Il Principe Azzurro arrivò a Mezzanotte di alessandroago_94 (/viewuser.php?uid=742337)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitrè ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventisei ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisette ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventotto ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventinove ***
Capitolo 30: *** Capitolo trenta ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentuno ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentadue ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentatré ***
Capitolo 34: *** Capitolo trentaquattro ***
Capitolo 35: *** Capitolo trentacinque ***
Capitolo 36: *** Capitolo trentasei ***
Capitolo 37: *** Capitolo trentasette ***
Capitolo 38: *** Capitolo trentotto ***
Capitolo 39: *** Capitolo trentanove ***
Capitolo 40: *** Capitolo quaranta ***
Capitolo 41: *** Capitolo quarantuno ***
Capitolo 42: *** Capitolo quarantadue ***
Capitolo 43: *** Capitolo quarantatre' ***
Capitolo 44: *** Capitolo quarantaquattro ***
Capitolo 45: *** Capitolo quarantacinque ***
Capitolo 46: *** Capitolo quarantasei ***
Capitolo 47: *** Capitolo quarantasette ***
Capitolo 48: *** Capitolo quarantotto ***
Capitolo 49: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno ***
Capitolo uno
CAPITOLO UNO
Serata di mezza estate.
Il caldo asfissiante stava facendo uscire dal mio corpo tutta
quella poca acqua che ero riuscita a bere durante quell’ennesima giornata di
frettoloso lavoro. Era un calvario.
Ricordo che ho sempre odiato l’estate; la stagione in cui ci
si veste poco, e le strade si fanno infuocate, così come l’aria rovente
trasportata dalle alte pressioni africane.
Ma l’estate, purtroppo, era anche la stagione in cui litigavo
di più con il mio ragazzo.
Rientrai a casa come ogni sera alle ventuno, stanca morta, e,
nonostante l’utilizzo abbondante di deodoranti e profumi vari, anche sudicia e
bisognosa di una doccia.
Non appena varcai la soglia dell’appartamento che condividevo
con il mio fidanzato, con il quale ormai convivevo da due anni abbondanti, mi
affrettai a richiudere a chiave la porta d’ingresso e ad abbandonare la mia
borsa su una delle sedie che parevano accogliermi ogni volta che varcavo la spoglia
soglia.
Il nostro era un appartamentino in zona periferica dotato di
tre stanze, pure piccole. Solo l’essenziale, per noi; quello che ci potevamo
permettere in modo indipendente.
Mi diressi prontamente verso il piccolo bagno, sospirando e
credendo di essere sola.
Eppure, mentre mi accingevo a svestirmi in un attimo, la sua
sagoma, distesa comodamente sul nostro letto, attirò con prontezza la mia
attenzione, e mi fece sussultare.
“Marco!”, mi venne spontaneo chiamarlo, quasi sbottando il suo
nome. Il corpo sdraiato ebbe una reazione istantanea e si alzò a sedere sul
letto.
Il mio moroso si stava riprendendo solo in quel momento da
quello che probabilmente era stato un lungo pomeriggio come tantissimi altri,
fatto di ozio e di noia, mentre le sue candide mani accorrevano a stropicciarsi
gli occhi, con scarsa flemma.
“Amore! Sei già tornata a casa?”, mi chiese infatti, dopo un
istante di silenzio, compensato solo dai suoi movimenti.
Sospirai di nuovo ed abbandonai la mia prima intenzione, ovvero
quella di fare una doccia il prima possibile, per affacciarmi dovutamente sulla
porta della camera da letto.
“Potrei fare la stessa domanda a te”, gli feci notare, senza
troppi tentennamenti.
Marco, ultimamente, si stava concedendo troppo a un peccato
che, per noi due e la nostra vita di coppia, poteva essere considerato
capitale. La pigrizia.
Da quando avevamo cominciato a convivere, aveva promesso di
far di tutto pur di rimboccarsi le maniche e darsi da fare per donare un futuro
migliore al nostro amore fresco e appena sbocciato, eppure si era rivelato
sempre piuttosto fallimentare, sotto questo punto di vista.
Era infatti riuscito a trovare solo impieghi part-time che
aveva ricoperto per qualche breve periodo, per essere poi prontamente licenziato
senza pietà. Per questo doveva essere quotidianamente in prima linea nella
ricerca disperata di un lavoro, siccome non importava tanto quale esso fosse,
ma solo la retribuzione. Per pagare l’affitto, per mangiare… e l’ultimo posto
di lavoro, come magazziniere, l’aveva perso due mesi prima. Troppi, per una
giovane coppia con problemi economici come lo eravamo noi.
In effetti, non appena la mia affermazione giunse a segno, il
mio ragazzo si impresse sul volto un’aria sdegnata e tornò a sdraiarsi sul
nostro letto a due piazze, rigorosamente sfatto dopo una giornata che,
probabilmente, era stata d’ozio.
“Sai che a me non va bene nulla, ultimamente”, si limitò a
dirmi, con scioltezza e semplicità, richiudendosi a riccio come faceva ogni
volta che gli era illustrato il nostro problema più opprimente, e cioè il
bisogno di lavoro e di denaro, per favorire una nostra sopravvivenza dignitosa.
“Non lamentarti come al solito della sfortuna, e datti da
fare. Com’è andata oggi, con i curriculum? Qualcuno si è dimostrato
interessato?”, gli chiesi, conoscendo già in cuor mio la rispettiva risposta,
purtroppo. Fremevo, avevo paura di udire quello che mi avrebbe risposto, poiché
ero certa che avrebbe potuto ferirmi per l’ennesima volta.
Marco, infatti, sul letto si strinse nelle spalle come meglio
poteva, dalla sua posizione supina, e senza rivolgermi uno sguardo e dedicando
i suoi bellissimi occhi celesti al soffitto, increspò le labbra con stizza ed
irritazione soppressa.
“Mi è stato solo detto che non ho alcun requisito appropriato.
Chiedono esperienze precedenti, capacità che io non ho… i datori di lavoro sono
esigenti, Isa. Lo sai. Spero che domani vada meglio”, mi rispose, assonnato.
No, per me era decisamente troppo. Non credevo che si fosse
realmente dato così tanto da fare, anche perché se così fosse stato, non lo
avrei ritrovato in casa vestito in quel modo. Poiché solo in quel momento stavo
prestando attenzione al fatto che il mio ragazzo indossava un pigiama, e dietro
al letto le sue comode babbucce sembravano fresche come petali di rosa.
Gli altri suoi abiti erano ancora sistemati negli appositi
attaccapanni a fianco della porta, intatti e perfettamente stirati, così come
glieli avevo sistemati io il giorno prima.
Mi inferocii in un istante, fu più forte di me. Per quello mi
sforzai di respirare piano, e cercai di mantenere ancora per qualche secondo la
calma, prima di essere avventata.
“Se va come è andata oggi, dubito che domani andrà meglio”,
provai ad intervenire con finta calma, cercando di mimetizzare il mio
nervosismo per quello che avevo notato, centrando però il segno, seppur
indirettamente.
Infatti, mentre mi levavo di dosso la maglietta sudaticcia
che avevo indossato fin dalle nove di mattina, Marco balzò su dal letto e mi
rivolse un’occhiataccia di rimprovero che mi fece raggelare, nonostante non
stessi né cercando e neppure sostenendo il suo sguardo.
“Con questo cosa credi di dirmi?”, mi rimbottò, e non senza
un pizzico di malizia e di cattiveria.
Ciò mi fece ancora un po’ uscire dai gangheri; purtroppo, i
motivi di forte tensione tra me e il mio ragazzo fino a quel momento erano
stati tutti quanti riservati al lavoro e al nostro bisogno più materiale di
denaro per tirare avanti.
Marco si era sempre rivelato molto indolente, anzi,
decisamente troppo pigro a riguardo. Il mio stipendio non ci bastava per
arrivare a fine mese ed eravamo già da tempo indietro con tutti i vari
pagamenti, e dovevo solo ringraziare la bontà del proprietario
dell’appartamento, un vecchio conoscente di mia madre, che non ci faceva troppe
pressioni a riguardo, conoscendo la delicata situazione. Ma non potevo
sostenere oltre il fatto che il mio fidanzato bighellonasse in quel modo.
La mia era una questione di principio, siccome non volevo
restare in bolletta per tutta la vita, e la sua inerzia e la sua poca voglia di
darsi da fare mi stavano ferendo sempre più.
“Caro mio”, gli dissi, cercando di mascherare per l’ennesima
volta il tumulto che avevo dentro di me, ma riservandogli uno sguardo con gli
occhi leggermente sgranati dal disappunto, “non mi devi mentire per forza. Sai
che apprezzo la sincerità. Dimmi pure che non sei andato da nessuna parte oggi,
e che hai solo riposato…”.
“Come ti permetti?”, m’interruppe, alzando un po’ la voce.
Avevo proprio fatto centro.
“Ma come ti permetti tu! Mi credi cretina? Guarda! Ieri
mattina, prima di andare al lavoro, ti ho stirato tutti i vestiti, dal primo
all’ultimo paio di pantaloni e di magliette. E sono ancora intatte e sei ancora
in pigiama. Dammi una spiegazione logica a tutto questo, allora, dato che insisti
a voler mostrare la tua buona fede innocente”, dissi alzando lievemente la
voce, facendogli notare i particolari più evidenti a cui forse non aveva
pensato, siccome i suoi occhi si illuminarono man mano che seguivano
materialmente l’ordine di particolari che gli avevo sottolineato.
“Li ho risistemati io…”, tentò una blanda difesa, a quel
punto, con la voce ridotta a un sussurro e con l’ultima menzogna che gli moriva
in gola. Marco non è mai stato troppo bravo a mentire, seppure ci provasse
spesso e volentieri a farlo.
“Non sei capace di stirare e di tenere in ordine i tuoi
vestiti”, conclusi, sempre con nervosismo, mentre mi decidevo a lasciar
perdere. Avevo lavorato tutta la giornata ed avevo la schiena in fiamme, al
diavolo quindi quella discussione che rischiava solo di peggiorare la
situazione.
Volevo solo lavarmi e andare a dormire; punto.
“E va bene. Questa mattina mi sono svegliato con un forte mal
di testa. Contenta? Non sono riuscito ad uscire di casa per tutta la giornata,
e l’emicrania si sta dileguando solo ora. Domattina uscirò e vedrai che andrà
meglio”, ribatté, a quel punto ormai totalmente indifeso e senza più menzogne a
difenderlo dalla verità dei fatti, che era venuta a galla nonostante il suo
blando tentativo d’insabbiamento.
Mi tolsi la maglietta sudata e rimasi in reggiseno.
“Certo. Ne sono sicura”, mi limitai a dirgli, in un sussurro
che sapeva di rinuncia e rassegnazione. Era da più di una settimana che il mio
ragazzo utilizzava più o meno la medesima scusa, pur di fare il pantofolaio per
tutta quanta la giornata.
“Ma perché fai così? Non ti fidi di me? Ti giuro…”.
Lo bloccai prima che potesse dire altro. Sapevo che Marco,
dentro di sé, soffriva per la sua inerzia. E quel suo scatto repentino, che
l’aveva portato anche ad alzarsi dal letto, era un altro sinonimo del fatto che
avevo centrato di nuovo il suo punto debole, ma ero ben lungi dal voler
infierire.
Quello era il tasto dolente della nostra relazione, e sapevo
perfettamente che, facendo leva su di esso, poi si sarebbe aperto un altro
periodo di crisi tra di noi, e quella era l’ultima cosa che volevo.
Le prime erano, per l’appunto, farmi in fretta una doccia e
filare a nanna, dopo aver letto qualche pagina di uno dei tanti libri fantasy
che infestavano il piccolo comodino dal mio lato del giaciglio condiviso,
giusto per rilassarmi un po’ ed addentrami serenamente nel giusto riposo. Mi
stavo imponendo che litigare era vietato, in quel momento.
“Non devi giurarmi nulla, quello che vuoi fare lo devi solo
dimostrare a te stesso, prima che a tutti gli altri. Ora vado a fare una
doccia”, lo liquidai, infatti.
Mi slacciai i tanto odiati jeans a gamba lunga che mi
facevano morire in quei giorni così caldi, ma che alla mia datrice di lavoro
piacevano tanto, siccome la sobrietà femminile estrema era un requisito
basilare all’interno della sua attività.
“Perché per te è così importante questo lavoro? Insomma, ogni
sera torni a casa inacidita e te la prendi con me. Io ce la sto mettendo
tutta!”, continuò imperterrito il mio fidanzato e convivente.
Certo, dopo aver affondato il coltello nella piaga, seppur
delicatamente, le ripercussioni venivano a galla e perduravano per un po’, ed
era come se lui dovesse davvero scusarsi di qualcosa.
Io non le volevo le sue scuse; come gli avevo detto poc’anzi,
se voleva dimostrare qualcosa, doveva almeno provarci. Doveva farlo per lui e
per noi, e per la nostra vita di coppia, che poteva solo migliorare.
“Lo sai anche tu, tesoro. In questo mondo non si vive d’aria;
quindi, o ti dai da fare, o non mangi. Funziona così, al di fuori delle favole”,
gli dissi, continuando a svestirmi lentamente.
Il mio corpo sudato e stanco m’imprimeva un ritmo flebile,
continuamente interrotto dal bisogno di Marco di sfogarsi. Stare tutto il
giorno da solo, su un letto sfatto e in pigiama, non lo aiutava di certo. Era
come se avesse un problema, qualcosa che lo logorava da dentro, e che io non
riuscivo a cogliere; ma quando questo pensiero sfiorava la mia mente, cercavo
di evitarlo, pur di non rifletterci sopra o di approfondirlo.
“Tu pensi troppo ai soldi. Non si può andare avanti in questo
modo… se oggi non ho un lavoro, lo troverò domani! E se domani non lo trovo, lo
troverò dopodomani. E se…”.
“E se fra tre o quattro settimane non l’hai trovato, che fai?
Smettila di fare lo sciocco, dai. Vado a farmi una doccia”, tornai a
liquidarlo, ormai del tutto svestita e pronta per lavarmi. Marco, la sua
infantilità e la sua pigrizia potevano aspettare.
Ben presto, a consolarmi dalla superficialità del mio
ragazzo, ci fu solo lo scroscio d’acqua che mi lasciai scivolare sul corpo nudo
e tonico. Lasciai che essa massaggiasse il mio corpo stanco, nella sua naturale
caduta, senza fare altro.
M’insaponai e poi lasciai di nuovo all’acqua il compito di
risciacquarmi e di concludere l’opera.
Quando uscii dall’antiquato box doccia del nostro angusto
bagno, asciugai il mio corpo e, puntualmente, in un modo che sembrava casuale
ma che si verificava ogni sera, incontrai il mio riflesso sullo specchio. I
miei occhi incrociarono la loro stessa immagine riflessa, con quelle iridi così
chiare che sapevano incutere anche timore, quando mi arrabbiavo.
Guardavo il mio sguardo di ghiaccio riflesso nello specchio,
con quei capelli castani a caschetto che, fradici, si appiccicavano prontamente
alla fronte e avevano perso la loro voluttuosità.
In un attimo, come ogni sera, mi chiedevo se era quello che
volevo realmente dalla vita; sgobbare come una matta tutto il giorno, per
cercare di tirare avanti con un ragazzo svogliato sulle spalle. Non dovevo però
fraintendermi, poiché in fondo io amavo Marco.
Amavo la sua delicatezza a letto, le sue parole di comprensione
che ogni tanto mi rivolgeva, i suoi candidi baci sulle labbra che mi avevano
fatto perdere la testa per lui. Amavo i suoi capelli neri e ribelli, il suo
corpo palestrato, la sua altezza, la sua prestanza maschile. Amavo parlare con
lui di cose futili o di libri, magari anche confessarmi, qualche volta,
aprendogli una finestra sulle mie più ancestrali paure.
Ma quello che non volevo ammettere neppure a me stessa era
che lui era una mia reale paura. La più vera, la più radicata di tutte, in quel
periodo.
Mi spaventava quel suo aspetto più inerte che mostrava ogni
tanto, e sempre con maggiore frequenza. Mi atterriva quel suo lato che sembrava
volersi radicare ancor di più, con quel suo retrogusto d’infantilità che non
faceva bene né a lui, né ad entrambi.
Era come se Marco fosse un uomo maturo, e lo era fisicamente,
con i suoi trentadue anni compiuti di recente, ma avesse ancora qualche aspetto
infantile che lo paralizzava e gli impediva, magari, di essere sé stesso.
Perché sapevo che il mio amato, in fondo, voleva davvero impegnarsi per trovare
un lavoro, e desiderava lottare per la nostra indipendenza effettiva e per i
nostri sogni, che includevano, in un futuro a breve termine, anche un concetto
di famiglia unita da un sacro vincolo.
Io di anni ne avevo ventisei, eppure già riuscivo,
impegnandomi a dovere, a gestire molti aspetti della mia vita, ma lui ancora
no.
Non volli continuare a pensare a quei particolari che mi
donavano solo turbamento gratuito, e mi affrettai ad asciugarmi, avvolgendo poi
la mia grande tovaglia attorno al busto, a coprire le mie intimità, e
assicurandomi una tovaglietta sui capelli, dopo averli raccolti e asciugati un
pochino.
Uscii dal bagno con un piglio per nulla aggressivo, anzi,
molto rassegnato, per non provocare una nuova discussione, cosa che più avrei
odiato.
Eppure, Marco mi aspettava proprio di fronte alla porta, le
braccia incrociate e la schiena appoggiata contro il muro, con ancora addosso
quel suo sottilissimo pigiama estivo che lasciava in mostra le sue forme maschili
molto prestanti ed accentuate, con quella muscolatura così levigata, dovuta ad
ore ed ore di palestra. Quello era uno dei suoi pochi appuntamenti fissi fuori
casa, tre volte a settimana.
Lo guardai in modo strano, come per dirgli pietà; d’altronde,
immaginavo che avesse da dirmi qualcosa d’importante, visto il suo
comportamento, e sapevo che riguardava ancora il discorso di poco prima,
lasciato quasi in sospeso dalla mia arrendevolezza e dal mio bisogno di
tranquillità.
Marco aveva avuto tutta la giornata per starsene in
panciolle, e forse il mio bisogno primario di quegli istanti probabilmente non
lo capiva proprio. Avevo toccato di nuovo il suo tasto dolente, e per questo
aveva utilizzato tutte le sue rotelline per uscirne fuori, seppur in un modo
non propriamente decente.
“Domani mattina vado da mio padre. Lui mi aiuterà”, mi
dichiarò, infatti.
Ebbi un tuffo al cuore, e per un attimo restai impietrita
sulla porta del bagno, senza varcarne la soglia, fissandolo in un modo che non
lasciava dubbi. Aveva appena detto l’ultima cosa che avrei mai voluto udire
dalle sue labbra.
Il padre di Marco era un ricco industriale della zona, e di
lavoro e di denaro ne aveva a bizzeffe, nonostante la crisi. E poi, per suo
figlio Marco, il ragazzo che aveva cresciuto viziatissimo e per il quale
stravedeva, assieme alla moglie, avrebbe fatto di tutto.
Sapevo che il mio convivente sperava solo nello spillare
soldi al genitore, e questo signore in questione glieli avrebbe senz’altro
dati, anche in cospicua cifra, ma quello non era il mio concetto di famiglia e
di unità di coppia.
Il signor Benedetti era gentile, certo, ma non mi sopportava
più di tanto, siccome aveva sempre pensato che il suo figliolo avrebbe potuto
meritare molto di meglio di me. Per lui, restavo lo svago del giovane, e non
pensava che noi due avremmo tanto desiderato di sposarci, ma date le
circostanze, non potevamo.
“Non è una buona idea”, sancii, infine, lasciandomi sfuggire
una di quelle mie solite occhiatacce di ghiaccio in grado di sciogliere
chiunque.
“Senti, io non ce la faccio da solo a trovare un lavoro e a
guadagnare qualche soldo. Devo per forza rivolgermi a mio padre…”.
“Allora tanto vale che ci prendiamo una pausa di riflessione.
Sai che quando abbiamo deciso di convivere, il punto più importante per la
sopravvivenza della nostra relazione era proprio il fatto di essere totalmente
autonomi, e non dipendenti dai nostri genitori? Questo per me è tutto”, gli
dissi, e premetti le mani contro le sue spalle, per invitarlo a lasciarmi
passare.
Ero ancor più mortificata dalla soluzione che era riuscito ad
escogitare; la più semplice, per l’ennesima volta, e quella che non gli
imponeva di fare qualcosa per migliorare la nostra situazione, rimboccandosi le
maniche e mostrando impegno per entrambi.
Non potevo sopportare tutto ciò, siccome mi confermava che,
forse, il mio Marco non era ancora pronto per diventare un uomo indipendente,
un uomo adulto, e questo pensiero mi feriva a morte e dilaniava la mia mente
stanca.
“Ma tu sei proprio fissata!”.
Ecco, l’esplosione di Marco.
Forse avevo esagerato, oppure no e mi ero comportata in modo
giusto, non saprei valutarmi da sola, eppure ciò che volevo evitare stava
accadendo.
Il mio ragazzo aveva spalancato le braccia e aperto gli occhi
in quel modo che non sopportavo, poiché era l’unica sua espressione facciale
che, quando compariva sul suo volto, mi faceva ricordare che era un uomo volubile,
e anche capace di litigare e di arrabbiarsi fino all’eccesso, fino all’odio per
il suo interlocutore.
“Con questo lavoro… devi smetterla di farmi pressione! Io
capisco che tu sei una ragazza più giovane di me di qualche anno eppure già
totalmente indipendente, e in grado di tirare avanti da sola. Io ancora non ci
riesco. Non sopporto che vuoi sempre rinfacciarmi quanto ti rimbocchi le
maniche e io no. Sai che ti amo, questo non basta? E chi se ne frega, dai,
degli affitti! Il proprietario di casa lo conosci, sai che se glielo chiedi con
gentilezza può aspettare ancora un po’ a riscuotere l’affitto. E poi, non ti
pare generosa la mia scelta, andando a chiedere denaro ai miei? Spartirei con
te ciò che è già mio”.
Marco si arrampicava sugli specchi, come sempre durante le
nostre discussioni. Era evidentemente disperato, lo vedevo chiaramente che gli
dispiaceva, eppure era come se volesse cercare di sfogare la sua inettitudine
prendendosela con me, solo per il fatto che gliela avevo fatta notare di nuovo.
“Ma non senti quello che stai dicendo?! Io non la voglio la
carità di tuo padre. Io voglio vivere la mia vita, e la nostra di coppia, senza
avere debiti con nessuno. Conosco i tuoi, so che mi rinfacceranno tutto quello
che condividerai con me. E non posso giocare ancora con la bontà altrui, poiché
è vero che il proprietario di casa non si farà problemi ad attendere ancora, ma
sono già due mesi che non paghiamo l’affitto! Ti chiedo scusa, amore, ma io un
po’ mi sono stancata di questa situazione d’emergenza. Se arrabattare di qua e
di là, lasciare debiti in giro e vivere la giornata tra la noia e la rabbia per
te è un rimedio ai nostri problemi, beh, per me è il contrario!”, quasi gli
urlai in faccia, liberandomi del peso che avevo dentro.
Non gli avevo lasciato neppure un attimo per parlare e dire
la sua; mi ero innervosita ed inalberata.
Ero una persona chiara, e ci tenevo alla limpidezza, in ogni
ambito della mia vita. Avevo alzato un po’ troppo il gomito, ma a Marco, quelle
cose, gliele dovevo spiegare così.
Il mio fidanzato perse spavalderia e mi rivolse un’occhiata
nervosa, a palpebre socchiuse.
“Quand’è così, devo scusarmi, perché non avevo capito quel
che significasse convivere con te. Forse hai ragione tu, è meglio che ci
prendiamo una pausa”, aggiunse, più mogio.
Ecco, ora era lui che affondava il coltello nella piaga. Io
non volevo perderlo, perché lo amavo. Anche una pausa per me poteva essere
catastrofica, conoscendo il mio animo debole.
“Chiudere baracca e burattini e lasciare tutto da pagare?
Restiamo assieme e combattiamo assieme, proteggendoci le spalle a vicenda, come
abbiamo sempre sognato. Ho solo bisogno di notare un po’ del tuo impegno”, gli
dissi, più ammorbidita.
Sapevo di essere una ragazza molto precisa e metodica, anche
una vera rottura quando mi fissavo con qualcosa, e spaventata per la piega che
stava prendendo la nostra discussione, a sera sempre più tarda, non volevo
rovinare tutto con il mio atteggiamento puntiglioso.
Dopo aver detto questo, mi avvicinai a lui e lo abbracciai
piano, per poi allungargli un bacetto sulle labbra ancora dischiuse, come a
voler replicare qualcos’altro. Tuttavia, Marco si lasciò baciare.
“Ti amo. Non voglio perderti, ma non m’interessa della tua
opinione; sappi che domani andrò da mio padre a chiedergli un prestito, perché
così non ce la faccio, e non ce la possiamo fare. Non m’importa di tutto il
resto”, ammise, a voce bassissima, stringendomi a sé. Ed insistendo con egoismo.
Marco aveva preso la sua decisione, ed era l’unica scelta che
avesse potuto infastidirmi per davvero. Non potevo accettare un tale
compromesso, che mi suonava quasi da sfida rivolta a me. Per sua pigrizia, ci
avrei fatto una pessima figura io, come approfittatrice e spillatrice di soldi
dai suoceri, e avremmo vissuto sulle dignitose e permalose spalle del signor
Benedetti, che non sopportavo per come aveva allevato suo figlio e per i valori
di base errati che era riuscito a trasmettergli.
Con un sospiro, aspirai un’ultima volta il profumo della sua
pelle e del suo pigiama, poi sciolsi l’abbraccio e mi tolsi le tovaglie di
dosso, pronta a rivestirmi.
“Anche io ti amo, alla follia. Ma non hai le palle, Marco. Quando
ti deciderai a tirarle fuori e a volermi mostrare davvero che uomo sei,
torneremo assieme e ci sposeremo”, gli dissi, concludendo la discussione e
pentendomene subito. Il mio orgoglio da donna aveva parlato al posto della mia
razionalità.
In modo impulsivo, cominciai a rimettermi addosso qualche
vestito leggero e a gettare i miei panni, in modo disordinato, sul letto. Il
mio ragazzo mi donò un’altra occhiata, quella volta disperata, ma non si mosse
e non mi venne incontro. Era come se l’avessi pugnalato con le mie parole
sincere, solo perché anch’egli sapeva che in fondo erano veritiere, ma gli
costava troppo ammetterlo e darsi da fare.
A quanto pareva, continuava a preferire i soldi di suo papà e
la gonna di sua madre a me, e ancora la sua infantilità veniva tutta a galla.
In confusione, accatastai le mie poche cose, passandomi
continuamente le mani già sudaticce tra i miei capelli umidi.
“Quand’è così…”, mi disse solo, dopo qualche minuto di
silenzio.
Me ne fregai della sua rassegnazione. Non ne potevo più, e
per quella sera avevo già dato tutto.
Erano quasi le ventitré quando finii di fare i miei bagagli,
e il mio ragazzo, disteso ed inerte di nuovo sul letto, notando che stavo
facendo sul serio, allungò una mano verso di me.
“Ripensaci”, mi disse.
“No”.
Presi la mia grande valigia e la spinsi verso la porta della
cucina, delicatamente.
Avevo preso una posizione e contavo di mantenerla ben salda;
dovevo spingere il mio ragazzo a migliorare, altrimenti avremmo rotto comunque,
prima o poi, ed in modo irreversibile. Meglio prevenire che curare, quindi, la
vedevo così.
Prima di andarmene, tornai per un attimo indietro, e non
resistetti al balzargli addosso, con affetto e con le lacrime che mi scorrevano
copiose lungo le guance, per dargli un ultimo bacio.
“Le palle le hai, in fondo. Devi solo imparare a tirarle
fuori, e torneremo assieme molto prima di quel che credi”, gli dissi, in
conclusione, per poi affrettarmi a rialzarmi e a muoversi verso l’ingresso e la
mia valigia. Dovevo andarmene il prima possibile, prima che ci ripensassi e
restassi in quel limbo dal sapore di purgatorio, che non meritavo affatto.
Afferrai la mia valigia e me la portai sul pianerottolo.
Chiusi la porta dietro di me, a malincuore e ancora in
lacrime, e diedi le spalle a tutto.
Una volta scesa in strada, vidi con la coda dell’occhio che
Marco continuava a guardarmi dal terzo piano, da una delle nostre finestre.
Non alzai lo sguardo e infilai la valigia in macchina. Per
fortuna mi ero portata dietro poche cose, quando avevo lasciato la casa di mia
madre.
Alla fine, misi in moto la mia auto e me ne andai, col cuore
ferito e le guance bagnate di lacrime, singhiozzando e sentendomi impotente,
poiché non avevo idea di quali conseguenze potesse avere la mia troppo
azzardata e frettolosa scelta. Sul momento, a spingermi lontano da lì erano
solo i miei sentimenti e il mio nervosismo represso.
Forse aveva da sempre avuto ragione il mio ragazzo, quando mi
accusava velatamente di egocentrismo, e di fregarmene troppo e solo dei
problemi più materiali, al posto che curare ulteriormente il nostro delicato
rapporto di coppia. Ma le cose erano andate così, e non potevo più cambiarle.
Sfrecciai verso casa di mia madre, nonostante l’ora ormai
tarda, e le strade sgombre mi aiutarono a calmarmi leggermente, giusto per non
presentarmi disperata e in lacrime alla sua porta.
NOTA DELL’AUTORE
Salve a tutti! E grazie per aver letto questo primo capitolo.
Questa è una storia che va al di là dei soliti generi di cui
mi occupo di solito. Ho cominciato a scriverla per svago durante i primi giorni
di giugno dello scorso anno, e da allora mi ha tenuto compagnia.
Spero possa risultare interessante anche per voi… anche se
temo possa non essere all’altezza dei racconti che ho scritto finora. In ogni
caso, la sto curando con piacere e impegno.
Grazie per l’attenzione, e a lunedì prossimo ^^
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Capitolo 2 *** Capitolo due ***
Capitolo 2
CAPITOLO DUE
Ventitré e trenta.
Finalmente giunsi a casa di mia madre, trafelata. Non stetti
a bussare alla porta; le chiavi le avevo, e per non spaventare la mia buona
genitrice, feci tutto da me, cercando di restare in silenzio.
Ma mia madre non stava affatto riposando, come speravo.
Non feci in tempo a far scattare la serratura che me la
ritrovai proprio di fronte, spaventata, e appena mi vide, si mise le mani sul
volto sempre più incline alle rughe.
“Oh, bambina mia! Mi sono chiesta chi era, temevo che ci
fosse un malintenzionato che stesse pastrocchiando nella serratura”, mi disse
subito, con la voce ancora tremolante per il recente piccolo spavento,
mostrandomi anche il cellulare con teneva stretto in mano, con il numero 112
già digitato sul display.
“Mamma! Ma chi vuoi che sia…”, le dissi, amabilmente, e le
donai un piccolo abbraccio.
Solo in quel momento parve ritornare in sé e comprendere ciò
che aveva di fronte.
“Ma sai che ore sono?!”, mi sbottò in faccia, liberandosi
dalla mia stretta lieve e lanciandomi un’occhiatina scioccata, come se mi
credesse impazzita.
Le sorrisi, con le gote ancora in fiamme per il pianto
recente.
“Lo so. Posso entrare, ora?”. E spinsi in casa la mia
valigia, chiudendo la porta d’ingresso alle mie spalle.
“Che… cos’è successo?”, tornò a chiedermi, preoccupandosi,
dopo aver notato che avevo con me anche il mio bagaglio. La piccola paura di
poco prima lasciava spazio allo sbigottimento.
“Io e Marco abbiamo scelto di prenderci una pausa di
riflessione”, le ammisi subito, a malincuore.
Solo in quel momento mi accorgevo di quanto fossi stata
avventata, e forse avevo esagerato, ma proprio tanto. Mi dispiaceva, ma quella
mia scelta repentina per me rappresentava una punizione rivolta alla sua
disdicevole pigrizia, che stava cominciando a stancarmi, logorando così il
nostro rapporto di coppia, sempre meno idilliaco.
“Una pausa di riflessione” mi fece eco la mamma, con un tono
di voce senza sfumature. Rassegnato, rattristito in un attimo, abbattuto da un
fulmine a ciel sereno.
Mia madre, una cinquantottenne sveglia e ancora fisicamente
in forma, conosceva bene il rapporto che c’era tra me e Marco, e soprattutto il
suo vizio di voler sempre ed egoisticamente far lavorare me. Essendo quindi
consapevole delle piccole crepe che recentemente si erano andate formando tra
me e il mio convivente, chissà cosa stava già pensando in quei concitati
istanti, ritrovandomi a notte fonda a bussare alla sua porta, con tanto di
valigia in mano.
“Non pensare male. Io amo ancora Marco, e questa è solo una
piccolissima pausa del nostro rapporto, altrimenti non credo che, senza essere
spronato senza mezzi termini, si metta d’impegno a migliorare il suo carattere
e ad abbandonare la sua pigrizia”, la rassicurai prontamente, infatti.
Avevo sempre vissuto con la mamma e sapevo che per lei non c’erano
problemi se tornavo momentaneamente a casa sua, d’altronde la mia stanza era
ancora a mia completa disposizione, ma non volevo assolutamente che pensasse
subito male, per via delle mie recenti azioni.
“Per un attimo ho pensato che ti fossi stancata di quel
bamboccio…”, sospirò lei, di rimando e alle mie spalle, mentre mi accingevo a
trascinare la mia valigia su per le scale, verso la mia vecchia cameretta,
pronta ad ospitarmi.
Mi volsi verso di lei e la fulminai con uno dei miei famosi
sguardi gelidi.
Purtroppo, sapevo anche che la mamma non approvava la mia
relazione con il mio ragazzo. Per lei era sempre stato un bel busto, certo, ma
nulla di più, niente che andasse oltre alla tartaruga sul ventre scolpito dai
muscoli e un fisico, nel complesso, da modello.
Niente cervello e poca sostanza, insomma.
“Marco non è un bamboccio, è solo che…”, cercai un attimo le
parole giuste per descriverlo, “… è solo che non riesce ancora ad abbandonare i
suoi vizi”, proseguii, “per questo ho agito in questo modo, e poi mi ero anche
stancata di insistere ogni giorno con lui. Ma io lo amo, e lo amerò sempre, e
lui mi ama, e vedrai che senza di me cercherà di mettere la testa a posto e di
cercare di impegnarsi per riuscire a…”.
Mia madre rise forte e mi fece morire le parole sulle labbra.
“Piccola mia, sei proprio sicura che lui ti ami davvero?”.
Tonfo.
In un attimo, fui costretta ad ascoltare solo il mio battito
cardiaco, e ad abbassare gli occhi al suolo.
Marco mi amava? Bella domanda.
Certo che mi amava!
“Sì, mi ama con tutto sé stesso. Sono convinta che già domani
torneremo assieme…”.
Ma sì, io parlavo e il dubbio mi logorava. Mia madre, con
quella domanda buttata lì apparentemente a caso, forse apposta per farmi
ragionare, aveva dato il via libera al tarlo che mi avrebbe logorato tanto in
fretta.
D’altronde, per lei il mio ragazzo restava solo un
pusillanime, e probabilmente aveva ragione, ma io ero ancora nelle sue mani.
Anzi, lui era nel mio cuore.
Sapevo di essere stata troppo dura, insistente e repentina
nei suoi confronti, ma mi ero comportata così solo per farlo migliorare, per
obbligarlo a guardare in faccia la realtà, cosa che non aveva mai realmente
fatto.
Io e Marco avevamo bisticciato più volte, dall’inizio del
nostro complicato rapporto, prima di quella sera; avevo sempre pensato che ciò
fosse normale, siccome anche i più semplici detti popolari lo confermavano.
Avevamo preso altre pause di riflessione, tuttavia prima che cominciassimo a
convivere. Quella quindi era una situazione relativamente nuova per me.
Smisi di parlare da sola, mentre la mente andava dalla parte
opposta della lingua.
La mamma sorrise dolcemente, quando notò che le parole mi
stavano morendo in gola, e con mano ferma mi strinse paternamente una spalla.
“Vai a riposare, su. Domani è un altro giorno, hai ragione”,
mi disse, con un sospiro stanco.
Ricambiai il suo sorriso con un altro più tremolante, e poi
seguii il suo consiglio, che si rivelò perfetto. Dovetti solo finire di
trasportare la mia valigia ed aprire la porta della mia cameretta, e siccome il
letto era già perfettamente rifatto, grazie alla precisione e al ritmo
abitudinario di mia madre, mi lanciai su di esso e mi addormentai di sasso, senza
svestirmi e senza badare troppo al caldo che mi avvolgeva.
Per quel giorno, avevo dato tutto quello che potevo offrire
al mondo, commettendo anche azioni di cui non potevo conoscere i più diretti e
sicuri risultati.
Il mio risveglio fu dolce, mesto e tranquillo, allo stesso
tempo.
Ero abituata al baccano del condominio dove convivevo, e
quando mi ritrovai a rigirarmi per qualche istante nel letto, col sole
dell’alba che mi colpiva il volto e in sottofondo il canto degli uccellini che
popolavano quella parte periferica della città, per un attimo fui tentata di
cercare il corpo caldo di Marco, e lo feci con una mano, per poi ritrarla. Il
letto finiva, essendo piccolo e a una sola piazza, e quella non era il nostro
appartamento.
Aprii gli occhi con il cuore in gola, un vero risveglio
traumatico. In quel momento, la mia missione educativa nei confronti del mio
ragazzo era come se fosse già stata dimenticata.
Andai nel bagno quasi piangendo, immersa in una sorta di
crisi d’ansia, e mi sentivo come se avessi esagerato solo io, ed avessi
assoluto bisogno di lui.
Volevo a tutti i costi tornare immediatamente da lui; me
l’immaginavo, ancora disteso sul letto come la sera precedente, poco prima di
lasciarlo lì da solo, con addosso il suo pigiama dal profumo di pulito che gli
lavavo e stiravo con frequenza e cura, con le braccia semiaperte e già pronte
ad accogliermi in un altro abbraccio, dimenticando totalmente la mia folle
reazione recente.
Mi sentivo un verme, una ragazza dalle manie oppressive, e in
poche parole sentivo il più profondo desiderio di tornare da Marco.
Mi lavai il volto e cercai di calmarmi, ma non giovò a molto.
Tornai in camera, e ripresi a preparare la valigia; sarei tornata al nostro
nido, prima di recarmi al lavoro, e con tanto di scuse.
La mia mano scivolò verso il mio cellulare, candidamente
abbandonato sui panni che mi ero portata con me, e stipato la sera prima
assieme a tutti i miei pochi averi, approfittandone per darci un’occhiata.
M’immaginavo di trovare almeno una telefonata da parte del mio ragazzo, ma non
appena accesi il dispositivo tecnologico, non trovai neppure un messaggino da
parte sua.
Ne rimasi molto ferita, siccome mi aspettavo di mancargli, e
speravo con tutto il cuore che sarebbe stato lui a tornare a farsi avanti per
primo. Quella mancanza di reazione da parte sua, che forse mi sarei dovuta
aspettare, mi rese più cauta nei movimenti e nelle scelte, e poiché erano
appena le sette di mattina ed avevo ancora un’ora abbondante per decidere le
mie prossime mosse, scelsi prima di tutto di andare a fare colazione.
Scesi al piano terra di quella spaziosa dimora, e mi recai
prontamente in cucina, per imbattermi in mia madre, già sveglia e perfettamente
vestita, che si stava affaccendando attorno ad una piccola tavola imbastita con
ogni ben di Dio, e con tanto di due belle tazze di latte caldo, fumanti e
accoglienti, già pronte di fronte a due rispettive sedie.
“Avevo sentito che ti eri alzata, così ho pensato di
prepararti qualcosa, per non farti scomodare ulteriormente”, mi disse, con un
tiepido sorriso sulle labbra ed accogliendomi con affetto, ancor prima che io
avessi avuto modo di dire qualcosa.
“Non dovevi… mi sento in colpa adesso, sapendo che hai dovuto
sgobbare per me ed alzarti presto”, riuscii a dire, emozionata.
Da quando era riuscita ad andare anticipatamente in pensione,
per via di alcuni considerevoli problemi cardiaci, la mamma preferiva stare a
riposo, come le avevano consigliato i medici, e per questo non si alzava mai
troppo presto, e cercava di non sottoporsi a stress troppo forti.
Poi, da quando mio padre se n’era andato di casa, per fortuna
non aveva più avuto alcun motivo per stare in ansia o agitarsi, e pensai, per
un attimo, di avergliene offerto io uno, col mio ritorno brusco. Ma lei, come
potevo aspettarmi, mi rassicurò con uno sguardo dal valore di mille e più
parole.
“Per te, questo e altro. Non mi è costato nulla”.
“Grazie, mamma. Sei un tesoro immenso”, le mormorai,
emozionata per la bellezza e per la spontaneità di ciò che mi aveva detto, e le
scoccai un bacetto complice a distanza.
Poi, presi subito posto e cominciai a mangiare avidamente.
Avevo una fame incredibile.
Mentre inzuppavo il primo biscotto secco nel latte, mi venne
subito da riconsiderare le mie iniziali intenzioni della mattina; quel gesto
pieno d’amore mi era così mancato che non me n’ero manco accorta, dal tanto che
ero presa e assorbita da Marco. Lui lasciava che fossi io a preparare la prima
colazione, e poi a chiamarlo per svegliarlo. Questo mi faceva, in quel momento,
provare sensazioni contrastanti tra loro, che mi portavano lontano da lui.
E poi, i primi interrogativi non mi lasciavano tregua; perché
non si era fatto sentire, né mi aveva cercato? Se avesse fatto quella prima
mossa, per me sarebbe stato semplicissimo tornare da lui.
E cosa stava facendo, quella mattina? Il suo silenzio era
dovuto al fatto che si era alzato prestissimo per andare a distribuire
curriculum a destra e sinistra, oppure via mail grazie al suo portatile? Ne
dubitavo.
In definitiva, era come se non riuscissi più a fidarmi di
lui.
“Non mangi? Il latte poi si raffredda”, dissi improvvisamente
alla mamma, notando che lei, fino a quel momento, era rimasta in piedi a
guardarmi, con un sorriso dolce sulle labbra.
“Certo. È solo che… mi sei tanto mancata, durante questi
ultimi anni. Volevo godermi questo momento, per guardarti come facevo quand’eri
piccola, prima che tu torni giustamente a spiccare il volo per andare lontano
da qui”, affermò, sempre dolcemente, per poi sedersi anche lei di fronte a me,
con la tazza già in mano.
Le rivolsi un sorrisone a trentasei denti, prima di
riprendere di nuovo a gustare l’abbondante colazione che mi aveva preparato.
Ah, le mamme! Io adoravo la mia, mi faceva proprio stravedere
per la sua figura. Tuttavia, non mi aveva mai viziato, e mi aveva preparato già
da adolescente a diventare in fretta un’adulta indipendente e in grado di
vivere la sua vita da sé.
Anche lei, a suo tempo, aveva saputo che non bisognava
fermarsi un attimo, siccome la vita era fragile, e un solo soffio di vento
poteva cambiarla per sempre, persino cambiare le tue rotte. E a questo
bisognava farci l’abitudine in fretta.
Mio padre l’aveva amato, nei primi anni, ma non era stata
decisa a voler affrontare la tarda maturità e la vecchiaia con lui, poiché
l’aveva tradita tante volte, ed oltre ad essere un marito fedifrago, era stato
anche un uomo molto assente, anche per via della sua professione di camionista,
e dedito al vizio dell’alcol, nei rari fine settimana in cui era a casa.
Neppure io avevo dei bei ricordi sul mio genitore, anzi, di
lui non mi ricordavo quasi nulla, solo la puzza di fumo e di alcolici nelle
rare volte che era a casa con noi, e i suoi strepitosi strilli quando qualcuno
disturbava la sua inerzia. Non appena me ne andai di casa, lo cacciò subito.
Da parte mia, non avevo mai avuto alcun reale rapporto con
lui, e non mi intromisi nel rapporto di coppia dei miei genitori.
Aveva sofferto, a fianco di quell’uomo, soprattutto negli
ultimi anni di convivenza sotto lo stesso tetto, ma quando io me n’ero andata
per convivere con Marco, lei era cambiata improvvisamente e si era sbarazzata
del fardello sessantenne che si portava appresso da quasi trent’anni, dapprima
in modo lieve e trascinato da un’attrazione giovanile che forse neppure la
mamma era riuscita a comprendere bene, e poi reso apatico dal tempo e dalla
monotona e, a tratti, rivoltante routine di coppia.
Smisi di pensare e finii la mia fetta di pane spalmata di
marmellata di albicocca, per poi iniziare a portare nel lavabo le poche
stoviglie che avevo sporcato.
“Non pensarci nemmeno! Qui sei come una gradita ospite, e
come tale desidero trattarti”, mi rimproverò prontamente la mamma, ancora
impegnata con la sua colazione.
“Ma no, non esageriamo. Voglio solo fare la mia parte, com’è
giusto che sia”, risposi, lasciando comunque perdere dopo l’occhiata gelida che
ricevetti. Noi due condividevamo gli stessi occhi, e da sempre avevamo saputo
incenerirci a vicenda.
Decisi di non insistere, e di andare a prepararmi per il
lavoro. Dovevo assolutamente abbandonare il pigiama smanicato di cotone, per
mettermi addosso tutti gli abiti più sobri che avevo con me. La mia datrice di
lavoro era sempre stata maniacale a riguardo, e come ci presentavamo nel suo
locale era tutto, per lei.
Con un sospiro, mi accinsi a svuotare la mia valigia, dopo
aver dato un’ultima occhiata al cellulare; da Marco nessun segnale, e a quel
punto avevo perso ogni voglia di farmi viva io o di tornare direttamente da
lui.
Scelsi, quindi, di aspettare a compiere ogni mossa.
Uscii dalla mia camera oltre mezz’ora dopo quando mi ero
rinchiusa al suo interno. Ero impazzita per vestirmi, quella mattina era stato
come se non riuscissi affatto a trovare qualcosa di adeguato che mi stesse bene
addosso; qualcosa di sobrio, ma tuttavia femminile e carino.
Non che io avessi mai avuto il vizio di andare in giro mezza
nuda, ma era solo che per la mia datrice di lavoro era osé anche solo una gonna
che non arrivasse alle caviglie, o una maglietta leggermente scollata. E poi,
diceva che le gonne impedivano i movimenti, quindi era meglio abbandonarle
direttamente, prima di recarsi al suo cospetto.
Sospirai, donandomi un’ultima occhiatina allo specchio per
vedere se ero presentabile, con quei soliti jeans e quella maglietta bianca e
larga ai fianchi, di una morbidezza visiva, e fui soddisfatta del mio look,
poiché era il meglio che potevo riuscire ad abbinare, con la limitatezza di ciò
di cui potevo disporre.
Afferrai poi la borsetta, che avevo cacciato in valigia e che
riportava ancora tutti i segni della violenza subita, schiacciata sotto gli
altri panni, e ci infilai dentro un pacchetto di fazzoletti e il cellulare. Ero
pronta.
Scesi al piano inferiore e, mentre mi accingevo ad uscire di
casa e ad andare dalla mia auto, sovrappensiero e già con la mente rivolta al
locale dove lavoravo, m’imbattei in mia madre, che mi venne incontro dalla
cucina.
“Torni per pranzo?”, mi chiese, premurosa.
Le rivolsi l’ennesimo sorriso, abbandonando la mia
espressione seria e concentrata.
In realtà mi aveva posto una domanda curiosa, siccome
lavorando due ore al mattino, dalle dieci a mezzogiorno, per poi riprendere a
lavorare alle quattordici, avevo anche un po’ di tempo per tornare a casa e
pranzare in pace, ma da quando avevo trovato quel lavoro e convivevo con Marco,
non l’avevo mai fatto, preferendo gustarmi un trancio di pizza sul posto ed
attendere il momento del rientro, riposandomi tutta sola in un angolo del
locale e riflettendo.
Quel giorno, però, avevo voglia di togliermi uno sfizio;
avrei potuto anche tornare a casa per il pranzo, e passare un po’ di tempo con
la mia dolce mamma.
Subito, un rimorso riemerse dentro di me, come una vocina
interiore che mi suggeriva di non accettare quell’allettante proposta, per non illudere
colei che mi aveva dato la vita. Quel nostro momento di calma e di convivenza
sarebbe finito molto in fretta, stando ai miei calcoli mentali, e sapevo che
una volta che saremmo tornate alle nostre vite precedenti avremmo solo
rischiato di sentire l’una la mancanza dell’altra.
Tuttavia, repressi infine quel mio ultimo pensiero così torvo,
per prendere una decisione precisa.
“Sì”, mi limitai a risponderle, dopo il mio lungo ed
interminabile secondo di riflessione.
La mamma si sciolse in un altro sorriso. La mia risposta
l’aveva resa sinceramente felice.
“Ma come mai sei vestita così?”, tornò a chiedermi, mentre mi
accingevo di nuovo a muovermi verso la porta. Non avevo affatto fretta di
partire, anzi, avrei solo rischiato di giungere con un po’ d’anticipo, quindi
ne approfittai per dirigermi verso il piccolo specchio inserito nel vecchio
attaccapanni a muro proprio a fianco della porta d’ingresso, in modo da poter
dare un’ultima occhiata non al mio look castigato, ma al mio volto ancora molto
giovane.
Non mi ero truccata, naturalmente, ma la mia vanità aveva la
brutta tendenza di saltare fuori proprio nei momenti meno opportuni, e quando
meno me l’aspettavo.
“La mia datrice di lavoro preferisce che le sue dipendenti si
vestano in modo… sobrio”, mi venne spontaneo risponderle, utilizzando proprio
le parole del soggetto del discorso.
“Sobrio per lei ha un significato simile a morte della femminilità?”.
La mamma mi fece sorridere, con quella domandina ironica
gettata lì così, come per caso.
“Forse sì”.
“E’ così tremenda?”.
Mi sistemai una ciocca di capelli ribelli dietro alle
orecchie, con quel mio caschetto che stava cominciando a risentire nella sua
forma a causa della crescita continua della mia chioma, che ormai sembrava
voler formare un cespuglio sulla mia testa. Avevo anche bisogno di fare un
salto a breve dalla parrucchiera.
“No, non lo è poi così tanto come può apparire, non ti
preoccupare”, la rassicurai, tornando a scrutare l’orologino che avevo al polso
e notando che era ora di andare.
“Adesso vado, mamma. Ci vediamo per il pranzo, sarò qui verso
l’una meno un quarto”, la salutai, volgendomi verso di lei e allungandole un
rapido bacetto sulla guancia.
“Ti aspetto, allora. A dopo”.
Le sue ultime parole ancora mi riecheggiavano nella mente,
mentre uscivo di casa e mi recavo a tutta velocità ad aprire la portiera della
mia Toyota Yaris di un triste grigio metallizzato.
Questo mi fece tornare a sorridere di nuovo, e quando girai
la chiave nel cruscotto, mi ritrovai a riconoscere che era da tempo che non
sorridevo così tanto e con così grande frequenza. Neppure con Marco l’avevo mai
fatto.
Mentre mi recavo al lavoro, quella mattina, il mio ragazzo
rimase discretamente lontano dai miei pensieri, e forse questo avrebbe dovuto
far suonare qualche campanello d’allarme all’interno della mia mente.
Ma lui non si era fatto sentire, e stava continuando a
comportarsi in modo molto infantile; io avevo ritrovato un piccolo spazio
felice per me, e non mi andava di rovinarlo subito a causa sua. Decisi quindi
di limitarmi ad attendere la sua prima mossa, senza fare altro.
NOTA DELL’AUTORE
Grazie a tutti voi, come sempre, e buone festività pasquali
^^
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Capitolo 3 *** Capitolo tre ***
Capitolo 3
CAPITOLO TRE
Giunsi al lavoro con ancora un mezzo sorriso sulle labbra. Il
mio ritrovato e rinnovato rapporto con mia madre era riuscito a scacciare
momentaneamente quel senso di vuoto e di vertigine che mi procurava la
lontananza da Marco. Ma il suo silenzio, dentro di me, cominciava a irritarmi.
Quando varcai la soglia del bar-ristorante in cui lavoravo,
mi lasciai alle spalle tutto il fardello di sentimenti e di situazioni
differenti che mi ero portata dietro fin lì, decisa a non voler lasciare
trapelare nulla alla mia datrice di lavoro.
La signora Virginia mi stava già guardando, piazzata dietro
al bancone del locale, lanciandomi un’occhiata che ormai conoscevo bene, e che
aveva lo scopo di sondare come mi presentavo a lei e alla gentile clientela,
fin da subito.
Avrei tanto voluto sospirare, oppure abbassare lo sguardo, ma
non potevo; conoscevo la singolare settantenne che mi stava davanti, e non
dovevo far nulla, neppur una minima scelta, che avrebbe potuto ferirla. Per me
quel lavoro era ancor più importante della mia dignità, e forse in quel
frangente aveva ragione il mio ragazzo, quando mi diceva che esageravo sempre
quando si trattava del mio impiego.
Io ci credevo fino in fondo, per me era davvero tutto; lo
stipendio che ne traevo era l’unico aspetto della realtà che mi rendeva
effettivamente indipendente, e inoltre trovare lavoro in un periodo di crisi
era così difficile, anche per una ragazza piuttosto giovane come me, che non
potevo sprecare quella chance che il destino mi aveva concesso.
Inoltre, mi sentivo molto fortunata ad avere un impiego, e
questo continuava a far accrescere la mia smisurata fede verso quello che
facevo.
Sorrisi quindi falsamente alla signora Virginia, una donnina
di statura nella media, come pure il suo fisico, e vestita sempre in modo
austero, ricoprendo i suoi abiti con la lunga divisa nera su cui era stata
impressa, a caratteri quasi cubitali, il nome della sua attività; L’angolo della bontà.
Il nome del locale era più che appropriato, siccome lo chef che
da tempo lavorava lì era uno dei migliori della nostra città, e sapeva
preparare delizie sfiziose anche con pochissime materie prime a disposizione.
Un vero genio della cucina.
“Buongiorno, signora Virginia”, le dissi, con il massimo
della cortesia e del rispetto, e con un tono davvero amorevole. Il massimo
della finzione che potevo permettermi.
“Buongiorno, Isabella cara”, replicò lei, con un tono
altrettanto vizioso. Mi veniva quasi da ridere, quando in realtà stavo per
entrare a piedi pari nel mio dramma quotidiano.
“Ah, vai a prendere uno straccio! Poco fa ad una cliente è
caduta qualche goccia di caffè, proprio lì…”.
E così dicendo, donandomi subito i primi cortesi ordini, la
padrona si sbracciava dalla sua postazione seduta, proprio dietro la cassa,
indicandomi il punto in cui era avvenuto il piccolo pasticcio.
Mi detti subito una smossa per recuperare uno straccio umido,
e mettermi i guantini bianchi di plastica con prontezza. Sapevo alla
perfezione, dopo un anno e nove mesi di collaborazione, che la signora non
amava chi non si gettava immediatamente sul compito designato.
Dopo la rapidissima capatina nello sgabuzzino che condividevo
con le mie colleghe, ed aver appoggiato la borsa dopo essermi messa il
portafogli e il cellulare in tasca, acceso ma rigorosamente in modalità
silenziosa, letteralmente mi gettai addosso la lunga divisa nera del locale e
me ne tornai al cospetto della signora, guantata ed armata di straccio.
Dilungai dei buongiorno a tutti i clienti che mi capitarono a
tiro, come sempre, e pulii prontamente il pavimento, controllata dagli occhi
dell’arpia.
“C’è da servire il tavolo tre. Hanno richiesto due caffè e
tre brioches”, mi tornò a dire Virginia, non appena vide che avevo completato
il mio lavoro.
“Certo, lo faccio subito. Porto via lo straccio, mi tolgo i
guanti e sono qui”, la rassicurai, ricevendo un’occhiatina di sbieco, che voleva
dire che dovevo fare molto in fretta.
Entrai nello sgabuzzino sospirando, e gettando via guanti e
straccio, centrando anche il secchio nell’angolo più distante da me.
“Buongiorno, Isa”.
Sobbalzai, non appena udii la voce proveniente dalle mie
spalle, ma poi mi volsi e sorrisi a Ilenia, l’altra mia collega.
“Ciao, Ile”.
“Questa mattina la strega ci ha dato sotto. Pensa che è dalle
cinque e mezzo che sgobbo senza un domani! Ah, non ne posso più… tralasciando
pure la maleducazione di alcuni clienti, mi sono beccata anche un qualche
insulto dai ragazzini della scuola di fronte, che sono venuti a prendere un
paio di bomboloni ed hanno tentato di rifilarmi cinque euro falsi. Una
banconota falsa, ti giuro! L’avevano stampata loro, tra l’altro con una
semplice stampante.
“Avranno creduto che fossi scema! Mi sono arrabbiata come una
belva, ma poi è intervenuta la capa a sistemare la questione. Dovevi vedere
come si erano calmati, hanno elargito i soldini, lasciando anche una mancia, e
se ne sono andati con la coda tra le gambe…”.
Sorridevo, mentre Ilenia, la riccioluta e prestante trentenne
che mi stava di fronte, mi narrava le sue avventure della mattinata. Ben presto
lei avrebbe concluso il suo lungo ed interminabile turno, ed avrebbe potuto
tornare a casa. A me invece mancava ancora l’intera giornata lavorativa, tra
l’altro frammentata per via del fatto che ero stata assunta, tempo addietro,
come tappabuchi e come sostegno al personale durante le ore più impegnative
della giornata, e a tale ruolo ero rimasta vincolata, nonostante tutto.
Durante il turno di Ilenia sembrava accadessero sempre cose
d’altro mondo; aveva un modo enfatico di parlare e di raccontare gli eventi, e
quando si lanciava in quel modo era in grado di parlare per interi minuti e in
fretta senza mai concedersi una pausa. Il risultato era che, a fine discorso,
ci arrivava a volte col singhiozzo.
“Non vi pago per chiacchierare!”.
La voce nervosa di Virginia, che ci giunse senza problemi
alle orecchie, interruppe il nostro breve contatto. Io e la mia collega ci
scambiammo un’occhiata mogia e sconsolata, prima di tornare alle nostre
mansioni.
Giunsi di nuovo nel cuore del locale ed andai prontamente a
preparare i caffè e a sistemare le brioches ordinate sugli appositi cabarè, poi
servii al tavolo, ricevendo un paio di grazie. Almeno quello! I clienti erano
sempre più maleducati, e a volte non degnavano neanche di uno sguardo i
poveretti che trotterellavano come pazzi per servirgli. Ma, d’altronde, quello
era il nostro mestiere. Il mio, che per l’appunto avevo scelto, siccome era
l’unico disponibile.
Passò un’ora senza che io avessi avuto modo di riprendere per
un attimo il fiato; e servi lì, e pulisci là, e fai questo e fai quest’altro.
La proprietaria era una furia, una vera macchina da sfornare lavori e impieghi
per i dipendenti, ma almeno Ilenia aveva finito il suo turno, e se ne andò
tranquillamente.
Proprio nel momento in cui cominciava ad essersi più bisogno
di manodopera.
Dopo le undici del mattino, si cominciava a fermare il via
vai continuo della clientela del caffè e della colazione, e iniziava quello dei
pasti, siccome ci trovavamo quasi in centro, e molti operai della zona
preferivano fermarsi lì a pranzare, invece di andare a casa.
Anche in quel frangente la signora Virginia era stata molto
oculata, creando sapientemente i due volti del suo locale pubblico, adibito sia
al servizio bar sia alla piccola ristorazione. Ciò aveva garantito qualche
guadagno extra, che in tempo di crisi nera non faceva affatto male. Per questo,
proprio mentre il turno di Ilenia si concludeva, e lei se ne andava, Massimo
varcava la soglia e entrava.
Massimo era il buon chef alle rigide dipendenze della nostra
datrice di lavoro, e anche se si lamentava sempre per il fatto che il suo
salario era da fame, non si era mai licenziato, e continuava a offrire le sue
ottime qualità a L’angolo della bontà.
Io non potevo lamentarmi di ciò; la signora mi pagava bene,
anzi benissimo, siccome il mio stipendio era quasi doppio rispetto a quello che
elargivano in altri bar o ristorantini della zona. Era perché lei i dipendenti
li sceglieva in modo metodico, e chiunque era lì dentro era stato assunto solo
dopo una durissima selezione, quindi si trattava di personale, ai suoi occhi,
piuttosto qualificato, ed era giusto ricompensarlo in maniera idonea.
L’altra faccia della medaglia era che, naturalmente, una
volta lì dentro si finiva anche per essere ripresi e sgridati più e più volte,
seppur sempre in modo abbastanza gentile, e non c’era altro da fare che
mortificarsi ed abbassare la testa.
Non mi scocciava fare ciò, lo sapevo. Era il giusto prezzo da
pagare per un posto di lavoro fisso e sicuro, e un buon stipendio, oltre ad un
orario che non era poi malaccio, seppur ci fosse da darsi da fare pressoché in
continuazione, senza un attimo di tregua. Ma il lavoro era il lavoro, e non
volevo rubare lo stipendio, quindi, non mi pesava frullare come una trottola
per ore e ore e sudare nonostante l’aria condizionata che regnava sovrana nel
locale, in quelle giornate di piena estate.
Quando giunse mezzogiorno, ero sfinita; servii un piatto di
pasta, il primo della giornata, a un avventore che pareva molto affamato, e mi
preparai a staccare per un paio d’ore. La mamma mi aspettava a casa.
Mi mossi verso il bancone, dietro al quale la signora
Virginia era ancora barricata, sempre guardandomi con attenzione, senza
perdersi un mio minimo movimento, ed ero già pronta a congedarmi, mentre un
sorriso sincero mi sbocciava sulle labbra, ma quella gioia era così tanto bella
da provare che era destinata ad infrangersi. Infatti, quando la mia mente era
già a pranzo, a pregustarsi quei manicaretti che la mia cara mamma si era
sicuramente data da fare per prepararli al meglio, i miei occhi scivolarono per
una minima frazione di secondo verso l’ingresso del locale, il cui campanellino
che annunciava solennemente l’ingresso o l’uscita dei clienti aveva appena
trillato, per poi intravedere una figura che conoscevo.
Mi morì il sorriso sulle labbra proprio mentre ero già di
fronte alla padrona, che mi fissava con curiosità.
“Cosa c’è, cara?”, mi chiese infatti con prontezza, ma io non
riuscivo a risponderle, siccome verso di me, verso di noi, stava marciando a
passi sicuri, tanto simili ad affondi da palestra, il padre di Marco, il signor
Valerio Benedetti.
L’uomo mi rivolse un sorrisetto, ed ero certa che era lì per
me.
Sembrava che il mondo stesse per crollarmi addosso, e proprio
quando Virginia cominciava ad irritarsi per via del mio silenzio e
dell’espressione probabilmente sbigottita ed ansiosa che mi era apparsa in
volto, anche per via della sorpresa provata sul momento, il signor Benedetti ci
raggiunse con i suoi passi pesanti e si rivolse a lei.
“Posso rubarle per un attimo la sua dipendente?”, chiese, con
ironica cortesia.
Virginia lo fulminò con lo sguardo.
“Se proprio deve. Ma che sia per un attimo, eh”, lo redarguì.
A quel punto non seppi tacere ed uscii dal mio guscio.
“E comunque, signora, io ora sono in pausa. Torno alle quattordici,
come da contratto”, le dissi, lanciandole uno sguardo vacuo.
Poco prima che la mia mente fosse totalmente assorbita dalla
persona che era venuta lì di sicuro per parlarmi, la intravidi mentre
controllava il suo orologio da polso, per essere proprio certa che fosse
mezzogiorno spaccato e non un minuto in meno.
“Allora, signor Benedetti? A cosa devo questa sua visita?”,
chiesi a colui che sarebbe dovuto diventare mio suocero, lasciando passare la
mia sorpresa iniziale.
A dire il vero, mai avrei potuto credere che Marco avesse scelto
di inviare il suo genitore in sua vece, poiché proprio il mio ragazzo doveva
averlo fatto giungere fin lì; Valerio non sapeva dove lavoravo, o almeno io non
glielo avevo mai detto ed ero più che sicura di ciò, e inoltre non si era mai
permesso di cercarmi.
Con il distinto signore sessantacinquenne in giacca e
cravatta che avevo di fronte non ci avevo mai instaurato alcun rapporto, fin
dal principio, e non avevo mai frequentato la casa del mio fidanzato e convivente,
sapendo di non esser vista di buon occhio dai suoi genitori.
La cara mogliettina di Valerio mi avrebbe sputato
sinceramente in faccia, dopo il nostro primo incontro avvenuto poco a seguito
del nostro fidanzamento, durante il quale ero stata giudicata come una
pusillanime, una giovane che stava con il loro amatissimo e viziatissimo
figliolo solo per gli agi che il suo cognome sarebbe riuscito a concedermi.
Non sapevano nulla di me, ma mi avevano additato, ed ero
sicurissima di questo, siccome dopo qualche convenevole avevano fatto finta che
fossi diventata un fantasma, per interagire solo con il loro bambino.
Ecco, non mi stavano affatto simpatici i miei suoceri, e
anche se amavo perdutamente loro figlio, ci tenevo a mantenere le distanze,
siccome erano persone superficiali, ricche e sempre pronte a giudicare in base
ai loro astrusi ed assurdi criteri di cui nessuno, a parte loro stessi, era a
conoscenza.
Per quello mi ero fermamente opposta alla richiesta di Marco
di chiedere aiuto alla sua famiglia d’origine e a suo padre, poiché questo
avrebbe solo comportato la perdita della mia dignità. E dal giorno in cui avevo
conosciuto i genitori del mio ragazzo, per me lavorare ed essere indipendente
era diventata una prerogativa primaria, che andava al di là dei semplici motivi
che prima o poi portano tutte le persone ad avere un qualche accesso al mondo
lavorativo.
Il signor Valerio mi prese a braccetto, con la sua finta
cordialità d’altri tempi, e mi indicò un tavolino esterno al locale, all’ombra
e abbastanza appartato.
Senza aver ricevuto alcuna risposta al mio interrogativo,
preferii discostarmi e rifiutare tacitamente quel gesto che mi appariva troppo
intimo. Raggiunsi quindi da sola il punto indicato, ma Valerio raggiunse per
primo la sedia che stavo puntando, e la discostò leggermente dal tavolino, con
un gesto da galantuomo, mentre continuava a sorridermi gentilmente.
“Avanti, la prego di non continuare ad alimentare questa
assurda farsa”, gli dissi, in modo più sgradevole, seppur con educazione e con
il linguaggio più ricercato che potevo sfoggiare. Non volevo che mi prendesse
anche per villana, oltre che per pezzente e approfittatrice del suo candido e
puro figlioletto.
Naturalmente, mi mossi verso la sedia opposta e mi sedetti,
senza usufruire del suo spirito cavalleresco.
Valerio allora si sedette di fronte a me e calò la maschera,
all’improvviso, come mi aspettavo che facesse a quel punto. Il suo volto
solcato dalle rughe della sempre più vicina senilità si arrossò, le sue
palpebre si aprirono ancor di più e permisero ai suoi occhi neri come la notte
di scrutarmi con attenzione, quasi analizzandomi, mentre un refolo di vento
prodotto dagli automezzi che sfrecciavano lungo la limitrofa strada gli
arruffava leggermente la corta chioma brizzolata, ormai totalmente imbiancata.
“Isabella, come stai?”, mi chiese, serio, ed io lo fissai con
maggior insistenza.
“La prego, vada al dunque”.
Ero fredda, anzi freddissima con lui, poiché mi aveva
irritato la sua presenza e il suo modo di fare. Al posto suo doveva esserci suo
figlio, punto.
Ecco, in quel caso sarei stata sicuramente mielosa e dolce
come uno zuccherino, ed avrei potuto baciarlo e tornare a casa con lui,
all’improvviso. Me lo sentivo; sarebbe bastato solo un piccolo sforzo da parte
sua, per farmi tornare assieme a lui.
“Va bene, signorina. Io volevo solo rompere il ghiaccio, ma
lei mi sembra piuttosto scortese. So che prova qualche eccessivo astio nei miei
confronti e in quelli di mia moglie, ma…”.
“Non provo alcun eccessivo astio nei vostri confronti. O,
almeno, non ne provavo”, interruppi il suo discorso che era passato
dall’informale al più formale possibile. Era proprio quello che più desideravo.
Io e quel signore non avevamo nulla da dirci e nulla da
condividere, ed era inutile che perdessi il mio tempo ad udire le sue parole
false e bugiarde. E il mio tempo era prezioso; sobbalzai ricordando l’impegno
che avevo con mia madre, poiché non ero abituata al ritorno a casa per pranzo,
e mi si strinse il cuore. Dovevo assolutamente liberarmi in fretta da quella
presenza ostile.
“Va bene, ma non lo credo”, tornò a dire, sorridendomi in
modo mellifluo, “e, comunque, non sono giunto fin qui per parlare del rapporto
che c’è tra te, me e mia moglie, sperando che mi sia ancora concessa la
cortesia di darti del tu”.
“Immagino sia venuto fin qui per parlare di suo figlio”,
aggiunsi io, sempre più decisa ad andare al punto. Non ne potevo già più del
padre del mio fidanzato, desideravo solo che sparisse alla svelta, anche al
costo di farmi più male possibile.
La collera in quel momento mi stava assalendo in modo
impossibile da arginare, soprattutto se la mia mente sfiorava il pensiero che
avevo di Marco, e il fatto che dovesse avermi mandato lui il genitore,
compiendo quindi la mossa più sbagliata che avesse mai potuto fare.
Sembrava che avesse realmente voluto sfidarmi; per lui quindi
le mie erano state tutte parole al vento? Avevo sempre parlato a vanvera? Cosa
credeva, che mandarmi suo padre in giacca e cravatta e vestito in maniera
impeccabile, e in più sul mio posto di lavoro, potesse essere per me un buon
motivo per fare ciò che lui più desiderava?
Non ero la sua bambola.
“Proprio così. Proprio così”, asserì l’uomo, greve e
lentamente.
Scostai la mia sedia dal tavolo e mi approssimai ad alzarmi e
ad andarmene.
“Allora, penso che potrei anche andare a casa. Se avesse
avuto voglia di parlare, di confrontarsi e di chiarirci una volta per tutte sul
nostro unico punto in sospeso, beh, avrebbe dovuto farlo lui stesso”, dissi al
signore che avevo di fronte, che subito sbuffò alle mie parole.
“Isabella, calmati. Non vedi quanto sei tesa? Sei come una
molla! Anzi, come una bomba a orologeria pronta ad esplodere… non te ne rendi
conto? Stai per esplodere anche con me, che non ti ho fatto nulla…”.
“Oh, senta, lei non è il mio psicologo. E comunque, crede che
basti non far nulla nella vita e correre da papà tutto il tempo, come ha fatto
suo figlio? Tenga per lei le sue stupidaggini, me ne vado”.
L’aria si era fatta rovente; ero scocciata sempre di più e
non potevo sopportare che quell’uomo rivoltante mi facesse la paternale,
proprio lui, quello che litigava sempre con la moglie perché non era mai a
casa, per via del suo lavoro impegnativo.
La frecciatina irritante rivolta al mio modo di comportarmi e
al mio impiego era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso; ma non
riuscii ad alzarmi dalla sedia, siccome il signor Benedetti evidentemente aveva
altro da dirmi, e con uno scatto afferrò il mio braccio, inchiodandolo al
tavolino.
“Mi levi subito le mani di dosso! Ma chi si crede di essere…”,
quasi strillai, allarmata.
“Zitta, per favore, ed ascolta un uomo che vuole solo che tu
viva da regina. Un uomo che vuole solo il tuo bene, nonostante il fatto che tu
lo tratti come uno straccio. Concedimi qualche altro minuto, poi basta, saremo
liberi di decidere il nostro destino”.
“Io lo sto già decidendo da sola. E ora mi lasci”, gli
intimai, e lui lasciò il mio braccio.
“Prima di tutto, che sia chiaro che mio figlio non mi ha
mandato qui…”.
“Ah, no?”, gli feci eco, interrompendolo con nervosissima
ironia.
“No”, sospirò Valerio, “lui non sa che io sono qui. Marco si
è presentato a casa nostra, questa mattina, in lacrime, e in preda alla
disperazione. Ci ha raccontato, a me e a mia moglie ovviamente, quello che è
accaduto tra voi, e io l’ho sgridato. Un giovane uomo come lui non può
permettersi di fare il cialtrone in quel modo, ne va della sua dignità”.
“Finalmente gliel’ha spiegato. Prima era troppo piccolo, per
capirlo?”.
Mi veniva, stranamente, da sorridere. In lacrime avrei dovuto
esserci io, e non quel ragazzone che, a quanto pareva, era andato a
piagnucolare presso la gonna materna. Mi sentivo ferita, e a quel punto tra me
e il mio fidanzato si era automaticamente aperta un’ennesima voragine.
“Ascolta un po’, sono già diverse ore che arrovello il mio
cervello per trovare una soluzione alla vostra precaria situazione economica.
Perché sia io e sia mia moglie abbiamo paura che, nello stato quasi
confusionario in cui versa nostro figlio, lui riesca a commettere qualche
sciocchezza, o possa perdere la testa, e questo nessuno lo desidera, giusto?”.
“Giusto”, risposi alla sua domanda retorica, inarcando le
sopracciglia.
Stavo trattenendo tutta la mia frustrazione e il mio disagio,
lottando contro la mia voglia di darmela a gambe, ma in quel momento non mi
restava altro che l’infimo desiderio di farmi ancora male, ed ascoltare ciò che
aveva ideato quell’omaccio che tanto mal sopportavo.
In quegli istanti ebbi la certezza assoluta che lui non
sarebbe mai e poi mai diventato mio suocero.
“Allora stammi a sentire per bene. Ho preso un’ardua
decisione, su due piedi; siccome il problema che vi divide e crea disagio tra
voi è quello economico, ho scelto, questa mattina, di devolvervi il denaro che
incasserò la prossima settimana, grazie alla liquidazione dell’azienda agricola
che ho ereditato un decennio addietro a seguito della morte di mio padre, e di
cui non me ne farò mai nulla. Si tratta di un grande podere e di un vasto appezzamento
di terreno circostante, che frutteranno un totale di quattrocentomila euro,
cifra tonda, e…”.
“No, non voglio ascoltare oltre. Non li voglio i suoi soldi,
non accetto che lei mi venga a parlare…”.
“Isabella, basta interrompermi! Questa valanga di soldi sono
la realizzazione dei vostri sogni… potrete vivere per buona parte della vostra
vita in modo tranquillo, se non li sciuperete subito, e potrebbero arginare le
vostre controversie…”.
“Suo figlio è venuto a chiederle una cosa del genere?”,
riuscii a dire. Forse, mi sarei sentita meglio se Marco mi avesse tradito con
un’altra donna. L’unica cosa che gli avevo chiesto, durante il nostro rapporto,
era di non andare a elemosinare da nessuno, e di costruire da noi il nostro
futuro, col nostro sudore. E lui, appena era stato veramente con l’acqua alla
gola, aveva reagito in quel modo che mi aveva distrutto la sua immagine.
“Marco non mi ha chiesto nulla. Solo un prestito. Io infatti
gli darò diecimila euro di mia tasca, ripeto, come prestito che dovrà
risarcirmi entro quattro anni e con la promessa che si darà da fare per
rispettarti e per trovare un lavoro, e i quattrocentomila… li passerei
direttamente sul tuo conto, senza che lui ne sappia nulla. So che tu sei
attenta e parsimoniosa, e potrai farne tesoro per entrambi e per il vostro intero
futuro assieme”, si spiegò, e il mondo mi crollò letteralmente addosso.
La mia mandibola cedette, dallo stupore. Restai a bocca
aperta per qualche secondo, prima di ritrovare la forza di articolare altro con
la mia lingua.
“Crede forse di comprarmi? Io con suo figlio ci sto solo se
torniamo a vivere come prima, senza essere condizionato da lei. Se torniamo nel
nostro appartamento, con tre mesi di affitto arretrato, e ce la mettiamo tutta
per risollevarci da quelle che ormai sembrano sempre più le nostre rovine.
Riguardo a tutte le sciocchezze che ha detto, se le scordi e non parliamone mai
più”, gli dissi, sempre più umiliata e ferita, cercando di essere chiara.
E l’unico aspetto chiaro della vicenda, in quel momento, era
che il signore stava cercando nettamente di influenzarmi e di tenermi buona con
del denaro, un’ingente somma che, per sempre e in eterno, una volta accettata
mi avrebbe legata suo figlio.
E Marco non avrebbe mai fatto nulla, alla fine; non sarebbe
mai migliorato, non sarebbe mai cresciuto, e ogni qualvolta sarebbe sorto un
problema, avrebbe solo avuto di fronte la scelta più semplice, cioè quella di
tornare a casa dai suoi a piagnucolare e a fare una sceneggiata assurda, come
sicuramente aveva fatto anche quella volta.
Sapeva che lì nessuno gli avrebbe mai negato nulla, e gli
sarebbero stati dati altri soldi, sempre seguiti da una piccola ramanzina e
qualche promessa di risarcimento che sarebbe stata dimenticata in fretta. Era
proprio tutto ciò che detestavo di più.
Quei soldi erano una cifra inimmaginabile per me. Ingente,
che mi avrebbe reso ricca. Eppure, avevo anche una dignità, e se li avessi
accettati non ci sarebbe più stata alcuna differenza tra me e la mediocrità più
oscura e fastidiosa del mio ragazzo.
“Ma tu lo ami davvero mio figlio?”, mi chiese a bruciapelo
Valerio, tornando a sospirare.
“Io amo Marco, amo il suo profumo, amo il suo corpo, amo il
suo spirito… ma una parte di lui che ultimamente è venuta fuori con maggior
prepotenza non riesco a sopportarla. Si dimentichi le stupidaggini che mi ha
raccontato, e quando tornerà a casa, gli dica solo questo; che io non vedo
l’ora di tornare assieme a lui, ma solo quando la pianterà di fare il bambino e
vorrà prendersi qualche responsabilità, come fanno tutte le persone. I
quattrocentomila euro voglio che se li guadagni da solo, onestamente e con una
vita di sincero impegno. Punto. Arrivederci”, e così dicendo mi alzai e detti
le spalle a quella faccia tosta del signor Benedetti.
Se aveva creduto di potermi comprare, come doveva aver
pensato, ora sapeva di aver fatto male i suoi conti, e di non conoscermi per
niente.
“Isabella, per favore, aspetta un attimo”, tentò di dire il
mio interlocutore, ma io ero sempre più distante, in marcia verso la mia
automobile. Di tempo ne avevo sciupato fin troppo.
Mi rimproveravo per essermi messa ad ascoltare quelle
cialtronerie, ma ero più che certa che il genitore avrebbe riferito le mie
parole al figlio, e allora Marco si sarebbe ritrovato costretto a fare le sue
mosse e le sue scelte, ed io le avrei atteso. Non aveva senso che restassi a
sottopormi alle sue futili e sciocche domande o ai suoi inutili discorsi.
Salii in macchina, la misi in moto e sgommai via, decisa a
lasciarmi in fretta alle spalle Valerio, nel caso che avesse cercato di nuovo
di raggiungermi per tornare a parlarmi. Nessuno mi avrebbe mai chiamato
approfittatrice, e non avrei mai accettato denaro in quel modo, e tantomeno mi
sarei lasciata sottoporre a domande dalla risposta scontata, ma che volevano
mettere in dubbio la mia buonafede e l’amore che provavo per il mio ragazzo.
Ormai però non sapevo più neppure io cosa provavo per lui,
mentre tornavo verso casa… sapevo solo che le sue prossime mosse sarebbero
state decisive per la nostra relazione, e che quella pausa ci avrebbe fatto
bene, in ogni caso. Ci avrebbe permesso di comprenderci fino in fondo, una
volta per tutte. Valeva la pena, quindi, di lasciarla proseguire e di attendere.
NOTA DELL’AUTORE
Grazie a tutti, come sempre.
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro ***
Capitolo 4
CAPITOLO QUATTRO
Giunsi a casa tutta frastornata. Gli eventi mi stavano
travolgendo, come le mie continue riflessioni, e non sapevo ormai più cosa
dovevo realmente pensare.
In primis, a riguardo del mio ragazzo; mi veniva
continuamente e incessantemente da chiedermi se fosse colpa sua, per la
situazione in cui ci trovavamo, o se fosse colpa dei suoi genitori, siccome
anche suo padre, a quanto pareva, aveva voluto metterci lo zampino.
Oppure era addirittura Marco a giostrare i suoi genitori?
Questa domanda mi distruggeva. Se così fosse stato, e se avessi scoperto una
cosa del genere, l’avrei lasciato subito e per sempre. Non mi andava di essere
presa in giro in quel modo.
Prima di entrare nell’appartata abitazione di mia madre,
sospirai un paio di volte di fronte alla porta d’ingresso, in modo da cercare
di alleviare la mia espressione corrucciata e disturbata, ma ciò giovò a poco,
se non a lasciar scorrere altri preziosi minuti e ad aumentare il mio ritardo,
già considerevole.
Entrai, tutta sudata, e mi diressi in bagno a lavarmi le
mani, lasciando la mia borsetta appesa nell’attaccapanni.
“Ben tornata”, mi salutò la mamma, grintosa, dalla cucina.
“Perdona il mio ritardo, avrei dovuto essere qui già molto
prima, ma purtroppo sono stata trattenuta”, le dissi a voce alta, asciugandomi
le mani e raggiungendola.
Mi misi le mani sulla bocca, dalla contentezza, quando vidi
che, anche per quel pranzo, lei aveva strafatto e la tavola era imbastita come
per una festa.
“Grazie, grazie, grazie!”, quasi le saltai al collo, mentre
un sorriso tornava a riaffiorare sul mio viso, mentre vidi che il mio piatto
era già ricolmo delle gustosissime tagliatelle al ragù di piselli, la
specialità che un tempo era stata tutta di mia nonna e che adoravo.
“Spero non sia accaduto qualcosa di grave”, aggiunse mia
madre, comunque rincuorata dalla felicità e dalla gratitudine che le stavo
dimostrando. E, puntualmente, dopo quella frase persi tutto il mio ardore.
Divenni mogia e mi lasciai scivolare sulla mia sedia, già
discostata dal tavolo. In realtà, non sapevo più cosa pensare né dove battere
la testa; non mi era chiaro nulla e non sapevo che fare. Mi venne spontaneo
aprirmi con mia madre.
Mentre mangiavo il mio mega piatto di pasta, le narrai tutto
quello che mi era accaduto poco prima, a riguardo del signor Benedetti e di ciò
che mi aveva detto e proposto. Naturalmente, cercavo di lottare contro il mio
senso di repulsione mentre mangiavo, per poter godere dell’ottimale gusto della
mia pietanza preferita, che non gustavo da tantissimo tempo. Non riuscivo mai a
mettermi ai fornelli, quando convivevo con Marco, siccome ero sempre sommersa
di impegni e di cose da fare.
Mia madre mi ascoltò senza mai interrompermi, mangiando anche
lei, a piccoli bocconi, e non disse assolutamente nulla fintanto che non ebbi
finito il mio resoconto.
“Uhm, non saprei dove battere la testa pure io, se mi trovassi
in una situazione del genere”, infatti disse, mentre riprendevo fiato.
“Consigli?”, le chiesi, titubante come una bambina.
Lei mi sorrise caldamente.
“Di seguire il tuo cuore e quello che pensi”.
“Non ho chiaro nulla, mamma. Non so proprio cosa pensare, e
il mio cuore è come diviso. Diviso tra l’amore che provo per Marco, e il vuoto
freddo che provo ora, quando ripenso a lui e alla nostra convivenza”.
Non mi nascosi dietro a inutili giri di parole.
“Capisco. Beh, io ti consiglio di aspettare; secondo me,
presto avrai tutto più chiaro”, mi suggerì, ed io non potei far altro che
annuire. Era proprio così, non potevo far altro che starmene calma ed
attendere.
La mia parte l’avevo fatta; stava al mio ragazzo fare il suo
passo avanti e dimostrare che era un uomo interessato e innamorato, in quel
momento. Anche se la distanza da lui e dal suo corpo mi turbava.
Mi mancavano i nostri contatti, le nostre frivolezze, le
nostre piccole gioie a letto, la passione che investivamo tutta nei nostri
istanti più intimi… eppure, lui mi aveva rivolto uno scherzetto che non mi era
piaciuto, e odiavo come si stava evolvendo la questione, siccome sembrava che
più le ore passavano, più fossimo distanti. Come se il divario stesse
aumentando, ed io stessa avevo paura che, anche a breve, si potesse tramutare
in una voragine impossibile da arginare.
Forse, in meno di un giorno stavamo già mandando alla malora
anni e anni di frequentazioni e di momenti condivisi.
Sei anni non erano stati pochi; avevo conosciuto Marco a
vent’anni, in discoteca, quando per sbaglio mi aveva pestato un piede, e per
scusarsi mi aveva offerto da bere. Da quegli istanti in poi, eravamo diventati
inseparabili. Ci capivamo ed andavamo d’accordo, tutto sommato.
Il nostro era sempre stato un rapporto molto semplice, basato
sulle piccole cose, e così dopo quattro anni di fidanzamento, frammentati da
qualche piccola pausa a causa di qualche breve discussione tipica di tutti i
giovani innamorati, mai nulla di grave comunque, avevamo pensato di provare a
scegliere noi stessi il nostro destino, e di tentare la sorte cominciando una
convivenza.
Ma durante questa stessa convivenza, il suo lato più da
smidollato era venuto a galla, in maniera sempre più evidente, ed io avevo
parlato tanto e a vanvera; il risultato di ciò era quello che stavamo vivendo
in quel momento.
Nonostante tutto, ci eravamo sempre amati e non ci eravamo
mai traditi, e quella breve pausa l’avevo scelta solo per fargli capire che non
poteva fare per sempre il bambino, e che io ero finalmente pronta ad avere un
vero uomo a mio fianco. Ma a quanto pareva, la metamorfosi finale che mi
sarebbe tanto piaciuto vedere aveva voglia di farsi attendere un pochino. Ed io
avrei atteso il giusto tempo.
“Hai ragione, mamma. Saprò aspettare”, dissi a mia madre,
lasciando andare la mia sconsolazione, per afferrare una bella tazzona di
cioccolata calda che pure in estate non passava mai di moda.
“Certo che ne ha avuta della faccia tosta, Valerio”, osservò
candidamente la mia scaltra interlocutrice. Lei conosceva da molto tempo prima
di me il padre di Marco, essendo stato il suo datore di lavoro per alcuni anni
consecutivi, un trentennio prima.
Non l’aveva mai avuto in antipatia, però; quello era solo un
problema mio.
“Il problema è che temo che ci sia Marco dietro a tutto ciò.
Insomma, io lo lascio per qualche ora, lui torna a casa sua a piagnucolare dai
suoi e il padre si presenta da lì a poco, per importunarmi con le sue stupide
idee… non so, potrebbe anche essere una coincidenza e che Valerio abbia scelto
da solo di venire da me a propormi certe cose, però è come se una parte del mio
animo affermasse il contrario”, ammisi, ormai senza più difficoltà a
riconoscere Marco come un giovane disperato che poteva aver fatto una
sceneggiata per spingere suo padre a farsi avanti in un modo così deciso e
netto.
“Non so se dietro ci sta il tuo ragazzo oppure no, questo non
possiamo saperlo al momento. Ma lui si è fatto sentire? Ti ha almeno cercata, o
anche semplicemente mandato un messaggio sul cellulare?”, tornò a chiedermi mia
madre, mentre cominciava a sbagagliare.
Mi venne da storcere il naso dal disappunto.
“No. Silenzio assoluto”.
La mamma si fermò un attimo e mi lanciò una lunga occhiata.
“Aspetta quello che ti dirà lui. Se ci tiene a te, si farà
avanti. Altrimenti, lascialo! Non vedi che rammollito che è? E poi, sei ancora
tanto giovane, e sei pure carina, ed io credo che tu possa trovare di meglio…”.
Mia madre si interruppe solo quando notò che aveva toccato un
tasto sbagliato.
Di fronte alle sue parole dubbiose rivolte contro Marco, io
mi ero alzata in piedi.
“E’ meglio che parta, tra poco devo riprendere il mio turno
al bar”, le dissi, semplicemente, tornando a prendere la mia borsa ed
andandomene. Non potevo permettere che quei suoi pareri soggettivi finissero
per scombussolare ulteriormente le idee che avevo per la testa, e magari
commettere sciocchezze a causa d’altri.
Era vero che ero stata io a chiedere consigli a mia madre, ma
non le avevo concesso il lusso di sparlare in quel modo, che tra l’altro se
detto da lei, la donna succube del marito ubriacone per un ventennio
abbondante, era come ascoltare barzellette.
Non mi preoccupai quindi di averla piantata in asso in quel
modo; la mia saggia interlocutrice era una donna intelligente, ed ero certa che
mi avrebbe capita e scusata, siccome quello non era proprio il momento ideale
per me per udire simili discorsi, che rischiavano solo di aggravare il
problema, invece di risolverlo.
Mi accinsi quindi a ripercorrere il tragitto che mi separava
da L’angolo della bontà, e a
riprendere il mio turno. Era già l’una e trenta, e il calvario lavorativo ben
presto sarebbe tornato nel vivo, e dovevo sgombrare la mia mente da ogni altro
problema.
Di nuovo all’inferno.
C’erano dei pomeriggi in cui pensavo davvero di non farcela.
Un conto era sopravvivere durante le due ore del mattino, un altro era
affrontare la lunga tirata che andava dalle quattordici alle venti di sera.
Poi, d’estate, era ancora peggio; la mia mente volava fuori
da quel locale, andava in riva al mare, su una qualche spiaggia deserta, oppure
a sorseggiare qualche gradita bevanda fresca e gustosa… ed invece ero
incatenata lì dentro. O, meglio, ero incatenata dalle mie idee di
sopravvivenza.
Continuavo ancora a giurare a me stessa che non ero fissata
col lavoro, ma esso mi dava dignità, e si sa, ogni cosa va ben pagata, nella
vita. Quello era il prezzo per poter avere un buon stipendio a fine mese.
Dalle quattordici alle diciotto si trattava delle ore più
tranquille, giusto servire qualcosa da bere, poi qualche aperitivo. In seguito,
la gente veniva a cenare e allora si cominciava a sgobbare di più. Ma durante
quel giorni di piena estate, alle quindici non c’era nessun avventore nel
locale, a parte uno sventurato tutto tatuato e giovane che leggeva un giornale
sportivo, sorseggiando un’aranciata.
Io sudavo, nonostante l’aria condizionata, ed ero certa che
ben presto mi sarei ammalata, andando avanti di quel passo. La mia fortuna era
che non avevo nessuno, in quel momento, che mi stesse col fiato sul collo; lo
chef era andato a casa, Ilenia aveva concluso il suo turno quotidiano e le due
dipendenti part-time non coprivano quegli istanti più smorti della giornata. E
la signora Virginia, stranamente, non era appostata dietro la cassa, sul suo
sgabello sul quale stava costantemente appollaiata.
Mi misi a spazzare il pavimento, giusto in tempo per farmi
intercettare dal ragazzo, che accennò a pagare.
“Certo. Fanno un euro e trenta, in totale”, gli dissi, e
siccome la padrona non c’era da nessuna parte, attesi un attimo.
“Non ho tutta la giornata”, mi tornò a dire il cliente,
giustamente.
Allora andai alla cassa a fare lo scontrino e ad incassare il
piccolo guadagno.
Non l’avessi mai fatto. Virginia sbucò improvvisamente dal
retro, e mi fu addosso in un battibaleno, come una vera arpia.
“Quante volte ti devo dire che non ti voglio dietro la cassa?!
Il tuo posto è a servire, a spazzare e a lavare i pavimenti e il bagno. Vai a
fare immediatamente il tuo lavoro”, mi disse, quasi urlando.
Umiliata così in malo modo di fronte al giovane avventore,
anch’egli rimasto sbalordito da tale slancio della signora, che si era subito
precipitata a riprendere posto sul suo sgabello e a premere rumorosamente i
tasti della cassa, mi salirono le lacrime agli occhi e mi feci immediatamente
da parte.
Non appena ebbe consegnato lo scontrino e il giovane se ne fu
andato, Virginia tornò crudelmente a parlare.
“Te lo ripeto per l’ultima volta, e poi non lo farò più,
giuro; a pulire il locale e a servire, ok, dietro la cassa, no. Capito? La
prossima volta che ti pesco lì ti licenzio all’istante”, tornò a redarguirmi,
ormai sole.
Alzai lo sguardo dal pavimento, con umiltà e con gli occhi
umidi. Mi aveva piegato. Conoscevo la sua avversione per quel genere di
situazioni, ma il cliente aveva fretta e lei non c’era; avevo pensato di fare
una cosa giusta.
“Signora, il cliente aveva fretta, e lei non c’era da nessuna
parte…”.
“Quando ho bisogno del bagno non credo di doverlo dire a te,
o di chiedere il tuo permesso”, mi rispose, interrompendomi ed alzando la voce.
“Mi scusi, non accadrà mai più”, mi chinai ulteriormente,
sentendomi però ardere di rancore.
Aveva avuto paura che le rubassi uno spicciolo? Per qualche
motivo, altrimenti, c’era il bisogno di divorarmi in quella maniera? Lasciai in
disparte i miei interrogativi e cominciai a passare lo straccio, sconsolata.
Quello era davvero un periodo no.
Ma a volte è incredibile quanto il destino possa rimescolare
le carte in tavola.
Accadde infatti un evento davvero irrisorio, che chiunque
potrebbe considerare addirittura banale da ricordare, eppure fu da quel momento
in poi che tutto cominciò a cambiare in maniera più curiosa.
Entrò, qualche secondo dopo la fine della sfuriata che avevo
ricevuto senza pietà, un uomo che non attirò neppure la mia attenzione, mogia
com’ero, e con gli occhi umidi e arrossati che non riuscivo ad alzare da terra.
La megera era riuscita a spezzarmi definitivamente.
“Buon pomeriggio!”, esordì con il suo vocione deciso, ma
rilassato e un pizzico allegro.
Io non risposi neanche; ancora devastata psicologicamente,
troppo timida a quel punto per farmi vedere da un perfetto sconosciuto in
quello stato, lasciai che fosse la proprietaria dell’attività a fargli festa,
siccome la sentii quasi lanciare uno strillo di gioia non appena lo vide.
“Piergiorgio, che piacere averti qui! Qual buon vento…”,
cominciò a dire Virginia, abbandonando quel tono da racchia inviperita che
utilizzava sempre quando si rivolgeva ai suoi poveri dipendenti, nella medesima
maniera con cui mi aveva spiegato le sue ragioni poco prima.
Le riconoscevo che, una volta fuori da dietro a quel bancone
e lontano dagli orari di lavori, quelle poche volte che mi era capitato di
incontrarla per caso in giro per la città mi era parsa una sorta di seconda
mamma, dal tanto che era buona e premurosa. Allo stesso modo, lo era con i
clienti. Ma con i dipendenti, e in orario lavorativo, si tramutava in un
abominio insopportabile, e spesso esagerava.
Forse era solo fissata col lavoro, e voleva vedere tutto
perfetto al cospetto del suo personale punto di vista… forse era come me, in
fondo. Almeno io non mi ero ancora inacidita in quella maniera eccessiva, però,
per mia fortuna.
“Virginia cara! Figuriamoci se non mi fermavo a farti un
saluto, approfittando del fatto che ero qui nei paraggi, per motivi di lavoro”,
continuò lo sconosciuto, mentre io pulivo un tavolino.
Mi rimase subito impressa, da lì a poco, la sua voce
mascolina; era pura, senza alcuna cadenza dialettale, e di una profondità
deliziosa e perfetta, quasi melodica, maschilmente senza imperfezioni. Era un
piacere udirla.
Tuttavia sbuffai, stanca e mortificata, e continuai il mio
lavoro; mai che mi fermassi, per fare poi nell’occhio alla mia datrice di
lavoro, e rischiare un’altra linciata.
“Ti ringrazio! So che sei sempre molto impegnato. D’altronde,
un uomo come te…”.
Udii lo schiocco di un paio di baci sulle guance. Per
permettersi un simile gesto, quell’uomo doveva essere davvero molto importante
per la vita della fredda Virginia.
A quel punto, per qualche istante sollevai lo sguardo, pronto
a fissare l’estraneo, che stava ricevendo in quegli istanti un’accoglienza che
mai, da quando lavoravo in quel locale, era stata riservata a qualcuno. I due
si stavano ancora fissando amichevolmente, quando colsi, da fianco, il profilo
dell’interlocutore che stava tanto a cuore alla megera; si trattava di un
ometto di statura media, di quelli d’una volta, d’un età che, con quel primo
sguardo, non seppi affermare con certezza, ma dai capelli ancora neri e dalla
leggera barbetta ingrigita, mi venne da dargli una sessantina d’anni.
Tutto tirato a lucido, il signore era anch’egli in giacca e
cravatta e in scarpe di cuoio nero e incredibilmente luccicanti, con in mano
una ventiquattrore e una camicia bianca delicatamente ripiegata, infilata però
malamente nella maniglia che sorreggeva la valigetta anch’essa di cuoio.
Mi venne spontaneo lasciarmi sfuggire un sorriso; pensavo che
quello fosse un qualche spasimante di Virginia, e a scatenare per un attimo la
mia ilarità fu l’immaginarmi la signora che flirtava in modo più intimo con
quel signore perfettino e dall’apparenza gioviale ed amichevole, da come si era
presentato.
Poi, il sorriso mi morì naturalmente subito sulle labbra,
ricordando quant’accaduto poco prima. Non riuscivo a mandar giù quel boccone
amaro e non volevo pensare oltre alla strega.
“Ah, ma non esagerare, mia cara…! Non esagerare… troppo
buona…”, continuò a dire l’uomo, ma io smisi di prestarci caso. Avevo da finire
la pulizia dei tavoli, poi dovevo spazzare e passare lo straccio, e in seguito
dare un’occhiata ai bagni, una parte del locale che doveva essere sempre linda
e pulita al massimo… ma il mio concentrato resoconto mentale fu interrotto da
lì a qualche secondo.
“Buon pomeriggio, eh”.
Strappata dalle mie momentanee riflessioni, e sulle mie
personali dannazioni, siccome pulire il bagno era ciò che più odiavo del mio
lavoro, tornai a fissare, quella volta in modo diretto, l’uomo appena arrivato,
che si era diretto verso di me e stava prendendo posizione sulla sedia che
avevo di fronte, mentre ne spolveravo il tavolino con un panno umido.
Con il mio viso ancora leggermente arrossato per ciò che era
accaduto di recente, incontrai con uno sguardo i suoi occhi, gli occhi di
quello sconosciuto attempato; rimasi sbalordita. Incontrai infatti una
profondità struggente, che mi travolse, quasi come se fosse stato un colpo di
fulmine.
Per un istante rimasi inebetita di fronte a lui, senza
riuscire a dire una sola parola e senza riuscire ad indentificare il motivo per
cui mi ero bloccata in quel modo, ma poi capii cosa mi avesse colpito; il fatto
che si era interessato a me. Un gesto davvero gentile, sicché a parte mia
madre, pochi altri nella mia vita l’avevano mai fatto.
Certo, anche Marco, ma naturalmente a modo suo, sapendo che
comunque per un ragazzo dev’essere più complicato mostrare la propria
sensibilità.
Era vero che il signore mi aveva buttato lì quel paio
abbondante di parole in un modo che chiunque avrebbe potuto fare, ma per me, in
quel determinato momento in cui stavo per davvero sfiorando il fondo, mi parve
quasi un segno di benevolenza divina.
“Buon pomeriggio”, lo ricambiai, sforzandomi poi di sfoggiare
un sorriso, dopo qualche istante in cui avevo fissato direttamente i suoi
occhi, e lui aveva sostenuto il mio sguardo. Dovevo anche premiare la gentilezza
di avermi rivolto la parola, quando per la maggior parte dei clienti altro non
ero che un fantasma che diventava visibile solo quand’era ora di pulire, di
prendere le ordinazioni e di servire ai tavoli.
“Che ragazza dall’aspetto simpatico! Non ti avevo mai notato,
qui”, tornò a dirmi, appoggiando poi il materiale che portava con sé sulla
sedia a fianco di quella che aveva appena occupato, e distogliendo lo sguardo
da me.
“Ho assunto Isabella circa un anno e mezzo fa”, intervenne la
proprietaria, amabilmente, avvicinandosi senza permettermi di rispondere in un
qualche modo.
“Oh”, si lasciò sfuggire il signore, tornando a gettarmi
un’occhiatina furtiva e solare.
“Sai, Piergiorgio caro, sarà solo un lustro abbondante che
non ti degni di fare una capatina qui, al cospetto di una tua ormai vecchia
conoscenza”, tornò a dire Virginia, leggermente ironica, facendomi da parte con
una spintarella ed andandosi a sedere di fronte al cliente.
Rimasi allibita da quel gesto; la signora, se difficilmente
si schiodava dallo sgabello dietro la cassa, non si sedeva assolutamente mai di
fronte a qualche avventore, pure parlandogli. Compresi che tra i due doveva
esserci una conoscenza approfondita e di certo risalente al passato, e mi
sentii di troppo lì accanto a loro, soprattutto per via del fatto che nel
locale non c’era nessun altro, a parte noi tre.
Così, cercai di allontanarmi di qualche passo, nascondendo il
mio viso ancora segnato dalle mie sofferenze interiori molto recenti e
afferrando la scopa, cercando di spazzare come se nulla fosse e nessuno si
fosse mai degnato di rivolgermi la parola. Mai che io dovessi entrare di nuovo
in contrasto con la padrona.
“Ma sai… carissima Virginia… il mio lavoro… conosci le
circostanze…”, quasi borbottava il signore, di fronte a una Virginia che
conoscevo molto poco, da come si stava atteggiando in quel momento.
“Ma certo, ma certo, io stavo scherzando! Non fare così. Sai
che ti adoro, e che qui sei sempre il benvenuto”, lo rassicurò prontamente la
gentilissima signora, nei panni della buona amica appena ritrovata.
Mi venne quasi da fare una smorfia, mentre continuavo a
spazzare, compiendo qualche altro passo verso il lato opposto del locale, anche
se ormai mi restava quasi solo da cozzare contro il muro esterno, trovandomi in
un ambiente stretto e allungato. Percepii poi la risatina cortese e timida
appena abbozzata dall’uomo.
“Isabella cara, porta due caffè e due brioches! Offre la
casa”, tornò a dire Virginia, mentre io mi affrettavo ad eseguire l’ordine.
“Ma che stai dicendo?! Ma no, non disturbarti…”. E via alle
rassicurazioni cortesi del signore molto gentile, che col suo charme,
evidentemente, era riuscito anche a piegare la rigidissima proprietaria de L’angolo della bontà.
Eseguii l’ordine in tempo record, e in un battibaleno ero già
pronta a servire al tavolino ciò che era stato richiesto, dopo aver afferrato
le ultime due brioches rimaste ed aver preparato due caffè davvero invitanti, e
fui talmente tanto veloce che il cliente, ormai considerabile come ospite,
stava ancora continuando a invitare la proprietaria a non scomodarsi per lui, e
forse era davvero in imbarazzo, siccome quando recapitai l’ordinazione con l’apposito
vassoio lui era leggermente arrossato in volto.
Non lo fissai ma mi limitai a servire, con altrettanta
solerzia; mai al mondo volevo rischiare di incorrere in un altro sfogo della
megera.
“Grazie, Isabella”, disse la padrona, concedendomi un sorriso
che sembrava spontaneo e puro.
“Grazie, signorina”, ringraziò anche l’avventore, e sentii di
nuovo il peso del suo sguardo su di me, mentre gli servivo il caffè.
“Di nulla”, mi limitai naturalmente a dire, depositando anche
le brioches.
“Complimenti, Virginia! Noto che hai assunto una ragazza
molto gentile e diligente!”, disse Piergiorgio, con calore.
Gli rivolsi un mezzo sorriso colmo di gratitudine,
allontanandomi e preparandomi a tornare a spazzare. I complimenti di un cliente
erano ciò che influenzava con maggiore positività la signora; sicuramente
quelle parole appena riservate a me da quell’uomo che in effetti non era solo
un semplice cliente per lei, potevano essere decisive per me, dopo la sfuriata
di poco prima, e le promesse brutali che di tanto in tanto si lasciava
sfuggire.
Avevo un posto relativamente sicuro, essendo stata assunta da
qualche mese firmando un contratto che mi garantiva un posto fisso di lavoro,
ma i capricci della signora avrebbero potuto anche mandarlo all’aria, se si
fosse ritenuta molto insoddisfatta di me. Non sarebbe stata la prima volta che
l’avrebbe fatto.
“Ah, lo so! Ti garantisco che se Isabella non avesse
rispecchiato questi requisiti, non sarebbe stata assunta qui dentro. È una
giovane molto capace e piena di tanta voglia di fare, e soprattutto di
strafare, tanto che delle volte mi tocca rimproverarla un po’…”.
Avrei voluto accecarla, Virginia. Quanto odiavo quel tono
melenso che stava assumendo!
Per un attimo alzai la testa per ringraziarla, prima di
tornare a capo chino a spazzare.
“Mi sembra un po’ triste, però. Su con la vita, ragazza!
Senti com’è felice di averti qui la tua datrice di lavoro!”, ribatté l’uomo, in
modo gentile, tornando a rivolgersi a me.
Ecco, in maniera inconsapevole aveva appena affondato il dito
nella piaga, poiché non credevo che Virginia fosse poi così sempre contenta di
avermi assunto, ma forse questo era solo qualcosa che mi ero messa io in testa.
“Ah, sarà per quel che è accaduto poco prima… io e lei
abbiamo avuto un breve dibattito molto… ehm… nervoso”, intervenne Virginia, molto
diplomaticamente.
Chiamata in causa, non potevo farmi passare per sordomuta, e
starmene ancora a capo chino.
“Oh, non è solo per quello, signora”, mi venne spontaneo e
naturale dire.
Poi, subito dopo, ebbi l’istinto primordiale di tapparmi la
bocca con le mani, anche se logicamente non assecondai il gesto. Il continuo
stress emotivo degli ultimi due giorni mi aveva talmente tanto sfiancato da
lasciarmi aprire in quel modo ingenuo davanti a due perfetti sconosciuti, l’una
dei quali era anche un’amante della perfezione.
“Cos’è successo, carissima? Cosa ti turba così tanto da rendere
triste il tuo bel viso?”, chiese infatti all’istante Virginia, afferrando a due
mani l’amo che avevo sconsideratamente lanciato.
A quel punto però non aveva più senso per me mentire, e
mentre spazzavo, mantenendo di nuovo lo sguardo chino verso terra, lasciai che
dalla mia bocca uscisse la verità. Non me ne importava della falsità di chi mi
stava di fronte, o di come avrebbero potuto giudicare degli estranei la mia difficile
situazione, e forse desideravo solo dirlo e tirare così un sospiro di sollievo,
come per volermi liberare da un peso che mi angustiava in modo costante.
“Ho avuto dei… problemi con il mio ragazzo”, dissi, senza
approfondire.
“Oddio, cara… spero nulla di grave!”, rimboccò la signora,
emettendo poi un breve singhiozzo dalla parvenza quasi teatrale.
“No… ho solo deciso che… avevamo bisogno di una pausa”,
borbottai, continuando il mio lavoro.
“Oh, quanto ci dispiace!”, tornò a dire Virginia, mostrandosi
molto preoccupata per me.
“Non conosco il vostro rapporto e ciò che vi ha spinto a
prendere una pausa, come dite voi della vostra generazione, ma vedo che ti
manca, e che ne sei rattristata. Voglio rassicurarti, se mi è permesso, e dirti
che se è amore vero, tutto si risistemerà meglio di prima. Vedrai che sarà
così, non disperarti”, mi disse a sorpresa l’uomo, sempre con tono molto
gentile e controllato, donandomi un consiglio quasi da padre. Si vedeva che
l’aveva detto col cuore, lo percepivo.
Gli fui grata del suo intervento, che in effetti mi fece
riflettere un attimo, e di conseguenza mi spinse a calmarmi un po’. Virginia
era sedata e molto probabilmente la pausa col mio ragazzo sarebbe finita a
breve; insomma, era una prospettiva perfetta, al momento.
“La ringrazio. Farò tesoro delle sue parole”, dissi al
cortese Piergiorgio, alzando lo sguardo ed incontrando il suo, senza però che i
suoi occhi tornassero a fissare i miei in modo diretto. Con sfuggevolezza, li
distolse.
“Ora devo proprio andare, il dovere mi chiama. Grazie,
Virginia”, tornò a dire l’uomo, alzandosi dalla sedia e porgendo la mano alla
proprietaria, che la strinse, per poi alzarsi anch’essa.
“Te ne vai già? Ma certo, tu sei sempre molto impegnato…
spero solo che tornerai a trovarmi. Per te, offre sempre la casa!”.
Ero certa che, a parlare così, fosse una donna accecata
d’amore. E la realtà, mentre proseguivo a spazzare, mi piombò addosso come un
macigno; Virginia, la donna di acciaio, era innamorata, forse, di quel suo
coetaneo. Mi venne di nuovo da sorridere, e quella volta lo feci di nascosto.
“Oh, ti prometto che tornerò a farti visita, ma pagherò,
perché non voglio abusare assolutamente della tua gentilezza. A presto,
Isabella!”, salutò anche me, prima di andarsene, quasi di fretta.
Mi volsi a guardarlo, e vidi che mi sorrideva, per poi uscire
dal locale.
Restai un attimo ferma, riflettendo su quel che era accaduto
durante quella giornata di lavoro più strana del solito, fintanto che non fui
subito richiamata.
“Isabella cara, per favore, riprendi il tuo lavoro…”.
La signora Virginia mi rimproverò molto dolcemente, quella
volta. Che stesse evitando di sbranarmi come suo solito solo perché l’avevo
impietosita col mio racconto di poche parole? Oppure perché lo sconosciuto che
le stava tanto a cuore, e che si era rivelato molto cortese anche con me, aveva
spezzato una piccola lancia in mio favore? Non riuscii ad offrirmi alcuna
risposta. Però seppi riprendere il mio lavoro senza farmi ripetere il
pacatissimo rimprovero.
E poi, il locale cominciò a riempirsi di gente, pronta a
godersi un refrigerante aperitivo in compagnia, e ben presto sarebbe giunta una
delle ore di punta, e allora non avrei avuto neppure un attimo da dedicare alla
mia solita introspezione.
Sospirai, ben sapendo che mancavano ormai solo due ore e
mezzo prima che la mia giornata lavorativa giungesse alla conclusione, ma mi
ripetevo che il peggio doveva ancora arrivare, ossia il momento di servire le
cene.
Sospirai nuovamente, e mi estraniai da me stessa per un po’;
volevo mettercela tutta anche per quel giorno, e concludere al meglio. A
riguardo del restante fardello di problemi, avrei avuto tutto il tempo per
rifletterci sopra una volta che sarei uscita da quell’impegnativo e sempre più
rumoroso locale.
NOTA DELL’AUTORE
Carissime amiche,
vorrei avvisarvi. Dopo questo aggiornamento, infatti,
sospenderò le pubblicazioni dei prossimi capitoli del racconto fino ad un
lunedì ancora da destinarsi. Infatti, sono obbligato per forza di cose e di
scadenze a dare la precedenza ad alcuni racconti che sto preparando per un paio
di contest, e che devo pubblicare entro la fine del prossimo mese… essendo
complessi, e anche a più capitoli, da lunedì prossimo inizierò a pubblicarne
uno. Se vorrete, potrete nel frattempo seguirmi anche in quelle brevi
avventure(i capitoli infatti saranno molto, molto brevi), e poi… appena
concluderò di pubblicare ciò che ha scadenza, ritornerò ad aggiornare con gioia
^^ non temete, ho un bel po’ di capitoli da parte, a riguardo di questo
racconto ^^
Grazie per la pazienza, e mi scuso per eventuali disagi. Il
Principe Azzurro arrivò a Mezzanotte tornerà ad essere aggiornato il prima
possibile ^^
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque ***
Capitolo cinque
CAPITOLO CINQUE
Tornai a casa a pezzi, non mi sentivo quasi più le gambe, ed
anche guidare e percorrere il tragitto che mi avrebbe riportato da mia madre
era stato in un certo senso sfiancante, ma anche molto malinconico.
Mi tornava continuamente alla mente che, solo la sera prima,
in quel medesimo momento stavo sfrecciando dalla parte opposta, diretta verso
l’appartamento in cui convivevo. E di Marco ancora nessuna notizia.
Ci stavo troppo male, era come se la mia realtà si fosse
scombussolata, talmente tanto da rendere sbiadito anche il ricordo del
confronto che avevo avuto solo otto ore abbondanti prima con il genitore del
mio ragazzo. Ecco, mi sentivo debole, fragile; rivolevo Marco, rivolevo le sue
labbra, e, in un certo senso, anche il suo egoismo.
Solo quando la mia provata auto, acquistata l’anno precedente
in una concessionaria che vendeva anche dei mezzi usati, fece un brusco rumore
strano, riuscii a ritornare alla realtà, e a comprendere che dovevo essere più
forte, e non crollare per un nonnulla.
Non badai ai problemi del mio vecchiotto veicolo di seconda
mano, siccome ormai ero abituata ai rumorini strani che di tanto in tanto produceva,
e ripensai alle frasi che mi aveva riservato Piergiorgio, l’originale cliente
amico di Virginia. Questo mi rassicurò, in fondo le sue parole erano davvero
rinfrancanti.
Una volta aver parcheggiato nel piccolo garage di mia madre,
balzai subito in casa, sfiancata e provata sotto ogni punto di vista.
Desideravo solo una doccia, come mio solito e come ogni sera, ma logicamente,
in quei giorni in cui tutto pareva che dovesse andare per il verso sbagliato,
mi ritrovai di fronte mia madre, avvolta dal profumo di un arrosto che di
sicuro mi stava attendendo nella vicinissima cucina, a pochi passi da me.
“Ben tornata”, mi accolse la mamma, venendo a darmi un bacio
sulla guancia come suo solito. La mia brusca partenza di metà giornata sembrava
già esser stata dimenticata.
“Grazie, mamma”.
“Cara, ti ho preparato un po’ di cena…”.
“Ma dai… ti dico e ti ripeto sempre di non preoccuparti per
me! Devi comportarti come se non ci fossi”, le dissi, fingendomi irritata,
quella volta.
Oh, l’odore che stuzzicava il mio naso era divino, un vero e
proprio profumino invitante, e non vedevo l’ora di fiondarmi ad affrontarlo. La
doccia poteva aspettare anche per quella sera, in fondo.
“E io ti ripeto che lo faccio con immenso piacere”, mi
rassicurò come suo solito, “e serviti pure, eh! Prendi tutto quello che vuoi”,
m’invitò poi, mentre io ero già in cucina e al cospetto del cibo, sistemato per
bene in un tegame grande e spazioso.
Non riuscii più a trattenermi, e fu più forte che mai; mi
fiondai a scegliere i pezzetti di pollo già tagliati dalla cuoca provetto che
li aveva cucinati, e feci razzia del petto, siccome il resto non mi faceva
impazzire. Ma restava il fatto che quando mia madre si metteva seriamente ai
fornelli, come quella volta, tutto era gustoso e non c’era nulla da lasciare da
parte o di meno gustoso.
Mangiai di gusto, e lei con me, dopo aver atteso che mi fossi
servita in modo molto egoista, ma davvero, non ci vedevo più dalla fame, e
messa di fronte a quel ben di Dio nulla era riuscito a trattenermi dal
gozzovigliare maleducatamente.
Notai con la coda dell’occhio, comunque, che di tanto in
tanto mi lanciava un’occhiatina furtiva, come se avesse qualcosa da dirmi, ma
stesse attendendo il momento più propizio per farlo, come a non voler rovinare
quella ritrovata e tranquilla pace tra noi.
“C’è qualcosa che devi dirmi?”, le chiesi, tuttavia, non
appena mi ritrovai ad un passo da concludere la mia porzione, con lo stomaco
già praticamente pieno e senza più provare quel famelico bisogno di nutrirmi.
“Uhm… ehm… perché?”, borbottò la mia interlocutrice, che
aveva già concluso il suo pasto serale.
“Beh, è solo mezz’ora abbondante che mi fissi di nascosto in
modo strano…”, le dissi, cortesemente, finendo poi di masticare l’ultimo
boccone di pollo che era rimasto nel mio piatto.
“In realtà, sì”, ammise, in modo tranquillo.
“Ah”.
Allontanai il piatto, debolmente, mentre lei lo raccoglieva
per metterlo nel lavabo.
“Sono andata ad avvisare il signor Mauro della vostra pausa”.
Sobbalzai sulla sedia. Il signor Mauro era il clemente
proprietario dell’appartamento in cui convivevo, e non riuscii a comprendere la
mossa della mamma, effettuata a mia insaputa.
“Perché?!”, mi venne così spontaneo da chiedere, ancora
ingenuamente.
Ero una ragazza piuttosto incapace di nascondere le mie
emozioni e di trattenermi, e questo mi rendeva molto prevedibile agli occhi di
chi mi conosceva bene. Infatti, mia madre mi rivolse l’ennesima occhiata
contrariata.
“Ti sembra educato scappar via dall’appartamento in affitto
in quel modo? Mauro si stava chiedendo che fine aveste fatto. Ha detto che ha
udito del trambusto per buona parte della notte, e poi basta. Al mattino, le
vostre finestre non sono state aperte, era tutto chiuso e nessuno di voi è
uscito di casa. Era molto preoccupato, non riusciva a capire cosa vi fosse
successo, per lasciare così in fretta tutto quanto ed andarvene”, mi disse, a
voce moderata, lasciando trapelare un po’ di nervosismo.
“Ma come… Marco…”.
“Marco ha fatto le valigie poco dopo di te e se n’è tornato
definitivamente a casa dei suoi genitori”, sancì mia madre, spiaccicandomi la
cruda verità in faccia.
Non sapevo che dire o cosa pensare; avevo creduto che lui,
anche se si era rivolto alla sua famiglia, avesse continuato ad attendermi lì,
in quello che era diventato il nostro nido d’amore, dove avevamo passato tanti
bei momenti di piacere condiviso. Mi rendevo conto che se ciò era vero, lui
aveva deciso non solo di non tentare di abbandonare il suo egoismo, ma anche di
gettare totalmente la spugna e rinnegare anche il nostro più piccolo sogno
d’indipendenza.
“Non temere, Mauro mi ha detto che l’appartamento lo terrà
sfitto per un po’, siccome immagina che tra di voi le cose si sistemeranno, e
allora potrete tornare a occuparlo quando volete”, proseguì la mamma, dopo
qualche istante di profondo silenzio da parte mia. Ma io continuavo a non
sapere proprio cosa poter aggiungere.
Sembrava che tutto fosse davvero precipitato, e
all’improvviso mi ritrovavo ad immaginare il nostro appartamento ormai vuoto, e
nonostante fosse stato un luogo angusto che avevo tante volte maledetto
mentalmente, si trattava pur sempre di un luogo che ormai mi era caro, una
sorta di tempio. E quel tempio, senza le nostre presenze e le nostre cose, era
come se fosse stato razziato.
Mi chiedevo il motivo per cui Marco non mi avesse atteso, e
perché avesse preferito darsi alla macchia fin da subito, e… capii. Un debole.
O l’aveva fatto per ripicca. Mi aveva ripagato con una mossa che doveva essere
pane per i miei denti, siccome sapeva bene come la pensavo su tutto e sul
nostro rapporto di coppia.
Mi venne improvvisamente da piangere, e trattenni un
singhiozzo, mentre la disperazione crescente ed improvvisa si fondeva con un
senso di nausea che non mi sarei mai aspettata di poter provare in modo così
intenso.
Lasciai la cucina quasi di corsa, senza aprir bocca, e salii
le scale in fretta, per chiudermi a chiave in bagno, a lasciar sfogare le mie
lacrime, solo per qualche istante, per poi tornare a indossare la mia maschera
che comunque ormai avevo calato di fronte a quasi tutti coloro che avevano
avuto contatti con me durante quella mesta giornata. La prima senza di lui, e
la prima in cui lui mi aveva fatto soffrire in quel modo barbaro, seppur
indirettamente.
Mi soffiai rumorosamente il naso, incapace di gestirmi, e
sentii qualcosa di caldo e viscoso che mi colava improvvisamente fino alle
labbra, per poi cadere nel lavandino; era sangue. Sangue dal naso, come ogni
volta che vivevo un periodo altamente stressante, e mi ritrovavo a piangere e
ad utilizzare molto di frequente i fazzoletti.
“Isa? Isa, apri questa porta. Non volevo, non credevo di
ferirti in questo modo!”, urlò mia madre al di là della porta, dopo avermi
raggiunto al piano superiore.
Soffocai un singhiozzo ed affogai il mio respiro affannoso
aprendo il rubinetto dell’acqua fredda, lavando così anche le gocce di sangue
che mi erano ruscellate giù dal mio sempre più provato naso. Anche i miei
capillari avevano dato tutto, per quella giornata.
“Non è colpa tua! Non preoccuparti, tra un attimo torno giù”,
riuscii a dire, dopo aver cercato di ammansire la mia voce, che voleva uscire
dalle mie labbra in modo stridulo e comprensibilmente disperato.
Mia madre non insistette oltre, ed io lasciai che la mia
fronte finisse ad appoggiarsi contro il rubinetto, mentre ancora qualche goccia
di sangue vermiglio lasciava il mio corpo, per finire ingurgitata nelle
fognature. Per fortuna, smisi in fretta di sanguinare.
Ancora singhiozzando, mi lavai delicatamente il viso, e
trattenendo il pianto, strofinai accuratamente gli occhi, e poi le parti del
volto rimaste intaccate dalla piccolissima emorragia nervosa. Ma quando ebbi
finito, mi resi conto che non ero dell’umore giusto per tornare a rivedere mia
madre, e per scendere di nuovo a parlare con lei.
Scelsi quindi di compiere una mossa più elementare, ovvero di
provare a farmi una doccia, intanto che ero già in bagno, e poi di andare
direttamente in camera mia, siccome ciò di cui più necessitavo era il riposo
delle mie membra e della mia mente. I genitori quel giorno mi avevano
sfiancato, primo tra tutti il padre di Marco, che nonostante non mi sopportasse
più di tanto aveva cercato di comprarmi con una cifra folle, pur di farmi
ritornare da suo figlio, come se fossi stata solo un giocattolo, mentre mia
madre tentava in tutti i modi di buttarmi in faccia quanto il mio convivente
fosse un inetto e non mi meritasse affatto.
Mi sentivo oppressa da ogni parte e, per carità, la mia mamma
era stata buonissima e gentilissima nei miei confronti, comportandosi proprio
come un genitore amabile sotto ogni aspetto, preparandomi i pasti e
permettendomi di alloggiare in casa sua, ma un po’ mi angustiava quando
affrontava il tema che più mi feriva al momento.
Feci una doccia molto frettolosa, e poi, asciugandomi a
malapena e raccogliendo i miei abiti in mano, scivolai ancora nuda nella mia
stanza, senza far rumore, e notando che le luci al piano inferiore erano ancora
accese. Mia madre mi avrebbe aspettato invano. Presi il cellulare e lo
controllai avidamente; da Marco, ancora nessun segnale.
Avvilita, e di nuovo in procinto di riprendere a piangere,
decisi di fare una scelta che mi venne spontanea, cioè di contattare la mia
cara amica Irene. Lei la conoscevo da una vita, e nonostante la frequentassi
molto meno di quando non ero ancora fidanzata, restava pur sempre una buona
confidente, e fin dal tempo delle scuole elementari avevamo condiviso emozioni
e gioie reciproche.
Avevo bisogno di una spalla disinteressata su cui appoggiare
il mio viso e lasciarmi andare, e sapevo che di quella mia coetanea potevo
fidarmi ciecamente, e le scrissi, d’impeto, chiedendole di poterci vedere,
possibilmente a breve.
Poi, dopo aver messo in silenzioso il cellulare ed averlo
appoggiato sul minuscolo comodino a fianco del letto, mi lasciai scivolare,
sfinita, sul mio giaciglio, e una volta giunta a contatto con il materasso, mi
sentii quasi come rinata e risollevata.
Ebbi un sospiro di sollievo, e, senza neppure accorgermene,
poco dopo aver appoggiato il mio viso sul cuscino, mi lasciai andare e mi donai
al sonno ristoratore che più avevo bramato e desiderato fin da quell’inconsueta
mattina.
Altrettanto in fretta fu mattina di nuovo; mi risvegliai,
infatti, col sottofondo formato dai dolcissimi cinguettii degli uccellini che
popolavano il tetto e gli alberi circostanti alla dimora. Fu così che tornai a
prepararmi alla nuova giornata, e andando a controllare il cellulare, scoprii
che ancora Marco non si era fatto vivo, a due giorni dall’inizio della nostra
pausa, ma in compenso Irene mi aveva scritto, per propormi una simpatica
iniziativa che prontamente accettai.
Mi vestii in fretta, e solo quando mi accinsi ad andare al
piano inferiore ricordai quanto avessi lasciato in sospeso mia madre, la sera
prima. Scelsi in prima istanza di provare a far finta di nulla, ma sapevo che
non ci sarei mai riuscita fino in fondo.
Infine mi decisi a scendere le scale, e ad andare in cucina;
ma con quale faccia tosta potevo ripresentarmi alla mamma, dopo la scenata di
ieri sera e dopo averle dato buca? Sapevo che lei era lì, nella stanza di casa
che pareva il suo regno, e non mi andava di tornare a violarlo con la mia
solita emotività estrema.
Per fortuna, avevo lasciato che fosse il caso a facilitarmi
le cose, che si era personificato con Irene, la mia amica, che di lì a meno di
mezz’ora sarebbe passata a prendermi per fare un giretto e scambiare quattro
chiacchiere, prima di tornare nuovamente al lavoro, come mi aveva già
preavvisato.
Avendo accettato quella via di fuga, decisi di cercare di
sgattaiolare fuori, e di mettermi placidamente in attesa. Ma, come al solito, a
mia madre non si poteva proprio sfuggire.
“Isa, buongiorno! Come stai?”, la udii dire, mentre io ancora
dovevo muovere il primo passo verso l’uscita.
A quel punto, tanto valeva mostrarmi a lei e evitare di fare
ulteriormente la maleducata in casa degli altri.
“Bene, mamma. Scusa per ieri sera, ma avevo davvero un
bisogno urgente di farmi una doccia, e poi… e poi avevo un gran sonno, e mi
sono addormentata di colpo…”.
Se doveva funzionare come scusa, il mio discorso, non mi uscì
come tale dalle mie labbra timide e tremolanti.
“Oh, immaginavo! Però mi hai fatto preoccupare molto. Mi
dispiace per quello che è successo, io non volevo…”.
“Puoi fare ciò che vuoi. Sei in casa tua, puoi dire ciò che
ti pare liberamente, e cercare di condizionarmi quanto vuoi”, le dissi,
interrompendola dolcemente.
“No, non devo più ficcanasare nei vostri affari di coppia! Mi
sono vergognata per tutta la notte. Non dovevo permettermi di andare da Mauro”.
“Prima o poi, qualcuno ci sarebbe dovuto andare comunque, per
avvisarlo”, la rassicurai, tornando torva.
Non mi riusciva di fingermi gioviale o sollevata, siccome ero
ancora a pezzi, come durante il giorno precedente. Volevo solo che quello che
stavo vivendo finisse in fretta, e che io e il mio ragazzo riuscissimo a
chiarirci e a riprendere la nostra vita come se nulla fosse.
Quasi mi veniva da tornare ad accettare anche l’inerzia sua,
e di essere di nuovo l’unica che sgobbava senza un domani e senza sosta. Tutto,
tutto pur di tornare con lui; ma ad un solo patto, ovvero che fosse lui a fare
la prima mossa gentile, siccome l’intervento diretto di suo padre, anche molto
sgarbato per il mio onore, aveva leso ulteriormente la situazione.
“Uff, lo so. Però, mi è dispiaciuto lo stesso, sai? Non
voglio più vederti soffrire così, vorrei solo che tu fossi felice”, tornò a
dire la mamma, dopo aver riflettuto per un attimo, ancora in piedi nel mezzo
della porta della cucina.
“Immagino che per essere felice, secondo te, dovrei rompere
con Marco e dimenticarlo per sempre, giusto?”, mi venne spontaneo da chiederle,
a quel punto. Mi resi conto di averla stuzzicata, e di averla pizzicata con una
domanda troppo diretta e fredda, e quasi me ne vergognai.
Per fortuna lei fu educata e, nonostante si fosse imbronciata
lievemente, si limitò a scuotere il capo con un cenno di diniego e a ritrarsi
dentro la cucina.
“Non ti nascondo che vorrei che tu meritassi di meglio! Un
uomo che le spalle larghe, una persona in grado di amarti e di capirti, ed ho
l’impressione che Marco, nel suo egoismo infantile, non lo faccia fino in
fondo. Ma ti giuro che non voglio parlare più del tuo ragazzo! D’ora in poi,
fintanto che resterai qui in casa con me, non farò mai più alcun giudizio…”.
“Ma ti chiedo io di farmeli conoscere. Magari, se solo tu fossi
più imparziale nei giudizi…”, le sorrisi, rompendo quello strato di ghiaccio sottile
che stava per separarci ancora un po’.
“Lo so, ma non ci riesco. Per questo, non interferirò più,
com’è giusto che sia, e spererò solo che tutto vada a finire per il meglio, e
che questo periodo molto ansioso per te possa finire molto in fretta”, concluse
la mamma, tirando le somme.
Non mi sentii di dire altro; una parola in più sarebbe stata
poca, e due troppe, siccome conoscevo la sua cocciutaggine e sapevo
perfettamente che quando prometteva una cosa, poi manteneva la promessa fatta.
“Ma ora, mangia qualcosa! Guarda, ti ho preparato un po’ di
colazione”, continuò a dirmi, cambiando discorso e passando da sopra a tutto
quello che ci stava facendo discutere amabilmente.
“Bevo solo un sorso di latte, poi devo scappare. Irene passa
a prendermi tra dieci minuti, andiamo a fare un giretto prima che io debba
andare al lavoro”, aggiunsi, afferrando a due mani la mia tazza e portandomela
alle labbra, appena riempita dal latte appena riscaldato.
“Oh, ottima idea! Vedrai, stare un po’ in compagnia di
un’amica ti farà risollevare di sicuro il morale”, mi strizzò l’occhio la
mamma, ed io, prima di accingermi ad andare ad attendere Irene, le diedi un bel
bacione sulla guancia destra, come facevo fin da quando ero bambina. Era il mio
simbolo di pace, affetto e rispetto.
C’eravamo chiarite, ed uscii di casa col cuore molto
alleggerito, avendo evitato ogni sorta di maligna discussione con l’unica
figura genitoriale che mi aveva sempre supportato. Ed ero così pronta ad
affrontare più serenamente quella furia di ragazza che era Irene.
La mia amica fu puntualissima; spaccò davvero il secondo.
La sua auto, una bella Seat Leon bianca, sfrecciò rapidamente
fino di fronte a me, mentre mi sfuggiva già una risata divertita.
“Cos’è questa storia, che tu e Marco vi siete presi una pausa?!”,
gridò a voce altissima, abbassando il finestrino ed accostando per farmi
salire. Come sempre, la mia amica era dotata di una curiosità estrema, e
nonostante le avessi promesso che le avrei spiegato tutto a tempo debito, non era
riuscita affatto a trattenersi. Continuavo a sorridere.
Entrai in macchina, e lei ancora mi fissava a bocca semi
socchiusa, con un fare che lasciava comprendere che voleva subito accecare la
sua curiosità e scoprire tutti i retroscena di ciò che le avevo accennato la
sera prima tramite messaggio scritto.
“Puntuale come un orologio svizzero, eh! E non mi guardare
così…”, le dissi, allacciando la cintura.
Irene, i capelli ricci e neri come la notte al vento, ingranò
la marcia e partì a tutta velocitò, col vento che le scompigliava la
capigliatura di cui andava fiera. La pelle abbronzatissima mi faceva capire che
doveva aver passato molto tempo al mare, e il suo visetto rotondeggiante aveva,
come sempre, un che di furfantesco e di scaltro.
“No, infatti non ti guardo più, fintanto che non mi dici
cos’è accaduto”, mi disse, divorata dalla sua voglia di gossip.
Non mi sentivo di deluderla, e vuotai il sacco fin da subito,
sapendo che lei era sì così estremamente vogliosa di conoscere tutto della
vicenda, ma che non saprebbe mai andata a spargere pettegolezzi in giro e che
tutto quanto sarebbe rimasto tra noi.
Lo feci proprio rapidamente, e con poche parole, siccome non
c’era molto di importante da narrare, a parte il succo e il fulcro della
questione.
“Beh, e ti pare poco?! Io un tipo così lo mollerei subito,
non appena avessi avuto la possibilità di conoscerlo per bene”, replicò con la
sua solita veemenza Irene, non appena ebbe finito di ascoltare il racconto.
“Non ti ci mettere anche tu. Pure mia madre la pensa così”.
“Ma stiamo scherzando? Perdonami, cara, ma a me Marco era
sempre sembrato un ragazzo solare e sociale. Veniva a tutte le feste, si comportava
come tutti… magari se la tirava un po’ più di altri, ecco, un po’ egoista, ma
proprio poco. Non avrei mai pensato che fosse così vigliacco, a non volersi
neppure rimboccare le maniche e a correre dietro alla sottana della mamma e ai
calzoni del papà! E poi il padre che interviene, come per comprarti, alla
stessa maniera di un oggetto in vendita al mercato… che schifo di situazione!
No, io non ci sarei stata con lui per tutto questo tempo. Hai fatto bene a
prenderti una pausa, e adesso aspetta che faccia lui la prima mossa, se non
rovina tutto prima e per sempre”, si spiegò la mia amica, continuando a
spingere sull’acceleratore.
“E’… complicato da spiegare. Io poi gli voglio ancora bene…”,
replicai, a bassa voce e con ingenuità, ormai smorzata dall’ennesima persona
lanciata contro Marco. Irene mi lanciò un’occhiata scettica.
“Dai, su col morale… questo era solo un mio parere. Ma adesso
ci fermiamo a fare colazione, ed ovviamente offro io, e parliamo di altro, così
ti distrai un po’. Non pensare sempre a quella sanguisuga”, mi tornò a dire la
mia interlocutrice, parcheggiando all’improvviso e in tutta fretta.
Guardai fuori dal finestrino, e non appena scesi dall’auto,
riconobbi che ci trovavamo dall’altra parte della città, molto lontano da tutto
ciò che avrebbe potuto ricordarmi i momenti vissuti col mio ragazzo, e quindi
rattristarmi. Mi sentivo a mio agio.
“Avanti! Un po’ di caffè farà passare tutto. In questo bar lo
fanno fantastico”, m’incitò Irene, grintosa come sempre, mentre si dirigeva
verso un locale vicino, stringendo tra le mani la sua bella borsa firmata
Gucci.
Io le trotterellai dietro, già in affanno; non ero più
abituata alla frenesia costante della mia amica.
“Non vorrei essere la guastafeste di turno, ma in realtà un
po’ di colazione l’ho già fatta…”.
“Non preoccuparti. Una doppia colazione ti farà stare meglio!”.
Di fronte alla sua risoluta gentilezza, non potei far a meno
che cedere.
Entrammo nel piccolo bar e ci sedemmo, per poi ordinare in
tutta fretta due caffè. Per una volta, ero io a ordinare e ad essere servita.
Mi sfuggì un altro sorriso, a quel pensiero.
Irene si mise a guardare il cellulare, per qualche istante;
un magnifico Samsung Galaxy di ultimissima generazione, e mi venne da chiedermi
cosa facesse nella vita reale per potersi permettere simili lussi. Era da tempo
che non ci incontravamo, ma un anno prima ancora non aveva alcun lavoro e
nessuna forma di sussistenza.
Forse, era riuscita ad ottenere un posto da qualche parte,
con tanto di stipendio ben corposo, e me lo auguravo per lei.
“Sai, io li odio questi ragazzi buoni a nulla. Vorrei tanto
trovarmene uno ricco, così dovrei smettere anch’io di faticare”, mi disse,
tutt’a un tratto, e mi fece quasi sobbalzare di fronte alle sue parole.
“Non siamo più bambine! Non possiamo più credere che un
giorno arriverà il principe azzurro e ci porterà nel suo castello dalle pareti
d’oro”, mi venne da dire, lasciandomi poi sfuggire un sorriso sarcastico. Ma
quanto sarebbe stato bello se ciò non fosse solo stata una sciocca favola,
bensì una realtà?
“Beh, perché non è giusto crederci? Hai ragione quando dici
che i principi azzurri non esistono, ma di ricchi ce ne sono in giro”, replicò
Irene, mentre ci veniva portato il caffè, e la cameriera ci metteva davanti a
noi le tazzine colme di liquido scuro fumante e dall’aroma limpido e
inconfondibile.
“Sì, ma sono quasi tutti vecchi e usati”.
Mi era scappata una mezza battuta, a metà tra la verità e il
dato di fatto, e ci lasciamo sfuggire una risata condivisa, per poi gustarci la
nostra colazione in pace.
Avevo avuto ragione; alla fine, passare anche solo un’oretta
scarsa in compagnia di un’amica mi stava facendo davvero bene.
NOTA DELL’AUTORE
Sorpresa! ^^
Ma che fatica… questo capitolo l’ho rispolverato. L’ho
estratto direttamente dal cassetto, dov’era sommerso ormai dalla polvere di un
anno… un anno da quando l’ho scritto. Rileggendolo, ho trovato la punteggiatura
non di certo al top della forma, ma vi chiedo scusa; ho risistemato dove
potevo, per il resto chiedo di perdonarmi e di godervi la trama.
Grazie di tutto! Non so quel che riuscirò a scrivere, quel
che farò… ma proverò a portare avanti questo testo.
Grazie e a presto ^^
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Capitolo 6 *** Capitolo sei ***
Capitolo sei
CAPITOLO SEI
Purtroppo, però, dopo l’ora di svago, venne di nuovo il
momento di recarmi al mio calvario quotidiano, che andava in onda
quotidianamente presso L’angolo della
bontà.
Mi feci portare lì da Irene, non volendo farla scomodare per
riportarmi a casa di mia madre. Anche se così persi il vantaggio dell’auto, e
sapevo che mi attendevano oltre tre quarti d’ora di scarpinata a piedi per
ritornare alla base.
A quel punto tuttavia avevo deciso che a mezzogiorno non mi
sarei lasciata andare ad un’avventura di tale portata, e quindi sarei rimasta
nel locale fino alle quattordici, per affrontare la snervante ma inevitabile
scocciatura solo a fine giornata, dopo le venti e alla fine del mio turno
pomeridiano. Cioè quando anche il caldo, che già alle nove e mezzo era
asfissiante, si sarebbe calmato un po’, essendo consapevole di non poter
affrontare il nemico nel bel mezzo del suo regno, ovvero quella lunga estate.
Tornai quindi alla mia vita quotidiana, anche se con qualche
angustiante pensiero che di tanto in tanto mi frullava per la mente, come
accadeva di solito in quegli ultimi giorni.
Non feci in tempo ad entrare a L’angolo della bontà che Virginia già mi salutava.
“Buongiorno, Isabella cara!”.
Che dolce. Peccato che non conoscevo il motivo di tale di
tale premura.
La padrona mi salutava ogni mattina, ma mai così
grintosamente; mi venne da chiedermi se, dal giorno prima, le parole dello
sconosciuto avessero davvero influito così tanto su di lei, da renderla amabile
nei miei confronti. Forse era davvero innamorata di quel suo coetaneo, e tutto
quello che diceva era per lei oro colato. O, forse, era solo un qualcosa di
passeggero.
“Buongiorno, signora Virginia”, replicai, superato lo sbigottimento
iniziale per tale calore.
“Tutto bene?”.
“Insomma”.
Andai a prepararmi, e prontamente incappai in Ilenia, che mi
quasi mi finì addosso, distratta come sempre.
“Oh, scusa Isa, ma vado di fretta! Scusa ancora!”. E si
volatilizzò in un battito di ciglia, portando con sé la scopa di saggina con
cui si spazzava ogni mattina l’esterno, lasciandomi a scuotere la testa. Quella
ragazza era un tornado.
Sistemai nel mio piccolo armadietto e sotto chiave la mia
valigia, e indossai la divisa; ero ufficialmente pronta. Il bar mi attendeva,
così come le mie solite mansioni.
Giunsi alle undici e trenta senza particolari ostacoli, dopo
aver affrontato una mattinata normalissima, senza nulla di troppo impegnativo.
Pian piano il locale cominciava ad adibirsi per il pranzo, e
già alcuni avventori si sistemavano ai tavoli con fare pensieroso, e gli occhi
puntati sulla ristretta lista della piccola consumazione che L’angolo della bontà era in grado di
offrire.
Immersa nel vociare della gente, persi un po’ di tempo nel
prendere le prime ordinazioni, tra signore indecise e muratori mezzi sordi, e
quando tornai a volgermi verso la signora Virginia, vidi che era di nuovo
occupata a parlare con quell’affascinante e maturo signore del pomeriggio
precedente. Da come flirtavano già animatamente, tornai a pensare che tra i due
doveva essere davvero scattato una sorta di colpo di fulmine. Oppure, c’era
sempre stato qualcosa tra loro, ed era riemerso solo nelle ultime ore… non ne
avevo idea.
Continuai a fare il mio lavoro, e di tanto in tanto mi
affacciavo sulla porta della cucina, per passare le varie ordinazioni a
Massimo, il cuoco provetto sempre immerso nella preparazione dei suoi semplici
ma gustosi manicaretti.
Quando si fece mezzogiorno, finalmente, mi ritrovai a
realizzare che di fronte a me si prospettava un pranzo molto più scialbo in
confronto a quello che mi avrebbe aspettato a casa, ma mi consolai pensando
che, in fondo, anche il mio collega chef avrebbe sfornato per me qualcosa di
delizioso.
Mi diressi verso Virginia, incurante del fatto che stesse
ancora dedicando attenzione a Piergiorgio, e attesi che mi rivolgesse uno
sguardo, prima di parlarle.
“Dimmi tutto, cara”.
“Ho concluso momentaneamente il mio turno. Credo che resterò…
oh, mi scusi un attimo”.
Ad avermi interrotto era stata la vibrazione incessante del
mio cellulare, che dalla tasca dei soliti jeans mi faceva quasi formicolare la
gamba intera. Erano già passate le ore dodici da cinque minuti, quindi potevo
rispondere, e poi, involontariamente, mi venne da pensare che fosse Marco.
Non so cosa mi prese, ma per qualche istante lo credetti, e
per quello interruppi bruscamente quel mio minuscolo dibattito appena iniziato.
Rimasi mortificata quando notai che a chiamare era mia madre,
e comunque risposi in fretta, siccome non potevo più tirarmi indietro, mentre
Virginia e il suo ipotetico e originale spasimante mi stavano fissando con
curiosità.
“Sì, mamma?”.
“Non ti ho chiesto se torni per pranzo… la tua auto è qui
fuori, ancora, e non sapevo come comportarmi. Comunque, ti ho preparato un bel
piatto di gnocchi di patate col ragù al pomodoro fresco, e ti sto cuocendo
tutto adesso, così appena torni a piedi non si è raffreddato nulla”.
Bene, bel pasticcio.
Ero mortificata, per l’ennesima volta. Mia madre non sapeva,
nella sua premura, che non avevo alcuna intenzione, né alcuna forza, dopo
quattro ore di lavoro, di affrontare il sole di metà giornata e la sua afa per
tornare a casa.
Sospirai rumorosamente, conscia comunque di avere due persone
che mi stavano ascoltando e che aspettavano solo che riattaccassi e mi chiarissi
per poi tornare a flirtare, e ricolma di dispiacere, siccome ci avrei tenuto
molto a gustarmi i suoi manicaretti, mi accinsi a dirle la verità.
“Mi dispiace, non riesco a tornare a piedi, oggi. Giuro, sono
stanca e se parto ora rischio di avere un collasso per strada, come minimo.
Lasciali in padella gli gnocchi, questa sera li riscaldiamo”, le dissi, quasi a
voler riparare parte della mia negligenza. Era vero che avrei anche potuto
avvisarla in qualche modo, della mia scelta, ma non ero più abituata ad avere
un qualcuno di così premuroso che mi attendesse a casa.
“Ah, va bene, capisco. Dispiace anche a me! A questa sera,
allora”, sospirò alla fine la mia mortificata mamma, per poi riattaccare.
Riconobbi che aveva sperato fino all’ultimo di convincermi a ritornare da lei,
e che era rimasta un po’ ferita per il fatto che avevo lasciato perdere. Ma non
potevo proprio fare altrimenti.
Rimisi via il cellulare e affrontai di nuovo Virginia,
rimasta in attesa durante i sessanta secondi della telefonata.
“Ecco, stavo per dire che…”.
M’imbrogliai per un attimo, e dovetti ricollegare quello che
stavo per dire prima che il cellulare squillasse, poiché la voce di mia madre,
assieme al suo amabile e gentilissimo invito, continuava a ronzarmi nella
mente, come un sottofondo spiacevole.
“C’è qualche problema, Isabella?”, mi chiese Piergiorgio,
intervenendo a sorpresa.
Lo guardai in viso per la prima volta, quella giornata, e mi
parve di scorgere un po’ di apprensione nei suoi lineamenti.
“No, no”, lo rassicurai, non bene, con la mia solita voce
tremolante quando mentivo.
“Hai bisogno di tornare a casa? Non hai la macchina?”, chiese
allora Virginia, incuriosita, gettando un’occhiata al di fuori della vetrata
del locale, verso il posteggio che in genere occupava la mia auto, quel giorno
però occupato da un’altra.
“Non ho la macchina, perché sono andata con una mia amica a
fare un giro, questa mattina, e poi mi ha lasciato qui davanti. Mia mamma ci
teneva che tornassi a casa, e mi aspettava per pranzo, poiché mi ero scordata
di avvisarla che non sarei riuscita a tornare a piedi con questo caldo, ed ora…
ora niente, mi fermo qui fino alle quattordici”, risposi, tranquillamente ed
esaudiente, in modo da concludere le domande dei curiosi, e cercando di
sorridere in modo disinvolto, ma mi venne da mostrare solo un sorrisino
tremolante e insicuro.
“Va bene. Vuoi che ti faccia portare qualcosa dalla cucina?”,
m’interloquì di nuovo Virginia, facendo cenno a distanza alla ragazza del
part-time appena arrivata, che aveva appena preso il mio posto.
“Sì, grazie. Se c’è un tavolino non ancora occupato, mi
siederei volentieri… e magari mi mangerei anche un bel trancio di pizza”.
“Perfetto. Accomodati pure dove vuoi, al resto ci pensiamo
noi”.
Mi diressi verso il tavolino che faceva angolo, tra il
bancone e il bagno, quello che di solito non veniva mai scelto da nessuno, e
dopo aver recuperato la mia borsetta, mi misi a trafugarci dentro. Avrei avuto
molto tempo da ammazzare, dovendo passare due ore di attesa, e almeno mezz’ora
per avere quel misero trancio di pizza appena ordinato.
Estrassi il cellulare dalla tasca, e mi misi a paciugarci,
irritata; ero nervosissima, desideravo tanto tornare a casa, ed invece ero
rimasta ingabbiata in quel posto che sembrava volermi risucchiare anche
l’anima. Ma in fondo era meglio dannarmi lì, che andare a sciogliermi nell’asfalto
rovente del percorso pedonale che mi avrebbe riportato a casa.
Ero già così rassegnata e concentrata nei miei pensieri che
non mi accorsi che qualcuno non aveva perso tempo a seguirmi e a venirmi
dietro.
“Non dovresti dar buca alla mamma”.
Piergiorgio, il distinto signore che fino a poco prima era
stato a cinguettare con Virginia, si sedette di fronte a me, dopo avermi
parlato.
Per un istante, a prima vista, mi parve di rivivere
l’incontro con il padre di Marco, ma quando fissai lo sguardo gentile che avevo
di fronte, senza segni d’ipocrisia, mi rasserenai. Anche se mi sentii in dovere
di replicare a modo.
“Non sono più una bambina; se ne farà una ragione”.
“Ma tu ci tenevi a pranzare con lei, giusto?”.
Guardai di nuovo il mio interlocutore, non capendo il reale
motivo per cui mi aveva seguito e mi stava turlupinando con le sue domande. Mi
stava mandando in confusione, seppure fossi certa che non fosse quello il suo
scopo.
“Certo che ci tenevo, è una cuoca perfetta. Ma mi dovrò proprio
accontentare della pizza, quest’oggi…”.
“No, che non devi accontentarti per forza. Vieni, che ti do
un passaggio”, aggiunse a sorpresa il distinto signore.
Ero esterrefatta, e in un istante fui sicura del motivo per
cui si era avvicinato a me; ci teneva a volermi portare a casa. Sorrisi
sinceramente di fronte alla sua bontà, e smisi di paciugare col cellulare.
“Non si preoccupi, davvero”, lo rassicurai, ma Piergiorgio
pareva irremovibile.
“Dai, guarda che ti porto a casa volentieri!”.
“Non voglio esserle di alcun disturbo. Comunque, la ringrazio
per la sua infinita gentilezza”, ringraziai, preferendo non fidarmi. La sua era
una proposta molto gentile, come gli avevo riconosciuto, ma restava pur sempre
uno sconosciuto. Uno sconosciuto che avevo visto per la prima volta il giorno
prima, e di cui non sapevo nulla.
Mia madre mi aveva sempre insegnato, fin da bambina, che una
delle regole principali per restare nella sicurezza era quella di non salire
mai in auto con degli sconosciuti, e anche quel ricordo che riemergeva così
nitidamente in quel momento quasi mi fece tornare a sorridere. No, non potevo
accettare la proposta allettante.
“Mi offendo, eh”, quasi mi minacciò, bonariamente, il mio
interlocutore.
“Non se la prenda, ma non voglio davvero e per niente al
mondo essere un disturbo, anche minimo, per qualcuno. Si rilassi, lei è stato
davvero gentilissimo, ma non posso accettare”, replicai, a quel punto, in un
tono abbastanza secco.
Piergiorgio rimase fermo a guardarmi per un attimo,
probabilmente senza più sapere che dire, ed indeciso tra l’alzarsi e salutarmi
o continuare a starmi di fronte a parlare.
“Isabella cara, puoi fidarti, il nostro Piergiorgio è un uomo
d’oro, non temere! Con lui sei al sicuro, garantisco io! Se vuoi andare a casa,
visto che qualcuno è stato così gentile da proporti uno strappo, vai pure, e
non preoccuparti della prenotazione che hai appena fatto… non è un problema,
parlo io a Massimo”, intervenne anche Virginia, sempre seduta alla sua
postazione dietro la cassa, dopo aver udito qualche spazzo della nostra
conversazione. Riconobbi che era diventata davvero molto gentile, anche eccessivamente,
nei miei confronti.
“Va bene… va bene…”, cedetti, alla fine, però senza pesi sul
cuore. Non mi dispiaceva più di tanto lasciare il locale.
“Oh! Seguimi pure…”, m’invitò Piergiorgio, tornando
improvvisamente raggiante, dopo aver ricevuto il mio consenso. Il suo visino
rotondetto sembrava essersi tramutato in un sole sprizzante di felicità.
“Ma, mi scusi se sono indiscreta… lei non deve pranzare qui?”,
gli chiesi, mentre mi alzavo dalla sedia. Non mi attendevo che l’uomo fosse lì
solo per flirtare con la proprietaria del locale, che nel frattempo stava
contando i contanti ed estraendo lo scontrino dalla sua macchina, per
l’ennesimo frettoloso cliente che le si stagliava di fronte, ma anche per
mangiare qualcosa… d’altronde, la gente veniva a L’angolo del gusto perlopiù per quello.
“Beh, il mio pasto può tranquillamente aspettare per un po’!”,
affermò bonariamente Piergiorgio, che sembrava così risoluto nel voler portare
a termine quella che ai suoi occhi doveva sembrare una sorta di azione in grado
di assicurare un soggiorno eterno in paradiso che era pure disposto a
sacrificare qualcosa di sé.
Sospirai di nuovo, pensierosa e ancora un po’ incerta, mentre
un’indaffaratissima Virginia ci faceva cenno che potevamo andare senza
problemi, se volevamo. Perfetto.
Non riuscivo più ad arginare l’energico e vitale ometto, e
quest’ultimo sembrava inarrestabile, convinto com’era nel volermi aiutare, e
con Virginia schierata dalla parte di quel cavaliere all’antica che sembrava di
una gentilezza formidabile, non potevo far altro che abbandonare il locale e
seguire il mio inatteso benefattore al di fuori di esso, dove il caldo e l’afa
di metà giornata erano opprimenti, così come i raggi solari, roventi e
impalcabili.
“Prego, la mia auto è quella”, m’indicò poi, estraendo la
chiave e facendo scattare a distanza la serratura.
Mi aveva indicato un bel modello di Land Rover dalla
carrozzeria verde cespuglio ben linda e splendente, come se fosse nuova.
Non dovetti, per fortuna, neppure attraversare la strada. Presi
posizione sul sedile del passeggero, mentre Piergiorgio era già salito a bordo
e si stava allacciando la cintura. Mi trovavo quasi scomoda, seduta in quel
macchinone rialzato e spazioso, oltreché profumato e dalla tappezzeria
nuovissima, in grado di far sfigurare la
mia povera bazzecola usata.
“Abiti lontano da qui?”.
“Non molto”.
“Mi dici il tuo indirizzo, per favore?”, mi sollecitò allora
Piergiorgio, lanciandomi un’occhiatina sfuggevole e divertita.
Glielo dissi, e in meno di un attimo la voluminosa automobile
era in marcia verso casa di mia madre. Ci attendevano venti minuti di viaggio,
a causa del traffico che sembrava congestionato, e allora il conducente chiuse
i finestrini ed accese l’aria condizionata, guidando con grande prudenza.
“Come va col tuo ragazzo, poi? Siete riusciti a chiarirvi?”,
tornò alla carica il mio interlocutore, premuroso nel voler fare conversazione
e non lasciare che un silenzio nervoso calasse tra noi, spegnendo del tutto la
radio, che di sottofondo ed a bassissimo volume stava trasmettendo l’ennesima
canzoncina rap del momento.
Gli dedicai l’ennesimo sguardo, anche se sfuggevole.
“Assolutamente no. Quando ho deciso di prenderci una pausa,
non mi sarei mai aspettata che tutto sarebbe degenerato in questo modo”.
Mi morsi l’interno della guancia destra, con il mio solito
tic che m’infastidiva quando ero tesa. Il solo pensiero di Marco mi faceva
provare così tante emozioni contrastanti, eppure travolgenti, che riuscivano a
farmi soffrire in ogni caso.
“Ti manca molto, noto”.
“Sì, è così”.
“Un passo avanti non lo farai tu?”.
“Lei non conosce tutta la storia. Le posso solo dire che io
lo amo, anche molto, ma ho scelto di interrompere momentaneamente la nostra
convivenza solo per spingerlo a rimboccarsi le maniche e a lavorare, in modo da
poter costruire una famiglia sicura.
“Invece, lui desidera solo tornare dai suoi genitori, e senza
far nulla per garantirci la forza di costruire un rapporto sereno e duraturo, e
non ha neanche avuto il coraggio di parlarmi; ha mandato suo padre ad
importunarmi e a comprarmi con la promessa di soldi che non voglio. Io il
denaro voglio guadagnarmelo, voglio essere indipendente e sogno di vivere con
un uomo intraprendente e capace, non con un mammone”, gli spiegai con fare
professionale, abituata ormai com’ero a narrare in sintesi l’epopea della
nostra frattura di coppia, che rischiava di diventare una voragine.
“Oh, ti vedo molto sicura di te. Sei una persona molto
onesta, dotata di una grande forza di volontà”.
“Lo so. Ma non so se questo è un bene”.
Eravamo ancora bloccati al semaforo a trenta metri dal nostro
punto di partenza. Ed io che speravo solo di poter giungere a casa il più in
fretta possibile; eppure, sembrava che la sorte volesse che noi due ci
impiegassimo molto più tempo del normale per compiere il tragitto, siccome un
tal ingorgo non l’avevo mai incontrato in vita mia in quel punto della città.
“Mi complimento con te per questo, invece. Ora vedo solo
giovani… come si può dire… spompati, flaccidi, con difficoltà anche solo a
pensare al loro futuro e a impegnarsi nei loro progetti. Tu, invece, sei
piuttosto decisa, e questo ti fa senz’altro onore”, replicò il mio maturo
interlocutore, quella volta lanciandomi lui un altro sguardo, dalla parvenza
distratta. Sul viso, aveva sempre impresso il suo solito sorriso bonario.
Nonostante le sue insistenze, che a tratti sembravano volersi
rivelare asfissianti, non riusciva ad irritarmi mai sul serio.
“Non è colpa nostra, ma del mondo che dobbiamo affrontare.
Crede che io mi diverta a sgobbare tutto il giorno in quel locale? A pulire dei
gabinetti, a servire clienti maleducati… ma io lo faccio per il mio onore e per
la mia indipendenza, perché non voglio essere un peso per nessuno”.
Cercai, all’improvviso, di riprendere fiato e di cambiare
delicatamente discorso, siccome mi ero lasciata sfuggire un po’ di quella
rabbia che a volte il mio lavoro riesce a farmi provare, e nonostante tutto,
quel cortese signore restava pur sempre un amico di Virginia e non desideravo
che alle sue orecchie potesse giungere un minimo pettegolezzo.
“Per me lavorare è importante. Non voglio i soldi dei suoi,
né i suoi; voglio solo che Marco, il mio ragazzo, mi dimostri che ha le palle e
la testa sulle spalle, e che non è ancora un bambino egoista, che chiede agli
altri di sacrificarsi anche per lui, limitandosi ad aspettare la pappa pronta.
Solo questo. E non lo sta facendo, anzi… sembra che voglia sfidarmi”, conclusi,
candidamente, dopo aver sviato il discorso dalle mie mansioni quotidiane, ma
allo stesso tempo lasciandomi andare ad affermazioni abbastanza pesanti, che
per fortuna non sconcertarono Piergiorgio, che anzi, si lasciò sfuggire una
risatina.
“Hai ragione. E poi si vede che sei una ragazza a posto. Mi
piace il tuo approccio alla vita”.
Incassai il complimento esplicito e me ne stessi in silenzio,
a guardare finalmente mentre attraversavamo il fatidico incrocio, con il
provvidenziale e necessario aiuto del semaforo, in quel momento verde.
“E adesso, quindi, sei tornata da tua madre?”.
“Sì”, risposi, distrattamente.
“Hai un buon rapporto con lei, allora”.
“Abbastanza buono, per fortuna”.
“E tuo padre non vive con voi?”.
Se il mio interlocutore, e potenziale benefattore, si stava
impegnando in quel modo per non lasciare morire il tempo in un silenzio
imbarazzato, ebbene, ci stava riuscendo nel migliore dei modi. Ma anche in
quello più duro, toccando sempre tasti dolenti.
“No, lui ora vive a Milano, da quel che sappiamo. È lì che è
andato a vivere con una donna straniera che ha sposato dopo il divorzio con mia
madre, e dove lavora per una catena di industrie, come camionista”, gli dissi,
senza peli sulla lingua. Non avevo problemi ad affrontare il discorso
riguardante mio padre… o, almeno, ne avevo molti di meno che a riguardo di
quello su Marco.
Mio padre aveva fatto le sue scelte, e a me non era mai
mancato, d’altronde non era neppure mai a casa quand’ero una bambina. L’avevo
sempre visto pochissimo, e il fatto che se ne fosse andato lontano e con
un’altra donna non mi faceva né caldo né freddo. Poco importava, forse addirittura
era stato meglio così, siccome con mia madre non poteva funzionare oltre.
“Mi dispiace. Non volevo…”.
“Si figuri, non fa nulla”.
Non dissi altro, così come Piergiorgio non ebbe più la forza
di chiedere qualcosa, forse nel timore di voler tirare troppo la corda e di
ferirmi. La sua fu una scelta giusta ed appropriata, a mio avviso.
Dopo altri dieci minuti, giungemmo davanti all’abitazione di
mia madre, dieci minuti in cui mi ero limitata a guardare fuori dal finestrino,
e in cui avevo sentito di tanto in tanto il suo sguardo sfuggevole su di me. Ma
non m’importava.
“Si fermi, per favore. Siamo arrivati”, gli accennai, a quel
punto.
Piergiorgio accostò e si fermò per farmi scendere.
“Bella casetta, complimenti”, si limitò a dirmi, cercando di
mostrarsi rilassato. Invece, non capivo il perché, mi era parso tutt’altro dal
tono di voce che aveva appena utilizzato.
“Riporterò le sue gentili parole a mia madre, senza dubbio.
Grazie per il passaggio! Spero di rivederla presto”, lo salutai, scendendo
goffamente dal fuoristrada verde ed accingendomi a richiudere lo sportello. Il
mio interlocutore mi rivolse un sorriso tremolante.
“Lo spero anch’io. Grazie a te per esserti fidata di uno
sconosciuto”, mi disse, mentre lo sportello si richiudeva con un tonfo sordo.
Improvvisamente, mi venne da non staccare lo sguardo dal
mezzo che, rapidamente, tornava in corsia, di sicuro nuovamente diretto a L’angolo del gusto, e notai lo sguardo
del gentile signore che mi osservava, riflesso per un attimo nello specchietto
retrovisore, per poi allontanarsi in fretta.
Scrollai il capo e, pensierosa, estrassi le chiavi dalla mia
borsetta ed entrai in casa.
“Oh mio Dio, Isa! Avevi detto che non tornavi, e invece…”.
“Invece sono qui, mamma. E mi sa che ti toccherà sopportarmi…
anzi, sfamarmi!”, le dissi, ironica, di fronte al suo lieto sbigottimento.
“Ma, dimmi un po’, ti sei lasciata portare a casa…”.
Non proseguì la frase; preferì interromperla con dolcezza,
aspettando che parlassi io.
“Da quel fuoristrada verde, sì”, conclusi, per l’appunto,
prendendo posto su una sedia della cucina.
“Certo, l’ho notato, ma il fuoristrada verde non si sarà
guidato da solo, giusto?”.
Risi forte.
“Ah, no, quello no. Mi ha dato un passaggio un gentilissimo
signore, che ha udito la nostra telefonata, al locale”.
“Ora sali in auto anche con gli sconosciuti?”.
A quel punto mi feci seria. Che non credesse di farmi la
ramanzina, mi sentivo ormai grande e vaccinata per sopportarla.
“Piergiorgio è un cortesissimo e distinto signore, amico
fidato della signora Virginia, la proprietaria de L’angolo del gusto. Non c’era nulla da temere, ed infatti si è
comportato da persona corretta e buona, come di certo è”, replicai, e non seppi
il perché, ma m’infastidì quell’insinuazione neppure tanto velata di mia madre.
Ero sicura che quell’uomo aveva agito solo perché mi aveva
visto in affanno, e non per altri motivi; si era comportato da galantuomo, e
per questo non andava messo alla berlina. Ma, purtroppo, coi tempi che
correvano riuscivo pure marginalmente a capire le preoccupazioni del mio
genitore.
“Oh, meglio così”.
“Sì, meglio così. Se no, se la vedeva con la mia borsa. Con
quella tra le mani, meno come pochi”, aggiunsi, di fronte alla ritrovata
serenità di mia madre, che rise con me.
Poi, chiuso il capitolo, potei godere in santa pace di
quell’infinita bontà di gnocchi con la pasta di patate; mia madre, come sempre,
si superava ai fornelli, ed era la cuoca più brava che conoscessi. Anche se mi
dispiaceva un po’ ammetterlo dentro di me e come se lo facessi alle sue spalle,
superava pure Massimo. Non mi dispiaceva di aver abbandonato il suo trancio di
pizza da cinque euro.
Mentre mangiavo, non risparmiai una valanga di complimenti a
mia madre, e il buon gusto ristoratore del cibo sembrò farmi estraniare dalla
realtà per un po’, cioè fin quando non conclusi il pasto, e… fu la realtà
stessa a bussare alla mia porta. O, più correttamente, a quella d’ingresso di
mia madre. Suonando anche il campanello.
Lei mi guardò come per dire che non aspettava visite, e con
una scrollatina curiosa di spalle si allontanò verso la porta, andando ad
aprire, mentre io me ne restavo seduta, satolla come non mai.
E quando la porta si fu aperta, giunse alle mie orecchie
quella voce. Proprio quella, eh.
Mi parve per un istante di essere sul punto di svenire; capii
inconsciamente e in modo immediato che il momento tanto agognato negli ultimi
giorni, quello di affrontare una prova decisiva, di confronto, era giunto
finalmente al mio cospetto.
NOTA DELL’AUTORE
Rieccomi qui ad aggiornare ^^ proverò a farlo con grande
regolarità, come mio solito. Nel frattempo, si prospettano altre piccole e
brevi pubblicazioni.
Grazie come sempre per essere qui a leggere e a sostenere il
racconto ^^ grazie davvero.
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Capitolo 7 *** Capitolo sette ***
Capitolo sette
CAPITOLO SETTE
Lui.
La sua voce.
Il suo impeto.
Marco era venuto da me.
Non seppi controllare più le mie azioni; come una pazza,
balzai in piedi scattando come una molla, e mi catapultai direttamente nel
corridoio, dove mia madre era intenta a fronteggiare un Marco che, forse, non
era venuto lì con i modi che mi aspettavo.
“Fatti da parte! Levati di mezzo”, inveì infatti contro mia
madre, e quando lei non si scostò dalla porta d’ingesso, la spintonò da parte.
“Non devo parlare a te, non me ne frega niente. Cerco tua
figlia”, le disse a voce smoderatamente alta, cercando di soffocare i lamenti
d’indignazione della mamma, mortificata ed umiliata da così tanta maleducazione.
Ed io ero rimasta pietrificata nel corridoio, sul viso ancora
di certo impressa quell’espressione di gioia pura che mi aveva fatto
salterellare poco prima, contenta come non mai.
Marco non si fermò e venne verso di me, e senza neppure
notare com’ero rimasta, mi afferrò a braccetto quasi con la forza e mi spinse
verso la cucina.
“Qui possiamo parlare, vero? Dobbiamo chiarirci subito”.
Mi spinse nella cucina e chiuse la porta dietro di noi, dando
anche un giro di chiave, approfittando del fatto che era inserita nella
serratura dall’interno.
“Chiamo i Carabinieri! Subito!”, strepitava mia madre, al di
là della porta chiusa.
“Chiama chi ti pare”, fu la laconica risposta di Marco.
Io ero fuori di testa; forse aveva avuto ragione il padre del
mio ragazzo, quando era venuto a comunicarmi, nei giorni scorsi, che suo figlio
sembrava aver perso la razionalità da quando avevo deciso di punirlo in modo
eloquente.
“Cosa significa tutto questo?”, ebbi la forza di chiedere non
appena riuscii ad articolare qualche parola, dopo lo sbigottimento iniziale,
che mi aveva preso letteralmente in contropiede.
“Siediti pure, dobbiamo parlare un attimo con calma”, mi
disse, serio, il mio ragazzo, andando a posizionarsi su una delle sedie della
cucina.
“Ehi, mi dispiace interrompere la tua sceneggiata, ma qui non
sei mica a casa tua, eh! Questa è casa di mia madre, come ti permetti di
trattarla così?”, mi venne subito da rimproverarlo, ma lui mi concesse uno
sguardo nervoso, e con un dito mi indicò chiaramente la sedia che aveva di
fronte.
“Non sono il tuo cane ammaestrato! Mi siedo se mi va”, mi
arrabbiai.
La mia gioia di rivederlo era svanita tutta quanta. Non
riuscivo davvero più a riconoscere la persona che avevo di fronte; era come se
non fossero passati due giorni da quando ci eravamo visti l’ultima volta, e da
cui avevamo convissuto per parecchio tempo, bensì un mezzo secolo.
“Senti, non ho tutto il giorno! E ora mi ascolti, e subito”.
Tacqui, incrociando le braccia.
“Adesso vai su, metti in valigia le tue cose e torniamo a
convivere”.
“Ma tu sei pazzo! Sei bacato!”, sbraitai, nervosa come mai.
Mi veniva da ridere e da gridare allo stesso tempo, di fronte a quella
situazione che era effettivamente assurda.
“Immediatamente”, mi ordinò, implacabile.
“Vai a farti visitare da uno specialista, amore. Tu non ci
stai più con la testa”, gli dissi, arrabbiata, mentre mia madre urlava anche
lei di là della porta chiusa a chiave. Mi diressi proprio verso di essa, ma
Marco balzò in piedi e mi afferrò con decisione le braccia, e fronteggiandomi
con quei suoi occhi così belli, eppure tanto lontani, in quel momento.
“Non hai detto che volevi che tirassi fuori le palle? Ecco,
ora l’ho fatto, finalmente. Sei contenta? No? Mi dispiace. Ripartiamo da qui”.
“Levami le mani di dosso!”.
Scivolai lontano da lui, che non si fece ripetere la mia
affermazione irata.
“Non mi fai paura! È questo quello che credi? Di venire qui,
di fare il matto, di prendermi di peso e di portarmi dove ti pare? Credi così
di avermi dimostrato che sei cresciuto, che non sei più il bambinello che corre
sotto la sottana di mamma e che va a lucidare le scarpe di pelle di papà? Ma
come sei messo?”.
Sbollii la mia rabbia, con quelle parole, gettandogliele
addosso come se fosse stato olio bollente. Infatti, Marco, dopo averle udite,
impallidì all’improvviso e si distanziò da me.
“Voglio solo che torniamo assieme. Costi quel che costi.
Tutto il resto non importa”, affermò alla fine il mio ragazzo, a voce bassa e
controllata, tornando ad abbandonarsi sulla sedia che aveva occupato poco
prima.
“Così cominciamo a ragionare”, gli dissi, calmandomi un
attimo e poi andando alla porta, facendo scattare la chiave nella serratura ed
aprendola.
“Stai tranquilla, ci penso io”, sussurrai impercettibilmente
a labbra strette a mia madre, che me la trovai impalata dietro la porta appena
aperta, e lei mi fece cenno affermativo col capo, facendomi capire, però, con
la sua aria risoluta, che avrebbe continuato a tenerci d’occhio, seppur da una
breve distanza.
“Io non ce la faccio più, voglio tornare con te”, continuò a
dirmi Marco, con voce sconsolata e atona.
Dopo il momento di pura follia, mi sembrava che si fosse come
svuotato; tornato a sedere, lasciava che le braccia penzolassero verso terra,
senza cercare di tenerle incrociate sulle ginocchia o al petto, o perlomeno di
appoggiarle sul tavolo che aveva di fronte, ancora per metà imbandito per il
nostro ritardatario pranzo. La testa ciondolava, le gambe si muovevano
ritmicamente, in una sorta di ballo da fermi che riusciva a trasmettermi un po’
d’ansia.
Ecco, quello era tutto ciò che il mio ragazzo stava riuscendo
a mostrarmi.
Sul suo viso aleggiava un’espressione triste ed abbattuta,
mortificata, ma nulla riusciva più a togliermi di dosso quella rabbia che
ancora stavo provando per tutto quello che era accaduto poco prima.
Da lui, una sceneggiata del genere non me la sarei mai potuta
aspettare, e vista la sua scarsa mancanza di controllo, mi parve di vederlo
molto più bambino di prima. Prepotente, egoista, ma soprattutto molto
infantile.
“Anche io voglio tornare con te… o, meglio, volevo. Tu non
hai idea di quanto io abbia sofferto in questi ultimi giorni…”.
“Volevi?”.
Marco m’interruppe alzando il capo abbandonato e piantando il
suo sguardo su di me, come a voler analizzare ogni mia altra parola o gesto.
“Sì, volevo, perché dopo tutto quello che è successo non so
se me la sento più di riprendere a vivere come prima. Poi, questa sceneggiata
di cattivo gusto ha rovinato tutto! E pensare che avevo aspettato da giorni la
tua mossa, e ti avevo tanto desiderato. Questo momento doveva essere una
favola, e non un casino totale”.
“L’ho fatto per te, per farti capire che non sono solo un
mollaccione svogliato, ma che quando mi impegno posso anche riuscire a fare
molto di più!”, saltò su, alzando di nuovo la voce.
“Ah, se per te impegnarti vuol dire aggredire le persone,
credo che tu non abbia compreso il significato della parola”, gli feci notare,
con una ritrovata punta di triste ironia, che non fece effetto sul mio ragazzo
accecato dai suoi desideri.
“Senti, io ti rivoglio, io ti voglio, io ti desidero, io ti
amo, io ti voglio riportare a casa, io… io ti voglio, e basta!”, tornò a dirmi,
facendomi poi scuotere la testa, mentre sul mio viso doveva aleggiare una
smorfia da funerale.
Marco stava parlando ancora peggio di quando ci eravamo
momentaneamente lasciati; se la pausa da me voluta era rivolta a far emergere
qualcosa di definitivo dal suo comportamento, a smascherarlo per quello che era
e a spingerlo a migliorarsi senza più stare a perdere tempo dietro a giri di
parole o a incomprensioni inutili, ebbene, il risultato finale c’era stato, e
non era affatto positivo.
Quel voglio continuamente pronunciato da lui, quel suo
desiderarmi come se fossi stato un bell’oggetto in mostra in una vetrina in
centro, fregandosene di tutto quello che gli avevo sempre detto e ripetuto, mi
faceva davvero sentire un giocattolo da stringere nelle sue grandi mani da
bambino cresciuto. Non ci volevo stare.
E poi, dopo la scenata da poco andata in onda, avevo una
ferita che sanguinava copiosamente nel mio cuore, e la mia lingua, impostata
sulla difensiva, non riusciva ad essere dolce o a sciogliersi, nel vano
tentativo di venirgli incontro.
Alla fine, invece di un miglioramento c’era stato solo un
peggioramento, da quanto potevo freddamente diagnosticare.
“Anche io ti amo tanto. Ma, a questo punto, penso che prolungare
la pausa non possa farci altro che del bene”.
“No”, sbraitò subito, tornando a irritarsi.
“Sì, invece. Io ti chiedo di diventare l’uomo che sei, l’uomo
che stai nascondendo negli angoli bui della tua mente, e tu non fai altro che
mandare davanti a te tuo padre, o di rifugiarti dalla…”.
“Ho detto basta! Basta! Smettila di parlare dei miei
genitori, loro non c’entrano se sono un debole!”, quasi urlò Marco,
imbestialendosi dopo il mio ennesimo affondo. Raccattò le sue braccia e le
strinse al petto, minacciosamente. Mise su anche il broncio; pareva davvero un
bambino troppo cresciuto.
Era tutto inutile, a quel punto ai miei occhi appariva solo
come un bambino viziato e patetico.
“Peccato che sia stato proprio uno di loro a volersi
immischiare direttamente nella faccenda, venendomi a parlare al lavoro, a fine
turno”.
“Mio padre?”.
“Tuo padre”.
Non mi parve troppo sorpreso da quella che speravo potesse
essere una rivelazione, anche se questo sembrò calmarlo un pochino, dopo la
tensione degli ultimi secondi.
“Ti ha proposto dei soldi, immagino. Avrà voluto comprarti
per la felicità del suo unico figlio, giusto?”, sussurrò, lasciando che le
parole sibilassero acutamente in ogni angolo remoto della cucina, e forse anche
oltre, in corridoio e fino alle orecchie attente di mia madre.
“Proprio così, non sbagli affatto”.
“Tu saresti stata l’ultimo giocattolo che mi avrebbe
regalato, e poi sarei diventato perfettamente adulto, ai suoi occhi. Una volta
impegnato in modo inderogabile con te, avrei messo la testa a posto ed avrei
fatto una bella vita, occupando anche il posto del mio genitore, che sta
invecchiando”, razionalizzò, sempre a bassa voce, col suo sguardo vacuo,
puntato verso la finestra spalancata.
“Il vostro unico problema è che io non sono un vostro
oggetto, e non sono in vendita. Il tuo impegno avrebbe potuto comprarmi,
diciamo così, ma mi sembra proprio che non sia andata per il verso giusto”,
considerai, spietatamente.
“Volevi che diventassi un uomo da me, da solo”.
Sempre il suo sguardo vuoto, distante e sofferente. Nessun
lampo d’ira che baluginasse in essi e sul suo viso, che pareva addirittura più
vecchio, da quarantenne in crisi di mezza età.
“Sì, volevo che tu mettessi la testa a posto con coraggio e
determinazione”.
“Non ci sono riuscito, vero?”.
“Al momento, decisamente no”, riconobbi.
“Devo riflettere un altro po’. Credo che, a questo punto,
ancora qualche giorno di isolamento potrà aiutarmi a raccogliere le idee, e a
capire quello che realmente voglio dalla vita. Restiamo in pausa, allora…”.
Concluse la frase come se fosse stata una domanda, ma capivo
che aveva compreso quella volta, e stava provando solo a mascherare una
constatazione.
“Restiamo in pausa. Ma mi piacerebbe tanto risentirti,
parlarti… insomma, essere chiara con te, e restare in contatto, senza
sparizioni improvvise e durature… immagino che tu abbia capito il mio discorso,
dai”.
“Certo”.
Silenzio, per qualche secondo. Un silenzio amaro, occupato
dal rumore che produsse il mio corpo mentre si lasciava scivolare su una sedia,
proprio di fronte a Marco, quello che era stato il mio Marco, che se ne stava
ancora a ciondoloni, smorto e senza vitalità.
Nonostante tutto, non riusciva a farmi pietà, ed era come se
non riuscissi a capirlo fino in fondo, né lui e neppure i suoi discorsi. Forse
neppure lui stesso riusciva a farlo.
“Non hai un altro, vero?”.
La sua domanda improvvisa mi spiazzò.
“Come?”.
“Non è che mi rifiuti in questo modo perché hai trovato un
altro ragazzo?”, insinuò di nuovo, coi suoi occhi da serpente che ritrovarono
improvvisamente vitalità e affrontarono in modo diretto i miei.
“Non ti permettere mai più di farmi questa domanda. Io con te
sono stata chiara e sempre lo sarò; se hai dei dubbi del genere, tanto vale che
ci lasciamo per sempre”, gli dissi, con veemenza. Non potevo sopportare
quell’affronto volgare nascosto nel suo quesito ripetuto. Per me era già stata
un’umiliazione infame averlo dovuto ascoltare, e poi così a tradimento mi aveva
davvero sconvolto.
Pensava questo di me il mio ragazzo? Era una pugnalata al
cuore.
“Va bene, mi fido delle tue parole”, asserì, dopo qualche
secondo, calmandosi di nuovo. Gli occhi tornarono ad abbassarsi da me, come se
si stessero spegnendo.
“Non ti mentirei mai su una cosa del genere. E adesso, per
favore, prima di peggiorare ancora di più le cose, è molto meglio se te ne vai”.
Marco rimase immobile e non mi guardò neanche.
“Ti prego, vattene. Ci risentiamo quando sarai un po’ più lucido,
ora sei troppo sconvolto”, tornai ad incitarlo, e allora reagì. Mosse le mani
verso la sua gola, in un gesto che non compresi all’istante, ma che si rivelò
essere un movimento utile a sistemare il bavero della camicia a mezza manica
che indossava, ormai tutta in disordine.
“Va bene, ma non finisce qui, ok? Io ti amo e ti rivoglio, a
qualsiasi prezzo. Dammi qualche giorno per chiarirmi ancora meglio le idee, poi
ricominciamo daccapo, sei d’accordo?”, mi chiese, docilmente.
“Ne riparleremo. Ma ora, vai”.
Non gli riservai neanche un sorriso, o una parola di
conforto. Tirai solo un sospiro di sollievo quando se ne andò, sbattendo la
porta d’ingresso dietro di sé e senza salutare mia madre, che per tutto il breve
lasso di tempo che aveva impiegato per percorrere il corridoio non aveva tolto
neppure per un attimo i suoi occhi di ghiaccio dalla sua slanciata figura.
Lasciai poi che la mia schiena sudaticcia scivolasse
lentamente lungo la sedia, rincassandomi come se fossi interiormente morta. O
sciolta. Non seppi bene quale delle due alternative apparisse più concreta.
“Devi lasciarlo immediatamente”.
Mia madre mi aggredì col suo solito cipiglio da guerrigliera
sanguinaria, che sapeva sfoggiare solo nei confronti di Marco.
Borbottai qualcosa di incoerente, di tutta risposta; che
altro potevo dire, d’altronde? Era stata una batosta anche per me, tutto quello
che era appena accaduto.
“Non mi stupirei se tra qualche giorno si ripresentasse qui
per rapirti. O per picchiarci”.
Altro mio mugugno incosciente.
“Smettila di fare così! Non dirmi che il suo assalto ti ha
rammollito, perché è proprio quello che quel delinquente desiderava. Io te lo
dico già da ora, chiaramente e in faccia; se fai entrare di nuovo quello lì in
casa mia, io chiamo subito le autorità”, infierì ulteriormente, mentre io
restavo immersa nella mia prosciugata fiacchezza.
“Mamma, era solo sconvolto, abbi pietà di lui”, trovai il
coraggio di mediare, ancora stravaccata in maniera orribile sulla mia sedia.
“Ecco, è grazie a comportamenti del genere per cui le donne
vengono maltrattate e picchiate ogni giorno, e subiscono passivamente. Tu vuoi
giustificare quel violento, quel pazzo, quel decerebrato, quel potenziale
assassino…”.
“Basta, per favore”, la stoppai, prima che quella serie di
epiteti potesse divenire così lunga da farmi venire un’emicrania alla massima
potenza. Ci riuscii solo per qualche minuto, prima che riattaccasse, mentre
cominciava a lavare le stoviglie sporche.
“Ma hai visto com’è entrato in casa? Come mi ha aggredito, e
come ha trattato te? Ti sembra normale? E poi, io ti avevo detto e promesso che
non avrei mai più interferito nel vostro rapporto, ma questa volta ha passato
il limite! Ah, no, quello non tratterà mai più in questo modo mia figlia! E se
so che torni assieme a lui, dopo tutto quello che è accaduto di recente, non ti
voglio più vedere e ti diseredo!”, continuò ad inveire la mamma, ormai senza
più ritegno.
La sua foga mi donò un sorriso lezioso, quasi paradossale.
“Tu e papà, invece? Tutte rose e fiori? La nonna sapeva che
il tuo futuro marito aveva avuto problemi di alcolismo e con la Legge fin da
ragazzino. Non ti aveva detto le stesse cose? E poi le hai seguite?”,
rimbottai, con stizza.
Ecco, a quel punto ero stata io ad aver passato il segno, e
me ne rendevo conto, ma non ero riuscita a trattenermi. L’avevo voluta ferire,
per tutto quello che continuava a dire su di me e sul mio amore durato anni.
La vidi impallidire, lasciando poi cadere la spugna
insaponata che stringeva tra le mani bagnate, prima di chiudere il rubinetto e
di rivolgermi un’occhiata che aveva un che di molto dolce.
“E’ per questo che sto cercando di darti dei suggerimenti,
siccome io ci sono già passata. Io ho imparato sulla mia pelle cosa vuol dire
scegliere un uomo sbagliato, e voglio far sì che tu trovi solo il meglio. Un
uomo delicato, innamorato e tranquillo, e non un pazzo con due o tre
personalità differenti, e pure infantile più di un lattante in fasce”, mi
disse, con la voce strozzata, ridotta ad un singulto.
Poi, tornò al suo lavoro, silenziosamente.
“Svegliati. Lui non ti ama, lui ti vuole. C’è differenza tra
amare e volere; amare vuol dire ascoltare, rispettare chi ti sta davanti, far
di tutto per lui. Volere significa prendere letteralmente chi hai di fronte e
farne quello che ti pare, come un oggetto, per l’appunto. E, come un oggetto,
poi verrai cestinata, un giorno. È questo quello che vuoi davvero dalla tua
vita?”.
Il mio castello di carta crollò, collassò su sé stesso.
Mia madre, quel pomeriggio, proprio quando io avevo cercato
di minare la sua autostima per metterla a tacere, era stata in grado, con due
semplici e brevi affondi a parole, di farmi riflettere come mai prima di quel
momento… e di spingermi davvero a capire, sempre più verso una dolorosa verità.
All’improvviso, mi parve come se tutti i miei bellissimi
ricordi legati al mio ragazzo e al nostro rapporto avessero qualcosa di
fasullo; cos’ero stata io per lui? Uno svago, sul serio?
Mi tornarono alla mente i pomeriggi passati in centro, quando
mi accompagnava a fare un po’ di shopping, come di tanto in tanto accadeva,
soprattutto prima che cominciasse la nostra convivenza, e mi appariva Marco che
mi sorrideva, che mi guardava… ma qualcosa aveva rovinato tutto. Lo sguardo che
veniva rievocato nei miei ricordi era più simile a quello di un approfittatore,
di una persona che ti accompagna solo per farti contenta, e per tenerti
vincolata a lui.
Poi, senza sosta, rivissi tutti i momenti di breve tensione
tra noi, quando, soprattutto di recente, insistevo sul fatto che dovesse
cercare di applicarsi un po’, e trovare un impiego. Di farlo per noi, per la
nostra vita di coppia, per il nostro futuro. E mi riappare il suo sorriso, di
nuovo, ancora, mentre poi cercava di quietarmi con un abbraccio, o forzandomi
un bacio. Ed io crollavo, anche in quel caso.
Mi passò per la mente anche il dubbio che, forse, fossi così
malleabile per le persone che mi circondavano, che così avevano grandi chances
di manovrarmi e di influire su di me senza difficoltà.
No, no, non ce la facevo più, e la mia povera testa era tutta
in subbuglio, sospesa tra flussi di ricordi e amarezza estrema.
“Ti ha plagiato. Non te ne accorgi? Guarda come ti sei
ridotta. Te ne stai lì immobile, senza reagire, come una morta. Non hai una
parola per riprenderlo, e per giudicarlo, e non fai altro che cercare di ideare
scuse per non addossargli colpe”.
Ancora e di nuovo, mia madre infieriva, e la sua voce era
come una colonna sonora di quel momento molto delicato, sia per la mia vita e
sia per il mio immediato futuro.
“Lui ti ha svuotato. Ho visto i suoi occhi da pazzo, erano
proprio così; vuoti. Io non ho mai immaginato che fosse una persona di quel
livello, anche se qualcosa nel tempo avevo compreso, ma se avessi saputo, non
ti avrei mai permesso di convivere con quello squilibrato, anche se tu sei
maggiorenne e in grado, sulla carta, d’intendere e di volere. Ma lui ti ha
rubato la personalità, e proprio adesso, che dovresti tirarla fuori e
giudicare, ragionando, sembri priva di ingegno e di spina dorsale!”.
“Basta! Basta!”, urlai contro mia madre, dopo le sue ennesime
parole.
All’improvviso, il senso di spossatezza lasciò ampio spazio a
una rabbia incendiaria, che cominciò a circolarmi fin nelle vene. Andavo in
fiamme.
Piantai lì mia madre, e senza dire altro, me ne andai in
camera mia, come una bambinetta arrabbiata, a sfogare la mia tensione con un
bel pianto ristoratore. Era l’unica cosa che riuscivo a fare, mentre il
disordine ruotava senza sosta nella mia provata scatola cranica.
Non appena riuscii a calmarmi un po’, dopo una marea di
singhiozzi soffocati dal mio profumato cuscino, ormai tutto bagnato e rovinato
per via delle mie lacrime, che erano infine sgorgate in abbondanza, scelsi che
per far maggiore chiarezza avrei dovuto chiamare la mia migliore amica, che
avevo visto solo da poche ore.
Le telefonai.
“Ire, sono io…”, le dissi, con un filo di voce,
presentandomi. Il mio vano tentativo di non mostrarmi fragile come la
porcellana, anche con lei andò a vuoto.
“Oddio, Isa! Che voce!
Ma cosa ti è successo?!”.
La mia interlocutrice era preoccupatissima. Lo sarei stata
anch’io, se un’amica mi avesse telefonato per parlarmi con una voce del genere.
“Ti ho chiamato… per raccontartelo…”, e tra un singhiozzino e
un altro, la aggiornai sui progressi della situazione.
La lasciai sbigottita. Non aveva alcuna fretta di finire di
ascoltarmi.
“Lascialo subito”.
Il suo verdetto fu molto sintetico e pratico, ma mi fece
scuotere la testa.
“Parli come mia madre”.
“Tua madre ha ragione, questa
vostra storia non può andare avanti così. E non parliamo poi di come si è
comportato”.
“Oggi era troppo scosso… sono certa che presto potrà andare
meglio. Ma…”.
“Ma?”, mi sollecitò
la mia curiosa interlocutrice.
“Ma, nel frattempo, ci sto male e ci soffro”, conclusi,
mostrando di nuovo la mia esasperazione.
Forse, sbagliavo davvero a cercare di voler giustificare il
comportamento recente di Marco.
“Ecco. Metti un punto;
lascialo. Se poi è destino e sono rose, fioriranno. Ma adesso mi sembra che il
terreno sia troppo sterile per piantarli, questi beati fiori, no?”.
“Hai ragione”, le acconsentii, infine.
Mi sdraiai sul mio letto sfatto, stanca morta.
“Vedi allora quali
saranno le sue prossime mosse, poi valuta tu”.
“Certo, farò così”.
“Ti va se ci vediamo,
la prossima settimana? Vorrei stringerti forte, forte. Tu non meriti tutto
questo, sei così onesta, pura e lavoratrice… meriti molto di più e molto di
meglio!”, affermo Irene con una premura tale che seppe farmi sorridere,
nonostante la disperazione in cui ormai facevo il bagno quotidianamente.
“Assolutamente sì!”, quasi esultai, contenta della proposta
della mia amica. Avere una persona a mio fianco in quel momento, soprattutto
una mia coetanea, mi rincuorava molto e mi faceva stare meno male.
“Perfetto, allora ci
risentiamo. E ci teniamo in contatto! Mi raccomando, tienimi sempre aggiornata
su tutto, e se posso esserti di aiuto in un qualche modo, sono qui e sai dove e
come trovarmi, ok?”.
“Ok, Ire. Se non ci fossi tu…”.
“Fidati, tu meriti
tutto il meglio dalla vita, limpida come sei. Segui sempre il tuo cuore! A
presto, allora”, si congedò con bonarietà la mia cara interlocutrice,
gentilissima e disponibile nei miei confronti, come ogni volta che glielo avevo
concesso.
“A presto, grazie ancora”, e riattaccai. Poi, misi sul
comodino il mio cellulare, e mi concessi totalmente al mio letto, spostando il
cuscino umido e finendo di pulirmi il viso dagli ultimi residui delle lacrime
da poco versate.
Mi sentivo pronta a voltare pagina, e in un certo senso era
come se avessi tutti a mio fianco.
Marco passò per qualche istante in secondo piano, mentre
lasciavo che il mio sguardo si perdesse nel verde che regnava al di là della
mia finestra perennemente spalancata, che sembrava essere, in quegli istanti,
quasi una porta aperta sulla libertà e sulle infinite possibilità di scelta che
mi si stagliavano di fronte, con temerarietà e nitidezza.
NOTA DELL’AUTORE
Allacciate le cinture di sicurezza! I prossimi capitoli
continueranno a essere molto movimentati ^^
Vi ringrazio per aver letto anche questo capitolo.
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Capitolo 8 *** Capitolo otto ***
Capitolo otto
CAPITOLO OTTO
Tutto si mantenne calmo fino al giorno successivo, quando la
situazione tornò a degenerare; e fu un vero peccato, siccome a casa ero
riuscita a ritrovare un po’ di pace con la mamma, nonostante ci fossimo
sforzate di ignorarci pur di evitare di finire di nuovo a discutere della piega
degli eventi recenti. Anche al lavoro andava tutto alla grande.
Virginia aveva pietà di me più che in qualsiasi altro periodo
del nostro rapporto lavorativo, e il pomeriggio scorso, quando ero tornata a
riprendere il mio turno, seppur triste e sfinita, mi aveva accolto con grande
gentilezza, senza apparire mai contrariata o ingelosita per il fatto che quel
galantuomo all’antica del suo filarino mi aveva portato a casa. Anzi, ne
sembrava felice, ed era come se la sua buona azione fosse stata positiva anche
per lei.
Piergiorgio, invece, non l’avevo più rivisto.
Ebbene, quando mi recai al lavoro, giungendo con qualche
minuto d’anticipo, come mio solito, intravidi subito, mentre parcheggiavo, che
davanti all’ingresso del locale si era posizionato uno dei miei peggiori
nemici; il padre di Marco. Era seduto ad uno dei tavolini liberi.
Sbuffai, nervosa. Ero proprio stanca di quella messa in
scena, e di quella famiglia… mi veniva davvero da scendere dall’auto e
cominciare a gridargli contro come una forsennata.
Volevo liberarmi dai vincoli di quelle persone insistenti,
che ai miei occhi apparivano sempre più come malate, ossessive ed opprimenti;
era proprio vero che non tutto ciò che luccicava era oro, e non mi ero mai
accorta, durante la mia lunga relazione con Marco, di quanto fosse insistente
il suo genitore. Forse, perché non avevamo mai avuto problemi gravi come quella
volta.
Mi lasciai alle spalle l’auto e mi avviai verso il mio
calvario quotidiano, che aveva surclassato il lavoro, ed era il mio impegno con
i problemi che la pausa da me voluta col mio fidanzato aveva provocato. Una
reazione a catena, proprio.
Coprii la distanza che mi separava da L’angolo della bontà con rapidità, a passi svelti, tenendo lo
sguardo a terra e cercando di non mostrare il mio volto che, in quel momento,
doveva essere livido dal nervoso che stavo provando. Il mio doveva essere uno
stupido tentativo di depistaggio, nella speranza che quello che ormai vedevo
come un nemico stesse solo attendendo un caffè, ma naturalmente non era così.
“Isabella, per favore, potrei parlarti un attimo?”, esordì
infatti l’uomo, tossicchiando per attirare la mia attenzione mentre cercavo di
avvicinarmi alla porta del locale.
Per un istante, mi baluginò per la mente di far finta di non
aver udito nulla, ma poi compresi che, in fondo, avrei solo aggravato la
situazione, siccome Valerio, come ben sapevo, non era un tipo che demordeva
facilmente.
“Senta, mi spiace, ma io sono qui per lavorare…”, partii
anch’io in quinta, innervosita come non mai, ma il signor Benedetti mi prese
dolcemente per una spalla, dopo essersi alzato in fretta e senza che io avessi
avuto modo di evitare il contatto; e mi si avvicinò, in una sorta di viso
contro viso.
Mi ritrovai proprio col suo volto a meno di un palmo dal mio,
coi miei medesimi segni d’irrequietezza ben impressi sulla sua pelle ben
rasata, che sembrava quella di un bambino, e il suo odore di dopobarba spalmato
da poco stuzzicava improvvisamente le mie narici. Mi sentivo quasi in pericolo.
Valerio si affacciò poi per un attimo all’interno del locale,
rivolgendo uno sguardo perentorio alla signora Virginia, già collocata dietro
alla cassa, nella sua solita postazione quotidiana.
“Devo scambiare due parole con la sua dipendente, signora. So
che lei è tanto gentile e me la concederà di nuovo per un paio di minuti. Dopo
le lascerò una generosa mancia, per il disturbo recatole”, disse con fermezza,
e senza attendere un’ipotetica risposta mi prese a braccetto e mi fece sedere
al tavolino dove mi aveva atteso.
“Ora devi ascoltarmi. Questa volta, devi”, mi disse,
sussurrandomi quasi all’orecchio e lasciando che il suo alito rancido, così
tanto differente da quello sempre gradevole del figlio, sferzasse brutalmente
il mio viso.
Mi ritrassi, mi faceva davvero schifo.
“Ripeto; io non ho niente da ascoltare, niente da dire, e non
so cosa vuole da me e non m’interessa nulla”, dissi, scandendo per bene le
parole e cercando disperatamente di farmi coraggio, siccome quest’ultimo si
stava un po’ eclissando di fronte alla sicurezza che emanava quell’uomo.
Il signore si sedette di nuovo di fronte a me, esattamente
come aveva fatto un paio di giorni prima, seppur in modo più educato, e mi
guardò con una smorfia rancorosa che mi trafisse, con quei suoi insipidi
occhiacci che parevano divorarmi, e quel suo sguardo da uomo prepotente e
arrogante che non era abituato a ripetere due volte le cose.
“Ti interessa, invece. Riguarda te e mio figlio…”.
“Suo figlio, per l’appunto, quel maleducato! Ieri ha fatto
una tale scenata, a casa di mia madre, che mi ha lasciato senza parole!”, gli
dissi, esasperata, interrompendolo.
“Sì, e lo sai perché è cambiato così in fretta?”.
Lo sfidai con il mio silenzio. In fondo sapevo già quale era
la risposta a quella sua domanda retorica, e tanto valeva che fosse lui a
darsela da sé.
“Per colpa tua. Solamente tua”, infierì infatti dopo il mio
silenzio placido, “e ora desidero che tu rimedi a tutto questo”.
“Doveva educarlo meglio”.
Di fronte alla mia faccia tosta, che soffocava una
disperazione disumana, il mio interlocutore sorrise amaramente.
“Parliamo seriamente, da adesso in avanti. Faccia a faccia,
come qualsiasi persona adulta. Ascoltami; cosa desideri, pur di ritornare con mio
figlio?”.
Spalancai la bocca, e quasi mi venne da lanciare uno strillo
da pazza, da indemoniata.
“Ancora?! Ancora con questa storia?! Ma la vuole capire, lei
e quello stronzo di suo figlio, che non sono in vendita e che non sono un oggetto?
Io non ne posso più, più, di sentire questo discorso, e di essere obbligata da
voi due ad ascoltarlo!”.
Dalla rabbia mi veniva voglia di gettare in strada il
tavolino, e la sedia addosso a quel fetente. Ero andata fuori di testa anch’io,
a seguito di quell’ennesima e stupida pressione.
“Farò finta di non aver udito l’orribile epiteto che hai
dedicato e rivolto a mio figlio, sai”, disse Valerio, senza scomporsi
minimamente di fronte alla mia reazione furiosa, “comunque, non posso darti totalmente
torto. Mio figlio è disgustosamente infantile, e mi aspettavo che, prima o poi,
qualche tensione sarebbe venuta fuori, tra te e lui. Siete due persone così
diverse! A volte mi stupisco del fatto che siete riusciti ad andare avanti per
così tanto tempo. Tu cerchi la vita di coppia nella sua interezza, lui cerca lo
svago, come durante la fanciullezza, e non prende nulla sul serio, limitandosi
a bramare e a volere”.
“E, mi scusi, quindi lei pretende che, viste le circostanze
attuali, io ritorni tra le sue braccia con tanto di grande gioia?”, gli chiesi,
nella medesima maniera che avrebbe utilizzato lui nei miei confronti.
“Isabella, io sono qui per dirti che… per supplicarti… di
tornare con lui. Costi quel che costi. Non posso vederlo soffrire così! A casa
non mangia più niente da giorni, batte la testa contro il muro della sua
stanza, e se gli parliamo strepita come un folle. Se tu torni con lui, Marco
smetterà e si rimetterà in sesto, proprio come prima, e per me e per mia moglie
sarebbe un immenso sollievo. Facci questo regalo, ti imploro”.
Sollevai un sopracciglio, con sarcasmo.
“Mi avete solo riservato rancore, perché io ero diversa da
voi. Mi dispiace, ma fintanto che non me la sento, non posso…”.
“Cosa vuoi in cambio? Ti posso dare ogni cosa. Ogni cosa, ripeto.
Se mi dici che vuoi dei soldi, ti faccio avere tutti quelli che ho; se vuoi
case, gioielli, un posto di lavoro da direttrice… tutto. Se desideri che io
stesso ti faccia da domestico, anche solo per il tuo gusto di umiliarmi, lo
farò. Tutto, farò ogni cosa che mi dirai di desiderare. Se vuoi che m’inchini…”.
“Basta così, io non voglio niente da lei! Lo capisce o no?
Questa è una faccenda tra me e suo figlio, ed è ora che la smettiate
d’immischiarvi in questo modo! E la smetta anche di sparare sciocchezze!”,
sbraitai, continuamente angustiata da quella marea di insistenza, che non
riuscivo in alcun modo ad arginare.
“Ma io mi intrometto proprio perché riguarda mio figlio,
questa questione. Io non voglio che lui soffra, o che commetta stupidaggini a
causa di questa… di questa tua voglia di intestardirti, Isabella. Lui ti ama e
tu pure; semplificate le cose e tornate assieme, così non…”.
“Allora c’è qualcosa che proprio non capisce!”.
Mi venne da sorridere, tristemente, e in modo alquanto goffo,
dopo averlo interrotto per l’ennesima volta, durante quelle sue futili
digressioni, a quelle inutili parentesi ricche di supposizioni che volevano
solo impormi di fare proprio ciò che al momento non volevo fare.
Ma, a quel punto, Valerio era stanco; aveva messo sul piatto
della bilancia tutto quello che poteva offrire, anche la sua sudditanza, e ci
avrei scommesso che se gli avessi chiesto la sua sudditanza lui mi avrebbe
detto di sì anche in quel caso. Persone del genere e di quello stampo non
dimostravano dignità, quando si tratta dei loro bambinelli un po’ troppo
cresciuti.
Insomma, il signor Benedetti era ormai paonazzo in volto, e
si era umiliato davanti a me con quelle sue proposte così aberranti che
faticava lui stesso a riconoscere di avermele proposte. Ci aveva provato, ma io
in ogni caso non avevo abboccato, e si sa, quando il pesce non abbocca all’amo,
nonostante le succulentissime esche messe in acqua, è il momento in cui il
presunto pescatore perde la pazienza e impreca.
Andò proprio così.
Il padre di Marco, d’altronde, si era chinato così tanto al
mio cospetto da aver perso la faccia, e non era più disposto ad accettare che,
dopo aver ascoltato tali parole da uomo disperato, io non facessi ciò che mi
aveva implorato di fare.
Gonfiò le guance, quel mio interlocutore sul ciglio di uno
sfogo rabbioso, e si lasciò andare con qualche secondo di ritardo sul tempo che
avevo imprevisto per l’esplosione della sua rabbia repressa.
“Ma sentiti… sei tu invece che non capisci! Ma sai qual è il
problema? Il problema è che tu sei una vera egoista. Non ti importa nulla di
nessuno, e ti diverti solo e in modo sadico a mettere zizzania in casa nostra”,
sancì, infine, il mio insigne interlocutore, perdendo quel contegno da
calmissimo pallone gonfiato che aveva sempre cercato di mostrare di fronte a
me, tranne in quella giornata, dove stava finalmente calando la maschera.
Sapevo che quelli erano attimi cruciali, siccome ero riuscita
a spingerlo con le spalle al muro, e quindi ogni mia altra parola avrebbe
influito in modo netto sui nostri ipotetici rapporti. Perché io non consideravo
di avere un qualche rapporto con quel signore, neppure di semplicissima
conoscenza.
“Se io voglio prendermi una pausa da vostro figlio, secondo
lei, è solo perché voglio farvi litigare in casa?”, gli dissi, in tono più
calmo.
Più Valerio perdeva le staffe, più pareva assorbire la mia
aura negativa, che fino a quel momento mi aveva portato ad essere più
innervosita del solito.
“Sì, perché sei una persona fredda, glaciale, che non vuole
mettersi nei panni degli altri… egocentrica. Non capisco che cosa ci trovi mio
figlio in te!”, mi disse, allontanandosi dal tavolino con una spinta, come a
voler preannunciare che si sarebbe alzato di lì a poco e che era stanco di
conversare con me, finalmente.
“Lei…”.
“Ma vai a farti fottere assieme al tuo lei!”, m’interruppe,
alzandosi dalla sedia.
Quasi esultai interiormente; avevo vinto lo scontro.
Avevo fatto calare definitivamente la maschera al nemico,
l’avevo fatto uscire dal suo mondo falsamente perbene, e mi aveva anche
imprecato in faccia e nei miei confronti.
La barca era stata colpita, ed imbarcava acqua; per finire il
lavoro, non mi restava altro che colpire in modo più forte ed allargare la
falla, per farla affondare definitivamente e in fretta.
Ero sicura che, se avessi ferito di nuovo il padre di Marco,
lui non sarebbe mai più tornato a cercarmi e ad importunarmi.
“Senta, ora mi ascolti lei. Per oggi ne ho avuto abbastanza,
e anche per i giorni a venire, quindi non m’importuni più, altrimenti non mi
farò problemi a chiedere aiuto o a telefonare immediatamente ai Carabinieri. E
ora, se vuole un mio consiglio, vada a casa a lavarsi i denti, per favore; mi
ha quasi steso”, e così dicendo, mi alzai anch’io e gli lanciai un’occhiataccia
che, da sprezzante come avevo progettato che fosse, si tramutò più in qualcosa
di vacuo, di tremolante.
Ebbi subito la consapevolezza di non aver solo allargato la
falla, ma di aver colpito ripetutamente la nave già affondata, in modo
gratuito. Avevo quindi esagerato.
Valerio si alzò anch’egli, livido in volto, con
un’espressione tra lo sbigottito e il sorpreso, e s’impettì, rimettendosi a
posto i suoi begli abiti molto formali e passandosi poi una mano sui capelli
imbrillantinati.
“Mi fai schifo. Ti credevo una ragazza di classe”, mi disse,
ormai ripetutamente pugnalato nell’orgoglio.
“No, lei mi credeva un’oca, che è diverso”, gli risposi,
senza rimorsi, ma non guardandolo più. Anzi, cominciai, in modo naturale, a
muovermi verso l’ingresso del limitrofo locale.
“Parlerò a mio figlio e cercherò di dirgli di non pensarti
più. Tu non sei adatta a un individuo delicato come lui”, mi redarguì, ormai
già distante qualche metro da me, che lo stavo distanziando.
“Ah, sì, ottima idea. Anzi, gli dica proprio che io e lui
abbiamo rotto del tutto, e che non voglio sapere più niente delle sue
bambinate”, quasi gli urlai, per far sì che udisse tutto per bene.
Ero così arrabbiata… e, un attimo dopo, come mi capitava
spesso, mi ritrovai a rinfacciarmi il fatto che avessi parlato di nuovo in modo
esagerato. D’altronde, che colpe aveva Marco? Era solo una vittima dei suoi
genitori, che l’avevano educato male e volevano sempre accontentarlo in tutto e
per tutto.
Non mi passò neppure per la mente che dietro a tutto ciò
potesse esserci un suo progetto intenzionale, e che fosse cosciente della
situazione imbarazzante nella quale ormai versavo da solo qualche giorno, ma
che mi pareva un’eternità. Quella era una faccenda che doveva restare tra noi
due, e non dovevano intromettersi altri… e così, avevano rovinato tutto, in
primis proprio il signor Benedetti, che con la sua faccia tosta mi aveva
indisposto in una maniera assurda.
No, il mio ragazzo restava quasi immacolato, nei miei
pensieri del momento.
“Non mi stupirei se scoprissimo che te la stai facendo con un
altro!”, borbottò Valerio di rimando, andando poi in senso opposto al mio.
Io, invece, mi bloccai sul posto; sentii il mio volto andare
in fiamme, dopo quell’ennesima insinuazione. Era troppo, per me.
Se solo avesse saputo quant’ero stata fedele a suo figlio, e
quanto l’avevo amato, per poi ricevere solo mezze fregature in cambio, e quello
schifo di vecchia boccaccia puzzolente che mi sparlava alle spalle, e che
magari era stata proprio essa stessa a mettere la pulce nell’orecchio a Marco,
siccome il giorno prima aveva sollevato anche lui la medesima questione.
Fui in procinto di voltarmi e di urlargliene quattro,
sconvolta e ferita, constatando che anche il Benedetti alla fine ci aveva dato
sotto, ma per fortuna non tornai ad aggravare la situazione, anche perché la
signora Virginia fece capolino dalla porta del suo locale e me la ritrovai
proprio di fronte.
“Le chiedo scusa…”, esordii, ma lei mi face cenno con la mano
che era tutto a posto, zittendomi.
“Perché quell’uomo è così insistente, con te? Hai dei
problemi con lui?”, mi chiese, incuriosita e nervosa, mentre osservava Valerio
che si allontanava. Non le aveva neppure dato la tanto proclamata mancia che
aveva promesso un quarto d’ora prima.
“E’ il padre di Marco, il mio fidanzato ed ormai ex
convivente”, le risposi, in sintesi.
“A me sembra che quello abbia dei disturbi, delle manie di
persecuzione… con tutto il rispetto, ma io ti consiglio di smetterla di dargli
udienza”.
“Lo farò senz’altro. Anche io non ne posso più…”, riconobbi,
entrando all’interno de L’angolo della
bontà, finalmente.
Mi diressi subito verso lo sgabuzzino, felice, per la prima
volta dopo tanto tempo, di cominciare a lavorare, seppur con una decina di
minuti di ritardo.
“E il tuo ragazzo cosa ne pensa? Crede di rimediare
mandandoti tutti i giorni suo padre a parlarti?”, mi chiese di nuovo la
signora, tornando anche lei alla sua solita postazione. Quel giorno il locale
era ancora quasi vuoto, e non c’era molto da fare, almeno per la padrona,
poiché Ilenia mi stava già egregiamente coprendo senza difficoltà.
“Non so di preciso quel che vuole, ma credo che lo lascerò…
almeno, a suo padre gli ho già detto che è come se lo avessi lasciato”, le
risposi, mettendomi i guanti e dirigendomi verso il primo tavolino da pulire,
munendomi anche di una spugna umida.
“I dieci minuti di ritardo li recupero a mezzogiorno, se non
le dispiace, va bene?”, tornai a chiederle, per essere corretta, e finalmente
mettendo da parte l’asfissiante discorso del signor Benedetti e di suo figlio.
“Non preoccuparti, è tutto a posto così. Non è stata colpa
tua”, mi concesse Virginia, da dietro la sua cassa. Le rivolsi un sorriso di
ringraziamento, prima di tornare a svolgere le mie mansioni.
“Ah, figliola”, tornò a dirmi, quando meno me l’aspettavo,
dopo qualche minuto di silenzio durante il quale avevo creduto che il nostro
discorso fosse decaduto, “non farti pestare in questo modo, sii tu a decidere
il tuo futuro. Se quel ragazzo non ti convince più, ora che stai imparando
all’improvviso a conoscerlo meglio, lascialo perdere”.
La guardai, esterrefatta, dopo quel suo intervento inatteso,
ma né a lei e né a me fu concesso di aggiungere altro, siccome un paio di
petulantissimi clienti varcò la soglia del bar e cominciò disordinatamente ad
ordinare, e mi diedi così da fare con grande solerzia.
Poi, fui assorbita interamente da quell’ennesima e ormai
abitudinaria giornata di lavoro, dove tutto, di solito, procedeva sempre alla
stessa maniera e mi erano concessi solo pochi attimi di riposo.
A mezzogiorno, quando staccai, la signora Virginia non mi
fece recuperare i minuti di ritardo, come precedentemente promesso, ed io non
potei neppure ringraziarla adeguatamente per la sua sempre più insolita
gentilezza che mi riservava, siccome il locale si era riempito di clienti e non
c’era verso di star fermi un istante.
Quando mi diressi all’uscita, pronta a tornare alla mia macchina,
accaldata ma più tranquilla in confronto all’ultima volta in cui avevo varcato
quella soglia, incrociai il signor Piergiorgio, che invece stava entrando.
“Buongiorno!”, mi salutò allegramente, non appena mi scorse.
Aveva sempre ben impressa sul suo viso un’espressione
simpatica, accogliente e cordiale, e mi donò un sorriso.
“Buongiorno a lei”, lo salutai, affiancandolo e continuando
poi ad andare per la mia strada.
Ero contenta che anche la rabbonita Virginia fosse riuscita a
ritrovare un amico così assiduo. Nella sua solitudine, era proprio quello che
ci voleva, e speravo che nel caos di quella giornata potessero trovare un
momento per confabulare, come erano soliti a fare.
D’altronde, ero certa che era stato grazie a quel signore e
alla sua positiva presenza se la mia datrice di lavoro aveva abbandonato il suo
comportamento da megera incallita e si era trasformata, almeno nei miei
confronti, in un agnellino docile.
“Te ne vai già, oggi?”, mi gridò poi dietro Piergiorgio,
quando ormai già diversi passi ci separavano, e stavo per essere avvolta dal
rovente sole di mezza estate.
“Stacco a mezzogiorno, se ricorda! Arrivederci”, gli risposi,
volgendomi un secondo indietro e dicendogli a voce alta la risposta.
Incontrai il suo sguardo, e lo riconobbi cambiato; era forse
deluso? Ma deluso per che cosa? Tirai dritto, di nuovo sovrappensiero, e
attraversai la breve landa misera di asfalto rovente che mi separava dalla mia
auto, per poi affrettarmi a salirci a bordo e ad infilarci la chiave nel
cruscotto.
Stavo per mettere in moto e sgommare via, quanto il cellulare
cominciò a squillare disperatamente.
Imprecai, dissi un paio di parolacce che rimossi un attimo
dopo dalla memoria, e recuperai la mia borsetta mezza distesa sul sedile del
passeggero, per afferrare il mio telefonino e rispondere.
Credevo fermamente che si trattasse di mia madre, che aveva
sempre da fare due o tre monumenti attorno al suo beato pranzo che ogni giorno mi
preparava, ma quando mi ritrovai ad osservare lo schermo illuminato, sentii il
mio battito cardiaco che già aumentava a dismisura. Marco mi stava chiamando.
Tolsi la chiave dal cruscotto, con un gesto involontario, e
attesi qualche altro squillo prima di rispondere, emettendo qualche sospiro nel
tentativo di riprendere fiato e di lasciare andare la mia emotività, che mi
stava improvvisamente travolgendo. Accadeva solo quando era lui a telefonarmi.
Da una parte, ero felicissima di ricevere una sua chiamata,
ed ero gioiosa. Dall’altra, una vocina nella mia testa mi ripeteva che mi
attendevano brutte soprese, come era accaduto continuamente di recente, a
riguardo.
Alla fine, risposi, proprio quando temevo che avrebbe
riattaccato, quando poi sarebbe entrata in funzione la segreteria telefonica.
“Pronto”.
“Cos’è questa storia?”,
mi aggredì Marco, all’istante.
Ecco, di nuovo il mio castello di carte si ritrovava a
collassare miseramente su sé stesso.
“Quale… quale storia?”, balbettai, ferita.
In un attimo, cominciai a star male; se con tutti mi
permettevo, a volte, di essere fredda e strafottente, ed ero riuscita ad
umiliare anche un uomo vecchio stile come Valerio, con Marco tutto questo non
funzionava. Al massimo, il più delle volte balbettavo, come in quel caso.
“Che vuoi lasciarmi. Me
l’ha detto mio padre, prima che tu me lo sbatta in faccia, siccome questa
mattina ti ha incontrato casualmente per strada, e tu gli hai detto tante cose
che dovevi dire a me”.
A quel punto scattò la molla nella mia mente che era rimasta
sperduta per qualche attimo, e la ritrovata e rinnovata rabbia mi aiutarono a
riprendere il mio solito piglio che utilizzavo per affrontare certe
descrizioni.
“Senti, ciccino, non t’incazzare subito in questo modo, ok?
Per la cronaca, è stato il tuo paparino bello a venire a cercarmi sul lavoro…”.
“Ma figurati! Le tue
sono solo stronzate. Credi forse di volermi far bere che mio padre ti scoccia
ogni santo giorno? Tu vuoi solo farmi litigare con lui. Taci, ora, e lasciami
parlare”, mi disse, a sorpresa, più arrabbiato che mai.
Ero sorpresa da quello che stava accadendo; e compresi che,
in tutta la vicenda, anche il signor Benedetti, per suo tornaconto, motivato
con la storiella del bene che voleva al figlio, stava facendo il doppiogioco
con noi, mettendoci magari involontariamente l’uno contro l’altra e viceversa.
“No, non ascolto le tue baggianate. Anche oggi sei partito
col piede sbagliato; richiamami quando ti passa”.
“No, non mi passa
niente, hai capito? Basta, hai rovinato tutto, hai detto che mi hai lasciato
senza neanche dirlo con me… siamo in pausa, mi dicevi! In pausa un cazzo”.
“Non ho voglia di litigare con te, ora. Ho un pranzo che mi
attende”, tentai con la diplomazia.
“Sì, il pranzo di mammà
tua! Vai da lei, tu che sei tanto indipendente… sai cosa ti dico? Visto che non
hai avuto il coraggio di dirmi tu per prima e in faccia che mi lasci, sono io a
dirtelo. Isabella, ti lascio! Mi sono rotto di te, dei tuoi modi di fare, dei
tuoi discorsi sul lavoro… tutto mi ha rotto, hai capito? Mi hai rotto!”,
scandì per bene, all’apice della sua sfuriata telefonica.
“Va bene, lasciamoci. Sono d’accordo con te”, gli dissi,
abbassando la voce, delusa e mortificata.
“Ecco qui, è tutto. A
mai più, bugiarda che non sei altro! Falsa! Hai sempre e solo voluto mettermi
contro la mia famiglia, io non pensavo che si potesse giungere a un tale grado
di cattiveria…”.
Riattaccai.
La sua voce mi rimbombava ancora nelle orecchie, e spensi il
cellulare, gettandolo di nuovo nella borsa, come se volessi dimenticarmi per
sempre anche di quell’oggetto personale, e non solo.
“Affanculo, Marco”, borbottai, tra me e me, mettendo
finalmente in moto la mia auto e sgommando via, col volto che mi scottava dal
tanto che era arrossato. Non vedevo neanche la strada, dal nervoso e dallo
sconforto che stavo provando.
Pensai che, se mi fossi ammazzata alla guida, in quel
momento, non sarebbe poi stato così male.
Ma morire per un verme? No, io e Marco avevamo chiuso. Mi
faceva venire il vomito solo a pensarlo.
Con questo spirito compii l’ultimo chilometro di guida che mi
separava da casa di mia madre, e balzai poi fuori dalla mia automobile con
grande agilità, come se avessi avuto un peso in meno a gravitare su di me.
NOTA DELL’AUTORE
Mi scuso ancora, perché a livello di struttura delle frasi
non ci siamo molto. Alcune, le più evidenti, le ho risistemate, ma non sono
riuscito a mettere in sesto un capitolo abbastanza difficoltoso.
Questi sono ancora capitoli che hanno più di un anno.
Vi ringrazio per continuare a seguire il racconto, e spero
almeno che la trama vi stia interessando e intrattenendo. Spero anche di poter
riprendere la battitura del testo prima o poi, e di fare molto meglio ^^
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Capitolo 9 *** Capitolo nove ***
Capitolo nove
CAPITOLO NOVE
Trascorsi delle ore molto concitate. Non riuscivo a levarmi
di dosso i miei problemi, anche se ormai era tutto finito, e quella volta
pareva per sempre.
Avevo raccontato l’evoluzione improvvisa della vicenda a mia
madre, e poi anche a Irene, e non avevo neanche mangiato nulla. Non avevo
pianto, ma finito il momento più concitato ero come collassata nel mio solito
limbo d’inerzia, che mi travolgeva quando ero stanca e sfinita. Ed era solo
metà giornata.
Non avevo idea di come avrei fatto a sopravvivere al resto
del duro pomeriggio.
“Faccio uno squillo alla signora Virginia e l’avviso che non
stai bene, così ti sostituisce”, mi propose mia madre, calma, quando mi ritrovò
distesa sul letto in quello stato di sfacelo totale che mi pietrificava.
Immaginavo i miei occhi socchiusi, con tristezza e malinconia, e il mio viso
arrossato riflesso in uno specchio.
Che misero spettacolo per chi mi stava guardando. Per fortuna
che era la mamma.
“No, mi arrangio. Ci vado, è l’unico modo per distrarmi”, le
dissi, ma solo un attimo prima che provasse a telefonare.
Ero di sasso. E il lavoro era il mio unico escamotage che mi
poteva permettere di essere assorbita in qualcosa che non fossero i miei
inutili pensieri. Inutili davvero, siccome ormai era andato tutto all’aria,
anche ogni forma di civile dibattito. E sentivo che, in fondo, era anche e
soprattutto colpa mia.
Per non impazzire, me ne andai con qualche minuto d’anticipo
da casa, e mi presentai giusto in tempo per recuperare i dieci minuti che avevo
perso quella mattina; era giusto così, e anche se la signora Virginia aveva
detto di non preoccuparmi, ero una ragazza molto ligia e rigida e non volevo
assolutamente lasciare qualcosa in sospeso, o avere un minimo debito con
qualcuno.
Quel giorno Piergiorgio era ancora lì nel locale, a mangiare
molto lentamente una pizzetta margherita. Non ci feci caso, almeno fintanto che
non rischiai di far cadere il vassoio con la bellezza di quattro tazzine
ripiene di caffè. Avevo esagerato, come mio solito, ma il problema era che quel
pomeriggio non riuscivo a ragionare.
Per fortuna, il simpatico signore riuscì a metterci una mano
e a salvare il mio traballante carico.
“Grazie, mi ha salvato la vita”, sospirai, sinceramente grata
all’uomo che mi aveva appena evitato una figuraccia colossale, e qualche danno
da pagare, senza contare il lavoro che avrei dovuto fare per ripulire il
pavimento dal disastro che avrei potuto provocare.
Col groppo in gola dall’ansia, mi ripetei che dovevo stare
più attenta. Molto più attenta.
“Di nulla”, mi rassicurò il signore.
“Ti vedo molto distratta… va tutto bene?”, tornò a chiedermi
quando stavo per allontanarmi, con probabilmente un’espressione spaventata e
turbata ben impressa sul viso.
“Sì… tutto bene”.
Distribuii a singhiozzo le ordinazioni, ma non appena ebbi
finito, vidi che Piergiorgio mi faceva cenno di tornare lì.
“Potresti portare un caffè anche a me, per favore?”, mi
chiese, quando giunsi alla sua portata.
“Certo”.
Mi recai subito alla macchinetta, fiera di preparare
l’ennesimo caffè. Era l’unica mansione che mi stava simpatica, tra tutto
quell’inferno di azioni frenetiche.
“Non stare a metterlo nel conto, eh. Come sempre, offre la
casa per lui”, mi disse Virginia, mentre mi davo da fare. La rassicurai con un
cenno del capo, e tornai a dirigermi verso il cliente, con tazzina e piattino
in equilibrio.
“Ti ringrazio”, mi disse Piergiorgio, cortesissimo e gentile come
sempre.
“Di nulla”.
“E’ vero che questa mattina hai avuto un diverbio col padre
del tuo fidanzato?”, mi chiese all’improvviso, quasi innocentemente, mentre gli
mettevo sotto al naso la sua ordinazione.
Gli rivolsi un’occhiatina con le sopracciglia inarcate,
leggermente sorpresa da tale interrogativo.
“Me l’ha raccontato Virginia. Sai, lei è molto preoccupata
per te”, aggiunse, notando la mia perplessità.
“Sì, è vero. E poi, nel pomeriggio ho anche chiuso col mio
ragazzo”, mi limitai allora a dire, candidamente e in modo serio.
“Mi dispiace”.
“A me sarebbe dispiaciuto, ma viste le circostanze forse è
stato meglio così, dato che non potevamo continuare in questo modo. Le nostre
fragilità alla fine sono venute tutte a galla”.
Raccattai il vassoio colorato di un blu intenso, e feci per
andarmene.
“Beh, se posso far qualcosa… insomma, se mi è concesso
cercare di rassicurarti, in un qualche modo… come se fossi tuo padre… se ci
fosse qualcosa che potrebbe farti sentire meglio…”, borbottò timidamente e a
bassa voce il signore, con eccessiva confidenza, mentre me ne stavo per tornare
a lavorare intensamente.
Mi volsi verso di lui, per un attimo; non sapevo cosa
pensare, ma ero consapevole che quello sconosciuto non avesse proprio nulla da
potermi offrire per rasserenarmi, comunque essendogli grata per il pensiero.
“La ringrazio molto, lei è una persona di cuore. Non sono
abituata ad essere presa così in considerazione da qualcuno. In ogni caso, al
momento posso solo cercare di non pensarci e di passarci sopra”, conclusi,
dileguandomi poi in tutta fretta. Quell’uomo mi aveva messo leggermente a
disagio.
Il lavoro tornò ad assorbirmi, e proseguii come un automa, e
quando Piergiorgio se ne andò non me ne accorsi neppure.
Le ore più impegnative erano di nuovo sempre più vicine, e
dovevo rimboccarmi per bene le maniche, se volevo tener duro, cercando di
ragionare con costanza e di tenere lontano dalla mia mente quel putiferio di
ricordi spiacevoli molto freschi e recenti, che potevano solo portarmi a combinare
casini che avrei poi dovuto ripagare e risistemare con grande imbarazzo.
Quando uscii dal lavoro, quella sera, andai direttamente a
casa di mia madre, come mio solito, e in assoluto mutismo mi limitai a
spiluccare da un piatto pieno di gustose verdure di stagione. Non avevo fame, e
qualche pomodorino ben maturo poteva aiutarmi almeno a fingere, di fronte alla
mamma, che tutto andasse un po’ meglio.
“Non dovresti deprimerti così tanto, ti ho sempre detto che
questo momento sarebbe arrivato. E meglio che sia arrivato ora, che più tardi!
Altrimenti le cose sarebbero state più complicate”, mi disse, mentre anche lei
cenava, e di tanto in tanto mi dedicava un’occhiata stanca.
Io non ce la facevo proprio più a stare di fronte ad una
tavola imbandita, e così trangugiai l’ultimo mezzo pomodorino che avevo nel
piatto, e raccattai un pezzetto di melone dalla ciotola delle verdure rese
finemente a bocconcino, per accingermi ad alzarmi.
“Perché non esci un po’? Vai a farti un giretto, magari così
ti sfoghi un pochino”, mi suggerì mia madre, quando si accorse delle mie mosse
e comprese le mie intenzioni.
“Fosse facile. Oggi ho sgobbato tantissimo, e sono stanca
morta”, le dissi, alzandomi ed andando a farmi una delle mie tanto amate docce.
E, proprio mentre ero sotto la doccia, fui folgorata da
un’idea un po’ pazzerella; e se uscire potesse davvero aiutarmi un po’? Mia
madre non mi aveva detto un’idiozia. Era, d’altronde, da un mese abbondante che
non facevo una capatina fuori dal mio solito circolo vizioso, composto da casa
e lavoro, e lavoro e casa. Una vita abbastanza monotona, per una ragazza ancora
piuttosto giovane come me.
Decisi che sì, sarei uscita.
Sapevo già dove andare, siccome la mia cittadina non era
proprio che offrisse numerosi centri di svago per giovani, quindi sarei andata
dove… dov’ero andata tante volte con Marco. Il
Picadilly Center era uno dei
pochi locali che si trovava relativamente vicino a me e che era un richiamo per
giovani, essendo una sorta di discoteca, a partire dalle ventidue. Speravo che,
magari, andando lì rincontrassi qualcuno della mia compagnia, di quella con cui
giravo con il mio ormai ex ragazzo, e che avessi potuto smettere di riflettere
su tutti quei miei problemi che mi angustiavano.
A decisione presa, mi asciugai in fretta ed indossai i miei
abiti più belli; nessuno doveva credere che stavo passando un così brutto
periodo, almeno a prima vista. Poi, dopo essermi leggermente truccata, scesi di
fretta le scale e recuperai le chiavi dell’auto, mentre i miei pochi oggetti personali
che mi portavo sempre dietro si muovevano disordinatamente nella borsetta.
“Mamma, esco”, avvisai educatamente mia madre, affacciandomi
in salotto, dove lei stava seguendo in tv una di quelle tante serie
strappalacrime che parlavano di amori infranti e di nuove speranze.
“Sì, sì, vai pure”, mi rispose, e notai anche un pizzico di
sollievo nella sua voce. Era come se fosse stata felice di notare che non avevo
scelto di chiudermi subito a guscio, ma che stavo cercando di oppormi ai brutti
eventi che mi stavano scuotendo.
Uscii di casa, e sotto la luce dei lampioni, misi in moto la
mia auto e mi diressi verso la mia meta.
Impiegai solo dieci minuti a giungere al Picadilly, e dopo aver parcheggiato senza difficoltà nel grande
posteggio semivuoto che si stagliava comodamente di fronte al locale. Mi preparai
mentalmente a quello che avrei trovato al suo interno. Soprattutto, se avessi
trovato volti amici, e se avessi potuto trovare qualcuno disposto ad ascoltarmi
e a coccolarmi amichevolmente, per un po’.
Avevo un vuoto dentro, una voragine spaventosa, e avevo
bisogno di provare almeno in qualche modo a colmarla.
Entrai, titubante, e subito fui avvolta dalle lucine
psicodeliche e dalla musica ad altro volume. Le voci degli avventori non erano
altro che un piccolo brusio di sottofondo.
Il Picadilly Center
era un locale piuttosto spazioso, ma molto poco frequentato durante la
settimana, mentre faceva il pienone durante i prefestivi e i festivi. Quel
mercoledì sera, infatti, c’era poca gente, e tutta più che altro radunata in
capannelli che se ne stavano sparsi per l’ambiente, probabilmente a
chiacchierare tra amici.
Mi ritrovai subito un po’ a disagio; ero abituata ad andare
lì con Marco, e quella era la prima volta che ci andavo da sola, e in effetti
mi sentii come un pesce fuor d’acqua. Non era necessario pagare all’ingresso,
ma era comunque la norma andare a ordinare qualcosa al bancone, almeno per
educazione, e fu la cosa che feci.
Non sapevo che altro fare, ed in più forse era proprio lì che
avrei potuto incontrare qualcuno di mia conoscenza, se avessi avuto fortuna.
Nei vari gruppetti, tutti abbastanza lontani da me, non riuscii a scorgere
inizialmente nessuno che conoscessi, ma le lucine intermittenti e la mezz’ombra
non facilitavano la vista e il riconoscimento di chi mi circondava.
Andai ad ordinare qualcosa.
“Ciao”, mi salutò prontamente il barman, un ragazzo sulla
trentina che avevo visto tante altre volte a svolgere il suo mestiere nel
locale.
“Mi daresti un bel bicchiere di aranciata, per favore?”.
“Certo. Fredda e con un po’ di ghiaccio, che dici? Fa un caldo
a palla, fuori”.
“A temperatura ambiente e con un ghiacciolo nel bicchiere,
allora, facciamo così. Non voglio farmi venire un collasso”, gli dissi, allora,
impertinente.
“Perfetto”.
Mi sorrise, sornione, e in pochi istanti mi servì.
Mi ritrovai quindi con una bibita tra le mani, e in completo
disagio, siccome non avevo idea di cosa fare, e mi limitai quindi solo a
pagare, frugando rumorosamente e per un po’ nel mio splendido portafogli rosa e
con due file di lucenti perline incastonate da ambo i lati. Insomma, un
portafogli ideale per una comunissima adolescente… che con me sfigurava ormai
un po’.
“Non vai dal tuo ragazzo?”, mi chiese il barman,
all’improvviso, accettando il denaro tra le mani e battendo poi alla cassa,
osservandomi di sottecchi mentre tornavo a sedermi ad una delle sedie a fianco
del bancone.
“Il mio ragazzo?”, replicai con una domanda, spaesata. Ero
perplessa, non capivo quello che mi aveva appena detto, e anche a causa della
musica a tratti abbastanza alta, pensavo di aver frainteso qualcosa in quello
che avevo udito in maniera un po’ indistinta.
“Il tuo ragazzo”, scandì per bene il giovane, allungandosi
verso di me per passarmi il resto, “è là. Non vai da lui?”. M’indicò un punto
relativamente affollato del locale, in angolo, dove un gruppetto di ragazzi per
metà immersi nell’oscurità se ne restavano appartati a chiacchierare.
“Marco, intendi?”, aggiunsi, sovrappensiero.
“E chi se no?”.
Lasciai il barman senza alcuna risposta alla sua domanda
retorica, e mi alzai con la mia bibita tra le mani, mentre il cubetto di
ghiaccio tintinnava leggermente contro le pareti del bicchiere. Il ragazzo ci
conosceva di vista, e sapeva anche i nostri nomi, ma di sicuro non era a
conoscenza del fatto che quello stesso giorno io e Marco ci eravamo lasciati.
Perlopiù, anche per telefono, come se la nostra storia in
fondo non avesse avuto uno spessore degno di qualche parola faccia a faccia, da
persone adulte e dotate di un minimo di giudizio.
Tutta presa da non so che cosa, mi diressi verso il punto che
mi era stato indicato, finché non mi sedetti al tavolo proprio a fianco di
quello dove gli altri ragazzi stavano ridendo e battibeccando, per vederci da
vicino e in modo più chiaro e distinto. E solo in quel momento riuscii a
scorgere per bene il profilo di Marco. Mi stava dando le spalle, e… sulle sue
gambe, c’era appollaiata una ragazza.
Mi prese un colpo.
Il cuore riprese a battere ai mille all’ora.
Mi alzai di nuovo e feci per allontanarmi, prima che lui
potesse vedermi, ma era ormai troppo tardi, e non fui sufficientemente lesta
nei movimenti; infatti, Vanessa e Gaia, due delle ragazze gruppo di amici di
cui facevamo parte anche noi due, e che frequentavamo spesso proprio nelle
serate trascorse in quel medesimo locale, mi scorsero, avendocele proprio di
fronte, ma fecero finta di non avermi riconosciuto.
Vidi distintamente che Gaia rifilava una gomitata distinta a
Paolo, il suo ragazzo, che era seduto a suo fianco, e gli bisbigliò prontamente
qualcosa all’orecchio. Un attimo dopo anche lui mi fissava, ma io già davo loro
le spalle.
Le lucine lampeggianti smisero per qualche secondo di
illuminare parzialmente la zona che stavo attraversando, ma poi tornarono a
sferzarmi gli occhi, e, spontaneamente, mi venne da volgermi per un attimo
indietro, e incrociai così lo sguardo di metà comitiva, che mi stava fissando
attentamente.
L’unico che pareva non essersi accorto di nulla era proprio
Marco, che flirtava animatamente con la giovane che aveva adagiato volgarmente
sulle ginocchia.
Nessuno dei ragazzi che frequentavo da anni, fin da quando mi
ero messa con il giovane con cui mi ero appena lasciata, si azzardò a
salutarmi. Anzi, non appena videro che li stavo guardando alcuni si lasciarono
andare al sogghigno, altri all’indifferenza, e distolsero lo sguardo.
Vanessa fu l’unica che tentò di farmi un breve cenno di
riconoscimento con la testa, ma proprio oculato e frutto di un millesimo di
secondo. Altroché quei bacetti sulle guance che ci scambiavamo affettuosamente
ogni volta che ci incontravamo! E allora capii… capii che ai loro occhi ero
come decaduta. In quel gruppo non c’era più spazio per me.
Una nullità timida, lavoratrice ed impacciata come me era
stata ben accetta da quel gruppo di snob solo perché stavo con Marco, e fintanto
che sono stata con lui. In quel momento, ero già carne da macello, e il mio ex
era già molto impegnato con una tizia che appariva giovanissima e che non
conoscevo. Mai vista prima di quel momento.
E poi, nella penombra e nella luminosità a tratti allucinante
che mi avvolgeva, non era semplice essere una brava osservatrice, tenendo conto
anche del mio cuore impazzito e dell’ansia che avevo. E anche del senso di
abbandono che provavo. Mi sentivo umiliata.
Le mie guance cominciarono a scottare, segno che dovevo
essere diventata bordò dall’imbarazzo e dalla rabbia, e la vista si fece un po’
sfocata.
Mi sedetti di nuovo al bancone, in attesa di riprendere un
attimo le forze che mi erano necessarie per andarmene da quel posto e non
tornarci mai più. La mia serata di ipotetico svago si era già conclusa in
quella maniera orribile.
Ma il destino sembrava avere altre prove in serbo per me,
quella sera.
“Buona sera, Isabella. Hai visto che bella pollastra che ha
Marco sulle ginocchia?”.
Mi voltai, dopo aver riconosciuto la voce inconfondibile di
Maria Grazia Tabbaniello, che, come ogni sera, assieme alla sorella gemella
Maria Luna, si era recata per spettegolare amabilmente sugli avventori.
“Certo. A me sembra pure minorenne”, annotai, mentre le due
giovani si sedevano a fianco a me, una per lato.
“Uh, no, ora ha diciotto anni. Cioè, li ha da due giorni. Ti
ha sostituito in fretta, eh? Con materiale anche più giovane”, insinuò con la
sua solita cattiveria Maria Luna.
Le due gemelle erano fisicamente identiche, ed amavano
vestirsi in modo molto simile, e alla stessa maniera anche a truccarsi, in modo
da confondere le prede quando le avvicinavano. Io quella sera dovevo essere
stata definita da loro come la preda ideale per l’assalto ai pettegolezzi.
Le due ragazze le conoscevo fin dai tempi delle superiori,
essendo mie coetanee, e le riconoscevo grazie alla voce; Maria Luna parlava a
denti stretti, quasi sibilava, mentre Maria Grazia aveva una voce nasale, più
profonda di quella della sorella, che non aveva consistenza ed appariva solo
come insinuante.
In compenso le avevo sempre odiate, e odiavo entrambe le loro
voci.
“Non ne sono gelosa, che se lo tenga. Quando la ragazzina
imparerà a conoscerlo a fondo, lo pianterà anche lei”, mi limitai a dire, stizzosa.
Poi, quasi mi ripresi da sola; dimostrando nervosismo, alimentavo la loro
curiosità e la loro voglia di continuare a importunarmi. Dovevo trattenermi il
più possibile ed avere sangue freddo.
“Uh, uh!”, occhieggiavano le due, nel frattempo, divertite
dal mio affondo.
Bevvi un bel sorso dal mio bicchiere; non vedevo l’ora di
andarmene.
“E pensare che è da quando è arrivato qui che non fa altro,
il tuo bel Marco, che raccontare come ti ha lasciata. Tu ci vuoi raccontare una
bugia”, insinuò di nuovo Maria Luna, smettendo di gongolare come un’oca
giuliva.
“Che sia come gli pare allora, non me ne frega”, aggiunsi,
bevendo un altro sorso.
“Senti, è vero che… che tu facevi solo quello che ti diceva
tua madre? Che hai sempre cercato di ostacolarlo…”.
“Stai zitta, smettila di dire queste stronzate. Non parlare
se non sai quello che dici!”, quasi aggredii Maria Grazia, che con la sua voce
impertinente aveva cominciato a sussurrarmi all’orecchio destro quelle accuse
che mi apparivano infamanti.
Ferita nell’orgoglio, non seppi trattenermi più, e al diavolo
il desiderio precedente di mantenere la calma. Avevo una dignità da difendere.
“A me non parli in questo modo! Mi rispondi come si deve!”,
sbraitò ad alta voce, all’improvviso, Maria Grazia.
“Oh, bene. Allora, ti accontento subito; che io dipendessi da
mia madre e che lei mi manipolasse, è vero quanto le supposizioni che circolano
su di te, e cioè che stai andando bene all’università e che sei molto
intelligente”, le dissi, mantenendo comunque normale il tono di voce, anche se
quelle due rompiscatole avevano cominciato a stancarmi seriamente.
Le due gemelle, dotate di un intelletto mediocre, si
scambiarono un’occhiata curiosa, prima di riuscire a comprendere e a
rielaborare la mia frecciatina offensiva molto pacata.
“Perché, credi che io stia andando bene? Io studio…”.
“Ma sì, certo, prendi tutti trenta con lode con tanto di
stretta di mano accademica, quando si sa che vostra madre è così tirchia che,
per voi, ha preferito farvi dote di un solo neurone a testa”, aggiunsi,
saccentemente stronza, e ormai irrimediabilmente irritata.
“Oh!”, si lasciò sfuggire la gemella alla mia sinistra,
mentre l’altra, dopo aver udito il mio ennesimo affondo, non pareva decisa ad
incassare.
Si trattava di due ragazze un po’ bulle, a cui piaceva
sottomettere chi le circondava e dare tormento alle vittime designate, ma
odiavano tantissimo chi le sfidava, cercando di ferirle prima di loro. E poi,
ero andata completamente con la testa; quelle due oche, che faticavano a comprendere
un linguaggio più articolato delle solite loro idiote domande, avevano provato
anche a colpire in un qualche modo anche mia madre, con quello che avevano
detto poco prima, ed ero più che mai intenzionata a non lasciarle impunite per
l’affronto.
Non le temevo affatto, conoscendole da una vita, e potevo non
farmi scrupoli nel rispondere, proprio come stavano facendo anche loro due.
“Senti, stronzetta… nostra madre non la offendi, eh?”, sibilò
poi Maria Luna.
“Eh, ma ho solo detto la verità! E poi hai capito cos’ho
detto? Sai cos’è un neurone? E vi fate tanto i cazzi degli altri senza sapere
una beata minchia della vita! Figlie di papà”, conclusi, finendo di bere la mia
aranciata e spingendo il bicchiere verso il giovane barman, che ci stava ascoltando
con gli occhi spalancati.
A mia insaputa, e senza inizialmente accorgermene, stavo
dando spettacolo, siccome le ochette si erano alzate e mi starnazzavano attorno
come se fossero in cerca di becchime.
“Affanculo!”, dissi loro, alzandomi anch’io.
“Calme, ragazze! Calme!”, ci invitava alla calma il barman,
intervenendo, ma io non ascoltavo già più niente e nessuno. Mi avevano fatto
girare fin troppo le scatole, per quella sera. Tutti quanti.
Uscii dal Picadilly
che ero paonazza, dalla rabbia e dallo sconforto. Dovevo precipitarmi subito a
casa, mi sentivo come ubriaca dal tanto che ero confusa.
Rincasai alle ventitré. La mia uscita era durata a malapena
un’oretta scarsa.
Trovai mia madre a venirmi incontro, in vestaglia, non appena
feci scattare la serratura, ed in fondo ciò era proprio tutto quello che volevo
evitare, desiderando ardentemente che lei non mi vedesse nello stato
confusionario che mi portavo impressa in volto.
“Colpa di Marco?”, esordì con cattiveria, richiudendo a
chiave la porta d’ingresso.
“Anche”.
Andai tranquillamente vero la cucina, tanto ormai ero stata
beccata.
“Insomma, la tua uscita non è andata bene e non ha avuto gli
effetti desiderati”, m’incitò a parlare mia madre, e si sa, di notte siamo più
inclini a drammatizzare e a lasciarci andare, anche solo a parole.
“Sono andata al Picadilly
ed ho trovato Marco in compagnia di una nuova ragazza, che teneva seduta sulle
sue ginocchia, e con loro c’era il gruppetto di amici al gran completo, quello
con cui uscivamo, e naturalmente hanno fatto finta di non avermi mai
conosciuto. Poi, le gemelle Tabbaniello mi hanno importunato, ed ho avuto con
loro una leggera discussione… oh, cosa poteva capitarmi di peggio?”, mi lasciai
andare, amaramente, per poi volgere le spalle alla mamma.
“Che Marco sia un coglione unico al mondo ormai lo sappiamo,
no? Ma lasciamo perdere… ti prego, non pensare più a questa vicenda,
piuttosto…”, aggiunse la mamma, con tono premuroso.
Aveva ragione. Ma io ero disposta a ingranare di nuovo la
marcia, ora che ero stata umiliata davanti a tutti dal mio ex, e che mi sentivo
tanto sola, dopo aver aggiunto alla mia figuraccia anche una scenata con le due
gemelle mono neurone? Chi ero, cosa volevo dalla vita, cosa credevo di fare?
Non avevo più un punto fisso.
Potevo però contare su Irene, pensai, e anche su… su di lei,
su quella magnifica donna che avevo di fronte a me in quel momento.
Abbracciai spontaneamente la mia mamma, in fondo lei aveva
sempre avuto ragione su tutto, e se il mio ragazzo non fosse stato come me lo
descriveva di tanto in tanto, facendomi poi arrabbiare, non si sarebbe
comportato in quel modo così infantile, egoista, e, in una sola parola,
disgustoso.
Mamma ricambiò il mio abbraccio, piacevolmente sorpresa, e si
sciolse ancora di più.
“Ah… ecco… sei molto fortunata, sai. Hai appena rotto ed hai
già fatto colpo…”, mi disse, parlandomi timidamente all’orecchio. Per fortuna
che non mi ero lasciata andare all’ennesimo pianto, poiché balzai all’indietro,
allontanandomi da lei, e le donai un’occhiata allibita. Ero senza parole.
“Ma cosa stai dicendo?”, le chiesi, sbalordita da quello che
mi aveva appena detto.
Fui ricambiata non da un’altra occhiata, ma da una risposta
timidissima, leggera… come se la mia interlocutrice fosse appena stata messa in
imbarazzo.
“Quello che ti ha mandato le rose… oh, insomma, non ne sai
proprio nulla? Vieni, guarda qui”, mi disse, piano, indicandomi un punto
imprecisato nel salotto.
“Rose?! Mamma, smettila…”. Pensavo avesse delle
allucinazioni.
Però mi morì in gola quello che avevo da aggiungere. Nel
centro del tavolino del salotto, un consistente mazzo di rose bianche
troneggiava come una divinità nell’ambiente dal gusto un po’ vintage e retrò.
“Ma chi ha mandato una cosa del genere?”, sillabai, a voce
bassissima, mentre mi muovevo verso il mazzo.
Lo sfiorai, e mi venne da sorridere; ci doveva essere un
qualche errore.
“Mamma, sicura che non sono per te?”.
“Ma che dici! Guarda, c’è anche il bigliettino. E poi il
fioraio è stato chiaro, doveva consegnarlo all’indirizzo dove soggiornavi”, mi
rispose la mamma, molto chiara. Il suo imbarazzo si era già tramutato in
curiosità.
Le rose erano avvolte in una bella cartina bianca, che le
faceva figurare davvero bene; al centro del mazzo, ce n’era una rossa, di un
colore vermiglio, quasi come il sangue.
Affissa al suo lungo gambo ripulito sapientemente dalle
spine, c’era in effetti un bigliettino, che mi affrettai ad afferrare e a
rigiramelo tra le mani. Su di esso, a penna, c’era scritto solo per Isabella, e il mio nome era scritto
in un modo strano, che avrei potuto definire artistico; era tutto arzigogolato,
e la I iniziale era elaborata attentamente, quasi come se fosse stata preparata
apposta da un miniaturista medioevale.
Ero sbalordita. E sbalordita era dire ancora poco.
“Ma… quando le hanno portate…?”.
“Mah, eri andata via da qualche minuto”.
“Mamma, sono partita da casa alle ventuno e trenta… un
fiorista non fa consegne a domicilio a quell’ora. Capisco che siamo in estate,
ma…”.
“Oh, lui mi ha detto che l’ha fatto per una persona che lo ha
pagato generosamente per questo strappo, e che questa persona voleva mantenersi
anonima”, alzò le spalle la mia interlocutrice, ormai a mio fianco, a paciugare
tra le rose.
“Sono senza parole”, riuscii a dire.
“Non hai proprio idea di chi possa essere? Di certo, qualcuno
che ti conosce bene, poiché a mandarti i fiori a questo indirizzo non potrebbe
essere stato chiunque”, tornò ad aggiungere la mamma, e riconobbi che aveva
ragione.
“Non ne ho idea, credo che solo Marco conoscesse questo
indirizzo, gli altri erano a conoscenza solo di quello dell’appartamento in cui
abbiamo convissuto fino all’altro giorno. E non credo che sia stato Marco o un
suo amico, anzi… forse è solo una presa in giro, per illudermi”, mi venne
spontaneo da dire, ragionandoci sopra.
Che il mio ex volesse confondermi? Eppure, era quella
scrittura che mi faceva riflettere. Un ragazzo intenzionato a farmi uno scherzo
non ci avrebbe lavorato tanto sopra. Ed era tutto perfetto e magnifico.
“Non è uno scherzo. Guarda prima come hanno scritto il tuo
nome; è una vera e propria opera d’arte. Chiunque l’abbia scritto, ci ha
impiegato un po’, e di sicuro un qualsiasi burlone non l’avrebbe fatto. E poi,
le rose sono proprio quelle profumatissime, le più costose, e trasmettono un
messaggio molto chiaro”.
“Davvero?”.
Non ci capivo nulla di fiori, ma per il momento, il discorso
della mamma non faceva una piega, e concordavo in pieno.
“Rose bianche, simbolo di passione pura. Casta. Hai colpito
qualcuno, e questo ti vuole molto bene. E la rosa rossa al centro del mazzo, a
spiccare, ma ancora leggermente in bozzolo… beh, questo è un chiaro simbolo di
profondo coinvolgimento. Però, non ti lusinga, anzi, con questo mazzo ti mostra
che ti vuole bene, e forse anche lui stesso non sa quel che prova per te…
affetto profondo, di sicuro, ma la rosa rossa ancora per metà in bozzolo fa
capire che crede in qualcosa in più”.
“Oh, wow, che poetessa! Te ne intendi di queste cose, però!”,
dissi, ammiccando a mia madre.
“Sai, tuo padre, all’inizio, prima di sposarci, me ne mandava
tante. Comunicavamo tramite i fiori, e sapevo bene che, a seconda di ciò che mi
mandava, mi faceva capire i suoi sentimenti del momento. Non c’erano telefonini
e non avevamo altro modo di comunicare, e in più i miei non lo sopportavano,
quindi… inizialmente ci arrangiavamo così”, mi svelò la mamma, molto commossa.
Riuscì a commuovere anche me, e tornai a riabbracciarla.
“Quindi tutto, nel complesso, è un messaggio?”, le chiesi di
nuovo, ancora abbracciata dolcemente a lei.
“Sicuro. Peccato che sia anonimo”.
“Domani vado a parlare col fiorista. Sono troppo curiosa!”.
‘’E’ un fiorista della città vicina, credo. Non era di qui! E
poi, non perdere il tuo tempo; il mandante ha pagato molto bene, anche per
mantenere l’anonimato, e nessuno ti dirà nulla”.
Sciogliemmo l’abbraccio, e tornai pensierosa. Chi poteva
avermi mandato, addirittura da un’altra cittadina, quel messaggio
d’interessamento? Era stato un gesto carino, ma mi premeva molto sapere chi me
lo avesse mandato, ero piuttosto curiosa. Ma mi rendevo conto che ero
impossibilitata a saperlo.
“Le mettiamo in acqua, che ne dici?”.
Annuii distrattamente a mia madre.
Quella notte andai a letto piena di domande, e anche di imbarazzo.
La mia povera mente era avvolta da una confusionaria foschia che, speravo, un
po’ di sonno avrebbe potuto dissipare.
NOTA DELL’AUTORE
Ma cosa sta succedendo? Perché queste rose? Che siano uno
scherzo dei ragazzi? ^^
A voi le supposizioni ^^
Grazie di tutto!
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Capitolo 10 *** Capitolo dieci ***
Capitolo dieci
CAPITOLO DIECI
La notte non mi aiutò, anzi. Purtroppo, accadde una disgrazia
molto spiacevole, che fece davvero incrementare incredibilmente la mia tensione
e la mia ansia.
Infatti, dormivo profondamente quando udii un gridolino
strozzato, che riuscì comunque a farmi svegliare. Non riuscivo a capire bene,
appena aperti gli occhi, cosa fosse accaduto, ma mi era parso che il lamento
provenisse dalla stanza di mia madre.
Accesi la luce, e guardai la sveglia, che segnava le due di
notte. Non avevo dormito molto, ed ero ancora tutta segnata dagli eventi
recenti, e mentre mi stavo alzando dal letto per andare a controllare se fosse
tutto a posto, seppur a malincuore e con poca voglia, tornai ad udire un altro
gemito, quella volta più distinto. Si trattava indubbiamente di mia madre.
Mi diressi prontamente e di scatto verso la sua stanza;
sapevo che soffriva di disturbi piuttosto seri di cuore, e temevo che stesse
avendo una crisi o un malore.
Non appena mi avvicinai, trovai la porta della camera da
letto spalancata, e la mia povera mamma, immersa nel sudore e distesa sul letto
matrimoniale nel quale aveva continuato a dormire per tutti gli ultimi anni,
lanciava gemiti strozzati.
“Mamma!”.
Mi precipitai subito su di lei, ma non la toccai; la donna si
sfiorava il petto, e non appena accesi l’abatjour che era posata sul comodino,
fu illuminata una scena straziante. La poveretta si stringeva il petto con
forza, le mani unite l’una sull’altra, e dalla bocca non usciva altro che dei
suoni spaventosamente dolorosi.
Non era cosciente, o almeno non mi rivolse alcuna parola, ma
nella situazione in cui si trovava di certo aveva altro di cui pensare che
interagire con me.
Spaventatissima, telefonai col mio cellulare al 118, senza
attendere altro prezioso tempo. Sapevo che la mamma era in pericolo, e temevo
addirittura che l’ambulanza non arrivasse abbastanza in fretta per salvarla.
Di quei concitati momenti, nulla mi rimase, se non quell’attesa
che mi parve infinita, e il mio tentativo di stringere una mano di mia madre
tra le mie.
“Resisti”, le dicevo, incessantemente, tra le lacrime.
“Resisti, so che sei una guerriera”, continuavo a ripeterle,
e smisi solo quando le sirene dell’ambulanza si udirono distintamente.
Andai ad accogliere subito i soccorritori, e li indirizzai
verso la stanza al piano superiore, mentre uno di loro si soffermava a
scaricare la barella dal mezzo di emergenza.
“Problemi al cuore, senza dubbio”, disse un giovane con la
divisa dei volontari. Poi, si chinò sulla mamma e cominciò a massaggiarle il
petto.
“Lei è la figlia?”, mi chiese un secondo soccorritore,
sopraggiungendo alle mie spalle e costringendomi a distogliere l’attenzione
dalla scena, che preannunciava un massaggio cardiaco.
“Sì, certo”.
“La situazione pare già più grave del previsto. Ora la
carichiamo subito a bordo, dove applicheremo le prime cure, che potranno
permetterle di sopravvivere fino all’arrivo in ospedale, dove i medici la
seguiranno e verranno fatti degli accertamenti e degli esami specifici. Ci
segua in auto, per favore, se le è possibile e se le vuole stare a fianco”,
disse l’uomo, poi andando ad aiutare il terzo ragazzo alle prese con la
barella, per poi spostarla all’interno della stanza.
Col volto totalmente inondato di lacrime, mi scansai e smisi
di occupare dello spazio utile per i soccorritori.
In pochi minuti, mia madre aveva smesso di dimenarsi e di
lamentarsi, e i volontari agirono con grande premura e attenzione, portandola
via distesa sulla barella, fino al piano inferiore e poi direttamente
all’interno del mezzo di soccorso.
Feci per seguirli, ma l’uomo che mi aveva parlato poco prima,
che era salito per ultimo, fece cenno di allontanarmi, siccome doveva
richiudere gli sportelloni anteriori dell’ambulanza.
“No, signorina, è la regola. Non può salire a bordo. Se ci
tiene e se le è possibile, ci segua in automobile”, mi disse, richiudendo tutto
e lasciandomi sola. Qualche secondo dopo, la sirena ricominciò a suonare e il
mezzo sfrecciò via, verso l’ospedale della nostra cittadina.
Non avevo idea se quella fosse stata una struttura idonea per
la mia povera mamma, e quale fosse il suo reale stato di salute e quanto fosse
grave il suo problema, e c’era caso che la dovessero spostare in un altro
ospedale più attrezzato.
Non ci pensai ulteriormente su a quella possibilità e mi
catapultai a mettermi una maglietta addosso, e poi in auto, per non lasciarla
sola.
La sosta al pronto soccorso fu di una durata infinita, o
almeno così mi parve.
Mia madre era già stata affidata alle cure dei medici, quando
giunsi a destinazione, e non mi rimase altro che aspettare… in realtà solo
pochi minuti, forse tre quarti d’ora, che mi parvero un’infinità.
Nonostante fosse ancora piena notte, il pronto soccorso era
già pieno di persone in attesa delle prime cure. C’era una donna straniera con
la testa blandamente fasciata, e il sangue che le scendeva giù lungo il viso;
anziani che gemevano, alcuni distesi sulle barelle, e un giovane ricurvo su sé
stesso, avrà avuto la mia età, mentre una donna gli parlava confusamente
all’orecchio, come per volerlo rassicurare.
Sembrava impossibile che una cittadina di dimensioni così
modeste come la nostra fosse così ricolma di sofferenza. Proprio mentre
cominciavo a lasciarmi assuefare da quella valanga di dolore, un’infermiera
molto gentile mi avvicinò.
“Lei è la figlia della signora Castaldini?”.
“Sì, sono io”.
Mi alzai immediatamente in piedi, trepidante, e lasciando che
le mie mani riprendessero a strofinarsi l’una contro l’altra, dall’ansia che
provavo. Subito, un medico mi venne incontro, dopo che la donna mi aveva
individuato e segnalato con un cenno.
“Bene, sua madre mi aveva avvisato che l’avrebbe seguita fin
qui. La signora ora è perfettamente cosciente e stabile; ha rischiato l’arresto
cardiaco, ma il primo soccorso è avvenuto correttamente, e anche se al momento
non è in grave pericolo, ha rischiato qualcosa di grosso. Forse i farmaci
consigliati dal cardiologo non sono più sufficienti a tenere a freno i suoi
disturbi”, esordì il medico, provato, senza fare giri di parole.
“Oh…”, riuscii a dire, inebetita. Dovevo sembrare una
sciocca, a chiunque mi avesse osservato in quel preciso istante.
Non riuscivo neanche a parlare o a dire qualcosa di concreto.
“Qui non abbiamo strumenti adeguati per poter fare gli
accertamento necessari. Per questo, sua madre sarà trasferita immediatamente,
tramite ambulanza, nella clinica specializzata Villa Silvia, a Rimini, la
struttura ospedaliera più accessoriata e pronta per casi come questo”, proseguì
il medico, non badando alla mia situazione. Ci doveva essere abituato ai
familiari spauriti.
“E’… una struttura privata, però”, riuscii a dire,
scioccamente.
“Sì, però è preparata per accogliere i pazienti che noi non
possiamo ospitare. Non si preoccupi, vedrà che lì sua madre si troverà molto
bene e potrà essere seguita al meglio”, concluse il medico, tornandosene poi a
fare il suo lavoro. Non lo invidiavo affatto…
Con ancora il batticuore per l’ansia e la paura di poco
prima, andai in macchina ed attesi che l’ambulanza partisse. Non mi restava
altro da fare che riprendere a seguirla.
Rimini non era la città adatta a me. Sembrava una metropoli,
ai miei occhi di ragazza di campagna, cresciuta ai margini di una cittadina
dove gli edifici più alti erano i campanili delle chiese e le abitazioni più
elevate non andavano oltre ad un terzo piano.
Mi ritrovai spaesata, e per fortuna non avevo altro da fare
che seguire l’ambulanza, senza perderla di vista, e le strade alle tre e un
quarto del mattino erano perlopiù deserte.
Non fu un problema giungere alla struttura ospedaliera, a
questa Villa Silvia che non avevo mai visto fino a quel momento, e mi fece
impressione osservarla per la prima volta, di notte.
La sua era comunque una mole abbastanza impressionante, anche
se non al livello degli ospedali pubblici più famosi della città. Illuminata da
numerosi lampioni, e con un ampio giardino davanti a sé, Villa Silvia mi
apparve accogliente.
Parcheggiai nell’apposito parcheggio, ad una trentina di
metri di distanza, e mi precipitai verso il vialetto sovrastato da numerosi ed
altissimi pini nel quale si era inoltrata l’ambulanza. E poi, l’amara scoperta.
Come uno zombie disperato, atterrito e dal volto arrossato
dalla tensione, mi ritrovai dopo poco di fronte all’ingresso della struttura,
senza riuscire ad entrare; infatti, la grande porta automatica non si apriva,
neppure se le andavo addosso.
Dopo aver paciugato per un po’, riuscii a trovare quello che
doveva essere un campanello, e tentai di suonarlo, anche se non lo feci,
siccome una giovane infermiera aprì quello che mi era sembrato fin da subito
come una barriera invalicabile, e dall’interno si sporse verso di me.
“E’ impazzita, per caso? Cosa crede di fare? È da un po’ che
le telecamere la segnalano. La smetta o chiamiamo la polizia”, mi sgridò,
piuttosto acida.
Alzai le mani in segno di resa, e dimenticando quello che
stavo facendo, mi mossi verso di lei.
“Mi scusi, mi perdoni tanto, è solo che mia madre è appena
giunta qui in ambulanza, ha problemi di cuore… vorrei starle accanto…”,
ricominciai a balbettare, confusa.
“Ah, capisco”, si calmò l’infermiera, “ma non può entrare.
Immagino che sua madre sarà ricoverata. Quindi, di conseguenza, dovrà attendere
l’orario delle visite, e se sarà tutto a posto, le comunicheremo il reparto
dove sarà alloggiata, e il numero della stanza”.
“Sì, va bene… e quando potrò entrare, allora?”, andai al
punto.
“Abbiamo due orari, per le visite dei familiari dei pazienti.
Potrà varcare questa soglia tra poche ore, cioè dalle sei del mattino fin alle
otto e trenta, oppure se preferisce potrà venire questa sera, dalle diciotto e
trenta fino alle venti. Siamo molto fiscali a riguardo”.
“Ho capito”, mormorai, abbattuta, e incassando il verdetto.
“Bene, a tra un po’. Buon proseguimento di nottata”, si
congedò l’infermiera, non in modo proprio educato, e richiudendo dietro di sé
la porta automatica.
“Cazzo”, mormorai tra me e me, esasperata. Non avevo modo di
andare a casa, e non potevo entrare da nessuna parte. Ci stavo troppo male, e
cominciai ad imprecare a voce bassissima, mentre tornavo ad allontanarmi
dall’ingresso sorvegliato dalle telecamere, siccome non volevo che
telefonassero davvero alla polizia, dall’interno.
Villa Silvia, dopo un primo impatto positivo, aveva
cominciato a starmi seriamente sulle scatole.
Erano le tre e un quarto, arrivare alle sei in macchina non
sarebbe stato proprio il top o la mia serata ideale, tuttavia non potevo fare
altrimenti. Mi rendevo conto che non avevo molte chances di fronte a me.
Tornai quindi alla mia Toyota Yaris metallizzata, mentre il
mio cuore si quietava, pian piano, assieme al nervosismo che provavo, e mi
sistemai sdraiata sui sedili posteriori, chiudendomi dentro ad osservare la
calma vita notturna dal finestrino che avevo di fronte.
Non era un gran panorama, siccome dalla mia scomoda posizione
riuscivo a scorgere solo un misero lampione che fendeva il buio circostante con
la sua luce abbagliante, illuminando parte del parcheggio in cui sostavo.
Presi allora la felpa che tenevo sempre in auto per eventuali
emergenze, e l’appallottolai sotto la testa, in modo da formare un alquanto
scomodo cuscino, cercando di lasciarmi un po’ andare, tanto non valeva la pena
stare lì tre ore a rodermi come una pazza.
Non mi accorsi quando mi addormentai, seppi solo che
trascorse un lasso di tempo indefinito, prima che riuscissi a crollare.
Inutile sottolineare il fatto che dormii malissimo. In modo
terribile.
Mi risvegliai con la luce dell’alba che colpiva il mio viso,
e cominciai la mia giornata abbagliandomi e gemendo, essendo rimasta tutta
rattrappita su quei sedili per diverse ore.
Mi tirai su un una posizione seduta facendo uno sforzo
enorme, mentre sudavo e pativo il caldo di quell’estate da incubo, e,
inconsciamente, come prima cosa afferrai la mia borsa e ne estrassi lo
specchietto che portavo sempre con me.
L’orrore che rifletteva quasi mi spaventò. Avevo un paio di
occhiaie terribili, un paio di zampe di gallina che le evidenziavano, e una
chioma tutta ribelle come non mai. Il volto era arrossato e in disordine.
Guardai l’orologio sempre attivo nel cruscotto; erano le sei
meno un quarto. Puntualissima.
L’alba prematura di mezza estate si era rivelata una sveglia
perfetta.
Afferrai uno dei fazzolettini umidificati che portavo sempre
con me, nel loro apposito involucro, e me lo passai sul volto, delicatamente,
ripulendolo per bene dai residui di quella caotica nottata, per poi pettinarmi
un po’ e in tutta fretta.
Quand’ebbi concluso la mia frettolosa toeletta, il mio
orologio segnava le sei e quattro minuti. Ero pronta all’azione.
Uscita dall’auto, mi stiracchiai, e dopo averla richiusa,
cominciai a muovermi con passo baldanzoso verso la mia meta, con addosso la mia
misera magliettina a mezza manica, incurante della frescura dell’alba.
Quando mi ritrovai di nuovo di fronte a quell’ingresso che mi
era stato precluso durante la notte, dopo aver attraversato il parchetto
antistante, fui colta di nuovo dall’ansia, e tutta la mia baldanza svanì in un
attimo. Mi venne da pensare che dentro mi attendesse quell’infermiera
scorbutica che mi aveva trattato da schifo qualche ora prima, e che magari
riconoscessero quella pazza che sbatteva contro la porta chiusa del complesso,
ripresa e controllata dalle telecamere.
Con un profondo sospiro, mi feci forza, sapendo di non avere alternative,
e mi avvicinai alla porta automatica, che ovviamente quella volta si spalancò
non appena avvertì la mia presenza.
Una volta all’interno, mi accorsi che non riuscivo a cambiare
pensiero su Villa Silvia, che era una realtà che non mi piaceva e non mi
convinceva. La mia repulsione per gli ospedali in generale era qualcosa che
andava ben oltre alle mie capacità d’intendere e di volere, in quel momento.
“Scusi, io sto cercando il reparto di Cardiologia. Mia madre
dovrebbe essere ricoverata lì”, esordii, avvicinandomi allo spazio riservato
alle informazioni, dove dietro un ampio bancone c’era seduto un uomo intento a
guardare lo schermo di un voluminoso pc.
“Generalità della paziente?”, mi chiese, in modo meccanico.
“Valeria Castaldini, di anni cinquantasei, giunta questa
notte attorno alle tre per problemi cardiaci, dopo una visita e un primo
soccorso al pronto soccorso”.
L’uomo, senza guardarmi, digitò tutto nel computer.
“Quarto piano, camera due”, disse, dopo qualche istante.
“Grazie”.
Ripresi il mio cammino, e sfruttando l’ascensore deserto, non
ebbi difficoltà a raggiungere il reparto. Anche lì il grande portellone era
aperto, e non appena ne varcai la soglia, mi ritrovai ad osservare i numeri
delle stanze ben stampate in grassetto sugli appositi listelli a fianco delle
porte.
La stanza numero due era proprio all’inizio, e questo mi
risparmiò di dover attraversare quel luogo che in quel momento mi appariva
tanto inquietante. Entrai con cautela, e per qualche istante mi fu preclusa la
vista dei pazienti all’interno, siccome una giovane infermiera si stava dando
da fare a pulire un tavolino all’ingresso.
“Mamma”, dissi, dolcemente e senza badare ad altro, non
appena riconobbi la mia cara, distesa sul primo dei due letti presenti.
Mia madre era con gli occhi chiusi, ma non appena udì la mia
voce, li spalancò. Ci rimasi male a vederla nel suo stato; aveva un respiratore
al naso, ed una flebo al braccio. Sembrava molto provata, e non mi parlò.
“Signorina, sua madre è molto stanca. La prego di non stressarla
e di non agitarla troppo”, intervenne cautamente l’infermiera, ed io le
sorrisi.
“Va bene, ok, capisco”, mi rassegnai, “ma potrei anche
parlare con un medico? Si sa cos’ha avuto?”.
“Beh, ora la signora Castaldini è una nostra paziente, ed è
stata ricoverata qui. Le sono stati fatti degli esami specifici, ma le carte le
ha il medico che si occupa del suo caso, il nostro bravissimo dottor Ceccarelli,
che non si farà problemi a parlarle con lei tra poco, nella stanza qui accanto,
dove riceve i parenti dei pazienti durante l’orario delle visite”, rispose la
giovane, esaudiente.
Mi limitai ad annuire e a mostrarmi accondiscendente, e poi,
vedendo che la mamma al momento sembrava più incline all’addormentarsi che al
dedicarmi un attimo del suo tempo, e come non comprenderla, decisi di andare
dal medico.
Scoprii di essere l’unica che in quella mattina si era
presentata lì subito all’alba, e anche se pareva che il reparto fosse
praticamente vuoto, dal silenzio che regnava ovunque, un pizzico di vivacità lo
portavano solo le infermiere, che gironzolavano senza sosta con i carrellini
delle medicine, come per non volersi annoiare.
Dopo poco, la porta della stanza davanti alla quale stavo
attendendo pazientemente si aprì, e un’infermierina tutta sorridente mi
osservò, prima di passarmi a fianco ed allontanarsi.
“Se deve parlare con il medico, entri pure. È un po’ stanco,
ha dovuto affrontare il turno di notte, ma c’è”, mi accennò, sottovoce,
andandosene dalle altre sue colleghe.
“Permesso”, esordii allora, affacciandomi dentro all’ambiente
sconosciuto.
“Prego, venga pure avanti”.
Una voce… una voce che mi sapeva di conosciuto. Ma non la
seppi ricollegare su due piedi, agitata com’ero.
Il medico era seduto dietro ad una cattedra, con un paio di fogli
grandi e scritti in piccolo alzati davanti al volto. Solo quando li abbassò per
guardarmi, scoprii che avevo di fronte a me Piergiorgio.
“Salve!”, salutai, sbigottita.
Ma la mia sorpresa era nulla di fronte a quella che mostrava
il mio conoscente, che ormai dimentico fogli che stava leggendo, ed avvolto nel
suo camice bianco, mi dedicava tutta la sua attenzione con gli occhi sgranati.
“Isabella! Come mai sei qui?”, m’interloquì, dopo che gli
furono passate le sensazioni del primo impatto. Non doveva proprio aspettarsi
di ritrovarmi lì, di fronte a lui, proprio come anch’io ne ero ancora stupita.
Ma si sa, la vita è fatta anche di coincidenze, molto spesso…
“Mia madre è stata ricoverata questa notte, nella camera due.
Ed è una sua paziente, ora, a quanto pare”, gli dissi, osservandolo per bene,
mentre si alzava e mi veniva cordialmente incontro.
Aveva un’aria molto professionale, e riconobbi che quella che
avevo scambiato più volte per una camicia in realtà non era altro che il camice
bianco.
Non mi sarei mai aspettata di trovarmelo di fronte proprio in
un ospedale, siccome Piergiorgio mi appariva come una personcina minuta e a
posto, ma di certo non un medico. Eppure sembrava davvero molto convincente,
con addosso il suo camice e quella sua solita espressione gentile ben impressa
sul volto.
“Oh, la signora Castaldini, intendi? Sì, certo, è una mia
paziente, ora”, mi disse, rivolgendomi un sorriso e una cordiale pacca su una
spalla. Mi arrivava al mento, e nonostante non fossi una stangona, ma una giovane
di statura nella media, ai miei occhi mi appariva come un nanerottolo, e mi
ritrovai a notare tante cose di lui che non avevo mai osservato prima di quel
momento.
“Mi dispiace, Isabella. So che per te è un periodo molto
sfortunato, questo”, aggiunse, notando il mio silenzio.
“Mi parli di mia madre, per favore”, lo quasi lo rimbrottai,
alla ricerca della verità sulla questione che mi stava più a cuore da diverse
ore.
Piergiorgio mi guardò di nuovo, con attenzione, mentre
tornava alla sua postazione dietro la scrivania bianca.
“Sua madre è giunta qui dal P.S. in uno stato generale
piuttosto grave. Non ti dirò paroloni tecnici inappropriati, ma andrò
direttamente al punto”.
“Devo preoccuparmi?”, mormorai, piuttosto scossa.
“Un po’. La situazione della signora non è ottimale, il suo
cuore fa le bizze e noi lo dobbiamo curare. Quando è giunta qui, l’abbiamo
sottoposta subito ad un paio di esami urgentissimi, e purtroppo… non è che
possiamo farci molto. È malata di cuore da molto tempo, e assume già farmaci
specifici molto pesanti per il suo fisico. Tuttavia, credo che ce la farà a
ritornare a casa, e a vivere ancora per un po’ una vita abbastanza serena”.
Sorrisi, e lui lo notò.
“Però, prima dovrà sottoporsi ad un piccolo intervento di
routine alle coronarie, e dovremo controllargliele per bene. Nel frattempo,
resterà qui ricoverata per almeno quattro o cinque giorni, se accetterà subito
di affrontare la terapia che abbiamo preparato per lei”.
“Accetterà subito di sicuro”, garantii, certa che mia madre
non desiderasse altro che star meglio.
“Bene, allora mi munisco dei fogli che deve firmare per
accettare di affrontare l’esame, e prendo una penna. Ed ecco qui… andiamo da
lei!”, mi affiancò baldanzoso, con le mani diligentemente impegnate dagli
oggetti citati nel suo discorsetto.
Andammo da mia madre, e la ritrovai più vigile di poco prima.
Ad aprirmi la strada era stato Piergiorgio, che avevo lasciato camminare
davanti a me.
“Signora, ecco sua figlia!”, mi presentò.
“C’eravamo già viste”, disse debolmente la mamma, cercando di
sorridermi e socchiudendo gli occhi.
“E’ una gran brava ragazza, sa. Le vuole molto bene”.
“Lo so”.
“Bene”, disse abilmente Piergiorgio, cambiando discorso, “qualche
ora fa le ho accennato l’intervento che ho previsto per lei. Se la sente di
affrontarlo? È una cosuccia da nulla, non si preoccupi, in meno di mezz’ora
abbiamo finito. Basta che ponga la sua firma qui, e lei sarà prontamente
portata, alle otto, ad affrontarlo, e poi dopo qualche giorno di ricovero potrà
tornare a casa e riprendere a vivere la sua vita come prima”.
“Come prima?”.
La mamma sembrava davvero abbattuta, e mi faceva molto male
vederla in quello stato. Mi ero commossa e non sapevo che dire, per fortuna che
il medico aveva una parlantina sostenuta e chiara.
“Certamente. Dobbiamo considerare anche qualche attenzione in
più, ma per il resto, tutto può restare com’era prima di questo ultimo malore”.
“Va bene, mi dia da firmare”.
Mia madre si convinse ed accettò l’esame. Io la guardavo,
commossa, mentre firmava con dolcezza, dopo essersi alzata un po’ con la
schiena dal lettino che occupava.
“Grazie. Ci vediamo dopo, allora, e mi raccomando, stia
tranquilla che non è niente”, la rassicurò di nuovo Piergiorgio con premura, e poi
tornò a volgersi verso di me, e mi fece un rapido cenno con la testa,
invitandomi a seguirlo.
“A tra poco”, riuscii a dire, emozionatissima, a mia madre,
prima di seguire colui che avevo scoperto da poco come medico.
Il signore frequentatore de L’angolo della bontà mi affiancò dopo pochi passi, una volta giunti
nel corridoio, e mi guardò con un sorriso sincero impresso sulle labbra.
“E te, Isabella, che intenzioni hai?”, mi interloquì con fare
molto paterno. Mi attendevo qualcosa a riguardo di mia madre, e invece mi aveva
colto di nuovo di sorpresa, spiazzandomi con una delle sue solite domandine a
trabocchetto.
Smossi qualche istante le labbra, prima di riuscire a
pronunciare qualcosa. Ero serissima, mi sentivo il volto in fiamme per
l’agitazione, e mi pareva di essere un’indemoniata, o sicuramente una persona
con dei seri problemi, così conciata; insomma, un po’ mi vergognavo di apparire
così di fronte ad una persona che già un po’ mi conosceva, almeno di vista.
“Mi metterei qui ad attendere che mia madre vada ad affrontare
l’esame, e che lo concluda. Non voglio lasciarla sola proprio ora. E ammetto
che da lei mi attendevo una domanda sulla sua paziente, e non su di me”, lo
punzecchiai, senza ferirlo e in modo molto pacato. Non mi aveva fatto nulla,
anzi, ero anche un pochino in debito con il signore, e quindi non volevo e non
potevo permettermi di essere scortese nei suoi confronti. Piergiorgio, infatti,
continuò a sorridermi.
“Beh, sono più preoccupato per te che per lei! Sappi che tua
madre è in buonissime mani, e ti garantisco che sarà tutto semplice ed andrà
tutto alla perfezione. Tu, invece, sei molto abbattuta e allo sbando…”, notò.
“Lei è incorreggibile. Lo sa che ha un bel carattere?
Gliel’hanno mai detto?”.
Mi venne a mia volta da sorridergli, per la prima volta
durante quella mattinata.
Il signore scosse la testa, divertito, e si ritirò verso la
stanza che gli fungeva da ambulatorio, e dove accoglieva i familiari dei
ricoverati.
“Non me l’hanno mai detto, fidati”, disse, ed accennò un
saluto con la mano destra, “ci vediamo più tardi. Ora vado a prepararmi per il
piccolo intervento, e non stare in ansia, andrà tutto bene”.
Con un sospiro, e di nuovo sola, mi lasciai andare contro il
muro dell’ospedale, stanca morta. Ma dovevo resistere, e farlo per mamma.
Tornai nella stanza in cui era stata alloggiata, pronta a
starle vicino e a non lasciarla sola in un momento così tanto delicato.
NOTA DELL’AUTORE
Ancora altri problemi per la povera protagonista e per sua
madre… incrociamo le dita per loro… ^^
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Capitolo 11 *** Capitolo undici ***
Capitolo undici
CAPITOLO UNDICI
L’intervento andò bene, fortunatamente.
I medici ci impiegarono circa una mezzoretta abbondante, e
quando mia madre fu poi pronta per ricevermi nuovamente la trovai sveglia e ben
vigile.
“Ho sofferto un gran male, pensavo di morire. Ma adesso sto
molto meglio”, mi disse, prontamente, non appena mi vide.
“Meglio così, no?”.
Le sorrisi, poi tornai a stringerle le mani, e mi lasciò
fare. Ero stata molto in pensiero per lei, non avrei mai accettato che le
accadesse qualcosa di male, e a primo impatto mi sembrava sicuro che potessi
tirare almeno un mezzo sospiro di sollievo.
“Oh, Isabella! Visto, la mamma sta benone”, esordì
Piergiorgio, facendo anche lui il suo ingresso nella camera.
“Sì, l’ho notato. Grazie”, gli dissi, timidamente.
“E di che? Far stare meglio le persone è il nostro mestiere”,
affermò, raggiungendomi a fianco del letto su cui era distesa mia madre, e
dandomi una dolce e amichevole pacca sul mio braccio destro. Poi, sospirò.
“Sono venuto a sincerarmi della sua situazione, signora
Castaldini. Ho supervisionato il lavoro dei miei colleghi, e tutto è andato
alla perfezione. Lei accusa dei problemi o un qualche disturbo?”, tornò a
chiedere il medico, rivolgendosi alla paziente.
“Tutto a posto! Grazie, dottore” rispose mia madre, che
continuavo a vedere molto sollevata. Doveva stare davvero molto meglio, siccome
fino a prima del piccolo intervento era parsa molto agitata.
“Bene. Ora starà qualche giorno qui con noi, e cercherà di
stare serena, poi se tutto continuerà ad andare bene potrà tornare a casa”.
“Ho capito”.
Piergiorgio si chinò su mia madre e le controllò un attimo
quei fili che le partivano dal petto e che in parte erano coperti dalle garze
bianche, sicuramente sensori per controllare il battito cardiaco e chissà
cos’altro.
“Bene, è tutto a posto”, sussurrò sovrappensiero.
“Isa”.
Mia madre mi chiamò, e mi costrinse a distogliere la mia
attenzione dai movimenti del saggio dottore.
“Puoi tornare a casa. Ci sto da sola”, mi disse, e mi
ricordai che anche quella mattina dovevo recarmi al lavoro. Ed erano già le
otto meno un quarto. Imprecando dentro di me, mi accorsi finalmente che,
essendo così sovrappensiero per mia madre, non mi ero neppure ricordata di
cercare di contattare la mia datrice di lavoro in tempo per sostituirmi. O,
almeno per avvisarla che quel giorno non mi sarei potuta presentare.
“Telefono a Virginia e le dico che oggi non riesco…”, riuscii
a dire, in piena confusione. Avrei voluto battere la testa contro il muro che
avevo di fronte, per chiarirmi le idee.
Mi sentivo così abbattuta, così confusa… forse anche a causa
della nottata disagiata e piena di paura che avevo appena trascorso.
“C’è qualche problema, Isabella?”.
La voce di Piergiorgio mi ricordò che lui era ancora lì che
ci stava ascoltando, chino su mia madre.
“No, niente di che…”, mi premurai, tutta concentrata a
ricercare il mio cellulare immerso nel caos della mia borsetta.
“Isa, ma conosci la strada per tornare a casa?”, continuò ad
interloquirmi mia madre, che mi sembrava, a quel punto, più preoccupata per me
che per lei.
Le donai un’occhiatina distratta; la mia mente confusa era
troppo impegnata a rielaborare le mille e più cose che mi frullavano per la
mente, senza sosta.
“No, ma vedrò di impararla”, le risposi seccamente, scovando
il cellulare ed accingendomi ad utilizzarlo, per notare che ero senza linea e
che nell’ospedale, come c’era da aspettarsi, non prendeva affatto. E avrei
anche dovuto tenerlo spento in quel reparto.
Mi beccai infatti uno sguardo curioso di Piergiorgio, che
però non disse nulla, notando che mettevo subito via lo strumento tecnologico.
“Ecco, adesso sei nei pasticci per colpa mia. Ti prego, torna
a casa, o almeno vai fuori a dare uno squillo alla signora Virginia… per
favore”, disse mia madre, supplichevole.
“Ma non dire sciocchezze, sono sveglia e posso cavarmela. E
la signora capirà, quando le spiegherò tutto”, provai a rassicurarla, ma anche
io sapevo che ero un po’ nei pasticci. Non ricordavo bene la strada da
percorrere per tornare a casa, e mi vergognavo di ciò, ed ero in evidente
difficoltà e in affanno.
“Puoi stare tranquilla per tua madre, Isabella. E, se ti
serve un aiuto, io sono qui”, volle aggiungersi Piergiorgio, ma io scossi la
testa.
“Non se ne parla, resto qui con te, mamma. Non ti lascio
sola”.
“Lasciami sola per un po’. Posso farcela. Quando starò meglio,
poi mi passerai a prendere, se te la sentirai. Adesso vai, torna alla tua vita,
non preoccuparti per me”.
“No”, ribadii, ma mia madre si stizzì.
“Insisto”, ribadì, infatti, con prontezza.
“Lascia un po’ sola la mamma, non preoccuparti. Sa, signora
Castaldini, io e sua figlia ci conosciamo già da un po’, e avrà notato che le
do anche del tu! Ci siamo conosciuti al locale dove lavora”, disse il medico,
affabilmente, inserendosi con tatto nella nostra piccola discussione.
“Il dottore è il signore che mi ha cortesemente portato a
casa, qualche giorno fa a mezzogiorno, quando non avevo la macchina”, aggiunsi,
per far ulteriormente luce sulla questione. Per me quello era stato un appiglio
per spingere la mamma a non insistere più come poco prima.
“Oh”, disse infatti lei, guardando il medico, che ci
rivolgeva un sorrisetto gentile e aggraziato.
“Le ho già detto che è una brava ragazza, una donna di cuore.
Per questo si preoccupa molto, e forse anche troppo, per la sua salute! Ma
adesso, se sua figlia volesse accettare una bella brioches… sa, le vorrei
offrire una colazione, siccome la vedo proprio a terra. Dice che accetterà?”.
Dopo aver detto ciò, simpaticamente, fece l’occhiolino alla
mamma.
Oh, io adoravo Piergiorgio quando si rivolgeva alle persone
in quel modo affabile. Era davvero in grado di farsi amare anche dai suoi
stessi pazienti, e sapeva mettere a proprio agio chiunque. Si trattava di
sicuro di un grande professionista.
“Certo che accetterà. Isabella, il dottore ha ragione, vai a
mangiare qualcosa, ma offrigliela tu la colazione”, mi raccomandò prontamente,
tornando alla carica.
“Mamma…”, dissi, indecisa. Stavo per collassare al suolo dal
tanto che ero abbattuta, era vero, ma non me la sentivo di andarmene da lì,
nonostante il mio innato ribrezzo per gli ospedali.
“Vai con il dottore. E poi vai avvisa la signora Virginia e vai
a casa a riposarti un po’”, continuò ad insistere mia madre, ed allora
Piergiorgio mi prese con un gesto dolce a braccetto, e m’invitò così
tacitamente a lasciarla in pace, poveretta.
Le rivolsi un ultimo sguardo, prima di abbandonare la stanza,
e solo allora scorsi la sua stanchezza, che colsi sul suo viso come se avesse
solo atteso quel momento per balzare fuori. Mi convinsi così a seguire il
dottore e a lasciarla in pace. Doveva aver bisogno di qualche istante da
dedicare solo a lei stessa.
“Isabella, tu sei tanto buona, lo so; ma tua madre ha appena
avuto un intervento alle coronarie, seppur quasi insignificante, e non è un
bene mettersi a discutere con lei. Adesso sarà molto stanca, ed anche se si è
mostrata tranquilla e serena con te, per non farti preoccupare, avrà bisogno di
un po’ di tempo per sé stessa”, mi disse Piergiorgio, una volta in corridoio.
Mi lasciò il braccio, con un movimento lento e delicato, e
quasi mi dispiacque che avesse scelto di interrompere il contatto con me.
“Certo, lo so”, gli dissi, cauta.
“Io ho concluso ora il mio turno. Ora vado un attimo nel mio
ufficio itinerante, prendo su le mie cose, e intanto mi aspetti qui, va bene?
Perché devo offrirtelo proprio un dolcetto, ci tengo”, aggiunse, tornando
indietro.
Io, invece, mi lasciai guidare dal mio istinto e anche dal
mio buonsenso, decidendo di muovermi verso l’ingresso del reparto, decisa a non
voler turbare ulteriormente mia madre e a voler raggiungere l’aria aperta per
un po’, almeno giusto il tempo per telefonare a Virginia, anche se si stava
facendo sempre più tardi.
Tuttavia, mi fermai poi ad attendere Piergiorgio, essendo
stato molto gentile nei miei confronti, e non volendogli sgattaiolare via da
sotto il naso.
Notai però che l’uomo fece una brevissima capatina nella
stanza di mia madre, prima di tornare verso me, sfilandosi il camice.
“E’ andato a sincerarsi con la sua nuova paziente?”, gli
chiesi non appena tornò alla portata della mia voce, coprendo un dubbio con un
pizzico di una simpatica e tentata battutina.
Lui mi sorrise.
“Ma certo. I miei pazienti sono tutto ciò che c’è di più importante
a questo mondo, per me”, rispose, in modo esaudiente ma pur sempre criptico. Mi
fece poi cenno con la testa di seguirlo.
“Senta, io adesso non ho fame…”.
“Non prendermi in giro. Ne hai, lo vedo dal tuo viso stanco e
bisognoso di nuove energie. Spero che tu non abbia di nuovo intenzione di
tornare a stressare la tua povera madre, perché la signora è molto affaticata,
e anche lei ha bisogno di un po’ di giusto riposo”, venne quindi il suo momento
di redarguirmi, seppur in modo dolce.
“Assolutamente no”, lo rassicurai, del tutto convinta a non
voler lasciare dubbi a riguardo, “però deve capire, lei che è anche un dottore,
che tutto quello che è accaduto mi ha fatto stare così in apprensione che la
fame è diventata l’ultimo dei miei pensieri”.
“Ti capisco, ma cerca di stare tranquilla. Qui è tutto sotto
controllo e a posto; entro qualche giorno la mamma tornerà a casa con te e
potrete tornare a vivere normalmente, senza problemi. Quindi, non pensarci
troppo sopra”, provò a rassicurarmi di nuovo, con quella sua solita decisione che
sfoggiava quando si premurava per qualcuno. Eppure, fino a quel momento l’avevo
visto solo preoccuparsi per me.
Mi venne da notarlo all’improvviso, ricordando che, dopo il
nostro primo e recente incontro, tra noi due c’era stato un’escalation di
eventi che ci aveva avvicinato e ci aveva fatto conoscere meglio… e aveva fatto
preoccupare più volte Piergiorgio per me.
Mentre uscivamo da quella struttura ospedaliera, il simpatico
dottore lanciava saluti a tutti quelli che incontrava, ed io gli trotterellavo
dietro, di nuovo in affanno, e pensierosa. In verità, però, ero in ansia anche
per il mio lavoro. La signora Virginia adorava la puntualità e il rispetto
delle regole, e nonostante la mia condizione di emergenza, avrei dovuto fare di
più per ricordarmi i miei impegni quotidiani.
Una volta tornata all’aria aperta, mi lasciai alle spalle con
due balzi quell’ingresso a cui avevo dichiarato guerra durante la notte, e
continuando a seguire il medico, che nonostante la sua età aveva ancora la
camminata sostenuta di un ragazzo, ne approfittai per afferrare il mio
cellulare, e telefonare con grande decisione all’unica persona a cui avrei
dovuto dare l’avviso della mia assenza.
Era ormai tardi, e di sicuro la proprietaria de L’angolo della bontà doveva già essere
su tutte le furie già da un bel po’.
Telefonai quindi al locale, e col cuore in gola rimasi in
trepidante attesa di udire la sua voce, mentre i primi tre squilli andavano a
vuoto. Poi, finalmente, un feedback.
“Pronto?”. La voce
di Ilenia mi giunse alle orecchie in modo lieve, attutito. Non le lasciai il
tempo neppure per provare a inspirare nuovamente.
“Ile, sono Isabella. Per favore, passami Virginia”, le dissi,
affrontando il mio destino.
La mia collega deglutì.
“Ma che è successo,
Isa? Ti stavamo aspettando, ti è successo qualcosa?”, cominciò a curiosare
la ragazza, molto agitata, ma una voce di sottofondo la rimbrottò e mi giunse
alle orecchie, davvero irritata.
Riconobbi subito il tono della proprietaria. Era giunto il
momento della resa dei conti.
“Passamela”, sibilò
la donna, e non appena le fu passata l’antiquata cornetta del suo strumento
telefonico piuttosto vintage, mi parlò con chiarezza.
“Signorinella, cos’è
questa storia? Hai cominciato a darmi buca in questo modo?”, cominciò fin
da subito a sgridarmi con severità, senza neppure darmi il tempo di esordire,
di presentarmi e di cominciare a dire qualcosa.
Sospirai.
“E’ successo un disastro, signora. So che sono imperdonabile,
però sono stata trattenuta… mia madre è stata male, e…”.
Ebbene, Virginia cominciò a parlare, un po’ irata, e a
spiegarmi che in ogni caso c’era da avvisare, e solita manfrina.
Annuii distrattamente con fare scocciato, mentre l’ascoltavo,
senza avere la forza per dire altro.
Piergiorgio, a cui avevo smesso di pensare non appena ero
entrata in contatto telefonico con la proprietaria del locale dove lavoravo,
restò per qualche istante ad ascoltare, e poi si mise in azione.
“Passamela”, mi sussurrò, e notando che non lo facevo, mi
sfilò agilmente il cellulare dalle mani, per avvinarlo al suo viso.
“Virginia, sono io, il tuo amico Piergiorgio”, disse,
esordendo, e subito la voce della signora smise di risuonare ovunque
nell’apparecchio.
“Sono qui con Isabella. Poverina, sai, sua madre ora è una
mia paziente, e questa notte è stata tanto male, ed ha anche affrontato un
intervento molto urgente alle coronarie, qui a Villa Silvia. Per favore, non
prendertela per un ritardo nella chiamata rivolta ad avvisarti, era qui in
ospedale dalle sei e il cellulare non aveva campo”, continuò a spiegare,
saggiamente.
Io osservai la scena ed ascoltai, ad un paio di passi da lui,
senza intervenire in alcun modo; se c’era qualcuno che poteva quietare l’irruenta
signora, quello era proprio Piergiorgio. Lo lasciai fare, quindi. Mi fidavo di
lui e sapevo che aveva buone intenzioni.
A quel punto, infatti, Virginia parlò per un po’, in modo più
quieto, ma non ebbi modo di sentire cosa diceva all’orecchio dell’amico medico.
“Va bene, adesso te la passo di nuovo. Ciao”, disse tutt’a un
tratto il dottore, dopo un po’, e facendomi l’occhiolino mi riconsegnò il
telefonino. Non feci in tempo ad avvicinarmi l’oggetto all’orecchio che la voce
della signora già riecheggiava sonoramente.
“Isabella, perdonami,
non volevo assolutamente mettere in dubbio la tua parola! So che non menti, e
non c’è problema, guarda… se vuoi qualche giorno da stare a casa, non c’è
problema, ripeto…”, cominciò a farfugliare Virginia, in evidente imbarazzo.
“No, assolutamente. Questa mattina non riuscirò a
presentarmi, ma recupererò le ore appena possibile”, dissi.
“Ora abbiamo contattato
la ragazza del part-time, viene lei, non ti preoccupare”.
Sabrina, la diciannovenne assunta da sole tre settimane,
aveva un contratto che le permetteva solo di coprire le ore più impegnative e
quelle in cui ero assente, in modo particolare tra mezzogiorno e le quattordici
del pomeriggio. Quella mattina, dalle otto alle dodici, avrebbe svolto le sue
ore di lavoro previste dal contratto, ma sapevo che non poteva fare dello
straordinario, e quindi immaginavo che la signora sarebbe stata in difficoltà
nel pomeriggio.
“Da mezzogiorno vengo io”, le dissi, spontaneamente.
“Ma che dici? Ma no, se
hai dei problemi è tutto a posto così. Prenditi tutto il tempo che desideri”.
“Insisto, vengo io. A mezzogiorno sono lì, se non le
dispiace”, insistei.
Non volevo stare a casa e non volevo assillare mia madre.
L’unica alternativa era il lavoro.
“Fai come vuoi, allora.
Scegli comunque con calma. Se a mezzogiorno sei qui, ok, altrimenti non
preoccupart e non stare neppure ad
avvisarmi. Va bene? Stai vicino alla mamma, non preoccuparti per il lavoro.
Quando tornerai, saremo tutti qui ad attenderti e a donarti un fraterno abbraccio”,
continuò a rassicurarmi Virginia, ormai sciolta e dolce come il miele d’acacia.
Mi lasciai involontariamente sfuggire un sorriso e sospirai
piano.
“Va bene, restiamo d’accordo così, allora. La ringrazio per
aver ascoltato e compreso, e per essermi vicina in questo momento così
difficile”, le dissi, ringraziandola. Non volevo lasciare nulla al caso, sapevo
che la signora era sempre attenta ai particolari.
“Ma sicuro, cara! È il
minimo, è il minimo, davvero. A presto”, e riattaccò.
Tirai un sospiro profondissimo, a quel punto, e di sollievo.
Era andata, alla fine.
“Grazie, è stato molto gentile a renderla un po’ meno acida”,
mi affrettai a ringraziare anche Piergiorgio, che era ancora lì assieme a me, e
mi guardava, in modo molto assorto. Ed io non feci neppure caso al suo sguardo,
mi resi conto solo tempo dopo quanto fosse profondo, quando lo rievocai in un
momento di sconforto.
Non avevo capito niente, mentre il sole estivo e caldo mi
baciava il viso, e gli alberi del parchetto antistante Villa Silvia lasciavano
che i loro rami frustassero l’aria, spinti dalle brevi raffiche di vento.
“Non preoccuparti. Virginia è fatta così, è molto impulsiva,
ma se la si fa un attimo ragionare è buona come il pane”, mi disse il medico,
smettendo di osservarmi e riprendendo a camminare.
“Solo se le parla lei diventa così buona ed incline al
perdono”, gli ammisi, senza peli sulla lingua.
Piergiorgio sorrise.
“Ci conosciamo da tanto, tantissimo tempo. È normale dare
ascolto agli amici”, minimizzò, bonariamente.
Non trovai opportuno aggiungere altro.
Una volta percorso il calmo vialetto, la caotica Rimini,
seppur periferica, ci riaccolse a braccia aperte.
“Vieni, qui c’è un bar dove i dolcetti glieli porta un pasticcere
bravissimo. Seguimi”, mi accennò il dottore, indicando un locale al di là della
strada che avevamo di fronte.
Attraversai con lui, e mi lasciai avvolgere poi dal profumo
tanto familiare di caffè e bomboloni fritti.
“Prendi quello che vuoi, offro io”, mi disse il mio
accompagnatore, sempre continuando a sorridermi, con quella sua espressione
sincera e cordiale che aveva impressa sul volto, e che aveva un qualcosa di
puro che mi colpiva ogni volta che ricambiavo un suo sguardo.
“Scherza? Sono io che offro”, aggiunsi, ma Piergiorgio si
fece inamovibile e categorico. E allora, accettai la colazione.
Mi fermai al bancone, abbastanza sovraffollato, mentre
Piergiorgio si dirigeva, come sovrappensiero, a sorseggiarsi un caffettino
mentre raccattava un giornale da uno dei tavoli, e si metteva a sfogliarlo, con
gli occhi che gli saettavano da tutte la parti, lungo l’ampio foglio scritto
che si era messo sotto al naso.
Mi misi a fissarlo, proprio quando era così concentrato a
leggere, come per volerlo cogliere per la prima volta di sprovvista; infatti,
fino a quel momento, ogni volta che avevo avuto modo di interagire con lui mi
ero sempre ritrovata già scandagliata dal suo sguardo.
Lasciandomi andare un po’ a quelle mie banalità da ragazza
che era stata in piedi per buona parte della notte e la cui testolina non
sembrava più volersi connettere su questo mondo, feci un po’ di colazione con
una semplice brioches croccante, che nonostante fosse stata di minute
dimensioni ebbi difficoltà ad ingerire, accompagnata da un po’ di misero latte
sfornato da una di quelle diaboliche macchinette delle bibite calde in polvere.
In effetti, era proprio misera acqua calda colorata.
“Hai già finito?”, mi chiese dopo un po’ Piergiorgio,
tornando da me, dopo aver abbandonato il giornale sportivo che aveva appena
concluso di sfogliare, ed io mi limitai ad annuire seccamente.
“Beh, tutto qui? Dai, prendi qualcos’altro”.
“No, davvero, sono già sazia. Basta così, grazie”, gli dissi.
“Va bene”, scollò allora le spalle, andando a pagare alla
cassa.
E fu mentre lui pagava che ebbi una crisi improvvisa.
Mi venne da piangere, fui colta da quel bisogno ancestrale in
quel momento poco propizio, e ben presto regnò dentro di me solo un saporaccio
di bile, di quelli che ti fanno capire che nella tua vita c’è qualcosa che non
va, e temi di toccare il fondo.
Il mancato riposo e l’ansia per mia madre e per la sua
condizione mi fecero crollare in quattro e quattr’otto, e mi spinsero ad uscire
fuori da quel locale pieno di persone che chiacchieravano, dove tutto profumava
di caffè, di cortesia e di pulito, mascherando ciò che era realmente la realtà,
ovvero il contrario di tutto quello.
Uscii in fretta dal locale, con un nodo alla gola; avevo
bisogno di sfogarmi, ed in più avevo appena mangiato, seppur poco, e con tutta
quella tensione che avevo addosso non mi riusciva più di riuscire a stare
tranquilla.
Quando Piergiorgio mi raggiunse, mi ritrovò sul punto di
lasciarmi andare ad un pianto disperato, mentre tornava a guardarmi, ma non con
quel suo solito sorriso bonario, bensì con preoccupazione.
“Isabella! Che c’è?”, mi disse, avvicinandomi.
Io mi appoggiai con la schiena al muro che avevo dietro di
me, e scrollai il capo, senza dire nulla, imbronciata.
“Non devi preoccuparti, davvero… no, non dirmi che è per
colpa mia, ecco, non vorrei esserti sembrato insistente…”.
Non lo lasciai concludere, perché lo abbracciai d’impeto. Fu
un gesto che mi venne naturale; in quei giorni in cui avevo perso tanto di me
ed avevo dovuto affrontare solo alcune tra le mie peggiori paure, quell’uomo a
modo suo aveva fatto tutto quello che poteva per favorirmi e farmi stare
tranquilla. E quando avevo udito quello che mi stava dicendo, ovvero che
pensava che io non apprezzassi i suoi sforzi rivolti al benessere mio, e anche
di mia madre, non ressi l’impulso di abbracciarlo.
Glielo dovevo.
“No, grazie. Quello che sta facendo è bellissimo e gliene
sono immensamente grata”, gli dissi, per poi tornare a sciogliere il contatto,
e ritrovandomelo per la prima volta sbalordito di fronte a me. Non se
l’aspettava il mio gesto spontaneo e naturale. Un gesto dal sapore di amicizia
e di affetto.
“Se potessi fare di più, lo farei. Te lo giuro”, mi sussurrò,
dolcemente.
“Lo so”.
Mi asciugai una lacrima traditrice con un fazzolettino di
carta che estrassi dalla borsa.
“Andiamo alla macchina. Ti accompagno a casa”, tornò a dirmi,
seriamente.
“No, ho l’auto qui… vado da sola, non si preoccupi per me”,
cercai di rassicurarlo, ma, per l’ennesima volta, il caratterino di Piergiorgio
tornò a galla.
“Non se ne parla, sei troppo scossa”.
“Lo desidero. La macchina mi serve, non posso permettermi di
lasciarla qui, capisce?”.
Il dottore sbuffò.
“Va bene. Però mi vieni dietro, non ci perdiamo di vista, ok?
Nello stato in cui ti ritrovi, non vorrei che ti accadesse qualcosa
d’imprevedibile”.
Lo guardai intensamente.
“Ha parlato con mia madre, vero?”.
“Cosa?”.
“Le ha parlato mia madre di questo argomento. Prima di uscire
dal reparto, è andato da lei, e le ha detto di darmi un’occhiata, nel viaggio
di ritorno, dato che sa che non sono una cima con l’orientamento. Giusto?”.
Piergiorgio reclinò il capo, e la sua espressione facciale si
rilassò e divenne improvvisamente divertita. Credevo fermamente di aver fatto
centro; mia madre sapeva che avrei arrancato un po’ nel mio percorso
all’incontrario. Ero lontana da casa e non conoscevo bene le strade che avevo
percorso per la prima volta solo quella stessa notte, tra l’altro andando
dietro ad un mezzo di soccorso.
Ma non volevo assolutamente passare per imbranata, il mio
senso dell’orgoglio me l’impediva, e per questo avevo in un qualche modo
sfidato il mio interlocutore. Conoscevo i miei limiti, e sapevo di aver
sbagliato, ma il senso di amarezza dovuto alla consapevolezza avrebbe cominciato
a germinare con qualche istante di ritardo.
“Sei incredibile! Io mi preoccupo per te, e invece mi trovo
davanti una persona che sembra volermi prendere per la cravatta, poiché starei
proponendo tutto questo solo perché ho ascoltato sua madre, ho parlato con lei,
e tutto quello che, di conseguenza, ci va dietro…”.
Piergiorgio ammutolì improvvisamente e lasciò cadere il
discorso. Tornò serio.
“Non volevo dire questo. Mi perdoni”, cercai di sistemare la
faccenda, diplomaticamente.
Aveva ragione, avevo esagerato con le congetture, tra l’altro
andando a parare in qualcosa di davvero sciocco, in quel momento in cui avevo
solo e tanto bisogno di aiuto e di un amico che mi avesse sostenuto.
“Non continuare a darmi del Lei, puoi darmi tranquillamente del
Tu”, mi sorrise, rilassandosi. Era acqua passata, sapevo che mi aveva
perdonato, nella sua infinita bontà.
“In realtà non ci riesco. E poi, sa, dovrei chiamarla
dottore”.
Cominciai a camminare a suo fianco, mentre la tempesta si
allontanava all’orizzonte, assieme al suo carico di pioggia… di lacrime.
“Non dire sciocchezze, mia cara e giovane amica. Puoi
chiamarmi col mio nome”, aggiunse, banalizzando e continuando a camminare verso
il vicino parcheggio, dove anche io avevo lasciato la mia auto in sosta.
“Va bene, se proprio me lo vuole concedere. Ma se continuo a
darle del Lei non le dispiace, vero?”, gli chiesi, imprudente.
In realtà, era che ero sempre stata una ragazza che se ne
stava sulle sue, e a disagio con i più adulti. Anche quando mi capitava di
contrare le mie ex insegnanti, in giro per la città, mi rivolgevo sempre loro
con un tono formale, anzi, formalissimo, e ciò capitava con ogni altro anziano
o persona più grande di me con cui interagivo. Mi veniva spontaneo e naturale
farlo. E non farlo mi pareva una forzatura.
“Se hai bisogno di prenderti del tempo, a riguardo, fai pure.
Però ti garantisco che non mi dispiacerebbe affatto se un giorno ti azzardassi
a chiamarmi col mio nome”, risultò di nuovo divertito.
Mi fece sorridere.
Giungemmo così in fretta alle nostre macchine, che tra
l’altro erano parcheggiate relativamente vicine, l’una nel posteggio opposto
all’altra.
“Seguimi pure, se vuoi, oppure scegli tu. Io torno a casa,
sai che viviamo nella stessa cittadina. Non mi cambia nulla”, mi disse,
lasciandomi così il giusto spazio per non sentirmi inetta e umiliata nelle
piccole cose.
“Va bene, grazie”, lo ringraziai, per poi salire a bordo del
mio mezzo di trasporto, il cui interno era un disastro, soprattutto i sedili
posteriori, dove la mia roba era tutta ammassata caoticamente, a seguito della
notte passata all’addiaccio.
Non appena mi accinsi a mettere in moto, con Piergiorgio che
già inseriva la retromarcia e cominciava a fare manovra all’indietro, per
uscire dal posteggio, mi sfuggì l’ennesimo sospiro e finii con la testa
appoggiata al volante. Non ce la facevo proprio, e ciò che era accaduto alla
mamma mi aveva definitivamente destabilizzato.
Con un altro sospiro, mi costrinsi a mettere in moto il mezzo
e a cominciare a tallonare il veicolo di Piergiorgio, tanto sapevo che,
pasticciona com’ero, ed immersa nel mio disagio mentale del momento, accentuato
dalla stanchezza e dalla tensione, avrei solo rischiato di perdermi o di
combinare un qualche incidente.
NOTA DELL’AUTORE
Grazie a tutti voi che siete giunti fin qui ^^
|
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Capitolo 12 *** Capitolo dodici ***
Capitolo dodici
CAPITOLO DODICI
Non ebbi problemi a rincasare.
Seguii Piergiorgio per buona parte del percorso iniziale, e
il suo inconfondibile fuoristrada, poi non appena ritrovai l’orientamento feci
da me e lasciai che proseguisse verso la sua meta, preferendo seguire strade
secondarie. Avrei avuto più modo di stare tranquilla e di riflettere, al di
fuori del caos delle strade principali molto trafficate a quell’ora.
Giunsi quindi a casa senza difficoltà, ma il dolore mi colse
di nuovo non appena parcheggiai. La casa di mia madre, per l’appunto, mi
ricordava mia madre, e sapendo che lei era una delle pochissime persone che mi
volevano bene a quel mondo, se non l’unica che mi volesse bene veramente, mi
venne di nuovo da piangere, ripensando a quello che le era accaduto. Ma sapevo
pure che dovevo essere fiduciosa e forte, e che entro qualche giorno sarebbe
tornata a riprendere possesso di quello spazio suo.
Rincasai con la mente molto turbata, ma non feci neppure in
tempo a varcare totalmente la soglia che fui investita da un profumo pungente e
gradevole; quello delle rose che qualcuno mi aveva fatto recapitare la sera
prima, e che con tutto il trambusto delle ultime ore avevo totalmente
dimenticato.
Subito, tornarono a frullarmi per la testa tantissimi dubbi,
soprattutto a riguardo di chi avesse mai avuto in testa l’idea di farmi un dono
del genere. Un vero galantuomo, uno di quelli che, tra i ragazzi che avevo
frequentato fino a qualche giorno prima, di certo non c’era.
Appoggiai la mia borsa in cucina, e, come attratta dal
magnetismo di quel regalo inatteso, ne approfittai per avvicinarmi al mazzo di
fiori, ancora ben tenuto a mollo col gambo in acqua, e avvicinai una rosa
bianca alle narici.
Un profumo stupendo mi pervase dalla testa ai piedi; chiunque
mi avesse mandato tali bellezze profumate, doveva essere molto esperto di fiori
e piante, e conoscerne opportunamente i rispettivi odori, e forse addirittura
anche i messaggi che potevano trasmettere, come aveva supposto anche mia madre.
Scossi il capo, leggermente, lasciandomi sfuggire un
malinconico sorriso, e raccattai il fogliettino dove c’era scritto il mio nome.
Lo strinsi forte tra le mani, osservando quella piccola opera
d’arte. Poi, mi decisi ad andare a farmi una doccia, per poi provare a riposare
un po’, siccome quella turbolenta nottata mi aveva lasciato davvero molto
sbattuta, e per mezzogiorno dovevo essere perfettamente in forma, sapendo che
mi aspettava un pomeriggio di movimento senza sosta. Altroché palestra.
Mentre mi accingevo a salire al piano superiore, però,
squillò il campanello.
Non avendo idea di chi potesse trattarsi, mi mossi a ritroso
quasi con circospezione, e aprii per uno spiraglio la porta d’ingresso.
“Sono io, Isabella”, disse al di là dell’uscio una voce ben
nota, e allora spalancai la porta e mi ritrovai di fronte Piergiorgio.
“Sono venuto a vedere se era andato tutto bene, e se era
tutto a posto…”, mi disse, impacciatamente, allargando le sue manine
all’altezza del petto.
Gli sorrisi.
“Tutto ok, come può vedere. L’ho seguita, fino ad un certo
punto, e non ci sono stati problemi. Ora conosco perfettamente la strada”, lo
rassicurai.
“Meglio così”, mi disse, giusto per dire qualcosa, e
continuando a restarsene impalato di fronte a me.
“Certo che lei è davvero molto, molto gentile. Si preoccupa
troppo per il prossimo”, mi venne spontaneo dirgli, così su due piedi e senza
riflettere.
La verità era che Piergiorgio era un signore di cuore, di
quelli fatti con uno stampo che poi era andato irrimediabilmente perduto.
Dotato di tutta quella galanteria da uomo di una volta, e con un atteggiamento
sicuro, ma non pesante per chi lo circondava, era tagliato per essere un grande
professionista, e non solo nel suo mestiere, ma anche nella vita.
Che fosse vero che gli anni insegnano?
“Sai, è il minimo che posso fare. Vedere la gente che soffre
per qualcosa non mi fa stare bene”, disse, saggiamente, ma un po’ in modo
impacciato.
“Prego, io ancora non le ho chiesto se vuole ristorarsi un
po’… mi perdoni, sono un po’ confusa, come può immaginare. Venga dentro, le
offro qualcosina da bere”, aggiunsi poi con cortesia, facendogli spazio per
entrare in casa.
“Oh, no, no, grazie, carissima! Sono a posto così. Poi ho
fretta, sai, anche io devo riposare un po’… questa sera devo tornare
all’ospedale, immagini come vanno le cose lì…”, si scusò, e gli credetti.
“Lei lavora decisamente troppo”.
Rise.
“Hai ragione… alla mia età dovrei starmene a riposo a godermi
la pensione, vero? Ma non è la vita che fa per me, quella”.
“Non intendevo dirle questo. Lei è ancora giovane”, mi venne
di nuovo da replicare.
“Ah, magari lo fossi, mia cara e giovane amica! Ma ora devo
proprio andare. Ci vediamo”, si congedò, con un radioso sorriso a illuminargli
il volto.
“Sicuro. A presto”.
Stavo per chiudere la porta, quando lo sentii tossicchiare.
“Isabella?”.
“Sì?”.
Riaprii la porta.
“Scusa, perdonami se insisto. Comunque, questa sera, se vuoi,
durante l’orario delle visite posso darti uno strappo dalla mamma…”.
“E per tornare indietro?”, tornai a chiedergli, ma quasi
arrossii davanti al suo imbarazzo.
Piergiorgio era come perduto, risucchiato in un attimo di
eterna agitazione, ed era lui che cercava, in quel momento, di non scorgere
tracce di dubbio nei miei occhi.
“Ti riporto di nuovo io”, rispose, dopo un attimo di
esitazione, “non è un problema. Tanto, devo portare a casa una cosa che non può
restare in ospedale fino a domattina”.
“Se ci tiene tanto, a me va bene”, acconsentii, anche se non
seppi perché. Mi venne proprio naturale e spontaneo farlo, forse solo per il
fatto che vedevo quanto impegno ci stava mettendo quel pover uomo. Ma perché,
poi…?.
“Ma non vorrei essere un disturbo o un problema. Sa, io
dovrei uscire da lavoro alle venti, ma la signora mi concederà di certo un
permesso per uscire un’ora prima, ora che comunque recupererò quando tornerà
tutto alla normalità. Quindi…”.
Non riuscii a dire altro, allargando io le mani, quella
volta. Potevo solo ipotizzare, e siccome avevo previsto che sarebbe toccato
solo a me il dover affrontare il viaggetto serale, non avevo ancora pensato e
preparato un possibile scenario concreto.
“Questo è il mio numero di cellulare. Se hai bisogno di
comunicarmi qualcosa, telefona pure, senza farti problemi. Altrimenti restiamo
d’accordo che alle diciannove sono davanti a L’angolo della bontà, ad attenderti. Va bene?”, mi chiese,
allungandomi un foglietto su cui c’era scritta la sequenza numerica che
componeva il suo numero di telefono.
“Va bene. E grazie… che altro potrei dirle?”.
“Niente, siamo a posto così. A questa sera”.
E se ne andò, lasciandomi lì così, sulla mia porta di casa,
come imbambolata, a fissare la sua sagoma che, immersa nella luce del sole
mattutino, si muoveva verso il suo fuoristrada.
Arrivare alle undici e mezzo fu quasi un’inclemenza verso me
stessa. Se avevo previsto di riposare un po’, e di dedicare qualche ora al
relax, ebbene, presi un granchio, quasi nel senso più letterale
dell’espressione, siccome non riuscii a chiudere un occhio e rimasi sdraiata
sul mio letto quasi in ipertensione.
Riuscii solo a farmi una doccia e poi a telefonare a Irene,
quando proprio non ne potei più, e le raccontai tutto quello che mi era
accaduto dopo l’ultima volta che ci eravamo sentite.
Le narrai tutta la vicenda riguardante il mio ex, e quello
che era accaduto a mia madre, oltre che la mia situazione di stress fortissimo…
nascosi solo la storia riguardante le rose che avevo ricevuto da un anonimo, e
tutto quello che riguardava Piergiorgio. Non volevo parlare a nessuno di
quell’uomo, non sapevo il motivo di questa mia scelta inconscia, ma sentivo che
la fortuna di avere un supporto così importante e deciso doveva restare solo
per me.
Rischiavo altrimenti di creare unicamente delle futili ed
inutili incomprensioni.
Chiacchierammo per oltre un’ora, e alla fine avevo la gola
arida e dolorante, dal tanto che avevo parlato. La mia amica mi lasciò sfogare,
poi mi promise una cosa; che ci saremmo riviste molto presto. Oh, e anche che
avrebbe giurato guerra a Marco.
La spronai leggermente a non pensare neppure a una cosa del
genere, ma Irene era da sempre stata inamovibile, testarda e cocciuta, e sapevo
alla perfezione che non diceva mai nulla a vanvera. Mi disse anche che avrebbe
trovato un modo originale per tirarmi su il morale, ed ancora non detti troppo
peso a quelle parole, siccome sembrava che ormai il morale non me lo potesse
più tirare su neanche un muletto.
La lasciai solo quando giunse il momento di cominciare a
prepararmi, per affrontare il mio calvario lavorativo, quello a cui avevo
sempre agognato. E mentre mi vestivo adeguatamente, come la signora Virginia
gradiva, mi veniva continuamente da chiedermi chi me lo facesse fare, e se
davvero non ci fosse qualcosa che stessi sbagliando in modo clamoroso, nella
mia vita. Ma mi sembrava solo di ripercorrere le orme lasciate nel mio cuore e
nella mia mente da Marco, e quella mossa desideravo davvero evitarla.
Quindi, annichilii la mia interiorità, e mi preparai al
lavoro.
Giunsi puntualissima, a L’angolo
della bontà, spaccando il minuto.
Non appena varcai la soglia del locale, avvolta dal sole
rovente dell’esterno, fui accolta da una Virginia molto commossa, che lasciò in
attesa un paio di clienti, pur di venirmi incontro ed abbracciarmi con calore.
“Isabella cara, ti avevo detto di prenderti tutto il tempo
che volevi, e che non c’era problema!”, quasi mi rimproverò, spupazzandomi,
mentre io, dal canto mio, me ne restavo quasi di sasso, di fronte a quella
reazione passionale che non mi aspettavo proprio da quella signora che,
evidentemente, riservava delle sorprese, nei momenti problematici.
“Lo so, la ringrazio tantissimo per questo, signora. Ma non
volevo approfittarne, e poi mia madre ora è in buonissime mani e se la sta
cavando, quindi… meglio per me venire qui, così posso darmi un po’ da fare”, le
dissi, semplicemente, e con sincerità.
“Oh, meglio così, allora! Ben tornata, e… beh, sai bene cosa
devi fare, quindi… buon lavoro!”.
E così dicendo, si allontanò da me e tornò alla cassa, presso
la quale ormai stazionavano vari clienti il fila, tutti concentrati a guardare
noi due, durante il nostro breve contatto.
Diedi così il cambio a Sabrina, e cominciai a darmi da fare,
senza pietà, riuscendo per l’ennesima volta in quella giornata a mettere al
tappeto la mia coscienza e i pensieri che mi stavano perseguitando senza sosta.
Più tardi, quando la situazione si fece più tranquilla,
contrattai con la signora e mi fu concesso senza problemi il permesso di non
svolgere le solite otto ore di contratto, ma solo sette. L’ottava l’avrei
recuperata quando tutto avrebbe ripreso ad andare meglio, e contavo che ciò
potesse accadere molto presto.
Così, alle diciannove riuscii a svignarmela, e ancora stanca
e sudaticcia, uscii in strada, dopo essermi congedata con la dovuta cortesia
dalla disponibilissima e gentile Virginia, che mi augurò tante belle cose.
Addirittura, fu troppo melensa per i miei gusti.
Non appena però uscii dal locale, mi ritrovai subito di
fronte il profilo inconfondibile del fuoristrada di Piergiorgio, che mi stava
attendendo come promesso proprio lì davanti, e all’inizio mi prese un
accidente, quasi, siccome ci misi un attimo a riconnettere tutto quanto.
Sbadata, come sempre.
Il galantuomo mi aprì lo sportello allungandosi dall’interno.
“Prego, accomodati pure”, disse, con grande cortesia.
Lo accontentai, e quasi balzai dentro.
“Grazie. Devo ancora abituarmi a queste macchine rialzate… mi
sembrano bolidi. Altroché la mia”, borbottai simpaticamente, allacciandomi la
cintura, dopo aver richiuso subito lo sportello.
Piergiorgio ingranò la marcia e partì.
Mi rivolse poi un caldo sorriso.
“Forse ho esagerato, ma sai, mi trovo bene con questo
fuoristrada”.
“No, non ha esagerato, sono io che sono piuttosto imbranata a
riguardo di auto e guida”, replicai, dicendo una grande verità. Il mio
interlocutore si lasciò sfuggire una cortese risata, che non aveva nulla di
derisorio.
“Non dire così. Sei una persona tosta, si vede da lontano.
Poi, certo, ci sono cose per cui una persona è più portata, mentre per altre si
è di meno… è naturale”.
“Lo so. Comunque, non mi sottovaluto così tanto, dai”.
“So anche questo. Altrimenti non avresti fatto tutta questa
strada nel…”.
Piergiorgio s’interruppe, come se gli si fosse andato
improvvisamente di traverso qualcosa.
Mi volsi a guardarlo, smettendo di fissare il paesaggio che
scorreva al di là del finestrino abbassato, e con una leggera preoccupazione,
constatando che non aveva segni tangibili di qualcosa d’imprecisato, lo
punzecchiai.
“Nel…?”.
“Nel… nel mondo, certo”, borbottò, a quel punto molto serio,
e senza guardarmi. Un leggero rossore gli imporporò la parte superiore delle
gote.
“Sa, è bello aver fatto così tanta strada nel mondo da essere
relegata a servire ai tavoli di un comunissimo locale, per circa otto ore al
giorno”, gli feci notare, incuriosita dal suo strano comportamento, e
chiedendomi cosa realmente avesse voluto dirmi, prima di lasciar perdere e di
stopparsi con malagrazia.
Piergiorgio, udendo quelle parole, tornò di nuovo alla
normalità, e sorrise, sempre al cospetto dei miei occhi indagatori, che non
volevano lasciare il suo viso, anche al costo di poter apparire scortese.
“E’ pur sempre qualcosa. Pensa a chi non ha niente. Ce n’è di
gente che la crisi, e non solo, l’ha resa indigente”.
“Ah, ok. Grazie per la considerazione”, dissi, a metà tra
l’ironico e il serio, continuando a punzecchiarlo dolcemente.
“Ma non fare così, dai… tu sei una ragazza con la testa sulle
spalle. Hai superato la separazione dal tuo ragazzo storico con un coraggio da
eroina, e anche adesso ti stai comportando molto maturamente, nonostante le
avversità della vita”, mi rincuorò.
Scossi la testa.
“Lo sa bene che non sono di metallo, o di pietra. Ha visto
anche lei questa mattina, no?”.
Piergiorgio sbuffò piano.
2Non siamo statue, Isabella. Siamo umani. Ed ho visto umani
fare scenate tremende per cose molto più futili degli eventi che stai vivendo
tu in questo periodo”.
Scelsi di non aggiungere altro. Restammo in silenzio fino
all’arrivo in ospedale, ma di tanto in tanto sentivo i suoi occhi su di me, per
qualche secondo, quando era certo che io non lo stessi osservando.
Entrai in ospedale al fianco del mio accompagnatore, e con
lui giunsi al cospetto di mia madre, che mi accolse molto serenamente.
“Piccola! Come stai?”, mi disse non appena mi scorse, dandomi
solo il tempo per sorriderle.
“Mah, sai, in realtà starebbe bene che te la rivolgessi io,
questa domanda”, mi venne spontaneo a dirle, senza smettere di sorridere, “ma
ti rassicuro; io sto benone. Tu?”.
“Bene anch’io. E… ancora un paio di giorni, poi torno a casa”,
mi disse, timidamente.
Si mise poi a sedere sul suo lettino.
“Certo. Poi riprendiamo le nostre solite discussioni, va
bene?”, le dissi, con un vano e imbarazzante tentativo di farla sorridere. Ero
tesa, non sapevo bene che altro aggiungere.
Piergiorgio, come sempre, fu puntuale nel suo intervento,
salvandomi dal silenzio, e facendo capolino alle mie spalle.
“Dottore! C’è anche lei?”, allungò poi il collo mia madre,
scorgendo anche lui.
“Sì, ci sono anche io. In borghese, come può vedere, ma ci
sono”, rispose, non abbandonando la sua sottile dose di piacevole e accomodante
ironia, ed accennando ai suoi vestiti, non coperti dal camice bianco. La sua
camicia blu a maniche lunghe, leggermente arrotolate fino ai gomiti, e i suoi
calzoni neri, uniti a scarpe di pelle altrettanto nere, lo rendevano ciò che
c’era di più dissimile dal candore naturale di un medico, così a prima vista e
senza ulteriori considerazioni.
“Tutto bene, signora?”, chiese poi, sempre a suo agio con mia
madre.
“Tutto meravigliosamente a posto”.
“Lei sì che è una paziente che mi piace! Mi complimento, sul
serio”, aggiunse lui, e a quel punto quasi mi sentivo una presenza in più.
Il dialogo tra medico e paziente stava venendo così spontaneo
che continuava a mostrarmi quanto quello fosse il lavoro giusto per il mio
accompagnatore. Una professione per la quale era davvero portato. Ma che anche
l’esperienza avesse influito in tutto ciò? Probabilmente sì, eppure capivo che
non sarei mai stata una grande persona come Piergiorgio.
Lui aveva qualcosa di speciale addosso, era come se avesse
un’aura in grado di far calmare chiunque se lo trovasse di fronte… era una
sorta di sole, un astro del cielo, che brillava su tutto e contro tutto.
Nonostante l’apparenza insignificante, era un uomo straordinario, e lo si
vedeva sempre da come si comportava.
“Isa”.
Mia madre tornò improvvisamente a reclamare la mia
attenzione.
“Sì?”.
“Se il dottore deve visitarmi, potresti uscire…”.
“Ma no, signora! Sono in borghese, dir si voglia. Io riprendo
il turno tra un paio d’ore, siccome sostituisco un collega che è andato in
ferie”, precisò il medico, mentre io volevo far chiarezza su tutto.
“Mamma, il signore mi ha accompagnato fin qui. È stato molto
gentile, non approfittarne”.
Io e lei ci scambiammo uno sguardo pregno di significati che
non potevo conoscere fino a fondo. Chissà cosa stava frullando per la sua
mente, dopo che avevo vuotato il sacco.
“Isa, non voglio che tu venga di nuovo qui. Ci vediamo il
giorno in cui mi passerai a prendermi”, mi disse, all’improvviso,
sorprendendomi.
Divenni improvvisamente di una serietà profonda, quasi triste
e mortificata.
“Non lo dico perché non mi facciano piacere le tue visite, o
per il fatto che ti reputi un’imbranata, cose che sono ben lungi dalla mia
mente. Però, ecco, a me farebbe piacere, siccome non sono in punta di morte,
che tu dedicassi un po’ più di tempo alla tua vita da ragazza giovane come sei”,
volle aggiungere, notando la mia reazione immediata alle sue parole di poco
prima.
Abbassai comunque lo sguardo, con un atteggiamento remissivo
e ferito.
“Non importa. Sto dedicando fin troppo tempo alla mia vita,
e… comunque, tu fai parte di essa”, riuscii a dirle, con un tono di voce mogio
e basso.
“Va bene, ma non è questo il senso del discorso. Vorrei che
tu dedicassi un po’ più di tempo all’uscire, al stare con i tuoi coetanei, cose
così, insomma”.
“Ma…”.
“Non dire altro, figlia mia. Ti conosco, e per favore, non
parliamone più! Ti prego di rispettare la mia volontà”.
Sospirò, prima di tornare ad aggiungere altro, mentre
sembrava che una patina gelida fosse scesa su noi due.
“Sei andata al lavoro, oggi?”, mi chiese, più affabilmente.
“Sì”, mi limitai a risponderle brevemente, senza aggiungere
altro.
Il fatto di essere stata umiliata in quel modo davanti a
Piergiorgio, e per di più durante una visita, mi aveva davvero sconcertato, e
mi sembrava un colpo basso. Ma il dottore, che era ancora lì con noi e che non
era intervenuto durante la nostra brevissima ma significativa conversazione,
pareva disposto a non lasciare che quella situazione gelida e inattesa
persistesse.
“Sì, ha finito il suo turno poco fa, prima che
l’accompagnassi qui”, volle infatti aggiungere alla mia scarna risposta.
“La ringrazio, dottore. È molto gentile da parte sua avere
così a cuore mia figlia”, rispose mia madre, tranquillamente.
“Si figuri, per me è un piacere. È una ragazza squisita”.
Ci scambiammo un’occhiata, quella volta io e lui; mi fissò
con quel suo sguardo profondo, eppure insondabile, una sorta di rebus racchiuso
al di là di quella schermata che i suoi occhi formavano nel complesso. Mi
sorrideva, come sempre bonario, ma quella volta scorsi una smorfietta che sembrava
volermi suggerire di non prendermela con mia madre, e che stavo sbagliando a
prendermela così.
Capii che in fondo era vero, siccome la mia genitrice stava,
in realtà, solo pensando a me stessa. Era disposta a sacrificare l’unica visita
quotidiana che avesse potuto sperare di ricevere solo per far sì che io potessi
starmene calma e tranquilla a vivere la mia vita… ed io, allora, mi sentii così
tanto spaesata da non sapere più cos’altro andare a pensare.
“Mia figlia è molto buona, dottore. Lo è fin troppo”, disse
improvvisamente mia madre, dopo qualche istante di silenzio.
Poi, mi sorrise anche lei, e sostenni il suo sguardo fin
quando allungò una mano verso di me, ed io potei stringerla con forza tra le
mie, rivolgendole a mia volta un sorriso sincero. La breve crisi che c’era
stata tra di noi era già tutta acqua passata.
“Me ne rendo conto. È davvero una brava figliola”, disse il
medico, probabilmente notando con piacere che non c’era più tensione tra noi
due.
“Grazie, Isa, per volermi così tanto bene. Ora, però, vorrei
riposare, e il tempo riservato alle visite sta per esaurirsi, quindi… ti
saluto, e ti auguro una buona serata e una buona nottata. Ci vediamo tra un paio
di giorni, quando torno, ok?”.
Trattenni il fiato, sempre di più, mentre la mamma concludeva
il suo breve discorsetto.
“Va bene… se è questo il tuo volere”, riuscii a dire.
“Lo è. E adesso, mia buonissima figlia, vieni qui che ti voglio
dare un bacio sulla fronte”.
Mi chinai per farmi baciare dalla mamma, e le lasciai la mano.
“Lasciami un attimo sola con il dottore, poi vai a riposare.
Ti vedo tanto stanca, e non voglio che tu sia così giù di morale. Riposa e
prenditi più tempo per te”, tornò a dirmi, e sapevo che era giunto il momento
del congedo.
La salutai solamente con un cenno del capo, ma le donai anche
un sorrisetto stentato, il migliore che in quel momento potessi sfornare,
sentendomi quasi su un’altalena di sentimenti contrastanti che dentro di me si
agitavano ed erano in subbuglio.
Tornai nell’ampio corridoio dell’ospedale comprendendo le
ragioni materne, ma allo stesso tempo respingendole… ma lasciai che Piergiorgio
restasse solo con lei, con l’ultimo membro della famiglia che mi era rimasto.
Non volevo più cercare di far pressione o di contraddirla, assolutamente, non
era mia intenzione creare altre tensioni inutili in quel momento.
Mi fermai a bighellonare sull’ingresso del reparto di
cardiologia, osservando le infermiere che, come loro solito, gironzolavano con
i carrellini o andavano a sbirciare nelle varie camere, mentre altri visitatori
come me continuavano ad arrivare o ad andarsene, tutti indaffarati e
sovrappensiero.
Era vero, in fondo quello non era proprio un posto adatto a
me. Continuava a mettermi ansia, ad agitarmi e a spaventarmi con tutta quella
freddezza abitudinaria che sembrava trasparire da tutto e da tutti… o forse era
solamente una mia impressione, e mi stavo solo lasciando suggestionare.
Da lì a qualche minuto, per fortuna, Piergiorgio abbandonò il
cospetto di mia madre, ed uscì anch’egli in corridoio, tutto tranquillo, e la
sua vista mi strappò da quel tumulto che avevo in testa.
“Allora?”, gli chiesi, andandogli incontro.
Ero molto curiosa, non lo potevo negare; anzi, sarei stata
anche disposta a dar qualcosa in cambio di conoscere quello che i due si erano
detti mentre io ero stata abilmente allontanata.
“Abbi pazienza, cara amica. Non turbare troppo tua madre; lei
pensa anche a te, e tanto, e non vuole saperti triste per questa faccenda, che
si risolverà a breve. Presto sarete di nuovo pronte per tornare alla normalità,
quindi non pensarci più e cerca di rispettare i suoi desideri”, mi rispose,
candidamente, allargando le braccia.
“Va bene, farò senz’altro così”, risposi a mia volta, ancora
piuttosto scoraggiata e demotivata.
“Non prendertela, sai che ha le migliori intenzioni”, mi
redarguì il mio saggio e maturo interlocutore.
“Certo”.
“Torniamo a casa, che dici?”.
“Non c’è problema, andiamo pure”, mi decisi, lasciando tutto
così com’era. Ero pronta a seguire i consigli della malata e le sue volontà,
nonostante tutto, anche se questo mi avrebbe fatto leggermente soffrire. Ma il
pensiero che ben presto tutto sarebbe tornato alla normalità mi rincuorava.
Mentre trotterellavo con Piergiorgio a fianco verso l’uscita
della struttura, ringraziai tacitamente il Cielo per avermi messo a fianco e
fatto casualmente conoscere un uomo come lui, esperto e capace, che mi stava
facendo da guida in quel mondo che, nella mia ancor giovanile inesperienza, non
conoscevo affatto, e in cui rischiavo per tal motivo d’incespicare. In quel
momento di bisogno e di necessità, si stava rivelando un faro per me.
NOTA DELL’AUTORE
Grazie ancora, a tutti voi ^^
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Capitolo 13 *** Capitolo tredici ***
capitolo tredici
CAPITOLO TREDICI
Tornando a casa, tra me e Piergiorgio non ci fu un gran
dialogo, o almeno non inizialmente.
Qualche fugace sguardo, ogni tanto.
Io avevo la testa tutta catapultata verso mia madre, verso i
suoi problemi, verso il suo rifiuto di avermi a fianco… quel rifiuto che mi
stava facendo sentire come una bambina, e un po’ mi faceva vergognare. Non la
mandavo giù, anche se capivo, in fondo, le sue motivazioni.
“Ti va se ci fermiamo a mettere qualcosa sotto i denti?”,
chiese all’improvviso il guidatore, distraendomi dai miei pensieri e dal mondo
vorticante che mi circondava al di là del finestrino, mentre la penombra della
sera avvolgeva il nostro percorso.
“No, no, davvero. La ringrazio, ma penso sia meglio tornare a
casa”, gli dissi, candidamente. Forse in modo un po’ troppo irruento e
scostante, anche per via del mio stato d’animo tignoso che in quel momento mi
rendeva poco lucida.
Piergiorgio infatti ammutolì tutto d’un colpo e non disse
altro.
Lo guardai per un attimo e scorsi sul suo viso rotondo una
sorta di dolore latente, che voleva nascondere. Non volevo averlo ferito con la
mia risposta molto brusca.
Fu la mia volta di lasciarmi sfuggire un profondo sospiro, di
quelli che mi aiutavano a riflettere per un attimo e a raccogliere le idee
utili a chiarirmi.
“Signor Piergiorgio, mi deve perdonare. Sul serio. Sono molto
tesa e stanca, e non ragiono bene. Chiedo scusa se lei se l’è presa, ma non
volevo offenderla o rifiutare con cattiveria il suo invito, che davvero, mi
lusinga. Ma mi sento ancora in debito con lei per tutto quello che ha fatto in
queste ultime ore, e poi so che tra non molto deve andare al lavoro, e non
voglio assolutamente essere un peso”, aggiunsi, piano, a voce bassa.
Mi sentii avvampare un po’ in viso, come se avessi fatto una
confessione pesante, di quelle da tenere per sé stessi. In realtà, avevo solo
detto la verità e mi ero concentrata per aprirmi.
Piergiorgio, udendo quelle parole, fece per allungare una
mano verso di me, gentilmente, poi l’abbassò all’improvviso e la posizionò sul
cambio.
“Tu non sei mai un peso. Mai. E non devi preoccuparti per me…
mai”, mi disse, e mi rivolse un’occhiatina sfuggevole ma divertita, prima di
tornare a inchiodare lo sguardo sulla strada.
“E allora, questa cena… che ne dici?”, tornò a stuzzicarmi,
prima che potessi dire qualcosa.
Se non fosse stato quell’uomo che avevo di fronte, avrei
subito pensato, a quel punto, che ci stesse provando con me. Ma io vedevo
Piergiorgio felicemente sposato, con figli grandi e nipotini in arrivo, una
sorta d’uomo tutta famiglia, e di fronte a quelle proposte non sapevo cosa
dire, e mi trovavo in imbarazzo. Per quello scelsi di continuare a declinare
l’invito, seppur con immensa gentilezza e delicatezza.
“Un’altra volta, magari. Sa, mi si è chiuso proprio lo
stomaco, al solo pensare al cibo mi viene da star male”, gli propinai, e
dargliela da bere fu semplice, siccome ancora non mi distanziavo troppo dalla
realtà dei fatti.
Udendo la mia voce provata, il mio interlocutore parve non
avere alcun dubbio sulla veridicità della mia scusa.
“Capisco”.
Lasciai che il discorso decadesse, mentre il fuoristrada
verde divorava chilometri su chilometri e la mia casetta era sempre più vicina.
Mi rasserenai, almeno fin tanto che il guidatore a mio fianco
non imbucò un tratto di strada a me ignota, abbandonando il rettilineo che
avremmo dovuto seguire. Quell’azione mi colse di sorpresa, e sobbalzai e
cominciai a pensarne di ogni, mentre Piergiorgio continuava a guidare come se
nulla di strano fosse accaduto.
“Cosa… cosa crede di fare… dove mi sta portando?”, riuscii a
borbottare, un po’ spaventata. Il buio avanzava, assieme alla notte sempre più
prematura di un’estate ormai inoltrata, e all’improvviso fu come se la mia
mente fosse stata travolta da una sensazione sconcertante di paura.
“Ehi, stai tranquilla! Qui c’è solo un bellissimo
alberghetto, che funge anche da ristorante, per i poveri affamati come me. Conosco
bene il proprietario, e so che mi preparerà una buonissima cenetta…”, mi disse
Piergiorgio, rivolgendomi un fugace sorriso.
Non finì di spiegarsi che apparve di fronte a me, dopo alcuni
cespuglietti di rose dagli steli piuttosto alti, l’insegna di un piccolo
albergo, dotato di ristorante.
“Lei è una di quelle persone che quando si mette in testa una
cosa, poi non se la toglie più, vero?”, gli domandai retoricamente e senza
nascondere la mia irritazione. Era stato un colpo basso, quello, e anche se
ormai potevo immaginare le intenzioni pressoché svelate del medico, non mi
piaceva essere trattata in quel modo.
Piergiorgio parcheggiò in un baleno, nell’ampio parcheggio
antistante il locale, praticamente vuoto.
“Non prenderla sul personale, Isabella. Sono un tipo
piuttosto pigro, non mi va a casa di mettermi a preparare qualcosa da mangiare,
e dato che me lo posso permettere, in genere vado sempre a mangiare fuori, e
conosco bene tutti i locali della zona. Questo è abbastanza buono. Se vuoi
venire a farmi compagnia…”
Il signore mi aveva parlato gentilmente, ma io mi imbronciai
e non lo guardai neppure.
Lui si slacciò la cintura, io me ne rimasi di pietra.
“Oh, avanti, non dirmi che vuoi rimanere in macchina…!”.
“Per carità, Piergiorgio… me lo poteva anche dire, e questa
sosta non era prevista. Mi sento un suo ostaggio”, sbottai, nervosa.
A quel punto, il mio interlocutore smise di parlarmi con una
pacatissima allegria.
“Beh, mi sono dimenticato di avvisarti. Ma se proprio vuoi
restare in macchina, a te la scelta”, mi disse, senza entusiasmo né cortesia, e
scese dall’auto, chiudendo lo sportello dietro di sé.
Io me la presi immediatamente con me stessa; dovevo sapere
che dietro la sua cortesia si nascondeva qualcosa di losco, e un inganno. Avrei
dovuto prevederlo.
Mi annichilii premendomi contro il sedile, dapprima
leggermente, e poi con tutta la schiena.
Dopo qualche istante, non vedendo più nulla ed essendo giunta
la notte, slacciai anch’io la cintura e decisi di dare un bello smacco a quel
signore che mi aveva ingannato. Tutti così, gli uomini.
Provai ad aprire lo sportello, e lo aprii in un baleno, per
poi accingermi a scendere. Me ne sarei tornata a casa a piedi, col buio, col
rischio di essere investita lungo la strada, e pure a patto di sopravvivere
così tanto da potermi pentire della mia scelta scellerata e di mettermi a fare
l’autostop come nei film americani.
Gli avrei dato una bella lezione, a quel mezzo damerino;
quando poi avrebbe rivisto mia madre, cosa le avrebbe detto? Che aveva piantato
sua figlia in piena campagna, a diversi chilometri da casa, solo perché voleva
cenare, e che lei, poverina, aveva rischiato di finire spiaccicata come una
piadina sul rovente asfalto di una tangenziale? Magari qualche automobilista
attento, vedendomi a piedi in un tratto di strada in cui era vietato camminare,
avrebbe pure avvisato i vigili e i poliziotti così avrei avuto pure altri guai.
Mi lasciai andare alle mie dementi considerazioni, prima di
mettere entrambi i piedi a terra e accingermi a chiudere dietro di me lo
sportello, magari anche con forza, pur di fare una bella botta, e magari
rovinarglielo un po’. Oppure, glielo avrei lasciato direttamente aperto, nella
speranza che qualche malintenzionato di quel posto scialbo e isolato avesse
potuto notarlo, per poi fregargli l’auto, o rovistare tra le sue cose e
saccheggiargliele.
Ero proprio incattivita, e senza neanche accorgermene stavo
prendendo tempo, e le mie guance stavano per essere rigate da qualche calda
lacrima di frustrazione. Mi sentivo tradita, sola e abbandonata anche
dall’unica persona di cui mi ero più fidata negli ultimi giorni.
“Allora, signorina, non avrà mica intenzione di lasciarmi
davvero a cenare da solo?”.
La voce di Piergiorgio mi giunse in modo distinto alle
orecchie, e sobbalzai, non aspettandomi che parlasse proprio in quel momento.
Fui certa che aveva atteso nel buio le mie mosse, senza mai perdermi di vista.
Ancora ferita, feci per volgermi verso di lui e dirgliene
quattro, per sfogarmi, ma quando lo feci, me lo ritrovai in ginocchio davanti a
me.
“Mi vuoi lusingare della tua presenza? Fai contento un povero
vecchio. Cosa ti costa?”, tornò a dirmi, allungandomi la mano da vero
galantuomo. Io, a bocca semiaperta dallo stupore, lo guardai per qualche
secondo, prima di riscuotermi.
“Ma cosa sta facendo? Si rialzi subito”, provai a dirgli, ma
lui mi afferrò dolcemente una mano e la baciò con leggerezza sul dorso, facendo
un baciamano perfetto, di quelli che avevo conosciuto solo grazie ai libri per
ragazze che avevo letto diversi anni addietro, quando ancora credevo
nell’esistenza del Principe Azzurro e speravo di incontrare un uomo tanto
perfetto come quelli che apparivano in quei raccontini senza fondamenta nella
realtà.
“Ti prego. Onorami con la tua splendida presenza”, mi disse,
con un tono di voce commovente e supplichevole che seppe smuovere tutta la poca
compassione che mi era rimasta per lui.
“Oh…”, borbottai, restando imbambolata di fronte a quella
scena davvero inaspettata.
“Naturalmente, prima stavo scherzando. Se tu vuoi tornare a
casa, e lo desideri, ti ci riporto subito. Ma lungo il nostro cammino abbiamo
avuto la fortuna di passare proprio a pochi metri da questo posticino, e mi era
sembrato un peccato non provare almeno di invitarti, anche se l’ho fatto con
troppa insistenza, lo riconosco… perdonami, e scegli tu”, continuò a dirmi,
notando il mio imbarazzo. Era così dolce, così umilmente inginocchiato davanti
a me, che mi era impossibile continuare a detestarlo come avevo fatto fino a
qualche minuto prima.
“Per favore, ora alzati”, gli ordinai flebilmente,
tendendogli la mano che poco prima mi aveva sfiorato galantemente baciato, per
afferrare la sua e aiutarlo a rialzarsi. Piergiorgio accettò con vigore il mio
inutile aiuto, e strinse forte la mia mano nella sua.
“Allora?”, mi chiese, non appena si fu rialzato, e dopo
avermi concesso qualche attimo di riflessione.
Non potevo vedere nitidamente il suo viso, nascosto dalla
profondità del buio, ma scorgevo i suoi occhi brillanti, e pieni di forza di
volontà. Erano occhi magnetici, resistenti come l’acciaio. Ed io cercavo di
evitare il suo volto, e provavo a non guardarlo e a tenere la testa bassa, per
non mostrargli quel paio di lacrime che, dapprima spinte dalla rabbia e
dall’impotenza, avevano fatto capolino sulle mie guance, per poi scendere lungo
di esse, ma perché spinte dalla successiva commozione.
“Accetto l’invito”, gli dissi, alla fine. Non gliela feci
pesare, non ci riuscii. In realtà, ero un po’ in balìa sua, non sapevo bene
come destreggiarmi in quella galanteria che mi era estranea, eppure che
percepivo così tanto affascinante e travolgente.
‘’Grazie. Grazie’’, mi ripeté, e poi, senza lasciarmi la
mano, m’indirizzò verso il locale, che aveva solo l’ingresso ben illuminato.
Fui io a sciogliere la stretta; ecco, nuovamente, il tarlo
del dubbio che cominciava a rodermi. Non sapevo se quello che stavo facendo era
eticamente giusto, non sapevo nulla, così come non sapevo nulla dell’uomo che
avevo di fronte a me.
Piergiorgio accettò senza fare una piega quella cessazione di
contatto fisico tra noi.
Entrammo, ed io non ero proprio sicura della mia scelta;
forse non riuscivo a capire per bene il problema di fondo che mi angustiava.
“Buonasera, Piergiorgio! Come stai? Che bello averti qui!
Ogni tanto la fai una visita a un vecchio amico, eh!”, esordì subito un ometto
tutto tirato e incravattato, che ci accolse ad una sorta di piccola reception,
proprio ad un paio di metri dall’ingresso, e balzando subito incontro al mio
accompagnatore.
Mi tornò alla mente la prima volta che avevo incontrato
Piergiorgio, quand’egli aveva interagito per la prima volta di fronte a me con
la signora Virginia, e riconobbi che le reazioni di entrambi i proprietari dei
locali erano state molto simili, se non identiche. Io avevo sempre pensato che
la mia datrice di lavoro fosse cotta di lui, ma forse mi sbagliavo, notando lo
slancio con cui lo sconosciuto si avvicinò al medico e gli diede due belle
pacche amichevoli sulle spalle.
La verità era che Piergiorgio sapeva essere il Sole, e tutto
il resto che lo circondava diventava il sistema solare, quando era presente.
“Vincenzo, sei sempre il solito! Quanto entusiasmo, non mi
hai lasciato neppure il tempo per salutarti per bene”, disse amichevolmente il
dottore, non appena l’entusiasmo iniziale dell’altro signore cominciò a
scemare.
“Per me è un piacere averti qui, carissimo! Vorrai senz’altro
cenare, giusto?”.
“Sicuro. Ma solo se hai posti liberi”, si raccomandò
giustamente Piergiorgio.
“Guarda, qui gli affari languono. Mi duole dirlo, ma sarò
preso costretto a chiudere i battenti, se continua così”, disse l’uomo che ci
aveva accolto, sconsolato, “nessuno si ferma più, e il turismo si è evoluto.
Andiamo avanti solo con qualche sporadico cliente che si ferma per i pasti
principali, ma delle stanze, ad esempio, non ne diamo quasi più via”.
“Peccato, mio caro amico. Spero che le cose possano andare
meglio al più presto”.
“Lo spero anch’io, ma realtà e speranze molto spesso non
coincidono, nella vita”, proseguì il signore, “ma se posso permettermi, chi è
questa bella ragazza che hai con te?”.
Gli occhi di Vincenzo, colui che doveva essere il proprietario
di quell’ambientino che aveva molto familiare, piccino e modesto, per la prima
volta sostarono su di me, come se mi avessero notato solo in quell’istante.
Cercai di evitare anche il suo sguardo. Avevo ancora il viso
segnato dal subbuglio di sentimenti che avevo vissuto poco prima, e non volevo
che nessuno potesse percepire di me una schermata che non era propriamente mia.
“Dopo te la presento, vecchio mio, ma prima saresti così
gentile da indicarci il bagno? Siamo appena tornati da Villa Silvia e vorremmo
sciacquarci le mani”, cambiò improvvisamente discorso il mio accompagnatore,
con abilità.
“Certo. Proseguite per il corridoio e noterete le porte alla
vostra sinistra, anche se credevo sapessi già dove fossero”, sbottò il signore,
sempre gentilmente, ma un po’ guastato dalla sua curiosità che non gli era
stata soddisfatta.
“Grazie. Lo so, ma sai, il tempo passa e la memoria non è più
quella che avevo qualche anno fa”, si scusò in maniera simpatica Piergiorgio,
per poi incamminarsi verso i bagni, con me al seguito.
Ero cosciente di aver assolutamente bisogno di un bagno;
quello era quasi un mio bisogno primario. Avevo il viso che ancora lasciava
trasparire l’emotività di poco prima, e volevo come controllare che il paio di
lacrime che avevo inconsciamente versato non avessero lasciato tracce su di me.
Perché mi avrebbe donato imbarazzo, sapere che qualcuno, qualche sconosciuto,
avesse potuto notare tutto ciò.
Solo a Piergiorgio era stato concesso di scorgere i segni che
aveva lasciato su di me, e per quello doveva aver chiesto immediatamente di
andare al bagno. L’aveva fatto per me, e non a caso.
Infatti, non appena giungemmo davanti alle rispettive porte dei
bagni, destinate ciascuna a un preciso sesso, mi sfiorò piano un gomito. Ero
certa che avesse capito e che sapesse tutto, anche come mi sentivo in quel
preciso momento.
Entrai nel bagno e subito mi gettai, quasi come una
comunissima adolescente, davanti al grande specchio che troneggiava sui due
lavandini, per scoprire che era tutto a posto sul mio viso, anche se avrei
dovuto sostituire il broncio con un bel sorriso, per renderlo perfetto e in
apparenza parecchio rilassato.
Uscii di nuovo, e il mio accompagnatore non lo trovai, quindi
immaginando che fosse ancora occupato, mi diressi verso il cortese signore che
ancora ci attendeva, solo soletto, in quella che doveva fungere da reception,
ma che sembrava un vero deserto.
“E’ con Piergiorgio, giusto? Cenerete assieme?”, mi chiese,
non appena mi vide giungere verso di lui.
“Sì”, mi limitai a confermare, senza aggiungere altro. L’uomo
mi ammiccò.
“Mi segua, ho giusto un tavolo per due con tanto di vista sul
giardino… anche se col buio, non si vedrà molto. Se volete, posso accendere i
lampioncini”.
“Non si preoccupi”.
Feci appena in tempo ad avvistare il tavolo a cui stavo
venendo scortata, che anche Piergiorgio giunse di gran carriera, trotterellando
e un po’ in affanno. Vincenzo, udendo i suoi passi frettolosi, si volse un
attimo verso di lui ed abbozzò un sorriso.
“Stai tranquillo, George! Non faccio nulla alla tua amica…
puoi rilassarti, la sto solo accompagnando al vostro tavolo”, disse poi, sempre
in maniera simpatica, ma scatenando una strana reazione nel medico, che gli
rivolse un’occhiataccia e non disse nulla.
Anche a me non stette bene quella mezza battuta, e tacqui.
“Perfetto, accomodatevi pure. Tra poco verremo a prendere le
ordinazioni”, si congedò poi il proprietario, un po’ in imbarazzo, dopo aver
notato che non avevamo gradito il suo intervento, tornando subito sui suoi
passi, a dovuta distanza dall’angolo appartato che ci era stato riservato.
Piergiorgio avanzò in fretta verso di me, e con un movimento
deciso, scansò la sedia e mi fece spazio per sedermi.
“Grazie”, ringraziai, approfittandone ancora di quella sua
innata galanteria.
“Figurati”.
Si sedette poi di fronte a me, ed afferrò il menù.
“La chiamano anche George?”, gli chiesi, leggermente
divertita e cercando di passar sopra a tutto quello che avevo affrontato fino a
quel momento, siccome ormai c’ero dentro fino al collo, e forse anche oltre.
“A volte gli amici di vecchia data lo fanno”.
Si mise gli occhiali con un gesto lento e calibrato.
Ne approfittai, allo stesso tempo, per andare alla ricerca di
un altro menù, che però non appariva dalla mia parte. Ne avevamo uno singolo.
“Prima, comunque, mi hai dato del Tu”, disse dopo poco il mio
interlocutore, impegnato nella lettura.
“Davvero?”.
“Sì. Nel parcheggio, quando mi hai ordinato di alzarmi”.
“Era una situazione imbarazzante, volevo solo evitare che si
prolungasse. Diciamo che ho velocizzato le cose”.
“Quindi continuerai a rivolgerti a me con quel Lei
novecentesco e ottuso? Ormai non mi si rivolgono in questo modo neppure i
pazienti che visito per la prima volta”, volle aggiungere, mantenendo una
scenica indifferenza e continuando a leggere.
“Facciamo così. Io le do del Tu, siccome insiste, solo se mi
permette di chiamarla George”.
Piergiorgio, a quel punto, non resistette oltre e abbassò il
menù, rivolgendomi un sorrisetto furfantesco e divertito.
“Se proprio ci tieni”.
“Ci tengo. Mi piace come nome”, asserii, lasciandomi sfuggire
a mia volta un sorriso. Cominciavo a tranquillizzarmi solo in quel momento.
“Tieni, Isabella”, mi disse poi, passandomi il menù e non
smettendo di sorridere.
Lessi qualche istante, e fui subito decisa su cosa scegliere;
avrei optato per una cenetta leggerissima, e cioè qualcosa di molto rustico e
di locale, come un paio di bruschette abbrustolite con un contorno d’insalata
mista.
A prendere le ordinazioni, lesto, fu Vincenzo stesso, e in
effetti, facendoci caso, non notai altro personale in sala.
“Ditemi signori; avete deciso e scelto?”, ci chiese, molto
cortesemente, stringendo tra le mani l’apposito listino per le ordinazioni e
una bella biro blu.
“Per me un piatto di cappelletti in brodo, se possibile”,
disse Piergiorgio.
“Certo. Tutto qui?”, domandò speranzoso il proprietario del
locale.
“Un caffè, se me lo puoi aggiungere. E nient’altro, per
quanto mi riguarda”.
Il dottore passò la palla a me.
“Per me un’insalata mista, quella con un po’ di pane
abbrustolito come contorno. E un po’ d’acqua minerale naturale”, dissi, sicura.
“Siete entrambi a dieta?”, domandò scherzosamente Vincenzo.
“Non fare dell’ironia anche questa volta, vecchio mio. Si tratta
di una cena, non di un pranzo organizzato per una festa di compleanno! La sera
bisogna star leggeri e mangiare poco”, volle saggiamente dire il dottore, in
maniera esaustiva.
“Ah, capisco. Se lo dici te, che sei un medico, mi fido.
Però, mi manderete al fallimento, impegnando così poco le ragazze in cucina e scegliendo
pietanze così umili”, punzecchiò di nuovo il signore, ancora in piedi a fianco
del nostro tavolo.
“Ah, tanto non è che faccia tanta differenza, sai…”, aggiunse
platealmente Piergiorgio, poi indicando con la mano la vasta sala deserta.
Trattenni il respiro; va bene che i due scherzavano tra di
loro, e pareva che fossero in ottimi rapporti, ma quella volta aveva davvero
esagerato, non solo a parole, ma anche a gesti. Per fortuna, Vincenzo parve non
prendersela.
“Te l’ho detto, qui siamo ad un punto di non ritorno. Non si
ferma più nessuno, o quasi… abbiamo aperto da poco, questa sera, è c’è caso che
tra una mezzoretta, o giù di lì, qualche altro cliente si fermi. Ma la baracca
va male. Pensa che non abbiamo neppure una stanza affittata, e andiamo avanti
con la clientela sporadica”, disse l’uomo, quella volta con serietà.
Piergiorgio non infierì e si raddolcì un po’.
“Mi dispiace. Spero che possa andare meglio, a breve”.
“Non mi hai ancora presentato questa fortunata signorina”,
volle però tornare alla carica Vincenzo, ritrovando il sorriso e rivolgendomi
uno sguardo penetrante, che preferii non sostenere con il mio.
“Una paziente”, tossicchiò il medico, di nuovo infastidito.
“Una paziente, eh?”.
“Sì”.
Un sì molto seccato.
“E’ così”, intervenni io, prima che la farsa avesse potuto
andare avanti. Sapevo a cosa stava mirando Vincenzo.
“Vincenzo, mio caro amico, non devi andare a fare il tuo
mestiere e a consegnare in cucina le nostre ordinazioni? Non vorrai mica
perdere i tuoi primi clienti di questa serata”, sogghignò Piergiorgio,
beffardo.
“Spero solo che un giorno tu possa riuscire a superare il
dolore che hai provato per anni, e sembra che quel giorno stia giungendo”,
disse il nostro anfitrione, a voce piuttosto bassa, e allungandosi per offrire
una pacca solidale sulla spalla dell’amico seduto, per poi tornare a fare il
suo mestiere e ad allontanarsi da noi.
Quelle parole mi giunsero alle orecchie come se fossero
qualcosa di profetico, ma allo stesso tempo allarmante; chi era davvero il
dottore che avevo di fronte, e quale era stato il dolore che stava ancora
affrontando? A me era sempre parso come una persona molto tranquilla e solare,
senza ombra di turbamento.
Avrei tanto voluto indagare di più, ma optai per il silenzio.
Le parole di Vincenzo non avevano fatto solo effetto su di me, ma anche sul mio
accompagnatore, che in effetti si chiuse in un mutismo teso e non proferì più
un vocabolo dalle sue labbra.
S’accese improvvisamente un televisore un po’ distante da noi,
e Piergiorgio finse di guardarlo con curiosità. Ero più che certa che stesse
davvero fingendo, siccome i suoi occhi erano spenti e velati, non pieni di
vitalità come lo erano di solito.
Preferii assecondare il suo silenzio. Solo quando venne la
cameriera a servirci le porzioni da poco ordinate tornò a parlare, quando
ringraziò, e poi basta, non disse più nulla.
Mangiò svogliatamente, alla fine, e io con lui, senza mai
distogliergli lo sguardo di dosso, quando il medico non poteva notare che lo
osservavo. Mi sembrava uno scrigno, un forziere pieno di cose da scoprire, ma
che probabilmente non sarei stata io a sfiorare, e poi, successivamente, a
forzare.
Solo a cena conclusa, quando Vincenzo in persona venne al nostro
cospetto per sparecchiare, e a servire il caffè a Piergiorgio e un sorbetto al
limone per me, il mio accompagnatore parve uscire dal suo guscio, dopo oltre
un’ora di silenzio molto strano e sospetto. Ma, per tornare di nuovo a
sbloccarsi, evidentemente era necessaria una delle tante battutine
punzecchianti del padrone di casa, che, naturalmente, non mancarono.
“Perdonatemi, non ho fatto accendere la candela. Se volete,
posso farlo ora”, ci disse, infatti, dopo averci consegnato le portate finali,
mentre ci metteva in mezzo al nostro tavolino una romanticissima candelina
rossa, e tirava fuori dalla sua giacca un accendino. Bastarono però le due
occhiatacce che gli lanciammo per lasciarlo interdetto e farlo smettere di
darci amichevolmente fastidio, così tornò a volatilizzarsi come se nulla fosse
successo.
Tra noi due però qualcosa si sciolse, e incrociai più volte
il suo sguardo un po’ imbarazzato. Non sapevo cosa pensare, come frequentemente
mi capitava quando riflettevo su quell’uomo, che non ero ancora riuscita a
capire.
Il muro di silenzio che si era erto tra noi fu destinato a
crollare definitivamente da lì a qualche minuto, quando ci accingemmo ad
andarcene. Erano già le ventidue, non vedevo l’ora di tornare a casa.
“Vado a pagare, tu se vuoi puoi andare già in macchina. Tieni
le chiavi”, mi disse Piergiorgio, abbandonando sul tavolo la sua tazzina ormai
vuota e cominciando a frugarsi nelle tasche dei pantaloni.
“No, non è giusto. Ci tengo a pagare la mia parte”, gli
dissi, quella volta risoluta e imperterrita.
Era stata una seratina tra alti e bassi, altalenante, che mi
aveva lasciato, in fondo, un po’ delusa, e non volevo accumulare altri debiti
con quel tizio. Mi sentii di nuovo fredda nei suoi confronti.
“Ho detto che pago io. Se sei venuta qui dentro, è perché ho
insistito ed ho esagerato; ora, almeno, lascia che ripaghi in parte e
materialmente il danno che ti ho causato”, disse il medico, altrettanto
inflessibile. Nella sua voce non c’era più alcuna nota di divertimento, e il
suo viso era di una serietà che non avevo mai scrutato in lui.
A quel punto, alzai le spalle con indifferenza e mi diressi
verso l’uscita, non accettando però le chiavi della macchina.
Salutai Vincenzo con un cenno e un sorriso fugace e
difficoltoso, e mi volatilizzai all’aperto, dove i grilli cantavano la loro
serenata e faceva ancora piuttosto caldo. Era ormai sera inoltrata e nessuno, a
parte noi, si era fermato in quel locale, ed immaginavo che ben presto avrebbe
veramente chiuso i battenti.
Fui improvvisamente avvicinata da un ragazzo indiano, che non
avevo scorto, nella penombra; un venditore di rose.
“Vuoi una, amica?”, mi disse, sorridendomi ed avvicinandosi
ancora di più.
Stavo già per declinare l’invito, quando un odore pungente
cominciò a stuzzicare, all’improvviso, le mie narici, e riconobbi il medesimo
profumo delle rose che mi erano state spedite il giorno prima.
Mi tornò improvvisamente il buonumore.
“Posso?”, chiesi al ragazzo, avvicinando il mio naso al
mazzo.
“Sì”, acconsentì, felice che qualcuno s’importasse della sua
mercanzia.
Non ebbi problemi a notare la magnifica rosa bianca, che
spiccava in modo signorile tra le sue sorelle di colore rosso, e l’avvicinai al
naso, inspirando avidamente quel profumo che sapeva di casa… ma, soprattutto,
di dolce mistero. Era durante i momenti di sconforto, come quello che stavo
vivendo, che io mi lasciavo andare ai pensieri più futili, sperando che a
qualcuno, in fondo, importasse qualcosa di me, poiché mi sentivo tanto sola, in
balìa della mia tempesta privata e personale.
Mi lasciai quindi cullare per qualche attimo da quel turbinio
di inattese sensazioni.
“Ti piacciono le rose?”.
La voce di Piergiorgio, che nel frattempo, dopo aver pagato
il conto, doveva avermi raggiunto alle spalle, interruppe il mio fragile
istante di estraneazione dalla realtà.
Mi ritrassi dal mazzo.
“In verità no, almeno fino a ieri. Poi, ieri sera mi sono
giunte delle rose profumatissime… e devo ammettere che il loro odore mi è proprio
rimasto nel cuore”, riuscii a dire, un po’ in imbarazzo per essermi lasciata
cogliere da lui mentre ero immersa in quell’atteggiamento che avevo ritenuto
molto intimo, troppo per essere notato da un grande osservatore come quel
medico.
“Capisco”, sussurrò Piergiorgio, ancora un po’ freddo.
“Prendi una, se vuoi. Costa poco”, cominciò a insistere il
ragazzo indiano, temendo che non prendessi niente, alla fine.
“Dammi la bianca, per favore”, affermai, andando alla ricerca
del mio portamonete. D’altronde, avevo annusato per una manciata di minuti, e
acquistare qualcosa era il minimo che potevo fare.
“Le prendiamo tutte. Quanto vuoi?”, irruppe Piergiorgio,
risoluto.
Interruppi la mia ricerca e lo fulminai con lo sguardo, ma
lui non mi badò minimamente.
Il giovane, senza parole, farfugliò per qualche istante prima
di riuscire a spiccicare una frase comprensibile.
“Sono diciotto, senza spine. Fresche, raccolte da poco. Se
prendi tutte, quaranta euro”, disse, infine, col suo italiano difficoltoso.
“Per favore, non ce n’è bisogno”, mi rivolsi a Piergiorgio,
ma quest’ultimo non mi ascoltava più. Estrasse dal portafogli di pelle, che
aveva ancora in mano, due banconote da venti euro e le consegnò al ragazzo, che
ancora incredulo fece per passargli il mazzo intero.
“Consegnalo alla signorina, per piacere”.
Accolsi tra le mie braccia quel bel mazzo di fiori recisi,
sentendomi sempre più in colpa e a disagio, ormai senza neppure più saperne il
preciso motivo, essendo ancora più confusa.
Poi, il mio accompagnatore mi volse le spalle e s’incamminò
verso la macchina. Lo seguii, con difficoltà, ma avvolta da un profumino
gradevolissimo.
“Ripeto che non ce n’era bisogno”, ribadii, mentre salivo in
auto e appoggiavo il mazzo tra le mie ginocchia.
Nessuna risposta da parte di Piergiorgio.
Non riuscii a dire più nulla per tutto il viaggio, mentre
sembrava che il medico fosse sul punto di scoppiare a piangere da un momento
all’altro, molto commosso, oppure molto innervosito e frustrato, ma io non
potevo saperlo con certezza, e non lo seguivo più. Anche lui doveva essere
molto confuso, a giudicare dal suo silenzio repentino e duraturo.
E così, restammo in silenzio per tutto il restante breve
viaggio di ritorno.
Quando giunsi finalmente a casa, e Piergiorgio rallentò ed
accostò il suo fuoristrada al marciapiede, non tentennai oltre, non vedendo
l’ora di poter scendere da quell’auto.
“Grazie di tutto”, dissi al guidatore, e senza neanche
guardarlo o attendere una sua ipotetica risposta, me ne andai sbattendo lo
sportello dietro di me, seppur involontariamente. Non capivo più nulla, non
stavo bene mentalmente, ed ero molto provata. L’unica cosa che poteva giovarmi
era un po’ di riposo.
Strinsi a me il mio mazzo di fiori, estraendo poi con la mano
libera le chiavi di casa dalla borsa, ed affrettandomi ad aprire la porta
d’ingresso. Ero sola e non ero abituata a questo genere di situazioni, e quindi
questo fece solo peggiorare la mia sensazione d’abbandono e di confusione.
Non feci caso se Piergiorgio se ne stesse andando o altro;
per me, in quel preciso istante, non c’era altra prerogativa che rintanarmi in
casa, in quel luogo ormai semivuoto, ma confortante.
“Isabella!”.
Il mio accompagnatore, infatti, non se n’era andato, e sentii
che mi chiamava, a distanza, ma poi disse di nuovo il mio nome e me lo ritrovai
a fianco, ansante, mentre mi prendeva dolcemente la mano che stava per far
girare la chiave nella porta d’ingresso.
Solo in quel momento riuscii a guardarlo, e mi apparve, alla
luce della luna, un uomo completamente stravolto, di sicuro confuso come lo ero
anch’io.
“Perdonami, perdonami, sono stato un gran coglione”, mi
disse, e continuò a ripetermi, non lasciandomi la mano.
“Perché mai dici così? E, per favore, lasciami la mano, mi
fai male”, gli mentii, solo per liberarmi dalla sua tenue stretta che
m’impediva l’accesso alla casa.
“Mi sono lasciato andare. Ecco, io mi rendo conto che tu di
me non sai nulla… questo è come una barriera, che ci separa”.
“Non capisco”, riuscii a dire.
“Mi sono tornate in mente tante cose, sono un po’ confuso.
Devi perdonarmi. Mi sono comportato in modo indegno e scortese nei tuoi
confronti, quando non te lo meritavi, e mi vergogno da morire”, aggiunse,
realmente mortificato.
Gli donai un sorriso, riuscendo poi finalmente a liberare la
mano destra dalla sua stretta leggera ma tenace.
“Allora può stare tranquillo, perché non è successo niente e
non me la sono presa”.
“Sei tornata di nuovo a darmi del Lei?”, mi fece notare.
“Mi dispiace. Questione di abitudine”.
Scrollai le spalle, in segno d’impotenza e di resa. Poi, feci
scattare la serratura e aprii finalmente la porta di casa.
Notando che continuava a guardarmi, come inebetito, senza riuscire
a dire altro, non riuscii a starmene zitta, come mio solito.
“Vuoi venire un attimo in casa?”.
“No, no… anzi, va bene”, accettò, cambiando idea in modo
repentino e sorridendomi di nuovo.
Accesi le luci e gli lasciai il passo, per poi richiudere la
porta dietro le mie spalle. Subito, il profumo delle rose che mi erano state
mandate la sera prima c’investì con tutta la sua potenza, e dovetti riconoscere
che quelle rosse che Piergiorgio mi aveva regalato non erano neppure un minimo
splendide come quelle che avevo ricevuto dallo sconosciuto.
“Che bel profumino, vero?”, ammiccò subito l’uomo, annusando
l’aria.
“Sì”, annuii.
“Peccato che quelle che ti ho regalato questa sera non siano
della medesima varietà di quelle che hai già ricevuto”.
“Va bene lo stesso, staranno in acqua tutte quante assieme.
Prego, accomodati”, lo invitai in cucina.
“No, me ne vado, come sai tra qualche ora comincia il mio
turno, e sono un po’ di fretta. Solo che non potevo non accettare il tuo
invito, ero curioso anche di scoprire se avevi conservato a dovere quelle rose
bianche”, mi disse, disinvolto.
“Ne sai troppa a riguardo di questa faccenda. Come fai a
sapere tutte queste cose?”, gli chiesi, a quel punto logicamente incuriosita.
“Me lo hai raccontato tu prima, in macchina”, provò a
giustificarsi, ma in affanno. Non ricordavo però di avergliene parlato, ma
stetti al gioco, stanca e provata com’ero.
“Non me la stai raccontando giusta”, borbottai, incrociando
le braccia al petto e guardandolo intensamente.
“Me le faresti vedere un attimo, per favore?”, mi chiese.
“Certo”.
Gli feci strada fino al mazzo, appoggiando quello che avevo
ancora tra le mani sul mobiletto che sosteneva il vaso pieno d’acqua.
“Bellissime. E poi si sono mantenute molto bene. Le hai
trattate con amore, sai? Anche se sono fiori recisi, hai saputo donar loro
tanta attenzione, e loro ti ricompenseranno ancora per giorni con la loro
magica presenza profumata”, affermò, osservando attentamente le rose e
sfiorandone una con la punta delle dita.
“Te ne intendi di fiori, vedo”, riuscii a dire, a mia volta,
sempre curiosa e, allo stesso tempo, perplessa. Non capivo perché gli stessero
interessando così tanto quei fiori ricevuti da chissà chi… magari, uno che si
era pure sbagliato, mi piaceva pensare, anche se in realtà non ci poteva essere
alcun margine d’errore per quanto riguardava la destinataria.
“Un po’. E, dimmi… c’era altro con i fiori? Ad accompagnarli,
intendo. Non credo siano giunti fin qui senza neppure un fogliettino”.
“Questo. Guarda, è una vera opera d’arte”, potei affermare,
mostrandogli poi il fogliettino in cui c’era disegnato il mio nome. Piergiorgio
sorrise di nuovo.
“Hai gradito anche quello. Bene”.
“Ma… io adesso proprio non capisco. Perché ti stai interessando
così tanto alla faccenda?”, gli chiesi, a quel punto, in modo diretto. Non
riuscivo più a trattenermi.
“Beh, volevo solo aiutarti a scoprire chi te le ha mandate…”,
rispose il medico, con un tono di voce un pizzico ironico.
“Ah, sì? E hai scoperto qualcosa, poi?”.
“Sì, certo”.
Lo fissai di nuovo.
Mi aveva spiazzato, con quel sì sicuro. Non veci in tempo a
provare a sollecitarlo a parlare, che mi accontentò da sé.
“Ho scoperto che il mio regalo anonimo è stato gradito, e
penso che non ci potesse essere una più bella sorpresa, per me, di questa”,
aggiunse, sempre rivolgendomi un sorriso molto bonario.
“Co… cosa? Quindi… sei stato tu. Me le hai mandate da Rimini”,
giunsi traballante alle conclusioni.
“Proprio così. Grazie per averle trattate bene. Sai, mi
aspettavo che tu rispettassi il dono, perché sei una ragazza speciale. Le altre
della tua età, abituate a cellulari, vestiti e borse firmate, queste rose le
avrebbero cestinate subito, ma mi hai davvero dimostrato quanto vali. Grazie”, e
così dicendo, mi abbracciò piano, e lo lasciai fare.
Ero così stupita! Alla fine, però, ogni nodo era venuto al
pettine. Piergiorgio doveva essersi segnato il mio indirizzo quel giorno in cui
mi aveva portato a casa per la prima volta col suo fuoristrada, e doveva averne
approfittato al primo momento opportuno.
“Grazie a te”, sussurrai, sciogliendomi e appoggiandogli le
mani sulla schiena.
Era più basso di me, e mentre eravamo così ravvicinati potevo
anche percepire l’odore dei suoi capelli, del suo volto… lo sapevo che non era
moralmente corretto lasciarsi andare con uno sconosciuto, senza contare poi la
differenza d’età, ma non potevo far di meno che lasciarmi andare con lui. Fu
proprio il medico a sciogliere il lungo e delicato abbraccio.
“Ancora scusa, per come mi sono comportato al ristorante e
durante il viaggio verso casa. Mi sono lasciato andare ai ricordi, e magari…
magari un giorno te ne parlerò. Ma, adesso, devo proprio scappare, sperando di
essere perdonabile”, mi disse, guardando il suo orologio da polso, che aveva
nascosto sotto le lunghe maniche della camicia sottile che indossava.
“La tua era quindi solo una visita di verifica?”, gli dissi,
sorridendogli apertamente, e facendogli capire che era già tutta acqua passata.
“In un certo senso…”. E s’incamminò da sé verso la porta
d’ingresso.
Lo seguii, ma non riuscii a superarlo; Piergiorgio si stava
muovendo in modo molto rapido, ed imbarazzato.
Solo quando gli aprii la porta riuscii a scorgere il suo
volto, e i suoi occhi umidi dalla commozione. Mi si strinse il cuore.
Anche io mi ero molto commossa per le recentissime e fresche
scoperte.
“Ti auguro una buona notte”, mi disse poi, uscendo al buio, e
fu solo in quel momento che non riuscii ad accettare che quella serata finisse
in quel modo. Un modo che lasciava un po’ l’amaro in bocca.
Mi sentivo molto in debito con Piergiorgio, e non solo per i
soldi che aveva speso per me, anche se non gli avevo chiesto di farlo, ma anche
per tutte le emozioni che era riuscito a trasmettermi. Non avevo mai vissuto
un’esperienza del genere, durante il corso della mia breve vita. Marco non era
mai stato romantico, e non avevo mai interagito in modo complesso con altri
ragazzi o uomini, prima e dopo di lui.
“George?”, lo chiamai con quel nomignolo simpatico, come gli
avevo promesso, facendogli quindi voltare il capo quando già si allontanava da
me.
“Dimmi”, si soffermò, volgendosi lentamente.
Gli andai incontro, e mi chinai di qualche centimetro il
volto, per dargli un bacio cordiale sulla guancia. Lui mi sorrideva ancora, con
quel sorriso bonario che tanto gradivo.
Appoggiai improvvisamente le mie labbra sulla sua guancia
sinistra molto ispida, e non seppi mai se il medico avesse compreso le mie
reali intenzioni, anche perché lui si mosse poi istintivamente, e ci ritrovammo
faccia contro faccia, e le mie stesse labbra finirono per baciare le sue.
Prima le sfiorarono per errore, poi, invece di ritrarmi
subito, lasciai che esse si appoggiassero su quelle dell’uomo che avevo di
fronte.
Quando capii di averlo baciato, seppur molto castamente, mi
allontanai; ero consapevole di essermi lasciata andare davvero troppo. Non lo
guardai, e con le guance in fiamme, gli diedi le spalle e salii i tre gradini
che mi separavano dall’interno della mia dimora di corsa, senza riuscire a dire
nulla.
Chiusi la porta, sbattendola, e mi lasciai
scivolare in lacrime e piena di vergogna lungo il legno dell’uscio appena
chiuso, in totale confusione e senza sapere più cosa pensare, come durante
quell’intera e lunghissima serata. Mi accompagnava solo col bisogno di
piangere, per sfogarmi. Di piangere, anche per la felicità; anche se non lo
volevo, e non sapevo neppure perché avessi baciato in quel modo Piergiorgio, il
quale temevo che avesse già una sua famiglia… ma lui mi aveva così
suggestionato e coinvolto che non avevo saputo resistere. Era stato un vero
ammaliatore.
Mentre mi struggevo, udii il rumore dell’auto del medico che
si allontanava, andandosene da quel vicolo di campagna quasi disabitato.
NOTA DELL’AUTORE
Un capitolo complicato, non solo per ciò che è accaduto.
Spero comunque che vi abbia piacevolmente intrattenuto ^^
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Capitolo 14 *** Capitolo quattordici ***
Capitolo quattordici
CAPITOLO QUATTORDICI
Dopo quel bacio, tra me e Piergiorgio calò un pesante sipario
di silenzio.
Non solo c’eravamo dati entrambi alla fuga, dopo aver
favorito quel fugace incontro tra le nostre rispettive labbra, ma stavamo
attenti a non rivederci. O, almeno, da parte mia era così.
C’era un luogo dove non avrei potuto evitarlo, e cioè il mio
posto di lavoro, ma lui non venne per diversi giorni, togliendomi il peso di
dover tornare a guardarlo negli occhi.
In realtà, ci stavo tanto male lo stesso, siccome mi pareva
di aver fatto un’azione stupida e pericolosa. Mi chiedevo cosa avessi fatto e
quali sarebbero state le ripercussioni del mio gesto insensato… e non sapevo
cosa rispondermi. Pensavo che Piergiorgio avesse una famiglia, o almeno un
passato con cui fare i conti, da quel che avevo sentito dal suo amico della
pensione, e credevo che la mia azione gli avesse solo complicato ulteriormente
la vita.
Ma che ci potevo fare? Per me era stato così travolgente che
non ero riuscita a trattenermi. E poi, lui stesso aveva favorito il bacio, non
stando fermo e spostando, forse appositamente, il suo viso.
Era vero che non aveva fatto i salti di gioia quando le
nostre labbra si erano castamente incontrate, ma non si era neppure ritratto
disgustato.
Solo dopo qualche ora compresi che la sua reazione era stata
la più completa neutralità, e non sapevo spiegarmene il motivo. Forse l’avevo
solo colto di sorpresa. Se avessi atteso qualche attimo in più, invece di
darmela a gambe come una pazza, magari avrei potuto constatare la sua reazione…
ma la sua reazione a cosa, poi? Non ero convinta di essere attratta da lui.
C’erano troppi aspetti che ci distanziavano l’un l’altra, e viceversa.
Ritenevo, a quel punto, di essere ancora confusa, e preferivo
non pensarci, sperando di non rivederlo per un po’, in modo di avere un po’ di
tempo a disposizione per chiarirmi le idee e capire come dovevo comportarmi con
lui. E, soprattutto, se gli dovevo delle scuse per il mio atteggiamento
esagerato.
Il resto era tutta acqua passata.
Andai a riprendere mia madre tre giorni dopo la sera del
bacio.
All’inizio ero in ansia; egoisticamente, non tanto per lei,
ma per me, siccome temevo di rincontrare Piergiorgio, cosa che non accadde.
Una sua cortese collega dimise la mamma, ed io la riportai a
casa senza problemi. Notai solo una cosa; che lei era cambiata.
Mamma non era più la stessa signora che era prima di sentirsi
male, in quella sfortunata notte di cinque giorni prima. In auto non mi parlò,
anche se le feci delle domande tutte le mie parole s’infransero contro un muro
di svogliato e demotivato silenzio.
Non capivo cosa avesse, d’altronde tutto il comparto medico
mi aveva assicurato che era tutto a posto. Decisi di lasciarla stare, per un
po’.
Una volta tornata a casa, non fece altro che andare a letto,
di nuovo, ed io la lasciai scegliere, mentre ero sempre più preoccupata. Mi
venne l’istinto di chiamare Piergiorgio e di chiedergli consiglio; il suo
numero di cellulare l’avevo ancora nella mia borsa, e pareva un’attrazione
allettante per le mie mani.
Non cedetti e proseguii nel mio silenzio. A quel punto
neppure io avevo più nulla da dire.
Mia madre non si alzò prima che fosse sera inoltrata, ed io
le avevo già preparato un’adeguata cenetta leggera, sperando fosse di suo
gradimento.
“C’è qualcosa che non va, mamma?”, la interloquii
prontamente, non appena varcò la soglia della cucina. Era tutta trasandata e in
disordine, e non si era neppure cambiata la maglietta che aveva indossato
quand’era dentro alla struttura ospedaliera.
“No, è tutto a posto, bambina mia. Non preccuparti”, mi
rispose, parlandomi per la prima volta dopo giorni, poi subito sospirando
stancamente.
“Ti ho preparato qualcosa”, le dissi, con fierezza,
mostrandole la cenetta, con un purè di patate molto appetitoso, che per
prepararlo avevo dato fondo a tutte le mie scarse doti culinarie. Per la mamma,
questo e tanto altro.
“Grazie, davvero. Non dovevi preoccuparti, ti ripeto, tanto
non ho molta fame”. E con svogliatezza si mise a mangiare, giocando col cibo e
preparando minuscoli bocconcini, prima di metterli in bocca e di masticarli per
periodi di tempo inverosimilmente lunghi.
“Non devi ringraziarmi, anche tu l’avresti fatto per me”, le
dissi, cominciando poi a mangiucchiare anch’io, per non farla sentire sola, “anzi,
mi correggo, perché tu l’hai già fatto tante volte per me”.
Lei scrollò le spalle e continuò a mangiare.
Mangiò assoluto e completo silenzio, logicamente; ormai
sembrava sempre più chiaro che qualcosa non andasse… ma cosa, poi, di preciso?
Non lo sapevo, mi turbavo e mi davo tormento. Per mia fortuna, parve che la
serata da lì a poco fosse pronta a cambiar volto.
Infatti, trillò il campanello, all’improvviso, non appena mia
madre aveva appena finito di sbocconcellare il suo cibo, mentre pure io non mi
ero concentrata sulla cena e non avevo fatto altro che riflettere e fissarla.
Non attendevamo alcuna visita, quindi l’evento mi colse un
po’ impreparata; mi spaventava, pure. Temevo che al di là della porta ci fosse
Piergiorgio, giunto con la sua solita galanteria ad assicurarsi che stesse
andando tutto bene.
Era un’azione che da lui me la sarei potuta aspettare, e che
in qualche modo mi risultava insidiosa, siccome avrebbe potuto prendermi in
contropiede e ancora impreparata ad incontrarlo di nuovo. Ma quando dopo
qualche tentennamento aprii la porta di casa, trovai Irene che mi fissava
dolcemente. Non attesi un secondo di più, e accorsi ad abbracciarla, senza
lasciarle dire nulla.
“Ire, che piacere!”, le dissi, dopo averla accolta come solo
con un’amica mi sarei azzardata di fare.
“Te l’avevo detto, che sarei venuta a farti visita a breve”,
mi disse infatti la ragazza, tutta sorridente.
“Hai fatto proprio bene, e poi capiti a fagiolo”, dissi
abbassando gradualmente la voce, per poi renderla quasi un sussurro, “mia madre
è appena tornata dall’ospedale, e non è proprio messa bene… o, almeno, secondo
i medici è tutto a posto, ma non parla, non fa dialogo e sembra molto
depressa”.
“Quand’è tornata?”.
“L’ho riportata a casa qualche ora fa”.
“Beh, è normale che sia un po’ smarrita, mettiti nei suoi
panni! Dopo tutto quello che ha dovuto sopportare in questi giorni… vedrai che
le passerà presto”, mi rassicurò Irene, a quel punto anche lei pensierosa.
“Certo, sarà sicuramente così, o almeno spero. Ma vieni pure
in casa, entra, sono convinta che anche lei sarà felice di rivederti”, la
invitai cortesemente, facendole spazio per entrare.
La condussi da mia madre, in cucina, ma con attenzione
richiusi la porta laterale del salotto; non volevo assolutamente che Irene
scorgesse le mie rose, poiché sapevo che l’avrebbe portata a conclusioni
sciocche e affrettate.
“Mamma, guarda chi è venuto a farci visita”, esordii
teatralmente, lasciando poi che la nostra sopite si affacciasse nella stanza e
potesse salutare, cortese come sempre. Irene era infatti molto gentile, molto
sorridente e cortese, e anche se poteva avere tutti i vizi e i difetti del
mondo, sotto quell’aspetto non aveva mai deluso nessuno.
“Buonasera”, salutò, con un gran sorrisone sulle labbra
brillanti di rossetto fresco.
“Irene, carissima! Che bella sorpresa”, trasalì mia madre, e
fui contenta di notare la sua reazione felice, visto che non ero riuscita a
scuoterla da quando era tornata alla sua dimora.
Le due si abbracciarono e si salutarono a dovere, e la mia
amica fece le solite domande di rito, che mantennero comunque acceso
l’incontro.
“In verità, comunque, sono venuta qui per portare un po’
fuori tua figlia. È da troppo tempo che non esce”, disse infine Irene, molto
informale e tranquilla, dopo aver dato fondo a tutto quello che poteva dire ad
una persona appena dimessa dall’ospedale.
Mia madre a quel punto si volse verso di me e mi guardò. Io
scossi la testa.
“Se vuoi che andiamo a divertirci un po’, questa non è la
sera giusta. Vorrei restare a casa…”.
“A casa a far cosa?! Esci un po’, Isa”, m’interruppe la
mamma, senza darmi il tempo per aggiungere qualche scusa al mio rifiuto.
Fu il mio turno di guardarla, sbigottita.
“Ma come… sei appena tornata a casa, dopo un piccolo
intervento, e vuoi che ti lasci subito sola?”, le chiesi, ancora un po’
stupita.
“Sicuro. Vai, per favore”, quasi mi liquidò, come quando mi
attaccava a Piergiorgio, quand’ancora era ricoverata.
“Ci divertiremo, non preoccuparti”, mi strizzò l’occhio la
mia amica, per poi prendermi a braccetto.
“Fate pure tardi, eh, ragazze. Non preoccupatevi per me, e
divertitevi; è proprio questa l’unica cosa che desidero per mia figlia”, buttò
su di nuovo mia madre, aumentando così il peso delle sue affermazioni e del suo
consenso.
La guardai con le palpebre dilatate, con fare piuttosto
innervosito, ma lei non ricambiò il mio sguardo, anzi, si alzò ed andò
placidamente a recuperare il telecomando del televisore. Ero su tutte le furie.
“Eh, tardi! Ma io domani devo andare a lavoro presto, devo
essere pronta a svegliarmi ben riposata”, ribattei, lasciandomi andare a
qualche attimo di stizza.
“E dai, su con la vita! Hai sentito tua madre? Devi svagarti
un po’, anche io ti vedo sempre seria, e questo non va bene. Non vogliamo che
tu strusci tutta la tua giovinezza tra le mura domestiche e quelle del posto di
lavoro. Andiamo!”, quasi mi canzonò Irene, e di nuovo, come durante la sera
prima, mi sentii presa come ostaggio, poiché la ragazza mi prese a braccetto, e
con insistenza da manuale mi spinse ad assecondarla, con tanto del muto
appoggio della mia mogia genitrice.
Alla fine, decisi di lasciarla fare, anche per metterla alla
prova e, allo stesso tempo, sfidare mia madre, che mi lasciava andare via in
quel modo frettoloso. E se poi Irene diceva che mi avrebbe fatto pure
divertire, tanto meglio così.
“Andiamo con la mia macchina”, mi disse poi la mia amica,
vedendomi finalmente accondiscendente, almeno un minimo, mentre uscivamo di
casa, “ti ho preparato una sorpresa”.
“Spero non sia di pessimo gusto”, trovai la forza di
ribattere, mentre con lena entravo nell’auto sportiva.
“Uh, e da quando io avrei un pessimo gusto?”.
Irene mise in moto l’auto e sfrecciò via, mentre ormai ero
sempre più consapevole che non avrei potuto fare altri passi indietro.
Qualunque sorpresa mi stesse attendendo, non potevo più sfuggirle.
“Ti dico solo che non è il momento giusto per le sciocchezze.
Hai visto com’è messa mia madre? E questo è il più terribile e pesante periodo
no della mia vita. Per favore, niente cavolate”, ripresi a ribadire, serissima,
che più seria di così non si poteva. Il tutto però cadde nella minimizzazione.
“Per carità, a volte parli come una vecchietta”.
“Forse sono vecchia dentro, o sono invecchiata
improvvisamente, questo non te lo so dire. Però mi piacerebbe sapere in cosa
consiste questa sorpresa…”.
Deglutii improvvisamente, mentre la guidatrice affrontava una
curva quasi su due ruote.
“Di solito, le sorprese non si svelano in anticipo”.
“Non ha importanza”.
“Hai ragione, sarà meglio che ti spieghi qualcosina”, disse
la mia amica, dopo aver riflettuto qualche istante, “perché non ti aspetta una
sorpresa come tante, ma un vero e proprio regalo che ho deciso di farti. Ci
tengo che tu, che vieni da un periodo così tanto difficile, possa usufruire di
queste possibilità che vorrei donarti con tutto il cuore”.
Sgranai gli occhi, sempre più perplessa.
“A cosa ti stai riferendo, di preciso?”.
La mia amica finse di sospirare, emettendo un po’ d’aria, poi
si volte all’improvviso verso di me e rise forte, con quella sua risata
cristallina e quasi da bambina.
“Un paio di giorni fa, alla lotteria del paese, ho vinto il
primo premio. Mi spiego; consiste in ben tre cene pagate per due persone presso
il ristorante più chic della nostra cittadina, il Mald’est. Chef francesi,
camerieri anche, et voilà, una cenetta romantica per una persona che conosco
bene e che ha proprio bisogno di un po’ di romanticismo”.
Mi ammiccò. Io scossi il capo, incredula.
“Ma cosa… cos’hai tramato?!”, sbottai, sul ciglio di perdere
la ragione.
“Non te la prendere mica! Ti ho solo organizzato tre cenette,
con tre bei ragazzi, per tre sere di fila, in uno dei ristoranti più d’alta
classe della zona, che tutti c’invidiano, e che attira gente da Rimini e da
tutt’Italia, e pure dall’estero. Dovresti ringraziarmi”.
Mi mancò il fiato; stavo letteralmente per morire.
“Io… non so quello che stai dicendo. Non voglio
approfondirlo. Ti prego, ora che mi hai fatto avere un mezzo spavento,
riportami a casa subito”, quasi le ordinai, ma lei mi donò un altro di quei
suoi sguardi divertiti.
“Sapevo che avresti reagito così! È un vero peccato, ma ormai
non puoi più tirarti indietro”.
“Ma… scusa! Che amica del cazzo sei?! Sempre se è vera questa
follia che mi hai raccontato, in pratica hai organizzato a mia insaputa questa
cosa…”.
“Questa sorpresa, direi”.
“No, è una gran stronzata, non è una sorpresa”, insistei,
arrabbiata come da tempo non lo ero.
“Sì che lo è. Ma ora sei reticente, e presto ti ricrederai.
Vedrai, ti divertirai come una pazza”.
“Alla follia. Sul serio. Vedi, sono già folle di rabbia!”,
quasi strillai.
“Ricomponiti, che tra poco un bel giovane ti attende”, tornò
ad ammiccarmi.
“Ma fottiti, tienitelo tu questo bel giovane! Che poi io
dovrei uscire con un perfetto sconosciuto scelto da te? E in base a quali
criteri, poi…”.
“In base ai miei. Ho buoni gusti, a riguardo di ragazzi e di
nostri coetanei. Ne ho scelto uno soft, per cominciare, un bel ragazzo molto
semplice, simile a te. Puoi scegliere poi, se vuoi, di rincontrarlo e di
frequentarlo”, aggiunse, “e apri gli occhi, Isa! Cazzo, se sei cieca! Io ti sto
solo offrendo su un piatto d’argento l’opportunità della tua vita, e cioè
quella di riscattarti da quello che Marco ti ha fatto! Quel gran pezzo di merda
adesso va in giro a tirarsela con una fighetta striminzita che sembra appena
tornata dall’Isola dei Famosi, vista l’abbronzatura, o dal Grande Fratello,
considerando quante arie si dà. Una roba da urlo e molto più giovane di te. Ora
tu potrai addirittura scegliere fra tre bei fusti, e tante pernacchie a quel
deficiente e alla sua pollastrella scema”.
Mi venne quasi da ridere, ero proprio travolta da quella
marea di concetti che mi stava snocciolando sotto al naso, e con grande
convinzione ed enfasi, la mia interlocutrice. Lei era sicura di aver fatto del
bene.
Irene era sempre stata una ragazza molto superficiale, e in
quel modo aveva affrontato la sua vita, facendo scelte spesso molto opinabili.
Quella doveva essere proprio una di quelle. Il problema era che ciò avveniva a
mio discapito.
Avevo capito che lei se l’era presa con Marco, e per mettere
in atto la sua vendetta, aveva deciso di rendermi più facile l’azione di
ripicca, in modo che entrambe, secondo un suo sghembo punto di vista, avremmo
avuto rifarci agli occhi di tutti, e ripagarlo con la sua stessa moneta, se
tutto sarebbe andato secondo i piani.
“Ti vedo ancora indecisa. Ma pensaci, Isa, pensaci un attimo!
D’altronde, cosa ti costa accettare questo mio regalo? A casa tua madre sta
meglio se non la opprimi con la tua presenza e le tue domande, e non hai più
nessuno ad aspettarti. Le cene sono già pagate, menù completo, e i ragazzi ce
li ho messi io, tra i miei conoscenti migliori e più prestanti, e tutti
naturalmente single e molto carini e simpatici. Sono dei gran lavoratori come
te e ci tengono ai valori della famiglia e del rispetto reciproco. Non hai
quindi nulla da perdere, ma se andrà bene, e sarà sicuramente così, potrai solo
guadagnarci”, insistette la mia amica, e a quel punto cedetti.
Non avevo tante alternative di fronte a me, ed eravamo
praticamente già giunte a destinazione.
Non volevo fare la figura della bambina o della disadattata,
quindi accettai, seppur a malincuore, la sfida.
“E sia”, dissi, con un sussurro.
“Evviva!”, esultò la guidatrice, e con due pedate
sull’acceleratore fu davanti al Mald’est.
“Il ragazzo dovrebbe essere già dentro che ti aspetta. Si
presenterà lui. Addosso ha una camicia a quadretti, scozzese e molto rustica,
non avrai problemi ad individuarlo, e questa…”, mi porse il biglietto della
vincita, “è la tua chiave per il paradiso”.
Mi sorrise, di nuovo.
Afferrai con controllata rabbia ciò che mi veniva posto, e
scesi dall’auto, per poi incamminarmi a passo sicuro verso il ristorante, che
distava da me solo pochi metri, ormai.
Il Mald’est era imponente, un ristorante davvero di alta
cucina, di cui tutti si chiedevano come mai un grande chef come Andrè Chambry
avesse scelto di costruirlo in un normalissimo borgo di pianura interna,
lontana dal turismo di massa e dalla movida. In realtà, nei loro cuori, tutti
sapevano che Andrè, il proprietario del locale di lusso, era tornato lì per un
voto fatto alla madre, prima che essa morisse.
Lui, figlio di un ricco francese e di una donna italiana, a
sua volta figlia di emigrati in fuga dalla miseria della nostra penisola, ed
originaria proprio della nostra cittadina, e il suo più grande desiderio era
sempre stato quello che uno dei suoi sei figli tornasse a seguire le orme della
famiglia, alla ricerca delle sue origini.
Andrè aveva accettato la sfida, e ormai sessantenne, non solo
era tornato alla ricerca delle tracce lasciate dai nonni e dalla mamma, portata
via da bambina dall’Italia, ma era riuscito a costruire qualcosa di grandioso.
Mald’est, il nome del locale, derivava dall’espressione mal d’est, che sua madre
utilizzava spesso quando pensava alla sua terra d’origine, e provava lo
struggente desiderio di tornare in quel Nord-Est d’Italia che aveva lasciato
per sempre, avendo poi sposato un francese e avendo scelto di condividere la
vita con lui oltralpe.
O, almeno, tutto questo era quello che ero riuscita a leggere
sulle riviste locali.
Ebbene, io mi accingevo a entrare in quel posto che mi
sarebbe stato, in altre situazioni, precluso, e ormai un po’ di curiosità aveva
preso il sopravvento.
Davanti all’ingresso monumentale, un energumeno smistava gli
avventori, placidamente. Non erano molti. Ma, giustamente, noi nella nostra
ridotta realtà non avevamo rocche, castelli o qualsiasi altra attrazione, e
quel locale era l’emblema, quindi, della cittadina, e c’era un giusto prezzo da
pagare, come d’altronde capitava per tutto… come c’era l’insidia del biglietto
per visitare un museo, lì si poteva trovare altrettanto.
Ah, la mia mente all’improvviso viaggiava, forse trasportata
dall’ebrezza di essere in quel posto, in un momento in cui non mi aspettavo di
finirci. Non mi ero mai interessata a
cene d’alto rango, e quindi per me quello era un ambiente che avevo sempre
guardato da fuori con un pizzico di emozione, ma che avevo evitato, pur di non
affrontare spese che ritenevo piuttosto superflue. Quella era la volta buona
per capire se, in definitiva, avevo ragione o meno.
Mostrai il biglietto al buttafuori, e questo mi guardò con
stupore.
“Complimenti, signorina! Al tavolo due la stanno già
attendendo”, mi disse, lasciandomi entrare.
A passo cadenzato, mi feci sotto; al diavolo Irene, la sua
pazza idea e lo sbattimento cosmico di mia madre! Era il mio momento, quello.
Forse stavo esagerando, ma l’odore invitante che aleggiava nel locale sontuoso
nel quale ero appena entrata, dove l’aria condizionata la faceva da padrona, e
tanti camerieri ben vistiti giravano tra i tavoli già occupati da parecchi
avventori, mi stava condizionando parecchio, anche se sembrava più un giro di
parole che un voler sottolineare l’esaltazione che stavo vivendo sulla mia
pelle.
Mi mossi lentamente, e mi sentii subito fuori luogo, poiché
io ero vestita in modo molto informale, mentre gli altri avventori che mi
circondavano erano davvero di classe, con abiti firmati, o addirittura molti
erano in giacca e cravatta.
Mi venne spontaneo anche chiedermi chi mi stesse aspettando
al mio tavolo; se avevo possibilità di trovarmi di fronte ad un bel ragazzo, e
d’innamorarmi come se fossi rimasta vittima di un vero e proprio colpo di
fulmine, oppure se sarei tornata ad odiare tutto quello che stavo vivendo a
causa di quella ragazzaccia sempliciotta della mia amica.
Pensai tutto ciò con un pizzico di divertimento, niente di
male verso nessuno, soprattutto giunta a quel punto, dove fare un passo
indietro era impossibile. Avevo davvero accettato di petto la sfida, oramai.
“Mi scusi, saprebbe indicarmi il tavolo numero due?”, chiesi
ad un cameriere, intento a finire di scrivere sul suo listino elettronico molto
tecnologico alcune ordinazioni.
Il giovane indaffarato mi rivolse una mezza occhiata, giusto
per non finirmi addosso, prima di tornare a dedicarsi al suo lavoro.
“Prego, vada avanti. Superi altri dieci tavoli e se lo
troverà alla sua sinistra, un po’ appartato”, mi disse, la erre moscia che
risuonava gradevolmente se fuoriuscita dalle sue labbra.
Ringraziai e ripresi il mio cammino. Fino alla meta finale.
Dovetti fare parecchi passi prima di giungere a destinazione,
ma quando ci giunsi, almeno provai la sorpresa di sondare chi mi stava
aspettando.
NOTA DELL’AUTORE
Uh, si prospetta una serata piccante per la nostra
protagonista xD
Nel prossimo capitolo scopriremo chi la sta aspettando ^^
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Capitolo 15 *** Capitolo quindici ***
Capitolo quindici
CAPITOLO QUINDICI
Al tavolo numero due notai subito un bel giovane, baldo e dalla
parvenza forte. Vestito in maniera molto rustica, come avevo potuto immaginare
per una frazione di secondo da quando Irene mi aveva donato una piccola
informazione su di lui, prima di lasciarmi sola a barcamenarmi in quella sorta
di avventura.
“Ciao”, lo salutai, in imbarazzo, prima di sincerarmi per
bene che quello fosse il tavolo giusto, e il cartellino al suo centro lo
confermava chiaramente, e mi avvicinai piano, con delicatezza.
“Ciao”, mi rispose il giovane, che doveva essere un mio
coetaneo, forse con solo un paio d’anni in più di me, notando i suoi lineamenti
già abbastanza marcati. Era un po’ in imbarazzo, come me, o almeno così
interpretai lo sguardo vacuo che mi rivolse, pronto subito ad abbassarsi verso
il tavolo, senza indugiare troppo sulla mia figura.
Mi accinsi a prendere posizione, e mi sedetti, mentre un
cortese cameriere che passava di lì se ne accorse e accorse a spostarmi la
sedia, però con una galanteria fredda e imposta, non come quella di
Piergiorgio, che ahimè, mi tornava alla mente in quel momento delicato.
“Grazie”, ringraziai il cameriere per il suo atto di
gentilezza, e mi chiesi come mai il ragazzo non avesse mosso un solo muscolo.
La risposta già la sapevo; noi giovani avevamo perso qualcosa, a riguardo di
galanteria, ma il ragazzo sembrava che non desse davvero segno di vita. I suoi
occhi erano fissi sul menù, ma proprio fermi, siccome non lo leggeva nemmeno.
Se fino a qualche istante prima avevo provato un brivido di
esaltazione, ecco che tutto pian piano tornava a smorzarsi.
“Come ti chiami?”, sussurrai piano, inquieta, continuando a
notare la mancanza di reazione di chi avevo di fronte, con un po’ di imbarazzo.
“Simone”, mi rispose, a voce alta e squillante.
Sobbalzai leggermente sulla mia sedia, non attendendomi tanta
risolutezza in una risposta così banale e formulata a voce bassa.
“Io invece mi chiamo…”.
“Isabella, lo so. Irene me l’ha detto”, affermò. Mi sventolò seccamente
sotto al naso il biglietto d’ingresso, identico al mio, stampato in duplice
copia per quella futile messinscena.
A me sembrava di aver a che fare con un bambino, sul serio.
Simone, come si era presentato, aveva un modo di fare che non
era direttamente maleducato, ma di certo un po’ rozzo e buzzurro. Aveva un che
di scontroso e di infantile allo stesso tempo, almeno a primo impatto.
Sperai che tutto fosse volto a migliorare, perché ad andare
avanti di quel passo la serata avrebbe solo rischiato di precipitare. E io non
avevo chiesto d’orchestrare un tale evento, e non ci tenevo proprio a restarne
ferita, neppure per sbaglio.
Afferrai il mio menù, dopo aver fatto un semplice cenno
affermativo col capo e aver notato che il mio interlocutore non aveva voglia di
aggiungere altro, e cominciai a leggere tutte le bontà che il locale offriva.
Passò altro tempo, e mentre attorno a noi tutti gli altri
commensali sembravano felici e rilassati, su di noi era come se stesse
aleggiando una tormenta di neve e gelo. Ero obbligata a riconoscere che, tre
sere prima, tra me e Piergiorgio era andato molto meglio, nonostante tutti i
disguidi del caso in questione.
Ma ero anche costretta a comprendere il fatto che noi due non
ci conoscevamo affatto, io e Simone, e quella era la prima volta che
d’incontravamo durante le nostre distinte e, probabilmente, molto differenti
vite, quindi qualche momento un po’ sospeso poteva starci.
In ogni caso, dopo circa venti minuti dopo il mio arrivo i
camerieri vennero a prendere le ordinazioni, e si resero conto finalmente che
eravamo i vincitori del premio, e si congratularono con noi, ed entrambi
restammo un po’ in imbarazzo e ci limitammo a dire qualche grazie di tanto in
tanto. Poi, di nuovo silenzio.
L’attesa per le pietanze si rivelò un po’ lunghina, e dato
che ormai mi barcamenavo in quella scocciatura, avendo naturalmente ben in
mente la scenata che avevo piazzato alla mia amica in macchina, prima di
giungere al Mald’est, decisi di provare a fare un altro tentativo, in modo poi
da poter dire che almeno ci avevo provato, anche se non mi andava affatto.
“Tu lavori?”, gli chiesi, forse un po’ troppo
improvvisamente, siccome fu il mio interlocutore quella volta a guardarmi con
un pizzico di stupore.
“Certo. Che domande”, mi rispose, dopo qualche secondo di
silenzio, un po’ bruscamente, lasciando poi cadere il suo sguardo di nuovo
verso la sala circostante, a scrutare visi sconosciuti che si abbuffavano o che
mangiavano in compagnia.
“Scusa”, gli dissi, arrendendomi di fronte al suo irrazionale
muro.
‘’Come?’’. Ancora quel suo tono di voce particolarmente
squillante.
“Ti chiedo scusa se ti ho scocciato con la mia domanda. Stai
pur certo che passeremo la serata in silenzio, anzi… vado a godermi il mio
regalo in un altro tavolo”, dissi, prendendo man mano maggior risolutezza, e
parlando a voce alta a mia volta, siccome pareva che Simone fosse anche un po’
sordo. O forse non gliene fregava niente di quello che gli dicevo.
“Cosa stai dicendo? Ma non scherzare, non andartene mica!
Anzi, sono io a scusarmi, per i miei modi… magari poco raffinati. Me ne rendo
conto. Sono una persona semplice e di poche parole, e anche timida, ed è
difficile per me intavolare un discorso in questa situazione”, provò a
spiegarsi all’improvviso, bloccandomi proprio mentre accennavo seriamente ad
alzarmi e ad andarmene. Però, a quel punto, mi fermai e rimasi seduta al mio
posto.
Lui mi stava guardando; notai solo in quel momento il suo
sguardo sincero, puro.
I suoi occhi erano di un verde intenso; i capelli castani,
lasciati un po’ allungare, erano ben sistemati col gel sulla fronte. Il viso
era segnato da qualcosa, era come se un’ombra aleggiasse su di esso,
indurendone i lineamenti, che a tratti, soprattutto sotto gli zigomi e sulle
guance, erano visibilmente molto marcati. Era come se fosse un giovane
invecchiato troppo presto. Tuttavia mi appariva sincero, e questo era
l’importante, e dopo quell’impatto mi sentii di potermi tranquillizzare almeno
un pochino, e ciò mi venne come spontaneo da fare.
Anche i suoi abiti mi
passavano un qualcosa di bucolico che nella mia mente veniva indirettamente
paragonato alla calma e alla pacatezza; quella sua camicetta a scacchi, quasi
scozzese, e le spalle larghe che si muovevano sotto di essa ogni volta che
l’uomo faceva una qualche piccola mossa, mi trasmettevano un qualcosa
d’indefinibile, che mi spronava a restare e a incuriosirmi.
Ecco, tra noi si era instaurato un minimo di feeling, così
come doveva essere capitato anche a lui stesso, e ciò lo diedi quasi per
scontato, a seguito di quell’ultimo suo intervento.
“Non devi scusarti. Capisco, anche per me è la prima volta…
la prima esperienza di questo genere”, poi gli sorrisi, lentamente, “e quindi
anche io sono un po’ tesa e in imbarazzo. Sai, ha organizzato tutto quella
pazzerella di Irene”.
Rise garbatamente.
“Sì, è vero, pensa che all’inizio non volevo neanche
partecipare, mi ha letteralmente trascinato qui, mezzora fa. Voglio essere
sincero con te”, mi disse, poi, tornando molto serio. Incrociai i suoi occhi e
fui tentata di provare a scorgere dentro di loro quella sorta di mare profondo
e inesplicabile, quasi magico, che avevo visto in quelli di Piergiorgio, eppure
quello che vidi furono solo due bei bulbi oculari, ma senza nulla in grado di
attizzare di nuovo la mia curiosità.
“Anche per me è stato così, più o meno”, riuscii a replicare,
dopo aver tentato quell’infruttuosa analisi.
“Ora ci godiamo questa cenetta omaggio e poi ognuno a casa
propria”.
Annuii.
“Assolutamente giusto così, e non potrebbe essere altrimenti”.
Avevo già capito che Simone non era proprio la mia anima
gemella, non aveva nulla che fosse stato in grado di colpirmi dritto nel cuore.
E poi, chi aveva sancito che quello doveva essere una sorta di incontro
combinato? Irene? E allora mi sentivo ridicola a voler stare al suo gioco.
In fondo, cominciai a pensarla solo come se fosse stata
un’uscita qualunque, solo che mi era stata regalata, e di conseguenza dovevo
dividerla con un altro, se volevo usufruirne.
“Che cosa fai nella vita, Simone?”, lo interloquii mentre
giungeva al nostro tavolo un antipasto freddo ciascuno.
“Sono un allevatore di bestiame”.
“Uh”, sbottai, un po’ sorpresa, anche se avrei dovuto capirlo
molto prima. In effetti, aveva proprio le sembianze del classico ragazzo di
campagna, anche da come si vestiva, un po’ fuori luogo in quel posto di classe.
Anch’io tuttavia lo ero.
“Tu?”, mi chiese, educatamente. Pian piano la diffidenza
iniziale si stava sciogliendo.
“Io sono una cameriera, lavoro a L’angolo della bontà, non so se conosci lo conosci…”.
“Sì, certo, ci passo di fronte ogni giorno”.
Spiluccai un po’ di quello che avevo nel piatto, senza tanta
fame; un vero peccato che avessi già mangiato un po’ anche a casa, e che ancora
fossi un po’ tesa. In condizioni normali, avrei potuto godermi meglio il
momento e l’occasione.
“Hai l’aria della ragazza di città”, mi disse dopo un po’,
scansando il piatto che aveva di fronte, e tornando al suo tono un po’ burbero.
“Lo sono. Cioè, ho sempre vissuto in periferia, anche se non
in completa campagna, ma poi negli ultimi due anni ho vissuto quasi in centro
della nostra cittadina, fintanto che ho convissuto col mio ragazzo”, gli risposi,
comunque cercando di risultare sempre carina nei suoi confronti, non essendo il
caso d’indispormi.
“Hai avuto anche un ragazzo?”, domandò, e per la prima volta
anche lui un po’ sorpreso.
“Sì, poi ci siamo lasciati, da un paio di settimane a questa
parte”.
“Mi dispiace”.
“Oh, non ti devi preoccupare. Lui ha già trovato una nuova
compagnia, e per me dimenticarlo, a questo punto, non sarà un problema troppo
serio”.
Allungai poi i piatti ai camerieri, che venivano a servirci
un primo e a portare via i piatti delle pietanze precedenti, raccogliendo
qualche loro ringraziamento.
“Accipicchia, che robe!”, batté poi incivilmente i pugni sul
tavolo, facendo sussultare tutte le persone più vicine.
“Perché, tu sei perdutamente innamorato?”, gli chiesi, dopo
aver notato quel suo gesto colmo di disapprovazione verso ciò che era successo
tra me e Marco.
Mi sorrise, tranquillizzandosi nuovamente, e perdendo
quell’aura di buzzurro incallito che ogni tanto riaffiorava in lui,
all’improvviso, come poco prima.
“Scherzi? Alle ragazze fanno schifo i giovani che fanno il
mio mestiere. In genere, le femmine cercano maschi giovani, belli e ricchi, e
possibilmente che non sudino mai, altrimenti puzzerebbero”.
Mentre parlava e spiegava le sue argomentazioni in modo molto
basilare e banale, lasciai che i miei occhi indugiassero sulle sue mani, dal
dorso evidentemente arrossato, e con le dita callose. Si poteva notare solo
facendoci caso, ma non era un mistero insabbiato.
Non mi aveva mentito, era di certo un uomo che stava molto
all’aria aperta, e che credeva in quello che faceva, e questo me lo faceva
stimare un po’, siccome amavo anche il fatto che sembrasse sempre tremendamente
sincero, quando parlava e interveniva per dire qualcosa, e lo era per davvero,
probabilmente.
“Non tutte le ragazze sono così”, gli dissi, come per
rassicurarlo, mentre cominciavo a mangiucchiare nel mio piatto colmo di un
delizioso e profumato risotto.
“Non venirmi a dire che tu saresti la mia ragazza ideale,
perché non lo credo”, replicò.
“No, no”, lo bloccai, forse con troppa fretta, “ma non sono
tutte come me, o come quelle che hai citato poco fa. Non devi fare di tutta l’erba
un fascio!”.
Scrollò la testa.
“Lo dici solo per non essere scortese con me. In fondo, però,
sei d’accordo”.
Non aggiunsi nulla in effetti, di nuovo a disagio, e persi
tempo attorno al mio pasto, mentre il mio interlocutore stava anch’egli chino
sul suo piatto a mangiare. Pareva avesse molta fame, ed ero felice per lui. Finsi
di mangiare, ma il cibo proprio non mi andava giù… era una serata no.
Mi tornò ancora alla mente Piergiorgio, e la nostra ultima
cena fuori, e mi dibattei, scocciata, come per scacciare tutto ciò. Mi
disturbava, in un certo senso.
Finimmo in silenzio anche quell’ennesima portata, e fu lui a
tornare a parlarmi.
“Spero che tu non te la sia presa. Sono una persona molto
schietta e sincera, me ne rendo conto, ma non voglio offendere nessuno con il
mio parere”, disse infatti Simone, di nuovo un po’ più calmo.
Gli rivolsi un sorriso tiepido.
“Ci mancherebbe altro”.
“Non mangi?”.
Guardai il mio piatto in pratica ancora integro, dopo che
avevo spiluccato solo ai bordi.
“Non ho tanta fame”, risposi, mestamente.
“Non ti piace questo posto, forse? Eppure tutti dicono che è
fantastico”, infierì, di nuovo.
Non risposi e mi costrinsi a guardare altrove. Quel ragazzo
mi piaceva per la sua sincerità, ma non riuscivo a sopportare quando mi
parlava… a tratti mi incuteva timore, e mi dava fastidio, alla stregua di una
mosca molesta. Si continuava a percepire
che era un classico incontro combinato da altri.
Continuammo a mangiare, parlando pochissimo. Mi chiedeva
soventemente se quella o l’latra pietanza erano di mio gusto, ed io annuivo con
un cenno del capo, quando in realtà tutte le prelibatezze scivolavano sotto al
mio naso senza che io le sfiorassi.
L’unico momento vivo della serata fu quando André, il
proprietario del locale, venne a congratularsi con noi, stringendoci la mano,
poiché eravamo i fortunati vincitori di quel primo premio. Fui costretta dalle
circostanze a incassare, e tacitamente ad accreditarmi tal fortuna, in realtà
non mia.
André era un uomo ancora piuttosto attraente e affascinante,
nonostante la sua età ormai piuttosto matura, e mi fece piacere ascoltare la
sua erre moscia d’oltralpe e scambiare con lui un formale saluto. Il resto, vuoto
assoluto.
Dimenticavo tutto man mano, era proprio come se ormai avessi
perso anche la mia rotta personale, e l’euforia iniziale era svanita,
nonostante il mio interesse per quel posto fosse rimasto vivo solo grazie al
gentile intervento del raffinato proprietario.
Finimmo di mangiare in tutta tranquillità, tuttavia cercammo
di evitare il più possibile di interagire; era come se, in fondo, in quella
serata costruita da altri, entrambi ci fossimo solo studiati, e basta, cercando
di non sbilanciarci e quindi di non ferirci. Eravamo perfetti estranei, e ciò
eravamo rimasti. Il piano di Irene era andato a rotoli, sembrava.
“Ho passato una serata carina. Perdona il mio comportamento,
ma davvero, con le ragazze non ho tatto, e questo è un momento un po’ difficile
per me, ho tanti grattacapi…”, mi disse Simone, quando giunsero i sorbetti
finali.
Ormai eravamo rimasti soli, il locale si stava svuotando, e
la serata cominciava a farsi tarda.
“Non ti preoccupare”, non gli recriminai nulla, capendolo un
po’, in fondo. Anche se non vedevo comunque l’ora di andarmene. Avevo sonno,
volevo solo riposare e dedicare un po’ di tempo a me stessa.
Anche se non volevo ammetterlo a cuor leggero, siccome ero
ancora un pochino irritata, ero in pena per mia madre, non sapendo quello che
stava accadendo a casa, quello che in lei sembrava non andare più… ma reprimevo
tutto quanto, con forza; mi sembrava di essere davvero troppo pessimista e
pignola. Lei era una persona adulta, e in quanto tale aveva deciso, e
possedendo ancora la facoltà d’intendere e di volere, la mia lontananza se
l’era cercata, pure se ormai ero pronta di nuovo a tornare alla nostra dimora
condivisa.
“Non credo che possiamo andare molto d’accordo”, aggiunse
dopo qualche minuto di silenzio il mio interlocutore, strappandomi dai miei
pensieri sempre più aggrovigliati.
“Lo credo anch’io”.
“Potremmo comunque essere amici. Parlarci ogni tanto,
mandarci qualche messaggio…”.
“Sicuro”, acconsentii, distrattamente.
“Ehm…”, tornò a lasciarsi sfuggire Simone, come se si stesse
attendendo qualcosa.
Certo, poi capii; voleva il mio numero, o almeno qualche mio
recapito.
“Se ti va di far quattro chiacchiere, sai dove trovarmi. Nel
locale dove lavoro. Dubito che potremmo parlare molto, siccome la proprietaria
è molto severa a riguardo, ma se hai bisogno di qualcosa, sono lì per quasi
tutto il giorno”, lo liquidai, così, in modo labile.
Immaginai che comprese che anche a me, di quella serata, non
era rimasto proprio nulla, da come gli avevo risposto. Non gli avevo concesso
neppure un numero di telefono fisso, ma d’altronde non riuscivo davvero a
comprendere per quale altro motivo i nostri destini si sarebbero dovuti
incrociare di nuovo.
Finii bruscamente di trangugiare il sorbetto al limone,
facendo fare alla cannuccia quel classico brusio fastidioso che mi piaceva
tanto produrre da bambina, e allontanai il bicchiere da me.
“Io ora devo proprio andare. Domani mattina ho tre stalle da
pulire… mi auguro buona fortuna da solo. Spero che ci rivedremo”, si accinse
finalmente a congedarsi Simone, comunque sempre più in imbarazzo con me, dato
che sembrava che fossi piombata in un profondo silenzio stampa pieno di
delusione.
“Anch’io. Buona notte”.
Lo salutai senza neppure alzarmi da sedere, e il ragazzo,
impacciatamente, sussurrò qualche altro saluto e se ne andò, e la cosa neppure
mi sfiorò, apatica com’ero diventata. Sempre più amareggiata.
Mi sentivo sfortunata; per qualche istante, prima di
interagire con quel ragazzo gradevole d’aspetto, ma insignificante
interiormente, e troppo diverso da me, avevo pensato all’opportunità di
conoscere qualche persona che avesse potuto arginare almeno un pochino quel
senso di vuoto e di solitudine che mi sentivo dentro. Invece, tutto quello che
avevo appena vissuto non aveva fatto altro che alimentare ulteriormente tutto
ciò, e mi sentivo uno straccio, letteralmente.
Forse era in me che non andava qualcosa, ma non cedetti.
Quando mi alzai a mia volta per andarmene, Simone era già un
lontano ricordo archiviato in tutta fretta nei meandri della mia memoria. I
camerieri si congratularono ancora con me, seppur in tono falso e freddo, per
la mia vincita, e me ne andai con la pancia mezza vuota, lasciando una marea di
pietanze smangiucchiate alle mie spalle.
Mi sentivo uno schifo in tutti i sensi, non avrei mai
desiderato che quella parentesi finisse per concludersi in quel modo,
nonostante la mia iniziale e decisa reticenza.
Quando uscii dal ristorante, davanti ad esso c’era solo
parcheggiata la macchina di Irene, e il mio orologio segnava la mezzanotte e un
quarto. Ero troppo, troppo in ritardo, talmente tanto che già m’immaginavo in
versione zombie la mattina successiva, per presentarmi alla signora Virginia
con una flemma da morta e sepolta.
Salii in auto senza dire nulla, scura in volto e molto
nervosa, era come se il mondo stesso mi stesse crollando addosso.
“Perché quel muso lungo?”, esordì Irene, mettendo in moto
l’auto e cominciando a sfrecciare lungo il medesimo percorso affrontato qualche
ora prima, ma nel senso inverso.
Scrollai le spalle, non mi andava di parlarne.
“Simone mi ha già detto tutto, quand’è uscito. Mi è parso di
capire che tra voi non è andata bene, giusto?”, mi sollecitò, riprendendo a
parlare con quel tono da affamata di gossip che ogni tanto sfoggiava, quando
non riusciva più a trattenersi, e questo m’indispettì un altro po’.
“No, non è andata bene”, affermai, cercando di stare calma e
di non pensare a nulla.
“E pensare che è sempre un ragazzo così gentile e cortese”.
“Non ho detto che non lo sia, a modo suo”.
“E allora cos’è che non va?”, mi chiese, e si distrasse dalla
guida per offrirmi uno di quei suoi sguardi radiosi, che vidi perfettamente
nonostante la penombra che ci avvolgeva. “Tu, petit, cercavi l’amore, allora!
Ah, come sei romantica, non ti credevo così…”.
Non la lasciai concludere, poiché non seppi più trattenermi,
ed esplosi come una bomba.
“Non ti credevi un cazzo! Io voglio essere sincera con te,
guarda, non voglio star qui a nascondere qualcosa che è stato un disastro
completo! Sappi che tutto questo non l’ho voluto né cercato!”.
“Ma cos’è che vuoi, Isa?”, m’interloquì molto pacatamente la
mia amica, facendosi seria all’improvviso, dopo il mio brevissimo ma chiaro
sfogo.
Restai ammutolita; cos’era che volevo? Non lo sapevo! Ero di
nuovo confusa.
“Non lo so neppure io, in fondo. So però che non desideravo
quello che ho appena vissuto, e non voglio poi ascoltare i tuoi commenti
sarcastici”, dissi, a quel punto mogia, come se mi fossi sgonfiata tutta d’un
tratto, come un palloncino che dopo averlo forato perde il suo vigore e la sua
forma.
“Va bene. Ti giuro che non farò mai più commenti sarcastici,
né ti provocherò, anche se l’ho sempre fatto bonariamente”, cominciò a
spiegarmi, “però questo era un mio regalo che volevo farti. So del tuo periodo
no, e volevo solo trovare un modo originale per farti stare tranquilla, mica
volevo che tu ti gettassi tra le braccia di un perfetto sconosciuto per
amoreggiare direttamente! A volte, hai dei modi molto strani di vedere la
realtà; o è tutta di colore bianco, e allora via libera, o è tutta di colore
nero, e allora sei irritabile ed esplodi, dici parolacce e non sei gentile per
niente. Ma se ci pensi sopra un attimo, capirai che qualcosa ti è rimasto, di
questa serata”.
Tacqui.
“Ti è rimasto un amico. Almeno, spero. Hai interagito con un
tuo simile dopo settimane in cui hai messo un muro tra te e il mondo, dove ti
sei solo preoccupata, dove hai pensato al tuo ragazzo e poi a tua madre, e
nient’altro. Ed è stato giusto così! In ogni caso, hai passato una serata
diversa dal solito, hai stravolto la monotonia nella quale ti immergi”.
“E’ questo quello che pensi? Che sono solo una gran noia
ambulante?”, sbottai, seppur a voce molto moderata e senza evidente
irritazione.
Irene mi parlava in modo molto pacato e tranquillo, e per la
prima volta in vita mia la vedevo seria, come se avesse calato per qualche
istante quella maschera da ragazzetta superficiale che indossava in maniera
quasi costante. Robe da inneggiare il miracolo. Ma non mi bastava.
“Non sei noiosa, è solo che sono tua amica e non sarei stata
bene se ti avessi saputo a casa a mangiarti le unghie, con una mamma che
evidentemente ancora non sta bene e non ce la fa a lasciarsi andare con te.
Avevi bisogno di un po’ di respiro, come anche lei, d’altronde”, sospirò la mia
amica.
“Ora sei libera di decidere. Se vuoi partecipare anche alle
prossime due serate, approfittando del fortuito premio che ti ho regalato, puoi
farlo e metterti liberamente in gioco, siccome nessuno pretende nulla da te e
sei tu che puoi decidere come gestirti e quello che vuoi. In realtà sei tu a
tenere in mano la vicenda. Ma se vuoi farla finita, è già acqua passata e il
biglietto vincente è carta straccia”, aggiunse, vedendo che non dicevo nulla.
“Affronterò anche le prossime due sere, incrociando le dita”,
asserii, alla fine, dopo aver ragionato un attimo e capendo che Irene non stava
dicendo cavolate; dovevo solo capire cosa volevo, e il resto che me ne
importava? Simone non mi aveva lasciato niente, ma almeno non mi ero logorata
tra le mura domestiche e col silenzio strano di mia madre.
Mi sentivo comunque pronta a proseguire.
“Così mi piaci, ma sei liberissima di fare quel che vuoi”.
“Ho deciso, ti ho detto”, riconfermai.
“Allora domani sera torno a prenderti io, stessa ora stesso
posto. Organizzo tutto io e ci metto tutto io, questo è il regalo che voglio
farti, e mi farebbe piacere vederti felice”, tornò a dirmi Irene, tornando a
guardarmi, ancora seria, fermando l’auto ad uno stop.
Io la guardai ma non feci una piega.
“Un sorriso, per favore. Un sorrisino!”, e sorrise anche lei.
A quel punto mi lasciai andare e l’abbracciai, felice di
avere un’amica che pensasse così tanto a me. Era vero che lo faceva a modo suo,
ma ognuno di noi ha il suo modo di esprimere l’affetto che prova per il
prossimo e per chi gli sta attorno.
Una volta tornata a casa, non appena rientrai vidi che la
luce era ancora accesa, nel salotto, dove le mie rose erano ancora le regine
indiscusse dell’ambiente.
Mia madre, apatica, era impalata davanti allo schermo della
tv, immobile come se fosse stata di pietra.
“Beh, mamma, non vai a letto?”, le chiesi, gentilmente.
“Ah, sei già tornata? Non ti preoccupare, ci andrò tra un
po’, tanto non ho sonno”, mi rispose, relegandomi solo uno sguardo triste,
molto fugace, che poi tornò a piantarsi sul televisore, tra l’altro con un
audio così basso che non si sentiva niente.
“E’ mezzanotte passata, è ora di…”, provai a dire, ma la mia
genitrice non ebbe reazione.
Mi ritrovai così sconsolata che mi sentii costretta a
terminare così il discorso, interrompendolo, e a lanciarmi verso la mia camera
da letto, senza più provare a far nulla per lei. Sapevo che non mi avrebbe
ascoltato e che non avrebbe avuto alcuna reazione, e le mie parole sarebbero
solo state sciupate, destinate a cadere nel vuoto assoluto.
Ero stanca morta e quella situazione mi aveva già sfiancato,
seppure mi stesse mettendo alla prova da un solo pomeriggio.
NOTA DELL’AUTORE
Primo incontro andato. Beh… poteva anche andare meglio, credo
xD
Nel frattempo, alcuni avvisi; sto pubblicando il racconto
anche su Wattpad, e inoltre… ha ricevuto una magnifica recensione da parte
della bravissima Karen Humbert, che potere trovare sul suo blog.
Grazie per essere qui, spero di continuare a intrattenervi
nel modo migliore ^^
|
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Capitolo 16 *** Capitolo sedici ***
Capitolo sedici
CAPITOLO SEDICI
Il giorno successivo fu quasi del tutto identico a quello
precedente. La mattina solo lavoro, con il mio solito rientro pomeridiano, e
poi ogni volta che stavo un po’ a casa quella musona di mia madre era
asfissiante con i suoi silenzi.
Cominciai improvvisamente a sospettare che soffrisse di
depressione, considerando il suo atteggiamento, e mi venne da pensare che
magari ne era affetta da tempo, ma lievemente, e che la sua forma più acuta
fosse emersa solo dopo l’ultimo e sconfortante malore.
Pensai anche che a breve, se la situazione non fosse
migliorata almeno un po’, sarei stata obbligata dalla difficile situazione a
cercare consiglio presso un qualche specialista. Ma non volevo riflettere
troppo sulla questione, ancora speravo che si risolvesse da sé, magari da un
momento all’altro, come per magia; come se volessi solo continuare a illudermi,
alla stessa maniera di una sciocca.
A lavoro tutto andava benone, per fortuna, e con la signora
Virginia e con le mie colleghe andavo d’accordo, seppure tornassi a casa sempre
sfinita.
Piergiorgio, nel frattempo, anche per quel giorno aveva
latitato dal locale, e cominciavo a sospettare che non sarebbe tornato più,
d’altronde era già stato tanti anni senza metterci piede e poteva tornare
benissimo ad evitarlo. E sentivo, con un po’ d’ansia, che forse questa sua
sparizione era legata al bacio che gli avevo rifilato qualche sera prima,
dandomi altro tormento.
Cercavo solo, a questo punto, di annegare la mia mente con
tanta musica, e stavo spesso con le cuffiette alle orecchie e il cellulare in
mano, per provare ad estraniarmi un po’ dal mondo. Alcune volte ci riuscivo,
altre un po’ meno, ma in genere la musica mi curava un po’.
Per l’uscita di quella sera, ancora immersa in quegli
incontri programmati e donati da Irene, mi vestii al meglio, per non
presentarmi di nuovo in una realtà lussuosa in maniera alquanto provveduta.
Come la sera prima, la mia amica si fermò a fare un saluto
incolore alla mamma, poi, dopo esserci adeguatamente congedati da lei,
partimmo. Quella volta non avevo intenzione di dire molto in auto, temendo di
sfiorare un qualche nervo scoperto, ma fu comunque Irene stessa a scegliere,
come suo solito, di ciarlare e di cercare di evitare qualunque sorta di
barriera tra noi, anche impercettibile.
“Allora, sei pronta per questa seconda serata?”, mi chiese,
tranquilla, e già al volante.
“Sicuro, anche se spero sia migliore della prima”, le
risposi, cercando comunque di non essere polemica.
“Simone non ti è proprio andato giù, mi pare di capire”, tirò
giustamente le somme, a quel punto, la mia interlocutrice.
“No, non è che non mi sia piaciuto, per carità; è un bel
ragazzo, non c’è male, almeno fisicamente. Ma è rozzo, ha qualcosa da
troglodita dentro, che lo porta ad essere molto rozzo a volte, e quindi anche a
essere un po’ imbarazzante, secondo me”.
Irene rise, udendo le mie parole.
“Quindi non apprezzi un pizzico di originalità? Guarda che è
un ragazzo serio”.
“Non così tanta. E buon per lui se lo è”.
“Non vuoi neanche più risentirlo, o rivederlo?”, m’interloquì
di nuovo.
“No, non ha importanza per me”, risposi, con sincerità.
Era la verità; non mi aveva proprio lasciato nulla quel
giovane, anzi, più lo pensavo, più mi veniva noia nel farlo.
“Vedi come sei fatta? Hai perso il tuo spirito da ragazza,
quello che nelle nostre coetanee vive ancora. Non vuoi neppure più
socializzare. Per fortuna che ci sono io, e sappi che cercherò di rimetterti in
pista al meglio”.
Mi lanciò uno dei suoi soliti sguardi divertiti, che
ricambiai con una smorfia di disappunto.
“La devo prendere come una critica?”, fu la mia volta di fare
una domanda.
“No, no, non temere”.
Il suo tono di voce non mi rassicurò, ma non m’importai di
cercare di ribattere. Ormai avevo imparato che se mi mettevo a discutere poi si
sollevava un polverone dal quale ne uscivo sconfitta, e poi in fondo non
m’interessava di averla vinta o di dibattere, tanto era tutto inutile.
Se volevo fare qualcosa, oppure dimostrarlo, dovevo farlo sul
campo, e quello era ormai a pochi metri da me, mentre l’auto di Irene
sfrecciava verso il Mald’Est.
Ero pronta, di nuovo, ad affrontare la sfida che mi si
prospettava di fronte.
Prima ancora che la mia amica cominciasse a frenare, presi il
biglietto premio e lo strinsi tra le mani, e cominciai a chiedermi chi mi
stesse attendendo quella sera. Se fosse stato un altro rustico come Simone, me
la sarei potuta cavare molto bene, anche se non mi avrebbe proprio lasciato
niente, ma purtroppo immaginavo che quella volta Irene avesse messo
maggiormente a frutto il suo ingegno, andando quindi a pescare qualche altro
soggetto curioso dal bel mezzo delle sue vaste conoscenze, considerando pure
che sapeva che l’incontro della sera prima non si era rivelato interessante e
ottimale.
Attendevo, quindi e di conseguenza, di trovarmi di fronte a
qualcuno che si sarebbe rivelato molto diverso dal ragazzo con il quale avevo
cenato la sera precedente, forse addirittura l’opposto.
Come durante la precedente serata, provai le stesse
sensazioni mentre mi muovevo irrimediabilmente verso il tavolo due, quello
ancora dedicato a me, colei che appariva agli occhi del locale come la
vincitrice del premio.
Irene le cose le sapeva sempre fare per bene, facendo quindi
in modo che trovassi ogni volta qualcuno già pronto al tavolo, per non farmi
aspettare. E, d’altronde, alle ragazze era consentito farsi aspettare, ma ai
ragazzi no. Giunsi al solito tavolo dopo una piccola scarpinata nel bel mezzo
di quelli disposti maggiormente verso l’ingresso, e quella volta non sfigurai,
essendo vestita talmente tanto bene che mi ero permessa anche un bel paio di
tacchi.
Ben presto scoprii che ad attendermi c’era un altro ragazzo,
più o meno della mia età, sicuramente mio coetaneo, un po’ stempiato e con un
paio di occhialoni che gli davano un’aria da intellettuale assoluto. Irene mi
aveva sorpreso anche quella volta, e per qualche attimo fermai la mia marcia
verso il tavolo, per osservarlo, siccome mi aveva un po’ stupito.
Di fisico era molto simile a Piergiorgio, non era tanto alto,
e seppur fosse più giovane, non sembrava sprizzare la sua stessa energia
vitale. Non si assomigliava neanche a Marco, il mio ex. E neppure a Simone, il
tizio della sera prima.
Quello che avevo di fronte a me era un’incognita che non
sapevo ancora catalogare, e alla fine l’avvicinai.
“Buona sera”, gli dissi, mentre scostavo la sedia e mi
accingevo a sedermi, stando attenta alla mia preziosa borsetta, unico mio oggetto
firmato e con all’interno i miei beni più preziosi al momento.
“Buona”, mi rispose, senza sollevare gli occhi verso di me.
Rimasi di stucco di fronte alla sua risposta, e fui di nuovo
in procinto di esplodere; mi sentivo come se Irene ne avesse approfittato di me
e mi avesse cacciato di fronte uno psicopatico serio, quella volta.
Decisi di provare a trattenermi, e di non voler giudicare
subito, d’altronde poteva trattarsi anche di timidezza, ma uno che rispondeva
in quel modo aveva di sicuro qualcosa che non andava.
Anche il suo corpo, che vedevo bene di fronte a me, e che ora
potevo analizzare attentamente, aveva qualcosa di grottesco; spalle rincassate,
un po’ rachitico insomma, con un visetto da topolino spaurito in cerca di
groviera, e gli occhi opachi e semi socchiusi nascosti al di sotto di quelle
lenti mastodontiche, che, constatato lo spessore, potevano tranquillamente
cadergli a terra e venir calpestate da un tir senza avere alcun danno.
Con addosso una camicetta che sbucava al di sotto di una
felpa d’un viola sbiadito, sapeva farmi proprio impressione, e storsi il naso,
seppur involontariamente.
Non era da me comportarmi in quel modo che sembrava davvero
da persona pessima e viziata, ma avevo davanti ai miei occhi ciò che si
presentava come una platonica cariatide strampalata, che non riuscivo proprio a
capire.
Almeno Simone era stato sì un po’ burbero e primitivo, ma era
comunque stata una discreta presenza, a riguardo del fisico.
“Mi chiamo Isabella. Piacere”, gli allungai una mano, quasi
in maniera istintiva.
Lo sconosciuto si mosse a disagio, prima di allungare la sua
mano, in versione zampetta tremolante, verso di me, e stringermela. Era anche
sudaticcia e unta, per quello mi affrettai a ritrarla e a interrompere il
rapidissimo contatto.
“Rodolfo, piacere tutto mio”, si presentò, con una voce dal
tono bassissimo e quasi femmineo.
Inarcai le sopracciglia.
“Che bel nome, davvero insolito”, mi venne spontaneo da
commentare.
Lui scrollò le sue spalle esili con indifferenza.
“In effetti”, sancì.
Come durante la serata scorsa, forse anche più in fretta del
previsto, le portate cominciarono a giungere al nostro tavolo, e di nuovo il
silenzio scese tra me e l’altro commensale.
Ammettevo che non m’importava molto, quella volta; ormai
cominciavo a capire le regole di quella sorta di gioco ipocrita, e in ogni caso
Rodolfo non aveva proprio nulla che potesse stuzzicare il mio interesse. Avevo
cercato di essere gentile, dapprima presentandomi e poi parlandogli, e mi
aspettavo che il secondo passo fosse lui a farlo, altrimenti me ne sarei
rimasta tranquillamente in silenzio per tutto il tempo della cena.
Il giovane mangiava piano, e di tanto in tanto lo osservavo,
quand’ero certa che non mi potesse scorgere, concentrato com’era a pasticciare
nelle sue pietanze; aveva davvero qualcosa che mi ricordava un topolino, mentre
con le sue ganasce piccine masticava pianissimo e mangiucchiava quel che aveva
pasticciato nel suo piatto, siccome pareva proprio che gli piacesse
giocherellare col cibo.
Mi sembrava una persona molto timida, e quasi mi chiedevo
come avesse fatto ad accettare quella sfida che lo vedeva fuori luogo, ma
conoscevo l’abilità di persuasione di Irene, e avevo la certezza che era molto
difficile resisterle, quando si metteva in testa qualcosa e cominciava a far
pressione per realizzarla e combinarla.
Io non mi lasciai andare troppo ai peccati di gola, e
preferii cercare di rilassarmi, sentendomi più sola che mai, ma almeno ero
tranquilla e mi sentivo relativamente al sicuro.
“Hai mai approfondito la questione dei Vichinghi? Soprattutto
a riguardo delle distinzioni che c’erano tra Danesi, Svedesi e Norvegesi, prima
dell’anno Mille?”, m’interloquì improvvisamente Rodolfo, a metà serata, quando
mi aspettavo che non avesse parlato mai più.
Restai un po’ colpita da quella domanda, e, con un po’ di
perplessità, non avevo idea di come rispondere.
“Ehm… in realtà no… ma dev’essere interessante…”, tentai di
sbrigarmela.
“Certo che lo è. Se poi pensi che quei predoni che avevano
dato fuoco all’Europa poi finirono a loro volta tra le grinfie dei pirati
estoni… che brutta faccenda”, proseguì, accogliendo comunque il mio abbozzo di
risposta.
“Eh, brutta davvero”, riuscii a dire, ma mi veniva da ridere.
In realtà non avevo capito una mazza di quel che mi aveva detto, né mi andava
di approfondirlo, ma quel soggetto un po’ sopra le righe mi aveva fatto
sorridere, a suo modo.
Lui non sorrideva, e non mi guardava neanche. Pareva
schermato dietro a quelle lenti spesse, mentre gli occhi erano sempre rivolti
verso il piatto.
Dovevo a tutti i costi cercare di soffocare la risata genuina
che mi era venuta riflettendo su quelle cose a me ignote alle quali aveva fatto
riferimento, poiché non volevo di certo offenderlo, anche se dubitavo che
badasse alla mia presenza. Sembrava che vivesse su un altro mondo, ed io
pregavo solo che continuasse a tacere.
Non mi piaceva la sua voce, non mi piaceva il suo modo di
comportarsi… non mi piaceva assolutamente nulla di lui.
Fui fortunata, poiché, forse per un caso del destino, non
disse più nulla. Trascorse la serata in silenzio, mentre da una parte mi
rilassavo, e dall’altra lasciavo che il mio nervosismo interno defluisse verso
il pensiero che rivolgevo alla mia amica, siccome tutto ciò che mi stava capitando
era frutto suo e sembrava una congiura. Che cosa credeva di fare, cacciandomi
di fronte un soggetto del genere? Certo, Rodolfo era una persona innocua e
tranquillissima, ma di sicuro doveva sapere che non poteva lasciarmi nulla.
Ecco, a quel punto tornai a riprendermi e a fermare i miei pensieri,
che stavano ricominciando a essere egoisti; io il ragazzo non lo conoscevo bene
e non era mio diritto giudicarlo a prima vista, in quel modo barbaro e quasi a
tradimento. Dovevo quindi trattenermi anche mentalmente, non volevo che andasse
a finire in un modo ingiusto.
Alla fine, tutto si concluse con un emblematico saluto,
insipido, quasi di sfuggita, con la minuta figura rachitica e leggermente
ingobbita del ragazzo che si allontanava rapidamente da me, dopo essersi alzato
all’improvviso dal tavolo, dicendo di sentirsi poco bene e di aver urgente
bisogno del bagno, proprio quando eravamo a metà della cena.
Non fece più ritorno.
Io continuai a gustarmi i manicaretti che mi portavano con
tranquillità, non mi mancava alcuna presenza a fianco. Solo uno dei camerieri,
con la sua pronuncia che tradiva un’origine francese, ebbe il coraggio di
chiedermi il motivo per cui il signorino se n’era andato, e se era stato per il
fatto che non gradisse la cucina del locale.
“Ha problemi di stomaco, soffre spesso a causa loro. Vi
ringrazia, comunque! Sia il servizio e sia la cucina sono ottimi”, lo liquidai
con grande cortesia e inventandomi una scusa.
Mi ritrovai a sentirmi molto bene anche così sola, con la
mente che divagava, che andava oltre a quelle mura che mi circondavano e a
quelle sciocche cene combinate.
Non mi sentivo bene, mi lasciavo librare con il pensiero
nell’aria, in quel momento così delicato, durante il quale mi sentivo
interiormente amareggiata, ma anche un po’ stanca, come se fossi stata una di
quelle statue con cui gli artisti si divertono tanto a decorare le piazze, che
poi alla fine restano lì a ricoprirsi di smog scuro, e a diventare oggetto di
scempio da parte delle bande di vandali locali.
Ecco, mi sentivo molto sciupata, ma anche consapevole che non
avevo avuto grandi possibilità davanti a me.
Cercai, mentre affrontavo le ultimissime portate e la serata
si faceva di nuovo inoltrata, di pensare a qualcosa di piacevole, ma non mi
venne in mente nulla, e la mia mente fu portata ad avvicinarsi a qualcuno.
Non a mia madre, che mi aveva fatto innervosire, e, allo
stesso tempo, preoccupare; non a Marco, il traditore fedifrago per il quale non
provavo più nulla se non un lieve ribrezzo; non a Irene, la mia amica che mi
aveva ficcato in quella sciocchezza in modo molto grossolano, e non agli altri
miei coetanei che avevo conosciuto con il mio ex, quella baraonda di persone
che si erano volatilizzate dalla mia vita appena avevano potuto, non essendo
snob quanto loro, bensì a Piergiorgio.
Non sapevo perché tornassi a pensare a quell’uomo che non
aveva nulla di speciale, e che con me non aveva nulla da condividere o da
spartire, ma il fatto che tra noi due fosse rimasto qualcosa che si sarebbe
dovuto dipanare, aleggiando così come un fantasma, mi dava curiosità.
Quel qualcosa era stato quel mezzo bacio rubato, che ancora
non capivo, e se provavo a ripensare a quegli istanti vissuti qualche giorno
prima, mi sembrava di tornare ad essere confusa come quella medesima volta.
Non dovevo pensarci.
Attesi l’arrivo del sorbetto conclusivo, seguito da un caffè,
che non bevvi, per non guastare il sapore dolce che regnava tra le mie labbra,
e anche per quella sera lasciai il locale con la consapevolezza di aver proprio
dato tutto.
Non me l’ero neanche presa troppo, in seguito all’atteggiamento
di Rodolfo; ormai cominciavo ad abituarmici.
Irene mi attendeva in macchina, e non appena uscii dal
Mald’Est, andai verso il mezzo con calma, cercando di prendere tempo, siccome
la mia povera testa sembrava fumare, dal tanto che si era data tormento. Non
avevo voglia di litigare o di discutere, dovevo accettare stoicamente come
anche quella serata fosse andata alla malora, e punto, senza voler badare per
forza a quelli che in fondo avrei dovuto considerare come dettagli.
Dettagli significativi, certo, ma che poi, a pensarci bene,
non contavano nulla, poiché quella medesima serie di situazioni che stavo
affrontando sembravano non valere nulla, e non lasciare alcun segno dentro di me.
Ad un certo punto non potei però più evitare il mio ingresso
in macchina, e presi posizione sul sedile che pareva attendermi.
Per l’ennesima sera, la mezzanotte era passata già da un po’,
e la stanchezza mi assillava, mi soffocava, ma almeno assieme a me sopprimeva
anche la mia coscienza e tutta la marea di pensieri che ripescava in
continuazione.
“Com’è andata? Hai passato una bella serata?”, m’interloquì
subito, come suo solito, la mia amica, che fumava col finestrino abbassato,
mentre pasticciava col suo cellulare con la mano sinistra, quasi
distrattamente.
“Fantastica, una serata splendida”.
“Cos’è, sei ironica?”.
Irene lasciò perdere sigaretta e cellulare, e con foga gettò
fuori dal finestrino il mozzicone mezzo spento, prima di rigettare nella sua
borsetta il suo oggetto tecnologico.
“No, mica”, riuscii a replicare.
Sapevo che col mio tono mezzo beffardo avrei solo rischiato
di stuzzicare la mia amica, ma che potevo farci? Era il mio unico modo, durante
quella serata, per innalzare un muro tra me e il mondo e rischiare di non
crollare. Forse, quell’ultimo incontro mi aveva ferito più del previsto.
La persona che avevo di fronte a me in quel momento, e che mi
stava fissando nella penombra, dopo aver lasciato perdere i suoi gingilli per
passare il suo interesse ad approfondire ciò che stavo pensando a riguardo di
quella bruttura che mi aveva preparato e attentamente teso.
Non sapevo neppure come definirle quelle serate, ma immersa
nel mio bipolarismo, da una parte mi veniva da gridare che schifo, dall’altra
invece mi veniva da pensare che forse era stato molto meglio così. Non volevo
un altro ragazzo, una persona che avrebbe potuto ferirmi di nuovo, o umiliarmi,
e non volevo andare in brodo di giuggiole di nuovo, come mi era capitato, per
errore, con Marco.
Sapevo che l’amore e l’interesse rivolto a una persona
potevano essere trappole mortali, in grado di distorcere la realtà dei fatti.
Non desideravo tornare ad affrontare una simile situazione,
proprio in quei giorni in cui stavo ormai per uscirne, in cui il mio ex non mi
appariva più con costanza nella mia mente. Stavo guarendo, ma la mia era una
ferita profonda e fresca, appena cicatrizzata, e sarebbe bastato davvero poco
per tornare a farla riaprire e sanguinare.
“Se qualcosa non è andato per il verso giusto, mi dispiace, e
puoi tranquillamente parlarmene, ma non prendermi in giro, tenendo pure il
muso”, tornò a dire la mia amica, dopo qualche istante di profondo e riflessivo
silenzio, che era calato come un sipario tra noi due.
“Hai presente il ragazzo che mi hai fatto incontrare al ristorante
qui di fronte a noi?”, le chiesi, con pacatezza, senza neppure sapere come
dirglielo per bene, senza sembrare una gran sfigata.
In effetti, se il ragazzo più brutto del pianeta aveva
preferito darsi alla fuga di fronte a me, come potevo pensare che qualcun altro
avrebbe potuto sopportarmi o volermi con sé? Con Marco, mi rendevo sempre più
conto che il rapporto era unilaterale; per lui, sotto certi aspetti, ero stata
più una mamma che una fidanzata. E poi cercava sempre e solo di utilizzarmi per
i suoi piaceri, che a quel punto non tutti mi dispiacevano.
“Certo che ho presente, per fortuna non ho ancora problemi di
memoria”, ribatté Irene, poco simpatica.
Trovai la forza per sorriderle, prima di aggiungere ciò che
dovevo assolutamente dire.
“Si è dato alla fuga”.
Ennesimo attimo di silenzio, dopo la rapida e breve
confessione.
“Questa sera hai proprio voglia di scherzare”, aggiunse
Irene, seria, smettendo di guardarmi ed andando a girare la chiave dell’auto
nel cruscotto.
“Te lo giuro. È scappato che non era ancora metà cena. Mi ha
detto che andava in bagno e si è volatilizzato, poi i camerieri mi hanno
chiesto come mai se n’era andato… pensa un po’”, le dissi, senza peli sulla
lingua.
“No, io spero solo che tu stia scherzando”, sbottò lentamente
la mia amica, sempre più seria, mentre entrava in carreggiata.
“Il ragazzo si è solo presentato. Mi ha detto che si chiama
Rodolfo, e basta, in pratica. Poi, dopo un po’, mi ha chiesto qualcosa
d’incomprensibile, mi pare a riguardo di vichinghi o una cosa del genere, via,
e poi se l’è svignata con una scusa. Se n’è proprio andato, capisci? Mi ha
fatto fare la figura della stronza colossale”, le narrai, riassumendo la
serata, ma senza omettere nulla.
Irene sospirò con pesantezza; in quel momento, alla guida,
non aveva impressa nel volto la sua solita aria da ragazza semplice, ma come
capitava di rado pareva pensierosa.
“Dovevo averlo capito”, tornò infine a sospirare, dopo una
mezza meditazione abbastanza prolungata.
“Cosa, di preciso?”, domandai, curiosa.
“Che era un ragazzo un po’… strano, diciamo così. Era molto
particolare, lo è stato fin da quando l’ho conosciuto. Ma non mi sarei mai
potuta aspettare una simile mossa da parte sua!”.
Io, da parte mia, non avevo neppure più voglia di aggiungere
qualcosa. Non volevo arrabbiarmi o innervosirmi, ero troppo stanca e provata,
da tutto.
“Capisco”, riuscii solo a dire, un po’ mortificata.
“Mi dispiace, Isa”, mi disse la mia amica, davvero
dispiaciuta, “non doveva andare così”.
“Non ti preoccupare”, la rassicurai.
“Ma immagino che per te sia stato meglio così, no?
D’altronde, non era quello che desideravi?”.
“Cosa desideravo?”.
“Che ti lasciassero in pace. Insomma, con la tua asocialità…”.
“Stai esagerando adesso, sappilo”, sibilai, lasciando un po’
calare la maschera calma che volevo tenere ben salda sul mio viso.
“Ma è la verità. Me l’hai sempre detto, e anche chiaramente;
tu non stai cercando un ragazzo o della compagnia, in questo particolare
momento della tua vita. Quindi, forse è stato meglio così”, insistette la mia
amica.
Non mi importava se stesse cercando di provocarmi o meno, io
volevo solo andare di filata nel mio letto, a dormire. Non ne potevo più, non
volevo combattere e ribattere, per nessun motivo.
“Non stai agevolando le cose”, le feci notare, sospirando a
mia volta.
“No, in effetti stanno restando com’erano, ma io non volevo
assolutamente cambiarle. Per cambiarle, tutto deve partire da te, devi volerlo.
Se non ti senti pronta a riguardo di nulla, va bene così”.
La strada, davanti a noi, sembrava un lungo serpente, che si
dipanava di fronte ai miei occhi socchiusi e tristi.
“Devi comunque ammettere che non hai messo sul piatto della
bilancia delle belle offerte”, fu l’unica cosa che riuscii a mugugnare,
continuando a non voler litigare o discutere.
“Hai ragione, in questo caso. Ma vedrai che domani sera sarà
tutto differente; la ciliegina sulla torta l’ho tenuta per ultima. Avrai una
bella sorpresa”.
Irene mi rivolse anche uno sguardo radioso.
Non volli aggiungere altro, siccome avrebbe anche potuto
sfuggirmi una frecciatina malevola, a quel punto, e preferii lasciarmi scorrere
tutto addosso. Quella vicenda stava per concludersi, mi mancava una sola, unica
serata, e non avevo nulla da perdere.
La metà era stata superata, come se fosse stata una prova, e
non avevo più niente da dire a riguardo. Avrei scoperto tutto da me, come avevo
fatto anche poco prima.
Una volta a casa, scesi dall’auto di Irene salutandola
blandamente, e rientrai tutta trafelata e stanca da morire.
Mia madre anche quella sera era ancora in piedi, ma stetti
ben attenta a non andare a vederla; stavo già troppo male, non mi andava di
tornare a sbattere contro la fredda barriera che aveva erto tra lei e il mondo.
Ero così stanca e assonnata che non mi andava più nulla.
Andai a letto e basta, semplicemente, senza doccia né altro.
Sudicia, mi sentivo davvero una schifezza, anche
interiormente, e solo per il fatto che mi stavo sentendo un po’ giocata da
tutti. Non volevo essere il divertimento e la bambolina di chi mi circondava.
Mi addormentai comunque con un pensiero conciliatore e
benevolo per impresso nella mente; chi mi stava ancora attorno erano le poche
persone che mi dovevano davvero voler bene, a rigore di logica, e quindi dovevo
provare a fidarmi di loro, in ogni caso. Così, dormii tranquillamente,
leggermente rinfrancata e tranquillizzata.
NOTA DELL’AUTORE
Appuntamento n. 2 non andato a buon fine xD
Ci resta solo l’ultima serata… ^^
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Capitolo 17 *** Capitolo diciassette ***
Capitolo diciassette
CAPITOLO DICIASSETTE
Come durante la precedente mattina, giunsi al lavoro un po’
imbambolata e assonnata. Sembrava che avessi un po’ perso il mio naturale
equilibrio, da quando le mie avventure serali si erano fatte così intense.
Non ero mai stata abituata a stare fuori fino a tardi, e già
le ventitré in genere cominciava a essere un orario attardato, e siccome da
alcune sere non rincasavo prima di mezzanotte abbondantemente passata, era come
se stessi cercando di farci il callo. Un callo che comunque sarebbe durato
proprio poco; mi stavo preparando all’ultimo appuntamento e, in effetti, anche
al peggio.
Pensavo seriamente che Irene avrebbe davvero cercato di
mettermi alla prova, in quell’ultima serata che mi aveva regalato, e quindi non
riuscivo a stare tranquilla.
Avevo il magone in gola, non avevo appetito e facevo fatica
oramai a star dietro al ritmo della giornata lavorativa, e la mia spossatezza
non passava inosservata, neppure alle mie curiose colleghe e alla mia datrice
di lavoro, che almeno avevano però il buon gusto di non chiedermi nulla
espressamente, certe che si trattasse di un filino di depressione sorta dopo la
rottura con Marco, dramma che invece avevo già interiormente superato, forse
con fin troppa fretta.
Quel ragazzo, in ogni caso, mi aveva stufato, e mi ero resa
conto molto velocemente che, in realtà, la nostra storia era stata qualcosa che
non mi aveva lasciato e trasmesso niente, come non mi avevano lasciato niente i
miei ultimi incontri.
Avevo qualcosa dentro che mi logorava, che non mi lasciava in
pace, e si trattava di una cosa non detta, ma che non volevo riconoscere e
interiorizzare, quindi lasciavo semplicemente che non mi desse tregua, che mi
lasciasse sfiancata e mezza assonnata, senza prendermi la briga di voler andare
oltre. Era come se un oltre per me non ci fosse.
Stavo vivendo quasi alla giornata, e non m’importava granché
del resto, ritenendo inutile pensare a un ipotetico futuro quando già il
presente è un casino completo, e non credevo di averci capito molto.
Fortunatamente, sul posto di lavoro le altre si fecero tutte
gli affari propri, e questo mi fece stare sulle mie, a ribollire nel mio brodo,
siccome credevo che se qualcun altro avesse provato a ficcanasare nei miei
problemi recenti, avrei rischiato di esplodere, o, per lo meno, lasciarmi
sfuggire qualche parolina che preferivo tenere per me, e far udire il meno
possibile a terzi.
Con mia madre continuava ad andare tutto a rotoli, e ormai
neanche più speravo che tornasse com’era qualche settimana precedente, e di
Piergiorgio neanche l’ombra. Era come se fosse tornato a sparire per sempre,
come se avesse fatto parte di un limbo che poi si era ritirato senza lasciare
più traccia di sé.
Sola, senza nessuno che mi stesse vicino, e fragile più che
mai, mi accinsi così ad affrontare l’ultima serata che mi era stata regalata e
preparata appositamente dalla mia migliore amica, senza riuscire a immaginare
nulla di preciso.
Per fortuna che non mi lasciai andare a pronostici, poiché li
avrei sbagliati tutti, in ogni caso.
Solita routine delle precedenti due serate; tornai a casa
dopo una giornataccia lavorativa che aveva davvero lasciato poco spazio ai miei
abitudinari tormenti interiori, per trovarmi di fronte alla solita mamma
ammutolita e inquieta.
Tra noi, il muro non crollava.
Eppure, quella sera sembrava che andasse un po’ meglio, e si
dimostrò a suo modo felice, tramite un mezzo e insipido sorriso quando le
assicurai che sarei uscita da lì a poco e che sarei rientrata tardi. Questo
tornò a farmi innervosire, d’altronde era come se non mi volesse in casa.
Per mezzora, giusto il tempo che impiegai per farmi una
rilassante doccia fresca, pensai che forse sarebbe stato meglio se me ne fossi
andata via, se fossi tornata a riprendere possesso di quello squallido
appartamentino che condividevo col mio ragazzo, prima che ci lasciassimo.
Col senno di poi, compresi, mentre mi asciugavo
meticolosamente, in modo che addosso non mi restasse neanche un briciolo di
umidità a infestare la mia pelle, che sarebbe stata la scelta più sciocca che
avrei potuto attuare. Mia madre aveva bisogno di me, era evidente, anche se
ancora non avevo scoperto come potevo esserle utile.
Probabilmente, una maggior presenza non le avrebbe fatto
male, e siccome ormai tra lavoro e uscite, da quando era tornata a casa
dall’ospedale due giorni prima, era stato come se mi fossi tramutata in un
fantasma, tra le mura domestiche, doveva essere giunto il momento che la
piantassi, con tutte le mie scelte banali, e che prendessi finalmente un po’ di
tempo per noi.
Avrei potuto, ad esempio, prendermi qualche giorno di ferie,
oppure sfruttare la domenica, unico giorno in cui ero totalmente libera, per
andare, assieme a lei, a fare una passeggiata da qualche parte, o anche solo un
giretto o una piccola uscita assieme. Tornare quindi a mostrare a mia madre la luce
del sole, a farle forza, a invitarla al coraggio e a uscire dal guscio nel
quale si era confusamente rinchiusa.
Prima di far diventare realtà tutto ciò, però, dovevo
affrontare l’ultima, misera serata al Mald’Est, e per quello mi preparai a
dovere, vestendomi bene e sperando in meglio, siccome gli ultimi incontri non
erano stati affatto carini da affrontare.
In macchina, con Irene, non ebbi il coraggio di parlare.
Fu lei a soverchiarmi con tutto il suo chiacchiericcio
possente, e pareva davvero che quella sera fosse carica a palla, dal tanto che
sprizzava energia da tutti i pori.
“Colpo grosso questa sera, mia cara Isa”, mi diceva di tanto
in tanto, agitandosi al voltante.
Io le rivolgevo al massimo uno sguardo con tanto di
sopraccigli inarcati; non osavo immaginare cosa mi attendesse, a quel punto.
Che ci fosse un guercio ad attendermi al ristorante? Oppure un qualche rinomato
e vecchio barbone di città? O un qualche cocainomane?
In ogni caso, sentivo dentro di me la coscienza che strillava
e non mi dava pace, e sapevo che dovevo stare molto attenta.
Avevo come la sensazione che la mia amica si stesse
divertendo troppo, come se fosse consapevole che, durante le serate precedenti,
aveva giocato un po’ sporco.
Ciò mi dava malessere, non solo mentale. Volevo aprire lo
sportello e lanciarmi dall’auto in corsa, e via, andarmene, di punto in bianco,
come una pazza appena uscita da un film d’azione americano. Avevo paura, e non
sapevo il perché.
Il vago sentore che tutto sarebbe andato a finire male
proseguì fin tanto che non giungemmo alla meta, e salutai la mia pimpante
amica. Sapevo che me la stavo un po’ tirando, d’altronde non avevo proprio
niente da perdere, come dovevo sempre tenere a mente, ma era più forte di me,
quel senso di non volermi fidare.
Mi recai quindi al solito locale in modo un po’ furtivo e
triste, molto mogio, e dopo essere entrata, il ragazzone che controllava
l’ingresso prese il mio biglietto premio, già segnato con due croci, per poi
strapparlo e gettarlo via. Per me quella era l’ultima serata al Mald’Est.
Mi diressi di fretta al mio tavolo; ormai sapevo alla
perfezione dove trovarlo. Anche quella sera c’era gente di classe,
probabilmente proveniente anche dalle città vicine, e anche da più lontano, ma
mi sentivo a mio agio, tanto conoscevo l’ambiente, che non mi era più nuovo. Il
tavolo riservato a me e alla mia sorta di ospite, sconosciuto, era abbastanza
appartato rispetto agli altri.
Giunsi a destinazione senza guardarmi troppo attorno, e… sul
momento, rimasi folgorata.
Seduto al tavolo due, un ragazzo davvero bellissimo se ne
stava in attesa, seduto comodamente e paciugando col suo cellulare a schermo
rigorosamente piatto tra le mani. Era molto carino, e subito non si poteva non
notare il fisico curato e palestrato, che traspariva facilmente da sotto la
sottilissima maglietta a mezza manica che indossava.
Era vestito in stile casual, niente di che, scarpe e abiti
estivi normalissimi, di quelli che si potevano tranquillamente trovare nelle
bancherelle del mercato settimanale cittadino, e un vistoso e appariscente
tatuaggio che si notava a metà, che dalla spalla doveva scendere fino al
gomito. La maglietta mi permetteva di scorgerne solo una parte.
Trattenendo il respiro, piacevolmente colpita, bruciai la
piccola distanza che mi separava da lui.
“Ciao”, gli dissi, mentre già scostavo la mia sedia dal
tavolo e quasi mi buttavo a sedere.
Il giovane alzò gli occhi dal suo cellulare, e mi guardò per
una frazione di secondo, in modo piuttosto sorpreso, prima di concentrarsi per
l’ultimo istante sul suo oggetto tecnologico solo per spegnerlo e rimetterlo in
tasca.
“Ciao. Mi chiamo Franco, piacere di conoscerti”, mi disse
poi, con un tono di voce molto tranquillo e spensierato. Franco aveva l’aria
del ragazzo estroverso, sembrava davvero che il suo nome aleggiasse su di lui
come un vero pronostico, per chi lo incontrava la prima volta.
Esprimeva disinvoltura dal suo modo di fare diretto, e poi
sembrava molto molleggiato, di quelle persone sportive che fanno fatica a star
sedute per ore a un tavolo di un ristorante, e già agitava fin troppo il dorso
e le spalle muscolose. Sicuramente frequentava una palestra.
“Piacere tutto mio. Isabella”, mi presentai, dopo che l’aveva
fatto lui.
Sogghignò.
“Sei una bella ragazza, complimenti”, mi disse, così,
all’improvviso, e con un mezzo sorriso impresso sulle labbra che mi pareva un
ghigno.
‘’Ti ringrazio, anche tu sei un bel ragazzo’’, tuttavia mi
limitai ad aggiungere da parte mia, senza sbilanciarmi.
Ebbene, quella frase mi aveva un po’ colpito. Io già ero un
po’ irretita da questo soggetto, che era ben presentabile, prestante; insomma,
rispecchiava un po’ l’ideale del giovane odierno, forte e vitale. E aveva anche
un tremendo aspetto da sciupafemmine.
D’altronde, una persona così gradevole non passa di certo
inosservata; e bisognava anche considerare il fatto che era molto a suo agio di
fronte ad una persona appena conosciuta da qualche istante, cosa non semplice
per tutti.
Ad esempio, io ancora non mi ero fatta un’idea ben precisa di
ciò che quel bel contenitore potesse donare a chi lo conosceva, e se si
trattava solo di un’apparenza la sua, un’estetica attraente e un modo di fare
in grado di far colpo al primo contatto, ma incapace di reggere oltre.
Ero proprio un po’ affascinata da quel soggetto, lo
ammettevo, ma stavo con i piedi ben saldi a terra e non volevo assolutamente
sciogliermi subito come un cioccolatino, o diventare improvvisamente un libro
aperto, per lui. No, sapevo che a volte esistono le apparenze, e solo questo
vago sentore m’impediva di rivolgergli uno di quei sorrisi a dentatura completa
tipici di chi ormai è in soggezione.
“Sono felice di averti finalmente visto di persona. Mi sembri
proprio una ragazza molto riservata”.
Lui mi parlò di nuovo, era una persona alla quale,
evidentemente, piaceva non lasciare troppi momenti morti, di fronte ad una
fanciulla. Solo allora gli sorrisi.
“Lo sono, in effetti”, mi limitai tuttavia a dire.
“Lavori in un bar-ristorante, eh? Vita dura, giusto?”,
m’interloquì, e anche se quella domanda un po’ mi lasciò di nuovo interdetta,
facendomi raffreddare nei suoi confronti, immaginai che quell’informazione
gliela avesse passata Irene. D’altronde, era giusto che al ragazzo avesse passato
qualcosa su di me… non tutti erano pazzi come la sottoscritta, così tanto da
lasciarsi convincere ad andare a cena per tre sere di fila con tre perfetti
sconosciuti.
“Sì, non è semplice. La mia unica fortuna è che ho un buon
rapporto con la mia datrice di lavoro, e con le mie colleghe…”.
“Questo è molto importante”, m’interruppe, bonario.
“Sì, assolutamente. Però devo anche ammettere che è da poco
che sono riuscita a trovare un… equilibrio, diciamo così, con la proprietaria
del locale. Inizialmente, e per un lungo periodo, mi è stata abbastanza ostile,
ed è stata pure molto severa nei miei confronti”, riuscii a concludere.
“Capisco. Ma è successo qualcosa, per averla indotta a
rendersi più dolce?”, mi chiese di nuovo, e scoprii che era un abile parlatore.
Mi piaceva questo suo aspetto; non temeva di porre domande, e
lo sapeva far bene. Era spigliato anche nel modo di parlare, era proprio bravo.
“Credo sia stato per la faccenda riguardante il mio ragazzo”.
Tentennai.
“Hai un ragazzo, quindi?”.
Stupore, Franco era rimasto per qualche istante basito.
“No, ora non più, ci siamo lasciati”, spiegai, e parve
tornare a sciogliersi.
“Mi dispiace, sono cose che capitano. Ti dirò, è successo di
recente anche a me”.
Al nostro tavolo giunse l’antipasto, e quindi per un istante
tacemmo entrambi, mentre il cameriere ci posava con delicatezza i piatti di
fronte ai nostri volti. La nostra distrazione, tuttavia, durò solo qualche
istante.
“Capisco, purtroppo queste cose accadono spesso”, provai a
dirgli.
“Hai ragione, soprattutto quando le nostre vite sono così
precarie. E poi, per me è stato davvero qualcosa di difficile da sopportare,
ero molto legato a lei, e non solo, in un certo senso lavoravamo anche insieme”,
disse Franco, tristemente, mentre già armeggiava con la sua forchetta.
“Sul serio? Pensa, che bello”, mi venne spontaneo da dire,
gradevolmente sorpresa. Doveva essere fantastico poter condividere
piacevolmente un mestiere con la propria dolce metà.
Franco però sogghignò di nuovo, e in un modo che tornò a
farmi turbare.
“Sulle chat, quando si lavora in due, di solito è sempre più
apprezzato ciò che si mostra”, disse, e io lo guardai, esterrefatta. Non avevo
capito.
“Cosa? Le chat?”.
“Sì, sulle chat. Non solo, giravamo anche video… di quelli
per adulti, intendiamoci. A luci rosse, se preferisci”.
Ero sbalordita, e posai la mia forchetta nel piatto.
“Sai, io sono un bel ragazzo, ne sono consapevole. La mia ex
lo era pure lei, era una giovane donna formosa e dall’aspetto splendido, andava
continuamente dall’estetista, e non si perdeva mai un trattamento di bellezza.
Perché non fare fruttare tutto ciò, ci siamo chiesti? La bellezza fisica ripaga
bene, soprattutto in un momento di tale crisi”, volle aggiungere, con fare
incredibilmente oculato e aristocratico.
Io ancora lo guardavo, sbigottita; che fisico, che corpo, che
portamento! Eppure, cadeva così in basso. Poi, addirittura, mi venne da pensare
che mi stesse prendendo in giro, raccontandomi qualche frottola per farsi
concepire come uomo di mondo, un uomo giovane già vissuto, in modo da fare lo
spaccone ai miei occhi, e quindi anche turlupinarmi con una facciata falsa,
ingannevole.
“Parli sempre in questo modo? Cioè, tu ti presenti agli altri
con queste cazzate?”, gli chiesi, con fare sbrigativo.
Rise.
“Non sono cazzate, fidati. Il bello è che su Internet c’è
sempre qualcuno disposto a masturbarsi di fronte alla tua immagine; se tu poi
sei gradevole d’aspetto, ci saranno più persone disposte a farlo. Non ci credi?
Prova…”.
“No, non m’interessa”, tagliai corto, interrompendolo con
fare agitato. Mi stava innervosendo in maniera vistosa.
“Non volevo mica farti arrabbiare, perdonami. Parliamo
d’altro”, cominciò a correggersi, ma era troppo tardi, siccome per me qualcosa
si era già guastato, e in maniera troppo decisa.
La schiettezza del giovane che avevo di fronte mi
imbarazzava, mi mandava proprio in tilt, e non avevo voglia di rispondergli, e
difatti non gli dissi nulla, mentre percepivo un discreto rossore che aleggiava
sulle mie guance. Reazione insolita, poiché arrossivo poco o quasi mai. Segno
che, quindi, qualcosa stava seriamente, e di nuovo, andando storto.
“Quanti anni hai, Isabella?”, tornò a chiedermi, gentilmente, notando il mio
mutismo.
“Non ti hanno insegnato le buone maniere? A una donna non si
chiede mai l’età”, sbottai, ancora infastidita.
“Ma tu non sei una donna, sei un fior di ragazza!”, esclamò,
sorridendomi.
Non ricambiai il sorriso, ma gli lanciai solo uno sguardo
emblematico, prima di allontanare leggermente la mia porzione fredda da me. Non
avevo più fame.
“Comunque io ho trentaquattro anni”, tornò ad aggiungere,
notando il mio mutismo, e senza scomporsi. Fui io però a quell’affermazione a
tornare ad accendermi.
“Davvero? Ne dimostri qualcuno in meno”, mi vene spontaneo da
affermare, poiché era vero. Aveva un corpo curatissimo da ventenne, ed essendo
ormai abituata ai trentenni che cominciano a diventare ben presto pingui
catorci, prestavo sempre caso al paragone tra età reale ed età dimostrata, negli
uomini.
“Grazie, me lo dicono spesso. Non per nulla sono così apprezzato
sulle chat a pagamento”, rispose, ancora col sorriso sulle labbra, superbo e
spocchioso, come un pavone intento a far la ruota.
Per un po’, non parlammo; le pietanze venivano servite e poi
venivano portate via, e il tempo scorreva all’impazzata. Ogni tanto, nel nostro
silenzio, lanciavo qualche sguardo a Franco, e quando il giovane si accorgeva
di ciò, si lasciava solo andare a brevi mugugni che esprimevano piacere, mentre
mangiava abbondantemente il ben di Dio che gli veniva posto di fronte.
Mangiò in silenzio e fu come se il suo comportamento fosse
una tattica studiata, poiché sembrava che fosse un lupo affamato e immerso nel
solo intento di riempirsi lo stomaco, ma per nulla rassegnato, anzi, pronto a
scattare una volta che avesse finito di soddisfare i suoi bisogni primordiali e
più impellenti.
Il ragazzo che aveva scelto Irene quella sera, era una
persona di sicuro abilissima nei rapporti umani, e non sapevo dirmi con quante ragazze
ci avesse provato, nel corso della sua vita. Mi dava proprio l’impressione del
dongiovanni ormai esperto.
“La sai una cosa?”, cominciò a dirmi, a metà cena, “spero che
ci rincontreremo, dopo questa sera”.
“Io… non lo so”, gli risposi, sempre nervosa. In realtà avrei
voluto dirgli che speravo di no, ma era anche vero che un pochino mi piaceva, e
anche se era proprio strano, magari a un secondo incontro avrei potuto
chiarirmi le idee su di lui.
Quello stava per concludersi, e ancora non avevo capito molto
sulla sua personalità, a parte quello che aveva lasciato trasparire e al suo
interesse per la pornografia in rete, cosa che tra l’altro mi portava a
storcere molto il naso. Almeno, però, era stato sincero.
“Ma dai, come non lo sai? Io dico di sì”, mi sollecitò.
“No, davvero, ci sono cose di te che non mi sono chiare”.
“Non puoi pretendere di conoscere tutto subito. Le cose belle
si conoscono pian piano e a piccole dosi”, mi disse, sorridendomi ancora.
“Sei così sicuro di essere una cosa bella?”, gli chiesi, a
mia volta, con un pizzico d’ironia.
“Lo sono”, rispose, risoluto.
“Egoista”.
“Non sono egoista, se lo fossi mi sarei comportato in maniera
diversa con te. Ti avrei sommerso di bugie e ti avrei fatto mia subito; ho
visto come mi guardi, ed io ti attiro, almeno un po’. Una breve pressione e
zac… saresti caduta nella mia rete”, mi fece notare, grottescamente.
Ancora seria, tornai ad inarcare le sopracciglia.
“Pensi allora che io sia una stupida, giusto? Ti garantisco
che so riconoscere chi è degno della mia fiducia, e chi mi mente”, ribattei.
“Non sei stupida…. sei fragile. Si vede che sei ancora
vulnerabile, e con una buona dose di fascino e un po’ più di finto carisma ti
avrei steso ai miei piedi”.
“Parli bene, però. Devi aver studiato molto”, mi venne da
dire, a quel punto.
Franco aveva delle buone capacità retoriche ed era chiaro
nell’esprimersi, cosa abbastanza rara tra i giovani, e questo era un altro
punto che mi aveva colpito abbastanza.
“Certo, sono laureato. Sono uno psicologo”, mi disse, ed io
feci una naturale smorfia di assenso.
“Un laureato in psicologia che invece di mettere a frutto la
sua laurea si dà alla pornografia online”, gli dissi, scrollando leggermente il
capo, con disapprovazione.
Il mio interlocutore si lasciò sfuggire una risata
cristallina, controllata e sincera.
“Se la vuoi mettere così, su questo piano… in realtà anche
quella è arte”.
“Non è arte. È essere burattini di chi al di là di uno schermo
vuole utilizzarti per i suoi lavoretti manuali”.
Franco sobbalzò, e sgranò gli occhi.
“Caspita, che carattere forte che hai! Non mi sarei mai
aspettato una risposta del genere, da te”.
Scrollai le spalle.
“E’ tutto così facile! Ti basta una webcam, per le chat,
oppure una telecamera e un amico abile che voglia darti una mano nelle riprese.
I soldi li fai subito e senza fatica. Sono soldi facili, e tra me e la mia ragazza
funzionava a meraviglia”, ricominciò a raccontarmi, ma non lo lasciai andare
oltre.
“Funzionava così bene che vi siete lasciati”, gli feci
notare.
“Sempre a rigirare il coltello nella piaga, eh!”, disse,
scherzosamente. “Comunque ci siamo lasciati perché lei… si era lasciata un po’
prendere la mano. Voleva sempre di più, voleva diventare una vera e propria
attrice, in quell’ambito. Non voleva più restare nel mondo amatoriale, dove non
sono molte le persone che ti seguono, e voleva sfondare. L’ho lasciata andare per
la sua strada, alla fine, e ora dovrebbe essere a Budapest, una delle capitali
europee di questo genere di cose, dove ci sono set appositi e può cimentarsi in
ben altre prove rispetto a quelle che affrontava assieme a me”.
“Capisco”, riuscii solo a dire.
“Vieni a trovarmi ed io ti renderò la nuova star del web. Sei
bella, e…”.
Mi stava improvvisamente allungando un foglietto sul quale
c’era scritto un numero di telefono a caratteri quasi cubitali, ed io con
prontezza lo respinsi, mozzandogli il fiato in gola e lasciandolo senza parole
per un attimo.
“Non sono una zoccola senza cervello. Se è questa l’idea che
ti sei fatto di me, meglio che non ci rivediamo mai più dopo questa sera”, gli
dissi con risolutezza.
“Ma… cosa stai dicendo?! Io non ho mai detto questo. E poi
hai insultato la mia ex, una bellissima ragazza anche lei laureata, che voleva
solo fare i soldi in maniera facile”.
Franco, per la prima volta, mi sembrava agitato e scosso.
“Beh, e tu mi hai stufato con questi discorsi. Non voglio che
tu mi dia fastidio in questo modo”, ribadii, anch’io irritatissima.
“No, io non ti sto dando fastidio!”.
“Invece sì. Non parlarmi mai più in questo modo”.
I camerieri portano una fetta di torta ciascuno, portando via
le nostre ultime pietanze ancora intatte, senza che noi due avessimo rivolto
loro un minimo sguardo, dal tanto che eravamo presi dal discutere, seppur
moderatamente e stando attenti a non attirare l’attenzione degli altri
avventori su di noi.
Attendemmo che si allontanassero anche loro, prima di
riprendere un discorso che per me era già chiuso. Come durante le due serate
precedenti, non vedevo l’ora di tornarmene a casa, e, quella volta, di dimenticare
per sempre tutto ciò.
Però, il mio interlocutore decise di calare la maschera da
dongiovanni, e di agire direttamente e in maniera forte, quella volta,
approfittando del nuovo momento in cui eravamo senza nessuno nelle immediate
vicinanze per afferrare il mio braccio appoggiato sul tavolo.
“Smettila di fare la santarellina. Ho occhio, so di sicuro
che a riguardo di certe faccende… ne sai più di me”, mi disse, arrabbiato.
Non sapevo cosa gli era preso, era come se tutto fosse
degenerato, dopo le sue continue provocazioni rivolte nei miei confronti. A
quel punto però ero certa che quello che avevo di fronte a me era un vero
prepotente pericoloso, una mina vagante in cerca di vittime, grazie a quel suo
solito sorriso smagliante e a quel fisico da urlo.
“Metti subito giù quelle tue sporche mani da maniaco”, gli
sibilai, pronta all’azione.
In un attimo la mia percezione della realtà si era allertata,
e spinta dalla sensazione di paura che cominciavo a provare in maniera
distinta, i miei occhi osservarono ciò che mi circondava, per scoprire che
nessuno stava notando il nostro sommesso alterco.
Riuscii a strappare il mio braccio destro dalle grinfie del
soggetto poco raccomandabile, e siccome non avevo la benché minima idea di chi
fosse quell’individuo, sicura di averne conosciuto solo una schermata in
quell’ultimo paio d’ore, decisi che dovevo farla finita. Me ne sarei andata.
Quella torta invitante che era davanti a me, in attesa di un
ipotetico assaggio, non sarebbe mai stata mangiata, ma sarebbe miseramente
finita nella spazzatura.
“Cosa cazzo credi di fare?”, mi chiese, sempre più alterato,
notando le mie reazioni repentine.
“Me ne vado. Buona serata, e a mai più”, dissi, risoluta,
alzandomi dal tavolo e afferrando contemporaneamente la mia borsa.
Avevo preso la mia decisione. Sarei andata a ringraziare i
camerieri, e avrei detto che un contrattempo mi stava portando via da lì, ma
che era stato tutto favoloso. E Franco se ne sarebbe rimasto a rosicarsi le
dita.
Ammisi che non avevo preso in considerazione il fatto che lui
avrebbe anche potuto cercare di fermarmi o di continuare ad importunarmi,
d’altronde eravamo in un locale di classe ed ancora pieno di gente, e quindi
non poteva fare mosse sbagliate.
Ebbene, in ogni caso saltò su anche lui e mi seguì.
“Tutto bene, signori? C’è stato qualcosa che non andava?”, mi
chiese la cameriera alla cassa, notando lo sgomento che aleggiava sul mio viso,
quando mi avvicinai per porgere i miei ringraziamenti.
“Assolutamente no, tutto impeccabile. Vorrei solo che
porgeste i miei ringraziamenti a tutti quanti, poiché siete stati impeccabili,
e peccato che un imprevisto ora mi costringa ad andarmene di fretta”, le dissi,
cercando di rassicurarla.
“Mi dispiace, signorina. Sarà per un’altra volta. Grazie per
aver apprezzato il nostro servizio, e ancora complimenti per aver vinto questo
primo premio, spero di rivederla presto. Auguri, e buon proseguimento di
serata”, mi salutò, ed io ringraziai di nuovo blandamente, prima di affrettarmi
ad andarmene, mentre con la coda dell’occhio continuavo ad osservare il mio
compagno di serata, che si era messo in attesa pochi passi dietro di me.
Sperai che avesse avuto bisogno della toilette, o di chiedere
qualcosa alla cassiera, e invece no, si mise a seguirmi fin tanto che fui fuori
dal locale.
“Fermati”, mi disse, forte, non appena fummo abbastanza
distanti dal buttafuori posizionato all’ingresso.
“Cosa vuoi? Lasciami stare, vai per la tua strada”, gli
dissi, trovandomelo di nuovo a pochi passi da me.
Quasi mi misi a correre, quando notai l’auto parcheggiata di
Irene, a una ventina di metri di distanza.
“Ti ho detto che devo parlarti…”, ci riprovò, seguendomi
sempre più con fare minaccioso e persecutorio.
“Ti avverto, ho lo spray al peperoncino nella borsa. Se fai
un altro passo verso di me, e non la smetti di molestarmi, lo uso…”.
Non riuscii a dire altro, poiché la sua mano afferrò la mia
spalla sinistra, dando una spinta volta a girarmi all’indietro, verso di lui.
Urlai con tutto il fiato che avevo in gola.
“Vieni con me, devo farti vedere delle cose”, mi disse, ma io
urlavo e volevo liberarmi della sua stretta.
“Non voglio vedere niente… lasciami… lasciami”, gridavo, e mi
lasciai scivolare a terra.
Tra noi due era quasi una lotta, e fu in quel momento che
Irene scese dall’auto e intervenne.
“Ehi! Cosa stai facendo alla mia amica?!”, gridò,
avvicinandosi di corsa, per quanto le sue scomode calzature alla moda riuscissero
a permetterle.
“E’ un porco, Ire! Salvami da questo maniaco…!”, strepitai,
provando ad assestare un calcio a quel soggetto morboso che si era tramutato
nel mio aggressore.
Fu Irene però a riuscire a rifilare un bel pestone improvviso
in un fianco di Franco, che a quel punto lasciò la presa e si distese a mio
fianco.
“Troia! Cosa ti salta in mente…”, cominciò a inveire il
pericoloso maniaco, dolorante al suolo, ma non fece in tempo ad aggiungere o a
fare altro.
Estrassi con prontezza lo spray dalla mia borsa e glielo
spruzzai direttamente negli occhi.
“Andiamocene!”, dissi a Irene, che ancora inebetita osservava
la scena, e mi rialzai dall’asfalto del marciapiede e mi misi a correre verso
la macchina.
La mia amica fece altrettanto, mentre Franco si dibatteva
ancora al suolo, gemente e stordito dal dolore, ormai messo a dura prova dalla
mia azione di legittima difesa.
Col fiatone, mi precipitai a sedermi, e in men che non si
dica anche Irene era a mio fianco, e partì sgommando, senza neppure allacciarsi
le cinture. Io ero senza fiato, mi accasciai sul cruscotto, piegata in due e
con gli abiti tutti in disordine, stringendo una delle mie calzature tra le
mani, che avevo rischiato di perdere mentre mi precipitavo a bordo.
Ogni vicenda ha una sua morale, e quella volta era stata
molto esplicita. Avevo appreso che non avrei mai dovuto fidarmi di uno
sconosciuto… e lasciar fare ad una mia amica. Mai mettersi nelle mani di altri.
“Ma… io non capisco com’è potuto succedere questo casino”,
disse Irene, guidando con rigidità, mentre io ancora riprendevo fiato. Non
avevo proprio più parole per descrivere il disastro assoluto di quelle tre
serate, conclusosi con quell’escalation di violenza brutale.
Non avevo idea se Franco avesse avuto intenzione solo di
fermarmi o quant’altro, stava di fatto che mi aveva trattenuto, e questo mi
aveva spinto ad agire di conseguenza. E comunque non erano state amichevoli le
sue parole, non osavo immaginare cosa sarebbe potuto accadere se Irene non fosse
intervenuta quasi in extremis.
“Non farlo mai più”, riuscii a dire, biascicando, con le
labbra rese aride dal recente spavento.
“Oddio, ti giuro, non è colpa mia, Isa! Non avrei mai creduto
che…”.
“Tu mi hai messo in una situazione molto imbarazzante. Hai
scelto tre persone particolari, così tanto strane che mi viene il sospetto che
siano state scelte apposta per infastidirmi o per fare in modo che tutto finisse
male e in tragedia sfiorata”, proseguii, senza badare alle sue sciocche scuse.
“No, te lo giuro! Erano ragazzi così buoni”.
“Dove li hai conosciuti?”, le chiesi.
“Simone è un mio lontano cugino. Rodolfo lo sai già… e
Franco… beh…”.
“Dove hai conosciuto quel maniaco?”, insistetti, mentre la
rabbia sostituiva la paura.
“In una chat, in rete”, disse infine Irene, mentre il suo
viso diventava rosso come il fuoco. Fu come se avessi ricevuto un pugno al
costato, e abbandonai la mia posizione disordinata per accasciarmi contro il
sedile, senza forze.
“In una di quelle chat, vero?”.
“Non so cosa intendi. In una chat qualsiasi… di un social, mi
pare…”, provò a dire.
“No, in una chat per adulti, diciamo così. Sai, aveva il
vizio di raccontare questi particolari della sua giovane esistenza”, le sbattei
in faccia.
Irene lanciò un gridolino di estrema sorpresa, e per qualche
attimo non disse più nulla, ed io non volevo infierire ulteriormente. Sapevo
che avevo già infierito a sufficienza, ed ora poteva starsene a ribollire con
la sua coscienza, sempre se ne aveva una.
Io mi sentivo ferita a morte da lei e dalle sue scelte, e non
volevo chiedermi il perché di tutto quello che mi era accaduto. Non avevo
neppure più la forza per arrabbiarmi troppo. Volevo solo dimenticare, come poco
prima.
“Scusami, io non volevo. Tutto quello che è accaduto, è
successo solo per caso… non volevo farti star male. Perdonami, se puoi”, mi
disse di nuovo la mia amica, e sembrava davvero dispiaciuta, ma io non la
ascoltavo.
Mi aveva dannato, mi aveva costretto a passare tre serate di
fila tremende, in compagnia di avanzi della società assurdi; mi aveva lasciato
tra le mani di un pervertito che alla fine era giunto ad aggredirmi, e speravo
che fosse tutto finito lì a riguardo.
Mi sentivo davvero danneggiata, e addirittura più da lei che
dal tizio che mi aveva appena appena dato dei problemi, siccome era la mia
migliore amica, e in quanto tale avrebbe dovuto proteggermi e preservarmi da
tali sciagure.
Ero quindi certa che l’avesse fatto apposta, e che magari
dopo che mi scaricava a casa andasse addirittura a riderne con le persone con
le quali ero uscita fino al mese prima, amici di Marco.
No, le sue scuse approssimative non mi bastavano, non
lenivano minimamente il dolore interiore che provavo, ed era come se quella
serie di situazioni mi avessero ucciso due volte, oltre avermi messo a dura
prova.
“Ti chiedo scusa, Isa. Sinceramente, con una mano sul cuore,
e non so che altro dirti per farmi perdonare! Non doveva andare così”, riprese
a dire Irene, ed io, chiusa nel mio mondo, guardavo pietrificata la realtà che
scorreva al di là del finestrino dell’auto. A forza di ferirsi, il mio cuore
aveva perso sensibilità.
“Almeno dimmi qualcosa”.
La voce della mia amica tornò a farsi viva nella mia mente,
quando scesi dalla sua macchina per recarmi di nuovo in quel calvario che era casa
mia.
Non dissi nulla e sbattei la portiera, una volta che fui
scesa. Non pensavo di meritarmi tutto quello.
In casa la luce del salotto era accesa, e sapevo che mia
madre era ancora lì, in piedi, e volevo evitarla; dovevo evitare di vedere ogni
cosa che mi avrebbe fatto di nuovo male.
Alla fine, feci la cosa che ritenni più sensata. Mentre udivo
il rombo solitario del motore dell’automobile di Irene che s’allontanava, mi
misi a sedere sullo scalino di fronte alla porta d’ingresso, all’addiaccio, con
attorno a me il brusio dei grilli, che in quella calda serata di metà estate
frinivano come non mai.
Avrei atteso, mi sarei chiarita le idee lì, alla mercé della
realtà che non era più racchiusa in una casa o in un locale.
La natura, la madre di tutte le cose, mi avrebbe tenuta con
sé e mi avrebbe consolata, e sarei rientrata solo quando mi sarei sentita
meglio.
Cominciai a piangere, fregandomene di tutto e di tutti, e
crollando definitivamente.
NOTA DELL’AUTORE
E adesso?
Ora è davvero tutto crollato, per la nostra protagonista.
Queste recenti brutte esperienze l’hanno piegata.
Grazie a tutti voi!
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Capitolo 18 *** Capitolo diciotto ***
Capitolo diciotto
CAPITOLO DICIOTTO
Me ne rimasi seduta a lungo sullo scalino d’ingresso di
fronte alla porta di casa di mia madre, immersa tra lacrime e riflessione.
Tra le mani ancora stringevo la mia scarpetta col tacco che
mi ero messa per quella serata, e che dopo la precipitosa fuga dal maniaco non
avevo più trovato la forza per indossarla di nuovo; mi sentivo una sorta di
Cenerentola, solo che per me non c’era stato alcun lieto fine, e nessun
principe azzurro.
Più il tempo passava, più il mondo attorno a me diventava
silenzioso, ma io non mi accorgevo distintamente dello scorrere dei minuti e
delle ore, essendo come assorta nella disgrazia in cui ero caduta, tradita
dalla mia migliore amica, che mi aveva persino dato in pasto a un orco, in una
sorta di macabro circo, e da mia madre, che neppure si era preoccupata per me.
La luce della cucina si spense attorno alle ventitré, e non
si degnò neppure di provare a farmi uno squillo nel cellulare, siccome tardavo
a rientrare. Non mi aveva a cuore nessuno, in realtà, e questo pensiero era
come un pugnale che con la sua lama sottile e affilata, alla stessa maniera di
un bisturi chirurgico, entrava a far a fette il mio cuore già a pezzi.
Non avevo più possibilità di rialzarmi e di riscattarmi, a
mio avviso, e non riuscivo a smettere di pensare in quale guaio mi avesse
cacciato la mia amica. Addirittura, mi aveva concesso su un piatto d’oro a un
maniaco.
Ecco, quel pensiero mi rigettava nell’abisso, mi faceva
impazzire, e ogni volta che mi sfiorava la coscienza, e cioè ogni tre minuti, a
dir tanto, mi sentivo avvampare in volto. Cercavo così di nascondere il mio
viso dal mondo e dalla marea di pericoli e di dolore che racchiudeva nella sua
atmosfera.
Il cielo stesso, stellato poiché abbastanza lontano dalle
fonti più forti di luminosità, mi sembrava un grande carcere, e quelle stelle
solo delle futili guardiane che se ne stavano lassù, a guardare il genere umano
che infieriva sui propri fratelli e sulla vita che lo circondava, immobili come
se non gliene potesse fregare nulla di quel che accadeva, intente a vigilare
solo l’immunità del restante e infinito universo. Per il resto, che la Terra fosse
pure la casa di abomini e ingiustizie.
“Dio, aiutami Tu a rialzarmi”, sussurrai, provando un
brivido.
Non ero credente, anzi, avevo snobbato così tanto la Chiesa e
il suo Ordine che non ricordavo più nemmeno un frammento di una delle più
semplici e basilari preghiere, quelle che ogni sabato ancora impartivano
durante l’appuntamento settimanale col catechista. Ma ero così distrutta dentro
che mi era venuto naturale invocare la più grande potenza superiore che potesse
anche solo strizzarmi metaforicamente un occhio. Sentivo che qualcosa o
qualcuno mi doveva qualcosa, e che la vita stessa fosse un minimo in debito con
me, dopo tutti gli eventi recenti.
In virtù di codesto pensiero, e sentendomi sola che più sola
di così non potevo essere, cominciai a fare una rassegna mentale delle poche
persone che mi erano vicine, e scoprii che non avevo neppure una spalla amica
su cui piangere… il massimo del macabro.
Avrei tanto voluto potermi ancora fidare di qualcuno, e
almeno Irene avrebbe potuto fermarsi un attimo per sincerarsi meglio di quel
che mi frullava per la mente, e magari per scusarsi ulteriormente, ma anche in
quel caso scartai l’insulso pensiero, siccome avrebbe solo finito per
infastidirmi ancora di più, sul momento. Meglio che fosse finita così, tra me e
lei, almeno per quella serata catastrofica.
E poi… poi, un pensiero di quelli folli mi baluginò
all’interno delle mie provate meningi, e mi sentii finalmente meglio, come se
un calore di dimensioni epiche avesse cominciato a riscaldare il mio cuore, a
tornare a renderlo vigile.
Ero impazzita del tutto, non potevo dire altro di me stessa.
Ero tornata a pensare, all’improvviso, a Piergiorgio, e al fatto che lui fosse
l’unica persona che mi era stata vicino, di recente, con la quale avevo
lasciato ancora qualcosa in sospeso.
Forse non voleva vedermi più, dopo quello che avevo fatto.
Non lo sapevo.
Sapevo solo che decisi, così di punto in bianco, provata e in
lacrime, di recuperare il suo numero di cellulare, che ancora conservavo nella
mia borsa.
Frugai per un po’, il foglietto l’avevo lasciato volante e
sfuso, nel piccolo caos che mi portavo sempre dietro ogni giorno, e lo ritrovai
dopo qualche istante di ricerca, con il volto quasi infilato nell’oscurità di
una borsa rischiarata solo da una luna piena dalla luce fioca. Lo strinsi saldamente
tra le mani, poi, senza razionalità, ripresi a piangere.
Volevo chiamarlo, poteva sembrare una follia, ma era vero che
quell’uomo era l’unica persona gentile ed amorevole nei miei confronti,
nell’ultimo periodo, e non sapevo a chi rivolgermi e cosa fare.
Avevo bisogno di una consolazione che non fosse pura pietà, e
sapevo che quel signore poteva darmela, essendo un uomo bravo ad ascoltare. E
poi era anche un medico, se avevo proprio perso la ragione avrebbe anche potuto
curarmi in qualche modo… mi venne da ridere, all’improvviso, mentre quasi mi
annegavo tra le mie lacrime silenziose; non era uno psicologo, era un
cardiologo, e di certo con i pazzi non sapeva cosa fare.
Ma io ero poi pazza? No, stavo solo chiedendo comprensione e
rispetto. E chi era stato l’unico ad avermene offerto in grande quantità, senza
limiti e senza parsimonia, nelle ultime settimane? Solo Piergiorgio. Per il
resto del mondo, sembravo solo una burattina con cui divertirsi in maniera
subdola e spietata, e non avevo neanche più un ragazzo e degli amici veri. E
neppure una madre e una famiglia.
Era andato tutto all’aria.
Ed era andato, forse, tutto all’aria anche con Piergiorgio,
dopo l’incontro tra le nostre labbra. Ma non lo sapevo con certezza.
Non mi chiesi altro, mi venne naturale agire e telefonare a
quel numero, senza pensare all’orario, alle conseguenze… esistevo solo io
stessa e il culmine della mia disperazione interiore.
Composi il numero e chiamai, ben sapendo che a quell’ora
tarda non mi avrebbe risposto nessuno, ed io non avrei mai dovuto affrontare
l’imbarazzo di far svegliare un pover’uomo estraneo alla mia tragedia
personale… ma mi sbagliai, perché il telefono era acceso e squillava.
Tornando alla realtà, feci per premere sullo schermo il
simbolo rosso, per interrompere la telefonata, ma qualcuno dall’altra parte
aveva già risposto.
“Pronto?”.
Avevo già allontanato il cellulare dal mio orecchio sinistro,
per interrompere la telefonata, ma quando a lieve distanza udii quella sua voce
calda e profonda, non esitai a tornare a riavvicinarlo a me.
“Piergiorgio…”, riuscii a dire.
Singhiozzai, imbarazzata, e non mi presentai. Ma lui, astuto
e sveglio, mi riconobbe senza problemi, anzi, si fece festoso.
“Isabella cara! Che
cosa ti è successo?”, mi chiese, riconoscendomi subito e percependo, dai
rumori che dovevano giungere soffusi anche al suo orecchio, che c’era qualche
anomalia.
Non riuscii a rispondere e ripresi a piangere. Sentivo di
aver fatto un casino, con quella telefonata, e non avevo nulla da dire.
Volevo solo riagganciare.
“Per favore, parla! Ti
sei fatta male? Stai poco bene?”, insistette, e a quel punto la sua voce
profonda non era più rilassata, ma inquieta.
“Sto… male”, borbottai, a singhiozzo.
“Chiama immediatamente un’ambulanza,
lo sento anch’io che non stai bene. Te la chiamo io?”.
“No, sto male… mentalmente. Mi sono successe… delle cose…”.
“Capisco. Ma sei a casa
tua, ora? Dove sei? Ti passo a prendere, se sei in giro, ti riporto…”.
“No, sono già a casa”.
“Allora vengo un attimo
a vedere. Stai ferma lì, non fare sciocchezze”, si raccomandò, ed io mi
portai la mano libera sulle labbra. Non volevo scomodare il gentile signore a
quell’ora quasi proibitiva.
“No… non si scomodi, è… è tardi”, provai a dire, ma l’uomo fu
irremovibile. Mi aveva davvero a cuore, non c’era ombra di dubbio.
“Non preoccuparti per
l’orario. Non è assolutamente un problema. Aspettami lì dove sei, tra dieci
minuti arrivo”.
Riagganciò, poi, senza lasciarmi il tempo per borbottare
altro.
Che fosse la stanchezza, o lo stress, o quant’altro, non
sapevo, ma cominciò a girarmi la testa, dopo il lungo e complesso sfogo, e mi
ritrovai ad essere come un sacchetto della spazzatura abbandonato lungo la
strada. Mi sentivo una stupida, ad aver accresciuto il problema contattando
quel perfetto sconosciuto; non sapevo nulla di lui, magari gli avrei fatto
scoppiare anche delle grane tra le mura domestiche, con le mie telefonate delle
ventitré e trenta.
Non desideravo di peggiorare la situazione in tal modo, ma
allo stesso tempo ero felice che il signore si sarebbe precipitato lì per me;
mi faceva sentire importante per qualcuno, in un momento in cui ero col morale
sotto terra, ed ero spossata e stanca di tutto, temendo di non essere ben
voluta da nessuno.
Me ne stetti senza pensare, come un involucro vuoto,
appoggiata a quel dannato scalino fintanto che non udii il rombo del
fuoristrada di Piergiorgio, che, solitario nella notte e nella mia via, sembrava
preambolo di protezione, di sostegno morale e di aiuto.
Quando il mezzo si fermò proprio di fronte a casa di mia
madre, esisteva ormai solo la persona che l’aveva guidato fin lì, e gli altri
problemi si fecero improvvisamente più piccini, anche se ripresi a piangere.
No, dovevo raddrizzare il corso della mia vita…
“Isabella! Che ci fai lì?”, chiese subito Piergiorgio,
scendendo dall’auto e vedendomi accasciata sullo scalino d’ingresso.
Si avvicinò poi a me con rapidità, il rumore ritmico delle suole
delle sue scarpe che risuonava sul selciato, e si chinò su di me, quasi a
studiarmi, come se volesse scoprire se avevo avuto un malore improvviso, o
qualcosa di simile.
“Mio Dio, cosa ti è successo? Dimmelo, per favore”, mi
chiese, molto scosso.
Io singhiozzai di nuovo, e le sue domande tornarono a
rimettere in moto la mia mente, che mi fece rivedere di nuovo le scene che
avevo vissuto qualche ora prima… e così ripresi anche a piangere
disperatamente.
Lui fece una mossa che non mi attendevo; si sedette a mio
fianco, sul medesimo scalino, con il suo corpo stretto al mio.
“E’ uno schifo di mondo, questo…”, affermai, all’improvviso.
Era l’unica cosa che riuscivo a dire. Non potevo, o, meglio,
non me la sentivo di raccontare a voce le mie tristi esperienze recenti a
quell’uomo, quindi avevo ripiegato verso l’ovvietà.
“Questo lo sappiamo. Ma ora, per favore, asciugati le lacrime
e fai un bel respiro”, mi suggerì dolcemente, la sua voce profonda e dalla
tonalità bassa che mi risuonava nelle orecchie.
Il mio pianto calò d’intensità, ma le lacrime restarono, e
così Piergiorgio mi sorprese un’altra volta, prendendo un fazzoletto di carta nuovo
dalla tasca dei suoi calzoni grigi all’antica, e dopo aver provato di pormelo,
vedendo che non avevo reazione mosse le sue mani verso il mio volto, e piano,
con grande leggerezza, si sporse verso di me e cominciò ad asciugarmele lui
stesso, quelle lacrime di dolore e di frustrazione.
“Non devi dirmi nulla, davvero! Non pensare più a quello che
ti fa star male, qualunque cosa sia, va bene?”, provò a tranquillizzarmi, ed io
lasciai che le sue dita, al di là del piccolo strato di carta, accarezzassero
la mia pelle con delicatezza. Ne percepivo il loro calore, che si fondeva con
quello delle lacrime appena versate e non ancora disperse al suolo.
“Ci proverò”, annuii, cercando finalmente di calmarmi, mentre
quel contatto sembrava rinvigorire un fuoco che, dentro di me, era sembrato
spento per un poco.
Quei tocchi gentili avevano sortito il medesimo effetto di
una secchiata di petrolio su dei tizzoni quasi spenti. Poi, mi volsi verso di
lui, gli occhi asciugati, e le guance pure, e incrociai nel buio il suo sguardo
con quel suo sorriso bonario, da padre. Da padre che non avevo mai avuto.
Sentivo su di me i suoi occhi e mi sembrava di essere
finalmente protetta dall’aura di quella persona.
“Ecco, ora va già meglio”, riprese a dire, sorridendo nel
buio di una notte accompagnata da una luce lunare leggermente soffusa, “e non
mi resta altro che sperare che tutto torni a posto al più presto”.
“Mi sento una merda, George”, gli dissi all’improvviso,
squassando la sua bonaria sicurezza, e quasi tornando a piangere.
Lui restò molto scosso per quello che gli avevo detto, ma
anche il fatto che avevo utilizzato quel nomignolo per chiamarlo lo soprese, e
piacevolmente.
Tornò ad allungarsi verso di me e a prendermi una mano.
Ancora una volta, un contatto potente tra noi, e ricercato dal mio
interlocutore.
“Non devi dire mai più una cosa del genere”, quasi esclamò,
un po’ severo.
“Invece sì. Cosa potrei essere, altrimenti? La mia migliore
amica pare si sia messa in testa di rovinarmi la vita… mi ha organizzato tre
serate a sorpresa, per tirarmi su il morale dopo la rottura definitiva col mio
ragazzo, e il risultato è stato che è giunta, questa sera, a buttarmi ad
affrontare una cena assieme ad un pervertito conosciuto su Internet, che mi ha
praticamente messo le mani addosso. Mia madre, da parte sua, non mi parla e
sembra che le dia fastidio… cosa dovrei pensare, di essere una persona che ha
fatto delle scelte giuste, nella vita? Tutto questo mi fa sentire una merda,
punto”, conclusi la mia esplosione.
“Ho capito, ma non agitarti”, tornò a dirmi, calmissimo, “in
ogni caso, le esperienze recenti ti hanno ferito, ma questo non vuol dire che
tu sia… una cacca. Anzi, sei una persona forte, stai affrontando tanti eventi
che altri non avrebbero sopportato così stoicamente. Questo tuo sfogo non
conta, mia giovane amica”, mi disse, nel timore che stessi per tornare a
piangere, “perché sei troppo stressata, e poi è notte, e la notte si sa,
amplifica i nostri problemi… se vuoi, sono sempre qui. Io ci sono. Non ho idea
di quel che è accaduto con tua madre, o altri dettagli di questa sorpresa che
ti ha riservato la tua amica, ma posso ascoltare e darti consigli. Io ci sono e
ci sarò, nonostante tutto, e sempre, e se uno sconosciuto ti ha messo le mani
addosso, andiamo a denunciarlo assieme, e subito”.
“No, lasciamo perdere… davvero, voglio solo dimenticare, non
è successo nulla”, sussurrai, “e scusami per tutto questo. Per questa chiamata
a notte fonda, per questo pasticcio… per come mi sono presentata a te, in
lacrime, mancandoti di rispetto. Non voglio giocare con la tua vita, sto solo
male, mi sento tanto sola ed abbandonata, penso che nessuno mi voglia più stare
vicino”, cominciai ad esagerare, con l’enfasi che solo la notte può dare, e
mentre mi lasciavo andare già stavo meglio.
“Non è vero. Io ti voglio stare vicino”, mi disse lui, un po’
a sorpresa.
Io non mi aspettavo che volesse esporsi così tanto.
La sua mano premette sulla mia e la catturò in una
leggerissima e piacevole stretta.
“Capisci? Non sei sola al mondo, non sentirti mai così. Se
hai bisogno di sfogarti, per quello che posso fare, sono qui”, ribadì.
“Lo so… so che tu sei buono con me. Grazie di esserci”, gli
dissi, e appoggiai il mio viso sulla sua mano, ancora appoggiata sulla mia, a
sua volta posizionata comodamente sul mio ginocchio piegato a causa della
posizione in cui mi trovavo.
“Ho avuto paura di perderti, che tu non mi avessi più voluto
vedere”, aggiunsi poi, in modo diretto, non lasciando che lui dicesse altro.
Un attimo di silenzio ci divise.
“Perché mai?”, chiese, poi, e la voce vacillava un po’.
Sapevo che aveva un’idea ben precisa sul motivo che mi aveva spinto a
pronunciare tali parole pesanti.
Scossi il capo, e, in modo involontario ma ovvio, finii per
strofinare leggermente la mia guancia liscia contro la sua mano, salda e rigida
come se fosse stata di pietra, ma allo stesso calda come un lapillo di lava
incandescente.
“Per quella faccenda…”, provai a dire, ma mi resi conto che
non giungevo al punto; la mia fortuna era che la notte e la confusione che essa
provocava nella mia mente mi portava ad abbassare la guardia sulla mia
coscienza, e quindi mi permetteva di lasciarmi andare più liberamente a
riguardo di tutto.
“Per quel bacio… per quella sorta di bacio rubato, diciamo
così, dell’altra sera”, ammisi, alla fine, dopo qualche secondo di riflessione,
e vuotando il sacco.
Piergiorgio ridacchiò pianissimo, quasi in modo
impercettibile.
“A proposito, io allora ho ancora un debito nei tuoi
confronti”, mi disse, e poi, piano, levò la sua mano da sopra la mia,
posizionandola sotto al mio mento ed alzando con dolcezza, ma in modo fermo, il
mio volto.
In men che non si dica mi ritrovai con la sua faccia a una
manciata di centimetri dalla mia, potevo scorgere i suoi occhi supplichevoli
che sembravano chiedermi il permesso, poi, notando che io non opponevo
resistenza alcuna, mi mandò indietro quel bacio che gli avevo quasi
involontariamente dato in precedenza.
Mi baciò a stampo, sulle labbra, ma premette contro le mie
con nuova risolutezza, con quel modo fermo che tanto amavo negli uomini. Gli
uomini devono essere un pilastro di roccia, per le loro compagne.
Ero stata un po’ presa alla sprovvista, ma fu come se questo
gesto avesse innescato in me nuova forza, come se quel contatto casto tra labbra
mi avesse trasmesso la forza di chi aveva gestito la situazione.
Fui io poi a fare il passo successivo, con decisione; quando
notai che Piergiorgio stava per staccare le labbra dalle mie, e la pressione
veniva meno in modo veloce ma graduale, mi spinsi più un là e tornai a
ritrovare un contatto tra i nostri corpi. Poi, lo baciai sul serio, come avevo
fatto un’infinità di volte col mio ex.
Non mi bastava.
Percependo in modo distinto e netto il mio assenso furioso,
Piergiorgio fu in un certo senso tempestivo, e oltre alle nostre labbra,
s’incontrarono, seppur in modo timido e tiepido, anche le nostre lingue… fu il
nostro primo contatto intimo per davvero.
Ci distaccammo solo quando fummo sazi di quel nostro
incontro, e per me fu come essermi tolta un gran peso sulle spalle.
Nel cuore della notte, la libidine soppressa per settimane
tornò a far capolino nel mio cuore, fino a poco prima sterile e freddo, e lo
fece tornare a battere a mille.
“Dio mio…”, riuscì a dire Piergiorgio, ancora col viso a
pochi millimetri dal mio. Una ventata del suo alito caldo solleticò le mie
narici.
“E’ stato bellissimo”, aggiunsi io.
Era vero; un contatto unico, che avevo ricevuto quando meno
me l’aspettavo. Una vera e propria sorpresa che stava per cambiare la mia
serata da così a cosà.
“Io… Isabella… penso di provare qualcosa per te. Scusami se
non te l’ho mai detto finora”, tornò a dirmi, a singhiozzo, la voce profonda
tentennante.
“Dovevo già averlo capito”, affermai, da parte mia,
lasciandomi sfuggire un sorriso che lui non poteva notare. O forse sì,
essendomi davvero vicinissimo.
“Dal primo giorno in cui ti ho vista. Per me è stato qualcosa
che mi ha fatto mancare il fiato, non sono più riuscito a dimenticarti neppure
per un attimo”.
“Io credevo che tu fossi cotto di Virginia”, irruppi, con
leggero e gentile sarcasmo.
Piergiorgio rise, in maniera sommessa e controllata, ma
genuina.
“Virginia è una mia grande amica, fin dall’infanzia, e forse
l’ho trascurata fin troppo… e l’ho pure utilizzata. Venivo a farle visita, dopo
la prima volta in cui mi ero fermato per comodità, solo per rivederti. Te lo
giuro. Non so se posso ritenermi un buon amico”, affermò, con un pizzico di
amarezza.
“Sei un grande uomo, George”, gli sussurrai, tornando ad
utilizzare quel simpatico nome americano.
“Non mi rassicuri, così”, mi disse, con allegria.
“Ne voglio un altro. Ti prego”, dissi, all’improvviso,
cambiando repentinamente discorso.
Non ci fu bisogno di aggiungere cosa volevo; tra me e l’uomo
già c’era sintonia, oppure c’era sempre stata, chissà. Tornammo a baciarci, con
nuova passione.
Non lo vedevo distintamente, e non potevo assaggiare i suoi
lineamenti, per cui per qualche attimo, mentre le nostre lingue tornavano a
incontrarsi, mi venne da pensare che mi stessi lasciando andare così tanto non
per reale interesse nei confronti di chi avevo davanti, ma solo per sfogare
tutto quello che avevo tenuto dentro e che mi aveva quasi reso pazza.
La mia scarpetta, nel frattempo, ticchettava al suolo, dopo
esser caduta dal mio grembo.
“Mi hai cambiato la serata. Tu sei quell’aiuto che ho chiesto
poco fa a Dio”, gli dovetti dire, sentendomelo dentro, quando tornammo a
distaccarci, ancora col suo nitido sapore che regnava sovrano nella mia bocca.
“Credi molto in Dio?”, m’interloquì, un po’ sorpreso.
“Non lo so, e al momento non voglio saperlo… mi basta averti
con me. Grazie per essere venuto”.
“Ora che ti sei consolata, e che ti vedo serena, sarà meglio
che me ne vada. Domattina devo andare a lavoro presto”, mi disse, balzando poi
in piedi, come se il nostro momentaneo idillio fosse andato in frantumi in un
millesimo di secondo, non appena la realtà era tornata a far capolino nelle
nostre menti stanche ma ancora affiatate.
Mi alzai con lui e l’affiancai; poi, leggermente, m’infilai
tra le sue braccia calde. Era vestito in maniera un po’ troppo pesante, per
essere estate, ma appariva anche molto formale, con quella solita camicia
leggermente rimboccata solo nelle maniche, e che s’infilava sotto i pantaloni
lunghi di stoffa scura che venivano sorretti da una sottile cintura di cuoio.
Avvertii il contatto con tutto ciò mentre mi crogiolavo tra
le braccia di lui, che mi strinse a sé, sempre con grande delicatezza.
Finii per appoggiare il mio viso contro i suoi capelli, tutti
ordinati e tirati leggermente indietro, scostati dalla fronte, giacché non
proprio cortissimi.
“Non andare a casa”, gli sussurrai all’orecchio, “resta con
me, se puoi”.
“Resterò”, annuì, risoluto, quasi come se fosse stata una
garanzia.
Cosa potevo sapere di Piergiorgio? Nulla. Eppure, gli avevo
chiesto di restare, di non lasciarmi sola, poiché tutto quello di cui avevo
bisogno per guarire facilmente le mie ferite recenti era proprio il suo
contatto, il suo corpo, la sua vicinanza costante.
Mi amava, o almeno provava qualcosa di intenso per me, e lo
potevo avvertire ogni volta che mi sforava, o che io mi muovevo, appiccicata al
suo corpo, e i soli abiti a dividere le nostre pelli. Il suo consenso a me
bastava per scacciare ogni paura; ero convinta che fosse un uomo per bene, e
che quindi non avesse lasciato a casa una moglie preoccupata per la sua fuga
notturna.
Questa mezza consapevolezza mi bastava per rendermi audace e
accettare senza difficoltà il suo assenso.
“Vieni, seguimi”, gli dissi, tirando fuori le chiavi di casa
e distaccandomi, con un po’ di rammarico, dalla sua stretta dolce, “andiamo in
casa…”.
“Non temi che tua madre possa vederci assieme, e ci chieda
qualcosa?”, mi chiese Piergiorgio, gentilmente.
“Mia madre ora è a letto. E, per favore, basterà che tu ti
tolga quelle scarpe, che con quelle suole fanno un gran casino”.
Infilai la chiave nella serratura e la feci scattare piano,
senza fare eccessivo rumore. Entrai, accesi la luce e mi incamminai, di fretta,
verso il piano superiore.
Piergiorgio si tolse le scarpe all’ingresso, e mi seguì con
prontezza.
Ci recammo nella mia stanza così, di soppiatto, mentre mia
madre probabilmente già dormiva… e speravo fosse così. In giro per casa non
c’era più, quindi diedi per scontato che fosse almeno nel suo letto. Parve che
fosse così.
Restò il fatto che noi due avemmo modo di tornare ad abbracciarci
nella mia stanza, lontana da quella di mia madre ed isolata dalle altre, e non
appena ebbi chiuso la porta alle spalle di Piergiorgio, lasciai che adagiasse
le sue scarpe dove preferiva, prima di fiondarmi di nuovo tra le sue braccia.
Non avevo idea di fin dove mi sarei spinta… fin dove ci
saremmo spinti.
Sapevo solo quel che volevo; emozioni, contatto fisico e
amore, punto, ed era quello che desiderava anche il mio improvvisato amante,
quel mio principe azzurro che era accorso per me nel cuore della notte, a
mezzanotte, per l’appunto. Per consolarmi, per essere quella carezza che a Dio
avevo chiesto, durante l’apice della mia disperazione.
Sentivo il suo corpo ancora abbastanza asciutto che fremeva
sotto i vestiti, quando si avvicinava al mio, e ciò che avvenne dopo fu
naturale e voluto da entrambi. Non riuscimmo a trattenere oltre il fermento di
sentimenti che ci dominava, ormai, lontani dalle luci del giorno.
Eravamo marionette in mano ai nostri sensi, e seguimmo ciò
che essi ci suggerivano, senza accorgimenti o premure.
Quella era la nostra notte, e niente e nessuno avrebbe potuto
rovinarcela.
NOTA DELL’AUTORE
Fine prima parte xD inizio della seconda.
Ve l’aspettavate, questa situazione? ^^ spero di aver fatto
un buon lavoro, per ora.
Chiedo scusa per il ritardo nell’aggiornamento, ma un
problema interno al sito non mi ha permesso di effettuarlo per buona parte
della scorsa settimana. Ora spero e pare che sia tutto risolto ^^ ringrazio
l’amministrazione per l’aiuto.
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Capitolo 19 *** Capitolo diciannove ***
Capitolo diciannove
CAPITOLO DICIANNOVE
Il mio Principe Azzurro, con le iniziali maiuscole, era
arrivato a mezzanotte, quando io, la Cenerentola in difficoltà, con tanto di
scarpetta in mano e tutta frastornata, l’avevo chiamato.
Nel mio letto, morii di passione; noi due ci svestimmo,
lesti, come se neppure fosse stata la prima volta che i nostri corpi nudi si
incontravano.
Eravamo stati dei predestinati, delle persone già preparate
dal destino a unirsi, a diventare una cosa sola. Non era esistito l’imbarazzo
della prima volta, e quella notte speciale e i nostri sensi ormai spinti al
massimo avevano solo facilitato la faccenda.
Neppure con il mio ex era mai stato così naturale.
Piergiorgio, da parte sua, era stato molto svelto ad agire, ma anche galante;
un dolce amante, silenzioso, che sapeva come trattare il corpo della partner.
Ormai svestiti, non avevamo più fatto caso a nulla, e
lasciandoci trasportare dalle emozioni selvagge del momento il mio letto era
diventato, per la prima volta durante la sua intera esistenza, una sorta di
nido d’amore.
Avevo lasciato acceso solo una piccola abatjour, che dal
comodino poco distante illuminava così blandamente noi e il resto della stanza
da lasciare tutto sfocato, e, personalmente, non mi ero presa neppure troppo la
premura di voler fissare i lineamenti dell’uomo che mi aveva gentilmente spinto
verso il letto, per poi distendersi sopra di me e rendermi sua.
Non c’era proprio stata alcuna storia, e nessuna riflessione;
si era tratta solo di una serie di azioni naturali, tra noi. Mi ero resa presto
conto che ero avida di lui, e mentre ci univamo, senza alcuna precauzione
dovuta, avevo desiderato e richiesto solo lentezza e delicatezza, da parte sua,
e qualche bacio, di tanto in tanto.
Era stato bellissimo, nel complesso.
Ci eravamo poi addormentati, sfiniti, l’uno accanto
all’altra, i nostri visi che si sfioravano, le nostre pelli che non
interrompevano il nostro contatto.
I nostri corpi erano sudaticci, e ancor di più dopo
l’amplesso, ma anche a questo non prestammo caso… quella notte di mezza estate
divenne, per l’eternità, il momento più bello delle nostre vite. O, almeno, di
sicuro della mia. Tutto il disastro accaduto solo qualche ora prima per me era
già qualcosa che apparteneva a un altro secolo, e mi importava solo il calore
di Piergiorgio, il suo corpo, i suoi gesti lenti e calibrati, il suo contatto
dolce, il suo alito caldo e i suoi sospiri pesanti, unico rumore che produceva
involontariamente, ogni tanto.
E nel letto con un uomo, stretta a lui, dormii un sonno beato
e tranquillo, e incurante del caldo dell’estate, badai bene a cercare di
restare tra le sue braccia, soprattutto quando verso il mattino finalmente
l’aria si fece meno rovente.
Quando mi risvegliai, dopo aver riposato qualche ora in
maniera beata, come se fossi finita direttamente in paradiso dopo un breve
soggiorno all’inferno, mi resi conto che se avevo sofferto così tanto, di
recente, per essere ricompensata poi in quel modo, beh, allora le mie
sofferenze avevano avuto un senso, ed erano state ripagate bene e lautamente.
Non sapevo se un qualche dio aveva udito la mia preghiera
disperata, la sera prima; sapevo solo che il mio desiderio di un po’ di
benessere, e non solo spirituale, si era avverato, e anzi, era andato ben oltre
ogni genere di aspettativa.
Erano ormai le sei del mattino, e spensi l’abatjour a cui non
avevamo più prestato caso, e che per l’intera notte era rimasta a vegliarci,
accesa, con quella luce da candela che aveva reso l’atmosfera ancor più romantica
e preziosa.
La luce della prematura alba illuminava il nostro talamo,
quasi in modo fastidioso, ma non avevo intenzione di andare a socchiudere
maggiormente la finestra, siccome quell’uomo che durante la notte era stato
mio, e solamente mio, ancora dormiva. E mi accinsi così a studiarmelo per bene.
Mi strinsi di nuovo contro il suo corpo, e lui non fece una
piega, nel sonno.
Lasciai scivolare le mie mani tra i suoi capelli, ancora
folti e a tratti neri come la notte, di tanto in tanto intervallati da qualche
filo bianco. I capelli lisci s’incontravano poi con una di quelle barbe
posticce, mal curate, che donavano a Piergiorgio un’aria molto trascurata, e
questo pensavo fosse il suo unico tallone d’Achille; quello era di sicuro un
aspetto estetico da sistemare.
I peletti ingrigiti che la formavano erano leggermente
arricciati, per quanto la lunghezza minima potesse loro permettere, ma stavano
davvero male, sembravano voler mostrare una trascuratezza che nel resto del
corpo non c’era. Un fisico nudo ancora attraente e piacevole, certo, con una
leggera pancia che in prossimità del ventre un po’ era sporgente, ma si
trattava di qualcosa di accettabile.
Il corpo era accudito, e nonostante non profumasse come se
fosse appena uscito dal box doccia, ma d’altronde non potevo richiedere anche
quello, era comunque un’attrattiva che attizzava continuamente i miei sensi,
conoscendo poi anche la dolcezza del suo detentore.
Mi venne da chiedermi quanti anni avesse, Piergiorgio. Mi
misi ad osservarlo, ma non seppi darmi una risposta precisa; forse cinquanta?
Non di meno, il suo volto aveva già lineamenti molto marcati, che quasi
sfociavano in rughe. Ma non avevo idea di quanti anni dargli… e in fondo non
aveva importanza. L’unica cosa importante era che avesse saputo donarmi un po’
di amore sincero, che avevo ricambiato con tutta me stessa.
Solo dopo un po’ salì alla coscienza il nervosismo provocato
dal fatto che non sapevo proprio nulla di lui. E se io l’avevo portato via da
casa, da una moglie e da una famiglia, per quella notte? Cosa mi era saltato in
mente di accettare una tal cosa? E allora i miei dubbi mi rovinarono la magia
del momento. Anche la rabbia; lui era una persona di un bel po’ più grande di
me, probabilmente per lui era stata una cosa normale, mentre io ero stata un
po’ utilizzata, come suo svago, e magari appena si sarebbe svegliato se ne
sarebbe andato di tutta fretta, dimenticandosi per sempre di quel che era
accaduto tra noi durante quella lunghissima notte.
Gli guardai le dita delle mani, e non aveva alcun anello,
anche se questo poteva significare poco o nulla, essendo molti gli uomini
sposati a non portare la fede nuziale.
Cominciai ad agitarmi, e per sbollirmi, per evitare che
l’uomo si svegliasse, mi liberai gentilmente dalla sua stretta e mi recai verso
la finestra, per socchiuderla ed evitare che la luce colpisse i nostri volti.
Ma così facendo, lo svegliai comunque.
Piergiorgio sospirò a pieni polmoni, e si stiracchiò piano,
con ancora la luce dell’alba che gli colpiva, senza eccessiva luminosità, il
suo viso.
Mi fermai subito e smisi di muovermi verso la finestra, per
osservarlo mentre si muoveva con i suoi soliti gesti controllati e tranquilli,
e gli occhi ancora chiusi.
Mi venne spontaneo sorridere, siccome mi sembrava proprio un
bimbo che si svegliava all’alba per prepararsi ad andare a scuola.
Non appena aprì gli occhi, e mi vide, ancora nuda, a
osservarlo con un sorriso sincero sulle labbra, quasi sobbalzò.
“Dio mio, Isabella… allora non era un sogno splendido. Questa
notte è esistita davvero!”, disse, la voce roca che risuonò ovunque.
“Per favore, parla piano… mia madre non si alza prima delle
nove, ma ha un ottimo udito, e se ti sente non so… e non era un sogno, era
realtà”, mi affrettai a rassicurarlo, anche con un leggerissimo ma dolce
rimprovero.
Tornai sui miei passi e mi distesi a suo fianco, infilandomi
sotto la sottile coperta di cotone che copriva il suo corpo, e che fino a pochi
istanti prima aveva già coperto anche il mio.
Gli accarezzai di nuovo i capelli, mi venne spontaneo farlo,
poiché alcune ciocche erano in disordine, dopo il riposo notturno, e forse ero
stata proprio io, durante il nostro momento di passione, a scompigliarglieli in
quel modo.
Non volevo sentirmi in colpa anche per quella minima cosa,
poiché già provavo grande vergogna per quello che avevo pensato solo qualche
istante prima; ero certa, a quel punto, che lui non avrebbe mai dimenticato
quella notte. E così sarebbe stato anche per me.
“Coccolami ancora. Ti prego, ancora. Non hai idea di quanto
mi sia mancato tutto questo, e del bisogno profondo che avevo di un po’ di
contatto umano”, sussurrò Piergiorgio, più accorto, ed io non mi fermai, e una
volta che mi ero stancata di passargli le dita tra i soffici capelli, la
lasciai scivolare sul viso, sulle sue guance ruvide e pelose.
“Pure io ne avevo bisogno”, ammisi, “anche se siamo andati
ben oltre al semplice contatto umano, in realtà”.
“Sai cosa ti dico? Che non m’importa più di nulla. Ora che so
che tu ricambi i miei sentimenti…”.
Piccolo momento di attesa.
“Li ricambio”, dissi, senza esitazione.
Ero ancora ebbra di amore, sembrava che mai in vita mia mi
fossi sentita così esaudita e compresa.
“… beh, io credo, anzi, sono certo, che mi piacerebbe passare
più tempo con te. Se vuoi”, completò il discorso.
“Sicuro…”, risposi, timidamente.
Ero frenata, poiché sapevo che tutto ciò mi stava sembrando
fin troppo facile.
Piergiorgio mi guardò con un’espressione interrogativa
impressa in modo nitido sul suo viso ancora assonnato, e questo mi spinse a
riprendere ad accarezzarlo, per quietarlo.
“E’ solo che mi sembra che stiamo correndo un po’ troppo.
Meno di dodici ore fa credevo che tu fossi arrabbiato con me, e che mi
evitassi…”.
“Non ti stavo evitando, te lo giuro. Era solo che non volevo
tornare a rivederti tanto presto, perché ero già innamorato follemente di te, e
dopo quel nostro bacio rubato avevo paura di fare qualche passo falso, poiché
non conoscevo le tue vere intenzioni”.
“Capisco, ma io non ti conosco, George! Non so nulla di te.
So solo quello che ho scoperto da sola, e cioè che sei un cardiologo
bravissimo, che adora il suo lavoro, e che provi qualcosa di intenso per me,
punto. L’unica cosa che tu mi hai detto espressamente su di te è stata che gli
amici ti chiamano spesso col nomignolo che piace tanto anche a me… e il resto,
niente di niente. Ti prego, mettiti nei miei panni”, gli dissi, non
intenzionata a lasciarmi di nuovo interrompere.
Piergiorgio sospirò, un po’ imbronciato, e si mise a guardare
verso la finestra aperta, dove le prime luci dell’alba si facevano sempre più
intense, e gli uccellini si stavano dando un bel da fare a cinguettare.
“Io… questa notte ho conosciuto un uomo che mi ha cambiato la
vita. Non avevo mai conosciuto così tanta dolcezza, in amore, e non voglio che
la nostra sia stata solo una scopata, e nulla più. Ti amo, e l’ho scoperto con
tutta me stessa durante questa notte, se prima non l’avevo ancora ben chiaro,
ok? Ti amo, ti desidero, ti voglio e mi piaci da impazzire, e vorrei passare un
miliardo e oltre di nottate come questa. Ma non potrei continuare a desiderare
tutto ciò se tu hai una partner, una moglie o dei figli a casa che ti aspettano
dalle undici di questa notte”, proseguii, sincera, esponendo i miei dubbi e i
miei pensieri.
“Non sei più un ragazzo o un bambino”, proseguii, notando il
suo strano silenzio, con gli occhi non più dedicati a me, ma al mondo esterno,
come se avesse qualcosa da nascondermi per davvero, “hai una certa età. Non so
quanti anni hai, ma ne hai di sicuro parecchi in più di me, e non so quanto sia
stato moralmente giusto quello che abbiamo fatto, ma era ciò che volevamo con
tutto noi stessi. Ora siamo sazi e contenti, ma fino ad un certo punto. Io
voglio sapere se ho messo le corna a qualcuno, perché non lo sopporterei”, mi
feci un po’ più insistente, senza però smettere di accarezzarlo amorevolmente.
“Non ho una moglie, non ho nessuno che mi aspetti a casa, va
bene?”, esordì Piergiorgio, la voce profonda tramutata in un sussurro colmo di
tristezza. “Te lo giuro, se questo può renderti più tranquilla. Non ho alcuna
amante, alcuna fiamma, alcun desiderio all’infuori di te. Sono accecato da te,
dalla prima volta che ti ho visto”.
Gli sorrisi, rassicurata. Al momento, potevano bastarmi
quelle parole per farmi star meglio, e poi il mio interlocutore mi era parso
molto sincero.
“Non mi piacciono gli uomini più grandi di me. Tu hai
qualcosa di speciale, George, altrimenti non sarei mai stata tua, neppure per
un secondo”, gli dissi, avvicinando il mio viso al suo, e baciandolo sulle
labbra.
Lui mi lasciò fare, poi si mosse sotto il sottile lenzuolo e
si avvicinò a me, avvinghiandomi tra le sue braccia in un gesto di potenza, ma
allo stesso tempo di conforto.
“Dio mio, quanto sei bella. Più di quel che avevo potuto
scorgere da quando ti conosco”, sussurrò, amorevole, mentre si posizionava
sopra al mio corpo nudo, le nostre pelli che non facevano alcun attrito, e le
mie mani corsero sul suo petto villoso, dentro al quale il cuore batteva forte,
quasi all’impazzata.
“Non farti venire un infarto”, provai a interrompere quel suo
momento di concentrazione piena di libidine.
Le sue mani, invece, corsero al mio volto e lo strinsero
piano, con le dita che si posizionarono all’altezza degli occhi. Eravamo viso
contro viso.
“Non temere, non per nulla sono un cardiologo. Il mio cuore è
letteralmente impazzito a causa tua, senti come lo fai battere? Sentilo”.
Premetti un pochino di più sul petto, assecondando le sue
parole.
“Batte solo per te. Non credere che quello che abbiamo fatto
questa notte sia stata solo una scopata, se lo vuoi io ci sarò e avrò cura di
te, nei limiti del possibile”, tornò a dirmi, dopo aver seguito la mia azione
con un bellissimo sorriso sulle labbra.
“Quanti anni hai, George?”, irruppi improvvisamente, senza
neanche accorgermi che così avrei un po’ infranto quell’atmosfera così
particolare, di un romanticismo che non avevo mai conosciuto fino a
quell’istante.
Piergiorgio scrollò la testa, senza perdere la sua naturale
serenità.
“Che razza di domande mi fai? Non sai che non si chiede l’età
a un signore?”.
Mi fece ridere col suo sarcasmo, ma dovetti frenarmi un po’,
per non far eccessivo rumore e non mettere in azione mia madre, che era
distante da noi solo qualche metro, al di là di un paio di sottili pareti.
“Alle signore”, volli correggerlo, con simpatia.
“Non te lo dico, cara. Se lo sai, mi lasci subito”, ribatté,
dolce.
“Dai, piantala… rispondimi, sono curiosa”.
“Che importa? Godiamoci il momento”, disse, poi tornò a
baciarmi, e soffocò con le sue labbra, e poi con la sua lingua, ogni altra mia
parola o curiosità da esprimere. Non mi dispiacque.
“Ti amo. Non ti basta sapere questo? E sai che non ti sto
prendendo in giro, per me è qualcosa di serio”, aggiunse, non appena distaccò
le labbra dalle mie.
“Mi basta”, annuii.
Fu il mio turno di tornare a baciarlo, e parve che fossimo in
procinto di non lasciarci più andare.
Ci lanciammo in un bacio lunghissimo, dal sapore d’infinito.
Poi, tornammo ad avvinghiarci a vicenda, a far scorrere una marea di sensazioni
lungo tutto il nostro intero corpo, per unirci di nuovo.
“Devo andare, mi dispiace”, disse dopo un po’ Piergiorgio,
interrompendo le nostre effusioni che avevano seguito il nostro ultimo
amplesso.
Avevo scoperto che adoravo accarezzarlo, e che lui non si
scostava, anzi, sembrava godere interiormente del mio contatto. Questo mi aveva
spinto addirittura a farmi ardita, mentre mi perdevo nell’immensità dei suoi
occhi.
Pareva incredibile che quell’uomo avesse uno sguardo così
potente, di quelli che non avevo mai visto, e che potevo davvero definire
magnetico, siccome quando riuscivo a fissare i suoi occhi, proprio nel momento
in cui lui faceva altrettanto, poi era come se ne rimanessi attratta, e non
riuscivo a distogliere lo sguardo fintanto che non era lui stesso a farlo. Era
qualcosa di magnifico.
Per il resto, Piergiorgio era più tozzo di me, leggermente
più basso, anche più formoso, fisicamente parlando, dei soliti ragazzi asciutti
che mi avevano sempre attratto. Non era un granché a livello strettamente
fisico, dovevo riconoscerlo; ma il suo modo di fare, di una gentilezza
incredibile tra le lenzuola, e che mi permetteva di avere una discreta libertà
in tutto e per tutto, mi entusiasmava e allo stesso tempo mi eccitava a morte.
Era come una droga, mi creava dipendenza. Eravamo stati
assieme solo una notte, eppure sembrava che lo fossimo stati già tantissime
altre volte.
“Certo, allora è meglio che tu te ne vada subito. Tra poco si
alza anche mia madre, non vorrei che si ritrovasse un uomo in casa e che si
spaventasse…”, risposi, gettando via il lenzuolo dal mio corpo ed accorrendo ai
miei vestiti, che trovai mischiati con i suoi.
Mi vestii in fretta, con lui che, ancora totalmente nudo
sotto il lenzuolo candido, mi guardava con uno sguardo acceso.
“Non fare il guardone, e rivestiti anche tu”, gli dissi,
gettandogli scherzosamente pantaloni e mutande sul letto.
“Sei così bella che starei tutto il giorno a guardarti”,
volle aggiungere, sornione.
Che dolce. Lo amavo sempre di più.
Gli donai un sorrisone sincero.
“Sei troppo buono con me”, affermai, correndo allo specchio,
che occupava un piccolo spazio al di sopra del comodino.
Piergiorgio si alzò, si stiracchiò poi cominciò a raccattare
i suoi vestiti, un po’ sparsi ovunque, e in effetti non avevo fatto caso al
caos che aveva combinato quando si era spogliato. La sua ricerca goffa mi fece
sorridere nuovamente, mentre col pettine mi davo una prima sistemata ai capelli,
tutti in disordine.
“Sei così preoccupata del fatto che tua madre scopra che sono
rientrato con te ed ho dormito qui? Ieri sera non mi sembravi tanto turbata”,
mi chiese, dopo aver indossato gli indumenti più intimi, ma ancora alla ricerca
della camicia, camminando con circospezione, scalzo, e parlando a voce molto
controllata.
“In realtà sì, lo sono. Non ho mai portato nessun uomo in
casa, e non so come reagirebbe… è che poi siamo stati tutta la notte sul mio
letto, che è pure a una piazza e mezzo, e mi imbarazzerebbe molto che capisse,
in ogni caso, che tra noi c’è stato… molto contatto, diciamo così”, provai a spiegarmi,
già imbarazzata solo a parlarne.
Piergiorgio si lasciò sfuggire una risatina sommessa, ma
sufficientemente rumorosa da spingermi a fare un gesto di stizza, per zittirlo.
“E col tuo ex, stavate sempre a casa sua?”, mi chiese, non
senza un pizzico di malizia.
“Sì, almeno all’inizio. Mi frequentava anche qui a casa di
mia madre, però non ci siamo mai ritirati in camera da letto. Poi, va beh, la
mia mamma proprio non lo sopportava, e allora cercavo di tenerglielo lontano il
più possibile”, narrai, “comunque, dopo non molto tempo dall’inizio della
nostra relazione abbiamo cominciato a convivere, quindi il problema di quale
casa frequentare di più non si è posto”.
“Ho capito”, si limitò a dire. Io, nel frattempo, avevo già
finito di prepararmi per il lavoro, ed erano già le sette e un quarto; sapevo
che dovevo spicciami, anche se non avevo eccessiva fretta.
Piergiorgio ancora si aggirava attorno a me come un lupo
affamato, disperato e alla continua ricerca di qualcosa che mi sfuggiva,
siccome ormai anche lui era interamente vestito.
“I calzini”, mi suggerì, notando che lo stavo fissando con
fare interrogativo.
Ne trovai immediatamente uno abbandonato e tutto
appallottolato sotto al comodino, e glielo gettai, ricevendo uno sguardo grato.
Il secondo lo ritrovai quando si stava ancora mettendo il primo, anch’esso
appallottolato e gettato a caso in un angolo della stanza.
Glielo portai e mi sedetti a suo fianco, porgendoglielo
gentilmente.
“Grazie”, mi ringraziò, sorridendo.
“Non avevo idea che tu fossi così incasinato. E pensare che
sembri un tipo precisino”, gli feci notare.
“Tutta colpa della passione che provavo per te. Non riuscivo
proprio più a trattenermi, ho dovuto letteralmente strapparmi di dosso i vestiti”,
ironizzò brevemente.
“Per fortuna che i pantaloni e le mutande hai avuto il buon
senso di metterli con i miei panni, se no a mezzogiorno eravamo ancora qui a
cercarli”, volli aggiungere, punzecchiandolo come lui aveva appena fatto con
me.
“E’ solo che sono senza occhiali, e ancora non c’è tanta
luce, mia cara…”.
Il suo tentativo di allungare il breve momento ironico finì
all’improvviso, siccome mi allungai di nuovo a baciarlo, e lo scompigliai
tutto. Mi lasciò fare, poi si alzò in piedi, soffocando una mezza risata, e si
tirò su per bene i calzoni, fermandoli sopra l’inguine con la cintura di cuoio
nero.
“Sei tremenda”, replicò, divertito, andando davanti allo
specchio e risistemandosi un po’ i capelli, ormai tutti crespi per via del
contatto quasi continuo delle mie mani, durato per buona parte della notte.
Me l’immaginavo a presentarsi all’ospedale in quello stato, tutto
in disordine; chissà cosa avrebbero pensato i suoi colleghi, di fronte a
quell’uomo che era sempre apparso impeccabile.
“Quando vai a casa, raditi, ti prego. Quel cespuglio che hai
sulle guance è ispido”, gli volli far notare.
“Sei simpatica, più di quel che credevo!”, borbottò,
soffocando un’altra risata sul nascere. “Ma ora devo proprio andare. Mi
attendono alle nove a Rimini”.
“Certo, ti accompagno giù”.
Tornai seria all’improvviso, e afferrai entrambe le sue
pesanti scarpe, prima di aprire la porta. Piergiorgio fece per prenderle, ma
fui categorica.
“Te le metti di sotto, quando esci. Non prima”.
Non replicò, ed io in ogni caso volevo limitare al minimo i
rumori sospetti per casa. Poi, con dei tacchetti del genere, quelle scarpe da
galà o da riunione tra dirigenti bancari avrebbero prodotto un fracasso d’altro
mondo, a contatto col pavimento.
Col cuore in gola, superammo la porta della stanza di mia
madre, ancora chiusa, e Piergiorgio mi seguiva, lui molto rilassato, io tesa
come non mai.
Quando giungemmo al piano inferiore e alla porta, mi
dispiacque riconoscere che ero stata felice che quell’attraversata di casa si
fosse conclusa.
Aprii l’ingresso e lasciai che il mio amante uscisse, poi gli
consegnai le scarpe, che indossò prontamente.
“Spero… che ci rivedremo presto”, mi disse, ancora chino a
mettersele.
“Hai il mio numero di cellulare, e conosci dove lavoro, dove
vivo e i miei turni lavorativi, quindi… fatti sentire quando vuoi”, lo
rassicurai.
“Spero anche che passeremo altri momenti assieme, se lo
vorrai”, volle aggiungere, già in piedi e a posto, pronto ad andarsene.
“Lo voglio. Sicuro. Ma ora… vai, ti prego”, gli dissi, ancora
un po’ ansiosa.
Mi sorrise, di nuovo.
“Vado. Mi faccio sentire più tardi, e buona giornata”, si
congedò, andandosene di fretta, ed io restai a guardarlo mentre si allontanava
a grandi falcate, e avrei voluto corrergli dietro, e strappargli un altro
bacio. Ma non potevo.
Quella era il momento del nostro momentaneo addio.
Non m’importava di essere apparsa anche un po’ troppo
frettolosa di liquidarlo, ma non volevo proprio che mia madre sospettasse
qualcosa. Temevo si sarebbe arrabbiata.
Avevo sempre temuto mia madre, e il fatto che noi fossimo
sempre state sole al mondo ci aveva legate e ci aveva rese un po’ gelose l’una
dell’altra. Non potevo quindi sapere come avrebbe reagito di fronte alla
scoperta che avevo passato una notte d’amore in casa sua, senza che lei neppure
lo immaginasse.
Piergiorgio se ne andò a bordo del suo fuoristrada, ed io rimasi
con lo sguardo perso a fissare il punto che, fino a poco prima, era stato
occupato dal suo mezzo, e che oramai era distante, sempre più distante da me.
Incrociai mia madre solo di sfuggita. Io stavo per uscire,
per recarmi al lavoro, e lei, in vestaglia svolazzante, mi venne incontro nel
corridoio dell’ingresso.
“Buongiorno! Già in piedi?”, la salutai con solerzia, non
appena la scorsi. Erano appena le otto meno un quarto, e da quando era tornata
dall’ospedale non si era mai alzata così presto, per quello un panico cieco
cominciò ad assalirmi, nel timore che avesse udito qualcosa che non avrebbe
dovuto sentire.
Piergiorgio, d’altronde, se n’era andato da nemmeno mezz’ora.
“Buongiorno a te. Sì, devo cercare di riprendere le solite e
buone vecchie abitudini”, rispose, sbadigliando.
Scrollai le spalle.
“Bene, meglio così. Io scappo, altrimenti faccio tardi al
lavoro”, la liquidai, felice che sembrasse tranquilla e quieta.
Mi diressi verso la porta d’ingresso, e lei verso quella
della cucina; quando credetti di essere in salvo, varcando la soglia, però, fui
richiamata indietro.
“Ah, Isa”, mi chiamò infatti mia madre, “stai per caso poco
bene? Questa notte ho sentito strani rumori, che provenivano dalla tua stanza…
poi, io per buona educazione non sono entrata, sai, sei grande ormai…”.
Soppressi un ringhio istintivo. Poi, la demotivazione mi
pervase.
Mi rimase da sapere quel che aveva origliato la mamma, ma la
odiai, per un istante, poi provai imbarazzo e vergogna.
Il mio viso dapprima lo percepii di un freddo marmoreo, poi
lo sentii avvampare.
“Ho… solo le mie cose. Sai che mi danno un gran disturbo, e
allora a volte mi sveglio, gemo, mi rigiro nel letto… faccio due passi in
camera… ecco, cose così”, provai a dire, anche se dovetti riflettere qualche
minuto, prima di giungere ad una balbettante soluzione su quello che potevo
raccontarle. Dire la verità, in quel caso, era assolutamente fuori discussione.
“Va bene, allora. Spero che tu possa stare meglio a breve. Buona
giornata”, mi salutò la mia genitrice, ed io ribattei subito la porta dietro di
me, facendo un paio di respiri profondi.
Non avevo fatto nulla di male amando Piergiorgio con tutta me
stessa, ma non me la sentivo di essere beccata subito. Riconobbi, col senno di
poi, di essere stata alquanto imprudente nella mia scelta avventata di quella
notte, ma i sentimenti vissuti in quegli istanti non mi avevano lasciato
alternativa.
In ogni caso, non mi pentivo neppure un po’ di quello che
avevo fatto, avendo passato una delle notti più belle della mia vita. E mi
giurai che ne avrei passate tante altre così, perché me lo dovevo. Mi ero
sempre e solo sacrificata, bandendo il piacere; era quindi anche ora di
imparare a vivere una vita completa sotto tutti i punti di vista, e non solo
fatta di rinunce.
Ancora con il viso in fiamme, sia dall’ansia e sia
dall’imbarazzo, mi diressi verso la mia auto e mi preparai ad affrontare una
giornatina che non si preannunciava semplice.
Tuttavia, la sola certezza che Piergiorgio si sarebbe fatto
vivo prima di sera mi fece stare molto meglio, e mi risollevò alla svelta, così
quando giunsi al locale dove lavoravo mi ero già sbollita, ed ero molto più
tranquilla, serena e rilassata.
NOTA DELL’AUTORE
xD xD
La storia è stata scritta puramente per svago, e anche se non
conterrà oscenità o scene molto spinte, qualche momento di contatto tra i
personaggi principali ci sarà.
So che il testo non è il massimo; ancora ne sono consapevole.
Lavoro costantemente per correggere almeno le sbavature più dannose alla
lettura, però alcune altre restano. Mi scuso, forse sarebbe tutto da riscrivere
dall’inizio. Nel frattempo, spero che il racconto vi risulti almeno un minimo
interessante, al di là di tutto.
^^
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Capitolo 20 *** Capitolo venti ***
Capitolo 20
CAPITOLO VENTI
Dopo tanta e profonda infelicità, quella mattina ero raggiante.
Al lavoro se ne accorsero tutti, ma non mi chiese nulla
nessuno, e fui ancora grata a loro per la riservatezza e per il rispetto che
avevano rivolto alla mia privacy e alla mia persona. Sia Virginia e sia le
altre colleghe mi riservavano sorrisi ogni volta che io stessa sorridevo a
loro, e mi sentivo rinata.
Ero libera dall’ansia che mi trasmetteva mia madre, lontana
dal ricordo del mio ex, distante da ogni possibile astio che avrei dovuto, con
naturalezza, provare nei confronti di quell’ingiusta di Irene, le cui mosse non
le avevo ancora comprese, ma che non volevo tornare a rianalizzare, poiché
ritenevo tutto ciò una parentesi chiusa.
Stavo anche bene al lavoro, era tutto stranamente perfetto
ovunque. E il pensiero di Piergiorgio mi infondeva una forza che sembrava
potermi permettere anche di spiccare il volo.
Mentre servivo gli anonimi avventori, pensavo solo alla sua
voce, al tornare a udirla quando mi avrebbe chiamato, ed allora le mie mani
correvano al rigonfiamento che avevo in tasca, e lo toccavano. Il mio cellulare
era comunque spento, durante l’orario lavorativo, ma ero sicura che mi avrebbe
dato delle buone soddisfazioni, non appena lo avrei riacceso.
La mattinata trascorse quindi serena.
A mezzogiorno, quando andai in pausa, preferii fermarmi nel
locale, avendo ripreso quell’abitudine da quando mia madre era diventata così
acida e scontrosa nei miei confronti. Avevo promesso che sarei stata più
presente, e che avrei almeno provato a interagire un po’ di più con lei, ma non
ci riuscivo. E poi temevo che, una volta a casa, mi squillasse il telefono.
Allora la mamma avrebbe potuto udire qualcosa di
compromettente. Era quindi per me meglio stare lontana da quel covo che
cominciava a starmi stretto.
La ragazza del part-time mi consegnò il mio trancio di pizza,
e lo mangiai con lentezza, nel tentativo vano di gustarmelo per bene.
In realtà non riuscivo a farlo perché la mia mente tornava a
pensare a Piergiorgio.
Accesi il cellulare e lo lasciai ben posizionato sul mio
tavolino sgombro ed appartato, a portata di mano, in moco che se avesse
squillato nulla mi avrebbe separato da una risposta quasi istantanea.
Era per me, quella, una sorta di marea di sensazioni nuove,
che non avevo mai provato fino a quel momento; Piergiorgio mi aveva sconvolto,
entrando all’improvviso nella mia vita, e rendendomi sua quando meno me
l’aspettavo. Dopo quella notte d’amore da poco trascorsa, ero come rimasta
macchiata dentro, mi sentivo davvero rapita da lui.
La mia mente correva continuamente verso i suoi baci, il calore
del suo corpo disteso sul mio, le sue mani che, in preda alla passione amorosa,
stringevano forte le mie, e i suoi ansiti crescenti… mi mancava la sua voce,
anche in quegli istanti, mentre pranzavo, e mi mancava il contatto con lui, con
le sue parole, udirle e soppesarle, e provavo mancanza anche del conforto che
sapeva darmi, della calma e della pacatezza che riusciva a trasmettermi solo a
vederlo.
I suoi occhi, poi, erano di un magnetismo che, più ci
ripensavo, più mi appariva magico.
Quasi avevo voglia di annotarmi di fissarlo ancora negli
occhi, appena me ne sarebbe capitata l’occasione, poiché mi era rimasto
impresso quel suo sguardo e la loro profondità. Erano occhi normalissimi, per
carità, castano scuro come quelli di milioni e milioni di persone a questo
mondo, ma mai nessun altro paio di essi era riuscito a darmi un’impressione
così forte.
A colpirmi, a restarmi impresso così tanto.
Se paragonavo quello che stavo vivendo con quello che avevo
già vissuto, con Marco, mi veniva da deprimermi, e da chiedermi come avessi
potuto credere che tra noi c’era qualcosa di vero, e di non costruito sulle più
stupide e insensate apparenze.
Io e Marco ci eravamo conosciuti da ragazzini, e lui era
stata la prima cotta della mia vita, anche se c’era voluto tempo prima di
riuscire ad attrarlo. Alla fine, avevo avuto la fortuna di saperlo conquistare;
in realtà, non c’era voluto molto, siccome ero diventata una bella ragazza e
non passavo inosservata.
Lui, da parte sua, era bellissimo ed era inserito nel gruppo
più importante della piccola realtà in cui vivevamo. Io, invece, ero solo una
ragazza timida che amava starsene sulle sue, e che aveva cominciato a lavorare
subito, appena concluse le superiori, per dimostrare al mondo che anche una
ragazza, in pieno periodo di crisi, poteva farsi le ossa e mostrare quanto
valeva, costruendosi un futuro da sola.
Ci vedevamo spesso al Picadilly,
che io frequentavo con Irene e un altro paio di amichette, in genere una sera a
settimana, e lui aveva fatto il primo passo da solo, sfruttando la sua
consapevolezza di essere un gran figo.
Una sera mi aveva avvicinato mentre ordinavo qualcosa da
bere, ed ero un attimo da sola; fino a quell’istante, Marco l’avevo conosciuto
solo ed esclusivamente di vista, e lui era sempre stato con i suoi amici, ed io
con le mie amiche. Non avevamo mai interagito direttamente, anche se diventavo
rossa quando lo scorgevo tra la folla.
Quella sera d’autunno di più di due anni prima della passione
che stavo vivendo per Piergiorgio, quello che era destinato a diventare in
eterno il mio ex mi aveva avvicinato, e aveva insistito per offrirmi lui da
bere. Sapevo che ci stava provando; i ragazzi non offrono mai qualcosa alle
ragazze sconosciute senza avere doppi scopi.
Lo lasciai fare, ne valeva la pena, d’altronde per una timida
come me era inusuale ricevere tanto interessamento da un giovane che avevo
sempre ritenuto inavvicinabile, snob come appariva.
Avevamo chiacchierato un po’, mi ero prestata al suo gioco, e
poi zac, presto rimasi intrappolata nella sua trappola. All’epoca credevo che
il nostro fosse un vero e grande amore, alla stregua di quello che appare nelle
favole e che lega principi e principesse, e non mi feci tanti scrupoli.
Le mie amiche d’allora erano tutte invidiose di me, poiché il
più figo del circondario, e forse della nostra intera piccola realtà in cui
vivevamo, era caduto letteralmente ai miei piedi. Il resto era venuto tutto da
sé; le serate avevo cominciato a trascorrerle con gli amici suoi, quelli che
poi, dopo averlo lasciato, avevano anche smesso di cercarmi e di parlarmi, e
avevo perso i contatti con tutti, tranne che con Irene.
Nel bene e nel male, noi due ci eravamo sempre tenute in
contatto, anche se la distanza ci aveva separato, oserei dire per fortuna,
durante l’apice della mia storia con Marco.
Un apice che era giunto abbastanza velocemente, come avevo
narrato con sincerità pure a Piergiorgio, e avevamo cominciato a convivere,
anche per forza di cose, siccome mia madre non tollerava il mio ragazzo ed io
non ero disposta a venire troppo a contatto con i suoi genitori, che erano
morbosi nei confronti del figlio e che mi innervosivano, in questo modo.
Durante la nostra convivenza era stato tutto facile, molto
più facile che con Piergiorgio; non avevo mai sofferto così tanto nell’attesa
di una qualche chiamata di Marco, poiché lui non mi chiamava mai, anzi, spesso,
col passare del tempo e dei mesi, mi ero resa conto che stava molto meglio
quando non mi sentiva.
Avevo per lui un qualcosa di funesto, che nella sua
infantilità non riusciva a comprendere. Non aveva voglia di far nulla, passava
spesso intere giornate in pigiama a guardare la tv, facendo brevi pause solo
per andare in palestra a curare il suo corpo, che altrimenti sarebbe finito in
fretta in scatafascio, e per farsi qualche tatuaggio.
Per quanto riguardava tutto il resto, nulla da fare, giacché
non faceva proprio niente, ma niente di niente, era qualcosa di sorprendente,
di una pigrizia incredibile e allucinante, che spesso mi faceva arrabbiare
molto.
La mia parola di base era indipendenza; non volevo essere un
peso per mia madre o per gli antipatici genitori del mio compagno. Marco invece
contava solo sui miei soldi, e su quelli che i suoi gli passavano. Era un
parassita.
Nonostante litigassimo spesso, soprattutto durante gli ultimi
mesi della nostra convivenza, c’era stato un qualcosa di naturale che ci aveva
mantenuto uniti, e cioè il sesso. Quello era stata l’unica cosa che mi aveva
impedito di esplodere, e che mi aveva legato a lui fino all’ultimi, fin quando,
anche con dolore immenso, non ne potevo più.
Se ci ripensavo in quel momento, a tutta la sofferenza che
avevo provato qualche settimana prima dopo la nostra rottura, mi veniva da
sorridere, ma era comunque stata una cosa seria. Mi rendevo conto che quello
che più mi era mancato era stato proprio il sesso, e ciò che mi aveva legato
così tanto in fretta a Piergiorgio era stata la gentilezza che associava ed
univa ad ogni cosa.
La sera, quando tornavo a casa stanca, e mi ritrovavo di
fronte ad un freschissimo Marco in comodo accappatoio, mi salivano delle rabbie
che avrei voluto spaccare tutto, poi però lui sapeva come prendermi, mi si
avvicinava e mi svestiva, così, in tutta fretta, e mi faceva sua. Ed io ne ero
così tanto contenta che la rabbia mi passava interamente.
I nostri erano rapporti frettolosi, di quelli programmati
solo per dare del piacere ai nostri corpi, e soddisfarli, dimenticandosi delle
nostre fragili menti. Era stata come una medicina che aveva lenito i miei dubbi
e i miei mali per un po’, fin quando era bastato.
Ma siccome esiste un limite per tutto, e prima o poi la
goccia in grado di far traboccare il vaso cade sonoramente, il nostro rapporto
alla fine era esploso e si era concluso, e avevo avuto modo di vedere una volta
per tutte il vero viso del mio ex, analizzando le sue scelte e i suoi modi di
fare.
Se Marco si fosse fatto sotto, già il giorno dopo il nostro
litigio serale, e mi avesse preso per mano per portarmi in un posto appartato,
e fosse tornato a rendermi sua, sarei tornata subito assieme a lui,
probabilmente. Per fortuna tutto aveva preso una piega differente, quella più
giusta, e mi era stata concessa l’opportunità per vederci chiaro e fino in
fondo.
I nostri rapporti erano diversissimi da quello che avevo
vissuto quella notte con Piergiorgio, e questo mi aveva permesso anche di
comprendere molto meglio quello che desideravo da un partner, che non era solo
una scopata senza mezze misure, bensì anche l’eleganza della dolcezza tra le
coperte, da sperimentare in tutte le sue forme e con rispetto del corpo altrui.
Non volevo più quindi soddisfare solo il corpo, ma anche l’anima e la mia
interiorità.
Per quello stavo mangiando così male, con così tanta ansia;
il mio unico desiderio era quello di tornare a vivere quello che avevo vissuto
qualche ora prima.
Finii il mio trancio di pizza e la mia porzione d’acqua, e,
accaldata, me ne rimasi in attesa.
Solo alle tredici e trenta il mio cellulare, finalmente,
squillò, e con un balzo allungai la mia mano ad afferrarlo, con prontezza, non
lasciandogli neppure il tempo per fare un secondo squillo. Il numero era quello
giusto, e non ebbi esitazione a rispondere.
“George”, sussurrai, piano, mentre attorno a me sembrava che il
mondo stesse perdendo colore.
“Isabella cara”, mi
rispose lui, la sua voce che mi giunse forte e sicura alle orecchie.
Un momento di dolce silenzio ci privò per qualche istante di
sentir risuonare di nuovo le nostre voci nell’apparecchio che stringevamo tra
le mani.
“Ti ho chiamato per
chiederti se ti va di vederci, questa sera. Ne hai voglia?”, mi chiese,
poi.
Io deglutii. A frenarmi era solo il timore che qualcosa
potesse andare storto, d’altronde nelle serate precedenti era stato un disastro
assurdo.
Per qualche secondo restai turbata.
“No… cioè… non so”, tentennai, infatti, quando mi sarei
aspettata solo di gettarmi a gridare un’infinità di sì.
“Passo a prenderti io,
non preoccuparti per il trasporto. Verso le venti e trenta. Ti propongo una cenetta
fuori, dal mio amico albergatore, non so se ti ricordi… dove abbiamo cenato
assieme per la prima volta”, aggiunse, a quel punto più cauto anche lui.
Ricordavo benissimo.
“Va bene, ci sto. Ti aspetto, allora”, affermai, rassicurata.
Non mi proponeva niente di nuovo, come primo e delicato
incontro, quello che ci vedeva più uniti del precedente… sempre se quella
potevo considerarla una cena, poiché tra noi c’era stata una notevole tensione
a separarci. Poi, però, c’era stato il bacio, alla fine, di fronte a casa mia.
Speravo che quello fosse un ambiente fortunato per noi due.
Era andato sul sicuro.
“Grazie per aver
accettato il mio invito”, volle pure ringraziarmi, con cortesia e
rinfrancato dal mio consenso.
“Grazie a te, e… a questa sera, allora”, dissi, imbarazzata.
“D’accordo, perfetto.
Buon proseguimento di giornata”, salutò, riagganciando.
Avevo percepito felicità dal tono che aveva utilizzato per il
breve e rapido congedo, e pure io ero al settimo cielo, col cuore che mi
batteva a mille nel petto.
Mi rimproverai mentalmente per aver permesso alla mia
coscienza di frenare il mio consenso, siccome non avevo aspettato altro che
quell’invito per tutto l’arco della giornata.
La verità era che continuavo ad aver paura che tra noi
qualcosa si potesse incrinare, e la magia che sembrava regnare nei nostri cuori
potesse svanire, ma quelle ormai erano già diventate in fretta solo dei
minuscoli e remoti timori, poiché già andavo fuori di testa al pensiero che
quella sera avrei rincontrato il mio George, e mi veniva da immaginare tanto
romanticismo.
Mi aspettavo che fosse molto galante con me, era quello che
principalmente mi aspettavo da lui; volevo attenzioni sotto tutti i punti di
vista, e, per la prima volta in vita mia, volevo essere accudita e tenuta nella
bambagia. Volevo sentirmi preziosa, come se fossi stato un suo gioiello.
Fantasticai in quel modo un po’ infantile fin quando non si
fecero le quattordici, e quindi dovetti riprendere a lavorare, ma anche il
lavoro era una cosa da nulla, siccome ciò che mi attendeva quella sera sembrava
donarmi una gioia incontenibile, che si tramutava in una piacevolissima e
paziente attesa.
Alle venti conclusi il mio turno, e veloce come un razzo, mi
precipitai alla mia auto e mi misi subito in movimento verso casa.
Ero stata d’accordo col mio amante segreto che dopo appena
mezzora sarebbe venuto a prendermi, e non avevo avuto l’accortezza di
chiedergli qualche minuto in più, in modo da potermi cambiare.
Non volevo uscire con addosso gli abiti del lavoro. E poi ero
tutta sudaticcia e stanca, molto provata… sapevo solo che dovevo fare in
fretta, quindi.
Giunsi a casa come una furia, e incurante di mia madre, che
fissava i miei movimenti per casa con uno sguardo a tratti assente, andai dopo
un po’ nella mia camera, e cercai in maniera disperata di trovare qualche abito
che facesse al caso mio.
Avevo un guardaroba
composto da pochi capi, e quindi avevo seriamente una scelta limitata; optai
comunque per il vestito che avevo utilizzato tre sere prima, quando avevo
conosciuto Simone al Mald’Est. Era molto casual, ma mi avrebbe offerto
l’opportunità per restare maggiormente a mio agio.
Qualcosa doveva guastare i miei piani, però, giacché il
campanello al piano inferiore squillò forte, e mia madre andò ad aprire,
facendo entrare una giovane Irene mogia e tutta scuse.
“Isa, vieni giù, ti cercano”, mi chiamò la mamma, seccamente,
ma io già andavo al piano inferiore, per liquidare la ragazza.
Me la trovai di fronte tutta dispiaciuta.
“Mi perdonerai per quello che è accaduto?”, mi chiese subito,
tristissima, prendendomi le mano e stringendole con affetto tra le mie.
Notai anche che sembrava avesse le lacrime agli occhi, ma non
avevo tempo né voglia di farci troppo caso e di lasciarmi commuovere. Nessuno
le aveva chiesto di combinare quel pasticcio.
“Ti giuro, è acqua passata. Amiche più di prima”, la
rassicurai subito, felice, e dandole a sorpresa i due baci sulle guance che ci
scambiavamo già da ragazzine, quando facevamo gruppo con le altre ragazze del
paese.
Lei ci rimase di sasso, di fronte alla mia allegria e alle
mie parole.
“Ma… grazie, grazie, sei di gran cuore”, cominciò a
farfugliare, ed io controllai l’orologio appeso al muro del corridoio dove
stavamo sostando, molto preoccupata. Il tempo scorreva, Piergiorgio sarebbe
dovuto arrivare a momenti, e con Irene che stava per diventare una scocciatrice
formidabile, sentivo tutta la pressione su di me e il bisogno di concludere in
fretta quella sorta di farsa.
“Mi sono solo accorta che ho sbagliato a prendermela così
tanto, ieri sera. Sapevo che avevi fatto del tuo meglio, ma ora devi
perdonarmi, devo fare una doccia, poi vado a letto… sai, il lavoro mi stanca
molto”, provai a liquidarla, col sorriso e provando a muovermi verso le scale.
Irene tuttavia non demorse subito.
“Invece ti vedo bella carica e pimpante! Pronta per una
serata fuori”, affermò, decisa.
“Sì, stava per uscire. Ho visto poco fa che si preparava a
vestirsi per bene, e credevo che stesse per farlo con te”, intervenne mia
madre, all’improvviso, e indagatrice, mostrandosi nel bel mezzo della porta
della cucina.
Ecco, ero nei guai. Non volevo sospettassero qualcosa, invece
ero già nel pantano, fin da subito.
Lanciai un’occhiataccia eccessiva a mia madre, poi mi rivolsi
a Irene.
“Infatti, sto per andare d’urgenza da un medico. Sento che ho
la febbre”, buttai là, a caso e un po’ in confusione.
“Da un medico a quest’ora?!”, sogghignò la mia amica.
“Da un medico privato, Ire. A presto, quando vuoi fatti
sentire”, mi congedai, dicendo una mezza bugia. In effetti, Piergiorgio era
davvero un medico, solo che non mi attendeva una sua visita da ambulatorio.
Me ne andai con un po’ di parvente e maleducato
menefreghismo, ma davvero, ci tenevo troppo a mantenere segreto il mio fresco
rapporto amoroso.
Salii al piano di sopra, e prima di mettermi a vestirmi per
bene, feci in tempo ad ascoltare qualche frase sconnessa pronunciata dalla mia
amica, che supponeva con prontezza che io avessi già un filarino. Peccato però
che lei pensasse che si trattasse di uno dei bidoni che mi aveva presentato
nelle recenti serate.
Soppressi una risatina; se Irene avesse saputo quel che stavo
vivendo, e soprattutto con chi, le sarebbe preso un colpo. Poi, certo, avrebbe
anche spettegolato a dovere, ma prima ci sarebbe rimasta di sasso.
M’immaginavo mentre le riferivo che mi ero messa con un uomo
molto più adulto di me di cui non sapevo altro che il nome e la professione.
Ah, anche la macchina che aveva e dove lavorava. Senza aggiungere il numero di
cellulare.
Mi consolai, poiché pensandoci bene, qualcosa avevo scoperto
su Piergiorgio, seppur spesso indirettamente.
Lasciai perdere le mie inutili riflessioni, stupide e
scontate, e mi vestii a puntino, senza eleganza ma mantenendo una gradevole
dignità femminile, senza nascondere la natura del mio corpo.
Dopo poco, era già ora di andare ad attendere la mia nuova
fiamma, e sperai che Irene avesse mollato l’osso, andandosene, finalmente.
Una volta scesa al piano inferiore, per mia fortuna, la
ragazza se n’era andata, ma aveva lasciato una mamma molto sospettosa nei miei
confronti. Era incredibile quanto quella mia amica, ultimamente, mi stesse
causando solo guai, con ogni sua mossa.
“Con chi esci? E non raccontarmi la stronzata del medico
privato, con me non funziona”, m’importunò, infatti, mia madre, notandomi
mentre andavo verso la porta d’ingresso.
Sogghignai, poiché quella volta non mi sarei lasciata
cogliere impreparata, avendoci riflettuto sopra per un po’, mentre mi vestivo e
mi preparavo per uscire. Avrei giocato un jolly, la stessa carta che lei aveva
creduto di gettare sul tavolo.
“Con uno di quei ragazzi che mi ha fatto conoscere Irene, le
sere scorse”, le dissi, mentendo con la certezza che Ire avesse già spianato la
strada a quelle mie parole.
Me ne andai senza che mi fosse chiesto altro.
Uscii di casa con circospezione, nel timore che quella
curiosona di ragazza fosse ancora nelle vicinanze, a spiare e a tenermi
d’occhio, ma quando notai che della sua auto non c’era più neanche l’ombra, mi
mossi verso la strada con scioltezza, mentre attorno a me calava la tardiva
sera estiva, col suo velo di luce soffusa e di ombre crescenti.
Piergiorgio fu puntualissimo, ed io lo attendevo lungo il
marciapiede a un centinaio di passi da casa, in modo che neppure la mia
genitrice avesse potuto cogliere l’attimo in cui salivo sul fuoristrada, e
magari riconoscere chi mi era passato a prendere.
“Noto che hai davvero paura che qualcuno ti veda salire sulla
mia macchina”, disse Piergiorgio con un leggero sarcasmo, non appena si fermò
ed io ebbi aperto la portiera.
“Non t’illudere. Tutta apparenza”, affermai, ostentando
serietà, salendo e allacciandomi la cintura di sicurezza.
George sogghignò, scrollando appena la testa.
Non ci dicemmo nulla fintanto che non giungemmo al luogo dove
avevamo cenato per la prima volta assieme.
Non erano passate che poche serate, ma sembrava che fossero
trascorsi secoli da quella nostra cena quasi obbligata. Il nostro rapporto si
era improvvisamente evoluto, spinto anche dal mio sempre più estremo bisogno di
avere un uomo come si doveva al mio fianco, e anche se non avevamo detto nulla,
durante tutto il breve tragitto che ci separava dalla nostra meta, era stato
come se ci fossimo raccontati tutta la giornata.
I nostri sguardi stanchi ogni tanto si incontravano, e
Piergiorgio guidava tranquillo. In maniera fin troppo tranquilla, anzi,
contando il fatto che tutte le altre auto ci sorpassavano.
Non appena giungemmo all’appartato e desolato alberghetto,
glielo feci prontamente notare.
“Ce l’abbiamo fatta, caro. A passo di lumaca, ma ce l’abbiamo
fatta”, fu il mio turno di ghignare, sempre in modo benigno.
“Ogni istante trascorso in tua compagnia è per me un dono di
Dio. Non voglio sciuparne neppure uno”, mi rispose, quasi a sorpresa, e fui
costretta a tornare seria.
Lo guardai, e lui sostenne il mio sguardo, ma era serio,
poiché aveva detto qualcosa che provava davvero, che gli bruciava dentro.
Mi commossi, e di fronte al suo fuoristrada già
opportunamente chiuso, non resistetti oltre e mi strinsi contro il suo corpo.
Lui rispose con dolcezza alla mia stretta, e la ricambiò, abbracciandomi.
Non lo baciai e feci in modo che non potesse farlo, sistemando
la nuca sopra la sua spalla destra. Sapevo che un solo altro contatto più
approfondito dei nostri corpi, a quel punto, avrebbe potuto suscitare una
libidine che avrebbe mandato a monte tutto.
“Andiamo”, m’incoraggiò George, quando anche lui si rese
conto che non potevamo lasciarci andare oltre.
“Sei l’uomo più dolce di questo mondo”, gli sussurrai, mentre
entravamo nel locale, e un pimpante Vincenzo ci venne subito incontro.
“Mio caro amico! Grazie per essere tornato a farmi visita!”,
disse a voce altissima e squillante, ossequiando Piergiorgio.
“Vincenzo, non ti dimentico mai, come vedi. Chi non muore, si
rivede”, disse il mio amato, sorridendo bonariamente.
Mi perdetti in quel sorriso sincero e puro, splendido da
guardare.
“E… buona sera anche alla signorina! Alla paziente”, mi
salutò il proprietario dell’alberghetto, degnandomi di un saluto e
soffermandosi all’ultima parola, esprimendola con una spintarella che faceva
capire un po’ d’ironia.
Gli sorrisi, cortesemente, ricambiando in modo naturale il
suo saluto, e senza sapere cosa aggiungere.
Dopo aver percepito il sarcasmo lieve dell’amico, il mio
George allungò la sua mano per afferrare la mia e stringerla con dolcezza.
“Hai un tavolo per noi due?”, andò poi al punto, mentre
l’amico osservava con fare incuriosito il nostro contatto.
“Certo… certo…”, affermò Vincenzo, senza smettere di
guardarci con stupore.
“Avanti, amico mio, non vogliamo far mattina qui!”, ridacchiò
affabilmente Piergiorgio, quando il suo conoscente non accennava a smettere di
fissarci. In modo particolare, fissava le nostre due mani intrecciate, mentre
sorrideva.
“Sicuro, hai ragione. Vi faccio strada, venite pure”, e
allora ci accompagnò, lesto, al nostro tavolo, quello a cui avevamo già cenato
solo qualche giorno prima.
Il mio amante mi rivolse le sue solite galanterie, ed io
restavo a fissarlo, così come anche Vincenzo, che pareva rapito da noi due,
dopo aver compreso che il nostro rapporto andava al di là del semplice
dottore-paziente.
Piergiorgio era un astro in grado di attirare le attenzioni
di tutti su di sé, era davvero una persona con qualcosa di speciale, che attirava
positivamente la curiosità benevola, ed io ne ero totalmente rapita, del tutto
in sua balìa.
Restammo con le mani unite e intrecciate sul tavolo anche
quando ci mettemmo in attesa dell’ordinazione, immersi nella pace di quel
locale che era vuoto, snobbato dagli avventori, ma che sembrava stesse
diventando una sorta di casa per noi, dove la nostra passionalità poteva emergere
in modo tranquillo, senza paure. E ci aspettava una cenetta con i fiocchi
quella sera, tranquilla e rilassata, in un ambiente pacifico, conosciuto e
amico.
La nostra uscita non avrebbe potuto andare meglio.
NOTA DELL’AUTORE
Qui si sta evolvendo un rapporto importante, pare xD
Vediamo un po’… ^^
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Capitolo 21 *** Capitolo ventuno ***
Capitolo ventuno
CAPITOLO VENTUNO
La nostra uscita, infatti, non sarebbe potuta andare meglio,
come mi accorsi col trascorrere graduale del tempo.
Cenammo mano nella mano, tra sguardi amorevoli e un bisogno
crescente di trovare un posto tutto per noi, che non fosse sotto al naso di
quel curiosone di Vincenzo, che ovunque si trovasse cercava sempre di buttare
un occhio verso il nostro tavolo.
Non dovevamo comunque lamentarci, poiché il locale era quasi
completamente vuoto. Cenammo con molta più calma rispetto alla nostra prima
volta, essendo entrambi rilassati e imbevuti di desiderio, e qualche altro
avventore si era unito a noi, seppur fosse stato sistemato in tavoli abbastanza
lontani dal nostro.
A dire il vero, ben presto fui costretta a riconoscere che
non avevo prestato alcuna attenzione al cibo che avevo mangiato, e all’ambiente
circostante, se non proprio solo un minimo che non mi era neppure rimasto impresso
nella memoria, siccome i miei occhi erano sempre puntati verso quelli di
Piergiorgio.
Era stato il mio desiderio dell’intera giornata che stava
volgendo al termine, quello di tornare a guardarli, con intensità, ed era
incredibile quanto fossero espressivi. Erano acquosi, come se soffrissero di
una qualche allergia, e questo li rendeva ancor più dolci, ancor più da
cucciolo. E poi davano un senso di profondità che a guardarli anche solo a
prima vista sembravano due porte aperte su un mondo tutto da scoprire, o almeno
quella era la sensazione che offrivano a me.
Erano davvero fantastici, in poche parole.
Finimmo di mangiare quasi in fretta e furia, senza sapere che
cosa sarebbe stato, da lì a poco, di noi, ma una premonizione sembrava
aleggiare sulle nostre teste, poiché sentivamo entrambi che quella serata era
destinata a non finire così. No, sarebbe stata speciale, siccome ci eravamo
soltanto limitati a sfamare i nostri corpi, mentre l’anima doveva ancora essere
dovutamente nutrita.
Divorammo le portate, pur di bruciare il tempo che ci
separava da quello che più desideravamo, seppur tacitamente, e cioè trascorrere
una nottata come quella precedente. La nostra cena fu fatta di occhiate, di
sguardi fissi, di mani intrecciate sul tavolo, nei brevi momenti di attesa, ma
le nostre labbra continuarono a non sfiorarsi, dovevamo resistere.
“Isa… non voglio dirti addio, tra poco”, espresse la faccenda
Piergiorgio, dopo essersi scolato distrattamente il sorbetto al limone che
concludeva quella nostra cenetta, col suo fresco sapore dolce.
“Neppure io lo voglio”, ammisi, sospirando.
“Restiamo qui, allora”, concluse lui, sorridendomi e
stringendo più forte la mia mano, ancora tra le sue, sul tavolo.
Rimasi un po’ stupita da quella sua frase decisa, e non capivo
bene dove volesse andare a parare, quindi mi limitai ad abbassare lo sguardo e
a scuotere il capo, sconsolata.
“Chiedo a Vincenzo una camera, sono sicuro che ne ha una
bella per noi, libera e pulita. Passiamo la notte qui”, tornò a dire, notando
la mia momentanea reticenza.
“Vorrei, ma non posso. Mia madre mi aspetta a casa”, gli
dissi, comprendendo meglio quel che voleva.
“Non hai detto che a tua madre non importa nulla di te?”.
Piergiorgio, nel suo ardore amoroso, mi aveva colpito, in
maniera molto ingenua, come se fosse stato un ago appuntito.
“Oddio, scusami, ti chiedo perdono, Isa… perdonami, sono
stato indiscreto e maleducato”, iniziò infatti a dire il mio amante,
accorgendosi di cosa avesse appena detto, seppur l’avesse fatto solo con buone
intenzioni, e non per ferirmi. Gliela avevo narrata io stessa, la vicenda,
durante la prima parte disperata della serata precedente.
Sapevo che non l’aveva detto per colpirmi o per cercare di
convincermi in fretta a prendere una decisione azzardata, poiché il mio George
non l’avrebbe mai fatto con cattiveria e malizia, e potevo leggere anche quello
nei suoi occhi, ma si era limitato a sbattermi in faccia la verità.
Se, appena udita, quella domanda mi aveva lasciato un po’
scosso, e mi aveva turbato, in un attimo si tramutò in un consapevole
nervosismo nei confronti di mia madre, e, egoista com’ero in quel momento, mi
parve di detestarla.
Ragionai quindi d’impeto; lei mi aveva trattato male, negli
ultimi giorni, ed io avrei fatto altrettanto. Ormai ero maggiorenne da tempo, e
se volevo dormire una notte fuori, senza avvisare, potevo tranquillamente
farlo, e la mia genitrice aveva tutti i mezzi per passarsela da sola.
“Va bene”, acconsentii, e Piergiorgio, sorridendomi, andò
subito da Vincenzo, a parlargli.
Dopo nemmeno dieci minuti, avevamo già una stanza a nostra
completa disposizione, con tanto di letto a due piazze, e ci chiudevamo al suo
interno cominciando subito ad abbracciarci, con l’anziano proprietario del
piccolissimo alberghetto che continuava a osservarci con un’espressione
sbigottita sul volto, che non sarebbe di sicuro bastata a frenare, neppure per
un secondo, quello che provavamo e quello di cui avevamo bisogno per tornare a
sentirci di nuovo amati.
Il fuoco della passione ardeva dentro di noi, con tutto il
suo ardore, e non potevamo domarlo, e niente e nessuno poteva darci fastidio o
pensiero. Eravamo perduti.
Non ci fu bisogno di parlare, chiusi nella nostra stanza;
agivamo d’istinto, come belve selvatiche infervorate dalla passione più
ancestrale e primitiva. In men che si potesse dire, ero già intenta a
svestirmi, e George faceva anche lui lo stesso.
“Sei sempre più bella”, lo sentii dire, mentre ero alle prese
col mio semplice vestitino da uscita serale.
“Miglioro a ogni tuo sguardo, allora”, ribattei, senza
fermarmi e continuando a perseguire il mio scopo.
“Suppongo che mi sia concesso, quindi, di osservarti molto di
più, d’ora in poi”, volle aggiungere, scherzosamente, con quella pacata ironia
molto simpatica che stavo cominciando a conoscere un po’ meglio.
Sorrisi, senza guardarlo, e togliendomi finalmente la
maglietta che indossavo, per poi lasciarla cadere sul comodino a fianco del
letto, tutta in disordine.
“Ti ho mai detto di non farlo? O che mi desse fastidio?”, lo
stuzzicai, con tono provocante, e allora mi volsi verso di lui, ormai in
reggiseno.
Piergiorgio era cotto a puntino, e notai il baluginio netto e
distinto che attraversò i suoi occhi, non appena mi vide così, con la mia pelle
bianca come il latte, che di sole estivo ne aveva visto ben poco, e ormai
pronta a lasciarmi andare. Lui, quasi incredibile da constatare, era ancora
alle prese con la sua solita camicia, e i rispettivi e ostici bottoncini,
sempre fastidiosi da sbottonare.
Aveva le palpebre sgranate, più aperte del solito, mentre
osservava la mia camminata felpata verso di lui.
“No…”, rispose al mio duplice quesito, con un attimo di
ritardo e la bocca semi aperta.
“Lascia stare, ti aiuto io”, mi limitai a dirgli, andandogli
a sbottonare la camicia quando ormai sembrava aver gettato la spugna,
trovandosi di fronte a me.
Le sue mani avevano smesso di essere agitate e sudate, in
lotta con i bottoni, e il suo sguardo non era più incentrato sul suo ventre, ma
solo ed esclusivamente verso di me, verso la mia pelle nuda, e verso il mio
intero corpo. Ed io ero rapita da quella vista, poiché vedevo in modo chiaro e
netto che aveva occhi solo per me, e che appariva come un uomo perso, tutto
mio, ed ero sicurissima che mi amasse davvero, o che almeno provasse qualcosa
di fortissimo nei miei confronti, dissipando anche gli ultimi residui di dubbio
che potevo provare quando riflettevo con estrema serietà.
Mi misi quindi di buona volontà, e col sorriso sempre
stampato sul volto, a svestirlo, e lo feci pian piano, in modo sensuale, con
Piergiorgio sempre più perso e inebriato, e le sue mani che invece di aiutarmi
corsero a sfiorare il mio ventre, all’altezza dell’ombelico, e poi risalirono,
ancora più su…
“Perché ti vesti in questo modo? Per me, non devi essere
impeccabile, lo sai. Quello che mi piace di te è tutto il resto, gli abiti non
contano”, gli chiesi, smorzando un attimo l’attenzione che stava rivolgendo al
mio corpo.
“Per te, questo e altro. E poi non me la sento di andare in
giro con abiti slabbrati, come fanno i ragazzi negli ultimi anni, oppure con
qualche vestito così, da mercato del giovedì mattina. Ti dà fastidio, forse?”.
“No, per me va benissimo, anzi, ti dona l’importanza che
meriti. Però, immagino che tu provi un po’ di caldo, ad andare in giro in piena
estate con tanto di calzoni lunghi e scarpe di cuoio lucido”, osservai,
cercando ancora di farlo parlare.
Sembrava in procinto di saltarmi addosso così com’era, e non
volevo, non desideravo quella passionalità che sarebbe durata solo fino a un
precoce orgasmo. Cercavo la seduzione, la dolcezza di due corpi nudi e pronti a
unirsi, non un qualcosa di lasciato a metà.
Avevo vissuto quell’esperienza per un’infinità di volte,
quando stavo ancora con Marco, e non avevo voglia di tornare a sperimentare
qualcosa che già conoscevo da tempo, e che avrebbe rischiato di lasciarmi con
l’amaro in bocca. Cercavo solo la magia di un momento perfetto, come quello che
si era andato a creare durante la notte precedente a quella.
“Non ho caldo, non ne ho mai. L’ho solo quando ti vedo, mio
grandissimo amore”, mi rispose, passionale, ed allora gli sfilai la camicia,
gliela consegnai e gli slacciai in un lampo la cintura, anch’essa di cuoio, ma
mi chinai poi a slacciargli i lacci delle scarpe, senza andare a sfiorare con
una mossa volgare le sue intimità. Se voleva sbottonarsi anche i calzoni, lo
doveva fare da solo e di sua iniziativa.
“Non si trattano così i panni, lo sai, vero?”, gli feci
notare quando si sbarazzò della camicia gettandola in un angolo della camera,
più o meno come aveva fatto durante la nostra prima nottata romantica.
Solo durante la sera precedente eravamo sospinti da una
situazione diversa da quella, dove potevamo gestire molto meglio il tempo che
avevamo a disposizione, senza badare troppo ai particolari, o a soffocare in
maniera eccessiva le nostre voci.
“Non mi importa… mi importa solo di te, adesso”, disse, la
voce ridotta a un singulto ebbro di una passione che pareva esser stata
repressa per l’intero arco della giornata.
Si slacciò i calzoni e si sedette all’improvviso a bordo del
letto, ed io gli sfilai le scarpe, con l’odore deciso del cuoio scaldato dal
calore dei piedi che mi stuzzicava il naso.
Finì di svestirsi da solo e in un attimo, e mi fu subito
addosso, abbracciandomi e slacciandomi il reggiseno.
“No”, lo frenai, risoluta, “no, non voglio”.
Piergiorgio ci rimase di sasso, per qualche istante,
sciogliendo l’abbraccio e lasciando immediatamente la presa sul mio reggiseno
già slacciato, che mi scivolò sul petto.
Mi guardò con quei suoi occhioni tutti sconvolti dall’ansia
di quel repentino rifiuto, e mi parve di vedere un cucciolo indifeso. Gli
sorrisi amabilmente, per sdrammatizzare subito la situazione.
“Non voglio che finisca tutto così, in un attimo. Questa sera
possiamo fare le cose per bene, e per questo prima di venire a letto voglio
farmi anche un bagno… sono sudata da questa mattina, mi fa anche schifo il solo
pensiero di restare tra le tue braccia in questo stato”, aggiunsi, poi,
rassicurandolo.
George rispose al mio sorriso, a quel punto, tornando a
sciogliersi.
“Anche io, oggi sono stato tutto il giorno al lavoro, e non è
proprio che sia tanto profumato, come magari avrai già notato da sola”,
sogghignò, “quindi direi che possiamo concederci almeno una doccia rilassante,
prima di buttarci sul letto”.
Annuii, soddisfatta.
Mi diressi verso il bagno, e non appena lo aprii, notai che
si trattava di un ambiente davvero piccolo e ristretto, quasi di seconda
categoria.
Sbuffai, poiché mi sarei dovuta aspettare che
quell’alberghetto fosse così messo male al suo interno, d’altronde non era un
hotel a cinque stelle. Infatti, non c’era neppure un box doccia, o una doccia,
ma solo la classica vasca, tra l’altro abbastanza ristretta anche quella.
“Immagino che non sarà tanto ospitale”, soggiunse alle mie
spalle Piergiorgio, ancora bonariamente.
Mi volsi verso di lui, sorridendo.
“C’è solo una vasca, anche scomoda. E come se non bastasse,
non ho neppure l’occorrente per rivestirmi in maniera decente”.
“Vorrà dire che affronteremo l’insidia assieme, va bene?
Anche io sono nella tua stessa e medesima situazione”, mi disse George,
dolcissimo ed abbracciandomi da dietro.
“Ci sto!”, esclamai, piena di euforia.
Non ero mai stata in vasca da bagno con qualcun altro, e con
il mio ex al massimo avevamo fatto una doccia assieme, e cioè tutto ciò che il
nostro angusto appartamentino affittato poteva lasciarci permettere. Finii di
spogliarmi in un baleno, e lasciati i miei abiti in disordine ai piedi del
letto, quasi corsi a testare la vasca.
Piergiorgio, totalmente nudo, la stava già riempiendo di
acqua piacevolmente tiepida, di quel calore frizzantino e lieve, piacevolissimo
anche in piena estate.
Ci immergemmo assieme, all’unisono, uno da un lato e l’altro
dall’altro della vasca che, per fortuna, era abbastanza spaziosa.
“Peccato che non abbia l’idromassaggio”, osservò George,
sempre con la sua solita ironia pungente.
“Faremo anche senza, dai”. Gli concessi un sorriso.
“Ti prometto che, se vorrai, la prossima volta ti porto in un
bell’albergo stellato, dotato di tutti i confort”.
“Non ho bisogno di confort, se con me ci sei tu”, gli dissi,
sorridendogli, mentre mi lasciavo immergere piano, facendo in modo che anche il
mio viso finisse sott’acqua per una manciata di secondi.
Così facendo, però, finii per dare una pedata involontaria a
Piergiorgio, che dall’altro lato della vasca si stava dando da fare per
bagnarsi la nuca.
“Non so se ti sei accorta che mi hai appena sferrato un
calcio”, mi fece notare, non appena riemersi. Ed io risi, mi lasciai sfuggire
una risatina pura e sincera, che in sé non aveva nulla di malefico.
“Fa niente”, riuscii a dire.
Prima che potessi provare a ritrarmi, mi afferrò dolcemente,
eppure con risolutezza, la gamba sinistra, e prese a strofinarla con una
spugnetta offerta nei vari accessori dell’alberghetto, e si mosse con una
delicatezza che mi fece morire la felicità che provavo dentro di me.
Lo osservato mentre toccava la mia pelle, e sembrava
accudirla. Aveva le mani da una pelle delicata quanto il loro tocco, mi
sembrava di essere in paradiso.
Rimasi a bocca semi aperta a osservarlo; mi sembrava
incredibile di star condividendo una serata così intensa con un uomo così tanto
pieno d’amore rivolto tutto nei miei confronti.
“Che c’è?”, mi chiese, sorridendomi, quando notò che ero come
rimasta di pietra.
“C’è che io ti amo, George. Ogni secondo che passa, lo scopro
sempre di più”, gli dissi, con le lacrime agli occhi per la commozione che
stavo provando. Non ero abituata a così tante attenzioni, e questo stava
colpendo molto la parte di me più emotiva.
Mi zittì con un gesto deciso.
“Per favore, non ripeterlo più, almeno per un po’, altrimenti
credo che non riuscirò a trattenermi oltre”.
Mi sorrise, sornione. Leggevo la passione che gli ardeva
dentro agli occhi, così stranamente profondi, e dalla parvenza grande, vivida
ed animata. Era come un libro stampato, per me.
Di tutta risposta, non aggiunsi niente a voce, ma cominciai a
fare la medesima sequenza di gesti sul suo corpo, prendendomi cura di lui come
egli stava facendo nei miei confronti, evitando le zone più intime, col
medesimo rispetto che mi stava portando.
Proseguimmo il nostro bagno condiviso in silenzio, e quando
finimmo, dopo esserci dovutamente risciacquati e preparati per metterci in
accappatoio, mi intrufolai tra le sua braccia, quasi di soppiatto, mentre
recuperava una tovaglia. Con prontezza, mi baciò a stampo sulla fronte.
“Te ne prego… ancora un attimo di pazienza”.
Ci asciugammo in fretta, e lui, con ancora i capelli fradici
e il viso peloso reso sfavillante dall’umidità, mi guardò con ferocia e ardore,
come una fiera selvatica.
“Lascia stare, ti asciugo io”, gli dissi, e racimolai un
vecchissimo phon da un cassetto nel bagno, tra l’altro anche di vecchio
modello. Una roba da brivido, se trovata in un albergo.
“Non ti preoccupare, lascia stare quel coso antidiluviano”,
aggiunse Piergiorgio, abbracciandomi da dietro, ma non mi lasciai abbindolare.
Il piacere dell’attesa stava crescendo, e sentivo di non voler rovinare tutto,
provando solo a resistere fin quando avrei potuto.
“E tu vorresti che io abbracciassi e baciassi un uomo tutto
fradicio in testa e nel viso? Che poi bagnerebbe tutto il cuscino e magari si
ammalerebbe, tanto per aggiungere qualcosa al disastro? Non scherziamo”, lo
rimproverai, piano e col sorriso sulle labbra.
Lui si ammansì e mi lasciò fare, come se fosse stata una
cavia consenziente.
Presi il pettine e mi resi un’improvvisata parrucchiera,
approfittando del fatto che, una volta tanto, non era toccato a me
asciugarmeli, facendo una fatica bestiale e impiegandoci tantissimo tempo. Ero
infatti stata molto attenta e non avevo lasciato che si bagnassero, essendomeli
tenuti ben raccolti sulla nuca.
In effetti, ci rimasi un po’ sorpresa, in maniera ingenua,
quando dopo una sola decina di minuti di phon i suoi capelli a tratti ancora
scuri erano già praticamente asciutti.
“Oddio, spero di aver fatto un buon lavoro”, mi lasciai
sfuggire, quando spensi quell’oggetto rumorosissimo.
Piergiorgio rise sommessamente, e mettendosi di fronte allo
specchio del bagno, si pettinò come preferiva.
“Va bene così, sei stata perfetta”, mi rassicurò.
“Non devi per forza dirmi che va tutto alla perfezione, è la
mia prima volta da parrucchiera…”, quasi ironizzai, a mia volta.
“Va sempre benissimo”.
Si volse verso di me, sorridendomi, e lasciando scivolare giù
l’accappatoio. Rimasi folgorata, m’interruppi e non seppi dire altro, di fronte
a lui e alla forza che emanava.
George mi venne incontro e sciolse anche il nodo del mio
accappatoio, ed io lasciai sfilarmelo di dosso. Poi, fece una cosa che non mi
aspettavo; fece per abbracciarmi, ma in realtà mi prese in braccio.
Presa alla sprovvista, lanciai un gridolino di stupore, e mi
affrettai ad avvolgere le mie braccia attorno al suo collo, mentre lui mi
portava a passo spedito verso il nostro letto ancora immacolato, ma in procinto
di finire sfatto.
“Non me l’aspettavo!”, gridacchiai, quando mi lasciò andare
sul letto, con dolcezza, e in meno di un attimo il suo corpo si sovrappose al
mio.
“Dovresti avere imparato, ormai, che quando voglio so essere
un po’ birbante”, mi disse di rimando e con la sua solita simpatia, non
deludendomi mai.
Poi, non ci fu più spazio per le parole, ma solo per i baci e
le dolci effusioni scomposte di una coppia che aveva scoperto una passione
travolgenti, di quelle da considerare come un tabù, durante la vita di ogni
giorno. Ma quella tanto non era più vita quotidiana, per noi; era diventata la
nostra vita, quella di due persone adulte che scelgono di loro spontanea
volontà di unirsi, di fondere con amore i loro due corpi distinti, senza far
più caso a ciò che ci circondava.
Eravamo ebbri di un amore che aveva qualcosa di fatato.
Rifacemmo l’amore almeno tre volte di fila, intervallate da
piccole pause di una decina di minuti, o poco più. Per me quello era molto più
di semplice sesso, era come una connessione tra due entità corporee, che andava
oltre il voler comunicare a parole. Era un legame che ci aveva unito così tanto
da sembrare un potente collante, un qualcosa di trascendentale che andava ben
oltre la semplice materia.
Solo quando non avevamo più niente da dare, stanchi e
sfiniti, ed io ero riversa tra le sue braccia, col suo corpo caldo e villoso
adagiato con incredibile leggerezza sul mio, trovai che fosse giunto il momento
di tornare a parlare. Ma prima di farlo, cominciai ad accarezzargli i capelli,
con ordine e senza scompigliarli, mostrando dolcezza.
Il suo viso era voltato verso sinistra, appoggiato anch’egli
sulla parte alta del mio petto, quasi all’altezza della gola, mentre le sue
mani ancora stringevano le mie, senza alcuna intenzione imminente di
interrompere il contatto.
“Sei sveglio?”, gli chiesi, ben sapendo che lo era. Volevo
solo spezzare con cautela il nostro recente silenzio.
“Sì”, infatti mi rispose, subito.
“Siamo stati degli idioti, non credi?”, andai direttamente al
punto.
Piergiorgio allora si tirò su, guardandomi con i suoi occhi
grandi e magnetici.
“E perché mai?”, chiese. “Perché abbiamo seguito il nostro
cuore e il nostro istinto naturale?”.
“No”, risposi io, e sospirai piano, “perché abbiamo condiviso
il letto in queste due notti, e abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare.
Il problema è che l’abbiamo fatto senza precauzioni”.
George sorrise, all’improvviso.
“Non dirmi che ti preoccupi del fatto che non abbiamo usato
contraccettivi”.
“Mi preoccupo un po’, invece. Siamo stati ingenui. Da domani
prometto che…”.
Mi interruppe, prendendomi il viso tra le mani.
“Non capisco qual è il problema, tesoro mio”, insistette.
“Cos’è che non capisci? Non hai più due anni, sai come si
generano i bambini”, gli sbottai in faccia, perdendo un po’ di delicatezza.
Lui rise forte, col suo vocione duro.
“E’ avere un figlio che ti spaventa?”, mi chiese, poi.
Lo guardai senza dire nulla, non capendo dove volesse andare
a parare con una tale domanda a bruciapelo.
“Quanti anni hai, Isabella?”, tornò a chiedere, sorridendomi.
“Ventisei, quasi ventisette”.
“Non ti sembra ora di diventare mamma? Scusa, ma ci sono
ragazze che lo diventano anche prima di te…”.
“Cosa stai cercando di dirmi?”, lo interruppi io, quella
volta, essendo molto perplessa.
“Voglio dirti che non comprendo qual è il tuo problema. Un
bambino in arrivo sarebbe una buona notizia, una gioia immensa, e non una
complicazione”, rispose con una semplicità disarmante.
Scrollai il capo.
“Allora non capisci, non stai provando ad ascoltare quello
che voglio dirti…”, quasi lasciai perdere, sconsolata.
“Il fatto è che il problema non sarebbe tanto se tu restassi
incinta, ma se tu restassi incinta di me, giusto?”, tornò a chiedermi, e quella
volta mi ferì.
Mi agitai sotto al suo corpo, quella domanda mi aveva
inquietato.
“No… non è questo”.
“Io ti amo, ti amo davvero, Isa, e non ne ho mai fatto
mistero. Se vuoi, io ora mi inchino davanti a te e ti chiedo di sposarmi,
subito e senza attendere oltre. Possiamo far avviare le procedure del
matrimonio già da domani, se vuoi, e come vedi non è un problema per me
sposarti”.
Lasciai che quelle frasi pesanti scivolassero su di me, e le
soppesai per qualche istante, prima di tornare ad esprimermi a riguardo.
“Anche io ti amo, George… ti amo, te lo giuro. Più di tutti e
di tutto. Ma non ti sembra che stiamo correndo un po’ troppo, in questo modo? Stiamo
forzando molte tappe”.
Lui scrollò il capo, in segno di diniego.
“Ciò che ti turba è la mia età, e chi sono. Non vorresti che
si sapesse che stai con me…”.
Non lasciai che finisse di parlare, poiché gli diedi
d’istinto uno schiaffo.
Mi venne da scusarmi, subito dopo, poiché avevo esagerato con
la mia reazione repentina, ma lui aveva detto parole troppo pesanti da essere
pronunciate, formulando un discorso che, per il momento, non mi era mai apparso
in maniera definita nella mia mente.
Piergiorgio però mi stupì, e rise di nuovo.
“Era la reazione che mi aspettavo, ora sono certo che mi ami
davvero”, mi disse, per nulla turbato.
“Hai mai avuto dubbi, a riguardo?”, gli chiesi, con grande
serietà.
“No, ma questo discorso…”.
“Questo discorso non merita nulla”, gli parlai sopra,
interrompendolo di nuovo, “il problema vero è che io non ti conosco, e non so
nulla di te. Mi hai chiesto di sposarti, abbiamo dormito assieme, abbiamo fatto
tutto quello che una coppia affiatata può fare. Ma io non ti conosco, lo
capisci questo? Mi piacerebbe dire che so qualcosa di te, che ho afferrato
almeno una parte della tua esistenza, e invece so solo che ti amo, e che stiamo
passando dei bei momenti assieme, e nient’altro!”.
Mi lasciai andare, sfinita, mentre qualche lacrima solcava il
mio viso, dopo quel rapidissimo sfogo.
“Ah, no, non piangere mica per una cosa così!”, provò a
rasserenarmi Piergiorgio. “Anzi, se per te questo è un grave impedimento,
poiché mi chiedi sempre qualcosa sul mio passato, farò di più; ti prometto che
sarò un libro aperto, per te, ma non questa notte”.
“E quando?”.
“Domani. Domani sera, magari. Ti va di passare a casa mia? Ti
lascio il mio indirizzo, vieni lì ed io ti racconterò e ti mostrerò tutto su di
me. Tutto, anche in foto”.
Non sapevo cosa dire, potevo solo accettare l’invito.
“Va… va bene”, concessi, “però… è ok se passo durante la mia
pausa pranzo, da mezzogiorno alle quattordici?”, domandai, tentennante. Non era
tanto il problema di andare a casa sua, ad angustiarmi, bensì il fatto che non
volevo tornare ad uscire di sera, per non dar troppo nell’occhio a mia madre.
Già quella notte la stavo combinando grossa, e mi stavo
scoprendo davvero troppo.
“D’accordo. Domani ho il turno della mattina… mi sta bene,
quindi”, asserì.
“Perfetto. Dove abiti, allora?”, andai al punto, ma
Piergiorgio mi baciò appassionatamente.
“Ora no, va bene? Ne riparliamo tra un po’. Poi ti do anche
il mio indirizzo. Ma ora no, sei d’accordo?”, mi chiese, sincero e sorridente.
Ed io non seppi resistergli, e mi lasciai di nuovo andare
alla passione, felice in cuor mio di essere così tanto amata, mentre cercavo di
non pensare a null’altro se non all’amore che provavo per quell’uomo così
dolce.
NOTA DELL’AUTORE
Non so se è il mio genere, questo. Però ce l’ho messa tutta.
Ho cercato di creare un capitolo a due facce, diciamo così,
ad alti e bassi.
Grazie per essere qui! ^^
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Capitolo 22 *** Capitolo ventidue ***
Capitolo ventidue
CAPITOLO VENTIDUE
Dopo aver passato una notte tutto amore e lenzuola, venne
anche l’alba, quella dannata luminosità che era destinata a infrangere i nostri
sogni, e a spingerci ad uscire di nuovo allo scoperto. Poi, l’alba estiva era
traditrice, siccome alle sei del mattino già c’era luce a sufficienza per
svegliarsi per bene da ogni torpore notturno.
Alle sei e un quarto, io e Piergiorgio eravamo totalmente
vestiti e pronti a lasciare l’albergo di Vincenzo. Eravamo stanchi, dopo una
notte intensa in cui avevamo risposato solo un paio d’ore, verso il mattino,
avvinghiati dalle nostre braccia, quasi i nostri corpi avessero voluto formare
un intrico di carne e ossa.
Dovevamo, purtroppo, tornare alle nostre vite quotidiane, e a
me dispiaceva tantissimo; per la prima volta avevo anche ricevuto la mia prima
proposta di matrimonio, anche se non mi sentivo assolutamente in vena di
accettare o di tornare a sfiorare l’argomento, anche se mi affascinava
parecchio. Ero finalmente una donna, e tale mi sentivo, senza più quella
piattola di Marco a soffiarmi sul collo.
Mi sentivo libera di decidere, ma… dovevo anche confrontarmi
con mia madre, e con il lavoro e la vita di tutti i giorni. A preoccuparmi di
più era proprio la mamma, e temevo che scoprisse che non ero neppure rincasata,
quella notte, e non volevo che lei si facesse strane idee su di me, poiché non
mi ero mai comportata in quel modo, neppure nel periodo di massima infatuazione
per il mio ex.
Io e George abbandonammo così l’alberghetto di soppiatto,
salutando un Vincenzo appena svegliato, che non si azzardò a chiedere nulla,
seppur avesse già capito tutto, e finimmo dentro il fuoristrada del mio amante,
a baciarci di nuovo. Vivevamo uno per le labbra dell’altra, e viceversa.
Quando non ne potemmo più, e la realtà tornò a farsi
pressante, fummo costretti ad andarcene.
Giunsi a casa che erano le sei e mezzo, dopo aver promesso a
Piergiorgio che entro mezzogiorno e mezzo sarei stata a casa sua, avendomi
scritto l’indirizzo in un bigliettino che non avevo ancora letto e che tenevo
ripiegato per bene, in quattro parti, nella mia borsetta. Cercai di non fare
alcun rumore, e mi tolsi anche le scarpe, sempre per limitare ogni sorta di
baccano.
M’infilai in camera mia di soppiatto, con circospezione, dopo
aver eluso la placida sorveglianza materna senza alcun problema, passando di
fronte alla sua porta ancora ben chiusa.
Quando fui al sicuro, mi venne però da sentirmi in colpa, e
da chiedermi se fossi davvero un’incosciente, a star fuori tutta la notte senza
dire nulla ad un genitore che era malato e che era stato dimesso da pochissimo
dall’ospedale, a seguito di un gravissimo ricovero d’urgenza.
Con la testa tra le mani, mi lasciai andare sul mio letto, ma
senza più pensare, cercando in modo parzialmente vano, comunque, di tenere la
testa sgombra da ogni sorta di riflessione. Ben presto sarebbe stata ora di
tornare al lavoro e di rivedere mia madre, quindi avrei avuto tutto il tempo
per affrontare ogni prevedibile evento che in quel momento mi poteva sembrare
una sorta di ostacolo insormontabile.
Alle sette e trenta, scesi al piano inferiore, e subito
incrociai la mamma, che mi apparve torva. Era come se mi avesse atteso, con
pazienza, nel corridoio, pronta a beccarmi nel momento opportuno.
“Ma’, mi aspettavi?”, le chiesi, provando a dissimulare la
mia tensione anche tramite l’utilizzo di un pratico sbadiglio assonnato. Non
che mi avesse richiesto sforzo, giacché ero ancora provata dalla vivace nottata
appena trascorsa, però ero davvero agitata.
Se voleva un confronto, non mi ritenevo pronta ad
affrontarlo. E pareva che lo volesse per davvero.
“Isa, cos’è successo ieri sera? Non ti ho sentito neppure
rientrare”, mi chiese, infatti, con prontezza, eludendo la mia precedente
domanda.
“E’ che sono rientrata tardi, sarà stata l’una, o poco dopo.
Tu eri già a letto”, provai a precisare, mentre andavo in cucina a prepararmi
una breve colazione, sempre per nascondere il fatto che non ero con la
coscienza limpida come invece volevo a tutti i costi ostentare.
Mamma però rise, grevemente.
“Ti ho aspettata in piedi fino alle tre e mezzo del mattino,
poi mi sono rassegnata e sono andata a dormire. E ti garantisco che di te non
s’è vista neppure l’ombra, fino a quell’ora”, affermò, infatti, con precisione.
Non me l’aspettavo.
La mia fortuna era che le davo le spalle, siccome ero alla
ricerca del latte all’interno del frigorifero, e non poté vedere il mio sguardo
impaurito, che per un istante doveva essersi riflesso nei miei lineamenti.
“Magari hai schiacciato un pisolino per qualche minuto…”.
“Sì, giusto il tempo per far sì che tu sgattaiolassi di
sopra, vero? No, a letto non c’eri, ho controllato”, fece maggiore pressione.
A quel punto, lasciai perdere tutto quanto, e, alzandomi, mi
volsi verso di lei, molto adirata.
“Cosa fai, adesso mi spii? Prima non uscivo mai, e allora ero
una depressa. Adesso che esco un po’, per svagarmi, ecco che mi stai col fiato
sul collo. Vergognati! E se vuoi proprio che io lo rimarchi, non sono più
minorenne già da un bel pezzo”, affermai ad alta voce e con foga. Poi, piantai
tutto lì, col volto livido per l’ansia e la tensione appena provata, e me ne
andai di casa con fretta, senza neppure accorgermi di non aver dato, in realtà,
alcun punto di riferimento a mia madre, limitandomi ad averla trattata
malissimo.
Tra l’altro, l’avevo fatto solo per proteggere quello che
ritenevo un mio intimo segreto, che comunque non era un reato o una cosa folle…
era solo amore.
Trascorsi la mattinata con una gran pena nel cuore.
Dopo quel litigio improvviso, non mi sentivo più in pace, a
livello interiore, e non riuscivo a metabolizzare cosa fosse più o meno giusto
fare.
Lavorai con la mia solita lena, evitando ogni contatto di
troppo con le colleghe, temendo che la loro curiosità che ciò avrebbe potuto
indurre mi avesse portato ad avere un’altra sorta di attacco isterico. Cercai
solo di starmene sulle mie, come al solito.
Conclusa la mia parte di turno mattutino, mi attendeva un
momento molto delicato; quello di raggiungere la dimora di George. Non sapevo
cosa aspettare, ed ero mentalmente turbata. Fui, a tratti, in procinto di
chiamarlo per digli che avevo avuto un contrattempo, siccome non me la sentivo,
ma alla fine scelsi di togliermi quel dente, e di andare da lui ugualmente.
Il fatto di poter sapere altro di lui mi inquietava e mi
estasiava allo stesso tempo. In ogni caso, sarebbe stata un’avventura curiosa,
anche se non ero proprio dell’umore giusto per affrontare con piacere delle
nuove scoperte o delle novità. E non sapevo, in più, quanto in realtà avesse
intenzione di farmi sapere su di lui. Non volevo essere raggirata, o sentirmi
tale.
Accolsi comunque, alla fine, la sfida.
Dopo aver raccattato il fogliettino sul quale mi aveva
scritto l’indirizzo, andai ad approfondire, leggendolo per bene, e scoprii che
viveva non troppo distante da casa di mia madre, in una lunghissima via che era
parallela, seppur un po’ distante, come spesso accadeva in campagna, a quella
in cui avevo trascorso la mia intera infanzia e adolescenza. Non era un obiettivo
difficile, quindi mi sentivo di poter andare tranquilla, essendo anche una zona
che un po’ conoscevo.
Così, grazie alla mia fedele automobile, giunsi alla
destinazione designata senza problemi, e non appena mi trovai di fronte ad un
grandissimo villone immerso nel verde e in un caldo soffocante, mi resi conto
di aver scorto tantissime volte, e di sfuggita, quell’edificio e il parco
recintato che lo attorniava da tutti i lati. La recinzione era metallica, ma
alta ed imponente, come il cancello che mi trovai di fronte non appena
abbandonai la strada asfaltata, maestoso anch’esso e sormontato da due aquile
di bronzo.
Feci per scendere, siccome notai che c’era il campanello da
suonare, sotto una lastra color oro in cui c’erano infissi, a caratteri piuttosto
grandi, i titoli di Piergiorgio. Per la precisione, stavo per varcare la soglia
del Dottor Ceccarelli Piergiorgio, cardiologo.
Non dovetti, infine, scendere per andare a suonare il
campanello, siccome il grande cancello cominciò ad aprirsi. Dopo un attimo di
incertezza, durante la quale mi chiesi se era meglio suonare comunque, mi
decisi a riaccendere l’auto e ad entrare.
Non appena varcai il cancello, ecco cominciò a richiudersi.
Attorno a me e all’auto che stavo guidando c’era solo il
verde intenso di un giardino curatissimo anche d’estate, e il vialetto che
stavo percorrendo era ricoperto dalle fitte chiome dei tigli che s’innalzavano
ai suoi margini, creando una sorta di viale alberato in miniatura. Era una
giornata ben soleggiata e serena, e tutto ciò risaltava subito all’occhio,
senza difficoltà alcuna.
Ci misi qualche minuto a giungere di fronte al villone,
poiché guidai piano e con molta prudenza. L’abitazione non era altro che una di
quelle classiche ville signorili ottocentesche, poi ristrutturata con
attenzione. Nel bel mezzo dello spiazzo ghiaioso che era stato opportunamente
creato di fronte ad essa, sostava il fuoristrada di Piergiorgio, e il suo
proprietario mio aspettava già a braccia incrociate a poca distanza.
Gli sorrisi, non appena fermai la mia auto e spensi il
motore, e lui ricambiò il sorriso e mi salutò con le mani, accogliendomi
cortesemente, prima di venirmi incontro.
“Immagino che tu non abbia avuto problemi a raggiungermi”, mi
disse, appena aprii la portiera.
“Assolutamente no. Sai quante volte sono passata da qui di
fronte? Un’infinità, ma a dire il vero non mi ero neppure mai chiesta chi ci
abitasse”, risposi, con sincerità.
Piergiorgio rise.
“Può capitare, eh”, si limitò a dirmi, mentre, dopo esser
scesa dall’auto, ribattevo lo sportello dietro di me.
Stavo per dire qualche altra parola di circostanza, ma
avvertii una presenza scodinzolante che in men che non si dica mi si era
avvicinata.
“Ma ciao!”, mi venne spontaneo da sussurrare, con gioia, non
appena vidi il magnifico cane che mi era venuto incontro. Scodinzolava, pieno
di felicità, e non appena mi chinai su di lui, cominciò a leccarmi le mani,
festoso.
“Che bel cagnolone, complimenti!”, affermai, rivolgendomi al
padrone, che era ancora in piedi e mi guardava con un bel sorriso impresso sul
volto dall’espressione bonaria e gentile, come sempre.
“In realtà è una cagnolina, una femmina di Setter Inglese. Si
chiama Kira”, specificò Piergiorgio, ma io ero già tutta presa dall’accarezzare
il magnifico pelo della dolce bestiola.
Kira era una cagna di dimensioni medie, e aveva un bel pelo
curatissimo e di tre colori, perlopiù bianca e nera, con alcune macchie
rossastre che apparivano solo impresse nella pelliccia della coda affusolata e
della testa. Era molto docile, e con me fu così giocosa che me ne innamorai dal
primissimo istante in cui ebbi a che fare con lei.
“Ti ha preso in simpatia. Di solito non è mai così festosa
con chi vede per la prima volta, anzi, in genere è molto timorosa, se ne sta in
disparte e a volte ringhia. Devo ammettere che non l’ho mai vista così contenta
di far la conoscenza di un’estranea”, aggiunse Piergiorgio.
“Oh, è stato amore a prima vista, il nostro”, confermai,
lasciandomi poi andare ad una bella risata felice e spensierata, naturalmente
continuando ad accarezzare il cane.
“Non vorrei interrompere questo idillio, però se ti va di sapere
di più su di me… come ti avevo promesso questa notte, servirebbe che tu mi
seguissi e che ti accomodassi nella mia umile dimora”, volle ancora intervenire
il mio interlocutore, con molto tatto e gentilezza.
Affermai con il capo, e lasciai perdere Kira.
“Se ti interessa ancora, eh. Sai che per me il passato non
conta molto”.
“A me interessa, invece”, dissi la mia, “non riesco più a
stare con te, perché muoio dalla curiosità”.
George tornò a ridere.
“Cosa credi di scoprire, poi? La mia vita è stata una lunga e
lugubre noia, almeno fintanto che non ti ho incontrata”.
Lo guardai intensamente.
“Per favore, non dirmi così o mi lascio andare alla
passione…”.
“Va bene. Capisco. Seguimi, allora”, m’invitò di nuovo,
avviandosi verso la porta di casa.
Il suo viso era diventato improvvisamente impassibile, e
anche se mi stava portando dentro casa sua, dandomi le spalle, potevo percepire
la sua tensione. Piergiorgio aveva perso la sua solita e tranquilla giovialità,
sembrava che qualcosa lo turbasse… ed io mi sentii, in un attimo, qualcosa di
più.
Non volevo sfidarlo, o a mia volta correre troppo; stava a
lui aprirsi a me, dirmi qualcosa sul suo conto, e sul suo passato, come e
quando se la sarebbe sentita, e nel modo più spontaneo possibile.
Mi sentii, a un tratto, come se fossi stata un’ospite
indesiderata, siccome stavo per addentrami nell’intimità della vita privata di
colui che già avevo conosciuto più volte a livello fisico, ma che sapeva
rendersi sfuggevole a riguardo di ciò che aveva trascorso, e di chi realmente
era. Perché ero davvero sicura di non averlo potuto capire fino in fondo, ma
che ero, d’altronde, ad un palmo dal comprenderlo.
Mi mancava pochissimo. Mi mancava quella visita che stavo
effettuando.
Non volevo, tuttavia, essere la spina nel fianco di nessuno,
e rendermi la forzatura ideale per creare tensioni inutili in un rapporto che,
fino a quel momento, era stato piuttosto idilliaco.
“Per favore, George”, esordii, allora e a singhiozzo, non
appena stavo per varcare la soglia della grande casa, dopo aver percorso la
leggera scalinata di otto gradini che mi separava dall’atrio rialzato, “non
voglio essere una pistola alla tempia. Non devi dirmi niente su di te, e se
ieri sera ho insistito, è stato solo perché ero stanca e un po’ confusa. Stanca
di tutto, ma non di te, e non devi dirmi o dimostrarmi nulla, se non vuoi e non
te la senti”.
Piergiorgio rimase sulla soglia della porta, immobile per un
istante infinitamente lungo.
“Sei qui, adesso. Ora ho piacere di toglierti le curiosità
che hai”, disse, infine, ma sempre con impassibilità.
“Non devi, ti ripeto. Non mi devi nulla”, tentennai
ulteriormente.
Kira, intanto, era tornata a raggiungerci e a richiedere
attenzioni, attraverso i piccoli guaiti che emetteva.
“Entra, dai”, mi sollecitò George, chiudendo così il breve
dibattito.
Entrai in casa, ma ero in imbarazzo totale, e non sapevo bene
cosa fare, cosa dire e come comportarmi. Mi limitai a sfregiarmi le mani l’una
sull’altra, alla ricerca di un conforto che non sarebbe arrivato tanto in
fretta, da quel che sembrava.
La villa del mio amante si rivelò essere un ambiente
spettrale, poco luminoso, e una volta ribattuta la porta d’ingresso, molto
ampia, si piombava in un buio fetido, freddo, umido e tentatore, come quello
che solo le grandi dimore poco custodite potevano avere.
Il corridoio d’ingresso era illuminato dalle luci al neon,
attaccate al soffitto con approssimata raffinatezza, ed esso si diramava in una
miriade di porte di legno scuro, che al momento erano tutte socchiuse.
Mi venne da definirla, con immediatezza, la casa dalle mille
porte, e anche se avevo esagerato nella conta, naturalmente, la mia mente non
aveva esagerato a definirla in quel modo.
“Vuoi rinfrescarti un po’? Hai sete?”, ruppe il silenzio il
padrone dell’ampio complesso, alle mie spalle.
“Oh, no, tranquillo. Non preoccuparti”.
“Non è una preoccupazione, per me, sai? È più un’esigenza.
Gli ospiti vanno trattati con il dovuto rispetto”, mi disse, ed io feci una
smorfia di rassegnazione che mi venne spontanea, ma che fu colta anche dal mio
interlocutore, che mi aveva affiancata e ormai superata di nuovo.
“Lo so, a te interessa solo andare al punto…”, provò ad
affermare, e a quel punto reagii.
“Cazzo, George. A me non frega niente, niente di tutto
questo… e scusami se ho insistito tanto. Sai cosa mi interessa per davvero?
Questo…”.
Non gli diedi tempo di reagire, e gli balzai tra le braccia.
Non oppose resistenza quando le mie labbra premettero contro le sue, e spronai
le nostre lingue ad incontrarsi.
“Solo questo”, sussurrai, interrompendo il bacio per un
istante, per poi riprenderlo subito dopo.
“Ti amo. E non voglio altro da te, né sapere qualcos’altro.
Me ne vado”, conclusi, col suo sapore sulle labbra, e ormai permeato in tutta
la mia bocca.
Mi allontanai da lui, e con fare risoluto, andai verso la
porta dalla quale ero entrata solo qualche minuto prima, decisa ad andarmene e
ad interrompere quella sofferenza condivisa, che io non avevo mai desiderato.
Un rapporto di fiducia doveva essere spontaneo, e crescere
col giusto tempo. Doveva essere come una piantina, che pian piano mette le
radici e cresce, diventando così un albero adulto e forte, in grado di
resistere alle intemperie; era l’unico modo per far sì che il nostro amore non
fosse condannato a restare solo un misero arbusto, pronto ad essere spazzato
via da un qualsiasi minimo evento improvviso e inatteso.
“Ti prego, resta! Ormai sei qui. Resta”, mi venne dietro
Piergiorgio, ma io cercai di non fermarmi. Ero commossa, e non sapevo neppure
bene perché lo fossi, probabilmente per il fatto che ero molto confusa.
“Isa!”, mi richiamò, ma io ero già alla porta d’ingresso, e
lui non aveva avuto né il tempo né la voglia di raggiungermi, e così tornai a
varcare la soglia lasciata socchiusa e a uscire.
Fu Kira ad arrestarmi, infine, ponendosi tra me e la mia
macchina, ancora festosa come se nulla fosse accaduto. Mi fermai un istante ad
accarezzarla, e la cupezza del mio viso lasciò spazio ad un’espressione più
serena.
E poi, Mi ritrovai avvinghiata a Piergiorgio.
“Ti amo… ti amo anch’io”, mi disse, quasi a volermi rassicurare.
Sciolse l’abbraccio forte con cui mi aveva cinto il corpo, e
si lasciò scivolare in ginocchio, platealmente, come se fosse stato un attore
di teatro, porgendomi un pacchettino saltato fuori da chissà dove.
“Prendi”, me lo porse.
Scossi il capo e distolsi lo sguardo, comprendendo quale
oggetto fosse nascosto dentro a quel fragile pacchettino; ero una ragazza, e
Marco, tempo prima, mi aveva già donato un anello di fidanzamento… che però,
poco dopo, gli avevo ridato indietro dopo una piccola lite. Non me l’aveva più
ridato, né l’avevo più rivisto in giro. Probabilmente, doveva averlo rivenduto
per prendere qualche soldo da investire nell’abbonamento della palestra che
frequentava.
George, notando il mio serio minuto di tentennamento molto
serio, sospirò.
“So che immagini cosa ti sto porgendo, e anzi, so anche che
sei certa di saperlo. Per questo ti invito ad accettare il mio dono”.
Allora allungai la mia mano destra, e afferrai il
pacchettino.
“Aprilo, dai”, m’invitò, sollecitandomi di nuovo.
Lo aprii in un baleno, e mi trovai di fronte ad un anello, ma
non come quello che mi ero immaginata, di quelli convenienti e poco
impegnativi. Si trattava di un gioiello intarsiato, composto da piccole perline
d’oro che si fondevano e diventavano un tutt’uno, un vero e proprio capolavoro
di oreficeria.
“E’… molto bello”, riuscii a dire, continuando a squadrare
l’anello, rigirandomelo tra le dita, sinceramente stupita. Era un oggetto
insolito, strano, che non aveva nulla di classico o di scontato.
Piergiorgio, alla fine, l’aveva vinta di nuovo; era riuscito
a sorprendermi piacevolmente, e a fermare la mia marcia verso l’auto.
Naturalmente, aveva potuto anche trarre giovamento dall’azione della sua fidata
amica a quattro zampe, che era troppo coccolona per essere ignorata.
“Mi perdoni se sono sembrato un po’ freddo, poco fa?”.
“Macché, non pensarci più”, dissi.
“No, invece ci penso. Non è iniziata come volevo, questa tua
visita, ma ti prometto che tutto sarà subito raddrizzato. Io non ho segreti da
nascondere, ma solo qualche scheletro nell’armadio, che ti vorrei mostrare, ma
ho paura che tu ti spaventi quanto me”, aggiunse di nuovo Piergiorgio, ed io mi
chinai a suo fianco, lasciando che fosse lui ad infilarmi quell’anello
prestigioso che avevo ufficialmente accettato, anche senza dire nulla.
“Se si sta assieme, le paure vengono condivise e diventano
piccole così”, volli rassicurarlo, sorridendogli, e facendogli anche il cenno
con le dita delle mani, appena l’anello mi fu ben sistemato. Mi calzava alla
perfezione, ed era così bello…
“L’anello”, tornò a dirmi, serissimo, “devi portarlo solo se
vuoi. Voglio che tu mi prometti che lo porterai pubblicamente solo quando ti
sentirai di farlo”.
“Ma…”, tentennai, colta alla sprovvista.
“Davvero, ho notato che la nostra relazione ti crea, per ora,
un minimo di imbarazzo, anche di fronte a tua madre. Per favore, quindi,
indossalo quando vorrai dirmi quel sì, e sarai certa della strada che abbiamo
cominciato a percorrere assieme, seppur da poco”.
Avvicinai il viso al suo e lo baciai sulle labbra, e poi
ancora, premetti affinché il contatto venisse maggiormente approfondito.
Tuttavia, la mia azione fu interrotta dall’ennesimo intervento della cagnolina,
che cercò di leccarmi in faccia.
“Sei proprio una piccola peste!”, affermai, ridendo, mentre
lasciavo perdere George, per tornare a concentrarmi sull’amorevole Kira, che
scodinzolava con felicità.
In un attimo, Piergiorgio si era rialzato e mi sovrastava con
la sua ombra benevola.
“Io voglio solo dirti che ti amo. Voglio giurartelo, sono
disposto a ripetertelo in continuazione, e ti amo con sincerità. Il mio cuore è
tuo, e voglio che… qualunque cosa accada, e qualunque cosa tu scopra su di me,
non metta in crisi il tuo giudizio nei miei confronti”, riprese a dirmi, e anche
se giocherellavo con il cane, mi venne da pensare che qualcosa di grosso doveva
esserci in pentola.
Non mi spiegavo tutta quell’introduzione, se comunque doveva
essere tutto limpido e alla luce del sole. In fondo, non m’importava neanche
più; l’uomo che amavo era lui, in quel momento, e se volevo continuare ad
amarlo dovevo sapere accettare e comprendere.
Era una persona di una certa età, non più un ragazzino, e
quindi immaginavo che nel suo passato più o meno recente ci fosse stata almeno
qualche fiamma, poiché era un uomo piacente allo sguardo, che sapeva
conquistare le donne con la sua galanteria e la sua dolcezza. Era proprio la
sua dolcezza a colpirmi maggiormente, siccome purtroppo ero molto abituata agli
sbalzi d’umore dei miei coetanei, volubili come bambini in fasce.
“Non ti giudicherò, se è per questo”, affermai, con risoluto
imbarazzo.
‘’No, puoi giudicare quello che vuoi. Basta che tu non creda
cose sbagliate, e che… ti fidi di me”.
Si chinò su di me, e percepii il suo fiato sui miei capelli.
“Io mi fido di te, George”, lo rassicurai, continuando a
prestare attenzione anche a Kira, che si era distesa sulla schiena, in modo
giocoso, e lasciava che continuassi ad accarezzare il suo pelo finissimo e
curato.
Piergiorgio allora mi baciò prima al centro della nuca, poi,
con delicatezza, afferrò il mio viso da sotto al mento e lo alzò, affinché le
nostre labbra potessero tornare ad incontrarsi, e quella volta anche le nostre
lingue.
Lasciai perdere il cane e mi tirai su in piedi senza smettere
di baciarlo, con lui che lasciava a me l’iniziativa e seguiva i miei movimenti,
senza perdere il contatto fisico.
“Questa casa è troppo grande per me. Mi spaventa, come un
bambino… ma ora vieni, vieni avanti, perché sei mia ospite, mia cara Isa, e
perché voglio renderti partecipe di tante cose, e di tanti ricordi, poiché so
che ci tieni”, mi disse, sorridendomi, quando tornammo a distaccare i nostri
visi dalla loro momentanea unione.
“Io tengo solo a te”, continuai a precisare, in virtù della
giustizia, anche per forza di cose.
“Ed io lo so, lo so. Lo vedo sempre di più, non c’è bisogno
che tu lo ribadisca ogni dieci secondi, a parole. Io ricambio tutto quello che
riversi verso di me, e lo amplifico, ma adesso basta discorsi, e vienimi dietro
con serietà; entra nel mio mondo”, tornò ad invitarmi, e s’incamminò di nuovo
verso casa sua, così ricominciai a seguirlo.
Ero sicura che saremmo andati al punto, non potevano esserci
altre indecisioni o incomprensioni tra noi. Eravamo destinati, quel giorno, a
conoscerci per la prima volta in modo paritario, senza più ombre nascoste da
qualche parte, in grado di turbare i nostri momenti trascorsi assieme.
Ero curiosa e non mi sarei fermata, seppur fossi decisa ad accettare
solo quello che George mi avrebbe mostrato o narrato, senza giudicare o pensare
male, con la stessa educazione e il medesimo rispetto che lui stesso mi aveva
da sempre riservato e rivolto.
NOTA DELL’AUTORE
Ci aspetta una visita piena di sorprese… xD
Al prossimo capitolo, mie carissime e fedeli amiche ^^
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Capitolo 23 *** Capitolo ventitrè ***
Capitolo ventitrè
CAPITOLO VENTITRE’
Di nuovo in casa, seguii Piergiorgio. Come un cagnolino,
quasi mi fossi messa nei panni, o, meglio, nella pelliccia di Kira.
Non volevo più nulla da lui, ero proprio senza pretese; ero
consapevole di aver sbagliato, nei miei pensieri, ma avrei comunque voluto
sfidare chiunque a non porsi qualche domanda sulla persona con la quale
condivideva letto e passione amorosa.
Ritenevo le mie insistenze precedenti, quindi, piuttosto
lecite, anche riconoscendo che forse avevo esagerato un tantino, e avrei dovuto
avere più pazienza, e maggior riguardo verso una persona che con me si era
sempre comportata da vero signore, amandomi solamente, senza giudicarmi e
facendosi sempre gli affari suoi.
Ripercorsi quel medesimo corridoio che avevo affrontato poco
prima, quando poi avevo scelto una sorta di ritirata strategica, ma fui mesta e
silenziosa, rispettosa. Camminavo, seguivo il padrone di casa, e basta.
“Prego, accomodati pure nel salotto. Questa è la stanza
principale della casa, e potrai finalmente conoscermi meglio; è come se fosse
un mio secondo cuore”.
Piergiorgio interruppe così il suo silenzio.
“Poi capirai”, ammiccò.
Mi lasciò entrare per prima in un ambiente che si rivelò più
spazioso di quel che potevo prevedere solo notando la dimensione della porta
che conduceva al suo interno. Il salotto in effetti era quasi immenso, e più mi
guardavo attorno, più mi sentivo spaesata in una stanza così spaziosa.
Era profumata, l’aria odorava di una fragranza orientale,
simile a quelle che venivano soffuse nei mercati dalle bancarelle
specializzate. La pavimentazione era scura, sembrava terra cotta, anche antica;
i muri erano bianchi, ben intonacati, e in essi rilucevano, colpiti dalla luce
solare che entrava dalle ampie finestre, una moltitudine di quadretti, che si
rivelarono essere foto, man mano che le focalizzavo.
Circa cinque belle poltrone e un comodo divano dominavano in
modo indiscusso il centro dello stanzone, con un bel tavolino di legno scuro a
far loro da margine. Inspirai, piano, lasciando che la frescura dell’ambiente
entrasse nelle mie narici.
Piergiorgio mi spinse all’interno, con la sua solita
delicatezza, entrando anche lui nel salotto, e mi resi conto che ero rimasta
imbambolata per un po’, al primo sguardo.
Arrossii leggermente, in modo spontaneo.
“Ti piace?”, mi chiese il padrone di casa, con un sorriso un
po’ forzato sulle labbra.
“Certo. È proprio bello”, affermai.
“Ti vedo un po’… come dire, un po’ frastornata”, aggiunse,
notando i miei tentennamenti.
“E’ solo che non sono abituata a visitare ambienti così
ricchi e sfarzosi”.
Mi guardai attorno, di nuovo, resa prigioniera di quella
curiosità che mi ero ripromessa di sopprimere, almeno inizialmente. Non potevo
farci nulla; curiosare con lo sguardo, in modo ingenuo e infantile, a quel
punto era più forte di me.
“Non è niente di che”, minimizzò George, accompagnando le sue
parole con un plateale gesto delle mani, “comunque, quelle che vedi appese ai
muri sono tutte foto di famiglia. In pratica, anche la mia storia… ce ne sono
molte dove sono il protagonista indiscusso”.
Tornò a sorridermi, in un modo un po’ meno teso.
“Beh, vedi tu… se vuoi fare delle domande su di me, questo è
il momento giusto per pormele; ti risponderò senza problemi. Guardati pure
attorno, altrimenti. Guarda le foto, capirai molte cose, senza bisogno che te
le spieghi, e se prima vorrai accomodarti per un tè, ben venga”, continuò a
dirmi, sempre con grande cortesia, ma io ero rimasta ipnotizzata da quelle
fotografie, volevo proprio vederle, siccome alcune sembravano antiche.
“Vivi in una casa bellissima”, dissi, ancora con gli occhi a
spasso, attorno a me.
“Dipende dai punti di vista”, mi rispose lui, andandosi a
sedere su una delle poltrone.
Mi venne spontaneo dirigermi, quasi all’improvviso, verso una
fotografia più grande delle altre; appesa sullo spazioso caminetto, che faceva
angolo nella stanza, riluceva grazie al vestito bianco di colei che doveva
essere una giovane sposa.
“Hai foto di tutti i generi, vedo”, tornai ad aggiungere,
indicando il ritratto.
Piergiorgio fece una piccola smorfia.
“Vuoi che non avessi appeso la fotografia del giorno del
matrimonio?”, chiese, con una domanda retorica che mi spiazzò.
Restai a bocca spalancata per qualche istante, senza parole,
senza capire.
“Il tuo… cosa?”, balbettai, incredula.
“Avvicinati, guardala bene. Quella era l’immagine che volevo
riservarti per ultima, nel caso che ti avesse davvero interessato il mio
passato, ma mi rendo comunque conto che era troppo appariscente per restarsene
ad attendere il suo turno”.
Non badai al suo finto sarcasmo, volto a coprire la tensione
crescente che anch’egli provava, e mi diressi di grande velocità verso la foto,
e… non c’era davvero nulla che si potesse nascondere, in effetti; un
Piergiorgio giovanissimo, che dimostrava una ventina d’anni o anche meno,
vestito in maniera eloquente, teneva a braccetto quella che doveva essere,
anzi, che era stata di sicuro, la sua sposa.
L’immagine era in bianco e nero, ma era così nitida che si
percepivano per bene anche i particolari; erano le classiche foto curate
riservate ai grandi eventi, prima dell’era digitale.
“Io… non ci posso credere”, sospirai, continuando a divorare
con gli occhi la fotografia, alla ricerca di qualcosa che non poteva essere
rimasto impresso in quella misera e apposita carta.
Siccome George se ne restava in silenzio, toccò a me tornare
a parlare, di nuovo.
“Dov’è tua moglie, adesso? Sei divorziato?”, gli chiesi,
molto seriamente, cercando di scrutare il suo volto sempre più sfuggevole.
“No”, rispose, senza aggiungere altro.
Mi aspettavo una risposta più articolata, o che almeno si
fosse spiegato un pochino di più, e quando il nervosismo stava per prendere il
sopravvento, rimasi folgorata dalla fotografia che era a fianco di quella che
ritenevo ormai incriminata, e rimasi di nuovo senza parole, trovandomi di
fronte a un Piergiorgio giovanissimo, anche lì, e tutto sorridente, abbracciato
alla sua sposa, anch’essa felice… e con un bambino piccolo adagiato sulle
ginocchia.
Il bimbo sorrideva, sereno, nell’ennesimo ritratto in bianco
e nero. Era indubbiamente il loro figlioletto.
“Perché non me l’hai mai detto?”.
Mi lasciai scivolare in una cupezza che, invece, sarebbe
dovuta restare ben lontana da me.
“Mi ero immaginata un sacco di cose su di te”, proseguii,
sfidando il suo continuo e prolungato mutismo, “e mi rendo conto che erano
tutte stronzate. Tutte quante. Ed erano stronzate quelle che volevi vendermi, a
basso costo”, accusai, poi, dopo un breve tentennamento.
“Credevi che alla mia età ci fossi giunto vergine? Che non
avessi mai conosciuto una donna, o l’amore?”, intervenne, a quel punto, con
risolutezza.
“Non dico questo… ma, insomma, nascondere una moglie e un
figlio a chi si è giurato amore eterno, e a chi è stato anche proposto un
fidanzamento formale, con tanto di anello, e una mezza proposta di matrimonio…
insomma, non capisco”, e mi lasciai sfuggire una lacrima, “mi sento distrutta
da tutto questo”.
George abbandonò la sua posizione a sedere e mi venne
incontro, lentamente, e cercò di toccarmi; io sfuggii al suo tocco. Non volevo,
e ancora cercavo, egoisticamente, delle risposte che non mi era lecito avere in
quel modo.
In fondo, era come se stessi facendo una violenza su di lui,
seppur non mi avesse mai dovuto nascondere un passato così pesante. Perché
quello non era un passato, ma mi appariva più come una vita, un’altra vita, o
un’esistenza congiunta a quella che stava vivendo; non si può tagliare i ponti
con eventi così importanti, come un matrimonio, una moglie e almeno un figlio,
in ogni caso ed eventualità. Non si può dimenticare, o mettere da parte come se
nulla fosse mai accaduto.
Non capivo, sul serio, ed ero molto scossa, forse fin troppo.
“Mi avevi promesso che non mi avresti giudicato”, mi
rinfacciò, ferito dal mio atteggiamento.
Scossi il capo, in un cenno affermativo.
“Lo so, ma non ero disposta a scoprire tutto questo…”.
“Questo cosa? Cosa?”, si arrabbiò il mio interlocutore, che
era sempre stato così pacato con me. “Questa è la mia storia personale, che ti
piaccia o meno! Se vuoi, ti posso spiegare tutto quanto, fin dall’inizio, ma
non mi sembra che a te importi! Stai solo facendo la ficcanaso, e anche alla
cieca, senza fregartene di nulla!”.
“George…”.
“George un cazzo!”, imprecò, perdendo le staffe in un modo
che mi sembrava sempre più impossibile da arginare. “La vedi, questa?”.
Quasi strappò la foto del matrimonio dal muro, e me la piazzò
sotto al naso, e lo lasciai fare, cercando di non rendere la situazione ancora
più tesa.
“Questa è mia moglie. È stata mia moglie per quasi
cinquant’anni. Questo è il giorno del nostro matrimonio… sai quanti anni
avevamo?”.
Non dissi nulla, spaventata.
Cinquant’anni di matrimonio…! Ma quanti anni aveva, allora,
il mio George? Mi sembrava di non rendermi più conto di nulla.
“Io avevo diciannove anni, mia moglie diciotto! Eravamo due
ragazzini! E lo sai perché ci siamo sposati?”.
Ancora nulla, da parte mia.
“Perché avevamo fatto l’amore. Non c’erano contraccettivi,
non sapevamo nulla di tutto quello che riguardava il sesso, e lei così era rimasta
incinta di nostro figlio”, proseguì Piergiorgio, schiumante di rabbia, mentre
evitavo di guardare il suo viso scomposto… faticavo a riconoscere la persona
che amavo.
“Sono diventato padre a vent’anni, e dovevo studiare, siccome
volevo seguire le orme di mio nonno paterno, e diventare medico come lui. Per
fortuna che mia madre mi ha aiutato molto, ed ha aiutato la mia giovane sposa
quando io ero via, custodendo anche il bambino”.
“Quanti figli avete avuto?”, gli chiesi, e la domanda mi
sorse spontanea. La buttai lì, senza riflettere, non capendo che potevo solo
alimentare oltre la rabbia che sembrava ardere il cuore del mio amante.
“Uno! Uno solo, e lo specifico, dato che a te i numeri
piacciono tanto!”, urlò, battendo un pugno contro il muro.
Mi lasciai scivolare su una poltrona, sconsolata e in preda
alla sua furia, e più George si arrabbiava, più la mia ansia diminuiva, come se
stesse venendo ingurgitata da quel buco nero che pareva volesse cancellare per
sempre i nostri ricordi degli ultimi giorni, che avevamo trascorso in modo
piacevole.
“Un figlio, che ora ha ormai cinquant’anni”, aggiunse.
Io avevo lasciato che il mio viso sprofondasse tra le mie
mani, sconsolata e travolta dal flusso degli eventi e dalla sua furente
reazione.
“Mia moglie è venuta a mancare agli inizi dello scorso anno,
a causa di un tumore. Non l’ho mai realmente amata, tra noi c’era stata solo
una breve passione giovanile, niente di più”, concluse la sua narrazione, la
voce ridotta ad un sussurro pietoso. Si stava rendendo conto che aveva
esagerato a riguardo di tutto… anzi, che avevamo esagerato assieme, così tanto
da aver toccato il fondo.
A quel punto, dopo l’apice dello sfogo, mi si avvicinò,
docile come non mai, e lo lasciai fare, mentre si chinava di fronte a me per
l’ennesima volta, le sue mani già intente a cercare le mie.
“Non voglio sminuire nessuno, né rovinare i ricordi di gran
parte della mia vita. Ricordi grigi, poiché a tratti avvolti da una noia
pesante e fastidiosa, ma da quando ti ho conosciuta è tutto cambiato”, riprese
a dire, a voce bassissima, e solo allora lasciai che il mio sguardo tornasse a
sbucare al di là della cortina formata dalle mie mani, premute sul viso, per
lasciare a lui e al suo tatto caldo e gentile.
Il volto di Piergiorgio era molto arrossato, reso così dalla
foga di qualche istante prima, e anche se la leggera barba nascondeva parte
delle gote, al di sotto degli occhi il rossore sbucava in maniera impossibile
da non notare.
“Io voglio ricominciare da dove tutto sembrava che fosse
finito per sempre. Quando mia moglie è morta, dopo lunghi anni di sofferenze,
non riuscivo più a sorridere e a star bene con me stesso; la routine di tutti i
giorni mi aveva così tanto rapito che non sapevo più come fare a vivere… e poi
lei era l’unica che mi riservava attenzioni, e che nonostante tutto continuava
a restare a mio fianco. Dopo la sua scomparsa, mi sentivo molto solo, ed ho
vagato nel mio buio esistenziale per anni. Poi ho avuto la fortuna di
incontrare te e i tuoi occhi, mia piccola perla…”.
George era mio, sentivo che gli appartenevo.
Le sue mani lasciarono le mie e sfiorarono il mio viso, ed io
ero già persa. Non sapevo più resistergli.
In meno di un secondo, non m’importava più di quello che
aveva vissuto, e delle sue precedenti relazioni; gli toccai il viso ruvido,
lasciai che le mie dita s’inoltrassero nel suo pelo ispido, e che si
inoltrassero nei suoi capelli, poi lo baciai.
Vedendomi accondiscendente, Piergiorgio fece ciò che meno mi
aspettavo sul momento, poiché smise di accarezzarmi e accorse, con le sue mani,
ad affrontare i suoi vestiti. Io feci altrettanto, e trasportati dalla passione
inevitabile che non sapevamo controllare, ci ritrovammo presto nudi, ad
affrontare i nostri corpi bramosi d’incontrarsi.
Facemmo l’amore due volte, quasi una dopo l’altra.
Dispesi comodamente sul divano del salotto, i nostri corpi
erano compressi al punto giusto, e le nostre mani restavano intrecciate, come
se fossero state legate dai lacci del destino.
Non avevamo parlato più, e non avevamo dato più spazio a
nulla, se non ai nostri amplessi. Era stata un’altra esperienza piacevole,
sorta dopo un momento così critico che avrebbe anche potuto mandare in frantumi
quello per cui ci stavamo tanto battendo, ma non era andata a finir male, alla
fine e per fortuna. Anzi, sembravamo ancora più uniti, seppur non avessi nulla
di chiaro che mi frullava per la mente, ma poco importava.
Quello che mi piaceva di più era stato il calore ritrovato, i
nostri corpi soddisfatti, e il freschino piacevole che, nel cuore di
quell’estate implacabile, rinfrescava il mio animo provato.
George era parso insaziabile, e si era interrotto solo quando
la cagnolina aveva cominciato a guaire al di là della porta chiusa, forse
desiderosa di qualche crocchetta. I nostri vestiti, abbandonati sul pavimento
in modo caotico, erano stati i muti testimoni delle nostre azioni.
“Ancora una volta, ci siamo comportati proprio da ragazzini
al primo amplesso”, esordii, rompendo il silenzio che c’era tra noi.
George mi baciò sulla bocca, prima di dire qualcos’altro, mentre
il suo odore permeava le mie narici.
“Continui a farti troppi problemi, così non si vive
serenamente”.
“Non credo di essere pronta ad avere un figlio. Sul serio, e
il problema non sei tu”, dovetti aggiungere, non appena notai un guizzo
irritato e teso nei tratti del suo volto, a pochi centimetri dal mio.
“La prossima volta staremo più attenti”, concluse.
Sapevo che già la prossima volta sarebbe potuto essere troppo
tardi; sentivo dentro di me il suo seme, ed era come se più lo percepivo, più
desiderassi che ne riversasse altro dentro di me. Era come se il mio corpo
fosse deciso a voler a tutti i costi cominciare a portare avanti il progetto
per cui era stato creato, ovvero quello di creare nuova vita, grazie all’aiuto
del partner ideale.
Mi lasciai scivolare contro il suo petto.
“Il fatto è che io vorrei che la prossima volta fosse già
adesso”, confessai.
“Adesso non è più il momento giusto, aspettiamo un po’,
altrimenti non c’è gusto nel fare l’amore”, affermò piano, ansimando. Ero
d’accordo con lui.
“Mio figlio è un medico anche lui, e anche se vive e lavora
qui in zona, non passa mai a trovarmi. È come se non ci fossimo mai conosciuti”,
riprese a narrare George, all’improvviso.
Io non volevo interromperlo, e non avevo nulla da aggiungere.
Il fatto che poi avesse premuto tacitamente per unire i nostri due corpi in
casa sua e in quella maniera, doveva sussurrarmi qualcosa all’orecchio, ma io
ero sua, ero in sua balìa in quel momento, e altro non m’importava se non
quello che mi stava narrando, poiché non avevo idea se si sarebbe mai più
aperto con me in quella maniera così spontanea e decisa.
“Abbiamo litigato dopo la morte di mia moglie. Diceva che la
madre era morta anche a causa mia, perché la trascuravo e pensavo troppo al
lavoro, e… m’incolpava di non averla mai amata. Sai come sono i figli,
desidererebbero tutti di essere nati da una relazione idilliaca, di quelle da
film romantico, ma la vita non è così. Tuttavia, vien naturale pensarla in
questo modo, è spontaneo. Non mi ha mai fatto conoscere per bene i miei due
nipoti, mi ha sempre detto che temeva che potessi avere una cattiva influenza
su di loro”.
“Stronzate”, mi lasciai sfuggire, seppur non volessi
intervenire, ma quelle che stava narrando erano cose pesanti, e non potevo
continuare a tacere. Il mio George era un amore d’uomo, e il fatto che fosse
considerato in quella maniera solo perché non era uscito da una fiaba, e non
aveva formato l’allegra famiglia della pubblicità del Mulino Bianco, mi faceva
un po’ arrabbiare.
Comunque, tacqui e non dissi altro, pentendomi subito di aver
detto quella mezza parolaccia. Non dovevo giudicare, come continuavo a
ripromettermi.
Per fortuna, George neppure ci fece caso.
“Sono rimasto solo così, per quasi due anni… per anni…”.
“Ora non sei più solo”, lo rassicurai in un modo che mi venne
spontaneo, premendomi contro il suo corpo nudo ed adagiato sul mio, “e capisco
finalmente le parole che ti ha rivolto Vincenzo, la prima volta in cui siamo
andati assieme a cenare al suo locale”.
Ricordavo bene che l’uomo aveva rivolto al mio amante alcune
frasi che riguardavano un passato ancora da superare.
“Non ricordo. Cosa aveva detto, di preciso?”.
“Non ha importanza”.
Piergiorgio tornò a baciarmi.
“Come preferisci”, si lasciò vincere, ed avevo come
l’impressione che non gliene importasse niente di quello che il suo amico aveva
detto, e mi aveva lasciato intendere. Era mio, solo mio, e i suoi occhi
magnetici, grandi e profondi erano completamente concentrati su di me, mentre
la passione riprendeva la sua naturale e graduale crescita dentro di lui.
“I tuoi genitori”, mi salì la domanda, “almeno loro, ti hanno
voluto bene e supportato?”.
George divenne serio, per un istante, ed ebbi come la netta
sensazione di essere tornata a sfiorare un tasto dolente, tuttavia dopo qualche
breve riflessione mi offrì ugualmente una risposta.
“Mia madre sì, ma a modo suo. Ha avuto tantissimi figli, ed
io ero il più piccino, assieme al mio gemello…”.
“Hai anche un gemello?”, lo interruppi, non riuscendo a
trattenermi, e lui rise sommessamente, rincuorandomi.
“Ah, non è come credi, è una cosa più complessa, ma diciamo
di sì”, mi strizzò l’occhio, “magari un giorno ti spiegherò tutto meglio. Comunque,
mio padre è morto nell’autunno del 1944, coinvolto per sbaglio in un
bombardamento alleato. Io avevo solo un anno, non me lo ricordo neanche più, e
da allora mia madre mi ha cresciuto da sola”.
“Mi dispiace”, riuscii a dire, dispiaciuta di avergli fatto
ricordare una fetta di storia personale così truce.
“Mia madre è sempre stata buona con me, e con tutti i suoi
figli, ma ci amava a modo suo. Mio padre la picchiava sempre, o almeno questo è
quello che mi hanno raccontato mia madre e i miei fratelli maggiori, e… quasi
tutti noi, compreso io stesso, siamo nati dalle violenze che le riservava”,
proseguì, piano, socchiudendo gli occhi, ormai commosso e scosso.
Mi accoccolai meglio contro di lui, in ascolto, scoprendo
quanto dolore celasse quell’uomo fin dalla primissima infanzia.
“Comunque, mi ha aiutato a studiare ed ha facilitato il
futuro dei suoi figli, per quello che poteva fare. Anche lei veniva da una
situazione che non ho mai davvero compreso, molto complessa e lontana nel
tempo. Insomma, per la mia famiglia nulla è mai stato facile”, concluse.
“E i tuoi fratelli?”.
“La maggior parte di loro è già venuta a mancare, pensa che i
più grandi avevano quasi vent’anni in più di me! E poi, anch’io ormai li
raggiungerò, con i miei settant’anni già raggiunti da qualche primavera”.
“Ti garantisco che tu settant’anni non li dimostri affatto!”,
affermai, certa delle mie parole.
Piergiorgio allora tornò a rivolgermi uno sguardo bonario,
con quei suoi occhioni ormai inumiditi.
“Ah, no? Quanti me ne daresti?”.
“Cinquantacinque, circa. Più di dieci in meno”.
Era vero; era ancora un bell’uomo e si era mantenuto davvero
molto bene. Anche i capelli e la barba erano ancora solo leggermente
brizzolati, un po’ ingrigiti a tratti, ma come una persona che avesse appena
varcato la soglia dei cinquant’anni, della mezz’età. I peli sul suo corpo
villoso e abbastanza tonico erano ancora neri come la notte.
No, continuavo a riconoscere che non dimostrava la sua età
reale, ed ero tuttavia un po’ stupita di aver appreso quanti anni aveva,
siccome non glieli avrei mai attribuiti, pensando che fosse decisamente più
giovane.
Piergiorgio rise, in modo molto spontaneo.
“Ah, tu sei sempre troppo buona con me”, sancì.
“Da chi ho appreso?”, lo stuzzicai, lasciando che le nostre
labbra, poi, tornassero ad incontrarsi.
Tornammo quindi a fare l’amore.
Ci fermammo dopo poco, dopo l’ennesimo orgasmo raggiunto, e
ormai sfiniti. Avevamo dato tutto, per quel giorno, ed anch’io ero ormai
stanca.
“Cazzo, sono già le quattordici”, dissi, quasi affondandomi
le mani tra i capelli. Avevo trenta minuti per rivestirmi e per tornare al
lavoro.
Mi gettai con foga verso i miei panni, e George con me.
“Deve arrivare anche la donna delle pulizie, a minuti”,
precisò, in imbarazzo, mentre lottava per rivestirsi anch’egli, nella sua
solita maniera impeccabile, cosa che non gli sarebbe riuscita facilmente, con
così tanta fretta.
Io ce la feci senza problemi, e quindi potei ben presto
aiutarlo per bene.
“Eccola”, bofonchiò una manciata di minuti dopo, quando ero
alle prese con gli ultimi due bottoni della sua camicia, e il campanello
suonava allegramente, con Kira che si scatenava ad abbaiare.
“Appena in tempo”, gli strizzai l’occhio, siccome ero
riuscito a rivestirlo giusto in tempo.
Piergiorgio sbuffò, stanco, e continuando a risistemarsi i
vestiti con le mani si diresse verso la porta d’ingresso, aprendo quella del
salotto e lasciandosi alle spalle quello che era stato il nostro territorio
assoluto, durante quella prima parte di pomeriggio, per immettersi nel
corridoio dove la cagnolina ancora abbaiava come una forsennata.
“Kira, a cuccia!”, la richiamò il padrone, mentre anch’io
trotterellavo dietro di lui, e lo fermai un attimo afferrandolo per un braccio.
“Devo andare”, gli sussurrai, lievemente affannata, “è stato
un pomeriggio davvero piacevole”.
“Ti amo”, mi rispose, baciandomi di nuovo, e in modo casto.
Andò poi alla porta, e l’aprì, scansando la scatenata Kira e
rivelando una figura alta e imponente.
“Prego, Irina, entra pure, e buon lavoro”, salutò George,
rivolgendosi a quella che doveva essere la signora delle pulizie.
“Grazie, dottore”, rispose la biondona, una signora di mezza
età che parlando rivelava con chiarezza il suo accento straniero.
“Uh, il signore ha signorina, in casa”, disse, con
stentatezza, non appena mi notò.
“Salve”, salutai, facendomi subito da parte.
“Ogni tanto ci vuole qualche ospite”, affermò allegramente il
padrone di casa, come se nulla fosse.
“Uh, certo, ospite!”, aggiunse la donnona, poi entrando in
casa e dirigendosi con calma verso un punto a me ignoto della grande villa.
“Lei è Irina, la signora di origini moldave che mi aiuta a
rassettare la casa”, mi disse il mio amante, non appena non fu più a portata
d’orecchie.
“Ma certo”, lo rassicurai, “ora però dobbiamo proprio
salutarci, o rischio di non fare in tempo al lavoro… già che sono un po’ nei
casini con mia madre, non vorrei finirci anche con la signora Virginia”,
riconobbi, infine, con ritrovata insistenza. Non avevo proprio voglia di
tornare a lavorare, ma non potevo fare altrimenti.
“Hai ancora problemi con tua madre?”, mi chiese con prontezza
George, ma io scossi il capo, decisa a non parlarne.
“No, niente di che. Vado, aprimi il cancello”, tagliai corto,
pur di evitare l’argomento, e mi incamminai verso la mia fedele automobile.
“Spero passeremo altre pause pranzo in questo piacevole
modo!”, quasi mi urlò dietro il dottore, ed io mi volsi indietro per
rivolgergli un unico e ampio sorriso di consenso.
“Ciao, Kira”, salutai l’amica a quattro zampe, che mi
scodinzolò attorno mentre mi infilavo in auto. Poi, chiusi gli sportelli, e
dopo un profondo sospiro girai la chiave e misi in moto il mezzo, pronta ad
andarmene.
Avevo le lacrime agli occhi. Mi sembrava di aver appena
vissuto un sogno, e non mi sfiorava più l’idea del pesantissimo e influente
passato del mio amante; esisteva solo il nostro idillio. E mi veniva da
piangere, per tutto… ero confusa, ed immersa nella mia confusione e nel caldo
asfissiante della mia automobile, me ne tornai ad affrontare la vita di tutti i
giorni, e la fatica della restante giornata lavorativa, cercando di non pensare
a null’altro se non a svolgere bene il mio ruolo.
NOTA DELL’AUTORE
Abbiamo scoperto qualcosa di più su Piergiorgio. Anzi, tanto
di più… spero che qualcuno di voi voglia provare ad azzardare qualcos’altro su
di lui ^^ per chi mi ha seguito nei precedenti racconti, soprattutto… non vi riporta
nulla alla mente? Forse è ancora un po’ presto, lo so ^^
Comunque, il racconto è ambientato alcuni anni fa.
Grazie di cuore a tutti voi!
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Capitolo 24 *** Capitolo ventiquattro ***
Capitolo ventiquattro
CAPITOLO VENTIQUATTRO
Tornare a casa, per me, quella sera era il più grande trauma
della vita.
Il vero problema era che, se ci pensavo, una casa mia non
l’avevo neppure. Se facevo due più due, mi ritrovavo ad avere un risultato
nullo, e non numerico. Per questo la mia vita stava andando in scatafascio.
La mia unica illusione era stata che, fintanto che ero stata
accondiscendente con Marco, tutto sembrava filar più che liscio, con tanti
amici, una vita sociale attiva, un piccolo appartamento che finanziavo col mio
stipendio e un gran figo come compagno. Poi, c’era stato l’inizio del mio medioevo.
Restava vero che, stando anche alla Storia vera, dopo una
parentesi di età di mezzo, buia, logora e abusata, venne il Rinascimento; una
fase di rinascita che, in quel delicato momento della mia esistenza, trovavo
solo quando ero avvinghiata a George.
Tra me e il resto del mondo c’era stata una grande frattura,
e ciò che mi era rimasto era il lavoro, che provavo a tirare avanti
alacremente, e mia madre, con la quale non tutto andava per il meglio, e con
cui dovevo assolutamente parlare, per cercare di fare un po’ di chiarezza tra
noi. Ah, c’era anche Irene, ma quella non si faceva sentire per giorni interi,
e comunque dopo ciò che mi era accaduto durante le sue uscite combinate non
avevo più voglia di svolgere il ruolo di sua burattina personale.
Eppure, se pensavo a Piergiorgio… anche quella sera, mentre
guidavo per tornare a casa, la mia mente correva solo verso di lui. Speravo in
una sua chiamata, almeno… almeno quella.
Mi mancava già la sua voce, ed ero avida dei frammenti di
ricordi che mi frullavano per la mente in quel momento, e mi chiedevo cosa
stesse facendo, con chi si trovasse, e tutte le solite domande di rito che si
ponevano tutti gli innamorati.
La realtà era che non trovavo risposte ai miei interrogativi,
anche inutili tra l’altro. Essi almeno lasciavano che la mia povera testolina
si rilassasse, poiché mentre lo pensavo mi appariva un mezzo sorriso
soddisfatto sulle labbra, un cenno di felicità involontario che mostrava di per
sé quello che il mio cuore provava. In ogni caso, avevo bisogno di risentirlo,
di far sì che la sua voce tornasse a fluire, in qualche modo, nelle mie
orecchie, e a passarmi la forza necessaria per riuscire a far chiarezza con mia
madre.
Non volevo più che tra noi ci fossero incomprensioni, anche
minime; eravamo arrivate a un punto in cui ognuna di noi due poteva fare e
disfare ciò che voleva, e lei era anche malata, non stava bene.
Mi sentivo, quindi, quella nella posizione più favorevole di
noi due, e se per qualche istante mi immaginavo la sua vita svolta tra quelle quattro
mura di casa sua, tutto il giorno e senza interagire con nessuno, mi veniva
davvero da vergognarmi. Dovevo essere io quella più apprensiva, e smettere di
voler nascondere le evidenze in continuazione, come certe signore facevano con
la polvere, gettandola al di sotto del tappeto del salotto e fregandosene che
un giorno, a furia di accumularne, il problema non solo non si sarebbe risolto,
ma si sarebbe acuito.
Prima che per noi due fosse troppo tardi, volevo
assolutamente recuperare il tempo perduto nelle ultime settimane, e mettere una
mezza pezza, con un pizzico di sincerità, alle nostre ultime discussioni.
Era che poi quella mattina me n’ero andata di casa come una
belva ferita, rispondendo anche male, quindi mi sentivo proprio in dovere
morale di riscattarmi.
Quando giunsi a casa, ancora ero in dubbio, giacché mi era
parso che il viaggio in auto fosse stato brevissimo e non mi avesse permesso di
raccogliere per bene le idee, ma poco importava, poiché mi sentivo pronta e non
volevo più mascherare nulla sotto un muto silenzio. Ero pronta a giocarmela, una
volta per tutte.
Rincasai con la giusta lena, e andai direttamente in cucina,
spedita e sicura che lì avrei trovato mia madre, che infatti era intenta a
preparare un po’ di cena, cosa che mi fece rilassare, siccome era da quando era
tornata dall’ospedale dopo l’ultimo grave ricovero che non era più riuscita ad
uscire dalla sua triste e immobile apatia.
“Buona sera”, salutai, gentilmente e senza sbilanciarmi.
Forse, avevo un filino paura che lei potesse ancora avercela con me da quella
mattina.
“Ciao”, mi salutò mia madre, tranquilla.
Mi rilassai ulteriormente; il primo impatto era stato
superato, e se volevo davvero andare a sfiorare una tematica delicata, dovevo
essere certa che la tensione fosse affievolita al massimo.
“Che buon profumino”, aggiunsi, mentre tentennavo con la mia
comoda borsetta tra le mani.
“Sicuro. Hai altro da fare, ora? Devi uscire?”, mi chiese, e
per qualche istante mi sembrò che quelle domandine fossero mirate, ma cercai di
non pensarci, non avendo percepito nessun sentore di subdolo tra le varie
parole che mi erano state rivolte.
“No, no, non devo fare nulla, né andare da nessuna parte”,
dissi, infine, dopo una brevissima riflessione.
“Allora, se vuoi e se ti va, possiamo cenare assieme. Ho già
apparecchiato per due ed ho preparato un po’ di arrosto di pollo”.
“Accetto volentieri! Vado ad appoggiare la borsa e torno
subito”, affermai con grinta.
In un attimo, quasi correndo, salii le scale, andai in camera
mia e mi misi un po’ a posto davanti allo specchio, lasciai la borsa sulla
pedana a fianco del letto e me ne tornai giù, in cucina.
Mi sedetti di fronte ad una gustosa, abbondante e profumata
porzione di petto di pollo, dalla pelle dall’aspetto fragrante.
“Ah, mangia pure se vuoi”, m’invitò ulteriormente mia madre,
notando che invece di gettarmi subito a mangiare mi ero fermata a fissarla,
seppur in modo molto involontario.
Decisi però di andare subito al sodo; era l’occasione giusta
per gustarmi, poi, al meglio quella cena dall’aspetto appetitoso, senza avere
groppi in gola.
“Mamma, perdonami per questa mattina”, irruppi, infatti, in
modo molto serio, forse più del necessario.
La mamma infatti mi guardò e mi sorrise in modo blando.
“Stai tranquilla, può capitare di svegliarsi con la luna
storta”.
Era stata davvero molto dolce, e non mi aveva recriminato
nulla. Ecco, mi sentivo ancora più in colpa per il mio comportamento smisurato.
“Beh… il fatto è che non è solo che… ultimamente… mi sveglio
con la luna storta, capisci?”, provai a dire, in modo ingarbugliato.
“Esci troppo, di recente”, mi rimproverò in tono dolce e
materno.
Scossi il capo.
“No. Il fatto è che… frequento un uomo. Mamma, ho un altro…”.
“L’importante è che non sia Marco, o uno della sua risma”, m’interruppe
lei, aguzzando le orecchie e con fare risoluto.
“Non è Marco, e non è come lui”, riconobbi con prontezza e
decisione, e allora la mia interlocutrice si quietò subito. Probabilmente
doveva già sospettare quella mia rivelazione, siccome aveva notato il mio
comportamento ambiguo riconducibile solo a un ristrettissimo gruppo di
situazioni, e quindi attendeva, con un po’ di pazienza, che fossi io a
continuare a narrare, in modo spontaneo.
“E’… una persona speciale”, proseguii, piano, senza rivelarle
che anche lei in realtà lo conosceva, “e molto gentile. Un vero gentiluomo,
bravissimo nel suo mestiere”. Era come se le stessi offrendo delle garanzie.
Mia madre non mi sorrise, ma continuò a restare molto impassibile,
mentre mi guardava e ascoltava.
“Bene, in bocca al lupo, allora. Spero che possa essere una
persona che sappia anche darti qualche soddisfazione, e che… beh, che me lo
presenterai, prima o poi”.
Dopo la velata richiesta, si sedette di fronte alla sua
porzione di cibo fumante che aveva appena finito di servirsi da sola.
“Certo… quando sarà il momento giusto, te lo presenterò. Per
adesso, dobbiamo ancora capirci fino in fondo, e conoscerci meglio”, aggiunsi,
leggermente impacciata. Per ammazzare l’ansia che mi attanagliava, lasciai
infine scivolarmi verso la mia porzione di petto di pollo, e mi misi a
sminuzzarla.
La mamma non sollevò oltre l’argomento, e lasciammo cadere il
discorso nell’oblio, entrambe certe che, prima o poi, il nodo sarebbe venuto al
pettine e se fosse andato tutto al meglio avremmo avuto anche modo di tornare a
parlarne. Per quella sera, poteva bastare anche così.
“Mamma”, dissi dopo un po’, mentre ero tornata ormai a
rilassarmi, e quasi mi stavo abbuffando. L’arrosto era buonissimo.
“Sì?”, mi rispose, anche lei con un po’ di distrazione.
“Voglio passare più tempo con te, se sei d’accordo”, vuotai
il sacco, tutto d’un tratto, esprimendo quei pensieri che, anch’essi, da
qualche giorno mi davano turbamento e sconforto.
“A me sta bene”, rispose lei, seccamente, con una smorfia sul
viso, quasi a voler nascondere un pizzico di felicità che voleva emergere in
quei lineamenti messi a dura prova durante quell’ultimo periodo. Non alzò,
però, gli occhi dal suo piatto.
“Perfetto. Allora, se vuoi… questo fine settimana potremmo
andare a fare un po’ di shopping, che ne dici? In un qualche centro
commerciale, scegli tu, non è un problema. Oppure… insomma, quello che vuoi”,
proseguii, notando che l’idea non le dispiaceva, seppur cercasse di continuare
a mostrarsi molto contenuta e austera nelle sue reazioni.
Mia madre allora scrollò le spalle, piano, con assenso.
“Va bene, però scegli tutto tu, perché non ho nessuna idea”,
affermò.
“Ok, allora ho una libertà totale”.
Le sorrisi.
Rispose solo blandamente al mio sorriso, e riconobbi che in
lei c’era davvero qualcosa che non andava, e che rischiava di logorarla, nel
tempo, quindi dovevo agire prima che fosse troppo tardi. Farla uscire un po’ mi
sembrava un’idea più che ottima, e dato che mi aveva dato il suo consenso, fui più
tranquilla anche a riguardo di quell’argomento.
Quella sera andai a letto presto, e passai una notte davvero
molto serena.
Il mattino successivo mi svegliai di buon’ora, e trovai mia
madre già in piedi, e proseguimmo a continuare a cercare di restaurare il
nostro rapporto, dopo il periodo di crisi. Tuttavia, avevo un po’ fretta,
siccome avevo perso troppo tempo nel vestirmi e nel preparami per andare al
lavoro, quindi trascorremmo assieme una mezz’oretta molto piacevole e pacifica,
che ci scaldò un po’ il cuore e mi preparò a trascorrere al meglio la giornata.
Uscii di casa come se niente fosse, come ogni mattina, e
rimasi perplessa quando scorsi che qualcuno mi stava aspettando, appoggiato con
la schiena contro la mia auto, che la sera prima avevo parcheggiato a margine
della strada.
La persona mi dava le spalle, e volgeva la schiena alla casa
dalla quale ero appena uscita, tuttavia era ben bardata, in modo strano siccome
era piena estate, e formava un profilo irriconoscibile, anche se dalle braccia
presumibilmente incrociate all’altezza del petto in maniera risoluta lasciassero
presagire che si trattasse di qualcuno di sesso maschile.
Temevo si trattasse di un malintenzionato, comunque non
arrestai la mia marcia, ed essendo vicinissima a casa non temevo molto una
possibile aggressione.
“Scusi!”, quasi gridai contro la figura, avvicinandomi con
stizza e con fastidio, ma essa non fece una piega, anzi, se ne restò immobile.
Dovetti aggirare l’auto e affrontare il nemico, per scoprire,
all’improvviso, che quello strambo soggetto in realtà non era altro che un
sorridente Piergiorgio. Quasi scoppiai a ridere, contrariamente a ciò che i
miei occhi volevano dimostrare, inumiditi dal mezzo spavento appena vissuto.
“Andiamo?”, mi strizzò l’occhio, guardandomi con quel suo
visetto simpatico, che non sapeva lasciarmi arrabbiata per più di mezzo
secondo. Incrociai le mani sotto al mento.
“Sei completamente pazzo”, riuscii a dire, scrollando il
capo.
“Dai, apri l’auto e andiamo, non voglio che fai tardi al
lavoro”, insistette, ancora sorridente.
“Cosa stai dicendo, George?”, gli domandai, avvicinandomi con
circospezione, temendo che mia madre mi stesse osservando, mentre mi lasciai
andare ad una mezza risata.
“Mi aspettavo che almeno mi chiedessi cosa ci faccio qui a
quest’ora, oppure perché… non so. Una domanda del genere me l’aspettavo, sul
serio. Ora andiamo, comunque, prima che tua madre ci veda”, riprese a dire il
mio amante, facendo il simpatico.
“Sono senza parole, ma facciamo come dici tu…”, e mi
affrettai a inserire la chiave dell’auto nella serratura della portiera della
mia automobile.
Piergiorgio, con due rapide falcate, e con grande grinta, si
posizionò subito nel sedile del passeggero.
“A momenti mi facevi venire un accidente!”, affermai, una
volta dentro all’abitacolo.
“Credevo fossi felice di rivedermi”.
“Certo che lo sono, ma a volte… sei strano!”.
“Sono solo follemente innamorato. Si nota?”, mi chiese,
dolcemente, mentre partivo a tutto gas.
“E adesso cosa facciamo?”, passai subito al sodo, un po’ in
confusione. Ero attesa al lavoro, da lì a una ventina di minuti, e non avevo
margine per fare tante cose, e neppure per riaccompagnarlo a casa.
“Uff, stai tranquilla, sono venuto solo per vederti e per
farti una sorpresa di prima mattina. E perché mi mancavi da morire”.
Così dicendo, cominciò a togliersi la bardatura che aveva
addosso, e che doveva procurargli davvero molto caldo.
“Anche a me mancavi, ma resti un uomo pazzo”, gli dissi,
sorridendo. Gli volevo davvero molto bene, e in fondo il suo gesto era stato
gentilissimo, anche se forse non l’avevo afferrato e compreso per bene fino in
fondo.
“Beh, mi sono vestito come in inverno per non farmi notare
per nessuno, so che non sei pronta per presentarmi a tua madre”, disse, piano,
“e poi non devi preoccuparti di nulla. Mi mancavi, volevo solo vederti per
qualche istante… ma non voglio procurarti casini, no di certo, quindi dirigiti
pure al lavoro. Farò colazione dalla mia cara amica Virginia”.
“Oh, George”, sospirai, seria, “tu sei un amore di persona,
non mi meriti”.
Lui rise, giocoso come sempre.
“Anche tu lo sei, ma ho il timore che non te ne sia ancora
accorta per bene. Per questo il mio compito è anche quello di farti capire
quanto vali realmente”.
Era inutile, con Piergiorgio era sempre così; era dotato di
una mente brillante e romantica, al punto giusto, e sapeva sempre donarmi dei
momenti molto piacevoli, in ogni occasione. Sapeva trasformare quella che si
preannunciava come una normalissima mattinata di routine in un qualcosa di
speciale e di indimenticabile, ed era, quello, un magnifico pregio, di cui
dovevo imparare a farne tesoro, ad ogni costo.
“Allora… vado al lavoro?”, gli chiesi, comunque ancora
perplessa.
Piergiorgio rise fortissimo, quella volta.
“Non sei mica una mia prigioniera! Certo che devi andare al
lavoro, come ti ho detto mi fermo a fare colazione”.
“E poi resti lì?”, tornai a domandare, con un pizzico di
sarcasmo.
“Poi mi arrangio, non devi preoccuparti di nulla. Anzi,
perdonami se mi sono comportato così, questa mattina… neanche un ragazzino…”,
borbottò, un po’ in imbarazzo.
Gli sorrisi, per rassicurarlo, e anche se non potevo
guardarlo direttamente in faccia, siccome ero impegnata alla guida, fui certa
che seppe cogliere lo stesso il mio sorriso.
“A me è piaciuto, sai. Mi ha fatto piacere incontrarti così,
senza preavviso, e solo la modalità del nostro incontro mi ha lasciato un po’
stupita”, mi volsi un istante a guardarlo, “ma è stato comunque qualcosa di
stupendo”.
“Ti ringrazio”, disse, teatralmente. Io mantenni il mio
solito sorriso sul viso, e fermai la mia auto, in attesa del verde del semaforo
che mi separava dalla meta.
Fu proprio Piergiorgio ad azzardare oltre, e ad alzare ancora
di più la posta in palio.
Infatti, allungò la sua mano sinistra sui miei macabri e
mortificanti jeans da vecchina, quelli che la mia datrice di lavoro gradiva di
più, e cominciò a massaggiare la coscia sottostante, con vigore, mentre le dita
palpavano per bene, con libidine crescente, ma senza volgarità.
Io guardai quella mano con dispetto, all’inizio.
“Per favore”, gli dissi, cortesemente ma con grande serietà,
“non provocarmi così”.
“Non sai quanto darei per poterti avere adesso. Subito”,
sussurrò.
“Sai che non si può, dobbiamo aspettare un altro momento”.
“Un vero peccato, il dover aspettare. Sei così bella”, tornò
a sussurrare, serio anche lui, nella sua libidine.
Afferrai la sua mano, nel tentativo di scostarla, ma non
appena si instaurò un contatto, George cercò di intrecciare le nostre dita. Fu
qualcosa di così provocante che alla fine fece piegare anche me.
“Non vorrei aspettare neppure io”, fui quindi costretta a
riconoscere, dopo un istante, quando la scintilla della passione prese vita nel
mio cuore.
“Devi scusarmi, però… anche se dovresti sapere che per noi
uomini, in genere, il testosterone è più elevato di mattina…”.
“Ma cosa vuoi che me ne freghi, del testosterone…”, gli feci
eco, interrompendolo e andando alla ricerca delle sue labbra, e lui fu
felicissimo di baciarmi. Smettemmo di farlo solo quando gli automobilisti che
erano dietro di noi cominciarono a suonare il clacson con un misto di rabbia e
di disperazione, poiché il verde si era già illuminato da un po’.
Ingranai le marce, e a tutta velocità mi affrettai a superare
il semaforo e a compiere una svolta in un vicolo cieco, senza uscita.
“Cosa…”, provò a dire George, evidentemente col fiato
sospeso, per via della mia serie repentina di azioni.
“Aspetta e vedrai”.
Fui proprio di poche parole.
Sempre con risolutezza, m’intrufolai nel parcheggino
semivuoto che concludeva quella stradina, immergendomi in una zona contornata
da alberi, e molto appartata. Naturalmente, parcheggiai in uno dei tanti
posteggi vuoti.
Solo allora mi volsi a guardare Piergiorgio, e incontrai il
suo sguardo leggermente turbato e stupito, e anche un po’ spaesato, ed era
alquanto probabile che non avesse ancora compreso bene perché mi fossi recata
fin lì.
Controllai l’orologio, e notai che avevo ancora venti minuti
liberi, prima che cominciasse il mio turno lavorativo.
“Non avevi voglia di me? Sono tutta tua”, gli dissi,
slacciandomi la cintura di sicurezza.
“No, no, in macchina è un po’ troppo anche per me…”,
ridacchiò.
“Non scherzare. Ho solo una quindicina di minuti a disposizione,
quindi se vuoi devi approfittarne”, fu la mia volta di stuzzicarlo.
“Va bene, ci sto”, affermò, accettando infine la sfida.
Alla fine, finimmo a ruzzolarci sui sedili posteriori, un po’
impacciati, e lui estrasse un profilattico dal portafogli.
“Allora te la sentivi, che questa era una mattinata
favorevole”, dissi, mentre mi abbassavo di poco i jeans, giusto il necessario.
“Mi sono attrezzato perfettamente, infatti. So che vorresti
avere rapporti protetti”.
In effetti, poi, facemmo l’amore, ma fu proprio una cosa da
poco; ci trovammo sistemati male, poi con i vestiti addosso e su degli scomodi
sedili non fu il massimo del confort, e noi avevamo bisogno del giusto tempo
per i preliminari. Fu un mezzo disastro.
Dopo qualche minuto, in cui George aveva provato a dar fondo
a tutta la sua libidine, senza neppure provare a razionalizzare quello che
stavamo facendo, ci ritrovammo di nuovo al punto di partenza, e anzi, con
alcuni problemi in più, poiché dovevamo anche risistemarci un minimo e non
avevamo più tempo a disposizione.
Io, dal canto mio, feci in un attimo, e dopo poco ero già al
volante, ma il mio amante doveva ripulirsi un attimo, e ricercare un fazzoletto
di carta, e poi riallacciarsi la cintura e controllare che i calzoni fossero a
posto.
“Se continui di questo passo, giuro che ti lascio qui, eh!
Sei peggio di una ragazza”, lo ammonii, ormai sempre più in ansia, mentre mi
accorgevo di quanto avevo azzardato, con quella scelta folle e dettata
strettamente dall’istinto.
In men che non si dica, Piergiorgio prese posizione a mio
fianco, passandosi un altro fazzoletto di carta sulla fronte imperlata dal
sudore.
“Io ti giuro, invece, che questa è stata la prima e l’ultima
volta in cui faccio certe cose in macchina. Per questo, ci vogliono letti
comodi e stanze confortevoli e riservate”, sogghignò, infatti.
“Pensa che ci è andata più che bene! Magari qualcuno poteva
anche interrompere, involontariamente, il nostro rapporto…”, e dicendo ciò mi
lasciai sfuggire una bella risata, mentre tornavo a imbucare la retta via che
mi avrebbe portato alla destinazione ormai improrogabile.
“Oddio, non voglio neppure che l’idea mi passi per la mente”,
mormorò, piuttosto affranto, ormai sgasato da quell’istinto che aveva avvolto
anche lui, prima che i nostri corpi riuscissero ad unirsi e a trovare il giusto
sfogo per le loro pressanti e ancestrali pulsioni.
“Pensaci, invece; il rinomato ed egregio cardiologo
Ceccarelli beccato a fare l’amore in un auto parcheggiata al margine della
strada…”.
“Era un parcheggio”, mi corresse, all’apice dell’ironia.
“Non c’era poi più di tanta differenza”.
Ci lasciammo andare a qualche istante di felicità e risate,
finalmente rilassati.
Quando parcheggiai di fronte a L’angolo della bontà, smettemmo di ridere e di stuzzicarci a
vicenda, consci che la realtà tornava a bussare alla nostra porta, nonostante
fossimo riusciti, per l’ennesima volta, ad estraniarci da essa a modo nostro.
“Non ci pensare mai più a fare certe cose in automobile…
piuttosto, ti pago una vacanza in un qualche albergo stellato”, mi fece poi
l’occhiolino, com’era solito a fare, e ci preparammo a tornare immersi nelle
nostre vite quotidiane.
Nessuno dall’interno del locale aveva notato, per fortuna,
che noi due eravamo arrivati assieme. Entrammo l’uno dopo l’altra, come se ci
fossimo incontrati lì fuori, lungo il percorso pedonale antistante.
Subito, l’attenzione della signora Virginia, sempre appostata
nella sua solita posizione dietro la cassa, si concentrò sull’amico, non
degnandomi neppure di uno sguardo, ed io ne approfittai per andare ad
appoggiare la borsa e prepararmi al meglio per affrontare la giornata
lavorativa.
“Te lo offre la casa, il caffè!”, diceva la proprietaria
dell’attività, con insistenza, quando io andai finalmente a prendere posizione,
in orario perfetto, per fortuna.
Non ero gelosa delle attenzioni della signora, non
m’importava, in fondo, e non davo peso, sul momento, neppure alla storia
riguardante il lungo passato del mio amante, poiché ero sicura che lui era
stato sincero con me e nei miei confronti, fino in fondo, e che non aveva altri
scheletri nell’armadio. Mi bastava sapere che lui non stava tradendo altre
persone, e che era solo mio; ma di quello ormai ne ero certa, me ne aveva dato
prova anche poco prima… era davvero un amante infaticabile.
Lo adoravo così com’era, dolce e gentile, anche galante, e il
resto non mi spaventava più.
“Accetto l’offerta, allora”, udii dire Piergiorgio, ad un
certo punto, con finta sconsolazione, “ma solo se sarà la più bella e la più
brava cameriera del locale a servirmi”.
Ah, che beffardo! Alzai le orecchie come un cagnolino, e
nonostante fossi a diversi metri di distanza, a rassettare un tavolino lasciato
sporco e ingombro da qualche avventore mattiniero e maleducato, mi accorsi che
con quelle affermazioni stava sfidando la sorte… mi sembrava che stesse per
mostrare al mondo intero quanto ci teneva a me, e quanto noi due stavamo tanto
faticando di nascondere.
“Oh… e chi sarebbe la fortunata?”, chiese con interesse
Virginia.
Io mi aspettavo di essere chiamata in causa, a quel punto se
non l’avesse fatto e avesse cercato qualcun’altra me la sarei presa a morte.
“Quella dolce ragazza di Isabella”, disse, rinfrancandomi.
“Isabella carissima!”, mi richiamò con prontezza Virginia.
“Sono qui”, mi avvicinai subito a loro, sorridendo e cercando
di non incontrale lo sguardo di Piergiorgio, che mi fissava con soddisfazione e
con un bel sorriso impresso sul viso.
“Sei la fortunata che dovrà servire questo mio carissimo
amico, che già hai avuto modo di conoscere. Complimenti, perché non tutti gli
lasciano una così buona impressione”, mi spiegò, piano, sorridendo anche lei, e
non notai nessuna rivalità né gelosia nella voce e negli atteggiamenti della
mia datrice di lavoro, e ne fui sollevata, per tutto.
“Caffè?”, chiesi all’avventore che conoscevo fin troppo bene,
con tono professionale.
“Caffè e un bombolone”, fu la risposta tranquilla e pacata.
Lo servii, e quando gli fui vicino, e la signora Virginia per
un attimo ci diede le spalle, con le mie colleghe impegnate a pulire la cucina,
nel retro del locale, lo baciai sulla bocca. Fu un bacio strappato al caso, in
un momento pubblico in cui nessuno ci stava osservando. Un bacio magico.
Così, con quel bacio, ci lasciammo, e Piergiorgio si
volatilizzò a fine colazione senza darmi altra occasione di salutarlo,
ingurgitato nella sua vita quotidiana fin troppo frenetica, probabilmente
servendosi poi di un mezzo pubblico per andare a destinazione, usufruendo della
fermata a poca distanza dal locale.
Io ne ero sempre più stregata dal nostro amore, e per lui era
lo stesso. La nostra relazione era qualcosa di incredibilmente fatato.
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Capitolo 25 *** Capitolo venticinque ***
Capitolo venticinque
CAPITOLO VENTICINQUE
A mezzogiorno, finito il mio turno mattutino di lavoro, uscii
da L’angolo della bontà, e mi
ritrovai subito di fronte al fuoristrada di Piergiorgio, parcheggiato proprio
di fronte al locale. Sorrisi, felice dell’ennesima sorpresa inattesa, e mi
diressi verso il mezzo in sosta.
Dopo aver attraversato la strada, potei finalmente scorgere
in modo nitido il mio amante, che se ne stava ad aspettarmi. Da dietro le lenti
degli occhiali da guida, mi fissava con quei suoi occhioni ridenti, e con un
bel sorriso sincero e genuino sulle labbra.
Impossibile resistergli, era un magnete.
Il finestrino era abbassato, e la sua mano sinistra penzolava
dietro lo specchietto.
“Sei diventato uno stalker, per caso?”, gli chiesi, non
appena fui abbastanza vicina per essere udita, estraendo le chiavi della mia
auto, parcheggiata due posteggi più avanti, ancora come l’avevo lasciata quella
movimentata mattina.
“E’ un termine nuovo?”, mi chiese, sporgendosi dal
finestrino.
Risi forte, involontariamente, ma non seppi trattenermi.
“Mah, è stato coniato da qualche anno, credo. Significa
perseguitatore…”.
“Un rompipalle, in pratica?”.
“Volendo”, scrollai le spalle.
A quel punto, anche George scoppiò a ridere, senza sapersi
più trattenere.
“Lo sapevo, comunque”, disse, tra le risate. Lasciai perdere
le mie chiavi e mi avvicinai di più a lui.
“Non prendermi più in giro, però!”, gridacchiai, accorgendomi
che mi aveva tratto in inganno, solo per intrattenermi un attimo.
“Ehi, sono volate parole pesanti”, mi fece notare, diventando
d’un colpo serio, “se sono una rottura di scatole, me ne vado subito. Sono
venuto solo perché speravo ti facesse piacere…”.
Tornai seria anch’io, immediatamente. La situazione lo
richiedeva.
“Stavo solo scherzando, non volevo ferirti, e ti chiedo scusa
se l’ho fatto. Comunque, hai fatto benissimo a venire qui”, lo interruppi,
senza lasciarlo concludere.
“Mi permetto di fare un po’ la sciocca con te perché ormai ci
conosciamo un po’, ma tu lo sai quanto tengo al nostro rapporto”, aggiunsi, nel
suo silenzio.
“Oh, in fondo non devi preoccuparti”, tornò a dire,
distogliendo lo sguardo da me e tornando a puntarlo avanti, verso la strada che
aveva di fronte, “lo sai che ti amo così come sei, tanto”.
Mi allungai verso l’interno della sua auto, e con dolcezza
afferrai il suo viso dai lineamenti marcati e decisi, per volgerlo verso di me.
“Guardami negli occhi, George”.
Ero seria all’inverosimile, e lui mi fissò subito, senza
esitazione.
“Lo sai che sono solo tua”, conclusi.
“Anche io lo sono. Anche io”.
Si allungò piano verso di me, ma tolsi le mani e feci un
passo indietro, non volendo che qualcuno, in quella zona pubblica e a pochi
passi dal mio posto di lavoro potesse vedere qualcosa di molto compromettente,
mettendo poi in giro chiacchiere che non sarei più riuscita in alcun modo ad
arginare.
“Che intenzioni hai?”, gli chiesi, senza lasciargli il tempo
materiale per fare o dire qualunque cosa, poiché era probabile che si
aspettasse almeno un bacio, da parte mia.
“Se vuoi venire a pranzo da me, a casa mia. Se ti va”,
rispose, piano, in modo tiepido. Lo vedevo confuso, pensai subito che non
sapeva se aveva fatto bene ad azzardare così tanto, tornando ad invitarmi tanto
presto in quella dimora dove solo lo scorso pomeriggio, alla medesima ora,
avevamo quasi bisticciato, e dove avevo scoperto qualcosa che mi aveva molto
turbato, sul momento. Tuttavia, poi la situazione si era riparata in modo
naturale, ma avevamo rischiato tantissimo.
In ogni caso, sul momento, la proposta mi sembrava
allettante; avevo pensato di tornare a casa per stare con la mamma, però tutto
sommato non avevo affatto voglia di farlo, soprattutto perché avevo una
prospettiva che, sulla carta, mi appariva migliore e più coinvolgente. D’altronde,
a lei avevo promesso l’intero fine settimana.
Non mi feci ulteriori scrupoli, quindi, ad accettare.
“Va bene, ok”, dissi, infine, dopo qualche istante di
riflessione.
“Sali pure a bordo, allora, mia cara ospite”, tornò a
sorridere George, molto sollevato.
Non mi feci ripetere l’invito, e, in tutta fretta, presi
posto sul sedile del passeggero, a suo fianco.
“Ogni volta che salgo sul tuo fuoristrada, mi sembra di
salire su un camion”, affermai, sempre un po’ scossa dall’eccessiva altezza del
mezzo, che mi dava una sensazione strana, una sorta di sesto senso che mi
sussurrava che quella non era la macchina giusta per me, e che non sarei
neppure mai stata in grado di guidarla.
“Te l’ho sempre detto, è questione di abitudine”, tornò a spiegarmi,
calmo e sereno.
Uscimmo dal parcheggio, e grazie al nostro mezzo di trasporto
ci allontanammo in fretta dal punto di partenza.
Come sempre, Piergiorgio aveva un modo di guidare molto
calibrato ed attento, ma allo stesso tempo sapiente; conosceva la sua
automobile e rispettava i limiti di velocità e ogni regola della strada. Era un
guidatore provetto.
“Guidi molto bene”, gli riconobbi, infatti, poco dopo.
“Anche tu non te la cavi male”, disse, ridacchiando.
“Col catorcio che mi ritrovo, cavarmela è il massimo che io
possa fare”, ironizzai, blandamente. La mia auto ormai aveva visto giorni
migliori, tuttavia era come una fedele compagna di viaggio, per me, e non
l’avrei cambiata per nulla al mondo, anche se ormai cominciava, ogni tanto, ad
avere qualche acciacco.
“Non è poi messa così malaccio, su. Circolano auto molto,
molto più vecchie della tua”.
Minuto di silenzio.
“Non lavori più?”, gli chiesi, poi, facendomi coraggio e
interrompendo il silenzio che, per poco, ci aveva avvolti. Tra l’altro, George
stava percorrendo la medesima strada che avrei dovuto ripercorrere io per
tornare a casa, e questo un po’ mi aveva fatto riflettere, sempre col pensiero
fisso di mia madre che mi frullava per la testa, assieme ad un moderato senso
di colpa, a riguardo di ciò.
“Certo che lavoro”, mi rispose, seccamente.
“Mi sembrava che tu fossi più impegnato, nelle settimane
scorse”, gli feci notare, stando attento a non urtarlo. Non volevo che lui
tornasse ad affrontare qualche discorso che voleva evitare, nel pieno rispetto
dei suoi diritti, e poiché mi rispettava sempre, non vedevo il motivo per cui
non dovevo almeno provare a fare altrettanto.
“Uff, sono in pensione, ormai. È da quando ero giovane che
non mi sono mai preso un momento per me! Tra studio, poi lavoro, ospedali,
interventi difficili… ah, se ci penso mi viene da impazzire. Adesso vorrei
proprio staccare la spina, ogni tanto, in modo da poterti dedicare un po’ di
tempo, siccome prima lavoravo a tutto sparo, nonostante tutto, solo per
affogare la mia coscienza e non pensare a niente. Ora non sono più costretto a
farlo”, narrò, poi.
“In ogni caso, il lavoro ti ha fatto bene; sul serio,
dimostri almeno dieci anni in meno di quelli che hai sulla carta d’identità”,
gli feci di nuovo notare, senza voler andare più a fondo nelle sue parole di
poco prima.
Piergiorgio si limitò a scrollare le spalle, lasciando un bel
sorriso a troneggiare sulle sue labbra.
Ecco, quello che più amavo era il suo sorriso; qualcosa che
non avrei mai dimenticato… nonostante tutto. Era così genuino, ogni volta che
si mostrava. Mi faceva venir voglia di guardarlo all’infinito, e speravo di
poter continuare a scorgerlo in qualunque momento di sconforto, poiché ero
certa che mi avrebbe subito risollevato il morale. Se il mondo era marcio, e
con la sua muffa aveva contaminato tutti quanti, col passare degli anni, non
era comunque riuscito ad intaccare quel prodigio di espressione facciale del
mio uomo.
George era mio, lo sentivo ormai come una parte integrante di
me, e non m’importava la sua età, il suo passato… in fondo, quelli erano solo
dettagli e limiti che la società voleva imporre. Se era amore, era amore e
basta.
Non c’era nulla di cui pentirsi o da rimproverarsi, seppure
non avessi ancora trovato la forza per far uscire il mio amante dall’ombra e
donarlo agli occhi di chi conoscevo, in modo che potessero invidiarmi per quale
prezioso gioiello ero riuscita ad accaparrarmi. Era un dono della sorte, punto.
“Grazie per donarmi così tanto tempo, e così tanta
attenzione”, riuscii a dirgli, un po’ commossa dalle sue parole.
“E’ il minimo che ti possa offrire. Una persona come te
meriterebbe molto di più. Sei preziosa, mia cara”.
“Beh, io sono una di quelle che pensa che non esista un dono
più prezioso del tempo”, aggiunsi, subito e senza tentennamenti, “grazie,
quindi”.
“E di che”, mi disse, rivolgendomi un altro sorriso,
sbocciato di nuovo in modo spontaneo sulle sue labbra.
Non riuscimmo a dire altro, siccome giungemmo a casa sua, e
dopo aver atteso qualche minuto, nell’attesa che il cancello si aprisse, tornai
di nuovo a varcare quella soglia, proprio come il giorno precedente, solo che
quella volta la varcavo in compagnia del padrone di casa.
Non fece in tempo a parcheggiare il fuoristrada che Kira già
gli scodinzolava attorno, festosa come non mai.
“Oh, che creaturina che sei!”, le mormorai, quando scesi
dall’auto e potei accarezzarla per bene, dedicandole quelle attenzioni che
tanto desiderava.
“Non viziarla, che poi se ne approfitta, quella
furbacchiona!”, finse di rimproverarmi Piergiorgio, con dolcezza.
“Macché… questa tenera cagnolina se lo merita”, gli dissi,
continuando ad accarezzarla, e lei, tutta festosa, scodinzolava felice.
Quello fu un bellissimo ricordo che mi rimase impresso per
molto tempo.
“Non vorrei interrompere questo momento commovente, ma in
casa c’è un pranzo caldo che ci attende”, aggiunse il mio amante, desideroso di
andare a tavola, evidentemente. Io, da parte mia, ero ben consapevole del fatto
che non avevo un’infinità di ore a disposizione, quindi dovevo sempre stare
attenta a darmi una mossa, se volevo fare qualcosa di serio, durante la breve
pausa pomeridiana.
“Certo, va bene”, acconsentii, infatti, lasciando perdere
Kira.
Mi accompagnò in casa, e lasciò in cortile la cagnolina, dopo
averle servito una bella ciotola di crocchette per cani.
“Anche lei deve pranzare”, mi disse, strizzandomi l’occhio.
“Giustamente”, conclusi io.
“Vieni, accomodati pure”, m’invitò a seguirlo, dopo aver dato
da mangiare al suo dolce animale domestico.
Dopo qualche passo, ancora prima del salotto dove mi aveva
condotto il giorno prima, ci trovammo di fronte ad una splendida tavola
imbandita, in una stanza in cui si affacciava il grande corridoio d’ingresso.
“Irina oggi si è data da fare… a proposito, dev’essersene
andata poco fa. E’ lo stesso, ti servo io…”, disse George, passandomi il suo
braccio destro attorno alla vita e conducendomi verso il tavolo.
“Scherzi?! Non devi preoccuparti di nulla… anzi, non dovevi”,
riuscii a dire, ancora un po’ sorpresa da quello che mi trovavo di fronte.
In effetti, una tavola così imbandita erano anni che non la
vedevo… forse, l’ultima volta era stata dopo la mia cresima, quando mia madre
aveva preparato un po’ di buffet per tutti i vari invitati. C’era un po’ di
tutto, dall’arrosto ai primi, dalla pasta al dolce.
Ero seriamente presa alla sprovvista dalla situazione, e
quando George mi aveva accennato il pranzo, avevo creduto che si trattasse di
qualche piccola cosa preparata da lui, e non avevo pensato che avesse
addirittura pagato la domestica perché si mettesse ai fornelli per entrambi.
“Sai che a certe cose ci tengo. E comunque dovevo ancora
farmi perdonare per ieri pomeriggio”.
“Non dovevi, ora sono in imbarazzo”, ammisi, di fronte a così
tanto ben di Dio.
George rise, sommessamente.
“Non devi sentirti in imbarazzo per nulla, e siediti pure
dove vuoi”, m’invitò, poi.
Mi scortò fino alla sedia che avevo scelto, e fece per
allontanarla dal tavolo, per farmi sedere, ma rifiutai gentilmente il suo aiuto
galante con un gesto deciso delle mani. Non volevo che si disturbasse
ulteriormente a causa mia.
Lui andò a sedersi proprio di fronte a me, al lato opposto
del tavolo, e, illuminati per bene dalla luce che entrava dalla finestra ben
aperta, leggermente filtrata dalla sottile tapparella e dalla zanzariera
abbassata, mi ritrovai con lo stomaco in subbuglio.
“Serviti pure, altrimenti se vuoi posso servirti anch’io, non
c’è problema… dimmi tu”, disse George, interrompendo il mio momento di
silenzioso e mesto imbarazzo.
“Mi servo da sola, non devi preoccuparti di nulla”, gli
assicurai, passandomi una mano tra i capelli, “è solo che… non sono abituata…”,
borbottai, mentre percepivo le mie guance che arrossivano.
Sapevo che avevo avuto altre occasioni dove sarebbe stato più
lecito fare la timida e diventare rossa come un pomodoro, però ormai stava
andando così.
“Oh, dai, smettila di fare così, che poi imbarazzi anche me”,
mi riprese con infinita dolcezza, “penso, in fondo, che ad averti intimidito
così tanto sia stata la mia maleducata disattenzione, poiché non ti ho neppure
indicato il bagno, se volevi giustamente lavarti le mani. Seguimi pure”.
Ringraziai la sua giusta e doverosa decisione, e lo seguii
come se fossi stata una cagnolina.
“Vai, se vuoi! E’ lì”, m’indicò una porta socchiusa, sempre
lungo il corridoio che poi si diramava in tutte le varie stanze del piano terra
della villa.
Entrai in un ambiente molto profumato e lindo, ben tenuto, e
mi fiondai a lavarmi le mani, e poi il volto arrossato. Non sapevo cosa mi
fosse preso, d’altronde non era da me diventare così timida di fronte ad un
pranzo offerto da un gentile signore, che tra l’altro ormai conoscevo.
Mi chiesi se mi stesse turbando la situazione che stavo
vivendo, d’altronde quella casa era stata anche la residenza coniugale del mio
amante, l’edificio in cui doveva aver vissuto a lungo con la moglie e col
figlio ormai adulto da tempo. Non seppi darmi risposta.
Quando uscii dal bagno, dopo qualche minuto, fu il turno di
George di usufruirne, ed io attesi nel corridoio, senza prendere alcuna
iniziativa, sentendomi un’estranea tra quelle mura.
Il mio amante fece in fretta, e in un attimo si ricongiunse a
me, avvicinandosi, e vedendomi così confusa e spaesata, reagì d’istinto,
stringendomi forte e d’impeto tra le sue braccia.
“Cosa c’è che non va, tesoro? Non ti senti bene?”, mi chiese,
passandomi poi le sue dita ancora umidicce tra i miei capelli, con il suo alito
caldo che mi sfiorava il volto.
“No, è tutto a posto… è solo colpa mia. Non dovrei sentirmi
in imbarazzo di fronte a te, ma la realtà è che non sono abituata a così tante
attenzioni amorevoli. Marco non me ne rivolgeva mai”, vuotai il sacco,
lasciandomi proprio andare in modo libero, senza freni, stupendomi a mia volta
di cosa mi aveva portato a dire la mia povera e imbarazzata mente.
Era tutto vero; il mio ex non mi aveva mai dedicato così
tante attenzioni, essendo sempre troppo coinvolto dal mondo che ci circondava e
dalle apparenze, e forse anche questo stava influendo molto sulla mia reazione.
Tuttavia, ero anche certa di non aver detto tutta la verità, ma non riuscivo a
farlo, né a pensarla.
“Ti capisco, sai”, fu pronto a consolarmi Piergiorgio, “anche
per me, con mia moglie, per decenni interi è stato così. Anche quando nostro
figlio se n’è andato di casa per affrontare la sua vita, com’era giusto che
fosse, non siamo riusciti a trovare un equilibrio che ci donasse un minimo, e
dico un minimo, di soddisfazione coniugale. Non era un problema suo, perché era
una buonissima donna, e neppure mio, perché cercavo sempre di trattarla con
grande rispetto, ma il problema di base restava che, in fondo, non ci amavamo,
e non eravamo fatti l’uno per l’altra”.
Fece una breve pausa, prima di riprendere a parlare.
“Ora invece so cosa vuol dire amare. Meglio tardi che mai,
vero?”.
Mi baciò, poi, prima sul collo scoperto, e risalì rapidamente
fino al volto, baciandomi sulle gote calde, ed io mi appoggiai contro il muro,
mugugnando e socchiudendo gli occhi. Eravamo avvolti dalla penombra, era tutto
molto suggestivo e solleticava i sensi.
Da parte mia, avevo adorato la sua pronta reazione, e il
fatto che fosse tornato ad aprirsi a me in quel modo, molto spontaneo.
Non rifiutai i suoi baci e ben presto ne desiderai sulle
labbra, nella bocca… ovunque. Per quello andai a mia volta a ricercare il
contatto fisico, afflosciandomi tra le sue braccia e abbassando il mio volto
affinché gli fosse più agevole raggiungere le mie labbra, ma lui, ad un certo
punto, s’interruppe, senza mai arrivarci a sfiorarle.
“Non possiamo neppure vivere d’amore, giusto? Per questo
dovremmo pranzare. Pomeriggio dobbiamo anche lavorare. E allora, se vuoi, resti
la mia graditissima ospite, ma dobbiamo affrettarci a metterci a tavola,
altrimenti tutto si raffredda e non è più buono da mangiare”, affermò, dopo la
sua brusca interruzione, e questo mi riportò sulla Terra.
“Sicuro, con molto piacere”, asserii, senza tentennamenti. Mi
stava bene, ormai mi ero calmata, dopo le sue effusioni.
Mi sorrise, e prendendomi per mano, tornò a scortarmi verso
la cucina.
Quella volta andò tutto benone, e dopo quel primo impatto in
cui era sembrato che la situazione sarebbe andata a rotoli, mi ritrovai presto
a mio agio, soprattutto grazie alla grande affabilità che mi riservò il padrone
di casa, potei gustarmi un bel pranzo, davvero molto sostanzioso, che tra
l’altro gradii davvero tanto.
Fui sempre molto attenta a frenare ogni sua possibile
galanteria di troppo, per non apparire davvero impacciata, e mi sciolsi, pian
piano, mentre ad ogni boccone l’ansia che mi aveva attanagliato all’inizio
svaniva in fretta.
“Complimenti alla cuoca”, dissi, a fine pasto, mentre
mangiavo con gusto una fettina di profumata e delicata torta di mele, cotta a
puntino.
“Irina è eccezionale, in cucina. Mi ricorderò di porgergli i
tuoi complimenti”, mi strizzò l’occhio George.
“Vai pure a sciacquarti le mani, eh, se vuoi”, tornò a
suggerirmi, quando fu certo che ero piena come un uovo, ed avevo finito il
pasto.
Annuii, accondiscendente, e soddisfatta andai in bagno.
Quando uscii, mi ritrovai Piergiorgio di fronte, come se mi
avesse tampinato. Nei suoi occhi, per la prima volta, vidi ardere qualcosa, una
sorta di piccola fiammella colma di desiderio, come non mi era mai capitato di
notare.
Certo, spesso e volentieri cercavo di fissarli, poiché li
ritenevo bellissimi, ma erano sempre apparsi imprevedibili e buoni, gentili ma
imperscrutabili. Eppure, quella volta sembravano parlar chiaro, e le sue mani
corsero a sovrapporsi alle mie, le afferrarono e le strinsero saldamente.
“Sii sincera con me. E’ stato un buon pranzo, alla fine?”, mi
chiese, ed io tornai ad annuire, ma non feci in tempo a dire altro, siccome la
sua bocca fu sulla mia. Il sapore del caffè caldo che aveva appena bevuto fece
come irruzione tra le mie labbra, e non era una cosa che mi dispiacesse, anzi.
Era un buon sapore.
Approfondimmo il contatto, così, immersi di nuovo nella
stimolante penombra di quel corridoio che, a quanto pareva, aveva un qualcosa
in grado di risvegliare con forza i nostri sensi.
“Dio mio. Quanto ti amo!”, mugugnò, i nostri corpi ormai
avvinghiati e spinti contro il muro. Non dissi nulla, ricambiai solo il suo
ardore.
Quando parve sazio, allontanò il suo viso dal mio e tornò a
prendermi per mano.
“Vieni con me”, mi disse, e senza lasciarmi, mi portò pochi
passi più avanti, di fronte ad un’altra porta chiusa a chiave, che lui aprì con
prontezza. Al suo interno, un bel letto intatto e pulito troneggiava in una
stanza piccola, meno spaziosa di quelle che avevo visitato finora in quella
grande villa, ma comunque ben illuminata.
“Ne hai voglia anche te?”, mi chiese, facendomi entrare,
senza lasciare la mia mano. Sciolse poi in un attimo il contatto, e premette i
suoi arti contro i miei vestiti, nel probabile tentativo di penetrare al di
sotto di essi, e di sollevarli, ma la sua pudicizia alla fine lo arrestò, prima
che lo facesse.
Come sempre, era un gentiluomo, e anche se mi stava cogliendo
un po’ alla sprovvista, con quella sua libidine un po’ spropositata, non ero
una che si tirava indietro, anche se mi trovavo in un luogo forestiero, e che
mi avrebbe dovuto mettere addosso altra soggezione.
“Sicuro”, gli assicurai, infatti e in fretta. In men che non
si dica eravamo di nuovo stesi su un letto, nudi e pronti a fare l’amore; le
tapparelle leggermente abbassate, e una gradevole e fresca penombra ad
avvolgerci.
“Non riesco più a trattenermi”, tornò a sussurrarmi
Piergiorgio, alle prese di nuovo con un profilattico, ma quella volta provai a
strapparglielo dalle mani.
“Che fai?!”, mi chiese, un po’ stupito.
“Non usarlo. Voglio sentirti pulsare, dentro”.
“Mi pareva di aver capito che desideravi che stessimo più
attenti…”.
“Fanculo all’attenzione”, sbottai, “e gettalo via, altrimenti
lo rompo”.
Non se lo fece ripetere due volte.
“Sono solo tua”, gli dissi, con decisione, mentre si stendeva
su di me, coprendo il mio corpo di baci.
Mi inarcai, poi, presa dalla passione, e lo lasciai fare; ero
in buone mani, molto esperte e sapienti.
Ci separammo così, come tutte le altre volte; solo i nostri
corpi erano sazi, in tutti i sensi. Non ci fu bisogno di dire altro, o di
salutarci, poiché i nostri volti arrossati parlavano chiaro.
Gli avevo solo fatto promettere, durante i momenti di apice
della nostra passione, che quella notte avremmo dormito assieme, ma a casa mia.
Esatto, avevo azzardato. Non avevo idea di come fare per
eludere la sorveglianza di mamma, ma speravo che bastasse un minimo d’impegno.
L’unica certezza che avevo era che quella sera, alle venti e
trenta, ora in cui finalmente rincasavo, lui sarebbe stato lì in zona ad
aspettarmi, e poteva venire anche a piedi, non abitavamo distanti.
Avevo cominciato a cedere, ormai la nostra relazione mi stava
coinvolgendo così tanto, a livello emotivo, che mi sentivo pronta per
giocarmele meglio, le mie carte, e per azzardare un po’ di più, senza eccessivo
timore, sul momento, che la nostra relazione potesse essere finalmente scoperta
dalla mia genitrice. Poco importava… forse.
Quella sera, infatti, non appena rincasai, il profilo basso e
tozzo di Piergiorgio si profilò subito con nitidezza di fronte a me, immersa
nella luce soffusa di quella serata di un’estate sempre più inoltrata.
Non parlammo, ci sorridemmo e ci baciammo, poi lo invitai
verso casa mia, sicura che mia madre fosse in cucina, nel retro, a preparare la
cena, e che quindi non ci avrebbe potuto scorgere.
Continuavo a sfidare la sorte.
“Via le scarpe, e portale di sopra. Adesso la distraggo un
attimo, tu vai pure nella mia stanza, sai dov’è”, mi raccomandai, prima di
accedere definitivamente in casa.
Entrammo assieme, lui in calzini e come un fantasma dietro di
me, ed io ad avanzare, in avanscoperta.
Come mi attendevo, mia madre era in cucina, con la porta
socchiusa, e quindi potei far cenno a George di proseguire verso il piano di
sopra, siccome la via era libera e sicura.
“Buona sera, mamma”, la salutai, poi, entrando non appena il
mio amante aveva cominciato a sgattaiolare di sopra. Avevo il timore che
potesse produrre qualche rumore sospetto, quindi volevo coprirlo con la mia
voce e con altri rumori prodotti da me. Stavo ben attenta a far chiasso con le
scarpe, ad ogni passo che facevo.
“Altrettanto a te, cara figliola”, mi rispose mia madre,
senza aver la minima idea di quel che stava accadendo in casa sua.
“Questa sera non ceno, mi dispiace”, le dissi, non appena
notai che mi faceva cenno verso qualche imprecisata pietanza che stava
preparando, “ho già mangiato un trancio di pizza al volo, poco fa, al locale.
Perché sono così stanca che vorrei andare subito a dormire”, precisai, poi.
La mamma mi donò uno sguardo un po’ stralunato, ma annuì
comunque.
“Beh, certo… sarai stanca di sicuro. Vai pure, allora, e
buona notte”, disse, infine.
“Mi dispiace davvero tanto, ma sul serio, non sto bene, ho
solo bisogno di riposare. Crollo dal sonno”, tornai a ripetere, come garanzia
per il mio comportamento anomalo.
“Sì, ho capito. Non preoccuparti, vai pure, e sogni d’oro”, tornò
a salutarmi, ed io mi allungai per darle un bacetto sulla guancia, come scusa.
Poi, sparii nel corridoio.
Ero sicura che George fosse ormai giunto da tempo in camera
mia, e che ci fosse già dentro, al sicuro, e senza rimorsi mi fiondai al piano
superiore. Non avevo mentito; avevo già cenato, in fretta e con un trancio di
pizza, poiché volevo portarmi avanti con i lavori, come si soleva dire.
Quando fui in camera mia, trovai George già seminudo sul mio
letto, con la luce dell’abatjour che lo illuminava. Lo adoravo.
Sorridendogli, chiusi la porta alle mie spalle e diedi un
giro di chiave, prima di tornare a dedicarmi a lui, in silenzio, felice di
poterlo avere tutto per me, e per una notte intera, in un luogo che mi era
finalmente familiare, e non in casa sua o in una stanza d’albergo.
Sapevamo che dovevamo sfruttare il momento, senza parlare,
così da non farci scoprire, e in silenzio, poiché le cose belle sono anche
compagne della silenziosità. Avevamo una lunga notte di fronte a noi, e tutta
per noi, ed eravamo sicuri che l’avremmo sfruttata al meglio.
NOTA DELL’AUTORE
Uhm, i nostri protagonisti ormai sembra che siano simbiotici
xD
La loro sarà una storia d’amore puramente passionale, che si
brucerà molto in fretta, o questa sorta di fragile idillio proseguirà?
Tante solo le domande che possiamo porci, cari amici e care
amiche. La cosa certa è che il racconto è puramente di fantasia, sicuramente
qualche limite ce l’ha. Vi prego quindi di portare pazienza, e di prenderlo e
interpretarlo per quello che è.
Grazie di tutto ^^
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Capitolo 26 *** Capitolo ventisei ***
Capitolo ventisei
CAPITOLO VENTISEI
La mamma mi aveva augurato dei sogni d’oro, mentre mi
congedavo da lei.
Feci tutt’altro che sogni.
In realtà, era come se stessi già sognando, ma a occhi
aperti; George era lì, con me, nel mio letto, ed era mio. Il suo corpo era mio,
la sua pelle, il suo odore, i suoi occhi… la sua voce, che non poteva far
risuonare in quel luogo non mio, che forse stavo profanando, poiché mia madre
non aveva la benché minima idea che avessi fatto intrufolare una persona in
casa sua. Il mio amante, per l’appunto.
Godevo solo con i sensi, sempre stimolati, e non c’era altro
che mi redarguisse da ogni possibile passo falso, siccome vivevamo facendo
l’amore.
Nell’impossibilità di parlare, e quindi non potendo esprimere
al meglio il nostro valido intelletto, potevamo solo crogiolarci nell’unione
dei nostri corpi, che ormai potevano solo fermare un tutt’uno.
Avevo sempre sottovalutato il potere della carne, poiché il
suo richiamo, fin dai tempi di Marco, l’avevo ritenuto infido e infingardo, ed
era stata come una sorta di scusa che non mi permetteva mai di dire no, e
basta, con risolutezza. Invece, in quei momenti ero così travolta dalla
consapevolezza che anche col corpo si poteva parlare ed esprimere emozioni e
desideri che non riuscivo a rendermi conto che interiormente stavo cambiando.
Era stato Piergiorgio a cambiarmi, a rendermi più passionale,
a spingermi sul terreno contaminato del bisogno di preliminari, pratica che a
solo pensarla, con raziocinio, mi faceva diventare rosso fuoco in volto. E non
solo, era stato sempre quell’uomo perfetto a farmi abbattere la paura di
concepire, poiché non ne provavo più, come se fossi stata una vera e propria
incosciente, e con piacere mi concedevo a lui, e cercavo di restare accanto al
suo corpo, col desiderio di non rifiutare mai neppure un briciolo della sua
passione.
Nonostante fosse un uomo ormai piuttosto maturo, il mio
amante non aveva perso affatto la sua virilità, e mi sembrava che a letto fosse
sempre più bravo, preciso e deciso. Più lo volevo, più lui mi accontentava e
saziava il mio desiderio.
A quel punto, poteva spaventarmi la consapevolezza di correre
il rischio di concepire, tra l’altro unendomi a lui in quei modi così attenti e
accorti? Non mi dava più tormento l’idea.
“Non ho più l’età giusta per queste cose. Il momento di apice
della fertilità maschile è tra i venti e i trent’anni, ed io ormai li ho
doppiati da un pochino”, mi sussurrò all’orecchio Piergiorgio, come se avesse
compreso quello che stavo pensando, mentre l’alba stava per tornare ad
interrompere il nostro divertimento amoroso.
“Non importa”, gli sussurrai a mia volta, ed era la verità.
Che il destino mi concedesse pure quello che doveva
concedermi, tanto ormai ci eravamo accoppiati così tante volte, senza alcuna
precauzione, che potevamo anche permetterci di continuare a sfidare apertamente
la sorte.
“Non hai più timore di una possibile gravidanza?”, mi chiese.
Eravamo stanchi del silenzio, avevamo bisogno di dirci
qualcosa, di sentire di nuovo le nostre voci e di rassicurarci a vicenda, con i
nostri soliti dialoghi arzigogolati. Se parlavamo piano, era quasi impossibile
che mia madre potesse avvertire qualcosa.
“Ora so che ho l’uomo giusto con me, nulla mi spaventa”, gli
risposi, con sincerità. Quello che gli avevo detto era verissimo, ero molto
rincuorata dalla sua presenza costante, ed amorevole. Il resto m’importava
sempre di meno.
“Un uomo giusto che però non vuoi presentare a nessuno, e di
cui ti vergogneresti a presentarti in pubblico…”.
Gli rifilai un mezzo schiaffo, non lasciandolo proseguire
oltre.
Odiavo quando mi pizzicava in quel modo; d’altro canto, gli
riconoscevo che aveva ragione. Era ora che diventassi coerente con le mie
parole. Gli promettevo che ero sua, che l’amavo, e tutto quanto, e a parole
sembrava che avessi scovato un perfetto principe azzurro, e non un semplice
uomo, ma non mi azzardavo ad andare fuori dalla stanza in cui condividevamo il
letto e le nostre intimità, per dire al mondo intero che stavo con lui, che
George era il mio amante ideale e perfetto, e che l’amavo da morire, nonostante
ogni differenza che ci separava.
Ero codarda. Non ero coerente con me stessa.
“Non dirlo mai più”, fui pronta a sgridarlo, quella volta,
“io ti amo e amo solo te”.
George, che non se l’era affatto presa per la mia reazione,
mi strinse le mani tra le sue, con forza.
“Ti amo ancora di più quando sei così risoluta, e mi fai
vedere il tuo coraggio. Non devi preoccuparti di nulla, e… come mi hai detto
anche tu, nei giorni scorsi, le cose devono essere spontanee. Se un giorno te
la sentirai, bene così, altrimenti sono disposto ad aspettare fino alla fine dei
miei giorni, e anche oltre”, fu l’articolato discorso che ottenni.
Un discorso che gradii molto, da udire, ma che non mi
rassicurò affatto, ben sapendo che stava a me, a quel punto, fare i conti con
me stesso; il mio George era libero, non aveva alcun vincolo e mi aveva
illustrato a grandi linee il suo passato. Io avevo qualcuno a mio fianco, anche
solo partendo da mia madre, e non potevo continuare a nascondere quel rapporto
che si stava fortificando sempre di più.
“Io spero di non attendere così tanto”, gli sussurrai,
dolcemente, abbracciandolo.
“Io a te concedo ogni cosa, voglio che tu lo sappia. Che ti
amo e mi basti così come sei, tutto il resto non m’interessa”, tornò a
ribadire.
“Lo so”.
Mi accoccolai contro il suo petto, nell’attesa indesiderata
che il nuovo giorno tornasse a guastare quel nostro momento assieme, come ogni
volta.
“Sei una gran donna, Isabella”, mi tornò a dire, tutt’a un
tratto, il mio amante.
“E tu sei grande uomo”, gli risposi, pianissimo, “anzi, tu
non sei solo una grandissima persona, ma anche il mio principe azzurro, che a
mezzanotte è venuto a salvarmi dal mio più profondo dolore interiore. Come in
una favola, sei il principe azzurro che arrivò a mezzanotte”.
Fummo costretti a separarci anche per quel giorno, e mia
madre non sospettò nulla.
In ogni caso, anche se aveva udito qualcosa di sospetto aveva
preferito ignorarlo. Tra noi due correva di nuovo buon sangue, e anche lei non
desiderava che i nostri rapporti tornassero a raffreddarsi.
Inoltre, eravamo ancora accordati per uscire, durante quel
fine settimana che le avrei dedicato, e quindi cercavamo di crogiolarci in
mille promesse, alla ricerca di un minimo di felicità. Per fortuna, la
depressione a seguito del ricovero d’urgenza e dell’intervento improvviso alle
coronarie sembrava essersi un minimo dileguata.
Io e George fummo costretti, a causa dei nostri costanti
impegni, a non rivederci più per giorni, e fui anche obbligata a rifiutare il
suo invito ad uscire assieme, nel weekend, siccome avevo fatto una promessa
seria alla mamma ed avevo intenzione di portarla avanti, anche se mi doleva
molto il cuore.
In una chiamata durata appena dieci minuti, gli riassunsi la
questione e gli dissi dove avevo intenzione di portarla, se le fosse andato
bene, durante quelle ore che le avrei interamente dedicato. Lui ne fu comunque
felice, sinceramente convinto che la mia decisione fosse moralmente giusta e
fondata, quindi, anche se io avrei tanto voluto fare dietrofront, in cuor mio,
restai al mio posto e continuai a perseverare nella mia risolutezza.
Era davvero la scelta più giusta che potevo fare.
Fu così che, ben presto, giunse quel fine settimana, quella
domenica che io e mamma avremmo passato assieme.
Dedicammo la domenica mattina alla cucina; ci divertimmo un
po’ ai fornelli, e rispolverai per bene le ricette dei miei dolci preferiti, e
anche semplici, come la torta di mele o le classiche ciambelline preparate con
lo yogurt.
Non ci dicemmo niente di che, fummo più che altro impegnate a
impastare e a paciugare con le mani, e mi tornò alla mente quand’ero bambina, e
nei giorni festivi durante i quali non andavo a scuola provavamo a fare
altrettanto, sempre con l’incognita dell’altro mio genitore, che ormai avevo
pure dimenticato.
Cercai di non prestar caso ai ricordi meno piacevoli, e di
curare solo quelli più gradevoli, e così la mattinata volò, quasi fosse stato
un giorno di Natale festeggiato a mezza estate.
In seguito, decisi di portarla a fare un giro al centro
commerciale della nostra cittadina, come le avevo promesso e come avevo pensato
fin dall’inizio; d’altronde, quella era stata la scelta più facile a cui avevo
pensato, e che mi avrebbe permesso di rilassarmi un po’, oltre che rilassare
anche lei. Era proprio un’uscita da donne, siccome preparammo un bel portafogli
consistente e partimmo in quinta.
La mia buona Toyota ci avrebbe portato alla meta, nonostante
il caldo asfissiante di metà giornata, in quell’estate torrida che sembrava
spietata e senza pietà sotto tutti i punti di vista.
“Il tuo ragazzo non aveva voglia di stare un po’ con te,
questa domenica?”, mi chiese d’un colpo mia madre, quando meno me l’aspettavo,
ed io, che stavo guidando con la mia solita prudenza, quasi mi lasciai sfuggire
una pedata sul freno, rischiando magari di creare pure un brutto incidente.
Mentre restavo sorpresa, di fronte a tale quesito, riconobbi
che durante quella giornata dedicata solo a noi due non era mai stato sfiorato
l’argomento.
“Non c’è motivo di agitarti così tanto! Sono tua madre, e
siamo entrambe donne. Possiamo parlarne, se vuoi, altrimenti non sei obbligata
a rispondermi”, quasi si tirò indietro, notando il mio sconcerto derivato da
quella domanda saltata fuori quando meno me l’aspettavo.
“No, non c’è alcun problema, guarda”, gli feci notare io,
quando mi fui ripresa, “ti dirò che lui mi aveva proposto qualcosa, ma io ho
rifiutato”.
“Oh. E perché mai l’hai fatto?”.
Le riservai una mezza occhiatina sbilenca.
“Perché volevo passare un po’ di tempo con te”.
“Non ce n’era bisogno. Sei grande, hai la tua vita da
seguire”.
“Ce n’era, invece. Sarò anche cresciuta e non sarò più una
bambina, ma sono una ragazza che vive con sua madre e che le vuole bene”.
Mi scoccò un bacetto a distanza.
“Sei una ragazza speciale, Isa”, mi disse, con dolcezza.
“Non sei l’unica che me lo dice”, mi lasciai sfuggire, col sorriso
sulle labbra.
“Il tuo lui dev’essere molto speciale, a sua volta, per
riservarti tali complimenti”, riconobbe.
“Lo è. È il mio principe azzurro ideale”, aggiunsi, e poi
scoppiammo entrambe a ridere.
“Sei diventata molto romantica, mia cara figliola. Non sei
più stressata come quando stavi con Marco, questa nuova relazione ti sta
facendo molto bene”, disse, poi.
“E’ vero. Anche io mi sento più tranquilla”, riconobbi.
“Ah, se solo Irene lo sapesse…”, sospirò mia madre. Io a quel
punto tornai molto seria. Aveva nominato quella mia amica che non capivo, a
volte, e che era un po’ un terreno minato.
“Cosa dovrebbe sapere, quella lì?”, mi venne spontaneo dire.
“Ma… Isa! Non si parla così di una amica!”, saltò su mia
madre, tornata anche lei serissima.
“Mamma, non sai quel che mi ha fatto passare durante quelle
serate che mi aveva organizzato…”, provai a spiegarle, ma non c’era modo di
farle capire che quella ragazza mi aveva ficcato in una marea di guai e di
dispiaceri.
“L’ha fatto perché ci teneva a te, come amica! E se qualcosa
è andato storto, mica è stato per colpa sua. Sai come sono fatti i ragazzacci,
hanno sempre le mani pronte per essere allungate”.
Scossi il capo, contrariata.
“Sarà, ma non l’ho ancora perdonata del tutto”, ammisi, alla
fine, senza astio, ma con decisione.
Mia madre incassò il verdetto senza fare una piega.
“E’ amica tua, non mia. Vedi tu. Comunque, le avrebbe fatto
piacere sapere chi frequenti, sai, lei ha tanti amici e magari tra i ragazzi
che conosce sa bene chi è la tua anima gemella”.
“Mah, non lo conosce di sicuro”, dissi, freddamente.
“Ah, no? Come fai a dirlo?”, m’interrogò di nuovo, con
prontezza.
“Cavolo, mamma, dovevi fare la giornalista!”, sbottai, un
filino irritata di fronte alla sua sfilza di quesiti e di supposizioni. “Comunque,
a lui gliel’ho già chiesto, e mi ha assicurato che non la conosce”, conclusi
correggendomi e con maggiore educazione. Non volevo tensioni tra noi per una
discussione così banale.
Lei si limitò ad incassare il colpo, senza mostrarsi in alcun
modo ferita.
“Ho capito”, cedette, infine, accondiscendente, “quando ti
andrà, io sarò pronta ad ascoltarti, per qualsiasi cosa. La mia era solo pura
curiosità, e nient’altro”.
Sospirai, perdendo tutta la foga che avevo acquistato negli
ultimi minuti.
“Lo so… ma ora pensiamo solo a svagarci un po’, ok?”.
Le sorrisi, e fui ricambiata. Da lì a qualche minuto stavo
già parcheggiando di fronte al grande centro commerciale, la nostra meta
designata per quel pomeriggio di riposo e di tranquillità.
In realtà, si rivelò tutto un fiasco colossale. Avevo portato
mia madre nell’unico grande centro commerciale del mio paesino, che attirava
schiere di fanatiche dello shopping anche dalle città vicine, e che avrebbe
dovuto ammaliarci fin da subito, ma in pratica mi ritrovai a guardare gli
oggetti in vendita senza provare nulla. Solo vuoto interiore.
La mamma, che ad un primissimo impatto aveva provato a
mostrarsi entusiasta, dopo un solo quarto d’ora già mi arrancava dietro. Ero
esasperata, non sapevo che fare.
Non avevo mai avuto la passione per lo shopping, non era una
cosa per me, ma almeno credevo che qualcosa avesse potuto attirare la nostra
attenzione, in modo piacevole. D’altronde, stavamo affrontando una schiera di
oggetti che sembrava formare un Everest di cose di ogni genere e sorta,
multicolori e di tutti i prezzi, ma nulla faceva al caso mio.
Mi resi conto che non mi serviva nulla, e che niente
conquistava la mia attenzione. L’apatia che stavo provando si era diffusa anche
in mia madre, con evidenza.
Sconsolate, nel cuore di un centro commerciale che non faceva
per noi, pieno zeppo di persone d’ogni età che girovagavano con grandi carrelli
da spingere, come se fossero confusi. Sembrava un mondo non mio.
“Ma’, a te serve qualcosa?”, chiesi alla mia compagna
d’avventure di quel giorno, per rompere il ghiaccio che sembrava fosse sceso
tra noi.
“No, non mi sembra…”, mi rispose, scrollando il capo.
“Dai, qualcosa che ti interessi ci sarà”.
“No, ho già tutto. Pensavo che qualcosa potesse almeno
attirare la mia attenzione, ma questo è un casino incredibile! E’ pieno di
gente che ti spintona, chiasso e baccano…”, bofonchiò, delusa. Io lo ero
assieme a lei.
“Sai che al piano superiore hanno aperto dei nuovi negozi?”,
ritentai, giocandomi la mia ultima carta. Se questa nuova e ultima prospettiva
non l’avesse soddisfatta, ce ne saremmo tornate a casa.
Lei scosse il capo, di nuovo, con un cenno di deciso diniego.
“Andiamo a dare un’occhiata, allora, cosa ne dici? Lì in
vendita ci sono delle cose un po’ più selezionate, e non solo cianfrusaglie e
cineserie”, provai a stuzzicarla.
“Sì, sì, certo, va bene”, acconsentì.
Affrontammo le scale mobili, e ci ritrovammo di fronte ad una
sorta di grande piazza interna… erano stati bravissimi, gli ingegneri del
centro commerciale; sembra di essere in una grande città, in una qualche
galleria prestigiosa. Un grande viale interno, coperto e rinfrescato dall’aria
condizionata si estendeva un po’ da tutti i lati, con una miriade di negozi e
di vetrine tutti quanti da osservare e da passare in rassegna.
“Bello, vero?”, chiesi a mia madre, notando che anche lei si
stava guardando attorno, piacevolmente stupita. Almeno, quell’aspetto caotico
del piano inferiore era scomparso dalla nostra vista.
Fu quando ci avviammo verso il primo negozio che appariva
distintamente alla nostra sinistra che, con stupore, notai una figura che mi
sembrava proprio di conoscere.
Seduto su una panchina, al centro dell’immenso
corridoio-viale, c’era il mio Piergiorgio seduto, con le mani in grembo. Il suo
viso vigile era stato anch’esso direzionato verso di noi, con prontezza, come
se ci stesse aspettando.
Spalancai la bocca, sorpresa da quella visione inaspettata, e
per qualche istante temetti che avrei perso il controllo e che sarei finita tra
le sue braccia, andando di corsa da lui. Ma non potevo, qualcosa mi frenava, e
non mi sembrava ancora vero che lui fosse lì. Di certo, c’era venuto perché
sapeva che ci saremmo andate, glielo avevo detto in precedenza, come ben
ricordavo.
Se fino ad un solo istante prima provavo una gran noia, ecco
che tutto si stava finalmente movimentando. Non sapevo come reagire, in realtà;
certo, sul momento ero stata colta dalla gran felicità di essermelo ritrovato lì,
ma poi aveva cominciato a serpeggiare nel mio cuore anche una sorta
d’irritazione, molto subdola, poiché sapeva che quello era il giorno che avrei
dedicato a mia madre, e lui se n’era approfittato in quel modo. Forse, si
meritava anche un piccolo schiaffo di rimprovero.
D’altro canto, ritenevo ingiusto che fosse venuto a
ficcanasare anche durante quella domenica pomeriggio, siccome a lui gliene
stavo già dedicando parecchio del mio tempo libero, e gliene avrei dedicato
altro già nei giorni successivi.
In dubbio su quale fosse il mio vero sentimento dominante, fu
mia madre a sciogliere il nodo della vicenda, che senza aver notato nulla sul
mio viso, ormai con lo sguardo vagante su ciò che ci circondava, incrociò a sua
volta lo sguardo di Piergiorgio, e, riconoscendolo, gli si avvicinò.
“Dottore! Che piacere rivederla!”, affermò, infatti, con
gradevole stupore.
Lasciai che i due si avvicinassero, mentre restavo alle
spalle della mamma, in modo che non potesse vedere il mio volto, per non
cogliere nulla del mio animo in tumulto.
“Piacere tutto mio, mia cara signora Castaldini! Oh, la trovo
in forma smagliante”, ribatté George, con la sua solita galanteria,
riconoscendola, ovviamente.
Mia madre si sedette di fianco a lui, sulla stessa panchina
di legno.
“Si fa quel che si può”, poi la mamma si volse verso di me,
che ero ancora in piedi, “Isa, hai visto chi c’è? Lo riconosci, spero!”.
Sorrisi, e per la prima volta in quel giorno incrociai da
vicino lo sguardo del mio amante, e scorsi nei suoi occhi un guizzo divertito.
Mi passò ogni turbamento, ormai ero felice che fosse lì, anche se restavo tesa,
almeno un minimo, siccome sapevo che stavamo portando avanti un gioco
pericoloso, che avrebbe potuto scoprirci troppo.
“Sì, sì, lo riconosco bene”, le assicurai, e allora mi
riprese subito, con prontezza.
“E allora che cosa aspetti?! Avanti, salutalo! Non ti ho insegnato
niente, di cortesia?”.
Dissi un salve imbarazzato, di fronte alla sgridata neppure
troppo pacata della mamma, e cercai di non sbilanciarmi troppo. Dovevo tenere a
mente che per me George doveva essere un perfetto sconosciuto, che mi aveva
allungato un passaggio a casa con la sua auto e che aveva seguito il caso
clinico di mia madre. Basta.
Questo era quello che era lui per me, agli occhi del mondo e
dell’opinione pubblica.
“Salve, Isabella. Signora, non si scomponga, per carità! Tra
me e sua figlia non c’è bisogno di troppi salamelecchi, ci capiamo con uno
sguardo. Le assicuro che è la ragazza più educata di questo mondo”, disse
George, rischiando un po’ con alcune frasi ambigue.
“Oh, lei è sempre gentilissimo”, dissi a mia volta, e notai
che l’uomo aveva perso quell’aria spensierata che aveva fino a qualche minuto
prima, forse a causa della mia freddezza, giacché lo stavo davvero trattando
come uno sconosciuto. Sembrava che ci fossimo solo scambiati un paio di parole
in tutta la nostra vita.
Mi venne spontaneo chiedermi se si aspettasse un qualche
passo avanti da me, del calore in più… un po’ come quando io ero andata a casa
sua la prima volta, ed avevo cercato di forzare la situazione. Era qualcosa di
naturale, ma non andava bene, come scelta.
“Cosa ci fa qui? Credevo che fosse un posto più adeguato alle
donne…”, chiese mia madre, con la sua solita e pungente curiosità.
George rimase per un attimo in silenzio, e mi divertì il
fatto che non avesse neppure provato a pensare a una scusa per motivare la sua
presenza in un centro commerciale. Ovvio, poteva anche non averla essendo un
luogo pubblico, però se aveva sempre pensato di venire fin lì per rivedermi, ed
ero certa che fosse così, non poteva dirlo apertamente.
“Ehm… sono in cerca di un paio di scarpe nuove”, balbettò, alla
fine, seppur in un modo che non dava nell’occhio.
“Scarpe, dice? Ah, ci dev’essere un qualche negozio di scarpe
da uomo, qui dentro”.
“Beh, in realtà faccio fatica a trovarlo, per questo mi sono
seduto qui. Per… ehm… raccogliere le idee”.
Tornai a sorridere, ed essendo in piedi, potevo farlo senza
che la mia genitrice se ne accorgesse, concentrata com’era sulle risposte del
medico. Anche perché George era una persona affascinante, e quando parlava la
sua voce attirava molto l’attenzione dell’interlocutore, quindi non mi stupii
troppo del fatto che la mamma lo stesse ascoltando così attentamente. Poi, lei
era fatta così, e quando qualcosa la incuriosiva diventava morbosa, e pure
fastidiosa, con le sue domande.
“Ah, guardi, la capisco! Al piano di sotto è un casino
inguardabile, non si capisce niente. Qui è un po’ più ordinato, ma resta
difficile orientarsi, alla ricerca di ciò che serve. Tu che dici, Isa, diamo
una mano al dottore?”, mi chiese poi la mamma, a tradimento.
“Oh, sì, certo. Con grande piacere!”. Ero felice che mia
madre fosse tornata vitale come un tempo.
“No, dai, immagino che voi dobbiate fare il vostro giro, e
comprarvi qualcosa… non voglio essere un disturbo”, si schermò George, e capii
che voleva lasciarci andare. Era venuto fin lì solo per aspettarmi, per darmi
un’occhiata, e non per comprare qualcosa.
A quel punto, era potenzialmente pronto ad andarsene e a
lasciarci di nuovo sole, e forse aveva capito che aveva azzardato un po’
troppo.
“Macché, noi siamo solo venute per fare una passeggiata, ma
non avendo nulla da comprare ci siamo solo annoiate, fino ad adesso! Se lei ha
bisogno di trovare qualcosa, saremo felici di aiutarla, poi anche a
consigliarla nelle sue scelte, se vorrà. Siamo donne, sa che abbiamo occhio a
riguardo”.
Mia madre stava diventando una sorta di mia complice
inconsapevole. Se Piergiorgio avesse accettato, e scelto di portare avanti
quella farsa, avrei passato più tempo in compagnia delle due persone che mi
stavano maggiormente a cuore in quel momento della mia vita.
“Oh, in tal caso accetto molto volentieri”, asserì George,
con convinzione.
Gli sorrisi, e i nostri sguardi tornarono ad incrociarsi.
Sapeva che aveva fatto la mossa giusta, gli avevo riservato un’occhiata felice
e serena.
Ci ritrovammo così a gironzolare, noi tre, di fronte alle
varie vetrine; mia madre si divertiva a portare avanti uno dei suo classici e
banali interrogatori, in quel momento tutti inerenti ai gusti di Piergiorgio a
riguardo di vestiti e calzature, ed io me ne restavo in silenzio, a guardarli
di tanto in tanto. Sembrava che andassero molto d’accordo, e la mamma l’aveva
di sicuro in simpatia.
Non si era sviluppata fin da subito quella tensione che si
era generata tra lei e Marco, e questo era positivo, siccome probabilmente
neppure immaginava che tra noi due c’era qualcosa, qualcosa di grande e
coinvolgente.
“Mamma, non vedi come si veste? Il dottore è un signore distinto,
il suo look è quello”, le dissi, ad un certo punto, interrompendola quando
cominciò ad essere un po’ troppo assillante. Ebbi poi il timore di essere stata
un po’ brusca, d’altronde la mia interruzione era stata tempestiva e veemente,
siccome avrei dovuto essere felice del fatto che si stesse sfogando così tanto,
riprendendo il suo comportamento abituale, quello che la caratterizzava prima
dell’ultimo ricovero d’urgenza.
“Scusa, Isa, stavo solo chiacchierando, non volevo far del
male a nessuno”, mi rispose, infatti, mortificata.
Fu George a intervenire con altrettanta tempestività e a
rimettere tutto in gioco.
“No, Isabella, tua madre non mi stava mica infastidendo,
anzi, mi fa piacere parlare di vestiti e scarpe”, disse, infatti, anche se dal
suo tono potei percepire che non era proprio così.
Gli sorrisi di nuovo, con gratitudine, poiché mia madre gli
credette e riprese a parlare, senza prestare più caso a me o a quello che avevo
detto poco prima, ormai rassicurata dall’interlocutore. Mi stava bene anche
così, in fondo.
Ci bloccammo, poi, all’improvviso di fronte ad una vetrina
che ci apparve davanti in tutta la sua magnificenza, con numerosi modelli di
scarpe in esposizione, di quelle che avrebbero potuto star bene al nostro
dottore.
“Ge…”.
Stavo per chiamarlo George, con confidenza, davanti a mia
madre, un po’ colta alla sprovvista, e quindi mi morsi la lingua.
“Guardi”, mi corressi, infatti, “quelle fanno sicuramente al
caso suo”.
“Oh, bene, vado subito a provarne un paio, che mi ha colpito”,
affermò, di nuovo sicuro, e facendomi l’occhiolino, si avviò verso l’ingresso
del negozio.
“Che fate, signorine? Non mi seguite? E pensare che ormai contavo
su un vostro consiglio”, ci disse, rivolgendosi a noi, che eravamo rimaste
ferme davanti alla vetrina, senza inizialmente seguirlo. Gli trotterellammo
subito dietro.
Una volta all’interno del negozio, scelse un paio di scarpe e
ce lo mostrò.
“Che ne dite?”.
“Possono andar bene, per lei”, affermò mia madre.
“Basta che non siano mocassini. Quelli fanno proprio schifo”,
sussurrai, esprimendo a mia volta il mio parere, e strappandogli una risata.
“Vada per queste, allora”, sancì, e se le fece prontamente
inscatolare e preparare dal commesso, estraendo dal portafogli anche il denaro
necessario per pagarle.
“Ma che fa?!”, sbottò mia madre. “Non le prova neanche?”.
George la tranquillizzò con l’ennesimo sorriso bonario.
“Non si preoccupi. Sono della mia taglia, e mi vanno
benissimo di sicuro”.
E così dicendo, pagò in contanti e prese la sportina
contenente le sue nuove scarpe. Sapevo perfettamente che le aveva comprate solo
per farci contente ed alimentare il suo alibi iniziale, e mi sentii di nuovo
turbata.
Quando uscimmo dal negozio, mia madre ci superò per un
istante, ed io gli afferrai una mano, con un contatto voluto e ricercato.
“E’ tutto a posto, amore mio”, mi sussurrò impercettibilmente,
avvicinandosi per una frazione di secondo al mio orecchio sinistro, poi tornò
subito ad allontanarsi come se niente fosse.
Interrompemmo il nostro brevissimo contatto fisico.
“Beh, penso sia giunto il momento di salutarci”, affermò il
dottore, quando non avemmo più nulla da dirci. Ormai, era quasi sera ed avevamo
già trascorso il pomeriggio.
“Oh, mi ha fatto davvero moltissimo piacere rincontrarla,
dottore! Sul serio, lei è una persona ammirevole e amabile”, disse mia madre,
salutandolo con una cercata stretta di mano, che non arrivò.
“Signora, non mi liquidi così in fretta! Io sono ancora in
debito con voi…”.
“In debito?”.
“Sicuro. Avete perso un pomeriggio per aiutarmi nella mia
ricerca, e non sarebbe giusto che io non ricambiassi in qualche modo”.
“Per favore, siamo già a posto così, a noi ha fatto piacere”,
intervenni io, allora, andando a disturbare la sua galanteria. Sapevo che aveva
già speso abbastanza nelle scarpe, e solo per stare vicino a me, e non volevo
assolutamente che spendesse altri soldi per me.
“Invece, se mi è permesso, insisto”, tornò a dire Piergiorgio,
sorridendo a entrambe, “lasciate che vi rivolga almeno un pensiero”.
Si volse poi all’indietro, e si mosse con rapidità verso un
negozio che faceva angolo… il negozio di un fiorista.
“Mamma, perché non gli hai detto subito di no?”, mormorai,
imbarazzata. Non sapevo cosa avrebbe combinato il mio amante, e soprattutto non
volevo che ci rimettesse altro a causa mia.
“Non te la prendere mica con me! Se è un signore gentilissimo,
non è colpa mia! Faccia lui”, mi rimproverò mia madre.
Piergiorgio tornò poi verso di noi, poco dopo, con due rose
recise tra le mani. Senza che potessimo dire altro, ne porse una rossa a mia
madre, e a me una identica a quelle che mi aveva mandato nelle settimane prima,
a casa e a sorpresa.
Capii che si era sbilanciato un po’ troppo, siccome mia madre
avrebbe potuto riconoscerla benissimo e provare a fare due più due, ma mi persi
nella bellezza di quel fiore fresco, e non riuscii ad esprimermi, se non con un
sentito grazie. Anche mia madre ringraziò tale gentilezza.
“Oh, non ringraziatemi, è il minimo che potessi fare”,
rispose lui, cordialissimo.
“Trattate bene vostra figlia, lei è un bel fiore che non va
reciso, ma colto alla luce della luna da un principe azzurro, che,
naturalmente, deve arrivare a mezzanotte”, aggiunse, poi, ed io divenni tutta
rossa in volto.
Aveva detto quelle parole che non mi sarei mai aspettato di
udire dalle sue labbra, siccome io l’avevo chiamato in quel modo alcune volte,
mentre condividevamo il letto, ma senza aspettarmi che le avesse fatte sue, per
poi riportarle in una situazione tanto delicata.
Mia madre per fortuna non capì, e confuse tutto quanto con la
solita e spropositata gentilezza galante di quel brav’uomo che ci stava di
fronte.
“Lo faccio sempre, non abbia timori”, lo rassicurò, infatti.
Ringraziammo ancora, poi lo lasciammo andare via, ed io lo
guardai, sognante, mentre la folla lo inghiottiva. Si volse una sola volta
indietro, e potei vedere solo amore nei suoi occhi… noi due prendemmo il
corridoio opposto, e mentre la mia genitrice non faceva altro che elogiare
Piergiorgio, io pensavo solo a lui, e a quanto contava per me.
Mi rendevo sempre più conto che mi aveva conquistato, e che
non riuscivo più ad immaginare un istante della mia vita senza di lui, e gli
ero grata perché in fondo aveva salvato quel nostro pomeriggio, che avrebbe
rischiato di degenerare in noia. Lo amavo, ero persa di lui.
Giungemmo a casa che mia madre non aveva ancora finito di
parlare della grande galanteria del dottore. Io le ripetevo continuamente che
me n’ero accorta, ma lei non si fermava più.
Finalmente, si era sbloccata, ed era uscita dal suo mutismo
depresso, quindi quel pomeriggio era davvero servito qualcosa, e ne ero molto
soddisfatta, ripromettendomi che dovevo ringraziare anche George, per quel
positivo risultato finale.
Non aveva sospettato nulla, su noi due.
Comunque, non appena tornammo a casa rimasi colpita da un
qualcosa di bianco che fuoriusciva dalla buchetta della posta, e fu come se
fosse stato il caso a farmelo notare. Si doveva trattare, indubbiamente, di una
busta infilata male dal postino, sempre di fretta, e che la mamma non aveva
intercettato, siccome era domenica ed era impossibile che la posta fosse stata
recapitata nel fine settimana.
“Ma’, alla buchetta della posta potevi anche averle dato
un’occhiata!”, sbuffai, mentre andavo a recuperare la lettera.
La mamma non mi rispose, intenta a far scattare la serratura
della porta d’ingresso e a stringere tra le mani i nostri due fiori, ed io mi
ritrovai tra le mani una lettera che, mi sentivo, avrebbe influenzato il resto
della mia vita.
Infatti, il mittente era un… non capii, sul momento,
nonostante la lettera fosse espressamente indirizzata a me. Entrai in
confusione, ed estrassi la lettera contenuta nella busta, per poi trovarmi di
fronte ad un testo che mi lasciò per un po’ senza fiato, durante la lettura.
NOTA DELL’AUTORE
Un capitolo… vivace xD
Grazie per l’attenzione, carissime amiche ^^
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Capitolo 27 *** Capitolo ventisette ***
Capitolo ventisette
CAPITOLO VENTISETTE
Mia madre, notando quanto ero assorta nella lettura, finì di
maneggiare le chiavi e fece due passi indietro, curiosa, cercando di sbirciare
il contenuto della lettera.
“Cazzo, mamma”, riuscii solo a dire, non appena ebbi concluso
la prima e frettolosa lettura del testo.
Agitai in fretta la lettera, facendole fare il classico
rumore della carta quando viene stropicciata malamente.
“Cosa…?”, mi domandò, molto perplessa.
Ne approfittai per fissare il suo viso serio, ad un palmo dal
mio.
“Tu sapevi che tuo marito è morto?”.
“Mio… marito?”.
“Dai, su! Il tuo ex marito…”, allora specificai, esasperata.
“Ma cosa stai dicendo? Sei impazzita?”, scrollò il capo, a
sua volta spazientita.
Le allungai la lettera firmata da un notaio di Milano, dove
ci informava che a seguito del decesso di Massimo Grimaldi, e cioè mio padre,
ero invitata alla lettura del testamento, che sarebbe stata effettuata da lì a
due giorni. Ero sbigottita e su tutte le furie.
Sbigottita perché una cosa del genere non me la sarei mai
aspettata, così tra capo e collo, ed inoltre mio padre risultava deceduto ormai
da mesi, e nessuno si era mai preso la briga di informarci. Questo mi stava
mandando fuori di testa. Non che me ne importasse molto, non avevo neppure dei
particolari ricordi di lui, però un minimo di rispetto dovevo meritarlo, almeno
io, che ero sua figlia. La sua unica figlia, se non ne aveva avute altre con la
signora con cui conviveva… o che l’avesse poi sposata? Non ne avevo idea.
Poi, quella convocazione così frettolosa, che non mi lasciava
neppure un po’ di margine per prepararmi, mi fece salire la voglia di andare
direttamente da chi di dovere e fare una bella denuncia.
Nel frattempo, mentre la mia testa era sopraffatta da una
miriade di contrastanti pensieri, anche opposti tra loro, mia madre concluse la
lettura e mi porse distrattamente la lettera.
“Cavolo”, riuscì ad affermare, anche lei senza parole.
“Questi sono pazzi. Mio padre muore, lo seppelliscono, e
nessuno mi dice niente. Magari era anche malato da tempo. Poi arriva questa
letterina così, a caso, dove mi invitano a recarmi alla lettura di un
testamento…”.
“Nel quale, a quanto pare, sei citata, come ha affermato
chiaramente prima di spirare in pace”, concluse mia madre, togliendomi le
parole di bocca.
“Mamma, mi odiava! Anzi, ci odiava… ci detestava. Io a questa
stronzata non partecipo! È che non mi metto neanche a prendermi tre giorni di
permesso o di ferie per andare ad ascoltare questo mucchio di merda scritta.
Sai quante cazzate ci avrà scritto? Aveva solo dei debiti”.
“Non parlare così di tuo padre!”, urlò all’improvviso mia
madre.
“Perché, non è vero che era un grande stronzo? Che amava
andare a zoccole? Quando stava via con il camion, pensi che non le…”.
Lo schiaffo mi colpì in pieno viso, alla sprovvista, e mentre
avvampavo, riconoscevo che la rabbia provata sul momento mi aveva spinto a
passare seriamente ogni limite.
“Scusami, ma’, però chiedo perdono solo a te, e non a lui. Se
abbiamo sofferto, è stato solo a causa sua! E se è morto, amen…”, dissi, quasi
singhiozzando. Mi sentivo esausta e esaurita.
“Perdonami, non volevo farti male. Quell’uomo era davvero un gran
pezzo di merda”, disse a sua volta, cominciando a piangere e avvolgendomi in un
abbraccio tenero e materno.
“Io non credo neppure che sia morto. Questa è una stronzata
che ha fatto scrivere da qualche burattino di un suo amico, e magari è tutto
falso, o una trappola per attirarmi là, in quella città lontana, e trarmi in
chissà quale inganno o tranello”, confessai i miei sospetti.
Davvero, non riuscivo a crederci a quella notizia.
“Aveva sessantaquattro anni. Non era mica vecchio…”.
Sessantaquattro anni erano davvero pochi per spirare,
riconobbi, a meno che non avesse avuto dei problemi davvero molto gravi, oppure
un infarto improvviso, o un incidente sul lavoro, sempre che avesse avuto un
impiego… in ogni caso, sarebbe stata una tragedia se un uomo ancora così
giovane fosse per davvero venuto a mancare.
Non sapevo se era la verità o meno, comunque la faccenda
aveva un pessimo gusto.
“Avanti, entriamo”, suggerii alla mamma, in modo che
potessimo raccogliere le idee tra le mura domestiche, senza rischiare di dare
spettacolo all’aperto. I panni sporchi, secondo me, andavano sempre lavati in
casa.
Andammo subito in cucina, e dopo aver tirato su le
tapparelle, ci mettemmo sedute l’una di fronte all’altra, con il tavolo a
dividerci.
“Non può essere uno scherzo”, tornò a dire mia madre, “sarebbe
una cosa gravissima, nessuno si macchierebbe di tale crimine. Perché, guarda,
questa è proprio una firma vera. Nessuna persona si sarebbe esposta così tanto,
c’è pure un indirizzo…”.
“Beh, guarda, mandiamo affanculo ogni dubbio, allora”,
affermai io, ormai decisa a prendere l’iniziativa, “chiamiamo il numero
indicato nel timbro del notaio, e sentiamo quello che ci racconta”.
“E’ domenica, non è mica lì apposta per te”, disse mia madre,
scettica.
“Provare non costa nulla”.
Estrassi il mio cellulare dalla borsa, e digitai in fretta e
furia il numero. Il telefono squillava liberamente, ma, come c’era da
aspettarsi, non rispose nessuno, ed entrò in scena la classica segreteria
telefonica.
Non attesi, e riattaccai, avvilita.
“Non risponde nessuno, c’è la segreteria telefonica inserita”,
ammisi la mia sconfitta.
“Te l’avevo detto”, sancì mia madre, per nulla sorpresa dal
risultato del mio tentativo.
“Ma non mi lascio mica scoraggiare. Domani è lunedì, e la
lettura del testamento c’è martedì, se non sbaglio… quindi, domattina ho tutto
il tempo per telefonare a questo signore e chiedergli informazioni di persona,
sempre se esiste”, conclusi, per nulla demotivata dal primo risultato fallito.
Mia madre scrollò le spalle.
“Non cambia nulla. Per me è vero”.
“Se anche fosse tutto vero, non possono farmi così tanta
fretta”.
“Non sono affari del notaio se tu sei stata avvisata o meno
del decesso di tuo padre”.
“Anche se non lo fossero, non m’importa, ho anche io i miei diritti
e intendo farli valere”, affermai, risoluta, ma ormai certa che fosse inutile
continuare a parlare di quella faccenda. Una scoperta inattesa, di quelle che
non mi sarei mai attesa di dover affrontare durante quella che doveva essere
una tranquillissima domenica sera.
E a quanto pareva non sarebbe bastata quella mazzata, perché
il campanello trillò forte, facendomi sobbalzare.
“Aspettavi visite?”, chiesi a mia madre, perplessa, mentre mi
avviavo con poca voglia verso la porta d’ingresso.
“Oh, io no”, mi rispose, e per una manciata di secondi il mio
cuore batté forte nel petto, siccome temevo che George fosse venuto per chissà
quale motivo anche a casa nostra, per completare al meglio quella giornata. Se
così fosse stato, avrebbe rischiato davvero troppo per i miei gusti, e sarebbe
anche risultato scortese.
Tuttavia, quando aprii la porta e mi ritrovai di fronte al
faccino spensierato di Irene, tirai un mezzo sospiro di sollievo, che fui
costretta a rimangiarmi sul più bello, quando la mia razionalità mi mostrò che forse
quella mia amica era ben peggio del mio principe azzurro.
“Ciao! Ciao, Isa, come stai? Tutto bene? Tutto a posto?”, mi
travolse con la sua gioviale irruenza, e non avevo ancora aperto del tutto la
porta.
Sospirai, cercando di nascondere un brivido di nervosismo.
Non sapevo perché, ma quella visita che solo due mesi prima sarebbe stata una
sorpresa favolosa e ben gradita, in quel momento mi dava sui nervi.
Forse non riuscivo più a fidarmi della mia migliore amica
dopo le ultime disavventure che mi aveva fatto vivere.
“Insomma. Tu?”, mi limitai a dire, seria.
“Oh, come mai quella faccia così triste? Dio mio, non posso
vederti così giù di morale”.
Mi abbracciò, in un attimo, e mi veniva solo da pensare che
se fosse tornata a casa sua, allora sì che sarei stata più sollevata. Come
facevo ad essere felice in quegli istanti così delicati?
“Non esci più, non ti vedo più in giro. Non è che sei
depressa? Eh? Non ti fa bene stare sempre in casa… e poi, con quel lavoro. Ah,
tu pensi troppo al lavoro, devi lasciarlo perdere”, mi sussurrò alle orecchie,
prima di sciogliere l’abbraccio amichevole che io avevo ricambiato solo
blandamente.
Mi tornò a guardare con quella faccia rotondetta, e
nonostante mi sorridesse, mi parve di avere di fronte a me un ghigno
scimmiesco. Le avrei smollato tranquillamente uno schiaffo, così, senza
pensarci troppo.
“Vieni pure in casa, entra”, optai per un ultimo pertugio di
cortesia stanca e fredda, evitando accuratamente di provare a ribattere o a
rispondere a quello che mi aveva detto da quando era piombata lì.
Non si fece ripetere l’invito, e come una tranquilla ragazza
di casa, andò dritto in cucina, già scordandosi che esistevo, giacché le avevo
fatto poca festa.
“Ma ciao!”, salutò mia madre, ed andò da lei. Io ribattei la
porta d’ingresso, e, sospirando, mi appoggiai per un attimo con le spalle
contro il muro, sospirando. Credevo che non ce l’avrei fatta a sopportare
dapprima quella lettera, così infausta, così folle, e poi quella pazzerella
estrosa che era piombata dal nulla.
Davvero, avrei tanto voluto che quella ragazza fosse soltanto
frutto della mia immaginazione del momento, ed invece era lì, a rompere le
scatole.
Quanto ero cattiva! Mi stupii presto di me stessa, e della
mia cattiveria gratuita, d’altronde non era colpa di Irene se era venuta a
trovarci nel momento sbagliato. Era un’estranea ai fatti, non aveva colpe a
riguardo, e non dovevo scaricare in nessun modo il mio nervosismo recente e
appena accumulato su di lei.
Mi sforzai quindi di indossare un sorriso di circostanza,
mettendomelo sulle labbra quasi tendendomele con le dita delle mani, e andai in
cucina, dove mia madre e Irene stavano felicemente interagendo.
“Oh, vedo che la mamma sta meglio, eh! Che bello vedere che
ti sei ripresa del tutto, ero sempre preoccupata per te”, disse infatti la mia
amica, non appena mi vide entrare nella stanza, dapprima rivolgendosi a me, e
poi alla mia genitrice.
“Non dovevi. Devi ringraziare mia figlia, comunque, perché è
stato grazie alle sue cure se mi sono risollevata un pochino”, disse mia madre,
così, molto spontaneamente. Il mio sorriso si tramutò improvvisamente da
forzato a sincero.
“Ho fatto solo quello che qualunque figlia avrebbe fatto”,
minimizzai, comunque convinta che avessi fatto davvero molto poco. Anzi, ne ero
certa.
“Siete uscite assieme, mi pare di capire”, cinguettò Irene,
usando il suo intuito.
“Sì, siamo appena rientrate”, dissi.
“Oh, che bello! Che famiglia unita”, affermò con gioia Irene,
“e poi ti fa bene uscire un po’, Isa, dato che non esci più”.
“Non esce più?!”, saltò su mia madre.
Ecco, ero nei pasticci.
Irene aguzzò le orecchie e tornò a guardarla.
“Perché, esce? Io non la vedo più in giro”, chiese.
“Certo che esce, in continuazione mi verrebbe da dire”, disse
mia madre, sincera, ed io avrei tanto voluto tapparle la bocca. Stava per
scatenare la pestifera curiosità di quella ragazza pettegola, e non volevo che
si aizzasse in quel modo.
Peccato che il latte fosse ormai versato.
“Davvero? Senti un po’”, affermò, infatti, tornando a
guardarmi.
Cercai di intervenire, ma sembrava che non potessi farcela,
siccome le due donne che mi stavano a fianco erano spietate quando erano
assieme, e parlavano decisamente troppo.
“Hai un ragazzo, forse?”, mi chiese, subito dopo.
Stavo per negare con la testa, ma mia madre fu più
tempestiva.
“Certo che ce l’ha! E la ricopre di tante dolcezze”.
Ecco, a quel punto ero ancor più nei pasticci. Non avevo più
nulla da dire, avevo la bocca secca, non riuscivo ad articolare nulla.
Fu come se i secondi che intervallavano una frase dall’altra
fossero diventati anni, all’improvviso, senza lasciarmi alcuna via di scampo. E
mi ritrovai a pensare, nella mia confusione mentale, se per caso amare fosse un
errore.
Io amavo George, e non dovevo mica rendere conto a nessuno di
quella scelta mia e del mio cuore, e che andassero a quel paese tutti gli altri
e tutto il resto. Il mio nervosismo verso Irene tornò ad aumentare quando lei
si dimostrò ancora più interessata a quell’argomento che, come doveva apparire
chiaramente alle mie interlocutrici, mi disturbava affrontare.
“Cavolo, Isa… che culo! Non sono tante le ragazze che possono
vantarsi di avere un partner amorevole”, tornò infatti a dire la mia amica.
“Hai ragione”, mugugnai, come unica forma di risposta.
Le parole mi uscivano sibilate, tra i denti, ed era lampante
che mi stavo turbando sempre di più, ma lei non era mica una tipa che
demordeva, oh, no, quindi tergiversava, preparava la nuova domanda trabocchetto
e la spiattellava come se nulla fosse, così, tanto per fare.
La verità era che il suo cuore di serpe pettegola voleva
estrapolarmi dei segreti, cose che magari avrebbe poi spifferato in giro… no,
stavo rapidamente cominciando a rivalutare ciò che provavo e pensavo per quella
ragazza.
“Lo conosco, vero? Frequenta qualche locale pubblico?”.
“Sì…”, mi affrettai a mentire.
“Io non ti ho mai visto, però, in giro! Strano, perché tua
madre ha detto che esci spesso, no?”, tornò a pungolare.
“Sarà stata la sfortuna a non averci fatto incontrare”,
risposi di nuovo in maniera molto frettolosa.
“Oh, sei davvero così vaga…! Devi essere molto innamorata”,
sancì la mia amica.
Mugugnai un altro nervoso sì.
“Me lo faresti conoscere…”.
Non finì di rendere esplicito l’ennesimo quesito che io
esplosi, senza riuscire più a trattenermi.
“Ma basta, i cazzi tuoi non te li fai mai?”, le dissi, in un
modo che mi venne fuori proprio cattivo, senza mezzi termini. Avrei voluto
esprimere il concetto in modo più blando, magari anche un filino scherzoso,
invece ci avevo dato giù in maniera pesante. Anche la mia voce aveva tradito
tutto il nervosismo che stavo covando dentro di me, e quindi alla fine ero
stata solamente sincera.
Mia madre trasalì di fronte alla mia schiettezza, e rientrò
all’improvviso in scena, dopo qualche minuto trascorso più come sfondo che come
partecipante a quella che sembrava un’intervista. Tra l’altro, anche lei
qualche ora prima aveva tentato di farmi abboccare all’amo, ma io le avevo
offerto solo un asso di picche.
Se già il suo primo tentativo aveva messo seriamente alla
prova la mia interiorità, quel secondo me l’aveva fatta proprio rivoltare
dentro al petto.
“Isa… non si parla così ad un’amica”, diede infatti il suo
contributo, ma la zittii.
“Ma’, non ho più cinque anni, se una persona la voglio
mandare affanculo, gliela mando senza problemi”, mi limitai a dire, con
profonda nonchalance, consapevole che ormai ero compromessa.
Irene fremeva di fronte a me, aveva perso quel suo sorrisino
spavaldo che sfoggiava spesso e volentieri, e non riuscivo a capire quello che
stava pensando, e soprattutto se stesse riflettendo su come saltarmi in faccia
e strapparmi i capelli per punizione, oppure se stesse solo meditando sul vero
significato delle mie parole.
Aveva capito che non ero più nelle sue mani, che non mi
fidavo più di lei, e quello era qualcosa che doveva metabolizzare.
“Ire”, mediò la mamma, con grande discrezione e con un tono
di voce molto gentile, accomodante e controllato, “perdona mia figlia per
quello che ti ha appena detto”.
Notò che stavo per ribattere qualcosa, i miei occhi mandavano
fuoco e lampi, siccome li utilizzai per lanciarle una delle mie classiche
occhiatacce terribili, ma fu la sua volta di zittirmi con uno sguardo ancora
peggiore, e tutto rivolto a me.
Ottenne il risultato sperato, e la lasciai parlare.
“Sai, poco fa abbiamo trovato questa lettera nella cassetta
della posta”, proseguì, e avvicinò alla ragazza quello scritto che avevo finito
di leggere poco prima, e che mi aveva fatto tanto arrabbiare.
“Cos’è…”, sussurrò Ire.
“Avanti, leggila se vuoi”, la invitò mia madre.
“Non vorrei essere indiscreta”, provò a dire, e allora dentro
di me sorse una vocina maligna che mi sussurrava altre malignità. D’altronde,
per quella giovane l’indiscrezione era di casa, non aveva motivo per farsi
tanti scrupoli, portati avanti solo per fare la figura dell’educata di fronte
ad una donna più adulta.
“Non preoccuparti. Leggi, e poi dicci se anche tu non saresti
incazzata e arrabbiata come Isa”, tornò a dire la mia genitrice, e mentre Irene
afferrava la lettera e leggeva, mi volsi verso il lavabo e mi appoggiai contro
di esso.
Avvertivo la pressione del mio sedere contro quell’acciaio
fresco e umido, ma non mi spostai, ancora confusa, limitandomi a portare le
mani all’altezza del viso, e a coprirmi gli occhi, stropicciandomi un po’ le
sopracciglia con un tocco leggero.
“Immagino che non abbiate saputo nulla di ciò che era
accaduto”, disse la mia amica, conclusa in fretta la lettura, con un’aria
perplessa che aleggiava sui lineamenti del suo viso.
Appoggiò sul tavolo la lettera del notaio di Milano.
“No, è per quello che siamo su tutte le furie”, ammise mia
madre, come se fosse stata una risposta ovvia, una vera e propria scusante.
Io non ero in vena di accettare compromessi, comunque volevo
provare a seguire il filo logico che la mamma stava provando a tessere, senza
che io riuscissi ad afferrarlo fino in fondo.
“Cavoli, queste sì che sono disgrazie! Oh, Isa, scusami se ti
ho rotto con tutte quelle domande sceme, non immaginavo”, mi corse allora
incontro Irene, abbracciandomi per l’ennesima volta, tornando anche gentile e
rilassandosi. Mamma aveva messo una pezza al mio danno, deviando per il verso
giusto la discussione.
Ricambiai il suo abbraccio, e sospirai, piano, restando
seria.
L’unica cosa di cui avevo bisogno era piangere, me lo
sentivo, ma non riuscivo affatto a sfogare la mia interiorità, e in più non
potevo farlo di fronte a delle altre persone. Maledissi quel senso di pudore
che ci assale ogni volta in cui necessitiamo di sfogare i nostri sentimenti in
pubblico.
“Sono perdonata?”, insistette la mia amica, con gentile
premura.
“Sì… anche se sono io che quella che ha esagerato. Scusa”,
finii per dire, ammettendo anche le mie colpe.
Irene scrollò le spalle, segno che tutto era già acqua
passata.
“E adesso che intendete fare? Sempre se non sono indiscreta”,
tornò ad interloquirci.
“Cosa intendo fare, vorrai dire, visto che sono l’unica delle
due che è stata citata, a quanto pare…”.
“Io, in ogni caso, non voglio nulla di quella persona. Sono
disposta a rinunciare a tutto, e posso dirlo anche di fronte ad un giudice”,
intervenne mia madre, risoluta.
“Va bene, ma anche io allora non…”.
Mi interruppe di nuovo.
“Tu sei sua figlia, tu devi”, e si soffermò con forza su quel
devi, “andare a prendere ciò che è tuo di diritto”.
“Io…”, mugugnai, senza saper proseguire.
“Non ti ha mai fatto un regalo, non ti ha mai dato nulla in
tutta la tua vita. E a quanto ne sappiamo sei la sua unica figlia, la sua unica
e vera erede. Non m’importa nulla di quello che ti avrà lasciato, citandoti nel
testamento, e a questo punto voglio sperare che non siano debiti”, e mi
sorrise, bonaria, donando un minimo di simpatia a quel discorso serissimo, “quindi,
anche se solo ti avesse lasciato uno spillo, tu lo devi andare a prendere. Devi
aggiudicartelo, e controlla che le parti siano fatte in maniera equa; tu sei
sua figlia e come erede diretta hai diritto, in ogni caso, a una certa quota,
nonostante il testamento. Fai valere i tuoi diritti”.
“La fai facile, ma’. Io ancora non so bene cosa pensare, a
parte che sono incazzata nera e sconvolta”, ammisi, sincera.
Non temevo di parlare in modo troppo irruento di fronte alla
mia genitrice, ormai ben sapeva che quando ero sotto stress mi si scioglieva la
lingua.
“Se parlerai con questo coraggio anche di fronte a chi di
dovere, naturalmente senza inserire volgarità, sono sicura che ogni tuo diritto
sarà rispettato a dovere”, riconobbe lei.
Irene, che era diventata all’improvviso una spettatrice del
nostro dibattito, non seppe starsene zitta per altro tempo.
“Tua madre ha ragione, Isa, ascoltala”.
Guardai entrambe, con uno sguardo rapido.
“Domani chiamo quel numero da idiota che è impresso lì, nel
timbro del tipo. Poi sentirò com’è la situazione… cioè, io dopodomani dovrei
essere di fronte a questo qui? Ma non esiste, chi ci parla con la signora Virginia,
che poi ultimamente è sempre stata gentilissima con me? Dio mio, che casino”,
mi misi le mani tra i capelli.
“Oh, che dramma, figliola! Virginia è una persona dalla
scorza dura, ma un cuore ce l’ha. Sono convinta che ti concederà qualche giorno,
d’altronde è un’emergenza imprevista, e hai anche le carte che la certificano”,
affermò saggiamente la mamma. Ne ero convinta anch’io, ma in fondo non me la
sentivo proprio, non avevo voglia di affrontare quell’imprevisto, ed era più
facile drammatizzare.
Ancora, mi venne da piangere, ma non per mio padre, per il
quale non provavo nulla, con grande freddezza, bensì per tutto il resto. Che
poi non avevo neppure diritto a lamentarmi così tanto, siccome avevo il mio
George.
Al solo pensiero mi si scaldò il cuore; sapevo che su di lui
potevo fare grande affidamento.
“Dai, vai e taglia la testa al toro”, disse Irene, ancora
molto seria.
“Vorrei essere così tanto forte come lo siete voi”, dissi,
infine, lasciandomi andare.
Mi levai le mani dalle prossimità del viso, e mi scostai dal
lavabo, ormai troppo sfinita per proseguire oltre.
“Ti faccio un grande in bocca al lupo per tutto, mia carissima
amica, e… condoglianze”, concluse Ire, aggiungendo l’ultima parola dopo averci
riflettuto un attimo, quasi a soppesarla. Aveva ragione lei.
“Ti ringrazio. Spero di tagliare la testa anche a questo
lupo”, risposi, metaforicamente.
“Sarà meglio che vada a casa, adesso… il mio ragazzo mi sta
aspettando già da un po’, ma ero qui in zona ed ho pensato di fermarmi a farvi
un saluto…”, tornò a dire.
“Hai fatto benissimo, grazie per la visita”, ringraziò mia
madre.
“Buona serata”, mi limitai a dirle, poi le diedi un piccolo
abbraccio, cortese e da amica. Tra di noi non c’era più un muro a separarci,
come poco prima. Qualcosa era tornato a mutare, in meglio.
Così Irene se ne andò, congedandosi e lasciandoci finalmente
sole, e mentre mia madre si metteva ai fornelli, pensierosa, ne approfittai per
andare in camera mia, con la scusa di andare a cambiarmi l’abito sudaticcio che
avevo indosso, per chiamare invece il mio Piergiorgio.
Anche se ci eravamo salutati poco prima, avevo bisogno di
narrargli quello che poi mi era accaduto, e ciò che mi si prospettava di
fronte, in un futuro davvero imminente.
Rispose subito, dopo solo due squilli.
Gli raccontai gli eventi recenti, e lui se ne rimase in
ascolto, in profondo silenzio, lasciando quindi che completassi la narrazione e
mi sfogassi un po’, seppur avessi avuto ben poco tempo a disposizione, poiché
mia madre mi attendeva al piano inferiore.
“Devo venire lì subito?
Ti sento molto scossa”, mi disse George, non appena non ebbi più nulla da
aggiungere. A lui l’immenso merito di avermi ascoltata senza mai interrompermi
una volta.
“No, ti prego, non ti scomodare. Adesso sono con la mamma,
abbiamo bisogno di metabolizzare assieme”, lo rassicurai, cercando di non
trasmettergli nessun turbamento.
“Per me non è un
problema. Se vuoi…”.
“Vieni questa notte, ok? Mamma entro le ventitré va a
dormire. Posso venire giù ad aprirti, se puoi venire”, mi venne spontaneo
suggerire, su due piedi.
La verità era che avevo ancora bisogno di qualche ora da
passare solo in compagnia di mia madre, e magari d farci forza a vicenda, poi
non avrei potuto resistere oltre senza vederlo. Avevo bisogno di essere
consolata, e di qualche coccola, dopo l’imprevisto poco piacevole che minava la
mia vita nei giorni immediatamente successivi.
“Va bene, sarò lì alle
ventitré in punto. Poi, magari, puoi parlarmene meglio e possiamo fare mente
locale, per raccogliere le idee e calmarci un pochino”.
“Certo”, dissi, e dopo una brevissima pausa, gli sussurrai un
grazie molto sentito e profondo. Potevo immaginare il suo sorriso bonario ben
impresso sul volto aggraziato e gradevole alla vista.
“E di cosa? La vita è
fatta anche di brutte sorprese, e di problemi, e a questo servono i partner,
no? Ad aiutare e a sostenere”.
“Tu sei infinitamente buono. Ringrazio continuamente la sorte
per averci fatto incontrare e innamorare”, tornai a dirgli, sinceramente grata.
Le persone come Piergiorgio, in un mondo in corsa e in crisi,
erano molto rare, e lui aveva sempre il sapore di un caldo abbraccio anche
quando parlava. Era speciale, e me ne accorgevo ogni istante di più.
“Mi unisco al tuo
ringraziamento, allora”, aggiunse, con la sua solita e moderata cortesia,
quella cortesia così sincera e spontanea che lo contraddistingueva, “e ci vediamo dopo, cara. Ti lascio alle tue
momentanee incombenze”.
Riattaccai, dopo averlo salutato, e già mi sentivo un po’
meglio; non vedevo l’ora di averlo a mio fianco. Si prospettava una notte
intensa, sotto tutti i punti di vista.
Mia madre mi chiamò, dal piano inferiore, e così mi affrettai
a mettere sotto carica il cellulare e a scendere le scale, pronta per l’ansiosa
e magra cena che mi attendeva, consapevole che poi sarei tornata tra le braccia
protettive del mio uomo, e avrei potuto usufruire dei consigli fondati sulla
sua lunga, saggia e corretta esperienza di vita.
NOTA DELL’AUTORE
Tra tensioni, lutti inattesi e battibecchi, la storia va avanti.
Cosa accadrà? Chissà ^^
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Capitolo 28 *** Capitolo ventotto ***
Capitolo ventotto
CAPITOLO VENTOTTO
Piergiorgio come al solito fu puntualissimo, talmente tanto
da poter dire che aveva spaccato il secondo.
L’orologio a cucù della saletta suonava piano, emettendo i
suoi rintocchi, che venivano soffocati dalla porta chiusa, in modo che il
rumore emesso non si propagasse per tutta casa durante la notte e le ore di
riposo, e non desse in alcun modo fastidio.
Mi affrettai ad andare ad aprirlo; in realtà, avevo già
preparato tutto da un po’ di tempo, poiché per fortuna mia madre alle ventuno
si era già ritirata in camera, ed allora avevo avuto modo per sistemarmi a
dovere, così da non dover poi rischiare nulla in seguito.
Quando udii il rumore inconfondibile nella notte, prodotto
dal fuoristrada di George, aprii piano la porta d’ingresso.
Lo accolsi quindi tacitamente, dopo che lui aveva lasciato la
macchina un po’ distante da casa di mia madre, in modo da non dare nell’occhio
e da non rischiare di essere notata subito, o per caso.
George non disse nulla, si limitò a sorridermi.
Da parte mia, mi limitai ad afferrarlo con dolcezza per un
braccio e a farlo entrare, per poi richiudere con attenzione la porta dietro di
me.
Lo attrassi con prepotenza, lasciai che le mie labbra si
appiccicassero alle sue, e che poi fosse la mia lingua a cercare la sua.
Sentivo che dovevo farmi perdonare.
A luci spente, e procedendo pianissimo e a tentoni,
muovendoci però in un ambiente che ormai conoscevamo entrambi, anche se lo
tenevo per mano e lo aiutavo un minimo a procedere e a orientarsi nella giusta
maniera, giungemmo a destinazione. Trattenni il fiato, di fronte alla porta di
mia madre.
Ci riuscimmo, comunque.
“Dio mio”, si lasciò andare il mio amante, una volta giunto
in camera, “una di queste volte faccio un capitombolo giù dalle scale che
passerà alla Storia”.
“Sempre a ironizzare, eh”, sussurrai, “sarà comunque meglio
che tu non ne faccia, di capitomboli. Mi servi integro”.
“Sono un essere umano alquanto inutile”.
“Non direi”, affermai, mentre cominciavo a svestirmi, già
preda dei miasmi dell’amore. Se fino a qualche istante prima ero stata vittima
dei miei pensieri ossessivi e delle paure per il mio immediato futuro, in
quell’istante le pulsioni del mio corpo e i loro bisogni avevano ripreso il
controllo di me stessa.
“Oh, calma, mio gentile amore. Non eri spaventata? Qualche
ora fa, al telefono, stentavo a riconoscere la tua voce”, mi disse, sempre
pianissimo, però cominciando anche lui a togliersi i vestiti di dosso.
Si levò la leggera camicia che indossava, e restò a busto
totalmente nudo, in piedi di fronte a me, ed io, lasciva come noi mai, ero
distesa sul mio letto ormai costantemente sfatto, colmo dell’odore della sua
pelle, a togliermi di dosso gli ultimi vestiti. Interruppi i movimenti rivolti
a svestirmi solo per infilare sotto al letto le sue scarpe invadenti, che avevo
portato di sopra a mano.
“Mi fa piacere che tu sia qui, mi dispiace solo per averti
messo fretta. In ogni caso, ti chiedo scusa”, gli dissi, sincera, sempre
attenta però a tenere un tono di voce molto basso e controllato.
“Ti ho detto che è già un discorso chiuso. Piuttosto, andiamo
al punto”, disse con risolutezza.
“Proprio adesso?”, mormorai, provocante, con i problemi che
passavano in secondo piano. Era incredibile quanto la passione che mi ardeva
dentro potesse accecarmi, fintanto che non la rendevo soddisfatta.
Piergiorgio, ancora in piedi a fianco del letto, scosse il
capo, fingendosi pensieroso. Mi attendevo un suo no, giustamente, poiché in
fondo era venuto lì apposta per ascoltarmi, come gli avevo richiesto, e la mia
passione cominciò a scemare, in fretta, e in men che non si dica mi ritrovai a
diventare rossa in viso, vergognandomi della mia inutile lascivia, e pensando a
cosa stava pensando su di me l’uomo che mi osservava, sempre serissimo.
Per fortuna, la penombra della mia stanza, illuminata in modo
molto blando dalla lucina flebile dell’abatjour, i miei lineamenti imbarazzati
e contratti probabilmente non poteva osservarli nei particolari che avrei
voluto celare.
Stavo per aprire la bocca per cominciare a narrare, tornando
ben composta sul letto, quando lui mi balzò a fianco, così, all’improvviso.
Fece anche cigolare il mio ben misero giaciglio, tra l’altro.
Il mio viso in fiamme dall’imbarazzo appena provato fu cinto
dalle sue mani, che lo percorsero, e mi trovai soffocata da un suo bacio.
“Ti vengono spesso, questi scatti?”, gli sussurrai, quando la
sua bocca si rimosse dalla mia, le labbra ancora socchiuse e rese umide dalla
sua saliva.
George ridacchiò, molto sommessamente.
“Cavolo, eri così bella! E poi mi stavi provocando”.
“La prossima volta, non sfondarmi il letto”, gli dissi, e
tornai a baciarlo, senza fregarmene del rumore che aveva provocato. Immaginavo
che mia madre avesse di certo udito il brevissimo fracasso, se era ancora
sveglia, tuttavia dubitavo che lo fosse. Inoltre, con la porta chiusa a chiave,
non aveva modo di entrarmi in camera e di coglierci in flagrante.
I sensi tornarono ad accecare ogni sorta di razionalità, e mi
lasciai andare tra le sue braccia, ai suoi baci e alle sue carezze.
“Non è colpa mia se questa è la cosa più bella da fare in
due”, quasi esclamò.
“Sei ancora lì a parlare? Facciamola, no?”, tornai a
stuzzicarlo.
Sapevo che non ci sarebbe stato bisogno di aggiungere altro,
almeno per un po’, fintanto che i nostri corpi non fossero stati sazi, e i
nostri istinti non si fossero placati.
“Sono nei casini, George”, esordii, infatti, solo una ventina
di minuti dopo.
Avevamo fatto l’amore, in quel momento giacevo ancora tra le
sue braccia, a fianco del suo corpo leggermente sudaticcio a causa
dell’amplesso e dell’estate che ancora premeva su di noi con tutta la sua
torrida potenza, ma mi sentivo al sicuro, nonostante il turbamento che, pian
piano, tornava a riaffiorare e a prendere possesso della mia povera anima
spaurita, che ormai non era più in preda all’istinto e al desiderio.
Era molto meglio prima, ma sapevo che quel momento sarebbe
arrivato, e in fretta; io e Piergiorgio cercavamo il piacere, lo volevamo
entrambi, e ormai, ultimamente, nonostante cercassimo di far durare il più
possibile questo momento di ricerca, purtroppo tutto si rendeva molto veloce a
causa della nostra irrefrenabile passione di coppia.
Tra le coperte, non avevamo alcun genere di problema. Almeno
lì.
“Sì, mi avevi già accennato qualcosa, poco fa”, mi sussurrò,
il suo fiato caldo a sfiorarmi il viso, e la sua peluria a stuzzicare la mia
pelle candida, che nonostante fosse estate non aveva ancora visto un raggio di
sole.
“In due parole, mio padre è morto”.
“Condoglianze”.
“Non è il momento di fare i gentili”, lo ripresi, per poi
ridacchiare scherzosamente. Lui alzò la mano destra in segno di resa.
“Non ho detto niente di che”, si scusò.
“Non è il momento, perché è un casino immondo. Mi credi?”.
Tornai seria.
“Se lo dici tu, ti credo”, mi rassicurò, ancora un minimo con
fare burlone. Era colpa mia, ero io che lo stimolavo a far peggio.
“Comunque, adesso basta scherzare”, presi posizione con
fermezza, “perché mi è arrivata questa lettera, che sembra una missiva direttamente
giunta dall’inferno”.
Gli passai la lettera che durante tutta la serata era stata
sballottolata tra le mie mani e quelle di mia madre.
George si mise gli occhiali, lasciati sul comodino, e, ancora
nudo, si sedette sul ciglio del letto, vicino all’abatjour, per poter leggere
meglio.
“Cos’ha detto tua madre a riguardo?”, mi chiese, dopo qualche
minuto, tornando a passarmi la lettera.
Io, che fino a poco prima l’avevo lasciata a terra, sulla
pedana del mio lato del letto, gli feci cenno di non ridarmela. L’appoggiò con
prontezza sul comodino.
“Ha detto che devo andare là a prendermi ciò che è mio, e non
ha neppure pensato a come dovrò andare in quel buco di posto…”.
“Non sei amica dei mezzi pubblici, mi pare di capire”, mi
fece notare.
“Direi di no. So che ti potrò sembrare cretina, ma ho preso
il treno al massimo tre volte in vita mia, e mai da sola. Non ci capisco un
cazzo”.
“Ehi”, mi riprese, “devi stare tranquilla, non perdere mica
la pazienza per così poco. Questo è un problema che si rimedia, e facilmente…
anzi, ogni problema ha sempre un rimedio, basta saper trovare la soluzione più
giusta”.
“Che risposta filosofica, eh! Questa te la sei studiata2, gli
sussurrai, ancora una volta in modo scherzoso, ma anche disperato. Stavo per
mettermi a piangere.
“Oh, non piangere! Se ti vedo piangere, piango anch’io”.
Tornò a distendersi, e ad avvolgermi nel suo caldo abbraccio.
Infossai il mio viso nel suo petto, e percepii il suo capo appoggiato sul mio,
mentre cominciava a cullarmi, pianissimo e con delicatezza.
“Ti voglio solo dire che, con l’aiuto di qualcuno, nessun
problema è insormontabile. Io a volte credo che tu, Isa, non riesca a capire
che non siamo perfetti… siamo umani, ci sono cose che non sappiamo fare, e ogni
giorno di vita è una prova nuova. E se una cosa non la sai fare, la impari, o
qualcuno ti sostiene. In questo caso”, e mi strinse con maggior vigore a sé, “ci
sono io. Ti porto io a Milano, ci vieni con me”.
Un’affermazione improvvisa come un fulmine a ciel sereno, che
mi lasciò basita per qualche secondo.
“Cosa stai dicendo?”, mi venne spontaneo chiedere, sommersa
dagli eventi.
Non volevo crederci che mi avesse risposto in quel modo.
Inoltre, e soprattutto, non volevo che sacrificasse qualcos’altro a causa mia…
anche solo del tempo. Tempo che per lui era prezioso, e anche se non sapevo
ancora per bene come lo utilizzasse tutto il giorno, avevo comunque capito che
aveva spesso da fare. I suoi pazienti, la sua vita e la sua professione
venivano prima di tutti i miei problemi che, in fondo, erano davvero futili.
Avrei preso il mio treno, come facevano anche gli altri, e mi
sarei arrangiata, per due giorni.
“Ti ho detto che a Milano ti porto io. Ci vieni con me”,
specificò, risoluto.
“No”, mi affrettai a negare, “non posso permetterlo. Tu hai
da fare…”.
Mi zittì con un baciò sulle labbra.
“Non ti devi preoccupare per me. Come ti ho già detto, la mia
carriera ha già superato il suo culmine, e adesso posso prendermi tutto il
tempo di cui necessito. Il tempo necessario per stare con te, e starti vicino”.
“Io invece non voglio essere una palla al piede”, tornai a
dire, ma ricevetti un altro bacio sulla bocca.
“Non sei una palla al piede, anzi, sei l’occasione giusta per
offrirmi l’occasione di andare in compagnia a Milano. In questi giorni ci sono
numerose conferenze di cardiologi di fama internazionale, in quella grande e
relativamente lontana città, ed io avevo fin da principio ignorato
l’opportunità di parteciparvi e di ascoltare i miei esimi colleghi, di certo
molto più bravi di me. E allora, a Milano ci andiamo assieme, così io vado alle
conferenze, in quei due giorni, e tu svolgi le tue pratiche”, mi spiegò.
La verità era che non avevo molto altro da ribattere, anzi,
potevo solo accettare la sua cortesia, che mi stava pure giustificando, seppur
non ce ne fosse stato bisogno. Ma ben sapeva che, senza motivazioni plausibili
e credibili, non avrei mai accettato un aiuto di quella portata.
Potevo solo cogliere la palla al balzo, e la gentilezza del
mio tenero amante. Così ci avrei guadagnato un compagno di viaggio, e un
passaggio sicuro e rapido.
“Oddio… io e te… due giorni in quella metropoli?”, mormorai,
un po’ sognante.
Non ero mai stata a Milano, anche solo a pensarla mi sembrava
qualcosa di astratto, di indistinto, di caotico, di lontano e di
irraggiungibile, e all’improvviso mi ritrovavo a pianificare di recarmi fin là,
con un compagno di viaggio che era molto più di una semplice compagnia, per
l’appunto.
Tutt’a un tratto, l’ansia infinita che avevo provato fino a
poco prima, totalmente rivolta alla mia paura dell’ignoto e di quello che avrei
potuto trovare così distante da casa, molto infantile tra l’altro, svanì in un
baleno.
“Beh, facciamo finta che sia una nostra prima vacanza
assieme, che ne dici?”, mi sussurrò a sua volta. Fu il mio turno di baciarlo.
“Tutto assume un sapore meno amaro, a questo punto”,
riconobbi, “ma il resto del problema resta”.
“Dio mio, Isa! Sei così catastrofista. Tua madre che ne pensa,
della questione?”, tornò a chiedermi, interessato.
“Ne abbiamo parlato molto, e l’unica cosa che mi ha sempre
ripetuto è stata quella che devo andare là e accettare ciò che mi è stato
lasciato. Qualunque cosa sia, perché è mio diritto averla”, riassunsi.
“Non ha mica tutti i torti. E comunque, non dovrai far altro
che ascoltare un notaio che leggerà il testamento. Fine. Poi, alle altre
possibili considerazioni ci penserai in seguito, no? Non fasciarti subito la
testa in questo modo”.
“George, tu sai sempre tranquillizzarmi. Possibile che tu sia
sempre così calmo e tranquillo, così pacato? A me sembra di impazzire, quando
appare un pasticcio all’orizzonte”, tornai a riconoscere. Ancora ero una
ragazzina, interiormente, e questo mio lato un po’ infantile tornava a
riemergere ogni qual volta che qualcosa mi turbava.
Dovevo crescere, lo sapevo, ma crescere era difficile, oltre
che complicato. Non avevo problemi a riconoscere che andavo in difficoltà per
ogni cosa, ma mi faceva male convivere con questo aspetto fragile del mio modo
di comportarmi e di ragionare. Avrei tanto voluto avere un pochino della serena
tranquillità del mio uomo, lui sì che era una roccia. Il mio scoglio, la mia
àncora di salvezza.
“E’ l’età che ti rende così. Tu mi piaci perché sei vivace e
emotiva”, mi disse, sornione.
Strofinò poi il suo viso ispido contro le mie guance,
spingendomi ad accarezzarlo.
“Quanto sei dolce, quando fai così?”, non mi preoccupai di
fargli notare, ormai cotta di lui. Seriamente, quando si comportava in quel modo,
solo per attirare maggiori attenzioni e coccole, mi sembrava di vivere una
relazione davvero da favola, dove per qualche attimo dimenticavo che il mondo
era composto da botte e da urti, e in cui restava solo il giusto spazio per
qualche tenerezza di coppia.
“Sei tu che mi hai reso uno zuccherino”.
“Io sono acida come un limone ancora verde”, affermai.
“Oh”, mi prese le mani tra le sue, “non è vero… il fatto è
che a prima vista puoi sembrare troppo sulle tue, molto chiusa, e quindi anche
antipatica, come conseguenza, ma più ti conosco e più riconosco che quella è
solo apparenza. Il muro che metti tra te e un mondo di merda, poiché se
qualcuno nota che sei debole non si farà problemi a schiacciarti. In realtà,
sotto ad una prima scorza fredda, fatta anche di occhiatacce, sei uno
zuccherino anche tu, che ha il giusto bisogno di attenzioni”.
Mi fece sorridere in modo spontaneo e genuino.
“Nessuno è mai stato così dolce con me, prima d’ora”,
sussurrai, un po’ commossa.
“Non dire così”.
“E’ vero. Con Marco era tutto diverso”.
Percepii che s’irrigidiva, a mio fianco. Avevo toccato il
tasto sbagliato, e non mi aspettavo che il suo corpo reagisse in quel modo,
seppur il suo viso non si scompose affatto. I suoi lineamenti rilassati, a meno
di un palmo dai miei occhi, sembrarono restare impassibili e immobili.
Sentivo però che dovevamo abbattere quella nostra paura di
ricordare quello che ormai era solo un passato vissuto e trascorso, e quindi
affrontarlo liberamente poteva aiutarci a sentirci ancor più in intimità, e a
comprenderci meglio a vicenda.
“Non era galante, con te?”, riuscì a chiedermi, dopo qualche
istante di pesante silenzio, quasi ci avesse riflettuto attentamente su cosa
pronunciare.
“Macché. Era un vagabondo di prim’ordine, e basta!”, borbottai,
lasciandomi poi andare a una risatina soffocata.
“Oh”.
Ancora impassibile.
“Niente regali, niente di niente. Alla sera uscivamo assieme,
e stavo in compagnia del suo gruppo di amici, così ho perso di vista quelli che
frequentavo prima, che hanno poi iniziato a credermi troppo snob per parlare
con loro. Non avevano tutti i torti, Marco era un figo assurdo ed era
abbastanza conosciuto, quindi si dava anche tante arie… e poi vestiva
benissimo, i suoi amici erano tutti dei quartieri alti”, narrai.
“Un figo…?”, intervenne, pianissimo, George.
Io tornai a ridere, cercando di contenermi al massimo.
“Mai figo quanto te, però”, lo rassicurai.
Era vero; Piergiorgio e Marco non erano paragonabili, erano
proprio due persone agli antipodi, sia per modo di fare, sia nel vestire e sia
nell’età, tuttavia il primo aveva una dose di charme che, quando veniva messa a
frutto e sfoderata per bene, poteva far innamorare qualunque donna, di
qualunque età, a mio avviso. Ma George restava di gran lunga il migliore, la sua
maturità e la sua gentilezza erano ineguagliabili, e questo lo rendeva un figo
ai miei occhi.
Anche il suo corpo non era assolutamente malvagio, anzi.
Meglio il suo di quello tutto muscoli del mio ex.
“Comunque”, e ripresi a raccontare, “noi due facevamo solo
sesso. Niente fare l’amore. Due spinte, forti, così, senza passione, dotate di
un rigoroso profilattico, tanto per colmare il vuoto che fin dall’inizio ci
portavamo appresso. La fine era inevitabile”, conclusi, senza scendere in
volgarità e cercando di mantenere aulico il mio linguaggio.
“Con me quindi è diverso?”, mi interloquì, ed io lo baciai.
“Certo che lo è. E il fatto è che vorrei che tu fossi sempre
con me, George. Ovunque. Tu sei anche una sorta di angelo protettore, con te mi
sento al sicuro, come se avessi una corazza davanti a me”.
“Anche io non sono mai sazio di te. Quando ero con mia
moglie, certe cose le facevamo solo perché tanto ormai eravamo sposati, per non
tradirci… capisci, vero? Poi, le pulsioni sessuali in un modo o in un altro
vanno sfogate. Con te, invece, è qualcosa che vorrei non finisse mai, e non sto
scherzando! Vorrei che non venisse più il giorno, che la notte diventi eterna,
fissa qui, in questo momento, con i nostri due corpi che si cercano, che si
vogliono, che si desiderano…”.
“Che poeta che sei”, gli riconobbi, quando le parole gli
morirono in gola, a causa dell’enfasi del parlare sottovoce.
“Senza di te non vivo più. Senza te, non è più vita”,
continuò.
“Cristo, mi metti ansia, quando parli così! Io non mi sento
per niente indispensabile”, ridacchiai.
Lasciò le mie mani e mi cinse in un caloroso abbraccio,
tornando a premere il suo corpo contro il mio, con delicatezza.
“Sai che ti amo, vero?”, insistette, serio.
“Lo so. Lo stesso vale per me”.
“E allora, spero che queste parole ti offrano un sonno ristoratore.
È ora di dormire, domattina devi andare al lavoro e fare quella chiamata
importante, poi se va tutto bene ci aspettano alcune giornatine fuori porta”.
Così, era riuscito a farmi ricordare del mio problema
riguardante il probabile testamento di mio padre. Fu il mio turno
d’irrigidirmi.
“Cazzo, potevi evitare di farmelo tornare in mente…”.
Mi strofinai lentamente le sopracciglia, quasi a volerle
massaggiare. La notte aveva il brutto vizio di ingigantire i problemi, o di
farli dimenticare, a seconda del momento. George era riuscito a portare di
nuovo a galla il problema abnorme, e dovevo farmene una ragione.
“Non ci devi pensare; quello è davvero un problema che,
proporzionato ad altri, è irrisorio. Dormici sopra, e vedrai, anzi, ti
prometto, che tutto si sistemerà molto in fretta, più di quel che tu stessa
credi”, cercò di rassicurarmi.
“Parli bene tu, che non ci sei dentro fino al collo”.
“Smettila di lagnarti, e riposiamo. Domattina sarà tutto più
tranquillo”. Si allungò e spense l’abatjour.
Io non volevo, fui sul punto di intervenire e di dirgli di
lasciare accesa la fioca luce, e di farmi compagnia, anche di consolarmi ancora
per un po’, se gli era possibile. Ma George non mi lasciò il tempo per
lamentarmi, siccome dopo aver spento il lumicino si spinse di nuovo verso di
me, e mi cinse in un caldo e tenero abbraccio, che mi fece sciogliere.
Mi accoccolai contro di lui, nonostante fosse piena estate, e
i nostri corpi nudi tornarono ad essere appiccicati l’uno all’altra, e quello
mi passò una sensazione di protezione ancor più profonda e forte di tutto ciò
che avrebbe potuto esprimere a parole.
Il mio uomo era lì con me, io ero stretta al suo corpo,
percepivo ogni suo battito cardiaco, ed era così vulnerabile… stava concedendo
tutto sé stesso a me, e compresi che non avevo nulla di cui lagnarmi. Ero
amata, mi sentivo apprezzata da quello che stava diventando l’uomo della mia
vita, e non dovevo chiedere altro, il resto poi si sarebbe sistemato, o ci
avrei pensato poi.
In quegli istanti contavamo solo noi, e dovevo imparare a
trarre una sensazione piacevole da quei momenti di inimitabile calore
reciproco. Dopo solo un paio di minuti di silenzio, percepii che si era già
addormentato; era molto stanco, per quello aveva invitato anche me al riposo.
D’altronde, ormai era notte fonda.
Il suo respiro si fece regolare e lento, ed io mi avvicinai,
pianissimo, al suo viso, lasciandomi coccolare dal calore del suo fiato, almeno
fin quando il sonno non giunse anche da me, a riscuotere il suo quotidiano tributo.
E allora dormii serenamente, nonostante tutto, con il mio principe azzurro che
non sciolse mai l’abbraccio in cui mi aveva avvolto prima di addormentarsi.
Ci risvegliammo che era tardissimo; il sole cominciava ad
alzarsi in modo ben delineato all’orizzonte, e fummo costretti a non dirci
nulla.
Aiutai Piergiorgio a rivestirsi, poi l’accompagnai al piano
di sotto, e lo lasciai sgattaiolare fuori.
Non ci fu tempo per una qualche smanceria, se non un bacetto
sulle labbra, siccome mia madre, che era sempre più mattiniera, ben presto si
sarebbe alzata, ed ero sicura che non sarebbe stata tanto contenta di trovarsi
di fronte ad un eventuale ospite, che aveva trascorso la notte a casa sua, ma a
sua completa insaputa.
Io me ne tornai ancora una mezz’ora a letto, prima di
vestirmi a mia volta, e di andare a fare colazione. A quel punto, mia madre era
già sveglia e pronta ad affrontare la giornata, e mi aveva pure scaldato una
tazza di latte.
“Non dovevi preoccuparti”, le dissi, quando, una volta giunta
in cucina, notai le sue leggere occhiaie, e l’indolenza con cui mi porse la mia
tazza.
“In realtà, sono più preoccupata per te”, mi fece notare.
“Perché?”, sobbalzai. Me l’aveva detto in modo così serio che
mi sembrava un preambolo a qualcosa di funesto.
“Per tutta la vicenda che abbiamo scoperto ieri. Sai, poi ti
ho visto molto turbata e agitata”, chiarì.
“Oh, è tutto a posto. Questa mattina chiamo quello stronzo,
poi quando la faccenda sarà chiara, andrò il prima possibile, sia anche domani”.
Mia madre mi guardò con stupore.
“Così mi piaci, figlia mia! Questo è il modo giusto di
reagire”, si complimentò con me.
Le sorrisi, pensando che era tutto merito di Piergiorgio; era
stato lui ad offrimi il suo importantissimo aiuto, e con la sua presenza aveva
medicato le mie ferite interiori per l’ennesima volta.
“I veri problemi sono altri. A riguardo di questa faccenda,
farò quel che devo, il mio dovere, e nulla di più”.
Con quella serie di frasi correlate, mi alzai, scolai la mia
tazza, e abbandonai la cucina, pronta a cominciare un nuovo giorno di lavoro.
Il notaio l’avrei chiamato durante la pausa pomeridiana, verso le quattordici.
Mi sentivo pronta a passare all’azione, finalmente, e ormai
non mi sentivo più sola e spaesata. Avevo metabolizzato tutto, e in fretta, per
fortuna.
NOTA DELL’AUTORE
Il nostro amico George ha caricato a dovere la protagonista;
sembra che sia l’unico ad avere effetti positivi su di lei.
Sarà una passeggiata? ^^
Chissà.
Ci attendono altre piccole avventure.
Grazie ancora per essere qui ^^
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Capitolo 29 *** Capitolo ventinove ***
Capitolo ventinove
CAPITOLO VENTINOVE
M’informai, e purtroppo scoprii che era tutto vero. Un
testamento olografo, scritto a mano da mio padre, era stato depositato da lui
stesso presso il notaio Bernardi, che mi aveva avvisato tramite lettera,
contenente i suoi recapiti e le informazioni che mi poteva offrire. Era quindi
una realtà, un dato di fatto che mi aspettasse questo testamento tenuto segreto
per volontà del mio genitore, fino al decesso avvenuto.
Come se si stesse stagliando una grande incognita nei miei
orizzonti, ascoltai quello che l’uomo dalla voce limpida mi spiegava, al di là
del mio cellulare, mentre ancora ero in pausa pranzo, seppur agli sgoccioli.
Mi parlò, non mi disse tuttavia un granché, e si scusò per il
ritardo dell’avviso, addebitandolo ad altre cause, e si spiegò in modo molto
umano. Io non attaccai in alcun modo, lo lasciai parlare, ascoltando quel paio
di frasi in croce che aveva da dire, e presi consapevolezza del fatto che
l’ostacolo c’era, e che dovevo affrontarlo.
Infine, con scarsa attenzione, salutai cortesemente il
gentile signore e gli promisi che l’indomani pomeriggio sarei stata al suo
cospetto. Dovevo e volevo togliermi quel sassolino dalla scarpa, e mi sentivo
desiderosa di agire, d’altronde purtroppo mi aveva anche avvertito del fatto
che la lettura del testamento non sarebbe stata posticipata con così scarso
preavviso. Ed io volevo esserci, lì ad ascoltare, al momento opportuno.
Pochi minuti prima che scattassero le quattordici, e quindi
anche la ripresa del mio turno, con il suo orario pomeridiano, mi recai a
parlare con la signora Virginia, che non oppose alcuna resistenza e fu molto
accomodante, e riuscii quindi a liberarmi per tre giorni. Due in cui sarei
stata a Milano, e uno di libertà a casa mia, al ritorno da un viaggetto di cui
ancora non conoscevo il vero volto, e di cui non riuscivo a immaginare nulla.
Nulla di quello che mi avrebbe potuto riservare, o di quello che mi sarei
dovuta aspettare.
Con tutta la strada spianata, avvisai mia madre, dandole
velocemente la notizia, e poi telefonai a George, e nonostante tutto fu ben
felice di tornare a garantirmi il suo appoggio e il suo passaggio. Poi,
ritornai a lavorare, ma ero tesa in una maniera assurda, e faticavo a far
tutto.
Alle quindici ero già sudata e anche tremavo, a tratti, dalla
tensione, anche se sapevo che dovevo saper tenere a bada il mio inconscio. Ma
la curiosità e l’ansia erano salite a picchi vertiginosi, e non riuscivo più a
domarle.
“Isabella cara, credo che qualche giorno in più di riposo
possa aiutarti a farti stare meglio. Ti vedo troppo tesa, ormai non parli
neppure più, e di questo mi dispiace moltissimo! Prenditi tutto il tempo che ti
serve, e non temere nulla, perché so che questo è un periodo molto impegnativo,
e mi dispiace per quello che ti sta accadendo di recente”, mi rassicurò la
proprietaria del locale, gentilissima, quando tornai a passarle d’appresso.
Era incredibile notare come avesse cambiato atteggiamento da
quando George le aveva parlato bene di me, e una volta era anche intervenuto
come garante delle mie spiegazioni.
Se solo tre mesi prima mi fossi azzardata a narrarle anche
una sola metà di quelle tristi vicende che mi stavano perseguitando e
angustiando, avrebbe fatto tutto il possibile per licenziarmi e per
rimpiazzarmi. Invece, oramai sembrava quasi fosse una mia vecchia amica,
eravamo in ottimi rapporti.
“La ringrazio. È sempre molto umana e comprensiva nei miei
confronti”, la ringraziai, sorridendole.
“Come potrei non esserlo? Io voglio solo il meglio per te.
Ormai sei come una figlia per me, e spero che la vita torni a sorriderti”,
aggiunse.
La ringraziai tacitamente, quella volta, con un altro e
semplice sorriso, per poi tornare a svolgere le mie mansioni, e siccome quel
giorno il locale era pieno zeppo di persone, di cose da fare ne avevo
parecchie.
Sudata nonostante l’aria condizionata, sapevo che rischiavo
anche di ammalarmi, ma ormai che importava? Mi sentivo una macchina,
insensibile al mondo circostante. Fintanto che la vicenda riguardante mio padre
e la sua morte non sarebbe stata risolta, poiché avevo anche intenzione di
chiedere le giuste informazioni a riguardo del suo decesso, credendo fermamente
che fosse mio diritto farlo, giacché neppure ne ero stata informata, non sarei
stata tranquilla. Tanto valeva risolvere la faccenda al più presto possibile.
Sospirando, andai avanti con la mia solita routine lavorativa
fino a sera, e solo quando tornai a salire sulla mia auto ripresi a respirare.
Avevo comunque di fronte a me tre giorni di fuoco, che si preannunciavano
tosti, e poi dovevo organizzare tutto in fretta.
Con la promessa di George, che mi avrebbe condotto a Milano,
mi risparmiavo il problema del treno, e del cercare i biglietti, e quant’altro,
e quindi ciò risultava anche un netto risparmio di tempo, tuttavia dovevo anche
preparare un minimo di bagaglio. E parlare con mia madre. Riflettere.
Prepararmi mentalmente.
Smisi di cercare di elencare e di razionalizzare tutte quelle
cose che avrei dovuto fare, e misi in moto la mia auto, pronta per tornarmene a
casa e cominciare a provare di sciogliere qualche nodo dalla matassa caotica di
filo che era diventata la mia giovane esistenza.
Una volta a casa di mia madre, preparai in fretta il mio
scarno bagaglio. Non cenai neppure.
Piergiorgio l’avevo avvisato, l’indomani mattina mi avrebbe
atteso di fronte alla stazione del nostro paesino.
Misi in valigia solo l’indispensabile, ma come sempre mi
rendevo conto che avevo davvero poco guardaroba, e la scelta ricadeva sui soliti
capi di vestiario. Preferii non abnegare oltre la mia femminilità, come facevo
ogni mattina prima di recarmi al lavoro, quindi presi con me qualche vestitino
che ritenevo più da sera. Non m’importava molto quello che avrei indossato,
d’altronde, bensì solo andare al sodo.
Scesi al piano inferiore solo quando fui certa che avevo
preso tutto l’occorrente con me, adagiato nella mia valigetta da viaggio,
comoda e maneggevole, la medesima con cui me n’ero andata dall’appartamento che
avevo preso in affitto assieme al mio ex. Una fitta allo stomaco mi travolse, a
quel pensiero. Era per quello che avevo bisogno della compagnia di mia madre.
Prima di recarmi in cucina, dove lei come al solito era
impegnata con i suoi paciughi da mezza cuoca, mi soffermai sulla porta del
salotto, dal quale, illuminate dalla luce del sole morente della sera avanzata,
le due rose che il mio amore ci aveva regalato ancora profumavano l’ambiente, e
il cui odore si percepiva anche nel corridoio, per via della porta aperta.
Ben presto sarebbe stato buio pesto, ma loro non sarebbero
state inghiottite dalla sua oscura coltre, bensì con il loro profumo avrebbero
continuato ad essere una presenza stabile.
Quelle che mi aveva fatto recapitare in precedenza, in
anonimato, purtroppo erano sfiorite ed appassite, e mia madre era stata
costretta a buttarle, senza mai capire che in realtà i doni erano correlati tra
loro. E pensare poi che a me quel legame pareva davvero impossibile da
nascondere, quasi banale.
Mi rendevo tuttavia conto che essere dentro ad una vicenda
portava anche certe consapevolezze che terzi ed estranei a essa difficilmente
avrebbero saputo cogliere.
Lasciai perdere i fiori, immersi placidamente nel loro vaso
di ceramica di Faenza, pieno d’acqua, andai da mia madre, infine. La rassicurai,
ma poco; non avevo molto da dire, e temevo di parlare troppo. Avevo paura di
ciò che avrei udito l’indomani pomeriggio, di quello a cui mi sarei trovata di
fronte. Era il senso dell’incognita a logorarmi, piano, lentamente, come un
tarlo.
Andai poi a letto, rassegnata, con la mente svuotata. Mi ero
già scordata di quel poco che avevo detto a mia madre, e di quello che lei
stessa mi aveva rivolto. Gli scherzi dell’ansia.
Rimembravo solo che era apparsa calma e pacata, e che
l’indomani mattina si sarebbe alzata presto, per darmi il suo personale saluto,
e questo mi bastava per dirmi che dovevo solo riposare, e che il resto andava
obbligatoriamente rimandato.
Una volta nel mio letto, senza pigiama ma solo in reggiseno e
mutande, per via del caldo, affondai il viso nei miei due cuscini, ed aspirai
l’odore di George, che era rimasto impregnato nella stoffa delle federe fin
dalla notte precedente, l’ultima che avevo trascorso in compagnia del mio
tenero amante. Sapevo che quella, senza di lui, sarebbe stata più triste e
spaventosa.
Mi rialzai per accendere l’abatjour, intenta a dormire con la
piccola luce accesa, come facevo solo quando ero estremamente turbata, e quando
tornai a distendermi mi ritrovai di nuovo a cercare l’odore della sua pelle,
impressa nelle lenzuola, e in modo ancor più vigoroso sui cuscini, dove aveva
strofinato il suo viso.
Mi venne da pensare a cosa stesse facendo, e se fosse ancora
sveglio; sicuro che lo era, riflettei, siccome erano solo le ventidue, ma…
forse era andato a dormire, e immaginavo male. Non sapendo darmi risposte,
ancora agitata, finii per frugare sul mio comodino, alla rinfusa e con gli
occhi socchiusi, alla blanda ricerca del cellulare, pensando di fargli uno
squillo, in modo da potermi rassicurare un pochettino.
Tuttavia, col senno di poi, giunsi alla conclusione di non
voler tornare a telefonargli, col rischio di disturbarlo, siccome ormai era
tarda serata e non volevo essergli di fastidio più del dovuto. Già sentivo di
aver esagerato, e che lui si stesse sacrificando per me, per agevolarmi la
vita, poiché mi aveva visto disperata e demotivata, quindi non volevo e non
potevo permettermi di andare ad aumentare la mia pressione personale, anche
solo con una telefonata rincuorante.
Che poi sapevo che lui sarebbe stato come sempre gentilissimo
con me, e buonissimo, e questo mi faceva ancora più male da pensare, giacché sapevo
di rubargli altro tempo, e ciò era quello che meno desideravo. Aveva fatto
tantissimo per me, e doveva farne ancora di più, e di conseguenza non volevo
approfittarne in nessun modo.
Non volevo diventare un qualcosa di asfissiante, qualcuno che
lo chiamava a tutte le ore per ogni bazzecola.
Con quei pensieri tormentosi, quando ormai non ci contavo
più, scivolai nel sonno senza accorgermene, e dormii fino alla mattina
successiva, ormai a poca distanza.
Il risveglio fu frenetico e ansioso, comunque avevo già tutto
pronto, e mi resi conto che mi mancavano solo due cose da fare; una breve
colazione, e salutare mia madre.
Per quello, dopo essermi lavata il viso e pettinata, presi
con me la mia valigia e andai alla ricerca della mia genitrice, che ovviamente
mi stava aspettando con una sostanziosa colazione calda già pronta.
“Buongiorno, ma’. Come sempre, ti disturbi troppo”, le dissi,
accorrendo però ad approfittare subito della sua premura.
“Bevi piano”, mi riprese, quando notò che stavo praticamente
trangugiando il latte, e a momenti mi andava pure di traverso, “e stai attenta”.
“Non credo che morirò. Sarò presto a casa con te, di nuovo”,
cercai di buttarla sul sarcastico. Le sorrisi, anche.
“Lo so. Comunque, qualunque cosa scoprirai, o che ti abbia
lasciato… devi promettermi che non ti turberà. Che non tornerai a casa cambiata
per questa che è solo una stronzata”.
Lasciai che le sue parole scivolassero su di me, e scolato il
mio latte, appoggiai la tazzina sul tavolo, con lentezza.
“Vado solo per ascoltare un paio di stronzate, come
giustamente le hai chiamate; penso di non correre alcun rischio, anche perché
sono già pronta ad udire delle cose che mi faranno provare molto dispiacere”,
le risposi, in modo molto diplomatico, comunque sottolineando con cura il verbo
ascoltare. Era solo quello che avevo intenzione di fare, anzi, magari potevo
anche permettermi di non ascoltare quelle stupidaggini e di far in modo che
uscissero subito dall’orecchio opposto a quello in cui erano entrate.
Restavo tuttavia molto seria.
“Mi fido di te, ormai sei grande. Hai anche una lingua
spigliata, e se serve usala, non utilizzarla solo in casa. Fai vedere che hai
le palle, anche se sei donna e il mondo intero pensa di fregarti”, aggiunse, ed
io l’abbracciai subito.
“Mamma, non parlare così, altrimenti non puoi sgridarmi più
quando mi lascio andare troppo a parole”, le sussurrai, bonariamente, e potei
godere del nostro lungo abbraccio condiviso. Lo sciogliemmo solo quando fui
certa che non potevo più attendere oltre.
“Devo andare”, riconobbi, infatti.
“Vai”, m’incoraggiò mia madre, e quando la guardai, notai una
piccola lacrima di commozione che le scendeva giù, lungo la guancia destra.
“Se fai così, fai piangere anche a me, e non ce n’è bisogno”,
mormorai, un po’ in imbarazzo, temendo anche di essere stata troppo dura, ma
lei non fece una piega e non prestò troppo caso alle mie parole.
“Sei proprio sicura che non vuoi che ti accompagni alla
stazione?”, mi chiese.
Mi aveva già posto quel quesito, ed io ero stata categorica
nel rifiutarlo. George mi attendeva lì, e non essendo troppo distante da casa,
le avevo addirittura detto che ci sarei andata a piedi. Notando il suo
sbigottimento, però, mi ero corretta con prontezza e avevo ceduto all’utilizzo
della mia auto, tanto poi l’avrei lasciata parcheggiata lì di fronte, ed in
quel modo avrei potuto scongiurare ogni altro sospetto, sempre che ce ne fosse
qualcuno che aleggiasse nell’aria.
Mia madre non aveva mai accennato a nulla, ed io credevo
fermamente che non sospettasse neppure che qualcuno mi avesse accompagnato,
seppur sapesse ormai che mi vedevo con qualcuno. Forse pensava che non fosse
poi qualcosa di così serio, siccome non glielo avevo mai presentato, ed ero
stata sempre molto enigmatica con lei e con chi mi conosceva, cosa che invece
non ero mai stata, fin da quando ero bambina, essendo da sempre una persona
cristallina, in grado di dire le cose come stavano e in faccia.
“No, dai, ti ho già detto che mi farebbe solo commuovere
troppo. Quindi, vado da sola, e non preoccuparti, stai su con il morale, che
presto sarò di nuovo a casa”.
Le sorrisi, subito dopo il mio ennesimo rifiuto alla sua
proposta, e cercai di sdrammatizzare, quando mi rendevo conto che probabilmente
temeva un po’ il fatto di restare a casa da sola per un abbondante paio di
giorni, quando ormai era abituata alla mia presenza, che almeno le avrebbe
garantito un aiuto in caso di bisogno… o di malori improvvisi, com’era
accaduto, purtroppo, qualche settimana prima.
Mi ritrovai a fare mentalmente gli scongiuri, sperando che
non le accadesse nulla di male intanto che sarei stata via, e mi sentii un po’
in colpa per il fatto che non avevo pensato a lei, magari cercando qualche sua
amica o qualcuno che potesse passare la notte lì in casa, per non lasciarla mai
sola, ma era troppo tardi per organizzare qualcosa.
Pregai solo che la sfortuna non se la fosse così tanto presa
con me da farmi anche uno scherzo macabro del genere. In fondo, però, era
meglio non pensarci proprio a tali eventualità.
“Buon viaggio, allora, e fatti valere”, tornò poi a
stringermi a sé mia madre, dopo aver accettato il mio ultimo diniego dopo
parecchi secondi di impassibile e impalpabile silenzio.
“Grazie. Mi limiterò ad accogliere ciò che mi diranno”,
chiusi la parentesi, e tornai a districarmi dal nostro ultimo abbraccio
ricambiato.
Era ora di farla finita, era giunto il momento, per me, di
andare. Lasciai così mia madre, con lei che mi accompagnò fino alla porta, e
stette a guardarmi fintanto che non fui lontano dalla portata dei suoi occhi,
con la mia auto che sfrecciava verso la stazione, non troppo distante.
Sbuffai, perché se da una parte la sua premura mi commuoveva,
e mi lasciava intendere quanto ancora ci tenesse a me, dall’altra sembrava che
stessi finendo al patibolo, e che il mio fosse una sorta di viaggio senza
ritorno.
Scrollai il capo, riuscendo a distogliere la mia mente da
tutti quei ragionamenti machiavellici, e in fondo anche sciocchi e inutili.
Quando giunsi in stazione, parcheggiai comodamente ed
estrassi la valigia dal portabagagli, assicurandomi per bene anche la borsa,
per non scordarla in macchina, e chiusi tutto a chiave.
M’incamminai poi lungo il parcheggio, fintanto che notai il
fuoristrada bianco di George, che era già lì. Rincuorata, mi mossi subito verso
di esso, finché potei vedere il mio uomo che mi stava aspettando.
Quando mi vide anche lui, galantemente scese dall’auto in
sosta e mi venne incontro, pronto ad accollarsi il peso della mia valigia.
“Che puntualità, mio caro!”, esclamai, festosa.
Mi sorrise, e senza dire nulla, cercò di prendere la valigia.
“Pesa poco, posso portarla da sola. Grazie, comunque”,
declinai la sua cortesia, che a volte mi sembrava davvero eccessiva, sorridendogli.
“Se non ti dispiace, vorrei portartela io”, insistette.
“Va bene”, lo lasciai fare, alla fine, cedendo. Era pur
sempre lui che mi offriva un passaggio, e se portare una valigia poteva farlo
contento, tanto valeva che lo accontentassi.
“Accomodati pure in auto”, m’invitò poi, senza smettere di
sorridere, mentre andava a sistemare le mie cose nel suo portabagagli.
Feci come mi aveva detto, e salii in macchina, allacciandomi
subito le cinture. Ecco, ero davvero pronta a partire.
Sospirai, prendendomi il volto tra le mani, immersa in un
altro breve momento di sconforto, pensando a cosa avrei scoperto da lì a poco,
durante quel pomeriggio.
A salvarmi di nuovo da me stessa fu George, che salì a mio
fianco, e, dopo aver preso posizione ed aver infilato in fretta la chiave nel
cruscotto, mi passò una scatolina.
“Cosa…”, gli dissi, ed immediatamente avvampai.
Pensai subito che si trattasse di un altro anello; quello che
mi aveva in precedenza regalato era finito nel cassetto del mio comodino, e non
l’avevo mai indossato. Ero una ragazza pratica e gli anelli e i monili non
facevano per me, e anche se capivo l’importanza che quelle cose potevano avere
per chi le regalava, non ero comunque disposta a cambiare le mie abitudini.
“Un regalino, per risollevarti il morale”, scrollò le spalle
lui.
“Non posso accettarlo”, affermai, afferrando la scatola
piccina e facendo cenno di passargliela, ma ritrasse le mani e le pose sul
volante.
“E’ tua, tienila con quello che c’è dentro. Se non la vuoi, tienila
lo stesso e non aprirla, ma tienila”.
“Non dovevi. Sai che io non vado molto d’accordo con gli
anelli… non riesco a portare neppure quello che mi hai già regalato, e mi
dispiace. Non farmi provare un altro dispiacere così”, feci leva sul reale stato
delle cose.
Apparse però irremovibile.
“Ti dico di tenerlo. Mettilo da parte, fai finta di non aver
mai ricevuto niente, poi quando un giorno te la sentirai, o ne avrai bisogno,
aprila. Sul serio, fai così. Tanto di regali ho intenzione di fartene altri, a
breve”, ridacchiò, bonario.
“Oh, George! Sai che da te non voglio nulla, se non il tuo
amore e il tuo rispetto, e fidati, di tutto ciò me ne stai offrendo parecchio.
Per quanto riguarda il resto, è solo qualcosa in più, di inutile”, risposi a
mia volta, commossa dalla sua bontà.
Piergiorgio era come sempre una persona di una sincerità
allucinante; sembrava che, quando parlava, si aprisse senza problemi, senza
farsi scrupoli. Mi sembrava una persona così vulnerabile, così impossibile da
amare per quello che era, che mi pareva impossibile che solo io potessi
cogliere quel buono che c’era in lui, siccome non sembrava avere tanti impegni
sociali, o averne mai avuti.
Mi sembrava tutto così strano, a volte.
“A me fa piacere farti dei regali, va bene? Fa bene a me
stesso, e se poi ti regalano un sorriso, esiste cosa più bella?”, mi domandò
retoricamente, in modo molto poetico.
“Non vivo più senza di te, George”, sussurrai, avvicinandomi
al mio viso e strofinando le mie labbra sulla ruvidità del suo.
Quando le nostre labbra si incontrarono, ci scambiammo un
bacio pieno di passione.
“Ora però dobbiamo proprio andare, se no non ce la faremo
mai”, riconobbe lui, dopo qualche minuto in cui le nostre effusioni non avevano
accennato ad allentarsi.
“E non vorrei che fossimo costretti a fermarci per soddisfare
i nostri istinti…”, buttai lì, sorridendo, ricordando quello che era accaduto
qualche giorno prima, in un anonimo parcheggino di periferia.
George la prese anche lui sul ridere, e rise forte.
“No, in macchina ti giuro che non lo farò mai più. Ne ho
avuto a sufficienza”.
Mise in moto il fuoristrada, e partì facendolo sgommare.
“Non è mica un rally”, dissi, accorgendomi che aveva pestato
un po’ più del solito l’acceleratore.
“Invece dobbiamo darci un po’ da fare, la strada di fronte a
noi è tanta, e non vogliamo giungere alla meta con l’acqua alla gola”, sancì il
mio saggio interlocutore, facendomi sospirare più forte del solito.
“Mi dispiace di averti recato così tanto disturbo per una
sciocchezza del genere”, riconobbi.
“Non scherziamo. Là mi attendono anche delle conferenze
interessanti, che altrimenti, senza accompagnare te, non avrei trovato stimoli
per parteciparvi”, disse, serio.
“E’ che tutto mi sembra così senza significato”, cominciai a
dire, per dare sfogo alla mia interiorità, “non prendertela, non ce l’ho con
te, anzi, tu hai già fatto molto più del dovuto, ma me la prendo con i fatti, e
con la piega che hanno preso”.
“Non c’è bisogno di reagire così! Stai solo facendo aumentare
il tuo nervosismo, e basta. Non risolvi il problema, sii serena”.
“E’ che stiamo facendo tutta questa strada per andare ad
ascoltare stronzate che sono convinta che mi faranno incazzare a morte. Tanto,
lui cosa vuoi che mi abbia lasciato? Non mi ha mai potuto vedere, se fosse
stato interessato a me non sarebbe scappato dietro alla prima gonna che gli è
passato di fronte, ci avrebbe riflettuto un attimo, magari”.
Parlavo con ira crescente, e con quel lui marcato mi riferivo
al mio ormai defunto genitore, e questo Piergiorgio lo aveva compreso.
“Non hai davvero alcuna fiducia in tuo padre”, sospirò.
“Non ce l’ho. Non potrei averla”.
“Se posso intromettermi, e sarà l’ultima volta che lo faccio,
ti vorrei dire che ho impressioni positive a riguardo. Per me non resterai
delusa”, mi spiegò la sensazione che probabilmente stava provando dentro di lui,
sorridendomi.
“Sei diventato un sensitivo, per caso?”.
“Non ironizzare. Certe cose le so”.
“Non posso non riderci sopra, lo faccio per stare un po’
meglio! La verità è che sto per piangere”, proseguii, imperterrita, come se
fossi stata un fiume in piena, “perché sono sicura che questa è tutta una
messinscena che ha organizzato lui per prendermi per il culo un’ultima volta.
Mi devo recare a Milano per ascoltare un perfetto sconosciuto che mi legge il
manoscritto in cui il mio genitore mi lascia un suo paio di calzini bucati, o
che ne so, una tuta da lavoro sporca e rotta”.
“Stai esagerando, adesso”.
Piergiorgio guidava, ma allo stesso tempo mi ascoltava con
attenzione, serio, pronto a tentare di arginarmi.
“Non sto esagerando. Sai cosa faceva, quali sono i ricordi
che ho di lui? Era un mascalzone, un puttaniere, un ubriacone, un…”.
Mi fermai, perché George aveva allungato una mano ed aveva
afferrato la mia, sul mio ginocchio sinistro.
“Adesso basta, non voglio più sentire delle cose del genere,
che dette alle spalle di un defunto risuonano come vergognose accuse. Ciò che è
stato, ormai è stato, e non possiamo cambiare il passato, ma bisogna guardare
avanti e sperare in meglio”, sancì. Nel suo tono di voce, non c’era l’ombra di
un rimprovero, anzi, era molto pacato e tranquillo.
“Hai ragione, mi sono lasciata andare troppo”, fui costretta
a riconoscere, mordendomi l’interno del labbro inferiore.
Da quando c’era stato un contatto fisico tra noi, era come se
mi fossi svuotata di tutta la rabbia che provavo, e del mio nervosismo. Adoravo
il calore della sua mano, posizionata con delicatezza sulla mia, e la mia mente
sembrava ormai totalmente attratta solo da quella superficiale ma significativa
stretta.
“Ti dico e ti ripeto solo che, secondo me, devi essere
serena. Poi, sarà solo l’impressione di un uomo idiota, per carità, però io
credo che andrà tutto molto meglio di come hai previsto”.
“Non che ci voglia molto, vero?”, ironizzai, sciogliendomi.
Rise sotto i folti baffi.
“Va bene, proverò a stare tranquilla, ma tu aiutami, stammi a
fianco più che puoi”, gli dissi, seriamente, avvolgendo la sua mano tra le mie.
Fu costretto a ritrarla in fretta, poiché doveva cambiare le
marce. Dannata automobile.
“Io non ti lascerò mai. Mai, hai capito?”, esclamò,
enfaticamente.
Sapevo che era sincero. Questo mi bastava, mi offriva quel
calore di cui avevo bisogno per guardare la realtà sotto un’altra prospettiva,
e per tornare a rasserenarmi, come dopo un breve acquazzone estivo.
George entrò in autostrada, ed io nella mia mente pensavo
solo all’amore, a quanto l’amavo, e a quanto avrei desiderato giacere di nuovo
tra le mie braccia.
Quella sera, almeno, al di là di tutto e in ogni caso, sarei
tornata con il cuore più leggero a giacere a suo fianco, e a tornare sua anche
fisicamente. Il suddetto pensiero mi faceva davvero stare meglio, e mi
consolava, spingendomi a non riflettere troppo su quel che mi stava attendendo
da lì a poche ore, giacché il mio amore aveva ragione, non aveva senso rodermi
il fegato in quella maniera per una cosa così da nulla, in fondo.
Non avevo davvero nulla da perdere a riguardo di quella
faccenda, tanto valeva che mi tormentassi il meno possibile.
NOTA DELL’AUTORE
Che idea vi siete fatti di ciò che sta per accadere? Sarà una
vergogna assurda (come la nostra protagonista sospetta), oppure avverrà
qualcosa che potrà cambiare, nel tempo, addirittura il corso dell’intero
racconto?
Grazie per essere qui, come sempre ^^
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Capitolo 30 *** Capitolo trenta ***
Capitolo trenta
CAPITOLO TRENTA
Che uomo che era George! Non avevo mai avuto alcun dubbio a
riguardo, ma durante quella mia esperienza lontana da casa, ebbi modo di averne
ogni certezza. Era una persona precisa, che non perdeva mai le staffe e che non
appariva mai indecisa o insicura, anzi, aveva quel modo di fare molto signorile
e pacato che mi faceva sentire sempre a mio agio.
Giungemmo a Milano giusto in tempo per trovare una camera
d’albergo libera e scaricare i bagagli, poi l’ora x sarebbe stata imminente.
Il mio amante gestì benissimo la situazione; mi portò in zona
e si affrettò a trovare un albergo vicino, in modo che non avessi dovuto fare
troppa strada, e da poterci andare a piedi. In ogni caso, finì per esagerare,
siccome entrò in un albergo molto lussuoso e volle a tutti i costi prenotare lì
la camera.
“Pago io, però”, gli intimai, sul momento, ma mi mise quasi a
tacere. Era tutto offerto da lui. Tacqui per non fare scenate pubbliche, ma mi
riservai di legarmela al dito.
Andammo in camera solo a depositare il bagaglio, poi era ora
di andare, per me. Quando feci per andarmene, lui mi venne dietro.
“Vengo anch’io”, mi disse, sorridendomi. I suoi sorrisi erano
qualcosa di mozzafiato, d’indescrivibile. Li adoravo, e quando li sfoggiava era
praticamente impossibile per me dirgli di no. Tuttavia, quella volta non avevo
altre possibilità.
“Non sono una bambina, posso farcela da sola”, provai a
dirgli.
“Ti prego, lascia solo che ti accompagni fino alla porta del
notaio”, chiese, anche con un tono di supplica.
“Se me lo chiedi così, non posso dirti di no… ti amo, George.
Ti amo”.
Lasciai fuoriuscire quello che provavo dentro di me, lo
lasciai proprio defluire, e in meno di un attimo le mie labbra erano già
appiccicate alle sue, e tra noi c’era un nuovo e passionale contatto.
Sciolsi il nostro contatto in fretta, purtroppo non potevo
permettermi molti altri tentennamenti, ma ero sicura che da lì ad un’ora sarei
stata totalmente libera. Libera di tornare sua, di trascorrere del tempo
assieme, senza avere sempre l’ansia che qualcuno ci veda, o ci scopra. Ansia
che purtroppo era solo mia, siccome George sembrava non essersi mai fatto così
tanti problemi.
Allontanate le nostre labbra, finii per prenderlo a
braccetto, e uscimmo assieme dall’albergo; tutto il resto restò poi un qualcosa
di più indistinto, anche grazie alla forte tensione e alla curiosità che in
fondo provavo, che formava quasi un vorticare di sensazioni contrastanti dentro
di me. Mi lasciai quindi accompagnare fino al grande portone che sanciva
l’ingresso dell’ambiente notarile che mi stava attendendo.
“Ti aspetto qui, nei dintorni. Gironzolo un po’”, affermò
Piergiorgio, ed io mi limitai a fargli un cenno di assenso.
Non avrei voluto che se ne stesse lì ad attendermi, in
un’altra condizione, ed anzi avrei tanto voluto invitarlo ad andare a fare ciò
che voleva, purché non si desse pena per me, ma ben sapevo che ogni mia parola
sarebbe stata inutile, siccome era inamovibile nelle sue decisioni.
Prima di suonare al campanello, affinché mi aprissero
dall’interno, tornò a prendermi con delicatezza per un braccio, e a farmi
volgere verso di lui, per scoccarmi un bacetto casto sulla guancia.
“Quando uscirai di qui, tutto sarà come prima”, mi spiegò in
maniera criptica, e mi lasciò al mio destino. Lo vidi mentre passeggiava poco
distante, piano e lentamente, guardandosi attorno come a volersi studiare ciò
che lo circondava, quando dopo aver suonato il campanello il portone fece
scattare la sua serratura, ed io potei entrare.
A malincuore richiusi la porta dietro di me. Fui ammessa in
una sorta di anticamera, una saletta ben arredata con mobili ricercati, e il
pavimento in marmo che profumava di pulito.
Una poltroncina rivestita di velluto sembrava attendermi, ma
non mi azzardai a sedermi. Non avevo idea se quell’oggetto fosse stato messo lì
appositamente per accogliere i sederi di chi gli passava di fianco, o magari
fosse anch’esso solo qualcosa da osservare, come il resto della stanzetta.
Ero sola, e per qualche istante fui tentata di aprire di
nuovo il portone dall’interno, siccome i tasti erano presenti anche nell’anticamera,
a suo fianco e incastonati nel muro, e richiamare George, che immaginavo fosse
ancora nelle immediate vicinanze, ma per fortuna non fu concesso altro tempo
alla mia mente per tentare di rielaborare meglio una qualche sconveniente
strategia di quel genere, poiché la porta interna, anch’essa di legno lucido,
che divideva l’ambiente in cui ero stata lasciata entrare da un altro più interno,
verosimilmente lo studio del notaio, si aprì, pianissimo.
Si affacciò un uomo abbastanza anziano, che mi sorrise
apertamente e con fare accomodante.
“La signorina Bolognesi?”, mi domandò.
“Sì”, affermai.
“Prego, si accomodi. Venga pure avanti”, m’invitò,
scostandosi dalla porta aperta.
Seguii il suo invito, naturalmente. Mi ritrovai nel suo
studio, come mi aspettavo, e mentre il signore anziano che mi aveva accolto
andava a posizionarsi dietro la sua grande scrivania intarsiata, che sembrava
quasi una cattedra per via del suo aspetto piuttosto possente, potei constatare
che non ero sola; c’era, infatti, anche un’altra donna, probabilmente dell’età
di mia madre, ad occhio e croce.
L’uomo si allungò sulla sua scrivania, e, sempre in piedi, mi
fece cenno di avvicinarmi, siccome una sedia era stata preparata apposta per me
proprio a fianco dell’altra donna. Prima di potermi sedere, il notaio mi porse una
mano e strinse la mia.
“Buon pomeriggio. Sa perché siamo qui, e la ringrazio per
aver accolto il messaggio della lettera inviatale, seppur le sia giunta tra le
mani con un bel po’ di ritardo. Mi scuso molto per il disguido, e la ringrazio
per non essersi appellata a un buon senso che, in questo caso, non era del
tutto infondato”.
Mi aveva parlato con un sorrisetto sul viso. Un sorriso che
era sghembo, non bello e puro come quello del mio George. Più di circostanza.
“L’importante è che io sia qui, il resto è già acqua passata”,
affermai, a mia volta accomodante, sciogliendo anche la leggera stretta di
mano.
Mi sedetti, a quel punto, e lo fece in fretta anche il mio
interlocutore.
“Prima di tutto, vorrei porgervi di cuore le mie più sincere
e sentite condoglianze”, riprese a dire l’uomo, rivolgendosi a entrambe.
E allora tornai a guardare la signora che era seduta a mio
fianco; aveva un viso rotondo, la pelle pallida, ed era vestita con abiti
larghi e forse troppo robusti per quell’estate così torrida. Era ben pasciuta,
anzi, si poteva definire in carne.
Anche lei, all’improvviso, mi guardò, e i nostri sguardi
s’incrociarono, ma mentre io le rivolgevo un’occhiata che non aveva alcunché di
astioso, ella me ne dedicò una fredda e fiammante. Per un attimo, potei
scorgerci un pizzico d’odio, come una scintilla, in quelle iridi azzurre. Chi
era, quella persona, e perché era lì con me, dalla mia stessa parte del tavolo?
“La ringrazio molto”, mi ridussi infine a dire, qualche
secondo dopo che il notaio aveva concluso quel che aveva accennato con fare
molto professionale e molto poco sentito.
La donna a mio fianco ringraziò anch’essa, dopo di me, ma non
appena la udii parlare, mi accorsi che aveva un accento strano… un accento da
straniera. E allora mi fu tutto più chiaro. Il cuore tornò ad aumentare i suoi
battiti, siccome si era quietato da quando mi ero trovata al cospetto del
cortese notaio, quando compresi che dovevo avere a mio fianco quella che era
stata la compagna di vita di mio padre, dopo che aveva lasciato mia madre.
“Bene, andiamo al dunque. Siamo qui riuniti per la lettura di
questo testamento olografo, e cioè il testo che il signor Vittorio Bolognesi,
nato a Ferrara il quindici agosto del 1950, ha scritto di suo pugno, ed ha
consegnato a me, affinché lo custodissi fino a dopo le sue esequie”.
Mentre parlava, il notaio frugava tra le sue carte, con fare
sapiente e allo stesso tempo concentrato ed assorto. Io non sapevo neppure di
cosa fosse morto mio padre, e anche se molte delle mie domande non avevano
trovato risposta, mi rendevo conto che non potevo porgerle in quel luogo e in
quel momento, altrimenti chissà che figura ci avrei fatto.
“Il signor Bolognesi, in questo preciso testamento”, e così
dicendo il notaio impugnò tra le sue dita sottili e pelose un lungo foglio
scritto a mano, ormai ben dispiegato di fronte ai suoi occhi, “ha citato la moglie
e la figlia avuta dal suo primo matrimonio. Persone che mi trovo di fronte,
giusto?”.
La signora consegnò con prontezza la sua carta d’identità, ed
io, notando che l’uomo la controllava, feci altrettanto.
“Perfetto. Ci siete, e siete proprio voi, quindi posso
continuare a procedere”, affermò, sorridendoci di nuovo in modo blando e
tranquillo. Poi, cominciò ad affrontare la lettura del testamento.
Un sacco di parole, quelle che evidentemente mio padre si era
divertito a scrivere. Nessun accenno a nulla in particolare.
In quelle righe che mi furono lette, e che a un certo punto
cominciarono a fiaccare la mia attenzione, si parlava di come aveva deciso di
distribuire i suoi beni materiali, siccome ormai aveva scoperto di essere stato
colpito da un male incurabile, che non veniva specificato, e quindi quelle
erano da considerarsi le sue ultime volontà. Mai un accenno neppure al
lunghissimo periodo di tempo in cui eravamo stati divisi, in cui tra noi due,
padre e figlia, non c’era mai stato alcun contatto.
Io, dopo solo qualche manciata di secondi, ero più che sicura
che il patrimonio ammontasse a niente. Non avevo idea di che persona fosse
diventata il mio genitore, e pure se avesse avuto una casa accogliente e un
buon stipendio, negli ultimi anni. Erano tanti gli interrogativi che
continuavano a frullarmi per la mente, ma che non potevo né volevo esprimere.
Presto, anche troppo, giunse la parte riguardante la
spartizione dei beni, e l’ultima sua volontà; e lì cominciai ad osservare la
signora a mio fianco mentre gongolava.
“Alla signora Viviana Maikowsky, mia seconda moglie, lascio
il nostro appartamento, con tutto l’arredamento incluso, la nostra cagnolina e
tutto quello che ha riguardato la nostra vita coniugale”, sancì il testamento,
tramite la voce sicura ed esperta del notaio. La signora gonfiò il petto,
fiera, in attesa di ascoltare altro.
Provai un brivido di nervosismo, sulla mia pelle, e giurai a
me stessa che se sarebbero saltati fuori dei dettagli umilianti rivolti nei
miei confronti, o in quelli di mia madre, non sarebbe finita lì, in quella
sede.
“A riguardo di mia figlia, la signorina Isabella Bolognesi”,
e dopo aver letto il mio nome il notaio mi rifilò un’occhiatina da sotto le
lenti degli occhiali, la testa ancora curva sul foglio, prima di riprendere a
parlare con chiarezza, “a lei lascio il mio intero patrimonio economico, che
ammonta…”.
Sospirai.
Chiusi gli occhi, nervosa; mi aspettavo la sorpresina, magari
una caterva di debiti nascosti pronti a balzarmi addosso.
Per un’infinitesimale frazione di secondo, il mondo parve
fermarsi attorno a me, e socchiusi gli occhi, pronta a tutto, proprio quando,
però, la signora a mio fianco diventava anche lei rigida, e smetteva di
gongolare.
“…attorno ai seicentomila euro”.
Spalancai gli occhi, e non seppi trattenermi.
“Seicentomila euro di debiti?”, domandai, senza poter credere
all’idiozia che avevo appena udito.
Il notaio alzò di nuovo gli occhi dallo scritto, e mi
sorrise, bonario.
“Non so a cosa allude, signorina. Qui si parla di
seicentomila euro, attivi e depositati su un preciso conto bancario, se mi
lascia proseguire. Poi le consegnerò tutte le carte che le serviranno per fare
le sue verifiche, e per portare avanti la sua causa e i suoi diritti. Non si
parla, tuttavia, di debiti d’alcuna sorta”, mi rispose, ragionevole.
“Mio marito lavorava onestamente. Negli ultimi anni era
riuscito a mettere da parte una discreta somma di denaro, abbastanza cospicua,
e in seguito a dei fortunati investimenti, è riuscito quasi a triplicarla. Non
aveva debiti, né era un ladro”, parlò per la prima volta la seconda moglie di
mio padre, in un italiano abbastanza corretto e fluente. Sembrò specificare
solo per me, d’altronde ero stata io a sollevare qualche granello di polvere
con il mio scarso tatto, e mi riservò un altro sguardo astioso.
Stavo per ribattere, ma il notaio alzò le mani, per metterci
tacitamente in silenzio.
“Qualunque siano i vostri dubbi, questa non è l’appropriata
sede per risolverli, e fare chiarezza. Qui siamo riuniti per la lettura del
testamento, scritto dal defunto signor Bolognesi, e nulla di più. Nessun
dibattito o discussione possono essere inclusi”, sancì, con fermezza.
Da parte mia, annuii, e mi limitai a non tornare a guardare
chi mi stava seduta a fianco.
“Ebbene, il testamento si conclude così. I soldi lasciati a
lei, signorina Bolognesi, sono nel conto di suo padre, di cui potrà ricevere le
coordinate bancarie per sbloccarlo, una volta che saranno concluse le pratiche
burocratiche”, tornò a dire il notaio, senza lasciare spazio a possibili altre
discussioni tra noi due. Era molto esperto e scaltro, sapeva il fatto suo.
Quando l’altra donna presente fece per dire qualcosa, tornò
di nuovo a schermarsi.
“No, no, signora, per favore, non faccia così e non complichi
le cose. Se c’è qualche dubbio, o qualcosa che non va, potrà appellarsi ad
altre figure professionali, che l’aiuteranno a far chiarezza sulla faccenda e
dichiareranno quali sono i vostri diritti, e quali no. Io mi sono limitato a
fare il mio lavoro, al momento non posso e non sono tenuto a fare altro”,
ritornò ad affermare il notaio, sempre risoluto.
L’uomo ci consegnò poi delle carte e dei documenti
riguardanti la lettura del testamento, e ciò che esso sanciva, con tanto di una
copia a testa, una fotocopia naturalmente, siccome l’originale l’avrebbe
custodita lui, in attesa dell’accettazione del testamento.
Da parte mia, ancora a dir poco incredula, firmai i fogli che
mi vennero posti, e pagai in contanti la somma richiesta dal notaio per quella lettura
testamentaria. Cosa che però non fece di buon grado la novella vedova, che si
agitava sulla sua sedia imbottita e sembrava su tutte le furie. Firmò in qua e
in là, poi con stizza lasciò tutto sul tavolo ed uscì dalla stanza, salutando a
malapena il padrone di casa.
“Mi sembra che non l’abbia presa tanto bene”, osservai, quasi
tra me, quando se andò chiudendo la porta dietro di sé, con eccessiva foga.
“Oh, capirà. Lei è la figlia del defunto, ha dei precisi
diritti che la legge italiana le garantisce, e nessuno può prevaricarli. Se ne
farà una ragione! Ah, sapesse quanti casi di questo genere vedo quasi
giornalmente…”.
Di poche parole, e con un sospiro finale, il notaio concluse
il suo breve e rassegnato discorso, ed agguantò le mie carte, tenendosi per lui
quelle che doveva tenere, ammucchiandole e sistemandole poi con attenzione. Io
presi il mio piccolo plico.
Salutai, e mi congedai, accompagnata alla prima porta dal
cortese signore, che mi aprì dall’interno anche quella d’ingresso, con molta
cortesia. Lo spauracchio era finito, ed era ora che tornassi dal mio
Piergiorgio, a riflettere sull’accaduto, e magari a farmi aiutare da lui a
comprendere meglio e a verificare ciò che mi era stato consegnato e detto.
Non feci però in tempo a uscire in strada e a richiudere il
portone d’ingresso di legno dietro di me che la moglie straniera di mio padre
mi piombò addosso. E pensare che non mi ero neppure accorta che era rimasta lì
a fianco dell’uscio, quasi acquattata come una belva assetata di carne fresca,
pronta a balzarmi addosso al momento ritenuto più opportuno dal suo istinto.
“Non finisce qui”, mi disse, puntandomi un dito contro,
quando io invece ormai mi aspettavo che fosse finita così. Non mi aspettavo,
infatti, neppure che mi avesse atteso con quella perfidia.
“Abbassi immediatamente quel dito”, riuscii a mormorare,
turbata da un tale ed aggressivo comportamento.
“Farò valutare il testamento e la sua autenticità, e
consulterò un avvocato. Se sarà tutto a posto, firmerò che accetto il suo
verdetto, altrimenti ti porto in tribunale, bambina”, quasi esclamò, rabbiosa.
Sapeva esprimersi bene in italiano, anzi, praticamente alla
perfezione, sinonimo del fatto che doveva risiedere ormai da tempo nel nostro
Paese, e la stizza che provava la rendeva molto chiara nell’esprimersi, fin
troppo, addirittura.
“La smetta di importunarmi, e faccia ciò che ritiene più appropriato”,
le risposi, più tranquilla. Ma la signora era schiumante di ira, il volto era
ormai diventato di un rosso acceso, per via dell’eccessivo nervosismo provato
sul momento.
Parve sul punto di tornare ad aggiungere qualcos’altro, o di
voler perdurare nel suo losco additamento, ma i suoi occhi saettarono in una
direzione che era contraria al mio viso. Mi volsi all’indietro, istintivamente,
e mi ritrovai per fortuna il mio amante, che si era portato alle mie spalle.
“C’è qualche problema, Isa?”, mi chiese subito George, che mi
aveva appena raggiunto, con lo sguardo fisso sulla mia ipotetica avversaria.
“No, no. Nessuno”, cercai di mantenere la calma.
“Allora, possiamo andarcene subito. Buona serata, signora”,
disse Piergiorgio, prendendomi poi a braccetto e allontanandomi dalla donna
agguerrita.
La vedova, per fortuna, a quel punto si scoraggiò, e si
allontanò in senso opposto al nostro, senza aggiungere null’altro. Solo a quel
punto dovetti affrontare le sue preoccupazioni.
“Ma cosa voleva quella?”, mi domandò, infatti, con molta
serietà ed un pizzico di preoccupazione a turbare il suo tono di voce, sempre
limpido, di solito.
“Cosa ne so”, borbottai senza aggiungere altro, ben
conoscendo la sua inclinazione a preoccuparsi. Io non volevo fasciarmi la testa
per quella tizia sicuramente un po’ fuori di testa, da come aveva reagito e da
come mi aveva atteso all’uscita del locale, e non volevo che George si
preoccupasse per me, anche per quella cosetta da nulla.
“E pensare che mi sembrava molto arrabbiata con te”, tornò
infatti a dire, prendendomi poi a braccetto, mentre ci muovevamo verso
l’albergo dove avevamo prenotato la stanza, “ma, piuttosto, raccontami com’è
andata, se ti va”.
Vuotai il sacco in meno di un baleno. Lui mi ascoltò,
lasciandomi parlare senza mai interrompermi.
Con attenzione, andai anche a tastare i fogli che avevo preso
con me poco prima, riposti nella mia borsa.
“Be’, ti è andata bene, a quanto pare tuo padre ti ha
lasciato una grande cifra. E nulla a tua madre?”, notò, quand’ebbi concluso la
brevissima spiegazione. Scossi il capo con vigore.
“No, lei in ogni caso non voleva niente, quindi va bene così,
nel suo caso, a meno che non abbia cambiato idea all’improvviso”.
“Quell’altra donna che è uscita prima di te, però, sembrava
davvero alterata”, tornò alla carica, curioso come non mai.
“Dio mio, quella è la novella vedova, la seconda moglie di
mio padre. Con lei ha vissuto per...”, feci un rapido conteggio nella mia
mente, gli occhi per un attimo rivolti verso il cielo sereno che mi sovrastava,
ristretto tra i tetti degli alti edifici che mi circondavano, “almeno quindici
anni. Non l’ha presa bene che il maritino mi ha lasciato tutto il suo denaro,
anche se ancora non sono disposta a crederci, fino in fondo. Mi sembra tutta
una trappola”.
“E a lei cos’è toccato?”.
“Oh, l’appartamento dove hanno vissuto fino alla sua morte,
completo di arredamento e cagnolino da compagnia”.
“Quindi ha avuto la sua parte. Non credo che possa metterti i
bastoni tra le ruote, sai?”, tornò a osservare George, pensieroso.
“Lo credo anche io! Ma non dobbiamo preoccuparci di quella
donna, vedrai che le passerà in fretta il nervosismo”, riconobbi.
Giungemmo davanti all’hotel, e Piergiorgio mi rivolse
un’occhiata interrogativa. Mi stava tacitamente chiedendo quello che volevo
fare, e cioè se ero desiderosa di rientrare e riposare, oppure se volevo
continuare la calma camminata.
Scelsi la prima opzione. Ero molto stanca e provata.
“Rientriamo, sono sfinita”, espressi a parole i miei
pensieri.
Piergiorgio non fece una piega, e sempre a braccetto mi
accompagnò dentro all’edificio. Il personale ci osservava, mentre dalla hall ci
muovevamo verso la nostra stanza, le chiavi scintillanti tra le mie dita. Mi
venne da chiedermi cosa stessero pensando quelle persone; chissà come ci
vedevano, se avevano capito che noi due eravamo due innamorati, o se invece
credevano che fossimo un padre e una figlia molto affettuosi… chissà.
Restava il fatto che la scelta della stanza lasciava poco
margine di dubbio, siccome avevamo prenotato una camera dotata di letto
matrimoniale.
Una volta al suo interno, avvolti dall’odore di pulito e da
uno splendore che andava ben oltre quello che avevamo visto presso la bettola
di Vincenzo, dove avevamo trascorso la nostra prima notte di passione, mi
lasciai cadere sul letto, spossata. George, in abiti formali come suo solito,
si precipitò a sedersi a mio fianco, allungandosi poi sul soffice giaciglio,
stando attento a non sfiorarlo con le scarpe.
“Hai visto? Alla fine è andato tutto come doveva andare”, esclamò
con tono sollevato.
“E come doveva andare?”, lo interloquii, retoricamente.
“Così com’è andata, no? Va benissimo”.
“Ancora non ci credo”, affermai, dopo un minuto abbondante di
silenzio.
“Devi crederci, invece”.
Mentre mi diceva così, il mio uomo esaminava le carte che mi
erano state consegnate, dopo averle estratte con delicatezza dalla mia borsa.
Lo lasciai tranquillamente fare, d’altronde desideravo fargliele leggere e
analizzare, tanto valeva che si fosse servito da solo.
“Qui è molto chiara, la faccenda! Vedrai che non riscontrerai
problemi di alcun genere”, aggiunse, dopo una breve lettura.
“Questo vuol dire che sono ricca, in effetti”, dissi,
riflettendo sulla cifra importante che mi era stata lasciata, e sulla quale
aleggiava l’incognita di come avesse realmente fatto ad essere accumulata.
Ero sempre stata convinta che mio padre fosse uno dei tanti
abitanti delle case popolari di Milano, sempre in difficoltà, e invece si era
rivelato qualcuno che non avevo conosciuto, quando ero bambina. Era sempre
stato un uomo losco, pigro e tendente alla violenza e all’apatia.
Questo era come lo ricordavo, ma probabilmente, e a quanto
pareva, non avevo mai capito fino in fondo le sue reali potenzialità. A quel
punto, tuttavia, poco importava, poiché i giochi erano fatti.
“Non pensare a queste cose”, sancì amabilmente il mio saggio
interlocutore.
“Come facevi a sapere che tutto si sarebbe risolto per il
meglio?”, gli chiesi.
La mia era una domanda un pochino ironica e provocatoria,
siccome sapevo che non aveva la sfera magica in grado di condizionare il corso
degli eventi, tuttavia era sempre stato fin troppo sicuro sul fatto che tutto
sarebbe andato a finire bene.
“Perché ho pregato, ho pregato per te”.
Non mi aspettavo una risposta tanto seria e profonda, e tirai
su la testa dal cuscino, un po’ stupita.
“Ho pregato affinché andasse tutto alla perfezione e nel
miglior modo possibile”, ribadì di nuovo. I nostri occhi si incontrarono,
fondendosi in un lungo e complesso sguardo ricambiato e sostenuto da entrambe
le parti.
“Preghi… anche per me?”, sussurrai, ancora stupita. Non ero
una persona credente, e non mi ritenevo affatto tale. Non ricordavo neppure le
preghiere più elementari. Di sicuro, però, non mi aspettavo di essere così
tanto meritevole, e che qualcuno rivolgesse preghiere per ottenere sconti delle
mie ipotetiche pene.
“Certo che lo faccio”, mi spiegò, “e chiedo sempre che tutti
i dispiaceri che sono riservati a te vengano girati a me. Odio vederti soffire”.
Mi commossi enormemente, e afferrai le sue mani, ponendole
tra le mie.
“Oh, George, quanto sei dolce! Davvero, anche io sto male, se
ti vedo soffrire, quindi a ciascuno le sue pene preparate dal destino, va
bene?”.
Gli sorrisi, con gli occhi umidi. Piergiorgio era un uomo
così tanto in grado di amare che era giunto a parlarmi di argomenti che
andavano ben oltre le mie limitate ed alquanto egoiste capacità intellettive.
Personalmente, non avrei mai compiuto un tale pensiero
rivolto a qualcun altro. Mi stava quindi offrendo una piccola, ma allo stesso
tempo grandissima, lezione d’amore per il prossimo. Dovevo essere fiera di
avere un uomo così a mio fianco. Così buono, così puro. Inalterato, nonostante
le migliaia di esperienze diverse e il tempo che scorreva inesorabile anche per
lui.
Non mi rispose, né accennò nulla con il capo; seppi solo che
ci ritrovammo avvinghiati sul letto, i nostri corpi di nuovo pronti a sovrapporsi,
per l’ennesima volta, e a fondersi. Fintanto che sarebbe stato così, il nostro
idillio sarebbe continuato.
Lasciai che mi svestisse, ed io feci altrettanto con lui, e
poi, senza più aggiungere altro, tornammo a fare l’amore, dimenticandoci di
tutto e di tutti. Tra le sue braccia, mi sentivo sollevata, soddisfatta e
potente, come se fossi stata la regina del mondo intero.
NOTA DELL’AUTORE
Vi aspettavate tutto questo? A riguardo del testamento,
intendo ^^
Vediamo come va a finire… la signora sembra alquanto
arrabbiata… xD
Scusate il ritardo, ma tra neve e quant’altro alla fine non
ho aggiornato xD ancora scusa, a tutti.
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Capitolo 31 *** Capitolo trentuno ***
Capitolo trentuno
CAPITOLO TRENTUNO
A Milano avevo risolto. Non c’era più motivo affinché la mia
permanenza dovesse protrarsi ulteriormente.
Passai quella prima notte in albergo abbracciata al mio
George, e quando di tanto in tanto ci svegliavamo, tornavamo a fare l’amore. Il
resto fu tutta tranquillità, coccole ed effusioni.
Quello fu sicuramente il periodo durante il quale ero più
innamorata di lui, totalmente persa. L’alba aveva sempre fretta di far capolino
nel cielo estivo, ma quel giorno, almeno da parte mia, non c’era fretta né
ansia; non dovevo andare al lavoro e non avevo alcun impegno.
“Vai alle conferenze, oggi? O a qualche congresso?”, chiesi a
George, col suo viso a un palmo dal mio, appoggiato sul cuscino e con gli occhi
socchiusi.
“Dovrei?”, mi rispose. Sorrisi.
“In teoria”.
“In pratica è tutta un’altra cosa. Sarà per un’altra volta,
che ne dici? Tanto di ciance ne ho ascoltate un’infinità, durante il corso
della mia carriera. Anche se me ne perdo qualcuna, fa lo stesso”.
Era molto serio, ma sereno.
“Mi sono lasciata portare qui da te perché mi avevi garantito
che avevi altro da fare, e che non era un disturbo. Se non andrai da nessuna
parte, potrei sentirmi all’improvviso un peso”, dissi, mimando un po’ la sua
serietà.
In realtà, avevo pronunciato quelle parole con un minimo di
timore reverenziale, poiché se da un verso erano veritiere, dall’altro ero
felice che lui passasse del tempo con me. Avrei voluto che quell’ennesimo
momento di intimità fosse destinato a non finire mai, pur sapendo che ciò era
solo un sogno.
George tuttavia prese davvero sul serio le mie parole, e
scattò repentinamente. Le sue mani corsero verso il mio viso, e lo
intrappolarono nella loro delicata ma inflessibile stretta, poi allungò il
volto e tornò a baciarmi, con passione crescente.
“Io ti giuro che per me non sei un peso, e non lo sarai mai.
Hai presente quello che ti ho detto ieri sera?”, mi chiese, interrompendo per
un attimo il contatto. Annuii, in maniera istintiva.
“Per te rovescerei il mondo. Ti vorrei donare ogni cosa, e
strapparti di dosso ogni sofferenza. Vuoi capire che sono cotto di te? Non
penso ad altro che a te, a volte mi sembra di impazzire, davvero”, ammise, con
enfasi crescente.
“Anche quando lavoro, la testa corre sempre verso di te, a
chiedermi cosa stai facendo, come stai… tutte quelle domande idiote. Idiote, ma
asfissianti. So che sono pazzo, tra di noi non avrebbe mai dovuto esserci
nulla, però è andata così, e sono perso, vivo per te e a te donerei ogni cosa
che c’è” proseguì, imperterrito.
A quel punto, con le lacrime agli occhi per l’emozione e la
commozione, mi divincolai dalla sua stretta, e adagiai la mia testa al centro
del suo petto, con fare affettuoso, sperando che mi abbracciasse immediatamente
e che mi coccolasse un po’. Il mio tacito desiderio fu subito accontentato.
“Anche per me è la stessa cosa, George. Per questo… per
questo vorrei farti una domanda”, esordii.
Deglutii, poi, piano, nel tentativo di farmi forza, e di
comprendere se quello che stavo per dire era qualcosa di corretto. Sapevo che
stavo per arrivare a un punto dal quale non sarei più potuta tornare indietro,
se mai me ne fossi pentita in qualche modo. Non potevo, tuttavia, continuare a
trattenere la mia passione, e il legame sempre più saldo che mi univa a
quell’uomo era sempre più resistente, giacché sapevo che lo amavo, e un amore
così intenso non avrei potuto provarlo e riporlo nei confronti di altre
persone.
George era il mio tutto, in quel determinato momento della
mia vita. Per quello mi convinsi, alla fine, che quello che stavo per esprimere
era giusto e corretto, poiché non era altro che il riflesso del volere della
mia interiorità e del mio animo. Piergiorgio, che se n’era rimasto in silenzio,
attendeva intanto che io facessi la mia mossa. Mi stava ascoltando, sapevo che
era curioso e tutt’orecchie.
“Voglio dirti… anzi, voglio chiederti… se mi vuoi sposare”,
borbottai. Erano le parole più forti e concentrate che io avessi mai
pronunciato in vita mia.
Avvertii le pulsazioni del cuore del mio interlocutore che
aumentavano vertiginosamente, anche se non diede altro segno di emotività.
“Se ci sposiamo. Io ti amo, credo che non potrò mai provare
qualcosa di simile con qualcun altro che non sia tu”, conclusi, con maggior
decisione.
George se ne stette ancora qualche secondo in silenzio, quasi
a soppesare quello che gli avevo detto. Le sue mani, però, cominciarono ad accarezzarmi,
e ogni volta che la pelle delle sue dita sfiorava la mia, nuda e inerme, un
brivido di passione sembrava trafiggere tutto il mio corpo, a partire dal punto
in cui avveniva il contatto.
“E’ da tempo, ormai, che ti ho detto che ero disposto a
prenderti anche come moglie e compagna di vita, lo sai, però voglio che tu
abbia ben chiaro quel che significa sposarsi. Io ti porterei all’altare subito,
in braccio, anche a costo di farmi male, ma non voglio che poi un giorno ti
debba pentire di questa scelta”, cominciò poi a dire, pacatissimo.
“Non potrei mai pentirmi”, esclamai, piano, da parte mia.
“Questo non puoi saperlo”, le sue mani cominciarono a
sfiorare il mio viso, “siamo diversi, e questo lo sai. La gente potrebbe
parlare, anzi, sparlare, una volta che si sarà diffusa una notizia del genere.
La gente riderebbe di noi, ti giudicherebbe, mi giudicherebbe. Senza pietà”.
“A me non interessa”, affermai, molto decisa.
“Non ti interessa per adesso, perché non sei messa di fronte
ai giudizi impietosi di una folla pronta a lapidarti a parole”.
“La gente ride di tutto, George! Anche se mi mettessi col
ragazzo più figo della città, mi deriderebbe, chiamandomi brutta e
approfittatrice. Noi donne siamo abituate fin da bambine ai pregiudizi di
genere, sai?”.
Stavo provando a mettere a frutto la mia razionalità,
sommando le mie esperienze personali e quello che avevo udito durante la mia
vita.
Anche quando stavo con Marco c’erano state chiacchiere;
alcune mie amiche di un tempo mi avevano additato come una poco di buono,
poiché dicevano che mi ero messa con lui solo per approfittarne, essendo un
figo senza cervello ma molto ricco. All’inizio ci ero rimasta male, poi avevo
compreso che forse erano gelose. E se non fosse mai stato così?
Le ragazze e le donne, a ogni minimo sbaglio, diventavano
improvvisamente troie sulla bocca del volgo, con tanto di pioggia di insulti
gratuiti. Il problema era la società che sotto certi aspetti non si era mai
evoluta, soprattutto a riguardo di alcuni stereotipi pestiferi che erano più
antiquati del Medioevo.
Che poi, in fondo, gli uomini commettevano cose ben peggiori
e tradimenti ben più ignobili e denigranti, eppure nessuno li chiamava porci;
anzi, sembrava che le loro porcherie avventurose diventassero improvvisamente
opere da bardi, da narrare a piccole dosi e a più puntate sotto i lampioni che
illuminavano le facciate dei bar durante le buie serate invernali. Per gli
uomini, omertà e omaggio; per le ragazze, solo vocaboli volgari.
Frenai la mia mente, che in una frazione di secondo aveva già
preso il largo e si stava perdendo nei suoi rapidi e vorticosi ragionamenti, poiché
George stava tornando a parlarmi e a spiegarsi.
“Sei molto coraggiosa, non ne dubito, ma non vorrei mai
esporti ad un inutile rischio. Non sei obbligata a chiedermi di portarmi
all’altare, sai? A me va bene anche così, mi basta saperti felice e passare un
po’ di tempo con te, e nient’altro”.
“Allora ti stai tirando indietro? Non vuoi ufficializzare più
la nostra relazione?”, chiesi, infervorata dalla spiegazione appena ottenuta,
che mi era parsa decisamente troppo calma e diplomatica.
“Lo voglio, calmati”, mi assicurò, con voce profonda, “ma
desidero che anche tu lo voglia. Con tutta te stessa, altrimenti non avrebbe
alcun senso, e il significato del nostro gesto e della nostra decisione comune
andrebbe presto perduto”.
“Da parte mia ho deciso. Se mi vuoi come moglie, e se accetti
di risposarti, io sono completamente tua”, gli garantii, con sicurezza. Era una
mia precisa decisione, sul momento sentivo che non volevo fare alcun passo
indietro.
“Allora ci sposiamo”. E così dicendo, tornò a coccolarmi con
ancora maggiori attenzioni.
Le sue mani si fecero improvvisamente bramose, vogliose di
toccare la mia carne, stanche ormai di limitarsi ad accarezzarla, e sapevo che
stavamo per tornare al punto di partenza, e cioè quello che coincideva con
l’unione fisica dei nostri corpi.
“George”, sussurrai, nel tentativo di non perdere il filo
della mia tenue razionalità, siccome stavamo portando avanti discorsi così
importanti che non volevo finissero subito risucchiati dal bisogno perentorio
della nostra passionalità. Il richiamo funzionò, poiché si frenò, almeno un
minimo.
“Dimmi”.
“Ti prometto che, non appena torniamo a casa, ti presento a
mia madre”.
Cercò di dire qualcosa, ma lo interruppi, utilizzando le mie
mani, quella volta, per sfiorargli le labbra socchiuse, nel vano tentativo di
pronunciare qualche parola che non volevo udire e che ritenevo inutile.
“Ho atteso fin troppo, e me ne vergogno. Più il tempo passa,
e più tu doni qualcosa a me; le relazioni non devono essere a senso unico. Sai
che tra le coperte ci capiamo e stiamo bene, ma con la luce del giorno io ho
sempre cercato di continuare a tenerti in ombra, come nascosto. Non voglio che
questo accada più, quindi stai pronto a ricevere un invito a cena”, gli
spiegai, sempre con decisione.
Era il momento anche per me di prendere una posizione, e di
smetterla di trovare finti compromessi con me stessa e con chi mi circondava.
George mi aveva dato tanto, da quando ci eravamo conosciuti e messi assieme, e
non volevo che il suo fosse solo un dare, senza mai ricevere qualcosa di
concreto.
Non volevo passare per colei che giocava con i suoi
sentimenti e la sua bontà, approfittandosene barbaramente; certo, ero
sicurissima che lui non avrebbe mai formulato simili pensieri nella sua mente
pura e generosa, ma magari dall’esterno avrebbero potuto ben presto sorgere
tali voci.
D’altronde, il nostro era un po’ un giocare col fuoco,
siccome ormai eravamo affiatati e capitava che ci lasciassimo andare in
ambienti e luoghi dove non eravamo totalmente soli e isolati, quindi era
naturale che prima o poi qualcuno, anche casualmente, ci avesse scoperti. Io
non desideravo essere scoperta in quel modo, poiché non avevo nulla da
nascondere, e da parte mia era amore sincero, ed evidentemente ricambiato,
quindi basta provare a restare nascosti.
Era giunto il momento di venire fuori, e di emergere, prima
che fossero altri e terzi a obbligarci a farlo, cosa che sarebbe stata molto
meno piacevole, e anzi, piuttosto umiliante e ridicola.
“Farò ogni cosa che desideri”, affermò, infine, tra i denti.
La sua non era stata un’affermazione risentita, ma leggermente ostacolata dalla
mia fulminea decisione.
Stavo prendendo in mano il gioco, per la prima volta, e ci
stavo anche prendendo gusto, nel farlo. Finalmente mi sentivo donna, donna
dentro, la femminilità briciava nelle vene e scorreva nel mio sangue; stavo per
costruire una famiglia, e non avrei mai creduto che sarebbe accaduto così tanto
presto, per di più con un uomo così singolare, come poteva apparire a chi
ancora non lo conosceva per bene.
George era tutta una scoperta, era una persona che andava
conosciuta per essere giudicata con il giusto criterio. Era un soggetto con cui
bisognava parlare, lasciarsi andare, e saper ascoltare. Adoravo i suoi occhi,
la sua voce, il suo odore, il suo modo di fare signorile, che mi sembrava
sempre qualcosa di andato irrimediabilmente perduto. Ed ero ben cosciente che
non volevo perdere neppure lui.
“Preparati quindi per una cena in famiglia”, gli ammiccai,
nella penombra. Rise, piano.
“Ogni tuo desiderio è un ordine, per me”.
“Se mi dici così, non ti invito, guarda! Salta tutto!”, esclamai.
“E perché?”.
Mi guardava, divertito, mentre mi alzavo sui gomiti.
“Io per te non voglio essere un ordine, ma una scelta”,
affermai, rendendomi più dolce.
“Ogni cosa è come vuoi tu e come la dici tu”.
Non si scompose, il mio interlocutore, ma anzi, continuava a
sorridermi e a fissarmi con quello sguardo colmo di un calore che non avevo mai
provato sulla mia pelle. Il suo sguardo era intenso, le sue palpebre socchiuse
nascondevano iridi profonde, così insignificanti nella loro colorazione, eppure
così travolgenti, se osservate.
Quegli occhi erano un blando sipario che nascondeva solo
leggermente il variegato e vivace mondo interiore di colui che ormai era il mio
futuro marito.
“Sei così dolce”, gli sussurrai, e allora lui tornò a
protendersi verso di me e a strofinare il suo viso sopra al mio petto,
baciucchiando mentre lo faceva.
Lo adoravo. Probabilmente aveva notato che apprezzavo molto
quando compiva quell’azione, e quindi la ripeteva spesso e volentieri, quasi a
volermi adulare. Poco importava; continuava a piacermi moltissimo, era una di
quelle attenzioni in più, da considerarsi alla stregua di preliminari, che mi
assecondava e mi dava contentezza.
“Continua”, mugugnai, e allora non si fermò, anzi, proseguì e
cominciò a scendere lungo il corpo. A un tratto, gli fermai il volto con
entrambe le mani.
“Raccontami qualcosa”, gli sussurrai, e allora George alzò lo
sguardo verso di me, un pochino confuso.
“Come?”.
“Raccontami qualcosa, ti ho detto. Se ne hai voglia”.
Rise abbastanza forte.
“Che significa?”.
“Significa che mi piacerebbe sentire qualcosa di raccontato
da te. Ho voglia di sentirti parlare, ormai sono sazia per questa notte, a
riguardo di quello che vorresti tornare a fare”, quasi lo ripresi,
scherzosamente.
“Va bene”.
Sembrava davvero deciso ad assecondare la mia richiesta
repentina, poiché lasciò perdere il mio corpo e tornò a spostarsi a mio fianco,
sempre disteso, facendo ondeggiare tutto il letto. Gli sorrisi, quando tornò ad
essere sdraiato perfettamente di fianco a me.
“Hai scelto di tornare bambina, per caso? Devo raccontarti una
favola?”, mi domandò, anche lui con un’ironia che non era comunque pungente,
anzi, non mi feriva, sapeva di tenera carezza. Scossi con forza il capo in
segno di diniego, ridendo a mia volta.
“Ah… allora, almeno mi viene concessa la possibilità di
raccontare quello che voglio, in totale libertà?”, m’interloquì nuovamente, ed
io ero tanto felice che avesse scelto di stare al mio gioco e di provare ad
intrattenermi.
“Puoi raccontare tutto quello che vuoi, la notte tanto è
ancora lunga. Puoi anche inventare qualcosa, fa ciò che vuoi… a me basta
sentire la tua voce”.
“La mia voce?”.
Era tornato a essere un po’ sorpreso.
“Certo. Ti ho mai detto che mi piace molto? Mi sono
innamorata anche di lei!”, esclamai, e mi lasciai sfuggire una mezza risata,
però lui non fece nulla, e, in silenzio, cercò le mie mani e le strinse tra le
sue.
“Sei in vena di bizzarrie. Va bene! Allora, ti posso
raccontare qualcosa di strambo, cosa ne pensi? Qualche ricordo che mi è venuto
in mente in questo momento così tanto intimo e originale”, si spiegò,
serissimo. Annuii.
“Basta che parli”, gli assicurai, avvicinandomi ancora di più
a lui fintanto che le pelli dei nostri corpi nudi non tornarono a sfiorarsi.
“Ah, va bene. Allora ti racconto una sorta di favola”.
Tossicchiò brevemente, ed io me ne stetti in tacito silenzio,
socchiudendo gli occhi e preparandomi a lasciarmi cullare dalla sua voce. Mi
piaceva molto, e non solo perché era molto limpida, più di tutti quelli che
conoscevo, siccome era pulita e non aveva alcun minimo cenno di cadenze dialettali,
inoltre era profonda e ispirante, rilassante da ascoltare.
“C’era, tanti anni fa, un bambino nato in povertà. Non aveva
nulla; era stato obbligato, per forza di cose, fin da appena nato a indossare
gli abitini dei fratelli maggiori, e ad usare, poi, i loro stessi giocattoli di
legno. Quel bambino, da quando cominciò a comprendere il senso della vita, e il
fatto che durante il suo corso bisognava compiere delle scelte, iniziò a
desiderare ardentemente di diventare un medico, come lo era stato suo nonno,
tanto tempo prima della sua nascita”.
George fece una piccola pausa. Non sapevo bene dove volesse
andare a parare, siccome non mi sembrava proprio che mi stesse raccontando una
favoletta, seppur il tono che stava utilizzando fosse consono a tal narrazione.
Me ne restai, quindi, ancora ad ascoltare, in totale silenzio.
“Quel nonno che non aveva mai conosciuto, ma di cui la mamma
gli aveva parlato tante volte, e che faceva parte dei piccoli racconti che lei
gli narrava per farlo addormentare, quando faceva i capricci. Il sogno del
bimbo era, quindi, seguire le orme del leggendario antenato, e, col passare
degli anni, il sogno in questione si tramutò in fervente desiderio.
“Era l’Italia del Dopoguerra, ancora ci si leccava le ferite,
ma a testa alta; dei soldi in casa sua non ce n’erano, nonostante i fratelli
più grandi avessero già studiato e cominciato a far carriera per conto loro. Fu
così che la mamma, dopo che il suo figlioletto, ormai diventato ragazzo e
giovane uomo, decise di fare un grande sacrificio, per lui; tirò fuori da
chissà dove un vecchio zaino tutto impolverato e logoro, liso in più punti, e
dal suo interno estrasse un sacchettino, contenente alcune monete d’argento
puro.
“Il ragazzo le guardò mentre essere venivano colpite dai
raggi caldi del sole estivo! E la madre gli promise che le avrebbe scambiate,
che c’era gente che acquistava quell’argento e pagava anche bene. Il giovane sapeva
che doveva trattarsi di una storia lunga, perché quelle erano, per l’appunto,
monete, e una valuta così non l’aveva mai vista prima di allora. Non chiese
mai, comunque, nulla a riguardo, giacché sapeva che la madre non gli avrebbe
detto niente. Era solo quello l’argomento da evitare, e cioè la provenienza di
quelle monete e come avessero fatto a finire tra le sue mani.
“Restò il fatto che, grazie a ciò che guadagnò da quella
vendita, poté garantire al figlio l’iscrizione all’università, e un anno di mantenimento,
poi si sarebbe dovuto arrangiare. Al ragazzo poteva bastare!”. S’interruppe
dopo quell’ultima esclamazione più acuta rispetto al resto del racconto, e
notai che la sua voce stava cambiando timbro.
“E’ una storia bellissima. Ti prego, continua a raccontare,
ti ascolto”, sussurrai, attentissima, a quel punto.
“E fu così che il ragazzo, che fin da bambino sognava di
diventare medico, poté avviare gli studi, e alternandoli a qualche lavoretto
saltuario, rimboccandosi le maniche, a distanza di anni riuscì a laurearsi, e
a… diventare dottore… chirurgo… come il nonno…”, sembrò concludere George,
sopraffatto infine dall’emozione.
Aprii immediatamente gli occhi, e mi tirai sui gomiti per
l’ennesima volta, e subito incontrai il suo sguardo, molto provato, e vidi
distintamente due lacrime che gli stavano scendendo lungo le guance, subito
inghiottite dalla peluria del volto, che le nascose a dovere.
Restai basita a osservare il mio Piergiorgio mentre piangeva,
lasciandosi andare a quelle che non erano favolette, bensì ricordi veri.
Compresi che mi aveva parlato di lui, e aveva deciso di aprirsi ulteriormente a
me, con tutte le rispettive conseguenze del caso. Trattenni il respiro per un
attimo, poi sospirai con forza.
“Questa era… la tua storia”, mormorai, e con delicatezza
andai a cercare le sue mani, e le trovai con facilità, poi le strinsi tra le
mie, ma le lasciai poco dopo, poiché le portai sul suo viso, ad asciugargli le
lacrime. Era così vulnerabile, in quel momento, quell’uomo che per me era sinonimo
di protezione e di forza!
“Non devi piangere, amore mio”, dissi, rattristata, “non
devi, perché se no sto male anch’io. Non dovevi raccontarmi queste cose, se ti facevano
emozionare così tanto”.
Lui mi guardò, senza nascondere gli occhi arrossati, e li
potevo scorgere bene nonostante la luce fioca che ci illuminava, poiché erano
grandi, e, soprattutto, sembrava che volessero essere osservati.
“L’ho fatto perché volevo che tu sapessi qualcosa in più su
di me. Non preoccuparti se mi sfuggono due lacrime, è tutto a posto, è solo la
commozione di un attimo”, farfugliò, e intercettò le mie mani, ancora
appoggiate sulle sue gote, e le spostò dal suo volto. Giusto in tempo per
lasciare che potessi avvicinarmi alle sue labbra e baciarlo.
“Sei ancora quel bambino, dentro di te”, mi venne spontaneo
dirgli, senza neppure sapere il perché.
Era quel senso di purezza che trapelava da lui, a farmi dire
certe cose? Eppure, entrambi eravamo persone vissute. Certo, io ero più
giovane, ma tutti e due avevamo delle storie alle spalle, e non eravamo affatto
novellini negli ambiti che più contavano nell’esistenza di una coppia.
Piergiorgio però ancora lasciava trapelare quel senso di
buono, di affidabile, di vergineo, che andava del tutto in controtendenza con
il suo corpo e la sua età. Era una scoperta, ogni volta che parlava e mostrava
i suoi sentimenti, senza mai mascherarsi o cercare di filtrare i suoi pensieri
e le sue emozioni.
“Quel bambino è morto da tanti anni, ormai”, provò a
correggermi.
“Ti garantisco che io lo vedo ogni volta che i nostri sguardi
si incontrano, e che ti sento parlare. Quel bambino è vivo e vegeto, sei tu che
lo credi morto”, insistei, sicura di quello che stavo dicendo.
“Quanto ti amo”, affermò, infine, quando sembrava che avesse
voluto aggiungere altro. Gli sorrisi apertamente.
“Anche io, all’infinito”, gli garantii, e tornammo a
baciarci.
“Non posso più stare senza averti ogni giorno a mio fianco”,
gli sussurrai, tra un bacio e l’altro.
“Devi sapere che i nostri giorni sono contati, non farti
illusioni”, bofonchiò, e allora mi lasciai colpire da quella frase così forte,
così ad impatto, che sembrò cozzare contro tutto quello che avevamo espresso
fino a quel momento. In fin dei conti, però, dovevo riconoscergli che aveva
ragione anche quella volta.
Preferii non commentare ulteriormente, e non aggiungere
altro, senza approfondire quel discorso, lasciando quindi che cadesse
nell’oblio. Non volevo rattristarmi, volevo godermi quel momento di così
intensa e profonda intimità, senza danneggiarlo in alcun modo, poiché non aveva
senso farlo, tanto nulla avrebbe potuto salvarci dalla nostra fine.
La vita era un meccanismo implacabile.
“Ti prego, rendimi tua un’altra volta”, mormorai, avvinta.
La libidine era l’unica forza interiore che mi permetteva di
far eclissare ogni sorta di turbamento del mio animo, e poi sapevo che sarei
tornata a godere delle sue attenzioni e della fusione dei nostri corpi, che
erano così fragili, nella loro nudità; così caduchi, così tremendamente umani.
Piergiorgio aveva ragione, sì, ne aveva tanta, purtroppo; la
nostra fine sarebbe giunta, prima o poi. Ma, nel frattempo, avevamo l’occasione
unica per utilizzare al meglio e come ci pareva quel po’ di tempo che restava
prima del baratro. Tanto valeva che facemmo l’amore ogni volta che i nostri
corpi lo richiedevano, e che andasse all’inferno l’intero mondo e i giudizi
degli altri.
Se il nostro era amore, che amore fosse.
Piergiorgio alla fine non andò né a convegni, né a conferenze
o ad altri possibili impegni.
Trascorremmo assieme quel po’ di tempo che ci restava,
dedicandoci a stare in camera a fare l’amore, o a girovagare per Milano.
Quella città non mi dispiacque, anzi, alcune sue zone mi
colpirono molto positivamente, e seppero affascinarmi. Fu una sorta di nostra
prima vacanza, seppur brevissima. Sapemmo comunque trarre giovamento da ogni
istante che ci fu concesso. La galleria Vittorio Emanuele, il castello
sforzesco… il fascino di tutti gli edifici antichi che mi circondavano, la loro
storia mi avvinceva, mi lasciava senza parole.
Acquistai un paio di magliette, che George volle
obbligatoriamente pagare di sua tasca, per cui in seguito dovetti minacciarlo
di risarcirlo, una volta tornati a casa, e poi basta, solo baci e affetto,
camminando mano nella mano di fronte e a fianco di tantissime altre persone,
che chissà cosa dovevano pensare di noi, quella coppia così mal assortita,
almeno in apparenza.
Eppure, in fondo, che importava?
L’importante era che andasse bene a noi, che ciò ci piacesse,
ed era così.
Per tutto l’arco di quella giornata, l’ultima che avremmo
trascorso per intero in quella metropoli così lontana da casa nostra, ci
dedicammo solo a noi stessi e allo svago. Al resto, ci avremmo pensato poi,
quando gli spettri della quotidianità sarebbero tornati a riaffiorare
miseramente e a incombere su di noi.
NOTA DELL’AUTORE
In queste note vorrei solo approfittarne per augurare a tutti
voi un felice e sereno Natale, e delle fantastiche festività ^^ grazie per
essere qui.
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Capitolo 32 *** Capitolo trentadue ***
Capitolo trentadue
CAPITOLO TRENTADUE
Dopo l’ennesima notte trascorsa a fare l’amore e a coccolarci
a vicenda, venne anche il giorno di rientrare.
Mi accinsi a lasciare l’albergo con il magone in gola, poiché
mi ci ero trovata davvero benissimo, e il servizio era stato ottimo. In camera
avevamo tutto quello di cui potevamo aver bisogno, e c’era stato sempre un
stuolo di persone ben disponibili ad esaudire ogni nostra richiesta, ad ogni
ora, naturalmente.
Non avevo idea di quanto fosse costato quel prestigioso
pernottamento al mio George, ma siccome aveva pagato il conto quando io
sistemavo i nostri ridotti bagagli, mi era rimasto il dubbio. Dubbio che, da
parte sua, sembrava non aver alcuna intenzione di dissipare; non voleva proprio
parlarne.
Sapevo che faceva così per non farmi sentire in colpa di tale
spesa, ma io poi più di tanto non potevo fare, quindi mi decisi comunque a
lasciare perdere, tanto, se era stato contento lui, lo ero stata anche io,
seppur avessi ancora qualche rimorso a riguardo. D’altronde anche quel discorso
era una metaforica pagina da girare, e quindi cercai di non pensarci più,
soprattutto continuando a notare il muro che Piergiorgio aveva costruito
attorno ad esso.
Fui allora costretta solo a ringraziarlo tanto, anzi,
tantissimo.
“Io per te farei ogni cosa. E non preoccuparti per i soldi, è
da tutta la vita che guadagno e che metto da parte, e adesso è giunto il
momento di tirare fuori qualcosa dal portafoglio”, mi disse, sincero e
sorridente.
Ero impassibile di fronte alle sue parole, ma non potevo
farci nulla.
Giunse in fretta il momento di lasciare l’albergo, e me ne
andai con le lacrime agli occhi, commossa, naturalmente dopo aver salutato il
personale che mi era stato più a cuore.
“Questo non è un addio, mia adorata. Torneremo presto, se ti
sei trovata bene”, mi promise subito George, notando la mia commozione.
“No…”, mugugnai, ma lui mi interruppe.
“Io devo ancora capire quello che vuoi davvero, Isa. Sono qui
che per te darei la vita, non vedi? Approfitta della situazione, qualche volta”,
esclamò, con fare amichevole e facendomi l’occhiolino.
“Non è questo che voglio! Io voglio ricambiare ciò che mi
dai. La vita è un dare e un avere, non voglio starti letteralmente sul
portafoglio, capisci?”, provai a spiegarmi, un pochino disperata. Sembrava che
non avesse mai intenzione di capire quel concetto che ormai stavo cercando di
spiegargli da intere settimane, ma non dava corda alle mie parole, anzi, non ci
badava proprio e faceva di testa sua, a riguardo.
Anche quella volta, infatti, scrollò il capo mentre mi
ascoltava per l’ennesima volta.
“Ti ho detto che è solo questo che ti chiedo. Non ti chiederò
mai nulla, né di darmi qualcosa, né di fare qualcosa per me o al posto mio… o
di ricambiare ciò che ti dono e ti offro. L’unica mia richiesta è solo quella
di accettare ogni regalo che ti faccio, e se voglio pagare qualcosa”, ricominciò
a sua volta a spiegarsi, “sei tu che non capisci il bisogno che ho dentro di me
di fare qualcosa per te”.
“Ma io non voglio questo, non lo voglio…”, fu il mio turno di
scrollare il capo, sconsolata.
“Sono fatto male, lo so. Se per te questo è un mio grave
difetto, ti chiedo di sopportarlo, come accade per ogni coppia. Non mi sembra poi
un difetto tanto grave, eh?”, tornò a dirmi, amichevolmente.
“Non lo è”, tornai a riflettere, e guardando il suo sorriso
bonario mi divenne impossibile continuare a restare sulla medesima posizione di
poco prima, “lo sopporterò, allora, ma vedi di non strafare. Sai com’è la
nostra interiorità, vero? E tu, in fondo, accetteresti mai che io pagassi tutti
i tuoi conti e ti ricoprissi di regali?”.
“Se tutto ciò è fatto con profondo amore e rispetto, sì”.
Spiazzante nella sua rapida risposta, diretta al punto.
E allora, sull’uscio automatizzato dell’albergo a cinque
stelle finimmo a baciarci con passione, di nuovo… il nostro era un vortice dal
quale non riuscivamo più a uscirne, e non importava se di tanto in tanto
qualcosa sembrava metterci in affanno, seppur leggermente, perché il nostro
amore era potente, era come un fiume in piena, difficile da arginare e da
trattenere. Una fiumana di emozioni che non conosceva limiti né uguali, e nulla
riusciva a fiaccarla, se non per qualche falso istante.
“Non parliamone mai più”, mi sussurrò, tra un bacio e un
altro.
Smettemmo di baciarci solo quando ci accorgemmo che tutti
attorno a noi ci osservavano, e allora, con le gote che arrossivano piano e con
in mano la mia borsetta, mi affrettai a muovermi verso l’uscita, con George che
mi teneva a braccetto, impassibile.
Sembrava che il fatto che gli altri ci guardassero non gli
desse fastidio, e che anzi gli offrisse l’occasione per sbizzarrirsi ancora di
più e mostrare pubblicamente tutta la passione che provava per me. Tuttavia,
non fece resistenza alcuna quando cominciai a muovermi e smisi in fretta di
baciarlo.
Per uscire, lasciai per un attimo il suo braccio, e con il
cellulare tra le mani mi accinsi a riaccenderlo, dopo due giorni in cui l’avevo
tenuto spento. Mi chiedevo se mia madre mi avesse cercato, cosa probabilissima,
e cosa avesse pensato del lungo silenzio da parte mia, e di quel telefono
sempre spento.
Non potevo, comunque, permettere che quell’oggetto
tecnologico rovinasse con il suo fastidioso squillo quei nostri giorni di
sfrenata passione, di decisioni importantissime e di cambiamenti repentini.
Misi quindi quattro passi tra me e il mio innamorato,
muovendomi in avanti, forse anche un attimo spinta dal mio momento di
imbarazzo, e fui la prima ad uscire dall’albergo, con un leggerissimo distacco
sul calmissimo ed imperturbabile George.
E, alla mia uscita, ecco pronta la sorpresa; c’era la novella
vedova di mio padre che mi attendeva, sul largo marciapiede, con impressa sul
viso una smorfia guerriera che non mi piacque per nulla, fin da subito.
Mi venne spontaneo, non appena notai tutto ciò, di volgermi
indietro verso Piergiorgio, che ancora stava varcando la soglia dell’albergo, e
mi pentii di aver abbandonato la sua stretta. Comunque, ormai era andata così,
e se non volevo fare la figuraccia di tornare repentinamente indietro, verso
l’uomo che ormai rappresentava un porto sicuro per me, potevo solo andare
avanti a testa ben alzata, come se nulla fosse.
In ogni caso, decidendomi a proseguire il mio cammino, la
donna aveva già notato il mio deciso tentennamento dovuto alla sorpresa inziale
nell’essermela trovata di fronte, e quindi sorrideva, sorniona e malefica.
Aveva quell’espressività molto forte che era in grado di
turbarmi non poco, e che riuscivo solo a ricondurre ad una qualche forma di
aggressività remota e un minimo repressa, ma stava di fatto che a me quella
donna dava l’impressione di essere una belva umana.
Come mi aspettavo, nonostante i miei sforzi per ignorarla, la
donna, che mi aspettava al varco, balzò sul mio percorso e di fronte a me,
fermandomi.
“Devo parlarti un attimo”, disse, decisa.
Percepii lo sguardo di George dietro le mie spalle, fisso su
di noi; doveva aver riconosciuto la tizia incazzata del giorno prima. Smisi di
camminare e anche lui con me.
“Non ho tempo adesso, rischio di fare tardi”, trovai una
scusa, senza neppure sapere cosa ci facesse lì quella donna.
“Invece ne hai, perché devo dirti una cosa importante. Farò
molto presto”.
Incrociò le braccia sull’ampio petto, e mi sorrise, i denti
bianchissimi la cui superficie luccicava quando veniva colpita dai raggi del
sole. Annuii, allora, sapendo di non poter fare altro.
“Non ti causerò problemi. Ieri ti avevo quasi promesso di
portarti in tribunale, e di non accettare il testamento, ma in questi giorni ci
ho ripensato, e non mi dispiace più. Mi accontento. Vai pure a casa in pace,
quindi, e se anche tu lo accetterai così com’è, senza altre verifiche o
problemi, non avrai nulla da temere e potrai dormire sonni molto tranquilli”,
si spiegò, parlando molto bene e in modo fluido.
A quel punto, però, era quasi inevitabile che George ci
raggiungesse e cercasse di intervenire. Non appena lo abbi a mio fianco, gli
feci cenno di proseguire verso il parcheggio dell’albergo, dove stazionava la
sua auto, e che comunque era a pochi metri da lì. Volevo parlare a quattrocchi
con la signora, e non avevo voglia di essere di nuovo difesa da qualcun altro.
Piergiorgio occhieggiò verso la vedova, poi s’incamminò,
pianissimo, verso la meta, portando con sé la mia e la sua valigia, una per
mano. Avvertivo però la sua attenzione, per nulla affievolita, rivolta verso di
noi, e sapevo che se ce ne fosse stato bisogno sarebbe intervenuto in qualche
modo, e non avrebbe lasciato che la donna mi ferisse o provasse ad infierire su
di me.
“Va bene, anche a me sta bene così”, affermai, e la mia
antipatica e sgradevole interlocutrice rise sommessamente.
Doveva esser stata contenta di aver vinto così facile, e mi
domandai il motivo di quella gioia. Probabilmente, doveva aver consultato un
avvocato, e quando aveva avuto ben chiaro in quanto corrispondeva la mia parte,
per legge, era tornata sui suoi passi, oppure mi aveva fregato in qualche modo,
e qualcosa in più le sarebbe rimasto. Qualcosa che magari in caso di
opposizione sarebbe dovuta essere divisa con me.
Tuttavia, a me di quell’eredità non importava molto, e avevo
già presumibilmente incassato una cifra che non avrei mai neppure potuto
immaginare, fino a qualche giorno prima, e non volevo entrare in disputa con
quella donna che mi spaventava tanto.
“Poteva comunque fare a meno di pedinarmi, per trovarmi”, le
dissi, quando mi volsi verso George ed accennai a riprendere il mio cammino,
riservandole anche una profonda occhiataccia nervosa.
“Sei così ingenua, bambina”, si limitò a rispondermi,
scrollando le spalle e senza più ridere. Era comunque gongolante.
All’improvviso, un quesito baluginò nella mia mente, e in
meno di un secondo ebbi la certezza che quella era l’ultima volta, quella più
semplice e diretta, con cui potevo scoprire un particolare che ancora mi
sfuggiva e mi era ignoto, in tutta quella vicenda.
Senza sapermi trattenere, irruppi improvvisamente.
“Deve dirmi cos’è accaduto a mio padre… perché è venuto a
mancare”, esclamai, fermandomi immediatamente, sperando in una qualche risposta
al mio quesito. Il mio genitore era ancora una persona abbastanza giovane, e la
sua morte doveva essere stata dovuta ad un qualche evento tragico e molto
doloroso.
Ma a quelle parole la signora mi rivolse uno sguardo
tristemente ghignante, che aveva qualcosa di ripugnante e che mi disgustava e
mi spaesava parecchio. Qualcosa che non conoscevo, e non avevo idea di dove
andasse ad attingere quel modo di fare, e quale parte del suo triste animo
favoriva quel comportamento meschino e parecchio fastidioso ed insolente.
“Se volevi sapere come stava, bastava fargli una telefonata
ogni tanto”, mi disse, infatti, in modo molto filosofico.
“Non sapevo più nulla di lui”, affermai, come scusa.
“La verità era che non ti importava più niente di lui, raccontala
per il verso giusto!”, replicò lei, innervosendosi più del previsto.
“Tu e tua madre vi siete sbarazzate di quel furfante, e
allora lui ha raggirato me e mi ha trattato di merda per tutti questi anni. Io
sono stata con lui e me lo sono sposata perché così potevo ottenere la
cittadinanza italiana e avere anche un tetto sulla testa, ma quello che ho
sopportato tu non lo sai, bambina!”, riprese a infierire, e il suo dito agitato
tornò ad alzarsi, bloccato solo da uno sguardo gelido che George lanciò, a poca
distanza da noi, ormai girato a guardarci.
Con un piccolo cenno del capo, gli feci intendere che non
doveva intervenire, e che quella era una faccenda che ormai si doveva regolare
tra me e la signora che mi stava di fronte.
“Nessuno le ha detto di sposarlo. Se le ha fatto comodo,
allora si accontenti! Ora si è assicurata sia la cittadinanza e sia un tetto
sulla testa, quindi può stare calma”, le feci notare, cercando di mostrarmi
calma più che potevo, anche se ribollivo di nervosismo.
Quella donnaccia prepotente era fastidiosa e schifosa.
Cercavo di mantenere le distanze da lei utilizzando sempre un modo di parlare
formale e distante, anche se ormai la pazienza mi stava lasciando.
“Me lo sono assicurata, ma a che prezzo?”, sogghignò.
“Non lo so e non lo voglio sapere. Fatto sta che, nonostante
tutto, se li è assicurati”, sottolineai.
“Comunque, anche se ti aspetti che io ti racconti qualcosa su
di lui, sappi che non lo farò. Non voglio più pensarlo, mai più”, proseguì,
categorica, senza prestare troppo caso alle mie parole appena pronunciate.
“Non le costerà niente dirmi le cause del decesso…”, provai a
insistere, ma la donna rise, e rise in maniera ancora più fastidiosa e
provocante.
“Tale padre, tale figlia”, scosse poi il capo, “sei proprio
come lui. Ti nascondi dietro ad un velo da verginella santa, invece sei solo
una creatura pronta a cercare di importi, con quei modi di merda che hai”.
Parlava benissimo l’italiano, in modo molto scorrevole, e le
parolacce le venivano pronunciate alla perfezione, senza alcuna minima cadenza.
Ero allibita, avrei tanto voluto saltarle al collo, ma in fondo comprendevo che
non mi sarebbe cambiato nulla, e che magari era proprio quello che la
sconosciuta desiderava, e cioè un buon motivo per denunciarmi e spillarmi
qualche soldo facile, ora che non poteva più vivere sulle spalle di mio padre e
si sarebbe di certo dovuta rimboccare le maniche.
Sbuffai, ma non dissi nulla, non volevo aggiungere altra
carne alla brace. Sapendo che non avrei estrapolato null’altro, e con la
garanzia che mi aveva appena offerto sul fatto che avrebbe accettato tutto
senza causare problemi di troppo, ero pronta ad andarmene, e pace all’anima mia
se non avessi mai saputo quel particolare sul decesso di mio padre, che, forse,
in fondo era pure piuttosto irrilevante.
Aveva ragione quella donnaccia; era sempre stato un individuo
poco buono con le persone che gli stavano accanto. Quello che meritava, quindi,
era l’oblio.
“Non andrà sempre tutto come vuoi tu, bambina! Tutto andrà a
rotoli, il divertimento non dura mai a lungo! Sappilo, bambina!”, mi gridacchiò
non appena notò che stavo per darle le spalle, con impressa sul viso un’espressione
di totale sconcerto e disgusto.
Non mi resi subito conto che, probabilmente, a modo suo mi
aveva maledetto.
“La smetta di chiamarmi bambina, e mi giri alla larga. Non si
permetta mai più di importunarmi, tra noi finisce tutto qui”, affermai con
sicurezza, e mi affrettai a muovermi verso George, che ancora proseguiva quasi
al rallentatore, attento e pronto ad intervenire.
La donna tornò a ridere, in modo squillante, sfoderando una
serie di denti giallastri come impressi tra le labbra. Disgustosa.
Mi allontanai da lei, in fretta.
“Non avrai mai risposte”, disse ad alta voce, alle mie spalle
come a volermi prendere in giro fino all’ultimo, senza muoversi o accennare a
seguirmi, ed io, intenzionata solo a raggiungere il mio George, poco più avanti,
non mi volsi indietro.
“Brutta puttana”, mi limitai a sussurrare, a labbra strette,
assieme ad un’altra miriade di parolacce. Poteva anche aver deciso di non
complicare le cose, a riguardo dell’eredità di mio padre, ma restava una
persona schifosa, e basta.
“Cavolo, quella è una tipa tosta”, mi disse Piergiorgio,
turbato, non appena lo affiancai.
“Il suo problema è che ha battuto per troppi anni lungo le
strade della periferia di Milano, per restare senza un bel pisello. Adesso che
ha un tetto sulla testa tutto suo, ma è rimasta senza attrezzo, è diventata acida
come un limone ancora verde”, borbottai, arrabbiata e nervosa, con il volto che
si imporporava velocemente.
Piergiorgio rise, con gentilezza, e mi passò un braccio
attorno alla vita, cingendomi in un tenero abbraccio e avvicinandomi al suo
corpo.
“Hai una gran lingua tagliente quando ti arrabbi, eh?”,
sogghignò, ma ormai avevo ripreso a sciogliermi.
Il contatto con il suo corpo e quel suo gesto affettuoso
avevano fatto smettere alla caterva di insulti che stavo pensando di rigirarsi
nella mia testa, e di frullare vorticosamente.
Smisi pure di camminare in maniera concitata, quasi un
zampettare ridicolo, dalla rabbia che mi aveva fatto venire quella figura
squallida, con la sua insolenza, la sua ignoranza e la sua gratuita e quasi
raffinata faccia tosta. Perché quella donna, in fondo, al dì là della
stronzaggine che la possedeva fino al midollo, almeno a prima vista poteva
anche sembrare, in fondo, abbastanza passabile.
“Andiamo via, te ne prego. Voglio tornare a casa”, quasi
esclamai, provata dall’escalation improvvisa degli eventi.
Mi sentivo pedinata, come se quella donnaccia mi stesse
ancora alle calcagna, e dopo essermela ritrovata anche di fronte all’albergo in
cui soggiornavamo, ero giunta a conclusione che o era un segugio, oppure mi
aveva pedinato e tenuto d’occhio. Quella era una persona malata e perversa da
cui volevo star lontana, e desideravo mettere una considerevole quantità di
chilometri tra me e lei, per tornare a calmarmi e sentirmi al sicuro.
“Ce ne andiamo subito”, mi rassicurò George, tornato serio, e
ben presto ci trovammo di fronte al suo fuoristrada.
Tenni con me solo la mia borsa, e mentre lui sistemava le due
piccole valigie nel portabagagli, io presi posizione dentro all’abitacolo,
allacciandomi subito la cintura di sicurezza. Intanto che attendevo, avevo ancora
un po’ di batticuore, e con le mani mi venne istintivo di andare a cercare quel
piccolo dono che mi aveva fatto il mio amante quando partivamo dalla stazione
della cittadina dove vivevamo.
Trovai in fretta il pacchettino, ancora chiuso, e lo strinsi
tra le dita tremolanti. Percepii subito un senso di calma, dovuto anche al
fatto che George aveva concluso il suo compito, e stava prendendo anch’egli
posizione, pronto a mettere in moto il fuoristrada e ad andarcene una volta per
tutte da quella metropoli che aveva saputo impressionarmi piacevolmente, ma che
si era rivelata una sorta di covo di pericolose serpi.
“Ti vedo sconvolta”, mi disse Piergiorgio, “ehi, è tutto a
posto”.
Poi, allungò una mano verso di me, e solo allora le mie,
nascoste ancora all’interno del buio della borsa, lasciarono il pacchettino,
che finì per tornare a mischiarsi con gli altri oggetti vari che tenevo sempre
lì dentro, pronti per un eventuale utilizzo.
Mi accarezzò le guance, con infinita delicatezza.
Socchiusi le palpebre, felice di quel contatto.
“E adesso, andiamo”.
Mise in moto l’auto e sfrecciò via dal parcheggio
dell’albergo, mentre io ero ancora sommersa dai miei pensieri, e un pochino
turbata. Nella mia borsa, il cellulare che avevo riposto qualche istante prima
di finire tra le grinfie della megera era ancora lì, spento, come se ormai non
mi servisse più. Non mi preoccupai di altro.
Dopo cinque ore e mezzo di autostrada, nel primo pomeriggio,
giungemmo a casa, finalmente.
Una volta abbandonata l’autostrada, George mi interloquì,
quasi a sorpresa, siccome avevamo trascorso la totalità del viaggio senza mai
parlare, assorti nei nostri pensieri, con la radio accesa che faceva da
sottofondo ed evitava che il peso del nostro misterioso silenzio si facesse
troppo fastidioso per essere sopportato.
“Ti va di fermarti qualche minuto da me? Ti offro una bibita
fresca, poi ti riporto subito a casa”, mi domandò, ed io annuii,
distrattamente. Il caldo di metà giornata era asfissiante, e per fortuna l’aria
condizionata interna al veicolo ci aveva aiutato un bel po’ a resistergli.
Non avevo fretta di tornare da mia madre, d’altronde avevo
ancora quella mezza giornata libera, tanto valeva sfruttarla per bene, poiché
poi per la mia genitrice avrei sempre e comunque trovato il giusto tempo per
raccontarle tutto e spiegarle l’evoluzione della faccenda.
Non impiegammo molto a raggiungere la bella villa di campagna
di George, dal giardino dalla parvenza ricca e florida nonostante la torrida
estate sempre più avanzata, il cui caldo però non accennava a quietarsi e a
lasciare spazio a qualche possibile spiffero refrigerante.
Non appena varcammo il grande cancello, posto a pochi metri
dalla strada, Kira venne subito incontro alla macchina, e la inseguì fedelmente
fintanto che il suo padrone non l’ebbe parcheggiata, all’ombra delle piante di
fronte all’ingresso dell’abitazione.
Quando aprii la portiera, la cagnolina era già lì, a
osservarmi, e a scodinzolare allegramente, e non potei resisterle oltre.
Lasciai anche la borsa in macchina, pur di scendere in fretta e dedicarmi a
lei.
“Che dolce”, esclamai, quando l’animale si mise a sedere ai
miei piedi, la testa diritta e gli occhi puntati nei miei. L’accarezzai, piano,
lasciandole il pelo corto sulla nuca, tra le due orecchie pendenti.
“Ti è mancato, il tuo padrone? Non vai ad accogliere anche
lui?”, le domandai, sorridendo, quando vidi che anche George era sceso
dall’auto, e stava andando a recuperare la sua valigia. Guardai poi l’uomo, che
stava ricambiando il mio sorriso.
“Be’, ha inseguito la macchina, ma poi non è venuta nemmeno
ad accogliermi! Penso che tu le sia mancata di più!”, affermò ironicamente,
alle prese col suo ristretto bagaglio.
“Chi si è preso cura di lei, in questi giorni?”, mi venne
spontaneo chiedergli, mentre ancora accarezzavo la simpatica bestiola.
“Irina, la signora delle pulizie”, rispose. Certo, avrei
dovuto immaginarlo.
“Allora vorrà bene a lei, e a tutte le figure femminili, visto
che tu te ne curi poco”, esclamai, ironicamente.
“Oh, Kira per me è una grande compagna di avventure. Per
adesso è ancora presto, ma quando verrà il momento giusto, e viene ogni anno,
capirai perché”, raccontò, passandoci poi a fianco.
“Va bene…”, mi rassegnai, comunque per nulla incuriosita da
quello che avevo udito. In tutta sincerità, mi importava di più coccolare
quella dolce creatura, che, ancora festosa, scodinzolava allegramente e
attendeva ogni mia carezza sulla sua linda pelliccia.
‘’Dai, andiamo dentro, che devo ancora offrirti una bibita
fresca’’, m’invitò Piergiorgio, quando, una volta giunto all’ingresso, si volse
indietro e notò che ancora non avevo lasciato la compagnia del cane.
Mi tirai su e lo seguii, con Kira che mi venne dietro, e che
poi entrò in casa con me.
“A cuccia”, le disse il suo padrone, quando cominciò a fare
la manesca anche con lui, come se lo avesse notato solo ora, e udendo l’ordine
del padrone si fermò subito e smise di cercare di leccargli le mani.
“Ah, se ti comporti così con lei, è ovvio che non ti si
affezioni molto”, sogghignai, seguendolo nella vicina cucina.
“Fidati, è molto più affezionata a me di quel che si possa
credere. Ti prometto che un giorno vedrai come lavoriamo in coppia”, disse.
“Non capisco”, risi, un po’ spaesata da quelle parole.
“Capirai. Ma adesso, dai, prendi quello che vuoi tu dal
frigo. Irina dovrebbe averlo rifornito proprio questa mattina”. Andò a
controllare. In effetti, era strapieno di alimenti e bibite.
“Prendi quello che vuoi”, mi sollecitò, lasciandolo aperto e
mettendo un bicchiere pulito sul tavolo.
Per farlo contento, afferrai la bottiglia dell’aranciata, la
stappai e ne versai due dita nel bicchiere appositamente preparato per me.
“Tu ne vuoi?”, chiesi, gentilmente. Declinò l’offerta con un
gesto della mano destra.
“No, no”.
Bevvi, piano, e finii in fretta, tornando ad appoggiare il
bicchiere sul tavolo, con delicatezza per non farlo cozzare contro il legno
scuro sottostante, cosa che mi appariva molto maleducata da fare, mentre George
si era seduto ed aveva preso la sua testa tra entrambe le mani, con un gesto
stanco.
“I o però adesso dovrei tornare da mia madre”, dissi, con
voce titubante, interrompendo quel lieve silenzio che era sceso per qualche
attimo tra noi, “sai, ho sempre tenuto il telefono spento in questi giorni e penso
sia un po’ preoccupata per me”. Temevo che se non sarei tornata subito a casa,
sarei finita per restare lì con lui.
“Va bene, ti riporto subito a casa. Sei sicura che non vuoi
altro? Un ghiacciolo, magari?”.
Piergiorgio si rialzò ed andrò nella ghiacciaia del
frigorifero, cominciando a frugare.
“No, no, ti ringrazio. Sono a posto così”, mi affrettai a
dire.
“Allora andiamo”, sancì, richiudendo tutto.
Tornammo in auto, e via, verso casa mia, nel pomeriggio
rovente. Il viaggio durò solo qualche minuto.
“Ti vedo molto stanco. Se per te era un problema, potevo
tornare anche a piedi”, gli feci notare, siccome il suo viso tradiva una
profonda stanchezza. In effetti, ci eravamo dati davvero molto da fare nelle
precedenti giornate e nottate.
“Non scherziamo”, tagliò corto, “piuttosto, dove ti devo
lasciare?”.
“Vai pure davanti a casa di mia madre”, dissi, e lui mi
riservò una rapida occhiata.
“Davvero?”.
“Davvero. Vai, senza problemi, tanto presto sarai invitato al
nostro tavolo, per una bella cenetta di famiglia”, affermai, felice. Avevo
preso una decisione e non avevo intenzione di rimangiare le parole in
precedenza pronunciate.
George non chiese altro, e mi portò lì di fronte. Gli scoccai
un rapidissimo bacio sulle labbra, prima di scendere e di andare a recuperare
il mio bagaglio.
“Ci sentiamo presto”, gli promisi, dopo avergli vietato di
venire lui stesso ad aprirmi il portabagagli. Non volevo pesargli
ulteriormente.
Ci salutammo così, e poi, con un profondo sospiro, mentre il
fuoristrada riprendeva la sua marcia e si allontanava, mi mossi verso quella
porta così tanto familiare, sotto un sole rovente che mi incendiava il capo,
quasi, e con scarsa voglia di raccontare quello che avevo appena finito di
vivere. D’altronde, mi ero appena separata da George, e questo già mi faceva
dolere il cuore.
Almeno ero tornata a casa, ed ero certa che la sola vista
della mamma mi avrebbe rincuorato e rinfrancato con prontezza.
NOTA DELL’AUTORE
Auguri di buon anno a tutti voi! Vi ringrazio con il cuore in
mano per essere ancora qui a sostenermi e a sostenere il racconto!
Presto mi attenderà una nuova sfida, e cioè riprendere la
battitura di questo testo, che ho lasciato incompleta oltre un anno fa. Il
vostro prezioso sostegno però mi incentiva a rimboccarmi le maniche.
Grazie e ancora tanti auguri, nella speranza che il 2019 sia
un anno sereno per tutti ^^
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Capitolo 33 *** Capitolo trentatré ***
Capitolo trentatré
CAPITOLO TRENTATRE’
Erano passati due giorni e mezzo da quando avevo varcato
quella soglia, per recarmi a Milano, quella città così distante che non avevo
mai visto in vita mia.
Giorni di separazione e di allontanamento da casa in cui mi
erano capitate molte vicende che non avrei mai pensato prima di poterle vivere
sulla mia pelle, e nonostante la breve ma forte discussione con la vedova di
mio padre, molto spiacevole, convenni sul fatto che non avevo molto altro di
brutto da ricordare. Erano state giornate piacevoli, quasi una piccola vacanza,
come aveva detto anche il mio George.
Nonostante il mio sbattimento iniziale, provato prima di
rientrare in casa, non appena percepii il profumo domestico di quelle mura
interne mi sentii un po’ più rallegrata, e il tocco di classe fu quando mi
ritrovai di fronte a mia madre.
“Isa!”, esclamò, soltanto, e in un attimo mi fu addosso e mi
abbracciò fortissimo.
“Mamma!”, esclamai a mia volta, ricambiando la sua stretta e
lasciandomi sciogliere con un bel sorriso sulle labbra, appena ritrovato.
Finito il giubilo iniziale, e la sua sorpresa, sciolse
prontamente l’abbraccio e mi rifilò un’occhiataccia senza precedenti.
“Ti sembra il modo di comportarti? Stavo per chiamare la
polizia, giuro! Ti avevo dato per scomparsa, ogni volta che provavo a
contattarti il telefono risultava spento”, disse.
Aveva tutte le ragioni, e lo sapevo. Chiunque si sarebbe
preoccupato, nei suoi panni. Con la mano destra corsi involontariamente a
tastare il cellulare, che, ancora spento, se ne giaceva nella mia borsa, come
un qualsiasi oggetto inutile.
“Scusami, scusami davvero!”, mi affrettai a scusarmi,
apparendo davvero pentita, ed un po’ lo ero, nonostante mentre ero via non lo
fossi affatto. “E’ che sono successe tante cose e… alla fine mi sono dimenticata
di accendere il cellulare”.
Mentii, per metà, siccome non mi ero dimenticata di
accenderlo, bensì l’avevo tenuto spento volutamente. Un leggero rossore
imporporò di nuovo il mio viso, per via di quella situazione alquanto imbarazzante,
in fondo mi stavo davvero pentendo di aver pensato solo a me stessa e alla mia
relazione con George, senza mai avvertire la mia preoccupatissima madre.
“Va bene, capisco, ma se entro sera non saresti stata qui, a
casa, avrei avvertito le autorità”, sancì, infine.
Mi aveva perdonato, già vedevo un nuovo baluginio in fondo ai
suoi occhi lucidi, che non era più rivolto al risentimento.
“Ti avrei compreso, se lo avessi fatto. Ma credo che in quel
caso sarei stata proprio morta…”, provai a sdrammatizzare.
Lei allargò le braccia, tornando a sorridere.
“Beh, sei ancora in piedi nel mezzo del corridoio? Vieni,
vieni in cucina, dopo così tanti giorni di assenza dovrai rifocillarti a
dovere”, mi disse, senza più alcuna ombra di tensione. Il discorso precedente
era già decaduto, ormai reso acqua passata.
Mi ricordò George, nel suo modo di fare, e una piccola fitta
mi centrò al petto.
“Non ti preoccupare, mi sono già rinfrescata mentre tornavo a
casa”, mi limitai a rassicurarla.
“Oh, con un caldo del genere… chissà com’è stato… a
proposito, dove hai parcheggiato la tua macchina?”, mi chiese, a bruciapelo,
lanciando uno sguardo fuori dalla finestra.
Mi prese un accidente. La mia macchina!
La mia macchina era rimasta in stazione, me n’ero
completamente dimenticata, affidandomi a George. E lui non mi aveva messo in
mente nulla.
Fui costretta a sputare il rospo, non avevo intenzione di
mentire oltre e di raccontare altre bugie, e d’altronde ero stata così colta di
sorpresa che mi era salito anche il batticuore.
Mi diedi mille volte dell’idiota, prima di tornare a parlare
per spiegarmi, ma purtroppo per via del caldo e della stanchezza avevo
assecondato una dimenticanza grave, che mi sarebbe costata cara, sotto certi
punti di vista. Quasi di sicuro però non aveva notato che George mi aveva
riportato a casa, altrimenti l’avrebbe proferito subito.
“La mia macchina… è ancora in stazione. La vado a prendere
domani”, ammisi, pianissimo, a voce bassa. Abbassai anche lo sguardo.
“Oh… e sei tornata a casa in taxi? Be’, per dieci minuti…
sai, non credo però che con questo caldo tu sia tornata a piedi”, cominciò a
mugugnare mia madre, a quel punto insospettita dalle mie parole. In realtà non
stava pensando a quello che era accaduto davvero, bensì a un qualche mio
comportamento strano, come qualche volta, ahimè, dimostravo.
“Mamma, mi ha portata a casa il mio compagno”, tornai ad
ammettere.
Capii che il momento di vuotare il sacco era già arrivato, e
non avevo altro motivo per nascondermi oltre. Tuttavia, non alzai lo sguardo,
continuando a tenerlo fisso verso il pavimento.
“Ah, bene, meglio così, anche perché ti vedo molto stanca e
provata”, si spiegò, sollevata, e senza aggiungere altro cambiò improvvisamente
discorso, “e com’è andata, poi? Dai, raccontami tutto”.
Nonostante tutto, colsi la palla al balzo, ed estrassi dalla
mia borsa il plico di fogli che mi aveva lasciato e consegnato il notaio. Lei
lo prese e cominciò a sfogliare e a leggere, mentre io le narravo la mia
vicenda, cercando però di tenere per ultima la parentesi riguardante l’altra
vedova di mio padre, per non farla subito innervosire.
“Be’. Per me c’è sotto qualcosa! Possibile che quell’essere
schifoso avesse messo da parte un gruzzolo del genere?”, sospirò, dopo un po’.
Mi lasciai sfuggire una smorfia.
“All’inizio sospettavo anch’io, ho pure interrotto la lettura
del notaio, ma lui mi ha detto che si tratta davvero di soldi, soldi veri…”, e
ridacchiai, smorzando la tensione, “… quindi non posso suppore nulla, per
adesso. Comunque, ci sono tutte le coordinate bancarie e i dati utili, presto
potrò verificare”.
“E… ho come l’impressione, però, che tu per ora mi abbia
nascosto qualcosa”, tornò all’improvviso alla carica, indagatrice e un po’
sospettosa. Non avevo idea se si riferisse alle mie piacevoli giornate
trascorse con il mio dolcissimo amante, o ai miei brutti battibecchi con la
straniera.
A quel punto, però, non ebbi problemi a narrarle quel poco
che fino a quel momento le avevo tenuto nascosto, per non indisporla. Infatti,
man mano che le raccontavo ciò che quella donnaccia mi aveva fatto, e i suoi
affronti neppure tanto velati, mia madre sgranava gli occhi e si mostrava
nervosa come non mai.
“Che stronza”, sancì infine, sospirando forte, quand’ebbi
concluso la narrazione.
“Mi chiamava sempre bambina, e non dava una mezza
soddisfazione manco a morire! Matta, proprio”, rincarai la dose.
“Cosa vuoi pretendere da quella poco di buono…”.
Batté un palmo sulla tavola.
“Guarda, mi aveva fatto incazzare in una maniera…”, ringhiai,
quasi.
“Eh, immagino. Ma dai, non ci pensare mica più! È tutto
finito, se poi ha anche detto che non ti causerà problemi… chissà cosa ci ha
guadagnato”, suppose.
“Non lo so e non lo voglio sapere, l’importante è che non ci
siano altri problemi, voglio chiudere questa spiacevole parentesi”, aggiunsi,
laconica.
“Se davvero ci fosse a tua completa disposizione un tale gruzzoletto,
non saresti ricca, ma benestante di sicuro”, ammiccò.
“I soldi non è che mi interessino granché”.
“Se vuoi farti una vita tutta tua, ti servono eccome. Con il
tuo compagno, magari…”.
Mi presi la premura di tornare a deviare subito il discorso.
“E tu, mamma? Non vuoi qualcosa? Sei l’unica ad essere
rimasta senza nulla”, azzardai, e quasi me ne pentii, poiché lei gonfiò le
guance, tornando irritata.
“Ti ho già detto che della sua roba non voglio nulla, niente
di niente. Non mi importa, l’importante era che tu ottenessi qualcosa, e l’hai
ottenuto, quindi sono a posto così”, affermò.
“Va bene”, conciliai, cercando di quietare il suo animo, di
nuovo risvegliato con un pizzico d’ira repressa.
Lasciai perdere quelle bevande che la mamma aveva tirato
fuori per me, avevo solo tanta voglia di andare a farmi una doccia, e poi di
filare a riposare, d’altronde sapevo ed avevo ben presente che il giorno
successivo sarei dovuta andare al lavoro.
Avevo comunque lasciato qualcosa in sospeso, ed avevo da
mantenere la promessa fatta al mio Piergiorgio, quindi, mentre mi accingevo ad
allontanarmi, in procinto di recarmi al piano superiore a perpetrare i miei
comodi, decisi di non lasciare oltre in sospeso la questione.
2Mamma, preparati a dovere”, esordii.
Lei mi guardò, con fare interrogativo.
“Ho intenzione di farti conoscere molto presto il mio
fidanzato”, dissi senza ulteriori indugi.
“Oh, bene!”, gioì lei. “Che bello, non vedo l’ora!”, continuò
a ribattere.
Inarcai le sopracciglia. Avevo come l’impressione che sarebbe
rimasta un po’ delusa.
“Ho pensato che andrebbe bene se organizzassimo una bella
cenetta qui, a casa tua, così in questo ambiente familiare potrai conoscerlo
meglio…”.
“Ma certo, sicuro! Certo!”, continuò ad affermare. Ero felice
per la sua gioia, speravo solo che non la dovesse smorzare la realtà dei fatti.
Io amavo George, ma credevo con certezza che mia madre avesse tutt’un'altra
idea a riguardo del mio ragazzo, immaginandolo molto diverso da lui.
“Perfetto, allora quando vuoi tu…”.
Mi interruppe di nuovo.
“Non c’è problema, scegliete pure voi, quando è comodo lui…
insomma, quando è libero, quando ha tempo. A me va sempre bene”, disse.
“Allora la prossima settimana, che ne dici? Poi sento anche
con lui, così ci accordiamo meglio”, provai.
“Va benissimo”, affermò, ancora contenta. Sembrava che le
avessi dato una grande soddisfazione.
La salutai e mi diressi verso quella cameretta da letto che,
in fondo, un po’ mi era mancata nei giorni scorsi, ma lasciai che sul mio viso
s’imprimesse un’espressione inquieta, in fondo avevo timore di quell’incontro
che stavo per organizzare.
Per fortuna, mia madre già conosceva Piergiorgio, così di
vista almeno, o come una paziente può conoscere un medico, anche se grazie a
quel pomeriggio trascorso assieme, quasi casualmente, avevano avuto modo di
avere un contatto un poco più approfondito, ma non avevo idea di quale reazione
avrebbe potuto avere di fronte al fatto che volevo mostrarle con chiarezza. Un
conto era vedere George nei panni di un buon medico, un altro era accettarlo
come genero.
Preferii non rifletterci oltre, e anzi, provare a voltare
pagina, e ragionare sul fatto che dovevo anche recuperare la mia automobile,
siccome già il giorno dopo mi serviva. Tornare a pensare a quella gaffe assurda
mi fece sfuggire un teso sorriso.
Avevo comunque la soluzione sotto mano; avrei chiamato George
e mi sarei fatta venire a prendere da lui, il mattino successivo, se avesse
potuto, così mi avrebbe portato in stazione e da lì poi avrei potuto andare
dove dovevo recarmi.
Al massimo, se non avesse potuto, ci sarei andata a piedi a
riprenderla, d’altronde si trattava di un quarto d’ora neanche di camminata
sostenuta, tuttavia ero certa che lui sarebbe venuto da me, e mi avrebbe
prontamente aiutato anche quella volta. Si trattava di un’occasione anche per
rivederci, cosa che desideravo molto, ed ero sicurissima che anche lui già
sentiva la mia mancanza, o almeno volevo sperarlo.
Mi sciolsi un po’, incoraggiata.
Tornai ad accendere il mio cellulare, e dopo aver obliato le
decine di telefonate perse di mia madre, mi accinsi a tornare a contattarlo,
così avrei anche udito la sua voce ed avrei potuto parlargli dell’evoluzione
degli eventi in casa mia, a riguardo di come si era conclusa la discussione
riguardante il nostro incontro con mia madre.
Il mattino successivo, naturalmente, George arrivò a
prendermi con ben venti minuti di ritardo.
Sostò davanti a casa di mia madre, restando in auto ad
attendermi, ed io mi dovetti spicciare parecchio, per raggiungerlo in fretta e
non farlo aspettare. La mamma era andata a fare una passeggiata mattutina, e
non era in casa, e questo mi salvò da possibili contrattempi, o addirittura
dall’essere obbligata dagli eventi a svelarle l’arcano riguardante il mio
compagno prima del tempo.
Trotterellai fino al fuoristrada, tutta in disordine, e
trafelata come non mai. George si allungò ad aprirmi lo sportello.
“Scusami eh, ma sei arrivato con un anticipo che non ha
senso!”, quasi lo aggredii, nervosissima.
Quella fu una delle poche volte in cui, durante la prima fase
della nostra relazione, io finii per irritarmi, seppur momentaneamente, a causa
di una delle sue scelte, anche se sapevo che in fondo lui non ne sbagliava mai
una. L’incompleta e l’imperfetta ero io, anche se non riuscivo ancora a
capirlo.
Lui infatti mi rivolse uno sguardo tranquillissimo, pacato,
con la testa reclinata, gli occhi fissi al di sopra degli occhiali da sole,
leggermente spostati in giù sul naso.
“Be’, se la metti così, certo che non ha senso”, rispose,
sornione, dicendo tutto e niente.
“Dio mio, George, sei proprio strano a volte”, sbuffai,
ancora molto nervosa, mentre salivo in auto e mi mettevo a suo fianco, andando
subito ad armeggiare con la cintura. Non attese che me la fossi assicurata per
bene, poiché partì subito a razzo.
“Non ti sei ancora abituata a me? E pensare che nei giorni
scorsi mi avevi detto che volevi sposarmi”, aggiunse, sempre di una calma
piatta incredibile. Doveva essersi preparato all’eventualità di una mia
possibile reazione del genere.
“Ma certo che lo voglio! Come ti ho anche accennato ieri
pomeriggio per telefono, puoi anche decidere quale sera della prossima
settimana, per incontrarci e cenare ufficialmente tutti e tre assieme”.
“Una vale l’altra, scegliete voi”.
“Scegli tu”, sbottai, tornando a turbarmi per via di tutta
quella sorta di placida diplomazia che, così di prima mattina, mi stava
innervosendo non poco. Estrassi il pettine dalla mia borsa, e mi misi a
pettinarmi per bene utilizzando il mio piccolo specchio portatile e
maneggevole.
“Siamo proprio incazzati, eh, questa mattina?2, mi domandò,
ancora con quel tono di voce piatto, perseverando e forse anche divertendosi,
poiché subito dopo si lasciò sfuggire una risatina sommessa, di quelle
trattenute sotto i baffi.
Mise la freccia e fece rapidamente uscire l’auto di strada,
fermandola all’improvviso sul largo ciglio di un fosso, a pochissima distanza
ancora da casa mia. Smisi di armeggiare con il pettine, e fu di nuovo la mia
volta di guardarlo in maniera strana.
Non avevo idea di quel che stesse frullando nella sua testa,
quel giorno, ma avevo capito che qualunque cosa fosse, si trattava di un
pensiero ben chiaro e studiato, meditato per giungere alla meta, ad ogni costo.
“Sei impazzito?”, borbottai, mentre mi lasciavo pervadere da
un senso più estremo di nervosismo, più incentrato verso la paura dell’ignoto.
“Se faccio così, cosa mi dici?”, tornò a chiedermi, ma stando
ancora fermo.
Continuai a guardarlo, un po’ stralunata, ma poi lui si
slacciò la cintura e si allungò verso di me, cominciando a baciarmi, dapprima
piano e sul collo nudo e scoperto, e poi in maniera sempre più frenetica,
risalendo man mano verso il viso, ma evitando accuratamente la bocca.
Nel giro di qualche secondo mi lasciai sfuggire un mugolio di
piacere; quella sequenza di azioni aveva abbattuto in fretta ogni sorta di mia
paura, turbamento e reticenza, e stava risvegliando rapidamente tutti i miei
sensi.
“Dai, smettila”, esclamai, ridendo, “avevi detto che non
volevi più fare nulla in macchina! E poi siamo anche sul ciglio della strada”.
Le automobili in movimento, a meno di un metro dal nostro
veicolo in sosta, sfrecciavano allegramente, nel frattempo. George rise,
allungando anche una mano sulle mie cosce, e cominciando a strofinarla, sempre
con delicatezza.
“E se faccio così, cosa mi dici?”, tornò a ripetere il
quesito di poco prima, con maggior ironia.
Tornò anche a baciarmi, mentre mi accarezzava, con l’aggiunta
della mano sinistra, che ben presto corse al mio volto. Lui ormai era quasi
disteso addosso a me.
“Che hai avuto un improvviso scoppio ormonale?”, provai a
supporre, a mia volta ironica, stando al gioco. Non mi dispiaceva neanche più
di tanto, anzi, dentro di me sentivo la passione crescere sempre di più, farsi
intraprendente, e ruggire come un gigantesco leone.
“Sai che nell’uomo, di primo mattino, il testosterone è al
massimo? E’ difficile da tenere a bada”, sussurrò, ancora impegnato con me.
Io che, d’altra parte, non stavo facendo assolutamente niente
per fermarlo, e di sicuro il mio comportamento reticente e accondiscendente lo
stava spronando ancora di più a non fermarsi.
“Lo sto notando proprio ora”, mi limitai a dirgli, in sua
balìa.
“Ti voglio. Se tu lo vuoi”, tornò a sussurrare, ma quella
volta con un tono di voce deciso, profondo e schietto, senza alcuna vena di
ironia.
Ormai era preso dalla passione, sembrava così tanto vittima
di essa da riuscire solo a toccare il mio corpo, a cercarlo con le sue mani
avide, quando oramai io stessa avevo abbassato ogni barriera, e con le mie mani
strofinavo il suo volto ispido, cercando di fare in modo che alzasse il suo
baricentro e che mi baciasse sulla bocca.
Quando provai ad impiegare tutta la mia forza, non riuscii a
far schiodare il suo volto, ancora affaccendato su di me, frenetico, ma senza
mai sfiorare le mie labbra, e provai a muovermi a mia volta alla ricerca delle
sue, eppure quando fui proprio sul punto di realizzare il ricercato contatto,
George si allontanò.
“Ti voglio anch’io”, ammisi, allora, serissima.
Si sciolse in un sorriso immenso.
“Allora non perdiamo altro tempo”.
Si allacciò la cintura, e in men che non si dica rimise in
moto il fuoristrada e rientrò in corsia, spingendo più del solito
sull’acceleratore.
Sapevo che mi avrebbe portato a casa sua, e che non si era
presentato con una mezz’ora di anticipo così, tanto per fare. Doveva avermi
desiderato molto, durante quella notte. Di tempo ancora un po’ ne avevo,
assecondarlo quindi non mi dispiaceva affatto.
Mi portò subito a casa sua, poco distante.
Non badammo ad altro che andare in fretta e furia in quella
cameretta al piano terra dove ci eravamo già uniti in precedenza, l’unica volta
che si era realizzata nella sua dimora, e una volta sul letto ci eravamo
svestiti in fretta, e soprattutto parzialmente.
George si era abbassato i calzoni fino alle caviglie, senza neppure
togliersi le scarpe, e si era limitato ad arrotolarsi la camicia fino
all’altezza dell’ombelico, mentre io mi ero levata quasi tutto. Odiavo avere il
vincolo dei vestiti, durante le nostre unioni.
Così, avevamo fatto l’amore su quel letto sempre più sfatto,
e ci eravamo presi di fretta, quasi in modo brutale, animalesco.
Spinto dal potente desiderio, anche il mio Piergiorgio si era
lasciato andare alla frenesia, e non avevamo badato ad alcun preliminare. Ci
eravamo uniti, e basta.
Non era caldo, quella volta, ma George era tutto sudato, e
ogni volta che le mie mani sfioravano il suo viso, ne restavano inumidite.
Ansimava, sul mio corpo, e avevo avvertito tutto l’impeto che ci aveva
impiegato quella volta, senza però mai farmi male o spaventarmi. Ce l’aveva
messa tutta, avvertivo che aveva messo a frutto ogni sua forza.
Da quando era tutto finito, e i tremiti del suo corpo,
abbinati agli ansiti di piacere si erano conclusi, sembrava essere tornato
l’uomo calmissimo e pacato di sempre, anche se ancora il cuore gli batteva
forte nel petto e il sudore sulla fronte mostravano tutto l’impegno impiegato
in quell’amplesso.
Fece per ritrarsi da sopra di me, per tornare a dividere i
nostri due corpi, ma lo trattenni, afferrandolo con le braccia.
“Non uscire da me. Resta così ancora un po’”, mormorai, con
le palpebre socchiuse. Ero ancora in visibilio, avevo provato un forte
miscuglio di sensazioni piacevoli, molto travolgenti. La consapevolezza di
essere amata, e il bisogno a mia volta di provare quello che lo stesso George
si era impegnato a dar vita, avevano sprigionato un grande piacere che mi aveva
fatto rilassare tantissimo, in quel momento in cui era ormai tutto finito,
seppur da meno di una manciata di minuti. Rimase immobile e mi accontentò.
“Non abbiamo tanto tempo”.
La sua affermazione era corretta. Era ingiusto che il tempo
volasse, quando stavamo assieme.
“Lo so, purtroppo”.
“Vorrei che tutto questo potesse non finire mai, che si tramutasse
in qualcosa di infinito”. Sorrisi, nella penombra.
“Sei molto poetico, George”.
“Non ho mai provato un desiderio così intenso, in tutta la
mia vita, e pensare che solo fino a qualche mese fa mi sentivo finito. Un uomo
finito! Ma adesso mi sento così pieno di vita, così voglioso di ciò che essa
offre, e di te… e così colmo di una passione che mi era sembrata morta per
sempre…”.
Si interruppe per riprendere a baciarmi, quella volta sulla
bocca. Lo accettai, anche se quei baci arrivavano dopo con qualche minuto di
ritardo, poiché quando li avevo ricercati barbaramente non erano mai giunti, in
quel punto erogeno.
“Sai che tutto questo potrà continuare per un po’, vero? La
prossima settimana ti presento a mia madre, per correttezza, ma possiamo
avviare le pratiche per il matrimonio fin da subito”, gli dissi, quando smise
di baciarmi, e le sue braccia mi cinsero con maggior vigore.
“Andrò subito a sentire in comune. Che matrimonio vorresti?
In chiesa, o un matrimonio civile, in municipio?”, mi interloquì, e sembrava
che ancora non ci credesse, che io volessi sposarlo. Era vero, lo volevo e
sapevo che non mi sarei rimangiata la parola; non ero mai stata più sicura di
così in tutto l’arco della mia breve vita.
“In chiesa, George. Un matrimonio vero, per un amore
profondissimo che solo Dio può conoscere”, mi spiegai, riuscendo perfettamente
ad esprimere le sensazioni che avevo dentro, e i miei più profondi pensieri.
“Tu per me sei stata un dono di Dio, che mi ha salvato dalla
disperazione e dal fallimento ultimo della mia esistenza. Hai ragione, giusto
celebrarlo in chiesa, in modo più ufficiale, e… sarebbe fantastico se questa
unione fosse accompagnata dall’arrivo di un bambino, che ne dici?”.
Vidi che sorrideva con grande bonarietà.
Gli accarezzai le guance.
“Per ora, nessuno in arrivo”, gli dissi, a bassa voce.
Nonostante nell’ultimo mese e mezzo avessimo fatto l’amore
un’infinità di volte, il mio ciclo non si era mai arrestato ed era continuato a
restare regolare. Anche solo due settimane prima avevo avuto i miei soliti
sanguinamenti, e non c’era alcun segnale che tutto quello che avevamo fatto
avesse lasciato qualche segno, volto presto a dare i suoi frutti.
George non la prese tanto bene.
“Forse con l’avanzare dell’età non sono più fertile, o lo
sono stato solo quando ero molto giovane”, affermò, alla fine di una sorta di
breve e seria meditazione, durante la quale avevo osservato il suo viso
leggermente corrucciato.
“Guarda che non sei mica vecchio! Hai ancora un desiderio da
persona giovane”, esclamai, con sicurezza, rassicurandolo, “e poi non mi dire
che sei così tanto voglioso di diventare padre”.
Tentennai, con quell’ultima parte di frase, poiché avevo
timore che potesse offendersi. Invece, non si scompose, anzi, tornò a
sorridermi.
“Penso che sarebbe bellissimo se tutta questa passione
sarebbe coronata da un bebè. La mia età non ha importanza, in questo caso,
perché mi piacerebbe davvero mettermi alla prova, e tornare ad affrontare
questo lieto evento, per provare a essere un buon padre, ora che posso e
desidero essere presente. Sul serio, mi piacerebbe che il destino mi donasse
una seconda opportunità”, si spiegò, sempre dolcissimo.
Con le mani, sollecitai leggermente affinché con la testa si
chinasse di più sulla mia, e la distanza tra i nostri due volti diminuisse.
“S ei tanto buono, George. Sono sicura che qualcuno sta
ascoltando le tue speranze, per esaudirle”, mi venne spontaneo dirgli,
sussurrandoglielo.
Il suo corpo ebbe un fremito.
“E’ che mi sono accompagnato bene, sai? Per questo sembro
così buono”.
Ridacchiai.
“Non è vero, sei proprio buono dentro. Non credo di aver mai
incontrato una persona così speciale, in tutta la mia vita”, gli garantii, come
avevo già fatto altre volte, in precedenza.
“Ti ringrazio”, mormorò, poi mi baciò sulla bocca, esaudendo
il mio desiderio, ma, dopo un breve contatto, si divincolò con forza da me e si
tirò su, in piedi, cominciando immediatamente ad armeggiare con i suoi vestiti.
“Ora dobbiamo proprio andare, però”, aggiunse, per giustificare
la sua azione repentina, e solo allora feci caso all’orologio, e notai che, in
effetti, il tempo era scivolato via molto in fretta. Con un sospiro provato e
stanco, cominciai a mia volta a rivestirmi. Il nostro idillio era terminato
anche per quel giorno, che ben presto sarebbe stato dominato solo dalla solita
routine.
Infatti, ben presto ci ritrovammo in macchina, di nuovo, per
andare in stazione, e non ebbi neppure il tempo necessario per accarezzare
Kira, la dolce cagnolina che mi aveva scodinzolato dietro, ma a cui a causa di
forze maggiori non avevo potuto dedicarle neppure un minimo di attenzione.
Io e George non parlammo più, i nostri corpi e i nostri
spiriti erano stati domati, ed erano ancora gongolanti, così, come se fossero
ancora immersi nel piacevole torpore della nostra unione. Solo i nostri abiti
ancora leggermente in disordine e i nostri visi arrosati potevano tradirci… ma
eravamo in piena estate, erano cose a cui nessuno in genere prestava
attenzione.
Ci salutammo con un bacetto casto, in stazione, e poi andammo
ciascuno per la propria strada, giustamente; ormai il nostro periodo dedicato a
noi si era esaurito, purtroppo, e il mondo ci reclamava.
NOTA DELL’AUTORE
Siamo nell’apice dell’idillio e sembra che tutto sia
tremendamente perfetto. Credo che due protagonisti così si siano meritati una
seconda occasione… per migliorarsi a vicenda… per sfidare sé stessi, il tempo,
la realtà, i pensieri comuni.
Grazie per essere qui e per continuare a leggere ^^
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Capitolo 34 *** Capitolo trentaquattro ***
Capitolo trentaquattro
CAPITOLO TRENTAQUATTRO
La settimana passò in fretta.
Trascorse nella semplicità disarmante comune ad ogni
esistenza abitudinaria, scorrendo con un continuo accavallarsi di situazioni
che avevano sempre un qualcosa che, a mio avviso, pareva già vissuto. La verità
era che la routine era qualcosa di nefasto e di triste, ma solo in quel
momento, con il cuore in preda al più fervente amore, me ne stavo rendendo
conto, e realizzavo che la vita è molto più dolce se cosparsa di un po’ di
passione.
Al lavoro andava tutto bene, per me, e a casa pure; mia madre
se la cavava, e da quando aveva saputo che finalmente mi sarei sbilanciata in
maniera irreparabile, a riguardo del mio compagno, era sempre stata al settimo
cielo.
A un certo punto, la sua pura gioia finì per contaminarmi, e
anche quando lavoravo ero serena e spensierata, ridevo con i miei colleghi e
anche con gli avventori, mi sentivo piena di forze e grintosa. Questo aveva
molti aspetti positivi che si riflettevano in ogni ambito della mia vita.
La signora Virginia era soddisfatta di me, ed era sempre
dolcissima, con i colleghi e le colleghe tutto a posto, e a casa viveva una
pace d’altri tempi, forse mai esistita fino a quei giorni; e poi, ogni volta
che socchiudevo gli occhi, o che mi fermavo un attimo, a prendere il respiro…
mi appariva lui, il mio George, con tutta la sua galanteria, la sua gratuita
bontà, il suo modo di fare inebriante e dolce. Era diventato il nettare della
mia esistenza.
Giunsi quasi in crisi d’astinenza alla serata in cui avremmo
cenato assieme con mia madre, poiché dalla mattina in cui mi aveva portato in
stazione, per recuperare la mia automobile, non eravamo riusciti più a stare
assieme e a godere reciprocamente del nostro stare assieme.
C’eravamo solo sentiti per telefono, purtroppo, siccome lui
era stato davvero molto impegnato, aveva avuto una settimana pienissima
all’ospedale e aveva scelto di affrontare anche alcune intere nottate.
Poverino, me lo immaginavo a pezzi, ed infatti gli chiedevo sempre come stava,
ma il mio Piergiorgio era ancora energico come un ragazzino, quando si trattava
di lavoro, ed infatti lo trovavo sempre vivace e ben disposto alla
conversazione.
Mi faceva piacere tutto ciò, anche se mi dispiaceva che per
diversi giorni non eravamo riusciti a ritagliarci qualche momento per noi. Ero
comunque contentissima che continuasse ad offrire il suo sapere agli altri, per
curarli e farli star bene.
Tuttavia, quella serata tanto attesa giunse in fretta, e non
sapevo in realtà se esserne felicissima, oppure provare un senso di inquietudine.
Non avevo idea di come avrebbe potuto reagire mia madre.
Lei si era impegnata tantissimo, da parte sua, e quando
tornai a casa dal lavoro me la ritrovai immersa nei suoi capolavori culinari.
“Mamma, sai che non devi sforzarti… anzi, non dovevi fare
tutto questo!”, esclamai, un po’ contrariata.
Eravamo rimaste d’accordo che avrei fatto arrivare tre pizze
per le ventuno, orario concordato per la nostra cena, appunto per non farla
sgobbare come non mai. Evidentemente, non mi aveva dato retta.
Infatti, appena udì che la stava rimproverando, emerse in
tutta la sua altezza dal bel mezzo delle pietanze ormai pronte, e smosse il suo
candido grembiule con gran stizza.
“E tu pretendevi che io stessi ad aspettare tre pizze?
Vorresti che io liquidassi il tuo nuovo ragazzo con tre cosucce preparate da
altri? Questo no, poi! Che figura da cialtrona ci avrei fatto? Ah, no, lascia
fare a me, figlia mia”, fu poi lei a rimproverarmi, tornando subito dopo al
lavoro.
Con una scrollata di spalle, passata totalmente inosservata,
me ne andai a prepararmi per la serata, d’altronde l’importante era che fosse
contenta lei. Mi feci una rapida doccia e mi cambiai per bene; non volevo che
su di me restassero residui di quell’ennesima giornata lavorativa.
Quando tornai in cucina, l’orologio segnava le venti e quarantacinque
spaccate, e mia madre aveva appena finito di sistemare le stoviglie e di
apparecchiare la tavola, mentre qualcosa d’indistinto ancora sfrigolava in
forno. Regnava nell’aria un profumino favoloso.
“Ah!”, inspirai, sorridendo. La mamma sorrise, a sua volta.
“Speriamo bene, dai! A che ora deve arrivare?”, mi chiese,
strofinandosi le mani l’una contro l’altra.
“Alle ventuno”, tornai a dirle.
Era da quella mattina che mi chiedeva a che ora sarebbe
arrivato a casa nostra, ma non mi ero comunque ancora stufata di tornare a
metterglielo in mente, comprendevo un po’ la sua ansia. Però, da quel momento
in poi l’ansia e la tensione cominciarono a salire anche per me. E se fosse
andato qualcosa di storto? E se quella serata sarebbe stata decisiva nel nostro
rapporto, e magari avesse potuto ferirlo? Non avrei mai potuto accettarlo.
Mi venne un gran groppo in gola.
Per fortuna, il momento tanto atteso giunse, e puntualmente
il campanello squillò. Era già buio fuori, il buio di un’estate avanzata, pesto
ma caldo.
Mi alzai e andai ad aprire, con mia madre che si levava i
guantoni del forno e se ne restava in trepidante attesa in cucina.
Aprii la porta e me lo ritrovai di fronte così, vestito in
maniera impeccabile; non appena la luce dell’interno lo colpì, risaltarono
immediatamente i suoi abiti perfetti, costosi e curati. Indossava un completo
perfetto, scarpe di cuoio lucidissimo, e i capelli erano ben pettinati, tirati
all’indietro sulla fronte, un po’ alla Pascoli. Il viso era sempre lo stesso,
con un po’ di barba corta e ordinata. Un sorriso immenso sembrava andare da un
orecchio all’altro.
Bruciai la distanza che ci separava e lo baciai, stando
attenta a non sfiorare null’altro in quel corpo preparato alla perfezione, e
sembrava dovesse partecipare a un gran galà.
“Ti amo”, gli dissi, solamente, afferrandolo per mano e
accompagnandolo in casa. A quel punto, però, la mamma era nel bel mezzo della
porta della cucina, e ci stava osservando.
“Oh, dottore, anche lei qui! Pensi un po’ che bello!”, disse,
entusiasta, poi si guardò attorno, notando che la porta dietro di noi era già
stata richiusa. “E il tuo ragazzo dov’è, Isa?”.
La domanda cadde nel vuoto. Ecco, quella era una situazione
imbarazzante che avrei tanto voluto evitare, e a cui mi sarei dovuta preparare,
in maniera preventiva. Meglio prevenire che curare, d’altronde, ma era troppo
tardi.
Tossicchiai.
“C’è un posto anche per lei a tavola, dottore! Grazie per
essere venuto, anche se mia figlia non mi aveva avvisato”, tornò a spiegarsi
mia madre, tutta sorridente, senza rendersi conto del colossale errore che
stava facendo, e pure senza darmi il tempo per rimediare.
Allora, intervenni con prontezza, dopo quelle ultime parole.
“Mamma, il signor Piergiorgio è la persona che stavamo aspettando.
È lui il mio fidanzato”, dissi, cercando di mantenere la calma, ma non riuscii
a sorridere, e fui felice di non aver dovuto aggiungere qualche parola in più,
siccome mi sarebbero di certo morte in gola.
Il volto di mia madre, da parte sua, si dipinse di rosso in
un attimo.
“Oh, mi scusi, mi scusi tanto, io non sapevo niente…”,
cominciò a borbottare, in maniera confusa e concitata. Non si aspettava quella
situazione, ed io con lei, infatti non sapevo più come intervenire, mentre il
mio peggior incubo stava diventando sempre più una tangibile realtà.
“La prego di darmi del tu, signora, e di evitare i
convenevoli. Per lei sono Piergiorgio, il compagno di sua figlia”, si presentò
il mio George, venendo incontro a entrambe con molto garbo. Era l’unico che
appariva ancora impassibile, anzi, il sorriso che regnava sul suo viso quando
si era presentato alla nostra porta risultava ancora inalterato.
“Oh, certo… certo…”, continuò a borbottare mia madre, sempre
confusa. Avevo come l’impressione che non sapesse più quali pesci pigliare e
cosa dire.
“Lo so che è un po’ sorpresa, lo so anche io che sono un
fidanzato… un po’ stagionato!”, provò a fare dell’ironia, con tanto di rima. Mi
sfuggì un sorriso repentino, e anche la mamma parve incassare il colpo, e
smettere di essere in confusione e di non sapere come comportarsi.
“Non dica… non dire così”, si corresse, “e dammi pure del tu,
senza problemi. E se vi va, seguitemi in cucina, mi sono data un po’ da fare!”,
proseguì, calma e pacata.
Emisi un sospiro di sollievo; a quanto pareva, il primo
confronto era stato superato, ed ero costretta ad ammettere che sarebbe potuta
andare anche peggio.
Ci diede le spalle per un attimo, ed io e George riuscimmo a
scambiarci un’occhiatina complice e distesa. Sapevo che dovevo dirgli grazie,
perché ci era venuto molto incontro e aveva fatto tutto il possibile per
risultare carino, piacevole ed accettabile, con la sua galanteria e
quell’esperienza non da tutti. Era anche quell’aspetto del suo carattere che
faceva molta presa su di me, e cioè quel modo di fare sempre così controllato,
che mi trasmetteva un senso di soffusa sicurezza quando gli ero a fianco.
“Oh, ti sei data proprio da fare! Ma non dovevi mica”, esordì
Piergiorgio quando ci trovammo al cospetto della tavola apparecchiata, e
ripiena di delizie fumanti.
Riconobbi che mia madre aveva senz’altro dato fondo a tutte
le sue conoscenze culinarie, dando sfoggio alle sue elogiabili capacità ai
fornelli.
“E’ solo un pensiero”, disse lei, sorridente.
“Anche io ho portato qualcosa”, aggiunse George, e solo
allora mi accorsi della sportina di cartoncino colorato che aveva con sé, dal
tanto che ero stata presa dalle possibili reazioni del primo contatto tra i
due.
Si allungò e l’appoggiò su una sedia, ed estrasse due belle
bottiglie di vino.
“Grazie! Che gentile”, disse mia madre, colta alla sprovvista
dall’ennesima galanteria.
Io osservavo la scena con interesse continuo, siccome mi era
sempre piaciuto come quei due si erano sempre relazionati tra loro. La mamma
era stata una paziente che si era affezionata molto alla figura professionale
che l’aveva curata e si era presa cura di lei, e George aveva fatto
altrettanto, e in quel momento, in quel faccia a faccia tanto delicato,
sembrava che il feeling che li aveva legati e contraddistinti fin da subito
fosse destinato a durare, e a evitare possibili situazioni molto spiacevoli per
tutti noi.
“Sono vini senz’altro molto costosi…”, non riuscii a
trattenermi, quando notai le scritte distinte ai fianchi delle bottiglie.
“Due bottiglie delle migliori annate francesi!”, esclamò
George, appoggiando le bottiglie sul tavolo.
“Mi sembra che tutti e due abbiate strafatto, per questa
sera! E pensare che credevo che toccasse a me preparare qualcosa!”, affermai a mia
volta, sorpresa dalle due vulcaniche personalità che mi circondavano. Io, in
confronto a loro, ero qualcosa di davvero troppo prevedibile, di banale e di
scontato.
“Non pensiamo ad altro e ceniamo, allora! Altrimenti si
raffredda tutto”, sancì mia madre, a quel punto, mettendo ufficialmente al
bando i convenevoli.
“Dobbiamo anche festeggiare il fatto che mia figlia ha
ereditato. Lo sai, dottore?”, si spigliò la mamma, mentre ci sedavamo. Feci per
riprenderla, siccome credevo che quello non fosse né il momento né il modo
opportuno per tirare in ballo una faccenda a cui non volevo affatto pensare, ma
George non fece una piega e continuò a mostrarsi interessato ad ogni cosa o
discorso.
“Mi ha accennato qualcosa, sì”, disse, lanciandomi
un’occhiata divertita, “comunque, puoi chiamarmi Piergiorgio”.
“Io lo chiamo George”, affermai, un po’ infantilmente, ma nel
tentativo di sviare l’attenzione di mia madre dal discorso eredità.
Strinsi la mano del mio innamorato ufficiale tra le mie, e
sul tavolo, in bella vista, con la mia genitrice che non fece una piega. Poi,
all’improvviso, divenne seria e sospirò.
“Ah, Piergiorgio, mi hai salvato da una scenata incredibile”.
Per la prima volta, George parve un po’ spiazzato da quello
che aveva udito. Anche io mi feci più guardinga.
“Sai perché?”, interloquì. Piergiorgio scosse il capo.
“Avevo paura che mi riportasse a casa Marco, o uno come lui.
Davvero, pensavo di trovarmi di fronte ad uno di quei bambocci bellocci e
stupidi che mi avrebbero fatto venire un definitivo infarto”, prese un attimo
di respiro, guardandoci l’un l’altra, a tratti, “per fortuna però ci sei tu.
Meglio che uno di quegli idioti senza futuro”, concluse.
George sorrise, ed io con lui. La prova era stata
ufficialmente superata.
“Ma non dire così, dai. Io invece mi aspettavo di essere cacciato
via a pedate nel didietro”, sancì il mio amante, non senza un fondo di ragione,
siccome anch’io a lungo avevo temuto una reazione di sdegno da parte del mio
unico genitore rimasto.
“Oh!”, mia madre poi si lasciò andare ad una breve risata, prima
di riprendere a parlare. “Come potrei maltrattare un uomo così gentile e
galante, che nel tempo ho imparato a stimare tantissimo? Non mi stupisco che
mia figlia sia impazzita per te”, ammise mia madre, arrossendo e sedendosi.
Potevamo cominciare ad affrontare il cibo e le pietanze
varie, dispiegate con posate e piatti sull’ampio tavolo della cucina.
“Tu mi lusinghi troppo, magari fossi così perfetto!”,
ridacchiò George.
Mi piaceva sempre di più quel clima così informale che si
stava creando.
“Ma ora, diamo sfogo alle nostre mandibole”, fu il mio turno
di parlare, dandoci sotto con il cibo.
Gli altri convitati furono evidentemente d’accordo con me,
siccome a loro volta si riempirono i piatti, senza aggiungere altro.
L’atmosfera continuò a restare serena anche durante il pasto; Piergiorgio
mangiava piano, con un sorriso tranquillo sulle labbra, mentre mia madre
sembrava piuttosto seria, ma rilassata anche lei. Temevo che poi ne avremmo
riparlato, a riguardo di quella sua ultima scoperta.
Da parte mia ero più tranquilla, sapevo che non avevo proprio
nulla di cui giustificarmi, e tutto sommato non avevo proprio nulla di cui lamentarmi.
Avevo avuto anche la fortuna che la mamma avesse accettato la faccenda con
positività, in modo spontaneo e sincero, quindi dovevo proprio starmene
tranquilla anch’io, e senza interrompere quel pasto che stava proseguendo a
meraviglia, lasciai solo che fossero le mie ganasce ad impegnarsi, mettendo a
riposo il mio stanco cervello, almeno per un po’.
“Complimenti alla cuoca”, tornò a dire George, a metà cena,
quando continuava ad essere perfetto e il cibo in tavola si era rivelato più
che delizioso.
“Le… ti sta piacendo?”, chiese mia madre, sorridendo,
compiaciuta, e correggendosi quando stava per tornare a dargli del Lei.
“Sicuro, tutto molto buono. Una cuoca sopraffina!”.
George la guardava con uno di quegli ampi sorrisi sulle
labbra, di quelli che mi facevano tanto impazzire e che era impossibile non
amare, poiché avevano una parvenza così sincera che si rivelavano proprio ad
impatto. A chiunque fossero rivolti, sapevano far smuovere qualcosa, dentro.
Era come se fosse stato un suo potere magico.
“Ti ringrazio tantissimo”, si limitò infatti a dire la mamma,
imbarazzata e felice, al cospetto di tutti quei complimenti gentili.
“Anche a me sta piacendo tutto, complimenti mamma”, volli
dire la mia.
Fino a quel momento, giustamente, avevo cercato di restare un
po’ ai margini della conversazione, e di non intervenire mai, affinché i due
più adulti avessero modo di accettarsi tra loro, senza alcuna interferenza,
volendo che si relazionassero per bene. Avevo il costante timore che qualcosa
potesse andare storto, e desideravo che provassero a cavarsela da soli, così da
potersi accettare e comprendere senza alcuna difficoltà o intervento rischioso
e superfluo.
Da parte di George, sapevo che comunque sarebbe andata a
finire non avrebbe avuto ripercussioni a lungo termine, ma mia madre era una
tipetta tosta, quando voleva, tuttavia potevo stare molto tranquilla, siccome
sembrava tutto davvero a posto. Anzi, lei l’aveva già accettato ufficialmente,
a inizio cena.
Mangiavamo tranquilli, e il mio amante stappò una delle
bottiglie che aveva portato con sé, riempiendo prima il bicchiere di mia madre,
poi il suo. Io declinai la proposta, in genere non bevevo vino, e non mi
piaceva, a meno che non fosse proprio dolcissimo.
I due invece lo gradirono molto.
Tutto era ancora più rilassato e tranquillo, quando un
improvviso squillo del campanello interruppe il nostro momento tranquillo e
disteso. Sobbalzai e guardai mia madre con fare interrogativo.
“Chi è, a quest’ora?”, le chiesi, subito. Erano le ventidue,
un orario davvero insolito da ricevere visite. Lei mi rivolse un’occhiatina
strana, che mi diede subito il vago sospetto del fatto che mi stesse
nascondendo qualcosa di molto grave.
“Non… non lo so”, provò ad affermare, poi schizzò in piedi e andò
alla porta.
Trattenni il sospiro, ma rivolsi un sorriso caldo al mio
George, che sembrava continuare a non risentirne di nulla, anzi, era disteso
esattamente come poco prima. E come dargli torto! Era davvero una persona
splendida.
Percepii un borbottio sommesso nel corridoio, e mi sembrò di
riconoscere una voce… questo mi fece raggelare il sangue nelle vene. A quel
punto, a furia di trattenere il respiro cominciai a sentirmi arrossare,
cercando di non pensare che ogni mio terribile sospetto potesse essere la
realtà, e che magari avevo udito male.
Forse, era solo una vicina di casa, o chissà chi, che mia
madre avrebbe lasciato andare subito. Invece, i miei brutti sospetti divennero
una realtà concreta, quando, dopo qualche istante, in cucina piombò un’euforica
Irene.
“Oh, Isa, che bello, che b…”.
Si interruppe quando vide Piergiorgio. Parve che ogni traccia
di euforia fosse scomparsa per sempre.
Mia madre fece capolino dietro di lei, e mi riservò
l’ennesima occhiata, quella volta molto risentita e dispiaciuta. Il sorriso mi
morì sulle labbra, e, anzi, mi sentii morire, sul serio. Cosa ci faceva quella
ragazza lì, in quella serata tanto delicata? Avevo fatto di tutto affinché il
clima in casa fosse disteso e pacifico, ed ecco che piombava a sorpresa quella
mia giovane amica così esplosiva… in meno di un secondo avevo già capito che
tutto stava per prendere la piega più spiacevole che avessi mai potuto
immaginare.
Non riuscii a salutarla, con lei che faceva frullare in continuazione
gli occhi da me a George, e viceversa.
“E’ tuo zio, Isa?”, tornò a dire, dopo lo sbigottimento
iniziale.
Le riservai un’occhiataccia infuocata, ma cercai di essere
diplomatica; sapevo che a George la tensione non piaceva, e lui, anche se non sorrideva
più, appariva ancora ben tranquillo, e non volevo di certo turbarlo in qualche
modo, già che io e mia madre lo eravamo, e anche molto.
Mi alzai allora dal mio posto a tavola, e socchiudendo gli
occhi mi sforzai di sfoggiare un freddissimo e appena accennato sorrisetto di
cortesia.
“Ire, questo è il mio fidanzato, Piergiorgio”, le dissi, “Piergiorgio,
questa è la mia migliore amica, Irene”, intavolai così un’improvvisata
presentazione.
George si alzò dal tavolo e porse la mano alla mia amica, ancora
sbigottita da quello che aveva appena udito.
“Molto piacere”, le disse, ma lei non gli strinse la mano.
Non lo guardò neppure in faccia, preferendo cercare il mio sguardo, da sopra le
sue spalle.
“Spero che voi stiate scherzando! Ditemi che mi state
prendendo in giro, dai!”, brontolò con sommo disgusto.
Tornai a mettermi a sedere, turbata e senza parole, e mentre
il mio Piergiorgio, ormai ferito, abbassava la mano rifiutata, mia madre provò
a mettere una pezza alla vicenda, ormai precipitata.
“Irene cara, sii educata! Qui nessuno sta scherzando. Questo
simpatico e cortese signore è il compagno di mia figlia”, la riprese, prendendo
le nostre parti.
La mia amica però doveva avere ancora da obiettare, siccome sembrava
che stesse lottando per tenere a freno la lingua. Poi, all’improvviso, si
sciolse in un sorrisetto di puro scherno.
“Be’, perché non mi hai mai spiegato i tuoi gusti in fatto di
uomini? Di fronte a casa mia c’è un ospizio, magari anche lì ci poteva essere una
tua possibile anima gemella”, ridacchiò.
Aveva passato il segno; mi aveva offeso, e fu come se mi
avesse dato una coltellata. Ormai era da tempo che i rapporti tra me e Irene
avevano cominciato a deteriorarsi, ma a quel punto stavamo proprio toccando il
fondo.
A suo tempo, forse, era stata davvero una buona amica,
soprattutto perché era una persona che poteva apparire radiosa, in genere, e
anche se era un po’ oca, questo lasciava spazio al divertimento. Non era bello
avere a che fare con persone troppo razionali, che poi io da adolescente
cercavo sempre di evitare… come mi evitavano tutti. Non avevo mai avuto dei
veri amici.
In quel momento mi sentivo davvero ferita, sconquassata da
quella che mi era sembrata a tutti gli effetti un’aggressione verbale, ed ero
così scioccata da come gli eventi stavano precipitando in fretta che non sapevo
neppure come intervenire, non ne avevo idea.
“Irene”, tornò a riprenderla mia madre, questa volta con
maggior vigore, “ricorda che sei in casa nostra, e sei un’ospite”.
La mia amica che rivolse un’occhiata strana, poi scoppiò a
ridere, e lo fece in modo anomalo, portando addirittura una mano di fronte alla
bocca, e reclinando la testa all’indietro, seppur leggermente.
“Perdonatemi, ma questa cosa mi fa troppo ridere. Scusate”,
borbottò, la voce soffocata dalla ridarella.
Con un’espressione disgustata ben impressa sul volto,
abbassai lo sguardo sul mio piatto, mentre il volto diventava rossissimo, e
pareva un tizzone ardente. Mia madre era spiazzata quanto me, seppure non fosse
avvampata dal misto di rabbia e disgusto che aleggiava attorno a noi, e l’unico
che sembrava padrone della situazione era sempre il mio Piergiorgio, che,
nonostante fosse quello a cui stavano venendo rivolti con più vigore gli
sberleffi, non se l’era affatto presa.
“Mi sei sembrata una ragazza molto intelligente, non voglio
giudicati per come ti stai comportando adesso”, esordì, quando meno me
l’aspettavo, “ma mi auguro davvero che nella vita tu ti sappia comportare
meglio”.
Alzai lo sguardo, lo vidi sorridente e sereno, e mi volsi
verso Irene, ancora in piedi, che l’aveva ascoltato con distanza. Fece una
smorfia, e come se non avesse mai parlato, si rivolse a mia madre, a suo
fianco.
“Se avete un posto in più a tavola, mi fermo anch’io a
cenare. Ma sappiate che lo faccio solo perché Isa è mia amica, e per nessun
altro”, affermò la giovane, quasi autoinvitandosi, ed allora ritrovai la forza
per farmi sotto.
“Guarda, ci dispiace ma la cena è praticamente conclusa…”,
intervenni, nervosissima, ma Piergiorgio mi afferrò una mano, sul tavolo, e la
strinse con delicata risolutezza, interrompendomi.
“Certo, siediti pure con noi”, le disse, allungando la mano
sinistra e scostando una sedia a suo fianco. Irene, tuttavia, non gli badò
neppure quella volta, e cercò l’assenso di mia madre, che giunse dopo le parole
di George.
Allora si sedette, ma non nel posto che le aveva preparato il
mio amante, bensì dal lato opposto del tavolo, proprio di fronte a me. Io
sospiravo, sempre più forte; mi sentivo una bomba pronta a esplodere.
Piergiorgio e mia madre si rimisero a mangiare come se nulla
fosse, e la mia amica cominciò a servirsi, dopo essersi appropriata di un
piatto ancora pulito, ed io me ne rimasi mogia, senza avere nulla da dire. Mi
sentivo male.
Mi alzai e mi diressi verso il bagno, così, colta da un senso
di disgusto che non poteva essere represso in alcun modo. La cena mi veniva
tutta su, come se stessi per vomitare.
Mi allontanai in fretta, senza che nessuno intervenisse in
alcun modo, ma non giunsi mai in bagno, poiché mi accasciai contro il muro del
corridoio, lasciandomi scivolare fino al pavimento, il sedere ormai appoggiato
contro le piastrelle fredde. Presi il mio viso tra le mani, continuando a
percepirlo di un rossore intenso, e le mie gote scottavano.
Poco dopo, percepii il rumore prodotto dalle scarpe di
George, che si era alzato da tavola, e poi mi stava raggiungendo. Non lo
guardai, e si chinò su di me, appoggiando le sue mani sulle mie spalle, e
scrollandomi un po’.
Quando mi decisi a guardarlo, incontrai i suoi occhi, e mi
sentii meglio, mentre lui mi stava rivolgendo uno di quei sorrisi che tanto
adoravo.
“Non devi preoccuparti, è tutto a posto”, mi sussurrò.
Affondai di nuovo il mio viso tra le mani, mentre avvertivo
la voce di Irene, che in cucina aveva cominciato a cercare di conversare con
mia madre.
Fu il mio turno di non badare alle parole che mi erano appena
stare rivolte; per me quello era il putiferio più assoluto, una situazione
imbarazzante e imperdonabile, che mi sarei ricordata in eterno. Non potevo non
preoccuparmi o pensare che tutto fosse a posto, perché non lo era affatto.
“Ehi”, mi richiamò lui, allora, a voce più alta. Tornai ad
alzare il mio sguardo.
“Io ti amo, Isa. Solo questo conta, lo sai?”. E così dicendo,
cercò le mie labbra, e ci baciammo con passione.
Il nostro bacio travolgente e inaspettato seppe rincuorarmi
ancora di più, seppi così con maggior certezza che mai avrei dovuto disperarmi
in quella maniera, perché lui era con me, ed era a mio fianco, mi amava, il suo
amore era puro e sincero, non temeva nulla, anche se la paura che potesse
restare ferito in qualche modo restava altissima.
“Ora torniamo in cucina, e qualunque cosa accada, voglio che
tu mi prometta”, e mi guardò molto seriamente, “che non perderai le staffe”.
“Farò il possibile”, asserii, rinfrancata dalle sue parole.
Mi prese le mani e mi aiutò a rimettermi in piedi, poi
tornammo assieme in cucina, mano nella mano. Irene ci osservò, ma non disse
nulla, e noi riprendemmo posizione.
Da quando tornammo a riprendere posizione al tavolo, lei non
disse più niente, né cercò di fare conversazione con mia madre, continuando a
far regnare la tensione. Noi avevamo praticamente concluso la cena, e l’unico
che mangiò il dolce a cuor leggero fu proprio George, che sembrava non rendersi
conto che Irene lo stava sfidando, con il suo silenzio, trattandolo come se non
esistesse, ma allo stesso tempo fosse qualcosa di fastidioso e di disgustoso.
Lo stava pubblicamente maltrattando, per far capire a noi e a lui quanto
disgusto stava provando.
Sempre in silenzio, dopo una mezzoretta George tornò ad
alzarsi per recarsi veramente in bagno, quella volta, e quando fu uscito dalla
cucina fu il momento per la mia amica di alzare la cresta.
“Io una cosa del genere non me la sarei mai aspettata da te,
Isa! Ti sei messa con un vecchio maniaco e pervertito! Mi dà i brividi solo a
vederlo”, si affrettò a esclamare, sempre con un’espressione di puro disgusto
impressa sul volto.
Si alzò da tavola ed allontanò il suo piatto, ancora mezzo
pieno.
“Ire, nessuno ti ha chiesto un parere a riguardo, ma ti posso
garantire che Piergiorgio è una bravissima persona, e non è affatto un
pervertito”, provai a dire, continuando a mantenere un aspetto diplomatico.
“E’ che ti ha fatto il lavaggio del cervello! Quei malati di
mente sono persone molto cattive, ti abituano al loro male”, s’interruppe per
sospirare, “per fortuna io non ho più alcuna voglia di respirare la sua stessa
aria. Me ne vado”, sancì, infine.
Annuii.
“Credo sia la cosa migliore che tu possa fare”, ammisi, ad
alta voce.
“Grazie per la cena, era tutto buonissimo, anche se avevo lo
stomaco sottosopra”, ringraziò mia madre, e si diresse verso la porta, davvero
intenzionata ad andarsene.
Quando stavo per tirare un sospiro di sollievo, e la giovane
ormai era in procinto di varcare quella fatidica soglia e di andarsene,
finalmente, tornò a voltarsi indietro per un attimo, e mi rivolse uno sguardo
di sdegno profondo.
“Volevi farmi credere che si trattasse di un gran bel figo,
vero? Invece è una gran merda. Mi fai schifo, Isa, sei solo una bugiarda”. E
con quello ci diede le spalle definitivamente e se ne andò, sbattendo poi la
porta d’ingresso dietro di sé.
Piergiorgio, nel frattempo, tardava a tornare, forse aveva
udito qualcosa e preferiva darci qualche attimo di tregua e di confronto. Mi
rivolsi a mia madre, infatti, che sembrava preoccupatissima.
“Perché mai avrei dovuto dirle la verità su di lui?”. Mi
venne quasi da emettere una risata isterica.
“Non l’hai detta neppure a me, per questo l’ho invitata qui,
per fare la conoscenza del tuo nuovo compagno”, mi rispose lei, sorprendendomi.
Rimasi sbigottita per qualche attimo, ma ormai avevo tutto
più chiaro, soprattutto riguardo a quella presenza inaspettata e nefasta.
“Mamma, io non ti ho mai detto falsità a riguardo. Sono
sempre e solo stata molto vaga”, affermai, poiché era la verità. Non ricordavo
di essermi macchiata le mani con delle bugie.
“Non ha importanza, sai?”, disse lei, a quel punto molto
emozionata. “A me Piergiorgio piace come persona, e se questa è la tua scelta,
la sosterrò, te lo giuro. Ti chiedo scusa per Irene, ma non so cosa si fosse
messa in testa…”.
“Mi avrebbe giudicato anche se mi fossi messa con il più bel
giovane del mondo. Sai com’è fatta, deve sempre sfottere gli altri, e tu ti sei
lasciata fregare, invitandola qui a insultare tua figlia”, quasi gridai,
arrabbiata.
Cercai subito di moderarmi, però, per adempiere alla promessa
fatta poco prima.
“Ha insistito tanto per venire... ma hai ragione, ti chiedo
scusa”, ammise la mamma, e sentii che potevo riappacificarmi con lei, anche se
probabilmente non avrei mai potuto dimenticare l’accaduto, e con Irene i rapporti
sarebbero stati destinati a essere interrotti.
Comunque, fummo interrotte dal ritorno di Piergiorgio,
sorridente e composto come poco prima.
“La nostra ospite se n’è già andata?”, chiese, osservandoci
entrambe, a turno. Riuscii a mia volta a sorridere, la sua ironia era stata
lampante.
“Ti manca già, vero?”, ironizzai, a mia volta.
Tacque, non aggiunse nient’altro.
Concluse la sua porzione di dolce, un piccolo trancio di
torta di mele che aveva preparato mia madre, ma ormai la nostra cena era
finita, e allora non sapevo cos’altro sarebbe potuto accadere. Mi dispiaceva
lasciare andare via George, tuttavia non avevo alcuna intenzione di seguirlo a
casa sua, magari ferendo mia madre, o di invitarlo di mia spontanea iniziativa
nel mio letto. Sapevo che quella volta sarebbe finita con una separazione
decisa da forze maggiori.
George si alzò, dopo il caffè, e si complimentò ancora con la
mamma, sfoggiando la sua grande cortesia, in grado di far breccia in ogni
cuore, e lei continuò a mostrarsi molto lusingata.
Quando giunse il momento dei saluti, però, la mia genitrice
passò lo sguardo da lui a me, con un po’ di sorpresa.
“Perché, hai intenzione di andare a casa, e di lasciare mia
figlia da sola?”, domandò, retoricamente. Tornai a sorridere, felice della
concessione che mia madre ci stava facendo, forse anche per farsi perdonare la
parentesi terribile con Irene.
“Io vorrei tanto non restare sola, questa notte!”, esclamai,
prendendo la palla al balzo, e alzandomi allargando le braccia.
George ci si fiondò dentro, come un bambino, e ci coccolammo
così, pubblicamente. La mamma si commosse, a quella vista.
“Spero che passiate una notte felice e serena, siete una
bella coppia! E ora andate, che è tardi e domani è un giorno di lavoro…”, ci
offrì a suo modo la sua benedizione, e ci incoraggiò ad andare.
Quando provai a tentennare per offrirle il mio aiuto a
ripulire tutto, mi rivolse un’occhiataccia che mi fece desistere senza neppure
provare a esprimere a voce la mia proposta, e mi baluginò per la mente, a quel
punto, che lei avesse già percepito qualcosa, delle nottate che io e il mio
amante, allora segreto, avevamo trascorso tra le sue mura domestiche, cosa per
nulla impossibile.
Non mi importava più, oramai, e allora assieme al mio
Piergiorgio mi preparai a trascorrere una notte tutta per noi, tutta nostra,
con un peso in meno sul cuore, perché il mondo sapeva, ci eravamo svelati, e
niente e nessuno ci avrebbe mai più potuto fermare, essendo giunti alla luce
del sole.
NOTA DELL’AUTORE
George ora è entrato a far parte di questa piccola
famigliola.
I nostri due protagonisti, nonostante tutto, hanno vinto
anche questa importante sfida.
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Capitolo 35 *** Capitolo trentacinque ***
Capitolo trentacinque
CAPITOLO TRENTACINQUE
La notte. Quel momento magico che mi era sempre piaciuto, ma
mai come quando avevo imparato ad apprezzarla di più, grazie alla compagnia del
mio tenerissimo amante.
Tra me e Marco non poteva funzionare, ma tra me e Piergiorgio
sì. Me lo sentivo.
Ormai il primo test con mia madre era stato superato appieno,
altrimenti non si sarebbe mai permessa di invitarlo a sostare in casa sua, e
sentivo che era rimasta mortificata, interiormente, per quello che era accaduto
per colpa di Irene.
La mia amica aveva gettato fango su un Piergiorgio innocente,
che non meritava quello che gli era stato rivolto, e lei lo sapeva, essendo
stata dapprima una sua paziente, e poi avendone saggiato la sua gentilezza in
più occasioni. Sapevo che non sarebbe tornata indietro e che non ci avrebbe
abbandonati; ora lei ci vedeva ufficialmente come una coppia, o almeno questo
volevo sperarlo con tutta me stessa.
Restava il fatto che, non appena giungemmo nella mia stanza,
ci svestimmo in tutta fretta, come la prima volta in cui avevamo fatto l’amore,
e ci prendemmo sul letto, totalmente nudi e senza pensare più a nulla. Anche il
mio turbamento residuo a riguardo della sceneggiata maleducatissima di Irene
svanì in fretta, mentre George mi stringeva tra le sue braccia e mi rendeva sua
con forza.
Pareva incredibile l’ardore che riusciva a impiegare nei
nostri amplessi, poiché sembrava una di quelle persone molto attente, molto
fragili, piuttosto lente, eccessivamente pacate, ed invece nel letto si
tramutava nell’amante perfetto, quello che più avrei desiderato in quel
particolare momento della mia vita.
Gemetti con maggior vigore a ogni sua spinta, mentre ancora
sulla mia pelle ardevano le parole che Irene ci aveva rivolto, poco amichevoli.
In preda al desiderio, dapprima cercai di fare in modo che il suo viso si
chinasse su di me, alla continua ricerca del contatto tra le nostre labbra, poi
lasciai che le mani scivolassero verso le sue natiche, per far pressione,
invitandolo ad aumentare le spinte.
Lui non parlò mai, si limitò ad agire, e sembrava in preda
all’impeto amoroso, proprio come me.
George era un uomo che durante il rapporto amoroso si
rivelava un vero e proprio padrone, forse era l’unico momento della nostra
esistenza di coppia in cui lasciava davvero poco spazio alle mie iniziative,
siccome in pratica faceva tutto da solo, e se non gli andava questa o quella
posizione, non la assumeva.
Restava il fatto che adoravo anche quella sua risolutezza tra
le coperte, e i nostri amplessi non tardavano molto a diventare frenetici, con
le sue mani che correvano lungo tutto il mio corpo, dove pareva loro, e la sua
stessa mole, assolutamente non eccessiva, su di me, poiché aveva l’abitudine di
tenermi sotto di sé, per far sì che la situazione fosse sotto il suo controllo
e giostrare quei pochi attimi di profondo godimento.
Continuavo a pensare che non mi dispiaceva affatto, anzi,
trovato molto eccitante quell’essere in balìa delle sue mani, dei suoi gesti,
delle sue spinte e dei suoi baci, più o meno approfonditi.
Spinse con maggior vigore, fin quando le molle del letto
cigolarono forte, e alla fine giunse in fretta il culmine del piacere, durante
il quale mi lasciai sfuggire un gridolino, strozzato subito dalla sua bocca
insaziabile.
Non eravamo due persone abituate a dare spettacolo di noi,
limitandoci a trarre tutto il godimento possibile da quegli istanti che avevano
il sapore del paradiso, eppure quella volta ci eravamo lasciati andare così
tanto da emettere anche suoni soddisfatti dalle nostre bocche. Io, il mio
gridolino, lui, i suoi ansiti che divennero in fretta grugniti forti e
profondi, ansimi mozzafiato.
Per fortuna, nonostante l’apice dell’amplesso, George era
riuscito a ritrovare un minimo di razionalità, che gli aveva permesso di
strozzare i nostri rumori imbarazzanti. Tutta sudata, dopo essermi lasciata
andare al piacere estremo con gli occhi socchiusi, non appena quella piacevole
sensazione cominciò a sfumare ne approfittai per aggrapparmi con forza al suo
corpo, affinché non si divincolasse da me.
“Abbiamo esagerato”, mi sussurrò, stringendomi a sua volta.
Annuii, impercettibilmente. Ero sicura che mia madre, dal
piano inferiore, avesse udito almeno qualcosa; quella volta ci eravamo davvero
impegnati troppo. Non provavo imbarazzo, tuttavia, ed era come se mi sentissi
finalmente libera da un peso che mi gravava da troppo tempo sul petto.
“Non ha importanza”, sancii, infine, e parve bastargli.
Era buio, i grilli frinivano nei campi poco distanti, ed io e
il mio amore eravamo ancora uniti, nella speranza di poter restare così
innamorati per sempre.
“Quella zoccola…!”, sbottai, quasi senza accorgermene, quando
il mio animo ormai invischiato in una modesta pace interiore fu sfiorato dal
solo pensiero di quant’era stata maleducata la mia amica, poco prima. La fine
del piacere fisico generò un fuoco rabbioso dentro me, che pareva spingermi a
insultarla e a maledirla all’infinito.
“Ehi!”, mi rimproverò George, un po’ stupito dalla mia
reazione repentina, ma ormai ero davvero andata, a livello mentale. Mi era
salita la bile e non avevo altro che una gran voglia di prendermela con lei.
Mia madre aveva approvato, io ero felice e contenta, che
altro doveva volere quella sconosciuta? Certo, era stata mia amica, ma forse
considerarla tale era da sempre stato un mio errore, dovuto al fatto che ero
una sfigata incapace di legare con altri individui, quindi quella bamboccia
senza cervello mi era parsa l’unica parvenza di persona affidabile che mi
ronzava attorno.
“Ti giuro che se l’avessi di fronte adesso, non so cosa
farei. Le caverei gli occhi…”, affermai con una gran rabbia, comprimendomi
ancora di più contro il suo corpo, come a volerlo usare come scudo, o come
l’unica cosa che mi avrebbe impedito, con la sua stretta, di fare follie.
“Immagino tu stia parlando della tua amica!, disse George,
placidissimo.
“Non è mia amica”, quasi gridai.
“Non lo è più, perlomeno”, aggiunsi, calmandomi un minimo,
notando che stavo davvero esagerando.
George mi sorrise, nel buio quasi completo della stanza.
“Almeno ti ha chiesto se ero tuo zio!”, ebbe poi il coraggio
di ironizzare.
“Per fortuna che hai sempre voglia di sdrammatizzare”,
sbottai, seccamente.
“Eh! Avrebbe anche potuto chiederti se ero tuo nonno…”. Si
interruppe per lasciarsi andare ad una brevissima risata.
“Sei incorreggibile, amore mio”, dissi, a mia volta,
lasciandomi a mia volta sfuggire un sorriso, riassorbito dal buio circostante.
Ero tuttavia certa che lui mi stesse osservando attentamente, e che quei pochi
centimetri che separavano il mio viso dal suo non potessero essere un limite
eccessivo alla sua vista.
“Sul serio, se tu non mi avessi calmata, con quell’oca ci
avrei fatto il brodo. Non scherzo, adesso”, tornai però alla carica, quando il
breve momento di pace sembrava volersi già dissipare.
“Mia cara Isa, cosa credi? Alla mia età, sai quanti idioti,
stronzi e merde varie ho dovuto affrontare? Tutti lì, un giorno tuoi amici
fedeli, l’altro coloro che ti vendono per una lira. L’unico modo che ti è
concesso per difenderti in maniera legale è quello di non lasciarti offendere
da quello che ti dicono, e provare ad affrontare tutto con cortesia, e magari
anche con un pizzico di ironia. Sono cose che fanno andare fuori di testa chi
invece ti vuole provocare”, sancì.
“Dici quindi che la mia reazione nervosa l’ha provocata?”,
domandai, per la prima volta tentennante.
Forse il mio amore aveva ragione, ma solo forse, poiché
quella volta si era davvero passato il segno, e provare a non far caso a tali
offese era come scriversi direttamente sulla fronte che si era imbecilli. Con
una persona come Irene, era meglio prendere in mano la situazione con serietà,
invece che provare a lasciarsi scivolare tutto addosso, se non si desiderava
che lei mettesse in giro voci diffamanti.
“Non lo so, credo che tu avresti anche potuto sconfiggerla
con un minimo di diplomazia”, mi rispose.
Riconobbi che George non era presente quando la stronza
l’aveva insultato pesantemente, chiamandolo con vocaboli così atroci da far
rizzare i capelli sulla nuca. No, capivo che quella volta avevo ragione io, e
le sue parole non mi avrebbero potuto aiutare a star meglio e a soddisfare il
mio bisogno di vendetta.
Quanto la odiavo! Ed era incredibile che Irene, in così poco
tempo, mi sembrasse ormai una presenza così fetida, fastidiosa e ostile. La
detestavo con tutta me stessa, quando mi risultava difficile provare così tanto
rancore verso una persona.
“Ora che ci penso per bene, credo che se le avessi gridato
zoccola in faccia sarebbe stato meglio. Mi sarei sentita più soddisfatta,
adesso”, tornai a dire, riuscendo a sorpresa a far sfuggire un'altra risatina
al mio tenero amante.
“Non è detto, anzi, non penso proprio. Comunque, non ha più senso
ora continuare a pensarci, no?”.
Mi baciò pianissimo.
“Non mi passa, sai?”.
“C’è qualcosa allora che posso fare per risollevarti il
morale?”, tornò a chiedere.
“Portarmi la Luna, che ne pensi?”, ironizzai, a mia volta.
“Magari…”, sospirò, fingendosi dannato.
“Allora, amarmi di nuovo?”, ci riprovai.
“A questo punto, non saprei come dirti di no”, sogghignò
Piergiorgio, stringendomi poi subito con rinnovata forza tra le sue braccia.
Il letto riprese così a lamentarsi, con i nostri corpi
avvinghiati in una lotta destinava a finire troppo presto, e con una marea di
irrefrenabile piacere, purtroppo poco duraturo.
Quella fu sicuramente una notte lunghissima, ma finalmente si
poté definire davvero nostra. Non avevamo più nulla da nascondere a nessuno, o,
almeno, con mia madre ormai consapevole di tutto, potevo davvero stare
tranquilla.
Il mattino dopo ci svegliammo a fatica, rischiando il
ritardo, e come al solito ci ritrovammo a pensare a come raccattare i nostri
vestiti in giro per la stanza.
“Ah, mon amour”, esordì Piergiorgio, con la voce impastata, “che
fatica passare le notti a fare l’amore!”.
“Pensa a rivestirti, disgraziato”, borbottai, nervosa, poiché
la sveglia continuava suonare senza sosta e nessuno si prendeva la briga di
metterla a tacere. Fu mia premura farlo, con un colpo di karate che la
catapultò direttamente a terra.
“Ma porca…”, cominciai a inveire, buttandomi a raccoglierla,
nella speranza di non averla rotta, giacché era sì fastidiosa, ma anche utile.
Avevamo dormito al massimo tre ore, verso al mattino, ancora abbracciati l’uno
all’altra, che era già ora di incominciare una nuova giornata.
Rimisi a posto la sveglia, per fortuna sopravvissuta alla
colluttazione di poco prima, e non feci in tempo ad alzarmi che le mani di
Piergiorgio mi avevano già afferrato con risolutezza per i fianchi,
riportandomi a letto.
“Un’ultima volta!”, richiese, con il suo ruvido e naturale
tono di voce ridotto ad essere simile al miagolio di un gattino.
Non risposi, limitandomi solo a riaccoglierlo dentro di me,
con gioia. Immersi le dita delle mani nella folta peluria del suo ampio petto.
“Fai in fretta”, mi lagnai, a metà tra il piacere e il
desiderio di vestirmi e di preparami per andare al lavoro.
Lui aumentò il vigore delle spinte, ma quando fummo ad un
passo dal godimento, si bloccò.
“C’è ancora tempo, invece”, mi disse, sorridendomi, il viso
illuminato dalla luce del sole nascente.
“Sei il solito birbante”, lo rimproverai.
Provai a sfilarmi da sotto di lui, eppure in quel momento
ricominciò a muoversi, e allora rimasi, felice. Si fermò nuovamente proprio
qualche istante prima del coito, facendo sfumare ogni possibile aspettativa.
“Ma… a quale gioco stai giocando, questa mattina?”, gli
domandai, con stizza, ad un punto in cui ero ormai prossima a dargli uno
schiaffo, per obbligarlo a lasciarmi andare. Se aveva voglia di prendermi in
giro in quel modo, non era affatto giornata, senza contare che ero pure
piuttosto appagata dalla notte.
Ero letteralmente piena di lui, non riuscivo più a provare
una passione intensa. Immaginavo che anche per George fosse così, poiché
tergiversava in quel modo. Tanto valeva, allora, che lasciassimo perdere, per
riprenderci con maggior vigore quando sarebbe giunto il momento giusto.
Però, non mi rispose e riprese a spingere, fino a giungere ad
un altro, ed ennesimo, culmine mancato.
“Sono un vecchietto, ogni tanto devo riprendere il respiro.
Scusami”, parve scusarsi il mio amante quando stavo per esplodere, e il mio
viso diventava violaceo per l’irritazione che stavo provando. Anche quella
volta riconobbi un pizzico di ironia nella sua voce.
Gli rifilai uno schiaffetto deciso, e di risposta rise,
chinandosi e stringendo tra le sue mani il mio viso, per poi cominciare
barbaramente a baciarlo. Quando raggiunse le mie labbra, non ero più restia a
lasciarmi andare ad ogni altra forma di lascivia; la sua lingua non era una
presenza spiacevole, seppur di prima mattina non fosse proprio il massimo.
Riprese a muoversi non appena notò che mi ero lasciata
totalmente andare ai suoi baci, così quella volta si lasciò andare fino alla
fine, fin quando non tornò a farmi provare un piacere tale da farmi ripetere
più volte e a occhi socchiusi che lo amavo. Con tutta me stessa.
Si trattava di quel classico piacere effimero che si poteva
provare solo quando si era abbastanza esausti d’amore, e gli organi erano
stanchi e assuefatti dal ripetuto amplesso fisico, seppure si trattasse
comunque di un momento di godimento brevissimo, ma allo stesso tempo molto
intenso, per quel poco che durò.
Affondai le unghie nel cuscino, per evitare di fargli del
male.
Dopo poco, mi ero già ripresa, con un George che, ansante,
tutto spettinato e sfatto, giaceva nuovamente sopra di me, gli occhi chiusi.
Adoravo osservare il suo profilo quando era ancora così assuefatto dal recente
piacere che avevamo tratto dal rapporto appena consumato.
Avrei tanto voluto che quello fosse un momento infinito, per
l’ennesima volta, eppure la realtà era sempre lì, pronta a farci pressione… con
un balzo, infine, mi ritrovai a liberarmi dal suo corpo, e mi mossi in fretta
al fine di rivestirmi al più presto possibile. Il mio senso di fedeltà al
dovere era ancora fortissimo, nonostante tutto.
Raccolsi i miei panni e mi rivestii in un lampo, non mi
importava tanto di cambiarli spesso, mica ci avevo da fare un figurone. Bastava
solo non puzzassero di sudore, e per tenere ciò sotto controllo usavo una buona
dose di deodorante.
Una volta che ebbi concluso, mi volsi verso il mio
Piergiorgio, notandolo ancora lì, disteso, immerso in quello che sembrava un
vero e proprio assalto di sonnolenza. Mi catapultai sul suo corpo nudo e
disteso, prendendolo poi per le spalle.
“Sveglia, dormiglione!”, lo percossi, ridendo e rilassandomi,
finalmente. Lui mugugnò.
“Non ne ho voglia di alzarmi, sai? Fosse per me, tornerei a
dormire”.
“Comodo il mio letto, vero? Anche se è un po’ stretto”, lo
stuzzicai, divertita.
“Oh”, ridacchiò, “quello mica ha importanza, come vedi ci
stiamo benissimo. Un corpo solo… ah, non vorrei mai alzarmi”, proseguì poi ad
esclamare. Non volli tormentarlo, e mi tolsi da sopra di lui.
“Per me puoi anche restarci a letto, se non hai impegni.
Riposati, ci rivediamo a mezzogiorno, va bene?”, buttai lì.
“Scherzi? Non voglio approfittarne, poi ho anche dei pazienti
che mi aspettano, poveretti. Aiutami, per favore”, borbottò, alzandosi e
mettendosi a sedere sulla sponda destra del letto, insonnolito al massimo.
Presi i suoi vestiti e glieli passai, man mano che li
indossava di malavoglia. Lo vedevo così stanco; per qualche istante, mi sentii
in colpa per aver permesso che si sfibrasse così tanto. Riuscivo solo in quel
momento a notare con nitidezza qualche segno deciso dell’età su di lui, in
grado di gravare pesantemente, tuttavia ciò mi portò a provare un immenso e
rapido bisogno di aver cura del suo essere.
Mi misi ad aiutarlo, affinché si rivestisse più in fretta.
“Puoi anche vestirti in maniera meno formale, sai?”, gli
domandai, retoricamente, continuando ad abbottonare la sua bella camicia. Non
mi rispose, eppure attese con pazienza che gli abbottonassi anche l’ultimo
bottoncino, quello che quasi premeva sul collo, per poi approfittarne e
baciarmi sulla bocca.
“Sei dolcissimo”, riconobbi a voce alta, sorridendogli. Lo
prese come un complimento, naturalmente, e tornò a sua volta a donarmi uno di
quei grandi e spontanei sorrisi che tanto amavo.
Finì di vestirsi, poi gli lanciai il pettine affinché si
sistemasse un po’ i capelli, giacché la sua folta chioma ingrigita ormai
l’avevo spettinata tutta durante la notte.
Quand’ebbe completato la sua preparazione, lo presi a
braccetto e ci muovemmo immediatamente verso il piano inferiore, siccome già mi
sentivo vicinissima al ritardo e non volevo aggravare la situazione. Tra
l’altro, non volevo neppure approfittare della bontà che la signora Virginia di
recente riservava nei miei confronti.
Quando giungemmo alla meta, ritrovammo però mia madre ben
guardinga ad aspettarci, sulla porta della cucina, a braccia conserte. Mi si
abbatté immediatamente la mandibola inferiore; sapevo che quella notte avevamo
esagerato, e sicuramente doveva aver udito qualcosa, se già non sospettava
altro da prima.
Mi vergognavo per averle mancato così tanto di rispetto, in
modo grossolano e sicuramente brutale. Fu come se la realtà mi fosse piombata
addosso in solo una frazione di secondo.
“Vi ho preparato un po’ di colazione, se volete”, esordì lei,
invece, rivolgendoci un caldo sorriso che mi permise finalmente di sciogliermi,
ma che non fu in grado di cancellare il rossore imbarazzato che invece stava
prendendo sempre più spazio sul mio viso.
Promisi a me stessa che non mi sarei mai più lasciata andare
in modo così villano e barbaro in casa d’altri, d’altronde quella era casa di
mia madre e non le avrei mai dovuto mancare di rispetto, seppur indirettamente.
Era questione di punti di vista.
“Che gentile! Accettiamo con piacere”, rispose con prontezza
Piergiorgio, radioso, salvandomi dalla mia scena muta.
Sulla tavola, in effetti, ci attendeva tanto cibo, tra cui
spiccava una tazza di latte caldo ciascuno, caffè, biscottini e una mezza
crostatina, rimasta dalla sera prima.
Il mio George era un uomo così spigliato che si lasciò subito
avvolgere dall’invitante profumino emesso dal ben di Dio, e fu subito pronto a
chiacchierare amabilmente con la mamma, anche quando io ancora non riuscivo a
sbloccarmi. Tuttavia, mangiai anch’io e a mia volta tornai ad approfittarne
della bontà materna. Lei non diede mai segno di turbamento, o altro, e dopo il
breve ma ristoratore pasto, io e il mio amante la ringraziammo tanto, e ci
accingemmo ad andare ciascuno per la propria strada.
“Oggi ti porto io al lavoro”, affermò Piergiorgio, però,
quando stavo per salire sulla mia Toyota.
“Non scherzare, vado da sola”.
Gli sorrisi.
Lui si mostrò risoluto e cocciuto, come suo solito durante le
occasioni di quel genere.
“Insisto, se posso permettermi”. E così dicendo, si piazzò
sorridente proprio a fianco della portiera, impedendomi ogni movimento.
Come potevo resistere alle sue premure? A quel suo sguardo
dolce, a quegli occhioni così profondi? Non lo sapevo, ero in balìa sua.
Acconsentii, infine, con un solo cenno affermativo del capo, a lasciarmi
portare da lui.
“Cosa mi hai fatto?”, mormorò, mentre ci sistemavamo nel suo
fuoristrada. “Sono pazzo di te, non vivo più senza di te. Ho proprio bisogno,
vedi? Ne ho necessità di averti con me”.
“Non so, capita anche a me di pensare a queste cose”, ammisi.
2E’ per te che vivo, sappilo”, sospirò infine, diventando
serio e cercando le mie mani, per stringerle tra le sue. Mi rivolse un’occhiata
profonda, che sostenni. Non c’era più bisogno di tante parole, tra di noi.
Mise in moto l’auto, poi e ci mettemmo in movimento.
Giunsi perfettamente in orario al locale, contro ogni
pronostico, così che Piergiorgio mi lasciò proprio lì di fronte, ed io entrai
subito, venendo immediatamente sommersa dalle moine di una signora Virginia
molto gentile e interessata alle mie vicende quotidiane.
“Mia cara! Come va? Com’è andata? Ti va di parlarne un
attimo?”, esordì infatti non appena mi vide, abbandonando la sua postazione
alla cassa per venirmi incontro dopo avermi letteralmente tempestato di
frettolose domande.
“Bene, signora. Dovrebbe essere tutto a posto, e risolto”, le
risposi, sincera. Notai dal suo sguardo curioso che non avevo probabilmente
soddisfatto, se non in minima parte, il suo gentile interessamento, giacché
avevo risposto con pochissime parole a una caterva di pungolanti domande.
Tuttavia, il suo interesse svanì in un lampo, non appena vide qualcuno che era
appena entrato, alle mie spalle.
“Piergiorgio! Qual buon vento!”, lo salutò, e ancor prima che
mi voltassi verso di lui, avevo compreso che il mio amante doveva aver
parcheggiato, per poi seguirmi ancora una volta.
Non ero innervosita da quel suo comportamento; George era un
uomo di una certa età, e non era un perseguitatore, ma probabilmente solo una
persona in grado di creare un forte attaccamento con chi gli stava accanto. E
la cotta che aveva per me sembrava voler andare al di là di ogni ipotetica
razionalità.
Ne ero felice, quindi.
Ci scambiammo un altro saluto, mentre liquidava Virginia con
qualche parola gentile, lasciandola ancora, poverina, a rimuginare su come
riattaccare discorso.
“Mi ero dimenticato di dirti che passo io a prenderti, quando
finisci il turno. Poi pranziamo assieme”, si rivolse a me, direttamente.
“Certo”, annuii, rimproverandomi per la mia continua
distrazione, che mi aveva portato addirittura a non chiedermi come avrei fatto
a rincasare senza automobile. Beh, avrei anche potuto pranzare lì, in loco, in
fondo. Era un problema davvero da poco.
Virginia ci guardò entrambi, in un rapido susseguirsi di
occhiate un po’ confuse.
“Be’…”, balbettò, intromettendosi, “se vi va, potreste
pranzare qui. Offre la casa!”.
“Non se ne parla, offro io!”, esclamò Piergiorgio, strizzando
l’occhio ad entrambe.
“Tu sei sempre stata troppo gentile, sono davvero in debito
con te, non posso quindi accettare altro”, concluse, con cortesia.
La signora si prodigò immediatamente, proferendo milioni di
inviti, e ripetendo che lo aveva sempre fatto con piacere, in virtù dell’amicizia
profonda che li legava. Io ascoltavo tenendo lo sguardo abbassato; temevo che
provasse seriamente qualcosa per il mio amante.
A interrompere ogni possibile situazione di stallo, e a
obliare ogni dubbio, fu proprio il mio Piergiorgio, poiché si avvicinò a me e
mi baciò castamente sulle labbra, così, quasi a tradimento.
Pur non volendolo, mi venne spontaneo puntare il mio sguardo
verso la padrona del locale, che ormai era stata zittita e ci guardava in
silenzio. Immaginai che se la fosse presa, e fui sul punto di rimproverare
George per la sua avventatezza davvero eccessiva e fuori luogo. Lui, eppure, mi
riservò un’occhiata molto chiara; voleva che lo sapessero. Tutti.
Era stanco di nascondersi, così tanto che aveva perso infine
ogni freno. Anche per me era così, in fondo sarei tornato a baciarlo molto
volentieri, eppure mi dispiaceva che tutto ciò fosse accaduto proprio di fronte
ad una persona che immaginavo delusa dall’accaduto. Invece, dovetti ricredermi
anche quella volta.
“Ah, amici miei! Lo immaginavo, sapete”, affermò a sua volta,
interrompendo il suo silenzio e perdendo quella momentanea immobilità che
l’aveva freddata nel momento immediatamente successivo al bacio.
Io mi limitai a guardarla con fare un po’ stralunato e
sorpreso, notando la sua reazione dalla prima parvenza piuttosto euforica.
“Piergiorgio caro, avevo notato come guardavi la mia
cameriera e barista! E sapevo che tu, Isabella cara, eri innamorata. Lo vedevo
da come ti comportavi. Solo che non ero riuscita a collegarvi, ragazzi!
Congratulazioni!”, si complimentò addirittura, felice come una ragazzina.
L’aveva presa bene, incredibilmente.
Mentre ci abbracciava entrambi e continuava a congratularsi
con noi, fui costretta a riconoscere che anche quella volta il mio George aveva
avuto ragione; a legare i due signori era solo un profondo legame di amicizia e
di rispetto reciproco, e null’altro. Per l’ennesima volta, mi ritrovai a
vergognarmi un po’ per tutti i pensierini che avevo portato avanti su quella
faccenda.
Eravamo nel pieno del nostro completo passo avanti, quello
che ci aveva mostrato a chi conoscevamo chi veramente eravamo. Da parte mia,
era andata relativamente bene, poiché a parte con Irene, il resto era andato
tutto benone, e non me lo sarei mai aspettato.
“Tienitelo stretto, mia cara! È un uomo d’oro, non ne fanno più
di galantuomini del genere”, mi garantì Virginia, in maniera simpatica, e feci
tesoro di quelle parole. D’altronde, non c’era bisogno che me lo dicesse lei;
non avevo alcuna intenzione di lasciarmelo sfuggire, anche perché ero veramente
innamorata e piena di passione. Piergiorgio era l’unica immagine di uomo ideale
che avevo nella mente.
Dopo quell’avvio vivace e lungimirante, quella si rivelò una
mattinata di lavoro davvero piacevole.
NOTA DELL’AUTORE
La rivelazione è giunta ormai ovunque… xD
Viva i nostri amici, che stanno affrontando la realtà e la
sorte con amore e desiderio.
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Capitolo 36 *** Capitolo trentasei ***
Capitolo trentasei
CAPITOLO TRENTASEI
Lavorai con vigore, felice e soddisfatta. Era incredibile
quanto il morale potesse volare alto, quando tutto sembrava andare per il verso
giusto.
Virginia con me era uno zuccherino, anzi, pareva ancor più
rispettosa di prima, e questo stava attirando su di me l’astio delle povere
altre dipendenti, tutte trattate con una durezza inconcepibile. Anche la
giovane Ilenia, alla quale ero sempre stata molto affezionata, ormai stentava
anche solo a rivolgermi un saluto.
Mi dispiaceva davvero tanto, soprattutto perché non avevo
fatto nulla per ingraziarmi la proprietaria, e quella era una situazione che io
non avrei mai desiderato. Soprattutto, attirare l’astio altrui quando non avevo
fatto nulla per provocare tale reazione.
Quel giorno non volevo importarmene di ciò che stava
diventando una spiacevole realtà, e nonostante tutto mi sforzai, come mio
solito, di essere molto gentile con i colleghi, anche quando loro sembravano
più restii ad accettare una mano da me.
Quando giunse mezzogiorno, finalmente, non ebbi neppure
bisogno di uscire dal locale, giacché fu il mio George a spaccare il secondo,
entrando con il sorriso sulle labbra. Per qualche istante tentennai, poi,
realizzando il fatto che oramai ci eravamo dichiarati al mondo intero, mi
lasciai trasportare dal mio istinto naturale, e finii tra le sue braccia.
Come sempre, era impeccabile; ovunque fosse stato, si era
risistemato alla perfezione i capelli, con i vestiti nel più perfetto ordine.
Finì per baciarmi nuovamente.
“Dio mio, che bella coppia che siete!”, esclamò un’estasiata
Virginia, alla sua solita postazione.
Ci separammo.
“Anche per te sarebbe ora di trovare l’amore”, disse
Piergiorgio, in modo un filino ironico, come suo solito, ma che sul momento mi
parve un po’ provocante.
Mi venne da dargli una gomitata, poiché non era così che si
parlava a una signora, però parve ancora che tra i due ci fosse comprensione,
quindi nessuno se la prese. Anzi, Virginia sorrise; con un po’ di amarezza, ma
si concesse comunque un’increspatura sulle labbra.
“Eh, magari! Il fatto è che non ci credo neanche più”,
ridacchiò, infine.
“Non si deve demoralizzare, signora. Purtroppo, di veri
principi azzurri in giro ce ne sono molto pochi”, fu la mia volta di
esprimermi, gentilmente.
“Mah, non è neanche quello. Il problema è che sono vecchia
ormai. Vecchia e brutta”, mormorò la signora, molto demoralizzata.
Mi fece pena, per un attimo, poiché la vidi così triste… poi,
in fondo, per una donna il desiderio di avere un compagno a fianco a volte si
faceva impellente. Immaginavo la sua frustrazione. Anche se non avevo mai
saputo troppo sulla sua vita privata, immaginavo nitidamente che fosse single
da tutta la vita, come tutto quello che stavo udendo finiva per confermare.
“Non si è mai troppo vecchi, per queste cose. Guarda me, mia
cara amica! Abbiamo la stessa età, come ben sai, eppure… la vita riserva sempre
delle sorprese. Mai scoraggiarsi”, provò a consolarla George, con la sua solita
e simpatica enfasi, tuttavia senza riscontrare troppi risultati, se non quello
di donare un sorriso generale a noi che lo stavamo ascoltando.
“Oh, Piergiorgio, tu sei sempre così ottimista… questo amore
è stato il premio che la vita ti ha fatto per aver sempre creduto in lei”,
disse la signora. Il mio amante si fece improvvisamente serio.
“Non ci ho creduto per molti mesi, invece. Un periodo di
tempo buio, in cui esistevo solo io e la mia voglia indiscussa di farmi del male.
Volevo solo sparire, ma…”, s’interruppe un attimo, portandosi la mano destra
alla fronte, “… per fortuna mi sono ripreso. Ho ritrovato la voglia di esistere
che avevo perduto”.
Abbassò subito la mano e cercò la mia, per stringerla forte,
ed io ero molto commossa e colpita da quell’ennesimo discorso che testimoniava
il profondo e luttuoso dolore che il mio tenero amante aveva provato prima che
mi incontrasse e che tra noi ci fosse una scintilla ancestrale, in grado di
attrarci l’un l’altra, e viceversa.
Virginia, notando che aveva sfiorato una ferita ancora fresca
ed appena guarita, seppur involontariamente, scelse in fretta di cambiare
discorso, senza rigirare il coltello nella piaga.
“Avrete indubbiamente fame, ragazzi”, proclamò, infatti,
sorridendoci ed osservando le nostre due mani unite.
“Puoi starne certa”, asserì George, sciogliendo la nostra
stretta e portando le mani al ventre, solo leggermente prominente, per poi
sferrargli un paio di piccole pacche.
La signora rise, con cortesia.
“Vi servo immediatamente qualcosa. Chiedo allo chef se può
preparare una pizza, o magari essendo mezzogiorno preferite altro?”, ci chiese
poi, sempre con una gentilezza divina.
“Sicuro, per me non c’è problema”, disse George, per poi
volgersi verso di me, “tu cosa preferisci, Isa?”.
“Anche a me, una pizza va benissimo. Semplice… margherita,
magari”, risposi, interpellata.
Virginia annuì, prendendo nota sull’apposito listino.
“Vi ringrazio molto. Accomodatevi pure dove volete”, ci
disse, per poi recarsi lei stessa nelle cucine a consegnare l’ordine. Ero
esterrefatta di fronte al suo modo di fare così remissivo, di una bontà che
andava oltre l’immaginabile, siccome ero sa sempre stata abituata a vedere la
proprietaria del locale come una persona molto burbera, anche scontrosa, se
qualcosa non era di suo gusto. Eppure, con noi era davvero squisita.
Andammo a sederci in un tavolino un po’ appartato, così da
avere il giusto spazio per noi, immersi in qualche metro di rara tranquillità.
“Sono andato a preparare tutto, questa mattina”, esordì il
mio amato, quando ancora mi stavo sedendo.
“Cosa?”, gli chiesi, leggermente sovrappensiero. Non ero
riuscita a comprendere subito quel che mi stava dicendo.
“Sono andato a sentire per il matrimonio…”, mi ripeté allora,
alzando di poco il tono della voce e facendosi per un attimo titubante.
Comprendendo, finalmente, gli sorrisi, e fu la mia volta di andare alla ricerca
delle sue mani, stringendole sul tavolino.
“Hai fatto bene, ne sono felice”.
“Uno di questi giorni dovresti venire anche te, c’è bisogno
di entrambi. In comune poi prepareranno la burocrazia, e c’è anche da scegliere
la chiesa”, proseguì.
Annuii, piano.
“Ehi”, mi disse, stringendo con più vigore le mie mani tra le
sue, “c’è forse qualcosa che non va?”.
“Perché dovrebbe?”, domandai a mia volta, sforzandomi di
riprendere a sorridere, come un’ebete.
“E’ che… non mi sembri tanto felice come invece affermi”.
Ci fu un attimo di pesante silenzio.
“Lo sono, invece. Te lo giuro sulla mia stessa vita”,
affermai, risoluta.
Quello che non volevo ammettere era che, per qualche istante,
mi era parso così strano il fatto che davvero stessi per sposarmi. Se durante
la passione della notte tutto ciò mi era sembravo assolutamente fantastico e
favoloso, alla luce del giorno mi offriva anche un retrogusto di non sapevo
bene neanch’io cosa. Così, di vago.
Tuttavia, questo non doveva affatto far pensare al mio buon
innamorato che io non fossi convinta di quel passo avanti molto deciso; dovevo
solo abituarmici all’idea, e quello dipendeva solo da me.
Piergiorgio mi fissò per un po’, poi annuì a sua volta,
leggermente, e abbassò lo sguardo. Era serio, forse un po’ ferito. Non volevo
facesse così, poiché mi faceva sentire troppo male.
“Ti amo, George”, allora ripresi a dire, con enfasi
crescente, “ti amo, ti amo! Io voglio che noi costruiamo qualcosa assieme,
credo sia proprio destino. Mi sono sentita legata a te fin dal principio, da
quando ti ho visto per la prima volta. Non voglio che tu pensi neppure per un
minuto al fatto che non vorrei sposarti”.
Lui parve riprendersi un po’.
“Ti avevo visto turbata. Ecco, l’unica cosa che non vorrei è
che tu mi avessi accordato il permesso di sposarti solo in una notte piena di
passione, poi sfumata. Vorrei quindi soltanto ricordarti che non siamo
obbligati a farlo; nel nostro caso, il matrimonio sarebbe solo la ciliegina
sulla torta, ma non abbiamo l’obbligo di metterla, capisci?”, spiegò la sua
perplessità, analizzandola per bene. Capivo eccome, sicché io stessa provavo a
mia volta quello che aveva appena inserito nel discorso equo che mi aveva
fatto.
“E’ solo che…”, provai a mia volta a spiegarmi, cercando le
parole giuste per farlo, “… mi risulta così strano pensarmi sposata con
qualcuno. Mi ero ormai convinta che avrei sempre convissuto in maniera
precaria, senza sapere quel che mi sarebbe accaduto, non sapendo neppure se
avrei mai potuto, un giorno, coronare il mio desiderio di maternità. Adesso
devo solo convincermi per bene che le carte in tavola sono state cambiate in
fretta dal destino, e che quelli che erano sempre stati sogni, fin da quando
ero bambina, sono prossimi a diventare una realtà effettiva”.
George, che mi aveva ascoltato con grande interesse, sembrava
molto più rilassato e comprensivo, meno disposto a lasciarsi ferire per un
nonnulla o una riflessione decisamente di troppo.
“Anche per me è così, non temere. Ci abitueremo entrambi alla
realtà dei fatti, naturalmente se lo vorremo davvero”, provò a confortarmi, per
mettermi maggiormente a mio agio. Tornai a sorridere con tranquillità.
“Io lo voglio. Te lo giuro”.
Strinsi di nuovo le sue mani, con vigore.
Mi riservò uno sguardo profondo e dolcissimo.
“Non c’è bisogno che mi giuri ancora queste cose, ormai le
so”, mi strizzò l’occhio.
“La verità è che vorrei anche avere un bambino, George. E’ un
mio sogno”, ammisi finalmente ad alta voce, per la prima volta con fare sicuro.
Poi, sospirai e tornai serissima.
L’amore che provavo mi aveva spinto a provare un istinto
materno molto forte, seppur solo in maniera teorica, giacché proprio non mi
vedevo affatto a prendermi cura di un marmocchio piccolo. Comunque, io ci
tenevo a coronare i nostro rapporti con un bambino, poiché in fondo la passione
che ci aveva travolto negli ultimi mesi non era qualcosa di degno di essere
dimenticato, anzi… doveva restare in eterno, e una nuova vita ne sarebbe stata
la più idonea testimonianza.
Anche Piergiorgio era molto serio, e i suoi occhi guizzavano
un po’ per tutto il locale, senza più cercare i miei e riservarmi le solite
occhiate bonarie. A mia volta, comprendevo le sue perplessità a riguardo, anche
se non proprio fino in fondo.
“Ci stiamo provando, ma io ho già una certa età. È vero che
un figlio tantissimi anni fa l’ho generato, ma ormai è passato mezzo secolo,
non sono più un ragazzetto in grado di far centro alla prima volta”, mormorò.
“Io non ti sto accusando di nulla, ti amo così come sei e non
mi importa della tua età o della tua vita precedente”, mi affrettai ad
affermare, “e poi abbiamo già parlato di queste cose. Non voglio essere
ripetitiva. Comunque, mi piacerebbe molto, a questo punto, se potessimo formare
davvero una bella famiglia”.
Tornò a sorridere, anche se in modo molto blando.
“Ci sposiamo, in ogni caso…”.
“Ma che senso ha in fondo sposarsi, se non per aver figli?”,
gli domandai, a bruciapelo.
Era stata una domanda che mi era sorta così, spontanea, ma mi
resi subito conto che avevo decisamente azzardato un po’ troppo. Forse, era un
quesito che neppure aveva tanto senso, seppur di base lo spunto di riflessione
fosse collegato al fatto che, se tanto non si doveva formare qualcosa di
stabile, volto a garantire più protezione alla futura prole, allora si poteva
anche solo convivere, limitandosi a scopare, a passare qualche ora assieme, e
basta.
“Non fare ora la bacchettona d’altri tempi, per carità”,
quasi mi rimproverò, un filino scocciato. Mi venne da ridere.
“Hai ragione, sono stata un po’ all’antica, con il mio
ragionamento. Comunque se dobbiamo restare noi due ad affrontare la nostra
relazione, potremmo anche solo continuare così”.
Mi resi conto solo dopo aver concluso il breve discorso che
stavo solo intorpidendo le acque, generando quindi una parvenza di confusione
nel modo in cui mi spiegavo. Infatti, George aguzzò le orecchie immediatamente.
“Ecco, allora il problema è il matrimonio…!”, sancì, facendo
leva sull’accentato verbo essere. Scossi subito il capo, in cenno di rapido
diniego.
“No, no, sono io che mi sono spiegata male! Era solo un modo
di dire, ma io questo matrimonio lo voglio, lo giuro…”.
Piergiorgio interruppe il mio balbettio, allungandosi in
fretta sul tavolino e scoccandomi un bacio sulle labbra, per poi tornare al suo
posto.
“Per favore, allora non parliamone più e aspettiamo il nostro
pranzo”, affermò.
Accolsi la sua affermazione risoluta con serenità.
“Hai ragione”, ammisi, tranquillizzandomi all’istante.
Non dovemmo colmare l’attesa con altre parole, siccome la
signora Virginia in persona giunse a servirci le pizze.
“E buon appetito a entrambi!”, disse con gioia, dopo averci
servito. Ci portò subito anche l’acqua.
In silenzio, cominciai ad affrontare la mia pizza margherita;
il collega chef era anche un bravo pizzaiolo, e le sue creazioni erano sempre
abbondanti, forse anche un po’ troppo. Tuttavia, erano buone, e se una persona
era una vera buongustaia poi mangiava a dovere, e soprattutto a prezzi molto
modici.
Avevo molta fame, quindi lasciai che le mie mandibole
cominciassero liberamente a fare il loro apposito dovere.
Piergiorgio seguì le mie azioni con lo sguardo fisso su di
me, poi s’incurvò sulla sua pizza. Non compresi fin dall’inizio che
probabilmente aveva qualcosa da aggiungere, e che ancora non aveva trovato il
coraggio per tirarlo fuori e spiegarmelo.
“Ho… ho un’ultima cosa di cui ti vorrei parlare”, disse,
infatti, quando ormai non me l’aspettavo più, essendo decaduto il discorso
proprio per sua spontanea richiesta. Inarcai le sopracciglia, mentre alzavo lo
sguardo dalla mia calda e buona pietanza, pronta ad incontrare il suo.
Si schermò subito, temendo di star peggiorando a sua volta la
situazione.
“E’ solo una mia idea. Poi possiamo continuare a parlarne, o
a discuterne più avanti, non c’è problema… comunque ci tenevo a spiegartela,
così che non ci siano segreti tra di noi”, la fece complicata. Non replicai, in
attesa di saperne di più.
“Se ci sposiamo, vorrei che vivessimo assieme, va bene?”, chiese,
tutto d’un fiato.
“Sicuramente”, risposi. Ammisi che non avevo pensato a
quell’aspetto dell’evoluzione della nostra relazione, ma non c’era
assolutamente problema, anzi, ne ero felice.
“Vorrei che venissi a vivere a casa mia. Spero che questo non
sia un problema per te”, tornò ad aggiungere.
Soppesai per qualche secondo ciò che mi aveva appena detto;
se ero d’accordissimo sul fatto che dovevamo vivere assieme, giacché eravamo
sicuri di voler condividere le nostre vite, non mi sembrava giustissimo finire
a casa sua. Mi metteva impressione, con tutti quei ricordi suoi che conteneva.
Per quello risultai titubante.
“Va bene, almeno all’inizio”, dissi, infatti.
“Il fatto è che…”.
Si interruppe.
Notai che si stava tormentando il labbro inferiore, e non era
da lui; il mio Piergiorgio era sempre stato un uomo sicuro di sé, non poteva
vacillare proprio in quel momento, in cui stava parlando con me. Perché non
vacillava quando parlava con gli altri? Non l’avevo mai visto fragile e in
difficoltà come in quel momento, seppur l’unica cosa che doveva fare era
spiegarsi con me, colei di cui si professava follemente innamorato.
Ebbi come la vaga consapevolezza di quando ci teneva a me,
tanto da giungere a misurare ogni parola da pronunciare, seppure tutto ciò non
quietasse affatto il mio animo inquieto, non sapendo cosa volesse aggiungere.
“E’ che…?”, provai a spingerlo a proseguire, perplessa.
“Vorrei che cominciassimo a convivere fin da subito”.
Sospirò di nuovo, quasi avesse sputato il rospo.
“Per subito intendi…”.
“Appena puoi, insomma. Mi piacerebbe se cominciassimo a
condividere qualche giornata assieme, se vogliamo sposarci non voglio che
giungiamo al giorno del nostro matrimonio senza conoscere le nostre abitudini,
come due sprovveduti. Ho paura che a quel punto tu possa pentirti di qualcosa”,
continuò a spiegarsi, sempre con grande serietà. Sorrisi di nuovo.
“Non mi spavento, George, te l’ho già detto. Sei la persona
più a posto che io abbia mai conosciuto, cosa dovrebbe allontanarmi da te, ora
che ti amo così tanto? Anche tu a volte ti crei delle paure basate sul nulla”,
gli dissi, tranquillamente. Cominciavo a comprendere che stesse cercando di
invitarmi ad affrontare un periodo di prova, prima del grande e eterno passo
avanti, tuttavia non sapevo neanche io se fosse un bene o un male.
“Non che lasciare tua madre possa essere un problema per te”,
aggiunse.
“Senti, George”, irruppi, allora, con maggior veemenza, “al
più presto dico a mia madre che ci stiamo preparando per sposarci. Nulla può
farci tornare indietro, niente di niente. Per tutto il resto, troveremo la
soluzione migliore”.
“Se tua madre venisse a vivere con noi, non sarebbe un
problema; come hai visto, la casa è molto spaziosa e a più piani. Basterà poco
per creare un ambiente familiare e piacevole”.
“Mia madre resterà a casa sua, ne sono certa”, affermai,
sicura di quello che stavo dicendo. La mamma aveva la sua casa, la sua routine
quotidiana, e sapevo che se le avessi chiesto di seguirmi allora si sarebbe
irritata. D’altronde, a mia volta non ero poi ancora così certa di poter
accettare a occhi chiusi questa convivenza che mi era stata proposta.
“Non fare così, magari le farà piacere”, disse lui.
“No, la indispettiremmo soltanto con una proposta del genere.
Comunque, se ti fa così piacere, accetto, però ho bisogno di qualche giorno per…
per sistemare le mie cose”, spiegai, un po’ a singhiozzo. Ero stata decisamente
colta in contropiede da quella pacifica discussione, quindi non sapevo bene
come districarmi di fronte ad una richiesta che sulla carta poteva apparire da
nulla, eppure così fondamentalmente importante.
“Mi dispiace, non ti vedo molto convinta…”, borbottò George,
imbarazzatissimo.
Mi concentrai su di lui e notai un leggero rossore sulle sue
gote, a imporporarle. Non volevo assolutamente finire per litigare, ma mi stava
un po’ scocciando quello che stava accadendo.
“Non devi impuntarti in questo modo!”, sbottai, infatti. “Se
ti ho detto che ho bisogno di qualche giorno, concedimelo. Non dobbiamo
correre, ti prego”.
Se le nostre mani avevano appena interrotto il loro contatto,
il mio amato interlocutore fece correre le sue di nuovo a ricercarlo.
“Hai ragione, sono io che ho esagerato, questa volta. Ti
chiedo scusa, davvero! Perdonami. Sono davvero uno stupido… ma il mio problema
è che ti amo troppo. Capisci? Per me sei una dipendenza, come una droga”,
riprese a dire, a quel punto in maniera caotica e veemente. Mi sentivo
desiderosa di arginarlo, assicurandogli che non era successo nulla tra noi,
eppure non mi diede neppure il tempo per intervenire minimamente.
“Sono stufo di vivere da solo in quella grande casa, piena
solo di fantasmi del passato. A volte mi sveglio durante la notte, e allungo le
braccia sul mio letto, a cercare il calore di un altro corpo, eppure trovo
tutto così freddo… così vuoto…! Cerco te, durante quelle notti, ma non ci sei.
Ti prego, sii gentile e abbi il nobile animo di venirmi incontro. Ti giuro che
se lo farai, avrai ogni cosa che desideri e non te ne pentirai”, continuò
infatti a proferire, il volto sempre più arrossato e le lacrime a offuscare i
suoi grandi occhi così belli.
Rimasi molto colpita, forse troppo, dalle sue parole, e ci
rimasi di stucco di fronte alla sua reazione disperata. Mi venne da chiedermi
quanto in realtà mi amasse, da giungere a spiegarsi in quel modo. Dovevo
comunque valutare l’uomo che avevo di fronte a me per ciò che era, ovvero una
persona che credeva ancora negli antichi valori spirituali, quelli che univano
seriamente le coppie e che io stessa condividevo.
“Non voglio nulla da te, se non il tuo amore più profondo e
sincero, ed ogni cosa ti è perdonata, perché in fondo ti capisco”, mi affrettai
tuttavia a specificare. Mi sorrise, tornando calmo e pacato.
“Tu mi ami così come sono, ed io ti sono infinitamente grato
di questo. Mi sento davvero fortunato ad aver incontrato una tal dama lungo il
mio tortuoso cammino”, asserì, quasi in maniera profetica.
Mi venne da ridere, all’improvviso.
“Non c’è bisogno di dirla alla Dante Alighieri, sai?”.
Mi concessi un minimo di ironia, e così la breve fase di
tensione tra noi parve sciogliersi all’istante.
“Se così fosse stato, ti avrei detto che mi sento davvero
fortunato ad averti incontrato mentre attraversavo una selva oscura, non ti
pare?”.
Ridemmo entrambi, di gusto.
Riprendemmo a mangiare, come se nulla fosse, anche se quello
che mi aveva appena detto con serietà continuava a mulinare dentro la mia
mente, e a turbarla.
Ci lasciammo in maniera molto pacifica, finito di pranzare.
Piergiorgio poi si mise a bisticciare con la signora Virginia affinché
desiderava pagare ciò che avevamo consumato, e lei assolutamente non voleva
neppure udire tale proposito. Fu un tira e molla abbastanza lungo, che parve
tuttavia divertire entrambi, mentre io riprendevo il mio turno lavorativo.
Il mio uomo se ne andò non prima di avermi avvicinato, pronto
a darmi un bacio sulla guancia, per poi tornare anch’egli a quel che aveva da
fare. E che io non conoscevo.
Quella era una curiosità che a volte baluginava dentro di me,
eppure non era quella la questione che in quel momento mi donava maggior
tormento. La verità era che dovevo decidere; accettare la proposta di George, e
andare al più presto a vivere con lui, oppure no? In fondo, pensavo che fosse
meglio ripartire da zero. Convivere, certo, ma non in casa sua. E neppure in
casa mia.
Magari avremmo potuto trovare qualcosa da affittare, ma non
vedevo il mio amante a piegarsi per finire a vivere in una bettola minuscola
come quella in cui convivevo con Marco, tra l’altro con un affitto abbastanza
alto da pagare e senza alcuna comodità. Anche io non volevo finire così.
Siccome non desideravo chiedergli denaro, o spingerlo a
pagare un affitto, giacché il mio stipendio di certo non sarebbe bastato a
rendere tal proposito una realtà, pensai che in fondo potevo anche cominciare
andando da lui. Era la scelta più ovvia, almeno all’inizio, poi tanto se non
fossi stata soddisfatta si sarebbe ritrovato costretto ad accogliere anche la
mia versione dei fatti, e a comprendere cosa provavo tra quelle mura estranee,
così pregne di ricordi di una vita intera che sapevano turbarmi.
Conclusi la mia giornata lavorativa che ero ancora
pensierosa, e dopo aver salutato calorosamente Virginia, ritrovai il mio George
ad attendermi.
Abbassò subito il finestrino, non appena vide che mi
avvicinavo.
“Baby, ti va di fare un giro?”, disse, con voce profondissima.
Indossava un paio di occhiali scuri, da sole, e pareva una rockstar di altri
tempi.
“Salta su!”.
Mi strappò un altro sorriso.
“Sei ancora in vena di fare il simpaticone?”, gli chiesi,
fingendomi stizzita.
“E dai, non si può mai scherzare con te! Fingi almeno di
stare al gioco”, mi rimproverò, gentilmente. Aprii lo sportello e salii in
auto.
“Ma anche io stavo scherzando”, gli dissi.
Lui mi rivolse un’occhiatina furba, prima di sorridere.
“Ah, mi hai messo nel sacco, questa volta”, esclamò, e mise
in moto la macchina, riportandomi a casa.
Tra noi due c’era feeling, e non mancavano mai le effusioni.
Ormai, eravamo una coppia che aveva preso confidenza con il proprio aspetto più
intimo, quindi non ci facevamo più problemi a far nulla.
“Vieni da me, questa sera”, mi disse, quando stavo per
scendere a casa mia.
“Vieni tu”, gli risposi, cordiale, richiudendo poi la
portiera.
Udii che aveva abbassato il finestrino per dirmi qualcosa, ma
io già mi allontanavo, dandogli le spalle e salutandolo di schiena con una mano
alzata. Avevo il timore che insistesse, invece non aggiunse altro, alla fine.
Un potenziale pericolo scampato. Non mi sentivo ancora pronta a passare una
notte a casa sua. Rincasa, mi ritrovai ben presto a cenare con mia madre, che
m’interloquì subito su come fosse andata la giornata lavorativa, su come
stessi… solite cose, insomma.
Mentre mangiavo le uova strapazzate che mi aveva cordialmente
preparato, già mi aspettavo che saltasse fuori una qualche fantomatica domanda,
riguardante un certo argomento.
“E con Piergiorgio, come va?”, chiese, infatti, dopo qualche
altro giro di parole. Sospirai, sapendo che mi aveva fatto parlare solo per
giungere a quel quesito.
“Bene, mamma”, le dissi, prima di riprendere un attimo il
respiro e sputare fuori il rospo. “Stiamo cominciando a pensare al nostro
matrimonio”, aggiunsi, infatti.
Cadesse il cielo! Mia madre rimase a bocca spalancata,
letteralmente.
“Non starete correndo un po’ troppo?2, riuscì a biascicare.
“Oh, presto cominceremo a convivere, non so ancora dove. Qui
no di certo, probabilmente a casa sua”, vuotai definitivamente il sacco. Non
aveva più senso cercare di nascondere qualcosa, siccome io e il mio compagno
ormai stavamo facendo passi da gigante sotto tutti gli aspetti e se volevamo
sperare di proseguire spediti non dovevamo più alimentare gli ostacoli che ci
frapponevano tra noi e la nostra libertà di coppia.
Mia madre ci dovette restare un po’ male, poiché non replicò
più nulla. Non sapevo se la sua era gelosia, timore di tornare a essere sola,
oppure rabbia verso quell’uomo che forse ai suoi occhi non appariva così tanto
perfetto per me, che voleva portarmi via per sempre. Non disse proprio
nient’altro, neppure quando anche il mio George giunse a bussare alla nostra porta,
per trascorrere l’ennesima nottata assieme.
Io e lui ci dileguammo in fretta al piano superiore,
inghiottiti dall’oscurità della mia stanza, che ci permise di tornare ad amarci
con rinnovato vigore.
NOTA DELL’AUTORE
Occhio ai minimi segnali di cambiamento. Questo capitolo ne
contiene alcuni, per la prima volta.
Vorrei incuriosirvi ancora un po’, rivelandovi che per ora
ancora non abbiamo conosciuto un altro personaggio importante ai fini della
trama. Il racconto quindi si preannuncia ancora lunghetto, però conto di non
annoiarvi mai.
Grazie, spero di poter portare avanti al meglio questo
progetto.
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Capitolo 37 *** Capitolo trentasette ***
Capitolo trentasette
CAPITOLO TRENTASETTE
Dopo aver sfogato nuovamente il nostro bisogno di unirci e di
essere un unico corpo, Piergiorgio crollò su di me, ansante e sudato. Faceva
caldo nella mia stanza, sembrava di essere su un braciere, invece che su un
semplicissimo letto.
Ci scambiammo un bacio passionale, forte. Le sue labbra
intinte dalle piccole gocce di sudore avevano un sapore salato, salmastro, un
po’ fastidioso.
“Ho detto a mia madre che stiamo facendo i preparativi per il
nostro matrimonio”, gli dissi poi, senza troppi preamboli, ormai svuotata da
ogni altro desiderio o parvenza di esso.
“Oh”, borbottò, incuriosito, “e cosa ti ha detto?”.
“Non so, non mi è parsa molto contenta, sai?”, risposi,
candidamente.
“Io… come ti ho già detto, te ne ho parlato solo perché mi
farebbe piacere, tutto qui. Quindi, se vuoi aspettare, o se non ti interessa la
mia proposta, non devi sentirti obbligata ad accettarla. Solo che, prima o poi,
dovremmo anche pensare a questo aspetto della nostra relazione; d’altronde, se
ci sposiamo mica possiamo vivere divisi, ciascuno a casa propria, e incontrarci
solo di notte…”.
Mi venne spontaneo sorridere.
“Separati, anche se sposati”, borbottai, divertita per un
attimo e creando persino una simpatica e breve rima.
“Ah, quanto sei dolce, amore mio!”, sospirò lui,
abbracciandomi e stringendomi forte tra le sue braccia.
“Cullami un po’”, gli sussurrai, socchiudendo gli occhi.
Esaudì immediatamente il mio desiderio; mi prese piano, con delicatezza, e
invertì le posizioni.
Quando fui sopra di lui, sul suo petto, cominciò a muovermi,
quasi fossi stata una bambina piccina, mentre comprimevo il mio viso
all’altezza del suo villoso petto, avvertendo i battiti del suo cuore. Era così
bello.
“Adoro quando fai così”, mi disse, a sua volta. Non feci una
piega e lasciai che lui continuasse a sfiorarmi con le sue mani, tornando pian
piano ad accendere quella scintilla di passione che sembrava avessimo appena
quietato.
“E’ anche per questi momenti, sai, che ti vorrei a casa mia.
Tutta per me, a ogni ora”, tornò a dire, parlando sul mio pacato e profondo
silenzio.
“Non sopporto più neppure l’idea di venire a bussare a una
porta che non è mia, per poterti vedere, abbracciare, coccolare…”.
La sua voce si affievolì gradualmente, inghiottita dal
silenzio che ci avvolgeva. Fu il mio turno di sospirare.
“Il problema non è prendere il volo da questa casa; è tutto
il resto”, sussurrai, uscendo dal mio mutismo.
“In che senso?”.
“Lasciare mia madre sola, nonostante si stia riprendendo solo
in queste settimane dalla triste batosta che ha dovuto affrontare. Poi, anche a
me non mi fa sentire felice il venire a bussare alla tua porta…”.
Non riuscii a finire la frase, poiché Piergiorgio ebbe uno
scatto repentino, quasi violento, che mi spaventò. Impiegò tutte le forze che
aveva per tornare a rigirare il mio corpo e a sovrastarlo con il suo. Anche se
potevo tranquillamente scansare la sua mole, lasciai che la sua bocca tornasse
ad allietare la mia, e la sua lingua a soffocare la mia voce.
Avvinghiati, tornammo a fare l’amore in quella prima volta
che sapeva di bestiale e di incompreso. Poco dopo, George era sfinito a
schiumante di sudore, totalmente spossato, e quella volta rovinò a mio fianco,
facendo produrre più rumore del previso alle molle sottostanti.
“Non devi dirlo”, mi intimò, “non devi dirlo mai più. Hai
visto quanto ti amo? Sono così pazzo di te che quando ti penso mi esplode una
forza che non so neppure gestire e che non conosco. Come puoi pensare che per
me possa essere un problema farti entrare in casa mia? Tu devi bussare alla mia
porta, perché io sono felice di aprirti e di tenerti così, con me e tra le mie
braccia, anche in continuazione!”.
“Non devi dirlo mai più”, ripeté, la voce stanchissima e
roca, quasi ridotta ad un rantolo.
“Questo vale anche per questa casa. Io intendevo… che forse
potrei non essere… come si può dire… idonea, diciamo così, con i ricordi che la
tua casa contiene. Non sono degna, insomma, di bussare alla tua porta e di
varcare la sua soglia”, mi spiegai, aumentando l’enfasi e uscendo dal torpore
che aveva caratterizzato quel breve momento in cui ero facile preda delle sue
coccole.
“Ah, adesso capisco, finalmente!”, sbottò, come se fosse
stato rinfrancato.
“Non puoi capire, invece…”, provai a replicare.
“Sì, invece. Non ti devi preoccupare, perché quello è un
problema da nulla; è per me ora di voltare pagina, quindi quella casa sarà tua
quanto mia, siccome presto saremo una coppia anche agli occhi di Dio e dello
Stato. Se vorrai, allora, potrai apportare qualsiasi miglioria che potrà farti
sentire più a tuo agio, senza farti alcuno scrupolo”, provò a rassicurarmi.
“Non è quello che desidero, perché in fondo un lunghissimo
matrimonio e una vita intera non sono cose che si possono cancellare o
rimuovere facilmente, e non è quello che io stessa voglio. Capisci? Io per te
sono solo una frazione di secondo immersa in una vita che ti ha reso saggio e
che ti ha forgiato. Mi sento… come se fossi una parentesi, ecco”, conclusi,
ormai sul punto di lasciarmi andare al pianto.
Mi stavo facendo male, e anche da sola. Non volevo
assolutamente apparire come un’egoista, una di quelle persone che vogliono
intrufolarsi in un ambiente domestico per cambiarlo e stravolgerlo a tutti i
costi, rendendolo loro favorevole. In quel caso, sarei stata
un’approfittatrice, lungi da me quindi apparire come tale.
Forse, a spingermi ad avere tutte quelle paranoie, era solo
il fatto che ero un po’ spaventata, e che ancora non riuscivo a spiegare alla
mia interiorità che ogni cosa, nella mia breve esistenza, stava per cambiare
per sempre. Avrei potuto avere ogni cosa, e ciò in un solo battito di ciglia.
“Sei molto poetica, anche quando ti struggi, sai?”, affermò,
sorridendomi nella semioscurità, anche quando mi aspettavo che se la prendesse.
Gli passai una mano tra i folti peli dell’ampio petto.
“Eppure”, proseguì, allora, “non capisci che tu non sei una
parentesi. Tu sei ciò che viene dopo la parentesi; sei colei che mi ha donato
nuova vita, qualcuno che mi ha ridestato da una nebbia che sapeva di delusione
profonda, di morte… qualcosa che non potevo e non riuscivo più a percepire come
un’esistenza vera e propria. Non puoi quindi pensare quello che mi hai appena
detto, perché in tal caso sarebbe solo una fissazione tua, e nient’altro”,
sancì, approfonditamente.
“Certo, questi scrupoli ti rendono molto nobile d’animo e ai
miei occhi, però non sono la cosa giusta per noi, capisci? Chiudi gli occhi, se
vuoi, e vieni con me. Nella mia umile dimora avremo tutto lo spazio che
desideriamo, e tutto per noi. Non ti chiedo di abbandonare tua madre; se non
vuole restare sola, e non ci vuole seguire, poiché c’è spazio anche per lei,
allora sono anche disposto ad aiutarvi economicamente al fine di assumere una
signora che possa starle accanto. Ti prego, non pensare oltre alla mia
proposta! Accettala”, continuò, pian piano rendendosi sempre più implorante.
Capivo il suo desiderio di portarmi a casa sua. Era inevitabile.
Poi, tutto a un tratto, un rapidissimo susseguirsi di parole
e di scene nella mia mente; di nuovo, la figura di Irene che mi fissava quasi
con pena, e mi diceva che Piergiorgio era sicuramente un pervertito, una
persona malata che voleva solo far di me ciò che più gli aggradava. Come se io
mi fossi venduta a lui. Scossi in fretta la testa, come a voler fisicamente
allontanare quella sequenza spiacevole.
Non dovevo pensare a certe cose, o sarebbero finite per
avvelenarmi il sangue, e pure a rovinarmi la vita. Tirai quindi in fretta le
somme, giacché di Piergiorgio mio fidavo, sapevo che parlava così non per
attrarmi nella sua tana, quasi fosse una tarantola pronta poi ad azzannarmi,
bensì solo perché mi voleva davvero a suo fianco e mi amava profondamente. Era
una persona di una certa età e con un certo modo di pensare e di vedere le
cose, ancora con un gusto arcaico del romantico, non avevo quindi nulla da
temere.
Dovevo smetterla di permettere alle parole altrui di
intromettersi a influenzare i miei pensieri e le mie decisioni. Tuttavia, non
riuscii a esprimermi, nonostante continuassi a ragionarci sopra senza sosta
alcuna.
“Dimmi una cosa; ti piace il giardinaggio?”, m’interloquì
George, allora, forse percependo i miei contrasti interiori.
“Sì…”, mormorai, dando un senso d’indefinito a
quell’affermazione.
“Potrai dedicarti al giardino, che è immenso, come hai avuto
modo di notare anche tu. Potrai stare all’aperto, e anche avere cura di Kira,
sempre se lo vorrai, dato che anche lei ti apprezza molto”, si spiegò,
lasciando trapelare un po’ di felicità dalla sua voce in genere monocorde.
“George, io ti chiedo solo una cosa”, riuscii a dire, capendo
che dovevo intervenire a quel punto, per non lasciare che il suo ego attentasse
troppo al mio.
“Dimmi”.
“Di non correre troppo. Stiamo già correndo tantissimo, e per
adesso siamo stati fortunati a non incontrare ostacoli. Non vogliamo a tutti i
costi azzopparci. Dammi quindi qualche giorno per pensarci, va bene? Fino a questo
fine settimana, almeno…”.
Mi fermò con un bacio.
“Hai tutto il tempo che desideri. Tutto”.
“Prenderò presto la mia decisione…”.
“Magari questo fine settimana, quando sarai sotto
l’ombrellone”, buttò lì. Rimasi perplessa, non riuscendo a capire quello che
aveva appena detto.
“Cosa?”, domandai, infatti, timorosa di non aver compreso.
Erano anni che non andavo al mare; a causa di quella pulce di
Marco, tutte quante le estati avevo dovuto sgobbare come una disperata pur di
portare a casa qualche soldino in più, che ci sarebbe stato utile per
continuare a vivere in modo autonomo e indipendente. Non ero più stata capace
di godermi la vita come avrei dovuto… in fondo ero tanto giovane, gli altri
miei coetanei era vero che studiavano, ma uscivano anche, mentre io vivevo solo
per lavorare.
Mi vergognavo solo a ricordare quei giorni di fatica estrema!
Almeno, da quando avevo chiuso con Marco avevo imparato gradualmente a
riprendere in mano la mia esistenza.
“Dicevo che…”, s’interruppe per stringermi in un abbraccio
affettuoso, “...questo fine settimana, quando ti rilasserai sotto l’ombrellone,
avrai modo di riflettere, se lo vorrai”.
“E’ una vita che non vado al mare2, dissi.
“Prepara il costume, allora. Sabato mattina partiamo”,
affermò.
Ricambiai improvvisamente la sua stretta.
“Non stai scherzando, vero?”.
“Sono serissimo”.
Mi venne da mettermi a ridere. Non ci potevo credere! A parte
che il mio George non riuscivo a vederlo in spiaggia, magari in costume,
tuttavia nonostante fosse estate non mi era mai passato per la mente di andare
in spiaggia.
“Oh…”, riuscii solo a mormorare, senza pronunciarmi neppure
in quel caso.
“La protezione, un costume consono, gli appositi asciugamani…
insomma, prepara tutto l’occorrente”, tornò a dire, il tono di voce che
lasciava finalmente percepire tonalità rilassate e felici.
“Non sono una tipa da spiaggia”. Risi, poi.
“Io lo sono, forse?”, ribatté, con la sua solita ironia
lieve.
“Sei ancora un bell’uomo, George. Non vorrei che ti
portassero via da me, tutte quelle screanzate seminude…”, tornai a stuzzicarlo.
“Nessuna di loro avrà mai un corpo come il tuo”, mi garantì a
voce, tirandosi su e sfiorandomi con le mani, che riprendevano a riavere la
brama che ci portava solitamente ad unirci.
“Sono tutte meglio di me”.
“Non è vero”.
“Sei tu che sei di parte”.
Ci fu un attimo di silenzio.
“Possiamo andare avanti fino a domattina con questo discorso
inutile, non credi?”, disse, all’improvviso.
“Vorresti impiegare il tempo in altro modo, vero?”, replicai,
con tono malizioso. Lui sghignazzò.
“No, non potrei. Per questa notte mi hai già prosciugato,
bellezza”.
Si allungò a darmi un piccolo bacetto, anch’esso accettato
con gioia. La parentesi turbata di pochi istanti prima sembrava già totalmente
chiusa.
“Allora potresti fare una cosa”, iniziai a suggerire.
“Dimmi pure”.
“Parla. Raccontami qualcosa, sai che mi piace ascoltare la
tua voce”.
Ridacchiò, un po’ grevemente.
“Mi fa piacere che ti piaccia ascoltarmi mentre parlo”,
disse, “però non so proprio cosa dirti!”.
“Abbi un po’ di ispirazione, dai!”, tentai di spronarlo,
divertendomi nel farlo.
“Ti posso raccontare una favola, va bene?”, dichiarò, a
sorpresa.
“Perché tu le favole le sai anche a memoria?”.
“Ti assicuro di sì”.
Restai un attimo perplessa.
“Allora va benissimo. Sono proprio curiosa”, borbottai,
preparandomi ad ascoltare.
Socchiusi gli occhi, restando comunque attenta a ogni cosa.
Mi aspettavo che avrebbe cominciato a narrarmi qualcosa di suo, o di personale
o frutto della sua fantasia, quindi ero molto curiosa.
Comunque, cominciò per davvero a raccontarmi, sottovoce, la
storiella di cappuccetto rosso; la sapeva veramente a memoria! A colpirmi di
più non fu tanto il contenuto di ciò che narrò, poiché naturalmente non
ricordavo tutta la vicenda così come veniva tramandata nei libri di fiabe,
quindi poteva sicuramente aggiungere qualche minimo particolare di sua
iniziativa, bensì la sua memoria ferrea.
Non mi spiegai sul momento come facesse per davvero ad aver
compiuto quell’opera che mi pareva colossale, giacché io neppure da bambina ero
riuscita a imparare a memoria una fiaba intera, eppure rimasi così colpita
dalle sue parole che mi lasciai trasportare da esse.
Proprio come se fossi tornata a essere una bimba. Scivolai in
un sonno profondo senza neppure accorgermene, con il mio George che continuava
a narrare, e pareva non fermarsi più; la sua voce come un sottofondo gradevole
che mi spingeva nel limbo più dolce, ovvero quello che aveva il sapore del più
tenero degli abbracci.
La mattina successiva, mi risvegliai quasi di soprassalto,
come se ancora mi attendessi che Piergiorgio fosse lì, sveglio e a mio fianco,
che continuava a raccontarmi una favola. Il mio George però dormiva, cingendomi
con un braccio. Riposava così profondamente che decisi di lasciarlo perdere, e
di non svegliarlo affatto.
Quando sarebbe stato pronto per farlo, si sarebbe alzato da
solo e si sarebbe arrangiato.
Mi sarei sentita in colpa se l’avessi fatto alzare, giacché
era stato sveglio a raccontarmi una storia, su mia pressione, poi si era
addormentato che chissà quale ora era… non volevo fosse una sorta di mio
burattino, anche se ben sapevo che lui si sarebbe dichiarato felice di esserlo,
nel qual caso glielo avessi fatto notare.
Mi preparai con il sorriso sulle labbra, poi mi chinai un
attimo a dargli un bacetto sulla fronte, quando ancora dormiva un sonno
profondo, e abbandonai la mia stanza, pronta per il lavoro. Gli lasciai la
finestra aperta, così che il sole ben presto lo avrebbe svegliato, quando si
sarebbe alzato un po’ di più, così se aveva impegni poteva anche recuperare.
Al piano inferiore, come al solito, mia madre mi attendeva,
già sveglia e scattante. La colazione era appena stata messa in tavola.
“Piergiorgio non scende?”, mi chiese con prontezza, non
appena mi notò, ancora intorpidita dal sonno recente, mentre mi avvicinavo
traballante al tavolo. Scossi la testa, in modo blando.
“No, l’ho lasciato riposare. Si alzerà tra non molto,
immagino”.
Lei si sedette a mio fianco, e mi passò il latte caldo.
“Non c’è alcun problema”, disse.
“Ti ringrazio per la tua grande disponibilità”, la
ringraziai, per tutto quello che stava facendo per noi. In fondo, ci offriva
una buona colazione calda e la libertà di coppia tra le sue mura domestiche, e
mi rendevo conto che non era cosa da poco. Soprattutto, per una coppia un po’
particolare come lo era la nostra. Mi porse il vassoio con i biscottini ancora
caldi, fatti da lei.
“Lo faccio con piacere. Spero che non te la prenderai, però,
se ho il bisogno di farti una domanda”, parlò, titubante.
Gonfiai subito il petto, prendendo aria, per poi lasciarmi
quasi accasciare sulla sedia che stavo occupando. Immaginavo dove volesse
andare a parare, eppure in ogni caso volevo dimostrarmi molto disponibile al
dialogo, siccome lei da parte sua si era comportata in maniera fin troppo
corretta. Poi, la sera prima ero stata io a sfidarla, in qualche modo, e dato
che sul momento era rimasta impietrita, oramai mi aspettavo una sua reazione,
che era davvero inevitabile.
“Assolutamente no”, affermai, come se nulla fosse.
“Hai davvero intenzione di andartene da qui per seguirlo?”,
domandò, a bruciapelo e serissima. Le offrii un sorriso sghembo, di quelli da
bambina beccata a mangiare nutella a volontà.
“Mamma, dobbiamo sposarci, te l’ho già detto”, cominciai a
piegarmi, con delicatezza e attenzione, “quindi questo è un passo avanti che
prima o poi dovremo fare”.
Mia madre ci rimase malissimo, e abbassò lo sguardo; fu come
se un macigno le fosse rovinato addosso con tutto il suo immane peso.
“E non è troppo presto? Ragiona”, borbottò, per la prima
volta con evidente irritazione. Non mi aspettavo che la prendesse così male, ed
ero un po’ frastornata, anche se in fondo avrei dovuto immaginare che forse
credeva si trattasse solo di una relazione destinata a restare invariata
com’era.
“Io…”, provai a dire qualcosa, ma non ci riuscii. Mi sembrava
di dover dare spiegazioni di troppo, e pronunciare parole che forse neppure io
mi sentivo pronta ad affrontare. Finii solo per agitarmi sulla sedia, e basta.
Mamma notò che eravamo finite per ferirci, quasi, e allora
parve rasserenarsi e farsi più dolce; infatti, si chinò e mi prese le mani tra
le sue, con affetto. Fu un gesto che mi sciolse, perché faceva così anche
quando ero piccola e facevo i capricci. Il contatto materno mi faceva ragionare
e calmare.
“Non devi fraintendermi, eh. Io non voglio che tra voi
finisca male, o finisca presto, per intenderci! Però, non so… mi pare stiate
andando di corsa? Non so, Isa, ragiona un attimo. Sei ancora così giovane, e
lui è…”.
S’interruppe, mordendosi il labbro inferiore con forza.
“Così vecchio”, conclusi io, con tono abbattuto. Aveva un
pizzico di ragione, in fondo.
“Non so neanche io cosa sia stato a farci unire in quel modo.
So solo che, una notte, sono tornata a casa così triste da aver bisogno di
conforto, ed ho chiamato l’unica persona che sul momento mi poteva sembrare
capace di consolarmi. È finita così, poi”, raccontai, a voce bassa e con un po’
di malinconia.
“Anche io c’ero per te, e ci sono ancora”, parve
rimbrottarmi.
“Tu non stavi bene, mamma! Eri depressa, strana, non ti
capivo…”, borbottai con fare leggermente isterico, liberandomi poi dal suo contatto
e mettendomi le mani tra i capelli, stringendo le nocche.
Ecco che lo stress tornava a padroneggiare dentro di me,
assieme alla sua carica di ansia, spronato dal fatto che sembrava che tutti
quei pochi che mi circondavano esigessero qualcosa di ben preciso da me. Prima
di tutto, risposte. Decisioni, anche. Ed io mi sentivo così impotente… così
vulnerabile, immersa in una bambagia d’indecisione che sembrava donarmi un’aura
ancora da ragazzina. Forse, non ero così tanto matura come ormai mi immaginavo.
La mia considerazione un po’ spropositata colpì ulteriormente
mia madre, tuttavia, anche se non era mio desiderio.
“Non è colpa mia se sono stata poco bene” disse, infatti,
sconsolata e ferita. Non attesi altro tempo e mi alzai, fiondandomi ad abbracciarla
forte.
“Scusami, mamma. Non volevo accusarti di nulla”, le garantii,
con sincerità, “questo era solo per dirti che tra me e Piergiorgio è nato tutto
così, in maniera spontanea, non so neanche io come. E’ stato qualcosa di nato
puramente per caso, forse grazie a qualche coincidenza…”.
“Lo so, l’ho capito. Non devi spiegarmi nulla”.
Restammo abbracciate per un po’.
“Credo che andrò a vivere da lui. Se vorrai, anche tu potrai
venire con noi, la casa è molto grande, e poi è anche qui vicino… non sarebbe
un problema”, tornai a spiegarle. Ormai avevo trovato il coraggio per parlare
liberamente, d’altronde nulla se non le cose non dette poteva continuare a
generare ansia tra noi. Tanto valeva fossi sincera.
“Non verrò. Tanto meglio se andrai a vivere qui vicino, così
potrai passare spesso a trovare tua madre”.
La mamma, come mi ero aspettata, aveva declinato in fretta
l’offerta; avevo sempre saputo e l’avevo anche detto a George che non si
sarebbe mai piegata a seguire la figlia. Riconoscevo che, in effetti, doveva
essere qualcosa di un po’ inquietante, se osservato dal punto di vista di un
genitore.
“Non devi preoccuparti, sai, si tratta proprio della strada a
fianco”, mi venne poi anche spontaneo ridere, accompagnando le parole con un
ampio gesto delle mani.
“Meglio così, meglio così”, ripeté lei, tornando a sorridere.
I suoi occhi però erano umidi di lacrime.
A quel punto, anche se non volevo, pure i miei si
inumidirono, e mi ritrovai a mia volta a lasciarmi andare a quell’inquietudine
che mi aveva accompagnato fin da quando George mi aveva invitato ad andare a
vivere da lui. Mi ritrovai di nuovo tra le braccia di mamma, a farmi consolare.
“Ho un po’ di paura. Lui ha una vita alle spalle, e stare in
quella casa così grande e piena di ricordi suoi… mi inquieta, davvero. Ma se
vogliamo stare assieme, forse affrontare questa mia paura è la cosa migliore da
fare, e anche al più presto”, le confessai, infine, lasciandomi proprio andare.
Lei mi strinse forte e mi diede qualche dolce pacca sulla schiena.
“Non devi sentirti obbligata a farlo, se ti turba così tanto.
In fondo, potete anche aspettare, oppure continuare così, a passare le notti
assieme in una delle due case, senza per forza fare il salto completo e
immediato”, provò a suggerire, comprensiva. Annuii, la testa appoggiata sulla
sua spalla.
“E’ vero, ma… non lo so, siamo così presi dalla nostra
passione! Non possiamo più stare l’uno senza l’altra. Meglio fare così, e
affrontare subito ogni paura”, tornai a rimarcare, ostentando un minimo di decisione.
La verità era che ero ancora piuttosto indecisa a riguardo.
“Allora, figlia mia, se le cose stanno così limitati a
seguire il tuo cuore, senza farti troppi problemi. A volte, le nostre paure
sanno rivelarsi infondate, ricordalo sempre”.
Le fui grata di quelle parole così sagge; non avrebbe potuto
riservarmene di migliori.
“Ti ringrazio, mamma…”, le mormorai, sinceramente, e ancora
abbracciata a lei.
“E per cosa?”.
“Perché mi sostieni, nonostante tutto. Altre madri mi avrebbero
preso a calci nel didietro, per quello che ho fatto e per le mie scelte, invece
sei stata comprensiva, sempre”.
Sciolse l’abbraccio.
“So che hai sofferto tanto a causa di Marco, e immagino che
tu ti sia molto stancata di ragazzi tuoi coetanei. Credevo che con Piergiorgio
fosse solo una storia casuale, un momento in cui hai deciso di concederti
qualche tenerezza in più”, notò che stavo per dire qualcosa, quindi mi fermò
con uno sguardo deciso, “perché sappiamo entrambe che un uomo così può
riservare tante dolcezze e molte sicurezze in più, rispetto a chiunque altro.
Se però vi amate tantissimo, credo sia giusto che coroniate il vostro sogno”.
Se avevo pensato di provare a protestare di fronte alla prima
parte del discorso, mi ritrovai invece d’accordo con il suo finale, tanto da
tacere.
“Io sono tua madre, ti ho sempre voluto un mondo di bene e
continuerò a volertene, qualunque cosa tu scelga di fare. Non potrei mai
negarti la felicità, se è questo che vuoi provare ora a raggiungere, e ti
supporterò e consiglierò, se lo vorrai. Ci sono e ci sarò sempre per te, Isa”,
concluse.
“Anche io ti voglio tanto bene, mamma”, le assicurai
prontamente, molto commossa. “I prossimi giorni prenderò una decisione, e sarai
la prima a conoscerla per bene”, conclusi a mia volta.
Mia madre annuì, tornando ad avere gli occhi umidi, ed io con
lei. A interrompere il quadretto famigliare ormai disteso fu proprio l’arrivo
di Piergiorgio, che si affacciò improvvisamente alla porta della cucina. Era in
evidente disordine, soprattutto con i vestiti.
“Buongiorno!”, gli dissi, a voce alta, reprimendo la
commozione. Non volevo sospettasse qualcosa, il dibattito appena concluso era
come se fosse già acqua passata.
“Perché non mi hai svegliato? Sai che ci tenevo ad alzarmi
con te”, blaterò, un po’ nervoso e senza badare a mia madre. Appariva
leggermente spaesato.
“Stavi risposando così bene… non volevo interrompere il tuo
sonno”, gli dissi, un po’ mogia, siccome non mi aspettavo una sua reazione così
forte. Mi rassicurò con un sorriso.
Entrò nella stanza e salutò cortesemente mia madre, solo
allora mi avvicinai a lui e iniziai a rassettargli gli abiti.
“Senza di te sono perso, Isa! Non so neanche più come
vestirmi da solo”, bofonchiò, suscitando la nostra ironia.
Mi lasciai sfuggire una breve risatina, mentre di nuovo la
leggera tensione attorno a noi svaniva in fretta.
“Ti amo troppo”, disse poi, affermandolo con passione, e di
fronte a mia madre mi baciò con impeto. Un impeto che ricambiai, seppur giusto
il tempo di un rapido contatto.
C’era un’unica cosa certa, ormai; tra noi, l’Amore più forte
regnava, nonostante tutto, e quello era l’importante.
Facemmo in fretta colazione, poi lui mi accompagnò al lavoro,
dolcissimo come lo era sempre. Restavo solo desiderosa che arrivasse il fine
settimana, poiché non vedevo l’ora di scoprire cosa mi avrebbe riservato
George, e se davvero saremmo andati al mare, come mi aveva promesso. Chissà! Il
bello dell’attesa era che sapeva far fantasticare, quindi… non aspettavo altro
che quel fatidico momento giungesse a lambire il presente della mia esistenza.
NOTA DELL’AUTORE
Siamo all’apice di questa storia… forse.
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Capitolo 38 *** Capitolo trentotto ***
Capitolo trentotto
CAPITOLO TRENTOTTO
Giunsi sfinita al fine settimana. Davvero, nonostante il
lavoro non fosse più tediante come lo era stato all’inizio, quando ancora la
signora Virginia non riponeva alcuna fiducia in me e mi trattava malissimo,
restava il fatto che, se da una parte ero in pace con la proprietaria del
locale e mi trattava ormai quasi come se fossi una componente della sua
famiglia, dall’altra ero riuscita a continuare ad attrarre tutto il nervosismo
dei colleghi.
Non c’era quasi più nessuno di interessato a me. Non mi
rivolgevano la parola, e si voltavano dall’altra parte quando incrociavano il
mio sguardo. Immaginavo pensassero che fossi una privilegiata, siccome la
signora trattava tutti con veemenza, mentre a me riservava un discretissimo
riguardo.
Ogni giorno questo divario tra me e gli altri si acuiva,
senza che potessi riuscire in qualche modo a colmarlo, neppure un minimo.
Mi generava dispiacere questa situazione, giacché c’era anche
qualcuno dei miei colleghi con il quale ero anche riuscita ad andare d’accordo,
durante i primi tempi, e in modo particolare con Ilenia. I nostri turni erano
destinati a incrociarsi e a convivere per poco, ma era sempre stata simpatica e
tra noi sembrava essersi instaurato un buon rapporto… o questo era quello che
era accaduto prima che notasse che mi ero messa con Piergiorgio, e che ciò
mandava in visibilio Virginia, sua grande amica.
Mi sforzai per il restante tempo di soffocare tutto questo
dolore che brulicava nel mio cuore, non volendomi rattristare per cose alle
quali pareva non esserci immediata soluzione, cercando solo di pensare al
sabato. Esatto, perché quel giorno il mio George sarebbe passato a prendermi, e
ci avrebbe atteso il nostro primo week-end al mare. Mare che mi mancava molto.
La fortuna fu che il tempo volò, e al di là del lavoro non ci
furono altri attriti; con mia madre era tutto a posto, avevamo ancora un buon
dialogo seppur non avessimo più sfiorato le tematiche più recenti su cui
avevamo discusso, e con Piergiorgio andava a gonfie vele.
Non avevo ancora scelto nulla, come anche lui d’altronde si
aspettava, e cercavo solo di restare serena, e basta.
Sabato mattina mi svegliai di buon ora.
George non aveva dormito da me, ormai era qualche sera che
non lo faceva, poiché aveva scelto di affrontare il turno di notte presso la
struttura ospedaliera privata presso la quale offriva il suo sapere, così
com’era accaduto durante tutte le nottate successive alla nostra breve
discussione a riguardo della residenza di coppia.
Comunque lo vedevo tutti i giorni, e sovente mi passava a
prendere per portarmi al lavoro, sempre tranquillissimo. Non volevo neppure
pensare che mi stesse in qualche modo evitando, non era da lui farlo.
Era sempre stato molto sincero con me, ed era quello che
continuavo ad aspettarmi da parte sua, sapendo che, comunque, se ci fosse stato
un problema me ne avrebbe parlato, come nelle volte precedenti.
Mi vestii adeguatamente, d’altronde erano giorni che, nello
scarso tempo libero che avevo, mi sforzavo di provare costumi che ormai
parevano appartenere a un’altra vita.
Avevo ventidue anni l’ultima volta che ero andata al mare,
però avevo conservato i costumi che all’epoca mi ero comprata, e non essendo
mai ingrassata, o cresciuta, mi stavano ancora bene. Non dovetti quindi finire
ad andare a comprarli di nuovo, scegliendo di provare così.
Un bel bikini rosa poteva andare benissimo, infatti, nella
speranza che Piergiorgio non lo ritenesse troppo seducente, appariscente o
imbarazzante per la sua persona. Ecco, fui travolta dai dubbi, e tutto ciò solo
una mezz’ora prima che egli mi passasse a prendere; non sapevo se come mi stavo
preparando gli andasse a genio, sperando di non offendere la sua sensibilità, e
senza sapere cosa aspettarmi.
Finii quindi a essere titubante ed imbronciata, proprio
quando la mia gioia avrebbe dovuto esplodere con tutta la sua forza. Passai
davvero dei brutti minuti, in quell’attesa che si rivelò a tratti estenuante.
Ne parlai a mia madre, ma lei mi rassicurò con un sorriso
bonario sulle labbra, dicendomi che sbagliavo a farmi tutti quegli scrupoli.
Forse aveva ragione, d’altronde ero incline a farmene sempre un po’ troppi, era
proprio da considerare alla stregua di una mia pessima abitudine.
George arrivò con la sua solita puntualità, ma… aspettavo la
sua auto, invece giunse in moto. Rimasi molto perplessa, e quasi basita,
infatti, quando il motociclista si piazzò ad attendermi nel giardino.
Gli andai incontro, e quando si sfilò il casco e il mio uomo
mi apparve sorridente come non mai, mi sciolsi un pochino.
“Non sapevo che tu avessi anche una moto”, gli dissi,
prontamente. Rise forte.
“Sono un uomo di mille risorse. E poi, cosa credi di sapere
di me, amore mio? Ancora niente!”.
“Che sfacciato che sei!”, lo ripresi, non accogliendo la sua
pungente ironia. Eppure, parve non farci caso, e mi allungò un casco.
“Scherzi? Io su quel coso non ci salgo!”, esclamai,
comprendendo che non aspettava altro che infilassi il casco e via.
Lui scese e mi si avvicinò, sempre molto sorridente.
“Non fare la sciocca”, disse, in modo scherzoso.
Io ero tuttavia piuttosto risoluta a non volerci salire, e
osservavo il mezzo di trasporto un po’ in cagnesco, come se non riuscissi a
convincermi del fatto che avrei dovuto salirci. In effetti, mai prima di allora
c’ero mai salita, su una moto di qualsiasi cilindrata e genere; tuttavia, c’era
sempre una prima volta per tutto, no? Piergiorgio poi sembrava particolarmente
divertito dalla mia reazione piuttosto inaspettata, quando in realtà
probabilmente era stata solo la sorpresa a giocarmi un brutto tranello.
“Dai, su! È un ciclomotore, mica un missile aerospaziale”,
provò ancora ad affondare con ironia pungente, porgendomi il casco con
rinnovato vigore. Non alzai neppure le mani per afferrarlo.
“Non me ne frega se è un ciclomotore”, ribattei, mimando il
suo tono di voce. Questo lo fece scoppiare a ridere, di nuovo.
“Basta, dacci un taglio con questa comica, e smettila. Non
vorrai mica renderti così tanto ridicola ai miei occhi”, tornò a dire, e gli
rivolsi con prontezza un’occhiataccia.
Allora cambiò decisamente tattica; appoggiò il casco a terra,
poi mi cinse tra le sue braccia ancora vigorose, e mi baciò con passione.
Sapeva che a quel contatto io non sapevo affatto resistere, ed infatti dopo
qualche attimo ero nuovamente in sua balìa. Le nostre bocche erano avide,
affamate di quello che non avevamo consumato da diversi giorni.
Fu lui a separarsi per primo, così non persi tempo a parlare,
per non offrirgli ulteriore vantaggio.
“Lo sai che io a queste cose non resisto. Non fare il furbo,
questa volta non attacca, e vai a casa a prendere la macchina, altrimenti
usiamo la mia”. Dovevo apparire irremovibile, eppure mi stavo addolcendo.
“Non capisco questa tua reticenza…”, mormorò, “…non sarà
paura, spero”.
Mi sforzai di ridere.
“Paura di un motorino? Ma figuriamoci”.
“Ah, no?”.
“No, è solo questione di…”, ci pensai un attimo, “…coerenza”,
conclusi.
“Allora niente amore”, sancì lui, imbronciandosi
all’improvviso.
“Come?”.
“Niente, non si fa più l’amore per un bel po’. Contenta?”.
Risi forte, genuinamente quella volta.
“Aspetta, credi di ricattarmi così, in questo modo?”,
domandai.
“Be’…”.
“Una punizione, insomma”, gli feci notare. Mi guardò e
scrollò le spalle.
“Se la vuoi proprio mettere così. Anche se non sono un tipo
da punizioni, capisci”.
“Dai, ok, la facciamo finita qui”, sancii a mia volta,
rendendomi conto che il tempo stava inesorabilmente scorrendo, e che non
uscivamo dal nostro solito pantano quotidiano. Mi chinai, raccolsi il casco e
me lo infilai con pratico nervosismo sulla testa.
“Oh, allora ti sei improvvisamente convinta, eh! Avevo
ragione…”.
George mi guardava, un po’ sbalordito, probabilmente non si
attendeva che alla fine cambiassi idea così, quasi di punto in bianco, a
seguito di un considerevole tira e molla.
“Non avevi ragione per niente”, quasi gli intimai, “però ho
voglia di mare. E di…”.
“Di…?”, mi incoraggiò.
“Di stare con te”.
Mi sciolsi e lo abbracciai.
“Cosa non si fa per Amore”, aggiunsi, anche.
“Monta su, donzella! Questo è il mio cavallo”, tornò a
ironizzare Piergiorgio, prendendo posizione sulla moto e picchiettando poi con
una mano sul prolungamento posteriore del sedile, creato apposta per ospitare
un’altra persona.
Sospirai, ed eseguii, dimostrando una goffaggine senza
precedenti. Ero imbarazzata io stessa della mia prestazione atletica, giacché
ero in difficoltà anche solo ad alzare una gamba, tuttavia per fortuna il mio
buon innamorato non mi stava osservando, anzi, teneva lo sguardo fisso avanti,
forse avendo fiducia di me, senza riconoscere la mia effettiva imbranataggine.
Io pensavo solo che stavo per cadere, ahimè, e mi immaginavo
una sua possibile reazione.
Quando riuscii finalmente a posizionarmi in sella, quei
suddetti pensieri mi fecero sfuggire una profonda risatina, piuttosto di gusto.
“E’ tutto a posto?”, mi domandò con prontezza, udendola.
Si volse con un po’ di perplessità, ma non riuscì a
osservarmi direttamente, poiché il casco e la posizione assunta gli impedivano
una maggior rotazione del capo.
“Certo”, lo rassicurai, tornando seria. Eppure, continuava a
baluginare nella mia mente un possibile scenario, ovvero quello in cui io, a
terra a causa della mia ingenua goffaggine, dovevo essere soccorsa da lui. Una
figuraccia buffa, che però mi affrettai a smettere di immaginare, per il mio
effettivo bene.
“Posso partire?”, tornò ad interloquirmi, dopo un altro
attimo in cui avevo posizionato al meglio il mio didietro sullo scomodo sedile
sottostante.
“Sì, certo”. La mia voce era stata un po’ titubante.
“Tieniti stretta a me”, quasi mi intimò.
Mi affrettai a eseguire ciò che mi aveva appena detto, e con
entrambe le braccia mi strinsi a lui, forse con un po’ troppa forza. Percepii
il suo ventre che si muoveva leggermente sotto la mia stretta ferrea ed
eccessiva.
“Ouch”, borbottò, infatti, “piano, per favore! Basta che ti
tieni soltanto, ma giusto un minimo, tanto non è che questo sia un bolide che
va ai cento all’ora…”.
“Scusa”, gli dissi, un po’ sconsolata.
Allentai la stretta, e lui mise in moto quel trabiccolo che
stavo imparando a detestare in fretta, e con tutta me stessa. Quando esso si
mosse, e George sollevò i piedi da terra, tornai ad avvinghiarmi a lui, per poi
tornare a sciogliermi da lì a qualche minuto, quando ormai mi era chiaro che
già i cinquanta all’ora erano un problema per noi.
“Ma che macinino…”, gli gridai, infatti, per sovrastare il
rumore del vento, e quello prodotto dalle altre auto che ci sorpassavano tutte.
“Te l’ho detto, è un ciclomotore alla mia portata”, mi fece
notare, anche lui a voce altissima.
“Un ciclomotore…”, bisbigliai tra me e me, sorridendo. Solo
il mio George era in grado di estrapolare tutte quelle paroline così insolite.
Era anche per tutte le sue particolarità che lo amavo.
Compimmo il resto del tragitto, in maniera tranquilla,
proseguendo a una velocità abbastanza limitata e con tutti gli automobilisti
che regolarmente, appena potevano, ci sorpassavano.
Credevo mi avrebbe portato a Rimini, o in qualche spiaggia
limitrofa, eppure si mosse verso nord, alla volta del territorio ravennate. Non
immaginavo il motivo di ciò, eppure dopo un viaggio abbastanza lungo, ci
ritrovammo a Cervia, la ridente città di mare pochi chilometri più a sud di
Ravenna.
Parcheggiò nell’apposito posteggio a pagamento a pochi passi
dalla spiaggia, ed allora finalmente potei lasciare la mia postazione, così da
tornare a rimettere i piedi a terra.
“Non ne potevo più”, ammisi, togliendomi il casco e quasi
finendo asfissiata dall’afa di quella mattinata soleggiata, nonostante fossero
appena le nove e mezzo.
“E’ stata una così brutta esperienza, per te?”, mi domandò,
interessato, togliendosi a sua volta il casco e dirigendosi a pagare il
parcheggio.
“Dai… potrei anche non lamentarmi”, mi arresi. Era vero, non
era stato malaccio.
“Solo che credevo che il bello di avere una moto fosse
proprio la sua velocità, e superare tutte le altre auto, non farsi sorpassare
da tutti”, espressi di seguito una mia perplessità, che sul momento mi appariva
anche piuttosto simpatica.
Lui però mi rivolse un’occhiatina un po’ nervosa, proprio
quando meno me l’aspettavo.
‘’La mia è una moto che in teoria può andare anche più
veloce, ma avevo anche tu con me. Non volevo andare più forte, perché ti avevo
già visto abbastanza nervosa…’’.
“Non devi scusarti di nulla, le mie parole prendile come una
battuta”, mi affrettai a dirgli, accorgendomi che forse in quel momento non era
proprio in vena di scherzare.
Il mio George anche quella mattina era ben in forma; era
vestito leggero, con una bella camicetta di cotone fine, smanicata, e un paio
di calzoni lunghi e scuri, a gambe corte. Ai piedi, un paio di sandali da uomo,
neri. Era in gran spolvero, come sempre dimostrava qualche anno in meno, seppur
i suoi capelli ingrigiti e l’aspetto un po’ trasandato del viso non
mascheravano eccessivamente l’età anagrafica.
Si vedeva molto bene che era la prima volta che si esponeva
al sole in quel modo, almeno durante quella stagione estiva, siccome la pelle
era piuttosto bianca, in modo particolare quella delle gambe e dei piedi. Mi
sembrava però abbastanza a suo agio, nonostante il modo di vestire che doveva
essere piuttosto inusuale per una persona molto formale come era lui.
Mi prese a braccetto, poi, con grande gentilezza, e
cominciammo a muoverci verso la limitrofa spiaggia. Prima, però, ci appoggiammo
contro il muretto che delimitava l’asfalto, separandolo dalla sabbia, e ci
baciammo.
“Credevo saremmo andati nel riminese… o, comunque, più vicini
a casa”, gli feci notare, quando le nostre labbra si distaccarono.
Attorno a noi c’erano tante altre persone che camminavano e
passeggiavano, eppure non m’importava nulla di tutti quegli sconosciuti; in
quell’ambiente che mi era relativamente nuovo, essendo stata a Cervia solo due
o tre volte durante il corso della mia vita, ero anche estraniata da ogni
genere di imbarazzo.
Poi, il mio amante meritava anche la giusta ricompensa per la
sua gentilezza.
“Il fatto è che a Rimini, o nella nostra zona, i bagni sono
sempre troppo affollati e sfruttati”, si spiegò, tenendomi per mano e cominciando
di nuovo a camminare, “quindi pensavo a qualcosa di più romantico, di più tranquillo,
e anche di più nuovo”.
Annuii.
“Hai ragione”.
Solo che, più camminavamo, e più notavamo quanta gente fosse
presente anche in quella località. L’affollamento eccessivo restava una delle
piaghe più diffuse di tutta la riviera romagnola, come ben sapevano tutti, però
in fondo era anche vero che non si poteva paragonare quello di Cervia ad altri
contesti molto più caotici.
“Vuoi scegliere tu il bagno in cui andare, o lo faccio io? Fa
caldo, non vorrei passeggiare in eterno”, disse, dopo un po’ che continuavamo a
camminare sul lungomare.
“Hai qualche idea?”, gli chiesi, d’altronde per me scegliere
equivaleva a farlo a caso.
“Be’, c’è un mio buon amico e vecchio compagno di studi che
ora si gode la pensione facendo il bagnino assieme ai figli, qui poco distante.
Cosa ne dici?”.
“Mi sta bene. Un bagno vale l’altro, per me”, acconsentii.
Allora, mi accompagnò prontamente verso uno degli appositi locali
organizzati tra il lungomare e la spiaggia vera e propria. Nel locale faceva
caldo, era tutto aperto e il vento rovente proveniente dalla piaggia già
infuocata entrava con prepotenza al suo interno, mozzando il respiro, mentre
dietro al piccolo bancone, tuttavia molto colorato e di bella presenza, c’era
posizionato un uomo anziano.
“Buongiorno, Mauro!”, salutò subito George, senza aspettare
che il soggetto in questione lo focalizzasse e lo riconoscesse. Infatti,
l’anziano lo riconobbe solo dopo che l’ebbe salutato, giacché direzionò i suoi
occhi verso di noi e ci osservò.
“Piergiorgio! Oh, dottore, qual buon vento!”, salutò a sua
volta Mauro, abbastanza euforico.
Passò lo strofinaccio che aveva tra le mani a un ragazzotto
che gli era a fianco, e si fiondò verso di noi. I due si incontrarono e si
scambiarono qualche piccolo convenevole e un paio di sonore pacche sulla
schiena, molto amichevoli, il tutto mentre io li osservavo in silenzio, ma divertita.
Ogni volta che il mio George si presentava al cospetto di una
persona che l’aveva conosciuto, era sempre ben accolto, e con grande calore.
Sicuramente era molto benvoluto.
“Sei dottore anche tu, anche se in pensione”, precisò il mio
amante, dopo aver affrontato il primo e gioioso impatto.
“Non sono mai stato bravo quanto te, George, mi dispiace. Non
ho mai avuto l’animo da medico”, sancì l’amico, con un pizzico di amarezza.
“Ma no, te la sei sempre saputa cavare, e questo è
l’importante”, volle rassicurarlo dolcemente il suo interlocutore.
Mauro era un uomo completamente calvo, il viso era scuro, la
pelle tirata tipica delle persone che, durante l’estate, trascorrevano molte
ore all’aria aperta. Era molto più vissuto del mio fidanzato, e appariva
decisamente più vecchio e raggrinzito. Non avevo idea se avesse proprio la
medesima età del mio uomo, tuttavia dimostrava dieci anni in più, almeno,
nonostante sembrasse che l’animo fosse ancora gioviale e arzillo, molto più del
fisico.
“Non mi aspettavo una tua visita, mio caro amico. Devo
proprio ammettere che non ti credevo più un tipo da mare!”, propose un po’
d’ironia, facendo sorridere il mio George.
“Oh, come puoi vedere sono in grande forma. Ultimamente sono
successe un bel po’ di cose nella mia vita, che mi hanno ritirato su il morale,
il giusto per permettermi una capatina al mare”, disse il mio uomo, molto
tranquillo e sorridente.
“E questa ragazza che ti accompagna chi è? È con te?”, chiese
Mauro, occhieggiando poi verso di me, finora sempre in disparte.
Piergiorgio non mi diede tempo di rispondere, volle infatti
presentarmi lui.
“Oh, lei è Isabella, la mia… la mia fidanzata”.
Aveva cercato di spiegarsi nel modo più chiaro possibile, e
cercò il mio sguardo, dopo aver offerto la sua spiegazione sincera. Mauro mi
osservò con vivo interesse, e nei suoi occhi parve risplendere una luce
intensa, di profondo divertimento.
“La tua fidanzata?”, tornò a domandare, per un attimo in modo
un po’ titubante, probabilmente nel timore di non aver capito bene.
“Certo, è la mia ragazza, per dirla come i ragazzi di oggi.
Ci sposeremo a breve…”.
Mauro non lo lasciò concludere.
“Complimenti, congratulazioni”, si prodigò subito,
allungandomi una mano e stringendomela nella sua, callosa. “Non sapevo, vecchio
mio, che tu avessi un interesse così profondo per le belle ragazze, e giovani,
anche”, proseguì poi l’uomo, dopo aver sciolto la brevissima stretta, tornando
a rivolgersi all’amico in tono scanzonato. George, naturalmente, la prese sul
ridere.
“Ho sempre avuto buoni gusti. La mia povera moglie era una
donna di casa fantastica, anche se tra noi mancava la passione. Isabella invece
è per me vita, gioia… tutto! È il mio sole”, affermò senza tentennamenti,
allungandosi poi a baciarmi, senza pudore.
Mi fece arrossire quel suo atteggiamento così disinvolto. Ci
scambiammo comunque sono un rapidissimo bacio casto sulle labbra.
“Immagino, sembra proprio una bravissima ragazza”, disse a
sua volta Mauro, poi abbassò improvvisamente la voce, per proseguire. “Ma non
sarà un pochino troppo giovane per te?”.
Ammiccò a entrambi.
“A me George piace da impazzire. Non è troppo vecchio…”,
intervenni per la prima volta.
“Mah, insomma! Mi fa sempre fare delle faticacce, a letto. Ma
ne vale la pena, eh!”, si schernì ironicamente, suscitando in Mauro una risata
gioviale, che risuonò in tutto il piccolo locale.
Io ero un pochino imbarazzata, poiché se da una parte notavo
come il mio amore si sciogliesse molto con i suoi conoscenti, dall’altra a
volte la sua ironia su di me aveva l’effetto contrario a quello voluto.
Comunque, si trattava di rarissimi casi, per fortuna.
“Signorina, non vorrei metterla in imbarazzo, questo mai”,
aggiunse Mauro, quella volta rivolgendosi a me con gentilezza, cancellando ogni
espressione di divertimento dal proprio volto, “però vorrei dirle solo che ha
scelto molto bene. Il mio amico qui presente è una persona fantastica”.
“Lo so, me ne sono accorto. Mi dia pure del tu, eh”,
acconsentii, sorridendogli e sciogliendomi. Era un uomo astuto, come lo erano
generalmente tutti gli amici del mio George, o perlomeno quelli che mi erano
stati presentati fino a quel momento, quindi sapeva quando era ora di smetterla
di scherzare.
“Ti ringrazio, Isabella”, mi strizzò l’occhio, “lo stesso
vale per te”.
“Grazie”, ringraziai, gentilmente.
“Un ombrellone e due lettini li hai ancora?”, intervenne il
mio George, con la giusta puntualità. D’altronde, quello era proprio il nostro
obiettivo, e più i minuti passavano, più la spiaggia si riempiva di bagnanti,
serviti e accomodati dai ragazzi del bagno.
“Oh, sai, sono pieno! Guarda là!”, sbottò l’altro, tornando
poi a ridere, dopo aver allargato le braccia per mostrarci la distesa di
ombrelloni che si estendeva a pochi passi da noi, fin quasi alla battigia.
“Non fare lo sciocco”, quasi lo rimproverò il mio amante,
bonario, “intendevo un ombrellone e due lettini ancora liberi”.
“Per te e la tua dolce metà, ci sarà sempre posto. Prime
file, o verso il lungomare?”.
“Tu che ne pensi, Isa?”.
Scrollai le spalle.
“E’ indifferente, per me”.
“Verso le prime file, se puoi. Così sentiamo anche un po’ di
brezza dal mare, per non soffocare con quest’afa dannosa”, decise allora
George, molto risoluto.
“Va bene, ti faccio immediatamente accompagnare dai ragazzi.
Massimo!”, urlò, poi. Subito, un giovincello sulla trentina si affrettò a
raggiungerci.
“Figliolo, accompagna questo mio amico alle prime file, e aprigli
un ombrellone e due lettini”, disse Mauro.
“Certo. Seguitemi pure”, si affrettò a rispondere il giovane,
che doveva essere abituato ad obbedire al padre.
Piergiorgio ringraziò Mauro e si affrettò, assieme a me, a
raggiungere il giovane, che proseguiva spedito lungo la passerella.
“Le prime tre file le abbiamo tutte occupate, mi dispiace.
Nella quarta, c’è un ombrellone libero, se lo volete”.
“Va benissimo”, acconsentii, con George che mi riservò un’occhiatina
soddisfatta.
Ci accomodammo quindi in fretta, con il mio amore che si mise
a parlottare, per qualche minuto, con il giovane Massimo, chiedendogli se fosse
proprio il figlio di Mauro, e qualche gentile informazione su di lui.
Io ne approfittai per sistemare la mia borsa ed estrarre i
due asciugamani che mi ero preparata. Ero impacciata, non ricordavo neppure
bene come fare, quasi non mi sentivo a mio agio, eppure, per fortuna, il mio
George era sempre a mio fianco.
Liquidato poi Massimo, si dedicò totalmente a me. Stese il
suo asciugamano sullo sdraio di destra, poi si tolse i sandali e si sfilò la
maglietta. Io feci altrettanto.
Tremando, nel timore che quello che indossavo potesse non
piacergli, mi svestii, restando presto in bikini. Quando tornai a guardarlo,
notai con stupore che aveva occhi solo per me; mi stava fissando con profondo
affetto, e non solo, i suoi occhioni bonari erano pieni di passionalità.
Gli sorrisi blandamente, prima di accasciarmi sul mio sdraio.
Mi sembrava di sentirmi disturbata dalla gente che mi circondava, come se, dopo
tanto tempo che non mi ero recata in una spiaggia affollata, fossi diventata
stranamente pudica e non mi piacesse svestirmi e stare mezza nuda. Ma la
spiaggia era anche questo; era anche starsene così, a rilassarsi al calore di
sole e sabbia, con il leggero venticello fresco del mare che sfiorava la mia
pelle.
Così, in fretta, mi ritrovai a essere più a mio agio.
Piergiorgio, disteso anch’egli a pochi passi da me, si era
messo gli occhiali da sole, senza però togliersi i calzoncini.
“Sei troppo giovanile, oggi”, volli interrompere il breve
momento di silenzio che ci aveva caratterizzati fin da quando ci avevano
accompagnato all’ombrellone.
“Devo stare al fianco di una tale bellezza… non posso
permettermi altro”, disse.
Si tolse gli occhiali da sole e tornò seduto; poi, allungò
una mano verso di me, e incurante di tutto, allungò una mano ed accarezzò le
mie gambe, facendomi provare un brivido di piacere.
“E pensare che temevo di non piacerti, vestita così”.
“Oh, invece mi piaci un sacco!”, esclamò.
“Ma toglimi una curiosità; perché temevi di non piacermi?”,
chiese.
“Perché… non lo so!”, sbottai, riconoscendo che a volte mi
facevo fin troppi problemi. E che poi, d’altronde, in spiaggia ci si doveva
andare vestiti così.
“Oh…”, mormorò, “idee confuse anche a riguardo di questa
questione?”, sogghignò, sempre con bonarietà.
“Eh, sì”, fui costretta ad ammettere, sorridendogli con fare
ingenuo.
“Allora, ho una bell’idea… e se andassimo in acqua a
rinfrescarci, così proviamo a chiarirle?”.
Quasi saltai in piedi, dalla gioia.
“Ma certo! Andiamo, se vuoi”, acconsentii, tutta contenta.
Piergiorgio allora mi prese per mano, con delicatezza.
“Andiamo”, ammiccò, e mi lasciai portare fino alla distesa
d’acqua dal mio amore, con l’Adriatico piatto e calmo che sembrava attendere
solo di poterci cingere con le sue acque limpide.
NOTA DELL’AUTORE
Altro tributo a Cervia. Chi mi segue da tempo ben saprà che
durante tutta la mia “attività” da scrittore amatoriale ho inserito parecchie
volte questa città nei miei raccontini.
Non vivo a Cervia ma lì ho trascorso tanti momenti brutti, e
anche qualcuno di bello e sereno… sì, devo dire che la porto comunque nel
cuore. Nonostante tutto.
Grazie per continuare a seguirmi.
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Capitolo 39 *** Capitolo trentanove ***
Capitolo trentanove
CAPITOLO TRENTANOVE
Entrammo in acqua assieme, quand’anche essa fosse già
parecchio affollata. Attorno a noi, schiere di bambini sguazzavano nel basso
paciugo della bassa marea, strana a quell’ora del giorno, con gli adulti che li
osservavano e chiacchieravano tra loro.
Qualche passo più avanti, dove il mare non si accontentava
delle caviglie e delle ginocchia, e si approssimava a sfiorare il basso ventre,
l’acqua si fece più fredda, ma molto più limpida. Lì c’erano tanti ragazzi che
si divertivano a giocavano a pallavolo, svagandosi. Molti di loro, osservandoli
bene, mostravano più o meno la mia età.
Per qualche istante, mi domandai in modo spontaneo perché non
fossi come loro. Che avesse avuto ragione Marco, quando mi rimproverava di
essere una giovane che pensava troppo da adulta e che si era rovinata
l’esistenza da sola, mettendo troppi paletti?
Cercai di deviare e di allontanare immediatamente
quell’interrogativo, eppure esso mi rese triste. Infinitamente triste.
Mentre percepivo la frescura intensa dell’acqua che
cominciava a lambirmi il girovita, continuai a guardare i ragazzi che si
divertivano, con una innaturale attrazione, come se qualcosa dentro di me si
fosse risvegliato all’improvviso. Qualcosa che avevo sempre cercato di
reprimere negli ultimi anni.
Avvertivo che, da quel giorno, qualcosa in me sarebbe
cambiato.
Mentre essi si svagavano e si divertivano, alcune giovani
coppie giocavano assieme, o se ne restavano assorte a baciarsi, o a
contemplarsi con amore. Io avevo giovamento da quella situazione così
affollata, dove ciascuno pareva concentrato solo sui suoi interessi e pareva
non degnare uno sguardo alla miriade di persone che erano tutt’attorno. Nessuno
osservava me e il mio George, quella coppia così strana che stava avanzando
sempre più, nel tacito tentativo di lasciarsi alle spalle la moltitudine della
folla, per trovare uno spazio tranquillo che fosse interamente per noi.
Il mio innamorato mi strinse con più forza la mano, giacché
ancora eravamo uniti, anche se avevo involontariamente allentato la stretta
mentre osservavo i ragazzi, e mi riscosse all’improvviso dai miei pensieri.
“Sai nuotare, Isa?”, mi chiese, con accortezza.
“Un po’, un po’ sì”, lo rassicurai.
Piano, mi sentii pronta per provare ad immergermi, e
reprimendo i brividi freddi che percuotevano il mio corpo, mi bagnai
gradualmente, anche se con leggera fretta. Poi, senza attendere altro, mi
immersi definitivamente, e provai a nuotare, cosa che mi riuscì di nuovo
naturale nonostante fossero anni che non avevo più messo in pratica tale
sequenza di gesti.
“Brava!”, esclamò George, mentre mi osservava. Aveva parlato
con soddisfazione, ed ero fiera di averlo colpito positivamente, così il
sorriso tornò a risplendere sulle mie labbra non appena smisi di nuotare.
Mi avvicinai a lui di nuovo, restando però immersa; quel che
non sapeva era che volevo tendergli un giocoso agguato. Piergiorgio osservò il
mio avvicinamento con le sopracciglia aggrottate, a esprimere la sua
perplessità.
“Mi sembri un coccodrillo”, disse, infatti, ma solo un attimo
prima che lo schizzassi.
“Ah!”, quasi gridò, quando il suo petto fu centrato da un
potente fiotto d’acqua salata.
“Ma che… ah! Avrei dovuto capirlo!”, rise, all’improvviso, ed
io con lui. Ci eravamo già spinti abbastanza avanti, e se la bassa marea ci
aveva permesso di allontanarci più del dovuto dalla spiaggia, ciò ci aveva
donato una maggior intimità, poiché il resto dei bagnanti era quasi totalmente
ammassata in zone più vicine alla battigia. Davanti a noi, c’era solo il mare
aperto.
Il mio George a quel punto si immerse a sua volta, ma non
nuotò; si avvicinò a me così, sott’acqua, con solo la testa fuori da essa, e
non si fermò finché non riuscì a stringermi tra le braccia. Io ancora me la
stavo ridendo per poco prima, però mi lasciai stringere.
“Non ridere così! Ridi di un povero vecchio…”.
Era stato ironico, eppure io lo rimproverai schizzandolo di
nuovo, seppur con maggior leggerezza. Di conseguenza, gli bagnai il viso.
“Non sei un vecchio, non voglio ripetertelo più”, sancii,
infine, e con serietà. Lui rimase sereno, e continuò a sorridermi, nonostante
tutto. Neppure provò a scrollar via le goccioline d’acqua che imperlavano la
sua fronte e il suo viso.
“Non puoi fingere che io sia giovane, sarebbe una tua errata
ricostruzione mentale. Non voglio che tu viva di fantasia”, tornò alla carica,
però sempre con pacatezza.
“Senti George, io ti amo così come sei. Il resto non ha
importanza”.
Lo strinsi a mia volta, e lasciai che fossero i miei
capezzoli, ormai turgidi, ad appoggiarsi contro il suo petto sommerso.
Con un impeto vorace, le sue mani si mossero verso il mio
costume, e mi abbassarono il reggiseno, affinché potessero scorrere sui miei
seni. Lo lasciai fare, tornando a ridere e non nascondendo affatto una discreta
approvazione per quel rapido gesto, che stavo a mia volta gradendo.
“Ti amo”, tornò a ripetermi, come faceva ogni volta nei
momenti che anticipavano la nostra unione fisica.
Mi attrasse ancora più a lui, poi percepii che stava cercando
di paciugare con i suoi pantaloncini, per abbassarli, molto probabilmente.
“Ah, no!”, esclamai, provando a fermare le sue mani. “Qui potrebbero
esserci delle meduse”, gli spiegai poi, quando i suoi occhi erano ormai
totalmente miei.
Ero ironica, e il mio George parve apprezzare, siccome si
lasciò sfuggire una risata cristallina e profonda, di quelle che non udivo da
un bel po’, essendo così libera, così lontana dalle classiche risate che la
gente voleva sentire… non era stata controllata, era apparsa così genuina e
spontanea, nella sua naturale potenza, che fece ridere anche me.
“Non temo le meduse!”, affermò a sua volta, placandosi, per
poi tornare a completare l’opera.
Io non attesi altro, e a mia volta abbassai le mutandine;
eravamo due corpi sincronizzati, già pronti a quello che stava per accadere,
anche se si trattava di una situazione davvero nuova per noi. A me, almeno, non
era mai capitato di far l’amore nell’acqua del mare. Ci provammo comunque.
George entrò dentro me, dopo che i nostri corpi erano tornati
ad avvicinarsi, poi mi avvinghiò con ancora più forza, stringendo i denti come
se ce la stesse mettendo davvero tutta. Gli passai le braccia attorno al collo,
e quando mi afferrò all’altezza delle natiche, sollevandomi grazie all’aiuto
dell’acqua, avvolsi anche le mie gambe attorno a lui.
Divaricò le sue e mi tenne così, strettissima a lui e
sollevata leggermente dal fondale, mentre piano e lentamente cominciava a
spingere. Eravamo così soli, noi due e il mare piatto; chi se ne importava se a
una ventina di metri c’erano tanti altri bagnanti che si stavano divertendo? Io
e George eravamo così presi l’uno dall’altra così come le altre persone in
acqua erano attente ai loro rispettivi svaghi.
Era da qualche giorno che non univamo i nostri corpi, quindi
immaginavo che il mio amante non avrebbe tardato molto a raggiungere il coito,
anche se cercò in tutti i modi di prolungare il rapporto.
Infine, sempre nel tentativo di non giungere subito al
piacere, tentava di tanto in tanto di fermarsi, d’altronde non eravamo neppure
in una posizione comoda, seppur eccitante, e ci provò finché ci riuscì.
A un certo punto cominciò a baciarmi, ma dopo poco distaccò
le sue labbra dalle mie e le spinse sul mio collo, che inarcai con piacere,
lasciando che le sue labbra sfiorassero la mia candida pelle.
“Ah, se fossi stato più giovane”, ringhiò, improvvisamente.
Il suo tono di voce era così profondo e turbato che mi fece sospettare che si
stesse recriminando qualcosa.
M’aggrappai di più al suo corpo, percependo un ulteriore
calore dentro di me, e senza comprendere che forse a mia volta gli stavo facendo
male. Eppure, George divenne implacabile; spinse fintanto che poté, con
un’enfasi che mi aveva riservato scarse volte, soprattutto quelle che riteneva
più passionali e in cui il suo desiderio era alle stelle.
Mi mordicchiò il collo, continuando a mugugnare parole che
non capivo, probabilmente rivolte a sé stesso, non ne avevo idea, e l’acqua
attorno a noi fremeva quasi stessimo diventando un’unica cosa, nel complesso di
quell’amplesso così pieno di passione.
Tutto si concluse molto in fretta, anche se qualche istante
di estremo piacere ci fu donato, ed io mi lasciai andare alle acque,
rilassandomi così tanto che mi sentivo venire a galla, quasi fossi morta.
“Se fossi stato più giovane, ti avrei portato anche in
braccio… ovunque… ovunque…”, furono le sue ultime estatiche parole, pronunciate
ad alta voce, prima di tacere anch’egli, e di lasciarsi finalmente andare. Era
finita, lo era per davvero.
I nostri due corpi sciolsero la stretta che li univa in modo
molto naturale e spontaneo, così che ci trovammo presto di nuovo divisi.
Passata anche l’ultima e più remota sensazione di piacere, mi affrettai a
tornare sulla terra e a risistemarmi per bene il mio bikini.
“Copriti, che ci sono le meduse”, dissi a George, quando
ancora aveva gli occhi socchiusi e la pelle del viso tirata, a formare una vera
e propria maschera di godimento.
“Sei fissata con questo cavolo di meduse”, ne rise lui,
tornando a sua volta a concentrarsi sul mondo di cui facevamo parte. Ora che il
desiderio era stato finalmente soddisfatto, e con lui anche l’istinto, non
avevamo più nulla da continuare a mascherare, anzi, non avevamo neanche più
voglia di baciarsi o di coccolarci. Era quella la triste situazione che ci
avvolgeva durante i primi minuti dopo l’amplesso.
“Ma sono urticanti”, rabbrividii, cercando di smettere di
pensare a noi due, per concentrami effettivamente sulla probabilità che attorno
a me ci fossero di quelle creature odiose. Avevo sempre detestato le meduse,
fin da quando, ancora bambina, una di esse mi aveva procurato un buon numero di
pizzicotti dolorosi in un polpaccio.
Svanita la voglia di stare un po’ sola con il mio George, con
l’istinto assopito, stare in acqua improvvisamente non mi parve più l’idea
migliore.
“Non pensare alle meduse, pensa a noi due”, disse però
Piergiorgio, con un tono di voce dolce e romantico. Ah! Lo adoravo quando
faceva così.
“Non ho niente da pensare, a riguardo di noi”, sancii, rilassata,
e cercando di schizzarlo di nuovo. Si riparò il viso con le mani prima che
riuscissi nel mio losco e infantile intento.
“Solo che… ecco, me lo ero meritato”, proseguii, giocosa e
tranquilla.
“Cosa?”.
“Tutto questo. Insomma, sono salita sul tuo…”, risi, prima di
dirlo, “…motociclo, e…”.
Mi bloccai, perché sembrava avesse qualcosa da dire e che non
riuscisse più a trattenerlo.
“Ciclomotore”, mi corresse, infatti appena gli concessi il
tempo utile a farlo.
“Che bacchettone che sei, eh!”, lo rimproverai,
scherzosamente, mentre allargavo le braccia in acqua.
“Comunque, ti stavo dicendo che me lo sono meritato, questo
nostro… rapporto. Ho fatto la brava e ci sono salita sulla tua moto”.
“Be’, sì, è stato un premio per te, e una felicità mia molto
speciale, come ogni volta”, sghignazzò George. Affondò anche lui nell’acqua e
si mosse verso di me, le braccia allargate e solo la testa a essere baciata dal
sole rovente.
“Adesso puoi dirmi la verità, allora. Hai suggerito di andare
in acqua solo per questo, vero?”, gli chiesi, maliziosa.
George annuì con il capo e non disse nulla a sua discolpa.
“Sei terribile”, esclamai, tornando a ridere. Poi, feci
riemergere la mia mano destra dall’acqua e gliela passai tra i capelli. Adorai
l’attrito che si formò all’istante tra il mio arto umido e la sua capigliatura
ancora asciutta.
Piergiorgio si ritrasse e cercò immediatamente di
interrompere il contatto.
“Anche tu sei terribile!”, ribadì a sua volta, però con un
pizzico di irritazione, mentre si liberava della mia mano e scrollava la testa.
“Non ti sarai mica arrabbiato per così poco”, tornai a
redarguirlo.
“A te è tutto concesso, mia cara”, disse, per poi allungarsi
verso di me e schizzarmi a sua volta.
Ridemmo e cominciammo una lotta piuttosto fanciullesca, ma
che ci seppe intrattenere e divertire per un po’, fin quando, sfiniti e
stanchi, ci prendemmo mano nella mano e la smettemmo di dar sfogo al nostro
lato più bambinesco, bagnati completamente. Entrambe le chiome erano impregnate
d’acqua salata.
Ci eravamo tuttavia divertiti molto, anche se non riuscimmo
ad esprimere la nostra felicità a parole, comunque il nostro amore sembrava
essersi consolidato ancor di più e al mio George non risparmiai tutti i bacetti
che riuscii a dargli. Un’esplosione di passione. Avevo la certezza, in quel
momento più che mai, che lui era l’uomo perfetto per me, quello con cui avrei tanto
voluto trascorrere un’infinità di altre giornate, perché non ci si annoiava mai
in sua compagnia.
La sua passionalità e il suo modo di affrontare la realtà mi
piacevano, così ben dosate. Ero davvero pronta a sposarlo e a convogliare a
nozze con lui.
Passammo la restante mattinata in santissima pace. Ero lieta
di quella giornata che si stava rivelando davvero molto rilassante, poiché
restare distesa sotto l’ombrellone era tutt’altra cosa che sgobbare e servire
continuamente degli assetati clienti in un locale dove, nonostante l’aria
condizionata, la temperatura restava sempre fastidiosa.
Il sole splendeva in cielo ed era implacabile, e con l’arsura
e il caldo dell’anticiclone africano anche il mio George si era lasciato andare
al sole, ad asciugare i suoi pantaloncini e a scaldarsi dopo la sguazzata
rinfrescante e vivace. Eravamo davvero tranquilli.
Attorno a noi regnò il trambusto totale almeno fin quando le
temperature si fecero davvero infernali, quindi le famiglie con i bambini si
dileguarono, e tanti altri si recarono a pranzare in qualche locale, o al
ristorantino del bagno.
Alla fine, verso le quattordici, anche noi andammo a mangiare
un’insalata di mare, molto leggera ma sostanziosa. I nostri vicini di tavolo
erano dei ragazzi che avevo notato anche quella mattina in acqua, mentre
giocavano a pallavolo e si divertivano, però cercai di non incrociare i loro
sguardi, chissà perché.
Piergiorgio mi strinse la mano sul tavolo, a un certo punto,
ed io ricambiai la sua stretta, forse notando che per via del caldo stavo
arrossendo molto, quindi era preferibile far presto ritorno al nostro
ombrellone, sempre avvolto dalla frescura della leggera brezza marina, fedele
compagna delle prime file.
Ci separammo solo a fine pranzo, quando George scelse di
restare a fare una partita a carte con i suoi amici, che nel frattempo si erano
radunati attorno a Mauro, all’ombra e al fresco del suo piccolo locale.
Preferii non restare con lui, tra quelle persone già di una certa età che non
mi infondevano la stessa fiducia del mio uomo, che amavo ciecamente.
Mentre percorrevo l’infuocata passerella, mi chiesi ancora
cosa mi avesse spinto a innamorarmi di una persona che, in confronto a me, era
così matura… così diversa. La risposta che mi davo, in maniera spontanea, era sempre
la stessa; il mio Piergiorgio era una persona unica, che non aveva paragoni.
La mia attrazione nei suoi confronti andava al di là dell’età
o di tutto ciò che gli altri potevano notare a bruciapelo, senza neanche
conoscerlo.
Una volta tornata sotto all’ombrellone, mi accasciai quasi
sul mio lettino e mi lasciai di nuovo andare. Mi appisolai quindi in fretta.
A farmi uscire dal mio torpore fu un qualcosa che mi colpì a
tradimento, alla schiena. L’urto, seppur lieve, mi fece sobbalzare e quasi
gridare, e credendo in un primissimo istante che si trattasse di un qualche
scherzetto che mi aveva preparato George, mi volsi immediatamente verso il suo
lettino, ma il mio amante non c’era da nessuna parte. Neanche attorno a me.
Quando il mio cuore si calmò e individuai la causa di quel
momento in cui mi ero ritrovata piuttosto spaesata, ovvero un pallone rosso
tutto insabbiato che giaceva a pochi passi dal mio sdraio, e che mi aveva
inflitto una chiazza di sabbia umida nel punto in cui mi aveva colpito.
Ero molto irritata, a spavento ormai dissipato, e cominciai a
guardarmi attorno con maggior nervosismo e con gli occhi socchiusi, al fine di
non venire accecata dal sole battente. A un tratto, giunse di corsa un ragazzo,
tutto trafelato e sudato, che fece subito cenno di scuse con le mani. Riconobbi
che era uno di quelli che, un’ora prima circa, avevano pranzato a pochi passi
da noi.
“Mi dispiace, scusami tanto”, esordì, notando com’era andato
a concludersi un suo ipotetico lancio. Il fatto che era stato molto educato e
che avesse impressa nel viso un’espressione davvero risentita mi spinse ad
essere accondiscendente con lui, anche quando fino ad un solo secondo prima
avrei desiderato sbranarlo.
“Va bene, non fa nulla”, lo rassicurai, rasserenandomi. Si
trattava di una cosa che in spiaggia poteva capitare, d’altronde, e non valeva
la pena prendersela così tanto.
“E’ stato un errore, scusami ancora”, proseguì nelle sue
scuse, poi mi diede le spalle e fece per andarsene.
“Certo che sei proprio fissato con il pallone, a giocare
anche a quest’ora e con questo caldo”, gli dissi, quando probabilmente lui non
si aspettava più alcuna mia reazione. Si tornò a volgere verso di me con un
mezzo sorriso appena abbozzato sulle labbra.
“Io e i miei amici non ci fermiamo mai, veniamo al mare solo
per giocare a pallavolo”, esclamò, divertito.
“A proposito, ti va di venire a fare una partitella? Siamo
dispari, infatti facciamo fatica a formare le squadre e a giocare”, azzardò,
poi.
Lo guardai; il giovane che mi sovrastava era sicuramente una
persona molto gradevole d’aspetto, di quei ragazzi che attirano l’attenzione.
Sorriso splendente, volto rotondeggiante e ben fatto, i capelli castano tenuti
corti grazie ad un taglio normale, e non strambo come quelli che andavano tanto
di moda, e un fisico da urlo, proprio. Era muscolo abbastanza, e pareva si
trattasse di uno di quelli che non salterebbe mai l’appuntamento quotidiano
presso la palestra alla quale si è abbonato.
Sotto quell’aspetto doveva essere molto simile a Marco, anche
se il mio ex era indubbiamente molto meno muscoloso.
La tartaruga del ragazzo che avevo di fronte pareva flettersi
al ritmo del respiro, ed anche il suo modo di proporsi era abbastanza
apprezzabile. Lo osservai per qualche attimo, senza pensarci troppo, poi annuii
con la testa.
“Va bene”, gli dissi, “ma non sono tanto brava a pallavolo…”.
“Non devi preoccuparti, anche noi non siamo dei campioni. Ma
l’importante è divertirsi”, sancì il giovane, felice di aver ottenuto il mio assenso.
Mi alzai in piedi sulla spiaggia rovente, e quasi sussultai.
Quel contatto brusco mi fece riportare alla mente che anche il mio George era
nei paraggi… e se tornando sotto l’ombrellone non mi avesse trovato? Smisi di
farmi problemi inutili, quasi, poiché anche lui mi aveva lasciato per
restarsene a giocare con i suoi amici, quindi se anche io me la sarei spassata
un po’ non avrei fatto torto a nessuno.
Raggiunsi il giovane e ci dirigemmo verso gli altri ragazzi,
che ci guardavano e sembravano in attesa. Erano quattro, in totale.
“Cominciavamo a pensare che il pallone fosse finito su Marte”,
borbottò infastidita una ragazza, molto abbronzata e con in testa una bandana
rossa.
“Oh, invece era andato a rimorchiare!”, sghignazzò un altro,
subito messo a tacere da una pacca potente del giovane che mi aveva condotto
fin lì.
“Non dire stronzate, Mirco”, lo redarguì, non troppo
severamente. Poi si volse verso di me.
“Ops, non mi sono ancora presentato. Piacere, io sono
Riccardo, e questi sono i miei fantomatici amici”, si presentò, sempre
sorridente. Sorrisi a mia volta.
“Io mi chiamo Isabella, piacere di conoscervi”.
Nessuno disse altro.
“Be’, il pallone ha colpito la sua schiena mentre stava
facendo un sonnellino, e quando ho visto che era una ragazza come noi… l’ho
invitata qui, a farsi una partitella”, si spiegò Riccardo, cercando di fare in
modo che il primo e silenzioso impatto non influenzasse troppo pesantemente la
situazione.
“Hai fatto bene”, si espresse infine la ragazza con la
bandana, afferrando il pallone e dando due colpetti con il palmo delle mani sul
suo rivestimento di plastica, ben rigonfia.
“Già, almeno adesso siamo in sei e possiamo divertirci di
più”, ribadì un altro giovane, che non aveva ancora detto nulla.
Il denominatore comune di quella piccola comitiva di miei
coetanei era che tutti erano molto abbronzati, avevano corpi da urlo ed erano
anche tutti imperlati di sudore e chiazzati di sabbia.
Nel complesso, nonostante fossero stati un po’ freddi con me
fino a quel momento, mi stavano già un po’ simpatici.
“Comunque, io mi chiamo Ilaria. Piacere di conoscerti”, si
presentò a sua volta la ragazza con la bandana e i capelli raccolti a coda di
cavallo.
“Io Federico”, disse l’altro ragazzo che non si era ancora presentato.
“Io, invece, Marta. Molto piacere”, si espresse con maggior
formalità l’altra ragazza che non mi aveva ancora mai parlato.
Presto si erano presentati tutti tranne Mirco, ma ormai già
sapevo come si chiamava, grazie all’intervento precedente di Riccardo. Era
anche il ragazzo, nel gruppo, che mi appariva più strano; aveva numerosi
tatuaggi sul corpo e un paio di luccicanti piercing alle labbra.
Mentre gli altri si erano presentati, lui non aveva fatto
altro che salterellare sulla sabbia calda, tanto da farla sembrare
incandescente. Tutto questo senza mai rivolgermi uno sguardo. Appariva
fortemente sicuro di sé, ed era il classico esempio di giovane uomo che tanto
avrei desiderato evitare.
Ricambiai quindi il suo scarso interesse, e dopo aver sorriso
agli altri, mi mostrai propositiva chiedendo loro se avevano ancora intenzione
di giocare, nonostante il caldo. Ilaria mi rivolse un’occhiata incuriosita.
“Sei una novellina dello sport? Altrimenti, dovresti sapere
che si gioca in ogni condizione climatica”, fece la puntigliosa.
“Ma dai, Ila! Ha ragione, ci saranno quaranta gradi
all’ombra… possiamo almeno fermarci durante le ore più calde della giornata.
Che poi, manco fossimo atleti che si devono preparare per la prossima edizione
delle Olimpiadi…”, intervenne Riccardo, bonario.
“Siamo venuti al mare apposta”, intervenne a sua volta Marta,
con una vocina molto stridula, “perché c’è la brezza e anche quando in tutta la
pianura si crepa, qui si può far movimento e divertirsi”.
“La nostra nuova amica però potrebbe non essere d’accordo…”,
provò gentilmente a dire la sua anche Federico, molto pacato. Tutti mi
fissarono in un solo istante, tranne Mirco, naturalmente, che aveva lo sguardo
perso chissà dove.
Io, da parte mia, non volevo deluderli; erano stati tanto
gentili ad accogliermi e a presentarsi, che non volevo assolutamente fare la
palla al piede, invece che l’educata persona sociale, disposta a sacrificare
anche qualcosa di sé per il bene della collettività.
“Per me non c’è problema, io mi ero espressa così… solo per
aver chiare le cose”, affermai, sforzandomi di tornare a sorridere e di
dimostrarmi a mio agio, come lo erano tutti loro.
Furono felici e soddisfatti della mia risposta. Ilaria tornò
a colpire il pallone con il palmo della mano destra, reggendolo con la
sinistra, mentre gli altri formavano due squadrette. Io finii con Riccardo a
Federico, mentre Ilaria e Marta avrebbero giocato assieme a Mirco.
“Non sono tanto brava, eh, lo ammetto pubblicamente”, dissi,
come scusante, poco prima della battuta di Ilaria.
Mi rassicurarono di nuovo, dicendomi che non c’era problema,
e che l’importante era divertirsi. La verità era che ero davvero una schiappa,
molto deludente, e feci proprio una pessima figura; erano anni che non giocavo
a pallavolo, quindi feci davvero molta fatica a mantenere il ritmo degli altri
ragazzi, ma almeno ci provai.
Per mia fortuna, ero affiancata da due ragazzoni che non
sbagliavano quasi mai, e ben presto mi ritrovai ad approfittarne abbastanza
della loro bravura e del loro talento, frutto indubbiamente di tante partite e
di un buon allenamento. Mi dimostrai quindi la più scarsa di tutti, ma comunque
non mi dispiacque, poiché ci divertimmo tutti tantissimo, e ci furono occasioni
per ridere e per scherzare.
Dopo un’ora e mezzo di gioco, però, l’intera comitiva si
ritrovò a boccheggiare, e notai finalmente che non ero l’unica a soffrire
quella situazione estrema. Tra l’altro, cominciava anche a girarmi un po’ la
testa, fustigata dal sole implacabile di metà giornata.
“Ragazze, che facciamo? Vedo che siamo sfiniti!”, eruppe
Riccardo, quando parve ormai chiaro che non ce la facevamo più. Spesso i
palloni andavano a finire lontano, non erano più precisi neppure i tocchi di
Ilaria, all’inizio molto puntuali e attenti, e non si poteva andare avanti a
lungo in quella maniera.
Federico, tuttavia, si dimostrò giocoso, e afferrò il
pallone, scagliandolo poi contro Mirco.
“Che bastardo”, disse quest’ultimo, dopo esser stato centrato
in pieno petto.
“Devi stare attento”, rise l’altro, e noi ridemmo con lui.
“Come faccio a stare attento? Non vedete che la spiaggia è
piena di fica? Non posso comandare i miei occhi”, rispose il ragazzo, in un
modo volgare che mi congelò la risata bonaria sulle labbra. Ecco, in quel
momento capivo che io e lui non saremmo mai andati d’accordo.
Gli altri ragazzi tuttavia parvero gradire la bruttura, e
nessuno ci prestò troppo caso.
“Propongo di affittare un pedalò”, tornò a suggerire
Riccardo, dopo aver notato il mio breve disappunto. A quel punto il discorso di
poco prima era totalmente decaduto, e la sua idea fu accettata all’unanimità,
siccome nessun altro aveva di meglio da proporre.
Solo io non mi ero espressa a riguardo, ma non parvero
preoccuparsi di ciò; forse ero anche libera di andarmene, ma non mi andava.
Gettai uno sguardo rapido all’ombrellone mio e di George, e
notai che il mio uomo non era ancora tornato, quindi pensai che svagarmi un po’
non mi avrebbe fatto male, tanto era anche una vita che non mi lasciavo
coinvolgere in qualche avventura assieme ad altri giovani più o meno della mia
età.
Alla fine, li seguii. Mi sentivo incredibilmente carica e
desiderosa di restare con quei miei coetanei.
NOTA DELL’AUTORE
Qualche nuovo amico all’orizzonte, pare… ^^
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Capitolo 40 *** Capitolo quaranta ***
Capitolo quaranta
CAPITOLO QUARANTA
Affittammo infine due pedalò, per suddividerci, siccome
sorsero dei problemi quando provammo a richiederne solo uno. Eravamo in troppi.
Ne scegliemmo di conseguenza due di quelli dotati di scivolo,
così potevamo divertirci di più.
Da parte mia, mi limitai a seguire Riccardo; era stato lui a
volermi con loro, quindi era diventato un mio principale punto di riferimento,
fintanto che non conoscevo tanto bene gli altri ragazzi.
Con noi salì Ilaria, che però si spaparanzò sulla seggiolina
di plastica abbozzata a fianco dello scivolo blu.
Fummo quindi obbligati, per forza di cose, a prendere i posti
di comando.
Gli altri tre ragazzi, nel frattempo, avevano già liberato il
loro mezzo dall’ormeggio, e grazie alle possenti spinte di Federico e Mirco,
stavano prendendo subito il largo. Riccardo finì di sciogliere il possente nodo
che teneva ferma la nostra imbarcazione, e si posizionò subito al mio fianco
sinistro, appoggiando immediatamente i piedi sui pedali.
Mi rivolse poi un veloce sguardo complice.
“Non vorrai che quei tre pezzi di merda ci tengano al largo,
vero?”, mi fece l’occhiolino, scherzoso, mentre Marta ci provocava facendoci un
simpatico terzo dito. Il loro pedalò sembrava che stesse planando sull’acqua,
dal tanto che era partito a razzo.
“Direi proprio di no”, sancii, senza ombra di indugio. Non
avrei mai voluto mettermi ai pedali, ma siccome non avevo il coraggio di
lamentarmi con Ilaria, che continuava a starsene in silenzio e semidistesa a
prendere il sole, alle nostre spalle, preferii tacere e investire tutta la mia
forza.
“Guido io”, disse il ragazzo a mio fianco, impugnando
saldamente il ferretto che fuoriusciva dallo scafo e che permetteva al natante
di cambiare direzione, “tu pensa a pedalare…”.
Non me lo feci ripetere due volte. Pedalai con vigore, e
Riccardo assieme a me, mentre tratteneva sempre in pugno quello che era
diventato per noi come un timone.
Ci gettammo sulla scia dell’altro pedalò, ormai nostro
rivale, quasi fosse un antico inseguimento navale.
“Non continueranno a lungo; presto Mirco si stancherà, e
allora resterà solo Federico a mettercela tutta”, sancì con sicurezza il mio
nuovo amico, tutto preso da quella sorta di sfida.
Presto i nostri amici giunsero alla boa che sanciva il limite
da non superare con il natante, e quindi cominciarono a fiancheggiare
l’ipotetica linea. Noi tagliammo e ci dirigemmo immediatamente verso di loro.
In lontananza, il molo sembrava stagliarsi sempre più
minaccioso verso di noi, con quella marea di vele multicolori che ondeggiavano
a ogni minimo spostamento d’aria.
Come previsto, presto Mirco abbandonò la sua postazione e
andò nel retro, parlottando e poi gridando contro Marta, che non aveva affatto
intenzione di prendere il suo posto. Quindi, il giovane si gettò a capofitto
nell’acqua, con un tuffo quasi acrobatico, e si mosse a grandi bracciate verso
di noi, nuotando in modo fluido e costante.
“Ma… cosa…”, borbottò Riccardo, notando quella sua mossa, ma
non ci fu tempo per provare a pensare ad altro, poiché il ragazzaccio tatuato
ben presto fu di fronte al nostro pedalò e ci costrinse a fermare la piccola
imbarcazione, prima di finirgli addosso.
Allentammo quindi il ritmo, poi, con il fiatone, provammo a
deviarlo. Il giovane in acqua però rise forte, e con un gesto che mi spaventò
un po’, si aggrappò con entrambe le mani alle basse sponde di acciaio che erano
posizionate ai fianchi del nostro mezzo, e si issò immediatamente su di esso.
“All’arrembaggio!”, gridò con fare animalesco, mentre ancora
tutto fradicio di acqua salmastra si ergeva in piedi sul nostro pedalò e si
avventava a raccogliere acqua con le mani unite a coppa. Il primo lancio colpì
un’impreparata Ilaria, che urlò non appena l’acqua fresca del mare venne a
contatto con la sua pelle calda ed appositamente esposta al sole.
La ragazza si rigirò su sé stessa ed inveì contro l’amico,
prima di raggomitolarsi contro di me.
“E spostati, ti do il cambio”, borbottò, un po’ nervosa.
Non ci feci caso e mi spostai, trovandomi quindi nel retro a
fronteggiare Mirco, che pareva anche un po’ spiritato e pazzo, con quei suoi
occhi grandi spalancati e dalla parvenza irosa. Sapevo che stavamo scherzando e
giocando, eppure un brivido mi percosse dalla testa ai piedi.
“Uh, la nostra nuova amica vuole bagnarsi, eh!”, tornò a
gridare, e si mosse di nuovo verso l’acqua, raccogliendone una buona manciata
nelle mani a coppa.
Interdetta, pensai di agire alla sua stessa maniera, ma ero
consapevole che non ce l’avrei mai fatta, poiché era in netto anticipo su di me
e mi avrebbe bagnata nel momento in cui sarei stata chinata. Di tornare al mio
posto neanche a discuterne; una lagnosa Ilaria l’aveva occupato, e pedalava con
noia, tanto che il nostro mezzo sembrava immobile.
All’improvviso, quello che doveva essere un gioco e un
divertimento divenne tutt’altro per me, siccome non riuscivo neanche a pensare
al trauma che mi avrebbe provocato l’acqua gelida al contatto con la pelle
calda.
Proprio quando rimasi interdetta sul da fare, consapevole
comunque di avere solo una manciata di secondi a disposizione per poter
elaborare una possibile strategia, la fortuna mi venne in soccorso, anche
perché ormai non potevo neanche più compiere alcuna scelta, giacché il tempo
scorreva via, inesorabilmente.
A materializzarsi fu infatti Riccardo, che, rapidissimo, era
salito sullo scivolo e si era lanciato giù, verso l’acqua, agguantando con
forza Mirco e trascinandolo con sé. I due lanciarono un grido belluino, quando
riemersero. Io ancora non ci credevo, ed ero rimasta alquanto pietrificata di
fronte al veloce susseguirsi degli eventi.
“Cazzo!”, urlò Mirco, sputacchiando acqua salata e
continuando a gridacchiare.
“Siete pazzi…”, riuscii a dire, da parte mia.
Sul mio viso, doveva aleggiare un qualcosa di indefinito,
poiché Riccardo, che mi stava osservando, rise forte. Lui si era preparato a
quella rapida azione, quindi non aveva subìto lo stesso effetto che invece si
stava ripercuotendo sull’amico che aveva scaraventato in mare assieme a lui.
“Cazzo ridi? A momenti mi ammazzi!”, tornò a urlare Mirco, su
tutte le furie. Se la prese con Riccardo in una maniera spaventosa, e quando
notai che cominciò a nuotare verso di lui, ebbi di nuovo paura.
Il giovane tatuato aveva un modo di fare che mi inquietava, e
se a primo impatto sembrava qualcosa di destinato a svanire, più continuavo ad
averlo attorno e più mi sentivo davvero incapace di giudicarlo. Mi sembrava che
avesse modi di fare piuttosto tendenti alla violenza e all’aggressività, che
andavano abbastanza oltre al limite imposto dal più semplice degli scherzi.
I due giovani palestrati si diedero quindi a un folle
inseguimento in acqua; Riccardo se la cavava egregiamente con il nuoto, molto
meglio dell’avversario, e presto lo seminò.
“Non allontanatevi troppo dal pedalò”, li riprese Ilaria ad
alta voce e con un po’ di noia. Lei aveva già smesso di pedalare, rimettendosi
i suoi occhialini da sole e ricominciando a stare in posa per abbronzarsi. Non
che ne avesse bisogno, era già quasi del colore di un carboncino.
Anche quel suo modo di fare mi diede piuttosto fastidio,
trovandomi quindi ben presto a dover fare i conti con un vago senso di
smarrimento. Non ero fatta per stare in mezzo a tali ragazzi, ed ero certa che
alla maggior parte di loro non stavo simpatica, ma il pensiero era ricambiato.
“Isabella, vieni a salvarmi”, gridò in lontananza Riccardo,
distogliendomi dai miei non proprio positivi sentori. Lo osservai e vidi che
stava alzando le mani, come a voler segnalare con chiarezza la sua presenza.
“In questa situazione ci sono finito per salvarti, ora tocca
a te ricambiare il favore”, proseguì, la voce divertita che mi giunse soffusa.
Sorrisi, accettando la sfida. Il giovane era riuscito a
sdrammatizzare un po’ la situazione, con Mirco che ancora annaspava in acqua
con grande nervoso, l’amico sfuggevole che sembrava imprendibile per lui, e con
Ilaria totalmente disinteressata a tutto quanto.
Piuttosto distante da noi, il pedalò degli altri due ragazzi
ancora rollava senza che nessuno se ne curasse, poiché Federico e Marta erano
sì ancora ai pedali, ma stavano ridendo, guardando gli schermi dei loro
cellulari, per i quali si sforzavano di produrre un po’ d’ombra.
Notando che ancora Mirco non si era sfogato, decisi di fare
una piccola mossa in favore di Riccardo; giustamente, dovevo in qualche modo
sdebitarmi, se così si poteva dire. Ci pensai un attimo su, e capendo che non
ero al suo livello e alle sue capacità di nuoto, probabilmente feci la scelta
più stupida che avessi mai potuto tramutare in realtà, ma purtroppo anche
l’unica di cui mi sentivo alla portata.
Sganciai infatti uno dei due salvagenti a bordo, e lo lanciai
con tutta la forza che avevo verso il ragazzo, che nel frattempo si era
avvicinato al natante. Afferrò con prontezza l’oggetto che gli avevo lanciato,
e tornò a ridere fortissimo.
“Oddio! Con questo non hai risolto nulla!”, esclamò.
“Eh, e cosa dovrei fare?”, alzai le spalle, sconsolata.
“Pedala, Isa. Posso chiamarti Isa, vero? Così abbrevio…”. Le
sue parole non le percepii più, poiché mi avventai subito sulla postazione dei
pedali e cominciai a muovere le gambe. Avevo capito quel che voleva Riccardo da
me.
Il natante riprese a muoversi con abbastanza velocità, e
immediatamente Ilaria lasciò un gridolino.
“Ma che fai? Non vedi che stanno scherzando? Non c’è bisogno
di pedalare così”, mi riprese, con il suo solito piglio annoiato e pigro.
“Ho voglia di fare un po’ di movimento. Dai, aiutami”, le
suggerii, in maniera cortese.
“Non ci penso nemmeno”, affermò, seccamente, passandosi una
mano tra i capelli e sforzandosi di tornare in posa per prendere il sole,
giacché aveva interrotto il suo immobilismo quando avevo cominciato a pedalare
con foga. Non mi aspettavo un suo diniego così scorbutico.
“Non eri tu l’amante del movimento continuo?”, mi venne da
domandarle, ma col senno di poi parve fosse una domanda volta a pungolarla in
maniera poco simpatica. Infatti volse il viso verso di me, e percepii il suo
sguardo attento.
“Adesso però preferisco prendere il sole”, sancì, infine,
abbandonando la sua postazione e tornando del limitrofo retro. Non badai al suo
comportamento scocciato; era come se fossi tornata bambina all’improvviso. Mi
stavo divertendo troppo, anche se forse ero avventata in quel che facevo.
Tornai a cercare Riccardo con lo sguardo, e notai che era
ancorato nel suo salvagente, che si stava muovendo sulla scia del pedalò in
fuga. Ben presto però ebbi il fiatone, e la fortuna volle che fosse lo stesso
Mirco ad invocare la resa.
“Eh, basta così”, urlò, “avete vinto”.
Udendo la sua rinuncia a continuare, mi fermai anch’io e
andai nel retro, senza fiato e arrossata in viso, ma decisa a non mostrarmi
troppo spossata ai miei conoscenti. Loro erano così palestrati, con dei fisici
perfetti! Io ero una nullità, in confronto a tali portenti della natura. Non
volevo però mostrarmi troppo da meno.
Riccardo ancora rideva, divertito, e avvicinò il salvagente
al natante, sempre con il sorriso sulle labbra e molto rilassato.
“Grande”, disse, rivolgendosi a me e alzando una mano
affinché potessi sferrargli un bel cinque.
“Mi sono divertita un casino”, gli dissi, felice a mia volta.
“Io no”, mugugnò Mirco, che si stava avvicinando lentamente
al pedalò, stanchissimo, quasi come se fosse un cadavere galleggiante.
“Guarda che te la sei cercata”, gli fece notare Riccardo.
Poi, l’imprevisto; non appena Mirco gli fu più vicino, gli
sferrò un pugno nell’avambraccio, producendo un rumore sinistro. Io rimasi un
attimo folgorata da quell’ennesimo gesto del tatuato, tuttavia mi sentii
decisamente meglio quando il ragazzo salì a bordo, e senza degnarmi di uno
sguardo e con il viso dominato da un’espressione davvero molto cupa, si recò ai
pedali senza dire una parola.
A quel punto, tornai a guardare Riccardo, e senza che gli
chiedessi nulla, mi sorrise di nuovo e mi fece cenno di avvicinarmi a lui.
“Ti ha…”. Mi interruppe con un semplice gesto delle mani.
“No, no, ci sono abituato”, disse, tagliando corto. “Ehm, mi
stavo chiedendo se anche a te andasse di venire un po’ a mollo”. Feci cenno di
diniego con la testa.
“Non mi va di immergermi”.
Di bagni ne avevo già fatto uno in mattinata, non ne avevo
voglia di tornare a bagnarmi.
“Dai, Isa! Sei troppo seria, sciogliti un po’ e rinfrescati”,
tornò però ad insistere, e per la prima volta mi parve di scorgere delusione
nei suoi occhi. Occhi che non erano espressivi come quelli di George, anzi, che
mi lasciavano anche piuttosto indifferente, però non mi andava di deluderlo.
Per quello allora scelsi di fare uno sforzo e di andargli
incontro; d’altronde, lui fino a quel momento si era a sua volta sforzato per
farmi svagare e per farmi sentire maggiormente a mio agio. Quindi mi chinai,
senza pensarci troppo, e immersi le mani nell’acqua fredda, ma limpida e
trasparente.
Mi bagnai le gambe, poi il ventre e le spalle, in fretta e
rabbrividendo, poi accorgendomi che non avrei mai avuto il coraggio di
lasciarmi andare, afferrai l’ultimo salvagente rimasto e mi lasciai scivolare
con esso in acqua. Nonostante fosse pieno pomeriggio, essa era ancora molto,
molto fresca.
“Brr…”, mugugnai, una volta immersa.
Mi abbracciai al salvagente, con forza, poiché eravamo
abbastanza al largo e non me la sentivo di darmi al nuoto dove non c’era
speranza di sfiorare il fondale con i piedi, e mi spinsi verso Riccardo, che mi
stava osservando con un ritrovato sorriso ben impresso sulle labbra sottili.
“Si sta bene, vero?”, disse, felice.
“Oh”, borbottai di nuovo, “non è neanche così male come
sembrava a primo impatto…”.
In effetti, non si stava male a mollo.
“Ehi, laggiù!”, tornò ad alzare la voce il mio nuovo amico,
richiamando l’attenzione dei due ragazzi sul pedalò. “Mettete in movimento
questo catorcio! Se no fatevi un bel tuffo, è inutile che restiamo qui fermi!”,
li spronò poi con vigore.
“Vaffanculo!”, gridò di risposta Mirco, ma non si fece
problemi a mettersi in azione. Anche Ilaria, nonostante fosse ancora in posa
per prendere il sole, mise i suoi delicati piedini sui pedali e cominciò a
imprimere un po’ di forza anche lei, al fine di muoverci.
Noi due restammo fermi, fintanto che il natante cominciò a spingerci
esso stesso, siccome i salvagenti erano entrambi legati alla leggera
imbarcazione.
“Ah!”, espresse la sua soddisfazione Riccardo, a quel punto,
mettendosi comodo all’interno del suo galleggiante e lasciandosi trasportare in
modo molto placido. A mia volta lo imitai, e anche quella scelta si rivelò
appropriata e piacevole.
Mentre gli altri due pedalavano, e il nostro mezzo si muoveva
placidamente, trainandoci nelle acque fresche, piatte e limpide dell’Adriatico,
avevamo di nuovo occasione per riuscire ad avere qualche minuto per noi due.
Infatti, i nostri sguardi non tardarono molto a tornare ad incontrarsi, e i
nostri sorrisi sbocciarono nuovamente sulle nostre labbra salmastre.
“Non è bello, così?”, m’interpello. I nostri due salvagenti
si avvicinarono ancora di più.
“Lo è”, gli assicurai.
“Sai”, tornò a dire, dopo aver incassato la mia lapidaria
risposta, “non ti avevo mai visto qui in spiaggia. E pensare che noi veniamo
molto spesso, quasi tutti i giorni durante i mesi estivi”.
“Come fai a dire che non mi hai mai visto? La spiaggia è
affollatissima, potrei benissimo essermi mimetizzata tra tutte quelle persone…”,
provai a dire, lasciando poi che la frase decadesse. Ero stata un pochino
ironica, dovevo ammetterlo; ma, in fondo, avevo appreso dal mio George che ogni
tanto era giusto anche punzecchiare, sempre con educazione, s’intende.
“Una ragazza così carina sono certo che l’avrei notata
subito”, ribatté, cogliendomi un po’ impreparata con tale frase. Comunque,
scelsi di prenderla sul ridere e di non darle peso eccessivo.
“No, dai, a parte gli scherzi questa è la prima volta che
vengo qui”, mi spiegai, infine.
“Vieni da lontano?”.
“Oh, no, sono di Rimini. Sono qui solo per passare questo
sabato, poi chissà”.
“Penso che ti innamorerai di Cervia. È una bellissima città,
ha il suo fascino, e la sua spiaggia è così…”, s’interruppe un attimo, alzando
gli occhi verso il cielo, come ad attendere la giusta ispirazione, prima di
proseguire, “…affascinante. Per me, tornerai presto”.
Mi venne spontaneo ridacchiare.
“Ti piace chiacchierare, vero?”, gli feci poi notare, constatando
come stesse amabilmente imbastendo e gestendo una conversazione con me. Il
bello era che mi sentivo a mio agio, ed era una cosa strana, perché in fondo
non lo ero mai con chi non conoscevo, per via della mia timidezza che, di tanto
in tanto, tornava a far capolino.
“Direi”, ammiccò con simpatia, “ma sono anche molto timido,
mi dispiace”, concluse.
Mi fece di nuovo ridere. Aveva una grande espressività, poi
era carino e gentile nell’esprimersi, totalmente diverso dagli altri ragazzi,
sempre più simili a degli zoticoni che a dei dongiovanni, come invece poteva
apparire il mio nuovo muscoloso amico.
“Non sei timido”, replicai, comunque.
“Lo sono. Con te no, non so il perché… va beh, poi siamo
anche pari età, immagino, e quindi è tutto più facile”.
“Quanti anni hai?”, gli chiesi, allora, con curiosità e
prendendo la palla al balzo.
“Venticinque”.
“Io ventisei. Vado verso i ventisette, però”.
“L’hai detta da sola, eh! Non mi sarei mai permesso di
chiedere l’età a una ragazza”, sogghignò Riccardo.
“Ma non ho nulla da nascondere su di questo, eh!”, gli
risposi.
Eravamo così presi dalla nostra chiacchierata che non ci
eravamo neppure accorti che il natante si stava rapidamente fermando, e ben
presto ci ritrovammo investiti dagli spruzzi prodotti da Mirco, che si era
lasciato scivolare dall’apposito scivolo.
“Che forza!”, gridò, non appena riemerse. Io e Riccardo, alle
prese con lo sputacchiare l’acqua che ci aveva investito solo mezzo minuto
prima, ci scambiammo uno sguardo dal retrogusto d’indefinito.
Tornai a concentrarmi su Mirco, che sorrideva al suo amico
infilato nella sua ciambella galleggiante, come se tra loro non ci fosse mai
stato neppure un istante di tensione.
“Avanti, provalo anche te”, gli suggerì, infine.
“E va bene”, acconsentì Riccardo, che in realtà sembrava non
avere intenzione di farselo ripetere un’altra volta.
Fino a quel momento, nessuno di noi si era concentrato sullo
scivolo, però a quel punto pareva aver conquistato la comitiva. Poco distante,
anche gli altri due ragazzi si stavano divertendo a quel modo, sfruttando il
loro pedalò e abbandonando al sole e all’asciutto i loro cellulari. Solo Ilaria
era ancora immobile a prendere il sole, dopo aver abbandonato di nuovo i pedali
ed essere tornata a sembrare come pietrificata.
Da parte mia, non avevo molta intenzione di affrontare lo
scivolo; lì non toccavo, non me la sentivo di tuffarmi in quella maniera,
seppur la discesa non fosse affatto ripida. Anche il mio amico ben presto si
lasciò scivolare in acqua, gridando di divertimento.
“Isa! Prova anche tu!”, esclamò, euforico come un ragazzino
al primo tuffo, quando riemerse a sua volta. I capelli corti gli si erano
appiccicati di nuovo alla fronte, ma il sorriso no, non era mai cambiato e
restava quello sincero e spontaneo di quando l’avevo conosciuto. Forse, ho
sempre avuto una particolare propensione per osservare i sorrisi della gente.
Eppure, le parole che mi aveva appena rivolto erano anche quelle che meno avrei
desiderato sentirmi indirizzare.
Feci cenno di diniego con la testa, senza azzardarmi a dire
no ad alta voce, con Mirco che si stava preparando a rituffarsi e che avrebbe
potuto sbeffeggiarmi, poi, magari, dato che mi ero ormai resa conto che cercava
di non rivolgermi mai la parola e neppure di guardarmi. Dovevo stargli
decisamente antipatica.
“Dai, non avere paura…”, m’invitò di nuovo, e con gentilezza
mi afferrò piano il braccio destro.
Mi lasciai accompagnare docilmente fino al natante, salendo a
bordo assieme a lui, e fintanto che non mi ritrovai sullo scivolo, pronta a
lasciarmi andare, non mi resi conto che alla fine mi ero lasciata andare a
quello che poteva benissimo rivelarsi come un’esperienza tutta da dimenticare.
Ma ormai ero decisa a non voler sfigurare di fronte ai miei nuovi amici.
All’ultimo, mi abbracciò da dietro, e stretta a lui scivolai
in acqua, gridando d’euforia. Quel nostro primo contatto passò del tutto
inosservato, immersa com’ero nel piccolo brivido appena affrontato.
“Allora, è stato così spaventoso?”, mi chiese con fare
saccente Riccardo, riemergendo assieme a me.
“No”, gli assicurai. Era stato carino.
Andammo avanti a lungo, per un’altra oretta, in quel modo. Ci
divertimmo tutti quanti. Il momento di ritornare in spiaggia parve giungere
troppo presto.
Quando rientrammo, lasciammo il nostro pedalò nelle mani dei
gestori e ci dividemmo la spesa, tutto sommato molto esigua.
“Sei qui da sola?”, mi chiese Riccardo, dopo aver concluso il
pagamento. Gli altri ragazzi si distaccarono da noi, lasciandoci per ultimi,
mentre si muovevano spediti verso la spiaggia libera e battibeccavano tra loro
con enfasi.
“No…”.
“Ah, quindi sei qui con qualcuno… dovevo immaginarlo”, disse,
sorridendomi. Ma non era più un sorriso particolarmente solare e sentito.
Io risposi al suo sorriso, ma non dissi altro.
“Senti, noi siamo sempre qui, nella spiaggia libera. Ci siamo
tutti i giorni. Però, nel tardo pomeriggio dobbiamo tornare a casa, sai, alcuni
di noi hanno lavori notturni e devono anche riposarsi un po’. Se… se ti
interessasse rivederci… sai dove trovarci, va bene?”, proseguì, affrontando con
leggera incertezza il mio silenzio.
Mi stava lasciando aperte molte porte, nonostante paresse
senza voglia di provare a forzarmi in qualche modo. Gradii il fatto che non
tentò neppure di curiosare ancora di più nelle mie faccende personali.
“Va bene, intanto ti ringrazio per tutto. Immagino che voi
dobbiate andare, allora?”.
“Sì, tra poco andiamo a casa”. Il suo tono era stanco.
Continuammo a camminare sulla scia degli altri, senza mai
guardarci.
“Allora, dobbiamo salutarci per oggi”, asserii, dopo qualche
altro passo.
“Sì”.
“Grazie per i bei momenti che abbiamo passato assieme. E…
grazie di tutto, ragazzi! Spero ci rivedremo presto!”, alzai infine la voce,
per farmi udire anche dagli altri giovani. Essi ricambiarono il mio saluto, ma
erano ormai tutti concentrati sull’imminente ritorno a casa, e non furono
festosi come Riccardo, che mi trattò di nuovo con grande riguardo.
Ci lasciammo così, senza neppure sapere se un giorno saremmo
ritornati a incontrarci e a trascorrere altro tempo assieme.
Con un pizzico di amarezza nel cuore, mi diressi verso
l’ombrellone, e notai che era ancora vuoto; ma il mio animo era in subbuglio,
non sapevo neanche io bene il perché di ciò, ma capivo che non volevo restare
sola. Allora, mi decisi ad andare a cercare George.
Andai al bagno, con risolutezza, e lo scorsi immediatamente,
poiché il mio innamorato era là, seduto a un tavolino all’esterno, che giocava
a carte e si divertiva con altri cinque o sei suoi coetanei. Mi avvicinai un
po’ di soppiatto, decisa a non voler disturbare o interrompere nulla, ma quando
Piergiorgio mi notò si illuminò ancor di più in viso, e mi si avvicinò,
abbracciandomi forte.
“Amore”, mi disse, “mi dispiace se non sono tornato all’ombrellone,
spero che tu non ti sia annoiata, tutta sola…”.
“No, no. Per fortuna c’era un gruppo di ragazzi, che ho
conosciuto per caso, e sono andata con loro in pedalò e a fare una partita di
pallavolo”, gli spiegai, senza nascondergli niente. Non volevo proprio che ci
fossero cose non dette tra noi, poi ritenevo di non aver fatto nulla di male,
d’altronde anche lui aveva trascorso molto tempo con i suoi conoscenti e amici.
Infatti, mi sorrise e non parve per nulla contrito.
“Hai fatto benissimo”, disse, infatti.
Mi prese le mani, poi mi baciò piano. Le nostre effusioni
pubbliche furono interrotte dai fischi e dal vociare emessi dagli amici di
George, che di fronte al nostro bacio non seppero trattenere una sorta di
ovazione di massa, che mi fece arrossire all’istante.
“Non far caso ai ragazzi”, mi fece l’occhiolino il mio
amante, “anzi, vieni che te li presento”.
Mi presentò infatti a quegli uomini, la cui maggior parte era
più anziana del mio George, e fui accolta con molta cortesia.
“Sapevamo che il nostro Piergiorgio aveva buoni gusti in
fatto di donne”, mi disse uno di essi, facendo ridere anche gli altri, ancora
prima che mi fosse presentato. Io me ne restai sulle mie, limitandomi a
presentarmi e a salutare con rispetto.
Poi, giunse anche per noi l’ora di accomiatarsi. Infatti, il
mio George era intenzionato a tornare anch’egli a casa presto, quindi dopo le
presentazioni e i saluti ci allontanammo, e andammo a recuperare le nostre cose
dall’ombrellone.
Non parlammo più, se non quando, prima di infilare il casco,
mi domandò se quella giornata era stata di mio gradimento. Io espressi la mia
gratitudine con un profondo cenno di assenso con il capo, e un successivo ed
ennesimo bacio, che fu molto gradito.
Così, tornammo felicemente a casa.
Quello fu il primo di una cospicua serie di giornate che
trascorremmo assieme, io e il mio unico e infinito amore.
NOTA DELL’AUTORE
La giornata al mare è finita, per i nostri amici, ma restano
le mie giornate impegnative. Quindi spero di riuscire a scrivere il prossimo
capitolo in tempo, per lunedì prossimo, poiché ho già concluso i capitoli che
avevo da parte. Chiedo scusa se ci sarà il ritardo di qualche giorno, ma ci
tengo a impegnarmi… spero di continuare al meglio il racconto.
Grazie di tutto, e a presto ^^
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Capitolo 41 *** Capitolo quarantuno ***
Capitolo quarantuno
CAPITOLO QUARANTUNO
Ed ecco che, dopo un sabato molto speciale, venne la
domenica. Ancora, quel giorno sarebbe stato dedicato a noi due, a me e a
George.
Mia madre era felice che stessimo bene assieme, anche se
notavo che un velo di pacata preoccupazione aleggiava sempre di più nei suoi
occhi, a creare una distanza tra noi. Non me ne importava molto, ero ancora
tutta presa e contenta da come era andato il giorno precedente, d’altronde
anche se i ragazzi che avevo conosciuto oramai si erano già tramutati ad essere
un ricordo piacevole, e a tratti sorprendente, l’avevo trascorsa benissimo.
Per prepararmi al giorno successivo, quindi, quel sabato sera
andai a letto molto presto. Non avevo idea di cosa mi avrebbe riservato il mio
tenero innamorato, che mi aveva promesso una sorpresa.
Non che avessimo avuto modo di parlare molto, anzi, mi aveva
riportato a casa, per poi darmi un bacio, promettermi una bellissima giornata
successiva e volatilizzarsi in fretta, a bordo del suo motociclo. Mi poteva bastare.
I dolci ricordi legati al nostro rapporto in acqua, e al
fatto che mi aveva presentato anche a tutti i suoi amici e conoscenti erano
l’emblema del suo profondo affetto, non mi veniva da pensare ad altro.
Ebbene, quella domenica mattina quindi mi alzai di buon’ora,
mangiai in fretta e mi vestii leggera, mettendo in borsa anche un qualche
vestito di riserva, per fugare ogni dubbio. Lasciai perdere fin da subito
l’abbigliamento da mare, c’eravamo stati il giorno prima ed ero sicura che non
ci saremmo tornati.
Salutai mia madre con un bel bacione sulle guance, e donandole
poi una stretta fortissima.
“Perché ti sei alzata così presto?”, la rimproverai. Era
venuta al piano inferiore alle sei di mattina, ancora in pigiama, pur di
salutarmi.
“E’ che… non sono abituata, a queste tue uscite, e… a volte
mi sembra come se fossimo tornate al periodo in cui andavi a scuola, ricordi? I
giorni delle gite…”, biascicò, la voce piuttosto impastata dal sonno appena
interrotto.
Le sorrisi e la strinsi ancora tra le mie braccia, con
profondo affetto.
“Sono un po’ cresciuta da quei giorni, ma devo proprio dirti
che neppure io mi aspettavo questa svolta. Ormai mi ero arresa alla mia vita di
clausura, tra lavoro e fatica…”. M’interruppi, prima di finire ad affrontare
l’argomento del mio ex, o azzardarmi, seppur involontariamente, a pronunciare
il suo nome. Ben sapevo che allora per mia madre sarebbe stata una bruttissima
domenica, anche se solo l’avesse ricordato.
Le tornò comunque in mente, vista l’espressione che poi mi
rivolse, molto triste.
“Non meritavi quell’idiota, lo sai anche tu”, mi disse.
“Lo so”, riconobbi, evitando di offrirle spunti per
approfondire il discorso. Non volevo tornare a rimestare ciò che volevo a tutti
i costi accantonare nelle profondità più remote della mia mente.
“Vai, Isa, e divertiti”, tornò poi a dirmi, augurandomi il
meglio, quando il fuoristrada di Piergiorgio giunse a fermarsi di fronte a casa
sua. Le scoccai un altro bacetto sulla fronte, prima di allontanarmi da lei con
passo lesto e spensierato.
“Ti ringrazio. Se hai bisogno di qualcosa, chiamami pure, il
cellulare l’ho sempre acceso”.
“Non ti devi preoccupare per me! Vai, e salutami tanto
Piergiorgio”, m’interruppe, con decisione.
La ringraziai con uno sguardo riconoscente, prima di darle
definitivamente le spalle e di muovermi verso la porta d’ingresso, che ribattei
subito dietro di me, non appena fui uscita, tirandomi dietro anche la mia
borsa.
Raggiunsi la macchina quasi di corsa, e non appena aprii lo
sportello mi ritrovai il mio George tutto sorridente che mi osservava con
attenzione, da sopra gli occhiali, lasciai scivolare di poco giù lungo il naso.
“Io… be’, per fortuna mi sono preparata in anticipo!”,
esclamai, alla fine, rendendomi conto di non saper bene cosa dire. La strada
era deserta, sembrava che il mondo intero dormisse ancora, anche se il sole
nascente illuminava tutto a giorno.
“Eh, te l’avevo detto che sarei stato qui all’alba”, si
spiegò, pacatamente.
Salii a bordo, appoggiai sui sedili posteriori la borsa, per
poi allacciarmi la cintura. Così facendo, notai anche un bel cestino, sempre
nella parte posteriore del mezzo, ben assicurato tra il sedile del guidatore e
quello retrostante.
“Cosa c’è lì?”, lo interloquii, quando ormai la mia
attenzione sembrava totalmente rapita da quell’oggetto che non avevo mai visto
dentro la sua auto.
“Fa parte della sorpresa. Scoprirai tutto a suo tempo”, mi
rispose, preciso e laconico.
Feci una piccola smorfia.
Notandola, mi sorrise di nuovo.
“Devi stare tranquilla, amore mio. Goditi questo momento di
relax, avanti”, tornò a dire.
“Pensa che ho ancora un sonno che mi addormenterei qui”,
affermai, poi lasciandomi andare ad un profondo sbadiglio. Infatti, non appena
riuscii a sistemarmi per bene sul sedile a suo fianco, mi tornò di nuovo quel
senso di sonnolenza che provavo ogni volta che mi alzavo un po’ troppo presto e
fuori orario.
Mi tornarono alla mente le parole di mia madre, che mi aveva
rivolto solo pochi minuti prima, e mi parve di star per affrontare una gita.
Un brivido mi percosse da capo a piedi; era il senso d’euforia
che mi stava percuotendo, identico a quelli che mi affliggevano quando ero una
bambina, e poi una ragazzina, e c’era la gita di classe. Solo che allora
tremavo perché avevo un po’ paura di stare lontana da casa, tra quegli altri
ragazzini che non mi stavano affatto simpatici, mentre in quel momento ero ben
certa di essere in buonissime mani.
Il mio leggero brivido era quindi dovuto all’ansia derivata
dal non sapere la destinazione di quello spostamento, ben sapendo, in ogni
caso, che se quella per il mio George era una sorpresa, si sarebbe
indubbiamente rivelata sotto forma di qualche esperienza molto piacevole.
Sarebbe andato sul sicuro, quindi.
“Perché allora non provi a fare un pisolino? Tanto, guido io,
e la destinazione non te la rivelo”. Le sue parole, simpatiche e un filino
beffarde, tornarono a risuonare nelle mie orecchie proprio mentre fantasticavo.
“Non ti sopporto quando fai così”, finsi di imbronciarmi. Il
fuoristrada partì a razzo, più veloce del solito. “E se vai ad una velocità del
genere, non credo che riuscirò a star tranquilla”, aggiunsi, a quel punto.
Lui rise con il suo solito modo di fare profondo e gradevole.
Era incredibile che fosse già così sveglio; io ero in versione zombie, quando
il mio George, che era anche piuttosto più vissuto di me, sembrava arzillo e
riposato come non mai. Meglio così, in fondo, mi ritrovai a riconoscere.
“Abbiamo un bel po’ di strada davanti a noi, quindi devo
anche sapermi regolare di conseguenza, con la velocità. Tu cerca di stare
tranquilla”, mi rassicurò, “e, dimmi… hai già fatto colazione, o ci fermiamo al
primo bar che troviamo aperto?”.
“Ho già mangiato. Tu?”.
“Io anche”.
Osservai il paesaggio al di là del finestrino; esso pareva
correre via, quasi fosse lui a muoversi, e non noi. Presto mi accorsi che
quella volta la nostra rotta era opposta a quella del giorno prima, quindi fui
pronta a scommetterci che saremmo finiti o in collina o in montagna.
“So dove stiamo andando!”, gridacchiai, allora, forse
decisamente troppo euforica.
“Ah, sì?”, mi spronò il mio uomo, curioso.
“Sì”.
“Dimmi dove, se lo sai”.
“Andiamo in collina o in montagna”, risposi, un po’
ingenuamente, accorgendomi che la mia risposta vaga era stata davvero
infantile. George rise piano, con gentilezza.
“Hai detto tutto e niente. Aspetta, e vedrai, anche se in
linea di massima sei sulla pista giusta, lo confermo”, spiegò, quasi
concedendomi un generoso contentino sul finale.
Lo ringraziai
mentalmente per essere stato gentile con me anche quella volta, senza darmi
torto, anche quando il mio intervento forse era stato comunque di troppo, e
poteva anche fornire uno spunto di derisione.
Mi lasciai cullare dal movimento dell’auto per un bel po’;
dall’alto del fuoristrada, mi sembrava di essere seduta ad un passo dal cielo,
quasi, e osservavo le altre macchine, quasi tutte più basse della nostra, che
ogni tanto superavamo, o che sfrecciavano in direzione opposta alla nostra.
La sonnolenza che mi accompagnava fedelmente mi aiutò a
tornare a fantasticare, fondendo infiniti mondi e molteplici pensieri nella mia
mente, mentre mi chiedevo cosa spingesse quelle persone a essere in movimento a
quell’ora.
Che, proprio come noi, stessero andando a fare una gitarella
fuori porta? Oppure, che stessero poco bene, e si stessero recando a cercare
una guardia medica, o la struttura ospedaliera più vicina? Quell’ultima opzione
mi donò un sorrisetto molto amaro, che tornò a farmi riscuotere un po’ dal
torpore che mi aveva avvolto per diversi minuti. Cosa stavo andando a pensare?
Era giusto che anche le altre vite avessero il loro corso,
senza che io mi ponessi quesiti che potevano anche apparire malauguranti.
Tanto, la risposta ad essi non l’avrei mai potuta conoscere.
“A cosa stai pensando?”, mi chiese George, a quel punto,
rompendo il silenzio che era calato tra noi. Il bello di stare in macchina con
lui era che era una persona molto silenziosa e scrupolosa, e inoltre teneva
sempre spenta la radio, che personalmente era un mezzo di comunicazione che
m’infastidiva.
Odiavo il rumore del motore dell’auto quando si confondeva
con quelle parole pronunciate e cantate, uscite da quel piccolo accessorio che
detestavo anche solo sfiorare per cambiare stazione. C’era quindi modo di
pensare, di riflettere… proprio come avevo fatto anche io, fino a qualche
istante prima.
Gli rivolsi un mezzo sorriso, un po’ tirato.
“A niente di bello”, gli risposi, lentamente.
“Credevo stessi ancora riflettendo sulla possibile
destinazione”.
“Be’, anche. Però, poi, osservando le altre macchine in
movimento, che ogni tanto abbiamo incrociato, mi è venuto da chiedermi il
motivo dello spostamento di quelle persone. Se come noi stanno vivendo un
sogno, oppure sono solo spinte dalla vita quotidiana…”.
M’interruppi e lo guardai. Egli mi rivolse a sua volta una
rapida occhiatina, sorridendo.
“Ognuno ha la propria esistenza, dovresti saperlo. Porci
troppe domande, a volte, non aiuta! È per questo che ti consiglio di
rilassarti, per favore”, disse, con tono bonario.
“E va bene, se proprio insisti”, e mi affrettai a chiudere
gli occhi. Era un po’ come se stessi cercando di punirlo, in quel modo.
Finsi per un pochino di dormire, ma non resistetti a lungo.
“Ehi”, dissi, piano.
“Dimmi”, mi rispose George, dolcemente.
“Non ti è mancato il mio parlottare?”, gli domandai a
bruciapelo.
Lui rise sommessamente.
“Mi manca sempre tutto, di te”.
Gli sfiorai una mano mentre era posizionata sul cambio, però
evitai di distogliere la sua attenzione dalla guida.
“Lo so che sei tanto buono nei miei confronti”, trovai
opportuno aggiungere, più per cortesia che per altro.
Intanto il paesaggio attorno a noi mutava rapidamente; non
eravamo più circondati dalle terre sabbiose tipiche delle località limitrofe al
mare, anzi, la natura sembrava già esplodere in una moltitudine di piante
tipiche dell’entroterra. I vuoti generati dalle fronde delle palme della costa
avevano lasciato spazio a pioppi e gelsi, e un bellissimo verde avvolgeva la
nostra auto, sempre in marcia verso una località a me ignota. Oppure no?
Ebbi infatti l’illuminazione quando, notando che stavamo
percorrendo la via Emilia e ci stavamo dirigendo verso Faenza, notai un vistoso
cartello che invitata la visita di Brisighella. A quel punto, provai una
sensazione strana, come se avessi finalmente previsto qualcosa con largo
anticipo.
“Andiamo a Brisighella!”, esclamai con forza, facendo
sobbalzare George.
“Uhm”, mormorò appena si riprese dal piccolissimo spavento.
“Ritenta”.
“Uffa, non mi smontare così, però”, mugugnai, restandoci un
po’ male. Non avevo mai visitato quel borgo medioevale, tanto decantato in
tutta la Romagna. Inoltre, esso era situato proprio in collina, sulle alture da
quel che sapevo, quindi poteva anche starci un viaggetto fin lì, considerando
anche la strada che stavamo percorrendo.
Piergiorgio tuttavia non era della mia stessa idea e non
concordava affatto a riguardo della mia recente osservazione.
“Eh eh”, sghignazzò, birbante.
“La prossima volta resto a casa, allora. Non sopporto tutto
questo mistero, sai come sono fatta… a lungo andare poi mi stanco”, sbuffai,
cominciando leggermente a inasprirmi. Forse era vero che avevo la fantastica
abilità di rovinare ogni momento piacevole con il mio modo di fare irritante e
nervoso. Non avevo pazienza, come se fossi ancora una ragazzina.
“Uffa, amore”, mi riprese lui, infatti, “non si può mai
scherzare”.
“Hai ragione, scusami”, mi scusai, riconoscendo quel mio lato
infantile che ogni tanto emergeva con forza e prepotenza. Decisi appunto di
restare in silenzio fintanto che non giungemmo a Faenza, per poi continuare a
percorrere la via Emilia, e… alla fantomatica rotonda che smistava il traffico
verso la collina, George imbucò l’uscita dominata dal cartello Marradi e
Brisighella.
“Oh-oh”, tornai a gasarmi.
Piergiorgio sorrise, senza dire nulla.
Ancora una volta, ben presto il paesaggio circostante tornò a
mutare rapidamente. La strada si fece in salita, seppur dolce, e il verde
intenso lasciava ampi spazi al giallore degli sterpi bruciacchiati dalla calura
di una lunghissima e calda estate.
Le colline si fecero sempre meno dolci, e infine dopo neanche
una ventina di minuti apparve il grande cartello bianco con impressa la scritta
nera, a sancire l’inizio del centro abitato di Brisighella.
“Vedi che avevi indovinato?”, mi chiese retoricamente il mio
George, gongolante.
Io ero euforica, ma non gli risposi. Me l’ero un po’ presa.
Lui guidò con attenzione fintanto che non fummo circondati da
alte case, tutte di colori differenti. Muovendoci verso il centro, gli spazi
liberi ove poter parcheggiare non mancavano, e infatti la nostra marcia finì.
Ero così contenta di essere giunta in quel borgo medievale di
cui avevo tanto sentito parlare che scesi subito non appena il fuoristrada fu
parcheggiato.
Guardandomi attorno, tuttavia, non notai altro che quelle
noiose case che avevo notato da quando eravamo giunti in città. Allora tornai a
interloquire il mio saggio accompagnatore, nella speranza che potesse sfamare
la mia curiosità.
“Ma i resti medioevali dove sono?”, gli domandai, un po’
perplessa e allibita. Se un gruppo di case e qualche negozietto erano il centro
cittadino, be’, era una grande noia di posto.
Piergiorgio era ancora alle prese con le chiavi dell’auto, e
mi dedicò un’occhiata fugace.
“Abbi pazienza”, disse, come se fosse un consiglio.
Tornai a guardarmi attorno, ma tutto sembrava senza speranze.
Brisighella mi aveva stancato non appena ero scesa dalla macchina, e la prima
impressione che mi aveva lasciato era stata pessima. Mi sentivo delusa.
“Alza il tuo sguardo”, m’incitò George, raggiungendomi e
affiancandomi.
Mi prese a braccetto mentre seguivo il suo consiglio, e
finalmente ebbi modo di notare qualcosa di interessante. Infatti, in un varco
tra le case era apparsa la fugace visione di un edificio dalla parvenza antica,
stanziato su un altissimo sperone di roccia.
“Cavolo”, affermai, ma poi compiendo altri passi mi fu
offuscata la visuale. Visuale che era anche sfocata, poiché col caldo pareva
che i contorni dell’edificio distante fossero mossi.
“Quella che hai appena intravisto è la Torre dell’Orologio”,
mi spiegò George, notando il mio primo e inconsueto stupore.
“Ci sei già stato qui, vero?”, mi venne spontaneo chiedergli,
notando che era molto a suo agio e pareva sapere come muoversi.
“Qualche tempo fa, sì”, mi rispose brevemente. Mi prese per
mano e continuò a camminare verso un punto a me ignoto, ed io mi limitavo ad
assecondarlo.
“Questo è il centro?”.
“No, ci stiamo andando ora”, tornò a rispondermi, paziente. E
in effetti dopo una decina di minuti di camminata ci trovammo in un piccolo
spiazzo, che pareva invitare i nuovi arrivati a muoversi verso il grande
portone di una chiesa che, con il suo alto e imponente campanile, sovrastava la
piazzetta.
“Questa è una delle zone centrali”, mi spiegò il mio erudito
accompagnatore.
“Non hanno una piazza?”. George scrollò le spalle.
“Uhm, che io sappia hanno delle viuzze storiche, sono quelle
il centro”.
“Ah”.
“Dopo andiamo a visitarle, se vuoi”.
“Certo. Prima però posso andare a vedere quella chiesa?”,
tornai a domandargli, quasi imbarazzata al cospetto dell’immensa ombra che il
luogo di culto gettava su di noi, come a volerci rendere parte di sé.
“Fai pure, ci mancherebbe. Anzi, andiamoci assieme”, sancì
Piergiorgio, propositivo come sempre. Si allungò per baciarmi sulla guancia
destra.
“Si tratta del Duomo di San Michele Arcangelo, una delle
opere architettoniche più grandiose di Brisighella”, mi narrò poi, sapiente
come sempre.
“Sai tutto, ogni volta”, gli dissi, sorridendo.
Camminammo mano nella mano fin al cospetto del monumentale
portone, tutto elaborato e con immagini sacre impresse dalle sagge mani di
autori antichi e contemporanei, alcune delle quali firmate.
Varcammo la soglia in rigoroso silenzio e facendoci il segno
della croce, restando poi avvolti dal caldo respiro di quell’ambiente
scarsamente illuminato. L’odore della cera era inebriante, e unito alla calura
era un po’ come restare senza fiato.
Lungo le pareti, altre raffigurazioni sacre, tele di autori
del Cinquecento e lapidi scritte si susseguivano, quasi a comporre una sorta di
via crucis contenente le opere e le tracce più importanti degli artisti che
nelle varie epoche resero omaggio alla città.
Restammo tra quelle mura per un po’, come turisti stranieri
pronti a esplorare ogni recondito angolo di quel luogo a me ignoto fino a quel
momento.
Quando tornammo all’esterno, George mi baciò di nuovo.
“Non credevo che avessi la passione delle gite fuori porta”,
ridacchiò.
“No, a dire il vero non è che m’interessino molto. Avevo però
sentito parlare molto di Brisighella, e visitarla rientrava nei miei piani”.
Non era del tutto vero; fintanto che ero stata con Marco, le
uscite erano solo ed esclusivamente dirette verso locali in riviera. Non c’era
modo di andare oltre. Ogni cosa lo annoiava, e per un certo periodo fui anche
io vittima di quell’idea.
Uscire con George però aveva rivitalizzato la mia voglia di
scoprire, anche solo una minima località relativamente sotto casa. La sua
presenza dolce e discreta, oltre che saggia e preparata, mi faceva sentire
sicura e protetta.
“All’inizio avevo pensato di andare a Marradi, poi ho notato
che ti interessava di più questa località. Meglio così”, ammise lui,
soddisfatto.
“E comunque non abbiamo visitato neanche il dieci per cento
delle meraviglie di questa città. Che ne dici di impegnarci un po’? Il giorno è
lungo, ma non è infinito”, aggiunse.
“Concordo”, annuii.
Iniziava a fare molto caldo, nonostante il mezzogiorno fosse
ancora distante, e ben presto iniziai a bere dalla bottiglietta che avevo
sempre in borsa.
Affrontammo una delle stradine laterali al Duomo, e lì
cominciai ad avvertire l’aspetto più antico del borgo; la pavimentazione in
ciottoli era suggestiva e camminarci sopra era qualcosa di diverso rispetto al
solito asfalto. Le auto in circolazione erano poche e la passeggiata si stava
rivelando gradevole.
Neanche un centinaio di metri più avanti e già i primi locali
si stagliavano su ambo i lati della stradina. La maggior parte era ancora
chiusa, tranne i bar.
“Ti va di visitare la Torre dell’Orologio? Tanto qui è ancora
tutto chiuso”, m’interloquì George, un po’ all’improvviso.
“Mi andrebbe, sì”, risposi, ma poi alzai lo sguardo e tornai
a individuarla. La Torre appariva lontanissima, incastonata su un ripido
sperone di roccia. Si poteva davvero raggiungere?
“C’è da camminare un pochino, ti avviso”, volle infatti
avvisarmi, ma questo l’avevo già capito.
“Andare fin lassù? Ma come?”, tornai a chiedere, incredula.
“Poco distante c’è una porta cittadina, se non ricordo male.
Basterà varcarne la soglia e seguire le indicazioni dei cartelli”, mi spiegò,
preparato.
E in effetti camminammo ancora per qualche decina di metri,
prima di incappare al cospetto della grande e antica porta cittadina. Da essa
una stradina in salita sembrava volersi allungare verso il remoto monticello,
anche se la visuale si ostruiva a causa di alcuni muri antichi.
“Uhm”, mugugnai, un poco indecisa. Mi chiesi cosa potevano
nascondere quei vecchi muri scoloriti.
“Dai, sii grintosa”, scherzò George, motivandomi come al
solito, “sii un po’ propositiva, ogni tanto!”.
Mi passò poi un braccio attorno alla vita e mi spinse
dolcemente, assieme a lui, a oltrepassare quella sorta di varco.
Il dopo si rivelò alquanto anonimo; nulla lasciava presagire
quello che ci stava aspettando. La stradina in ciottoli era anch’essa antica e
in salita, dominata a tratti da gradoni in pietra che solleticavano il passo
lesto.
Poco più avanti, davanti a noi, una fontanella ruscellava
piano. Sembrava un fiumiciattolo in miniatura. Mi avvicinai e passai le mani al
di sotto del fresco fiotto, poi ne raccolsi un pochino nei palmi a coppa e mi
rinfrescai il viso.
“Ah”, borbottai con sollievo. Il mio amante tornò a
ridacchiare.
“Ti servirà questo rinfresco. Goditelo, finché puoi”,
affermò.
“Devo preoccuparmi?”,
gli chiesi, incuriosita.
“Sei assieme a me. Non vedo di cosa dovresti preoccuparti!
Non ti fidi, forse?”. Fu il mio turno di sorridere.
“Sei sempre birbante, non so mai cosa aspettarmi”.
“Allora assecondami! Sarà una bella sorpresa”.
Lasciai alle spalle l’acqua e tornai ad affiancarlo, e lui mi
prese di nuovo a braccetto.
Riprendemmo a camminare, e per fortuna c’erano alberi e muri
che ci facevano ombra. Il percorso però si mostrava ancora in lieve salita.
Giungemmo in fretta a un bivio, una biforcazione improvvisa.
“Quale scegli?”, mi domandò George con gentilezza.
“Uhm”, riflettei un attimo, “questa”. E imboccai, con lui al
fianco, il percorso che mi sembrava meno impegnativo.
E invece…
“Oh, caspita”, dissi, restandoci di sasso quando alla mia
vista apparve all’improvviso lo sperone di roccia della Torre dell’Orologio.
“Non dirmi che… che dobbiamo salire”, aggiunsi, titubante.
“Oh, sì, sarebbe molto suggestivo farlo”, sogghignò il mio
furbo accompagnatore, probabilmente voleva mettermi alla prova.
“Non scherziamo, dai”, affermai, mentre il sorriso spariva
dalle mie labbra. George era pur sempre un signore di una certa età, era meglio
non affrontare una salita del genere. Una salita che rasentava la scalata.
Io stessa non me la sentivo, non essendo abituata alle
scarpinate.
“Uff, sei proprio noiosa quando fai così… dai, un po’ di
grinta, su!”, tornò però a motivarmi. Notai, poco più su, che una coppia di
signori di una certa età stava già affrontando il percorso, quindi mi lasciai
convincere.
“Andiamo, va bene”, dissi, ma non ne ero tanto sicura.
Tornava a prender piede dentro di me quella paura di essere
una palla al piede. Di voler rovinare a tutti i costi ogni momento di relax.
Ero con il mio amore, non c’era motivo razionale che potesse spiegare la mia
reticenza. Eh, i miei soliti e pessimi vizi…
“E’ molto ripido, qui”, feci notare, non appena la stradina
in ciottoli divenne una sorta di scala di pietra, in più punti dalla parvenza
disconnessa.
“E’ questo il bello dell’avventura. Sai, anche
l’improvvisare. A volte ho come l’impressione che la vita abitudinaria ci
distolga troppo dai piaceri naturali dell’esistenza”, fu la risposta
simpaticamente filosofica che ricevetti.
Non risposi nemmeno, mentre mi accingevo ad affrontare il
primo gradino. Poi, un gradino tirò l’altro.
Piergiorgio presto fu in affanno, ed io con lui, tuttavia non
demordemmo affatto; smettemmo di parlare e di sciupare fiato, mentre il respiro
era mozzato dall’afa e dalla fatica.
Eppure, che emozione! Se all’inizio ero molto reticente ad
affrontarla, la scalata si rivelò un rimedio per ogni mio male interiore.
Pensai alla meta, alla destinazione finale, rappresentata da quella torre che
si stagliava lassù, ancora molti metri più in alto di noi. Quello era
l’obiettivo da raggiungere.
Gli alberi e la vegetazione boschiva ci facevano di nuovo
ombra, mentre gli scalini in pietra levigata accompagnavano ogni nostro passo.
A un certo punto rallentammo molto, procedendo pianissimo e
continuando a tenerci per mano. In fondo, uniti anche nel sudore, eravamo
felici di scambiarci ancora una stretta forte e risoluta.
Giunti quasi in cima, ci ritrovammo sovrastati dall’ultimo
picco di irta roccia, che si stagliava su di noi come se fosse un gigante. Un
colosso ormai vinto, che poneva l’ultima coraggiosa resistenza al nostro
implacabile assedio.
“Scatto una foto”, trovai la forza di sussurrare, estraendo
il cellulare dalla tasca e immortalando la torre sovrastante. Poi tornai a
riprendere la mano di Piergiorgio e ad affrontare gli ultimi metri che ci
separavano dalla vetta.
L’ultima parte del tragitto fu inebriante; il senso di
vittoria si mischiava al sudore e alla stanchezza.
Non mi parve vero quando mi trovai al cospetto della Torre
dell’Orologio, che dal borgo sottostante mi era parsa davvero irraggiungibile.
Con il fiato rotto dai continui e profondi sospiri, quasi
asmatici, abbracciai con forza il mio George, colui che mi aveva motivato fino
a quel momento.
“Eh! Pare che abbiamo scalato l’Everest…”, sospirò,
ricambiando la stretta e rispondendo con la sua solita e pacata vena ironica,
mai fuori luogo.
“Concordo”, aggiunsi, felice.
“E non hai ancora guardato il paesaggio”, affermò il mio
amore, allungando la mano destra e aprendola, come a volermi illustrare
qualcosa di spettacolare. E lo era, in effetti; sotto di noi, Brisighella si
estendeva a vista d’occhio. I suoi tetti colorati sembravano una moltitudine
distante e remota, mentre noi, isolati su quel greppo, ci sentivamo come le
antiche divinità.
Muovendo gli occhi, scorsi anche la rocca, stanziata su un
altro picco parallelo a quello in cui ci trovavamo noi in quel momento.
“E’ bellissimo”, sussurrai, “grazie per avermi incoraggiato a
giungere fin qui”.
Era vero, quella era stata un po’ la nostra fine, il nostro
obiettivo.
Con il sorriso ben stampato sulle labbra, che era tornato a
riaffiorare con decisione, mi allungai verso il mio amante e lo baciai con
forza, lasciando che il sudore e il sapore delle nostre labbra si mischiassero
e formassero un tutt’uno. Un bacio che sapeva di impegno, di vittoria, di
motivazione. Di desiderio.
NOTA DELL’AUTORE
E non finisce qui, la gita continua nel prossimo capitolo ^^
Brisighella esiste veramente, e le descrizioni sono veritiere.
Si tratta di un bellissimo borgo medioevale, che vi consiglio di visitare.
Vi ringrazio per il costante sostegno, e vi avviso che la
prossima pubblicazione potrebbe non cadere più di lunedì, poiché il capitolo
successivo a questo devo ancora progettarlo e scriverlo, e come se non bastasse
sono pieno di impegni e di cose da fare. Prometto che cercherò di continuare a
pubblicare almeno un capitolo a settimana, tuttavia mi scuso se non sarà di
lunedì, come ormai eravamo abituati.
Grazie per la pazienza e di tutto ^^
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Capitolo 42 *** Capitolo quarantadue ***
Capitolo quarantadue
CAPITOLO QUARANTADUE
Interrotto il passionale bacio, restò solo la curiosità.
Il paesaggio che ci circondava era splendido, ma non avevo
ancora colto tutti i suoi dettagli. Se la distante rocca era molto suggestiva,
avvolta dalla nebbiolina delle giornate afose, la città ai nostri piedi era un
mosaico di colori rossicci, tipici delle tegole, e di verde intenso, tipico
delle foglie in estate.
Purtroppo la visuale restava un po’ più ridotta per quanto
riguardava il resto, ciò che si sarebbe potuto scorgere a una distanza
maggiore, poiché il calore di metà giornata rendeva tutto sfocato e
traballante. La foschia tuttavia non nascondeva le verdeggianti colline
circostanti, e quelli che dovevano essere boschi intervallati da ampi pascoli.
“Molto bello”, tornai a dire, sorridente.
Mi volsi verso Piergiorgio e lo ritrovai a osservare verso
l’alto, i suoi occhi erano infatti rivolti alla Torre dell’Orologio. Avevamo
faticato tantissimo per raggiungerla, ed io in effetti non mi ero neanche
preoccupata di osservarla per bene. Di fattura ottocentesca, la costruzione non
era antica, seppur risultasse suggestiva al cospetto di una prima e fugace
occhiata.
Curata e tenuta bene, la Torre si innalzava rapidamente,
anche se non era una struttura che metteva soggezione al visitatore. Il suo
orologio non era visibile per chi raggiungeva quello spazio angusto.
Mi mossi verso il retro della struttura, provando un profondo
senso di vertigine quando mi ritrovai nella parte più stretta di quella
località abbastanza ostile all’uomo, dove la base della Torre si sporgeva
maggiormente verso la cinta in mattoni che la separava dal baratro sottostante.
Lì ero proprio premuta tra mattoni e cielo.
Mi si accapponò la pelle al solo pensiero di una caduta
accidentale.
Mi ritrassi e tornai dal mio George, che invece non si era
lasciato andare per nulla e si crogiolava all’ombra dell’edificio, proprio al
cospetto del piccolo ingresso dalla porta di legno.
“Mi dispiace, mi sa che non possiamo visitare l’interno. È
chiuso”, mi disse, un po’ rattristato. Un foglio protetto da una busta di
plastica troneggiava sul legno, e lì c’erano scritti gli orari di apertura.
Mi avvicinai, ma non mi misi a leggere, non mi andava e in
fondo non mi interessava più di tanto.
“Se vuoi, possiamo tornare su più tardi. L’orario estivo
prevede l’apertura alle quindici”, tornò a dire George, ma io banalizzai la
questione con una secca scrollata di spalle.
“Non fa nulla, sarà per un’altra volta”, lo rassicurai con
gentilezza. Sicuramente non avrei riaffrontato l’ardua salita per visitare un
ambiente angusto che ospitava qualche schizzo di autori locali sconosciuti al
mondo. Per me non aveva importanza, ma non volevo ferire il mio gentilissimo
accompagnatore.
“Vuoi tornare giù, allora?”, mi chiese allora il mio uomo.
“Sì, dai, così visitiamo meglio la città”, annuii.
Tornammo a prenderci per mano, per poi prepararci alla
discesa. Discesa che si preannunciava panoramica, e pure difficile. Infatti,
mentre salivo non avevo pensato che scendere sarebbe stato a sua volta alquanto
complicato. Gli scalini di pietra erano angusti, impedivano un’ampia falcata, e
inoltre erano leggermente scivolosi anche da asciutti, poiché resi lisci dai
milioni di scarpe e scarponi che li avevano levigati nel tempo.
Mi ritrovai allora a stringere con maggior vigore la mano di
George, ed egli sghignazzò.
“Non hai la stoffa dell’esploratrice”, mi fece notare.
Non gli risposi, fermandomi un attimo a osservare di nuovo la
vista panoramica che si snodava al mio fianco sinistro. Brisighella era ancora
sotto di noi, come se fosse stata il fondo di un precipizio. La vista era
splendida, la discesa un po’ meno.
Più giù, poi, si rese più docile e fu semplice da affrontare.
Quando ci ritrovammo di nuovo al cospetto del bivio iniziale, tuttavia, fu il
turno del mio amante di stringere più forte la mia mano.
“Andiamo alla rocca, dai”, propose.
Gli riservai uno sguardo in bilico tra l’irritato e lo
spaventato.
“Dio mio, no”, soffiai, “non me la sento. Non un’altra
scalata…”.
“Ehi, non ti preoccupare! Ti prometto che non è difficile
come quella che abbiamo appena affrontato”, ridacchiò George. E allora gli
rivolsi un’altra mezza occhiataccia.
“Difficile o semplice, è meglio che non ci sforziamo troppo,
con questo caldo”, provai a giocarmi un’altra carta. Non avevo tanta voglia di
tornare a faticare, contando che la maglietta leggera che indossavo era già
umida di sudore sulle spalle, e non volevo peggiorare la mia situazione.
“Sembri una bambina”, borbottò, e fu il suo turno di
mostrarsi un filino scocciato. E mi dispiacque, mi dispiacque da impazzire.
“Sei propositivo e coraggioso, George, lo so”, gli feci
allora notare, “però non me la sento. E non credo che sia una buona idea
neanche per te…”.
“… perché sono vecchio, vero?”, mi interruppe, come a
completare la mia frase.
Scossi il capo, preoccupandomi di non ferirlo. Stava facendo
così tanto per me… nessuno si era mai messo in gioco in quel modo.
“Non sei vecchio. Hai un animo da ragazzo, più di me. Questa
però è una sfida alla sorte, se ci aggiungi anche il caldo”, gli risposi.
Le mie parole non sortirono l’effetto sperato, né lo
tranquillizzarono, anzi egli mi rivolse un’occhiata infuocata e dalle palpebre
socchiuse. Di quelle colme di decisione, di rabbia. Ce la stava mettendo tutta,
e lo stava facendo per me.
“Tu non sei la mia infermiera, ma sei la mia donna e la mia
compagna. Devo ricordarti che, se lo vorrai, presto ci sposeremo? Ecco, allora
impara a comprendermi anche tu, assecondando qualche mia scelta, per favore”,
si spiegò, leggermente stizzito.
Riconoscendo che io stavo di nuovo peccando di egoismo, e
ascoltando le sue ragioni, riconobbi nuovamente che ero io stessa a frenare
quel prezioso momento condiviso, invece di farne tesoro. D’altronde, non era
giusto che io scegliessi al posto suo, dopo che lui mi aveva portato fin lì e
mi aveva aperto gli occhi. No, non lo era affatto.
Mi avvicinai e lo baciai sulle labbra, in tacita ricerca di
perdono.
“Andiamo pure”, affermai dopo il rapido contatto, sforzandomi
di donargli un raggiante sorriso. Se lo stava meritando.
Piergiorgio parve molto felice e soddisfatto della mia
reazione, e stringendomi di nuovo la mano si catapultò letteralmente verso il
sentiero che non avevamo ancora percorso. Vedendolo contento, fui contenta
anche io.
Ben presto notai con evidenza che il mio George non mi aveva
mentito affatto; la salita era più dolce, più tranquilla. Qualche punto ripido
c’era, ma era nulla in confronto alla scalata per raggiungere la Torre
dell’Orologio. Oppure ero io, forse, che ormai mi ero abituata.
Ogni tanto, ci capitava di passare a fianco di alcuni cortili
recintati, e i miei occhi correvano verso quelle casette isolate sul pendio
della collina.
“Pensa a chi vive qui, che a valle deve scenderci a piedi”,
mi fece notare il mio accorto accompagnatore.
“Io non lo farei mai. Poi chissà se ci vivono…”. La mia era
una mezza domanda, quasi retorica e senza punto interrogativo. Pareva infatti
evidente che fossero abitate, poiché nei cortili erano presenti cani e gatti, e
le finestre erano aperte.
Tuttavia, pareva che non ci fosse alcuna persona in
movimento.
“Se tira una scossa di terremoto, questi restano isolati di
certo”, riprese a dire George, questa volta con un velo di tristezza.
Gli sferrai una delicata gomitata.
“Per carità, non portiamo sfiga”, dissi, scaramantica. Sapevo
che quella era una zona fortemente sismica, non mi pareva il caso di pensare a
un possibile dramma.
Proseguimmo ancora per un po’ in silenzio, continuando la
salita e ritrovandoci presto al cospetto di scalini veramente ripidi, come
quelli di poco prima. Anche se la rocca ormai era a una decina di metri sopra
di noi, quindi non si trattava di una scalata folle.
Con un sospiro, e lasciandomi affiancare dal mio amante,
proseguii la salita.
Un breve varco si aprì al nostro cospetto, un po’
all’improvviso; nel bel mezzo di esso, una grande pianta di Opunzia si era
impadronita di gran parte della piccola piana, senza però invadere il sentiero
di pietra.
“Non credevo che queste piante vivessero anche quassù”,
borbottai, stupita. La cactacea era tra l’altro in buona salute e sembrava
essersi adattata bene all’altura.
Dall’evidente grandezza, si comprendeva che doveva essere lì
da almeno un paio di decenni.
“Strano, vero?”, mi domandò come risposta il mio George,
anch’egli pensieroso al cospetto della lussureggiante pianta grassa.
“Ma quanto è spinosa”, notai, poiché l’Opunzia in questione
sembrava una palla di spine. Non era come quelle classiche, con spini lunghi
oppure piccoli, un pochino radi. Quella era veramente una foresta di
pungiglioni, intricata. Le pale erano impossibili da afferrare a mano nuda.
“Sarà una varietà più resistente delle altre. Si vede che è
diversa”, fu costretto a riconoscere anche il mio fedele accompagnatore. “Anni
fa c’era già, ma era più piccina rispetto a ora”, aggiunse, poi.
Gli sferrai una leggera gomitata, per scherzo.
“Chissà quante fiamme hai portato quassù!”, esclamai,
divertita. Piergiorgio però non la prese bene e avvampò subito in volto.
“Non sono una persona poco seria…”, mormorò.
“Lo so, lo so”, lo rassicurai, smettendo di sorridere.
Evidentemente, non ero brava quanto lui a dosare l’ironia.
Per farmi perdonare, gli scoccai un rapido bacetto sulla sua
ispida guancia, invitandolo a tornare ad affrontare la breve salita che era
rimasta di fronte a noi.
Restammo in silenzio per un po’, ancora soli. Sembrava che
nessun coraggioso stesse percorrendo le nostre stesse orme. La salita era
ripida e difficile, nella sua parte conclusiva, ma ormai ci eravamo abituati e
sembrava un gioco, rispetto a quella che ci aveva condotto alla Torre.
Con fatica e col fiatone, ci ritrovammo al cospetto della
rocca e della sua grande mole, anch’essa incastonata su uno sperone roccioso
che a suo tempo doveva essere davvero difficile da assediare e attaccare. E
lassù, oltre a trovarci al cospetto dell’ennesimo portone sbarrato, incrociammo
il primo essere umano.
Si trattava di un signore che indossava abiti da lavoro e
aveva tra le mani un lungo scalpello da speleologo. Sembrava un tipo strano a
prima vista, però si dimostrò affabile, poiché non appena ci notò ci venne
incontro sorridendo.
“Visitatori, finalmente! Complimenti a venire fin qui, con
questo caldo”, quasi ci accolse.
George sorrise a sua volta, cortese e accomodante come
sempre.
“Siamo coraggiosi”, sancì, quasi fosse un’ammissione.
“Peccato che la rocca sia chiusa, a quest’ora”, tornò a dire
il nostro nuovo e inattesto interlocutore.
“Qui fate orari strani, si vede che siete gente di
montagna!”, George provò a fare una mezza battuta. Il signore rise.
“Voi della piana non avete orari. Lasciate che le tradizioni resistano,
almeno qui…!”, rispose a sua volta con ironia, stringendo poi il suo
martelletto e picchiettando su un piccolissimo sperone di nuda roccia che
riaffiorava dal sottile strato di terra che pareva rivestire la vetta del
picco. Con sorpresa, essa si frantumò subito, al primo contatto.
“E’ friabile, eh?”, domandò il mio compagno, che curioso come
sempre si chinò a raccogliere il frammento, passandoselo poi tra le mani.
“Il gesso lo è sempre”, affermò con decisione il signore,
allungando poi la mano per riprendersi quel campioncino di materiale.
“Gesso?”, domandai io, senza pensarci troppo.
Ricevetti subito un paio di occhiate storte.
“Signorina, sì, questo è gesso. Qui è tutto costruito su un
giacimento di gesso”, puntualizzò di nuovo il signore.
“Ci troviamo nella vena del gesso, Isa”, aggiunse il mio
amante, rigirando il coltello nella piaga. In quel preciso istante riaffiorò
tutta la mia ingenua ignoranza. Ahimè, non avevo mai amato leggere, e neppure
informarmi sul territorio in cui vivevo, oltre che a quello della mia regione.
E avevo fatto così una pessima figura.
Preferii quindi incassare il colpo e tacere, annuendo come se
in realtà avessi commesso una sbadataggine.
Per fortuna, il mio George amava chiacchierare e fare
domande, la sua curiosità era insaziabile e pareva non avere limiti.
“Come mai raccoglie campioni?”, domandò, infatti, mettendo
immediatamente in secondo piano il mio mezzo strafalcione.
“Sono un geologo, ho la passione dei minerali”, rispose il
gentile signore, tornando a sorridere.
“Ho visto che qua avete anche delle belle piante grasse…”,
aggiunse Piergiorgio, indicando con la mano la grande Opunzia che si stagliava
poco più giù di noi.
“Be’, su un terreno roccioso si trovano bene, poi se mettiamo
anche che il nostro clima sta cambiando…”.
L’interessante considerazione dell’uomo parve incoraggiare il
mio amante, che cominciò a chiacchierare con vigore, ripercorrendo con la
memoria gli inverni di quando era piccolo e anche quelli di cui gli avevano
parlato i suoi genitori.
Lasciai il mio compagno per qualche istante in buona
compagnia, approfittando della posizione privilegiata per tornare a osservare
il fantastico paesaggio. Ora la Torre dell’Orologio sembrava molto distante,
avvolta dalla foschia. Eppure, ben sapevo che era a soli dieci minuti di
impegnativa scarpinata.
Nel frattempo, si era alzato un venticello che donava un po’
di fiato, spazzando via la calura eccessiva del mezzogiorno imminente.
Osservai ancora ciò che mi circondava, puntando lo sguardo
sulla rocca, che sembrava anonima e solitaria, come abituata alla solitudine
che l’aveva avvolta da sempre. Sotto di me, i soliti tetti di Brisighella non
offrivano nuovi scenari.
Mi sentivo finalmente libera, come se i ricordi dei giorni
scorsi appartenessero a molti anni addietro. Anche solo il giorno prima, trascorso
al mare, mi sembrava ormai sfocato e quasi dimenticato.
E poi… ecco, mi tornò alla mente solo lui; Riccardo. Fu come
un fulmine a ciel sereno. Mi ritrovai con il magone in gola, all’improvviso, e
lottai per reprimere una sensazione di disagio.
Lui non era neanche un amico, non era nulla per me e non
avrebbe mai più avuto nulla da spartire con me. Era una sorta di capitolo
chiuso, di quei piacevoli incontri casuali che lasciano il segno.
Era solo un bel ricordo, e come tale doveva essere adeguatamente
riposto nei meandri della mia mente.
A interrompere quello strano momento catartico fu
Piergiorgio, che evidentemente si era stancato di chiacchierare con lo
sconosciuto ed era tornato ad avvicinarsi a me.
“Scendiamo, che ne dici?”, m’interpellò. “E’ quasi
mezzogiorno, è ora di pranzo”.
Annuii, distratta.
Tornai in me in modo totale solo quando mi prese di nuovo per
mano e tornammo ad affrontare una nuova discesa.
Salutammo il cordiale signore, ancora alle prese con la
ricerca di alcuni frammenti di minerale, e osservammo per un’ultima volta
l’Opunzia, prima di tornare in fretta al borgo.
Una volta giù, ci ritrovammo ancora tra le antiche viuzze di
un centro storico d’altri tempi.
“Sono pentito”, affermò George, a quel punto. Mi volsi a
osservarlo; era sudaticcio e mi sembrava molto stanco e provato. Tuttavia, a
sua volta mi guardava con i suoi occhi magnetici e pieni di vita.
“Non capisco”, risposi, senza riuscire a comprendere il
motivo di tal dispiacere.
Lui scosse la testa, piano.
“Non avevo pensato di venire qui, come ti ho detto. E allora
ho preparato un pranzo al sacco, che ho lasciato in macchina, nel cestino. Solo
che ci sono tanti ristoranti, e non vedo perché non dovremmo approfittarne…”,
si spiegò, imbarazzato.
Gli sorrisi.
“Non c’è problema, mangiamo quello che hai preso da casa. Non
ha importanza il ristorante, anzi, preferisco un bel pasto all’aperto”, lo rassicurai.
“No, no, andiamo al ristorante”, insistette, “scegli quello
che preferisci”.
“Davvero, smettila George! Così mi fai sentire solo in
imbarazzo. Preferisco ciò che hai preparato tu, il ristorante può aspettare un
altro giorno. Tanto sono tutti uguali, ormai”, affermai, decisa. Era vero; lui
era stato così premuroso, perché sciupare tutto? La nostra in fondo era un’uscita
romantica, e si stava svolgendo tra la natura e le opere architettoniche
antiche. Era come se il ristorante fosse alquanto fuori luogo.
Il mio amante parve convincersi, e in silenzio riprendemmo a
muoverci verso la macchina.
“Aspettami qui, seduta su qualche panchina. Ci penso io, in
fondo è colpa mia”, borbottò, impacciato.
“Non pensarci neanche! Ci vado io, aspettami tu”, esclamai,
vinta anche dai sensi di colpa. George era sempre molto premuroso nei miei
confronti, e non solo. Egli pensava sempre a me, al mio benessere e alla mia
tranquillità; io per lui ero sempre venuta prima di tutto. Ero io quindi
l’egoista di questa nostra favola.
Volevo sdebitarmi per i bei momenti che stavamo trascorrendo
e per quello che stava facendo per rendermi una persona migliore, una donna
amabile.
“Allora andiamo assieme”, sancì, e mi sorrise con
riconoscenza. Aveva apprezzato il mio pensiero.
Soddisfatta, tornai ad afferrare la sua mano e a stringerla.
Non esisteva alcuna differenza tra noi, solo la nostra pelle a dividerci.
Avevamo lo stesso cuore, che batteva a un ritmo regolare. Lo amavo, alla
follia.
Nel nostro breve percorso a ritroso, notai più volte insegne
di locali e menù esposti da poco, tuttavia nulla mi garbava. Si parlava di
pasta, ragù di carne, e solite cose. Non aveva importanza.
Preoccupato, Piergiorgio scaricò dal fuoristrada il nostro
pranzo, mentre dentro al veicolo l’aria era già pressoché irrespirabile per via
del caldo, con il sole che rendeva roventi i vetri e la carrozzeria.
“Non so se sarà più commestibile”, tornò a dire, con un tono
davvero scoraggiante.
“Oh, su! Dai, adesso sei tu il più scoraggiato dei due”,
dissi gentilmente, come a volerlo risollevare di morale. “Andrà tutto
benissimo, non ha importanza”, proseguii.
“E’ che per te vorrei sempre il meglio”, mi disse, e allora
lo abbracciai e lo strinsi fortissimo a me.
Contrariamente alla giornata trascorsa in riviera, là in
collina non c’era né traffico né passanti, era un clima così rilassato e
tranquillo che mi spingeva a sentirmi ancora più libera. Più me stessa.
“Cerchiamo uno spazio verde, che ne dici?”, lo interloquii.
“Va bene, d’accordo”, concordò, sciogliendo l’abbraccio, “ho
già un certo languorino!”.
Camminammo di nuovo verso il centro del borgo, fino a tornare
al punto in cui eravamo partiti poco prima; un’altra sfacchinata che mi aveva
veramente stancato.
“Io non ne posso più, dai, fermiamoci”, invocai la clemenza
di George.
“Oh, manca così poco”, disse lui seccamente, continuando a
tenere ben saldo il cestino da picnic.
Capendo dove voleva andare a parare, l’assecondai al fine di
tornare a raggiungere il punto in cui le stradine si biforcavano verso le
scalate che conducevano alla rocca e alla Torre. Lì c’era un ampio e isolato
spazio verde, dove gli alti alberi donavano frescura e i cespugli bassi e
lussureggianti offrivano riparo da occhi indiscreti.
George aveva portato anche una bella tovaglia su cui
accomodarci, e la distese sul terreno asciutto. Io mi occupai poi di aprire il
cestino e di preparare i viveri.
Il pasto era abbondante; c’erano diversi panini, un paio di
appositi contenitori di plastica contenenti della pasta e dell’insalata di
riso, e per finire qualche frutto e una fetta abbondante di ciambella. Insomma,
era davvero completo.
“Ma l’hai preparato tu, o l’hai fatto fare alla donna di
servizio?”, gli chiesi, stupita da una preparazione così ampia.
George rise.
“Mi sono messo di impegno e di buon ora, ma ti garantisco che
è tutta farina del mio sacco”, mi garantì.
“Si vede che è tutto preparato con grande amore”. A quelle
parole, mi diede un leggero bacetto sulla guancia destra, allungandosi verso di
me.
“Tieni”, dissi poi, estraendo l’ultimo pacchetto, che
conteneva un paio di posate a testa. Sul fondo giacevano le bibite, due
aranciate e due bottigliette di acqua, con due bicchieri di vetro.
“Preferisco la pasta, se non ti dispiace”, dissi,
accaparrandomi subito uno dei due contenitori contenenti la pasta fredda.
“Puoi scegliere quello che preferisci”, fu la sua risposta.
Inutile aggiungere che mi abbuffai; avevo una fame da lupi, e
come se non bastasse le pietanze che il mio uomo aveva preparato erano tutte
fantastiche. Mangiai anche la mia porzione di insalata di riso, un panino, e poi
anche la pesca e due albicocche.
“Per fortuna che non facciamo tanti picnic, altrimenti presto
sarei diventata una balena”, ridacchiai, facendo un po’ di ironia a riguardo di
tutto quello che avevo mangiato.
“Sarà stata una tua impressione, perché non ho preparato
niente di che. Si tratta solo di piccole porzioni fredde, un pasto davvero
misero”, replicò George, felice tuttavia che stessi gradendo così tanto.
“Ho preferito questo pasto a quello di un ristorante”,
affermai con sicurezza. Non mi andava la carne o stare seduta a tavola per
oltre un’ora e mezza, tra l’altro con un caldo così e la consapevolezza che nel
pomeriggio ci sarebbe stato da camminare. Insomma, non volevo mangiare pesante.
Era vero che avevo sbafato la parte di prelibatezze che
Piergiorgio aveva appositamente preparato per me, però non si trattava di cibo
che rischiava di restare indigesto.
Inoltre ci circondava la natura, i suoi uccellini che
cantavano sugli alberi, e le antiche mura di uno splendido borgo medievale, uno
tra i più antichi e meglio conservati della Regione. Cosa potevo desiderare di
più? Presto capii però che, passata la fame del corpo, restava solo quella
dell’anima.
“George”, mi venne spontaneo chiamarlo, mentre era ancora
alle prese con la sua fetta di ciambella.
“Dimmi”, rispose con prontezza. Lo osservai e attesi un
istante, in modo che completasse il suo pasto, poi mi allungai verso di lui e
lo baciai sulle labbra.
“Grazie per quello che mi stai facendo vivere oggi”, gli
dissi.
Lui parve un filino imbarazzato e si ritrasse di qualche
centimetro da me.
“Non è nulla di speciale”.
Sorrisi.
“Lo è, invece”, e gli passai ambo le braccia attorno al
collo, “grazie. Era da tanto tempo che non trascorrevo delle giornate così
fantastiche… vorrei che anche quest’oggi durasse in eterno”.
“Nulla dura per sempre, amore mio. Il tempo è un inganno, è
l’unica legge della vita. Ed è implacabile nel suo scorrere”.
Lasciai che infilasse il suo viso nel mio petto, poco più
sopra dei seni.
“Noi almeno lo stiamo mettendo bene a frutto”, mi venne
spontaneo dirgli.
Di certo, con il mio ex avevo messo a frutto molte meno cose.
Così poche che non mi era rimasto niente.
“Il tempo è un’entità inafferrabile, mia carissima. Spero
davvero che noi lo stiamo utilizzando al meglio”, sancì George, che sciolse la
stretta. Forse nel timore che il contatto potesse sfociare in qualcosa di più,
poiché ormai sapevamo bene che a volte non sapevamo come trattenerci e
l’istinto si faceva vorace.
Notando il leggero rigonfiamento dei suoi pantaloni, capii
con maggior evidenza il motivo per cui stava evitando il prolungarsi delle mie
moine. Restai infatti in silenzio a guardarlo, mentre ormai si era divincolato
da me e con alcuni gesti impacciati si era messo a sistemare il cestino, raccogliendo
ciò che avevamo sparpagliato sulla tovaglia.
Capivo la sua scelta molto razionale e corretta, ma preferivo
fosse lui a rompere quel velo di imbarazzo che era calato su di noi.
“Che ne dici se completiamo la visita alla città, andando a
dare un’occhiata alla Via degli Asini?”, domandò infatti poco dopo, senza
lasciarmi a languire per troppo tempo.
“Va bene”, acconsentii. Dovevo ricordare che eravamo in gita,
non in casa nostra.
Lo aiutai a ripiegare la tovaglia, e fummo presto pronti per
tornare a camminare. La fortuna volle che la fantomatica Via fosse proprio lì
vicino, e la raggiungemmo davvero in fretta.
“Oh”, mormorai, osservando quell’ennesimo luogo insolito.
La Via degli Asini era davvero un posto strano; a metà tra la
strada e un porticato antico, appariva molto lunga a un primo sguardo e il suo
basamento era tutto disconnesso. In alcuni punti erano presenti delle sorte di
dossi, ove il pavimento si era alzato, mentre in altri c’erano delle conche.
“Leggi lì”, mi consigliò il mio accompagnatore, indicandomi
la targhetta color oro che era stata assicurata al muro retrostante.
Mi avvicinai e lessi con attenzione crescente.
La Via del Borgo o
degli Asini
Costruita probabilmente
nel XIV secolo, permise di realizzare in uno spazio ristretto una strada
sopraelevata, un baluardo difensivo e un nucleo abitativo. Risulta storicamente
che da questi archi i “Brisighelli”, famosi soldati di ventura, impedirono nel 1467
alle truppe del duca di Urbino, Federico da Montefeltro, di penetrare in paese.
La denominazione “Via degli Asini” deriva dal fatto che di qui transitavano
file di animali da soma che trasportavano il gesso delle cave sovrastanti il
borgo.
Mi guardai meglio attorno e notai che in effetti molti
portoni sembravano incastonati nel muro, più avanti, assieme a tanti
campanelli… quindi quella parte antichissima del borgo era ancora abitata.
Presi per mano George e riprendemmo la nostra esplorazione,
relativamente rapida, poiché dopo qualche altra decina di metri la Via si
esauriva e tornava a far convogliare i suoi visitatori nelle strade meno
antiche.
Tirai un sospiro profondo.
“E’ stata una vera emozione. Questa antica Via è… non lo so,
è stato come camminare nella Storia”, ammisi. Non c’era nessuno, eravamo stati
da soli ad aver percorso in silenzio quel luogo storico, godendoci il momento.
Piergiorgio tornò a sorridermi.
“Sono lieto che ti sia piaciuta”.
Sorrisi a mia volta, stringendomi nelle spalle.
“Solo che ormai è ora di tornare a casa. Che ne dici? La
città l’abbiamo visitata tutta. Oppure vuoi aspettare per cenare da qualche
parte?”, tornò a interpellarmi. Non ci pensai su neanche per un secondo.
“A malincuore, ma andiamo a casa. Domani torno a lavoro, non
voglio giungerci sfinita”, dissi, tornando mogia. Lui mi passò un braccio
attorno alla vita, consolandomi.
“Qua ci possiamo tornare tutte le volte che vuoi e quando
vuoi, intesi? Ma adesso, come mi hai fatto notare, è giusto pensare anche al
domani”. Annuii.
Il ritorno alla macchina fu triste e mogio, con i miei occhi
che non abbandonarono Brisighella fintanto che l’ultima sua casa non rimase
alle mie spalle, con il fuoristrada che si allontanava velocemente.
Una volta a casa, sapevo cosa fare. Avevo tutto molto chiaro.
Rientrai e salutai la mamma, rassicurandola e dicendole che
era andato tutto benissimo, però ero molto stanca e volevo restare un po’ sola.
Salii in camera e mi svestii, poi feci una doccia.
Infine, tirai fuori dall’armadio la valigia con cui ero
tornata a casa di mia madre, e la riempii con i miei pochi oggetti personali.
Era giunto il momento di prendere una decisione… il fatidico momento di
scegliere.
Con un sospiro molto profondo, la chiusi appena fu piena e me
la trascinai dietro, senza pensare. Sapevo bene che se mi fossi fermata a
riflettere avrei fatto un passo indietro, di nuovo assalita dalle mie solite
incertezze.
Scesi al piano inferiore e mi affacciai alla porta della
cucina, dove mia mamma mi aspettava raggiante. Tuttavia, non appena notò la
valigia e la mia espressione seria, parve mortificata.
“Quindi… te ne vai?”, chiese.
“Vado a convivere a casa sua. Glielo devo, ho capito che
dobbiamo provarci”, le spiegai. Non riuscii a dilungarmi, poiché avevo gli occhi
che già mi si inumidivano di pianto. Ero molto emozionata.
Lei si limitò a stringermi forte e a darmi un bacio sulla
fronte, come quando ero bambina. Probabilmente si aspettava che quel fatidico
momento sarebbe giunto presto.
“Continueremo a vederci tutti i giorni, verrò da te ogni
volta che potrò. Ti chiamerò sempre, non sarai mai sola”, le dissi, come a
volerla rassicurare. Ma lei si staccò da me e mi accompagnò verso la porta.
“Voglio per te solo il meglio. Che questa tua nuova partenza
possa essere preambolo di tante, tantissime e belle cose”, mi augurò,
sorridendo. Anche lei si era emozionata molto, anche se forse non aveva colto
il lato più istintivo di quel mio gesto. Ciò era tuttavia una cosa che dovevo
sapere solo io. E il mio uomo.
Giunsi a casa sua e lo ritrovai lì, nel mezzo portone, come
se mi stesse attendendo. Anche il grande cancello sulla strada l’avevo trovato
già aperto. Tra noi era come se si fosse instaurata una sorta di telepatia.
Non disse nulla quando vide la mia valigia, anzi, mi aprì la
porta e mi invitò tacitamente in casa sua. La nostra convivenza sotto lo stesso
tetto ebbe inizio in quel modo, durante quella sera giunta dopo un paio di
fantastiche giornate condivise e di svago.
NOTA DELL’AUTORE
La gita è finita, così come i due giorni di vacanza. Ora si
torna ad affrontare la quotidianità… e a compiere anche delle scelte
importanti!
Vi ringrazio tantissimo per l’attenzione, e spero di non
avervi annoiato ^^
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Capitolo 43 *** Capitolo quarantatre' ***
Capitolo quarantatre'
CAPITOLO QUARANTATRE’
Io e Piergiorgio avevamo sempre saputo che i nostri giorni
erano contati.
Ahimè, allora a scandire le ore doveva restare solo il nostro
rumore, i nostri corpi che si univano, i nostri baci languidi e avidi.
Nonostante tutto, nonostante la sorte, nonostante il futile tempo che, come
sottofondo, scorreva nel rintocco di un orologio a pendolo, o nelle lancette di
un orologio qualsiasi.
Questa era la nostra storia, ed essa era basata su un amore
che non aveva età, né poteva essere classificato in qualcosa di ordinario. La
nostra convivenza era iniziata nel segno di tutto questo.
Inizialmente non capii perché George aveva adeguatamente
preparato la stanza in cui avevamo fatto l’amore per la prima volta a casa sua,
quella per gli ospiti. Perché non mi aveva condotto nella sua personale?
Perché, ancora, la nostra relazione doveva essere avvolta da quel doloroso
anonimato che la caratterizzava fin dai suoi albori?
Non avevo ancora risposte a tutti questi interrogativi,
eppure mi accontentavo. Mi bastava.
Avevo imparato che l’amore vero non si trovava tanto
facilmente, durante il corso di una normale esistenza. Io l’avevo trovato. Non
aveva importanza il letto in cui dormivamo, o la stanza che avremmo condiviso,
quando i nostri cuori battevano unicamente all’unisono.
Dopo il mio silenzioso arrivo a casa del mio futuro marito,
mi ero limitata quindi a seguirlo e a sistemarmi nell’ambiente da lui adibito.
Non avevo neanche disfatto la valigia, tanto non aveva importanza. Avrei avuto
tutto il tempo per farlo.
Eravamo finiti a letto e non eravamo usciti da sotto quelle
lenzuola prima dell’alba successiva, giunta troppo in fretta.
“Com’è andata la prima notte trascorsa in questa casa?” mi
domandò Piergiorgio al momento del mio risveglio. Lui era già in piedi e
sembrava che non avesse atteso altro fino a quel momento.
Io sbadigliai leggermente, quasi avessi avuto paura di
mandare in frantumi quel velo misto di silenziosa passione che ci aveva avvolti
fin dalla sera precedente.
In realtà avevo dormito ben poco, ma non c’era stato male. Il
letto era comodo e la stanza era anonima, senza alcun oggetto che riportasse ad
altri momenti della vita del mio compagno. Era stato come soggiornare in una
stanza d’albergo, in fondo.
“Bene…”, sospirai, con la voce bassissima. La gola secca e la
bocca impastata non mi aiutavano, senza contare che pure le palpebre volevano
tornare ad abbassarsi.
George però andò a spalancare gli scuri della finestra, e fui
inondata dall’abbagliante chiarore del sole nascente.
“Ne sono felice”, affermò dopo il suo gesto istintivo, “però
adesso è ora di alzarsi. Io devo uscire, e tu devi andare a lavoro”.
Il lavoro! Come potevo aver rimosso? Quei due giorni senza
orari mi erano bastati per rendere meno vigile il mio senso del dovere. Per le
otto dovevo essere al bar… le mie palpebre si spalancarono di colpo e potei
scorgere la sveglia che, a fianco del nostro giaciglio, segnava già le sette e
un quarto.
“Uffa”, soffiai, nervosa. Mi alzai in fretta dal letto e
recuperai gli abiti con cui ero giunta fin lì.
“Dai, ti aspetto in cucina”, disse George, notando il mio
nervosismo e preferendo lasciarmi sola per qualche istante. Non ne avevo
bisogno, poiché in fondo dovevo solo razionalizzare che mi attendeva il lavoro,
e quindi farmi passare quella momentanea scocciatura, eppure… mi ritrovai
improvvisamente a pensare che, in fondo, quando avrei riscosso i soldi che mi
aveva lasciato il mio defunto genitore, avrei anche potuto cambiare stile di
vita.
Quella fu la prima volta in cui pensai che quel denaro
maledetto mi avrebbe potuto aprire una qualche porta, una nuova speranza.
Accantonai ogni altro pensiero quando mi fui vestita,
preferendo cercare di non lasciare troppo libera la mia mente.
Mi presentai in cucina con un mezzo broncio, nonostante
avessi tanto desiderato di non farlo.
“Buongiorno”, mi salutò il mio compagno, che come promesso mi
stava aspettando proprio lì.
Sulla tavola, già apparecchiata, c’era tutto il necessario
per una buona e salutare prima colazione.
“Buongiorno, caro”, lo salutai, “ma non dovevi faticare per
me già dall’alba”, e indicai tutto quello che aveva premurosamente preparato.
“Non ti preoccupare, l’ho fatto con piacere. Giusto per
ricordarti che, d’ora in poi, sei mia ospite e come tale sarai trattata.
Inoltre questa sarà anche casa tua”, disse, sorridendo. Beato lui che riusciva
a sorridere fin dal mattino.
Quelle parole però mi emozionarono un po’, anche se a effetto
ritardato. Le rielaborai e le compresi sono quando mi fui seduta e il mio uomo
aveva iniziato a versarmi il caffelatte caldo nella mia tazza.
“Io non voglio essere un peso per te, e questa è casa tua”,
aggiunsi, titubante, sperando di non offenderlo. Mai e poi mai l’avrei reso un
mio servitore, anche se ben sapevo quanto ci tenesse alla galanteria e quanto
amasse avere premura di me.
“Tra poco ci sposeremo, e tutto questo sarà anche tuo,
volente o nolente. Inoltre, non ti sarò mai grato abbastanza per aver accettato
il mio invito a venire a vivere qui. Sei stata davvero gentile e comprensiva”,
si spiegò, e per fortuna non parve essersela presa di nulla.
“Mi piacerebbe se ci sposassimo presto”, dissi, consapevole
che ormai avevamo fatto quasi tutti i passi necessari per arrivare a quel
fantastico e ufficiale traguardo. Non aveva senso tentennare oltre.
“Sono d’accordo. Presto allora concorderemo una data, poi ci
daremo ai preparativi”, acconsentì, felice.
Bevvi il contenuto della tazza in fretta e mangiai un
biscotto, prima di lanciarmi letteralmente verso l’uscita.
“George, ti amo tanto”, affermai, affrettata, “ma se arrivo
in ritardo, poi Virginia me le suona. Questa sera continuiamo a parlarne, va
bene?”.
“Va benissimo!”.
Gli sorrisi. E il tempo scorreva, inesorabile… erano già le
sette e quaranta!
“Vado, allora. A più tardi”, lo salutai, ma egli mi raggiunse
in corridoio e mi chiamò.
“A mezzogiorno, lascio detto a Irina di prepararti qualcosa,
va bene? Vieni a mangiare qui, lei è una bravissima cuoca”, mi spiegò. Gli
riservai un’occhiata perplessa.
“Quindi tu non ci sei?”, gli chiesi.
“No”, negò, “dovrò fermarmi a Rimini, in ambulatorio. Ho una
paziente che sta molto male. Ci rivedremo questa sera”.
Restai zitta.
“E queste sono le chiavi!”, aggiunse, venendo ad allungarmi
un portachiavi già preparato.
“No, se tu non ci sei…”, mormorai, ma Piergiorgio parve non
sentirmi e proseguì nel suo discorso.
“La chiave più grande è quella per il cancello, mentre la più
piccola è quella per la porta d’ingresso. E non ti preoccupare se non ci sono!
Ricorda che questa ora è anche casa tua…”, e mi diede le spalle, tornando in
cucina.
Avrei tanto voluto ribadire qualcosa, ma non sapevo che altro
dire. Ancora perplessa, e resa agitata dal fatto che stavo rischiando il
ritardo, mi affrettai allora a mettere in tasca le chiavi che mi erano appena
state date e a uscire in giardino, tra le feste di un’euforica Kira. Là la mia
auto ancora mi attendeva, e mi affrettai a metter piede sull’acceleratore.
Già mi immaginavo la mia datrice di lavoro molto arrabbiata,
poiché un ritardo per lei era inammissibile, soprattutto dopo due giorni di
riposo. Due giorni di ferie che, però, per me erano stati alquanto impegnativi,
alla fine dei conti.
Giunsi giusto in tempo. Varcai la soglia del locale alle otto
spaccate.
Stranamente, Virginia non era appollaiata dietro la cassa, e
non c’era nessuno al bancone a servire.
Gettai solo un’occhiata rapida a quei particolari anomali,
poiché tutta la mia fretta mi faceva muovere soltanto verso il camerino dove
avrei potuto cambiarmi. La rapidità era tutto, agli occhi della mia datrice di
lavoro, e non volevo deluderla proprio ora che sembrava fidarsi di me.
Un cliente mi riconobbe e cercò di fermarmi, deciso a pagare
il caffè, però sapevo che non dovevo commettere passi falsi.
“La signora arriva tra un attimo”, dissi, meccanicamente. Non
mi chiesi dove fosse, pensavo al bagno.
E invece, non appena entrai nel camerino, me la ritrovai
all’improvviso di fronte a me, agguerrita e rossa in volto.
“B… buongiorno”, borbottai, sorpresa e un po’ spaventata.
Virginia però si sforzò di sorridermi, per poi deviarmi e
tornare alla cassa.
“Buongiorno a te, Isabella cara”, mi salutò, anche se il modo
con cui mi aveva parlato lasciava trapelare un nervosismo mal celato.
Scrollando le spalle, entrai dentro all’angusta stanzetta e
trovai Ilenia in preda alle lacrime, appoggiata con la testa contro il suo
armadietto.
“Ile! Ma che…”, tornai a dire, imbarazzata e senza sapere
cosa fare.
Perché quelle due si erano ritirate là dentro per qualche istante,
se non per litigare? Sapevo bene che la nostra datrice di lavoro sapeva essere
molto cattiva quando si arrabbiava, e quindi immaginavo che, per avere una
reazione così tragica, tra le due dovesse esserci stato un battibecco
importante.
Feci per abbracciare la mia collega, ma la ragazza evitò il
contatto, sgusciando via dalle mie braccia.
“Stammi lontano”, sussurrò, tra un singhiozzo e un altro, “lasciami
stare”.
Sbigottita da quell’allontanamento, restai perplessa.
“Perché?”, mi venne da chiederle, spontaneamente. “Cos’è
successo?”, insistetti, temendo di aver sbagliato anche io qualcosa.
Ilenia però mi riservò uno sguardo sbarrato, con gli occhi
avvolti dalle lacrime e un volto dai lineamenti scomposti.
“Sono due giorni che non facciamo altro che litigare, e oggi…
questa mattina… mi è anche caduta una tazzina. Le ho detto che l’avrei
ripagata, ma la vecchia ha fatto un casino… un casino”, e gesticolò, aumentando
l’enfasi.
“Non temere”, mi venne da rassicurarla, mentre recuperavo la
divisa da lavoro, “è stato un piccolo incidente. Vedrai che le passerà presto”.
La ragazza però non mi ascoltava nemmeno.
“Anche io volevo qualche giorno di ferie, ma non mi sono
state concesse. Come sempre, qui sei tu la favorita”, mi disse, con rancore.
Restai impietrita al cospetto di quel verdetto così
affrettato e rancoroso; era forse questo che la mia collega pensava di me? Era
giusto e meditato quel suo giudizio, oppure era solo frutto di un momento di
frustrazione?
“Te le concederà presto, vedrai”, fu tutto quello che riuscii
a dire.
Ile tornò a sorprendermi, poiché smise di asciugarsi le
silenziose lacrime e si lasciò sfuggire una mezza risata davvero irritante.
“Isa, io non vado a letto con il suo migliore amico. Io non
mi prostituisco con i vecchi per avere in cambio i suoi favori”, affermò.
Rimasi di nuovo sbigottita. Il cuore cominciò a battermi
forte nel petto, ormai punto nel vivo.
Allora era vero; era questo che la mia collega pensava di me.
Io, che mi fidavo tanto di lei… che la credevo una persona sensata.
“Io e Piergiorgio ci amiamo al di là di tutto questo. Il
lavoro, Virginia e la prostituzione non c’entrano proprio nulla”, le risposi,
senza tanta grinta. Ero spiazzata, non mi sarei mai aspettata un attacco così
improvviso.
Come sempre, ero la solita ingenua; ancora non capivo che
molte persone adoravano ferire il prossimo, quando si trovavano loro stesse in
difficoltà.
“Ah, no? E allora come mi spieghi, come ci spieghi, che da
quando quel vecchio si è messo di mezzo lei ti lascia sempre in pace? Non ti
tratta più di merda, come invece fa con noi? Eh?”, tornò a dire la sua,
insistendo con cattiveria.
Noi; quindi intendeva anche tutto il resto del personale.
Tutti dovevano pensarla in quel modo, a riguardo di me e George.
Ero confusa e ferita, non sapevo cosa dire, cosa fare, come
comportarmi…
“Senti Ile, non tirare in ballo me e il mio compagno. Se
avete litigato, è una questione che dovete risolvere tra di voi, quindi
lasciami in pace e non citare più George”, le intimai, sempre senza troppa
convinzione.
Notandomi vulnerabile, la mia collega prese la palla al
balzo.
“George”, disse, mimando il tono della mia voce, “così chiama
il suo pensionato! George!”. E rise, rise con una cattiveria isterica e
repressa.
Sentivo il mio volto arrossarsi, mentre le lacrime stavano
per sgorgare abbondanti dagli occhi.
“Aspetta che lo dica agli altri”, tornò a dire, infierendo.
Mi sentivo travolta, come quando ero tra i banchi di scuola e
i bulli mi prendevano in giro, poiché ero troppo timida per difendermi. Poi
divenni più matura e tirai fuori le unghie, ma a quanto pareva ciò non mi fu
utile in quel momento di vera emergenza. E me ne rimasi così, in balia della
vendetta di una ragazza che non poteva sfogarsi contro un superiore, e che
quindi si lasciava andare nei miei confronti.
A interrompere il terribile momento fu proprio Virginia, che
si affacciò sulla porta e interruppe l’isteria di Ilenia.
“Isabella cara, vieni a lavorare e lascia perdere
quell’ingrata. Ha solo delle brutte parole per gli altri, lasciala nel suo
brodo”, disse, con risolutezza.
Annuii, e poiché ero pronta, la raggiunsi e tornai nel
locale, in parte contenta di essere riuscita a sfuggire dalle grinfie della mia
perfida collega.
Tuttavia, le lacrime di frustrazione erano ancora lì, pronte
a sgorgare e a dilagare. Mi vergognavo perché non l’avevo difeso… non avevo
difeso il mio amore. Lui l’avrebbe fatto. Ma lui era forte, io non lo ero
ancora abbastanza, a quanto pareva.
Quando Virginia notò il mio stato, mi si avvicinò e appoggiò
la sua mano sulla mia spalla, con una delicatezza quasi genitoriale.
“Cos’è successo là dentro?”, mi chiese.
A quel punto non riuscii più a trattenermi, e mi diressi
verso il punto meno affollato del locale, lasciando andare le mie lacrime.
Virginia, che mi aveva seguito e che anche lei si stava
tutt’a un tratto disinteressando dei suoi stessi clienti, parve molto
preoccupata dalla mia reazione e mi seguì, non lasciandomi sola.
“Isabella, avanti. Dimmi cosa ti è successo”, mi solleticò.
Sapendo di poter solo peggiorare la situazione, preferii sussurrare un classico
niente, che ovviamente non convinse la signora.
“No, invece è successo qualcosa, perché tu quella soglia
l’hai varcata felice e serena, e sei uscita dal camerino in lacrime e
sconvolta. Essendo mia l’attività, ho diritto di sapere ciò che accade al suo
interno”, quasi m’intimò. Lo fece con poco garbo, ma si capiva che era ancora
irritata per poco prima, quindi immaginando che Ilenia avesse commesso qualche
altro affronto si era irritata di nuovo.
“Ha criticato lui… il nostro rapporto… ed io non ho nemmeno
avuto il coraggio di difenderlo…”, vuotai il sacco, piangendo.
Virginia capì immediatamente, e parve calmarsi. Mentre mi
sedevo in disparte, allungò una mano e mi accarezzò la testa.
“Bambina mia, la gente è tanto cattiva. Comunque non
preoccuparti, il nostro Piergiorgio non avrebbe mai voluto che tu reagissi
così. Lui è tanto buono, avrebbe perdonato, anzi, non avrebbe nemmeno
ascoltato, quindi tranquillizzati. È tutto a posto, non pensarci più”, spiegò,
con dolcezza.
Annuii, sospirando e asciugandomi le lacrime con uno dei miei
inseparabili fazzoletti di carta.
“La ringrazio”, le dissi, rialzandomi e tornando a prendere
in mano la situazione. Le parole di Ilenia si commentavano da sole, non c’era
bisogno che dessi spettacolo di fronte a un locale pieno di avventori.
Mi asciugai in fretta e per bene le guance, poi mi impressi
un sorriso tirato sulle labbra e andai a servire ai tavoli. Su di me, avvertivo
lo sguardo fiero della proprietaria, che doveva aver gradito il mio modo deciso
di rialzarmi. Non appena fui all’opera, il senso di disperazione fu facilmente
assorbito da quello del dovere.
Virginia tornò alla cassa e consegnò un paio di scontrini,
prima di andare di nuovo ad affacciarsi alla porta del camerino.
“Ilenia, avanti, non ti pago per startene nascosta! Vieni a
fare il tuo lavoro”, ordinò alla mia collega, a voce alta.
Io continuai a servire e a fare caffè, fintanto che Ile non
fece capolino dal suo nascondiglio e, tutta imbronciata, si mosse verso il
bancone e verso me.
Quando mi fu a fianco, mi urtò proprio mentre stavo servendo
un cappuccino. Inutile sottolineare che la tazzina finì a terra, frantumandosi
e sporcando un signore molto ben vestito, che cominciò a imprecare e a
lamentarsi.
“Ilenia!”, tuonò Virginia, dall’alto del suo sgabello. “Ho
visto tutto, maleducata!”, continuò a riprenderla, urlando a squarciagola.
Io cercai di evitare altre sceneggiate e mi scusai con il
cliente, andando poi a pulire.
Ilenia parlottò a mezza voce, dicendo qualcosa che non
riuscii ad avvertire, mentre la signora doveva invece aver sentito molto bene.
“Oh, che belle parole, complimenti”, disse infatti con
nervosa ironia, “sappi però che con questa tua iniziativa, ti sei giocata
tutto. Non ho più alcuna intenzione di rinnovarti il contratto”, sancì, infine,
per poi andare a sua volta a scusarsi con il cliente che si era sporcato per
via del piccolo incidente di poco prima.
La mia collega, però, era diventata violacea in volto e
sembrava arrabbiata più che mai, decisa a non mollare. Era letteralmente
esplosa.
“Sa che cazzo me ne frega? Me ne sbatto il cazzo del suo
contratto”, iniziò ad affermare a voce alta, continuando a provocare imbarazzo
e disagio tra i clienti, che a quel punto ascoltavano quasi tutti, incuriositi
dal battibecco feroce e inaspettato, oltre che fuori luogo.
“Smettila immediatamente, o sarò io a sbatterti fuori subito,
eh”, cercò di farla tacere Virginia, ma la giovane era fuori di sé.
“Sì, avanti, e ora difenda la sua raccomandata! La ragazza
del vecchio, la difenda, poverina! Che qua la sfottono tutti, è la presa per il
culo del bar…”, e continuò a dire, e a dire come se fosse una sorgente di
offese.
Mortificata, da parte mia restai in silenzio e mi ritrassi.
Preferii uscire dal locale, udendo ancora le urla della
ragazza, che per fortuna cessarono dopo poco. Eppure, non me la sentivo più di
tornare dentro.
Avevo sempre saputo che Ilenia era una ragazza di cristallo,
davvero molto fragile. Aveva avuto problemi anche nei precedenti locali dove
aveva lavorato, poiché era una che si teneva tutto dentro e poi diventava
esplosiva.
Non avevo idea di come fossero state le esplosioni
precedenti, tuttavia quella volta aveva passato ogni limite. La odiai con tutta
me stessa, nonostante mi stessi rendendo conto che quella poverina era una
persona instabile.
Non potevo comunque perdonare ciò che era appena accaduto.
Virginia mi raggiunse di nuovo quando meno me l’aspettavo, e
mi invitò a tornare dentro.
“L’ho messa a tacere. Le ho promesso una denuncia piuttosto
pesante, nel qual caso avesse deciso di continuare. Questo non è un circo, è un
bar”, affermò, arrabbiatissima.
Notando la mia mancata reazione, mi venne vicino e mi
abbracciò. Un contatto così profondo non c’era mai stato, tra noi due, e questo
gesto inatteso mi sorprese un po’. Quel tanto che mi bastò, da lì a qualche
minuto, a farmi cambiare idea.
D’altronde, la signora si era sempre dimostrata di ferro, ma
anche giusta nei miei confronti. Durante quella mattinata molto movimentata mi
aveva difeso, così come aveva fatto anche nei confronti della figura del suo
caro amico Piergiorgio, ed io le ero profondamente grata di tutto.
“Mi dispiace per quello che sta accadendo”, dissi, infine,
riuscendo a dire solo quello.
Virginia sciolse la leggera stretta materna.
“Non devi scusarti, credo sia tutta colpa mia. In ogni caso,
so già come rimedierò a riguardo del personale; però adesso torna dentro, per
favore, e non preoccuparti di nulla. Ora è davvero tutto a posto”, si spiegò,
tornando poi rigida come sempre. E allora la seguii, per me era ancora
importante quel lavoro. Non volevo essere la causa di un altro ammutinamento.
Nulla era a posto, però. Nulla.
Durante la pausa pranzo, tornai a casa di George. Disponevo
di tutte le chiavi, non ebbi quindi bisogno di nulla, se non fossi stata solo
strozzata dall’imbarazzo.
Avevo il cuore in gola e la mente stanca.
Ilenia, dopo l’esplosione, aveva ripreso a lavorare come al
solito, anche se non aveva fatto altro che riservarmi occhiate piene di odio.
Non potendosela prendere con il superiore, se l’era presa con me.
Ma a me ormai importava davvero molto poco… ero così stanca,
tanto stanca. Forse troppo. Restava il mio amore a rendermi felice, ma l’idea
di pranzare a casa sua senza la sua calda presenza mi incuteva un reverenziale
timore. Una sensazione di disagio che però dovevo imparare ad affrontare, se
volevo continuare a vivere assieme a lui.
D’altronde, il mio compagno aveva dormito tante volte da me
senza fare mai una piega. Forse era colpa mia, che non avevo il suo stesso
bagaglio di esperienze.
Parcheggiai al cospetto della villa di campagna e come al
solito fui accolta da una scodinzolante Kira, che mi fece un sacco di feste, ma
non mi rassicurò.
Prima di entrare in casa ne approfittai infatti per fare una
breve telefonata a mia madre, così da assicurarmi che stesse bene. Ebbi anche
modo di sentire una voce amica e molto cara, che mi disse che era tutto a posto
e che era felice per me. Ed io ero felice che lei stesse bene, nonostante tutto
e nonostante fosse di nuovo sola tra quelle quattro mura.
Infine, giunse il momento di varcare la fatidica soglia, per
la prima volta senza essere invitata al suo interno. Feci scattare la serratura
e fui immediatamente travolta dall’aria fresca che stagnava nel corridoio
interno.
Scansai Kira, facendo poi in modo che non entrasse in casa, e
chiusi di nuovo la porta alle mie spalle.
Con un profondo sospiro, mi mossi verso le cucine.
Scoprii presto che non ero sola; infatti, un rumore di
stoviglie mi accolse in cucina, dove Irina, la domestica, si stava dando da
fare attorno al tavolo.
“Benvenuta, signorina. Padrone ha detto di aspettarti”,
salutò con fredda prontezza. Le sorrisi con leggero imbarazzo, senza avanzare
oltre.
“La ringrazio”, mi limitai a ringraziare.
“Prego si accomodi a tavola. E non mi dia del Lei, io non
volere. Adesso tu parte di questa famiglia, pare”, e così dicendo, con il suo
forte accento straniero, scostò una sedia dal tavolo e mi incitò a prendere
posizione.
“Grazie”, tornai a dire, ripetitiva e imbarazzata. Non ero
abituata a quel genere di situazioni.
“Pappa al ragù o brodo?”, mi chiese poi, senza darmi il tempo
nemmeno per riprendere fiato.
“C’è anche la scelta? Non dovevi disturbarti”, risposi con
cortesia, “comunque, preferisco la pasta condita, grazie”.
Irina annuì, poi mi portò una porzione molto corposa di
pennette al sugo di pomodoro.
“E’ troppa, ma ti ringrazio”, mormorai, sorridendo.
“Tu no pensare al troppo. Tu mangiare e fare fianchi, aiuta a
fare più bambini”. Mi venne quasi da ridere al cospetto di tale affermazione,
molto all’antica. Tuttavia tacqui e mangiai ciò che mi era stato gentilmente
servito.
Finita la mia porzione, quasi a fatica, la donna si fece
avanti con altre richieste, ma io ero già ampiamente sazia.
“Ti ringrazio, ma sono piena come un uovo. Lascia stare,
quello che è rimasto lo mangerò questa sera”, le dissi, alzandomi poi da
tavola. Irina però mi riservò un’occhiata risentita.
“Qui non si mangia mai cibo riscaldato, sai? Quello che resta
si dà al cane, a cena si prepara sempre qualcosa di nuovo”, sancì come se fosse
stato un verdetto.
Io questo particolare non lo sapevo e a dirla tutta non
credevo che il mio uomo fosse così sprecone, e per l’ennesima volta rimasi
avvolta in un basito silenzio. Per affondare l’imbarazzo in qualche modo, mi
decisi a dirigermi verso il bagno per lavarmi le mani.
“E comunque qui si fa come tradizione, non si eseguono
consigli di nuovi arrivati”, parve aggiungere la donna, probabilmente per
pizzicarmi. Il mio senso di disagio aumentò e preferii dileguarmi.
Per fortuna il pasto si era concluso, e mi sarei potuta
sbarazzare di quella fastidiosa presenza.
Quando tornai in cucina per recuperare la borsa contenente i
miei oggetti personali, però, Irina era ancora lì ad attendermi; impalata nel
mezzo della stanza, a fianco al tavolo, non aveva ancora iniziato a
sparecchiare e aveva fissato il vano della porta fintanto che non ero tornata a
varcarlo.
“Padrona precedente molto buona ed elegante, guarda tu”,
disse, per poi allontanarsi di qualche passo e raccattare una vecchia foto in
bianco e nero staccata da una parete. Me la porse e notai immediatamente una
signora sulla sessantina, vestita con una lunga e preziosa pelliccia e con le
dita piene di gioielli. Il viso austero mi fece impressione, infatti spostai
subito lo sguardo.
“Lei buona con me. Lei mi aveva scelto, detto che io brava a
cucinare molto, a preparare mangiare fresco. Non mi ha mai parlato di scaldare
pappa. Pappa scaldata si dà al cane, non a persone per bene”, ribadì,
dimostrando una cocciutaggine prepotente.
Senza parole, mi ritrassi a testa china e afferrai la mia
borsa.
“Arrivederci…”, mugugnai, a singhiozzo, umiliata nuovamente.
Uscii da quella casa quasi di corsa, con il viso arrossato
dall’imbarazzo e dalla vergogna. Neppure il ritrovare Kira felice e
scodinzolante in giardino riuscì a farmi sentire meglio.
Quella era una giornata decisamente no e compresi anche che
avrei dovuto parlare al più presto a George, per spiegargli che qualcosa non
era andato per il verso giusto. Avevo infatti timore di tornare in quella casa
immensa, con Irina che mi perseguitava con vecchie foto, ricordi e discorsi che
non mi appartengono.
Quello non era uno stile di vita che mi apparteneva.
Mentre tornavo in macchina, le lacrime facevano nuovamente
capolino dai miei occhi socchiusi e provati dalla luminosità accecante del
sole. Speravo solo che il mio uomo mi capisse, che avesse qualche parola dolce
e di conforto per me… anche se avrei potuto confrontarmi con lui solo quella
sera.
Avevo bisogno anche di un abbraccio, di un po’ di sicurezza
trasmessa dalle sue parole, sempre se sarebbe stato disposto ad accettare le
mie considerazioni sul mio primo giorno a casa sua. Tutto ciò mi preoccupava
non poco.
Per fortuna, la prospettiva del ritorno al lavoro era
accettabile solo perché Ilenia aveva già concluso il suo turno, quindi non
l’avrei incontrata.
Mentre mi rimettevo in marcia verso il bar, mi ritrovai a
sperare che presto fosse sera.
NOTA DELL’AUTORE
Capitolo complicato, dal punto di vista relazionale! Ma… a
voi il giudizio finale ^^ grazie di tutto, come sempre!
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Capitolo 44 *** Capitolo quarantaquattro ***
Capitolo quarantaquattro
CAPITOLO QUARANTAQUATTRO
Giunse la sera, e con essa il fatidico momento di fare
ritorno a casa. In quella che avrei dovuto considerare la mia nuova dimora, e
cioè quella del mio compagno.
Ancora dovevo abituarmi all’idea di non tornare più da mamma,
ma sapevo che presto tutto sarebbe stato più semplice, ricordando quanto poco
tempo avevo impiegato per smettere di pensare all’appartamento dove si era
svolta la mia prima convivenza.
Quella sera non ero molto solare, ben consapevole che avrei
dovuto parlare a George e chiarire per bene alcune cose che mi avevano
infastidito. Tutto ciò disturbava anche il mio animo, poiché non volevo
apparire come quella che voleva fare a tutti i costi la padrona a casa degli
altri, però ero consapevole che dovevo rendere un po’ mio quell’ambiente, in
qualche modo.
Smisi di riflettere a riguardo, confidando
nell’improvvisazione.
Giunsi alla villa di George che già si faceva buio, sintomo
che ormai le giornate avevano iniziato irrimediabilmente ad accorciarsi, per
andare verso quel settembre non più troppo distante.
Parcheggiai e deviai una Kira sempre troppo giocherellona,
per poi trovare la porta già aperta dall’interno.
Varcai la soglia e già Piergiorgio mi veniva incontro, lungo
il corridoio, raggiante come non mai.
“Buona sera”, salutò, poi con galanteria mi baciò sulle
guance.
“Anche a te, caro”, gli dissi, ricambiando il suo sorriso e
tornando più serena.
“E’ pronta la cena, se ti va”, aggiunse, prendendomi per
mano.
“Che puntualità!”, esclamai a voce bassa.
“Conosco a memoria il tuo orario di lavoro, è per questo che
ho potuto organizzarmi al meglio”, si spiegò, senza interrompere il contatto
che ci univa, “anche se in realtà ha fatto tutto Irina, come al solito”.
Al solo sentire nominare quella donna, il mio sorriso svanì.
George, attento osservatore del mio viso, lo notò subito.
“C’è qualcosa che non va?”, chiese con prontezza.
“No, no, è tutto a posto. Ceniamo pure”, acconsentii,
decidendo che non era il momento migliore per spiegare i miei dubbi. Inoltre,
forse la prima impressione che mi ero fatta non era corretta, quindi era giusto
tentare di provare di nuovo a sedere attorno a quella scomoda tavola.
Mano nella mano, entrammo in cucina, e la domestica ci
attendeva con i piatti già pronti e lucidi.
“Buona sera, signori”, salutò, “questa sera c’è la scelta tra
arrosto di tacchino o quello di anatra con contorno di patate al forno. A
seguire, verdure di stagione, poi dolce a scelta tra crostata e ciambella”,
enunciò senza perdere tempo, con voce squillante.
Io non dissi nulla; mi sembrava di essere al ristorante.
Mi sentivo fuori posto. Un pesce fuor d’acqua.
Che il mio amante fosse davvero abituato da sempre a quel
modo di vivere? E pensare che mi era sembrato un tipo molto misurato e
semplice, in ogni occasione.
“Io preferisco il tacchino, grazie. E tu, Isa?”, mi
interpellò il mio compagno con grande spontaneità, perfettamente a suo agio.
Andò a scostare due sedie, l’una a fianco dell’altra.
“Padrone non sta a capotavola?”, eruppe Irina quando notò
quel gesto, non dandomi neanche il tempo di rispondere. Piergiorgio le riservò
un’occhiata severa.
“Isabella è la mia compagna e d’ora in poi mangeremo l’uno a
fianco dell’altra, in segno di eguaglianza. E portale rispetto”, la riprese, e
seppur avesse usato toni moderati si era avvertita una leggera nota di fastidio
nella sua voce.
Me ne compiacqui, sedendomi a suo fianco.
“Signorina, desidera?”, domandò però la donna, senza farci
troppo caso.
“Anatra e patate, grazie”, risposi, con freddezza.
Non appena Irina si fu dileguata, tornai a fissare il mio
amato, che invece appariva tranquillissimo in quel momento.
“Ma davvero tu vivi in questo modo?”, lo interpellai, sempre
un po’ agitata. “Ti fai servire più porzioni, hai tutta questa scelta, e poi
quello che resta lo dai al cane?”.
Piergiorgio rise.
“Ho dato ordine di essere abbondante solo perché ci sei anche
tu. Io di solito ho sempre mangiato fuori per pranzo”, si limitò a rispondere.
“Allora lascia stare, ti prego. Sono abituata a pasti molto
semplici, e non a tutta questa formalità da ristorante”, aggiunsi
immediatamente, piccata. Se quella situazione era una mia causa indiretta,
tanto valeva abolirla al più presto.
“Come desideri tu, cara”, sospirò George, “da domani darò
ordine preparare una sola scelta”.
“E una porzione per esseri umani, e non da elefanti”, mi
venne spontaneo aggiungere.
“Ogni tuo desiderio è un ordine”.
Irina interruppe il nostro breve momento di intimità portando
due piatti colmi di deliziosa carne arrostita.
“Grazie”, mormorai, quando mi consegnò la mia porzione, come
sempre eccessiva. Le patate le portò dopo, e rovesciò una mezza terrina sulla
mia anatra.
“Da domani, gradirei una porzione più ridimensionata, per
favore”, dissi, al cospetto di un piatto straripante di cibo.
La donna sbuffò sonoramente.
“Come la signora desidera”, sancì con stizza, abbandonando di
nuovo la stanza.
Tornai a guardare il mio George.
“Questa sera dobbiamo parlare”, gli dissi.
“Puoi parlare anche ora”.
“No, questa sera a letto, per favore”.
Lui parve incassare e non ribadì altro, iniziando a mangiare
in silenzio.
Irina tornò per controllare la cena, poiché il forno e i
fornelli li aveva in una stanzetta laterale, e si mise a osservarci a braccia
incrociate. Mi salì un profondo senso di disgusto.
Odiavo essere osservata mentre ero a tavola, tanto più da
quella donna che mi faceva sentire tanto a disagio. Ben presto mi venne a meno
l’appetito, e anzi, mi venne un discreto voltastomaco. Mi ritrovai a lottare
per resistere all’impulso di piantare tutto lì, così come stava.
Mi dispiaceva per il cibo, delizioso, e per lo sforzo che
Piergiorgio stava facendo per me, ma non ce la facevo. Non sopportavo quella
situazione che per me aveva dell’irreale. Già che avevo vissuto una
giornataccia, e adesso dovevo subire anche lo sguardo penetrante dell’arpia.
Alla fine, passando anche per maleducata, allontanai il
piatto da me e mi alzai bruscamente, decisa ad abbandonare la cucina. Non
resistevo più, avevo un gran magone in gola e non riuscivo a deglutire altro.
“Sono molto stanca, vado a letto. Grazie di tutto”, dissi,
piano. Il mio tono non era risultato scortese, ma sommesso. Dispiaciuto. Ed era
ciò che provavo dentro di me, poiché mi dispiaceva davvero di essermi
comportata in modo così scortese, ma… avevo solo bisogno di parlare a George.
Di chiarire alcuni particolari che non riuscivo a tollerare.
Me ne andai senza attendere risposte altrui, muovendomi di
buona lena verso la nostra camera da letto.
Udii qualche sussurro malevolo alle mie spalle, tuttavia.
“La signorina è molto maleducata, non è come precedente
signora, che era amante di buon cibo e gentilezza”, aveva sancito a voce alta
la domestica, con grande disappunto. Non ascoltai quello che rispose George,
poiché mi barricai in camera e mi fiondai sul letto, accasciandomi malamente. A
illuminare quell’ennesimo momento di sconforto, solo una abatjour accesa a
mezzo metro da me.
Passato il senso di nausea, mi venne solo da piangere e da
diventare rossa in viso dalla rabbia e dalla frustrazione. No, la nostra
convivenza non era iniziata nel modo migliore.
Non rimasi sola a lungo, tuttavia, poiché dopo qualche minuto
la porta tornò ad aprirsi, e il mio compagno mi si avvicinò con lentezza. Le
suole delle sue scarpe generavano l’unico rumore in grado di sovrastare il
silenzio che ci circondava, e il mio pianto asciutto e senza singhiozzi.
“Ehi, amore”, disse, abbassandosi verso di me. Notando il mio
viso arrossato e le lacrime, si ritrasse.
“Piangi? Davvero? E perché?”, domandò, come se non avesse
capito.
Non risposi, incompresa.
“Se non stai bene, non c’è problema. Ho qui tutti i farmaci,
e…”.
“Possibile che non capisci?”, lo interruppi con vigore, a
quel punto. “Non è questione di corpo, è solo che… oh, George!”, esclamai, non
riuscendo poi a resistere e gettandomi tra le sue braccia.
Lui ricambiò la mia stretta, ma ancora sembrava non rendersi
conto del mio senso di disagio. Ero un pesce fuor d’acqua, ma lui non se ne
stava accorgendo. Questo mi feriva molto, per un certo senso, ma d’altronde era
abituato a quello stile di vita, e forse non aveva capito quanto alcune frasi e
alcune situazioni vissute in quella casa mi avessero innervosito.
“Dimmi, Isa, dimmi tutto! Sfogati tra le mie braccia, ma non
tacermi nulla, te ne prego! Perdonami se sono così inadatto a te, perdonami…”,
cominciò a dire, sempre stringendomi forte a sé e cominciando a sua volta a
disperarsi. Mentre restavo con il viso premuto contro i suoi vestiti, al centro
del suo ampio petto, avvertivo ancora quell’odore di ospedale che era rimasto
impresso sulla sua leggera camicia.
Non avevo mai visto piangere il mio George, eppure quella
volta cominciai ad avvertire alcuni singhiozzi, sempre più forti…
“No, tu non piangere, amore mio… basto io”, gli sussurrai,
alzando lo sguardo e incrociando i suoi occhi umidi. Una sola lacrima, una di
numero, si stava inoltrando lentamente tra i peli della sua barba.
Era possibile che entrambi ci stessimo sentendo inadeguati?
La nostra convivenza appena iniziata ci stava già trasmettendo una importante
lezione di vita.
“Dimmi tutto, allora! Cosa ti ha reso così fragile, mio
grande amore? Smettila di piangere, per favore, o piango anche io”, ribadì con
dolcezza, donandomi un sorriso tremolante e appena accennato.
“Mi dà fastidio Irina”, gli rivelai, andando al punto con
forza.
Avvertii il corpo di Piergiorgio che si irrigidiva subito, al
solo udire quelle parole.
“Ma che dici, Isa? Come puoi dire una cosa del genere?”,
tornò a chiedermi, con perplessità evidente.
“Mi infastidisce il suo modo di fare, e quel continuo volermi
paragonare alla tua precedente compagna”, proseguii, imperterrita. Temetti di
averlo ferito, a quel punto, però…
“Apprezzo la tua sincerità. Davvero”, affermò il mio amante,
“e riconosco che lei è una donna all’antica, che a volte parla anche un po’
troppo duramente. Però ha un cuore grande, e ormai fa parte della mia famiglia.
Quando ero solo, lei c’è sempre stata. L’unica persona che non mi ha mai
abbadonato”.
Subii quelle parole trattenendo il respiro e senza sapere
cosa dire o cos’altro fare.
“Allora…”, tentennai un istante, prima di proseguire, “…
credo che dovrai scegliere tra me e lei”. Conclusi con un profondo sospiro.
Forse l’avevo sparata grossa, non lo sapevo neppure io, ma
quell’affermazione mi era sfuggita in modo spontaneo. Detestavo troppo quella
donna per poter anche solo pensare di dover condividere la mia vita con lei.
George si era irrigidito di nuovo e non aveva detto nulla, e
questo mi offrì lo stimolo necessario per aggiungere qualcos’altro.
“Credo che presto andrò a ricevere la mia eredità e il denaro
che mi spetta. Poi, potrò dedicarmi io stessa alla casa e alle faccende che la
signora sta portando avanti. Potrei dedicarmi al giardinaggio e ad altre
attività che potrebbero farmi sentire meno sola e spaesata in questo posto che
non ha nulla di me”. Mi ero spiegata brevemente.
“E il tuo lavoro?”, indagò il mio amante, senza fare una
piega.
“Credo possa aspettare. Dal bar mi licenzio presto, anche
oggi ci sono stati dei… problemi, diciamo, con una ragazza con cui condivido
una parte del turno mattutino. Non posso continuare a lavorare lì, capisci? Non
ne posso più. Dopo il licenziamento utilizzerò i soldi che ho ereditato e mi
rilasserò un po’, poi cercherò altro”, esposi la mia teoria. Era da un po’ che
avevo iniziato a pensare a tutti questi particolari, ma solo quella sera
riuscivo a metterli assieme e a farli filare a meraviglia. Il mio piano
d’istinto, spinto dalla disperazione crescente, non era niente male.
“Se questa è la tua volontà, che allora essa divenga realtà”,
rispose allora Piergiorgio, contro ogni mia aspettativa, “la nostra vita
include anche la tua, e per quanto le concerne sarebbe meglio che tu
riflettessi di più. Non sarà facile riprendere a lavorare dopo un periodo in
cui si è vissuto di rendita. Inoltre, temo che ti stancherai di badare alla
casa e dei lavoretti domestici. Ma ripeto, se questo è ciò che desideri, allora
lo desidero anche io”.
Mi strinsi a lui con maggior forza.
“Non so neanche io quello che voglio. Credo però che sì,
queste siano scelte che voglio fare. Per migliorarmi, per migliorare la mia
vita”, tornai a spiegargli.
Avvertii le sue membra che tornavano ad afflosciarsi, come se
il momento di tensione fosse ufficialmente passato.
“Va bene, rispetterò le tue scelte e agirò di conseguenza”,
rispose, in modo sereno.
“E… Irina?”, gli domandai, a quel punto. Se per lui era una
figura di riferimento, non volevo che se ne privasse. Ero stata ingiusta,
probabilmente, a cercare di mettermi in mezzo a loro due, soprattutto perché
ero arrivata in quella casa da appena un giorno.
“Non ti preoccupare, sistemerò tutto”, disse piano, senza
sbilanciarsi.
“Senti, George…”, continuai, stringendolo a me, “io non
voglio fare dei casini nella tua vita, capisci cosa intendo dire? Se quella
donna è importante per te, per il tuo quieto vivere, per la tua casa, non sarò
io a dire subito che non la voglio più attorno”.
Mi azzardai ad alzare lo sguardo verso quello del mio
compagno, che era proprio sopra al mio. Non notai dispiacere, né serenità; era
semplicemente impassibile. Come se non stesse provando nulla.
“Ho detto che per te farò ogni cosa possibile. Già che hai
scelto di amarmi e di seguirmi fin qui, e… mi sento un po’ così, come se fossi
in debito con te. Finora sei stata tu quella che si è sacrificata di più, nel
nostro rapporto, quindi è giunto il momento che anche io dimostri la mia buona
volontà e tutta la fiducia che ripongo in te”.
Gli rivolsi il primo sorriso disteso della serata.
“Sei un uomo di altri tempi, ed è per questo che ti amo
tantissimo. Ma non devi sacrificare niente a causa mia, eh! Che già hai fatto
anche troppo per me”.
“Ti giuro che vorrei fare ancora di più”, fu l’unica cosa che
riuscì a dire. Gli afferrai la mano destra e la strinsi tra le mie.
“Sai che hai già fatto tanto”.
“L’unica cosa che so è che forse non ti ho ancora dimostrato
quanto vali. Ti donerei il mondo intero, se potessi”, soffiò, dolcemente.
Allora, nonostante tutto il mio dispiacere recente, non seppi
trattenermi oltre; con i sensi stimolati dal suo odore e dalla sua vicinanza,
cominciai a spogliarlo. Mi lasciò fare, accondiscendente.
“Anche io ti amo tanto, e donerei tutto per te”, sussurrai,
ma in cuor mio provai una fitta dolorosa. Sapevo che ciò che avevo detto non
era del tutto vero, poiché per lui non stavo donando un bel niente. Non lo
stavo neanche rispettando in casa sua. Ma che importava, in fondo la passione
c’era, e anche la voglia di stare assieme.
Il nostro rapporto non era mai stato stabile come durante
quel giorno in cui ormai avevamo anche lo stesso tetto sulla testa. Pensai che
in fondo avrei avuto tutto il tempo per migliorarmi e per recuperare i miei
torti.
Nudi, i nostri corpi si ritrovarono su quel morbido letto che
aveva visto il nostro primo amplesso in quella ricca villa, e tornammo ad
amarci con passione, come ogni volta. Come se non fosse mai accaduto nulla tra
noi. Come se non ci fosse alcun pensiero a dividerci, a frapporre le nostre
esistenze.
Le nostre stesse vite, in fondo, sembravano ormai unite per
sempre, nella buona e nella cattiva sorte. I nostri baci, le nostre carezze…
tutto, in fondo, completava quel roseo quadro che rappresentava a colori tutto
quello che ci legava. Eravamo una vita sola, ormai.
I nostri corpi tornarono a unirsi in armonia, senza alcuna
tensione. Il risultato fu che durò tutto troppo poco, come accadeva spesso
quando ci lasciavamo inebriare dalla forza dei sensi. E quando tutto finì, mi
ritrovai a pensare, a rimuginare sul mio ritardo… su quel ritardo che stava
proseguendo già da un po’.
Non volevo dirlo, ma soprattutto non ero certa. Era già
capitato in passato che il ciclo mancasse una volta o due, ed ero stata
costretta un paio di volte, da ragazza, a rivolgermi a un ginecologo. All’epoca
ci aveva pensato mamma, ora stava a me decidere. Soprattutto perché mi resi
conto che poteva trattarsi di qualcosa di positivo.
Dentro di me qualcosa si stava muovendo, che fosse una nuova
vita? Passai entrambe le mani sul mio ventre nudo, ma ancora perfettamente
piatto.
“George”, sussurrai, mentre il mio compagno era steso a
fianco a me, ansante e a sua volta nudo.
“Dimmi”, mugugnò, stancamente.
“Credo di essere incinta”. Lo dissi così, senza riflettere,
come mio solito.
“Cosa?!”, saltò su lui, sbigottito. Ebbe davvero uno scatto,
mettendosi di nuovo seduto sul letto e fissandomi con intensità.
“Ho un ritardo abbastanza prolungato…”, tornai a sussurrare.
“Sì, ma… non è una certezza, vero?”. Lasciai che i miei occhi
incontrassero i suoi, imperscrutabili.
“Se così fosse, sarebbe il bambino che ho sempre voluto”,
affermai con decisione.
“Io ne sarei davvero felice”, si chinò poi per baciarmi sulla
fronte.
Eppure, avevo avvertito un qualcosa che non andava, nella sua
voce. Non era affatto felice.
“Sicuro che sia così?”, gli chiesi, titubante.
“Ma certo, amore mio. Comunque, sarà meglio fare il test o
rivolgersi a uno specialista”, si limitò a dire.
“Tutto qui? Mi dici solo questo?”, lo spronai, notando che
era stato molto reticente a riguardo dell’argomento che stavamo affrontando.
Non sapevo se ero incinta, si trattava solo di una mia impressione o di una mia
fissa momentanea, però sapere che il mio partner non era molto partecipe mi
feriva.
Piergiorgio mi rivolse un sorrisone immenso, sciogliendosi e
prendendomi per mano.
“Ti dirò di più quando saremo immersi in una bella vasca, a
lavarci di dosso il peso di questa giornataccia”.
Restai seria, ma nonostante tutto l’assecondai e mi lasciai
condurre nel bagno collegato alla nostra stanza, che disponeva appunto di una
lussuosa toilette appartata, rispetto al resto della villa.
L’ambiente era piuttosto vintage, con mobili anni sessanta e
una specchiera d’altri tempi, però la vasca e i servizi igienici erano in
perfetto stato e moderni. La vasca era molto ampia, ci si stava bene immersi,
come notai quando ci andammo a mollo assieme.
“Voglio fare installare una bella vasca idromassaggio, che ne
pensi?”, mi interpellò, mentre l’acqua tiepida e pulita rinvigoriva le mie
membra.
“Non cambiare discorso, George”, lo ripresi con gentilezza,
cercando ancora quelle risposte che non mi aveva saputo offrire. Se anche il
solo supporre che sarebbe diventato padre non lo allietava, come avrebbe potuto
reagire nel qual caso ce ne fosse stata la certezza?
Notando la mia motivazione, si distese e si mise più comodo,
sorridendo in modo molto disteso e socchiudendo le palpebre.
“Se il destino vorrà che io sia di nuovo padre, ne sarò
felice. E poi, che bello! Un figlio da te, un figlio nostro! Alla faccia di chi
ci prende in giro”, disse, sempre sorridente.
Non sorrisi, da parte mia, poiché mi tornò alla mente la
discussione che quella mattina avevo avuto con Ilenia, la mia collega.
“Anche a lavoro ridono di me. Di noi”, quasi bisbigliai,
seria.
Piergiorgio ancora non fece una piega, anzi, rimase con il
sorriso sulle labbra.
“Peggio per loro, non sanno cosa ci unisce. Spero che non si
tratti di Virginia, lei…”. Lo interruppi subito, onde evitare equivoci.
“No, Virginia è nostra amica e sostenitrice, per fortuna”, lo
rassicurai.
“Lo so”.
Continuò a sorridere, beatamente.
“Isa, non devi lasciarti schiacciare dai giudizi altrui. Non
sei più una bambina, dovresti sapere quanto le persone sanno essere cattive.
Quanto alcuni desiderino fare del male, per ferire, anche solo per il gusto di
umiliarti; e questo non è sempre un atteggiamento spinto dalla razionalità. Ci
sono persone che sull’astio ci costruiscono castelli e fortezze”.
Annuii involontariamente, ben sapendo che non mi stava ancora
guardando. Restava calmissimo e con la testa rivolta verso al soffitto, gli
occhi socchiusi e con le folte sopracciglia che parevano gettare ombre oscure
sulla sua fronte.
“Non devi lasciare che ti facciano del male e che provino il
gusto di vederti soffrire. Tu hai un cuore, segui quello che esso ti
suggerisce; quando ti senti a posto con te stessa, lo sei anche con il mondo.
Lascia fuori dal tuo animo tutta la spazzatura”, proseguì, ed io continuai ad
ascoltarlo.
Sempre inebriata dalle sue parole, adoravo restare in
rigoroso silenzio quando parlava e mi impartiva quella sorta di lezioni di vita
che doveva aver appreso durante il corso della sua lunga esistenza. Lui in
fondo era anche una fonte di saggezza, per me, un punto saldo e fisso da
seguire in un mondo fatto di labili maschere e di labirinti composti da scelte
e cattiverie.
George era il mio porto, e quando ero in giro e in balìa dei
flutti desideravo costantemente di tornare tra le sue braccia accoglienti e
calde.
“E ti parlerò ancora, e sarò chiaro. Se diverrò padre, ne
sarò felicissimo; amerò te e il bambino, o bambina, all’infinito. Vi amerò per
sempre, ma…”.
“Ma…?”, trovai il coraggio per spingerlo a proseguire, mentre
i miei sensi tornavano in fretta all’erta, abbandonando la tranquillità che
aveva caratterizzato il precedente argomento affrontato.
“… sarò consapevole di non poterci essere a lungo. Questa
consapevolezza mi distrugge e mi fa sentire in colpa”, concluse, in un battito
di ciglia.
I nostri occhi finalmente si incontrarono, i suoi così
profondi e arguti, i miei invece spalancati, atterriti da quelle apocalittiche
prospettive. Non ero sciocca, sapevo che il mio uomo non era più un ragazzino,
ma da lì ad affermare una cosa del genere, ce ne passava di acqua sotto i
ponti.
“Non devi dirlo neanche per scherzo, intesi?”.
Mi allungai per prendergli di nuovo le mani, ed esse si
incontrarono sotto la superficie dell’acqua.
“Tu vivrai ancora a lungo, hai tanto tempo davanti a te. Lo
sai”, proseguii, come a voler scongiurare le mie paure. Lo feci anche in modo
infantile, probabilmente, poiché egli rise in modo sommesso.
“Mi piacerebbe poterti assicurare ciò, ma la verità è che
temo che non ci sarà più tanto tempo”, affermò, con un tono di voce basso, roco
e dispiaciuto.
Mi preoccupai.
“Ma per dirmi delle parole così brutte, avrai un motivo…
anche se voglio sperare di no”, mugugnai, di nuovo senza sapere come
comportarmi.
“Non ce l’ho, per ora e per fortuna. Però la salute degli
anziani è precaria…”.
Lo interruppi per baciarlo sulle labbra.
“Tu non sei anziano, George. Sei ancora tanto giovane, dentro
di te, e il tuo corpo e il tuo aspetto esteriore non rivelano la tua vera età,
te lo giuro”, gli assicurai.
“Io mi tengo curato, con il corpo e con la mente, ed ho avuto
fortuna a non diventare troppo flaccido o rattrappito”, ridacchiò, e quella
volta mi parlò con il suo solito tono scherzoso e a tratti erudito, “ma non
possiamo ingannare il tempo, che è sempre in corsa verso la sua meta finale”.
“Lo so, ma per adesso non pensiamoci… e non vorrei mai, mai,
che un nostro figlio possa udire simili discorsi. Io ti ho scelto ed ho deciso
di stare con te perché ti amo così come sei, e certe cose proprio non voglio
ascoltarle, eh”, sancii, rattristandomi di nuovo.
George mi cinse forte tra le sue braccia, iniziando a
massaggiarmi la schiena con la spugna.
“Nemmeno io voglio parlarne più, va bene?”, mi domandò, ed io
annuii con prontezza.
“Allora godiamoci questo bel bagno, poi andiamo a letto, che ne
dici? Stiamo un po’ assieme sulle lenzuola, e chiacchieriamo ancora un po’,
così ci sfoghiamo a vicenda”, tornò a dire, ed io non potei far altro che
essere di nuovo d’accordo con lui.
Con decisione, pensai che l’indomani avrei svolto un po’ di
mansioni durante la pausa pranzo, invece di tornare a casa. Una in particolare
mi stava molto a cuore e mi metteva ansia, e cioè quella che mi avrebbe portato
in farmacia per acquistare un apposito test di gravidanza. Quello probabilmente
sarebbe stato un verdetto importante, soprattutto perché avrebbe potuto
delineare la mia situazione fisica.
Se ero davvero incinta, be’, tutto di certo sarebbe stato
bellissimo, altrimenti mi avrebbero atteso alcuni approfonditi esami, davvero
poco piacevoli. Decisi di non pensarci, e anzi, mi ritrovai a credere che fosse
di nuovo colpa del mio corpo, che tornava a fare le bizze.
Temevo che per l’ennesima volta i cicli avrebbero ripreso a
saltare, con il terribile spettro di un problema grave alle ovaie e
dell’impossibilità di avere figli. Senza contare lo stress di cure e di
possibili interventi a cui sarei stata sottoposta.
Già a sedici anni uno specialista aveva detto a mia madre che
se quel problema si fosse verificato ancora durante l’età adulta, sarebbero
stati guai seri. Avevo paura. E in fondo avevo paura di entrambe le ipotesi,
anche se si trattava di pensieri davvero pessimi.
Preferii cercare di soffocare tutte quelle idee malsane
dedicandomi al mio amore, come lui si stava dedicando a me, con mani e animo.
Nonostante qualche incertezza e il fatto che fossimo una
coppia davvero mal assortita, bastava un minimo di contatto fisico per
estraniarci dalla realtà e renderci una sola persona. Per questo amavo George
così tanto, e non solo, lui era stato anche l’unico uomo disposto a dedicarsi a
me, a sacrificarsi per me e ad amarmi davvero così com’ero, e questo non era
per niente facile.
Assieme, però, potevamo provare a superare ogni problema.
E così, finalmente, tutte le brutte parole di Ilenia e il
disgusto che mi trasmetteva Irina passarono in secondo piano, almeno per tutta
la durata del bagno e di quella serata, così come i pessimi pensieri
riguardanti il futuro.
Una volta tornati tra le lenzuola, puliti e profumati,
tornammo ad amarci come la prima volta in cui i nostri corpi si erano
incontrati.
NOTA DELL’AUTORE
Grazie a tutti per essere giunti fin qui ^^ spero che questo
capitolo non vi abbia annoiato.
Vi preannuncio che il prossimo aggiornamento forse avverrà
tra due settimane, poiché sono rimasto folgorato da un’ispirazione improvvisa
xD (sottolineo il forse, speriamo bene xD), quindi… tornerò al più presto ad
aggiornare, non temete ^^
Grazie ancora, un abbraccio a tutti!
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Capitolo 45 *** Capitolo quarantacinque ***
Capitolo 45
CAPITOLO QUARANTACINQUE
Credevo che la mia vita fosse giunta a un deciso punto di
svolta.
Il matrimonio imminente, con solo la data da fissare. Il mio
compagno che aveva occhi solo per me. La mia datrice di lavoro, che mi trattava
come una figlia. Mia madre che stava finalmente bene. Potevano esserci altre
difficoltà?
Certo, i brutti ricordi riguardanti Marco, Irene, Ilenia e
tutti coloro che mi avevano ferito di recente restavano inalterati nella mia
mente, però almeno potevo dire che la mia esistenza aveva avuto anche un lato
dolce e soddisfatto.
Sicuramente il momento che più mi è rimasto impresso è stato
quando, nel bagno della casa in cui convivevo, ho fatto il delicato test di
gravidanza. Ne avevo acquistati ben tre di quegli oggettini così carini alla
vista. Volevo esserne certa del mio stato.
Quello era il momento che segnava la strada della mia
esistenza; se sul piccolo display sarebbe comparsa la scritta incinta, presto
sarei diventata mamma. Ogni altra scritta avrebbe significato solo una cosa
triste. Sarei presto dovuta andare a fare delle visite, poiché il regolare
ciclo ormai non si presentava da oltre un paio di mesi.
Ero tuttavia positiva, mi sentivo ebbra di vita. Dentro di me
qualcosa di buono si stava sviluppando, ne ero sempre più certa.
Il risultato fu chiaro per tutti e tre i tentativi.
Aspettavo davvero un bambino! Ma come dirlo a Piergiorgio,
che non mi era mai apparso troppo felice di ciò? Terribile da pensare, eppure
così mi era sembrato. Tuttavia quando gliel’avevo sussurrato all’orecchio, la
sera stessa in cui avevo avuto la certezza, mi aveva stretto forte e mi aveva
mormorato a sua volta che lo immaginava. Ed io che avevo avuto timore a dargli
la più bella notizia del mondo!
In qualche giorno poi era cambiato tutto, con Irina che fu
allontanata bruscamente dal mio compagno, che la fece assumere presso un suo
collega di Rimini, e Ilenia che era stata licenziata da Virginia.
Tra casa e lavoro, insomma, qualcosa stava cambiando e anche
in fretta. Non sapevo cosa aspettarmi.
Di certo non furono semplici, i primi giorni senza la
domestica straniera. Tenere tutto in ordine, pulire, cucinare… stirare. Un
calvario. Ed io a testa china a sudare, per dimostrare che era valso a qualcosa
lo sforzo di George.
La mia convivenza con quella donna doveva cessare ed ero
stata categorica a riguardo, ma sapevo che questa decisione gli era costata molto.
Dovevo essere all’altezza.
Prendermi cura della casa era quindi un grande sforzo,
contando che lavoravo anche. Da quando Virginia aveva licenziato Ilenia, c’era
da fare il doppio. Almeno fintanto che non ci sarebbe stata una nuova assunzione.
I momenti più spensierati erano quelli che trascorrevo in
cortile, la sera, prima che George rincasasse. Amavo girovagare per il grande
giardino curato e lussureggiante, prendermi cura delle piante. Kira, fedele
compagna di passeggiata, mi inseguiva scodinzolando.
Una presenza costante in un verde altrimenti spoglio di
movimento.
Quando poi il mio compagno tornava a casa, mi faceva sempre i
complimenti per quello che preparavo per cena; che fosse un’insalata o un po’
di riso in bianco, a lui andava sempre bene. A me no. Dopo solo quattro o
cinque giorni senza Irina, mi sentivo completamente insoddisfatta da me stessa.
In un clima di tensione interiore, che stava emergendo
durante uno dei momenti più belli e intensi della mia vita, accadde però un
imprevisto.
Ero appena tornata a casa da lavoro. Erano le venti e trenta,
Piergiorgio sarebbe tornato a casa tra un’oretta circa.
Nonostante l’estate fosse praticamente giunta al termine
meteorologico, le giornate riservavano ancora quel po’ di piacevole afa serale
che sapeva tuttavia donare qualche gocciolina di sudore sulla fronte. E questo
lo sapevo bene, indaffarata com’ero sui fornelli. O, meglio, sulla verdura;
ormai di sera optavo per insalate miste o paste fredde, di solito ero molto
stanca e non mi andava di sfacchinare troppo.
Ebbene, suonò il telefono di casa. Non ricordavo che avesse
mai suonato così incessantemente durante il periodo in cui avevo vissuto in
quella grande casa. Piergiorgio aveva il suo cellulare personale e i pazienti e
l’ospedale lo contattavano lì, e il telefono fisso capitava di rado che
squillasse e solo per via dei call center, che dopo tre o quattro squilli
riagganciavano.
Quella sera invece il suo squillare era incessante,
pressante, ripetuto. Fino all’avvento della segreteria. Poi ricominciava. E
ricominciava ancora.
Avevo lasciato da parte il pomodoro che stavo affettando e mi
ero lavata le mani, tutto questo per perdere tempo. Dentro di me non avevo
voglia di rispondere. Se si fosse trattato di qualcuno che cercava il mio
compagno, cosa gli avrei detto? Uff, ecco che le mie solite paranoie inutili
riemergevano senza pietà.
Mi convinsi infine ad afferrare la cornetta e a dire pronto.
“Signorina Isabella?”.
Quella dannata voce. Riconobbi subito l’accento straniero di
Irina, che al di là dell’apparecchio ansimava e sembrava desiderosa di dire
altro.
“Sì”, mi limitai a dire, tra lo stupito e la certezza che
sapesse bene con chi stava parlando. E già mi aspettavo che avesse telefonato
per insultarmi, oppure per attaccarmi in qualche modo. Invece…
“Io… ecco… io… dovere
dire una cosa…”, borbottò in modo indistinto.
Mi feci coraggio, allora.
“Se hai qualcosa da dire, fallo subito, altrimenti buona
serata”, risposi con sgarbo. Già che mi stava trasmettendo nervosismo, temevo
di esagerare e di arrabbiarmi.
“Volevo solo avvisarla
che… padrone Giorgio no è come sembra. Lui cattivo, brutta persona”, buttò
lì, così, poi si stoppò come se stesse trattenendo il fiato. Mi venne quasi da
ridere, di riflesso.
“Se è cattivo perché ti ha licenziato, be’, credo che tu
debba dire a me che sono cattiva. Non è stata colpa sua. E poi ti ha trovato
subito un altro lavoro ben pagato, non dovresti lamentarti”, le spiegai così la
situazione, e fui sul punto di interrompere la telefonata. Quella manfrina mi
aveva già stufato.
“No, lui fa brutte
cose. Cose brutte che dovete sapere, se volete sposarlo”, aggiunse
frettolosamente, forzando la mia curiosità e a quel punto obbligandomi a
stringere tra le dita la cornetta.
“Cose brutte? Ma finiscila…”, sospirai, un po’ incredula. Non
nascondo che ero un minimo curiosa di scoprire che genere di fango aveva
intenzione di gettare sul mio compagno.
“Bruttissime”,
proseguì, “lui… lui… oh, Dio…!”.
Scoppiò a piangere in maniera confusa.
Aggrottai le sopracciglia, in bilico tra lo sgomento e la
voglia di infamarla. Piergiorgio le aveva dato da mangiare per anni,
accogliendola a casa sua e permettendole di vivere con uno stipendio davvero
elevato per una semplice domestica. Ora lei lo ripagava così, e non avevo
nemmeno idea di dove volesse andare a parare.
“Ohi, senti, sono stufa di questa messinscena! Vergognati”,
affermai quando non ne potei più di sentire quel singhiozzare caotico, che mi
stava alquanto infastidendo.
“No! Tu dovere sapere
che lui… lui mi faceva andare nel suo letto, capiscimi! Fare cose che non
dovevo… volevo fare!”.
Questo quasi mi gridò, quando stavo per riattaccare. Restai
basita e riavvicinai la cornetta al telefono.
“Che cosa stai dicendo?”, domandai nervosa. “Lui ti ha
trattato come un membro della famiglia e tu adesso mi telefoni per dirmi queste
cose che… oddio, vergognati! Io… io ti denuncio, guarda…”, proseguii, quasi
balbettando. Ero troppo agitata per ragionare.
“Io ho prove. Io
denuncerò, non tu. Ho prove”, ripeté meccanicamente. “Lui mostro, tu dovere lasciare”.
“Io…”, mormorai, poi riagganciai di colpo.
Rimasi ferma a fissare un punto indeterminato del corridoio,
con le braccia che mi scendevano lungo i fianchi, quasi fossero senza vita. Che
cosa stava succedendo? Perché quella chiamata, perché quelle cose atroci?
Perché?
Mi chiesi il motivo di quella mossa, e non seppi darmi
risposta. Avevo paura.
George, il medico cristallino che avevo conosciuto e che mi
aveva conquistato era davvero un essere così meschino? Aveva ragione il mio
cuore o quella megera? Presi fiato e andai in bagno a sciacquarmi il viso,
poiché quella telefonata imprevista mi aveva rovinato la giornata e mi aveva
scosso un sacco.
Stavo per piangere.
Quando Piergiorgio tornò a casa, non mi trovò ad attenderlo.
E nemmeno avevo finito di preparare la cena.
Non appena udii la chiave nella serratura della porta
d’ingresso, abbandonai a malincuore il bagno, chiedendomi come avrei dovuto
comportarmi. Assalirlo e chiedergli spiegazioni? Oppure attendere e provare,
dopo cena, a porre le domande delicate ma pressanti che mi assillavano a seguito
di quella dubbia telefonata?
Avevo molta paura di ferire il mio compagno.
Quella chiamata era giunta proprio un attimo prima dell’apice
della nostra storia, e poteva essere un’arma a doppio taglio. Non volevo
credere a Irina, eppure la donna non avrebbe avuto alcun motivo per lanciare
accuse così gravi. Il fatto che fosse stata mandata a lavorare altrove poteva
essere un movente, certo, ma di sicuro dire quelle cose tramite telefono alla
compagna dell’ex datore di lavoro non era come mandare giù una caramella.
Raggiunsi George in cucina, ancora in bilico sul da farsi, ma
per fortuna lui era già concentrato sul cibo e non mi guardò nemmeno.
“Uhm, insalata”, disse, sorridendo e osservando l’ampia
ciotola di terracotta in cui avevo messo metà delle verdure affettate. Afferrò
uno dei piatti puliti e iniziò a prendere con il cucchiaio diverse fette di
cetriolo e di pomodoro.
“Non è ancora pronta”, mormorai, la voce bassissima.
“Fa niente”, replicò lui, deciso e tranquillo come sempre.
Non perdeva mai la pazienza con me e sembrava costantemente felice a riguardo
di ogni cosa che facevo. Di certo ciò era gratificante per una compagna, ma io
continuavo comunque a sentirmi una delusione.
Iniziò a versare l’olio e poi un pizzico di sale, sempre
servendosi da solo e cercando il materiale sparso caoticamente per il tavolo.
“Tu non mangi? Avanti”, mi invitò, scostando una sedia, e
poi… mi guardò. Quando i suoi occhi incrociarono i miei, rimase per un attimo
immobile e interdetto, la bocca spalancata a metà.
“Tutto bene? Sembri sconvolta”, mi chiese, sinceramente
preoccupato. Non sospettava di nulla.
Ancora imbronciata e preoccupata, non riuscii a trattenermi
oltre.
“Ho appena ricevuto una telefonata”, gli risposi, senza la
forza necessaria per andare direttamente al punto.
“Una telefonata? E dai, basta con questi telefoni. Non
pensarci, sarà stato un call center…”, blaterò lui, sollevato.
“No, George. Era Irina”. Al solo sentir nominare l’ex
domestica, tornò a fissarmi.
“Irina? E come mai?”. Appariva stupito.
“Ha telefonato qui a casa per dirmi… che devo lasciarti
perché… sei una brutta persona, e…”. Scoppiai a piangere e non proseguii.
Piergiorgio fu subito da me e mi strinse forte tra le sue
braccia.
“Ma che dici, amore? Sai che voi due non vi siete mai sopportate,
probabilmente è uno scherzo o un modo per darti fastidio. Le parlerò io”, provò
a rassicurarmi, ma io mi divincolai dalla sua calda stretta.
"Sarà meglio che tu non ti faccia sentire, invece. Ha
detto che ha le prove per portare avanti una denuncia, a riguardo di… molestie
da te ricevute durante gli anni in cui ha lavorato qui”, mollai, quasi tutto
d’un fiato.
George lasciò cadere le braccia lungo i suoi fianchi con un
gesto pieno di impotenza e di sbigottimento.
“Ma… che… cosa stai dicendo, Isa, amore mio?”, chiese,
confuso.
“Quello che ti ho detto, di più non so. Quella donna ha
telefonato per dirmi che ti devo lasciare perché sei colpevole di queste brutte
cose, che sei una bruttissima persona…”, proseguii, a mia volta sempre più
agitata e caotica nello spiegare.
“Ehi”, tornò ad abbracciarmi, riprendendosi dallo
sbigottimento iniziale, “ti giuro sulla mia vita che non ho mai compiuto questi
gesti, e non ho mai fatto niente contro la sua persona. Non so perché si è
comportata così, ma ti prometto che faremo chiarezza e che sono innocente! Va
bene? Dimmi, ti fidi di me?”.
Annuii, sincera. Sì, George era decisamente sincero, lo
vedevo dai suoi occhi. Un uomo schietto, che non è mai stato in grado di dirmi
una sola bugia.
Un libro aperto. Gli credevo.
“Mi dispiace…”, continuai a mormorare a singhiozzo, “…non
avrei dovuto dirti queste cose, ma quella telefonata mi ha rovinato la serata…
sono ancora sconvolta…”.
“Immagino”, e così dicendo i suoi occhi profondi furono
attraversati da un raro guizzo vendicativo, “ti prometto che farò chiarezza a
riguardo della questione. Ma ora, per favore, non pensiamoci più. Ci stai?”.
Annuii. Si diresse di nuovo verso il tavolo e si sedette, ed
io mi misi a suo fianco, ma nessuno dei due ebbe la forza per toccare cibo.
Innervosito, George si limitò a far frullare per il piatto le
varie fettine di verdura, senza metterne in bocca manco una.
“Credo che dovremmo prendere qualche gallina, non pensi? Nel
nostro cortile starebbe bene, e inoltre mangerebbe anche ciò che resta in
tavola, dato che adesso ci piacciono tantissimo le verdure”, esordì dopo la
breve pausa di imbarazzato e pesante silenzio.
“Sì”, risposi distrattamente.
“Andrò a prenderle allora, uno di questi giorni. Potremmo
anche costruire un riparo di legno, che ne dici? Noi due assieme”, mi
incentivò.
Tornai ad annuire senza troppa convinzione, in realtà non
stavo dando troppo peso alle sue parole, ancora immersa com’ero nel pantano
generato da quella spiacevolissima telefonata.
“Bene. Tanto i prossimi giorni non dovrò andare in ospedale,
né in ambulatorio. Così passiamo un po’ di tempo assieme”.
“Oh, George, tu sei incredibile”, mi ritrovai a dire, “riesci
a pensare a delle galline anche quando qualcuno ci minaccia di denunce e di
crimini mai verificati”.
Lui sorrise a malincuore.
“Quella è una questione tra me e Irina, intesi? Dimentica”.
“Però ha telefonato a me, quella stronza”, aggiunsi, e lui
scosse il capo.
“Dovresti aver già capito tutto, allora. A quanto pare ha
deciso di rompere”.
“Non ti preoccupare, ci penso io”, aggiunse dopo una breve
pausa.
“Sarebbe bello anche fare un po’ d’orto, che ne pensi?”,
insistette al cospetto del mio silenzio. Mi venne spontaneo sorridere. Era un
uomo incredibile.
“Tutto quello che vuoi tu, sapendo però che io non ne so
nulla di piante e animali. Se sei esperto, ne sarò felice”.
“Mah, mia mamma aveva molti animali, sono cresciuto tra
polli, conigli e orto. Ricordo abbastanza come si fa, non è difficile”, volle
rassicurarmi di nuovo, sorridendo a sua volta.
“Va bene, se lo dici tu”.
“Ehi”, quasi mi riprese, afferrando il mio mento tra le sue
dita, “adesso sei tu che non sei partecipe. Cosa c’è che non va? Tra poco ci
sposeremo, manca solo l’ufficialità. Viviamo in una casa stupenda e grande.
Siamo assieme. Tua madre sta bene, inoltre abbiamo anche tanti bei progetti da
condividere, e siamo in attesa di un figlio! Cosa vuoi di più dalla vita?”.
Che domanda! In effetti, cosa avrei dovuto desiderare oltre a
tutto ciò? Era un sogno.
“Quella…”, stavo per tornare a riferirmi alla telefonata
minatoria, ma George lasciò bruscamente il mio mento e s’incattivì.
“Ma tu pensi troppo a quelle cattiverie! La gente è così, è
bastarda. Odia la felicità degli altri, e quando nota soddisfazione è la volta
che ti fa del male. Non puoi basarti su tutto quello che ti diranno. Devi
basarti su ciò che ti dico io, se mi ami davvero. Oppure non ti fidi di me, e
preferisci dare ascolto a una poveretta inacidita? È questo il problema? Non ti
fidi delle mie parole?”, tornò a incalzarmi molto serenamente. No, mi fidavo.
Se me lo diceva così mi fidavo.
“Mi fido di te”, capitolai, “so che solo di te posso fidarmi.
So che non avresti mai compiuto tali gesti”.
Sospirò.
“Ecco, così ti voglio. E non pensarci più”. Si alzò da tavola
e cominciò a sparecchiare, prima che le mie mani giungessero a interrompere le
gesta delle sue.
“No, faccio io”.
“Faccio io, per favore”, affermò.
“Tu sei stanco, hai lavorato tutto oggi”, insistetti.
“E tu no?”.
“Non è la stessa cosa. Io porto via tazzine sporche di fondi
di caffè, tu salvi delle vite. Faccio io, te ne prego”. George mi abbracciò
fortissimo.
“Quando la smetterai di sminuirti? Ricorda che sei e sarai
per sempre il mio Sole, il centro della mia esistenza. Essere ciò che dona vita
e speranza a un uomo ti pare qualcosa da poco?”, mi interpellò tra il serio e
lo scherzoso.
“Puoi dire quello che vuoi, George, ma resterai sempre
migliore di me”.
Lo baciai sulle labbra. La telefonata di poco prima sembrava
già lontana anni luce da noi. Non mi rispose, ma sciolse il contatto e si
rimise a sparecchiare come se niente fosse. Era sempre così testardo.
“Allora lo facciamo assieme”, acconsentii, cedendo alla fine.
Mi misi a lavare le stoviglie e a mettere in frigo l’insalata
rimasta, mentre lui poi asciugava i piatti e le posate. Era così bello
condividere quei piccoli momento quotidiani, che senza amore sarebbero stati
una vera noia.
Concluse le solite incombenze serali, andammo a lavarci e poi
a dormire, cercando di non rievocare le fresche tensioni che si erano create.
Io volevo fidarmi. Anzi, dovevo.
Non affrontammo più l’argomento. Non avevo idea di come il
mio compagno avesse intenzione di affrontarlo, tuttavia continuavo a ripetermi
che dovevo fidarmi e che anche i suoi silenzio valevano più di mille parole.
Il mattino successivo quindi giunsi a lavoro con numerosi
pensieri che mi frullavano per la mente, pochi di essi positivi. La signora
Virginia come al solito mi aspettava appollaiata dietro la cassa.
“Buongiorno, Isabella”, mi salutò come di consueto.
“Buongiorno a lei”, replicai meccanicamente.
Andai a cambiarmi subito e in fretta, onde evitare possibili
sgridate, anche se ormai vedevo la mia datrice di lavoro più come un’amica che
come una terribile e spietata arpia. Da quando Ilenia era stata licenziata, non
avevo più subìto attacchi di nessun genere, anche se le carte in tavola erano
leggermente cambiate.
Oltre a esserci più lavoro per tutti, gli altri colleghi non
mi vedevano più di buon occhio, compreso il cuoco. Le urla della ragazza erano
entrate nella memoria collettiva e nessuno pareva voler metterci una pietra
sopra. Il risultato era che ricevevo molte occhiatacce e nessuno a parte
Virginia mi rivolgeva la parola.
Avevo come l’impressione che la giovane ed ex collega avesse
spettegolato abbastanza su di me, mi ritenevano una sorta di spia della datrice
di lavoro. Una brutta persona che aveva fatto perdere il posto a un’altra sua
pari.
A volte avrei tanto voluto parlare con gli altri, magari
prenderli a uno a una e spiegare loro che non avevo causa di quel
licenziamento, d’altronde Ilenia si era esaurita e stancata, al massimo ero
stata solo un pretesto che l’aveva aiutata a esplodere in modo esagerato. Non
riuscivo comunque a trovare più alcun punto di dialogo e mi ritrovavo a essere
una emarginata.
Il tempo scorreva lento e con tanto da fare, mai un sorriso o
una battuta, niente di niente.
Più i giorni passavano e più desideravo di licenziarmi.
Ancora funestata dai loschi pensieri mi misi a lavorare alacremente e a servire
caffè a tutto spiano, riponendo speranze nella nuova imminente assunzione.
Giunta alla fatidica pausa pranzo, ero sfinita.
Mi diressi verso il solito tavolino appartato e solitario,
per poi sedermi. Di tornare a casa non ne avevo voglia, tanto George non
sarebbe rientrato per pranzo e non mi andava di stare da sola.
All’improvviso iniziò a squillarmi il cellulare; mi affrettai
a rispondere, senza nemmeno notare che il numero sul display era sconosciuto,
dal tanto che ero convinta che si trattasse di George o di mia mamma.
“Ehi, pronto”, risposi con dolcezza e con uno strano sorriso
sulle labbra, che si raggelò non appena ebbi modo di udire la voce della mia
interlocutrice.
“Signora Isabela sono
io, Irina”, si presentò con quel suo solito vocione irritante.
“Come fai ad avere il mio numero di cellulare?!”, esclamai,
dopo un primo momento di confuso silenzio.
“Non importa. Io
chiamare perché voglio giustizia”, sentenziò con decisione la donna.
“Se cerchi giustizia recati da chi di dovere, non rompere
l’animo a me. Arrivederci”, risposi con rabbia, allontanandomi poi il cellulare
dall’orecchio destro e cercando di riagganciare il più in fretta possibile.
“Lui mostro, lui mi ha…”.
Il suo discorso fu interrotto così, mentre poi mi affrettavo a bloccare il
numero molesto. Mi accorsi così che era privato.
Lui cosa? Lui cosa le aveva fatto? Davvero le aveva fatto
violenza? Non potevo crederci, e non riuscivo a razionalizzare quella
telefonata al mio numero personale, che sicuramente la domestica non poteva
avere. Che l’avesse estrapolato a George in qualche modo a me ignoto? Oppure
c’era qualcos’altro dietro, di più losco?
Maledizione, avevo la testa in tilt.
Ancora una volta mi veniva da piangere, dopo lo stupore
iniziale, e avrei di sicuro dovuto parlarne di nuovo con il mio compagno.
“Tutto bene?”, mi chiese Virginia, venendo a sedersi a mio
fianco. Forse aveva origliato qualcosa, avendo parlato a voce un po’ alta,
poiché non avevo saputo controllarmi troppo.
Mi sforzai di sorridere, anche se i miei occhi rossi dovevano
lasciar carpire altro.
“Soliti problemini che si conta di poter risolvere”, risposi,
un po’ emblematica.
“Piergiorgio è un grande uomo, saprà aiutarti. Siete una
bella coppia e non dovete temere niente”, mi spiegò sorridendo. Amavo
profondamente la sua positività, in fondo lei davvero credeva in noi e riponeva
molta fiducia nel nostro rapporto, anche quando sembrava che il mondo ce
l’avesse con noi.
Io e George ci amavamo e stavamo vivendo uno dei periodi più
belli della nostra vita di coppia, eppure qualcosa andava sempre storto.
Virginia invece era la costante che credeva in noi due.
“Lo so. Infatti risolveremo tutto quanto”.
Le sorrisi, questa volta in modo vero e sentito. Notando il
mio positivo cambiamento, anche la signora parve maggiormente soddisfatta.
“Sì, ne sono convinta. E qui come ti trovi, Isabella cara?”,
m’interpellò.
“Come sempre”, la rassicurai.
“La prossima settimana entrerà in servizio la ragazza che ho
assunto. Spero si possa rivelare una brava persona, mi sembra in gamba ed ha un
ottimo curriculum, e mi è parsa anche di buon carattere. L’ho scelta ieri”, mi
informò gentilmente.
“Mi fa molto piacere”, tornai a rispondere passivamente. Mi
faceva davvero piacere, ma di sicuro quello non era il primo dei miei tormenti.
“Mi dispiace che tu abbia dovuto subire pressioni anche qui,
sei una ragazza così cara. Starò attentissima e ciò non accadrà mai più”.
Annuii piano. Come potevo spiegarle che invece qualcosa si
era rotto, non c’era più sintonia tra me e i colleghi e non me la sentivo più
di lavorare lì? Lei di certo non si era accorta di niente, i ragazzi erano
bravi a fare i lecchini e a mostrarsi disponibili nei miei confronti in sua
presenza, ma quando era distante ecco che mostravano in modo chiaro come la
pensavano. Non me la sentivo di dirle che tutti ormai mi guardavano male e che
non ce la facevo più a sopportarli, e viceversa.
Di certo se l’avessi specificato la signora sarebbe corsa
subito ai ripari, ma allora avrei dato la certezza di essere una spia e una
poco di buono. Io non ero così. Io ero innocente, in quel caso.
“Se vuoi qualcosa, offre la casa. Vuoi un trancio di pizza?”,
tornò a chiedermi con gentilezza.
“Oh, sì, grazie”. Avevo accettato solo perché la fame mi
straziava, e mi era venuto spontaneo farlo. Forse non avrei dovuto.
Mi sentivo sempre più in colpa e a riguardo di tutto, forse a
causa della confusione che avevo in testa.
Ringraziai la signora Virginia per la cortesia riservatami e
le chiesi di lasciare il mio pranzo sul tavolino, poiché dovevo fare una
telefonata urgente. Al mio George, naturalmente. Era giusto che fosse informato
a riguardo del fatto che la megera era tornata di nuovo alla carica.
Uscii dal locale e pigiai sullo schermo il numero salvato in
rubrica, facendolo squillare. Temevo di disturbarlo e mi ripresi più d’una
volta, tra uno squillo e l’altro, per il fatto di essermi lasciata andare di
nuovo alla mia impulsività.
Lui stava lavorando, non era in pausa come me. Ero sempre la
solita egoista, in fondo.
“Pronto?”, alla
fine mi rispose, tranquillo come al solito.
“George, ha telefonato ancora. Questa volta al mio
cellulare”, gli spiegai subito senza alcun preambolo. Rimase un attimo in
silenzio.
“Ci penso io, stai
tranquilla. Non pensarci più”, riuscì a dire.
“Non ne posso più, spero che non richiami”, proseguii,
nervosa.
“Stai tranquilla e
lavora serena. Ne parliamo poi questa sera, va bene? Perdonami ma qui ho dei
pazienti che aspettano…”.
“Lo so che stai lavorando, ti chiedo scusa per averti
disturbato”, andai subito sulla difensiva.
“Ehi, ma che dici”,
affermò, “solo che non c’è tempo per
parlare di una pazza, intesi? Mi ha fatto piacere che mi hai chiamato e
avvisato, ne terrò conto”.
“Grazie, amore. A questa sera”.
Lo salutai e riagganciai in fretta.
Misi a sopire il mio tumulto interiore pranzando a dovere, e
poi tornando a lavorare e a impegnarmi. Come sempre aveva ragione il mio
compagno; non dovevo lasciarmi plagiare da una folle. L’aver solo sentito la
sua voce mi aveva tranquillizzato un po’.
NOTA DELL’AUTORE
Non ve l’aspettavate, vero? Ed ecco la sorpresa di… ehm,
inizio novembre xD
Sappiate però che mi sono rimboccato le maniche ed ho
concluso il racconto, quindi con un aggiornamento settimanale conoscerete anche
il suo finale.
Grazie se siete ancora qui, e mi scuso tantissimo per l’immenso
ritardo. Ma adesso sono pronto a tirare le somme.
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Capitolo 46 *** Capitolo quarantasei ***
Capitolo quarantasei
CAPITOLO QUARANTASEI
Avevo timore che George si lasciasse acciecare dal rancore.
Dopo la telefonata che avevo ricevuto sul posto di lavoro,
non aveva voluto sapere altro; intendeva intervenire e mettere fine a quella
faccenda, anche al costo di denunciare Irina.
Tra noi due non c’era stato molto dialogo quella sera, di
ritorno a casa, e avvertivo una forte tensione attorno a me. La situazione
stava precipitando e probabilmente era proprio questo che la perfida domestica
desiderava.
Stavamo facendo il suo gioco? Chissà.
Restava il fatto che stavamo perdendo il controllo. Io lo
vedevo pensieroso e una vocina malvagia sussurrava nella mia mente che non era
tanto pulito come voleva farmi credere. Lui, anche se non lo avrebbe mai
ammesso, sospettava che io avessi cambiato parere sulla questione, cominciando
a credere alle accuse.
Si trattava davvero di un momento molto delicato.
“Domani pomeriggio vado a prendere le galline”, aveva
affermato il mio compagno, poco prima di dormire, “poi possiamo ristrutturare
il fienile dietro casa, così possiamo farne un ospitale pollaio”.
“Va bene”, avevo annuito io, che adoravo lasciarlo fare.
“Tu però non mi aiuti, guardi solo. Stai già facendo
tantissimo, e la fatica e lo stress non giovano a nostro figlio”, affermò con
dolcezza, e per la prima volta affrontava con impeto il tema del bimbo in
arrivo. Anche lui lo voleva, lo desiderava almeno quanto me.
“Sono ai primi mesi, amore. Sto bene. Qualcosa posso farlo”,
lo rassicurai.
“So che sei brava, ma non devi dimostrare nulla. Mi farai
solo compagnia, che ne dici?”.
Annuii di nuovo, sorridendo blandamente. Tanto era ovvio che
gli avrei fatto solo compagnia, non avevo la benché minima idea di come
sistemare un pollaio. Che poi nel retro della grande villa non c’ero nemmeno
mai andata, essendo abituata ad apprezzare il fantastico giardino che si
protraeva fino alla strada antistante.
Lui allora mi baciò e mi strinse forte, per poi lasciarmi
dormire tra le sue braccia, stretta in un abbraccio caldo e accogliente.
Il mattino successivo, prima di andare al lavoro, mi misi a
fare alcuni lavoretti mattutini. La mia mente restava costantemente turbata
dagli eventi recenti, anche se cercavo di non pensarci troppo.
Il mio compagno aveva ragione; la gente era tanto cattiva. Ma
allora perché, perché accanirsi così? Tra i tanti modi per affondarci, quello
di un’accusa così pesante e grave era tra le più terribili.
Di certo Irina doveva aspettarsi una denuncia e un seguito
legale, eppure non ci aveva pensato due volte a rimarcare il concetto e a
proseguire la sua campagna contro George. Ancora tornava quindi ad albeggiare
nella mia mente quella remota possibilità che egli fosse veramente colpevole di
qualcosa.
In fondo cosa sapevo io di lui? Piergiorgio lo conoscevo così,
nel letto, nei momenti condivisi, ma il suo passato in fondo restava un
lunghissimo binario oscuro, almeno per me. Una vita lunga quasi il triplo della
mia, che di certo doveva esser stata sottoposta a più forme di stress e anche a
bisogni carnali più o meno forti.
Restavo comunque sicura che lui le mani non le avrebbe mai
alzate per commettere abusi… almeno come lo conoscevo ora. Qualche tempo fa,
prima di conoscermi, com’era?
Ricordai improvvisamente che Virginia me ne aveva parlato, di
quella sua cupezza. Lui stesso me l’aveva detto, senza nascondermi nulla.
In ogni caso stavamo vivendo un bel momento condiviso,
eravamo in procinto di sposarci e aspettavo un figlio suo, quindi dovevo essere
dalla sua parte. Lo ero, con tutta me stessa.
Non so quindi cosa mi spinse ad andare al piano di sopra
della sua bella villa di campagna, dove ancora non mi ero mai recata. La
curiosità, forse? Il bisogno di scoprire, di sapere. Un bisogno tossico, per
certi versi.
Da quando mi ero trasferita da lui non avevamo fatto altro
che occupare il piano terra della nostra dimora condivisa, con George che aveva
preparato appositamente la stanza in cui avevamo fatto l’amore per la prima
volta in casa sua, sicuramente in precedenza adibita per i possibili ospiti.
Il nostro territorio quindi si era stabilito lì, e non ero
mai andata alla ricerca di altri spazi, probabilmente per il semplice fatto che
non avevo mai avuto tempo e che in un primo momento Irina mi tampinava e mi
teneva d’occhio. Non volevo recare offesa a George in nessun modo.
Quella mattina però prima di recarmi al lavoro affrontai la
fatidica scala di pallido marmo, e, furtiva come un felino, approfittai
dell’essere sola.
Il piano superiore in effetti non era nulla di che, a un
primo sguardo era solo una sorta di appartamento ormai abbandonato, con un
corridoio ampio e illuminato da una grande vetrata, tuttavia ai margini erano
presente molti rotolini di polvere e sporco. Pensai subito avrei potuto dare
una spazzata, se il mio compagno avesse acconsentito.
Tutte le porte erano aperte e le stanze erano stranamente
vuote. Se ero alla ricerca di qualcosa su George, avevo fatto un bel buco
nell’acqua.
Mi mossi con più disinvoltura lungo il corridoio, continuando
a gettare rapidi sguardi dentro a ciascuna stanza che man mano si affacciava ai
miei fianchi. Niente, tutte sgombre e poco pulite.
Giunta in fondo al corridoio, distolsi lo sguardo dalle
ragnatele che infestavano la vetrata per concentrarmi sull’ultima porta, e
quella volta si trattava dell’unica chiusa.
Spinta dalla frenesia e dalla curiosità del momento, allungai la mano e
spinsi in giù la maniglia, scoprendo che era chiusa a chiave. Problema da poco,
poiché la chiave stessa era inserita da fuori.
Mi limitai quindi a girarla piano, con il cuore che mi
batteva forte nel petto. Avevo come la sensazione di essere vicina a scoprire
qualcosa di più sul mio compagno, qualcosa che mi aveva celato relegandolo
nella stanza più remota della sua ampia dimora.
Entrai quasi di soppiatto; era tutto buio, gli scuri erano
chiusi.
Accesi la luce, lasciando che quell’ambiente ingombro fosse
illuminato all’improvviso. Contrariamente alle altre stanze, quella conteneva
un’infinità di roba. Forse tutto ciò che era nelle altre era poi stato spostato
lì.
Addossati a una parete, un armadio copriva un altro,
compresso alle sue spalle. Sul pavimento oggetti di ogni genere, da una strana
bigiotteria fino a vestiti. Al centro troneggiava un letto mezzo sfatto, a sua
volta parzialmente occupato da colorate riviste.
I miei occhi erano frastornati da così tanta pienezza,
correvano da una parte all’altra senza focalizzarsi su nessun punto specifico.
Coglievo solo i dettagli, almeno inizialmente.
Man mano che la prima tensione passava, sorgeva di nuovo
quella strana curiosità che mi aveva pervaso fino a poco prima e che mi aveva
portato fin lì. Dapprima timidamente e poi con frenesia mi misi a osservare ciò
che mi circondava, con quegli abiti sparsi e quei mobili spinti l’uno contro
l’altro, nell’impeto di addossarli il più possibile alle pareti.
La camera in sé appariva come una grande stanza da letto
coniugale, solo che tutti quei mobili la riducevano a tal punto da sembrare un
semplice ripostiglio. C’era giusto lo spazio per camminare. Il livello di
sporco diminuiva rispetto al resto del piano superiore, sembrava che fino a
poco tempo prima fosse stata utilizzata per davvero. Era stata quella, forse,
la stanza da letto del mio compagno, almeno fino al mio arrivo.
Con le mani sfiorai numerose fotografie incorniciate e di
varia grandezza, alcune che ritraevano la distinta signora che avevo visto
altre volte in altri scatti al piano inferiore, altri ancora con un bambino,
poi ragazzino. Il figlio.
George si assomigliava molto al figlio, per quanto riguardava
l’aspetto fisico, da quanto potevo dedurre dalle fotografie ingiallite che
vedevo attorno a me. Chissà però come era ora.
Più mi avvicinavo al letto e più avevo ansia; sembrava che
esso fosse il fulcro, il cuore di quell’ambiente che odorava di chiuso, di
ricordi di una vita precedente. Un posto in cui l’unica a essere fuori luogo
ero io.
Abbandonai l’osservazione della mobilia per abbassarmi a
raccogliere una delle camicie a terra, in perfetto stile George, elegante e
soffice al tatto. Non lavata, in quel caso, e lasciata così sul pavimento come
se l’era sfilata. L’annusai; aveva ancora il suo odore. Non era stata
abbandonata da molto.
Appoggiai una mano sul letto e finii per venire a contatto
con il freddo liscio di una pagina di una delle tante riviste. Osservandola non
ebbi difficoltà a notare una bella ragazza nuda ben impressa sulla carta.
Giornalini erotici per uomini.
Con la bocca mezza spalancata mi sedetti a sfogliarla un po’,
sembrava che fosse stata molto utilizzata. Non credevo che il mio compagno
avesse una pulsione così forte, soprattutto perché non solo aveva già una
discreta età, ma noi il sesso lo praticavamo molto spesso. Che non gli
bastasse?
Lasciai la rivista e scostai le altre con grande fastidio,
accorgendomi che avevo ormai irreparabilmente lasciato il marchio del mio
passaggio in quella stanza.
Innervosita, preferii non peggiorare la situazione e
abbandonarla alla svelta, spegnendo poi la luce e richiudendo tutto a chiave,
così come l’avevo trovata.
Mi ritrovai a ripercorrere il corridoio e le successive scale
con il fiatone e il cuore che mi batteva forte nel petto, non sapendo cosa
pensare di preciso. Quella sorta di esplorazione mi aveva portato ad avere
tanti altri dubbi a cui non sapevo far fronte.
Confusa e nervosa, riuscii ad accorgermi che era ora di
andare a lavoro e che dovevo pure spicciarmi se non volevo giungere in ritardo.
Feci la consueta chiamata a mia madre mentre guidavo,
ascoltando quello che aveva da dirmi e cercando di non perdere di vista la
strada di fronte a me.
“Signora Virginia”.
Mi avvicinai alla mia datrice di lavoro quasi di soppiatto,
tremando un po’. Come potevo affrontare un argomento tanto delicato? Aspettavo
la convocazione dalla banca a giorni, come si era premurata la direttrice con
mia madre. Servivano un paio di firme, i miei documenti e naturalmente la mia
presenza, per riuscire a sbloccare il denaro ereditato da mio padre.
Prestissimo avrei avuto a disposizione una discreta sommetta,
ed essendo incinta e in procinto di sposarmi non volevo strafare. In poche
parole, desideravo licenziarmi.
La donna mi squadrò con attenzione, dopo aver consegnato
l’ennesimo scontrino a un cliente abituale.
“Dimmi tutto, Isabella”.
“Ehm, in realtà è un argomento delicato”, mormorai, e intanto
mi guardavo attorno. Avevo creduto di poter affrontare la questione in modo
rapido e indolore, in verità però sul momento ero molto imbarazzata e credevo
che dirle certe cose nel bel mezzo di un locale pieno di gente sarebbe stato
decisamente fastidioso.
Virginia allora si guardò un attimo attorno, e notando che
nessuno era in procinto di pagare mi prese a braccetto e si allontanò di
qualche passo, verso il silenzioso sgabuzzino a disposizione dei dipendenti.
“Non dirmi che i ragazzi ne hanno combinate delle altre
contro di te”, bofonchiò nervosa.
“Oh, no”, mi affrettai a rassicurarla, forte dell’esserci
appartate un po’, lontane dagli sguardi indagatori di colleghi e avventori, “in
realtà dovevo parlarle del fatto che… ecco, vorrei licenziarmi”.
Forse non ero stava brava a spiegarmi ed ero andata troppo
presto al punto, infatti la signora rimase interdetta.
“Ah”.
“Non è una questione personale, qui mi trovo bene”, precisai,
addolcendo un po’ la situazione. E mentendo anche quel tanto che bastava per
non rendere tutto ancora più teso.
“Allora qual è il problema?”, m’interloquì, diffidente.
“Sto per sposarmi e sono in dolce attesa”. Lei sorrise,
sciogliendosi.
“Sono avvenimenti bellissimi, congratulazioni! Ma non capisco
perché devi mollare il tuo lavoro. Non ti pago abbastanza?”.
“Non è questione di soldi. È che tanto poi dovrei andare in
maternità, e comunque penso di aver bisogno di un bel po’ di tempo per me e per
il mio compagno…”.
“Questi eventi sono i più lieti della vita, naturalmente
potrai andare in maternità e avere tempo per te e per il matrimonio. Non mi
permetterei mai di fare scrupoli su cose così, lo sai, vero?”. La signora era
motivatissima.
“No, lo so che lei è estremamente gentile e corretta, e di
questo la ringrazio di tutto cuore. Però gradirei prendermi davvero un periodo
di tempo indeterminato per gestire meglio la mia vita, che sta cambiando in
fretta”, aggiunsi, a mia volta decisa.
Virginia non smise un attimo di sorridere e al cospetto di
così tanta motivazione mi squadrò attentamente, come se fosse soddisfatta da
me.
“Sei una bravissima ragazza e apprezzo la tua scelta, se
questa è la tua decisione definitiva. George è fortunato ad aver trovato una
compagna come te”, mi disse, poi mi donò un abbraccio molto forte, che a mia
volta ricambiai in modo impacciato.
“Allora la prossima settimana mi piacerebbe parlarne, a
riguardo dei dettagli…”, aggiunsi quando la stretta si sciolse. Di sicuro
allora avrei saputo quando avrei avuto a disposizione quel denaro. Non avrei
mai voluto campare sulle spalle di George un solo giorno.
“Va bene”. Virginia aveva accolto senza difficoltà la mia
richiesta. “Ricorda che sei una brava ragazza e che qui hai lavorato tanto e al
meglio. Nel qual caso tu dovessi tornare a cercare un lavoro, ricordati che qui
le porte sono sempre aperte, intesi? Anzi, se chiedi ad altri me la lego al
dito…”, e così dicendo, la mia datrice di lavoro rise, ed io con lei.
“Lo terrò presente, grazie ancora”, la rassicurai, rinfrancata
del fatto che, comunque, l’aveva presa bene. Questo in fondo era l’importante.
Passai il resto del mio tempo a lavorare alacremente, a parte
la sosta pomeridiana, che comunque trascorsi al bar. Almeno quella era stata
una giornata tutto sommato tranquilla.
Non appena varcai i grandi cancelli della villa di campagna
di George, notai subito che la sua auto era già parcheggiata davanti a casa.
Aveva previsto di riuscire ad avere più tempo libero e a quanto pareva c’era riuscito.
Parcheggiai a mia volta a fianco del suo fuoristrada e
abbandonai la mia auto con mille pensieri che mi vorticavano nella mente, uniti
alla scarsa voglia di mettermi attorno ai fornelli. Già pensavo alla cena, in
effetti.
A riscuotermi dal turbinio che avevo per la testa fu un
distinto smartellare proveniente dal retro di casa. Fu a quel punto che mi
ricordai della promessa del mio compagno.
Curiosa, percorsi il lungo marciapiede che mi separava dal
rumore. Piergiorgio in effetti era proprio là, nel retro, intento a fissare
alcune assi a un capanno dall’aspetto abbastanza trascurato.
“Oh, mia cara! Bentornata”, mi accolse con la solita grinta,
notandomi immediatamente. Mi venne spontaneo donargli un sorriso. Tutte le
ombre che aleggiavano su di me, comprese le più recenti, svanirono velocissime
e lasciarono spazio a un momento sereno.
“Grazie”, mormorai. Un acuto starnazzare distolse entrambi
dal nostro monotono dialogo.
“Non dirmi che…”. Ero rimasta a bocca semi aperta e avevo
indicato la cassetta dalla quale era provenuto il chiasso.
“Oh sì, sono arrivate. Le ho portate a casa da poco”, mi
assicurò George, sorridente.
“Oddio, posso vederle?”, chiesi con entusiasmo. In teoria non
mi erano mai piaciuti gli animali, anzi, non mi era mai importato troppo del
mondo degli altri esseri viventi. Mi erano bastate le persone e tutte le
delusioni che avevano portato con loro. Sul momento però ero rimasta come
folgorata dall’idea di avere delle nuove creature attorno a casa nostra.
“Non fare la bambina, su”, borbottò il mio compagno,
continuando a usare il martello, “tutto a tempo debito. Prima devo finire di
sistemare la loro nuova casa, poi possiamo vederle”.
Mi chinai sulla cassetta e potei intravedere i loro occhietti
giallastri spaventati che mi osservavano attraverso gli appositi buchi nel
cartone. Provai subito un sentimento misto di pietà e di voglia di liberarle da
quello spazio troppo angusto per loro.
“Posso aiutarti in qualche modo?”, domandai, nella speranza
di poter essere utile alla causa. George scosse il capo con vigore.
“No, ho quasi finito. Non ti preoccupare”.
Rimasi a osservarlo per qualche minuto, mentre il mio sguardo
continuamente correva dalla cassetta di cartone al mio compagno, e
viceversa. Piergiorgio era abile e
pareva che sapesse bene quello che faceva, tra chiodi e strumenti vari. Mi
piaceva il fatto che sapesse anche arrangiarsi e che avesse una buona manualità.
“Va bene, adesso se vuoi puoi andare a prendere il becchime,
che è rimasto nel portabagagli della mia automobile. Poi possiamo iniziare a
pensare di liberarle”, interruppe il suo mutismo. Lieta di poter fare qualcosa,
andai subito a recuperare il sacchetto contenente il cibo delle nostre nuove
amiche pennute.
“Brava, ti ringrazio”, disse George non appena glielo porsi,
poi si mise subito a guardare l’interno del capanno.
“Adesso mettiamo il recipiente per il cibo, quello per
l’acqua e un paio di cassettine per le uova, così possiamo già far loro
conoscere la nuova dimora”.
Aveva acquistato anche quelli; il recipiente per il becchime
era in plastica, piccolo e allungato, idem quello per l’acqua, solo che era
rotondo e dai margini più alti.
“Avanti, il mangime mettiglielo tu”, m’invitò porgendomi una
palettina bianca apposita. Versai impacciatamente un po’ di quella granaglia, e
George si chinò a mettere a posto il resto. All’acqua aveva provveduto lui.
Mise dentro al capanno anche due cassettine piene di soffice
fieno secco, apposta per accogliere le uova.
“Direi che siamo pronti, non credi?”, m’interloquì, una volta
concluso il tutto. Io lo fissai con entusiasmo prima di annuire.
Il tanto atteso momento era giunto; George afferrò la
cassetta di cartone e la portò fin sull’ingresso del capanno, destinato a
diventare d’ora in poi un pollaio.
“Liberale tu”, mi disse, scostandosi e facendomi cenno di
chinarmi.
“I… io?”, balbettai. Prenderle in mano? Oddio. Non l’avevo
mai fatto prima di quel momento.
Non avevo confidenza con le galline e per quanto quelle mi
facessero pena e volessi solo renderle libere, non sapevo se avevo il coraggio
di toccarle. Alla fine George mi aprì la scatola e mi lasciai solo trasportare
dalle emozioni del momento, poiché senza tergiversare oltre mi misi in azione.
Quando afferrai la prima tra le mani, molto docile, provai un
forte brivido. Non di paura, però; la povera creatura tremava tutta, era
spaventata. I suoi occhi erano sgranati, ma soprattutto il cuore batteva
fortissimo nel petto.
“Tu che fai il cardiologo… qui il cuore batte ai mille
all’ora…”, trovai il coraggio di dire, mentre probabilmente ero sbiancata un
po’ in volto.
George rise forte.
“L’unica cura possibile, in questo caso, è calmarle. Non
appena saranno libere dal cartone, staranno meglio e il cuore tornerà a battere
normalmente. Non temere”. Le sue parole mi permisero di caricarmi ancora di più
e di prendere la faccenda molto seriamente. Adesso quello non era più soltanto
un mio desiderio, era perlopiù una missione.
Lasciai andare in fretta la prima gallina e proseguii
imperterrita senza altri tentennamenti o inutili paure. Erano sei, in tutto.
Quando fu tutto finito e le creature erano libere di
muoversi, di mangiare e di bere, mi sentii molto soddisfatta nell’osservare i
loro movimenti disinvolti.
“Questo per loro è un ambiente nuovo, ci vorrà qualche giorno
per abituarsi. Per questo le terremo chiuse due giorni, poi le lasceremo andare
in cortile. Di sera torneranno qui dentro da sole, per dormire, e di giorno ci
faranno l’uovo”, mi spiegò il mio compagno, sempre gentile e preciso in tutto.
“Certo, capisco”, mi limitai a dire, e mi allungai a dargli
un bacio a sorpresa. Lui, che non se l’aspettava, l’accettò molto volentieri.
“Uh, a cosa devo questa dimostrazione improvvisa di
affetto?”, chiese, scherzoso.
“E’ perché mi hai reso felice. E hai reso felice anche loro”,
indicai le galline. Dal piumaggio rossiccio, le creature erano già intente a
banchettare con il becchime fresco.
“Oh, è il minimo che potessi fare”, mi garantì, congiungendo
le mani.
Gli sorrisi di nuovo. Con lui era sempre tutto splendido. L’aspetto
più fantastico della vicenda era che in quei minuti c’eravamo solo io, il mio
compagno e quelle creature della natura, e nessun altro; non quella donnaccia
che remava contro di noi, non il male che sembrava volerci spezzare a tutti i
costi.
George lo volevo ricordare così, sorridente e sereno
nonostante tutto, poiché in fondo eravamo assieme e questo era il vero dono
della vita.
A interrompere il momento catartico e felice fu il forte
squillo del campanello, che rimbombando tra le pareti della grande casa riuscì
a portare il suo suono fastidioso alle nostre orecchie.
“Aspettavi visite?”, mi chiese Piergiorgio, diventando subito
serio.
“No”. Corrugai la fronte, dopo aver risposto con schiettezza.
Non aspettavo nessuno.
“Vai tu a vedere, per favore”, m’incaricò allora. Non so
perché, ma accettai tacitamente.
Avevo il cuore in subbuglio e mi erano tornate in mente le
pessime vicende recenti. Non era mai venuto nessuno a trovarci da quando
convivevamo, e temevo si trattasse di Irina o di una qualche altra vipera.
Percorsi il marciapiede a ritroso rispetto a poco prima, e mi
sciolsi solo quando notai che ad attendere davanti al cancello chiuso c’era mia
madre. Incrociai le mani sotto al mento, in un moto di giubilo, quasi senza
credere ai miei occhi.
“Mamma”, affermai, quasi a non crederci. Lei non era mai
venuta a casa nostra, diceva sempre che temeva disturbare. Io credevo che in
fondo non approvasse completamente la nostra storia, tuttavia l’accettava in
modo parziale solo perché mi aveva vista contenta.
Mia madre, in risposta, mi salutò sorridente e agitando una
mano. Quasi le corsi incontro. Me la ritrovai di fronte vestita con una tuta
leggera e le scarpe da ginnastica.
“Passavo di qui a piedi ed ho pensato di fermarmi per un
saluto…”, mormorò come se volesse scusarsi. Io mi lanciai tra le sue braccia
non appena ebbi aperto il cancello.
“Grazie per esserti fermata, ci fa un grande piacere”,
l’accolsi quindi con calore, “entra pure, vieni a vedere cosa stiamo facendo io
e George…”.
Richiusi il cancello dopo il suo ingresso e zampettai davanti
a lei, che mi veniva dietro con lentezza. Appariva imbarazzata, aveva evidente
piacere che fossi io a condurla.
Le feci attraversare il vasto giardino e il successivo
marciapiede, mentre Kira abbaiava all’impazzata affacciandosi da una finestra
di casa.
Il mio compagno ci venne incontro a sua volta e parve molto
sorpreso dal trovarsi di fronte a mia madre, lui che era sempre stato un uomo
pronto a tutto. Per un istante si bloccò sul posto, senza sapere che dire, poi
si sciolse e si affrettò a bruciare la distanza e a stringerle la mano.
Si limitò a ridacchiare sornione, senza riuscire a dire
nulla.
“Perdona la cagnolina, l’ho lasciata in casa per evitare che
facesse baccano. E invece c’è riuscita ugualmente…”, ruppe comunque il
ghiaccio, sfruttando il continuo abbaiare di Kira, che aveva notato subito
l’intrusa e non aveva intenzione di smettere di segnalare la sua presenza.
“Ma figurati”. Mia madre sorrise e sciolse la leggera
stretta.
“Mamma, vieni con me”, le dissi con entusiasmo, prendendola
per mano e quasi trascinandola nel retro, dove il nuovo pollaio sembrava
funzionare a meraviglia. La feci affacciare al suo interno, e quando notò le
galline tornò a guardarmi con sincero stupore.
“Pensavo non ti piacessero gli animali”, mi disse, ed io
scossi il capo.
“In realtà è stata tutta una idea sua”, e accennai verso
George, che era rimasto alle nostre spalle a fissarci, “però non mi dispiace.
Dovevi vedere come erano ridotte, poverine! Almeno qui, adesso, hanno il posto
per muoversi e mangeranno cibo sano e all’aperto”.
“Va bene, ma Piergiorgio, per favore, non lasciarle in mano a
mia figlia! Morirebbero subito”, rise mia madre, continuando a stemperare la
situazione. Io risi con lei, ma George si limitò a sorridere, l’increspatura
delle labbra quasi totalmente nascosta al di sotto della folta barba.
“Credo sarebbero in buonissime mani, invece. Isa sa voler
bene agli animali, l’ho notato fin da subito, quando ha accettato Kira come se
fosse stata da sempre la sua cagnolina. Sì, penso che saprà presto prendersi
cura anche di queste galline”, spiegò con tono molto professionale. Lui e la
mia genitrice avevano smesso da un po’ di darsi del Lei, però restavano sempre
attenti nei dialoghi a non prendersi eccessive confidenze. Questo lo stavo
notando da ambo le parti, e non mi piaceva.
All’inizio pensavo fosse normale, però il tempo scorreva e la
situazione non migliorava molto. Capii sul momento che forse era tutta colpa
del fatto che non eravamo mai tutti insieme, e qualche momento condiviso poteva
giovare.
Per questo ebbi un’idea a mio avviso valida e interessante.
Quella di sfruttare l’evento, e come tale consideravo la presenza di mia madre,
che usciva di casa sempre più raramente.
“Mamma, ti fermi a cenare con noi?”, le chiesi, mentre lei e
George ancora dibattevano se fossi stata in grado di badare al pollame. Mi
rivolse uno sguardo smarrito, non si aspettava tale richiesta.
“Ho già qualcosa di pronto, a casa…”, mormorò con imbarazzo.
“Ma lascia stare, resta con noi! Dai, ti preparo qualcosa io!
Per una volta sarai tu a sederti a tavola e a non fare nulla”, le garantii, e
probabilmente fu solo notando il mio entusiasmo che accettò con un cenno deciso
della testa.
“Va bene, Isa, va bene”, affermò.
“Sarà un vero piacere averti al nostro tavolo”, ribadì il mio
compagno, dando il suo consenso.
“Grazie”, ringraziò mia madre, sorridente.
“E allora che stiamo aspettando? Lasciamo le galline al loro
pasto e andiamo a mangiare, no?”, chiesi retoricamente, sempre continuando a
ostentare la gioia che provavo nel mio cuore. Entrambi annuirono guardandomi
intensamente e con il sorriso sulle labbra.
In quel momento percepii quanto ero amata dal mio compagno e
da mia madre, e capii che quella sarebbe stata di certo una bellissima serata,
anche se le mie abilità culinarie erano limitate all’affettare pomodori.
Compresi che sarebbe stato fantastico in ogni caso, perché finalmente eravamo
tutti e tre assieme… tutti e quattro, compreso il bimbo che portavo in grembo.
La mia famiglia riunita.
Un istante rimasto in eterno impresso nella mia memoria.
NOTA DELL’AUTORE
I nostri due protagonisti si amano, nonostante tutto e tutti.
Quando sono assieme, sono formidabili.
Spero che anche questo capitolo sia stato un minimo di
intrattenimento. C’è ancora qualcosa da scoprire, forse, ma per ora lasciamo
spazio a un momento sereno e disteso; questa cena ci voleva proprio, penso.
Grazie per essere ancora qui a sostenere il racconto!
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Capitolo 47 *** Capitolo quarantasette ***
Capitolo quarantasette
CAPITOLO QUARANTASETTE
Il mattino successivo mi risvegliai di buon umore. Tra mia
madre e George era andato tutto benissimo, avevamo cenato assieme e avevamo
avuto modo di trascorrere un po’ di tempo assieme.
Mamma aveva conosciuto Kira, la nostra cagnolina, che fino a
quel momento non aveva mai visto. Aveva ricevuto molte feste da parte
dell’animale e la sua serenità era stata tangibile.
Quella serata rilassante mi aveva calmato un po’ dopo un
periodo davvero molto teso.
Mia madre poi nel dopo cena era tornata a casa sua ed io e il
mio compagno eravamo andati a letto sereni, parlando del più e del meno,
persino delle galline. Sapevo che avrei dovuto tornare ad affrontare l’inferno
l’indomani mattina, però almeno avevo conosciuto un attimo di tregua.
Non mi sbagliavo, poiché la giornata che mi attendeva fu
piena di colpi di scena che ancora ricordo perfettamente.
Giunta a lavoro, Virginia mi accolse con il suo solito bel
sorriso. Fu in quel momento, per la prima volta, che feci caso a quel cliente
assiduo che spesso si intratteneva volentieri a parlare con lei. Si tratta di
un signore di una certa età, dall’apparenza gentile.
Mentre la mia datrice di lavoro stampava scontrini e
maneggiava monetine, lui si posizionava lì a fianco alla cassa e non mollava di
un centimetro. Idem la signora non sembrava disdegnare tale presenza.
Nei giorni precedenti avevo notato la presenza dell’uomo ma
non ci avevo fatto caso, d’altronde capitava seppur di rado che qualche avventore
avesse voglia di scambiare due parole con la rigida proprietaria. Ora tuttavia
mi sembrava tutto alquanto più strano.
Mentre di tanto in tanto riservavo qualche occhiata
incuriosita ai due, lavoravo di buona lena. Per fortuna ero già
multitasking.
Alla fine a strapparmi dalle vicissitudini lavorative e dalla
mia curiosità fu un’improvvisa apparizione. Un donnone che aveva appena varcato
la soglia del locale e che aveva un’aria tremendamente famigliare.
Quasi mi si rovesciò la tazzina di caffè che stavo per
servire al primo tavolo.
E quella figura cercava me, ed era… lei.
Irina.
Un momento di vuoto, quello successivo. Ero certa, ormai
l’avevo riconosciuta.
Anche lei mi aveva visto e subito si mosse verso di me.
Porsi in fretta la tazzina all’avventore e restai a fissarla
mentre si avvicinava.
“Cosa ci fai qui?” sibilai non appena l’ebbi a portata di
voce. Ero… non sapevo nemmeno come definirmi… forse sconvolta, sul momento.
Presa in contropiede, eppure allo stesso tempo così desiderosa di sfoderare le
unghie e di difendermi.
Mi aspettavo che fosse giunta fin lì per attaccarmi. Sapevo
che mi avrebbe colpito, ero in attesa del suo affondo, eppure non appena mi fu
vicina notai che non mi stava affrontando, anzi, era a testa bassa.
Irina si affrettò a passare un fazzolettone bianco sul suo
viso.
“Io dovere parlare” si limitò a dirmi.
“No, a me invece non va affatto” ribadii arrabbiata e con
tono perentorio, “sto lavorando, non vedi? Sloggia!”.
Al cospetto della mia aggressività da persona ferita, il
donnone parve rincassarsi nelle spalle e farsi più piccola.
Il cuore mi batteva a mille; non riuscivo a capire cosa
volesse, e perché fosse lì. Ci mancava solo che qualche mio collega notasse la
mia foga e iniziasse a prepararmi qualche tranello.
Con lo sguardo setacciai l’ambiente affollato e notai che
nessuno ancora stava facendo caso a noi due, e che Virginia continuava a
parlare con quell’uomo. Ero ancora in tempo per salvarmi in qualche modo.
“Ti prego… io dovere dire…” insistette la mia fastidiosissima
interlocutrice.
“Senti, se proprio devi dirmi qualcosa torna durante la mia
pausa pranzo, dopo mezzogiorno. Adesso vattene” e gli diedi le spalle,
andandomene.
Raccolsi un paio di tazzine e le portai al bancone senza
voltarmi indietro, rabbiosa e nervosa. Temevo che Irina volesse davvero
mettermi in imbarazzo anche sul posto di lavoro, che quella fosse una
messinscena per rovinarmi la vita anche lì. Non mi passò per la mente di agire,
di telefonare alle forze dell’ordine oppure anche solo di avvisare la mia
datrice di lavoro, il nervoso era tanto e anche la paura che qualcosa venisse a
galla.
Ancora una volta lasciai correre, credendo che fosse finita
così. E invece, a mezzogiorno e dieci minuti, Irina tornò a ripresentarsi al
bar, cogliendomi seduta nel mio solito tavolino appartato a sorseggiare un
bicchiere di coca-cola.
“Andiamo al sodo” le dissi, puntandole il dito contro non
appena la vidi. La domestica non si lasciò affatto intimorire dal mio atteggiamento
aggressivo, quella volta, e si sedette al lato opposto del piccolo tavolo da
bar.
“Mi sono rotta il cazzo che tu faccia chiamate e casino. Io
sto per sposarmi, non so se mi capisci, quindi sono felicemente innamorata e
Piergiorgio mi ricambia, fattene una ragione” proseguii, irritata dal suo
solito modo di fare alquanto tranquillo. In quel momento però le carte in
tavola erano posizionate in modo differente rispetto a quella mattina, quando
mi aveva colta di sorpresa e mi aveva obbligata ad allontanarla.
Adesso, con il locale affollato e immersa nella mia pausa,
oltre che abbastanza appartate e lontane da orecchie indiscrete, potevamo
sembrare solo due conoscenti che dibattevano vivacemente. Era quindi ora di
chiudere quella sorta di tira e molla, di annientare la presa che mi stava
soffocando da alcuni giorni.
“Se sei tornata per raccontarmi di nuovo la cazzata, be’,
tornatene da dove sei venuta. Se vuoi denunciare fai pure, tanto verrà a galla
chi sei veramente, che sei solo una falsa… fai quello che vuoi, ma vattene,
lasciami in pace, non farmi vergognare davanti a tutti…” andai avanti
imperterrita, tra piccole e fastidiose pause. Quella storia doveva
assolutamente finire.
Ancora Irina giaceva silenziosa e smorta sulla sua sedia, il
fazzoletto bianco tra le mani congiunte all’altezza del petto. Sembrava una
martire al patibolo.
“Io no…” biascicò allora, una volta che avevo esaurito
discorsi e parole.
“Io no cosa?” l’incalzai.
“Te ne devi andare. Hai rotto il cazzo. Sei solo invidiosa,
sei tu la brutta persona” infierii, continuando a notarla vulnerabile. Ma se il
mio intento era quello di debellarla, ebbene non ci riuscii affatto.
“Io non stata” disse infatti, a quel punto imponendosi con
decisione per la prima volta, spalancando gli occhi grandi e azzurri e
avvicinando il viso al mio. “Io non volevo tutto questo. Loro… sì, loro altri
mi han detto di farlo, e adesso io in colpa”.
“Cosa stai dicendo?!” sussultai, al cospetto di parole così
decise e pesanti. “Loro chi?”.
“Lui, tuo ex, e sua nuova compagna. Loro hanno detto a me,
brava persona, di fare telefonate e di promettere denuncia, loro ricattare me e
mia famiglia di fare controlli e rimandarci nell’Est. Noi stare bene qui, non
potere dire no a quello che mi hanno costretto a fare” mi spiegò brutalmente la
donna, e quella volta sembrava davvero sincera. Poi scoppiò in lacrime, che
come fiumi in piena solcarono il suo viso segnato dall’età.
Per l’ennesima volta fui costretta a incassare un colpo che
fu come una pugnalata. Senza parole al cospetto di affermazioni così
devastanti, fu la mia volta di restare in silenzio e di fissare la signora che
avevo davanti.
Davvero il mio ex non si era arreso all’evidenza? Avevo
sottovalutato Marco, oppure la donna si era inventata tutto di sana pianta al
fine di incasinare ancora di più la situazione?
Eppure, con il senno di poi, Irina non poteva sapere niente
del mio ex compagno. Persino George non sapeva quasi nulla a riguardo.
“Come si chiama il mio ex?” le chiesi passato lo
sbigottimento iniziale, e lo feci in modo molto pacato, quasi sottovoce.
“Marco. Lui mi ha detto tuo ex. Suo padre è un uomo ricco, ha
tanti soldi, può sostenere processi o denunciare senza problemi. Sua nuova
ragazza, assieme a lui, odiare te” mi rispose candidamente e senza
tentennamenti. Se prima non sapevo se crederle o meno, be’, i miei dubbi
stavano sparendo tutti, sciogliendosi come neve al sole man mano che la donna
si lasciava andare alla disperazione crescente.
Appariva sinceramente distrutta, e in fondo avevo notato quel
suo rammarico sincero. Cosa dovevo fare? Mi ponevo tante domande ma ero
tormentata, non sapevo come comportarmi.
Se prima avevo creduto che un intervento di Piergiorgio fosse
necessario, adesso facevo un brusco passo indietro. In verità sembrava che
fosse tutto un affare mio. Se davvero Marco era stato la causa di quella
spiacevole situazione, allora volevo cavarmela da sola.
“Saresti disposta a ripetere tutto questo di fronte alla
polizia?” le chiesi, come a volermi assicurare che non mi stesse riempiendo di
bugie. Irina annuì con vigore.
“Sì. Tutto purché mi lascino in pace”.
Socchiusi gli occhi e mi lasciai andare ad un profondo
sospiro, prima di imprecare a mezza voce e di decidermi a far sloggiare quella
scomoda figura da davanti a me.
“Sparisci” le intimai a un certo punto, senza alcuna pietà,
“non parlarmi e non contattarmi mai più. Nemmeno Piergiorgio, intesi?”. Irina
annuì lentamente, asciugandosi ancora le lacrime.
“Verificherò. Se le tue parole sono vere, non avrai nulla da
temere, altrimenti ti beccherai la denuncia. E adesso vattene via, non voglio
vederti mai più” procedetti a dire.
Infatti la confusione iniziale si stava tramutando in un odio
cieco verso il mio ex e quella sua nuova compagna che, a quanto pareva, ce
l’aveva con me. Che fosse ancora quell’oca giovane e senza cervello che avevo
visto al Picadilly qualche mese prima? Ma lei manco la conoscevo, cazzo voleva
da me.
In preda all’ansia e al nervoso più cupo non persi altro
tempo e neppure guardai Irina mentre se ne andava, abbattuta e incassata tra le
spalle. Ero già intenta a frugare con le mani nella mia borsa, alla ricerca del
mio cellulare.
Una volta stretto tra le dita, corsi subito nella rubrica a
cercare quel maledetto numero che avevo bloccato ormai da tempo. Era giunta
l’ora di sbloccarlo e di fare una telefonata importante. Nessuno, da quel
momento in poi, si sarebbe mai più dovuto infiltrare nella mia vita solo per
avere il gusto di rovinarla.
Non quando ero felice, non quando stavo vivendo il momento
più bello della mia vita, amata e in dolce attesa. In procinto di sposarmi.
No, non avevo mai fatto del male a nessuno, e non volevo che
altri fossero così gratuitamente sadici nei miei confronti.
“Pronto?”.
La sua voce gracchiò poco dopo nel mio telefono, rimbombando
quasi fosse un lontano eco.
Deglutii. Se dapprima avevo ritenuto opportuno telefonare a
Marco, presa dalla rabbia più cupa, ora me ne pentivo un poco. Ma non potevo
più tornare indietro.
“Vieni al bar in cui lavoro entro dieci minuti”, sibilo,
seppur senza la decisione che avrei desiderato. Fu però la sua volta di
deglutire, lo percepii.
Immaginavo che sapesse benissimo chi ero, e inoltre doveva
già aver capito che se l’avevo chiamato era perché era accaduto qualcosa di
molto grave.
“Cos’è… successo?”
trovò la forza di chiedere, quasi balbettando.
“Te lo spiego subito, ma corri, che non ho più tempo da
perdere con merde come te” aggiunsi, guadagnando di nuovo sicurezza dopo aver
notato che stava perdendo terreno, “e porta anche la tua nuova ragazza, se ci
tieni. Devo parlarvi, dato che vi sto tanto sul cazzo”.
“Io…”. Sospirò
senza aggiungere altro.
“Subito qui. Tanto so che sei a casa ad annoiarti” e
riagganciai.
E adesso, mi ritrovai a pensare… avevo ormai scoperto la mia
bravura a mettermi nei guai, ma affrontare due bastardi colossali da sola forse
era qualcosa di troppo anche per me. Un guaio immenso, insomma!
Capendo che da sola non ce l’avrei mai fatta, preferii
avvicinare Virginia, ancora alla cassa come suo solito.
“Signora, dovrei chiederle un piacere immenso”. Lei mi fissò
subito con interesse.
“Dimmi tutto, carissima”.
“Tra poco devo chiudere una questione con una… forse due…
persone che mi rovinano la giornata da ormai troppo tempo. Se può… dare
un’occhiata fuori dai vetri che ha di fronte, e se vede che le cose si mettono
male, chiami per favore subito il 112” spiegai con imbarazzo, ottenendo la sua
preoccupazione.
“Ma… cosa mi combini, cara?” mi chiese, un po’ spaesata dalle
mie affermazioni.
“No, nulla, non si preoccupi” mi affrettai ad aggiungere, “è
solo una... precauzione, diciamo così. Le garantisco che in dieci minuti chiudo
la faccenda e sarò pronta per ricominciare il mio turno con puntualità”.
Non le diedi il tempo per dire altro poiché mi volsi verso
l’uscita del locale e mi spicciai a raggiungere il marciapiede, stando attenta
a non uscire mai dal punto in cui Virginia poteva osservarmi. Ero più che
sicura che avrebbe eseguito ciò che le avevo detto, nonostante le dovute
perplessità.
Ci vollero infatti meno di dieci minuti prima che
un’automobile nuova, fiammante e inconfondibilmente da ricconi giungesse a
tutta velocità dopo aver eseguito tre sorpassi azzardati e rischiosi.
Come se anch’essa fosse rabbiosa, la Maserati inchiodò a
qualche centimetro dal marciapiede sul quale mi trovavo io, prima di spegnersi
definitivamente. I finestrini scuri, dai vetri offuscati, non lasciavano
presagire nulla su chi ci stesse dentro, a parte il fatto che ero sicura che si
trattasse di Marco, l’unico sborone che nella nostra cittadina si poteva
permettere un tale lusso.
Lo sportello del guidatore si aprì e infatti mi ritrovai in
meno di un secondo a fronteggiare il mio ex, ormai nemico giurato. Mi guardò
con aria di sfida, almeno all’inizio, poi si raddolcì notando che la mia
determinazione non era svanita.
“Dimmi tutto, principessa” esordì.
“Risparmiati di punzecchiarmi, stronzo” fu l’unica risposta
che ottenne.
Marco mi sorrise, poi richiudendo lo sportello si avvicinò a
me. Faccia a faccia, il suo sorriso non svanì, anzi, si accentuò.
“Ti ho lasciato che eri bellissima, e adesso lo sei ancora di
più. Nel qual caso dovessi rivolermi…”. Gli sferrai un sonoro ceffone,
approfittando della nostra vicinanza. Le sue parole beffarde mi avevano
provocato così tanto che non ero riuscita a trattenermi, ma lui non fece una
piega.
Non si sfiorò nemmeno la guancia che si stava arrossando in
fretta, né cancellò il suo sorriso.
“Vuoi picchiare il mio ragazzo?” domandò con altrettanto tono
beffardo una voce inconfondibile.
Concentrai il mio sguardo alle spalle di Marco e non ebbi
alcuna difficoltà a riconoscere Irene, che stava scendendo dalla Maserati. A
quel punto rimasi così colpita dalla scena che fui costretta a fare due passi
indietro, seppur involontariamente. Quindi…
“Sei… sei tu allora la sua nuova… ragazza?” chiesi,
titubante, come se non ci potessi ancora credere.
“Sono proprio io, cara Isa” disse, sorridendo in un modo
provocante. Si avvicinò a Marco e lo prese a braccetto, avvinghiandosi poi a
lui.
“Credevo stesse ancora con quella giovanissima…” provai ad
affondare la mia lama non appena compresi quanto bastardi fossero quei due
figli di puttana. Irene… la mia amica storica… colei che avevo idealizzato e
che per anni avevo creduto che fosse la mia migliore amica, una vera sorella.
Che fine aveva fatto quella ragazza che mi aveva colpito per la sua sincerità?
Certo, era sempre stata un po’ strana e superficiale, anche un po’ oca a tratti,
però ora più che mai mi sembrava veramente cattiva. Che nulla in lei fosse poi
così casuale. La odiavo con tutta me stessa.
“Invece ha scelto il meglio” ribadì la mia ex migliore amica,
udendo tali parole, “ e ti dirò anche di più; noi stiamo per sposarci. Siamo
una coppia felicissima”.
“Ah” affermai, e a quel punto mi sciolsi un po’, poiché mi
venne da immaginare una certa scena, “quanti soldi ti ha promesso suo padre? Ti
sei lasciata comprare?” infierii. Nessuno dei due fece una piega.
“Be’, io ho sempre amato te, Isa, ma se tu non mi vuoi…”. A
quelle parole stupide di Marco, la sua ragazza reagì strattonandolo e facendolo
tacere.
“Bene, stronza, ci hai rotto il cazzo fino ad adesso. Ci vuoi
spiegare che cazzo vuoi da noi, eh? Non farci perdere altro tempo” esplose
Irene a quel punto, tagliando corto. Anche Marco parve tornare sul pezzo,
diventando serio.
“Al massimo siete voi due che mi avete rotto il cazzo,
sapete?” esplosi. “Avete costretto una persona a telefonare a casa del mio
compagno con delle stronzate assurde. L’avete fatto per farci litigare e
allontanare, ma non ci siete riusciti” compii un passo verso di loro,
rinvigorita dalla rabbia che di nuovo avvertivo premere dentro me, “voglio solo
dirvi questo; se ci riproverete, saranno veramente guai per tutti. Vi voglio
fuori e distanti dalla mia vita”.
I due si scambiarono uno sguardo complice, ma quella volta un
po’ meno sicuro rispetto ai precedenti. Erano certi di essere stati scoperti,
dopo aver udito le mie parole, e restarono in silenzio per qualche lungo
istante.
“Cazzo stai dicendo? Vuoi accusarci di qualcosa, forse? Di
cosa stai parlando?” buttò lì Irene, in un vago e aggressivo tentativo di
spaventarmi.
“Ho una donna che è disposta a denunciarvi per i ricatti che
avete portato avanti contro di lei e contro la sua famiglia. Io e Piergiorgio
siamo pronti a nostra volta a denunciarvi per le calunnie e le falsità con cui
ci avete perseguitato a casa nostra e sul mio posto di lavoro. Il resto lo
sapete benissimo”. Non persi un centimetro, mentre la coppietta invece sembrava
più allo sbaraglio.
“Non sappiamo di cosa tu stai parlando” mormorò Marco con un
tono sciocco, quasi infantile, e Irene tornò a strattonarlo per farlo tacere.
“Sono d’accordo con il mio ragazzo. Ma sappi che se ti è
successa una cosa del genere, be’, te la sei meritata. Sei una cagna, Isabella,
una come te che va con i pensionati per fregare i soldi delle loro pensioni” e
rise, rise di gusto, “io ti odio, mi fai schifo. Spero di non rivederti mai più”.
“Lo stesso vale per me… e pensa per te, che sei andata a
letto con tanti uomini per poterti comprare i vestiti firmati, prima di
trovarti questo idiota che hanno piantato tutte quante. Perché sì, Marco,
ricordati che ti ho lasciato io” risposi caoticamente, ma ormai sembrava che
sia io e sia loro ci stessimo scambiando le battute finali.
Non avevamo più niente da dirci; dal canto mio li avevo
affrontati e avevo sbattuto loro in faccia il fatto che li avessi scoperti. Da
parte loro, invece, l’ultimo tentativo di non ammettere la verità. Irene poi
era davvero acciecata da un odio incontrollabile nei miei confronti. Mi aveva
offeso di nuovo, sputandomi addosso parole terribili.
Mi ritrovai a maledirla mentalmente, a pensare che le sue in
fondo sono solo parole pronunciate da una misera puttana senza cervello.
Marco non replicò alle mie parole, né lo fece Irene. La
ragazza infatti sospinse leggermente il mio ex verso la loro auto, decisa ad
andarsene. Non era più tranquilla come quando era scesa dalla macchina, bensì
il suo volto era ormai rovinato dalle rughe provocate dal profondo nervosismo.
“Se ci riproverete, verrà tutto a galla e vi distruggerò.
Vivete le vostre vite ma stateci lontani”, ribadii con cattiveria, mentre i due
già salivano in auto. Scambiai un ultimo, rovente sguardo con la mia amica di
un tempo. Irene aveva calato la maschera, si mostrava come la vipera che era.
“Non ti preoccupare, usciremo dalle vostre vite sfigate.
Buona fortuna con il tuo pensionato” disse la ragazza prima di chiudere lo
sportello e di nascondersi dietro i vetri oscurati.
Non capii subito se si trattava di qualcosa di sincero oppure
di buttato lì per farmi capire che la partita non era ancora chiusa, ma quando
vidi la Maserati che si allontanava sgommando, be’, mi sentii molto meglio.
Rientrai al bar e Virginia mi venne subito incontro.
“Ma quello non è il tuo ex?” mi chiese subito.
“Sì, era lui e la sua nuova ragazza”.
“Oh! E pensare che mi era sembrata quella che è venuta anche
a prenderti qualche volta da qui, quella… come si chiamava…”.
“Irene, sì, proprio lei. Diciamo che i miei unici due nemici
naturali hanno deciso di far coppia” completai io la sua frase, cercando anche
di sdrammatizzare. Sul momento mi sembrava di essere riuscita a togliermi un
macigno di dosso, ma era davvero così?
“Isa, sei tutta rossa in faccia, credo che tu non stia bene”
disse la signora, ancora preoccupata per me, “per favore, vai in bagno e
sciacquati il viso. Aspetta finché non ti passa un po’. E non pensarci più,
adesso non so cosa ti abbia spinto a incontrarli e a discuterci proprio qui
davanti al bar, però immagino siano state cose spiacevoli. Non lasciare che ti
rovinino questo momento speciale”.
Le sorrisi calorosamente, contenta del suo supporto gratuito.
Virginia era sempre più una mamma per me, premurosa e gentile. Spinta dalla
gratitudine del momento, mi azzardai ad abbracciarla in modo spontaneo. La
stretta durò pochissimo, ma fu decisa.
La signora, presa un po’ alla sprovvista dal mio gesto
d’affetto, si sciolse poi in un sorriso non appena mi allontanai per dirigermi
al bagno del personale. Lì attesi qualche minuto, sciacquandomi le guance
arrossate dalla marea di sentimenti molto forti provati da poco.
Rimasi a testa china sul lavandino, sperando solo che qualche
mio collega non mi beccasse durante quella parentesi in cui ero molto
vulnerabile. Alla fine ne uscii indenne, e ripresi il mio turno come se nulla
fosse. Eppure, mentre servivo ai tavoli, spazzavo e pulivo, non potevo fare a
meno di tornare a pensare a tutto quello che era accaduto. Ed era successo
tutto così in fretta…!
In fondo avrei dovuto soffermarmi a ragionare. Spinta dal mio
solito impulso rabbioso, avevo agito con grande avventatezza. Avrei potuto
parlarne con George prima di affrontare il duo. Ma non mi sarei mai aspettata
che fosse coinvolta anche Irene.
Insomma, sentivo di aver commesso qualche passo falso e forse
denunciarli senza stare a discutere con loro e svelare le mie carte sarebbe stata
la scelta migliore.
Con i sensi di colpa che mi avvolgevano in un costante
crescendo, fu un bel tormento. Il senso di disgusto rivolto a Irina, a quanto
pareva vittima anche lei, non mi passò nonostante tutto. Idem mi vergognavo
tantissimo per il fatto di esser stata così amica di una persona mostruosamente
stronza e perversa come Irene.
Quando tornai a casa, quella sera, mi lasciai solo avvolgere
dal silenzio della nostra residenza di campagna. Passai le mani sul mio ventre
ancora solo leggermente inarcato, sentendomi in pace con me stessa.
Il fuoristrada di George era parcheggiato davanti alla villa,
quindi doveva essere in casa o da qualche parte nel retro, magari dalle
galline, ma non me la sentii di raggiungerlo subito. E nemmeno mi sentivo di
parlargli di ciò che era accaduto durante quella lunghissima giornata. Forse
sarebbe stato meglio attendere l’indomani, oppure la notte, quando parlare mi
riusciva meglio e provavo meno imbarazzo nell’intimità del letto.
Sentivo Kira che abbaiava festosa dentro casa, il venticello
ormai piuttosto fresco che sparpagliava le foglie ingiallite e strappate con
barbarie dalle alte fronde degli alberi che mi circondavano. Quello sarebbe
stato il primo autunno che avrei vissuto con l’uomo della mia vita. E tra tutta
la precarietà della mia esistenza, mai mi sarei aspettata che il mio principe
azzurro giungesse così in fretta, quando meno me l’aspettavo, ma non solo; che
egli avesse anche le sembianze del mio compagno.
Ma la vita in fondo è così, è tutta una sorpresa.
Un solo anno prima vivevo con Marco, male e in modo
confusionario. Ora avevo anche la certezza che Piergiorgio era innocente, che
non aveva molestato né fatto del male a nessuno. Il mio ex era il male, assieme
a quella cagna della mia ex migliore amica. Dannati loro.
E pensare che avevo lasciato che per anni quella gentaglia
influenzasse la mia esistenza, quando non meritavano nulla se non il più
profondo disprezzo. Per fortuna la vita insegna anche.
Ero così pervasa da quella profonda malinconia da lasciare
che essa si tramutasse in un senso di smarrimento che mi lasciò come sospesa
nel tempo per diversi minuti, mentre lasciavo che solo il vento e i minuti
scorressero attorno a me. Adesso che i nemici erano stati avvisati, speravo
davvero in un po’ di pace.
Era ora di sperare, di crederci per davvero. Amavo più di
quella stessa mattina. Ero più che sicura di essere riuscita a dare un calcio
alla mia vecchia, povera vita, per iniziarne una finalmente degna di essere
vissuta, amata e rispettata a fianco di un uomo che amavo con tutta me stessa.
Gli ultimi argomenti rimasti in sospeso tra noi li avrei
affrontati prestissimo e finalmente tutto sarebbe stato perfetto.
Quando finalmente sentii che il momento di raccoglimento si
era concluso, mi decisi a lasciarmi la mia Toyota alle spalle e a dirigermi
verso casa, ma a passi lenti, convinta che dovevo godermi quegli istanti di
solitudine.
Stavo smaltendo e metabolizzando tutto quello stress che mi
aveva infastidito durante tutto l’arco della giornata appena vissuta. E infine
pensavo che avrei dovuto chiamare mia madre, preparare la cena, prendermi cura
del cane e anche delle galline, perché no, nel caso che George non l’avesse
ancora fatto.
Così un senso di strana felicità sbocciò in fretta dentro al
mio cuore ferito e mutilato dalle pugnalate altrui; si trattava di quella gioia
che si poteva scovare anche nelle piccole e magari noiose mansioni quotidiane,
ma che se svolte con amore potevano
rivelarsi anche molto piacevoli.
Il mio uomo poi mi aspettava dentro, mi avrebbe aiutato e
assieme avremmo riso e scherzato. Sì, mi sentivo meglio.
Per qualche istante non pensai più a tutta la cattiveria
gratuita di quei due esseri che ormai erano solo parte di una parentesi di vita
passata e per fortuna conclusa.
NOTA DELL’AUTORE
Spero sempre di avervi intrattenuto un po’. Purtroppo, spesso
il Male proviene da fonti ben note e vicine a noi.
Adesso speriamo in bene, come la nostra protagonista.
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Capitolo 48 *** Capitolo quarantotto ***
Capitolo quarantotto
CAPITOLO QUARANTOTTO
Ho sempre pensato che la mia storia volevo scrivermela da
sola, e così è stato.
Mia madre mi confermò l’appuntamento fissato presso la sede
locale della banca al fine di poter sbloccare definitivamente l’eredità di mio
padre, ora più che mai sempre più tangibile. A Piergiorgio raccontai la vicenda
di Irina solo durante la notte, quando tra le sua braccia mi sentii più forte.
Non seppi in un primo momento se appoggiava le mie scelte
oppure no, non si espresse. Si limitò ad ascoltarmi in silenzio, lasciandomi
sospesa durante quasi tutto il corso di quella nottata.
Giunsi al mattino successivo senza aver chiuso occhio, e
mentre cercavo di prepararmi per il lavoro squillò il mio cellulare, con la
signora Virginia che mi comunicava tempestivamente che avrei dovuto presentarmi
solo quel pomeriggio, poiché quel mattino avrebbe tentato di prendere servizio
la nuova ragazza e voleva metterla alla prova.
Non fu un male, anzi, una piacevole sorpresa che il mio
George aiutò ad amplificare.
Il mio compagno non aveva esitato un solo attimo a lasciar
perdere il suo lavoro.
Testardo come un mulo, dopo un paio di telefonate a raffica
mi fece salire sul suo fuoristrada. Destinazione? “Sorpresa” rispose a tutti i
miei interrogativi iniziali, sorridendo bonariamente.
“Dio, George, mi metterai in imbarazzo… io di sorprese non te
ne faccio mai…” mormorai, ancora abbastanza confusa da ciò che stava accadendo.
Quella che era iniziata come una giornata ordinaria sembrava volersi tramutare
in tutt’altro.
Udendo quelle mie parole, egli allungò la mano destra verso
di me e sfiorò il mio ventre.
“Esiste forse una sorpresa più bella di questa?” chiese.
“Questo è solo il frutto dell’amore, non un regalo” mi venne
spontaneo rispondere, non seppi mai se a torto o ragione.
“E allora anche ciò che sto facendo è frutto dell’amore, va
bene?” chiese ancora, mettendomi a tacere con la sua solita capacità
dialettica.
“Poi tanto ti sto portando qui vicino, non ti preoccupare,
entro due ore saremo di nuovo a casa. Stai tranquilla” aggiunse.
“Oh, per me non è un problema. Basta che entro le quattordici
mi presenti al bar”.
Il fuoristrada imboccò lo stradone principale che tagliava in
due il nostro borghetto.
Passammo di fronte al Mald’Est, il locale in cui Irene mi
aveva tormentato per tre sere di fila. Mi allungai a guardarne l’insegna
illuminata dal timido sole autunnale, pensando che in fondo erano passati solo
pochi mesi. Una stagione e poco più. E quante cose erano cambiate, così in
fretta.
“A proposito, Virginia sa che presto ti licenzierai, vero?”
tornò a domandarmi con un tono leggermente indagatore.
“Ma certo” lo rassicurai subito, “ adesso sta cercando di
mettere alla prova alcune ragazze, infatti. Vedrai che non mi rimpiangerà”.
Sogghignò.
“Chi non ti rimpiangerebbe?”.
“Be’, mi dispiace per te e per nostro figlio, che dovrete
sopportarmi a lungo…”. Trasportata dalla sua leggera ma profonda ironia, mi
ritrovai a mia volta a sciogliermi un pochino.
Mi scoccò un bacio a distanza, senza mai smettere di
sorridere al di sotto della barba, come potevo vedere distintamente dal suo
profilo.
“Sai che io ti amo e che per me non c’è nulla di più
importante al mondo. Ci sei solo tu. E anche per nostro figlio, tu sarai la
madre che lo sosterrà sempre e che potrà seguirlo lungo il suo cammino”
proseguì, la voce che man mano si incrinava.
“Ehi” lo ripresi gentilmente, “non dire così. Tu sarai il
padre che amerà e che prenderà come esempio nelle sue imprese…”.
Mi interruppi solo quando lo vidi troppo commosso per
ascoltare altro.
“Sai benissimo che non ci sarò per sempre”.
Le sue parole lapidarie per la prima volta mi parvero un
losco preambolo, un’anticipazione di un futuro incerto per la nostra famiglia.
Socchiusi gli occhi e lasciai che un attimo di profondo
silenzio seppellisse il nostro ultimo dialogo. Non volevo nemmeno pensare a ciò
che mi aveva appena detto, anche se mi rendevo conto che tutto ciò poteva
essere verosimile. Ma ora che stavo davvero mettendo tutta me stessa in questa
storia, non mi sembrava possibile che potesse infrangersi così banalmente.
“Ti trovi bene in casa mia? Ne facciamo la nostra residenza
matrimoniale?” mi chiese George, tornando a sfoggiare il bel vocione che lo
caratterizzava, anche se sapevo che dentro di sé era ancora in subbuglio e che
stava solo cercando di strappare via quel velo di amarezza che si era calato in
fretta su di noi.
“Sì, va tutto bene…” annuii.
“Che ne dici se chiamo i muratori e gli imbianchini e faccio
mettere a posto il piano superiore? Tanto è sgombro. Lo facciamo sistemare poi
andiamo a dormire su”.
Quelle frasi rassicuranti mi fecero invece sentire a disagio.
Avevo visto con i miei occhi che di sopra non era proprio così come lo stava
descrivendo lui, e che una camera da letto ben ingombra c’era già.
Non riuscendo a trattenermi, affrontai istintivamente la
vicenda.
“In realtà c’è già una stanza da letto ben piena di mobilia…”
la mia voce che si spense da sola quando mi resi conto di aver azzardato.
George in effetti parve colto davvero alla sprovvista dalle mie parole e
sbiancò in viso, prima di decelerare senza quasi accorgersene.
“Sei andata di sopra, allora” constatò a mo’ di affermazione,
rivolgendomi per la prima volta uno sguardo diretto, seppur breve. Era
all’improvviso serio.
“Sì” fui costretta ad ammettere, molto candidamente.
“Immagino che avrai visto… tutto, ecco, se sei entrata in
quella stanza e hai controllato sul letto, o a terra…” balbettò un po’,
titubante. Lo vidi quasi in procinto di fermarsi sul ciglio della strada,
mentre gli altri automobilisti ci sorpassavano tutti.
Mi ritrovai allora costretta a cercare di mettere una pezza
al mezzo pasticcio che avevo combinato.
“No, amore, non devi scusarti di nulla. Davvero, sei a casa
tua, è colpa mia che non mi sono fatta gli affari miei” spiegai, però io volevo
davvero scusarmi, mentre lui invece avvampò e si lasciò cogliere da un imbarazzo
ancora maggiore.
“Ero rimasto solo, senza nessuno, devi capirmi” continuò a
spiegarmi a valanga, senza lasciarmi più parlare, “sai che noi uomini non siamo
forti come voi. Avevo i miei bisogni, i miei ricordi. Le foto della mia vita
precedente, i mobili comprati da giovane, tutto ciò che mi ricordava i momenti
passati io l’ho raccolto lì. Anche… avrai visto quelle riviste, ti giuro che
sono cose comprate prima che stessimo assieme…”.
“Ma tu non devi scusarti di nulla” mi allungai per
accarezzargli i capelli con rassicurante dolcezza, “io ti capisco, non mi
fraintendere. Capisco, davvero. Il tuo comportamento è stato comunque
comprensibile”. Inoltre ero anche convinta che George non avesse molto altro da
offrire dopo i nostri incontri nel letto, poiché facevamo l’amore spesso e
volentieri, quindi il desiderio doveva essere praticamente sempre placato. E
capivo per davvero, mi dispiaceva per ciò che aveva dovuto vivere.
Perché non osavo nemmeno immaginare come fosse vivere dopo
aver perso una compagna, anche se non si era più legati si aveva comunque
convissuto per tantissimi anni. Un vuoto enorme, alla fine, trovarsi soli e
lontani da ogni altro affetto.
Lo comprendevo con tutta me stessa e non gli facevo una colpa
di nulla.
Piergiorgio parve rassicurato dalle mie parole e si
rasserenò, con la guida che tornò a essere regolare.
“So che tu mi capiresti sempre. Sei la parte mancante di me,
assieme ci completiamo” mi disse con dolcezza, e da quelle sue parole intesi
quanto desiderasse cambiare argomento.
“E’ che tu sai fare tutto e io niente”. Rise sommessamente.
“Ognuno di noi sa i fatti suoi. Non si può saper fare tutto,
io stesso non ne sono capace, e non dirmi che non è così. Però l’importante è
tirare avanti, ma soprattutto saper farsi amare dalle persone che conosciamo e
da chi ci circonda” si spiegò con serietà.
“Io non so farmi amare. Per fortuna ho te, amore” gli dissi,
sfiorandogli la mano appoggiata sul cambio. Avvertii un rapidissimo brivido di
passione e di stupore che s’irradiava nei muscoli del suo arto.
“Tutti ti vogliono bene, Isa” si limitò a rispondermi.
“Non è vero” aggiunsi, ripensando a ciò che era accaduto con
quei due mostri con i quali avevo condiviso numerosi momenti importanti della
mia vita. Anche il mio compagno comprese subito a chi mi riferivo e si limitò a
sbuffare, prima di tornare a dire la sua.
“Non si può sempre andare d’accordo con chiunque, è normale.
Poi ci saranno sempre i coglioni che proveranno a rovinarci la vita, ma
l’importante è pensare che in fondo tutto scorre. Il male torna indietro e non
si deve andare in fissa per queste cose. Pensa positivo e pensa soprattutto a
noi due, che così diversi abbiamo fatto tanto e tanto abbiamo ancora da fare.
Pensa a ciò che abbiamo costruito in questi mesi, proprio dopo aver toccato il
fondo.
Ci siamo curati e guariti a vicenda, abbiamo formato una
famiglia. Ci può essere qualcosa di più bello di ciò? Direi proprio di no. E
così non puoi nemmeno affermare che non sai farti amare, perché io ti amo più
della mia stessa vita”.
Lo osservavo con gli occhi inumiditi dalla commozione. Quando
mi parlava in quel modo ispirato percepivo il suo amore nel modo più intenso
possibile, oltre la carne e la semplice materia. Era il suo spirito ad avere
voce ed era quello l’importante per me.
Avrei tanto voluto baciarlo, stringerlo a me e lasciarmi
andare alla passione, ma non potevo. Mi limitai ad assaporare la sua essenza antica,
lo spirito di chi sapeva ancora amare in un mondo ormai in rovina a livello di
sentimenti.
“Anche io ti voglio bene, e ti amo alla follia. Senza di te,
non so chi sarei diventata” affermai con la voce incrinata.
Era la verità; ricordavo bene la mia fine con Marco e tutto
quel turbinio spiacevole che mi aveva quasi condotta alla follia. Senza George
la mia esistenza sarebbe stata un profondo buco nero da cui non sarei riemersa
mai più.
“Senza di me, saresti stata una persona migliore… avresti
avuto la felicità, magari con qualche tuo coetaneo…”. A quel punto quasi
sussultai, e con decisione lo frenai di colpo.
“Non dirlo nemmeno per scherzo. Io sono felice così, questa è
la vita migliore che avrei mai potuto desiderare” ma lui non apparve molto convinto.
Con la fronte corrugata, mi rispose in modo molto neutro.
“Io non potrò esserci per sempre per te, per voi…”.
“Perché me lo ricordi sempre, George? Perché fai così?” gli
chiesi con impeto.
Fu in quel preciso istante che intuii che forse il mio compagno
mi stava nascondendo qualcosa. Ma cosa? Un qualcosa di brutto, che non voleva
che io sapessi. D’altronde immaginavo che chi stesse bene non pensasse
continuamente a quando non ci sarebbe più stato.
“Io non mi pento di ciò che ho costruito con te, sei stata la
mia fortuna più grande” precisò.
“Mi rattristi, però”.
Lo riconobbe tramite un semplice, breve cenno del capo, quasi
impercettibile.
Prima che la nostra discussione potesse diventare ancora più
greve, ci venne incontro la sorte.
“Siamo quasi arrivati” disse George, distogliendomi dai
loschi pensieri.
Il mio sguardo scivolò fuori dal finestrino, lasciandosi
incantare dal turbinio di case che circondava il nostro mezzo in movimento. La
via Emilia si snodava davanti a noi con piccole curve e semafori, di tanto in
tanto.
Stavo capendo dove mi aveva portato, dove eravamo in quel
momento, ma perché quella sorta di improvvisata gita fuori porta? Non capivo,
ancora.
Quando meno me l’aspettavo l’auto sterzò e imbucammo una
delle tante viuzze centrali del borgo. Conduceva alla piazza principale. E
infatti George parcheggiò il fuoristrada a una ventina di metri dal
distributore di carburante, ad altrettanto dal centro cittadino.
“Perché a Santarcangelo?” riuscii finalmente a chiedergli.
Santarcangelo di Romagna era una radiosa cittadina a poca distanza dal nostro
paese, tuttavia non era mai stata di mio gradimento e l’avevo frequentata
relativamente poco. Durante l’adolescenza, i miei compagni di classe ci
andavano spesso grazie ai sicuri bus di linea, però a me non era mai piaciuta
come meta.
Piergiorgio non mi rispose, enigmatico come suo solito, e
sorridendomi mi fece cenno di scendere.
“Andiamo in piazza, su” si limitò ad affermare.
Senza tentennare oltre scesi a mia volta dal fuoristrada, con
il mio compagno che lo chiuse a chiave e che poi mi prese dolcemente a
braccetto, da vero gentiluomo.
Camminammo assieme e in silenzio per tutta la durata del
breve tragitto, nemmeno dieci minuti a piedi. Attorno a me murales e muri
scoloriti di un centro storico mal custodito si avvicendavano con scene di vita
quotidiana di chi abitava la zona centrale della città. Donne con i sacchetti
della spesa, ragazzi in giro con il cane al guinzaglio.
Poca gente e tutta silenziosa e seria; Santarcangelo era
rimasta come me la ricordavo, identica a un paio d’anni prima. Sapendo che le
botteghe e i negozi erano tutti concentrati sotto il lungo loggiato che si
affacciava sulla piazza, non mi stupii più di tanto di quel mortorio assoluto.
Piazza Ganganelli ci accolse all’improvviso, facendo capolino
tra le case e i vicoli stretti e maleodoranti.
Piergiorgio proseguì spedito verso quel largo spiazzo.
“Da quant’è che non ci sei venuta?” mi chiese, rompendo il
silenzio che aleggiava su di noi da un po’.
“Santarcangelo non mi ha mai fatta impazzire” non gli
nascosi, “saranno almeno tre o quattro anni che non ci sono venuta”.
“Adesso vuoi ancora sapere perché siamo qui?” tornò a
interloquirmi, restando impassibile al cospetto della mia pesante sincerità.
Annuii.
Tornò in silenzio, ma la sua espressione era molto
tranquilla, quasi sorridente. Non riuscivo a scorgere con chiarezza le labbra,
ma ero più che certa che fossero leggermente increspate sotto la barba.
Appariva soddisfatto.
Percorremmo ancora diversi passi, giungendo nel mezzo della
piazza. Attorno a noi c’era ancora una notevole quiete, forse complice la
nuvolosità autunnale. La poca gente che era in giro camminava tutta sotto il
complesso loggiato, comunque ancora abbastanza distante.
George, continuando a tenermi a braccetto, mi condusse presso
la grande fontana centrale, dove l’acqua ruscellava in modo continuo e producendo
un piacevole rumore di sottofondo. Il bianco del suo marmo sembrava riuscire a
risplendere nonostante i colori grigi e cupi che ci circondavano.
Lì al suo cospetto non fece altro che inchinarsi leggermente,
e come la prima volta a cui mi ero concessa a una sua grazia, egli estrasse una
scatolina dal taschino della camicia.
“Oh, non dovevi…” mormorai subito, immaginando si trattasse
di un altro anello. Me ne aveva già regalato uno ed io nonostante le sue
iniziali e pacate insistenze mi ero limitata a lasciarlo a languire in un
cassetto. Mi sentivo quasi in colpa, anzi, avrei potuto sentirmi così se non
fossi stata troppo rapita dal momento.
“Non sai nemmeno cosa contiene” affermò, porgendomi la
scatolina troneggiata da un bel fiocchettino di stoffa.
La presi tra le mani e la rigirai un po’, trovandola
abbastanza pesante. Troppo per contenere un anello.
“Io… faccio fatica a indossare gioielli, lo sai. Così… mi fai
davvero arrossire e vergognare…” balbettai, senza sapere cosa dire. Detestavo
indossare monili e non l’avevo mai fatto. Abiti, borsette, trucchi e rossetti
erano ben accetti, anelli e catene meno.
Non volevo ferire il mio compagno, d’altronde il mio
comportamento reticente era alquanto maleducato e fuori luogo, poiché mi stava
facendo un dono nel modo più galante possibile.
Piergiorgio si rialzò e riassettò gli abiti con una decisiva
strofinata di mani, poi unì le sue dita alle mie.
“Non ti devi preoccupare di nulla, non è niente che tu debba
indossare obbligatoriamente. Apri, dai” mi volle rassicurare, sereno.
Il calore delle sue mani strette attorno alle mie parve darmi
fiducia e forza. Non attesi oltre e sciolsi a malincuore lo splendido
fiocchetto, poi aprii la scatolina con la dovuta delicatezza.
Il mio compagno tolse le mani e mi concesse ulteriore libertà
d’azione, mentre i miei occhi visionavano diversi oggettini d’oro luccicante.
Si trattava di due nodi nuziali, una catenina con un crocefisso, una piccola
immagine della Vergine Maria. E alcune strane monete d’argento, di certo non
italiane.
Alzai lo sguardo e lo fissai su George, che a quel punto si
concesse di aggiungere altro, notando la mia perplessità.
“Sono i gioielli di famiglia, oggetti a cui tengo tantissimo.
I due nodi dei miei genitori, la catenina e i due ciondoli di mia madre. Anche
le monete d’argento. Sono tutto ciò che mi resta della mia famiglia e vorrei
che li custodissi tu” spiegò.
Sul momento non seppi cosa aggiungere, da un lato ero molto
colpita ed emozionata da quel gesto, dall’altro però ero titubante. Che diritti
avevo su quegli oggetti di valore, che in effetti a osservarli bene mostravano
i segni del tempo e dell’usura del passato? Non volevo, non potevo prenderli in
custodia. Erano troppo importanti per il mio compagno.
Scossi la testa e lui lo notò subito, ma probabilmente se
l’aspettava, poiché sorrise e si accinse ad ascoltare la mia pronta replica.
“Non posso tenerli io” gli allungai la scatolina dopo averla
richiusa, “non posso davvero. Sono i tuoi, sono le tue origini…”.
La prese tra le mani e la rigirò, poi tornò ad aprirla e a
guardarne il contenuto con visibile curiosità.
“I miei genitori erano molto poveri. Alla morte di mio padre,
mia madre mi ha cresciuto senza farmi mancare nulla, a patto di rompersi la
schiena. Ed era una straniera in queste terre, eppure questa terra l’ha
accettata come se fosse stata una figlia. Ciò che mi ha lasciato è stato
questo, me l’ha consegnato una sera e mi ha detto di tenerli con me, questi
unici pezzi di valore presenti in casa. Temeva che un giorno li avrebbe
barattati per del pane. Preferiva morire di fatica, pur di non perderli” e così
dicendo mi rimise tra le mani la scatolina, dopo averla chiusa. Era molto
commosso e lo vedevo veramente segnato dalle emozioni, temevo stesse per piangere.
“Non merito tale fiducia” tornai a replicare, ormai comunque
decisa a tenere con me quei ricordi suoi.
“Tu sei stata la mia salvatrice. Ciò che mi ha donato la luce
quando il buio stava per vincermi. So che li custodirai come se fossero il tuo
più importante tesoro, così come lo era per la mia mamma”.
Abbassai lo sguardo per nascondergli gli occhi lucidi.
“Lo farò. Te lo giuro”. Il mio giuramento fu lesto e
risucchiato dal gorgoglio dell’acqua della vicina fontana ornamentale, costante
nel suo movimento turbinoso.
“Non ne dubito” sancì il mio compagno, con grande decisione.
Tornò a stringere le mani attorno alle mie, ancora a coppa
attorno alla scatolina, come a cingerla in una sorta di abbraccio. Fu in
quell’istante che provai una forte voglia di abbracciarlo, di stringerlo a me
con forza.
Come durante i primi giorni del nostro amore.
Sciolsi il contatto e misi in borsa la scatolina, fiondandomi
poi tra le sue braccia. Il tutto in un modo così naturale e spontaneo da
lasciar basito il mio amante, che poi si affrettò a sua volta a stringermi
forte al suo corpo.
Al cospetto della fontana centrale di piazza Ganganelli, in
una Santarcangelo avvolta da un autunno che la rendeva più grigia e solitaria
del solito, il nostro amore si evolse ancora di più. Oltre la carne, oltre il
dialogo, oltre la comprensione. Oltre alla convivenza e al matrimonio
imminente. Oltre alla condivisione.
Adesso eravamo veramente uniti, più uniti che mai.
Avvertii i suoi singhiozzi e mi commossi ancor di più. Per un
solo secondo fui in procinto di sciogliere l’abbraccio e di lasciarlo libero di
sfogarsi, ma poi compresi che nella nostra stretta aveva trovato la pace
interiore. Era come se l’avesse bramata.
Avvertii le sue braccia che mi stringevano ancora più forte e
le lacrime che gli solcavano le guance ispide, ma strinse la guancia sinistra
contro la mia senza preoccuparsi di lasciarmi notare che stava piangendo ed era
a sua volta molto commosso.
“George?” gli chiesi, quasi a voler aggiungere se era tutto a
posto. Ma egli continuò a stringermi e a infossare il viso sulla mia spalla,
raggiunta quasi a fatica.
“Adesso sono felice, amore mio” affermò “tienimi ancora
stretto a te, per un poco”.
Socchiusi quasi totalmente gli occhi e mi lasciai avvolgere
dalla romantica magia del momento.
Attorno a noi era come se tutto si fosse fermato; come se
fossimo rimasti soli, come se la piazza fosse solo e soltanto nostra. Invece
c’era gente che ci guardava, i rari passanti sembravano attratti come calamite
da quel romanticismo che pareva ormai scomparso in quella grigia e monotona
città.
Forse apparivamo come due turisti, chissà, ma le persone che
transitavano in bici o a piedi ci lanciavano occhiate rapide e furtive.
Sbigottite. Chi sapeva più amare come noi, andando oltre a ogni individuale
differenza? Forse per alcuni dei pochi passanti potevamo sembrare un padre e
una figlia, oppure uno zio molto commosso e una nipote che lo riabbraccia dopo
tanto tempo. O una semplice coppia diversa dalle altre, non omologata alla
massa.
Però ero certa che la nostra commossa stretta parlasse un
linguaggio così universale da poter entrare in ogni cuore, e senza il bisogno
di parole o di altri gesti. Eravamo noi, il nostro amore e la sua semplice e
naturale spontaneità.
Non ricordo bene quanto durò quella magia, comunque dopo un
po’ si interruppe.
George si riscosse dal suo emozionatissimo torpore e tolse la
testa dalla mia spalla, per tornare a guardarmi negli occhi e mettermi le mani
sulle spalle.
“Ti amo tanto, Isa. Amore. Ti amo tanto” ripeté, una
ripetizione che aveva un retrogusto d’infinito.
“Anche io” e gli sorrisi, convinta. Il mio compagno sorrise a
sua volta e lasciò le mie spalle, per prendermi per mano.
“Non dobbiamo fare la prova degli anelli? O vogliamo fare gli
sposi senza nodo nuziale?” provò a ironizzare. Indicò l’oreficeria sotto i
portici.
Annuii, ma senza mai lasciare che il mio sguardo si
distogliesse dal suo viso. Lui era il mio tutto. Con lui sarei andata ovunque,
poteva fare di me ciò che desiderava, ed ero sempre felice e contenta di ogni
sua scelta o affermazione.
Tempo dopo scoprii che Santarcangelo non era stata poi in
fondo una scelta così casuale, ma niente è cambiato. Lo amo ancora come quel
giorno.
Quel pomeriggio tornai al lavoro molto più rilassata rispetto
al giorno prima. Le cose stavano andando al loro posto, questa volta quello
giusto. Con George era stata una bellissima mattina, dapprima il momento
romantico e poi le faccende riguardanti la nostra imminente unione. Avevo
telefonato anche alla mamma, dicendole che doveva aiutarmi con l’abito da
sposa.
Le faccende burocratiche erano ormai tutte a posto.
Presto mi sarei licenziata e avrei dedicato la mia vita alla
mia famiglia. Non sopportavo più le facce dei miei colleghi, quindi quei
pensieri positivi mi permettevano di non essere troppo triste sul lavoro.
Al locale la signora Virginia era continuamente attratta da
quell’uomo suo coetaneo che ormai era una presenza costante al bar e che la sua
compagnia l’allietava così tanto da non essere più così aggressiva con il
personale. Buon per lei, che finalmente a sua volta appariva davvero molto
serena. Io stessa non l’avevo mai vista così tranquilla.
Insomma, davvero, per una volta la mia vita si stava mettendo
a posto e speravo anche in un modo definitivo.
Mentre lavoravo di buona lena, però, feci fatica ad
accorgermi che un avventore dall’aria familiare mi stava fissando.
Quando avvertii gli occhi di qualcuno addosso a me, mi
affrettai ad abbandonare la scopa e ad alzare gli occhi.
“Mi dica pure” affermai, muovendomi rapidamente verso il
bancone. Per quanto ormai fossi abituata ad avere un buon ritmo lavorativo, mi
ritrovai a bloccarmi sul posto e a fissare a mia volta il ragazzo che
probabilmente mi stava cercando. Anzi, non probabilmente; di sicuro.
Il giovane palestrato mi sorrideva, e anche se era vestito
alla moda e non era in tenuta da spiaggia, non mi fu troppo difficile
riconoscerlo.
“Riccardo” sussurrai, dopo un attimo di sbigottimento.
“In carne e ossa, Isabella” e mi porse la mano destra, continuando
a sorridere.
Gliela strinsi ma ero ancora preda della sorpresa. Non mi
sciolsi troppo.
“Non ti ho mai visto qui al bar” riuscii solo a sentenziare,
in modo un po’ sciocco.
Riccardo, il ragazzone che avevo conosciuto in spiaggia
durante l’estate, non smise un attimo di sorridere. Non aveva perso la sua
gentilezza.
“Infatti non sono del posto, sono di Rimini. Sono passato di
qui per farti un saluto, ricordo che diverse settimane fa, quando eravamo
ancora in spiaggia, mi avevi detto che lavoravi qui… be’… ho pensato di farti
un saluto…”si spiegò in modo un po’ confusionario, poi arrossì leggermente.
“Ti ringrazio per il pensiero. Siediti pure, ti offro un
caffè” riuscii finalmente a rompere il ghiaccio, cercando di non pensare che
potesse avere un qualche doppio fine.
Riccardo per me era solo una conoscenza fatta in spiaggia, e
durante una bellissima e caldissima estate, niente di più. E allora perché
giunto l’autunno me lo ritrovavo di nuovo di fronte?
Il giovane si sedette e attese il caffè, senza togliermi gli
occhi di dosso.
Non appena glielo portai al tavolo, tornò a sorridermi.
“Non dovevi. Aspetta che te lo pago…”.
“Non se ne parla” risposi, categorica. Rimasi un attimo in
piedi a fissarlo, indecisa sul da farsi.
“Come sta il babbo?” mi domandò, ancora cercando di attaccare
bottone.
Rimasi perplessa per l’ennesima volta, poi ricordai che avevo
presentato George come mio padre. Mi vergognai di colpo e non me la sentii più
di parlargli.
“Tutto bene” affermai, genericamente, “adesso però scusami ma
devo lavorare. Ti ringrazio per la visita, mi ha fatto molto piacere
rivederti”. Gli rivolsi un mezzo sorriso, prima di dargli le spalle.
“Ehm… Isa… ti lascio il mio numero di telefono sul tavolino,
ok? Se ti andasse… di farmi un saluto” lo sentii borbottare, ma già io ero
tornata a spazzare.
Con la scopa andai al lato opposto del bar, imbarazzata e in
silenzio.
Tornai a pulire il suo tavolino solo quando fui certa che lui
non ci fosse più. Infatti Riccardo se n’era andato, ma sotto la tazzina del
caffè aveva lasciato un numero scritto sul tovagliolino di carta liscia del
locale.
L’accartocciai con stizza, ma non ci riuscii quando fu il
momento di buttarlo nel cestino. Me lo infilai in tasta. Si vede che era
destino che le nostre vite tornassero a incrociarsi.
Eppure in quegli istanti concitati non mi pentivo di averlo
trattato male. Ero felice e il ragazzo espansivo doveva restare fuori dalla mia
fragile esistenza.
Ricordo però che più tardi aggiunsi il suo numero alla
rubrica, con la promessa che gli avrei scritto in prossimità delle feste, per
cortesia e nulla più.
Nonostante tutte le difficoltà e le continue sfide, io amavo
la vita. Amavo George, il nostro bimbo in arrivo, mia madre. Amavo, e da qui si
sprigionava quella forza interiore che mi aveva portato a vincere diverse
battaglie. Ma come spesso accade, il tempo scorre e il destino è inesorabile.
L’esistenza prosegue, e dopo una discesa c’è sempre una
salita molto più ardua della precedente.
NOTA DELL’AUTORE
Carissime lettrici, eccoci giunti al finale… ci manca solo il
breve epilogo, che pubblicherò entro la fine dell’anno.
Se lo desidererete, anche prima.
Che dire… è stato un viaggio lunghissimo, durato anni! Io stesso
ci ho impiegato anni per concludere la battitura. Non so ancora se ho fatto un
buon lavoro, starà a voi decretarlo. Il progetto è stato più e più volte
cambiato; soprattutto, infine, mi sono concentrato molto sul fatto che
desideravo la speranza e l’amore fino all’ultimo capitolo. La forza d’amare,
l’amore che va oltre ogni difficoltà e differenza. Questo è lo spirito di
questo raccontino senza pretesa.
Le successive difficoltà dei due protagonisti, inizialmente
previste nel progetto, ho preferito tagliarle. Poi nell’epilogo vi spiegherò
tutto, non temete.
Ancora grazie per non aver mai abbandonato questo racconto.
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Capitolo 49 *** Epilogo ***
Epilogo
EPILOGO
Mi ritrovo a chiedermi cosa resta. Che ne è stato di noi due,
adesso che ci siamo persi per sempre.
Oh, George, Dio solo sa quanto mi manchi!
E mentre tante mani tese si allungano e tante labbra
sussurrano quelle condoglianze, mi chiedo anche dove sei tu. Tu che sei sempre
stato il mio tutto.
Adesso che anche mamma mi ha lasciata; eravamo rimasti soli
al mondo, io e te… assieme al nostro bambino.
Stringo forte e di riflesso il piccolo Giacomo, che ancora
non sa bene cosa è accaduto. Non sa che suo padre è morto dopo una lunga
agonia. E che quando io avevo iniziato a credere che mi tradisse, in realtà
passava molto tempo fuori casa per non mostrare quanto stesse male.
Per amore mio, mi ha evitato le sue pene.
Col senno di poi credo che avrei gradito accoglierle e
cercare di alleviarle.
Quando un infarto improvviso ha stroncato mia madre, solo
qualche mese dopo al nostro matrimonio, siamo stati uniti come non mai. Poi mi
hai lasciato per un po’ sola, la scusa dell’ospedale, dell’ambulatorio… è
arrivato nostro figlio, il dono tanto atteso… e la tua malattia a distruggere
la nostra effimera felicità.
Ho sbagliato, George, ho sbagliato tante cose.
Ho sbagliato quando ti ho tradito ed ho permesso a Riccardo,
inconsapevole, di entrare nella mia vita e di compiere cose oscene e
vergognose.
Tu te n’eri accorto, ne sono convinta, ma non hai mai detto
nulla. L’hai accettato, consapevole della tua malattia e sperando che lui potesse
offrirmi un futuro nuovo e migliore.
Invece il mio futuro è morto assieme a te. Riccardo è stato
solo una sorta di svago perverso, un modo per smettere di reprimere tutta
l’ansia che mi attanagliava. Sapevi quanto tenevo e quanto tengo tutt’ora a te.
Io ti amo, George, ovunque tu sia. Mio unico amore. Io ti ho
solo sporcato, reso infame… io ti ho rovinato.
Io non ti ho meritato.
Impazzisco, adesso che tutto è finito e che di te resta
quella fredda cassa di legno che stanno per mettere dentro a un anonimo loculo.
E con che coraggio dovrò andare dal marmista a far scrivere le lettere che
comporranno il tuo nome, il tuo cognome e le date di nascita e morte?
Maledetto sia quel giorno in cui non ho cestinato il
bigliettino sul quale Riccardo aveva scritto il suo numero. Da quel momento in
poi, nulla è stato più come prima.
Mentre aprono il loculo vorrei gridare di no, no, non dovete
farmi questo. Stanno infatti seppellendo parte di me. No, vi prego…
La gente attorno a me continua ad andarsene, l’ultimo addio è
stato dato. Chissà se notano quanto sto soffrendo.
In verità non piango nemmeno, devo sembrare di sasso ai loro
occhi. E chissà se sanno la verità, che io mio marito l’ho tradito; loro che lo
stimavano tantissimo, questa folla è composta dai suoi pazienti e da persone
che gli devono la vita.
Se c’è una cosa che mio marito ha lasciato dietro di sé, be’,
è stato un bellissimo ricordo collettivo.
Mentre osservo il muratore che chiude il loculo, con ancora
impressa la sensazione dell’ultima carezza rivolta alla fredda cassa nella
quale ormai riposi in eterno, penso che posso anche morire.
La gente se n’è andata tutta ormai.
So che hai visto quante persone sono giunte per salutarti. Un
saluto eterno… tu non ci sei più… tu… nemmeno mi accorgo che mi allontano da
lì, non voglio più stare in quel cimitero dove sono convinta che tu non ci sia
più.
Tu sei rimasto nelle piccole cose.
Posso capirti meglio, da quando non ci sei più.
Ho raccolto tutte le tue foto, le tengo sempre vicine a me.
Nostro figlio piange sempre, e forse sono in attesa di un
secondo bimbo che tu non vedrai mai, poiché te ne sei andato troppo presto. Ti
sei eclissato in fretta, la malattia rapida e letale come un tornado
improvviso.
I ricordi tuoi e l’eredità di tua madre sono per me la
certezza che non mi lascerai mai, poiché una parte di te vive in tutto ciò.
Riccardo aspetta ancora una mia chiamata. Spero mi detesti e
che abbia capito che non merito nulla.
Non uscirò di casa per giorni, non voglio farlo più.
Mi hai lasciato tanti soldi, commissiono tutto, persino la
spesa.
George, io amo te.
George, io vorrei solo essere morta assieme a te.
Sono convinta che una parte della mia anima ti abbia seguito,
mentre l’altra ormai incompleta è rimasta qui a vivere tra i ricordi e a
osservare il nodo nuziale. Nemmeno il bambino e la vita che ho in grembo mi
consolano.
Penso che dovrei curarmi.
Adesso non c’è più luce attorno a me, rivivo continuamente il
nostro passato e certi istanti come se fossi una videocassetta; il vorticare
del nostro breve passato mi avvolge.
Ed io ricordo dannatamente tutto.
Saranno i ricordi a uccidermi.
Adesso nostro figlio piange, ancora e ancora, George; non so
se avrò la forza per andare avanti.
Cercherò sostegno da uno psicologo, starò meglio.
Lo farò per il tuo ricordo.
Per nostro figlio.
Per la nostra famiglia, che rischia di crescere ancora,
nonostante la tragedia.
Ti amo, Piergiorgio, e ti amerò in eterno. Questo è il mio
testamento.
Un flash.
Qualcosa non va.
Gente che mi cammina attorno, che parla, nostro figlio che
non piange più… George, sei tornato a prendermi?
Adesso c’è solo il buio.
Oh, che sarà di me… mi hanno portato via il bambino, mostri… dicono
che sono qui per farmi del bene, ma io voglio solo urlare, solo…
Il buio mi avvolge ancora e non penso più a nulla. Ma non
lasciarmi mai, ovunque tu sia…
NOTA DELL’AUTORE
Ecco da dove iniziava il flusso dei ricordi di Isa. Dal
momento in cui tutto è finito.
Vi voglio svelare l’arcano, ora che la storia è conclusa…
Come chi mi segue da tempo ha già notato, questo racconto è
collegato ad altri. Piergiorgio è infatti il figlio minore di Anahìd, la mia
protagonista de Il Destino e la Speranza;
una ragazza armena giunta in Italia come profuga durante la Prima Guerra
Mondiale, che poi si è innamorata di un giovane italiano. Ma da qui inizia una
parte di vicenda che ancora non vi ho narrato… chissà, spero un giorno di
farlo.
Per chi avesse letto il mio precedente racconto, il
collegamento dovrebbe essere facile. Ho lasciato numerosi indizi nella trama.
Inoltre… se siete curiosi di scoprire cosa è accaduto ai
nostri due protagonisti, dopo l’ultimo capitolo (che è una sorta di lieto fine)
potrete trovare maggiori risposte nella OS da me scritta diverso tempo fa, che
potete ancora trovare sul mio profilo; il titolo è L’ultima volta. Per chi sceglierà di leggerla, o di rileggerla
(alcuni di voi hanno già visionato), penso sarà tutto più chiaro, soprattutto
la parte drammatica del racconto, che ho deciso di non narrare integralmente.
E… grazie davvero per aver avuto la pazienza di seguirmi. Non
è stato semplice nemmeno per me. non vi nascondo che a volte ho pensato di non
farcela.
E invece eccoci qui, alla fine.
Ora mi metto a curare il prossimo racconto, che spero di
pubblicare a breve. Anche questo è senza pretese. Probabilmente si intitolerà Il limbo dei Bugiardi, titolo tributo a
un’amica.
Se vi andasse di leggere altro di mio, be’… presto ci saranno
novità, già dall’inizio dell’anno nuovo!
(Per i lettori di Wattpad; mi spiace che non possiate leggere
i restanti racconti collegati a questo, pubblicati unicamente su Efp. Se vi
possono interessare, contattatemi e farò in modo di rimediare).
Grazie a tutti, siete stati la mia forza.
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