Il Giardino di Dio

di Diana LaFenice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una scintilla nel buio accendo ***
Capitolo 2: *** Prego per ricordarvi ***
Capitolo 3: *** Signora dell'Isola ***
Capitolo 4: *** A te ritorno ***
Capitolo 5: *** Alla spiaggia dove ***
Capitolo 6: *** Mi daranno riparo ***
Capitolo 7: *** Cibo e acqua ***
Capitolo 8: *** E festeggeremo attorno al fuoco ***
Capitolo 9: *** Questa notte ***
Capitolo 10: *** Quando i fiori sbocceranno ***
Capitolo 11: *** Nella Landa andremo ***
Capitolo 12: *** Se nella giungla ***
Capitolo 13: *** Sarai con me ***
Capitolo 14: *** Non avrò paura ***



Capitolo 1
*** Una scintilla nel buio accendo ***


Una scintilla nel buio

 

«Dai riprova».
Una scintilla balenò nel buio illuminandolo per qualche istante. Si spense.
Il coltello sfregò di nuovo la selce generando altre scintille che si depositarono sulla paglia fumigante. Il ragazzo non si dette per vinto e continuò a sfregare finché il fuoco non divampò illuminando d’arancione la zona circostante.
Fred sorrise soddisfatto e sistemò la legna di modo che il fuoco potesse respirare, come gli aveva insegnato suo padre.
Poi sollevò lo sguardo sui suoi compagni spaventati. Erano una tribù di ventiquattro persone tra ragazzi e ragazze, che andavano dagli undici ai sedici anni. Tutti vestiti alla bell’e meglio con stracci. Chi seduti ai piedi delle rocce, chi sulle rocce e Claire sistemata accanto a lui. Il ragazzo cercò il suo sguardo fermo e risoluto. Lei lo guardò di rimando e gli strinse la mano come a infondergli coraggio.
Il ragazzo le sorrise di rimando e annuì, sentendosi rinfrancato.
«Bene, se ci siamo tutti direi che possiamo cominciare». Annunciò Fred dopo aver controllato che i ragazzi si fossero accomodati attorno al focolare che mandava scintille.
«Allora andiamo subito al sodo. Abbiamo aspettato che tu fossi sufficientemente in forze per sostenere la riunione ma adesso dobbiamo proprio decidere». Disse subito Nathan.
«Già, non possiamo restare senza un capo ancora a lungo». Aggiunse Gabriel. Molti ragazzi annuirono. Fred sapeva benissimo che molti di loro si stavano schierando per sostenere i probabili eredi di Conrad. I papabili erano, appunto, il trio composto da Nathan, Gabriel e Tiger. Poi, c’era lui, che si era guadagnato questo diritto con il suo impegno e l’aiuto di molte altre persone. Ma quella sera non era lì in quanto “principe dell’isola” per questo quello che uscì dalle sue labbra fu ben diverso: «In realtà non voglio parlare di questo».
L’assemblea mormorò, gli altri tre principi batterono le palpebre e si scambiarono occhiate sorprese, prima di tornare a guardarlo: «Ah, no?»
«No».
«E allora cosa vuoi dirci questa sera?»
“Ecco, ci siamo”. Pensò Fred, il cuore che batteva forte. «La verità su come abbiamo ucciso Conrad e su come siamo finiti qui».


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Capitolo 2
*** Prego per ricordarvi ***


Prego per ricordarvi


Fred correva mentre la furia dell’acqua gli era alle calcagna, sempre più vicina. Il respiro affannato e la paura gli avevano messo le ali ai piedi, ma non era sufficiente. Presto sarebbe crollato.
La sua vocetta di bambino chiamò suo padre. La vista offuscata dalle lacrime e dal blackout. La luce andava e veniva eppure i colori erano vividi come se qualcuno si fosse divertito a calcarli.
E lui scappava più rapido che poteva, ma le sue gambe da bambino non furono sufficientemente veloce e non riuscì a raggiungere le scale. Improvvisamente il pavimento si impennò e lui si svegliò di soprassalto con un grido e uno scatto che destò tutti gli altri.
Il ragazzo annaspò e si prese la testa tra le mani, fissando la distesa biancastra senza vederla.  
«Oh, no, di nuovo». Commentò una voce maschile dai toni baritonali ancora incerti. Poi altre voci e borbottii lo riportarono alla realtà. Solo allora il ragazzo comprese di stare guardando la coperta che era scivolata sulle sue ginocchia. Batté le palpebre e mise a fuoco la coperta, mentre, respirando dal naso, cercava di calmarsi.
Intanto, attorno a lui, altre voci si unirono a quella che aveva dato il via. «Ehi! Possibile che tutte le notti sei ancora capace di rompere le palle?», «Vaffanculo, Fred», «Che è successo?», «Si è svegliato di nuovo?», «Oddio, no, un’altra volta?»
“Cosa?” Pensò tornando completamente alla realtà. Abbassò le mani e incontrò gli sguardi accusatori dei suoi compagni sdraiati a cerchio attorno a lui. Distinguibili grazie ai raggi lunari che filtravano dall’ingresso della grotta. Ops. «Scusate, ragazzi». Balbettò passandosi una mano tra i capelli lunghi incollati alla testa per il sudore. Le ginocchia raccolte al petto. «Io, davvero non lo faccio apposta», cercò di scusarsi ma non lo ascoltarono. L’altro continuò a infierire scocciato: «Bella scusa, fai sempre così e credi che te lo lasceremo passare». In quel semi buio, il loro fastidio e il loro odio erano persino più palpabili che quando era giorno. Ciononostante, il ragazzo, pur sentendo la vergogna montare dentro di sé, continuò a squittire: «Non è colpa mia, non lo faccio apposta». Ma nessuno gli credette. Molti lo mandarono a quel paese, mentre uno, sarcastico: «Sì, sì, certo, spera solo che Conrad non ti abbia sentito, altrimenti…»
«Altrimenti cosa?» Domandò la voce maschile del chiamato in causa. Tutti si volsero verso di lui, che si stagliava all’ingresso, oscurando la luce della luna. L’uomo aveva una corporatura robusta e un copricapo di piume che lo faceva somigliare a una sorta di creatura soprannaturale alla luce della luna.
«Eccolo, lo sapevo». Bisbigliò qualcuno mentre il capo entrava nella caverna e si avvicinava. «C’è qualche problema?» Chiese in tono apprensivo.
«No, nulla, è solo che Fred ha avuto un incubo e ha finito per svegliare tutti». Rispose Tiger invece sua, mentre altri si ricoricavano. Fred abbassò il capo e sentì le guance scaldarsi per la vergogna. Ecco, scoperto.
«Ancora con quel sogno, Freddie?» Domandò in tono paziente. Il ragazzo distolse lo sguardo, frustrato. Questa pazienza gli dava fastidio. Si sentiva ancora un bambino piccolo e indifeso che aveva bisogno del bacio della buonanotte o dell’abbraccio della madre per addormentarsi. Cosa che, in realtà, gli mancava molto. Ma Conrad non era suo padre e ogni volta si spaventava dalla facilità con cui finiva per confidargli tutto.
Cominciava ad avere voglia di tenersi le cose per sé. Dopotutto stava crescendo, pensava che fosse anche giusto occuparsene da soli, perché aveva già appurato che le parole di Conrad non bastavano più. In ogni caso un giretto l’avrebbe aiutato molto di più che se fosse rimasto lì.
Conrad parve intuire questo suo desiderio perché lo invitò a raggiungerlo e a seguirlo, poi diede l’ordine di riaccendere il focolare all’ingresso.
«Ci penso io». Borbottò una ragazza, Celine, che si alzò e andò a prendere l’occorrente.
Mentre lei si affaccendava per riaccenderlo, anche lui si alzò. Si adagiò una camicia bianca sulle spalle e con un sospiro, si avviò verso l’ingresso.
L’uomo si fece da parte per lasciarlo uscire e si avviò con lui. Gli dispiaceva da morire abbandonare il dolce tepore del giaciglio, ma non se la sentiva di restare lì a essere preso in giro. Se c’era una cosa che non era cambiata in tutti quegli anni, erano le prese di giro dei suoi compagni.
Proprio in quel momento la ragazza riuscì a riaccendere il fuoco. Conrad avvolse uno straccio attorno a un ramo abbastanza lungo e impregnato d’olio, poi lo adagiò nel fuoco. La luce delle fiamme s’intensificò, illuminando il resto della caverna e i ragazzi, che ammutolirono.
Quando rialzò il bastone, con la solennità propria di un sacerdote, sembrava che avesse compiuto un antico rito sacro. Invece il ragazzo preferì prendere con sé una delle lunghe lance. Con quelle s’inoltrarono nella giungla.   
Mentre si facevano largo tra le piante il ragazzo evitò di guardarlo. Non tanto per la vergogna, perché sentiva arrivare un discorsetto motivazionale, ma per via della fiaccola. A giudicare dal buio circostante, dovevano essere le quattro, l’ora più buia della notte e se avesse guardato una fonte di luce, avrebbe perso la possibilità di abituare la sua vista all’oscurità. Rabbrividì per lo sbalzo di temperatura e starnutì. Non aveva paura di assopirsi, con l’incubo che aveva fatto aveva perso la voglia di dormire.
«Un altro incubo?» Domandò a un certo punto, mentre pattugliavano i confini. Si diceva che dieci anni prima, Conrad avesse sconfitto una tribù di indigeni e che avesse stipulato con loro la divisione dell’isola.
Il patto consisteva di non violare mai la Zona delle Nebbie, nella parte più a nord dell’isola. Si vociferava che succedessero cose strane lì e tutti se ne erano sempre tenuti saggiamente alla larga. 
Conrad non era stato l’unico adulto e loro non erano come i ragazzini de Il signore delle mosche. Erano arrivati lì dieci anni prima. C’erano anche degli adulti, come Jennifer, sua madre e molte altre persone. Ma poi erano morti di malattia a causa di un’epidemia di otto anni prima, ed era rimasto solo Conrad. Ma non erano morti solo loro. Fred ricordava benissimo che, una volta, anche i bambini erano più numerosi. Anche loro erano morti di stenti, di fame, di malattia e di fatiche. Loro venticinque erano i superstiti.
In realtà non faceva sempre tutto lui, si distribuivano i compiti da quando alcuni dei ragazzi più grandi avevano compiuto dodici anni. Ogni due ore toccava a una coppia di ragazzi e poi, verso l’alba a Conrad. Ormai c’erano abituati.
«Sì». Ammise in tono sconfitto. C’aveva provato tante volte a fermarli in quegli anni, ma non ci era mai riuscito del tutto. Finiva sempre che tornavano, più agguerriti e potenti di prima. 
«Non ci posso fare niente, purtroppo, mi rendo conto che le mie parole non sono sufficienti per aiutarti». Si scusò Conrad «posso solo ascoltarti, come sempre, ma non posso fare molto di più».
«Ma che dici? Per me è già tanto!» Esclamò il giovane rialzando la testa verso di lui.
«Allora permettimi di ascoltarti ancora una volta». S’offrì l’uomo, fermandosi per guardarlo.
Il ragazzo lo accontentò, cercando le parole per esprimersi meglio. «É sempre lo stesso sogno ma la paura non passa. Non cambia mai e ogni volta non so cosa fare».
L’altro lo osservò per qualche istante senza porre domande. Gliene aveva parlato tante di quelle volte, che ormai anche lui lo conosceva a memoria. Oscillò la testa su e giù prima di mormorare: «Capisco».
Camminarono ancora un po’ scambiandosi qualche parola ogni tanto. Fred gli chiese se fosse normale, essere perseguitati così. Conrad disse di no e che forse gli spiriti lo stavano perseguitando.
“Ah, forse è per questo”. Pensò il giovane. Lo lasciò borbottare rassicurazioni ancora un po’, poi l’uomo concluse con un: «Va bene?»
«Sì».
Fred alzò la testa e vide il primo chiarore dell’aurora contro il manto blu scuro della notte. Guardò il suo compagno: «Scusami, potrei avviarmi verso la spiaggia? C’è… una cosa che devo fare». Spiegò poi. L’uomo annuì e gli consigliò di portare con sé la torcia. Ma il ragazzo rifiutò: «Tra poco ci vedrò e poi la spiaggia non è molto lontana da qui».
L’uomo l’osservò a lungo e poi fece un cenno d’assenso col capo. Il ragazzo lo ringraziò e se ne andò, sentendo su di sé lo sguardo vigile del più anziano sulle spalle.
Conosceva a menadito quella strada. La percorreva sempre da quando avevano preso quest’abitudine.    
Se chiudeva gli occhi poteva ancora tornare a quel tempo. Ed era il momento di onorarli e, di conseguenza, di ricordare anche il suo nome: Frederick Waleran.  
Più si allontanava più accelerava la sua andatura, seguendo l’eco delle voci dei suoi genitori. Il cuore accelerò. Non aveva paura di inciampare e ferirsi, la strada la conosceva troppo bene per correre un rischio così. Ed era sicuro che anche se si fosse ferito, non avrebbe mai mancato un appuntamento del genere.
“Scusatemi se non sono potuto venire prima”. Pensò quando i suoi piedi si posarono sulla sabbia nuda della spiaggia. Avanzò fino ad uscire completamente dalla boscaglia e si fermò esattamente al centro di quella lingua di terra. Respirò a pieni polmoni l’odore dell’oceano.
Un venticello si avviluppava attorno alla sua persona per un momento, smuovendogli i vestiti e i capelli. Gli parve di sentire i rimproveri di suo fratello maggiore e il sorriso bonario del padre, mentre la madre ammoniva il figlio di smettere di tormentare così Fred. Non avrebbe saputo dire se fosse la sua immaginazione, ma gli piaceva pensare che gli spiriti dei suoi lo venissero a trovare cavalcando il vento come stregoni. Per passare un po’di tempo insieme a lui. Per permettergli di onorarli e ricordarli. Questa era un momento solo per loro quattro e nessun altro. In quei momenti era come se fossero di nuovo tutti insieme.
Non era potuto venire prima per via delle piogge che in quelle settimane avevano funestato l’isola, ma ora era qui. Erano qui, per dargli forza, come sempre. 
Il ragazzo sollevò il palmo libero verso il cielo e sorrise quando il vento s’insinuò tra le sue dita, quasi prendendolo per mano. “Loro ti rispettano”. Disse una voce dai recessi dei suoi ricordi. Una voce di bambino. Ed era contento che fosse così. Perché in un certo senso, poteva vederli.  
Fred aprì gli occhi ascoltando lo sciabordio delle onde che la nave solcava. Si aggrappò alla balaustra dipinta di bianco, ridendo divertito, mentre il vento scompigliava i suoi capelli lisci e biondi.
«Scommetto che non hai il coraggio di salire sulla balaustra!» Lo sfidò scherzoso suo fratello maggiore. Fred alzò gli occhi dal pupazzino con cui stava giocando e lo guardò spaesato, riemergendo dalla sua storia. Il fratello maggiore aveva i capelli color miele e gli occhi azzurri ridenti. Sembrava la sua versione un po’più grande e più scura. «Cosa?»
«La balaustra».
«Perché dovrei?»
«Perché sì!» Lo sfidò. E quando faceva così era inutile cercare di negare. Il bambino aveva un modo di fare che stupiva e incantava. Un modo che costringeva chiunque a fare ciò che voleva. Come stava succedendo adesso. Fred da piccolo pensava che il fratello maggiore avesse un potere magico per riuscire in questo intento con tanta facilità. Leggendo i fantasy come il ciclo di Terramare, si era anche convinto di essere un piccolo giovane mago. Infatti il ragazzino si ritrovò aggrappato con le braccina grassocce alle sbarre in compagnia del più alto, che si arrampicò per vedere meglio, reggendosi alla balaustra. «Guarda laggiù». Esclamò Lucas puntando il dito sulla distesa azzurra e splendente sotto ai raggi del sole pomeridiano.
Fred obbedì e scorse le creature che, rapide, s’innalzavano dalle onde e si inabissavano. «Sono sirene?»
Il fratello ghignò sotto ai baffi. «Sì». Adorava prenderlo in giro. Fred sorrise al ricordo e tese le mani avanti a sé. Ora che era grande avrebbe potuto posare le mani sulla balaustra, non accontentarsi di aggrapparsi alle sbarre orizzontali verniciate di bianco. Sentì la loro fredda consistenza sotto le dita come se fosse di nuovo lì. E, proprio in quel momento: «Fred, Lucas amori miei, non vi sporgete!» Li richiamò la loro madre con voce angosciata. Fred sentì un groppo in gola mentre il ricordo procedeva. Rivedere sua madre era sempre una cosa bella e terribile al tempo stesso. Era come riaprire una vecchia ferita tutte le volte. Ma non ci poteva fare niente, non aveva intenzione di permettere ai suoi ricordi di svanire.
Il bambino girò la testa verso di lei, che si stava avvicinando e le sorrise: «Mamma, mamma! Guarda, ci sono le sirene!» Esclamò indicando i delfini che nuotavano a pochi metri di distanza dalla nave. La donna fece scendere il maggiore e prese in braccio il minore. Poi scrutò a sua volta l’oceano e sorrise: «Sì, è vero, le vedo anch’io, salutale!» E madre e figlio salutarono le creature marine che poi dopo qualche altro tuffo, scomparvero tra i flutti.
«Dove? Voglio vederle anch’io, dove sono?» Domandò una vocetta acuta dietro di loro.
Madre e figli si girarono e videro la bambina con i lunghi codini castano scuro che gli sorrideva divertita. A soli sei anni somigliava più al signor Stewart che alla moglie. Aveva ereditato da lui i suoi splendidi capelli castani e gli occhioni azzurri. Anche come interessi era più vicina a lui di chiunque altro. Infatti, quando si erano conosciuti a una festa di compleanno in maschera, erano andati subito d’accordo. Lui era vestito da pirata, mentre lei portava delle ali di plastica blu sulla schiena. Da allora erano diventati inseparabili.
Persino sua madre era sconcertata dal fatto che avesse preferito fin da subito giocare con i dinosauri, piuttosto che con le bambole. A niente serviva regalargliele. Sembrava un piccolo folletto dispettoso, se paragonato alla principessa di casa. Ed era per questo che era la migliore amica di Fred e Lucas.
«Guarda laggiù!»
La piccola si avvicinò agli amici e scrutò a sua volta. «Ma io non vedo nulla, sei un bugiardo, Fred». Sbottò mettendo il broncio.
«Ma sì che ci sono, diglielo anche tu, mamma». La donna ridacchiò divertita prima di confermare e Fred fece una linguaccia alla sua amica, che lo guardò infastidita. «Forse sono andate via, non preoccuparti, però, vedrai che le vedrai anche tu, prima o poi. Claire dov’è la tua mamma?» Chiese la donna. La bambina si girò verso sinistra e indicò le sdraio attorno alle piscine sul ponte: «Là che prende il sole. Posso giocare con voi?» Domandò poi ai due fratellini.
«Sì, dai». Esclamò Lucas allegro. Fred mugugnò il suo dissenso. Di solito non diceva mai di no, ma da quando erano in vacanza tra lui e Claire era guerra: lei non gli aveva ancora restituito il suo pupazzino preferito.  
Il giovane riaprì gli occhi e sospirò, tornado al presente. Guardò la distesa davanti a sé. Forse era colpa sua se era successo tutto questo. Se non avesse mai espresso quel desiderio, a quest’ora avrebbe potuto avere una vita normale.
Proprio in quel momento sentì le foglie della vegetazione frusciare. Si voltò di scatto ma non vide nessuno. Restò in allerta per un po’. Pronto a usare la lancia per difendersi, ma dalla boscaglia non uscì nessun predatore. Il ragazzo sospirò di sollievo, si rilassò e tornò alla sua opera di restaurazione mnemonica. Tanto gli spiriti erano ancora lì con lui, che attendevano pazienti.
Il vago rumore delle onde coperto soltanto dal vociare dei turisti, dall’impianto audio, dei camerieri e degli altri passeggeri che si divertivano sul ponte.
Su questa nave erano imbarcati Eric Stewart, sua moglie, Clarisse e le loro figlie Sally e Claire.
Eric era il miglior amico di Harold Waleran. Fred ricordava appena il volto di suo padre, il progettista della Fortuny. Tuttavia, ricordava quello del signor Stewart. Mentre era impegnato a giocare con Claire, si ricordava che aveva l’aria di uno che non avrebbe potuto chiedere niente di più dalla vita. Forse perché il signor Waleran aveva l’abitudine di rifuggire il sole e il riposo alla stregua di una curiosa specie di vampiro o di formica operaia. Il vampiro operaio.  
Sdraiato sulla sdraio sul ponte a prendere il sole con la moglie che dormiva sul lettino accanto al suo. Lieti di avere un po’di riposo dopo che la piccola furia scatenata aveva trovato un nuovo bersaglio su cui sfogare la sua energia.
A Claire venne voglia di un gelato e andò dai genitori per chiedere qualche dollaro, sì da comprarlo al bar. Anche i due fratelli si accodarono e seguirono l’amichetta, dopo che la madre ebbe dato loro i soldi. Avrebbe voluti darli anche a Claire, ma lei era già scattata dai genitori e ai due non restò altro da fare che seguirla, facendo lo slalom tra la folla. «Papà! Papà!» Chiamò quest’ultima quando fu abbastanza vicina. L’uomo stravaccato sulla sdraio girò la testa verso di lei. Però una voce si sovrappose a quella della bambina e un’altra persona li superò. Una ragazza.
Claire si fermò di botto e Lucas l’affiancò.  
«E adesso che c’è? Prima la cabina, poi la piscina». Domandò in tono paziente e carico di affetto il signor Stewart alla nuova arrivata. Un tono comunque ben diverso da quello usato da Conrad.  
«É tutto questo papà! Sai anche tu che non ci volevo venire qui!» Esclamò la ragazza allargando le braccia in un gesto stizzito prima di lasciarle ricadere sui fianchi e posarsi le mani sui medesimi. Il piede che batteva a terra in modo scocciato e alquanto teatrale.
«Come, non ti stai divertendo?»
Fred provò un istintivo moto di terrore. La sorella maggiore di Claire era incavolata nera, più del solito. «No! Non con quella piattola attaccata al culo tutto il tempo!» Sbottò accennando alla piccola Claire dietro di lei. Claire si nascose timorosa dietro la schiena di Fred. Che non ci mise molto a capire cosa avesse combinato, prima di andare a cercarlo.
«Ma lei vuole solo giocare con te». Le fece notare mentre il ragazzino cercava di rassicurare l’amichetta. La ragazza si girò di tre quarti e li osservò inviperita. «Non è vero, Claire?» Chiese poi il signor Stewart guardando la bambina. La quale dopo aver ricambiato lo sguardo, annuì. Solo allora Fred, che si era girato a sua volta, vide la macchia di crema solare sul nasino. 
«Modera il linguaggio, signorina». L’ammonì la madre. 
«E io non voglio!» Sbottò Sally incrociando le braccia e guardandoli male.
Il padre di Claire fece per ribattere quando gli arrivò un messaggino. Anche in vacanza portava il telefono sempre con sé. Lo estrasse dalla tasca della camicia e lo lesse. Scosse il capo e si alzò annunciando che doveva andare, poi si raccomandò di fare i bravi. Mentre la figlia maggiore sputava altro veleno sul fatto che non poteva lasciarle così e che doveva ascoltarla. Che doveva fare qualcosa. «Smettila di lamentarti, Sally!» La riprese la madre mentre il genitore si allontanava ciabattando. Poi domandò ai due bambini se avessero avuto bisogno di qualcosa, in tono molto più dolce. La bambina si asciugò le lacrime e annuì. Poi le espose la sua richiesta ed entrambi si ritrovarono con i soldi per comprare il gelato. Quando però chiese alla figlia maggiore di accompagnarli al bar e lei si rifiutò di nuovo, la sua voce s’indurì: «Fa come ti dico, Sally!» La ragazza obbedì li prese per mano entrambi e li portò tutti e tre al bar. Claire la implorò dicendo qualcosa, con gli occhioni grandi, da gatto con gli stivali. Ma la sedicenne dal cuore di pietra esclamò: «Sognatelo!» E, appena al bar, sfilò la mano con un gesto secco. Ma comprò lo stesso il gelato a tutti e tre.  
Il ragazzo riemerse dal ricordo e guardò il panorama che si apriva davanti a sé. Adesso illuminato dal sole che sorgeva alla sua sinistra. Il venticello completamente cessato. Il mare calmo e di nuovo solo. Adesso non sentiva più la loro presenza. Ora che si era veramente calmato poteva tornare dagli altri. Contemplò un momento quei luoghi illuminato dalla luce delicata, bianco, aurea e rosata, lasciandosi inebriare da quella sensazione di calma e pace. Fece un bel respiro profondo e sollevò le braccia verso l’alto, prima di espirare, abbassarle dolcemente, salutando così quel nuovo giorno.
Raccolse il bastone che aveva lasciato cadere e tornò al rifugio camminando tranquillamente.

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Capitolo 3
*** Signora dell'Isola ***


Signora dell'Isola

 

La conchiglia era proprio lì, a un guizzo di distanza. Si dette lo slancio coi piedi e tese la mano. Le dita si chiusero istantaneamente attorno al mollusco e, inarcando la schiena, si riportò dritta. Emerse mentre il cielo rosa sfumava sull’azzurro e i gabbiani cominciavano a sorvolare la distesa d’acqua salata.
La ragazza si sdraiò e si rilassò completamente, lasciando che la spinta idrostatica la tenesse a galla, giusto a pelo dell’acqua. Chiuse gli occhi per un momento e respirò a pieni polmoni, sorridendo felice e appagata. Riaprì gli occhi e se li riempì di quei colori che sembravano caldi tutto l’anno. Sarebbe potuta rimanere lì per sempre.
L’acqua per lei era come l’aria per gli uccelli. Non aveva ali per volare, ma nell’acqua non ne sentiva la necessità. Forse era una stupidaggine ma quando nuotava le piaceva fingere di essere una sirena. Non le dava neanche noia la salsedine. Se agli altri il sale arrossava le iridi a lei no. Come se i suoi occhi avessero sviluppato una membrana apposta.
E poi nuotare era quanto di più vicino ci fosse al volare.
Alla fine c’era riuscita a scaricarsi completamente. Quella mattina si era svegliata con l’animo leggero e una voglia matta di ridere e cantare. Non solo perché aveva finalmente smesso di piovere, dove si trovava lei non aveva piovuto. La dolce brezza sembrava sempre portare con sé una melodia, in questo caso di chitarra. Nella sua memoria quella melodia era vividissima, visto il tempo che aveva impiegato per ricostruirla durante quella vacanza. Ne valeva sempre la pena di starsene un po’per conto suo per ricaricarsi. 
Si ricordò di stringere ancora la conchiglia: «Ah, già!» Esclamò divertita. Con un rapido movimento si raddrizzò e riprese a sforbiciare coi piedi per restare in posizione eretta. Si portò la mano di fronte agli occhi e osservò la sua preda. Aveva imparato a prenderle da tempo senza ferirsi coi loro aculei, che ai tropici era facile trovarle di siffatta natura. Era solida e ben fatta, con grandi spire terminali e altre più brevi, mentre altre ancora, più sottili, appiattite e dritte nella prima parte. Più lunghe, più tubolari e più curve verso l’apertura. Ci infilò il dito dentro e non restò troppo delusa, il suo abitante era ancora all’interno, che cercò di arretrare. Sorrise: «A te penserò subito».
Si era fatta già un bel bottino, con quella la sua colazione poteva dirsi completa. Nuotò verso la spiaggia e si avvicinò al fuoco che ardeva lì vicino. Poi trasse dalla borsa il coltello e ripulì la turbinide. Le chiamava così perché il loro modo di arricciarsi su sé stesse le ricordava molto un turbine. Solo che questa era proprio bella. Sperò che Kelani non le desse troppo fastidio e si accontentasse dell’altra che aveva raccolto nel suo peregrinare.  
Non era mai stata un tipo schizzinoso, perciò non si fece troppi problemi nel mandare giù i molluschi. Meno male che nessun predatore aveva rivoltato la sua sacca come sei anni prima.
E cantò trascinata dai ricordi mentre la sua pelle e i suoi capelli si asciugavano.    
Adorava la laguna quando era calma e l’acqua era abbastanza fredda per permetterle di nuotare senza problemi. Il problema dell’oceano a quelle latitudini non erano solo le correnti, ma anche la sua fauna. Soprattutto le caravelle portoghesi. Una specie di meduse estremamente velenose. Le si riconosceva perché la loro cupola era a pelo dell’acqua proprio come le caravelle del navigatore. Quelle erano ancora più pericolosi che gli squali. Per fortuna stava sempre molto attenta.
Aveva cominciato ad andarci sei anni prima. L’aveva scoperta lei i primi tempi dopo il naufragio. Quando i passeggeri e l’equipaggio si erano organizzati. Ma la piccola Claire non era voluta restare con Fred e Lucas. Si annoiava troppo. Non sopportava neanche più i suoi amici e non aveva voglia di fare amicizia con gli altri bambini. Non aveva neanche voglia di stare con sua madre, sua sorella e la signora Waleran. Se fosse andata da loro, probabilmente avrebbe finito per fare qualcosa di noioso, tipo intrecciare cesti di vimini. Perciò alla fine, un po’ a memoria un po’cercando, aveva seguito suo padre e i cacciatori di nascosto.
Quando il genitore si era accorto di lei, la bambina gli stava già camminando tranquillamente accanto. Voleva fargli vedere come era stata brava a seguirli e a non perdere di vista neanche per un secondo le loro orme. Che allora portavano ancora le scarpe. Gli adulti non erano abituati a procedere a piedi nudi nel sottobosco e, allora, obbligavano anche loro a continuare a indossare le scarpe. Quei pochi che erano riusciti a indossarli quella notte. Invece la sua accoglienza era stata del tutto diversa.
«Papà». Lo chiamò la bambina. L’uomo si era immobilizzato di colpo e si era voltato di scatto:  «Claire, che cosa ci fai qui? Ci hai seguiti? Ma sei impazzita? Dovevi restare al campo» Aveva strillato allibito e tutti gli altri cacciatori si erano girati verso di loro. La bambina si era subito sentita a disagio. Ecco, aveva fatto arrabbiare suo padre. E i suoi occhi si erano subito inumiditi. «Sei cattivo, volevo farti vedere quanto ero brava» Piagnucolò con gli occhi pieni di lacrime e la voce rotta. Il genitore si pentì subito della sua sfuriata, si chinò e la strinse a sé. «Non piangere, su, non piangere. Mi hai messo paura, lo capisci? La giungla è pericolosa, non è un posto per bambine». E ormai era troppo tardi per tornare indietro, e non si fidava ad abbandonare i compagni, perciò la prese in braccio e la portò con sé. Quella fu la sua prima caccia.
La giovane sorrise al ricordo. Oh, sì, andarono a caccia, a caccia di acqua. Che il torrentello si stava prosciugando e le scorte d’acqua andavano esaurendo. Claire aveva cercato di non essere di peso agli adulti, ma lo era stata, inevitabilmente. Aveva visto gli adulti prodigarsi affinché non  prendesse freddo, soffrisse la fame o che si stancasse. Già altre volte aveva visto i suoi genitori viziarla e coccolarla ma così le era venuto una specie di nodo allo stomaco e si era vergognata. Aveva scoperto per la prima volta il rimorso. Però non sapeva ancora come fare per controllarsi.
Così la terza mattina che si svegliarono attorno al fuoco, lei non ce l’aveva più fatta e se ne era andata. Ricordava di essersi addentrata nella foresta in direzione del mare. Aveva pensato che, magari, passando dalla spiaggia sarebbe arrivata prima.
E, dopo trentasette metri in linea retta era arrivata alla sua laguna. Le si erano illuminati gli occhi di fronte a quel paesaggio meraviglioso. Tutta la vergogna e i sensi di colpa provati fin qui erano svaniti, dissolti nel nulla.
La foce del fiumiciattolo era circondata da una piccola lingua di sabbia, dello stesso colore della carta di riso, una fragile barriera contro le onde. Ma l’oceano calmo come non l’aveva mai visto sembrava risplendere come se fosse fatto di zaffiri, lapislazzuli e turchesi. Il dolce sciabordio delle onde non aveva niente a che vedere con la furia dell’oceano che ancora rammentava.
Invece le rive verdeggianti sembravano un porto sicuro per tutti coloro che affrontavano il Pacifico. Ornate di palme da dattero, benzoini sembravano un dono di Dio, come l’alba dopo le ore più buie. Le fronde stesse, nel loro innalzarsi verso il cielo, le ricordarono angeli che spalancavano le braccia e che offrivano un rifugio sotto alle loro ali e mantelli. Uno di loro sembrava quasi una mano che indicava lo specchio d’acqua. Dillenie, canfora, bambù, agave, aloe, fichi, alberi di giglio, avocado, elicrisio, caprifogli e rose coloravano la vegetazione. Anche l’erba sembrava innalzarsi come una piccola onda da sotto le foglie marroncine del sottobosco e discendere rapida sulla sabbia, senza tuttavia raggiungere l’acqua che si riversava nell’estuario. Come un’amante che cerca disperatamente di raggiungere l’amato, riesce ad allungare una mano ma si dissolve prima di toccarlo. Perché mezzo metro prima di toccarne le sponde l’erba non cresceva più.
Un frullo d’ali le fece sollevare la testa di scatto e vide dei petrelli levarsi in volo.
Si guardò attorno cercando di capire se ci fossero altri animali per non spaventarli. Qualcosa, forse una rana, si tuffò nell’acqua. Allora la bambina si sporse verso il fiumiciattolo e restò a bocca aperta. Nell’acqua bassa nuotavano i pesci e zampettava qualche granchio. Poco più avanti, laddove diventava più profonda, crescevano coralli colorati. Si raggruppavano e si innalzavano fino a pochi centimetri dalla superficie, andando a formare una sorta di reef con la barriera di sabbia.
Prese coraggio e avanzò sull’erba fino alla battigia e, guardando verso la lingua di terra, vide tre scogli. Ora che ne aveva varcato i confini ne era certa: quel posto non sembrava neanche far parte di questa Terra. Era ultraterreno, quasi sacro. Persino gli elementi sembravano essere più docili, quasi sonnacchiosi. Il vento e il mare mosso che avevano funestato le giornate, distrutto i rifugi e raffreddato le notti sembravano un pallido ricordo.
Era tutto immerso nella calma più totale. La bambina stessa chiuse gli occhi e fece un gran respiro profondo. Quando li riaprì si sentì come se fosse entrata in sintonia con quel posto.
E improvvisamente, nei raggi del sole, le parve di vedere delle persone. Uomini e donne con abiti gialli e giallo oro che danzavano in cerchio tenendosi per mano mentre altri cantavano felici.
Claire spalancò la bocca meravigliata. Dei bambini si accorsero di lei. Una di loro la prese per mano, trascinandola nel cerchio. Sicché la piccola si ritrovò a danzare con quelle creature che non sembravano conoscere il dolore e la disperazione. E presto anche lei cominciò a ridere e sorridere felice, alleggerita delle sue preoccupazioni. Con una giravolta uscì dal cerchio dei danzatori e fu allora che la vide. Seduta sullo scoglio con un lungo abito blu e i capelli scuri con un grosso libro tra le mani. Sembrava una fata. Ancora adesso Claire non avrebbe saputo dire chi fosse o se se la fosse sognata, fatto sta che la donna aveva sollevato la faccia dal libro e l’aveva vista. Le aveva sorriso e poi aveva chiuso il tomo. Le si era avvicinata, continuando a sorridere dolcemente e gliel’aveva porto. Claire l’aveva guardata a lungo, indecisa se fidarsi o no. Però dalla fata non proveniva nessuna ostilità, perciò decise di fidarsi e prese il libro. La signora ritrasse le mani e si piegò, mettendosi le mani sulle ginocchia. Poi, sempre sorridendo, si portò l’indice alle labbra e le fece l’occhiolino. “Manterrai il segreto?” Sembrava che dicesse.
E Claire fece cenno di sì con la testa, sorridendo convinta. Fu come se avesse detto: “Sarà il nostro segreto”. Poi, in un battito di ciglia scomparvero tutti, lasciandola sola in quel paradiso terreste. Claire batté le palpebre per la sorpresa e girò la testa a destra e a sinistra nel tentativo di individuarli di nuovo. Dov’erano andati? Li cercò più volte con lo sguardo ma ormai non li vedeva più. Guardò le sue braccia, per vedere il libro ma stringeva solo l’aria. Eppure la sensazione che le fosse stato affidato un tesoro non era diminuita. Le era stato fatto un grande dono e non l’avrebbe mai dimenticato. Disegnò un inchino in segno di gratitudine, si raddrizzò e tornò subito da suo padre. Quando arrivò li vide che stavano parlando dell’acqua: «Papà!» Aveva urlato gettandosi tra le sue braccia. «Ehi, cucciola!» L’aveva salutato entusiasta stringendola a sé e baciandole la testa. «Dov’eri andata? Lo sai che zio Fergus ha trovato l’acqua?» Fergus era uno dei marinai ma anche a ripensarci, la ragazza non riusciva più a focalizzarne il volto. E poi, dopo la sua morte, aveva raccolto la sua nuova eredità, le sue armi e il suo ruolo di cacciatore. Quando poi si rese conto che cacciare non le bastava più, cominciò a esplorare l’isola. Erano passati anni da quella volta e si era scordata della scoperta. Rammentava soltanto che quel giorno fosse successo qualcosa di meraviglioso.
Così, mentre esplorava, fece ritorno alla laguna dei suoi ricordi e le tornò in mente tutto. Era rimasta invariata salvo le ninfee e dei giacinti d’acqua. Ma era ancora bella e incantata come quando la scoprì e le tornò in mente tutto. Quel giorno gli occhi le si riempirono di lacrime di gioia. Cadde in ginocchio, portandosi una mano alla bocca e l’altra al petto. Come aveva fatto a dimenticarsene? Chiese scusa alla fata per averlo dimenticato e la ringraziò per averglielo fatto ritrovare. E anche se ormai non poteva più vederla, le parve di percepire il suo sorriso comprensivo.
Da allora decise che sarebbe tornata periodicamente. Due anni dopo scoprì che si trovava pochi chilometri più in là del villaggio delle Mangrovie. Per un momento aveva avuto paura che l’avessero scoperta ma nessuno di loro ne parlò mai. Neanche durante le loro battute di caccia e pesca ci incapparono.  
Con la scusa di andare a trovare gli amici stanziati lì viaggiava. E poi il suo carattere scontroso le aveva garantito la privacy e la sicurezza per vivere questa sorta di vacanza romana. Non aveva paura che qualcuno la scoprisse, non era mai successo, nessuno la seguiva e nessuno l’accompagnava. Era il suo segreto più grande e non l’avrebbe condiviso con anima viva. Per questo il pensiero non la sfiorava nemmeno più. 
Tornò al presente e buttò qualche legnetto nel fuoco. Dopodiché si stese al sole ad asciugarsi sull’erba. Il capo sul suo bagaglio per stare più comoda e per evitare che i capelli bagnati si sporcassero. Quando si ritenne asciutta e riscaldata si alzò, si spolverò la schiena e le gambe. Con un sospiro si avvicinò al ramo dell’albero dove aveva appeso il telo che usava a mo’ di vestito. Se lo arrotolò attorno al corpo e assicurò il nodo con una spilla da balia e una corda di bixa. Una pianta da cui ricavavano funi, nastri e legacci.
Si riavviò i capelli con le dita e poi li legò quasi tutti in una coda alta sulla testa tranne due ciocche ai lati della testa che intrecciò. Poi fece lo stesso con altre due della coda. Infine raccolse le sue cose e le sue armi e se ne andò. Peccato, si stava divertendo.  

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Capitolo 4
*** A te ritorno ***


A te ritorno




Si girò un’ultima volta e lanciò uno sguardo carico d’affetto alla laguna. Quel posto sarebbe sempre rimasto il suo rifugio. Lì sembrava che la carestia e le malattie che avevano funestato l’isola non dovessero mai giungere, persino gli alberi da frutto un poco più nascosti nell’entroterra erano una benedizione. Lì era ancora più facile trovare cibo e carne. Soprattutto la carne. Non sarebbe mai stato come quella che ricordava, quella che mangiava nella sua prima infanzia alla civiltà, ma era comunque carne. E poi il suo stufato di anatra e bacche non lo batteva ancora nessuno.
Forse era il caso di cacciare un po’prima di cominciare il viaggio di ritorno? Ovvio che per le scorciatoie che avrebbe preso non ci avrebbe messo molto. Ma no, ci avrebbero pensato gli altri alle Mangrovie a darle qualcosa. Dopotutto, se c’era qualcuno che manteneva vivi i contatti tra i vari villaggi era lei. Neanche i protetti di quel pazzo erano capaci di una cosa tanto elementare.
Andò a controllare le varie trappole a laccio e scoprì di aver preso un tasso naso di porco. Bene, i ragazzi alle mangrovie non sarebbero stati delusi. Non che fosse davvero necessario portargli sempre del cibo, non voleva ingraziarseli, ma era sempre bello riceverne un po’. Almeno, lei non avrebbe detto di no se qualcuno gli avesse offerto anche un cosciotto di dingo. Che su quell’isola giravano spesso e volentieri. Anzi, se non stavano attenti rischiavano di finire in un loro agguato.
Controllò lo stato della preda e poté costatare che era ancora calda, doveva essere morta da poco. Per sicurezza gli piantò un coltello nell’occhio. Ma neanche così l’animale non si mosse.
“É un’isola molto strana”. Rifletté la ragazza mentre liberava la preda dal laccio. Con quella pelliccia ci avrebbero fatto un bel cuscino o un gilet. Prese l’animale e lo sollevò portandolo con sé fino alle mangrovie.
Il villaggio delle mangrovie era simile a quello dei pescatori, con la differenza che loro stavano su delle palafitte e che le mangrovie stesse facevano da supporto laterale. Le loro capanne erano più simili a delle tende che ad altro, proprio perché protetti dai rami e le fronde di quegli alberi.
Tuttavia erano anche più esposti alle intemperie e i pericoli della marea, al mare mosso, anche se avevano imparato a giovarne. Per esempio, a volte capitava che gli animali marini durante l’alta marea, si avventurassero fino alle mangrovie in cerca di cibo. E le mangrovie non occupavano certo un territorio ristretto. Ciò aveva portato i loro abitanti a sviluppare un notevole coraggio, forse persino più grande del suo, in quanto a volte dovevano saltare o nuotare da una mangrovia all’altra. Ma non erano solo i più coraggiosi, erano anche quelli che procuravano gli astucci delle sirene. Altro nome delle guaine delle uova che le mante appendevano ai rami più bassi delle mangrovie nella stagione degli amori. Le uova non erano questo granché ma gli astucci si potevano riutilizzare. L’unico inconveniente era l’odore ma niente di irreparabile.
A volte se erano fortunati poteva anche capitare uno squalo. Quelle volte lo ammazzavano. Tanto avevano dei solidi arpioni e avevano imparato a danneggiare le branchie dell’animale per soffocarlo. La cosa difficile era recuperare la carcassa prima di altri squali e pesci. Per questo di solito puntavano ai cuccioli o agli squali di taglia ridotta. Se invece li trovavano già spiaggiati tanto meglio, anche se era ancora più raro. Nessuno diceva no a una bella pinna di squalo. O a una bella collana fatta con quei denti. O a una foca, per dire. A dir la verità anni prima ci fu un periodo in cui una delle amiche di Lena e Devon cercò di protestare. Secondo lei era sbagliato uccidere le foche per nutrirsene. Erano le ultime grida dell’animalista che era in lei. Fu la fame a farla ricredere. L’isola era capace di annientare le precedenti convinzioni. O di concedere ad altri soggetti l’opportunità per emergere. Come Conrad.
Appena lo pensò la sua bocca si piegò in una smorfia di disgusto.
Cercò di non pensarci: non voleva rovinarsi la giornata.  
Sbucò dalla vegetazione proprio mentre i ragazzi stavano portando a riva la rete con la loro pesca. Furono le ragazze che stavano mettendo i vasi di ceramica nella buca di cottura, ad accorgersi di lei. «Ciao, Claire», «Guarda chi c’è, bentornata!» fece una di loro tutta felice battendo le mani impiastricciate di terra. Probabilmente dovevano aver pensato di creare una nuova scorta di vasellame perché gli altri non bastavano. Inoltre era molto difficile creare dei vasi perfetti. Dovevano sempre stare attenti alla cottura ed evitare che si aprissero crepe.
In effetti le piogge di quelle settimane dovevano averli fatti disperare per lei. «Bentornata, come è andata l’esplorazione?» Chiese Lena venendole incontro per baciarle le guance, intanto che una delle tre chiamava gli altri a gran voce. Almeno metà dei ragazzi accorsero, gli altri lanciarono i loro richiami.   
«Ciao, ragazzi». Ricambiò sfiorando a sua volta quelle dell’amica e stringendo brevemente a sé le braccia degli altri. Avrebbe voluto abbracciarli ma aveva ancora il tasso sulle spalle. Se lo tolse e lo affidò a Kyle e Devon con un: «Per pranzo».
«Ma Claire, complimenti! Stavo cercando di catturarlo da una vita questo maledetto!» Si complimentò quest’ultimo. O almeno sembrava un complimento. «Ah, scusa, spero di non averti privato di questo piacere». Il ragazzo scoppiò a ridere e le dette delle pacchette sulla testa: «E accettalo qualche complimento nella vita, che male non ti fa».     
Lei sorrise imbarazzata e rispose che ci avrebbe lavorato. Poi si guardò intorno in cerca di una persona. «Dov’è Barney?» Chiese. Era uno dei suoi amici più cari nonostante i dieci anni di differenza. Lui, Devon, Lena e tutti quelli delle mangrovie erano gli ex adolescenti sopravvissuti al naufragio. Era stato lui a insegnarle a fare i nodi, intrecciare le reti e costruire un rifugio. Infatti da ragazzo era un boy scout appassionato di modellismo. Erano ancora giovani ma per Claire lui era già un uomo fatto e finito.  
«Ah, dev’essere nella boscaglia». Rispose Lena distrattamente mentre accendeva il fuoco. Claire si lavò le mani nella ciotola dell’acqua che usavano le ceramiste. Scosse le dita e dichiarò: «Vado a cercarlo, così gli faccio anche un saluto». 
«D’accordo, vedi se riesci a riportarlo qui in tempo per pranzo. A te darà retta sicuramente».
«Contateci». Garantì. E le avrebbe dato retta per davvero e non solo per amicizia. Ma perché era un amico di Sally e forse una delle poche persone che manteneva viva la sua memoria insieme a Claire e Conrad. Anche se la ragazza non sopportava le sue intromissioni.
Andò a cercarlo. 
Quando dicevano boscaglia si riferivano alla piccola cengia che Barney aveva eletto a laboratorio. Era un luogo riparato dalle radici di mangrovie e qualche masso distante quindici metri dalla battigia. Il che significava che avrebbe dovuto trascinare le sue creazioni fino a riva. Barney non era solo uno dei suoi amici più cari, ma era anche uno dei migliori costruttori di zattere di tutta l’isola. Nonché uno dei pochi che ancora coltivava il sogno di andarsene. Quelli degli altri villaggi, soprattutto alle cascate, sembravano essersi già arresi tutti. Ormai avevano persino smantellato i fuochi di segnalazione.
Ma i ragazzi delle mangrovie non si erano arresi e avevano continuato a lavorarci e collaudarle di nascosto. Ovvio poi che nel caso avessero avuto successo non li avrebbero abbandonati. L’idea era quella di radunare tutti e partire la notte, non appena Conrad si fosse addormentato.  E non vedeva che arrivasse quel giorno.
 Sentì il rumore del martello sul legno e sorrise lieta mentre sgattaiolava tra i cespugli. Probabilmente si era accorto della sua presenza, altrimenti sarebbe sobbalzato. Anche se non sembrava era uno che stava sempre molto attento. Lo era da quando la giungla glielo aveva insegnato a dovere, a causa dei dingo. Recava ancora la cicatrice sulla gamba. «Ancora al lavoro?» Se ne uscì a mo’di saluto comparendo alle spalle del carpentiere. Il quale si fermò di colpo e girò la testa ricciuta verso di lei.    
«Ehi, Claire!» Esclamò contento di rivederla. Mise da parte il martello e la raggiunse per salutarla con due baci sulla guancia. «Come stai? Come è andato il viaggio?» Poi la strinse in un abbraccio fraterno che la ragazza ricambiò. «Benissimo».
«E l’acqua, quanta ne hai presa?»
«Meno di te se ti conosco. Quante notti in bianco hai passato per finirla?» Chiese lei quando si discostò, guardandolo in faccia. Già per natura sembrava avere gli occhi a procione, con le occhiaie sembrava che fosse stato coinvolto in una rissa.
Il giovane si grattò la testa come a dire: “beccato”. «Eh, almeno tre o quattro ci sono tutte. Le altre sono stato costretto. Ma vieni, vieni un po’ qui a vedere». E, mettendole una mano sulle scapole la guidò verso la sua ultima creazione. Una bella zattera con rinforzo e vela. Nella forma e nelle intenzioni secondo lui somigliava a un catamarano. Le aveva spiegato cos’era, quindi non aveva problemi a immaginarselo.  «Questa riuscirà a resistere alle onde, vedrai». Dichiarò tutto soddisfatto battendo la mano sul legno e le canne.
«É stupenda, Barney». Asserì convinta la ragazza. Era impossibile non essere contagiati dalla sua speranza quando parlava.
Le altre non erano resistite neanche trenta secondi contro il mare mosso. Ogni volta che collaudavano le zattere sembrava che il mare s’ingrossasse apposta per impedirgli di lasciare l’isola. Forse lui era uno dei pochi a vedere questo posto per quello che era: una magnifica prigione. E anche lei condivideva la sua visione. Per quanto amasse la sua laguna sentiva che l’isola non le bastava più, voleva vedere il mondo. Per ora si accontentava di esplorare ma non voleva trascorrerci il resto dei suoi giorni. 
Ogni volta che arrivava a provare questa sensazione di frustrazione, di impotenza, capiva di star tornando alla realtà. Ecco perché gli piaceva passare il tempo in compagnia dei ragazzi delle mangrovie. Erano più liberi, le loro menti parevano gabbiani che solcavano i cieli, mentre quelle dei suoi compagni erano tristemente ancorate.
A volte si domandava se la laguna non fosse la sua zavorra. Se le fosse stata realmente affidata o se fosse stato soltanto un sogno a occhi aperti. Da quando l’aveva ritrovata aveva provato a investigare sulle possibili cause di quel sogno. Potevano essere stati dati dalla fame e dalla stanchezza. Cosa da non escludere, visto che in quel periodo lei e molti altri si stavano riducendo a degli scheletrini. Lei stessa che all’epoca pesava forse venti chili ne aveva risentito. Esplorando i dintorni aveva cercato di capire se quella visione fosse stata indotta da cause naturali, come una polvere allucinogena o un veleno. Ma non poteva essere, se no si sarebbe ricordata suo padre che la salvava, la disperazione della famiglia. E non poteva neanche essere un regalo della meningite che la colse sette anni prima. Ne era sicura, perché erano avvenimenti che risalivano a due anni prima ancora. Oppure era dovuta al fatto che non dormisse bene in quel periodo. Ciò non tolse certo fascino alla sua scoperta. Qualcosa le diceva che c’era veramente qualcosa in quella laguna paradisiaca. Per quanto l’adorasse non poteva restare lì, la vita la chiamava oltre quell’isola e lei voleva rispondere a quel richiamo prima che fosse troppo tardi. «Tra quanto la collauderai?» Chiese poi.
«Tra una settimana o due, non è ancora pronta, devo ancora rifinire qualche dettaglio». Spiegò lui. 
«Piuttosto, avete fatto buona guardia alle mie cose?» Domandò lei, glissando su un altro argomento. Che con quella pioggia non se l’era sentita di portarsele dietro.
«Oh, sì, te le ho custodite con molta cura.» rispose il ragazzo e insieme tornavano all’accampamento, mentre i ragazzi stavano già cucinando il tasso e le ragazze avevano appena finito di disporre la legna del forno e adesso stavano accendendola.  Arrivarono alla palafitta del carpentiere. Entrò e ne uscì un secondo dopo con la sacca, che porse alla viaggiatrice. «Ecco qua».  
«Grazie».  
Claire l’aprì e controllò che ci fosse tutto. Non mancava proprio niente. Questa volta era stato difficile mantenerlo asciutto. Per fortuna l’impermeabile di foglie era stato sufficiente finché non aveva raggiunto le mangrovie. Da lì in poi aveva proseguito senza bagaglio.
L’amico si pose le mani sui fianchi: «Allora, c’è tutto?»
«Sì, direi di sì». Decretò soddisfatta richiudendola.   
Mentre mangiavano sambar e mango, i ragazzi le chiesero cosa aveva visto e cosa aveva trovato. Tacendo sulla laguna, lei rispose a tutte le loro domande. «Tu credi che un giorno riuscirai a salire sui Tre Grandi Picchi?»
La ragazza rabbrividì leggermente: «Chissà, penso, spero». Non voleva ammetterlo, ma quel posto le faceva paura. Anche a lei, che pure era molto coraggiosa. Gli altri commensali non erano da meno. Anche se adulti provavano una sorta di timore reverenziale per quelle cime
Barney spezzò la tensione domandandole quando sarebbe ripartita. La ragazza rispose che l’avrebbe fatto appena dopo pranzo. «No. Sei appena tornata, potresti fermarti un po’di più».
«Non è che non voglia, credo che Kelani mi stia chiamando». Spiegò lei. C’era una connessione speciale tra lei e quella ragazza. Forse perché erano state molto spesso insieme in questi sei anni, che avevano finito per sviluppare questo legame d’amicizia molto forte. Quel tipo di amicizia faceva sì che una potesse sentire il dolore o il malessere dell’altra come una sorta di campanello d’allarme. Ed era vero che sentiva che la stava chiamando. Claire mise giù la ciotola e mangiò un pomodoro. Scosse il capo divertita, provando un moto d’affetto per lei. Anche se Kelani era il suo opposto era la sua vera sorella e l’unica che le restava. Ogni volta che partiva, sapeva che la sua preghiera l’accompagnava e le faceva da bussola per riportarla a casa. Per un istante rammentò il suo primo viaggio. Kelani aveva cercato di dissuaderla, si era abbarbicata anche alla sua gamba. A poco a poco Claire era riuscita a scrollarsela di dosso. «E allora come saprò che tornerai?» Domandò la ragazzina tamponandosi una lacrima. Allora Claire le aveva stretto le spalle e l’aveva spronata a guardarla negli occhi mentre diceva: «Finché tu continuerai a pregare per me, io tornerò da te».
«Me lo giuri?»
«Ma certo, e ti porterò sempre un souvenir dei miei viaggi». Da allora le portava sempre un regalo. E tra le conchiglie che aveva pescato quella mattina ce ne era una che le sarebbe piaciuta sicuramente. Le portava sempre quelle. Riemerse dal ricordo e domandò: «Voi quando scenderete?»
«Ah, noi pensiamo di scendere stasera prima di sera. È il compleanno di Fred, dopotutto». Le loro provviste le avrebbero appese ai rami per evitare che gli animali le trafugassero. «Ma la carne?»
«Ah, per stasera non ci saranno problemi, l’abbiamo finita». 
La giovane ci mise un po’per capire il senso di quelle parole, soprattutto l’avverbio di tempo che avevano usato. Si accigliò confusa. «Stasera?» Chiese guardando Lena. 
«Come non te lo ricordi? Oggi è il compleanno di Fred». Rispose quest’ultima.

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Capitolo 5
*** Alla spiaggia dove ***


Alla spiaggia dove

 

 

I due amici si recarono alla spiaggia dopo colazione. In realtà non si poteva neanche definire colazione, era proprio un pasto vero e proprio. Cercavano di mangiare il più possibile e non c’erano orari precisi. Semplicemente quando era pronto si mangiava. Se andava bene facevano anche tre pasti al giorno. C’erano già stati dei periodi in cui ne avevano fatto uno solo o avevano digiunato. Ai due non sarebbe dispiaciuto se qualcun altro fosse venuto con loro. Avrebbero preferito Tiger e Gabriel, se non fosse stata per la loro arroganza di Principi dell’Isola. E poi non aspettavano mai nessuno, o tenevi il passo o te ne tornavi indietro. Sarebbe stato inutile mettersi sulle loro tracce, anche perché erano già andati a caccia. Qualche giorno prima avevano avvistato un grosso cane selvatico e avevano riempito la zona di trappole a laccio e altri trabocchetti. I cani selvatici erano persino più pericolosi dei lupi, ma loro avevano dalla loro parte l’ostinazione e la fame. Tanta fame. Se c’era qualcuno che poteva dare la caccia a un cane selvatico, quelli erano proprio Tiger e Gabriel. E poi erano due abili arcieri, sarebbero sicuramente tornati senza problemi.  
Sarebbe voluto venire anche Christopher, un loro altro amico, ma non poté. «Verrei io con voi, ma devo badare al fuoco». Si scusò, che si era assunto questo compito da quando si era preso quel brutto raffreddore. Era uno dei ragazzi che si erano scostati per passargli il regalo. La coperta gettata sopra le spalle. 
«No Chris. È meglio se resti a badare al fuoco». Lo bloccò subito Fred in tono gentile. Il loro amico era un eccellente mastro focaio. Sapeva tenere viva la fiamma del focolare anche se aveva a disposizione soltanto un ciocco di legno già mezzo carbonizzato. Era stato lui a insegnare a tutti loro come prendersi cura di una fiamma. Aveva uno zio che vendeva legna per forni da pizza e caminetti. Era stato proprio lui a insegnargli. E lui aveva insegnato a loro quando erano naufragati.  
Alle ragazze non lo chiesero nemmeno. A tre di loro era stato affidato il compito di lavare i panni, mentre le altre tre preferivano raccogliere la frutta e legna. Solo che bisognava sempre dirglielo, se no o non l’avrebbero fatto o avrebbero chiesto: “Possiamo fare qualcosa?” Come se i ragazzi fossero stati i loro padroni. E questo metteva lui, Christopher e Bogdan un po’ a disagio. Gli altri neanche sembravano porsi questo problema.
Fred era indeciso se vederle come inette senza iniziativa oppure, come estremamente furbe. Perché con questa scusa, molte volte in passato si erano viste dare i compiti più leggeri. Eppure ognuna di loro sarebbe stata capace di pescare, maneggiare un’arma, intrecciare reti e corde, nuotare. Oltre che badare agli animali e al piccolo orto che stavano cercando di far crescere. Se non altro erano molto più efficienti di Sally, che piuttosto che fare qualcosa preferì restarsene in disparte. Se la ricordava bene anche adesso. Anche il suo atteggiamento. Per esempio quando chiese a uno dei marinai che raccoglieva la legna: «Perché fai questo?» Come se le avesse mollato una bastonata più che mettendo insieme una fascina. E Fred e gli altri bambini che erano con lui quel giorno, si erano sentiti cadere le braccia per l’imbarazzo. Dopo aver speso le prime settimane a giocare, perché erano stati i primi a riprendersi un po’, si erano dati da fare anche loro. Spesso andavano con un adulto di cui si fidavano a raccogliere legna e frutta, oppure badavano al fuoco, imparavano a cucinare, cucire quel poco che potevano usando fili o fili d’erba e aghi d’osso. Alcuni invece davano una mano a pescare. Nessuno di loro aveva ancora imparato a maneggiare i coltelli e, non solo perché non ce ne erano.
Anche il marinaio, il signor Jupiter, l’aveva guardata come a dire: “Scusa? Non ho capito”. Poi si era ripreso e aveva detto: «Come, prego?» E lì la ragazza era arrossita come un peperone ed era battuta in ritirata. Quello stesso pomeriggio aveva tenuto il broncio tutto il tempo alla sorellina e l’aveva incolpata della sua figuraccia. Claire corse via in lacrime e si rifugiò tra le braccia della madre, che era poco distante, intenta a intrecciare un cesto con le foglie di palma. Uno dei loro primi tentativi di crearsi dei recipienti.
Fred non seppe mai che cosa le disse per consolarla, ma quando la vide, la sua amichetta gli parve più forte di prima.  
Altre volte si era sentito giudicato dai loro sguardi. Se sulle prime si era sentito lusingato, crescendo, invece, era stato come essere un pezzo di carne sul banco del macellaio. E, a differenza di altri ragazzi era piuttosto timido, anche se non sembrava.
Fred odiava fare queste considerazioni. Non tanto per natura, o per amicizia, perché per lui erano come sorelle, anche se non andavano molto d’accordo. Quanto perché gli sembrava di tradire Jennifer Houston, la loro vecchia insegnante. Era stata la cantante della Fortuny prima che affondasse. Di lei ricordava la pelle scura come il cioccolato, i capelli vaporosi, la risata allegra e la sua premura. Oltre che, ovviamente, la bella voce con cui aveva allietato la loro traversata. Era stata lei a insegnare ai ragazzi molte cose. Non solo le nozioni scolastiche, ma anche quelle civiche e un po’di galateo. Ognuno di loro se si fosse trovato davanti a una vera e propria tavola, avrebbe saputo perfettamente usare le posate. Ne erano un chiaro esempio le posate d’osso e di conchiglie e legno che si erano costruiti. Oltre ai tavoli di bambù intrecciato che avevano messo dentro la caverna.  
Per esempio a non sfociare nel sessismo, nel razzismo e nel maschilismo. Forse Fred era stato uno dei pochi ad aver assimilato fino in fondo la sua lezione. Tante volte la donna aveva combattuto per evitare di essere sottomessa all’autorità dell’allora ventiduenne Conrad o di altri uomini. Lei era stata uno dei primi ad adattarsi all’isola. Se c’era da arrampicarsi su un albero per raggiungere una vedetta, lo faceva lei di sua iniziativa. Lei da sola era capace di farsi rispettare da molti uomini senza scadere nella volgarità o terrorizzarli. Era una donna che camminava insieme a loro. Anche sua madre l’aveva presa come esempio.
Fred l’aveva ammirata a tal punto che aveva deciso che semmai si fosse innamorato, avrebbe voluto un partner ugualmente forte. Poi lei era morta ed era stato come perdere un punto di riferimento per tutti.
Al momento non si era ancora innamorato ma stava bene anche così. Aveva altro a cui pensare.  Presero i loro cesti di vimini, gli arpioni e si avviarono. 
La spiaggia distava mezz’ora di cammino dalle cascate. Le cascate erano circondate da piante carnivore, faggi neri, canneti di bambù e fragraea, che fermava l’erosione del suolo. Se non ci fossero state, probabilmente il rischio sarebbe stato ancora maggiore.     
Si attraversava il sottobosco di felci e tronchetti della felicità, sotto a un tetto di qualche albero di papaya, mango, agrifogli di Highclere. Una specie di agrifoglio con foglie oblunghe, spinate a ovate o quasi rotonde, dai fiori piccoli e bianchi macchiati di viola. La vegetazione era molto variegata, c’erano anche alberi di legno a lancia dentata e ontani neri. Betula ermanii, un parente giapponese delle betulle, alberi di mimosa, il cui profumo permaneva anche nell’umidità. Hoheria glabrata e sexstylosa, cioè piante appartenenti alla famiglia delle malvaceae. La prima dalle foglie ovate, mentre la seconda lanceolate. Ma entrambe coi fiori bianchi con cinque petali riuniti in grappoli e vari tipi di eucalipti. Legni di sandalo rosso, che davano loro i semi, che erano commestibili se arrostiti, oppure per le collane e i braccialetti e le biglie. Ma anche baobab, che avevano imparato a raccoglierne i frutti in caso di diarrea, i semi per le malattie gengivali, sapone, tinta, colla e foraggio. Poi c’erano le pleuriti delle Molucche, le cui foglie bollite erano ottime per il mal di testa, ulcere e infiammazioni delle giunture, Bogdan e alti amavano le loro noci. Gli alberi di anacardi, le annone, grossi arbusti alti fino a sette metri che davano frutti dolci commestibili dal cui succo curavano lo scorbuto e fiori aromatici. I mandorli di Giava, le cassie indiane, i castanospermum, ma anche gli agrumi, cannella, canfora. Nei letti dei fiumi si potevano trovare le dillenie.   
Andando avanti si trovavano palme di chusan, pittosfori, ananassi, cactus, ma anche qualche albero d’albicocco e pesche. Ma anche meli dolci e cotogni, che erano sopravvissuti alla probabile colonizzazione. Chissà perché poi avevano abbandonato quest’isola. Solo la terra offriva tante ricchezze. In spiaggia non c’erano solo le palme da cocco e le palme betel o areca, le palme da zucchero, le carambole ma c’era pure un boschetto di pini marittimi. I marinai avevano detto loro che probabilmente in quest’isola doveva averci abitato qualcuno che li aveva piantati, altrimenti non sarebbero neanche dovuti esistere in quest’angolo di mondo. Era già tanto se fossero riusciti a crescere e a proliferare su quella parte di costa. Anche se a spese della flora locale. Il lato positivo era che avevano anche i pinoli e le pigne per il focolare. A Fred però piacevano di più i pini silvestri, cinesi e i pini neri giapponesi. Per questi ultimi era più probabile che ci avessero pensato gli uccelli migratori, più che gli esseri umani. Ma non ne era troppo sicuro neanche lui. Fatto sta che sembravano lì da molto tempo a giudicare dalla grandezza e dalla larghezza del tronco. 
Chiunque altro probabilmente non avrebbe saputo cosa farci con buona parte delle piante che si trovavano lì. Neanche le avrebbe riconosciute, ma non loro. Tra i naufraghi c’erano i signori Nightingale, ma per tutti furono un po’ come i nonnini dell’isola. Erano un’anziana coppia marito e moglie esperti di botanica e floricoltura in viaggio per portare quel libro al nipote in Australia per il matrimonio. Purtroppo erano morti, ma gli avevano lasciato il loro tesoro: il dono di nozze per il loro figlio e i ragazzi ne avevano fatto buon uso. Così erano riusciti a sopravvivere e ad andare avanti laddove molti altri si sarebbero arresi.
All’epoca Fred aveva nove anni.
Per loro sfortuna, a parte qualche zanzara, qualche serpente e ranocchia che non riuscirono a catturare, non trovarono altro. Anche gli uccelli e le scimmie quel giorno sembravano essersi volatilizzati. Neanche i ratti erano visibili. Sentivano i loro versi, ma non li vedevano, neanche Fred ci riusciva. E dire che di nebbia ce ne era pochissima grazie ai raggi del sole che andava scaldando l’aria. Ma doveva fare attenzione anche a dove mettevano i piedi, non potevano mai sapere che pericoli nascondesse il sottobosco.
Non riempirono il tragitto di parole superflue, anche se stavano andando a pesca, potevano sempre imbattersi in una preda. A dispetto delle apparenze, poi, Bogdan era un bravo cacciatore. Con la sua fionda riusciva a colpire alla perfezione il suo bersaglio.
Non l’avrebbe mai confessato ad anima viva, ma c’erano dei giorni in cui amava la loro casa.
Arrivarono alla spiaggia senza grossi problemi.
I ragazzi che vivevano sulla spiaggia erano forse più uniti di quelli delle cascate. Fred non aveva capito come facessero, ma erano riusciti a trovare un’armonia e una convivenza invidiabile. Certo non mancavano i litigi, in fondo l’isola era piccola e le voci arrivavano, ma la cooperazione tra loro era qualcosa di unico. Tutti e ventiquattro erano molto legati tra loro, ma nessuno condivideva un legame tanto forte come quello che intercorreva tra i Pescatori.
Avevano costruito le loro capanne su piattaforme sopraelevate utilizzando i tronchi degli alberi più grandi come colonne portanti. Erano degli eccellenti arrampicatori e non avevano paura di saltare di ramo in ramo, se necessario. Le loro capanne erano le più solide di tutta l’isola. Ma si vedeva che tempo prima, li avevano costruite gli adulti. Anche perché già una volta avevano provato gli effetti della marea. Quella parte di spiaggia finiva quasi sempre per essere sommersa, durante i giorni di mare mosso o di alta marea. Fortunatamente, questo non era uno di quei giorni.
«Ehi, guarda chi c’è! Ciao, Fred, ciao Bogdan!» Urlò una voce maschile dalla cima di un albero. I due alzarono il capo e salutarono Samuel, che ricambiò con un sorriso a trentadue denti. Era più grande di loro di tre anni, ed era alto e di corporatura robusta di natura. Accanto a lui c’erano Celeste, che li salutò a sua volta. Celeste era la maggiore delle sei ragazze che vivevano alle cascate. Aveva compiuto diciotto anni da due mesi. Le altre erano Brandy, Joanna, Ida, Celine e Zaira. Bogdan ricambiò e poi, Fred: «Ehi, ma tu non dovevi raccogliere della frutta?» Chiese confuso.
«Sì, Sam mi sta dando una mano». Ribatté lei con una risatina maliziosa. Le guance rosate. Aveva la rosacea, quindi non si riusciva mai a capire se fosse intimidita o se stesse facendo altro. «E che ci fai lassù? Non soffrivi di vertigini?» A queste parole la ragazza si rese conto di dove si trovava e cacciò uno strillo che fece sollevare in volo alcuni uccelli. Sam l’agguantò prima che cadesse di sotto e se la strinse al petto. Poi girò il capo verso di loro e li fulminò con lo sguardo. «Complimenti, ero quasi riuscito a fargliela dimenticare. Adesso mi ci vorrà un’altra ora per calmarla». Le vertigini di Celeste purtroppo nascevano da un trauma. Anni prima era caduta da un albero e si era rotta un braccio. Da allora aveva sviluppato la fobia delle altezze. Ma non pensavano che la ragazza stesse cercando di superare questo problema. Cioè, l’avevano vista crucciarsi molte volte perché tutti si arrampicavano senza problemi tranne lei. Alcune volte invece se ne era proprio lamentata apertamente.
«Scusa. Comunque sono contento che tu stia cercando di superare la tua paura». Disse, cercando di metterci una pezza. Ma lei non rispose. Ci pensò Samuel a ripeterglielo, ma neanche lui ebbe una risposta. E riferì il triste verdetto ai ragazzi. I quali, dopo un attimo di imbarazzo, salutarono di nuovo e li lasciarono da soli. Ma il ragazzo li richiamò per fare gli auguri a Fred. Solo allora li lasciò andare per davvero.
Appena furono fuori portata, Bogdan dette un colpetto alle costole di Fred e poi scoppiò a ridere. Il ragazzo ricambiò e poi rise anche lui, contagiato. «Superare le sue paure. Ma tu ci credi?»
«Perché, tu no?»
«Per me sotto c’è qualcos’altro». 
«Sicuro?»
«Fidati, io ho occhio per queste cose». Si vantò l’amico calandosi un momento la palpebra inferiore dell’occhio sinistro per sottolineare le sue parole.  Fred scosse il capo divertito e tornò a guardare avanti.
«Ehi, allora Samuel non ci stava prendendo in giro quando diceva che eravate qui!» Esclamò una voce femminile in alto alla loro sinistra, quando passarono accanto a una capanna. A volte Samuel si divertiva a prendere in giro i compagni “avvistando cose che non c’erano”. L’ultima volta era stato di notte, durante il suo turno di guardia. Aveva urlato “Godzilla! Godzilla!” Lo scherzo era riuscito alla perfezione e Samuel si era rotolato in due dalle risate. E quando l’avevano trovato che stava ancora ridendo, qualcuno gli aveva dato dei calci nel sedere e nello stomaco.
Ma dubitavano tutti che bastasse a convincerlo di smetterla di fare altri scherzi. Comunque il ragazzo l’aveva presa bene: “Eh, quanto se la prendono, possibile che non abbiano il senso dell’umorismo?”
«Ciao, Kelani». Kelani era di origine polinesiana ma era imbarcata anche lei sulla Fortuny quando naufragò. Tra tutti sembrava quella meno fuori posto. Appoggiata alla balaustra di canne di bambù, stava mangiando un frutto. Altri ragazzi sbucarono dagli alberi circostanti o girarono le teste verso i nuovi arrivati e li salutarono. Anche loro tenevano sempre un fuoco acceso. Più di tutti conoscevano l’importanza dello stare asciutti in un luogo come questo. Ricordavano perfettamente come l’umidità li avesse fatti stare male i primi tempi sull’isola.  
«Allora, come ci si sente a essere più vecchi di un anno?» Chiese la ragazza, sorridendo dopo aver inghiottito. I denti dello stesso colore della polpa del frutto e le braccia scure incrociate sulla balaustra.
«Stanchi, ma grazie». Sorrise il festeggiato, poi, fece un passo avanti e le domandò, più serio: «Senti, hai visto Claire?» Il cuore che gli batteva forte, nella speranza che dicesse di sì.
«Mi dispiace, no. É uscita stamattina presto prima che mi svegliassi». Fred abbassò il capo e sospirò. Da un pezzo a questa parte la ragazza aveva preso l’abitudine di uscire presto pur di non incontrarlo. Perché faceva così? Lui non le aveva fatto niente. In tutti questi anni, da quando avevano compiuto i dieci anni, era sempre stata lei a evitarlo. Eppure non gli aveva fatto alcun torto. Rialzò la testa e le chiese ugualmente se sapesse dove fosse andata. L’amica scosse il capo. Poi ci pensò e aggiunse che probabilmente era andata a caccia.
Un sorriso amaro curvò la bocca di Fred. Non poteva aspettarsi niente di diverso. Era dalla morte del signor Stewart, che la ragazzina aveva deciso di diventare più forte. “Non voglio essere di peso a nessuno”, aveva detto quel giorno, come se fosse bastato per spiegare tutto. Poi era scappata via. Conrad l’aveva appoggiata e aveva spiegato a Fred la questione a parole più comprensibili. Dopodiché gli aveva consegnato una manciata di biglie. Il ragazzino aveva accettato a malincuore, anche se nel prenderle si era sentito come se la stesse tradendo. 
Da allora si era impegnata per diventare forse la cacciatrice più abile di tutti. Probabilmente, se avesse deciso di distaccarsi completamente dal gruppo, sarebbe anche riuscita a cavarsela da sola nella boscaglia. Restava soltanto perché così poteva dare una mano agli altri. Nel suo diventare forte non aveva scordato la generosità. I Pescatori la vedevano come il loro punto di riferimento, la loro roccia, anche se lei era inafferrabile come uno sbuffo di vento. Quegli occhi da gatta, ormai, sembravano puntare sempre al di là di quello che guardava. Era come se guardasse sempre oltre, all’orizzonte o al futuro.  Proiettata sempre un passo avanti. O almeno era questa la sensazione che comunicava. Ma il ragazzo per quanto si tendesse verso di lei, era sempre troppo lontano.
Se questa era la volontà di Claire non poteva farci niente. Ma le mancava davvero.
Bogdan lo richiamò alla realtà: «Ehi, Fred, vieni?»
«Sì, arrivo. Se la vedi…» Iniziò ma l’altra roteò gli occhi, annoiata e lo interruppe prontamente, recitando a memoria: «Sì, lo so, lo so. Ora vai o i pesci scapperanno via». Soggiunse cacciandolo bonariamente con uno svolazzo della mano libera. Il giovane curvò le labbra in un sorriso rinfrancato e raggiunse l’amico sulla spiaggia. Si tolse la camicia e, restando in pantaloni. Si assicurò per l’ennesima volta il coltello alla cintura ed entrò in acqua, bagnandosi gradualmente per abituarsi alla temperatura. Anche se si trovavano nell’emisfero australe, l’acqua si raffreddava e scaldava come in quello boreale.   
Affiancò l’amico. «Pronto, Fred?»
«Pronto, George!» Esclamò di rimando, cercando di ritrovare un po’ dell’allegria iniziale. Bogdan scoppiò a ridere per la citazione. Poi presero una bella boccata d’aria e si tuffarono.
Ne valeva sempre la pena di fare un tuffo per vedere la barriera corallina. Una volta alle elementari, la maestra disse a Fred che sott’acqua era come in superficie, ed era vero. Da quando era qui aveva scoperto intere foreste di alghe, prati simili a quelli che popolavano i suoi ricordi della civiltà. Alberi veri e propri, spugne, fiori marini di vari splendidi colori. In quelle acque semitrasparenti, Fred capiva come doveva sentirsi uno spirito nel vento. Era come se volasse. Col tempo aveva imparato a nuotare in apnea e aveva smesso di usare le braccia per aiutarsi, scoprendo che, se batteva i piedi all’unisono e faceva una specie di onda col busto, si dava una leggera spinta per andare avanti. Come se fosse stato un tritone delle favole. Nuotava spesso accanto ai pesci pagliaccio, che si rifugiavano nei loro anemoni, ai pesi chirurgo neri e blu con le pinne gialle. A pesci bicolori gialli e blu, o gialli e viola. Oppure arancioni con curiose striature nere sui fianchi. Banchi di pesci dello stesso colore del gelato alla vaniglia o delle fiamme: dal dorso dei colori del tramonto e la pancia e la testa scura. Pesci angelo neri striati di blu o con le loro bande bianche, violette e blu, i pesci angeli azzurri. Solo per citarne alcuni.
Una volta aveva avuto un incontro ravvicinato anche con una piovra. Quelli che più gli erano rimasti impressi, erano quelli con il barracuda, i pesci cobra, scorpione e le murene. I più curiosi invece erano i sygnathoides biaculeatus, una specie di ippocampo srotolato verde dalla coda prensile, il corpo cilindrico. Ovviamente aveva visto anche gli ippocampi e i pesci palla e i pesci rasoio. Fred aveva sempre amato l’oceano e le sue meraviglie, ma oggi non ci pensò troppo: erano qui soprattutto per fare incetta di conchiglie. Avevano voglia di un bel fritto misto, dato che era da un po’che non ne mangiavano e, sicuramente il mare pullulava di nuovi nati. Avevano imparato a pazientare anche su questo.
Anche se entrambi avevano sviluppato una buona capacità polmonare, dovettero emergere molte volte per respirare: «Uh, sembra che oggi l’oceano sia clemente!» Esclamò allegro Bogdan girandosi verso di lui.
«Eh, sì, era da tanto che non trovavamo tutti questi ricci di mare».
«Hai visto se ci sono anche le ostriche?» Domandò speranzoso con gli occhi brillanti: ne andava matto.  Ma l’amico scosse il capo e si tolse i capelli dalla faccia con la mano: «No, adesso scendo e guardo».
«Ti seguo!» E si rituffarono.     
Purtroppo di ostriche non ne trovarono. In compenso avvistarono un polpo vicino alla scogliera a est e lo agguantarono. Fu una dura battaglia ma alla fine ebbero la meglio. Riposero il polpo nel cesto assieme ai molluschi e i pesci catturati e poi, Bogdan tornò alle cascate.
«Tu non vieni?» Chiese all’amico.
«No, io resto qui».
«Ok, a dopo. Mi raccomando che stasera si fa festa».
Il ragazzo smise di sfregarsi la testa con il telo e ribatté: «Non vedo l’ora!» Poi l’amico lo salutò e s’addentrò nella foresta, scortato da Samuel e Celeste, che nel frattempo erano scesi. Smisero di litigare un momento per salutarlo. «Per cosa stanno litigando?» Chiese a Kelani che si era accomodata accanto a lui su una stuoia vicino al focolare.
Una folata di vento gli carezzò le spalle e il ragazzo rabbrividì. Si strinse nel telo e si avvicinò più che poté alle fiamme, cercando di non uscire dalla stuoia.  «Ah, secondo lei lui fa volare via tutte le sterne e lui ribatte sempre che è colpa sua. L’ultima volta che lei ha provato s’è scoperta allergica alle piume e quindi ha starnutito così forte, da farle fuggire tutte. Ma Celeste non lo accetta e quindi lo accusa di essere stato lui». E tutti sapevano quanto la loro amica potesse essere assillante. Continuò la ragazza come se lo fosse ricordato solo adesso. Fred non lo invidiò per nulla.   
«Dove sono i piccoli?» Chiese poi, quando si fu scaldato e asciugato un po’.
«Stanno ancora dormendo, vuoi che vada a svegliarli?» S’offrì.
«No, lasciali dormire, deve essere stato difficile per loro con tutti i fulmini e i temporali».
«Credo che ormai ci siano abituati». Ma il modo in cui distolse lo sguardo aveva qualcosa di strano. La vide morsicarsi l’interno della guancia e fare la spola da lui alle fiamme. Fred la guardò confuso e domandò: «Che c’è?»
«Niente, te lo dico dopo».


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Capitolo 6
*** Mi daranno riparo ***


Mi daranno riparo



Mentre camminava pensò di fare un salto al cimitero. Era a metà strada tra i tre villaggi e lì riposavano i corpi dei sopravvissuti. Perciò deviò dal suo cammino e si recò laggiù.
Il luogo di riposo era situato in mezzo a una radura verdeggiante. Probabilmente gli alberi e le piante succhiavano il nutrimento dai corpi perché a volte avevano un colorito rossastro. Come se al posto della linfa avessero il sangue. Ma dopo un po’a queste stranezze ci si faceva anche l’abitudine.
Sui tumuli era cresciuta l’erba e una croce di canne era piantata in terra. Stava per entrare nel cimitero quando si fermò. Con la coda dell’occhio vide dei fiori. Girò la testa a destra e vide che erano dei fiori di zenzero. Ma sì, non sarebbe stato brutto portare un omaggio.
Si avvicinò alla pianta ed estrasse il coltello dalla bisaccia. Poi tagliò i fiori. Ma sarebbero bastati? Proprio in quel momento gli arrivò alle narici un altro profumo. Alzò lo sguardo anche i gelsomini e gli alberi del rosario. Ne raccolse alcuni rami e viticci e, sedendosi all’ombra di un albero, intrecciò delle corone. Quando finì aveva le mani impiastricciate ma anche dei doni. Si rialzò e, con questi omaggi entrò nel cimitero.
Il rumore circostante della giungla lo rendeva più vivo di quanto non sembrasse. E Claire ne era felice. I defunti non avrebbero potuto sperare di essere sepolti in un luogo migliore. Ascoltavano il cinguettio degli uccelli, i versi striduli dei parrocchetti e lo squittire delle scimmiette. Erano baciati dai caldi raggi del sole il giorno e la notte potevano osservare la luna. Erano veramente parte della Terra, adesso.
Arrivò presto alle tombe della sua famiglia e s’inginocchiò: «Ciao mamma, ciao papà, ciao Sally». Nonostante il caratteraccio della sorella, lei non le portava alcun rancore. L’affetto che le aveva riservato era stato tanto grande da impedirle di odiarla allora. Ora che era morta invece non era proprio il caso.     
«Pensavate che mi fossi scordata di voi, eh? Guardate, vi ho portato delle cose. Le ho fatte io, spero che vi piacciano». Fece deponendo le corone sui sepolcri. Ma non era la stessa cosa che nella laguna. Là sì che le sembrava di non essere mai da sola, ma qui non poteva fare a meno di pensare a quanto in realtà lo fosse. Anche se lì c’erano le ceneri della sua famiglia, erano solo i resti delle loro spoglie mortali. Loro non erano veramente lì. Un senso di freddezza si spanse nel suo petto ed ebbe voglia di andare via, ma non lo fece. Era da un po’che non veniva lì. Anche se nessuno l’avrebbe rimproverata se non fosse riuscita a sopportarlo. Passò qualche minuto in compagnia delle tombe, prima di salutarli e passare alle tombe della famiglia Waleran e passare un po’di tempo anche davanti a loro. Si accorse che le tombe erano vuote: Frederick non doveva essere ancora venuto a trovarli. Si chiese perché di tanta incuria, ma non si interrogò troppo, in fondo erano affari suoi e non sentiva la necessità di dirglielo. A prescindere che fosse stato il suo compleanno o no.
«Mi dispiace di non averti portato niente con cui giocare, Luc. Ma non sono proprio riuscita a intagliare nulla». Spiegò lei quando depose la sua corona sulla tomba del suo amico. Era morto a dodici anni per una ferita infetta. Claire aveva provato ad aiutare Jennifer a salvarlo, ma le loro cure si erano rivelate insufficienti. «Non è la stessa cosa senza di te, le giornate sono più grigie. Oh, sì, i colori ci sono», fece guardandosi intorno, sia per controllare che non ci fossero predatori, sia per guardare la vegetazione splendente sotto i raggi del sole. Poi tornò a guardare la tomba e concluse: «Ma senza di te non è la stessa cosa». Morendo si era portato via parte della sua infanzia e della sua spensieratezza.  E lei non glielo avrebbe mai perdonato. Si rivolse alla tomba della signora Waleran: «Ma tu ora sei in un posto migliore. Scusa zia, ma a volte credo che non gli faccia male ripeterglielo. Bè, io vado, ciao». Salutò poi.
E se ne andò. In realtà aveva preparato un altro gioiello di fiori. Ma non c’erano tombe per lei qui. Jennifer aveva chiesto che le sue ceneri venissero sparse nel vento. Ma lei la sentiva vicina ogni volta che cantava. Perciò cantò una melodia a mezza voce, mentre tornava alla spiaggia. Sotto le piante callose dei piedi cominciò a sentire i primi granelli di sabbia. Era vicina.       

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Capitolo 7
*** Cibo e acqua ***


Cibo e acqua



Una farfalla gialla svolazzò davanti a lui battendo le ali. Lui aveva sempre avuto paura per le farfalle: il ritmo spezzato e delicato del loro volo gli aveva fatto sempre pensare alla caducità della vita. In un certo senso erano molto più simile agli esseri umani di quanto non sembrasse. Ed era sempre sollevato quando riuscivano a compiere un volo ben più lungo di quanto immaginasse. Come le farfalle monarche, che migravano in tutto il mondo alla ricerca del caldo, sorvolando anche gli oceani.
E poi a lei si unì uno splendido morfo blu. «Fred». Lo chiamò una voce femminile e il ragazzo si riscosse. Quando si era addormentato? Si stropicciò le palpebre con una mano, si girò supino e aprì gli occhi, mettendo a fuoco la faccia di Kelani. «Sveglia dormiglione, non sei un po’troppo cresciuto per il sonnellino pomeridiano?» Lo prese bonariamente in giro, sorridendo divertita. Fred notò che si era data una ripulita ai denti. Una corona di fiori d’acacia invece adornava la sua chioma nera.
«Eh? Ah, sì, devo essermi assopito mentre pensavo». Il giovane si mise seduto, appoggiando la schiena al tronco della palma. Si era rilassato troppo. «Davvero? A cosa pensavi?» Chiese l’altra inginocchiandosi sui talloni.
«Ah, boh? Chi se lo ricorda, che ore sono?» Non aveva fame, era abituato a razionare il cibo.
«Le quattro». Lo sapevano perché avevano le meridiane.
Il ragazzo trasalì: «Accidenti ho dormito troppo, devo tornare alle cascate!» Fece per balzare in piedi ma lei gli mise le mani sulle spalle e lo rimise seduto: «Eh, no, signorino, tu resti qui, i bambini vogliono passare la giornata con te, visto che è da tanto che non ti vedono».
«Cosa? Ma dai, io…»
«Su che ti adorano, non vorrai farceli rimanere male». Lo persuase con un sorriso allegro, così si avviò dai più piccoli. Erano un gruppetto di otto bambini, e quattro adolescenti, cioè Claire, Kelani, Samuel e Will. Avevano convenuto tutti di comune accordo che il luogo migliore dove farli crescere fosse proprio la costa. Sicché fosse passato qualcuno, sarebbero stati i primi a essere soccorsi. Ma di navi all’orizzonte non ne erano mai passate in tutti questi anni. Aerei non ne parliamo neanche. Alla fine avevano anche smantellato i falò di segnalazione.
Il giovane roteò gli occhi annoiato ma fece come gli aveva chiesto l’amica. Adorava quei bambini, però era veramente stanco. E quegli scalmanati erano sempre pieni di energia, come se avessero una batteria illimitata. Non era neanche difficile capire dove fossero, il loro vociare allegro si sentiva anche dalla spiaggia.  
I bambini erano radunati attorno al fuoco. Quando lo videro arrivare gli corsero incontro e lo abbracciarono, tempestandolo di domande, sorrisi. Alcuni fecero anche a gara per essere presi in braccio. «Ehi, piccoli scatenati!» Prese in braccio una delle bambine.
«Allora, avete fatto i bravi mentre non c’ero? Non avete fatto dannare nessuno, vero?»
E si levò un coro di sì.  
«Giochiamo a Lupin?» Propose una vocetta. Purtroppo era l’unico anime che il ragazzo riuscisse a ricordare, perciò gliel’aveva raccontato e qualche volta avevano anche provato a inscenarlo con i più grandi. Nonostante tutto però, Fred non era un attore, ma i più piccoli sembravano non conoscere la differenza, perciò andava bene. Erano i suoi recensori migliori. Il loro gioco preferito era mimare insieme a loro la cosa, come se fossero piccoli attori teatrali. Perciò, sotto le sue direttive, riuscirono a mimare l’episodio in cui Lupin mette nel sacco tre detective e ruba la Lacrima di Dracula. Lo splendido rubino rosso che il conte Gabriel teneva nella sua orbita, dietro la lente del monocolo.  
Ma visto che di Gabriel ne conoscevano uno solo, bè, Fred non vedeva l’ora che i ragazzini andassero a tormentarlo. Avrebbe voluto raccontargli di Dragon Ball, ma da piccolo aveva visto sì e no due episodi in ordine sparso.
Era quasi alla scena clou quando uno dei bambini, il piccolo Ian, prese a tossire senza smettere. Lì per lì pensò che gli fosse andato qualcosa di traverso. Si fermò e s’inginocchiò per battergli una mano sulla schiena ma si fermò. Il piccolo aveva l’aria stanca ed era arrossato. Gli mise una mano sulla fonte. «Ma tu hai la febbre, non credi che sarebbe meglio tornare a letto?» Chiese Fred togliendo la mano. Ian mise il broncio e lo guardò con i suoi occhietti neri: «Sì, ma passa presto». Garantì. Il più grande lo guardò come a dire: “Cala cala, Merlino” e ribadì: «Non dovresti andare a giro conciato così».
«Ma io sono forte». Ribadì convinto il piccolo. Fred sospirò. Capì che se fossero andati avanti così non avrebbero risolto niente. Allora cambiò strategia. «Sì è vero, sei forte, ma mi renderai davvero felice se tu te ne stessi a letto. Dopotutto è il mio compleanno, non vuoi farmi questo regalo?» E lì lo vide tentennare. Ci pensò su, portandosi l’indice alla bocca. Alla fine lo guardò di nuovo e ribatté piagnucoloso: «Ma così non potrò stare con te».
«Sì che ci starai, io starò nella capanna con te, va bene?» Fece prendendolo in braccio. Il bambino si strinse a lui, tutto felice. «Sì!» Esclamò. E il ragazzo li riaccompagnò tutti alla capanna più vicina. In realtà dormivano tutti a gruppi di due con uno dei più grandi, ma pensò che fosse meglio farli restare uniti. Ian non era l’unico a stare male.
«Sai quando torna Claire?» Chiese una bambina che zampettava vicino a lui. Il ragazzo lo guardò sconsolato, prima di ribattere: «No. Non saprei».
«Aveva detto che sarebbe tornata presto». Continuò la piccola Martha stropicciandosi gli occhietti assonnati. «Deve ancora portarci la frutta».
«La frutta ve la porto io se volete, ma adesso tutti nella capanna. Non possiamo rischiare che prendiate freddo». Perché non se ne era accorto prima? Maledisse la sua stupidità. Avrebbe dovuto accorgersi che erano malati, così avrebbe evitato di farli sudare.
Le capanne di tutti erano abbastanza piccole per una persona e qualche bambino, ma erano calde, rivestite com’erano di foglie e di teli, Non c’erano posti più caldi di quelli, neanche d’inverno. Al massimo riscaldavano la stanza accendendo un piccolo braciere dentro la capanna in inverno. Tutte le capanne dei Pescatori avevano questa particolarità. Oltre al fatto di essere rivestite e rinforzate con il legno. Non trattato come quello dei falegnami, ma comunque sempre legno era. Inoltre i giacigli somigliavano a veri e propri nidi. Avevano usato anche vecchi stracci e vestiti appartenuti ai defunti ed erano riusciti a fabbricare delle reti dalla maglia stretta che usavano come zanzariera. Per fortuna questa capanna era vuota. Non sapeva a chi appartenesse ma era sicuro che al proprietario non sarebbe dispiaciuto. I bambini si sistemarono tutti nel giaciglio come pulcini di un nido e in quel momento il ragazzo ebbe una gran voglia di abbracciarli. Erano così teneri. In un certo senso si sentiva quasi più che una specie di fratello maggiore per loro. Tutti loro erano contenti che i bambini piccoli non soffrissero di solitudine o sentissero la mancanza dei genitori. Avevano fatto del loro meglio per alleviare questa sofferenza. Per contro si erano ritrovati legatissimi a questi pulcini. E Fred era uno dei preferiti. In quel momento capì che i bambini si erano stancati solo per giocare con lui. Ma la cosa non gli fece per nulla piacere. Ricordava di aver fatto passare così una febbre anche lui, ma la faccenda era diversa. Non erano in un ambiente sicuro e riscaldato ma su una maledetta isola. Disse che andava a prendere qualcosa da mangiare e se ne andò. Tornò con un po’di agrumi freschi presi dalla bisaccia di Claire e un coltello. Li tagliò per loro e distribuì i pezzetti. Più che di agrumi veri e propri si doveva parlare di lime. I bambini lasciarono da parte le piccole bucce, facendo espressioni disgustate per l’asprezza. Il ragazzo si risparmiò la battuta: “E meno male che non conoscete i limoni”. Era già successo una volta che gli dovesse spiegare che cosa fossero. Su quell’isola non c’erano piante di limoni, a quelle latitudini non cresceva. Si pulì la mano ai pantaloni asciutti l’allungò per scompigliare i capelli della testolina più vicina. «Avreste dovuto dirmelo che stavate male».
«Ma noi volevamo giocare con te».
«Non dovevate, dovevate dirmi no, guarda, oggi siamo stanchi».
«Pensavamo che tu lo sapessi». Mentì uno di loro. Il ragazzo fece finta di crederci. Incrociò le braccia, accomodato sul pavimento della capanna: «Non posso sapere sempre tutto».
«Ma tu sai tutto». Ribatterono in coro Martha e Ian. Fred dovette trattenere una risata se no il suo rimprovero non avrebbe sortito alcun effetto. Ci riuscì, non senza qualche difficoltà. Poi, con delicatezza, gli fece capire che avevano sbagliato e che non ce l’aveva con loro. Poi li fece appisolare. Non fu troppo difficile, erano esausti. Quando fu sicuro che stessero dormendo e che fossero ben coperti, uscì dalla capanna e andò in cerca di Kelani.
La trovò vicino a un torrentello che scorreva sulla sabbia. Stava sciacquando una noce di cocco che usava a mo’di pentola. Il ragazzo le restituì il coltello e poi le domandò, irritato: «Perché non mi hai detto subito che sono malati?»
«Non volevamo farti preoccupare. Lo so, è stato stupido da parte nostra però ce ne stiamo già occupando noi. Claire resta con loro giorno e notte. É soprattutto lei a fare in modo che si riprendano più velocemente. I bambini l’adorano». Era il discorso più stupido e contraddittorio che avesse mai sentito. Non era stupido, ricordava perfettamente che cosa si erano dette quando si erano riviste. Non era la prima volta che ometteva delle cose e, se messa sotto torchio, avrebbe finito per avere una crisi isterica. Era già successo in passato e lui non voleva provarla. Ci pensavano già l’angoscia e la paura. La mora, infatti, soffriva di nervi da molto tempo. Incrociò le braccia. «Non ho dubbi, fatto sta che dovevate dircelo lo stesso, non sono forti come noi».
La ragazza smise di lavare gli oggetti e sospirò. «Sì, è vero, scusami». Lui non disse niente. In fondo la capiva. Ma aveva visto morire già troppa gente, non voleva che altri morissero di stenti e malattie. Era già tanto che fossero arrivati all’età di sei anni. Erano i figli dei superstiti della Fortuny, in fondo. E poi in un certo senso gli ricordavano Lucas. Ma Lucas non era riuscito a salvarlo. Non avrebbe mai permesso che altri bambini morissero senza una ragione.  
«Per il momento cercate di tenerli al caldo e di farli riposare in un ambiente il più possibile pulito». Si raccomandò soltanto. L’amica si rialzò. Il guscio di noce di cocco e il coltello sotto braccio.  
«Sì. Sai, anch’io alle volte vorrei andarmene da qui». Confessò lei con voce accalorata guardando l’orizzonte. Era un argomento tabù. Conrad non voleva che ne parlassero, ma in quel momento erano soli e lui non aveva occhi e orecchie dappertutto. Con il sottofondo delle onde non c’era alcun problema. Tutti loro ne parlavano spesso di andarsene. Addirittura quelli delle mangrovie stavano lavorando in segreto per costruire delle zattere. 
«Anch’io penso che sarebbe meglio. Almeno potremmo trovare le cure necessarie e vaccinarli e degli aiuti anche per noi». Concordò. Per quanto amasse quel posto, la salute era più importante. Se non ci fossero stati e se non avessero mai saputo avrebbero anche potuto continuare a vivere qui, ma c’erano. Meritavano una vita vera, dei genitori, una casa non una vita dura, spietata e all’insegna della sopravvivenza. Lui la sua vecchia vita se la ricordava a malapena, ma era sicuro che fosse meno dura di questa. O almeno se lo augurava.
«Credi che ne abbiano bisogno?» Domandò con una punta di angoscia nella voce, traendolo fuori dai suoi pensieri.
«Probabilmente sì, alcuni di loro sono nati qui sull’isola, non hanno mai ricevuto i vaccini e sviluppato gli anticorpi come noi. É già tanto se siamo riusciti a curarli dalla varicella e la scarlattina. Se fosse morbillo o meningite non avrei proprio idea di come fare. Non oso immaginare se fosse un’infezione. Hanno bisogno di cure vere, non possiamo andare avanti così».
«La corteccia del baobab non è sufficiente?» Propose la ragazza, ansiosa di trovare una soluzione con quello che avevano già.
Il ragazzo ci rifletté un po’ prima di scuotere il capo, preoccupato. Neanche sapevano ancora cosa avevano. Fece per dire qualcos’altro ma una voce femminile la interruppe: «Kelly!»
Il cuore di Fred perse un battito. «Claire!» Kelani le corse incontro e l’abbracciò tempestandola di baci e di domande. La ragazza ricambiò la stretta e si lasciò baciare. «Dai, su, neanche fossi stata via un anno! Ahio, mi fai male, smettila di sfregarmi i capelli. Dai, Kelly!» Rise. Kelani e Claire erano molto legate, proprio come sorelle. «Mi hai fatto preoccupare lo stesso, stupidotta. Sei stata via sei giorni sotto al temporale, senza darci tue notizie e… Ah! Vieni qui, fatti abbracciare». 
Fred girò lentamente il capo dalla loro parte. Aveva paura che se l’avesse guardata sarebbe sparita eppure non riusciva a imporsi di non farlo. E vide le due amiche abbracciate e il contrasto tra i capelli scuri come l’ebano e la pelle color caffè di Kelani e i colori chiari di Claire. Non era appariscente come le altre ragazze: aveva il naso lungo come se le fosse cresciuto troppo in fretta. Le orecchie grandi e leggermente appuntite come quelle di un lupo. Il volto ovale dal mento acuminato. La fronte bassa nascosta dalla cortina della frangia che quando la scostava rivelava le sopracciglia spesse e due occhi di un colore nebbioso. La bocca carnosa che stonava con i suoi tratti marcati. Non era formosa o particolarmente alta. Non portava più i codini, adesso i suoi capelli erano legati in una coda alta che le copriva parte del petto fino allo sterno, dando più volume alla chioma. Tranne quattro ciocche intrecciate a coppie di due, due davanti e due dietro. Quelle davanti le scivolavano ai lati del volto, le altre due le scendevano dietro la schiena. I capelli erano schiariti a causa di tutte le giornate passate sotto al sole. La sua pelle diafana aveva assunto una sfumatura crema come quella di un biscotto e sulle guance, il collo e le spalle erano spuntate delle lentiggini dorate. Nella piena luce sembrava sul punto di scomparire da un momento all’altro. 
Più volte Fred, nel corso degli anni, era rimasto incantato a fissarla, mentre lavoravano. Così come molti altri ragazzi e anche ragazze. Se fossero stati in Sandokan, lei sarebbe stata la Perla di Labuan. 
Portava in spalla il suo arco e le sue frecce e il coltello alla cintura. Una mantella di foglie le copriva le spalle. Finora era andato avanti accontentandosi di osservarla da lontano. Il suo cuore accelerò i battiti.
Ma anche lui era cambiato. Non era più il bambino dai capelli a fungo che la prendeva scherzosamente in giro. Adesso era quasi un uomo. La giungla e l’isola gli avevano dato un corpo molto più forte e più sano di quello di altra gente. Era agile e svelto. I capelli gli erano cresciuti molto e adesso gli coprivano le scapole, lunghi e lisci, quasi dritti come spaghetti. Era più alto di lei, che, comunque gli arrivava all’incavo del collo. Eppure si sentiva ancora il bambino di dodici anni prima. Si girò completamente verso di lei, ma le sue gambe non si schiodarono da lì. Perciò si limitò a guardare le due amiche. La bocca incurvata in un sorriso sollevato. «Si può sapere dove sei stata?»
«A caccia, che domande. Scusa il ritardo gli ultimi giorni sono stati i più tremendi. Veniva così fitta che mi era impossibile muovermi». E le mostrò la bisaccia. Da dove si trovava Fred non poté vederne il contenuto, ma a giudicare dalla reazione entusiasta di Kelani, doveva aver preso un bel bottino. «Ma è fantastico, hai trovato anche le foglie di palma giglio!» La palma giglio era una pianta le cui foglie insaporivano riso. Ma loro la usavano per avvolgere il pesce prima di arrostirlo. La parte più buona però erano le radici. Ma era anche con quelle foglie che facevano le gonne. Proprio come gli hawaiani. «Non ci credo, sono uova!»
La ragazza richiuse la borsa e la risistemò sul fianco. Poi si ricordò di qualcos’altro perché disse: «Ah, e c’è anche questo». Frugò nella borsa ed estrasse una conchiglia, «Per la tua collezione». Kelani fece i salti di gioia, esultò e non la finì più di ringraziarla. «E poi dici che non porto mai niente, eh?» La schernì sorridendo bonaria la cacciatrice.
«Smettila di strillare o sveglierai i bambini!» L’ammonì Fred divertito e solo allora le due lo guardarono. La ragazza si tappò istintivamente la bocca. Se ne era completamente dimenticata. Solo allora le sue gambe si schiodarono dalla sabbia e gli permisero di andare incontro alla nuova arrivata. «Dopo tutta la fatica che ho fatto per farli addormentare non vorrete mandare all’aria i miei sforzi». Disse a mo’ di saluto. 
«Ciao». Ricambiò lei, e le sue guance si tinsero di un leggero colorito rosato. Kelani, sentendosi di troppo, si accomiatò buttando lì una scusa.
«É da un po’che non ci vediamo». Buttò lì il ragazzo, per sondare il terreno. Cacciò le mani in tasca. Forse era la volta buona che sarebbe riuscito a parlarle.
«Sì».  
«Come è andata? Hai fatto buon viaggio?» Chiese. La ragazza annuì, un po’ imbarazzata: «Sì, tutto sommato sì, non mi da fastidio la pioggia». Fred oscillò la testa su e giù e la fissò per un po’, alla ricerca di qualcosa da dire. La sua bocca fu più svelta del suo cervello perché si aprì da sola e buttò lì una rapida informazione di servizio sul fatto che compisse gli anni. E serrò le labbra come se avesse detto una castroneria. Lei assentì di nuovo col capo. Poi socchiuse gli occhi, infastidita dalla luce del sole. «Lo so».
«Mi chiedevo se ti andasse di venire stasera che si fa il falò».
«Sì, certo, ci sarò».
«Bene». Poi lei s’informò sulla salute dei bambini. Le sue iridi si accesero di preoccupazione quando seppero che non erano per nulla migliorati dalla sua partenza. «Sono peggiorati?» Domandò, preoccupata.
«Non lo so. Sono venuto a trovarli oggi». A differenza di Claire la pioggia lo infastidiva molto, finiva sempre per puzzare di cane bagnato e i capelli gli ci mettevano un’eternità per asciugarsi. Gli avevano proposto di tagliarli molte volte, ma a lui piacevano lunghi. Si sarebbe sentito nudo senza.   
Poi Claire si accomiatò dicendo che doveva andare a posare la bisaccia. Il ragazzo la lasciò andare, sperando che quella sera non gli desse buca.
Poi andò a cercare Will, che era lui quello che custodiva il libro dei nonnini. Magari lì dentro avrebbe trovato qualcosa per aiutare i bambini. 

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Capitolo 8
*** E festeggeremo attorno al fuoco ***


E festeggeremo attorno al fuoco

 

Claire raggiunse Kelani alla sua capanna.
Salì la scala e domandò permesso. La ragazza le diede il permesso di entrare e Claire entrò. E fu subito avvolta dal tepore e dall’odore di candele. Non che sull’isola facesse freddo, ma era il tepore di casa e questo le era mancato.
La casupola, un po’come le altre, era un piccolo monolocale con un giaciglio di palme, paglia, coperte. Una finestrella coperta da un velo sottile che faceva da zanzariera e lasciava entrare un po’di luce, Poi un altro velo scendeva dall’alto per simulare i letti a baldacchino. Che Kelani aveva sempre sentito il bisogno di stare negli spazi stretti e raccolti. Secondo lei si sentiva più protetta. Non poteva darle torto.
Vicino alla porta c’era un braciere con qualche fungo e spugna bruciacchiata e un paio di candele. Infine vicino al giaciglio il bauletto che faceva da portagioie e l’amica inginocchiata lì davanti che, canticchiando, vi riponeva l’ultima conchiglia.  
«Stasera ci sarà la festa di Fred, pensi di partecipare?» Le chiese l’amica entusiasta.
«Bè, è pur sempre un mio amico». Anche se non si parlavano da tempo.
L’amica dalla chioma scura si girò verso di lei, le mani sulle ginocchia. «Meno male, sono contenta. Così avremo modo di festeggiare anche il tuo ritorno e…»
 «Perché non mi hai detto nulla?» La interruppe Claire inginocchiandosi a sua volta. Il sorriso di Kelani si spense. Poi girò il capo di lato, imbarazzata da quello sguardo serio e penetrante. «Ci ho provato, non ci sono riuscita». Si giustificò con uno squittio.
«Non mentire, l’ho visto chiaramente che stavi per dirmi qualcosa, ma poi hai cambiato idea».
«So che adori tanto quei viaggi e non volevo impedirti di partire. Pensavo che avrei potuto cavarmela da sola».
«Sì, però così mi fai passare per un’insensibile».
«Non volevo, non era mia intenzione». Piagnucolò l’amica. «Mi hanno dato tutti una mano e per ora siamo riusciti a mantenerli stabili».
La ragazza decise di non farglielo pesare troppo. Kelani era troppo emotiva e bastava pochissimo per farla andare in depressione. Sospirò esasperata e si portò una mano alla tempia e chiuse gli occhi, poi scosse il capo. «D’accordo, ma stasera c’è la festa, come pensi di fare per loro? Li appendi agli alberi come le provviste?»
«No, certo che no, li porteremo con noi».
«Ma siete impazziti?»
«Che c’è abbiamo sempre festeggiato lì e poi saranno coperti! Fidati che scoppieranno di caldo».
«Resto dell’idea che sia una pessima idea. Immagino che ve ne siate occupati finora dei bambini, giusto?»
«Sì, al momento ci stanno pensando Fred e gli altri».
«Oh, almeno per una volta quel ragazzo fa qualcosa di utile. Bene, allora vado a riposarmi un po’». Dichiarò alzandosi. In fondo è stato un viaggio abbastanza faticoso.  C’era anche un altro motivo per pensarla così. Frederick era forse il ragazzo più arrendevole che si potesse trovare sull’isola. Non che avesse un’indole talmente pacifica che lo portava chinare la testa, ma perché a metà dell’opera si fermava sempre.    

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Capitolo 9
*** Questa notte ***


Questa notte



Il libro dei nonnini era una grandissima enciclopedia cinquantasei per trentasei con almeno un migliaio di pagine. Rilegato con una copertina di cuoio, recava la scritta, in lettere dorate “Piante da tutto il mondo” con tanto di illustrazioni a china e a colori di piante. Dalle più comuni a quelle aromatiche e per usi medicinali. C’erano persino ricette e alcuni suggerimenti sulla coltivazione. Ne avevano applicati alcuni, ed erano riusciti a ottenere giusto i pomodori, ma crescevano nella zona più fresca dell’isola, cioè vicino alle cascate. E non era rassicurante vedere che, senza fertilizzante, fruttavano assai di meno e, con frutti assai più piccoli di quelli che ricordavano. Tuttavia erano pur sempre pomodori quindi andava bene.
Il libro questa volta era nella capanna di Will, solo che l’amico se ne era dimenticato. Fred non avrebbe mai smesso di sorprendersi per la sua distrazione. E dire che un tomo del genere era anche riconoscibile. Il ragazzo era molto distratto per natura. Spesso i ragazzi dell’isola si erano ritrovati a pensare che fosse vivo per un colpo di fortuna.
Sfogliò ripetutamente il libro alla ricerca di qualcosa che lo aiutasse. Da quel che aveva visto però non sapeva che cosa avessero i ragazzini. Rialzò gli occhi dal tomo un momento, per puntarli sul tetto di fronde verdi che frusciavano nel vento. Lui la chiamava “la voce dell’isola”. Quando era piccolo a volte gli pareva di sentire delle voci nel vento, crescendo aveva maturato l’idea che fosse l’isola stessa. Non era così strano a ben pensarci. C’era un motivo se gli uomini preistorici veneravano la natura e la consideravano viva.
Fred era stato battezzato e cresciuto con la religione cattolica, però, a forza di stare qui, si era reso conto che la Bibbia non diceva la verità. Lui non ci si ritrovava nei dettami della Bibbia. Per lui non era possibile che Dio avesse creato queste meraviglie soltanto per l’uomo. Se ne era accorto quando in passato, un gruppo di adolescenti superstiti della Fortuny distrusse una piccola area di giungla per puro diletto. Anche se erano passati anni era come se fosse rimasta traumatizzata, perché non si era ancora ripresa. «Tanto siamo qui!», «Sì, quest’isola è tutta nostra», «Siamo noi i padroni». Quel giorno di fronte a quello scempio, era scoppiato a piangere e, aveva capito che l’isola non era nata per loro.
Quella parte si era ripresa in quattro anni e, il Karma aveva provveduto alla loro incuria. Erano morti avvelenati per aver ingerito delle bacche. Le uniche morti di cui fu mai contento. Anche perché, quei ragazzi non dettero mai segni di pentimento, ma anzi, per molto tempo continuarono a domandarsi perché non trovavano questo o quel cibo in quella zona. Oppure chi fosse stato il coglione che l’avesse ridotta così. No, Dio aveva soltanto dato la vita agli uomini; niente di più. E se mai quello che era scritto nella Genesi fosse vero, allora non avevano imparato niente. 
Il ragazzo era giunto alla conclusione che, nella notte dei tempi, gli esseri umani avessero avuto le ali come gli angeli. Non sapeva ancora spiegarsi perché le avessero perse, ma era per questo si erano costruiti dei surrogati. Per far sì che con esse potesse costruire torri che si elevassero verso il cielo come montagne. E che solo nella morte ritrovassero quella libertà perduta. Che piangessero di gioia, addirittura. Ma forse erano solo le sciocche fantasie di un sedicenne cresciuto su un’isola deserta.
Ciò non toglieva che fosse ingiusto che dei bambini morissero. Avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere per salvarli. «Ehi, Fred! Fred!» Lo chiamò la voce di Bogdan. Il ragazzo distolse lo sguardo dai suoi appunti.
Tanto era soprappensiero non si era neanche accorto che lo stavano chiamando. «Eh? Oh, ciao Bogdan».
Il ragazzo sbottò: «Oh, era ora, era la quarta volta che ti chiamavo». Fece poggiandosi le mani sui fianchi.
«Scusa, ero assorto».
«Ho notato, dai scendi che tra poco si comincia». Lo spronò rimarcando le sue parole con un cenno del braccio ma l’altro non capì. «Si comincia cosa?»
«La festa, dai su, scendi». L’amico ci mise un po’per ricordarsi che oggi era il suo compleanno.
Chiuse il libro di scatto e uno sbuffo d’aria gli smosse leggermente i capelli. «Ah, sì, scendo subito». Lo riavvolse nel panno che lo custodiva e lo rimise nella capanna. Poi scese le scale e si avviò insieme a lui vicino alle rocce e ai cespugli di fiori. Era uno dei posti più riparati che ci fosse in quella zona, l’ideale per tenere al caldo le persone. E poi il profumo di quelle piante era molto forte.
Mentre si avviavano, Fred notò la sua amica Kelani lanciare uno sguardo pieno di speranza. Lo stesso che aveva visto molte volte in faccia a Celeste quando aspettava di vedere Sam.
Il ragazzo sorrise divertito sotto ai baffi. 
Era già stato acceso un bel falò e alcuni dei ragazzi avevano già tirato fuori gli strumenti musicali. Un tamburo di legno ricavato da un piccolo tronco d’albero a fessura longitudinale, sonagli legati, flauti e flauti di pan, strumenti a raschiatori e l’arco musicale. La piccola eredità di Jennifer. La donna gli aveva insegnato anche questo, oltre che qualche canzone che amava, molte di Simon & Garfunkel e di Enya. Anche se quasi nessuno aveva un talento musicale vero e proprio. Al massimo alla fine avrebbero finito più per canticchiare qualcosa tutti insieme. Fred apprezzò moltissimo il pensiero.
Ma l’entusiasmo generale si smorzò quando i ragazzi si avvicinarono al falò e notarono la persona che era già accomodata sulle stuoie. Conrad. Fred lanciò uno sguardo a Kelani. Aveva tutta l’aria di una cui fosse stata comunicata un’inaspettata, brutta notizia. Il ragazzo le strinse la spalla come a dire: “Non preoccuparti, sarà per la prossima volta”. La giovane volse gli occhi scuri su di lui e gli lanciò un mesto, disincantato, piccolissimo sorriso. Coprì un momento la sua mano con la propria. Poi prese posto tra Will e Zaira.
«Ragazzi, avete portato gli strumenti!» Esclamò il festeggiato con un gran sorriso, nel tentativo di alleggerire la situazione.
«Sì». Confermò entusiasta Devon, un ragazzo delle Mangrovie. Aveva i capelli biondo paglia ed era per natura un po’ più pingue. Le guance piene lo facevano somigliare, in un certo senso, a un leone marino. «Come diceva Jennifer: non è una vera festa se non c’è un po’di musica!» Esclamò poi tutto entusiasta. L’atmosfera generale si raggelò immediatamente e tutti guardarono Conrad. L’uomo li guardò entrambi di traverso. Il problema non erano la musica e le capacità esecutive dei ragazzi. Anzi, qualche volta pure lui lo si sentiva suonare e cantare. Era proprio il nome di Jennifer a dargli fastidio. Probabilmente per lui suonava come un monito perenne, che lui era solo l’ultimo leader, mentre lei li aveva guidati per quasi sette anni, prima di morire.
Restò abbastanza sorpreso quando vide anche i bambini. Avvolti dentro i teli ma presenti. Tutti si erano messi in tiro quasi che fosse una ricorrenza nazionale. Ma in fondo ogni compleanno lo era. E andava celebrato perché era come se dicessero: “Siamo ancora qui, siamo ancora tutti insieme”. 
Le ragazze con i fiori tra i capelli pettinati diversamente e i ragazzi con qualche gioiello di semi e conchiglie in più, oltre che le camicie bianche. Sembrava che il tema della festa fosse il bianco. Non ci potevano fare niente, perché a forza di lavare quei vestiti, il colore era andato via. Restava solo una sottile patina del colore originario. Così sottile che si vedeva soltanto di giorno e risaltava come una sfumatura del tessuto.
«Appena farà troppo freddo li porteremo subito a letto. Per sicurezza gli abbiamo fatto bere qualcosa per lenire il mal di testa e abbassare un po’ la febbre». Spiegò Kelani.
«Bene».
Anche Conrad era presente.
Mangiarono pesce arrostito e anacardi con semi arrostiti e frutta tutti insieme. Poi si misero a chiacchierare, giocherellare e infine, si arrivò alla parte della serata che avevano atteso più o meno tutti, quella in cui avrebbero canticchiato qualcosa. A un certo punto si ritrovarono a parlare di vecchie canzoni che risalivano all’infanzia e, mentre Claire se ne stava in piedi vicino a un cespuglio fiorito, Conrad la seguì con lo sguardo.   
«Sì, com’era che faceva? You think you own whatever land you land on». Continuò ma presto smise perché steccò e poi scoppiò a ridere. Anche gli altri ragazzi risero divertiti e le fecero un applauso. «Poi non me la ricordo più». Si scusò continuando a ridere mentre i ragazzi applaudivano.
«È un peccato, era molto bella». Costatò Celeste. Proprio allora un’altra voce si librò leggiadra nell’aria fresca della sera. Era la prima volta che la sentivano, ed era delicata come un soffio di vento primaverile. La cantante aveva gli occhi chiusi e le parole sgorgavano dalla sua gola come acqua di fonte da una roccia.
Le braccia conserte per scaldarsi. Sciolse la presa e le mosse come a disegnare ciò di cui parlava. Il vento parve quasi rispondere al suo richiamo che una delicata brezza soffiò smuovendo le scintille del falò. Era come se stesse cantando un incantesimo perché le scintille, parvero seguire il movimento delle sue mani, prima di ascendere al cielo e scomparire. Mentre altre invece, si sparsero attorno a loro e, illuminando l’ambiente, parvero trasfigurarlo. Come se non fossero semplici scintille. Fu come essere trasportati in un mondo a parte. Come se fosse di nuovo giorno e fossero attorniati dai fiori di uno splendido giardino profumato e rigoglioso. Qualcuno si guardò anche intorno, stranito.
«Non sapevo che sapesse cantare». Bisbigliò Christopher all’orecchio di Frederick, che adesso seguiva quei movimenti, come se lei stesse effettivamente dipingendo o ricostruendo per loro quel paesaggio. 
La voce che proseguiva con una tale dolcezza che quando la voce sbocciò nel crescendo, Fred e molti altri sgranarono gli occhi. Il ragazzo si accorse che il vento attorno a loro sembrava essersi placato, come se volesse ascoltare. Altre presenze sembravano essere uscite dalla giungla, incuriosite. Nella penombra del fuoco gli parve di vedere, dietro Claire, Jennifer, Horace, i signori Stewart e Sally.
Quando Claire cantò l’ultima nota, le presenze e il mondo da lei creato scomparvero dissolvendosi in pulviscolo dorato. Fu come fluttuare di nuovo alla realtà, con il profumo dei fiori e della legna bruciata e il rumore delle onde del mare alle loro spalle. Fred batté le palpebre per abituarsi di nuovo alla penombra rischiarata dalle lingue di fuoco, mentre tutti tacevano. Furono i bambini a esprimere il loro cristallino giudizio, rompendo le ultime tracce dell’incanto: «Ma che cos’è?», «Era noiosa!»
I più grandi, che sapevano, che ricordavano questo pezzo della loro infanzia, di casa, invece li zittirono e li rimproverarono. In fin dei conti Claire aveva cantato anche per loro. Solo allora i bambini si scusarono con lei. La quale sorrise e disse che non faceva niente. Ma si vedeva che c’era rimasta male.
Fred controllò Conrad e per poco non scattò indietro da seduto: era livido mentre fissava Claire con astio. Il festeggiato si accigliò confuso. Perché la guardava così? Che gli aveva fatto?  Per un momento pensò al peggio, poi l’espressione dell’uomo si appianò e si girò verso i giovani:
«Bè, si è fatto tardi, è ora di mettere i ragazzi a letto. Ci pensate voi?» Chiese in tono calmo. Ecco la differenza fondamentale tra loro. Quasi nessuno di loro riusciva ancora a controllarsi così. Se chiunque altro fosse stato al suo posto l’avrebbe coperta di insulti e presa a calci. Ovviamente, se fossero stati al suo posto e se l’avessero odiata tanto.
«Sì, certo, venite piccoli». Intervenne Kelani e, dopo aver salutato tutti e augurato ancora un buon compleanno a Fred, riportò i bambini alle capanne. Gli altri ragazzi dettero una mano a spegnere il fuoco e sparecchiare. Tutti tranne Claire, che se ne era già silenziosamente svignata.
Al ragazzo non ci volle molto per individuarla. Si alzò e la seguì. La chiamò e la ragazza si fermò e si girò. Fred restò un momento senza parole prima di farle i complimenti per l’esecuzione e la memoria. La cantante si aprì in un sorriso, stringendo le mani l’una nell’altra: «Grazie, credevo di avere cantato male, non ha applaudito nessuno». Lui si scusò anche per questo e le spiegò quanto li avesse sbalorditi. Ma era ancora tanto emozionato che si ritrovò a farfugliare.
Come fece a capirlo non lo seppe neanche lui. Solo dopo si accorse di un particolare. «Hai qualcosa tra i capelli».
L’amica batté le palpebre e alzò una mano per portarsela alla testa: «Sì? Cosa?»
«Aspetta, scusami, eh». Avvicinò le dita alla sua chioma e quando le ritrasse, sul suo indice c’era una bella falena dalle ali colorate. La giovane rise con voce argentina: «Dev’essere stata attirata dal profumo dei fiori!» “Sì, dal profumo”, pensò lui. Poi si accorse che il suo sguardo si era di nuovo velato. Come se non lo vedesse più. Come se guardasse qualcosa che si era frapposto tra loro. L’aveva sempre fatto. Forse si era incantata un momento. Le agitò la mano davanti agli occhi e lei batté le palpebre e rinvenne: «Ti eri incantata?»
«Ah, scusami, sì, oddio che figura». Rise lei.    
«Ma no, dai lo so di essere bello, ma non pensavo fino a questi punti». Scherzò lui, ma lo fece con una faccia talmente idiota che fu impossibile non ridere insieme.

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Capitolo 10
*** Quando i fiori sbocceranno ***


Quando i fiori sbocceranno

 

 

Frederick le aveva appena augurato la buonanotte e se ne era andato. Solo allora la ragazza rilassò le spalle e tirò un sospiro di sollievo. Forse non aveva fatto male a cantare e forse per una volta, Conrad non l’avrebbe rimproverata.
Aveva sfidato quell’uomo ancora una volta. La ragazza si era appena tolta la corona di fiori e stava per salire la scala della sua capanna quando una voce maschile la bloccò. La ragazza borbottò qualche imprecazione e si girò.
Conrad avanzò verso di lei. Non sembrava che avesse voglia di litigare o farle alcunché. La ragazza lo accompagnò con lo sguardo e attese. Sebbene una parte di sé morisse dalla voglia di scappare si fermò. Non aveva affrontato tante volte la giungla per tremare di fronte a un uomo solo. Anche se quest’ultimo brandiva una torcia per illuminarsi la strada.
Improvvisamente sentì tutte le ferite e le umiliazioni che aveva provato a causa sua tornare a bruciare. La rabbia le si accese in petto e si espanse come una vampata. No, adesso non era più tempo di scappare.
«Perché hai cantato?» Fu la prima cosa che le chiese senza preamboli. «Lo sai che è proibito». Le ricordò in tono apparentemente tranquillo. Un’altra regola idiota apposta da Conrad. Secondo lui queste canzoni andavano soltanto ad alimentare la nostalgia e la loro voglia di sfuggirgli. E non sapeva quanto fosse vero. 
Se il suo primo impulso fu quello di rispondere male, fece invece un grosso sforzo di volontà per trattenersi. E, quando aprì bocca, scelse le parole con molta cura: «Ho semplicemente dato una mano, non pensavo che sarei incorsa nella tua ira». Si giustificò.
L’uomo rimase abbastanza spiazzato dal tono che gli usò e dalla risposta. Claire ci aveva messo un po’per imparare ma l’aveva capito qual era il trucco. Non mancargli di rispetto. Jennifer sarebbe stata orgogliosa di lei per questo risultato. Era stata lei a insegnarle che anche tra nemici ci si rivolge con rispetto. Che solo perché si viveva su un’isola non significava rivolgersi a qualcuno in termini volgari per affossare. Che solo perché si porta rispetto non significa diventare come il tuo peggior nemico. Si spostò i capelli dietro un orecchio e abbassò il capo. «E poi non credo che abbia significato qualcosa, voglio dire, li hai sentiti i commenti, no?»
«Sarà ma devi stare attenta. Dove sei stata in queste settimane?» Chiese poi.
«Sono rimasta al villaggio tutto il tempo, con questa pioggia non penserai mica che io sia uscita, Cielo, non voglio prendermi un malanno!» Mentì lei con nonchalance. Tanto sapeva che, se Conrad l’avesse chiesto ai suoi amici e le sue amiche, l’avrebbero coperta. Non era impossibile che si ammalasse, era solo molto raro. 
«Bene, perché in questi giorni non sono potuto venire a trovarvi, sono rimasto inchiodato anch’ io alle cascate. Tu sei i miei occhi e le mie orecchie, sei estremamente importante per me, lo capisci?» Le domandò.
«Sì».
«Bene, che cosa è successo in questi giorni?» Fortunatamente Claire se l’era fatto raccontare, perciò non ebbe grossi problemi a riferirlo. Conrad parve soddisfatto del resoconto e Claire cercò di sforzarsi di non deglutire a vuoto. «Bravo il mio pappagallino».
L’aveva insignita di questo ruolo quando era morta Sally. Era lui che le aveva dato quella posizione e ogni tanto lei era proprio costretta a riferirgli qualche sgarro, ma se poteva, evitava. Odiava da morire quel compito. Per fortuna che lo sapevano tutti e che glielo perdonavano. Ma un giorno si sarebbe liberata e, quel giorno, il regime di terrore di Conrad sarebbe finito.  
«É perché sono la figlia di Eric Stewart che mi rimproveri così?» Indagò.
L’uomo la guardò: «No, non è per questo, anche se tuo padre era il progettista della Fortuny, non c’entra niente con quello che hai fatto». Le prese il volto con la mano e la squadrò a lungo prima di decretare, disgustato: «Non le assomigli per niente».
“E meno male”. Pensò Claire. Sapeva benissimo a chi si stesse riferendo, a Sally. Sally aveva i capelli rossi e gli occhi verdi, mentre lei sembrava un fantasma, era completamente diversa. Fisicamente Sally era una ragazza tutta gomiti e ginocchia con il volto allungato e, in un certo senso, le ricordava un tafano. Mentre Claire era più elegante, agile come una gazzella ma resistente come pochi. Neanche Sally sarebbe riuscita a sostenere i suoi viaggi. I suoi occhi color nebbia coperti dalla frangia, non erano il suo punto forte; quello era l’udito. A forza di stare nella giungla anche lei aveva tratto qualche beneficio. Con un udito più sviluppato, il che le consentiva di percepire anche il morbido, felpato passo dei predatori.
Sally non aveva avuto nulla di tutto questo. Aveva preferito passare ciò che restava dei suoi giorni a farsi servire e riverire e prendere il sole.
Claire temeva questi confronti perché era come se Conrad potesse leggerle nel pensiero solo scrutandoli, tipo regina Grimilde con lo specchio. Ma da un pezzo a questa parte, lui non ci riusciva più e Claire ringraziava il Cielo. Era solo un piccolo prezzo da pagare per la propria libertà. E lo pagava volentieri.   
Conrad strinse un momento la presa e Claire poté sentire le sue dita premere sui denti. Un chiaro avvertimento di ciò che avrebbe potuto farle. A riprova aveva ancora un molare spaccato dall’ultima volta che l’aveva stretta così. Quando aveva cercato di farle vuotare il sacco a proposito della laguna.
Poi allentò la presa fino a lasciarla e le augurò la buonanotte. Si allontanò e scomparve nella boscaglia. Claire attese che fosse sufficientemente lontano prima di cadere in ginocchio e scoppiare a piangere. Era stata la prova più dura che avesse mai dovuto sostenere. 
Conrad credeva di conoscerla ma si sbagliava, di lei non conosceva proprio niente. Non sapeva neanche chi era il figlio del progettista della Fortuny.
«Claire». La chiamò Kelani. E poi la ragazza si sentì cingere le spalle e poi si lasciò tirare in piedi dall’amica. Ogni volta che lei aveva un confronto con lui finiva così. Solo quando i suoi singhiozzi si attenuarono, si accorse che Kelani l’aveva trascinata nella sua capanna ed era rimasta con lei tutto il tempo. L’amica le porse un fazzoletto profumato con un’essenza calmante per soffiarsi il naso.
«Sembra che io sia arrivata in tempo». Commentò la mora facendo viaggiare lo sguardo fuori della porta coperta dalla tenda. 
La luce delle candele illuminava l’ambiente. Doveva averle accese lei perché Claire non se ne era proprio accorta. La mora le passò una borraccia e l’invitò a bere il tè. Fortunatamente sull’isola crescevano gli alberi del tè. Claire, le gambe raccolte al petto, l’accettò e bevve. Dopo pochi sorsi rabbrividì e fece una smorfia di disgusto: «É amaro».
Kelani ridacchiò sollevata e poi le domandò come stesse, in tono mite. La giovane si strinse nelle spalle. «Un po’ meglio, grazie». Guardò a sua volta il drappo che faceva da porta. «Abbiamo fatto bene a tenerci a vicini, sapevamo che Conrad non te l’avrebbe fatta passare liscia per la canzone».
«Vuoi dire che…»
«Sì, Sam, Barney e Lena sono qui fuori, vuoi che li faccia entrare». Offrì.
«No, no, piuttosto aiutami a uscire». Per quanto la sua capanna somigliasse a un nido, in quel momento le stava stretto, e sentiva i pensieri cattivi ancora vicini.
«Va bene».  
Perciò Kelani si alzò e le porse la mano. Claire l’afferrò e si lasciò rimettere in piedi, per poi Avrebbero voluto fare tutti fronte comune, ma non era saggio che i ragazzi delle mangrovie restassero per lei. Conrad non era stupido e avrebbe potuto insospettirsi. Non sapevano ancora come facesse ma sospettavano tutti che ci fosse un’altra spia. Un traditore. Di Claire sapevano di potersi fidare. Quando Conrad l’aveva fatta diventare il suo uccellino, la prima cosa che lei aveva fatto era stata trovare rifugio da Jennifer. E poi, Claire era più brava a mantenere i segreti che a fare la spia.
Non potevano odiarla per questo. 
La riaccompagnarono al falò che avevano ravvivato e, dividendosi la borraccia, restarono a farle compagnia, mentre le sentinelle vegliavano sulla zona. Anche loro provavano ripugnanza per il trattamento di Conrad. Claire cercò di non pensarci, anche se percepiva tutto con chiarezza. Dal compatimento al disgusto dei compagni, fino alla pietà e alla solidarietà.
Ci furono dei momenti in cui non dissero niente e altri in cui cercarono di riempire il silenzio con parole vuote. Potevano aggiungere, sottrarre e dividere frasi, ma ogni volta il minimo comune denominatore era il sottofondo dello sciabordio delle onde e del sibilo del vento.
«Non può andare avanti così». Sbottò Lena a un certo punto, gettando un rametto nel fuoco, che sollevò una marea di scintille e scoppiettii.
«Calmati Lena, non serve a niente agitarsi». Cercò di rabbonirla Barney. Mosse le mani come se avesse potuto abbassare anche la sua rabbia. Ma la ventenne girò il volto furibondo verso di lui e continuò: «Lo so ma è più forte di me! Cioè, guardatela! Quante volte ancora deve subire le angherie di Conrad? Quanto dobbiamo ancora subire?» Abbassò il braccio con cui aveva indicato Claire. Sapevano tutti a cosa si riferiva. E sotto sotto il malcontento generale cresceva: «Si stava meglio quando c’era Jennifer». Commentò Barney meditabondo, i gomiti appoggiati sulle ginocchia delle gambe incrociate.
«Dobbiamo fare qualcosa, non possiamo permettere che continui così». 
«Che cosa?» Domandò Kelani, che aveva continuato a stringere a sé Claire tutto il tempo. Quel gesto stava funzionando per infonderle il coraggio necessario per reagire. Anche la rabbia di Lena stava funzionando. Non credeva che la pacifica, laboriosa e creativa Lena potesse covare tanto rancore nei confronti di Conrad. E avere l’assoluta certezza che anche lei e Barney fossero dalla sua parte e credessero in lei la fece sentire meno sola.
Barney cercò di ponderare la questione: «Comprendo che la situazione sia molto grave ma non possiamo permetterci certi colpi di testa».
«Questo non è un colpo di testa, è un colpo di stato».
«Un colpo di stato? E cosa pensi di fare? Ma soprattutto come!» Esclamò Barney orripilato.
«Datemi qualche notte per pensarci e poi vi farò sapere». Dichiarò Lena convinta e, se persino lei scendeva in campo, allora significava che era arrivato il momento vero e proprio di lottare.
Improvvisamente a Claire - non seppe mai perché - venne in mente il Robin Hood di Ridley Scott. Le parve pure di sentire una delle melodie della pellicola. Si liberò della stretta di Claire e disse: «Qualunque cosa tu decida di fare io sono con te. Sono stanca di subire, di quest’isola maledetta, voglio andare via da qui!».
Barney e Kelani la guardarono allibiti. Non si aspettava una tale presa di posizione da parte sua. Invece Lena sorrise, compiaciuta. «Claire, che stai dicendo? É pericoloso!»
«Lo sarebbe di più se lui non fosse solo. Ma lo è». Ribatté Claire guardandola: «É solo un uomo. Un mostro, sì, ma è solo un essere umano, mentre noi siamo già in quattro».
«Stai proponendo di assalirlo?»
«Non possiamo fare una cosa del genere». Rilevò Barney, orripilato.
«Ma neanche possiamo attendere tutto questo tempo. Non sarebbe più facile ucciderlo?» Considerò Claire. In fondo era la cosa più logica e sensata da fare, anche se faceva paura. Ora che ci pensava neanche lei aveva mai ammazzato qualcuno e la cosa le faceva orrore. Era completamente diverso che ammazzare un animale.
«Sì, ma questo significherebbe abbassarci al suo livello e diventare una bestia come lui. No, dobbiamo fare in modo che sia la maggioranza a destituirlo».
«Tu stai pensando di portarlo davanti a un tribunale? Uno vero?» Domandò Barney girando la testa verso di lei. Per le due giovani quelle parole erano quasi arabo. Cioè, intuivano appena il loro significato, ma avevano capito. Il massimo che concepivano era quella piccola giuria che si riuniva in caso di polarizzazione estrema del gruppo. Ma i ragazzi più grandi gli avevano spiegato che esistevano altri tribunali, con processi e sentenze vere e proprie. E nessuno sfuggiva alle grinfie della giustizia. Prima o poi tutti finivano per scontare le loro pene.
Volevano rendergli pan per focaccia con la giustizia.  
«Sì, fosse anche l’ultima cosa che faremo, ma ci riuscirò».

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Capitolo 11
*** Nella Landa andremo ***


Nella Landa andremo



L
a felicità era durata poco. Tempo poche ore che la realtà aveva bussato alla loro porta, annunciandosi con i colpi di tosse e i lamenti dei bambini. Avevano avuto una ricaduta. Tutti i Pescatori si erano dati da fare per alleviare il loro malessere. Ma avevano capito di essere messi male quando la metà dei piccoli aveva vomitato la cena. Sembrava una scena uscita da L’esorcista, aveva detto Samuel. Che essendo più grande di tutti loro di tre anni, si ricordava ancora di certi film che aveva visto alla TV. 
I ragazzi li avevano ripuliti e avevano lavato le capanne dal vomito. Ma questo, Fred lo seppe soltanto a colazione di tre giorni dopo. Le notizie purtroppo non giravano tanto velocemente quanto avrebbe desiderato.
Stavolta arrivarono per bocca di Will. Il ragazzo fece colazione con loro attorno al fuoco e li aggiornò. Stando a lui anche Conrad, che per quella sera era rimasto lì, dette una mano coi bambini. Di Claire nessuna traccia. «Ti pareva che non avesse altro di meglio da fare?» Borbottò Zaira a Ida, la quale ribatté, ciotola in mano: «Sì, quando c’è da faticare o avere a che fare con una malattia lei se la svigna sempre».
«E finitela, per Dio!» Le zittì Christopher e le due tacquero. Quando c’era da sparlare alle spalle o mettere in giro delle voci si poteva sempre contare su di loro. Anche lui era sceso alla spiaggia per festeggiare tre giorni fa. Ma a differenza dei bambini, il suo raffreddore era in via di guarigione.
«Non stiamo insinuando niente se vuoi sapere questo. É solo che ci aspettavamo che Claire facesse qualcosa per scacciarlo».
«Già, lei che è così coraggiosa che se la da a gambe».
«Non se l’era data a gambe vero, Will?» La difese Bogdan.
«No, era coi bambini anche lei». Confermò questi. E Fred tirò un sospiro di sollievo mentale.
«Comunque sia il comportamento di Conrad non mi piace». Confidò Ida dopo aver inghiottito una cucchiaiata della sua razione. L’amica convenne con lei, preoccupata: «Sì è vero, ultimamente sta degenerando». A causa sua, tutte le ragazze cercavano di girare il più vestite possibile.

Nonostante le incombenze della giornata Fred non poté fare a meno di pensarci. Anche durante la caccia. Sperava tanto in un bel tapiro o in un bel varano. Meglio sarebbe stato un cinghiale, ma erano molto pericolosi, persino più dei serpenti. Non gli sarebbe dispiaciuto neanche il serpente. A forza di vivere qui tutti loro si erano adattati. E poi la fame non gli permetteva di essere schizzinosi. Ogni più piccola fonte di calorie era importante, dalle formiche, ai ragni alle lucertole, anche alle scimmie e gli uccelli. Era già successo in passato che attraversassero periodi di carestia e siccità. Avevano anche affrontato ed erano sopravvissuti alle alluvioni o all’anno dell’incendio e a quello delle epidemie. Tutti loro si erano più o meno gravemente ammalati e portavano ancora i segni. Non tutti visibili, alcuni erano più spirituali che fisici. Ma alcuni di loro avevano ancora le cicatrici del morbillo, per fare un esempio. Abbronzati com’erano sembravano delle iene maculate di chiaro, però. E adesso facevano i conti con l’adolescenza, l’acne, i peli e il fatto che i vestiti non gli entravano quasi più. Anche cadere era più doloroso che da bambini. Per non parlare del fatto che le ragazze avevano preso il vizio di voler fare il bagno da sole come se avessero qualcosa da nascondere. Solo dopo si erano ricordati che alle ragazze veniva il ciclo e avevano capito. Soprattutto quando uno di loro, non ricordavano bene chi, aveva cercato di fare il bagno insieme a loro e se ne era scappato a gambe levate. Accompagnato da tutti gli oggetti che le ragazze gli avevano tirato.
Questo nuovo pudore non lo riconoscevano, avevano visto altre volte i corpi delle donne. Quando facevano il bagno con le loro madri e le sorelle. Allora di che si vergognavano? Lo capirono quando Conrad si appostò nei pressi delle pozze dove facevano il bagno per impedire loro di vedere. Ma loro vedevano lo stesso, quando pescavano insieme o nuotavano insieme nell’oceano nella barriera corallina. Ed effettivamente si ritrovarono a costatare che era impossibile non staccare gli occhi di dosso a quelle nuove curve. Che le loro ciglia cominciavano a essere più lunghe, i loro tratti femminei. Per la prima volta li potevano definire così e capirono il loro significato. All’epoca c’era anche Jennifer e la donna aveva spiegato loro perché. Poi si era raccomandata di non trattarle male o di prenderle in giro o farle sentire a disagio con sguardi e commenti inopportuni.
I ragazzi ci avevano messo quasi tre anni per capire. Anche Celeste non aveva aiutato, era diventata isterica quanto Sally ai tempi.   
A parte i problemi con i loro corpi in trasformazione, riuscirono a trovare una sorta di convivenza. E sperimentarono anche il disgusto quando le loro compagne ebbero le mestruazioni per la prima volta. Un conto era parlarne ma un altro era averci a che fare. Quel giorno gli spioni tornarono rispettivamente verde e visibilmente indebolito: solo dopo riuscì a raccontare che aveva vomitato. Gli altri si rivelarono un po’più resistenti. Non che le ragazze non fossero ugualmente bisbetiche. Dovevano appostarsi in luoghi abbastanza riparati per avere un minuto di privacy anche loro. E qualcuno di loro era stato beccato. Da lì avevano capito cosa intendesse realmente Jennifer quando diceva di non fare agli altri ciò che non volevano fosse fatto a loro.
Al ragazzo tornarono in mente le parole di Ida e Zaira.
Il fatto che alcuni di loro cominciassero anche manifestare interesse per esponenti dello stesso sesso non li infastidì. Si conoscevano da una vita e se poi gli innamorati erano felici, che problema c’era? L’importante era che non lo venisse a sapere Conrad. Quell’uomo odiava l’idea che due ragazzi o due ragazze si amassero. Le parole delle due ragazze lo fecero rabbrividire. Perché era questo il vero problema: Conrad era un maniaco sessista e omofobo.
Erano troppo fresco il dolore di Kelani ed Erika e di Gabriel e Quentin. Erika e Quentin erano due ragazzi del gruppo delle Mangrovie. Era stato proprio a causa di questo e altro che avevano deciso di separarsi in gruppi. La scusa era per coprire una porzione più ampia di territorio e cacciare, ergo avere più cibo. La verità era ben diversa e più inquietante. La verità era che volevano scappare da quel pazzo.  Ma non serviva a niente, perché Conrad dormiva una notte da un gruppo e una da un altro, sì da tenerli d’occhio tutti quanti. E inevitabilmente li aveva beccati e puniti. Certe volte Fred si svegliava udendo i singhiozzi di dolore dei poveretti. Oppure vedendo davanti a sé le loro schiene martoriate dalle cicatrici. I segni della punizione.
Una sera lui e altre due ragazze avevano provato a cercare di salvarli. Siccome gli amanti non erano riusciti a resistere e non li avevano ascoltati quando aveva provato a metterli in guardia. Non ce l’avevano fatta, erano solo riusciti a fissare la scena in modo morboso. Per quanto fosse inquietante non riuscivano a staccare lo sguardo e a intervenire. L’unica cosa che riuscirono a fare fu tornarsene alla grotta e aspettare il loro ritorno con l’acqua sul fuoco e le bende e gli impacchi pronti.
Soltanto Samuel interveniva per tempo, e se non ci riusciva riportava i feriti alla base. In ogni caso la sostanza non cambiava.
Ogni giorno tutti quanti facevano del loro meglio per estirpare dal cuore le parole piene di odio che Conrad gridava in quei momenti. Fred soprattutto, che non riusciva a credere che il loro leader si stesse rivelando una persona tanto meschina. A parere comune poi, l’unico contronatura era proprio lui. Tutti avevano visto gli animali e anche ex passeggeri con partner dello stesso sesso. Se lo facevano loro e nessuno diceva niente, perché loro non potevano? Cosa c’era di sbagliato ad amare un’altra persona del proprio sesso? Dopo i primi pestaggi avevano provato a uniformarsi alla sua visione, ma se ne erano distaccati presto in nome della libertà e dell’affetto comune che provavano gli uni per gli altri. Alcuni dei ragazzi, tanto per tornare in tema di ferite fisiche, recavano ancora le cicatrici delle botte dell’uomo.
Ovviamente la sera del compleanno non si erano neanche potuti sedere vicini a causa di Conrad. Fortunatamente non lo amavano. Conrad era forse l’unico adulto meno amato sopravvissuto al naufragio della Fortuny.  E in passato Jennifer non riusciva sempre a intervenire in tempo per fermarlo, purtroppo. Adesso sembrava che Samuel avesse ereditato questo compito gravoso. Persino più degli altri adulti, visto che i più grandi si erano come isolati.  
Un po’, ammetteva Fred, si approfittavano del suo operato e della sua generosità per appoggiarsi a lui. Pensavano: “Tanto ci pensa Sam”, oppure, “Tanto c’è Sam”. Tuttavia non avevano fatto i conti con la sua intelligenza. Che il diciannovenne se ne era accorto e li aveva sgridati tutti, facendoli sentire dei vermi. Non l’avevano mai visto tanto arrabbiato. «Voi contate sul fatto che io sia eterno e che vi aiuti sempre! Beh non è così!» Aveva sputato, rosso in faccia per la rabbia, spazzando l’aria con una mano come se avesse voluto mollare uno schiaffo a tutti loro. «Smettetela di appoggiarvi a me, non siete dei bambini! Non sono vostro padre e non sono il vostro schiavo! Anche voi dovete fare qualcosa!»
Spesso ci pensavano, ma non avevano ancora trovato la forza di agire. Soprattutto quando poi li aveva ignorati per giorni. Neanche li guardava, ai suoi occhi era come se non esistessero. Ora almeno li guardava ed era cordiale, ma era ancora freddo. Solo Celeste sembrava aver trovato il modo di smuoverlo.
Fred ammise a sé stesso, mentre cacciavano, che Sam aveva ragione. Si opponeva al leader con tutte le sue forze mentre loro si nascondevano dietro la sua schiena come bambini spaventati. E non da un diavolo disegnato su un foglio di carta, ma da Conrad stesso. Era proprio come dicevano: le sue manie e il suo sguardo lascivo non piacevano a nessuno. Anche le loro amiche si erano sentite a disagio sotto ai suoi sguardi. Soprattutto quando gli servivano da mangiare, perché lui si faceva servire e riverire solo da loro. I ragazzi non li voleva e spesso se ne usciva con commenti poco lusinghieri sul fatto di essere servito da altri maschi. Già, per lui non erano ragazzi o ragazze, ma maschi e femmine. Ed era impossibile non notare come li vedesse alla stregua di oggetti o animali. Come se fossero esseri inferiori rispetto a lui. “Non siamo animali.” Pensò stringendo la mano libera in un pugno.
La cosa peggiore era che non tutte erano intimorite. Altre, più ingenue, erano lusingate dalle sue attenzioni e dagli occasionali tocchi. E siccome succedeva spesso e volentieri davanti ai pasti, a Fred e agli altri veniva da vomitare. Non che buona parte di loro non avesse mai sognato o fantasticato di palparle ma vederlo fare da lui li faceva sentire sporchi.  Come se non bastasse, mentre le palpava, lanciava occhiate ai ragazzi come dire: “Io ho il potere e voi non avete niente, siete i miei giocattolini, le mie belle bamboline”. 
Claire era l’unica che lanciava occhiate fulminanti a Conrad. Occhiate che dicevano chiaramente: “non pensarci neanche o ti ammazzo”. Ed erano così convincenti che l’uomo aveva preso a ribattere con le stesse occhiate, per rimarcare la sua superiorità nei suoi confronti. Di una ragazzina di sedici anni. Ottenendo per contro, di perdere ancor più consensi. Neppure Tiger, Gabriel e Oscar, quelli che lo stesso aveva eletto Principi dell’Isola lo sopportavano. Anzi, nonostante il potere conferitogli, erano spaventati che in futuro avrebbe riservato lo stesso trattamento anche ai bambini.  
«A cosa stai pensando?» Domandò Tiger, affiancandolo mentre, arco teso scrutava la boscaglia circostante. E l’amico tornò al presente nella boscaglia. «A Conrad. Sono preoccupato per i bambini».
L’altro annuì. «Credi che possa fargli del male?»
«No, ma sono preoccupato per il loro futuro». L’arciere capì; «Anch’io». Commentò soltanto prima di tornare a guardare avanti a sé.
Avanzarono insieme nella boscaglia, cercando di essere più silenziosi che mai. Loro, Oscar e Gabriel si erano divisi la zona per coprire una porzione di terreno ancora più ampia.    
«Forse dovremmo semplicemente prenderli e scappare via e lasciarlo qui». Considerò Fred mentre scrutava gli alberi alla ricerca di un uccello o un coleottero. Anche un ragno gli sarebbe andato bene. Non potevano passare altre settimane con lo stomaco che ringhiava. La festa era stato il giorno in cui avevano potuto tornare a procurarsi il cibo normalmente.
Purtroppo non potevano che avanzare nella giungla con i piedi fasciati perché non c’erano scarpe sull’isola.
Di norma Fred era anche il più silenzioso, ma quel giorno non aveva voglia di ascoltare la boscaglia. «Sì, magari di notte, quando non se può accorgere». Continuò l’altro distrattamente.
«Anche tu lo avevi pensato?»
«Tutti noi bene o male ci pensiamo. Ma non possiamo».
«Già, non abbiamo le barche per fuggire e non possiamo fare nulla. E poi non sapremmo neanche dove rifugiarci».
«Un posto ci sarebbe».
«Ah, sì? E quale?»
«La Landa». 
L’altro per poco non si girò. Non potevano permettersi distrazioni durante la caccia; un predatore avrebbe potuto approfittare di quel momento per attaccarli. «Ma sei impazzito? Ci hanno sempre proibito di andare là».
«Lo so, ma potrebbe essere la nostra occasione».
«Non sappiamo neanche cosa c’è là».
«Ha importanza?»
«Sì che ce l’ha». Berciò in tono secco da discorso chiuso e Fred non ne parlò più. Se solo avesse saputo che cosa ci fosse davvero lì.   
La Landa era la zona più pericolosa di tutta l’isola. Ai piedi dei Tre Grandi Picchi, circondandoli interamente, era separata dal resto solo da un acquitrino paludoso. Sapeva che Claire cacciava spesso in quel posto e che da lì raccoglieva i tuberi di giacinti d’acqua, ma neanche lei si era mai avventurata più in là. Lì la vegetazione era più fitta ed era perennemente avvolta da una coltre di nebbia. Appena si entrava era come mettere piede in un altro mondo. Un mondo quasi completamente buio. L’aria era talmente pesante e umida che si moriva dal caldo, quando invece non di freddo nella stagione invernale. La cosa più inquietante era che lì gli orologi e tutti gli apparecchi elettronici si fermavano. La zona era avvolta da un campo magnetico talmente potente da fare male all’organismo.
E Fred lo sapeva, perché quella zona l’aveva già visitata quando aveva dieci anni. Durante l’anno della morte di buona parte degli adulti. Nella guerra contro una tribù locale che abitava sull’isola vicina.
Era stato lì che il ragazzo aveva cominciato a vedere gli spiriti dei defunti e aveva trovato un amico: Aata. La prima volta che l’aveva visto era stato quando lui si era allontanato per andare a caccia. Era la prima volta ed era molto emozionato. Gli altri bambini lo avevano preso in giro fino a quel momento dandogli del fifone e voleva dimostrare di non esserlo. Per sua sfortuna quel giorno pioveva a dirotto, ma lui non si era dato per vinto. Aveva preso la sua lancia e una bisaccia ed era andato senza dire niente a nessuno.
In quel periodo gli adulti si curavano un po’meno di loro, quindi non gli fu troppo difficile sgattaiolare via.
Arrivare agli acquitrini non fu difficile, anzi, si meravigliò di quanto fosse stato facile. «Una passeggiata», aveva commentato tra sé e sé, ringalluzzito. Una volta sul posto aveva controllato che non ci fosse nessuno. Doveva farcela da solo e sapeva che avrebbero fatto di tutto per riportarlo indietro, se l’avessero visto.
La pioggia in quel momento si affievolì un po’, riducendosi a un dolce picchiettio sulle fronde e le foglie. Il ragazzino aveva usato alcune foglie come bicchiere per dissetarsi. Poi, dopo aver raccolto a sua volta dei tuberi di giacinto d’acqua e poi l’aveva visto, quello splendido gatto pescatore. Quelli non riusciva a prenderli quasi nessuno. Il felino l’aveva visto, aveva intuito le sue intenzioni e aveva appiattito le orecchie sul cranio, gonfiato il pelo e soffiato. Fred arretrò di un passo ma ripensò alle prese in giro di Tiger, Goyle, uno dei ragazzini defunti, e di Samuel e lo scoramento del signor Horace. Lui era l’ultimo che non aveva ancora imparato a cacciare decentemente proprio per via della sua indole pacifica. Lui era quel tipo di bambino che raccoglie un animale ferito e lo cura, mica lo ammazza. Qui doveva ribaltare la sua indole e ora stava per farlo. Perciò gli andò incontro con passo deciso, cercando di sopprimere il suo terrore.
Il gatto continuò a soffiare ma il ragazzino non si dette per vinto. Imbracciò la lancia.
Sapeva che avrebbe potuto scagliarglisi addosso e graffiarlo a sangue. Ma la fame e la voglia di rivalsa erano più grandi della paura. Eppure, con grande sorpresa di Fred, il gatto scappò dentro la boscaglia nebbiosa alle sue spalle.
Il ragazzino lo inseguì gridando: «Ehi, fermati! Fermati!» Ma il gatto fu più veloce e dopo un po’lo perse di vista. Di lui restavano solo i fruscii delle piante smosse. Il ragazzino cercò di orientarsi con quelli, ma finì per perdersi quasi subito in realtà.
Solo dopo realizzò di essere finito nella Landa. Quando alzò lo sguardo e incontrò il fitto fogliame e le poche gocce d’acqua che cadevano come da un tetto che perde. Il rumore del temporale sembrava già più lontano lì dentro. Ma gli occhi degli esseri che lo osservavano erano più vicini e lampeggiavano nel buio. Troppo vicini.
Il ragazzino cercò di mantenere la calma. Con uno sforzo sovrumano per la sua età cercò di ricordarsi il trucco per scacciare i predatori. Così raccolse un bastone da terra, ma quando lo sollevò vide un grosso ragno peloso zampettare lentamente verso la sua mano paffuta. Il ragazzino strillò terrorizzato, lasciò cadere il ramoscello e scappò via verso nord. Non ricorda di preciso, ricordava solo di essere scappato a sinistra di un grosso albero con i funghi che crescevano direttamente sulla sua corteccia e che la poca luce che c’era filtrava da destra.
Ed era stato così che, con la vista offuscata di lacrime e chiamando ripetutamente il padre, era caduto in un piccolo crepaccio ed era rotolato giù. Alla fine era atterrato addosso a una creatura che l’aveva aggredito. Il ragazzino aveva reagito istintivamente colpendo. Solo dopo si era accorto che la creatura parlava. Una lingua a lui incomprensibile. L’aveva afferrato per i polsi e gli aveva detto qualcosa, ma lui aveva cercato di morderglieli. Solo dopo si era reso conto che quello che lo stava stringendo aveva mani umane. Più scure delle sue, ma sempre umane erano. Solo allora rialzò lo sguardo e vide per la prima volta il viso tondo, incorniciato da una zazzera di folti capelli neri scompigliati e ricchi di foglie secche e rametti, di Aata.    
«Un bambino!» Esclamò Fred allibito.
Il ragazzino replicò qualcosa in quella lingua che non comprendeva. Ma si vedeva dai suoi occhi che era spaventato e sconvolto quanto lui. Si separarono con un balzo e rimasero acquattati come due piccole belve che stiano per saltarsi addosso. I loro sguardi incatenati. Il ragazzino dalla pelle scura sollevò dal sottobosco un bastone che Fred riconobbe come una lancia. «No, no! Io non sono un nemico! Non sono un nemico!»
Ma l’altro replicò con un verso in quella lingua incomprensibile. “Così non si va avanti!” Pensò il bambino allarmato. Non poteva neanche scagliarglisi addosso allarmato perché era disarmato e nella lotta faceva decisamente schifo. Quando giocava con gli altri bambini perdeva sempre. E se l’avesse ferito? No, doveva sopravvivere.
«Frederick!» Esclamò indicandosi con le mani. Il ragazzino lo guardò sospettoso e confuso. Il biondo continuò a ripetere il suo nome.  L’altro inclinò leggermente la testa e gli domandò qualcosa guardingo. Solo in seguito Fred avrebbe scoperto che gli aveva chiesto se fosse vivo.
«No, Frederick. Io Frederick» Un lampo di comprensione passò nelle iridi scure dell’altro e lo imitò con una mano sola: «Aata». Ribatté cauto. Bene, adesso sapeva il suo nome. Sorrise contento.
Il ragazzino continuò a fargli domande nella sua lingua ma Fred, spossato per la corsa e per la lotta, perse i sensi atterrando di faccia nel sottobosco.
Quando si rinvenne si ritrovò accanto al piccolo fuocherello scoppiettante. L’odore della legna bruciata che gli entrava nelle narici rinvigorendolo. Il ragazzino tossì e sentì la vocetta dell’altro. Poi entrò nel suo campo visivo. Reggeva qualcosa in mano, una ciotola ricavata da un frutto e glielo portò alla bocca. Fred capì e bevve avidamente la zuppa acquosa che gli era stata offerta. Poi sprofondò in un lungo sonno ristoratore.
Il ragazzo riemerse dal ricordo e vide il gatto selvatico dietro un cespuglio. Scagliò la lancia.   

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Capitolo 12
*** Se nella giungla ***


Se nella giungla



C’erano delle volte in cui la mente le regalava sogni di viaggi attorno al mondo. Dove lei danzava con i berberi del deserto e dove finiva per guidare i suoi compagni in una sorta di esodo. Come quello che narravano le sacre scritture che piacevano tanto a Jennifer.
Claire sapeva di Gesù, dei profeti, di Dio, della Genesi ma la sua idea di sacro e di divino si era leggermente modificata da tempo. Parlando della Bibbia i suoi capitoli preferiti erano la Genesi e l’Esodo. Le piacevano le idee che qualcuno avesse costruito un’arca e ci avesse caricato sopra gli animali. Che qualcun altro avesse guidato un popolo intero lontano da una terra straniera e ostile. E che qualcun altro ancora fosse vissuto in un giardino forse ancora più bello di questo. Ma la sua idea di sacro e di divino si era leggermente modificata da quando aveva scoperto la laguna.
Il pensiero corse di nuovo a Jennifer. Forse era infantile da parte sua, ma a volte pregava che anche a lei venisse concessa un’impresa tanto grandiosa. Sentiva che c’era qualcosa di grande per lei scritto nelle stelle, ogni volta che ci pensava, solo che non sapeva cosa.
E poi c’era quella canzone. Ancora se la ricordava, la canzone preferita di Jennifer e a volte le veniva di cantarla, perché le ricordava che i miracoli avvenivano ogni giorno. Ma ricordava soltanto un rigo di testo. Ogni notte, quando stava bene, lei cercava sempre di ricostruirla.
Anche quella sera, prima di addormentarsi ci aveva provato e finiva per sognare di ballare intorno al fuoco con i suoi compagni, ma una festa di matrimonio. Di sognare che fosse Frederick il suo sposo e che Jennifer benediceva la loro unione. Finiva sempre svegliandosi che sentiva la voce della donna intonare un canto in loro onore. Erano i sogni che le piacevano di più, perché tutti in quei sogni erano vivi ed erano felici. Per questo ogni volta era sempre peggio svegliarsi.
Ogni tanto si prendeva qualche momento per fissare la sua capanna. Aveva appeso al soffitto le collane di conchiglie e pezzi di canna. Il vento quando ci soffiava dentro sembrava produrre una melodia. Poi c’era il flauto di Pan che le aveva regalato Jennifer. Le aveva insegnato alcune melodie. Siccome c’era anche un marinaio di origini peruviane gliene aveva insegnate alcune e lei se le ricordava ancora. Come si ricordava perfettamente di come Jennifer si mettesse a ballare per loro ogni volta che poteva.
Ogni tanto Claire suonava ancora. Si mise seduta, tese il braccio e prese lo strumento musicale.
Mentre il resto delle pareti era tappezzato di stuoie e drappi. Il più importante dei quali era una coperta. Era tutto ciò che restava della Fortuny assieme ad altri oggetti che la marea aveva portato con sé.
A volte Claire se lo chiedeva da dove venissero tutti quegli oggetti. Ricordava molto bene che, pochi giorni dopo del naufragio, gli adulti raccolsero dalla spiaggia bauli e altri oggetti trasportati dalla corrente. E anche delle colonne di fumo puzzolenti che si levarono dal bosco. Ricordava anche che ai bambini allora fu proibito di andare a vedere e che quelli più grandicelli li bloccarono. Per anni si era chiesta che cosa fosse quell’odore insopportabile. Adesso cominciava ad aver timore di averlo sempre saputo e, forse era anche peggio.
Posò di nuovo lo strumento e si distese e si stiracchiò, poi si alzò.
Si vestì con la sua tenuta da caccia: ossia reggiseno sportivo e gonna di stracci con spacchi laterali per le gambe. Una cintura di bixa la teneva ferma sui fianchi.
Poi si acconciò i capelli rifacendosi la coda, indossò la sua collana portafortuna e si sfiorò il ciondolo sul petto. Era fatto con un orecchino a cerchio di Jennifer. Tutto ciò che le aveva dato la donna prima di morire. Lei ne aveva fatto una collana. Così teneva viva la memoria di Jennifer.
Poi uscì a fare colazione e andò a fare un rapido bagno, prima di andare a occuparsi dei bambini. Stavano ancora male, ma sembrarono felici di vederla. Dopo averli visitati e assistititi per un po’, andò a caccia, dando il cambio a Sam. Il quale, prima di andare le strinse brevemente la spalla. La ragazza girò la testa verso di lui e vi lesse il dispiacere. Lei capì immediatamente a cosa era dovuto.   
Si limitò ad annuire e si accomiatò con quanta più delicatezza possibile.
Andò a fare la guardia. Oggi era il suo turno di badare al fuoco. Ovviamente non senza essersi portata dietro qualcosa da fare. Se no la noia sarebbe stata doppia. Non le dava fastidio restare in compagnia del fuoco, erano quanto di più vicino ci fosse a una compagnia vera e propria. E anche se era primavera era bene non lasciarlo mai spegnere. I predatori non facevano mai caso alle stagioni e su quell’isola c’erano.
Mentre badava alle fiamme lavorò alle punte di freccia. Lena e Barney erano tornati alle mangrovie dopo che lei se ne era tornata alla sua capanna. Kelani invece doveva essere a pescare o a prendere l’acqua.
Tutti nel villaggio facevano qualcosa e collaboravano al massimo delle loro possibilità.
Solo dopo aver ravvivato il fuoco almeno sedici volte, la ragazza si accorse del fragore delle onde. Alzò lo sguardo e vide che il mare si era ingrossato. Solo dopo si accorse anche dei gabbiani e del loro veleggiare e dello stridio continuo. 
Quando i rumori erano così forti poteva viaggiare indietro nel tempo con la mente. Se chiudeva gli occhi si ricordava perfettamente il giorno in cui abbandonarono le sponde battute dal vento dell’isola, dietro i Tre Grandi Picchi. Nella mappa appesa nella sua casupola i Tre Grandi Picchi non erano solo una specie di linea di confine naturale, ma anche una vera e propria muraglia. E lei non si ricordava che cosa ci fosse dall’altra parte. Purtroppo i suoi primi ricordi risalivano a ben altro periodo. Quello che le serviva l’aveva scordato.
Qualcuno si sedette accanto a lei sulla sabbia: «Ciao, Moto». Disse riconoscendo l’odore di sudore del ragazzo. Motoshiji Fumotoshi era giapponese coi capelli mossi lunghi fino al mento ed era uno dei pescatori. Da piccolo era stato continuamente oggetto di prese in giro per via del suo nome e dell’infelice somiglianza con la moto d’acqua e lo sci nautico. Oltre che con il fumo tossico. A salvarlo era stata proprio Lena che, dopo l’ennesima presa in giro, aveva sgridato tutti. Da allora Motoshiji era sempre rimasto al suo fianco. Quando viaggiavano sulla Fortuny era un bambino grassottello e riottoso, ma l’isola aveva contribuito a snellirlo e irrobustirlo. Ad ora, infatti, era uno dei più forti e, in un certo senso, lo si poteva spesso associare all’ombra di Lena.
Inoltre, a forza di stare a stretto contatto con loro, aveva finito per imparare l’inglese, oltre che a ribattere. Anche se non era riuscito a insegnare moltissimo della sua lingua ai compagni che, piano piano avevano imparato ad accettarlo.
Il ragazzo crescendo aveva perfezionato la strategia del giunco nella tempesta. La chiamava così e nasceva da un indovinello orientale: nella tempesta chi è più forte tra il giunco e la quercia? La quercia prima o poi si spezza nel vento, ma il giunco si flette, si piega e si rialza. Era anche la morale di una favola occidentale. Claire lo ammirava. Aveva un modo di fare che lo rendeva superiore a tutti loro. Anche a lei, che si sentiva maledettamente indietro in confronto a lui. E questa sensazione la faceva arrabbiare: cioè, lui, i grandi, sembravano così avanti che si domandava quando li avrebbe raggiunti. Soprattutto se li avrebbe raggiunti.   
Anche se continuava a mantenere un qual certo accento giapponese. Non era riuscito a insegnare il resto agli altri ragazzi. Forse tra tutti solo Lena aveva imparato qualcosa. A proposito, di solito stava sempre accanto a Lena perché era segretamente innamorato di lei e sosteneva che avrebbe dovuto proteggerla. Quando in realtà la ragazza era capacissima di difendersi da sola. Ma un compagno nella giungla non si rifiutava mai. In un certo senso, il ragazzo sapeva sempre quando lei si addentrava nella foresta. Nessuno riusciva a capire come facesse e lui non si sbottonava di certo.
«Ciao, Claire», la salutò, «Ti dispiace se mi riposo un attimo qui?»
«No, figurati». Fece lei riaprendo gli occhi e girò la testa verso di lui. Che aveva puntato le mani indietro e reclinato il capo come a prendere quel poco sole che filtrava dalle nubi. «Ancora pioggia in arrivo?» Avrebbe voluto intavolare con lui una conversazione più profonda eppure ogni volta che ce lo aveva accanto, quest’idea svaniva. E finivano sempre per parlare di cose superflue. Ma forse era meglio così, di cosa avrebbero dovuto parlare?
«Speriamo di no, non lo sopporterei». Borbottò la giovane spostandosi i capelli dal volto con una mano. Il ragazzo osservò incuriosito la sua opera e si mise a gambe incrociate. Però fu lei a notare un piccolo particolare: il fiore di loto appeso alla sua cintura, accanto al falcetto. Inclinò la testa di lato e gli chiese: «Che stavi facendo?»
«Sono andato a tagliare le canne per fare i nuovi arpioni e a rimettere in sesto la capanna di Sam. Ti giuro, è stata una faticaccia, ho dovuto tagliare del bambù largo così». Mise le dita di modo che formassero una circonferenza perfetta. E Moto aveva le mani grandi. «Non c’erano quelli più piccoli?»
«No, non sono ancora cresciuti».
«Questo è strano». Ponderò Claire. Aveva una strana e vaga sensazione. Appena appena la scintilla di un’idea. Purtroppo a stare lì tutti avevano imparato a prestare attenzione alla vegetazione e al cielo. Che stesse succedendo qualcosa?   
«Dagli tempo, la primavera è appena cominciata, no?» E i monsoni erano finiti da un mese, ma il tempo era talmente sballato che anche loro non ci capivano tantissimo. Queste precipitazioni erano anomale per la stagione, come anche il caldo persistente. Troppo caldo persino per i tropici e le latitudini in cui si trovavano. Anche se i monsoni non li investivano con la stessa potenza che in India, il loro passaggio era comunque devastante. Per non parlare delle trombe marine e dei tifoni. Finora non se ne erano mai visti, ma il pericolo era sempre lì. Però per una volta decise di lasciar perdere, non poteva permettere che il suo pessimismo avesse il sopravvento comunque e sempre. «Sì, hai ragione anche tu».
Moto le rigirò la domanda di prima e lei sollevò una delle frecce e la guardò, prima di alzare le spalle e rispondere: «Cercavo di farmi nuove frecce».
«Come sta andando?»
«Abbastanza bene». Costruire un arco e delle frecce era un’arte e non sempre andava a buon fine. Anche lei e suo padre, nel corso della loro vita ne avevano buttati via tanti perché venuti male.  
Solo allora il vento cambiò, Claire fiutò il profumo, e colse al volo l’occasione per porgli la domanda che più le premeva: «Quello non è un fiore di loto?» Chiese indicandolo, appuntato alla cinta del ragazzo. Lui lo guardò e poi lo sfilò delicatamente. «Ah, e poi Lena mi ha chiesto di riferirti un messaggio». Lo immaginava che ci fosse sotto qualcosa, era pur sempre la sua ombra. «Ah, sì?»
«Sì», ma invece di dirle cosa, le porse il fiore di loto. La ragazza lo prese dalle sue mani con un misto di stupore e imbarazzo. Lui si affrettò a spiegare che: «Mi ha detto di dirti che tra tre giorni vi incontrerete e che dovrete portare un fiore di saponaria e presentarvi al cimitero quando la luna sarà alta nel cielo».
«D’accordo, ci sarò».
«Un fiore di saponaria? Pensavo fosse questo.» chiosò confusa battendo le palpebre. Le guance tinte di rosso.
«No, questo te lo regalo. Semplicemente l’ho visto mentre tagliavo i bambù, mi sei venuta in mente e l’ho colto. Poi io preferisco il patchouli».
«Oh, grazie». La ragazza se lo sistemò tra i capelli, grata. Ma sapeva che era solo amicizia da parte sua. Il ragazzo non si era mai innamorato ed era impossibile che si fosse infatuato di lei così dal giorno alla notte. Semplicemente ogni tanto aveva questi slanci nei confronti delle sue amiche. In fondo Moto aveva un animo gentile.  

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Capitolo 13
*** Sarai con me ***


Sarai con me


Forse fu perché entrambi erano bambini, che non fu difficile per loro stringere amicizia tanto in fretta. Superate le prime barriere linguistiche, i due erano riusciti a comunicare a gesti e con gli oggetti usati alla stregua di modellini. Così Fred aveva scoperto che Aata era suo coetaneo e che veniva da un’altra isola. Fred aveva sgranato gli occhi per la sorpresa, poi l’aveva tempestato di domande cui il ragazzino, intimorito, non aveva risposto. Perciò si era dato una calmata e aveva usato di nuovo i sassi per farsi capire. Un po’ alla volta era riuscito a sapere che si trovavano in un piccolo arcipelago di nove dieci isole. E che quella su cui si trovavano era l’ultima del gruppo. Mentre la sua era la penultima. E, sempre usando i gesti erano riusciti a crearsi un piccolo dizionario per capirsi a vicenda. Per esempio albero per Aata era Tnmị, fungo era Hĕd, scimmia Ling e così via. Per contro, anche Aata cominciò ad apprendere i rudimenti dell’inglese di Frederick, dopo aver tentato con uno stentato francese. Ma Fred allora era troppo piccolo per riconoscere quella lingua e, nessuno tra i sopravvissuti, era di origine francese. «Come ci siete finiti qui?» Domandò il quinto giorno che passavano insieme. Scaldandosi al tepore del fuoco mentre mangiavano gli insetti abbrustoliti che avevano cacciato.
«Siamo naufragati». Rispose il bambino biondo. E dovette spiegare ad Aata che cosa fosse un naufragio. Con parecchie difficoltà ci riuscì. «Ah, è come quando si ribalta una canoa ma con più persone a bordo». Commentò poi quando capì l’altro.
«Da quanto siete qui?»
«Almeno quattro anni e tu?»
«Io dieci giorni».
Fred lo guardò sorpreso. Credeva che vivesse lì come Tarzan. Che i suoi genitori fossero morti a causa di un leopardo e che fosse stato adottato dai gorilla. Solo dopo seppe che al massimo su quell’isola c’erano gli orango tango.  
A parte questo il ragazzino si rivelò un’ottima compagnia. Era spigliato e vivace, anche se a volte lo guardava un po’di traverso. Quasi che avesse paura di lui. In un certo senso gli ricordò il gatto pescatore che l’aveva condotto lì.
Decisero di istituire dei turni di guardia per la notte e di cacciare insieme. Anche se Fred spesso rovinava le cacce perché era troppo rumoroso e prendeva la cosa come un gioco. Per loro fortuna, Aata aveva uno zainetto con delle provviste. Ma erano per una persona sola e lui non si era aspettato di trovare qualcuno con cui dividerle. Fred aveva l’impressione che sotto sotto Aata lo odiasse per questo. Lo capiva dagli sguardi accusatori che gli lanciava. E adesso che la sua pancia ringhiava di nuovo come se fosse di nuovo naufragato, lo capiva. Si fermò dal chiedere scusa perché, come aveva scoperto molto presto, il suo nuovo amico, non sopportava i piagnoni e le scuse ripetute.
Se voleva essergli utile almeno un po’, doveva stare zitto e fare del suo meglio. Se solo la Landa gli avesse fatto meno paura…
Fred non era abituato a quest’oscurità, a questa nebbia e gli mancava sua madre, temeva di non rivederla più. E poi Claire che contava su di lui. Come aveva fatto a essere così stupido da non pensarci? In sostanza, si era pentito delle sue azioni. Ora doveva tornare da loro. Ma non sapeva dove né come. Non sapeva orientarsi e non c’era muschio che potesse aiutarlo. Su quell’isola non cresceva neanche un ciuffo piccino picciò. Fu Aata a spiegargli che poteva usare i ragni, visto che fanno sempre la ragnatela a Nord. Da allora Fred non perse mai più l’orientamento. Anche se non raggiunse mai la sicurezza del suo nuovo compagno di giochi e d’avventure. Aata, infatti, si muoveva come se sapesse sempre dove andare.
Parlarono anche delle loro famiglie. Riuscirono persino a giocare, certi giorni che non sapevano che fare.
«Ma tu che cosa ci fai qui?» Gli chiese un giorno di pioggia, uno dei tanti di quel periodo.
«Io sono qui perché così potrò trasformarmi in un uomo». Annunciò tutto fiero il ragazzino gonfiando il petto e Fred sgranò gli occhi. Trasformarsi in un uomo? E come? 
Secondo la sua gente, al compimento del decimo anno di età i ragazzi dovevano recarsi su quest’isola e passare il tempo lì finché non avessero conquistato il favore degli spiriti. La Landa che loro chiamavano Bān brrphburus, cioè Casa degli Antenati, era il loro tempio e luogo di riposo dei loro morti. Per questo era tanto facile trovarci delle ossa umane, piccoli tumuli o santuari di pietra, legno e foglie. E si sentiva che c’era qualcosa di strano in quella parte di boscaglia. Le radici stesse avevano forme particolari. A volte era come se gli alberi si ergessero dai cadaveri o succhiassero nutrimento da essi stessi. E chissà quanti altri ce ne erano sotto i loro piedi, sotto la terra e neppure lo sapevano e li vedevano. Fred si portò le mani alla bocca e si alzò in piedi guardando il terreno del sottobosco, sgomento: quell’isola era un cimitero.
«É anche il modo che abbiamo di farci conoscere e poi accettare quando verremo ad abitare qui nella morte. Nella nebbia e nel vento, se guardi bene, si possono vedere. Io un po’ci riuscivo al mio villaggio». Confessò.
Il pensiero di Fred corse a suo padre. «Tu dici che i nostri cari sono qui?» Chiese, il cuore che batteva più rapido. Si guardò attorno nella speranza di scorgerlo, ma vide soltanto la vegetazione intorno a loro.
«Come saprai di esserci riuscito?»
«Quando troverò un uccellino dalle piume rosse». Sorrise quell’altro, mettendo in mostra la finestrella tra i denti.
«All’inizio pensavo che tu fossi un Phī, un fantasma, per i tuoi colori, ma poi mi sono accorto che sei di carne e sangue come me». Disse indicandolo.
«I miei colori? In che senso? Ah, per i miei occhi?» Capì il bimbo. L’altro confermò e aggiunse che era anche per via dei capelli. 
«Insegnami.» Si girò verso di lui, che masticava una radice e lo guardava confuso: «Insegnami a vedere gli spiriti, te ne prego».
«Non so se tu ne abbia il dono, però».
«Non lo so, ma tu insegnami, ti prego, voglio vedere anch’io delle persone». Dichiarò. Non era mai stato più serio.

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Capitolo 14
*** Non avrò paura ***


Non avrò paura

 

 

I giorni passarono relativamente in fretta. Quel dicembre si preannunciava caldo e soleggiato ma Claire sapeva che era bene non fidarsi. Una delle prime cose che tutti loro facevano la mattina era interpretare il tempo. Avevano imparato dei trucchetti niente male, tipo guardare i fiori: se i petali restavano chiusi tutta la mattina allora significava che c’era un temporale in arrivo. Stesso lavoro con le rondini e i pipistrelli, anche se erano diventati molto meno affidabili. Non sapevano ancora spiegarsi il perché. Gli altri preferivano guardare le nuvole. Per loro fortuna non c’erano cumulonembi e il cielo non era rosso.
Quello che le aveva detto Moto però non se l’era dimenticato. Anzi, la preoccupava il fatto che i bambù crescessero a questo ritmo anomalo. C’aveva provato in tutti i modi a non pensarci ma era stato più forte di lei.
Aveva messo il fiore in un cocco pieno d’acqua, vicino alle piante odorose che tenevano lontane le zanzare. Non era comunque durato tanto. Prese i vestiti ma fu investita da un odore tremendo. Doveva lavarli. Ne raccolse un cesto e andò al torrente.  
Lì trovò Kelani che stava lavandosi. La ragazza la salutò e le chiese di farle compagnia. «Tanto non hai già mangiato, no?»
«No, stamani non ho fame e ho bisogno di lavarmi, mi sembra di essere fatta di polvere». Ribatté Claire cominciando a spogliarsi. Avevano bisogno di una bella lavata anche quelli. Già che c’era. Prese i vestiti, un sasso che faceva al caso suo e qualche pianta di saponaria, poi si mise al lavoro, alternando sé stessa agli abiti. Per un po’si sentì il rumore del sasso sulle pietre e lo scorrere dell’acqua del torrente. Già molti vestiti si erano rovinati così facendo. Cercò di ricordarsi gli abiti dei defunti. Tra loro c’era più gente in camicia da notte che vestiti normalmente. Se non ricordava male erano naufragati di notte. Il sale aveva già rovinato i vestiti ma il sistema rudimentale che usavano non aveva fatto che peggiorare la situazione. E di quei vestiti non era rimasta che roba buona per fare gli stracci o i parei o quelle camice assurde che portavano.  Se Ida e Zaira non si fossero date una mossa a cucire nuovi vestiti presto tutti avrebbero avuto seri problemi.
L’enciclopedia dei nonnini poteva aiutarli solo fino a un certo punto. Non erano né falegnami né carpentieri e non era neanche detto che le piante di canapa e bambù o di agave potessero soddisfare la produzione tessile.  
«Stai meglio?» Le domandò a un certo punto l’amica che stava lavandosi la lunga chioma.
«Sto bene». Disse.
«Meglio, ma sei sicura? Ti vedo pensierosa».
«Sì è che non riesco a togliermi dalla testa quello che ha detto Moto qualche giorno fa».
«Ah, sì? Cosa?»
«A proposito delle piante». E le raccontò tutto. Kelani continuò a sciacquarsi la testa con la saponaria. Una pianta da cui ricavavano una versione rudimentale dello shampoo e del bagno schiuma tramite la saponina dello stelo.
Kelani si spostò la cappa nera e bagna su una spalla e prese a strizzarla mentre diceva: «Stai pensando a una carestia?»
«Non vorrei che fosse così». Ribatté Claire, cercando di non chiamare a sé questa sventura. Non che fosse superstiziosa, ma riconosceva il peso di certe parole su quell’isola. E l’idea di affrontare un’altra carestia le metteva orrore. Cinque anni prima l’isola marcì quasi completamente a causa di una malattia delle piante. Fu anche la stessa pestilenza che si portò via gli ultimi. Non avevano neanche idea di come si fossero salvati se non che era stato un miracolo.  Da allora non si era ammalato più nessuno. Non così gravemente e le piante erano tornate in salute.
«Non darci peso, sicuramente non è niente». Cercò di rassicurarla l’altra mentre Claire si rovesciava una grossa ciotola-conchiglia in testa per sciacquarsela. «Come stanno i bambini?» Chiese per cambiare discorso, dopo aver preso a sua volta la saponaria e cominciando a lavarsi la testa. In breve si ritrovò i capelli pieni di schiuma e ascoltò le parole dell’amica solo con un orecchio.
Non sarebbe dovuta tornare al villaggio, avrebbe dovuto invece trovare il coraggio di scalare quei tre picchi. O fare il giro dell’isola e vedere cosa diavolo c’era oltre la Landa. Era l’unica cosa sensata da fare e anche l’unica per capire molte cose.
Perché Conrad vietava a tutti di salire su quelle cime o di inoltrarsi nella Landa? Cosa c’era di così prezioso per lui? Perché lei lo conosceva abbastanza per capire che se lui impediva a qualcuno di fare qualcosa, allora aveva un tornaconto personale. In quel momento ebbe pietà per quel poveraccio: un uomo che si teneva tutti i suoi segreti stretti al petto e che non li avrebbe condivisi mai. Lo ricordava ancora quando da piccola gli diceva che l’unico modo per mantenere un segreto era far sì che gli altri che sapessero fossero morti. E Sally tutte le volte che gli dava ragione.
Smise di insaponarsi la testa e fissò l’acqua. 
Quante persone aveva ammazzato allora lui per i suoi sporchi segreti? Si domandava la giovane con orrore e una qual certa morbosità. Se era capace di circuire una ragazzina allora non aveva problemi a macchiarsi di crimini peggiori.
Cercò di sviare i suoi stessi pensieri ma non ci riuscì. Non avrebbe… Oh, c’erano troppe cose che non avrebbe dovuto fare. Bè, era stanca.
Abbatté un pugno in acqua sollevando uno schizzo.
«Claire!» Esclamò Kelani spaventata. L’amica la guardò e Kelani si portò una mano alla bocca, gli occhi tondi sgranati per la paura. La giovane immaginò di avere il volto indurito in quell’espressione esasperata. Non le importava di farle orrore: «Sono stufa».
«Di cosa?»
«Di tutta questa storia, di Conrad e adesso forse sta per arrivare un’altra ondata e…» e condivise con lei i suoi pensieri. Alla fine la mora si limitò a dire che doveva smettere di pensarci, che ci stava già occupandosene Lena. «Noi dobbiamo solo aspettare». La incoraggiò. Claire sorrise, concedendole il beneficio del dubbio. Kelani aveva perso i genitori e le sorelle nel naufragio e in lei e Jennifer aveva ritrovato un po’di calore umano. Molte volte Claire era andata a dormire nella capanna delle due.
La rispettava e le voleva molto bene ma a volte pensava che la paura le avesse inibito le iniziative. Si sciacquò la testa tuffandola sotto la corrente. Poi si rialzò e si scostò i capelli dal volto. Li strizzò e li legò in una treccia raffazzonata, poi li fermò con uno stelo d’erba. «Vorrei darti ragione, Kelly, ma non posso».
«Hai già fatto?»
«No, ne ho ancora per un po’». Avrebbe voluto andarsene ma aveva ancora lì tutta la sua roba.
Finì di lavorare e si rivestì, poi prese il cesto del bucato e andò a stenderlo. Kelani certe volte non capiva. Non solo nelle cose più importanti come la caccia o queste questioni. Lei diceva sempre di aspettare, che il tempo avrebbe provveduto. Sì ma se al tempo non gli si dava una mano… e poi era stanca di Conrad.
Perché non una bella freccia e via? Quest’idea per quanto terribile fosse non l’aveva abbandonata. Era dalla morte di Sally che ci pensava. Ne teneva apposta una per lui. Ma Kelani non poteva capire. Come poteva comprendere una il cui sogno era diventare veterinaria? Ovvio che non le avrebbe mai chiesto di diventare sua complice, neanche ci pensava. Il primo istinto di Kelani nei confronti di quella bestia sarebbe stato quella di aiutarla nonostante le frecce.
Quindi il massimo che riusciva a fare, era occuparsi dei pochi animali che avevano. Per essere precisi stava cercando di convincere lei e gli altri ad adottare dei galli e delle galline selvatiche. “Io te le ammazzo quelle galline e poi ci facciamo il pollo arrosto”. Pensò mentre stendeva l’ultimo panno. La discussione per quel che ne sapeva era ancor aperta, perché su un’isola anche questo poteva essere pericoloso. Avrebbero potuto attirare ancora più predatori di prima.
Ancora una volta le tornò in mente Moto e l’invidia si fece risentire.  

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