Yaroslav di RedeNetele (/viewuser.php?uid=1098572)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo Otto ***
Capitolo 1 *** Capitolo Uno ***
E
niente, io sono fatta così. Se mi viene l'idea per una
storia, la
devo scrivere, anche se magari ne ho in cantiere altre cinquanta.
Ogni tanto ci piazzerò qualche nota a piè di
pagina, spero che la
cosa non disturbi eccessivamente la lettura.
♥♥♥
Anna
strinse tra le dita il bicchiere mezzo vuoto, mentre il brusio del
piccolo bar di quartiere sfumava, perdendosi nel rombo quieto che
aveva improvvisamente riempito le sue orecchie.
Seduto
di fronte a lei, quasi rattrappito sulla sedia metallica troppo
piccola per il suo metro e ottantacinque di altezza, Lorenzo, il suo
ragazzo, la guardò come se non fosse in grado di capacitarsi
di
quello che stava dicendo. «A
Lanzate (1)»
scandì lentamente, ripetendo ciò che Anna aveva
detto pochi istanti
prima.
«Sì»
confermò lei, puntando gli occhi in quelli del giovane per
studiarne
la reazione. Lo stava ferendo, lo sapeva, ma aveva il disperato
bisogno che lui capisse le sue esigenze o che, per lo meno, provasse
a farlo.
«Ma
è a più di duecento chilometri da qui»
sbottò lui, aggrottando le
sopracciglia scure e dall'arco elegante. Dal tremolio quasi
impercettibile della sua voce, dalla lieve inflessione tagliente nel
suo tono, Anna capì che lo spaesamento e la rabbia stavano
per avere
la meglio sul suo autocontrollo.
Stavano
insieme da più di otto anni, lei e Lorenzo, e ormai aveva
imparato a
conoscerlo e a prevedere ogni sua reazione. Fa
sempre così,
pensò nervosamente la ragazza, abbassando lo sguardo sulla
superficie metallica del tavolino che la divideva dal giovane. Quando
sente che la situazione sta per sfuggirgli di mano, diventa
passivo-aggressivo. Ma
lei aveva ormai capito come ricondurlo a più miti consigli:
il
trucco stava nel non arretrare nemmeno di un centimetro e di tenergli
testa senza dar segni di cedimento.
«Certo,
ma non capisco perché ti mostri così
sorpreso» ribatté, puntando
gli occhi quasi neri in quelli appena più chiari del
ragazzo. «Sono
mesi
che parlo di questo concorso. Sono mesi
che discutiamo della possibilità di trasferirci a Lanzate.
Qual è
il problema?»
Lorenzo
allargò le braccia, come se il suo discorso lo lasciasse
senza
parole. «Secondo
te, qual
è il problema?»
la provocò, senza celare l'amarezza che trapelava dalle sue
parole.
«Non
saprei, forse il
fatto che io lavoro qui? E che, sempre qui, ho la mia famiglia e
tutti i miei amici?»
Anna
sentì la frustrazione bruciarle lo stomaco. «Ma
ne abbiamo già parlato!»
gemette, facendo del proprio meglio per non urlare e per non attirare
l'attenzione degli altri avventori del bar. «Non
ne abbiamo per caso già parlato? Quante volte abbiamo
discusso del
fatto che, se avessi superato il concorso e avessi ottenuto il posto
in ospedale, sarei dovuta tornare a Lanzate? Non dirmi che hai
rimosso tutto!»
Lorenzo
abbassò lo sguardo e deglutì un paio di volte, un
chiaro segnale
del fatto che si sentiva preso in contropiede. «Sì,
ma non pensavo che avremmo dovuto decidere così presto.»
Anna
aggrottò la fronte, confusa da quell'ammissione. Quando
comprese ciò
che il ragazzo voleva veramente dire, anche se in maniera un po'
velata, si sentì avvampare dalla rabbia. «Non
pensavi che avrei superato il concorso, vorrai dire»
sibilò, mentre un retrogusto amaro le riempiva la bocca.
«Mi
fa piacere sapere che hai così tanta fiducia nelle mie
capacità!»
Si interruppe brevemente, poi riprese: «O
forse addirittura speravi che
non lo superassi, quel concorso.»
«Questo
non è vero!»
ribatté Lorenzo, cercando lo sguardo di lei.
«So
che sei brava e intelligente e che hai tutte le possibilità
per fare
bene, però...»
«Però?»
lo incalzò Anna.
«Se
devo essere sincero, credo che tu non avresti nemmeno dovuto farlo,
quel concorso»
concluse lui, abbassando però gli occhi come se non
riuscisse più a
sostenere il peso di quelli della ragazza.
La
giovane rimase spiazzata e, per diversi secondi, non riuscì
a dar
voce ai pensieri che le vorticavano in testa. «Ma...
ma se sono disoccupata da due anni»
balbettò, prima di riprendere, con più vigore:
«Non
ce l'ho nemmeno mai avuto, un lavoro vero! Da quando mi sono
laureata, ho fatto... cosa ho fatto? La cameriera in un ristorante, e
un paio di volte la commessa sotto Natale.»
«Lo
so»
sbuffò Lorenzo. «Però sei giovane,
avresti avuto tutto il tempo di
trovarti un lavoro qui vicino. Non c'era nessun bisogno di andare a
cercarlo così lontano.»
«Non
sono poi così giovane» mormorò Anna di
rimando, mentre un brivido
d'ansia le serpeggiava nello stomaco. «Tra pochi mesi
compirò
ventinove anni e i trenta sono dietro l'angolo: chi diavolo
l'assumerebbe una trentenne senza esperienza?»
Lorenzo
esitò, poi si strinse nelle spalle. «Sono
sicuro che un lavoretto l'avresti comunque trovato»
mugugnò, evitando però di scendere nei dettagli.
«Un
lavoretto,
eh?» ringhiò Anna. «E come ci campo, con
un lavoretto?»
Quella
domanda parve pungere Lorenzo sul vivo. «Come se corressi il
rischio
di morire di fame!» ribatté, con voce
improvvisamente più dura.
«Ci
sono i tuoi che ti
mantengono e, soprattutto, ci sono io, che un lavoro ce l'ho: ed
è
anche un buon lavoro, che avrebbe potuto mantenere entrambi in
maniera dignitosa.»
Anna
lo osservò per qualche istante, chiedendosi se avesse
sentito bene.
«Lore...
non ho preso due
lauree per fare la casalinga: questo lo sai, vero?»
fece, riuscendo a stento a trattenere l'incredulità nella
voce.
Il
ragazzo chiuse forte gli occhi, come nel tentativo di riordinare le
idee. «Ma certo, lo so. Non ho mai detto che dovresti fare la
casalinga, ovviamente. Sto solo dicendo che avresti potuto trovare
una soluzione diversa.»
«...
che avremmo
potuto trovare una soluzione diversa» puntualizzò
la giovane. «La
decisione di partecipare al concorso in ospedale l'ho presa dopo
essermi confrontata con te.»
«Ah,
sì?» fece Lorenzo, ironico.
Anna
incrociò le braccia davanti al petto, senza più
curarsi di
nascondere l'irritazione che ormai doveva essere perfettamente
evidente anche agli occhi degli altri clienti del bar.
«Ovvio. Te ne
ho parlato, abbiamo valutato i pro e i contro e tu non mi hai mai
detto di non andare.»
«Non
volevo offenderti!» ribatté il ragazzo.
«Non volevo che pensassi
che volessi dirti quello che dovevi fare della tua vita!
Però ho
cercato di farti capire che questa non era la soluzione migliore per
il nostro futuro, per noi:
tu, però, non mi hai mai voluto ascoltare.»
Anna
fece per negare, per dire che non era vero, ma le parole le morirono
in gola. Lei lo sapeva, che Lorenzo non era felice del fatto che lei
se ne andasse tanto lontano alla ricerca di un lavoro. Lo sapeva
interpretare bene, quello sguardo da cucciolo sofferente, quella
tensione di fondo nella sua voce, quel suo tentativo di svicolare
ogni volta che lei sollevava l'argomento. Però non le aveva
mai
detto che non voleva che lei partisse, questo no. Ma
temo che in questo caso non valga la regola del silenzio-assenso,
riconobbe con una smorfia.
Sentendosi
improvvisamente sfinita, Anna si massaggiò gli occhi con i
polpastrelli per scacciare la tensione che sentiva crescere
all'interno della testa, preludio di un'imminente cefalea.
«Be',
ormai è tardi per cambiare idea. Avresti dovuto parlare
più
chiaramente: siamo due persone adulte, non puoi pretendere che io
interpreti quello che pensi, ma che non hai il coraggio di
dire.»
«Quindi
adesso sarei uno che non ha il coraggio di dire le cose come
stanno?»
sbottò Lorenzo, rivolgendole uno sguardo tradito.
«...
a volte, forse» ammise la ragazza. Non appena ebbe
pronunciato
quelle parole, provò una fitta dolorosa all'altezza del
petto, ma
non si rimangiò le parole. Perché
sono vere,
riconobbe, vedendo improvvisamente Lorenzo sotto una nuova luce.
Lui
rimase immobile per qualche secondo, boccheggiando come se non
riuscisse a trovare una risposta adeguata per ciò che la
giovane gli
aveva appena detto. «È questo quello che pensi,
eh?» fece, poi,
con una strana voce tesa. «E allora adesso te lo dico chiaro
e
tondo, quello che penso.»
Anna
si sentì improvvisamente messa all'angolo e un brivido di
preoccupazione le serpeggiò nello stomaco. Nonostante
ciò, sostenne
in silenzio lo sguardo del proprio fidanzato, invitandolo a
continuare.
«La
verità è che tu non mi ami»
dichiarò Lorenzo.
Davanti
a quella battuta così scontata, Anna non riuscì a
trattenere una
risata incredula e si coprì la bocca con una mano, cercando
di
capire se il ragazzo fosse serio o se avesse semplicemente voluto
fare un'uscita a effetto. «Come, scusa?» chiese,
quando vide che il
giovane non mutava espressione.
«Mi
hai sentito benissimo e non credo che ci sia nulla da ridere»
ribadì
Lorenzo, funereo. «Stiamo insieme da otto anni e il nostro
rapporto,
anziché evolversi, si è come accartocciato su se
stesso. Abbiamo
quasi trent'anni e ancora non abbiamo fatto nessuno
progresso.»
Per
qualche motivo, il cuore della ragazza prese a battere più
forte, ma
Anna scosse testardamente il capo. «Non è
vero» protestò.
«Stavamo parlando di andare a vivere insieme!»
«Stavamo,
appunto!»
sbottò Lorenzo. «Prima
che saltasse fuori questa storia del lavoro in ospedale e prima che
tu decidessi di trasferirti in un'altra regione!»
Anna
strinse nervosamente i pugni, cercando di dominare le proprie
emozioni. «Lo dici come se lo avessi fatto apposta: da come
la
metti, sembrerebbe che io sia andata a cercarmi un lavoro lontano per
non dovere stare con te.»
«Magari
non hai fatto apposta», replicò Lorenzo, dopo un
silenzio di
qualche istante, «però non ci hai pensato nemmeno
un secondo, prima
di accettare di trasferirti a Lanzate.»
«Non
ci ho pensato più di tanto perché so che questa
è un'occasione più
unica che rara» sbuffò la ragazza di rimando.
«Ho aspettato un
sacco di tempo di trovare un lavoro qui da queste parti. Ci ho
sperato, ma non è saltato fuori niente. Non posso
più permettermi
di aspettare.»
«Perché
il tuo lavoro è più importante di me,
giusto?» la incalzò il
giovane.
Anna
incrociò risolutamente le braccia davanti al petto.
«È altrettanto
importante» sbuffò. «E, in ogni caso, le
due cose non sono in
contrasto.»
Lorenzo
non trattenne un sorriso sarcastico. «Dimmi che non stai per
propormi una relazione a distanza.»
«No,
sto per proporti di iniziare a cercarti un lavoro vicino a
Lanzate»
ribatté lei. «Tu sei un maschio e sei ingegnere
meccanico: se mandi
un po' di curriculum, verrai praticamente sommerso dalle richieste di
lavoro.»
Il
ragazzo sgranò gli occhi. «Ma non se ne parla
proprio!» sbottò.
«Io un lavoro ce l'ho, e mi piace pure. Perché
dovrei lasciarlo per
trasferirmi dove dici tu?»
«E
perché io dovrei rinunciare a un lavoro che magari mi
piacerà per
restare dove dici tu?» ribatté lei.
«Che, tra l'altro, Lanzate è
il posto in cui sono cresciuta: ci sono pure affezionata.»
«Per
me, invece, non significa nulla»
fece Lorenzo, con il tono di chi intende chiudere una discussione.
«E
allora come la mettiamo?»
fece Anna, giocherellando nervosamente con l'ultimo rimasuglio di
birra. Lorenzo distolse lo sguardo, irrigidendo la mascella e
affondando i denti nella labbro inferiore. Sta
per fare una sparata,
realizzò la ragazza, con un pessimo presentimento. Lorenzo
non era
del tutto nuovo al fatto di porle degli aut-aut,
ma
la giovane intuì che quella volta sarebbe stato diverso.
«O
rinunci a partire, oppure ho bisogno di un po' di tempo per ripensare
alla nostra storia»
disse infatti il giovane, senza trovare il coraggio di guardarla
negli occhi.
Per
qualche istante, Anna ebbe l'impressione che la gola le si stringesse
a tal punto da non riuscire a respirare. Dopo il primo brevissimo
istante di panico e di confusione, la ragazza sentì montare
in sé
la rabbia: come osava
porla di fronte a una scelta del genere? Pensava davvero che un
ricatto avrebbe risolto la situazione?
Reclinandosi
lentamente sullo schienale, la giovane fece scorrere lo sguardo su
Lorenzo. Bello era bello, c'era poco da dire. Si ricordava ancora
quando, nove anni prima, l'aveva visto per la prima volta, mentre
giocava a basket insieme al ragazzo di quella che al tempo era la sua
migliore amica. Era alto, agile come un gatto e con le spalle larghe
malgrado i suoi diciott'anni scarsi. Dalla sua posizione sugli
spalti, Anna l'aveva studiato, cercando di convincersi che era solo
un ragazzino: del resto, aveva un anno in meno di lei. Però
l'aveva
seguito per tutta la partita, scoprendosi incantata dal gioco dei
muscoli delle sue braccia e dal gesto con cui si scostava dagli occhi
i capelli scuri e un po' lunghi. Poi, quando la partita era finita,
il ragazzo della sua amica si era avvicinato a loro e, per qualche
motivo, Lorenzo l'aveva seguito. Era stato così che si erano
conosciuti ed era stato da allora che avevano preso a frequentarsi,
anche se, prima di scambiarsi un bacio, avevano aspettato un anno.
Adesso
era cresciuto – com'era cresciuta lei – ed era
diventato un uomo,
si era lasciato crescere una barba corta e curata e il lavoro al
computer gli aveva regalato un paio di occhiali dalla montatura nera
che non faceva altro che accrescere il suo fascino: ogni volta che lo
guardava, Anna si stupiva di quanto fosse bello.
Ma
la bellezza non è tutto,
pensò, sentendosi stranamente distaccata dal proprio corpo.
Dopo
essersi versata in bocca l'ultimo sorso di birra ormai calda, Anna
posò il bicchiere sul tavolo, avendo cura di piazzarlo al
centro
esatto del sottobicchiere di cartone. Poi spinse indietro la sedia e
si alzò, guardando il volto di Lorenzo senza però
vederlo
veramente.
«Ti
avevo già avvertito: se c'è una cosa che proprio
mi fa incazzare,
sono i ricatti» disse, con una voce controllata che
stupì lei per
prima. «Tu pensaci pure, se vuoi. Io una decisione l'ho
già presa:
parto.» Così dicendo, la ragazza si
alzò in piedi e si sistemò in
spalla la borsetta di pelle chiara. «Ah, un'ultima cosa.
Quando ci
avrai pensato, non prenderti il disturbo di farmi avere la risposta:
non mi interessa.»
Sul
volto di Lorenzo passò un'espressione allarmata, come se il
giovane
si fosse reso conto solo in quell'istante di essersi spinto troppo in
là. «No, Anna! Aspetta un attimo»
balbettò, facendo come per
alzarsi a sua volta.
«Vai
al diavolo» mormorò lei, riuscendo finalmente a
infilare un po' di
sdegno nella voce. Senza dedicargli un'altra occhiata, Anna
girò sui
tacchi e si avviò a passi veloci verso l'uscita del bar nel
quale
aveva trascorso innumerevoli serate, ignorando le occhiate curiose e
un po' imbarazzate degli altri avventori.
Quando
si trovò fuori, sotto ai pallidi raggi della luna di
settembre, la
giovane si accorse di essersene andata senza avere pagato il conto.
Eh, pazienza, si disse, stringendosi nelle spalle. Che
la
paghi Lorenzo.
Cinque
minuti più tardi, seduta al volante della sua Fiat Panda
giallo
canarino, Anna si immobilizzò nell'atto di infilare le
chiavi nel
quadro: aveva appena lasciato il ragazzo con cui si frequentava da
sette anni, comprese, e non aveva praticamente provato nulla.
(1)
– Il paese di Lanzate non esiste. Nella mia testa
è una
cittadina di medie dimensioni, un paesotto senza infamia e senza lode
che offre ai suoi abitanti una vita tranquilla e un po' noiosa. Ho
scelto di ambientare la storia in un luogo immaginario così
che
ognuno sia libero di darle la collocazione geografica che meglio
crede, nei limiti di quello che andrò a descrivere.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo Due ***
Cinque
settimane dopo
Appoggiata
a braccia incrociate contro la sua cucina nuova di zecca, Anna
guardava Paolo, il compagno di sua madre, e suo figlio Francesco che
trasportavano un ingombrante materasso matrimoniale.
«Da
che parte hai detto che è la camera, Annina?»
chiese Paolo, con il volto scarlatto a causa della fatica. « A
sinistra?»
«No,
a destra!»
ripeté per l'ennesima volta la ragazza, allungando un
braccio per
indicare la direzione corretta.
Paolo
era semplicemente adorabile. Sebbene non fosse particolarmente dotato
per i lavori manuali – era un mite professore che insegnava
scienze
naturali al liceo – non perdeva occasione di cimentarvisi con
grande entusiasmo, ridendo dei propri insuccessi e senza mai
lasciarsi abbattere da essi. Anna l'aveva conosciuto a dieci anni e
sulle prime era stata cautamente sospettosa nei suoi confronti. Suo
padre se n'era andato tre anni prima, abbandonando moglie e
figlioletta per inseguire una giovane russa e lasciando nel cuore
della bambina un buco a forma di papà e una certa
ostilità nei
confronti di tutto ciò che apparteneva al mondo slavo.
Quando
Daniela, la madre di Anna, con la scusa di mangiare una pizza, le
aveva presentato quell'uomo strano, più vecchio della mamma
e per
giunta accompagnato da un adolescente dalla pelle butterata
dall'acne, la bambina si era sentita quasi tradita. Del resto, si
erano appena trasferite in una città nuova e lontana,
lasciandosi
alle spalle l'amata Lanzate, e Anna non poteva fare a meno di pensare
che quell'ometto con gli occhiali tondi avesse qualcosa a che fare
con quel cambio di casa improvviso.
Ma
Paolo si era dimostrato estremamente paziente, con una dolcezza che a
Daniela mancava e con un certo savoir
faire con
i bambini e l'antipatia di Anna nei suoi confronti aveva avuto vita
breve: non era il suo papà, ma era qualcosa di molto simile
e lei se
lo sarebbe fatto andar bene comunque. E anche Francesco non era poi
tanto male, una volta superato il sospetto reciproco: non avevano
passato tanti anni insieme sotto lo stesso tetto, perché il
ragazzo
aveva frequentato l'università a Roma ed era tornato a casa
con una
ragazza che era presto diventata sua moglie, ma lui e Anna erano
tutto sommato in buoni rapporti. La ragazza era poi particolarmente
affezionata a Giulio ed Enea, i bambini di Francesco. Mi
mancheranno i miei due monelli,
pensò tristemente la ragazza, pensando con nostalgia ai due
nipotini
che ora avrebbe visto molto più raramente di prima.
«Et
voilà! Il
letto è sistemato!»
La
voce di Paolo la riscosse da quei pensieri e Anna
trotterellò verso
la sua nuova camera da letto, osservando l'opera completa con una
certa soddisfazione.
«Qui
ci devi mettere delle tende belle spesse, Annina»
le disse Francesco, indicando la grande finestra che illuminava la
stanza. «Non puoi lasciarle così: dalla strada si
vede tutto.»
«Sì,
certo» annuì lei, raggiungendo il fratellastro e
sbirciando nella
stessa direzione in cui stava guardando lui. In effetti, tra la sua
finestra e la strada c'era solamente il vialetto condominiale
circondato da un pezzo di prato e il suo appartamento era al piano
terra. «Anche
se non credo
proprio che qualcuno sia interessato a scoprire di che colore sono le
mie mutande.»
«Non
si sa mai»
ridacchiò Francesco, cingendole le spalle con un braccio e
attirandola contro il proprio fianco. «Il
mondo è pieno di maniaci e tu sei qui, sola soletta...»
Anna
rise e si liberò dalla stretta dell'uomo. «Questo
è un posto tranquilla, e comunque non sono esattamente sola:
la zia
Clara abita a cinque minuti da qui, sai?»
gli fece notare, alludendo alla sorella della madre che l'aveva
ospitata in attesa che l'appartamento che aveva preso in affitto
fosse pronto.
Francesco
sospirò teatralmente. «Lo
so, ma
tu non sei abituata a stare da sola, povera piccola...»
Evitando
di commentare, Anna levò gli occhi al cielo e si
allontanò dalla
finestra, scrollando il capo con un sorriso ironico dipinto sulle
labbra. La verità era che, da quando lei e Lorenzo non
stavano più
insieme, la sua famiglia aveva preso la pessima abitudine di fare
domande e commenti apparentemente casuali, ma che avevano lo scopo di
sondare il terreno e verificare se la loro piccola Anna stesse
soffrendo a causa della separazione.
Se
solo si decidessero a chiedermelo una volta per tutte, potrei dirgli
che no, non sto per cadere in depressione per colpa di Lorenzo,
pensò la ragazza, dirigendosi nuovamente verso la cucina.
Anche se
non le sembrava il caso di sollevare lei stessa l'argomento –
più
che altro per evitare di dargli più importanza di quanta le
sembrava
che meritasse – Anna avrebbe voluto gridare a tutti che stava
bene
e che non c'era alcun bisogno che si preoccupassero per lei. Certo, i
primi tempi non erano stati facilissimi: Lorenzo l'aveva tempestata
di telefonate – a cui lei non aveva mai risposto –
e poi era
passato ai messaggi, senza lasciarsi scoraggiare dal fatto che Anna
li cancellava senza nemmeno leggerli. La totale mancanza di reazioni
aveva però richiesto un certo impegno da parte sua: anche se
quella
sera al bar se n'era andata senza voltarsi nemmeno una volta, otto
anni di relazione non si potevano cancellare in poche decine di
giorni. Anche perché, se doveva essere perfettamente onesta
con sé
stessa, la ragazza non era del tutto sicura che la colpa della fine
della loro storia fosse interamente da attribuire a Lorenzo. Anche
lei, forse, aveva commesso degli errori che avevano condotto al
triste epilogo.
Anna
aveva però stretto i denti e aveva sfiorato il tasto rosso
ogni
volta che il nome del suo ex ragazzo era comparso sullo schermo, e
aveva eliminato ogni singolo messaggio di WhatsApp. Del resto, non
era cambiato nulla dal giorno in cui aveva deciso di lasciarlo e di
rifarsi una nuova vita a duecento chilometri da lui. Se anche avesse
pensato di aver preso la decisione sbagliata, Anna sarebbe stata
troppo orgogliosa per ritornare sui propri passi: in ogni caso, poi,
la giovane era convinta che la sua scelta fosse corretta, anche se,
forse, avrebbe potuto rivedere qualcosa nel modo in cui si era svolta
la sua ultima conversazione con Lorenzo.
Poi,
quando era stata sul punto di bloccare il suo numero, il ragazzo
aveva improvvisamente smesso di cercarla. Da un giorno all'altro
erano cessate le telefonate e non era arrivato più nessun
messaggio.
Anna si era quasi preoccupata, temendo che gli fosse successo
qualcosa: i pochi amici che lo conoscevano, però, le avevano
fatto
sapere che Lorenzo godeva di ottima salute e che non aveva cambiato
nulla nella propria vita. Semplicemente, si era stancato di cercarla
e aveva deciso di passare oltre.
Anche
in quel momento, quand'erano ormai passate più di due
settimane
dall'ultima volta che Lorenzo aveva cercato di contattarla, Anna non
sapeva bene come prendere quello sviluppo: se da un lato si sentiva
sollevata, come se avesse chiuso definitivamente una parte della
propria vita e fosse quindi pronta ad andare avanti, dall'altro
avvertiva un pizzico di delusione. Possibile che il ragazzo si fosse
già dimenticato di lei?
Il
suono deciso del citofono la fece sobbalzare e la costrinse a
riscuotersi da quei pensieri. «Sì?»
chiese, dopo aver armeggiato
brevemente attorno al pannello elettronico per capire quale fosse il
pulsante da premere per avviare la conversazione. «Chi
è?»
«La
mamma! Apri, che mi si stanno staccando le braccia!»
Una
manciata di secondi più tardi, Daniela fece irruzione
nell'appartamento, tenendo in mano i trasportini che contenevano
Calliope e Cassandra, le due gatte di Anna. «Uff»
sbuffò la donna.
«Stanno diventando pesanti: sei sicura che non le stai
nutrendo
troppo?»
Posando
le due gabbiette a terra, Daniela si passò le mani tra i
capelli,
come per riprendere fiato. Anna sorrise: arrivata ai sessant'anni,
sua madre aveva deciso di liberarsi dalla schiavitù della
tinta e
aveva lasciato che i suoi capelli crescessero del loro naturale color
grigio argentato. Li aveva tagliati corti e le ciocche più
lunghe
misuravano solo un paio di centimetri. Complici la sua corporatura
minuta e i brillanti occhi scuri, che la figlia aveva ereditato, la
donna aveva l'aspetto di un folletto.
«Non
sono grasse» rispose Anna, chinandosi per liberare le
bestiole.
Cassandra, nera come la notte e dolce come il miele, prese subito a
strusciarsi sulle sue gambe ronfando come un motorino, mentre
Calliope, di natura più schiva e indipendente,
evitò le carezze
della ragazza con un passetto laterale. Dopo aver esaminato con una
rapida occhiata di sufficienza quella che sarebbe stata la sua nuova
casa, balzò sul divano, apprestandosi a cospargerlo di peli
bianchi,
neri e rossi.
«Calli!»
la riprese Anna. «Non sul divano, che è nuovo! Ci
devo ancora
mettere la coperta!»
Richiamato
dall'esclamazione della sorellastra, Francesco sbucò dalla
camera da
letto dove, in compagnia del padre, stava sistemando le ultime cose.
«Oh, sono arrivate le bestie di Satana»
commentò serafico l'uomo,
che ai gatti aveva sempre preferito i cani. «Loro non mi
mancheranno.»
«E
tu non mancherai a loro» ribatté con sussiego
Anna, chinandosi per
grattare le orecchie di Cassandra.
«Questo
è certo. Quella tricolore ha cercato di uccidermi un paio di
volte,
lo sai?» sghignazzò lui, lanciando un'occhiata di
sfida a Calliope,
che ancora si aggirava ai piedi del divano. «A proposito, hai
dato
un'occhiata al giardino dei tuoi vicini di casa?»
Aggrottando
la fronte, Anna scosse il capo. «No, non ho ancora avuto
tempo.
Perché?»
Francesco
si strinse nelle spalle. «Mah, ho visto che in giardino
c'è una
ciotola. A giudicare dalla dimensione, deve appartenere a un cane, e
anche bello grosso: stai attenta che le gatte non gironzolino al di
là della recinzione.»
Con
una punta di allarme, la ragazza si avvicinò alla finestra
della
cucina e sbirciò in direzione del giardino dei vicini,
cercando di
individuare la ciotola incriminata. L'angolo era però tale
che Anna
non vide altro che un innocente segmento di prato dall'aria curata.
«Be', non avevo comunque intenzione di farle uscire quando io
non
sono nei paraggi: la strada qui dietro non è molto
trafficata, ma
qualche auto ci passa comunque. E la rete della recinzione è
stretta, non credo che le gatte riescano a passarci
attraverso.»
In
ogni caso, pensò Anna, sarebbe presto andata a conoscere i
vicini.
Innanzitutto perché non li aveva ancora né visti
né sentiti e
voleva farsi un'idea di che persone vivessero attorno a lei, e poi
perché voleva giudicare personalmente la
pericolosità
dell'ipotetico cane che, secondo Francesco, risiedeva nel giardino
accanto. Speriamo che non sia del tipo che abbaia notte e
giorno,
considerò, temendo già che le sue notti sarebbero
state disturbate
da un latrare incessante.
«Dove
le metto, le ciotole?» chiese Daniela, sventolando i due
piattini –
rosa per Cassandra e verde per Calliope – in cui le due gatte
erano
solite mangiare.
«Lasciale
davanti al frigorifero» replicò distrattamente
Anna, recuperando
poi i vari giochini delle gatte e depositandoli nell'apposito cestone
che aveva predisposto accanto al divano.
«I
cartoni vuoti, invece, dove li butto?» chiese ancora Daniela.
Anna
soppesò con lo sguardo i due ingombranti scatoloni vuoti che
sua
madre teneva tra le mani, poi allungò le braccia per
prenderli.
«Dammeli, va': vado a buttarli in strada, che qua
ingombrano.»
Bilanciando
davanti a sé i due scatoloni, la ragazza raggiunse il
cancello che
separava la strada dal vialetto dalle quattro villette bifamiliari
nella quale si trovava il trilocale che aveva preso in affitto.
Dunque, pensò, guardandosi attorno, la
tizia dell'agenzia
mi ha detto che la carta e il cartone li ritirano il lunedì
mattina,
quindi domani. Se non ricordo male, dovrebbe esserci una specie di
piazzola sulla destra.
Seguendo
per qualche metro il muro di cinta, Anna si trovò
effettivamente
davanti a una sorta di nicchia nella quale qualcuno aveva
già
sistemato un sacco di plastica viola. Ecco fatto!
Pensò, con
una certa soddisfazione. Per quanto strano potesse sembrare, Anna
amava pulire, riordinare ed eliminare tutto ciò che riteneva
inutile
e superfluo: aveva una vera e propria avversione per il disordine e
lo sporco e gli unici corpi estranei che tollerava erano i peli delle
sue gatte.
Ruotando
sui tacchi, la giovane fece per dirigersi nuovamente verso il
l'appartamento, quando con la coda dell'occhio scorse qualcosa che la
fece tornare sui propri passi. Ma tu guarda come ha
parcheggiato,
'sto cretino!
Con
passi lenti, Anna si avvicinò con circospezione al suo
piccolo Panda
giallo, parcheggiato ordinatamente nell'ultimo della serie di posti
auto ad uso dei condomini. Nello spazio immediatamente a destra
rispetto al suo c'era un mostruoso SUV nero. Sarà
grosso almeno
il doppio del mio povero Pandino, costatò la
ragazza, guardando
con disprezzo la sfavillante Audi Q5. L'autista non si era premurato
di parcheggiarla all'interno delle righe gialle o, meglio: il muso
del SUV era posizionato correttamente, ma la parte posteriore
sporgeva di molto e, di fatto, bloccava l'uscita al Panda di Anna.
Come
diavolo dovrei fare ad andare al lavoro, domani mattina? Di qua
c'è
il marciapiede e di là c'è il culo di quella
specie di
transatlantico! Pensò
la ragazza, indispettita. Mi
avrà lasciato sì e no un metro e mezzo di spazio,
'sto cafone. Se
non fosse che ci tengo, alla mia macchinetta, sarebbe da ammaccargli
tutta la fiancata con una bella retro!
Stringendo
e rilassando ritmicamente i pugni, Anna meditò sul da farsi.
Il
primo istinto era stato quello di suonare a tutti i campanelli dei
vicini per trovare il colpevole del parcheggio selvaggio ed esigere
che il SUV venisse posteggiato correttamente, ma poi la ragazza
rinunciò a quel proposito: non era certo il modo migliore
per fare
conoscenza con il vicinato e poi, chissà, magari l'auto non
apparteneva nemmeno alle persone che abitavano lì. Era pur
sempre
domenica e, sebbene quelli fossero dei parcheggi privati, Anna
sospettava che venissero utilizzati anche dagli escursionisti che li
usavano come base di partenza per esplorare le montagne che si
ergevano ripide alle spalle dell'appartamento che aveva preso in
affitto.
Con
un po' di fortuna, domani l'avranno spostato,
ragionò la giovane, lanciando un ultimo sguardo di odio alla
vettura
e incamminandosi verso casa. In fin dei conti, lei iniziava a
lavorare piuttosto tardi e c'erano buone possibilità che il
proprietario – o la proprietaria – del SUV se ne
andasse prima.
Quando
rientrò in casa fu accolta dalle occhiate interrogative dei
suoi
famigliari. «Che fine avevi fatto?» le chiese Paolo.
La
ragazza scrollò le spalle. «Stavo vedendo che
qualche genio con
l'Audi mi ha praticamente chiusa nel parcheggio: se non levano quella
macchina, domani mattina non so proprio come farò ad andare
all'Ospedale.»
Francesco
le rivolse un sorriso furbo. «Un'Audi, eh?»
ripeté. «Che tipo di
Audi? Dici che riusciamo a rimorchiarla con il pick-up? Se vuoi la
spostiamo a forza, così imparano a parcheggiarla alla
cazzo...»
«Mah,
è una specie di fuoristrada... insomma, un SUV»
replicò Anna.
Il
giovane emise un suono di disappunto. «Ah, allora no: rischia
di
pesare di più quella macchina inutile, rispetto al nostro
pick-up.»
Anna
ammiccò nella sua direzione. «Oh, non
preoccuparti: vedi che, in un
modo o nell'altro, gliela faccio spostare.»
«E
su questo punto non abbiamo nessun dubbio»
commentò serafica
Daniela.
La
ragazza le rispose con un sorriso divertito. Quella nuova vita da
single e da adulta indipendente portava con sé parecchie
incognite,
ma di una cosa Anna era certa: non aveva intenzione di lasciarsi
mettere i piedi in testa da nessuno.
♥♥♥
Ehi,
tu, lettore di EFP che passi in silenzio e non lasci traccia della
tua visita: sappi che io ti vedo. Che ne dici di lasciarmi un
commentino, già che ci sei?
|
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Capitolo 3 *** Capitolo Tre ***
La
mattina seguente, Anna marciò decisa verso la propria auto.
Le bastò
allontanarsi di pochi metri dal cancelletto della sua abitazione per
iniziare a fremere di rabbia. È ancora
lì! Pensò furiosa,
scorgendo l'imponente sagoma nera dell'Audi che sovrastava quella
più
piccola e colorata del suo Panda.
Quando
raggiunse la portiera, la ragazza controllò nervosamente
l'ora
sbirciando il quadrante dell'orologio che portava al polso sinistro.
Nel giro di venti minuti avrebbe dovuto essere al lavoro: il percorso
in macchina richiedeva all'incirca dieci minuti, il che significava
che ne aveva altrettanti per trovare il proprietario del SUV,
insultarlo e costringerlo a spostare quel bestione da lì.
Cosa
faccio?
Si chiese Anna, mentre le mani iniziavano a pruderle dal nervosismo.
Doveva iniziare a suonare un campanello dopo l'altro, sperando che il
proprietario dell'Audi non risiedesse proprio nell'ultima casa a cui
avrebbe bussato? Così
arrivo in ritardo di sicuro!
Forse
avrebbe potuto suonare a un solo campanello, chiedendo alla persona
che le avrebbe aperto di indicarle il colpevole. Ma se mi
ignorassero? Non sono ancora le otto: e se le persone che sono ancora
in casa stessero dormendo? Ci potrebbe volere un sacco di tempo!
La
ragazza rimase immobile per qualche istante, ragionando sul da farsi.
Sì, non c'era che una soluzione: non era elegante e
probabilmente le
avrebbe attirato qualche antipatia, ma non poteva davvero rischiare
di arrivare in ritardo già la seconda settimana di lavoro.
Aprendo
di scatto la portiera, Anna scivolò sul sedile dal lato del
conducente e impugnò saldamente il volante, chiedendosi per
l'ultima
volta se fosse davvero il caso di affrontare la questione di petto.
Eh, sì! Mi dispiace, ma questa cosa va risolta.
Il
clacson risuonò nella via silenziosa; un urlo che, nella
quiete del
mattino, alle orecchie di Anna parve assordante. La ragazza
interruppe il suono per qualche secondo, poi premette nuovamente sul
volante: una, due, tre volte, ogni volta lasciando che la pressione
durasse un po' più a lungo.
E
che cazzo! Pensò,
mentre la rabbia e la frustrazione le serravano la gola. È
possibile che stiano veramente dormendo tutti? Sono sordi o cosa?
Quando
stava per suonare una quinta volta, la porta della casetta singola
davanti alla quale era parcheggiato il Panda si aprì,
lasciando
intravvedere il volto arrossato di una donna sulla sessantina.
Giudicando dal pigiama a fiori che indossava e dal golfino che si era
gettata in qualche maniera sulle spalle, Anna giudicò che
dovesse
trattarsi di una casalinga.
Soddisfatta
dal fatto di essere riuscita ad attirare l'attenzione di qualcuno e
appena leggermente imbarazzata dal modo in cui era riuscita a
ottenere quel risultato, la ragazza balzò giù
dall'auto,
sistemandosi meglio la scollatura del vestito, che tendeva sempre a
scendere un po' più del dovuto. «Mi scusi,
eh!» esclamò,
avvicinandosi alla donna. «Sa di chi è questa
macchina? È
parcheggiata male e io non riesco a uscire!»
La
donna aggrottò la fronte e si strinse il maglioncino sulle
spalle
per proteggersi dall'aria frizzante di inizio ottobre.
«È del...»
la donna si interruppe, fissandola in volto come se l'avesse appena
messa a fuoco. «Scusami, ma tu chi sei? Abiti da queste
parti?»
Sofia
annuì, fermandosi a pochi passi dall'uscio sul quale si
trovava la
casalinga. «Sì, mi chiamo Anna: ho appena preso in
affitto uno
degli appartamenti al numero cinque» spiegò.
«Mi scusi se mi sono
attaccata al clacson, ma tra un quarto d'ora devo essere al lavoro e
non riesco proprio a passare... bisogna essere proprio dei somari,
per parcheggiare così!»
La
donna la guardò con aria comprensiva. «Eh, quello
fa sempre così,
sai? Come si dice? A posto lui, a posto tutti!»
«Ah,
perfetto!» borbottò Anna. «E chi
sarebbe, 'sto genio? Gliela
faccio spostare io, la macchina.»
La
casalinga le rivolse un sorrisetto che alla ragazza parve quasi di
compassione e si sistemò dietro a un orecchio una ciocca di
scarmigliati ricci biondi. «Guarda, abita proprio di fianco a
te:
sta anche lui al numero cinque. Di cognome fa Čumak, o come diavolo
si pronuncia.»
«Co...
come?» balbettò Anna, confusa dal suono articolato
dalla donna.
La
donna si strinse nelle spalle. «Čumak»
ripeté. «Non so dirti
come si scrive, ma basta che scorri i campanelli: è l'unico
con un
nome non italiano. Credo che venga dall'est.»
Se
possibile, Anna sentì l'antipatia nei confronti del
proprietario
dell'Audi crescere ancora di più. Un russo del
cazzo! Pensò,
tremando quasi dall'indignazione. Me lo sentivo! Facendo
un
respiro profondo, la ragazza rivolse un cenno di ringraziamento alla
sua vicina di casa. «Grazie mille, signora...?»
«...
Aurelia» le venne in aiuto la donna.
«...
Signora Aurelia» ripeté Anna con un cenno del
capo. «E mi scusi
di nuovo per il disturbo.» Dopo aver salutato con un cenno
della
mano la vicina di casa, la ragazza controllò di nuovo l'ora.
Ah,
merda! Constatò con una punta di desolazione. Dovrei
essere
in ospedale tra meno di quindici minuti. Ormai è matematico:
arriverò in ritardo.
Rassegnata,
pescò il cellulare dalla borsetta che portava sulla spalla
destra e
digitò rapidamente un messaggio che poi inviò a
Giulia, la sua
responsabile, nel quale spiegava che aveva un problema con l'auto e
che sarebbe arrivata un po' più tardi. Per tutelarsi
ulteriormente,
scattò una foto alle due automobili, documentando
così la causa
evidente del suo inevitabile ritardo.
Se
mi fanno il culo per colpa sua, giuro che, quando torno, gli buco
tutte le gomme! Pensò inviperita. A onor del vero,
Giulia era
piuttosto accomodante e non era certo una stacanovista, considerate
tutte le pause caffè che faceva nel corso della mattinata,
ma Anna
era comunque a disagio per il fatto di essere in ritardo. Non
so
nemmeno se lo devo recuperare in qualche modo...
Con
passo sicuro, la giovane raggiunse di nuovo il cancello del numero
cinque e si fermò davanti alla colonnina dei citofoni. Le
etichette
che riportavano i nomi delle famiglie che abitavano nelle villette
erano retroilluminate da una tenue luce blu e Anna le studiò
con
cura, notando, tra le altre cose, che quella corrispondente al suo
appartamento era l'unica a essere rimasta in bianco.
Eccolo
qui, pensò la ragazza, individuando rapidamente
l'unico nome
esotico. Oleksander Čumak.
Inspirando
profondamente per calmarsi almeno un po', Anna premette l'indice sul
campanello, esercitando più pressione di quanto non fosse
strettamente necessario. Stronzo, pensò,
prima di rilasciare
il pulsante.
La
risposta non tardò ad arrivare.
«Sì?» chiese alcuni secondi dopo
una voce maschile. Anna si rese conto solo in quell'istante che il
campanello era dotato di una telecamera e che probabilmente l'uomo
poteva vederla così com'era, con le guance arrossate, i
capelli
scarmigliati e gli occhiali storti. Ma chi se ne frega,
pensò,
puntando gli occhi direttamente nel riquadro della telecamera.
«Lei
è il Signor Čumak?» chiese, per accertarsi che il
suo
interlocutore fosse realmente chi credeva lei.
«Sì»
ripeté l'uomo e, questa volta, ad Anna parve che quella
singola
sillaba avesse in sé un certo tono di sufficienza.
Oh,
benissimo, pensò la ragazza, prendendo fiato.
Aveva
l'impressione di essersi appena gonfiata come un palloncino pronto a
esplodere. «Senta un po'!» sbottò.
«Ha parcheggiato la sua
macchina direttamente dietro alla mia e io non riesco a uscire. Devo
andare al lavoro e sono già in ritardo: venga fuori a
spostarla,
cortesemente!» gli ordinò, in tono tutt'altro che
cortese.
«Io
non ho parcheggiato dietro a nessuno» ribatté dopo
qualche secondo
la voce – e adesso sì, che Anna riusciva a
cogliere in essa un
accento dell'est. «Ho parcheggiato correttamente nel
parcheggio
riservato ai condomini: se lei non è in grado di fare una
retro, non
è un problema mio.»
Con
quelle parole, l'uomo chiuse la conversazione e la ragazza rimase a
fissare il citofono allibita, incapace di muoversi per diversi
secondi. Quando si fu ripresa dalla sorpresa, fece per sollevare una
mano e premere nuovamente il pulsante del citofono, ma poi ebbe
un'idea migliore.
Ha
parlato di “parcheggio riservato ai condomini”, rifletté,
con le guance che avvampavano per l'indignazione. Scommetto
che
pensa che sono una che passa di qui per caso e che può
ignorarmi
semplicemente rifiutandosi di aprirmi la porta. Ma si sbaglia: oh, se
si sbaglia!
Estraendo
dalla borsetta le chiavi di casa, Anna aprì il cancelletto e
poi
indugiò brevemente sul vialetto, facendo due calcoli. Il
primo
campanello è quello della famiglia Rocca,
considerò. Sono
quelli che mi hanno salutata la prima volta che sono venuta a vedere
la casa con la tipa dell'agenzia. Loro abitano nella prima villetta,
al piano terra. Io abito al piano terra della terza villetta, e
infatti il mio campanello è il quinto. Quello del
disgraziato
dell'Audi è il settimo, quindi...
Con
un sorriso di trionfo, Anna marciò verso la quarta e ultima
villetta, puntando direttamente all'appartamento al piano terra.
Siamo proprio vicini di casa, pensò, con
un misto di sadismo
e angoscia. Tra l'altro, ricordò all'improvviso, se
Francesco ci
aveva visto giusto, il giorno prima, quel tipo era anche il
proprietario del cane che avrebbe ipoteticamente potuto insidiare
Cassandra e Calliope. Di bene in meglio, si disse,
stringendo
bellicosamente i denti.
Raggiunta
la porta dall'aspetto ordinario, preceduta da uno zerbino altrettanto
anonimo, Anna suonò il campanello, avendo cura di farlo
squillare
per una decina di secondi. Dall'interno dell'appartamento giunse un
suono di passi e pochi istanti più tardi la porta si
aprì
bruscamente. La ragazza dovette alzare di parecchio lo sguardo per
incontrare per incontrare quello di un uomo sulla trentina,
più alto
di lei di qualche decina di centimetri. A giudicare dai capelli
spettinati, di un castano chiaro tendente al biondo, doveva essersi
svegliato da poco: indossava infatti quelli che sembravano dei
pantaloni della tuta troppo larghi per il suo corpo magro e anche la
maglietta, di un rosso sbiadito, doveva aver visto tempi migliori.
Gli occhi dell'uomo, dal taglio allungato e di un gelido
grigio-azzurro, si puntarono in quelli neri di Anna e la ragazza
pensò che non aveva mai visto uno sguardo tanto ostile.
Intuendo
che stava per dirle qualcosa, la giovane decise di attaccare per
prima. «Come stavo dicendo», scandì,
portandosi le mani sui
fianchi, «la tua macchina è
dietro alla mia. L'hai
parcheggiata tutta storta e io non riesco a uscire: levala.»
Considerata la scarsa differenza di età tra lei e il
proprietario
dell'Audi, Anna abbandonò il lei di cortesia e
passò a un registro
più incisivo.
Lui
si passò stancamente una mano sul viso dai tratti sottili, a
loro
modo eleganti, sfiorando poi la mascella coperta da un leggerissimo
strato di barba non rasata. «Come sei entrata?» le
chiese, in tono
apertamente ostile.
Anna
sfoderò un gran sorriso e gli fece penzolare davanti al naso
un
mazzo di chiavi. «Siamo vicini di casa»
spiegò, falsamente
affabile. «Abito proprio lì»
precisò, puntando un dito contro la
porta del proprio appartamento, che si intravvedeva oltre alla
recinzione che separava i due giardini e il gelsomino che la
ricopriva.
«E
da quando?» insistette l'uomo, scrutandola da capo a piedi
con i
suoi occhi glaciali.
«Da
ieri» replicò prontamente lei. «Ma non
è questo il punto. Il
punto è che...» Anna si interruppe, accorgendosi
che lo sguardo del
giovane era sceso più in basso e non accennava a risalire.
Seguendo
la traiettoria dei suoi occhi, si accorse con orrore che la
scollatura dell'abito era di nuovo scivolata giù, esponendo
la parte
superiore del reggiseno blu che indossava quel giorno.
Giuro
che lo brucio, questo vestito!
Pensò la ragazza, avvampando e strattonando malamente la
stoffa
arancione per rendersi nuovamente presentabile. Poi lanciò
un'occhiata omicida al suo vicino di casa, sfidandolo a commentare il
fatto. Quello le rivolse un sorrisetto sarcastico e si
infilò le
mani in tasca, appoggiandosi mollemente allo stipite della porta.
«Senti
un po'!» ringhiò Anna, puntandogli le chiavi
contro il petto, quasi
fossero un'arma. «Mi hai già fatto perdere fin
troppo tempo: a
quest'ora dovrei essere in ufficio e non qui a discutere con te. O
sposti la macchina e mi lasci uscire, oppure chiamo i
carabinieri!»
In realtà, non era affatto certa che le forze dell'ordine
sarebbero
accorse a liberarla, ma confidava nel fatto che nemmeno il suo
interlocutore fosse particolarmente ferrato in tema di codice della
strada.
Raddrizzandosi
con un colpo di spalla, l'uomo allungò il collo, come nel
tentativo
di dare un'occhiata al parcheggio. «Ho parcheggiato proprio
così
male?» le chiese, guardandola con aria di sufficienza.
«Giudica
tu stesso» sbuffò Anna, allungando lo schermo
dello smartphone
verso il suo viso e invitandolo a guardare la foto che aveva scattato
poco prima.
«Mh»
commentò con aria criptica l'uomo. «Dalla foto non
si capisce»
decretò, allontanandosi dalla porta e rientrando
nell'appartamento.
«Ehi!»
lo richiamò Anna, resistendo a stento alla tentazione di
seguirlo.
«Dove stai andando?»
«A
mettermi un paio di scarpe» le rispose la voce di lui.
Ah,
pensò la ragazza, appena un po' rabbonita. Ferma sull'uscio,
cercò
di sbirciare all'interno dell'abitazione nel tentativo di individuare
qualcosa che rivelasse una presenza canina, ma non trovò
nulla.
Pochi
istanti più tardi, l'uomo tornò alla porta: era
vestito esattamente
come prima, con l'unica eccezione che ora indossava un paio di scarpe
da ginnastica. In mano reggeva un paio di chiavi con un portachiavi
di pelle. «Andiamo a vedere, allora» le disse,
guardandola
dall'alto al basso. «Sono sicuro che stai
esagerando.»
Senza
aspettare la risposta della giovane, la superò, si chiuse la
porta
alle spalle e poi si diresse verso il cancello che dava sulla strada.
Anna gli trotterellò dietro, squadrandolo con antipatia. Ma
non avrà freddo, in maglietta?
Si chiese distrattamente, stringendosi addosso la giacchetta di pelle
che aveva indossato per proteggersi dai primi freddi dell'autunno.
L'uomo
camminava rapidamente e, quando Anna raggiunse il parcheggio, lui era
già lì, che osservava le due automobili con le
braccia incrociate e
un'espressione seccata sul volto. «Visto?» chiese,
indicando il
Panda della ragazza. «Ci passavi benissimo!»
La
ragazza sgranò gli occhi, chiedendosi se Oleksander
soffrisse forse
di un qualche disturbo che gli impediva di valutare correttamente gli
spazi e le distanze. «Ma cosa stai dicendo?»
sibilò. «Come
diavolo faccio a passare? Non posso mica passare sul marciapiede,
è
troppo alto!»
Lui
le rivolse un'occhiata di sufficienza. «Non c'è
bisogno di salire
sul marciapiede, basta che vai indietro dritta per un po' e poi
sterzi a destra. Non è difficile.»
«Tu
hai dei problemi!» sbottò Anna, portandosi dietro
al Panda e
allargando le braccia per misurare lo spazio disponibile.
«Non c'è
abbastanza spazio. Però, se vuoi, ci provo e vediamo come va
a
finire. Anzi, meglio ancora: provaci tu, visto che sei tanto
bravo.»
Così
dicendo, gli porse le chiavi dell'auto, decorate da un grazioso
portachiavi a forma di maialino. L'uomo la guardò come se
gli stesse
porgendo il cadavere di un topo. «Non ci penso
proprio» ribatté.
«Io non ci entro, in quella cosa: arrangiati.»
«Sì,
come no» sogghignò Anna.
«Così, se per caso ti faccio un
graffietto, mi tocca pure ripagarti il danno.»
«E
allora cosa facciamo?» la sfidò lui.
La
ragazza si strinse nelle spalle. «E allora chiamo i
carabinieri»
disse, prendendo in mano il cellulare. «Tanto le prove
fotografiche
ce le ho...»
Oleksander
sbuffò e alzò gli occhi al cielo. «Non
ti conosco, ma ho come l'impressione che tu sia una grandissima
rompipalle: sbaglio?»
Con
un mezzo sorriso, Anna
si sistemò sul naso gli occhiali tondi. «Solo con
chi se lo merita»
precisò. «E, comunque, lo prendo come un
complimento.»
«Non
voleva esserlo, credimi» replicò lui, prima di
infilarsi nell'Audi
e accendere il motore.
Anna
si lasciò sfuggire un sorriso di trionfo. Vittoria!
Pensò, mentre l'uomo iniziava a retrocedere, liberandole di
fatto il
passaggio. Rapidamente, prima che cambiasse idea, la ragazza
saltò
sul Panda e ingranò la retromarcia, spostandosi tanto
velocemente da
far stridere le ruote. Lo slancio si rivelò un po' eccessivo
e Anna
fu costretta a inchiodare, fermandosi a pochi centimetri dal muso
dell'Audi di Oleksander che, fermo alle sue spalle, stava aspettando
che lei terminasse la manovra. Guardando nello specchietto
retrovisore, vide che negli occhi spalancati dell'uomo c'era qualcosa
di molto simile al terrore. Ops,
pensò, lasciandosi sfuggire una risatina.
Inserendo
la prima, Anna fece per accelerare quando, con la coda dell'occhio,
scorse un movimento dietro una delle finestre della casa antistante
al parcheggio. Era la signora Aurelia che, seminascosta dalle tendine
di pizzo bianco, rideva e la salutava con la mano. Senza preoccuparsi
di non farsi vedere da Oleksander, la ragazza le rivolse un gran
sorriso e tese indice e medio della mano destra in segno di vittoria.
Poi,
lanciando un'ultima occhiata all'uomo nel SUV, sgommò via.
♥♥♥
Come
sempre, se qualcuno ha voglia di farmi sapere cosa ne pensa di quello
che scrivo, io non mi offendo!
|
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Capitolo 4 *** Capitolo Quattro ***
Anna
rientrò alle cinque e mezza del pomeriggio –
mezz'ora più tardi
del solito – e, prima di parcheggiare l'auto,
perlustrò
rapidamente i dintorni, constatando con soddisfazione che non c'era
traccia dell'Audi nera.
Perfetto!
Pensò,
infilandosi con un sorriso tra due innocue utilitarie bianche.
Canticchiando tra sé e sé, la ragazza
recuperò le borse della
spesea e poi si avviò verso casa. Non appena ebbe varcato la
porta
d'ingresso, Cassandra le si fece incontro miagolando, la lunga e
flessuosa coda nera che vibrava di gioia. «Ciao, patatina
mia» la
salutò Anna, prendendola il braccio e dandole un bacio sulla
testolina lucida. «Dov'è finita la tua sorella
antipatica?»
Non
vedendo da nessuna parte Calliope, la ragazza prese a sistemare il
cibo che aveva appena acquistato, stipandolo ordinatamente nella
credenza e nel frigorifero. Sono stata proprio
brava, si
disse, sentendosi estremamente fiera di sé. Ho
comprato un
sacco di frutta e di verdura e gli unici surgelati che ho nel freezer
sono le lasagne e il minestrone che mi ha dato la zia Clara. Sto
finalmente diventando un'adulta responsabile!
Dal
fondo della seconda borsa della spesa, Anna estrasse una confezione
dei croccantini preferiti dalle sue gatte. «Cos'abbiamo
qui?»
canticchiò, scuotendo un paio di volte la scatola di
cartone. Con un
vocalizzo deliziato, Cassandra tentò immediatamente di
arrampicarsi
sulle gambe della giovane, piantando le unghie nel cuoio spesso degli
stivali che indossava e, pochi istanti più tardi, il muso
tricolore
di Calliope sbucò da sotto il divano.
«Ah,
eccoti lì, disgraziata!» l'accolse Anna,
chinandosi per versare una
piccola porzione di crocchette nelle ciotole delle due gatte.
Mentre
le due bestiole mangiavano – con evidente entusiasmo l'una e
con
smaccata degnazione l'altra – la ragazza si mise a carponi
sul
pavimento e sbirciò al di sotto del divano dal quale era
sbucata
Calliope. Oh, porca vacca! Pensò con un
gemito, notando che
la parte inferiore del suo divano nuovo recava già i segni
delle
unghiate che la gatta tricolore gli aveva inferto nel corso di una
singola giornata lavorativa. «Sei proprio stronza»
borbottò,
guardando con astio il più minuto e ostile dei due felini. Devo
assolutamente trovare un modo per limitare i danni, altrimenti nel
giro di un anno dovrò far sistemare la metà dei
mobili, pensò,
rialzandosi e lasciandosi cadere su uno dei cuscinoni di stoffa
ruvida. Come aveva fatto sua madre a contenere i vandalismi di
Calliope, quando ancora vivevano tutte nella stessa casa? Non ne
aveva idea, ma sapeva che, da quando le due gatte avevano raggiunto
l'età adulta, i divani di Daniela non erano stati
danneggiati in
alcun modo.
Lasciando
scorrere uno sguardo vagamente desolato lungo i confini del suo
appartamento nuovo di zecca, Anna si chiese quante fossero le cose
che aveva sempre dato per scontate e che ora, raggiunta
l'indipendenza, avrebbe dovuto imparare a fare da sola, senza
più
poter contare sul sostegno della mamma. Non posso essere
messa
poi così male: a cucinare me la cavo,
pensò, iniziando a tenere
il conto sulle dita distese. Per i piatti, c'è la
lavastoviglie.
La lavatrice è a prova di idiota. Il ferro da stiro intendo
usarlo
il meno possibile – il segreto sta nello stendere bene. I
pavimenti
e il bagno li ho sempre lavati io. Che altro c'era da fare?
Bah!
È inutile preoccuparsi adesso: dovrei avere tutto sotto
controllo,
almeno a grandi linee. Adagiandosi
a occhi chiusi contro lo schienale imbottito, notò che non
erano
nemmeno le sei, il che significava che aveva almeno un'ora per
rilassarsi e dedicarsi a se stessa. Avrebbe potuto leggere il libro
che giaceva da troppo tempo abbandonato sul suo comodino, oppure
avrebbe potuto prendersi un po' cura del proprio corpo e farsi un
minimo di manicure, ma la verità era che era troppo stanca
per fare
sia l'una che l'altra cosa. Non era abituata a lavorare e, sebbene il
lavoro d'ufficio che aveva svolto durante il giorno non era certo il
più pesante del mondo, arrivava alla sera stremata e con ben
poche
energie residue.
Ci
vorrebbe qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere,
riconobbe con una punta di malinconia. Quando aveva accettato il
lavoro in ospedale, aveva ingenuamente pensato che Lorenzo non solo
avrebbe accettato la sua decisione – come lui le aveva del
resto
lasciato intendere – ma che si sarebbe addirittura trasferito
a
Lanzate con lei, avviando quella vita di coppia sulla quale tanto
avevano fantasticato. L'appartamento le sarebbe sembrato decisamente
meno vuoto, se il ragazzo fosse stato lì con lei: anche se
Lorenzo
non era mai stato un tipo di tante parole, sarebbe comunque stato una
compagnia migliore delle sue due gatte che, per quanto affettuose
(almeno nel caso di Cassandra), rimanevano sempre e comunque due
bestiole indipendenti e fondamentalmente solitarie.
Dovrei
trovarmi qualche amico,
rifletté la giovane, soppesando con lo sguardo lo smartphone
avvolto in una
custodia di
similpelle rosa confetto. Ma non era come dire: negli uffici accanto
al suo non c'erano ragazze della sua età e Anna sentiva di
avere
anche poche speranze di fare amicizia con le impiegate allo sportello
o con le infermiere, tutte già ben inserite in un giro di
conoscenze
da cui lei era esclusa e per il quale non sembrava esistere alcuna
porta d'accesso.
E
pensare che ce le aveva, una volta, le amiche. Quando sua madre
l'aveva portata via da Lanzate per iniziare la sua nuova vita con
Paolo, però, Anna non era che una bambina, troppo giovane
per
riuscire a intrattenere con successo delle amicizie a distanza. Ci
aveva anche provato, in verità: ricordava ancora le
letterine
scritte a Marianna e Giada, le sue vecchie vicine di casa, ma queste
si erano fatte sempre più rare, fino a scomparire pochi mesi
dopo il
trasloco.
Ma
adesso non c'è più bisogno di affidarsi alla
posta tradizionale,
pensò la giovane, rianimandosi tutta d'un tratto. Con un
mezzo
sorriso, afferrò il cellulare e sfiorò l'icona di
Facebook,
aprendo l'applicazione con una strana trepidazione. Deve
per forza esserci un qualche mio vecchio compagno delle elementari,
qui sopra,
ragionò.
Mordicchiandosi pensosamente le labbra, Anna cercò di
richiamare
alla mente il nome di qualcuno dei bambini con cui aveva condiviso i
primi anni della sua lunga carriera scolastica. Certo, la situazione
era piuttosto imbarazzante. Come poteva fare per riprendere i
contatti con persone con le quali aveva tagliato tutti i ponti da un
tempo così lungo? Come diavolo dovrei
fare a presentarmi?
Se scrivo a quello che è praticamente uno sconosciuto e gli
dico
“Ciao, ti ricordi di me? Sono la bambina sfigata con cui eri
in
classe diciotto anni fa!” mi prendono di sicuro per una
squilibrata.
Sì,
perché Anna non era stata una bambina molto popolare, negli
ormai
lontani anni della sua infanzia. Era piccolina, pallida, timida e
perennemente infagottata nei maglioncini che sua madre sferruzzava
per lei utilizzando solo la migliore lana biologica, assolutamente
ottimi per la salute della sua pelle, ma purtroppo deleteri per la
sua già fragile autostima. Il quadro era poi completato da
un paio
di occhiali spessi come fondi di bottiglia e contornati da
un'antiestetica plastica azzurra che le ingigantivano gli occhi e le
donavano una perenne espressione da insetto miope.
Sabrina
ed Esther! Ecco due persone con cui mi piacerebbe riprendere i
contatti! Pensò
improvvisamente Anna, ricordando le altre due ragazzine che avevano
formato con lei il terzetto di piccole emarginate della sezione C
della scuola elementare “A.
Manzoni”.
La prima era una
bimba bionda e socievole, con due grandi occhi azzurri e un sorriso
contagioso, ma che aveva il difetto di avere cosce e vita circondate
da qualcosa di più della consueta ciccetta infantile:
Sabrina era
palesemente in sovrappeso e per quel motivo era stata spesso oggetto
delle canzonature dei due o tre bulletti che frequentavano la classe
di Anna.
Eravamo
proprio un bello spettacolo,
ricordò Anna con un sorriso carico d'affetto. Io
ero cieca come una talpa e Sabry era grassottella, mentre Esther...
be', lei combinava le due cose, e per di più era pure di un
colore
che dava nell'occhio. Anna
ricordava ancora la prima volta che la maestra Michela aveva
presentato alla classe quella bimba rotondetta, con gli occhiali
storti, le treccine e la pelle scura-scura. Era appena arrivata dalla
Costa d'Avorio con i suoi genitori, aveva spiegato la maestra, e
quasi non conosceva l'italiano. Però aveva imparato in
fretta,
perché la parlantina proprio non le mancava, e ora che ci
pensava
Anna ricordava ancora i suoi lunghi monologhi infarciti di erre mosce
e neologismi italo-francesi.
Chissà
che fine hanno fatto, pensò
la ragazza. Spinta dalla curiosità, digitò per
prima il nome di
Sabrina, della quale ricordava con certezza come si scrivesse il
cognome. Eccola
qui!
Pensò con un fremito di
gioia, dopo essere passata in rassegna a un paio di donne che si
chiamavano come lei. Era cambiata, naturalmente, ma non c'era alcun
dubbio che si trattasse della sua vecchia amica. Nella foto del
profilo rideva e sembrava felice: non era dimagrita, ma portava i
capelli corti e più biondi che mai, aveva le labbra dipinte
di un
vistoso rosso ciliegia e indossava un vestito a pois che avvolgeva ed
esaltava le curve generose. È bella,
pensò Anna, quasi commossa, e sembra
anche tanto sicura di
sé. Lei,
che aveva una figura
decisamente più snella di quella di Sabrina, non avrebbe mai
osato
sfoggiare quell'abito e quel rossetto.
Senza
pensarci due volte, le inviò una richiesta di amicizia
seguita da un
messaggio in cui spiegava di essere da poco tornata in città
e di
essere quindi desiderosa di ristabilire le vecchie conoscenze.
E
chissà se...
scorrendo rapidamente l'elenco degli amici di Sabrina,
individuò
rapidamente anche Esther. Sono
fortunata! Si
disse Anna. La
foto della seconda ragazza era meno chiara di quella della giovane
bionda – solo un ritratto in bianco e nero fatto in
controluce –
ma Anna inviò anche a lei la richiesta di amicizia e lo
stesso
messaggio che aveva mandato a Sabrina poco prima.
Poi,
sentendosi stranamente spossata, Anna si lasciò ricadere
contro lo
schienale del divano, chiudendo gli occhi per una manciata di
secondi. Ecco, io la mia parte l'ho fatta,
ragionò,
inspirando profondamente. Io la mano l'ho tesa, adesso sta a
loro
afferrarla e darmi un segnale di qualche tipo.
Riaprendo
gli occhi, la giovane curiosò ancora un po' su Facebook,
spiando con
una punta di vergogna mista a curiosità le vite di quelle
persone
che un tempo aveva conosciuto e che ora erano per lei dei perfetti
estranei. Le foto dei loro profili e le poche generalità
elencate
sotto a esse erano spesso le uniche informazioni a cui aveva accesso,
ma tanto bastavano per tratteggiare un mondo fatto di viaggi
all'estero, vacanze in luoghi assolati, matrimoni e bambini in fasce.
Se
uno guardasse il mio profilo, che idea si farebbe di me? La
fotografia con la quale si presentava al mondo la ritraeva seduta al
tavolino di un bar qualsiasi, in una giornata d'inverno qualsiasi,
con un berretto con il pompon calcato sulla testa e gli occhiali un
po' appannati a causa della condensa. Quel pezzo di gomito
che si
vede al margine della foto appartiene a Lorenzo, ma nessuno
può
saperlo. Non sembrava una giovane donna di ventotto anni:
sembrava piuttosto una ragazzina immersa in un'eterna adolescenza.
Provando
un vago senso di fastidio verso se stessa, la ragazza lasciò
cadere
il cellulare sul divano, poi lo riprese solo per guardare che ore
fossero. Quasi le sette, constatò,
stupendosi di quanto in
fretta fosse passato il tempo. È ora di iniziare a
preparare
qualcosa per cena. Magari potrei scongelare una delle porzioni di
lasagne che mi ha dato la zia Clara. O magari meglio una vaschetta di
minestrone, che è più leggero.
Anna
si alzò e raggiunse il frigorifero, ma non appena distese il
braccio
per raggiungere la maniglia del freezer, un rumore la
bloccò. Era
una porta che sbatteva, quella? Si chiese, incuriosita. La
ragazza rimase in ascolto, immobile con la punta delle dita
appoggiata alla plastica fredda, fino a quando udì un suono
molto
simile a dei passi provenire dall'altra parte della parete. Viene
dall'appartamento dello squilibrato dell'Audi, comprese,
rendendosi conto solo in quel momento che l'appartamento di
Oleksander era separato dal suo solamente da una fragile parete di
mattoni.
Perfetto!
Pensò
Anna, levando gli occhi al cielo e aprendo bruscamene la porta del
congelatore. Non
mi ero accorta che l'isolamento acustico facesse così
schifo: si
sente praticamente tutto!
La
giovane pescò da uno degli scomparti del freezer un
contenitore di
plastica monoporzione, lo scoperchiò e annusò con
cautela la
poltiglia verdastra che sua zia Clara vi aveva versato qualche giorno
prima. Microonde, compi il tuo miracolo!
Pensò, infilando
l'intero contenitore nel piccolo forno argentato posto accanto al
frigorifero. E, per favore, non fondere la plastica. Era
una
plastica adatta alla cottura nel microonde, quella? Non ne aveva
idea, ma sua zia l'avrebbe sicuramente messa in guardia, se non fosse
stato così. No?
Anna
stava ancora meditando su quale fosse la temperatura migliore da
impostare – scongelamento o qualcosa di più?
– quando un nuovo
rumore metallico la fece sobbalzare. Cosa diavolo...? Calliope
e Cassandra, che si erano raggomitolate insieme su uno dei cuscini
del divano, levarono le teste, perfettamente sincronizzate, e si
guardarono attorno con allarme e astio. È
… è un cane
che abbaia, comprese, aggrottando la fronte, e il
rumore viene
proprio dall'appartamento di quello là.
E,
almeno a giudicare dal modo in cui abbaiava, non sembrava nemmeno un
cane piccolo, come un pinscher o un chihuahua, il che significava che
Francesco ci aveva visto giusto, quando ne aveva stimato le
dimensioni basandosi semplicemente sulla capienza della ciotola in
giardino.
Fortunatamente
il cane smise subito di abbaiare e Anna si scoprì a tendere
le
orecchie per cogliere qualcosa di quello che stava accadendo
nell'appartamento accanto. Se ascoltava bene, riusciva a sentire un
borbottio basso e immaginò che Oleksander stesse dicendo
qualcosa al
cane. Quasi se lo immaginava, alto, spigoloso e accigliato come le
era apparso quella mattina, ma con addosso giacca e cravatta. Perché
uno che guida una macchina del genere non può che indossare
giacca e
cravatta e fare un lavoro estremamente noioso,
rifletté la
ragazza, cercando di non pensare alle ore che aveva trascorso
inserendo all'interno del gestionale i dati dei questionari di
gradimento.
Era
il tipo di persona che parlava con gli animali? Magari si era anche
accucciato per guardare il cane negli occhi e fargli due carezze? Ma
chi se ne frega, si riscosse Anna. L'importante
è che impari
a parcheggiare come Dio comanda e che lui e il suo coinquilino a
quattro zampe non facciano troppo chiasso.
Anna
tornò al microonde e impostò una temperatura a
caso, ma non poté
impedire alla sua mente di interrogarsi anche su un'altra questione:
chissà se c'era anche un coinquilino a due zampe?
Una
fidanzata, magari, o una moglie? Prima che l'uomo rientrasse
pochi minuti prima – ammesso che fosse davvero lui e non un
fratello, un amico o magari un compagno – non aveva colto
alcun
suono che lasciasse presagire una presenza umana, ma era pur vero che
non si era accorta nemmeno dell'effettiva esistenza del cane, prima
che questo iniziasse ad abbaiare.
Quanti
anni avrà quel tipo?
Si chiese, ripercorrendo mentalmente gli avvenimenti di quella
mattina. Se doveva giudicare dal suo aspetto fisico, gli avrebbe dato
trent'anni, forse qualcosina di più, ma non molto. A
quell'età la gente vive ancora da sola? Si
chiese, prima di rendersi conto che era una domanda stupida,
perché
lei di anni ne aveva ventotto e da poco più di un mese era a
tutti
gli effetti una donna single. Per non dire
“zitella”,
la stuzzicò una vocina che assomigliava stranamente a quella
della
zia Clara.
Anna
scrollò la testa come per schiarirsi le idee. Ma
quale
zitella! Si
riprese,
apparecchiando rapidamente la tavola e stappando anche una delle
bottiglie di vino rosso che aveva comprato quel pomeriggio. Dove
stava scritto che, raggiunta una certa età, si doveva per
forza di
cose trovare un compagno di vita? La decisione di lasciare Lorenzo
era stata sofferta, ma non era qualcosa di cui si era mai pentita.
Era stata una scelta giusta, quella di mollare tutto e di iniziare
una nuova avventura a Lanzate.
Però
spero che Sabrina o Esther mi contattino presto, perché a
lungo
andare la solitudine potrebbe diventare un problema.
Estraendo
il minestrone ormai fumante dal forno a microonde, Anna lo
versò in
una fondina e poi si sedette al tavolo. Rigirandosi lentamente in
bocca la poltiglia densa, Anna fece un rapido inventario mentale
delle famiglie che vivevano nel suo stesso complesso. C'erano i
signori Rocca, che erano sposati e avevano due ragazzini adolescenti.
Sopra di loro abitavano due coniugi anziani. Nella villetta da parte
c'erano due sposini con una bimba di pochi anni e l'altro
appartamento era vuoto, com'era vuoto quello sopra di lei. Non sapeva
chi vivesse nell'appartamento sopra a quello di Oleksander ma, a
giudicare dai panni stesi sul balconcino, doveva trattarsi di una
famiglia di almeno tre persone.
Speriamo
anche che il tipo dell'Audi non sia né fidanzato
né sposato,
si scoprì a pensare tra un boccone e l'altro. Anche se non
c'era una
spiegazione perfettamente razionale a quella sensazione, Anna trovava
stranamente confortante il fatto di sapere di non essere l'unica a
non avere un compagno: era come se quella consapevolezza la cullasse
e le dicesse che no, non era troppo tardi per rifarsi una vita
sociale soddisfacente.
Con
una smorfia di vago disappunto, la ragazza si versò un mezzo
bicchiere di vino e lo usò per diluire un po' i pensieri che
le
affollavano la testa.
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Capitolo 5 *** Capitolo Cinque ***
«Sì,
signora, capisco perfettamente cosa sta cercando di dirmi,
ma...»
«Non
ci sono “ma” che tengano, signorina!»
sbottò la donna strizzata
in un tailleur grigio, agitando le braccia e spandendo attorno a
sé
una nuvola di profumo floreale. «Sono in coda a quello
sportello da
due ore... anzi, no! Tre ore, ormai, visto che
sono
praticamente le dieci!»
Anna
si passò una mano sui capelli stretti in uno chignon
molto
professionale e lanciò un'occhiata a Giulia, sperando che la
sua
responsabile potesse accorrere in suo aiuto. La donna, però,
se ne
stava seduta al computer vicino alla finestra e digitava furiosamente
sulla tastiera, apparentemente immersa nel proprio lavoro e dunque
sorda a tutto ciò che la circondava.
Eh,
figuriamoci!
Pensò Anna, con una punta di fastidio. Doveva imparare a
cavarsela
da sola, certo, ma aveva iniziato a lavorare all'URP dell'Ospedale di
Lanzate da un mese soltanto e non era ancora capace di liquidare con
eleganza gli utenti più boriosi e insistenti. E la signora
con il
tailleur grigio era molto
insistente.
La
ragazza sospirò e si aggiustò gli occhiali sul
naso. «Come le ho
già detto, l'accesso agli sportelli è regolato da
un sistema
automatico...»
«Che
non funziona!» sbottò la donna, sbattendole sotto
il naso un
piccolo tagliando tutto stropicciato. «Lo vede?
C'è scritto P12, il
che significa che davanti a me c'erano soltanto undici persone:
com'è
possibile che ci vogliano tre ore
per fare undici prenotazioni?»
«Il
fatto è...» tentò di spiegare Anna, ma
la donna la interruppe di
nuovo.
«Sa
qual è il problema? Che chiamano tutte le altre lettere ad
eccezione
delle “P”!» sbottò, fissando
il foglietto di carta lucida come
se esso fosse la casa di tutti i suoi mali. «Chiamano sempre
e solo
le “A” e le “H”, ma le
“P” mai! Non è possibile che ci
vogliano più di tre ore per fare una prenotazione!»
La
ragazza fece per rispondere, ma la vibrazione del cellulare posato
sulla sua scrivania la distrasse per un istante. Da
quando
è così rumorosa? Si chiese,
leggermente a disagio.
«So
che...» Anna tentò di spiegare alla donna che le
stava davanti
quale fosse il funzionamento del sistema che regolava l'accesso agli
sportelli, ma il cellulare vibrò un'altra volta, e poi altre
due,
dando vita a un vero e proprio concerto di ronzii. Ma
chi
diavolo mi scrive? Si
chiese la
giovane, senza riuscire a evitare di compiere un mezzo giro su se
stessa e di lanciare un'occhiata dubbiosa alla scrivania.
«Vuole
andare a rispondere al telefono?» le chiese la signora in
tailleur,
sollevando un sopracciglio con aria derisoria.
La
ragazza si voltò di scatto verso di lei, resistendo a stento
alla
tentazione di rifilarle una risposta acida. «No, non
è necessario»
replicò, mordendosi la lingua. «Come le stavo
spiegando, c'è un
motivo, se la lettera “P” viene chiamata meno
spesso delle altre.
Vede? La “P” sta per prenotazione. La
“A” sta per
accettazione e le “H” vengono assegnate solo ai
pazienti che
hanno diritto all'accesso prioritario. Dal momento che le
prenotazioni possono tranquillamente essere fatte anche telefonando
al centralino o al numero verde regionale, allo sportello si
è
deciso di dare priorità a quegli utenti che non possono che
venir
qui di persona. Non dico che sia un sistema perfetto, ma ha una sua
logica, no?»
La
donna la soppesò con lo sguardo. «E allora
togliete la possibilità
di prenotare in ospedale e basta!» sbottò.
«Io ho preso due ore di
permesso dal lavoro: come lo giustifico, questo ritardo? Potrebbero
anche pensare che me ne sono stata in giro a farmi i fatti miei per
un'ora!»
Anna
soffocò un sospiro. «Non si preoccupi: la collega
allo sportello le
rilascerà un certificato che attesta che lei è
stata in coda per
più tempo del previsto.»
Anziché
placarla, quella risposta parve indisporre ancora di più la
signora
con il tailleur grigio. «Ah, perfetto!»
ringhiò, infatti,
stritolando tra le mani il tagliandino. «Quindi, se voglio
avere un
giustificativo di qualche tipo, devo restarmene in coda per altre due
ore? Devo buttare tutta la mattinata in sala d'aspetto?»
La
ragazza esitò, presa in contropiede.
«Be'...»
«Siete
degli incapaci!» esclamò la donna, alzando la
voce. «Non avete
rispetto per i cittadini!»
Anna
retrocedette di un passo, allontanandosi da quella furia
gesticolante. «Ehm... se vuole può fare
reclamo» si arrese,
afferrando uno dei modulo impilati su uno scaffale e offrendolo
all'utente.
Quella
glielo strappò di mano e lo squadrò velocemente.
«E chi la
leggerebbe, 'sta roba? Scommetto che la buttate via.»
In
realtà, quei moduli li leggo io e poi li trasmetto ai
reparti, pensò
la ragazza. Ma
'sta pur tranquilla che con le segnalazioni inutili come la tua ci
fanno gli aeroplanini di carta. «Ma
no», disse, invece, «tutte le segnalazioni vengono
prese in
considerazione: riceverà anche una risposta attraverso i
canali da
lei indicati.»
La
donna la guardò con diffidenza. «Sì, va
be'» disse, come se fosse
certa che Anna la stesse prendendo in giro. «Comunque questo
me lo
prendo comunque: tanto di tempo ne ho, se devo aspettare che si
decidano a chiamarmi!»
Quando
la signora se ne fu andata sbattendo la porta con malagrazia, Anna
tornò mestamente alla propria scrivania e si
lasciò cadere sulla
sedia girevole blu. «Che strazio»
sospirò, rivolgendosi a Giulia.
«Certa
gente è proprio cretina» replicò la
donna, senza nemmeno
distogliere gli occhi dallo schermo del suo PC. «Ti diamo la
possibilità di prenotare le visite senza nemmeno dover
alzare il
culo dal divano di casa: e fallo, no? Se invece provi l'insano
desiderio di venire a rompere il cazzo alla gente di persona, almeno
non lagnarti se devi fare la coda.»
Anna
non commentò e si lamentò a inarcare le
sopracciglia: non riusciva
a capacitarsi di come una persona bellicosa e poco empatica
come Giulia fosse finita a lavorare proprio all'Ufficio Reazioni con
il Pubblico di un ospedale. Almeno questa qui
non aveva un
problema grave,
si consolò,
prima di allungare una mano verso il cellulare, incuriosita dalla
serie di messaggi che aveva ricevuto poco prima.
Oh,
sono notifiche di Facebook,
notò con un brivido di entusiasmo. Ancor prima di aprire il
messaggio, la ragazza si lasciò sfuggire un ampio sorriso:
Sabrina
aveva accettato la sua richiesta di amicizia. E
mi ha anche scritto qualcosa!
Anna
dovette rileggere più volte ciò che la sua amica
d'infanzia le
aveva scritto: l'emozione di essere riuscita a ristabilire un piccolo
contatto con il suo passato era tale che i suoi occhi stentavano a
soffermarsi sulle singole parole e tendevano invece a correre subito
verso la fine della frase.
Vuole
che ci incontriamo,
comprese, abbassandosi un poco sulla scrivania per evitare che Giulia
notasse il sorriso ebete che le si era disegnato sulle labbra e le
facesse qualche domanda alla quale non aveva intenzione di
rispondere, almeno per il momento. Mentre leggeva e rileggeva il
messaggio inviatole da Sabrina, sentiva risuonare nella sua testa la
voce che la ragazza aveva avuto da bambina: le diceva che era
felicissima di saperla nuovamente a Lanzate e le proponeva di
trovarsi per un aperitivo il giorno seguente – o quello dopo
ancora
– presso il Caffé
Excalibur,
storico locale che
sorgeva in un angolo della piazza più grande del paese.
Aveva già
avvisato anche Esther, che da quando era diventata mamma non usava
più Facebook, ma che
sarebbe stata ben contenta di rivederla.
Esther
ha avuto un bambino,
pensò Anna scombussolata. L'idea di rivedere lei e Sabrina
le fece
correre un improvviso brivido nervoso lungo la schiena: e se gli anni
che avevano passato lontane le avessero rese troppo diverse per
essere ancora amiche? Oh,
ma cosa sono questi dubbi da bambina dell'asilo!
Si riprese, impugnando saldamente il cellulare e digitando un
messaggio in risposta a quello di Sabrina. Domani
va
benissimo,
pensò, mentre il
dito tracciava quelle stesse parole sullo schermo luminoso. Tanto
non è che abbia chissà quali impegni extra
lavorativi!
Quando,
quella sera, rientrò nel proprio appartamento, Anna si
sentiva
decisamente rilassata e di buon umore. In ufficio non erano arrivati
altri utenti molesti come la signora che non voleva fare la coda allo
sportello e la mattinata grigia e uggiosa si era dissolta in un
limpido pomeriggio autunnale, con un cielo terso e una brezza mite
che sapeva quasi ancora un po' d'estate. È un buon
momento per
sistemare questi e per dare una spazzata al giardino,
pensò
Anna, recuperando dal bagagliaio del Panda la cassettina di ciclamini
che la zia Clara aveva voluto rifilarle a tutti i costi.
Una
volta entrata in casa, Anna salutò le sue due gatte e poi
corse in
camera a cambiarsi, abbandonando i jeans attillati e la camicetta in
favore di una meno elegante ma assai più comoda tuta da
ginnastica
color verde salvia che possedeva da almeno una dozzina di anni.
Semplicemente agghiacciante, si disse, lanciando
un'occhiata
distratta allo specchio a figura intera che aveva sistemato accanto
all'armadio. Ci mancava solo la toppa dei Ramones a
metà coscia,
per completare l'opera!
Decidendo
che la sua tenuta casalinga era perfetta per il giardinaggio, la
ragazza marciò verso il salotto e poi raggiunse la
portafinestra che
dava sul giardino, portando con sé i ciclamini e sperando
che i
piccoli e resistenti fiori invernali fossero in grado di dare una
nota di colore a quel fazzoletto di terra altrimenti spoglio.
«Volete
venire anche voi, signorine?» chiese, notando che Calliope
l'aveva
seguita e ora indugiava sull'uscio, incerta se posare o meno le
zampette sull'erba un po' troppo alta. Dietro di lei, Anna poteva
vedere l'ombra nera di Cassandra che, come suo solito, aspettava che
la sorella facesse la prima mossa.
Quasi
come se fossero in attesa di un qualche tipo di permesso, le due
bestiole parvero prendere coraggio e trotterellarono all'aperto,
frustando l'aria con le code e osservando con fare guardingo
l'ambiente che le circondava.
Oh,
a proposito! Lasciando ricadere a terra il rastrello che
Paolo,
appassionato di giardinaggio, le aveva regalato il giorno stesso in
cui aveva scoperto che Anna avrebbe avuto un paio di metri quadri di
prato di cui prendersi cura, la ragazza si avvicinò alla
recinzione
che separava il suo giardino da quello di Oleksander. Mi pare
che
il simpaticone non sia ancora tornato a casa, si disse,
posando
quasi di soppiatto le mani sul reticolato metallico che, nelle
intenzioni di chi aveva disegnato le villette bifamiliari, avrebbe
dovuto essere ricoperto da uno spesso intreccio di gelsomino, ma che
era in realtà ancora piuttosto spoglio. Ma il suo
cane dov'è?
Durante il giorno lo tiene in casa o lo lascia in giardino?
Premendo
la fronte contro la rete rigida, Anna cercò di spiare come
meglio
poteva lo spazio che si apriva al di là di essa. Riusciva a
scorgere
un prato ordinato, un tavolino di plastica sistemato a ridosso del
muro, qualche pianta aromatica e la ciotola metallica che per prima
aveva attirato l'attenzione del suo fratellastro. Tutto era
però
immobile e silenzioso, chiaro segnale del fatto che il giardino era
disabitato.
Rinfrancata,
Anna si staccò dalla rete e si voltò verso le sue
gatte. «Via
libera, ragazze» disse, come se fossero in grado di
comprendere le
sue parole. «Il nemico non c'è. Però
non allontanatevi, che non si
sa mai.»
Per
la mezz'ora successiva, la ragazza si dedicò completamente
alla cura
del suo piccolo giardino. Sistemò e risistemò
più volte i
ciclamini sui davanzali, rendendosi conto solo al secondo tentativo
che era necessario posizionare un sottovaso di plastica sotto i
singoli vasetti per evitare che l'acqua in eccesso scivolasse via e
macchiasse il muro. Con l'aiuto del rastrello, radunò le
foglie che
la betulla che cresceva appena al di là della recinzione
metallica
aveva generosamente sparso per tutto il prato e poi recuperò
una
vecchia scopa di saggina spelacchiata – dono della zia Clara
– e
spazzò i pochi metri di pavimentazione di cemento che si
estendevano
davanti alla portafinestra.
Quando
ebbe radunato un discreto mucchietto di foglie gialle e secche, Anna
abbandonò la scopa a terra e lo squadrò con aria
critica. Adesso
mi serve qualcosa in cui buttarle. Che sacco si usa per le foglie? Va
bene il sacco nero o ce ne vuole uno speciale? Decidendo che,
per
quella volta, avrebbe utilizzato un normalissimo sacco nero e
confidato nella clemenza del netturbino, la giovane tornò in
casa
con passo rapido.
Mentre
era inginocchiata a terra, con la testa immersa nell'armadietto posto
sotto il lavello nel tentativo di reperire un sacco della spazzatura,
dal giardino giunse una sorta di grido che le fece balzare il cuore
in gola. Anna trasalì e si affrettò a rimettersi
in piedi,
imprecando tra i denti quando il suo ginocchio colpì
dolorosamente
lo spigolo dell'anta dell'armadietto.
Cosa
diavolo sta succedendo?
Si chiese, precipitandosi fuori. Mentre stava per sorpassare la
portafinestra, incespicò in Cassandra che, simile a un lampo
nero,
si stava rifugiando in tutta fretta in casa. Sentendosi travolta, la
gatta soffiò e si fiondò sotto il divano, mentre
Anna inciampava
nei suoi stessi piedi, con il rischio di cadere lunga e distesa
sull'erba.
Riuscendo
a rimanere in equilibrio per puro miracolo, la ragazza si
fermò nel
centro esatto del giardino respirando affannosamente. Dov'è
Calliope? Si
chiese, guardandosi
attorno con apprensione crescente. La risposta non tardò a
palesarsi. Il grido che l'aveva fatta sobbalzare poco prima si
ripeté
e, voltandosi quasi al rallentatore verso sinistra, Anna si
trovò di
fronte a una scena che le fece ghiacciare il sangue nelle vene.
Approfittando
della sua breve assenza, Calliope era sconfinata nel giardino del
tipo dell'Audi e ora era addossata al muro, con il pelo irto, la
bocca spalancata e un'espressione omicida negli occhi giallo-verdi.
Soffiava, ringhiava e emetteva minacciosi miagolii al tempo stesso
rochi e acuti, nell'evidente tentativo di rendersi terrificante agli
occhi dell'avversario. Davanti a lei, immobile e rigido come una
statua, c'era il cane più brutto che Anna avesse mai visto:
era
enorme, alto sulle
zampe e con una testa troppo piccola rispetto al corpo dinoccolato.
Aveva il sedere più alto della groppa, il che dava
l'impressione che
fosse come ingobbito e portava la coda vaporosa pudicamente raccolta
tra le zampe posteriori. Aveva il pelo candido e riccio di un
agnello, il muso allungato e irto di denti di un coccodrillo e la
stazza di un vitello – o così almeno parve ad
Anna, in quegli
attimi pieni di panico.
«Calliope!»
gridò, lanciandosi d'istinto contro la rete e tentando di
allungare
le braccia attraverso di essa, come se potesse afferrare la gatta
nonostante i metri che le dividevano.
Quel
richiamo lasciò del tutto indifferente il felino, che non
diede
cenno di averlo udito, ma catturò per un istante
l'attenzione del
cane, che voltò il muso nella sua direzione e
squadrò Anna con un
paio di occhi neri, tondi e curiosi. «Va' via!» gli
ingiunse lei,
cercando di adottare un tono di voce perentorio.
«Via!»
Quell'ordine
non sortì il risultato sperato e quella specie di mostro
lanoso
finse di balzare su Calliope, limitandosi però ad abbassarsi
sulle
zampe anteriori, innalzando il sedere al cielo e liberando la coda
all'indietro, come se l'intera situazione non fosse altro che un
magnifico gioco. Per tutta risposta, la gatta sferrò un paio
di
zampate all'aria e poi saltò all'indietro, arrampicandosi in
qualche
modo sulla grondaia che scendeva lungo il muro, agile e velocissima.
Il cane si lanciò subito al suo inseguimento, ma nonostante
fosse
davvero molto alto, dovette limitarsi ad alzarsi sulle zampe
posteriori e a posare quelle anteriori sul muro, senza riuscire
però
a raggiungere Calliope.
Aggrappata
al minuscolo filo d'edera che cresceva a ridosso della grondaia di
rame, la gatta soffiò di nuovo, ma ora pareva in
difficoltà: non
poteva scendere, ma non riusciva nemmeno a salire più in
alto.
Ah,
merda!
Pensò Anna, con le mani che le sudavano a causa della
tensione. Che
cosa faccio? E da dov'è spuntato quel coso? Prima non c'era!
Rendendosi
conto che qualcuno doveva per forza aver fatto uscire il cane,
probabilmente mentre lei era impegnata a pulire il giardino, la
ragazza si aggrappò nuovamente alla rete, resistendo alla
tentazione
di scavalcarla e di andarsi a riprendere personalmente la sua gatta.
«Ehi!» gridò con quanto fiato aveva in
gola. «Il cane! Tenetelo
un attimo!»
Udendo
le sue grida, il cane in questione si voltò a guardarla e
poi abbaiò
un paio di volte in direzione di Calliope, facendo riecheggiare
contro le facciate delle villette i suoi latrati metallici.
Anna
si sentì sul punto di piangere per la frustrazione, ma,
proprio in
quel momento, il proprietario dell'Audi comparve in giardino,
evidentemente attirato dal rumore.
Doveva
essere appena rincasato dopo una giornata lavorativa e, proprio come
nelle aspettative della ragazza, indossava una camicia bianca, dei
pantaloni scuri e una cravatta discreta. La giacca doveva essere in
casa, ordinatamente riposta su una gruccia. «Il tuo
cane!» sbraitò
Anna, senza perdersi in convenevoli. «Vuole mangiarsi la mia
gatta»
Sul
volto dell'uomo c'era un'espressione confusa e anche un po' seccata,
ma quelle parole parvero metterlo in allarme. Con un'occhiata veloce
inquadrò la situazione e poi si lanciò sul cane,
afferrandolo per
il collare a due mani e stringendolo tra le gambe, costringendolo a
rinculare. «Yaroslav: no!» scandì, con
voce secca. L'animale
appiattì ulteriormente le orecchie contro il cranio e
guardò il
volto del padrone, leccandosi rapidamente il muso: nonostante la
distanza, Anna riuscì a vedere un'espressione di pentimento
passare
nei suoi occhi scuri. Calliope, però, scelse proprio quel
momento
per scivolare qualche centimetro lungo la grondaia, attirando
nuovamente l'attenzione del cane, che sgroppò nel tentativo
di
liberarsi dalla presa del padrone, rischiando così di
mandarlo a
gambe all'aria.
«No!»
ripeté l'uomo, strattonando nuovamente il cane per
distoglierlo
dalla gatta. «Basta! Vai sul tuo cuscino!»
L'animale
parve processare quello che gli era stato detto e levò
lentamente il
muso, osservando il volto del padrone con espressione ferita e
vagamente accusatoria. Oleksander lo liberò dalla presa
delle sue
gambe, ma con una mano continuò a trattenerlo per il
collare. «Sul
cuscino, ho detto!» ribadì, puntando un dito verso
il suo
appartamento. «Forza!»
Con
un'ultima occhiata di rimpianto in direzione di Calliope, il cane
trotterellò con passo sorprendentemente leggero ed elegante
verso la
portafinestra, la coda nuovamente ripiegata tra le zampe.
Dall'altra
parte della rete, Anna aggrottò la fronte, vagamente
impressionata.
Però, considerò, la
bestiaccia è obbediente. Peccato che
lo stesso non valga per il mio demone tricolore.
Oleksander
chiuse la porta che garantiva l'accesso al suo giardino, poi si
voltò
verso Anna, incrociando le braccia davanti al petto. «Si
può sapere
cosa ci fa il tuo gatto nel mio giardino?»
Contro
le sue migliori intenzioni, la giovane si ritrovò ad
abbassare lo
sguardo. «Deve aver scavalcato la rete proprio nel momento in
cui io
sono entrata in casa» disse, avvertendo un vago calore
all'altezza
delle guance. Ti prego, dimmi che non sto arrossendo!
«Ehm...
scusa. Di solito non fa queste cose» mentì,
soprassedendo sul fatto
che erano in realtà ben poche, le cose che Calliope aveva la
creanza
di non fare.
L'uomo
la soppesò con i suoi occhi di ghiaccio e Anna dovette
mordersi le
labbra per evitare di sbuffargli in faccia. D'accordo, era
effettivamente accorso in suo aiuto e aveva salvato la sua gatta da
un incontro ravvicinato con le zanne del cane, ma il suo modo di fare
aveva un che di indisponente e antipatico.
Senza
dire una parola, Oleksander si avvicinò alla grondaia.
«Dai, forza»
disse, alzando gli occhi verso la gatta, che si trovava una ventina
di centimetri più in alto rispetto alla sua testa.
«Scendi.» Così
dicendo, l'uomo allungò una mano in direzione del felino,
forse per
convincerlo a lasciare la presa dal ramo di edera, ma Calliope
soffiò
e gli sferrò una fulminea zampata ad artigli spiegati.
Dio,
che vergogna, pensò Anna, coprendosi il volto con
una mano.
Oleksander
balzò indietro e si esaminò la mano, che pareva
miracolosamente
illesa. Poi si voltò nuovamente verso la vicina di casa,
puntandole
addosso uno sguardo d'accusa. «Ho cambiato idea: vieni qui
tu, a
riprendertela!» sbottò.
Anna
esitò, presa in contropiede. Doveva andare in casa sua? Ma
nel suo
appartamento c'era Yaroslav: anche se non aveva mai
avuto
paura dei cani, era comunque vagamente preoccupata dalla prospettiva
di trovarsi a tu per tu con un esemplare tanto grosso.
«Forza»
la spronò Oleksander, con una profonda ruga tra gli occhi
chiari.
«La tengo d'occhio, ma tu muoviti, che poi ho altro da
fare.»
Annuendo,
Anna corse in casa, schivò Cassandra che, nel frattempo, era
riemersa dal suo nascondiglio e uscì sul vialetto,
raggiungendo poi
la porta della casa di Oleksander. Posando la mano sulla maniglia, la
ragazza levò brevemente gli occhi al cielo. Ti
prego, Madonnina,
fa che il cane-coccodrillo non decida di mangiare me, visto che non
ha potuto assaggiare Calliope.
Aprendo
cautamente la porta, la ragazza si introdusse nell'appartamento del
vicino di casa, che aveva fortunatamente la stessa struttura del suo.
La prima stanza era vuota, ma lì, dietro il muretto che
separava il
salotto dalla sala da pranzo, c'era un grosso cuscino rosso decorato
con dei minuscoli ossetti bianchi: su di esso era acciambellato
Yaroslav il cane, il naso affondato nella vaporosa coda bianca e
un'espressione di afflitta desolazione dipinta negli occhi scuri.
Vedendola comparire nel suo regno, l'animale mosse appena gli occhi,
ma tanto bastò ad Anna per sentirsi giudicata e studiata.
Notando
che lo sguardo del cane seguiva ogni suo movimento, la giovane
affrettò il passo e raggiunse il giardino, chiudendosi la
porta alle
spalle e rivolgendo un sorrisetto di circostanza a Oleksander.
Ora
che si trovava vicino a lui, si sentiva quasi a disagio. Decisa a
ridurre al minimo la durata di quella situazione scomoda,
puntò
decisa verso Calliope. «Va bene, Calli: vieni
giù» le disse con
dolcezza.
Dall'alto
del suo rifugio di metallo ed edera, la gatta la puntò con i
suoi
occhi lunari e poi strizzò appena le palpebre, come per
dirle che
l'aveva riconosciuta e che era tutto sommato felice di vederla
lì.
«Brava micia» mormorò Anna, alzandosi
sulla punta dei piedi per
sfiorare il pelo folto e morbido della gatta. «E adesso
andiamo»
disse ancora. Estendendosi quanto più poteva,
portò una mano sotto
le ascelle di Calliope e tentò di sollevarla, sperando
così di
convincerla a lasciare la presa. La bestiola, però, rimase
abbarbicata al tronco dell'edera con le zampe anteriori, mentre
quelle posteriori si agitavano nell'aria, cercando di ritrovare un
appoggio stabile. Nel suo scalciare, la gatta spinse indietro il
polsino della tuta di Anna e i suoi artigli graffiarono la pelle
delicata del polso della ragazza, due strisce rosse sulla pelle
bianca, solcata da vene azzurrine.
«Ahia!»
sibilò Anna, lasciando subito andare la gatta.
Destabilizzata,
Calliope atterrò morbidamente a terra, poco distante dai
piedi della
sua padrona. Dopo un'energica scrollata, trotterellò verso
la rete
divisoria, la superò con una velocità
preoccupante e andò a
sedersi in buon ordine davanti alla portafinestra dell'appartamento
della ragazza.
Disgraziata,
pensò la giovane, portandosi istintivamente il polso alla
bocca e
succhiando via le goccioline di sangue che erano comparse sulla
pelle. Lo
sapevo, io, che dovevo prendere il maschietto, quello bianco e nero
con l'occhietto un po' storto. Sicuramente sarebbe stato meno
stronzo.
Qualche
istante più tardi, Anna divenne consapevole del fatto che
Oleksander
la stava osservando. «Mh?» gli chiese, abbassando
il braccio e
asciugando il polso nella stoffa dei pantaloni della tuta.
«La
tua gatta si chiama Calli?» le chiese,
con quello che
sembrava uno stupore genuino.
Aggrottando
la fronte, la ragazza si rese conto in quel momento di quanto poco
grazioso fosse il diminutivo con cui era solita riferirsi alla
bestiola. Le scappò un sorriso. «No, no: si chiama
Calliope.
“Calli” è solo un diminutivo. Ho anche
un'altra gatta che si
chiama Cassandra, “Sasà” per gli
amici.»
«Ah»
fece l'uomo, in un tono piatto che faceva intuire il suo scarso
interesse per l'argomento. «Cerca di non farle entrare nel
mio
giardino: Yaroslav è un cane da caccia e tende a inseguire
tutto ciò
che si muove. E, poi, non voglio che vengano a scavare nel mio
prato.»
Piccata
da quell'osservazione che aveva quasi il sapore della minaccia, Anna
annuì rigidamente. «Farò il
possibile» replicò con sussiego.
«Buona serata.»
Così
dicendo, la giovane cercò gli occhi dell'uomo in una sorta
di
dimostrazione di forza, ma appena li trovò, così
freddi e limpidi,
sentì che qualcosa nel suo stomaco faceva una capriola. Non
era mai
stata brava a mantenere il contatto visivo: perché si era
messa in
quella situazione? E Oleksander, invece, sembrava non avere problemi
di alcun tipo: sosteneva il suo sguardo senza tradire alcun segno di
nervosismo e, anzi, sulle sue labbra c'era quasi l'ombra di un
sorriso.
Sta
ridendo di me? Si
chiese la ragazza, aggrottando la fronte indispettita. Per una
frazione di secondo, lo sguardo dell'uomo scese più in
basso, sulla
sua tuta larga e rovinata, con la sua toppa e le ginocchia che erano
ormai sporche di terra, e Anna non dovette faticare per capire che
cosa stesse pensando. Oh,
ma vai al diavolo, razza di damerino! Pensò,
arricciando le labbra in una smorfia di disgusto. «Buona
serata»
ripeté, prima di aggiungere, sibilando tra i denti:
«Spero che il
tuo cane non sia aggressivo, altrimenti mi ripaghi come
nuova.»
Il
mezzo sorriso sul volto dell'uomo si trasformò in un sorriso
vero e
proprio. «Non ti preoccupare, il mio cane mangia solo roba super
premium: non
rientri nella sua
dieta, credo.»
«Simpatico»
replicò Anna, acida, resistendo a stento alla tentazione di
mostrargli il dito medio.
Senza
aggiungere altro, girò sui tacchi e rientrò
nell'appartamento
dell'uomo, attraversandolo a passo di carica. Yaroslav pareva essersi
assopito sul suo cuscinone e al passaggio della ragazza si
limitò ad
aprire un occhio appannato dal sonno.
Anna
sogghignò, notando che nel suo sguardo nero c'era
più simpatia che
in quello grigio del suo padrone.
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Capitolo 6 *** Capitolo Sei ***
Uhm.
Anna afferrò il blazer nero
che aveva appena indossato e se lo sistemò meglio sulle
spalle. Non era del
tutto convinta del suo outfit. Forse
dovrei rimettermi i jeans e
farla finita, considerò,
osservando con occhio critico il miniabito
nero che aveva scelto di indossare sotto la giacchetta dal taglio
elegante.
Era
forse un abbigliamento troppo
formale per un aperitivo in centro in compagnia di un paio di amiche? Ex-amiche,
le ricordò il suo inconscio. Vecchie amiche!
Si corresse subito dopo,
risoluta. Vecchie amiche con le quali sono stata costretta a
interrompere i
rapporti, ma che ho ogni intenzione di tornare a frequentare con
profitto.
Un'occhiata
veloce all'orologio le
rivelò che aveva perso fin troppo tempo davanti allo
specchio. Dopotutto,
questo vestito va benissimo, decise, afferrando gli occhiali
dal comodino e
infilandoseli sul naso. In fin dei conti è troppo
corto per essere
considerato formale.
Dopo
essersi sistemata i capelli
attorno alla montatura metallica degli occhiali, Anna corse in cucina e
riempì
le ciotole delle gatte. «Io esco, signorine!» le
informò, riponendo le
crocchette nell'armadio. «Sasà, non mangiarti pure
la razione di tua sorella!»
Cinque
minuti più tardi era in
macchina e guidava lungo le strade che un tempo le erano state
familiari. C'era
il suo vecchio asilo là, dietro la curva. Quante volte aveva
percorso quella
strada, stringendo la mano di sua madre? Sì,
però sono sicura che un tempo
questa via non fosse a senso unico, pensò
infastidita la ragazza, svoltando
bruscamente in una strada laterale. Era strano scoprire di non essere
più in
grado di orientarsi nella città che anni prima era stata la
sua casa.
Quando
giunse nei pressi del piccolo
centro storico che costituiva il cuore di Lanzate, Anna
parcheggiò in uno dei
pochi posteggi gratuiti che riuscì a scovare e poi si
avviò di buon passo verso
il Caffé Excalibur, facendo del proprio
meglio per ignorare il tremolio
alle gambe che le rendeva difficile camminare. Osservò con
occhi curiosi gli
antichi palazzi che la circondavano, le poche botteghe storiche che
avevano
resistito alla carica della modernità e le molte catene di
abbigliamento e di
biancheria intima che le avevano in molti casi sostituite.
Questa
pasticceria me la ricordo!
Esultò la giovane, soffermandosi
per qualche istante davanti a una vetrina che esibiva dolciumi di ogni
tipo.
Proprio in quell'istante, il cellulare vibrò e Anna si
affrettò a pescarlo
dalla borsetta.
“Noi
siamo qui” citava
il messaggio che Sabrina le
aveva inviato via Facebook.
Oh,
porca vacca!
Si rabbuiò la ragazza,
allontanandosi dalla vetrina. Non ci vediamo da anni e io
riesco ad arrivare
in ritardo la prima volta che decidiamo di uscire insieme!
A
quell'ora il locale presso il
quale si erano date appuntamento era piuttosto affollato. Il sole era
basso, ma
illuminava ancora la piazza e i tavolini esterni accoglievano un buon
numero di
avventori intenti a sorseggiare spritz e calici di
vino. Anna si fermò a
qualche metro di distanza dal tavolo più lontano
dall'ingresso e scrutò
l'ambiente circostante. Perché non ci è
venuto in mente di scambiarci i
numeri di telefono? Si chiese, schermandosi gli occhi con le
mani per
evitare che il riflesso del sole sulle lenti degli occhiali
l'abbagliasse.
Dopo
qualche secondo, una testa
bionda attirò la sua attenzione: apparteneva a una ragazza
alta, avvolta in uno
spolverino rosso che le fasciava il corpo morbido. Quando la vide, Anna
sentì
che il suo cuore accelerava i battiti. Sabrina!
Anche se non stava
guardando nella sua direzione, non c’era il minimo dubbio che
quella era
proprio la sua amica.
Stringendo
istintivamente a sé la
borsetta – una sorta di tic che la coglieva ogni volta che si
sentiva nervosa –
Anna zigzagò tra i tavolini. Quando si trovava a pochi passi
dalla ragazza
bionda, quella si voltò verso di lei e la guardò
con aria interrogativa. Poi,
lentamente, sul suo viso si disegnò un sorriso.
«Anna?» chiese, con gli occhi azzurri
che brillavano come zaffiri.
Anche
se erano molti anni che non
sentiva la sua voce, la riconobbe subito. «Ciao!»
disse, con la voce che, per
l’emozione, le si strozzava in gola.
Sabrina
lanciò una specie di
gridolino di entusiasmo. «Ma ciao!»
strillò, prima di gettarle le braccia al
collo e abbracciarla con forza. «Oddio, non ci credo! Sei
davvero qui!»
Mezza
soffocata dallo slancio
dell’amica, Anna le batté un paio di colpetti
sulla schiena e poi cercò di
ritrarsi quel tanto che bastava per prendere fiato e per parlare senza
annegare
nella giacca di Sabrina. «Eh, sì! Alla fine sono
tornata.»
L’altra
ragazza sciolse l’abbraccio
e si allontanò di un mezzo passo. «Non ci avrei
mai sperato» commentò,
esaminandola da capo a piedi. «Oddio, che bello!»
squittì, allungando una mano
e afferrando quella della giovane bruna. «Dai, vieni dentro
che Esther ci sta
aspettando: con ‘sto casino, l’ho lasciata di
guardia a un tavolo, altrimenti
ce l’avrebbero fregato da sotto il naso.»
Anna
si lasciò guidare all’interno
del locale, dispensando sorrisi ai due o tre camerieri che
incrociò lungo la
via. È Esther, quella? Si
chiese
meravigliata, quando vide la ragazza seduta al tavolino verso cui
Sabrina la
stava conducendo. Nella sua memoria l’amica era una bimbetta
grassoccia e con
gli occhiali spessi, assolutamente diversa dalla giovane donna che ora
le stava
sorridendo calorosamente:
gli
occhiali erano spariti, così come i chili di troppo, e,
quando si alzò in piedi
per accoglierla, vide che era decisamente più alta di lei.
Solo le treccine
erano rimaste, anche se tra le ciocche nere ne erano comparse molte
blu.
«Anna!»
esclamò la ragazza, allungandosi al di sopra del tavolino
per abbracciarla.
«Sei rimasta praticamente uguale a quando eri
piccola!»
La
giovane bruna ridacchiò. «Vuoi dire che dimostro
ancora sei o sette anni? Be’,
grazie!»
Esther
le
pinzò una guancia con due dita. «Ma no! Sto solo
dicendo che si capisce che sei
tu… non sei cambiata molto.»
Anna
la
studiò con occhio critico. «Tu invece
sì. Dove sono finiti gli occhiali?»
Esther
si
abbassò la palpebra inferiore con un indice e con
l’altro si indicò l’occhio.
«Sono i miracoli delle lenti a contatto, mia cara. Tu non ci
hai mai provato?»
Anna
rabbrividì. «No, no, per carità! Mi fa
impressione solo l’idea di infilarmi un
dito in un occhio…»
Sabrina
le posò una mano sulla schiena e la sospinse verso una delle
sedie libere.
«Dai, sediamoci, che qui ingombriamo!» Quando si
furono sistemate, la ragazza
bionda allungò una mano verso la lista dei cocktail.
«Cosa ordiniamo?» chiese,
rivolta alle amiche.
«Io
vado
sul classico» decise Anna, senza nemmeno dare
un’occhiata all’elenco di
bevande. «Prendo uno spritz.»
«Mi
sa
che ti imito» si accodò Esther.
«È un secolo che non ne bevo
uno…»
Con
un
cenno della mano, Sabrina bloccò una cameriera di passaggio.
«Due spritz per le
mie amiche e un mojito per me, per favore.»
Quando
ebbe ordinato, si sporse verso Anna e la fissò con un gran
sorriso sulle labbra
rosse. «Sei consapevole del fatto che in poco meno di
un’ora dovrai farci un
riassunto dei tuoi ultimi vent'anni di vita, vero?»
Anna
abbassò gli occhi, leggermente a disagio: non amava parlare
di sé anche perché,
in effetti, la sua vita non era stata particolarmente entusiasmante
fino a quel
momento. «Sì, be’, non è che
ci sia molto da dire…»
«Com'è
che si chiamava, già, il posto in cui vi siete
trasferite?» le chiese Esther.
«Villanuova.
Carino… poco più grande di Lanzate. Pieno zeppo
di zanzare, se vi interessa
saperlo.»
«Ah,
be’,
di zanzare ce ne sono un mucchio anche qui, adesso»
ribatté Sabrina. «Davvero…
quando eravamo bambine mi beccavo una o due punture a settimana, adesso
mi
sembra che girino in stormi.»
«Ho
notato» borbottò Anna. «Una mi ha punta
anche ieri…»
«Sei
tornata da molto?» indagò ancora Esther.
«Mah,
da
qualche settimana» replicò l’altra.
«Ho da poco preso in affitto un appartamento,
prima stavo da mia zia, la sorella di mia mamma.»
Sabrina
appoggiò il mento su una mano e la osservò con
grande attenzione. «Ma quindi
sei tornata solo per lavoro?»
«Be’,
ecco…» Anna esitò, chiedendosi se il
posto di lavoro all’ospedale fosse
veramente l’unica ragione per cui aveva deciso di tornare a
Lanzate.
«Principalmente sì, sono tornata perché
avevo bisogno di lavorare. Poi, certo,
ho sempre pensato a Lanzate come a casa mia. A Villanuova mi sono
trovata bene,
però mi sono sempre sentita un po’ una straniera:
non so se riuscite a
capirmi.»
Esther
le
rivolse un sorriso storto. «Sì, credo proprio di
riuscire a capirti.»
La
ragazza bruna si sentì arrossire. «Oh…
be’, certo, in effetti…» Ho
fatto una
gaffe? Si chiese.
«E
quindi
sei qui da sola?» la interrogò ancora Sabrina,
cambiando argomento e chiudendo
quella parentesi leggermente imbarazzante.
«Ho
le
mie due gatte» scherzò Anna.
«Nessun
fidanzato?» chiese Esther, insinuante.
«E
che
palle!» sbottò scherzosamente la ragazza bionda.
«Non è che perché tu sei
sposata con l’uomo dei tuoi sogni, allora devono essere tutte
accasate!»
«Chiedo
solo!» si difese l’altra giovane. «Sono
curiosa!»
«Niente
ragazzo» ridacchiò Anna, prima di incupirsi.
«In realtà ce l’avevo fino a poco
tempo fa. Siamo stati insieme per diversi anni e avevamo anche
intenzione di
andare a vivere insieme. Poi, però, è saltato
fuori questo lavoro qui a Lanzate
e lui ha deciso di non seguirmi.»
«Ah…
mi
dispiace» mormorò Esther. «Non potevate
provare ad avere una relazione a distanza?
A volte funzionano…»
Anna
scosse amaramente la testa. «Non eravamo nella situazione per
tentare di
restare insieme nonostante la distanza. Prima lui sembrava
d’accordo sul fatto
che io venissi qui, poi ha cambiato idea all’ultimo minuto.
La sera in cui ci
siamo lasciati ci siamo detti delle cose pesanti e… non
credo che potremo
aggiustare le cose.»
«Ma
tu
vorresti farlo?» le chiese Sabrina.
Anna
esitò. Non era certa di sentirsela di condividere dei
dettagli così intimi
della sua vita con delle persone che non vedeva da tanti anni, ma forse
quella
era l’occasione giusta per affrontare un argomento che la
turbava più di quanto
lei stessa volesse ammettere. Forse parlarne con qualcuno mi
farà bene,
decise. «Non lo so. A volte mi manca, però non sto
davvero male per lui. Mi
sento sola, ma forse è una cosa che non è tanto
legata alla rottura con
Lorenzo, quanto al fatto che questo trasferimento ha sconvolto la mia
vita. E,
comunque, ormai sono diversi giorni che nemmeno lui mi cerca
più.»
«Prima
ti
cercava?» fece ancora la ragazza bionda.
Anna
sbuffò. «Sì. Mi tempestava di chiamate
e di messaggi che nemmeno leggevo. E
poi, di punto in bianco… puff,
è svanito nel nulla.»
Esther
arricciò il naso. «Eh, be’, magari non
ha nemmeno tutti i torti: se tu non lo
filavi di striscio…»
«Ma
sì,
infatti non sto dicendo che ha fatto male. La cosa mi ha lasciato un
po’ così,
ma ormai è acqua passata: si guarda avanti!»
«Ben
detto!» esclamò Esther, battendo un palmo sul
tavolo e facendo sussultare la
cameriera che si stava avvicinando con le loro ordinazioni.
«Sarà scontato, ma
quando si chiude una porta, si apre un portone.»
«Sì?»
sorrise Anna.
«Ma
certo. Fino a un paio di anni fa io stavo insieme a un bastardo.
Proprio un
soggetto pessimo, credimi» disse l’altra,
giocherellando con una treccina blu.
«Il fatto è che ero talmente condizionata da lui
che nemmeno riuscivo a
lasciarlo, benché non ne potessi davvero più
delle sue stronzate. Poi un giorno
sono andata in banca per lavoro e ho conosciuto Michele. Abbiamo
iniziato a frequentarci
e nel giro di un mese ho trovato il coraggio di lasciare il mio ex. E
dopo sei
mesi eravamo sposati.»
«E
adesso
hai un bimbo» commentò Anna con una punta di
ammirazione mista a invidia.
«Una
bimba»
la corresse la sua amica. «Frida. Eccola qui!»
Così
dicendo, Esther le allungò il cellulare. Sullo schermo
faceva bella mostra di
sé la foto di una bimbetta di un anno o poco più,
con la pelle color
caffellatte, un cespo di capelli scuri e brillanti occhi neri. Rideva
felice
con la faccia impiastrata con un’inquietante poltiglia beige.
«Che carina!»
esclamò Anna, sincera.
«Già»
convenne Esther col volto splendente d’orgoglio.
«Comunque era solo per dire
che secondo me fai bene a non continuare a tormentarti per quel tipo,
se sei
convinta di voler andare avanti: se ti guardi in giro, nel giro di poco
troverai qualcun altro.»
«O
magari
hai già messo gli occhi su qualcuno?» si intromise
Sabrina. «Magari un
collega?»
Anna
sbuffò. «Non direi proprio: negli uffici in
ospedale siamo praticamente tutte donne.
E i pochi uomini che ci sono hanno almeno
cinquant’anni.»
«Allora
forse un vicino di casa?» tentò ancora la ragazza
bionda. «O qualcuno che viene
in palestra con te, se vai in palestra?»
Anna
alzò
gli occhi al cielo. «Non vado in palestra e il mio vicinato
lascia piuttosto a
desiderare: annoveriamo un cinquantenne con la pancia, due adolescenti
disagiati, un ultraottantenne e uno stronzo con il macchinone. Ci
sarebbe un
tipo caruccio, ma è sposato e c’ha pure una
figlia. In poche parole, la desolazione
totale.»
«Mh»
commentarono all’unisono le altre due ragazze.
«In
ogni
caso», continuò Anna, «al momento sento
di star bene anche da sola. È vero,
tornare a casa e trovare l’appartamento vuoto è un
po’ triste, ma ora come ora
non ho proprio la forza di iniziare una nuova storia con qualcuno che
non sia
Lorenzo: mi ci vuole un periodo di calma e
tranquillità.»
«Ma
sì»
approvò Sabrina. «Pure io sono single; e ci sto
benissimo!»
Esther
le
rivolse un’occhiata in tralice. «Sei
single?» le chiese con un mezzo sorriso.
«Sicura-sicura?»
La
ragazza bionda aspirò una generosa quantità di
mojito. «Diamine!» sbottò poi.
«Penso proprio che me ne accorgerei, se mi vedessi con
qualcuno.»
L’amica
si sporse verso di lei. «E che mi dici di tutti quei
messaggini che continui a
ricevere da un paio di settimane a questa parte? Credi che non me ne
sia
accorta?»
Sabrina
arrossì e Anna si reclinò contro lo schienale
della sedia, osservando le due
ragazze. Un tempo erano state un terzetto, ma ora c’era
innegabilmente un legame
speciale tra Esther e Sabrina: era una relazione a due dalla quale lei
era
esclusa. Almeno per ora, si disse, determinata a
non perdersi d’animo.
Ora che le aveva ritrovate, aveva tutte le intenzioni di tornare a
frequentarle: grazie a loro, sarebbe riuscita e mettere nuove radici in
quella
città. O almeno intendo fare del mio meglio
perché questo avvenga.
«Fatti
gli affari tuoi» borbottò Sabrina, rispondendo
alla frecciatina dell’amica. «È
un tizio che ho conosciuto attraverso certi giri di mio cugino. Ci
sentiamo
solo ed esclusivamente perché gli servono certe
informazioni…»
«Uh,
che
cosa misteriosa» commentò sarcastica Esther,
punzecchiando con la punta della
cannuccia la fettina di arancia che il barista aveva infilato nel suo
bicchiere.
La
giovane
bionda le puntò addossò uno sguardo fintamente
minaccioso e indicò con un dito
il drink che Esther non aveva ancora toccato.
«Bevi, va’!» le intimò.
«E
smettila di ficcare il naso negli affari altrui.»
Per
tutta
risposta, l’altra si lasciò andare a una risatina
che non prometteva niente di
buono e si rovesciò in bocca una manciata di noccioline.
♥♥♥
Quando
parcheggiò di fronte a casa – a una distanza di
sicurezza dall’odiata Audi nera
– erano ormai quasi le undici. Quello che avrebbe dovuto
essere solo un
aperitivo si era trasformato poi in una pizza e poi in un dopo-cena in
un
barettino dalla deliziosa atmosfera bohème.
Solo lei e Sabrina, però,
perché Esther era ben presto dovuta scappare a casa da
marito e figlioletta,
della quale sentiva già la mancanza.
La
maternità rincoglionisce le persone,
si disse, ricordando la telefonata che l’amica aveva fatto a
una
bambina che quasi certamente non era nemmeno in grado di capire che la
voce
della madre proveniva dal telefono.
Barcollando
leggermente, Anna rotolò fuori dal Panda, cercando di
trovare il proprio
equilibrio sui tacchi che fino a una mezz’oretta prima non le
erano sembrati
così alti. Porca vacca, mi sa che ho un
po’ esagerato con gli alcolici.
L’ultimo giro me lo potevo anche evitare.
Che
poi, lei
non era più abituata a bere. Quando usciva con Lorenzo, si
concedeva al più una
birra (che era anche la cosa che più le piaceva) o al
massimo un cocktail non
troppo forte. Ma non so perché, ho come
l’impressione che Sabry mi condurrà
sulla cattiva strada, se glielo permetto.
Giunta
di
fronte al cancello d’ingresso, la ragazza iniziò a
frugare nella borsetta. Dove
cavolo sono finite le chiavi di casa? Scuotendo
l’intera borsa le sentiva
tintinnare, ma quel maledetto affare era un dedalo di tasche, taschine
e
rientranze e trovare qualcosa al suo interno era meno facile di quanto
si
potesse pensare. Mi servirebbe una luce…
Proprio
mentre formulava quel pensiero, il cancello si aprì davanti
ai suoi occhi. Miracolo!
Pensò Anna, prima di realizzare che di miracolo non si
trattava. Il
cane-coccodrillo! Comprese, immobilizzandosi
nell’atto di infilare una mano
nell’ennesimo taschino laterale della borsa. Il muso bianco
di Yaroslav le
arrivava all’altezza dell’ombelico e lei era
terribilmente consapevole che, se
avesse deciso di alzarsi sulle zampe posteriori, il cane avrebbe in
tutta
tranquillità potuto morderle il naso. O anche le
orecchie.
«Ehm.»
Deglutendo, la ragazza retrocedette di mezzo passo, a malapena
consapevole che
dietro all’animale era comparso anche il padrone –
colui che, evidentemente,
aveva aperto il cancello al posto suo. Yaroslav la seguì
come in trance e poi
le spinse il naso nella pancia, annusandola come se la trovasse
qualcosa di
estremamente interessante. «Ehi, ehi!»
protestò lei, portano istintivamente le
mani sulla testa dell’animale. Solo allora ricordò
che era buona regola non
toccare il capo di un cane sconosciuto, ma Yaroslav non parve
prendersela. Le
sue orecchie ebbero un fremito e il cane prese ad annusarla, mentre la
lunga
coda vaporosa iniziava a ondeggiare.
Però,
che
pelo morbido,
pensò la
ragazza, tastando con le dita la pelliccia setosa che copriva le
orecchie
dell’animale. Improvvisamente, la situazione non le pareva
più tanto
pericolosa. «Un grattino?» gli propose, piegando le
dita all’attaccatura
dell’orecchio sinistro. Per tutta risposta, Yaroslav
inclinò il capo verso la
sua mano, socchiudendo gli occhi con aria chiaramente soddisfatta.
L’idillio
venne spezzato da un tossicchiare impaziente. «Possiamo
andare?» chiese
Oleksander, tirando appena il guinzaglio collegato al collare
dell’animale.
A
malincuore, il cane si staccò da Anna e voltò il
muso per osservare il padrone.
Se non fosse stato impossibile, la ragazza avrebbe giurato che sui suoi
lineamenti canini fosse comparsa un’espressione di
rimprovero. Sentendosi
stranamente leggera, la giovane si appoggiò al muro accanto
al cancelletto e
inclinò il capo all’indietro per incontrare lo
sguardo dell’uomo. «E dove
andate a quest’ora?»
«Il
cane
deve fare la pipì» la informò lui.
«Non gliela faccio fare in giardino.»
«Ah»
commentò Anna, trovando l’informazione stranamente
affascinante. E dove lo
portava? Nelle aiuole praticamente inesistenti? Nei boschi poco
distanti? O
magari lo fa pisciare sulle macchine? Sulla mia, scommetto!
La
ragazza fece per staccarsi dal muro, ma l’equilibrio la
tradì e lei barcollò
più del dovuto. Oleksander, che si stava allontanando, si
fermò e le lanciò
un’occhiata sospettosa. «E tu cosa ci fai in giro a
quest’ora, invece?»
Anna
si
produsse in una risatina sprezzante. «A quest’ora?»
gli rifece il verso.
«Sono appena le undici! Sono uscita con un paio di amiche che
non vedevo da un
sacco di tempo.»
Sul
volto
dell’uomo comparve un’espressione di sufficienza.
«Sei ubriaca, vero?»
Lei
fece
le spallucce. «Forse un pochetto» ammise.
«Anzi, no: sono solo un pochino
alticcia.»
«Quindi
hai guidato in queste condizioni?» fece lui, guardandola con
sdegno. «Dov’è che
hai lasciato il tuo macinino? Lontano dalla mia macchina,
spero.»
«In
realtà l’ho messa vicina vicina alla
tua» sghignazzò Anna, trovando la
conversazione estremante divertente. «Mentre parcheggiavo ho
sentito un
rumoraccio: controlla un po’, va’, che non vorrei
aver fatto qualche danno.»
«Ridi
pure» ribatté lui tra i denti. «Se la
trovo rigata, so a chi chiedere i danni.
Buona serata.» Così dicendo, tirò di
nuovo il guinzaglio di Yaroslav,
convincendolo a muoversi in direzione del parcheggio.
Anna
non
trattenne un gran sorriso. «Ciao, ciao»
ridacchiò. Stava andando veramente a
controllare, l’idiota!
Soddisfatta
per il modo in cui si era conclusa la sua serata, la ragazza fece per
dirigersi
verso il suo appartamento, quando la voce di Oleksander, ormai fuori
dalla sua
portata visiva, la raggiunse per l’ultima volta.
«Dimenticavo: complimenti per
il vestito!»
Allarmata
da quell’osservazione, Anna abbassò lo sguardo sul
proprio corpo e vide che il
tubino che indossava sembrava assai più corto di quanto non
ricordasse. Doveva
essere risalito attorno a i fianchi quando si era faticosamente issata
fuori
dall’auto e adesso non era più lungo di una
maglietta oversize. Eh, be’!
Pensò stizzita. Cos’ha da guardare,
‘sto porco?
Strattonando
la stoffa elasticizzata sopra le cosce, la ragazza rinunciò
a ribattere e tornò
a dirigersi verso la porta di casa. Dopotutto, devo ancora
trovare le
dannatissime chiavi!
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Capitolo 7 *** Capitolo Sette ***
La
pioggia non le era mai piaciuta. Anna si rigirò nel
letto, allontanando con un calcio le coperte sudate e facendo
sussultare
Cassandra che si era rannicchiata ai suoi piedi, sonnecchiando come suo
solito
sul copriletto. Eppure non è
così caldo… anzi! Notò
la
ragazza, scostandosi dal busto la maglia del pigiama. Era di cotone, ma
in quel
momento le sembrava pesante come piombo.
Sono
meteoropatica,
si disse, ascoltando lo scroscio leggero della pioggia di fine
ottobre. Lentamente, Anna si mise a sedere e sospirò
controllando l’ora sul suo
cellulare: il problema non era solo la scarsa tolleranza nei confronti
del
maltempo. Il display dello smartphone la informava
che erano le due e
cinque, il che significava che erano passate tre ore e cinque minuti
dal
momento in cui era andata a letto.
Maledetta
insonnia,
pensò la giovane, stringendo tra le mani il lenzuolo. Si
sarebbe
dovuta alzare per andare al lavoro dopo meno di cinque ore e, se si
conosceva,
non sarebbe riuscita a prendere sonno prima di
un’ora. Non senza aiuti,
per lo meno.
Si
alzò controvoglia e raggiunse il bagno senza nemmeno
calzare le ciabatte, stringendo i denti quando la superficie fredda
delle
piastrelle le aderì alla pianta dei piedi. Eccoci
qui, pensò,
afferrando la confezione di benzodiazepine che il suo medico di base le
aveva
prescritto più di un anno prima. Non mi
eravate affatto mancate,
pastiglie.
Anna
manovrò brevemente con il blister e poi si rigirò
nel
palmo della mano la piccola compressa bianca. Prenderla
tutta o solo
metà? Questo è il dilemma. La ragazza
chiuse gli occhi per un istante e poi
si guardò allo specchio. Si sentiva stanca. Sembrava anche
stanca. Erano già un
paio di notti che non dormiva bene, che sentiva un filo di ansia
serpeggiare
attorno a lei quando la sera si alzava dal divano e si apprestava a
compiere la
routine per andare a letto. È tutta colpa
della pioggia, si disse
ancora, cercando di trovare una spiegazione al malessere che, dopo un
lungo
periodo di tregua, sembrava essere tornato a tormentarla. Della
pioggia
e della solitudine.
Erano
passati ormai più di sette giorni dalla prima e unica
volta che aveva incontrato Sabrina ed Esther. Avevano avuto intenzione
di
incontrarsi più spesso, ma il mal tempo aveva fatto
naufragare i loro piani:
Sabrina odiava muoversi di casa quando pioveva e Frida aveva accusato
un
principio di raffreddore che aveva fatto precipitare nel panico Esther.
Di
conseguenza, niente uscite in compagnia. Non che quando fosse a
Villanuova Anna
avesse chissà quale vita sociale, ma la nuova routine fatta
di casa, lavoro,
supermercato e ancora casa stava iniziando a lasciare il suo segno
nefasto
nella psiche della giovane.
E
poi, quando stavo a Villanuova avevo Lorenzo.
Il pensiero del suo ex ragazzo e,
di conseguenza, di ciò che aveva perso aprì una
voragine di malinconia nel suo
petto. Non le mancava Lorenzo, no: le mancava il fatto
di stare con
Lorenzo, di scherzare con lui, di preparare una torta insieme, di farsi
un giro
in bici in compagnia e di farsi coccolare acciambellata sul
divano. Mi
sento tanto sola, riconobbe, mentre lacrime trattenute a
stento le
inumidivano gli occhi. Mi manca la mamma, e Paolo e
Francesco e Giulio
ed Enea…
Inspirando
a fondo per reprimere un singhiozzo, Anna si
gettò in bocca la pastiglia di sonnifero e si
chinò per bere un sorso d’acqua
direttamente dal rubinetto. È roba
leggera, questa, si
consolò. Il dottore mi aveva detto di prenderla
ogni volta che ne avessi
avuto bisogno. Non da dipendenza, a queste dosi.
Ma
non era tanto quello, il problema. Estraendo tutto il
contenuto della confezione di cartone, contò il numero delle
pillole residue:
quindici, un blister e mezzo. Ne ho per quindici
giorni o, se sono
brava, per un mese. Se fosse ricaduta nel circolo
vizioso
dell’insonnia, dove la paura di non dormire generava una
tensione che rendeva
effettivamente impossibile prendere sonno, quelle poche compresse
sarebbero
sparite rapidamente, e allora le sarebbe toccato recarsi dal suo nuovo
medico
di base per chiederne delle altre. Che bella
presentazione: non mi ha mai
vista e la prima volta che gli arrivo in studio è per
chiedergli dei sonniferi.
Mi prenderà per una depressa o una drogata.
Riponendo
risolutamente i blister nella loro confezione, la
ragazza si costrinse a respirare profondamente, concentrandosi solo sul
flusso
dell’aria che le entrava e usciva dai polmoni. Con gli occhi
chiusi si portò
una mano all’altezza dello sterno, alla ricerca della riprova
tattile del fatto
che il ritmo del suo respiro si stava facendo più lento e
profondo. Nella piega
del collo, appena al di sopra della clavicola sinistra, avvertiva il
battito
concitato del cuore. Calmati, si impose, svuotando
completamente i
polmoni e poi lasciando che l’aria tornasse lentamente a
riempirli.
Quando
il calore che le aveva invaso il corpo iniziò a
scemare, la ragazza riaprì gli occhi e fissò il
proprio volto pallido riflesso
nello specchio del bagno. Si sentiva già un po’
meglio, ma sapeva per
esperienza che se fosse tornata subito a letto avrebbe vanificato tutti
gli
sforzi compiuti per riprendere il controllo sulla propria psiche.
Venti
minuti,
pensò, abbassando lo sguardo sull’orologio: tanto
ci voleva
perché la pillola che aveva ingerito facesse effetto. Nel
mentre, non poteva
guardare la tv o intrattenersi con il cellulare perché,
stando a quanto le
aveva detto una volta il suo medico, quelle attività non le
avrebbero permesso
di rilassarsi. Lasciando il bagno a passi lenti, Anna si diresse verso
il
salotto. Acciambellata su uno dei cuscini del divano, Calliope dormiva
tranquilla. La ragazza le si sedette accanto con uno sbadiglio,
sentendo già
una piacevole sonnolenza premerle sugli occhi. Probabilmente
mi sto
autoconvincendo che la pastiglia stia già facendo effetto,
ma chi se ne frega.
Distrattamente,
la giovane allungò una mano verso la gatta e
con la punta di due dita disegnò il contorno di una macchia
nera così ben
definita da essere riconoscibile anche nel buio della notte. Calliope
la lasciò
fare per qualche secondo e poi emise un miagolio soffocato,
acciambellandosi in
un gomitolo felino ancora più compatto di prima. Messaggio
ricevuto,
pensò Anna, rimettendosi in piedi con un gemito. Vuoi
essere lasciata in
pace.
Fuori,
lo scroscio della pioggia sembrava essere scomparso. Che
abbia finalmente smesso di piovere? Si chiese occhieggiando
in direzione
della portafinestra. Afferrando la coperta di plaid drappeggiata sullo
schienale del divano, Anna se la gettò attorno alle spalle e
se la strinse
addosso, raggiungendo la porta che dava sul giardino. Non appena ebbe
messo
piede fuori dall’uscio, la ragazza si rese conto di aver
commesso un errore: la
coperta le teneva al caldo busto e gambe, ma non faceva nulla per i
suoi poveri
piedi a contatto con la fredda lastra di marmo posizionata appena oltre
la
portafinestra. Dondolando da un piede all’altro e tentando di
scaldarseli un
poco alla volta appoggiandone la pianta sugli stinchi coperti dal
pigiama, la
giovane annusò l’aria: anche se le nuvole basse
che ancora ingombravano il
cielo avevano smesso di scaricare a terra il loro contenuto,
c’era odore di
pioggia, di terra, di foglie morte e di fumo di sigaretta.
Fumo
di sigaretta? Anna
arricciò il naso e si guardò attorno, cercando di
identificare la fonte di quell’odore molesto. Non fu sorpresa
di scoprire che
veniva dal giardino alla sua sinistra. Eh!
Pensò con un mezzo sorriso
sarcastico. Certo che ce li ha proprio tutti, i difetti,
quello lì! La
cosa che più la incuriosiva, però, era capire che
cosa ci facesse Oleksander in
piedi a quell’ora: che soffrisse anche lui
d’insonnia? Sulle prime non ci aveva
fatto caso, assonnata com’era, ma ora vedeva che
nell’appartamento del suo
vicino di casa c’era una luce accesa.
Anna
represse un brivido. Faceva freddo lì fuori e
l’umidità
che permeava l’aria stava iniziando a superare lo scudo della
coperta di plaid.
Presto le sarebbe penetrata fin nelle ossa, e allora sarebbe stato
difficile
scaldarsi quel tanto che bastava per prendere sonno. Proprio mentre
stava
valutando se potesse tornare a coricarsi anche se non erano ancora
passati i
venti minuti raccomandati dal bugiardino del farmaco che aveva assunto,
un
baluginio arancione attirò la sua attenzione. Oddio!
Pensò la ragazza,
con un sussulto. Ma è in giardino anche lui? Non
me n’ero accorta!
Il
primo istinto fu quello di balzare indietro e di
nascondersi nella sicurezza del suo appartamento, ma si trattenne. Se
l’idea
era ridicola ai suoi stessi occhi, figurarsi a quelli di Oleksander, se
si
fosse accorto della sua fuga scompagnata. Muovendo appena il capo per
evitare
di attirare l’attenzione, Anna sbirciò verso il
giardino alla sua sinistra.
Riusciva a intravvedere la sagoma dell’uomo attraverso la
cortina formata dalla
rete metallica e dai rami del gelsomino che vi crescevano sopra: era
immobile,
esattamente come lei, e solo il suo braccio destro si alzava e
abbassava di
tanto in tanto, portando alle labbra la sigaretta accesa.
Non
si è accorto che sono qui,
pensò, oppure se n’è accorto
benissimo e ha deciso di ignorarmi. Anna si
abbracciò per tenersi un po’ al
caldo e si chiese se fosse il caso di dire qualcosa, magari di
rivolgergli
anche solo un saluto di circostanza per conservare una parvenza di
buone
maniere. Ma ho davvero voglia di mettermi a fare
conversazione? Si
chiese, distogliendo per un attimo lo sguardo dalla sagoma scura
dell’uomo. E
che cosa dovrei dirgli? “Ehi, ciao, questa è
davvero una bella nottata per
trovarsi in giardino vero? Sai com’è, di solito a
quest’ora dormo, ma questa
notte non riesco a chiudere occhio perché mi sento sola e ho
paura di essermi
infilata in un vicolo cieco e mi sento completamente persa e spaesata.
E tu,
invece? Qual è il tuo problema? Cos’è
che ti spinge a fumare in giardino in piena
notte?”
Le
parole erano lì, sulla punta della lingua, ma Anna
sentì
il fiato morirle in gola. Lasciamo perdere, si
disse. Considerata la
sua disarmante simpatia, come minimo mi ride in faccia e mi dice di
farmi i
fatti miei. La giovane sospirò. L’idea
di parlare con qualcuno che non
fossero le sue gatte era allettante, ma sentiva di non avere la forza
di
intrattenere una conversazione notturna con il suo irritante vicino di
casa.
Con
un’ultima occhiata fugace in direzione dell’uomo,
la
ragazza si voltò per tornare in casa. Con estrema
attenzione, si chiuse la
portafinestra alle spalle, evitando di fare rumore: chissà
perché,
improvvisamente le pareva di vitale importanza che Oleksander non si
accorgesse
che c’era anche lei, appostata nella notte umida di pioggia. Non
voglio che
mi faccia qualche battutina stupida, la prossima volta che ci vediamo,
si
disse. Non voglio trovarmi costretta a spiegargli cosa
c’è che non va nella
mia vita.
Muovendosi
quasi in punta di piedi tornò in camera da letto
e si infilò sotto le coperte. Il lenzuolo ancora caldo la
avvolse come in un
abbraccio e Anna si scoprì a chiudere gli occhi, compiaciuta
e in un certo modo
confortata da quel tepore morbido. Pochi istanti più tardi
piombò in un sonno
improvviso e non del tutto naturale.
♥♥♥
«Sei
sveglia o cosa?»
Anna
sussultò, rendendosi conto solo in quell’istante
che
erano ormai diversi minuti che stava fissando lo schermo del computer
con aria
vacua, gli occhi persi tra le righe regolari di Outlook.
Giulia, seduta
nella scrivania di fronte alla sua, si stava sporgendo dalla sedia per
guardarla meglio. Sembra una volpe,
pensò inconsciamente la ragazza. Le
era sempre sembrata una volpe, col viso pallido e
appuntito, il naso
all’insù, i grandi occhi verdi segnati dalle rughe
d’espressione e i capelli
rossi – palesemente tinti – corti e folti come la
pelliccia dell’animale
selvatico.
La
ragazza sbatté un paio di volte le palpebre nel tentativo
di riprendersi. «Ehm… sì. Scusa, sono
solo un po’ stanca.»
La
sua responsabile si diede una spintarella all’indietro e,
comodamente seduta sulla sua sedia da ufficio, scivolò verso
il muro alle sue
spalle. «Infatti hai l’aria sbattuta»
decretò, studiando la collega più giovane
con aria critica.
Anna
sospirò e si tolse gli occhiali, posandoli accanto alla
tastiera del computer. Si strofinò gli occhi per qualche
istante, ricordandosi
solo quando era troppo tardi che quella mattina aveva deciso di mettere
sia il
mascara che l’eyeliner. Perfetto,
pensò demoralizzata, adesso
sembrerò un panda. «Si nota
tanto?» chiese, inforcando nuovamente la
montatura metallica. «Questa notte ho dormito male.»
Gli
occhi chiari di Giulia si assottigliarono pensosi. «Ti
capita spesso di dormire male?»
Nervosamente
Anna ricordò che la collega aveva intrapreso
degli studi di psicologia e che, anche se non li aveva mai portati a
termine,
amava definirsi un’esperta della psiche umana. «Non
spesso» replicò la ragazza:
solo una mezza bugia, dal momento che l’insonnia
l’aveva lasciata in pace per
parecchi mesi, prima dell’episodio di quella notte.
«Forse sono solo un po’
stressata.»
«È
il lavoro che ti stressa?» la interrogò la donna.
La
ragazza si maledisse mentalmente per quell’uscita poco
fortunata: lavorava in ospedale da troppo poco tempo per potersi
permettere di
far credere al suo capo che si stesse lamentando e che fosse meno che
entusiasta della sua mansione. «No, no» si
affrettò a dire. «Il lavoro mi piace,
lo sai. È tutto l’insieme che mi mette un
po’ in difficoltà. Forse ho un po’
sottovalutato tutti i cambiamenti che sto affrontando in questo
periodo.»
Giulia
annuì saggiamente. «Ti sei trasferita a Lanzate da
sola, vero? Abiti per conto tuo.»
«Già»
confermò Anna. «Sono contenta di essermi
trasferita,
eh, non fraintendermi. Sentivo di aver bisogno della mia indipendenza e
il
fatto di avere finalmente un buon lavoro mi da molta fiducia in me
stessa,
però…»
«Però?»
la incalzò Giulia.
«Be’,
è stato un bel cambiamento. Portare avanti una casa da
sola è meno facile di quello che credessi, ma il punto non
è nemmeno quello.
Prima ero abituata a vivere con mia madre e il suo compagno, e avevamo
anche
una sorta di famiglia allargata, visto che eravamo sempre a stretto
contatto
anche con il mio fratellastro e i suoi bambini. Ero abituata a vivere
nel
rumore e nella confusione e il silenzio che trovo adesso quando rientro
a casa
è… strano.»
«Un
po’ alienante» suggerì comprensiva
l’altra donna.
«A
volte sì» confessò la giovane.
«A volte lo trovo anche
rilassante e non mi dispiace non avere nessuno che mi dice cosa fare e come
farlo, ma credo che mi ci vorrà un po’ di tempo
per abituarmi a questa novità.»
«E
quindi è stato il silenzio a non farti dormire questa
notte?»
le chiese ancora Giulia.
Anna
esitò. «Più che il silenzio, la
solitudine» ammise con
un sospiro.
Sul
volto della sua collega passò un sorrisetto rapido e
malizioso. «Oh… quindi prima
non eri abituata a dormire da sola, eh?»
La
ragazza inorridì nel sentirsi arrossire a quella
frecciatina. «No!» sbottò.
«Cioè, sì! Voglio dire…
avevo un ragazzo, ma non
convivevamo, quindi ero abituata a dormire da sola. Non è
quello il problema.»
Giulia
scrollò il capo. «Ma sì, scherzavo. Ho
capito
benissimo qual è il problema: ti mancano la tua famiglia e i
tuoi amici e tu ti
senti sola e lontana da casa. Il ragazzo c’è
ancora?»
Anna
sbuffò e afferrò istintivamente il mouse,
sentendo l’improvviso bisogno di stringere tra le dita
qualcosa di concreto. «No,
non c’è più»
mugugnò. «Ci siamo lasciati. Anzi, l’ho
lasciato io. Lui non
voleva che io tornassi a Lanzate e mi ha fatto una mezza scenata che mi
ha
fatto capire che tra noi due non poteva andare avanti.»
«Mh.»
Giulia appariva dubbiosa. «Stavate insieme da
molto?»
Anna
scrollò le spalle. «Sì: da parecchi
anni» mormorò. Poi
si riscosse. «Però non mi sono pentita di averlo
lasciato. È stata come una
rivelazione. Come si dice? Un’epifania, ecco:
all’improvviso ho aperto gli
occhi e mi sono accorta che noi due non volevamo veramente le stesse
cose. E a
quasi trent’anni non è una cosa da poco, questa.
Siamo adulti, ormai: non
possiamo più giocare a fare i fidanzatini, è ora
di iniziare a pensare
seriamente al futuro. O no?»
L’altra
donna sgranò gli occhi. «Oddio, ti ricordo che
stai
parlando con una divorziata: per quanto mi riguarda, i piani per il
futuro
valgono quello che valgono. Però, se ne sei convinta tu,
allora hai fatto bene
a lasciarlo.»
C’era
qualcosa nel suo tono che fece storcere il naso ad
Anna. «Tu pensi che non abbia fatto bene a lasciare Lorenzo?
Il mio ragazzo,
intendo?»
Giulia
sollevò cautamente le spalle. «Non lo so, non
posso
giudicare senza conoscere la situazione. Però io mi fido
poco delle
illuminazioni improvvise: ritengo che spesso siano influenzate da umori
del
momento che di profetico hanno poco o niente. Detta in altre parole:
Lorenzo ti
ha fatto girare i coglioni e tu hai deciso che era un verme e che non
volevi
più avere nulla a che fare con lui. Magari, se aveste
ragionato a mente fredda,
avreste potuto vedere le cose in modo diverso.»
Era
davvero così? Anna rifletté attentamente su
quello che
provava e aveva provato per Lorenzo e rivisse la serata in cui tutto
era
finito. Poi scosse il capo. «No, io non credo che si sia
trattato di una
decisione così impulsiva. C’erano già
delle cose che non mi piacevano di lui,
solo che le ignoravo per comodità. Poi è saltato
fuori questo lavoro, c’è stata
la necessità di trasferirsi e abbiamo dovuto affrontare la
faccenda: però sono
convinta che abbiamo solo accelerato le cose. Non credo che sarebbe
andata
diversamente, alla lunga.»
«Quand’è
così…»
«Non
mi manca» continuò Anna. «O meglio,
sì, mi manca, ma
solo perché ero abituata alla sua presenza. Se domani mi
comparisse davanti e
mi chiedesse di tornare insieme, lo caccerei via. Non vorrei tornare
insieme a
lui.»
Giulia
annuì e le rivolse un sorriso incoraggiante. «Ti
vedo
decisa, il che è un bene. Però cosa pensi di fare
per questo senso di
solitudine? Se ti impedisce di dormire bene, è una cosa che
va affrontata.»
Anna
allargò le braccia, sentendosi impotente. «Ho
ripreso i
contatti con due ragazze che conoscevo alle elementari. Siamo uscite
solo una
volta, ma ci siamo trovate benissimo: eravamo molto amiche, da bambine,
e anche
se sono passati un mucchio di anni credo che potremmo tornare a
esserlo.»
Il
sorriso di Giulia si fece più pronunciato. «Bene!
Questo
è un bene.»
La
ragazza si mordicchiò inconsciamente le labbra.
«Sì, però
il problema è che ci vediamo troppo poco, per i miei gusti.
Posso uscire con
loro due o tre volte al mese, ma poi? Tutti gli altri giorni cosa
faccio? Mi
piacerebbe conoscere altra gente, ma non so come
fare…»
La
donna seduta di fronte a lei rifletté per qualche
istante, poi parve illuminarsi. Puntando le punte dei piedi sul
pavimento, si
spinse in avanti e arrivò ad appoggiare i gomiti sulla
scrivania. «Ti serve un
hobby» sentenziò. «Un
passatempo.»
«Lo
so» gemette Anna. «Mi hanno proposto di iscrivermi
in
palestra, ma non ne ho voglia. Io schifo, odio e aborrisco
l’esercizio fisico.»
Giulia
la guardò con disapprovazione. «Sì,
brava. Ne
riparleremo quando ti cambierà il metabolismo e i rotoli di
ciccia si
accumuleranno su quel bel pancino piatto che hai adesso.»
«Grassa,
ma felice» ribatté l’altra,
imperturbabile.
Sul
volto della collega passò un’espressione scettica,
ma la
donna lasciò cadere l’argomento.
«Comunque, se vuoi la mia opinione, penso che
sarebbe una buona idea unire l’utile al dilettevole: ti piace
leggere?»
Presa
in contropiede da quella domanda, la ragazza si
ritrasse leggermente insospettita. «Be’,
sì. Perché me lo chiedi.»
«Ma
anche ad alta voce?» insistette Giulia. «Del tipo,
ti
piace leggere le fiabe?»
La
mente di Anna corse agli innumerevoli pomeriggi di
pioggia passati a leggere fiabe e leggende a Giulio ed Enea. Lei faceva
le voci
dei diversi personaggi e i due bambini ridevano come matti.
«Solo se il
pubblico non è troppo esigente. Perché?»
«Lo
sai che in ospedale abbiamo una biblioteca, vero?» fece
la donna. «I pazienti che hanno il permesso di lasciare il
loro reparto possono
visitarla in determinati orari, ma di pomeriggio offriamo anche un
servizio in
più tramite lo Sportello Volontariato: guarda un
po’ sullo scaffale dietro di
te, dovrebbe anche esserci un volantino.»
Frugando
tra le varie brochure sparpagliate alle sue
spalle, Anna ne trovò una rosa e verde che titolava
“Un Libro per Amico”. «È
questo?» chiese, mostrando l’opuscolo alla collega.
«Esatto»
annuì lei. «In sostanza, siamo un gruppo di
volontari che portiamo avanti una sorta di spazio di lettura. Il
servizio è
attivo dalle 16:00 alle 18:00, ma i volontari possono mettersi a
disposizione
anche solo per una mezz’oretta a settimana, se non hanno
molto tempo libero. Se
ti interessa, potresti andare in biblioteca direttamente dopo il
lavoro.»
Anna
aggrottò la fronte. «Non ho ben capito di cosa si
tratta…»
«Si
leggono dei libri ad alta voce a uno o più
pazienti»
spiegò Giulia con evidente orgoglio. «Ovviamente
la cosa è organizzata in base
a dei gruppi: per i pazienti pediatrici, per esempio, raduniamo quattro
o
cinque bambini e gli leggiamo delle fiabe, magari anche interpretandole
un po’.
Con gli adulti – e parliamo soprattutto di pazienti
geriatrici, di vecchietti –
facciamo invece delle letture individuali, salvo casi particolari.
Insomma,
moduliamo il servizio a seconda del tipo di utenza che
abbiamo.»
Anna
si rigirò il volantino tra le mani. «Sembra una
cosa
carina» mormorò, osservando le foto che
corredavano le didascalie. «Prima di
trasferirmi qui leggevo spesso le fiabe ai miei
nipotini…»
Giulia
sorrise di nuovo. «Oggi pomeriggio hai qualcosa di
particolare da fare? Potresti provare a fermarti anche tu: sbrighiamo
due
formalità burocratiche e poi ti faccio conoscere il resto
del gruppo.»
Prima
ancora di poter formulare una risposta, Anna sentì un
sorriso lento distenderle le labbra. «Mah, perché
no? Non ho impegni
particolari…»
«Ottimo!»
esultò Giulia. «Siamo un bel gruppetto: sono
sicura che ti troverai benissimo. Ci sono anche diversi ragazzi
giovani,
sicuramente riuscirai a farti dei nuovi amici.»
Per
tutta risposta, Anna ricambiò il suo sorriso. Farsi dei
nuovi amici? Quella sì che era una bella prospettiva.
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Capitolo 8 *** Capitolo Otto ***
«Che
cos’è un serpente a sonagli?»
La
domanda veniva da un bambino
con due grandi occhi azzurri e un paio di denti mancanti. Anna
abbassò il
foglio che teneva tra le mani e osservò il suo piccolo
interlocutore. «È un
serpente con una specie di… sonaglietto sulla
coda» spiegò. «Una specie di
pallina: lui agita la coda e la pallina suona.» O almeno
credo, aggiunse poi
silenziosamente.
«E
perché agita la coda?» chiese
la bambina dai tratti andini seduta a terra con le gambe compostamente
incrociate. Era piccola e grassottella e qualcuno le aveva pettinato i
capelli
in due graziosi codini neri che le restavano dritti in testa.
Prima
di rispondere, Anna spostò
lo sguardo sul terzo ragazzino che le era stato assegnato: era
più grande degli
altri due ed era incastrato in una sedia a rotelle. La sua gamba
destra,
ingabbiata in una sorta di impalcatura metallica la cui funzione era
sconosciuta alla ragazza, era tesa davanti a lui. Poveretto,
pensò la giovane
con un moto di compassione nei suoi confronti. Era probabilmente troppo
cresciuto per le fiabe e infatti pareva sonnecchiare, palesemente poco
interessato alle vicende del Serpente a Sonagli e ai suoi litigi con la
Stella
Polare.
«Il
serpente scuote la coda quando
è arrabbiato» spiegò pazientemente
Anna, tornando a rivolgersi alla bambina.
Quella
le rivolse uno sguardo
scettico. «Uhm… sei sicura?» la
interrogò, puntandole addosso i suoi brillanti
occhi neri. «Il mio cane scodinzola quando è
contento, non quando è arrabbiato.
Magari il serpente scodinzola perché così suona
il… il sonaglio e lui può fare
un po’ di musica per i suoi amici.»
Beata
innocenza, pensò Anna con un
sorrisetto. «Be’, però qui stiamo
parlando di un serpente, non di un cagnolino.
I serpenti fanno un po’ schifo, sono freddi, invece i cani
sono carini e
coccolosi… no?» A parte il cane-coccodrillo che
alberga da parte a casa mia:
per decidere se è carino e coccoloso anche lui mi serve
qualche ulteriore
verifica empirica.
«A
me piacciono i serpenti»
bofonchiò il ragazzino sulla sedia a rotelle, aprendo un
occhio appannato.
«Sono fighi.»
Anna
si rabbuiò. «Evita di usare
certe parole» lo rimbeccò a bassa voce.
«Ci sono dei bambini piccoli!»
Il
ragazzino – Leonardo, se non
ricordava male – alzò gli occhi al cielo e
tornò a sonnecchiare.
«Beh!»
riprese Anna, tornando a
rivolgersi ai due bambini che le dedicavano un minimo di attenzione.
«Vogliamo
scoprirla, questa storia del serpente e delle stelle, oppure
no?»
Quando
i due piccoli annuirono con
un movimento perfettamente sincronizzato, Anna riprese in mano la sua
fotocopia
e iniziò a leggere.
Una
ventina di minuti più tardi –
tanto le ci era voluto a leggere una paginetta, tra interruzioni e
commenti
vari – la ragazza si stiracchiò e si
alzò in piedi. «Allora?» chiese, rivolta
al suo pubblico. «Vi è piaciuta la
storia?»
«Era
figa» commentò mollemente
Leonardo.
La
ragazza lo fulminò con gli
occhi. «Ma se nemmeno l’hai ascoltata!»
sbottò. «Hai praticamente dormito tutto
il tempo!»
«Bugia!»
ribatté lui. «Ho
ascoltato tutto, invece: parlava di un serpente che era geloso della
stella
polare e allora la mordeva, poi lei rimaneva paralizzata e lui mordeva
tutti,
anche i cacciatori. E poi lui è stato trasformato in una
stella, anche se non
ho capito bene perché.»
Anna
arricciò il naso. Al di là
del fatto che Leonardo l’avesse apparentemente apprezzata,
doveva riconoscere
che si trattava di una storiella abbastanza insulsa e nemmeno
particolarmente
adatta ai bambini. Perché diavolo mi hanno fatto leggere una
storia che parla
di bestie velenose e di gente che muore? La prossima volta chiedo che
mi diano
il Brutto Anatroccolo o qualcosa del genere! «Va bene,
bambini!» disse. «Per
oggi è tutto. Ci vediamo un altro giorno, ok?»
Un’infermiera
che si era
materializzata accanto a lei prese per mano i due bambini
più piccoli e li condusse
fuori dalla biblioteca. La ragazza li guardò allontanarsi
con uno strano
dolorino all’altezza del petto e una punta di tristezza che
le stringeva la
gola: i due piccoli sembravano in salute, ma se si trovavano in
ospedale, un
motivo c’era. Anna trasse un respiro profondo e poi si
riscosse. «Hai bisogno
di una mano?» chiese, abbassando lo sguardo su Leonardo.
Quello
scrollò il capo con
decisione. «No, faccio da solo» replicò,
afferrando le ruote della sedia a
rotelle e iniziando ad armeggiare per spostarsi in avanti. Era evidente
che
aveva qualche difficoltà, ma Anna decise di non intervenire:
il bambino era già
abbastanza grande per offendersi per un aiuto non desiderato.
«Cos’è
quella cosa che hai attorno
alla gamba?» chiese allora.
Leonardo
parve brillare
d’orgoglio. «Me la stanno allungando»
disse, con il tono di chi stava
annunciando una cosa meravigliosa. «Era un po’
più corta dell’altra e camminavo
male. Quei ferri mi entrano nelle ossa e le tirano, capisci? Solo che
ce n’è
uno che mi fa un po’ infezione e quindi vogliono tenermi
d’occhio.»
Troppe
informazioni, pensò Anna,
rabbrividendo al pensiero di ossa allungate a forza. Ammesso che la
spiegazione
del ragazzino fosse attendibile, ovviamente. «E non ti fa
male?» chiese.
«Oh,
sì, fa malissimo» confermò
Leonardo con entusiasmo. «Prendo un sacco di
pastiglie.»
«Ah…»
Prima
che il bambino potesse
aggiungere altro gli si avvicinarono due giovani uomini. Il
più alto dei due,
che indossava un camice da infermiere, afferrò con decisione
le maniglie della
carrozzina, ignorando le proteste del suo occupante. «Avanti,
Leo: è ora di
tornare in camera!»
«Ma
no!» sbuffò il ragazzino. «Non
ne ho voglia! Non possiamo restare qui ancora un
po’?»
«Niente
da fare» replicò serafico
l’infermiere. «Qui ci puoi tornare domani, se fai
il bravo e se non litighi con
il tuo compagno di stanza.»
Leonardo
storse le labbra in una
smorfia contrariata. «Sì, va be’. A me
quello lì sta antipatico.»
L’altro
ragazzo, un giovanotto
biondo e con il naso aquilino, gli rivolse un gran sorriso.
«Non possiamo
conoscere solo persone simpatiche, Leo caro.»
Mentre
l’infermiere lo spingeva
verso la porta, Leonardo mugugnò qualcosa: Anna non
riuscì a decifrare le sue
parole, ma aveva il forte sospetto che si trattasse di qualcosa che un
ragazzino
della sua età non avrebbe nemmeno dovuto sognarsi di
pronunciare.
«Che
tipo» commentò con un sorriso
il ragazzo biondo, apparentemente divertito dal malumore del bambino.
«Già»
annuì educatamente Anna.
«Mentre leggevo la storia sembrava stesse dormendo, ma in
realtà pare che abbia
sentito tutto…»
Il
ragazzo sospirò. «Si annoia. È
entrato per un’operazione veloce e invece, tra una
complicanza e un imprevisto,
è in ospedale da molto più tempo del
dovuto.» Poi spostò la sua attenzione
sulla ragazza che aveva di fronte. «Oh, comunque io sono
Andrea» le disse,
porgendole la mano.
«Anna»
replicò lei.
«Come
la mia ex» commentò lui,
lasciandola un attimo senza parole. «Hai iniziato
oggi?»
La
ragazza si schiarì la voce.
«Sì. Cioè, qui in biblioteca
sì, ho iniziato oggi, mentre in ospedale ci lavoro
già da un paio di settimane.»
Quell’informazione
parve accendere
la curiosità del giovane. «Lavori qui? Sei negli
uffici o nei reparti?» chiese,
scrutandola da capo a piedi come se il suo aspetto fisico potesse
aiutarlo a
scoprire la sua professione.
«Negli
uffici» replicò lei.
«Lavoro all’URP, e infatti è stata la
mia responsabile a propormi di fare un
po’ di volontariato qui: è convinta che possa
aiutarmi a migliorare la mia vita
sociale.»
Il
sorriso sul volto di Andrea si
fece ancora più pronunciato. «Ah, allora sei
un’altra delle prede di Giulia:
lei è tra le fondatrici di questo sportello e ha reclutato
di persona un sacco
di volontari. Ha portato qui anche me, sai?»
«Sì?»
fece Anna, studiandolo con
più attenzione. Aveva un volto molto particolare ed era
certa che, se lo avesse
già visto in giro per l’ospedale, se lo sarebbe
certamente ricordato.
«Io
non lavoro qui» precisò lui,
come per prevenire la domanda che stava prendendo forma nella testa
della
giovane. «Ma lei e mia madre frequentano un corso di pilates
insieme e a quanto
pare hanno convenuto che io abbia fin troppo tempo libero. Il che
è
un’illazione priva di fondamento, naturalmente: è
più il tempo che sono in giro
per l’Italia, che quello che sono seduto alla mia
scrivania.»
«Viaggi
per lavoro?» chiese Anna –
più per educazione che per reale interesse.
Lui
fece un vago cenno con la
mano. «Sì, seguo dei vari progetti, faccio delle
ispezioni… roba noiosa che non
credo ti interessi davvero.»
Touché,
pensò lei arrossendo
leggermente.
«Comunque
sono contento che mi
abbiano convinto a partecipare a questo progetto»
continuò Andrea con un
sorriso. «Mi piace, mi rilassa e mi sembra che rilassi anche
le persone che
ascoltano quello che leggo. Se posso, io tendo però a
evitare le favole: non
fanno proprio per me.»
«E
allora cosa leggi?»
Lui
le sventolò sotto il naso un
libro piuttosto sciupato. «Epica. Vedi? L’Orlando
Furioso.»
«Wow»
replicò lei ammirata. «E
riesci a leggere bene quella roba? Voglio dire: quando ci provo io,
finisco
sempre per fare una cantilena inascoltabile.»
«La
devi interpretare» scandì
Andrea, puntando gli occhi azzurri in quelli neri di Anna.
«Fare del teatro. Se
vuoi, uno di questi giorni ti do una dimostrazione. Magari ti accolgo
tra il
mio pubblico, che ne dici?»
Lei
rispose con un sorriso e si
chiese brevemente se dietro all’invito del ragazzo ci fosse
un secondo fine. Ma
non mi pare, ragionò guardandolo di soppiatto. È
uno strano soggetto, ma non mi
da l’impressione che ci stia provando: forse vuole veramente
farmi vedere
quant’è bravo a leggere roba scritta in versi.
«Be’, perché no?» concesse
dopo
una breve riflessione.
«Magnifico!»
annuì lui, con un
sorriso che andava da un orecchio all’altro.
«Magari più in là potremmo
addirittura fare una roba recitata: sai, sto cercando volontari per un
certo
progetto che ho in mente…» Poi lo sguardo di
Andrea parve focalizzarsi con più
intensità sul suo volto. «Di’ un
po’: ma tu sei di queste parti? Hai come un
accento un po’ strano… tra un paio di mesi sarai
ancora qui, vero?»
Anna
distolse lo sguardo per
qualche istante. «Sono… sono originaria di
Lanzate, sì, ma ho vissuto altrove
per parecchi anni. Sono appena rientrata alla base, per così
dire, ma ho
intenzione di rimanerci.»
«Per
sempre?» le chiese lui a
bruciapelo.
Davanti
a quella domanda, la
ragazza sentì montare in sé un’ondata
di panico. «Oddio… non lo so. Non ci ho
pensato» balbettò. «Forse. Per ora mi
sono trasferita per lavoro…»
Il
sorriso di Andrea si spense un
po’, come se il giovane avesse capito di aver toccato un
tasto dolente. «Ah.
Scusa, non volevo ficcare il naso in affari che non mi riguardano.
Suppongo che
tu sia qui da sola, quindi?»
Anna
dovette reprimere un moto di
fastidio. Quante volte mi toccherà ancora affrontare questa
conversazione, oggi?
Deglutendo per allontanare il nodo che le si era formato in gola, la
ragazza si
costrinse a fare buon viso a cattivo gioco. «Non sono proprio
da sola, in
realtà. Ho ancora una zia che abita in paese e che vedo
spesso. E poi ci sono
un paio di amiche con cui ho ripreso i contatti. Certo, il resto della
mia
famiglia è a Villanuova, ma…»
«Villanuova?»
la interruppe
Andrea.
Anna
sbatté un paio di volte le
palpebre, confusa. «Sì… non dirmi che
sai dov’è. Non è esattamente una
località
turistica.»
«Ma
certo!» fece lui. «Ultimamente
ci sto andando spessissimo per lavoro. Resto giù anche per
due o tre giorni a
settimana… sto seguendo un progetto alla Oltrafer. La
conosci?»
La
ragazza ebbe l’impressione che
la saliva le evaporasse dalla bocca. «Sì. Ci
lavora il mio ex» rispose, con la
lingua stranamente impastata.
Andrea
sgranò gli occhi. «Ma no! E
come si chiama?»
«Lorenzo»
fece Anna, prima di
riuscire a trattenersi.
«Lorenzo…»
ripeté il giovane,
meditabondo, come se stesse cercando di ricordare se conoscesse
qualcuno che
rispondeva a quel nome.
«Ma
non andare a cercarlo!» si
affrettò a dire la ragazza, avvicinandosi di un passo a lui.
«Non dirgli
niente, non dirgli che… che ci siamo conosciuti. Non ci
siamo lasciati
benissimo e non vorrei che lo prendesse come un invito a cercare di
contattarmi.»
Il
giovane levò subito le mani in
segno di pace. «Ma figurati se vado a cercarlo!»
esclamò. «Non è mia abitudine
andare a ficcare il naso nelle vite degli altri: chiedevo per semplice
curiosità. Anzi, adesso che me l’hai detto
starò super attento a non lasciarmi
sfuggire niente di compromettente; anche se non mi pare di conoscere un
Lorenzo
che lavora alla Oltrafer… probabilmente è in un
reparto con il quale non ho
niente a che fare.»
«È
un ingegnere meccanico» precisò
Anna, già sollevata dalla promessa del ragazzo.
«Lavora nell’Ufficio Tecnico.»
«Ecco,
vedi?» sorrise Andrea. «Io
ho più a che fare con i collaudatori e con
l’officina: probabilmente non l’ho
mai nemmeno incrociato.»
«Meglio
così» sospirò lei. Chissà
perché, aveva l’impressione di avere appena
scampato un pericolo.
♥♥♥
Anna
lasciò cadere le posate con
le quali stava mescolando l’insalata e lanciò
un’occhiata carica di
insofferenza al muro della cucina. Quel cane stava abbaiando da almeno
quindici
minuti.
E
adesso basta, però. Dove diavolo
è quel cretino del suo padrone?
La
ragazza si alzò bruscamente dal tavolo e marciò
verso il giardino. Quando era
tornata a casa dopo il turno in biblioteca aveva visto che
l’Audi nera non era
nel parcheggio, il che significava che il suo proprietario non era
ancora
rientrato. Ma adesso erano le sette e mezza passate: possibile che
fosse ancora
in giro?
Arrivata
in giardino, la ragazza
si aggrappò alla rete che divideva la sua
proprietà da quella di Oleksander e
spiò in direzione del suo appartamento. È tutto
buio, notò con una smorfia. Lì
dentro non c’è nessuno, se non il cane.
Ritornata
mestamente in sala da
pranzo, la giovane rimase immobile per qualche istante, ascoltando i
latrati
metallici di Yaroslav: erano continui e incessanti e così
fastidiosi che aveva
l’impressione che il cane le stesse abbaiando direttamente
nelle orecchie.
«Basta!»
urlò, picchiando una mano
contro la parete che la divideva dall’animale.
«Adesso finiscila!»
Calliope,
che era intenta a
montare la guardia davanti alla portafinestra, la guardò con
supponenza. Non
era difficile decifrare l’espressione di
superiorità chiaramente scritta nei
suoi occhi gialloverdi. «E tu non guardarmi
così» borbottò Anna. «Adesso
fai
tanto la figa, ma l’altro giorno avevi paura che il
cane-killer ti mangiasse,
vero?»
Per
tutta risposta la gatta voltò
nuovamente il muso verso il giardino buio e Anna si diresse a passi
lenti verso
la finestra del salotto – quella che guardava direttamente
sul vialetto
d’ingresso – meditando sul da farsi. Come si faceva
a fare stare zitto un cane
che, abbandonato a se stesso, sembrava avere tutte le intenzioni di
passare la
serata ad abbaiare?
Quei
pensieri furono brevemente
interrotti da un gruppetto di tre estranei che le sfilò
davanti e si infilò su
per la scala esterna che conduceva all’appartamento sopra a
quello di
Oleksander. Li
seguì con gli occhi e poi
scosse la testa quando sentì un coro di risate e saluti
gioiosi. Eh, va be’…
pensò. Quelli fanno una festicciola e se ne fregano del cane
che abbaia. Beati
loro che riescono a ignorarlo.
Lei
però non ci riusciva e quei
continui latrati iniziavano a darle veramente sui nervi. Tornata al
tavolo,
Anna trangugiò la cena in fretta e furia pregando
silenziosamente che nel
frattempo Yaroslav si stancasse di fare tutto quel baccano e si
addormentasse o
che, se non altro, il suo padrone si decidesse a tornare a casa. Sarei
proprio
curiosa di sapere dov’è finito. Non che fosse in
pensiero per lui, ma
quell’assenza prolungata le sembrava strana. Da
un’osservazione empirica – non
che lo spiasse, eh! – aveva notato che Oleksander faceva
degli orari piuttosto
regolari. Oggi
avrà avuto qualche
imprevisto, ragionò.
Quando
Anna depositò i piatti nel
lavello erano ormai quasi le otto e, fatta eccezione per alcune pause
di pochi
minuti, Yaroslav era ancora impegnato in un concerto di latrati. E va
bene,
pensò la ragazza asciugandosi le mani nello straccio appeso
accanto al
frigorifero. Con un sospiro esasperato afferrò una giacca
leggera e uscì di
casa per raggiungere quella del vicino. Quando si trovò di
fronte alla porta
d’ingresso bussò un paio di volte sfiorando il
pannello di legno con le
nocche. Yaroslav
smise immediatamente di
abbaiare. Anna avvicinò il capo alla porta e tese le
orecchie: dall’interno
dell’appartamento giunse uno zampettìo rapido e
pochi istanti più tardi
qualcuno parve soffiare sotto la porta. Mi sta annusando? Si chiese la
ragazza.
Accucciandosi
davanti all’uscio,
provò a parlare al cane. «Ehi, Yaroslav»
mormorò. «Cos’è tutto questo
chiasso
che stai facendo?»
Da
dietro alla porta giunse un
uggiolio e il suono di unghie che grattavano contro il legno. Ops.
Speriamo che
non gli righi la porta!
«Devi
fare il bravo» continuò.
«Sfortunatamente sembra che ti sia toccato un padrone idiota
che si dimentica
che l’ora di cena arriva anche per te. Tieni duro,
però: prima o poi tornerà
indietro.» A meno che non si sia sfracellato da qualche
parte, pensò, ma evitò
di dirlo. Anche se il cane non era certo in grado di capire le sue
parole, le
pareva comunque di cattivo gusto.
«Dai,
adesso smettila di abbaiare
e mettiti giù tranquillo sul tuo cuscino»
continuò, parlandogli come se fosse
capace di decifrare quello che gli stava dicendo.
La
giovane restò in attesa ancora
qualche secondo. Da dietro la porta non giungeva più alcun
suono e Anna pensò
con un fremito di speranza che forse il suono della sua voce era stato
sufficiente per tranquillizzare il cane. Muovendosi con estrema
cautela, la
ragazza si rimise in piedi e si allontanò dalla porta,
tornando a dirigersi
verso il suo appartamento. Non si era allontanata che di pochi metri,
però, che
i latrati ripresero con tutto il loro vigore.
Ma
porca… Anna fu tentata di
mettersi le mani tra i capelli. «Adesso basta!»
urlò, senza curarsi del fatto
che era all’aperto e che tutto il vicinato poteva sentire i
suoi strepiti. «Finiscila!»
L’eco
dell’ultima sillaba non si
era ancora spento che la finestra della villetta alla destra della sua
si
spalancò, lasciando intravvedere la testa riccia della sua
vicina di casa, una
bella ragazza che doveva essere un po’ più grande
di lei e che era madre di una
bambina di pochi anni. «Ma non la finisce più di
abbaiare, quel cane?» si
lamentò la donna, sporgendosi come per guardare la porta
chiusa dietro alla
quale si trovava Yaroslav.
«Non
lo so» sbuffò Anna,
allargando le braccia con fare desolato. «Ho provato a
parlargli un po’, ma non
serve a niente: la smette per un attimo e poi ricomincia da
capo.»
«Il
suo padrone non è in casa, suppongo»
fece la donna.
Anna
scrollò il capo in segno di
diniego. «No: a quanto pare non c’è
nessuno. Non ho idea di dove sia finito.»
«E
che palle, però!» sbottò la
giovane riccia. «Scusa» continuò poi,
rendendosi forse conto di essersi rivolta
in tono brusco a una persona con la quale non aveva scambiato che poche
parole,
prima di allora. «È che c’è
mio marito con l’emicrania e mia figlia che tra
un’oretta dovrà andare a letto: se continua
così, non riuscirò a farle chiudere
occhio.»
La
ragazza giocherellò con il
polsino della giacca, dispiaciuta per la vicina. «Non so
davvero cosa fare»
replicò, stringendosi nelle spalle.
«Forse… non lo so, magari si potrebbe
provare a chiamare Oleksander? Hai il suo numero, per caso?»
La
donna si lasciò sfuggire una
risatina sarcastica. «Ma figuriamoci! Con quello
lì ci ho avuto a che fare solo
durante le riunioni di condominio e tanto mi è
bastato.»
Anna
fece una smorfia. «E allora
non so davvero come fare. Il suo numero non ce l’ho nemmeno
io…»
La
donna alla finestra tacque per
qualche istante, apparentemente immersa in qualche riflessione.
«Sai chi
potrebbe avercelo? Loredana.»
«Chi?»
chiese la ragazza: quel
nome non le diceva niente.
«Ma
sì, la signora Rocca. Lei è
sempre bene informata.»
Anna
si illuminò. «Oh, hai
ragione!» esclamò. «In effetti, la prima
cosa che ha fatto quando ci siamo
presentate è stata chiedermi il numero di
cellulare… sai, per le emergenze.»
Lei
e la donna alla finestra si
scambiarono un sorriso e Anna si ripromise di scoprire almeno il suo
nome. In
effetti, ora che ci pensava, era probabile che gliel’avesse
anche detto, quando
si erano incontrate per la prima volta, ma lei aveva una pessima
memoria per
quel genere di informazioni. Sarà meglio chiederlo alla
signora Rocca, decise. Meglio
evitare di fare figuracce.
«Sì,
è una tipa previdente»
continuò la giovane riccia, riprendendo il discorso.
«Ti scoccia chiederglielo
tu?» aggiunse poi, con una punta di reticenza. «Lo
farei io, ma con mio marito
a letto con il mal di testa preferirei tenere d’occhio la
bambina…»
Anna
annuì. «Ma certo, nessun
problema» le assicurò. Anche se, una volta avuto
il numero, avrebbe dovuto
usarlo per chiamare Oleksander: e quello sì, che poteva
essere un problema.
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