci fuori, Angela!»

La signora cerca di fermarlo appendendosi alle braccia. Ma la forza di questo arzillo vecchietto non è da sottovalutare: infatti, i tentativi della donna sono di nuovo vani.
L'unica risposta che riceviamo dall'altra parte è una serie ininterrotta di lamenti e lacrime. Poi captiamo delle parole. Nonostante la voce roca e secca e lo spessore della porta, riusciamo a decifrare i suoni in senso sintattico.

«L-lasciatemi... in pace-» e pianti.

«Avete sentito?!―obietta l'arpia―lasciate stare mia figlia!»

Il signor Layton si sposta dalla porta con la signora Foster, permettendomi di agire.

Continuo a bussare.

«Cosa ho appen-»

«Non mi interessa! Apri questa maledetta porta, Angela! Non puoi fuggire dalla realtà e dalle tue responsabilità!»

«C-che responsabilità?! Io non ho fatto-o niente.»

«E invece sì. Non mentire a te stessa, Angela. Sai benissimo a cosa mi riferisco!»

Le lacrime si interrompono e un silenzio comprensivo non viene violato neanche dai due adulti che si rivolgono alla porta dopo aver sentito dei passi avvicinarsi. Passi piatti e quasi felpati. Piedi nudi. La porta si spalanca lentamente, ma noi siamo pazienti.

In queste settimane rinchiusa nella più completa clausura, sicuramente non ha pensato a curarsi: visto che gli specchi sono tutti rotti, non saprà neanche il suo aspetto, ma non sembra importarsene. Angela è in uno stato pietoso: i capelli, che riflettevano la luce solare, ora sono spenti, in parte sporchi di qualche goccia di sangue coagulato, il volto non più lucente come prima, con occhi contornati di vene rubino e circondati da anelli color pece. Le mani presentano dei piccoli tagli ma, a giudicare dalla grandezza e dalla quasi totale cicatrizzazione, sono solo lievi incisioni causate dalle schegge di vetro presenti in fondo alla stanza e al bagno. Ora quelle decorate cornici sono inutili. Spero non abbia sette anni di iella...

Mi chiedo se ne distrusse almeno uno quando venne a sapere della... scomp- no, morte del fratello. Ricordo ancora che rimase rintanata nella sua cameretta per giorni e giorni... Da quel momento, non partecipò più ai giochi che Randall proponeva che avevano a che fare con l'archeologia... Come ha fatto lui a non capire mai il perché? Lui, che ha risolto enigmi dalle risposte più impensabili. Non poteva rinunciare all'archeologia? Se non per se stesso, almeno per amore? Per quella là che dall'esasperazione ha detto l'accusa più impensabile? Ma per quanto impensabile, sono certo che lei sa che non è la risposta all'enigma...

La madre raggiunge immediatamente Angela con un abbraccio consolatorio: la stringe a sé quasi strozzandola, le bacia la fronte come per rianimare sua figlia e le pettina i capelli con la mano destra, accarezzando poi la guancia bagnata.

«Tesoro, shhh―la rassicura―andrà tutto bene. Ci sono io. Nessuno ti farà del male...»

Ma la ragazza non risponde: il volto e gli occhi poco lontani da quelli che ho visto stamattina nel possibile cadavere. La madre molla la morsa e la esamina con cura. La sua preoccupazione è chiara come la luce del sole. Preoccupazione che si tramuta in frustrazione.

«Ei. Guardami negli occhi.» ma non esegue. La ascolta, ma nessuna parola può più scalfirla, morta dentro da altro piuttosto che parole. Almeno queste riempiono, non portano via nulla. «Mi rispondi?!» Per l'istinto di chi è impaziente, le sferra cinque dita, macchiandole la guancia di rosso. Con lo stesso silenzio, Angela lascia percorrere una lacrima in soccorso alla ferita.

Il signor Layton la difende accostandola a sé, dominato da un istinto paterno: nonostante il suo primo apparente odio nei suoi confronti, non può permettere che qualcun altro soffra.

«Cosa vuole ancora, Layton?» Lo aggredisce la Foster, pronta a fronteggiarlo dopo la prima ritirata. Ma Arthur non sembra volerla ferire, anzi, non la sfiora neanche.

«Signora Foster-»

«Zitto!» Si affretta verso la figlia e la afferra per il polso, unica resistenza il peso morto. «Da quando voi Layton siete avete messo piede qui non avete fatto altro che portare problemi! Non sapete neanche educare quel bast-»

«Non è ver-»

«Anzi, assassino!»

«Agatha!» La tensione rompe la formalità, quest'ultima una vulnerabile bolla di sapone. La voce di Layton è roca, secca, il volto contorto dallo sgomento e dallo strazio che quelle parole gli procurano.

Volgo lo sguardo ad Angela, apparentemente impassibile. Ma non è necessaria un'espressione addolorata per far correre una lacrima. Mi avvicino, la prendo con cura per il braccio e la porto fuori dalla stanza soffocante.

Accompagnandola lungo il corridoio, mi accorgo che Angela continua a fissarmi. Poi sento la sua stretta stringere il mio polso, le iridi fatte in acquerello. Le accarezzo le dita tese e la porto nella stanza della signora Foster, così potrà sistemarsi tranquillamente. Apro la porta, abbastanza per poter accedere alla camera. Non faccio in tempo di aprir bocca che altre labbra mimano i suoni da formare, la voce vuota, non più abituata a parlare.

«Cosa è successo a Hershel?»

«Lo saprai quando arriveremo all'ospedale.»

Angela ha un'espressione perplessa. «Ma cosa ha fatto-»

«È inutile che te lo spieghi. Dopotutto, sono certo che tu abbia già capito.»

Il volto di Angela contrariato si accartoccia, le sopracciglia troppo pesanti pressano le palpebre, stirando in parte la fronte. Le dita delicate accorrono sulla bocca che ha perso di nuovo la parola. Occhi chiusi ma non abbastanza per fermare la corrente d'acqua gelida. Sì, sa l'amara verità. Con velocità raggiunge il bagno, separato dalla stanza maestra da una porta, ora chiusa a chiave.

Mi dirigo verso la porta, scrutando l'ambiente circostante. La camera di Agatha è estremamente ordinata e spaziosa, mai quanto quella di mio padre ma certamente più raffinata: i mobili sono sfarzosi e costosi, non essenziali e spartani come sono abituato. Il quasi invisibile velo di polvere sugli scaffali mi fa dedurre che Agatha non è un'amante della lettura a differenza dei Lepisma saccharina che nuotano nelle pagine ora logore ma prive di impronte digitali. La cultura è così superficiale agli occhi dei superficiali. Il letto è perfettamente stirato e impeccabile. Certamente non saranno state le mani della villana ad aver ordinato le lenzuola, rimosso le padrone delle ragnatele- Chi ha dato da mangiare ad Angela? Non di certo sua madre, che l'avrà sicuramente aspettata nel suo salottino con una tazza di Oasis Berry e dei biscottini sul tavolino. Che madre rispettabile. Ora so dove Angela ha preso tutta quell'arroganza di cui ci siamo quasi abituati. Non sempre ciò di cui ci abituiamo è poi così salutare.

Sento dei passi avvicinarsi: pesanti e virili con altri piccoli e particolarmente fastidiosi. Arthur e la pidocchiosa Agatha si dirigono verso la stanza, ma per preservare la pace ad Angela li incrocio lasciando la camera. Quindi, in silenzio ma non senza delle occhiate impertinenti, diamo il tempo alla ragazza di prepararsi.

Ma non si fa molto attendere: in un quarto d'ora dalla soglia giunge apparentemente la solita Angela: maglia arancione, gilè chiaro, gonna bruna... Ma non c'è ombra del suo classico sorriso ingenuo che sbocciava, insieme ai suoi occhi, alla vista di quegli occhiali spessi inutili neri. La sua ingenuità è stata distrutta è stata distrutta una volta per tutte dalla causa principale di tutti i problemi della sua vita, portandosi via prima Simon, suo fratello, e poi Randall, il suo amore. Sto parlando dell'archeologia: magari la prima vittima si può giustificare come inesperta, spericolata, non consapevole dei rischi. Ma Randall ne era pienamente al corrente dei pericoli e, nonostante l'amore che lo legava con Angela, lui è caduto in tentazione, sperando di poter portare a casa dell'oro, l'orgoglio della disciplina; forse era una tattica per preservare lo studio dell'antico dalle sue colpe e introdurre Angela nel mondo di carta, sassi e carbone, roba da morti. Ma, come direbbero i suoi adepti, la storia insegna. Sì, ma pare che l'uomo non voglia imparare, troppo orgoglioso per sottostare alle regole della causalità.

Mi viene in mente il suo volto travolto dalle lacrime durante quella serata: non ho ben capito cos'è successo, visto che Hershel non è riuscito in tempo a spiegarmelo, ma ho colto Angela correre con una maschera in mano. Qualche stronzata archeologica.

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Capitolo 7
*** Trasparente ***


Lucille Maxwell in Layton POV

Nella mia giovinezza non ho mai dedicato la dovuta attenzione alla tristezza, forse a causa del mio lavoro che non mi chiedeva tale sforzo.
Ero una fotografa che non faceva altro che catturare meravigliosi paesaggi e guadagnare soldi per il minimo indispensabile per una giovane scapola.
La prima volta che ho sentito il brivido lungo la schiena è stato quando il capo mi ha incaricata di collaborare col giornalista Arthur Layton, di cronaca nera, fotografando la finestra rotta di una scena del crimine. Ero così disgustata che ho avuto la nausea a sentire il fetore della carne marcia e il ballo delle mosche. Immaginatevi quando ho visto il cadavere...

Da quel momento mi sono ricordata dell'esistenza della morte. Ma non ho mai pensato che potesse sfiorare un giovanotto, dopotutto quel cadavere coperto di larve apparteneva a un fallito di mezza età. I giovani dovrebbero essere spensierati, meritano tutta la felicità di questo mondo. Allora perché, Hershel?

Lui è lì, intrappolato in un corpo immobile che giace sulla barella tra le lenzuola candide. Solamente quando Arthur e Alphonse hanno lasciato la stanza, nonostante l'eccessiva luce riflessa dalle pareti, noto i tagli che tappezzano le braccia, i palmi e... la gola.

È vero, ho già visto un cadavere anche sviscerato, il ventre inciso dal sangue a forma di cifre dal creditore che si è fatto ripagare con un gioco sadico. Il suo debito. Ma quelle lesioni, quelle di Hershel, auto inflitte, cosa indicavano? Un diciassettenne che dovrebbe essere a scuola, pensare al futuro, magari qualche litigata con noi... Ma non è in debito con nessuno.

Il suo sorriso apatico potrebbe dar l'idea che stia semplicemente riposando. Ma non è così. Lui di solito non è a dormire dopo il levar del sole. Lui non vuole essere al centro dei pensieri degli altri. Ed è questo ciò che mi tormenta.

Quel senso di colpa dal vedere qualcuno precipitare, troppo pesante da sopportare, è la causa dei mancanti palpiti del mio cuore. Ma è davvero ciò che Hershel ha provato in tutte queste settimane? È già difficile per me tenere duro per poche ore, ma per giorni e giorni...

Forse il rimorso era così tanto che soffocava in quel corpo gracile. Questo gesto gli ha dato libertà? Quando si risveglierà e vedrà le bende e le macchine, sarà lo stesso Hershel che ho portato a casa tredici anni fa? Oserà farlo di nuovo? Cosa ne penserà suo fratello? Riusciremo a sal-

Basta. Non lo farà più. Lo aiuteremo a qualunque costo. Immagino che voglia lasciare Stansbury come tutti noi, nonostante il signor Ascot e Angela siano stati davvero gentili a non solo impedire la nostra partecipazione al funerale o memoriale o come accidenti lo abbiano chiamato, ma anche a scomodarsi di inviare un agente della polizia a casa nostra, per portare via Hershel. E per cosa? Per omicidio! Anzi, l'omicidio, visto che a quanto pare in questo paesino dimenticato da Dio solo una persona ha perso la vita. Hanno provato a interrogarlo, senza successo: si contorceva, chiudeva gli occhi, le orecchie, premendo tutto il suo dolore. Successivamente hanno ritentato chiedendo l'aiuto di una psicologa, che ha ricevuto solo silenzio. Lei ha confermato il suo stato traumatico. Se ne sono andati senza chiedere scusa.

Ero al corrente della condizione di Hershel, ma solo ora ho capito ciò che ha passato, l'essere soggetto a una pressione impossibile da sopportare, fino a mollare. Fino a chiedersi:«Sono stato proprio io?». Nonostante i nostri innumerevoli no, non può non sentirsi responsabile, a pensare ad altre irraggiungibili possibilità e alla causalità-

Ero al corrente di questo, eppure non lo ero. Non potevo capire che la situazione fosse così grave. Mio figlio aveva bisogno di un supporto, e io non sono stata affidabile.
Come ho potuto essere così cieca e insensibile? Posso essere considerata una madre? E quando si risveglierà, mi dirà che mi odia?

No, non lo farà, purtroppo: lui non odia altri che se stesso. Ma perché? Forse per non ignorare la gente, per non attirare l'attenzione. Per nascondere il suo disgusto e odio per se stesso.

Allora una madre deve desiderare di essere odiata dal suo stesso figlio piuttosto che lasciare che il giovane covi il dolore in segreto.
Io spero soltanto che tutto si risolva al più presto.

Nel silenzio che ne consegue sento dei suoni più rapidi, il respiro ora nel ritmo di veglia. Dagli angoli degli occhi posso vedere palpebre che supine permettono l'ingresso della luce. Nonostante la mia vista sia offuscata e non focalizzata da nessuna parte, noto Hershel ruotare la testa, cercando di ispezionare la stanza e poter dedurre il corso degli eventi. È proprio tutto suo padre: mi ricordo che anche lui scrutava ogni angolo, anche il più insignificante, per risolvere quei tremendi omicidi.

Si volta verso di me. Non sembra essere contento, altrimenti non ci sarebbero tutte quelle rughe e la pelle sarebbe distribuita omogeneamente. Alla mia vista, si irrigidisce, allontanandosi. Gli prendo la mano appoggiata al materasso, quasi si sia dimenticato della sua esistenza, e la accarezzo dolcemente. Poi la bacio e la avvolgo tra le mie, più calde. Allora Hershel si rilassa e si lascia andare, mollando le lacrime bollenti.

«Mamma―» i singhiozzi lo soffocano e gli accarezzo la schiena per calmarlo. «Perdonami... ho fatto un gran pasticcio... è tutta colpa mia...»

Mi limito a consolare quella povera anima, gocce crudeli zampillano dai miei occhi. «Andrà tutto bene, Hershel.» Con l'indice alzo il suo mento prima inerme, il suo sguardo annacquato. «Risolveremo questa storia. Insieme.»

Reciprocamente ci stringiamo, io cercando di stare attenta alle ferite. Sento la sua testa sulla mia spalla destra, i suoi respiri accelerati dai singhiozzi, i battiti guidati dal panico iniziale. Nonostante le lacrime, le bende e i medici che sono appena entrati nella stanza, non posso far altro che sorridere alla vita. Hershel è qui, tra noi.

«Signora Layton, se permette.» i medici intervengono e sciolgono l'abbraccio senza problemi. «Dobbiamo controllare le condizioni del paziente.» Senza protestare, annuisco e lascio la stanza, non senza un sorriso indirizzato al figlio che non avrei mai potuto avere.

Mi accomodo a una delle tante sedie in plastica scomode, ma non ci faccio molto caso, come 'sta mattina del resto. Vedo tutti i medici e le infermiere correre tra le varie stanze, marionette del tempo, minacciati dalla morte. I dottori escono dalla stanza 289. Mi informano della condizione stabile del paziente con fare affrettato. Infine, abbandonato dai colleghi, l'unico rimasto aggiunge che il paziente sta riposando e sarebbe meglio non dargli troppe pressioni, quindi massimo una persona alla volta a visitarlo. Non faccio in tempo a chiedere altro che corre verso una stanza e sparisce. Molto svelto, il giovanotto. Una barella mi passa davanti, la donna che vi è distesa coperta di sangue e lividi, e viene fiondata nella medesima porta, quella che continua a cigolare negli ultimi cinque minuti. Spero che quella donna sopravviva. Prima che possa dedicare le mie poche energie ai miei pensieri, nel corridoio sento delle voci familiari, tra cui una grave ma calda, la voce dell'amore. Senza perdere un istante, mi alzo e li raggiungo. Sono Arthur, Alphonse e... Angela? Il mio volto si fa più cupo alla presenza di quest'ultima, ma aguzzando la vista noto la sclera dell'unico occhio scoperto non più tanto candido, l'altro aggredito dai riccioli, le guance purpuree, le labbra morsicate e un naso che non vuole piantarla di gocciolare. Non ho mai visto quella ragazza così sconvolta. Lei non osa incrociare il mio sguardo, con fare vergognato, avvolgendosi con le sue braccia striminzite...

Arthur mi sopraggiunge anche sulla parola: immediatamente mi spiega che Angela vuole porgere le sue scuse, sia a me che a Hershel. Alla menzione del suo nome, si limita ad annuire freneticamente.

«Mi perdoni per quello che è successo, signora Layton.» Non mi volge lo sguardo, ma le formalità. Fa un piccolo inchino, incurvando la schiena.

Normalmente, potrei essere così sfrontata da dirle le solite frasi di circostanza come non chiedermi scusa o semplicemente lasciar parlare le mie mani. Ma effettivamente, nonostante ciò che ha causato dichiarare Hershel come assassino, non posso punirla. Anzi, non ne ho il diritto. Oltre al fatto che lei non si tratta di mia figlia, non posso giudicarla come persona. Ha perso il suo amato alla giovane età dell'adolescenza, forse il momento più importante nella crescita psicologica. Ma comunque il lutto non è un peso facile da portare sulle spalle. E ne ha già uno, da 8 anni. Come la si può giudicare? Non so cosa avrei fatto se quello a morire fosse stato Arthur... Meglio non pensarci.

Allora, per rompere il ghiaccio, la abbraccio. Inizialmente rigida e immobile, le scoppia un terremoto interiore, il diaframma sotto sforzo e i singhiozzi non poco udibili, la mia maglia bagnata. Anche i due uomini, nonostante il fisico non lo faccia pensare, sono commossi e si aggiungono alla stretta. E rimaniamo lì, in un angolo di corridoio dove, nonostante il traffico dei medici, il tempo è sospeso.

«Tutti noi ti perdoniamo.»



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Scusate il ritardo. Scusate gli errori. Scusate tutto. Ma ultimamente sono molto stressata e scrivo sempre più merda. Ancora scusatemi.

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Capitolo 8
*** Seppia ***


Angela Foster POV

A pochi giorni dalla scomparsa, abbastanza da far dedurre le sue probabili condizioni, il signor Ascot è riuscito in breve tempo a organizzare un evento dedicato al figlio... sparito. Formalmente sarebbe un memoriale, anche se, nella cerimonia, all'uomo stesso è sfuggito più di una volta di definirlo funerale e dare voce al suo discorso in passato remoto.

«Randall fu un figlio ammirabile per la sua dedizione alla scuola e alla famiglia e, anche se sognatore, non ci aveva mai delusi. Si era sempre mostrato gentile, rispettoso e disponibile a tutti noi, a partire dai semplici conoscenti fino ai suoi più caldi amici. Anche se testardo e forse a volte trasgressivo... -solleva la manica all'altezza degli occhi, asciugando le lacrime inesistenti, i singhiozzi di pura fantasia- mi manca moltissimo. Perciò, grazie per essere venuti qui con noi -la moglie più stretta, un fantoccio nella sua morsa- per condividere questo dolore, una giornata imminente ma prematura. Grazie.» Il severo mi fa cenno di raggiungerlo chinando leggermente il capo, già riposto in tasca il biglietto col discorso, e si allontana tra gli applausi; Ea, esausta dall'emozione, trascina i piedi. Le coppie di mani rumorose diminuiscono, nascondendosi nella massa nera, sparendo completamente, alcune affogate nelle tasche, altre penzolanti ai fianchi che non danno supporto.

Cala il silenzio, i miei passi col tacco martellanti sono intrusi, quasi sacrileghi, la mia figura dinamica nell'ambiente distorce l'equilibrio che si era creato. In quel magma non si scorgono nemmeno i colpi di tosse più timidi o arroganti. I respiri cessano di esistere.

Solo ora mi accorgo del fiato che trattengo da quando il sole è sorto stamattina, o da quando stava tramontando nei giorni scorsi e la notizia era giunta a me e a tutta Stansbury. L'aria chiusa del mio familiare rifugio, in cui mi sono reclusa in questi giorni, impregna ancora i polmoni, le corde vocali non più tese, non più abituate alle vibrazioni. Ma quella voce nella mia testa è inarrestabile, incessante nell'ipotizzare speculazioni quali: sicuro che tornerà Randall, con una botta qui e lì, sorridente, sulle sue gambe, a mani vuote o piene (che importa!), magari chiedendomi anche scusa per non avermi ascoltata con quella sua noncuranza nonostante la difficoltà, ma vivo e vegeto.

Ecco, ci risiamo con questa speranza vana... Molti chiamano l'ignoranza beata, ma non è forse quella che mi porterà alla follia? Cosa mi ucciderà prima, la morte o la delusione per il mancato avvento?

Sono pensieri sicuramente dolorosi.
Sono pensieri maledettamente rincuoranti.
Sono pensieri eternamente utopici.

Rompo la tensione con un forte sospiro, bloccando i singhiozzi che soffocano i miei polmoni, il sollievo evapora.

L'oscurità uditiva, dalle intenzioni conciliatorie, rivela la sua natura di morbo latente: tra la folla, di sfuggita, come sempre, avvisto Simon e Randall, i loro sguardi confusi e persi, non consapevoli di cosa stia accadendo. Proprio come ieri, quando dalle fotografie seppia avevano ripreso vita.

Mi sento soffocare, le gambe non obbediscono e cedono, le lacrime straripano fulminee. Mi inginocchio a terra, il pavimento freddo come quella bara, come quelle gocce che verso. Frigno e gemo come solo i bambini fanno, i miei occhi accecati dalla pioggia interna e la grandine che strazia la mia carne.

La mia guancia sente un palmo, il suo pollice la asciuga e la scalda. Alzo lo sguardo. Dopo giorni di delirio, posso vedere il volto non più nascosto da quella maledetta maschera, quegli stupidi occhiali spariti, ormai un lontano ricordo.
Io sono in preda all'estasi, non preoccupata di ciò che è reale o immaginario, ma nessuno si muove. Il mondo attorno a noi tace. Non esiste. Non ne ha il senso.
Con l'altra mano mi accompagna, aiutandomi ad alzarmi. I polpastrelli premono le mie palpebre, tentando disperatamente di consolarmi, non sapendo di star facendo proprio il contrario. Poi mi avvolge in un abbraccio, le lacrime implacabili.
«Angi, tesoro, non piangere, ti prego -gemo, la stretta più forte, incoraggiante- Sappi che io sarò sempre al tuo fianco, non dimenticartelo, -alza il mio mento, i miei occhi si spalancano alla visione- fallo per me. Shhh...»

Mi culla come fossi la sua sorellina, come quando ci fu il funerale di mio fratello. Quando mi sentii in debito con lui.
La mente, inebriata dalla felicità, rabbia e confusione, vuole dal voce ai miei pensieri, la gola contratta, le corde pronte a far sentire il loro messaggio, ma la bocca pesante prova invano a fermarmi.
La spalanco comunque e, appena respiro e mimo le lettere mute, il magma avvolge la visione, nessun contatto con l'esterno se non un rumore stridente. Le mie mani alle orecchie, le grida a vuoto e le palpebre sbarrate mi salvano per qualche secondo. Ora gli occhi vedono il mondo.

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Il cuore palpita all'impazzata, la mano prova a contrastare la velocità, i respiri il panico.

«Era solo un sogno.»

Sì, ma quanto lontano dalla realtà?

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Em... me la sono presa molto con calma.
Ah, ma chi voglio prendere in giro? Ovvio che non era programmata una pausa di quasi tre mesi. Mi sento tremendamente a disagio a pubblicare il capitolo di una fanfiction di una fandom dimenticata dall'Italia e dagli italiani. In realtà non ho molto da dire, se non che mi dispiace per quei pochi interessati per questo agonizzante silenzio.

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Capitolo 9
*** Caeruleus ***


Erik Ledore POV

Finalmente i signori Ascot hanno deciso di interrogare da sé Layton, visto che, a detta del signor Ascot, «il verbale della polizia non è esaustivo».
Senza chiederne il consenso, ieri sera mi sono permesso di leggere il documento dove è stato solo riportato lo stato traumatico dell'interrogato, oltre che le informazioni ovvie, cioè del nome della vittima o il luogo del delitto indefinito. Mi dispiace molto per Hershel, ma dobbiamo farci dire la verità, così troveremo il signorino Randall.
Di buonora vengo richiamato dai padroni durante le mie faccende domestiche mattutine, ovvero l'organizzazione della colazione.
Accompagno la signora Ascot nella vettura aprendo lo sportello e aiutandola a sedersi; pare che sia ancora troppo sconvolta dalle circostanze del figlio, perfettamente comprensibile per una madre.
Accedo anch'io nel sedili posteriori, poi una scossa indica la chiave inserita e il cambio della marcia.
«Ea, hai visto se entrambi i Layton sono tornati a casa loro ieri?»
«Sì. Povera Lucille-»
«Povera un corno. Povera te, tesoro, che stai soffrendo come un cane per colpa di quel b-»
«Birbante. E poi lo sai che i Layton sono una famiglia rispettabile-»
«Oh, certo, tanto da distruggermi la mano all'arrivo della sberla-»
«E nostro figlio invece non era uno stinco di santo-»
«È!» Grida a gran voce il verbo presente, perché presente è anche la sua vita terrena. Non pensavo che la signora avesse già perso la speranza, ma la mia non morirà. «Non credevo tu riponessi tanta fiducia in quel... birbante, ma stanne certa che confesserà.» Non so i motivi, ma la frase pare farle paura. Poi, di fronte a un semaforo rosso, il signor Ascot si volta verso di me. «Erik, avrai un compito importante oggi.»
«Certo, signore. Ai suoi ordini.» Nel viaggio mi dà istruzioni e indicazioni sulla mia missione.
«Hai capito tutto?»
Mi inchino. «Sissignore. La servirò con onore.»
In breve tempo raggiungiamo l'ospedale. La vista della porta col numero 289, i padroni seduti lasciando la via libera e il cenno del capo di lui, indicando l'inizio della missione mi spaventa. Mi spaventa non tanto perché dovrò affrontare un ragazzo distrutto e cercare di ricavare informazioni importanti, ma piuttosto perché l'ultima cosa che vorrei fare è fallire, deludere i miei protettori, un sacrilegio per i miei ideali.
L'ordine viene eseguito: la mano sulla maniglia ruota il ferro freddo, spalanco e chiudo l'uscio dietro di me lentamente, silenziosamente, i passi felpati.

Mi guardo attorno, la stanza non molto spaziosa, ma chiara e ordinata, a differenza della camera del padroncino. La finestra spalancata muove i drappi delle tende candide e le coperte del letto, ordinate, fresche e perfette, come quelle che lascio quando ho il compito di rifare i letti della famiglia. Nonostante il volto girato, a giudicare dal corpo immobile e unico soggetto fermo dell'ambiente, sembra star dormendo. Mi giro volto verso la porta e ruoto la maniglia.

«Perché sei qui.»
Mi coglie il fiato. La mano sulla manopola è gelata, la mente aggredita. Sento i suoi occhi puntati alla mia schiena. Non lasciarti sopraffare, devi scoprire la verità. Lo affronto. «Volevo vedere come stavi.»
«Menti.»
«Eh-» Deglutisco furtivamente, il rumore però chiaro nel silenzio. «Come fai a dirlo?»
«Vuoi sapere di Randall.» Evade la domanda, sorridendo tristemente.
I miei occhi si spalancano automaticamente, rivelando le mie vere intenzioni.
«Era un semplice presentimento, ma pare che non mi sia sbagliato.»
Quindi avrei potuto continuare a fingere, accidenti!
«Perché mentirmi.» La voce apatica dimentica i punti interrogativi.
Tremo alla reazione. Non rispondo.
«Hai paura, vero?―Bingo―Che io non ti parli, che non ti dica di ciò che vuoi sapere.»
Stropiccio le mani, il sudore mi tradisce annuendogli.
«E devo dirlo,―raddrizza la schiena, ora verticale―fai bene ad avere paura perché non ho nulla da dirti. Ora puoi anche andare-»
«Ma Randall-»
«È morto, sì. E io sono l'assassino. Vedo che ti sei aggiornato-»
«Ma non può-»
«Se tu fossi stato con me, non avresti tutti questi dubb-»
«Dove è caduto?!» Vado dritto al sodo.
«Non te lo posso dire.» Gli occhi sono un buco nero, neanche la luce potrà restituir loro vita.
Ma non mi faccio inghiottire. «Senti, voglio aiutarti-»
«Ah, davvero? E come?!―la risatina che segue chiaramente sarcastica e amara―La sua non è di certo la prima tomba senza cadavere-»
«Ma-»
«VUOI CAPIRLO O NO CHE È MORTO?! MORTO! È UN CADAVERE! SONO UN ASSASSINO, LO CAPISCI? SE VUOI AIUTARMI, ALMENO ASCOLTAMI E PIANTALA DI DIRE STRONZATE!» Deglutisce, ricomponendosi. Solo ora noto che entrambi tremiamo dalla commozione, lui in lacrime, la voce debole. «Se anche ti dicessi dov'è successo, potrebbe diventare anche la tua, di tomba-»
«Starò atten-»
«LASCIAMI FINIRE!―gli occhi sudano―E SE ANCHE TU NON MORISSI LÌ, puoi non trovarlo-»
«Però-»
«PERÒ. PERÒ, se anche tu lo trovassi lo troveresti MORTO, perché vivo non può essere, capito?! Quindi, questo cosa cambierebbe? Nulla.»
«Possiamo provare-»
«Cosa? Che sono innocente? Che in quel momento non c'era altro che potessi fare? Che era destinato a morire? Nessuno ti crederà, e fidati se ti dico che non ti credo nemmeno io. Credimi se ti dico che ho perso questa fiducia.»
Raccolgo la compostezza. Non deve andare così, non voglio fallire, né per il padrone e nemmeno per il padroncino. «Allora. Sono qui perché voglio sapere come accedere alle rovine.»
«O vuoi sapere come morire?―la risatina manca di ilarità―Perché sappi che ce ne sono innumerevoli, di modi, e non sei costretto a seguire le orme del tuo signore fino a questo punto.»
Non rispondo alla provocazione, il mio volto sempre serio, il suo si distende. «Voglio trovarlo. Non per me, ma per i miei padroni.»
«Sì, lo troverai nell'Al-»
«Dico sul serio. Lascia parlare me, ora.―tace―I signori Ascot hanno organizzato una squadra di ricerca e sono pronti per il recupero. Io sono stato incaricato a raccogliere informazioni sulla località. Quindi, potresti gentilmente dirmi dov'è successo?»
«No.»
Sbuffo dalla frustrazione. Ma non mi rassegno. «A-»
«È inutile che ci provi. In primis, hai tutto ciò che ti serve per trovare il luogo. Se non ricordo male lo hai aiutato nelle ricerche,―amarezza nella voce―quindi non devo dirti nulla. Ma poi...―prende in pugno le coperte―se tu E GLI ASCOT―urla al muro―VOLETE UN ALTRO CADAVERE IN FAMIGLIA, FATELO DA VOI.―uno sguardo maligno e tagliente torna da me―Ora. ANDATEVENE!»
«Her-»
«VIA! SPARITE!» Strappa gli aghi sul braccio e i cavi, le coperte macchiate, sangue ovunque, sparso sulle piastrelle ora da orme umane instabili. Getta a terra le bende, rivelando le cicatrici bianche o rosse. Si avvicina verso di me. Provo a fermarlo, ma le unghie mi spingono via, spostandomi e aprendo la porta. Un'infermiera vede subito il paziente. Ma quest'ultimo riesce a incrociare lo sguardo con quello dei signori Ascot. Merda.

«Credevate non lo avessi capito?! Bastardi, lasciatemi in pace!»

La dottoressa interviene subito, abituata a queste ricadute, ma sempre spaventata. Aiuta il paziente a tornare nella sua stanza, chiedendo aiuto alle altre colleghe nei dintorni. Tranquillizzato e accompagnato dalle altre addette, la donna ci chiama subito. «Le condizioni del paziente erano stabili fino a stamattina. Avete sconvolto non solo fisicamente ma anche mentalmente il ragazzo. Avete-»
«Lui ci ha aggrediti senza motivo!» si giustifica il padrone. E ha ragione, non lo avevamo provocato.
«Non mentite! Avete visto che si è anche rimosso gli aghi e le bende? Ebbene, gli hanno procurato dei grossi danni. E questo per colpa vostra. Perciò non potrete più visitarlo e tanto meno accedere allo stabile. Vi prego di andarvene.» Ci segue fino all'uscita, due paia di occhiate che mi ledono da dietro e dalla mia sinistra. Merda.

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Capitolo 10
*** Lividus ***


Angela Foster POV

Non posso visitare Hershel. No, non è tanto per volere dei miei genitori, ma sono gli stessi medici a impedirmelo.
Molto frammentariamente e sinteticamente la dottoressa ci ha spiegato che c'è stato un episodio grave stamattina di entità non chiara. «Non faccio nomi di nessuno―ribadisce―ma il paziente si sente a suo agio se a visitarlo sono solo i membri della sua famiglia.»
«Ora come sta?» Lucille è molto preoccupata da questo cambiamento.
«Sta sicuramente meglio, anche se ha perso sangue e alcune cicatrici si sono riaperte.» La voce non è spaventata, come è invece il volto della madre, una mano al petto, un'altra sproporzionata le accarezza la spalla. Poi la dottoressa si rivolge a me, il tono ora più dolce, provando a rassicurarmi e farmi dimenticare ciò che ha detto prima. «Non preoccuparti per il tuo amico, starà bene. Lo potrai rivedere fra una settimana, d'accordo?»
Annuisco, il sorriso alle sue labbra una conferma che era quello che voleva vedere.
Spero però che queste giornate siano brevi. Le ore interminabili mi dicono che il mio desiderio non si realizza. O forse sì? In fondo, non vorrei mai doverlo affrontare, è troppo difficile. Se solo fossi stata zitta quella sera, se avessi fermato Randall... Se solo. E rimarrà un se, visto che siamo qui ora. I coniugi Layton lasciano la stanza 289 a sera inoltrata.

E i miei? Si saranno accorti della mia assenza? Quando è scomparso Simon e fin'ora anche alla scomparsa di Randall, alla mia reazione di reclusione dal resto del mondo, non hanno mai battuto ciglio o aperto la porta contro la mia volontà, nonostante avessero e abbiano ancora la copia delle chiavi. È troppo impegnativo parlare con una figlia sconvolta. Spreco di tempo ed energie. Guarirà da sola.

Il rientro a Stansbury è silenzioso, come sempre del resto, ma l'aria è molto più tesa. Gli occhi di Lucille li ho visti quasi sanguinanti prima.
Il marito le stringe la mano, confortandola. «Angela, volevo farti una domanda.» Neanche lui sembra sereno. Non avevano detto che stava bene?
«Certo.»
«Tu sai chi è venuto a visitarlo stamattina?»
Provo a pensare a un possibile colpevole, ma nulla. «No, non credo.»
«Allora te lo dico io: gli Ascot.»
Che?!
«Già. E lì mi è sorta una domanda: tu ne sapevi-»
«Certo che no!» Mi sento presa in causa. I toni si scaldano.
«Allora sai che al giorno del funerale ci è arrivata la polizia a casa dopo una certa denuncia?!»
Rimango in silenzio pietrificata.

Ecco un ricordo: poche ore dopo quel tramonto, la fine della mia vita, terminate le lacrime e i singhiozzi, sento bussare qualcuno da dietro la porta. Diceva:«Scoprirò la verità, non preoccuparti!». Erik, cos'hai fatto... Angela, cos'hai causato?!

«Oh mio Dio. Quindi è per questo che non c'eravate-»
«Tu non ne sapevi nulla?» Lucille si intromette, placando gli animi.
«No. E non avrei mai osato.»
«Se non ricordo male tu hai accusato-»
«Tesoro!―la moglie lo ferma―Tutti sbagliano, e lei non è un'eccezione.»
Le mani giunte tra le ginocchia mostrano il mio disgusto. «Ho reagito di impulso, ma oltre a quello mi sono rinchiusa in camera. Non ho avuto contatto con l'esterno.―abbasso lo sguardo, intimorita―Credevo voi vi foste rifiutati di venire al memoriale.»
«Al contrario, volevamo partecipare volentieri, anche Hershel nonostante la paura.»

L'aria è ora pesante. Raggiungiamo la casa Layton, scendo dalla vettura, li saluto e mi avvio verso il lato oscuro della casa, sotto la finestra al primo piano, un lenzuolo da scalare. Con tutte le volte che ho incontrato Randall a casa sua di nascosto, non trovo difficile l'impresa. E come pensavo, è come l'ho lasciata, la porta statica e fredda, alcune schegge di vetro sfiorano i miei piedi. Guardo lo specchio originario, rovinato e deformato, il riflesso altrettanto affetto dal danno. La mia vita non sarà più come prima.

...

Torno a scuola dopo il lungo periodo di assenza. Non mi preoccupo di ricordare a mamma e papà della giustificazione. Vorrei fare come se niente fosse. Però qualcuno non è del mio stesso parere.
A ricreazione, ecco che si presenta Alphonse, il fuoco nei suoi occhi vivo. «Come mai sei così?»
«Così come?»
«Così tranquilla. Come se nulla fosse accaduto.»
«Senti, vuoi che rimanga un'altra settimana in casa-»
«No, ma vorrei che tu provassi a fermare le voci.»
Noto dei ragazzi che hanno una foto di Hershel e la prendono a frecciate. Dalston li stava già fissando da un po', disgustato. «Lo so che non tutti sono così estremisti, ma-»
«Dubito che riusciremo a fermarli. Forse dimenticheranno del fatto?»
Ride amaramente. «Figurati. È già tanto se hanno dimenticato tutte le stronzate che ha fatto Randall-»
«Erano i suoi sogn-»
«Già, i suoi. E i tuoi dov'erano? Andiamo, non ti considerava se non come un trofeo o un gioco. E non dirmi che sto esagerando, perché lo sai anche tu che ho ragione.»
Taccio.
«Non è cambiato da quando aveva dieci anni, da quando si è accorto di poter influenzare fortemente gli altri. È vero che era appassionato di archeologia, ma la priorità non saresti dovuta essere tu, piuttosto che sassi e conchiglie? Ricordo quando sei scappata con quella roba in mano. Stavi piangendo, Angela, e niente può negarlo o giustificarlo.»
Taccio, una lacrima sul viso.
«Permettimi di dirti che secondo me il vostro rapporto non era... sano.»
Sono perplessa. «E con questo dove vuoi arrivare?»
«Dimenticalo.»
«Prego?» Una risata nervosa placa le grida.
«Hai sentito bene. Lui non era degno di nessuno.»
«Come ti permett-»
Mi prende la mano alla rincorsa. «Non sto scherzando. Era un opportunista bastar-»
«LASCIAMI!» Attiro l'attenzione di tutti, gli sferro un ceffone con l'altra mano. «Non permetterti più!» Fuggo dall'aula e mi rintano in bagno. Chiudo a chiave. Lui non mi segue.

Sento voci nei corridoi. Che odio, che odio! Le ho procurate io, eppure non le posso fermare. È terribile creare qualcosa e non poterla più controllare.

Sei schiavo del passato.
Sei schiavo delle responsabilità.
Sei schiavo della causalità.

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Capitolo 11
*** Oltremare ***


Hershel Layton POV
Dopo un'ulteriore settimana sotto il controllo dei medici in seguito all'incontro con Erik, sono stato tranquillamente rilasciato, anche se alcuni medici erano contrari a questa decisione, ritenuta prematura. «State attenti. E Hershel, sappi che non sei solo.» mi rassicura l'uomo dal camice bianco. Non so se essere in costante compagnia sia una sicurezza o una condanna.

A ogni modo, ho parlato con i Layton riguardo la mia decisione sul percorso di studi: mi trasferirò a Londra e frequenterò l'Università Gressenheller, facoltà di archeologia. Come era prevedibile, i due non sono molto entusiasti della mia scelta: la perplessità di Lucille si legge negli occhi, mentre la fiducia di Arthur è nelle parole stesse. «Lo sai, figliolo―mi sorride compassionevole―Randall sarebbe felice di sapere che andrai alla Gressenheller, quindi leva quel muso lungo!» Vengo aggredito, il cespuglio vittima dell'attacco.
Il solletico mi scioglie, la risata sorge spontanea, sollevando gli animi, anche quello più depresso di mamma: non la smette di sorridere, strappando quasi i bordi delle labbra. In quell'istante ho dimenticato tutta la mia vita e i problemi. Ero libero.
Poi l'ilarità si spegne, come tutto ciò che vive. L'aria è di nuovo torbida di imbarazzo, oltre che di dubbio, i miei occhi fuggitivi dagli altri sguardi che sono invece curiosi e impertinenti, intrusi. O sono io l'intruso?

Mi alzo sollevando la sedia, non lasciando segni sul tappetto. La carne giace ancora sul piatto, ormai fredda, secca, contorta e torturata dal coltello al semplice scopo di distrazione. Ora si tratta solo di ricomporre i pezzi, sperando che tutto torni come prima, stupidamente.

I loro occhi mi fissano. Mi fanno paura. Se farai abbastanza silenz-
Vengo avvolto, il calore si diffonde improvvisamente caldo e lento. Mamma mi tiene stretto in una morsa confortante.
L'abbraccio mi scioglie, la mia rigidità evapora, le lacrime straripano in silenzio. Un altro paio di braccia si aggiunge, i muscoli più forti ma sempre rassicuranti.
«Siamo fieri di te.»

[...]

Al mio risveglio, l'alba lungi dal mostrarsi, mi ricordo che oggi sarà l'ultima giornata che trascorrerò qui a Stansbury. «Potrai salutare tutti prima di partire.», mi ha consigliato ieri sera Lucille. In realtà non so se posso effettivamente presentarmi di fronte a qualcuno che non sia mamma o papà. Sarò in grado?
Di buon'ora mi alzo dal letto e mi cambio, poi scruto il cielo fino al primo bagliore, lo spiraglio per il sole piccolo ma la luce accecante. In breve tempo il drappo blu oltremare disteso sull'atmosfera si incendia. Buffo pensare che venga bruciato da un colore più freddo.

Con la retina ancora segnata dalla presenza extraterrestre, scendo le scale e allestisco il tavolo e gli utensili, poi preparo la colazione: una semplice teiera con acqua calda, biscotti serviti su un piatto piano, accompagnati da delle zollette di zucchero, in caso di necessità, visto che non siamo amanti del dolce. Dalla mensola ancora esposta prendo una busta di Earl Grey. Fare colazione alle prime luci dell'alba è un rituale che solitamente mi porta pace, ma non oggi. Sarà probabilmente l'ansia di dover parlare con tutti gli abitanti-
Grazie per avermelo ricordato...

Un filo di luce evade dalla tenda che da ieri è in parte distesa, il bagliore raggiunge di nuovo il mio occhio e mi distrae. Poi dei passi attirano la mia attenzione. Sono due paia, lente, non tormentate. Come fanno ad avere così tanta fiducia?

«Buongiorno tesoro. Sei già sveglio, eh?» poi le pupille di lei puntano verso la tavola, le tazze e le miscele imbustate pronte. «Grazie, figliolo.» Un sorriso si spande sul suo volto. Un sorriso contagioso, che infetta papà e me. C'è davvero speranza?
Stavolta mi decido di mangiare e di bere a tavola con la mia famiglia. Pare che questo stia procurando loro sollievo, le loro spalle non più rigide e la postura appropriata. Non sono in vena di chiacchierare, perciò mi limito a ricordar loro che oggi saluterò Stansbury per l'ultima volta. «E non dovete preoccuparvi per me, starò bene a Londra.»

«Scrivici, sai.» mi dice la barba bianca.

«Anche voi. Fatemi sapere come state.» Non voglio sapere che fine farà il villaggio. Non più.
A colazione terminata spreparo la tavola, saluto i miei genitori e mi dirigo verso la porta d'ingresso (o di uscita?), incamminandomi verso la salita che avrei percorso anche oggi se non fosse accaduto l'inevitabile. Il campanile della scuola risorge dalla collina, proseguendo si riesuma anche il resto della struttura, sepolto solo dalla prospettiva. Forse sì, c'è speranza. Raggiungo i cancelli, poi i corridoi, varcando l'entrata, circondato da armadietti e sguardi indiscreti.

Non guardarli, non badarli, evitali.
Fosse possibile... Ma quegli occhi li ho visti anche stanotte, magari mi daranno un po' di tregua...
Stolto, lo sai bene quanto me che non la passerai liscia, che li senti in migliaia fissare sulla tua schiena, dardi sulle ferite, palpabili anche da sotto le spesse bende. Guardali, alcuni osano pure fissarti frontalmente, menomale il buonsenso li convince subito a correre ai ripari. Sei solo un coglione che spera di trovare la pace proprio dove non c'è... Miserabile...

Accedo all'aula di storia, cercando il professor Collins. Fortunatamente la campanella non è ancora suonata e gli studenti in classe sono scarsi, altrimenti sarebbe stato un macello.

Il professore sente i passi intrusivi e alza lo sguardo dal registro dove il suo naso era immerso, la sua firma chiara come sempre. «Layton?» Le lenti ingrandiscono i suoi occhi, che paiono sorpresi del mio arrivo, quasi increduli. Non so se questo dovrebbe rincuorarmi. Che cazzo ti salta in mente?! Se i tuoi compagni non ti perdonano, perché dovrebbe farlo lui, il professore più severo?! La montatura nera non riesce ad allontanarsi dalla garza attorno al collo. Testa di cazzo, non dovevi venire-- «Sono felice di rivederti. Stai bene ora?»

«S-sì,... grazie.» La domanda mi prende alla sprovvista. Davvero qualcuno è preoccupato per me?-- Muoviti, va' dritto al sodo. «Purtroppo, ho deciso di trasferirmi a Londra. Studierò archeologia al Gressenheller.»

«Archeologia? Non mi sembravi molto-- Oh...» Le lenti riflettono la realizzazione, le labbra giunte, supplenti delle mani. Nota i miei occhi nel vuoto. Non hai ancora capito che non dovresti essere qui-- «Quello che è successo non è colpa tua.»

La domanda sorge spontanea. «Perché.»

«Perché cosa?»

«Perché non dovrebbe essere colpa mia? Ero lì, potevo salvarlo e--»

Le mani si chiudono attorno alle spalle, fermando le mie lacrime. «Non tutto è prevenibile, Hershel. Randall era un ragazzo testardo, lo sai sicuramente meglio di me che fargli cambiare idea era un'impresa erculea, se non impossibile. Tu hai fatto il possibile per fermarlo, per salvarlo, ma non tutto è tua responsabilità. Di certo la sua scomparsa è una tragedia, ma non si deve versare altro sangue per questo.» Ora mi sorride, trovando sicurezza nelle parole che seguono. «Comunque, hai detto Gressenheller, giusto? Allora ti consiglio di seguire i corsi del dottor Schrader: oltre a essere un capacissimo paleontologo, si occupa anche della branca archeologica dell'università. Mi hanno parlato molto bene di lui, anche se a volte può essere una persona difficile.» Le spalle tese e sensibili avvertono una presenza, la mano destra del professore prova a risvegliarmi, sorridendomi. «Ti auguro ogni bene. Spero che tu troverai buona compagnia a Londra, e sii un bravo ragazzo come sei sempre stato.»

«G-grazie...» Mi limito a chinarmi in segno di rispetto e lasciare l'aula. La tensione è tanta da eliminare il disagio dei corridoi, i miei pensieri rivolti a chi incontrerò poi. Lascio l'istituto, la campanella mi dà l'ultimo saluto e augurio.

Parlare con Angela sarà un'impresa tanto impossibile da non essere considerata come ammissibile. Quando avrò tempo le scriverò una lettera. Non è il momento di pensare a come e quando.
Procedo verso la casa della famiglia Ascot. Sì, loro: anche se abbiamo già avuto una specie di conversazione durante la mia convalescenza, voglio andarmene chiudendo ogni questione. In verità mia intenzione sarebbe quella di salutare Erik, ma probabilmente non sarà al mercato a fare la spesa.

Con tutta sorpresa ritrovo il giovane maggiordomo fuori dalle porte della villa, gli occhi fissi verso la collinetta con l'albero sulla sommità; una giacca rovinata lo copre dagli agenti atmosferici a cui non è abituato, una mano nascosta in tasca, l'altra tiene una leggera valigia. Non sembra felice di vedermi (e chi non lo sarebbe?), ma sembra avere ancora un po' di speranza. Lo sguardo non dice che sia interessato della mia presenza, eppure mi rivolge la parola. «Ciao, Hershel.―le labbra accennano un sorriso. Non ricambio―Sai, volevo proprio parlart-»

«Mi trasferisco.»

Gli occhi, solitamente vuoti, gelano all'affermazione. «C-come?»

«Me ne andrò a Londra.»

Una risata imbarazzata emerge, interrompendomi. «Stai scherzando, spero. Ho bisogno che tu venga con me--»

«Partirò oggi stesso, questo pomeriggio, subito dopo mezzogiorno.»

Panico si dipinge nel volto e nei gesti, aggredendomi afferrandomi le braccia. «Tu non puoi andartene, non ora!»

«Erik--»

«Come faremo a trovare--»

«Te l'ho già detto:--»

«LUI È VIVO! Se non altro, troviamo il suo corpo.»

Sbuffo. «Non c'era nulla da fare allora, e non c'è nulla che si possa fare. Lascia perdere, è inutile. Stansbury ha già trovato il capro espiatorio ed è in pace.»

«Hershel, io so che la sua scomparsa non è causa tua. Ma se sei colpevole di tradimento è perché ORA lo stai abbandonando, lo stai lasciando a morire--»

«Sarò chiaro, Erik: mi dispiace per il dolore che provi, ma sappi che niente mi farà cambiare idea. Non più.» Ignoro i richiami, lasciando alle spalle la sua delusione e la valigia dimenticata a terra.

[...]

Ora è mezzogiorno e un minuto e non ho intenzione di attendere oltre. Direi che sia arrivato il momento di lasciare Stansbury. Ma' e pa' sono pronti per partire, le mie valigie e molti dei miei libri già caricati nel bagagliaio. Alphonse mi arriva incontro, un sorriso conciliatorio raro da vedere.

«Grazie, Alphonse, grazie di tutto. Sono in debito--»

«Figurati! Avevi solo bisogno di una spalla su cui piangere, tutto qui. Piuttosto buona fortuna.»

Estendo il mio braccio, pronto per una stretta di mano. Lui esegue, i suoi occhi tristi. Salgo in macchina, le parole che mi erano rimaste in bocca finite. In un paio di minuti il motore si accende, creando delle vibrazioni rilassanti se sottoposti a una breve esposizione, ma me le farò piacere. Ci allontaniamo dalla casa...
Sono serviti quasi tre anni per legare così tanto con questa città come una casa e sono bastate poche settimane per distruggerla, insieme alle speranze.
In lontananza avvisto una sagoma femminile, che agita il braccio in segno di saluto, credo.

Siamo abbastanza lontani da vedere tutta la cittadina nascondersi dietro le colline che la circondano, le colline da cui siamo evasi.
Mi sento un fuggitivo, un codardo, ma so che non c'è altro che si possa fare per ora. «Pensa fuori dagli schemi e tutto ti sarà più chiaro.» mi dicono spesso.
Forse potrei... non lo so: dopo aver lasciato il trofeo davanti alla lapide mi sento più vuoto di quando ho visto la montagna, più vuoto della bara sepolta.
Non so quale sarà il mio futuro, ma una cosa è certa: non tornerò a Stansbury.

Addio, Randall. Addio, Stansbury.

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Capitolo 12
*** Rosso mogano ***


Edward Ascot POV

giorno xxvii

se non fosse per questo diario, direi che avrei già perso il conto dei giorni passati dalla scomparsa.
Il silenzio mi innervosisce, ma d'altronde non voglio sentire altri rumori all'infuori dei gemiti di Ea, quelli bastano. La solitudine è insopportabile, ma non saprei come comportarmi di fronte ad altri volti se non quelli dei giovani speleologi ed Erik. Sicuramente non sarà loro nuovo il mio aspetto malandato, infatti al massimo si può intravedere uno sguardo preoccupato di Erik, ma me ne frego.

In casa vivono solo due fantasmi tormentati, gli aspetti un semplice optional, la presenza di una solamente uditiva.
Ormai sono abituato allo scorribande mattutino e serale della squadra. "Anche oggi nulla", all'affermazione giornaliera si possono solo sentire i gemiti più straziati e strazianti di lei, tormentata alla disperazione, dall'altra parte della casa. L'unica cosa che posso toccare è la mia rabbia. Consegno i soldi controvoglia, chiedo se possono farmi uno sconto, e di nuovo mi ricordano che la loro vita è a rischio ogni giorno. Però se morite pago io...


La parola termina l'inchiostro, il sospiro conclude il corso della penna, i pensieri assorbiti dalla carta, distesa sull'unico tavolo presente in casa: la parcella per finanziare la squadra sta diventando sempre più insostenibile. Non ho neanche i soldi per un calamaio. Potrei scrivere sui muri vuoti con gessi o sangue.
Nelle mie orecchie giungono gli ennesimi pianti di Ea. Come se servissero a qualcosa...

Mi sgranchisco, lasciandomi dietro la sedia solitaria, il pavimento scricchiola, non più abituato al movimento.
Le cartacce sono in ogni angolo, pagine stropicciate strappate dalla follia momentanea.

Le bollette si sono accumulate sulla scrivania, ma il m---------- ha fatto tagliare la corrente.

Ho racattato più denaro po------------------------------ taglio del personale, --. Mi spiace per Henry, ---- un ragazzo affidabile, anche se non sempre performante.

Nonostante tutti gli sforzi, sembrano rivelarsi vani: se quel bastardo di Layton -------------------------- darsela a gambe levate, si sarebbero sicuramente visti progressi. Henry si è unito alle squadre, ho visto, e non chiede la parcella, menomale, ma -------------


Basta sprecare fogli. Basta sprecare tempo.
Mi avvio verso la nostr... sua cam... stanza: si è rifugiata lì, immobile ma viva... Lo è davvero, però? Ormai non mangiamo da giorni, le conversazioni inesistenti, la misera esistenza confinata in uno spazio vuoto ma pieno di segni di vita, di ricordi.

Raggiungo la soglia della porta, i lamenti sempre un sospiro di morte, o forse peggio, dei bisbiglii che ricordano la sofferenza. Me ne pento, ma apro l'uscio accessibile, gli occhi chiusi dalla paura dell'imago mortis.
Lo scheletro è coperto dalle vesti stropicciate, unica fonte di colore nella stanza. La figura è di spalle rispetto l'entrata, inginocchiata, i polpastrelli strofinano le sferette in legno, la croce rivolta verso il pavimento, insieme alle gocce e allo sguardo di lei.
Mi avvicino, i singhiozzi cessano allo scricchiolio del legno.

Stringe il rosario, segnando i delicati e deboli palmi. Si volta rumorosamente, i capelli emanano ancora il loro profumo. «Cosa vuoi.»

Esito, ma accorcio la distanza, fino ad avvolgerle le spalle col mio calore. «Voglio vedere come stai.»

I suoi occhi sono inchiodati a terra, non ricambia l'abbraccio, la voce gelata. Evade la domanda. «Si sa nulla di lui?» Fatica ancora a dire il suo nome. Lo vuole forse dimenticare? Ma le sue palpebre umide lo negano.

«No, tesoro.» la coccolo, dondolando con lei, lo scricchiolio del legno non aiuta.

Ella trema, probabilmente a causa del freddo: la finestra è stata lasciata spalancata da giorni, gli insetti ruzzolano placidi, le falene posano dove vi erano le tende, ora abbracciano vetro gelido. Ella trema, sì, ma non si copre. Una punizione che deve pagare per riscattare Randall, che idiozia!

La frustrazione è tanta da costringermi a interrompere i suoi lamenti inutili, mollo l'abbraccio, la mia mano vola. Il livido lasciato dallo schiocco sul suo volto sembra farlo pulsare di vita. «Smettila di piangere, donna! Quel delinquente non merita nessuna preghiera!»

Ride sconcertata, mi dà una sberla, le lacrime sparse a terra. «Quel delinquente è nostro figlio!»

La mia mente medita sull'affermazione, la realtà lontana ma più tangibile di prima. Randall è nostro figlio, Ea sua madre.

Noi due, io in primis, abbiamo fatto tutto per educarlo a dovere, accompagnandolo nella crescita con i migliori docenti, abbiamo assunto un servo che fosse suo coetaneo per non farlo sentire solo, gli abbiamo preparato un futuro sicuro, fruttuoso e ricco, aveva degli amici, un fratello, un paese che gli voleva bene- non gli mancava niente.
Fino all'età adolescenziale, quando lui ha voluto ribellarsi e vivere in un mondo di sua fantasia.

Randall, guarda le condizioni di Ea, di TUA madre, inginocchiata e al freddo invoca il tuo nome, in una camera che non fa giustizia alla sua bontà. Guarda le condizioni di colei che ha quasi perso la vita per farti nascere, per colpa tua ho rischiato di rimanere vedovo. Lei non merita questo dolore, nessuno merita di piangere per qualcuno come te.
Guarda le condizioni di TUO padre, che tenta di fermare pianti infiniti, sul lastrico, e che ti cerca ancora.
Di chi ti ha dato tutto sei solo riuscito a fregartene, e ora, per un semplice litigio sui tuoi beneamati sogni, sei solo riuscito a far perdere le tue tracce, senza dirci una parola. Sei sempre stato un figlio egoista, irrispettoso- un mostro.

Mi alzo, mi rivolgo verso la porta.

«Dove vai.» mi chiede lei di spalle.

«A cercarlo.» le rispondo di schiena.

Le scappa una risata malinconica. I capelli si muovono trascinando le vesti: si è voltata. «Allora ti consiglio di iniziare dalla camera giusta...―le lacrime soffocano la voce stanca, che si rianima con isteria―visto che hai tanta brama di trovarmi!» rapisce le mie braccia, mi volto dal dolore. In quegli occhiali vedo i suoi finti, gli occhi pregni di insania e follia. «O forse hai paura?»


Il sudore improvvisamente ricopre il mio corpo steso sul pavimento, la coperta un pessimo asciugamano, la presa si dissolve, l'immagine scomparsa rimpiazzata col soffitto pallido in ombra. Ansimo dalla paura, raggiungo il cuore per calmarlo dalla corsa.

I muscoli sono ancora rigidi, le pupille spalancate per esaminare la stanza, il cervello ancora disorientato. Ma non ci vuole molto per capire che è stato un semplice incubo.

Infatti la casa è come è stata lasciata, i fogli tappezzano il pavimento, le pagine di diario violate ciò che resta di questi giorni. Le lacrime non finiscono di essere versate, i singhiozzi inutilmente soppressi provengono sempre da quella stanza: Ea è rinchiusa in quella stanza anonima circondata dal buio, lo stomaco addolorante da due giorni, inginocchiata sul pavimento, le mani giunte avvolgono il rosario, e implora Iddio di ritrovare Randall.

D'istinto corro verso una porta quasi estranea. Il suo interno non vedrà il corridoio da parecchi anni, tre circa. Apro l'uscio cigolante, non abituato agli intrusi, la posizione di muro più piacevole, ma la spalanco, le cerniere gridano dalla violenza. Sbatte contro il muro adiacente, le vibrazioni smuovono la polvere dal lampadario e per qualche centimetro dal pavimento, spesso quanto le pile che ricoprono gli angoli della camera, gli scaffali non sufficienti. Molti di quei libri appartengono alla mia preziosa collezione di rarità, come Storia antica, ancora aperto sulla scrivania, una maschera vince il centro della pagina. Che buffonata è questa?

Un grande drappo cela la parete maggiore, adiacente alla finestra, la sua via di fuga.
Col rancore che covo da anni, strappo la tenda, i chiodi che la tenevano sicura inutili si gettano nel vuoto, saltando dai bordi della stoffa.
La parete è piena di scarabocchi geometrici, scritti con una dimensione inapropriata e colori vari, alcuni vengono ripetuti seguendo diversi schemi come la rotazione e riflessione. Sono attaccati dei post-it, note inutili.

L'unica cosa decifrabile e degna di nota è il diario, la fascia in cuoio chiude le pagine ingiallite. Lo apro, un foglio esce dal bordo della copertina. Una mappa copre i fogli, la croce rossa calcata-

«Sembra quasi una caccia al tesoro, o forse è una caccia all'uomo.» dice la voce.

Mi giro, il volto avvolto nell'ombra, solo i contorni distinguibili, gli occhiali riflettono la luce lunare, gli occhi rimpiazzati dal vetro piatto.

Sento la risata che trattiene a fatica. Chiudo i pugni. «Quindi ti fai vivo, alla fine?! Se dovevi proprio sparire potevi almeno dire per dove!»

L'incontinenza lo tradisce, le risa rimbombano per i corridoi e i miei timpani. «Ma dai, padre, non sarebbe divertente se te lo dicessi ora, quando hai trovato tutti gli indizi, se conosci la via trova da solo la risposta. No risk, no glory. Me l'hai insegnato tu.»

Gli sferro un pugno, lo evade evaporandosi. Sparisce completamente di vista. Esamino la stanza, ma può trovarsi in ogni ombra, come in nessuna.

«Trovami.»

Dopo un momento di titubanza, afferro la mappa ed esco dalla finestra, già spalancata per me, il lenzuolo allestito per la ricerca. Lascio la casa alle spalle.
Lui è dietro di me, mi sussurra all'orecchio frasi di sfida.
Ma non vacillo. Lo riporto a casa.

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Capitolo 13
*** Non so come chiamarti ***


ERIK LEDORE POV

Il sole brucia la superficie del furgone e le sue interiora, la vernice chiara e le tele alle finestre inutili contro il caldo; il vento, sussurrando alle orecchie, si infiltra trasportando la sabbia, grattando i tessuti e l'attrezzatura.
Il viaggio verso le rovine per il deserto non è diverso dal solito, e come sempre i nuovi arrivati si lamentano delle condizioni impossibili, altri, che conoscono bene quanto saranno morbide le tasche e pieni i portafogli, ridanno senno e pace all'ambiente.

La Stella piano piano si alza, un'immagine lontana ma concreta di stupore sorge dentro di me, come se fosse la mia prima volta di fronte a tale visione.
Nonostante il caffè da poco offertomi da Philip, il gestore della spedizione, le palpebre sono pesanti, un'emicrania che non riesco a decifrare mi trapana la mente; la testa rimbalza a ogni salto delle ruote, le spalle unico sostegno fermo. Fortunatamente lo stomaco è abituato a questi balzi, anche se violenti, perciò mi concentro sul caos presente nel mio cervello. Chiudo gli occhi e prendo dei respiri profondi.
Ora l'immagine si fa più chiara, la sabbia si trasmuta in fuoco. Un nuovo Sole. La visione non mi turba, probabilmente è colpa del caldo, ma so, nel profondo, che questa si tratta solo di una debole scusa. Mi rassicuro dicendomi "è già successo, basta".

Mi concentro sulla stranezza maggiore, sulla preoccupante anomalia: l'assenza del signor Ascot, un uomo estremamente fedele alle sue abitudini e principi, anche nei momenti di più grande fragilità come questo. Non offre a nessuno i suoi sorrisi, ma almeno ci degnava della sua presenza.

Ma solo fino a oggi: come esatto spesso da egli, abbiamo raggiunto la sua villa puntuali, le lancette dettavano le quattro e mezza. Avanziamo lungo la via principale. Il giardino è ogni giorno sempre più incolto, come lo sono i vetri sporchi, gli angoli delle stanze, ora casa per i ragni, e le sedie immobili, ora ristoro per la polvere. Abbiamo bussato la porta principale e atteso quei pochi secondi che servono per permettere a un uomo sconvolto nell'animo da una simile perdita di scendere le scale e raggiungerci. Attendiamo... attendiamo... attendiamo ulteriormente. Nessuno apre. Ci siamo scambiati degli sguardi preoccupati, occhi che si dicono "starà ancora dormendo". Philip guarda il campanello, un pannello dorato e ignorato cela il meccanismo rovinato, i suoi danni irreversibili nonostante gli innumerevoli interventi. Prima che potessi fermarlo, l'unghia pigia disgustata il tasto appiccicoso, provocando una voce intasata di sporco e danni, gracchiante, trapanante e fastidiosa come un coro di cicale. I timpani rimangono sconvolti, il sonno calante traumatizzato: alcuni corrono le mani per le orecchie, altri per il cuore.
"Cazzo, Phil, fallo smettere!"
"Si è incastrato!"
L'altro, imbestialito, ha lanciato pedate contro la macchina infernale, un ultimo gemito indica la fine delle sue e nostre sofferenze. Solo ora ci siamo accorti della presenza che ci osserva dall'uscio, una presenza soprannaturale: mi commuovo di fronte alle sembianze del fantasma di Ea, le vesti ora fuori misura e i gioielli storti l'unica ancora che ha con questo mondo, gli occhi spiritati presentano delle borse spaventose, la postura curva e i capelli incolti dimostrano che non era prevista la sua apparizione. Il suo sguardo mi rapisce in una morsa di angoscia. "Padrona-"
"Dov'è Edward?" esige lei. La domanda rimane senza risposta. Al silenzio le sue pupille si dilatano, le mani le tremano. "Dov'è mio marito?!"
"Signora -- dice Philip -- non lo sappiamo, speravamo di trovarlo qui."
"Ma ha detto che sarebbe andato a cercarlo..." Apparentemente, il padrone le avrebbe detto che sarebbe partito alla ricerca, sostenendo che siamo un branco di incapaci.
La mancanza di vita sociale le ha fatto perdere un po' di tatto, decisamente non gradito dagli altri, tanto che i più esperti hanno calmato i novelli durante il viaggio, dicendo che "in fondo si tratta solo di una vecchia rimbambita".

Non è da Edward sparire nel cuore della notte: non aveva mai parlato di cercarlo da solo, già era stato difficile per Ea convincerlo ad assumere delle squadre di ricerca. Lui si era categoricamente rifiutato, dicendo, convintissimo, che Randall sarebbe tornato sulle proprie gambe e che non avrebbe speso un altro centesimo per lui. Sperava forse nella maturazione del padroncino, nel riconoscimento dell'autorità paterna?
Gli ci è voluta una sberla di Ea per poter riconoscere la scomparsa, a venticinque giorni dalla partenza.

è incredibile come sia cambiata anche Stansbury, che non si era mai mostrata così ostile nei confronti delle difficoltà: nel momento del bisogno, tutti hanno voltato le spalle, chi chiudendosi in casa con delle chiavi mai utilizzate, chi alzando i tacchi senza dire una parola di scuse. Sì, la partenza improvvisa di Layton mi ha non poco deluso, proprio quando volevo dimostrare la sua innocenza e chiedergli di aiutarmi nella ricerca...

Chiudo gli occhi, concentrandomi sul silenzio, finendo con il vedere le viscere della grotta, la gola che pare aver inghiottito il padroncino... Riesco a delineare perfettamente le ciocche rosse dietro i massi, le ragnatele coprirlo dalla polvere, gli occhiali frammentati e abbandonati, il liquido cremisi prolungare l'ombra dei capelli a terra, tutti soffocare di orrore--

"Erik? Erik!" mi scuote Philip, sorridendomi nervosamente. Nessuno è più a bordo, il sole non è troppo alto. Non è molto che dormo. "Ascoltami, lo so che hai a cuore questa ricerca, ma non puoi negare che sei esausto--"

"Sto bene, davvero." mi alzo, mostrando la mia lucidità, anche se le gambe indolenzite certo non aiutano.

"Veramente, Erik, non rispetti neanche più i turni di lavoro e vieni nelle rovine a spaccarti la schiena ogni santo giorno, non devi per forza nascondere la tua stanchezza." gli occhi sono molto preoccupati, ma non il mio animo.

"Non preoccuparti." Procedo verso l'ingresso di Akbadain. La nebbia onirica si dissipa completamente all'aura familiare delle rovine, il sole sorgere da Est una visione mistica che mi ruba il fiato. "E --aggiungo-- sappi che se non mi sento più in grado di procedere, ve lo dirò: l'ultima cosa che vorrei è essere un peso per voi." Accedo alle rovine.

Un sospiro rassegnato mi segue.

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Capitolo 14
*** Pece e carbone ***


Erik Ledore POV
Fremo a ogni gemito proveniente dalla stanza anonima, il suo ruolo perso con i suoi contenuti, le sale tutte gemelle ma prive di abitanti.
Ci è voluto così poco per distruggere una casa.

I lamenti sono tali che la pressione interna potrebbe essere pronta a tramutare lo spirito tormentato in polvere, mimetizzandosi poi nell'abitazione.

I pianti sollevano nella mia testa le grida e il terrore sorti al ritrovo di un cadavere, un corpo che non pensavamo di poter trovare.

Passo per i corridoi spogli, numerose macchie rettangolari tappezzano le pareti laterali sbiadendole, i bordi della carta da parati cadono, la colla secca e ingiallita evade dagli angoli; sono ancora presenti alcuni chiodi, ma nulla si sa delle fotografie o delle cornici.
Ci è voluto così poco per distruggere una famiglia.

Scuoto la testa, riprendendomi. Non posso lasciarmi andare alla disperazione, non ora che la padro… la signo… aspetta, come dovrò chiamarla adesso?
Stupidamente mi chiedo quale titolo dovrò usare d'ora in poi per rivolgermi al fantasma; padrona no, ormai non sono più un suo famiglio dopo il licenziamento; nemmeno lady Ascot, procurerebbe troppo dolore ricordarglielo. Ea è l'unica opzione rimata, ma sarebbe troppo informale e io non sono del suo rango.
Questa è una questione di poco conto! Pensa a consolarla, idiota! Il mio pugno si alza al livello degli occhi, la porta in mogano di fronte a me prova disperatamente a soffocare i pianti, i singhiozzi a fermare le lacrime. Deglutisco al preveggente scenario. «Signora,» colpisco il legno.

L'impatto provoca un sussulto spaventato, silenziando i lamenti persistenti. I respiri vengono trattenuti, ma nessuna risposta verbale viene trasmessa dall'altra parte. Poi lei riprende l'operazione precedente.

Giro la maniglia ed entro, senza attendere il consenso.

La porta rivela l'ora veggente scenario, i mobili mancanti o irriconoscibili, spostati dal loro luogo di appartenenza, privati del loro ruolo originale, ritrovati per caso in posizioni statiche di fortuna ma scomode e poco confortevoli. I soprammobili non sono esenti dal caos, il vaso di dalie del comodino ora uno scarabocchio di acqua, vetro e frammenti di petali mimetizzati al legno ora marcio, terreno di muffa e dalla dubbia stabilità, cigolante a ogni vibrazione ricevuta.
Lei dà la schiena alla porta d'accesso, inginocchiata, la posizione innaturale e la schiena arcata chiaro segno di scomodità, ma mantiene la staticità che accomuna tutti gli elementi della stanza. Lo sguardo è ancorato per gravità al pavimento, la corona stretta le deforma i palmi, l'impatto delle gocce ricorda che il tempo scorre.

Non è la prima volta che vedo la padrona lasciarsi andare nell’intimità della sua camera: tra le mie numerose commissioni vi era anche quella non dettata di consolare la signora Ascot nei momenti di fragilità o instabilità, in genere in seguito a un litigio con il figlio o un diverbio con il padrone, oppure un motivo chiaro non c'era. Anche quelle volte lei si sfogava con la stanza e il suo fragile contenuto, però la distruzione materiale era limitata e quindi riparabile. Ma lei era sempre così: il trucco sotto gli occhi dilavato accentuava le sue borse, irritando gli occhi già sangue; la pelle screpolata tradiva la sua vera età; le dita rigide e angolari negavano la sua delicatezza. Era una donna ansiosa, vecchia, nevrotica.

Ma vedendo ora la figura, una sagoma dalle forme vaghe, dalle orbite raggrinzite tutt’uno con gli angoli oscuri, quasi scorticate, dalle rughe cascanti assieme alle braccia e le vesti, trascinate tutte dai respiri affannosi, dalle unghie incolte e selvagge, si può davvero dire che questa è ancora lei?

Mi avvicino in punta di piedi, cercando di non spaventare gli elementi naturali e soprannaturali contenuti nelle quattro mura.

Lei si irrigidisce, riconoscendo la mia presenza, ma prosegue la fitta di tormenti.

Avvolgo il fantasma, la presa debole per darle aria, altrimenti morirà.
Ricambia il gesto, la mano forte per darmi sicurezza, altrimenti piangerò.
Lei respira, ma è davvero viva? Lei risponde, ma è ancora lei?    

Ora acqua idrata la mia spalla, assorbita in parte dalla camicia menta, in parte dalla cute sottostante; la durata dell'abbraccio è incalcolabile. Potrebbe essersi fermato il tempo, per quanto ne so.

La sua rigidità non svanisce con la morsa, dandomi di nuovo la schiena, subito le gambe vicine a sé, aderite al torace instabile. Nonostante le lenti riflettano la poca luce presente, è facile veggere il suo sguardo lontano, proiettato verso immagini irrealizzabili, infrante.

Un brivido di risentimento mi inghiotte.

La nuova aria si fa soffocante nonostante le tende danzanti.
Le aperte mura si fanno strette nonostante i mobili assenti.
Le sue labbra si serrano nonostante il tentato conforto. Non vi sono segni di parole improprie, paurose, esitanti. Non ha intenzione di replicare. Non vi è neanche un comune "grazie", come usava sempre dire lei.

Riconosco il tentativo vano, il fallimento grave nella coscienza, le lacrime silenziose spontanee. Senza fiatare o provocare altri rumori, lascio la stanza, chiudendo dietro di me la porta.

Pochi secondi di silenzio vengono interrotti dai suoi pianti, i suoni tra i singhiozzi randomici e indecifrabili, senza nomi, preghiere o domande, come soleva fare.
Ci è voluto così poco per distruggere una persona.

Dovevo immaginarlo che sarebbe finita così.
 

Il giorno seguente mi risveglio dal divano di cuoio secco, le crepe della pelle con nuova polvere pronta a innevare le stanze e i suoi contenuti; i cuscini risentono della mancata manutenzione, gridando addolorati. I primi bagliori filtrano per le tende scombinate, la Stella mi acceca momentaneamente, ancora basso. Saranno circa le sei del mattino. La messa inizierà fra tre ore. Meglio prepararsi subito: non possiamo di certo rischiare di arrivare tardi, in particolare oggi.
Metto mano alla mia divisa di servizio: nonostante l'importanza della cerimonia di oggi e la solennità che richiede, non ho altre vesti più presentabili ed eleganti di questa. Cerco di stirare la camicia stropicciata e umida, sia per il sudore che per le lacrime, tirandola con le mani, rimuovendo una alla volta le squame di pelle abbandonate dal sofà; riabbottono le maniche, spazzolo via la polvere dalle semplici brache kaki, sputo sulla superficie delle scarpe e rimuovo la polvere con una tenda ritrovata a terra, finendo col impolverarle di più, le incalzo come se nulla fosse. Spazzolati i capelli con le dita, scalo i gradini in coppia, agganciandomi le bretelle nel mentre.

Raggiungo quindi la porta familiare, il silenzio invade i polmoni. Per un istante sono ad Akubadain, il gelo sulle mie spalle trema, di fronte a me una fossa, il corpo dislocato grida morte, la vittima bloccata dalle ragnatele, gli occhiali persi nella caduta. Il pugno si stringe, esita, le immagini della sera precedente ancora fresche, io stesso incerto su cosa possa far sentire meglio lei. Ma la mente mi ricorda l'importanza della cerimonia di oggi, dove la puntualità è d'obbligo. Raccolgo un respiro e colpisco dolcemente l'uscio. Poi, attesi secondi di silenzio, ripeto più forte. Giro la maniglia ed entro, senza attendere il consenso.

Lo spiraglio rivela altri danni seguiti nella notte: alcune boccette di profumo non più integre, i portagioie smembrati dall'impatto con le creme, polveri preziose e cosmetici in parte spalmati a terra, in parte sulle tende strappate, non più ridenti, insieme alle coperte inutili, crude, irriconoscibili. Gli odori sprigionati sono forti e nauseanti.
Lei dà la schiena alla porta d'accesso, la sedia su cui si trova di fronte a una delle poche mobilie risparmiate dal caos generale, lo specchio leggermente macchiato dagli schizzi della cosmesi ma nel resto miracolosamente intatto. Lei non reagisce ai miei passi o alla mia presenza, si limita a guardare distante il mio riflesso.

Io invece mi blocco, rimuginando sulle parole che sceglierò di dire: sarà pure silenziosa, ma compenserà le sue parole con l'ascolto attento.
«Buongiorno...» inizio, lasciando aria dove ci sarebbe stato il titolo.

Nulla.

«Spero il sonno la abbia accolta bene questa notte.»

Le cade il mento.

«Si ricorda cosa c'è oggi, vero?»

Una lacrima le accarezza la guancia.

Ma sei scemo o cosa?! Sudo freddo, passo oltre, avvicinandomi. «L-la aiuto a prepararsi.»

La goccia raggiunge le dita sovrapposte al ventre.

Inspiro profondamente. Le mie dita inesperte e grezze cercano il vestito più adatto. Non ho la più pallida idea di cosa dovrebbe indossare una signora per questi eventi, ma mi limito a vedere per un abito elegante e nero. I polpastrelli sentono un tessuto leggero e traspirante, perfetto per una calda giornata estiva come questa. Deve essere seta. Prendo la sua gruccia e ispeziono da vicino il completo: un vestito in maniche lunghe dai dettagli assenti, quasi piacevoli, insieme al suo velo discreto. È nero, e questo mi basta.
Mi volto e trovo lei già in piedi, pronta per la vestizione, senza una mia verbale richiesta. La aiuto con l'inserimento delle maniche e delle spalle, sistemando le spalline piegate ed eliminando tutte le grinze; stiro la gonna, rivelando la lunghezza che nasconde i piedi callosi.

Lei contribuisce con la vestizione, passivamente. Si torna a sedere, sapendo esattamente cosa segue.

Prendo da terra il cofanetto di legno ora decorato da crepe e trucco. Alla signora Ascot era molto caro questo portagioie, avendo al suo interno i suoi regali di nozze più preziosi e cari. "Vedi, questi me li ha regalati al nostro primo anniversario." mi disse una volta. Prendo gli orecchini d'oro all'istante, inserisco il chiodo nel lobo e chiudo con la farfallina.

Lei si guarda allo specchio, scoprendo le orecchie dalle ciocche laterali. Ma poi silenzio, il suo sguardo cade sull'anulare sinistro nudo.

Ora tocca sistemare l'acconciatura: raccolgo la spazzola, le setole spartite e rovinate dal vetro, e rimuovo le pericolose schegge; separo la sua folta chioma in ciocche e le pettino, una per una, piano piano, per evitare che qualche nodo possa procurarle fastidio. Inserisco delle spille, raccogliendo i capelli in uno chignon.

Se normalmente si lamentava della lentezza e superficiale cura, ora non fiata.

Esamino il volto di lei, annotandomi in mente tutti i segni indesiderati da nascondere, come mi insegnò la signora Dalilah in una delle sue lezioni riguardanti l'uso della cosmesi. Ricordo ancora come «non vi è signora, tanto meno nobil donna quale signora Ascot, che possa permettere di esibire la sua vera età o rivelare in qualsivoglia forma le problematiche e disagi privati con cui convive,» ricordo anche la sua risata altezzosa in risposta alla mia domanda. «Perché, mi chiedi? Ma è ovvio: non sarebbe educato far presente agli altri dei propri problemi, ne avranno già abbastanza loro! E poi non risolverà il proprio malessere.» Ma certamente aiuterà, avrei risposto se fossi stato più coraggioso, ma al tempo tenni il pensiero per me.
Provo a raccogliere quanto si può salvare della cosmesi gettata, in bella vista un bastoncino con corte setole affogato in inchiostro nero. Rimane reperibile solo un flacone color carne, la crema completamente contenuta. Un fondotinta. Me lo farò bastare.
Spalmo la lozione sotto gli occhi, la stanchezza esistenziale impossibile da occultare.

Non reagisce alle mie dita, possibile fonte di disturbo alle sue visioni.

Raccolgo le scarpe gettate a terra. Pettino il velluto, ora la tonalità di rosso omogenea su tutta la superficie.

Lei estende una gamba alla volta in posizione.

Mi appoggio al ginocchio destro e calzo i piedi.

Si alza dalla sedia e si guarda allo specchio, senza dare vero pensiero ai gesti, automatici per l'abitudine. Neanche il tacco riesce a nascondere la sua recente gobba. Gli occhi vuoti vagano per la stanza, poi collidono sulla porta.

Mi dirigo lì, apro l'uscio, offrendole l'apertura, come mi hanno insegnato, e lei procede, i passi lenti per provocare più rumore. La prendo a braccetto e la accompagno verso la rampa di scale. Al primo gradino mi accorgo dell'ombra slegata, i tacchi fissi seguono un religioso silenzio rivolto alla porta proibita, gli occhi fissi perlustrano le scritte sbiadite, le dita scorrono i contorni storti di cartone; anche se quei cartelli erano stati fatti di fretta da Randall, nessuno ha mai osato violare la loro richiesta: "vietato l'accesso". Solo a me era stato concesso di varcare la porta sotto ordine del padroncino. Ma ora entrarvici sarebbe un sacrilegio.

Lei ha già varcato l'entrata.

Nonostante la macchia di vergogna che mi annebbia, mi guardo intorno: pare che nessuno vi sia entrato dopo la scomparsa di Randall, le mobilie intatte, anche se la finestra spalancata, non come l'aveva lasciata lui; questa volta le tende sono sedute sul balcone. Osservo il drappo a terra, il grande enigma svelato, i segni dei pennarelli quasi incisioni sull'intonaco. Solo ora mi accorgo della meraviglia delle sue scoperte, considerando la sua giovane età, oltre che per l'aspetto più tecnico.

Eppure lei non dà attenzioni alle tende, tantomeno agli scarabocchi sul muro spoglio. Alla cieca si avvia verso l'armadio polveroso. Apre le ante, fruga tra i vestiti.

La seguo e trattengo le grida che vogliono esplodere. «Signora, sarebbe ora di andare.»

Lei continua a scompigliare l'ordine. Tra i tessuti sfila un grande sacco di plastica, senza pieghe e imperfezioni. Appende la sua gruccia all'angolo dell'armadio, rompe il sigillo, svelando un completo nero elegante, i bottoni ancora lucidi, uno stemma nascosto dal fazzoletto piegato alla perfezione come nuovo.
I suoi occhi guardano i miei, non il loro riflesso, non la nebbia che si solleva; guarda me, per troppo tempo. Poi il suo sguardo si sposta verso la veste. Le dita rugose afferrano la veste e la misura sulle mie spalle, lungo le braccia e per le gambe appoggiandola, il fine tessuto ora contaminato dalla polvere. Alza il completo nel mio campo visivo, avvicinandomelo: «Indossalo,» mi dicono i suoi gesti.

Prendo la gruccia e, immobilizzato dalla presenza di lei, mi limito a tenerlo lontano da ogni superficie.

Lei si dilegua, gli spettrali tacchi unica indicazione della sua crescente lontananza.

Ne tasto le cuciture, il tessuto carbone ancora morbido come appena confezionato. Indosso la cimicia candida leggermente larga alle maniche, i pantaloni cascanti ai fianchi, la cravata rossa e la giacca che copre le imperfezioni delle vesti. La divisa di lavoro è improvvisamente più sporca e inappropriata al tatto e alla vista. E io che pensavo anche di portarla per un funerale, assurdo.

Lei ritorna, la sua presenza cresce gradualmente, il suo viaggio segnato da una catena di perle e rombi fangosi. La gobba è più pronunciata a causa del peso che portano le sue mani: la destra contiene un paio di consumate ma eleganti oxford pece, la sinistra tiene intrappolata una rosa nera, le spine non danno pietà, lo stelo bagnato di terra e sangue.

Prendo immediatamente le scarpe per liberarla dal peso; le indosso senza calzini e calzascarpe per non perdere tempo. I movimenti sono automatici e i lacci circondano il dorso dei piedi a forza.

Vedendomi pronto, lei si appresta a posizionare il fiore, la depressione dell'anulare ora ricolmata; rimuove il fazzoletto senza troppi pensieri, svelando la figura: un libro sovrasta un martello e una penna incrociati.

E lì mi rendo conto di cosa sta succedendo. A fatica registro gli altri movimenti.
Ho indosso una veste di Randall. Questa è la divisa che lui avrebbe dovuto indossare al Gressenheller. Io- io non posso accettare, non è il mio destino. La divisa è ancora sua.

Lei risistema la rosa, i petali persi nel processo sulle scarpe e a terra. Solleva lo sguardo, gli occhi vivi ma distanti, le labbra mimano parole, ora fiatate. «Ti sta benissimo―mi sorride, per davvero―io e tuo padre siamo così fieri di te. Rendici ancora più orgogliosi, Randall.» mi accarezza la guancia, un peso entra nella mia attenzione. Il nome si sparge in un eco, senza risposta, ma a lei non importa.

Un brivido di timore mi sovrasta. Sì, Ea è sempre stata particolarmente affezionata e devota nei miei confronti e spesso mi diceva che mi avrebbe adottato se avesse potuto. Ma questo, permetterle di proiettare Randall in me?
, mi avrebbe detto la signora Dalilah, se fa sentire la propria padrona a suo agio.
, mi dico io, se è temporaneo. E lo è.

Stavolta lei mi accompagna per l'uscita, continuando a elogiare Randall per i suoi pieni voti.

Un peso sul ponte del naso entra nella mia attenzione, poi mi accorgo della cornice attorno alla mia visione. Deve essere la montatura di scorta di Randall: voleva a tutti i costi averne un altro paio per non poterne mai stare senza. Sono sicuro che anche ora la ha indosso: non oserebbe mai togliersela.

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