Anchor

di Duvrangrgata
(/viewuser.php?uid=94570)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** Intermezzo ***
Capitolo 5: *** III ***
Capitolo 6: *** IV ***
Capitolo 7: *** V ***
Capitolo 8: *** Intermezzo ***
Capitolo 9: *** VI ***
Capitolo 10: *** VII ***
Capitolo 11: *** VIII ***
Capitolo 12: *** Intermezzo ***
Capitolo 13: *** IX ***
Capitolo 14: *** X ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


anch

 
 
 
PROLOGO
 

Così sono partito per un lungo viaggio
Lontano dagli errori e dagli sbagli che ho commesso
Ho visitato luoghi
Per non doverti rivedere
E più mi allontanavo
E più sentivo di star bene
 
Ti ho voluto bene veramente – Marco Mengoni
 
 
 
 
Quanti anni si potevano passare in un posto prima di poterlo chiamare casa?
Viveva a Milano ormai da tempo, eppure non era casa. Se lo sentiva nelle ossa, nel sangue, che quella città e la sua gente non sarebbero mai state parte di lui.
Casa non era lì, ma questo l'aveva sempre saputo. Dopotutto, non se n'era andato da Firenze aspettandosi di trovarne una altrove, semmai il contrario.
Aveva lasciato Firenze sapendo benissimo, con ogni fibra del suo corpo, che non ci sarebbe mai stata alcuna casa a cui tornare.
 
Ring, ring, ring
 
Non vedeva né sentiva suo fratello da quattro anni. Si era detto che tagliare i rapporti era stata la scelta più giusta, ma ora non poteva fare a meno di chiedersi se non fosse stata quella più facile. Elia gli aveva sempre detto che fuggire non sarebbe servito a nulla, ma lui non l’aveva ascoltato e ora ne pagava il prezzo ogni giorno – alcuni più di altri.
 
Ring, ring, ring
 
Avrebbe potuto ignorare la chiamata e continuare la sua vita come se niente fosse, così come aveva fatto tutte le altre volte da quando era uscito di prigione, dimenticando – no, fuggendo.
Fuggire era quello che gli riusciva meglio, quindi perché non continuare a farlo? Chi glielo avrebbe impedito? Elia? Suo fratello ci aveva provato, all’inizio, ma si era arreso ormai da tempo. Enea non lo biasimava affatto. Aveva retto molto più di quanto avesse retto lui, in fondo. All’inizio si erano tenuti in contatto, ma ogni chiamata era stata come sale su una ferita ancora aperta. Gli faceva male – faceva male ad entrambi –, soprattutto perché gli rammentava come Elia non avesse scelto lui anni prima e come continuasse a non farlo, chiamata dopo chiamata.
 
Ring, ring, ring
 
La Telefonata, era così che la chiamava nella sua testa, era arrivata due anni dopo che aveva lasciato Firenze, a diversi mesi di distanza dall’ultima. Era successo nel bel mezzo della notte, il suono del suo cellulare aveva squarciato il silenzio come un tuono in una nottata serena, svegliandolo di soprassalto. Ci aveva messo qualche secondo a capire cosa stesse succedendo, ma non c’era stato spazio per altro che non fosse terrore, quasi una parte di lui già sapesse.
Era rimasto a fissare lo schermo finché il telefono non aveva smesso di suonare.
Solo che poi aveva ripreso. E ripreso, e ripreso.
Alla fine, aveva risposto, ma non aveva detto nulla, ascoltando le parole di Elia. All’inizio non aveva sentito niente, non aveva neanche capito cosa il fratello stesse dicendo, ma poi la consapevolezza lo aveva colpito come un pugno nello stomaco.
Sua madre aveva il cancro.
Elia gli aveva chiesto di tornare a Firenze e per un secondo Enea aveva immaginato come sarebbe stato. Con il telefono ancora contro l’orecchio, aveva ripensato alle urla, agli schiaffi, agli insulti, all’inferno che era stata la sua vita da quando il suo segreto era stato scoperto, e aveva capito. Aveva capito che non avrebbe mai potuto farlo. Era troppo egoista per sacrificare la sua vita e tornare a Firenze per stare al capezzale di una donna che non lo voleva lì, in nome di un legame che aveva smesso di avere un significato molto tempo prima.
 
Ring, ring, ring
 
C'era un posto dove sua madre era solita portarli ogni estate, uno dei pochi della sua infanzia riguardo ai quali conservava solo ricordi piacevoli. Si trovava in una zona della Toscana vicino alla costa, un piccolo paesino dove i suoi nonni avevano una casa che utilizzavano durante i mesi caldi. Erano passati molti anni dall'ultima volta che ci aveva messo piede, ma ricordava ancora il colore azzurro della villetta, posta non lontano dalla spiaggia, e l'odore del mare, portato dal vento e dalle onde. Solitamente sua madre li lasciava con i nonni nei mesi caldi e tornava a prenderli prima dell'inizio della scuola. Era durante una di quelle estati che aveva incontrato lui: Mattia.
Mattia era un ragazzino della loro età che abitava a poche case di distanza. Erano cresciuti tutti e tre insieme e, a sedici anni, Enea aveva iniziato a rendersi conto che c'era qualcosa di diverso, in lui. Quando guardava Mattia, non provava cioè che avrebbe dovuto provare per un ragazzo, e questo lo terrorizzava.
All'inizio, ne era stato così spaventato che aveva negato la verità con tutte le sue forze, cercando di uscire con ragazze diverse ed evitando Mattia per settimane, cercando di eludere le domande di Elia in tutti i modi possibili, ma non era durata. La situazione di stallo era stata spezzata da Mattia stesso.
Enea ricordava ancora la sua rabbia, quando lo aveva messo all'angolo pretendo spiegazioni, e ricordava anche il sapore delle sue labbra e come si fosse sentito completamente sé stesso per la prima volta nella sua vita, quando lo aveva baciato e l'altro aveva ricambiato. Inizialmente avevano tenuto nascosto quello che era nato fra loro, ma lui non aveva retto più di una settimana, prima di dirlo ad Elia. Non c’erano mai stati segreti tra lui e il suo gemello e, per quanto l'idea di rivelargli di essere gay lo spaventasse, sapeva che suo fratello l'avrebbe sempre accettato per quello che era, e così era stato.
 
Ring, ring, ring
 
Era stata una bella estate, quella dei suoi sedici anni. L'ultima felice, prima che tutto precipitasse. Quando sua madre era tornata a prenderli, una settimana prima del previsto, e aveva scoperto lui e Mattia insieme era uscita fuori di testa. Aveva caricato in auto sia lui che Elia, sorda a qualsiasi protesta, e li aveva riportati a casa senza voltarsi mai indietro. Da allora, non aveva più permesso loro di tornare alla casa dei nonni e qualsiasi contatto con Mattia era stato interrotto. Ne era stato distrutto, nonostante non lo amasse – non ancora –, ma a nulla erano valse le sue proteste.
Il rapporto con sua madre, già prima complicato, era diventato impossibile.
Lei lo considerava un mostro, un abominio, e neanche Elia, alla lunga, riusciva più a fare da intermediario tra loro due. Il suo gemello non lo diceva chiaramente, ma Enea glielo leggeva negli occhi che non ce la faceva più a dividersi tra le due persone più importanti della sua vita. Lui non aveva mai avuto con lei il legame stretto che aveva Elia, era sempre stato molto più indipendente e testardo e questo li aveva portati a scontrarsi diverse volte durante gli anni, ma lei era comunque sua madre. Era stata l’unica altra persona, oltre al suo gemello, a cui avesse voluto bene con tutto sé stesso, e il suo rifiuto di accettarlo per quello che era lo aveva spezzato.
 
Ring, ring, ring
 
Enea non aveva potuto sopportare l'idea che suo fratello pagasse le conseguenze dell'odio che lei provava per lui e così, compiuti diciotto anni, se n'era andato. Non era stata una scelta facile, ed Elia aveva cercato di fermarlo in tutti i modi, ma senza successo. La verità era che, fino a quel momento, lui era rimasto per una sola ragione: Elia. Non sopportava l'idea di abbandonare il fratello, così come aveva fatto il padre, ed era disposto anche a sopportare l'odio e l'omofobia di sua madre, pur di restargli accanto. A quanto pare, però, due anni erano il massimo che potesse sopportare senza impazzire – o quasi. L'atteggiamento della donna l'aveva reso poco più che un essere fatto di rabbia e risentimento e il disgusto verso sé stesso l'aveva quasi annientato. Per quanto sapesse che quello che lei diceva era sbagliato, non aveva potuto fare a meno di cercare di reprimere quella che era, nella speranza che lei tornasse ad amarlo e a considerarlo suo figlio.
Non aveva funzionato.
Aveva chiesto ad Elia di seguirlo, ma lui aveva rifiutato. Gli aveva spezzato il cuore, ma aveva capito la sua scelta. Dopotutto, non possedeva che qualche centinaio di euro, nessun posto dove andare e un misero diploma di Liceo Artistico. Non aveva avuto un piano, a quel tempo, solo il desiderio di scappare il più lontano possibile da quella città che amava e che era diventata la sua prigione, prima che diventasse anche la sua tomba. A quanto pare, però, sembrava che i fantasmi del suo passato non avessero mai smesso di aspettare il suo ritorno, e che ora si fossero stancati di attendere.
 
Ring, ring, ring
 
«Pronto.»
«Enea…»
«…»
«I dottori dicono che le restano pochi giorni, forse meno.»
«Perché me lo stai dicendo?»
«Pensavo dovessi saperlo, in caso volessi…»
«No. Non chiedermelo, Elia.»
«Ti prego, cerca…»,
 
Click

 

 

 

Note dell’autrice
Ho iniziato a scrivere questa storia a dicembre 2013. Al tempo ero ancora al liceo e stavo passando un brutto periodo, ed Enea ed Elia sono letteralmente sbucati fuori dal nulla. Non mi ero mai capitato di avere personaggi così chiari nella mia testa fin dal primo momento, e fino ad oggi non ce ne sono stati altri.
Ho letteralmente versato la mia anima in questa storia, soprattutto nel personaggio di Enea. A distanza di sei anni dalla prima versione di questa storia, che era lunga solo tre capitoli e si svolgeva in modo un po’ diverso, rileggo Enea e mi rendo conto di quanto le sue emozioni e azioni riflettano come mi sentivo in quel periodo. Tra tutti i personaggi di questa storia, lui incarna i miei difetti peggiori e i tratti più bui della mia personalità, è lo strumento attraverso il quale sono cresciuta e ho esorcizzato i miei demoni. Sviluppare il personaggio di Enea è stata l’esperienza catartica di cui avevo un estremo bisogno così tanti anni fa e, anche ora che la mia vita è cambiata, scrivere di lui mi aiuta a districare quella matassa di sentimenti che spesso non so come gestire.
Nonostante mi identifichi molto di più con Enea, anche Elia è un personaggio estremamente importante. È la calma dopo la tempesta che è il suo gemello, scrivere di lui è come un balsamo sull’anima, come immergersi in un lago limpido o prendere una boccata d’aria fresca. È il completamento perfetto di Enea, la sua metà.
Non mentirò dicendo che scrivere questa storia sia facile. A data odierna (27/02/19), essa è ancora in fase di scrittura e di plottaggio, soprattutto perché i personaggi stanno crescendo e maturando così come sto crescendo e maturando io, ed è un processo lungo e faticoso. Inoltre, l’incesto non è una tematica facile da affrontare e, personalmente, non è il genere di romanzo/storia che mi piaccia leggere, motivo per cui quest’opera è stata una piacevole sorpresa per me. Non ho mai scritto nulla del genere e, sinceramente, non credo che lo farò mai più. Per me l’idea di incesto è applicabile, ora come ora, solo a questi due personaggi, probabilmente perché nella mia testa sono sempre stati le due facce di una stessa moneta, le due metà di un intero.
La loro unione è sempre stata inevitabile.
Proprio per la tematica delicata, capisco che questa storia potrebbe non essere adatta per tutti, ma spero comunque che decidiate di darle un’occasione. Chi lo sa, potrebbe sorprendervi.
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** I ***


anch

 

 

 

I
 
 
My past has tasted bitter
For years now
So I wield an iron fist
Grace is just weakness
Or so I've been told
I've been cold, I've been merciless
But the blood on my hands scares me to death
Maybe I'm waking up today
 
I’ll be good – Jaymes Young
 
 
 
«Allora, com’è andato quest’ultimo mese?»
Enea scrollò le spalle, senza incontrare lo sguardo dell’uomo seduto davanti a lui. Intorno a loro, il vociare degli altri avventori del bar armonizzava con i rumori delle auto che passavano, senza tuttavia riuscire a distrarlo completamente dai suoi pensieri.
«Enea…»,
«Mio fratello ha chiamato.»
Lo disse in tono secco e freddo, quasi non gli importasse, ma entrambi sapevano che non era così.
«Hai risposto?»
«Sì.»
Arturo rimase in silenzio, aspettando pazientemente che continuasse a parlare, come faceva sempre.
«Lei… sta morendo. Ha detto che le restano pochi giorni e ha lasciato intendere che vorrebbe che andassi a Firenze.»
L’uomo intrecciò le dita davanti al viso, guardandolo fisso negli occhi con espressione imperscrutabile.
«Non lo so», mormorò, stringendo le mani intorno alla tazza di caffè che aveva davanti. Andare a Firenze era fuori discussione e davvero non riusciva a capire come Elia potesse chiedergli una cosa del genere. Non voleva rivedere sua madre più di quanto lei volesse rivedere lui. Certo, non era felice per la sua malattia, più che altro perché sapeva quanto il suo gemello le fosse legato, ma non faceva davvero alcuna differenza per lui –o forse sì?
Arturo sembrò intuire la direzione dei suoi pensieri, perché sospiro. «Se decidessi di andare – e bada bene, non sto dicendo che dovresti – non lo faresti per lei, ma per te stesso. Per chiudere definitivamente con il passato.»
«Vuoi che la perdoni?!», sbottò, le mani che si serravano a pugno per contenere la rabbia che gli si contorceva dentro.
«Nessuno ha mai parlato di perdonare, e anche se fosse, non è detto che sia lei la persona che devi perdonare. Elia…»
«Elia ha fatto la sua scelta molti anni fa», sibilò, il dolore nel sentire e dire il nome del gemello tanto acuto da togliergli il fiato.
«Forse sì, forse no», rispose l’altro, enigmatico come sempre, «ma forse dovresti comunque parlare con lui. Dopotutto, un tempo eravate in grado di mantenere un rapporto a distanza, magari riprendere i contatti potrebbe…»
«Sì, e sappiamo entrambi come è andata a finire, no? E comunque, non ho bisogno di lui», sbottò, digrignando i denti.
«Davvero? E cosa mi dici dei tuoi problemi a gestire la rabbia?»
«Non ho più…»,
«Ne sei sicuro? Imparare come gestirla è stato l’obbiettivo delle nostre sedute fin da quando sei uscito di prigione, è devo dire che sono soddisfatto dei tuoi progressi», Arturo fece una pausa, spingendolo ad incontrare i suoi occhi, «ma ora è tempo di capire da dove viene questa rabbia, e tuo fratello è indispensabile per farlo.»
Enea chiuse gli occhi, respirando profondamente. Una parte di lui – seppur piccola e insignificante – sapeva che l’uomo aveva ragione, eppure la sola idea di tornare a Firenze gli dava la nausea.
Lasciò vagare lo sguardo per il bar, osservando le persone ma senza vederle davvero, la sua mente che tornava alle prime sedute che aveva fatto con Arturo. Si erano incontrati nel suo studio, almeno per le prime quattro o cinque volte, durante le quali Enea non aveva detto una parola, limitandosi a fissare la parete dietro la testa dell’uomo. Arturo, del canto suo, non aveva cercato di avviare una conversazione, ma dopo qualche tempo aveva iniziato spostare le loro sedute in palestra. Enea si allenava e sfogava la sua rabbia, smettendo di sentirsi come un fenomeno da baraccone sempre sotto esame, e Arturo otteneva l’apertura necessaria per instaurare un dialogo. Era stato diffidente, all’inizio, ma l’uomo aveva fatto pugilato per molti anni, prima di diventare psicologo, e lo aveva messo al tappeto diverse volte – e non solo fisicamente –, guadagnandosi la sua fiducia.
Enea avrebbe dato qualsiasi cosa per poter affrontare quel discorso con i guantoni, ma quando aveva chiamato Arturo, l’uomo aveva insistito per vedersi altrove, probabilmente intuendo la necessità di un approccio diverso.
«Non voglio vederla. Non posso sentirle dire di nuovo…», la voce gli si strozzò in gola, spingendolo a chinare la testa.
«Lo so», l’uomo si allungò e gli strinse una mano sul braccio, cercando di rassicurarlo, «lo so.»
Si congedarono poco dopo, dirigendosi ognuno per la sua strada. Mentre camminava verso casa, Enea rifletté sulle parole dell’uomo, interrogandosi. Per anni aveva ignorato la malattia della madre, fingendo che non stesse accadendo nulla e lasciando che se ne occupasse suo fratello, seppellendo qualsiasi sentimento riguardo entrambi che non fosse rabbia, rancore e dolore. Aveva sempre pensato che andarsene da Firenze fosse stata la cosa migliore che avrebbe potuto mai fare, e probabilmente era stato così anni prima, ma ora la situazione era diversa. Oppure no? Non ne aveva idea e non voleva pensarci.
Arrivato nella sua stanza, afferrò un blocco da disegno e si sedette per terra, la schiena contro il lato del letto e una matita stretta tra le dita.  Iniziò a disegnare, fregandosene di non avere un soggetto ben chiaro in mente – raramente lo aveva. Voleva solamente buttare fuori tutto, fino a svuotarsi, fino a sentire solo il dolore alle dita e poi neanche più quello. Voleva disegnare fino a non avere più nulla da dire o perdere, fino a dimenticare chi fosse e chi era stato; poi voleva scendere giù nel negozio, tatuarsi addosso quella nuova pelle e fingere, almeno fino alla prossima telefonata, di avere ancora tutto il tempo del mondo per prendere una decisione.
 
 
***
 
I tried to walk together
But the night was growing dark
Thought you were beside me
But I reached, and you were gone
Sometimes I hear you calling
From some lost and distant shore
I hear you crying softly for the way it was before
 
Hymn for the missing – Red
 
 
Si svegliò di colpo, il respiro affannato e il sudore freddo che gli ricopriva il corpo. Con il cuore in gola senza alcun apparente motivo, afferrò il telefono qualche istante prima che incominciasse a suonare, stringendolo con tanta forza da farlo scricchiolare.
«Elia», sussurrò rauco, lottando contro la marea di sentimenti che lo stava travolgendo.
«Se ne è andata», la voce del suo gemello era un misto di dolore, sollievo e lutto. Era come una forza fisica che lo avvolgeva, minacciando di soffocarlo.
«Elia…»
Prima che potesse trovare le parole l’altro riattaccò, lasciandolo a boccheggiare come un pesce per lunghi minuti, lottando per riprendere il controllo.
Erano sempre stati in grado di percepire i sentimenti l’uno dell’altro, quasi come un sesto senso o un istinto particolare, e la distanza non aveva attenuato quella connessione: Enea si era ritrovato spesso invaso da forti sensazioni improvvise, fuori posto rispetto al suo stato d’animo del momento. Aveva sempre saputo che erano collegate ad Elia, anche se aveva cercato di ignorarle dopo la sua partenza, senza mai riuscire a farle sparire del tutto. Fu quella connessione che lo spinse ad agire, portandolo ad infilare qualche cambio di vestiti e altri oggetti utili in una valigia e ad uscire di casa, il dubbio che lo divorava vivo. Non voleva tornare a Firenze, non voleva starsene seduto in chiesa a fingere cordoglio per qualcuno per cui non provava altro che odio e risentimento, ma era come se Elia lo stesse attirando a sé, il suo dolore che scavava una voragine nella sua anima.
Gli tornarono in mente le parole di Arturo il giorno prima, a proposito di chiudere con il passato. Forse l’uomo aveva ragione, dopotutto.
Forse era tempo di tornare a casa.
 
 
 
 
 
 
Note dell'autrice

Sembra che, alla fine, Enea abbia preso la sua decisione. Solo il tempo ci dirà se sia stata quella giusta...Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto e mi facciate sapere cosa ne pensate nei commenti! Alla prossima, Dru
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** II ***


 

anch

II

 
I never want to leave this sunset town
But one day the time may come
And I'll take you at your word
And carry on
I'll hate the goodbye
But I won't forget the good times
I won't forget the good times
 
Good Times – All Time Low
 
 
 
Enea lasciò vagare lo sguardo sul paesaggio che scorreva fuori dal finestrino, le dita che tamburellavano sul blocco che teneva tra le mani. Aveva iniziato a disegnare quando la tensione dell’attesa era diventata insopportabile – senza realmente fare caso a quello che la matita stesse tracciando sulla carta – e il risultato, dopo più di un'ora di viaggio, era uno schizzo della cupola della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, bellissima come la ricordava. Era curioso come, nonostante fossero passati tanti anni, l’immagine della città fosse ancora lì, impressa a fuoco nella sua memoria. Non che non avesse provato a cancellarla, ovviamente, ma non era Firenze il problema – non lo era mai stato.
Il problema erano i ricordi legati a doppio filo alle sue strade e alla sua gente, fantasmi del passato che non avevano mai smesso di perseguitarlo, né di aspettare il suo ritorno.
Appoggiò nuovamente la matita sul foglio, ricominciando a disegnare. Negli ultimi anni, risparmiando faticosamente, era riuscito a viaggiare e visitare diverse città, ma nessuna di esse aveva – o avrebbe mai – potuto competere con la sua terra natìa, la città dove era nato e cresciuto e dove aveva lasciato il suo cuore quando se n'era andato, a diciotto anni, senza voltarsi più indietro.
Il treno iniziò a rallentare ed entrare in Firenze Santa Maria Novella, la stazione centrale della città, e lui si alzò di scatto, incapace di trascorrere un secondo di più a bordo del mezzo. Si diresse velocemente verso la porta più vicina, iniziando a tamburellare nervosamente con il piede sinistro, in attesa che il treno si fermasse del tutto per poterla aprire e precipitarsi finalmente all'esterno. Era sempre stato un tipo poco paziente, fin da bambino, una cosa che suo fratello Elia gli aveva sempre rimproverato.
Elia.
Il suo gemello era sempre stato il perfetto esempio di calma e compostezza, per non parlare della sua pazienza pressoché infinita, che l’aveva sempre irritato da morire – ma soltanto perché ne era geloso.
Sbuffando, iniziò a premere ripetutamente il tasto di apertura, come se il gesto potesse scacciare il pensiero del suo gemello. Quando le porte finalmente si aprirono tirò un sospiro di sollievo, scendendo velocemente con la valigia al seguito.
Se ci fosse stata una parola con cui avrebbe descritto se stesso, era proprio “sinistra”: era mancino, aveva fatto il suo primo tatuaggio – un'àncora colorata che aveva disegnato personalmente – sul braccio sinistro, portava un labret ad anello al labbro inferiore – a sinistra – e un dilatatore da 8 mm – ovviamente al lobo sinistro.
Se lui era la sinistra Elia era, ovviamente, la destra; e insieme beh... insieme erano tutto.
O almeno lo erano stati, prima.
Fuori dalla stazione prese un taxi per Santa Maria del Fiore, non riuscendo a resistere alla tentazione di visitarla prima di andare a cercare un albero dove alloggiare. Seduto sul sedile posteriore dell’auto, lasciò vagare lo sguardo sul paesaggio fiorentino che scorreva fuori dal finestrino, cercando di cogliere più dettagli possibile. Inconsciamente, si era aspettato di sentirsi un estraneo in quella che, suo malgrado, non aveva mai smesso di considerare la sua città, eppure si rendeva conto che non era così. Ogni strada, ogni edificio, tutto gli era famigliare come sei anni prima, quasi non se ne fosse mai andato ma, allo stesso tempo, niente era rimasto uguale.
Quando il taxi si fermò Enea pagò velocemente e poi uscì, dirigendosi a passo svelto verso la Cattedrale di Santa Maria del Fiore, simbolo di Firenze, la cui cupola svettava maestosa e visibile anche a chilometri di distanza. La chiesa era di marmo bianco, verde e rosso, con la facciata ottocentesca, tre grandi porte bronzee e un rosone. Oltre a Santa Maria, l'omonima piazza ospitava anche il Campanile di Giotto, ricco di decorazioni scultoree opera dei migliori artisti fiorentini, e il Battistero dedicato a San Giovanni Battista, patrono della città. Esso si trovava di fronte alla Cattedrale, nella continuazione ad ovest della piazza, che per questo era denominata piazza San Giovanni.
Mentre camminava con il naso all'insù per ammirare i monumenti che non vedeva da tempo, ma che erano ancora vivi nella sua memoria, si fermò a contemplare le opere degli artisti di strada, soffermandosi sui disegni e i dipinti di molti di loro e ricordando un se stesso di sedici anni che trascorreva i pomeriggi ad offrirsi di ritrarre i turisti per qualche spicciolo. Sembrava passato solo un giorno da allora e, allo stesso tempo, una vita intera.
«Enea?»
Si girò d’istinto verso la voce, ritrovandosi improvvisamente travolto da un ciclone dai capelli scuri che lo stritolò in un abbraccio che quasi gli frantumò le ossa.
«Y-Yelena??», balbettò sorpreso, cercando di non soffocare, mentre la ragazza si staccava da lui, salutandolo con un allegro: «Priviet!», come se dall'ultima volta che si erano visti di persona fossero passate solo poche ore e non sei anni.
La fissò stralunato, prendendosi qualche secondo per osservarla: indossava un paio di jeans stracciati e una maglietta a maniche corte bianca con schizzi di vernice colorata – identica a quella che giaceva sepolta nei meandri del suo armadio, ora che ci pensava –, i lunghi capelli, un tempo castani, erano tinti di azzurro e legati in una treccia scomposta che le pendeva distrattamente su una spalla. Aveva le mani sporche di tempera e le unghie corte dipinte di un blu scuro, quasi nero, con disegnati sopra dei piccoli fiocchi di neve candidi.
Sorridendo della sua irruenza, Enea se ne uscì con un: «ma cosa ci fai qui?», che la fece ridere di gusto.
«Anche io sono felice di vederti», ribatté lei una volta ripreso fiato, mettendosi le mani sui fianchi e fissandolo con aria di rimprovero.
«Scusa», ribatté rivolgendole un sorriso malandrino, «ciao Yele, come stai? Cosa ci fai qui?»
«Ehi!», rise lei, «io qui ci vivo! Dovrei essere io a farti questa domanda, anche se credo di sapere già la risposa», disse sorridendo mesta e alzandosi sulle punte per scompigliargli i capelli neri con affetto. Enea la fissò sorpreso, leggendo nei suoi occhi la verità che la ragazza sembrava non voler dire ad alta voce.
«Come lo sai?»
«Elia mi ha chiamato appena i dottori lo hanno informato», spiegò, osservando con attenzione la sua reazione. Enea strinse i pugni contro i fianchi, scacciando quella voce insistente che gli diceva che avrebbe dovuto esserci lui al posto della ragazza, lui a prendersi cura di sua madre, non perché gli importasse di lei, ma perché suo fratello non si meritava di affrontare qualcosa del genere da solo.
«Non mi aspettavo che venissi», aggiunse lei dopo qualche secondo, strappandolo dalle sue riflessioni rabbiose.
«Nemmeno io», ammise lui, sorridendole tirato.
«Immagino. Non so se l’avrei fatto, al tuo posto. Sono felice che tu sia qui, però»,
mormorò la ragazza, abbracciandolo con forza. Enea immerse il naso nei suoi capelli, respirandone l'odore di fiori, di sole, di casa.
«Ya skuchal po tebe», mormorò in risposta chiudendo gli occhi.
Mi sei mancata.
«Mi sei mancato anche tu», rispose lei stringendolo a sua volta.
«Cosa farai ora? Andrai da Elia?»
Enea ignorò il pugno allo stomaco che il nome del gemello sembrava procurargli, scuotendo la testa.
«No. Non sa neanche che sono qui.»
Yelena inclinò la testa, studiandolo con i suoi occhi azzurri.
«Fammi indovinare, hai preso una decisione improvvisa e ora te ne stai pentendo.»
Enea fece una smorfia. La ragazza lo conosceva davvero troppo bene per i suoi gusti. Non c’era più abituato.
«Qualcosa del genere», rispose infine scrollando le spalle.
«Quindi, qual è il piano?»
Sospirò, «per prima cosa, devo prenotare un albergo o qualcosa del genere dove alloggiare nei prossimi giorni.»
La ragazza batté le mani, eccitata, «perché non vieni a stare da me, risparmieresti sull’alloggio e avresti tutto il tempo per spiegarmi cosa sta succedendo e cosa è successo in passato.»
Il ragazzo esitò, indeciso, ma qualcosa dentro di lui lo spinse ad accettare. Aveva sempre sentito di poter parlare di tutto con Yelena, qualcosa che gli capitava solo con il suo gemello, e aveva un disperato bisogno di spiegare e avere un parere esterno, un parere che venisse da qualcuno che conosceva Elia e aveva vissuto al suo fianco gli orribili anni prima della sua fuga a Milano.
Qualcuno che avesse vissuto la malattia di sua madre e la sua assenza, ma che non fosse suo fratello.
Qualcuno che Enea fosse pronto ad affrontare.
«Avanti, dammi una mano a sgomberare la mia postazione», con un cenno gli indicò il gruppo di tele esposte. Diverse opere erano montate su cavalletti di legno e uno sgabello era posizionato di fianco ad una tela bianca. Sorridendo teneramente, Enea le lanciò uno sguardo. «Ritrai ancora i turisti?»
Yelena rise, colpendolo su un braccio, «certo che sì! Sai quanto mi piaccia conoscere persone e quanto ami l'idea di farlo attraverso la mia arte. Alle volte si conosce meglio qualcuno in trenta minuti passati a ritrarlo che in una vita intera.»
«Non posso che darti ragione», ammise sorridendo, «mi ricordo ancora quanto era divertente farlo, quando avevo sedici anni. Probabilmente perché mi dava la scusa perfetta per restare fuori casa il più possibile.»
La ragazza fece scivolare le dita tra le sue, stringendogli una mano. Enea ricambiò, poi si districò e le fece cenno di precederlo. Lei annuì e insieme sgomberarono la sua postazione e caricarono tutto in macchina.
 
***

And if your homesick, give me your hand and I'll hold it
 
People help the people – Birdy
 
 
 
Yelena viveva a venti minuti dal centro, in un monolocale con una camera da letto, un bagno, salotto con divano letto e cucina. Era un appartamento vecchio ma ben tenuto, le pareti coperte da dipinti vecchi e nuovi. Enea sorrise malinconico e sfiorò con le dita una cornice, «ricordo quando hai dipinto questo!»
La ragazza gli si affiancò, «ho sempre amato Ponte Vecchio, dipingerlo al tramonto è stata una vera sfida, ma ne è valsa la pena!»
«Sei sempre stata più brava di me in questo genere di dipinti.»
L'altra rise di cuore, dandogli un colpo con i fianchi, «disse il tatuatore di successo alla pittrice squattrinata.»
Enea rise e la seguì, accomodandosi sul divano.
«Sei davvero squattrinata o mi stai prendendo in giro?»
Yelena scrollò le spalle, raggomitolandosi sul divano.
«Lo sono stata per molto tempo», ammise, «ma di recente una galleria qui a Firenze ha iniziato ad esporre alcuni dei miei quadri. Non è molto grande, ma è specializzata in artisti esordienti, quindi mi ritengo più che soddisfatta.»
Enea le passò un braccio dietro alle spalle, stringendosela contro il fianco, «è fantastico! Dovresti portarmi a vedere l'esposizione, prima o poi.»
Lei gli appoggiò la testa sulla spalla, sorridendo dolce, «mi piacerebbe.»
Restarono seduti in silenzio per qualche minuto, godendosi la presenza l'uno dell'altra. Yelena era sempre stata una delle persone con cui fosse in grado di sentirsi più a suo agio, sia che stessero parlando o che semplicemente sedessero in silenzio.
«E tu, invece?», chiese la ragazza dopo un po', «con lo studio di tatuaggi?»
Enea si ritrovò a sorridere con affetto e orgoglio, lo sguardo puntato davanti a sé.
«È la cosa migliore che mi sia mai capitata. L'unico lato positivo dell'essere andato in prigione, davvero.»
«Ti ha salvato.»
Rimase interdetto per un paio di secondi, poi annuì, «sì, immagino di sì.»
Ripensò alle notti passate a fissare le pareti della sua cella e cercare di ignorare come avesse buttato al vento la sua vita, come un unico gesto dettato da quella rabbia che era sempre dentro di lui avesse rovinato tutto quello per cui aveva lavorato.
«Sono stato un idiota», ammise di getto, «non avrei dovuto colpire quel tizio, non importa cosa abbia detto. È solo che...»
Yelena gli strinse una mano, aspettando che trovasse le parole.
«Ero così... arrabbiato. Tutto il tempo, anche prima di andarmene. Alle volte non sono neanche sicuro di ricordarmi come ci si senta a non esserlo.»
«Cos'è successo?»
Fece una smorfia, abbassando lo sguardo sulle loro mani unite.
«È stato il giorno che Elia mi ha chiamato per dirmi del cancro. Avevo passato così tanto tempo a cercare di non pensare a lei, a ripetermi che non valeva la pena di starci male, che una madre...», deglutì, «una madre non dovrebbe comportarsi come ha fatto lei... avevo sepolto la rabbia, sai, era più facile fingere che non ci fosse che affrontarla, ma era sempre lì.»
Chiuse gli occhi.
«E quando mi ha chiesto di tornare io… sono esploso. Ero arrabbiato con Elia perché osava chiedermi una cosa del genere, arrabbiato con me stesso perché non riuscivo a tornare, nemmeno per aiutare mio fratello. Ma sai qual era la cosa peggiore?»
Alzò gli occhi ad incrociare i suoi, «non riuscivo a perdonarmelo.»
«Che cosa?»
«L'essere in grado di provare dolore per qualcuno che me ne aveva causato tanto. Mi importava, nonostante lei non se lo meritasse, e questo non faceva altro che buttare benzina sul fuoco.»
«E poi?»
«Sono andato in un bar. Volevo soltanto… non lo so. Non sentire niente, forse. Non essere incazzato, anche solo per un secondo. Non so neanche come sia successo. Un attimo prima stavo bevendo e un attimo dopo il caos.»
Chiuse nuovamente gli occhi.
«Non l'avevo neanche visto. Gli sono andato a sbattere contro, ha detto l'avvocato, e abbiamo iniziato a litigare», strinse la mano libera a pugno, «l'ho colpito così forte da mandarlo in ospedale.»
«Due anni per rissa aggravata», sussurrò Yelena, gli occhi tristi.
«Già.»
«Non potevo crederci, quando Elia me l'ha detto.»
Enea fece una smorfia, «avrei preferito che non lo sapesse. Nessuno di voi.»
«È per questo che hai rifiutato qualsiasi visita?»
Il ragazzo strinse i denti, scuotendo la testa, «fidati, è stato meglio così. Non ero fiero della persona che ero diventato, avere qualcuno che mi conosceva da prima avrebbe solo reso tutto peggiore.»
«Credo di capire cosa intendi, ma avrei voluto starti vicino comunque. L'avremmo voluto entrambi.»
«Non puoi dirglielo.»
«Cosa?»
«Si sentirebbe in colpa se sapesse che il tutto è partito dalla sua telefonata. Non posso fargli anche questo, non se lo merita.»
Yelena si zittì per qualche secondo, poi annuì a malincuore.
«Rispetto la tua decisione. Non la condivido», puntualizzò, «ma la rispetto.»
«Grazie.»
Non aggiunse altro, sapendo che lei avrebbe capito tutto ciò che quella singola parola racchiudeva e anche di più. Restarono in silenzio per qualche tempo, poi la ragazza annunciò di avere fame e, prima che se ne rendesse conto, si ritrovarono seduti al tavolo della cucina.
«Sei stato a San Pietroburgo? Davvero?»
Enea rise di gusto, addentando la sua fetta di pizza e annuendo, mentre gli occhi di lei si illuminavano, come accadeva sempre quando parlava della sua terra. Iniziò a raccontarle dell'estate che aveva trascorso nella sua città natale, di come avesse visitato tutti i posti di cui gli aveva parlato: la Nevskij Prospekt, il Palazzo d'Inverno, la chiesa del Salvatore sul Sangue Versato, il Museo dell'Ermitage, il palazzo di Caterina e molti altri.
«La mia Sankt-Peterburg ti è piaciuta, quindi», osservò lei quando fu soddisfatta del suo resoconto.
«Moltissimo!», rispose, sorridendo al ricordo.
«Ma non hai rispettato la nostra promessa», mormorò la ragazza dopo qualche secondo di silenzio, spingendo il cartone vuoto da un lato, «sei andato in Russia senza di me.»
Enea evitò i suoi occhi, imbarazzato, «mi dispiace.»
La ragazza lo fissò per qualche secondo e poi sospirò, scuotendo piano la testa. «Non importa. Il passato è passato, non possiamo farci più nulla ora. La vera domanda adesso è un'altra.»
Lo inchiodò con un'occhiata.
«Andrai al funerale?»
«No.»
Yelena inarcò un sopracciglio. «Gli dirai almeno che sei qui?»
«Forse.»
«È l'unica famiglia che ti resta.»
«…»
«Sei l'unica famiglia che gli resta.»


 

 

 

Note dell'autrice

Eccoci qui con il secondo capitolo! Inizia ad esserci un po' di luce sul passato di Enea e viene introdotto un personaggio importante, quello di Yelena. Spero che questo scorcio sul loro rapporto vi sia piaciuto.

Alla prossima!

Dru

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Intermezzo ***


 
You took my hand
You showed me how
You promised me you'd be around
 
Who Knew – Pink
 
«Forza Elia, muoviti!», urlò Enea correndo, i piedi fasciati dalle scarpe da ginnastica che quasi non toccavano l'asfalto rovente. Dietro di lui suo fratello lo seguiva ansimante, sforzandosi di tenere il passo senza svenire, consapevole che l’altro avrebbe potuto andare avanti per chilometri e chilometri.
Elia riuscì a raggiungerlo solo quando si fermò davanti ad un negozio, varcando immediatamente la soglia prima che potesse dire una parola. Cercando di riprendersi, Elia lanciò un veloce sguardo alla vetrina, ammirando il titolo elaborato e colorato stampato sul vetro: “Black Ink tattoo”.
«Cosa…?», ansimò, ancora leggermente piegato sulle ginocchia, mentre il poco fiato recuperato gli usciva nuovamente dai polmoni.
Rassegnato seguì il fratello, fermandosi appena entrato per osservare l'ambiente: il negozio era piccolo ma ben tenuto, con i muri dipinti di azzurro e diverse foto di tatuaggi incorniciate e appese alle pareti. Di fronte all'entrata si trovava un bancone bianco a cui sedeva un uomo alto, coperto di tatuaggi e piercing che, quando vide entrare Enea, si alzò e gli andò in contro, battendogli una mano sulla spalla.
«Allora ragazzino, sei pronto?»
«Certo che sì, Al, come sempre.»
L'omone scoppiò a ridere e si girò verso Elia, fissandolo dall'alto in basso con un paio di occhi neri che facevano quasi paura.
«E tu, sei pronto?»
«P-pronto? P-per c-cosa?», balbettò Elia spostando lo sguardo dall'uomo al gemello, che se la rideva bellamente sotto i baffi.
«Ma per il tuo primo tatuaggio, che domande! Dopo tutto quello che avete dovuto penare per farvi dare il permesso da vostra madre, non vedrai l'ora», esclamò l'uomo mollandogli una pacca sulla spalla e facendolo quasi cadere.
«P-primo tatuaggio?!», Elia boccheggiò, mentre il fratello scoppiava a ridere senza riuscire più a trattenersi e l'uomo li fissava, confuso.
«Al, potresti lasciarci qualche minuto? Credo che mio fratello stia avendo dei ripensamenti», chiese Enea, avvicinandosi poi al gemello mentre l'uomo andava a preparare tutto il necessario.
«Che diavolo hai combinato?», sibilò Elia, che sembrava essersi in parte ripreso dallo spavento e pareva sul punto di strozzare il fratello.
«Ho preso un appuntamento per farci fare un tatuaggio», spiegò Enea, alzando le spalle come se niente fosse.
«E come avresti fatto a convincere mamma?» chiese Elia, calcando particolarmente sulla parola “convincere”.
Enea si passò una mano fra i capelli, sfoderando un sorriso leggermente colpevole: «Beh...», tentennò, «diciamo che potrei aver falsificato la sua firma sull'autorizzazione.»
«Tu cosa?», urlò Elia strabuzzando gli occhi.
«shhh!», lo zittì il fratello, facendogli segno di abbassare la voce, «e non urlare! Vuoi che Al ci senta?»
«Senti», sibilò Elia, «non mi importa che tu ti faccia un tatuaggio, il corpo è il tuo, ma non capisco cosa diavolo c'entro io
Enea improvvisamente si fece serio come poche volte Elia l'aveva visto e puntò gli occhi azzurri nei suoi.
«É il mio primo tatuaggio.»
Enea si morse il labbro, nervoso, poi estrasse dalla tasca dei jeans un foglio ripiegato, allungandoglielo. Elia lo aprì, osservandone sorpreso il contenuto: il disegno di un'àncora colorata sui toni dell’azzurro, del rosa e del giallo, con disegnati cuori al centro e alle due estremità, e una corda che le si avvolgeva intorno.
«Voglio che lo abbia anche tu», disse sicuro, osservando l’espressione meravigliata del fratello, che fece scorrere i polpastrelli sulla carta per diverso tempo, prima di sospirare, la rabbia improvvisamente sparita. «L'hai fatta tu, vero?», Enea annuì, infilando le mani in tasca e abbassando lo sguardo, imbarazzato.
«Lo farai?»
Sospirando, Elia fissò gli occhi in quelli del gemello, che ricambiò in silenzio.
«Sì», disse alla fine, «lo farò.»
Enea sorrise e lo abbraccio di slancio, stringendolo.
«Grazie», sussurrò mentre l’altro lo stringeva a sua volta.
Quando raggiunsero Al, l'uomo li scrutò senza dire nulla e poi indicò una poltrona in pelle.
«Chi è il primo?»
Enea deglutì e, scoccato uno sguardo al fratello come per assicurarsi che non se la fosse data a gambe, si fece avanti.
«Sono pronto.»
Diverso tempo e parecchi lamenti dopo, i due fratelli uscirono dallo studio, doloranti.
«Chi l'avrebbe mai immaginato che farsi un tatuaggio facesse così male?», si lamentò Enea, osservando la pellicola che copriva l'àncora che ora aveva sul braccio sinistro, gemella di quella che il fratello aveva sul destro.
«Mi pare di aver detto qualcosa in proposito, una volta o due», commentò Elia con una smorfia, «senza contare, caro mio, che questo dolore sarà nulla in confronto a quello che ci farà provare mamma se verrà a saperlo. E al caldo che patiremo andando in giro a maniche lunghe in agosto.»
Enea rabbrividì, guardandosi di riflesso intorno, come se temesse che la donna sbucasse all'improvviso con in mano un mattarello o qualche altra arma contundente, «non lo scoprirà, se staremo attenti», borbottò poi, poco convito, mentre il fratello alzava un sopracciglio, senza ribattere, e insieme iniziavano a incamminarsi verso casa, il silenzio rotto solo dal rumore dei loro passi sull'asfalto.
«Elia...»
«Sì?»
«Grazie.»
«E di cosa?»
«Di esserci».
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** III ***


 
 
III
 
I nostri corpi celesti i nostri arrivederci scritti sui vetri rotti
le periferie lunari i nostri compromessi storici per non ferirci
e ti ricordi che i nostri sogni sfioravano i soffitti
e le trasformazioni le nostre New York interiori
e i mazzi di fiori ai bordi delle strade provinciali
e poi le ali le ali le ali che ti escono dalla schiena
e le polveri sottili dei nostri cuori neri
 
I nostri corpi celesti – Le luci della centrale elettrica
 
 
 
Non era stato difficile trovarlo. Se ne stava in piedi, davanti a una lapide di marmo bianco che fissava quasi come se non la vedesse. Gli occhi azzurri erano circondati da occhiaie violacee, il viso era pallido e affilato, le labbra sottili erano spaccate in diversi punti e piccole gocce di sangue brillavano alla luce del sole. Sembrava terribilmente stanco, come se portasse sulle spalle tutto il peso del mondo e quel peso stesse per schiacciarlo.
Enea aveva deciso di non andare al funerale. Avrebbe voluto poter dire che era stata una scelta sofferta, ma sarebbe stata una bugia. Qualsiasi rapporto che c'era stato — o che avrebbe potuto esserci — tra lui e sua madre era stato distrutto molto tempo prima, ed Enea non era riuscito a trovare nessuna ragione per cui valesse la pena di sopportare la tortura che andare alla cerimonia avrebbe comportato. Non sapeva cosa amici e conoscenti di sua madre sapessero o pensassero di lui e neanche gli importava, ma l'ipocrisia di accettare le loro condoglianze per qualcuno che aveva perso ben prima di quel momento e in maniera anche più definitiva andava oltre le sue capacità. Fingersi triste per qualcosa che non era, ma che avrebbe potuto essere se solo fosse stato una persona diversa? No, grazie. C'erano altre battaglie che valeva la pena di combattere, altre battaglie che avevano molte più possibilità di essere vinte.
«Sei sicuro che non vuoi che venga con te?», gli aveva chiesto Yelena, ferma insieme a lui davanti all'entrata. Le parole avevano lottato per restargli incastrate in gola, ma le aveva sputate fuori lo stesso, sapendo che era la cosa giusta da fare.
«Sicuro.»
La ragazza aveva sospirato, «bugiardo», aveva ribattuto, e lui aveva sorriso, stringendole la mano.
«Devo farlo da solo.»
«Lo so.»
Si era sporta per baciarlo sulla guancia e poi era sparita, lasciandolo da solo con i suoi fantasmi. Aveva camminato tra le lapidi, cercando di resistere alla voglia di spaccarle a mani nude, leggendone i nomi, ancora e ancora, appigliandosi a lettere vuote per impedirsi di scappare.
 
Anna Grossi, 22/10/1932 – 21/05/1999
Michele Baldini, 01/07/1945 – 17/12/1980
Arianna Casini, 12/05/1919 – 05/02/1950
 
Si era ritrovato a chiedersi come fossero state le loro vite, se avessero avuto mogli, mariti, figli, nipoti, se avessero amato, odiato, sofferto. Aveva cercato di immaginarle, aiutandosi con le foto sulle lapidi; si era chiesto come fossero morti, se avessero provato dolore, se fossero stati da soli o con qualcuno, se avessero avuto paura.
Malgrado tutto, si era chiesto se lei avesse avuto paura.
E ora se ne stava lì, in piedi, a fissare tutto quello da cui non aveva fatto altro che fuggire da quando aveva diciotto anni.
Elia alzò gli occhi e incontrò i suoi, rimanendo immobile a fissarlo per un tempo che parve interminabile. Enea era come paralizzato, incapace di muovere un solo muscolo – né per fuggire, né per raggiungerlo – ma quando finalmente ebbe il coraggio di ricambiare lo sguardo di suo fratello, fu come tornare a guardarsi allo specchio dopo tanto – troppo – tempo.
 
***
 
And if somebody hurts you, I wanna fight
But my hands been broken, one too many times
So I’ll use my voice, I’ll be so fucking rude
Words they always win, but I know I’ll lose
 
Another Love – Tom Odell
 
 
C'era stato un tempo, molti anni prima, in cui non avevano mai avuto bisogno di parole, perché sapevano sempre leggere i silenzi dell'altro.
Non era più così.
Seduto sulla panchina poco distante dalla tomba di sua madre, Elia era dolorosamente consapevole di non avere alcuna idea di cosa stesse pensando il suo gemello. Enea era così... arrabbiato, non c'erano altre parole per descriverlo. Era come essere di fianco ad un filo elettrico scoperto: la rabbia sembrava emanare dalla sua figura ad ondate soffocanti ed inevitabili. Gli faceva venire voglia di rannicchiarsi in un angolo e aspettare che la tempesta passasse, ma conosceva ancora abbastanza suo fratello da sapere che non sarebbe successo tanto presto.
«Sei venuto.»
Lanciò uno sguardo di sottecchi al profilo ostinatamente rivolto di fronte a sé del fratello, studiando il modo in cui la sua mascella si contraeva al suono della sua voce.
«Non pensavo l'avresti fatto.»
Ti prego, di' qualcosa.
«Sono contento che tua sia qui.»
«Non l'ho fatto per te. O per lei.»
Elia ignorò il dolore che quelle parole, seppur vere, gli procuravano, senza riuscire però a nascondere il sussulto che lo scosse. Enea era sempre stato il più bravo dei due a nascondere le sue emozioni, ma Elia era sempre riuscito a leggerlo, prima.
Ora, era come guardare un estraneo che, per chissà quale crudele scherzo del destino, ha la tua stessa faccia.
«Lo so. Non è per quello che ti ho chiamato.»
Per la prima volta da quando si erano allontanati dalla lapide, Enea fece incontrare i loro occhi, identici e diversi allo stesso tempo. Non c'era niente che Elia avrebbe voluto più di distogliere lo sguardo, la rabbia e il dolore nelle iridi del gemello che lo ferivano come lame, ma si costrinse a non farlo.
È colpa mia se si sente così, il minimo che possa fare è condividerne il peso. Glielo devo.
Sembrava più una punizione che un gesto altruistico, e nemmeno Elia stesso avrebbe saputo dire dove stesse il confine tra il suo desiderio di espiazione e quello di aiutare suo fratello.
«E allora perché?»
«Avevi il diritto di sapere. È... era comunque tua madre.»
Era la cosa sbagliata da dire. Le labbra di Enea si schiusero in un sorriso ironico e quasi ferino. «Hai detto bene. Era. E non mi riferisco al fatto che ora sia solo un mucchio di carne morta in una bara sepolta sotto metri di terra.»
«Ti voleva bene», protestò, ritraendosi come se l’avesse schiaffeggiato, cercando di sfuggire alla crudezza delle sue parole, un'altra arma che suo fratello non sembrava aver problemi ad usare.
«Se mi avesse davvero voluto bene, mi avrebbe accettato per quello che sono!»
«Lo so, ma...», Elia boccheggiò, cercando le parole, ma invano. Cosa poteva dirgli? Che tutto quello che la madre aveva fatto era stato perché gli voleva bene? Perché voleva salvarlo? Non avrebbe cambiato nulla, Elia lo sapeva. Qualunque fossero le sue ragioni, l'amore della donna lo aveva distrutto. Aveva distrutto entrambi.
Enea scosse la testa e si alzò, dandogli le spalle per lunghi secondi. Elia ne fissò la schiena in silenzio, lottando per trovare qualcosa da dire.
Mi sta sfuggendo tra le dita.
«Non posso farlo», disse Enea dopo quasi un minuto, senza voltarsi.
«Enea...»
«No.»
Fu il modo in cui lo disse che lo bloccò. Non suonava come un rifiuto, ma come una preghiera, una supplica: lasciami andare.
Non ho altra scelta.
«Ti prego», si ritrovò invece a sussurrare, le lacrime contro cui stava combattendo da giorni che gli scorrevano sulle guance, «non ti sto chiedendo di perdonarmi, solo...»
Non sapeva neanche lui cosa volesse. O meglio, lo sapeva, ma sapeva anche che non poteva chiederglielo. Nonostante l'altro cercasse di nasconderlo, Elia riusciva a vedere quanto gli costasse essere lì. Era come un animale in gabbia: i muscoli contratti, gli occhi che saettavano da una parte all'altra, il respiro affannoso.
Resta.
Questo avrebbe voluto chiedergli, ma sapeva di non poterlo fare. Non solo perché Enea non sarebbe mai rimasto — nemmeno lui l'avrebbe fatto al suo posto — ma perché non sarebbe stato giusto. Non aveva mai voluto ferire suo fratello, eppure ogni decisione che aveva preso negli ultimi sei anni aveva avuto quel risultato, non importava quali fossero le sue intenzioni. Amava Enea più di ogni altra persona al mondo e ogni secondo che passavano separati era una tortura. Anche se la sua rabbia lo feriva, vederlo di nuovo era come riprendere a respirare dopo anni di apnea, come se quella parte mancante del suo cuore fosse finalmente dove doveva essere, dove apparteneva. La sola idea di vederlo andare via di nuovo era insopportabile, ma la verità era che Elia non era abbastanza egoista da chiedergli di restare, non quando sapeva che il prezzo da pagare sarebbe stato troppo alto.
Per entrambi.
Chiuse gli occhi, abbandonandosi contro la panchina.
«Mi dispiace», sussurrò.
«Lo so.»
Quando riaprì gli occhi, Enea era sparito.

***
 
I remember when we dreamt of legacy
Now we only pray we're moving on
I remember when we lived for everything
Looking back now, but it's all gone
 
Broken Pieces — Andy Black
 
 
Una parte di lui avrebbe voluto lasciare la città immediatamente, ma la presa che quelle strade avevano su di lui — anche e soprattutto dopo tutti quegli anni — era troppo forte.
Quando aveva lasciato il cimitero, lottando tra il desiderio di scappare via e quello di voltarsi indietro, la parte logica del suo cervello gli aveva urlato di tornare da Yelena e fare le valigie, ma qualcos'altro — il suo cuore, forse — glielo aveva impedito. Si era ritrovato quindi a girare senza meta, le mani nelle tasche e i piedi che seguivano un percorso tutto loro, fatto di memorie e rimpianti. I profumi di Firenze lo avvolgevano, coprendo le sue ferite come balsamo e sale, confortanti e dolorosi allo stesso tempo.
Non erano sufficienti per scacciare l'immagine di Elia che sembrava esserglisi impressa a fuoco nelle retine.
Suo fratello non era cambiato molto, non fisicamente almeno: avevano ancora la stessa faccia. Qualcosa che un tempo era stato normale e che ora non sapeva più come gestire. I suoi occhi, però, erano diversi, eppure pieni di sentimenti che si agitavano anche dentro Enea, non importava quanto si sforzasse di fingere che non fosse così.
Dolore.
Rimpianto.
Nostalgia.
Erano come benzina sul fuoco della sua rabbia. Come osava? Non aveva alcun diritto di sentirsi così. Non era stato lui a dover scegliere tra sacrificare ciò che era per restare a Firenze o scappare, abbandonando tutto quello che avesse al mondo nella speranza di sopravvivere, e senza mai voltarsi indietro.
Non che fosse partito con l'intenzione di tagliare tutti i ponti con Elia. Non c'era mai stata neanche una volta, prima dei suoi sedici anni, in cui avesse immaginato il suo futuro senza includere il suo gemello. Non importava cosa sognasse di diventare o fare, Elia era l'unica costante, qualsiasi fosse lo scenario. Il destino — o Dio, in base a quello in cui uno credeva — aveva avuto altri piani, però, mettendolo davanti a due scelte impossibili: la sua salute mentale o suo fratello. Dopo tutti quegli anni, una parte di lui ancora si chiedeva se avesse fatto quella giusta.
Lasciò vagare lo sguardo sul paesaggio davanti a lui, l'Arno che si stagliava contro l'orizzonte. Aveva sempre amato Ponte Vecchio, con le sue botteghe artigiane, soprattutto oreficerie, ricavate da antichi portici, il retro costruito a sbalzo sul fiume. Dava l'impressione di un piccolo villaggio arroccato su una montagna. Il chiacchiericcio dei passanti, con il loro accento toscano, familiare come una ninna nanna mai del tutto dimenticata, facevano da sottofondo a quella calda giornata di Marzo.
Odiava essere lì.
Sapeva che era ingiusto da parte sua, ma era la verità. Non importava quanti bei ricordi fossero legati a quella città, a quelle strade, lui non li vedeva. Sapeva che erano lì, sepolti sotto strati e strati di rabbia e dolore e risentimento, ma non poteva raggiungerli, non importava quanto a fondo scavasse. Sinceramente, non era sicuro di volerlo fare. C'erano già abbastanza fantasmi a tenerlo ancorato a quella città, senza doverne aggiungere altri.
Si sentiva come se due diversi Enea stessero esistendo allo stesso tempo. Uno era il ragazzino terrorizzato che odiava se stesso e avrebbe fatto qualsiasi cosa per la donna che lo aveva messo al mondo, la sua roccia, l'altro era l'uomo che aveva scelto se stesso sopra chiunque altro, e ne stava ancora pagando il prezzo.
Logicamente, sapeva di non essere più un ragazzino. Era cambiato e cresciuto — non c'era molto altro che un diciottenne senza lavoro o famiglia potesse fare per sopravvivere. Non aveva avuto scelta. Ovviamente, I due anni in carcere non erano esattamente stati nei suoi piani, ma erano una delle poche cose del suo passato che non rimpiangeva, non più almeno. Dopotutto, gli avevano dato una seconda occasione: un lavoro che amava, amici che lo conoscevano e apprezzavano per quello che era e, soprattutto, lo spazio e il tempo per perdonare se stesso. Suo fratello, però, era tutta un'altra storia.
Lasciò vagare lo sguardo sull'àncora che aveva tatuata sul braccio sinistro. Passò le dita sul disegno, seguendone i contorni. Era solo uno dei tanti tatuaggi che gli coprivano il corpo, ma nessuno degli altri aveva un significato tanto importante. Era stata — e forse ancora era — una promessa silenziosa tra due anime che si appartenevano, sigillata con l'inchiostro sulla pelle di entrambi.
La maggior parte del tempo, sembrava più che altro una cicatrice di cui non riusciva più a liberarsi.
 
 
 
 
 
 
Note dell'autrice
 
Ecco qui il tanto agognato incontro!
Come potete vedere, le cose non sono esattamente andate bene, ma non temete. C'è ancora speranza! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che vogliate lasciarmi una recensione per farmi sapere che ne pensate e segnalarmi eventuali errori.
 
Alla prossima, 
Dru!


 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** IV ***


 

IV


 

Where there is desire

There is gonna be a flame

Where there is a flame

Someone's bound to get burned

But just because it burns

Doesn't mean you're gonna die

You've gotta get up and try, and try, and try

 

Try - Pink


 

Enea lasciò vagare lo sguardo per la Salone delle Partenze, il grande atrio della biglietteria all'interno della Stazione di Santa Maria Novella. Il marmo rosso e bianco del pavimento era percorso da migliaia di piedi, appartenenti ai numerosi passeggeri che si apprestavano a partire — o a tornare. Di fianco a lui, Yelena camminava silenziosa, un'espressione delusa e amareggiata che le lampeggiava sul viso quando pensava che Enea non potesse vederla.

Il ragazzo non poteva certo biasimarla, nemmeno lui era troppo fiero di se stesso. Qualche anno prima avrebbe negato l'evidenza, dicendosi che quella era la scelta migliore, ma la realtà era che non ne aveva più la forza. E poi, era ormai grande abbastanza da poter ammettere, almeno con se stesso, quando stava scappando.

Aveva sempre saputo di essere un codardo, soprattutto quando si trattava di affrontare i suoi stessi sentimenti — o quelli di qualcuno a cui teneva —, eppure la consapevolezza non sembrava essere abbastanza per bloccare quello strano meccanismo di difesa che tante volte lo aveva protetto, anche e soprattutto a discapito di altri.

«Sei sicuro sia la scelta giusta?»

Enea fissò con finto interesse gli altri passeggeri in attesa al binario. «Forse sì, forse no, ma dubito che importi. Ci ho provato, e non ce l'ho fatta.»

«Potresti restare comunque», propose la ragazza, appoggiandosi contro il suo fianco. Enea scosse la testa e le avvolse un braccio intorno alle spalle, accettando il suo conforto silenzioso. Si ritrovò nuovamente a pensare alla preghiera che aveva letto negli occhi di Elia al cimitero, il ricordo marchiato a fuoco nella sua testa e impossibile da cancellare. Suo fratello aveva cercato di nasconderla, ma non era un qualcosa che fosse mai stato in grado di fare, soprattutto con lui. Che fosse ancora così dopo tutto quel tempo gli stringeva il cuore in una morsa dolorosa e dolceamara.

«Ci ho provato», si ritrovò a ripetere, se per convincere Yelena o se stesso, non avrebbe saputo dirlo.

La ragazza sbuffò. «Davvero? Ci hai parlato per quanto, mezz'ora? Credi davvero che, dopo tutti questi anni, sia sufficiente?»

Enea si voltò di scatto, il braccio che scivolava dalle spalle di lei.

«Volevo provare a recuperare un rapporto e non ci sono riuscito, okay?», sbottò, stringendo le mani a pugni, «non ne vado fiero, ma non posso farci niente. Non capisci? Non posso restare in questa città, mi sento soffocare. Ogni strada, ogni edificio mi ricorda lei.»

Chiuse gli occhi, scuotendo la testa. «Devo andarmene da qui.»

Yelena gli prese il viso tra le mani, costringendolo a guardarla negli occhi. «Non è tutto qui, però, non è vero?»

Enea strinse i denti, la rabbia che gli ribolliva nelle vene. La ragazza lo fissò senza batter ciglio, l'espressione determinata e per niente impaurita. Chiunque altro, se avesse ricevuto lo sguardo che stava ora riservando a lei, sarebbe scappato a gambe legate, spaventato dalla furia che Enea sapeva di emanare, ma non Yelena. Così come Elia, anche dopo tutto quel tempo la ragazza lo conosceva bene ed era in grado di prevedere le sue reazioni e capire i suoi sentimenti, anche prima che potesse lui stesso.

In una parte remota della sua mente, Enea si chiese come sarebbero andate le cose se Yelena fosse stata con lui, quella notte al locale. Forse, se ci fosse stata, non sarebbe finito in prigione, e lui ed Elia sarebbero riusciti a mantenere un rapporto che, in realtà, aveva iniziato a deteriorarsi dal momento in cui aveva deciso di partire e suo fratello di restare.

La verità era che non aveva mai perdonato Elia. Pur sapendo che non era giusto pretendere che suo fratello abbandonasse Agata a se stessa e tagliasse i rapporti con lei come aveva fatto lui, non poteva fare a meno di risentirlo per non averlo fatto. Ovviamente, suo fratello non aveva mai giustificato le azioni della madre, o condiviso le sue opinioni. Fin dall'inizio, aveva fatto tutto quello che poteva per migliorare il loro rapporto. Aveva sostenuto Enea dal primo momento e cercato di spiegare alla madre che non c'era niente di immorale nella sua omosessualità, spingendola a mettere da parte i suoi pregiudizi e semplicemente essere al fianco di suo figlio, nel bene e nel male. Elia, però, odiava i confronti, soprattutto quelli violenti. Era il tipo di persona che evitava i litigi per non ferire gli altri e che cercava sempre di fare da paciere, e probabilmente quella era l'unica ragione per cui lui e Agata non avevano finito per uccidersi a vicenda. Era anche però il motivo per cui Elia non l'aveva seguito a Milano, e anche se una parte di lui non poteva certo biasimarlo — era praticamente fuggito con in mente un piano nebuloso e in tasca qualche centinaio di euro — un'altra era arrabbiata.

Non aveva voluto chiedere al fratello di scegliere, eppure non era mai riuscito a scacciare la sensazione che Elia lo avesse fatto comunque. E che non avesse scelto lui.

La suoneria del suo cellulare lo salvò dall'ammettere tutto quello ad alta voce.

«Pronto?»

«Pronto, parlo con il signor Enea Liberti?»

Aggrottò le sopracciglia, cercando di identificare la voce sconosciuta.

«Sì, sono io. Con chi parlo?»

«Buongiorno, sono l'avvocato di Agata Liberti, la chiamo per la successione dei beni. Lei e suo fratello siete gli unici eredi in vita, quindi ho bisogno di vedervi entrambi al più presto.»

Successione dei beni? L'idea non lo aveva neanche sfiorato, visto che aveva dato per scontato che Agata avesse fatto testamento per escluderlo da qualsiasi eredità.

«Mi dispiace, ma sto lasciando la città.»

«Suo fratello mi aveva comunicato questa possibilità, signor Liberti, e mi dispiace farle rimandare la partenza, ma temo che la questione non possa attendere.»

«Senza offesa, avvocato, ma non voglio niente di quello che apparteneva alla sua cliente. Sono sicuro che Elia sarà più che disposto ad occuparsi di tutto.»

«Capisco la situazione, signore, ma legalmente ho bisogno che siate entrambi presenti. Posso ricevervi dopodomani, suo fratello ha già dato la sua disponibilità.»

Enea chiuse gli occhi, passandosi una mano sul viso. Non riusciva a pensare a niente di peggio che dover affrontare sua madre che suo fratello allo stesso tempo.

«Signor Liberti?»

«Mi dica solo dove e quando.»

 

***

 

We've taken different paths

And travelled different roads

I know we'll always end up on the same one when we're old

 

Brother – Kodaline


 

Seduto nella sala d'attesa dello studio, Enea tamburellava le dita sul bracciolo della sua poltrona, gli occhi fissi sulla parete di fronte, decorata da quadri astratti che non facevano altro che rendere la sua mente più confusa. Il chiacchiericcio delle altre persone era un rumore di sottofondo che grattava sui suoi nervi in una maniera quasi dolorosa. Trattenendosi dall'imprecare ad alta voce, si passò una mano tra i capelli, desiderando intensamente di essere nel suo studio di tatuaggi, a chilometri da Firenze, pronto a marchiare indelebilmente la pelle dell'ennesimo cliente.

Anche se cercava di ignorare la situazione, era dilaniato tra l'essere contento che Elia sarebbe stato lì con lui e l'ansia di rivederlo. Nonostante una parte di lui avesse voluto chiamarlo — aveva persino preso il suo numero dal cellulare di Yelena — non era riuscito ad andare oltre il fissare lo schermo, il pollice sospeso sopra il tasto di chiamata. Ovviamente, la sua inabilità di compiere un atto così semplice — e giustificato dal bisogno di discutere di quello che doveva aspettarsi da quel colloquio —, non aveva fatto altro che irritarlo ancora di più.

«Enea?»

Si riscosse dai suoi pensieri, incrociando un paio di occhi identici ai suoi.

«Elia.»

Suonò più come una constatazione che un saluto, ma per lo meno era riuscito a tenere fuori quella rabbia latente che aspettava solo di trovarsi davanti un bersaglio. Probabilmente perché, da qualche parte tra la telefonata, la sua rassegnazione a restare e una lunga chiacchierata con Yelena, aveva deciso che essere civile era l'unico modo per andare avanti. Ancora non sapeva se sarebbe stato in grado di recuperare un rapporto con Elia, ma non era più tanto sicuro di volerlo chiudere in una scatola insieme al resto dei brutti ricordi e gettare via la chiave, come aveva cercato di fare fino a quando non aveva ricevuto la sua telefonata.

Oltretutto, nonostante il suo risentimento verso di lui, riusciva a vedere quanto quella situazione fosse difficile per il suo gemello. Anche in quel momento, seduto silenziosamente di fianco a lui, Elia aveva l'aria di un esausto che si era seduto per la prima volta in fin troppo tempo. Era stressato e addolorato e non cercava di nasconderlo. Se non lo avesse conosciuto, avrebbe pensato lo stesse facendo di proposito, magari per cercare di far leva sulla sua compassione, ma Enea sapeva che non era così. Elia era incapace di agire con un secondo fine o con malizia, era una di quelle persone fondamentalmente buone che cercava sempre di migliorare le condizioni altrui, anche a discapito di se stesso.

C'era stato un tempo, prima che quel tratto della sua personalità si ritorcesse contro entrambi, che Enea aveva ammirato questa sua capacità. Ora, gli dava solo sui nervi, principalmente perché gli rendeva difficile restare arrabbiato con suo fratello. Se fosse rimasto al fianco di Agata perché condivideva le sue idee omofobe, avercela con lui sarebbe stato più semplice, ma sapeva bene che non era stato così. La sua lealtà e bontà d'animo gli avevano impedito di lasciare la donna da sola e, logicamente, Enea capiva il suo ragionamento. Tuttavia, la donna non era stata l'unica ad aver bisogno di Elia, e quel diciottenne disperato che viveva ancora da qualche parte dentro di lui non riusciva a perdonare suo fratello per averlo lasciato da solo.

«Signori Liberti? L'avvocato Barbieri può ricevervi ora.»

La donna li scortò fino ad un ufficio, dove un uomo sulla cinquantina dall'aspetto distinto li aspettava. Dopo un veloce scambio di convenevoli, l'avvocato iniziò a parlare, lanciandosi in un discorso pieno di termini legali che fecero calare la sua attenzione ai minimi storici nei primi cinque minuti. Grazie a dio, sembrava che la puntigliosità di Elia non potesse essere cancellata dallo stress e dal lutto, perché suo fratello si premurò di ascoltare ogni sillaba e prendere appunti sul suo cellulare.

«So che siete entrambi impegnati, quindi il mio consiglio è di dare la precedenza a ciò che richiede la presenza di entrambi, come la questione sulle proprietà.»

Enea inarcò un sopracciglio. «Quale questione?»

«La signora Liberti aveva due proprietà: un appartamento a Firenze, dove suppongo viva Elia», suo fratello annuì, «e una casa sulla costa, che aveva ereditato alla morte dei suoi genitori.»

Enea sussultò, sorpreso. Non erano mai tornati alla casa dei nonni, non dopo l'estate dei loro quindici anni, e aveva sempre dato per scontato che la madre l'avesse venduta. A quanto pareva, non era così, e dall'espressione di suo fratello, neanche lui ne era stato a conoscenza.

La situazione aveva appena preso una piega inaspettata e dieci volte più complicata.

Restarono nell'ufficio per più di un'ora, cercando di sbrigare il maggior numero di pratiche possibile. Quando riemersero, fermandosi senza dire una parola a lato dell'edificio, Elia fu il primo a interrompere il silenzio.

«Non posso tornarci da solo.»

Enea sospirò, passandosi una mano tra i capelli, «Elia...»

«Senti, lo so che è tanto da chiedere, ma c'è una ragione se l'ha lasciata ad entrambi.»

«Che intendi dire?»

Elia sbuffò. «Oh, andiamo. Sapeva di essere malata da anni, credi davvero che non avrebbe fatto testamento, escludendoti, se l'avesse voluto?»

«Forse, ma se pensi che questo cambi le cose, ti sbagli di grosso.»

Il ghiaccio nella sua voce avrebbe potuto congelare l'inferno, ed Elia sussultò visibilmente, ma non si fermò.

«Lo so, e non pretendo certo che sia così, ma la decisione su cosa fare della casa spetta ad entrambi, e non possiamo prenderne una finché non vediamo in che stato è.»

Quando non rispose subito, l'altro proseguì, parlando così piano che Enea quasi non lo sentì sopra il rumore del traffico.

«Potrebbe essere la nostra ultima occasione.»

Fine della corsa.

 
 
 
 
 
 
Note
 
Eccomi qui! Finalmente Camp NaNo è finito e posso tornare a scrivere i miei progetti in corso. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che vogliate farmi sapere cosa ne pensiate.
Alla prossima e, come sempre, grazie per le recensioni!

Dru

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** V ***


V

 

Coraggio

lasciare tutto indietro e andare

partire per ricominciare

che non c’è niente di più vero di un miraggio

e per quanta strada ancora c’è da fare

amerai il finale

 

Buon Viaggio - Cesare Cremonini

 

 

 

Avevano deciso di partire un paio di giorni dopo, in modo da avere tempo di organizzarsi con i rispettivi impieghi. Arkadij, il capo di Enea, lo aveva spronato a prendersi tutto il tempo necessario, che dei suoi clienti si sarebbe occupato lui. Una parte di Enea aveva quasi sperato che l'uomo si arrabbiasse e lo costringesse a tornare a Milano, salvandolo così dal dover prendere una decisione, ma non era accaduto. Anche il datore di lavoro di Elia doveva aver agito allo stesso modo, perché suo fratello era già fuori casa di Yelena la mattina della partenza. Appoggiato alla portiera del guidatore, cercava di mostrare un'espressione tranquilla che non era per niente in grado di nascondere la sua agitazione, soprattutto perché non riusciva a smettere di spingersi gli occhiali sul naso, un chiaro segno di nervosismo che non era cambiato nel corso degli anni.

«Ehi.»

Elia fece un sorriso leggermente maniacale. «Ehi.Yelena?»

«Alla galleria. Ti manda i suoi saluti.»

Ovviamente, Enea aveva provato a convincerla a venire con loro — e, vista l'ora che la ragazza aveva passato chiusa nella sua camera la sera prima, sospettava che suo fratello avesse fatto lo stesso — ma non era servito a nulla. Yelena sembrava ben intenzionata a non lasciar loro altra scelta se non passare del tempo insieme, senza nessun cuscinetto a dividerli, probabilmente perché anche lei si rendeva conto che era l'ultima occasione a loro disposizione.

Inizialmente, Enea aveva cercato di ignorare le ultime parole che Elia gli aveva rivolto prima di andarsene, il giorno del colloquio, tuttavia non aveva potuto negare a lungo la verità, perché dentro di sé sapeva che, se avesse lasciato Firenze con il genere di rapporto che avevano in quel momento, non sarebbe mai tornato.

Alla sua spiegazione, Elia si limitò ad annuire e a fargli cenno di entrare in auto. Enea obbedì e si sistemò sul sedile del passeggero, cercando di ignorare il silenzio imbarazzato che presto scese nell'abitacolo. Dopo dieci minuti di occhiate di sottecchi, Enea si rese conto di dover essere lui a fare il primo passo, prima che Elia finisse per schiantarsi contro un albero a causa della tensione.

«Ti hanno fatto storie al lavoro?»

Suo fratello scosse la testa, mantenendo lo sguardo fisso sulla strada. «No, sono stati tutti molto comprensivi. Si sono fatti in quattro per coprire i miei turni alla libreria.»

Enea annuì, cercando di nascondere l'imbarazzo alla realizzazione che non aveva idea di che lavoro facesse Elia.

«Da quant'è che lavori lì?»

L’altro scrollò le spalle. «Ho iniziato qualche mese dopo la laurea triennale, quindi solo un paio di anni, ma credo sia il miglior lavoro che potesse mai capitarmi.»

Enea sorprese entrambi scoppiando a ridere, una luce divertita negli occhi. «Non mi sorprende, hai sempre amato leggere.»

L'altro arrossì, distogliendo in fretta lo sguardo. Seguendo il suo esempio, Elia gli chiese dello studio ed Enea gliene parlò, spiegando di come fosse stata la sua seconda occasione dopo il carcere.

«Sono contento che ti abbiano aiutato, sai. Credo che una delle mie più grande preoccupazioni fosse che avresti finito per affrontare tutto quello da solo.»

L'ammissione sembrò togliere tutto l'ossigeno dall'abitacolo, ed Enea si ritrovò a boccheggiare per qualche secondo, senza idea di cosa rispondere. Si stavano addentrando in un territorio pericoloso e, pur sapendo che non avrebbe potuto evitarlo per sempre, non era così sicuro che quello fosse il posto o il momento più adatto per affrontare certi fantasmi. Intuendo la sua linea di pensiero, Elia gli rivolse un sorriso impacciato, che Enea si ritrovò a ricambiare, ed abbandonò l'argomento.

«Sembra che siamo riusciti entrambi a usare le nostre passioni nel campo del lavoro», commentò, riportando l'attenzione sulla strada.

Enea concordò, lasciandosi distrarre poi dal paesaggio che scorreva fuori dal finestrino. Elia accese la radio e lasciò che la musica riempisse il silenzio, concedendo ad entrambi una pausa. Enea si costrinse ad ammettere che non era andata così tanto male. Certo, non avevano neanche scalfito la superficie di tutte quelle questioni irrisolte che si trovavano tra loro ma, per la prima volta da quando se n'era andato — e da quando era tornato —, una scintilla di speranza gli si accese nel petto.

 

***

 

Cause I remember every sunset

I remember every word you said

We were never gonna say goodbye

 

Summer paradise — Simple Plan ft. Sean Paul

 

 

Il paese era uguale a come Enea lo ricordava. Non molto grande, era arroccato su una montagna ai cui piedi si trovava il mare, i riflessi della luce del sole che illuminavano il blu delle onde.

Come era accaduto con Firenze, Enea provò quella sensazione di familiarità ed estraneità allo stesso tempo. Se chiudeva gli occhi, riusciva quasi a vedere l'immagine di un se stesso bambino, che correva tra le case, il volto illuminato dalle risate. 

Aveva pensato che la sua città natale sarebbe stata piena di fantasmi e così era stato, ma era niente in confronto ad essere di nuovo lì, dove tutto era iniziato. Suo malgrado, si ritrovò a pensare a Mattia. Non era qualcosa su cui si permettesse di soffermarsi tanto spesso, così come per Elia e Agata, sua madre, ma c'erano state delle notti, quando gli incubi e i fantasmi erano stati troppi e Morfeo non era sembrato intenzionato a sfidarli, in cui aveva lasciato che la sua mente tornasse a quei giorni, quando tutto era più semplice e il dolore e la rabbia non avevano ancora riempito ogni cellula del suo corpo e della sua anima.

Una parte di lui si era chiesto se Mattia avesse affrontato le sue stesse difficoltà, con la sua famiglia. Come aveva reagito sua madre? Gli aveva ripetuto anche lei, come aveva fatto Agata, che quello che avevano fatto era sbagliato? Che lui era sbagliato? Lo aveva schiaffeggiato e tirato via per i capelli dal compagno di scuola con cui si stava baciando durante il suo primo appuntamento?

Enea non era sicuro di volerlo sapere. Nel corso degli anni aveva incontrato altre persone, molte con esperienze simili alla sua, ma tante altre che ne avevano avute di diverse. Ricordava ancora come era rimasto seduto ad ascoltarle, meravigliato da quelle storie di accettazione e amore che a lui sembravano impossibili e lontane anni luce.

Le parole di odio e disgusto di Agata erano rimaste con lui per anni, risuonando nella sua mente in ogni istante. Ogni sconfitta, ogni vittoria, anche quando era semplicemente riuscito a sopravvivere: erano sempre state lì. Anche adesso, dopo le sedute con Arturo e il lavoro dei suoi sogni, c'erano momenti in cui si chiedeva se sua madre non avesse avuto ragione. Erano stati i fantasmi di quelle parole che avevano reso la sua vita sentimentale difficile. C'erano state persone con cui era stato solo sesso, e altre con cui c'era stato qualcosa di più, ma non era mai stato amore. Il fatto che la persona che amasse di più al mondo fosse ancora Elia, nonostante tutto, la diceva lunga.

Parcheggiarono e scesero dalla macchina, chiusi ognuno in un silenzio permeato da ricordi — fantasmi. Neanche per suo fratello doveva essere facile trovarsi di nuovo lì, e per la prima volta da quando era tornato a Firenze, Enea fu grato di essere con lui. Poteva avere molte questioni irrisolte con il suo gemello, ma non voleva che lasciarlo ad affrontare tutto quello da solo fosse una di quelle.

«Eccoci qui.»

Elia estrasse le chiavi dalle tasche, aprendo il cancellino che delimitava la proprietà.

«Beh, se decidiamo di venderla dovremo mettere mano prima di tutto al giardino», commentò Enea, gettando uno sguardo alle sterpaglie che una volta erano state i fiori tanto amati dalla nonna, «nessuno la comprerebbe con una prima impressione del genere.»

Elia sospirò. «Se nonna lo vedesse in questo stato, le verrebbe un infarto.»

«Aspetta che ci mettiamo su le mani. Nessuno di noi ha mai avuto esattamente il pollice verde, se ben ricordo.»

L'altro sorrise. «Vero, ma penso che anche solo togliere tutto questo disastro sarà più che sufficiente.»

L'interno della casa non sembrava essere messo meglio dell'esterno. Era chiaro che non era stata toccata da quando i nonni erano morti, ormai sette anni prima. Enea cercò di trattenere uno starnuto, ma senza successo.

«Sarà un lungo lavoro», commentò Elia, facendo una smorfia.

«Meglio iniziare, allora. Non ho intenzione di passare la notte in questa casa finché non riusciamo a darle almeno una parvenza di igiene.»

«Concordo.»

Il resto della mattinata passò tra cumuli di polvere e vecchi oggetti. Iniziarono con lo svuotare la stanza di turno, pulendola e dividendo il suo contenuto tra la roba da tenere e quella da donare o buttare via. Sembrava che Agata non si fosse disturbata a gettare le cose dei nonni: a parte i loro vestiti molti oggetti erano ancora lì, identici a come Enea li ricordava.

«Dio, non posso credere che ci siano ancora in giro certe cose!»

Enea si voltò verso il fratello, in piedi davanti al caminetto. Gli si avvicinò, spiando da dietro le sue spalle. Elia aveva in mano uno dei vecchi lavoretti che avevano fatto alle elementari per la festa dei nonni. Era passato così tanto tempo — e, francamente, era così brutto — che Enea non avrebbe davvero saputo dire cosa fosse.

«Non vorrei tirare ad indovinare, ma credo che quello sia tuo.»

Elia rise, colpendolo sul braccio. «Ah, ah, ah, molto divertente.»

«Mio non è», insistette sorridendo. Elia non era mai stato dotato di talento o senso artistico, anzi, in famiglia avevano sempre tutti scherzato dicendo che, se non fosse stato per il fatto che erano identici, avrebbe pensato che non fossero imparentati.

«Potrebbe. Sono sicuro che anche tu abbia avuto una fase in cui eri negato.»

Enea fece un sorrisetto strafottente. «No, non credo. E poi quel disastro non è classificabile in nessuna scala artistica esistente, credimi. Ho controllato.»

Elia rise di gusto, facendo stringere lo stomaco di Enea in una morsa di dolorosa nostalgia. Gli era mancata, quella risata, e la cosa peggiore era che se ne rendeva conto – conto davvero – solo in quel momento.

A essere sinceri, tutto di Elia gli era mancato: i suoi occhi azzurri, così uguali, ma allo stesso tempo così diversi dai suoi, messi in risalto dagli occhiali rotondi, i capelli neri corti, il sorriso innocente e disarmante, l'àncora colorata, gemella della sua, tatuata sul braccio destro. Ogni dettaglio, anche il più piccolo, non faceva altro che riportargli alla mente la loro infanzia e il luogo in cui si trovavano non aiutava di certo a cambiare le cose. Era diverso da quello che si era aspettato, però. Non c'era tanta rabbia, in quei ricordi, ma più che altro un dolore dolce amaro che gli riempiva l'anima, facendolo sentire stranamente malinconico. 

Forse, si era sottovalutato. Forse, questa volta sarebbe riuscito a riprendere in mano le redini di quel rapporto fraterno che per troppo tempo aveva cercato di dimenticare e a mantenerlo. Gli era ormai evidente che, anche se consciamente non aveva ancora raggiunto una decisione, inconsciamente già sapeva di voler lottare per Elia, per quel ragazzo che condivideva il suo stesso sangue. L'altra metà del suo cuore, la destra alla sua sinistra.

Era ora di smettere di scappare.


 

Note Autrice

Eccomi qui con un nuovo capitolo! Come vedete, le cose iniziano ad avviarsi verso un'inevitabile confronto. Chissà quali conseguenze avrà? 

Come sempre, ringrazio chi ha recensito/aggiunto la storia a ricordate, preferite e seguite. Spero che vogliate farmi sapere cosa ne pensiate anche di questo capitolo.

Alla prossima!

Dru

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Intermezzo ***


 

INTERMEZZO

 

 

We keep this love in a photograph

We made these memories for ourselves

Where our eyes are never closing

Hearts are never broken

Times forever frozen still

 

Photograph - Ed Sheeran

 

 

 

«Sono incinta.»

Di tutte le cose che aveva pensato di dover dire al suo fidanzato, quella non era mai stata neanche contemplata - non ora, non così. Avrebbe voluto dire che era stata sorpresa quando lui se n'era andato, neanche dopo un mese da quando gli aveva dato la notizia, ma non era stato così. Nonostante ci avesse provato, Agata aveva letto nei suoi occhi fin da subito che non sarebbe rimasto, e una parte di lei non aveva potuto biasimarlo del tutto.

Avevano appena vent'anni e lavoravano entrambi da meno di un anno, Agata come parrucchiera e Marco come meccanico; due stipendi che coprivano alcune spese, ma che non erano abbastanza per mantenere due figli.

Dicevano che l'amore vinceva qualunque battaglia, ma sembrava che il loro non fosse in grado di sopravvivere neppure al suo stesso frutto.

Agata viveva ancora con i suoi genitori, a Firenze, che si erano dimostrati disposti ad aiutarla, nonostante lei riuscisse a sentire la loro disapprovazione sulla pelle. Erano una famiglia Cattolica, e per lungo tempo i suoi genitori avevano faticato ad accettare l'idea che i loro nipoti sarebbero stati illegittimi, preoccupati dalle malelingue della comunità, e Agata non aveva potuto biasimarli, ma quale altra scelta aveva? Anche se non avesse avuto fede, non sarebbe mai riuscita ad abortire, il suo cuore non glielo avrebbe mai permesso. Così aveva respinto la paura e aveva pregato di riuscire ad essere una buona madre, anche solo un pochino.

E poi erano nati.

Enea ed Elia. Era stato amore a prima vista, così puro e viscerale che aveva eclissato tutto il resto. Crescerli non era stato facile, eppure Agata non avrebbe cambiato neanche un istante, perché ognuno di essi li aveva aiutati a crescere, tutti e tre insieme. Erano passati dieci anni da quando quella nuova avventura era iniziata, e quell'amore non aveva fatto altro che crescere, ancora e ancora, così tanto che alle volte si aspettava che il cuore le esplodesse, proprio come in quel momento.

Erano gli ultimi giorni prima che le vacanze finissero e si stavano godendo una delle ultime giornate in spiaggia, con il rumore delle onde del mare che si infrangevano sugli scogli e il profumo di salsedine che facevano da cornice a una scena che la faceva sorridere come solo i suoi figli sapevano fare.

In equilibrio precario su una roccia, Enea teneva per mano il fratello, aiutandolo a non cadere mentre passavano da uno scoglio all'altro. Fin dalla nascita, il forte legame tra i due era stato visibile: si sostenevano e incoraggiavano a vicenda, amandosi incondizionatamente. Erano i due poli opposti: Enea, che vedeva il mondo con un occhio artistico evidente già a quell'età, era testardo e passionale, ma anche ferocemente leale e protettivo; Elia era invece silenzioso e gentile, con un'anima buona ed empatica che smussava gli angoli del gemello con dolcezza e comprensione. Agata aveva sempre pensato che fossero come le due metà di un intero, le due facce della stessa medaglia. Si appartenevano.

«Ehi, mamma, vieni a vedere!»

Risvegliata dai suoi pensieri, Agata chiuse il libro e li raggiunse, lasciando che Enea la trascinasse per una mano fino a uno scoglio che sembrava aver attirato l'attenzione di entrambi.

Elia sorrise eccitato. «Guarda, mamma, una stella marina!»

«Hai ragione, tesoro!»

Circondarono tutti e tre la stella, ammirandone il colore rosso scuro. «È così bella!»

La donna annuì, chinandosi a baciare la testa di entrambi. Alle volte, avrebbe voluto che restassero piccoli per sempre, in grado di gioire delle piccole cose e protetti dal dolore che crescere inevitabilmente comportava.

«Dovremmo farle una foto!», esclamò Elia, correndo a prendere la macchina fotografica della madre. Agata amava scattare foto dei suoi bambini, ne avevano interi album a casa, perché le piaceva documentare ogni istante, congelare il tempo, ancora per un poco, così che i bei momenti durassero per sempre. Sapeva che non era così che funzionava, ma non riusciva a farne a meno, quasi avesse paura che, se non lo avesse fatto, le sarebbero scivolati tra le dita.

Afferrò la macchina che Elia le porgeva, ordinando ai bambini di mettersi in posa. I due si inginocchiarono ai due lati della stella, prima sorridendo, poi facendo delle smorfie. In poco tempo, Agata aveva scattato una decina di foto, ognuna più buffa dell'altra, compreso un autoscatto di se stessa abbracciata ai figli, fatto mettendo la macchina fotografica in bilico su una roccia.

Restò nel cuore di tutti e tre per lungo tempo, quella giornata. Il calore del sole, il rumore e profumo del mare, le risate, la malinconia dell'ultimo giorno d'estate, le fotografie. Quattordici anni dopo, quest'ultime sarebbero state l'unica testimonianza di un'infanzia ormai dimenticata.


 

 

 

Note dell'Autrice

Ecco qui il secondo intermezzo, questa volta dal punto di vista di un personaggio misterioso: Agata. La donna è una contraddizione, e solo il tempo ci fornirà - forse - delle spiegazioni. Grazie a tutti per i voti/visualizzazione/commenti, li apprezzo molto!

Alla prossima,

Dru

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** VI ***


VI

 

 

 

Due fotografie è tutto ciò che rimane

sul mio letto il vento le fa volare

la distanza che ci divide fa male anche a me

 

L'amore - Sonohra

 

 

Ci volle loro una settimana per pulire e rendere la casa dei nonni vivibile — nonostante fossero morti da tempo, entrambi continuavano a chiamarla in quel modo. Non avevano più affrontato l'argomento, entrambi troppo impegnati, ma nessuno dei due sembrava avere una chiara idea di cosa farne della villa. Nonostante la sua vita fosse a Milano, una parte di Enea era restia all'idea di vendere o affittare una casa che non era stata infettata dai brutti ricordi, che ancora conservava quella felicità che aveva caratterizzato la sua vita prima.

Alle volte era strano come si trovasse a pensare alla sua vita come divisa in due parti nette e ben distinte, entrambe caratterizzate da emozioni precise e opposte.

Prima: il periodo che andava dalla nascita ai quindici anni, quando ancora non aveva mostrato tutte quelle tendenze che sua madre condannava senza possibilità di appello e viveva una vita semplice e felice, circondato dall'amore della sua famiglia.

Dopo: dai quindici anni al presente, periodo che era stato per lo più dominato dalla rabbia e dai fantasmi che sembravano esserglisi attaccati addosso, impossibili da scrollare via. Certo, c'erano state molte soddisfazioni personali nel dopo — trovare casa e lavoro dopo il carcere, riuscire a guadagnare abbastanza soldi da mantenersi, vivere finalmente la sua sessualità alla luce del sole — ma erano stati macchiati dall'assenza di quell'amore di cui aveva sentito la mancanza come si sente quella di un arto brutalmente strappato via.

Non che non avesse gioito di quello che era riuscito ad ottenere, era un miracolo il genere di prospettiva che ottenevi dopo aver passato due anni chiuso in una cella, ma la mancanza di Elia e, tutto sommato, anche di Agata, aveva reso il tutto più amaro. Una parte di lui sapeva che, almeno per quanto riguardava sua madre, era meglio così. La donna non sarebbe mai stata capace di vedere oltre quella che per lei era una colpa imperdonabile e non avrebbe fatto altro che distruggere quel poco che Enea era riuscito a ricostruire.

O forse no.

Se c'era una cosa che la morte di sua madre gli aveva svelato, era che Agata era un mistero ed una contraddizione, entrambe racchiuse nella stessa persona. Non era stata in grado di accettarlo e aveva finito per costringerlo ad andarsene, senza mai cercare di recuperare il rapporto, eppure non lo aveva escluso dal testamento. Nonostante ci avesse pensato spesso, dal giorno della lettura del testamento, Enea si era rassegnato tempo prima al fatto che molte domande sarebbero rimaste senza risposta — anche se le avesse fatte a suo fratello.

Mentre svuotava la libreria, Enea afferrò la copia di Harry Potter e la Pietra Filosofale, sorridendo nostalgico. C'era un gioco, che lui ed Elia avevano sempre fatto fin da quando avevano imparato a scrivere: quando uno dei due leggeva un libro scriveva qualcosa ai margini - all'inizio cose semplici, anche solo i loro nomi, man mano che crescevano veri e propri commenti sulla trama, sui personaggi, o su qualsiasi cosa venisse loro in mente - e l'altro rispondeva, creando un botta e risposta che poteva trascinarsi anche per anni. Fece scorrere il dito sulle parole impresse sulla carta sgualcita dalle mille riletture, ridacchiando. All'improvviso, una foto scivolò fuori, cadendo sul pavimento a faccia in giù. Aggrottando le sopracciglia, Enea si chinò a raccoglierla, il respiro che gli si bloccava in gola una volta che incrociò gli occhi familiari della donna che non vedeva da sei anni.

Ricordava il giorno in cui avevano scattato quella foto, anche se, come con tutto ciò che riguardava sua madre, cercava di non pensarci. Era stato l'ultimo giorno dell'estate dei loro dieci anni, prima che tornassero in città. Era stata scattata sulla spiaggia a pochi passi dalla casa in cui si trovava ora, per la precisione sugli scogli. Agata era nel mezzo, Enea ed Elia ai suoi lati, e ai loro piedi una stella marina rossa. Sfiorò con le dita il sorriso spensierato che non ricordava di aver visto sul suo stesso viso se non negli ultimi giorni. Eccolo lì, il prima, intrappolato per sempre in quella foto da tempo dimenticata. Quel bambino non aveva idea di cosa lo aspettasse, ed Enea ne era equamente grato e geloso.

«Enea, hai visto il mio...»

Quando lo vide fermo di spalle, Elia gli si avvicinò in silenzio, spiando da sopra la sua spalla.

«Ma dove l'hai trovata?»

Senza distogliere lo sguardo dalla foto, Enea sollevò il libro.

«Qualcuno deve averla usata come segnalibro.»

La voce di Elia era cauta, quasi riuscisse a sentire che Enea era sull'orlo dell'abisso, e che una mossa falsa avrebbe potuto spingerli entrambi oltre il ciglio.

Enea gliela tese. «Mettila tra la roba da buttare.»

«Non ti sembra di esagerare? È solo una foto, se non la vuoi la prendo io.»

Elia si voltò di scatto. «Non è solo una foto, è l'ennesima bugia!»

«Ma di che parli?»

Enea gliela premette sul petto con tanta forza da sbilanciarlo. «Niente di quello raffigurato qui è vero. Se lo fosse stato, le cose sarebbero andate diversamente.»

Elia scosse la testa. «Lo so che è difficile da credere, dopo quello che ha fatto, ma ti amava. Era solo... spaventata, credo. Preoccupata.»

Enea rise, un suono orrendo alle sue stesse orecchie. «E io non lo ero? Avevo quindici anni! Non avevo idea di cosa mi stesse succedendo, e invece di aiutarmi lei...»

Le parole gli restarono intrappolate nella gola, ora chiusa in una morsa ancora più serrata.

«Ti ha distrutto. Ci ha distrutto.»

Enea fece un sorriso amaro. «Non è stata la sola.»

«Ti ho sempre sostenuto!»

«MA NON C'ERI!»

L'esplosione sembrò colpire Elia fisicamente, facendolo indietreggiare di qualche passo.

«Credi che non ci abbia provato? Quante volte sono venuto in carcere per cercare di parlarti, anche se mamma non voleva? Eh? Sei stato tu a rifiutare di vedermi!»

«Dopo due anni, Elia! Due anni di telefonate e poco altro, o te ne sei dimenticato?»

«Ti ho chiesto di tornare!»

«Sì, per lei.»

«Non solo per lei!»

«Non importa! Sinceramente, credo sia una vergogna anche solo che tu me l'abbia chiesto, dopo quello che mi ha fatto!»

«Non è stata una mia idea!»

«Cosa?»

Elia sospirò, sconfitto. «Me l'ha chiesto lei, okay? Non so perché, forse l'idea di morire senza rivederti non le andava giù, o forse sperava di riuscire ancora a cambiarti, prima che fosse troppo tardi. Non lo so, Enea, mamma era un mistero per me quanto lo era per te, ma chiederti di tornare è stato un'idea sua.»

Enea lo fissò a bocca aperta, la rabbia che gli faceva pulsare le tempie.

«Avresti dovuto dirmelo.»

«Lo so.»

Elia suonava stanco e sconfitto, e una parte di Enea ne era dispiaciuta, ma era così piccola che fu subito sommersa da tutto il resto. «Sei anni», mormorò, «sei anni, e ancora custodisci i suoi segreti e fai quello che ti chiede, non importa quale prezzo tu debba pagare.»

Non importa quale prezzo io debba pagare.

Elia sussultò. «È pur sempre mia madre.»

Enea rise. «Lo dici come se, dopo tutto quello che ha fatto, valesse ancora qualcosa.»

«Vale per me.»

Enea scosse la testa. «In passato ammiravo la tua lealtà, ora non credo ci sia rovina più grande.»

Elia rise, un suono tagliente e amaro. «La pensi davvero così, o lo dici solo perché ritieni che sia stato più leale a lei che a te?»

Enea ringhiò, facendo un passo verso il fratello. Si era dimenticato che anche Elia lo conosceva e sapeva quali tasti premere, anche se non lo faceva spesso, al contrario di lui. Era facile sottovalutare il suo gemello, un errore che Enea non aveva intenzione di fare.

«Hai scelto lei, o sbaglio? Sei anni fa, avresti potuto venire con me, ma non l'hai fatto.»

Elia sbuffò. «Venire dove? Non avevi soldi, non avevi un lavoro o un piano! Capisco che volessi andartene e che ne avessi bisogno, ma hai corso un grosso rischio. E poi non volevo lasciare la mamma da sola, okay? So che non vuoi sentirtelo dire, ma non potevo abbandonarla come ha fatto papà, volevo essere migliore di così!»

Enea lo afferrò per la maglietta, voltandosi e spingendolo contro la libreria. «È questo che pensi di me?», sussurrò, il naso che sfiorava il suo, «che l'ho abbandonata come quello stronzo?»

«No», sussurrò Elia, «penso che lei abbia abbandonato te

Enea rimase senza parole, limitandosi a fissare gli occhi dell'altro, identici ai suoi. Elia sostenne il suo sguardo, le mani chiuse intorno ai suoi polsi. «Le volevo bene, ed è vero, le sono rimasto leale comunque, anche se lei non lo meritava, ma ho sempre, sempre cercato di farle capire che stava sbagliando. Ho pregato e supplicato che riconsiderasse la sua fede, per te, e forse ci sono riuscito, forse è per questo che ha voluto che cercassi di farti venire a Firenze.»

Elia appoggiò la fronte contro la sua, chiudendo gli occhi. «Non lo so, Enea. Davvero, non lo so. Ma so che essere rimasto leale a lei non vuol dire aver tradito te. Ho fatto del mio meglio.»

Enea tremò contro di lui, le mani che mollavano la presa sulla maglietta per andare a circondare il viso di Elia. Quando l'altro aprì gli occhi, tornando ad incrociare i suoi, Enea premette le labbra sulle sue, baciandolo con forza. L'altro ricambiò con una disperazione che li bruciò entrambi, facendo divampare un inferno che nessuno dei due voleva — o poteva — spegnere.

 
 
 
Note dell'autrice
 
Finalmente siamo alla svolta! I nostri gemelli preferiti si sono scontrati e la situazione ha preso una piega inaspettata. Come sempre, ringrazio chiunque abbia letto/recensito/altro, sono contenta che la storia vi stia piacendo tanto!
Al prossimo capitolo,
Dru

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** VII ***


VII

 

What's left to say?

These prayers ain't working anymore

Every word shot down in flames

What's left to do with these broken pieces on the floor?

I'm losing my voice calling on you

'Cause I've been shaking

I've been bending backwards till I'm broke

Watching all these dreams go up in smoke

 

Ashes - Céline Dion

 

 

«Hai provato a chiamarlo?»

Elia continuò a fissare il paesaggio fuori dalla finestra del suo salotto, senza reagire all'ennesima domanda di Yelena.

«Allora? Elia?»

La ragazza gli si piazzò davanti, ostruendogli la vista della pioggia che cadeva sui vetri.

«Hai chiamato Enea?»

«Non ha risposto.»

«Magari non poteva.»

Elia le rivolse un'occhiata che su chiunque altro sarebbe risultata derisoria.

«È di mio fratello che stiamo parlando, ricordi?»

L’altra sospirò e si lasciò cadere al suo fianco, appoggiando la testa sulla sua spalla.

«Che cosa pensi di fare?»

«Non lo so. Abbiamo già fatto abbastanza, non credi?»

«Beh, avete reso una situazione complicata ancora più complicata, ma è un po' la vostra specialità, no? Niente è mai facile, quando si parla di voi due.»

Elia rise, amaro. «Siamo andati a letto insieme, Yelena. Anche senza considerare tutte le ramificazioni morali e sociali, credi davvero che sia una situazione risolvibile? Riusciamo a malapena ad essere fratelli, non vedo come potremmo essere qualcosa di più.»

La ragazza intrecciò una mano alla sua, ed Elia ne assorbì il silenzioso conforto. Sinceramente, non aveva idea di come facesse lei a toccarlo senza provare il desiderio di lavarsi le mani con la candeggina subito dopo. Dio solo sapeva quanto volesse farlo lui stesso, più o meno dal momento in cui si era svegliato da solo nella casa al mare, ormai quasi due settimane prima. Aveva capito subito che Enea aveva avuto la reazione standard che adottava davanti a qualsiasi situazione emotivamente destabilizzante: scappare.

C'erano state delle volte in cui Elia non aveva potuto certo biasimarlo, ma non questa volta, non quando voleva dire lasciare lui da solo ad affrontare tutto, di nuovo.

Non aveva mentito, quando aveva detto a suo fratello che capiva la sua scelta di andarsene e la necessità dietro di essa, ma una parte di lui non riusciva a dimenticare il rancore che l'Elia diciottenne aveva provato — e che l'Elia ventiquattrenne ancora provava, alle volte.

«Tutto qui? Hai intenzione di arrenderti così, di lasciarlo scappare di nuovo?»

Scrollò le spalle. «Che altra scelta ho?»

«Vai a riprendertelo.»

Si voltò a guardarla. «Cosa?»

«Prendi un treno e vai a Milano.»

«È la cosa più stupida che abbia mai sentito!»

«E perché mai? Che hai da perdere? Se l'è già data a gambe, al massimo potrebbe mettere giù a parole quello che le sue azioni hanno già espresso, ma almeno lo costringeresti ad affrontare la situazione. Dio solo sa quanto voglia bene a quel ragazzo, ma ha bisogno di qualcuno che si piazzi sulla sua strada e fermi la sua fuga eterna.»

Yelena aveva ragione, come capitava spesso, ma solo in parte, perché Elia era abbastanza sicuro che ci fosse ancora molto che suo fratello avrebbe potuto togliergli, e lui non era più così sicuro che ne valesse la pena.

 
 

 

Note autrice

Capitolo breve ed intenso, visto dal punto di vista di Elia e con la saggia partecipazione di Yelena. Preparatevi, perché da qui in avanti le cose si faranno complicate...

Se il capitolo vi è piaciuto, fatemelo sapere nei commenti, sono curiosa di leggere i vostri pareri!

Nel frattempo, vi ricordo che potete vedere tutti i siti e social network in cui trovarmi sulinktr.ee/dru_writer

Alla prossima!

Dru

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** VIII ***


 

VIII

 

 

I tried to heal your broken heart with all that I could

Will you stay?

Will you stay away forever?

How do I live without the ones I love?

Time still turns the pages of the book its burned

Place and time always on my mind

I have so much to say but you’re so far away

 

So far away – Avenged Sevenfold

 

 

«Fantastico come sempre, Enea.»

Il cliente, un ragazzo sulla ventina, gli rivolse un sorriso accattivante, osservando soddisfatto il tatuaggio di un Auryn – due serpenti, uno chiaro e uno scuro, che s’intrecciavano, mordendosi la coda a vicenda e formando un cerchio – che Enea aveva appena finito di tatuargli sulla spalla destra.

Enea fece un cenno disinteressato, iniziando a riordinare la sua postazione senza degnarlo di uno sguardo, nemmeno quando l'altro si appoggiò al bancone, schiarendosi la gola. «Per il prezzo?»

«Sono centocinquanta euro», rispose Enea, atono.

«Oh, andiamo! Nemmeno uno sconticino per inaugurare il tuo ritorno da Firenze?», domandò l'altro, avvicinandosi ancora di più, gli occhi che continuavano a cercare i suoi.

«Scordatelo», ribatté, stringendo i denti per cercare di ricacciare indietro i ricordi che il nome della sua città natale non falliva mai di riportargli alla mente.

«Nemmeno in onore di ieri notte?» ribatté l’altro languidamente, continuando a fissarlo finché non sbuffò, mettendo giù la macchinetta per fare i tatuaggi e guardandolo senza cercare neanche di nascondere il suo fastidio. «Senti, non so con chi tu creda di avere a che fare, ma il fatto che ti abbia scopato un paio di volte mentre ero ubriaco non ti autorizza ad avanzare pretese del genere. Hai avuto il tuo tatuaggio, ora paga e levati dai coglioni.»

Il ragazzo lo afferrò per il colletto della maglia, strattonandolo. «Come ti permetti, brutto...»

«Levami le mani di dosso, ora

La voce di Enea assomigliava sempre di più al sibilo di un serpente pronto ad attaccare, e sicuramente la questione – a giudicare dall'espressione di entrambi – sarebbe sfociata in una rissa, se improvvisamente una voce infuriata non li avesse interrotti.

«Cosa cazzo sta succedendo qui, eh?», urlò il nuovo arrivato, Arkadij, un metro e novanta di muscoli e tatuaggi con un leggero accento russo, scrutando con faccia truce i due ragazzi.

«Niente», sbottò Enea, liberandosi dalla presa dell'altro con uno strattone, «semplice divergenza di opinioni.»

«Sì, infatti», concordò il cliente a denti stretti, lanciando i soldi sul bancone e uscendo dalla stanza come una furia, imitato poco dopo dallo stesso Enea, che si diresse a passo di marcia verso l'uscita sul retro, sbattendosi la porta di metallo alle spalle con tanta forza da far tremare le pareti.

«Ascoltami bene, ragazzino», ringhiò Arkadij, raggiungendolo all'esterno quasi immediatamente, «non me ne frega un cazzo se ti sei alzato dal lato sbagliato del letto, non voglio vedere scene del genere nel mio negozio.»

«Credevo fosse il nostro negozio», rispose atono Enea, osservando con sguardo assente il fumo che gli usciva dalla bocca. Non fumava mai, a meno che non fosse incazzato, depresso o nervoso – o tutte e tre le cose insieme – e la quasi rissa con quel coglione aveva destabilizzato il suo già precario umore, rendendogli assolutamente necessaria una pausa sigaretta.

«Questo è tutto da vedere, ragazzino», lo minacciò il suo socio, «quindi smettila di fare cazzone, scolla tuo culo da questo fottutissimo muro e torna di là a fare quello che sai fare meglio e per cui ti pago.»

Quando si arrabbiava, Arkadij non solo dimenticava gli articoli, ma quello che era un leggero accento russo si faceva ancora più marcato.

Soddisfatto della sua ramanzina, l'uomo si voltò e rientrò, lasciandolo solo con i suoi pensieri. Enea si prese qualche altro minuto per calmarsi e finire la sua sigaretta, il fumo che gli invadeva i polmoni, rilassandolo come poche altre cose – o persone – al mondo erano in grado di fare. Quando ebbe finito buttò la cicca, pestandola con un piede e rientrando poi nello studio. Il russo gli dava le spalle, impegnato a pulire la sua macchinetta, e non diede alcun segno di averlo sentito rientrare.

«Arkadij...», borbottò, passandosi una mano tra i capelli e cercando le parole per scusarsi, ma l'altro lo fermò, interrompendo quello che stava facendo e girandosi verso di lui. «Non me ne faccio un cazzo delle tue scuse, ragazzino. Non so cosa sia successo a Firenze e non voglio neanche saperlo, ma non deve interferire con lavoro, perché se dovesse succedere sarei costretto a licenziarti e non ho di certo tempo da perdere per trovare qualcuno che ti rimpiazzi.»

«Non è successo niente a Fir...», tentò di negare, inutilmente, Enea.

«Ho detto che non voglio saperlo, non che puoi raccontarmi cazzate. Se non riesci a gestire la situazione, ti consiglio di andare a parlare con Arturo, prima che ti sfugga di mano e finisci per tornare in cella», senza neanche dargli il tempo di ribattere l'uomo lo sorpassò, andando incontro al cliente che era appena entrato.

Arkadij Nikolaevic Petrov, detto il Lupo, cinquantaquattro anni, non era sicuramente il tipo da dilungarsi troppo – come Enea aveva avuto modo di notare da due anni a quella parte – e nemmeno si faceva i fatti altrui o chiedeva cosa ci fosse che non andasse. Lui osservava e notava tutto, ma non chiedeva mai. Aspettava che fossero gli altri a confidarsi, con una pazienza che raramente dimostrava di avere in altre attività.

In realtà, Enea voleva confidarsi con Arkadij, ma si sentiva come se le parole gli si fossero impigliate in gola. Più di una volta era stato sul punto di parlargli, ma non ce l'aveva mai fatta. E poi, cosa avrebbe potuto dirgli? “Ho fatto un'enorme cazzata: sono andato a letto con mio fratello e la mattina dopo sono scappato come un codardo mentre ancora dormiva”?

«Arkadij, ti dispiace se oggi inizio la pausa pranzo un po' prima?», chiese titubante, sospirando sollevato al cenno sbrigativo che l'altro gli rivolse e dirigendosi poi a passo svelto fuori dallo studio e quindi in strada.

Iniziò a vagare per Milano, le mani infilate nelle tasche. Dopo qualche minuto, con uno sbuffo irritato tirò fuori il cellulare e compose velocemente un numero che ormai conosceva a memoria per quante volte l'aveva digitato da un mese a quella parte, senza mai avere il coraggio di chiamarlo. E quella volta, ovviamente, non fece eccezione. Rimase a fissare lo schermo del telefono per quella che gli parve un'eternità, prima di cancellare e digitare un altro numero, sfiorando poi il tasto di chiamata. Dopo aver rifiutato le chiamate di Yelena per più di due settimane, alla fine si era arreso al bisogno di parlare con qualcuno — perché sapeva che Elia le aveva detto tutto — e avevano avuto una lunga conversazione un paio di giorni prima. A livello decisionale non avevano fatto progressi, ma non importava quanto Enea le dicesse che non aveva alcuna intenzione di parlare con Elia, Yelena non sembrava intenzionata ad arrendersi.

«Spero ci sia una buona ragione per questa tua chiamata di prima mattina, Enea!», borbottò la ragazza appena rispose alla chiamata, facendolo ridere.

«Prima mattina? Sono le undici passate!»

«Appunto, è praticamente l'alba!», sbottò la ragazza, mentre in sottofondo si sentiva un rumore di passi seguito da un tramestio di tazze e posate.

«A che ora sei tornata ieri sera, Yelena?», chiese Enea, spegnendo la cicca sotto la scarpa.

«Tornata? Chi ti dice che fossi uscita?», borbottò nuovamente la ragazza, evasiva.

Enea alzò un sopracciglio, dubbioso. «Non c'è bisogno che qualcuno me lo dica, Yele, ti conosco.»

«Anche io conosco te, se per questo. Come mai mi hai chiamato a quest'ora?»

«Cos'è questo, un tentativo di eludere il discorso?»

«Ma guarda, stavo proprio per farti la stessa domanda», ribatté la ragazza in tono serio, aggiungendo poco dopo, «hai intenzione di dirmi cos’è successo? Dovresti ancora essere al lavoro, a quest'ora.»

Enea si leccò le labbra, indeciso, poi sussurrò, talmente piano che si sentì a stento, «ho quasi fatto a botte con un tipo e Arkadij mi ha concesso di iniziare prima la pausa pranzo per schiarirmi le idee.»

«Che cosa?! Perché?!»

«Ha tentato di far leva sul fatto che fossi andato a letto con lui per avere uno sconto sul suo nuovo tatuaggio.»

«Tutto qui? Non hai bisogno che ti ricordi cosa rischi se finisci con una denuncia per rissa, vero?»

Enea poteva quasi vederla, seduta in cucina a sorseggiare una tazza di caffè, le sopracciglia aggrottate per la perplessità e la preoccupazione.

«Già», sussurrò, lasciando vagare lo sguardo sulla città senza realmente vederla.

«No che non è tutto qui, invece», aggiunse lei qualche secondo dopo, la voce seria come poche volte il ragazzo l'aveva sentita, «nessuno meglio di te sa che rischi si corrono a perdere il controllo in questo modo, non cadresti mai nello stesso errore, non così facilmente almeno. Cosa non mi stai dicendo?»

«Niente, è solo che...», tentennò passandosi la lingua sulle labbra, «ha detto “Nemmeno uno sconticino per inaugurare il tuo ritorno da Firenze?”»

Yelena rimase in silenzio per qualche secondo, la linea disturbata solo dal suono del respiro della ragazza. «Cosa pensi di fare?», chiese alla fine.

«In merito a cosa?», ribatté, fingendo di non capire.

«Enea...», Yelena sbuffò, esasperata, «non puoi scattare e picchiare la gente ogni volta che qualcuno nomina la parola “Firenze” o “fratello”, lo sai. Potresti finire di nuovo in prigione!»

«Non ho così poco autocontrollo, Yele.»

«Ti sei irrigidito appena le ho dette e non negare!», il ragazzo sospirò, passandosi una mano fra i capelli. «Non so cosa fare.»

«Sì che lo sai. Lo sappiamo entrambi», mormorò dolcemente la ragazza.

«Non posso», sussurrò lui chiudendo gli occhi, «non posso.»

«Come diceva il grande Rafiki: “Il passato può fare male. Ma a mio modo di vedere dal passato puoi scappare... oppure imparare qualcosa.”», ribatté la ragazza con finto tono saggio, facendolo sbuffare.

«Scherzi a parte», continuò Yelena, «dovresti chiamarlo, dico sul serio. Farebbe bene ad entrambi.»

 

***

 

Will you stand when it all burns down?

Will you love when it all burns down?

Will it end when it all burns down?

Will you just let it all burn down?

 

Let it burn - Red

 

 

«Un altro giro, Enea? Offro io!», chiese Andrea, urlando per farsi sentire al di sopra della musica assordante che riempiva il locale. Enea distolse lo sguardo dalla folla che si muoveva a tempo in mezzo alla pista, facendo un cenno di assenso all'indirizzo dell'amico, che sparì in fretta in direzione del bar. Quando Andrea l'aveva chiamato, chiedendogli se gli andasse di fare un salto all'inaugurazione di una nuova discoteca, Enea non ci aveva pensato due volte e aveva subito accettato, consapevole che il mattino dopo se ne sarebbe pentito, causa mal di testa insopportabile per il troppo consumo di alcool.

Annoiato e consapevole delle ore che ci avrebbe messo Andrea per tornare a causa della folla, lasciò vagare pigramente lo sguardo per la sala alla ricerca di Davide, il quale era sparito pochi minuti dopo che erano arrivati, deciso a trovare una ragazza con la quale intrattenersi piacevolmente tra un drink e l'altro. Un'accurata ispezione rivelò però che il suo amico era stato inghiottito dalla folla – oppure aveva trascinato la sua conquista di quella sera nei bagni della discoteca e in quel momento se la stava spassando molto più di lui.

Andrea ricomparve quasi venti minuti dopo, lasciandosi cadere al suo fianco e allungandogli il suo drink. «Davide è sparito come sempre, vero?», chiese poi, sorseggiando il suo Mojito e scrutando fra la folla.

«Ovviamente», sbuffò Enea, girando il ghiaccio nel bicchiere con la cannuccia.

«Merda, abbiamo un problema», disse improvvisamente Andrea, indicando tra la folla con un cenno della testa. Enea seguì il suo sguardo e vide Davide sospeso a qualche centimetro da terra, tenuto per il colletto della camicia da un energumeno muscoloso di almeno due metri che sembrava intenzionato a spaccargli la faccia.

«Maledizione, un'altra volta!», sbottò Enea alzandosi e dirigendosi verso i due, subito seguito da Andrea, le cui imprecazioni vennero inghiottite dalla musica alta man mano che si facevano largo a gomitate tra la folla. Enea sapeva quanto fosse rischioso per uno con i suoi precedenti intervenire in una situazione del genere, ma non era il tipo da lasciare gli amici in difficoltà.

«Ehi amico, calmati, volevo solo divertirmi un po'!», stava biascicando Davide, completamente ubriaco, cercando debolmente di liberarsi dalla presa dell'altro uomo, il quale sembrava del tutto intenzionato ad ucciderlo, nonostante una bionda con un enorme davanzale e in precario equilibrio su un paio di tacchi altissimi gli si fosse aggrappata addosso per tentare di fermarlo.

«Divertirti?! Con la mia ragazza?!», ringhiò l'energumeno, preparandosi a sferrare quello che sarebbe stato certamente un pugno molto doloroso, se solo Enea non fosse intervenuto, bloccandolo. «Ehi, Fermo! Sono sicuro che ci sia un modo migliore per risolvere la questione, magari senza ricorrere alle mani!», disse velocemente, trattenendo l'uomo per un braccio mentre Andrea afferrava Davide e lo sottraeva alla sua presa.

«Ah, ma davvero? E se invece io volessi spaccare la faccia al tuo amico? Come pensi di impedirmelo?», ringhiò l'uomo, cercando di divincolarsi dalla presa di Enea per avventarsi nuovamente su Davide.

«Sono sicuro che il mio amico non avesse idea che quella fosse la tua ragazza! Insomma, guardalo, è ubriaco fradicio!», disse Enea a denti stretti, cercando di usare il tono più conciliante presente nel suo repertorio. Sentiva la rabbia ribollirgli nelle vene e la voglia di colpire il tipo con tutta la sua forza, ma riuscì a trattenersi. Aveva troppo da perdere per rischiare di finire di nuovo in prigione — o di uccidere qualcuno, visto che era troppo emotivamente instabile per riuscire a mantenere qualsiasi controllo, dopo il primo colpo.

«Non... non è vero...», stava biascicando Davide intanto, le parole che si udivano a stento al di sopra della musica, «non... non sono... ubriaco... sono... sono solo brillo. E poi è stata lei a saltarmi addosso, con quelle enormi tett...»

Prima che Enea potesse anche solo pensare di fare qualcosa – come uccidere Davide e la sua linguaccia o afferrare lui e Andrea e darsela a gambe – l'energumeno gli rifilò un pugno e saltò addosso a Davide. Enea crollò a terra, il sangue che gli imbrattava il viso e tanti puntini colorati che gli danzavano davanti agli occhi, mentre il naso gli pulsava dolorosamente.

«Ehi, basta! Smettetela!» Un paio di braccia lo sollevarono di peso e lo trascinarono via attraverso la folla, mentre un paio di buttafuori staccavano l'uomo da Davide e Andrea, che si era messo in mezzo per impedire che il primo si facesse troppo male a causa della sua stupidità. Quando si fu ripreso abbastanza, Enea si accorse di essere disteso su un divano, mentre diverse voci, tra cui quella preoccupata di Andrea, schiamazzavano sopra di lui. Nel suo campo visivo improvvisamente entrò un ragazzo sui venticinque anni, che lo aiutò a mettersi seduto, porgendogli un fazzoletto affinché si tamponasse il naso. «Tieni, dovrebbe fermare l'emorragia.»

Con un gemito, Enea si premette il tessuto sul viso impiastricciato di sangue, cercando di contenere i danni.

«Come ti senti?», gli chiese lo sconosciuto, buttando in un cestino i resti del fazzoletto una volta che il flusso di sangue si fu arrestato.

«Dolorante, ma vivo. Credo che quello stronzo mi abbia rotto il naso», gemette Enea, facendo sorridere l'altro.

«Fammi controllare», disse il ragazzo, avvicinandoglisi.

«Sei sicuro di sapere cosa stai facendo?» chiese Enea preoccupato, «ci tengo al mio naso.»

«Studio medicina», spiegò il ragazzo, «quindi stai tranquillo, avrai ancora il tuo naso quando avrò finito.»

Enea suo malgrado si ritrovò a sorridere, mentre il ragazzo sconosciuto gli tastava delicatamente il volto.

«Allora, dottore, qual è la diagnosi?»

L’altro sorrise. «A mio parere il suo naso non è rotto, ma le consiglio di metterci su qualcosa al più presto e, in caso di peggioramento, recarsi in ospedale, signor...»

«Enea Liberti.»

«Io sono Stefano», si presentò l'altro, «ti stringerei la mano, ma temo che ti imbratterei di sangue ancora di più!» scherzò, sciacquandosi le mani in una bacinella d'acqua che qualcuno aveva portato. Prima che Enea potesse aggiungere qualcosa la voce di Andrea, tornato nella stanza, lo distrasse. «Ehi, amico. Come va?»

«Sto bene», lo rassicurò, «Davide?»

Andrea alzò gli occhi al cielo. «Uno dei buttafuori l'ha accompagnato all'esterno. Pensa che un po' di aria fresca gli farà passare la sbronza.»

«La sbronza è l'ultimo dei suoi problemi. Il mal di testa che avrà domani mattina sarà niente in confronto a quello che gli farò», ribatté Enea, scatenando le risate degli altri due.

«Forza, tigre, è ora di andare a casa.»

Enea si alzò con un gemito e salutò Stefano, ringraziandolo.

«Sai cosa potresti fare per ringraziarmi a dovere?»

Enea alzò un sopracciglio, scrutandolo perplesso.

«Potresti offrirmi da bere prima di andare via!»

Enea trattenne una smorfia infastidita e acconsentì, nonostante la stanchezza e l'impellente bisogno di seppellirsi sotto dieci strati di coperte e dormire per una settimana di fila.

Dopo essersi infilato una maglietta finita non si sapeva come tra gli oggetti smarriti, disse ad Andrea di non aspettarlo e seguì Stefano fino al bar, dove presero un paio di drink e parlarono del più e del meno. O meglio, Stefano parlava, Enea si limitava a grugnire e cercare di arginare il mal di testa che la musica a palla non stava affatto contribuendo a far scomparire.

Il suo salvatore era in realtà un tipo simpatico, e in un altro momento – in un'altra vita – forse Enea avrebbe flirtato con lui e ci sarebbe finito a letto, magari anche più di una volta, e forse avrebbe anche iniziato una relazione stabile.

Per un momento si concesse di immaginare una vita del genere: uscire insieme, ridere, scherzare, innamorarsi... Sembrava bello, in un certo senso. L'unico problema era che, quando immaginava tutto quello, non era Stefano il ragazzo accanto a cui si svegliava ogni mattina, le cui labbra baciava ogni sera prima di andare a dormire o la cui pelle tatuava come se fosse una tela da dipingere.

«Forse è meglio che vada», biascicò interrompendo il ragazzo a metà frase, «domani devo lavorare.»

«Certo», acconsentì Stefano, rivolgendogli un sorriso deluso e alzandosi dallo sgabello per accompagnarlo all'esterno. Enea si fece largo tra la folla, il bisogno di uscire e prendere una boccata d'aria che si faceva sempre più impellente. Quando giunsero finalmente nel parcheggio si fermò e fece un respiro profondo, girandosi poi per salutare l'altro.

«Grazie ancora per l'aiuto», disse tendendogli una mano che l'altro strinse con vigore.

«Figurati!»

«Allora... ci vediamo.» Enea si voltò per andarsene, quando improvvisamente si sentì afferrare per un braccio.

«Enea?»

Perplesso si voltò verso l'altro ragazzo, facendo per chiedergli cosa volesse, ma quello lo afferro per la maglietta e lo baciò. Enea sgranò gli occhi e si immobilizzò, gli occhi sbarrati. Stefano, cogliendo l'antifona, si staccò e fece un passo indietro, imbarazzato.

«Scusami, io... ecco...»

Ma Enea non lo stava guardando né ascoltando. Aveva lo sguardo fisso su qualcosa – qualcuno – fermo alle sue spalle.

«Elia...», sussurrò scansando un confuso Stefano e facendo un passo esitante verso il fratello. Elia lo fissò per qualche altro secondo, gli occhi azzurri svuotati da qualsiasi emozione, e poi si girò, correndo via. Prima anche solo di potersene rendere conto i piedi di Enea si mossero, correndogli dietro, incurante di qualsiasi cosa che non fosse il gemello.

«Elia!»

Accelerando il passo, riuscì a raggiungere il gemello e ad afferrarlo per un braccio, costringendolo a fermarsi.

«Elia...», sussurrò Enea, le parole che gli si incastravano in gola, ma suo fratello continuò a dargli le spalle, teso come una corda di violino.

«Lasciami andare», mormorò atono dopo qualche secondo, strattonandolo il braccio, ma Enea serrò ancora di più la presa, costringendolo a girarsi.

«Lasciami, Enea», sibilò Elia guardandolo finalmente negli occhi, la rabbia evidente anche alla luce fioca dei lampioni.

«Mi dispiace, Elia, io...», tentò di spiegarsi, ma il gemello lo interruppe.

«Ti dispiace?», ringhiò, divincolandosi dalla sua presa e fissandolo furioso come Enea non l'aveva mai visto, i suoi occhi azzurri che sembravano bruciare, «ti dispiace di cosa? Di essere venuto a letto con me o di essertene andato la mattina dopo lasciandomi da solo come fossi una puttana?»

Enea sussultò come se il fratello l'avesse schiaffeggiato e spalancò la bocca. «Non volevo trattarti come una puttana, Elia, come diavolo ti viene in mente? Sei impazzito?»

Sospirò, passandosi una mano tra i capelli e cercando le parole per spiegare il groviglio di emozioni che gli si agitavano dentro da un mese a quella parte, «è solo che...»

«É solo che, cosa? Solo che è stato un errore? Solo che non avevi le palle di guardarmi in faccia dopo quello che avevamo fatto, e così hai deciso di fingere che non fosse mai avvenuto, come fai sempre?»

Enea non aveva mai visto il fratello così infuriato. Solitamente era lui quello impulsivo, quello che perdeva le staffe, Elia invece era il tipo che manteneva la calma in qualsiasi situazione, ma in quel momento i ruoli erano invertiti, e lui non sapeva come comportarsi. Sapeva solo che gli sarebbero servite tutte le tecniche di controllo della rabbia che Arturo gli aveva insegnato negli ultimi due anni per non far degenerare la situazione.

«Tu non capisci...»

«No, Enea», lo interruppe Elia, il viso a pochi centimetri di distanza dal suo, «sei tu che non capisci. Non hai mai capito. Non avevi capito allora e non hai capito adesso.»

«Che cos'è che non capisco? Illuminami, avanti!»

«Che scappare non serve a niente. I problemi non scompaiono se volti loro le spalle e te ne vai.»

«Questa volta è diverso, e tu lo sai! Per l'amor del cielo, Elia, siamo andati a letto insieme!»

Dirlo ad alta voce sembrò renderlo ancora più reale per entrambi, gelandoli.

«Credi che non lo sappia?! Riesco a malapena a guardarmi allo specchio, Enea, ma credi davvero che fuggire sia la soluzione? Credevo che ormai ti fosse chiaro che scappare non serve ad un cazzo. »

«Che altra scelta avevo? Ero confuso e spaventato, non sapevo come avresti reagito o cosa fare, così sono scappato. Non sarà stato giusto, ma puoi davvero biasimarmi? Lo sai anche tu che quello che abbiamo fatto non è normale!»

«E come credi che mi sentissi io, eh? Mi hai lasciato da solo, Enea, di nuovo, e proprio quando credevo che fossimo sulla buona strada per tornare ad essere una famiglia.»

«Ho pensato che sarebbe stato più facile così, okay? Un taglio netto e indolore.»

Elia rise, amaro. «Sei un bugiardo.»

La rabbia esplose dentro Enea, spingendolo ad afferrare il fratello per il colletto, come aveva fatto un mese prima. «Che cosa hai detto?»

«Ho detto che sei un bugiardo», ripeté Elia, «non sei scappato perché era meglio così, ma perché era più facile. La verità, fratellino, è che sei un codardo, un maledettissimo codardo che non sa fare niente di meglio che scappare, non importa le conseguenze!»

Enea ringhiò, strattonandolo. «Pensi di essere tanto migliore di me? Scappare davanti ai problemi sarà anche sbagliato, ma restarci dentro anche quando non c'è speranza credi sia tanto meglio?»

«Ma che cazzo vorrebbe dire?!»

«Sei incapace di perdere la fede nelle persone, anche quando ti rovinano la vita, ancora e ancora! Avresti potuto lasciare la mamma al suo destino, invece sei rimasto, non importa quanto male ti stesse facendo, tutto nella speranza che rinsavisse. Io sarò anche un codardo, fratellino, ma tu sei un povero illuso.»

Enea poté quasi sentire il cuore di suo fratello che si spezzava.

«Forse hai ragione», sussurrò Elia atono, «dopotutto, solo un illuso sarebbe in grado di non perdere la speranza con te, giusto?»

Enea sussultò, aprendo la bocca per dire qualcosa, ma l'altro continuò. «Insomma, non è come se non sapessi che razza di egoista tu sia, no? Quanto ti importi solo della tua sopravvivenza, anche a discapito degli altri, continuando a scappare ed evitare i problemi finché qualcuno non prende una decisione per te o non sei costretto a scegliere. Dimmi una cosa, se non ti avessi chiamato, saresti mai tornato a Firenze, o anche solo preso l'iniziativa per recuperare i rapporti?»

Il silenzio di Enea fu una risposta più che sufficiente, ed Elia scosse la testa, amareggiato e deluso.

«Sono stanco di passare la vita a rincorrerti, sempre un passo dietro di te, senza mai essere in grado di raggiungerti. Non posso continuare così, mi dispiace.»

«Elia...»

«Addio, Enea.»

 

 

Note dell'autrice

Allora, siete ancora vivi? Questo credo sia uno dei capitoli più lunghi che abbia mai scritto, ma non mi sembrava il caso di tagliarlo. Sembra che la situazione sia giunta ad una svolta, e che abbia preso quella sbagliata. Come sempre, solo il futuro ci dirà se queste due testacce faranno pace o no.

Fatemi sapere che ne pensate, pls!

Cheers,

Dru

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Intermezzo ***


INTERMEZZO

 

A Natale puoi

fare quello che non puoi fare mai:

riprendere a giocare,

riprendere a sognare,

riprendere quel tempo

che rincorrevi tanto.

[...]

A Natale puoi

dire ciò che non riesci a dire mai:

che bello è stare insieme,

che sembra di volare,

che voglia di gridare

quanto ti voglio bene.

 

A Natale puoi - Alicia

 

 

«Mica dovevamo trovarci qui mezz'ora fa?»

Enea roteò gli occhi all'indirizzo del fratello. «Che ti aspettavi? Lo sai com'è fatta. La puntualità non è esattamente una delle sue caratteristiche principali.»

Elia sospirò, stringendosi di più nel cappotto, le mani infilate nelle tasche per proteggerle dal freddo. «Solo Yelena poteva avere questa idea, comunque.»

Enea rise, spostandosi per far passare una famiglia carica di borse e pacchetti. «Vero.»

«Mi chiedo perché abbiamo acconsentito, però.»

«Il freddo ti rende particolarmente suscettibile e scontroso, lo sai, vero?»

«Non posso farci niente!»

Prima che Enea potesse rispondere, una familiare chioma di capelli scuri si fece largo tra la folla.

«Ragazzi! Scusate in ritardo, con la neve i mezzi funzionano anche meno del solito, il che è tutto dire.»

Sorridendo, Yelena scoccò un bacio sulla guancia ad entrambi, allungando loro poi un cartello a testa.

«Non posso credere che lo stiamo facendo davvero», commentò Enea, subito spalleggiato dal fratello.

«Oh, per l'amor del cielo, voi due! È quasi Natale, sù. Non vi sembra il momento perfetto per spargere un po' d'amore?»

«Non è il messaggio che ci rende dubbiosi, è il modo in cui hai deciso di diffonderlo, che ci fa preoccupare.»

Yelena alzò gli occhi al cielo. «Forza e coraggio, rompi coglioni. Prendetevi un cartello a testa.»

I due ragazzi sbuffarono, ma obbedirono comunque. Yelena aveva preparato tre pezzi di cartone con scritto "Abbracci gratis", che aveva decorato con disegni di regali, alberi di Natale e altre cose a tema. Erano bellissimi, e non solo a causa del talento artistico di Yelena, ma perché si poteva quasi sentire quanto amore ci avesse messo. La ragazza aveva uno dei cuori più grandi che Enea avesse mai visto, capace di donare amore incondizionato senza alcun limite, e forse fu per quello che entrambi seguirono le sue direttive senza — quasi — mai protestare, anche se avrebbero preferito scappare a gambe levate, piuttosto che farsi abbracciare da sconosciuti in centro a Firenze.

All'inizio le persone non fecero nemmeno caso a loro, tre ragazzi che stavano in piedi al centro di Piazza Santa Maria Novella, con dei cartelli tenuti davanti al corpo. La frenesia del Natale che si avvicinava rendeva tutti troppo impegnati, e la neve che sembrava sul punto di ricominciare a cadere non aiutava a costringere le persone ad indugiare all'aperto per un po' più di tempo.

Il primo a fare a caso a loro fu un bambino, che camminava con aria allegra, la manina guatata avvolta in quella della madre, che si lasciò tirare nella loro direzione senza protestare troppo.

«Mamma, guarda!»

Con un sorriso sdentato, il bambino si piazzò davanti ad Enea, allargando le braccia. Il diciassettenne lo fissò con espressione impaurita, ma una spinta di Elia ed un'occhiata incoraggiante e assassina di Yelena gli fecero recuperare in fretta il controllo. Lasciando il cartello al fratello, Enea si inginocchiò, aprendo le braccia. Il bambino si aggrappò al suo collo, stringendolo per qualche secondo, per poi lasciarlo andare. Non soddisfatto, si fece coccolare anche dagli altri due, sempre sotto lo sguardo divertito della madre.

«Scusateci per il disturbo, ragazzi.»

«Non si preoccupi, signora, siamo contenti di avervi come primi clienti!»

«Mamma, fatti abbracciare anche tu!»

La donna rise, ma accontentò il figlio, abbracciando i tre ragazzi.

«Grazie, e buon Natale!»

Yelena si voltò a guardali, gli occhi che brillavano. «È stato divertente! Quel bambino era un amore.»

«Sinceramente non capisco cosa ci trovi nei bambini», commentò Enea, reggendo il cartello con una mano e grattandosi il naso intirizzito con l'altra.

«Ho quattro fratelli minori, ricordi? Se non mi piacessero sarebbe la fine!»

Prima che potessero rispondere, una coppia di ragazzi si avvicinò, l'aria imbarazzata ma le braccia che fremevano. Questa volta fu Elia a fare il primo passo, avvolgendo prima uno e poi l'altro. Enea rimase in disparte, ad osservare le loro mani intrecciate e i loro visi, alla ricerca di quella dannazione che sua madre sembrava sempre pronta a predicare, ogni volta che due persone dello stesso sesso anche solo camminavano fianco a fianco.

Non la trovò.

Quando andò ad abbracciarli, il più alto dei due, che aveva notato il suo sguardo, lo strinse un po' più forte, come a dirgli «non sei solo.»

Alla fine della giornata, nonostante non l'avesse detto a parole, Yelena fu in grado di intuire quanto fosse stato importante per lui quel pomeriggio. Anche Elia, influenzato dall'affetto di completi sconosciuti e dall'aria natalizia — nonostante il freddo — aveva finito per godersi l'esperienza.

C'era qualcosa di quasi magico in quel momento di connessione che capita tra due estranei, soprattutto sotto le feste, quando la solitudine che era dormiente per tutto l'anno si risvegliava, artigliando i cuori di tutti, chi più e chi meno.

Quando ebbero finito, Yelena avvolse le braccia intorno ai fianchi di entrambi e loro le passarono le braccia intorno alle spalle. Si strinsero a vicenda per molto tempo, tutti e tre in piedi a guardare la neve che scendeva sulla città, senza dire una parola, godendosi un raro momento di pace.

Enea non pensò alla disapprovazione che lo avrebbe accolto appena varcata la soglia di casa, così come Elia non pensò al suo cuore diviso e Yelena al magro pasto che l'aspettava, sempre diviso con i fratellini — assorbirono semplicemente la presenza uno dell'altro, lasciandosi invadere da quel calore che nulla aveva a che fare con combattere l'inverno e tutto con la famiglia, che fosse di sangue o no.

«Ragazzi?»

«Mhm?»

«Buon Natale.»

 

 

Note dell'autrice

Ecco qui il nuovo intermezzo! Mi scuso per il ritardo, ma la storia sta prendendo una piega che non avevo programmato, quindi non ho ancora scritto i capitolo successivi. 

Spero che questo vi piaccia, come sempre!

 

Dru

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** IX ***


IX

 

 

I don't wanna spend another night with just my cell phone by my side to keep my company.

I lost count of all the times I've fallen asleep

Waiting for your name to come light up my screen

[...]

The last thing I see before I close my eyes is a flashing light

I think my phone's about to die, but I'm still waiting

Oh no, I need to hear your voice but I'll settle for less

And if i had a choice, I'd get myself outta bed and

I'd bring you here so I wouldn't have to sleep alone

 

Tired eyes - Rival Summers

 

 

 

Elia osservò la neve cadere fuori dalle finestre. Stava nevicando ormai da due giorni, un evento raro a Firenze, soprattutto a fine novembre. La situazione era ormai così tragica che quella mattina aveva persino considerato l'idea di tenere chiusa la libreria, come il titolare gli aveva detto che poteva fare, ma poi l'idea di restare barricato in casa con i suoi pensieri gli aveva fatto accantonare in fretta l'idea.
Non c’erano molti clienti in giro, visto il maltempo, e lui non aveva fatto altro che starsene seduto su uno dei divani posti tra gli scaffali, assorbendo la vicinanza dei libri che tanto amava. Non c'era niente che gli offrisse tanto conforto quanto le pagine di un libro, non aveva neanche bisogno di leggerle, esserne circondato era più che sufficiente. Era sempre stato così, fin da quando era un bambino, ogni volta che era di malumore o triste o malinconico si rifugiava in un angolo, con un libro tra le mani. Spesso, Enea gli si sedeva al fianco, un blocco da disegno e una matita, e iniziava a disegnare, senza dire una parola.

Da piccoli, avevano sempre avuto quella comprensione che trascendeva le parole, un legame così profondo da essere quasi tangibile. Da sette mesi a quella parte, Elia non aveva potuto fare a meno di chiedersi se non fosse stato tutto un sogno. Aveva ripensato spesso alle parole che si erano scambiati, a quel veleno che si erano sputati addosso e che sembrava aver infettato entrambi e, nonostante il dolore, non si sarebbe rimangiato nulla, non solo perché pensava che fosse la verità, ma perché Enea aveva bisogno di sentirsi dire quelle parole, di essere messo davanti a quella verità da cui aveva iniziato a scappare chissà quanto tempo prima. Aveva sempre saputo che suo fratello era un codardo, ma una parte di lui aveva sperato che la loro ultima lite lo spingesse a reagire e prendere in mano la situazione. Certo, quello non era stata la ragione per cui aveva praticamente lasciato la prossima mossa nelle mani di Enea, Elia non era mica stupido. Amava suo fratello, in modi che non avrebbe mai creduto possibili, e non lo biasimava per la persona che era diventata, con tutti i suoi difetti e spigoli che ferivano Enea più di chiunque altro, ma Elia sapeva di non poter continuare a scusarlo per sempre. Non quando gli sembrava che ogni azione di Enea lo portasse più vicino al paradiso, solo per far sì che la caduta all'inferno fosse ancora più dolorosa. Elia aveva pensato che le conversazioni che avevano avuto durante quei pochi giorni lo avessero aiutato ad affrontare qualcuno dei suoi fantasmi, e forse era stato così, ma ora sapeva che una parte di Enea lo avrebbe sempre incolpato, anche solo inconsciamente.

Elia non lo biasimava neanche per quello.

Non era facile per lui spiegare a parole cosa l'avesse spinto a restare con sua madre, ma sapeva che non era stata solo lealtà. Forse Enea aveva ragione, forse una parte di lui aveva sperato che la donna cambiasse idea ―  o di farle cambiare idea ― e per questo era rimasto. Sapeva che Agata aveva amato entrambi, ed era ciò che rendeva così difficile accettare la sua omofobia. Elia aveva cercato di capire da dove scaturisse quell'odio, incapace di comprendere come una donna che aveva avuto la forza di crescere due figli da sola, dopo essere rimasta incinta al di fuori del matrimonio, una donna che conosceva i pregiudizi e le malelingue altrui, potesse comportarsi così, ma era mai stato in grado di farlo. Ogni tentativo di parlarne con lei era scaturito in una lite, una mancanza di dialogo che, alla lunga, aveva finito per danneggiare il rapporto che aveva con entrambi, scavando un solco incolmabile che la morte non aveva fatto altro che ampliare. Si era rassegnato ormai da tempo al fatto che le risposte a molte domande sarebbero ― ed erano ― state sepolte con lei.


Restò nella libreria fino all'orario di chiusura, le sue riflessioni interrotte soltanto da quei pochi passanti che cercavano un posto per rifugiarsi dal maltempo. Quando uscì in strada a chiudere la saracinesca prima di tornare a casa il cielo era già scuro e la neve era diminuita. Affondando il viso nella sciarpa, si incamminò verso casa, lo scricchiolare dei suoi passi che rompeva il silenzio ovattato. Le mani, al caldo nelle tasche, sfiorarono il cellulare, stringendolo poi con forza.
Nonostante quello che gli aveva detto, nel corso dei mesi era stato più volte sul punto di chiamare Enea. Non all'inizio, ovviamente, allora era stato troppo arrabbiato e ferito anche solo per pensarci, ma dopo... dopo, quando la solitudine era tornata a scavare quella voragine che i giorni passati con Enea aveva iniziato a richiudere, quando tornare ogni sera in una casa vuota era diventato insopportabile... in quei momenti, aveva quasi ceduto, perché non importava quanto fosse ferito o arrabbiato, o quante volte dicesse addio ad Enea, niente di tutto quello avrebbe cambiato la realtà — una realtà che ormai era sempre più vicino ad accettare. Per mesi si era arrovellato, cercando di decidere cosa fare, di capire i suoi sentimenti proibiti ma, alla fine, aveva realizzato di aver reso complicato qualcosa che non lo era.
Elia amava Enea, non gli importava in che ruolo, non gli importava per quanto tempo, anche un solo secondo con lui sarebbe stato meglio del dolore che l'essere di nuovo separati gli stava procurando.
Prima ancora di rendersi conto di aver preso una decisione, si ritrovò con il cellulare tra le mani, le dita che componevano quel numero impresso a fuoco nella sua mente.

Ring, ring, ring

Un suono di pneumatici che stridevano gli fece alzare gli occhi, subito abbagliati da due fari vicini, troppo vicini. L'impatto gli mozzò il fiato in gola, mandandolo a volare sull'asfalto ghiacciato, il cellulare che atterrava a pochi passi.

Ring, ring, ring

Lo schermo, ancora illuminato, fu l'ultima cosa che vide, prima di chiudere gli occhi.

«Elia?»

***

 

Now the day bleeds

Into nightfall

And you're not here

To get me through it all

[...]

I was getting kinda used to being someone you loved

 

Someone you loved - Lewis Capaldi

 

 

Enea odiava gli ospedali.
Ne odiava l'odore, come di medicinali e sangue e morte, ma soprattutto ne odiava il colore: bianco, asettico, impersonale. La parte artistica di lui sapeva quanto fosse stupido odiare un colore, soprattutto uno tanto importante, ma non poteva farne a meno. Seduto nella sala d'aspetto dell'ospedale, dopo aver guidato per ore per arrivare a Firenze prima che fosse troppo tardi, Enea non riusciva a pensare ad altro che non fosse odio il colore bianco. 

«In seguito all'incidente, suo fratello ha riportato ferite molto gravi. Al momento è ricoverato in Terapia Intensiva Generale.»

Odio il colore bianco

«Sarò sincero, signor Liberti: non siamo sicuri che riuscirà a superare la notte.»

Odio il colore bianco

Yelena gli sedeva al fianco, le dita intrecciate alle sue, le parole che gli rivolgeva un mormorio incomprensibile che sembrava venire da un altro mondo, uno di cui non faceva più parte.

Odio il colore bianco

Ben presto lo shock diede posto al senso di colpa, così devastante che per un secondo il bianco venne sostituito dal nero. Era tutta colpa sua, lo sentiva con ogni fibra del suo essere. Se non fosse scappato come faceva sempre, quella notte sarebbe stato con lui, ed Elia non si sarebbe distratto per telefonargli; ma Enea non c'era, e forse ora neanche Elia ci sarebbe stato più, e lui non sapeva come vivere in un mondo dove suo fratello non esisteva. Certo, erano stati separati per anni, ma era diverso, perché anche in quei momenti in cui non erano insieme, Enea sapeva che, da qualche parte a Firenze, Elia c’era

Dopo quella notte fuori dalla discoteca, aveva avvertito qualcosa che i loro litigi non avevano mai avuto: finalità. Quando Elia gli aveva detto addio, Enea aveva subito capito che, quella volta, sarebbe stata per sempre e, anche se sapeva di non poter fare altro che incolpare se stesso — dopotutto, era lui quello che non riusciva a lasciar andare il passato, che non riusciva a smettere di rinfacciarglielo — il suo cuore si era spezzato. O almeno, così credeva. Ora, non ne era più così sicuro, perché questo, questo...

«Non posso perderlo. Non così.»

Odio il colore bianco, ma amo lui.

La notte sembrò trascinarsi per giorni, ogni secondo che passava un'agonia. Gli pareva quasi di riuscire a sentire la vita di Elia che scivolava via, come sabbia tra le sue dita, senza che potesse far nulla per fermarlo. Accettare l'impotenza in cui si trovava era la parte più difficile. Non c'era niente che potesse fare, se non aspettare e sperare, e non era mai stato bravo in nessuna delle due cose.

Dovrei esserci io in quel letto, a lottare tra la vita e la morte.

Il dottore si trascinò verso di loro che l'alba era ormai passata da un pezzo, ed Enea balzò in piedi, andandogli incontro.

«Elia è...?»

«Suo fratello ha superato la notte, signor Liberti, tuttavia ora è in coma.»

Enea si lasciò cadere a terra, la schiena appoggiata contro il bordo inferiore della sedia, mentre Yelena continuava a parlare.

«In coma?»

«Sì. Non è raro nei soggetti che hanno subito un trauma del genere, e purtroppo non c'è modo per risvegliarlo. Possiamo curare il suo corpo, ma il resto spetta a lui. Solo il tempo ci dirà cosa succederà.»

Enea si prese la testa tra le mani, lacrime di dolore e sollievo che gli scorrevano sul viso. La ragazza gli si sedette accanto, avvolgendolo con le braccia.

Gli ci vollero diversi minuti per calmarsi, ma alla fine riuscì a rialzarsi in piedi. «Posso vederlo?»

Il medico assentì e lo guidò fino alla camera, per poi congedarsi. Con un'ultima stretta, Yelena lo lasciò solo davanti alla porta bianco opaco – odio il colore bianco.

Fino a quel momento non aveva voluto fare altro se non vedere suo fratello, ma ora che era finalmente libero di farlo, sembrava che i suoi piedi non volessero staccarsi dal pavimento. Fece un respiro profondo, stringendo i pugni per cercare di fermare il tremito che lo scuoteva, usando le tecniche di controllo che Arturo gli aveva insegnato — in mancanza di qualcosa da prendere a pugni, non gli restava molta altra scelta. La verità, era che aveva paura, una paura fottuta perché sapeva di non poter tornare indietro, una volta varcata quella soglia. Qualsiasi cosa sarebbe successa, avrebbe dovuto affrontarla, nessuna possibilità di fuga. Era giunto al capolinea.

Odio il colore bianco

«Ma amo lui.»

Aprì la porta.

 

 

 

Note dell'autrice

Eccoci al famoso capitolo angstoso di cui vi avevo parlato su instagram e facebook! Spero che siate sopravvissuti e che vogliate farmi sapere cosa ne pensiate nei commenti!

Oltretutto, sono una grandissima fan di Lewis Capaldi, autore della seconda canzone in questo capitolo, quindi vi consiglio di andare ad ascoltarvi tutte le altre che ha scritto, sono stupende. 

Vi ricordo che potete trovarmi in altri anfratti del web --> linktr.ee/dru_writer per vedere dove. 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** X ***


X

 

I hope you know

That you're my home

But now I'm lost

So lost

 

Forest fire – Brighton

 

 

 

«Enea, aspettami! Stai andando troppo forte!»
Suo fratello rise, voltandosi a guardarlo senza fermarsi, il viso illuminato dai raggi che filtravano attraverso le fronde degli alberi.
«Enea!»
Gli corse dietro, i piedi nudi che non facevano rumore a contatto con il terreno. L'aria profumava di aghi di pino e resina, un odore pungente che gli pizzicava il naso e faceva lacrimare gli occhi. Il sole, che fino a pochi secondi prima stava facendo capolino tra gli alberi, tingendo il bosco dei colori dell'autunno, era ora scomparso, lasciando dietro di sé un'oscurità opprimente. Anche Enea era sparito quasi del tutto alla vista, solo il suono della sua risata e un lampo di capelli neri e occhi azzurri che balenava qua e là ormai visibili. Cercando di controllare il respiro ormai affannoso, Elia corse più veloce, urlando a gran voce il nome del gemello, il richiamo che risuonava tra gli alberi, unico suono in un bosco ormai muto.
«Elia, ti prego, non lasciarmi.»
«Enea?»
Cercò di seguire la voce, ma sembrava venire da tutte le direzioni, e non importava quanto girasse su se stesso e scrutasse tra gli alberi, Enea non era lì.
«Ho bisogno che tu stia bene, mi senti? Ho bisogno che tu viva!»
Il cuore sembrava sul punto di esplodergli nel petto, il terrore che lo ghermiva con i suoi freddi artigli, lacerandogli ogni cellula.
«Enea!»
Cadde a terra, lacrime bollenti che gli scivolavano sul viso. Si strinse le ginocchia al petto, cercando di combattere il freddo improvviso che sembrava aver avvolto il bosco, il buio che gli impediva di vedere qualsiasi cosa. Non riusciva neanche più a sentire il terreno sotto ai piedi, e solo l'eco di parole lontane gli risuonava ormai nelle orecchie.
«Elia... ti prego....»

 

***

E amore mio grande, amore che mi credi

Vinceremo contro tutti e resteremo in piedi

E resterò al tuo fianco fino a che vorrai

Ti difenderò da tutto, non temere mai

 

Guerriero – Marco Mengoni

 

 

I giorni si confusero tra di loro, scanditi soltanto dal lento e costante rumore degli apparecchi ospedalieri a cui Elia era collegato. Enea lasciava la sua stanza solo quando il suo corpo si rifiutava di andare avanti a poco cibo e niente sonno – e quando Yelena lo prendeva per un orecchio e lo trascinava all'appartamento, ordinandogli di non farsi vedere fino al mattino. Non era ancora riuscito a dirglielo a parole, ma Enea le era immensamente grato per quel supporto incrollabile che dimostrava ad entrambi e che lo aiutava a non arrendersi alla disperazione che si avvicinava ogni istante di più.
Come il medico aveva predetto, fisicamente Elia si stava riprendendo, seppur lentamente, tuttavia non sembrava intenzionato ad uscire dal coma tanto presto. Enea stava cercando di essere paziente, ma ora che aveva ammesso a se stesso quello che provava per lui, non voleva fare altro che dirglielo. Avevano già sprecato così tanto tempo e ancora non era sicuro che Elia si risvegliasse, ed Enea sapeva che era soprattutto colpa sua. Non aveva fatto altro che scappare da quando aveva diciotto anni, forse anche da prima, e aveva allontanato tutto e tutti. Per alcune persone, come Agata, sapeva che non c'era stata altra scelta, ma Elia... suo fratello aveva cercato di fare del suo meglio, rinchiuso in una situazione impossibile e con il cuore diviso tra le uniche due persone che avesse al mondo, ed Enea sapeva di non essere stato abbastanza tollerante con lui, accecato dal desiderio di averlo al suo fianco e dalla paura di perderlo. Per tutti quegli anni, non aveva fatto altro che punirlo perché pensava che restare al fianco di Agata volesse automaticamente dire ripudiare lui – anche se non come aveva fatto la donna. Ora, capiva che non era così. Per la prima volta da quando sua madre lo aveva scoperto con Mattia, la rabbia che aveva abitato le profondità della sua anima si era chetata, almeno in parte. Enea sapeva che soltanto il risveglio di Elia lo avrebbe finalmente liberato dalle catene del passato, anche se avesse voluto dire doverlo lasciare andare perché suo fratello non ricambiava più i suoi sentimenti. L'unica cosa importante era che fosse vivo e in salute, con o senza di lui. Se c'era qualcosa che l'incidente l'aveva aiutato a capire, era che poteva vivere in un mondo in cui suo fratello lo odiava, ma non poteva vivere in uno in cui Elia non c'era più.
Con una tazza di caffè tra le mani, si fece largo tra i corridoi ormai familiari, dirigendosi verso la stanza di suo fratello. Si lasciò cadere su una sedia, sorseggiando la bevanda calda.
«Per essere uno a cui piace essere sempre puntuale, ti stai facendo attendere, questa volta», disse ad alta voce, allungandosi per afferrare una delle mani dell'altro, accarezzandone piano il dorso liscio. Sapeva che probabilmente non poteva sentirlo, ma aveva comunque preso l'abitudine di parlargli e, forse proprio per quel motivo, si ritrovava sempre a dirgli cose che mai sarebbe riuscito ad ammettere se Elia fosse stato sveglio.
«Yelena inizia a preoccuparsi sul serio. Fa del suo meglio per non farmelo vedere, ma la conosco, e so che questa situazione sta logorando la sua speranza e il suo ottimismo, giorno dopo giorno. Non posso certo biasimarla, non è che sia messo tanto meglio di lei.»
Sospirò, chinandosi per appoggiare la fronte contro la spalla del fratello, piano, attento a non fargli male. «Abbiamo bisogno di te», mormorò, «io ho bisogno di te.»
Gli rispose solo il bip dei macchinari, un rumore peggiore di qualsiasi silenzio.
«Ti amo.»
Era come se le parole gli fossero state strappate dalla gola. «Ti amo, e mi dispiace di non averlo capito prima. Non posso farcela senza di te... ti prego.»
Le lacrime iniziarono a scendere, uniche testimoni di un dolore viscerale che sembrava non finire mai.
«Ti amo, e se muori non ti perdonerò mai, mi hai sentito?», ringhiò, la voce spezzata, «so di non meritarmelo, dopo quello che ti ho detto, ma voglio essere egoista un'ultima volta, perché ti amo, e non posso vivere senza di te, hai capito?»
Affondò ancora di più il viso nella sua spalla, respirandone l'odore familiare. «Sei la mia àncora, Elia. Ti prego...»

 

***

 

If you forget the way to go

And lose where you came from

If no one is standing beside you

Be still and know I am

 

Be still – The Fray

 

 

Era come essere sott'acqua. Elia non riusciva a vedere niente, ma ogni tanto qualche sprazzo di luce penetrava l'oscurità. Un chiacchiericcio lontano, la sensazione che qualcuno lo toccasse, un profumo di fiori estivi e sole, una voce che cantava una ninna nanna russa, ed Enea. Enea sembrava essere ovunque e in nessun posto allo stesso tempo, ricordi che lo riguardavano sembravano sfrecciargli davanti al viso in frammenti sconclusionati e confusionari, mischiati al suono delle voci di sua madre e dei nonni, di Yelena e di altre persone che non riusciva a riconoscere. Nonostante non potesse vedere la superficie, sapeva di non essere troppo lontano. Iniziò a nuotare, cercando di raggiungere quegli spiragli di luce e parole che lo attiravano come le fiamme attiravano le lucciole.

Enea...

Il viso di suo fratello gli esplose davanti agli occhi, gli occhi identici ai suoi e pieni di un amore infinito e sconfinato.
«Sei la mia àncora, Elia.»
La prima cosa che vide fu la luce. Bianca e abbagliante, gli ferì gli occhi e fece martellare la testa. La seconda fu Enea, un'espressione che non gli aveva mai visto in viso, un misto di sentimenti che era troppo stanco per riuscire a riconoscere.
«Va tutto bene...»
Il buio lo avvolse di nuovo, ma in modo diverso. Era come una coperta calda in una giornata d'autunno o un buon libro letto davanti al camino. Era il conforto della mano di Enea stretta nella sua, della sua voce che lo cullava.
«Ti amo.»
Ti amo anche io.

 

 

 

Note Autrice

Elia è sveglio, yeah! Questo è l'ultimo capitolo prima dell'epilogo, il che mi fa salire una lacrimuccia. Grazie a chi ha letto/commentato/stellinato, come sempre vi invito a farmi sapere cosa ne pensate, anche della nuova grafica! 

Se volete venirmi a trovare negli altri anfratti dell'internet che infesto, link in bio e tra i link esterni del capitolo! 

Al prossimo (e ultimo) capitolo!

Dru

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

 

In joy and sorrow, my home's in your arms

 

In joy and sorrow – HIM

 

 

Era ormai la fine di gennaio e la neve aveva ricoperto molte delle tombe, dando l'impressione di essere sospesi tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Era una sensazione surreale e, allo stesso tempo, quasi pacifica, come se, finché fossero rimasti all’interno del cimitero, niente avrebbe potuto disturbarli. Enea rabbrividì, il fiato che si condensava in una nuvola candida davanti al suo viso. Elia era al suo fianco, le dita intrecciate alle sue, che lo guidava tra le lapidi, solo lo scricchiolio della neve fresca che rompeva il silenzio ultraterreno che li circondava. Per ovvie ragioni, non si lasciavano spesso andare a dimostrazioni di affetto in pubblico, ma suo fratello sembrava aver capito che aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile per resistere all’istinto di fuggire, sempre presente dentro di lui, perché si era rifiutato di lasciare la presa sin da quando erano usciti dalla macchina, anche solo per un secondo.
Quando giunsero davanti alla tomba di Agata, Elia si piegò sulle ginocchia per ripulirla dalla neve, mentre Enea se ne stava lì in piedi, cercando il coraggio per guardare la foto sorridente della donna che, in bene o in male, lo aveva reso la persona che era ora.
«Stai bene?»
Incrociò gli occhi preoccupati di Elia, fissi su di lui. «Credo di sì.»
Facendo un respiro profondo, fissò lo sguardo sulla tomba, cercando di lasciare che i sentimenti che aveva imbottigliato dentro di sé fino a quel momento scorressero liberi. Si era aspettato di provare rancore, come sempre, ma sembrava che gli ultimi mesi avessero curato almeno un po' le ferite del passato, perché si ritrovò ad essere principalmente triste e nostalgico. Da quando Elia si era svegliato ed Enea si era temporaneamente trasferito a Firenze per aiutarlo a riprendersi dall'incidente, era riuscito a scendere a patti con il fatto che non avrebbe mai saputo perché sua madre avesse cercato di rivederlo prima di morire – e andava bene così. Aveva passato sei anni ostinatamente attaccato al passato, pur continuando a scappare da esso, rinchiuso in un circolo vizioso che non era stato in grado di spezzare, non finché Elia non l'aveva chiamato. Una parte di lui ancora si chiedeva come sarebbero andate le cose se fosse tornato a Firenze prima del funerale, o la prima volta che suo fratello gli aveva telefonato, quattro anni prima, ma sapeva che probabilmente non avrebbe fatto che peggiorare le cose. Ai quei tempi non era stato ancora pronto e ora… ora, variava di giorno in giorno. C’erano delle volte in cui si sentiva come se la presenza di Elia fosse sufficiente per superare qualsiasi ostacolo, altre in cui invece voleva solo mollare tutto e scappare di nuovo. Come quando aveva iniziato a lavorare sulla gestione della rabbia con Arturo, sapeva che sarebbe stato un cammino lungo e difficile, nel quale avrebbe probabilmente avuto più bassi che alti, ma non si sarebbe aspettato niente di meno. Aveva fatto molti errori e preso molte scelte sbagliate nel corso degli anni e una parte di lui aveva sempre saputo che l’avrebbe pagata cara, un giorno. Non era facile sradicare le brutte abitudini, ma ne sarebbe valsa la pena. Elia meritava quello e altro – molto altro – e anche lui.
«Mi dispiace, sai?»
«Per cosa?»
«Per averti lasciato ad affrontare da solo la sua malattia. Certo, se fossi tornato probabilmente avrei finito per rendere la situazione ancora più stressante, però almeno non saresti stato da solo.»
Elia gli passò un braccio intorno alla vita, appoggiando la testa contro la sua spalla. «Non fa niente, ti perdono. Hai fatto quello che era meglio per te, non posso biasimarti per questo, non dopo tutto quello che hai sacrificato.»
Enea ricambiò la stretta, baciandogli una tempia. «Abbiamo fatto entrambi dei sacrifici. So che non era facile per te, cercare sempre di farci andare d'accordo e mi dispiace di averti messo in quella posizione.»
«Ne è valsa la pena. Non vorrei mai che nascondessi chi sei per proteggermi. E... dispiace anche a me, comunque.»
«Per cosa?»
«Per aver contribuito a spedirti in prigione.»
Enea si staccò dalla sua presa, voltandosi a guardarlo. «Ma di che stai parlando?»
«Del fatto che sei finito in quella rissa per colpa della mia chiamata, di quello che ti ho detto.»
Enea scosse la testa. «La colpa è stata della mia rabbia e dell'alcool. Certo, non mi hai dato una bella notizia, ma non mi hai costretto a mandare quell'uomo in ospedale. Ho accettato la responsabilità delle mie azioni molto tempo fa e non ho rimpianti. Ho pagato il mio errore e imparato da esso, ottenendo molto più di quello che mi meritassi. Se non fossi finito in prigione, non sarei mai andato a lavorare con Arkadij allo studio e non avrei mai ottenuto il lavoro dei miei sogni. Oltretutto, non c'è nessun motivo per rimuginarci sopra ora. Il passato è passato e tu non hai nulla di cui scusarti.»
Elia annuì appena, facendo un passo verso di lui e avvolgendogli le braccia intorno al corpo. Enea ricambiò la stretta, affondando il viso contro la sua spalla. Restarono così per lunghi minuti, lasciandosi cullare dalla presenza dell'altro, senza dire una parola. Quando si staccarono, Enea si avvicinò alla tomba di Agata e vi si inginocchiò davanti, incurante della neve che gli bagnava i pantaloni. Fissò la foto della donna per lungo tempo, cercando di fare ordine tra i suoi stessi pensieri.
Molte cose erano cambiate da quando era tornato a Firenze. Al suo arrivo, era stato ancora un ragazzo pieno di rabbia e risentimento, incapace di perdonare e andare avanti, ma ora... ora sapeva che la vita era troppo breve per restare aggrappati al passato. Non c'era niente che potesse fare per cambiare quello che era successo e, se l'avesse fatto, probabilmente non sarebbe mai diventato la persona che era ora, una persona che aveva smesso di fuggire dai suoi errori e dal suo passato – o che, almeno, ci provava. Forse non sarebbe mai riuscito a perdonare del tutto Agata, ma sapeva di non poter fare altro che lasciar andare la rabbia – lasciar andare lei – se voleva davvero andare avanti con la sua vita.
Era ora di permettere ai fantasmi del passato di riposare.
Con un ultimo sguardo di addio, si alzò e tornò da Elia, facendo scivolare la mano nella sua. Mentre ricambiava il suo sorriso, Enea pensò che suo fratello era come un tatuaggio, indelebile sulla pelle. All'inizio aveva creduto che fosse lì per ricordargli tutto ciò che avrebbe voluto dimenticare, ma con il tempo aveva capito che non era così. Elia era lì perché era l'unica cosa che non avrebbe mai dimenticato, non importava quanto ci provasse, sarebbe sempre stato una parte di lui, la sua metà, la sua àncora.

E non avrebbe potuto chiedere àncora migliore di quella. 


 

FINE

 

 

 

 

 

 

RINGRAZIAMENTI

 

 

24/10/19

E anche quest'avventura è giunta al termine! Mentirei se vi dicessi che non ho gli occhi lucidi e il cuore pesante, mentre scrivo queste righe subito dopo aver finito la stesura definitiva dell'epilogo. 

Ho amato ogni secondo passato a scrivere questa storia, e i suoi personaggi avranno sempre un posto speciale nel mio cuore. "Anchor" è rimasta al mio fianco per gli ultimi sette anni, e non so davvero cosa ne sarà della mia vita senza di loro. Vederli crescere e maturare – e me con loro – è stato fantastico e affascinante, non solo all'interno della trama del libro, ma anche nelle diverse stesure – un tempo questa storia aveva tre capitoli e si chiama "Certi tatuaggi fanno male anni dopo che li hai fatti, ma per quello che ricordano", un sacco di cose sono cambiate da allora, e non solo grazie a me e ai miei sforzi.

I ringraziamenti per questa avventura vanno principalmente a due persone, Chiara e Luisa, per aver seguito Enea ed Elia ad ogni passo, fin dal lontano 2012. Avete fangirlato e tifato per questi due testoni dall'inizio, e ve ne sono molto grati – e io con loro. 

Vorrei anche ringraziare tutti voi lettori, silenziosi o meno. Il vostro supporto e i vostri pareri sono stati determinanti per lo sviluppo di questa storia. Come sempre, vi chiedo di farmi sapere cosa pensate qui nei commenti o sui social. Mi trovate su instagram come dru_writer e su facebook come dru_writer (pagina) e Dru Herondale/Duvrangrgata (account). Vi invito a seguirmi, in modo da restare aggiornati sui miei nuovi progetti. 

 

Alla prossima avventura,

Dru

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3825201