Non mentire

di trenodicarta
(/viewuser.php?uid=336964)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Evita le metropolitane ***
Capitolo 2: *** Un brusco risveglio ***
Capitolo 3: *** Qualcuno ti osserva ***
Capitolo 4: *** Vuoi un lavoro? ***
Capitolo 5: *** 5. Qualcuno ti segue ***



Capitolo 1
*** Evita le metropolitane ***


“Ognuno di noi è una luna: ha un lato oscuro che non mostra mai a nessuno.”
Mark Twain
 
Evita le metropolitane
 
La metropolitana delle diciotto e trenta ha un odore proprio, fatto di sudore, stanchezza e voglia d’essere altrove. È un odore caratteristico, al quale Claudia non era più abituata.
Non scendeva quelle scale dai tempi dell’università, da quando aveva avuto un attacco di panico proprio là sotto, sulla banchina del treno. Era avvenuto tutto velocemente: la calca di persone l’aveva imprigionata come una morsa, più lei tentava di respirare, più l’aria si faceva acre. Poi era giunto il panico, la sensazione di morte imminente, il desiderio di fuggire via. Ma dove? Non vi erano vie di d’uscita, era in trappola, imprigionata in una rete di sconosciuti che la spintonavano non curanti della sua sofferenza.
Era svenuta tra loro, non era nemmeno caduta a terra, i corpi dei pendolari premuti contro il suo l’avevano sorretta.
Da quel giorno, Claudia si era imposta una serie di rigide regole che la tutelassero da ulteriori attacchi di panico, le aveva scarabocchiate su un foglio che aveva riletto fino alla nausea. Col trascorrere degli anni, la lista si era allungata, divenendo una sorta di testimonianza di tutte le paure che la ragazza aveva sviluppato. 94 per la precisione.
Tra queste, ne spiccava una in particolare:
  1. Evita le metropolitane
Quel giorno, Claudia avrebbe tentato di superare l’ostacolo che si era imposta anni prima. Non l’aveva fatto di propria iniziativa, era stata costretta dagli eventi: l’auto aveva smesso di funzionare il giorno prima.
Venti minuti in metro, ecco quanto distava casa sua. Così poco, eppure troppo per lei.
La ragazza trasse un respiro di sollievo nello scoprire la banchina vuota. Salivano poche persone alla sua fermata, per fortuna.
Provò un incantevole piacere nel poter camminare avanti e indietro lungo la linea gialla segnata sul pavimento scuro. Poteva muoversi, poteva respirare. Sorrise di gusto, ritrovandosi a pensare che tutto sarebbe andato al meglio, che nessuno avrebbe potuto soffocarla o imprigionarla come le era accaduto un tempo.
Sollevò il capo verso il cartellone sul soffitto. “Tempo di attesa: 1 minuto”.
Prese a guardarsi attorno, scrutando i pochi individui che sull’altra banchina attendevano il treno diretto nella direzione opposta. Si concentrò a tal punto su di loro che si accorse solo dopo alcuni minuti del vibrare nervoso nella tasca del cappotto. Era il telefono. Aveva ricevuto un messaggio da parte di Pietro.
“Sono ancora a lavoro. Tu hai finito?”
Pietro era l’uomo migliore che Claudia avesse mai conosciuto, l’unico che nonostante tutto, le fosse sempre rimasto accanto.
Sto asp..”
Claudia si bloccò di colpo, cessando di digitare la propria riposta. Le parve di avere qualcuno alle spalle, aveva chiaramente percepito il respiro di un’altra persona sui propri capelli. Di istinto si voltò, scontrandosi con una brezza fredda, provocata dal treno in arrivo sulla banchina opposta.
«Detesto le metropolitane.»
Fu tutto ciò che disse, sentendosi una sciocca per aver scambiato quello spostamento d’aria per il respiro di un altro individuo. Dopo aver osservato il treno allontanarsi, riprese a scrivere a Pietro.
“Sto aspettando il treno, sono uscita prima oggi.”
Aveva appena inviato il messaggio, quando percepì di nuovo quella sensazione: vi era qualcun altro lì con lei. Come quando in un luogo affollato capita di avvertire lo sguardo di qualcuno addosso e voltandosi, eccoli lì, gli occhi di uno sconosciuto fissi su di te. Una sensazione simile, inspiegabile ma forte, si impadronì di lei. Se ne convinse ancor di più quando le arrivò alle orecchie un suono fastidioso, un fischiettio accennato e poi sempre più forte. Qualcuno stava fischiando quella che pareva essere una cantilena, una canzoncina che Claudia trovò inquietantemente familiare.
Deglutendo a fatica, tornò a ispezionare il resto della banchina.
Il fischiettare cessò improvvisamente, lasciando spazio a un nuovo rumore: passi.
La ragazza rimase col fiato sospeso, in attesa. Proprio quando i passi cominciarono a farsi più vicini, vennero coperti da un feroce stridio, quello del treno appena giunto.
Claudia non lasciò ai passeggeri il tempo di scendere, si fiondò immediatamente sul vagone più vicino, guardandosi alle spalle solo quando fu lì sopra, in mezzo a tutta quella gente.
Paradossalmente, quel treno stracolmo di persone non la infastidì, anzi, fu ben contenta di non essere più sola. Rimase in piedi per le successive tre fermate, poi, quando alcuni sedili si liberarono, ne scelse uno su cui accomodarsi.
Il telefono vibrò ancora.
“Ti è piaciuta la canzoncina?”
La ragazza non comprese il senso di quel messaggio inizialmente, poi, come un lampo la colpì. La canzoncina. Il fischiettare. Con occhi spalancati, lesse e rilesse quelle parole più volte. Non vi era alcuna traccia del mittente, non vi era nemmeno un numero, quel messaggio era comparso sullo schermo dal nulla, come una notifica qualsiasi.
La ragazza scrutò i passeggeri della metro, certa di trovarlo lì. Sapeva chi fosse il mittente, cercava un volto ben preciso, quello di Daniel.
Alcuni uomini non sono in grado di gestire un rifiuto.
Claudia aveva conosciuto Daniel mesi prima, subito dopo aver interrotto la frequentazione con Pietro. Era stato un flirt, terminato nel giro di una settimana, non appena Daniel aveva iniziato a dar segni di squilibrio. Claudia sapeva riconoscerli bene, comprendere le persone era il suo mestiere.
Daniel non aveva accettato di buon grado quella decisione, dando sfogo alla sua ossessione: aveva preso a chiamarla, richiamarla, cercarla, seguirla, fino a perseguitarla.
Solo con l’intervento di Pietro, Daniel si era dileguato. 
Claudia era certa di essersi liberata di quell’ingombrante presenza, ma qualcosa non doveva essere andato secondo i piani.
Era tornato.
Claudia avrebbe voluto contattare Pietro, ma non appena i suoi polpastrelli sfiorarono lo schermo del telefono, quest’ultimo divenne nero. Si era spento.
La donna si rassegnò a trascorre il resto del viaggio spiando tra i passeggeri dove potesse essere Daniel.
Iniziò a fare il conto delle fermate mancanti.
Quattro fermate.
Prese a giocherellare nervosa coi propri capelli, scrutando apprensiva le persone scendere ogniqualvolta il treno si arrestasse. Immaginò un terribile scenario: sarebbe rimasta sola su quel vagone e a quel punto, Daniel sarebbe comparso dinnanzi a lei.
Tre fermate.
Per calmarsi, bevette un sorso d’acqua dalla bottiglietta ormai quasi vuota.
Due fermate.
Il vagone non si svuotò come Claudia aveva temuto, rimanevano ancora lei e un gruppo di donne, probabilmente colleghe di lavoro intente a ridere e lamentarsi della giornata appena trascorsa.
Alzandosi, Claudia passò loro accanto, riuscendo a cogliere qualche breve ritaglio delle loro conversazioni.
Farai qualcosa stasera? Cucino qualcosa per Gio e i bambini e poi mi guardo un film.
Che ne pensi della nuova stagista? Troppo stupida per durare da noi.
Vorrei tanto un aumento, non credi che me lo meriti?
Erano i dialoghi più falsi e noiosi che Claudia avesse mai sentito. Le persone credono che colmare il silenzio sia sempre una buona idea, ma alle volte, tacere è la scelta migliore.
Rimase lì, davanti alle porte, ad osservare il proprio riflesso. Decise di bere ancora un po’ d’acqua, dentro quel treno faceva caldo, troppo.
Si sentì sollevata solamente quando il convoglio frenò.
Era arrivata, pochi minuti a piedi e sarebbe stata a casa.
Immaginò attentamente il tragitto che avrebbe percorso: sarebbe arrivata nel suo appartamento, avrebbe salutato Sammy e in seguito chiamato Pietro. Avrebbero risolto la questione Daniel, una volta per tutte.
Cullata da questi pensieri si rilassò, prendendo a camminare più veloce, verso le scale, diretta in superficie.
Fu proprio allora che accadde.
I rumori cominciarono a giungerle in maniera ovattata, la vista le si offuscò. Dovette aggrapparsi al corrimano umido delle scale, di modo da risalirle senza cadere.
Le tornò tutto in mente, il panico provato l’ultima volta, la sensazione di svenimento.
Questa volta però la sensazione fu diversa, non aveva paura, si sentiva stranamente tranquilla, come sotto l’effetto di troppi calmanti. Una volta da ragazzina le era successo un episodio simile: si era sentita male, al mare, dopo una giornata sotto il sole cocente. Aveva alzato gli occhi verso il cielo azzurro e aveva cessato di vederlo, tutto si era offuscato, lento e lei era svenuta. Era stato un calo di pressione.
Stava forse accadendo di nuovo? No, quello che stava provando in quella dannata metropolitana era ben peggio. Sentiva le persone passarle accanto, strattonarla, gridarle di togliersi di mezzo e non ingombrare la scala. Lei a malapena riusciva a tenere gli occhi aperti, a rispondere o chiedere aiuto.
Qualcuno le posò una mano sulla spalla destra.
«Tutto bene signorina?»
Era una donna, la sua voce era docile, seppur inquieta. Claudia provò a guardarla ma non riuscì a metterne a fuoco il viso, non riuscì a mettere a fuoco nulla.
Era tutto buio.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Un brusco risveglio ***


Un brusco risveglio 

Qualcuno le stava dando fuoco. Claudia riaprì gli occhi di colpo, immaginando di vedere attorno a sé fiamme e fumo. Si scontrò con una realtà che non si aspettava, attorno a lei non vi era nulla di tutto ciò, solo il bianco candido delle pareti. Nessuno la stava toccando o anche solo sfiorando. Allora perché tutto quel dolore, perché sentiva la nuca bruciare?
«Claudia.»
Pietro le si avvicinò non appena la vide sbattere le palpebre. Il viso dell’uomo era piegato in una smorfia indecifrabile, era sorpreso, spaventato o entrambe le cose?
Nemmeno lui avrebbe saputo rispondere. Sicuramente era a disagio, non era ancora pronto a parlare, a guardarla negli occhi e spiegarle cosa fosse avvenuto. Credeva di avere più tempo per pensare a come dirle ogni cosa. Le infermiere avevano detto che non si sarebbe risvegliata prima del giorno dopo, le avevano somministrato sedativi e antidolorifici abbastanza forti da stordirla. Dovevano essere delle incapaci: a giudicare dall’espressione con cui si era svegliata, Claudia stava soffrendo.
La ragazza aprì bocca, sussurrando parole che lo lasciarono di sasso.
«Sono svenuta, credo di aver avuto un calo di pressione.»
Pietro scosse il capo.
«Claudia, che cosa ricordi?»
«Ero in metro, mi sono sentita male e ho perso i sensi.»
La donna provò fastidio per quella domanda e ancor di più per il modo che lui aveva di fissarla. Era pietà quella che leggeva nei suoi occhi?
«Cla, ti hanno ritrovata in un angolo della metro, eri a terra e …» Pietro fece una breve pausa. «Qualcuno ti ha aggredita.»
Si pentì del tono utilizzato non appena ebbe terminato la frase. Era stato freddo, distaccato, come se stesse parlando a una delle tante vittime di violenza che gli capitava di incontrare svolgendo il proprio lavoro.
Claudia socchiuse gli occhi, in parte fu per il dolore, ma soprattutto per riflettere su quanto le fosse appena stato rivelato. Ragionò sulle parole di Pietro, le scompose, le riaccostò l’una all’altra, le ridusse all’osso finché non ne rimase solo una.
Aggredita.
L’uomo le sfiorò timoroso una mano, preoccupato nel vederla immobile per un tempo così prolungato. Lei sollevò quella stessa mano, facendogli cenno di aspettare. Aveva ancora gli occhi chiusi, aveva bisogno di altro tempo per capire, come se le parole di Pietro non fossero state abbastanza chiare.
«Non è vero.»
Non poteva essere stata aggredita, l’avrebbe ricordato. Invece, tutto ciò che sapeva era di essere svenuta, in metro, a metà della scalinata che l’avrebbe condotta in superficie, a casa.
Pietro sospirò, ma non parve sorpreso. Claudia era solita negare verità che avrebbero potuto ferirla.
«Ascoltami, so che fa male, ma è la verità. Sei stata trovata priva di sensi in metropolitana, ti hanno portata qui d’urgenza. Hanno trovato il tuo telefono e hanno chiamato l’ultimo contatto con cui avevi parlato, io.»
Le parlò con cautela e dolcezza, ma lei non si soffermò tanto su quel dettaglio, quanto sulle parole che le rivolse. Le sovvenne un ricordo in perfetto contrasto con quanto Pietro le stava raccontando. 
«Il telefono era scarico.» Sussurrò con voce flebile.
La ragazza ricordava chiaramente di aver visto il lo schermo dello smartphone oscurarsi tra le sue stesse mani. Come avevano potuto risalire al suo ultimo contatto, se il telefono non era acceso.
Un altro ricordo prese a pulsarle tra le tempie.
«Il messaggio.»
Sibilò di colpo. Pietro la fissò con maggiore preoccupazione, temendo che l’amica stesse delirando. Lei avrebbe voluto spiegargli tutto, dalla questione del telefono spento, fino al messaggio minatorio ricevuto, ma non riuscì a trovarne le forze. Temeva che la testa le scoppiasse da un momento all’altro, ebbe realmente paura di morire, tant’è che si aggrappò a Pietro con forza, sussurrandogli all’orecchio quelle che era certa sarebbero state le sue ultime parole.
«Daniel. È stato Daniel.»
 
Solamente dopo averle somministrato ulteriori medicinali, il dolore si placò, concedendo a Claudia la forza necessaria per ascoltare ciò che Pietro tentava di spiegarle da tempo.
«Il dolore che senti è dovuto ai colpi che ti hanno inferto.»
«Mi hanno solo picchiata?»
Si affrettò a domandare Claudia, pentendosene subito dopo. Non era sicura di voler sapere, la risposta di Pietro avrebbe potuto sollevarla, oppure tramortirla definitivamente.
Il poliziotto comprese cosa volesse significare quella domanda e con non poca difficoltà ammise di non saperlo.
«Devi svolgere ulteriori visite per saperlo.»
«No, io so che non mi è successo.»
«Devi farti visitare, per favore.»
Le rivolse un’occhiata implorante e stanca, anche lui sentiva su di sé il peso di quell’aggressione.
Claudia si sentì identica alle donne a cui si rivolgeva per lavoro.
Andrà tutto bene, io sarò al tuo fianco, ti aiuterò, ci lavoreremo insieme…
Quante volte aveva sentito i suoi colleghi ripetere frasi di questo tipo alle relative pazienti?
E ora lei non era abbastanza coraggiosa da affrontare una semplice visita.
Cambiò bruscamente argomento.
«Chi mi ha trovata in metro?»
«Un uomo. Un pendolare sceso dalla metro successiva che ti ha soccorsa e chiamato aiuto.» Spiegò paziente. «Ascolta Claudia. In condizioni normali avrei pensato ad una rapina, ma non ti hanno rubato niente.»
«Daniel, è stato lui.» Ripeté con sicurezza la ragazza, andando a raccontare con cura tutto ciò che ricordava: la canzoncina della metro, il misterioso messaggio ricevuto durante il viaggio e quella strana sensazione di essere osservata da qualcuno che non voleva mostrarsi.
Pietro ascoltò con attenzione, annuendo di tanto in tanto, con fare così automatico e accondiscendente da irritare Claudia.
«Mi metterò al lavoro, farò controllare le telecamere della metro e cercherò Daniel. Tu devi riposare nel frattempo.»
La luce della luna filtrava dalla finestra della camera. Claudia si sentiva spossata, eppure era certa che non sarebbe riuscita a dormire tanto facilmente.
 
Claudia Barbieri non amava sentirsi vulnerabile.
Si ritraeva infastidita quando le infermiere le facevano visita, scrutandola con fare compassionevole, come fosse uno di quei cani randagi abbandonati al proprio destino. 
Aveva numerose fobie e ansie, ma era sempre stata brava a tenerle a bada. La sua lista dei divieti serviva proprio a questo. Era abile nel mantenere il controllo, si era sempre tenuta fuori dai guai, era sempre stata attenta ai suoi movimenti, gesti, aveva sempre aspirato alla perfezione.
Adesso, l’idea che qualcuno avesse spezzato quella linea maniacale che erano le sue certezze, la rendeva furiosa. Non aveva più il controllo sul suo corpo o i suoi pensieri, ogni movimento le procurava un dolore acuto che la riportava all’aggressione, quasi che il tempo si fosse fermato lì.
Da quando si era svegliata non vi era stato spazio per altro, continuava a pensare senza sosta alla sera precedente. Le sembrava di sentire ancora quel velato fischiettare, poi il rumore improvviso e glaciale del treno.
«Basta.»
Si prese il capo tra le mani, come se questo bastasse a silenziare i pensieri vorticosi che le affollavano la mente. Strinse la presa più del dovuto e questo le provocò altro dolore.
Era ferita.
Si drizzò di colpo, come se solo in quel momento si fosse ricordata di un particolare importante. Si alzò di fretta, sopportando i dolori che ne conseguirono e muovendosi a una velocità più modesta del normale, arrancò fino al bagno.
Lo specchio appeso alla parete di colpo divenne un nemico da cui non riusciva a non sentirsi attratta. Claudia sapeva dove si trovassero le sue ferite, non le aveva ancora viste, ma poteva sentirle. Il dolore che nemmeno i farmaci sembravano riuscire a silenziare si irradiava da un punto ben preciso, la tempia destra. Lo sentiva, era come il baricentro delle sue sofferenze. Queste ultime non si fermavano lì, no, proseguivano sicure sulla fronte, attraversando poi il resto del viso, specie la parte destra. Claudia non sorrideva da almeno dodici ore e probabilmente non l’avrebbe più fatto per parecchio tempo, ma era certa che se avesse provato a distendere le labbra in un’espressione serena, tutto il suo volto si sarebbe accartocciato in una smorfia di dolore.
Così è questo che accade quando si viene aggrediti, ci viene portato via tutto ciò che un tempo davamo per scontato. Emozioni, pensieri, un banale sorriso. Tutto diventa impossibile, tutto sembra ricondurre a un unico tragico evento.
Claudia Barbieri però non amava sentirsi vulnerabile. Per cui avanzò, un passo alla volta, fino a quella superficie opaca, un po’ impolverata. Trovò il coraggio di guardarvi all’interno e cercare se stessa, senza riuscirvi. La donna che vedeva riflessa non era lei, non poteva esserlo, perché la figura che la guardava di rimando dallo specchio non era una persona.
Non era altro che un ammasso di macabri colori.
Lividi, lividi ovunque.
Sfumature violacee si concentravano nei punti che lei percepiva come più dolorosi, tinte verdognole arrivavano a colorarle il mento e la fronte, mentre altre zone della pelle erano rimaste intoccate, gli occhi ad esempio.
Claudia si disse che quello non era stato un caso, aggredendola Daniel aveva scelto con precisione in quali punti colpirla e in quali no. I suoi occhi erano intoccati, senza lividi, perché aveva voluto lasciarle la possibilità di vedersi, di capire appieno cosa le avesse fatto.
Daniel era stato realmente capace di ciò?
Claudia se lo chiese seriamente per la prima volta. Era sempre stata certa della sua colpevolezza, ma ora, guardando l’opera che aveva compiuto, si domandò se fosse capace di odiarla al punto da farle ciò.
Turbata da quei pensieri e dal suo stesso viso, la ragazza indietreggiò fino a chiudere la porta dietro di sé. Si rifugiò tra le lenzuola pallide del letto freddo in cui aveva trascorso la notte, prima di accorgersi di non essere sola.
Sulla soglia della porta, se ne stava titubante un uomo sulla trentina. Gli occhiali sembravano pesargli sul naso triangolare, mentre la scrutava allarmato, come se fosse stato appena colto in flagrante nel bel mezzo di un reato.
Sergio Moravi non si era mai trovato in una simile circostanza. Lui, che con le parole ci lavorava, in quella precisa occasione faticò a metterne insieme due. A dirla tutta, non ci riuscì nemmeno, si era appena schiarito la voce per parlare, quando lei lo anticipò.
«Chi sei tu?»
Claudia gli si rivolse con tono aggressivo, dopo quanto accaduto, ritrovarsi uno sconosciuto in camera non la rassicurava.
Sergio lo comprese, il suo lavoro era anche quello, e dopo essersi schiarito la voce, di nuovo, le rispose.
«Scusi se l’ho spaventata, mi chiamo Sergio Moravi. Sono l’uomo che…» Si frenò, posando l’indice sugli occhiali e spingendoli su, nonostante non ve ne fosse bisogno. Stava prendendo tempo, per trovare le parole più adatte. «Sono l’uomo che ha chiamato i soccorsi ieri sera.» Disse infine, rivolgendole un sorriso cordiale.
Ancora una volta, Claudia dovette metabolizzare quell’affermazione prima di comprenderla a fondo. Tornò alla sera prima, a quando Pietro l’aveva informata che fosse stato un altro pendolare a trovarla priva di sensi. Era lui quindi, Sergio.
Non disse nulla, continuò a scrutarlo, senza riuscire a scrollarsi di dosso quel fare diffidente.
Tra i due, Sergio appariva quello più a disagio, continuava a giocherellare freneticamente con la cravatta ormai stropicciata. Le lenti degli occhiali rendevano i suoi occhi più grandi e scuri di quanto non fossero. Era impacciato, in condizioni normali Claudia ne avrebbe sorriso, ma in quel momento, qualsiasi persona le pareva una minaccia.
L’uomo attese paziente che lei dicesse qualcosa e quando comprese che quel silenzio sarebbe potuto proseguire chissà quanto, decise di interromperlo da sé.
«Scusi ancora se l’ho spaventata, volevo sapere come stesse. È tutta la notte che penso a quanto è accaduto.»
Continuava a rimanere sulla soglia della porta e Claudia gliene fu grata, se avesse fatto un solo passo avanti, lei si sarebbe ritratta come un animale spaventato.
La donna si portò una mano sul viso, come volendo coprire parte dei segni che rivelavano la violenza della sera prima. Abbassò lo sguardo, non voleva incrociare quello dello sconosciuto.
«Sarà meglio che vada, immagino che lei voglia stare tranquilla.»
«Aspetti, Sergio.» Si risvegliò improvvisamente, trattenendolo lì.
Avrebbe potuto ringraziarlo, per averla aiutata in primo luogo o per essere venuto a sincerarsi delle sue condizioni. Invece no, formulò una domanda che nessuno si sarebbe mai aspettato.
«C’era una donna con me, quando mi ha trovato?»
Lo sguardo di Sergio si perse nel vuoto per alcuni attimi, infine scrollò le spalle. «Non c’era nessuno, solo lei. Un uomo stava correndo via, l’ho detto alla polizia.»
Claudia si mostrò interessata.
«L’ha visto in viso?»
«No, mi spiace. L’ho solo visto correre, mi dava le spalle. Indossava una felpa nera con cappuccio, dei jeans chiari e degli scarponcini. Volevo inseguirlo ma mi sono fermato per chiamare i soccorsi.»
Si sentì in colpa, dispiaciuto di non aver potuto fare altro. Si sistemò di nuovo gli occhiali, mutando poi espressione. Aveva ricordato un altro particolare.
«Zoppicava un po’, come se facesse fatica.»


Angolo autrice
Ringrazio chiunque voglia lasciare un commento alla storia, sia esso positivo o negativo (l'importante è che sia costruttivo, non accetto offese gratuite). Grazie inoltre a chi ha iniziato a seguire e leggere questi primi capitoli. 
A presto con la terza parte.

Vi ricordo che potete trovarmi anche su: 
- Wattpad - 
https://www.wattpad.com/user/MiriamRaeli
- Blog - http://trenodicarta.it/
- Instagram - https://www.instagram.com/trenodicarta/
- Facebook - https://www.facebook.com/trenodicarta/
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Qualcuno ti osserva ***


3. Qualcuno ti osserva



Adagiò un dito sul vetro, seguendo i movimenti della goccia d’acqua posata sull’altro lato della superficie. Quella rotolava giù, si frenava per qualche istante e infine riprendeva la propria corsa, prima di scomparire totalmente. A quel punto, Claudia riportava il dito su una nuova goccia di pioggia, accompagnandone il percorso incerto.
Era un gioco che aveva imparato da bambina, non vi era nulla di speciale, tutti i bambini lo facevano.
Persino Pietro, che da minuti la guardava, un tempo aveva fatto lo stesso. L’uomo però cominciava a stancarsi di quel silenzio, fu così che lo interruppe.
«Da quanto non esci?»
Conosceva perfettamente la risposta a quella domanda, eppure la pose comunque, mosso dal solo desiderio di rianimarla e distrarla da quell’infinito gioco in cui si era rifugiata.
Non vi fu alcuna reazione, per i primi secondi, poi, la donna si voltò d’improvviso a guardarlo, come se il suono delle sue parole le fosse giunto in ritardo.
Claudia, a sua volta stanca di dedicarsi alla pioggia, incrociò le braccia al petto e con stanchezza gettò fuori parole che parvero costarle uno sforzo immane.
«Due settimane.»
Persino lei appariva sorpresa, come se se ne stesse rendendo conto solo allora.
Non aveva mai trascorso così tanto tempo rinchiusa tra quelle mura che pian piano stavano diventando una prigione sicura in cui rintanarsi.
Il tempo era trascorso veloce dopo l’aggressione, come se di colpo avesse acquisito un ritmo proprio, diverso dal solito.
«Dovremmo uscire, mangiare fuori, passeggiare al parco.»
«Hai visto che pioggia c’è lì fuori? No, meglio rimandare.»
Ecco come si era ritrovata a quel punto: procrastinando.
Oggi dovresti uscire a prendere la posta Claudia.
No, tanto non mi sarà arrivato niente.
Oggi dovresti far la spesa.
No, posso ordinare qualcosa da mangiare.
Oggi potresti andare a correre, Claudia.
No, ho ancora dolori al corpo.
Ripeteva scuse su scuse a se stessa e a Pietro, illudendo entrambi che fosse la pigrizia o il dolore provocato dai lividi a frenarla. Non era così, lo sapeva bene anche lei.
Due voci si agitavano nella sua mente, una la spronava a vivere, l’altra la seppelliva in quell’appartamento, propinandoglielo come luogo sicuro, il posto in cui Daniel non avrebbe mai potuto raggiungerla. No, non era la pigrizia, ma la paura a frenarla dall’uscire di casa.
«Sono reduce da un evento traumatico, è del tutto normale.»
Disse di colpo a voce alta. Pietro non riuscì a capire se quelle parole fossero dirette a lui o direttamente a se stessa, a ogni modo non proferì parola, anzi la lasciò proseguire, mentre con estrema calma e serietà, esponeva il suo pensiero.
«Daniel è scomparso, non so dove si trovi. Potrebbe essere proprio lì, in fondo alla strada o magari nel mio stesso garage. Mi sento al sicuro solo qui, a casa mia, lasciarla significherebbe rischiare e dopo aver subito un trauma, è normale che io non voglia farlo.»
«Questo è ciò che diresti a una delle tue pazienti?»
Claudia fissò i propri occhi in quelli di Pietro, dedicandogli improvvisamente ogni attenzione prima negata. L’amico aveva centrato il punto con quell’interrogativo.
«Sì, ma le direi anche che un trauma non risolto diventa un problema.»
Nuovamente, Claudia tornò a scrutare la finestra su cui la pioggia continuava a tempestare. Si immobilizzò a tal punto che Pietro temette avrebbe ricominciato col quel gioco infantile, ma a sorpresa, accadde l’inverso: con un gesto repentino, la ragazza liberò i capelli biondi dalla coda arrangiata che si era fatta poco prima e altrettanto rapidamente guizzò verso la porta dell’appartamento.
«Devo ritirare l’auto.»
Se l’era ricordato improvvisamente, con due settimane di ritardo. Il meccanico aveva iniziato a chiamarla da allora, invitandola a riprendersi l’auto ormai sistemata. Claudia non aveva mai risposto, poco propensa ad avventurarsi per le strade cittadine.
«Ti accompagno.»
In un’altra occasione, Claudia avrebbe rifiutato l’offerta di Pietro, ma quella era la prima volta in cui osava affrontare la paura e non desiderava farlo da sola.
Inoltre, senza un suo passaggio, avrebbe dovuto viaggiare in metro, di nuovo.
 
L’auto di Pietro era calda e confortevole, proprio come ricordava. I sedili odoravano un po’ di fumo, ma a Claudia quel dettaglio non infastidì più di tanto, forse perché era stata proprio lei un tempo a fumare là dentro.
Forse fu quel luogo chiuso e familiare o forse fu la presenza di Pietro, ma si sentì bene, al sicuro, dopo tanto tempo trascorso a guardarsi le spalle. Certo, di tanto in tanto lanciò occhiate diffidenti verso lo specchietto retrovisore, quasi si aspettasse di veder comparire Daniel a bordo della sua Fiat blu, ma a parte questo, Claudia non diede ulteriori segni di preoccupazione.
Per la prima volta da quando tutto era avvenuto, pensò seriamente di potersela cavare. Ne fu ancor più certa quando giunti all’auto officina Pietro le propose di rimanere in macchina, da sola.
«Parlo io col meccanico, tu resta qui, va bene?»
Claudia annuì, ben contenta di non doversi sorbire l’ira del meccanico, sicuramente infastidito dal ritardo con cui erano giunti a ritirare l’auto.
Seguì Pietro mentre veloce usciva dalla macchina, correndo sotto la pioggia che ancora tempestava la città. Claudia distolse lo sguardo solo quando lo vide entrare nel garage; a quel punto, per trascorrere il tempo, accese la radio dinnanzi a sé.
Pigiò frenetica i tasti come alla ricerca di qualcosa di cui nemmeno lei era a conoscenza. Frenò il dito solo quando le parve di udire una canzone familiare.
La linea era disturbata, forse per via del tempo, la canzone si udiva poco e a scatti. Pur non riconoscendo quella melodia, Claudia provò un inspiegabile senso di fastidio, che la portò a spegnere con un movimento secco la radio.
Fuori la pioggia aveva preso a tempestare contro i tetti, il suolo e i finestrini dell’auto di Pietro. Le gocce giungevano con una tale foga da appannare la vista e impedire a Claudia di vedere cosa vi fosse al di fuori. Il suono era assordante, cadenzato e violento.
La donna deglutì a fatica e come aveva fatto anche quella mattina, riprese il suo antico gioco: posò un dito sul finestrino, seguendo una goccia con quest’ultimo. Fu difficile, la pioggia era troppo violenta quella volta e le gocce si rincorrevano l’un l’altra senza sosta.
D’improvviso, complice quella canzone e il tempo a dir poco tetro, la ragazza avvertì uno strano presentimento. Si frenò, col dito ancora posato contro il vetro freddo e tentò di guardare al di là di esso. Era certa vi fosse qualcuno là fuori, le parve di intravedere un’ombra, qualcuno che a sua volta riusciva a vederla.
Provò a sbattere le palpebre, nel vano tentativo di mettere a fuoco l’immagine e quando finalmente sembrò convincersi di essersi sbagliata, comprese di aver ragione.
Un rumore secco, seguito da un ticchettio, la fece sobbalzare, inizialmente credette fosse la pioggia, poi lo vide: un polpastrello si era posato sul finestrino, tracciando una linea lenta su quest’ultimo. Claudia levò di colpo la mano, osservando quella dello sconosciuto che allora prese a ticchettare sul vetro e poi sulla portiera.
Tentò di aprirla, trovandola chiusa, come le altre tre. L’intera macchina era sigillata dalla chiusura di sicurezza inserita da Pietro dopo esser sceso.
Chiusa là dentro, Claudia sperò che chiunque vi fosse al di fuori non la raggiungesse. Si ritrasse contro il sedile, guardandosi nervosamente attorno. Non vide altre ombre così come non le parve di cogliere nessun altro rumore, chiunque avesse voluto spaventarla, doveva essersene andato.
No, Claudia era certa di no: riusciva a sentirlo, aveva quella maledetta sensazione. Qualcuno la guardava e la cosa peggiore era che lei non riusciva a vederlo.
Solo quando la pioggia smorzò i propri colpi, potè azzardarsi ad avvicinare il viso contro il vetro. Non vi era nessuno, le strade allagata erano vuote, cariche solo di pozzanghere e umidità.
Poi la portiera di guida si aprì di scatto, dando accesso a una folata di vento freddo.
 
«Le chiedo ancora scusa per il ritardo.»
Pietro si era già scusato quattro volte, quando il meccanico gli consegnò le chiavi dell’auto di Claudia. L’uomo gli fece cenno di non preoccuparsi, per la quarta volta, poi diede un’occhiata alla strada intravedibile al di fuori della porta a vetri dell’officina.
«Fuori piove più forte, aspetti un attimo prima di uscire.» Gli consigliò gentile, passandosi poi le mani sulla tuta da lavoro macchiata.
Pietro scosse il capo.
«Vado via subito, mi stanno aspettando in macchina.»
Il meccanico sollevò le spalle, come a voler dire fai come vuoi. Lo fissò coi suoi occhietti tondi per un po’, in seguito, dopo essersi morso le labbra più volte, si decise a sputare il rospo.
«Aspetti, c’è una cosa che non le ho detto riguardo all’auto della sua amica.»
Non l’aveva rivelato prima perché temeva di aver torto, ma … diamine, faceva quel mestiere da vent’anni, sapeva perfettamente quale guasto avesse avuto quella macchina. Era suo dovere riferirlo.
Pietro gli si avvicinò incuriosito, quando il meccanico ebbe terminato di raccontargli ogni dettaglio, la sua espressione si fece terribilmente preoccupata. Impiegò cinque minuti buoni prima di prendere una dura decisione: non doveva dire nulla a Claudia.
 
«Tutto a posto, ecco le chiavi.»
Quando Pietro si accomodò sul sedile, non si accorse immediatamente dell’espressione spaventata con cui Claudia lo fissava. La vide tremare solo in seguito, quando le porse le chiavi.
«Tutto bene?»
La ragazza guardò prima lui, poi il proprio finestrino, infine la strada.
«C’era qualcuno.»
«Chi? Dove?»
«Là fuori, qualcuno ha bussato al finestrino.»
La donna prese a indicare il punto esatto in cui il vetro era stato toccato.
Pietro la scrutò con un’espressione a metà tra il preoccupato e lo scettico. Non aveva visto nessuno aggirarsi attorno all’auto, la pioggia era troppo fitta, lui stesso aveva atteso che si calmasse prima di uscire dall’auto officina. Eppure, Claudia era certa di ciò che diceva e dopo quanto accaduto, non si sentì di sminuire ciò che diceva di aver visto.
Il poliziotto scese dall’auto e ignorando la pioggerella ormai quasi del tutto estinta, fece il giro dell’auto, fino a trovarsi dinnanzi al finestrino di Claudia. Non seppe neanche lui cosa cercasse. Cosa si aspettava? Di trovare impronte forse? Anche se vi fossero state, la pioggia avrebbe portato via tutto.
Rimase lì a scrutare il vetro, oltre il quale il visino di Claudia lo guardava di rimando, preoccupato.
Dopo un minuto di silenzio, la ragazza scese dall’auto a sua volta.
«Trovato qualcosa?»
«Che cosa? Le impronte digitali dell’uomo invisibile?» Pietro si pentì di averle risposto con tanta supponenza e sospirando si scusò nell’immediato. «Scusami. Chi hai visto qui fuori?»
«Non lo so, io … non riuscivo a vedere bene, ma qualcuno c’era.»
Pietro annuì, nonostante quella versione lo convincesse poco.
«Non ci sono delle telecamere? Magari hanno ripreso qualcosa.» Azzardò lei.
«Lo chiederò al meccanico, ora però rientriamo in auto.»
Glielo disse più per rassicurarla, che per altro. Era certo che quell’officina non disponesse di telecamere e anche se le avesse avute, Pietro poco convinto di trovar qualcosa in quei filmati.
«Cla, è possibile che tu abbia frainteso ciò che hai visto?»
Nonostante Pietro le avesse posto quella domanda con cautela e premura, Claudia non reagì nel migliore dei modi dinnanzi a quell’insinuazione.
«Credi me lo sia immaginato?»
«No, però a volte succede di…»
«Lascia perdere, dammi le chiavi della mia auto.»
Improvvisamente quell’abitacolo che tanto aveva decantato come rassicurante e familiare, cominciò a starle stretto. Preferiva andarsene, per conto suo.

Angolo autrice
Ciao a tutti, ecco il terzo capitolo della storia. Spero che finora il tutto vi stia piacendo e incuriosendo, nel caso abbiate suggerimenti o commenti da muovere, lasciatemi un commento, per me è importante conoscere l'opinione dei lettori. 
Se volete, potete inoltre seguirmi sul mio blog personale, dedicato alla scrittura e a ciò che spero un giorno di poter pubblicare. 
http://trenodicarta.it/

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Vuoi un lavoro? ***


Capitolo 4 

Pietro poteva anche non crederle, Claudia era certa di quanto avesse visto.
I tergicristalli presero a scacciare senza pietà le gocce di pioggia posate sul parabrezza. Il tempo avverso e il traffico intenso per un attimo convinsero Claudia a lasciar perdere, a imboccare l’uscita successiva e tornare a casa.
No, tornare indietro non era un’opzione. Prima di rifugiarsi nel piccolo appartamento a cui si era abituata, doveva fare un ultimo sforzo, doveva raggiungere un altro luogo.
Impiegò mezz’ora prima di parcheggiare davanti all’imponente edificio che al terzo piano, ospitava lo studio medico in cui era stata assunta esattamente tre anni prima.
All’epoca si era appena trasferita in città, era avvenuto tutto subito dopo la laurea.
Contrariamente a ogni previsione, non aveva dovuto faticare troppo per trovare un impiego adatto a lei, tutto era avvenuto tramite un semplice colpo di fortuna. La fortuna aveva sempre avuto un ruolo fondamentale nella vita di Claudia, anche se pareva che negli ultimi tempi l’avesse abbandonata.
Quel giorno di tre anni prima però, la fortuna aveva girato a suo favore. Aveva conosciuto Sara in maniera del tutto casuale, in un piccolo negozio accanto al cinema vecchio. Era alla ricerca di nuovi mobili.
Vedendo Claudia indecisa tra due diversi colori, Sara le aveva consigliato un comodino beige, intromettendosi dal nulla nell’indecisione della ragazza.
Quest’ultima aveva infine comprato il comodino bianco.
«Il modo migliore per prendere una decisione è ricevere un consiglio. Nel momento in cui te lo danno, potrai esserne soddisfatta e seguirla, oppure sentirti insoddisfatta e capire che ciò che vuoi è l’opposto. Com’è accaduto a te.»
Le spiegò sapientemente Sara, riuscendo a guadagnarsi da Claudia la più completa attenzione.
Avevano qualche anno di differenza, Sara appariva inoltre ancor più adulta della sua reale età; ciò accadeva per via delle lievi rughette ai lati degli occhi e delle labbra, abituate a sorridere in continuazione.
Dopo averla ascoltata per un quarto d’ora, a Claudia venne naturale domandare: «Sei una psicologa?»
«Psicoterapeuta.» Le porse finalmente la mano. «Dottoressa Sara Agostini.»
Claudia le strinse la mano. «Dottoressa Claudia Barbieri. Assistente Sociale.»
Erano entrambe donne forti, indipendenti e intelligenti. C’erano tutte le carte in tavola affinché divenissero nemiche. Loro fecero molto di più: divennero amiche e colleghe.
Sara le offrì la possibilità di un colloquio all’interno del suo studio medico. Lo studio che aveva aperto con il suo ex marito, un brillante psicanalista. Le raccontò come dopo la laurea fosse stato difficile trovare lavoro.
«Così un giorno ho deciso di crearlo io. Un luogo alternativo agli ospedali, ai consultori e tutto il resto. Un luogo in cui ricevere ogni tipo di paziente, dal più ricco al più povero. Offriamo consulenza, supporto, visite mediche. Abbiamo psicologi, educatori, medici. Collaboriamo tutti, spesso qualcuno ha un paziente e si rivolge a un collega per un aiuto. Ad esempio, un pediatra che sospetta che una sua paziente soffra di bulimia, può chiedere a uno dei nostri psicologi aiuti e via così.»
Sara parlava del suo studio con una tale passione che Claudia se ne innamorò senza neanche averlo mai visto. Decise che voleva farne parte, voleva contribuire, divenire parte di quella piccola e accogliente realtà. Sara parve leggerle nel pensiero.
«Mi manca un’assistente sociale, ora che ci penso.» Sussurrò pensierosa, mentre sorseggiava il suo spritz. «Te la senti di sostenere un colloquio? –
«Vuoi farlo ora? Potevi dirmelo prima di farmi bere due calici di prosecco.»
Entrambe scoppiarono a ridere e Sara si affrettò a scuotere il capo.
«Non sarò io a sottoporti al colloquio, ma mio marito.» Si frenò, arrossendo di colpo. «Volevo dire ex.»
Solo in seguito, quando sarebbero divenute amiche, Claudia avrebbe scoperto che Sara provava ancora qualcosa per quell’uomo che l’aveva fatta tanto soffrire ma al tempo stesso sentire così viva come nessun’altro.
«Fosse per me ti assumerei subito, ma lui ci tiene a esaminare ogni singola persona. Allora, ti interessa?»
Claudia finse di pensarci, giocherellò con il proprio bicchiere vuoto, per poi dire: «Solo se ci facciamo un altro giro.»
«Questo sì che è il modo perfetto per corrompere il tuo capo.»
 
Il colloquio con Marco, l’ex di Sara, fu ben più tosto di quanto Claudia pensasse. Ingenuamente, la ragazza era convinta che il posto di lavoro fosse già suo, ma quando si trovò dinnanzi a una sfilza di candidati, ben più preparati e sciolti di lei, comprese di essersi sbagliata. Per non parlare di quanto severo e serio fu Marco. L’uomo era sulla trentina, aveva origini sudamericane a giudicare dal colorito della pelle e i lineamenti del viso. Ritrovandoselo davanti, Claudia comprese come mai Sara faticasse così tanto a dimenticarlo: l’uomo trasudava fascino e intelligenza da ogni poro. Era pacato mentre parlava, ma al tempo stesso deciso. Era elegante, la camicia perfettamente stirata e la giacca abbottonata. Ed era ancora, terribilmente, in grado di metterle soggezione. Le pose una serie di domande precise, mirate, ascoltandola con attenzione, senza lasciar sfuggire alcun segno o alcuna smorfia. Non lasciava intravedere alcuna emozione. Claudia non riusciva a comprendere se stesse rispondendo bene o male, se l’uomo fosse soddisfatto o no. La fissava con quegli occhi scuri, fissi, pareva non sbattere nemmeno le palpebre.
Come aveva fatto Sara, così esuberante e aperta, a sposare un uomo tanto freddo?
A metà colloquio, Claudia si rassegnò al fatto che non avrebbe mai ottenuto il lavoro. Era troppo giovane, inesperta. Aveva fatto qualche tirocinio, tra un esame e l’altro, alle volte aveva collaborato con il Tribunale dei minori, con dei centri di accoglienza, ma nulla di che. In tutti quei lavori le avevano sempre detto come agire, in quello studio invece, sarebbe stata lei a seguire i propri clienti, avrebbe fatto tutto da sola. E non ci sarebbe riuscita. Questo Marco lo sapeva, per questo non l’avrebbe assunta.
«La ringrazio Dottoressa Barbieri, credo possa bastare.» La liquidò con quelle parole, interrompendola mentre lei stava ancora rispondendo alla domanda appena fatta. Si era forse stancato di ascoltarla, per questo l’aveva interrotta? Aveva già deciso che non fosse idonea?
Claudia sorrise a fatica e quasi si fosse gelata, si alzò dalla sedia con lentezza.
«Sono io a ringraziarla per avermi concesso questo colloquio.»
Si pentì nell’immediato di aver usato quel verbo. Concesso. Suonava patetico, disperato, come se lei fosse un inferiore a cui Marco doveva concedere qualcosa. Pazienza, ormai ho sbagliato tutto, almeno mi mantengo coerente fino alla fine. Disse tra se e se mentre l’uomo le porgeva la mano. Per la prima volta lo vide sorridere.
«Arrivederci Dottoressa, le farò sapere.»
Claudia strinse la sua mano, trovandola fredda e poco accogliente rispetto a quella di Sara. In quel frangente comprese un dettaglio importante: quell’uomo era uno stronzo. Uno stronzo che però le diede il lavoro.
 
Tutti i timori di Claudia erano svaniti nel momento in cui aveva iniziato a lavorare all’interno studio. Inizialmente Sara l’aveva aiutata molto, contagiandola con la sua allegria e voglia di fare. Marco si vedeva raramente, per fortuna, se ne stava sempre nel suo ufficio, controllando la finanza, i conti dello studio. Cose burocratiche, come diceva Sara.
Claudia si era dimostrata molto abile fin dall’inizio nel suo lavoro. Aveva iniziato aiutando i colleghi con i propri pazienti e da lì quei pazienti erano divenuti suoi. Ex alcolizzati, tossicodipendenti, minori e qualsiasi altra persona a cui potesse offrir il suo aiuto bussava alla sua porta. Oppure era lei ad andare a cercarli. Vagava per le strade malfamate, parlava con le persone che ancora potevano essere salvate, che meritavano di essere salvate. A volte andava bene, a volte veniva mandata al diavolo.
Ad ogni modo, era la miglior assistente sociale che Sara avesse mai conosciuto e anche Marco dovette riconoscerlo. Claudia era precisa, attenta, empatica e soprattutto non si soffermava sul fare il proprio lavoro, andava oltre, faceva molto di più. Il che la rendeva speciale.
Qualcuno non doveva pensarla così, quel qualcuno aveva deciso di aggredirla e infliggerle la più temibile delle ferite: la paura.



Angolo autrice
Ciao a tutti, ecco il quarto capitolo della storia.  Scusate per il ritardo! Spero che finora il tutto vi stia piacendo e incuriosendo, nel caso abbiate suggerimenti o commenti da muovere, lasciatemi un commento, per me è importante conoscere l'opinione dei lettori. 
Se volete, potete inoltre seguirmi sul mio blog personale, dedicato alla scrittura e a ciò che spero un giorno di poter pubblicare. 
http://trenodicarta.it/

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 5. Qualcuno ti segue ***


5. Qualcuno ti segue

Fece il suo ingresso nello studio come se nulla fosse. Se per strada non aveva sentito lo sguardo dei passanti su di sé, lì lo percepì chiaro e tondo. Sentì tutte quelle occhiate incuriosite premerle addosso, pungerla e ferirla. 
In sala d'attesa, tutti parevano non notare altro che il suo viso. Pazienti, colleghi e infine Sara, che appena la vide, dal fondo del corridoio, lo attraversò in tutta fretta.

«Tesoro, cosa fai qui?

Preoccupata le si avvicinò, prendendola sottobraccio e tirandola verso il proprio studio.

«Ho bisogno di prendere le mie cose. So che mi hai dato una settimana di pausa ma non so cosa fare a casa, ho bisogno di fare qualcosa, devo prendere i documenti di Alice e lavorare.»

Sara annuì pian piano.

«Vai pure, prendi ciò che ti serve.»

Si sorrisero a vicenda e Claudia quasi si precipitò fuori, verso il proprio studio.

«Cla, aspetta.» Il tono di Sara si fece preoccupato, cosa che a Claudia non piacque, così come non le piacque ciò che udì in seguito. «Ne stai parlando con qualcuno?»

Un terapeuta.
Subito dopo essere stata dimessa, Sara le aveva fornito il nome di un collega, consigliandole di andarvi il prima possibile. Sosteneva che potesse essere utile. Certo che lo sosteneva, lei era una psicoterapeuta.

«Ne possiamo parlare un'altra volta?»

«Va bene.» Sospirò arrendendosi l'amica, lasciandola libera di andare.

Claudia ne approfittò immediatamente, uscendo da lì per recarsi nel suo studio.
Era rimasto tutto come al solito lì dentro. C'erano ancora i documenti di Alice sulla scrivania, quelli che aveva letto e riletto tutto il giorno, quel giorno in cui era stata aggredita. Li afferrò con furia, come se fosse di fretta, eppure non doveva andare da nessuna parte.
Uscì veloce.

«Dottoressa Barbieri.»

Marco la richiamò non appena si incrociarono in corridoio.
Lei avrebbe voluto fingere di non averlo sentito, prendere e andarsene, ma non poteva. Si voltò lentamente.

«Salve.»

Si chiamavano per cognome, si davano del lei. Erano informali, lui lo era con tutti, come se ci tenesse a sottolineare quanto fosse diverso dal resto dello staff, superiore a ciascuno di loro.

«Volevo dirle che può tornare a lavoro quando vuole. Si prenda tutto il tempo di cui ha bisogno.» Si schiarì la voce. «Se ha bisogno di qualcosa mi contatti.»

Era la prima volta che Marco mostrava un minimo di contatto umano. Lei annuì.

«La ringrazio.»

L'uomo abbassò gli occhi sui fogli che lei teneva tra le mani, ma non disse nulla.
Proprio come Sara, si dimostrò comprensivo e la lasciò andare senza aggiungere altro.

***

Trovò meno traffico rispetto all'andata.
Era ormai a metà strada, quando notò un particolare che la inquietò. Avvenne tutto casualmente.
Un camion le stava davanti nella corsia di destra. Claudia detestava la lentezza di quei veicoli e soprattutto, non desiderava altro che arrivare a casa il prima possibile. Controllò lo specchietto retrovisore, scalò la marcia, mise la freccia e si spostò nella corsia di sinistra. Accelerò con foga e solo quando ebbe superato il camion rientrò nella corsia di destra.
La macchina che poco prima si trovava dietro di lei, fece altrettanto. Non fu tanto quello a sconvolgere Claudia, quanto il fatto che quella macchina le era familiare. Era una Citroen grigio metallizzato. Daniel ne aveva una identica.
Sara avrebbe parlato di paranoia, le avrebbe detto che nel suo caso sarebbe stato del tutto normale immaginare cose che non esistevano. Le avrebbe detto con fare razionale che le Citroen erano in possesso di tutti, non solo del suo ex. Claudia però era certa che fosse Daniel a guidarla, la stava inseguendo. Era talmente stupido da starle vicino, non aveva lasciato neanche una macchina di distanza. No, perché il suo obiettivo non era nascondersi, ma mostrarsi. Voleva farle sapere di esserci, di sapere dove fosse, di poterla raggiungere sempre, anche alla luce del sole.
Claudia strinse le mani sul volante.

«Vediamo come te la cavi, pezzo di merda.» Sussurrò, come se il suo inseguitore potesse sentirla. 

Di colpo, messe in atto la sua sfida: premette con forza il piede sull'acceleratore, spostandosi sulla corsia di sinistra senza neanche mettere la freccia, voleva coglierlo all'improvviso. Inizialmente la Citroen non si mosse, la seguì solo in seguito, imitando il suo sorpasso e accelerando a sua volta.
Claudia non tolse il piede dall'acceleratore. Ora che aveva la conferma che le sue non fossero solo paranoie, doveva seminarlo. Mancavano ancora tre uscite. Decise di anticipare i tempi. Ritornò sulla corsia di destra e sorpassò la prima uscita. Poi, quando vide la seconda avvicinarsi, finse di superarla e all'ultimo, accertandosi prima che nessuno stesse già uscendo, taglio la linea tratteggiata e imboccò l'uscita anticipata.
Daniel, per quanto preso contropiede, fece in tempo a seguirla, seppur a una velocità così elevata da rischiare lo sbandamento in curva.
Claudia batté una mano sul volante, irritata per non essere riuscita a seminarlo. Perlomeno ora era certa che qualcuno la stesse inseguendo. A questo proposito, l'inseguitore, avendo ormai compreso di essersi fatto notare, si avvicinò a lei, standole a pochi centimetri di distanza. Sembrava volesse provocarla, fregandosene di poter essere identificato.
Claudia strinse gli occhi, spostando lo sguardo dalla strada allo specchietto retrovisore e lo vide.
La felpa nera.
Forse era solo una coincidenza, o forse quella era la stessa felpa di cui parlava Sergio. Claudia non riusciva a vedergli il volto, poiché in parte coperto dalla visiera di un cappellino.
Pensandoci bene, a lei a cosa serviva riconoscerlo? Era certa fosse Daniel.
Era la sua auto, la sua felpa.
La ragazza allungò una mano verso il proprio telefono, tenendo d'occhio la strada. Non conosceva bene quelle zone, non era nemmeno certa di sapere dove si trovasse. Se avesse trovato il telefono, avrebbe potuto chiamare Pietro. Frugò con una mano nella borsa aperta, sistemata sul sedile accanto. Imprecò più e più volte, finché non lo trovò.
Rallentò, per poter cercare il numero di Pietro in rubrica senza correre rischi mentre guidava. Finalmente lo trovò e premette il tasto. Mise in vivavoce e lasciò il telefono sul sedile, mentre riportava anche la mano destra sul volante.

«Claudia?» Le rispose subito, con un tono preoccupato, come se già intuisse che qualcosa non andava.

«Lui è qui. Mi sta seguendo, è dietro... Ah!»

Terminò la frase con un'esclamazione di terrore, poiché in quel momento sentì un rumore forte, che la scosse. In realtà non era stato tanto il rumore a scuoterla, quanto la botta che ricevette. Daniel si era avvicinato talmente tanto alla sua auto da colpirla. Le venne addosso una volta, poi due. Erano colpi mirati, non troppo forti.

«Claudia che succede?» Pietro continuava a gridare a telefono, ponendole domande, chiedendole che stesse accadendo, dove fosse, perché. Claudia non riusciva a rispondere, continuava a guardare lo specchietto, osservando Daniel rallentare e poi di colpo accelerare, tamponandola appena. A un certo punto, riuscì a vedere il suo viso piegarsi in una smorfia divertita.

Quello stronzo si stava prendendo gioco di lei.

Inizialmente provò paura, le venne voglia di piangere, di gridare. Non riusciva a comprendere più nulla: sentiva solo i colpi, gli scossoni, il tono terrorizzato di Pietro a telefono. Poi, di colpo, una parte di lei, riprese il controllo. Non era più impaurita, o meglio, lo era eccome, ma soprattutto, era incazzata.
Si trovavano ormai su una strada cittadina in cui non parevano esserci altre automobili, a parte le loro. Claudia frenò di colpo. Daniel dovette fare altrettanto, altrimenti l'impatto tra le loro auto sarebbe stato troppo violento per entrambi.
La ragazza infilò la retromarcia e diede gas fino a quando non gli andò addosso. Fu un lieve tamponamento, simile a quelli che Daniel le aveva dato fino a quel momento. Claudia lo fece più per ribellione che per altro. Voleva fargli capire che non aveva paura, anche se in realtà ce l'aveva. Lo vide smettere di sorridere, le sue labbra erano piegate in una smorfia neutra, non pareva né arrabbiato né altro, semplicemente confuso. Non se l'aspettava.
Claudia avrebbe voluto vedere il resto del suo viso, ma non ci riusciva. Era certa che però lui la stesse guardando, da sotto il capellino rosso. Rimase lì a fissarlo per qualche istante. Ciò che aveva fatto non aveva senso, eppure la fece stare meglio. Infilò la prima e ripartì. Era certa che lui avrebbe ripreso l'inseguimento, ma non accadde. La Citroen rimase in mobile, con una lieve ammaccatura sul davanti.

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3865243