Sogni infranti e seconde occasioni. di Rosette_Carillon (/viewuser.php?uid=248379)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Città Eterna ***
Capitolo 2: *** Notte francese ***
Capitolo 3: *** Les enfants qui s'aiment ***
Capitolo 1 *** La Città Eterna ***
La
Città Eterna
<<
Mi dispiace che tu sia costretta a farmi da balia. >>
Glielo aveva detto in un italiano talmente perfetto che, per un
momento, Lia
era rimasta senza parole. La tazza di caffè in mano,
sollevata a mezz’aria,
vicina alle labbra.
Jeannot
sapeva parlare l’italiano, e lei lo sapeva, l’aveva
sempre saputo, anche se non
si aspettava che fosse così bravo, che non avesse un accento
o un pronuncia
anche solo vagamente francese.
<<
Oh, nessun problema, >> sorrise lei, cecando di non dare
a vedere la
sorpresa << stai rendendo il mio stage decisamente
più interessante di
quanto avrebbe dovuto essere in origine. >>
Lui
piegò le labbra in un sorriso appena accennato, e le rivolse
un inchino
scherzoso. Lia si sentì orgogliosa per quel sorriso:
l’attore era a Roma da un
mese ormai, e non l’aveva mai visto sorridere, non davvero.
Il
suo stage a Cinecittà non le dispiaceva: sarebbe potuta
andarle molto peggio;
sarebbe potuta finire a fare la segretaria e fare caffè e
fotocopie, invece
poteva mettere mano alle sceneggiature, adattare copioni, aiutare,
occasionalmente, a sistemare i set esterni e interni e assistere alle
riprese
di numerose scene. Aveva già conosciuto diversi registi,
attrici e attori, fra cui
Jeannot.
Non
aveva capito bene le dinamiche del fatto, sapeva solo che
l’attore rifiutava di
parlare italiano, pertanto aveva bisogno di un interprete, e,
evidentemente,
per quel lavoro non c’era persona più adatta di
una stagista che lavorava
gratis.
Fare
da interprete, mostrare Roma a un attore abbastanza famoso da poter
essere
riconosciuto era un bel cambiamento per una sempre abituata a stare
dietro le
quinte, ed era anche l’occasione per imparare qualcosa di
nuovo. Sarebbe stata
sempre riconoscente nei confronti della sua supervisor per
quell’opportunità.
Jeannot
rimase in silenzio. Si passò una mano fra i ricci castani,
poi sospirò
guardandosi distrattamente la sua tazzina di caffè ormai
vuota. Dalla tasca
della giacca prese l’accendino e il pacchetto di sigarette
<< fumi? Ti dà
fastidio se… >> chiese in francese, prendendo
una sigaretta e
portandosela alle labbra. Lia scosse la testa, e lo osservò
fumare in silenzio,
mentre lei terminava il suo macchiato.
Avevano
tutto il tempo del mondo per rilassarsi in quel piccolo bar quasi
sconosciuto
pur essendo vicino al Pantheon.
Sarebbe
stato difficile che qualcuno potesse riconoscere Jeannot, nessuno
passava per
Via Oscura perché voleva passarci, a meno che non abitasse
lì, ovvio. Spesso ci
arrivava chi si perdeva, turisti o romani. Lia la conosceva per quel
motivo,
con la differenza che lei amava perdersi, allontanarsi dalla folla, dal
caos
cittadino e scoprire tutti i luoghi segreti della Città
Eterna, quelli meno
visiti, quelle strade che sembravano disabitate, fuori dal tempo e
dallo
spazio.
<<
Merci d’être
si patiente. >>
Lia
sorrise. Aveva sentito delle voci, principalmente per via del suo
lavoro, degli
ambienti che frequentava, non solo per via di internet.
<< L’italiano è
una lingua difficile, >> tentò. Se lui avesse
voluto confermare le voci
che lei aveva sentito, sarebbe stata una decisione interamente sua, lei
non
avrebbe fatto nulla per saperne di più. Era curiosa ma,
trovandosi dall’altra
parte, sarebbe certamente stata estremamente gelosa della sua privacy.
<<
Mia madre me l’ha insegnato sin da quando ero bambino,
>> disse lui,
sorridendo a mo’ di scuse, la sigaretta in mano.
<< L’Italia mi ricorda
Peter. Anche se il film l’abbiamo girato a
Venezia… >> scosse la testa e
aspirò una boccata di fumo. << Avrai sentito
le voci su di noi, immagino.
>>
Lia
annuì << la gente parla tanto, anche di
ciò che non capisce o non
conosce. >>
Jeannot le rivolse uno sorriso triste. << Grazie per
avermi consigliato
il caffè: il mal di testa mi è passato.
>>
<<
Funziona solo col mal di testa causato dallo stress. È un
consiglio che mi
aveva dato una studentessa di medicina. >>
Niente
confessioni.
Se
le voci fossero vere o meno, sarebbe rimasto un segreto; un argomento
che
sarebbe stato oggetto di pettegolezzi ancora per un po’,
finché non sarebbe
capitato qualcosa di più interessante di cui parlare. Lei,
dal canto suo, stava
cominciando a pensare che doveva esserci almeno un fondo di
verità in tutto
quello che la gente diceva.
Era
passato poco più di un anno da quando ‘ Concerto
per arpa e flauto ’ era uscito
nelle sale, quasi due, da quando era stato girato a Venezia. Erano
passati
quasi quattro mesi da quando la co-star di Jeannot in ‘
Concerto per arpa e
flauto ’, Peter O’Leary, era stato dichiarato
disperso nelle Alpi svizzere,
mentre faceva un escursione. Quasi quattro mesi senza notizie,
trascorsi
nell’incertezza e nella speranza. Nessun corpo era stato
ritrovato, ma il tempo
trascorso era tanto.
<<
Ti è mai capitato di… vivere qualcosa, ma non
fino in fondo, rinunciando a
tante occasioni, e quando tutto finisce, ripensi a cosa sarebbe potuto
accadere,
e capisci che tante cose non sono capitate e la colpa è tua
e… >> si
interruppe e scosse la testa << scusa. Quello che dico
non ha nemmeno
senso. >>
<< No. No, credo di aver capito. Non vivere qualcosa fino
in fondo, e
desiderare una seconda occasione, perché col senno di poi si
sa sempre cosa
fare. >>
<<
Sì, una seconda occasione: è questo quello che
vorrei. >> Spense la
sigaretta sul posacenere.
Forse
non si era reso di ciò che aveva finché non
l’aveva perso, o forse l’aveva
sempre saputo, ma non aveva mai voluto prendere in considerazione
quell’eventualità. Perché, dopotutto,
cosa sarebbe potuto andare storto? E
perché proprio a lui?
Perché
a me? No, a me non
capiterà. L’illusione
più grande di ogni essere umano.
Aveva
dato per scontata la presenza di Peter nella sua vita,
l’aveva considerata
talmente scontata che si era accontentato di averlo anche solo come
amico,
tutto pur di averlo. Era stato stupido, e ingenuo, sarebbe dovuto
essere stato
più egoista.
Gli
era rimasta una vecchia chat, che non aveva il coraggio di cancellare,
ma
nemmeno di rileggere.
A
Febbraio sarò in Francia.
Dovremmo vederci ;-)
Certo
J
Aveva
sempre avuto paura di mostrarsi troppo affettuoso nei suoi confronti,
in
privato. In pubblico, invece, aveva sempre dato spettacolo.
Alcuni
lo trovavano ‘tenero’, altri pensavano che fosse
‘un ragazzetto in cerca di
attenzioni’. E poi c’era anche chi ci aveva visto
giusto definendolo ‘talmente
innamorato da non potergli stare lontano per più di un
secondo. ’
Come
va sulle Alpi?
Quello
era l’ultimo messaggio, e la risposta non era mai arrivata.
Il
primo mese senza notizie l’aveva trascorso al pc a vedere
tutta la filmografia
di Peter, e aveva perso il conto di quante volte aveva rivisto il film
che li
aveva fatti conoscere, ascoltato la colonna sonora solo per illudersi
di essere
ancora a Venezia, sul set, con lui.
C’erano
tante cose che avrebbe voluto dirgli, di cui avrebbe voluto parlare, ma
aveva
avuto paura, si era convinto che non avrebbero avuto futuro e, forse
era stata
solo una sua impressione, ma gli era sembrato che, in qualche modo, lui
avesse
capito, e avesse cercato di tenerlo lontano.
Dopotutto,
undici anni di differenza erano tanti; e dopo qualche tempo si sarebbe
dimenticato di lui, avrebbe conosciuto un’altra persona, si
sarebbe innamorato
di nuovo e… no. Sarebbe successo, lo sapeva, la sua vita
continuava, ma quel
pensiero non lo faceva stare meglio, anzi. Andare avanti lo faceva
sentire
colpevole, come se smettere di soffrire avesse voluto dire dimenticare,
ignorare quello che aveva provato per Peter.
Il
rimpianto, il dolore voleva tenerseli stretti, perché
finché avrebbe sofferto,
Peter sarebbe stato reale, sarebbe potuto tornare a casa.
Lia
era rimasta in silenzio per tutto il tempo in cui lui si era perso nei
propri
pensieri. << Scusa. Solitamente non sono così.
>>
<<
Ti va una passeggiata prima di tornare in albergo? Conosco tutte le
zone meno
frequentate, e non pericolose. >>
Jeannot
annuì. Gli avrebbe fatto bene camminare un
po’ e prendere una boccata
d’aria fresca. Si sarebbe schiarito le idee, e magari quella
notte sarebbe
riuscito a riposare decentemente.
E
doveva ammettere di trovare piacevole la compagnia di Aur- Lia.
Adorava
il vero nome della sua interprete:
Aurelia. Non tanto per il significato, che si era fatto spiegare,
quanto per il
suono, che sapeva di antico, una storia appartenuta a
un’altra epoca. Tuttavia,
l’interprete in questione non era del suo stesso avviso, e
preferiva essere
chiamata semplicemente Lia.
‘Aurelia
è un nome importante’ gli aveva detto
‘un nome da palcoscenico. Ma io mi trovo
meglio dietro le quinte. ’
La
notte, nella sua stanza d’albergo, rimase a lungo sdraiato a
fissare il soffitto
in attesa di prendere sonno. Nella sua mente continuavano a succedersi,
come
fotogrammi di un vecchio film, scene vissute assieme a Peter, ricordi
che si
teneva stretto.
Il
loro primo incontro, la prima scena girata assieme, la prima uscita
–un’idea di
Peter- ‘ ti vedo teso. Hai bisogno di rilassarti un
po’: questa sera usciamo. ’
Non aveva avuto la possibilità di rifiutare e, se doveva
essere onesto, non
l’avrebbe fatto.
Ancora
dieci giorni e avrebbe lasciato Roma per tornare in Francia, ancora
dieci
giorni e sarebbe cominciato Febbraio e, lo sapeva, sarebbero stati
altri giorni
senza notizie di Peter.
Era
morto. Era passato troppo tempo perché potesse essere ancora
vivo. Avrebbe
dovuto farsene una ragione, ma non voleva.
Si
sedette sul materasso, le coperte strette attorno al suo corpo come a
proteggersi dal mondo, e lasciò che le lacrime gli rigassero
le guance.
L’ultima
volta che si erano visti era stato a Londra.
Erano
usciti, e lui aveva bevuto un po’ troppo, come faceva quando
era nervoso. Quella
volta era stato sul punto di rivelargli tutto, c’era andato
davvero molto
vicino.
Aveva
cominciato a dirgli quanto fosse importante per lui, quanto sentisse la
sua
mancanza ogni volta che erano lontani, poi Peter l’aveva
interrotto ridacchiando
sommessamente, e gli aveva tolto il bicchiere di mano. <<
Qualcuno ha
bevuto un po’ troppo, mi sembra. >>
L’aveva riaccompagnato in albergo, e
la loro serata era terminata lì.
Jeannot
tornò a sdraiarsi sotto le coperte, desiderando sparire, non
doversi alzare la
mattina seguente per andare a lavoro, non doversi alzare mai
più. Voleva che il
mondo si fermasse, che il sole smettesse di sorgere, la vita di
continuare come
se nulla fosse capitato.
Da
qualche parte, forse gliel’aveva fatta leggere sua madre,
aveva visto una
vignetta di Mafalda: fermate il mondo, voglio scendere! Ecco, era
così che si
sentiva.
§
La
moneta roteò su se stessa un paio di volte prima di cadere
nell’acqua della
fontana, assieme a tutte le altre.
Il
sole stava tramontando su Roma, e il cielo aveva assunto tinte fra il
rosa e il
dorato. Quello era per Jeannot il momento peggiore delle giornata: il
momento
in cui il giorno finiva, ma non era ancora notte, e non poteva
concedersi il
lusso di dormire e smettere di pensare.
La
Fontana di Trevi era imponente, magnifica, aveva una
maestosità che non
traspariva minimamente dalle foto che le venivano scattate e, in un
altro
momento, con uno stato d’animo diverso, sarebbe stato ben
felice di poterla
ammirare.
Aveva
deciso di buttare una monetina nelle sue acque
perché… bè, perché era
stupido,
non c’erano altri motivi. Di certo Peter non sarebbe tornato
in vita per lui,
povero idiota, che aveva espresso un desiderio e l’aveva
affidato a una
fontana.
Eppure
Roma gli sembrava una città magica, dove tutto poteva
accadere e poi, la
speranza era tutto ciò che gli era rimasto.
Si
allontanò dalla Fontana deciso a tornare in albergo,
sperando di non perdersi.
Era solo, Lia non era con lui. Non sarebbe dovuto essere lì,
non sarebbe
nemmeno dovuto uscire. Sarebbe dovuto restare nella sua stanza a
riposare,
starsene tranquillo, così, magari, il giorno dopo avrebbe
evitato di
insanguinare nuovamente il set.
Dopo
cena aveva provato a mettersi subito a letto e addormentarsi, ma non ne
era
stato in grado, allora aveva deciso di uscire. Tanto, peggio di
così…
Cominciò
a camminare allontanandosi dalla fontana, ma senza badare alla strada
che stava
percorrendo e, senza quasi rendersene conto, arrivò in
Piazza del Popolo.
C’era
gente. Tanta. Troppa. E lui era davvero stanco, stordito. Il mondo
prese a
girargli attorno.
Tolse
il cellulare dalla tasca della felpa, e cercò
l’applicazione della mappa.
<<
Jeannot? Jeannot che ci fai qui? >>
<<
Lia? >> per poco il cellulare non gli cadde di mano.
<< Ehm… io…
>>
Lei
scosse la testa << scusa, non sono tua madre, non mi devi
rispondere. Mi
sono solo preoccupata. Insomma, dopo questo pomeriggio… non
ti sarebbe
convenuto restare in albergo a riposare? >>
L’attore
annuì distrattamente. << A-avevo bisogno di un
po’ d’aria fresca.
>>
Lia
lo osservò con attenzione. << Sai come tornare
all’albergo? >>
<<
Ah… ehm, >> si schiarì la gola
<< temo-temo di essermi perso.
>>
Lei
annuì << Roma è fatta per perdersi.
Anche le persone nate e vissute qui
faticano a orientarsi. Andiamo, ti accompagno. >>
<<
Oh, no, insomma, tu sarai qui con qualcuno… io
non-non… >>
<<
Jeannot, stai bene? >>
<<
Scusa. >>
<<
Andiamo, ti accompagno in albergo, >> decise, allungando
una mano e
posandola sul braccio di lui.
<<
Scusa. Ormai sono tre mesi che mi fai da balia. Dovresti davvero farti
pagare.
>>
<<
Su, su vieni con me: sei stanco. >>
Lia
lo guidò per le strade di Roma, allontanandosi da Piazza del
Popolo, diretta
verso doveva sapeva essere l’albergo in cui alloggiava
l’attore.
<<
Roma è davvero bella di notte. Sembra quasi magica.
>>
<<
Dì un po’, hai bevuto? >>
scherzò.
<<
No. È solo che mi sembra davvero che tutto sia possibile.
Guarda la luna:
sembra fatta di latte, d’argento liquido che cola sui tetti.
>>
<<
Senti, magari non sono affari miei, ma dovresti parlarne con qualcuno.
E, no,
cambiare argomento in quel modo non funziona. >>
L’attore
rallentò fino a fermarsi sul marciapiede, e lei si
fermò a sua volta con un
sospiro << c’è qualcosa che ti
tormento, lo so, è palese, lo capirebbe
chiunque, e dovresti parlarne con qualcuno. >>
<<
No, >> scosse la testa << non serve. Si
tratta solo di idiozie… non
è nulla di cui preoccuparsi… >> la
voce si spezzò, e lui sollevò la testa
verso l’alto per impedire alle lacrime di scendere, tenendo
con le mani il
cappuccio della felpa perché restasse al suo posto
coprendogli la testa. Quando
abbassò nuovamente lo sguardo, gli occhi brillavano di
lacrime. << Peter
O’Leary non era un semplice amico. Io per lui ero ancora un
moccioso, anche se,
quando ci siamo conosciuti, avevo ventidue anni. Dopotutto, undici anni
di
differenza sono tanti, >> si strinse nelle spalle,
apparendo
incredibilmente piccolo e fragile << lui non è
mai stato… mio e
->> si interruppe deglutendo
a vuoto, incapace di continuare a parlare.
Non
c’era altro da aggiungere. Lui non era mai stato suo, pertanto non aveva il diritto di
farsi vedere in lacrime, di
portare un lutto così sofferto per colui che era stato solo
un amico,
conosciuto da nemmeno tanto tempo.
Lia
si passò una mano sul volto, cercando di pensare
velocemente. Poteva
riaccompagnare Jeannot in albergo, augurargli la buona notte, e sperare
di
trovarlo vivo e in condizioni più o meno accettabili il
giorno dopo, ma poi
sarebbe certamente stata lei a passare la notte in bianco per via del
senso di
colpa. L’uomo era solo e disperato: non poteva lasciarlo solo
in una città
sconosciuta.
Casa
sua non era lontana. Era un piccolo condominio a due piani con due
ingressi, il
suo appartamento era al piano terra. E gli inquilini del piano di sopra
erano
tranquilli e riservati.
Le
sembrò già di vedere la notizia su tutti i
giornali: Scintilla scocca fra
star del cinema e stagista.
E
cos’avrebbe detto a lavoro? Eppure, l’altra notizia
che rischiava di leggere
suonava tanto come: star si suicida nel bagno
dell’albergo.
Bè,
forse la seconda era un po’ troppo tragica.
<<
Vieni a casa mia, dormi da me questa sera. Ho una stanza in
più, anche se non è
certo un albergo a cinque stelle. >>
<<
Non voglio disturbarti ancora. >>
<<
E io non voglio lasciarti solo. Mi sembri davvero distrutto, lascia che
ti aiuti.
Non devi dirmi nulla, ma, bè: non mi sento tranquilla
sapendoti da solo in una
stanza d’albergo. >>
Lui
la guardò a lungo, prima di abbassare la testa a disagio e
annuire. Effettivamente,
non voleva stare da solo.
Quella
notte dormì nella stanza accanto a quella di Lia, in un
piccolo appartamento
vicino a Piazza del Popolo, che la donna condivideva con un grosso
gatto
tigrato, il vero proprietario di tutto il condominio che, pertanto,
poteva
andare da un appartamento all’altro a suo piacimento, per
ricevere cibo,
affetto, o un posto in cui dormire.
Tiberio
Lucrezio Scipione, il gatto, quella notte scelse di dormire nel letto
di
Jeannot, forse intuendo la tristezza di quello sconosciuto che era
stato portato
in casa sua. Si sistemò vicino alla sua schiena, e attese
che prendesse sonno;
si arrampicò sopra una sua spalla, durante la notte, quando
lo sentì agitarsi,
e prese a fare le fusa vicino al suo orecchio fino a calmarlo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Notte francese ***
Notte francese
<<
Lia, >> la chiamò, e lei si voltò
nella sua direzione, la tazza di
cioccolata calda in mano. Gli sorrise, e lui ricambiò.
<< Sono venuto a
salutarti. La mia partenza è stata anticipata, parto questa
sera, >>
spiegò prima di stringerla in un abbraccio impacciato.
Lei
posò la tazza sul tavolo e ricambiò.
<<
Merci pour tout. Mi mancherai. Tu, la tua pazienza, i tuoi consigli.
>>
Lei
rise << io sono qui a Roma, e, bè, se hai
ancora il mio numero… >>
<<
Certo, >> annuì.
<<
Adesso ti prenderai un periodo di riposo, mi auguro. >>
Jeannot
chinò la testa, colpevole << non posso davvero
restare senza nulla da
fare, ho bisogno di tenere la mente occupata, altrimenti
penserò a lui. Buona
fortuna per tutto. >>
<<
Anche a te. >>
§
Era
stanco, e quella era una di quelle serate in cui si sentiva
particolarmente
asociale. Non antiqualcuno, no, proprio asociale, al limite della
misantropia. Se
fosse stato per lui, sarebbe rimasto a casa, a letto, e poi, se doveva
essere sincero,
non si sentiva nemmeno tanto bene. Forse gli stava venendo la febbre,
oppure
stava così al pensiero che quella sera, in quella sala, a
respirare la sua
stessa aria ci sarebbe stato anche Peter.
La
prima apparizione pubblica di Peter O’Leary dopo quattro mesi
di silenzio.
Quattro mesi e sei giorni, per la precisione.
Si
era ormai arreso all’evidenza, o meglio, a ciò che
sembrava essere tale, quando
il messaggio di Lia aveva sconvolto la sua pacifica giornata che, fino
a quel
momento si era alternata fra spartiti per flauto e clip di
‘Concerto per arpa e
flauto. ’
Come
stai?
Sul
punto di rispondere il classico - bene, tu? -, una vocina nella sua
mente gli
aveva suggerito che potesse esserci un motivo preciso per cui quella
domanda
era stata posta.
Altro
messaggio da Lia: vi siete sentiti?
Oh
sì, si era davvero perso qualcosa.
Con
chi?
Sta
scrivendo…
Sta
scrivendo…
Sta
scrivendo…
Sta
scrivendo…
Sta
scrivendo…
Peter
O’Leary.
Era
ricaduto di peso sulla sedia del tavolo, fortunatamente vicina a lui,
il
cellulare stretto in mano.
Di
cosa stava parlando? Peter era morto.
Forse
aveva letto male. Doveva aver letto
male, invece no. Il nome era lì, sullo schermo.
Aveva
chiuso la chat e aveva aperto internet.
Peter
O’Leary. News.
Articoli
di blog e giornali, video di youtube si presentarono davanti a lui. Non
c’era
molto materiale, ed erano tutti caricamenti piuttosto recenti, il
più vecchio
era di 12 ore prima.
Lesse
i titoli.
Dopo
quattro mesi, la famiglia O’Leary rompe il silenzio.
Peter
O’Leary, vivo e vegeto, torna sulle scene.
Ritorno
dal regno dei morti.
Come
stai?
Come
doveva stare? Il bastardo era vivo e non si era degnato di dirgli
nulla. Che
fossero fake news? Si trovò a desiderare che lo fosse, ma
allora Lia non gli
avrebbe scritto. Oppure gli scriveva proprio per quel motivo, per
assicurarsi
che lui non fosse così stupido e disperato da credere a
quelle idiozie.
Il
cellulare squillò. Era Lia. Si scusava per aver chiamato, ma
era preoccupata,
voleva assicurarsi che lui stesse bene, che lo shock non fosse stato
troppo
forte. Lei aveva saputo la sera prima, da un’amica conosciuta
durante lo stage.
Jeannot
la lasciò parlare, incapace di dire nulla, finché
la rabbia scemò, lasciando
solo un dolore sordo all’altezza del petto, come se qualcuno
gli avesse
trapassato lo sterno per raggiungere il cuore e comprimerlo con
violenza.
Dopotutto,
riuscì ad articolare, lui e Peter era solo amici, forse
nemmeno quello, non
c’era alcun motivo perché lui dovesse sapere certe
notizie prima della stampa.
Quella
telefonata si era svolta due giorni prima del Galà, e
Jeannot aveva ragionato
su tutti i modi possibili per evitare di prendere parte alla serata.
Aveva
seriamente considerato l’idea di buttarsi dalle scale,
storcersi una caviglia,
fingere di avere la febbre, inventarsi l’esistenza di un
parente ammalato, o la
vecchia scusa della morte del nonno, perché, si sa, i nonni
posso morire e
risorgere nell’arco di un anno innumerevoli volte come
nemmeno Gesù Cristo
avrebbe potuto.
Alla
fine era stato costretto ad andarci.
Peter
gli si era avvicinato non appena era rimasto solo. Aveva cercato di
tenersi
impegnato per tutta la serata, standogli lontano, parlando con chiunque
gli
passasse vicino, evitando anche di guardarlo. Poi si era allontanato
per
prendersi da bere, e lui l’aveva raggiunto. Si era sentito
una piccola volpe in
trappo, circondata dai cani. Una volpe stupida, tra l’altro,
visto che aveva
segretamente sperato di potersi confrontare col cane.
<<
Ehi, allora sei davvero vivo. >> La miglior difesa
è l’attacco. E
l’indifferenza. Fagli vedere che di lui non
t’importa, consigliò una voce nella
sua testa, fagli vedere che sta bene, che non ti sei minimante
preoccupato per
lui. Ma quella voce era crudele, voleva che Peter soffrisse. Mostragli
quanto
ti ha fatto soffrire, quanto sei stato male, fagli vedere cosa ti ha
fatto.
<<
Non essere così deluso, qualcuno potrebbe pensare che io non
ti piaccia.
>>
Jeannot
gli rivolse uno sorriso di circostanza. Una scenata, la rabbia,
così come
mostrarsi vulnerabile, non avrebbe cambiato ciò che era
stato né
l’atteggiamento che Peter aveva scelto di avere nei suoi
confronti.
Mandò
giù un lungo sorso del Manhattan che aveva in mano
semplicemente per prendere
tempo, perché non voleva parlare con lui, ma non voleva
nemmeno che se ne
andasse.
<<
Jeannot, sono successe tante cose… e la mia famiglia non
sapeva quanto tu fossi
importante per me. >>
<<
Non ti ho accusato di nulla. >> Magari non a parole, ma
il suo sguardo,
il suo tono di voce l’avevano fatto per lui.
Terminò il cocktail e lo posò su
un vassoio che vide passargli vicino.
Peter
gli disse qualcosa, ma non lo sentì. Si portò una
mano al volto a schermare gli
occhi, stordito da un improvviso giramento di testa. Una mano gli
strinse forte
un gomito.
<<
…not? Jeannot? >>
<<
Scusa. >>
<<
Stai sanguinando. >>
E
in quel momento sentì il sangue colare dal naso, raggiungere
le labbra.
Istintivamente, piegò la testa in avanti, portandosi le mani
al volto e
premendo la narice.
Stordito,
si lasciò trascinare in bagno e aiutare.
Peter
gli premette una mano sulla fronte. Era calda, ma Jeannot non voleva
sentire
ragioni: stava bene, non c’era alcun motivo per preoccuparsi,
potevano tornare
in sala e aspettare il termine della serata.
<<
Per te, il Galà finisce qui, e anche per me, visto che ora
ti accompagno a
casa. >>
Protestare
fu inutile, Peter non lo avrebbe lasciato tornare da solo in una casa
in cui
non ci sarebbe stato nessuno ad aspettarlo. E poi, ma quei pensieri li
tenne
per sé, sarebbe potuta essere il momento buono per parlare e
chiarirsi.
La
notte era silenziosa, e il cielo sgombro, illuminato dalla luna e dalle
stelle.
Sembrava quasi che un velo d’argento stesse ricoprendo il
mondo: uno spettacolo
affascinante per chi aveva fatto l’abitudine al cielo
d’Irlanda.
In
quei giorni Jeannot abitava in una vecchia casa di famiglia, un
po’ in
periferia, da cui si vedeva il viola dei campi di lavanda della
Provenza.
L’abitazione,
a un piano, era appartenuta a sua nonna paterna. I muri in pietra,
ampie
finestre con persiane verdi, e piante ovunque. Sembrava quasi di essere
in un
piccolo angolo di paradiso, lontano dal mondo e dalla
quotidianità.
<< Mi dispiace di averti reso difficili questi mesi.
>>
<<
Sì? Non sembra ti interessi molto di me. >>
<<
Cosa ti fa pensare che tu non mi interessi? >>
<<
No so, forse il fatto che tu sia morto e risorto senza dirmi nulla?! E
lo so
che non ti interesso in quel senso,
>> ecco, l’aveva detto, si era reso ridicolo
con le sue mani. Ma almeno
era stato sincero, magari avrebbe ottenuto un qualche bonus
sincerità, no?
La
sua camera da letto era al primo piano, e lui non aveva alcuna voglia
di salire
quei pochi gradini in legno. Probabilmente, se fosse stato da solo, si
sarebbe
addormentato sul divano del salotto.
<<
Jeannot… >> il modo in cui Peter
sospirò il suo nome gli fece quasi
mancare la voce e il poco coraggio che era riuscito a trovare senza
sapere
come. << Sei troppo piccolo per me. >>
<< Troppo piccolo? Ho ventiquattro anni! >>
<<
Guardati: hai ancora le labbra sporche di latte, >> lo
prese in giro,
passandogli il pollice sopra il labbro inferiore per asciugare una
goccia immaginaria,
e anche perché era la scusa perfetta per poterlo toccare.
<<
Le avrei sporche di altro, se tu me ne dessi la possibilità.
>>
<<
Ma sentitelo! Che linguaggio! >> gli prese il mento fra
due dita <<
eppure hai un faccino così dolce e innocente… non
mi sarei ai aspettato che tu
avanzassi certe proposte sconce. >>
Jeannot
si allontanò da lui << a quanto pare ci sono
tante cose che non ti
saresti aspettato da me. >>
<<
Jeannot, ehi, mi- >>
<<
No, >> si passò le mani fra i capelli, conscio
che, con le prossime
parole si sarebbe rovinato da solo. Aveva chiesto una seconda
occasione,
l’aveva avuta, ed era riuscito a rovinare anche quella.
<< Non voglio che
tu abbia problemi per colpa mia. No, lo so come finirebbe. Cosa credi?
Non sono
così stupido.
>> si schiarì la
voce, cercando di mantenere il controllo, ma allo stesso tempo
desiderando
crollare per mostrare a Peter quanto fosse importante per lui
<< grazie
per avermi accompagnato, ma ora è meglio che tu vada.
>>
Non
era così che doveva andare, non era così che
avrebbe voluto che andasse, ma non
c’era altro modo.
L’uomo
non si mosse.
<<
Peter… >> pregò <<
vai. >> Era stanco, e l’unica cosa che
voleva, era poter restare solo per rintanarsi sotto le coperte e
piangere,
piangere e soffrire come il disperato che era.
Vedeva
già i titoli dei giornali, degli articoli di blog. Gli
sembrò quasi di sentire
le critiche della gente, le domande maliziose dei giornalisti.
Avrebbero
accusato Peter di essere un approfittatore, un pedofilo –come
se lui fosse un
bimbo ingenuo-, la loro relazione sarebbe stata definita
‘abusiva’,
‘pericolosa’, ‘un pessimo
esempio’.
<<
Jeannot. Jeannot! >> gli afferrò un polso
<< aspetta, >> lo
lasciò andare per prendergli il volto fra le mani.
<< È davvero quello
che vuoi? Vuoi che io vada via? >>
Il
più giovane non rispose, e Peter si chinò su di
lui, sulle sua labbra,
baciandolo e spingendolo lentamente contro la parete vicina. Gli
circondò la
vita con le braccia, premendo il corpo contro il suo.
Jeannot
inspirò il profumo dell’altro a pieni polmoni:
vetiver e cedro. L’aveva sempre
adorato, avrebbe passato ore a respirarlo, fino a stordirsi e sentire
la testa
leggera. Si strusciò contro il corpo dell’altro
proprio mentre Peter faceva per
allontanarsi: non era così che aveva in mente di finire la
serata.
<<
Whoo >> la sua esclamazione si trasformò in
una risata bassa << sei
davvero contento di vedermi. >>
Il
più giovane non rispose, e distolse lo sguardo imbarazzato,
ma Peter gli
sollevò il mento per farsi guardare <<
dì un po’, ti è diventato duro per
colpa mia? >>
<<
In realtà questa sera avevo un appuntamento con un cetriolo
che ora mi attende
in cucina, se vuoi scusarmi. >>
<<
Un cetriolo, eh? Ma sentitelo. E riesci a fartelo entrare tutto, mh?
>>
<<
Sì! E ti dirò di più: mi fa godere
incredibilmente, >> lo sfidò. <<
È il paradiso. >>
<<
Il para- sì? Bè, buon per te. Ai miei tempi
c’erano le banane, o si teneva una
foto di qualcuno nella mano libera. Non hai mai pensato a me?
>>
<<
Nessuna goccia è stata versata pensando a te.
>>
<<
Quindi adesso ti è diventato duro pensando alla scopata con
un cetriolo. >>
Jeannot
annuì impacciato, improvvisamente incapace di parlare, poi
scosse la testa
abbassando lo sguardo e portandosi una mano in mezzo alle gambe,
stringendo e
cercando di alleviare il disagio.
<<
Togli. >>
<<
Peter-! >>
<<
Mi prendo sempre le mie responsabilità, io. Letto. Ora.
>>
Jeannot
si trovò fra le braccia di Peter, le gambe attorno al suo
bacino, e la schiena
premuta contro la testiera in legno dell’antico letto.
Strinse forte le
coperte, lasciando che l’altro gli togliesse la camicia,
prima di far scivolare
una mano dentro le sue mutande. Gettò la testa
all’indietro inarcando la
schiena, e si passò una mano fra i capelli.
<<
Allora, sono meglio del cetriolo? >>
<<
Lui non ha una carriera, >> articolò, cercando
di controllare la voce.
<<
Ssh, >> gli sussurrò all’orecchio,
chinandosi poi a baciargli il collo,
la spalla, la gola. << Non farò nulla contro
la tua volontà, ma tu sei
l’unica persona che voglio accontentare, sia che questo
significhi farti
venire, adesso, o fermarmi qui. >> Con la mano libera,
gli accarezzò
delicatamente un guancia, nel tentativo di farlo rilassare un
po’. << Non
farò nulla per paura del giudizio di persone che non sanno
nulla di noi.
>>
Peter
parlava con voce rassicurante, sussurrandogli parole sconnesse col suo
accento
irlandese, oscenità e dolcezza allo stesso tempo.
<<
Da bravo, vieni. >>
Jeannot
lo abbracciò di slancio, stringendosi a lui e affondando il
volto nell’incavo
del suo collo, sentendo un familiare calore attraversargli il corpo, i
muscoli
tendersi. Venne con un lamento soffocato, riversandosi sul petto e
sulla mano
dell’altro. << Ssh. Tranquillo.
Ssh,>> gli baciò la fronte <<
ssh. >> Lo strinse a sé finché non
sentì il suo respiro tornare regolare.
<< Non avevo questo in programma per la serata.
>>
<<
Non lo metto in dubbio, >> Jeannot si passò
una mano sul volto,
asciugando alcune lacrime << ora puoi andare.
>>
<<
Cos-? >>
<<
Bè, ti sei divertito, hai visto che effetto mi fai, ora puoi
andare, >>
tirò su col naso << lo spettacolo è
finito, >> si poggiò
completamente contro la testiera del letto, abbassando lo sguardo, in
attesa
che l’altro andasse via e lo lasciasse solo, ma lui non si
mosse. <<
Andiamo, Peter Rabbit, saltella
via.
>>
Quello
il era nomignolo con cui i suoi parenti lo prendevano in giro, e il
motivo del
suo nome: sua sorella maggiore adorava la fiabe di Beatrix Potter, e
aveva
sempre adorato il personaggio del coniglietto sempre pronto a mettersi
nei guai
per andare all’avventura.
L’uomo
rimase in silenzio, si chinò su di lui e lo
baciò. Jeannot mise le mani avanti,
cercando di divincolarsi.
<<
Pensavo avessimo chiarito? >>
<<
Chiarito? >> fece uno scatto in avanti, quando il
familiare odore di
ferro lo avvisò di ciò che sarebbe accaduto,
prima che il sangue iniziasse a
scendere. Saltò giù dal letto e corse verso il
bagno, una mano premuta contro
la narice, l’altra che teneva su’ i pantaloni
sbottonati. Peter arrivò poco
dopo, con in mano del ghiaccio che doveva aver preso in cucina.
<<
Grazie. >>
<<
È stata colpa mia? >>
<< No. Sono solo un po’ stressato.
>>
<<
Lo eri anche prima, al Galà? >>
<<
Sì. >> Si lasciò cadere in
ginocchio vicino al lavandino, e Peter si
chinò accanto a lui a stringerlo fra le braccia.
<<
Sei sparito per quattro mesi, e sono venuto a sapere che tu eri ancora
vivo da internet,
cazzo! Spero che tu abbia un motivo valido. >>
<<
Sì, ma non ne parleremo adesso. >>
<< Scherzi? >> urlò,
allontanando il fazzoletto dal naso.
<<
Ehi, >> Peter gli riportò la mano sopra la
narice. << No, non sei
in condizioni… di fare nulla, effettivamente. Hai bisogno di
riposo. Se ne
riparlerà domani mattina, >>
sentenziò. << Dopo colazione, >>
aggiunse, aiutandolo a cambiarsi per la notte, e ignorando le sue
lamentele.
Quello non era decisamente il fine serata che aveva programmato,
avrebbe dovuto
buttarlo in un vasca di ghiaccio e finirla così, e non
perché si era pentito di
essergli entrato nelle mutande, ma solo perché quella non
era la sera giusta.
<<
È sempre la sera giusta per quello. >>
<<
Non se mi muori dissanguato, porcellino. E ora dove vai? Torna subito a
letto.
>>
<<
Devo mandare un messaggio a un’amica. >>
<<
Amica? >>
<<
Sì, >> sorrise << Lia. Lei
è fantastica, dobbiamo tornare in
Italia, devi conoscerla anche tu. >>
Ho
avuto la mia seconda occasione, forse lo leggerai presto nei giornali,
ma ci
tenevo a dirtelo io.
Non
pensava di ricevere una risposta, non a quell’ora, invece
arrivò: preoccupato
dei giornali? Batteteli sul tempo: rendete voi pubblica la notizia.
Bacia il
tuo irlandese davanti a tutti, e fagli vedere che non vi interessa cosa
pensa
la gente.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Les enfants qui s'aiment ***
Les enfants qui s’aiment
Adattarsi alle nuove abitudini, ai nuovi ritmi era stata una cosa talmente naturale che ne era rimasto sconcertato.
Quella mattina si era svegliato per primo e, mentre preparava la colazione, si era sentito con Lia.
La donna gli aveva mandato una foto di Tiberio Lucrezio Scipione che osservava Roma svegliarsi dalla finestra, come se la città appartenesse a lui.
Peter lo raggiunse in cucina poco dopo, quando la cioccolata calda era appena stata versata nelle tazze, profumata e fumante.
<< Saresti potuto restare ancora a letto. >>
<< Per quello abbiamo tutta la giornata, no? Insomma, è sabato e piove: cos’altro vuoi fare? >>
Peter lo strinse a sé con un braccio, allungando la mano libera verso una delle due tazze, e prendendone una. << Sai, mi piace vederti così tranquillo e rilassato, >> portò la tazza alle labbra, e mandò giù alcuni sorsi della bevanda << e mi piace questa cioccolata. >> continuò a bere << è fantastica! È davvero quello schifo che ho in cucina? >>
Jeannot rise << latte, zucchero, e il cioccolato che avevi in frigo, >> mormorò in risposta. << Sono comunque il figlio di un maître chocolatier. >> Chiuse gli occhi, adagiandosi contro il petto dell’uomo e godendosi quel momento.
Aveva dormito tutta la notte, un sonno lungo e sereno, eppure si sentiva ancora stanco. Erano stati giorni impegnativi, quelli appena trascorsi. Stare lontano da Peter per non attirare troppo l’attenzione, pur volendo passare con lui tutto il tempo possibile, perché l’aveva già perso una volta e ora aveva una paura bestiale che potesse ricapitare.
L’intervista si era svolta solo il giorno prima, e non si era ancora ripreso del tutto dallo stress.
Gli sembrava quasi di vedere ancora i flash delle macchine fotografiche e dei cellulari che li circondavano, avvolgendoli in un caotico cerchio di luce.
I suoni degli scatti, le domande dei giornalisti si mescolavano in un unico boato assordante, ma loro non sentivano nulla.
I due innamorati non c’erano per nessuno, si baciavano in piedi in mezzo alla folla non badando alle domande che veniva poste: ci sarebbe stato tempo per quello.
Continuarono a baciarsi sollecitando la curiosità, lo sconcerto, il sorriso dei presenti, e in quel momento loro non c’erano per nessuno, erano ben oltre quell’ampia sala dalla moquette bordeaux, persi nell’accecante gioia del loro amore.
Quella era sembra la soluzione migliore, pertanto, avevano deciso di tentare.
Avrebbero dato spettacolo, reso pubblica la loro relazione, e sarebbero rimasti in attesa di ciò che sarebbe capitato poi, nel bene e nel male.
Pensa che, oltre che essere criticati, potresti essere d’ispirazione per qualcuno, gli aveva scritto Lia. E quel messaggio era riuscito a dargli un po’ di coraggio.
Avevano aspettato quella che era sembrata loro l’occasione migliore, un’intervista in un cui Peter avrebbe parlato meglio del suo incidente in Svizzera, di come fosse stato ritrovato dopo circa due settimane in condizione piuttosto critiche, e della decisione della sua famiglia di tacere su tutto ciò che era successo poi. Per loro era stato un duro colpo, e non avevano la forza di affrontare le domande della stampa e la curiosità di internet.
Avevano deciso che, ad un certo punto, Peter avrebbe cominciato a parlare del suo presente, e della sua vita sentimentale per poi fare finalmente il nome di Jeannot, ma, alla fine, non ve n’era stata la necessità.
Una giornalista, una dall’aria giovane e un po’ impacciata, aveva incredibilmente trovato il coraggio di urlare un << oltre la sua famiglia, c’era per caso un’altra persona ad attenderla? >>
Peter l’aveva notata e aveva subito colto l’occasione per aprire un dialogo con lei, facendole guadagnare l’odio dei colleghi.
<< Le avrei risposto: Pooka, il cane di mia sorella. I Pooka sono dei folletti irlandesi, >> divagò per prendere tempo << che, come ogni folletto irlandese che si rispetti, è dispettoso, e può essere buono o cattivo. Ma lei mi ha chiesto di una persona. >> Fece una pausa, e prese un respiro profondo.
Jeannot, infondo alla sala, sentì il cuore accelerare il battito.
Tutto sarebbe dipeso dalla prossima risposta dell’uomo, che avrebbe potuto dire la verità, e allora sarebbero usciti allo scoperto, oppure avrebbe potuto fare la scelta più facile e mentire.
Deglutì a vuoto, cercando di non agitarsi, asciugandosi i palmi delle mani sudate sui pantaloni. Al suo fianco, la sua agente gli rivolse uno sguardo interrogativo, e lui, incapace di parlare, cercò di rivolgere un sorriso. Stava bene, nessuno problema. Ma lei sapeva tutto, ovviamente, e non le avrebbe mentito.
<< Effettivamente c’è una persona. >>
A quell’affermazione calò un silenzio carico di attesa e morbosa curiosità.
<< Si può avere un nome? >> chiese ancora la giornalista.
<< Visto che lei me l’ha chiesto in maniera così gentile, avrà più di un nome. >>
Jeannot si alzò e lo raggiunse davanti a tutti. Solo in pochi lo notarono, finché non fu accanto a Peter, che si era alzato in piedi.
<< DesRosiers! >>
<< Jeannot DesRosiers! >>
Oh, bene, l’avevano riconosciuto tutti.
Peter gli prese il volto fra le mani, chinandosi sulle sue labbra, e Jeannot sentì l’adrenalina dargli alla testa.
La folla di giornalisti era in delirio: gli avevano fornito una notizia decisamente esaltante, benché, in un certo senso, si fossero semplicemente limitati a confermare dei sospetti nati già anni prima.
Le mani dell’uomo erano bollenti contro le sue guance, o forse era solo lui che era accaldato per la troppa eccitazione.
<< Da quanto state assieme? >>
<< Come avete superato questi mesi? >>
<< Perché non eravate assieme in Svizzera? >>
<< Cosa ne pensano le vostre famiglie? >>
Jeannot avrebbe voluto poter scomparire da quella sala affollata, e trovarsi nell’intimità del suo appartamento, o di quello di Peter.
Aveva tutta l’intenzione di isolarsi dal mondo per alcuni giorni. Niente internet, niente giornali, niente televisione. Che la gente pensasse e dicesse ciò che voleva, a lui interessava solo godersi un tranquillo fine settimana con Peter.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3869545
|