Yaroslav

di RedeNetele
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo Otto ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


E niente, io sono fatta così. Se mi viene l'idea per una storia, la devo scrivere, anche se magari ne ho in cantiere altre cinquanta. Ogni tanto ci piazzerò qualche nota a piè di pagina, spero che la cosa non disturbi eccessivamente la lettura.

♥♥♥

Anna strinse tra le dita il bicchiere mezzo vuoto, mentre il brusio del piccolo bar di quartiere sfumava, perdendosi nel rombo quieto che aveva improvvisamente riempito le sue orecchie.

Seduto di fronte a lei, quasi rattrappito sulla sedia metallica troppo piccola per il suo metro e ottantacinque di altezza, Lorenzo, il suo ragazzo, la guardò come se non fosse in grado di capacitarsi di quello che stava dicendo. «A Lanzate (1)» scandì lentamente, ripetendo ciò che Anna aveva detto pochi istanti prima.

«» confermò lei, puntando gli occhi in quelli del giovane per studiarne la reazione. Lo stava ferendo, lo sapeva, ma aveva il disperato bisogno che lui capisse le sue esigenze o che, per lo meno, provasse a farlo.

«Ma è a più di duecento chilometri da qui» sbottò lui, aggrottando le sopracciglia scure e dall'arco elegante. Dal tremolio quasi impercettibile della sua voce, dalla lieve inflessione tagliente nel suo tono, Anna capì che lo spaesamento e la rabbia stavano per avere la meglio sul suo autocontrollo.

Stavano insieme da più di otto anni, lei e Lorenzo, e ormai aveva imparato a conoscerlo e a prevedere ogni sua reazione. Fa sempre così, pensò nervosamente la ragazza, abbassando lo sguardo sulla superficie metallica del tavolino che la divideva dal giovane. Quando sente che la situazione sta per sfuggirgli di mano, diventa passivo-aggressivo. Ma lei aveva ormai capito come ricondurlo a più miti consigli: il trucco stava nel non arretrare nemmeno di un centimetro e di tenergli testa senza dar segni di cedimento.

«Certo, ma non capisco perché ti mostri così sorpreso» ribatté, puntando gli occhi quasi neri in quelli appena più chiari del ragazzo. «Sono mesi che parlo di questo concorso. Sono mesi che discutiamo della possibilità di trasferirci a Lanzate. Qual è il problema?»

Lorenzo allargò le braccia, come se il suo discorso lo lasciasse senza parole. «Secondo te, qual è il problema?» la provocò, senza celare l'amarezza che trapelava dalle sue parole. «Non saprei, forse il fatto che io lavoro qui? E che, sempre qui, ho la mia famiglia e tutti i miei amici?»

Anna sentì la frustrazione bruciarle lo stomaco. «Ma ne abbiamo già parlato!» gemette, facendo del proprio meglio per non urlare e per non attirare l'attenzione degli altri avventori del bar. «Non ne abbiamo per caso già parlato? Quante volte abbiamo discusso del fatto che, se avessi superato il concorso e avessi ottenuto il posto in ospedale, sarei dovuta tornare a Lanzate? Non dirmi che hai rimosso tutto!»

Lorenzo abbassò lo sguardo e deglutì un paio di volte, un chiaro segnale del fatto che si sentiva preso in contropiede. «Sì, ma non pensavo che avremmo dovuto decidere così presto.»

Anna aggrottò la fronte, confusa da quell'ammissione. Quando comprese ciò che il ragazzo voleva veramente dire, anche se in maniera un po' velata, si sentì avvampare dalla rabbia. «Non pensavi che avrei superato il concorso, vorrai dire» sibilò, mentre un retrogusto amaro le riempiva la bocca. «Mi fa piacere sapere che hai così tanta fiducia nelle mie capacità!» Si interruppe brevemente, poi riprese: «O forse addirittura speravi che non lo superassi, quel concorso.»

«Questo non è vero!» ribatté Lorenzo, cercando lo sguardo di lei. «So che sei brava e intelligente e che hai tutte le possibilità per fare bene, però...»

«Però?» lo incalzò Anna.

«Se devo essere sincero, credo che tu non avresti nemmeno dovuto farlo, quel concorso» concluse lui, abbassando però gli occhi come se non riuscisse più a sostenere il peso di quelli della ragazza.

La giovane rimase spiazzata e, per diversi secondi, non riuscì a dar voce ai pensieri che le vorticavano in testa. «Ma... ma se sono disoccupata da due anni» balbettò, prima di riprendere, con più vigore: «Non ce l'ho nemmeno mai avuto, un lavoro vero! Da quando mi sono laureata, ho fatto... cosa ho fatto? La cameriera in un ristorante, e un paio di volte la commessa sotto Natale.»

«Lo so» sbuffò Lorenzo. «Però sei giovane, avresti avuto tutto il tempo di trovarti un lavoro qui vicino. Non c'era nessun bisogno di andare a cercarlo così lontano.»

«Non sono poi così giovane» mormorò Anna di rimando, mentre un brivido d'ansia le serpeggiava nello stomaco. «Tra pochi mesi compirò ventinove anni e i trenta sono dietro l'angolo: chi diavolo l'assumerebbe una trentenne senza esperienza?»

Lorenzo esitò, poi si strinse nelle spalle. «Sono sicuro che un lavoretto l'avresti comunque trovato» mugugnò, evitando però di scendere nei dettagli.

«Un lavoretto, eh?» ringhiò Anna. «E come ci campo, con un lavoretto?»

Quella domanda parve pungere Lorenzo sul vivo. «Come se corressi il rischio di morire di fame!» ribatté, con voce improvvisamente più dura. «Ci sono i tuoi che ti mantengono e, soprattutto, ci sono io, che un lavoro ce l'ho: ed è anche un buon lavoro, che avrebbe potuto mantenere entrambi in maniera dignitosa.»

Anna lo osservò per qualche istante, chiedendosi se avesse sentito bene. «Lore... non ho preso due lauree per fare la casalinga: questo lo sai, vero?» fece, riuscendo a stento a trattenere l'incredulità nella voce.

Il ragazzo chiuse forte gli occhi, come nel tentativo di riordinare le idee. «Ma certo, lo so. Non ho mai detto che dovresti fare la casalinga, ovviamente. Sto solo dicendo che avresti potuto trovare una soluzione diversa.»

«... che avremmo potuto trovare una soluzione diversa» puntualizzò la giovane. «La decisione di partecipare al concorso in ospedale l'ho presa dopo essermi confrontata con te.»

«Ah, sì?» fece Lorenzo, ironico.

Anna incrociò le braccia davanti al petto, senza più curarsi di nascondere l'irritazione che ormai doveva essere perfettamente evidente anche agli occhi degli altri clienti del bar. «Ovvio. Te ne ho parlato, abbiamo valutato i pro e i contro e tu non mi hai mai detto di non andare.»

«Non volevo offenderti!» ribatté il ragazzo. «Non volevo che pensassi che volessi dirti quello che dovevi fare della tua vita! Però ho cercato di farti capire che questa non era la soluzione migliore per il nostro futuro, per noi: tu, però, non mi hai mai voluto ascoltare.»

Anna fece per negare, per dire che non era vero, ma le parole le morirono in gola. Lei lo sapeva, che Lorenzo non era felice del fatto che lei se ne andasse tanto lontano alla ricerca di un lavoro. Lo sapeva interpretare bene, quello sguardo da cucciolo sofferente, quella tensione di fondo nella sua voce, quel suo tentativo di svicolare ogni volta che lei sollevava l'argomento. Però non le aveva mai detto che non voleva che lei partisse, questo no. Ma temo che in questo caso non valga la regola del silenzio-assenso, riconobbe con una smorfia.

Sentendosi improvvisamente sfinita, Anna si massaggiò gli occhi con i polpastrelli per scacciare la tensione che sentiva crescere all'interno della testa, preludio di un'imminente cefalea. «Be', ormai è tardi per cambiare idea. Avresti dovuto parlare più chiaramente: siamo due persone adulte, non puoi pretendere che io interpreti quello che pensi, ma che non hai il coraggio di dire.»

«Quindi adesso sarei uno che non ha il coraggio di dire le cose come stanno?» sbottò Lorenzo, rivolgendole uno sguardo tradito.

«... a volte, forse» ammise la ragazza. Non appena ebbe pronunciato quelle parole, provò una fitta dolorosa all'altezza del petto, ma non si rimangiò le parole. Perché sono vere, riconobbe, vedendo improvvisamente Lorenzo sotto una nuova luce.

Lui rimase immobile per qualche secondo, boccheggiando come se non riuscisse a trovare una risposta adeguata per ciò che la giovane gli aveva appena detto. «È questo quello che pensi, eh?» fece, poi, con una strana voce tesa. «E allora adesso te lo dico chiaro e tondo, quello che penso.»

Anna si sentì improvvisamente messa all'angolo e un brivido di preoccupazione le serpeggiò nello stomaco. Nonostante ciò, sostenne in silenzio lo sguardo del proprio fidanzato, invitandolo a continuare.

«La verità è che tu non mi ami» dichiarò Lorenzo.

Davanti a quella battuta così scontata, Anna non riuscì a trattenere una risata incredula e si coprì la bocca con una mano, cercando di capire se il ragazzo fosse serio o se avesse semplicemente voluto fare un'uscita a effetto. «Come, scusa?» chiese, quando vide che il giovane non mutava espressione.

«Mi hai sentito benissimo e non credo che ci sia nulla da ridere» ribadì Lorenzo, funereo. «Stiamo insieme da otto anni e il nostro rapporto, anziché evolversi, si è come accartocciato su se stesso. Abbiamo quasi trent'anni e ancora non abbiamo fatto nessuno progresso.»

Per qualche motivo, il cuore della ragazza prese a battere più forte, ma Anna scosse testardamente il capo. «Non è vero» protestò. «Stavamo parlando di andare a vivere insieme!»

«Stavamo, appunto!» sbottò Lorenzo. «Prima che saltasse fuori questa storia del lavoro in ospedale e prima che tu decidessi di trasferirti in un'altra regione!»

Anna strinse nervosamente i pugni, cercando di dominare le proprie emozioni. «Lo dici come se lo avessi fatto apposta: da come la metti, sembrerebbe che io sia andata a cercarmi un lavoro lontano per non dovere stare con te.»

«Magari non hai fatto apposta», replicò Lorenzo, dopo un silenzio di qualche istante, «però non ci hai pensato nemmeno un secondo, prima di accettare di trasferirti a Lanzate.»

«Non ci ho pensato più di tanto perché so che questa è un'occasione più unica che rara» sbuffò la ragazza di rimando. «Ho aspettato un sacco di tempo di trovare un lavoro qui da queste parti. Ci ho sperato, ma non è saltato fuori niente. Non posso più permettermi di aspettare.»

«Perché il tuo lavoro è più importante di me, giusto?» la incalzò il giovane.

Anna incrociò risolutamente le braccia davanti al petto. «È altrettanto importante» sbuffò. «E, in ogni caso, le due cose non sono in contrasto.»

Lorenzo non trattenne un sorriso sarcastico. «Dimmi che non stai per propormi una relazione a distanza.»

«No, sto per proporti di iniziare a cercarti un lavoro vicino a Lanzate» ribatté lei. «Tu sei un maschio e sei ingegnere meccanico: se mandi un po' di curriculum, verrai praticamente sommerso dalle richieste di lavoro.»

Il ragazzo sgranò gli occhi. «Ma non se ne parla proprio!» sbottò. «Io un lavoro ce l'ho, e mi piace pure. Perché dovrei lasciarlo per trasferirmi dove dici tu?»

«E perché io dovrei rinunciare a un lavoro che magari mi piacerà per restare dove dici tu?» ribatté lei. «Che, tra l'altro, Lanzate è il posto in cui sono cresciuta: ci sono pure affezionata.»

«Per me, invece, non significa nulla» fece Lorenzo, con il tono di chi intende chiudere una discussione.

«E allora come la mettiamo?» fece Anna, giocherellando nervosamente con l'ultimo rimasuglio di birra. Lorenzo distolse lo sguardo, irrigidendo la mascella e affondando i denti nella labbro inferiore. Sta per fare una sparata, realizzò la ragazza, con un pessimo presentimento. Lorenzo non era del tutto nuovo al fatto di porle degli aut-aut, ma la giovane intuì che quella volta sarebbe stato diverso.

«O rinunci a partire, oppure ho bisogno di un po' di tempo per ripensare alla nostra storia» disse infatti il giovane, senza trovare il coraggio di guardarla negli occhi.

Per qualche istante, Anna ebbe l'impressione che la gola le si stringesse a tal punto da non riuscire a respirare. Dopo il primo brevissimo istante di panico e di confusione, la ragazza sentì montare in sé la rabbia: come osava porla di fronte a una scelta del genere? Pensava davvero che un ricatto avrebbe risolto la situazione?

Reclinandosi lentamente sullo schienale, la giovane fece scorrere lo sguardo su Lorenzo. Bello era bello, c'era poco da dire. Si ricordava ancora quando, nove anni prima, l'aveva visto per la prima volta, mentre giocava a basket insieme al ragazzo di quella che al tempo era la sua migliore amica. Era alto, agile come un gatto e con le spalle larghe malgrado i suoi diciott'anni scarsi. Dalla sua posizione sugli spalti, Anna l'aveva studiato, cercando di convincersi che era solo un ragazzino: del resto, aveva un anno in meno di lei. Però l'aveva seguito per tutta la partita, scoprendosi incantata dal gioco dei muscoli delle sue braccia e dal gesto con cui si scostava dagli occhi i capelli scuri e un po' lunghi. Poi, quando la partita era finita, il ragazzo della sua amica si era avvicinato a loro e, per qualche motivo, Lorenzo l'aveva seguito. Era stato così che si erano conosciuti ed era stato da allora che avevano preso a frequentarsi, anche se, prima di scambiarsi un bacio, avevano aspettato un anno.

Adesso era cresciuto – com'era cresciuta lei – ed era diventato un uomo, si era lasciato crescere una barba corta e curata e il lavoro al computer gli aveva regalato un paio di occhiali dalla montatura nera che non faceva altro che accrescere il suo fascino: ogni volta che lo guardava, Anna si stupiva di quanto fosse bello.

Ma la bellezza non è tutto, pensò, sentendosi stranamente distaccata dal proprio corpo. Dopo essersi versata in bocca l'ultimo sorso di birra ormai calda, Anna posò il bicchiere sul tavolo, avendo cura di piazzarlo al centro esatto del sottobicchiere di cartone. Poi spinse indietro la sedia e si alzò, guardando il volto di Lorenzo senza però vederlo veramente.

«Ti avevo già avvertito: se c'è una cosa che proprio mi fa incazzare, sono i ricatti» disse, con una voce controllata che stupì lei per prima. «Tu pensaci pure, se vuoi. Io una decisione l'ho già presa: parto.» Così dicendo, la ragazza si alzò in piedi e si sistemò in spalla la borsetta di pelle chiara. «Ah, un'ultima cosa. Quando ci avrai pensato, non prenderti il disturbo di farmi avere la risposta: non mi interessa.»

Sul volto di Lorenzo passò un'espressione allarmata, come se il giovane si fosse reso conto solo in quell'istante di essersi spinto troppo in là. «No, Anna! Aspetta un attimo» balbettò, facendo come per alzarsi a sua volta.

«Vai al diavolo» mormorò lei, riuscendo finalmente a infilare un po' di sdegno nella voce. Senza dedicargli un'altra occhiata, Anna girò sui tacchi e si avviò a passi veloci verso l'uscita del bar nel quale aveva trascorso innumerevoli serate, ignorando le occhiate curiose e un po' imbarazzate degli altri avventori.

Quando si trovò fuori, sotto ai pallidi raggi della luna di settembre, la giovane si accorse di essersene andata senza avere pagato il conto. Eh, pazienza, si disse, stringendosi nelle spalle. Che la paghi Lorenzo.

Cinque minuti più tardi, seduta al volante della sua Fiat Panda giallo canarino, Anna si immobilizzò nell'atto di infilare le chiavi nel quadro: aveva appena lasciato il ragazzo con cui si frequentava da sette anni, comprese, e non aveva praticamente provato nulla.

(1) – Il paese di Lanzate non esiste. Nella mia testa è una cittadina di medie dimensioni, un paesotto senza infamia e senza lode che offre ai suoi abitanti una vita tranquilla e un po' noiosa. Ho scelto di ambientare la storia in un luogo immaginario così che ognuno sia libero di darle la collocazione geografica che meglio crede, nei limiti di quello che andrò a descrivere.

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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


Cinque settimane dopo

Appoggiata a braccia incrociate contro la sua cucina nuova di zecca, Anna guardava Paolo, il compagno di sua madre, e suo figlio Francesco che trasportavano un ingombrante materasso matrimoniale.

«Da che parte hai detto che è la camera, Annina?» chiese Paolo, con il volto scarlatto a causa della fatica. « A sinistra?»

«No, a destra!» ripeté per l'ennesima volta la ragazza, allungando un braccio per indicare la direzione corretta.

Paolo era semplicemente adorabile. Sebbene non fosse particolarmente dotato per i lavori manuali – era un mite professore che insegnava scienze naturali al liceo – non perdeva occasione di cimentarvisi con grande entusiasmo, ridendo dei propri insuccessi e senza mai lasciarsi abbattere da essi. Anna l'aveva conosciuto a dieci anni e sulle prime era stata cautamente sospettosa nei suoi confronti. Suo padre se n'era andato tre anni prima, abbandonando moglie e figlioletta per inseguire una giovane russa e lasciando nel cuore della bambina un buco a forma di papà e una certa ostilità nei confronti di tutto ciò che apparteneva al mondo slavo. Quando Daniela, la madre di Anna, con la scusa di mangiare una pizza, le aveva presentato quell'uomo strano, più vecchio della mamma e per giunta accompagnato da un adolescente dalla pelle butterata dall'acne, la bambina si era sentita quasi tradita. Del resto, si erano appena trasferite in una città nuova e lontana, lasciandosi alle spalle l'amata Lanzate, e Anna non poteva fare a meno di pensare che quell'ometto con gli occhiali tondi avesse qualcosa a che fare con quel cambio di casa improvviso.

Ma Paolo si era dimostrato estremamente paziente, con una dolcezza che a Daniela mancava e con un certo savoir faire con i bambini e l'antipatia di Anna nei suoi confronti aveva avuto vita breve: non era il suo papà, ma era qualcosa di molto simile e lei se lo sarebbe fatto andar bene comunque. E anche Francesco non era poi tanto male, una volta superato il sospetto reciproco: non avevano passato tanti anni insieme sotto lo stesso tetto, perché il ragazzo aveva frequentato l'università a Roma ed era tornato a casa con una ragazza che era presto diventata sua moglie, ma lui e Anna erano tutto sommato in buoni rapporti. La ragazza era poi particolarmente affezionata a Giulio ed Enea, i bambini di Francesco. Mi mancheranno i miei due monelli, pensò tristemente la ragazza, pensando con nostalgia ai due nipotini che ora avrebbe visto molto più raramente di prima.

«Et voilà! Il letto è sistemato!»

La voce di Paolo la riscosse da quei pensieri e Anna trotterellò verso la sua nuova camera da letto, osservando l'opera completa con una certa soddisfazione.

«Qui ci devi mettere delle tende belle spesse, Annina» le disse Francesco, indicando la grande finestra che illuminava la stanza. «Non puoi lasciarle così: dalla strada si vede tutto.»

«Sì, certo» annuì lei, raggiungendo il fratellastro e sbirciando nella stessa direzione in cui stava guardando lui. In effetti, tra la sua finestra e la strada c'era solamente il vialetto condominiale circondato da un pezzo di prato e il suo appartamento era al piano terra. «Anche se non credo proprio che qualcuno sia interessato a scoprire di che colore sono le mie mutande.»

«Non si sa mai» ridacchiò Francesco, cingendole le spalle con un braccio e attirandola contro il proprio fianco. «Il mondo è pieno di maniaci e tu sei qui, sola soletta...»

Anna rise e si liberò dalla stretta dell'uomo. «Questo è un posto tranquilla, e comunque non sono esattamente sola: la zia Clara abita a cinque minuti da qui, sai?» gli fece notare, alludendo alla sorella della madre che l'aveva ospitata in attesa che l'appartamento che aveva preso in affitto fosse pronto.

Francesco sospirò teatralmente. «Lo so, ma tu non sei abituata a stare da sola, povera piccola...»

Evitando di commentare, Anna levò gli occhi al cielo e si allontanò dalla finestra, scrollando il capo con un sorriso ironico dipinto sulle labbra. La verità era che, da quando lei e Lorenzo non stavano più insieme, la sua famiglia aveva preso la pessima abitudine di fare domande e commenti apparentemente casuali, ma che avevano lo scopo di sondare il terreno e verificare se la loro piccola Anna stesse soffrendo a causa della separazione.

Se solo si decidessero a chiedermelo una volta per tutte, potrei dirgli che no, non sto per cadere in depressione per colpa di Lorenzo, pensò la ragazza, dirigendosi nuovamente verso la cucina. Anche se non le sembrava il caso di sollevare lei stessa l'argomento – più che altro per evitare di dargli più importanza di quanta le sembrava che meritasse – Anna avrebbe voluto gridare a tutti che stava bene e che non c'era alcun bisogno che si preoccupassero per lei. Certo, i primi tempi non erano stati facilissimi: Lorenzo l'aveva tempestata di telefonate – a cui lei non aveva mai risposto – e poi era passato ai messaggi, senza lasciarsi scoraggiare dal fatto che Anna li cancellava senza nemmeno leggerli. La totale mancanza di reazioni aveva però richiesto un certo impegno da parte sua: anche se quella sera al bar se n'era andata senza voltarsi nemmeno una volta, otto anni di relazione non si potevano cancellare in poche decine di giorni. Anche perché, se doveva essere perfettamente onesta con sé stessa, la ragazza non era del tutto sicura che la colpa della fine della loro storia fosse interamente da attribuire a Lorenzo. Anche lei, forse, aveva commesso degli errori che avevano condotto al triste epilogo.

Anna aveva però stretto i denti e aveva sfiorato il tasto rosso ogni volta che il nome del suo ex ragazzo era comparso sullo schermo, e aveva eliminato ogni singolo messaggio di WhatsApp. Del resto, non era cambiato nulla dal giorno in cui aveva deciso di lasciarlo e di rifarsi una nuova vita a duecento chilometri da lui. Se anche avesse pensato di aver preso la decisione sbagliata, Anna sarebbe stata troppo orgogliosa per ritornare sui propri passi: in ogni caso, poi, la giovane era convinta che la sua scelta fosse corretta, anche se, forse, avrebbe potuto rivedere qualcosa nel modo in cui si era svolta la sua ultima conversazione con Lorenzo.

Poi, quando era stata sul punto di bloccare il suo numero, il ragazzo aveva improvvisamente smesso di cercarla. Da un giorno all'altro erano cessate le telefonate e non era arrivato più nessun messaggio. Anna si era quasi preoccupata, temendo che gli fosse successo qualcosa: i pochi amici che lo conoscevano, però, le avevano fatto sapere che Lorenzo godeva di ottima salute e che non aveva cambiato nulla nella propria vita. Semplicemente, si era stancato di cercarla e aveva deciso di passare oltre.

Anche in quel momento, quand'erano ormai passate più di due settimane dall'ultima volta che Lorenzo aveva cercato di contattarla, Anna non sapeva bene come prendere quello sviluppo: se da un lato si sentiva sollevata, come se avesse chiuso definitivamente una parte della propria vita e fosse quindi pronta ad andare avanti, dall'altro avvertiva un pizzico di delusione. Possibile che il ragazzo si fosse già dimenticato di lei?

Il suono deciso del citofono la fece sobbalzare e la costrinse a riscuotersi da quei pensieri. «Sì?» chiese, dopo aver armeggiato brevemente attorno al pannello elettronico per capire quale fosse il pulsante da premere per avviare la conversazione. «Chi è?»

«La mamma! Apri, che mi si stanno staccando le braccia!»

Una manciata di secondi più tardi, Daniela fece irruzione nell'appartamento, tenendo in mano i trasportini che contenevano Calliope e Cassandra, le due gatte di Anna. «Uff» sbuffò la donna. «Stanno diventando pesanti: sei sicura che non le stai nutrendo troppo?»

Posando le due gabbiette a terra, Daniela si passò le mani tra i capelli, come per riprendere fiato. Anna sorrise: arrivata ai sessant'anni, sua madre aveva deciso di liberarsi dalla schiavitù della tinta e aveva lasciato che i suoi capelli crescessero del loro naturale color grigio argentato. Li aveva tagliati corti e le ciocche più lunghe misuravano solo un paio di centimetri. Complici la sua corporatura minuta e i brillanti occhi scuri, che la figlia aveva ereditato, la donna aveva l'aspetto di un folletto.

«Non sono grasse» rispose Anna, chinandosi per liberare le bestiole. Cassandra, nera come la notte e dolce come il miele, prese subito a strusciarsi sulle sue gambe ronfando come un motorino, mentre Calliope, di natura più schiva e indipendente, evitò le carezze della ragazza con un passetto laterale. Dopo aver esaminato con una rapida occhiata di sufficienza quella che sarebbe stata la sua nuova casa, balzò sul divano, apprestandosi a cospargerlo di peli bianchi, neri e rossi.

«Calli!» la riprese Anna. «Non sul divano, che è nuovo! Ci devo ancora mettere la coperta!»

Richiamato dall'esclamazione della sorellastra, Francesco sbucò dalla camera da letto dove, in compagnia del padre, stava sistemando le ultime cose. «Oh, sono arrivate le bestie di Satana» commentò serafico l'uomo, che ai gatti aveva sempre preferito i cani. «Loro non mi mancheranno.»

«E tu non mancherai a loro» ribatté con sussiego Anna, chinandosi per grattare le orecchie di Cassandra.

«Questo è certo. Quella tricolore ha cercato di uccidermi un paio di volte, lo sai?» sghignazzò lui, lanciando un'occhiata di sfida a Calliope, che ancora si aggirava ai piedi del divano. «A proposito, hai dato un'occhiata al giardino dei tuoi vicini di casa?»

Aggrottando la fronte, Anna scosse il capo. «No, non ho ancora avuto tempo. Perché?»

Francesco si strinse nelle spalle. «Mah, ho visto che in giardino c'è una ciotola. A giudicare dalla dimensione, deve appartenere a un cane, e anche bello grosso: stai attenta che le gatte non gironzolino al di là della recinzione.»

Con una punta di allarme, la ragazza si avvicinò alla finestra della cucina e sbirciò in direzione del giardino dei vicini, cercando di individuare la ciotola incriminata. L'angolo era però tale che Anna non vide altro che un innocente segmento di prato dall'aria curata. «Be', non avevo comunque intenzione di farle uscire quando io non sono nei paraggi: la strada qui dietro non è molto trafficata, ma qualche auto ci passa comunque. E la rete della recinzione è stretta, non credo che le gatte riescano a passarci attraverso.»

In ogni caso, pensò Anna, sarebbe presto andata a conoscere i vicini. Innanzitutto perché non li aveva ancora né visti né sentiti e voleva farsi un'idea di che persone vivessero attorno a lei, e poi perché voleva giudicare personalmente la pericolosità dell'ipotetico cane che, secondo Francesco, risiedeva nel giardino accanto. Speriamo che non sia del tipo che abbaia notte e giorno, considerò, temendo già che le sue notti sarebbero state disturbate da un latrare incessante.

«Dove le metto, le ciotole?» chiese Daniela, sventolando i due piattini – rosa per Cassandra e verde per Calliope – in cui le due gatte erano solite mangiare.

«Lasciale davanti al frigorifero» replicò distrattamente Anna, recuperando poi i vari giochini delle gatte e depositandoli nell'apposito cestone che aveva predisposto accanto al divano.

«I cartoni vuoti, invece, dove li butto?» chiese ancora Daniela.

Anna soppesò con lo sguardo i due ingombranti scatoloni vuoti che sua madre teneva tra le mani, poi allungò le braccia per prenderli. «Dammeli, va': vado a buttarli in strada, che qua ingombrano.»

Bilanciando davanti a sé i due scatoloni, la ragazza raggiunse il cancello che separava la strada dal vialetto dalle quattro villette bifamiliari nella quale si trovava il trilocale che aveva preso in affitto. Dunque, pensò, guardandosi attorno, la tizia dell'agenzia mi ha detto che la carta e il cartone li ritirano il lunedì mattina, quindi domani. Se non ricordo male, dovrebbe esserci una specie di piazzola sulla destra.

Seguendo per qualche metro il muro di cinta, Anna si trovò effettivamente davanti a una sorta di nicchia nella quale qualcuno aveva già sistemato un sacco di plastica viola. Ecco fatto! Pensò, con una certa soddisfazione. Per quanto strano potesse sembrare, Anna amava pulire, riordinare ed eliminare tutto ciò che riteneva inutile e superfluo: aveva una vera e propria avversione per il disordine e lo sporco e gli unici corpi estranei che tollerava erano i peli delle sue gatte.

Ruotando sui tacchi, la giovane fece per dirigersi nuovamente verso il l'appartamento, quando con la coda dell'occhio scorse qualcosa che la fece tornare sui propri passi. Ma tu guarda come ha parcheggiato, 'sto cretino!

Con passi lenti, Anna si avvicinò con circospezione al suo piccolo Panda giallo, parcheggiato ordinatamente nell'ultimo della serie di posti auto ad uso dei condomini. Nello spazio immediatamente a destra rispetto al suo c'era un mostruoso SUV nero. Sarà grosso almeno il doppio del mio povero Pandino, costatò la ragazza, guardando con disprezzo la sfavillante Audi Q5. L'autista non si era premurato di parcheggiarla all'interno delle righe gialle o, meglio: il muso del SUV era posizionato correttamente, ma la parte posteriore sporgeva di molto e, di fatto, bloccava l'uscita al Panda di Anna.

Come diavolo dovrei fare ad andare al lavoro, domani mattina? Di qua c'è il marciapiede e di là c'è il culo di quella specie di transatlantico! Pensò la ragazza, indispettita. Mi avrà lasciato sì e no un metro e mezzo di spazio, 'sto cafone. Se non fosse che ci tengo, alla mia macchinetta, sarebbe da ammaccargli tutta la fiancata con una bella retro!

Stringendo e rilassando ritmicamente i pugni, Anna meditò sul da farsi. Il primo istinto era stato quello di suonare a tutti i campanelli dei vicini per trovare il colpevole del parcheggio selvaggio ed esigere che il SUV venisse posteggiato correttamente, ma poi la ragazza rinunciò a quel proposito: non era certo il modo migliore per fare conoscenza con il vicinato e poi, chissà, magari l'auto non apparteneva nemmeno alle persone che abitavano lì. Era pur sempre domenica e, sebbene quelli fossero dei parcheggi privati, Anna sospettava che venissero utilizzati anche dagli escursionisti che li usavano come base di partenza per esplorare le montagne che si ergevano ripide alle spalle dell'appartamento che aveva preso in affitto.

Con un po' di fortuna, domani l'avranno spostato, ragionò la giovane, lanciando un ultimo sguardo di odio alla vettura e incamminandosi verso casa. In fin dei conti, lei iniziava a lavorare piuttosto tardi e c'erano buone possibilità che il proprietario – o la proprietaria – del SUV se ne andasse prima.

Quando rientrò in casa fu accolta dalle occhiate interrogative dei suoi famigliari. «Che fine avevi fatto?» le chiese Paolo.

La ragazza scrollò le spalle. «Stavo vedendo che qualche genio con l'Audi mi ha praticamente chiusa nel parcheggio: se non levano quella macchina, domani mattina non so proprio come farò ad andare all'Ospedale.»

Francesco le rivolse un sorriso furbo. «Un'Audi, eh?» ripeté. «Che tipo di Audi? Dici che riusciamo a rimorchiarla con il pick-up? Se vuoi la spostiamo a forza, così imparano a parcheggiarla alla cazzo...»

«Mah, è una specie di fuoristrada... insomma, un SUV» replicò Anna.

Il giovane emise un suono di disappunto. «Ah, allora no: rischia di pesare di più quella macchina inutile, rispetto al nostro pick-up.»

Anna ammiccò nella sua direzione. «Oh, non preoccuparti: vedi che, in un modo o nell'altro, gliela faccio spostare.»

«E su questo punto non abbiamo nessun dubbio» commentò serafica Daniela.

La ragazza le rispose con un sorriso divertito. Quella nuova vita da single e da adulta indipendente portava con sé parecchie incognite, ma di una cosa Anna era certa: non aveva intenzione di lasciarsi mettere i piedi in testa da nessuno.

♥♥♥

Ehi, tu, lettore di EFP che passi in silenzio e non lasci traccia della tua visita: sappi che io ti vedo. Che ne dici di lasciarmi un commentino, già che ci sei?

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre ***


La mattina seguente, Anna marciò decisa verso la propria auto. Le bastò allontanarsi di pochi metri dal cancelletto della sua abitazione per iniziare a fremere di rabbia. È ancora lì! Pensò furiosa, scorgendo l'imponente sagoma nera dell'Audi che sovrastava quella più piccola e colorata del suo Panda.

Quando raggiunse la portiera, la ragazza controllò nervosamente l'ora sbirciando il quadrante dell'orologio che portava al polso sinistro. Nel giro di venti minuti avrebbe dovuto essere al lavoro: il percorso in macchina richiedeva all'incirca dieci minuti, il che significava che ne aveva altrettanti per trovare il proprietario del SUV, insultarlo e costringerlo a spostare quel bestione da lì.

Cosa faccio? Si chiese Anna, mentre le mani iniziavano a pruderle dal nervosismo. Doveva iniziare a suonare un campanello dopo l'altro, sperando che il proprietario dell'Audi non risiedesse proprio nell'ultima casa a cui avrebbe bussato? Così arrivo in ritardo di sicuro!

Forse avrebbe potuto suonare a un solo campanello, chiedendo alla persona che le avrebbe aperto di indicarle il colpevole. Ma se mi ignorassero? Non sono ancora le otto: e se le persone che sono ancora in casa stessero dormendo? Ci potrebbe volere un sacco di tempo!

La ragazza rimase immobile per qualche istante, ragionando sul da farsi. Sì, non c'era che una soluzione: non era elegante e probabilmente le avrebbe attirato qualche antipatia, ma non poteva davvero rischiare di arrivare in ritardo già la seconda settimana di lavoro. Aprendo di scatto la portiera, Anna scivolò sul sedile dal lato del conducente e impugnò saldamente il volante, chiedendosi per l'ultima volta se fosse davvero il caso di affrontare la questione di petto. Eh, sì! Mi dispiace, ma questa cosa va risolta.

Il clacson risuonò nella via silenziosa; un urlo che, nella quiete del mattino, alle orecchie di Anna parve assordante. La ragazza interruppe il suono per qualche secondo, poi premette nuovamente sul volante: una, due, tre volte, ogni volta lasciando che la pressione durasse un po' più a lungo.

E che cazzo! Pensò, mentre la rabbia e la frustrazione le serravano la gola. È possibile che stiano veramente dormendo tutti? Sono sordi o cosa?

Quando stava per suonare una quinta volta, la porta della casetta singola davanti alla quale era parcheggiato il Panda si aprì, lasciando intravvedere il volto arrossato di una donna sulla sessantina. Giudicando dal pigiama a fiori che indossava e dal golfino che si era gettata in qualche maniera sulle spalle, Anna giudicò che dovesse trattarsi di una casalinga.

Soddisfatta dal fatto di essere riuscita ad attirare l'attenzione di qualcuno e appena leggermente imbarazzata dal modo in cui era riuscita a ottenere quel risultato, la ragazza balzò giù dall'auto, sistemandosi meglio la scollatura del vestito, che tendeva sempre a scendere un po' più del dovuto. «Mi scusi, eh!» esclamò, avvicinandosi alla donna. «Sa di chi è questa macchina? È parcheggiata male e io non riesco a uscire!»

La donna aggrottò la fronte e si strinse il maglioncino sulle spalle per proteggersi dall'aria frizzante di inizio ottobre. «È del...» la donna si interruppe, fissandola in volto come se l'avesse appena messa a fuoco. «Scusami, ma tu chi sei? Abiti da queste parti?»

Sofia annuì, fermandosi a pochi passi dall'uscio sul quale si trovava la casalinga. «Sì, mi chiamo Anna: ho appena preso in affitto uno degli appartamenti al numero cinque» spiegò. «Mi scusi se mi sono attaccata al clacson, ma tra un quarto d'ora devo essere al lavoro e non riesco proprio a passare... bisogna essere proprio dei somari, per parcheggiare così!»

La donna la guardò con aria comprensiva. «Eh, quello fa sempre così, sai? Come si dice? A posto lui, a posto tutti!»

«Ah, perfetto!» borbottò Anna. «E chi sarebbe, 'sto genio? Gliela faccio spostare io, la macchina.»

La casalinga le rivolse un sorrisetto che alla ragazza parve quasi di compassione e si sistemò dietro a un orecchio una ciocca di scarmigliati ricci biondi. «Guarda, abita proprio di fianco a te: sta anche lui al numero cinque. Di cognome fa Čumak, o come diavolo si pronuncia.»

«Co... come?» balbettò Anna, confusa dal suono articolato dalla donna.

La donna si strinse nelle spalle. «Čumak» ripeté. «Non so dirti come si scrive, ma basta che scorri i campanelli: è l'unico con un nome non italiano. Credo che venga dall'est.»

Se possibile, Anna sentì l'antipatia nei confronti del proprietario dell'Audi crescere ancora di più. Un russo del cazzo! Pensò, tremando quasi dall'indignazione. Me lo sentivo! Facendo un respiro profondo, la ragazza rivolse un cenno di ringraziamento alla sua vicina di casa. «Grazie mille, signora...?»

«... Aurelia» le venne in aiuto la donna.

«... Signora Aurelia» ripeté Anna con un cenno del capo. «E mi scusi di nuovo per il disturbo.» Dopo aver salutato con un cenno della mano la vicina di casa, la ragazza controllò di nuovo l'ora. Ah, merda! Constatò con una punta di desolazione. Dovrei essere in ospedale tra meno di quindici minuti. Ormai è matematico: arriverò in ritardo.

Rassegnata, pescò il cellulare dalla borsetta che portava sulla spalla destra e digitò rapidamente un messaggio che poi inviò a Giulia, la sua responsabile, nel quale spiegava che aveva un problema con l'auto e che sarebbe arrivata un po' più tardi. Per tutelarsi ulteriormente, scattò una foto alle due automobili, documentando così la causa evidente del suo inevitabile ritardo.

Se mi fanno il culo per colpa sua, giuro che, quando torno, gli buco tutte le gomme! Pensò inviperita. A onor del vero, Giulia era piuttosto accomodante e non era certo una stacanovista, considerate tutte le pause caffè che faceva nel corso della mattinata, ma Anna era comunque a disagio per il fatto di essere in ritardo. Non so nemmeno se lo devo recuperare in qualche modo...

Con passo sicuro, la giovane raggiunse di nuovo il cancello del numero cinque e si fermò davanti alla colonnina dei citofoni. Le etichette che riportavano i nomi delle famiglie che abitavano nelle villette erano retroilluminate da una tenue luce blu e Anna le studiò con cura, notando, tra le altre cose, che quella corrispondente al suo appartamento era l'unica a essere rimasta in bianco.

Eccolo qui, pensò la ragazza, individuando rapidamente l'unico nome esotico. Oleksander Čumak.

Inspirando profondamente per calmarsi almeno un po', Anna premette l'indice sul campanello, esercitando più pressione di quanto non fosse strettamente necessario. Stronzo, pensò, prima di rilasciare il pulsante.

La risposta non tardò ad arrivare. «Sì?» chiese alcuni secondi dopo una voce maschile. Anna si rese conto solo in quell'istante che il campanello era dotato di una telecamera e che probabilmente l'uomo poteva vederla così com'era, con le guance arrossate, i capelli scarmigliati e gli occhiali storti. Ma chi se ne frega, pensò, puntando gli occhi direttamente nel riquadro della telecamera.

«Lei è il Signor Čumak?» chiese, per accertarsi che il suo interlocutore fosse realmente chi credeva lei.

«Sì» ripeté l'uomo e, questa volta, ad Anna parve che quella singola sillaba avesse in sé un certo tono di sufficienza.

Oh, benissimo, pensò la ragazza, prendendo fiato. Aveva l'impressione di essersi appena gonfiata come un palloncino pronto a esplodere. «Senta un po'!» sbottò. «Ha parcheggiato la sua macchina direttamente dietro alla mia e io non riesco a uscire. Devo andare al lavoro e sono già in ritardo: venga fuori a spostarla, cortesemente!» gli ordinò, in tono tutt'altro che cortese.

«Io non ho parcheggiato dietro a nessuno» ribatté dopo qualche secondo la voce – e adesso sì, che Anna riusciva a cogliere in essa un accento dell'est. «Ho parcheggiato correttamente nel parcheggio riservato ai condomini: se lei non è in grado di fare una retro, non è un problema mio.»

Con quelle parole, l'uomo chiuse la conversazione e la ragazza rimase a fissare il citofono allibita, incapace di muoversi per diversi secondi. Quando si fu ripresa dalla sorpresa, fece per sollevare una mano e premere nuovamente il pulsante del citofono, ma poi ebbe un'idea migliore.

Ha parlato di “parcheggio riservato ai condomini”, rifletté, con le guance che avvampavano per l'indignazione. Scommetto che pensa che sono una che passa di qui per caso e che può ignorarmi semplicemente rifiutandosi di aprirmi la porta. Ma si sbaglia: oh, se si sbaglia!

Estraendo dalla borsetta le chiavi di casa, Anna aprì il cancelletto e poi indugiò brevemente sul vialetto, facendo due calcoli. Il primo campanello è quello della famiglia Rocca, considerò. Sono quelli che mi hanno salutata la prima volta che sono venuta a vedere la casa con la tipa dell'agenzia. Loro abitano nella prima villetta, al piano terra. Io abito al piano terra della terza villetta, e infatti il mio campanello è il quinto. Quello del disgraziato dell'Audi è il settimo, quindi...

Con un sorriso di trionfo, Anna marciò verso la quarta e ultima villetta, puntando direttamente all'appartamento al piano terra. Siamo proprio vicini di casa, pensò, con un misto di sadismo e angoscia. Tra l'altro, ricordò all'improvviso, se Francesco ci aveva visto giusto, il giorno prima, quel tipo era anche il proprietario del cane che avrebbe ipoteticamente potuto insidiare Cassandra e Calliope. Di bene in meglio, si disse, stringendo bellicosamente i denti.

Raggiunta la porta dall'aspetto ordinario, preceduta da uno zerbino altrettanto anonimo, Anna suonò il campanello, avendo cura di farlo squillare per una decina di secondi. Dall'interno dell'appartamento giunse un suono di passi e pochi istanti più tardi la porta si aprì bruscamente. La ragazza dovette alzare di parecchio lo sguardo per incontrare per incontrare quello di un uomo sulla trentina, più alto di lei di qualche decina di centimetri. A giudicare dai capelli spettinati, di un castano chiaro tendente al biondo, doveva essersi svegliato da poco: indossava infatti quelli che sembravano dei pantaloni della tuta troppo larghi per il suo corpo magro e anche la maglietta, di un rosso sbiadito, doveva aver visto tempi migliori. Gli occhi dell'uomo, dal taglio allungato e di un gelido grigio-azzurro, si puntarono in quelli neri di Anna e la ragazza pensò che non aveva mai visto uno sguardo tanto ostile.

Intuendo che stava per dirle qualcosa, la giovane decise di attaccare per prima. «Come stavo dicendo», scandì, portandosi le mani sui fianchi, «la tua macchina è dietro alla mia. L'hai parcheggiata tutta storta e io non riesco a uscire: levala.» Considerata la scarsa differenza di età tra lei e il proprietario dell'Audi, Anna abbandonò il lei di cortesia e passò a un registro più incisivo.

Lui si passò stancamente una mano sul viso dai tratti sottili, a loro modo eleganti, sfiorando poi la mascella coperta da un leggerissimo strato di barba non rasata. «Come sei entrata?» le chiese, in tono apertamente ostile.

Anna sfoderò un gran sorriso e gli fece penzolare davanti al naso un mazzo di chiavi. «Siamo vicini di casa» spiegò, falsamente affabile. «Abito proprio lì» precisò, puntando un dito contro la porta del proprio appartamento, che si intravvedeva oltre alla recinzione che separava i due giardini e il gelsomino che la ricopriva.

«E da quando?» insistette l'uomo, scrutandola da capo a piedi con i suoi occhi glaciali.

«Da ieri» replicò prontamente lei. «Ma non è questo il punto. Il punto è che...» Anna si interruppe, accorgendosi che lo sguardo del giovane era sceso più in basso e non accennava a risalire. Seguendo la traiettoria dei suoi occhi, si accorse con orrore che la scollatura dell'abito era di nuovo scivolata giù, esponendo la parte superiore del reggiseno blu che indossava quel giorno.

Giuro che lo brucio, questo vestito! Pensò la ragazza, avvampando e strattonando malamente la stoffa arancione per rendersi nuovamente presentabile. Poi lanciò un'occhiata omicida al suo vicino di casa, sfidandolo a commentare il fatto. Quello le rivolse un sorrisetto sarcastico e si infilò le mani in tasca, appoggiandosi mollemente allo stipite della porta.

«Senti un po'!» ringhiò Anna, puntandogli le chiavi contro il petto, quasi fossero un'arma. «Mi hai già fatto perdere fin troppo tempo: a quest'ora dovrei essere in ufficio e non qui a discutere con te. O sposti la macchina e mi lasci uscire, oppure chiamo i carabinieri!» In realtà, non era affatto certa che le forze dell'ordine sarebbero accorse a liberarla, ma confidava nel fatto che nemmeno il suo interlocutore fosse particolarmente ferrato in tema di codice della strada.

Raddrizzandosi con un colpo di spalla, l'uomo allungò il collo, come nel tentativo di dare un'occhiata al parcheggio. «Ho parcheggiato proprio così male?» le chiese, guardandola con aria di sufficienza.

«Giudica tu stesso» sbuffò Anna, allungando lo schermo dello smartphone verso il suo viso e invitandolo a guardare la foto che aveva scattato poco prima.

«Mh» commentò con aria criptica l'uomo. «Dalla foto non si capisce» decretò, allontanandosi dalla porta e rientrando nell'appartamento.

«Ehi!» lo richiamò Anna, resistendo a stento alla tentazione di seguirlo. «Dove stai andando?»

«A mettermi un paio di scarpe» le rispose la voce di lui.

Ah, pensò la ragazza, appena un po' rabbonita. Ferma sull'uscio, cercò di sbirciare all'interno dell'abitazione nel tentativo di individuare qualcosa che rivelasse una presenza canina, ma non trovò nulla.

Pochi istanti più tardi, l'uomo tornò alla porta: era vestito esattamente come prima, con l'unica eccezione che ora indossava un paio di scarpe da ginnastica. In mano reggeva un paio di chiavi con un portachiavi di pelle. «Andiamo a vedere, allora» le disse, guardandola dall'alto al basso. «Sono sicuro che stai esagerando.»

Senza aspettare la risposta della giovane, la superò, si chiuse la porta alle spalle e poi si diresse verso il cancello che dava sulla strada. Anna gli trotterellò dietro, squadrandolo con antipatia. Ma non avrà freddo, in maglietta? Si chiese distrattamente, stringendosi addosso la giacchetta di pelle che aveva indossato per proteggersi dai primi freddi dell'autunno.

L'uomo camminava rapidamente e, quando Anna raggiunse il parcheggio, lui era già lì, che osservava le due automobili con le braccia incrociate e un'espressione seccata sul volto. «Visto?» chiese, indicando il Panda della ragazza. «Ci passavi benissimo!»

La ragazza sgranò gli occhi, chiedendosi se Oleksander soffrisse forse di un qualche disturbo che gli impediva di valutare correttamente gli spazi e le distanze. «Ma cosa stai dicendo?» sibilò. «Come diavolo faccio a passare? Non posso mica passare sul marciapiede, è troppo alto!»

Lui le rivolse un'occhiata di sufficienza. «Non c'è bisogno di salire sul marciapiede, basta che vai indietro dritta per un po' e poi sterzi a destra. Non è difficile.»

«Tu hai dei problemi!» sbottò Anna, portandosi dietro al Panda e allargando le braccia per misurare lo spazio disponibile. «Non c'è abbastanza spazio. Però, se vuoi, ci provo e vediamo come va a finire. Anzi, meglio ancora: provaci tu, visto che sei tanto bravo.»

Così dicendo, gli porse le chiavi dell'auto, decorate da un grazioso portachiavi a forma di maialino. L'uomo la guardò come se gli stesse porgendo il cadavere di un topo. «Non ci penso proprio» ribatté. «Io non ci entro, in quella cosa: arrangiati.»

«Sì, come no» sogghignò Anna. «Così, se per caso ti faccio un graffietto, mi tocca pure ripagarti il danno.»

«E allora cosa facciamo?» la sfidò lui.

La ragazza si strinse nelle spalle. «E allora chiamo i carabinieri» disse, prendendo in mano il cellulare. «Tanto le prove fotografiche ce le ho...»

Oleksander sbuffò e alzò gli occhi al cielo. «Non ti conosco, ma ho come l'impressione che tu sia una grandissima rompipalle: sbaglio?»

Con un mezzo sorriso, Anna si sistemò sul naso gli occhiali tondi. «Solo con chi se lo merita» precisò. «E, comunque, lo prendo come un complimento.»

«Non voleva esserlo, credimi» replicò lui, prima di infilarsi nell'Audi e accendere il motore.

Anna si lasciò sfuggire un sorriso di trionfo. Vittoria! Pensò, mentre l'uomo iniziava a retrocedere, liberandole di fatto il passaggio. Rapidamente, prima che cambiasse idea, la ragazza saltò sul Panda e ingranò la retromarcia, spostandosi tanto velocemente da far stridere le ruote. Lo slancio si rivelò un po' eccessivo e Anna fu costretta a inchiodare, fermandosi a pochi centimetri dal muso dell'Audi di Oleksander che, fermo alle sue spalle, stava aspettando che lei terminasse la manovra. Guardando nello specchietto retrovisore, vide che negli occhi spalancati dell'uomo c'era qualcosa di molto simile al terrore. Ops, pensò, lasciandosi sfuggire una risatina.

Inserendo la prima, Anna fece per accelerare quando, con la coda dell'occhio, scorse un movimento dietro una delle finestre della casa antistante al parcheggio. Era la signora Aurelia che, seminascosta dalle tendine di pizzo bianco, rideva e la salutava con la mano. Senza preoccuparsi di non farsi vedere da Oleksander, la ragazza le rivolse un gran sorriso e tese indice e medio della mano destra in segno di vittoria.

Poi, lanciando un'ultima occhiata all'uomo nel SUV, sgommò via.

♥♥♥

Come sempre, se qualcuno ha voglia di farmi sapere cosa ne pensa di quello che scrivo, io non mi offendo!

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro ***


Anna rientrò alle cinque e mezza del pomeriggio – mezz'ora più tardi del solito – e, prima di parcheggiare l'auto, perlustrò rapidamente i dintorni, constatando con soddisfazione che non c'era traccia dell'Audi nera.

Perfetto! Pensò, infilandosi con un sorriso tra due innocue utilitarie bianche. Canticchiando tra sé e sé, la ragazza recuperò le borse della spesea e poi si avviò verso casa. Non appena ebbe varcato la porta d'ingresso, Cassandra le si fece incontro miagolando, la lunga e flessuosa coda nera che vibrava di gioia. «Ciao, patatina mia» la salutò Anna, prendendola il braccio e dandole un bacio sulla testolina lucida. «Dov'è finita la tua sorella antipatica?»

Non vedendo da nessuna parte Calliope, la ragazza prese a sistemare il cibo che aveva appena acquistato, stipandolo ordinatamente nella credenza e nel frigorifero. Sono stata proprio brava, si disse, sentendosi estremamente fiera di sé. Ho comprato un sacco di frutta e di verdura e gli unici surgelati che ho nel freezer sono le lasagne e il minestrone che mi ha dato la zia Clara. Sto finalmente diventando un'adulta responsabile!

Dal fondo della seconda borsa della spesa, Anna estrasse una confezione dei croccantini preferiti dalle sue gatte. «Cos'abbiamo qui?» canticchiò, scuotendo un paio di volte la scatola di cartone. Con un vocalizzo deliziato, Cassandra tentò immediatamente di arrampicarsi sulle gambe della giovane, piantando le unghie nel cuoio spesso degli stivali che indossava e, pochi istanti più tardi, il muso tricolore di Calliope sbucò da sotto il divano.

«Ah, eccoti lì, disgraziata!» l'accolse Anna, chinandosi per versare una piccola porzione di crocchette nelle ciotole delle due gatte.

Mentre le due bestiole mangiavano – con evidente entusiasmo l'una e con smaccata degnazione l'altra – la ragazza si mise a carponi sul pavimento e sbirciò al di sotto del divano dal quale era sbucata Calliope. Oh, porca vacca! Pensò con un gemito, notando che la parte inferiore del suo divano nuovo recava già i segni delle unghiate che la gatta tricolore gli aveva inferto nel corso di una singola giornata lavorativa. «Sei proprio stronza» borbottò, guardando con astio il più minuto e ostile dei due felini. Devo assolutamente trovare un modo per limitare i danni, altrimenti nel giro di un anno dovrò far sistemare la metà dei mobili, pensò, rialzandosi e lasciandosi cadere su uno dei cuscinoni di stoffa ruvida. Come aveva fatto sua madre a contenere i vandalismi di Calliope, quando ancora vivevano tutte nella stessa casa? Non ne aveva idea, ma sapeva che, da quando le due gatte avevano raggiunto l'età adulta, i divani di Daniela non erano stati danneggiati in alcun modo.

Lasciando scorrere uno sguardo vagamente desolato lungo i confini del suo appartamento nuovo di zecca, Anna si chiese quante fossero le cose che aveva sempre dato per scontate e che ora, raggiunta l'indipendenza, avrebbe dovuto imparare a fare da sola, senza più poter contare sul sostegno della mamma. Non posso essere messa poi così male: a cucinare me la cavo, pensò, iniziando a tenere il conto sulle dita distese. Per i piatti, c'è la lavastoviglie. La lavatrice è a prova di idiota. Il ferro da stiro intendo usarlo il meno possibile – il segreto sta nello stendere bene. I pavimenti e il bagno li ho sempre lavati io. Che altro c'era da fare?

Bah! È inutile preoccuparsi adesso: dovrei avere tutto sotto controllo, almeno a grandi linee. Adagiandosi a occhi chiusi contro lo schienale imbottito, notò che non erano nemmeno le sei, il che significava che aveva almeno un'ora per rilassarsi e dedicarsi a se stessa. Avrebbe potuto leggere il libro che giaceva da troppo tempo abbandonato sul suo comodino, oppure avrebbe potuto prendersi un po' cura del proprio corpo e farsi un minimo di manicure, ma la verità era che era troppo stanca per fare sia l'una che l'altra cosa. Non era abituata a lavorare e, sebbene il lavoro d'ufficio che aveva svolto durante il giorno non era certo il più pesante del mondo, arrivava alla sera stremata e con ben poche energie residue.

Ci vorrebbe qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere, riconobbe con una punta di malinconia. Quando aveva accettato il lavoro in ospedale, aveva ingenuamente pensato che Lorenzo non solo avrebbe accettato la sua decisione – come lui le aveva del resto lasciato intendere – ma che si sarebbe addirittura trasferito a Lanzate con lei, avviando quella vita di coppia sulla quale tanto avevano fantasticato. L'appartamento le sarebbe sembrato decisamente meno vuoto, se il ragazzo fosse stato lì con lei: anche se Lorenzo non era mai stato un tipo di tante parole, sarebbe comunque stato una compagnia migliore delle sue due gatte che, per quanto affettuose (almeno nel caso di Cassandra), rimanevano sempre e comunque due bestiole indipendenti e fondamentalmente solitarie.

Dovrei trovarmi qualche amico, rifletté la giovane, soppesando con lo sguardo lo smartphone avvolto in una custodia di similpelle rosa confetto. Ma non era come dire: negli uffici accanto al suo non c'erano ragazze della sua età e Anna sentiva di avere anche poche speranze di fare amicizia con le impiegate allo sportello o con le infermiere, tutte già ben inserite in un giro di conoscenze da cui lei era esclusa e per il quale non sembrava esistere alcuna porta d'accesso.

E pensare che ce le aveva, una volta, le amiche. Quando sua madre l'aveva portata via da Lanzate per iniziare la sua nuova vita con Paolo, però, Anna non era che una bambina, troppo giovane per riuscire a intrattenere con successo delle amicizie a distanza. Ci aveva anche provato, in verità: ricordava ancora le letterine scritte a Marianna e Giada, le sue vecchie vicine di casa, ma queste si erano fatte sempre più rare, fino a scomparire pochi mesi dopo il trasloco.

Ma adesso non c'è più bisogno di affidarsi alla posta tradizionale, pensò la giovane, rianimandosi tutta d'un tratto. Con un mezzo sorriso, afferrò il cellulare e sfiorò l'icona di Facebook, aprendo l'applicazione con una strana trepidazione. Deve per forza esserci un qualche mio vecchio compagno delle elementari, qui sopra, ragionò. Mordicchiandosi pensosamente le labbra, Anna cercò di richiamare alla mente il nome di qualcuno dei bambini con cui aveva condiviso i primi anni della sua lunga carriera scolastica. Certo, la situazione era piuttosto imbarazzante. Come poteva fare per riprendere i contatti con persone con le quali aveva tagliato tutti i ponti da un tempo così lungo? Come diavolo dovrei fare a presentarmi? Se scrivo a quello che è praticamente uno sconosciuto e gli dico “Ciao, ti ricordi di me? Sono la bambina sfigata con cui eri in classe diciotto anni fa!” mi prendono di sicuro per una squilibrata.

Sì, perché Anna non era stata una bambina molto popolare, negli ormai lontani anni della sua infanzia. Era piccolina, pallida, timida e perennemente infagottata nei maglioncini che sua madre sferruzzava per lei utilizzando solo la migliore lana biologica, assolutamente ottimi per la salute della sua pelle, ma purtroppo deleteri per la sua già fragile autostima. Il quadro era poi completato da un paio di occhiali spessi come fondi di bottiglia e contornati da un'antiestetica plastica azzurra che le ingigantivano gli occhi e le donavano una perenne espressione da insetto miope.

Sabrina ed Esther! Ecco due persone con cui mi piacerebbe riprendere i contatti! Pensò improvvisamente Anna, ricordando le altre due ragazzine che avevano formato con lei il terzetto di piccole emarginate della sezione C della scuola elementare “A. Manzoni”. La prima era una bimba bionda e socievole, con due grandi occhi azzurri e un sorriso contagioso, ma che aveva il difetto di avere cosce e vita circondate da qualcosa di più della consueta ciccetta infantile: Sabrina era palesemente in sovrappeso e per quel motivo era stata spesso oggetto delle canzonature dei due o tre bulletti che frequentavano la classe di Anna.

Eravamo proprio un bello spettacolo, ricordò Anna con un sorriso carico d'affetto. Io ero cieca come una talpa e Sabry era grassottella, mentre Esther... be', lei combinava le due cose, e per di più era pure di un colore che dava nell'occhio. Anna ricordava ancora la prima volta che la maestra Michela aveva presentato alla classe quella bimba rotondetta, con gli occhiali storti, le treccine e la pelle scura-scura. Era appena arrivata dalla Costa d'Avorio con i suoi genitori, aveva spiegato la maestra, e quasi non conosceva l'italiano. Però aveva imparato in fretta, perché la parlantina proprio non le mancava, e ora che ci pensava Anna ricordava ancora i suoi lunghi monologhi infarciti di erre mosce e neologismi italo-francesi.

Chissà che fine hanno fatto, pensò la ragazza. Spinta dalla curiosità, digitò per prima il nome di Sabrina, della quale ricordava con certezza come si scrivesse il cognome. Eccola qui! Pensò con un fremito di gioia, dopo essere passata in rassegna a un paio di donne che si chiamavano come lei. Era cambiata, naturalmente, ma non c'era alcun dubbio che si trattasse della sua vecchia amica. Nella foto del profilo rideva e sembrava felice: non era dimagrita, ma portava i capelli corti e più biondi che mai, aveva le labbra dipinte di un vistoso rosso ciliegia e indossava un vestito a pois che avvolgeva ed esaltava le curve generose. È bella, pensò Anna, quasi commossa, e sembra anche tanto sicura di sé. Lei, che aveva una figura decisamente più snella di quella di Sabrina, non avrebbe mai osato sfoggiare quell'abito e quel rossetto.

Senza pensarci due volte, le inviò una richiesta di amicizia seguita da un messaggio in cui spiegava di essere da poco tornata in città e di essere quindi desiderosa di ristabilire le vecchie conoscenze.

E chissà se... scorrendo rapidamente l'elenco degli amici di Sabrina, individuò rapidamente anche Esther. Sono fortunata! Si disse Anna. La foto della seconda ragazza era meno chiara di quella della giovane bionda – solo un ritratto in bianco e nero fatto in controluce – ma Anna inviò anche a lei la richiesta di amicizia e lo stesso messaggio che aveva mandato a Sabrina poco prima.

Poi, sentendosi stranamente spossata, Anna si lasciò ricadere contro lo schienale del divano, chiudendo gli occhi per una manciata di secondi. Ecco, io la mia parte l'ho fatta, ragionò, inspirando profondamente. Io la mano l'ho tesa, adesso sta a loro afferrarla e darmi un segnale di qualche tipo.

Riaprendo gli occhi, la giovane curiosò ancora un po' su Facebook, spiando con una punta di vergogna mista a curiosità le vite di quelle persone che un tempo aveva conosciuto e che ora erano per lei dei perfetti estranei. Le foto dei loro profili e le poche generalità elencate sotto a esse erano spesso le uniche informazioni a cui aveva accesso, ma tanto bastavano per tratteggiare un mondo fatto di viaggi all'estero, vacanze in luoghi assolati, matrimoni e bambini in fasce.

Se uno guardasse il mio profilo, che idea si farebbe di me? La fotografia con la quale si presentava al mondo la ritraeva seduta al tavolino di un bar qualsiasi, in una giornata d'inverno qualsiasi, con un berretto con il pompon calcato sulla testa e gli occhiali un po' appannati a causa della condensa. Quel pezzo di gomito che si vede al margine della foto appartiene a Lorenzo, ma nessuno può saperlo. Non sembrava una giovane donna di ventotto anni: sembrava piuttosto una ragazzina immersa in un'eterna adolescenza.

Provando un vago senso di fastidio verso se stessa, la ragazza lasciò cadere il cellulare sul divano, poi lo riprese solo per guardare che ore fossero. Quasi le sette, constatò, stupendosi di quanto in fretta fosse passato il tempo. È ora di iniziare a preparare qualcosa per cena. Magari potrei scongelare una delle porzioni di lasagne che mi ha dato la zia Clara. O magari meglio una vaschetta di minestrone, che è più leggero.

Anna si alzò e raggiunse il frigorifero, ma non appena distese il braccio per raggiungere la maniglia del freezer, un rumore la bloccò. Era una porta che sbatteva, quella? Si chiese, incuriosita. La ragazza rimase in ascolto, immobile con la punta delle dita appoggiata alla plastica fredda, fino a quando udì un suono molto simile a dei passi provenire dall'altra parte della parete. Viene dall'appartamento dello squilibrato dell'Audi, comprese, rendendosi conto solo in quel momento che l'appartamento di Oleksander era separato dal suo solamente da una fragile parete di mattoni.

Perfetto! Pensò Anna, levando gli occhi al cielo e aprendo bruscamene la porta del congelatore. Non mi ero accorta che l'isolamento acustico facesse così schifo: si sente praticamente tutto!

La giovane pescò da uno degli scomparti del freezer un contenitore di plastica monoporzione, lo scoperchiò e annusò con cautela la poltiglia verdastra che sua zia Clara vi aveva versato qualche giorno prima. Microonde, compi il tuo miracolo! Pensò, infilando l'intero contenitore nel piccolo forno argentato posto accanto al frigorifero. E, per favore, non fondere la plastica. Era una plastica adatta alla cottura nel microonde, quella? Non ne aveva idea, ma sua zia l'avrebbe sicuramente messa in guardia, se non fosse stato così. No?

Anna stava ancora meditando su quale fosse la temperatura migliore da impostare – scongelamento o qualcosa di più? – quando un nuovo rumore metallico la fece sobbalzare. Cosa diavolo...? Calliope e Cassandra, che si erano raggomitolate insieme su uno dei cuscini del divano, levarono le teste, perfettamente sincronizzate, e si guardarono attorno con allarme e astio. Èè un cane che abbaia, comprese, aggrottando la fronte, e il rumore viene proprio dall'appartamento di quello là.

E, almeno a giudicare dal modo in cui abbaiava, non sembrava nemmeno un cane piccolo, come un pinscher o un chihuahua, il che significava che Francesco ci aveva visto giusto, quando ne aveva stimato le dimensioni basandosi semplicemente sulla capienza della ciotola in giardino.

Fortunatamente il cane smise subito di abbaiare e Anna si scoprì a tendere le orecchie per cogliere qualcosa di quello che stava accadendo nell'appartamento accanto. Se ascoltava bene, riusciva a sentire un borbottio basso e immaginò che Oleksander stesse dicendo qualcosa al cane. Quasi se lo immaginava, alto, spigoloso e accigliato come le era apparso quella mattina, ma con addosso giacca e cravatta. Perché uno che guida una macchina del genere non può che indossare giacca e cravatta e fare un lavoro estremamente noioso, rifletté la ragazza, cercando di non pensare alle ore che aveva trascorso inserendo all'interno del gestionale i dati dei questionari di gradimento.

Era il tipo di persona che parlava con gli animali? Magari si era anche accucciato per guardare il cane negli occhi e fargli due carezze? Ma chi se ne frega, si riscosse Anna. L'importante è che impari a parcheggiare come Dio comanda e che lui e il suo coinquilino a quattro zampe non facciano troppo chiasso.

Anna tornò al microonde e impostò una temperatura a caso, ma non poté impedire alla sua mente di interrogarsi anche su un'altra questione: chissà se c'era anche un coinquilino a due zampe? Una fidanzata, magari, o una moglie? Prima che l'uomo rientrasse pochi minuti prima – ammesso che fosse davvero lui e non un fratello, un amico o magari un compagno – non aveva colto alcun suono che lasciasse presagire una presenza umana, ma era pur vero che non si era accorta nemmeno dell'effettiva esistenza del cane, prima che questo iniziasse ad abbaiare.

Quanti anni avrà quel tipo? Si chiese, ripercorrendo mentalmente gli avvenimenti di quella mattina. Se doveva giudicare dal suo aspetto fisico, gli avrebbe dato trent'anni, forse qualcosina di più, ma non molto. A quell'età la gente vive ancora da sola? Si chiese, prima di rendersi conto che era una domanda stupida, perché lei di anni ne aveva ventotto e da poco più di un mese era a tutti gli effetti una donna single. Per non dire “zitella”, la stuzzicò una vocina che assomigliava stranamente a quella della zia Clara.

Anna scrollò la testa come per schiarirsi le idee. Ma quale zitella! Si riprese, apparecchiando rapidamente la tavola e stappando anche una delle bottiglie di vino rosso che aveva comprato quel pomeriggio. Dove stava scritto che, raggiunta una certa età, si doveva per forza di cose trovare un compagno di vita? La decisione di lasciare Lorenzo era stata sofferta, ma non era qualcosa di cui si era mai pentita. Era stata una scelta giusta, quella di mollare tutto e di iniziare una nuova avventura a Lanzate.

Però spero che Sabrina o Esther mi contattino presto, perché a lungo andare la solitudine potrebbe diventare un problema.

Estraendo il minestrone ormai fumante dal forno a microonde, Anna lo versò in una fondina e poi si sedette al tavolo. Rigirandosi lentamente in bocca la poltiglia densa, Anna fece un rapido inventario mentale delle famiglie che vivevano nel suo stesso complesso. C'erano i signori Rocca, che erano sposati e avevano due ragazzini adolescenti. Sopra di loro abitavano due coniugi anziani. Nella villetta da parte c'erano due sposini con una bimba di pochi anni e l'altro appartamento era vuoto, com'era vuoto quello sopra di lei. Non sapeva chi vivesse nell'appartamento sopra a quello di Oleksander ma, a giudicare dai panni stesi sul balconcino, doveva trattarsi di una famiglia di almeno tre persone.

Speriamo anche che il tipo dell'Audi non sia né fidanzato né sposato, si scoprì a pensare tra un boccone e l'altro. Anche se non c'era una spiegazione perfettamente razionale a quella sensazione, Anna trovava stranamente confortante il fatto di sapere di non essere l'unica a non avere un compagno: era come se quella consapevolezza la cullasse e le dicesse che no, non era troppo tardi per rifarsi una vita sociale soddisfacente.

Con una smorfia di vago disappunto, la ragazza si versò un mezzo bicchiere di vino e lo usò per diluire un po' i pensieri che le affollavano la testa.

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Capitolo 5
*** Capitolo Cinque ***


«Sì, signora, capisco perfettamente cosa sta cercando di dirmi, ma...»

«Non ci sono “ma” che tengano, signorina!» sbottò la donna strizzata in un tailleur grigio, agitando le braccia e spandendo attorno a sé una nuvola di profumo floreale. «Sono in coda a quello sportello da due ore... anzi, no! Tre ore, ormai, visto che sono praticamente le dieci!»

Anna si passò una mano sui capelli stretti in uno chignon molto professionale e lanciò un'occhiata a Giulia, sperando che la sua responsabile potesse accorrere in suo aiuto. La donna, però, se ne stava seduta al computer vicino alla finestra e digitava furiosamente sulla tastiera, apparentemente immersa nel proprio lavoro e dunque sorda a tutto ciò che la circondava.

Eh, figuriamoci! Pensò Anna, con una punta di fastidio. Doveva imparare a cavarsela da sola, certo, ma aveva iniziato a lavorare all'URP dell'Ospedale di Lanzate da un mese soltanto e non era ancora capace di liquidare con eleganza gli utenti più boriosi e insistenti. E la signora con il tailleur grigio era molto insistente.

La ragazza sospirò e si aggiustò gli occhiali sul naso. «Come le ho già detto, l'accesso agli sportelli è regolato da un sistema automatico...»

«Che non funziona!» sbottò la donna, sbattendole sotto il naso un piccolo tagliando tutto stropicciato. «Lo vede? C'è scritto P12, il che significa che davanti a me c'erano soltanto undici persone: com'è possibile che ci vogliano tre ore per fare undici prenotazioni?»

«Il fatto è...» tentò di spiegare Anna, ma la donna la interruppe di nuovo.

«Sa qual è il problema? Che chiamano tutte le altre lettere ad eccezione delle “P”!» sbottò, fissando il foglietto di carta lucida come se esso fosse la casa di tutti i suoi mali. «Chiamano sempre e solo le “A” e le “H”, ma le “P” mai! Non è possibile che ci vogliano più di tre ore per fare una prenotazione!»

La ragazza fece per rispondere, ma la vibrazione del cellulare posato sulla sua scrivania la distrasse per un istante. Da quando è così rumorosa? Si chiese, leggermente a disagio.

«So che...» Anna tentò di spiegare alla donna che le stava davanti quale fosse il funzionamento del sistema che regolava l'accesso agli sportelli, ma il cellulare vibrò un'altra volta, e poi altre due, dando vita a un vero e proprio concerto di ronzii. Ma chi diavolo mi scrive? Si chiese la giovane, senza riuscire a evitare di compiere un mezzo giro su se stessa e di lanciare un'occhiata dubbiosa alla scrivania.

«Vuole andare a rispondere al telefono?» le chiese la signora in tailleur, sollevando un sopracciglio con aria derisoria.

La ragazza si voltò di scatto verso di lei, resistendo a stento alla tentazione di rifilarle una risposta acida. «No, non è necessario» replicò, mordendosi la lingua. «Come le stavo spiegando, c'è un motivo, se la lettera “P” viene chiamata meno spesso delle altre. Vede? La “P” sta per prenotazione. La “A” sta per accettazione e le “H” vengono assegnate solo ai pazienti che hanno diritto all'accesso prioritario. Dal momento che le prenotazioni possono tranquillamente essere fatte anche telefonando al centralino o al numero verde regionale, allo sportello si è deciso di dare priorità a quegli utenti che non possono che venir qui di persona. Non dico che sia un sistema perfetto, ma ha una sua logica, no?»

La donna la soppesò con lo sguardo. «E allora togliete la possibilità di prenotare in ospedale e basta!» sbottò. «Io ho preso due ore di permesso dal lavoro: come lo giustifico, questo ritardo? Potrebbero anche pensare che me ne sono stata in giro a farmi i fatti miei per un'ora!»

Anna soffocò un sospiro. «Non si preoccupi: la collega allo sportello le rilascerà un certificato che attesta che lei è stata in coda per più tempo del previsto.»

Anziché placarla, quella risposta parve indisporre ancora di più la signora con il tailleur grigio. «Ah, perfetto!» ringhiò, infatti, stritolando tra le mani il tagliandino. «Quindi, se voglio avere un giustificativo di qualche tipo, devo restarmene in coda per altre due ore? Devo buttare tutta la mattinata in sala d'aspetto?»

La ragazza esitò, presa in contropiede. «Be'...»

«Siete degli incapaci!» esclamò la donna, alzando la voce. «Non avete rispetto per i cittadini!»

Anna retrocedette di un passo, allontanandosi da quella furia gesticolante. «Ehm... se vuole può fare reclamo» si arrese, afferrando uno dei modulo impilati su uno scaffale e offrendolo all'utente.

Quella glielo strappò di mano e lo squadrò velocemente. «E chi la leggerebbe, 'sta roba? Scommetto che la buttate via.»

In realtà, quei moduli li leggo io e poi li trasmetto ai reparti, pensò la ragazza. Ma 'sta pur tranquilla che con le segnalazioni inutili come la tua ci fanno gli aeroplanini di carta. «Ma no», disse, invece, «tutte le segnalazioni vengono prese in considerazione: riceverà anche una risposta attraverso i canali da lei indicati.»

La donna la guardò con diffidenza. «Sì, va be'» disse, come se fosse certa che Anna la stesse prendendo in giro. «Comunque questo me lo prendo comunque: tanto di tempo ne ho, se devo aspettare che si decidano a chiamarmi!»

Quando la signora se ne fu andata sbattendo la porta con malagrazia, Anna tornò mestamente alla propria scrivania e si lasciò cadere sulla sedia girevole blu. «Che strazio» sospirò, rivolgendosi a Giulia.

«Certa gente è proprio cretina» replicò la donna, senza nemmeno distogliere gli occhi dallo schermo del suo PC. «Ti diamo la possibilità di prenotare le visite senza nemmeno dover alzare il culo dal divano di casa: e fallo, no? Se invece provi l'insano desiderio di venire a rompere il cazzo alla gente di persona, almeno non lagnarti se devi fare la coda.»

Anna non commentò e si lamentò a inarcare le sopracciglia: non riusciva a capacitarsi di come una persona bellicosa e poco empatica come Giulia fosse finita a lavorare proprio all'Ufficio Reazioni con il Pubblico di un ospedale. Almeno questa qui non aveva un problema grave, si consolò, prima di allungare una mano verso il cellulare, incuriosita dalla serie di messaggi che aveva ricevuto poco prima.

Oh, sono notifiche di Facebook, notò con un brivido di entusiasmo. Ancor prima di aprire il messaggio, la ragazza si lasciò sfuggire un ampio sorriso: Sabrina aveva accettato la sua richiesta di amicizia. E mi ha anche scritto qualcosa!

Anna dovette rileggere più volte ciò che la sua amica d'infanzia le aveva scritto: l'emozione di essere riuscita a ristabilire un piccolo contatto con il suo passato era tale che i suoi occhi stentavano a soffermarsi sulle singole parole e tendevano invece a correre subito verso la fine della frase.

Vuole che ci incontriamo, comprese, abbassandosi un poco sulla scrivania per evitare che Giulia notasse il sorriso ebete che le si era disegnato sulle labbra e le facesse qualche domanda alla quale non aveva intenzione di rispondere, almeno per il momento. Mentre leggeva e rileggeva il messaggio inviatole da Sabrina, sentiva risuonare nella sua testa la voce che la ragazza aveva avuto da bambina: le diceva che era felicissima di saperla nuovamente a Lanzate e le proponeva di trovarsi per un aperitivo il giorno seguente – o quello dopo ancora – presso il Caffé Excalibur, storico locale che sorgeva in un angolo della piazza più grande del paese. Aveva già avvisato anche Esther, che da quando era diventata mamma non usava più Facebook, ma che sarebbe stata ben contenta di rivederla.

Esther ha avuto un bambino, pensò Anna scombussolata. L'idea di rivedere lei e Sabrina le fece correre un improvviso brivido nervoso lungo la schiena: e se gli anni che avevano passato lontane le avessero rese troppo diverse per essere ancora amiche? Oh, ma cosa sono questi dubbi da bambina dell'asilo! Si riprese, impugnando saldamente il cellulare e digitando un messaggio in risposta a quello di Sabrina. Domani va benissimo, pensò, mentre il dito tracciava quelle stesse parole sullo schermo luminoso. Tanto non è che abbia chissà quali impegni extra lavorativi!

Quando, quella sera, rientrò nel proprio appartamento, Anna si sentiva decisamente rilassata e di buon umore. In ufficio non erano arrivati altri utenti molesti come la signora che non voleva fare la coda allo sportello e la mattinata grigia e uggiosa si era dissolta in un limpido pomeriggio autunnale, con un cielo terso e una brezza mite che sapeva quasi ancora un po' d'estate. È un buon momento per sistemare questi e per dare una spazzata al giardino, pensò Anna, recuperando dal bagagliaio del Panda la cassettina di ciclamini che la zia Clara aveva voluto rifilarle a tutti i costi.

Una volta entrata in casa, Anna salutò le sue due gatte e poi corse in camera a cambiarsi, abbandonando i jeans attillati e la camicetta in favore di una meno elegante ma assai più comoda tuta da ginnastica color verde salvia che possedeva da almeno una dozzina di anni. Semplicemente agghiacciante, si disse, lanciando un'occhiata distratta allo specchio a figura intera che aveva sistemato accanto all'armadio. Ci mancava solo la toppa dei Ramones a metà coscia, per completare l'opera!

Decidendo che la sua tenuta casalinga era perfetta per il giardinaggio, la ragazza marciò verso il salotto e poi raggiunse la portafinestra che dava sul giardino, portando con sé i ciclamini e sperando che i piccoli e resistenti fiori invernali fossero in grado di dare una nota di colore a quel fazzoletto di terra altrimenti spoglio.

«Volete venire anche voi, signorine?» chiese, notando che Calliope l'aveva seguita e ora indugiava sull'uscio, incerta se posare o meno le zampette sull'erba un po' troppo alta. Dietro di lei, Anna poteva vedere l'ombra nera di Cassandra che, come suo solito, aspettava che la sorella facesse la prima mossa.

Quasi come se fossero in attesa di un qualche tipo di permesso, le due bestiole parvero prendere coraggio e trotterellarono all'aperto, frustando l'aria con le code e osservando con fare guardingo l'ambiente che le circondava.

Oh, a proposito! Lasciando ricadere a terra il rastrello che Paolo, appassionato di giardinaggio, le aveva regalato il giorno stesso in cui aveva scoperto che Anna avrebbe avuto un paio di metri quadri di prato di cui prendersi cura, la ragazza si avvicinò alla recinzione che separava il suo giardino da quello di Oleksander. Mi pare che il simpaticone non sia ancora tornato a casa, si disse, posando quasi di soppiatto le mani sul reticolato metallico che, nelle intenzioni di chi aveva disegnato le villette bifamiliari, avrebbe dovuto essere ricoperto da uno spesso intreccio di gelsomino, ma che era in realtà ancora piuttosto spoglio. Ma il suo cane dov'è? Durante il giorno lo tiene in casa o lo lascia in giardino?

Premendo la fronte contro la rete rigida, Anna cercò di spiare come meglio poteva lo spazio che si apriva al di là di essa. Riusciva a scorgere un prato ordinato, un tavolino di plastica sistemato a ridosso del muro, qualche pianta aromatica e la ciotola metallica che per prima aveva attirato l'attenzione del suo fratellastro. Tutto era però immobile e silenzioso, chiaro segnale del fatto che il giardino era disabitato.

Rinfrancata, Anna si staccò dalla rete e si voltò verso le sue gatte. «Via libera, ragazze» disse, come se fossero in grado di comprendere le sue parole. «Il nemico non c'è. Però non allontanatevi, che non si sa mai.»

Per la mezz'ora successiva, la ragazza si dedicò completamente alla cura del suo piccolo giardino. Sistemò e risistemò più volte i ciclamini sui davanzali, rendendosi conto solo al secondo tentativo che era necessario posizionare un sottovaso di plastica sotto i singoli vasetti per evitare che l'acqua in eccesso scivolasse via e macchiasse il muro. Con l'aiuto del rastrello, radunò le foglie che la betulla che cresceva appena al di là della recinzione metallica aveva generosamente sparso per tutto il prato e poi recuperò una vecchia scopa di saggina spelacchiata – dono della zia Clara – e spazzò i pochi metri di pavimentazione di cemento che si estendevano davanti alla portafinestra.

Quando ebbe radunato un discreto mucchietto di foglie gialle e secche, Anna abbandonò la scopa a terra e lo squadrò con aria critica. Adesso mi serve qualcosa in cui buttarle. Che sacco si usa per le foglie? Va bene il sacco nero o ce ne vuole uno speciale? Decidendo che, per quella volta, avrebbe utilizzato un normalissimo sacco nero e confidato nella clemenza del netturbino, la giovane tornò in casa con passo rapido.

Mentre era inginocchiata a terra, con la testa immersa nell'armadietto posto sotto il lavello nel tentativo di reperire un sacco della spazzatura, dal giardino giunse una sorta di grido che le fece balzare il cuore in gola. Anna trasalì e si affrettò a rimettersi in piedi, imprecando tra i denti quando il suo ginocchio colpì dolorosamente lo spigolo dell'anta dell'armadietto.

Cosa diavolo sta succedendo? Si chiese, precipitandosi fuori. Mentre stava per sorpassare la portafinestra, incespicò in Cassandra che, simile a un lampo nero, si stava rifugiando in tutta fretta in casa. Sentendosi travolta, la gatta soffiò e si fiondò sotto il divano, mentre Anna inciampava nei suoi stessi piedi, con il rischio di cadere lunga e distesa sull'erba.

Riuscendo a rimanere in equilibrio per puro miracolo, la ragazza si fermò nel centro esatto del giardino respirando affannosamente. Dov'è Calliope? Si chiese, guardandosi attorno con apprensione crescente. La risposta non tardò a palesarsi. Il grido che l'aveva fatta sobbalzare poco prima si ripeté e, voltandosi quasi al rallentatore verso sinistra, Anna si trovò di fronte a una scena che le fece ghiacciare il sangue nelle vene.

Approfittando della sua breve assenza, Calliope era sconfinata nel giardino del tipo dell'Audi e ora era addossata al muro, con il pelo irto, la bocca spalancata e un'espressione omicida negli occhi giallo-verdi. Soffiava, ringhiava e emetteva minacciosi miagolii al tempo stesso rochi e acuti, nell'evidente tentativo di rendersi terrificante agli occhi dell'avversario. Davanti a lei, immobile e rigido come una statua, c'era il cane più brutto che Anna avesse mai visto: era enorme, alto sulle zampe e con una testa troppo piccola rispetto al corpo dinoccolato. Aveva il sedere più alto della groppa, il che dava l'impressione che fosse come ingobbito e portava la coda vaporosa pudicamente raccolta tra le zampe posteriori. Aveva il pelo candido e riccio di un agnello, il muso allungato e irto di denti di un coccodrillo e la stazza di un vitello – o così almeno parve ad Anna, in quegli attimi pieni di panico.

«Calliope!» gridò, lanciandosi d'istinto contro la rete e tentando di allungare le braccia attraverso di essa, come se potesse afferrare la gatta nonostante i metri che le dividevano.

Quel richiamo lasciò del tutto indifferente il felino, che non diede cenno di averlo udito, ma catturò per un istante l'attenzione del cane, che voltò il muso nella sua direzione e squadrò Anna con un paio di occhi neri, tondi e curiosi. «Va' via!» gli ingiunse lei, cercando di adottare un tono di voce perentorio. «Via!»

Quell'ordine non sortì il risultato sperato e quella specie di mostro lanoso finse di balzare su Calliope, limitandosi però ad abbassarsi sulle zampe anteriori, innalzando il sedere al cielo e liberando la coda all'indietro, come se l'intera situazione non fosse altro che un magnifico gioco. Per tutta risposta, la gatta sferrò un paio di zampate all'aria e poi saltò all'indietro, arrampicandosi in qualche modo sulla grondaia che scendeva lungo il muro, agile e velocissima. Il cane si lanciò subito al suo inseguimento, ma nonostante fosse davvero molto alto, dovette limitarsi ad alzarsi sulle zampe posteriori e a posare quelle anteriori sul muro, senza riuscire però a raggiungere Calliope.

Aggrappata al minuscolo filo d'edera che cresceva a ridosso della grondaia di rame, la gatta soffiò di nuovo, ma ora pareva in difficoltà: non poteva scendere, ma non riusciva nemmeno a salire più in alto.

Ah, merda! Pensò Anna, con le mani che le sudavano a causa della tensione. Che cosa faccio? E da dov'è spuntato quel coso? Prima non c'era!

Rendendosi conto che qualcuno doveva per forza aver fatto uscire il cane, probabilmente mentre lei era impegnata a pulire il giardino, la ragazza si aggrappò nuovamente alla rete, resistendo alla tentazione di scavalcarla e di andarsi a riprendere personalmente la sua gatta. «Ehi!» gridò con quanto fiato aveva in gola. «Il cane! Tenetelo un attimo!»

Udendo le sue grida, il cane in questione si voltò a guardarla e poi abbaiò un paio di volte in direzione di Calliope, facendo riecheggiare contro le facciate delle villette i suoi latrati metallici.

Anna si sentì sul punto di piangere per la frustrazione, ma, proprio in quel momento, il proprietario dell'Audi comparve in giardino, evidentemente attirato dal rumore.

Doveva essere appena rincasato dopo una giornata lavorativa e, proprio come nelle aspettative della ragazza, indossava una camicia bianca, dei pantaloni scuri e una cravatta discreta. La giacca doveva essere in casa, ordinatamente riposta su una gruccia. «Il tuo cane!» sbraitò Anna, senza perdersi in convenevoli. «Vuole mangiarsi la mia gatta»

Sul volto dell'uomo c'era un'espressione confusa e anche un po' seccata, ma quelle parole parvero metterlo in allarme. Con un'occhiata veloce inquadrò la situazione e poi si lanciò sul cane, afferrandolo per il collare a due mani e stringendolo tra le gambe, costringendolo a rinculare. «Yaroslav: no!» scandì, con voce secca. L'animale appiattì ulteriormente le orecchie contro il cranio e guardò il volto del padrone, leccandosi rapidamente il muso: nonostante la distanza, Anna riuscì a vedere un'espressione di pentimento passare nei suoi occhi scuri. Calliope, però, scelse proprio quel momento per scivolare qualche centimetro lungo la grondaia, attirando nuovamente l'attenzione del cane, che sgroppò nel tentativo di liberarsi dalla presa del padrone, rischiando così di mandarlo a gambe all'aria.

«No!» ripeté l'uomo, strattonando nuovamente il cane per distoglierlo dalla gatta. «Basta! Vai sul tuo cuscino!»

L'animale parve processare quello che gli era stato detto e levò lentamente il muso, osservando il volto del padrone con espressione ferita e vagamente accusatoria. Oleksander lo liberò dalla presa delle sue gambe, ma con una mano continuò a trattenerlo per il collare. «Sul cuscino, ho detto!» ribadì, puntando un dito verso il suo appartamento. «Forza!»

Con un'ultima occhiata di rimpianto in direzione di Calliope, il cane trotterellò con passo sorprendentemente leggero ed elegante verso la portafinestra, la coda nuovamente ripiegata tra le zampe.

Dall'altra parte della rete, Anna aggrottò la fronte, vagamente impressionata. Però, considerò, la bestiaccia è obbediente. Peccato che lo stesso non valga per il mio demone tricolore.

Oleksander chiuse la porta che garantiva l'accesso al suo giardino, poi si voltò verso Anna, incrociando le braccia davanti al petto. «Si può sapere cosa ci fa il tuo gatto nel mio giardino?»

Contro le sue migliori intenzioni, la giovane si ritrovò ad abbassare lo sguardo. «Deve aver scavalcato la rete proprio nel momento in cui io sono entrata in casa» disse, avvertendo un vago calore all'altezza delle guance. Ti prego, dimmi che non sto arrossendo! «Ehm... scusa. Di solito non fa queste cose» mentì, soprassedendo sul fatto che erano in realtà ben poche, le cose che Calliope aveva la creanza di non fare.

L'uomo la soppesò con i suoi occhi di ghiaccio e Anna dovette mordersi le labbra per evitare di sbuffargli in faccia. D'accordo, era effettivamente accorso in suo aiuto e aveva salvato la sua gatta da un incontro ravvicinato con le zanne del cane, ma il suo modo di fare aveva un che di indisponente e antipatico.

Senza dire una parola, Oleksander si avvicinò alla grondaia. «Dai, forza» disse, alzando gli occhi verso la gatta, che si trovava una ventina di centimetri più in alto rispetto alla sua testa. «Scendi.» Così dicendo, l'uomo allungò una mano in direzione del felino, forse per convincerlo a lasciare la presa dal ramo di edera, ma Calliope soffiò e gli sferrò una fulminea zampata ad artigli spiegati.

Dio, che vergogna, pensò Anna, coprendosi il volto con una mano.

Oleksander balzò indietro e si esaminò la mano, che pareva miracolosamente illesa. Poi si voltò nuovamente verso la vicina di casa, puntandole addosso uno sguardo d'accusa. «Ho cambiato idea: vieni qui tu, a riprendertela!» sbottò.

Anna esitò, presa in contropiede. Doveva andare in casa sua? Ma nel suo appartamento c'era Yaroslav: anche se non aveva mai avuto paura dei cani, era comunque vagamente preoccupata dalla prospettiva di trovarsi a tu per tu con un esemplare tanto grosso.

«Forza» la spronò Oleksander, con una profonda ruga tra gli occhi chiari. «La tengo d'occhio, ma tu muoviti, che poi ho altro da fare.»

Annuendo, Anna corse in casa, schivò Cassandra che, nel frattempo, era riemersa dal suo nascondiglio e uscì sul vialetto, raggiungendo poi la porta della casa di Oleksander. Posando la mano sulla maniglia, la ragazza levò brevemente gli occhi al cielo. Ti prego, Madonnina, fa che il cane-coccodrillo non decida di mangiare me, visto che non ha potuto assaggiare Calliope.

Aprendo cautamente la porta, la ragazza si introdusse nell'appartamento del vicino di casa, che aveva fortunatamente la stessa struttura del suo. La prima stanza era vuota, ma lì, dietro il muretto che separava il salotto dalla sala da pranzo, c'era un grosso cuscino rosso decorato con dei minuscoli ossetti bianchi: su di esso era acciambellato Yaroslav il cane, il naso affondato nella vaporosa coda bianca e un'espressione di afflitta desolazione dipinta negli occhi scuri. Vedendola comparire nel suo regno, l'animale mosse appena gli occhi, ma tanto bastò ad Anna per sentirsi giudicata e studiata. Notando che lo sguardo del cane seguiva ogni suo movimento, la giovane affrettò il passo e raggiunse il giardino, chiudendosi la porta alle spalle e rivolgendo un sorrisetto di circostanza a Oleksander.

Ora che si trovava vicino a lui, si sentiva quasi a disagio. Decisa a ridurre al minimo la durata di quella situazione scomoda, puntò decisa verso Calliope. «Va bene, Calli: vieni giù» le disse con dolcezza.

Dall'alto del suo rifugio di metallo ed edera, la gatta la puntò con i suoi occhi lunari e poi strizzò appena le palpebre, come per dirle che l'aveva riconosciuta e che era tutto sommato felice di vederla lì. «Brava micia» mormorò Anna, alzandosi sulla punta dei piedi per sfiorare il pelo folto e morbido della gatta. «E adesso andiamo» disse ancora. Estendendosi quanto più poteva, portò una mano sotto le ascelle di Calliope e tentò di sollevarla, sperando così di convincerla a lasciare la presa. La bestiola, però, rimase abbarbicata al tronco dell'edera con le zampe anteriori, mentre quelle posteriori si agitavano nell'aria, cercando di ritrovare un appoggio stabile. Nel suo scalciare, la gatta spinse indietro il polsino della tuta di Anna e i suoi artigli graffiarono la pelle delicata del polso della ragazza, due strisce rosse sulla pelle bianca, solcata da vene azzurrine.

«Ahia!» sibilò Anna, lasciando subito andare la gatta. Destabilizzata, Calliope atterrò morbidamente a terra, poco distante dai piedi della sua padrona. Dopo un'energica scrollata, trotterellò verso la rete divisoria, la superò con una velocità preoccupante e andò a sedersi in buon ordine davanti alla portafinestra dell'appartamento della ragazza.

Disgraziata, pensò la giovane, portandosi istintivamente il polso alla bocca e succhiando via le goccioline di sangue che erano comparse sulla pelle. Lo sapevo, io, che dovevo prendere il maschietto, quello bianco e nero con l'occhietto un po' storto. Sicuramente sarebbe stato meno stronzo.

Qualche istante più tardi, Anna divenne consapevole del fatto che Oleksander la stava osservando. «Mh?» gli chiese, abbassando il braccio e asciugando il polso nella stoffa dei pantaloni della tuta.

«La tua gatta si chiama Calli?» le chiese, con quello che sembrava uno stupore genuino.

Aggrottando la fronte, la ragazza si rese conto in quel momento di quanto poco grazioso fosse il diminutivo con cui era solita riferirsi alla bestiola. Le scappò un sorriso. «No, no: si chiama Calliope. “Calli” è solo un diminutivo. Ho anche un'altra gatta che si chiama Cassandra, “Sasà” per gli amici.»

«Ah» fece l'uomo, in un tono piatto che faceva intuire il suo scarso interesse per l'argomento. «Cerca di non farle entrare nel mio giardino: Yaroslav è un cane da caccia e tende a inseguire tutto ciò che si muove. E, poi, non voglio che vengano a scavare nel mio prato.»

Piccata da quell'osservazione che aveva quasi il sapore della minaccia, Anna annuì rigidamente. «Farò il possibile» replicò con sussiego. «Buona serata.»

Così dicendo, la giovane cercò gli occhi dell'uomo in una sorta di dimostrazione di forza, ma appena li trovò, così freddi e limpidi, sentì che qualcosa nel suo stomaco faceva una capriola. Non era mai stata brava a mantenere il contatto visivo: perché si era messa in quella situazione? E Oleksander, invece, sembrava non avere problemi di alcun tipo: sosteneva il suo sguardo senza tradire alcun segno di nervosismo e, anzi, sulle sue labbra c'era quasi l'ombra di un sorriso.

Sta ridendo di me? Si chiese la ragazza, aggrottando la fronte indispettita. Per una frazione di secondo, lo sguardo dell'uomo scese più in basso, sulla sua tuta larga e rovinata, con la sua toppa e le ginocchia che erano ormai sporche di terra, e Anna non dovette faticare per capire che cosa stesse pensando. Oh, ma vai al diavolo, razza di damerino! Pensò, arricciando le labbra in una smorfia di disgusto. «Buona serata» ripeté, prima di aggiungere, sibilando tra i denti: «Spero che il tuo cane non sia aggressivo, altrimenti mi ripaghi come nuova.»

Il mezzo sorriso sul volto dell'uomo si trasformò in un sorriso vero e proprio. «Non ti preoccupare, il mio cane mangia solo roba super premium: non rientri nella sua dieta, credo.»

«Simpatico» replicò Anna, acida, resistendo a stento alla tentazione di mostrargli il dito medio.

Senza aggiungere altro, girò sui tacchi e rientrò nell'appartamento dell'uomo, attraversandolo a passo di carica. Yaroslav pareva essersi assopito sul suo cuscinone e al passaggio della ragazza si limitò ad aprire un occhio appannato dal sonno.

Anna sogghignò, notando che nel suo sguardo nero c'era più simpatia che in quello grigio del suo padrone.

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Capitolo 6
*** Capitolo Sei ***


Uhm. Anna afferrò il blazer nero che aveva appena indossato e se lo sistemò meglio sulle spalle. Non era del tutto convinta del suo outfit. Forse dovrei rimettermi i jeans e farla finita, considerò, osservando con occhio critico il miniabito nero che aveva scelto di indossare sotto la giacchetta dal taglio elegante.

Era forse un abbigliamento troppo formale per un aperitivo in centro in compagnia di un paio di amiche? Ex-amiche, le ricordò il suo inconscio. Vecchie amiche! Si corresse subito dopo, risoluta. Vecchie amiche con le quali sono stata costretta a interrompere i rapporti, ma che ho ogni intenzione di tornare a frequentare con profitto.

Un'occhiata veloce all'orologio le rivelò che aveva perso fin troppo tempo davanti allo specchio. Dopotutto, questo vestito va benissimo, decise, afferrando gli occhiali dal comodino e infilandoseli sul naso. In fin dei conti è troppo corto per essere considerato formale.

Dopo essersi sistemata i capelli attorno alla montatura metallica degli occhiali, Anna corse in cucina e riempì le ciotole delle gatte. «Io esco, signorine!» le informò, riponendo le crocchette nell'armadio. «Sasà, non mangiarti pure la razione di tua sorella!»

Cinque minuti più tardi era in macchina e guidava lungo le strade che un tempo le erano state familiari. C'era il suo vecchio asilo là, dietro la curva. Quante volte aveva percorso quella strada, stringendo la mano di sua madre? Sì, però sono sicura che un tempo questa via non fosse a senso unico, pensò infastidita la ragazza, svoltando bruscamente in una strada laterale. Era strano scoprire di non essere più in grado di orientarsi nella città che anni prima era stata la sua casa.

Quando giunse nei pressi del piccolo centro storico che costituiva il cuore di Lanzate, Anna parcheggiò in uno dei pochi posteggi gratuiti che riuscì a scovare e poi si avviò di buon passo verso il Caffé Excalibur, facendo del proprio meglio per ignorare il tremolio alle gambe che le rendeva difficile camminare. Osservò con occhi curiosi gli antichi palazzi che la circondavano, le poche botteghe storiche che avevano resistito alla carica della modernità e le molte catene di abbigliamento e di biancheria intima che le avevano in molti casi sostituite.

Questa pasticceria me la ricordo! Esultò la giovane, soffermandosi per qualche istante davanti a una vetrina che esibiva dolciumi di ogni tipo. Proprio in quell'istante, il cellulare vibrò e Anna si affrettò a pescarlo dalla borsetta.

“Noi siamo qui” citava il messaggio che Sabrina le aveva inviato via Facebook.

Oh, porca vacca! Si rabbuiò la ragazza, allontanandosi dalla vetrina. Non ci vediamo da anni e io riesco ad arrivare in ritardo la prima volta che decidiamo di uscire insieme!

A quell'ora il locale presso il quale si erano date appuntamento era piuttosto affollato. Il sole era basso, ma illuminava ancora la piazza e i tavolini esterni accoglievano un buon numero di avventori intenti a sorseggiare spritz e calici di vino. Anna si fermò a qualche metro di distanza dal tavolo più lontano dall'ingresso e scrutò l'ambiente circostante. Perché non ci è venuto in mente di scambiarci i numeri di telefono? Si chiese, schermandosi gli occhi con le mani per evitare che il riflesso del sole sulle lenti degli occhiali l'abbagliasse.

Dopo qualche secondo, una testa bionda attirò la sua attenzione: apparteneva a una ragazza alta, avvolta in uno spolverino rosso che le fasciava il corpo morbido. Quando la vide, Anna sentì che il suo cuore accelerava i battiti. Sabrina! Anche se non stava guardando nella sua direzione, non c’era il minimo dubbio che quella era proprio la sua amica.

Stringendo istintivamente a sé la borsetta – una sorta di tic che la coglieva ogni volta che si sentiva nervosa – Anna zigzagò tra i tavolini. Quando si trovava a pochi passi dalla ragazza bionda, quella si voltò verso di lei e la guardò con aria interrogativa. Poi, lentamente, sul suo viso si disegnò un sorriso.  «Anna?» chiese, con gli occhi azzurri che brillavano come zaffiri.

Anche se erano molti anni che non sentiva la sua voce, la riconobbe subito. «Ciao!» disse, con la voce che, per l’emozione, le si strozzava in gola.

Sabrina lanciò una specie di gridolino di entusiasmo. «Ma ciao!» strillò, prima di gettarle le braccia al collo e abbracciarla con forza. «Oddio, non ci credo! Sei davvero qui!»

Mezza soffocata dallo slancio dell’amica, Anna le batté un paio di colpetti sulla schiena e poi cercò di ritrarsi quel tanto che bastava per prendere fiato e per parlare senza annegare nella giacca di Sabrina. «Eh, sì! Alla fine sono tornata.»

L’altra ragazza sciolse l’abbraccio e si allontanò di un mezzo passo. «Non ci avrei mai sperato» commentò, esaminandola da capo a piedi. «Oddio, che bello!» squittì, allungando una mano e afferrando quella della giovane bruna. «Dai, vieni dentro che Esther ci sta aspettando: con ‘sto casino, l’ho lasciata di guardia a un tavolo, altrimenti ce l’avrebbero fregato da sotto il naso.»

Anna si lasciò guidare all’interno del locale, dispensando sorrisi ai due o tre camerieri che incrociò lungo la via. È Esther, quella?  Si chiese meravigliata, quando vide la ragazza seduta al tavolino verso cui Sabrina la stava conducendo. Nella sua memoria l’amica era una bimbetta grassoccia e con gli occhiali spessi, assolutamente diversa dalla giovane donna che ora le stava sorridendo calorosamente: gli occhiali erano spariti, così come i chili di troppo, e, quando si alzò in piedi per accoglierla, vide che era decisamente più alta di lei. Solo le treccine erano rimaste, anche se tra le ciocche nere ne erano comparse molte blu.

«Anna!» esclamò la ragazza, allungandosi al di sopra del tavolino per abbracciarla. «Sei rimasta praticamente uguale a quando eri piccola!»

La giovane bruna ridacchiò. «Vuoi dire che dimostro ancora sei o sette anni? Be’, grazie!»

Esther le pinzò una guancia con due dita. «Ma no! Sto solo dicendo che si capisce che sei tu… non sei cambiata molto.»

Anna la studiò con occhio critico. «Tu invece sì. Dove sono finiti gli occhiali?»

Esther si abbassò la palpebra inferiore con un indice e con l’altro si indicò l’occhio. «Sono i miracoli delle lenti a contatto, mia cara. Tu non ci hai mai provato?»

Anna rabbrividì. «No, no, per carità! Mi fa impressione solo l’idea di infilarmi un dito in un occhio…»

Sabrina le posò una mano sulla schiena e la sospinse verso una delle sedie libere. «Dai, sediamoci, che qui ingombriamo!» Quando si furono sistemate, la ragazza bionda allungò una mano verso la lista dei cocktail. «Cosa ordiniamo?» chiese, rivolta alle amiche.

«Io vado sul classico» decise Anna, senza nemmeno dare un’occhiata all’elenco di bevande. «Prendo uno spritz.»

«Mi sa che ti imito» si accodò Esther. «È un secolo che non ne bevo uno…»

Con un cenno della mano, Sabrina bloccò una cameriera di passaggio. «Due spritz per le mie amiche e un mojito per me, per favore.»

Quando ebbe ordinato, si sporse verso Anna e la fissò con un gran sorriso sulle labbra rosse. «Sei consapevole del fatto che in poco meno di un’ora dovrai farci un riassunto dei tuoi ultimi vent'anni di vita, vero?»

Anna abbassò gli occhi, leggermente a disagio: non amava parlare di sé anche perché, in effetti, la sua vita non era stata particolarmente entusiasmante fino a quel momento. «Sì, be’, non è che ci sia molto da dire…»

«Com'è che si chiamava, già, il posto in cui vi siete trasferite?» le chiese Esther.

«Villanuova. Carino… poco più grande di Lanzate. Pieno zeppo di zanzare, se vi interessa saperlo.»

«Ah, be’, di zanzare ce ne sono un mucchio anche qui, adesso» ribatté Sabrina. «Davvero… quando eravamo bambine mi beccavo una o due punture a settimana, adesso mi sembra che girino in stormi.»

«Ho notato» borbottò Anna. «Una mi ha punta anche ieri…»

«Sei tornata da molto?» indagò ancora Esther.

«Mah, da qualche settimana» replicò l’altra. «Ho da poco preso in affitto un appartamento, prima stavo da mia zia, la sorella di mia mamma.»

Sabrina appoggiò il mento su una mano e la osservò con grande attenzione. «Ma quindi sei tornata solo per lavoro?»

«Be’, ecco…» Anna esitò, chiedendosi se il posto di lavoro all’ospedale fosse veramente l’unica ragione per cui aveva deciso di tornare a Lanzate. «Principalmente sì, sono tornata perché avevo bisogno di lavorare. Poi, certo, ho sempre pensato a Lanzate come a casa mia. A Villanuova mi sono trovata bene, però mi sono sempre sentita un po’ una straniera: non so se riuscite a capirmi.»

Esther le rivolse un sorriso storto. «Sì, credo proprio di riuscire a capirti.»

La ragazza bruna si sentì arrossire. «Oh… be’, certo, in effetti…» Ho fatto una gaffe? Si chiese.

«E quindi sei qui da sola?» la interrogò ancora Sabrina, cambiando argomento e chiudendo quella parentesi leggermente imbarazzante.

«Ho le mie due gatte» scherzò Anna.

«Nessun fidanzato?» chiese Esther, insinuante.

«E che palle!» sbottò scherzosamente la ragazza bionda. «Non è che perché tu sei sposata con l’uomo dei tuoi sogni, allora devono essere tutte accasate!»

«Chiedo solo!» si difese l’altra giovane. «Sono curiosa!»

«Niente ragazzo» ridacchiò Anna, prima di incupirsi. «In realtà ce l’avevo fino a poco tempo fa. Siamo stati insieme per diversi anni e avevamo anche intenzione di andare a vivere insieme. Poi, però, è saltato fuori questo lavoro qui a Lanzate e lui ha deciso di non seguirmi.»

«Ah… mi dispiace» mormorò Esther. «Non potevate provare ad avere una relazione a distanza? A volte funzionano…»

Anna scosse amaramente la testa. «Non eravamo nella situazione per tentare di restare insieme nonostante la distanza. Prima lui sembrava d’accordo sul fatto che io venissi qui, poi ha cambiato idea all’ultimo minuto. La sera in cui ci siamo lasciati ci siamo detti delle cose pesanti e… non credo che potremo aggiustare le cose.»

«Ma tu vorresti farlo?» le chiese Sabrina.

Anna esitò. Non era certa di sentirsela di condividere dei dettagli così intimi della sua vita con delle persone che non vedeva da tanti anni, ma forse quella era l’occasione giusta per affrontare un argomento che la turbava più di quanto lei stessa volesse ammettere. Forse parlarne con qualcuno mi farà bene, decise. «Non lo so. A volte mi manca, però non sto davvero male per lui. Mi sento sola, ma forse è una cosa che non è tanto legata alla rottura con Lorenzo, quanto al fatto che questo trasferimento ha sconvolto la mia vita. E, comunque, ormai sono diversi giorni che nemmeno lui mi cerca più.»

«Prima ti cercava?» fece ancora la ragazza bionda.

Anna sbuffò. «Sì. Mi tempestava di chiamate e di messaggi che nemmeno leggevo. E poi, di punto in bianco… puff, è svanito nel nulla.»

Esther arricciò il naso. «Eh, be’, magari non ha nemmeno tutti i torti: se tu non lo filavi di striscio…»

«Ma sì, infatti non sto dicendo che ha fatto male. La cosa mi ha lasciato un po’ così, ma ormai è acqua passata: si guarda avanti!»

«Ben detto!» esclamò Esther, battendo un palmo sul tavolo e facendo sussultare la cameriera che si stava avvicinando con le loro ordinazioni. «Sarà scontato, ma quando si chiude una porta, si apre un portone.»

«Sì?» sorrise Anna.

«Ma certo. Fino a un paio di anni fa io stavo insieme a un bastardo. Proprio un soggetto pessimo, credimi» disse l’altra, giocherellando con una treccina blu. «Il fatto è che ero talmente condizionata da lui che nemmeno riuscivo a lasciarlo, benché non ne potessi davvero più delle sue stronzate. Poi un giorno sono andata in banca per lavoro e ho conosciuto Michele. Abbiamo iniziato a frequentarci e nel giro di un mese ho trovato il coraggio di lasciare il mio ex. E dopo sei mesi eravamo sposati.»

«E adesso hai un bimbo» commentò Anna con una punta di ammirazione mista a invidia.

«Una bimba» la corresse la sua amica. «Frida. Eccola qui!»

Così dicendo, Esther le allungò il cellulare. Sullo schermo faceva bella mostra di sé la foto di una bimbetta di un anno o poco più, con la pelle color caffellatte, un cespo di capelli scuri e brillanti occhi neri. Rideva felice con la faccia impiastrata con un’inquietante poltiglia beige. «Che carina!» esclamò Anna, sincera.

«Già» convenne Esther col volto splendente d’orgoglio. «Comunque era solo per dire che secondo me fai bene a non continuare a tormentarti per quel tipo, se sei convinta di voler andare avanti: se ti guardi in giro, nel giro di poco troverai qualcun altro.»

«O magari hai già messo gli occhi su qualcuno?» si intromise Sabrina. «Magari un collega?»

Anna sbuffò. «Non direi proprio: negli uffici in ospedale siamo praticamente tutte donne. E i pochi uomini che ci sono hanno almeno cinquant’anni.»

«Allora forse un vicino di casa?» tentò ancora la ragazza bionda. «O qualcuno che viene in palestra con te, se vai in palestra?»

Anna alzò gli occhi al cielo. «Non vado in palestra e il mio vicinato lascia piuttosto a desiderare: annoveriamo un cinquantenne con la pancia, due adolescenti disagiati, un ultraottantenne e uno stronzo con il macchinone. Ci sarebbe un tipo caruccio, ma è sposato e c’ha pure una figlia. In poche parole, la desolazione totale.»

«Mh» commentarono all’unisono le altre due ragazze.

«In ogni caso», continuò Anna, «al momento sento di star bene anche da sola. È vero, tornare a casa e trovare l’appartamento vuoto è un po’ triste, ma ora come ora non ho proprio la forza di iniziare una nuova storia con qualcuno che non sia Lorenzo: mi ci vuole un periodo di calma e tranquillità.»

«Ma sì» approvò Sabrina. «Pure io sono single; e ci sto benissimo!»

Esther le rivolse un’occhiata in tralice. «Sei single?» le chiese con un mezzo sorriso. «Sicura-sicura?»

La ragazza bionda aspirò una generosa quantità di mojito. «Diamine!» sbottò poi. «Penso proprio che me ne accorgerei, se mi vedessi con qualcuno.»

L’amica si sporse verso di lei. «E che mi dici di tutti quei messaggini che continui a ricevere da un paio di settimane a questa parte? Credi che non me ne sia accorta?»

Sabrina arrossì e Anna si reclinò contro lo schienale della sedia, osservando le due ragazze. Un tempo erano state un terzetto, ma ora c’era innegabilmente un legame speciale tra Esther e Sabrina: era una relazione a due dalla quale lei era esclusa. Almeno per ora, si disse, determinata a non perdersi d’animo. Ora che le aveva ritrovate, aveva tutte le intenzioni di tornare a frequentarle: grazie a loro, sarebbe riuscita e mettere nuove radici in quella città. O almeno intendo fare del mio meglio perché questo avvenga.

«Fatti gli affari tuoi» borbottò Sabrina, rispondendo alla frecciatina dell’amica. «È un tizio che ho conosciuto attraverso certi giri di mio cugino. Ci sentiamo solo ed esclusivamente perché gli servono certe informazioni…»

«Uh, che cosa misteriosa» commentò sarcastica Esther, punzecchiando con la punta della cannuccia la fettina di arancia che il barista aveva infilato nel suo bicchiere.

La giovane bionda le puntò addossò uno sguardo fintamente minaccioso e indicò con un dito il drink che Esther non aveva ancora toccato. «Bevi, va’!» le intimò. «E smettila di ficcare il naso negli affari altrui.»

Per tutta risposta, l’altra si lasciò andare a una risatina che non prometteva niente di buono e si rovesciò in bocca una manciata di noccioline.

♥♥♥

Quando parcheggiò di fronte a casa – a una distanza di sicurezza dall’odiata Audi nera – erano ormai quasi le undici. Quello che avrebbe dovuto essere solo un aperitivo si era trasformato poi in una pizza e poi in un dopo-cena in un barettino dalla deliziosa atmosfera bohème. Solo lei e Sabrina, però, perché Esther era ben presto dovuta scappare a casa da marito e figlioletta, della quale sentiva già la mancanza.

La maternità rincoglionisce le persone, si disse, ricordando la telefonata che l’amica aveva fatto a una bambina che quasi certamente non era nemmeno in grado di capire che la voce della madre proveniva dal telefono.

Barcollando leggermente, Anna rotolò fuori dal Panda, cercando di trovare il proprio equilibrio sui tacchi che fino a una mezz’oretta prima non le erano sembrati così alti. Porca vacca, mi sa che ho un po’ esagerato con gli alcolici. L’ultimo giro me lo potevo anche evitare.

Che poi, lei non era più abituata a bere. Quando usciva con Lorenzo, si concedeva al più una birra (che era anche la cosa che più le piaceva) o al massimo un cocktail non troppo forte. Ma non so perché, ho come l’impressione che Sabry mi condurrà sulla cattiva strada, se glielo permetto.

Giunta di fronte al cancello d’ingresso, la ragazza iniziò a frugare nella borsetta. Dove cavolo sono finite le chiavi di casa? Scuotendo l’intera borsa le sentiva tintinnare, ma quel maledetto affare era un dedalo di tasche, taschine e rientranze e trovare qualcosa al suo interno era meno facile di quanto si potesse pensare. Mi servirebbe una luce…

Proprio mentre formulava quel pensiero, il cancello si aprì davanti ai suoi occhi. Miracolo! Pensò Anna, prima di realizzare che di miracolo non si trattava. Il cane-coccodrillo! Comprese, immobilizzandosi nell’atto di infilare una mano nell’ennesimo taschino laterale della borsa. Il muso bianco di Yaroslav le arrivava all’altezza dell’ombelico e lei era terribilmente consapevole che, se avesse deciso di alzarsi sulle zampe posteriori, il cane avrebbe in tutta tranquillità potuto morderle il naso. O anche le orecchie.

«Ehm.» Deglutendo, la ragazza retrocedette di mezzo passo, a malapena consapevole che dietro all’animale era comparso anche il padrone – colui che, evidentemente, aveva aperto il cancello al posto suo. Yaroslav la seguì come in trance e poi le spinse il naso nella pancia, annusandola come se la trovasse qualcosa di estremamente interessante. «Ehi, ehi!» protestò lei, portano istintivamente le mani sulla testa dell’animale. Solo allora ricordò che era buona regola non toccare il capo di un cane sconosciuto, ma Yaroslav non parve prendersela. Le sue orecchie ebbero un fremito e il cane prese ad annusarla, mentre la lunga coda vaporosa iniziava a ondeggiare.

Però, che pelo morbido, pensò la ragazza, tastando con le dita la pelliccia setosa che copriva le orecchie dell’animale. Improvvisamente, la situazione non le pareva più tanto pericolosa. «Un grattino?» gli propose, piegando le dita all’attaccatura dell’orecchio sinistro. Per tutta risposta, Yaroslav inclinò il capo verso la sua mano, socchiudendo gli occhi con aria chiaramente soddisfatta.

L’idillio venne spezzato da un tossicchiare impaziente. «Possiamo andare?» chiese Oleksander, tirando appena il guinzaglio collegato al collare dell’animale.

A malincuore, il cane si staccò da Anna e voltò il muso per osservare il padrone. Se non fosse stato impossibile, la ragazza avrebbe giurato che sui suoi lineamenti canini fosse comparsa un’espressione di rimprovero. Sentendosi stranamente leggera, la giovane si appoggiò al muro accanto al cancelletto e inclinò il capo all’indietro per incontrare lo sguardo dell’uomo. «E dove andate a quest’ora?»

«Il cane deve fare la pipì» la informò lui. «Non gliela faccio fare in giardino.»

«Ah» commentò Anna, trovando l’informazione stranamente affascinante. E dove lo portava? Nelle aiuole praticamente inesistenti? Nei boschi poco distanti? O magari lo fa pisciare sulle macchine? Sulla mia, scommetto!

La ragazza fece per staccarsi dal muro, ma l’equilibrio la tradì e lei barcollò più del dovuto. Oleksander, che si stava allontanando, si fermò e le lanciò un’occhiata sospettosa. «E tu cosa ci fai in giro a quest’ora, invece?»

Anna si produsse in una risatina sprezzante. «A quest’ora?» gli rifece il verso. «Sono appena le undici! Sono uscita con un paio di amiche che non vedevo da un sacco di tempo.»

Sul volto dell’uomo comparve un’espressione di sufficienza. «Sei ubriaca, vero?»

Lei fece le spallucce. «Forse un pochetto» ammise. «Anzi, no: sono solo un pochino alticcia.»

«Quindi hai guidato in queste condizioni?» fece lui, guardandola con sdegno. «Dov’è che hai lasciato il tuo macinino? Lontano dalla mia macchina, spero.»

«In realtà l’ho messa vicina vicina alla tua» sghignazzò Anna, trovando la conversazione estremante divertente. «Mentre parcheggiavo ho sentito un rumoraccio: controlla un po’, va’, che non vorrei aver fatto qualche danno.»

«Ridi pure» ribatté lui tra i denti. «Se la trovo rigata, so a chi chiedere i danni. Buona serata.» Così dicendo, tirò di nuovo il guinzaglio di Yaroslav, convincendolo a muoversi in direzione del parcheggio.

Anna non trattenne un gran sorriso. «Ciao, ciao» ridacchiò. Stava andando veramente a controllare, l’idiota!

Soddisfatta per il modo in cui si era conclusa la sua serata, la ragazza fece per dirigersi verso il suo appartamento, quando la voce di Oleksander, ormai fuori dalla sua portata visiva, la raggiunse per l’ultima volta. «Dimenticavo: complimenti per il vestito!»

Allarmata da quell’osservazione, Anna abbassò lo sguardo sul proprio corpo e vide che il tubino che indossava sembrava assai più corto di quanto non ricordasse. Doveva essere risalito attorno a i fianchi quando si era faticosamente issata fuori dall’auto e adesso non era più lungo di una maglietta oversize. Eh, be’! Pensò stizzita. Cos’ha da guardare, ‘sto porco?

Strattonando la stoffa elasticizzata sopra le cosce, la ragazza rinunciò a ribattere e tornò a dirigersi verso la porta di casa. Dopotutto, devo ancora trovare le dannatissime chiavi!

 

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Capitolo 7
*** Capitolo Sette ***


La pioggia non le era mai piaciuta. Anna si rigirò nel letto, allontanando con un calcio le coperte sudate e facendo sussultare Cassandra che si era rannicchiata ai suoi piedi, sonnecchiando come suo solito sul copriletto. Eppure non è così caldo… anzi! Notò la ragazza, scostandosi dal busto la maglia del pigiama. Era di cotone, ma in quel momento le sembrava pesante come piombo.

Sono meteoropatica, si disse, ascoltando lo scroscio leggero della pioggia di fine ottobre. Lentamente, Anna si mise a sedere e sospirò controllando l’ora sul suo cellulare: il problema non era solo la scarsa tolleranza nei confronti del maltempo. Il display dello smartphone la informava che erano le due e cinque, il che significava che erano passate tre ore e cinque minuti dal momento in cui era andata a letto.

Maledetta insonnia, pensò la giovane, stringendo tra le mani il lenzuolo. Si sarebbe dovuta alzare per andare al lavoro dopo meno di cinque ore e, se si conosceva, non sarebbe riuscita a prendere sonno prima di un’ora. Non senza aiuti, per lo meno.

Si alzò controvoglia e raggiunse il bagno senza nemmeno calzare le ciabatte, stringendo i denti quando la superficie fredda delle piastrelle le aderì alla pianta dei piedi. Eccoci qui, pensò, afferrando la confezione di benzodiazepine che il suo medico di base le aveva prescritto più di un anno prima. Non mi eravate affatto mancate, pastiglie.

Anna manovrò brevemente con il blister e poi si rigirò nel palmo della mano la piccola compressa bianca. Prenderla tutta o solo metà? Questo è il dilemma. La ragazza chiuse gli occhi per un istante e poi si guardò allo specchio. Si sentiva stanca. Sembrava anche stanca. Erano già un paio di notti che non dormiva bene, che sentiva un filo di ansia serpeggiare attorno a lei quando la sera si alzava dal divano e si apprestava a compiere la routine per andare a letto. È tutta colpa della pioggia, si disse ancora, cercando di trovare una spiegazione al malessere che, dopo un lungo periodo di tregua, sembrava essere tornato a tormentarla. Della pioggia e della solitudine.

Erano passati ormai più di sette giorni dalla prima e unica volta che aveva incontrato Sabrina ed Esther. Avevano avuto intenzione di incontrarsi più spesso, ma il mal tempo aveva fatto naufragare i loro piani: Sabrina odiava muoversi di casa quando pioveva e Frida aveva accusato un principio di raffreddore che aveva fatto precipitare nel panico Esther. Di conseguenza, niente uscite in compagnia. Non che quando fosse a Villanuova Anna avesse chissà quale vita sociale, ma la nuova routine fatta di casa, lavoro, supermercato e ancora casa stava iniziando a lasciare il suo segno nefasto nella psiche della giovane.

E poi, quando stavo a Villanuova avevo Lorenzo. Il pensiero del suo ex ragazzo e, di conseguenza, di ciò che aveva perso aprì una voragine di malinconia nel suo petto. Non le mancava Lorenzo, no: le mancava il fatto di stare con Lorenzo, di scherzare con lui, di preparare una torta insieme, di farsi un giro in bici in compagnia e di farsi coccolare acciambellata sul divano. Mi sento tanto sola, riconobbe, mentre lacrime trattenute a stento le inumidivano gli occhi. Mi manca la mamma, e Paolo e Francesco e Giulio ed Enea…

Inspirando a fondo per reprimere un singhiozzo, Anna si gettò in bocca la pastiglia di sonnifero e si chinò per bere un sorso d’acqua direttamente dal rubinetto. È roba leggera, questa, si consolò. Il dottore mi aveva detto di prenderla ogni volta che ne avessi avuto bisogno. Non da dipendenza, a queste dosi.

Ma non era tanto quello, il problema. Estraendo tutto il contenuto della confezione di cartone, contò il numero delle pillole residue: quindici, un blister e mezzo. Ne ho per quindici giorni o, se sono brava, per un mese. Se fosse ricaduta nel circolo vizioso dell’insonnia, dove la paura di non dormire generava una tensione che rendeva effettivamente impossibile prendere sonno, quelle poche compresse sarebbero sparite rapidamente, e allora le sarebbe toccato recarsi dal suo nuovo medico di base per chiederne delle altre. Che bella presentazione: non mi ha mai vista e la prima volta che gli arrivo in studio è per chiedergli dei sonniferi. Mi prenderà per una depressa o una drogata.

Riponendo risolutamente i blister nella loro confezione, la ragazza si costrinse a respirare profondamente, concentrandosi solo sul flusso dell’aria che le entrava e usciva dai polmoni. Con gli occhi chiusi si portò una mano all’altezza dello sterno, alla ricerca della riprova tattile del fatto che il ritmo del suo respiro si stava facendo più lento e profondo. Nella piega del collo, appena al di sopra della clavicola sinistra, avvertiva il battito concitato del cuore. Calmati, si impose, svuotando completamente i polmoni e poi lasciando che l’aria tornasse lentamente a riempirli.

Quando il calore che le aveva invaso il corpo iniziò a scemare, la ragazza riaprì gli occhi e fissò il proprio volto pallido riflesso nello specchio del bagno. Si sentiva già un po’ meglio, ma sapeva per esperienza che se fosse tornata subito a letto avrebbe vanificato tutti gli sforzi compiuti per riprendere il controllo sulla propria psiche.

Venti minuti, pensò, abbassando lo sguardo sull’orologio: tanto ci voleva perché la pillola che aveva ingerito facesse effetto. Nel mentre, non poteva guardare la tv o intrattenersi con il cellulare perché, stando a quanto le aveva detto una volta il suo medico, quelle attività non le avrebbero permesso di rilassarsi. Lasciando il bagno a passi lenti, Anna si diresse verso il salotto. Acciambellata su uno dei cuscini del divano, Calliope dormiva tranquilla. La ragazza le si sedette accanto con uno sbadiglio, sentendo già una piacevole sonnolenza premerle sugli occhi. Probabilmente mi sto autoconvincendo che la pastiglia stia già facendo effetto, ma chi se ne frega.

Distrattamente, la giovane allungò una mano verso la gatta e con la punta di due dita disegnò il contorno di una macchia nera così ben definita da essere riconoscibile anche nel buio della notte. Calliope la lasciò fare per qualche secondo e poi emise un miagolio soffocato, acciambellandosi in un gomitolo felino ancora più compatto di prima. Messaggio ricevuto, pensò Anna, rimettendosi in piedi con un gemito. Vuoi essere lasciata in pace.

Fuori, lo scroscio della pioggia sembrava essere scomparso. Che abbia finalmente smesso di piovere? Si chiese occhieggiando in direzione della portafinestra. Afferrando la coperta di plaid drappeggiata sullo schienale del divano, Anna se la gettò attorno alle spalle e se la strinse addosso, raggiungendo la porta che dava sul giardino. Non appena ebbe messo piede fuori dall’uscio, la ragazza si rese conto di aver commesso un errore: la coperta le teneva al caldo busto e gambe, ma non faceva nulla per i suoi poveri piedi a contatto con la fredda lastra di marmo posizionata appena oltre la portafinestra. Dondolando da un piede all’altro e tentando di scaldarseli un poco alla volta appoggiandone la pianta sugli stinchi coperti dal pigiama, la giovane annusò l’aria: anche se le nuvole basse che ancora ingombravano il cielo avevano smesso di scaricare a terra il loro contenuto, c’era odore di pioggia, di terra, di foglie morte e di fumo di sigaretta.

Fumo di sigaretta? Anna arricciò il naso e si guardò attorno, cercando di identificare la fonte di quell’odore molesto. Non fu sorpresa di scoprire che veniva dal giardino alla sua sinistra. Eh! Pensò con un mezzo sorriso sarcastico. Certo che ce li ha proprio tutti, i difetti, quello lì! La cosa che più la incuriosiva, però, era capire che cosa ci facesse Oleksander in piedi a quell’ora: che soffrisse anche lui d’insonnia? Sulle prime non ci aveva fatto caso, assonnata com’era, ma ora vedeva che nell’appartamento del suo vicino di casa c’era una luce accesa.

Anna represse un brivido. Faceva freddo lì fuori e l’umidità che permeava l’aria stava iniziando a superare lo scudo della coperta di plaid. Presto le sarebbe penetrata fin nelle ossa, e allora sarebbe stato difficile scaldarsi quel tanto che bastava per prendere sonno. Proprio mentre stava valutando se potesse tornare a coricarsi anche se non erano ancora passati i venti minuti raccomandati dal bugiardino del farmaco che aveva assunto, un baluginio arancione attirò la sua attenzione. Oddio! Pensò la ragazza, con un sussulto. Ma è in giardino anche lui? Non me n’ero accorta!

Il primo istinto fu quello di balzare indietro e di nascondersi nella sicurezza del suo appartamento, ma si trattenne. Se l’idea era ridicola ai suoi stessi occhi, figurarsi a quelli di Oleksander, se si fosse accorto della sua fuga scompagnata. Muovendo appena il capo per evitare di attirare l’attenzione, Anna sbirciò verso il giardino alla sua sinistra. Riusciva a intravvedere la sagoma dell’uomo attraverso la cortina formata dalla rete metallica e dai rami del gelsomino che vi crescevano sopra: era immobile, esattamente come lei, e solo il suo braccio destro si alzava e abbassava di tanto in tanto, portando alle labbra la sigaretta accesa.

Non si è accorto che sono qui, pensò, oppure se n’è accorto benissimo e ha deciso di ignorarmi. Anna si abbracciò per tenersi un po’ al caldo e si chiese se fosse il caso di dire qualcosa, magari di rivolgergli anche solo un saluto di circostanza per conservare una parvenza di buone maniere. Ma ho davvero voglia di mettermi a fare conversazione? Si chiese, distogliendo per un attimo lo sguardo dalla sagoma scura dell’uomo. E che cosa dovrei dirgli? “Ehi, ciao, questa è davvero una bella nottata per trovarsi in giardino vero? Sai com’è, di solito a quest’ora dormo, ma questa notte non riesco a chiudere occhio perché mi sento sola e ho paura di essermi infilata in un vicolo cieco e mi sento completamente persa e spaesata. E tu, invece? Qual è il tuo problema? Cos’è che ti spinge a fumare in giardino in piena notte?”

Le parole erano lì, sulla punta della lingua, ma Anna sentì il fiato morirle in gola. Lasciamo perdere, si disse. Considerata la sua disarmante simpatia, come minimo mi ride in faccia e mi dice di farmi i fatti miei. La giovane sospirò. L’idea di parlare con qualcuno che non fossero le sue gatte era allettante, ma sentiva di non avere la forza di intrattenere una conversazione notturna con il suo irritante vicino di casa.

Con un’ultima occhiata fugace in direzione dell’uomo, la ragazza si voltò per tornare in casa. Con estrema attenzione, si chiuse la portafinestra alle spalle, evitando di fare rumore: chissà perché, improvvisamente le pareva di vitale importanza che Oleksander non si accorgesse che c’era anche lei, appostata nella notte umida di pioggia. Non voglio che mi faccia qualche battutina stupida, la prossima volta che ci vediamo, si disse. Non voglio trovarmi costretta a spiegargli cosa c’è che non va nella mia vita.

Muovendosi quasi in punta di piedi tornò in camera da letto e si infilò sotto le coperte. Il lenzuolo ancora caldo la avvolse come in un abbraccio e Anna si scoprì a chiudere gli occhi, compiaciuta e in un certo modo confortata da quel tepore morbido. Pochi istanti più tardi piombò in un sonno improvviso e non del tutto naturale.

♥♥♥

«Sei sveglia o cosa?»

Anna sussultò, rendendosi conto solo in quell’istante che erano ormai diversi minuti che stava fissando lo schermo del computer con aria vacua, gli occhi persi tra le righe regolari di Outlook. Giulia, seduta nella scrivania di fronte alla sua, si stava sporgendo dalla sedia per guardarla meglio. Sembra una volpe, pensò inconsciamente la ragazza. Le era sempre sembrata una volpe, col viso pallido e appuntito, il naso all’insù, i grandi occhi verdi segnati dalle rughe d’espressione e i capelli rossi – palesemente tinti – corti e folti come la pelliccia dell’animale selvatico.

La ragazza sbatté un paio di volte le palpebre nel tentativo di riprendersi. «Ehm… sì. Scusa, sono solo un po’ stanca.»

La sua responsabile si diede una spintarella all’indietro e, comodamente seduta sulla sua sedia da ufficio, scivolò verso il muro alle sue spalle. «Infatti hai l’aria sbattuta» decretò, studiando la collega più giovane con aria critica.

Anna sospirò e si tolse gli occhiali, posandoli accanto alla tastiera del computer. Si strofinò gli occhi per qualche istante, ricordandosi solo quando era troppo tardi che quella mattina aveva deciso di mettere sia il mascara che l’eyeliner. Perfetto, pensò demoralizzata, adesso sembrerò un panda. «Si nota tanto?» chiese, inforcando nuovamente la montatura metallica. «Questa notte ho dormito male.»

Gli occhi chiari di Giulia si assottigliarono pensosi. «Ti capita spesso di dormire male?»

Nervosamente Anna ricordò che la collega aveva intrapreso degli studi di psicologia e che, anche se non li aveva mai portati a termine, amava definirsi un’esperta della psiche umana. «Non spesso» replicò la ragazza: solo una mezza bugia, dal momento che l’insonnia l’aveva lasciata in pace per parecchi mesi, prima dell’episodio di quella notte. «Forse sono solo un po’ stressata.»

«È il lavoro che ti stressa?» la interrogò la donna.

La ragazza si maledisse mentalmente per quell’uscita poco fortunata: lavorava in ospedale da troppo poco tempo per potersi permettere di far credere al suo capo che si stesse lamentando e che fosse meno che entusiasta della sua mansione. «No, no» si affrettò a dire. «Il lavoro mi piace, lo sai. È tutto l’insieme che mi mette un po’ in difficoltà. Forse ho un po’ sottovalutato tutti i cambiamenti che sto affrontando in questo periodo.»

Giulia annuì saggiamente. «Ti sei trasferita a Lanzate da sola, vero? Abiti per conto tuo.»

«Già» confermò Anna. «Sono contenta di essermi trasferita, eh, non fraintendermi. Sentivo di aver bisogno della mia indipendenza e il fatto di avere finalmente un buon lavoro mi da molta fiducia in me stessa, però…»

«Però?» la incalzò Giulia.

«Be’, è stato un bel cambiamento. Portare avanti una casa da sola è meno facile di quello che credessi, ma il punto non è nemmeno quello. Prima ero abituata a vivere con mia madre e il suo compagno, e avevamo anche una sorta di famiglia allargata, visto che eravamo sempre a stretto contatto anche con il mio fratellastro e i suoi bambini. Ero abituata a vivere nel rumore e nella confusione e il silenzio che trovo adesso quando rientro a casa è… strano.»

«Un po’ alienante» suggerì comprensiva l’altra donna.

«A volte sì» confessò la giovane. «A volte lo trovo anche rilassante e non mi dispiace non avere nessuno che mi dice cosa fare e come farlo, ma credo che mi ci vorrà un po’ di tempo per abituarmi a questa novità.»

«E quindi è stato il silenzio a non farti dormire questa notte?» le chiese ancora Giulia.

Anna esitò. «Più che il silenzio, la solitudine» ammise con un sospiro.

Sul volto della sua collega passò un sorrisetto rapido e malizioso. «Oh… quindi prima non eri abituata a dormire da sola, eh?»

La ragazza inorridì nel sentirsi arrossire a quella frecciatina. «No!» sbottò. «Cioè, sì! Voglio dire… avevo un ragazzo, ma non convivevamo, quindi ero abituata a dormire da sola. Non è quello il problema.»

Giulia scrollò il capo. «Ma sì, scherzavo. Ho capito benissimo qual è il problema: ti mancano la tua famiglia e i tuoi amici e tu ti senti sola e lontana da casa. Il ragazzo c’è ancora?»

Anna sbuffò e afferrò istintivamente il mouse, sentendo l’improvviso bisogno di stringere tra le dita qualcosa di concreto. «No, non c’è più» mugugnò. «Ci siamo lasciati. Anzi, l’ho lasciato io. Lui non voleva che io tornassi a Lanzate e mi ha fatto una mezza scenata che mi ha fatto capire che tra noi due non poteva andare avanti.»

«Mh.» Giulia appariva dubbiosa. «Stavate insieme da molto?»

Anna scrollò le spalle. «Sì: da parecchi anni» mormorò. Poi si riscosse. «Però non mi sono pentita di averlo lasciato. È stata come una rivelazione. Come si dice? Un’epifania, ecco: all’improvviso ho aperto gli occhi e mi sono accorta che noi due non volevamo veramente le stesse cose. E a quasi trent’anni non è una cosa da poco, questa. Siamo adulti, ormai: non possiamo più giocare a fare i fidanzatini, è ora di iniziare a pensare seriamente al futuro. O no?»

L’altra donna sgranò gli occhi. «Oddio, ti ricordo che stai parlando con una divorziata: per quanto mi riguarda, i piani per il futuro valgono quello che valgono. Però, se ne sei convinta tu, allora hai fatto bene a lasciarlo.»

C’era qualcosa nel suo tono che fece storcere il naso ad Anna. «Tu pensi che non abbia fatto bene a lasciare Lorenzo? Il mio ragazzo, intendo?»

Giulia sollevò cautamente le spalle. «Non lo so, non posso giudicare senza conoscere la situazione. Però io mi fido poco delle illuminazioni improvvise: ritengo che spesso siano influenzate da umori del momento che di profetico hanno poco o niente. Detta in altre parole: Lorenzo ti ha fatto girare i coglioni e tu hai deciso che era un verme e che non volevi più avere nulla a che fare con lui. Magari, se aveste ragionato a mente fredda, avreste potuto vedere le cose in modo diverso.»

Era davvero così? Anna rifletté attentamente su quello che provava e aveva provato per Lorenzo e rivisse la serata in cui tutto era finito. Poi scosse il capo. «No, io non credo che si sia trattato di una decisione così impulsiva. C’erano già delle cose che non mi piacevano di lui, solo che le ignoravo per comodità. Poi è saltato fuori questo lavoro, c’è stata la necessità di trasferirsi e abbiamo dovuto affrontare la faccenda: però sono convinta che abbiamo solo accelerato le cose. Non credo che sarebbe andata diversamente, alla lunga.»

«Quand’è così…»

«Non mi manca» continuò Anna. «O meglio, sì, mi manca, ma solo perché ero abituata alla sua presenza. Se domani mi comparisse davanti e mi chiedesse di tornare insieme, lo caccerei via. Non vorrei tornare insieme a lui.»

Giulia annuì e le rivolse un sorriso incoraggiante. «Ti vedo decisa, il che è un bene. Però cosa pensi di fare per questo senso di solitudine? Se ti impedisce di dormire bene, è una cosa che va affrontata.»

Anna allargò le braccia, sentendosi impotente. «Ho ripreso i contatti con due ragazze che conoscevo alle elementari. Siamo uscite solo una volta, ma ci siamo trovate benissimo: eravamo molto amiche, da bambine, e anche se sono passati un mucchio di anni credo che potremmo tornare a esserlo.»

Il sorriso di Giulia si fece più pronunciato. «Bene! Questo è un bene.»

La ragazza si mordicchiò inconsciamente le labbra. «Sì, però il problema è che ci vediamo troppo poco, per i miei gusti. Posso uscire con loro due o tre volte al mese, ma poi? Tutti gli altri giorni cosa faccio? Mi piacerebbe conoscere altra gente, ma non so come fare…»

La donna seduta di fronte a lei rifletté per qualche istante, poi parve illuminarsi. Puntando le punte dei piedi sul pavimento, si spinse in avanti e arrivò ad appoggiare i gomiti sulla scrivania. «Ti serve un hobby» sentenziò. «Un passatempo.»

«Lo so» gemette Anna. «Mi hanno proposto di iscrivermi in palestra, ma non ne ho voglia. Io schifo, odio e aborrisco l’esercizio fisico.»

Giulia la guardò con disapprovazione. «Sì, brava. Ne riparleremo quando ti cambierà il metabolismo e i rotoli di ciccia si accumuleranno su quel bel pancino piatto che hai adesso.»

«Grassa, ma felice» ribatté l’altra, imperturbabile.

Sul volto della collega passò un’espressione scettica, ma la donna lasciò cadere l’argomento. «Comunque, se vuoi la mia opinione, penso che sarebbe una buona idea unire l’utile al dilettevole: ti piace leggere?»

Presa in contropiede da quella domanda, la ragazza si ritrasse leggermente insospettita. «Be’, sì. Perché me lo chiedi.»

«Ma anche ad alta voce?» insistette Giulia. «Del tipo, ti piace leggere le fiabe?»

La mente di Anna corse agli innumerevoli pomeriggi di pioggia passati a leggere fiabe e leggende a Giulio ed Enea. Lei faceva le voci dei diversi personaggi e i due bambini ridevano come matti. «Solo se il pubblico non è troppo esigente. Perché?»

«Lo sai che in ospedale abbiamo una biblioteca, vero?» fece la donna. «I pazienti che hanno il permesso di lasciare il loro reparto possono visitarla in determinati orari, ma di pomeriggio offriamo anche un servizio in più tramite lo Sportello Volontariato: guarda un po’ sullo scaffale dietro di te, dovrebbe anche esserci un volantino.»

Frugando tra le varie brochure sparpagliate alle sue spalle, Anna ne trovò una rosa e verde che titolava “Un Libro per Amico”. «È questo?» chiese, mostrando l’opuscolo alla collega.

«Esatto» annuì lei. «In sostanza, siamo un gruppo di volontari che portiamo avanti una sorta di spazio di lettura. Il servizio è attivo dalle 16:00 alle 18:00, ma i volontari possono mettersi a disposizione anche solo per una mezz’oretta a settimana, se non hanno molto tempo libero. Se ti interessa, potresti andare in biblioteca direttamente dopo il lavoro.»

Anna aggrottò la fronte. «Non ho ben capito di cosa si tratta…»

«Si leggono dei libri ad alta voce a uno o più pazienti» spiegò Giulia con evidente orgoglio. «Ovviamente la cosa è organizzata in base a dei gruppi: per i pazienti pediatrici, per esempio, raduniamo quattro o cinque bambini e gli leggiamo delle fiabe, magari anche interpretandole un po’. Con gli adulti – e parliamo soprattutto di pazienti geriatrici, di vecchietti – facciamo invece delle letture individuali, salvo casi particolari. Insomma, moduliamo il servizio a seconda del tipo di utenza che abbiamo.»

Anna si rigirò il volantino tra le mani. «Sembra una cosa carina» mormorò, osservando le foto che corredavano le didascalie. «Prima di trasferirmi qui leggevo spesso le fiabe ai miei nipotini…»

Giulia sorrise di nuovo. «Oggi pomeriggio hai qualcosa di particolare da fare? Potresti provare a fermarti anche tu: sbrighiamo due formalità burocratiche e poi ti faccio conoscere il resto del gruppo.»

Prima ancora di poter formulare una risposta, Anna sentì un sorriso lento distenderle le labbra. «Mah, perché no? Non ho impegni particolari…»

«Ottimo!» esultò Giulia. «Siamo un bel gruppetto: sono sicura che ti troverai benissimo. Ci sono anche diversi ragazzi giovani, sicuramente riuscirai a farti dei nuovi amici.»

Per tutta risposta, Anna ricambiò il suo sorriso. Farsi dei nuovi amici? Quella sì che era una bella prospettiva.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo Otto ***


«Che cos’è un serpente a sonagli?»

La domanda veniva da un bambino con due grandi occhi azzurri e un paio di denti mancanti. Anna abbassò il foglio che teneva tra le mani e osservò il suo piccolo interlocutore. «È un serpente con una specie di… sonaglietto sulla coda» spiegò. «Una specie di pallina: lui agita la coda e la pallina suona.» O almeno credo, aggiunse poi silenziosamente.

«E perché agita la coda?» chiese la bambina dai tratti andini seduta a terra con le gambe compostamente incrociate. Era piccola e grassottella e qualcuno le aveva pettinato i capelli in due graziosi codini neri che le restavano dritti in testa.

Prima di rispondere, Anna spostò lo sguardo sul terzo ragazzino che le era stato assegnato: era più grande degli altri due ed era incastrato in una sedia a rotelle. La sua gamba destra, ingabbiata in una sorta di impalcatura metallica la cui funzione era sconosciuta alla ragazza, era tesa davanti a lui. Poveretto, pensò la giovane con un moto di compassione nei suoi confronti. Era probabilmente troppo cresciuto per le fiabe e infatti pareva sonnecchiare, palesemente poco interessato alle vicende del Serpente a Sonagli e ai suoi litigi con la Stella Polare.

«Il serpente scuote la coda quando è arrabbiato» spiegò pazientemente Anna, tornando a rivolgersi alla bambina.

Quella le rivolse uno sguardo scettico. «Uhm… sei sicura?» la interrogò, puntandole addosso i suoi brillanti occhi neri. «Il mio cane scodinzola quando è contento, non quando è arrabbiato. Magari il serpente scodinzola perché così suona il… il sonaglio e lui può fare un po’ di musica per i suoi amici.»

Beata innocenza, pensò Anna con un sorrisetto. «Be’, però qui stiamo parlando di un serpente, non di un cagnolino. I serpenti fanno un po’ schifo, sono freddi, invece i cani sono carini e coccolosi… no?» A parte il cane-coccodrillo che alberga da parte a casa mia: per decidere se è carino e coccoloso anche lui mi serve qualche ulteriore verifica empirica.

«A me piacciono i serpenti» bofonchiò il ragazzino sulla sedia a rotelle, aprendo un occhio appannato. «Sono fighi.»

Anna si rabbuiò. «Evita di usare certe parole» lo rimbeccò a bassa voce. «Ci sono dei bambini piccoli!»

Il ragazzino – Leonardo, se non ricordava male – alzò gli occhi al cielo e tornò a sonnecchiare.

«Beh!» riprese Anna, tornando a rivolgersi ai due bambini che le dedicavano un minimo di attenzione. «Vogliamo scoprirla, questa storia del serpente e delle stelle, oppure no?»

Quando i due piccoli annuirono con un movimento perfettamente sincronizzato, Anna riprese in mano la sua fotocopia e iniziò a leggere.

Una ventina di minuti più tardi – tanto le ci era voluto a leggere una paginetta, tra interruzioni e commenti vari – la ragazza si stiracchiò e si alzò in piedi. «Allora?» chiese, rivolta al suo pubblico. «Vi è piaciuta la storia?»

«Era figa» commentò mollemente Leonardo.

La ragazza lo fulminò con gli occhi. «Ma se nemmeno l’hai ascoltata!» sbottò. «Hai praticamente dormito tutto il tempo!»

«Bugia!» ribatté lui. «Ho ascoltato tutto, invece: parlava di un serpente che era geloso della stella polare e allora la mordeva, poi lei rimaneva paralizzata e lui mordeva tutti, anche i cacciatori. E poi lui è stato trasformato in una stella, anche se non ho capito bene perché.»

Anna arricciò il naso. Al di là del fatto che Leonardo l’avesse apparentemente apprezzata, doveva riconoscere che si trattava di una storiella abbastanza insulsa e nemmeno particolarmente adatta ai bambini. Perché diavolo mi hanno fatto leggere una storia che parla di bestie velenose e di gente che muore? La prossima volta chiedo che mi diano il Brutto Anatroccolo o qualcosa del genere! «Va bene, bambini!» disse. «Per oggi è tutto. Ci vediamo un altro giorno, ok?»

Un’infermiera che si era materializzata accanto a lei prese per mano i due bambini più piccoli e li condusse fuori dalla biblioteca. La ragazza li guardò allontanarsi con uno strano dolorino all’altezza del petto e una punta di tristezza che le stringeva la gola: i due piccoli sembravano in salute, ma se si trovavano in ospedale, un motivo c’era. Anna trasse un respiro profondo e poi si riscosse. «Hai bisogno di una mano?» chiese, abbassando lo sguardo su Leonardo.

Quello scrollò il capo con decisione. «No, faccio da solo» replicò, afferrando le ruote della sedia a rotelle e iniziando ad armeggiare per spostarsi in avanti. Era evidente che aveva qualche difficoltà, ma Anna decise di non intervenire: il bambino era già abbastanza grande per offendersi per un aiuto non desiderato.

«Cos’è quella cosa che hai attorno alla gamba?» chiese allora.

Leonardo parve brillare d’orgoglio. «Me la stanno allungando» disse, con il tono di chi stava annunciando una cosa meravigliosa. «Era un po’ più corta dell’altra e camminavo male. Quei ferri mi entrano nelle ossa e le tirano, capisci? Solo che ce n’è uno che mi fa un po’ infezione e quindi vogliono tenermi d’occhio.»

Troppe informazioni, pensò Anna, rabbrividendo al pensiero di ossa allungate a forza. Ammesso che la spiegazione del ragazzino fosse attendibile, ovviamente. «E non ti fa male?» chiese.

«Oh, sì, fa malissimo» confermò Leonardo con entusiasmo. «Prendo un sacco di pastiglie.»

«Ah…»

Prima che il bambino potesse aggiungere altro gli si avvicinarono due giovani uomini. Il più alto dei due, che indossava un camice da infermiere, afferrò con decisione le maniglie della carrozzina, ignorando le proteste del suo occupante. «Avanti, Leo: è ora di tornare in camera!»

«Ma no!» sbuffò il ragazzino. «Non ne ho voglia! Non possiamo restare qui ancora un po’?»

«Niente da fare» replicò serafico l’infermiere. «Qui ci puoi tornare domani, se fai il bravo e se non litighi con il tuo compagno di stanza.»

Leonardo storse le labbra in una smorfia contrariata. «Sì, va be’. A me quello lì sta antipatico.»

L’altro ragazzo, un giovanotto biondo e con il naso aquilino, gli rivolse un gran sorriso. «Non possiamo conoscere solo persone simpatiche, Leo caro.»

Mentre l’infermiere lo spingeva verso la porta, Leonardo mugugnò qualcosa: Anna non riuscì a decifrare le sue parole, ma aveva il forte sospetto che si trattasse di qualcosa che un ragazzino della sua età non avrebbe nemmeno dovuto sognarsi di pronunciare.

«Che tipo» commentò con un sorriso il ragazzo biondo, apparentemente divertito dal malumore del bambino.

«Già» annuì educatamente Anna. «Mentre leggevo la storia sembrava stesse dormendo, ma in realtà pare che abbia sentito tutto…»

Il ragazzo sospirò. «Si annoia. È entrato per un’operazione veloce e invece, tra una complicanza e un imprevisto, è in ospedale da molto più tempo del dovuto.» Poi spostò la sua attenzione sulla ragazza che aveva di fronte. «Oh, comunque io sono Andrea» le disse, porgendole la mano.

«Anna» replicò lei.         

«Come la mia ex» commentò lui, lasciandola un attimo senza parole. «Hai iniziato oggi?»

La ragazza si schiarì la voce. «Sì. Cioè, qui in biblioteca sì, ho iniziato oggi, mentre in ospedale ci lavoro già da un paio di settimane.»

Quell’informazione parve accendere la curiosità del giovane. «Lavori qui? Sei negli uffici o nei reparti?» chiese, scrutandola da capo a piedi come se il suo aspetto fisico potesse aiutarlo a scoprire la sua professione.

«Negli uffici» replicò lei. «Lavoro all’URP, e infatti è stata la mia responsabile a propormi di fare un po’ di volontariato qui: è convinta che possa aiutarmi a migliorare la mia vita sociale.»

Il sorriso sul volto di Andrea si fece ancora più pronunciato. «Ah, allora sei un’altra delle prede di Giulia: lei è tra le fondatrici di questo sportello e ha reclutato di persona un sacco di volontari. Ha portato qui anche me, sai?»

«Sì?» fece Anna, studiandolo con più attenzione. Aveva un volto molto particolare ed era certa che, se lo avesse già visto in giro per l’ospedale, se lo sarebbe certamente ricordato.

«Io non lavoro qui» precisò lui, come per prevenire la domanda che stava prendendo forma nella testa della giovane. «Ma lei e mia madre frequentano un corso di pilates insieme e a quanto pare hanno convenuto che io abbia fin troppo tempo libero. Il che è un’illazione priva di fondamento, naturalmente: è più il tempo che sono in giro per l’Italia, che quello che sono seduto alla mia scrivania.»

«Viaggi per lavoro?» chiese Anna – più per educazione che per reale interesse.

Lui fece un vago cenno con la mano. «Sì, seguo dei vari progetti, faccio delle ispezioni… roba noiosa che non credo ti interessi davvero.»

Touché, pensò lei arrossendo leggermente.

«Comunque sono contento che mi abbiano convinto a partecipare a questo progetto» continuò Andrea con un sorriso. «Mi piace, mi rilassa e mi sembra che rilassi anche le persone che ascoltano quello che leggo. Se posso, io tendo però a evitare le favole: non fanno proprio per me.»

«E allora cosa leggi?»

Lui le sventolò sotto il naso un libro piuttosto sciupato. «Epica. Vedi? L’Orlando Furioso.»

«Wow» replicò lei ammirata. «E riesci a leggere bene quella roba? Voglio dire: quando ci provo io, finisco sempre per fare una cantilena inascoltabile.»

«La devi interpretare» scandì Andrea, puntando gli occhi azzurri in quelli neri di Anna. «Fare del teatro. Se vuoi, uno di questi giorni ti do una dimostrazione. Magari ti accolgo tra il mio pubblico, che ne dici?»

Lei rispose con un sorriso e si chiese brevemente se dietro all’invito del ragazzo ci fosse un secondo fine. Ma non mi pare, ragionò guardandolo di soppiatto. È uno strano soggetto, ma non mi da l’impressione che ci stia provando: forse vuole veramente farmi vedere quant’è bravo a leggere roba scritta in versi. «Be’, perché no?» concesse dopo una breve riflessione.

«Magnifico!» annuì lui, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. «Magari più in là potremmo addirittura fare una roba recitata: sai, sto cercando volontari per un certo progetto che ho in mente…» Poi lo sguardo di Andrea parve focalizzarsi con più intensità sul suo volto. «Di’ un po’: ma tu sei di queste parti? Hai come un accento un po’ strano… tra un paio di mesi sarai ancora qui, vero?»

Anna distolse lo sguardo per qualche istante. «Sono… sono originaria di Lanzate, sì, ma ho vissuto altrove per parecchi anni. Sono appena rientrata alla base, per così dire, ma ho intenzione di rimanerci.»

«Per sempre?» le chiese lui a bruciapelo.

Davanti a quella domanda, la ragazza sentì montare in sé un’ondata di panico. «Oddio… non lo so. Non ci ho pensato» balbettò. «Forse. Per ora mi sono trasferita per lavoro…»

Il sorriso di Andrea si spense un po’, come se il giovane avesse capito di aver toccato un tasto dolente. «Ah. Scusa, non volevo ficcare il naso in affari che non mi riguardano. Suppongo che tu sia qui da sola, quindi?»

Anna dovette reprimere un moto di fastidio. Quante volte mi toccherà ancora affrontare questa conversazione, oggi? Deglutendo per allontanare il nodo che le si era formato in gola, la ragazza si costrinse a fare buon viso a cattivo gioco. «Non sono proprio da sola, in realtà. Ho ancora una zia che abita in paese e che vedo spesso. E poi ci sono un paio di amiche con cui ho ripreso i contatti. Certo, il resto della mia famiglia è a Villanuova, ma…»

«Villanuova?» la interruppe Andrea.

Anna sbatté un paio di volte le palpebre, confusa. «Sì… non dirmi che sai dov’è. Non è esattamente una località turistica.»

«Ma certo!» fece lui. «Ultimamente ci sto andando spessissimo per lavoro. Resto giù anche per due o tre giorni a settimana… sto seguendo un progetto alla Oltrafer. La conosci?»

La ragazza ebbe l’impressione che la saliva le evaporasse dalla bocca. «Sì. Ci lavora il mio ex» rispose, con la lingua stranamente impastata.

Andrea sgranò gli occhi. «Ma no! E come si chiama?»

«Lorenzo» fece Anna, prima di riuscire a trattenersi.

«Lorenzo…» ripeté il giovane, meditabondo, come se stesse cercando di ricordare se conoscesse qualcuno che rispondeva a quel nome.

«Ma non andare a cercarlo!» si affrettò a dire la ragazza, avvicinandosi di un passo a lui. «Non dirgli niente, non dirgli che… che ci siamo conosciuti. Non ci siamo lasciati benissimo e non vorrei che lo prendesse come un invito a cercare di contattarmi.»

Il giovane levò subito le mani in segno di pace. «Ma figurati se vado a cercarlo!» esclamò. «Non è mia abitudine andare a ficcare il naso nelle vite degli altri: chiedevo per semplice curiosità. Anzi, adesso che me l’hai detto starò super attento a non lasciarmi sfuggire niente di compromettente; anche se non mi pare di conoscere un Lorenzo che lavora alla Oltrafer… probabilmente è in un reparto con il quale non ho niente a che fare.»

«È un ingegnere meccanico» precisò Anna, già sollevata dalla promessa del ragazzo. «Lavora nell’Ufficio Tecnico.»

«Ecco, vedi?» sorrise Andrea. «Io ho più a che fare con i collaudatori e con l’officina: probabilmente non l’ho mai nemmeno incrociato.»

«Meglio così» sospirò lei. Chissà perché, aveva l’impressione di avere appena scampato un pericolo.

♥♥♥

Anna lasciò cadere le posate con le quali stava mescolando l’insalata e lanciò un’occhiata carica di insofferenza al muro della cucina. Quel cane stava abbaiando da almeno quindici minuti.

E adesso basta, però. Dove diavolo è quel cretino del suo padrone?  La ragazza si alzò bruscamente dal tavolo e marciò verso il giardino. Quando era tornata a casa dopo il turno in biblioteca aveva visto che l’Audi nera non era nel parcheggio, il che significava che il suo proprietario non era ancora rientrato. Ma adesso erano le sette e mezza passate: possibile che fosse ancora in giro?

Arrivata in giardino, la ragazza si aggrappò alla rete che divideva la sua proprietà da quella di Oleksander e spiò in direzione del suo appartamento. È tutto buio, notò con una smorfia. Lì dentro non c’è nessuno, se non il cane.

Ritornata mestamente in sala da pranzo, la giovane rimase immobile per qualche istante, ascoltando i latrati metallici di Yaroslav: erano continui e incessanti e così fastidiosi che aveva l’impressione che il cane le stesse abbaiando direttamente nelle orecchie.

«Basta!» urlò, picchiando una mano contro la parete che la divideva dall’animale. «Adesso finiscila!»

Calliope, che era intenta a montare la guardia davanti alla portafinestra, la guardò con supponenza. Non era difficile decifrare l’espressione di superiorità chiaramente scritta nei suoi occhi gialloverdi. «E tu non guardarmi così» borbottò Anna. «Adesso fai tanto la figa, ma l’altro giorno avevi paura che il cane-killer ti mangiasse, vero?»

Per tutta risposta la gatta voltò nuovamente il muso verso il giardino buio e Anna si diresse a passi lenti verso la finestra del salotto – quella che guardava direttamente sul vialetto d’ingresso – meditando sul da farsi. Come si faceva a fare stare zitto un cane che, abbandonato a se stesso, sembrava avere tutte le intenzioni di passare la serata ad abbaiare?

Quei pensieri furono brevemente interrotti da un gruppetto di tre estranei che le sfilò davanti e si infilò su per la scala esterna che conduceva all’appartamento sopra a quello di Oleksander.  Li seguì con gli occhi e poi scosse la testa quando sentì un coro di risate e saluti gioiosi. Eh, va be’… pensò. Quelli fanno una festicciola e se ne fregano del cane che abbaia. Beati loro che riescono a ignorarlo.

Lei però non ci riusciva e quei continui latrati iniziavano a darle veramente sui nervi. Tornata al tavolo, Anna trangugiò la cena in fretta e furia pregando silenziosamente che nel frattempo Yaroslav si stancasse di fare tutto quel baccano e si addormentasse o che, se non altro, il suo padrone si decidesse a tornare a casa. Sarei proprio curiosa di sapere dov’è finito. Non che fosse in pensiero per lui, ma quell’assenza prolungata le sembrava strana. Da un’osservazione empirica – non che lo spiasse, eh! – aveva notato che Oleksander faceva degli orari piuttosto regolari.  Oggi avrà avuto qualche imprevisto, ragionò.

Quando Anna depositò i piatti nel lavello erano ormai quasi le otto e, fatta eccezione per alcune pause di pochi minuti, Yaroslav era ancora impegnato in un concerto di latrati. E va bene, pensò la ragazza asciugandosi le mani nello straccio appeso accanto al frigorifero. Con un sospiro esasperato afferrò una giacca leggera e uscì di casa per raggiungere quella del vicino. Quando si trovò di fronte alla porta d’ingresso bussò un paio di volte sfiorando il pannello di legno con le nocche.  Yaroslav smise immediatamente di abbaiare. Anna avvicinò il capo alla porta e tese le orecchie: dall’interno dell’appartamento giunse uno zampettìo rapido e pochi istanti più tardi qualcuno parve soffiare sotto la porta. Mi sta annusando? Si chiese la ragazza.

Accucciandosi davanti all’uscio, provò a parlare al cane. «Ehi, Yaroslav» mormorò. «Cos’è tutto questo chiasso che stai facendo?»

Da dietro alla porta giunse un uggiolio e il suono di unghie che grattavano contro il legno. Ops. Speriamo che non gli righi la porta!

«Devi fare il bravo» continuò. «Sfortunatamente sembra che ti sia toccato un padrone idiota che si dimentica che l’ora di cena arriva anche per te. Tieni duro, però: prima o poi tornerà indietro.» A meno che non si sia sfracellato da qualche parte, pensò, ma evitò di dirlo. Anche se il cane non era certo in grado di capire le sue parole, le pareva comunque di cattivo gusto.

«Dai, adesso smettila di abbaiare e mettiti giù tranquillo sul tuo cuscino» continuò, parlandogli come se fosse capace di decifrare quello che gli stava dicendo.

La giovane restò in attesa ancora qualche secondo. Da dietro la porta non giungeva più alcun suono e Anna pensò con un fremito di speranza che forse il suono della sua voce era stato sufficiente per tranquillizzare il cane. Muovendosi con estrema cautela, la ragazza si rimise in piedi e si allontanò dalla porta, tornando a dirigersi verso il suo appartamento. Non si era allontanata che di pochi metri, però, che i latrati ripresero con tutto il loro vigore.

Ma porca… Anna fu tentata di mettersi le mani tra i capelli. «Adesso basta!» urlò, senza curarsi del fatto che era all’aperto e che tutto il vicinato poteva sentire i suoi strepiti. «Finiscila!»

L’eco dell’ultima sillaba non si era ancora spento che la finestra della villetta alla destra della sua si spalancò, lasciando intravvedere la testa riccia della sua vicina di casa, una bella ragazza che doveva essere un po’ più grande di lei e che era madre di una bambina di pochi anni. «Ma non la finisce più di abbaiare, quel cane?» si lamentò la donna, sporgendosi come per guardare la porta chiusa dietro alla quale si trovava Yaroslav.

«Non lo so» sbuffò Anna, allargando le braccia con fare desolato. «Ho provato a parlargli un po’, ma non serve a niente: la smette per un attimo e poi ricomincia da capo.»

«Il suo padrone non è in casa, suppongo» fece la donna.

Anna scrollò il capo in segno di diniego. «No: a quanto pare non c’è nessuno. Non ho idea di dove sia finito.»

«E che palle, però!» sbottò la giovane riccia. «Scusa» continuò poi, rendendosi forse conto di essersi rivolta in tono brusco a una persona con la quale non aveva scambiato che poche parole, prima di allora. «È che c’è mio marito con l’emicrania e mia figlia che tra un’oretta dovrà andare a letto: se continua così, non riuscirò a farle chiudere occhio.»

La ragazza giocherellò con il polsino della giacca, dispiaciuta per la vicina. «Non so davvero cosa fare» replicò, stringendosi nelle spalle. «Forse… non lo so, magari si potrebbe provare a chiamare Oleksander? Hai il suo numero, per caso?»

La donna si lasciò sfuggire una risatina sarcastica. «Ma figuriamoci! Con quello lì ci ho avuto a che fare solo durante le riunioni di condominio e tanto mi è bastato.»

Anna fece una smorfia. «E allora non so davvero come fare. Il suo numero non ce l’ho nemmeno io…»

La donna alla finestra tacque per qualche istante, apparentemente immersa in qualche riflessione. «Sai chi potrebbe avercelo? Loredana.»

«Chi?» chiese la ragazza: quel nome non le diceva niente.

«Ma sì, la signora Rocca. Lei è sempre bene informata.»

Anna si illuminò. «Oh, hai ragione!» esclamò. «In effetti, la prima cosa che ha fatto quando ci siamo presentate è stata chiedermi il numero di cellulare… sai, per le emergenze.»

Lei e la donna alla finestra si scambiarono un sorriso e Anna si ripromise di scoprire almeno il suo nome. In effetti, ora che ci pensava, era probabile che gliel’avesse anche detto, quando si erano incontrate per la prima volta, ma lei aveva una pessima memoria per quel genere di informazioni. Sarà meglio chiederlo alla signora Rocca, decise. Meglio evitare di fare figuracce.

«Sì, è una tipa previdente» continuò la giovane riccia, riprendendo il discorso. «Ti scoccia chiederglielo tu?» aggiunse poi, con una punta di reticenza. «Lo farei io, ma con mio marito a letto con il mal di testa preferirei tenere d’occhio la bambina…»

Anna annuì. «Ma certo, nessun problema» le assicurò. Anche se, una volta avuto il numero, avrebbe dovuto usarlo per chiamare Oleksander: e quello sì, che poteva essere un problema.

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