Sogni infranti e seconde occasioni.

di Rosette_Carillon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Città Eterna ***
Capitolo 2: *** Notte francese ***
Capitolo 3: *** Les enfants qui s'aiment ***



Capitolo 1
*** La Città Eterna ***


                                  La Città Eterna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

<< Mi dispiace che tu sia costretta a farmi da balia. >>
Glielo aveva detto in un italiano talmente perfetto che, per un momento, Lia era rimasta senza parole. La tazza di caffè in mano, sollevata a mezz’aria, vicina alle labbra.

Jeannot sapeva parlare l’italiano, e lei lo sapeva, l’aveva sempre saputo, anche se non si aspettava che fosse così bravo, che non avesse un accento o un pronuncia anche solo vagamente francese.

<< Oh, nessun problema, >> sorrise lei, cecando di non dare a vedere la sorpresa << stai rendendo il mio stage decisamente più interessante di quanto avrebbe dovuto essere in origine. >>

Lui piegò le labbra in un sorriso appena accennato, e le rivolse un inchino scherzoso. Lia si sentì orgogliosa per quel sorriso: l’attore era a Roma da un mese ormai, e non l’aveva mai visto sorridere, non davvero.

Il suo stage a Cinecittà non le dispiaceva: sarebbe potuta andarle molto peggio; sarebbe potuta finire a fare la segretaria e fare caffè e fotocopie, invece poteva mettere mano alle sceneggiature, adattare copioni, aiutare, occasionalmente, a sistemare i set esterni e interni e assistere alle riprese di numerose scene. Aveva già conosciuto diversi registi, attrici e attori, fra cui Jeannot.

Non aveva capito bene le dinamiche del fatto, sapeva solo che l’attore rifiutava di parlare italiano, pertanto aveva bisogno di un interprete, e, evidentemente, per quel lavoro non c’era persona più adatta di una stagista che lavorava gratis.

Fare da interprete, mostrare Roma a un attore abbastanza famoso da poter essere riconosciuto era un bel cambiamento per una sempre abituata a stare dietro le quinte, ed era anche l’occasione per imparare qualcosa di nuovo. Sarebbe stata sempre riconoscente nei confronti della sua supervisor per quell’opportunità.

Jeannot rimase in silenzio. Si passò una mano fra i ricci castani, poi sospirò guardandosi distrattamente la sua tazzina di caffè ormai vuota. Dalla tasca della giacca prese l’accendino e il pacchetto di sigarette << fumi? Ti dà fastidio se… >> chiese in francese, prendendo una sigaretta e portandosela alle labbra. Lia scosse la testa, e lo osservò fumare in silenzio, mentre lei terminava il suo macchiato.

Avevano tutto il tempo del mondo per rilassarsi in quel piccolo bar quasi sconosciuto pur essendo vicino al Pantheon.

Sarebbe stato difficile che qualcuno potesse riconoscere Jeannot, nessuno passava per Via Oscura perché voleva passarci, a meno che non abitasse lì, ovvio. Spesso ci arrivava chi si perdeva, turisti o romani. Lia la conosceva per quel motivo, con la differenza che lei amava perdersi, allontanarsi dalla folla, dal caos cittadino e scoprire tutti i luoghi segreti della Città Eterna, quelli meno visiti, quelle strade che sembravano disabitate, fuori dal tempo e dallo spazio.

<< Merci d’être si patiente. >>

Lia sorrise. Aveva sentito delle voci, principalmente per via del suo lavoro, degli ambienti che frequentava, non solo per via di internet. << L’italiano è una lingua difficile, >> tentò. Se lui avesse voluto confermare le voci che lei aveva sentito, sarebbe stata una decisione interamente sua, lei non avrebbe fatto nulla per saperne di più. Era curiosa ma, trovandosi dall’altra parte, sarebbe certamente stata estremamente gelosa della sua privacy.

<< Mia madre me l’ha insegnato sin da quando ero bambino, >> disse lui, sorridendo a mo’ di scuse, la sigaretta in mano. << L’Italia mi ricorda Peter. Anche se il film l’abbiamo girato a Venezia… >> scosse la testa e aspirò una boccata di fumo. << Avrai sentito le voci su di noi, immagino. >>

Lia annuì << la gente parla tanto, anche di ciò che non capisce o non conosce. >>
Jeannot le rivolse uno sorriso triste. << Grazie per avermi consigliato il caffè: il mal di testa mi è passato. >>

<< Funziona solo col mal di testa causato dallo stress. È un consiglio che mi aveva dato una studentessa di medicina. >>

Niente confessioni.

Se le voci fossero vere o meno, sarebbe rimasto un segreto; un argomento che sarebbe stato oggetto di pettegolezzi ancora per un po’, finché non sarebbe capitato qualcosa di più interessante di cui parlare. Lei, dal canto suo, stava cominciando a pensare che doveva esserci almeno un fondo di verità in tutto quello che la gente diceva.

Era passato poco più di un anno da quando ‘ Concerto per arpa e flauto ’ era uscito nelle sale, quasi due, da quando era stato girato a Venezia. Erano passati quasi quattro mesi da quando la co-star di Jeannot in ‘ Concerto per arpa e flauto ’, Peter O’Leary, era stato dichiarato disperso nelle Alpi svizzere, mentre faceva un escursione. Quasi quattro mesi senza notizie, trascorsi nell’incertezza e nella speranza. Nessun corpo era stato ritrovato, ma il tempo trascorso era tanto.

<< Ti è mai capitato di… vivere qualcosa, ma non fino in fondo, rinunciando a tante occasioni, e quando tutto finisce, ripensi a cosa sarebbe potuto accadere, e capisci che tante cose non sono capitate e la colpa è tua e… >> si interruppe e scosse la testa << scusa. Quello che dico non ha nemmeno senso. >>
<< No. No, credo di aver capito. Non vivere qualcosa fino in fondo, e desiderare una seconda occasione, perché col senno di poi si sa sempre cosa fare. >>

<< Sì, una seconda occasione: è questo quello che vorrei. >> Spense la sigaretta sul posacenere.

Forse non si era reso di ciò che aveva finché non l’aveva perso, o forse l’aveva sempre saputo, ma non aveva mai voluto prendere in considerazione quell’eventualità. Perché, dopotutto, cosa sarebbe potuto andare storto? E perché proprio a lui?

Perché a me? No, a me non capiterà. L’illusione più grande di ogni essere umano.

Aveva dato per scontata la presenza di Peter nella sua vita, l’aveva considerata talmente scontata che si era accontentato di averlo anche solo come amico, tutto pur di averlo. Era stato stupido, e ingenuo, sarebbe dovuto essere stato più egoista.

Gli era rimasta una vecchia chat, che non aveva il coraggio di cancellare, ma nemmeno di rileggere.

A Febbraio sarò in Francia. Dovremmo vederci ;-)

Certo J

Aveva sempre avuto paura di mostrarsi troppo affettuoso nei suoi confronti, in privato. In pubblico, invece, aveva sempre dato spettacolo.

Alcuni lo trovavano ‘tenero’, altri pensavano che fosse ‘un ragazzetto in cerca di attenzioni’. E poi c’era anche chi ci aveva visto giusto definendolo ‘talmente innamorato da non potergli stare lontano per più di un secondo. ’

Come va sulle Alpi?

Quello era l’ultimo messaggio, e la risposta non era mai arrivata.

Il primo mese senza notizie l’aveva trascorso al pc a vedere tutta la filmografia di Peter, e aveva perso il conto di quante volte aveva rivisto il film che li aveva fatti conoscere, ascoltato la colonna sonora solo per illudersi di essere ancora a Venezia, sul set, con lui.

C’erano tante cose che avrebbe voluto dirgli, di cui avrebbe voluto parlare, ma aveva avuto paura, si era convinto che non avrebbero avuto futuro e, forse era stata solo una sua impressione, ma gli era sembrato che, in qualche modo, lui avesse capito, e avesse cercato di tenerlo lontano.

Dopotutto, undici anni di differenza erano tanti; e dopo qualche tempo si sarebbe dimenticato di lui, avrebbe conosciuto un’altra persona, si sarebbe innamorato di nuovo e… no. Sarebbe successo, lo sapeva, la sua vita continuava, ma quel pensiero non lo faceva stare meglio, anzi. Andare avanti lo faceva sentire colpevole, come se smettere di soffrire avesse voluto dire dimenticare, ignorare quello che aveva provato per Peter. 

Il rimpianto, il dolore voleva tenerseli stretti, perché finché avrebbe sofferto, Peter sarebbe stato reale, sarebbe potuto tornare a casa.

Lia era rimasta in silenzio per tutto il tempo in cui lui si era perso nei propri pensieri. << Scusa. Solitamente non sono così. >>

<< Ti va una passeggiata prima di tornare in albergo? Conosco tutte le zone meno frequentate, e non pericolose. >>

Jeannot annuì. Gli avrebbe fatto bene camminare un po’ e prendere una boccata d’aria fresca. Si sarebbe schiarito le idee, e magari quella notte sarebbe riuscito a riposare decentemente.

E doveva ammettere di trovare piacevole la compagnia di Aur- Lia.

Adorava il vero nome della sua interprete: Aurelia. Non tanto per il significato, che si era fatto spiegare, quanto per il suono, che sapeva di antico, una storia appartenuta a un’altra epoca. Tuttavia, l’interprete in questione non era del suo stesso avviso, e preferiva essere chiamata semplicemente Lia.

‘Aurelia è un nome importante’ gli aveva detto ‘un nome da palcoscenico. Ma io mi trovo meglio dietro le quinte. ’

La notte, nella sua stanza d’albergo, rimase a lungo sdraiato a fissare il soffitto in attesa di prendere sonno. Nella sua mente continuavano a succedersi, come fotogrammi di un vecchio film, scene vissute assieme a Peter, ricordi che si teneva stretto.

Il loro primo incontro, la prima scena girata assieme, la prima uscita –un’idea di Peter- ‘ ti vedo teso. Hai bisogno di rilassarti un po’: questa sera usciamo. ’ Non aveva avuto la possibilità di rifiutare e, se doveva essere onesto, non l’avrebbe fatto.

Ancora dieci giorni e avrebbe lasciato Roma per tornare in Francia, ancora dieci giorni e sarebbe cominciato Febbraio e, lo sapeva, sarebbero stati altri giorni senza notizie di Peter.

Era morto. Era passato troppo tempo perché potesse essere ancora vivo. Avrebbe dovuto farsene una ragione, ma non voleva.

Si sedette sul materasso, le coperte strette attorno al suo corpo come a proteggersi dal mondo, e lasciò che le lacrime gli rigassero le guance.

L’ultima volta che si erano visti era stato a Londra.

Erano usciti, e lui aveva bevuto un po’ troppo, come faceva quando era nervoso. Quella volta era stato sul punto di rivelargli tutto, c’era andato davvero molto vicino.

Aveva cominciato a dirgli quanto fosse importante per lui, quanto sentisse la sua mancanza ogni volta che erano lontani, poi Peter l’aveva interrotto ridacchiando sommessamente, e gli aveva tolto il bicchiere di mano. << Qualcuno ha bevuto un po’ troppo, mi sembra. >> L’aveva riaccompagnato in albergo, e la loro serata era terminata lì.

Jeannot tornò a sdraiarsi sotto le coperte, desiderando sparire, non doversi alzare la mattina seguente per andare a lavoro, non doversi alzare mai più. Voleva che il mondo si fermasse, che il sole smettesse di sorgere, la vita di continuare come se nulla fosse capitato.

Da qualche parte, forse gliel’aveva fatta leggere sua madre, aveva visto una vignetta di Mafalda: fermate il mondo, voglio scendere! Ecco, era così che si sentiva.

 

§

 

La moneta roteò su se stessa un paio di volte prima di cadere nell’acqua della fontana, assieme a tutte le altre.

Il sole stava tramontando su Roma, e il cielo aveva assunto tinte fra il rosa e il dorato. Quello era per Jeannot il momento peggiore delle giornata: il momento in cui il giorno finiva, ma non era ancora notte, e non poteva concedersi il lusso di dormire e smettere di pensare.

La Fontana di Trevi era imponente, magnifica, aveva una maestosità che non traspariva minimamente dalle foto che le venivano scattate e, in un altro momento, con uno stato d’animo diverso, sarebbe stato ben felice di poterla ammirare.

Aveva deciso di buttare una monetina nelle sue acque perché… bè, perché era stupido, non c’erano altri motivi. Di certo Peter non sarebbe tornato in vita per lui, povero idiota, che aveva espresso un desiderio e l’aveva affidato a una fontana.

Eppure Roma gli sembrava una città magica, dove tutto poteva accadere e poi, la speranza era tutto ciò che gli era rimasto.

Si allontanò dalla Fontana deciso a tornare in albergo, sperando di non perdersi. Era solo, Lia non era con lui. Non sarebbe dovuto essere lì, non sarebbe nemmeno dovuto uscire. Sarebbe dovuto restare nella sua stanza a riposare, starsene tranquillo, così, magari, il giorno dopo avrebbe evitato di insanguinare nuovamente il set.

Dopo cena aveva provato a mettersi subito a letto e addormentarsi, ma non ne era stato in grado, allora aveva deciso di uscire. Tanto, peggio di così…

Cominciò a camminare allontanandosi dalla fontana, ma senza badare alla strada che stava percorrendo e, senza quasi rendersene conto, arrivò in Piazza del Popolo.

C’era gente. Tanta. Troppa. E lui era davvero stanco, stordito. Il mondo prese a girargli attorno.

Tolse il cellulare dalla tasca della felpa, e cercò l’applicazione della mappa.

<< Jeannot? Jeannot che ci fai qui? >>

<< Lia? >> per poco il cellulare non gli cadde di mano. << Ehm… io… >>

Lei scosse la testa << scusa, non sono tua madre, non mi devi rispondere. Mi sono solo preoccupata. Insomma, dopo questo pomeriggio… non ti sarebbe convenuto restare in albergo a riposare? >>

L’attore annuì distrattamente. << A-avevo bisogno di un po’ d’aria fresca. >>

Lia lo osservò con attenzione. << Sai come tornare all’albergo? >>

<< Ah… ehm, >> si schiarì la gola << temo-temo di essermi perso. >>

Lei annuì << Roma è fatta per perdersi. Anche le persone nate e vissute qui faticano a orientarsi. Andiamo, ti accompagno. >>

<< Oh, no, insomma, tu sarai qui con qualcuno… io non-non… >>

<< Jeannot, stai bene? >>

<< Scusa. >>

<< Andiamo, ti accompagno in albergo, >> decise, allungando una mano e posandola sul braccio di lui.

<< Scusa. Ormai sono tre mesi che mi fai da balia. Dovresti davvero farti pagare. >>

<< Su, su vieni con me: sei stanco. >>

Lia lo guidò per le strade di Roma, allontanandosi da Piazza del Popolo, diretta verso doveva sapeva essere l’albergo in cui alloggiava l’attore.

<< Roma è davvero bella di notte. Sembra quasi magica. >>

<< Dì un po’, hai bevuto? >> scherzò.

<< No. È solo che mi sembra davvero che tutto sia possibile. Guarda la luna: sembra fatta di latte, d’argento liquido che cola sui tetti. >>

<< Senti, magari non sono affari miei, ma dovresti parlarne con qualcuno. E, no, cambiare argomento in quel modo non funziona. >>

L’attore rallentò fino a fermarsi sul marciapiede, e lei si fermò a sua volta con un sospiro << c’è qualcosa che ti tormento, lo so, è palese, lo capirebbe chiunque, e dovresti parlarne con qualcuno. >>

<< No, >> scosse la testa << non serve. Si tratta solo di idiozie… non è nulla di cui preoccuparsi… >> la voce si spezzò, e lui sollevò la testa verso l’alto per impedire alle lacrime di scendere, tenendo con le mani il cappuccio della felpa perché restasse al suo posto coprendogli la testa. Quando abbassò nuovamente lo sguardo, gli occhi brillavano di lacrime. << Peter O’Leary non era un semplice amico. Io per lui ero ancora un moccioso, anche se, quando ci siamo conosciuti, avevo ventidue anni. Dopotutto, undici anni di differenza sono tanti, >> si strinse nelle spalle, apparendo incredibilmente piccolo e fragile << lui non è mai stato… mio e ->> si interruppe deglutendo a vuoto, incapace di continuare a parlare.

Non c’era altro da aggiungere. Lui non era mai stato suo, pertanto non aveva il diritto di farsi vedere in lacrime, di portare un lutto così sofferto per colui che era stato solo un amico, conosciuto da nemmeno tanto tempo.

Lia si passò una mano sul volto, cercando di pensare velocemente. Poteva riaccompagnare Jeannot in albergo, augurargli la buona notte, e sperare di trovarlo vivo e in condizioni più o meno accettabili il giorno dopo, ma poi sarebbe certamente stata lei a passare la notte in bianco per via del senso di colpa. L’uomo era solo e disperato: non poteva lasciarlo solo in una città sconosciuta.

Casa sua non era lontana. Era un piccolo condominio a due piani con due ingressi, il suo appartamento era al piano terra. E gli inquilini del piano di sopra erano tranquilli e riservati.

Le sembrò già di vedere la notizia su tutti i giornali: Scintilla scocca fra star del cinema e stagista.

E cos’avrebbe detto a lavoro? Eppure, l’altra notizia che rischiava di leggere suonava tanto come: star si suicida nel bagno dell’albergo.

Bè, forse la seconda era un po’ troppo tragica.

<< Vieni a casa mia, dormi da me questa sera. Ho una stanza in più, anche se non è certo un albergo a cinque stelle. >>

<< Non voglio disturbarti ancora. >>

<< E io non voglio lasciarti solo. Mi sembri davvero distrutto, lascia che ti aiuti. Non devi dirmi nulla, ma, bè: non mi sento tranquilla sapendoti da solo in una stanza d’albergo. >>

Lui la guardò a lungo, prima di abbassare la testa a disagio e annuire. Effettivamente, non voleva stare da solo.

Quella notte dormì nella stanza accanto a quella di Lia, in un piccolo appartamento vicino a Piazza del Popolo, che la donna condivideva con un grosso gatto tigrato, il vero proprietario di tutto il condominio che, pertanto, poteva andare da un appartamento all’altro a suo piacimento, per ricevere cibo, affetto, o un posto in cui dormire.

Tiberio Lucrezio Scipione, il gatto, quella notte scelse di dormire nel letto di Jeannot, forse intuendo la tristezza di quello sconosciuto che era stato portato in casa sua. Si sistemò vicino alla sua schiena, e attese che prendesse sonno; si arrampicò sopra una sua spalla, durante la notte, quando lo sentì agitarsi, e prese a fare le fusa vicino al suo orecchio fino a calmarlo.

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Capitolo 2
*** Notte francese ***


                                 

                                                                        Notte francese

 

 

 

 

 

 

 

<< Lia, >> la chiamò, e lei si voltò nella sua direzione, la tazza di cioccolata calda in mano. Gli sorrise, e lui ricambiò. << Sono venuto a salutarti. La mia partenza è stata anticipata, parto questa sera, >> spiegò prima di stringerla in un abbraccio impacciato.

Lei posò la tazza sul tavolo e ricambiò.

<< Merci pour tout. Mi mancherai. Tu, la tua pazienza, i tuoi consigli. >>

Lei rise << io sono qui a Roma, e, bè, se hai ancora il mio numero… >>

<< Certo, >> annuì.

<< Adesso ti prenderai un periodo di riposo, mi auguro. >>

Jeannot chinò la testa, colpevole << non posso davvero restare senza nulla da fare, ho bisogno di tenere la mente occupata, altrimenti penserò a lui. Buona fortuna per tutto. >>

<< Anche a te. >>

                                                                                              

                                                                          §

 

Era stanco, e quella era una di quelle serate in cui si sentiva particolarmente asociale. Non antiqualcuno, no, proprio asociale, al limite della misantropia. Se fosse stato per lui, sarebbe rimasto a casa, a letto, e poi, se doveva essere sincero, non si sentiva nemmeno tanto bene. Forse gli stava venendo la febbre, oppure stava così al pensiero che quella sera, in quella sala, a respirare la sua stessa aria ci sarebbe stato anche Peter.

La prima apparizione pubblica di Peter O’Leary dopo quattro mesi di silenzio. Quattro mesi e sei giorni, per la precisione.

Si era ormai arreso all’evidenza, o meglio, a ciò che sembrava essere tale, quando il messaggio di Lia aveva sconvolto la sua pacifica giornata che, fino a quel momento si era alternata fra spartiti per flauto e clip di ‘Concerto per arpa e flauto. ’

Come stai?

Sul punto di rispondere il classico - bene, tu? -, una vocina nella sua mente gli aveva suggerito che potesse esserci un motivo preciso per cui quella domanda era stata posta.

Altro messaggio da Lia: vi siete sentiti?

Oh sì, si era davvero perso qualcosa.

Con chi?

Sta scrivendo…

Sta scrivendo…

Sta scrivendo…

Sta scrivendo…

Sta scrivendo…

Peter O’Leary.

Era ricaduto di peso sulla sedia del tavolo, fortunatamente vicina a lui, il cellulare stretto in mano.

Di cosa stava parlando? Peter era morto.

Forse aveva letto male. Doveva aver letto male, invece no. Il nome era lì, sullo schermo.

Aveva chiuso la chat e aveva aperto internet.

Peter O’Leary.  News.

Articoli di blog e giornali, video di youtube si presentarono davanti a lui. Non c’era molto materiale, ed erano tutti caricamenti piuttosto recenti, il più vecchio era di 12 ore prima.

Lesse i titoli.

 

Dopo quattro mesi, la famiglia O’Leary rompe il silenzio.

 

Peter O’Leary, vivo e vegeto, torna sulle scene.

 

Ritorno dal regno dei morti.

 

Come stai?

Come doveva stare? Il bastardo era vivo e non si era degnato di dirgli nulla. Che fossero fake news? Si trovò a desiderare che lo fosse, ma allora Lia non gli avrebbe scritto. Oppure gli scriveva proprio per quel motivo, per assicurarsi che lui non fosse così stupido e disperato da credere a quelle idiozie.

Il cellulare squillò. Era Lia. Si scusava per aver chiamato, ma era preoccupata, voleva assicurarsi che lui stesse bene, che lo shock non fosse stato troppo forte. Lei aveva saputo la sera prima, da un’amica conosciuta durante lo stage.

Jeannot la lasciò parlare, incapace di dire nulla, finché la rabbia scemò, lasciando solo un dolore sordo all’altezza del petto, come se qualcuno gli avesse trapassato lo sterno per raggiungere il cuore e comprimerlo con violenza.

Dopotutto, riuscì ad articolare, lui e Peter era solo amici, forse nemmeno quello, non c’era alcun motivo perché lui dovesse sapere certe notizie prima della stampa.

Quella telefonata si era svolta due giorni prima del Galà, e Jeannot aveva ragionato su tutti i modi possibili per evitare di prendere parte alla serata. Aveva seriamente considerato l’idea di buttarsi dalle scale, storcersi una caviglia, fingere di avere la febbre, inventarsi l’esistenza di un parente ammalato, o la vecchia scusa della morte del nonno, perché, si sa, i nonni posso morire e risorgere nell’arco di un anno innumerevoli volte come nemmeno Gesù Cristo avrebbe potuto.

Alla fine era stato costretto ad andarci.

Peter gli si era avvicinato non appena era rimasto solo. Aveva cercato di tenersi impegnato per tutta la serata, standogli lontano, parlando con chiunque gli passasse vicino, evitando anche di guardarlo. Poi si era allontanato per prendersi da bere, e lui l’aveva raggiunto. Si era sentito una piccola volpe in trappo, circondata dai cani. Una volpe stupida, tra l’altro, visto che aveva segretamente sperato di potersi confrontare col cane.

<< Ehi, allora sei davvero vivo. >> La miglior difesa è l’attacco. E l’indifferenza. Fagli vedere che di lui non t’importa, consigliò una voce nella sua testa, fagli vedere che sta bene, che non ti sei minimante preoccupato per lui. Ma quella voce era crudele, voleva che Peter soffrisse. Mostragli quanto ti ha fatto soffrire, quanto sei stato male, fagli vedere cosa ti ha fatto.

<< Non essere così deluso, qualcuno potrebbe pensare che io non ti piaccia. >>

Jeannot gli rivolse uno sorriso di circostanza. Una scenata, la rabbia, così come mostrarsi vulnerabile, non avrebbe cambiato ciò che era stato né l’atteggiamento che Peter aveva scelto di avere nei suoi confronti.

Mandò giù un lungo sorso del Manhattan che aveva in mano semplicemente per prendere tempo, perché non voleva parlare con lui, ma non voleva nemmeno che se ne andasse.

<< Jeannot, sono successe tante cose… e la mia famiglia non sapeva quanto tu fossi importante per me. >>

<< Non ti ho accusato di nulla. >> Magari non a parole, ma il suo sguardo, il suo tono di voce l’avevano fatto per lui. Terminò il cocktail e lo posò su un vassoio che vide passargli vicino.

Peter gli disse qualcosa, ma non lo sentì. Si portò una mano al volto a schermare gli occhi, stordito da un improvviso giramento di testa. Una mano gli strinse forte un gomito.

<< …not? Jeannot? >>

<< Scusa. >>

<< Stai sanguinando. >>

E in quel momento sentì il sangue colare dal naso, raggiungere le labbra. Istintivamente, piegò la testa in avanti, portandosi le mani al volto e premendo la narice.

Stordito, si lasciò trascinare in bagno e aiutare.

Peter gli premette una mano sulla fronte. Era calda, ma Jeannot non voleva sentire ragioni: stava bene, non c’era alcun motivo per preoccuparsi, potevano tornare in sala e aspettare il termine della serata.

<< Per te, il Galà finisce qui, e anche per me, visto che ora ti accompagno a casa. >>

Protestare fu inutile, Peter non lo avrebbe lasciato tornare da solo in una casa in cui non ci sarebbe stato nessuno ad aspettarlo. E poi, ma quei pensieri li tenne per sé, sarebbe potuta essere il momento buono per parlare e chiarirsi.

La notte era silenziosa, e il cielo sgombro, illuminato dalla luna e dalle stelle. Sembrava quasi che un velo d’argento stesse ricoprendo il mondo: uno spettacolo affascinante per chi aveva fatto l’abitudine al cielo d’Irlanda.

In quei giorni Jeannot abitava in una vecchia casa di famiglia, un po’ in periferia, da cui si vedeva il viola dei campi di lavanda della Provenza.

L’abitazione, a un piano, era appartenuta a sua nonna paterna. I muri in pietra, ampie finestre con persiane verdi, e piante ovunque. Sembrava quasi di essere in un piccolo angolo di paradiso, lontano dal mondo e dalla quotidianità.
<< Mi dispiace di averti reso difficili questi mesi. >>

<< Sì? Non sembra ti interessi molto di me. >>

<< Cosa ti fa pensare che tu non mi interessi? >>

<< No so, forse il fatto che tu sia morto e risorto senza dirmi nulla?! E lo so che non ti interesso in quel senso, >> ecco, l’aveva detto, si era reso ridicolo con le sue mani. Ma almeno era stato sincero, magari avrebbe ottenuto un qualche bonus sincerità, no?

La sua camera da letto era al primo piano, e lui non aveva alcuna voglia di salire quei pochi gradini in legno. Probabilmente, se fosse stato da solo, si sarebbe addormentato sul divano del salotto.

<< Jeannot… >> il modo in cui Peter sospirò il suo nome gli fece quasi mancare la voce e il poco coraggio che era riuscito a trovare senza sapere come. << Sei troppo piccolo per me. >>
<< Troppo piccolo? Ho ventiquattro anni! >>

<< Guardati: hai ancora le labbra sporche di latte, >> lo prese in giro, passandogli il pollice sopra il labbro inferiore per asciugare una goccia immaginaria, e anche perché era la scusa perfetta per poterlo toccare.

<< Le avrei sporche di altro, se tu me ne dessi la possibilità. >>

<< Ma sentitelo! Che linguaggio! >> gli prese il mento fra due dita << eppure hai un faccino così dolce e innocente… non mi sarei ai aspettato che tu avanzassi certe proposte sconce. >>

Jeannot si allontanò da lui << a quanto pare ci sono tante cose che non ti saresti aspettato da me. >>

<< Jeannot, ehi, mi- >>

<< No, >> si passò le mani fra i capelli, conscio che, con le prossime parole si sarebbe rovinato da solo. Aveva chiesto una seconda occasione, l’aveva avuta, ed era riuscito a rovinare anche quella. << Non voglio che tu abbia problemi per colpa mia. No, lo so come finirebbe. Cosa credi? Non sono così stupido. >> si schiarì la voce, cercando di mantenere il controllo, ma allo stesso tempo desiderando crollare per mostrare a Peter quanto fosse importante per lui << grazie per avermi accompagnato, ma ora è meglio che tu vada. >>

Non era così che doveva andare, non era così che avrebbe voluto che andasse, ma non c’era altro modo.

L’uomo non si mosse.

<< Peter… >> pregò << vai. >> Era stanco, e l’unica cosa che voleva, era poter restare solo per rintanarsi sotto le coperte e piangere, piangere e soffrire come il disperato che era.

Vedeva già i titoli dei giornali, degli articoli di blog. Gli sembrò quasi di sentire le critiche della gente, le domande maliziose dei giornalisti. Avrebbero accusato Peter di essere un approfittatore, un pedofilo –come se lui fosse un bimbo ingenuo-, la loro relazione sarebbe stata definita ‘abusiva’, ‘pericolosa’, ‘un pessimo esempio’.

<< Jeannot. Jeannot! >> gli afferrò un polso << aspetta, >> lo lasciò andare per prendergli il volto fra le mani. << È davvero quello che vuoi? Vuoi che io vada via? >>

Il più giovane non rispose, e Peter si chinò su di lui, sulle sua labbra, baciandolo e spingendolo lentamente contro la parete vicina. Gli circondò la vita con le braccia, premendo il corpo contro il suo.

Jeannot inspirò il profumo dell’altro a pieni polmoni: vetiver e cedro. L’aveva sempre adorato, avrebbe passato ore a respirarlo, fino a stordirsi e sentire la testa leggera. Si strusciò contro il corpo dell’altro proprio mentre Peter faceva per allontanarsi: non era così che aveva in mente di finire la serata.

<< Whoo >> la sua esclamazione si trasformò in una risata bassa << sei davvero contento di vedermi. >>

Il più giovane non rispose, e distolse lo sguardo imbarazzato, ma Peter gli sollevò il mento per farsi guardare << dì un po’, ti è diventato duro per colpa mia? >>

<< In realtà questa sera avevo un appuntamento con un cetriolo che ora mi attende in cucina, se vuoi scusarmi. >>

<< Un cetriolo, eh? Ma sentitelo. E riesci a fartelo entrare tutto, mh? >>

<< Sì! E ti dirò di più: mi fa godere incredibilmente, >> lo sfidò. << È il paradiso. >>

<< Il para- sì? Bè, buon per te. Ai miei tempi c’erano le banane, o si teneva una foto di qualcuno nella mano libera. Non hai mai pensato a me? >>

<< Nessuna goccia è stata versata pensando a te. >>

<< Quindi adesso ti è diventato duro pensando alla scopata con un cetriolo. >>

Jeannot annuì impacciato, improvvisamente incapace di parlare, poi scosse la testa abbassando lo sguardo e portandosi una mano in mezzo alle gambe, stringendo e cercando di alleviare il disagio.

<< Togli. >>

<< Peter-! >>

<< Mi prendo sempre le mie responsabilità, io. Letto. Ora. >>

Jeannot si trovò fra le braccia di Peter, le gambe attorno al suo bacino, e la schiena premuta contro la testiera in legno dell’antico letto. Strinse forte le coperte, lasciando che l’altro gli togliesse la camicia, prima di far scivolare una mano dentro le sue mutande. Gettò la testa all’indietro inarcando la schiena, e si passò una mano fra i capelli.

<< Allora, sono meglio del cetriolo? >>

<< Lui non ha una carriera, >> articolò, cercando di controllare la voce.

<< Ssh, >> gli sussurrò all’orecchio, chinandosi poi a baciargli il collo, la spalla, la gola. << Non farò nulla contro la tua volontà, ma tu sei l’unica persona che voglio accontentare, sia che questo significhi farti venire, adesso, o fermarmi qui. >> Con la mano libera, gli accarezzò delicatamente un guancia, nel tentativo di farlo rilassare un po’. << Non farò nulla per paura del giudizio di persone che non sanno nulla di noi. >>

Peter parlava con voce rassicurante, sussurrandogli parole sconnesse col suo accento irlandese, oscenità e dolcezza allo stesso tempo.

<< Da bravo, vieni. >>

Jeannot lo abbracciò di slancio, stringendosi a lui e affondando il volto nell’incavo del suo collo, sentendo un familiare calore attraversargli il corpo, i muscoli tendersi. Venne con un lamento soffocato, riversandosi sul petto e sulla mano dell’altro. << Ssh. Tranquillo. Ssh,>> gli baciò la fronte << ssh. >> Lo strinse a sé finché non sentì il suo respiro tornare regolare. << Non avevo questo in programma per la serata. >>

<< Non lo metto in dubbio, >> Jeannot si passò una mano sul volto, asciugando alcune lacrime << ora puoi andare. >>

<< Cos-? >>

<< Bè, ti sei divertito, hai visto che effetto mi fai, ora puoi andare, >> tirò su col naso << lo spettacolo è finito, >> si poggiò completamente contro la testiera del letto, abbassando lo sguardo, in attesa che l’altro andasse via e lo lasciasse solo, ma lui non si mosse. << Andiamo, Peter Rabbit, saltella via. >>

Quello il era nomignolo con cui i suoi parenti lo prendevano in giro, e il motivo del suo nome: sua sorella maggiore adorava la fiabe di Beatrix Potter, e aveva sempre adorato il personaggio del coniglietto sempre pronto a mettersi nei guai per andare all’avventura.

L’uomo rimase in silenzio, si chinò su di lui e lo baciò. Jeannot mise le mani avanti, cercando di divincolarsi.

<< Pensavo avessimo chiarito? >>

<< Chiarito? >> fece uno scatto in avanti, quando il familiare odore di ferro lo avvisò di ciò che sarebbe accaduto, prima che il sangue iniziasse a scendere. Saltò giù dal letto e corse verso il bagno, una mano premuta contro la narice, l’altra che teneva su’ i pantaloni sbottonati. Peter arrivò poco dopo, con in mano del ghiaccio che doveva aver preso in cucina.

<< Grazie. >>

<< È stata colpa mia? >>
<< No. Sono solo un po’ stressato. >>

<< Lo eri anche prima, al Galà? >>

<< Sì. >> Si lasciò cadere in ginocchio vicino al lavandino, e Peter si chinò accanto a lui a stringerlo fra le braccia.

<< Sei sparito per quattro mesi, e sono venuto a sapere che tu eri ancora vivo da internet, cazzo! Spero che tu abbia un motivo valido. >>

<< Sì, ma non ne parleremo adesso. >>
<< Scherzi? >> urlò, allontanando il fazzoletto dal naso.

<< Ehi, >> Peter gli riportò la mano sopra la narice. << No, non sei in condizioni… di fare nulla, effettivamente. Hai bisogno di riposo. Se ne riparlerà domani mattina, >> sentenziò. << Dopo colazione, >> aggiunse, aiutandolo a cambiarsi per la notte, e ignorando le sue lamentele. Quello non era decisamente il fine serata che aveva programmato, avrebbe dovuto buttarlo in un vasca di ghiaccio e finirla così, e non perché si era pentito di essergli entrato nelle mutande, ma solo perché quella non era la sera giusta.

<< È sempre la sera giusta per quello. >>

<< Non se mi muori dissanguato, porcellino. E ora dove vai? Torna subito a letto. >>

<< Devo mandare un messaggio a un’amica. >>

<< Amica? >>

<< Sì, >> sorrise << Lia. Lei è fantastica, dobbiamo tornare in Italia, devi conoscerla anche tu. >>

Ho avuto la mia seconda occasione, forse lo leggerai presto nei giornali, ma ci tenevo a dirtelo io.

Non pensava di ricevere una risposta, non a quell’ora, invece arrivò: preoccupato dei giornali? Batteteli sul tempo: rendete voi pubblica la notizia. Bacia il tuo irlandese davanti a tutti, e fagli vedere che non vi interessa cosa pensa la gente.

 


 

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Capitolo 3
*** Les enfants qui s'aiment ***










                                                  






                                                                          Les enfants qui s’aiment
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Adattarsi alle nuove abitudini, ai nuovi ritmi era stata una cosa talmente naturale che ne era rimasto sconcertato.
Quella mattina si era svegliato per primo e, mentre preparava la colazione, si era sentito con Lia.
La donna gli aveva mandato una foto di Tiberio Lucrezio Scipione che osservava Roma svegliarsi dalla finestra, come se la città appartenesse a lui.
Peter lo raggiunse in cucina poco dopo, quando la cioccolata calda era appena stata versata nelle tazze, profumata e fumante.
<< Saresti potuto restare ancora a letto. >>
<< Per quello abbiamo tutta la giornata, no? Insomma, è sabato e piove: cos’altro vuoi fare? >>
Peter lo strinse a sé con un braccio, allungando la mano libera verso una delle due tazze, e prendendone una. << Sai, mi piace vederti così tranquillo e rilassato, >> portò la tazza alle labbra, e mandò giù alcuni sorsi della bevanda << e mi piace questa cioccolata. >> continuò a bere << è fantastica! È davvero quello schifo che ho in cucina? >>
Jeannot rise << latte, zucchero, e il cioccolato che avevi in frigo, >> mormorò in risposta. << Sono comunque il figlio di un maître chocolatier. >> Chiuse gli occhi, adagiandosi contro il petto dell’uomo e godendosi quel momento.
Aveva dormito tutta la notte, un sonno lungo e sereno, eppure si sentiva ancora stanco. Erano stati giorni impegnativi, quelli appena trascorsi. Stare lontano da Peter per non attirare troppo l’attenzione, pur volendo passare con lui tutto il tempo possibile, perché l’aveva già perso una volta e ora aveva una paura bestiale che potesse ricapitare.
L’intervista si era svolta solo il giorno prima, e non si era ancora ripreso del tutto dallo stress.
Gli sembrava quasi di vedere ancora i flash delle macchine fotografiche e dei cellulari che li circondavano, avvolgendoli in un caotico cerchio di luce.
I suoni degli scatti, le domande dei giornalisti si mescolavano in un unico boato assordante, ma loro non sentivano nulla.
I due innamorati non c’erano per nessuno, si baciavano in piedi in mezzo alla folla non badando alle domande che veniva poste: ci sarebbe stato tempo per quello.
Continuarono a baciarsi sollecitando la curiosità, lo sconcerto, il sorriso dei presenti, e in quel momento loro non c’erano per nessuno, erano ben oltre quell’ampia sala dalla moquette bordeaux, persi nell’accecante gioia del loro amore.
Quella era sembra la soluzione migliore, pertanto, avevano deciso di tentare.
Avrebbero dato spettacolo, reso pubblica la loro relazione, e sarebbero rimasti in attesa di ciò che sarebbe capitato poi, nel bene e nel male.
Pensa che, oltre che essere criticati, potresti essere d’ispirazione per qualcuno, gli aveva scritto Lia. E quel messaggio era riuscito a dargli un po’ di coraggio.
Avevano aspettato quella che era sembrata loro l’occasione migliore, un’intervista in un cui Peter avrebbe parlato meglio del suo incidente in Svizzera, di come fosse stato ritrovato dopo circa due settimane in condizione piuttosto critiche, e della decisione della sua famiglia di tacere su tutto ciò che era successo poi. Per loro era stato un duro colpo, e non avevano la forza di affrontare le domande della stampa e la curiosità di internet.
Avevano deciso che, ad un certo punto, Peter avrebbe cominciato a parlare del suo presente, e della sua vita sentimentale per poi fare finalmente il nome di Jeannot, ma, alla fine, non ve n’era stata la necessità.
Una giornalista, una dall’aria giovane e un po’ impacciata, aveva incredibilmente trovato il coraggio di urlare un << oltre la sua famiglia, c’era per caso un’altra persona ad attenderla? >>
Peter l’aveva notata e aveva subito colto l’occasione per aprire un dialogo con lei, facendole guadagnare l’odio dei colleghi.
<< Le avrei risposto: Pooka, il cane di mia sorella. I Pooka sono dei folletti irlandesi, >> divagò per prendere tempo << che, come ogni folletto irlandese che si rispetti, è dispettoso, e può essere buono o cattivo. Ma lei mi ha chiesto di una persona. >> Fece una pausa, e prese un respiro profondo.
Jeannot, infondo alla sala, sentì il cuore accelerare il battito.
Tutto sarebbe dipeso dalla prossima risposta dell’uomo, che avrebbe potuto dire la verità, e allora sarebbero usciti allo scoperto, oppure avrebbe potuto fare la scelta più facile e mentire.
Deglutì a vuoto, cercando di non agitarsi, asciugandosi i palmi delle mani sudate sui pantaloni. Al suo fianco, la sua agente gli rivolse uno sguardo interrogativo, e lui, incapace di parlare, cercò di rivolgere un sorriso. Stava bene, nessuno problema. Ma lei sapeva tutto, ovviamente, e non le avrebbe mentito.
<< Effettivamente c’è una persona. >>
A quell’affermazione calò un silenzio carico di attesa e morbosa curiosità.
<< Si può avere un nome? >> chiese ancora la giornalista.
<< Visto che lei me l’ha chiesto in maniera così gentile, avrà più di un nome. >>
Jeannot si alzò e lo raggiunse davanti a tutti. Solo in pochi lo notarono, finché non fu accanto a Peter, che si era alzato in piedi.
<< DesRosiers! >>
<< Jeannot DesRosiers! >>
Oh, bene, l’avevano riconosciuto tutti.
Peter gli prese il volto fra le mani, chinandosi sulle sue labbra, e Jeannot sentì l’adrenalina dargli alla testa.
La folla di giornalisti era in delirio: gli avevano fornito una notizia decisamente esaltante, benché, in un certo senso, si fossero semplicemente limitati a confermare dei sospetti nati già anni prima.
Le mani dell’uomo erano bollenti contro le sue guance, o forse era solo lui che era accaldato per la troppa eccitazione.
<< Da quanto state assieme? >>
<< Come avete superato questi mesi? >>
<< Perché non eravate assieme in Svizzera? >>
<< Cosa ne pensano le vostre famiglie? >>
Jeannot avrebbe voluto poter scomparire da quella sala affollata, e trovarsi nell’intimità del suo appartamento, o di quello di Peter.
Aveva tutta l’intenzione di isolarsi dal mondo per alcuni giorni. Niente internet, niente giornali, niente televisione. Che la gente pensasse e dicesse ciò che voleva, a lui interessava solo godersi un tranquillo fine settimana con Peter.












 

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