Ti troverò al mio fianco

di Phronesis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Buonasera a tutti, non voglio dire molto in questo primo capitolo perché amo lasciare spazio all'immaginazione. L'unica cosa che ci tengo a dire è che questa storia è il frutto di due menti affini che si sono trovate. A presto.

Prologo:

In un istante avvertii tutto il peso delle scelte sbagliate che avevo preso e capii.
Non volevo più sentirmi in gabbia, legato.
Non volevo più sottostare a ricatti e compromessi.
Non volevo più essere obbligato ad osservare le regole, così sicure e rassicuranti ma che ti privano della possibilità di vivere appieno.
Non volevo più consumarmi in passioni effimere che mi avrebbero lasciato in uno stato di opprimente anedonia.
Avrei rotto tutti gli schemi, dato libero sfogo ai miei istinti, assecondato i miei pensieri più reconditi e finalmente sarei stato appagato davvero.
 
La mia rinascita portava il suo nome, Clio.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Buonasera a tutti. In questo primo capitolo conoscerete Gabriel, il bello e misterioso Professore. Non vogliamo dirvi molto, lasciamo a voi il piacere della scoperta. A fine capitolo troverete delle note con la traduzione delle parole, o frasi in francese. In attesa di sapere cosa ne pensate, vi mandiamo un bacio grande. Phronesis.

Capitolo I

Gabriel Pov. 

“Come a nozze di morte vesti la tua fanciulla ed esponila, o re, su un'alta cima brulla. Non aspettarti un genero da umana stirpe nato, ma un feroce, terribile, malvagio drago alato che volando per l'aria ogni cosa funesta e col ferro e col fuoco ogni essere molesta. Giove stesso lo teme, treman gli dei di lui, orrore ne hanno i fiumi d'Averno e i regni bui.”
 
Le parole dell’Oracolo risuonarono nell’ampia aula gremita, gli studenti avevano l’aria rapita e concentrata mentre i loro occhi erano rivolti sulla mia persona.
Nella mia solita posa, poggiato contro la cattedra con il libro tenuto ben saldo nella mano sinistra mentre con la destra disegnavo grossi cerchi nell’aria per dare più enfasi alla narrazione.
Amavo questa sensazione, vedere come masse di giovani pendevano dalle mie labbra mentre dispensavo loro il mio sapere, donando un senso a tutti gli anni di studi, ricerche e sacrifici.
Guardai l’orologio che segnava le tredici, la lezione doveva terminare «D’accordo ragazzi, riprendiamo domani da questo punto»
Richiusi il libro, feci il giro della cattedra per sistemare le mie cose nella ventiquattrore in cuoio, mentre un forte chiacchiericcio si propagava nell’aula prendendo il posto delle due ore di assoluto silenzio.
«Gabriel?» mi sentii richiamare.
«Oui?» voltandomi vidi la mia collega Francesca che mi veniva incontro «Sì?» mi corressi.
Ero a Roma già da svariati mesi ormai e nonostante già masticassi un po’ la lingua faticavo ad abituarmici.
«Come stai?» si issò sulla cattedra e si sedette accavallando le gambe, l’aula si andava via via svuotando.
«Très bien, merçi»* le sorrisi, mentre continuavo a sistemare le mie cose.
Francesca era docente dell’altra cattedra di storia dell’arte, e all’inizio dei corsi mi era stata molto d’aiuto nel tradurre le mie ricerche dal francese all’italiano per farmi comprendere dai miei studenti. Nonostante negli anni in cui avevo frequentato l’università avessi già redatto alcune relazioni in italiano l’accento francese era difficile da dissimulare, e l’aiuto di Francesca era stato prezioso per migliorare la mia pronuncia.
«Ne sono contenta. Io sto andando a pranzo con alcuni colleghi, ti va di unirti a noi?»
Avrei dovuto accettare, socializzare di più, ma proprio non riuscivo a sconfiggere la mia voglia di solitudine che negli ultimi tempi la faceva da padrona.
Le sorrisi, cercando una scusa plausibile che non mi facesse apparire scortese.
«Je suis desolée** Francesca, ma ho dei compiti da correggere entro domani» sventolai una manciata di fogli che avevo tra le mani.
Fece un cipiglio offeso ma fu subito sostituito da un lampo nei suoi occhi «D’accordo. Vorrà dire che la prossima settimana sarai mio ospite alla mostra di Canova che ho organizzato in collaborazione col complesso museale di Palazzo Braschi. Non puoi dirmi di no»
Simulai un sorriso forzato, non comprendevo come gli italiani potessero essere sempre così estroversi; dopotutto Francesca mi conosceva appena, eppure era stata fin da subito cordiale nei miei confronti, disponibile non solo sul piano accademico.
«D’accord»*** esclamai, condiscendente.
Dopotutto il Canova rientrava tra i miei scultori preferiti, tant’è che proprio in quei giorni stavo trattando lo studio dell’opera di “Amore e Psiche”.
«Perfetto» girò su sé stessa senza darmi il tempo di aggiungere altro, uscì dall’aula ticchettando sul pavimento di marmo lucido.
Finii di raccogliere le mie cose e mi diressi verso l’ampio cortile della facoltà, l’aria di fine ottobre era ancora calda e piacevole e gruppi di studenti sparsi qui e là si beavano degli ultimi raggi di sole chiacchierando allegramente.
«Buongiorno Professor Lacroix»
Alcune studentesse mi salutarono in coro, rivolsi loro un breve cenno col capo prima di proseguire. Presi al volo un taxi diretto al mio appartamento, impaziente di rimanere solo con la mia unica compagna: l’arte.
Nel tragitto trafficai con il cellulare per rispondere alle mail di alcuni colleghi della Sorbona, la decisione di accettare l’incarico per un anno all’università Sapienza come professore di storia dell’arte non era stata semplice ma doverosa, ed ora cercavo come meglio potevo di dividermi tra i diversi impegni di lavoro anche a distanza.
Arrivai dinanzi l’imponente palazzo in stile rinascimentale nel cuore di Roma dove l’università mi aveva fittato un appartamento per tutta la durata dell’incarico, salii l’enorme scalinata in marmo che portava all’attico apprezzando gli intarsi che ricoprivano il corrimano.
Non appena aprii la porta di casa fui assalito dall’odore pungente delle tempere, guardai l’immenso salotto corredato di due grandi divani in velluto color panna, la libreria in mogano che prendeva l’intera parete ad ovest, l’elegante camino ad angolo e la vetrata che dava su una terrazza dove potevo vedere la città dall’alto. E poi lì, proprio al centro della stanza la mia più grande passione: il cavalletto e la tela, i colori e i pennelli.
Posai la ventiquattrore accanto ad un gruppo di schizzi abbandonati in un angolo, mi liberai della giacca e arrotolai le maniche della camicia fino ai gomiti.
Non appena le mie dita sfiorarono il pennello tirai fuori l’aria in un sospiro, come a liberarmi di tutti i pensieri accumulati per portarli sulla tela.
Iniziai a dipingere la figura di una donna, di profilo, dalle forme sinuose e burrose. I tratti erano semplici, essenziali, ispirati alla penombra senza alcun tono di colore. Rimasi davanti a quella tela per ore, fino a quando l’imbrunire non mi costrinse ad accendere le luci e a ridestarmi dal mio stato di trance.
Mi diressi verso la cucina intenzionato a prepararmi qualcosa per cena quando il suono del cellulare attirò la mia attenzione, era ancora nella giacca gettata sul divano e me ne ero totalmente dimenticato.
Non appena vidi il nome che lampeggiava sullo schermo la mia mascella ebbe uno scatto nervoso, sospirai pesantemente armandomi di tutta la pazienza possibile e risposi.
«Bonsoir Sabine» restai alcuni minuti in attesa che lo sproloquio dall’altra parte terminasse «Non, Je ne pense pas que ce soit possible ce mois-ci»****
Il tono di Sabine era risoluto, stranamente calmo. Accettò di buon grado il mio rifiuto e mi salutò.
Meglio di quanto mi aspettassi.
Lo stomaco pareva essersi chiuso su sé stesso, ma mi resi conto di aver già saltato il pranzo e non potevo permettermi di negarmi anche la cena.
“Non puoi vivere di sola arte Gabriel” mi ammonii bonariamente.
Decisi di cucinarmi un piatto di pasta, nonostante non fossi mai stato molto portato si trattava pur sempre di “arte” culinaria e potevo imparare.
Misi a bollire una pentola d’acqua sul fuoco e sbattei due uova in una scodella seguendo un tutorial su come preparare una buona carbonara. Presi la confezione di pancetta a cubetti che avevo in frigo, iniziai a soffriggerla con un filo d’olio in padella ed in quell’istante immaginai di poter fare la stessa fine se un romano mi avesse visto.
Dopo aver scaldato la pasta unii tutti gli ingredienti in un unico recipiente, un paio di girate col mestolo et voilà.
Mi accomodai a tavola ed accesi la tv per guardare un notiziario, la situazione non era tanto diversa rispetto alle serate che trascorrevo nella mia immensa casa a Parigi ad eccezione di quelle volte in cui prendevo parte a convegni, serate di gala o cene di beneficenza.
Ultimai il pasto e sistemai le stoviglie, avrei potuto tranquillamente chiedere alla domestica che la mattina si occupava del mio appartamento di trattenersi fino a sera per prepararmi anche la cena ma preferivo non avere nessuno tra i piedi quando rientravo dal lavoro.
Decisi di fare una doccia prima di dedicarmi alla correzione dei compiti degli alunni del mio corso, mi spogliai degli abiti, tolsi gli occhiali che poggiai su una mensola del bagno e mi gettai sotto il getto d’acqua bollente.
Mentre insaponavo i capelli avvertii la piccola cicatrice dietro la nuca, dove poco più sotto – nascosta dai capelli – avevo tatuato una piccola pergamena sulla quale era incisa la parola mémoire.
Era strano come a volte una sola parola potesse essere così carica di significato, avevo sempre amato, oltre l’arte, lo studio dell’etimologia della parola.
Memor -ŏris, capacità di tenere traccia di informazioni relative a eventi, immagini, sensazioni, idee di cui si sia avuto esperienza e di rievocarle quando lo stimolo originario sia cessato riconoscendole come stati di coscienza trascorsi.
Venivo spesso classificato come un tipo taciturno e riflessivo, la verità era che per me ogni parola andava soppesata con la consapevolezza del fatto che il tuo interlocutore le avrebbe sempre dato una sua personale interpretazione.
Anche se spesso avrei dato tutto per avere un tantino più di nonchalance, non riuscivo proprio a non essere me nemmeno per un secondo.
Avevo sempre seguito la mia parte preponderante, quella razionale, quella che ti fa vivere al sicuro, che non ti spinge mai oltre la siepe, che ti fa credere in una sorta di determinismo per il quale ti senti parte di un qualcosa di più grande e profondo, regolato da leggi ferree e mai casuali.
Non avevo mai spento quella rigida vocina interiore, quella continua fame di sapere, quel modus operandi improntato alla logica e a nient’altro e che mi portava a studiare attentamente, ogni volta, tutte le possibili cause, conseguenze e connessioni tra le cose.
Ma se è risaputo che non bisogna contemplare gli eccessi, in ogni cosa, io nella mia vita continuavo a non ammettere che la ragione.
Destato dalla auto-analisi serale che avevo condotto, complice anche l'atmosfera calda e avvolgente che si era creata nel bagno, mi diressi in salotto ancora in accappatoio e ancora da solo con i miei pensieri, e decisi volontariamente – forse per una volta – di stoppare il mio cervello, sgridandolo ad alta voce come si fa con un amico scapestrato e ribelle: “Cessez!”*****
Mi gettai umidiccio sul divano e provai una sensazione di ebbrezza, un sogghigno involontario si accennò sul mio viso; mi sentivo come se nel mio piccolo mi fossi concesso il lusso di infrangere una regola.
Decisi che non avrei attaccato col lavoro, quindi niente correzioni di compiti per quella sera, ma sarei andato in centro a prendere una birra, o forse due o tre, e avrei fatto le ore piccole come anni addietro.
No, non era stata l'ipotensione causata dalla camera a gas che si era creata con i vapori della doccia.
Ero io, e avevo solo voglia di leggerezza.
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* Molto bene, grazie.
** Sono desolato
*** D'accordo
**** No, non penso che sia possibile questo mese
***** Smettila!

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Buonasera readers, in questo capitolo introduciamo dei nuovi personaggi. Come avrete potuto capire i capitoli saranno scritti alternativamente tra il punto di vista di Gabriel e quello di Clio, col tempo ci farete sapere quale preferite. Buona lettura, Phronesis.

Capitolo II

Clio Pov.

«Tania ti sbrighi che facciamo tardi?»
Guardai la mia amica ferma dinanzi all’enorme specchio d’ingresso, il cellulare puntato verso l’alto e il suo finto sorriso a farla da padrona.
Non appena lo scatto fu ultimato mi rivolse l’attenzione.
«Non solo hai deciso di trascinarmi con te ad una serata noiosa, adesso vuoi anche togliermi la gioia di spararmi un selfie?»
Scossi la testa, rassegnata.
Tania era tutta moda, vanità e social. Dopo la laurea in marketing e comunicazione era riuscita a fare della sua passione un lavoro, sfruttando la cresta dell’onda delle influencer.
Mi guardò dall’alto del suo metro e settantacinque resa ancor più slanciata da tacco 12 che indossava, le braccia conserte in un rimprovero e quell’adorabile broncio che avevo imparato a riconoscere.
«Non è mia intenzione privarti delle gioie, già ne abbiamo poche. Ma almeno possiamo uscire di casa che sono già le otto?»
«Facciamoci una foto e ti accontento»
Il suo sorriso furbo a trentadue denti era degno dello stregatto, malvagio al punto giusto. Conosceva la mia avversione nel farmi immortalare, il sentirmi al centro dell’attenzione non era mai stato il mio forte, ma questo non la fermava mai, soprattutto quando all’improvviso mi ritrovavo protagonista delle sue storie instagram con mio totale disappunto.
Tania si avvicinò cingendomi col braccio e scattò. Dal mio sorriso trapelava imbarazzo ma almeno ero riuscita nel mio intento, in due minuti eravamo in auto dirette a teatro.
Guidavo meccanicamente assorta nei miei pensieri mentre Tania trafficava con la radio, ad un tratto fece partire Girls just want to have fun e iniziò a muoversi a ritmo di musica, lanciando urletti e cercando di coinvolgermi nella sua euforia.
«Dai Clio, lasciati andare ogni tanto» si avvicinò canticchiando al mio orecchio «That's all they really want some fun when the working day is done»
«Sei tutta pazza» risi scuotendo la testa.
Non capivo bene come Tania ed io potessimo essere così amiche, eravamo totalmente agli antipodi. Io riflessiva, lei impulsiva. Io amavo la solitudine e la tranquillità, lei adorava stare sempre al centro dell’attenzione.
Oh eccome se l’adorava!
Io amavo il mondo dell’arte, lei quello dei social. Io prediligevo la semplicità, lei l’esuberanza.
Eppure, nonostante tutto, Tania era la mia più cara amica; dietro la sua immagine da strafiga si nascondeva la persona più dolce e generosa che conoscessi.
Iniziai a cantare a squarciagola insieme a lei, muovendo lievemente le spalle a ritmo di musica, se c’era una cosa che Tania sapeva fare meglio di tutte le altre, era proprio quella di tirare fuori il mio lato giocoso e spensierato, gliene dovevo dare atto. Grazie a lei avevo fatto le più grandi cazzate della mia vita, sapeva come darmi la carica, come spingermi oltre i miei limiti quando magari da sola non trovavo il coraggio di farlo.
Spinsi un po’ di più il piede sull’acceleratore, arrivammo a teatro giusto in tempo per l’apertura del sipario, prendemmo posto tra le prime file dove il mio amico Davide fortunatamente ci aveva riservato dei posti.
Tania si accomodò chiassosamente, come suo solito, ed iniziò da subito a riprendere col cellulare la sala, le sedute, le persone, gli snack che avevamo comprato, me; in soli cinque minuti aveva praticamente infranto ogni regola e linea guida del galateo da dover seguire durante una performance teatrale.
Un paio di volte la fulminai con lo sguardo invitandola al silenzio e a posticipare a dopo lo spettacolo la sua inadatta seduta di ritocco make-up.
La nostra posizione era ideale, tanto che non appena le luci si abbassarono riuscii subito a scorgere Davide tra gli altri attori dilettanti che animavano la scena.
Davide era un altro mio caro amico, aveva sempre amato il teatro sin da quando aveva dodici anni e cioè da quando avevamo stretto amicizia alle medie, tra i banchi di scuola.
La sua capacità espressiva, il suo carattere esuberante e il suo essere sempre così positivo, erano caratteristiche disarmanti e affascinanti; o meglio lo erano per me che ero completamente l'opposto.
Anche con lui avevo vissuto tanti momenti spensierati, per anni eravamo stati indivisibili, la passione per l’arte ci accomunava, poi crescendo le nostre vite avevano preso strade diverse ma questo non ci aveva impedito di rimanere sempre in contatto.
Come sempre mi smarrii tra i miei pensieri, e quando mi ridestai fu a causa di un applauso fragoroso con il quale mi accorsi di essermi persa una piccola scena, ma per fortuna in tempo per assistere ad un avvincente monologo che avrebbe tenuto proprio Davide e che sarebbe stato la chiusura dello spettacolo.
 
“Non è mai troppo tardi per prenderti la tua felicità, la tua GLORIA.
Non esiste tempo, non esiste regola che tenga, esisti solo tu con le tue scelte.
Decidiamo noi se vivere una vita fatta di amore o di rimpianti.
Quindi se ti accorgi di non essere felice, fai ciò che senti nel profondo.
Oltre la maschera che hai creato, oltre tutto!”
 
 
Le luci si spensero, il sipario si chiuse e ci fu una standing ovation generale, tra applausi, fischi e urla ti incoraggiamento.
In quel frangente Tania si avvicinò per mormorare qualcosa al mio orecchio e nel fracasso generale potei cogliere solo l’insinuazione nel suo tono; sì perché lei ormai era completamente persuasa della sua stessa e unica convinzione: Davide mi amava da sempre.
Non fui in grado di ascoltare ulteriormente le sue parole, ormai erano penetrate nella mia testa; aveva buttato l'esca e ritirato l'amo come faceva sempre, lasciandomi scombussolata e impacciata allo stesso tempo.
Mi alzai lasciando malvolentieri quella morbida poltrona rossa e facendomi strada verso l'uscita mi diressi a prendere una boccata d'aria.
Mi venne in mente una frase che avevo dovuto leggere da qualche parte, qualche volta e che sembrava starci a pennello:
“A volte è solo uscendo di scena che si può capire quale ruolo si è svolto”.
Gloria? Il mio nome significava gloria, ma poteva essere che Davide avesse pensato ad un modo tanto sottile per mandarmi un messaggio?
“Basta Clio. Basta. Basta. Bastaaaaa!” continuavo a ripetermi come una nenia.
Conoscevo Davide da una vita, non potevo avere questi dubbi su di lui.
Era tutta colpa di Tania, mi stava solo mettendo strane e continue idee in testa e quella sera fu la ciliegina sulla torta.
Una cosa era certa: quella sarebbe stata l'ultima volta che portavo Tania con me, e pensare che ero stata io ad insistere.
Feci un respiro profondo tentando di recuperare la calma, non ero brava a gestire determinate situazioni emotive, soprattutto se queste includevano il mio migliore amico.
Decisi di rientrare per recuperare Tania e andare dietro le quinte.
Subito individuai Davide tra gli altri e mi stampai sul viso il più sincero dei sorrisi, sperando che durante i saluti non si fosse accorto della mia assenza.
Corsi a congratularmi con lui «Ma buonasera, complimenti!» lo abbracciai forte, lui ricambiò con sorpresa.
«Clio!» esclamò gioioso «Allora, ti è piaciuto?» i suoi occhi brillavano di gioia, mi scrutavano con insistenza quasi si aspettasse una mia reazione particolare.
Non capivo se fosse una mia impressione dovuta alle pressioni di Tania, o davvero Davide aveva cercato di dirmi qualcosa con quel monologo; ripensandoci, più volte avevo assistito alle prove e lui si era sempre rifiutato in mia presenza di recitare quest’ultima parte di spettacolo ed io avevo sempre pensato che lo facesse per lasciarmi il gusto della sorpresa.
Ma ora, invece, proprio adesso che Tania aveva insinuato per la milionesima volta in me il seme del dubbio, iniziavo a vacillare nelle mie convinzioni.
“Maledetta Tania” sospirai.
«Certo che sì. Siete stati tutti perfetti ragazzi» dissi rivolta agli altri attori che avevo avuto modo di conoscere, cercando di dissimulare il mio imbarazzo.
Anche Tania a sua volta salutò Davide, poi ad entrambe venne porto un bicchiere di champagne stappato per festeggiare il momento, brindammo insieme agli altri.
«Ragazze noi adesso ci togliamo gli abiti di scena e andiamo tutti in centro a bere qualcosa, vi unite a noi?» chiese Andrea, il capo della compagnia.
Stavo per rifiutare l’invito perché l’indomani sarei dovuta uscire presto per andare all’università, e al momento avrei preferito allontanarmi da quegli occhi che mi guardavano fiduciosi, come se si aspettassero qualcosa da me, quando Tania mi precedette.
«Siamo dei vostri» rispose con un po’ troppa enfasi, il fare civettuolo.
La guardai di sottecchi, perplessa; lei per tutta risposta mi strinse la mano con forza.
«Questa poi me la spieghi» le sussurrai tra i denti mentre simulavo un sorriso diretto alla volta di Andrea e Davide «Allora vi aspettiamo fuori»
Andammo in macchina ad aspettare gli altri, Tania si accese una sigaretta ed iniziò a giocherellare col telefono facendo finta di ignorarmi.
«Allora si può sapere cos’era quello che ho appena visto?»
«Cosa?» chiese alzando le spalle e sbuffando fuori un po’ di fumo.
Le presi la sigaretta dalle dita e feci un tiro, non fumavo da tempo soprattutto per una questione di principio, non amavo essere schiava del vizio, però quando ero nervosa ne avvertivo il bisogno.
«Siamo dei vostri» le feci il verso imitando la sua voce «Allora?»
La scrutai di sottecchi e lei continuò con la sua farsa «Non ti andava di andare a prendere una birra con i ragazzi?»
Sbuffai sonoramente, avevo quasi finito tutta la sigaretta quindi gliela restituii.
«Insomma Tania, ti piace Andrea?» chiesi senza troppi giri di parole.
«Diciamo che non mi dispiace» aprì lo specchietto per aggiustare per l’ennesima volta il rossetto.
Lo sapevo! LO SAPEVO!
Scossi la testa, divertita.
«Sei la solita» risi.
Per tutta risposta mi beccai una linguaccia. Capii che quella sera non avrei dovuto preoccuparmi solo di Davide, il problema principale sarebbe stato gestire quel ciclone di Tania in balìa dei suoi ormoni.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Buonasera a tutti, ecco un altro capitolo dal punto di vista del bel Professore. Pian piano entreremo nel vivo per scorgere cosa si nasconde dietro la sua mente brillante. Per il momento vi lascio il link del nostro profilo instagram, dove pubblicheremo sondaggi e anteprime dei capitoli, seguiteci numerosi : https://www.instagram.com/p/B5QytmzoH7F/?igshid=14rc6aqfqeq08

Capitolo III
 
Gabriel Pov.
 
Seduto al bancone bar mentre sfioravo lentamente il collo della bottiglia, raccogliendo le goccioline di condensa che vi si erano formate, di tanto in tanto sorseggiavo con calma la mia birra e mi guardavo intorno nel locale gremito di gente. Il clima a Roma era più fresco di sera così avevo messo una camicia con un maglioncino girocollo ed il giubbotto di pelle, ma adesso avrei voluto fortemente aver indossato qualcosa di più leggero, non sapevo se il caldo che avvertivo fosse dovuto all'ambiente super affollato o al fatto che le due birre che avevo bevuto iniziavano a fare effetto.
Mentre ero intento a guardarmi intorno dalla porta vidi entrare un gruppo di ragazzi, uomini e donne, li vidi parlare col cameriere e prendere posto ad un grande tavolo.
Rimasi ad osservarli, erano chiassosi ma sembravano euforici, spensierati. Appena arrivò il primo giro di drink fecero tutti un grande brindisi e iniziarono a bere.
Dall'aspetto sembravano avere sui 30 anni, anno più anno meno, e mi trovai a riflettere sul fatto che non eravamo poi così distanti, avremmo potuto definirci quasi coetanei.
Eppure, non avevo ricordi di un me così spensierato, nemmeno negli anni dell’adolescenza; dopo la laurea conseguita a 23 anni avevo subito iniziato con la carriera di assistente universitario ed a 27 anni ero già di ruolo come professore.
Era vero che avevo avuto altre aspettative, altri obiettivi, e li avevo raggiunti tutti con successo, ma delle rarissime volte - come in questo istante - mi ritrovavo a chiedermi se davvero ne fosse valsa la pena.
Il più delle volte la risposta era “sì”, ne era assolutamente valsa la pena. Non avrei saputo immaginarmi diversamente, in altre vesti, in altro ruolo.
Ad un tratto due ragazze si alzarono dal tavolo chiassoso e le vidi venire nella mia direzione; una era alta e snella, i capelli biondi spiccavano su una carnagione olivastra, vestita in modo appariscente, alla moda ma con stile.
L'altra era lievemente più bassina e formosa, lunghi capelli color mogano le incorniciavano il viso sul quale spiccavano grandi occhi cerulei; fu la sua espressione a incuriosirmi, dietro i sorrisi causati da quella serata goliardica sembrava nascondersi di più.
Scossi la testa, forse erano solo i fumi dell'alcol a farmi vedere cose che non esistevano, o ancora più probabilmente quella sera ricercavo qualcuno che avesse il mio stesso stato d'animo.
Arrivarono entrambe dinanzi al bancone bar e vi si appoggiarono ridendo e sussurrando complici qualcosa tra di loro, poi chiamando il barman per nome gli chiesero un altro giro da portare al tavolo dei loro amici.
Continuavo ad osservare la ragazza più bassina, catturato dal contrasto tra la sua pelle chiara, quasi diafana, i grandi occhi chiari ed il colore dei capelli che invece era tendente allo scuro.
Era un contrasto così acceso e particolare che non riuscivo a distogliere la mia attenzione.
Iniziai ad osservare ogni suo minimo movimento, l'uso ripetuto delle mani che spostavano indietro i lisci capelli, così sottili e morbidi all'apparenza. I muscoli del viso in tensione ogni volta che rideva, creavano degli adorabili affossamenti sulle guance e sul mento. Il naso "alla francese", corto, molto sottile e con la punta all’insù sarebbe stato degno di uno dei più bei ritratti mai fatti.
Ah! Se solo avessi avuto una matita per immortalare una tale grazia, in quell' istante!
La mia passione per la pittura mi aveva portato a sviluppare, e affinare con l'età, il senso della vista e la tendenza ad osservare ogni minimo particolare o movimento, fondamentale per comprendere qualsiasi comportamento, anche il più velato, attraverso il linguaggio del corpo.
In particolare, sin dai primi anni mi ero appassionato, tra le tante cose, alla fisiognomica e non a caso in quell'istante cercai a tutti i costi di determinare il carattere di quella ragazza che mi stava di fronte, esaminando il suo aspetto esteriore.
Tutto ad un tratto il barista mi richiamò all' attenzione invitandomi a bere un'altra birra che generosamente mi venne offerta dalla casa.
«Le piacciono le 'bionde'?» mi domandò con una punta di sarcasmo, un sorriso che comparve sul viso paffuto.
In quel momento mi resi conto che forse stavo osservando con troppa insistenza quella ragazza e avevo attirato l’attenzione della sua amica, la bionda, che al sentire le parole del barista mi lanciò provocatoriamente un occhiolino.
Feci lo gnorry per non mostrare palesemente e sgraziatamente il mio disinteresse nei suoi confronti e ripresi a bere sgolandomi quasi tutto d’un sorso anche la birra che il gentile sconosciuto mi aveva rifilato di soppiatto.
"Dovevo fargli veramente molta pena o forse, molto più semplicemente, la bionda non era l’unica persona sulla quale avevo fatto colpo quella sera".
Sorrisi del mio stesso pensiero e improvvisamente in maniera involontaria una fragorosa risata nervosa uscì prepotente dalla mia bocca.
Insomma, l'unica persona della quale avrei voluto attirare l'attenzione forse non si era neanche accorta della mia esistenza in quello schifo di bar.
L'alcool iniziava a farsi strada nel mio corpo ed io non ne ero affatto dispiaciuto, per una volta mi stavo comportando come una persona irrazionale, avevo deciso di affogare la noia e i pensieri in un modo semplice, sfuggendo alle mie solite turbe mentali.
Iniziai a sentirmi più leggero, ma decisi che per quella sera poteva bastare con l'alcool, dopotutto ero uno stimato docente universitario e se qualche mio studente mi avesse visto non propriamente lucido non avrei fatto una gran bella figura.
Lasciai mal volentieri lo sgabello ed il bancone che per qualche ora mi avevano tenuto compagnia ed uscii dal bar intenzionato a fare quattro passi.
Iniziai a passeggiare per le strade di Roma, un vento pungente mi sferzava il viso scompigliando la mia chioma che già di suo era sempre selvaggia e indomabile, ma non avvertivo il freddo.
Passai davanti al ponte che portava a castel Sant'Angelo, i grossi lampioni che lo percorrevano donavano un’aria misteriosa e imponente al castello tutto illuminato, l’angelo che svettava al centro della struttura quasi ad incutere un timore reverenziale, mi soffermai ad ammirare l'immensità di quell'opera che aveva resistito al trascorrere del tempo e alle diverse vicende storiche che l’avevano animata.
Quando rincasai l'orologio segnava l'una precisa, poco male, anche se l'indomani avrei dovuto essere in facoltà alle 8 per il ricevimento con gli studenti laureandi.
Mi diressi – quasi per inerzia – nella camera da letto, senza nemmeno accendere la luce mi liberai di scarpe, giacca e maglione e mi gettai sul letto abbandonandomi ad una piacevolissima condizione di immobilità fisica.
Mi ero preso una gran bella sbronza.
Ero felice, rilassato, mi sentivo come un bambino che non fa attenzione alla costruzione logica delle frasi e dei pensieri ma che agisce liberamente, senza regole, si diverte.
Avevo lo sguardo puntato sul soffitto mentre, steso a pancia all'aria, agitavo mani e piedi, immaginando di trovarmi posizionato su un freddo manto di neve mentre tentavo di disegnare la sagoma di un angelo.
Risi a crepapelle; l'avevo visto sicuramente fare in qualche famoso film americano.
Forse l'associazione "America-film" mi riportò all'idea dei famosi college statunitensi, molti dei quali avevo visitato per tenere dei convegni, e improvvisamente mi ricordai dei test che avrei dovuto correggere.
PUF! Tutto finito, dannazione!
"Bentornato sulla terra Gabriel".
Mi alzai di scatto e per un pelo non caddi a terra; camminai a piedi scalzi, ciondolando, fino al mio studio, accesi la luce per vedere la pila di fogli che mi aspettava inanimata sulla scrivania.
Scossi la testa e nuovamente mi ritrovai a ridere da solo, nemmeno una sbornia riuscivo a godermi. Avevo preso un impegno verso i miei allievi e lo avrei rispettato.
Mi sedetti sgraziatamente, la camicia era sbottonata e stropicciata fuori dai jeans, i capelli scompigliati e ribelli ricadevano sul viso che pareva stesse per prendere fuoco.
Nonostante non fossi in uno stato ideale presi un primo compito da correggere, al quale seguì un secondo e poi un terzo.
Man mano che proseguivo mi ritrovavo dinanzi ad errori sempre più banali, la cosa invece che innervosirmi - come sarebbe accaduto se fossi stato in condizioni normali - mi parve esilarante. Se io, da brillo, mi potevo rendere contro di quegli errori non capivo come i ragazzi avessero potuto sbagliare. Eppure, quella sera mi sentivo magnanimo e tollerante - persino con me stesso - e quindi decisi che sarei stato più clemente del solito concedendo un lauto 18 generale, anziché la bocciatura.
Quando ebbi terminato erano ormai le tre del mattino, la sbornia era passata quasi del tutto e un forte mal di testa aveva preso il suo posto. Andai in bagno per darmi una rinfrescata, allo specchio vidi i miei occhi stanchi e arrossati, dovevo assolutamente riposare se l’indomani non volevo apparire trasandato. Andai a mettermi a letto, presi il cellulare per impostare la sveglia ed ecco il colpo di grazia di una serata sconclusionata: un messaggio di Sabine.
Decisi che non l’avrei aperto, me ne sarei preoccupato alla luce del giorno. Per quella sera le stranezze potevano bastare.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Ed eccoci finalmente arrivate al momento in cui la nostra Clio incontra il Professore. Sicuramente è rimasta affascinata dal suo charme, ma anche intimorita dalla fama che lo precede. E Gabriel che impressione avrà avuto? Forse già potreste saperlo... 
Seguiteci sulla nostra pagina instagram per tutte le anticipazioni. Alla prossima, Phronesis.

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Capitolo IV
 
Clio Pov.
 
Il suono della sveglia si propagò con prepotenza per tutta la stanza trapanandomi i timpani, con la mano cercai a tentoni il cellulare poggiato sul comodino per disattivarla.
Erano già le 7 ed io avevo dormito solo tre ore. Cazzo.
Mi alzai a fatica, la testa nel pallone, mi diressi verso il bagno e passando davanti alla stanza di Tania la vidi dormire scomposta e beata sul suo letto.
Era successo di nuovo, mi ero lasciata coinvolgere ed ora ne pagavo le conseguenze, avevo un sonno terribile e non era l’ideale per affrontare l’incontro con la mia relatrice.
Mi buttai sotto la doccia per provare a riprendermi, mi vestii al volo e cercai di mascherare le mie occhiaie con un filo di correttore.
Prima di uscire di casa presi un caffè amaro, nella speranza che mi desse la carica, raccolsi tutto il materiale che mi occorreva e scesi per andare a prendere la metro.
Il vento del primo mattino era gelido, mi strinsi nel cappotto e tirai la maxi-sciarpa che avevo indossato a coprirmi fin sopra il naso. La banchina era già gremita di gente, tra chi doveva recarsi al lavoro o gli studenti che dovevano andare a scuola; entrai nel vagone super affollato e mi guadagnai un angolino tranquillo per cercare di rivedere ciò che avrei dovuto esporre alla professoressa Biondi.
La metro fermava proprio a pochi passi dalla facoltà, mi diressi verso i dipartimenti e quando arrivai fuori lo studio trovai già altre due mie colleghe in attesa.
Presi posto su uno dei divanetti ed iniziai a rileggere l’introduzione della tesi.
“L’eros nell’arte: il mito di Amore e Psiche”
Attesi una mezz’ora prima che arrivasse il mio turno, non appena entrai nello studio della professoressa la trovai dietro la sua scrivania sommersa di carte, intenta a battere qualcosa al computer.
«Buongiorno», salutai.
Alzò a malapena lo sguardo e mi sorrise.
«Si accomodi signorina Cavaglia. Un minuto e sono da lei»
Mi sedetti su una delle grandi poltrone in pelle, erano lievemente sbiadite, consunte dal tempo. Lo studio era grande, ai due lati delle pareti c’erano delle grandi librerie con tomi vecchi e polverosi, alcuni dei quali li avevo consultati per alcune ricerche.
«Allora mi dica, mi ha portato il primo capitolo?» mi chiese gettandosi una ciocca di capelli alle spalle.
La professoressa Biondi era una bellissima donna sulla quarantina, il fisico snello e slanciato, sempre vestita di tutto punto.
«Si professoressa, volevo sapere se fosse necessario apportare delle correzioni» le porsi il file che avevo stampato.
Prese la pila di fogli che le stavo porgendo, le diede un breve sguardo.
«In verità, come ho già detto ai suoi colleghi prima di lei, alla fine del mese dovrò partire per organizzare alcune mostre di Canova in diversi paesi europei. Quindi sarete seguiti dal mio collega, il Professor Lacroix»
«Oh» ero sorpresa, ed anche un po’ contrariata.
Non mi andava l’idea di cambiare relatore, con la professoressa Biondi si era già creata un’intesa, poi era famosa per la sua disponibilità e gentilezza.
Molto probabilmente sul mio viso doveva leggersi il disappunto, perché subito cercò di rassicurarmi.
«Non si preoccupi Clio, vedrà che si troverà bene con Gabriel. È molto preparato nella sua materia, oserei dire il più competente nel suo campo. Abbiamo la fortuna di averlo qui con noi soltanto per quest’anno accademico. Sta avendo una grande opportunità»
Annuii, lievemente imbarazzata. Non mi andava che pensasse fossi tanto presuntuosa, non mettevo di certo in dubbio la bravura del professor Lacroix, era soltanto che non amavo gli imprevisti.
Bene, e adesso?
Non ebbi il tempo di riprendermi da quella notizia che qualcuno bussò delicatamente alla porta riportandomi sul pianeta terra.
«Ah Gabriel entra pure, accomodati. Stavamo giusto parlando di te»
Alzai lo sguardo e quello che mi ritrovai di fronte contribuì ad acuire il mio sgomento.
Un'alta e slanciata figura varcò la soglia dell'ufficio della professoressa; un uomo distinto, dall'andatura elegante, sulla trentina, una folta chioma di capelli mossi e castani esplodeva irruenta su una fronte ampia, solcata da una leggera e appena accennata ruga, che dava a quel candido viso un non so che di malinconico. La barba corta, ben curata, adornava dei lineamenti bellissimi: un naso regolare, due labbra piccole e rosse come il corallo facevano spazio ad una dentatura marmorea, un paio di occhi grandi, d'un taglio perfetto accompagnati da ciglia lunghe e folte, molto folte per appartenere ad un uomo.
«Buongiorno Francesca, mi è stato riferito che mi cercavi?» disse con voce bassa, ma decisa.
Aveva una lieve inflessione nella voce, quelle parole strascicate che non lasciavano dubbi sulla sua provenienza.
«Si Gabriel, vorrei parlarti di alcune cose istituzionali e poi anche a proposito della mia imminente partenza e… ah! Ne approfitto per presentarti questa studentessa che fa parte dei tesisti che ti affiderò nelle prossime settimane»
Al suono di quelle parole mi sentii il sangue raggelare, come bloccata non fui in grado di proferire parola, limitandomi a fare un misero cenno con il capo in segno di saluto;
Il professore ricambiò in modo educato.
Cazzarola Clio, che brutta figura! Datti una svegliata, ma cos’hai? Che ti prende?
In quel momento avvertii tutto il peso della mia timidezza e della mia 'goffaggine' – come amava definirla Tania – che in alcuni momenti mi faceva apparire più impacciata di quel che in realtà ero.
Tania, Tania, dove sei?
Se ci fosse stata lei al mio posto ora sicuramente sarebbe scoppiata in una risata nervosa delle sue, volgendo questa 'singolare' situazione in suo favore.
Dopo qualche secondo di turbamento mi ridestai e non appena i due finirono di parlare tra di loro, la Biondi gli mostrò alcuni fogli sui quali era schematizzato brevemente il mio argomento di tesi e notai in lui una parvenza di compiacimento mentre voltava frettolosamente le pagine.
Mi soffermai ad osservare le sue mani, i cui movimenti lenti e decisi mi catturarono; aveva delle dita lunghe e affusolate, apparentemente morbide, lisce, degne di un pianista.
«Signorina Cavaglia allora la saluto, ho un appuntamento col rettore dell'Università per sistemare alcuni documenti da consegnare alla segreteria di Palazzo Braschi prima della mostra. Non si preoccupi comunque la lascio in... buone mani»
Il tono della Biondi lasciava sottintendere che si fosse accorta del fatto che ero entrata in fissa, come in un loop, ad osservare le mani del professore. E questo poteva dire soltanto una cosa, che molto probabilmente anche lui se ne era accorto.
Oh mio Dio che figura, la seconda in meno di 10 minuti.
Mi alzai in fretta e raccolsi le mie cose per sistemarle nella borsa.
«D’accordo professoressa, la ringrazio»
Passando accanto a Lacroix rivolsi salutai anche lui, ed uscii dalla stanza.
Cavolo, la giornata non era affatto iniziata nel migliore dei modi ed ero certa che le mie capacità cognitive mi avevano abbandonato come punizione per aver fatto le ore piccole.
Maledetta me. Anzi no, maledetta Tania che mi trascinava sempre a fare cose anche quando la mia coscienza gridava di no.
Lo squillo del telefono mi strappò alle mie elucubrazioni, iniziai l’ardua impresa nel cercarlo con insistenza tra l’ammasso di fogli che mi riempiva la borsa.
Quando finalmente lo trovai, come al solito, aveva smesso di squillare. La chiamata persa era di Davide, stavo per richiamarlo quando il rumore di una porta che si chiudeva mi fece voltare di scatto.
Si trattava del professor Lacroix che era appena uscito dallo studio della Biondi, i suoi occhi mi catturarono in uno sguardo interdetto per qualche secondo, poi parve ridestarsi.
«Signorina Cavaglia l’aspetto la settimana prossima per un incontro. Mi mandi una mail di conferma, troverà il mio indirizzo sul sito docenti»
Poche, brevi parole. Un comando che lasciava poco margine di scelta.
Annuii ed esclamai un timido “D’accordo”.
Non sapevo cosa mi prendesse, sapevo soltanto che quell’uomo incuteva un certo timore ed il fatto che su di lui circolassero voci su come fosse poco solerte a promuovere ad un esame non aiutava di certo.
Uscii dalla facoltà che erano appena le 10, così decisi che avrei chiamato Tania per andare a fare un giro in centro. Al diavolo se dormiva, non era giusto che soltanto io pagassi lo scotto delle serate goliardiche.
Dopo un’infinità di squilli sentii la voce impastata della mia amica dall’altro lato del telefono.
“Pronto?” biascicò.
«Alza il tuo culo sodo e raggiungimi in centro»
“Clio?” domandò ancora stordita.
«Ma certo Tania, chi altri potrei essere? Ti aspetto da bakery tra mezz’ora. Sbrigati!»
Riagganciai prima che potesse aggiungere altro e mi incamminai lentamente verso il nostro punto di incontro.
Il cielo era lievemente grigio, i marciapiedi erano pieni di foglie rinsecchite ai piedi degli alberi spogli, tutto sembrava assumere un’aria diversa in autunno; stranamente si trattava di una stagione che amavo particolarmente, il paesaggio con le sue calde sfumature mi donava una sensazione di serenità.
Lungo il tragitto mi soffermai a guardare le vetrine, alcune erano già addobbate per il Natale anche se con un certo anticipo.
Arrivai da bakery e presi posto nell’attesa che Tania mi raggiungesse; l’odore di caffè e cioccolato aleggiava nell’aria, le vetrine piene di croissant e ciambelle dall'aspetto invitante mi facevano venire l’acquolina in bocca.
Iniziai a trafficare col cellulare, segnai un promemoria per ricordarmi della mail da mandare al professore, consultai alcuni siti per le ricerche della tesi fino a quando non fui distratta da una Tania chiassosa che prese posto di fronte a me.
Il cappotto di cashmere tenuto aperto su un dolcevita nero, una mega sciarpa e gli occhiali da sole a completare il suo look sempre impeccabile.
«Wow» esclamai «Devo dire che questo sole è proprio accecante»
Per tutta risposta Tania alzò a malapena gli occhiali e mi guardò con disappunto.
«No dico, hai visto le mie occhiaie?»
Eravamo alle solite, Tania fissata con la sua beauty routine che andava in crisi per qualsiasi cosa.
La cameriera arrivò per prendere le nostre ordinazioni, prendemmo entrambe una cioccolata calda con panna ed un muffin per accompagnare.
«Perché tutta questa fretta nel farmi uscire di casa all’alba?»
«Alba? Tania sono le undici, io ho fatto già mezza giornata di lavoro»
Mi liquidò con un gesto della mano, sbuffando sonoramente.
«Dimmi un po’, come è andato il colloquio?» domandò iniziando a sorseggiare la sua bevanda che nel frattempo ci era stata servita.
«Beh…» tentennai «Diciamo che poteva andare meglio»
Bevvi anch’io un sorso trovando consolazione in quel liquido caldo.
«La Biondi mi ha detto che non ci sarà per tre mesi e sarò seguita da un nuovo professore»
«E qual è il problema?»
«Ehm… lui è francese e…»
«Da quando sei razzista?» chiese addentando un pezzo del suo muffin.
«Ma no, non è mica questo il problema. E’ solo che lui sembra così giovane e…»
Iniziai ad agitare le mani come se questo potesse aiutarmi a trovare dei buoni argomenti a supporto dei miei dubbi, ma nulla…non trovavo alcuna giustificazione a questo mio stato di apprensione.
Vidi Tania guardarmi di sottecchi, la mano poggiata sotto il mento mentre pian piano si faceva strada uno strano sorrisetto sul suo volto.
«Quanto giovane?»
«Non saprei. Avrà sui 30 massimo 35 anni»
«E…?»
«E…cazzo Tania, non può essere un professore. Lui sembra un modello, alto, con un fisico da paura, quella barba e quei capelli da finto trasandato e quell’aria seria e autoritaria che incute timore. Cioè…»
Non riuscivo a trovare le parole.
Tania si sporse verso di me appoggiandosi quasi con tutto il busto sul tavolo, con il dito mi invitò a fare lo stesso e quando le sue labbra furono ad un millimetro dal mio orecchio vi sussurrò «Sei arrapata, Clio!»
Si allontanò scoppiando in una fragorosa risata, i miei occhi quasi uscirono dalle orbite e sentivo le guance in fiamme per l’imbarazzo.
«Ma ti pare il modo? Tu…tu sei impazzita, pensi sempre alle stesse cose»
Ero sbigottita, eppure non mi era nuovo questo modo di fare di Tania quindi probabilmente tutto questo turbamento era dovuto al fatto che non avesse poi così torto.
«Fidati. Da quant’è che non scopi?» iniziò a contare in modo immaginario sulle dita della mano «Sono sei mesi che non esci più con Lorenzo, giusto?»
Che stronza! Come amava mettere il dito nella piaga lei, nessun altro al mondo.
Come al solito mi pentivo di ciò che le raccontavo.
«Sono sicura che a Davide non dispiacerebbe darti un po’ di sollievo» mi fece un occhiolino.
Cazzo, Davide. Avevo dimenticato di richiamarlo.
Scossi la testa rassegnata. Tania non sarebbe cambiata mai, ma dopotutto nemmeno avrei voluto che cambiasse, lei aveva quella leggerezza che a me a volte mancava e di cui avevo bisogno.
«Se hai finito con la colazione e con le tue cazzate potremmo andare a fare un po’ di shopping» proposi, per porre fine a tutte le assurdità che stavo ascoltando.
Per tutta risposta Tania fece spallucce, come se non avesse trovato nulla di assurdo nella nostra conversazione. Come se fosse del tutto normale ipotizzare che volessi scoparmi il mio professore e propormi, nell’attesa, di farmi il mio migliore amico.
Sì, certo. Tutto nella norma.
«Andiamo dai, so io di cosa hai bisogno» mi prese per mano e mi trascinò fuori da quel caffè.
La seguii rassegnata, pronta a scoprire quale altra assurdità le fosse passata per la testa.

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Stasera vogliamo iniziare ringraziando tutte voi per l'altissimo numero di visualizzazioni che stiamo avendo. Siamo davvero entusiaste se la storia vi sta incuriosendo, non siate timide e fateci sapere cosa ne pensate anche nei commenti. E soprattutto, venite a seguirci sulla pagina instagram per sondaggi e anteprime sui capitoli: https://www.instagram.com/p/B5fCqJHoGcm/?igshid=4xe5lfy0uzaz

Capitolo V
Clio Pov.

“We used to play pretend, give each other different names, we would build a rocket ship and then we’d fly it far away, used to dream of outer space but now they’re laughing at our face, saying, “wake up, you need to make money.”
Era mezzanotte passata ed ero intenta ad imballare alcune tele con cautela, mentre con le cuffie nelle orecchie canticchiavo sottovoce e ancheggiavo a destra e sinistra lasciandomi cullare dal ritmo.
Quella sera avevo lavorato, come accadeva di tanto in tanto, alla galleria d’arte di Lorenzo per una mostra che c’era stata.
Conoscevo Lorenzo da qualche anno ormai, gestiva la galleria d’arte di suo padre ed io vi lavoravo all’occorrenza per guadagnare qualcosina che, oltre il sussidio ottenuto grazie alle borse di studio, mi permettesse di mantenermi.
Con una mano ero intenta a firmare alcuni documenti e con l’altra trattenevo la cuffia per mantenerla salda all’orecchio, nell’intento di non perdere l’energia di quel ritmo incalzante. Ad un tratto avvertii qualcuno alle mie spalle, mi voltai e vidi Lorenzo appoggiato con le spalle alla parete con lo sguardo fisso su di me.
«Mi hai chiamata?» dissi mettendo in pausa la musica.
«No, stavo solo apprezzando il tuo bel culetto» disse riservandomi un sorriso sghembo e tentatore.
Alzai gli occhi al cielo e scossi la testa.
Lorenzo ed io ci eravamo frequentati per quasi un anno, ad attirarmi era stato il suo stile particolare e quel fascino tipico dell’artista incompreso. Ma col passare dei mesi mi ero resa conto che la nostra relazione non ci avrebbe portati da nessuna parte, era tutto basato sull’attrazione fisica, così avevamo deciso di chiudere anche se lui non perdeva mai l’occasione di provocarmi.
«Dove la metto questa?» chiesi indicando la tela che avevo appena finito di sistemare.
«Dai qui, ci penso io»
La raccolse e si avviò verso il deposito, così ne approfittai per controllare di aver finito col mio lavoro.
Quando lo vidi rientrare avevo già indossato il cappotto e preso la borsa, mi avvicinai per salutarlo e mi ritrovai nella morsa delle sue braccia.
«Ti andrebbe di dormire da me?» sussurrò al mio orecchio.
Il suo alito caldo mi provocò un brivido lungo la schiena ma cercai di ignorarlo.
«Lore non penso sia il caso»
Poggiai la mano contro il suo petto per allontanarmi ma lui vi poggiò sopra la sua.
Il suo tocco era familiare e rassicurante, potevo sentire il ritmo lento e cadenzato del suo cuore sotto il mio palmo, i suoi occhi erano stranamente magnetici quella sera.
Forse avevo bisogno di scaricare un po’ la tensione, nell’ultimo periodo gli esami e la redazione della tesi sembrava stessero monopolizzando tutto il mio tempo, le energie si erano incanalate tutte in quella direzione.
In quell’istante mi sentii particolarmente vulnerabile, complice anche lo stato di agitazione dovuto al fatto che l’indomani avrei dovuto incontrare il professor Lacroix per esporgli il mio elaborato, sperando lo trovasse corretto ed interessante.
«Dai Clio, lasciati andare»
Lorenzo mi sfiorò appena le labbra e solo in quel momento mi resi conto di stare trattenendo il respiro, tanto ero tesa.
Ma sì Clio, lasciati andare. Mi esortai mentalmente.
Portai le mie mani dietro al suo collo e lo avvicinai ulteriormente, invitandolo a continuare. Per quella sera avrei spento un po’ il cervello e mi sarei lasciata trasportare solo dagli impulsi del mio corpo.
Qualche ora più tardi il mio sonno fu disturbato da una vibrazione insistente, aprii gli occhi guardandomi intorno confusa fino a quando non mi resi conto di essere da Lorenzo.
Il suo corpo era avvinghiato al mio, spostai con delicatezza il braccio che giaceva pesante sul mio ventre ed uscii di malavoglia da sotto il caldo piumone.
I piedi a contatto col pavimento freddo mi fecero rabbrividire così aprii l’armadio alla ricerca di qualcosa da indossare, presi una felpa che mi calzava praticamente come un vestito ma era estremamente calda.
Raccolsi la mia borsa dalla quale proveniva quel fastidioso ronzio ed uscii dalla stanza in punta di piedi, richiudendo silenziosamente la porta alle mie spalle.
Presi il cellulare e vidi l’orario – le tre e mezza di notte – sullo schermo lampeggiava l’avviso di una chiamata persa e svariati messaggi di Tania.
Cazzo, avevo dimenticato di avvisarla.
Composi velocemente il suo numero, al primo squillo mi rispose.
“CLIO!”
 La voce dall’altro lato del telefono era alta e squillante, segno che Tania era rientrata da poco da una delle sue serate “in” e con un tasso alcolico al limite del consentito.
«Shhh» la ammonii «Non urlare»
«Dove sei? Sono rientrata e non ti ho vista in camera tua»
Già, Clio. Dove sei?
Forse non era stata una grande idea finire a letto con Lorenzo, ma dovevo dire che mi sentivo davvero più rilassata.
«Sono da Lorenzo» sussurrai, subito dall’altra parte si levò un urletto seguito da una risatina sghignazzante.
«Ascoltami bene Tania, mi serve un favore. Domani alle otto devo essere in facoltà per incontrare il mio nuovo relatore, se passo da casa a prendere le mie cose perderò un’infinità di tempo. Potresti portarmi i file che ho stampato all’università?»
Strinsi gli occhi pronta per incassare i lamenti che non tardarono ad arrivare.
«Cavolo Clio, dovrò svegliarmi prestissimo» sbuffò.
Adoravo il fatto che Tania avesse da ridire su cose che per la maggior parte delle persone erano ordinaria amministrazione, sembrava vivesse proprio su un altro pianeta.
«Lo so, ma ne ho proprio bisogno»
«Ricordami perché siamo amiche» chiese in modo retorico «D’accordo dai, ci vediamo domani mattina fuori la facoltà. Adesso meglio che vada a dormire»
Sorrisi tra me e me per il suo tono afflitto, tutto l’entusiasmo che aveva fino a cinque minuti prima era svanito, ero proprio una guastafeste.
«Buonanotte. Ti voglio bene»
Per tutta risposta ottenni uno sbuffo, prima che Tania riagganciasse.
Mi guardai intorno nella cucina, era cambiato poco dall’ultima volta in cui c’ero stata; la casa era piccola ma nel complesso accogliente, nonostante l’accozzaglia di svariati stili che rispecchiavano appieno il modo confuso in cui Lorenzo amava vivere.
Presi un bicchier d’acqua e decisi di tornare a letto per riposare almeno qualche ora prima della sveglia.
Non appena mi rimisi sotto le coperte Lorenzo si mosse; era ancora nudo ed il suo corpo era caldo e attraente, feci leva su tutta la mia forza di volontà per trattenermi dallo svegliarlo.
Alle sei e trenta la sveglia suonò impietosa, mi stiracchiai sentendo i muscoli appena indolenziti e intorpiditi.
Dovrei fare più attività fisica, sto cadendo a pezzi!
«Ehi buongiorno» Lorenzo mi poggiò un bacio sulla tempia «Che ore sono?» chiese.
«E’ presto, devo andare all’università» cercai di liberarmi dal suo abbraccio, mi strinse più forte.
«Dai, è proprio necessario?» disse in un lamento sensuale mentre la sua lingua si faceva strada sul mio collo.
Sentivo la sua virilità premere contro la mia schiena, non potevo negare la forte attrazione che avvertivo nei suoi confronti ma alla luce del giorno iniziavo già a pentirmi di esserci finita a letto. Non era da me, ed era una situazione estremamente imbarazzante.
«Ho appuntamento con il mio relatore»
Mi alzai, raccolsi tutti i miei indumenti che giacevano inanimati ai piedi del letto e solo in quell’istante mi resi conto che non potevo andare all’incontro vestita in quel modo.
Cazzo, avevo una longuette nera con una camicetta bianca, e i decolté.
Andai in bagno per darmi una rinfrescata, non avevo con me nemmeno un filo di trucco per potermi dare un tono, sentivo che a breve avrei avuto un crollo nervoso.
Brava Clio, hai preso proprio una bella decisione ieri sera. Ma sì, farti guidare dai tuoi ormoni impazziti è stata la scelta giusta.
Mi complimentai con me stessa.
Non era il momento adatto per farsi prendere dal panico, dovevo essere lucida se volevo fare bella figura con il professore, ci tenevo affinché avesse una buona prima impressione di me.
Mi vestii in fretta, spazzolai i capelli e misi un filo di balsamo idratante sulle labbra.
Uscii di casa alla velocità della luce, salutando a malapena Lorenzo che in ogni caso era ancora proiettato più verso il mondo dei sogni.
Mi misi in auto e sperai di non beccare troppo traffico, soprattutto perché mi trovavo in periferia, abbastanza lontano dalla facoltà.
Impiegai mezz’ora prima di arrivare e non appena parcheggiai l’auto sentii qualcuno bussare al mio finestrino, sussultai.
Una Tania stranamente puntuale mi guardava con un misto di sonno e disappunto, scesi dall’auto e presi il raccoglitore con le mie ricerche che mi stava porgendo
«Spero di aver preso tutto» disse sterile.
«Grazie, mi hai salvata» la abbracciai di getto dimostrandole la mia gratitudine.
Sapevo che me l’avrebbe rinfacciato a vita, che sarebbe stato un motivo di ricatto ogni qual volta avesse voluto convincermi a fare qualcosa che non avrei voluto.
«Sì, d’accordo» mi liquidò con sufficienza «Spero che Lorenzo abbia dato il meglio di sé e che questo mio sacrificio non sia stato vano»
Mi strappò un sorriso, ma ero troppo tesa per lasciarmi andare del tutto.
«Ti devo chiedere un altro piacere» dissi stringendo i denti e strizzando gli occhi, sperando non mi mandasse a quel paese.
Sospirò pesantemente, come a raccogliere tutta la sua pazienza.
«Stamattina sono dell’umore giusto perché una grande azienda mi ha contattato per una campagna pubblicitaria. Vedi questo sorriso?» disse mostrandomi tutta la sua dentatura, le potevo quasi vedere i molari del giudizio «Presto potresti vederlo sui cartelloni di tutta Roma»
«Wow, che notizia. Ti prometto che se con il professore va tutto bene stasera festeggiamo. Adesso però devi venire con me perché ho bisogno dei tuoi jeans e delle tue scarpe»
«Le mutande non ti occorrono?»
Come al solito i suoi modi erano dissacranti, non capivo come riuscisse a dosare gentilezza e malvagità in un mix sorprendente di velenosa ironia.
«Non posso presentarmi vestita così. Ti prometto che farò tutto quello che mi chiederai»
La presi per mano e mi avviai per i corridoi dell’università che erano già stracolmi di studenti pronti a seguire i corsi, potevo sentire i miei decolté ticchettare fastidiosi sul pavimento lucido mentre con passo svelto mi dirigevo versi i dipartimenti di storia dell’arte, dove la Biondi e Lacroix avevano i loro uffici.
Arrivai constatando con sollievo che non c’era ancora nessuno, così incitai Tania ad entrare nei bagni per effettuare lo scambio di outfit, quando lo vidi.
Lacroix era lì, fermo sull’uscio della porta con in mano la sua ventiquattro ore, che ci osservava immobile.
Tania spostò più volte lo sguardo da lui a me, poi fu la prima a rompere il silenzio.
«Buongiorno», esordì.
«Salve», rispose il professore «Signorina Cavaglia, si accomodi»
Era finita, mi aveva visto e non potevo più andarmi a cambiare. Avrei voluto scomparire, lui sembrava così impeccabile, impassibile, ed io non ero a mio agio.
Non mi restava che entrare e cercare di fare un’esposizione quanto più convincente possibile dei miei argomenti, in modo da distogliere l’attenzione dal mio abbigliamento non propriamente consono.
Dopotutto come soleva dirsi, l’abito non fa il monaco.

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI

Gabriel Pov.

Arrivò il lunedì. A differenza di tutto il resto del mondo amavo i lunedì; una nuova settimana cominciava e con essa, mille infinite possibilità si dispiegavano.
Quel giorno arrivai in facoltà in netto anticipo, avevo molto lavoro da sbrigare in vista degli esami imminenti e inoltre avrei dovuto organizzare un paio di seminari.
Era una bellissima giornata, l'aria fresca e a tratti pungente faceva venir voglia di fare una lunga passeggiata nella natura; decisi infatti di prendere i mezzi pubblici anziché l’auto in modo tale da prendere una boccata d'aria. La notte precedente c'era stato un brutto temporale, alcune strade erano ancora allagate, ma per fortuna il cielo si era aperto e dava speranze, anche se il petricore salito dalla terra mi solleticava le narici, quanto amavo quella sensazione.
Arrivato in dipartimento mi fermai con un collega a prendere un caffè bollente, era quello che ci voleva per attivare il cervello. Stranamente non mi mancava affatto quello americano, lungo, a cui ero stato abituato per una vita intera; da quando ero in Italia ormai l'espresso aveva rubato il mio cuore. Lessi una frase una volta che recitava: “le cose migliori succedono tutte dopo il primo caffè”.
Salutai il professor Ambrogi, docente di Letteratura Italiana e da qualche mese anche mio amico, e mi diressi verso l'ascensore che mi avrebbe condotto al mio ufficio.
Non appena le porte si aprirono vidi la signorina Cavaglia che trascinava in modo concitato una ragazza bionda, stavano per entrare nei bagni quando mi videro, e fu dopo qualche istante di imbarazzo che l’altra ragazza ruppe il ghiaccio con uno sfacciato “Buongiorno”.
Rimasi ancora qualche istante in silenzio, mettendo insieme i vari pezzi di puzzle nel mio cervello. Non mi ero sbagliato, Clio era proprio la ragazza che avevo visto quella sera al bar, ed ora che avevo riconosciuto la sua amica ne ebbi la conferma.
La invitai frettolosamente ad entrare nel mio ufficio, mentre con la testa bassa proseguii a passo svelto in direzione del corridoio evitando a tutti i costi di incrociare lo sguardo di quella bionda prima che mi riconoscesse.
Diedi avvio al computer e pochi istanti dopo il ticchettio delle scarpe sul pavimento mi preannunciò l’ingresso di Clio.
«Buongiorno professore»
Distolsi lo sguardo dallo schermo e soltanto in quel momento mi focalizzai sulla sua mise che le donava un’aria più da donna rispetto alle altre volte in cui l’avevo vista, ne apprezzai l’elegante sensualità che emanava.
Mi alzai per stringerle la mano, indicandole poi la sedia per farla accomodare.
La osservavo stringere spasmodicamente un raccoglitore al petto mentre contemporaneamente tentava di tirare giù la gonna in un chiaro segno di imbarazzo.
«Vuole che aumenti un po’ la temperatura?» indicai il telecomando dell’aria climatizzata.
«Sto bene così, la ringrazio»
Eppure continuava a dondolarsi lievemente sulla sedia, manifestando un senso di ingiustificata inadeguatezza.
«Mi ricordi l’argomento della sua tesi» chiesi per permetterle di uscire da quell’impasse in cui pareva essersi imbattuta.
Questo sembrò ridestarla, prese dei fogli e li riordinò metodicamente sulla scrivania iniziando ad esporre il suo elaborato.
«Professore a suo tempo ho concordato con la professoressa Biondi che avrei trattato del mito di Amore e Psiche su tre livelli. Il primo capitolo da un punto di vista letterario, basandomi sull’opera di Apuleio. Il secondo capitolo basato su François Gerard ed il suo dipinto. Il terzo capitolo sull’opera scultorea di Canova»
In un istante potei notare il suo repentino cambio d’umore, parlava e gesticolava con le mani con un’aria più rilassata, competente e sicura di sé. Gli occhi erano diventati lucidi, risaltandone ancor di più il colore, a tratti aveva lo sguardo rivolto verso l’alto come a seguire una linea immaginaria di pensiero.
Sapeva quello che diceva e come dirlo, mi ricordò un giovane me affamato di conoscenza.
Mi affascinò parecchio, durante la mia carriera di professore erano stati pochi gli studenti che avevano saputo regalarmi delle soddisfazioni, per questo motivo ero solito accettare l’incarico di relatore soltanto di coloro che sapevo essere realmente validi.
Quando Francesca mi aveva delegato di seguire i suoi tesisti avevo accettato solo per un senso di dovere e di cortesia, dopotutto lei era sempre stata ben disposta nei miei confronti; mi ero già rassegnato all’idea di trovarmi di fronte a degli argomenti mediocri, ma ora sembravo vedere finalmente uno spiraglio di luce.
Mi bastarono quelle poche parole proferite per capire che Clio avesse un’apertura mentale e un modo di approcciarsi allo studio non comune alla massa.
Si preannunciavano mesi di interessante e fecondo lavoro insieme.
«Trovo che la sua visione a trecentosessanta gradi sia davvero interessante.
Ho scritto delle relazioni sul tema che potrebbero tornarle utili, mi ricorderò di portargliele al prossimo incontro»
«La ringrazio» disse con un debole sorriso.
«Non so se lei mastica il francese, ma se dovesse avere delle difficoltà sarò ben lieto di aiutarla. Inoltre conto di vederla alla mostra di Canova questo venerdì» le dissi come in un monito.
«Certo, la professoressa Biondi mi ha già fornito degli ingressi»
«Très bien» esclamai compiaciuto.
Guardai l’ora rendendomi conto – con sorpresa – di essere andato oltre il mio orario di ricevimento, come al solito i miei interessi mi facevano perdere la cognizione del tempo.
«Signorina Cavaglia mi perdoni ma ora devo salutarla, la contatterò per fissare il prossimo appuntamento in base ai miei impegni»
Mi salutò garbatamente e rimasi ad osservarla fino a quando la porta del mio ufficio non si richiuse alle sue spalle.
Preparai alcune carte da portare in segreteria, dovevo consegnare le autorizzazioni per una visita ai musei capitolini con tutti gli studenti del mio corso. Ero veramente in ritardo per andare in aeroporto, camminavo a passo svelto per i corridoi quando fui fermato da uno dei miei nuovi tesisti ma dovetti invitarlo a mandarmi una mail per discutere di qualsiasi cosa volesse chiedermi.
«Bonjour Sonia» salutai la ragazza dietro al desk.
«Buongiorno Professor Lacroix, come posso aiutarla?»
«Le devo lasciare questi documenti, può sistemarli lei? Sono veramente di fretta» le consegnai il plico senza nemmeno preoccuparmi di attendere una risposta «Le auguro una buona giornata» dissi voltando le spalle per andar via, mentre lei ricambiava interdetta il mio saluto.
Uscii di corsa dalla facoltà e mi gettai quasi per strada fermando un taxi al volo chiedendo allo chauffeur di portarmi all’aeroporto di Fiumicino.
Il mio cellulare iniziò a squillare, lo estrassi dal taschino interno del cappotto.
“Maleditiòn” esclamai, beccandomi un’occhiataccia dallo specchietto retrovisore.
«Allo?» risposi «Oui, je suis presque. Excuse moi»*
Non appena arrivammo davanti l’aeroporto lasciai cinquanta euro al tassista anche se il tassametro segnava molto meno.
«Tenga pure il resto. Merçi»
Mi allontanai alla svelta, diretto al gate degli arrivi. Come in ogni luogo di arrivi e partenze regnava il caos, iniziai a guardarmi tra la folla di chi aspettava i bagagli e chi riabbracciava qualche persona cara.
«GABRIEL!» mi sentii chiamare a gran voce.
Voltandomi incrociai lo sguardo del mio migliore amico di sempre, Jacques.
Aveva la solita aria selvaggia con i capelli un po’ lunghi che ricadevano spettinati sul volto, il cappotto aperto sul davanti con l’immancabile reflex appesa al collo quasi come fosse un’estensione naturale del suo corpo.
«Mon ami» gli andai incontro stringendolo in un forte abbraccio.
Erano più di sei mesi che non ci vedevamo, ognuno impegnato col suo lavoro, eppure ogni volta era come se ci fossimo lasciati solo il giorno prima.
«Ti trovo bene , mi avevi detto durante le nostre telefonate che ami la cucina italiana»
Mi pizzicò scherzosamente il fianco, alludendo al fatto che avessi messo su un paio di kili da quando ero arrivato in Italia.
Risi di gusto.
«Fossi in te non farei tanto lo sbruffone, ne riparleremo tra un mese quando dovrai andare via» gli diedi un pugno scherzoso sul petto «Vieni, andiamo a casa a sistemarci e poi usciamo per cena» presi uno dei suoi bagagli e mi avviai verso l’uscita.
Qualche ora più tardi, e diversi calici di vino dopo, eravamo seduti in un’antica osteria romana a raccontarci le vicende degli ultimi mesi.
«Sai, l’ultimo soggiorno in Brasile mi ha un pò destabilizzato. Tre mesi sono stati tanti, troppi. Ho conosciuto tante persone e tante storie…»
«Ti vedo un pò provato, deve averti colpito proprio tanto»
«Ho immortalato ogni istante, ogni volto e sguardo di quella gente così povera, ma cosi felice»
Non avevo mai visto Jacques così, per la prima volta avvertivo il suo tormento interiore; avevo sempre ammirato il suo lavoro, viaggiare per il mondo e conoscere le culture più disparate, immergersi a fondo nelle loro vite e catturare ogni attimo con la sua fotocamera.
Ma come ogni cosa aveva i suoi lati negativi; non era semplice, era una continua fuga dalla routine quotidiana e ciò non gli aveva mai consentito di raggiungere una stabilità fisica e affettiva allo stesso tempo.
«Ma adesso basta parlare di me. Tu piuttosto, raccontami come ti stai trovando qui in Italia. Ha fatto più strage di bocciati  o di cuori, Professor Lacroix?» disse facendomi l’occhiolino.
Non perdeva mai tempo per fare battute e allusioni.
Tra i due era sempre stato quello più scapestrato, leggero ed esibizionista.
«Forse hai rimosso il fatto che sono sposato, caro amico mio »
«Ah si? Eppure non vedo nessuna fede su quell’anulare. D’altronde ancora non mi capacito di come tu abbia fatto a condannarti con le tue stesse mani. Devo essere sincero e forse, complice il vino, ti dirò che non ho mai creduto veramente in voi»
«Vorrei ricordare al mio testimone che sono passati sei anni da quando il prete ha pronunciato le fatidiche parole: “Chi ha qualcosa da dire parli ora o taccia per sempre”»
Stavamo entrando in un argomento off limits, così bevvi un altro sorso dal mio calice.
Jacques mi conosceva da più di vent’anni, sapeva tutto di me ed era consapevole che il mio non era il solito matrimonio.
Avevo conosciuto Sabine in circostanze particolari, la nostra era sempre stata un’unione principalmente di intelletto; eravamo accomunati dal condurre una vita frenetica, sempre in giro per il mondo, io per la mia carriera universitaria, lei con i suoi convegni medici.
«Forse se la storia continua tra di voi, è solo perché vi vedete poco o niente…»
Rise scioccamente della sua stessa sagacia alzando il calice in senso di autocompiacimento per ciò che aveva detto.
Scossi la testa rassegnato, Jacques non sarebbe cambiato mai.
Guardai l’ora, l’orologio segnava le undici; il tempo era passato in fretta e senza rendercene conto.
Mi affrettai a pagare il conto e ci incamminammo verso casa apprezzando la brezza serale; Jacques che era abituato alle nevicate parigine trovava strano che novembre riservasse a Roma un clima relativamente mite.
Ad un tratto ci girammo entrambi di scatto, catturati dal rombo di una moto che risuonava nel silenzio della notte; lo sguardo di Jacques rapì il mio in un silenzio  eloquente. Un brivido mi risalì lungo la schiena propagandosi fino alla nuca, nel punto in cui  istintivamente avevo portato la mano a toccare il segno tangibile di un momento cruciale della mia vita.
Sentii la presa affettuosa di Jacques sulla mia spalla, gli sorrisi per rassicurarlo, non sopportavo l’idea che potesse sentirsi ancora in colpa dopo tutti questi anni, ma in fondo sapevo che era così.
Da quel giorno non era più salito su una moto e quel brutto incidente gli aveva causato non pochi problemi con sé stesso e con gli altri.
«Dovresti smetterla di rimuginare sul passato, dai andiamo a casa che ho voglia di vedere il tuo ultimo documentario mentre ci scoliamo due birre»
Ci incamminammo e in un batter d’occhio ci ritrovammo sul divano davanti al televisore  a ridere come matti quando partì per sbaglio una ripresa di Jacques mentre si cimentava in una danza tipica del posto.
Con lui si finiva sempre così, riusciva a riportare a galla il mio lato più giovanile e spensierato e sentivo che questo non sarebbe mai cambiato.

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*Sono quasi arrivato. Scusami.

 

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