Dalla tua parte

di hikaru83
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 2015 Notte ***
Capitolo 2: *** 2010 Londra ***
Capitolo 3: *** 2011 London Swimming pool ***
Capitolo 4: *** 2012 Quartier generale di Moriarty ***
Capitolo 5: *** 2012 Londra St Barts ***
Capitolo 6: *** 2013 Eurasia, Seguendo Sherlock ***
Capitolo 7: *** 2014 Londra, primavera ***
Capitolo 8: *** 2014 Londra, estate ***
Capitolo 9: *** 2014 Londra, Estate, Mattina ***
Capitolo 10: *** 2014 Londra, Estate, Sera ***
Capitolo 11: *** 2014 Londra, Estate, Notte ***
Capitolo 12: *** Pall Mall, Estate, Notte ***
Capitolo 13: *** 2014 Natale ***
Capitolo 14: *** 2014 27 dicembre, Pall Mall, Residenza di Mycroft ***
Capitolo 15: *** 1 gennaio 2015, Londra ***
Capitolo 16: *** 2 gennaio 2015, Londra, Alba ***
Capitolo 17: *** 2 gennaio 2015, Londra, ospedale militare ***
Capitolo 18: *** 2 gennaio 2015, Pall Mall, Residenza di Mycroft ***
Capitolo 19: *** 12 gennaio 2015, Ospedale militare ***
Capitolo 20: *** 13 gennaio 2015, Pall Mall Residenza di Mycroft ***



Capitolo 1
*** 2015 Notte ***


Ho iniziato questa storia una vita fa. Non volevo pubblicarla finchè non l'avessi finita, ma oggi è il compleanno di Ben e mi sembra il giorno perfetto. Comunque la fine nel mio cervello c'è quindi state tranquilli.

Non sarei mai riuscita a pubblilcarla senza il continuo supporto della mia Annina, senza la consulenza medica di Susanna e senza la mia Beta che è in grado di trasformare la mia lingua sgrammaticata in italiano. E vi assicuro, non è cosa da tutti.

E nulla, spero che la mia idea vi piacerà.





Dalla tua parte



2015
Notte
 
La sabbia della spiaggia, che alla luce della luna sembra bianca, risplende sotto i piedi di una ragazza.

È scalza. Indossa un paio di pantaloni di una tuta tirati fin sopra i polpacci per non farli bagnare mentre avanza sola sul bagnasciuga, incurante della temperatura di gennaio. Il mare sembra un’infinita macchia nera.

Il maglione di lana spessa la protegge dall’aria ormai gelida. Quell’indumento tanto orrendamente natalizio la tiene al caldo, non solo per il materiale di cui è fatto, ma per i ricordi a esso legati.

Avrebbe dovuto coprirsi di più. Nessuno sano di mente se ne andrebbe di notte, a quelle temperature, scalza sulla spiaggia, con i piedi a mollo, indossando solo dei pantaloni di una tuta e un maglione di lana, che per quanto caldo fa passare l’aria gelida tra le maglie.

Ma lei non ha mai creduto di essere particolarmente sana di mente. E in effetti le scelte fatte nella sua vita fino a quel momento danno ragione a questa tesi.

I capelli sciolti si lasciano accarezzare dal vento dispettoso che a volte glieli fa finire sul viso.

Cerca di sistemarsi una ciocca fastidiosa dietro l’orecchio con la mano libera, mentre nell’altra stringe una bottiglia di birra appena aperta e non ancora toccata.

Sospira, la ragazza, guardando il cielo tempestato di stelle e quella luna che sembra più grande del solito; così grande da credere di poterla sfiorare.

Osserva il liquido nella bottiglia come se fosse indecisa se berlo o meno.

Sembra aver preso ormai una decisione quando la suoneria del cellulare la ferma.

Infila la mano in tasca e ne tira fuori uno smartphone lucido e nero. Lo schermo illuminato le rivela il nome del suo interlocutore.

-Mr Government-

Un altro sospiro prima di rispondere. Sa che lui non smetterà di assillarla fino a quando non risponderà. Del resto, chi osa non ubbidire a Mycroft Holmes? Solo qualcuno molto molto molto stupido, o con tendenze suicide.

«Non riesci a fare a meno di me, Capo? Eppure ci siamo lasciati solo poche ore fa.»

«Devi venire a Londra.»

«Londra è troppo pericolosa per me, secondo qualcuno; e sì, ti sto citando: “Una città non è mai abbastanza grande quando non si vuole incontrare qualcuno”.»

Era stato lui a farla partire dopo aver sistemato tutto, aver rintracciato il loro obiettivo e aver dato abbastanza prove in mano a chi di dovere. L’aveva letteralmente cacciata. Anche se lei avrebbe potuto sistemare la “situazione” ormai da anni con un proiettile dritto in testa, o spezzandole il collo –  tutte cose che le aveva impedito di fare, sperando che tutto si muovesse secondo i suoi piani. Anche quella volta era stato irremovibile. L’aveva fatta andare via nonostante a Londra ci fosse stata per parecchio tempo a controllare quei due – spesso e volentieri anche da molto vicino –, e non sembrava che all’epoca si preoccupasse del fatto che potessero incontrarla e scoprirla.

Invece, dopo che tutto sembrava sistemato, l’aveva praticamente cacciata, come se fosse certo che per lei stare lì fosse pericoloso, ma non avesse avuto intenzione di ammetterlo.

«Devi tornare. Si tratta di... John.»

Un sobbalzo nel suo cuore.

John. Era successo qualcosa a John.

Era certa che Mycroft lo sapesse che per quanto manipolare fosse un’arte, e il suo capo ne era il Leonardo da Vinci, a volte le cose potevano prendere direzioni diverse, e non tutto andava come era stato programmato.

«John? Sta bene?» trova il coraggio di chiedere, anche se la voce le si spezza.

«Una macchina oramai dovrebbe essere arrivata,» la informa l’uomo.

Proprio in quel momento i fari di un’auto, sicuramente più costosa di quanto lei potesse immaginare, illuminano la strada alle sue spalle. La luce viene schermata dal muretto basso che delimita la spiaggia rispetto alla strada.
«Arrivata, sì.» La ragazza butta la birra sul bagno asciuga e si avvicina alla strada. Lascia la bottiglia di vetro nel
cestino dei rifiuti prima di salire in macchina.

A malapena riesce a individuare un uomo alla guida a causa del buio e dei finestrini oscurati. Un secondo uomo,
grande come una montagna, la aspetta fuori dal veicolo e le tiene aperto lo sportello posteriore.

«Ti ho fatto trovare i vestiti adatti.»

Non si stupisce neanche del fatto che lui sappia che non era pronta a partire subito. Del resto, l’ultima missione era finita da poche ore. Meno di dodici, per l’esattezza. Ed era convinta che l’avrebbe lasciata in pace per un po’.
Soprattutto perché totalmente cosciente del fatto che lei è arrabbiata con lui per aver dovuto obbedire a un ordine che riteneva sbagliato.

«Armi?» chiede.

Sorride appena quando all’interno dell’abitacolo riconosce l’assistente personale del suo capo. Sorride, ma nello stesso tempo un brivido di terrore le scorre lungo la schiena. Difficilmente Mycroft faceva a meno della sua assistente, a meno di rarissimi episodi.

Anthea risponde al suo sorriso con uno uguale. E, cosa a dir poco sorprendente, spegne lo schermo del suo Blackberry e lo infila nella borsa elegante posata sul sedile accanto a lei. È piccola, ma lei sa essere letale, esattamente come la proprietaria.

«Per ora non ti servono. Dove ti porteranno non sono necessarie.» La voce del suo capo arriva ancora dal microfono del telefono. Sta facendo tutto cercando di tenerlo in equilibrio tra spalla e orecchio.

Lei si sistema sul sedile. Appena l’uomo al di fuori, come un vero gentleman, le chiude lo sportello, il calore dell’abitacolo le fa arrossare le guance. Non appena Anthea le offre una maglia leggera, scura ed elegante, si sfila il maglione di lana con sollievo.

L’abitacolo è diviso in due da un pannello scuro.

«Non mi hai risposto, prima. Lui come sta?» chiede un po’ infastidita. Odia il modo in cui il suo capo non le dica mai tutto. Le informazioni centellinate, solo quando servono, non un instante prima. Ma lei ha una memoria formidabile, ed è una gran rompiscatole se ci si mette, e il suo capo di questo ne è pienamente consapevole.

Finisce di vestirsi. Il maglione ben piegato sulle gambe, il resto piegato nel sacchetto di carta dove erano contenuti i vestiti nuovi. Probabilmente, ipotizza, verranno distrutti o usati in altri modi. A lei non importa. L’unico pezzo importante è sulle sue ginocchia. Il calore che emana è forte, come il vero proprietario di quel maglione.

«È meglio che lo vedi con i tuoi occhi. Questa storia deve finire. I nodi devono essere sciolti e non posso farlo senza il tuo aiuto.»

Questa ammissione non se la sarebbe aspettata. Mycroft preferirebbe farsi sparare prima di ammettere di aver bisogno di aiuto.

«Quella... donna, è morta?» L’unica spiegazione plausibile che il suo cervello riesce a trovare. Deve essere colpa di quella donna. È sempre colpa di quella donna.

Lei gliel’ha sempre detto. Ma lui non l’ha mai ascoltata e lei si è fidata, con ritrosia certo, ma si è fidata.

Perché è sempre di Mycroft Holmes che si sta parlando. L’uomo che ha sempre tutte le risposte. L’uomo che è in grado di manipolare chiunque. L’uomo che sembra poter contrattare con Dio e con il Diavolo in persona, e non essere quello intimorito nella trattativa.

Eppure, quella volta aveva sbagliato.

«Non è cosa di cui parlare per telefono. Riposa durante il viaggio. Dopo non so quando potrai farlo.»
Anthea, come se potesse sentire la telefonata, le porge due pillole e una bottiglietta d’acqua ancora chiusa.

«Capo...» È reticente. Non ama non essere cosciente di ciò che la circonda; ma è Mycroft a volere che lei svuoti la mente e si riposi. E lei, nonostante tutto, di Mycroft si fida.

«Non gli succederà niente fino al tuo arrivo.» Riconosce dal timbro della sua voce una verità assoluta. Una promessa.
Un giuramento.

«Come vuoi.» Afferra le pillole senza toccare l’acqua. Non ha certo bisogno di bere per ingoiare delle pillole tanto piccole.

«Brava. Ci vediamo fra poco. Dormi, ora.»

E lei, obbediente, chiude gli occhi, si sistema comoda sul sedile utilizzando il maglione come cuscino e si lascia cadere in un sonno senza sogni.



Continua...


Note: la storia sarà un po' lunga, spero di riuscire a darvi un capitolo a settimana. Alla prossima! E Tanti Auguri Ben ❤️

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Capitolo 2
*** 2010 Londra ***


Eccoci al secondo capitolo. Sono davvero felice della risposta al primo, e spero che sarò sempre in grado di mantenervi curiosi fino all'ultimo.

Da questo capitolo faremo un salto temporare indietro come vedete, e ripercorreremo tutto quello che è accaduto (a grandi linee ovviamente) e giusto per farvi mettere il cuore in pace dall'inizio, non saprete chi è la "protagonista" finchè non ritorniamo da dove siamo partiti, quindi dovete armarvi di santa pazienza.

Mi sono molto divertita a leggere delle vostre teorie, e vi ringrazio davvero per le belle recensioni. La mia beta (quella sorta di supereroina il cui super potere, oltre che sopportarmi, è il capire che diamine scrivo) è nella vostra stessa situazione e mi insulta in continuazione (ma tanto lo so che mi vuole bene 😂)

Sperando che questo capitolo sia all'altezza del primo, vi auguro una buona lettura.




Dalla tua parte



2010
Londra


Era tornato a casa, e questa era la cosa più importante.

Acciaccato, dolorante e sfiduciato, ma era a casa.

Avrebbe voluto stargli vicino, ma negli anni aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per distruggere il loro rapporto, e stargli accanto non lo avrebbe aiutato.

Ora che era tornato in patria, il poco che aveva potuto fare, l’aveva fatto.

Ma questo non voleva dire che non si sarebbe più occupata di lui. L’avrebbe protetto senza che lui ne fosse cosciente, come aveva fatto dal momento in cui l’avevano mandato al fronte.

Aveva deciso da tempo di distruggere tutti i legami che, stupidamente, si era creata fino a quel momento, pensando – non sapeva neanche lei spiegarsi come aveva potuto farlo – che si sarebbe meritata una vita normale, come quella di chiunque altro, nonostante il fatto che fosse un killer professionista.

Un killer a servizio del governo, certo, dalla “parte dei buoni” (e questa cosa se la ripeteva ogni volta che andava in missione, ogni volta che premeva un grilletto, ogni volta che il suo “lavoro” respirava per l’ultima volta) ma rimaneva comunque un killer. Il migliore del Regno Unito e probabilmente una dei migliori al mondo.

Ma alla fine aveva capito che non poteva permettersi una vita normale. Non poteva costringere qualcuno a legarsi a lei senza poter essere sincera su ciò che faceva. Dover nascondere il suo lavoro era essenziale; non poteva pretendere di addossare il suo peso addosso ad altre persone. E in più li avrebbe messi a rischio, se la sua identità fosse stata scoperta...

Non voleva nemmeno pensare alle conseguenze di una cosa simile.

Così, aveva fatto quello che era giusto fare e aveva troncato i rapporti con tutti quelli che tenevano a lei, e a cui lei teneva.

Farsi odiare piuttosto che metterli in pericolo era la scelta giusta per loro. Per lei, beh... Non si poteva accontentare tutti, no?

Nemmeno John sapeva che lavoro facesse in realtà. Lui che era la persona che la conosceva meglio di chiunque.

Poi lui era stato mandato in missione, e lei lo aveva seguito passo dopo passo per essere certa che fosse al sicuro.

Era riuscita a uccidere chiunque stesse per colpirlo prima che riuscisse a sparare. Quell’esplosione aveva quasi infranto tutto il suo lavoro. Ma alla fine si era rivelata una fortuna insperata. Lui era tornato a Londra, colpito a una spalla, ma comunque vivo.

Lasciava la guerra per sempre.

Sarebbe stato al sicuro.


Ed era certa che le cose sarebbero andate davvero così; almeno finché non lo aveva visto per la prima volta con quell’uomo.

Lei, i guai, li sapeva riconoscere a chilometri di distanza, e quell’uomo aveva scritto in fronte GUAI a caratteri cubitali.

Inoltre, osservandolo per giorni, aveva notato che era sempre tenuto sotto osservazione da degli agenti in borghese. Questo voleva dire che doveva veramente essere un tizio pericoloso.

Era stato un incubo quando, pochissimo tempo dopo aver conosciuto quell’uomo, John era salito su una berlina nera e per quasi un’ora non era riuscita a sapere dove fosse, né se stesse bene. Poi dal nulla, proprio come era sparito, era ricomparso. Sembrava stesse bene e che non avesse subìto nessuna ferita. Ma quell’accadimento aveva aumentato il suo livello di guardia.

Fu proprio allora che conobbe Mycroft Holmes.

Aveva fatto in modo di dividerlo dalle sue guardie mentre la seguiva, senza che lui se ne accorgesse – o almeno era quello che aveva creduto. Dopo aver scoperto chi fosse, aveva avuto dubbi in proposito – e solo quando si era sentita in un luogo abbastanza sicuro lo aveva chiamato.

«Ehi tu, uomo misterioso, vuoi seguirmi ancora per molto o decidi di uscire allo scoperto e presentarti? Non è molto carino da parte tua seguire in questo modo una donzella indifesa.»

Una risata aveva rotto il silenzio, poi dall’ombra era uscita una figura misteriosa. Avanzò sicuro, come se non fosse sorpreso di essere stato scoperto. Si avvicinò, rimanendo comunque a una certa distanza di sicurezza. Si fermò appoggiandosi al suo ombrello come fosse un bastone, una mano in tasca, incrociando persino le gambe, del tutto rilassato.

«In effetti non è un comportamento molto adeguato alla mia normale condotta. Ma non si può certo dire che tu sia una donzella indifesa.»

Si interruppe, guardandola negli occhi per qualche istante, poi tolse la mano dalla tasca e spostò lo sguardo sulle unghie curate, osservando con interesse la manicure probabilmente appena fatta.

Si era resa perfettamente conto che due dei suoi uomini li avevano raggiunti, alcuni movimenti nell’ombra erano evidenti, e inoltre lui non avrebbe spostato lo sguardo da lei se non fosse stato del tutto certo di essere al sicuro.

«Non secondo il tuo fascicolo,» aggiunse, sollevando di nuovo lo sguardo nel suo e osservandola attentamente per testarne la reazione.

Se all’interno lei era davvero sorpresa e spaventata dal quell’uomo che doveva essere senz’altro molto potente se era a conoscenza del suo fascicolo, all’esterno riuscì a mantenere la sua facciata più distaccata e anche un po’ irriverente. «Il mio fascicolo? Ma bene, quindi tu sai chi sono, ma io non so chi sei tu. Un altro punto in meno ai tuoi modi! E pensare che a guardarti sembri un vero gentiluomo.» Si era guardata attorno. Aveva diverse vie di fuga. Aveva scelto il posto giusto.

«In effetti non mi sto comportando nel migliore dei modi, ne convengo. Perché non mi dai un’altra possibilità e ricominciamo da capo?»

«Vedi di non sprecarla, non ne do spesso,» aveva risposto secca. Era stanca di giocare. Sperava che quell’uomo lo capisse, e che sapesse che aveva ucciso per molto meno. Nessuno poteva pensare di non rispettarla.

«Molto bene.» Evidentemente il suo tono aveva fatto capire che era il momento di mettere le carte in tavolo. «Il mio nome è Mycroft Holmes, e sono il tuo capo.»

«Il mio capo? Mr. Government in persona?» Non avrebbe dovuto, ma le venne da ridere. In un certo senso, se l’era immaginato sempre molto simile all’uomo che le era davanti.

«Così dicono.»

«Perché mi segui?»

«Perché tu stai tenendo sott’occhio qualcuno di mio interesse.»

«Qualcuno? Lo spilungone?»

«Esatto.»

«E perché sarebbe di tuo interesse? È un pericolo?»

«Per sé stesso, principalmente,» era stata la sua laconica risposta.

«Aspetta!» l’aveva interrotto all’improvviso, come colta da una rivelazione. «Hai detto di chiamarti Mycroft Holmes, giusto? E il nome di quel tizio è Holmes. Non mi dire che...»

«Sì, è mio fratello.» La cosa stava diventando davvero ironica, e persino lui lo doveva aver pensato visto il leggero sorriso che le aveva rivolto.

«Non smetterò di seguirlo. Non finché sarà in compagnia...»

«Del dottor Watson, immagino. Io non sono qui per farti desistere dalla sorveglianza ma, anzi, sono qui per darti una missione che credo tu accetterai di buon grado.»

«Una missione?»

«LA missione. L’unica missione che ti sarà affidata. Avrai le migliori attrezzature, nessun limite di fondi e io sarò il tuo unico referente.»

«Che missione?» Rimanere distaccata non era facile. Parlando dal punto di vista lavorativo, era la migliore occasione che le potesse capitare. Lavorare direttamente con il Capo, altro che James Bond. Ma se questo le avesse impedito di proteggerlo, la sua risposta sarebbe comunque stato un bel no.

«Sorveglianza e sicurezza di Sherlock Holmes e del dottor Watson.» Allungò la mano verso di lei. «Affare fatto?»

Lei lo aveva guardato negli occhi mentre afferrava la sua mano. «Affare fatto!»
 

Continua...


Note: i primi capitoli sono un po' più brevi, poco alla volta inizieranno ad allungarsi. Come detto, spero che ci sia piaciuto, non vedo l'ora di leggere le vostre impressioni.
A settimana prossima!

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Capitolo 3
*** 2011 London Swimming pool ***


Ed eccoci al terzo capitolo, cominciamo a mettere un po' di carne in più al fuoco, sono certa che, già dai titoletti dei capitoli riuscite a immaginare cosa succede, almeno quando, come in questo caso, utilizzo luoghi conosciuti nella serie.

Se non capite non c'è problema, tanto vi basterà pochissimo per trovarvi all'interno della serie (a meno che non siete la mia beta che si rifiuta di guardare Sherlock e mi chiede il riassunto ogni volta XD).

Prima di iniziare voglio solo farvi presente che (ed è un sistema che uso per tutta la ff) quando troverete l'uso del corsivo sarà perchè ho preso le battute della serie alla lettera, per fondere ancora di più la mia ff con quello che conosciamo. Il corsivo lo troverete anche per altri casi, ma via via vi avviserò.

Buona lettura e grazie davvero per seguirla e regalarmi le vostre recensioni.




Dalla tua parte



2011

London swimming pool
 

«Dammi l’okay, capo.» Si trova in missione, non esattamente dal lato in cui si sarebbe aspettato vederla. Ovviamente con il benestare di Mycroft. Del resto, lo sapeva dall’inizio che se doveva stare sottocopertura per proteggere John in una organizzazione di criminali, l’avrebbe fatto senza tante storie. Non era certo il suo primo incarico simile.

«No, lascia stare.» La voce quasi annoiata di Mycroft la raggiunge dall’auricolare.

«Ma ce l’ho sotto tiro! Quello stronzo lo sta facendo imbottire di esplosivo.» Ha iniziato a sudare freddo quando si è resa conto di quello che Moriarty aveva intenzione di fare.

«Non gli succederà nulla. E ora stai zitta e non farti scoprire.» Poteva mandare a quel paese il suo capo? Quella era una domanda che si poneva spesso, e che altrettanto spesso la sua lingua non le dava il tempo di porsi, agendo senza che lei riuscisse a controllarla e sputando fuori qualsivoglia appellativo poco carino le venisse in mente.

«Questo settore è mio. Entrare nel loro giro è stato quasi divertente. Lui sarà anche un genio, ma gli altri sono dei caproni. C’è giusto quella cazzo di biondina a preoccuparmi.» Cambia argomento; sa di non poter perdere la pazienza proprio in quel momento. Se la scoprissero non farebbe proprio una bella fine.

«La dovrai tenere sotto controllo. Moriarty invece non devi toccarlo.»

«Se potessi sparare ora, rimarrebbe solo la biondina. E riuscirei a trovarla.»

«Non devi distaccarti dal piano. È un ordine.» La voce di Mycroft è autoritaria. Cosa che ovviamente le fa solo venire voglia di rispondere a tono.

«Tranquillo... Stai facendo una stronzata, ma rispetto gli ordini.» La lingua questa volta era stata più veloce.

«Sei consapevole che chiunque altro mi parlasse in questo modo sarebbe già defenestrato?»

«Io posso.»

«E sentiamo: perché?»

Lo può immaginare, lì che sorride come se fosse davanti a lei, mentre in realtà nel mirino ha il viso compiaciuto di Moriarty. «Perché sono la tua preferita. E ora devo lasciarti, sta arrivando Sherlock.»

«Non spegnere l’auricolare; voglio sentire.»

Non risponde, lasciando comunque l’auricolare acceso come lui ha chiesto.

Vede gli altri uomini di Moriarty che si sistemano nelle posizioni assegnate.

È entrata in quella organizzazione criminale da poco meno di due anni. Poco dopo aver conosciuto di persona Holmes. Si è fatta notare prima da Moran, il braccio destro di Moriarty, e poi dal capo in persona.

Gli uomini armati nascosti nell’ombra li conosce bene. Ha preso in braccio alcuni dei loro figli. È stata invitata a pranzo alle loro tavole.

Eppure non esiterebbe un solo istante a togliere loro la vita se solo si rendesse conto che lui, che loro, siano in vero pericolo.

Moran non le piace per nulla. Non è neanche sicura che quello sia il suo vero nome. Oppure è talmente abituata a usare altre identità che con il suo nome non si trova più a suo agio. È una donna viscida, calcolatrice e letale. Non ci lavora spesso insieme, ma ha capito da subito quanto sia pericolosa. Cosa che l’ha resa felice del fatto che il travestimento scelto è particolarmente buono, perché è sicura che sia stata lei a controllare la sua identità. Senza l’aiuto di Mycroft, che le ha coperto le spalle, è certa l’avrebbero scoperta subito.

Un movimento improvviso la riscuote dai suoi pensieri ed ecco entrare in scena Sherlock.

La voce alta, si rivolge a quella che sembra una piscina vuota.

Lei osserva tutto dall’alto, come uno spettatore in un teatro.

«Ti ho preso un piccolo regalo di presentazione. È di questo che si trattava, vero? Tutti quei piccoli enigmi per farmi perdere tempo, tutto per distrarmi da questa.» Alza una mano mettendo in mostra la chiavetta.

Se solo non avesse tenuto John all’oscuro, se solo avesse capito che era tutto programmato...

All’improvviso un rumore. Sherlock si volta ed ecco uscire allo scoperto lui.

«Buonasera. Bella sorpresa, non è vero, Sherlock?»

«John? Cosa diavolo...?» Holmes sembra davvero sorpreso.

«Questo non l’avevi previsto.» Da dove lei si trova può osservare il dolore, oltre che la sorpresa, negli occhi di Sherlock quando vede John uscire dal cubicolo. «Cosa ti piacerebbe che gli facessi dire, adesso?» Può vedere il dolore tingersi di terrore quando John apre il giaccone mostrando tutto l’esplosivo. «Bella pensata, questa. La piscina dove è morto il piccolo Carl. L’ho fermato. Posso fermare anche John Watson, fermare il suo cuore.»

È una situazione così poco convenzionale. Sono in una piscina. Le voci le arrivano amplificate. Non sa neanche più da quanto non sentiva così forte la sua voce. Ma anche se l’emozione è tanta, non si muove di un millimetro. Anche se il cuore batte forte, lei è una professionista. Deve mantenere la posizione. Deve rimanere immobile.

«Chi sei?» Sherlock è evidentemente infastidito. Non solo non ha ancora idea di chi sia il suo nemico, ma chiunque sia lo sta costringendo a osservare John inerme che recita la parte da burattino per lui.

A questa domanda una porta si apre e fa il suo ingresso Moriarty. Finalmente parla con la sua voce.

Non deve più vedere né sentire John usato come una marionetta.

«Ti ho dato il mio numero. Pensavo mi avresti richiamato,» dice Jim offeso.

Lei non si perde un solo istante di quello che accade a così pochi metri al di sotto.

«È una L1 browning dell’esercito britannico quella che hai in tasca o sei solo contento di vedermi?» Moriarty avanza sicuro, con un sorrisetto stampato in volto.

«Tutt’è due.» Risponde Sherlock, stando al gioco.

«Jim Moriarty. Ciaoooo

Perché non poteva fare l’attore, Moriarty, invece del criminale? Per lei sarebbe stato un attore strepitoso.

«Jim, Jim dell’ospedale. Ah! Ho fatto un’impressione così sciatta? Ma d'altronde, suppongo fosse proprio questo lo scopo.» La luce rossa del fucile brilla, attirando per un secondo l’attenzione di Sherlock.

Si ritrova a controllare il respiro. Vorrebbe spostare il mirino su Moriarty, ma non può. Quel profumo le ha fatto capire subito chi la sta controllando da vicino.

«Non essere ridicolo. Qualcun altro ha il fucile. Non mi piace sporcarmi le mani.»

Lei trema un istante. Avere sotto tiro John non è così semplice, ma per fortuna non ha ancora acceso il puntatore laser.

«Ti ho fatto dare un occhiata, Sherlock. Una piccolissima occhiata a quello che posso combinare in questo grande mondo crudele. Sono uno specialista, come vedi. Come te,» continua la sua spiegazione Moriary.

Lo sguardo di Sherlock si apre, consapevole di quello che è davvero accaduto.

«Caro Jim, potresti occuparti per mio conto di far sparire la stupida sorella del mio amante? Caro Jim, potresti occuparti di farmi sparire in sud America?» Bisogna concedere che Sherlock riesce a unire i puntini velocemente.

Moriarty avanza. Per un istante lei riconosce il sorriso seducente. È affascinante, deve ammetterlo.
Che sia il fascino del male o meno, non lo sa, ma persino lei non può ignorare la cosa.

«Proprio così,» dice soddisfatto il criminale.

«Un consulente criminale. Geniale!» commenta Sherlock.

«Eh, sì! Nessuno risale mai a me. E mai nessuno lo farà.»

Sherlock carica il colpo. Lei spera che non sia davvero tanto scemo. Ma dopo quello che ha visto con quel tassista, non si sorprenderebbe se lo fosse.

«Io l’ho fatto.» Sherlock ribatte con una punta d’orgoglio.

«Ci sei arrivato vicino. Ma ora sei sulla mia strada.»

«Grazie!»

«Non era un complimento,» risponde Moriarty, fintamente annoiato.

«Sì che lo era.»

«Sì, okay lo era. Ma ora basta flirtare, Sherlock. Papà ne ha avuto abbastanza.»

Un sospiro scocciato, quasi nauseato, dietro di lei le fai intuire che la Signora è d’accordo con ciò che il suo capo ha appena detto. Può quasi vederla mentre solleva gli occhi al cielo, infastidita.

«Ti ho mostrato cosa posso fare. Mi sono sbarazzato di tutte quelle persone con tutti quei problemi – persino di trenta milioni – solo per farti uscire allo scoperto. Prendilo come un amichevole avvertimento. Mio caro, fatti da parte. Sebbene mi sia piaciuto questo nostro piccolo gioco. Impersonare Jim l’informatico, fare il gay... Ti è piaciuta la trovata degli slip?»

«Hai ucciso.»

«In qualche modo si deve MORIRE.»

A sentire quelle parole, lei si domanda quanto sia scena e quanto sia realmente psicopatico. Quegli sbalzi d’umore non le sembrano normali.

«Riuscirò a fermarti,» insiste Holmes.

«No, invece.»

«Stai bene?» Sherlock si rivolge a John, forse perché Moriarty si sta avvicinando troppo al dottore.

Quando oramai il criminale è a pochi passi, fissando Holmes negli occhi, domanda al dottore: «Puoi parlare, piccolo John, avanti.»

Probabilmente per Sherlock è davvero troppo vicino a John, perché fa catalizzare l’attenzione su di sé e sulla chiavetta in men che non si dica. «Prendila.»

«Oh, quella, i progetti missilistici... Noiosoooo! Avrei potuto trovarli ovunque.» Appena Jim sorpassa il dottore, lei sa già quello che John ha in mente.  Lo conosce bene. «Sherlock, corri!» urla infatti, arrivando alle spalle di Moriarty afferrandolo, imprigionandolo.

Non male come idea, le tocca ammettere. Completamente inutile, certo, ma lui non può saperlo, perché non ha idea di quante persone siano lì.

«OH, beeene! Molto bene!»

«Se il tuo cecchino preme il grilletto, Moriarty salteremo entrambi.» La voce di John è molto calma.
Sotto sforzo per dover trattenere Moriarty e sotto stress avendo chili di esplosivo addosso, riesce comunque a essere calmo. È  consapevole che potrebbe morire, ma prende tutto con una leggerezza sorprendente. Niente forma il carattere di un uomo come la guerra.

«Che carino!» cinguetta Moriarty. «Capisco perché gli sei affezionato. Ma sai, a volte si esagera con l’amare i propri cuccioli. Sono così leali, ma...» Tocca a lei, ora, Si prepara prendendo la mira. «Le conviene mostrare le mani, dottor Watson. Fregato!» Ed ecco che la luce del suo laser si posa sulla fronte di Sherlock.

«Sei davvero brava, precisa, non ti dispiace se prendo il tuo posto?» Moran si è avvicinata e lei sa che non può certo mandarla a quel paese. Si allontana dal fucile permettendole di prendere il suo posto. Nemmeno Moriarty si può essere accorto dello scambio. Se crede però di averle tolto il potere tra le mani, si sbaglia di grosso. La sua pistola ben nascosta è pronta all’uso, e non l’ha mai tradita.

Intanto, John lascia Moriarty e si allontana.

«È un Westwood.» Si aggiusta meglio possibile il vestito e poi si rivolge al consulente investigativo non dando alcuna attenzione a John. «Sai cosa succede se non mi lasci in pace Sherlock? Indovina.»

«Ah, dunque vediamo... verrò ucciso?»

«Ucciderti? Nooo, è troppo banale. Insomma: ti ucciderò comunque, un giorno, ma non voglio affrettare le cose. Voglio lasciarmelo per qualcosa di speciale. No, no, no, no, no. Se non la smetti di indagare, ti brucerò. Ti brucerò il cuore, te lo garantisco.»

«Mi dispiace. Ho saputo da fonte certa che non ce l’ho,» ribatte Sherlock, tentando di sembrare forte e del tutto a suo agio di questa affermazione.

«Ma sappiamo entrambi che non è affatto così.» Non c’è bisogno che aggiunga altro, l’unico a non capire (o a fingere di non capire) il senso di questa frase è John. «Beh, è meglio che me ne vada, ora. Sono felice della bella chiacchierata.»

«E se io ti sparassi adesso, in questo momento?» continua Sherlock che non vuole lasciarlo scappare.

«Allora potresti goderti l’espressione stupita sul mio viso. Ohhhhh! Perché sarei stupito, Sherlock, lo sarei davvero. E direi anche un po’... Un po’ deluso. E di certo non potresti godertela per molto. Ciao, Sherlock Holmes.»

«Ti beccherò più tardi!» dichiara il detective.

«Non credo proprioo!» E con quest’ultima affermazione, Moriarty esce di scena. È così teatrale, Jim.

Lei sa che è tutta una finta, ma spera che il piano funzioni. È un po’ come far finire Sherlock dalla padella alla brace. Dovrà metterli entrambi nelle mani della Adler, ma Mycroft è convinto che possano resistere, e lei non può negare che non hanno molta scelta visto che conosce perfettamente le mosse di Moriarty. In effetti, la Adler è l’unica alternativa che hanno. Del resto, la brace è abbastanza lontana e, se giocheranno bene le loro carte, eviteranno scottature importanti.
La padella, d’altro canto... Da quella non sa bene come potrebbe salvarli senza uscire allo scoperto.

Sorride alle spalle di Moran, la quale credeva che prendendo il suo posto l’avrebbe messa in difficoltà, quando invece le ha reso le cose molto più semplici.

Potrebbe ucciderla in questo momento e nessuno ne saprebbe nulla, e contemporaneamente far fuori un sacco degli avversari, ma non potrebbe essere sicura che qualche pallottola vagante non rischi di colpire John e Sherlock. Per questo non lo fa.

Anche se il collo di quella biondina è così vicino che ci metterebbe un decimo di secondo a spezzarglielo.

È una tentazione molto forte, le sue mani prudono. Quella donna che ha davanti e le dà le spalle creerà un sacco di problemi, lei ne è certa. Ma Mycroft è stato chiaro: non deve torcerle un capello se non è strettamente necessario per la salvezza di Sherlock o del dottore. E per quanto il suo istinto le stia dicendo che forse non lo è nell’immediato ma lo sarà nel futuro, deve rispettare gli ordini.

È perfettamente cosciente che Mycroft le lascia più libertà di movimento rispetto a chiunque altro.
Nessuno potrebbe permettersi di fare quello che vuole e parlargli direttamente, senza nessun pelo sulla lingua, come fa lei. Nessuno probabilmente ne ha mai avuto il coraggio.

Ma lei capisce quel tizio burbero che finge di essere un iceberg senza cuore. Lo capisce meglio di quanto si possa intuire. Loro due sono uguali: fingono di non avere un cuore, prendono decisioni difficili per proteggere quelli che amano, distruggendo nel mentre pezzo dopo pezzo la loro anima.

È quello che fanno entrambi da una vita.

«So che mi senti, ragazzina, e so che non puoi rispondermi, ma fai esattamente quello che ti dico. Sono certo che hai preparato il prepagato in modo che ti basti un micromovimento per inviare quel file. Fallo appena te lo dirò e saranno salvi.» La sua voce giunge bassa nel suo orecchio, come se stesse bisbigliando, ma straordinariamente chiara. «Lo so che vorresti togliere di mezzo la donna che hai davanti. Lo so che la reputi il male sceso in terra, anche se non riesco a capire come hai fatto ad inquadrarla così bene alla prima occhiata; pertanto sono certo tu abbia ragione. Ma, per ora, dobbiamo evitare di fare passi falsi. Non devi bruciarti la copertura per nulla al mondo. Se vuoi che Sherlock e il dottore siano al sicuro, devi restare all’interno dell’organizzazione fino alla fine.»

Le viene da sorridere. Almeno lo ha ammesso che ha perfettamente ragione a non fidarsi di quella maledetta biondina, ma il suo ragionamento non fa una grinza. Deve restare in quella organizzazione fino a quando non verrà smantellata, Deve aiutare dall’interno, a farlo. Senza di lei non potranno mai farcela.

Se esistesse un modo di far fuori Moran e non far saltare la sua copertura, lo farebbe, ma non c’è; non ora, almeno.

Intanto, sotto di lei le cose si stanno muovendo. Sherlock ha aiutato John a liberarsi del giubbotto esplosivo e grazie all’acustica le arrivano le battute che si scambiano.«Stai bene? Stai bene?» Sherlock è visibilmente nervoso e preoccupato. Strappa letteralmente l’esplosivo da John e lo butta di lato.

«Sì sto bene,» gli risponde Watson.

«Okay.» Holmes sembra ancora nervoso.

«Sto bene, Sherlock. Sherlock! Oddio... Ma tu stai bene?» gli dice, mentre si appoggia al muro e si lascia scivolare sul pavimento. La tensione è alle stelle.

«Io? Sì. Sto bene, bene. Quella cosa che... Che hai fatto...Cche ti sei offerto di fare, era...» Sherlock sembra imbarazzato.

«Per fortuna nessuno ci ha visti,» risponde il dottore, cambiando discorso.

«Nh?»

«Mi hai strappato i vestiti di dosso in una piscina buia, la gente chiacchiera,» continua John, portando un grosso sorriso sulle labbra del detective.

«Beh, diciamo che non fa altro!» Ridono insieme, e persino lei non può lasciarsi sfuggire un sorriso.

«Che carini... Sono adorabili, insieme, non credi? Quasi mi spiace dover eseguire gli ordini di Moriarty.» La luce del mirino laser colpisce il centro del petto di John.

A lei manca il respiro, ma deve mantenere la calma. Forse, alla fine, è un bene che la biondina abbia preso il suo posto. Sarebbe davvero riuscita a mirare direttamente al cuore di John?

«Tranquilla, ragazzina, è tutto sotto controllo. Ci penso io, lo sai. Tu tieniti pronta.» Come se lui sapesse, le sussurra nell’orecchio quello che ha bisogno di sentire.

Ed ecco che ritorna sulla scena Moriarty.

«Scusate, ragazzi, sono così volubile. È una mia debolezza, ma a essere onesto è la mia unica debolezza. Non posso permettervi di continuare. Non potete. Vorrei convincerti... Avrai già immaginato tutto quello che avrei da dire.» La recita di Moriarty è ancora in atto. È davvero così a suo agio! Sembra un attore di teatro.

«Ora, ragazzina, ora!» La voce di Mycroft all’orecchio le dà l’ordine che stava aspettando.

Esegue l’ordine e invia i file. Dal suo punto di osservazione, riesce a intravedere lo sguardo che John lancia a Sherlock, e inizia seriamente a pregare che tutto vada come deve andare. Che quella donna riceva il messaggio in tempo e si comporti di conseguenza.

«Probabilmente avrai già immaginato la mia risposta.» La voce di Sherlock è calma mentre mira al giubbotto di esplosivo.

Ti prego, ti prego, ti prego! Lei neanche sa chi sta pregando, ma lo fa, sperando che qualcuno lassù l’ascolti.

Tutto sembra immobile. I cecchini aspettano. Nessuno oserebbe sparare se il capo non dà il segnale concordato, e lui è abbastanza fuori di testa per vedere se Sherlock fa sul serio o no.

I secondi più lunghi della sua vita passano prima che quella ridicola suoneria faccia riavviare il tempo.

«Perfetto, ragazzina, perfetto!» La voce sollevata di Mycroft all’orecchio le fa sfuggire un leggero sorriso.

La voce di Mycroft e lo sbuffo seccato di Moran.



Continua...


Note: Eccoci qui, alla fine della prima stagione, voi vi ricordate cosa avete pensato quando l'avete vista? Io sì, era la prima volta che davano Sherlock in chiaro in Italia, su Italia Uno in seconda serata. E non avevo la più pallida idea che avrei dovuto aspettare anni per la seconda stagione, neanche lo sapevo che le stagioni si Sherlock fossero composte da soli tre episodi. Mamma mia quanto ho sclerato quando l'ho scoperto... comunque io, al contrario dei Moffits sono brava, non vi farò aspettare due anni per il prossimo aggiornamento, solo una settimana.
Grazie davvero per seguire questa mia storia.
A settimana prossima!

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Capitolo 4
*** 2012 Quartier generale di Moriarty ***


E anche se sono al mare l'aggiornamento è qui, sono brava vero? Sì è vero, continuo a far lavorare la mia beta anche in vacanza per questo per lei non lo sono per nulla XD, e dopo aver letto il capitolo forse neanche voi sarete proprio d'accordo con questa affermazione.
Ho voluto dare a Moriarty una possibilità di essere conosciuto, spero di averlo caratterizzato al meglio.

Come sempre vi ringrazio per aver commentato il capitolo precedente.




Dalla tua parte



2012
Quartier generale di Moriarty

 
Lavorava nell’organizzazione di Moriarty oramai da anni. Aveva passato momenti terribili ma, grazie al cielo, non si era mai dovuta trovare a dover premere il grilletto contro innocenti.

Certo, aveva dovuto sparare al capo dell’organizzazione cinese, mentre Moran –  o meglio: mentre Mycroft nei panni di un’ignara Moran – chattava con lei, ma diciamo che non si trattava proprio di un innocente. Considerando inoltre quello che aveva cercato di fare a John e a Sherlock poco tempo prima, non aveva trovato molto difficile premere il grilletto.

Del resto, era un cecchino. Sparare a bersagli concordati era stato il suo lavoro primario per tanto tempo. Non amava togliere una vita, ma sapeva che il suo lavoro era rispettare gli ordini presi, a prescindere dalla morale. Da quello dipendeva il destino di molte vite, pertanto non poteva permettersi di avere degli scrupoli. Non era un lavoro semplice, ma lei lo prendeva come una missione.

Si era ritrovata a pensare che fosse abbastanza comico il fatto che l’ordine per il primo omicidio commissionatole da quando era entrata nell’organizzazione, le era stato dato da Mycroft e non da Moriarty. Questo era avvenuto ben prima dell’incontro di Moriarty con Sherlock e John in piscina, e di tutte quelle bombe sistemate su quelle povere vittime. Le era dispiaciuto quando aveva saputo che l’anziana signora era stata fatta saltare in aria, ma purtroppo non poteva andare tutto bene e non tutti potevano uscirne indenni.

Aveva notato che Moriarty ultimamente tendeva a usarla più per tenere d’occhio la situazione che per altro, come se non si fidasse di qualcuno nella sua organizzazione.

Il loro capo era davvero una persona strana. Aveva un’intelligenza spaventosa, e quando quegli occhi scuri si posavano su di te, l’idea che potesse leggerti dentro non la trovavi poi così impossibile. La cosa più inquietante era che poi sorrideva, di un sorriso che sembrava genuino, a volte persino innocente. Jim Moriarty era terribilmente affascinante.

Lei si rendeva conto che tutti i suoi seguaci avrebbero dato la vita per lui. Ne erano completamente ammaliati.

In quanto a lei, cercava di resistergli; anche se a volte si ritrovava a ridere sul serio alle sue battute, o a trovare piacevole la sua compagnia. Poi però si ricordava cosa provasse per John Watson e qualsiasi simpatia svaniva.

Quella sera era stata chiamata da Moriarty in persona. Aveva un nuovo lavoro per lei.

Appena entrata nella sua stanza si accorse del fatto che non era presente Moran; particolare alquanto strano. La donna, infatti, era sempre messa a parte di tutti i piani di Moriarty. Era il suo braccio destro, del resto.

«Avvicinati, coraggio, non mordo!» L’uomo fa una pausa a effetto prima di continuare con un sorriso malefico sulle labbra perfette: «Non te, almeno.» Una risata fredda e spietata le arriva alle orecchie.

«Hai un nuovo lavoro per me?» chiede, cercando di rimanere impassibile.

«In un certo senso, ma siediti qui,»le dice, battendo con il palmo sul posto accanto a sé del divano di velluto. «Vuoi del cognac? Un whiskey invecchiato? Ho una vasta scelta,» prosegue, indicando il tavolino d’ebano su cui varie bottiglie di cristallo racchiudono liquidi che sembrano ambra fusa. Il ghiaccio nel suo bicchiere tintinna mentre si muove.

L’odore di alcol la colpisce. Un ottimo profumo, non può negarlo, ma lei cerca di rimanerne indifferente. «No, grazie,» dice, sedendosi sul divano un po’ più distante di quello che il suo capo intendeva.

«Non abbassi mai la guardia, me ne compiaccio. Ma qui sei tra amici, lo sai, siamo tuuuutti una grande famiglia felice. Paparino è davvero molto orgoglioso,» cinguetta l’uomo, con quella voce melliflua e il sorriso seducente.

«Non si tratta di scarsa fiducia, ma non sono in grado di apprezzare quelle bevande. Costeranno un accidenti. Sarebbe sicuramente uno spreco farle bere a una come me,» si denigra, cercando di stare al gioco.

«Ohhhh, è un vero peccato! Vuol dire che dovrò assolutamente insegnarti ad apprezzarli. Sono tra le poche gioie della vita. È ingiusto che una persona che merita il mio rispetto non possa godere di questo.»

«Mi ha chiamato per questo?» Sorride cercando di sembrare a suo agio, quando in realtà si sta solo  convincendo di esserlo.

«Vorrei così tanto averti chiamato solo per questo, mia cara.» In un attimo la serietà prende possesso di Moriarty.

Lei, come uno specchio, si comporta di conseguenza. «Qualcosa non è andato secondo i piani? Forse Moran...» Che fosse rimasta ferita? Catturata? Non che la cosa l’avrebbe minimamente disturbata, a parte il fatto di non essere stata lei stessa a darle il ben servito.

«Oh, no. No, tranquilla, tutto va come deve andare; anche se... Forse non proprio tutto.» Moriarty si interrompe, l’espressione meditabonda.

«Cosa devo fare?»

«Meravigliosa, piccola, mia creatura... Subito pronta a eseguire i miei ordini. I tuoi superiori nell’esercito dovevano essere davvero stupidi per non perdonarti qualche piccola presa di posizione forse un po’ troppo sollecita, non è così? Ma che ne sanno gli ufficiali nei loro studi in città, al sicuro, di cosa significhi essere sotto una sparatoria? Molti di loro sono degli insulsi passacarte che non hanno mai visto nemmeno lontanamente il campo di battaglia. Mentre tu,» sospira quasi sognante lui, mentre le si avvicina accarezzandole il viso, spostandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Lo sguardo sembra tenero, compassionevole, «tu eri lì, e hai dovuto prendere decisioni difficili, e solo per questo hanno deciso di sbatterti fuori. Che insulsi piccoli insetti.» Lo sguardo di Moriarty diventa duro.

Se i suoi “superiori” fossero lì in quel momento, lei non ha dubbi che avrebbero pagato con la vita le loro scelte. Rimane immobile, aspettando l’ordine che sa che arriverà. Chi sarà la vittima che ha deciso per lei?

Lui le sorride, gli occhi scuri fissi nei suoi. «Prima ho detto che siamo una grande famiglia; ed è vero. Lo sai che per me lo siamo, non è così?»

Lei gli rivolge un timido sorriso abbassando lo sguardo mentre lo fa scivolare alla sua destra, come se stesse riportando alla memoria un bel ricordo. Sa giocare le sue carte. «È quello che mi hai detto la prima volta che Moran mi ha portato qui.» Cambia anche registro, passando al tu.

Il sorriso di Moriarty si allarga, come se fosse genuinamente felice che lei non abbia scordato una cosa tanto piccola avvenuta anni prima; e lei si ritrova ancora una volta a domandarsi cosa diamine sia successo a Moriarty, che cosa lo ha fatto diventare il primo consulente criminale al mondo. «Hai ragione. È proprio quello che ti ho detto. Ne è passato di tempo da allora, e tu non mi hai mai deluso,» le dice, incatenando i loro sguardi.

«Qualcuno lo ha fatto?» chiede lei, facendo trasparire la sua massima indignazione.

«Non ne sono sicuro... Ma forse, forse, ho dato troppe libertà a Moran.»

Lei non può lasciarsi sfuggire uno sguardo sorpreso, a quelle parole.

«Sì, mia cara, sì. È terribile anche per me pensarlo, eppure a volte mi sembra che non voglia eseguire i miei ordini come ha sempre fatto.»

«Ha fatto forse qualcosa contro le regole?» chiede lei, un poco esitante.

«No, niente di tutto questo; è che ho la sensazione che non riesca più a vedere le cose dalla giusta prospettiva. Cioè la mia. Sai che il mio desiderio è distruggere Sherlock. Mi ha davvero deluso quando ho capito che anche lui si è lasciato corrompere dai sentimenti. Lo hai visto anche tu: quello sguardo che ha assunto non appena ha visto il dottore. Quell’istante in cui ha pensato che lo avesse tradito. E poi... Poi quello di terrore che ha riempito i suoi occhi quando ha capito che era solo l’ennesima marionetta nelle mie mani.»

Lo rammentava bene, anche se era passato molto tempo da quella sera. Le era stato impossibile dimenticarlo. «Sì, ricordo.»

«Quale credi sia il miglior modo di bruciare il cuore di Sherlock Holmes?» Moriarty cambia improvvisamente contesto, o almeno sembra farlo. Parlare con lui è una continua corsa sulle montagne russe. Ti destabilizza rendendo davvero difficile mentirgli.

«Io sono solo un cecchino, signore. Non sono brava in queste cose.»

«Oh, mia cara, sappiamo entrambi che questa è una bugia.»

Torna a fissarla negli occhi e lei teme che l’abbia scoperta. In realtà, è certa che Moriarty sappia tutto. Un brivido freddo le attraversa la schiena.

Il sorriso bianco e perfetto di Jim rinasce sulle sue labbra. Le fossette lo rendono così terribilmente adorabile che la destabilizza. Persino i suoi occhi si illuminano, e lei sa che il sorriso che le è spuntato in risposta sulle labbra è genuino. Non sta fingendo. Sta seriamente sorridendo a Jim Moriarty. Poi lui continua la frase, allontanandosi dal suo viso e rompendo la tensione creata: «Tu sei brava a capire certe dinamiche. Del resto, sei una donna, geneticamente predisposta a manipolare le persone.» La risata dell’uomo ancora una volta riempie la stanza.

Lei continua a sorridere in risposta, un po’ più padrona di sé stessa. «Forse ha ragione, ma in questo caso non saprei. Forse... » Deve trovare una risposta, qualcosa che non sia una condanna a morte per John, perché ormai ha capito che è di quello che si tratta. «Forse se credesse di aver perso la fiducia del dottore...»

«ESATTO! Lo vedi che siamo d’accordo?» Jim sorride e batte le mani, felice, davvero felice, di averla dalla sua parte.

Lei si sente felice di averlo reso orgoglioso, e la cosa la spaventa a morte.

«Perdere la fiducia inossidabile di quel Watson lo distruggerebbe. Moran non capisce! Lei vuole ucciderle il dottore, ma non realizza che è una cosa del tutto inutile. Farlo fuori non farebbe altro che far agguerrire di più Holmes, che non avrebbe altro desiderio nella vita di annientarci. E non posso permette che una persona con quell’intelligenza si metta davvero contro di noi. Se invece il dottore non si fidasse di lui, se rompesse da solo il legame che li unisce, Holmes sarebbe distrutto; una marionetta facilmente manipolabile.»

«Moran vuole uccidere il dottore?» Nascondere il terrore le risulta molto difficile, ma almeno quel soverchiante sentimento riesce a darle una scossa salvandola dall’influenza di Moriarty. Non può farsi scoprire, non ora.

«Sì, preferisce ucciderlo perché credo desideri andare avanti con la nostra organizzazione. Temo che lei pensi che stiamo solo perdendo tempo. Ma capisci? Sherlock Holmes poteva essere parte della nostra bella famiglia, se solo non fosse così dannatamente testardo. Sono certo che con il tempo avrebbe capito. E invece per colpa di quel dottore...»

«Quindi Moran vuole accelerare le cose,» riassume lei.

«Esattamente. Per questo prenderai tu il posto di Moran, e mi aiuterai a distruggerli.»

«Ma in questo modo non è che lei... Ecco... Se ne potrebbe risentire?» chiede insicura.

«Oh, non te ne devi preoccupare, mia cara. Ho un lavoro all’estero che posso affidare solo a lei. Non se la prenderà se assegnerò a te il suo compito.» Moriarty sorride soddisfatto. «Dobbiamo prepararci. Presto la mia vendetta sarà compiuta e appena accadrà, dovremo essere pronti per espanderci. Così eviteremo che continui a insistere con le sue idee e mi costringa a doverla sostituire in maniera permanente. Sarebbe un vero peccato, d’altronde. Lavora così bene!»

Lei finge di soprassedere sul fatto che le ha praticamente detto che uccidere il proprio braccio destro non gli causerebbe molto dispiacere, semmai giusto qualche noia a livello lavorativo. Si sofferma invece su una cosa che le sembra molto più importante. «Hai detto che questo succederà presto?»

«Oh, sì, presto. Fra non molto, il problema Sherlock Holmes sarà risolto. Manca poco e mi libererò del dottore, o di lui. La parte migliore è che se non riusciremo a far annientare il loro legame da Watson – in quanto, a essere sincero, la vedo difficile, perché se le cose andranno come devono andare persino un paladino come il dottore farà fatica ad accordargli ancora la sua fiducia – sarà Holmes a decidere e questo distruggerà comunque entrambi. E tu, mia cara, sarai uno degli ingranaggi più importanti affinché tutto questo abbia luogo.»

 
Dopo l’incontro con Moriarty, si ritrovò a prendere il posto di Moran.

Quando si erano incontrate, poco prima della partenza di quest’ultima verso la prossima destinazione del gruppo, Moran pareva abbastanza tranquilla, e non sembrava avere da ridire sulla nuova collocazione, anzi. Pareva davvero sollevata dalla cosa, in realtà. Che Jim ci avesse visto giusto e Moran avesse fiutato il pericolo?

In quel momento, però, non poteva perdersi in certi pensieri. Una parte di sé le diceva di stare attenta. Comunicava con Mycroft con messaggi rari, affidati a chat a prova di bomba, e non aveva davvero parlato direttamente con lui dalla sera in piscina, ormai risalente a diversi mesi prima.

C’era stato un vero momento di crisi quando Moriarty era sparito e lei aveva scoperto che Mycroft stava giocando con lui senza averla resa partecipe. Poi il loro capo era tornato senza spiegare cosa fosse successo – ma del resto era il capo, non doveva giustificarsi con nessuno – e con l’espressione del gatto che si è appena pappato l’uccellino.

Nemmeno allora aveva potuto parlare direttamente con Mycroft. Sapeva che ogni volta poteva essere letale per la missione, oltre che per la sua vita. Ma anche se erano stati davvero attenti, nulla poteva assicurarle che Moriarty non stesse cercando la conferma del suo tradimento. Non si era scordata quello sguardo nel loro incontro, quel: «Oh, mia cara, sappiamo entrambi che questa è una bugia,» come risposta al suo dirsi incapace di gestire certe cose. Era sempre più sicura che Jim sapesse. Quindi aveva comunicato con Mycroft solo per dirgli del cambio della sua missione e che per il momento, a meno di pericolo di vita più che certo, dovevano interrompere le comunicazioni.

Avrebbero usato esclusivamente il trucco del giornale.

Quel trucco era stato un successo dall’inizio. Lei era in grado di hackerare siti complicatissimi, tanto che quello del Daily era come se fosse senza protezione, per lei. A volte l’aveva hackerato solo per divertirsi. Come quando aveva cambiato il nome e la foto della futura moglie di un Lord pomposo, razzista e omofobo, con uno maschile con tanto di foto creata ad hoc, sull’annuncio del matrimonio che occupava due pagine. Quella volta erano saltate diverse teste al giornale, tra cui il caporedattore e il direttore in persona; gente che le stava decisamente antipatica e che non era mai stata gentile verso nessuno.

Così quando c’era da comunicare qualcosa a Mycroft e voleva essere sicura che nessuno a parte lui capisse, entrava, modificava e mandava in stampa, il tutto senza che nessuno se ne accorgesse, compresi quelli del giornale. In fondo, se si aggiungeva un’inserzione senza togliere le altre, nessuno avrebbe avuto qualcosa da ridire.

Si era trovata a seguire personalmente il “problema” Irene, ed era andata a Baskerville per tenerli sott’occhio. Moriarty era stato chiaro: anche quando lui non era raggiungibile, il suo compito primario era seguirli e comunicargli appena possibile ciò che aveva potuto osservare. A parte il dover riferire tutto quello che succedeva, non sarebbe stato diverso da quello che faceva quando seguiva John per proteggerlo.

Ora, però, stava per mettere la parola fine a tutta la trappola che Jim aveva creato.

Lei stessa aveva preparato il finto curriculum da attore. Aveva girato le scene e le aveva messe in rete. Avevano addirittura creato un canale televisivo locale solo per rendere la trappola realistica. Era stata sempre lei che aveva ideato il rapimento dei bambini. Lei, seguendo le istruzioni di Moriarty, li aveva indotti ad avere paura di Sherlock.

Stava letteralmente minando il rapporto tra Holmes e Watson. Lo stava facendo con cura, come Jim desiderava, e come Mycroft si aspettava da lei.

Faceva tutto quello che doveva, affinché la missione andasse a buon fine. Ma il dolore, la paura e il senso di colpa che accompagnavano ogni suo gesto erano quasi insopportabili.

Eppure, lei eseguiva gli ordini, come le era stato insegnato a fare quando, per la prima volta, le avevano messo in mano un fucile e l’avevano mandata in missione.

In famiglia nessuno sapeva che aveva scelto la carriera militare; le donne non erano fatte per sparare. Del resto, aveva già rotto i ponti con tutti per colpa del suo carattere, quindi non aveva visto il senso nel comunicare loro la sua decisione, non che potesse farlo in effetti, e in ogni caso nessuno l’avrebbe mai capita.

Era bastato un cenno del suo superiore e aveva sparato. Un colpo preciso, finito proprio in mezzo alla fronte del suo bersaglio. Tutti erano sorpresi e soddisfatti di quella ragazzina che con un colpo solo aveva eliminato il boss argentino della droga. E lei per tanto tempo aveva continuato a illudersi che con il suo lavoro eliminava i cattivi. Persone senza scrupolo.

Lei non sbagliava mai. Non aveva mai fallito un solo colpo. A un certo punto, però, si era resa conto che i cattivi non finivano, per quanti lei ne uccidesse. Ogni volta che ne eliminava uno, altri dieci spuntavano fuori come funghi. Aveva paura che stesse perdendo la sua anima, da qualche parte in quelle morti. Se avesse continuato sarebbe sparita del tutto, e sarebbe rimasto solo il cecchino, il killer.

Per questo nelle pause tra una missione e l’altra, aveva bisogno dell’alcol che l’aiutava a scordare cosa era diventata, quante persone aveva ucciso senza alcuna pietà.

Un giorno – quello della sua ultima missione nell’esercito – le avevano dato l’ordine di far fuori il capo di un’organizzazione che si occupava della tratta di esseri umani. Nel suo lavoro aveva visto tante cose orrende che l’avevano convinta che i suoi bersagli fossero davvero da eliminare. Quell’uomo non faceva eccezione. Perciò, all’inizio, non si era posta nessuna domanda ed era partita per compiere il suo dovere e rispettare l’ordine.

Quello però che non le avevano detto, era che la sua missione si sarebbe svolta durante la festa di compleanno del figlio undicenne del boss.

Il boss era una persona molto attenta. Difficilmente usciva dal suo covo, ma l’unico per cui avrebbe fatto di tutto era il figlio.

La festa era super blindata. I palloncini colorati, le tavole ricolme di cose da mangiare, la gente vestita a festa. I bambini che correvano felici non se li sarebbe mai più scordati.

Lei era così lontana che calcolare la traiettoria del proiettile era stato davvero complicato. Il vento era uno dei problemi, per dirne uno. Così, per sopperire a quelle variabili, si era appostata la sera prima. Immobile al freddo della notte e al caldo del sole di mezzogiorno, con il fucile pronto e il respiro calmo, osservava tutto quello che capitava a centinaia di metri da lei. Avrebbe avuto solo un colpo. Non poteva sbagliare. Non che l’avesse mai fatto.

Quando finalmente il boss era stato sotto tiro, lei aveva usato il movimento dei palloncini che danzavano con il vento per essere sicura di aver calcolato tutto alla perfezione. Aveva inspirato ed espirato con calma, senza però tirare fuori tutta l’aria per mantenere la stabilità perfetta della canna. Le avevano dato l’okay e lei aveva premuto il grilletto.

Normalmente, appena sparato, si occupava di smontare l’arma e di far sparire ogni possibile traccia della sua presenza. Quella volta, tuttavia, si era soffermata ad osservare lo sguardo distrutto del figlio del boss che piangeva disperato sul corpo del padre.

Era certa di aver appena creato un mostro peggiore di quello che aveva appena eliminato, perché nessuno poteva scordare una cosa del genere. Quel bambino sarebbe cresciuto covando odio e le sue vittime sarebbero state sulla sua coscienza, se ancora ne avesse avuta una.

Quegli occhi non l’avevano fatta dormire per anni. Non lo facevano nemmeno adesso.

Aveva lasciato l’esercito quel giorno stesso. O meglio: ci aveva provato. Era troppo qualificata per essere lasciata in pace, quindi era stata trasferita in Afghanistan dove aveva però potuto controllare John, e per lei quello era già un passo avanti.

Ora si trovava nella medesima situazione.

Era usata da tutti e a nessuno importava se la cosa la facesse soffrire o meno.
Certo, da Jim non poteva aspettarsi nulla, soprattutto perché non aveva idea di cosa in realtà le stesse chiedendo.

Ma Mycroft lo sapeva perfettamente. L’unica sua difesa era che anche l’uomo stava lacerando la propria di anima da parecchio tempo. Anche lui eseguiva ordini che non erano per nulla semplici da portare a termine. Anche lui portava sulle spalle un peso enorme.

Si era quasi divertita quando Jim aveva fregato tutti, facendo credere di essere in grado di avere in mano la possibilità di hackerare qualsiasi sistema di sicurezza. Era letteralmente scoppiata a ridere, con quelli del suo gruppo, quando si era fatto arrestare seduto sul trono con tanto di scettro, mantello di ermellino e corona in testa.

Jim Moriarty era così: il più spietato consulente criminale – e per quanto ne sapeva lei, pure l’unico – e una delle persone più divertenti sul pianeta.

Alla fine era stato assolto, e lei sapeva bene come. Moriarty aveva selezionato i membri della giuria personalmente, e lei aveva eseguito gli ordini in modo che fossero scelti loro e nessun altro. Quelle persone, dopo aver ricevuto il video minaccia, erano terrorizzate, pertanto avrebbero fatto qualsiasi cosa gli avesse ordinato.

Oramai, però, era arrivata alla fine del gioco.

Aveva visto Sherlock salire sul tetto del Barts. Sapeva che Jim era lì ad aspettarlo. Aveva ricevuto il messaggio dal killer che seguiva John, e anche lui si stava avvicinando alla palazzo.

Non potè evitare di lasciarsi sfuggire un sorriso tra sé pensando a quanto fossero state inutili tutte le manovre per dividerli. John, invece di credere alla menzogna, la prima volta era andato direttamente da Mycroft perché aveva capito da solo che tutto ciò che Moriarty aveva usato contro Sherlock l’avrebbe potuto sapere solo dal maggiore degli Holmes. Non sapeva se successivamente Watson avesse avuto un dubbio, quel che era certo, però, è che aveva capito la verità da solo. Era stato manipolato persino da Sherlock, che come al solito tentava così di proteggerlo, e John in tutta risposta stava correndo ancora una volta da lui.

Lei, per un istante, credette quasi che sarebbe potuto arrivare in tempo, che avrebbe cambiato le sorti del gioco.

L’istante di illusione purtroppo fu breve. Era troppo tardi. I due erano uno di fronte all’altro.

Poi, accadde davvero una cosa che nessuno aveva predetto.

Si udì uno sparo, e a cadere fu Jim.


Continua...


Note: Che dite mi perdonate? Dovete aspettare solo una settimana per scoprire cosa succede.
 

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Capitolo 5
*** 2012 Londra St Barts ***


Eccoci al quinto capitolo, un po' di dolore putroppo ci tocca. Questa puntata, che poi è la stessa dello scorso capitolo, mi ha dilaniato il cuore, sia per il livello di intensità di alcune scene, sia per la recitazione di Benedict e Martin che è davvero superlativa.

In questo capitolo il corsivo l'ho utilizzato oltre che per i dialoghi presi dalla serie anche per un'altra situazione, ma credo che si riconosca e non crei confusione.

Come sempre vi ringrazio per seguire questa storia e per farmi sapere cosa ne pensate.





Dalla tua parte



2012
Londra
St. Barts.

 
Rimase immobile.

Per un istante ebbe il dubbio su come comportarsi.

Era strano. Avrebbe dovuto gioire, ma Moriarty si era insinuato nella sua vita, e una parte di lei era seriamente triste per la sua morte.

Tuttavia, non poteva comunque abbassare la guardia, perché c’era Moran. Lei era ancora viva, e decisamente ancora pericolosa.

«Maledetto bastardo! Come ha fatto?» Eccola, infatti. La sua voce disturbante le arriva dall’auricolare. «Non muovetevi dalle vostre postazioni. Se non si butta, sparate ai vostri bersagli,» ordina al team al completo, poi si rivolge direttamente a lei: «Se sarà così, a Watson sparagli tu e cerca di essere brutale. Deve soffrire il più possibile.»

Le si gela in sangue nelle vene. Proprio lei, che aveva passato la sua vita a proteggerlo, dovrebbe sparagli?

Prende un respiro e tranquillizza il battito prima di rispondere: «Ricevuto!» Andrà tutto bene, lei lo sa. Ne è certa. Mycroft ha giurato che andrà tutto bene. Sa che Sherlock si butterà ma si salverà; ma John? Dopo aver visto la morte di Sherlock come farà?

Si chiede se Mycroft si renda davvero conto di quello che sta facendo a John. Quello che sta costringendole a fargli.

Lo vede ascoltare la voce di Sherlock dal telefono. Lo vede soffrire per ogni bugia che sta sentendo.
Vede il dolore uccidere ogni parte di John, e non può far nulla per impedirlo.

Il corpo di Sherlock cade. Lei sa cosa sta accadendo, ma dalla sua postazione e da quelle dei suoi “compagni” non si può vedere. John corre in direzione del corpo di Sherlock e in quel momento lei non ha alcun dubbio che vorrebbe essere morto anche lui.

«La missione è compiuta. Ci vediamo alla base domani. Avete la giornata libera.» La voce di Moran la distoglie dallo strazio del dottore.

«Moran? Il capo è morto, cosa...?»

«Non cambia nulla, l’organizzazione andrà avanti. Non possiamo fermarci ora. O forse volete abbandonare la barca?»

«Senza il capo...» prova lei, ma l’altra donna la interrompe.

«Ci sono io. Le cose non cambiano. Moriarty mi ha lasciato delle disposizioni. Domani lo sentirete dalla... Diciamo dalla sua voce.» La voce è dura e priva di emozioni.

«Domani. Ricevuto.»

Tutti lasciano la banda libera. Sta per staccarsi anche lei dalla linea quando la voce di Moran la ferma: «Jim si fidava molto di te. Sono certa che Holmes non sia morto. Mi aiuterai a vendicare Moriarty?»

Non può che rispondere in un unico modo: «Non devi neanche chiederlo.»

«Sapevo di poter contare su di te. Domani ne parleremo con calma. Riposa, ora.»

La linea diventa silenziosa, ma il suo compito non è concluso.
 

Moriarty aveva lasciato una sorta di video testamento per i suoi più stretti collaboratori, che erano gli stessi scelti per l’ultima missione della sua vita. Nessun altro nell’organizzazione sa che è cambiato il vertice. Ma del resto, nessuno oltre questi conosceva di persona Moriarty.
L’organizzazione andrà avanti con il suo lavoro. L’espansione era nei piani e si farà.

Erano passati molti giorni da allora.

«Sei sicura di non voler partire con noi?» le chiede seriamente stupita Moran. Le ha appena spiegato come non si fidi della morte di Sherlock. Il maggiore degli Holmes è famoso per la bravura nella regia – che non si può che definire teatrale – delle sue missioni, e Moran non può credere che non abbia tentato in nessun modo di salvare la pelle al fratello.

«Se quello che dici è vero, voglio vederci chiaro e scoprire quante più cose posso sugli Holmes,» risponde, cercando di essere il più convincente possibile.

«Credo tu abbia ragione; ma tranquilla, sistemate le cose tornerò a darti il cambio. Distruggeremo gli Holmes. Per Jim.» Allunga la mano fissandola negli occhi.

«Per Jim!» dice lei, mentre stringe la sua mano e le viene il voltastomaco a doverlo fare. Non l’ha mai sopportata, e ora è certa che si attaccherà a John come una cozza pur di scoprire, pur di sapere.

John sarebbe finito nella tela del ragno. E nemmeno a quel punto lei poteva impedirlo.
 

Gli altri della banda sono partiti, mentre lei è rimasta a Londra, anche se presto dovrà andarsene per aiutare Sherlock senza che lui lo sappia.

È nascosta e osserva la scena di fronte a lei. Le lapidi in quella giornata grigia svettano dal terreno; persino l’erba sembra grigia. John è davanti alla lastra nera fatta per Sherlock, molto elegante con le lettere dorate su cui spicca il nome dell'investigatore. Mycroft non aveva badato a spese, considerando che nasconde una bara vuota.

La signora Hudson lascia solo John, che sta cercando di trovare il modo di dire addio a Sherlock.

«Okay, tu... Una volta mi hai detto che non eri un eroe. A volte non sembravi umano, ma ti voglio dire una cosa: tu eri l’uomo migliore... L’essere umano più umano che abbia incontrato e nessuno mi convincerà che tu mi abbia mentito. È così.» Si avvicina, poggia una mano sulla lastra nera e fredda della lapide. «Ecco... Bene, allora... Ero solo come un cane e ti devo moltissimo.» Si stacca dalla lapide e si allontana prima di fermarmi all’improvviso e tornare indietro. «Ti prego, c’è ancora una cosa. Un’ultima cosa. Un ultimo miracolo, Sherlock, per me. Non essere... Morto.» La voce gli si spezza.

Lei si sente morire dentro. Si sente responsabile per quello che lui sta passando e si chiede come si stia sentendo Sherlock, nascosto a pochi metri.

«Potresti... Farlo per me? Voglio che la smetti, smetti questa farsa.» Le sue spalle si incurvano, come se stesse portando tutto il peso del mondo. Le lacrime sfuggono per qualche istante. Sta perdendo il controllo. Ma ecco che c’è una trasformazione in lui. Raddrizza le spalle e torna un soldato. Ancora una volta ha fermato i suoi sentimenti. Quanto potrà durare? Quante volte potrà rinnegare il dolore prima di non essere più in grado di fermarlo?

Sherlock rimane immobile a osservarlo andare via. Lei può vedere la fatica nei suoi occhi, la voglia di correre dietro a John e di dirgli che sta bene. Ma la paura di metterlo in pericolo lo blocca.

«Andrà tutto bene.» Una voce dietro di lei la fa sussultare. Non si era accorta della sua presenza.
Quando vuole è maledettamente silenzioso.

«Myc, non dovresti essere qui, potrebbe essere pericoloso.»

«Non ti avrei lasciato sola proprio oggi.»

«Partirò con Sherlock?»

«Sì, è già tutto pronto.»

«Lo proteggerò, Myc.»

«Proteggerò John, lo sai che lo farò, ragazzina.»

«Sì, lo so. Anche se non le impedirai di avvicinarsi a lui.»

Anche senza guardarlo, sa che sta scuotendo il capo. «Non posso farlo. Dobbiamo essere cauti.
Dobbiamo distruggere tutti gli altri, prima.»

«Sarà così. Eppure, la cosa non mi è mai piaciuta. Non mi piaceva prima, e mi piace ancora meno ora.»

«Posso capirlo,» concorda l’uomo con voce solenne.

«Scommetto che sia inutile dirtelo, ma dovreste dirlo a John. Non lo conoscete. Non avete idea di quello che gli state facendo.»

«Appena sarà tutto finito, sono certo che Sherlock saprà cosa fare.»

«Appena sarà tutto finito... Mycroft, seriamente, voi non sapete, non riuscite davvero a capire cosa state facendo a John! Potreste non trovare la stessa persona.» Perché non vuole capire? Lei conosce John. Sa di quello che sta parlando.

«Sono certo che...»

Lei scuote la testa, interrompendolo: «Lascia perdere, Mycroft. Tu e tuo fratello sarete anche dei geni, ma ti assicuro che siete anche le persone più stupide che io abbia mai incontrato. Farò comunque quello che mi hai ordinato, ho promesso che proteggerò tuo fratello e lo farò.»

«È la cosa migliore. Per tutti.»

«Per tutti...» sbuffa lei. «Per la Regina e i suoi sudditi, vorrai dire; non per John.»

«Ragazzina...» prova Mycroft, ma lei lo interrompe di nuovo, stavolta con un gesto della mano. È infastidita. Per un po’ rimangono in silenzio.

Alla fine è lei a spezzarlo parlando per prima: «Myc, so che è una bugia, perché ci sono troppe variabili in gioco; ma ti prego, dimmi che andrà tutto bene. Ho bisogno di sentirmelo dire.» Chiude gli occhi, in attesa di una rassicurazione da parte di quell’uomo di cui si fida.

Lui sospira. Le poggia una mano sulla spalla, sorprendendola, sa che lui non ha mai amato i contatti umani.

«Andrà tutto bene, ragazzina,» la accontenta lui.

Lei annuisce. Gli stringe per un istante la mano ancora posata sulla sua spalla, apre gli occhi e avanza senza voltarsi mai indietro.

 
Infila le mani in tasca. Da una tira fuori una lettera che Jim le aveva dato prima di salire sul tetto di quell’edificio, chiedendole di custodirla. Ora lui non sarebbe tornato, ma lei non aveva trovato il coraggio di aprirla né di darla a Mycroft. Guardando la schiena di John e sapendo, più di chiunque, quello che gli stavano facendo passare, si sentì giustificata a tenere il broncio con il suo capo e tenere quel segreto per lei, almeno per ora.

Quindi decise di aprirla. Oramai Jim non si sarebbe potuto arrabbiare.

All’interno c’erano dei fiori secchi pressati e parole vergate su una carta costosa. La fine grafia, perfetta, minuta ed elegante, era quella di Jim. Non c’era alcun dubbio in proposito.
 

Mia diletta,
            se stai leggendo questa mia missiva, vuol dire che quell’Holmes ha trovato il modo di battermi e quindi ho dovuto fare in modo che prendesse la decisione più difficile, con  l’unico risultato di essermene andato da questo mondo.
Non temere, non ho rimpianti. Ho fatto sempre ciò che ritenevo giusto per me. Sono diventato forte e la gente ha imparato a temermi. Sono felice di essere quello che sono. Non avrei mai voluto essere differente.
Ti starai domandando perché ho deciso di lasciarti una lettera, dopo il video che avrai visto con gli altri.
L’ho fatto perché mi sento in dovere di metterti in guardia.
Non fidarti mai di Moran, piccola mia. Mai! L’ho scelta perché è un serpente in grado di cambiare pelle con la stessa facilità con cui io riesco a manipolare le persone, e so quanto sia letale.
Se ti dico questo è perché, anche se tu non ne eri cosciente, o lo eri solo in parte, trovavo piacevole la tua compagnia e non voglio che Moran ti faccia finire nel suo inferno.
Devi avermi ammorbidito troppo, mia cara.

 Ma c’è un’altra cosa che devi sapere, e credo ti farà capire l’entità di quello che mi hai fatto: io so chi sei.
L’ho scoperto dopo più di un anno che avevi passato con noi, e non per colpa di una tua mancanza.
Non preoccuparti, nessuno a parte me lo sa.

Ohhh, riesco quasi a vedere il tuo sguardo, ora! Quanto vorrei essere lì per godermi la scena.
Io so chi sei, e non ho fatto nulla per ostacolarti, perché... Beh, mi affascina il modo in cui ci hai giocato.
Lei non sa nulla, nessuno sa nulla.
Non so cosa avrei fatto se le cose fossero state diverse; ma ora posso dire che mi sono divertito terribilmente, e davvero non mi capita spesso. Lo sai come mi annoio facilmente.
Seriamente, è stato eccessivamente divertente giocare con te!
Io scendo qui, tocca a te continuare!
Continua a rendermi orgoglioso, meravigliosa piccola mia creatura.
Jim

P.S.= Ho un altro piccolo regalo per te. Non so se ti potrà servire, ma credo che comunque l’apprezzerai.
 

Il cuore le batte furiosamente nel petto.

Lui sapeva. Moriarty sapeva e non l’ha mai ostacolata, non come avrebbe potuto.

Fa scivolare sul palmo della mano la microusb nera che si trova nella busta e che Moriarty le ha lasciato. Avrebbe guardato cosa conteneva?

Sicuramente sì, ma ora non aveva tempo.

Questa lettera però cos’è? Un semplice addio, o un modo per manipolarla anche ora che se n’è andato per sempre?

Non ne ha idea.

Avrebbe messo Mycroft a corrente della missiva?

Forse.

Nulla è più sicuro tranne il fatto che il gioco non è ancora finito. Anzi sì può dire che ne è appena iniziato un altro, e lei non smetterà di giocare proprio ora.



Continua


Note: non so se dalla lettera Moriarty sia rimasto più o meno IC, io spero di sì ma vedremo come lo percepirete, in ogni caso spero che non vi disturbi.
Come sempre attendo di sapere cosa pensate degli sviluppi. Alla prossima settimana.

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Capitolo 6
*** 2013 Eurasia, Seguendo Sherlock ***


E come ogni venerdì eccomi con il nuovo capitolo. Non c'è nulla da fare, avere già tutto pronto rende la vita molto più rilassante (e mi evita ritardi in cui purtroppo posso incappare molto facilmente). Comunque, tutto questo non vi interessa, voi volete sapere cosa succederà in questo capitolo quindi vi lascio alla lettura.





Dalla tua parte




2013
Eurasia
Seguendo Sherlock
 


TIBET


Stare dietro a Sherlock l’ha portata in giro per il mondo.

Uno dei posti che durante le missioni con l’esercito le era mancato di visitare era il Tibet, ma ora ha visto anche questo luogo.

Forse, però, per goderselo dovrà tornare una seconda volta. Perché sa solo il cielo come ha fatto a nascondersi in mezzo a quella setta scissionista di monaci buddisti combattenti senza essere scoperta. Ha passato giorni piuttosto umidi e freddi nascosta in cunicoli di pietra, ma almeno ha permesso di far scoprire a Sherlock la bionda trafficante di droga che si era infiltrata in quella congrega. Aveva temuto che il detective potesse accorgersene, ma non era stato così. E l’ennesima alleata di Moriarty era stata trovata e annientata.

 
NUOVA DELHI

In confronto alle difficili condizioni tibetane, le cose a Nuova Delhi erano state quasi una passeggiata. Almeno aveva potuto vedere il sole.

Inoltre, seguire Sherlock mentre aiutava l’ispettore Prokesh a scovare il killer era stata praticamente una vacanza.

Pensare che quell’assassino faceva parte della cerchia di alleati di Moriarty era davvero insolito. Non aveva particolari capacità, né tattiche né intellettuali. Ma Jim era strano. Si avvicinava a un sacco di persone differenti e non tutte propriamente dei geni. Sicuramente l’avrebbe usato fino a quando fosse stato utile e poi l’avrebbe fatto sparire.

Alleato di Moriarty trovato e annientato.


Peccato poi aver perso di vista Sherlock; ma grazie ai metodi di convincimento imparati nell’esercito e non solo, il malcapitato che in quel momento è sotto le sue dolci cure oramai sembra del tutto concorde a rivelarle dov’è diretto.

Un po’ le fa pena, quest’uomo che è stato così sfortunato da essere finito sulla sua strada. O almeno gliene farebbe se provasse ancora pietà per qualcuno. La sua unica sua priorità è scoprire dove si è cacciato Sherlock, e cancellare ogni traccia che porti alla sua esistenza.

L’investigatore è troppo avventato. È intelligente, certo – innegabilmente lo è –, ma è troppo impulsivo. Va così di fretta, nel tentativo di tornare a Londra il prima possibile, che rischia di essere ucciso per davvero; e questo lei non può permetterlo.

Capisce le sue motivazioni. Sa che vuole smantellare l’organizzazione di Moriarty velocemente e tornare da John.

Cazzo, se lo vuole anche lei!

Ha poche informazioni, ma sa quanto John sia in pericolo, forse più di loro due nonostante siano costantemente alle prese con trafficanti, assassini e chissà che altro. Perché loro sono coscienti che quelli che hanno davanti sono nemici; John invece non ne ha idea. Il dottore sta finendo nella trappola del ragno. E nessuno pare poter far nulla.

Prende il satellitare che le ha dato Mycroft. Bastano pochi secondi per sentire la voce del suo capo risponderle.

«Ho bisogno di un biglietto per Belgrado da trovare direttamente in aeroporto,» dice, senza troppe cerimonie.

«Devi liberarti delle armi,» risponde lui.

«Non lascerò la mia bambina. Non preoccuparti di nulla. Fammi solo trovare il biglietto in aeroporto.»

«Fra quanto?»

Gli è grata che non faccia battute sul fatto che la “bambina” di cui stanno parlando sia una pistola. Un calibro .22, abbastanza piccola per essere portata sotto gli abiti e non essere notata, ma letale.

«Devi dirmelo tu. Sei tu il mio tutor operator per le vacanze, no?» Non riesce a non cercare di sdrammatizzare. Sa quanto sia teso persino il suo capo, lo sente dalla voce.

«Sei impossibile, ragazzina.»

«Sei consapevole che non sono una ragazzina da diversi anni, giusto?» Come se avesse mai potuto esserlo davvero.

«Ti comporti come se lo fossi, quindi per me lo sei.»

Logica inoppugnabile, si ritrova ad ammettere.

«Su, mio principe azzurro, fra quanto arriva la zucca trasformata in carrozza?» chiede, continuando a scherzare.

«Fammi controllare... Ti va bene fra undici ore?»

«Undici? Mh, direi che ce la faccio senza problemi.»

«Bene, appena possibile mandami il nome che devo usare sul biglietto. Mi raccomando: non farti uccidere né catturare in queste undici ore. E non metterti nei guai.»

«Ehi, quando mai mi ci sono messa?»

Lo sente ridacchiare alla cornetta. «Lavori per me, ragazzina,» aggiunge, come a spiegare l’assurdità della sua domanda e a sottolineare che è proprio a causa di questo che finisce nei guai.

«Touchè. In effetti mi ci sono messa,» ammise. Quindi ci furono brevi risate, un saluto, ed ecco che è pronta a organizzare la sua partenza.

Il corpo che ha davanti sarà il biglietto per far passare i controlli alla sua bambina. Per salire sull’aereo senza alcun problema.

C’è stato un istante in cui si è pentita di non essersi fermata prima di ucciderlo, ma quell’uomo ha visto il suo volto, conosceva bene Sherlock, e soprattutto aveva a che fare con Moran. Poteva essere un grave problema se fosse riuscito a scoprire chi lei fosse e si fosse messo in comunicazione con quella serpe.

Ma prima di mettere in atto la sua recita, doveva cambiare volto e voce.
 

Due ore più tardi – dopo aver sistemato il corpo del malcapitato nella camera della giovane e ricca spagnola che avrebbe impersonato, la quale dormiva sedata e ignara nella stanza attigua – era pronta.

I capelli legati e nascosti da una parrucca scura. Lenti a contatto quasi nere. La sua pelle candida nascosta da un fondotinta di almeno cinque tonalità più scuro. Dolcevita nero, pantaloni anch’essi neri, un bel rossetto vivace e lunghe ciglia. Era riuscita persino a mettersi quelle ridicole unghie finte laccate di rosso.

Rimase imbambolata a fissare il suo riflesso allo specchio.

Da quanto non si truccava? Da quanto non aveva le mani curate? Da quanto aveva smesso di fare quello che tutte le donne fanno, almeno ogni tanto? Non indossava mai nemmeno il profumo, perché doveva essere invisibile su tutti i fronti. Ormai non si sentiva nemmeno più donna, forse nemmeno più umana.

Controllò il risultato sul documento della giovane che aveva “preso in prestito” e si complimentò con sé stessa per la riuscita perfetta. Con il paio di occhiali grossi e scuri con cui la ragazza usciva regolarmente, persino la madre stessa di suddetta ragazza non avrebbe notato la differenza.

Mandò un messaggio al più grande dei fratelli Holmes su cui scrisse solo il nome che doveva risultare sul biglietto, dopodiché fece diverse prove per controllare la propria voce e il proprio accento.

Non fece la telefonata prima di essere sicura di risultare perfetta.


Alle sette precise, era stata scortata direttamente in aeroporto dalla polizia, che aveva bevuto ogni balla che aveva raccontato. Si congratulò con sé stessa. Non era da tutti trovare la figlia di un diplomatico e prenderne il posto.

La sua, però, non era fortuna. Aveva considerato molte possibilità e vie di fuga e quella era tra le scelte possibili. Esattamente come sapeva come si sarebbe mossa a Belgrado una volta atterrata, aveva avuto chiaro in mente anche come andarsene da lì indisturbata.

Il capo della polizia in persona l’aveva fatta passare senza alcun controllo, assicurandosi che arrivasse senza problemi direttamente nell’aeromobile. Avrebbe scommesso che, se avesse potuto, sarebbe salito e avrebbe spolverato persino il posto dove doveva sedersi. Le venne da ridere, ma
evitò di dire una sola parola.

Guardò l’orologio. Un’altra ora e la giovane si sarebbe svegliata in un letto sconosciuto e sarebbe andata in panico. Ma, a parte il passaporto, le aveva lasciato tutti i documenti. Certo, l’aveva fatto lasciandoli nella cassetta di sicurezza dell’hotel e probabilmente ci avrebbero messo un po’ a trovarli, ma non avrebbe avuto problemi a identificarsi. La cosa non la preoccupava. Quando finalmente le avrebbero creduto, lei avrebbe già preso il posto di qualche donna serba. Nessuno l’avrebbe mai trovata.

L’hostess la portò fino al posto. Rimase sorpresa di notare chi occupava il posto lato corridoio.

«Oh, prego, señorita.» La voce è più nasale del solito, la barba bionda posticcia, e una pancia molto più sviluppata di quanto non fosse in realtà. Ma quegli occhi azzurri e divertiti non li avrebbe mai confusi.

Lei sorride e prende posto accanto al finestrino.

«Sembra molto stanca. Dovrebbe riposare.» La voce, mentre l’hostess si allontana, via via torna quella che lei conosce bene, anche se il tono è molto basso per non farsi sentire. «Dormi, ragazzina, penso io a tutto. Parliamo dopo.»

E lei, distrutta, chiude gli occhi, grata. C’è Myc, non può accaderle niente di male se c’è lui.
 
 

BELGRADO
 

«COSA VUOLE FARE?» Sapeva di aver fatto bene ad aver aspettato di essere nella stanza prima di rivelargli il “piano”di Sherlock.

«Myc, arrabbiarsi è inutile, lo vuoi capire? È convinto che farsi catturare sia la scelta migliore per arrivare al Barone Maupertuis.»

«Mio fratello è un idiota.»

«Su questo non posso parlare in suo favore. Ma sai già che per quanto voi fratelli Holmes siate dei geni, ho sempre trovato alcune vostre scelte alquanto discutibili.»

«Sono certo troveremo il modo...»

Lo interrompe: «Myc, quella stronza oramai fa di John quello che vuole. L’unica possibilità per farlo rinsavire almeno un po’ è che lui torni a casa. Quindi fidati: io sono ancora più impaziente di te nel vedere Sherlock sano e salvo a Londra.»

«Vorrei ci fosse un altro modo...»

«C’era,» risponde stizzita, «ma le cose adesso stanno così, inutile continuare a rimuginarci su.
Adesso ascolta: non ti sei fatto quasi dieci ore di volo in mezzo al “popolo” perché ne avevi voglia. Sei venuto per essere certo che fossi viva e non ferita e per farmi riposare. Io lo so, tu lo sai, e possiamo continuare a far finta di nulla, ma comunque grazie capo, ne avevo davvero bisogno. Visto però che sei qui, credo sia il caso di usarti.»

«Usarmi?»

«Per salvarlo, è ovvio. Come te la cavi con il serbo?»

«Dammi un paio d’ore e sarà come fosse la mia lingua madre.»

«Perfetto, capo. Stai per finire sotto copertura, contento?»
 

Riuscire a far prendere a Mycroft il posto del braccio destro del barone fu cosa semplice. La mania dei grandi capi nell’evitare di farsi vedere in volto avrà anche salvato loro la vita parecchie volte, ma permette di prenderne il posto con una facilità disarmante.

Mentre lui è dentro con Sherlock e il suo torturatore, non può fare a meno di essere agitata. È talmente abituata a essere lei ad agire che stare dietro le quinte e aspettare la distrugge.

Ha sistemato le cose in modo che appena usciranno di lì troveranno tutte le guardie già fuori gioco.

La squadra addestrata, che Mycroft ha fatto arrivare, era già pronta a eseguire i suoi ordini.

Non appena avevano lasciato la stanza che avevano usato per poche ore per prepararsi e nascondere il proprietario della divisa che sta indossando Mycroft – interpretando con la bravura di un attore shakespeariano il ruolo assegnatoli – sedato e legato come un salame, pronto a essere arrestato (o sa solo il cielo quello che ha in mente di fare il suo capo con chi è nella lista della rete di Jim e non viene immediatamente eliminato, quello che è certo è che lei non ci teneva a saperlo), il piano aveva avuto inizio.

Gli uomini della squadra sono dannatamente bravi e preparati. Si muovono in maniera perfetta, sincrona e praticamente invisibile. Le guardie non si sono accorte di nulla. Non hanno neanche fatto un fiato quando, una dopo l’altra, sono state catturate e messe fuori gioco.

Anthea le si avvicina. È la prima volta che la vede indossare una tuta tattica. «Stai decisamente bene, mischiata a noi.» Le sorride.

«Io sono una di voi. Solo che preferisco la seta a questa stoffa ruvida,» risponde. Può riconosce il divertimento negli occhi dell’altra donna. Dev’essere parecchio che non sta in mezzo alla mischia.

Del resto, Myc non ama particolarmente l’azione delle missioni; adora stare alla regia. Ma, vista la sua posizione, deve avere una guardia del corpo.

E poteva forse fare come tutti gli altri e affidarsi a un omone grande e grosso? Ovviamente no. E così, durante una missione, aveva conosciuto e scelto Anthea. Tanto piccola, elegante e dall’aspetto del tutto innocente quanto veloce, forte e letale.

A un certo punto la porta dell’edificio si spalanca e ne esce un uomo calvo, muscoloso e con le mani ancora sporche di sangue.

«Lasciate fare a me.» Gli occhi di Anthea sono uguali a quelli di una tigre prima di attaccare la sua preda. Fa seriamente paura e lei si ritrova a ringraziare qualsiasi Divinità esistente di non trovarsela contro.

 
Dopo aver preso e interrogato quello che era stato il torturatore di Sherlock ed essere sicuri che solo una guardia è rimasta, contatta Mycroft per dargli il via libera. Quell’ultima guardia, che ancora controllava la stanza dove Sherlock era tenuto prigioniero, viene presa senza alcun problema.

Lei si nasconde nella notte, mentre Sherlock viene portato sul furgone blindato che ha tutti gli strumenti di una delle più moderne ambulanze. Sale sulla macchina scura con cui era arrivata direttamente con il suo capo e si mette in moto per andare ad aspettare Myc nel rifugio che ha preparato per lei. Che finalmente stiano per tornare a Londra?
 

Deve aspettare quasi sei ore prima che Myc la contatti. Dalla voce capisce che il lavoro di Sherlock è concluso ma che le cose non andranno proprio come sperava.

«Mio fratello ha deciso di tornare con i suoi mezzi. Ha sentito di tre casi abbastanza spettacolari e vuole risolverli. A volte mi pare di avere a che fare con un bambino di cinque anni.»

«Lo seguirò e farò in modo che non perda tempo.» È scoraggiata, ma sa anche che il ritorno di Sherlock dev’essere ben preparato. Mycroft penserà a mettere i mezzi di comunicazione dalla parte del fratello, ridando lustro al suo onore. Lei vorrebbe fosse abbastanza intelligente da preparare John, ma sa che non lo farà. E forse a questo punto è del tutto inutile; anzi persino deleterio. Dare a Moran la notizia in anteprima potrebbe essere più un pericolo per Sherlock di quanto sia stato perderlo di vista e permettergli di farsi catturare.

«Sei sicura? Se vuoi riposare posso mettergli alle costole qualcun altro.»

«Che razza di domande mi fai? Ovvio che sono sicura. Ti ho promesso che avrei portato tuo fratello sano e salvo a Londra ed è quello che farò.»

«Ti faccio trovare i biglietti. Manca poco e sarai a casa.»

«Già.»
 

Così, si ritrovò prima ad Amburgo, dove aveva seguito il caso di Herr Trepoff, il quale era accusato di aver ucciso la moglie. Peccato che persino l’accusa non ne era convita. Sarebbe stata una sicura assoluzione, anche se lei, dopo aver studiato le carte, si era convinta fosse colpevole.

Quando la giuria, dopo giorni in riunione, aveva dato voce alla sua idea, lei era certa che fosse stato solo per Sherlock, che come era comparso, riuscendo a essere scelto come giurato (e lei era certa che in questo ci fosse lo zampino di Mycroft), stava sparendo di nuovo.

Dopo Amburgo, era stato il turno di Amsterdam. Poi fu la volta di Bruxelles, dove i fratelli Holmes si riunirono[1].
 

Era corsa da Mycroft. Un’auto la stava aspettando mentre Anthea si occupava di Sherlock e di fargli perdere il tempo necessario per permetterle di raggiungere il capo e raccontargli ogni cosa.

Lui l’aveva ascoltata, dopodiché l’aveva fatta accomodare nella stanza segreta attigua all’ufficio che utilizzava quando era in quella città, dalla quale avrebbe potuto osservare e ascoltare ciò che i fratelli Holmes si sarebbero detti.

 
«Hai avuto da fare, non è vero? Una piccola ape molto indaffarata,» chiede Mycroft al fratello, come se non avesse sempre saputo passo passo cosa aveva combinato in giro tra Asia ed Europa per tutto quel tempo.

«La rete di Moriarty... Ci ho messo due anni a smantellarla.»

"Abbiamo", vorrebbe  aggiungere lei, ma la fa solo nella sua mente attenta e concentrata.

«Ne sei convinto davvero?» domanda il più grande dei due, mentre il fratello si sta facendo fare la barba. Solo a lei pare assurdo parlare con un rasoio tagliente a contatto con la pelle del collo?

«La cellula serba era l’ultimo pezzo del puzzle.»

"Non contando Moran, avresti anche ragione", pensa lei.

«Sì, sei arrivato fino in fondo con il barone Maupertuis. Bel piano.» È sarcastico, il fratello maggiore.

«Colossale.» Ma Sherlock evidentemente non lo nota.

«Comunque, ora sei al sicuro.»

«Mh...»

«Un semplice “grazie” sarebbe gradito,» è la secca replica di Mycroft.

«Per cosa?» chiede sorpreso il minore.

«Per il mio intervento. Nel caso l’avessi dimenticato, il lavoro sul campo non è la mia specialità.»

«Il tuo intervento? Eri seduto a guardare mentre mi torturavano.» Sherlock si solleva, lo riesce a capire dagli scricchiolii della sedia di legno e pelle. Lei si ritrova a sperare che abbia fermato il barbiere prima di finire con un taglio molto serio sulla gola. Visto la fatica che ha fatto per impedirgli di morire la prenderebbe come un’offesa personale se si uccidesse ora.

«Ti ho tirato fuori!» risponde piccato Mycroft.

«Mi sono tirato fuori da solo. Perché non hai agito prima?»

«Con il rischio di farmi scoprire? Avrei rovinato tutto.»

«Ti divertivi!»

«Sciocchezze!»

«Ti sei decisamente divertito!» lo accusa ancora il minore dei due.

Doveva assolutamente ricordarsi di controllare la loro età, perché a lei parevano davvero tutto tranne che persone mature.

«Ascolta, hai idea di cosa significhi, Sherlock, lavorare in incognito? Intrufolarmi tra le loro fila in quel modo, il rumore, il popolo!»

"Che cosa orrenda il popolo, eh, Myc?", pensa lei con sarcasmo misto a tenerezza.

«Non sapevo che parlassi serbo.» Sherlock si risistema sulla poltrona da barbiere per far terminare all’uomo il suo compito.

«Infatti, ma quella lingua ha delle radici slave, con delle parole in prestito dal turco e dal tedesco. Ci ho impiegato due ore.»

«Mmmhhh, stai perdendo colpi,» lo deride Sherlock.

Lei è brava nell’imparare lingue straniere, molto brava, e non le pare per nulla che due ore siano un tempo esagerato.

Ma gli Holmes sono tutto tranne che normali, ormai lo aveva compreso da tempo.

«È l’età, fratellino, capita a tutti.»

Era come osservare due bambini stuzzicarsi. Non avrebbe mai capito il loro rapporto; ma del resto chi era lei per giudicarli?

Qualcuno entra nell’ufficio portando un vestito di sartoria per Sherlock. Poco dopo, Mycroft riprende a parlare: «Devi prestare la massima attenzione, Sherlock, a questa faccenda.» Si riferisce all’attentato terroristico minacciato nella capitale inglese. Attentato grazie al quale vuole far tornare Sherlock a Londra con tutti gli onori del caso, cosa di cui l’investigatore molto probabilmente non si renderà conto.

«Come mi sta la camicia?» Come sempre Sherlock finge di non interessarsi alla cosa. Dare sui nervi al fratello sembra una missione, per lui.

«Sherlock!»

«Riuscirò a trovare la tua cellula terroristica, Mycroft. Fammi solo tornare a Londra. Ho bisogno di vederla, respirarla, sentire ogni battito del suo cuore pulsante.»

«Un nostro uomo è morto per avere questa informazione. Tutte le conversazioni e le intercettazioni concordano che ci sarà un attentato terroristico a Londra bello grosso.»

«E dov’è John Watson?» Quando si dicono le priorità.

«John?» Lei sa che Mycroft stava contando i secondi che ci avrebbe messo Sherlock a chiederlo.

«Lo hai visto?»

«Oh, sì, ci vediamo tutti i venerdì per il fish and chips,» lo canzona il fratello maggiore.

Lo doveva ammettere: adorava il sarcasmo di quell’uomo.

Mycroft fa un cenno e Sherlock ha tra le mani il fascicolo su John. «L’ho tenuto d’occhio, ovviamente, ma non l’ho contattato per prepararlo.»

«No, dovrà radersi i baffi,» dice subito Sherlock, osservando la foto in bianco e nero che per prima vede nella cartella.

«Come?»

«Lo invecchiano. Non posso certo farmi vedere in giro con un anziano.» Il rumore del fascicolo sbattuto sullo scrittoio antico di legno riempie la stanza.

Sentire parlare di John le ricorda la sua preoccupazione principale. Dopo aver salvato Sherlock, ci sarà ancora speranza per salvare lui?

«Farò una sorpresa a John, sarà contento.»

«Che sorpresa?» Riesce quasi a vedere il sorriso di Mycroft.

«Passerò a Baker Street e uscirò da una torta.»

L’immagine è realmente spassosa, ma lei non si prende il lusso di pensare all’immagine di John alla vista di uno Sherlock nascosto in una torta o evitare una risata sarebbe davvero impossibile.

«Baker Street? Lui non abita più lì. Perché dovrebbe? Dopo due anni, è andato avanti con la sua vita.» A volte Mycroft sa essere brutale.

«Quale vita? Senza di me? Dove lo trovo stasera?»

«Come faccio a saperlo?»

«Sai sempre tutto.»

Un sorriso amaro le si dipinge sul viso. Mycroft sa davvero sempre tutto, eppure a volte non vede ciò che sta per esplodergli in mano. Moran è un enorme problema, e non solo per John. Sherlock è in pericolo. È davvero in pericolo.

«Lo sai? C’è la possibilità che tu non sia il benvenuto.»

"Ovviamente, perché oramai John è un burattino in mano della biondina", vorrebbe aggiungere lei.

Ogni secondo è prezioso, devono sbrigarsi, e lei non sta più nella pelle. Finalmente stanno per tornare a Londra.



Continua...


Note: Ho condensato gli anni di lontananza in un unico capitolo, cercando di mostrare qualcosa che non ci è dato di sapere all'interno della serie. Per i luoghi da dove ho fatto passare Sherlock, e per alcuni casi che ha seguito, ho usato quello che ci viene raccontato nel mini episodio "Many Happy Returns" che spero davvero abbiate visto, se non è così su YouTube lo trovate, mi pare nella pagina della BBC.
Il motivo per cui ho scelto che non fosse Belgrado l'ultima "tappa" del viaggio è stato solo perchè, seguendo gli spostamenti sulla cartina sembra più logico nel ritorno a Londra, passare per Amburgo, Amsterdam e Bruxelles dopo essere andato a Belgrado. Ovviamente ho semplicemente inventato basandomi su ciò che ci hanno permesso di sapere.

Come sempre devo ringraziare la mia beta che finalmente ha placato la sua curiosità, e naturalmente tutti voi che seguite questa ff. Un grazie non è abbastanza per dirvi quanto mi renda felice vedere quanto troviate interessante questo mio lavoro
Alla prossima settimana!

 
[1] Nella serie all’inizio ero convinta che fossero già a Londra, poi però Sherlock chiede di tornare a Londra quindi ho immaginato non lo fossero. Non è una cosa che influisce sulla trama quindi li ho fatti incontrare a Bruxelles.

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Capitolo 7
*** 2014 Londra, primavera ***


Nello scorso capitolo abbiamo seguito Sherlock per il mondo vedendo una parte di quello che ha fatto negli anni di lontananza, in questo capitolo troveremo, tra le altre cose, ciò che ha vissuto John. Per descriverlo oltre ciò che ho sempre pensato potesse aver subito e vissuto, ho usato spunti che sono nati sotto un post nel gruppo Johnlock in the way mesi fa, se siete intervenute sotto quel post o lo avete seguito e trovate qualcosa di familiare è per questo.

Buona lettura







Dalla tua parte




2014
Londra
Primavera


 
Osserva John organizzare il matrimonio con la stessa felicità che avrebbe nell’organizzare il suo funerale.

Visto la donna che si è scelto, non è che poi sia davvero tanto diverso.

Peccato che lui non lo sa.

Quando aveva scoperto la cosa, stava per riservare a Mycroft la stessa cortesia che John aveva riservato a Sherlock una volta che si era palesato al ristorante. Mycroft già sapeva, forse addirittura prima di John, che sarebbe andata a finire così. Lei ne era certa.

La biondina si era fatta assumere nello stesso ambulatorio di John proprio nelle settimane in cui lui stava piangendo la morte di Sherlock.

Perché questo lei lo sapeva. Il dottore ci aveva messo settimane a trovare la forza di tornare al lavoro. Lui, che era stato a contatto diretto con la morte per anni, non riusciva neanche a trovare la forza di mangiare dopo che il suo “migliore amico” si era buttato da quel cornicione. Non aveva però problemi a bere, purtroppo.

Del resto, John non credeva minimamente alla storia dell’impostore, e non sapeva nulla della minaccia di Moriarty e del piano di Sherlock.

Lei sapeva benissimo l’idea assurda nata nella sua testa: l’unica possibile risposta a tutto, era che Sherlock non avesse retto a quella storia e che lui non era stato in grado di dire le cose giuste per impedirgli di fare quel salto.

In quel: «Guarda me» che l’aveva costretto a rimanere con gli occhi fissi su Sherlock durante tutto il suo “suicidio”, John aveva letto forse la sua punizione per non aver impedito al detective di credere che fosse solo.

Del resto, non era stato lui stesso ad arrabbiarsi con Holmes per non essere corso da Mrs. Hudson dopo quella telefonata? Quella frase sibilata con rancore non era forse l’ultima cosa che gli aveva detto prima di lasciarlo da solo?

Per John era come se fosse stato lui stesso a spingerlo. Il senso di colpa lo stava letteralmente facendo a pezzi. Bere era l’unica cosa che pareva dargli un momento di pace.

La sua vita era stata un inferno tutto il primo anno, ma i primi mesi erano stati anche peggio. I tabloid lo additavano come complice di Sherlock, l’uomo che aveva fatto atroci delitti solo per prendersene il merito. Il suo blog era stato bombardato da insulti, tanto che aveva deciso di chiudere i commenti. La cosa più carina che gli era stata detta da chi non credeva fosse un complice, era che evidentemente doveva essere uno stupido burattino nelle mani di quello che era diventato per tutta la comunità Lo psicopatico di Baker Street.

E quanti giornali portavano titoli cubitali in prima pagina additando così Sherlock!

Una volta, tornato al lavoro, John si era reso conto che la maggior parte dei suoi pazienti aveva voluto cambiare medico. E tra i nuovi, aveva trovato principalmente curiosi, giornalisti o presunti tali, che mentivano dicendo di voler conoscere solo la sua versione dei fatti. Per permettergli di difendersi dalle accuse, dicevano. In realtà erano solo dei morbosi maniaci ficcanaso. John li aveva buttati fuori dall’ambulatorio (e non proprio nei migliori dei modi). Un John sotto pressione mandava a quel paese ogni buona maniera; solo l’istinto di sopravvivenza lo guidava e il suo istinto – che già naturalmente era predisposto a lasciarsi guidare dalla rabbia – si era formato in guerra.

Pochi erano rimasti dalla sua parte. La signora Hudson, ovviamente; Angelo – grazie al quale non aveva perso il lavoro, visto che gli aveva trovato una quantità assurda di pazienti, tutti suoi parenti, amici o conoscenti –; Greg e Mike.

Perfino Molly era sparita. John aveva probabilmente immaginato che fosse per il troppo dolore. Poi, una sera, l’aveva vista passeggiare con un giovane alto che, per un istante, gli era sembrato Sherlock.

Mycroft le aveva detto che aveva temuto che John stesse per impazzire. Poi aveva aggiunto che lo aveva visto scuotere il capo e guardare meglio, e probabilmente capire il suo errore.

Da quella frase di Mycroft, lei aveva capito che l’uomo, quando poteva, seguiva personalmente John.

A detta del suo capo, l’espressione di John era quella di chi si era reso conto che anche Molly si era scordata di Sherlock, ed era andata avanti con la sua vita. Che era l’unico a credere in lui. L’unico che non riusciva a uscire dal dolore che lo stava uccidendo.

Era stato strano sentire Mycroft parlare senza sotterfugi di sentimenti, ma probabilmente ciò che aveva visto nello sguardo di John non aveva altra spiegazione, e lei non faticava a crederlo.
John era assolutamente certo dell’innocenza di Sherlock. Lei sapeva che aveva provato per un po’ a farlo capire a tutti, ma ci aveva messo poco a rendersi conto che persino per Greg – che fin dall’inizio si era dimostrato disponibile a prendere in considerazione la possibilità che ci fosse una trappola dietro al comportamento del consulente – era difficile crederci del tutto. Forse aveva ragione Sherlock quando diceva: “Non puoi uccidere un’idea, non quando ormai ha preso posto qui”, prendendo l’indice sulla fronte dell’ispettore.

Anderson – e la cosa rasentava l’assurdo – era l’unico a difendere Sherlock a spada tratta. Anche se questo gli era costato il posto di lavoro. Per ora, era solo in congedo temporaneo, ma se non si fosse messo in riga nei prossimi mesi, probabilmente sarebbe diventato permanente.

Però, John non riusciva a parlare con lui. Non ce la faceva. Gli bastava vedere il suo viso per ricordarsi di tutta la cattiveria che aveva buttato su Sherlock negli anni. Certo, era vero che il detective non era una persona facile, ma secondo lei non meritava tanto odio. Senza contare che era stato lui, insieme a Donovan, a convincere tutti del fatto che Sherlock fosse un impostore. Era quindi probabile che John avesse paura che, se l’avesse avuto davanti, l’avrebbe quantomeno preso a pugni e non era sicuro che sarebbe stato in grado di fermarsi.

L’unico con cui il dottore avrebbe potuto parlare era Mycroft. Ma come poteva andare da lui? Il rapporto tra i due non era mai stato amichevole.

John non rimaneva bloccato dalla paura di fronte al maggiore degli Holmes, e più di una volta lo aveva preso in giro.

Mycroft, dal canto suo, trovava interessante quel soldato che dimostrava quanto la disciplina non fosse davvero così necessaria per essere un buon militare.

L’ultima volta che John aveva visto Myc, era stato al cimitero. Si erano salutati con un cenno. Non si erano avvicinati.

Watson era sicuro che gli sarebbe bastato guardare una delle migliaia di telecamere di sicurezza e chiedere di vedere Mycroft, e in pochi minuti una macchina elegante e scura l’avrebbe preso e portato da lui. Ma non lo aveva mai fatto. A volte – lei lo sapeva – era tentato di farlo, ma al massimo si era trovato a fare un lieve movimento della testa, come per dire: “Sono ancora vivo”.

Dopo che John era tornato al lavoro, Moran (che ora aveva preso il nome di Mary Morstan) gli fu “assegnata” come assistente.

Quando si dice il caso...

Ci aveva messo quasi un anno intero per riuscire ad avere un appuntamento galante con John.

E ora lei la vedeva danzare intorno al dottore come una mantide religiosa poco prima di staccare la testa al compagno. E non poteva fare nulla per fermarla.

Si trovava nello studio di Mycroft anche in quella giornata. Non l’ufficio asettico a Westmister, ma quello nella sua residenza privata a Pall Mall.

Ormai quella villa le era più familiare di quanto lo fosse mai stato qualsiasi altro posto.

Era consapevole del dolore di Sherlock in questo momento, persino Mycroft lo sapeva; l’unico a non volerlo ammettere era proprio Sherlock, ma aveva passato l’intera vita a impedire a sé stesso di provare sentimenti. Era naturale che non riuscisse ancora a capire cosa gli stesse succedendo. Ad ammettere che alla fine persino lui era stato sconfitto.

Il fatto che quell’idiota di John fosse forse ancora più lento a capire, aveva messo in mezzo il gran problema “Mary” e quel dannato matrimonio.

Lei conosceva John e sapeva perfettamente che oltre l’assoluta cecità, c’era di mezzo molto altro – tra cui l’orgoglio, cosa di cui era particolarmente provvisto.

Uno dei difetti maggiori di John era proprio quello. Era stato ferito da Sherlock: perché doveva essere lui a chiedere scusa e a dimenticare tutto? Per quale motivo doveva fidarsi ancora di lui? John era il tipo di uomo che pensava una cosa del genere, ma che contemporaneamente avrebbe affidato la sua vita nelle mani di Sherlock senza pensarci un istante, del resto l’aveva fatto dopo la serata finita a pugni appena scoperta la verità. Ma da qui ad ammetterlo a sé stesso ce ne passava di strada.

Purtroppo.

E c’era anche un altro fatto: aveva dato la sua parola. Aveva chiesto a Mary di sposarlo. Come poteva rimangiarselo ora?

Mentre ascoltava l’ennesima telefonata in cui Mycroft dava ordini a destra e manca, leggeva il blog di John. Lo aveva sempre trovato affascinante, e con lo sguardo accarezzava le parole scritte dal dottore la mattina dopo il ritorno di Sherlock:

Sherlock lives means John Watson lives.

E si chiese per l’ennesima volta come potevano essere tanto ciechi.
 

Quello che però la preoccupava davvero e che metteva in secondo piano la catastrofe in cui si sarebbe ficcato il dottore da lì a poche ore, era l’entrata in scena di un altro personaggio. Colui che aveva rapito John tempo prima e che lo stava per far finire allo spiedo.

Magnussen.

Lei lo aveva già incontrato. Più volte Moriarty ci aveva avuto a che fare. Lui e Moran lo frequentavano da quando lei era entrata nell’organizzazione, ma stramente Jim non le aveva mai permesso di farsi vedere da lui. La faceva stare dietro le quinte con il fucile puntato sulla scena. “La mia piccola ombra”, così la chiamava, tenendo persino Moran all’oscuro della sua presenza. Quindi lei lo aveva incontrato, ma lui non l’aveva mai vista.

 
«Mycroft, ti ho già detto quanto quell’uomo sia pericoloso. Devi tenerlo d’occhio.»

«Lo stiamo facendo, ragazzina, lo sai.» Se c’è una cosa di Mycroft che non riesce a tollerare, è il fatto che a volte – molte volte – sembra non capire la gravità della situazione.

Con il tempo ha imparato che in realtà la gravità la capisce molto bene, e che sa come evitare il peggio; ma quando c’è di mezzo la sicurezza di John, lei diventa decisamente poco paziente.

«Quella maledetta era quasi riuscita a fare un bel falò di John,» gli ricorda. «Lo sapeva che Magnussen avrebbe voluto “testare” i punti deboli di Sherlock, e diciamoci la verità: John è il punto debole primario. Magnussen vuole le informazioni che tu possiedi e quelle di Moran, ed è convinto di poterle avere. Se non fosse stato per Sherlock, John sarebbe...»

Lui la interrompe: «Non devi pensarci, siamo d’accordo? È vivo, sta bene. E non possiamo essere sicuri che sia stata lei a...»

Questa volta tocca a lei interrompere lui: «Come fai a non capire? È stata lei. Sperava che dandogli Sherlock su un piatto d’argento, l’avrebbe lasciata in pace. Stupida! Non ha fatto altro che velocizzare le cose. Ti assicuro una cosa, Myc: se proverà a fare ancora una volta del male a John, lo uccido e la uccido. Li uccido entrambi con le mie mani.» Non riesce a stare ferma. Gesticola come una matta e si alza dalla poltroncina comoda di fronte alla scrivania di Mycroft. «Non mi importa minimamente che tu sia d’accordo o meno. Ora sono stanca. Non so neanche perché non l’ho ancora fatto.» Si lascia cadere di nuovo seduta, esausta.

Vede Holmes sospirare senza rispondere subito – come ha sempre fatto fino a quel momento – che deve seguire il piano, che c’è una logica dietro a questo impedimento.

Quasi perde un battito quando lo vede abbassare lo sguardo.

Mycroft Holmes non abbassa lo sguardo davanti a niente e nessuno. Mai!

«Non puoi farlo, ragazzina. Avrei voluto darti il permesso io stesso, ma ora non puoi farlo. Mi spiace, mi spiace sul serio.»

Lei cerca di analizzare quelle parole, ma nonostante se le rigiri sulla lingua diverse volte, continua a non capire. «Ma perché?» chiede infine, esasperata. Quale altro machiavellico piano ha ideato questa volta? Se non ai suoi, a che altri ordini deve ubbidire, l’uomo?

«Perché non uccideresti solo lei,» spiega lui, a denti stretti.

«John si riprenderebbe, prima o dopo. Non è solo, questa volta.»

«Non parlo di John, ragazzina... Non sono più solo loro.»

«Che cazzo stai dicendo, Holmes? Cosa vuol dire che non sono più solo lor...» Non termina la frase, perché diventa improvvisamente chiaro cosa le sta dicendo.

«Sì, ragazzina, non puoi togliere la vita a quella donna, perché oltre alla sua toglieresti una vita innocente.»

Il silenzio scende surreale nella stanza. Mycroft attende immobile, e lei non sa davvero cosa fare. La confusione e la paura la colpiscono in pieno. Come poteva salvare John da Moran, ora? Avrebbe dovuto ucciderla quando ne aveva avuto l’occasione.

Poi decide: non vuole andare eppure deve farlo. Avevano concordato che sarebbe stata lontana per evitare guai, ma ora... Ora non le importa più di nulla. È stanca, esausta. Ha davvero fatto di tutto, ciò nonostante per quanto si sia sforzata, la vita di John è costantemente in pericolo.

Quindi si alza di scatto e velocemente raggiunge la porta.

«Dove stai andando?» La voce di Mycroft la colpisce, bloccandola.

Quanto avrebbe voluto che quell’uomo non avesse così tanto ascendente su di lei.

«A prepararmi. C’è un matrimonio, oggi,» risponde senza voltarsi. Non vuole nemmeno guardarlo in viso.

«Non avevamo deciso...» La voce del suo capo è bassa, quasi si rendesse conto che sta per esplodere.

«Avevamo concordato che io proteggevo Sherlock e tu John. Ma non credo che ci abbiamo messo la stessa energia,» sbotta amara.

«Ragazzina...»

A quella parola si volta, infuriata come da tanto non lo è. «Devo andare! Sai chi è la damigella d’onore? Janine, l’assistente privata di Magnussen. Credi che sia un caso?» Scuote la testa. «Mi occuperò personalmente di John, d’ora in avanti. E se per lei è un problema, possiamo anche interrompere qui la nostra collaborazione, Signore

Lo vede sussultare sulla sua poltrona, quasi come se l’avesse ferito. Una parte di lei si sente in colpa, l’altra è troppo arrabbiata con lui per preoccuparsene.

«Non ho intenzione di dare credito alle tue parole. Sei arrabbiata, e posso capirlo,» le risponde lui dopo qualche istante di silenzio, con voce misurata.

Lei riprende a respirare. Non si è nemmeno accorta di aver trattenuto il respiro. Si volta e sta per uscire quando la voce di Holmes la ferma: «Tieni d’occhio la situazione. Stai attenta. Mi raccomando: non farti scoprire. E questa sera vieni a fare rapporto. A qualunque ora.»

Chiude la porta dietro di sé senza nemmeno fargli un cenno. Tanto sa che farà esattamente quello che le ha chiesto.
 

Chi non viene mai guardato durante un ricevimento? La risposta è semplice: il personale di servizio.

Se solo la gente si rendesse conto di quanto sia semplice avvicinare chiunque indossando una divisa. Si diventa praticamente invisibili.

La parrucca che ha usato è di un castano anonimo. Le forme femminili nascoste da un bendaggio stretto. Le lenti a contatto celano il vero colore delle sue iridi. Sul viso ha della barba corta posticcia. Applicarla non è stato facile, e toglierla sarà ancora peggio, lo sa per esperienza. Ma con la divisa scura, passa essenzialmente inosservata. Probabilmente neppure Myc, se fosse stato presente, l’avrebbe riconosciuta.

Ha rischiato parecchio, avvicinandosi a John e a quella che ora si fa chiamare Mary, ma non avevano dato alcun segno di averla riconosciuta, nemmeno vista.

In quel momento la loro attenzione è rivolta al nuovo arrivato.

Sherlock si avvicina a Mary, mentre lei rimane in ascolto.

«Così sarebbe lui, il maggiore Sholto,» dice, fingendo disinteresse.

«Ah-ah,» risponde lei.

«Se sono così amici, perché non lo nomina quasi mai?»

«Con me lo nomina sempre. Non smette di parlane.» Una risposta che cerca di dimostrare che tra lei e il (ormai purtroppo) marito, non ci sono segreti.

«Parla di lui?»

«Ah... Ho scelto io questo vino, ma è terribile.»

Le si forma un nodo allo stomaco. Lei sa per quale motivo lo trova così terribile.

«È proprio di lui che parla in continuazione?» Richiede Sherlock, non trovando possibile la cosa.

«Mh-mh,» è la laconica risposta di Mary.

«Io non l’avevo mai sentito nominare,» continua Sherlock.

«Beh, vive come un recluso da quando...»

Lui la interrompe: «Già.»

«Non credevo che sarebbe venuto. John dice che è l’uomo più asociale del mondo,» insiste lei.

«LUI? Lui è il più asociale?» domanda scandalizzato Sherlock.

«Mh-mh.»

«Ah, beh, ecco perché gli gira intorno come un cucciolo.»

«Oh, Sherlock, noi due non siamo stati i primi, lo sai.»

«Smettila di sorridere.» Le soffia contro come un gatto lui.

«Ma è il mio matrimonio!»

"Non c’è bisogno che lo rimarchi", si ritrova a pensare, e guardando Sherlock si trova a credere che abbiano avuto lo stesso pensiero.
 

Il momento del discorso del testimone dello sposo è giunto. Lei si mette nascosta per ascoltare tutto. Rimane senza fiato quando Sherlock legge un messaggio in particolare: «Mary, tanto amore... Cucciola. Un sacco d’amore e un mucchio di auguri da Cam, vorrei che la tua famiglia ti vedesse.»

A sentire quel nome, fu come se un fulmine  le squarciasse la mente.

C.A.M. Charles Augustus Magnussen.

Allunga il collo cercando di guardare l’espressione di Mary e riconosce la paura. Sei stata una stupida, Moran, vorrebbe dirle. Hai aumentato la tua visibilità invece che diminuirla.

Il discorso di Sherlock alla fine oltre ad aver permesso la cattura di un omicida, o quasi omicida, si rivela così commuovente che si ritrova con le guance bagnate da qualche lacrima sfuggita al suo controllo.

Quando, alla fine della serata, lui sparisce tra le ombre, si ritrova a seguirlo.

Per la prima volta, per almeno qualche istante, il suo primo pensiero non è per John, ma per quell’uomo silenzioso che lascia la festa con il cuore spezzato; così simile al dolore che sta provando lei. Anzi, forse anche di più.

Lascia la festa insieme a lui. Lo segue fino a Baker Street e lo vede chiudersi stancamente la porta  alle spalle. Dopo pochi minuti, un violino spande musica malinconica nell’aria.

Rimane nascosta tra le ombre a occhi chiusi ad ascoltare.

Quando la musica si interrompe, apre gli occhi e si accorge che le sue guance sono bagnate. Si asciuga gli occhi e sparisce nella notte.

Deve andare da Mycroft. È ancora arrabbiata con lui, ma deve andare. La sta aspettando, e lei sa che anche lui è in pena per Sherlock.



Continua...



Note: Visto che di dolori i Moffits non sembra ne abbiano mai abbastanza... sappiate che non è colpa mia di tutto l'angst che trovate. Cerco di equilibrare le cose quando mi è possibile, ma non sempre posso.
Come ho già detto ho tentato di modificare il meno possibile della storia che da spettatori abbiamo visto più volte, questo è il motivo per cui non ho rivelato chi sia la nostra protagonista, e questo è anche il motivo per cui Sherlock e John non si accorgono nulla di lei, oltre il fatto che è uno degli uomini di Mycroft, addestrata e, in un certo senso, unica nel suo genere.
Ho semplicemente cercato di sbirciare e farvi sbirciare, dietro le quinte, ovviamente qualcosa cambierà, ma davvero, dal punto di vista dello spettatore della serie ci vorrà davvero parecchio prima che ciò accada.
Il dettaglio del telegramma letto da Sherlock e firmato da Cam gira su internet da un po', sinceramente non ricordo dove l'ho sentito la prima volta, se da un video, o se qualcuna delle mie amiche me ne ha parlato, comunque sia ovviamente non sono stata così intelligente da pensarci da sola.
In tutto questo spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi ringrazio per le tante recensioni che mi rendono molto felice.
A venerdì prossimo!

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Capitolo 8
*** 2014 Londra, estate ***


Altra fuga al mare, e mi sono premunita anche questa volta. Chi l'avrebbe detto!

So che lo scorso capitolo vi ho fatto soffrire, ma purtroppo i Moffits hanno deciso che saper resistere al dolore doveva doveva essere una caratteristica dei fan della loro serie,

In questo particolare capitolo sarà incentrato su Mycroft e sulla nostra protagonista, e chissà non riescano a togliervi qualche domanda.

Buona lettura!





Dalla tua parte




2014
Londra
Estate

 

«Credi che c’è da fidarsi di questo... Wiggins?» Le chiede Mycroft, scettico.

«Beh, Sherlock sembra fidarsi, per quanto la cosa possa essere rassicurante.»

Mycroft alza un sopracciglio. In effetti, la cosa non lo è per niente, lo sa anche lei, ma non ha altre rassicurazioni da dare al suo capo.

«Sei sicura non abbia ricominciato con le droghe?» le chiede.

«Sicura... Con Sherlock non è che possa esserlo. Diciamo che è abbastanza in sé,» risponde lei, senza alcuna intonazione particolare nella voce.

Lo segue da talmente tanto tempo che oramai è perfettamente cosciente di quando diventa pericoloso per sé stesso o per gli altri e quando invece è, nonostante tutto, affidabile.

«Credo sia il massimo che possa aspettarmi, dopo...» Holmes si interrompe e sospira. Suo fratello gli toglie le energie. Ultimamente più di quanto lei abbia mai visto.

«Dopo che il suo migliore amico si è sposato?» conclude lei, mentre mescola lo zucchero – due zollette, per addolcirsi la giornata – nella tazza di finissima porcellana in cui le è stato servito il tè. È tentata di aggiungerci il limone solo per dar fastidio a Mycroft, ma l’uomo pare già abbastanza provato così. «Già,» prosegue con tono affabile, come se stesse parlando di argomenti di poco conto. «Chi non sembrerebbe finito sotto un treno dopo il matrimonio del proprio miglior amico?» domanda, guardando Mycroft direttamente negli occhi e finendo in una risata amara.

«Mi fa piacere che la cosa ti faccia ridere,» ribatte lui.

«Myc, se dovessi piangere per tutte le stronzate che stanno facendo quei due e i guai in cui si stanno cacciando, a quest’ora il livello del mare si sarebbe alzato di parecchio. E parlo al plurale perché lo sai chi sta frequentando tuo fratello, vero?» replica lei.

«Avrà sicuramente un piano.»

«Non lo dubito,» conviene lei. «Ma voi fratelli Holmes sembrate non riuscire a capire che i vostri machiavellici piani vi si possono ritorcere contro.»

«Sappiamo quello che facciamo.» La voce dell’uomo è ferma e sicura.

A lei questa sicurezza però dà sui nervi. Ha davanti agli occhi a cosa si è arrivati grazie a uno dei loro “piani”. Piani di cui ha fatto parte anche lei, senza far nulla per cambiarli, cosa che la fa sentire ancora più in colpa per quanto succederà a John e non solo a lui. «Ohhh, ma certo! Non siete quelli che credevano di poter fregare Moriarty per poi scoprire che anche con la sua morte vi ha costretto a dover in ogni caso rischiare la vita per distruggere la sua rete criminale, che tra l’altro non è ancora del tutto distrutta?» controbatte.

«Però devi ammettere che in gran parte è lo stata.»

«Se non fosse che il membro più pericoloso vive a stretto contatto con tuo fratello e aspetta un figlio da John, rendendomi particolarmente complicato farla fuori... Sì, siete stati bravi. Avete sconfitto i cattivi,» si complimenta con sarcasmo. Avrebbe anche quasi voglia di battere le mani in un applauso, ma si limita a guardarlo dritto negli occhi senza alcun timore. Non l’ha completamente perdonato per come sono andate le cose, ma ha sempre imparato ad affrontare i problemi, non a lamentarsi.

Per calmarsi, prende un bel sorso di tè che finalmente è arrivato alla temperatura che preferisce.

Proprio in quel momento, Mycroft prende di nuovo parola: «Oh, lo so che volevi che li fermassi, ma che dovevo fare? Sbucare da sotto il letto nel momento clou vestito da clown?»

Lei lo sa che l’ha fatto apposta a dire una cosa del genere, per farla soffocare. Ha aspettato il momento in cui le sarebbe stato impossibile non farlo. Quindi la doccia di tè che gli riversa addosso con uno spruzzo della bocca, se la merita tutta. «Oddio, Myc!» riesce a dire tra un colpo di tosse e una risata. «Bisogna ammettere che la cosa avrebbe bloccato la libido di John probabilmente a vita.» Dopo un secondo aggiunge­: «La libido di chiunque, a pensarci bene.»

«Potremmo non parlare della libido del dottore? Non è esattamente un argomento che vorrei toccare.»

«Oh, beh, non è che sia qualcosa che vorrei toccare io, figurati!»

«La vuoi smettere? Perché voi donne mettete dei doppi sensi ovunque?»

«I doppi sensi esistono solo se l’interlocutore li riesce a leggere; quindi forse la giusta domanda è: com’è che tu li capisci?»

«Adesso basta!» sbotta lui. «Non si può parlare con te!» la accusa, col tono petulante di un bambino.

«Ohhh, ho vinto un dibattito con il grande Holmes? Me lo devo segnare sull’agenda,» lo prende in giro ancora un po’. «E comunque devi smetterla tu. Sono arrabbiata con te. Non mi puoi far ridere.»

«Ammettilo che mi hai perdonato. Sono riuscito a farti ridere, su. Ammettilo!»

«Mai!» nega lei. «Ho riso, è vero, ma è stata una disattenzione del momento. Sono ancora mortalmente arrabbiata con te.» Ritorna completamente seria.

Ovviamente la rabbia è sparita, cacciata in un angolo fino a quando non si consumerà da sola, ma non è una cosa che è costretta ad ammettere a voce alta.

«Cercherò di farmene una ragione; e troverò il modo di farti ammettere che mi hai perdonato,» risponde lui, senza nessuna inflessione nella voce; ma gli occhi azzurri la guardano molto più sollevati di prima.

«Pffft! Voi uomini siete così infantili,» sbuffa lei.

«Io non sono infantile,» ribatte lui, dimostrando proprio il contrario. Quindi si corruccia e domanda:
«Chi altro lo sarebbe, comunque?»

«Chi? Seriamente?» Lo guarda davvero sorpresa.

Considerando l’espressione del maggiore degli Holmes, non sta scherzando. Non l’ha capito per davvero. «Sono curioso.» In effetti la osserva interessato. Le mani giunte come fa il fratello quando sta pensando.

Lei si chiede se ne è cosciente, se si rende conto di quante cose lo legano al suo fratellino impossibile.

«Okay,» concede. «Quanti posti ci sono a Londra dove i tossici si radunano per drogarsi?» domanda, cambiando momentaneamente discorso.

Mycroft la osserva cercando di capire dove vuole andare a parare. «Beh,» inizia lentamente. «Il numero esatto si aggira sui... Fammi pensare...»

Lei sventola la mano, bloccandolo. «Lascia perdere,» taglia corto. «Ci sono un mucchio di posti. Tra l’altro tu ne conosci alcuni direttamente, perché sei andato negli anni a recuperare tuo fratello fin lì, giusto?»

«Purtroppo sì,» sospira lui.

«E quello dov’è andato ora era tra quelli conosciuti?» chiede, già intuendo la risposta.

«No, mai sentito. Non per lui almeno.»

«E non ti sembra strano che con tutti i posti del genere che esistono a Londra, tuo fratello è andato a infiltrarsi proprio in quello dove va abitualmente il figlio della vicina di casa di John? Non è il più grande, non ci vanno gli spacciatori, non può avere chissà che informazioni in un posto del genere, né può avere chissà quale visibilità per crearsi una facciata per la trappola verso Magnussen. Eppure, guarda caso, Sherlock lo ha scelto.»

Dopo la sua rivelazione, il silenzio scende denso nella stanza per qualche istante. Lei sorride aspettando la risposta del suo capo.

«Non ci avevo pensato,» riesce a dire.

«Io parto avvantaggiata,» lo consola. «Seguendo entrambi, ho la visione d’insieme della faccenda, mentre tu ne hai solo una parte,» si schernisce. «Non credo nelle coincidenze, Myc, e tu neanche. Tuo fratello spera che John lo trovi.» Non può fare a meno di sorridere un po’ prima di aggiungere: «La cosa è davvero evidente.»

«Giuro, ragazzina, mi metti i brividi.»

«Esagerato! E poi ho imparato dal migliore.»

Un breve sorriso in risposta. «Visto che l’abbiamo nominato... Di John che mi dici?» le chiede poi.

«John si sta trascinando nella finzione della sua vita perfetta, ma non credo che reggerà tanto. Fra non molto la vita da marito devoto e futuro padre gli starà troppo stretta.»

«Mary...» attacca di nuovo Mycroft, poi si interrompe e chiede: «Ti spiace se la chiamo così? Vorrei evitare lapsus. Non che abbia l’intenzione di finire a pranzo da loro la domenica, ma capisci che potrei doverci avere a che fare.»

«Fai pure.» Non importa il nome con cui la chiama, per lei resterà comunque una serpe. Persino Jim l’aveva accostata a quei simpatici e adorabili animaletti.

«Mary, dicevamo, doveva essere davvero legata a Moriarty per fare tutto quello che sta facendo per vendicare la sua morte.»

«Legata? Quella donna non si è mai legata a nessuno se non a sé stessa. Jim mi ha raccontato un po’ di come l’ha trovata, e da quello che ho capito non ha la capacità di provare sentimenti verso qualcuno, se la cosa non le porta un certo vantaggio.»

«Jim?»

Si accorge subito della voce infastidita del suo capo. Persino lo sguardo si è assottigliato.

«Sì. Aveva un nome, sai?» continua lei imperterrita, come se non avesse notato nulla. «Anche a te chiamo per nome,» insiste, divertendosi un po’ alle sue spalle.

«Beh, cosa centra? Io sono io.»

Com’era? “Io non sono infantile”? Si lascia sfuggire un sorriso.

«Oh, non mi diventi geloso, ora, vero? Su, su! Sei tu il mio capo preferito, va bene?» ridacchia lei.

«Smettila di prendermi in giro. Mi basta una telefonata e ti mando al polo sud a giocare con i pinguini.»

«Ma guarda il mio capo geloso, che carino!»

«Stai tirando troppo la corda. Dimmi piuttosto quello psicopatico che ti ha detto.»

«Jim – cioè quel cattivone di Moriarty – mi ha raccontato che Moran - Mary, chiamala come ti pare – faceva parte di una squadra paramilitare. Ha lavorato anche con il governo inglese, ma evidentemente non con te.»

«No, non mi pare di aver mai visto il suo fascicolo. Proverò a cercare. Sai qualcosa di più su questa squadra? » domanda, aprendo il suo portatile e iniziando a digitare.

«No, solo che erano in quattro e che l’ultima missione, a Tbilisi in Georgia, era andata uno schifo. Moriarty l’ha trovata piuttosto messa male e ha capito il suo potenziale. Credo che in realtà la tenesse d’occhio da tempo, perché sarebbe davvero strano che casualmente si trovasse proprio in Georgia, proprio in quella città, proprio nel vicolo dove si era nascosta. Davvero troppo strano per poterlo credere. Comunque, dopo quell’incontro, per la prima volta lei ha avuto una vita stabile. È per questo che si vuole vendicare. La morte di Moriarty le ha distrutto in un secondo un lavoro che la faceva divertire e la vita in mezzo ai suoi simili.»

«Perché non mi hai detto nulla di questa cosa di Mary?» le chiede, allontanando le mani dalla tastiera e osservandola attento.

«Perché non potevamo parlare quando ero sotto copertura, e le volte che potevo farlo dovevo essere telegrafica e decidere bene cosa dirti.» Una scusa del tutto plausibile, che lei sa perfettamente non convincerà il suo capo.

«E perché hai pensato che io sapessi chi era e te lo tenevo nascosto,» aggiunge infatti lui, come continuazione alla frase detta da lei, sbugiardandola immediatamente.

«Per quale motivo dovrei credere che tu mi tenga nascosto qualcosa?» chiede lei sarcastica.

«D’accordo, chiudiamo la parentesi. Cercherò informazioni. Dimmi un po’... Ci sono altri segreti di cui non sono a conoscenza?»

«Se te li raccontassi, che segreti sarebbero?» Mentre pronuncia quelle parole, la lettera di Moriarty nascosta in una tasca segreta della fodera della sua giacca le sembra quasi stia diventando incandescente. Non ha mai trovato il coraggio di parlarne a Myc per un sacco di motivi. Primo fra tutti aveva paura che potesse credere che fosse stata scoperta anche dagli altri, e quindi potesse in qualche modo allontanarla dalla missione. In fondo, aveva solo la parola di Jim che non aveva raccontato la cosa a anima viva, e per quanto lei avesse una strana fiducia nel fatto che fosse la verità, non poteva sperare che per Myc sarebbe stato così semplice avere la stessa fiducia.

«Non riesci proprio a fidarti di me, eh?» Mycroft continua a guardarla. Gli occhi sembrano ghiaccio, ma lei di certo non si lascia mettere in soggezione.

«Ho dormito sull’aereo con te accanto. Credi lo faccia spesso?» gli ricorda, sorridendogli.

«Allora diciamo che ti fidi un po’,» concede.

«Sì, diciamo che mi fido un po’, ma non montarti la testa!»

«Poi non si è più fatta sentire per essere aiutata nella vendetta?» le chiede, riportando il discorso sui binari.

«Non dopo quello che ti avevo già detto. Ci siamo sentite pochissimo. Quando ero dietro a Sherlock l’ho sentita solo una volta, e mi è bastato per capire che non riusciva a tenere in mano l’organizzazione. Moriarty era un regista, come te. Lui la mente, lei il braccio. È brava a tessere la tela, ma non ad alto raggio come lui. Credo che sia stato relativamente semplice distruggere l’organizzazione anche per quello. Non è fatta per rimanere dietro le quinte. È come me: è fatta per uccidere.»

«Non siete uguali, ragazzina.»

«E perché no? È un’assassina, io anche. Esegue qualsiasi ordine, io pure. In cosa ci distinguiamo?» domanda piccata.

«Tu sai quando fermarti, non uccidi per divertimento, e saresti disposta a rinunciare a tutto per proteggere John Watson. Ecco in cosa, ragazzina.»

«Sai, Myc, che io e te non abbiamo chissà quanti anni di differenza? Ho una decina di anni meno di te, suppongo, anche se non ti ho mai chiesto quanti ne hai per davvero. Ma comunque non mi pare che tu possa chiamarmi ragazzina.»

«Perché no? Io praticamente sono uno sbarbatello.»

«Ti piacerebbe, Signor Governo Ombra,» ride lei, e l’uomo la segue subito dopo.

«In realtà no, nel mio lavoro superare indenni ogni anno di vita è un traguardo di cui andare fieri. Comunque... Stavamo dicendo: dopo quella volta l’hai sentita una volta tornata a Londra?»

«Sì, come mi hai detto tu. Le ho detto che ero tornata in patria, avevo sentito dei problemi dell’organizzazione e che ero ancora dalla sua parte se avesse avuto bisogno di aiuto.»

«E lei se non sbaglio non ti ha chiesto aiuto.»

«No. Mi ha ringraziata, dicendomi che si era creata una buona copertura e che sarebbe stato troppo pericoloso se ci avessero viste insieme.»

«Già, e non sa quanto...»

«Infatti! Mi ha rassicurata che aveva un piano – probabilmente fare arrosto John – e mi ha detto di rimanere nell’ombra e pronta, che se avesse avuto bisogno mi avrebbe contattata.»

«E da allora niente?»

«Niente. Ma ho la sensazione che presto mi chiamerà.»

«Mi raccomando: appena ti contatterà chiamami, giorno e notte.»

«Lo farò, paparino, promesso.»

«Sono serio. Non fare nulla senza dirmelo. Se agisci senza che io lo sappia, non potrò proteggerti.»

«Myc, se non ti conoscessi direi che sei preoccupato per me.»

«Lo sono.»

«Ahi ahi ahi! Non eri tu quello che aveva messo in guardia Sherlock sul non lasciarsi coinvolgere?»

«Cosa ti devo dire? Evidentemente ognuno ha i suoi punti deboli. Tu e John siete i nostri.»

«I sentimenti non fanno per noi, Myc.»

«Hai ragione, ma sono un fratello maggiore. Evidentemente ho nel DNA questa mancanza.»

«La “mancanza” di provare sentimenti? Non solo i fratelli maggiori li provano, sai?»

«Quella di volervi al sicuro, a te e Sherlock.»

«Ehi, tu sei il regista, ricordi? Tu sei il campione di scacchi e noi le tue pedine.»

«Questo è uno dei motivi per cui tu devi essere al sicuro. Se fanno scacco matto alla Regina, la partita è perduta.»

«Sei consapevole che io non ho idea di cosa tu stia dicendo, vero?»

«Mai giocato a scacchi?»

«Non è esattamente il mio passatempo preferito,» ammette. «Anche da bambina non ero capace di stare ferma e buona per più di un minuto. Persino nel sonno mi agitavo.»

«Non mi hai mai parlato del tuo passato.»

«Il passato è passato, Myc.»

«A volte però i fantasmi del passato tornano.»

«Già!» esclama lei, fingendo un’allegria che non prova.

«Non hai mai pensato di dire tutto a John?»

«Ho capito di aver sbagliato a tenergli nascosto tutto quando mi sono resa conto del perché ero arrabbiata con te e Sherlock. Ho fatto la stessa cosa. Per anni. Per proteggerlo, certo, ma non hai idea di quante bugie ho creato... O forse sì, lo puoi immaginare. Ora non posso andare da lui, suonare la porta e dirgli: “Ehi, ciao, ti ricordi di me? Ho un paio di cosette da dirti!”. Non posso farlo, perché se quella donna mi vede con John, potrebbe ucciderlo senza pensaci due volte. Non posso farlo perché ho manovrato la vita di John come avete fatto voi, come fa lei. Non posso farlo.» Le sue stesse parole le lasciarono un sapore amaro in bocca, ma era la verità, e lei non era abituata a raccontarsi menzogne. Agli altri? Ne raccontava molteplici. Ma con se stessa era sempre stata sincera.

«Ovviamente non puoi finché c’è lei, ma quando tutto sarà finito...»

«Hai ancora la speranza che finisca bene per me?» domanda con un misto di malinconia e affetto.

«Qualcuno dovrà farlo, e visto che tu non sembri disposta a crederci, ci penso io. »

«E tu che dici di non avere un cuore...» lo blandisce, con tono affettuoso.

«Chissà... Forse dovrà esserci, qui da qualche parte,» dice lui, indicandosi il petto.

Lei sorride. Quell’uomo di ghiaccio, che prende decisioni molto sgradevoli per il bene della nazione, le mette tenerezza. Per quanto tempo ha dovuto fingere di non provare nulla? Per quanto tempo ha dovuto far buon viso a cattivo gioco? Abbastanza da convincersi che i sentimenti non sono altro che un difetto e un peso, tanto da insegnare anche al fratello più piccolo a evitarli con tutto sé stesso. Ma non è questo un altro modo per dimostrare quanto tenga a Sherlock? Insegnarli l’unico modo che ha appreso con il tempo per soffrire il meno possibile. Non è forse anche questo amore?

«Sono certa ci sia, e dovresti permettere a Sherlock di vederlo di tanto in tanto.»

«Non esageriamo,» dice lui, con uno sbuffo irritato. «Non crederai che mi interessino certe quisquilie, vero?»

«Ovviamente no, Iceman.» Spera che l’ironia non sia troppo udibile nel suo tono.

«Ecco, bene, e ora torniamo al lavoro,» taglia corto lui, con tono rigido e imbarazzato.

«Sì, Capo!» esclama lei, avendo pietà di lui.



Continua...



Note: Come vi ho detto questo capitolo è incentrato sul rapporto Mycroft-protagonista misteriosa. Come ho già spiegato nelle risposte ad alcune recensioni (grazie davvero per tutte, mi rendono felice) questo rapporto è molto importante per me, ci ho lavorato parecchio e nella storia ha la sua rilevanza. Sul fatto che sia romantico... quello lo vedremo fra un po'. A prescindere da questo dettaglio è comunque un rapporto molto importante per entrambi. Detto questo grazie per continuare a seguire questa storia, e ci vediamo settimana prossima!

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Capitolo 9
*** 2014 Londra, Estate, Mattina ***


Iniziamo una giornata che ho diviso in tre capitoli, dolore a palate, non è colpa mia. Ricordatevi che io sono quella buona, e i due sceneggiatori malefici quelli cattivi.
Buona lettura!





Dalla tua parte




2014
Londra
Estate
Mattina


 
L’aria di Londra è grigia e frizzante. La respira a pieni polmoni mentre sorveglia la casa di John.

Ha trovato – o meglio: Mycroft le ha trovato – un piccolo appartamento dall’altro lato della strada rispetto a quello del dottore. Sul retro dell’edificio ci sono le scale antincendio che le permettono di andare e venire quando vuole senza che possano notarla. Non sarebbe davvero il caso se lei la vedesse adesso.

Nonostante le ragioni per cui non debbano notarla sono diverse, è meglio che nessuno dei due coniugi Watson faccia caso alla sua presenza.

La routine della coppia è terribilmente noiosa.

Non sa come faccia John a non fuggire a gambe levate.

In realtà lo sa. C’è di mezzo un bambino. Non scapperebbe mai da una responsabilità del genere.

Eppure, questa mattina, che da grigia si è rivelata assolata, qualcosa è cambiato. John esce di casa di corsa, seguito a ruota dalla moglie ancora in vestaglia.

Osserva e nota la vicina di casa in lacrime.

Ma certo! Il figlio la notte scorsa non è tornato e sicuramente è in quel ritrovo dove finisce sempre. John, che probabilmente vede quella situazione come una scusa per fare qualcosa, si sarà offerto per andare a recuperarlo.

Un sorriso le spunta sulle labbra. Sa già dove si sta dirigendo e deve sbrigarsi se vuole fare prima di lui, visto che lei dovrebbe usare i mezzi pubblici.

Si blocca in mezzo alla stanza per pochi istanti, si batte la mano sulla fronte. «Quanto sono scema!» dice a voce alta al gatto randagio, un norvegese tigrato enorme, che ha deciso di dividere l’appartamento con lei.

Lo ha trovato lì dentro una sera, e le è bastata un’occhiata per sancire un patto di convivenza pacifica con la bestiola. Questa, al suo urlo, alza un orecchio e apre un occhio assonnato.

«Io ho il mio servizio di taxi personale,» continua. Non ha neanche bisogno di guardare il cellulare per comporre il numero del suo capo. Non appena l’uomo risponde, sciorina la sua opinione in fretta e furia: «Myc, il gioco è cominciato. Preparati. Sta per succedere qualcosa, me lo sento. Non mi vorrai far perdere il divertimento di vedere il loro incontro in diretta, vero?» domanda, quindi mette giù e non appena fuori, a pochi metri dalla scala di servizio, c’è già una macchina ad aspettarla. «Non c’è nulla da fare: al capo si può imputargli parecchie cose, ma certo è efficiente!» si complimenta, parlando ancora al gatto. O forse da sola. Chi può saperlo.

Grazie all’efficienza di Holmes, arriva giusto in tempo per riuscire a intrufolarsi prima che John entri dalla porta principale.

Wiggins è presente, e lei è certa lo sia anche Sherlock.
 

«C’è qualcuno?» esordisce John, cercando di entrare.

«Che vuoi?» risponde seccato Wiggins, cercando di impedirgli l’accesso.

«Scusa, amico.» John spalanca la porta, entrando come se non fosse un posto pericoloso; come se niente e nessuno possa fargli del male. Ma del resto, visto le volte che era stato in pattuglia nel deserto e quelle in cui ha seguito Sherlock dietro ai peggiori criminali, c’è davvero qualcosa che lo spaventi sul serio?

«Non puoi entrare qui dentro.»

«Sto cercando un amico. Cerco solamente un amico.»

Più di uno, John, vorrebbe dirgli.

«Non voglio curiosare,» continua il dottore, con voce affannata.

«Devi andartene. Non puoi restare qui.»

«Isaac Whitney lo hai visto?» continua imperterrito John.

Wiggins tira fuori un coltello.

Pessima mossa, amico, seriamente. Pessima pessima mossa.

«Ti ho chiesto se hai visto Isaac Whitney e hai tirato fuori un coltello. Cos’è, un gioco?» sbotta John.

Wiggins gli fa segno verso la porta di ingresso ancora aperta, chiaro segno che è il momento di andarsene. Forse per qualcuno potrebbe funzionare, ma per John? Ovviamente no.

«Il gioco dei mimi?» È divertito, lo capisce dal tono della sua voce. Si sta divertendo un sacco. Vuole un bene assoluto a quell’uomo, ma è assodato che non è la persona più normale sulla faccia della terra. Ma del resto, se lo fosse, sai che noia?

«Sparisci o ti sfregio.» Wiggins davvero non capisce che non è davvero il caso di far arrabbiare Watson. Lei vorrebbe avvisarlo, ma non può intervenire. Spera solo che John non ci vada troppo pesante con lui.

«Ohhh, sei troppo lontano. Ti do una mano.»

Dopo quell’uscita, lei è certa che John si stesse annoiando a morte, nella sua vita matrimoniale. L’uomo non è mai stato una persona molto paziente – in determinati momenti è capace di prendere fuoco più velocemente della benzina – ma non è da John andarsi a cercare i guai, non è da lui.

Watson fa tre lunghi passi senza mostrare il minimo timore, ma del resto non ha alcuna paura del tossico che ha di fronte. «Adesso, concentrati. Isaac. Whitney.» Scandisce le parole lentamente.

«D’accordo, l’hai voluto tu,» risponde invece Wiggins, ancora totalmente ignaro del guaio in cui si sta cacciando.

John sorride crudelmente. Si sta divertendo più di quello che immaginava, e si sta godendo ogni secondo.

Lei riesce a elencare i precisi movimenti di John, ma riesce a farlo solo perché è addestrata. È davvero veloce e preciso.

Un veloce colpo alla mano armata, e Wiggins perde la presa sul coltello. Successivamente gli mette una mano sul collo, che intontisce l’altro, e gli dà una spinta per fargli perdere l’equilibrio, sbattendolo di spalle al muro. John infila il piede dietro a quello dell’avversario e lo tira verso di sé facendolo finire a terra. Il tutto in meno di cinque secondi.

Lei ha la netta sensazione che gli ha appena slogato un braccio.

Povero Wiggins... L’ha proprio beccato nella giornata sbagliata.

John raccoglie il coltello da terra e gli si avvicina.

Per un istante – un solo piccolo istante – lei teme che possa passare anche a quello, ma diamine! È John, non lo farebbe mai. Non senza una ragione più che valida. Non è come lei.

«Allora, ti sei concentrato, adesso?» gli chiede, pericolosamente vicino.

«Mi hai spezzato il braccio,» si lamenta Wiggins.

«Naaa! Solo slogato.»

«Lo sento strano. È normale che lo sento così? Guarda qua.»

John lo guarda, come farebbe se fosse un suo paziente. «Sì, è slogato, sono un dottore e so come slogare un braccio. Allora, dov’è Isaac Whitney?»

«Non lo so.» Lo sguardo di John deve mettergli paura visto che aggiunge di corsa: «Prova di sopra.»

Lei corre. Conosce quella casa e sa come accedere al piano superiore senza essere vista.

Senza fare alcun rumore, si nasconde coprendosi con una coperta lurida vicino a un pilastro che la ripara dalla vista sia di Isaac che, soprattutto, di un altro uomo sdraiato sul fianco. Un uomo che lei sa bene chi è.

È proprio curiosa di scoprire quanto tempo ci avrebbe messo a farsi riconoscere da John.

In lontananza,  sente le ultime battute della “conversazione” tra Wiggins e John, ovattate grazie all’eco del piano praticamente vuoto.

«Ecco fatto, vedi? Non è stato difficile.»

«No, è stato doloroso. Tu sei matto.»

«No. Sono solo abituato a criminali peggiori.» John sale le scale, i passi pesanti, e si ritrova nel grande stanzone. Lei sa quello che lui vede: l’anticamera dell’inferno, una delle tante da cui è riuscito a uscire indenne. «Isaac, Isaac Whitney? Isaac?» Poi lo vede. «Salve amico, mettiti seduto. Seduto.»

«Dottor Watson?» domanda la voce stanca e spaesata di Isaac.

«Sì!» Si avvicina e lo aiuta a sollevarsi da terra, facendogli appoggiare la schiena alla parete.

«Dove sono?» chiede completamente disorientato. La droga deve avergli ottenebrato completamente i sensi.

«In un posto infelice con la feccia della terra. Guardami,» gli dice John, sollevato ma anche preoccupato. Controlla le sue pupille, i segni vitali. Non sembra in pericolo di vita, ma deve assolutamente andare in ospedale. Lo capisce anche lei che non è un dottore.

«È venuto qui per me?» chiede incredulo e forse anche commosso. È difficile credere quanto si sentano sole le persone che fanno uso di droghe. Anche se non è vero, anche se hanno una famiglia che si preoccupa da morire per loro, come la madre di Isaac, loro continuano a credere di essere soli. È una sensazione orribile.

«Non conosco nessun altro qui.»

"Ehm, non proprio", vorrebbe poter dire.

«Ehi, tutto bene?» Adora vedere John prendersi cura di qualcuno. Rimane calmo, totalmente rilassato, e riesce così a tranquillizzare anche la persona che sta visitando. Non importa se si trovano in una bettola come questa, in una città come Londra, in un ospedale, o sotto le bombe. Quando John si occupa di qualcuno, la sua attenzione è tutta concentrata lì. I suoi sensi sono all’erta, certo, ma a meno di un pericolo di vita imminente, l’unica sua vera preoccupazione è la persona che sta aiutando.

Non ti fa mai sentire in colpa, John, per le minchiate che hai fatto fino a quel momento, che ti hanno portato fino a quel punto. Non giudica. Semplicemente, ti mette al primo posto, come se la sua unica ragione di vita fosse quella di aiutarti e tirarti fuori da quella merda che è la tua vita in quel momento.

Chiunque si affida totalmente a lui. Anche se sta per morire e ne è conscio, si affida a John e sembra che la paura svanisca dalla loro anima. Quante volte ha visto con i suoi occhi questa specie di magia che sembra riuscire tanto facile al dottore? Lui, che non fa altro che sminuirsi e si sente sempre un mediocre.

Ed ecco che alle spalle di un ignaro Watson, qualcuno si volta.

“Difficile resistere al suo richiamo, eh, Sherlock?”, vorrebbe dirgli.

Era certa che volesse farsi trovare. Lo sapeva da quando l’aveva visto la prima volta in quella villa abbandonata e aveva riconosciuto Isaac. Lo sapeva e questa è semplicemente la conferma per i più scettici. Lui voleva essere trovato da John. Non poteva sopportare che il dottore non lo avesse ancora notato. John doveva vederlo. Doveva vederlo sempre. «Oh, salve, John. Non mi aspettavo di vederti. Sei qui anche per me?»

Lei osserva il dottore, può sentire il suono del suo cuore spezzarsi per poi pompare più forte. Vede il suo corpo perdere l’equilibrio, come se qualcuno lo avesse spinto. Si siede a terra senza forze, e non sa dove trova il coraggio per voltarsi. Il dolore nei suoi occhi è così grande che le spezza il cuore. La colpa che riesce a leggerci è immensa. La rabbia fa paura. Ma è rabbia contro sé stesso, per non aver impedito a Sherlock di finire in quel posto. Perché se lui non si fosse sposato, sarebbero entrambi a Baker Street, e di sicuro Sherlock non avrebbe toccato nessuna droga.

Si riprende dopo poco. Si alza e va verso Sherlock. Quasi lo solleva di peso, arrabbiato come solo John sa essere. A nulla valgono le scuse di Holmes, le sue rassicurazioni sul fatto di essere totalmente pulito, sul fatto che sta lavorando. John lo trascina fuori con un Isaac completamente ignaro di quello che sta succedendo intorno a lui.

«Fuori c’è Mary in macchina. Ti raggiungiamo subito,» gli dice, mentre si ferma un istante vicino alle scale con Sherlock.

Isaac riesce a scendere i gradini senza uccidersi mentre John rimane immobile, con la schiena dritta, i pugni chiusi così forte che lei stessa dalla sua postazione può vederlo tremare. «Sherlock... Perché?» domandai poi.

«John, seriamente, sto lavorando.»

John lo osserva per poi spingerlo delicatamente verso le scale.

«John...» prova a fermarlo Sherlock.

«Perché devi sempre lasciarmi indietro?» lo accusa il dottore, con voce ferita. Gli occhi sono talmente tormentati da sembrare un mare in tempesta.

Persino il detective non trova nulla di sensato da dire.

Per quanto le riguarda, le si è fermato il cuore. Come potrebbe andare da John e dirgli la verità ora che si è resa conto di quanto tutte quelle bugie per proteggerlo lo feriscano più di quanto potrebbe fare qualsiasi altra cosa?

Wiggins sale le scale e la raggiunge di soppiatto.

«Cosa devo fare?» le chiede.

«Vai con loro. Avviso io il capo. Non perderli di vista. Cerco di farti raggiungere da uno degli uomini quanto prima.» Gli allunga una banconota, lui la prende senza nemmeno guardarla, annuisce e li raggiunge prima che se ne vadano.

Dalla finestra scrostata lei li osserva. Il cuore le fa male e improvvisamente tutto il peso del mondo sembra sulle sue spalle.


Raggiunge casa a fatica. Sale le scale antincendio. Chiude la finestra dietro di sé. Sul letto sfatto, il grosso gatto sta riposando e apre un occhio infastidito dal suo arrivo.

«Scusa, amico. Ho bisogno di raggomitolarmi un po’ e piangermi addosso per qualche minuto, non ti disturbo,» lo rassicura, prima di rendersi conto che l’ultima cosa di cui ha bisogno è diventare una di quelle che parlano con i loro animali domestici.

Si lascia cadere sul materasso e fa come ha detto al gatto. Si raggomitola su sé stessa cercando di calmare il dolore che sembra non farla respirare.

Quanto vorrebbe affogare nell’alcool, dimenticare tutto, perdersi nella nebbia...

Non morire, semplicemente sparire. Non sarà poi così doloroso, in fondo, no? Nessuno sentirà veramente la sua mancanza.

Si ricorda del minimarket aperto a pochi metri da lì. La voglia di alcool diventa più forte.

Sta per alzarsi quando il peso per nulla indifferente del gatto, steso fino a pochi istanti prima lì accanto, si sposta sopra di lei. Sul suo fianco.

Lei solleva lo sguardo. «Ti dispiace, amico? Stavo per alzarmi.» Prova a sollevarsi, ma per tutta risposta il gatto tira fuori le unghie e inizia a ringhiare. Non sapeva nemmeno che i gatti ringhiassero. «Sei serio?» gli domanda incredula.

Per tutta risposta, il gatto le soffia contro. Può sentire le unghie che si aggrappano ai vestiti e sfiorano la sua pelle.

«Okay, okay... Non mi muovo, sto qua,» cede, esausta. Non ha minimamente voglia di litigare anche con il dannato gatto!

Il micio, come se davvero capisse le parole dette, si calma e si acciambella felice iniziando a fare le fusa, beato e soddisfatto.

Lei rimane immobile stupita a osservarlo. Dopo qualche momento, le labbra le si piegano in un sorriso inatteso.

Ma bene... Ora, oltre a parlare con in gatti, prende pure ordini da loro!

«Lo sai, brutta bestiaccia, che assomigli a quella personcina poco accomodante del mio capo?»

Due occhi azzurro ghiaccio la guardano soddisfatti.

«Seriamente, sei spiccicato a lui,» sbuffa, alzando gli occhi al cielo, esasperata.

«Meow,» è la risposta del felino.

«Meow anche a te, Meowcraft. Ti sta bene come nome,» decide, ed è così stanca che le sembra quasi il gatto le faccia l’occhiolino. Deve essere così bisognosa di riposo da stare impazzendo...

Si volta lentamente, così da non far innervosire il norvegese di parecchi chili che oramai l’ha presa come suo cuscino personale. Lui, per tutta risposta, come se avesse capito che non ha intenzione di alzarsi, la lascia fare per poi sistemarsi meglio sul suo stomaco.

Le vellutate zampe anteriori le sfiorano il mento. La coda vaporosa dondola sulle sue ginocchia. Il calore del corpo del felino sul suo torace e quel morbido peso, piano piano riescono a calmare e lenire il dolore che sembrava la stesse per dilaniare fino poco prima. Il ronfare placido la mette in pace con il mondo intero, persino con sé stessa.

Si addormenta, per la prima volta senza pensieri.



Continua...


Note: Vi ringrazio per l'affetto che leggo nelle vostre recensioni. Grazie per aver messo questa storia tra le seguite, o preferite o da ricordare. Grazie per continuare a seguirla.
 

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Capitolo 10
*** 2014 Londra, Estate, Sera ***


Settimana scorsa avevamo parlato di dolore mi pare, eh, non viaggiamo mica meglio oggi più che dolore un po' di sana tensione, così per cambiare un po'.
Buona lettura!





Dalla tua parte




2014
Londra
Estate
Sera
 


Il vibrare del cellulare la disturba.

Apre gli occhi e nota che il sole è tramontato da un pezzo.

La vibrazione si interrompe.

Lei sospira e si stropiccia gli occhi.

Il gatto è ancora sopra di lei. Lo accarezza distrattamente mentre il vibrare ricomincia.

Allunga il braccio fino a raggiungere il telefono abbandonato lì accanto. Non ha bisogno neanche di guardare chi la chiama per sapere di chi si tratta. Quel numero ce l’ha solo una persona. «Ehi, capo, tutto bene?»

«Tu vuoi vedermi morto, non ci sono altre spiegazioni.» La voce è concitata, spaventata, ma non ne capisce il motivo. L’aveva avvisato che sarebbe tornata a casa per quella giornata. Può capitare di addormentarsi e non sentire una o due chiamate.

«Eh?» chiede sconcertata.

«Sai che ore sono? Sai quante volte ti ho chiamata? Stavo per mandare Anthea all’appartamento. Pensavo ti avesse scoperto! DIO! VUOI VENIRE AL MIO FUNERALE?»

Stacca l’orecchio dall’apparecchio. Lo schermo illuminato rivela un numero imbarazzante di chiamate perse. «Myc, scusa, mi sono addormentata,» rivela un po’ in imbarazzo, le dita che continuano ad accarezzare il manto del gatto che ora si è spostato al suo fianco permettendole di voltarsi.

È un sospiro quello che sente? Riesce a figurarselo mentre si stringe tra gli occhi con indice e pollice, cercando di recuperare la calma persa.

«Myc?» lo chiama.

«Stai bene?» La voce le sembra stanca e seriamente preoccupata.

«Sì, sto bene, ora,» risponde onestamente.

«Dici sul serio? Se vuoi riposarti un po’ lo capisco, posso mettere Anthea alle loro calcagna. Ti sto chiedendo troppo.» È senso di colpa quella sfumatura nella sua voce?

«Myc, seriamente, sto bene. Ho passato un brutto momento, non lo nego, ma ora sto davvero bene.» Ed è sincera. Quel gatto deve avere poteri magici...

«...»

«Myc? Scusa, davvero, non volevo farti preoccupare.»

«Okay, ragazzina, okay. Te la senti di seguirli questa sera?»

«Certo, dimmi dove e arrivo.» Rimane in silenzio cercando di comprendere l’urgenza che sente nella voce di Mycroft. «Che ha combinato Sherlock?»

«Ha comprato un anello,» rivela sconfortato.

«CHE HA FATTO?» Al suo urlo, il gatto si volta di scatto, nervoso. Lei mima uno “scusa” con le labbra, rendendosi conto dell’assurdità della cosa subito dopo. La risata che le sfugge subito dopo è spontanea. Sherlock non smetterà mai di sorprenderla.

«Hai sentito bene... Anzi, per la precisione, secondo il mio conto corrente, io ho comprato un anello,» continua lui, non riuscendo a nascondere il divertimento nella voce.

«Ohhh, finalmente! Credevo non ti decidessi più a chiedermelo,» scherza lei.

«Dovevo essere certo della tua risposta affermativa,» risponde l’uomo, stando al gioco.

«Come potrei dirti di no?» cinguetta.

Myc sbuffa. «Bene. Ora che abbiamo assodato la cosa, te la senti di vedere che diamine ha in mente? Gli ho esplicitamente detto di lasciare perdere Magnussen, quindi credo sia abbastanza ovvio che non resisterà più di poche ore per fare la sua mossa.»

«In effetti sì, ritengo sia abbastanza ovvio. Sono pronta. Dammi giusto un paio di minuti e mi metto in viaggio verso l’ufficio di Magnussen. Per entrare hai già un piano o mi arrangio?»

«Ti ho fatto recapitare un pass per entrare negli uffici. Devono fare un controllo di sicurezza informatica, e credo tu sia perfetta per l’occasione.»

«Mi hai fatto recapitare?» chiede incredula.

«Sì, una macchina ti aspetta di sotto.»

«Hai davvero mandato Anthea?» Non può crederci, eppure sembra proprio la verità. E lui sarebbe quello senza sentimenti?

«Non rispondevi da questa mattina. L’ultimo tuo messaggio è stato per avvisarmi che avevi mandato quel Wiggins con loro e di mandare un uomo per monitorare la cosa in tua assenza, e poi nulla,» si giustifica.

Lei sorride, si alza e si stiracchia. Un’occhiata veloce allo specchio la rende consapevole che, per quanto è ancora stropicciata come uno straccio, si sente davvero meglio e negli occhi rivede una luce che non vedeva da tempo. «Va bene. Cinque minuti e sono praticamente pronta. Appena prendo posizione mi metto in contatto.»

«Bene. Aspetto tue notizie quanto prima.»

«Perfetto.» Un istante di silenzio. «E... Myc?»

«Sì?»

«Grazie per esserti preoccupato per me. Non è una cosa a cui sono abituata.»

«Sì, beh, ragazzina... Lasciamo stare. Dobbiamo lavorare ora,» risponde imbarazzato.
 

Dopo aver interrotto la chiamata ci mette pochi minuti a essere effettivamente a posto. Va in bagno a rinfrescarsi e nota che ha ancora il segno delle coperte sul viso. si spazzola i capelli e si fa una treccia per tenerli a bada. Indossa una camicia bianca e un paio di pantaloni neri dal taglio classico.
Indossa una giacca leggera, sceglie le scarpe adatte – stando in compagnia degli Holmes ha imparato che ogni dettaglio può essere rilevante – e nascose la sua fedele calibro 22 sotto i vestiti perché non si sa mai a cosa l’aspetta là fuori. Si guarda allo specchio, soddisfatta del risultato. Può davvero passare per una segretaria o un’impiegata informatica.

Prende anche un paio di occhiali, perché evidentemente stando sempre al computer quasi tutti gli impiegati ne indossano uno. In più, questi hanno delle mini telecamere che permetteranno a Myc di vedere e sentire tutto quanto in diretta.

Infila il cellulare in tasca ed è pronta.

Sa che qualsiasi altra cosa le potrà servire sarà in macchina con Anthea.

Dà una grattata alla testa del grande gatto tigrato, che non si è mai mosso dal letto, nonostante non l’ha mai persa di vista e ha seguito tutti i suoi movimenti.

«Amico, ti lascio la finestra accostata, tanto sai come uscire se hai voglia. Tuttavia, se fossi in te me ne starei qui dove ci sono acqua, cibo e un letto comodo. Cosa volere di più?»

Un grande sbadiglio che mette in risalto i denti aguzzi del micio è l’unica considerazione che riceve per le sue premure.

«Beh, allora vado. Ci vediamo stasera, immagino. E grazie di avermi tenuto a galla oggi,» lo saluta, prima di dargli un’ultima carezza sul manto soffice.

«Meow,» le risponde il gatto.

Non può fare a meno di sfoderare un sorriso, ed è pronta per la missione.
 

La macchina è esattamente dove deve essere. Anthea l’aspetta seduta sul sedile del passeggero giocando – o chissà, magari organizzando qualche missione segreta; con lei chi poteva dire con certezza cosa stesse facendo? – con il cellulare, come sempre.

«Lo hai spaventato a morte, lo sai?» Le dice come prima cosa non appena la portiera si chiude dietro di lei, senza staccare gli occhi dallo schermo.

«Cosa?» le chiede sorpresa. Che Myc avesse davvero dato di matto non riusciva a crederlo, nonostante gli fosse parso agitato, durante la chiamata.

«Holmes. Non l’ho mai visto così, se non per il fratello in casi particolari. Credevo stesse per far uscire l’esercito a cercarti.»

«Non sarebbe stata una mossa molto furba.»

Mentre parlano, la macchina si è già immessa nel traffico cittadino.

«No, decisamente no. Quindi, per favore, evita di rifarlo. Un Holmes in preda a una crisi di nervi non è una cosa di cui ha bisogno il mondo.»

«No, in effetti no. Non l’ho fatto apposta, Anthea. Avevo solo bisogno di...» Sospira. «Non so neanche io di cosa, in realtà,» ammette.

«Dovesti iniziare a pensare per quanto vuoi continuare così.»

«Continuare?»

«Beh, non vorrai mica continuare a essere operativa. Non pensi che prima o poi ti renderai conto di essere stanca di rischiare la vita? Non hai mai pensato a cosa vuoi in futuro? Tutti quanti ci pensano. Fai questo lavoro da quanto, quindici anni?»

«Sono stata reclutata appena finito il liceo.»

«E sei ancora viva e con tutti i tuoi arti? Complimenti.» Anthea la guarda per un momento. «Quindi sono vent’anni che fai questo lavoro, in un modo o nell’altro. Avrai sicuramente un’idea di cosa vuoi fare dopo.»

«Non lo so,» ammette. «Non ci ho mai pensato. Forse... Forse non ho mai davvero creduto che ci sarebbe stato un dopo di cui preoccuparmi.»

«Beh, vedi di iniziare a farlo. Se ti succedesse qualcosa, non voglio sapere come reagirebbe il capo. Ascoltami bene: gli Holmes hanno uno strano, stranissimo modo di dimostrare il proprio affetto. Diciamo che non è la cosa in cui riescono meglio, ma vorrei seriamente evitare di vedere Mycroft Holmes reagire alla tua morte. Quindi fammi il favore di non farti uccidere.» Il silenzio scende nell’abitacolo. «Okay, ora occupiamoci della missione. Hai già preso gli occhiali. Benissimo. Tieni, indossa questi,» dice, porgendole una scatoletta che contiene degli auricolari che risultano praticamente invisibili una volta indossati. «Così almeno potrai sapere direttamente cosa vuole vedere il capo, già che devi entrare nella rete informatica di Magnussen...»

«Fammi indovinare: devo mettere un bel virus?»

«Lo sai, la conoscenza è il vero potere.» Le allunga una chiavetta e un pass. «È tutto qui dentro. Basterà inserirla nel computer di Magnussen. Purtroppo è non è in rete e devi riuscire ad accedervi direttamente. Se poi riuscissi ad accedere a quello della sua assistente, sarebbe perfetto.»

«E quel pass mi permette di accedere fino al piano dell’ufficio di Magnussen?»

«Ehi, stiamo parlando di Mycroft Holmes. Sarebbe stato capace di far riprogrammare tutti i sistemi di sicurezza del palazzo per renderti le cose più sicure e semplici.»

Entrambe si lasciano andare a una risata.

«Cuore d’oro, questo Mycroft, chi mai l’avrebbe detto,» scherza.

«Succedono cose strane in questo mondo.»

Lei indossa gli auricolari mentre Anthea risponde a una chiamata nel momento in cui la macchina si ferma accanto al palazzo di Magnussen. «Fra quanto? Perfetto. Sì siamo già arrivate entriamo subito in azione.» Chiude la chiamata e si volta verso di lei. «Il dottore e Il detective arriveranno fra una ventina di minuti, perciò hai il tempo di entrare e diventare invisibile come sai fare tu. L’assistente è ancora in ufficio, e purtroppo anche il suo capo, anche se doveva essere già uscito,» la informa velocemente. «Poco male. Al massimo dovrai rimanere anche dopo che i due se ne saranno andati. In questo caso ci penso io a seguirli, non preoccuparti.»

«Bene. Sono pronta.»

«Mi raccomando, ricordati quello che ti ho detto.»

«Starò attenta.»

«Sarà meglio.»

Esce dalla macchina e si avvicina senza alcun timore alle porte di vetro del palazzo.

«Ragazzina, mi senti?» la raggiunge subito la voce di Mycroft.

«Sì.»

«Bene, io vedo e sento tutto quello che vedi e senti tu. Praticamente è come se fossi accanto a te passo per passo.»

«Il mio angelo custode.»

«Credo che nessuno mi abbia mai definito così,» ammette l’uomo.

«Non ti conoscono. Comunque, eccoci qui: un nuovo gioco è iniziato.» Si avvicina con disinvoltura al bancone dove due agenti di sicurezza alzano lo sguardo. «Mi hanno chiamata per un controllo della sicurezza informatica,» annuncia, dando il via alla recita.

«Come mai non è venuto Jack?» domanda uno dei due, sospettoso.

«Jack Stiles, divorziato. Ha due figli, il minore ha tre anni,» le suggerisce all’orecchio Mycroft.

«Jack ha avuto problemi di famiglia. Sapete com’è... Con i bambini piccoli e l’ex nella sua serata di relax.»

«Oh, certo. Senza offesa, ma voi donne sapete come spennarci.»

«Nessuna offesa,» sorride lei, serafica.

«Bene. I documenti sono in regola. Hai anche il pass?» domanda il secondo, che per tutto il tempo è stato impegnato a controllare il foglio che lei le ha passato quando è arrivata.

«Ovviamente! Eccolo.»

«Ti hanno spiegato cosa devi fare e dove?»

«Sì, grazie.»

«Ottimo. Qui è tutto apposto, vai pure. Se hai bisogno, guarda verso le telecamere e facci segno; praticamente ti possiamo seguire come fossimo con te.»

Capisce senza bisogno di ulteriori spiegazioni che quello è il loro modo per avvisarla di non fare stronzate, perché l’avrebbero vista. «Perfetto.» Li lascia con un sorriso e si incammina verso gli ascensori.

«Comincia ad andare al secondo piano, dove ci sono gli uffici del personale.» La voce di Mycroft la accompagna passo passo.

Lei fa come le dice, con sicurezza, senza fretta, come se fosse una routine, per non destare sospetti e passare inosservata.

«Terzo ufficio.»

Lei scivola dentro, le luci che si accendono al suo passaggio. Sensori di movimento, immagina.

«Prendi il computer sulla sinistra e inserisci la chiavetta. Attenta a non farti vedere mentre lo fai.»

Lo accende. Da quella postazione riesce a vedere sia il corridoio illuminato che la finestra da cui si può godere di un bel panorama sulla città illuminata.

«La telecamera è perfettamente di fronte a te, quindi possono vedere ogni tuo movimento, ma non quello che compare sullo schermo. Ogni ufficio ha una sola telecamera, a parte quello di  Magnussen,» continua a suggerirle l’uomo.

La chiavetta l’ha già in mano, nascosta nel palmo. Digita sulla tastiera e le finestre di programmazione si aprono. Sa che non è veramente necessario, ma in un ufficio come quello ci sono troppe superfici riflettenti. Meglio prendere tutte le precauzioni.

Menomale che sa davvero cosa sta facendo.

Una penna le sfugge di mano, finendo a terra. Ovviamente è una finta, ma in questo modo dalla telecamera che la sta riprendendo da quando è entrata non possono averla notata mentre infilava la chiavetta nel computer.

«Fai partire il primo programma. Ci metterà pochi minuti a entrare nel circuito che controlla le telecamere, e in un secondo potremo controllare qualsiasi apparecchio – comprese le luci – così potrai agire indisturbata.»

I minuti passano lenti. Stare ferma ad aspettare non fa per lei.

«Ecco, perfetto. Adesso dammi solo un minuto ancora, per registrare il video che manderemo in loop,» interrompe il silenzio Mycroft, dopo un po’.

Aspetta come le è stato detto, anche se è difficile. Aspetta, ma si sente irrequieta.

«Ci siamo. Alzati pure e raggiungi gli ascensori. Te ne faccio trovare uno aperto che porta al piano prima di quello dell’ufficio di Magnussen.»

Lei esce dalla stanza. Le luci del corridoio questa volta non si accendono, come Myc ha promesso. Sta per raggiungere gli ascensori quando un movimento fuori dalla finestra la ferma.

«Myc, Moran è qui,» sussurra mentre corre a nascondersi.

«Cosa?» domanda l’uomo, confuso e agitato insieme.

Controlla di essere davvero sola prima di muoversi nuovamente. Si avvicina alla finestra aperta, si affaccia con cautela e riesce a vedere l’ombra sopra di lei che si muove con agilità. È una donna incinta e si arrampica come se non avesse alcun impedimento o preoccupazione. Non riesce a decidere se la ritiene coraggiosa o semplicemente non le importa nulla del bambino che sta portando in grembo.

«Moran è qui,» ripete. «Si sta arrampicando. Sul retro del palazzo non ci sono abbastanza luci per notarla. Del resto, chi diamine può decidere di arrampicarsi su questi vetri a specchio? Se non l’avessi vista con i miei occhi non ci avrei mai creduto.»

«Ti ha vista?»

«No, sono al buio. Non può avermi vista.»

«Bene. Questo è davvero un bene,» dice il suo capo, apparendo leggermente più tranquillo.

«Ma come ha fatto a non farsi notare? Come diamine c’è riuscita?»

«Non lo so proprio. I miei uomini stanno già lavorando per capirlo. Fatto sta che è un grande problema il fatto che ci sia anche lei.»

«Sta salendo,» lo aggiorna. «Credo stia andando direttamente nell’ufficio di Magnussen. Lui è ancora lì?»

«Sì, sia lui che l’assistente.»

«Devo salire?»

«Non puoi. Sherlock e il dottore stanno salendo ora.»

«Ha usato l’anello per passare?» chiede, cercando di alleggerire i toni. Sa che Mycroft è preoccupato quanto lei della cosa, ma non vuole che la troppa pressione gli faccia prendere decisioni sbagliate.

«Esatto,» conferma lui. Dal tono è sicura che abbia sorriso.

«John è ancora vivo?» sorride di rimando lei.

«Sì, direi che sia sopravvissuto. Incredulo, ma sopravvissuto.»

«Cosa faccio, Myc? Lei è lì e loro non lo sanno.» Ha visto con quanta velocità si stava arrampicando. Purtroppo troppo velocemente per aver tempo per pensare.

«Prendi le scale di servizio.»

La porta delle scale di servizio è accanto agli ascensori.

«Mi spiace, ma ti tocca fartela a piedi,» si scusa Myc. «È più sicuro. Non puoi farti vedere.»

«Nessun problema.»

«Tieni il pass sotto mano. Lo devi usare anche per passare l’ultimo livello delle scale di servizio.»

«Le telecamere?»

«Già sistemate. Ci vorrà un po’ di più per quelle nell’ufficio, ma ci stiamo lavorando.»

«No problem.»

Sale in fretta le scale. Ormai dovrebbero essere già nell’ufficio. Prega, non sa bene neanche lei chi, del fatto che si stiano preoccupando per nulla.

Arriva fino alla porta per l’ultimo piano. Sta per far strisciare il pass quando si accorge che la porta è manomessa.

«Qualcuno l’ha preparata per la fuga di Moran. Non credo che sia riuscita a entrare in questo ufficio in giornata per poi scalare gli ultimi piani questa notte per divertimento,» dice piano, informando Mycroft della situazione.

«Una talpa, dici? Sì, può essere, ha tutto più senso,» annuisce lui- «Questo vuol dire che devi stare ancora più attenta. Quella è la sua via di fuga e non deve assolutamente trovarti.»

«Troverò il modo di non farmi vedere.»

«Stai attenta. La porta sbuca proprio nell’ufficio privato di Magnussen, e lui dovrebbe essere ancora là dentro.»

«Li sento parlare.»

«Chi?»

«Magnussen, Moran e... Sherlock.» Non fa in tempo a finire la frase che uno sparo la gela sul posto.

 


Continua...


Note: Perchè lo so che non mi volete uccidere ora, mi volete bene, sotto sotto. Magari ora sotto qualche metro di terra, ma dettagli XD
A parte gli scherzi (spero) ci voleva un po' di tensione, no? Mica poteva andare tutto tranquillo e senza pensieri. Sto seguendo le orme di quei due del resto, non ho tantissima libertà, lo sapete anche voi.
Coraggio, settimana prossima torniamo al caro e vecchio angst, contente? No? Ops.
Grazie davvero per tutto l'affetto che mi dimostrate, me tanto felice!

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Capitolo 11
*** 2014 Londra, Estate, Notte ***


Per prima cosa, scusate il ritardo ma questa settimana è volata e non mi ero resa conto di che giorno fosse fino a ieri e quando me ne sono resa conto non potevo aggiornare.
Non dovete temere che questa storia rimanga incompiuta, perchè è conclusa da tempo e, anche se sto facendo impazzire ancora la mia beta, anima santa, i capitoli ci sono tutti. Se non pubblico è perché sono solo rimbambita, non per altro.

Seconda cosa, questa giornata sta per finire. Ora, non dico che da adesso sarà una passeggiata, ma almeno questo bel pezzo di angst l'abbiamo fatto.

Adesso vi lascio in pace e vi faccio leggere giuro!





Dalla tua parte




2014
Londra
Estate
Notte


 
«Che cosa è successo?» domanda Mycroft, che evidentemente deve averlo sentito a sua volta.

«Myc, stai calmo. Vedi quello che vedo io, ricordi? Comunque chiama un’ambulanza, non si sa mai.»

Sente il cuore in gola. Non può essere finita così. Dopo tutta quella fatica, non può aver perso John o Sherlock nel giro di un secondo. Non è possibile.

«L’ho già fatto.»

Si affaccia, ringraziando le ombre che la proteggono. Vede Sherlock a terra, Magnussen accasciato sul pavimento poco distante.

E lei.

Moran, con la pistola ancora fumante in mano. La vede mentre sta per raggiungere le scale; ma le grida di John, quello «Sherlock!» terrorizzato, la fermano. Rischia di farsi beccare proprio da lui. Quindi si nasconde proprio dietro la porta, mentre John le passa accanto non notandola, completamente assorbito dall’immagine di Sherlock a terra. Appena lui la supera, lei sgattaiola dalla porta e sparisce.

«Sherlock!» John nota il foro del proiettile e chiama un’ambulanza. Mentre aspetta che qualcuno risponda, continua a parlare col suo più caro amico: «Cristo, Sherlock, non farmi scherzi o giuro che vengo all’inferno solo per tormentare la tua anima in eterno.»

Lei vorrebbe fare qualcosa, ma purtroppo anche se uscisse e facesse saltare la copertura, non potrebbe fare nulla per Sherlock.

«Sono il dottor Watson,» esclama subito, non appena qualcuno risponde dall’altro capo. «Dovete mandare un’ambulanza immediatamente. Un colpo di pistola al petto, e...» Si volta vedendo finalmente Magnussen a terra. «Ci sono altri due corpi a terra, colpiti con un corpo contundente alla testa. Sono svenuti, ma non hanno altri traumi evidenti.» Tampona la ferita con la giacca, cercando di fermare la fuoriuscita di sangue.

Lei non ha bisogno di dire nulla a Myc. Sa che sta guardando tutto, ed è anche per questo che continua a tenere lo sguardo fisso su Sherlock.

Appena John finisce la chiamata con i soccorsi, fa un’altra chiamata. «Greg? Devi venire subito. Hanno sparato a Sherlock. Siamo nell’ufficio di Magnussen. Dimmi che te ne occuperai tu... Per favore Greg, non sopporto che altri lo vedano... Io... Ti prego, Greg...» La voce si incrina e si rompe. È distrutto. Cerca di comportasi come farebbe per qualsiasi persona in quelle condizioni, ma c’è Sherlock a terra. Quello è il suo sangue. L’ultima volta che ha visto una scena simile, lo ha perso per due anni, credendolo morto. «Sherlock, questo scherzo me l’hai già fatto, è non è stato divertente. Non ti perdonerò una seconda volta, chiaro?»

Lo vede armeggiare ancora con il telefono. Sente dall’auricolare quello di Myc suonare.

«Mycroft. Sherlock è a terra, gli hanno sparato. Ho chiamato l’ambulanza. È ancora vivo e sto facendo di tutto per mantenerlo con noi. Ma se non si sbrigano...»

«Dottore, il proiettile è nel corpo?» chiede Mycroft, cercando di ostentare una calma che non ha. Grazie all’auricolare collegato con lui, riesce a sentire per intero la conversazione.

«Non posso vederlo. È schiena a terra e non posso muoverlo, o rischio di peggiorare...»

Myc lo interrompe: «Dottore, usi un po’ del cervello che sono certo abbia. Ci deve essere un modo per sapere con una buona probabilità se c’è un foro d’uscita senza muovere mio fratello.»

«Gli hanno sparato da non più di due metri, forse anche meno. Il proiettile lo ha colpito in petto, ma dalla fuoriuscita di sangue sembra non abbia intaccato l’aorta,  né i vasi principali. Questo non toglie il fatto che sia in pericolo di vita, ma almeno c’è una speranza. Il sangue non esce con violenza, quindi non ha colpito nessuna arteria... Aspetta, il sangue!»

«Che cosa ha il sangue?»

«È parecchio, questo sì, ma non ne vedo sotto il corpo, non quanto ci si aspetterebbe se ci fosse un foro d’uscita. In più, c’è uno specchio proprio dietro a dove è stato colpito ed è integro. Credo che il proiettile sia ancora dentro, Mycroft.»

«Oh bene, grazie, dottore.»

Si sente del rumore provenire dagli ascensori. Le sirene squarciano il silenzio della notte.

«Lei è il dottor Watson? Ha chiamato lei?» chiede il paramedico, entrando di corsa nella stanza.

«Sì, lui è il più grave. Occupatevi di lui per primo,» dice, indicando Sherlock.

«John,» arriva a sua volta Greg, fissando la scena con sguardo stralunato.

«Greg, lui... Devo andare con lui. Devo

«Vai. Ci penso io, qui, stai tranquillo. Ti raggiungo in ospedale appena posso. Voi lasciatelo passare.»

«Ma... Capo? Dobbiamo interrogarlo, non possiamo...»

«Siete seri? Sono l’ispettore capo! Volete discutere i miei ordini, agenti? Lo interrogherò personalmente in ospedale, dove volete che scappi?»

Lei non crede di aver mai voluto tanto bene a Lestrade. Rimane nascosta senza fare un solo fiato. Si allontana giusto per poter parlare con Holmes. «Myc, collegami con Anthea e vai in ospedale.»

«Ma la missione...» cerca di obiettare lui, ma lei lo interrompe.

«Myc, tuo fratello è più importante. Non ti fidi di noi?»

«Io...»

«VAI!»

«Va bene, ragazzina, va bene.»

«Pensiamo noi a tutto. Giusto, Anthea?»

«Puoi giurarci.»

La linea di Mycroft si interrompe, così le due donne rimangono sole a decidere un piano.

«Credi che passeranno di qui?» domanda come prima cosa.

«No, credo che solo Magnussen sappia di queste scale. La porta è mimetizzata. Non si nota se non sai dove cercare, e lui non mi sembra abbia intenzione di parlarne. Meglio che rimani lì. Ti avviserò io quando puoi uscire.»

«Sei riuscita a entrare nelle linee delle telecamere dell’ufficio?»

«Sì. Non riesco ancora ad averne il controllo, ma ci sto lavorando.»

«Com’è possibile che nessuno si sia accorto di quello che stava accadendo qui?»

«Non ne ho idea. È molto strano, perché una delle due telecamere è proprio puntata nell’ufficio privato.»

«Ed è ancora in funzione?»

«Lo è, a meno che...»

«A meno che, cosa

«Se non sbaglio, hai trovato la porta delle scale con la serratura manomessa per non chiudersi.»

«Dev’esserci un uomo all’interno che lavora per lei,» deduce velocemente.

«Dev’essere uno di quelli ai monitor, o entrambi, non c’è altra spiegazione. In questo modo, ha preparato la sua fuga e nascosto il suo arrivo.»

«Eppure, sono certa di non aver riconosciuto nessuno. Non facevano parte dell’organizzazione quando c’ero io.»

«Oppure erano solo della bassa manovalanza e non ci hai avuto a che fare. Ed è una fortuna, almeno non possono averti riconosciuto.»

«Il fatto che abbiano visto la mia faccia non mi fa stare tranquilla comunque. E se passano la registrazione della mia entrata a lei? Se per qualche motivo la chiede e mi vede? Potrebbe saltare tutto.»

«Calma, stai tranquilla, ci occupiamo di tutto noi. Nessun dato è partito dai computer del centro. Abbiamo bloccato la linea in modo che non ci fossero sorprese e interferenze con noi. Faccio un controllo con le immagini prese dai tuoi occhiali e foto segnaletiche, magari li becchiamo.»

«E secondo te che dovrei fare, adesso?»

«Stare ferma e buona e aspettare.»

«Stai parlando con me... Lo sai che odio stare ferma ad aspettare!»

«Devi farlo intanto che sistemo la cosa delle telecamere. Appena lasciano il campo, ti occupi dei computer. Non so quanto possa servire adesso, ma meglio sempre avere la possibilità di conoscere le sue mosse e quello che ha in mano, piuttosto che no.»

«Perché il capo non voleva che Sherlock si occupasse di Magnussen?»

«Perché ha troppe informazioni, e per questo è forse addirittura più pericoloso di Moriarty.»

«La conoscenza è il vero potere,» ripete la frase che le aveva detto poco prima in macchina; frase che non è la prima volta che sente. «Jim lo diceva sempre... riflette. «Diceva che era per questo che voleva Magnussen dalla sua parte. Era un pozzo infinito di risorse.»

«Moriarty ti ha permesso di conoscere molti dei suoi piani. Più di quanto facesse con Morstan; eppure lei era il suo braccio destro. Ti sei mai chiesta perché?»

«Dovevo stargli simpatica.»

«E a te? Lui stava simpatico?»

«Ha tentato più volte di uccidere John e Sherlock; come avrei potuto considerarlo simpatico?»

«Quindi è un sì. Lo immaginavo.»

Prova a ribattere perché sente che è sbagliato aver trovato simpatico Moriarty, ma non trova le parole giuste. Ha sempre tenuto nascosta questa cosa, anche a sé stessa. Sentirlo dire così tranquillamente da Anthea la rende stranamente nervosa. La fa sentire colpevole.

«Oh, tranquilla, non ti giudico minimamente,» la rassicura Anthea. «Prima di lavorare con Holmes, lavoravo per uno che trafficava esseri umani. Non hai idea di quello che era in grado di fare, di quanto potesse essere malvagio, di quanto ci provasse gusto. Eppure ho passato ore a parlare con lui di letteratura e arte. Aveva una conoscenza così ampia... Potevi stare ad ascoltarlo per notti intere senza trovarlo noioso. Era anche un ottimo avversario a scacchi.»

«Tu giochi a scacchi?»

«Lo facevo, ora non riesco più a farlo senza pensare a quell’uomo. Siamo esseri umani, e lo sono anche loro. Per quanto siano sanguinari e malvagi, rimangono esseri umani, e anche loro sotto tutti quei gran difetti, hanno dei pregi. Noi che lavoriamo a stretto contatto con loro siamo forse gli unici a conoscerli. Gli unici a vedere il loro lato umano. È normale affezionarsi un po’ a loro. È come se fossero i nostri mostri interiori divenuti umani.» Anthea sospira. «Adesso fammi lavorare. Appena ho il controllo della rete di telecamere, forse capirò come ha fatto Moran ad aggirarle.»

«Sempre che non abbia avuto complici.»

«Lo scopriremo,» le assicura. «Ricordati quello che ti ho detto prima: la tua sicurezza per Holmes è importante tanto quanto quella del fratello. Se qualcuno sta collaborando con lei, lo sapremo e faremo in modo che non ti dia più problemi.»

«Messa in questo modo, sembra una cosa così definitiva...»

«Se esiste un complice ed è un pericolo per te o per l’operazione, la cosa è definitiva.»

Dopo quell’osservazione cade un silenzio intervallato solo dal ticchettio dei tasti del computer portatile di Anthea. A lei non rimane altro da fare che rimanere immobile vicino alla porta che divide le scale di servizio del piano di Magnussen con le altre, pronta a scattare a ogni minimo rumore.

Se fossero voluti passare di là per controllare? O se il complice di Moran avesse deciso di salire per nascondere la manomissione? È pronta a ogni possibilità nefasta, ma nessuna di quelle si dimostra fondata.

Deve rimanere per ore immobile e in silenzio, ma alla fine anche quel supplizio ha fine.

«Se ne sono andati. Le telecamere sono in mano mia. Puoi uscire,» le dice finalmente Anthea.

Si avvicina al computer di Magnussen come prima cosa, visto che è tanto vicino. Poi si occupa di quello di Janine e fa esattamente quello per cui è andata lì. Non possono sapere quanto la cosa abbia senso ora, ma perdere un’occasione simile sarebbe davvero da stupidi.

Alla fine, esce come se nulla fosse dalla porta principale, notando l’assenza delle guardie.

Non fa domande ad Anthea, perché sa che è stata lei a farli sparire. L’ha sentita mentre dava l’ordine.

Sapeva che erano in mano del governo, ma non voleva sapere altro. La conoscenza sarà anche potere, ma in quel momento non voleva avere altri pesi sulla coscienza.

Aveva imparato da tempo che a volte è meglio non sapere.
 

Anthea l’accompagna fino a casa mentre continua a lavorare al computer e sullo smartphone contemporaneamente. Si salutano brevemente e lei scende, osservando la macchina scomparire nella notte.

Entra in casa stancamente. Il gatto era ancora lì, intento a bere dalla sua ciotola piena dell’acqua fresca che gli aveva lasciato prima di uscire. Lo accarezza e riceve in cambio delle belle fusa.

Si toglie gli occhiali e gli auricolari e li rimette nelle confezioni originali. Si siede sul letto e il gatto inizia subito a strusciarsi sulle sue gambe. «Sono preoccupata,» ammette. «Vorrei andare da lui – da loro – ma l’ospedale non è il posto appropriato per me, adesso. Sono tutti lì. Non posso farmi vedere. Eppure, qui a casa mi sento così inutile.»

«Meow.»

Beh, almeno le rispondeva. Lo vide allontanarsi da lei e avvicinarsi alla finestra.

«Vai a caccia? Oppure vai a trovare i tuoi amici?» Oramai non le pareva nemmeno più strano parlare con un gatto.

«Meow.»

«I tuoi amici? Beh, è giusto. Quindi credo che lo farò anche io. In ospedale non posso andare, ma c’è un posto dove posso. Credo che io e te ci vediamo domani. Ti lascio aperto. Quando vuoi, sai come rientrare.»

E così, dopo essersi rinfrescata ed essersi cambiata, è già in strada.

Conosce perfettamente la strada. Può farla a occhi chiusi e finirebbe per arrivare senza problemi. Ormai ha passato più tempo in quella villa di quanto ha mai fatto in una casa vera; da quando ha lasciato la sua vecchia vita prima di entrare nei servizi segreti, prima ancora che sapesse in che cosa si stava imbarcando.
 

È seduta sulla poltrona al buio. Ormai è notte inoltrata, ma non ha intenzione di muoversi finché non avrà notizie.

Sono le tre passate quando sente la porta d’ingresso aprirsi e i passi stanchi avvicinarsi.

«Vuoi da bere o sei troppo stanco?»

«RAGAZZINA! ALLORA È VERO CHE VUOI VENIRE AL MIO FUNERALE!» urla il maggiore degli Holmes mentre si porta una mano al cuore, senza tuttavia riuscire a trattenere un sorriso esausto.
Lei sorride di rimando. «Come siamo teatrali, Myc. Credevo che la parte da Prima Donna toccasse a tuo fratello.» gli allunga un bicchiere pieno di liquido ambrato. «Come sta?»

Mycroft sospira e prende il bicchiere. Fa per accomodarsi sulla poltrona di fronte a quella dove lei era seduta prima, ma lo ferma.

«Togliti la giacca, almeno. Sarai distrutto.»

Lui sorride stancamente. Appoggia il bicchiere sul tavolino di cristallo e si sfila la giacca. Lei la prende e la appoggia su una sedia. Aspetta che si decida a togliersi anche la cravatta. lui probabilmente comprende ciò che lei sta aspettando e se la allenta prima di snodarla completamente e toglierla. Lei la prende dalle sue mani appoggiandola sopra la giacca.

Si siedono uno di fronte all’altra. Holmes si slaccia il primo bottone della camicia facendo un bel respiro. Poi riprende il bicchiere e se lo porta alle labbra.

In tutto questo lei attende.

«Mio fratello è vivo. Non so come diamine siano riusciti a mantenerlo con noi, ma è vivo.» Rimette il bicchiere sul tavolino e poggia la fronte sulle mani come a fermare il dolore e la paura.

Lei torna a respirare. Lo vede davvero stanco, preoccupato e spaventato come non l’ha mai visto; così fragile e umano. Così fa una cosa che non credeva di saper più fare. Si alza dalla poltrona, si avvicina a lui e lo abbraccia.

Lo sente irrigidirsi, all’inizio, poi però si aggrappa a lei.

«Shhh, Myc, tranquillo, va tutto bene.»

«Non va tutto bene.»

«No, ma le cose stanno così.[1]»
 

 
Continua...


Note: Ancora scusatemi per l'attesa in settimana per farmi perdonare pubblicherò anche la ff nata per il compleanno di Martin, e poi venerdì arriva il prossimo quindi non avrete tempo di sentire la mia mancanza, sempre se questo possa essere possibile.
Intanto davvero grazie per tutte le recensioni, e per apprezzare questa storia. Alla prossima settimana!
[1] Ho voluto usare le stesse battute che si scambiano Sherlock e John nella 4X02 perché le amo e mi sembravano adatte alla situazione. Per questo le ho lasciate in corsivo anche se chi le pronuncia non sono gli stessi personaggi.

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Capitolo 12
*** Pall Mall, Estate, Notte ***


Questa volta sono stata attenta! Quindi ecco il nuovo capitolo. Mycroft e la nostra protagonista sanno che oramai Moran non ha nulla da perdere, si è giocata la copertura con Sherlock che anche se è in ospedale deve avere più vite di un gatto, Mary sa che lui è vivo (nonostante tutto) e che quindi può strapparle la maschera, John come al solito non sa praticamente nulla, che diamine succederà ora? Mi rendo conto che vi ho lasciato tanti quesiti aperte, e di certo non tutti si chiuderanno oggi, ma via via sì, davvero, ve lo prometto XD
E ora vi lascio leggere in pace.





Dalla tua parte




Pall Mall
Estate
Notte
 


I minuti passano in silenzio.

Lei, tornata a sedere sulla poltrona, rimane tranquilla ad attendere, permettendo a Mycroft di riprendere il controllo di sé. Sa quanto sia importante per lui ritrovare la calma, la forza e la razionalità necessarie per raccontarle cos’è accaduto in ospedale e decidere i futuri movimenti.

Il cielo inizia a schiarirsi quando prende la parola. La luce del giorno è ancora lontana, ma adesso c’è quell’istante perfetto in cui il nero della notte diventa meno nero, anche se il buio la fa ancora da padrone. «È stato con lui tutto il tempo,» spiega Myc.

Lei sa che il soggetto non menzionato è John, e sorride. Non ha alcun dubbio che nessuno sarebbe riuscito a farlo allontanare dall’ospedale, almeno finché Sherlock non fosse stato completamente fuori pericolo, e probabilmente non ci sarebbero riusciti nemmeno allora.

«Praticamente mi ha cacciato quando abbiamo saputo che l’operazione era andata bene. Quando è uscito dalla sala operatoria mi ha detto di andare a casa a riposare perché facevo impressione,» sbuffa l’uomo, ancora irritato dall’uscita di Watson.

«Così tipicamente da John,» sospira lei, con un sorriso nella voce. Quindi domanda: «È entrato in sala?»

«Il chirurgo aveva provato a negarglielo, ma sai... Il dottore quando vuole fa paura.»

«Quando vuole, esce il capitano dell’esercito che è in lui.»

«Sì, ma stavolta... Non lo so, mi sembrava diverso. Era come se...» Mycroft si ferma, cercando le parole.

«Era spaventato a morte, Myc. Voleva essere lì perché irrazionalmente era convinto che standogli accanto non sarebbe morto, come se avesse potuto cambiare le carte in tavola,» gli spiega lei, che ormai sa bene come funziona il cervello del dottore. «Me lo vedo, sai? John, incazzato come una biscia, andare dal Padre Eterno in persona urlando che ci deve essere stato uno sbaglio.»

«Mi ha cacciato dall’ospedale! A me! Capisci?» Sembra così profondamente sconcertato che l’indignazione dell’uomo è quasi divertente.

«Beh, non aveva tutti i torti,» concede lei. «Sei uno straccio, Myc, e visto che tuo fratello è fuori pericolo, conoscendolo ci si metterà di nuovo quanto prima. Devi essere pronto per salvarlo, come fai sempre.»

«Già.» Mycroft tira fuori un mezzo sorriso stanco, che viene cancellato subito appena un ricordo gli sfiora la mente. Lo sguardo diventa di ghiaccio e lei immagina chi sia la causa di questo cambiamento. «Era lì. Quella donna è stata lì fino a quando John non le ha detto di andare a casa a riposare.»

«Sempre intenta a recitare la parte della moglie devota e amica preoccupata, immagino.»

«Solo che mentre noi pregavamo che mio fratello si svegliasse, lei...»

«Lei sperava che morisse.»

«Ho lasciato degli uomini all’ospedale. Non posso impedire a quella donna di entrare nella stanza di Sherlock senza metterla in allarme, ma non le permetterò di avvicinarsi ancora una volta a mio fratello senza qualcuno che lo protegga.»

«E ora? Credi che Sherlock dirà la verità a John?»

«Non so cosa sperare.»

«Può sembrarti strano, ma non lo so neanche io.»

«Beh, la verità lo allontanerà da lei. Non è quello che hai sempre voluto?»

«Certo. Ma credi che Sherlock permetterà a John di perdersi tutte le esperienze che un padre dovrebbe vivere? Se Sherlock gli dicesse tutto e John la allontana, perderà il figlio. Quella maledetta donna sparirà nel nulla, lo sai tu, lo sa Sherlock e lo so io. Non può certo rimanere sapendo di essere stata scoperta. Sherlock avrà capito che le motivazioni che l’hanno portata a un gesto simile devono essere forti, abbastanza forti per sparire più veloce della luce,» spiega lei rassegnata.

«Quindi pensi che nasconderà la verità un’altra volta?»

«Tu che ti preoccupi che John Watson sappia la verità?» lo deride.

«Sai dove colpire quando ti ci metti, eh?»

Lei fa spallucce. «Credo solo che Sherlock troverà il modo di far sapere la verità a John, o almeno una parte di essa. Mascherandola, magari, in modo da non dare la possibilità a lei di andarsene, facendole pensare di essere ancora salva.»

«Pensi che mio fratello faccia miracoli?» chiede divertito.

«No, non lo penso io. Lo crede John. Ne è assolutamente certo. E come lui crede in Sherlock, io credo in John.»

«Crede in Sherlock nonostante gli errori che ha fatto?» domanda scettico.

«Immagino che gli creda soprattutto per gli errori che ha fatto. Non ci si può fidare di chi non ha mai sbagliato, perché a non sbagliare sono solo quelli che non fanno nulla.»

«Sei convinta che creda in lui nonostante i suoi sbagli, ma anche che non possa perdonare te?»

«Io non sono Sherlock, Myc.»

«Sì, e grazie al cielo, oserei dire! Due non credo potrei sopportarne.» Un sorriso nasce sul volto stanco. «Quindi adesso che dobbiamo fare?»

«Lo stai davvero chiedendo a me? Sei tu Mr. Governo Inglese, non io,» risponde sconcertata.

Mycroft Holmes che chiede cosa fare può solo significare che l’apocalisse è vicina.

«Diciamo che sono un po’ fuori fase ora, per sperare che io prenda una qualche decisione.»

«Allora c’è solo una cosa che si può fare.»

«Cosa?»

«Andare a letto,» dice sorridendo.

«Ragazzina, per chi mi hai preso? Non mi dai neanche un appuntamento prima?» Lo sguardo di Holmes è fintamente offeso mentre sta al gioco.

Lei ne è rincuorata, perché questo vuol dire che la paura presa sta pian piano passando. «Come se ci conoscessimo appena! E poi tu cosa credi? Che prima di avere il mio anello al dito ti permetterò certe libertà?» domanda, subito prima di lasciarsi andare a una risata a cui si accoda anche l’uomo. Il rumore sembra quasi perdersi, nella grande villa.

«Non riesco davvero a ribattere,» ammette Myc. «Questo vuole dire che hai ragione: devo riposare.»

«Il fatto che tu mi stia dando ragione, mi fa capire che la cosa è più grave di quanto pensassi. Coraggio, io sto qui. Se ci sono notizie, ti chiamo immediatamente, promesso.»

«Non sei stanca?» chiede lui, con tono esausto.

«Ho fatto un bel sonnellino questo pomeriggio, ricordi?»

«Era solo questo pomeriggio? Mi sembra passata una vita.»

«Non fare il melodrammatico, Myc. Fila a letto, ora. Non farmi ripetere la cosa.»

«Vado vado, aguzzina,» borbotta lui, alzandosi stancamente e dirigendosi a spalle basse verso la sua camera.

 
Passano diverse ore prima che lei bussi alla porta della stanza di Myc. Le dispiace svegliarlo, ma quello che è appena successo è abbastanza importante.

«Entra,» sente borbottare dall’interno.

Lei esegue e si ritrova per la prima volta nella stanza dell’uomo. Grande, elegante ma minimale, il bianco e il nero la fanno da padroni; solo l’oro di alcune cornici spezza il loro dominio e riscalda i colori di una stanza altrimenti gelida.  È tutto perfettamente in ordine.

Lui si sta infilando la giacca scura di un elegantissimo tre pezzi.

«Eri sveglio da un po’, deduco.»

«Pochi minuti, giusto il tempo di cambiarmi. Avevo davvero bisogno di dormire.»

«Sì, decisamente.»

«Come mai sei salita? È accaduto qualcosa?» La preoccupazione nella voce non riesce a mascherarla, o forse non vuole farlo.

«Sì, ma non riguarda Sherlock. Non direttamente, per lo meno. Non ora.»

«Sono riposato, ma se vuoi che ti capisca ho bisogno di non dover interpretare messaggi segreti ancora per qualche minuto.»

«Mi ha chiamata. Mi ha chiesto se sono sempre disponibile ad aiutarla.» Non ha bisogno di aggiungere chi è il soggetto in questione. Il suo capo lo sa perfettamente.

«Cosa le hai risposto?»

«Che prima avevo bisogno di sistemare dei dettagli, ma che se le servivo urgentemente, cercavo di liberarmi.»

«Ti ha chiesto di vederla?»

«Credo abbia paura che Sherlock recuperi troppo in fretta. Finché lui è in ospedale, John è troppo occupato per accorgersi della sua assenza, poi potrebbe fare troppe domande. Quindi mi ha detto che si farà sentire quanto prima. Ma non ha parlato di un vero incontro.»

«Hai accettato?»

«Le ho detto che ovviamente ero sempre dalla sua parte, ma che comunque mi doveva dare il tempo di occuparmi degli affari che sto facendo ora. Le ho fatto capire che stavo lavorando e che i miei nuovi capi mi avevano dato una missione. Almeno ho guadagnato un po’ di tempo.»

«Bene. Si sente in pericolo ora che Sherlock ha visto chi è, o almeno una parte di quello che è.»

«Già... Ma non so se sia un bene o meno, in realtà.»

«Magari sì, magari no. La cosa certa è che appena sarà possibile la “signora” verrà defenestrata in maniera definitiva.» Gli occhi di Mycroft diventano talmente gelidi che sembrano trasformarsi in ghiaccio puro.

Persino lei deve ammettere che per un istante ne ha paura. «Non sai da quanto aspettavo di sentirtelo dire. Dimmi che posso occuparmene personalmente,» replica allora.

«Solo se non potrò farlo io.»

Tutto quello non è etico, e nemmeno giusto. Hanno appena condannato a morte una persona senza possibilità di un processo, ergendosi a giudice, giuria, e persino a giustiziere. Ne sono entrambi assolutamente coscienti, ma non importa a nessuno dei due. Del resto, né lei né Mycroft si sarebbero mai definiti come “brave persone”.

 
La giornata scorre veloce. Mentre lei rimane a casa di Holmes, lui passa all’ospedale tutto il tempo possibile e nota come il dottore è sempre presente. È già lì quando arriva e rimane quando va via. Non ha avuto il coraggio di chiedergli se è tornato a casa perché, anche se indossa abiti diversi, si vede lontano un miglio che casa non l’ha nemmeno vista da lontano.

Ha incrociato anche Mary, che sembra sempre così calma, ed è stato informato del suo travestimento per entrare nella stanza del fratello. Sa di Magnussen e della sua visita a Sherlock. I suoi uomini hanno registrato tutto. Osserverà i video con calma una volta tornato a casa.

Mentre Holmes è stato fuori per tutta la giornata, lei è rimasta a casa, a organizzare ogni cosa, a tenerlo informato di tutto ciò di cui come “governo ombra” di solito si occupa, ma che in quella giornata non riesce a fare.

È strano per lui lasciare qualcuno a casa sua. Non è abituato a qualcuno che si senta così a suo agio con lui.

Di solito le persone lo temono; al massimo lo rispettano come Anthea. Il resto dei suoi rapporti umani è semplicemente quello con la sua famiglia.

Il rapporto con Sherlock è stato sempre per molti versi complicato: troppi anni di differenza, forse, o semplicemente la sua incapacità a costruire rapporti affettivi con chicchessia, ha scalfito inesorabilmente il loro rapporto di fratelli.

Nemmeno quello con i genitori è mai stato particolarmente caloroso. Gli vuole bene e si sente in debito con loro per il modo in cui l’hanno cresciuto. Non può certo dire di aver avuto un’infanzia triste. Ci sono stati momenti felici come le giornate sulla spiaggia con Sherlock che giocava a fare il pirata e lo voleva per forza coinvolgere. Ma di certo non erano stati una famiglia unita e calorosa.
Le volte che era caduto, la madre lo aveva disinfettato e curato, fino a quando non era stato abbastanza grande da farlo da solo. Se era malato gli davano le medicine, ma non aveva mai visto la madre o il padre perdere una notte di sonno per stargli accanto. Li avevano mandati entrambi nelle migliori scuole del paese, ma non avevano mai fatto un progetto scolastico o una ricerca con loro. Se da ragazzo non comprendeva qualcosa, gli davano tutti i mezzi per capire e conoscere, ma non passavano il loro tempo a spiegargli nulla aspettandosi che ci arrivasse da solo.

Visti dal di fuori, erano la famiglia ideale. Ottimo stato sociale, genitori efficienti al limite dell’esagerazione, figli intelligentissimi. Ma era sempre mancato qualcosa, sotto la patina esterna di attraente perfezione, solo... Non aveva mai capito cosa. Non fino a quel momento.

Il momento in cui quella ragazza, della media borghesia, con un titolo di studio fermo al diploma di un normalissimo liceo pubblico, che aveva imparato a uccidere prima di avere coscienza di ciò che le stavano chiedendo, che aveva sbagliato più di una volta trovando la forza di rialzarsi da sola – una ragazza a cui non importava se lui era il governo inglese in persona, il suo capo, uno degli uomini più potenti del regno – era in casa sua e la sentiva ridacchiare con il suo maggiordomo; ora... Ora forse ha capito cosa mancava.

Chi l’avrebbe mai detto che il segreto per una casa felice era parecchio disordine e un po’ di rumore?

«Cosa state complottando voi due?» interviene Mycroft, entrando in casa e scoprendoli a parlottare animatamente.

«Noi? Come mai credi che stiamo complottando qualcosa?» risponde lei, con un sorriso divertito dipinto sulle labbra.

«Perché ne sono assolutamente certo!» afferma sicuro lui.

«Forse, ma non c’è nulla di cui tu ti debba preoccupare.»

«La cosa non mi rassicura per nulla.»

«Non hai la minima fiducia in noi!»

«Oh, no, ragazzina. Mi fido ciecamente di Oscar[1], è con me da sempre. È di te che non mi fido per nulla.»

«Potrei anche offendermi, se non sapessi perfettamente che stai mentendo.»

«Touchè.»

«Come sta Sherlock?» chiede lei, cambiando discorso.

«Bene, se possiamo dire così. Oggi lo hanno anche fatto svegliare. Ha avuto un po’ di visite,» spiega, mostrandole la chiavetta con i filmati di sicurezza.

«Janine si è divertita,» gli rivela lei sventolandogli davanti il Daily.

«Immagino che non sia solo in questo l’articolo.»

«Beh, ti ho evitato il SUN o altri, tanto il riassunto della faccenda è sempre quello, solo un po’ più colorito di quanto sia in realtà. Cioè: molto più colorito di quanto scritto qui, che già non è propriamente la realtà.»

«C’era da immaginarselo. Mio fratello ha giocato troppo sporco.»

«Noi donne ricordiamo i torti subiti sin dalla nascita, pronte a rinfacciarli alla prima occasione disponibile. Forse è un bene che si sia già vendicata. Se ci avesse rimuginato su troppo, rischiava di essere molto peggio,» rivela lei con un sorriso.

"Far arrabbiare una donna... Che pessima idea, Sherlock."

«Immagino tu abbia ragione. Non si è ancora fatta sentire?» chiede lui, riferendosi evidentemente a Mary.

«Credo stia cercando di capire quanto sia in vero pericolo. Mi ha contattata per sicurezza. Ho la sensazione che voglia evitare di chiedere aiuto se non è più che necessario.»

«Sì, non mi sembra molto portata al lavoro di squadra.»

«Anthea non mi ha detto nulla degli uomini che ha preso ieri. Se davvero lavorano per Moran, credo fossero comunque all’oscuro delle sue reali intenzioni.»

«Credi che pensassero al massimo a un furto di dati e informazioni e non a un omicidio?»

«Conosco i killer e ti assicuro che quei due erano davvero troppo ottusi per essere dei professionisti. O sono degli ottimi attori, o non sapevano davvero in cosa si stessero cacciando. E, seriamente, Myc... Li hai visti! Ti sembrano realmente degli attori?»

«Non lo so, di certo le spie migliori sono quelle assolutamente anonime, che passano inosservate; ma quei due non mi sembrano neanche anonimi. Mi sembrano solo poco svegli.»

«Sì, è quello che penso anche io. Quindi non dico di liberarli come se nulla fosse, ma potresti non farli interrogare da Anthea?»

«Dici che potrebbe andarci troppo pesante?» chiede sorridendole.

«Diciamo che vorrei evitare di creare a quei tizi un trauma psicologico permanente. Se sono semplicemente degli idioti, non possiamo fargliene una colpa.»

«Sei troppo buona. Io neanche mi ricordavo di loro,» ammette.

«Io non ho un fratello che è in ospedale dopo che gli hanno sparato a pochi centimetri dal cuore, Myc.»

Holmes vorrebbe replicare, ma il cellulare suona in quel momento. «Sì?» risponde calmo, salvo poi perderla immediatamente dopo. «CHE VUOL DIRE CHE SHERLOCK HA LASCIATO L’OSPEDALE?»

Lei si alza di scatto, pronta a correre a un cenno di Mycroft. «Io te l’avevo detto che dovevi riposare il più possibile, ieri,» borbotta, mentre accende lo schermo del cellulare per contattare Wiggins e gli altri che controllano la situazione.

 
Successivamente fanno una breve lista – non poi così breve, in realtà – di tutti i nascondigli del più giovane degli Holmes, e capiscono quanto sia grande Londra.

«Sai, Myc, io credo che sia tutto più semplice di quello che sembra,» rivela a un certo punto, rendendosi conto che devono cambiare metodo se vogliono arrivare a Sherlock.

«Ah, sì? E come lo vorresti trovare?» chiede Mycroft, il viso tirato e l’espressione preoccupata.

«Seguendo Mary. Pensaci! Lui sa chi gli ha sparato, lo sa bene, quindi...»

«Quindi vuole poter mettere le carte in tavola e parlare chiaramente.» Una luce malvagia si accende negli occhi del suo capo. È felice di riuscire ancora a vederla.

«Esatto, seguiamo lei.» Il suono di una notifica la interrompe. Controlla il cellulare e sorride. «Oppure...»

«Oppure?» chiede lui, mentre cerca di scoprire dov’è Mary in quel momento.

«Oppure potremmo andare direttamente a Leistern Gardens tra il numero 23 e 24.»

«E questa certezza da dove esce fuori?» domanda lui, osservandola attentamente con le sopracciglia aggrottate.

«Perché ci è andato John. Wiggins mi ha appena mandato un messaggio,» rivela lei con un sorriso.

«Quindi avevi ragione. Ha deciso di non nascondergli la verità.»

«Sì, sono un genio... Gli applausi li lasciamo a dopo, però,» scherza.

«Modesta...»

«Mi ami così. E ora muoviamoci.»

 
 
Quando si va di fretta la meta sembra sempre dannatamente lontana. La macchina scura corre più di quanto sarebbe stato lecito nelle strade di Londra, eppure entrambi hanno la sensazione di essere quasi fermi.

Quando arrivano, Wiggins è lì ad aspettarli. Sulla facciata del palazzo è proiettata una foto di Mary vestita da sposa.

«Oserei dire che siamo nel posto giusto,» dice lei, sorpresa e divertita insieme; gli occhi fissi sulla foto.

«Mio fratello è una dannata Drama Queen!» esclama Mycroft, battendosi una mano sulla fronte.

«Chissà da chi ha preso...» lo prende in giro lei, guadagnandosi così un’occhiataccia da parte di Mycroft. La cosa, come sempre, non pare importarle. «Sono già tutti presenti?» si rivolge direttamente a Wiggins.

«Sì, è entrata pochi secondi fa. Se volete sapere cosa succede, usate quella porta,» li istruisce, indicando una porta di servizio. «Fa parte del n° 25, ma è collegata anche alla vecchia porta di servizio del 24. C’è una grata di areazione che divide gli ambienti. Non riuscirete a vedere nulla, ma riuscirete a sentire tutto.»

Non aspettano di sentire altro. Raggiungono la porta e scivolano all’interno dell’edificio. Il locale è buio. Riescono a vedere degli scatoloni impolverati e il necessario per la pulizia dell’edificio, oltre ai quattro gradini che portano all’atrio del n° 25. La grata è sopra la loro testa, dove una volta probabilmente c’era la porta che collegava i due vani di servizio.

Wiggins non scherzava. Si sentiva tutto magnificamente.

«È una tecnica piuttosto antica, conosciuta da chi sa riconoscere un codice a colpo d’occhio, chi ha una memoria visiva straordinaria.» È la voce di Sherlock, la prima che sentono. Lei si domanda di che stiano parlando.

«Sei stato molto lento,» risponde Moran con arroganza.

«Quanto sei brava a sparare?» continua a chiedere Sherlock, come a sfidarla.

«Quanto ci tieni a scoprirlo?» Il suono di una pistola caricata.

Mycroft scatta verso la porta, ma lei lo ferma. «Non credo che lo ucciderà in un palazzo che ha la sua faccia proiettata sulla facciata. Insomma, non mi pare sia una mossa molto intelligente,» gli sussurra, per evitare di farsi sentire.

«Se morissi qui, il mio corpo verrebbe trovato nell’edificio con la tua faccia proiettata sulla facciata. Persino Scotland Yard nutrirebbe dei sospetti.»

Lei si domanda se deve cominciare a preoccuparsi per iniziare a pensare come Sherlock.

«Voglio sapere quanto sei brava, coraggio, fammi vedere. La moglie del dottore inizia ad annoiarsi, immagino,» continua il giova Holmes, imperterrito.
"Non sai quanto si sia annoiato il dottore in tutto questo", vorrebbe dire lei.

Un rumore metallico, uno sparo, un tintinnio e la voce di Sherlock. «Allora?»

Grazie a Dio Moran non ha sparato a lui.

«È un fantoccio. Suppongo sia un trucco un po’ scontato.» È la voce di Moran. Il rumore si ripete, simile a un tappo che calde sul selciato, o a una moneta che viene calciata. Vorrebbe tanto sapere che sta succedendo.

«Eppure a due metri di distanza non sei riuscita a sparare un colpo mortale. Sufficiente per ferirmi, ma non per uccidermi. Non è stato un errore. Hai mirato bene. Accetto il caso.»

Dalla loro postazione segreta lei non riesce a fermare uno sbuffo. Era certa che Sherlock avrebbe cercato di trovare una soluzione per permettere a John di perdonarla e non perdere in questo modo il figlio. Ma sperava riuscisse a inventarsi qualcosa di meglio.

A questa cosa, John, un medico, un chirurgo, un cecchino, non potrebbe credere neanche se fosse completamente ubriaco. Ma coglierà la palla al balzo, perché ha capito che Sherlock vuole qualcosa per lui. Ne è certa.

«Quale caso?»

«Il tuo. Perché non sei venuta subito da me?»

«Perché John non deve sapere che gli ho mentito. Gli spezzerebbe il cuore e lo perderei per sempre. E, Sherlock, questo non deve accadere. Ti prego, cerca di capire, non c’è niente in questo mondo che io non farei per impedire che accada.»

«Scusa. Il trucco non era così scontato.»

Dal loro punto di ascolto ipotizza che il dottore sia uscito allo scoperto, ma non ha bisogno di fantasia per immaginare l’espressione di John in questo momento la riesce a vedere molto bene nella sua mente, come se le fosse davanti. E non sa come Mary possa guardarlo negli occhi e non provare anche solo un minimo di rimorso.

«Ora parlate e sistemate tutto, alla svelta,» li incita Sherlock.

Lei e Mycroft si guardano negli occhi. Almeno ora sono sicuri che quella donna non sparirà nel nulla prima che loro possano vendicarsi.




Continua...





Note: Come avete notato c'è una parte dei pensieri di Mycroft, credo che si riesca a "leggerli" bene, la mia beta mi ha fustigato per questi, perchè giustamente ho sempre narrato attraverso gli occhi della protagonista ma dentro di me sentivo che dovevo aprire uno spiraglio su di lui, a un certo punto ho immaginato che potessevo segnalarlo in qualche modo ma alla fine ho optato di no, spero che non abbia disturbato la lettura.
Per il resto direi che non c'è nulla da aggiungere, a parte un maga GRAZIE per voi che seguite la storia.
Alla prossima settimana!
 
[1] Sì Chiara proprio lui XD (per chi non lo sapesse Oscar lo ha "creato" Chiara (ChiaFreeBatch)  mi pare nella sua Check o Check 2 o forse prima chissà, ora ho un dubbio, se non l'avete ancora fatto leggere le sue storie, sono una più bella dell'altra).

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Capitolo 13
*** 2014 Natale ***


Voi dite che mi sono persa un altro venerdì? Ehm...sembrerebbe. Sta volta ho la scusa però che è il compleanno di Izumi quindi le dedico il capitolo, così sembro meno in ritardo XD

Mi chiedete spesso quando le cose si distaccheranno completamente dalla serie...se devo scegliere un momento direi che è questo capitolo. Come ho già detto molte volte io non ho cambiato molto, in realtà ho cambiato una cosa sola (qui) che modifica però l'intera storia. Nel senso che sì, ho inserito un personaggio misterioso (ancora per poco, giuro ancora per poco) e ho fatto diventare Mary Moran, quindi ovviamente sapendo questo tutto si legge in maniera differente, ma la trama fino ad adesso è rimasta pressochè immutata.
Il cambiamento che ho messo ora è del tutto differente, è una modifica nella trama che se in questo capitolo non cambierà nulla vista dal di fuori, mi ha permesso di modificare tutto il resto. Quindi sì, le cose stanno decisamente per cambiare. Per ora però leggetevi questo capitolo XD
Buona lettura.





Dalla tua parte




2014
Natale


 
Convincere Mycroft ad andare con tutti gli altri a passare il Natale dalla sua famiglia non è stata certo la cosa più facile che le sia mai capitato di fare. Quell’uomo sa essere testardo come pochi.

Crede che, a persuaderlo, sia stato solo il fatto che Mary sarebbe stata con loro.

Era  evidente per lei che John, fino a quel momento, non aveva perdonato sua moglie. Non l’aveva allontanata; continuava a vivere con lei, ma i suoi atteggiamenti erano glaciali.
Stava con lei perché doveva farlo.

Non aveva altri motivi per farlo.

Se all’inizio aveva capito che la vita matrimoniale non era fatta per lui – non una con quella donna, almeno – l’idea di rispettare la parola data, il fatto che lei fosse incinta; lo facevano sentire in colpa per non essere felice. Lo facevano sentire un pessimo marito.

Ma ora, dopo gli ultimi avvenimenti, stava con lei per obbligo, senza più provare nulla. Nessun senso di colpa, perché per lui oramai quella donna non valeva nulla.

Ma c’era sempre un bambino di mezzo, e quel bambino non aveva alcuna colpa. Aveva bisogno di tempo per tornare a fingere di essere felice con Mary.

Dopo i mesi scorsi, lei era certa che il dottore avrebbe usato Natale come scusa per riavvicinarsi. Se John doveva fare qualcosa, la faceva per bene.

Quella donna però non riusciva a capirlo. Non aveva idea che John molto probabilmente sarebbe stato in grado di perdonare qualsiasi cosa fatta direttamente a lui, ma non l’avrebbe mai perdonata per aver tentato di uccidere Sherlock. Perché lui lo sapeva, sapeva che la spiegazione di Sherlock non aveva senso, ma fingeva di essersela bevuta. Forse un po’ deluso per il fatto che Sherlock avesse davvero creduto che quella scusa avesse una minima possibilità di essere presa sul serio da lui, ma era stato al gioco.

Sparare al petto di una persona per ferirlo e non ucciderlo era impossibile, a meno che non fosse possibile guardare dentro a una persona, vedere perfettamente gli organi e i vasi sanguigni; e anche in questo caso non si può sapere di come il proiettile possa deviare il suo percorso. Fondamentalmente se ti sparano – al petto, poi – è perché vogliono vederti morto. E John lo sa.

Chissà se lo dirà mai a Holmes...

C’è un altro motivo però perché lei vuole che Mycroft sia lì con loro. Sherlock è stato troppo tranquillo in quei mesi. Davvero, troppo troppo tranquillo. Questo voleva dire solo una cosa: che aveva qualche bruttissima idea in testa.

Lei spera che Mycroft riesca a rendersene conto prima che Sherlock combini qualcosa di irreparabile.

Avevano saputo dell’incontro con Magnussen, e di come ancora Sherlock non avesse trovato il modo di sconfiggerlo. Ma lei era certa che da allora non era stato con le mani in mano. Anche perché, se fosse stato così, per quale motivo aveva invitato Wiggins? Quel tizio era piuttosto bravo con la chimica, e la cosa non la faceva sentire per nulla tranquilla.

Non sapeva cosa aspettarsi da Holmes. Era imprevedibile come una folata di vento.

Sapeva che poteva essere letale.

Il suono di un messaggio in arrivo la strappa dai suoi pensieri. Solo tre parole risaltano sullo schermo. Lei non riesce a trattenere una risata.

“Per favore, uccidimi!”.

Non potè evitare di rispondere dopo aver preso fiato:

“Deduco che ti stai divertendo! XD Solo che, Myc, non è il messaggio più adatto da mandare a un killer. Potrebbe prenderlo sul serio!”. 

Il giorno in cui si erano incontrati, non poteva immaginare quanto avrebbe riso con quell’uomo.

“Certo. Mi sto divertendo tantissimo; quanto può divertirsi un lupo al guinzaglio. E sì, se lo prendessi sul serio non potrebbe essere tanto peggio di così!”.

Mycroft è così dannatamente esagerato, a volte. Lei lo adora quand’è così, si diverte tantissimo.

“Coraggio, capo, sono solo le due del pomeriggio!”, gli rivela, sapendo già cosa questo le farà ricevere come risposta.

“Oddio... Solamente?”.

Come volevasi dimostrare.

“La vena degli Holmes è evidentemente quella di una drama queen! XD”.

Come si fa a non prenderlo in giro, proprio non lo sa.

“Aspetta che torni a casa e vedi come ti faccio ridere”, minaccia lui, come se potesse spaventarla sul serio.

“Dai, Myc, ci sono io a casa a controllare tutto per te, lo sai. Stai tranquillo e goditi la giornata!”.

“Sei rimasta da me?”

Precisamente dove credeva se ne andasse? “Oscar non è voluto partire, ed è un ottimo cuoco”, risponde, come se questo giustificasse tutto. La verità è che in quella casa c’è la migliore attrezzatura informatica di sempre a disposizione.

“Quanto vorrei essere lì”.

Si ritrova a ridacchiare, ricordando quando Mycroft dà del teatrale al fratello, quando lui è esattamente uguale. “Drama queen!”, non può evitare di scrivergli. Quanti spettacoli nel West End[1] hanno perso attori come gli Holmes tra le loro file.

Ride guardando lo schermo e rileggendo la loro conversazione. A volte Mycroft si comporta come un bambino. Eppure dovrebbe essere abituato a fare cose che non vuole fare. Con tutte le riunioni e le cene di lavoro che si sorbisce ogni settimana, ormai dovrebbe averci fatto il callo.

Lei intanto continua a spulciare sul computer, gemello di quello che Myc ha portato con lui, da cui può praticamente fare le sue veci; e questo le fa capire quanto il gelido iceman si fidi di lei.


Guarda e riguarda i numeri, le cifre, gli ordini. Se potesse, controllerebbe ogni bit. Sente che c’è qualcosa che non va, qualcosa che i suoi occhi hanno notato ma che il suo cervello, troppo zeppo di informazioni, non riesce a leggere chiaramente.

Fino a quando lo nota. Un elicottero ha avuto l’ordine di partire, ma non è stato Myc a dare l’ordine, ed è diretto al cottege degli Holmes.

Fa il numero di Mycroft in meno di un secondo.

«Rispondi, rispondi... Cazzo, Myc, rispondi!» inveisce. Niente, il telefono squilla a vuoto.

Mette giù e chiama Wiggins. Non gli dà nemmeno il tempo di dire una parola che domanda: «Myc non risponde. Che sta succedendo?»

«Sta dormendo. Anche gli altri,» risponde l’uomo, con quel tono di voce tra l’annoiato e il mezzo fatto che ha sempre.

«Dormendo?» chiede spazientita.

«Sherlock doveva fare una cosa,» rivela lui, come se fosse la cosa più normale del mondo aver dato chissà cosa a tutti per permettere a Sherlock di fare qualsiasi cosa la sua mente iperattiva ha elaborato.

«Hai avvelenato Myc?» Sente che la vena del suo collo sta per esplodere. Cosa diamine sta succedendo?

«Solo fatto dormire, stanno tutti bene. Si sveglieranno tra poco. Oh, ecco, vedi? Si stanno già...» La voce dell’uomo si spegne mentre si sente il rumore del telefono strappato dalle mani di Wiggins.

«Ragazzina...» La voce di Mycroft è debole e incerta, ma almeno sembra che stia bene.

«Myc, Sherlock...» prova a spiegargli.

«Lo so, ha preso il computer. Devo mandare i servizi segreti. Mi dispiace.» La voce è spezzata e distrutta, e lei sa che non c’entra il sonnifero che ha ingurgitato a sua insaputa.

«Myc, non vorrai...»

«Se Sherlock non peggiorerà la situazione, no. Altrimenti non so come posso salvarlo, questa volta.»
 

Ovviamente Sherlock ha peggiorato la situazione uccidendo a sangue freddo Magnussen.

Cosa non sarebbe disposto a fare per assicurarsi che John sia al sicuro? Davvero pensa che ora che Mary non ha più motivi per fare la killer, smetterà definitivamente con quella vita e diventerà una mogliettina fedele e devota?

Come possa lasciare John solo con Mary è una cosa che lei non riesce a capire. Forse perché lei conosce il vero volto di quella donna e lui no.

Comunque, dopo quell’azione, Mycroft non ha potuto far altro che farlo partire per la missione suicida rispettando gli ordini venuti dall’alto; ordini a cui nemmeno lui può disubbidire.

Ma lei non può permettere che le cose vadano così.

Già una volta ha permesso che Sherlock e John venissero separati, e i risultati sono davanti agli occhi di tutti. Non è una cosa che accadrà ancora; non se lei può impedirlo.

E grazie a Jim, lei può.

Ed è per questo motivo che, a distanza di giorni dall'ultima pazzia di Sherlock, sta lavorando agli ultimi dettagli per impedire che il destino divida ancora una volta Holmes e Watson.

Loro sono in aeroporto. È il suo momento.

Ha lavorato su quel programma in segreto per tutto il tempo libero che è riuscita a ritagliarsi. Nessuno deve saperlo, altrimenti andrà tutto a farsi benedire.

Al sicuro nel suo appartamento, lontano da qualsiasi fonte possa legare quella linea internet a lei o a Mycroft, scrive le ultime righe di codice e poi prende la chiavetta nera. Quella microusb, l’ultimo regalo di Moriarty.

«Non so dove sei, Jim, ma grazie! Farò un bel lavoro, te lo prometto. Rimarranno di stucco, sarai orgoglioso di me,» dice, ringraziando quel criminale, col cui contributo può davvero cambiare le sorti del gioco.

Non può essere questa la fine.

Se per gli altri lo è, ora, volenti o nolenti, inizieranno a giocare con le sue regole.

Inserisce il video nella rete, che in pochi secondi diventa virale.

«Jim, avevi dannatamente ragione. Creare scompiglio è davvero divertente!» dice, osservando lo schermo da cui oramai il viso di Jim Moriarty sorride e la sua voce chiara e
cristallina risuona per tutta Londra, e nell’intero Paese:

«Vi sono mancato?»


«E adesso come la mettiamo?» sogghigna, immaginando le espressioni di puro panico che il suo scherzetto avrà creato.

Non ci vuole molto prima che il suo telefono squilli.

«Ragazzina, hai visto?» Mycroft è nervoso. Non sapere dev’essere una cosa a cui non è abituato.

«Sì.» Cerca di non sorridere mentre risponde, altrimenti capirà subito che lei c’entra qualcosa.

«Mi hanno ordinato di far tornare Sherlock.»

«Ottimo.» È inutile, non può non sorridere. E poi, non crede che Mycroft possa arrabbiarsi se scoprisse quello che ha fatto.

«Non mi sembri particolarmente sconvolta della cosa,» dice infatti. Dal tono di voce lei riesce a immaginare lo sguardo affilato e attento.

«Lo sai, preferisco soffermarmi sulle buone notizie, e il fatto che Sherlock non sia più in una missione suicida è una notizia più che buona. Per quanto riguarda il video, ci toccherà investigare, inutile fasciarsi la testa prima di essersela rotta, no?»

«Perché ho la sensazione che sai più di quello che mi stai dicendo?»

«Sono certa che tu non voglia veramente che risponda a questa domanda. Myc, tu hai eseguito gli ordini: hai mandato tuo fratello in una missione suicida dimostrando la tua fedeltà alla Nazione, eccetera eccetera. Sono stati loro a ordinarti di far tornare Sherlock. È stata una loro decisione in base a un video virale che per quanto ne sanno e ne sappiamo potrebbe essere vero. Certo, potrebbe anche essere uno scherzo di qualcuno con un senso dell’umorismo molto sviluppato, chissà... Quello che è certo è che tu hai fatto ciò che dovevi fare e nessuno può dire il contrario.»

«Scommetto che bruci dalla voglia di sapere come ha reagito la nostra amica comune,» le risponde l’uomo dopo un attimo di silenzio.

«In effetti mi incuriosisce la cosa,» ammette.

«Diciamo solo che è stata più sorpresa di me.»

«Non mi è mai sembrata un tipino a cui piacciono le sorprese.»

«Neanche a me. L’aereo è atterrato. Devo andare a parlare con Sherlock.»

«Quanto vorrei essere lì...»

«Rimani ferma e buona nella mia tasca, contenta?»

«Tu si che sai come trattare una donna.»

«Perché non trovo mai le parole adatte per risponderti a tono?»

«Perché sono io quella intelligente. Vai, ora, dai! Sono curiosa.» Il fruscio della stoffa sul microfono del cellulare, il suono un po’ ovattato ma nel complesso buono, le fa capire che Myc sta mantenendo la parola e lei sentirà tutto in diretta. Poggia il cellulare sulla scrivania sistemandosi l’auricolare. Nel frattempo controlla se dalle telecamere di sicurezza dell’aeroporto può riuscire a vedere qualcosa.

D’accordo, d’accordo. Non è per questo che Myc ha il controllo di tutto, ma...

No, un momento, è proprio per questo che ce l’ha. Per controllare Sherlock. Perciò lei sta facendo solo le veci del suo capo.

La visuale non è delle migliori. Non può usare lo zoom senza far finire tutti in minecraft[2], ma comunque le permette di osservare, almeno l’esterno, oltre che sentire.

Li vede salire sull’aereo ma, una volta che iniziano a parlare, non sente quello che si aspettava. Anche se, a pensarci bene quando c’è Sherlock di mezzo, quando mai le cose vanno come ci si aspetta.

«Un esilio più corto di quello che pensavamo, ma adeguato visto il livello del tuo disturbo ossessivo compulsivo.» È la voce di Mycroft.

«Devo tornare indietro!»

Sherlock dove vorrebbe andare, di preciso?

«Cosa?»

«C’ero quasi, c’ero molto vicino.»

Non credeva che sarebbero bastati così pochi minuti per perdere Sherlock. Perché doveva essere impazzito, non aveva senso quello che diceva.

«Di cosa stai parlando?»

«Tornare indietro, dove? Non sei andato molto lontano.» interviene John, che per una volta, ne sa quanto Myc.

«Ricoletti e la sua abominevole moglie, non avete capito?»

«No, certo che no! Non ha alcun senso, Sherlock.» Quella invece è Moran. Lei non si stupisce che sia salita anche la donna. Era impossibile che se ne stesse buona a terra.

«Era un caso, un caso molto famoso di cento anni fa. Era nel mio disco rigido. Sembrava morta, ma è tornata in vita,» continua Sherlock, seguendo un filo logico tutto suo.

«Come Moriarty?» domanda John. È così strano come a volte riesca a seguire il filo logico di Sherlock, quando tutto il resto del mondo non riesce nemmeno a capire cosa stia blaterando.

«Si era sparata in testa, esattamente come Moriarty,» gli risponde, quasi sicuramente orgoglioso del fatto che John riesca a capirlo.

«Lo hai saputo solo ora. Lo abbiamo appena scoperto, è su ogni schermo tv del Paese.»

E non solo TV, le verrebbe da dire.

«Sì, allora? Mycroft ha chiamato cinque minuti fa. Che progressi avete fatto? Che avete fatto finora?»

«Il punto è: che hai fatto tu, finora?» John sembra divertito, completamente all’oscuro di ciò che è successo a Sherlock, di cosa sta parlando esattamente. Non che lei lo sappia.

«Sono stato nel palazzo mentale.»

«Certo,» Mycroft è molto meno divertito.

Ha la netta sensazione che lui sappia cosa è successo al fratello, e non crede che sia solo una questione di “Palazzo mentale”, qualsiasi cosa sia.

«Facevo un esperimento. Come avrei risolto il crimine se fosse avvenuto nel 1895.»

«Oh, Sherlock!» Dal tono di voce, direbbe che Mycroft più che poco divertito, sia abbastanza infuriato, in realtà.

«Avevo tutti i dettagli perfetti, ero lì con tutto me stesso, ero immerso.»

Quella conversazione è surreale. Doveva assolutamente farsi spiegare quella cosa da Myc, quando sarebbe tornato a casa. Non era la prima volta che sentiva parlare di “palazzo mentale”, ma non aveva mai potuto chiedere spiegazioni. Anche se probabilmente Jim glielo avrebbe spiegato. Lui sembrava sempre disposto a insegnarle qualcosa.

«Certo che lo eri.» La voce di Mycroft è stanca, nervosa.

«Hai letto il blog di John, la storia del vostro incontro,» aggiunge la voce di Mary, probabilmente controllando il cellulare di Sherlock per cercare di trovare qualche informazione. Peccato che il cellulare di Sherlock è pulito, se ne è occupata personalmente per Myc solo la notte scorsa.

«Ho bisogno di vedermi attraverso i suoi occhi, a volte. Sembro più intelligente.» 

Come fanno quei due a non capire quello che hanno e a sprecare così tanto tempo? Questa cosa lei non riesce davvero a concepirla. Chissà come ha reagito John ascoltando questa confessione.

«Pensi che qualcuno possa crederti?» Il maggiore degli Holmes non ha nessuna voglia di darsi al romanticismo, non in questo momento.

«No, può farlo. Io l’ho visto. Il palazzo mentale è un mondo completo nella sua mente.»

Si ritrova sempre ad amare la fiducia incondizionata che John riserva a Sherlock, e solo a lui, nonostante tutto.

«Sì, e ho bisogno di tornarci.»

«Un palazzo mentale è una tecnica mnemonica. So cosa può fare e so cosa è impossibile che faccia.»

È sempre più convinta di dover chiedere a Mycroft di cosa stanno parlando, perché lei questa cosa non riesce proprio a capirla.

«Magari c’è qualcos’altro che io conosco e che tu ignori.» puntualizza Sherlock.

«Oh, davvero? Hai fatto una lista?» sbotta il maggiore degli Holmes.

«Sei un po’ ingrassato. Quel gilet è più nuovo della giacca.»

Solo a lei Sherlock sembra nervoso?

«Smettila, adesso basta. Hai fatto una lista?» Non è da Mycroft lasciare che i sentimenti prendano il sopravvento, eppure sembra proprio che in quel momento stia lasciando che succeda.

«Di cosa?»

«Di tutto, Sherlock. Tutto quello che hai ingoiato.»

«No, in realtà entra in una specie di trance, gliel’ho visto fare.»

John, John, John... Ingenuo o forse solo fiducioso? Insomma, che Sherlock sembri strafatto è il minimo che si possa dire, lui come può credergli così spassionatamente?

«Abbiamo un accordo, io e mio fratello, fin da quel giorno. Dovunque io lo trovi, in qualsiasi vicolo o qualsiasi dormitorio, c’è sempre una lista.»

Mentre ascolta quella conversazione assurda, nota un tentativo esterno di entrare nell’archivio dell’MI5 in un file specifico, quello di Ricoletti, e anche se non conoscesse quel numero, sa che non è Holmes a cercare, altrimenti avrebbe utilizzato il suo codice di sicurezza. John poi è probabilmente già tanto se con il cellulare riesca a leggere le mail; e non è il numero di Sherlock, quindi può solo essere Mary.

Ovviamente Mary.

Ma questa volta lei è pronta. Aspetta un’occasione del genere da tempo.

«Molto bene,» sogghigna. «Vediamo un po’ se oltre a leggere i file secretati, riesco a darti anche il mio regalo,» dice mentre scrocchia le nocche, pronta a digitare.

Le sue dita cliccano veloci e sicure sulla tastiera. Ha lavorato a quel virus da così tanto tempo che conosce ogni riga di codice a memoria. Non si farà scappare un’occasione simile.
«Cara mia, ti stavo aspettando. Finalmente... Vieni pure, ti spalanco le porte. Così posso darti il mio regalo creato appositamente per te.»

Il suo programma in meno di tredici secondi entra nel cellulare di Mary, regalandole tutti i segreti della donna. Ormai Moran non può più nasconderle nulla, per lei. Sorride. «Ti ho preso, stronza!»

Intanto, sull’aereo il dialogo continua, e lei comunque non si perde una battuta.

«Non può aver preso tutto in cinque minuti.»  esclama John.

Lei immagina che la lista di cui parlava Sherlock sia molto lunga.

«L’avrà fatto prima di salire sull’aereo.» Mycroft è sicuro.

«Non sembrava drogato.»

«Nessuno dissimula meglio di un drogato.»

Se poi il drogato in questione è Sherlock Holmes...

«Non sono un drogato. Ne faccio uso, allevio la noia e occasionalmente miglioro i miei processi mentali.»

«Santo cielo, questo può ucciderti! Puoi morire!»

Questa è l’unica cosa che fa spaventare sul serio John.

«Di solito l’uso controllato non è fatale, e l’astinenza non dà l’immortalità.»

Sarcastico, stupido Sherlock!

«Che stai facendo?» È il suo capo a chiederlo, probabilmente a Mary vedendola digitare sul cellulare.

Myc tranquillo, crede solo di poter entrare nei nostri archivi come meglio crede, peccato che si sbaglia di grosso.

«Emilia Ricoletti, cerco informazioni.»

«Oh, perché non ci ho pensato? Ho accesso al più alto livello dell’archivio dell’MI5.»

«Già, è lì che sto cercando.»

Illusa.

«Cosa pensi della sicurezza dell’MI5?»

«Averla sarebbe una buona idea.»

Ohhh, ce l’hanno mia cara, la migliore che tu possa sognare!

Può immaginare l’espressione incredula di Myc. Sa che se n’è occupata lei. Sa che è impossibile accedere a quelle informazioni, quindi sa che l’ha fatta entrare. Sicuramente le chiederà informazioni più tardi.

«Emilia Ricoletti, non risolto, come dice lui.»

«Potete stare zitti tutti, per cinque minuti? Devo tornare là. C’ero quasi quando siete saliti e avete iniziato a sbraitare.»

Strafatto, ha decisamente ragione Mycroft, dev’essere strafatto.

«Sbraitare? Scusa, abbiamo interrotto la tua sessione?» John non riesce a credere a ciò che sta sentendo. Lei si chiede quanto sia arrabbiato e quanto spaventato.

«Sherlock, ascoltami...» La voce di Mycroft le stringe il cuore.

«No, non voglio incoraggiarti,»  risponde secco.

«Non sono arrabbiato con te.» Come fanno a non capire quanto iceman abbia in realtà un gran cuore?

«Oh, che sollievo, ero preoccupato. No, aspetta, non lo ero affatto.»

Si chiede quanto sarebbe sbagliato se potesse arrivare da loro e dare un bel ceffone a Sherlock. A volte si comportava come un bambino viziato e petulante.

«Sono stato qui per te, sono qui per te e sarò sempre qui per te. È tutta colpa mia.»

«Non ha niente a che fare con te.»

“Centri tu, ovvio che ha a che fare con lui”, vorrebbe potergli dire.

«Una settimana in una cella doveva bastare.»

«Per capire cosa?»

«Che nel tuo caso l’isolamento equivale a rinchiuderti insieme al tuo peggior nemico.»

«Oh, santo cielo» Il silenzio dura per qualche istante e poi: «Che cosa hai detto?»

«Non ho detto niente.» dice John.

Ma di che sta parlando Sherlock?

«No, tu hai detto... Cosa avete preso oggi, morfina o cocaina?»

Che diamine sta succedendo, che sta dicendo?

«Sherlock che stai dicendo? Sherlock?» Le voci sono concitate, lei ha paura; vorrebbe vedere, essere lì.

«È svenuto, Mycroft. Spostati e chiama un’ambulanza. È andato in overdose.» Ed ecco che il dottor Watson esce allo scoperto nel momento del bisogno.

Lei sa che il suo capo è paralizzato, quindi allerta Anthea che sa chi chiamare per fare in modo che la cosa non si sappia. È meglio che Sherlock non venga messo in mezzo ad altri scandali.

«Passatemi la valigetta del pronto soccorso,» comanda John. Non si fa prendere dal panico. Sa come deve muoversi in una vera emergenza e sembra che la sua calma riesca a far riprendere anche Mycroft.


Non poter vedere quello che succede la rende nervosa. Può solo sentire, ed è certa che il rumore di sottofondo sia il cuore di Mycroft che sta battendo spaventato.

Ci mettono quasi un quarto d’ora a farlo tornare indietro. «Vi sono mancato?»

Sobbalza dal suo appartamento. Persino il gatto la guarda incuriosito.

«Sherlock, stai bene?» gli domanda John?

Non riesce a credere nemmeno lei che possa essersi già ripreso.

«Sì, ma certo, perché non dovrei?»

«Sei andato in overdose. Dovresti essere in ospedale.»

«Non c’è tempo. Devo tornare a Baker Street subito, Moriarty è tornato.»

«È quasi una speranza, se ti salva da questo.» Mycroft ha decisamente avuto troppe emozioni in questi giorni.

Il rumore di carta strappata le fa immaginare sia la famosa lista.

«Non ne ho, adesso. Ho un lavoro che devo finire.»

«Sherlock, me lo prometti?» Mycroft si preoccupa davvero un sacco per il fratello, ma lui non lo vede, o finge di non vederlo.

Non sa quale delle due cose le dia più fastidio.

«Che ci fai ancora qui? Non dovresti cercare di proteggermi, piuttosto, da bravo fratello maggiore?»

Quando fa queste uscite contro Mycroft, lei lo prenderebbe a schiaffi con le sue mani.

Si sente rumore di passi. Probabilmente stanno scendendo dall’aereo.

Infatti, guardando il monitor, li vede sbucare dal portellone.

«Dottor Watson? Lo tenga d’occhio, la prego.»

Altri passi in sottofondo e anche John è uscito, lasciando Mycroft da solo.

Sente solo fruscii, come se si fosse piegato a raccogliere qualcosa, poi la sua voce stanca: «Sentito tutto?»

«Sì. Torna a casa. Devi spiegarmi quella cosa del palazzo mentale.»

«Dobbiamo capire cosa sta succedendo con Moriarty.»

«Io e te sappiamo che non sta succedendo nulla. Adesso fa il bravo e torna a casa.»

La chiamata si interrompe. Lei si prepara a uscire. Prende il portatile, scollega la batteria per sicurezza. Accarezza il gatto ed esce. L’aspetterà a casa sua, è sicuramente più comodo.
 



Continua


Note: Tatan vi è piaciuta la minima, "piccolissima" modifica che ho fatto? Certo con questa cosa ho potuto divertirmi parecchio dopo, speriamo che la storia continuerà a piacervi, dal prossimo capitolo non ho quasi più i Moffis da poter usare come scudo, acciderbolina.
Ancora tanti auguri Izumi, guarda te che capitolone ti è capitato, questo destino...
Grazie a tutte per le recensioni e le letture, e alla prossima (speriamo venerdì)
[1] Grazie beta mia grazie! Tu sai!
[2] È un videogioco abbastanza famoso la cui grafica copia quella tutta pixel dei primi videogiochi degli anni ’80.

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Capitolo 14
*** 2014 27 dicembre, Pall Mall, Residenza di Mycroft ***


E mi sono ricordata che è venerdì Olèèèèè
Scusate mi autocomplimento, è una piccola vittoria personale.

Questo capitolo è un po' di transizione, non odiatemi mi raccomando, giuro che il prossimo è succulento, per davvero!

Buona lettura!





Dalla tua parte




2014
27 dicembre
Pall Mall
Residenza di Mycroft
 
 

Deve aspettare quasi fino all’alba per vedere Holmes tornare a casa. Sa che deve fare in modo che nessuno dei suoi colleghi possa avere dubbi sul fatto che Sherlock sia davvero l’unica arma di cui sono provvisti contro un ipotetico ritorno di Moriarty.

Lei stessa ha sistemato il video dell’omicidio di Magnussen, modificandolo quanto serviva per far credere che a premere il grilletto fosse stato un soldato troppo celere.

È soddisfatta del lavoro svolto. Bisognava analizzarlo al fotogramma per accorgersi che qualcosa poteva essere stato modificato, e anche se fosse stato fatto, poteva essere plausibile un problema alla scheda video dell’apparecchio, piuttosto che a una manomissione.

Del resto, quello è il motivo per cui, ancora diciassettenne, era stata arruolata.


L’avevano scelta, tenuta d’occhio per parecchi mesi, e solo dopo aver testato la sua bravura l’avevano reclutata. Poteva finire in prigione, ma il suo talento era qualcosa di davvero raro, e loro sapevano essere convincenti.

Lei a diciassette anni non aveva idea di cosa sarebbe stato il suo futuro. Si sentiva abbandonata, sola e arrabbiata.

La promessa di fare parte di qualcosa di grande, di un disegno più ampio, di essere un ingranaggio unico, che poteva fare qualcosa per la Nazione intera l’aveva convinta ad accettare.

L’idea che il padre avesse saputo di quello che aveva fatto e nei guai in cui si è cacciata, la spaventava più dell’idea di una vita sotto copertura con assassini come nemici.

Ma a diciassette anni la morte sembra così lontana, una cosa così distante da sé. Il padre e il suo giudizio invece, erano così vicini e reali che avrebbe fatto di tutto per non averci a che fare.

Ogni tanto pensa a come sarebbe stato se quella volta avesse detto di no, se non avesse accettato. Come sarebbe stata la sua vita senza i servizi segreti? Non è sicura che le cose le sarebbero andate poi tanto bene.

Certo, quello che ha fatto, gli ordini che ha eseguito, le hanno senz’altro strappato pezzi di anima un poco alla volta. Ma senza i servizi segreti forse sarebbe diventata solamente una dei tanti piccoli delinquenti. Non crede che sarebbe stata in grado di fare qualcosa di buono. Lei non è come John.


Anthea l’ha avvisata che stavano finalmente tornando, così quando Mycroft avanza nella stanza, il tè è pronto, la temperatura perfetta, l’infusione da manuale.

Le rivolge un sorriso tirato e stanco.

«Tutto bene?» gli chiede.

«Sì, Sherlock è stato reintegrato, anche se ovviamente lui si comporta come se non lavorasse per noi.» Il tono di voce del suo capo è rassegnato.

«Del resto è Sherlock, ci sarebbe da preoccuparsi in caso contrario.»

«Sì, immagino di sì. Hai fatto un buon lavoro con il video. Hanno riempito di complimenti quell’agente che se ne sarebbe dovuto occupare.»

«Spero gli diano un riconoscimento al suo lavoro, oltre che i complimenti.»

«Ma non è lui a esserselo meritato,» osserva cinico.

«Bah, per come la vedo io, chiunque faccia questo lavoro si merita un riconoscimento.»

«Tutti tranne che te.»

«Beh, Myc, io non esisto, lo sai.» E in effetti è proprio così. Ormai lei esiste solo in funzione del lavoro. E da quando ha iniziato a lavorare per Mycroft, è semplicemente sparita da ogni registro, come se non fosse mai esistita. Sarebbe stato troppo pericoloso per la sua copertura, altrimenti.

«Per essere una che non esiste, hai salvato la loro vita parecchie volte, e nei modi più impensabili,» commenta sarcastico Mycroft, forse neanche troppo.

«Anche tu, Mr. Governo Ombra.»

«Sarai stanca. Perché non vai a riposare?» è bravissimo a cambiare argomento Myc.

Lei l’ha già notato prima: ogni volta che gli fa un complimento, anche minimo, sembra sempre che la cosa lo imbarazzi.

«In realtà ho dormicchiato. Se vuoi posso restare. A meno che non vuoi riposare un po’ tu.»

«Sai, sono stanco, ma non ho voglia di dormire.»

«E che vuoi fare?» chiede incuriosita. Quell’uomo non smette mai di sorprenderla.

«Non so, magari stare qui, a godermi una bella tazza di tè con... Un’amica?» La guarda, indicando la poltrona davanti alla sua.

Lei sorride servendosi una tazza di tè e accomodandosi sul mobilio indicato.

«Hai voglia di spiegarmi cos’è il palazzo mentale? Tu, Sherlock, Magnussen, perfino Moriarty ne aveva uno; ma non ho mai ben capito come funziona.»

«Il palazzo mentale è una tecnica mnemonica. È molto utile se hai bisogno di ricordare tante cose e non vuoi perderle. Il principio è semplice, in realtà. Devi pensare a un luogo – in genere viene scelto un edificio, ma non è scontato. Dev’essere solo un luogo che conosci alla perfezione.»

«Il tuo palazzo mentale non è un edificio, vero, Myc?» chiede, anche se è già sicura della risposta.

«Come fai a saperlo?» La guarda sinceramente stupito.

«Perché è la scelta che viene fatta in genere, e tu non fai le cose come gli altri.»

«Per questo, dici?»

«E perché ricordo la tua espressione mentre guardavi un vecchio filmino delle vacanze. C’eravate tu, Sherlock e i vostri genitori su una spiaggia. Tuo fratello avrà avuto cinque anni e tu circa undici. Lui correva e giocava ai pirati, e voleva trascinarti nell’avventura.»

Gli occhi di Mycroft sono sgranati. «Quando mi hai...?» domanda confuso.

Persino da dove si trova, riconosce il polso accelerato. Riuscire a sorprenderlo non è una cosa semplice.

«La sera del matrimonio,» inizia. «Sono tornata per parlarti perché sapevo di aver reagito male, e ti ho trovato mentre stavi guardando quel video. Ho preferito lasciarti stare. Ero arrabbiata con te, ma mi ero resa conto che non ero l’unica a soffrire in quella faccenda,» rivela un po’ imbarazzata. Un po’ si sente ancora in colpa per come si è comportata; ma all’epoca era arrabbiata, e si sa: la rabbia non è mai la migliore consigliera.

«Mi hai chiamato, quella sera,» ricorda lui.

«Ero arrivata fino al cancello, dopo averti visto. Non mi sembrava giusto disturbarti in quel momento, ma non volevo che pensassi che ero ancora troppo arrabbiata con te da non volerti nemmeno salutare,» spiega, «Comunque è quella spiaggia, vero? È quello, il tuo palazzo mentale.»

«Sei un’ottima osservatrice.»

«Okay, quindi questo palazzo mentale come funziona?»

«È una tecnica antica. Pensa che la utilizzava anche Cicerone. Per iniziare, basta seguire cinque punti: progettare il proprio palazzo della memoria, dare un ordine preciso al percorso che farai nel palazzo, convertire le informazioni da memorizzare in immagini, associare le informazioni codificate in immagini dei luoghi all’interno del palazzo e passeggiare nel proprio palazzo della memoria. Bisogna goderselo e progettare gli ampliamenti.»

«E questo sarebbe semplice?»

«Ti assicuro che è più difficile spiegarlo che farlo. All’inizio si possono trovare difficoltà, specialmente perché siamo abituati a ricordare le cose concatenate tra loro; ma una volta imparato, scoprirai che è molto più utile. »

«Quindi è una cosa che chiunque con un po’ di pratica può imparare a fare?» chiede scettica. A lei, quella cosa, sembra tutto meno che semplice e alla portata di tutti.

«Sì, direi di sì,» conferma lui.

«Ma Sherlock ha detto che stava vivendo il caso Ricoletti, che ne era immerso. Cosa voleva dire?»

«Per ognuno il palazzo mentale è diverso. C’è chi nel proprio palazzo mentale non fa entrare nessuno e lo vive come un archivio, chi invece visualizza persone oltre le cose. Sherlock è senz’altro di questo secondo gruppo. Le persone che visualizza sono la rappresentazione di sentimenti come l’amicizia, la fiducia, ma anche il tradimento, e quel lato malvagio che è intrinseco in ognuno di noi ma che quasi sempre nascondiamo. Oltre il fatto che aveva tante di quelle droghe in corpo che è già tanto se non vedeva gli elefanti rosa volare per l’aereo.»

«Quindi Sherlock ha davvero vissuto l’avventura, come se fosse stato lì?»

«Lui c’era davvero, ragazzina. Quello che succede nella nostra testa a volte è molto più reale della realtà stessa,» dichiara, anche se a lei pare che lo stia dicendo più a sé stesso.

«Posso farti un’altra domanda?»

«Come se avessi modo di impedirtelo.» Un mezzo sorriso spunta sulle labbra dell’uomo.

Si chiede se per lui avere a che fare con una come lei possa essere stancante. È abituato a Sherlock, il quale ha un’intelligenza così simile a quella del fratello, eppure sono profondamente diversi. Entrambi sono veloci nelle deduzioni, svelti e in grado di risolvere i ragionamenti più complicati, lei invece è solo una persona normale, con un’intelligenza nella media. Sa di avere buone capacità, ma non è certo al livello degli Holmes, o di Moriarty. Per lei sono di un altro pianeta.

Però in una cosa è sicuramente brava: scoprire i segreti degli altri. «Che cos’è, o meglio, chi è Barbarossa?» chiede con finta innocenza. Non ha mai investigato, ma quel nome è uscito per caso in momenti non collegati tra loro ma che per lei avevano un chiaro denominatore comune: Sherlock.

«Come fai a sapere di Barbarossa?» le chiede Mycroft, non riuscendo a nascondere la sorpresa.

«Lo vuoi davvero sapere?» domanda lei con un sorriso furbo sulle labbra.

«No, meglio di no,» ammette lui.

«Però non ho indagato. Se non vuoi dirmelo, fa nulla. Non cercherò informazioni,» aggiunge, temendo di aver beccato un nervo scoperto.

«In realtà non c’è nulla di segreto, solo che riguarda Sherlock. Non è una questione di lavoro. Si tratta di famiglia.»

«Lo immaginavo.»

Lui solleva lo sguardo e la osserva con curiosità. Lei non può non domandarsi che cosa vede quando la guarda.

«Quando Sherlock aveva sui cinque, sei anni, proprio nell’estate di quel filmino, incontrò Victor un bambino della sua età. I genitori vivevano in una villa abbastanza vicino alla spiaggia che frequentavamo. Sherlock non aveva amici, non è mai stato molto a suo agio con le persone, ma a quel bambino sembrava non importare dell’intelligenza di mio fratello. Giocavano insieme, e io finalmente ero libero di tirare un sospiro di sollievo perché potevo leggere in santa pace senza venire trascinato a cercare tesori nascosti e stupidaggini simili.» Le sue mani si muovono nell’aria come a scacciare una mosca.

«Ammettilo: un po’ ti mancava.»

«Non so di che stai parlando...» nega subito, ma poi ammette: «Va bene, forse un po’, ma solo un poco.»

Lei si lascia scappare una risata, a cui Holmes risponde con un piccolo sbuffo.

«Comunque sia, giocavano e sembrava felice, quindi non mi sono preoccupato più di tanto. Un giorno, trovarono un cucciolo di setter. O meglio: somigliava a un setter. Essendo abbandonato, doveva essere qualche incrocio non voluto. Per la prima volta litigarono perché entrambi volevano tenerlo ed entrambi volevano dargli il nome. Ma Sherlock non poteva tenerlo, papà è allergico, così lo prese Victor. Ma non riuscivano a trovare il nome per il cane.»

«Lo chiamavano cane?» chiede scettica.

«Non mi sono mai posto il problema, sinceramente. Non facevo caso a tante cose, in quel periodo. Se l’avessi fatto, le cose sarebbero potute andare diversamente. Sherlock, se possibile, dopo il ritrovamento del cucciolo, passava ancora più tempo con Victor. Era invitato alla villa dei Trevor spesso e volentieri, e ogni volta che il tempo non era adatto per passare la giornata in spiaggia ci implorava di farlo andare da Victor. Nessuno trovava un motivo per non assecondarlo. Il problema è che Sherlock era un buon osservatore fin da bambino, e il padre di Victor non era esattamente il più innocente dei sudditi della Regina. Abbiamo scoperto che era un truffatore e aveva le mani in pasta in parecchi giri loschi.
Ovviamente allora non lo sapevamo, e Sherlock non aveva idea che dire la verità gli avrebbe fatto perdere l’unico amico che avesse avuto fino a quel momento.»

«Aveva notato qualcosa che non doveva?»

«Sì, ovviamente. Quell’uomo ha preso tutte le cose di valore e la famiglia, ed è sparito in una notte. Quando Sherlock andò alla villa, dopo un pomeriggio ad aspettare inutilmente il suo amico, la trovò vuota. C’era solo il cane con un biglietto al collo. Era di Victor che diceva a Sherlock che suo papà era molto arrabbiato per qualcosa che lui aveva detto e che quindi aveva deciso di partire. Gli lasciava il cane, perché non poteva portarlo con lui. “Sono felice di essere diventato tuo amico, ma è meglio che ti scordi di me, Barbagialla,” c’era scritto. “Non ci rivedremo più, addio”. Barbagialla era il nome con cui si faceva chiamare Sherlock quando giocavano ai pirati con Victor. Barbagialla e Barbarossa. Quando trovai Sherlock, era quasi notte. Era ancora alla villa e accarezzava il cane che scodinzolava ignaro di tutto. Mi fece leggere la lettera e mi implorò di tenere Barbarossa. Aveva scelto il nome del cane, evidentemente. Nostro padre ha accettato di tenerlo a patto che sarebbe stato in giardino e che ce ne saremmo occupati noi. Per fortuna la sua allergia non era particolarmente forte e con un antistaminico sempre a portata di mano non è andata tanto male. Barbarossa morì quando Sherlock era all’ultimo anno di liceo.»

«E tuo fratello si è sentito abbandonato di nuovo.»

«Mio fratello ha continuato a non avere amici. Non ci si trovava, non si fida facilmente delle persone.»

«E poi è arrivato John.»

«Sì, poi è arrivato John.»

La luce della mattina oramai è forte.

Si rende conto che il rapporto che ha con Mycroft Holmes è qualcosa di molto diverso da quello che credeva sarebbe diventato la prima volta che lo ha incontrato.

“Prendere un tè con un’amica”. Così ha detto, quindi quello significa avere un amico? Qualcuno con cui si può non avere segreti, che conosce il peggio di te ma non scappa?

«Forse è meglio se riposiamo un paio d’ore, che ne dici?» le chiede, gli occhi sono stanchi.

«Forse sì.» Si alza, avvicinandosi alla porta.

«Usa una delle stanze degli ospiti. Oscar ne prepara sempre una quando vieni qui.»

«Grazie.»

«Di niente. Ah, ragazzina?»

«Sì?»

«Quei due tizi che hanno preso nell’ufficio di Magnussen sono puliti. Sono stati pagati per permettere la fuga di Moran, ma non avevano alcuna idea di cosa volesse fare. Pensavano fosse semplicemente una spia industriale.»

«Li avete lasciati liberi?»

«Sì, ma li teniamo sotto controllo per sicurezza. Almeno fino a quando Moran è ancora tra noi. Ma non credo avremmo notizie da loro.»

«Grazie di avermelo detto.»

«Di niente. Ora vai a riposare.» Si alza dalla poltrona, avvicinandosi alla porta. «E credo che lo farò anche io.»




Continua...



Note: Lo so cosa aspettate e davvero, manca poco. In questo capitolo, che poi è un lungo dialogo tra Mycroft e la "sua" ragazzina, di azione non ce nè, ma credo fosse importante spiegare alcune cose, sistemarne altre e chiudere qualche capitolo. Per le "informazioni" sulla tecnica del palazzo mentale mi sono affidata a internet ovviamente, semplificando al massimo. Grazie come sempre per le recensioni e per il tanto amore che date a questa storia! Riuscirò venerdì prossimo ad accorgermi che è venerdì? Si aprino le scommesse XD

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Capitolo 15
*** 1 gennaio 2015, Londra ***


Ed eccoci qui, anche questo venerdì mi sono resa conto che fosse venerdì, non siete orgogliosi di me?

A parte la solita stupidera che mi accompagna da sempre, siamo arrivati (o meglio ci state per arrivare) dove tutto ha avuto inizio, la nostra protagonista doveva mostrarsi oggi, ma per scelte tecniche è slittato tutto al prossimo capitolo. Avrò fatto bene o male chi lo sa, vi tocca accontentarvi, però dai, ci siamo quasi XD!

Comunque bando alle ciance e buona lettura.





Dalla tua parte




1 Gennaio 2015
Londra
 


Fatica a credere che tutto si stia muovendo così in fretta.

Una parte del passato di Moran l’ha raggiunta e la donna, per salvarsi, ha preferito scappare lasciando non solo suo marito, ma persino la bambina, nata da pochi giorni.

È una cosa di cui lei non riesce davvero a capacitarsi. Quale donna abbandona la figlia senza alcun rimpianto?

Certo, la lettera che ha lasciato a John dice che lo ha fatto per difenderli. E forse lei, se Moran fosse stata un’altra donna, ci avrebbe anche potuto credere. Eppure, non riesce a dare a quella donna il beneficio del dubbio. Non ci riesce davvero.

Ha aspettato una sua chiamata, ma non l’ha mai ricevuta. Forse Moran ha deciso di sparire per davvero e lasciare perdere la storia della vendetta. La sua vita è senz’altro più importante del continuare con una cosa che l’avrebbe potuta portare alla morte. Istinto di sopravvivenza elevato al cubo, questo senz’altro non le manca.

E quella cosa, quella sparizione, non le dispiace più di tanto.

Certo, non sarà mai tranquilla per John, Sherlock e la piccola Rosie finché non avrà visto la vita abbandonare quel corpo. Ha lavorato sotto copertura fino a quel momento, e intende continuato a farlo. A Mycroft non pare dispiacere.

Il problema è che a Sherlock la cosa non piace per nulla, perché è davvero convinto che John meriti una famiglia normale, e lui ha dato la sua parola che avrebbe difeso tutti e tre per tutta la sua vita.

E di Sherlock Holmes si possono dire un sacco di cose, non tutte edificanti, ma non che non è un uomo di parola.

Purtroppo.

Come poi possa credere che quella donna sia la compagna perfetta per John, dopo tutto quello che è successo, lei non se lo sa spiegare. Quindi è riuscito a trovarla in capo al mondo – letteralmente – sempre con John al seguito. E lei ha dovuto seguirli.

Sherlock sembra aver imparato la lezione. Non ha mai più fatto l’errore di non mettere John al corrente di ogni sua mossa, facendolo sentire di essere parte di una squadra, piuttosto che un ignaro sottoposto. Non dopo aver visto quello sguardo, in quell’edificio pieno di tossici solo l’inizio dell’estate appena passata.

Anche a lei basta tornare al ricordo di quella volta per vedere gli occhi feriti di  John e la sua voce che le spezza il cuore chiedere: «Perché devi sempre lasciarmi indietro?». Quindi immagina che anche per il più giovane degli Holmes sia così.

Dopo diverse peripezie e notti in bianco, lei è riuscita a scoprire la verità. Ha capito chi è stata la talpa, prima che persino i fratelli Holmes riuscissero a farlo.

Aveva ragione Myc: le vere spie sono quelle meno sospettabili.

Lei ha capito e appena tornata da Mycroft, gli ha spiegato tutto portando anche le prove, convinta che avrebbe preso parte alla missione, come sempre.

Invece, appena finito di spiegare, ha ricevuto un ordine a cui non voleva obbedire.


«Cosa vuol dire: prenditi dei giorni di riposo?» gli aveva chiesto sconvolta. Doveva aver capito male.

«Quello che ho detto, ragazzina. Hai lavorato tanto, è meglio che ti riposi. Ci occupiamo noi di tutto, grazie alle tue informazioni.» Lui era stato glaciale mentre le parlava. Anche quando si era presentata nel suo studio, non l’aveva accolta con il solito sorriso, ma lei aveva pensato fosse per la stanchezza. Quella storia era davvero complicata e quella talpa aveva lavorato con loro per decenni. Ma evidentemente doveva essere successo altro, solo che lei non aveva idea di cosa fosse questo “altro”.

«Tu sei matto se credi che me ne vada ora. Ci sono troppe variabili. E se qualcosa non va come deve? È meglio che ci sia anche io,» aveva affermato con tono sicuro.

«Per fare cosa, precisamente? Per farti scoprire?»

La stava davvero sbattendo fuori dall’operazione?

«Mi sembra di essere riuscita a essere invisibile a loro in questi anni.»

«Non a Moriarty!» aveva sbottato improvvisamente.

«Cosa vuol dire con: non a Moriarty?» aveva chiesto lei, anche se un terribile sospetto iniziava a farsi strada nella sua mente.

«Quello che ho detto. Questa era nella tua giacca. Perché non me l’hai detto?» Le aveva mostrato un foglio stropicciato, che lei aveva riconosciuto immediatamente.

«Figlio di puttana! Quella è mia! Chi ti ha dato il diritto...»

Lui l’aveva interrotta: «Il diritto me lo da il fatto che sono il tuo capo, e devo sapere qualsiasi cosa ti riguardi per poterti proteggere, ma tu te ne freghi e fai quello che vuoi.»

«Jim non l’ha detto a nessuno. L’hai letta tutta, immagino.»

«Jim... Il tuo caro Jim era una assassino senza scrupoli, lo vuoi capire?»

«Jim era un uomo di parola. Un bastardo assassino con una mente geniale e criminale, sì, ma un uomo di parola.»

«Ti rendi conto che stai difendendo un criminale? Un criminale che uccideva chiunque non fosse più utile per i suoi piani?»

«E noi che facciamo, allora? Eh, caro “ho un piccolo incarico nel governo”? Noi cosa diamine facciamo?» Si era sentita arrabbiata, offesa. Aveva urlato, strepitato, non era sembrata nemmeno lei.

«Noi proteggiamo le persone, è diverso.» a Mycroft era sembrato intuire che c’era qualcosa in più che lei non gli aveva detto. Per questo il tono era più calmo di come si aspettava di reagire quando aveva scoperto la lettera.

«Forse tu. Io ho sempre eseguito gli ordini di persone come te. Sempre seduti alle vostre scrivanie, mentre io premevo il grilletto e uccidevo. Io non sono differente da...» La voce le si era rotta. Era questo, dunque. Finalmente lo aveva ammesso a voce alta.

«Ragazzina, ora basta. Tu non sei come loro, non lo sei mai stata. Per quanto ti abbiamo rovinato, non sei mai stata come loro, né come noi,» aveva ribattuto lui calmo, consapevole forse per la prima volta, di quanto fosse soffocante il peso che lei si porta addosso.

«Questo non toglie il fatto che non mi vuoi tra i piedi ora.» Si era calmata, a quel punto. Il tono di voce era tranquillo, rassegnato. Sapeva che nessuno disubbidisce a Mycroft Holmes.

«Londra è troppo pericolosa per te. Una città non è mai abbastanza grande quando non si vuole incontrare qualcuno.»

«Non mi hanno mai scoperta in questi anni. Mai

«Lo so, ma non posso rischiare che ti scoprano ora. Che ti scopra ora.»

«E come farai a costringermi a ubbidire a questo ordine?» lo aveva sfidato.

«Lo farai e basta. Se quella donna ti scoprisse, per John sarebbe la fine. È questo quello che vuoi? Vuoi che lei spari a John per scappare? Lo sai quanto brava è a sparare. Non è riuscita a uccidere Sherlock solo perché mio fratello deve aver fatto un patto con il diavolo. Quante probabilità ci sono che a John vada nello stesso modo?»

«Sei un stronzo, Holmes!» gli aveva sibilato contro. Convincerla forzando sulla sicurezza di John era davvero un colpo basso.

«Non sei l’unica a pensarlo, ma senz’altro l’unica ad aver avuto il coraggio di dirmelo in faccia.»

«La lettera. La rivoglio.» Aveva allungato la mano in direzione di Holmes, che l’aveva osservata rimanendo ancora seduto alla scrivania. Lo sguardo fisso, orgoglioso.

«Quell’uomo è così importante?» aveva chiesto, sembrando ferito.

«Non è questione se fosse o meno importante. Mi ha salvato la vita non rivelando chi fossi, e mi ha permesso di salvarla a Sherlock quando ho usato il suo video per bloccare quell’esilio forzato e suicida a cui tu hai dovuto costringere tuo fratello. Non è giusto che nessuno si ricordi di lui se non come il pazzo criminale. Tutte le luci hanno le loro ombre, tutte le ombre hanno la loro luce anche se tenue. Io voglio ricordare la sua.»

«Come vuoi.» L’uomo aveva ripiegato il foglio, restituendoglielo. «Tornerai alla tua missione fra qualche giorno. Non ti sto rimuovendo dal tuo incarico.»

«Lo so che credi di farlo per proteggermi, ma mi stai uccidendo, Holmes.» Si era voltata senza guardarlo in faccia, ma non aveva potuto non vedere come quell’ultima frase l’avesse turbato.


Una macchina all’esterno la stava aspettando. Anthea era lì in attesa.

«Mi farai da scorta?»

«No. Ci penseranno questi ragazzoni qui,» aveva detto, indicando due energumeni che non potevano passare per semplici autisti. «Sono venuta solo per dirti che capisco come ti senti, e sono certa che il capo abbia preso una cantonata, ma che lo fa solo perché è terribilmente preoccupato per te.»

«Sono una professionista. Faccio questo lavoro da anni. Ho rischiato la vita fin’ora. Perché adesso si preoccupa?»

«Gli hai nascosto delle cose. Non so cosa, ma è andato in panico quando l’ha scoperto. È convinto che lei sappia chi sei e voglia farti fuori. Lo so, è stupido, non ci sono prove, ma sei speciale per Holmes, lo sai. Non si è mai permesso di provare sentimenti per qualcuno, men che meno per qualcuno che lavora per lui, ma con te è diverso. Sarà che siete più simili di quanto si aspettava... Sai che Holmes con le persone a cui tiene diventa lievemente esagerato con la sicurezza.»

«È per questo che l’avevo nascosto. Sapevo che mi avrebbe allontanato dal campo se l’avesse saputo,» aveva infine ammesso, con voce stanca.

«Stai tranquilla. Un paio di giorni al massimo e sono certa che ti farà richiamare. Probabilmente ti verrà a prendere di persona.»

«Mischiarsi con la gente? Lui?»

«Per te l’ha già fatto, mi pare.»

Il ricordo di tutte quelle ore di volo che aveva fatto solo per assicurarsi che lei stesse bene le era tornato in mente come se vedesse quegli occhi chiari fissarla dal posto accanto al suo in quell’esatto momento.

«Fai un po’ la ritrosa, all’inizio. Chiedigli la sua carta di credito illimitata per farsi perdonare, per una giornata di shopping compulsivo,» le aveva poi consigliato la donna, con una risatina.

«A me non interessa fare shopping.»

«A te no, e si vede, ma a me sì. Ho già adocchiato un paio di scarpe e una borsetta che costano un capitale.» La risata liberatoria era uscita senza che potesse controllarla. «Non essere arrabbiata con lui. Non troppo, almeno. Faremo di tutto per tenerli al sicuro.»

«Ne sono convinta. Ho solo un bruttissimo presentimento.»

«Magari è solo perché sei arrabbiata e il fatto di non poterci essere e avere tutto sotto controllo ti innervosisce.»

«Forse hai ragione.»

«Vai, ora, e non fare scherzi. Hanno l’ordine di tenerti lontana da qui a ogni costo. Ed eseguiranno l’ordine.»

«Sai essere davvero spaventosa, lo sai?»

«Sì, e ne sono orgogliosa.»
 

Era così che alla fine si è trovata su quella spiaggia di prima mattina. Si è fatta lasciare lì e ha deciso di seguire il consiglio di Anthea, soprattutto per la paura di poter far fallire l’operazione se si fosse fatta vedere.

Doveva fidarsi di Mycroft, anche se lui non ha del tutto fiducia in lei visto che ha cercato tra le sue cose fino ad arrivare alla lettera.

“Non aveva tutti i torti a non fidarsi, però. Tu gli tenevi un segreto che poteva essere pericolosissimo. Se avesse avuto ragione lui?” le dice una vocina nella testa, che preferisce non stare a sentire.

È arrivata fino alla piccola casa sul mare. Una villetta che ha potuto comprare con i risparmi di una vita. Una casa che ha nascosto a tutti. Il suo rifugio segreto.

Non è molto grande. Un solo piano, una cucina, due stanze da letto, un bagno. Ma ha un portico che si affaccia direttamente sulla spiaggia e il mare il cui canto la culla e sembra proteggerla da tutto.

 
In serata, però, invece che rilassata si sente ancora più nervosa. Stare chiusa in casa la sta uccidendo. Deve muoversi se non vuole impazzire.

Scende in spiaggia con addosso solo un pantalone della tuta e un maglione di lana spessa, tanto orrendamente natalizio da metterla stranamente di buon umore, e un paio di scarpe da ginnastica vecchie e rovinate.

Arriva a un bar. Acquista una bottiglia di birra senza rendersi pienamente conto di ciò che sta facendo.

Il nervosismo comunque non vuole passare.

Torna sulla spiaggia fino al suo rifugio e si mette a osservare il cielo che è scuro e punteggiato di stelle. L’aria tersa invernale, gelida anche per l’abbigliamento non adatto, non riesce a impedirle di togliersi le scarpe, abbandonandole sul portico e di farla avvicinare all’acqua che pare chiamarla. Mille spilli sembrano colpirle i piedi mentre cammina sul bagnoasciuga. Ma non si allontana. Quel dolore la fa sentire viva.

La bottiglia è aperta, ma non ancora iniziata.

E una telefonata, che cambia ancora una volta la sua vita, richiama la sua attenzione. Sospira prima di rispondere.

«Non riesci a fare a meno di me, capo? Eppure ci siamo lasciati poche ore fa.»





Continua...



Note: Eccoci qui, all'ultimo capitolo prima di sapere la verità. Annina grazie di avermi aiutata a decidere. Spero che la soluzione vi sia piaciuta. So che probabilmente non ci troviamo con la nascita di Rosie, ho affrettato un po' le cose (sì lo so fa ridere detto da me che ho affrettato qualcosa) ma voi non vi formalizzate, vero? Come sempre grazie per continuare a restituirmi tanto amore per questa storia!

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Capitolo 16
*** 2 gennaio 2015, Londra, Alba ***


Ed eccomi qui anche oggi, sta volta dopo tutta l'attesa con cui vi ho ammorbato non potevo farvi aspettare ancora.

Un grazie per la parte medica a Susanna, almeno in questa ff so di non aver scritto cose inverosimili ed è tutto merito tuo!
Buona lettura!





Dalla tua parte




2 Gennaio 2015
Londra
Alba
 


Riprede i sensi quando sono già nel traffico di Londra.

Prima di aprire gli occhi, ha osservato le luci che colpivano le sue palpebre per qualche minuto. Ha cercato di capire perché si sta muovendo e dove si trova. Il torpore dovuto ai sonniferi le rende difficile rendersi conto di cosa sta accadendo. Inoltre, abituata a essere sempre a rischio, è pronta a scattare e uccidere appena i sensi, sempre allerta, fiuteranno un pericolo.

«Ben svegliata. Fra non molto saremo dal Capo.» La voce serena e calma di Anthea le fa tornare in mente tutto quello che è accaduto ore prima. Dov’è, con chi è e perché si stanno muovendo.

Lei non risponde, se non con un cenno. Sente la confusione ancora nella testa, i pensieri non sono chiari; deve riprendersi ancora del tutto. Almeno stanno arrivando da Myc, che le spiegherà ogni cosa. Magari la cosa non è così tragica come quella ipotetica che la sua mente sta partorendo.


Quando la macchina si ferma e apre la portiera, non sono però dove si aspettava di arrivare. Non nella villa di Holmes, non nel giardino curato. Sono davanti a un ospedale. Un ospedale militare controllato dai servizi segreti.

Il panico si impossessa di lei. Appena vede Mycroft, si alza di scatto cercando di raggiungerlo, rischiando di inciampare nei suoi stessi piedi.

«Calma, ragazzina, calma. È fuori pericolo. Sta riposando,» le dice mentre la prende al volo evitando di farla finire per terra.

Lei si aggrappa a lui, terrorizzata per John. Cosa vuol dire “fuori pericolo”? È stato dunque in pericolo di morte e nessuno l’ha informata prima?

«Non è andato tutto come speravamo. La cosa positiva è che ora entrambi hanno capito che razza di donna sia Mary. La cosa negativa è che, anche se John l’ha colpita, lei è riuscita a scappare.»

«Lei è scappata e John è in ospedale? No, le cose non sono proprio andate come volevamo.» Il tono di voce è amaro, come il sapore che sente in bocca.

«Ti racconterò tutto,» promette l’uomo. «Ma non vuoi vedere John, prima?» le chiede con voce gentile.

Lei sa che in parte si sente in colpa, e non vuole aumentare il peso che porta. L’ha già fatto quando ha saputo che Mary era incinta, e anche quando ha trovato la lettera. Sa che per lei ferire Mycroft è davvero semplice, e non voleva farlo. Non ancora una volta. «Certo.»


I corridoi bianchi tutti uguali, piani di scale e ascensori d’acciaio si susseguono mentre li attraversano per raggiungere la stanza in cui è ricoverato John. Le sembra di star percorrendo la strada più lunga.

Quando arrivano davanti alla porta giusta, Mycroft la ferma. «È stato colpito alla spalla. Non è cosciente, ma il medico mi ha assicurato che l’operazione è andata bene. Hanno asportato il proiettile senza gravi conseguenze. Ho dato io il consenso per operarlo. Volevo aspettarti, ma mi hanno fatto capire che era meglio operare subito, quindi...»

«Hai fatto quello che andava fatto,» risponde lei. È spaventata, ma è anche grata a Mycroft per essere rimasto con John ed essersi preoccupato per lui.

«Sherlock è con lui. Separarli è stato impossibile, a malapena sono riuscito a tenerlo buono quando era in sala operatoria.»

Lei gli rivolge un sorriso debole a cui lui risponde grato.

«Farà domande. Cosa gli devo dire?» gli chiede, trovando difficile continuare a recitare.

«La verità, se vuoi. Basta bugie tra noi. Basta.» Sembra che Mycroft al telefono abbia detto la verità. Vuole davvero che questo segreto sia svelato.

Entrano nella stanza e Sherlock si alza di scatto.

«Mycroft, che ci fai qui? Non ho intenzione di andare a casa, te l’ho già detto. E lei chi è?» Una valanga probabilmente sarebbe più discreta di uno Sherlock Holmes in preda a una crisi di nervi.

«Bisogna prendere delle decisioni per il dottore, Sherlock. Per questo lei è qui.»

«Che cosa vuoi dire? Non la conosco. Chi diamine è per poter prendere decisioni per John?»

È allora che lei prende la parola, distogliendo per un secondo lo sguardo da John, immobile e pallido su quel letto anonimo. «Devi essere molto sconvolto, Sherlock, per non averlo capito. In altre occasioni ti sarebbe bastata una semplice occhiata.»

Lo vede osservarla prima di sgranare gli occhi e scuotere la testa. Sembra abbia visto un fantasma. Ma del resto in un certo senso lo era stata sul serio, per tanto, troppo tempo.

«Sì, invece, Sherlock, sono proprio io. Sono Hariett Watson e sono sua sorella.»


Per un perfetto istante l’unico rumore nella stanza fu quello delle macchine che monitorano il riposo di John. Ma fu appunto un solo istante.


«Tu lo sapevi? Ma certo che lo sapevi! Tu e la tua fissa di manipolare gli altri. Come potevi non essere a conoscenza di questo? Da quando? Da quanto tempo nascondete questo giochetto?» È percepibile tanta acredine negli sguardi che lancia Sherlock al fratello. «John aveva bisogno della sua famiglia e tu dov’eri? Sai quanto ti ha cercata? Persino al matrimonio non eri presente. Ti ha invitata, ma tu non ti sei neanche degnata di rispondere. Sai quanto la cosa l’abbia ferito? Riesci a immaginarlo?» Si rivolge a lei con la stessa asprezza riservata a Mycroft, ma lei non si scompone di una virgola. Anzi, trova quasi divertente Sherlock in versione paladino della giustizia. Gli manca una lucente armatura e un destriero immacolato, e l’immagine sarebbe perfetta. È una veste davvero inedita, così spudorata. Grida le sue accuse da lei al fratello senza riuscire a fermarsi. Vorrebbe tanto ridere se non fosse che lui reagirebbe sicuramente male a una sua risata.

«Sherlock, non è il caso di fare tutta questa confusione. Soprattutto se non vuoi che i medici ti allontanino da qui.» Basta quella frase dalla voce calma di Mycroft per fermare il fiume in piena che è diventato il minore degli Holmes.

«Non me ne vado da qui, non importa chi sia lei.» Lo vede avvicinarsi ancora di più a John. Nemmeno per un istante ha staccato la sua mano da quella del dottore, ma ora pare stringerla più forte, come se questo ribadisse che niente e nessuno potrà allontanarlo dal capezzale del dottore.

«Non mi pare abbia detto che te ne devi andare,» precisa lei.

Un leggero sospiro di sollievo proviene da Sherlock mentre le spalle si rilassano impercettibilmente.

«Racconterò tutto quello che c’è da raccontare appena John si sveglierà e sarà stabile, se vorrà vedermi. Ma sappi una cosa, Sherlock: io avrò sbagliato – è evidente che è così – ma anche tu. Se non avessi fatto di testa tua, decidendo per lui e volendo fare tutto da solo, ora non saremmo in questa situazione. Lo so che non vuoi sentirtelo dire, ma l’errore è stato di tutti noi. Ci siamo sempre comportati come se John fosse una vittima da proteggere, dimenticandoci che lui è un cazzo di medico militare. È un cecchino. Ha salvato vite, ma ne ha tolte anche parecchie. Sa uccidere, probabilmente in più modi di quanti ne conosciamo noi, e non ha bisogno di babysitter che si occupino di lui. John ha passato tutti questi anni accanto a te, tra assassini e criminali per sua scelta. Non è una vittima accidentale, non ci è finito per caso. Ha visto cosa comportava essere il tuo coinquilino e non solo gli è andato bene, ma gli piaceva un sacco. Ha deciso di entrare nell’esercito per sua scelta, nessuno lo ha costretto. Poteva fare il medico qui, al sicuro, poteva specializzarsi e diventare uno di quei chirurghi strapagati, ma ha deciso di sporcarsi le mani. Lo ha fatto perché voleva farlo. E noi, anche se abbiamo sempre fatto tutto credendo realmente di fare la cosa giusta, abbiamo sbagliato. Perché non abbiamo rispettato le sue scelte, non abbiamo rispettato lui. Io non farò mai più un errore simile, e tu?»

Non aspetta la sua risposta. Sente il telefono vibrare nella tasca dei pantaloni e guardando il display un moto d’odio prende il sopravvento su tutti gli altri sentimenti per un lungo secondo. Si volta verso Mycroft, facendogli vedere il cellulare prima di uscire dalla stanza per rispondere.

“Moran” – quel nome che aveva imparato a odiare – lampeggia sullo schermo.


«Ehi, cominciavo a credere che non avessi più bisogno di me,» trova la forza di rispondere con voce ferma, quasi annoiata.

«Invece ora ne ho davvero bisogno.» La voce è affaticata, come se faticasse a parlare.

Non riuscì a impedirsi di gioire del suo dolore.

«Cos’è successo?» solo ora si rende conto che non sa davvero cos’è accaduto a quella donna. Mycroft ha detto che è ferita, ma non ci ha seriamente dato peso. L’unico di cui le importa è steso nella stanza che ha appena lasciato.

«Il dottore mi ha colpita al fianco.»

«Il dottore? Mi avevi detto che lo avevi sistemato.»

«Speravo fosse così, ma ora dovrò farlo, definitivamente. Devono morire. Mi vuoi ancora aiutare?»

Sente crescere in lei la rabbia. Quella donna riesce a far uscire il lato peggiore di lei.

«Non devi neanche domandarmelo,» riesce a rispondere. «Ma prima devi farti curare. Conosco una persona, se vuoi. Un chirurgo davvero bravo, con una scarsissima deontologia professionale. Diciamo che per soldi non si fa problemi. Mi deve un grande favore, ti riceverà subito.»

«Sarebbe fantastico. Intanto potresti cercare di entrare nelle grazie degli Holmes.»

«Hai idea di come fare?» Non può impedirsi di domandare cosa ha in mente questa volta.

«Entra nel loro giro. Ti posso far avere una falsa identità in pochi giorni. Cerca di farti amica l’assistente dello spilungone. Quella tizia non mi pare faccia altro che fare shopping e giocare con il cellulare.»

«Non credo che sia così semplice.» Anthea è molto di più, ma è essenziale che tutti credano che sia solo una bella ragazza che accompagna Mycroft in giro per gli appuntamenti.

«Lo è. Gli Holmes sono spariti con il dottore. Non so dove l’abbiano portato; sono dovuta fuggire per non essere presa; ma so di averlo ferito, forse anche gravemente, ma sicuramente se c’è una possibilità di salvarlo faranno in modo che avvenga, Cristo! Sherlock è ancora vivo nonostante gli abbia sparato quasi al cuore. Ancora non me ne capacito.»

«Questa è una cosa che non smetterò di rinfacciarti di tanto in tanto.» La sente sbuffare dall’altra parte della linea. Non sa se è per coprire una risata, o per il dolore che ridendo la ferita deve averle mandato lungo il corpo. Ovviamente spera nella seconda ipotesi.

«Comunque, con gli Holmes fuori gioco, sono certa che riuscirai a farti una nuova amica senza grandi problemi. E una volta che sarà dalla tua parte, riuscirai a scoprire dove diamine sono finiti tutti.»

«Va bene. Avviso il chirurgo di cui ti ho parlato e ti mando il suo indirizzo. Tu dimmi dove trovare il falsario.»

«Ti mando subito l’indirizzo.» Poi, come se all’improvviso le venisse in mente un particolare che aveva dimenticato, aggiunge: «Una volta sistemati Holmes e il dottore, dovrò occuparmi anche della bambina.»

«Bambina?» Le si gela il sangue nelle vene. «Che bambina?» riesce a domandare, sperando di mantenere un tono sorpreso. Del resto non le ha mai parlato della figlia. Non le ha mai detto molto in realtà, solo di aver trovato il modo di tenere a bada i loro bersagli. «Io non uccido bambini, lo sai.» Su quel punto è stata chiara fin dall’inizio. Anche davanti a Moriarty non ha nascosto questa cosa. È una regola, forse l’unica regola morale che è riuscita a rispettare e a fronte di cui non è mai scesa a patti.

«Lo so, lo so... Hai ancora una coscienza, ma io no. Me ne occuperò personalmente. Del resto è mia. Farò quello che voglio.»

«Tua?» domanda, cercando di farla ragionare. Suvvia, non può davvero voler uccidere sua figlia.

«Già. Non ti ho detto della mia famigliola? Beh, poco male. La farsa è durata anche troppo. Inutile che mi preoccupi ora di lei. Non voglio che intensifichino la protezione per il dottore. Ci sentiamo appena abbiamo novità.»

«D’accordo. È l’idea migliore.» Chiude la conversazione e non riesce a bloccare un conato di vomito che la colpisce in pieno. Riesce ad arrivare a stento a un cestino.


La presenza di Myc dietro di lei la percepisce all’istante. La mano grande, calda e ferma sulla sua schiena è il suo equilibrio fisico ma anche mentale. Le porge un fazzoletto, senza domandarle nulla.
Un’infermiera si avvicina, lei le chiede scusa con lo sguardo, l’infermiera le sorride e la accompagna nel bagno vicino per farle sciacquare la bocca e rinfrescarsi. Nessuna parola, non serve. In mente solo l’odio nei confronti di Moran. Quella donna non ha un minimo di umanità in corpo.

Una volta fuori dal bagno vede Mycroft aspettarla.

«Dalla tua reazione direi che si è superata, questa volta.»

«Non hai idea di quanto. Comunque, so dov’è e posso portarla dove vuoi. Decidi tu cosa vuoi fare.» Il virus che le ha mandato è ancora nel suo telefono e monitorava ogni sua mossa con una precisione di un paio di metri.

«Ha un piano?» domanda Holmes, molto tentato di mettere fine alla cosa, finalmente.

«Vuole che mi avvicini ad Anthea. Che mi insinui nella squadra per scoprire dov’è John.»

«La ferita è grave?» chiede, probabilmente per valutare l’urgenza delle mosse da attuare.

«La voce era stanca ma abbastanza ferma. Certo, non posso esserne sicura, ma non sembrava in pericolo di vita.» Il suono di una notifica la interrompe. «Mi ha mandato l’indirizzo di un falsario. Le ho detto che le avrei mandato l’indirizzo di un medico che...»

«Non c’è bisogno che mi dici altro, ho capito. Fai come hai detto. Voglio catturarla e farle pagare tutto, ma non voglio che tu perda l’occasione di stare vicino a tuo fratello, ora. Prendi tempo e manda avanti il piano.»

«Chiamo il dottore, allora, e le mando l’indirizzo. Poi andrò dal falsario e si comincia l’ultimo atto di questa storia.»

Holmes annuisce. Lei prende il cellulare e compone il numero a memoria. Nel suo lavoro scrivere certe informazioni può essere controproducente.

Bastano pochi squilli prima che il medico risponda.

«Ehi, doc, bella giornata vero? Ho un’amica che ha bisogno del tuo aiuto, e sono certa che non avrai alcun problema a darglielo. So quanto ti prodighi per fare in modo che tutti abbiano le cure adeguate. La mando al solito indirizzo? Molto bene. Ah,» aggiunge, con un tono che sembra totalmente disinteressato ma che ovviamente non lo è per nulla. «Volevo farti i complimenti. Tua figlia sta crescendo davvero bene. La prima del suo corso! Sarete orgogliosi di lei. Tra l’altro sai, quel nuovo taglio di capelli le sta davvero bene.»

Lo sguardo di Mycroft è sorpreso. Non conosce quel lato della sua personalità, quella non tanto velata minaccia travestita da semplice conversazione. Proprio non se l’aspettava da lei.

«Su, dottore, non mi fare queste domande. Te l’avevo promesso che avrei vegliato su di te e sulla tua famiglia. Finché sarai leale farò in modo che nessuno vi faccia del male. A che ora le dico di venire? Oh, è davvero gentile dottore, la ringrazio; e mi saluti sua moglie.» Mette giù senza aspettare una risposta e digita in fretta il nome e l’indirizzo del medico nel messaggio che invia a Moran.


«Devo ammettere che mi hai messo paura,» commenta Mycroft.

«Per un po’ il mio lavoro era uccidere persone. Dovresti sapere di cosa sono capace.»

«So cosa sei in grado di fare. L’ho visto con i miei occhi anche prima di conoscerti. Eri una leggenda nei piani alti, sai, ragazzina?»

«Ma davvero?» chiede lei, lusingata e incredula. Non ha mai pensato di essere così famosa.

«Anche prima di conoscerti sapevo chi eri, sapevo cosa eri in grado di fare, sapevo che eri il migliore agente che avessimo mai addestrato. Poi ti ho conosciuta e ho potuto vedere il tuo lato umano. È stato strano. Per un po’ di tempo non riuscivo a far coincidere l’idea che mi ero fatto di te sapendo quello che eri in missione con l’irriverente ragazzina che non ha problemi a criticarmi, che adora leggere e che si commuove guardando un film.»

Lei sa di essere arrossita, ma finge di non darci peso. «Nessuno può rimanere indifferente guardando Dumbo

«Già, perché tutti gli agenti passano il loro tempo libero a guardare i cartoni della Disney

«Ehi, non osare dire nulla contro i Classici Disney

«No, no, per l’amor del cielo. Ci tengo alla mia vita.» Un sorriso distende le labbra dell’uomo.

«Per quanto tempo John sarà incosciente?»

«Non lo so. Devo ancora parlare con il dottore. Ma tra gli antidolorifici e gli antibiotici, credo ci metterà ancora un po’, perché?»

«Perché devo andare dal falsario, e preferirei farlo sottraendo meno tempo possibile a John.»

«Vuoi andarci subito?»

«Preferirei. Ma non voglio che possa seguirmi qualcuno. Dovrò stare molto attenta.»

«Sono certo che riuscirai a sparire senza lasciare traccia come fai di solito.»

«Sì, in qualche modo lo farò.» Non permetterà mai che qualcuno si avvicini a John, specialmente non ora.

«Non mi hai ancora chiesto come mai ha sparato a John,» le dice.

In effetti è vero, ma è come se già lei lo sapesse. «Ha fatto scudo a Sherlock, giusto? Mi racconterai tutto dopo. Adesso voglio solo sistemare questa cosa con il falsario.»

«Sei peggio di mio fratello. Come lo hai capito?»

«Perché conosco il mio di fratello. Oltre a questo, Sherlock ha lo sguardo di chi si sta dando tutta la colpa. Cosa davvero stupida, tra le altre cose. Non poteva impedire a John di fare quello che voleva. Nessuno può farci nulla con la testa dura che si ritrova...»

«Testa dura? Chissà chi mi ricorda?» la prende in giro lui.

«Davvero non so,» ribatte lei, fingendo di non aver capito.

È strano come Mycroft Holmes, l’uomo che ha tra le mani le scelte del governo britannico, l’uomo che fondamentalmente ispira rispetto e timore a chiunque, riesca sempre a tranquillizzarla. Piccoli sorrisi, battute stupide che riescono nel loro piccolo a mettere un po’ d’ordine nella sua testa e nel suo cuore.

«Quello è il chirurgo che ha operato il dottore,» le dice, indicando un uomo con il camice che sta entrando nella stanza di John.


Si affrettano a entrare. Sherlock non si è mosso da dove era.

«Signor Holmes, la signorina è...?» chiede l’uomo a non appena li vede entrare.

«Sono la sorella del dottor Watson,» risponde lei immediatamente. Poter parlare liberamente della sua vera identità le mette i brividi, non ne è abituata.

«Oh, perfetto, quindi posso parlare direttamente con lei. Se i signori vogliono uscire...»

Sherlock si volta di scatto. Decisamente non è molto d’accordo con la cosa. Mycroft lo osserva e sorride sfinito. Non riesce nemmeno a immaginare come dev’essere stato tenere buono Sherlock per l’operazione.

«Non ce n’è bisogno. Sono certa che per mio fratello loro facciano parte della famiglia tanto quanto me.»

Le spalle di Sherlock si rilassano e torna a prestare attenzione a John, risistemandosi sulla sedia di fianco al letto.

«Ne è sicura?» si premura di chiedere il chirurgo.

«Ne sono più che sicura,» afferma lei convinta.

«Bene, se per lei è tutto a posto, non vedo perché no. Il signor Watson è stato colpito da un proiettile di piccolo calibro. La cosa importante da sapere è che non ha subito gravi ripercussioni. Il proiettile non ha colpito vasi principali o nervi, quindi guarirà senza complicazioni. L’unico lato negativo è che il proiettile si è conficcato nella clavicola e ha creato una frattura. Dovrà tenere il gesso per almeno un mese e fare riabilitazione.» Solleva lo sguardo dalla cartella medica di John e con uno sguardo divertito aggiunge: «E visto che è un collega, so per certo che sarà un pessimo paziente, quindi vi farà dannare. Tenete duro.»

«Sono certa che troverà pane per i suoi denti,» risponde Hariett osservando di sbieco Sherlock. Poi però la sua attenzione è di nuovo su John. «Dottore, era già stato colpito in precedenza a quella spalla. La cosa non può complicare la guarigione?»

«No, i colleghi che l’hanno operato precedentemente avevano fatto un ottimo lavoro, ed era completamente guarito; quindi da questo punto di vista siamo totalmente tranquilli. Quello di cui dovete rendervi conto è che è stato davvero fortunato. La clavicola ha bloccato il proiettile che altrimenti avrebbe preso la succlavia. E quello sarebbe stato fatale.»

«Dottore, però qualcosa non va. Se tutto è andato come doveva andare e l’operazione non ha avuto complicazioni, perché è ancora sedato?» domanda lei, dando voce alla sua preoccupazione, che fino a quel momento ha cercato di tenere a bada.

L’attenzione di Sherlock, che fino a quel momento è stata concentrata solo su John, si sposta sulla conversazione.

«Questo, signorina, non è del tutto vero. Suo fratello si è risvegliato dopo l’operazione. Abbiamo ovviamente aspettato che si svegliasse prima di riportarlo in camera, e non è più sotto sedativi.»

«Ma allora perché non è sveglio?»

«Non ci sono motivi medici. Dal punto di vista fisico è tutto assolutamente nella norma. Ma credo che il suo sonno sia più che altro uno stato mentale.»

«Quindi non si sveglia perché non vuole farlo?» Chiede Sherlock, turbato.

«Può capitare dopo un forte stress o uno shock. La mente è molto più forte di quello che noi riusciamo a immaginare. E comunque c’è anche da dire che è sotto antibiotici e sotto antidolorifici, e per quanto non gli stiamo dando più sedativi, sono ancora in circolo nel sangue. Ci metterà un po’ a smaltirli e per questo ogni persona reagisce in maniera differente. Non c’è da preoccuparsi. Sono certo che nel pomeriggio, massimo in serata, si sveglierà.»

«Quanto tempo dovrà rimanere fermo?»

«Per almeno un paio di settimane, venti giorni. Non deve sforzarsi. Dopo vedremo come si evolve la cosa.»

«Tenere John tranquillo senza fargli fare sforzi per venti giorni? Lo legate voi al letto?» Scherza Hariett, che conoscendo il fratello sa benissimo quanto dover stare tranquillo ed evitare sforzi lo renderà insopportabile e intrattabile.

Il medico ride. Con quella battuta, lei spera di risollevare Sherlock, che sembra terrorizzato dal fatto che John non sia ancora sveglio.

«Mi raccomando: è vero che deve stare a riposo, e non deve fare sforzi inutili, ma non è che deve rimanere immobile, anzi. È meglio che si metta in piedi quanto prima, perché noi vogliamo evitare eparina e rischi di embolia, giusto?»

«Direi decisamente che li vogliamo evitare. Appena John si sveglierà e saprà che deve stare riguardato per venti giorni, darà di matto,» continua Hariett.

«Lo immaginavo. Se volete rimanere va bene, ma avvisate le infermiere se notate cambiamenti.»

Hariett aspetta che il dottore sia lontano prima di prendere la parola: «Ascolta, Myc credo sia meglio che io vada. Devo sistemare quella faccenda. Rimani qui o devi tornare in ufficio?»

«Posso rimanere. È chiaro che la cosa sia molto importante. Ha preso in giro tutti e catturarla è diventato primario per l’intera squadra.»

«Perfetto. Se ci sono notizie mi chiami?»

«Ma certo.»

«Fammi capire...» La voce bassa di Sherlock la sorprende. Sembrava non avere alcuna intenzione di rivolgerle la parola. «Tuo fratello è stato appena operato, tu non lo vedi da anni e invece di stare qui con lui, te ne vai in giro per la città come se nulla fosse? Cosa c’è di più importante di John?»

Hariett si volta, sfidandolo con lo sguardo e facendogli capire quanto il suo giudizio affrettato le dia fastidio.

«Primo: tu non hai la minima idea di quanto sia stata vicina a entrambi in questi anni. Secondo: vuoi sapere cosa c’è di più importante di stare qui con John? Semplice! Salvargli la vita, catturare quella donna e fare in modo che non possa più fare del male a nessuno.»

«E tu pensi di poterci riuscire?»

«No, io non penso di poterci riuscire. Io so di poterlo fare. E poi John lo lascio in buone mani.» Si volta verso Mycroft. «Tornerò il prima possibile. Farò un giro largo per evitare sorprese.»

«Se hai bisogno sai che i miei uomini sono tutti a tua disposizione.»

«Lo terrò presente.»

«Da quanto lavorate insieme voi due?» interrompe Sherlock guardandoli, forse davvero per la prima volta, incuriosito.

«Da quanto conosci John?» risponde lei con un alzata di spalle.

La guarda sorpreso.

«Spero che tu abbia intenzione di dirglielo. Perché altrimenti lo farò io. Non voglio più mentirgli.»

«Saprà tutto, e lo saprai anche tu, ma preferirei raccontarlo una volta sola se non ti dispiace.»

Lui annuisce tornando a dare la sua attenzione a John. Lei nota la mano del fratello, ancora stretta tra grandi mani di Sherlock, che non l’hanno lasciata un istante. Sorride mentre si volta pronta a ricominciare la recita.

 
La bettola dove Moran l’ha mandata è talmente tanto in periferia che si è domandata se fosse effettivamente ancora a Londra.

L’uomo, il falsario, è un ometto magro, di un età che può variare tra i cinquanta e i centodieci anni. Lo dimostrano la pelle gialla (probabilmente dovuta alla quantità non indifferenti di sigarette che sembrano comparire magicamente tra le sue dita), gli occhi iniettati di sangue e il viso che ricorda il muso di un topo.

A guardarlo superficialmente non gli si darebbe un centesimo di fiducia, ma lei sa perfettamente come certe persone siano bravissime a nascondere le loro qualità dietro a un aspetto mediocre.

Del resto, se Moran si serve di lui, non ha dubbi che sia uno che sa il fatto suo.

Certo, poteva anche essere una trappola. Forse lei sapeva e voleva ucciderla, ma in cuor suo non si preoccupa della cosa. Sa difendersi. È stata in situazioni più pericolose e il risultato è che lei è lì in quel momento, i suoi avversari non sarebbero stati da nessuna parte, mai più. Ovviamente sta attenta, non è certo una stupida, ma non ha paura.

Ha già la foto pronta. Moran ha spiegato cosa sarebbe servito.

«Ma bene... Finalmente un viso che merita di essere visto. In genere i miei clienti fanno paura.»

«Fossi in te non guarderei il mio viso tanto attentamente. Potrebbe darsi che ti distrai e può capitarti un incidente.»

«Dovevo aspettarmi un caratterino del genere... Del resto, chi ti ha mandato da me è una delle persone più pericolose che abbia mai incontrato. E ne ho incontrata, di gente pericolosa...»

«Hai quello che mi serve?» chiede lei secca.

«Non puoi aspettare, vero?»

«Se dici tu alla nostra amica comune perché non posso essere operativa da subito, posso aspettare,» risponde allora con un tono quasi divertito. Sa che l’uomo non avrà mai il coraggio di dirglielo, ma sfidarlo a riguardo è esilarante.

«Non c’è bisogno di minacciare. Mi serve solo la tua foto,» dice infatti lui, come previsto.

Lei gliela passa, lui la scannerizza e si mette a digitare al computer.

«Ormai sono rimasti solo i passaporti che mi danno soddisfazioni,» dice, mentre sullo schermo inserisce la foto nel giusto spazio. Dopo poco fa partire la stampa, e la nuova carta d’identità – una tessera lucida e perfetta – è pronta. «Un regalo di un amico,» rivela l’uomo, accarezzando la stampante speciale che è usata negli uffici dell’anagrafe per i documenti.

Lei pensa immediatamente a Moriaty.

Dopo la carta d’identità è la volta della patente. È tutto così dannatamente semplice e capisce la noia di falsificare i documenti. Una volta era un’arte. Ora con il materiale e gli agganci giusti, chiunque può farlo.

Per il passaporto la faccenda è un po’ più complicata, ma lei preferisce aspettare per avere tutto subito. Non vuole dover tornare in quel posto rischiando di farsi seguire.

Per quello, oltre il supporto, è necessario ancora saper falsificare la grafia, la firma, avere o essersi creato il timbro giusto. E anche i timbri di altri Paesi per rendere il passaporto più credibile.

Lei rimane seduta in silenzio a guardarlo lavorare.

Ore dopo, quando anche il passaporto è pronto, lui si gira con aria di sfida.

«Io ho fatto. I miei soldi?»

Lei si avvicina al computer, lui tenta di fermarla. «Se vuoi i tuoi soldi, devo poterteli mandare. Non penserai certo che me ne vada in giro con una somma del genere in tasca?»

«Di solito mi pagano in contanti.»

«Li vuoi o no i soldi?» gli dice mostrandogli, molto casualmente, la pistola che attende solo di essere usata.

Lui indietreggia e annuisce. «Certo certo. Donna di classe, lei,» balbetta, mentre le dà le coordinate di un conto bancario in un qualche paradiso fiscale.

Così, oltre a mandargli un considerevole mucchio di denaro, cosa di cui deve ringraziare Holmes, riesce a cancellare tutto ciò che la riguarda dal computer. Senza che il proprietario del suddetto computer se ne accorga.

È pronta a inviare i soldi quando si volta. «Non che non mi fidi, ma ora potresti darmi i miei documenti?»

Lui è un po’ titubante, ma ha solo voglia che lei se ne vada; inizia a mettergli paura. Glielo legge negli occhi e ne è soddisfatta.

«Ecco. I miei soldi?» cede lui, allungandole il piccolo plico di roba.

Lei osserva i documenti. In effetti sono davvero fatti bene.

«Quel che è giusto è giusto.» Si alza e si avvicina alla porta, sente gli occhi di quell’uomo seguirla. Quindi aggiunge: «Se non vuoi perdere la transazione, fossi in te schiaccerei invio abbastanza in fretta.»

Lui si volta e vede il conto alla rovescia sullo schermo.

Sente che la sta maledicendo e sorride sparendo tra le ombre.





Continua...




Note: Ed eccoci qui, niente sorprese dal punto di vista della misteriosa protagonista, credo che prima o dopo ci siete arrivati tutti, se non l'aveste fatto, è solo perchè sono bravissimaaaa (si certo come no XD) però qui ecco che una sorpresa c'è. E immagino non siate molto allegri per questa sorpresa, vero? Forse ho seguito troppo le orme dei due sceneggiatori infernali e sono diventata crudele anche io.
Comunque eccoci qui, addio trama originale ben venuta fantasia, sperando di far meglio XD
Grazie come sempre per le recesioni e per amare questa storia!

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Capitolo 17
*** 2 gennaio 2015, Londra, ospedale militare ***


Credevate che mi fossi scordata?  E invece no, eccomi qui! Sono ancora in tempo, siamo ancora a venerdì XD
Un po' di nodi si sciolgono, un po' di passato viene spiegato, buona lettura.





Dalla tua parte




2 gennaio 2015
Londra
Ospedale militare


 
Hariett osserva nervosa il fratello. È pomeriggio inoltrato, le brevi ore di luce sono sparite da un pezzo e John non sembra abbia ancora intenzione di svegliarsi. L’ha visto agitarsi nel sonno e ha osservato come solo la stretta della mano di Sherlock sia riuscita a fermare l’incubo in cui è caduto.

Sherlock, dal canto suo, è stanco e spaventato come non lo è mai stato. Avendolo seguito per anni, ne è certa. Essere catturato e torturato non è stato nulla in confronto al dolore che sta provando in quel momento. Si sarebbe consegnato spontaneamente a qualsiasi aguzzino per vedere anche solo per un istante gli occhi di John aprirsi e sapere con certezza che è fuori pericolo e che starà bene.

Sherlock si è addormentato durante il primo pomeriggio e ha sognato un John imbestialito con lui, che lo picchiava e lo guardava con odio. Si è svegliato con il cuore ferito e dolorante. L’odio negli occhi di John è una cosa che non vorrebbe mai vedere rivolto verso di lui.

Fino a quel momento, nonostante gliene avesse fatte passare tante, non è mai successo che l’odio si sia presentato in quegli occhi.

Lo ha deluso – quello lo ha fatto alla grande –, e la rabbia era del tutto visibile quando è tornato dalla tomba. Ma l’odio? No. L’odio non è mai stato per lui. Lo sguardo d’odio l’ha riservato a Moriarty e a Magnussen, ma mai, mai verso di lui.

Eppure, Sherlock sente che se lo merita, si merita molto di peggio che un naso tumefatto e qualche battuta acida.

Quello è stato senza dubbio l’incubo peggiore che abbia mai fatto.

Hariett osserva la scena dal corridoio, grazie al vetro che permette di monitorare la stanza, senza però avere il coraggio di avvicinarsi. Si sente di troppo, e nonostante Mycroft continui a spingerla verso il letto del fratello, lei trova ogni scusa per non dover entrare in quella stanza.

Il senso di colpa è una cosa tremenda con cui avrebbe dovuto convivere. Qualsiasi scelta avrebbe fatto John saputa la verità.

Certo, questo è un problema che dovrà affrontare quando e se John si decide a tornare da loro.

«Ragazzina, andrà tutto bene.» Come al solito, il suo angelo custode si fa sentire nel momento in cui lo sconforto e la paura rischiano di farla impazzire.

«Se non si svegliasse? Dio, Mycroft! Se non avessi mai l’occasione di dirgli la verità?»

«Stammi a sentire: tuo fratello è la persona con il carattere più forte, la persona più testarda e pazza che io conosca. E credo che non debba ricordarti chi è il mio, di fratello. Lo hai detto anche tu: John ha scelto di stare con Sherlock anche se ha visto cosa comportava. Gli tiene testa, Dio! Tiene testa anche a me. Credi davvero che si lascerà sopraffare da un incubo?»

«Vorrei solo che aprisse gli occhi.»

«Lo so, ragazzina.»

Hanno dovuto aspettare ancora qualche ora prima che ciò avvenisse.
 

Sherlock percepisce la sua mano venire stretta. Non è uno spasmo involontario. Quelli si erano susseguiti più o meno dalla mattina. No, John sta tornando in sé, e i suoi sensi si stanno risvegliando poco a poco.

Le sue ciglia vibrano prima che, lentamente, quei pozzi blu che si ritrova John al posto degli occhi, tornano ad aprirsi. Dopo un tempo che è sembrato eterno.

«Sherlock?» La voce debole e roca di John rimette in moto il cuore del consulente investigativo.

«John, stai tranquillo, sei al sicuro. Stiamo tutti bene.»

«Cos’è successo?»

«Mi hai salvato la vita.»

«Ma, tu... Tu mi ha salvato. Sei stato tu a salvarmi.» John sembra molto confuso, come se ancora non sia del tutto sveglio dal suo incubo. Poi, come colpito da uno sprazzo di lucidità, spalanca gli occhi e con il braccio destro si aggrappa a quello di Holmes, come se si aspettasse di vederlo sparire davanti a sé. «Oddio, Sherlock! Stai bene?»

«In un letto d’ospedale ci sono io o tu?» gli chiede Sherlock, ironico come solo lui sa essere, con il sopracciglio alzato e quel sorrisino da schiaffi.

«Ero in un pozzo...» continua John, come cercando di ricollegare tutto quello che crede di aver vissuto, di dividere il vero dall’irreale.

«No, John, nessun pozzo,» gli dice Sherlock, attento a ogni sua espressione.

«Ma c’era tua sorella...» continua sempre convinto John.

«Io non ho sorelle.» Sherlock risponde con un tono calmo, anche se in realtà si sta preoccupando. John gli sembra piuttosto confuso. «A meno che non ti stai riferendo a Mycroft... In effetti, nei panni di Lady Bracknell nello spettacolo teatrale “L’importanza di chiamarsi Ernesto” al college, non era male; ma non credo tu possa averlo visto.»

«Era una sorella segreta...» insiste il dottore.

«John, quante volte te lo devo dire? Se uno ha o no un fratello o una sorella lo sa, e se non lo sa difficilmente lo sa l’altro. Non siamo in un libro o in una scadente serie televisiva. Questa è la realtà, e nella realtà le sorelle segrete non esistono.» A Sherlock quel modo di insistere sui fratelli segreti ha sempre fatto sorridere. John è fissato con la possibilità che esistano gemelli segreti o comunque fratelli. Ciclicamente li tirava fuori nelle sue teorie. Evidentemente, visto che la realtà aveva dimostrato ampiamente quanto fosse una teoria impossibile, il suo subconscio l’ha utilizzata nei suoi sogni, dove nessuno può impedirgli di credere quello che vuole.

«Ma sembrava così vera... Sembrava tutto così vero...»

«Anche io ho fatto un incubo, John, ma era solo quello; un incubo,» dice, più per convincere sé stesso che l’altro.

«Cosa hai sognato?» vuole sapere John.

«Non lo ricordo,» si mantiene sul vago l’investigatore.

«Non dire bugie. Lo ricordi bene. Su, non mentire a un povero uomo ferito.»

«Stai cercando di farti compatire?»

«Solo se serve per sapere la verità.»

«Va bene, va bene. Eri arrabbiato con me – tanto arrabbiato! Mi odiavi e mi colpivi.»

«Sherlock, quante volte te lo devo dire? Io non potrei mai odiarti! Mi fai saltare i nervi più di chiunque, ma mai, mai ti ho odiato. Se vedi odio nei miei occhi, se ti dico che ti sto odiando, è ovvio che è solo un sogno. Suvvia, credevo fossi tu quello intelligente,» risponde il dottore facendogli il verso.

«Forse non lo sono così tanto.»

«Sono felice di vedere che stai bene, Sherlock.»

«Sono felice che tu sia tornato, John.»

«Che cosa mi è successo?» chiede, guardandosi finalmente intorno e osservando il braccio fasciato e la spalla bloccata.

«Frattura alla clavicola. Dovrai stare a riposo per una ventina di giorni. Sei stato fortunato.»

«Quando posso tornare a casa?» Quelle pareti bianche lo stanno già soffocando.

«Devi stare qui un paio di settimane. Ti hanno operato, John.»

«Ma io sto bene! Non posso stare a riposo a casa? Sono un medico. So cosa devo fare.» Ha troppe cose da fare per rimanere imprigionato là dentro. In due settimane chissà in che guai si poteva cacciare Sherlock, se non lo teneva sott’occhio costantemente.

«Lo aveva detto che avresti dato di matto.»

«Chi?» chiede Watson, curioso.

«Cosa?» cerca di eludere la domanda Holmes.

«Hai detto che qualcuno ha affermato che avrei dato di matto... Di chi stai parlando?» Questo è un esempio della capacità di John di sembrare distratto ma in realtà notare sempre più di quanto da a vedere.

«...»

«Sherlock?»

«Nessuno. Forse è meglio che chiamo il medico. Dovranno controll...»

«William Sherlock Scott Holmes! Non cercare di svicolare! Chi mi stai tenendo nascosto?»

Hariett, dal corridoio, sorride ricordandosi come la loro madre usasse sempre questo metodo quando doveva zittirli e sapere la verità su qualche loro marachella.

«Oddio... Mary è qui? Rosie? Dov’è Rosie?» Sembra terrorizzato. Come un fulmine a ciel sereno il ricordo della moglie e della figlia lo mettono in guardia.

«Calma, calma... Mary purtroppo non sappiamo dove si trovi. L’hai ferita, ma è riuscita a fuggire. Rosie è con Mrs. Hudson. Mycroft le ha portate in un luogo sicuro e ci rimarranno finché questa storia non sarà finita e sarete tutti al sicuro.» Lo vede rilassarsi un poco a quelle risposte.

«Allora chi mi nascondi, Sherlock?» Tenace John, tenace o testardo? Hariett fa un bel respiro prima di uscire allo scoperto.

«Me.»

John si volta finalmente verso la porta, lasciando per la prima volta gli occhi di Sherlock e per un istante pensa di essere ancora nel suo sogno. Non può essere lei. Cosa ci fa qui sua sorella? Non la vede da quando è tornato dalla guerra e lei gli ha dato il cellulare. Come fa a sapere cosa gli è successo?

Hariett rimane ferma sulla porta finché la mano di Mycroft non le dà una leggera spinta. Lei borbotta, ma fa un passo all’interno della stanza.

Nulla, nulla è mai stato tanto spaventoso per lei come dover affrontare John. Le ci vuole tutto il coraggio che ha in corpo per continuare ad avanzare fino al letto dove il fratello la osserva stranito.

«Sei vera?»

«Sì, vera quanto lo erano le ciabatte di mamma quando combinavamo qualche guaio.»

Lo vede sorridere, a quel ricordo.

«Come hai fatto a sapere che sono stato ferito? Chi ti ha portato qui?» Strizza gli occhi, come a cercare di ricordare qualcosa. L’ha chiamata, forse? Ha chiesto di lei?

«Myc mi ha chiamata. Dovevo esserci. Sei mio fratello.»

«Myc?»

«Già.»

«Myc... Intendi Mycroft Holmes? Il fratello di Sherlock? Da quanto lo conosci? Come vi siete incontrati?»

«Forse sono un po’ troppe informazione, ora. Dovresti riposare.»

«Ho riposato anche troppo.» Negli occhi di John, Hariett può leggere tutta la sua testardaggine. Non accetterà un “No” come risposta.

«È che non so da dove iniziare,» ammette. La mole di bugie è enorme. Come può fare a dirgli tutto?

«Okay. Io domando tu rispondi. Da quanto conosci Mycroft?» È sempre così pragmatico, John, quando ci si mette. Affronta le cose con metodo scientifico. Peccato che sia anche molto emotivo, e appena saprà anche solo questa risposta darà di matto, e questo Hariett lo sa bene. Conosce perfettamente suo fratello.

«Da quasi cinque anni.» Hariett vede lo sguardo di John sgranarsi e non osa immaginare cosa succederà appena confesserà il resto. Però è stanca delle bugie e delle cose non dette. John si merita la verità, anche se dirla la terrorizza. «Ma lavoro per lui da molto più tempo. »

«TU COSA

Il battito del cuore di John diventa furioso, così tanto che lei teme gli stia per venire un infarto. Gli strumenti accanto al letto iniziano a mandare allarmi, a causa del picco improvviso.

«John Hamish Watson, cerca di controllarti o i medici ci sbattono tutti fuori e non saprai la verità almeno fino a domani.» La sua voce è calma mentre riprende John, facendo come lui aveva fatto poco prima con Sherlock, usando esattamente lo stesso tono con cui la madre riusciva ogni volta a zittirli quando da bambini gridavano troppo, litigavano o semplicemente avevano bisogno di essere messi in riga.

Poco alla volta, il battito di John ritorna regolare, e così gli strumenti che lo monitorano. La cosa, tuttavia, ha comunque messo in guardia un’infermiera, la quale è entrata nella stanza constatando il risveglio del paziente. «Oh, ben risvegliato, signor Watson! Come si sente? Dovrei chiamare immediatamente il dottore. I suoi amici dovranno aspettare fuori e deciderà se è il caso che lei abbia o meno altre visite, per oggi.» Hariett la osserva mentre si volta verso Mycroft. Immagina che tutti qui sappiano quanto sia in alto nella scala del comando. «Siccome conosco il dottore, vi consiglierei di sbrigarvi a dire quello che volete dire. Credo di potervi dare cinque, dieci minuti.»

«Dieci minuti ce li faremo bastare, grazie.» La voce di Mycroft è calma ma autoritaria. Inutile fingere che non le abbia appena ordinato di mantenere il dottore lontano dalla stanza ancora un po’.

L’infermiera annuisce, sistema i macchinari, controlla qualche parametro, poi sorride a John raccomandandogli di non agitarsi e lascia la stanza.

«Precisamente cosa vuol dire che lavori per Mycroft da molto più tempo?» chiede John con tono calmo, non appena la porta della stanza si chiude alle spalle della donna.

«Sono stata reclutata nei servizi segreti durante l’ultimo anno di liceo. Quindi direi che lavoro per lui da parecchio tempo. Solo che all’epoca non avevo idea di chi fosse il mio capo, cioè non il capo di tutti i capi che avrei avuto, almeno. Mycroft l’ho conosciuto quando tu hai conosciuto Sherlock. Ero a Londra perché auspicavo mi volessi intorno; speravo mi chiamassi. Sapevo che avevo rovinato troppo il nostro rapporto per sperare che tu potessi volermi accanto ma, sai, la speranza è sempre l’ultima a morire.» Hariett sente lo sguardo del fratello su di sé, oltre quello di tutti gli altri. Ma non ha tempo per preoccuparsi di chiunque non sia suo fratello. «Poi tu hai incontrato lui,» dice, indicando Sherlock, «e io sapevo – me lo sentivo nelle ossa – che vi sareste messi in guai enormi. Fu a quel punto che conobbi Mycroft. Mi diede la possibilità di proteggerti e starti vicino, e all’epoca pensavo fosse l’unica cosa che potessi fare per te.»

«Reclutata l’ultimo anno del liceo... Cosa? Come? Perché...?» John è chiaramente confuso da tutto quel marasma di informazioni.

«Non sono mai andata bene a scuola, lo sai. Ero brava solo in lingue e informatica. Fondamentalmente, mi annoiavo a morte e odiavo tutti là dentro. Ero arrabbiata e stupida, come una qualsiasi adolescente che sta diventando adulta ma che non capisce che deve fare della sua vita. Mamma era morta, papà non sapeva da che parte girarsi e tu eri partito per studiare qui a Londra. Ero arrabbiata, come detto, ma anche stupida, e mi sentivo abbandonata.»

«Io...»

«Non è colpa tua, John. Tutto quello che ho fatto l’ho fatto perché io ho deciso di farlo. Nessuno mi ha costretta. Forse ero troppo giovane per capire davvero in cosa mi sarei imbattuta, ma con il computer ero una forza e per una volta mi pareva di essere nel posto giusto, che stavo facendo qualcosa di buono, che non ero una fallita.»

«Perché non hai mai detto niente?»

«Non si chiamano “servizi segreti” senza motivo. All’inizio, poi, mi occupavo solo di lavoro al computer. Minacce informatiche, ricerca di informazioni, cose terribilmente noiose. Iniziai successivamente a occuparmi anche di questioni estere. Il mio talento nell’imparare le lingue non è rimasto inosservato. Alla fine facevo lavoro d’ufficio, solo più segreto di quello che fanno gli altri. Poi, però, c’è stato l’11 settembre. Tu hai deciso di continuare a lavorare per l’esercito, e io ho volevo fare qualcosa di più che tradurre e decriptare messaggi. Come agente avevo iniziato un addestramento anche sul campo, non importava che il mio lavoro fosse prettamente d’ufficio. Avevo tra le mani migliaia di informazioni e dovevo essere in grado di mantenere il segreto se fosse stato necessario. E guarda un po’, scoprii che io e te avevamo un talento in comune: entrambi cecchini.»

«Dopo pochi anni papà è morto.»

Lei annuisce. «La cosa, invece che unirci, ci ha diviso, perché entrambi non abbiamo preso da mamma. Non siamo in grado di parlare di sentimenti e cose simili. Siamo tutti e due come papà: incapaci di parlare di certe cose. Inoltre, io avevo troppi segreti. Come potevi volermi stare accanto visto che non potevo essere sincera con te? So bene quanto la non sincerità sia la cosa che ti fa davvero uscire di testa.»

«Ma hai trovato Clara.»

«Lei non ha mai saputo la verità. Non potevo metterla in pericolo e alla fine ho fatto di tutto per farla allontanare da me. »

«Non ho mai capito cosa c’era di...»

«... sbagliato in me per far scappare via una donna come lei?»

«Mi spiace, è che tu...»

«Avevo troppi segreti e troppi incubi che mi impedivano di essere felice.»

«Perché non hai smesso?»

«Smettere? Credi davvero che si possa smettere di essere un agente attivo? Dopo tutti i soldi che avevano usato per addestrarmi? Dopo tutti i segreti che conoscevo? Non si può semplicemente dire: “Beh ragazzi mi sono sbagliata, non è il lavoro adatto a me, do le dimissioni, da domani mi metto a fare la fioraia perché amo i fiori”.»

«E quindi? Devi continuare con questa vita per sempre? Anche se non vuoi?» Si gira verso il più grande degli Holmes. «È questo che deve fare mia sorella?»

«Non la tengo legata a me con il guinzaglio, John, ma sappi che io posso almeno proteggerla. Se smettesse di essere un agente, allora non avrei alcun modo di farlo,» risponde Mycroft.

«Tu bevevi un sacco...» riprende John, osservandola e tentando di recuperare tutti i pezzi di questo puzzle ingarbugliato.

«Bevi anche tu quando sei arrabbiato, nervoso, deluso o triste. Altro punto in comune con papà, suppongo.»

«Credevo che fosse una dipendenza. Io ho sempre pensato che tu... Cristo! Non ho capito nulla di te.»

«Non te l’ho mai fatto capire. Non te l’avrei mai permesso. E poi, quando non ero in missione, ci davo giù pesante con l’alcool. È l’unica cosa che fa fermare i pensieri.»

«Quando mi hanno ferito, la prima volta in Afghanistan, ero convito che tu fossi lì.»

«Lo ero. Ti ho trascinato al riparo e sono stata con te fino a quando non sono venuti a prenderti i tuoi commilitoni. Li ho aiutati a portarti al sicuro fino all’accampamento. C’era troppo trambusto per far sì che loro si facessero domande su chi fossi. Indossavo una mimetica, credevano fossi americana.»

«Eri lì?»

«Sono sempre stata dove potevo proteggerti.»

«Sono io il fratello maggiore[1], dovevo essere io a proteggerti.»

«In un certo senso lo hai fatto. Sono qui, no?»

«Quindi quando sono tornato in Inghilterra mi hai seguito.»

«Ho fatto in modo di esserci, al tuo arrivo.»

«E poi hai conosciuto Mycroft.»

«Esattamente.»

«Che lavoro hai fatto per lui? Perché hai detto che ti diede la possibilità di proteggermi e starmi vicino? Io non ti ho mai vista in questi anni, non sei venuta neanche al matrimonio...» La osserva e capisce. «Tu eri al matrimonio? Oddio, tu... Ma come? Perché al matrimonio non ti sei avvicinata?»

«Perché la donna che hai sposato mi conosceva, e non come tua sorella. Se avesse saputo la verità, saresti stato in pericolo.»

«Tu sapevi di Mary? Sapevi che era quello che era e non me l’hai detto? E non hai impedito di farmi fare quell’errore?»

«Come potevo? Io non ero qui quando lei ha iniziato a girarti intorno. Seguivo lui e gli impedivo di farsi uccidere.» Fa un cenno verso Sherlock, prima di continuare. «Ti assicuro che tenerti in vita è stato il lavoro più faticoso di tutta la mia carriera. Non riesco a capacitarmi che sei arrivato a quest’età.»

«Tu... Eri...» John cerca di capire, ma forse sono davvero troppe informazioni tutte in una volta. Hariett si domanda se sarebbe in grado di rimanere razionale e tranquilla se le parti fossero invertite.

«Signor Watson, che meraviglia vedere che finalmente si è unito a noi. Sarà ancora un po’ stordito, immagino, ma non si preoccupi, nulla che una bella notte di sonno non può guarire.» L’entrata improvvisa del medico li spiazza.

John ha ancora tante domande da fare anche se ha parecchie cose a cui pensare. Hariett si sente esausta, come se raccontare una parte di ciò che ha taciuto fino a quel momento la stia consumando. Mycroft e Sherlock, dal canto loro, sono solo spettatori, ma molto incuriositi dal rapporto che i due fratelli sembrano avere, nonostante gli anni di lontananza e le bugie raccontate.

«Ora però i suoi ospiti devono lasciare la stanza,» continua il nuovo arrivato.

«Io non me ne vado.» Sherlock, che ha sempre dimostrato di non essere propenso a eseguire gli ordini, dimostra che l’impressione di tutti era giusta.

«Signor Holmes, capisco che sia preoccupato per il suo amico, ma quello che non capisce lei è che qui siamo tutti specializzati. Il suo amico non corre alcun pericolo finché è qui con noi. Nessuno può avvicinarsi senza che venga controllato e analizzato. I nostri uomini sono addestrati per ogni situazione. Lavoriamo per suo fratello, crede seriamente che questo sia un ospedale come gli altri? Mi avevano detto che lei era straordinariamente intelligente... Se è così, non può non aver notato che siamo tutti militari e che persino la simpatica infermiera che ha fatto in modo di farmi perdere sufficientemente minuti per permettervi di stare più tempo del dovuto, potrebbe uccidere a mani nude tre aggressori prima che questi possano capire cosa sia successo. Adesso lei andrà a casa, si farà una bella doccia, mangerà qualcosa di decente e si farà una bella dormita. Domattina mi aspetto di vederla all’orario delle visite. Sempre se lei voglia che il suo amico si riprenda in fretta.» Mentre parlava, aveva sospinto un attonito Sherlock fuori dalla porta della stanza.

Mycroft lo seguì lanciando a John un cenno di saluto.

Lei sorrise alla scena e si avvicinò al letto del fratello, stringendogli la mano tra le sue. «So che anche se non lo dai a vedere sei arrabbiato con me, e con te stesso per non aver capito cosa stava succedendo.

Lo so perché ti conosco bene. Sappi però che non scherzavo, prima. Niente di quello che hai fatto mi ha portato a prendere le scelte che ho preso. Mi sarei messa comunque in qualche guaio. E sì, ho corso dei pericoli, ma... John, tu cosa hai fatto finora? Inoltre, c’è un’altra cosa su cui non scherzavo. Non voglio raccontarti più bugie; su quello che ho fatto, chi ho incontrato, cosa sono dovuta diventare. Ti racconterò tutto quello che posso raccontarti perché non è più top secret. Mycroft mi ha dato carta bianca. Non ti nasconderò nulla di questa storia.»

«Vale anche per il futuro?» chiede John, soppesando le parole.

«Non ho idea di cosa mi porterà il futuro. Cominciamo a finire questo gioco, okay?»

«Coraggio, signorina, il mio paziente deve riposare. Vi vedrete domani.»

«Sì, certo. A domani, John?» chiede dubbiosa.

«A domani!» risponde lui, dandole una speranza che non sia tutto finito. Che hanno almeno un domani.





Continua...



Note: finalmente anche John sa la verità, o meglio, inizia a conoscere la verità. E questo ci ha permesso di conoscere il passato di Hariett, come è arrivata a fare le scelte che l'hanno portata a diventare quella che è. John ha ancora altre verità da conoscere, come reagirà? Come nelle migliori tradizioni, lo scoprirete nei prossimi capitoli.
Grazie come sempre a tutti per seguire e dare tanto amore a questa storia.
 
[1] So che Hariett le volte che è stata nominata è sempre maggiore a John, perché nel canone John ha un fratello maggiore, ma visto che i Moffis hanno trasformato il fratello in sorella io mi sono sentita libera di poterla rendere più giovane.

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Capitolo 18
*** 2 gennaio 2015, Pall Mall, Residenza di Mycroft ***


Ogni settimana ci avviciniamo alla fine, fatico a crederlo. Mancano davvero pochi capitoli, Finalmente i giochi verranno svelati? Leggete e saprete.





Dalla tua parte




2 gennaio 2015
Pall Mall
Residenza di Mycroft

 
 
«Non capisco perché non posso tornare a Baker Street!» Hariett ha perso il conto, ma crede che sia perlomeno la ventesima volta che Sherlock afferma questa cosa.

«Sei più petulante di un bambino. Non puoi tornare a Baker Street perché non sappiamo cosa quella donna abbia in mente! Quindi ora fai il bravo e non discutere.» Mycroft finalmente si decide a rispondere e, conoscendolo e conoscendo i loro rapporti, è persino stato condiscendente.

«Non ho bisogno di una balia!» afferma Sherlock ancora. Lei sta iniziando a pensare che in fondo un tranquillante potrebbe essere una soluzione, se vuole fare in modo di non ucciderlo in serata. Se per lui o per lei stessa è ancora da stabilite.

«Tu no, Sherlock caro, ma io ho bisogno che tieni Rosie per un po’. Sta piangendo da ore e non so più cosa inventarmi. Amo questa bambina, ma ho bisogno di qualche ora di pace.» Dalla porta d’ingresso fa il suo ingresso una trafelata ed esausta Mrs. Hudson con in braccio una Rosie in lacrime.

La bambina, non appena sente la voce Sherlock, si allunga verso il detective, il quale non aspetta un secondo per prenderla tra le sue e cullarla. Si spostano tutti all’interno della villa al caldo, osservando la scena stupiti. È assurdo da guardare, e se non lo stesse vedendo con i suoi occhi non l’avrebbe mai creduto possibile, ma Sherlock con Rosie è perfetto: nessun dubbio su come tenerla in braccio, nessun tentennamento. Rosie si accoccola sul suo petto e lentamente smette di urlare e piangere.

«Lo so, piccola Watson, ti manca il tuo papà, lo so.» Il giovane Holmes si volta sorpreso verso Mycroft. «Fammi capire: il luogo sicuro dove le hai portate è casa tua?»

È Hariett a rispondere per il suo capo: «Conosci un altro posto in Inghilterra più sicuro di casa di tuo fratello?»

Nemmeno il grande Sherlock riesce a replicare.

«Oh, cielo! Grazie a Dio ha smesso!» Lei sorride all’affermazione che è sfugge a Oscar, che avanza lentamente alle sue spalle guardando in direzione di Rosie, terrorizzato di sentirla piangere di nuovo.

«Detto qualcosa, Oscar?» gli chiede scherzando. Probabilmente lui nemmeno si è reso conto di aver parlato a voce alta.

«Ehm, volevo avvisare che le stanze sono pronte. Mi sono permesso di prepararvi qualcosa di caldo per cena.»

«Grazie Oscar. Io ho sempre la solita?»

«Certo, signorina, come da ordini del principale.»

«Benissimo. Devo farmi assolutamente una doccia; sento ancora il sale sulla pelle. Ci vediamo fra poco a cena. E intendo che voglio vedere entrambi cenare... Conosco fin troppo bene la tua cattiva abitudine a non mangiare quando sei immerso in un caso,» dice Hariett, soffermando lo sguardo su Sherlock. Poi saluta i due fratelli e si avvia verso il piano superiore.

«Sbaglio o si sente a casa?» chiede uno stupito Sherlock.

«Ha un ottimo spirito d’adattamento. Questo non vuol dire che è di casa,» risponde con tono noncurante Mycroft.

«Conosce Oscar e ha una stanza!» ribatte il minore.

«Sherlock, è una Watson. Non so se noti come noi Holmes abbiamo problemi a dire di no a un Watson! E non osare negarlo, perché ne hai una che ti sta sbavando sulla camicia di sartoria proprio ora. Che vuoi che ti dica, sarà il DNA.»

Li sente ridere sottovoce e sorride salendo le scale.

Se i due fratelli Holmes sono in grado di scherzare tra loro nonostante la poca abitudine a comportarsi da fratelli, forse c’era davvero speranza tra lei e John.
 

La mattina dopo sono tutti e tre di nuovo da John. Anzi, questa volta sono in quattro, perché portare Rosie è stato un ordine neanche troppo velato da parte di Mrs. Hudson, e una speranza da parte di Oscar.

Ma nessuno pensa che la vista della bambina possa creare problemi a John.

Infatti, appena la porta della stanza si apre e John la vede, i suoi occhi si illuminano. Letteralmente. Sembra che i raggi del sole lo stiano colpendo in pieno.

Lei risponde allo sguardo adorante del padre nello stesso modo. È così piccola eppure sembra riconoscere a pelle i due uomini della sua vita. È decisamente più intelligente e intuitiva di quei due.

Con fatica, anche a causa della fasciatura, la prende tra le braccia e Rosie si accoccola felice.

«Grazie di averla portata.»

«Non avevamo molta scelta. Mrs. Hudson e Oscar stavano chiedendo pietà,» lo informa Sherlock.

«Oscar?» chiede curioso.

«Lo conoscerai.»

Per un po’, Hariett rimane in disparte a osservare. Per lei è molto più semplice fare così. Del resto, ha passato la maggior parte del tempo negli ultimi anno a osservare senza interferire, anche se sempre in prima linea.

Vedere suo fratello interagire con le persone di cui si fida, e vederlo con la figlia così da vicino, è un’esperienza tutta nuova, per lei.

John ogni tanto la osserva senza fare domande dirette, ma lei sa che vorrebbe tanto che continuasse il racconto del giorno prima.

Almeno, non l’ha cacciata dalla stanza... Deve essere un buon segno. Almeno così spera.
 

Il dottore passa poco prima di pranzo per controllare i parametri e parlare con il suo paziente. Poi, una volta uscito, viene servito il pranzo che non sembra per nulla il pranzo di un ospedale, in quanto l’aspetto è davvero appetitoso. Non solo la porzione non è scarsa, ma c’è anche una portata speciale per Rosie.

Hariett si volta verso Mycroft che, alzando le spalle, dice solo che non poteva certo far morire di fame quella bambina.

Solo dopo pranzo, con una Rosie soddisfatta placidamente addormentata in braccio al padre, John si rivolge direttamente alla sorella: «Come hai conosciuto Mary?»

Era consapevole che quel momento sarebbe arrivato. Lo sta aspettando da quando sono entrati nella sua stanza e gli occhi di John l’hanno bloccata sul posto. Ma sapere che quel momento sarebbe arrivato ed essere pronta, sono due cose ben distinte.

Fa un bel respiro, trovando lo sguardo del maggiore degli Holmes che la osserva, come a dirle di non preoccuparsi, che è con lei e non deve temere nulla. Lei sa che sarà pronto al suo fianco se le cose non andranno come, in cuor suo, spera vadano.

«Quando ho iniziato a lavorare con Myc, abbiamo scovato abbastanza in fretta Moriarty. Inutile raccontarvi come e perché, ma dopo il vostro incontro con il tassista, noi siamo arrivati a scoprirne l’organizzazione e abbiamo capito che per riuscire a smantellarla dovevamo trovare qualcuno da mandare all’interno. Quel qualcuno, abbiamo convenuto, dovevo essere io. Non era la prima volta. Sapevo quel che facevo, e inoltre sarebbe stato più semplice visto che la persona che avrebbe lavorato all’interno avrebbe dovuto prendere decisioni anche senza poter parlare con Mycroft direttamente.»

«Tu hai lavorato con Moriarty?» È chiaro che suo fratello non riesce a dividere lo stupore dalla paura e dalla rabbia. Ma il fatto che John stia provando quelle emozioni è evidente. Spera davvero che la rabbia svanisca presto.

«Ero arrivata a essere tra i suoi uomini di fiducia. L’unica persona ad avere un rapporto più stretto con lui era Moran, il suo braccio destro.» Fa un respiro prima di continuare: «Voi la conoscete con il nome di Mary Morstan.»

«Mi stai dicendo che Mary era il braccio destro di Moriarty?» domanda John, incredulo.

«Sì. Dopo la morte di Moriarty ha deciso di vendicarsi. Io, come ti ho detto ieri, ho dovuto seguire Sherlock e aiutarlo a far fuori l’organizzazione; lei invece ha continuato a rimanere a Londra e ha usato tutto quello che avevano scovato di te per avvicinarsi e diventare esattamente quello che tu potevi trovare affascinante.»

«Mi ha usato fin dall’inizio» domanda con fare retorico suo fratello, prima di aggiungere amareggiato: «Sono stato un coglione.»

«Non devi pensarlo,» lo rassicura lei. «Moran è dannatamente brava a essere quello che gli altri vogliono vedere. Jim me l’aveva detto di non fidarmi per nessuna ragione di lei.»

«Jim?» John inarca un sopracciglio.

«Ehm, sì, sai... Moriarty,» balbetta Hariett, diventando rossa d’imbarazzo.

«Lo chiami Jim?»

«Beh, chiamo lui Myc,» cerca di giustificarsi.

«In effetti non hai tutti i torti,» risponde John dopo un attimo di silenzio.

«Scusate, ma che vuol dire che non ha tutti i torti? Quello era un pazzo assassino esperto nel manipolare la gente!» si inalbera Mycroft.

«Appunto, Myc, appunto...» Lei guarda il maggiore degli Holmes facendogli l’occhiolino. Lui finge di essere offeso.

John cerca di sorridere, ma Hariett vede quanto quelle rivelazioni siano dure per lui. La cosa davvero difficile è che non può fare nulla per aiutarlo a superare il tutto. Deve farcela da solo.

«Quello che mi domando è: se Moriarty e la sua organizzazione sono realmente stati eliminati da questo mondo, chi ha mandato quel video che ha fermato il mio esilio?» chiede Sherlock.

Lei guarda distrattamente Mycroft, che sghignazza prima di parlare: «Fai mente locale, fratello: per quale motivo lei è stata assoldata, all’inizio?»

«Esperta inform... Tu? Sei stata tu?» John osserva la sorella stupito.

«Non potevo permettere che succedesse di nuovo,» rivela lei, giocando nervosamente con le dita per paura di aver detto più di quello che suo fratello e Sherlock sono pronti a sentire. Anche perché, come riuscire a spiegare che non può permettere che vengano separati ancora una volta, che non può distruggere il cuore di John nuovamente? Come può dirlo senza che sia evidente qual è il sentimento che li unisce?

Sentimento che sembrano bravissimi entrambi a nascondere. Era una cosa che lei proprio non capiva.

«Oh, Dottore, non hai la minima idea di quello che Hariett è in grado di fare. Quando le ho chiesto di lavorare per me, non l’ho fatto certo solo perché era tua sorella; ma perché è probabilmente il miglior agente che abbiamo addestrato. Non c’è nessuno ai piani alti che non sappia chi è. Se si vuole un lavoro fatto bene, è il suo il primo nome che viene in mente.»

Lei sente le guance diventare sospettosamente calde. Sa che Mycroft la considera un ottimo elemento – non lavorerebbe per lui, altrimenti – ma è la prima volta che lo dice apertamente.

Un leggero bussare alla porta li interrompe. Si affaccia Lestrade timidamente. «John! Sono così felice di vederti sveglio.»

«Grazie, Greg.»

«Tutto bene, ispettore?» chiede Mycroft al nuovo arrivato.

«Sì, Holmes, grazie. Purtroppo non siamo ancora riusciti a trovarla, ma non può essere sparita.»

«Per quello, credo che noi possiamo aiutarvi, anche se abbiamo un altro piano,» rivela Mycroft, mentre lei nasconde un sorriso.

«Che piano? Non vorrete fare qualcosa fuori legge, vero?» domanda scettico Greg.

«Io sono la legge, ispettore. Non si farà nulla contro di me.»

«La modestia...» si lascia sfuggire Sherlock.

Lei vorrebbe inserirsi nella conversazione, ma il cellulare le vibra in tasca. Lo prende, ma sa già chi è. Può essere solo lei.

Si volta verso Mycroft, che le fa segno di aspettare un secondo. Il suo capo ha capito subito la situazione, e infatti inizia a impartire ordini, così come è tanto bravo a fare: «Dottore, voglio che lei mi assicuri che non farà nessun rumore. Vale anche per te, Sherlock. Ne va della sua vita,» dice indicandola. Loro annuiscono. «Lestrade, porta la bambina fuori da qui. Ti racconteremo ogni cosa, ma è troppo pericoloso che rimanga.»

Greg alza un sopracciglio ma, anche se non d’accordo, fa come detto: prende Rosie ed esce dalla stanza.

«Rispondi, ora, e metti il vivavoce,» la istruisce Myc.

Lei fa come detto. Sente le mani tremarle un po’, ma non può farsi prendere dall’emotività proprio ora.

È consapevole che Mycroft l’ha fatto per permettere di dimostrare chi è davvero. Lei sa che è giusto, ovviamente. John deve rendersi conto di tutto per decidere se la vorrà ancora nella sua vita.

Perciò fa un bel respiro, chiude gli occhi, e quando li riapre non è più Hariett Watson, ma è il cecchino addestrato senza famiglia e senza legami che ha lavorato con Moriarty.

«Ho sentito che hai creato un po’ di scompiglio nel laboratorio del mio uomo,» esordisce Moran, non appena la comunicazione viene aperta. La sua voce calma riempie la stanza, facendo trattenere il respiro a tutti i presenti, chi per un motivo chi per un altro

«Non capisco di cosa si è lamentato. L’ho pagato, e anche profumatamente.»

«E hai cancellato ogni informazione che ti riguarda dai suoi archivi, compresa la tua foto.»

«Non credo che dovrò usare ancora i suoi servigi.»

«Oh, vuoi dire che hai deciso di cambiare vita?»

«Senza offesa, Moran, ma in genere uso i miei uomini fidati. Stavolta per questione di tempo non ho potuto farlo, ma se per caso lo incrocerò una seconda volta sulla mia strada, non arriverà a vedere il giorno successivo,» minaccia con voce gelida.

«Probabilmente è per questo motivo che sei ancora viva.»

«Sono brava nel mio lavoro, e non mi fido di nessuno.»

«Oh, così mi ferisci! Nemmeno di me?» cinguetta l’altra donna, con un tono così mieloso e falso che Hariett avrebbe voglia di strozzarla.

«Specialmente di te.»

«Ecco perché Moriarty ti adorava.» La sua voce torna allegra.

«Dalla tua voce direi che sei stata dal medico che ti ho consigliato.»

«Sì. Mi ha cucita ben bene, ma devo dire che non è stato molto delicato.»

«No, non lo è, ma sa quello che fa. Mi ha salvato la pelle in una circostanza e, ti assicuro, quella volta me la sono vista davvero brutta.»

«Ohhhh! Una missione andata male?»

«Male? Non direi. Sono l’unica a essere qui e a poterlo raccontare.»

«Sicura? Magari qualcuno si è salvato.»

«Io non lascio testimoni. Ho controllato personalmente prima di trascinarmi dal dottore. Lo abbiamo fatto sia io che il mio coltello.»

«Sì sì, non c’è nulla da fare... Se Moriarty ti avesse trovata prima, non avrebbe mai avuto bisogno di me. Sei spietata.»

«È il motivo per cui ti piaccio.»

«Sì, in effetti è così.»

«Quello e il fatto che io non sbaglio mai il mio bersaglio.»

«Me lo rinfaccerai a vita? Non è colpa mia se quell’Holmes ha più vite di un dannato gatto.»

«Come faccio a non rinfacciartelo? Eri praticamente lì attaccata. E il dottore! Secondo te l’hai almeno colpito?» È veloce a cogliere la palla al balzo e a portarla esattamente dove vuole, cosicché suo fratello possa capire fino in fondo che donna orribile e bugiarda ha sposato.

«Ti assicuro che ho visto del sangue prima di scappare. Se sono stata fortunata sono riuscita a colpire un vaso principale.»

«Ma non ne sei sicura.»

«No, ed è per questo che devi avvicinarti al fratello di Holmes. Sono certa che sia lui ad aver fatto sparire tutti.»

«Lo farò. Ho già dato un’occhiata agli spostamenti della sua assistente. Domani proverò ad avvicinarmi per testarne il carattere.»

«Ottimo. Prima risolviamo questa faccenda, prima posso liberarmi della bambina, prima sono libera.»

«Allora ci teniamo in contatto.»

«Sì, fammi sapere domani com’è andata. Io non posso fare nulla per una settimana.»

«Ci penso io.» La linea diventa di nuovo libera. Chiude la chiamata senza avere il coraggio di alzare lo sguardo.

«Liberarsi della bambina?» La voce di John è dura e tremante. Non tenta nemmeno di nascondere la rabbia.

«Sì.»

«Sta parlando di Rosie?» indaga ancora, in un misto di incredulità e ferocia.

«Sì,» ripete. Inutile mentire.

«Quando si arriverà all’epilogo di questa storia, io voglio esserci, chiaro?» La guarda dritta negli occhi e lei non pensa nemmeno lontanamente di staccare lo sguardo da lui.

«Sì, John,» lo rassicura.

Lestrade si affaccia nella stanza. Rosie è ancora placidamente addormentata. Li osserva e vede le espressioni dure che hanno tutti in volto. «So che farete a modo vostro e non vorrete aiuto ufficiale da Scotland Yard, ma ditemi solo cosa vi serve e quando, e ci sarò. Ho un sacco di ferie arretrate da prendere.» Sorride tranquillo.

Tutti loro lo scrutano, come se non fossero sicuri se prendere sul serio ciò che ha appena detto.

«Beh, cosa c’è? Ogni tanto essere un cattivo ragazzo è divertente,» ride l’ispettore.

«Gavin.» Sherlock rompe il silenzio in cui sembrano essere caduti tutti gli altri. «Per essere un cattivo ragazzo, hai aspettato almeno venti anni di troppo.» Lo squadra, lo sguardo affilato e sarcastico.

La risata di John è la prima a colorare l’aria tesa della stanza, seguita da quella di tutti gli altri.

Non si può dire che quello che si apprestano a fare è una cosa da prendere alla leggera. Qualcosa può andare storto. Qualcosa può sempre andare storto. Però, Hariett osserva gli uomini che ha intorno e capisce che, insieme a tutti loro, riuscire a portare il peso della missione è molto meno faticoso.




Continua...



Nota: i nodi sono al pettine, ormai John e Sherlock sanno chi è realmente Mary, e hanno capito che bisogna fermarla. Mycroft sta mantenendo la sua promessa e permette che la verità venga mostrata, Hariett sente di non dover lavorare più da sola (anche se non avrebbe problema a continuare a farlo) e Greg, che dire di Greg? Greg si ama, no?
Grazie davvero per tutto

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Capitolo 19
*** 12 gennaio 2015, Ospedale militare ***


Mi pareva troppo strano essere riuscita a ricordare di aggiornare in queste ultime settimane... e va beh, sta volta vi è toccato aspettare un pochetto di più, ma ci sono!
Siamo al penultimo capitolo, ci credete?

Buona lettura.





Dalla tua parte




12 gennaio 2015
Ospedale militare


 
 
«Io sto bene, quante volte ve lo devo dire? Non prendo quasi più antidolorifici, non mi servono. E se mi tenete chiuso qua dentro ancora, potrei seriamente mettere in pratica l’omicidio,» sbraita John, ormai chiaramente esasperato dall’immobilità forzata.

«Voi uomini siete così esagerati! Anche il mio povero marito. Più il medico gli diceva una cosa, più lui doveva fare il contrario,» sospira Mrs. Hudson, persa nei ricordi di Mr. Hudson e della loro travagliata vita insieme.

«Peccato che io sono un dottore, non uno spacciatore! So cosa sto facendo,» continua a perpetrare la sua causa John.

«Oh, anche lui ne era convinto, glielo assicuro, e sappiamo entrambi che fine ha fatto. Se non fosse stato per Sherlock, poteva andare peggio. Potevano liberarlo! Si rende conto? Cosa sarebbe stato di me se non l’avessero giustiziato?»

«Come fa a chiamarlo “povero marito” e poco dopo essere felice del fatto che l’abbiano giustiziato?» domanda l’uomo, con le sopracciglia aggrottate e l’espressione confusa.

«Beh, come marito non era male. In fondo con me è sempre stato buono e mi riempiva di regali. Solo che, come uomo... Diciamo che era davvero un pessimo elemento.»

«Per quale motivo è rimasta qui, signora Hudson?» chiede esasperato John, ormai consapevole di non poter vincere quella battaglia.

«Volevano essere sicuri che non tentasse la fuga.» Gli scocca un’occhiataccia. «Di nuovo!»

«Non avevo tentato la fuga! Stavo solo facendo una passeggiata,» si difende il dottore, tirando su col naso con fare altezzoso.

«Sappiamo bene tutti e due che non è così; e lo sa anche Sherlock! Per poco stava per prendere a pugni il medico quando ha trovato la stanza vuota.»

«Dove volete che scappi? Non ho idea di dove sia Mary e non voglio mettere in pericolo la missione.»

Hariett era rimasta fuori dalla stanza, ascoltando tutta la conversazione senza essere vista. Si muoveva sempre con circospezione, quando si trattava di John.

Fingeva di non vedere le occhiate del fratello quando passavano del tempo insieme.

Sapeva che per lui accettare tutto quello che gli aveva raccontato era difficile. Aveva dovuto riguardare indietro, rendendosi conto di quanto poco sapesse della persona con cui era cresciuto. L’aveva giudicata inaffidabile quando lei rischiava la vita per il Paese e per lui stesso.

Lei era un killer. Questo sembrava riuscire, in qualche modo, ad sopportarlo. Ma che quel killer fosse sua sorella? Questo non era sicura che se sarebbe mai riuscito ad accettarlo fino in fondo.

John in quei giorni, poi, era intrattabile. Sembrava un animale in gabbia. Sempre lì pronto a sfondare il recinto e a scappare lontano.

«Ragazzina, ti decidi a entrare o devo darti una spinta?» La voce di Mycroft alle sue spalle la fa sussultare leggermente.

«Non vedo cosa dovrei fare là dentro,» dice, cercando di mantenere un tono neutro.

«Non sono un esperto in materia, me ne rendo conto, ma stargli vicino in questo momento non è una cosa che una sorella farebbe per il fratello?»

«Non so se a lui farebbe piacere,» ammette.

“Perché dovrebbe volerlo?” continuava a ripetere la solita vocina insopportabile nella sua testa.

«Sei una delle persone più coraggiose che io conosca; eppure, se non ti conoscessi bene, direi che ora stia morendo di paura.»

«Prendermi in giro non renderà la cosa più facile,» protesta.

«Non ti sto prendendo in giro. Voglio solo ricordarti chi sei

«Sono assolutamente conscia di chi sono: una spia, un’assassina, una bugiarda.»

«Come sospettavo non riesci davvero a capire...» sospira Mycroft. «Sei una dei soldati meglio addestrati del governo. Sei un’eroina e sei sua sorella. Non appena hai potuto gli hai raccontato tutta la verità, quindi sei anche onesta.» La fissa dritta negli occhi. «Quella donna non l’ha mai fatto, anche se a un certo punto ha avuto la possibilità di essere sincera.» La osserva come un insegnate che tenta di far entrare nella testa cocciuta del suo studente un argomento che ritiene chiaro e semplice e che invece, evidentemente, sembra non esserlo per il suo alunno. «Credevo che ne avessimo già parlato e che tu avessi capito. Non sei come nessuno di loro, ragazzina. Dovresti essere orgogliosa di ciò che sei,» continua lui. Poi aggiunge con tono solenne: «Io lo sono.»

«Vista con i tuoi occhi, sembra quasi che io sia una brava persona,» sospira lei, in un mix di sconforto e incredule risatine.

«Perché lo sei,» afferma lui, deciso.

Lei solleva gli occhi al cielo. Come può davvero credere che lei sia una brava persona? Eppure lui, meglio di chiunque altro, sa bene quello che ha fatto e quello che è capace di fare.

«Lei ha chiamato. I punti oramai le si sono rimarginati e vuole informazioni,» cambia abilmente argomento, informandolo al contempo dei nuovi sviluppi.

«Sono passati una decina di giorni... Per quanto sia consapevole della tua bravura, non può davvero credere che tu sia riuscita ad entrare tra i miei uomini tanto in fretta.»

«No, ma spera che Anthea possa dirmi qualcosa,» ipotizza. Poi aggiunge incredula: «Davvero non riesco a credere che sia convinta che sia solo una semplice assistente.»

«Immagino che per lei io sia una specie di passacarte.»

«No. Sa che hai talento, specialmente nel manipolare fatti e persone. E sa che sei intelligente. Del resto, ha avuto a che fare con te, almeno per un po’. Solo che non ha capito quanto tu lo sia.» Mycroft le fa un sorriso prima di aprire la porta spingendola all’interno. A lei sta per sfuggire un insulto, ma riesce a trattenersi. Dietro di loro si è appena aggiunto anche Sherlock.

«Grandi notizie, dottore! Oggi verrà a casa,» esordisce Mycroft.

«Torno a Baker Street?»

Hariett non può non notare il sorriso genuino di Sherlock a quella affermazione.

«Ovviamente no. Sarà mio gradito ospite,» risponde Mycroft con un sorriso esagerato sulle labbra, «Oramai casa mia è diventata più affollata di King Cross,» borbotta poi, alzando gli occhi al cielo con fare infastidito.

«Su, che non ti sei mai divertito tanto! Le litigate di Mrs. Hudson e Oscar sulle ricette sono epiche,» ride lei.

«Quell’uomo è così testardo e all’antica! In cucina bisogna sperimentare!» si inalbera subito l’anziana donna.

«Davvero, John, ti divertirai!» continua Hariett.

«Non ne dubito...» borbotta questi.

«Non c’è bisogno che le ricordi che non deve sforzarsi troppo. La ferita sta guarendo e non le creerà problemi, ma sono passati ancora troppi pochi giorni e sinceramente non ho molta voglia di riportarla qui,» lo redarguisce subito il maggiore degli Holmes, mettendo le cose in chiaro sin dall’inizio come ama tanto fare.

«E io non tengo a tornarci,» lo rassicura John.

«Bene, allora non c’è molto da fare, a questo punto. Ragazzina, conviene che ora cominci a farti vedere. Tu e Anthea, secondo la nostra amica in comune, state diventando amiche del cuore, quindi sarebbe il caso che facciate qualcosa insieme. Non sappiamo se ti sta controllando; certamente nessuno ci segue ogni volta che veniamo qui né lo fanno a casa mia, ma Londra è grande, e se ti sta controllando almeno un po’ potrebbe insospettirsi.»

«Ci stavo giusto pensando. Hai qualche idea su cosa potremmo fare?»

«Ti sembra che io perda il mio tempo in modi simili? Che vuoi che ne sappia? Andate a teatro!» suggerisce. Poi aggrotta la fronte. «Si va ancora a teatro, no?»

«Va bene,» cede lei. «E teatro sia! Ma prima shopping e cena. Sono certa che Anthea apprezzerà.» Con un sorriso si volta verso la porta, poi si ferma e si sposta il suo sguardo verso Mycroft, mostrando quello che sembra una carta di credito nera. «E grazie per offrirci la serata, Myc.»

Lui, istintivamente, corre a tastarsi il petto prima di infilare la mano nella tasca interna della giacca e prende il portafoglio di pelle, notando subito l’assenza della sua carta di credito. «Come diavolo hai fatto?» chiede sbalordito.

«Non posso dirtelo. Dovrei ucciderti, altrimenti,» lo saluta con una battuta a effetto, prima di uscire  di scena tirando un sospiro di sollievo. Ha bisogno di tempo per abituarsi alle occhiate di John, come lui ne ha bisogno per capire interamente che la sua sorellina – quella che portava in spalle da piccola, quella che credeva aver perso per colpa dell’alcool – è quello che è. Far combaciare il Killer con Hariett non deve essere cosa semplice.

Prende il cellulare e compone il numero di Anthea.

«Ehi, vi state divertendo senza di me?» risponde la donna dopo pochi squilli.

«In realtà, ti divertirai tu, questa sera.»

«Uhhh, e cosa mi hai preparato?»

«Non mi avevi detto che avevi visto un paio di scarpe e una borsetta che costavano un capitale?»

«Sì, e continuano a costare un capitale,» le risponde con voce rassegnata.

«Non per Mycroft. Nulla è troppo caro per il nostro caro Myc.» Sorride mentre glielo rivela, immaginando il repentino cambio di umore dell’amica.

«Mi stai prendendo in giro?» domanda infatti questa, sbalordita.

«Sto per passare a prenderti,» sogghigna lei.

«Ma il capo lo sa?» indaga l’altra.

«È un’idea sua,» spiega, anche se nel farlo omette che la carta di credito gliel’ha rubata. Non è necessario che Anthea lo sappia, dopotutto.

«Lo shopping compulsivo con la sua carta è una sua idea?»

«A quello si è adattato,» risponde vaga con un sorrisetto.

«Adoro il tuo modo di ragionare,» si complimenta Anthea.

«Ne ero sicura,» dice, prima di attaccare.

Quando è abbastanza lontana dall’ospedale dove John è ricoverato, anche se ancora per poco, manda un messaggio a Moran. È importante tenerla informata per farle mantenere la calma ed evitare che faccia di testa sua. “Oggi esco con la mia nuova migliore amica.”

Non deve aspettare molto prima di ricevere la risposta: “Oh, finalmente le cose si stanno muovendo. Cerca di scoprire dove diamine è il dottore e dove si sono nascosti tutti. So che saprai essere convincente.”

“Questa sera credo di essere in grado di rispondere ad almeno qualche domanda.” Scrive. Spera che questa piccola rassicurazione serva a tenerla buona il tempo necessario per riuscire a incastrarla.
 
Quando raggiunge Anthea, si sorprende nel vederla indossare un allegro cappotto rosso e degli stivaletti scamosciati dello stesso colore.

Appena Anthea la vede, le riserva un bel sorriso per salutarla, sventolando al contempo la mano coperta da un guanto bianco di lana soffice.

Mentre si avvicina la fissa, al contempo affascinata e sorpresa.

Il suo sbigottimento deve essere evidente, perché non appena le è di fronte, l’assistente del capo le domanda: «Cosa c’è, mia cara? Sembra che tu abbia visto un fantasma.»

«Non ti ho mai visto... così.» Hariett ancora fatica a trovare le parole giuste.

«Non sono al lavoro, quindi posso usare qualche capo diverso. Non mi sta bene?» chiede, sbattendo le ciglia come una cerbiatta.

«No, no, figurati!» risponde subito. Non le sembra il caso di offendere una killer. Inoltre, è davvero molto bella. «Solo che non me l’aspettavo.»

«Vorrei poter dire lo stesso di te.» La squadra con aria critica. «Ma fammi capire: quando ti presentavi a un appuntamento andavi vestita così?»

Hariett si osserva da capo a piedi. Indossa scarpe da ginnastica, un jeans scolorito e sotto la giacca a vento sportiva e di due taglie più grande, un maglione chiaro. «Non sono mai stata molto brava in queste cose,» ammette. «E poi questo non è un appuntamento,» aggiunge subito. Anthea è una bella donna, e non può affermare di non averlo mai notato. Ma sono colleghe, e soprattutto stanno lavorando, anche se sono pronte a svuotare la carta di credito di Mycroft. Non comprometterebbe mai la missione per qualcosa di frivolo, anche se la trova molto attraente.

Nonostante siano anni che non riceve più un bacio. Che si è tolta persino la possibilità di passare almeno qualche ora in piacevole compagnia.

«Oddio, sei uguale a tuo fratello!»

La sta forse prendendo in giro? «Ma di cosa stai parlando?»

«Ascolta: va bene essere sempre pronta a ogni evenienza. Va bene che tecnicamente stiamo lavorando, ma non deve sembrare così. Dobbiamo essere due amiche che vanno a fare shopping insieme. E io non posso permettere che tu rimanga così scialba. Vedrai, quando avrò finito con te nemmeno ti riconoscerai allo specchio!» Detto questo, la prende sottobraccio e la trascina, senza ammettere repliche, per la città.
 

Quando, a notte fonda supera, i cancelli della proprietà di Mycroft, si sente esausta. Non ha mai avuto rapporti di amicizia simili.

Prima di arruolarsi – quando era veramente una ragazzina – non aveva avuto molte amicizie. Non era mai stata una di quelle ragazze popolari e piene di persone che le ronzano intorno.

Non era certo come John.

In realtà, viveva della luce riflessa del fratello. Tutte le persone a scuola volevano esserle amiche perché era la sorella di John. La sorellina adorata da John.

Lei lo sapeva bene.

Un po’ era colpa sua e del suo carattere, non poteva negarlo, ma era bastato che John partisse per Londra e improvvisamente lei era diventata tappezzeria.

Poi c’era stata Clara, ma lei non era come Anthea. Con Clara era tutto tranquillo. Odiava stare in mezzo al casino della città e adorava passare le serate a casa. Tutte coccole e baci. Beh, almeno all’inizio, prima dei litigi.

Anthea invece è un uragano. Ama stare al centro dell’attenzione. Adora che uomini e donne la mangino con gli occhi. Probabilmente derivato dal fatto che, a servizio di Mycroft, deve apparire sempre quanto più invisibile possibile.

O, semplicemente, ama brillare. E brilla, questo non si può negare.

Il problema è che vuole far brillare anche lei, e Hariett non si sente a suo agio in quella posizione.

Indossare vestiti costosi e provocanti, truccarsi, avere gli occhi della gente addosso... Sono tutte cose che ha fatto, sotto copertura ha impersonato tutti i ruoli che servivano per poter svolgere al meglio la missione; anche se molto più spesso di quello che facevano vedere i film e i romanzi sulle spie, il segreto per questo lavoro è essere terribilmente anonima e noiosa. Forse, è anche per questo che quando è semplicemente Hariett, indossa vestiti comodi. Forse perché non esiste nemmeno più “Hariett” e impersona una spia sempre. O forse farlo le permette di non correre rischi, di non essere vista. In mezzo a tanti colleghi uomini, la aiuta anche a essere presa sul serio.

“O forse hai solo paura di mostrarti per quello che sei, anche se c’è da domandarsi se tu sai ancora ciò che sei.” Scuote la testa, come a cacciare quel pensiero molesto che sembrava avvicinarsi un po’ troppo alle sue paure più profonde.

Quando chiude il pesante portone di legno dell’ingresso dietro di lei, si appoggia contro la superficie intagliata. Chiude gli occhi ascoltando i rumori della casa. Gli scricchiolii, il silenzio.

È cosciente che è impossibile, ma è convinta di sentire l’odore di John. Il suo profumo. Ma sicuramente il fratello sta dormendo in qualche stanza al piano di sopra. Si trova a chiedersi quale stanza gli ha riservato Mycroft.

«Harry?» La voce di John la fa sobbalzare. È proprio lui, in piedi davanti a lei, con indosso uno dei suoi terribili maglioni. Solo suo fratello può avere il coraggio di andarci in giro e stare anche bene.

«John, dovresti essere a letto a quest’ora. Il dottore ha detto...»

Lui la interrompe: «Harry, io sono un dottore. Ti assicuro che non mi sono sforzato, ma dovevo essere sicuro che tornassi a casa sana e salva.»

Lei sgrana gli occhi. Era pronta a tutto. Alle recriminazioni, alla rabbia, alle accuse. Ma che lui si preoccupasse per lei? No, non se lo aspettava. Non lo merita. Lei non merita nulla di buono.

«Ehi? Harry, che cos’hai? Perché diamine stai piangendo, ora? Che ho fatto?» domanda John, allarmato.

Lei vorrebbe rispondere, ma non ci riesce. Sente la forza di volontà sbriciolarsi.

John non capisce, ma fa quello che ha sempre fatto quando Hariett da piccola scoppiava a piangere e lui non capiva cosa stava succedendo: la stringe a sé. Sente il braccio destro di John che la attira vicino al suo corpo.

Cercando di non gravare sul braccio immobilizzato, si stringe a lui. «Mi dispiace, John... Non volevo mentirti, solo che non sapevo più come...» La voce le si rompe.

«Shhhh, non importa, Harry. Non è facile per me accettare quello che sei diventata, né quello che mi hai nascosto. Ma sei mia sorella, la mia piccola sorellina pasticciona. Nulla cambierà questa cosa. Te lo avevo promesso, ricordi? Quando mi hai confessato a dodici anni che ti piacevano le ragazze ed eri terrorizzata di essere sbagliata. Ti ho abbracciata e ti ho detto che non dovevi più permetterti di credere una cosa del genere, che per me eri sempre e solo Harry e che ti avrei protetto da chiunque fosse stato tanto stupido da giudicarti per quello. Anche da mamma e papà se fosse stato necessario. Eravamo noi due contro il mondo.» La stringe appena un po’ di più. «Solo, basta con le bugie. Se c’è qualcosa del tuo lavoro che non puoi condividere, dimmi semplicemente che non puoi. Non mi intrometterò. Ma non tenermi più fuori dalla tua vita. Siamo una famiglia, noi due, e ora c’è anche Rosie. Ha bisogno di una zia.»

«Inoltre, Mycroft e Sherlock, hanno bisogno di imparare come ci si comporta tra fratelli. Dobbiamo dare il buon esempio,» cerca di sorridere lei, tirando su col naso.

«Tu dici che ci sono speranze? Perché sai, da questo punto di vista non sono molto svegli,» sospira John.

«Dobbiamo insistere. Potrebbero sorprenderci.»

«Oh, Sherlock lo fa continuamente.»

Scoppiano a ridere cercando di non fare troppo rumore, ma le risate nel silenzio della casa risuonano come colpi di gong.

«Sono felice di vedere che stai bene. Ero preoccupato a sapere che stavi facendo da bersaglio per Mary,» dice lui, non appena le risa si spengono.

«Non devi. Oggi non ho rischiato nulla. L’unica che poteva uccidermi era Anthea,» geme. «Mi ha fatto entrare in tutti i negozi del centro. Sono esausta.»

«Allora è meglio andare a dormire.»

«Sì, è meglio.»

Si sorridono, per la prima volta da anni sinceramente, e poi si danno la buonanotte. Arrivati nel corridoio che porta alle stanze da letto, si separano, entrambi col cuore più leggero.
 

Hariett lascia a terra i sacchetti di carta pieni dei vestiti scelti da Anthea per lei e i suoi vecchi abiti che non le ha permesso di continuare a indossare in sua presenza, poi si trascina fino a raggiungere il letto, buttandosi senza forze sul materasso alto e scalciando via le nuove e costose scarpe con il tacco. Sa di non essere sola nella stanza, ma non se ne preoccupa.

«Con quello che mi sono costate quelle scarpe, fossi in te le tratterei meglio.»

«Oh, Myc...» sospira lei. «Queste, rispetto a quelle che voleva farmi prendere Anthea, sono quasi regalate!»

«Quella donna ha gusti molto costosi,» borbotta l’uomo, contrariato.

«Non lasciarmi più da sola con lei. È pazza,» si lamenta.

Ancora sdraiata senza forze sul letto, lo sente alzarsi dalla poltroncina sistemata lì accanto e avvicinarsi ridacchiando. Gli allunga la carta di credito senza nemmeno aprire gli occhi. Lui la prende appoggiandola sul comodino.

«Mi pare che lei si sia divertita più di te.»

«Almeno una delle due lo ha fatto.»

«Ti sembra che siete state seguite?»

«No, sicuramente non fino a qui. In centro c’era troppa gente per essere sicura. Comunque, il suo cellulare non è mai stato troppo vicino. Vi sono arrivati tutti i dati?»

«Sì, e continuano ad arrivare. Quel tuo virus ci sta dando parecchie informazioni. Abbiamo già trovato altre cellule dormienti. Mercenari della peggiore specie. Grazie a te, la Nazione è molto più sicura. L’intero mondo lo è.»

«Lascia perdere, non ho fatto nulla di che. Non ero certo spinta da tutte queste lodevoli intenzioni. Volevo solo vederla cadere con la certezza che non avesse più alcun appiglio a cui attaccarsi. Vederla scivolare con la certezza che sia la sua fine.» Quello che Moran ha fatto a suo fratello è una cosa che non le perdonerà mai. La vendetta non è certo una cosa di cui andare fieri, ma a lei non importa minimamente. Ha fatto cose ben peggiori, nella sua vita.

«L’hai sentita?» Mycroft non insiste. Sa che riuscire a farle capire quanto sia differente da Moran sarà una sfida molto difficile e sicuramente lunga, e non ha alcuna intenzione di mollare. Riuscirà a farglielo entrare in quella testa dura, prima o poi. Lui ha un’immensa pazienza, suo fratello in quello lo ha ben allenato. Solo che sa che ora non è il momento più adatto per farlo.

«Devo ancora dirle com’è andata questa sera,» risponde lei, sempre più esausta. Vorrebbe solo dormire, ma i cattivi non dormono mai...

«Credi che i tempi siano maturi?»

«Credo che non riuscirò a tenerla buona per molto,» ammette a malincuore.

«Molto bene. Scrivile che domani avrai notizie sicure su dove potrebbero essere il dottore e Sherlock nei prossimi giorni. Domattina parleremo con tutti e sceglieremo il piano da seguire. Dobbiamo scrivere la parola fine a questa storia.»

«Va bene, Myc.» Sbadiglia e si stropiccia gli occhi.

«Sembra sia andata bene con il dottore,» cambia argomento lui, ricordandole ancora una volta che ha occhi e orecchie ovunque.

«Sembra di sì,» risponde lei, cercando di sopportare la luce dello schermo del cellulare e non riuscendoci. Gli occhi le lacrimano. Sente che il cellulare le viene sfilato dalle mani.

«Ci penso io.»

«Non rovinarmi la copertura.»

«Basta che aggiungo baci e cuori al messaggio, no?» la prende in giro.

«Fallo e giuro che Anthea avrà accesso ai tuoi conti privati tutte le volte che vuole.»

«Questa è cattiva!» si indigna lui.

«Sì, lo è,» ridacchia, mentre lo sente digitare al cellulare.

«Fatto. Ora dormi,» le raccomanda.

Lei riesce ad annuire senza aprire nemmeno gli occhi. A un certo punto le sembra che qualcuno le stia rimboccando le coperte e accarezzando la fronte, ma dev’essere solo un sogno.

«Buona notte, ragazzina,» sente, piano come un sussurro.

«Notte, Myc,» biascica in risposta. O, forse, anche quello è solo un sogno.




Continua...



Note: stiamo davvero arrivando alla fine, fatico a crederci. So già che mi mancheranno, ma c'è ancora un capitolo. Grazie a tutte per il continuo affetto che date.
A venerdì prossimo...forse XD

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Capitolo 20
*** 13 gennaio 2015, Pall Mall Residenza di Mycroft ***


Non mi stavo scordando oggi, è solo un caso se sono arrivata quasi alle 21 ad aggiornare...ci credete vero?

Siamo arrivati alla fine della storia, credo sia stato il mio lavoro più articolato e lungo, sono felice di quello che ne è uscito e spero davvero che riusciate a leggere il mio amore per questi personaggi e la loro storia.

Vorrei ringraziare davvero tutti per le belle parole e l'affetto che avete messo in questa ff.

Grazie davvero.


E ora, bando alle ciance, buona lettura!





Dalla tua parte




13 gennaio 2015
Pall Mall
Residenza di Mycroft
 


Quando apre gli occhi, la luce che viene dall’esterno è già molto forte. Dev’essere tardi.

Si stiracchia pigramente, tranquilla. Se fosse successo qualcosa l’avrebbero svegliata.

Osserva la stanza che le ha riservato Mycroft fin dalla prima volta che è rimasta da lui e si rende conto che al suo interno ci sarebbe stato comodamente l’intero appartamento in cui viveva da bambina.

Mycroft si lamenta costantemente di averli tutti nella sua villa, e lei non ha problemi a credere che ami la solitudine, ma non può negare che la villa, così grande e spaziosa, ha parecchie stanze da letto per essere la casa scelta da una persona che dice di non voler nessuno accanto.

Una contraddizione che trova interessante.

Si scosta le coperte di dosso e si rende conto che qualcuno deve averle infilato il pigiama, oltre che averla messa a letto. Considerando che: quando era tornata erano tutti a letto a parte John e il maggiore degli Holmes, e che era rimasta fino all’ultimo a parlare con lui, immagina sia stato Mycroft a farlo, e la cosa invece di imbarazzarla la intenerisce.

Si rinfresca e si cambia velocemente prendendo il cellulare che si trova spento sul comodino e, accendendolo, scende quindi al piano di sotto raggiungendo il salone.

Quando supera la porta trova Mycroft, Sherlock e John seduti sulle poltrone a parlare.

«Ben svegliata.» Le rivolge la parola per primo quest’ultimo.

«’Giorno» risponde lei, con la voce un po’ impastata.

«Vuoi qualcosa da mangiare?» continua suo fratello, porgendole una tazza di tè che lei accetta mentre si siede su una delle poltrone libere vicino a loro.

«Lascia perdere, dottore,» interviene Mycroft. «Non si è ancora ripresa dalla serata con Anthea,» sghignazza.

«Hai ancora voglia di ridere,» risponde con disinvoltura. «Deduco quindi tu non abbia ancora controllato il conto in banca.» Sorseggia poi il tè, principalmente per nascondere il sorriso nato appena dopo aver visto l’espressione terrorizzata di Mycroft.

Sherlock e John non riescono però a nasconderli altrettanto bene.

«Dobbiamo decidere che cosa fare con Moran. Non mi ha ancora chiamata, ma credo che non aspetterà molto. Sta diventando irrequieta, e non è una bella cosa,» osserva poi, tornando seria e guardando il cellulare come se si aspettasse una chiamata da un momento all’altro.

«Dobbiamo organizzare una trappola. Prenderla è essenziale,» risponde Mycroft.

«Per prenderla basta solo che seguiate il segnale del suo cellulare. So perfettamente dov’è in ogni momento e con chi comunica,» dice lei, nervosa.

«E quindi?» chiede John.

«Quindi l’unico motivo per cui non l’abbiamo catturata è che prenderla non basta. Una volta trovata e bloccata cosa volete fare con lei?» domanda allora Hariett. Lo fa più per John che altro. Sa perfettamente cosa vuole fare di lei Mycroft. Del resto, l’hanno concordato dopo che ha sparato a Sherlock la prima volta. Ma John potrebbe non essere dello stesso avviso, nonostante tutto.

«Verrà processata e pagherà per ogni cosa che ha fatto,» dice infatti. È quasi commuovente che creda ancora nella giustizia nonostante abbia visto, con Moriary per esempio, quanto sia semplice manovrala.

«Mi spiace togliere questa speranza, ma non si farà catturare così facilmente, e certo non accetterà di essere punita. Io posso dirvi con la sicurezza di qualche metro dove si trova, ma non posso sapere come si comporterà. Lo immagino, ma non ho la certezza,» obietta lei.

«Ha cercato di uccidere Sherlock per due volte. Ha detto di voler far sparire mia figlia. Per quanto mi riguarda, non mi interessa che le farete, mi interessa avere la certezza che Rosie e le persone che amo siano al sicuro,» risponde incolore John. Per lui non è facile accettare questa sua stessa decisione. Lei sa quanto sia difficile  anche solo averla presa e averla detta a voce alta. Ma è importante che ne sia cosciente.

«Lo saranno, lo saremo tutti,» gli dice guardandolo negli occhi.

«Avete bisogno di un’esca per farla uscire allo scoperto. Vuole finire il lavoro con me, quindi io devo esserci,» continua John.

«John, non è necessario. Ti ho già detto che con il mio virus...»

«E se decide di non usare quel cellulare? E se per un motivo qualunque sospetta qualcosa? Non puoi avere la certezza assoluta di dov’è, altrimenti non avresti dovuto fingere ieri di essere diventata amica di Anthea. Sapete benissimo che ci sono sempre delle cose che possono far andare a quel paese anche il piano più efficace.» John elenca ogni possibilità. È chiaro che immaginava che Hariett avrebbe cercato di tenerlo lontano dall’azione e si è preparato di conseguenza. «E poi io devo esserci. Mi hai dato la tua parola.»

«John ha ragione,» interviene Sherlock. «Noi dobbiamo esserci. Vuole vendicarsi di entrambi e vuole finire la partita, e sinceramente voglio finirla anche io.» La osserva direttamente negli occhi. «Ti ricordi cosa mi hai detto quando ci siamo conosciuti? Neanche io voglio più commettere gli errori che ho fatto fin’ora.»

Lei sa a cosa si riferisce. Quella volta gli ha detto che John ha sempre fatto le sue scelte, solo che loro, per proteggerlo, non le hanno mai rispettate. E che dal momento in cui ha preso coscienza dell’errore fatto con lui, ha deciso che non vuole più farne. Ma ci sta cascando ancora. Sta cercando di proteggere John senza rispettare la sua scelta di essere in mezzo all’azione.

«Credo che il Barts sia il posto più appropriato,» interviene Mycroft. «Possiamo monitorarlo bene e sistemare i miei uomini per tutto l’edificio senza che si notino. Inoltre, se scegliamo il giorno giusto, potrebbero non esserci troppi civili. Basta una settimana, massimo una decina di giorni per organizzare tutto.»

E Mycroft non poteva avere più tempismo di così, perché ecco che il nome di Moran illumina lo schermo del cellulare di Hariett.

Lei mette direttamente in vivavoce. «Ti stavo per chiamare,» esordisce con finta allegria.

«Questo vuol dire che hai notizie per me?» Si legge speranza nel tono della sua voce. A Hariett viene la nausea.

«Non so dove sono ora, ma fra dieci giorni saranno al Barts per dei controlli. Il dottore ha la spalla bloccata.»

«Dieci giorni sembrano un’eternità, ma ora avrò... Avremo la nostra vendetta,» si corregge in corsa.

«Per Jim, no?» le suggerisce lei.

«Sì sì, per lui.»

Falsa, vorrebbe urlare al telefono. Sei più falsa del bacio di Giuda.

 
Quando spegne la chiamata guarda i tre uomini seduti intorno a lei. Finalmente hanno una data, presto anche un orario.

Il gioco, durato anni oramai, sta davvero giungendo alla fine.

 
 
23 gennaio 2015
Londra
St. Barts.

 
 
Gli uomini Di Mycroft sono disposti nell’edificio. Sia i fratelli Holmes che i Watson indossano degli auricolari, visto che la sicurezza non è mai troppa.

Sono davvero giunti alla fine. Solo poche ore ancora e poi potranno mettere la parola fine a quella lotta durata anni.
 

Hariett riesce a scovare Mary e riconoscerla avvisando tutti. La messinscena può avere inizio. Sherlock viene avvicinato, si alzi il sipario.

Tutto sta andando secondo i piani, ma lei non riesce a essere tranquilla. Sa che ci riuscirà solo quando sarà tutto finito. Ed ecco un messaggio di Moran: “Vieni sul tetto”.

Prima di salire, sussurra a Mycroft: «Siamo in posizione.»

Viene raggiunta dalla sua risposta: «Anche io. Sono con voi.»

Quando si trova all’esterno, il vento freddo la colpisce. Sente parlare, ma non esce subito allo scoperto.

«Una pistola, John? Mi sorprendi davvero.» Mary sembra sincera.

«Tendete tutti a scordarvi che sono un militare,» risponde atono lui.

«Metti giù quell’arma, se non vuoi che spari a Sherlock.»

La scena che si presenta ai suoi occhi vede Sherlock in ginocchio, Mary che lo tiene sotto tiro, John che punta la pistola contro la moglie. L’arma è quella che lei gli ha dato quella mattina.

«Lo farai comunque,» dice scoraggiato.

«Già, forse. Però non puoi saperlo; c’è sempre una possibilità.» Non può sapere che lui oramai sa tutto. Hariett si stupisce comunque di come riesce a rimanere calma.

«Hai cercato di ucciderlo due volte. Non credo che ti fermerai ora,» risponde con rabbia.

«John, davvero riusciresti a sparare a tua moglie?» cambia argomento lei.

«L’ho già fatto.»

«Oh, quella è stata una reazione al mio tentativo di togliere di mezzo il tuo caro Sherlock. Ma così a mente fredda? Mi hai sparato senza riuscire a ferirmi mortalmente mentre lo volevi proteggere, ma ora riusciresti davvero a togliere la madre a Rosie?»

«Usare Rosie...» inizia lui con rabbia, ma lei lo interrompe.

«E poi non sono sola, John.»

Lei sa che è il suo momento. Esce allo scoperto.

«Vi presenterei, ma sinceramente non ne vedo l’utilità,» continua Moran, del tutto ignara della reale situazione in cui è coinvolta.

«Sai,» interviene Hariett. «Forse sarebbe davvero il caso che ci presentassimo,» dice con una voce divertita.

«Perché perdere tempo?» le chiede sorpresa. Non capisce cosa sta accadendo, ma oramai a Hariett non importa più. Ora può smettere di fingere e può finalmente dimostrare tutta l’avversione e tutto l’odio che nutre per la donna che ha di fronte.

«Perché è da tanto che mi chiedo se Rosamund Moran sia il tuo vero nome.»

«Cosa vuoi che cambi? Un nome è solo un nome.»

«Oh, so che Shakespeare la pensava così, solo che a volte non credo sia vero. Per esempio il mio nome è molto importante e tu non lo conosci.» Continua a osservarla cercando di carpire ogni possibile emozione. Soprattutto ora che punta la sua calibro .22 contro di lei.

Mary osserva sorpresa la canna della pistola. «Che diamine stai facendo?»

«Chiedimi il mio nome.»

«Il tuo nome?»

«Sì.»

«Cosa vuoi...»

«Chiedimelo!» La voce di Hariett è dura, aspra.

«Qual è il tuo nome?» chiede alla fine Moran, incredula.

« Hariett, Hariett Watson.» Aspetta che la notizia si sedimenti nella sua mente prima di continuare: «Te l’ho detto che il vero nome è importante. Cambia tutta la storia, non è vero?»

«Tu... Tu hai lavorato contro di loro con noi! Tu...» balbetta, incapace di formulare una frase di senso compiuto tanta è la sorpresa per quella nuova scoperta che cambia tutte le carte in tavola.

«Io non ho mai fatto nulla che non fosse proteggerli,» rivela. Poi aggiunge con fermezza: «È finita.»

«Ah, no, no, no, non ci pensare.» Moran muove a scatti la pistola, tentando di tenere tutti e tre sotto tiro. Cercando di trovare una soluzione, una via di fuga, il suo istinto di sopravvivenza sta urlando dentro di lei. Può quasi vedere i suoi artigli che le si conficcano nella carne.

«Non puoi più fare nulla, è finita.»

«No, non puoi uccidermi; lui... Lui non vuole che sua figlia cresca senza una madre.»

«Lo credi sul serio? Lui sa tutto. Sa cosa volevi fare a sua figlia se le cose fossero andate secondo i tuoi piani. E anche prima.» Scuote la testa. «Oddio, Moran, non hai capito perché sei ancora viva?»

«Cosa vuoi dire?»

«Sai che io sono un ottimo cecchino. Anche nelle situazioni più assurde e pericolose non sbaglio mai un colpo. Ma non sono l’unica in famiglia ad avere questa caratteristica. Se sei viva non è perché John ha sbagliato mira, ma perché l’ha presa con cura.»

«Per non uccidermi, vedi? Non può...»

Hariett scuote la testa con un sorriso malevolo sulle labbra. «Perché se il proiettile destinato a Sherlock che John ha fermato con il suo corpo avesse colpito un vaso principale e non fossero riusciti a salvarlo, lui,» dice Hariett indicando Sherlock, «avrebbe avuto qualcosa per non lasciarsi morire o annegare nelle droghe.»

«No, lui... Non...»

«Non lo capisci davvero? John non ti ha mai perdonata. Nel momento esatto in cui ha scoperto che non avevi fatto altro che mentirgli, che avevi tentato di uccidere Sherlock, per lui sei morta. Ma questo non nega il fatto che si è reso conto della tua bravura; sapeva che avresti tenuto occupata la mente di Sherlock per un tempo abbastanza lungo, in modo che quando lui ti avesse trovata – e, fidati, John non ha dubitato un istante che l’avrebbe fatto – sarebbe passato il tempo necessario per permettergli di capire che poteva fare ancora tanto per tutti. Soprattutto quando avrebbe scoperto che John l’ha nominato tutore legale di Rosie. Cosa che ha fatto quando ha scoperto che razza di persona sei.»

Moran rimane immobile con gli occhi sbarrati, ma la pistola è tornata su Sherlock, che è occupato ad osservare John con gli occhi sgranati, incredulo di ciò che è appena venuto fuori. Il dottore ha le guance rosate, anche se finge che non sia nulla.

«Hai davvero fatto questo?» chiede allora Mary direttamente al Dottore.

«Se non vuoi uccidere qualcuno, per prima cosa non gli spari. Se devi per forza farlo, non miri tanto vicino al cuore. Tu volevi uccidere Sherlock. Il fatto che lui sia vivo è solo un caso. Sono un medico, sono un cecchino, confidavate davvero che avessi creduto a questa bugia anche solo per un minuto?» risponde John, elencando ciò che l’ha spinto, tra le altre cose, a prendere una decisione simile. Osserva per un istante Sherlock che, ancora incredulo, lo guarda come se fosse la persona più stupefacente dell’intero universo.

Hariett sorride. “Non è facile capire John, Sherlock. Non ti basterà una vita con lui, ma credo potreste iniziare da quella”, vorrebbe poter dire. Sostituisce in fretta il sorriso dolce che le si era formato e torna ad ascoltare le battute finali di questa rappresentazione teatrale che si sta svolgendo davanti ai suoi occhi. È certa che persino Moriarty l’avrebbe trovata interessante.

«Volevi che mi trovasse? Che mi uccidesse?»

«Davvero me lo stai chiedendo? Dopo tutto quello che tu hai fatto, credi che avrei permesso che una persona speciale come lui morisse per causa tua? Sherlock è la persona migliore che abbia mai incontrato. Se io non ci fossi più, sono certo che nessuno al mondo crescerebbe mia figlia con la stessa cura e dedizione che ci metterebbe lui. E sì, se per essere sicuro che lui sopravvivesse dovevo fare in modo che fosse lui a ucciderti, beh... È un sacrificio che avrei fatto. La mia coscienza non ne avrebbe sofferto.»

«Arrenditi, Moran, ormai è finita,» dice. Riesce quasi a capire l’incredulità di Mary. Persino per lei, dopo tutti quegli anni, sembra impossibile.

«Sì, è indubbio, mi avete fregata.» Si volta di scatto verso Hariett. «Ma farò in modo di non andare all’inferno da sola. Tu verrai con me. Sono certa avremo compagnia.» La canna della pistola tanto vicina al cuore. E così ha scelto lei per la vendetta. Del resto, è quella che l’ha manipolata; forse la cosa che odia di più. O chissà, una parte di lei forse non se la sente di uccidere Sherlock e John? Questo Hariett non lo sa, e a dir la verità non riesce davvero a vedere tutta questa umanità in lei – forse è un suo limite – ma visto che le sta puntando contro una pistola, non si sente in colpa nel giudicarla così male. Hariett in realtà accetta che quella sia la fine. Loro sono al sicuro e potranno ricominciare. Strano ma vero, nonostante tutti i suoi rimpianti, se ne andrà in pace, dopotutto.
 

Poi però uno sparo squarcia l’aria.

 
Un unico, singolo, mortale sparo.

 
E il corpo di Moran cade, senza vita. Un’espressione sorpresa sul volto.
 

Rimangono tutti immobili. Per un istante nessuno sembra capire cosa sia davvero successo.

«Myc, sei stato tu?» La sua voce è spezzata all’auricolare. Credeva davvero che fosse arrivata la sua ora.

«Sono un Holmes. Nessuno si deve azzardare a minacciare la mia Watson!» tuona, poi aggiunge: «Non muovetevi, vi raggiungo subito.»

Rimangono immobili per qualche secondo poi John, dopo aver dato la pistola alla sorella, allunga la mano verso Sherlock per aiutarlo a rialzarsi. I loro sguardi indugiano tra di loro. Lei si allontana per permettere loro di stare un po’ da soli, aprendo la porta che collega le scale con il tetto e facendo entrare Anthea che le sorride e gli altri uomini, tra cui Greg. Pochi minuti e niente farà capire cosa è successo su quel tetto.

«Direi che è andata bene,» interviene lui con un bel sorriso sereno.

«Non credi che i tuoi capi potrebbero prenderla male?» chiede lei, sorpresa dal modo in cui l’ispettore sta reagendo a quello che è appena successo.

«E perché? Sono qui a guardare il panorama con i miei amici nel mio giorno libero. Dopo tanto tempo mi merito un po’ di riposo.» Le sorride e si avvicina a Holmes e Watson per assicurarsi che stiano bene.

Quell’uomo non la conosce – quello che sa gli è stato rivelato da Mycroft – ma non le ha mai fatto alcuna domanda, sa che fa parte di quella strana “armata” degli Holmes e gli va bene così. Da parte sua se già rispettava l’ispettore prima, ora ammira anche l’uomo che è.

Dopo poco, si aggiunge anche Mycroft. Le appoggia una mano sulla spalla stringendola per un secondo, come ad assicurarsi che sia davvero illesa, poi raggiunge gli altri. Greg gli sorride. Sherlock alza gli occhi al cielo per poi posarli su John, che forse è quello che sta facendo di più i conti con se stesso. Non si sta pentendo di nulla, lei lo sa. Nulla che è accaduto su quel tetto quel giorno, almeno. Per il resto, spera che Sherlock gli farà capire che il passato è semplicemente passato e che alla fine loro sono riusciti a superarlo.

Lo spera davvero.

Quando il corpo di Moran viene portato via, il silenzio li avvolge per un momento.

«La verità è stata troppo per lei. Non c’era abituata,» interviene Sherlock.

«La pura e semplice verità è una delle armi più potenti al mondo,» risponde Greg.

«La verità è raramente pura e mai semplice,» ribatte Mycroft. «Non ricordo chi lo disse.»

«Oscar Wilde,» rivela John, ancora scosso.

«Il gioco è finito, Myc? È davvero finito?» Hariett è ancora incredula dal fatto che sia davvero arrivata la conclusione di questo gioco durato anni. Che sia l’inizio di un futuro in cui finalmente non deve per forza essere sola? È davvero possibile che possa avere una famiglia vicino? Che ha recuperato il rapporto con John? Che può essere Hariett e non solo il killer del governo? Questo non lo sa, ma spera davvero sia così.

«Questo, sicuramente,» le risponde lui, forse consapevole delle mille domande che ora le girano nel cervello.

«Mi hai salvato la vita.» È ancora sorpresa. È stata la prima volta che ha potuto osservare il risultato di un Mycroft armato. E anche se immaginava che sapesse difendersi da solo, non si è mai resa conto di quanto l’uso di un fucile di precisione potesse essere nelle sue capacità. Ha dimostrato che è nettamente nelle sue capacità. Chissà se l’aveva già fatto o se ha semplicemente utilizzato ciò che di teorico sa sulle armi e sulla fisica per poter sparare quel colpo. Del resto, ha imparato una lingua straniera usando le conoscenze di altre lingue in poche ore; non si stupirebbe più di tanto che fosse così. Sa che la risposta l’avrà solo se gli porrà la domanda, anche se non ha idea se avrà la verità o meno in risposta.

«Lo hai fatto anche tu, ragazzina. Lo hai fatto anche tu.» Un sorriso appena accennato, e lei sa che non sta parlando di un salvataggio come quello che lui ha appena fatto, ma di qualcosa di diverso.

Lei c’era quando stava per venire sommerso dalle responsabilità delle sue decisioni, dei suoi piani. Lei c’era quando ha sbagliato, ed è rimasta. Lei non ha mai negato i suoi errori, ma mai l’ha lasciato solo con i suoi demoni. E del resto lui ha fatto lo stesso con lei.

Erano soli, credevano di non poter permettersi di chiedere aiuto e di sicuro di non meritare perdono, e si sono trovati. Non sarebbero mai diventati una coppia, non dal punto di vista romantico del termine, ma sapevano stare accanto l’uno all’altra; si capivano, si spronavano a migliorare, e conoscevano entrambi la bellezza del bere un tè in silenzio con un amico. E forse questo legame è persino più forte.
 
 

29 gennaio 2015
221b Baker Street
 
 

La riabilitazione di John sta procedendo bene.

Nessuno si è sorpreso se, dopo quello che per tutti – compresa la stampa – era stato l’incidente mortale della moglie, il dottore ha deciso di tornare a dividere l’appartamento in Baker Street con Holmes.

Lei e Mycroft sono stati invitati a pranzo per festeggiare insieme. In fondo, in un modo magari poco convenzionale, sono una famiglia.

«Cosa farai ora?» le chiede John.

«Non lo so. Credo che, se Myc vuole, potrei lavorare con lui ancora un po’.»

«Non sei stanca di questo lavoro?»

«Ti sei mai stancato di correre dietro a Sherlock e ai suoi assurdi casi?»

«No.»

«Nemmeno io sono stanca del mio lavoro. Non è facile, e ho sofferto tanto, ma credo che fosse principalmente perché continuavo a vivere nella menzogna. Ora sai chi sono e non mi hai allontanata. E, non so, credo che forse con Myc posso ancora fare qualcosa di buono.»

«Il tuo è un lavoro pericoloso.»

«Oh, John, finché tu e Sherlock continuerete con i vostri casi, sarò costretta a lavorare. Senza me e Myc che vi copriamo le spalle sareste persi!» lo prende in un po’ in giro. Anche se un fondo di verità c’è, e lo sanno tutti.

«Esattamente! E ora dobbiamo andare, mia cara, abbiamo quella riunione...» Mycroft li raggiunge interrompendo la loro chiacchierata.

«Le riunioni toccano a te. Io e Anthea andiamo al cinema.»

«Crudeli, siete crudeli!» si lagna un melodrammatico Mycroft.

«Su, Capo, ti aspettiamo a casa con una bella pizza.»

«Non mi compri con così poco.»

«E se ci aggiungo la torta al cioccolato?»

«Sarò a casa per le 22.»

La risata cristallina di Hariett riempie le scale che dividono l’ingresso dall’esterno. Lei abbraccia il fratello, dà una carezza a Rosie e saluta Sherlock che le fa un sorriso grato. Mentre scendono le scale, il maggiore degli Holmes borbotta tentando di nascondere un sorriso.

«Staranno bene quei due?» chiede a Mycroft una volta all’esterno, guardando le finestre dell’appartamento.

«Sì, e poi ci siamo noi a tenerli d’occhio. La formula Holmes-Watson funziona bene, da qualsiasi angolazione la si guardi.»

«Sì, Myc, funziona benissimo.»

Guarda un’ultima volta verso la finestra del salotto dove la figura di Sherlock li osserva facendogli un cenno di saluto. Sa che passerà spesso a trovarli, e che anche quella casa diventerà un posto familiare.

John le ha lasciato l’appartamento che divideva con Mary, che è troppo grande per lei da sola, ma capisce che per John “casa” è sempre stato il 221b in Baker Street, e anche se si dovranno stringere un po’ lui, Sherlock e Rosie, è certa che non sarà un problema. Anche se non ha indagato, bastano le occhiate che quei due continuano a lanciarsi per capirlo.

Quindi, per ora, ha deciso di accettare; e anche il suo amico a quattro zampe ha accettato la nuova soluzione, molto ma molto felicemente.

«Allora, andiamo, ragazzina?» la chiama Mycroft.

«Ti sarai reso conto che il fatto che noi Watson non siamo altissimi non toglie che picchiamo forte, vero?»

«Oh, lo so, lo so. Coraggio, non farmi fare tardi.»

«Sei tu il capo. Sei tu che decidi a che ora fare la riunione. Non puoi fare tardi. A meno che...»

«A meno che, cosa?»

«No, no, nulla. Ignorami.»

«Ragazzina...» la avverte lui con una sola parola.

«Niente, dai, andiamo Myc. Non vorrai mica fare tardi!» Hariett adora prendere in giro il maggiore degli Holmes, e si vede. Poi innocentemente aggiunge: «Ah, una cosa: salutami Greg alla “riunione”,» ridacchia. «A tal proposito, perché non fai venire anche lui a mangiare una bella pizza? Dimmi solo quale preferisce, scommetto che lo sai.»

Mycroft rimane immobile, la punta delle orecchie rossa.

Hariett, che intanto è salita in macchina, allunga la mano e lo tira all’interno. La sua risata riesce a far sorridere anche lui.

 
°*°*°*°*
 

Le scale del 221b sono silenziose, ora. Nell’appartamento, Sherlock sta guardando fuori dalla finestra osservando curioso e incredulo la scena che sta avvenendo sul marciapiede. Fa ancora fatica a rendersi conto di quello che quella ragazza è riuscita a fare al fratello, eppure dovrebbe sapere quello che un Watson è in grado di fare a un Holmes. Lui è stato la prima vittima delle loro capacità.

John si avvicina rimanendo a pochi centimetri dalla sua schiena ed entrambi si beano del calore dell’altro per pochi istanti in silenzio.

«Potrai mai perdonarmi per quello che ti ho fatto?» gli chiede senza voltarsi. Sa che non deve aggiungere altro, anche perché ne ha fatte tante all’uomo alle sue spalle; tante che non sa nemmeno da che parte iniziare a elencarle tutte.

Un sospiro profondo proviene da John prima che risponda: «Potrai perdonarmi per averla sposata?» Nella sua voce si può sentire tutta la colpa che prova, la rabbia contro se stesso.

«C’è Rosie. Non potrei mai pensare a un mondo senza lei, senza voi,» rivela Sherlock, anche se fino a quel momento non si è reso conto che doveva specificarlo.

«Nemmeno io.» John si avvicina e appoggia la fronte sulla schiena di Sherlock.

Sherlock sorride come sa fare lui. Le labbra tirate in su, più da un lato che dall’altro, gli occhi che sorridono anche più delle labbra. «Credi si siano arresi? Non fanno più battute su di noi.» A volte fatica ancora a credere che dopo tutto quello che hanno passato c’è ancora un “noi”.

«Che vuoi che ti dica, Sherlock, qualcuno una volta mi ha detto che il mondo è popolato da idioti.»

«Un tipo intelligente.»

«No, un idiota!»

Ridono insieme, poi Sherlock si volta. John accarezza il suo viso.

«Non farmi mai più provare una paura simile, John, mai più.» La visione di lui in quel letto di ospedale tormenterà ogni suo incubo per molto tempo.

«Vale anche per te,» sussurra John quasi sulle sue labbra. Le bocche si cercano, e quando finalmente si trovano, entrambi si sentono finalmente a casa.
 

°*°*°*°*
 

La porta d'ingresso del 221b è chiusa, con il battiporta di ottone inclinato, come lo lascia sempre John. Un segno che la coppia indivisibile è ancora insieme.

Una musica si spande per Baker Street.

E tutto, almeno per oggi, finalmente è pace.



Fine



Note: Ci siamo davvero, siamo arrivati alla fine, che poi nel loro caso "la fine" non è mai definitiva, è solo un punto di partenza per altre storie. Sono davvero feli ce di aver terminato questo progetto e non sarebbe stato lo stesso senza tutti voi. Senza la mia beta, senza Annina e Susanna. Senza Chiara, Marcella, Sonia, Koa, Emerenziano, K_MiCeTTa_K, Linda, Prisca, Liriel4444, Freddie36, elaya, (spero di non aver perso nessuno per strada) le vostre recensioni e il vostro affetto li ho ricevuti tutti con gioia. E a tutte le persone che l'hanno messa tra le preferite, ricordate, seguite. Per tutti quelli che l'hanno letta e amata in silenzio, senza farsi sentire, questa storia è per tutti voi nessuno escluso.

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