The Laws Of The Universe

di Ackerbitch
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** Un anno dopo... ***



Capitolo 1
*** I ***


Legge uno - Tutto è interconnesso

Si era imposto che non avrebbe pianto una sola lacrima.

Aveva passato qualche minuto a guardarsi allo specchio prima di uscire di casa quella mattina, indugiando un po' più del dovuto sui cerchi neri che contornavano i suoi occhi metallici e sul modo in cui creavano un contrasto malsano con la sua pelle nivea. Non s'era nemmeno curato troppo di sistemare i propri capelli, che ricadevano scompigliati poggiando appena sugli zigomi alti del suo viso smunto e provato. Eppure, a stento riusciva a vederla la propria immagine riflessa mentre indossava quei vestiti neri meccanicamente, muovendo muscoli e articolazioni per pura forza d'inerzia. 

Immaginava come sarebbe stato, si figurava mentalmente ogni singolo particolare di quell'evento con una vividezza tale da risultare quasi inquietante. Il carro funebre sarebbe arrivato davanti alla chiesa, i becchini avrebbero preso la bara lucida e se la sarebbero caricata in spalla per percorrere gli scalini del duomo, le fronti appena imperlate di sudore per il sole cocente di quella giornata. Poi l'avrebbero adagiata delicatamente davanti all'altare, sul pavimento di marmo venato parzialmente nascosto da un tappeto rosso scuro, e lì sarebbe stata ricoperta di fiori. Ma nella sua testa, quelle immagini non avevano mai fatto rumore.

Invece era folla, concitazione; il clangore cupo e sordo delle campane suonate a lutto pareva perforare i timpani, pianti e grida. Un solo, muto interrogativo permeava l'aria e rimbombava stridente nella mente dei presenti. Faceva un fracasso assordante, e Levi se ne sentì sopraffatto.

Perché?

Le mani sicure dei becchini raggiunsero il portellone posteriore del carro funebre, e al corvino quei movimenti fluidi ed esperti parvero eseguiti a rallentatore. Il metallo scaldato dai raggi bollenti di quel sole beffardo che si sollevò, rivelando l'abitacolo che custodiva tutta la crudezza che il mondo aveva offrire, la sprezzante insensibilità dei meccanismi della vita. Il colore bianco di quel legno funebre, trafiggeva e abbagliava più di centinaia di lame affilatissime. Levi le sentì affondare e aprire una voragine nel suo stomaco, squarciare la carne cedevole della gola e lambirgli l'anima, riempendola di ferite che nessun tipo di punti di sutura sarebbe riuscito a risanare. 

Non piangere.

Ed ecco che la bara veniva caricata in spalla, ecco che quei pinguini dalle espressioni disgustosamente neutre e disinteressate, completamente impassibili, si accingevano a salire quegli scalini bassi. E Dio, se era agghiacciante quel colore.

Gli gelava l'animo, gli era entrato nelle vene nel primo e infinitesimale istante in cui gli aveva contaminato gli occhi col suo candore. 

Non piangere.

Perché faceva tutto così tanto rumore? Perché era tutto improvvisamente così vivido? Perché faceva tanto male guardare in faccia quella realtà che aveva tentato di ignorare? Perché nei suoi pensieri, quelle immagini che aveva passato due giornate intere a creare avevano una consistenza così impalpabile da essere quasi onirica, mentre ora apparivano così tanto stridenti e maledettamente reali da avere quasi una consistenza propria? 

Non piangere.

Si era rifiutato categoricamente di visitare la camera mortuaria, di vedere il pallore della morte cucito addosso alla sua pelle liscia, di cedere all'immobilità di quel corpo traditore che l'aveva strappata via dalla vita che tanto amava. Come avrebbe potuto arrendersi all'idea di averla persa, quando dieci giorni prima passeggiavano e conversavano tranquillamente? Ancora la ricordava la smorfia infantile dipinta sul suo viso gentile incorniciato dalle solite codine rosse che le piacevano tanto e che la facevano sembrare ancora più bambina, mentre con la bocca impiastricciata di gelato al cioccolato gli raccontava dei programmi per la gita scolastica di quell'anno. Levi si ritrovò a sperare che sua sorella avesse quell'espressione anche nella bara, che i suoi capelli fossero acconciati in quel modo che la contraddistingueva, anche se avvolta dal freddo abbraccio della morte. Probabilmente, vista la sua personalità esuberante e sprizzante di gioia ed energia, sarebbe stata capace di sorridere pure alla signora con la falce; e chissà, forse Isabel lo aveva fatto davvero. 

La morsa alla gola si faceva stretta e asfissiante, l'aria pareva diventata irrespirabile e densa, viscosa; la bocca improvvisamente arida, l'esistenza pesante come mai l'aveva avvertita prima di allora.

Non piangere.

Erano vere e proprie grida, quelle di sua madre; latrati di dolore urlati al cielo, al mondo, alla vita. Un lamento senza fine che si conficcava nell'anima, saturo di disperazione, stridente e acuto come vetro che viene infranto; e allora, qualcosa in Levi si ruppe. 

Pianse lacrime amare, salate e inconsolabili, singhiozzò le emozioni che si era tenuto dento per due giorni stringendo il corpo della donna a sé; tentavano di soffocare i lamenti sulla spalla dell'altro. 

Pianse per l'ingiustizia del mondo, per l'essere rimasto solo, per il sorriso di sua sorella capace di spegnere il Sole e per la sua gentilezza; Isabel era quel tipo di persona che aveva sempre una parola carina per tutti, anche per quel caso umano di Hanji, di cui sentiva lo sguardo umido trafiggergli la schiena. Il dolore prese forma liquida, la disperazione assunse il suono di singhiozzi strozzati nella gola, la consistenza quasi violenta dell'abbraccio di sua madre, quasi pretendessero di ancorarsi alla vita con tutte le forze e di non lasciarsi mai andare. Erano rimasti soli.

Quando furono costretti da quel corteo funebre a muovere i primi passi, a Levi quasi sembrò di fluttuare. Era tutto irreale, ovattato, dalla colonna sonora fatta di campane e mormorii di disperazione alla percezione del suo stesso corpo. Le gambe parevano ridotte in gelatina, il petto vuoto e leggero, ma colmato da una pesantezza emotiva che lo corrodeva dall'interno e che alimentava un incendio di emozioni. Si rese conto di aver preso posto nei primi banchi della chiesa soltanto quando la sensazione del legno freddo dietro la schiena e sulle cosce lo fece trasalire; Isabel gli sorrideva, nella foto che era stata posta sulla bara.

Di quella cerimonia, tutto gli aveva dato alla testa. Il coro che aveva intonato una canzone che tanto sembrava un inno alla vita, il colore immacolato del legno, il cuscino di fiori bianchi che, troppo lungo, copriva completamente la bara; e l'odore di quel posto, di polline misto a quello pungente e asfissiante dell'incenso, l'eco delle parole del prete che riverberava fra quelle pareti in pietra costellate di immagini sacre. Quel tizio, poi, lui sì che lo aveva mandato davvero in bestia e gli aveva fatto ribollire il sangue nelle vene, tanto che Levi dovette imporsi di trattenere una generosa dose di bestemmie incastrate fra le labbra e il palato per tutta la durata della funzione.

Lui che tentava di dare un senso a quella morte prematura, lui che aveva detto che la bellezza dei suoi sedici anni sarebbe stata luminosa davanti al Signore, così tanto da uguagliare quella degli Angeli. Lui che aveva detto che quella era l'età migliore per essere strappati alla vita, semplicemente per essere ricoperti da un bell'involucro. Come avrebbero dovuto consolarlo quelle parole, che invece gli annebbiarono la vista di nero? Se Levi non si mise a urlare, fu semplicemente perché Kuchel al suo fianco sembrava sull'orlo di un collasso. Singhiozzava incurante di fare rumore, le mani strette nei capelli e il capo chino, gli occhi strizzati come a voler scacciare via un'orrenda visione. Lacrime calde scorrevano sui suoi zigomi pallidi, solcavano il volto emaciato.

Allora la strinse a sé, accogliendola fra le sue braccia e posandole delicati baci fra i capelli d'inchiostro mentre continuava ad ascoltare stronzate su quella fede vuota che idolatrava un Dio ingiusto, un Dio che, ai suoi occhi, aveva smesso di esistere nel momento in cui il medico, scuro in volto, aveva chiesto a lui e sua madre di valutare la donazione degli organi. La testa gli si riempì di quelle parole, mentre mentalmente imprecava contro lo stesso essere che fra quelle quattro pareti chiamavano misericordioso. Era forse una manifestazione della sua misericordia, quella? Come poteva essere giusta una cosa del genere? Come poteva quel Dio aver colto il fiore più bello del giardino per il solo gusto di ammirarne i petali delicati e impalpabili?

E ancora, lo aveva reso livido l'applauso all'uscita dal duomo, lo avevano animato di una rabbia cieca le lacrime di decine e decine di suoi coetanei, perché quella non era l'età adatta per piangere i propri amici. Si era sentito mancare allo stormo di palloncini bianchi che erano stati fatti volare sulle note della canzone preferita di Isabel, quella di quell'artista che a Levi faceva davvero storcere il naso e urlare i timpani, ma di cui l'aveva accompagnata comunque ad un concerto. Gli aveva dato fastidio pure il sole, perché anche il cielo sarebbe dovuto essere in tempesta come la sua anima di fronte alla crudezza spietata delle leggi che lo governavano. E mentre le note melense di quella canzone commuovevano quella fittissima folla e lui rivolgeva i suoi ultimi insulti a quel cielo stesso, cristallino e traditore, gli rimbombarono nella testa le sue ultime parole. 

Quelle che gli aveva detto sembrando così piccola e fragile, avvolta dal camice verdastro e dall'aspetto sterile che aveva dovuto indossare per l'intervento.

"Sii gentile e abbi coraggio."

________

"Credo che tutti siamo bersaglio di una componente di sistemi infinitamente più grande di noi, che non siamo altro che piccoli e insignificanti ammassi di carbonio organico agli occhi dell'Universo. Siamo sottoposti alle sue leggi e invischiati nei suoi meccanismi, vittime della ruota della sua casualità, spaventosa e ingiusta. E lo sa cosa rende questa cosa ancora più spaventosa? Il fatto che siamo esonerati da niente, anche se tendiamo a conferirci una sorta di immunità di fronte alle eventualità negative che sappiamo esistere, ma che non associamo mai a noi e alla nostra vita. Forse lo facciamo per rendere l'esistenza un po' più sopportabile, o forse perché l'animo umano è animato da un disgustoso senso dell'ottimismo e tende a lasciare fuori dal proprio campo visivo e dalla propria concezione stessa tutto ciò che non è oggettivamente considerabile come positivo. Quello che voglio dire, è che non sappiamo mai come la ruota girerà. Adesso ci sei, fra cinque minuti non si sa. Ora stai bene, ma fra tre giorni potresti essere in un letto d'ospedale e combattere fra la vita e la morte; oppure, quando uscirò da qui, potrei essere investito da una macchina. O magari potrebbe colpirmi un fulmine, con questo tempaccio."

"Dirlo con quel sarcasmo nero e quel tono sprezzante non ti porterà a nulla, Levi."

Il corvino fissò gli occhi in quelli scuri della psichiatra, sottilissimi fili di perla ad incorniciarle il volto appena segnato dalle rughe. Se ne stava seduta sulla sua poltrona, picchiettando una penna sul supporto rigido che usava per prendere appunti e guardandolo con quell'aria di saccente di chi sa frugarti fra i pensieri e leggerti l'anima. Il ragazzo sbuffò, lasciandosi affondare ulteriormente nel velluto verdastro della seduta della sedia e portando un braccio a sorreggersi il mento con fare scocciato.

"Cosa dovrei fare, dirlo piangendo e sbraitando? Le cose non cambierebbero, il fatto che io sia fottutamente terrorizzato da questa... Cosa, non cambierebbe. Sono inerme, non posso difendermi; e posso pure disperarmi, ma non verrei comunque ascoltato da niente e da nessuno. Le mie volontà non contano, davanti a certi meccanismi. Quelle di Isabel di certo hanno avuto lo stesso valore di un granello di polvere."

La donna rimase in silenzio, scrutando l'espressione algida e impassibile del paziente. Levi era sempre stato così, da quando avevano iniziato quel percorso di sostegno psicologico tempo addietro, immediatamente dopo la morte della sorella. Il corvino era durato a malapena qualche mese, prima di interrompere le sedute e ripresentarsi in terapia dopo quattro anni, alla soglia dei ventuno. Eppure, era rimasto uguale a come lo ricordava, se non per il fatto che il suo sarcasmo si era fatto più cinico e freddo e che i suoi modi si erano inaspriti con il tempo, diventando più ruvidi. Levi si lasciava scivolare addosso qualunque cosa facendo appello alla sua maschera senza emozione, si scrollava tutto dalle spalle con una finta indifferenza; la verità, però, quella che celava a tutti,era un'altra. La sua anima urlava, faceva un casino assordante. Scalpitava, tremava, si disperava per quella vita che gli aveva dato poco e tolto troppo.

Era silenzioso, Levi. Tendeva a voler passare inosservato alla vita non facendo rumore, forse nel tentativo eludere quel meccanicismo universale che tanto lo spaventava e di non attirarne le attenzioni.

"Hai paura di morire?"

"No."

La risposta fu secca, lapidaria.

"È maledettamente stupida, la paura di morire. Ho..."

Prese un respiro profondo, stringendo le mani a pugno e imprimendo con le unghie sottili mezzelune rossastre sui palmi. Non si spiegava come mai l'aria profumata di quella stanza sembrasse a tutti i costi volerlo calmare; non era sicuro che sarebbe riuscito a farci l'abitudine.

"Ho paura del dopo, di quello che lascerei dietro di me se dovesse accadermi qualcosa di brutto. Ho paura di far soffrire gli altri, di ridurli nella stessa condizione in cui sono stato gettato io dopo la sua morte. Nessuno si meriterebbe di stare male in quel modo a causa mia, non valgo la pena."

Erano crude quelle parole, sussurrate a voce bassa come fossero peccatrici; Levi se ne vergognava. Se ne vergognava perché lui, che poteva ogni giorno bearsi dei colori, dei rumori e degli odori della vita, se ne privava volontariamente in una sorta di circolo vizioso che attuava per protezione.

Era paralizzante quella paura di far soffrire, totalizzante al punto da costringerlo a chiudersi in sé stesso e a rifiutare qualunque forma di interazione col mondo. Si confondeva nelle ombre e tentava di nascondere la propria esistenza ora sotto il cappuccio della sua felpa preferita, ora con un paio di cuffie nelle orecchie che gli impedivano di ascoltare i suoni di quel perpetuarsi di vita e di quotidianità. Il contatto sociale, -quello che non prevedesse interazioni con sua madre o con quella squinternata della quattr'occhi, che si era ostinata a rimanergli attaccata come una cozza anche dopo che lui aveva tentato di tagliarla fuori dalla sua vita, dopo la morte di Isabel – 
gli era sconosciuto da anni. Inavvicinabile, così lo avevano definito fra i banchi del liceo e quella sua fama lo precedeva ormai anche all'università. 

Era uno dei migliori studenti della facoltà di Astrofisica di Shiganshina, e studiava semplicemente perché quelle materie scientifiche e complicatissime lo distraevano. Forse perché così tentava di dare un senso all'esistenza e al suo essere così mutevole e beffarda, e segretamente perché anelava al trovare la formula matematica che governava l'Universo intero, quella che gli avrebbe concesso di eliminare la parola imprevedibilità dal suo dizionario personale e dal suo microcosmo. 

"Cosa potrebbe succedere agli altri?"

"Qualunque cosa."

Sputò fuori scuotendo la testa e chiudendo gli occhi, tentando di regolarizzare il respiro con quelle tecniche che proprio la sua terapeuta gli aveva insegnato.

"Potrebbero stare male, ritrovarsi nella mia stessa situazione a dover vivere attaccati alla boccetta d'ansiolitico per non impazzire. O magari potrebbe pure andargli peggio, io questo non lo so..."

Ancora una pausa di riflessione, prima che quella voce calma e pacata riempì la stanza.

"Credi nel destino, Levi? Credi che in qualche modo la nostra vita sia scritta da qualche parte, che ci sia una predestinazione?"

"Non sono il tipo da farsi abbindolare da cazzate come il destino o l'oroscopo. Vuole per caso leggermi la mano, già che ci siamo? Perché non mi sembra che lei abbia una palla di cristallo, sennò avrei senz'altro optato per la divinazione."

In risposta ottenne uno sguardo severo che lo fece sospirare. Si portò una mano sul volto e si stropicciò gli occhi stanchi, tornando poi a fissare i pozzi d'oscurità della donna.

"Credo nella sfiga, semplicemente alcune persone sono più sfortunate di altre e sembrano attirare negatività all'interno della loro vita. Isabel era bellissima e fragile, piccola e forte, eppure non è stata fortunata. Però non credo che fosse scritto da qualche parte nelle stelle che le sarebbe toccato mettere entrambi i piedi nella fossa a sedici anni, se è questo quello che mi sta chiedendo."

Era sempre difficile tirare fuori quell'argomento, lo stancava a livello emotivo in una maniera che poteva essere definita solo come estenuante. Il ricordare il suo bel sorriso ed i suoi capelli rossi, riapriva le cicatrici infette della sua anima e le faceva sanguinare come fossero ferite appena inferte. Ne parlava con distacco e tentando di non dare peso alle sue parole, forse proprio per allontanare il più possibile quel dolore da proprio corpo.

"Lo capisce che io non ho neanche il diritto di lamentarmi e stare male, quando a lei invece è toccata quella sorte? Vivo il mio dolore, ma non mi merito di piangermi addosso e di soffrire per così poco; c'è sempre chi sta peggio di me."

La colpa del sopravvissuto, così la psichiatra aveva definito quel sentimento che aveva messo radici nel suo petto in una insolitamente calda giornata di inizio ottobre e che aveva coltivato per anni. 

"Meriti di lamentarti e di vivere il tuo dolore, Levi; l'hai detto tu stesso, che ad alcune cose non si può porre rimedio. La morte è il punto di non ritorno, e non possiamo fare altro che accettarla ed andare avanti. Cosa ti spaventa così tanto? Cosa ti fa chiudere in te stesso e rifiutare qualunque forma di contatto con gli altri da anni?"

Le sue labbra tremarono impercettibilmente, quando rispose con un filo di voce e tentando di ignorare il groppo in gola. Maledetta Hanji e quando lo aveva letteralmente costretto ad un appuntamento con quella donna che mirava ai suoi tasti dolenti e ad i suoi pensieri più reconditi con una precisione da cecchino!

"L'imprevedibilità, il fatto di non poter avere un controllo su di me, sulla mia vita, sul mio corpo. In questo momento una malattia letale potrebbe essere insediata in me a mia insaputa, potrei tornare a casa e rimanere vittima di un incidente domestico, o la mia mente potrebbe completamente impazzire. Io mi sento impazzire, perché sono incapace di esercitare il controllo che vorrei sulla mia vita."

"Ma ci sono cose che non puoi controllare per definizione, come le azioni degli altri. Come ti senti a riguardo?"

"La maggior parte delle persone sono talmente scialbe che i loro comportamenti sono perfettamente prevedibili, e soprattutto, evitabili. Non mi sento in nessun modo a riguardo, perché non mi mescolo alle persone e loro non cercano me; provo solo indifferenza e va bene così, dev'essere così. Sono piuttosto asociale, se non se n'è resa conto."

Il rombo di un tuono in lontananza ruppe il silenzio carico di interrogativi che permeava l'aria, seguito dal tamburellio di grosse gocce di pioggia che colpivano intermittenti il vetro della finestra. Levi sospirò.

"Ho una paura malata, fottuta di quello che potrebbe succedermi. Ho paura di soffrire, di arrivare a toccare la felicità con un dito, di assaggiarla e vederne il colore per poi venirne strappato via e riportato alla brusca realtà delle cose. E mi sento in colpa nei confronti di tutte quelle persone che vorrebbero poter stringere il mondo fra le mani per sentirne la consistenza e vivere alla giornata e che non possono farlo, mi reputo un fallimento totale come essere umano se penso alla gioia con cui Isabel affrontava ogni giornata. Io non ne sono capace, non dopo aver visto con i miei occhi quanto è labile e indefinito il confine fra la vita e la morte. Vivo col presagio sulla pelle, tento di scacciarlo rimanendo nel buio della mia camera a confondermi con le ombre, lo alimento studiando le stesse leggi fisiche che muovono il cosmo e che tanto odio per la loro noncuranza. Eppure, mi affascinano come non dovrebbero."

L'espressione della donna si ammorbidì a quelle confessioni, e il suo sguardo saettò sul grosso orologio da parete che scandiva i secondi: il loro tempo era quasi giunto al termine.

"Vorresti davvero questo, Levi? Vivere una vita completamente organizzata a tavolino, controllando ogni minimo dettaglio? Non pensi che l'imprevedibilità possa essere anche positiva? Quello che è successo ad Isabel è terribile, ma le cose inaspettate possono anche essere belle e arricchire le nostre giornate."

Levi fece schioccare la lingua sul palato, poi si alzò dalla poltrona con uno scatto fluido e recuperò il suo giubbotto dall'appendiabiti. Lo indossò sotto lo sguardo vigile della terapeuta, calandosi il cappuccio sul volto e rivolgendole un'ultima frase ed un cenno di saluto prima di abbandonare lo studio.

"Sarà come dice lei, probabilmente."

Fanculo, fanculo alla pioggia che bagnava l'aria e l'asfalto, fanculo ad Hanji, -che avrebbe dovuto come minimo legarlo ed imbavagliarlo, per farlo tornare in quel posto – e fanculo alla psichiatra, che tentava di convincerlo che quello che per lui era il male del mondo, potesse avere aspetti positivi. Avrebbe vissuto la sua vita pianificandone ogni fottuto momento a tavolino, senza tralasciare neanche un secondo. Non erano ammesse variabili o imprevisti, nel suo piano perfetto; doveva solo trovare la formula matematica della casualità e passare inosservato ai suoi meccanicismi.

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SPAZIO AUTRICE

Questo è l'ennesimo tentativo fallito di one-shot. 😂Non è neanche una delle storie che avevo nelle bozze, è nata ieri per caso ed è qualcosa di estremamente personale. Dovrebbe essere una mini-long di non so quanti capitoli, per ora questo è l'unico pronto ma scriverò presto gli altri. Sentivo davvero l'impulso di pubblicarla, e mi mancava aggiornare di domenica. Alla prossima! ❤️✨

Ps: questa settimana vedrò anche di revisionare Of Leather and Lust, che è sgrammaticata da morire💕

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Capitolo 2
*** II ***


Legge due – Corrispondenza
 
“Come sarebbe a dire che non hai intenzione di continuare ad andare in terapia?”
 
“Non c’è bisogno che te lo ripeta un’altra volta, quattr’occhi di merda: hai capito perfettamente. Non torno in quel posto neanche sotto tortura. E non tentare di convincermi, che questa volta non attacca.”
 
“Ma Levi… Ne hai-”
 
Interruppe il discorso dell’amica con un gesto di stizza della mano e facendo schioccare la lingua contro il palato per l’esasperazione. Continuò a destreggiarsi a passo veloce fra i corridoi fitti di aule, Hanji alle calcagna. Il suo sguardo nocciola pareva fuoco liquido e denso sulla pelle chiara del corvino.
 
“Ne hai bisogn-”
 
“Stronzate!”
 
Sbottò, attirando un paio di sguardi curiosi; Hanji si fece piccola di fronte alla voce autoritaria e velenosa dell’amico e abbassò il capo quando venne bruciata dal suo sguardo in fiamme. Se Levi si impuntava su qualcosa, sapeva essere davvero irremovibile; ciò non toglieva però che alla castana si stringesse il cuore nel vederlo gettare via i suoi anni migliori per nascondersi all’interno di una gabbia dorata di cui aveva egli stesso gettato la chiave. Il corvino non viveva; sopravviveva, portando avanti un’esistenza vuota e respirandone i fumi neri e densi, intossicanti di paura e presagio. Lo paralizzavano, contaminavano ogni singola fibra del suo essere della sola colpa di essere nato, di essere vivo e avvolto da un corpo tiepido per il sangue caldo che gli scorreva nelle vene.
 
Si privava di troppo, di tutto. Per paura, per senso di colpa, per terrore, per svogliatezza di affrontare il mondo che tanto si ostinava a non voler guardare e ad ovattare sotto le solite cuffiette infilate nelle orecchie e i cappucci delle sue felpe calati sul volto e sugli occhi. Erano anni, quattro per l’esattezza, che andava avanti così. Non che prima della morte di Isabel, Levi potesse essere definito la persona più affabile e gentile del che conoscesse, ma era comunque… Diverso. Non aveva mai amato il contatto umano, eppure non lo ripudiava; ed erano belle le uscite che Hanji condivideva con lui, Petra ed Erwin, serate che ormai sembravano appartenere ad un tempo passato, quasi fossero troppo lontane nel tempo e avvolte da una patina sbiadita dalla consistenza quasi onirica. Un tempo in cui Levi sorrideva.
 
Labbra piegate appena all’insù in maniera quasi impercettibile per essere notata; i muscoli d’espressione del suo viso che si rilassavano e la tempesta nelle iridi che si spegneva, per lasciare posto a delle sfumature cristalline dal sapore di spensieratezza. Non erano sorrisi veri e propri quelli del corvino, ma erano tanto rari quanto inestimabili, sentiti nella loro vera essenza. Quanto tempo era, che quella bufera senza precedenti imperversava negli occhi di Levi? Da quanto tempo si impediva di provare di nuovo quella sensazione che rendeva gli animi leggeri, quella felicità che accendeva? E se non fosse stato per lei, a quell’ora l’amico sarebbe stato completamente solo.
 
Levi le scoccò un’occhiataccia che fece male, male da straziarle l’anima e annodarle lo stomaco dell’ennesimo rifiuto di farsi aiutare. Aveva tentato di convincerlo fino a far diventare una vera e propria missione quella di fargli mettere piede nello studio di uno psichiatra, arrivando ad assillarlo giorno e notte a tal punto che Levi aveva ceduto, pur di farle tenere la bocca chiusa. Mesi e mesi interi di tentativi e quando aveva appena ottenuto la sua piccola conquista, era stata nuovamente gettata nel baratro e diretta al punto di partenza.
 
La dilaniava vederlo consumarsi piano, essere muta testimone del pallore sempre più etereo della sua pelle, dei cerchi violacei sotto gli occhi argentei che ogni giorno scopriva più pronunciati e che gli conferivano un’aria malsana, monito dei suoi sonni tormentati da incubi di demoni e vita reale. Era straziante accorgersi del suo corpo minuto che pareva farsi sempre più fragile; scompariva all’interno di quelle felpe nere che indossava, diventando una macchia d’oscurità per contrastare la luce del giorno.
 
Giorno era vita, era calore, era Sole ed i suoi raggi tiepidi: tutte cose che Levi non si meritava, non quando lei non poteva goderne al suo fianco. Che senso aveva creare legami, se quelle stesse amicizie sarebbero servite soltanto a far soffrire, una volta che il ciclo della vita sarebbe giunto al suo termine ultimo? Li aveva visti gli occhi degli amici di sua sorella, lo aveva annientato la disperazione che aveva letto nelle iridi di Farlan, e quelle lacrime fatte d’agonia e sale gli erano parsa la cosa più ingiusta e atroce che potesse solcare il volto di ragazzini di quell’età. Avrebbero dovuto indossare espressioni gioiose, sorrisi smaglianti e sguardi ridenti, non l’ombra cupa con cui la morte gli aveva fatto assaggiare il filo tagliente della propria falce e avvertire nell’animo lo stesso freddo della tomba che avrebbe accolto Isabel.
 
Era tutto relativo, senza criterio alcuno. Il mondo andava avanti così, fatto di cicli che non tenevano conto di niente e nessuno, perpetui e beffardi. Nulla pareva avere senso, se alla fine il tempo avrebbe ripagato tutti allo stesso modo, richiamando la polvere alla polvere. Allora perché esporsi tanto, perché rischiare, perché creare qualcosa di destinato ad essere distrutto? Legami e beni materiali non avevano posto nel legno spesso della bara, non erano qualcosa che l’oltretomba – ammesso e concesso che ce ne fosse uno– avesse premura di conservare.
 
Levi andava avanti con la macabra consapevolezza che un giorno avrebbe cessato di esistere con una semplicità disarmante, che ogni respiro poteva essere l’ultimo. Eppure, il nulla assoluto che lo avrebbe accolto dall’altra parte era molto meno spaventoso di quello che si sarebbe lasciato alle spalle. Limitare i danni, così chiamava quel suo essere sempre scostante e schivo, il rifiuto per qualunque forma di contatto; voleva meno persone possibili al suo funerale, voleva permettersi di abbracciare il freddo della morte sapendo che nessuno avrebbe pianto la sua assenza e martoriato la foto sulla sua lapide fino a consumarla di sguardi, con l’anima ridotta in brandelli troppo piccoli e slabbrati per essere cuciti di nuovo assieme.
 
Niente rapporti, niente amici –eccetto la squinternata, con gli anni aveva fatto pace col fatto che di lei non si sarebbe liberato neanche se l’avesse presa a calci nel culo - e niente attività sociali: lezione in università per cinque ore al giorno, poi con la schiena china sui libri, a casa o in biblioteca. La solita routine che si ripeteva, imperturbabile e incurante proprio come i cicli dell’Universo, così perfetta e scandita da risultare quasi perfetta. C’era un che di stranamente e profondamente soddisfacente nell’esercitare quel tipo di controllo sulle sue azioni, di pianificare giornate, mesi e anni in maniera quasi maniacale, riempendo le righe delle numerose agende che possedeva con la sua grafia pulita e nitida. Studio e lezione, lezione e studio, intervallati da buona musica e da qualche ottima lettura nel poco tempo libero che gli rimaneva. Non usciva mai di casa per sua spontanea volontà anche semplicemente per fare quattro passi disinteressati e senza meta; se abbandonava quelle quattro mura, lo faceva o per necessità o perché sua madre gli chiedeva di accompagnarla da qualche parte. Lui non prendeva mai iniziative con il mondo esterno.
 
Gettò un rapido sguardo al suo orologio da polso, infastidito dal modo in cui la castana dischiudeva appena le labbra come a voler parlare, per poi serrarle in una linea dritta l’istante dopo. Che seccatura…!
 
“Le mie lezioni inizieranno fra dieci minuti, vado in aula. Ci vediamo.”
 
Non le diede neanche il tempo di salutare, troppo irritato per sopportare anche solo un “ciao” oppure le scuse gentili che Hanji si ostinava a rifilargli anche quando quello a doversi scusare era lui. La osservò allontanarsi a capo chino con un’espressione mesta in volto, che tentò di camuffare fra le ciocche disordinate che sfuggivano alla sua classica coda di cavallo. Più di qualche spillo gli punse il petto a quella vista, ma tentò di ignorare quella sensazione sgradevole e di lenirla portando la mano a massaggiare delicatamente all’altezza del cuore. L’amica salì le scale, diretta forse in uno di quei laboratori pieni di batteri disgustosi e chissà quali altre diavolerie che diedero il voltastomaco al corvino al solo pensiero.
 
La Shiganshina University era un grosso polo di studio e ricerca che abbracciava tutte le discipline scientifiche e ne permetteva l’intercomunicazione, per questo si trovava ogni giorno la quattr’occhi al piano superiore. Hanji viveva per la complessità della biologia, per quelle regolazioni chimiche precise e complesse, invisibili ma così perfettamente orchestrate da essere capaci di muovere un organismo e di farlo funzionare a regime, donandogli il miracolo – o la maledizione, secondo Levi, ma quello era un suo misero ed insignificante punto di vista– della vita.
 
Il corvino pensava a quanto avesse sempre trovato simili i loro corsi di studi e le loro aspirazioni, mentre camminava a capo chino e a passo svelto verso la propria aula, così diversi eppure uniti da un filo conduttore sottilissimo e comune. Infinitamente grande e infinitamente piccolo nelle loro leggi e definizioni, nelle loro regolazioni tanto complicate quanto affascinanti. Spinse il maniglione antipanico della grossa porta grigia esalando un sospiro, e si diresse verso il suo solito posto stringendosi nel giaccone in pelle e tentando di passare inosservato al mondo intero come fosse un’ombra nella notte.
 
Ormai, i suoi compagni di corso nemmeno si degnavano più di gettargli occhiate incuriosite come accadeva quando era solo una matricola; erano pochi – una trentina, in totale – a frequentare il suo anno, e tutti si conoscevano. Eppure, sebbene Levi avesse memoria dei volti della maggior parte dei suoi colleghi e ad alcuni di questi fosse in grado di associare anche un nome, era sicuro di non essere mai stato realmente visto. Andava bene così, in fondo era quello che voleva.
 
Si sedeva sempre da solo in una delle ultime file, senza timore che qualche altro studente potesse prendere posto vicino a lui o tentare di socializzare. Sembravano tutti paralizzati da una sorta di timore reverenziale nei suoi confronti, e fra quelle quattro mura ingiallite aleggiava la regola silente di non disturbare quello strambo ragazzo che evitava tutti e tutto come fosse una sorta di essere mistico, qualcosa di troppo superiore per mischiarsi con il sudiciume della quotidianità. Levi Ackerman era quello strambo e asociale, quello solitario che tutti evitavano.
 
E decisamente non era troppo; lui era troppo poco.
 
Il corvino si sedette, intento ad ignorare la vita attorno a lui e le risate concitate dei suoi coetanei. Tirò fuori dallo zaino il suo fidato portatile – compagno di appunti trascritti con una precisione maniacale- e recuperò il file della lezione precedente per un ripasso veloce; tentò di silenziare il mondo immergendosi negli ingranaggi che muovevano le galassie, per questo lo spiazzò la naturalezza con cui vide con la coda dell’occhio un ragazzo camminare nella sua direzione.
 
Era alto, forse troppo; doveva sicuramente superarlo di una quindicina di centimetri abbondante. I suoi capelli erano tenuti legati all’altezza della nuca da una specie di codino disordinato, da cui sfuggivano alcune ciocche che baciavano appena la fronte; l’incarnato aveva lo stesso colore brunito e dolce del caramello, il volto dai tratti mascolini era un insieme di lineamenti armonici che definivano la mascella pronunciata e gli zigomi alti, delicati. Le labbra erano piene e carnose, perfettamente rosee.
 
Si avvicinò ancora e poggiò – anzi, lanciò - con poca grazia il suo zaino di tela rossa e imbrattata di scritte sul banco adiacente a quello di Levi; il corvino si irrigidì, e per un attimo gli parve di essere preda di qualche allucinazione. Nessuno gli si avvicinava in quel modo così sicuro e spavaldo da anni; l’aura scura che pareva emanare era diventata col tempo un ottimo repellente per qualunque tipo di contatto o confidenza.
 
Si voltò, deciso ad incenerirlo con un’occhiataccia torva se solo avesse provato a sedersi accanto a lui. Si trovò spiazzato quando il suo sguardo si posò su un sorriso talmente luminoso da far impallidire il Sole stesso a distendere i lineamenti di quel bel volto, impreziosito da un paio di occhi che lo lasciarono destabilizzato.
 
Verde intenso di prezioso smeraldo screziato da un azzurro marino, un gioco di colori così unici e particolari che il corvino non credeva che la natura fosse in grado persino di concepire. E quei giochi di luce erano pagliuzze dorate o solo frutto della sua immaginazione?
 
“Ehi, ciao. Sono Eren.”
 
La voce del ragazzo era miele colato, eppure Levi la trovò la cosa più irritante del Cosmo, al pari di uno stridore capace di far tremare e stringere i denti. Quel tizio - Eren, a quanto pareva – aveva appena fatto breccia nella sua bolla di solitudine, rotto la sua quotidianità fatta di un eterno e silenzioso camuffarsi fra le ombre per non essere notato. E nonostante distolse lo sguardo da quegli occhi impossibili nel primo istante in cui quelle parole lasciarono le labbra piene del castano, fu sicuro che stringersi un po’ di più nella sua giacca di pelle, nel misero tentativo di farla diventare uno scudo dalla realtà e di scomparirvi all’interno, non ebbe alcun effetto. Bruciava, quel verde impossibile su di lui.
 
Lo ignorò, così come finse di non sentire risuonargli cupo nei timpani il rombo profondo del silenzio che li avvolse e in cui tentò di annegare; lo ignorò nello stesso modo in cui tentava di cancellare l’imprevedibilità, compagna di spiacevoli imprevisti. Non si fece prendere dal panico; uno sconosciuto gli aveva rivolto la parola – era più unico che raro che accadesse, ma comunque non impossibile – e come tutti gli altri malcapitati che avevano avuto la sfortuna di incrociare lo sguardo di Levi, avrebbe dovuto vedersela con l’indifferenza. Eren non avrebbe ottenuto una risposta, né una presentazione e neppure un insulto; solo cinica e fredda indifferenza nella sua semplice crudezza. Sarebbe stato sicuramente scalfito nel suo orgoglio e indispettito dal non ricevere una risposta e lo avrebbe lasciato stare, probabilmente considerandolo un gran maleducato. Era quello che facevano tutti, e a Levi non importava.
 
Eppure, la sua pelle non smise di bruciare lì dove sentiva quello sguardo di prezioso smeraldo puntato addosso, così come quella sensazione di essere stranamente esposto e vulnerabile non gli abbandonò l’anima. Lo sentì muoversi accanto a lui, ma non si azzardò a lanciare un’occhiata nella sua direzione neanche con la coda dell’occhio; probabilmente stava raccattando le sue cose per andarsene. Il cuore gli mancò uno, due battiti quando quella voce melliflua gli carezzò di nuovo le orecchie con uno stridore che parve rimbombargli nella cassa toracica.
 
“Ciao Eren, mi fa tanto piacere conoscerti.”
 
Quel moccioso arrogante gli aveva appena fatto il verso. Si voltò di scatto, percependo la sua solita espressione insondabile incrinarsi di incredulità e paura. Non andava bene, Eren non andava bene.
 
Non andava bene che si fosse seduto e che si stesse togliendo svogliatamente la grossa sciarpa bordeaux che gli avvolgeva il collo, non andava bene il fatto che avesse tirato fuori un bloc-notes piuttosto malmesso e una penna dal cappuccio disgustosamente rosicchiato e li avesse poggiati sul banco. Non andava bene che l’indifferenza di Levi non gli avesse fatto niente, perché quello lo rendeva davvero imprevedibile. Un comportamento fuori dagli schemi, diverso quello scialbo della maggior parte delle persone. Pareva addirittura divertito dal corvino e dai suoi modi di fare schivi e bruschi.
 
Eren dovette in qualche modo riuscire a percepire il tumulto di emozioni – allarme, paura, ansia – che scossero il petto del ragazzo, perché il suo sguardo si addolcì. E Levi odiò il non riuscire a trovare neanche una minima traccia d’indignazione su quel volto.
 
“Mi piacerebbe sapere il vostro nome, di grazia, se questo non le reca disturbo.”
 
Non andava bene, non andava bene, non andava bene. Facevano lezione in un’aula con una capienza di cento persone ed erano a malapena in trenta: proprio vicino a lui doveva sedersi, di tanta gente che poteva andare ad importunare col suo squallido sarcasmo? Levi percepì le sue labbra secche dischiudersi appena in sorpresa a quella replica, mentre forse per la prima volta lo osservava davvero. Non si ricordava di averlo visto altre volte a lezione, ma in ogni caso non aveva mai prestato particolare attenzione ai suoi colleghi.
 
Aveva minato alla sua routine fatta di solitudine e silenzio, era diventato una variabile che non era riuscito a gestire e ad eliminare al primo tentativo e che gli aveva già causato più di qualche imprevisto in meno di due minuti. Gli aveva fatto galoppare cuore in petto fino a sentirlo chiudergli la gola per l’ansia, gli aveva impedito di riguardare gli appunti della lezione precedente, lo aveva destabilizzato così profondamente da spaventarlo. E probabilmente agli occhi di tutti quel tentativo di approccio sarebbe stato del tutto normale, ma per Levi era tossico, velenoso, proibito. Se Eren cercava compagnia, doveva trovarla in qualcun altro. Il corvino invece doveva soltanto usare le maniere forti per scollarselo di torno e assicurarsi che non tentasse nuovamente di iniziare una conversazione. Si costrinse a parlare, scoprendo la bocca e la gola talmente secche da far quasi male.
 
“Non t’interessa, moccioso. E a me invece non interessa fare una chiacchierata né con te né con qualcun altro, quindi smamma.”
 
Era pronto a sentirsi sibilare più di qualche insulto, a vedere quegli occhi spegnersi di rassegnazione e caricarsi di rabbia, così come si aspettava che un cipiglio indispettito comparisse sul viso armonico di Eren. Non si aspettava di udire il suono cristallino e melodioso della sua risata, – Dio, se lo odiava!- di vederlo coprirsi le labbra piene col dorso della mano per tentare di camuffare il divertimento che Levi vide riflesso nelle sue iridi smeraldine. Non ebbe neanche il tempo di metabolizzare lo sbigottimento per quella reazione che il castano lo sorprese ancora. Si portò una mano al petto con fare teatrale, e parlò con una smorfia giocosa in volto.
 
“Oh, così mi ferisci!”
 
Quel tono scherzoso e divertito gli diede alla testa. Lo aveva ignorato e trattato male, eppure non aveva ottenuto l’odio e il risentimento che si aspettava, a cui anelava con tutto sé stesso. Non andava bene, doveva allontanarsi; quel ragazzo era una minaccia.
 
Un sorriso sornione indugiava ancora sulle labbra rosee e piene del ragazzo quando Levi raccolse velocemente le sue cose e le infilò alla rinfusa nello zaino, tentando di scacciare la sensazione di panico che già gli attanagliava le viscere. Si diresse a passi veloci dall’altro lato dell’aula, intenzionato a mettere quanta più distanza possibile fra lui ed Eren e a scollarsi quella sensazione di disagio di dosso. Raggiunse il posto più lontano e scaraventò le sue cose poco vicino, sedendosi col cuore che gli martellava ritmico e pesante nelle orecchie e tentando di regolarizzare il suo respiro accelerato. Doveva riprendere il controllo del suo corpo e del mondo prima che l’ansia l’avrebbe consumato e inghiottito vivo fra le sue spire viscide; aveva dato il suo ultimatum a quel moccioso, e quello sarebbe sicuramente bastato a scollarselo di dosso. Tuttavia, pessimo modo di concludere la settimana universitaria e di iniziare il week-end.
 
Non appena alzò lo sguardo dalle mani chiuse a pugno che teneva poggiate sulle ginocchia, il grigio lunare delle sue iridi non si scontò con il bianco sporco e ingiallito delle pareti dell’aula come si era aspettato. La sua anima tremò alla vista di quel maglione blu che gli chiudeva la visuale, e risalì con lo sguardo sul corpo del proprietario per rimanere invischiato nel colore assurdo degli occhi di Eren, che se ne stava piedi davanti a lui ostentando una nonchalance che lo fece rabbrividire. Sentì il proprio sangue ghiacciarsi nelle vene e gli sembrò che l’intero Universo gli puntasse improvvisamente il dito contro.
 
No. No, no, no. Non va bene.
 
Le sue mani grandi e delicate erano strette appena attorno al rivestimento in pelle nera della sua agenda personale, e il suo sguardo curioso aveva un che di prepotente quando la aprì sulla prima pagina davanti a lui, mentre continuava a gettargli dall’alto occhiate divertite.
 
“Beh, Levi Ackerman…. Piacere di conoscerti.”
 
Qualcosa dentro di Levi gridò, e dovette fare appello alle misere e insignificanti briciole del suo autocontrollo per tentare di mantenere la sua solita espressione algida e impassibile. Tutto gli urlava di scappare, di fuggire da quelle iridi assurde e da quella insistenza, da quell’imprevedibilità che lo faceva star male e gli annodava lo stomaco.
 
Era pericolo il modo in cui prese nuovamente posto accanto a lui, era pericolo la sua tranquillità, il suo essere così spontaneo, il modo in cui gli porse l’agenda e il suo zaino - che doveva aver raccolto da terra, Levi non se ne era accorto- con un sorriso sghembo che gli piegava un angolo della bocca. Il corvino si riscoprì a guardarlo con gli occhi sgranati e ad ingoiare a vuoto un paio di volte.
 
Avevano il sapore della sfida quelle iridi impossibili, il colore della determinazione e della spensieratezza. Fu tentato di schiaffeggiare via la mano che tendeva il taccuino verso di lui, ma avvertì le membra assumere improvvisamente la stessa consistenza del piombo, farsi troppo rigide e pesanti. Rimase con il panico e la vulnerabilità cuciti sulla pelle, con un presagio viscido a infestargli l’anima. Si impedì di distogliere lo sguardo come gli comandava ogni fibra del corpo quando prese di nuovo parola, cercando di camuffare l’ansia che sentiva montargli in petto e chiudergli la gola usando tono minaccioso e rifilandogli uno sguardo gelido. Era sempre stato particolarmente capace nella sottile arte di nascondere le proprie emozioni.
 
“Che cazzo vuoi ancora? Mi pare di averti detto che voglio essere lasciato in pace.”
 
La scintilla di spavalderia che baluginava convinta negli occhi di Eren parve spegnersi alle sue parole brusche, affievolirsi per lasciare posto ad un qualcosa di affine alla timidezza e all’indecisione.
 
“È che ti vedo sempre solo… Studio Fisica e dovevo scegliere un esame opzionale da mettere nel piano di studi e Dinamica dei Sistemi Stellari mi attirava. Seguo da poco, ma ti vedo sempre sedere da solo e stare in disparte, quindi ho pensat-”
 
“Beh, hai pensato male!”
 
Neanche quando Levi sbottò quel ghigno impertinente abbandonò la bella bocca dell’altro, che continuava a scrutarlo divertito da sotto le lunghe ciglia nere. Mormorò soltanto un “che scorbutico!” con tono canzonatorio e rivolgendo quelle gemme preziose al cielo, prima di tornare ad incastrarle nelle pozze lunari di Levi nel tentativo di affogarle nel loro verde impossibile.
 
Pareva essere fatto di luce nella sua vera e più pura essenza mentre rispondeva alle sue provocazioni con la calma e col sorriso, neanche un accenno di irritazione o stizza sul volto. Levi lanciò un’occhiata veloce al suo orologio da polso, maledicendo i minuti che lo separavano dall’inizio della lezione. Non conosceva Eren neanche da cinque minuti e già lo detestava di un odio amaro e marcio. Era confusionario, caotico, imprevedibile; ed era proprio quella stessa imprevedibilità a portare a nulla di buono. Odiava il suo corpo tonico, gli faceva ribollire il sangue il fatto che fosse più alto di lui, ce l’aveva a morte con quel suo essere intraprendente e con quelle labbra dai bordi sempre piegati all’insù.
 
Sembrava che niente potesse scalfirlo, neanche le leggi dell’Universo che spaventavano tanto Levi. Il castano era padrone del suo mondo e della sua dimensione, un perfetto burattinaio che manovrava le sue emozioni in un’armonia che pareva trasudare e infondere positività soltanto per la sua presenza. Lo disgustava a tal punto che sentì il sapore amaro della bile mordergli lingua e palato.
 
Strattonò via il suo zaino e l’agenda dalle mani di Eren in maniera forse un po’ troppo brusca e violenta, ma non se ne curò. Tutto quello che gli importava era fare in modo che il ragazzo ricambiasse il proprio odio, che Levi sentiva nascere da quello che doveva essere un istinto di protezione primordiale che teneva ben saldato all’anima.
 
Fermo, non ti avvicinare. Stammi lontano, sei pericoloso.
 
Il castano non parlò, si limitò a rivolgere l’attenzione al suo orribile e disordinatissimo bloc-notes dai margini consumati e spiegazzati e il corvino tirò un sospiro di sollievo, rilassando di poco i muscoli delle spalle e della schiena, così terribilmente contratti da dolere. Attese l’ingresso del professore con la stessa ansia frenetica di un bambino che attende la mezzanotte a Natale per fiondarsi sui doni, raggiungendo il suo pc all’interno dello zaino e portandolo sul banco. Cercò di sembrare il più impegnato possibile, di assumere un’espressione di concentrazione per far desistere Eren dal rivolgergli nuovamente la parola.
 
Non seguiva i classici schemi comportamentali delle persone che a Levi erano sempre sembrati quasi degli sterili pattern matematici, qualcosa di comune a tutti e di insito nell’uomo in quanto tale. Era spontaneo, pareva svincolato da qualunque legge e teoria, libero di una libertà che tanto sapeva di proibito, di felicità, di pericolo; era tutto quello che Levi temeva di più al mondo, tutto quello che lui non era e che non sarebbe mai stato.
 
Volare così alto, librarsi nei cieli tersi della spensieratezza, portava ad un unico e inevitabile risultato: cadere rovinosamente al suolo, frantumarsi le ossa e l’anima per aver peccato di osare tanto, uscirne talmente devastato da essere ridotto in pezzi così piccoli da non poter essere più incollati insieme. E assaporare il gusto dolce della gioia per poi venirne privato all’improvviso, era considerabile il castigo più crudo che l’uomo potesse infliggere nei confronti di sé stesso. Non valeva la pena soffrire, non dopo aver scoperto quanto fosse bello stare bene ed aver sentito tutto attorno farsi leggero, aver visto ogni colore brillare. Lo stesso dolore avrebbe fatto male cento, mille volte tanto se preceduto da quell’assaggio proibito di felicità.
 
Era per quello che Levi non osava. Non sfidava i Cieli, ma sottostava alle sue leggi a testa bassa, senza obiezioni seppur tentasse di eluderle. Era giusto che fosse così, non poteva essere altrimenti, non per lui.
 
Aveva appena tirato un sonoro sospiro di sollievo all’entrata del professore – un uomo dalle incipienti calvizie e basso e tarchiato, con un viso talmente buffo e ambiguo che la sua età sarebbe probabilmente rimasta per sempre un mistero – ma non era ancora riuscito a scrollarsi di dosso quella sensazione di disagio che gli indugiava addosso. La sentiva fra i capelli, dove ere sicuro che si fosse soffermato lo sguardo di Eren, poi l’aveva sentita percorrere il suo corpo con un lungo brivido che lo fece fremere; poi ancora, la pelle esposta e pallida del suo volto stanco era tornata a bruciare.
 
Benedì l’istante in cui il docente prese il microfono per augurare un buongiorno all’aula, e mai la sua voce stridula e cantilenante, -che di norma lo infiammava dell’impulso di strapparsi i timpani a mani nude- gli era sembrata più gradita. Era finita, ce l’aveva fatta. Il moccioso lo avrebbe lasciato in pace, si sarebbe dimenticato del tizio scorbutico e solitario che lo aveva insultato e trattato male e alla lezione successiva avrebbe cercato qualcuno di più affabile – e Levi era sicuro che ne avrebbe trovata di gente disposta ad accoglierlo, fra quei caciaroni dei suoi compagni di corso - con cui stringere amicizia. E lui sarebbe stato soltanto un’ombra sbiadita nei suoi ricordi, una macchia di nero inchiostro dai contorni indefiniti, piccola e perfettamente trascurabile.
 
Sbuffò appena quando il professore annunciò che avrebbe fatto delle domande sugli argomenti della lezione precedente; la tensione che sentì rendere l’aria elettrica e il brusio sommesso del chiacchiericcio che cessò di colpo lo catapultarono indietro nel tempo, agli anni delle medie e del liceo. Da quando i professori universitari interrogavano?
 
Era intento a far scorrere forsennatamente le dita sui tasti del suo portatile per trascrivere la domanda appena rivolta ad uno dei suoi poveri compagni malcapitati, quando qualcosa di piccolo gli piombò veloce sulla tastiera. E per la seconda volta nella giornata pensò di avere le allucinazioni quando il suo sguardo si posò su una di quelle disgustose gelèe alla frutta, dalla consistenza molliccia e completamente ricoperte di zucchero. Si girò di scatto nella direzione di Eren, fulminandolo con gli occhi mentre scartava un’altra caramella e se la ficcava fra le labbra, il cuore che era tornato a martellargli in petto quasi volesse sfondargli la cassa toracica.
 
“Sempre a sbuffare stai! Mangiala, che magari ti addolcisci un po’…!”
 
Era troppo, era dannatamente troppo. Troppo sfrontato, troppo imprevedibile, troppo calmo. Erano troppo luminosi i suoi sorrisi, troppo verdi i suoi occhi, troppa l’ansia che di nuovo tornava a farsi sentire. Gli gettò la gelèe addosso – e fu proprio una sfortuna il non colpirlo in un occhio – e lo vide prenderla al volo e liberarla velocemente dell’involucro, per poi cacciarsela in bocca alzando di poco le spalle, per nulla scalfito dal suo gesto.
 
E fu allora che Levi arrivò alla conclusione che Eren fosse come l’Universo. Andava avanti con una cinica e fredda noncuranza, del tutto indifferente a quello che accadeva attorno a lui; niente lo intaccava. Non desisteva davanti agli insulti, il suo sguardo non si accendeva d’ira davanti ai modi bruschi del corvino. Rimaneva immutato quasi fosse perfettamente incorruttibile, fatto di una sostanza troppo pura e resiliente per piegarsi sotto il peso di piccolezze del genere. Seguiva la stessa dialettica del Cosmo, fatta di beffardo menefreghismo.
 
E non c’era scenario peggiore per Levi, neanche nelle truci visioni oniriche che accompagnavano le sue notti insonni, della manifestazione dell’Universo stesso in un corpo umano, quasi il Cielo si stesse prendendo nuovamente gioco di lui. Si sentì scoperto, messo a nudo, incapace di nascondersi dalla vita e dal suo perpetuarsi; non importava quanto avesse tentato di passare inosservato, di ovattare i suoni e i colori della realtà con un paio di cuffiette ed un cappuccio calato sul volto stanco: era stato trovato.
 
Non seppe neanche lui come si sentì quando quella realizzazione gli carezzò i pensieri, spinosa. Avvertì l’esistenza pesargli nel petto e ancorarlo alla realtà, invadergli l’anima con un tumulto di emozioni intermittenti e dalla stessa forza distruttiva di uno tsunami. Lo inondarono dall’interno, investirono ogni singola fibra del suo corpo per farla tremare; poi quell’onda si ritirò all’improvviso, lasciando dietro di sé devastazione ed un glaciale sentimento di vuoto cronico.
 
Il sapore della sconfitta era lo stesso del sale sulla terra bruciata, aveva lo stesso colore nerastro della sua anima. La rassegnazione lo avvolse nelle sue spire strette, facendolo soffocare e sfocandogli la vista umida.
 
“Sta zitto, taci, non parlare. Non rivolgermi la parola, stammi lontano.”
 
E al suono della sua voce fioca e appena udibile gli parve di sentire il rombo di trionfo dei Cieli.
 
________
 
Alla fine aveva almeno avuto la fortuna di non essere il destinatario di una di quelle improbabili domande a sorpresa; Eren invece era stato chiamato, e di certo non si poteva dire che non sapesse il fatto suo. Era stato breve e conciso nella sua risposta, e perfino il professore, da sempre scarso con i compimenti, si trovò a tessere le sue lodi. In cambio, il ragazzo si guadagnò più di qualche occhiata inviperita e colma d’invidia da parte degli altri studenti. Tutta quella folle competizione fra compagni di corso, che pareva spingerli a gareggiare per il voto più alto e per le attenzioni dei docenti neanche fossero alle Olimpiadi a contendersi l’oro, Levi non l’aveva mai capita.
 
Eren non gli aveva più parlato, ma non per quello il senso nauseabondo di vulnerabilità gli si era scucito dalla pelle. Gli era pure parso di coglierlo a scoccargli un’occhiata preoccupata, ma non ne era sicuro; non avrebbe rivolto lo sguardo nella sua direzione neanche se lo avessero pagato. Quel moccioso sembrava essere fatto della stessa viscida consistenza dei suoi incubi, doveva liberarsi di lui a tutti i costi. Non erano ammessi fallimenti.
 
Eppure, nonostante lo avesse ignorato per quelle cinque ore che lo privarono di ogni briciolo di energia in corpo, prima di andare via aveva Eren era comunque riuscito a catturare la sua attenzione e lo aveva salutato con un cenno della mano e un sorriso luminoso a riverberargli nelle iridi di smeraldo.
 
SPAZIO AUTRICE
I miei capitoli stanno diventando eterni e la cosa mi sta sfuggendo di mano, aiuto. Sono troppo lunghi? Fatemi sapere.
 
Ce l'ho fatta ad aggiornare, finalmente! Ho avuto un lungo periodo di meditazione su questa storia (e mi fa ancora meditare, in realtà) per questo ci ho messo un po' a tornare a scrivere. Sento di doverla pensare bene, quindi la aggiornerò a sentimento, diciamo😂 e non vi preoccupate che aggiorno!
Alla prossima!❤️✨
 
 
 

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Capitolo 3
*** III ***


Legge tre – Causa-effetto

Eren era stato una palla al piede per le due settimane a seguire. Molesto oltre i limiti dell'immaginabile, caotico come la sua imprevedibilità e sfrontato; una zavorra dagli occhi verdi che aveva impedito a Levi di vivere il suo silenzio e la sua solitudine come si ostinava a fare da anni.

Il moccioso aveva colpito la sua routine come un fulmine a ciel sereno e l'aveva frantumata, sconvolta, trasformata e rielaborata secondo le sue esigenze. Esigenze che lo vedevano costantemente alle calcagna del corvino, ad ammorbarlo con discorsi che neanche le sue cuffiette riuscivano ad ovattare e ad illuminare il suo volto pallido -perennemente scurito da un'amarezza che pareva insita nella sua persona- con quel sorriso sulle labbra belle e piene. Dio, se Levi glielo avrebbe voluto far sparire dalla faccia a suon di sberle!

Era giunto alla conclusione che Eren dovesse davvero essere incorruttibile. Gli aveva gettato addosso insulti velenosi e indicibili, alternati a momenti di un'indifferenza talmente caustica che sarebbe stata in grado di corrodere chiunque; tutti, ma non lui. Non Eren e i suoi begli occhi verdi, ridenti e luminosi, non lui che altro non era che l'ennesima beffa che l'Universo si faceva di Levi.

Odio chiama odio, gli aveva insegnato Kuchel sin da bambino, e Levi aveva fatto sua quella consapevolezza, custodendola in petto e maturandola con l'età. Eppure, anche in quello, Eren pareva essere un'eccezione. Qualcosa di talmente imprevedibile da dargli il sangue al cervello e da sconvolgere la sua quotidianità, disorientandolo in una maniera che lo annientava e gli toglieva il fiato, stringendogli la gola. 

Lui e il suo maledetto sorriso a piegare perennemente le labbra rosee, parevano urlare non curanza alla legge del karma. Un insulto non si tramutava odio seguendo la classica dialettica, non gli deformava il bel volto di risentimento, ma lo illuminava col sorriso. L'indifferenza non lo allontanava, ma sembrava avere lo stesso potenziale ipnotico che una fiammella nel buio aveva per una falena. E Levi proprio non riusciva a spiegarselo.

Passava tempo a maledire sé stesso, urlava mentalmente oscenità conto Eren, rivolgeva tutta la propria ira contro il Cosmo senza mai venire ascoltato. In fondo, non era sempre stato così? Quel moccioso sfrontato sembrava essere diventato una specie di castigo divino, al pari di un memento dalle sembianze umane.

Ti vedo, non puoi sfuggirmi. Illuso...! Non riuscirai a nasconderti, non ci sei mai riuscito.

L'Universo stava giocando una sorta di perversa e malata partita a scacchi con lui. Lo aveva annientato, gettando la chiave della stessa gabbia dorata che Levi si era eretto attorno, facendosi una grassa risata alla vista della sua inettitudine; era ancor meno di un misero insetto per quelle dinamiche, e tale sarebbe rimasto. Non lo infastidiva che la sua esistenza fosse inutile ai fini del perpetuarsi del mondo, ma il panico lo attanagliava nella sua morsa viscida e torbida al pensiero che non avrebbe mai saputo quando sarebbe stato schiacciato. 

Eren invece sembrava completamente svincolato da tutte quelle dialettiche che Levi cercava di evitare. Un'entità a parte, composta della stessa oscura materia dell'Universo e modellata in forma umana, capace di assaporare la vita istante per istante e di guardarla negli occhi per tentare di comprenderne i segreti; sembrava che quella vita stessa gli scorresse nelle vene. E allora Levi si chiese quanto dovesse essere stato fortunato per permettersi la speranza che l'esistenza non fosse altro che un fardello dal peso troppo grande, un meccanismo arrugginito troppo complesso da comprendere e far funzionare a regime. 

Era magnetico, tutto pareva gravitargli attorno; attraeva qualunque cosa. Era bersaglio delle occhiate curiose dei loro compagni di corso, protagonista dei pettegolezzi sul perché si ostinasse a stare tanto appiccicato a quel musone scontroso di Levi Ackerman, preda perfetta per gli occhi languidi e civettuoli di qualche ragazza. Perché che Eren fosse bello, non si poteva negare.

Gli stava appiccicato come un satellite, gettandogli addosso la sua ombra a ogni ora del giorno – e che fosse dannato, pure quella pareva emanare luce propria! – e immergendo le sue giornate in un fluido nevrotico e paranoico, che le ovattava con una consistenza irreale e irritante. Il corvino in quei giorni aveva sentito i morsi della disperazione farsi più insistenti sulla propria anima e l'insofferenza scorrergli nelle vene fino a fargli formicolare le mani. 

E quando non c'era il castano a tediare la sua quotidianità e ad attentare alla sua già precaria salute mentale, il compito passava a quella mentecatta di Hanji Zöe. Non che Levi non le volesse bene – nutriva un affetto spropositato per la castana, anche se non lo avrebbe mai ammesso a voce alta – ma lo infastidiva la sua invadenza. Comprendeva la preoccupazione nei suoi confronti che l'amica palesava ogni giorno, ma mal tollerava tutte le pressioni che gli faceva. A tratti, sembrava quasi che fosse in combutta con sua madre. Le due non facevano che ripetergli di tornare in terapia fino a svuotare quelle frasi d'incoraggiamento di qualsiasi senso compiuto e farle perdere nell'aria per tante, troppe volte. Lui non aveva bisogno di persone, di aiuto, di comprensione, di vivere; tutto ciò che gli interessava era rimanere invisibile e mischiarsi alle ombre.

Le sue giornate nelle ultime due settimane erano andate avanti per forza d'inerzia in quella maniera, fra tentativi vani di mascherare la propria esistenza all'Universo - col suono della voce melliflua di Eren colato ed appiccicato addosso - e l'insistenza delle due donne a tormentarlo in quei pochi istanti in cui avrebbe avuto bisogno di pace. Per quello sbottava, alzava la voce, stringeva i pugni e serrava la mascella fino a sentire le fibre muscolari gridare d'agonia sul punto della lacerazione; non c'era un momento in cui fosse realmente solo, in compagnia soltanto dei suoi stessi torbidi pensieri. Era strana, asettica, quell'assenza di rumori nella sua testa.

Hanji non sapeva di Eren, Levi era stato bravo a nascondere la sua esistenza e a liberarsi sempre del castano in un modo o nell'altro prima di raggiungere l'amica nel cortile dell'università o di incrociarla a metà strada per quei corridoi fitti di aule e frenetici di studenti. L'ultima cosa che desiderasse al mondo era che la quattr'occhi venisse a conoscenza del fatto che avesse avuto delle interazioni umane. Non richieste e mai ricambiate, -se non per esasperazione, certo - ma pur sempre interazioni rimanevano; Hanji non lo doveva scoprire neanche per sbaglio. 

Così, ai numerosi impegni quotidiani, – che ormai da due settimane non rispettavano più le scadenze e i tempi imposti nero su bianco sulla sua agenda – si aggiungeva anche quello di cercare di tenere l'uragano che era Eren il più lontano possibile dalla sua vita. Ne era stato investito con una forza impetuosa, risucchiato dal verde dei suoi occhi e dai suoi modi di fare che tanto gli facevano ribollire il sangue. Eppure, nonostante l'apparente calma, il corvino aveva paura. Una paura viscerale e atavica, subdola.

Non riusciva a scollarsi di dosso il presagio che Eren avrebbe fatto capitombolare tutte le sue certezze da un momento all'altro, investendolo nuovamente e con più intensità di prima. Non riusciva a scucire dalla propria pelle la sensazione – o meglio, la consapevolezza - di trovarsi nell'effimera quiete dell'occhio del ciclone. E Levi non poteva fare altro che esserne terrorizzato e tremare in silenzio.

Aveva addirittura pensato di non andare a lezione pur di non incontralo e di sostenere l'esame di Dinamiche dei Sistemi Stellari da non frequentante. Ipotesi ghiotta e che avrebbe trovato una soluzione - seppur considerabile solo come un blando palliativo - ai suoi problemi, e sarebbe stata in grado di arginare gli imprevisti derivati da tutta l'imprevedibilità che gli gettava addosso Eren Yeager. E se solo le dispense del professore fossero state qualcosa di anche lontanamente utile – e lui invece, non fosse stato troppo asociale per chiedere appunti o registrazioni a qualche compagno di corso - lo avrebbe fatto senza ripensamenti. Sarebbe tornato a scandire metodicamente ogni minuto della sua vita, ad organizzarla a tavolino e a rintanarsi nel silenzio e nella solitudine, ma teneva davvero a passare quell'esame con un'ottima votazione. La sua carriera universitaria – così come la sfilza impeccabile di trenta con lode sul libretto – erano più importanti di uno stupido moccioso dagli occhi verdi e animato da una voglia di vivere ingiustificabile e disgustosa.

Iniziava così il suo lunedì mattina, con tanti pensieri per la testa, una mano stretta attorno al sudicio palo della metropolitana piena per impedirsi di perdere l'equilibrio, la rassegnazione degli occhi e l'esistenza a gravargli sulle spalle, che aveva improvvisamente acquisito lo stesso peso dei libri universitari che portava nello zaino.

________

"Izzy!"

Levi era scattato in piedi dalla sedia come una molla quando la sorella era caduta a terra a peso morto sul pavimento del salotto; teneva la matita con cui aveva sottolineato pigramente il libro di storia ancora stretta fra le mani. Gli occhi erano riversi appena a mostrare il bianco della sclera, il corpo minuto scosso da fremiti.

"Mamma! Mamma!"

Aveva urlato fino a raschiarsi la gola, le aveva scostato i capelli rossi dal viso e aveva cercato di calmare i tremori che le scuotevano gli arti massaggiandoli piano. La schiena era terribilmente contratta, così come i lineamenti del volto gentile, sfigurati da un'espressione di sofferenza. Il panico gli annodò lo stomaco, il terrore di non sapere cosa stesse succedendo o investì rompendo la sua compostezza e inondandogli le iridi cristalline.

Kuchel era accorsa velocemente nella stanza, fiondandosi sul telefono per comporre il numero dell'ambulanza con gli occhi assaltati dalle lacrime e l'ansia a scavarle un buco nel petto.

"Izzy, mi senti? Izzy, ti prego..."

Levi non si era neanche accorto delle calde gocce salate che avevano iniziato a solcargli il volto e a disegnargli sentieri bagnati sui suoi zigomi, intervallate a singhiozzi smorzati. Isabel non si era ripresa finché non erano arrivati i paramedici e l'avevano caricata sull'ambulanza. Crisi epilettica, avevano detto durante la corsa verso l'ospedale. 

Levi e Kuchel vennero sommersi di domande mentre la minore venne affidata alle cure dei medici. Gli venne chiesto se avesse mai avuto episodi del genere prima di allora, se soffrisse di qualche patologia, se prendesse dei farmaci e addirittura se fosse sotto l'influenza di qualche droga, trascrivendo accuratamente ogni preziosa informazione su un vecchio pc dall'aspetto piuttosto dimesso. Quell'interrogatorio clinico non fece altro che gettare benzina sul fuoco della loro ansia. 

Ansia che si gonfiò a dismisura, assumendo l'aspetto di un mostro troppo grande. Ansia che li divorò vivi e li masticò fra le sue fauci, sputandoli dopo aver lacerato le loro carni con le lame del panico come fossero polvere insignificante e non esseri umani.

Tutto quello che Levi provò fu terrore, rabbia cieca. Intuiva dalle facce scure dei dottori che Isabel stava male, male davvero.

Insulti, insulti ai medici, al mondo, alla vita, a sé stesso, a tutto. Insulti urlati con voce raschiata e spezzati da singhiozzi, calde lacrime che gli sgorgavano dagli occhi. E poi piano piano quelle due emozioni mutarono forma, evolvendosi in qualcosa di più pericoloso e subdolo, viscerale.

Disperazione.

Abbattimento.

Sconforto.

E poi vuoto.

Quel mix letale di emozioni lo scosse talmente forte da farlo gridare un istante prima e da togliergli il fiato e l'istinto stesso di vivere il momento successivo. Le urla cessarono, le lacrime si asciugarono, il battito forsennato del suo cuore rallentò; l'anima di fece piccola e insignificante di fronte al referto di quella TAC. Una parola sola, undici lettere che sconvolsero la sua esistenza e la fecero tremare, distruggendola: glioblastoma.

Abbracciò sua madre e lasciò che piangesse sulla sua spalla, che gli artigliasse la schiena, che consumasse la propria voce, mentre lui si faceva divorare dal vuoto. Ed era disgustosa, quella fiammella di speranza che tentava di monopolizzare i suoi pensieri e di incanalarli verso altre direzioni meno distruttive e oscure come quel senso di disorientamento ed estraneità dal mondo tanto forte da dargli la nausea.

Dov'è l'errore? Hanno scambiato una cartella clinica. Omonimia, potrebbe essere: Isabel è un nome piuttosto comune. No, i medici hanno sicuramente interpretato male i risultati. Errare è umano...?

Non era possibile avere un tumore a sedici anni, eppure Isabel giaceva attaccata ad una flebo fra le coperte immacolate dello Shiganhina Hospital nel reparto di oncologia pediatrica. Muri colorati, cartelloni e disegni appesi su quelle pareti arlecchino creavano un contrasto disumano con la crudezza che raccoglievano e che tentavano di celare. Bambini e adolescenti con le teste rasate incontravano gli occhi vacui e spenti dei genitori, persi nel nulla come quelli di Kuchel. Corpi emaciati e deboli, pallidi; mascherine sui visi smunti e dagli zigomi troppo pronunciati, fili e aghi sulle braccia magre e gli sguardi dilanianti. Il presagio di morte era così denso in quel posto che a Levi parve di poterlo respirare. 

Isabel aveva le lacrime agli occhi e la determinazione riflessa nelle iridi verdi e annacquate. "Scusatemi", aveva detto, come se Levi e sua madre avessero potuto fargli una colpa di quella malattia che voleva strapparla al mondo. La strinsero forte, piansero insieme, e Levi maledisse tutto ancora e ancora, nei momenti in cui un'ira febbrile si alternava all'arido e gelido vuoto che governava la sua anima. 

Sua sorella non avrebbe fatto le chemio, almeno non per il momento; la notizia era arrivata proprio durante quell'abbraccio disperato. La massa tumorale era solida, grande ma operabile, non metastatica. Non aveva intaccato altri organi del suo corpo, e la chirurgia sarebbe stata l'approccio migliore prima di iniziare a sottoporla a qualunque tipo di terapia per estirparle da dentro quel male che chissà da quanto tempo albergava in lei e cercava di sottrarle con una ferocia disumana la vita che tanto amava.

Isabel aveva pianto di gioia quando aveva saputo che poteva essere operata, come se finire sotto ai ferri dei chirurgi per sette ore e farsi aprire in due la calotta cranica fosse la migliore prospettiva auspicabile. Ma Levi comprese il suo attaccamento alla vita, la sua voglia di combattere e di superare quell'ostacolo più grande di lei; la lesse la profonda sofferenza nei suoi occhi, così come vide la lama sottile della falce della morte lambigli la gola. 

La teneva in pugno, e avrebbe potuto recidere il filo che la teneva ancorata debolmente all'esistenza e che le donava calore da un momento all'altro; sua sorella l'avrebbe affrontata col sorriso, non permettendole di portarsi via la sua vita e tutti i suoi colori tanto facilmente. L'intervento era stato programmato per una settimana dopo, ed Isabel avrebbe combattuto a testa alta e con lo sguardo fiero. Fragile e minuta, ma forte e bellissima anche in quel letto d'ospedale.

Poteva solo immaginare quanto fosse caotico per lei anche solo respirare in quel momento, mentre lui rifletteva sulla vulnerabilità degli esseri umani e sulla loro irrilevanza per il mondo intero con un vuoto nel petto e una rabbia cieca e febbrile nell'anima, che niente sarebbe stato in grado di colmare...

"Ehi Levi, mi spieghi quella cosa sulla nucleosintesi? Perché non sono sicuro di aver capito bene... A dire la verità, credo di essermi perso un paio di passaggi. Ad esempio, quando il professore ha parlato dell'idrogen-"

Quella voce di miele, stridente come lunghi e affilati artigli su pietra, si interruppe a metà frase. A Levi piacque pensare che Eren si fosse zittito perché in cuor suo già conosceva la risposta –categoricamente negativa – al suo quesito, ma per quanto allettante, il suo buonsenso scartò subito quell'opzione.

Doveva averla vista, la sua maschera che si incrinava, cadeva e si rompeva in mille pezzi. Doveva averla percepita, la vulnerabilità della sua anima. 

In fondo, al corvino bastava davvero poco perché la sua esistenza si facesse ancora più fragile e i ricordi tentassero di divorarla. Era più che sufficiente una lezione noiosa su un argomento affrontato in più materie e di cui la sua mente era già satura, a maggior ragione se la voce del professore pareva un misto fra una nenia lancinante e una cantilena.

Era per quello se si ritrovò a tentare di placare il ritmo del suo respiro con il cuore che gli martellava prepotente nella cassa toracica; i palmi sudati erano stretti a pugno ed incisi da una serie di mezzelune rossastre, mentre lo sguardo vagava perso sul cursore del suo pc, che lampeggiava ad intermittenza su una pagina di appunti lasciata semivuota. 

E la sua espressione, quella com'era? Forse li vide riflessi negli occhi impossibili di Eren i suoi capelli spettinati e le labbra arrossate e martoriate dai morsi, così come le iridi sgranate, scure di terrore. Forse, invece, tentò egli stesso di dare un'immagine alla turbolenza di emozioni che sentiva nascergli dentro e che gli veniva scagliata contro come un macigno, pervadendolo di brividi ed un profondo senso di nausea.

Si impose di rispondere ad Eren per puro orgoglio, per mantenere almeno una parvenza di dignità davanti a quel ragazzo che sembrava immune a tutto. In quel momento, Levi desiderò essere come lui. Bramò con un desiderio mai provato prima di allora di non soccombere al passato, di essere capace di rivivere quei ricordi con una sensazione dolceamara nell'animo che gli avrebbe fatto spuntare un mezzo sorriso nostalgico e triste sulle labbra. Perché per lui pensare ad Isabel era sempre stato paragonabile ad un dolore atroce all'altezza del petto, allo strazio della sua povera anima scura e già ridotta in brandelli laceri. Quella voglia ardente di poterla ricordare serenamente quasi lo soffocò col suo calore, quando si costrinse a parlare. 

"N-Non se ne parla proprio, scordatelo. Non ho la più minima intenzione di perdere il mio tempo con te."

Trattenne a stento qualche insulto verso sé stesso e si morse la lingua al tremolio traditore della sua voce, fino a sentite il sapore metallico del sangue infestargli la bocca e pungergli il palato. Iniziò ad infilare il suo portatile nello zaino, non curandosi di dare importanza ad Eren voltandosi nella sua direzione; era già stato abbastanza scorgere il cipiglio confuso che adombrava il suo bel viso, misto a curiosità, dolore e a qualcos'altro che Levi non fu in grado di cogliere. 

Attorno a loro l'aula era semi-deserta, e i pochi studenti che erano ancora rimasti fra quelle quattro mura impregnate di sapere si accingevano a recuperare i loro giubbotti dagli attaccapanni sulle pareti. Il castano se ne sarebbe potuto andare, eppure era rimasto a vederlo struggersi dall'interno, a veder crollare come fosse cartapesta la spessa cinta di mura con cui aveva circondato il suo cuore e il suo animo e di cui aveva posato la prima pietra quel fatidico due di ottobre di quattro anni prima. 

Mattoni su mattoni tenuti insieme da un calcestruzzo impastato di odio, rancore, paura, solitudine, esasperazione, dolore nella sua accezione più pura e lancinante. Un muro che era ormai diventato invalicabile, inespugnabile se non nei brevi momenti in cui i ricordi riuscivano a fare breccia, unici nemici capaci di perforarlo precisi e letali come enormi spilli.

Erano momenti delicati come sottilissimo vetro, in cui il suo animo veniva gettato in una quiete malsana intervallata ad un tumulto emotivo che lo lasciava quasi sempre con gli occhi umidi e lucidi. Ed era subdolo, il ricordare in maniera così vivida. Gli si insinuava nella mente all'improvviso come un dardo scagliato ad una velocità troppo elevata per essere evitato e non gli lasciava una via di scampo, assoggettandolo al susseguirsi di quelle immagini dolorose che dentro lo facevano urlare di disperazione. 

"Levi..."

Il suo nome gli giunse mormorato in un sussurro fioco e preoccupato, e il corvino raccattò velocemente le sue cose riponendole frettolosamente nello zaino. Le dita, il corpo e l'anima gli tremavano per la smania febbrile che aveva di lasciarsi l'aula alle spalle, di lasciarsi Eren alle spalle e rifugiarsi nell'amicizia della propria solitudine. Non sopportava più il fuoco che pareva propagarsi appena al di sotto della sua pelle diafana, irradiato direttamente da quegli smeraldi preziosissimi.

Si alzò nervosamente, non curandosi di fare troppo rumore e di attirare lo sguardo curioso di qualche collega che si era fermato a chiacchierare sulla soglia della grossa porta tagliafuoco all'ingresso dell'aula; la raggiunse a passo veloce e oltrepassò i ragazzi quasi correndo, scivolando a testa bassa fra di loro come il fantasma che pretendeva di essere ogni giorno.

Levi era esausto, così esausto che sarebbe potuto crollare su sé stesso da un momento all'altro e soccombere sotto le macerie del proprio muro in frantumi. Si sentiva prosciugato di ogni energia fisica, privato di qualsivoglia stato d'animo che fosse anche lontanamente classificabile come positivo. 

Solo paura, disperazione, esasperazione e una voglia di urlare fino a lacerarsi le corde vocali e farsi collassare i polmoni. Una voglia incurabile di solitudine, di silenzio; un desiderio malato di venir tagliato fuori da tutto e da tutti, di escludersi volontariamente dalla vita. In fondo, lui proprio non se lo meritava di vivere.

"Levi! Levi, ehi!"

La zazzera mogano di Hanji gli si parò davanti, l'acconciatura più disordinata del solito e le iridi castane intrise di preoccupazione. Le scoccò un'occhiataccia e la evitò con una spallata continuando a dirigersi verso l'uscita, saturo dell'aria carica di tensione all'interno dell'edificio che gli inondava i polmoni e gli chiudeva la gola. Aveva bisogno di respirare, di solitudine, di lasciarsi alle spalle tutto fino a farlo svanire nel buio della sua camera. Anche se dubitava che l'oscurità sarebbe bastata a contrastare la brillantezza di quegli occhi verdi.

"A-Aspettami! Dove vai?"

"Via da questo posto, Hanji. Lasciami in pace, voglio stare da solo."

Aveva bisogno di stare solo, di stare in silenzio e di urlare dentro fino a dilaniarsi l'anima, di lasciare che le sue emozioni facessero un casino assordante e lo pervadessero nella quiete; non una parola, non un lamento avrebbe lasciato le sue labbra. Ne aveva un bisogno malato e viscerale, della solitudine; sentiva che sarebbe potuto impazzire da un momento all'altro, completamente sopraffatto dai ricordi e dai modi di fare di quel ragazzo che prosciugava tutte le sue energie e se ne cibava come una sorta di sanguisuga emotiva.

Per tutta risposta, l'amica lo bloccò per le spalle e catturò la tempesta dei suoi occhi con i propri, bloccandolo sul posto. 

"No, Levi, non ti lascio in pace. Non quando sono due settimane che stai peggio del solito e che rifiuti qualunque forma di aiuto e contatto, anche da parte mia. Che succede? Ti prego, parlami... Sono preoccupata per te."
 

Il petto gli fece male quando si specchiò nel velo umido che ricopriva le iridi dell'amica, e il cuore gli tremò appena; Hanji non si meritava quel trattamento; lui era dannatamente incapace di esprimere qualunque forma d'affetto provasse nei suoi confronti. Si fece piccolo davanti a quello sguardo, sentendo la propria esistenza diventare insignificante ed effimera, di troppo. I suoi modi di fare così bruschi e ruvidi riuscivano perfino a spegnere l'esuberanza di Hanji e a trasformarla in rassegnazione. 

Era come se Levi irradiasse una sorta di tossico veleno mortale, capace di spegnere tutto e di uccidere con un solo flebile tocco o sguardo ghiacciato. Si vergognò di sé stesso così tanto da fare male.

"Levi, eccoti! Sei scappato, che-"

Quella voce di miele colato che aveva odiato fin dal principio s'infranse non appena gli smeraldi preziosissimi di Eren trovarono la figura di Hanji, esaminandola da capo a piedi. Levi tremò, tremò per davvero.

Ogni singola fibra del suo corpo parve flettersi spasmodicamente fino a sfiorare il punto di rottura per poi rilasciarsi all'improvviso e colpirlo con un doloroso colpo di frusta, che gli lasciò addosso la stessa sensazione bruciante di quegli occhi verdissimi sulla sua pelle pallida. 

La zazzera castana disordinata incorniciava il bel viso appena arrossato; teneva il suo squallido bloc-notes rovinato sotto braccio, lo zaino era semi-aperto e la solita penna dal cappuccio disgustosamente mordicchiato infilata dietro l'orecchio nella foga di raggiungere il compagno. Il suo respiro era leggermente accelerato.

Lo sguardo di Hanji si fece interrogativo, grande di sorpresa e improvvisamente colmo di felicità ed interesse. Lasciò andare le spalle del corvino per rivolgere tutte le sue attenzioni ad Eren, le iridi brillanti. Quanto tempo era che Levi non lasciava nessuno avvicinarsi a lui, che si chiudeva dentro sé stesso in una stanza fin troppo piccola e buia e di cui aveva gettato la chiave? Eppure, quel ragazzo che non aveva mai visto prima di allora, aveva appena pronunciato il suo nome con una naturalezza che l'aveva lasciata spiazzata. Non riuscì a dare un nome al tumulto di emozioni che scosse la sua anima e che gli ricacciò le lacrime indietro.

Quel ragazzo sembrava vederlo davvero, essere in grado di raggiungere il vero Levi ovunque si trovasse con la sola forza di uno sguardo. Tremavano le sue dita, quando le porse al castano per stringergli la mano, ma qualcosa dentro di lei parve tornare al proprio posto, trovando un incastro perfetto come il tassello di un rompicapo. La sua voce tradì l'emozione e l'aspettativa.

"Oh, tu devi essere un collega di Levi! Piacere, Sono Hanji Zöe."

"Eren Yeager, il piacere è tutto mio."

E allora il corvino volle scappare, fuggire lontano, fingere di non essere mai esistito e nascondersi in eterno; fece un fracasso assordante la sua anima quando Levi gli passò un braccio attorno alle spalle e lo strinse a sé, e quelle iridi assurde furono nuovamente puntate nelle sue, indagatorie e preoccupate, impossibili. Levi pensò che il suono del nome della sua condanna a morte fosse disgustosamente dolce, mentre lasciava che i due conversassero animatamente. Non era più nell'occhio del ciclone, e non era sicuro di quanto sarebbe riuscito a resistere. Ma la cosa peggiore era che tutto di Eren pareva urlargli una sola cosa, dal modo in cui lo guardava ai suoi atteggiamenti.

Non riuscirai a sfuggirmi.

Fu forse proprio in quel momento che anche l'ultima fiammella di speranza si spense per lasciare posto ad una consapevolezza dilaniante che straziò la sua anima; aveva vinto, l'Universo aveva vinto davvero, ed aveva l'aspetto di un bellissimo ragazzo dagli occhi assurdi. 

Scacco matto, Levi Ackerman.

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SPAZIO AUTRICE

Ce l'ho fattaa!🎊🎉🎊🎉 Mi dispiace sempre farci aspettare per gli aggiornamenti, ma come vi ho già detto tengo molto a questa storia e non riesco a scriverla sempre. È parecchio difficile da buttare giù. Spero però che l'attesa sia valsa la pena e che il capitolo vi sia piaciuto. 

Alla prossima!❤️✨

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Capitolo 4
*** IV ***


Legge quattro – permettere

Erano passati due mesi da quando aveva incontrato per la prima volta Eren Yeager; sessanta giorni, millequattrocentoquaranta ore in cui quegli occhi assurdi non lo avevano abbandonato per un istante. Erano concreti come fiamme ardenti nel tempo che trascorrevano assieme in alula, indagatori e onnipresenti nelle fantasie che la mente del corvino creava senza freni quando il castano non era con lui. Lo seguivano ovunque, illuminando di bagliori smeraldini la sua solitudine e vegliando sulle sue azioni, sempre vigili e attenti. E Levi si sentiva impazzire ogni giorno di più.

Tuttavia, presenza del castano gli era divenuta più tollerabile, fatto da attribuire unicamente alla forza dell'esasperazione che ormai lo pervadeva in ogni fibra del corpo. Non c'era altro che il corvino potesse fare se non rassegnarsi al fatto che l'Universo avesse un bel corpo, un nome melodioso e delle iridi da capogiro. Era solo abitudine, quella che lo portava a pensare che Eren fosse una presenza più trascurabile.

Il castano non si era di certo fatto meno molesto semplicemente perché sembrava aver imparato a tenere la bocca un po' più chiusa. C'erano giorni in cui seguiva Levi limitandosi solo a guardarlo col sorriso sulle labbra che si rifletteva negli occhi assurdi, facebdoli baluginare di riflessi impossibili. E allora il corvino si voltava e si stringeva ancora di più nelle sue grosse felpe, tentando di far sparire il suo viso piccolo e delicato calando il cappuccio fin sotto gli occhi nel tentativo di non rimanere ustionato da quegli sguardi insistenti. 

Altre volte invece lo riempiva di chiacchiere futili fino a che la voce del docente non risuonava nell'aula, raccontandosi e non pretendendo risposte. Era così che Levi aveva appreso il suo amore per la cioccolata calda, – anche se si chiedeva come facesse a bere quell'intruglio chimico delle macchinette, che consumava abitualmente ogni giorno – che avesse una sorella adottiva "cazzuta come poche" – e quelle erano state le sue testuali parole – e che gli piacesse giocare a calcetto nel tempo libero e nei week-end insieme alla sua comitiva. E sapeva anche che il suo amico Jean avesse una gran faccia da cavallo, così come sapeva che Connie era l'anima del gruppo per le sue battute e per i modi di fare esuberanti. Quella testa rasata era pure perdutamente innamorato di Sasha, eppure non riusciva a dichiararsi. 

Levi aveva registrato quasi inconsapevolmente tutte quelle informazioni perché Eren gliele aveva ripetute fino allo sfinimento neanche fosse un disco rotto; quello che più dava ai nervi al corvino, era che il più delle volte il moccioso neanche pretendeva una risposta in cambio dei suoi racconti. Eren gli donava pezzi di sé gratuitamente, non aspettandosi di essere ricambiato. 

E ogni volta che apriva bocca, le sue parole erano come macigni per l'animo di Levi, scagliati nella sua direzione con la stessa forza impetuosa degli uragani; il semplice suono della sua voce di miele che gli colava nelle orecchie aveva la capacità di sconvolgerlo. Lo sorprendeva, lo travolgeva con una noncuranza dal sapore d'innocenza e intraprendenza, proprio come era successo quella mattina.

"Posso chiamarti Lee?" gli aveva chiesto, il libro di Dinamiche tenuto stretto al petto da entrambe le braccia e le lunghe ciocche castane lasciate sciolte a carezzargli appena le spalle larghe e forti. E ovviamente, come aveva replicato lui, da sempre ritratto dell'imprevedibilità, al rifiuto caustico e gelido che Levi gli aveva rivolto con voce dura e con uno sguardo tagliente e letale? "Ok, Lee", aveva cinguettato con tono mellifluo, lasciando il corvino con le labbra appena dischiuse di stupore – dannazione se era sfrontato, il moccioso! – e un solco fra le sopracciglia sottili che era un misto d'ira febbrile e irritazione. In fondo, procedeva in quel modo il loro strano rapporto, sempre che potesse essere definito tale: Levi tentava di essere schivo e reticente in ogni situazione, Eren si prendeva libertà mai concesse con una nonchalance magistrale e il solito sorriso angelico sul volto. 

Il corvino era sicuro che quel moccioso lo seguisse come un cagnolino fedele semplicemente perché fosse una sorta di castigo divino in carne umana; esistevano passatempi migliori e di maggiore compagnia rispetto a Levi Ackerman. E il castano avrebbe potuto indubbiamente avere chiunque volesse al proprio fianco, tanto la sua aura di gentilezza e il suo viso attraente erano capaci di catturare attenzioni. Non aveva mai sentito Eren usare un tono sgarbato con qualcuno, né lo aveva visto lanciare le solite occhiatacce con cui Levi si trovava a rimettere al proprio posto potenziali e pericolosissimi interlocutori. Sul suo bel volto armonioso c'era spazio soltanto per sorrisi, – sempre veri, mai falsi e di circostanza, di quelli che gli raggiungevano gli occhi e glieli rendevano ancora più luminosi - e le sue labbra custodivano e parlavano con quella voce di miele, carezzevole e vellutata. Disgustoso.

Eren era ormai entrato ovunque nella sua vita, e quando non c'era fisicamente, era il fantasma dei suoi smeraldi a braccarlo e a farlo sentire in gabbia. Era diventato la sua ombra a lezione, fra i corridoi, in fila al bar della facoltà per prendere il suo caffè americano – in cui riversava tre bustine di zucchero, che schifo – e anche alle conferenze, come era successo nel primo pomeriggio. 

Se lo era ritrovato pure lì, e gli si era gelato il sangue quando lo aveva visto entrare dalla porta e illuminarsi nello scorgere la sua figura scura e solitaria, avvicinandosi e prendendo posto accanto a lui. Levi non seppe per quale motivo avesse messo piede in quell'aula magna; dubitava che una conferenza sull'osservazione dei raggi X e delle onde radio provenienti da stelle e galassie fosse pertinente al suo corso di studi, ed era più che sicuro che il partecipare a quelle ore extra non avrebbe aggiunto qualche credito sul suo libretto. Probabilmente, la causa di quel fortuito incontro aveva un nome, e si chiamava Hanji Zöe.

Quella scellerata e il moccioso erano subito andati d'accordo. Conversavano animatamente su svariati temi neanche fossero amici d'infanzia, e qualche volta Levi li aveva scoperti a mandarsi qualche messaggio. Aveva avuto anche l'impressione – ma non la certezza – che in più di un paio di occasioni si fossero visti anche fuori dall'università. La causa di quei probabili incontri, tuttavia, gli era ben esplicita. 

"Levi ha trovato un amico!" aveva annunciato Hanji festosa, urlandolo direttamente al citofono di casa Ackerman quel maledetto giorno che aveva scoperto dell'esistenza di Eren. Aveva ancora un ghigno sadico stampato sul volto quando Kuchel aveva aperto ai due ragazzi per accoglierli in casa e deliziarli con le sue prelibatezze culinarie, prima di lasciarli al loro pomeriggio di studio insieme; uno seduto di fronte all'altra, il silenzio a fargli compagnia e a conciliarli fra quelle righe stampate di parole e fitte d'informazioni. Eppure, la castana si era subito stranamente distratta e aveva preferito fare conversazione con la donna di casa in salotto. Non che il corvino volesse origliare, ma la quiete sterile in cui si era immerso gli portò alle orecchie stralci di conversazione. Era suo dovere, sostenne Hanji, essere amica dell'amico del suo migliore amico. E magari –  Levi ne fu sicuro! – avrebbe architettato qualche sorta di piano per fare breccia nella sua gabbia dorata. 

Quindi, a causa della squinternata, aveva avuto Eren Yeager seduto accanto per tutta la durata della conferenza, con la solita espressione beata sul volto, la penna disgustosamente morsicchiata fra le dita e quell'orrido bloc-notes appoggiato sulle gambe. E ovviamente, non prendeva appunti – a cosa gli sarebbero serviti, poi? – come le persone normali, ma li sbirciava direttamente dal pc di Levi. Si sporgeva appena, lasciando che il suo buon profumo carezzasse le narici del corvino e gli si posasse addosso, delicato come il tocco fuggente delle ciocche castane, che lasciate libere dalla costrizione dell'elastico, sentiva lambire appena il tessuto della sua felpa.

E allora Levi tentava di allontanarsi, di fuggire quei brevi contatti e di non respirare l'odore intossicante dell'Universo; faceva della stoffa pesante che lo ricopriva il suo unico nascondiglio, calava maggiormente il cappuccio sul volto e tentava di ignorare il battito frenetico del suo cuore ad ogni impercettibile sfioramento. Di girarsi a guardarlo e dirgli di smetterla, non se ne parlava. Levi non sapeva come avrebbe reagito, e l'ultima cosa che voleva era che gli venisse gettata addosso altra imprevedibilità; Eren lo faceva già sentire troppo fragile ed esposto. La sua felpa si rivelò tristemente la più inutile delle armi.

Il moccioso insolente lo aveva deconcentrato durante tutta la parte del dibattito, quella per cui Levi aveva preparato almeno una decina di domande che non era riuscito a porre, a causa della vicinanza pericolosa che gli stava dando alla testa. E quando gli era sembrato di poter parlare e di riuscire a ingoiare il groppo formatosi in gola, schiarendosi la voce, fiato caldo nel suo orecchio gli aveva provocato una scossa lungo la spina dorsale e lo aveva fatto rabbrividire visibilmente. Gli parve come se Eren gli si fosse insinuato improvvisamente sotto la pelle e lo avesse raggiunto in ogni fibra del corpo, rendendola elettrica in una maniera che quasi doleva. "Aumenta un po' la luminosità dello schermo del tuo pc, non riesco a leggere bene".

Oh, fanculo.

Non seppe neanche Levi con quale forza riuscì a voltarsi, ma appena il suo corpo si mosse, rimpianse ogni singolo impulso nervoso che gli aveva imposto quel movimento. I colori assurdi delle iridi di Eren gli esplosero a pochi centimetri dal volto, avvolgendolo in un vortice di smeraldo prezioso, annegandolo in un azzurro così carico da fare invidia alle acque incontaminate e sconfinate degli oceani e stregandolo con un oro talmente vivido e brillante da sembrare tangibile. Il suo respiro tiepido lo colpì in volto, il suo odore gli diede alla testa; lo sguardo in burrasca del corvino si perse in quelle iridi per un istante infinito e senza tempo, poi assaporò delicatamente la curva dei suoi zigomi definiti fino a raggiungere le labbra piene e umide, leggermente piegate in un sorriso gentile. 

Era troppo. Perfino il suo odore lo era, un misto di bagnoschiuma alla vaniglia e un qualcos'altro dalle note dolciastre. Era rimasto con le iridi fisse nelle sue incapace di muoversi, inerme e stordito come un'animale che nel mezzo della carreggiata viene abbagliato dai fari di un'automobile. E c'era stato un istante in cui aveva avuto la certezza che Eren si fosse reso conto dei brividi che scuotevano il suo corpo e lo facevano tremare appena.

Si era immediatamente imposto di fare appello a tutto il proprio autocontrollo, racimolandone le poche briciole dal fondo della sua anima. Non voleva scappare, non sarebbe scappato per l'ennesima volta. Gli avrebbe tenuto testa, non lo avrebbe ignorato, anzi: avrebbe pure assecondato il suo stupido desiderio di aumentare la luminosità dello schermo, perché era stufo di soccombergli. E non gli importava granché se con quel gesto aveva appena firmato la sua condanna a morte; perché accondiscendere alla richiesta del moccioso avrebbe sicuramente significato per lui trascorrere l'ultima ora in quell'aula magna col cuore martellante d'ansia nel petto e una morsa alla gola tale da fargli venire una fame d'aria incomparabile. Eren era vicino, troppo vicino. Sentiva il suo odore, quasi percepiva il calore emanato dal suo corpo raggiungerlo e fargli tremare le membra.

Eppure, con la forza dell'ostinazione e determinato a non lasciare che il castano intaccasse nuovamente il suo orgoglio, Levi aveva resistito. E lo aveva fatto così bene, mascherano ogni emozione e turbamento, che appena si era separato da Eren era stato investito da un attacco di panico che lo aveva lasciato senza forze in corpo. Allora si era attaccato alla boccetta d'ansiolitico che portava sempre con sé per quelle evenienze, aveva masticato più di qualche bestemmia fra i denti e aveva preso il tram con un umore più nero di qualsiasi inchiostro.

E quasi gli sembrava che prudesse attraverso il tessuto dei jeans, il velluto verdastro con cui era rivestita la sedia nello studio della sua psichiatra. Quella sensazione pareva entrargli nei vestiti e pervaderli la pelle con minuscole punture di spilli, subdole e fastidiose. Quella stanza era l'ultimo posto in cui desiderasse trovarsi.

Si era presentato all'improvviso, senza appuntamento e guidato soltanto dall'esasperazione più tetra e dilaniante che il suo animo avesse mai sperimentato, tentando ancora di smaltire i postumi dall'attacco d'ansia e con la mente annebbiata dallo psicofarmaco in cui in situazioni come quella non poteva fare a meno. E la dottoressa lo aveva accolto col sorriso sul volto incorniciato dai suoi sottili fili di perla e una stretta di mano accompagnata da un "ti stavo aspettando" che a Levi fece davvero domandare se la donna avesse sul serio una palla di cristallo. 

Hanji ed Eren insieme erano troppo da gestire. Un duo letale, che attentava in maniera malsana alla salute mentale del corvino e al suo bisogno di solitudine. E sì, Levi aveva bisogno d'aiuto, perché dannazione, in quel momento tutto ciò che desiderava al mondo era mettersi a urlare e strapparsi tutti i capelli per la disperazione, per l'esasperazione di condurre un'esistenza troppo pesante e non richiesta. 

"I-Io non ce la faccio più", aveva appena sussurrato con una voce talmente roca e provata che sembrava quasi non appartenergli, la perdizione nelle iridi in tempesta, i capelli leggermente scompigliati e le labbra tremanti. 

"Mi sento impazzire", aveva continuato, e la donna lo aveva ascoltato. Aveva quella tendenza a stare in silenzio e a lasciar parlare senza giudicare e senza intervenire che Levi ammirava segretamente. Il corvino aveva quindi rigettato ogni turbamento, caricando ogni parola con le emozioni che lo avevano piegato col loro peso insostenibile. Rabbia, fastidio, inadeguatezza e terrore parvero abbandonarlo non appena terminò di vomitare il proprio dolore, alleggerendosi l'anima e il petto. 

Lei gli aveva tenuto gli occhi neri, pozzi d'oscurità, puntati addosso, mentre il corvino aveva riversato nella stanza in una decina di minuti tutti gli avvenimenti degli ultimi due mesi; aveva parlanto con una foga quasi febbrile e con le mani chiuse a pugno, le unghie saldamente piantate nei palmi a imprimervi una serie di piccole mezzelune rossastre. Poi aveva sorriso, lei, quando aveva capito che la causa unica di quel tormento lancinante aveva un nome e si chiamava Eren Yeager.

Per quello la donna si limitava a guardare Levi, che si muoveva sulla sedia con un'irrequietezza quasi malsana. "Dì qualcosa, cazzo!", avrebbe voluto urlargli contro il ragazzo alla vista del sorriso sornione e saccente sul volto maturo e segnato dalle rughe. Il ticchettio dell'orologio da parete rendeva ancora più insopportabile quel silenzio carico di una tensione talmente densa che Levi avrebbe potuto tagliarla con la punta di un coltello come burro. Forse la psichiatra percepì il suo turbamento, perché ruppe quel silenzio dilaniante e assurdo. Levi gliene fu immensamente grato. 

"Questo Eren... C'è qualcosa in particolare che ti turba di lui?"

Qualcosa in particolare? La sua sola esistenza era un affronto alla vita di Levi; il corvino sbuffò, muovendosi nervosamente sulla sedia, irrequieto. 

"Mi dà fastidio il semplice fatto che respiri e che abbia un cuore che gli batte in petto, che mi stia appiccicato peggio di un'ombra nonostante io lo abbia sempre trattato con disprezzo e sufficienza; dovrebbe odiarmi, invece quel tizio strambo non sembra in grado di provare sentimenti negativi. Mi urta il suo sorriso sempre presente, mi fa venire la nausea la sua gentilezza, mi manda il sangue al cervello la sua imprevedibilità: io non riesco a fare più niente. Mi distrae perché mi tiene il suo fottuto sguardo di merda addosso durante la lezione, mi parla e cazzo se odio la sua voce. Manda all'aria tutti i miei programmi e la mia vita quotidiana, e lo fa così bene che per l'esasperazione ho pure smesso di usare le mie agende, perché tanto è tutto inutile. È impossibile pianificare qualunque cosa se c'è lui intorno; trova sempre il modo per mandare a puttane tutti i miei sforzi. E poi... È imprevedibile per davvero, ed è troppo per me. Non lo sopporto, non sopporto più il fatto di non riuscire mai a prevedere i suoi comportamenti. È capace di stupirmi sempre, e proprio quando credo di sapere cosa stia per fare o per dire, ecco che caccia fuori un altro lato della sua disgustosa personalità che fino ad allora aveva tenuto nascosto. E sorpresa, Levi Ackerman ha perso di nuovo e sta per perdere anche l'ultimo briciolo di raziocinio."

Sputò fuori quasi senza prendere aria e con tono forse troppo stizzito. La dottoressa lo osservò cauta, annotando di tanto in tanto sul suo taccuino cose che a Levi non era concesso conoscere, le sopracciglia appena aggrottate in un cipiglio concentrato. E il corvino allora aveva continuato, inondandola di tutti i pensieri che si era tenuto dentro e che in quegli ultimi due mesi avevano rischiato di corrodergli l'anima fino ad estinguere in lui ogni fiammella di speranza e ragione. Arrivò alla conclusione di essere spacciato, perché Eren gli stava attorno sempre guardingo e attento, muovendosi come un predatore pronto a scattare da un momento all'altro per infliggergli il colpo di grazia. La donna prese parola, inforcando un paio di occhiali da lettura.

"Non pensi che la sua imprevedibilità possa essere positiva in qualche modo? È capace di spezzare le tue giornate e di non renderle tutte uguali, Levi. E so che tu lo odi proprio per questo, ma non è a suo modo bello il non sapere cosa accadrà? Non si può vivere di soli schemi, di pura razionalità e di programmi... Tutto perderebbe davvero senso."

Bello? Per Levi era spaventoso in una maniera atroce, che gli faceva venire voglia di rinchiudersi fra le quattro pareti di camera sua, spegnere la luce e non uscire mai più, facendo finta di non esistere e convincendosi che la sua vita stessa fosse una sorta di allucinazione. Gli schemi lo calmavano con il loro essere lineari e precisi, mentre Eren pareva un groviglio senza capo né coda, qualcosa di troppo complesso da decifrare per lui. 

"È l'Universo in terra, io lo so."

Aveva finalmente lasciato andare il suo pensiero più intimo e assurdo, dando voce alle paranoie che aveva tenuto troppo a lungo confinate dentro di sé; fu una vera e propria liberazione. Raccontò alla donna di quanto Eren fosse diverso, gentile, allegro, imprevedibile, la catapultò nella sua vita attraverso i piccoli avvenimenti che avevano quelle iridi di smeraldo come protagoniste. E si sentì stupido, nel definirlo come una sorta di monito del Cosmo nei suoi confronti, una manifestazione precisa e fin troppo coerente delle sue paure più recondite. Lei sorrise appena a quel discorso, che solo allora a Levi parve per qualche strana ragione maledettamente insensato. 

"Non lo sopporto... Dio, lo odio! E se non è con me, continuo a vederlo ovunque vado. Vaffanculo a lui e al suo sorriso, alla sua gentilezza, ai suoi occhi verdi, al suo sfidare così apertamente il mondo urlandogli contro per reclamare una libertà che non gli appartiene e che non gli apparterrà mai. Eppure, nonostante tutto, è libero a modo suo e io questo proprio non riesco a sopportarlo."

"Da dove nasce il tuo odio per lui, Levi?"

Quelle parole gli tolsero il fiato, e non fu pronto ad ammettere ad alta voce la verità che gli scavarono dal petto. 

Eren era senza vincoli. Sregolato, sempre a farsi beffa delle leggi del Cosmo come ne fosse il padrone assoluto. Non le rispettava, ma le distorceva e le faceva sue; maledettamente simile all'Universo, eppure dotato di emozioni umane, vere e dirompenti.

Per lui sottostare all'esistenza era sempre stato sofferenza e passività, mentre il castano pareva capovolgere questa sua convinzione più delle altre. Viveva assaporando ogni istante come se fosse l'ultimo, quasi non volesse perdersi neanche un secondo di quello che la vita stessa aveva da offrirgli e che accoglieva sempre con il sorriso sulle belle labbra. Schiavo come lui dell'ineluttabilità della morte, ma libero di godere del calore che scorreva nel suo corpo e dei respiri che gli riempivano i polmoni di vita. 

Levi lo odiava in maniera viscerale, lo detestava con ogni fibra del suo essere, lo ammirava con ogni brandello della sua anima annerita. 

Ammirazione, sì, perché era proprio da quel sentimento troppo a lungo sopito e sconosciuto che si era generato quel disprezzo malato e perverso. Ammirazione marcita e andata a male, corrotta.

E il corvino lo odiava, odiava Eren così tanto perché non aveva il coraggio di essere come lui; in fondo, il moccioso non gli aveva mai fatto nulla. Era stato lui, complice e vittima delle sue paranoie, a dipingerlo come un mostro capace di stravolgerlo e di tormentarlo; ma la verità era che Levi era infinitamente fragile come sottilissimo vetro, incapace di resistere alla burrasca di sensazioni ed emozioni con cui il castano lo colpiva. Se ne sentiva spazzato via ad ogni sguardo, perché quel moccioso molesto gli ricordava ogni giorno il peso della sua inettitudine e della promessa che non era mai stato in grado di mantenere.

Eren Yeager era, probabilmente, quello che lui sarebbe dovuto essere per fare onore alla memoria di sua sorella. Un inno alla vita, ai suoi colori, alle esperienze, ai sentimenti.

Sono un codardo, Isabel.

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SPAZIO AUTRICE

Finalmente ce l'ho fatta a finire questo capitolo! 🙈 È stata un'impresa trovare il tempo di buttare giù qualcosa in questi giorni. E siamo a più di metà storia, questa minilong avrà 7 capitoli in totale. 

Detto questo volevo farvi gli auguri di buon anno per un sereno 2020. Alla prossima!❤️✨

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Capitolo 5
*** V ***


Legge Cinque – Vibrazione

L'aveva vista appena uscita dalla sala operatoria, mentre veniva trascinata piena di tubi nel reparto di terapia intensiva; l'operazione le aveva lasciato qualche ematoma violaceo sul viso delicato. Sembrava così piccola e fragile, avvolta fra le coperte candide; il suo incarnato si era fatto più pallido, e il capo era completamente avvolto da bende. Anche se non poteva vederli, Levi sapeva che i suoi bei capelli rossi, di cui andava tanto fiera, erano stati completamente rasati per rendere più agevole l'operazione. 

Ne aveva sentito il calore vitale quando l'aveva presa per mano e le aveva baciato delicatamente le nocche, lei ancora incosciente a causa dell'anestetico che le pompava in corpo e le annientava i sensi. Aveva esultato quando il medico aveva comunicato il successo dell'intervento, aveva pianto di gioia quando le due TAC, a cui sua sorella era stata sottoposta, erano state definite come "pulite". Aveva pure sopportato il fatto che, almeno per una giornata, Isabel sarebbe stata tenuta in coma farmacologico per limitare la sua sofferenza, perché gli faceva sentire l'anima leggera il solo pensiero che quando i suoi occhi suoi occhi verdi si sarebbero riaperti, lei sarebbe stata bene. E il corvino sarebbe stato lì in quel momento; le avrebbe comunicato la bella notizia e avrebbe lasciato che le sue iridi metalliche si inumidissero di gioia senza vergognarsene. Poi l'avrebbe stretta, le avrebbe baciato il capo fasciato sussurrandole che era bellissima, fortissima. Sarebbe stato accanto a lei ad ogni visita e terapia necessaria per dare il colpo di grazia a quel brutto male.

Il neurochirurgo che l'aveva avuta in balia della lama affilata e precisa del suo bisturi aveva avvertito Levi e Kuchel il che post-operatorio sarebbe stato delicato, e che Isabel avrebbe necessitato di meticolose attenzioni e cure. Era stata collegata ad un respiratore per la ventilazione assistita, ed un tubo trasparente spariva fra le sue labbra pallide e appena dischiuse per soffiarle aria nei polmoni. Vari elettrodi erano disseminati sul suo corpo per monitorarne l'attività cerebrale e cardiaca tramite dei monitor, che emettevano sonori bip costanti e intermittenti. 

L'operazione era durata otto ore, ed ogni secondo per Levi era stato pesante quanto il tempo di una vita millenaria trascorsa in solitudine. E alla fine, la sua piccola guerriera ce l'aveva fatta. Era finita, lei si sarebbe risvegliata e avrebbe tirato su il morale di tutti col suo bel sorriso luminoso; sarebbero andati a casa festeggiando, perché Isabel era stata fortunata. Aveva appena iniziato la sua battaglia contro la malattia, eppure ne era già uscita a testa alta, vincitrice. Poteva dirsi praticamente in remissione, visto che la totalità di quelle cellule impazzite e mutate nel suo corpo le era stata sradicata dall'interno, senza lasciare traccia. 

Eppure, in poche ore quella sensazione di gioia nella sua più pura essenza,- la stessa che gli aveva fatto gridare al mondo e all'Universo con tutto il fiato che aveva nei polmoni che lui e sua sorella erano invincibili - era mutata all'improvviso in un mostro spaventoso. Si era ritrovato a stringere la stoffa leggera della sua maglietta all'altezza del cuore, a rabbrividire alla sensazione viscida e fredda del terrore che gli fece rizzare i peli sulla nuca e a mordersi l'interno delle guance a sangue per contenere i singhiozzi che lo scuotevano dall'interno con una violenza senza precedenti. 

Tutto sembrava lontano anni luce da lui, che si sentiva come immerso in uno strano fluido dalla consistenza impalpabile. Gli giungevano ovattate le urla disperate di sua madre, gli parevano incomprensibili le parole dei medici; tutto quello che riusciva a sentire era il battito forsennato del suo cuore che gli rimbombava nelle orecchie e che gli ricordava una realtà spaventosa. Lui era vivo, Isabel... Era in una situazione complicata, in un limbo di cui Levi aveva ignorato l'esistenza fino a quell'istante. Come poteva l'Universo essere così crudele e menefreghista? Come poteva prendersi l'anima casta e pura di una ragazzina che si era aggrappata disperatamente alla vita con tutto quello che aveva?

Era bastato che la stanchezza lo sopraffacesse per poche ore, facendolo crollare su una scomodissima sedia in plastica che un'infermiera bassina aveva posizionato a posta per lui all'interno della camera di sua sorella; il suo corpo non aveva retto a quelle abbondanti trenta ore di veglia forzata. Era stato proprio il pianto di sua madre a risvegliarlo da quel sonno troppo profondo che l'aveva avvolto fra le sue buie spire, durante il quale aveva ignorato completamente il trambusto di medici nella piccola stanza d'ospedale e i bip troppo insistenti e impazziti dei macchinari che monitoravano le funzioni vitali di sua sorella.

La guardava, coi capelli scompigliati che gli ricadevano sugli occhi e il volto arrossato dai singhiozzi trattenuti che faceva morire nella sua gola. Il petto di Isabel si alzava e si abbassava ritmicamente, seguendo il ritmo imposto dal respiratore. Si era mosso verso il suo letto come in trance, le aveva carezzato le guance e le aveva preso le mani, sentendone il tepore delle dita intrecciate alle proprie. In viso portava un'espressione serena, angelica. Era calda; eppure, non c'era più vita dentro di lei.

Il display collegato agli elettrodi sul suo capo, mostrava un elettroencefalogramma mortalmente, disperatamente piatto. 

Zero attività cerebrale e zero risposta agli stimoli assunsero la forma di un dolore dilaniante che colpì lo stomaco di Levi e Kuchel, squarciando i rispettivi petti come una lama, lì dove c'era il cuore. "Morte cerebrale", così i medici avevano definito lo stato di Isabel, niente meno che un termine scientifico che celava la crudezza di un "non c'è più nulla da fare" troppo difficile da comunicare. Aveva avuto due ischemie mentre Levi dormiva, e il corvino avrebbe voluto scomparire dal dolore che provava per il non essere stato accanto alla sorella mentre l'anima gli veniva strappata dal corpo. 

Faceva fatica a credere che un corpo che sembrava vivo a tutti gli effetti, altro non fosse che un involucro ingannevole della morte che vi albergava dentro e che lo aveva corrotto. Lo sentiva, il battito del suo cuore, se premeva l'indice e il medio su polso caldo di sua sorella, ma "batte soltanto perché ha attività autonoma e se staccassimo i macchinari, Isabel cesserebbe di respirare; non è più in grado di farlo. È solo grazie al respiratore se vedi il suo petto alzarsi e abbassarsi. Quanto al suo cuore, smetterà comunque di battere entro alcune ore."

Dov'era Isabel? Era apparentemente in vita, ma il suo cervello aveva irrimediabilmente cessato ogni funzione. Era clinicamente morta, e Levi si rifiutava di accettarlo. Soprattutto quando sembrava così... Così viva.

I morti erano freddi, cerei in volto, immobili e rigidi. Lei respirava, aveva un cuore che gli batteva in petto ad un ritmo costante e rassicurante, era calda, e il suo colorito – seppure più chiaro del solito – non era per nulla paragonabile al pallore con cui la morte tingeva le sue vittime. Dov'era lei, dov'era la sua anima? Non che Levi avesse mai creduto ad una sorta di vita dopo la morte, di qualunque genere essa fosse, ma dov'era Isabel? Esisteva una specie di limbo, un confine sottile fra esistenza e oblio, per quelli nella sua stessa condizione? 

C'erano persone che si risvegliavano dal coma e che sostenevano di aver visto il proprio corpo giacere malato su un letto d'ospedale. Levi li aveva sempre giudicati dei pazzi, ma la sua anima si riempì della speranza futile che sua sorella, in quel momento, lo stesse guardando per davvero. 

La immaginava osservarlo dal limbo etereo e fatto di luce in cui era confinata, con le lacrime agli occhi e il cuore pieno della disperazione dilaniante di venire separati. Magari avrebbe voluto tanto ricambiare la stretta delle dita di Levi sulle sue, e i suoi zigomi alti sarebbero stati rigati da troppe gocce salate nello scoprire il suo corpo immobile, inutile nel rivolgere un'ultima carezza al fratello. Magari i suoi singhiozzi facevano più rumore di quelli di Levi e Kuchel, ma nessuno poteva sentirne il suono.

"Nei casi come quello di Isabel, prima di procedere e staccare la spina del suo respiratore, noi medici siamo tenuti a testare la sua compatibilità con quella di pazienti in attesa di organi. I suoi reni e il suo cuore potrebbero salvare la vita di tre persone gravemente malate, e vi invito caldamente a prendere una decisione nelle prossime quarantotto ore, nel completo rispetto dei vostri tempi e del vostro lutto. Condoglianze."

Avevano sfidato l'Universo, l'avevano fatto insieme, gridandogli contro la loro invincibilità, sprezzanti contro gli ostacoli a cui la vita li aveva sottoposti. Avevano sorriso, per alcune ore avevano davvero vinto senza poterne condividere veramente la gioia, e allora l'Universo stesso li aveva rimessi al proprio posto prima di quella vittoria finale che troppo gli sarebbe costato concedergli. Nessuno poteva permettersi di sfidare le sue leggi in quella maniera così diretta e prepotente, e Levi ed Isabel lo avevano capito troppo tardi, a loro spese.

Il corvino giurò in quel momento, con l'anima fatta piccola e ridotta in frantumi nerastri, che avrebbe sempre sottostato alle sue dialettiche a capo chino, col terrore di ribellarsi cucito addosso al cuore. Non avrebbe osato o alzato di nuovo un dito per tutto il tempo che il Cosmo gli avrebbe concesso per poter portare avanti un'esistenza vuota e contaminata dal parassita della rassegnazione.

________

"Ma quanto pessimismo vedo qui!"

Levi si girò di scatto, strappando dalle mani di Eren il piccolo taccuino. Era un quadernino azzurro cielo, testimone dei suoi pensieri più oscuri e reconditi e dei suoi stati d'animo più turbolenti. Lo portava ovunque, lo aiutava a non perdere il controllo quando necessario, promettendogli calma in cambio di emozioni riversate su carta con inchiostro nero. E Levi era stato sopraffatto dai sentimenti in quegli ultimi minuti, inglobato e masticato dai ricordi fino a sentire l'esistenza dolere. Non importava che fosse in biblioteca per studiare, perché neanche le righe fitte di paroloni altisonanti riuscivano a distrarlo dal tumulto della sua mente. Era stato automatico per lui ricorrere all'aiuto della carta bianca e delle sue mute promesse.

Quello che non si aspettava, era che Eren glielo levasse dalle mani all'improvviso e che iniziasse a leggergli dritto nell'anima con una facilità straziante e col solito sorriso sulle belle labbra piene. Allora Levi se lo era ripreso con prepotenza, rivolgendogli uno sguardo gelido; lo ripose immediatamente nello zaino quando il castano prese posto accanto a lui, stiracchiandosi sonoramente senza mai staccargli gli occhi indagatori dal corpo. 

Era proprio quello che lo aveva mandato in bestia quando Hanji – che fosse maledetta, quella quattr'occhi infernale! – aveva rivelato ad Eren quale fosse il posto prediletto dal corvino per immergersi nelle sue estenuanti sessioni di studio: il suo sguardo puntato addosso.

Sempre verdissimo e impossibile, era una presenza che lo accompagnava fastidiosa mentre tentava di concentrarsi su leggi fisiche più grandi di lui e concetti talmente complessi da fargli dolere le tempie; il castano sedeva al suo fianco e lo guardava per tutto il tempo. Non importava quante volte Levi gli avesse gridato contro di smetterla, che fosse fottutamente inquietante, di andare a fare altro, perché, diciamocelo, chiunque nella vita aveva sicuramente di meglio da fare che starsene a guardare Levi Ackerman tentare di studiare. Gli aveva tolto la concentrazione per settimane intere, perché Eren reagiva ai suoi insulti con la sua solita calma innaturale che gli faceva dubitare che fosse umano, semplicemente scrollandoseli di dosso e rivolgendogli quei sorrisi capaci di sciogliere la roccia. E allora Levi si calava il cappuccio il più basso possibile sul volto, chiedendosi cosa il ragazzo trovasse di così interessante in lui da rimanere a guardarlo per ore, a studiarlo da vicino con la solita espressione angelica ad addolcirgli i lineamenti armonici. 

"Mi guardi come si guarda un animale raro o una persona a cui è spuntata all'improvviso un'altra testa", gli diceva, e il castano si stringeva nelle spalle, replicando sempre con quel suo classico e bellissimo, luminoso sorriso. A volte, tirava fuori anche lui i suoi libri e iniziava a studiare, e quelli erano i pomeriggi in cui Levi riusciva a concentrarsi di più. 

Ma la fortuna quel giorno non era dalla sua parte; le iridi di Eren sulla sua pelle continuavano a bruciare come braci infuocate. Levi si portò le mani sul collo e sulla linea della mandibola, dove le sentiva osservarlo più insistenti, e fu sorpreso di non sentire quei punti ardere come lava sotto i polpastrelli. 

"Come stai, Lee? Giornata no, eh?"

"La definirei piuttosto una vita no", avrebbe voluto sputargli addosso il corvino, ma si limitò a sospirare frustrato al tentativo del castano di fare conversazione. Non era dell'umore, ed Eren non avrebbe ottenuto da lui una sola parola. Levi era troppo schiavo delle sue emozioni, non sapeva neanche se sarebbe stato in grado di parlare senza farsi scappare proprio quel singhiozzo che si ostinava a tenere incastrato in gola e senza mettersi a urlare tutto il proprio dolore al mondo intero. Voleva essere lasciato solo, in balia delle sue memorie e farsi portare alla deriva dai sentimenti, e in quel momento rimpianse di non essere tornato direttamente a casa dopo la fine delle lezioni. Quello che doveva essere un tranquillo pomeriggio di studio in biblioteca, si era già trasformato in uno di quei momenti in cui diveniva un fantoccio comandato dalla disperazione dei suoi ricordi più bui e devastanti, che non mostravano riserva nel manovrarlo senza riguardo. Tuttavia, la mancanza di una risposta adeguata non frenò la lingua di Eren, e la sua voce melensa lo investì di nuovo.

"Anche per me è una giornata no, la docente di Meccanica Analitica è pessima. Ha cambiato le modalità d'esame e ce lo ha comunicato solo oggi, e praticamente la maggior parte degli esercizi su cui ho sbattuto la testa fin ora, neanche saranno all'esame... Ti rendi conto? È proprio una bastardata dircelo a neanche un mese dal primo appello, non trovi?"

Levi era livido di rabbia, a tal punto che sentiva il sangue ribollire nelle vene e ogni singola cellula del suo corpo fremere. In quei brevi istanti in cui le sue dita lunghe e affusolate erano state strette attorno al suo piccolo quadernino, Eren aveva rovistato fra i suoi pensieri, seppur per pochi secondi. Aveva visto la sua anima, nuda e spoglia di ogni armatura, piccola e nerastra, consumata dal dolore; non c'erano stati la sua espressione stoica e il suo carattere scostante a proteggerlo. Era arrabbiato per l'invadenza del castano, di una rabbia che aveva quasi il retrogusto della vergogna. Ed era arrabbiato anche per quell'odioso nomignolo con cui Eren aveva preso l'abitudine di chiamarlo contro la sua volontà. E no, non era per niente adorabile come sosteneva quella mentecatta di Hanji; era irritante in una maniera inverosimile. E comunque, i suoi tentativi di conversazione non lo avrebbero smosso. Erano cazzi suoi se erano cambiate le modalità d'esame, la cosa non lo riguardava.

Tornò a rivolgere le sue attenzioni al libro di Dinamiche, dimenticato aperto per un tempo non quantificabile. Fece scorrere gli occhi sulle parole stampate, tenendo il segno con l'indice per non perdersi fra le righe fitte e scure d'inchiostro, troppo impegnato ad ignorare Eren al meglio delle sue capacità. Tuttavia, sperare in una tregua da parte del castano era senz'altro troppo ottimistico.

"Comunque, chi sei? Una specie di rincarnazione di Pascoli? Sai, la Natura Matrigna e tutte quelle cose lì, il Pessimismo Cosmico e quell'altra roba triste che non mi ricordo. Ho letto due righe del tuo quaderno e mi è sembrato di ritrovarmi catapultato in una delle lezioni di letteratura che facevo in quarto liceo. Erano proprio una noia mortale! Sono sempre stato molto più portato per le materie scientifiche."

"E si vede che non eri portato, moccioso. Era Leopardi, quello della Natura Matrigna, del Pessimismo Cosmico e dell'altra roba triste che non ti ricordi."

Quelle parole gli scivolarono atone dalle labbra screpolate prima che potesse rendersene conto; Levi stesso si stupì e si irrigidì in risposta al tono piatto della sua voce. Si era ripromesso che Eren non avrebbe ottenuto da lui neanche un gesto o un qualche mugolio che gli avrebbe fatto intendere che stesse seguendo la loro conversazione, invece il castano lo aveva fatto parlare. Lo aveva fatto di proposito; il corvino si voltò verso di lui, e nell'esatto momento in cui i suoi occhi si piantarono in quei pozzi di smeraldo, vi lesse sfida e vittoria all'interno. La vide anche nel suo sorriso sghembo, la soddisfazione di essergli riuscito a strappare le parole dalla bocca contro la sua volontà. Era impossibile stare attorno a quel ragazzo senza venirne in qualche modo influenzati. Era come se emanasse una propria forza di gravità e fosse in grado di esercitarla sulle persone, per attirarle a lui a suo piacimento. Era una trappola mortale, un gioco pericoloso, e più Levi resisteva, più Eren si ostinava a voler prendere tutto di lui e a ricoprirlo con un'imprevedibilità tale da far risvegliare ogni sua ansia che pareva divorarlo vivo. E lo attirava in una maniera inevitabile, così come il calore e il baluginio di una fiammella nel buio facevano con una piccola falena.

"Idiota."

Quell'insulto appena sussurrato gli lasciò in bocca il gusto della rassegnazione. Distolse lo sguardo dagli occhi magnetici di Eren, e si convinse che prenderlo a parole fosse l'unico modo per riprendersi il briciolo di dignità che il castano gli strappava ogni volta che lo rendeva incapace di controllare le proprie azioni. Se lo meritava.

"Cretino."

La voce melliflua e divertita di Eren gli colò nelle orecchie, e Levi fu sicuro che quella fosse la parola peggiore che fino a quel momento avesse lasciato la sua bella bocca. I loro occhi si allacciarono di nuovo, mescolando il verde e il grigio in un'armonia di sfumature preziose; quelli di Levi erano pregni e brillanti di stupore.

"Imbecille."

"Scemo."

"Deficiente."

"Stupido."

Le iridi metalliche di Levi si erano fatte grandi davanti al sorriso di Eren, che portava in viso l'espressione angelica di chi avrebbe potuto tranquillamente sciorinare un intero vocabolario di insulti per portare avanti quel gioco infantile. Rise, quando si accorse della tensione che irrigidiva i muscoli del corvino. Un suono cristallino riverberò nell'aria, celestiale, uno dei più belli che Levi avesse mai sentito nel corso della sua misera vita, e le sue spalle si rilassarono un po'. La diede vinta ad Eren, mentalmente troppo stanco per poter sopportare oltre di udire quella voce che gli annodava lo stomaco e di posare gli occhi sui suoi sorrisi che facevano cose strane alla sua anima. 

Non si era ancora del tutto abituato a lui, alla presenza costante dell'Universo in carne ed ossa al suo fianco; era diverso da qualunque altra persona avesse mai incontrato. Era testardo, maledettamente ostinato, carismatico e imprevedibile in una maniera che gli dava i brividi. Col tempo, aveva imparato che la sola vicinanza di Eren bastava a fargli venire la pelle d'oca. Era capace di tenergli testa e di sorprenderlo sempre, e Dio se la cosa lo terrorizzava a morte. Gli entrava nel sangue quella paura atavica e viscerale.

Rivolse uno sguardo che avrebbe dovuto essere glaciale e tagliente al suo bel viso baciato dal sole, ma Eren probabilmente non se ne accorse neanche. Levi lo trovò con gli occhi fissi sul suo libro di Dinamiche, un labbro ben stretto fra i denti bianchissimi e le sopracciglia aggrottate. Levi sospirò, tentando di buttare fuori dal proprio corpo tutta la propria rabbia e il proprio rancore verso il castano assieme all'aria espirata. In fondo, non poteva fare più nulla per quei pezzi di sé che Eren gli aveva rubato sotto forma di parole impresse su carta nella sua grafia netta e pulita.

"Che cosa non hai capito questa volta?"

Perché quando erano in biblioteca insieme, Eren guardava Levi fino a fargli bruciare la pelle e lo riempiva di chiacchere su dettagli e particolari della sua vita, ma c'erano anche i giorni come quelli. Quelli in cui il corvino si offriva di aiutare quel moccioso irritante e indisponente che gli stava incollato come un'ombra, eterno memento di quanto il filo sottile che lo ancorava alla vita fosse fragile ed effimero come il battito d'ali di una farfalla. Era tutto iniziato un paio di settimane prima, da una richiesta di aiuto di Eren alla quale Levi aveva acconsentito semplicemente per non sentirsi troppo vittima di quegli smeraldi preziosi e per scollarsene il bruciore quasi insopportabile di dosso. Era stata solo una maniera per tollerare meglio quella sorta di convivenza forzata che lui non aveva mai chiesto, nulla di più; poi però il corvino aveva dovuto ammettere a sé stesso che il moccioso sapesse davvero il fatto suo, e che ripassare assieme qualche argomento non era poi così terribile.

Eren era intelligente e sveglio, capace di afferrare le sue spiegazioni al primo colpo e di formulare riflessioni e domande brillanti. E anche se il moccioso non conosceva neanche lontanamente il significato della parola "privacy", quei momenti erano piacevoli. Ovviamente, se Levi tralasciava – o meglio, si sforzava di dimenticare – che il castano fosse una sorta di castigo divino e incarnazione dell'Universo stesso in Terra, per di più in un corpo talmente bello da levare il fiato.

Il corvino iniziò a chiarire i punti su sui il castano mostrava incertezza, costringendosi ad ignorarne il calore della pelle bronzea di Eren troppo vicina alla propria e la fragranza delicata di bagnoschiuma alla vaniglia che emanava. Tuttavia, poteva dire anche solo osservandolo con la coda dell'occhio - e anche per una strana tensione che sentiva permeare l'aria e fastidiosamente appiccicata addosso - che qualcosa in Eren non andasse, che il ragazzo non gli stesse prestando l'attenzione dovuta e che una parte di lui fosse persa fra troppi pensieri torbidi e profondi. Lo deduceva dalla riga d'espressione che gli aggrottava le sopracciglia folte e dal modo in cui i suoi occhi verdissimi gli sembrarono incupiti, lontani. E quando parlò, ignorando il mondo di stelle e galassie in cui si erano immersi insieme, Levi ne ebbe la conferma.

"Lee... Lo sai che secondo alcune teorie della meccanica quantistica, il semplice percepire qualcosa ne modifica la struttura molecolare?"

Il corvino fu colto alla sprovvista da quella domanda, e quando incontrò le iridi di Eren, queste gli sembrarono la cosa più intensa e dilaniante su cui avesse mai posato lo sguardo. Erano piene, sature di emozioni che le coloravano di sfumature assurde, mai viste prima di allora. Erano luminose, ma c'era qualcosa che le faceva brillare di un bagliore cupo, spento. Levi si diede uno schiaffo mentale quando pensò che avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare a far splendere quegli occhi come facevano sempre. Era terribilmente sbagliato che non fossero accesi e pieni di vitalità come al solito. 

"Che vuoi dire?"

Eren sospirò, iniziando a rigirarsi fra le dita il ciondolo a forma di chiave che portava sempre appesa al collo. Erano belle, le sue mani, grandi e delicate al tempo stesso. Chissà se erano calde come sembravano.

"Che non si può osservare la realtà senza influenzarla e senza mutarne lo stato. Quello che vedo io è diverso da quello che vedi tu, proprio perché è influenzato dalla mia mente e non dalla tua. Quindi, quella in cui vivi non è davvero una realtà pura, ma solo quello che tu pensi sia reale. Il mondo non è incorruttibile e cinico come credi; sa essere crudele, sa togliere tanto, ma sa anche dare. Ovviamente, la tua visione è influenzata dalla tua esperienza di vita. in fondo, noi tutti non siamo che il prodotto dell'apprendimento di esperienze passate, no? È quello che ci definisce come persone, che delinea un nostro carattere, che dà forma ai nostri ideali."

"Non ti seguo, Eren."

Il castano si morse il labbro, poi schiuse nuovamente la bocca morbida. Il silenzio li avvolse per qualche eterno secondo prima che continuasse a parlare, scrutandolo da sotto le lunghe ciglia nere con un'espressione indecifrabile in volto.

"In un certo senso, quello che voglio cercare di fare è tirare fuori della filosofia da concetti prettamente scientifici. Vorrei solo farti capire che non è necessariamente come dici tu, che l'Universo non è un tiranno che ci tiene tutti per le briglie con l'intento di rimetterci in riga; questa è solo la tua percezione personale delle cose che ti circondano, ma non è detto che corrisponda alla realtà assoluta. Forse, il concetto di realtà assoluta nemmeno esiste, essendo tutto relativo al soggetto che la osserva. Quindi Levi, non... Chiuderti in te stesso e rimanere schiavo di leggi che non esistono. Volevo dirti solo questo, perché credo anche che l'uomo possa imparare a plasmare la realtà e a renderla migliore per sé stesso, per la propria vita."

Levi rimase a guardarlo con i brividi sulla pelle. Studiò attentamente le ciocche disordinate che gli incorniciavano il bel viso e che sfuggivano al suo solito codino basso, si specchiò in quegli occhi fino a che il suo mondo intero non divenne dipinto di quel verde assurdo e carico. Sconvolto, con le certezze sottosopra, come ogni volta che Eren apriva bocca per parlare; dubitava perfino di avere fiato nei polmoni per ribattere al suo discorso, per quanto il cuore gli martoriava prepotente la gabbia toracica.

"Sarà come dici tu, moccioso. La vita rimane comunque una merda."

Il silenzio che li avvolse fu talmente scomodo da risultare stretto e soffocante. Pesava sulla schiena di Levi, lo piegava sotto la quiete assordante che gli sfondava i timpani, rotta solo dai troppi pensieri che gli rimbombavano cupi nella mente creando una sinfonia stridente. Eren gli aveva appena suggerito che tutto quello che accadeva attorno a lui fosse influenzato dalla sua percezione; in altre parole, il mondo che Levi conosceva, era tale per lui e lui soltanto, in quanto era il corvino stesso ad attribuirgli un certo significato. E il modo che Levi aveva di dipingere l'Universo come una sorta di caricatura grottesca di tutti i mali, era da attribuire soltanto al proprio bagaglio di riferimento, fatto di cattive esperienze e dolore. 

Forse era proprio per quel motivo che Eren osava sfidare il Cosmo in quella maniera così aperta e urlandogli contro a gran voce la sua incuranza; la sua esperienza era diversa, e sicuramente era per quello che riusciva ad essere così positivo. Guardava la vita con altri occhi, e sebbene vivessero sullo stesso mondo, Levi percepiva il castano come appartenente ad una realtà parallela e distante anni luce dalla propria, aliena. Nessuna disgrazia doveva averlo segnato e fatto piegare di dolore fino a fargli desiderare di scomparire, per permettergli di essere ottimista e non arrabbiato con l'esistenza stessa. Doveva essere stato fortunato, dello stesso tipo di fortuna che era mancata a lui e ad Isabel per vincere. Forse, se sua sorella fosse stata viva, lui ed Eren avrebbero potuto coesistere sullo stesso piano di realtà e lui sarebbe stato una persona migliore. Non un fantasma, non il Levi Ackerman che odiava ogni voltaa che si guardava allo specchio.

"Lee... Tu hai perso qualcuno di importante."

Eren sospirò, e per la prima volta a Levi sembrò fragile davvero. Umano, spogliato dell'indifferenza del Cosmo che si portava addosso e che reclamava come propria. E anche il corvino si sentì completamente denudato di fronte a quella domanda, inerme come lo era stato quando quel moccioso insolente, che lo guardava con gli occhi carichi e scuri, aveva letto fra le righe della sua anima.

"Cosa ti fa pensare che verrei a dirlo a te, se così fosse?"

"Non era una domanda. Lo so e basta."

Quella constatazione, che lasciò le labbra piene del castano con un sussurro caldo e flebile, lo pietrificò sul posto e gli diede i brividi. Non ebbe neppure il coraggio di incontrare i suoi occhi, per quanto se ne sentì schiacciato; si morse le labbra e strinse i pugni fino a sentire le dita dolere. La sua schiena si irrigidì, quando la mano di Eren prese a disegnarvi sopra sentieri intricati ed invisibili. E sì, era calda proprio come l'aveva immaginata, più del suo sguardo di smeraldo.

"Mia madre si chiamava Carla."

Aggiunse soltanto, donandogli un altro pezzo di sé che Levi non aveva mai chiesto. Quelle parole, ricoperte dalla sua voce di miele, gli si conficcarono nell'anima lambendola con le loro lame ghiacciate. Sentì freddo, Levi, perché di colpo gli parve di provare sulla propria pelle lo stesso dolore di Eren, la stessa agonia che lo aveva annientato senza remore quando Isabel le era stata strappata dalle braccia prematuramente e con una violenza sanguinaria. Non si accorse di star trattenendo il respiro fino a che un sospiro debole gli lasciò le labbra.

"Isabel... Mia sorella."

Il castano ormai gli carezzava la schiena a palmo aperto. Lo guardava, ma Levi non aveva il coraggio di incrociare le sue iridi, perché sapeva che se lo avesse fatto, avrebbe ceduto e si sarebbe perso dentro quel mare di smeraldo intenso; non avrebbe opposto alcuna resistenza a naufragarvi dentro. Probabilmente, Eren era una di quelle persone capaci di plasmare la realtà a proprio piacimento. 

Perché Levi lo aveva ormai capito, che il moccioso non fosse l'Universo e quella consapevolezza era arrivata sotto forma di un dolore sordo all'altezza del petto; era semplicemente un essere umano troppo orgoglioso per piegarsi alle sue leggi. Per questo le distorceva, le ricreava e le riadattava a quella che era la sua esperienza, la sua realtà. E sapere che anche a lui fosse stato brutalmente strappato l'affetto di una persona cara, non fece altro che alimentare come benzina sul fuoco il senso d'inettitudine che si portava cucito addosso ad ogni respiro.

Eren era capace di andare avanti, di vedere comunque il lato positivo della vita, nonostante i suoi begli occhi avessero visto disgrazie e si fossero riempiti di sofferenza chissà quante volte, a differenza di quello che Levi aveva pensato di lui. Eppure, non si perdeva d'animo e combatteva a testa alta. Si beava dei colori che lo circondavano, godeva della compagnia delle persone, era capace di ridere e di provare emozioni dirompenti, e chissà quanto gli costava farsi carico di tutta quella positività. Magari avrebbe solo voluto urlare quanto gli mancava sua madre e quanto fosse stata ingiusta la sua morte. Forse lo faceva, quando era protetto dal buio della sua camera. 

"Grazie per aver condiviso questo con me, Levi."

No, Eren non era l'Universo. Era semplicemente una persona che era stata rotta dai suoi meccanicismi e che aveva imparato a sopravvivergli, ripagando il Cosmo con la stessa indifferenza che esso stesso mostrava verso il genere umano. Era come lui, ma aveva trovato un modo diverso per convivere con il dolore e per andare avanti senza sentirne i morsi farsi troppo prepotenti. Nessuna cosa aveva mai terrorizzato Levi tanto quanto la capacità che il castano aveva di essere il padrone assoluto della propria realtà. Lui, la sua neanche la conosceva, eppure vi era impantanato dentro fino al collo.

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SPAZIO AUTRICE

Chiedo venia per il ritardo, ma finalmente ce l'ho fatta ad aggiornare. il carico emotivo di questa storia purtroppo non mi aiuta per niente ad essere veloce con gli aggiornamenti, ma cerco comunque di essere veloce. Spero di non farvi aspettare di nuovo un mese per il prossimo capitolo!

Alla prossima!

 

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Capitolo 6
*** VI ***


Legge sei - Attrazione
 
Come si erano ritrovati ad uscire insieme quasi ogni giorno dopo quei pomeriggi passati in biblioteca, per allentare la pressione con cui lo studio li caricava, Levi non lo sapeva con esattezza. Il corvino ricordava però la loro prima uscita in una maniera talmente vivida che gli pareva di riviverla soltanto carezzandola con il ricordo.
 
Era stata un giorno qualunque, uno di quelli col cielo plumbeo e ingrigito che minacciava pioggia; Eren gli aveva portato un the a lezione. E il corvino avrebbe apprezzato il suo gesto, se solo il suddetto the non fosse stato uno di quegli intrugli industriali in lattina, talmente carichi di zucchero da fargli accapponare la pelle al solo pensiero. Gli scaldò comunque il petto la premura del castano dei suoi confronti, e l’invito che gli aveva rivolto, lasciò le sue labbra prima che riuscisse a processare il significato delle parole. “E questa porcheria tu la chiami the? Ti ci porto io a bere il the, quello vero, quando avremo finito con questa roba.” Inutile dire che Eren aveva acconsentito e si era fatto trascinare nel piccolo bar che Levi aveva scelto, col sorriso stampato sulle labbra e riflesso nelle iridi di smeraldo.
 
Erano un’accoppiata inusuale, un ossimoro vivente; freddo glaciale e calda esuberanza a contrasto. Eppure, in quei momenti, riuscivano a coesistere e a trovare una loro armonia, unica e irripetibile per quanto rara. Insieme avevano girato parecchi bar di Shiganshina, –Eren aveva reso una missione di vita il riuscire a trovare il cappuccino perfetto – erano andati al cinema e avevano passeggiato senza una meta precisa per il solo gusto di stare insieme. Una volta avevano addirittura fatto un giro in centro per vetrine, perché il castano doveva comprare il regalo di compleanno per Mikasa, la sua sorella adottiva, e allora Levi lo aveva accompagnato. Era stato proprio in quell’occasione che avevano deciso di cenare insieme. Nulla di particolare, semplicemente qualche pezzo di pizza al taglio consumato seduti sugli sgabelli piuttosto scomodi della prima pizzeria che trovarono sul loro percorso, sorseggiando Coca-Cola.
 
E a distanza di settimane, camminavano fianco a fianco lungo il grosso viale alberato, stanchi e tesi per le sessioni di studio estenuanti a cui si sottoponevano. Levi si beava della sensazione rigeneratrice che l’aria fresca gli donava ogni qualvolta abbandonava quella stantia della biblioteca dopo averci passato ore, pesante e permeata dall’odore dell’inchiostro. Amava la sensazione delle lingue di vento gelide che raggiungevano la pelle sensibile del suo volto e si insinuavano nel cappuccio che vi portava sempre calato sopra per passare inosservato al mondo esterno, scompigliandogli le ciocche color pece.
 
Il fatto che lui ed il castano avessero imparato a coesistere non significava che Levi fosse meno spaventato da Eren e dalla sua imprevedibilità costante; per quanto avesse fatto il callo alla sua esuberanza e alla sua non curanza nei confronti dell’Universo, quel moccioso impertinente non aveva perso la capacità di stupirlo. Non importava come: poteva essere a gesti o a parole, perfino con un semplice sguardo. Lo scombussolava, ribaltava le sue certezze e gli faceva dischiudere le labbra per la sorpresa in continuazione, ma Levi non poteva più nascondere a sé stesso il fatto di averlo rivalutato. Era stranamente piacevole trascorrere del tempo insieme, e anche la logorrea di Eren non lo innervosiva più come ai primi tempi. Lo ascoltava, faceva suoi pezzi del castano e li custodiva preziosamente nel cassetto della memoria che gli aveva dedicato. Più di qualche volta si rifilava anche qualche schiaffo mentale, quando si scopriva a far indugiare distrattamente e più del dovuto il pensiero sulle sue gemme di preziosissimo smeraldo.
 
Levi si voltò a guardarlo per saggiarne le linee armoniche e decise del profilo statuario. il naso di Eren leggermente all’insù era appena arrossato dal freddo, e lo stesso colorito roseo si spandeva sugli zigomi alti e perfettamente scolpiti; nuvolette di condensa evanescente si levavano dalle sue labbra piene, e alcune ciocche color cioccolato, che sfuggivano dal suo berretto in lana bordeaux, frustavano l’aria, mosse dal vento leggero. Il suo incarnato bronzeo e naturalmente baciato dal Sole creava un contrasto particolare con il paesaggio invernale che li circondava, fatto di alberi spogli e brina sottile posata sui prati. Era uno di quei momenti in cui condividevano il loro silenzio, rotto soltanto dallo scricchiolio prodotto dalla poca neve che macchiava il sentiero, calpestata dalle suole spesse dei loro anfibi. Li avvolgeva quella quiete tranquilla, e i due si lasciavano cullare senza opporre resistenza, sfidando il freddo che lambiva tagliente ogni centimetro della loro pelle scoperta; Levi lo amava davvero, quel freddo che lo faceva rabbrividire.
 
Si addentrarono per le viuzze pavimentate del parco, camminarono fianco a fianco tenendo le mani guantate all’interno delle tasche dei rispettivi giubbotti e nascondendo il più possibile i visi nelle sciarpe calde che portavano attorno al collo. Levi non l’avrebbe mai saputa descrivere a parole, la sensazione di profonda pace interiore che l’inverno gli infondeva nell’animo ogni volta che ne ammirava le splendide creazioni, dalle fontane ghiacciate al semplice candore della neve.
Sembrava tutto così fermo, sotto controllo, congelato nel tempo e nello spazio; spettacolare, etereo. Anche Eren sembrava essere stato catturato dalla ragnatela di ghiaccio di quello spettacolo, e i suoi occhi impossibili sembravano bere avidi ogni particolare del paesaggio di cui erano spettatori. Proseguivano in religioso silenzio, quasi come se le loro voci avessero potuto turbare e rompere l’equilibrio incantato e magico di fronte a loro. Il tempo era ormai diventato un parametro totalmente irrilevante.
 
A Levi parve scorgere con la coda dell’occhio le iridi verdissime di Eren puntate su di sé, unico dettaglio colorato che spezzava il candore da cui erano avvolti. Vibranti, bellissime, sempre accese; se il castano fosse stato una stagione, il corvino aveva deciso che sarebbe stato la primavera. Frenetica come lui, mentre faceva un gran casino, con quello sbocciare di piante e il risvegliarsi della natura, profumata dell’odore di mille fiori colorati e pervasa dai cinguettii concitati delle rondini.
 
Erano magneti bollenti quelle iridi verdissime che ogni tanto si posavano indagatrici su di lui, gli facevano rizzare i peli sulla nuca più del vento che riusciva a farsi strada nel suo cappuccio. Era assurdo il modo che aveva di essere sempre il centro di tutto, capace di stimolare reazioni che Levi credeva che il suo povero cuore arrugginito non potesse più provare. A volte il muscolo cardiaco gli balzava in gola sotto quello sguardo smeraldino, altre volte sembrava perdere qualche battito, e il corvino non se ne capacitava. Era Eren in sé ad essere assurdo per definizione.
 
Viveva in una maniera così spensierata che faceva venire voglia a Levi di assaggiarla, quella spensieratezza, di sentirne il sapore; ma lui non era Eren, ed era incapace di lasciarsi alle spalle la colpa di essere sopravvissuto a sua sorella. Come il castano vivesse in quella maniera, pur portando zavorrato all’animo il fardello della morte di sua madre, proprio non lo sapeva e neanche riusciva ad immaginarselo o a capacitarsene. Andava oltre ogni sua concezione quel modo di comportarsi e di approcciarsi alla vita che tanto amava e odiava al tempo stesso.
 
Eren gli faceva cose strane, perché era stato in grado di aprirsi a forza un varco nella sua indifferenza con la sola forza della sua determinazione ferrea e la dolcezza dei suoi sorrisi, capaci di portare luce anche negli antri più bui e reconditi del suo animo. Era testardo, ostinato, irritante, imprevedibile e maledettamente bravo a infilarsi sotto la pelle di Levi. Dannato moccioso.
 
Camminarono ancora avvolti nel silenzio, inspirando boccate d’aria gelida che nei loro polmoni assumevano la consistenza pungente di aghi ghiacciati; proseguivano l’uno al fianco dell’altro, talmente vicini che le stoffe dei loro cappotti pesanti si sfioravano appena. Una scia intossicante dell’odore di Eren investì le narici di Levi, e il corvino dovette fare appello a tutto il proprio autocontrollo per darsi un contegno, quando un lungo brivido che gli percorse la spina dorsale rischiò di farlo rabbrividire visibilmente. Quel vento glaciale alla fine gli stava giocando brutti scherzi.
 
La bolla di silenzio incantato che li aveva avvolti venne spezzata all’improvviso dall’abbaiare di due cani in lontananza, impegnati a rincorrersi e ad azzuffarsi giocosamente fra la neve, lasciando impronte di zampe dietro di loro.
 
“Ti piacciono i cani, Lee?”
 
Levi si trovo ad annuire al suono mellifluo della voce del castano.
 
“Preferisco i gatti però. In genere, fanno meno casino.”
 
Il sorriso che gli rivolse Eren nascondeva il potenziale di sciogliere tutto il ghiaccio attorno a loro e richiamare a sé il Sole, completamente ammantato da una fitta coltre di nubi appena grigiastre. Si preannunciava un’altra nevicata.
 
Conversarono ancora su come il gatto fosse effettivamente l’animale perfetto per Levi, poi parlarono ancora delle loro lezioni di Dinamiche e della relativa data d’esame che si faceva sempre più vicina sul calendario. Meno di un mese, e tutto quello sarebbe finito. Niente più Eren e i suoi occhi assurdi che gli impedivano di rifiutare le uscite che gli proponeva, niente più imprevedibilità; sarebbe tornato alla calma metodica della sua agenda e ai suoi vecchi schemi mentali precisi e incorruttibili. Quanto gli mancava, la sensazione della pelle nera del suo taccuino sotto i polpastrelli e il rumore della sua penna che scorreva sui fogli di carta ruvida, lasciandosi alle spalle sottili e precisi tratti d’inchiostro. E anche Levi era pronto a lasciarsi alle spalle tutto quello, quei mesi in cui era stato vittima di un ragazzino troppo entusiasta della vita e che gli aveva capovolto e sconvolto le giornate.
 
Non avrebbe più sentito le ciocche sciolte dei suoi capelli castani lambirgli la spalla quando sbirciava gli appunti dal suo PC, non sarebbe più rimasto intossicato dal suo odore dolce che gli pungeva le narici, o ancora non sarebbe rimasto elettrizzato da quei brevi contatti pelle a pelle che si erano scambiati. Era capitato che, qualche volta, le loro dita si fossero sfiorate mentre Levi passava ad Eren penne e matite con le quali imbrattava – perché quello non poteva chiamarsi scrivere in maniera civile e comprensibile, assolutamente – il suo squallido bloc-notes. Erano quasi dolorosi quei contatti, per quanto il corvino li percepiva intensi. Lo destabilizzavano, così come l’essenza stessa del ragazzo che proseguiva al suo fianco con falcate lunghe e decise. Maledetto lui e le sue gambe lunghe. Tuttavia, Levi non riuscì a dare un nome alla sensazione che gli appesantì il petto a quei pensieri, e non ebbe il tempo di decifrarla perché la voce di miele di Eren gli colò nuovamente nelle orecchie.
 
“Cos’è quello?”
 
Gli chiese all’improvviso, indicando una piccola cupola poco lontana con la mano guantata. Levi neanche si accorse che le sue labbra sottili si erano un po’ distese nel riconoscere la struttura, gli angoli leggermente piegati all’insù e l’anima piena di emozioni in tumulto, contrastanti.
 
“Mai visto un planetario, moccioso?”
 
Gli occhi di Eren parvero brillare di luce propria alle sue parole, e la bocca piena del castano si dischiuse appena. Era capace di mostrare lo stesso entusiasmo di un bambino anche per le piccole cose, ed era l’ennesima capacità che Levi gli invidiava. Quando quelle iridi di smeraldo catturarono le sue, il corvino rabbrividì nello scoprirle così tanto luminose, intrise del desiderio di visitare il piccolo edificio a cupola. Non seppe con quale forza pronunciò quelle parole, né perché lo fece. Semplicemente, gli scivolarono dalle labbra prima che potesse rendersene conto.
 
“Non credo sia aperto a quest’ora, ma conosco il custode. So dove lascia le chiavi e so anche come azionare i diversi proiettori, me lo ha spiegato lui. Non credo che gli dispiaccia se ci fermiamo per un po’ di tempo.”
 
Se possibile, Eren si illuminò ancora di più, e il sorriso che rivolse a Levi, bianchissimo e stupefacente, sarebbe stato in grado di ridurre le gambe di chiunque in gelatina. Il corvino fece schioccare sonoramente la lingua contro il palato.
 
Era tanto che non tornava al planetario, mesi interi addirittura. Non aveva mentito ad Eren, conosceva davvero l’uomo che si occupava della gestione del posto. Il signor Hannes era un tipo tranquillo e alla mano, e Levi era in grado di confermare quanto fosse di animo gentile ed estremamente disponibile. C’era stato un periodo in cui quel piccolo planetario per lui era diventato una specie di rifugio, un santuario in cui purificare e risanare la sua anima ridotta in brandelli. Le visite in quel posto avevano fatto parte della sua serrata e imperturbabile routine, segnate sempre in inchiostro rosso sulle sue agende.
 
Era tutto iniziato come un modo per memorizzare meglio le costellazioni e per studiarne la posizione, e quel planetario piccolo e vecchio si era rivelato un ottimo aiuto per uno studente al primo anno di astrofisica. Era stato solo dopo che era diventato molto di più. Un luogo per maledire l’Universo, per piangere la morte di sua sorella e urlare fino a strapparsi i capelli senza che sua madre lo sentisse, per maledire la vita che lo aveva calpestato, per prendersela con quel Cosmo tiranno che dettava leggi e pretendeva senza mai dare in cambio. Aveva urlato per mesi lì dentro, singhiozzato fino a togliersi il fiato dei polmoni; poi all’improvviso era arrivato il periodo in cui, semplicemente, se ne stava in silenzio a guardare la cupola stellata e faceva finta di annullarsi in essa.
 
Hannes era sempre stato comprensivo, e Levi era sicuro di essere stato beccato più di qualche volta con gli occhi gonfi e rossi di pianto quando abbandonava il planetario. Era semplicemente successo che in un giorno come gli altri l’uomo gli avesse semplicemente mostrato dove nascondeva la chiave d’emergenza e come far funzionare i vari schermi e proiettori della struttura. Il corvino non seppe mai cosa lo avesse mosso a farlo, ma gliene era sempre stato segretamente grato nei momenti di sconforto in cui cercava sollievo immerso nelle stelle, fingendo di assumere la stessa consistenza di una nebulosa e di perdersi nello spazio siderale. Hannes non gli aveva neanche mai chiesto il perché piangesse e si disperasse tanto lì dentro, cosa lo turbasse così nel profondo da fargli desiderare di scomparire. Rispettava la sua privacy, rimaneva un’ombra silente e gli rivolgeva brevi cenni del capo quando Levi visitava il planetario negli orari in cui era normalmente aperto al pubblico e in quelle occasioni a volte scambiavano un paio di battute, talvolta l’uomo gli riservava una pacca d’incoraggiamento sulla spalla nei giorni in cui era più giù di morale. Era proprio per i suoi modi di fare che Levi aveva deciso che Hannes gli piaceva e che non era irritante come considerava la maggior parte del genere umano.
 
Si incamminarono nella direzione della cupola lasciandosi alle spalle le loro impronte sulla neve, l’eccitazione che pervadeva in maniera visibile ogni cellula di Eren e lo faceva quasi brillare di luce propria. Non passò molto tempo prima che Levi raggiungesse la chiave nel suo nascondiglio e la fece girare nella serratura. I cardini della porta cigolarono appena, e i due trovarono sollievo dai morsi del freddo non appena raggiunsero l’interno. Levi si premurò di attivare il generatore di corrente e di accendere la luce, mentre Eren si guardava intorno con aria spaesata e meravigliata al tempo stesso. Volse lo sguardo alla cupola, poi le sue belle iridi passarono ad analizzare le poche poltrone imbottite che occupavano, disposte in cerchi concentrici, gran parte della sala.
 
“Sembra quasi uno strano cinema.”
 
Disse, rivolgendo lo sguardo a Levi, ancora talmente carico di emozioni e luminoso che al corvino fece fisicamente male sostenerlo. Si limitò ad abbozzare di rimando un mezzo sorriso di circostanza, insicuro su come replicare. “È molto di più di un cinema,” avrebbe voluto dirgli, ma le parole gli rimasero incastrate fra le labbra screpolate.
 
Continuò ad armeggiare ancora con i vari interruttori del quadro di corrente, tentando di ignorare la presenza del castano dietro di lui. Era stato strano averlo portato al planetario, un’azione dettata dall’impulso ed eseguita in pilota automatico, senza pensare. Avrebbe potuto dirgli semplicemente che era chiuso e che l’avrebbero visitato un altro giorno, ed Eren non sarebbe mai venuto a conoscenza della chiave che garantiva al corvino il libero accesso alla struttura. Era stato stranamente intimo, varcare quella soglia insieme a qualcuno. Non aveva mai portato nemmeno Hanji in quel luogo, e la castana non aveva fatto altro che domandargli per mesi dove scomparisse quando lo chiamava al telefono per ore e lui non rispondeva.
 
Tra le stelle, ecco dove si rifugiava Levi, qual era il suo nascondiglio più recondito e intimo e nascosto da tutto e da tutti; e in quel momento Eren, lo stesso moccioso che lo aveva tediato con la sua presenza dirompente per mesi, ne era venuto a conoscenza. Alla fine il corvino aveva ceduto e gli aveva aperto una finestra sulla sua anima fin troppo grande. Lo terrorizzava a morte il sorriso del castano, lo paralizzava sul posto il modo colmo di gratitudine con cui sentiva il suo sguardo di smeraldo bruciargli la schiena.
 
Lo aveva lasciato entrare, e non solo nel planetario. Lo aveva lasciato entrare e la paura lo piegava, lo straziava. Gli urlava che creare legami non era nulla di buono, tormentava la sua anima del bisogno di scappare e di lasciarsi tutto alle spalle. Ma c’era stato qualcosa che aveva percepito nelle iridi di Eren che glielo impedì: un bagliore, una piccola scintilla dell’anima del castano che gli aveva fatto capire più di quanto Levi volesse ammettere. Quel moccioso irritante gli aveva mostrato rispetto e comprensione, quasi come sapesse dell’importanza che quel luogo preciso aveva per lui. Il corvino dovette ingoiare a vuoto un paio di volte prima di voltarsi.
 
Trovò lo sguardo di Eren vagare fra le file di poltrone, vide le sue dita lunghe ed affusolate saggiare la consistenza del rivestimento di velluto grigiastro con un timore quasi reverenziale. Trasudava rispetto per quel posto, del genere che si riserva ai templi e ai luoghi sacri. Le sue gemme verdissime saettarono poi sulla grossa sfera posta al centro dell’edificio, attorno alla quale erano disposte le sedie in tre file di cerchi concentrici, come fossero orbite di pianeti.
 
“Quelli sono i proiettori.”
 
Spiegò Levi, indicandogli la poltrona migliore da cui poter ammirare lo spettacolo della volta celeste stellata. Il castano prese posto in silenzio, continuando ad osservare l’amico darsi da fare con cavi e interruttori. Il silenzio li avvolse per un tempo indeterminato, e Levi fu sicuro che in quella quiete anche Eren riuscisse a sentire lo sfrigolare della sua pelle pallida, lì dove le belle iridi smeraldine del castano si posavano.
 
“Ci siamo. Sei pronto?”
 
Eren produsse un mugolio di assenso in risposta; gli morì in gola, spezzato dallo stupore non appena il corvino spense la luce all’interno dell’edificio. Venne investito dal blu più intenso che avesse mai visto in vita propria, costellato di luci intense e fisse; in alcuni punti la volta celeste si colorava di viola, assumendo sfumature di colore che tolsero il fiato nei polmoni del castano. Le labbra piene erano dischiuse, le stelle spruzzate sulla cupola si riflettevano nelle iridi verdissime di Eren, accendendole; e allora Levi seppe con un solo sguardo come l’amico si sentiva in quel momento. Era come fluttuare nello spazio, essere immersi nell’Universo tenendo i piedi saldamente ancorati a terra ma la mente e l’anima lontane anni luce dall’atmosfera terrestre. Lo sapeva, perché vide disegnata sul volto di Eren la stessa espressione che gli aveva disteso i lineamenti quando per la prima volta Hannes aveva azionato il planetario per lui.
 
“È meraviglioso, Lee…”
 
Sussurrò appena, e Levi lo vide rabbrividire visibilmente quando prese posto accanto a lui, concedendosi di volgere gli occhi alla cupola per immergersi al suo interno e annullarsi, cancellare tutto. Pensieri, paure, preoccupazioni: tutto perdeva significato, ammantato da quel blu profondissimo che li inghiottiva.
 
Si lasciarono avvolgere e cullare dal silenzio, e Levi non poté fare a meno di osservare furtivamente Eren con la coda dell’occhio più di qualche volta; in un paio di occasioni, i loro sguardi si incontrarono e si fusero assieme, creando un magnetismo unico che fece venire rizzare i peli sulla nuca al corvino. Ogni tanto Eren gli chiedeva qualche curiosità sullo spazio, e lui rispondeva. Gli illustrava i nomi delle stelle più importanti e le loro costellazioni, si cimentava in vere e proprie brevi lezioni di astronomia di cui il castano beveva avidamente ogni parola; neanche si accorsero di essersi fatti sempre più vicini, attratti l’uno dall’altro come se esercitassero una gravità propria.
 
Poi all’improvviso furono di nuovo occhi negli occhi, verde smeraldino fuso al grigio, e Levi si irrigidì quando sentì una mano di Eren raggiungere il cappuccio che portava sul capo per abbassarlo; era calda, grande, rassicurante. Il respiro gli si mozzò rumorosamente in gola quando il castano si rigirò fra le dita lunghe ed affusolate una ciocca d’inchiostro.
 
“Sei bello, Levi.”
 
“M-Ma che vai dicendo?!”
 
Si ritrasse bruscamente, passandosi una mano fra i capelli per scrollarsi di dosso la sensazione del tocco elettrico del castano e scompigliandoli, portandosi le ciocche più lunghe dietro le orecchie per evitare che attirassero nuovamente l’attenzione del compagno di corso. Di nuovo, Eren gli aveva inferto senza pietà uno dei suoi colpi bassi e imprevedibili, sconvolgendolo e facendogli sgranare gli occhi per la sorpresa. In quel momento Levi ringraziò di trovarsi al buio, perché sentì le gote ardere come se gli scorresse fuoco liquido nelle vene; fu sicuro di non aver mai provato tanto imbarazzo in vita propria.
 
La replica di Eren, sussurrata con la stessa voce di miele con la quale gli aveva rivolto il complimento che lo aveva fatto avvampare, fece perdere il ritmo al suo povero cuore, che saltò qualche battito.
 
“La verità.”
 
“Smettila!”
 
Il muscolo cardiaco gli martellava la gabbia toracica, gli rimbombava nelle orecchie facendo un fracasso peggiore di una grancassa; sperò solo che Eren non lo sentisse, che il buio nel quale erano immersi ammantasse la tempesta che le sue parole gli avevano scatenato nell’anima e di cui i suoi occhi d’argento liquido erano divenuti lo specchio.
 
Lui lo guardava col solito sorriso stampato sulle labbra, labbra di cui all’improvviso Levi si ritrovò a desiderare di conoscere il sapore e la consistenza, di assaggiare direttamente con le proprie. Fino ad un momento prima non sapeva neanche che potessero interessargli i ragazzi – anzi, gli esseri umani in generale – e subito dopo si trovava a desiderare che la bella bocca di Eren catturasse la sua in un bacio. Voleva esserne intossicato, e quella consapevolezza ebbe il potere di paralizzarlo.
 
Non si spiegava il perché di quell’urgenza improvvisa a cui doveva resistere a tutti i costi, lo schiacciava quella sensazione che faceva fare cose strane al suo petto e gli annodava lo stomaco; Eren era imprevedibile e glielo aveva dimostrato tante, troppe volte. Vivevano su due piani di realtà differenti e guardavano la vita attraverso ottiche completamente opposte: non c’era motivo di sentire quell’attrazione che li reclamava e che rendeva i loro corpi elettrici e tesi. Il castano sfidava l’Universo e Levi non ne era più capace, non dopo essere stato costretto ad ingoiare le amare conseguenze della sua noncuranza nel sottostare alle sue leggi. Era pericoloso. Eren era pericoloso e doveva allontanarsi al più presto da lui e dalle conseguenze che il loro legame aveva già creato.
 
Lo desiderava, lo odiava, lo voleva, doveva tenersene alla larga.
 
Non poteva scottarsi con la sua fiamma, eppure desiderava più di ogni altra cosa esserne vittima e lasciarsi ardere per poi rinascere dalle sue ceneri come una fenice, come un Levi nuovo, capace di vivere la propria vita e non di sopravvivere. Voleva il nero e il grigio che dominavano i suoi giorni, e non c’era altro che bramasse se non l’avvelenarsi dei fumi dell’esistenza vuota che avrebbe condotto fino al giorno in cui il richiamo freddo della morte non lo avrebbe strappato al mondo; ma per la prima volta dopo anni, desiderò di vivere per lei. Di godere di tutto ciò che la quotidianità aveva da offrirgli, di bearsi del calore del Sole e di non nascondersi più sotto i cappucci delle sue numerose felpe per fingersi un’ombra fra esseri di luce. Desiderò che quel moccioso non avesse mai messo piede nella sua vita.
 
Iridi metalliche erano fisse in quelle di Eren, e il castano assorbì come una spugna il terrore che scuoteva le membra di Levi, vittima di una cascata di pensieri che lo avevano investito e congelato sul posto, stordendolo.
 
Vattene via, non voglio più vederti.
 
Rimani.
 
Potrei ferirti da un momento all’altro senza volerlo, oppure potresti farlo tu stesso. Siamo così fragili, e le nostre volontà non contano nulla davanti ai meccanismi del Cosmo.
 
Ti prego, insegnami a vivere come fai tu. Mi pare quasi di riuscire a respirare quando ti sono vicino.
 
Vattene. Vattene, vattene, vattene. Tu e la tua maledetta imprevedibilità dovete uscire dalla mia vita.
 
Dimmelo ancora, che sono bello. Sorprendimi ancora, e poi fallo di nuovo. Sei meraviglioso con le galassie riflesse negli occhi, Eren; cazzo, fai impallidire l’Universo stesso. Sono sicuro che i miei invece abbiano il colore della paura e siano macchiati di codardia. Sono una tale nullità…
 
Mi disgusti, ti odio. Dovrei essere come te e non ci riesco; sei il promemoria del mio fallimento. Maledetto il giorno che ti ho conosciuto, perché in quel momento sono stato dannato. Hai sconvolto la mia vita, di nuovo. Non te lo perdonerò mai.
 
Possiamo provare a stare insieme, ad essere amici o qualunque altra cosa tu voglia? Non sono bravo con queste cose, non so neanche come funzionano e quanto tu sia interessato a me. Magari, posso imparare ad aprirmi con le altre persone e ad uscire allo scoperto, ogni tanto. Possiamo, Eren? Mi staresti vicino, anche se dentro sono così tanto rotto?
 
Non possiamo provare a stare insieme, assolutamente no. Potresti ferirmi irrimediabilmente e io finirei completamente di rompermi, e di me non rimarrebbe altro che polvere troppo sottile per essere rimessa insieme. Che sia perché tu ti sia stufato di uno scarto della società come me o per un beffardo scherzo del destino, non m’importerebbe, perché io soffrirei comunque. E non voglio essere ridotto ad un cumulo di cenere ed essere costretto a mandare avanti un’esistenza ancora più vuota di questa. Ti odio per tutto quello che hai fatto, per avermi dato l’illusione che per me ci sia una speranza. Le nostre realtà sono differenti, lontane anni luce come le stelle che ci osservano dall’alto in silenzio, mute testimoni dei nostri conflitti interiori e dei nostri demoni. Perché non lo vedi quanto sono irrecuperabile? Perché non capisci che devi starmi lontano?
 
Però ti prego, Eren… Nonostante tutto, resta. Abbi pietà di me.
 
 
____________________
 
 SPAZIO AUTRICE
 
Ho letteralmente appena finito di scrivere questo capitolo e non l’ho ricontrollato, ma ho deciso comunque di caricarlo e spero che non ci siano troppi errori/orrori e che vi piaccia! E niente, manca solo un capitolo prima si salutare questa storia.
 
Alla prossima!
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 7
*** VII ***


Legge sette – Creazione Intenzionale

Aveva tagliato Eren fuori dalla sua vita per la settimana successiva alla loro visita al planetario, punto di rottura per la diga con cui Levi arginava le sue emozioni, che gli si erano riversate in petto con una potenza devastante. Era stato talmente sopraffatto dal castano, da quel "sei bello" che pareva nascondere tanto, troppo di più, che alla fine aveva finito per precipitarsi nello studio della sua psichiatra dopo giorni in cui si era sentito letteralmente impazzire, confidando nelle capacità della donna di mettere almeno un po' d'ordine nei suoi pensieri completamente a soqquadro. E la donna lo aveva fatto, dispensandogli consigli e mostrandogli un sorriso colmo di comprensione. 

Aveva ascoltato Levi e lo aveva fatto parlare senza mettergli fretta, donandogli tutto il tempo a sua disposizione e la sua calma. Aveva visto l'espressione del corvino mutare mentre gli raccontava pezzi della sua quotidianità con Eren, la sua maschera di freddezza cadere in frantumi, scheggiata dalla confusione. Levi proprio non riusciva a capire quello strambo ragazzo che continuava a stargli attaccato in ogni occasione e ad essere la sua ombra senza pretendere nulla in cambio.

Quando era successo esattamente che il castano aveva iniziato a strappargli sorrisi segreti e mai mostrati al mondo, che gli piegavano le labbra sottili quando nessuno poteva vederli e quando i suoi occhi di smeraldo facevano capolino fra i suoi ricordi? Non se lo ricordava e ne era terrorizzato.

Lo paralizzava l'idea di doverlo rincontrare prima o poi – Levi aveva saltato le lezioni per una settimana intera e ignorato tutti i messaggi e le chiamate perse da parte di Eren– ma "non puoi evitarlo per sempre" avevano detto sua madre, Hanji e la terapeuta. Nonostante il corvino fosse un vero campione nella sottile arte di evitare le persone ad ogni costo e di silenziare il mondo, per la prima volta nella vita, sentì che tagliare Eren fuori dalla sua quotidianità fosse sbagliato. Fu l'eco di quelle parole ripetute all'infinito nella mente che lo fece sospirare e gli diede la forza di selezionare il contatto del castano nella sua rubrica; quando la sua voce di miele gli investì i timpani dopo un paio di squilli, Levi si strinse un po' di più nella sua felpa. 

________

"Ehi, Lee!"

"Oi."

Le iridi di Levi vennero letteralmente inghiottite da quelle smeraldine di Eren, che rilucevano di mille sfumature calde all'atmosfera tinta di rosso dell'imbrunire. Fu solo allora che il corvino si rese conto di quanto gli fosse mancato quello sguardo assurdo che gli insediò un brivido lungo la spina dorsale. Le belle labbra piene erano piegate all'insù, e mostravano una fila di denti perfetti e bianchissimi in contrasto con la carnagione bronzea. 

"Come stai? Sei sparito..."

Levi non seppe di star trattenendo il respiro finché non si trovò a dover rispondere e le sue parole gli pesarono stranamente sulla lingua.

"Ho avuto l'influenza."

Mentì, sperando che Eren non fosse in grado di vedere la bugia scorrergli negli occhi e sul volto. Non poteva rivelargli che in realtà, la ragione per cui lo aveva evitato era la paura che lo paralizzava; il corvino si sentiva tremare dentro per la mera presenza di quel ragazzo impossibile accanto a lui. Il castano lo spiazzò per l'ennesima volta quando gli sorrise di nuovo in quella maniera dolce che gli annodava lo stomaco.

"Spero che adesso tu stia meglio, non ti fa bene prendere freddo e uscire di casa se sei stato male."

Levi dovette affondare il viso il più possibile nella sua sciarpa per nascondere un principio di rossore che sentì imporporargli le gote a quella premura. Quando parlò nuovamente, la sua voce filtrata dal tessuto spesso era leggermente ovattata. 

"Sto bene, altrimenti non sarei uscito. Ora, vuoi dirmi dove mi vuoi portare?"

"No, perché è una sorpresa. Devi solo avere pazienza per un altro po', non è molto lontano da qui"

Il corvino fece schioccare la lingua sul palato, indispettito; Eren era stato irremovibile nel dispensargli anche solo un piccolo dettaglio su quell'uscita si era limitato a farsi dare l'indirizzo di casa di Levi e a passarlo a prendere all'orario stabilito. Il castano gli rivolse un altro sorriso capace di spegnere il Sole mentre cominciarono a camminare per le vie della città sotto il grigio del cielo invernale, completamente coperto da nuvole. L'aria era gelida, ma quella settimana non aveva nevicato e si erano sciolti anche gli ultimi cumuli bianchi ai lati della strada. 

Levi non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma adorava camminare al fianco di Eren. Forse perché nel corso dei mesi quelle loro passeggiate tranquille erano diventate una specie di rituale che gli infondeva serenità e lo faceva sentire leggero, forse perché il castano pareva spegnere il vulcano di energia che gli ribolliva dentro e si godeva il momento, in silenzio. Solo il suono dei passi sull'asfalto rompeva la quiete, misto a quello dei loro respiri che producevano piccole nuvole di condensa nell'aria e al ticchettare immaginario degli ingranaggi dei pensieri di Levi, segretamente impantanati in un paio di iridi smeraldine. E il corvino ne era sicuro, anche Eren amava quelle camminate tanto quanto lui; lo vedeva nel modo in cui la pacatezza gli calava sul volto e gli addolciva ancora di più i bei lineamenti armonici in completo rilassamento e pace. Proseguirono per le stradine fitte di case, e brividi caldi percorrevano il corpo di Levi ogni volta che avvertiva lo sguardo del castano posarsi su di sé, leggero come una piuma e ardente come l'Inferno. 

Non passò molto prima che i bassi potenti di musica in lontananza giunsero alle orecchie di Levi. Il corvino scrutò l'orizzonte aggrottando le sopracciglia e scorse in lontananza le punte degli alberi maestri delle barche a vela, illuminate ad intermittenza dai bagliori di luci colorate e i profili costosi di qualche yatch. Fu in quell'esatto momento che gli tornarono in mente le parole origliate da sua madre mentre era al telefono con un'amica riguardo alla festa al porto di Shiganshina. Era una ricorrenza annuale, e Levi non aveva mai capito quale fosse il motivo di quella baldoria, né tantomeno il perché montassero delle giostre per mimare una sottospecie di Luna Park, per giunta in pieno inverno. 

"Mi stai portando alle giostre? Ti sembro per caso un moccioso?"

"Oh, che guastafeste che sei!" 

Eren finse un lamento scocciato e rifilò al corvino una spinta giocosa sulla spalla che gli fece appena perdere l'equilibrio. Levi rispose alla provocazione con quella che sarebbe dovuta essere un'occhiataccia torva così glaciale da freddarlo sul posto, ma che finì per essere uno sguardo divertito e malizioso. Lo spinse a sua volta, forse per non rovinare l'atmosfera che avevano creato e segretamente per gettare un po' d'acqua sul fuoco del desiderio di toccare il castano che gli faceva prudere le mani e spegnerlo appena. Eren rispose con un sorriso che fece una cosa strana alla bocca dello stomaco del più basso e gli fece avvertire le gambe molli, come se le sue ossa avessero d'un tratto acquisito la stessa consistenza molliccia della gelatina. Levi deglutì a vuoto e distolse lo sguardo dal quel bel volto che lo stregava, arrossato sugli zigomi alti e sul naso a causa della temperatura fredda. 

Continuarono a dirigersi verso il porto in silenzio e più si facevano vicini, più i bassi della musica gli si insediavano nella casse toraciche e li facevano tremare da dentro, spezzati di tanto in tanto dalle urla degli avventori che avevano tentato le giostre più estreme, quelle su cui Levi non avrebbe mai messo piede per nessuna ragione al mondo. Gli si contorcevano le viscere soltanto nel guardare quella sottospecie di braccio rotante completamente illuminato di verde, che roteava e si innalzava nel cielo. Chi è che aveva il coraggio di salire volontariamente su un aggeggio infernale del genere, sapendo che l'imbracatura magari non avrebbe retto e che qualche bullone della struttura poteva essere non fissato a dovere? Follia, pura follia. 

Camminarono fino a che si ritrovarono a costeggiare la banchina del porto e l'odore salmastro e deciso dell'acqua di mare colpì i loro nasi, fino a che la musica si fece quasi assordante. Eren indossava il suo solito sorriso in volto mentre faceva saettare lo sguardo dalla pista per le macchinette a scontro alla ruota panoramica, soffermandosi sulla grossa nave pirata che ondeggiava luminosa e salpava in cielo. Le sue iridi avevano un che di meravigliosamente puerile, mentre osservava quelle giostre con un'espressione in volto che a Levi ricordo quella di pura innocenza dei bambini. Di nuovo, era davanti ad una sfumatura di Eren che lo aveva stupito e che ancora non era riuscito a cogliere. Il carattere del castano era complesso da decodificare, e il corvino non era sicuro che ci sarebbe mai riuscito; ogni volta che pensava di aver afferrato a pieno la sua personalità e di averla definita nella sua mente, ecco che usciva alla luce del giorno un lato nuovo e dalle sfumature uniche, mai banale e sempre sorprendente. E sì, Levi era stupito da come una cosa così semplice come un semplice parco di attrazioni di fortuna potesse illuminargli il viso in quel modo che lo rendeva unico. 

Il corvino lo vide girarsi verso di lui e catturare il suo sguardo con un magnetismo impossibile, vide le sue belle labbra appena screpolate dal freddo aprirsi e articolare parole che mai giunsero al suo udito, sopraffatte dai bassi potenti della musica. Quando Eren lo guardò con espressione interrogativa, il più basso scosse il capo per fargli intendere di non aver afferrato il suo discorso. Di certo non si aspettava che il castano si chinasse alla sua altezza e gli si avvicinasse tanto da sfiorare il suo padiglione auricolare col naso gelido, stordendolo e letteralmente investendolo con il suo fiato caldo e col suo profumo di colonia maschile mista alla nota dolciastra del suo bagnoschiuma alla vaniglia. Eren gli colò la sua voce melliflua direttamente nell'orecchio.

"Hai fame? Io ho un buco nello stomaco, e non mi dispiacerebbe mettere qualcosa sotto ai denti."

Levi sperò che Eren non si accorse che il lungo brivido che lo aveva fatto scuotere visibilmente, fosse stato a causa di quella vicinanza che per qualche istante gli aveva mandato in tilt ogni circuito nervoso e lo aveva paralizzato sul posto. Quando il castano si allontanò e lui poté tornare a respirare normalmente – e maledetto il suo cuore, che faceva un fracasso assordante dentro la sua cassa toracica! – annuì appena e si nascose il più possibile sotto il cappuccio della felpa per camuffare l'imbarazzo. Dio, quanto odiava che il suo corpo avesse certe reazioni inopportune! Non riusciva proprio a sopportarlo. 

Si diressero verso le bancarelle ricolme di cibarie esposte, e furono di nuovo brividi caldi e freddi al tempo stesso quelli che scossero ogni fibra nel corpo di Levi quando il castano gli soffiò nuovamente nell'orecchio; le sue dita delicate si insinuarono sotto al cappuccio per scoprirgli di poco il volto e lo sguardo metallico e lambirono appena la pelle sensibile del viso pallido del corvino in maniera quasi impalpabile. Levi non era sicuro che avrebbe dovuto sentire tanto caldo in una serata in cui il termometro sfiorava lo zero termico, ma si sentì avvampare. 

"Cosa preferisci mangiare?"

Levi ebbe la forza soltanto di puntare il proprio dito nella direzione di un camioncino degli hot-dog, sperando con ogni fibra in corpo che il castano non si accorgesse della sua tensione. Tensione che tutto d'un tratto scivolò alle stelle e rischiò di paralizzarlo, quando Eren fece scivolare la mano guantata nella sua, stringendola per guidarlo verso la bancarella. Se avesse continuato in quel modo, il corvino non era sicuro che il suo stomaco e il suo povero cuore non avrebbero retto fino a fine serata; il castano non sembrava neanche consapevole del tumulto di sensazioni che era capace di scatenare nel petto di Levi. 

Lasciò che Eren ordinasse per lui, insistette per pagare la sua parte ma ogni tentativo fu vano e si infranse sul bel sorriso luminoso del più alto; mangiarono seduti su una grossa panca in legno, abbastanza lontana dalle giostre affinché i bassi invadenti della musica non li tormentassero e gli lasciassero un po' di respiro. Conversarono di quello che non si erano detti in quella settimana in cui erano stati lontani: dalle lezioni di Eren in facoltà alla presunta influenza di Levi, -su cui il corvino dovette inventarsi qualche balla bella e buona-, poi ancora del corso di Dinamiche di cui il castano si offrì di passargli volentieri gli appunti che aveva preso in quei giorni. Quando finirono il loro pasto, ormai anche l'ultimo chiarore del giorno aveva abbandonato il cielo saturo di un blu intenso e cupo, e le luci intermittenti e colorate caricavano gli occhi del castano di migliaia sfumature capaci di mozzare il fiato; mai quegli occhi belli erano sembrati a Levi magnetici come in quell'esatto momento. Il corvino sospirò quando il castano si alzò e gli porse la mano per la seconda volta; fu sicuro che né il cappuccio né la coperta buia della notte furono abbastanza per nascondere l'imbarazzo che gli colorò il volto. L'ennesima scarica di brividi gli percorse la schiena quando le sue dita esili si strinsero attorno al palmo guantato di Eren.

"Da quale giostra vuoi iniziare?"

"Scordati che metto piede su quelle diavolerie. E poi abbiamo appena mangiato, ci tengo particolarmente a tenermi la cena nello stomaco, grazie."

Il castano alzò giocosamente gli occhi al cielo, sbuffando in maniera teatrale. Era determinazione quella scintilla che gli brillava nelle iridi e che Levi trovava tanto affascinante. 

"Allora vorrà dire che inizieremo dalle cose tranquille, così avrai tempo per digerire la tua cena."

Lo rimbeccò giocosamente Eren, offrendogli un occhiolino che il corvino trovò delizioso e che fece perdere un battito al suo cuore. Si lasciò semplicemente trascinare senza opporre resistenza, le parole incastrate in gola a causa della sensazione delle loro dita intrecciate in un tocco lieve ma intenso. Chissà come sarebbe stato, poter stringere quella mano senza la barriera dei loro guanti, percepirne il calore direttamente sulla pelle senza il tessuto ad ostacolarli dal potersi sentire, toccare veramente...

Levi si diede uno schiaffo mentale e si riscosse solo quando il castano si fermò di fronte all'ingresso della pista delle macchinette a scontro, tirando fuori il portafoglio dalla tasca del suo parka verde militare per tirarne fuori spicci da scambiare con qualche gettone. Fu il suo turno di avvicinarsi all'orecchio di Eren e di sfiorarlo col respiro caldo.

"Eren, non ti aspetterai mica che io venga lì su, vero?"

Lo sguardo da cucciolo bastonato che il castano gli rivolse fu abbastanza da costringerlo a mordersi la lingua e fargli rimpiangere le sue parole; Dio, cosa non avrebbe fatto per quegli occhi! Ed erano vicini, così tanto vicini che Levi riusciva a sentire il calore di Eren mischiarsi al proprio. 

"Neanche se ti faccio guidare?"

Eren strinse appena la presa sulla mano del corvino, sporgendo appena il labbro inferiore in un'espressione implorante. Perché, per quale strano motivo proprio non riusciva a dirgli di no? Doveva essersi rammollito tutto d'un botto, per non riuscire a rifiutare di fare un qualcosa di potenzialmente pericoloso che poteva portare a conseguenze imprevedibili. 

"...Andata."

Si costrinse a replicare, ed il sorriso che Eren gli rivolse di rimando fu così luminoso che per poco non lo accecò. Pagò il loro giro opponendosi nuovamente ad ogni tentativo di Levi di tirare fuori anche solo pochi spiccioli dal portafoglio, e quasi lo trascinò in pista col suo classico entusiasmo prorompente di affrontare la vita. 

"Vieni!"

Presero posto all'interno di una macchinetta rossa e il castano lasciò guidare Levi come promesso, lamentandosi di tanto in tanto e sbuffando alla sua guida troppo prudente.

"Non devi evitare le altre macchine, devi andargli addosso!"

"Lo so, Yeager. Ma domani mattina non vorrei svegliarmi con così tanti lividi addosso da sembrare un dalmata."

Eren gonfiò le guance indispettito all'ennesimo tentativo del corvino di schivare un automobilista proprio sulla loro traiettoria, e d'un tratto le sue dita si strinsero sopra quelle di Levi, prendendo all'improvviso comando del volante e dirottando la piccola auto, cogliendo l'occasione ghiotta di far collidere i due piccoli veicoli. Il più basso sobbalzò all'impatto, ma qualunque insulto la sua mente avesse elaborato e la sua bocca fosse pronta a sibilare ad Eren, s'infranse nell'udire il suono cristallino della risata divertita del castano. Si sentì completamente inghiottire da quel suono dolce di miele e dalle iridi di smeraldo che inglobarono le sue, catturandole senza lasciargli via di fuga; Levi non seppe dire per quanto tempo rimase a guardarlo imbambolato e con le labbra appena dischiuse dopo l'impatto. Era bello in una maniera che faceva quasi male all'anima, con gli occhi luminosi e le ciocche castane sciolte che frustavano l'aria, appena smosse da lingue di vento freddo. 

Eren non staccò più le mani dal volante, che rimasero ben strette su quelle del corvino finché non scesero. Levi lo seguì fuori dalla pista col cuore impazzito che gli martellava colpi pesanti in petto e si fece guidare fino alla biglietteria della nave pirata, incapace di opporre resistenza. Fu solo nel momento in cui il castano gli passò il proprio biglietto, nient'altro che una piccola targhetta di un giallo fluorescente in plastica rigida, che il corvino si riscosse.

"Non ci penso nemmeno!"

"Dici così, ma sulle macchinette a scontro ti sei divertito e non provare a negare."

Era vero, indiscutibilmente vero. Levi si era divertito, si stava divertendo contro ogni aspettativa. Non ricordava neanche quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che aveva avvertito una leggerezza tale dentro di sé; erano sicuramente passati anni, e quelle sensazioni doveva averle provate assieme ad Isabel. Ma la nave andava in alto per poi ricadere, pareva voler sfidare il cielo e un senso di vertigine lo colse al solo pensiero di mettere piede su quel galeone pirata costellato di luci colorate, le cui imbracature gli sembrarono misere per una giostra di quelle dimensioni che oscillava come un gigantesco pendolo a una velocità più che sostenuta.

"Non salirò lì sopra, Eren."

"E perché no?"

Levi deglutì quando le iridi impossibili del castano lo catturarono al loro interno; amava e odiava la musica assordante che li costringeva a stare troppo vicini per riuscire a comprendere le parole dell'altro sopra le vibrazioni profonde. Aveva acconsentito alle macchinette a scontro e alla fine aveva pure lasciato che fosse Eren a guidare, - seppur con le mani sulle sue - ma sfidare la sorte sulla barca era decisamente troppo. Era imprevedibile quello che poteva succedere su una giostra come quella, i cui pezzi venivano assemblati all'occasione alle fiere di paese e trascinati per tutta la nazione all'interno di grossi tir. Levi non era sicuro neanche che avessero montato tutti i bulloni che servivano a tenerla correttamente in piedi; quanto era facile perdere un pezzo fra quei numerosi spostamenti?

"Potrebbe staccarsi e cadere."

Le parole gli lasciarono le labbra in automatico, e Levi dovette quasi urlare per sovrastare i bassi potenti della base musicale che imperversava. 

Potrei morire, e se la mia vita finisse qui, forse a me non interesserebbe troppo, Ma cosa succederebbe a mia madre? E ad Hanji, invece? Quella barca non vale il rischio, Eren. È imprevedibile. 

Il castano lo osservava in silenzio, con le sopracciglia aggrottate e la bella bocca appena dischiusa, come se riuscisse a frugare fra i pensieri di Levi e a leggerli soltanto guardandolo. E forse lo fece davvero, perché per l'ennesima volta le parole che gli rivolse lasciarono il corvino destabilizzato; Eren doveva essere una specie di sensitivo. Doveva aver percepito la sua titubanza, il suo terrore dell'imprevedibilità che gli imponeva di tenere i piedi ben saldi a terra e di non mettere piede sulla nave per il giro successivo.

"Oppure un pazzo potrebbe aprire una sparatoria e fare fuoco a caso fra la folla mentre io sono sulla nave e tu a terra, e io mi salverei proprio per esserci salito sopra."

Il castano gli sventolò sotto al naso la piccola targhetta in plastica colorata e Levi serrò la mascella, imponendosi di prendere un respiro profondo per immettere quanta più aria possibile nei polmoni. Lo odiava, oh se lo odiava quando gli scombussolava le certezze e gli capovolgeva la vita in quel modo, spolverandogli nella memoria nuovi punti di vista che il corvino si costringeva ad ignorare!

"Sei fatalista, Yeager."

Sibilò a denti stretti, ma ebbe la conferma che le sue parole giunsero ad Eren quando quest'ultimo lo rimbeccò con la sua replica.

"Da che pulpito...! Sono realista, Levi."

Non puoi continuare a privarti di esperienze, di vivere la vita a pieno perché hai paura di tutto.

Quelle parole incise negli occhi smeraldini del castano non ebbero mai fiato, ma giunsero comunque dritte e precise come un dardo al cuore di Levi e trovarono dimora nel suo petto.

Lee... Quello che fai tu non è vivere. Lasciati andare, ti prego.

Il corvino non era più capace di dire di no a quelle iridi; Eren lo rendeva vulnerabile in una maniera strana che lo faceva sentire esposto e lo faceva tremare, ma allo stesso tempo gli faceva odorare un sentore di libertà. La grossa nave smise di oscillare e l'addetto sganciò le imbracature degli avventori, che la abbandonarono coi capelli scompigliati dal vento e ridendo scherzosi. 

"Tocca a noi!"

Con le dita ancora intrecciate, Eren lo trascinò a bordo del grosso galeone. Il castano sembrava fremere nell'anticipazione di provare l'ebbrezza data dalla giostra e per qualche motivo che non riuscì a spiegarsi, Levi trovò il suo entusiasmo contagioso; gli si insinuò sotto pelle a tal punto che neanche fece caso alla barra di metallo che venne ancorata ad un uncino e stretta al di sopra delle sue gambe. Sobbalzò quando si sentì oscillare piano, iniziare ad ondeggiare ad un ritmo sempre più veloce e intenso. La mano di Eren stringeva ancora la sua, e il castano lo guardava con quegli occhi così maledettamente accesi che Levi si sentì annientare dal suo sguardo per l'ennesima volta in una serata.

"Sei teso come un pezzo di legno. Lasciati andare, Lee."

Le labbra di Eren quasi gli sfiorarono l'orecchio per mormorarvi all'interno quelle parole dolci e il pollice coperto del castano iniziò a tracciare carezze circolari sul dorso della mano del corvino mentre continuavano a salire, a salire e a salire ancora, oscillando in un modo che aprì un vuoto nello stomaco di Levi e lo caricò di adrenalina. Fu quasi surreale la sensazione di quella giostra a pieno regime che sfidava il cielo, delle lingue di vento che li facevano rabbrividire. Le ciocche castane di Eren frustavano l'aria, le palpebre erano abbassate mentre si godeva la sensazione di pura beatitudine carica d'elettricità del lasciarsi manovrare in quella maniera. Pareva quasi di volare.

Levi si sentiva come in bilico sull'orlo di un burrone. Desiderava restare in equilibrio, mantenere intatte e solide le sue convinzioni e il suo modo di vivere, ma desiderava anche lasciarsi cadere e sprofondare al suo interno. Semplicemente cedere senza opporre resistenza a tutto quello che aveva rinnegato per anni, rompere con la forza le sbarre della sua gabbia dorata, farsi largo nella vita vera con le unghie e con i denti. E forse un po' lo perse l'equilibrio, quando Eren lo guardò con le sue iridi sature, perché Levi rise. 

I bordi delle labbra sottili e screpolate dal freddo si piegarono all'insù, due fossette presero posto sulle sue guance pallide e si lasciò andare una risata semplice, cruda e viscerale, il cui suono appena ruvido era rimasto sopito per anni. Il corvino seppe che Eren lo avvertì forte e chiaro dentro l'anima, perché dopo un primo momento di sbigottimento in cui gli rivolse uno sguardo grande di sorpresa, iniziò a ridere anche lui. Quanto aveva odiato Levi quel suono mellifluo, nei primi tempi in cui il ragazzo aveva iniziato a seguirlo come un'ombra? Lo aveva detestato nel senso più stretto del termine, ne era addirittura stato disgustato, ma in quel momento gli sembrò la musica migliore. 

Erano solo loro due, a ridere come ragazzini con le dita saldamente intrecciate e lo sguardo di Eren che vagava dai suoi occhi alle sue labbra, su una giostra che gli faceva quasi sfiorare il cielo; Levi non si curò nemmeno di rimettersi il cappuccio sul capo quando una folata di vento glielo tolse, liberando le ciocche d'inchiostro. E forse stava sfidando i cieli a non essere con i piedi per terra, ma non gli importava.

Ridevano ancora quando il loro tempo sul galeone giunse al termine, continuarono a ridere quando il castano trascinò Levi su un trenino per bambini e quando lo costrinse a salire sulla ruota panoramica per guardare Shiganshina illuminata dall'alto, brulicante di vita e di auto che scorrevano veloci sulle strade. Si era lasciato trascinare da Eren su quasi tutte le attrazioni del piccolo Luna Park improvvisato senza opporre resistenza, aveva lasciato pure che il castano gli offrisse dello zucchero filato che consumarono insieme, condividendolo. Quella serata gli sembrò la cosa più vicina alla vita che avesse provato in quattro lunghi anni, scherzarono fino a quando l'orologio non segnò la mezzanotte passata; era stato bello per Levi permettersi di sognare, fingere di non portare l'esistenza come un fardello troppo pesante sulle spalle. Tutto quello svanì all'improvviso come se non ci fosse mai stato nel momento in cui iniziarono ad abbandonare il porto, lasciandosi alle spalle lucine colorate e bassi potenti. Le orecchie di Levi fischiavano a causa della musica assordante che le aveva seviziate per ore.

Di colpo ogni cosa aveva perso colore, la quiete tornò ad investirlo con una prepotenza che lo intontì. Era scialba quella sensazione, completamente insipida rispetto a quella adrenalinica che Eren gli aveva direttamente iniettato nel sangue. Il corvino si trovò così disorientato immerso in quel silenzio denso, da arrivare a dubitare che gli eventi di quella sera fossero stati reali. Aveva riso per davvero? Proprio lui, Levi Ackerman? Aveva davvero lasciato che Eren tirasse le corde della sua vita come un burattinaio, anche se per poche ore? Era stata frutto della sua immaginazione anche la carezza che il castano gli aveva lasciato sulla schiena e che lo aveva fatto tremare dentro, quando erano costretti nell'abitacolo stretto e angusto della ruota panoramica? 

"Ti riaccompagno a casa."

La stecca dello zucchero filato nella mano di Eren al suo fianco testimoniava che era stato tutto vero, che quegli istanti che sarebbero per sempre rimasti impressi a fuoco nelle memorie del corvino erano davvero esistiti: erano stati vissuti. Il castano staccò l'ultimo pezzo di zucchero soffice dal bastoncino e se lo cacciò fra le labbra, prima di gettarlo in un cestino poco vicino.

"Stai tranquillo, posso andare anche da solo."

"Non era una domanda."

"Eren, davvero, non c'è bisogno. Posso andare da solo."

La voce di Levi assunse una sfumatura più irritata del previsto, il suo passo si fece più veloce e si calò con violenza il cappuccio sul capo, nel tentativo di lasciarsi Eren e quella serata alle spalle. Non poteva esserci posto per lui nel mondo da cui doveva nascondersi. Si era permesso di mostrarsi a volto scoperto ma non avrebbe dovuto compiere quell'errore, perché tornare alla realtà dopo aver assaggiato la dolcezza di uno spicchio di felicità fu dilaniante a tal punto da fargli urlare l'anima d'agonia. Si sarebbe nascosto, non avrebbe più osato. Eren lo aveva reso debole, lo rendeva debole, ma non avrebbe più ceduto.

"Lee, aspetta! Dove vai?"

"A casa, Eren."

La mano forte del castano si strinse attorno al suo avambraccio, e le sue iridi verdi lo guardarono sgranate, colme di qualcosa a cui il corvino non seppe dare un nome. Vide il labbro inferiore di Eren tremare quasi impercettibilmente, e si costrinse ad ingoiare il groppo che gli chiuse la gola a quella vista.

"Ho fatto qualcosa che non dovevo? Ti prego, dimmelo se è così, Levi..."

Mi hai fatto quasi vivere, Eren, e cazzo se mi è piaciuto. 

Il corvino scosse la testa e fece per divincolarsi ma il castano strinse la presa, intenzionato a non lasciarlo andare. Erano così vicini da far fisicamente male allo stomaco.

Io però non me lo posso permettere.

"È per questo, Lee? Ti fa schifo...?"

Levi era naufrago nel mare di smeraldo delle iridi di Eren quando il castano gli carezzò piano il braccio, risalendo lungo la spalla per lambire lo zigomo con le dita guantate. Quello sguardo boschivo era magnetico di una tempesta cupa, gridava sofferenza e paura; Levi si ritrovò col fiato mozzato. Come, come poteva Eren pensare che volesse scappare via per lui, come poteva guardarlo con tutta quell'afflizione, come se qualcosa lo stesse torturando e consumando dall'interno? Come poteva lui, creatura perfetta, credere che le sue attenzioni fossero poco gradite a Levi, quando in realtà era tutto il contrario? Il corvino anelava quei tocchi e quelle carezze con un desiderio prorompente che gli faceva quasi gridare il cuore in petto. 

Forse fu proprio una sorta di forza magnetica ad attirarlo ancora di più ad Eren, un qualcosa di sconosciuto e più grande di loro che caricava i loro corpi d'elettricità pura e li faceva vibrare, come poli opposti. Eren gli aveva abbassato il cappuccio della felpa di nuovo, lasciandolo esposto allo sguardo onnisciente dell'Universo, e le sue dita continuavano a vagare dallo zigomo destro alle ciocche corvine. Come poteva pensare di disgustarlo, quando tutto quello che Levi voleva era toccare la sua pelle del colore del caramello e ricambiare le sue carezze? E allora il corvino lo fece, si sfilò un guanto e le sue dita raggiunsero la guancia di Eren, saggiandone sotto i polpastrelli la consistenza liscia e perfetta; sembrava ardere come brace. 

Sguardi allacciati, argento liquido fisso e impantanato in due pozze smeraldine; tocchi fugaci, quasi timorosi. Il tempo perse significato, lo spazio perse consistenza. Esistevano solo loro, nella loro piccola bolla isolata da tutto, talmente vicini da avvertire il calore corporeo dell'altro attraverso la stoffa dei vestiti. Eren all'improvviso gli prese il volto fra le mani con una delicatezza che gli scosse l'anima, e il suo sguardo saettò veloce dagli occhi alle labbra di Levi più volte, carico di una disperazione e di un'intensità tale che il corvino se ne sentì annientare. 

Fallo

Non farlo

Ti prego, fallo. Ho bisogno di te

Allontanati, Eren.

Fallo, fallo, fallo.

Profumava davvero la libertà, e aveva l'odore dell'aria fresca e salmastra che si infrangeva sul viso di Levi, la consistenza morbida e impalpabile delle labbra di Eren sulle sue e il sapore dolce dello zucchero filato. E allora Levi si lasciò scivolare oltre l'orlo del precipizio abbattendo ogni difesa, si lasciò baciare e lasciò che la bocca calda, umida e tremante del castano prendesse il possesso della sua, guidandola in una danza dolcissima che gli spezzò il fiato in gola e gli sollevò il peso dell'esistenza dall'anima. Le sue dita trovarono posto fra i capelli di Eren fra sospiri spezzati e schiocchi bagnati e si intrecciarono alle ciocche color cioccolato; Levi lo attirò a sé quasi con violenza, come a volersi fondere col castano nel tentativo di creare un unico corpo per ospitare le loro anime intrecciate. Il castano era inesperto e impacciato nei movimenti, ma le sue carezze incerte furono quanto di più perfetto e giusto il corvino avesse mai sperimentato in vita sua, e unite ai loro odori mischiati gli diedero alla testa. 

Si lasciò intossicare completamente da quelle belle labbra morbide, perfetta marionetta fra le mani di Eren che tendevano le corde del suo cuore a suo piacimento e lo fecero tremare, finché proprio il castano non interruppe il loro contatto e lo scrutò da sotto le lunghe ciglia nere coi suoi occhi impossibili, che riflettevano la luce fioca dei lampioni posti sul bordo della strada. Fu in quel momento, col muscolo cardiaco che gli martoriava il petto in pompate talmente forti che gli rimbombavano sorde nelle orecchie, col volto imporporato d'imbarazzo e le labbra lucide di saliva e appena gonfie, che il corvino seppe di aver vissuto per davvero. L'aveva fatto, e le sensazioni che gli misero in tumulto in petto rischiarono quasi di farlo impazzire, lo caricarono di un terrore che lo costrinse all'iperventilazione. Sciolse bruscamente l'abbraccio scomposto con Eren, ogni fibra in corpo tesa quasi al punto di rottura e pronta a lacerarsi sotto il peso delle conseguenze delle sue azioni. Aveva colto il frutto proibito, l'aveva morso e si era condannato, perché non avrebbe mai potuto averlo e quell'assaggio gli sarebbe stato fatale. Eren era vita, e lui non poteva concedersi di vivere, non quando lei-

"No, Lee, ascoltami. So a cosa stai pensando, è sbagliato. Non scappare..."

Il castano doveva averlo visto il terrore nei suoi occhi per rivolgergli quelle parole, e doveva sicuramente aver avvertito lo stesso freddo nell'anima che aveva ghiacciato Levi dall'interno quando avevano sciolto il loro abbraccio. Il povero cuore del corvino non sopportava di vedergli quell'espressione di pura afflizione dipinta in volto; deglutì a vuoto, costringendosi a rompere anche l'incastro perfetto delle loro iridi. 

"No, non lo sai, Eren. I-Io non posso! Tu mi fai sentire cose che non dovrei provare, mi fai vivere, cazzo! Lei non c'è più, io non posso, non mi merito...-"

Sbottò Levi con voce rotta, sentendo la vista farsi bagnata e l'ansia colargli addosso come fuoco liquido, insediandosi viscida dentro di lui; si sentì patetico, miserabile come mai prima di allora. Quando Eren lo prese per le spalle e lo costrinse ad incontrare il suo sguardo, gli occhi di smeraldo erano animati da una luce brillante e i bei lineamenti del volto contratti in una smorfia di determinazione. Il corvino dischiuse appena la bocca e fece per parlare, ma non ne ebbe il tempo.

"È proprio perché il confine fra la vita e la morte è così sottile che devi vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo. Pensi che quello che fai, avere paura di tutto e privarti di essere felice per paura, faccia onore alla memoria di tua sorella, che è stata strappata alla vita troppo presto? Lei vorrebbe davvero questo per te, Levi? O vorrebbe vederti vivere nel vero senso della parola e fare esperienze nuove, avere la forza di muovere il mondo e di rendere uniche le tue giornate, di sentirle dentro e di creare ricordi indimenticabili? Ti ci vedi a novant'anni chino su una sedia o sul tuo letto di morte, Levi, a rimpiangere tutto ciò di cui ti sei volontariamente privato da giovane? C'è il mondo fuori dalla tua gabbia dorata e tu nemmeno te ne rendi conto, accecato come sei dall'autocommiserazione. Sei sopravvissuto, cazzo, sei vivo e questa non è né una colpa né una cosa scontata! Quante persone darebbero qualunque cosa per avere quello che hai tu? Una casa, un corpo sano e bello, una madre che ti ama e un'amica vera che continua a starti alle calcagna perché ti vuole bene e non vuole abbandonarti a te stesso. Hai ragione se vieni a dirmi che la vita ti ha tolto troppo, ma ti ha dato anche tanto e tu non riesci a vederlo. Mettiamola così, a parole tue: sei un insignificante ammasso di carbonio organico, Levi, e per l'Universo probabilmente è davvero come dici tu. Sei irrilevante, non vali la pena e non conti nulla; tutto va avanti e si muove secondo leggi più grandi di noi e che non riusciamo a controllare, ma sai qual è il bello di questa cosa? Che nel piccolo, nell'infinitesimamente piccolo del cosmo, tu conti. Perché su questa terra, in una città probabilmente insignificante, c'è qualcuno che fa parte del tuo microcosmo: altri ammassi di carbonio organico come te per i quali tu sei importante e che ti gravitano attorno come i massimi sistemi. Sei importante per tua madre, sei importante per Hanji, sei importante per me. E non mi importa se dopo questo discorso tenterai di scappare e di tagliarmi fuori dalla tua vita, perché non te lo lascerò fare, non ti lascerò barricarti in casa a far finta di condurre un'esistenza degna. Puoi vivere, Levi! Vivi, fallo per lei, per tutte quelle persone che vorrebbero ma non possono. Vai a correre al parco e fallo per chi è seduto in carrozzina, guarda i colori della tua quotidianità fino a macchiartici l'anima per chi è cieco, ama finche puoi, dona te stesso agli altri e lascia che gli altri si donino a te: non c'è niente di più bello, Lee... Morirò un giorno e morirai anche tu, è inevitabile, ma non lasciare che questo ti paralizzi..."

"E-Eren, io..."

"Non scappare da me, ti prego. Dimostriamo che, nonostante tutto, vale davvero la pena vivere. Ho visto mia madre morire, Levi; si è spenta davanti ai miei occhi, piena di tubi per respirare e sedata con una dose di morfina indicibile. Ho visto la morte in faccia e ho respirato la sua stessa aria mentre se l'è portata via, ho addirittura desiderato che prendesse me e non a lei in quel momento, che mi portasse via con sé e che mia madre si risvegliasse senza quel male bastardo nel corpo. Ho visto lo sguardo del medico subito dopo la prima ecografia con cui avevano identificato la massa tumorale, ho visto il suo volto perdere colore e mutare in una maschera di spavento. "Cinque mesi", aveva detto a me e papà, e cazzo se ci aveva preso. Ho maledetto la vita in tutti i modi possibili, mi sono rifiutato di credere di non poter fare nulla se non starmene a guardare il suo corpo che si deteriorava giorno per giorno, che cadeva a pezzi sotto i miei occhi. E lo sai anche tu, che l'impotenza in questi casi ti logora dentro neanche fosse acido. L'ho vista nella bara, e credimi se ti dico che a distanza di anni, la visione di lei immobile e distesa su quel lenzuolo di raso bianco, è la prima immagine che mi si stampa nei pensieri non appena chiudo gli occhi prima di addormentarmi. Eppure cosa mi ha insegnato tutta la sofferenza che la mia famiglia si porta dietro? Lo sai quanto tempo io, mio padre e mia sorella abbiamo messo per definirci di nuovo una famiglia, dopo la sua morte? Carpe diem, Levi, per qualunque cosa: cogli il fottuto attimo. Vuoi viaggiare? Fallo. Se cade l'aereo, almeno stavi vivendo per davvero, stavi esplorando il mondo esterno al di fuori dei muri della tua camera. Sei libero, Levi, e la libertà è il dono più grande. Sei libero di vivere... Non nasconderti più dal mondo, ti prego..."

Levi si accorse delle lacrime che gli rigavano gli zigomi soltanto quando sentì le dita di Eren asciugarle piano, con carezze circolari del pollice lente e accorte. Si era tolto i guanti, e il contatto pelle a pelle con le sue mani calde e grandi fece rabbrividire il corvino, che non smise nemmeno per un istante di vergognarsi della sua vulnerabilità, del non essere stato in grado di contenere il pianto e le troppe emozioni che avevano preso forma liquida. Un singhiozzo strozzato lasciò la sua gola senza consenso e preavviso, e fu allora che Eren lo attirò a sé, stringendolo forte contro il suo petto e donandogli tutto il calore di cui era capace; Levi ricambiò l'abbraccio, artigliandogli le spalle con disperazione e affondando il volto nella stoffa del parka verde militare del castano, che gli sussurrava piano e gli posava delicati baci leggeri come piume fra le ciocche d'inchiostro.

"Shhh, Levi... Ci sono io, va tutto bene."

Il corvino smorzava lamenti rotti in quell'abbraccio violento in cui pareva scomparire, ed Eren tentava di scacciare l'onda delle sue emozioni carezzandogli piano la schiena. Lasciò che Levi si calmasse, attese fra un bacio schioccato su uno zigomo pallido e tocchi fugaci che il suo respiro si facesse regolare e non lo lasciò andare neanche allora. Levi sospirò, prima di puntare i suoi occhi gonfi e arrossati nelle gemme preziose di Eren; la sua voce era ancora tesa e provata dal pianto, tremula e spezzata.

Aveva pianto, si era rotto in quel modo così intimo davanti ad Eren, e non si era mai sentito tanto leggero e protetto prima di allora, come svuotato all'improvviso da ogni peso e libero dalle zavorre che per anni erano state ancorate al suo animo. E chi lo avrebbe mai sospettato, che l'antidoto a quella vita fatta di privazioni e troppe paranoie, sarebbe stato un ragazzo dagli occhi verdissimi e dal sorriso capace di far impallidire il Sole stesso, piombato all'improvviso nella sua vita in una giornata anonima e sterile come tante? 

"Sei irritante da morire. Ti ho sempre trovato insopportabile, sin dal primo istante che ti ho incontrato."

"È questa la tua dichiarazione? Potresti fare di meglio e so che ne saresti capace, Lee."

Per tutta risposta il corvino alzò gli occhi al cielo e fece schioccare la lingua sul palato. 

"Taci, Yeager."

"Fammi tacere."

E un paio di labbra morbide e dolci furono sulle sue. 

 

Sarò gentile, Isabel. Avrò coraggio, te lo prometto.

 

 

Fine.

 
_________________________
 

Ringraziamenti

Io questa storia non l'avrei mai voluta scrivere, ma è stata necessaria. Non era neanche una di quelle che avevo nelle bozze, ma è nata – diciamo così – per caso e proprio per necessità.

Una mia amica è venuta a mancare ad ottobre nello stesso modo di Isabel, e per me e il mio gruppo di amici è un lutto tanto, forse troppo, difficile da metabolizzare. Aveva ventuno anni, io e lei eravamo completi opposti ed era la persona più gentile di questo mondo; i suoi organi hanno salvato tre persone, e sarò per sempre grata ai suoi genitori per la loro scelta. Se poi mettiamo in conto che io faccio letteralmente schifo a metabolizzare i lutti, ecco che ciccia fuori "The Laws Of The Universe", perché se non so fare qualcosa, nel dubbio scrivo, scrivo sempre. Questa storia racchiude i due lutti che proprio non mi vanno giù, e cerca di dare più o meno un senso al fatto che non c'è colpa nel sopravvivere a qualcuno, e che la vita in ogni caso non si può fermare perché qualcuno è morto. Alla fine, è solo il ciclo naturale degli eventi, per quanto a volte sia crudele. Più facile a dirsi che a crederci davvero, eh? Lo so, ma ci sto lavorando. 

Nonostante tutto, questa storia è la mia preferita fra quelle che ho scritto e diventerà una long con personaggi originali, che ho intenzione di provare a sottoporre a qualche editore (e lì col cavolo che potrò presentare i capitoli sgrammaticati come mio solito, mannaggia!) e che quindi non pubblicherò su Wattpad o EFP. Nel caso ci sia qualche disperato che mi accetta, vi faccio un fischio. 

Volevo solo dire grazie a tutti voi che avete dedicato tempo a questa storia, grazie a Giulia, che ha ascoltato il plot per prima e i miei audio su WhatsApp lunghi 20 minuti (sono una persona ORRIBILE e non mi pento) e grazie a te, amica mia, per la lezione di vita. Sarò gentile e avrò coraggio, come Levi. 

Non mi dilungo troppo, ancora grazie mille a tutti e alla prossima!

 

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Capitolo 8
*** Un anno dopo... ***


Ebbene sì, un anno dopo questa storia è disponibile in e-book e cartaceo su Amazon. Avevo bisogno di cominciare il 2021 con qualcosa di positivo, quindi... Eccomi qui. Ce l'ho fatta.

È stato travagliato il percorso di questa mini-long (ho tentato di farne uscire una long vera e propria, fallendo miseramente perché alla fine per me i ritmi di questa storia sono questi e basta) e alla fine è rimasta breve. Cosa cambia quindi dalla storia qui su Wattpad? 

Sono stati aggiunti prologo, epilogo e c'è anche un capitolo in più; inoltre, la storia è stata revisionata per bene (non dovrebbero più esserci errori!), alcune parti sono state modificate e riadattate secondo le esigenze dei nuovi personaggi ed è ovviamente cambiata l'ambientazione. È più figa di prima, insomma. Tipo "The Laws Of The Universe 2.0", per intenderci. 

E qui colgo l'occasione per ringraziare tutti voi che avete sostenuto me e le mie storie, sento di non averlo mai fatto abbastanza. Per me significa tantissimo, non avete idea di quanto.

Vi lascio il link di Amazon nel caso vi interessasse.❤️

https://www.amazon.it/Leggi-dellUniverso-Lilith-Jézabel-Ackermann/dp/B08RR9KXP2/ref=sr_1_1?dchild=1&qid=1611149957&refinements=p_27%3ALilith&s=books&sr=1-1

Se avete due minuti del vostro tempo da dedicarmi, se acquistate il libro/eBook su Amazon, una recensione mi aiuterebbe tantissimo.

P.S.: L'eBook è gratuito se avete kindle unlimited

Alla prossima! ❤️✨

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