Anno del giudizio 14-41 di G RAFFA uwetta (/viewuser.php?uid=90941)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ascesa agli inferi ***
Capitolo 2: *** Apologia di una guerra ***
Capitolo 3: *** Nel ventre della balena ***
Capitolo 4: *** Cavallo in (latitudine Nord) 14 e (longitudine Est) 41: scacco matto ***
Capitolo 1 *** Ascesa agli inferi ***
Anno
del giudizio 14-41
L’unico
vero errore è quello da cui non impariamo nulla. (John
Powell)
Ascesa
agli inferi
Un
filo di fumo nero si ergeva solitario fino a fendere le spesse nuvole
come una spada. Cadeva una pioggia fitta, pesante, che colorava di
rosso la poca vegetazione. Da una fenditura tra la roccia,
sgusciò
fuori un grosso scarafaggio. Dopo avere indugiato sulle zampe,
sparì
tra l’erba rinsecchita.
Poco
più a nord, una strada si inerpicava tra le colline aride
fino a
interrompersi sul ciglio di un gigantesco cratere, un tempo chiamato
Bacino di Groom.
«Ci
siamo,» esclamò Gordon spegnendo il motore
alimentato ad acqua.
«Tiriamo fuori il materiale e prepariamo il campo alla
svelta.
Aiutami Robert, voglio il Radieshon-ijido
immediatamente funzionante,» disse rivolto a un uomo alto e
tarchiato.
«Sei
già stato qui?» chiese curioso Robert mentre con
perizia univa dei
sottili tubi in acciaio incastrandoli tra loro in modo da formare una
griglia pentagonale. Dopo averne preparate sette le porse a Gordon
che le fissò a dei gambi flessibili installati su una
piattaforma in
marmo sintetico.
«Sono
nato da queste parti,» spiegò, «e da
piccolo ci venivo spesso a
giocare. Poi, dopo la Quarantesima Esplosione, tutto è
cambiato. Da
allora, il livello delle radiazioni è diventato
insostenibile.»
Nell’aria si diffuse un leggero ronzio e i sette pentagoni
presero
a oscillare in ogni direzione. Quando si avvertì chiaramente
il
primo scricchiolio, i cinque esploratori si rifugiarono sotto la
tenda di un materiale altamente isolante contro le piogge acide che
colpivano la zona.
«Perfetto,
riposatevi perché domani all’alba scendiamo di
sotto.»
Il
nuovo giorno arrivò annunciato dal rollio di assestamento
della
terra che fece cadere vari contenitori di ferro accatastati in un
angolo. La pioggia acida aveva ceduto il posto alla nebbia e
l’aria
irrespirabile si era incendiata di rosso. Sembrava di essere finiti
dentro una tormenta di sabbia.
«Assicurate
la tenda al suolo e lasciate qui tutto ciò che non serve per
la
spedizione. Compresa la tua arma, Sebastian. Sarà anche una
vecchia
miniera di carbone, ma non voglio correre il rischio di saltare per
aria,» disse cupo Gordon al più anziano del gruppo.
«Certamente,
capo. Poi non lamentarti quando ti troverai difronte a uno di quei
mostri che popolano questa zona e non avrai modo di
difenderti,» lo
derise. Gordon sorrise sprezzante.
«In
questo caso, ritengo sarà più utile
questo!» E sfoderò un
coltello seghettato dalla lama scintillante. «Gentile
concessione di
mio nonno, che lo trafugò a un soldato mummificato sepolto
in una
galleria più a ovest.»
«Smettetela,
o con tutto questo testosterone sparato per aria, ogni femmina da qui
a Vegas Ohuru
fiuterà la vostra scia.»
Da
dietro il furgone, spuntò Adelhaide, una bassa ragazza dagli
sgargianti capelli a spazzola. Le sue forme rotonde erano strizzate
dentro la tuta sintetica di un imbarazzante colore giallo.
«Forza,
ragazzi, zaini in spalla. Voglio arrivare alla cascata prima che cali
il buio.»
«Perché?»
chiese Robert mentre si sistemava il carico.
«Lì
dovrebbe esserci una struttura ancora integra, ed è
l’ideale per
passarci la notte. Il nostro principale obiettivo è
raggiungere
un’area isolata da settantasette metri cubi di cemento
armato.
Inoltre, su uno dei muri del perimetro, le radiazioni hanno
letteralmente stampato la mappa integrale della base militare. Senza
quella sarebbe impossibile muoversi nel dedalo dei suoi
corridoi.»
Impressionato, Robert fischiò.
«Scusa,
ma come facciamo ad accedere? Se usiamo un qualsiasi tipo di
detonatore saltiamo tutti in aria,» si informò
mentre si grattava
sovrappensiero la visiera traslucida.
«Se
te lo dicessi poi dovrei ucciderti.» Adelhaide lo
guardò seria,
fissando gli occhi chiari in quelli più scuri
dell’uomo.
«Okay,
okay. Sei una tipa tosta. Ora, diamoci una mossa,» disse
Gordon
mettendo le mani sulle spalle della ragazza e spingendola fuori.
«Philipe, se non ti decidi ti lasciamo qui!»
urlò dietro a un
ragazzo chino che rovistava tra la terra. Questo mise fine alla
discussione.
In
fila indiana, costeggiarono il precipizio per mezzo miglio, scendendo
verso il basso e facendo attenzione a non sdrucciolare di sotto. Man
mano si allontanavano dalla superficie, l’ossigeno si faceva
più
rarefatto e le radiazioni pungevano come spilli. Le tute indossate
mantenevano stabile la temperatura corporea e li isolavano da quelle
potenzialmente mortali. Il casco semitrasparente assorbiva le
particelle acquose come una spugna e un filtro, posto davanti alla
bocca, estrapolava l’ossigeno.
Rimasero
in silenzio finché, dopo avere vagato per chilometri dentro
e fuori
i vecchi tunnel scavati per il carbone, si trovarono difronte a una
porta in spesso acciaio, accartocciata in un angolo. Su di essa era
ancora visibile il cartello di divieto d’accesso
all’Area 51.
A
lato, seguendo la striscia di licheni viola, dopo una curva a gomito,
il ruggito della Cascata Rachel li investì con i suoi colori
pastello. Sembrava non avere inizio e, se si aveva abbastanza fegato
da sporgersi oltre il bordo, era evidente che non avesse nemmeno una
fine, perdendosi fino giù nel cuore della Terra. Robert
scioccato,
si avvicinò tenendo davanti a sé la torcia in
resina fossile.
«Stai
atten...» Adelhaide non finì la frase che la
sostanza oleosa, di
cui era composta la cascata, prese fuoco. «Accidenti a
te!»
esclamò, saltando di lato per evitare una fiammata.
«Ritiriamoci dietro quel masso, prima di finire tutti quanti
arrosto. L’unico varco per raggiungere la struttura
è lì,»
indicò un sentiero che si perdeva dietro il flusso
d’acqua.
«Ehi!
Che diavoleria è questa? L’acqua non dovrebbe
trasformarsi in un
Ire oku thrower,»
esclamò sgomento Sebastian mentre sbatteva le mani sulla
gamba per
spegnere un principio di incendio.
«Anni
fa ho elaborato una teoria,» si intromise Gordon.
«Sotto il suolo
dove abbiamo lasciato la tenda, passa la vecchia
conduttura degli scarichi che alimentava la base. Visto
il flusso, è ancora operativa ma, lungo il suo cammino
attraversa
aree scoperte particolarmente radioattive. Credo sia
l’accumulo
delle scorie che la rende infiammabile e le dona il caratteristico
colore iridato.»
«Tutto
questo è emozionante, ma come facciamo a superare
l’ostacolo?»
chiese spazientito Robert.
«Oh,
è semplice. Ti buttiamo nel fuoco, magari,
bruciando, la tua
massa cerebrale migliora,» rispose acida Adelhaide mentre
estraeva
dallo zaino quello che parve un sasso viola. Con circospezione, prese
la mira e lo lanciò al centro del flusso arroventato. In men
che non
si dica le fiamme si estinsero. «Ecco fatto. Aspettiamo
ancora un
attimo, nel caso sia rimasto qualche focolaio, e poi infiliamoci nel
tunnel. Abbiamo ancora mezz’ora di cammino e la notte sta
calando.»
Come
evocato, un vento gelido iniziò a soffiare dal baratro
portando con
sé i misteri della notte. Il sottosuolo si
risvegliò attirato dagli
odori familiari che provenivano dal cielo aperto. Fruscii, mugolii,
stridii fecero accapponare la pelle ai cinque esploratori.
«Per
di qua,» disse con urgenza Adelhaide infilandosi tra due
arbusti
secchi. Una volta sbucati dall’ennesimo tunnel, piombarono in
uno
spiazzo colmo di detriti. Incastrata nel cemento, una piccola porta
aveva resistito alla violenza dei bombardamenti che si erano
concentrati in quell’area.
«Non
c’è via di uscita, Ade, spero tu sappia cosa stai
facendo,»
bofonchiò Gordon estraendo il pugnale. Senza guardare in
faccia la
ragazza si mise in posizione di difesa, gli occhi fissi da
dove erano arrivati. Sebastian lo affiancò.
«Sbrigati
ad aprire,» l’incitò l’uomo,
sussultando al ruggito
affamato che si propagò intorno
a loro.
«Quei cosi
sono dannatamente vicini.»
«Sono
tre cicli
che studio questa porta,» lo rimbeccò acida la
ragazza, «mi basta
trovare il pannello che l’alimentava e il gioco è
fatto.» China a
pochi passi dalla porta, Adelhaide, aiutata da Robert,
raschiò il
muro fino a disegnare un contorno quadrato. Entrambi, facendo leva
con un cacciavite, spostarono il rivestimento sotto il quale si
rivelò un mosaico di fili colorati di giallo, verde, blu e
rosso.
Lesta agguantò il coltello a scatto appeso al collo e recise
l’unico
filo multicolore nascosto in fondo a quel groviglio. Con
uno
schianto polveroso, la porta tremò appena sui cardini
arrugginiti.
«Bene,» disse soddisfatta, «il resto lo
dovrà fare la forza
bruta.» E ammiccò ai muscoli che pulsavano sotto
la tuta grigia di
Robert.
Troppo
occupati a smuovere l’ostacolo, nessuno di loro si accorse
che il
più giovane si era infilato in un pertugio finché
un urlo disumano
non si ripercosse tra i tunnel.
«Philipe.»
sussurrò agghiacciato Gordon muovendo dei passi verso
destra.
«Sbrigatevi ad aprire quella dannata porta e tenetevi pronti
al
peggio.»
In
quell’istante, il corpo martoriato del giovane
scivolò fuori dalla
fenditura e Gordon si apprestò a soccorrerlo.
L’uomo non fece in
tempo a inginocchiarsi accanto a lui che due braccia scheletriche
arpionarono le gambe di Philipe. «Aiutami,»
balbettò. Il suo volto
era talmente cinereo che, anche attraverso la visiera sporca di
terra, spiccava il rossore dei brufoli. In un attimo sparì
inghiottito dal buio.
Dopo
un secondo di smarrimento, Gordon raggiunse gli altri. Al suo posto
apparve una creatura orrenda. Era completamente scuoiata, con vene e
muscoli che palpitavano a ogni movimento. Aveva due fosse nere al
posto degli occhi e una bocca larga munita di denti affilati
grondanti schiuma. Intorno ad essa aleggiava del fumo nero che
puzzava di carne bruciata. Se ne stava acquattata sugli arti
frementi, muovendo la testa tozza come quella di un gufo,
osservandoli.
«Entrate,»
bisbigliò ansante Sebastian. «Evitate movimenti
bruschi.» Gli
altri due non se lo fecero ripetere. Gordon, troppo vicino alla
creatura, si mosse piano, gli occhi fissi su di lei, il grosso
coltello saldo tra le dita. «Ci sei quasi, un altro passo e
sei alla
porta,» lo istruì Sebastian.
Da
sopra le loro teste, un involucro scuro volò in un
cantuccio,
lontano dalla porta. La creatura mosse la testa in direzione
dell’oggetto e ruggì forte balzandoci sopra.
Quello fu il segnale
che permise a Gordon di sgattaiolare incolume oltre l’uscio.
Una
volta dentro, chiusero e sprangarono la porta usando alcune delle
scansie che fiancheggiavano le pareti della stanza. Pannelli spenti e
scaffali alti fino al soffitto dividevano l’ambiente in tre
piccoli
vani. Scartoffie e polvere erano disseminati un po’ ovunque.
A
parte la sensazione di abbandono che aleggiava, sembrava che la
guerra non fosse mai arrivata sin lì.
«Per
ora non possiamo fare altro. Trovatevi un giaciglio e cercate di
dormire. Due consigli: non togliete il casco e non aprite quella
porta fino a nuovo ordine!» intimò Gordon prima di
dirigersi verso
un basso mobile senza gambe.
«Che
posto è questo?» chiese Robert ancora atterrito,
mentre si sedeva
in terra con la schiena contro la parete.
«Il
centro operativo, il luogo da cui dipendeva il rifornimento di
energia per l’intera base.» Adelhaide
entrò nel vano più lontano
e rovistò nei cassetti di una scrivania. Tolse dei grossi tomi
ingialliti da uno scaffale, aprì e chiuse dei quadri di
comando
finché non si fermò difronte a una sottile lastra
nera. «Ecco dove
ti avevano nascosto,» bisbigliò soddisfatta.
Afferrò di nuovo il
cacciavite, che portava sempre con sé, e colpì
con forza l’ardesia.
Sotto, fece capolino una pulsantiera dove, in un angolo, tre spie
rosse tremavano come la debole fiamma di una candela.
«Eureka!»
esclamò. «Ragazzi fate buoni sogni, i
miei di certo saranno
meravigliosi.»
In
quel momento,
uno
schianto
fece tremare la
porta mentre
i
calcinacci si staccavano dagli infissi; dei latrati fecero loro
accapponare la pelle.
«Siamo
al sicuro,» mormorò Gordon mentre estraeva il
coltello. «Ma, per
evitare spiacevoli sorprese, è meglio se ci mettiamo tutti
lì
dentro.» Col corpo piegato in avanti, le braccia spalancate e
gli
occhi fissi sulla porta, si appostò davanti al primo vano.
«Entrate,» li incitò,
«è l’unico con una porta munita di
serratura. Per quel che ne sappiamo, nonostante siano molto forti,
non sono in grado di usare una maniglia,» sorrise ferino. I
tonfi
andarono avanti per tutta la notte finché, con
l’apprestarsi
dell’alba, le radiazioni ricominciarono a diventare
insopportabili.
Da
tempo l’uomo aveva abbandonato le zone devastate dalla Terza
Guerra
Mondiale, diventate ormai invivibili. Così la Natura aveva
preso
possesso delle loro macerie. Dalle sue viscere aveva generato nuove
specie: ibridi in grado di resistere al gelo notturno ma incapaci di
sopportare il picco delle radiazioni causato dal calore del sole.
Creature che, all’approssimarsi dell’alba, si
ritiravano nelle
loro tane a centinaia di metri sotto la superficie terrestre. Per
cibarsi macinavano chilometri su chilometri, fino a spingersi ai
margini delle cinte degli agglomerati umani. Nessuno, prima di
allora, aveva conosciuto il loro vero aspetto perché,
chiunque vi si
fosse imbattuto, non era vissuto abbastanza per raccontarlo. Visto la
loro natura erano stati battezzati ironicamente Abali Abali.
La
mattina dopo, i quattro esploratori uscirono dalla stanza con
cautela, preoccupati di trovarsi davanti qualcuna di quelle bestie
acquattate nell’ombra. Erano scesi parecchio nel sottosuolo,
mantenendosi a breve distanza dall’epicentro della Prima
Esplosione, il più umanamente possibile vicino alle sue
radiazioni.
«Mi
sembra che fin qui sia stato tutto fin troppo facile, escludendo
Philipe. Pace all’anima sua,» bisbigliò
Robert mentre guardava
trasognato i graffi profondi sulla porta e sui muri circostanti.
«Beh,
non la chiamerei fortuna. Sono settimane che dispongo esche
alimentari per spostare il loro territorio di caccia. Secondo le
stime, in quest’area, ci sono quasi un centinaio di
esemplari, un
po’ troppi per attraversare la Route 375 e sperare di restare
vivi,» rivelò sbrigativamente Adelhaide.
«Credo sia stato il
girovagare avventato di Philipe a guidarli fino a noi.»
Robert alzò
le mani in segno di resa.
«È
meglio avviarci,» li interruppe Gordon. «Secondo i
miei calcoli,
dobbiamo tornare indietro, prendere il quinto cunicolo a destra e
percorrerlo fino in fondo, dove troveremo ad attenderci
l’ultimo
ostacolo. E qui entrerai in gioco tu, Sebastian.»
«Già,»
disse ergendosi in tutta la sua altezza. «Vedrete un esperto
di
esplosivi all’opera.»
«Scusa,
ma non si era detto che erano vietate le deflagrazioni?»
chiese
preoccupato Robert accodandosi al gruppo.
«In
realtà si tratta più di disinnescare che far
esplodere,» riprese
Gordon. «Per preservare ciò che nascondevano qui,
uno sparuto
gruppo di militari e scienziati, dopo avere fatto evacuare
l’intera
base, si sono barricati all’interno. Non abbiamo idea se
l’intera
struttura sia rimasta integra, dopo la guerra, però sappiamo
per
certo che ciò per cui siamo qui è ancora
intatto.»
«E
come è…»
«Quante
domante, Robert!» sbottò infastidita Adelhaide.
«Sei una palla al
piede! Se avessi letto il fascicolo che vi ho procurato prima di
partire, non saresti così mortalmente noioso. Soprattutto
avresti
evitato di fare la figura dello zotico. Comunque, riassumendo: il
generale Kippler, il valoroso tizio di cui parlava poc’anzi
Gordon,
è un mio lontano parente. Intuendo l’esito della
guerra che stava
per scatenarsi, spedì moglie e figli, e l’intera
documentazione in
suo possesso, in Nigeria. Di tutto il faldone, a noi interessa solo
quello che riguarda il bunker numero 14. È là che
siamo diretti.»
Note
dell’autrice: questa storia partecipa al
contest ‘My
favourite things’ indetto da fiore di girasole sul forum.
Questa
storia partecipa al contest ‘I miei ultimi undici
libri’ indetto
da Claire roxy sul forum con il pacchetto ‘Io sono
leggenda’:
Genere:
Sovrannaturale (vampiri).
Citazione:
‘Poi un giorno il cane non si presentò’.
Ambientazione:
un America post-apocalittica.
Obbligo:
finale negativo.
La
giudice chiede di scrivere una storia basandoci obbligatoriamente su
due dei prompt elencati nel pacchetto, un punto in più a
ogni prompt
aggiunto.
Ulteriori
note: il numero nel titolo non è
lì a caso. Infatti, il 14
è il mio numero preferito e il 41 è il suo
opposto. Inoltre, un
giorno, durante la stesura della storia, ferma in un parcheggio
commerciale, ho notato che il posto auto era, appunto, 1441.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Disclaimer:
l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
diritto.
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Capitolo 2 *** Apologia di una guerra ***
Anno
del giudizio 14-41
L’unico
vero errore è quello da cui non impariamo nulla. ( John
Powell )
Apologia
di una guerra
Non
fu facile raggiungere il loro obiettivo: la galleria imboccata, oltre
ad avere una forte pendenza, era invasa dai detriti. Dovettero anche
aggirare un paio di mine anti-uomo, allungando ulteriormente il
percorso. Poi, finalmente davanti a loro, quasi a ridosso dello
strapiombo, con la cascata iridescente a fare da cornice, trovarono
la porta blindata.
«Sebastian,
mettiti subito al lavoro. Ho un bruttissimo presentimento,»
disse
preoccupato Gordon. L’uomo non si fece pregare e, dopo avere
tolto
dallo zaino un visore, alimentato dalle stesse radiazioni che li
circondavano, prese a consultarlo.
Adelhaide
si avvicinò al bordo e, voltando la schiena alla cascata,
strisciò
lungo la lingua di terra a ridosso della parete in cemento. Fatto un
centinaio di metri, la striscia si allargò abbastanza da
permettere
di avere una buona visuale
del
muro.
«Ma
che fine ha fatto l’unità operativa rimasta a
custodia di questa
area?» chiese Robert che, nel frattempo l’aveva
raggiunta.
«Secondo
i dati in nostro possesso erano centoventitré, ma di loro
non rimase
vivo nessuno. Dai rapporti sappiamo che, una volta usciti in
perlustrazione, non fecero più ritorno.» La
ragazza estrasse da una
tasca dello zaino uno scanner e lo passò sulla parete.
«Cosa
stai facendo?» domandò perplesso.
«Riproduco
la mappa. Guarda tu stesso,» rispose spiccia, troppo
impegnata per
aggiungere altro. Robert alzò gli occhi e, parzialmente
illuminata
dalla luce incorporata nella sua visiera, apparve la pianta
dell’intera base.
«Come
è possibile?» chiese.
«Come
sia successo non
saprei
spiegarlo. Posso solo dirti che, come
ben sai, Kippler
riuscì
a tenersi in contatto con il
mondo esterno.
Un
video,
filmato da lui
stesso,
riporta le
immagini sbiadite di questa parete dopo di ché il nulla. Quello
fu l’ultimo
rapporto
che ricevettero
dalla
base. Comunque, detto tra noi, furono
enormemente fortunati a restare
vivi. Guarda il cratere alle tue spalle: a quei tempi era una
costruzione che ospitava
migliaia di unità.»
Staccò in fretta lo scanner dal muro e lo ripose nello
zaino.
«Fatto! Ora che ho finito, è meglio raggiungere
gli altri, e anche
piuttosto in fretta.»
Girando
su se stesso, Robert passò il fascio di luce nel punto in
cui
l’intonaco era sdrucciolato via.
«Caspita!»
esclamò. «Questa sì che è
bella! Aspetta! Devi proprio vedere
questa cosa,» disse a Adelhaide che già si era
persa nell’oscurità.
Il muro gli regalò la visione parziale del planisfero
politico
terrestre suddiviso esattamente come nei tempi attuali, con
l’Africa
che dominava su tutte le restanti nazioni. Ma ciò che lo
lasciò a
bocca aperta fu constatare che, nelle zone in cui la guerra aveva
fatto più danni – per citarne alcune: Stati Uniti,
Italia, Cina e
Russia – l’intonaco era sparito lasciando un vuoto
troppo crudo
per essere vero. Adelhaide rise davanti alla sua espressione
sbigottita.
«Affascinante,
vero? Tenendo conto che è lì appesa da quando la
base è stata
costruita. Anzi, ti dirò di più: fu la
volontà di mantenere celato
il segreto nell’Area 51 che scatenò tutta questa
follia.»
Correva
l’anno 1954 quando lo studioso Angelo Ferretti Torricelli,
dalla
Specola Astronomica Cidnea di Brescia,
osservò uno strano fenomeno avvenuto a pochi chilometri dal
satellite terrestre.
Sul
suo annuario pubblicò: “Curioso
come l’uomo alzi lo
sguardo verso il cielo in cerca
di conforto senza
conoscere i misteri ivi celati. Eppure, quasi per caso, ho appreso
che la magia del nostro satellite può essere offuscata
dall’ignoto,
da qualcosa di così incomprensibile da risultare, suo
malgrado,
affascinante[...]
Un “ombra”
veleggiante nella debole orbita lunare si è frammentata,
colpita a
tradimento da una meteore. L’impatto ha illuminato il
satellite
come un albero di Natale e scagliato lontano i frammenti
incandescenti, alcuni dei quali si stanno dirigendo verso il nostro
pianeta[...]
Questa notte tutti con il
naso verso il cielo: e buon desiderio a tutti.”
I
giornali di tutto il mondo riportarono la sconcertante storia di una
donna, Ann Elizabeth Hodges, che, il 30 novembre del 1954 alle ore
6:46 p.m., veniva colpita da un frammento di una di quelle meteorite
citate nell’articolo di Torricelli.
La
divulgazione di questa notizia servì a insabbiare
velocemente
l’ammaraggio in varie zone del pianeta di materiale di
origine
aliena, dando inizio a una delle più controverse fasi della
Guerra
Fredda tra Russia e Stati Uniti.
A
metà degli anni ‘60, dei contadini Igbo scoprirono
una caverna con
all’interno una capsula aliena perfettamente conservata. Il
tenente
colonnello Chukwuemwka Odumegwu Ojukwu, capita l’importanza
del
ritrovamento, la vendette sottobanco al migliore offerente. Con il
ricavato, armò le sue truppe e, dopo un colpo di stato,
diede
origine alla Repubblica del Biafra.
Il
nuovo governo ebbe vita breve, e il reintegro delle terre alla
Nigeria portò alla nazione inaspettati benefici a lungo
termine.
Alla
fine degli anni ‘60, gli uomini sbarcano sulla Luna.
Ciò che
l’umanità ignorava era cosa ci andarono veramente
a fare, sul
satellite.
Dalle
memorie di un appassionato di ufologia del tempo: “Nonostante
tutto, il mondo vide e si entusiasmò
per lo
sbarco. Il vero motivo
dell’allunaggio però
non aveva nulla a che vedere con la conquista del satellite. Nel
novembre del 1954 un oggetto volante non identificato era esploso a
una distanza
dalla luna
che, in termini terrestri, potremmo
definire di pochi chilometri, spargendo rottami sulla superficie
lunare.
Alcuni di
questi
avevano
raggiunto
la Terra,
permettendo
agli
scienziati di affermare con assoluta certezza che
l’esplosione a
cui avevano assistito attraverso i loro telescopi e sistemi di
rilevazione era stata causata veramente da un’astronave aliena.
Così, usando come paravento la Guerra Fredda, le
più alte cariche
politiche e militari del pianeta crearono una coalizione atta
all’apprendimento della tecnologia aliena. Non ci
è dato sapere di
preciso cosa hanno trovato – fuorviati sapientemente da molte
leggende metropolitane – sta di fatto che ci fu
un’impennata
nella crescita economico-militare
della coalizione.”
L’11
settembre del 2001, i popoli arabi, estromessi dai segreti della
coalizione, diedero il via a una serie di rappresaglie che
inasprirono i rapporti tra gli stati del pianeta.
La
Cina e la Corea approfittarono della situazione e si impossessarono
dei cimeli alieni sepolti nella profondità delle foreste dei
Paesi
che negli anni avevano assoggettato.
Intorno
all’anno 2025, la Cina sganciò, su quella che
tutto il mondo
conosceva come Area 51, il primo ordigno prodotto con la tecnologia
aliena, scatenando la Terza Guerra Mondiale.
«Buffo
come le grandi potenze dell’epoca definirono il “resto
del mondo”:
popoli sottosviluppati,» disse con spregio Adelhaide.
«In realtà,
mentre i
cosiddetti
paesi
civilizzati
intraprendevano una spietata corsa agli armamenti, la Nigeria, in
grande segreto, si specializzò in prodotti di difesa
utilizzando la
tecnologia aliena che Ojukwu non aveva venduto. Ogni oggetto che
utilizziamo oggi viene prodotto e commercializzato dal “disprezzato”
popolo del Biafra. È grazie agli Igbo se
l’umanità non si è
ancora estinta.»
«Ma
allora, cosa ci facciamo qua?» chiese interdetto Robert,
allargando
le braccia. «Tutto quello di cui abbiamo bisogno è
risanare il
pianeta da queste stramaledette radiazioni. Non procurarci altri
guai.» Adelhaide lo guardò con tenerezza, come se
fosse stato un
bimbo a cui bisognava indicare la strada smarrita di casa.
«Perché
nel bunker 14 c’è racchiusa la panacea di tutti i
mali,» rispose
enigmatica. «Forza, torniamo indietro. Sebastian dovrebbe
avere
fatto, ormai.»
Un
secondo prima di sbucare nello spiazzo dove stavano gli altri due
uomini, avvertirono chiaramente i latrati degli Abali Abali.
«Accidenti,
questo non era previsto!» Adelhaide smozzicò le
parole tra i denti
mentre estraeva dallo zaino un pugnale dalla lunga lama sottile.
«Cos’è successo?»
sbraitò, raggiungendo Gordon. «La notte
è
ancora lontana.»
«Non
ne sono certo,» ansimò preoccupato Sebastian,
ancora chino sul
pannello. «Ma credo che siano i guardiani di questo
luogo.»
«Impossibile!
Non sono senzienti,» rispose quasi aggressiva la ragazza.
«Eppure,
ti dico che è così,» insistette
l’uomo. «Ho annullato tutti i
sistemi di difesa, senza eccessiva difficoltà, a essere
sincero. Ma
quando ho iniziato a districare il sistema che tiene sigillata la
porta, abbiamo avvertito come una vibrazione sonora. Non vi ho
prestato molta attenzione, all’inizio, ma poi sono arrivate
le
prima urla amplificate dal tunnel e...» si interruppe
terrorizzato
quando una di quelle bestie con un salto atterrò a due passi
da lui.
Gordon, che era preparato, scattò nella sua direzione
affondando il
suo coltello direttamente nella gola dell’Abali, uccidendolo.
«Andate
alla porta,» balbetto Sebastian, con le mani affondate tra i
fili
colorati. «Non ho tempo di riprogrammare il
sistema,» continuò
sbrigativo. «Uno di noi deve rimanere qui per richiuderla,
altrimenti la Wepu Radieshon
non potrà entrare in funzione.»
«No!
No! No!» urlò Gordon, mentre Robert lo trascinava
via. Dietro di
loro la porta scattò e Adelhaide la spalancò
infilandosi dentro un
secondo prima che altri due esemplari di Abali piombassero dal
tunnel.
«Addio!,»
gridò Sebastian con gli occhi spiritati. Tra le mani teneva
un
cimelio: una bomba a mano usata nella guerra contro i Viet Cong.
«Ka
Chukwu chekwaa ndi Igbo!»
Davanti
agli occhi sgomenti dei tre esploratori la porta si sigillò,
facendoli piombare nel buio.
Note
dell’autrice: questa storia partecipa al
contest ‘My
favourite things’ indetto da fiore di girasole sul forum.
Questa
storia partecipa al contest ‘I miei ultimi undici
libri’ indetto
da Claire roxy sul forum con il pacchetto ‘Io sono
leggenda’:
Genere:
Sovrannaturale (vampiri).
Citazione:
‘Poi un giorno il cane non si presentò’.
Ambientazione:
un America post-apocalittica.
Obbligo:
finale negativo.
La
giudice chiede di scrivere una storia basandoci obbligatoriamente su
due dei prompt elencati nel pacchetto, un punto in più a
ogni prompt
aggiunto.
Ulteriori
note: il numero nel titolo non è
lì a caso. Infatti, il 14
è il mio numero preferito e il 41 è il suo
opposto. Inoltre, un
giorno, ferma in un parcheggio commerciale, ho notato che il posto
auto era, appunto, 1441.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Disclaimer:
l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
diritto.
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Capitolo 3 *** Nel ventre della balena ***
Anno
del giudizio 14-41
L’unico
vero errore è quello da cui non impariamo nulla. (John
Powell)
Nel
ventre della balena
Erano
chiusi al buio, in un luogo sconosciuto, colmi di orrore per la fine
del loro compagno e allo stesso tempo sollevati di essere ancora
vivi.
Il
terrore dilagava nelle loro vene rendendo i respiri affannosi mentre
il cuore rombava forsennato nelle loro orecchie.
«Toglietevi
la tuta,» gracchiò Adelhaide. «Sentite
il fruscio? La
decontaminazione è iniziata e sarebbe solo
d’intralcio.»
In
quel momento, una luce bianca sfavillò un paio di volte
prima di
assestarsi e aumentare d’intensità
finché fu impossibile tenere
gli occhi aperti. I tre esploratori si denudarono velocemente, i
volti rivolti verso le pareti di un freddo colore grigio chiaro. Dal
soffitto cominciò a cadere l’acqua trasformando la
stanza in una
grande doccia dal pavimento poroso. Infreddoliti e spauriti,
cercarono di coprirsi come potevano dal getto violento, trattenendo i
gemiti di dolore. Dopo svariati minuti, l’acqua
cessò di
fuoriuscire e venne sostituita da un’aria calda che sapeva di
stantio e ruggine. Il calore arrossò ulteriormente la pelle
e in più
punti aprì loro delle piccole ferite. Il getto
cessò e l’aumento
improvviso della pressione li costrinse a terra, dove si
rannicchiarono in posizione fetale. Si sentivano schiacciare da un
peso enorme, come se volesse spremere fuori da loro la vita stessa.
Il ronzio aumentò fino a diventare un rombo che scosse loro
le
viscere, lasciandoli tramortiti. Il ciclo si ripeté per tre
volte.
Lentamente,
Adelhaide si mosse stirando le membra intorpidite. Immediatamente, si
immobilizzò imprecando silenziosamente dal dolore. A fatica
si mise
seduta sul pavimento e, sbattendo le lunghe ciglia per mettere a
fuoco, diede uno sguardo intorno.
«Ma,
ma… tu non sei Robert!» disse scioccamente
all’uomo di colore
che la stava fissando imperturbabile. «E nemmeno
Gordon!» continuò
allarmata deglutendo a fatica.
«No,
non sono il Robert che ti aspettavi. Sono un funzionario
dell’impero
nigeriano e sono qui in veste ufficiale per prendere possesso della
zona. Se cerchi il tuo amico è lì,»
disse piatto indicando un
punto alle sue spalle. Adelhaide si voltò così in
fretta che ebbe
un capogiro e dovette piegarsi in avanti, nel tentativo di dominare
la nausea. Contro la parete c’era Gordon, il corpo
raggomitolato su
se stesso e un rivolo di sangue che si andava allargando sotto di lui
sporcando il pavimento niveo. Sgranò gli occhi orripilata.
«Se
può farti stare tranquilla, non l’ho ucciso
io,» si giustificò
alzando le mani in alto. «E, a dirla tutta, è
stato piuttosto
longevo, quindi nessuna perdita di grande rilevanza.»
«Bastardo,»
soffiò tra i denti la ragazza scagliandosi nella sua
direzione. Non
fece che due passi barcollanti prima di cadere a terra svenuta.
Quando
rinvenne era adagiata su un vecchio lettino da ospedale dalle ruote
malamente bloccate. Con cautela, poggiò i piedi sul
pavimento freddo
e si strinse nel camice verde che quell’uomo doveva averle
infilato
mentre era svenuta. La stanza in cui si trovava era poco illuminata,
piena di oggetti medici in disuso da moltissimi cicli. Lucine verdi e
rosse si susseguivano su un pannello grande quanto una parete e, sul
lato opposto, dietro una spaziosa vetrata, Robert – o come
diavolo
si chiamava – la osservava inespressivo. In alto a destra, un
foglio nero era incastrato nella cornice di legno.
A
passi lenti raggiunse la porta parzialmente nascosta da un paravento
in tessuto stinto. Provò a girare la maniglia ma questa non
cedette.
Presa dal panico, la scosse più volte senza ottenere nulla.
Così,
rinvigorita dalla furia che cresceva dentro di lei, raggiunse la
vetrata e picchiò con violenza i palmi aperti sul vetro.
«Fammi
uscire, brutto stronzo! Fammi uscire, razza di bastardo!» gli
urlò
contro, sempre più agitata. Un violento scossone
all’addome la
fece piegare in due e rigurgitare bile. Con uno scatto rabbioso si
ritrovò in posizione eretta ma un giramento la fece
appoggiare
malamente alla parete fredda. Con la fronte cercò un
momentaneo
refrigerio, mentre con il dorso della mano si ripuliva la bocca.
«Fammi uscire,» ripeté flebilmente.
Per
tutto il tempo, Robert era rimasto impassibile come una statua di
sale. La luce al neon investiva la sua pelle scura donandogli una
sfumatura violacea. Anche lui indossava un camice verde, che teneva
chiuso con i laccetti sul davanti. Senza emettere fiato, alzando un
sopracciglio con derisione, allungò una mano verso un punto
al di
fuori della sua visuale. Immediatamente nella stanza si diffuse un
fastidioso ronzio proveniente da una griglia incassata nel muro
lì a
fianco.
«Sei
incinta,» disse una voce metallica. La ragazza si
pietrificò,
osservando le labbra dell’uomo muoversi ma senza recepire
alcuna
parola. Impanicata, prese a scuotere la testa.
«È
impossibile! È assolutamente impossibile!» disse
flebilmente mentre
sosteneva il basso ventre con un braccio e stringeva il pugno sulla
bocca.
Robert
le indicò il foglio nero appeso al vetro. Adelhaide quasi lo
strappò
nella foga di capire cosa le stesse succedendo. Poi, con occhi
vitrei, rimirò l’ecografia del suo ventre che
mostrava la sagoma
grigia di un feto. Il suo cervello si spense e si accasciò a
terra
mentre il foglio planava leggero a pochi passi da lei.
«È
meglio che tu ti rivesta,» disse Robert buttandole malamente
addosso
dei vestiti che sapevano di muffa. «Mi sono messo in contatto
con
l’esterno e tra due ore saranno qui.»
«Cosa?»
chiese sbigottita alla schiena dell’uomo che non la
degnò di uno
sguardo mentre usciva dalla stanza. Adelhaide si affrettò a
rendersi
presentabile e, seppur ancora instabile sulle gambe, raggiunse
Robert. Lo trovò affaccendato davanti a un modello obsoleto
di
computer.
«Mi
devi stare a sentire! Non è possibile che io aspetti un
bambino,»
Adelhaide cercò di attirare la sua attenzione battendo
entrambi i
palmi sudati sul ripiano in formica della scrivania.
«Sì,
sì. Come dici tu,» la liquidò distratto
mentre digitava
concentrato sopra una tastiera. La ragazza sbuffò,
palesemente
contrariata.
«Accidenti,»
sibilò trattenendo un conato. Visto che con
quell’energumeno non
ottenne nella, frustrata girovagò a vuoto cercando di capire
come
potesse essere successo un evento simile, finché non si
ricordò
della propria missione. Trovò il suo zaino in terra fuori
dalla
porta della Wepu Radieshon, recuperò lo
scanner e seguì le
indicazioni per raggiungere il bunker 14.
Lungo
il tragitto, ogni ambiente che aveva incontrato era stato fatiscente,
vuoto, senza calore. Eppure si aveva la strana impressione che fosse
stato abbandonato da poco, come se le unità che ci
lavoravano
avessero staccato per la pausa pranzo. Non c’era confusione,
nemmeno un oggetto fuori posto, tutto era in ordine. Adelhaide
rabbrividì davanti a quel silenzio irreale. Gli unici rumori
che
avvertiva erano il battere furioso del proprio cuore e il fiato
accelerato da un’irrazionale paura.
Percorse
altri tre corridoi e superò almeno una quindicina di stanze
vuote
prima di arrivare a destinazione. Si aspettava di trovare un locale
ampio, con al centro una costruzione grigia in pietra, invece
l’ingresso era un’anonima porta lungo la parete. La
scritta rossa
‘bunker 14’, impressa su una lamiera di latta, era
l’unica nota
colorata.
«Vediamo
un po’ cosa si cela al di là di questo
muro,» disse al vuoto per
farsi coraggio. Come fece per toccare il pannello per disattivare la
serratura, Adelhaide si accasciò in terra urlando dal
dolore.
Sentiva le viscere bruciare, un formicolio lungo la pelle come se
mille bisce
dotate di spuntoni
la percorressero in lungo e in largo. Non riusciva a controllare gli
spasmi e, ben presto, si ritrovò a rigettare
sugli stivali succhi gastrici verdi e appiccicosi.
Quando
tutto finì, si tirò su a fatica, strisciando la
schiena
lungo il muro liscio. Rimase appoggiata alla parete per qualche
istante, gli occhi spalancati e terrorizzati fissi nel nulla. Sapeva
di donne che stavano male, che avevano crisi di vomito ma nessuna di
certo versava nelle sue stesse condizioni.
«Per
tutti gli dei conosciuti e non,» balbettò
sgomenta, «che
stregoneria è mai questa? Non ho nemmeno
l’utero!» Fece un
paio di grossi respiri cercando di riprendere il controllo del
proprio corpo. «Le risposte sono qui! Ne sono più
che certa.»
Spinta
da una nuova determinazione, aprì il pannello e prese dallo
zaino un
cartellino in plastica e lo strisciò in una fessura a lato.
Quando
una spia si illuminò di verde, digitò sulla
tastiera una sequenza
di numeri e lettere, scritti sulla placca in oro che portava appesa
al collo. Dopo un secondo si udì lo scatto della serratura.
Adelhaide
mise la mano tremante sulla maniglia, chiuse gli occhi e
ingoiò la
paura; varcò l’uscio con il cuore in procinto di
scoppiare.
Dentro,
il locale era straordinariamente caldo e luminoso. Le pareti
brillavano di un colore molto simile all’argento, eppure
tutta
quella luce, seppure molto intensa, non feriva gli occhi. Adelhaide
fece qualche passo verso il centro, dove una consolle emetteva strani
fruscii e svariate spie si illuminavano ad intermittenza.
Passò con
reverenza un dito sulla formica lucida finché
un’ombra attirò la
sua attenzione. Dietro una spessa lastra di vetro, stava sospeso in
aria, con dei cavi infilati nel cranio tozzo, spesse catene avvolte
intorno agli arti ancorate al muro, un Abali Abali
vivo,
grande quanto un elefante.
Adelhaide
cacciò un urlo e scattò all’indietro,
finendo rovinosamente a
terra. Scalciando con i piedi, strisciò fino a raggiungere
la parete
senza mai perdere di vista la grossa creatura.
L’Abali
mosse il capo di lato, osservando curioso la ragazza. Le orbite
infossate erano penetranti, antiche e incutevano un timore
reverenziale. Per quanto potesse sembrare illogico, era lo sguardo di
una creatura cosciente e senziente, dotata di una spiccata
intelligenza.
In
quell’istante, per tutto il corridoio riecheggiò
una sirena, le
luci si spensero e si attivarono quelle di emergenza. Adelhaide
sussultò presa alla sprovvista, si rialzò con
fatica e marciò
decisa verso la porta.
«Ade!
Ade!» la voce metallica di Robert sovrastò quella
dell’allarme.
«Torna immediatamente qui! È sorto un
problema.»
La
ragazza, mossa da un presagio, voltò il capo verso la
creatura.
L’Abali ricambiò lo sguardo con
un sorriso consapevole, le
orbite accese di pura malvagità. Aprì la bocca
deforme e sguainò i
denti davanti, arcuati verso l’interno come sciabole. Il suo
ruggito silenzioso fece tremare l’intera vetrata e il suo
corpo
provato.
Note
dell’autrice: questa storia partecipa al
contest ‘My
favourite things’ indetto da fiore di girasole sul forum.
Questa
storia partecipa al contest ‘I miei ultimi undici
libri’ indetto
da Claire roxy sul forum con il pacchetto ‘Io sono
leggenda’:
Genere:
Sovrannaturale (vampiri).
Citazione:
‘Poi un giorno il cane non si presentò’.
Ambientazione:
un America post-apocalittica.
Obbligo:
finale negativo.
La
giudice chiede di scrivere una storia basandoci obbligatoriamente su
due dei prompt elencati nel pacchetto, un punto in più a
ogni prompt
aggiunto.
Ulteriori
note: il numero nel titolo non è
lì a caso. Infatti, il 14
è il mio numero preferito e il 41 è il suo
opposto. Inoltre, un
giorno, ferma in un parcheggio commerciale, ho notato che il posto
auto era, appunto, 1441.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Disclaimer:
l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
diritto.
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Capitolo 4 *** Cavallo in (latitudine Nord) 14 e (longitudine Est) 41: scacco matto ***
Anno
del giudizio 14-41
L’unico
vero errore è quello da cui non impariamo nulla. (John
Powell)
Cavallo
in (latitudine Nord) 14 e (longitudine Est) 41:
scacco matto
Seppure
con difficoltà, Adelhaide corse per i corridoi semi bui. Le
luci di
emergenza rendevano l’ambiente claustrofobico e alla ragazza
terrorizzata pareva che, a ogni passo, si stesse stringendo su di
lei. Si sentiva soffocare e non aiutava la strana pesantezza che
avvertiva nelle ossa.
«Robert!»
urlò sollevata quando lo raggiunse. «Robert di
là…» Con il
braccio tremante indicava la direzione da cui era appena
sopraggiunta. «Quel coso… È orribile!
Vieni con me…» balbettò.
«Adelhaide
non c’è tempo
per i tuoi
deliri. Qualsiasi cosa sia, può aspettare,»
l’interruppe seccato.
«Non
so come, ma sembra
che alcuni strumenti di questa base siano in grado di prevedere, con
un certo margine d’anticipo, la prossima Esplosione. Ho
controllato
la mappa dei venti, e le correnti spingeranno le radiazioni fino alla
zona denominata Arata, nel vecchio stato dell’Eritrea. Una
delle
poche aree non ancora contaminate.
Preparati perché siamo diretti lì.»
«No!
Aspetta, Robert. Tu devi vedere… quella cosa…
oddio!» urlò,
contorcendosi dal dolore.
In
quell’istante, tre uomini, con lo stemma della guardia
imperiale
nigeriana stampato sulle tute verdi, fecero il loro ingresso.
«Capo
Oganda, a rapporto, signore,» disse il più vecchio
facendo il
saluto militare. Robert, impegnato a soccorrere la ragazza, fece loro
un cenno distratto. «Ho il permesso di parlare?»
chiese il
militare. «È stato tutto predisposto. In
mezz’ora raggiungeremo
Vegas Ohuru dove ad attenderci ci sarà il
suo velivolo,
signore.»
«Robert,
ti supplico. Devi vederlo. Lui è… è
ovunque. Lo sento nella mia
testa. Lo vedo… oddio… è
ovunque,» continuò a farfugliare
Adelhaide, dalla sua posizione raggomitolata.
«Oganda,
procura un calmante. In queste condizioni non riusciremo a
trasportarla in superficie.»
«Sì,
signore!»
Robert
sollevò la ragazza come fosse un fuscello e la
consegnò agli altri
due soldati che le fecero indossare la sua tuta gialla. Poi,
affiancandola, l’aiutarono a camminare, quasi sorreggendola
di peso.
Attraversarono
la Wepu Radieshon, le cui porte erano state
squarciate da una
morsa ad aria compressa. Sembravano le fauci spalancate di un Abali.
«Cosa
è successo?» chiese Robert osservando un corpo
rattrappito in un
angolo. Avvicinatosi, poté scorgere una bomba a mano, con
ancora
l’innesco inserito, racchiusa tra le dita mummificate.
«Ma questo
è Sebastian.» Sussultò stupito.
«Non
sappiamo cose gli sia capitato, signore,» rispose uno dei
militari.
«È
stato lui! È stato lui! Io lo so. Io lo vedo. Io lo
sento,»
cantilenò Adelhaide tenendosi la testa tra le mani.
«Cresce e si
espande…» rise istericamente. «Non
mangia, lui beve.»
«Ma
cosa?»
«Non
prestatele attenzione. È solo sconvolta. Piuttosto, come
risaliamo?»
«Per
di qua, signore.» Oganda li aveva raggiunti spuntando da
dietro la
cascata. «Ecco il calmante.» Con
efficienza, inserì una
fiala blu in uno scomparto alla base della visiera della ragazza.
«Farà effetto tra dieci minuti, il tempo di
issarla con la
carrucola.»
Appoggiata
alla lamiera gelida del velivolo, Adelhaide ascoltava distrattamente
i discorsi degli altri. Si sentiva bruciare dall’interno, il
suo
corpo ardeva e prudeva e si contraeva sottopelle. Lame di fuoco le
incendiavano le vene, spasmi sottili come spilli le scuotevano le
membra. Avrebbe tanto voluto togliersi la tuta, strapparsela di dosso
per tornare a respirare a pieni polmoni, come se l’epidermide
avesse fame di luce. Razionalmente sapeva di non poterlo fare per via
delle radiazioni, ma il desiderio aumentava dentro di lei a pari
passo con la consapevolezza che qualcosa in lei stava mutando. E non
era niente di buono.
«Dobbiamo
portarla in un centro di cura per contagio da radiazioni,
signore,»
insistette uno dei soldati.
Adelhaide
percepiva le parole come se giungessero da un luogo straniero, quasi
prive del loro significato. La testa le doleva ed era colma di
immagini sconosciute, di sensazioni crude e primitive, fatte di
istinto animale. I suoi ricordi si confondevano e si fondevano in un
vortice
continuo, sempre più
stretto, sempre più veloce.
«Qualcosa
nel processo della Wepu Radieshon
è andato storto.
Forse per il fatto che è incinta. Non so. È una
tecnologia che non
avevo mai visto prima.»
«Non
sono incinta, non ho l’utero,» smozzicò
le parole come un
ubriaco, per poi ridere istericamente. La sua voce le era diventata
estranea, un’accozzaglia di suoni dal timbro troppo alto e
sottile.
Decisamente irritante. Scosse la testa che si mosse come un
palloncino in balia del vento. «Robert, mi hanno tolto
l’utero
all’età di sedici anni dopo avere subito un
incidente,» sciorinò
le parole lentamente, quasi faticasse a comprendere ogni suono
enunciato.
«Come,
scusa?» domandò perplesso, l’attenzione
finalmente catturata.
Adelhaide si lasciò andare a un’altra risata,
quasi un rantolo che
le gorgogliò
in
gola.
«Signore.»
Oganda, sull’attenti, porse un foglio a Robert.
«È appena giunto
questo comunicato dalla Nigeria, signore. La Quarantunesima
Esplosione ha raso al suolo tutta l’America settentrionale.
Ogni
segnale di vita proveniente dal bunker 14 in Nevada si è
spento.
Secondo i nuovi calcoli verremo investiti dalle radiazioni appena
sorvoleremo la Dancalia, nel Corno d’Africa, tra meno di
venti
minuti.»
«Quindi,
ciò che nascondeva l’Area 51 è morto
con essa. Ogni possibile
cura per risanare il pianeta è andata perduta.»
«Lui
non è morto, lui vive in ogni sua creatura, lui cresce in
me,» bofonchiò Adelhaide in contemporanea
all’uomo.
«Non
mi importa come, ma tra dieci minuti voglio atterrare sul
suolo di Arata. È un ordine!» dispose perentorio.
«Cosa dicevi a
proposito dell’utero?» chiese aggressivo alla
ragazza mentre la
scuoteva senza premura.
Adelhaide
fece una smorfia che le contorse il viso in una maschera orrenda.
Quell’odore, quel profumo di vita che le confondeva la mente,
era
davvero inebriante. Sentiva una brama ampliarsi nelle proprie vene,
un canto di sirena ammaliante. Allungò un dito e
sfiorò la
giugulare di Robert che batteva forsennata, accattivante e colma di
promesse. Il suo corpo ebbe un nuovo spasmo e si inarcò fino
quasi a
spezzarsi mentre venivano investiti dalle radiazioni.
«È
troppo tardi,» sussurrò roca, la sua voce
l’eco di un’altra.
Febbrilmente si tolse la tuta, la pelle arroventata che si
liquefaceva.
«Mi
avete tenuto su questo pianeta incatenato come una bestia, sfruttando
la mia conoscenza per i vostri scopi. Mi avete sottoposto a ogni tipo
di esperimento, mi avete violato in ogni maniera possibile e
immaginabile.» Robert estrasse un pugnale ma la ragazza, o
ciò che
ne rimaneva, fu più veloce e, afferrato il braccio, glielo
torse
dietro la schiena, spezzandolo. Le sue urla attirarono i soldati ma
lei si fece scudo con il corpo di Robert. Adelhaide inspirò
l’odore
dolciastro che
proveniva
dall’incavo del collo dell’uomo e si
leccò le labbra affamata.
«Siete
così stupidi, voi umani. Così facilmente
abbindolabili,» rise, un
suono vuoto, inumano. «Mi prenderò tutto
ciò che vi è più caro:
la vostra stessa vita. Spazzerò via dall’Universo
la vostra
inutile esistenza,» sentenziò lapidario. Con un
salto atterrò sui
soldati e, dopo una breve lotta, li scaraventò contro le
pareti del
velivolo, tramortendoli.
«Ma…
cosa sei? Come fai a parlare attraverso la ragazza?» biascicò
Robert, stringendo
i denti dal dolore.
«Io
sono tutto e niente. Sono un popolo errante che migra ovunque
ci sia cibo. Il mio gregge vive con me e dentro di me. Prendo
possesso degli ospiti in cui inietto le larve, rendendoli
me, attraverso quella che voi chiamate Wepu
Radieshon.»
«Quindi
gli Abali in Nevada erano…»
Robert inghiottì a vuoto. «E
tutti gli altri sono…» balbettò senza
trovare il coraggio di
concludere la frase.
Un
leggero rollio fu l’unico segno che il velivolo stava
atterrando.
Adelhaide denudò i denti, lunghi e taglienti come rasoi.
«Ci
siamo,» disse annusando l’aria avido, scrollandosi
di dosso il
resto dell’involucro che un tempo era la ragazza. Davanti a
Robert,
troppo terrorizzato per urlare, a conferma della sua tesi, apparve un
Abali. «Appena io e la mia razza
saremo sazi, lasceremo
questo posto con la nave che mi avete gentilmente
ricostruito
e attende addormentata sotto questo suolo.»
Ma
Robert non capì cosa diceva, con quel linguaggio fatto di
latrati e
mugolii che gli ricordavano tanto il suo adorato cane Adholf.
«Poi
un
giorno,
seppure mi sgolassi, non
si presentò
alla mia porta. Lo trovai rinsecchito dentro un fosso. Ora
so
perché,» sussurrò del tutto
irrazionalmente mentre si arrendeva
alla Morte che gli stava succhiando via l’anima.
Note
dell’autrice: questa storia partecipa al
contest ‘My
favourite things’ indetto da fiore di girasole sul forum.
Questa
storia partecipa al contest ‘I miei ultimi undici
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da Claire roxy sul forum con il pacchetto ‘Io sono
leggenda’:
Genere:
Sovrannaturale (vampiri).
Citazione:
‘Poi un giorno il cane non si presentò’.
Ambientazione:
un America post-apocalittica.
Obbligo:
finale negativo.
La
giudice chiede di scrivere una storia basandoci obbligatoriamente su
due dei prompt elencati nel pacchetto, un punto in più a
ogni prompt
aggiunto.
Ulteriori
note: il numero nel titolo non è
lì a caso. Infatti, il 14
è il mio numero preferito e il 41 è il suo
opposto. Inoltre, un
giorno, ferma in un parcheggio commerciale, ho notato che il posto
auto era, appunto, 1441.
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