Il senso di vivere la paura di morire.

di chrysalism_jess
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


 
Capitolo 1.
8 aprile 2018
 
Volevo disperatamente qualcosa di vero, niente sembrava vero. Avevo solo bisogno di aria.
 
Quel pomeriggio pioveva a dirotto, mio padre era uscito da poco e io pensai che non sarebbe più tornato. O almeno, sarebbe tornato solo quando io ero già morto.
Prima di arrivare al bagno con i flaconi di pastiglie in mano e fissarmi nello specchio con le lacrime agli occhi, avevo riordinato la mia stanza, avevo asciugato i piatti, portato fuori il cane, messo sul letto il vestito che pensavo di indossare nella mia bara e mi ero fatto una doccia.
Avevo pensato alle varie possibilità di farlo - togliermi la vita intendo - ma le altre non mi sembravano appropriate. Non volevo qualcosa di teatrale e commovente.
Avevo lasciato perdere il tagliarmi le vene, anche se ci avevo provato più volte: non andavo troppo in profondità per morire dissanguato perché la vista del sangue mi faceva venire le vertigini e mi disturbava parecchio, quindi alla fine mi ero ritrovato con le braccia piene di taglietti e avevo dato la colpa al gatto del vicino. Avevo pure lasciato perdere l’impiccagione perché: uno, non sapevo proprio dove appendermi via; due, avrei sofferto troppo e non volevo un collo rotto e una faccia blu. Non potevo spararmi, non avevo un’arma né una buona scusa per comprarne una, e comunque neanche un buco in testa mi sarebbe piaciuto. Non volevo buttarmi giù da un palazzo, perché non sapevo se una volta sopra il cornicione mi fossi davvero buttato di sotto.
Decisi che avrei tentato un overdose: avevo le pasticche, quelle che mi aveva dato lo psicologo. Così magari avrebbero avuto anche qualcuno da incolpare, no?
Ne avevo scelte: quattro - per colmare  la mia tristezza; due - per l’ansia; tre – Valium; e qualche altra pastiglia per dormire. Forse erano troppe? Non ci pensavo manco più a quante pastiglie bastavano per uccidermi da tanto tempo. Bastava morire, in qualche modo.
Sospirai fissandomi allo specchio, i miei capelli bagnati gocciolavano. Presi della vodka per buttare giù il tutto.
Le due pastiglie per l’ansia finirono subito nel mio stomaco. Altri due sorsi e le quattro pastiglie fecero compagnia alle altre. Altri tre, quattro sorsi e via le pastiglie del Valium.
Tossii piano e mi venne da rigettarle. Ebbi forti conati di vomito, un po’ perché la vodka mi faceva schifo, un po’ perché non sapevo se ce l’avessi fatta a buttare giù tutto.
Mi sentii un po’ stordito e mi aggrappai al lavandino per non finire a terra, dove ci finì il flacone del valium e le pastiglie azzurro chiaro si sparsero sul pavimento color catrame. Mi voltai di scatto e feci cadere anche il flacone del Laroxyl: era vuoto, e mi chiesi quand’è che erano finite?
Bevvi altri sorsi di vodka.
Vagai in cerca dell’uscita del bagno, la testa girava, il mio cervello stava andando in fumo, sentii un grande mal di testa poi non sentii più nulla se non lo schianto della bottiglia. Barcollai, mi aggrappai al corrimano ma le gambe mi cedettero al primo gradino e ruzzolai giù per le scale fino alla fine.
Scoppiai a ridere. Non so perché ma tutto quello mi faceva ridere.
Per tutta la vita avevo desiderato di essere libero, solo che… non sapevo mai come. Ora avevo trovato una via di fuga da questo mondo di sofferenze che mi dilaniava dentro, che scavava sempre più a fondo, cercando di divorarmi. E alla fine ce l’aveva fatta a divorarmi, pezzo dopo pezzo. La mia anima era un buco nero, il mio cuore era distrutto, il mio corpo pieno di sofferenze, niente aveva più senso.
L’uccellino stava uscendo dalla gabbia dove era stato imprigionato.
Era finalmente libero? Potevo volare  via?
 
Un attimo dopo sentii mio padre dire: «Ed, ho dimenticato l’ombrello, fuori piove…» Lo sentii chiamare di nuovo il mio nome, lo sentii urlare: «Cristo santo…» Lo sentii bestemmiare, commentare: «Guarda che idiota.» Lo sentii sbuffare mentre premeva la mano sul mio collo e poi lo sentii chiamare qualcuno al telefono.
Non risi più. I miei occhi lo fissavano ma non lo vedevo bene, poi mi aprì la bocca facendo forza con le dita, quelle sue dita rugose mi finirono in gola e io vomitai. Vomitai la mia tristezza e la mia ansia e infine persi i sensi.
Ero morto?
Lo speravo.
 
Ma il meteo invece aveva deciso che mio padre doveva tornare a casa e salvarmi la vita.
Quindi no, non ero morto. E ben presto venni trasferito in prigione – la clinica – dove: o sarei morto, oppure, come dicevano i medici, sarei uscito nuovo e lucente con la testa a posto.
 
 
Restai seduto nella sala d’aspetto della clinica attendendo che mi dessero una camera per il ricovero. Attendevo che qualcuno uscisse per dirmi qualcosa ma non accadeva nulla da un po’. Ero lì a fissarmi i piedi mentre torturavo i lacci della felpa con le mani.
Alzai il viso sbuffando e fissai la porta chiusa dietro la quale mio padre era entrato a parlare con il dottore: era lì dentro da così tanto tempo che speravo quasi che fosse mio padre ad essere ricoverato al mio posto.
Quando uscirono, il dottore si tolse gli occhiali e finì di dire a mio padre qualcosa del tipo: «Non si preoccupi, è in buone mani.»
Quella fu la conferma che no, non sarei tornato a casa, né ora né nei giorni successivi, probabilmente ero destinato a rimanere lì fino alla fine dei tempi.
Il dottore mi sorrise come si sorrideva a un bambino. «Sono il dottor Charles McGorry e sono il capo dell’istituto psichiatrico» mi comunicò.
Deglutii. Chi aveva deciso che mi sarei fermato? Chi aveva firmato al mio posto? Se eri maggiorenne avevi dei diritti, no?
«Devi firmare delle carte Ed» disse mio padre. Ah ecco, pensai. «Per il permesso volontario.»
Inarcai un sopraciglio. Avrei voluto urlargli contro chi si credeva di essere per decidere che cosa dovevo fare. Chi si credeva di essere per spedirmi lì dentro? Avrei voluto dire ad entrambi che non avevo intenzione di rimanere lì un minuto in più. Avrei voluto alzarmi, spaccare ogni cosa, urlare, ricevere occhiate storte e tornarmene a casa.  Ma, per qualche strana ragione, in quell’istante annuii.
In silenzio, mi misero di fronte delle carte che io firmai. Non dissi manco una parola e mio padre rimase rigido tutto il tempo, nella speranza che non tralasciassi una sola firma.
Era questo che volevi papà? Sbarazzarti di me una volta per tutte? Ci eri riuscito.
Una volta usciti dalla stanza, mio padre mi fissò, mettendomi una mano sulla spalla. «Allora Eddie… ci vediamo tra qualche settimana, per la visita dei genitori.»
Lo guardai, inarcai un sopraciglio poi, serio, gli dissi: «Per me puoi anche non venire.» Indietreggiai di  qualche passo e la mano di lui scivolò giù dalla mia spalla. «In fondo, chissenefrega di me, no?»
Lui sbuffò alzando gli occhi al cielo. «Edward, non cominciare. Lo sai che…»
Risi. «Certo papà, come no.» Mi voltai. «Arrivederci» gli dissi, sperando di non rivederlo mai più.
Perché ormai avevo deciso. Ormai ci speravo: o sarei rimasto lì dentro per sempre o avrei tentato di uccidermi ancora. In ogni caso, non volevo più rivedere la faccia di cazzo di mio padre.
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Erano passati sei giorni, sette ore e dodici minuti dal mio ricovero. Era venerdì ed ero nello studio della mia nuova psicologa - niente più dottoressa Gwen, lei aveva abbandonato; non che avesse fatto molto. Sì, non era la prima volta che mi ritrovavo seduto su una sedia nera, di fronte a una scrivania dietro la quale c’era uno psicologo che mi osservava come se fossi un animale da circo, ci ero già passato, non era una novità per me. Dopo la morte di mia madre, mio padre decise con sua sorella che dovevo andare in cure e mi portò da questa Gwen che mi studiò attentamente: parla, diceva. Come stai oggi Edward? chiedeva; cose a cui non volevo rispondere. Non ci ho mai rivolto parola, se non quella volta che mi disse: secondo me ti senti in colpa per la morte di tua madre. È così, Ed? Quella volta la mandai a farsi fottere e lei mi diede delle pastiglie per calmare la mia rabbia. Decise che ero triste, che ero depresso, quindi prescrisse una valanga di pasticche da prendere ogni due, tre o quattro ore. Mio padre ne fu felice e dopo poco cominciò a evitare l’argomento ed io mi chiusi sempre più in me stesso. Infine decisi che dovevo morire. Comunque, ora, la psicologa che avevo davanti era la dottoressa Jane Markey e se ne stava lì a fissarmi in attesa che io parlassi. Io non avevo proprio alcuna intenzione di parlare. Ero seduto comodamente sulla poltrona, stringendo i braccioli con le mani e di tanto in tanto fissavo l’orologio da parete alle sue spalle, che però sembrava immobile, sempre a segnare le 15:08. Non arrivava mai alle 15:10, rimaneva sulle 15:08 come se il tempo si fosse fastidiosamente fermato. «È qui da sei giorni Craing» disse lei attirando la mia attenzione. La osservai per un attimo, poi tornai a fissare l’orologio: 09! Era scattato finalmente. «Non le va di parlare?» mi chiese. Alzai le spalle e sprofondai nella poltrona accavallando le gambe: era un no. E lo sarebbe sempre stato. «Molto bene» disse allora lei scrivendo qualcosa sul quaderno. Scrisse a lungo e allora io mi alzai a sedere, sporgendomi un pochino nella speranza di leggere qualcosa. Riuscii solo a scorgere: “il paziente non vuole…” poi lei chiuse il taccuino e vidi sopra un post-it con il mio nome. La dottoressa Markey si schiarì la voce. «Tra poco può andare» disse dando un’occhiata al timer sulla scrivania. «Se si annoia, può disegnare» suggerì in tono dolce. Inarcai un sopraciglio. Per chi mi aveva preso, per un bambino forse? Quando scattarono le 15:15, il timer suonò e io mi alzai di scatto. «Aspetti» mi fermò lei accomodandosi gli occhiali sul naso. Perché gli psicologi avevano sempre gli occhiali? «Se continua così, signor Craing, dovrà rimanere qua per molto tempo, lo sa vero? Non potremo fare molto e…» «Lo so» la anticipai. «Mi chiami Eddie. “Signor Craing” lo chiamano mio padre. Mi sa di vecchio.» Lei chiuse la bocca e mi sorrise. «Va bene.» Erano sei giorni, dodici ore e diciotto minuti che non parlavo, e ora avevo detto le mie prime parole: la gola era così secca che sembrava non parlassi da anni. Per andare nella mia stanza dovevo passare per un lungo corridoio, girare a destra, passare due stanze a me sconosciute, l’ufficio di uno psicologo piccolo, magro, pelato, con degli strani baffetti; dovevo passare per la stanza della ricreazione, per la sala giochi, girare e attraversare la sala mensa, svoltare nel corridoio di sinistra, oltre la porta del bagno e le stanze numero 44 e 46. La mia era la 48. Ci entrai, lasciando la porta aperta perché non potevo chiuderla. La stanza era piccola, le pareti erano bianche, avevo un armadio, un letto e una scrivania. Alle finestre c’erano le sbarre perché altrimenti ti buttavi giù; le luci erano al neon fissate al soffitto, per cui non potevi appenderti; il letto era in legno, senza viti con cui potevi tagliarti. Era tutto così noioso. Mi sdraiai sul letto fissando il soffitto e mi concentrai sul rumore: lì dentro ce n’erano tantissimi. Urla, per lo più, lamenti, frasi senza senso e, se qualcuno iniziava a piangere c’era chi sbraitava, chi aveva crisi di panico, chi cercava di farsi del male e i dottori dovevano correre. Ma c’era anche chi sembrava a posto, o più normale di altri. C’era Ben. Non so come ma in qualsiasi clinica psichiatrica c’era sempre un Ben; forse Ben era un nome da psicopatico. Questo Ben, però, era normale e silenzioso. Se ne stava sempre da solo, ti fissava da lontano, indossava una felpa senza lacci nera ed era un tipo triste. Era a posto. Se non fosse che ogni volta che mi avvicinassi mi fulminava e poi se la filava, avremmo potuto essere amici. C’era Pablo: uno asiatico - o forse spagnolo considerando il nome - che aveva gli occhi scuri a mandorla e i capelli neri. Anche lui, tralasciando la sua filosofia e il suo parlare da solo, era un tipo ok. Alle sedute di gruppo del pomeriggio era quello che faceva perdere più tempo perché parlava dei suoi sogni e faceva ridere tutti. C’era Vanessa, che aveva solo quindici anni ed era già ricoverata in quella merda. Vanessa era timida e non parlava molto, ma faceva dei disegni mozzafiato e sì, anche con lei potevo andare d’accordo. Poi c’erano Maikol e Caleb, anche loro ok - nonostante Caleb fosse lì dentro per droga, quindi non un bravo ragazzo. Maikol, invece, di notte aveva gli incubi e non mi faceva dormire molto. Malgrado ciò, li avevo selezionati come tipi a posto, che non sfollavano tanto, che stavano sulle loro e non urlavano se li fissavi, non piangevano se li toccavi, non si buttavano per terra. Non facevano i matti, ecco. Erano ragazzi normali ma rotti. Perché lì dentro non ci stavi se stavi bene, se eri completo, se non eri diverso, rotto. Sospirai. «Non esci? Oggi c’è il sole.» Parlando di tipi ok, c’era lui: Jared. Jared Frank Miller, la guardia, la mia guardia preferita, nel mio reparto perlomeno. Jared era simpatico e aveva poco più di trent’anni. Parlava molto di cose sue e mi faceva passare il tempo. Era uno che dovevi avere come amico: di tanto in tanto, di notte, lo sentivi cantare per calmare i pazienti. A volte mi ci addormentavo con la sua voce. Ora se ne stava lì sull’uscio a fissarmi. Io mi alzai a sedere. «Non ne ho così tanta voglia» gli risposi, «Vuoi una fetta di torta al cioccolato? Sono per quelli del disturbo alimentare, però posso portartela di nascosto, se vuoi.» Risi e scossi la testa. Perché chi non vuole mangiare ha sempre le cose più buone? «Una sigaretta?» «Non fumo.» «Ok… emh…» Lo fermai. «Potrei restare solo, per favore? Oggi non è giornata» gli chiesi, senza essere troppo scortese. Jared mi fissò con quei suoi occhi cristallini. «Certamente» acconsentì aggrappandosi allo spazzettone che teneva in mano da un po’. «Se vuoi passare il tempo, sono a pulire i cessi. A dopo, bello.» Mi capitava di pensare che Jared fosse gay, ogni volta che aggiungeva “bello” ad ogni saluto o per quei vestiti strambi con cui arrivava alla clinica prima di mettere la divisa da lavoro. Pensavo che se avessi davvero voluto uno psicologo, o qualcuno con cui parlare, era lui che volevo. Sorrisi guardandolo mentre andava verso i bagni, poi mi rimisi sdraiato. Alcuni istanti dopo, qualcun altro busso. «Medicine.» Questa era Roxy, l’infermiera grassa di turno. Mi alzai a sedere e lei mi sbatté tra le mani tre pillole e mi consegnò un bicchiere d’acqua. Alzai gli occhi al cielo. «Su, su, niente storie» disse bruscamente. Annoiato, presi le pillole: una per rilassarmi, una per l’umore e l’altra per i miei pensieri suicidi. «Apri.» Roxy mi aprì la bocca e io alzai la lingua. «Alle 18 si mangia» mi informò; come se non lo sapessi già da sei giorni, nove ore e trentaquattro minuti. Sbuffai e, non sapendo che altro fare, mi misi a dormire. Nonche volessi dormire alle quattro di pomeriggio, ma mi stufavo e ormai ci avevo preso l’abitudine, di dormire ventidue ore sì e due no. Un po’ le pastiglie che ti obbligavano a prendere ti rimbambivano il cervello, un po’ la noia: non si faceva molto. Lì la TV era sempre sullo stesso canale, almeno che non fosse sabato, quando c’era la serata film. Nella sala giochi c’erano sempre le stesse cose: giochi in scatola, scacchi oppure i puzzle e il flipper. Nella sala di ricreazione non c’era altro che un palcoscenico e delle sedie. Molti ci andavano per fare terapia di gruppo o terapia di controllo del comportamento o attività di fiducia. (In effetti, non so perché si chiamasse sala ricreazione, questa cosa non mi era del tutto chiara.) Non avevi molto lì dentro: i libri potevi averli, ma erano gli psicologi a scegliere; non potevi ascoltare la musica per conto tuo, perché con le cuffie ci si poteva strozzare, un po’ come le cravatte o le stringhe alle scarpe che era proibito introdurre nella struttura. Era tutto così pieno di regole. Era un po’ come se fossimo dei pesci in un acquario, ma non dei pesci normali, dei pesci un po’ diversi, un po’ brutti; come trovare un pesce nero in una boccia di pesci rossi: nessuno prenderebbe il pesce nero perché i pesci devono essere rossi, giusto? Il pesce nero è diverso da quelli rossi e viene scartato e rimane lì in quella boccia per sempre, attendendo invano di cambiare colore e diventare finalmente come gli altri, di un rosso speciale. Ecco… noi eravamo tutti pesci neri. Mandati via perché eravamo diversi, messi in una grande boccia tutti insieme, in attesa che cambiassimo colore. E magari qualcuno sperava davvero di cambiare colore, di essere aggiustato. Io vi svelerò un segreto: se nasci nero, rimani nero per sempre. Rimarrai rotto. Rimarrai diverso. Alle diciassette e trentacinque, Roxy mi svegliò di soprassalto, sgridandomi e annunciandomi che tra non molto sarebbe stata servita la cena e dovevo recarmi in sala mensa. Mi alzai sbuffando e, ancora stordito, camminai lentamente per i corridoi fino alla sala mensa, dove quasi tutti erano seduti. Fu lì che vidi Chloè per la primissima volta: la fissai solo un secondo, quanto bastava per entrare in mensa e sedermi al mio solito tavolo vicino a Maikol e Caleb. Vidi anche Ben entrare mentre Vanessa se ne stava da sola seduta in un angolo, con i suoi riccioli biondi folti e crespi, come sempre china sul suo quaderno a disegnare. Guardai in direzione di Chloè - allora non la conoscevo, non sapevo chi fosse, non era del mio gruppo. Quella struttura era divisa in più sezioni: quelle irrecuperabili, quelle di mezzo e altre parti della clinica erano divise in base ai vari problemi, come i drogati e alcolizzati o i suicidi o, per l’appunto, quelli con disordini alimentari; altri invece erano mischiati perché avevano più di un problema. Io non ero sicuro di essere nel reparto suicidi o in quello dei vari problemi, speravo solo di non essere nel gruppo degli irrecuperabili perché lì sì… credo che non ci sarebbe più stata una via d’uscita. Comunque pensavo che anche Chloè fosse un misto: era magrissima, quindi poteva avere dei disordini alimentari, ma osservandola meglio sembrava nascondere altro. Se ne stava seduta dritta a fissare il piatto che aveva davanti. Era magra come un uccellino, le braccine erano così sottili che se mi fossi avvicinato per prenderle probabilmente le avrei spezzate. Indossava un vestito lungo fin sotto le ginocchia (lì era obbligatoria quella lunghezza), le spalle erano coperte da un candido maglione di lana - mi chiesi se non sentisse caldo. Con le mani spinse il piatto in avanti. «Chloè!» sbraitò la dietologa seduta al suo tavolo, «se non mangi…» Lei la fulminò «Lo so… muoio. Me lo dici da più di quattro mesi ormai, ma sono ancora qui.» La dietologa trattenne il fiato, come se volesse sputare fuoco da un momento all’altro, poi parlò a bassa voce ed io non capii bene cosa disse. Vidi Chloè appoggiare il mento sul palmo della mano, fissando davanti a sé e finalmente mi guardò. A primo impatto Chloè non mi sembrò bella. Non era la classica modella uscita da una vetrina di Victoria’s Secret, ma aveva una bellezza particolare. I lineamenti del viso erano marcati anche se il viso era gonfio, abbastanza tondo, forse a causa del cortisone che aveva in circolo. Aveva resti di acne, ormai quasi invisibili, sulle guance e il viso non curato, pallido come un morto. Sembrava che se la sua bellezza non le importasse tanto. La fronte era abbastanza alta e il nasino era piccolo, alla francese, le labbra piccole ma carnose. Mi fissava con i suoi occhi castani stanchi e tristi, sembravano spenti e senza luce. Aveva occhiaie violacee che li rendevano ancora più piccoli. I capelli erano raccolti in una coda spettinata biondo crema, unti, spenti e crespi - se non fossero stati legati, ero quasi certo che le sfioravano le spalle. Non curava il suo viso, il suo corpo era uno scheletro, i suoi capelli sembravano quelli di una bambola di porcellana messa su un mobile e dimenticata. Chloè era questo: una bambola imbruttita dal tempo. Scostai lo sguardo appena lei si voltò e insultò la dietologa, urlando: «Se ci tieni, mangiatelo tu!» Ribaltò il vassoio e si alzò, facendo irritare la dietologa, lo psicologo e disturbò gran parte della gente presente. Se si alzava la voce, lì era un disastro totale. Il caos. Ma questo a Cholè non importò. «Non mi tocchi!» urlò quando un infermiere di turno la prese per il polso. «Sì… ho capito. Va bene!» disse poi, alzando le mani, «ma non mi tocchi!» ripeté. La dottoressa Markey e Charles corsero in aiuto dell’infermiere e la dottoressa disse qualcosa a Chloè. «Sì!» sbraitò lei irritata risedendosi al suo tavolo e standosene buona. In tutto questo tempo, io ero rimasto in silenzio a mangiarmi la mia pasta al ragù troppo cotta e fingendomi non interessato. In effetti, non lo ero: pensavo che Cholè volesse solo un pubblico. Più tardi l’avrei conosciuta così bene da poter dire che non sbagliavo affatto. Comunque, in quel momento non vidi se finì la sua cena (composta da: pastasciutta al ragù, petti di pollo alla griglia con tanto d’insalata di contorno e una gelatina alla frutta che, visto il colore, probabilmente era al limone). Non aspettai che finisse perché, in confronto a lei, io mangiai la mia cena, mi alzai e andai dritto nella stanza di ricreazione, dove ci sarebbe stata la terapia di gruppo. Non mi aspettavo di vedere tanta gente quella sera: ci fermavamo a quattro nel nostro gruppo, lì eravamo in sette. Ero nuovo a quella terapia – i miei incontri erano sempre fissati per il pomeriggio, ma la dottoressa Markey aveva deciso che avrei dovuto parlare di più e, in mezzo a tanta gente forse mi sarei aperto. Quando arrivarono tutti, mi accorsi di non essere l’unico nuovo: c’era una ragazza occhialuta che aveva sì e no la mia età, e un altro ragazzo che indossava un maglione verde pistacchio e non faceva altro che rannicchiarsi sulla sedia e dondolarsi avanti e indietro per tutto il tempo. Poi c’era Chloè: se ne stava zitta, seduta a gambe incrociate a mangiarsi le unghie nell’attesa, fissando sempre verso il basso. Notai che si era cambiata; ora indossava dei pantaloni larghi e una felpa rosa pallido. «Bene…» disse la Markey sedendosi. «Oggi abbiamo qualche new entry.» Sorrise a tutti in modo educato «Volete presentarvi? Parlare un po’ di voi?» Eravamo in quattro, ma nessuno aveva la forza di parlare per primo. «Cassie?» si rivolse alla ragazzina occhialuta, che sobbalzò. Lei deglutì due volte, poi fisso il pubblico. «M-mi chiamo Cassandra» balbettò piano. «Ho ventun anni e sono qui dentro perché…» deglutì ancora, fregandosi le mani sulle braccia e stringendosi come per darsi coraggio «P-perché mi hanno sporcato.» Inizialmente non capii cosa intendeva, ma quando si decise a continuare, fu tutto forte e chiaro. «Erano in cinque e… mi hanno bloccata in un vicolo, io… io credo... Non faccio altro che lavarmi da quel giorno perché… mi sento cosi sporca. I miei dicono che non sono più pura come prima e io…» mentre parlava, singhiozzava come una bambina e si strofinava il corpo. «Non guardatemi!» urlo infine rannicchiandosi e coprendosi la testa con il cappuccio della felpa. Ora Cassandra tremava. «Ok, ok Cassandra, hai detto abbastanza.» Molti annuirono. «Io penso che tu sia davvero coraggiosa» sussurrò piano Ben. «Grazie Ben, lo credo anch’io» sorrise la Markey. «Qualcun altro?» Fissò il ragazzo che dondolava, ma ci ripensò. «Chloè? Vuoi parlarci di te?» Chloè sbuffò. «Magari dopo, eh?» La Markey la fulminò. «Bene… Edward?» Sobbalzai. Mi schiarii la gola. Cosa dovevo dire? Dovevo alzarmi? Restare seduto? Dovevo dire che avevo cercato di uccidermi? Dovevo dire il perché? La testa mi girò e mi venne la nausea; strinsi le mani in due pugni e tutti mi fissarono. Ero nel panico. Poi decisi che avrei detto le cose più banali che mi venivano in mente, tanto per accontentare la Markey. Mi schiarii la gola di nuovo e tutti attesero. «Mi chiamo Edward Jonh Craing» (dicevo sempre il secondo nome perché avevo sempre pensato che il secondo nome faceva figo.) «Sinceramente? Penso di essere qui perché la mia vita fa schifo. E se mio padre non mi avesse salvato, non sarei di certo in questa merda di posto.» Non ero mai stato volgare, non sapevo perché avessi detto quelle parole. Era come se qualcuno le avesse buttate fuori al posto mio. Ero felice però di averle dette. Chloè mi fissò a lungo e poi si mise a ridere. Fu l’unica. Non le chiesi mai il perché. In quell’istante, vederla ridere in quel modo e sentire la Markey dire che non era divertente, fece ridere anche me.

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