Polvere di Vampiro (OBLIVION)

di Quebec
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Cacciatori di Vampiri ***
Capitolo 3: *** Il Piano ***
Capitolo 4: *** Fallimento o successo? ***
Capitolo 5: *** Il Mostro e l'abisso. ***
Capitolo 6: *** Le scuse ***
Capitolo 7: *** La donna e il vecchio ***
Capitolo 8: *** Vuoto esistenziale ***
Capitolo 9: *** Evento nefasto ***
Capitolo 10: *** Ricordi ***
Capitolo 11: *** Il risveglio ***
Capitolo 12: *** Minotauri ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Polvere di Vampiro

 
Una fitta nebbia nascondeva le verdi lussureggianti colline di Skigrand. Netrom Morten, camminava silente e ingobbito sulla strada sterrata che conduceva alla città. Indossava una tunica blu notte col cuppuccio ad ombragli il viso e degli stivali marroni. Era un Bretone dai capelli rasati, gli occhi bianchi e una folta barba bianca allungata fino al petto. Al fianco sinistro un pugnale d'ebano. Durante il cammino, si reggeva al suo bastone magico in grado di paralizzare chiunque. Le mani ringrizzite, il viso magro e solcato da molteplici rughe e gli occhi infossati quasi nascosti dalle folte sopracciglie. Aveva morsi di vampiro ovunque nel suo corpo, ma egli non lo era mai diventato.

Strani rumori provenivano al di là della nebbia. Bisbigli, rami calpestati, foglie mosse dal vento e uno strano ronzio che andava e veniva. Netrom Morten non ne era spaventato. Nella sua vita aveva visto di tutto. Quei suoni lo accompagnavano durante il suo tragitto, interrompendo quel silenzio che regnava sovrano nella sua vita. Poi arrivò in vista alla porta maestra di Skingrad con due torri che si ergevano ai lati. Cinque teste protette da elmi d'acciaio sbucarono fuori dai parapetti. Tre di loro avevano in mano archi di ferro.
"Chi va là?" Disse una voce provenire da sopra le mura, ma Netrom Morten non seppe dirsi chi era.
"Sono un viandante. Sto cercando riparo per la notte." Rispose Netrom Morten, scrutando i visi dei soldati quasi celati dagli elmi.
"Non vogliamo altri mendicanti qui!" Urlò la stessa voce. "Vattene via!"
"Per dove?" 
"Non sono affari miei!"
Un arciere prese dalla faretra una freccia d'acciaio, la mise nella cocca e mirò il Bretone.
"Il mio amico qui, non è molto paziente." Disse la stessa voce, e si udirono in coro grasse risate.
"Chiedo venia." Rispose Netrom Morten. "Andrò per la mia strada." e si voltò per andare via.
L'arciere tolse la freccia dalla cocca, mentre la stessa voce urlò "Dii hai tuoi amici di non venire qui a chiedere l'elemosina! O riempiranno i cimiteri della città!" Dai parapeti scoppiarono altre risate.
Il Bretone non fece caso a quelle parole. 

Avevano scambiato Netrom Morten per un mendicante, ma egli non lo era affatto. Aveva una enorme fortuna nascosta in una casupola di legno al Porto Imperiale. Risparmi di una vita che avrebbe utilizzato solo in caso di necessità. Ma arrivato a un certa età, non sarebbe stato in grado di spenderli tutti quei septim. La verità era ben altra. Molto tempo fa aveva preso con sé un apprendista; un giovane ragazzo imperiale troppo curioso e per nulla riflessivo. Per Netrom Morten era diventato come un figlio, e tutti i suoi averi sarebbero finiti nelle sue mani quando i Divini lo avrebbero accolto per l'eternità nel loro freddo abbraccio. Ma un giorno quel ragazzo scomparve. Di lui non si seppe più nulla. Netrom Morten lo cercò per tutta Cyrodiil, elargendo danari a mendicanti e avventurieri nella speranza di trovare informazioni utili al riguardo. Seguendo le voci degli informatori, per puro caso, fece la conoscenza del Conte Janus Hassildor nei pressi della Caverna di BloodCrust. Il Conte Janus aveva sistemato personalmente un gruppo di vampiri che minacciavano di dire alla sua gente chi fosse in realtà. Egli spiegò a Netrom Morten che che forse il suo apprendista era morto per mano dei Vampiri, inoltre nella Caverna di BloodCrust aveva trovato un corpo di un ragazzo dissanguato con un medaglione blu al collo. A Netrom Morten gli si gelarono le interiora. Quel medaglione blu glielo aveva regalato per il suo compleanno. Lo proteggeva dal fuoco, poiché il ragazzo voleva perfezionarsi negli incantesimi di fuoco. Seppellì il ragazzo sotto un albero, e pregò per la sua anima. L'amicizia con il Conte Janus, che sospettava fosse un Vampiro, crebbe negli anni. Alla fine lo stesso Conte Janus ammise al Bretone, che era un Vampiro, ma non voleva che Skingrad fosse invasa da succhiasangue o che dicessero che fraternizzava con loro. Netrom Morten lavorò a lungo per il Conte Janus, guadagnando la sua fiducia e creandosi una grande fortuna, finché non si avvicinò alla Negromanzia. Il Conte Janus gli disse che poteva restare, e che gli avrebbe trovato un adeguato laboratorio per i suoi esperimenti, ma decise di andar via, per dedicare tutto il suo tempo alle Arti Oscure in totale silenzio. Tutto questo accadde tredici anni or sono.

Netrom Morten tornò indietro, e gli inquietanti rumori lo seguirono. Nascosto quasi dall'erba alta, intravide un cartello di legno con due frecce che indicavano; Bravil a Sud-Est e Città Imperiale a Nord-Est. Ma dovette avvicinarsi quasi a ridosso per leggere quelle scritte nascoste dalla fitta nebbia, quando il suo stivale cozzò contro qualcosa. Netrom Morten guardò in basso. Vide il cadavere di una donna dai capelli neri e il viso pallido. Gli occhi bianchi spalancati a fissare il cielo senza stelle. Il Bretone dapprima si guardò attorno, poi si chinò verso la donna, sostenendosi sul bastone magico paralizzante con entrambe le mani. Aveva cinque morsi al collo, e tre al braccio sinistro. L'avevano dissanguata. Quando Netrom Morten sfiorò la pelle color neve della donna le sue dita furono pervase da un freddo pungente. I rumori cessarono. Tutto era silenzioso. Il Bretone serrò gli occhi, alzandosi in piedi. Diede rapide occhiate in ogni direzione, anche se la nebbia gli impediva di veder chiaramente. Sentiva addosso una strana sensazione, come se qualcuno o qualcosa lo stesse osservando. Ma tutto taceva, finché sentì il terriccio scricchiolare sotto qualcosa di pesante.
"Chi sei tu?" Sibilò una voce pacata e profonda nella nebbia.
Nortem Morten serrò le dita al suo bastone magico paralizzante, senza rispondergli.
"Mmmh... Un vecchio dalla pelle dura, suppongo." La stessa voce comparve alle spalle del Bretone, che si voltò di scatto. "Il tuo corpo è fragile, ma percepisco un grande potere in te." La voce fece eco in tutte le direzioni, perdendosi nella nebbia.

Gli inquietanti suoni tornarono ad assilare Netrom Morten, che abbassò la guardia. Cadde una leggera pioggierella. Netrom Morten non poteva lasciare la donna senza sepoltura, così tornò indietro a Skingrad.
"Di nuovo tu!" Urlò una voce dai parapetti alla vista del Bretone. "Vuoi proprio morire, eh!"
"Ascoltatemi, vi prego" Disse Netrom Morten abbassando il cappuccio. "Ho trovato una donna morta." Indicò la direzione con un dito. "Mi serve aiuto?"
"Forse sei stato tu a ucciderla!" Un uomo si affacciò. Questa volta Netrom Morten diede una faccia alla minacciosa voce. "O forse menti? In ogni caso non riguarda la Guardia Cittadina!" Poi fece cennò a un arciere di mirarlo, e quello fece come ordinato.
"Ma non può restare per strada." Incalzò il Bretone, poi si ricordò del Conte Janus. Skingrad apparteneva a lui. Come aveva fatto a dimenticarsi di un simile amico? "Fatemi parlare con Conte Janus Hassildor. Ditegli che Netrom Morten vuole parlargli. E' una faccenda seria."
"Hai le orecchie dure, vecchio?" Urlò la guardia. Questa volta il Bretone intravide un pizzetto sotto l'elmo. "Il nostro amato Conte Janus Hassildor, non ha tempo da perdere con luridi mendicanti!" L'arciere tese la corda, pronto a scoccare la freccia. "Se ritorni a tormentarmi, giurò che ti infilzò personalmente! Ti farò morire con le tue viscere in mano! ORA SPARISCI!" Senza ricevere l'ordine, l'arciere scoccò la freccia che si andò a conficcare nel terreno, a un passo da Netrom Morten. Era un avvertimento, ma il Bretone non si mosse. Rimase lì a fissare il capo della Guardia Cittadina, perché era chiaramente il capo vista la sua arroganza.

Netrom Morten fu buttato nelle segrete del torrione dalla pianta rotonda. Un posto lucubre, sporco, nausebondo e buio. La torre era vicino al Castello e si poteva arrivare tramite un camminamento di legno. Alla fine il Bretone aveva ottenuto l'entrata a Skingrad, ma non come aveva sperato. Era stato privato del suo pugnale d'ebano e del suo Bastone Magico paralizzante. La sua tunica blu notte era tutto quello che gli era rimasto, anche perché le guardie non avevano abiti da dargli. Si distese sul pagliericcio, pensando al cadavere della donna inerme all'incrocio. "Non credo che la Guardia Cittadina si sia preso il distrubo di andare a controllare." Si disse fra sé. Qualche tempo dopo sentì la porta della cella aprirsi. Il Carceriere entrò dentro, seguito dal Conte Janus Hassildor. Indossava un abito nero Bordouex con un paio di scarpe con rifiniture dorate e una collona di gioielli preziosi. Aveva i capelli grigistri tirati indietro e dei penetrati e ipnotici occhi rossi che ardevano come fiamme.
"Sì, è Netrom Morten." Confermò Conte Janus al Carciere con tono pacato. "Chi è stato a portarlo qui?"
"Servin Ondus, il Capo della Guardia Cittadina." Il Carceriere abbassò lo sguardo, impaurito dalla sua autorità.
Netrom Morten guardò il Conte Janus, ma egli non sorrise. Si limitò a fissarlo, come se gli stesse scrutando l'anima.

Una volta fuori dalla puzzolente cella, il Carceriere gli restituì il Bastone Magico Paralizzante e il suo pugnale d'ebano. Il Conte Janus Hassildor rimase alla penombra, mentre il Carceriere evitava di guardarlo in faccia. Poco dopo il Capo della Guardia Cittadina fece capolinea nella stanza delle prove, dove si trovavano loro tre. Chinò la testa quando vide il Conte Janus e rimase sorprese nel vedere Netrom Morten con loro. Si levò l'elmo dalla testa, scoprendo i neri capelli ondulati. Tenne l'elmo tra le mani. Era giovane dall'aspetto, si rese conto Netrom Morten, anche se sul parapetto, visto da lontano, sembrava molto più vecchio.
"Hai idea di chi è lui, Ondus?" Disse il Conte Janus rimanendo nella penombra. Solo i suoi fiammanti occhi rossi erano visibili in quella quasi totale oscurità.
"Io... pensavo che..." Balbettò Servin Ondus. Di colpo gli si seccò la bocca.
"Il tuo difetto è che non pensi." Gli occhi rossi nella penombra si restrinsero minacciosi. "Tu credi di pensare, Ondus. Ho sbagliato a farti Capo della Guardia Cittadina. E' chiaro che non sei ancora pronto per una simile responsabilità."
"Sembrava..." Servin Ondus deglutì. "...Sembrava un mendicante... In città..."
"E proprio questo il punto." Il Conte Janus fece due passi in avanti, uscendo dalla penombra. "Non sai vedere al di là del tuo naso. Credi di conoscere la gente solo dal loro aspetto. Nulla di più sbagliato." Gli voltò le spalle per un momento, poi si girò nuovamente. "Sei sollevato dall'incarico."
"Ma... Io..." Servin Ondus accennò uno sguardo al Conte Janus, ma subito abbassò lo sguardò
"Medita su ciò che è successo. Che questa storia non si ripeta mai più, è tutto chiaro?" Disse il Conte Janus guardandolo dritto negli occhi. 
Servin Ondus faticò a mentenere lo sguardo, ma annuì. 
Il Conte Janus Hassildor si voltò verso Netrom Morten. "Mi scuso per questa spiacevole accoglienza, Netrom. Seguimi nelle mie stanze." Senza avere una risposta da Netrom Morten, il Conte Janus lasciò la camera delle prove, mentre il Carceriere e Servin Ondus si scambiarono occhiate cariche di tensione.

Il Castello era immenso. Netrom Morten lo ricordava diverso, anche se lo rammentava vagamente. Due guardie in armatura d'acciao e spade di ferro, erano di guardia alla porta. Mele, fette di formaggio, carne di montone, vino, birra e idromele era sui tre tavoli nel salone principale. Un lungo tappetto rosso ornato con vari disegni era steso sul pavimento di pietra. Un grande quadro che ritraeva un uomo, forse lo stesso Conte Janus, era appeso al fianco della scala che conduceva ai balconi del secondo piano. Solitamente il Conte Janus Hissildor non riceva gli ospiti, anzì, li evitava se possibile. Era un Argoniana di nome Hal-Liurz, che si occupava di ricevere gli ospiti e di prendere appuntamenti con i diversi ceti sociali di Cyrodiil. Ovviamente, il Conte Janus non era quasi mai disponibile per nessuno, eccetto per la Gilda dei Maghi o di qualche urgenza a lui cara, come Netrom Morten aveva capito. Dopo tutti questi anni il Conte Janus non aveva dimenticato il suo buono amico.

Netrom Morten seguì il Conte Janus su per la scala, entrando in una porta alla sua sinistra. Dopo aver salito altri gradini di un corridoio, sbucarono in una stanza rettangolare ornata con fiori, libri, panche, vetrine, cassapanche e scaffali. Superarono un arcata e si ritrovarono in un enorme salone a cui centro si ergevano sei pilastri da due file. Attorno al trono rosso sangue, posto leggermente in alto, vi erano ai lati dei gradini che salivano verso due uscite. 
Il Conte Janus Hissildor si fermò, rivolgendosi al Bretone. "Mi hanno detto che avete trovato il cadavere di una donna, è tutto verò?

"Sì, poco distante da Skingrad." Rispose Netrom Morten. "La donna aveva molti morsi sul corpo. L'hanno prosciugata. Hai avuto notizie di Vampiri in zona?"
"No che io sappia." Il Conte Junus diventò serio. "Questo porterà in città i cacciatori di Vampiri." Si voltò, portandosi una mano al mento, pensieroso. Poi si mise a camminare avanti e indietro.
"E' solo una delle tante probabilità." Disse il Bretone.

"Beh, è una cosa che non deve accadere." Il Conte Janus si voltò di nuovo verso il Bretone. "I cacciatori di Vampiri fanno troppe domande. Domande che porterebbero a me."
"Ma tu non c'entri nulla con la morte della donna."
"Sono un Vampiro, Netrom. A loro non importa chi ha dissanguato quella donna. Se scoprono la mia vera identità, faranno di tutto per uccidermi." Il Conte Janus camminò attorno al trono. "Un Conte Vampiro sarà più glorioso da eliminare, rispetto a un comune Vampiro. E magari i veri colpevoli la passeranno liscia. No... Questa situazione va tenuta segreta. Dobbiamo occuparcene noi. Come i vecchi tempi, lo rammenti?" Il Conte Vampiro si lasciò cadere sul trono.

 

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Capitolo 2
*** Cacciatori di Vampiri ***


Cacciatori di vampiri
 
 
Il Conte Janus Hassildor offrì a Netrom Morten di dormire in una delle camere del Castello, ma il Bretone preferì affittare una stanza alla locanda di Skingrad. 

"Non preoccupatevi." Disse Netrom Morten. "Non voglio approfittare della vostra amicizia."

"Ma voi non l'ho avete mai fatto." Rispose il Conte Janus. "Siete l'unico, nella mia lunghissima vita, che si è comportato sempre con onore nei miei confronti. La vostra lealtà non ha eguali, Netrom."

"E' così anche la vostra amicizia. Mi avete salvato da un branco di vampiri assettati di sangue. Ero così stupido e ingenuo ai tempi" Sospirò, scuotendo il capo "Senza di voi, adesso sarei un cumulo di ossa sparse chissà dove."

"Non dovete ringraziarmi." Il Conte Janus si alzò dal trono. "Vi ho visti lottare contro undici Vampiri insieme, e ucciderne quattro. Voi vi sottovalutate." Gli fece un sorriso, che ad altri poteva apparire inquietante.

"Ma voi avete ucciso il resto dei Vampiri come fossero Granchi del fango."

"Sono un Vampiro, Netrom." Disse il Conte Janus Hassildor, guardandolo con quei penetranti occhi rosso fuoco. "Un Vampiro molto potente rispetto a quelle canaglie. Quegli esseri sono come Troll!" Il tono della sua voce divenne più aggressivo. "Non pensano e agiscono d'istinto, proprio come loro. Vogliono dissanguare qualsiasi essere vivente senza distinzione. Sono una macchia  indelebile per gli Antichi Vampiri!"

"Si dice che Skingrad è rinominata per la presenza costante di Vampiri. E' tutto vero?" Chiese Netrom Morten per curiosità. In verità aveva sentito queste storie fuori dalle mura di Skingrad, come se volessero screditare la sicurezza della città.

"E' tutta una farsa, Netrom." Il Conte Janus gli diede le spalle. "Skingrad è un caposaldo dell'ordine e della giustizia. Le altre città di Cyrodiil mettono in giro voci per macchiare il mio operato. Cercano di infangare tutto quello che ho fatto."

"Quindi è tutta una bugia? Sono invidiosi di voi?"

"Sono frustrati, Netrom." Disse il Conte Janus, voltandosi verso il Bretone. "Sono inutili umani pieni di risentimento e frustrazione. Non sanno risolvere i loro problemi, e cercano in tutti i modi di inabissare i mie sforzi, le mie vittorie, le mie capacità. A me non importa del loro fasullo giudizio. Il mio popolo mi ama. Acclama gioioso il mio nome. Sono felici della loro vita, e della sicurezza che infondo a Skingrad. Chiedete in giro e avrete le vostre risposte." Si avvicinò quasi a ridosso di Netrom Morten. "Ma voi non avete bisogno di questo. Mi conoscete meglio di chiunque altro. Voi non mettete mai in dubbio chi sono e come opero." Fece un freddo sorriso pallido.

Netrom Morten si congedò dal Conte Janus e uscì dalla porta maestra del Castello. Erano le otto di sera. Nel cielo tempestato di stelle, tre lune illuminavano l'oscurità scesa sulla terra. Il Bretone proseguì lungo il ponte di pietra che collegava l'altra estremità della collina con il Castello, con ai lati dieci fuochi che ardevano su delle torce sempre accese. Sotto di esso vi era un burrone alto cento piedi o più. Raramente la gente camminava su per la collina per raggiungere il Castello. Ero un luogo assai inquietante e spettrale visto dalle case di Skingrad, sopratutto quando vi era una leggera nebbia in serata. Nella strade di Skingrad, Netrom Morten vide gente rincasare, andare a bere alle due locande della città, chiacchierare vicino alla Cattedrale, mentre guardie cittadine con aria minacciosa perlustravano vicoli e porte d'accesso nei vari distretti. Nella locanda in cui entrò, vi era molta gente con boccali di birra pieni fino all'orlo. Le cose qui non erano molto diverse da fuori, fatta eccezioni per le guardie cittadine assenti. Delle candele illuminavano la sala su candelabri e su pali di ferro poste negli angoli. Vi era una piccola stanza con una panca e due librerie. Al secondo livello vi erano le stanze che potevano essere affittate per venti septim. Vi era anche un seminterrato, ma era occupato da  mesi o anni da uno eccentrico alchimista. La locanda era un posto carino ed ospitale. Netrom Morten si avvicinò a Erina Jeranus, un Imperiale proprietaria della locanda. Aveva un viso ovale, dolce e delicato con grandi occhi marroni. Portava i capelli biondo cenere raccolti alti a Chignon. Indossava un farsetto di broccato verde, un indumento di seta verde e scarpe di velluto verde.

"Erina, come vanno gli affari?" Esordì Netrom Morten, mentre si sedeva sullo sgabello e metteva i gomiti sul bancone. Poi posò la testa del Bastone Magico Paralizzante contro il bancone.

"Netrom Morten! Da quanto tempo." Rispose Erina con un felice sorriso. "Pensavo fossi morto." Ridacchiò per un breve momento. Pareva che la donna Imperiale avesse un debole per l'anziano Bretone.

Netrom Morten scosse la testa, accennando un lieve sorriso.

"Sai com'è." Continuò Erina. "La gente parla e molte volte inventa storie. Onestamente, non ho mai creduto alla tua morte. Sei troppo cocciuto per morire." Sorrise.

"Raccontami come sarei morto?" Rispose Netrom Morten con curiosità.

"Sbranato da un Leone di Montagna, un Orso e un Troll, mentre si contendevano avidamente il tuo cadavere." Sbuffò la donna Imperiale in un sorriso.

"Magari qualcuno potrà scriverci un racconto al riguardo."

"Ma con un altro protagonista, spero."

"Non sarebbe male essere ricordato come colui che venne conteso e sbranato da tre creature." Netrom Morten tirò su con il naso.

"Ti dovrebbero odiare, e non credo che sia nella loro natura odiare."

"Ma uccidere sì." 

Erina rise.

Cinque strani stranieri entrarono nella locanda, indossando armature in pelle, in acciaio e in ferro e portando spadoni, asce da battaglia e martelli di guerra legati dietro la schiena. Alla loro entrata tutta la gente si ammutolì, distogliendo lo sguardo. I cinque camminarono per i tavoli, tra sguardi sospetti e impauriti della gente. Quando arrivarono al bancone, Erina andò verso loro. Netrom Morten li guardò di sottecchi.

"Salve, sono Erina Jeranus." Disse Erina cortesemente. "Sono la proprietaria della locanda. Posso esservi utile? Volete rinfrescarvi il palato?"

Un Elfo scuro dagli occhi rossi, viso ovale e guance scavate, capelli neri a cresta e con addosso l'armatura di acciaio, fece un passo avanti. Aveva uno spadone d'argento legato dietro la schiena. "Idromele per i miei compagni." Prese una borsa piena di danari e li posò sul bancone. "E delle stanze da affittare." Il suo volto era serio, impassibile.

Erina prese a contare le monete, e quando ebbe finito disse: "Potete restare per un mese. Con cosa pagate l'idromele?"

L'elfo scuro si voltò verso i suoi compagni.

Un orco si fece avanti. Aveva piccoli occhi scuri distanziati, una mascella imponente ed era completamente calvo. Indossava un armatura di ferro, su di un massiccio fisico. Legato dietro la schiena un martello di guerra d'argento. "Con questi!" Grugnì, buttando rozzamente sul bancone una borsa di Septim.

Erina fece un sorriso e contò i Septim. 

Netrom Morten aveva notato che i cinque forestieri avevano solo armi d'argento. E queste armi, in un gruppo del genere, le tenevano solo i Cacciatori di Vampiri. "Il Conte Janus aveva ragione." Pensò. "Avranno saputo della donna dissanguata e sono venuto fin qui per eliminare i Vampiri. Ma chi l'avrà chiamati? Chi li pagherà?" Domande a cui il Bretone non aveva risposte. "Alle primi luci avviserò il Conte Janus."

I Cacciatori di Vampiri si erano seduti attorno a un tavolo rotondo, bevendo idromele. Tutti avevano preso la medesima bevanda, e tutti avevano poi chiesto un piatto con pomodori, patate, porri, lattughe e un anguria. Solo l'orco si fece portare due pagnotte di pane. Bevvero e mangiarono in totale silenzio, scambiandosi solo occhiate fugaci. L'orco grugniva mentre mangiava, e non si capiva se era per il cibo o per il suo modo di respirare. Gli altri della compagnia erano un Argoniano, un Bretone, e un Imperiale. Tutto con lo stesso stomaco affamato e la voglia di scolarsi Idromele per tutta la notte o quasi. Dopo un po' la gente non fece più caso a loro.

Erano le due di mattina. Le persone erano tutte tornate alle loro case, mentre Erina chiudeva a chiave la locanda. Netrom Morten rimase un po' con lei, scambiando quattro chiacchiere. I Cacciatori di Vampiri erano andati a dormire nelle loro camere, e solo l'elfo scuro era rimasto seduto vicino al fuoco del camino, leggendo un libro. Erina si congedò dal Bretone per andare a riposarsi per poi aprire la locanda verso le otto di mattina. Netrom Morten che non aveva mangiato e bevuto niente quella sera, andò a sedersi anche lui vicino al camino, con il Bastone Magico Paralizzante sulle gambe. La sua intenzione era quella di attirare l'attenzione dell'elfo scuro con il suo Bastone. E fu così.

L'elfo scuro dapprima lo scrutò serio, con occhi privi d'espressione, poi gli disse: "Sei un Necromante?"

"Sono solo un vecchio con un bastone." Rispose Netrom Morten con un lieve sorriso.
L'elfo scuro lo fisso inespressivo. "Ed anche un bugiardo."

Il Bretone fu spiazzato da quella risposta diretta e veritiera. 

"Sei un Necromante." Continuò l'elfo scuro, senza levargli gli occhi di dosso. "Perché hai un Bastone Magico?"

"E' solo un inutile bastone di passeggio." Netrom Morten sfiorò il legno del Bastone con le dita.

"Chiaramente non vuoi dirmi la verità." L'elfo scuro serrò gli occhi. "Hai a che fare con i Vampiri che hanno dissanguato la donna fuori dalle mure di Skingrad?"

Netrom Morten rimase sorpreso da quella domanda. "In verità l'ho trovata io. La Guardia Cittadina non mi ha creduto all'inizio, ma se la voce è giunta fino alle tue orecchie, vuole dire che la gente ha parlato."

"Quindi tu sei il vecchio che è stato imprigionato?"

"Per errore in realtà."

"Sei fuggito dalla tua cella o ti hanno fatto uscire?"

"Perché mi stai facendo tutte queste domande?"

"Semplice curiosità."

"Io non credo."

"A me non importa cosa tu credi." L'elfo scuro aggrottò la fronte. "E' morta una giovane donna, qui. Voglio scoprire chi sono i colpevoli."

"Beh, credo che tu sappia già chi sono i colpevoli."

"Vampiri!" Disse l'elfo scuro quasi in un piacevole e sprezzante sussurro, ma il suo sguardo rimase gelido. "Skingrad è circondata da Vampiri. Metà popolazione potrebbero essere Vampira, in realtà?"

"Non credo tu dica sul serio." Netrom Morten si lasciò scappare una brevissima risata.

"Pensi che sia uno stupido?" Ringhiò l'elfo scuro, ma solo il suo tono di voce era minaccioso. Il suo viso rimase come sempre di pietra.

"Certamente, no." Rispose il Bretone. "Chiedo venia, se vi offeso."

"Sai cosa credo, vecchio?" Disse l'elfo scuro. "Che tu voglia sapere cosa ci faccio qui."

"Me l'hai appena detto. Sei qui per trovare e uccidere i Vampiri."

"Vuoi sapere chi mi manda, chi mi paga. Non è vero?"

"Non sono affari miei."

"Se fosse così, non avresti usato il tuo Bastone Magico per attirare la mia attenzione."

"Non è mia intenzione, credetemi."

"Oh, sì che lo è. Da quando siamo qui, non hai fatto altro che spiarci. Ma ti dirò questo." Il tono di voce dell'elfo scuro diventò più cupo. "Skingrad è la città dei Vampiri. E' famosa per questo. Sapete, in passato ci sono stati molti scontri tra Vampiri e Cacciatori di Vampiri nei paraggi della città. Una volta vinceva il male, una volta il bene. Ma negli anni, il male si è amalgamato con il bene. Si è evoluto. Ora è arduo distinguere un volto amico, da un nemico, mi capite?"

"Credo di sì." Rispose Netrom Metron, confuso.

"Negli ultimi vent'anni" L'elfo oscuro proseguì il racconto, ignorando la risposta del Bretone. Almeno in apparenza. "I Cacciatori di Vampiri sono giunti raramente da queste parti. Però, le attività dei Vampiri aumentavano a dismisura, finché misteriosamente cessavano. Chi veniva diceva di aver trovato Vampiri uccisi nelle Grotte, nelle strade, nei boschi, ovunque insomma. Ma chi era questo misterioso eroe che li uccideva? Era qualche Cacciatore di vampiri?"

"Non ti seguo. Cosa vuoi dire?" Il Bretone era più confuso di prima.

"Che forse c'è un Vampiro che uccide altri Vampiri. Qualcuno non disposto a convivere con altri della sua razza. Qualcuno... Che vuole restare nell'ombra." L'elfo oscuro accennò un sorriso, ma era difficile individuarlo in quella glaciale faccia.

"Mmmh, parli di qualcuno in particolare?" 

"Forse si, forse no. Per ora ho parlato troppo."

"Beh, è solo una chiacchiera davanti a un caldo camino."

"Certamente," L'elfo scuro si alzò dalla sedia, guardando dritto negli occhi Netrom Morten. "Necromante." e andò via.


 

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Capitolo 3
*** Il Piano ***


Il Piano

 
"Il Conte Hassildor non può ricevervi."
"Sono un Cacciatore di Vampiri! Esigò che mi riceva, subito!"
La guardia lo fissò per un attimo, poi scoppiò in una risata. "Sparisci!"
L'elfo scuro serrò gli occhi, infuriato, ma dal suo viso non trasparì nulla. "Aspetterò qui."
"Fai come ti pare." La guardia gli voltò le spalle e andò via.

L'elfo scuro era nella sala principale da tre ore, e nessuno si era preso la briga di chiedergli cosa ci facesse lì. Aveva passato il suo tempo seduto ad un tavolo, sorseggiando una bottiglia di vino economico che gli aveva portato una serva. Le guardie andavano e venivano, eccetto per le due guardie alla porta che lo fissavano con sospetto. Si era alzato alle otto, ed era andato da solo al Castello. Voleva incontrare il Conte Hassildor è parlare della donna trovata dissanguata fuori dalle mure di Skingrad, e magari scoprire il perché la gente non parlava mai di lui. Ma aveva perso solo tempo.

Si alzò dalla sedia e si diresse alla porta. Le guardie non gli tolsero gli occhi di dosso, finché non fu nel cortile. Poi attraversò il piccolo pozzo al centro della stradina che portava fuori dalle mura del castello, discendendo un ripido pendio che terminava e svoltava a sinistra verso la città. Appena si accingeva a superare il ponte, incrociò lo sguardo di Netrom Morten, che sembrò sorpreso di vederlo.

Il Bretone sorrise: "Buongiorno. Avete incontrato il Conte Hassildor?"
L'Elfo Scuro lo guardò negli occhi per un attimo, come se volesse strappargli qualche verità celata. "Non ho avuto questo fortuna. Il Conte Hassildor è troppo occupato per ricevere un Cacciatore di Vampiri."
"Potete riprovarci nel tardo pomeriggio." Mentì Netrom Morten, che sapeva che il Conte Hassildor non l'avrebbe mai ricevuto.
"Perderò solo altro tempo prezioso, Negromante." e lasciò sul posto Netrom Morten, varcando la porta Est della città.

 
*****

"Quell'elfo scuro è troppo intelligente."
"La tua identità è al sicuro."
"Per quanto? Un giorno? Una settimana? Quel tizio deve sparire."
"Parli di assassinio?"
Il Conte Hassildor si alzò dal suo trono. "Non proprio." Scese alcuni gradini, andando verso Netrom Morten. "Ho un piano. Dobbiamo solo assicurarci che vada tutto per il meglio."
"Quale piano?" Chiese il Bretone, perplesso.

 
*****
 
L'Elfo Scuro camminava lungo la strada lastricata di pietrisco, incrociando di tanto in tanto lo sguardo dei cittadini che facevano finta di non guardarlo o vederlo. Le guardie cittadine erano poste ad ogni angolo della città; cosa insolita si vociferava tra il popolo. Raggiunse la locanda dove pernottava, e fuori trovò i suoi compagni che chiacchieravano, che quando lo videro, smisero di farlo.

"Il Conte Hassildor non ci aiuterà." Disse l'Elfo Scuro, rivolgendosi a tutti loro.
"Mai fidarsi di un Conte." Grugnì l'orco.
"Nemmeno di un Orco." Scherzò l'Imperiale, facendo ridere tutti, tranne l'Elfo scuro che rimase serio.
"La tua razza è meschina." L'orco si avvicinò alla faccia dell'Imperiale, che resse lo sguardo di sfida.
"Paga dimezzata. Vi avevo avvisati." Disse l'Elfo Scuro, guardando entrambi negli occhi.
"E' colpa dell'Imperiale." Sottolineò l'Orco, corrugando la fronte.
L'Imperiale non rispose, ma non era felice della decisione del Mer.
"Tornando al discorso precedente." Disse l'Elfo Scuro. "Dobbiamo cercare informazioni, trovare la tana dei Vampiri e farli fuori. La gente del posto forse ci aiuterà. No, niente domande! Ora parlo solo io. Il Conte Hassildor potrebbe essere invischiato in questa storia, così come quel vecchio Bretone con cui ho parlato ieri notte. Finché non ne sapremo di più, voglio che vi mettiate a indagare. No! Vi ho detto niente domande! Ascoltate, l'orco e l'imperiale andranno al distretto Città Alta." L'orco e l'imperiale si guardarono tra loro confusi. Poi l'Elfo Scuro continuò: "Il Bretone e l'Argoniano al Distretto Cappella. Ora andate."
L'argoniano e il Bretone fecero come ordinato, ma l'orco e l'imperiale rimasero lì.
"Vi ho detto niente domande." Sottolineò l'Elfo scuro con tono autoritario.
"Non voglio questa donnetta come compagno." Grugnì l'orco.
"Ed io un orco che puzza di letame." Disse l'imperiale.
L'Elfo Scuro, braccia conserte, li pietrificò con lo sguardo. Entrambi partirono per il distretto Città Alta a gambe elevate.

 
*****
 
Erano le undici di mattina a Skingrad. Vi era un cielo limpido e un flebile vento che soffiava da Ovest, scuotendo le fronde degli alberi e dei cespugli. I Cittadini erano in strada per fare compere, o per una passeggiata mattutina. Fuori dalle mura esterne i contadini aravano la terra e raccoglievano l'uva, che poi veniva trasformata nel miglior vino di Cyrodiil e di tutta Tamriel. 

Netrom Morten non era sicuro del piano del Conte Hassildor, ma doveva provarci. Mantenendosi al suo Bastone Magico paralizzante, si diresse alla locanda di Erina, che lo accolse con un sorriso. Il Bretone ricambiò vagamente, ma non si fermò a parlare, anzi, andò subito nella sua camera. Erina lo seguì con lo sguardo, cercando di mascherare la sua tristezza, poiché pensava che gli avrebbe dedicato delle attenzioni invece di tirare dritto. Ma in quella locanda, nella penombra, vi era anche qualcun'altro che guardò il Bretone salire le scale per il secondo piano.

Netrom Morten infilò la chiave nella serratura, quando sentì una presenza dietro le sue spalle. Il Bretone si girò di scatto, impugnando il suo Bastone Magico Paralizzante.
"Oh, sei molto veloce per un vecchio." Disse l'Elfo Scuro con viso di pietra, e gli occhi fiammeggianti.
"Ah, sei tu..." Il Bretone abbassò l'asta magica.
"E tu saresti un innocuo vecchietto?"
Netrom Morten non rispose. Qualunque cosa gli avesse detto, non avrebbe migliorato la situazione.
"Qualcosa mi dice che tu hai incontrato il Conte Hassildor, non è vero?" L'Elfo Scuro serrò gli occhi.
"Non lo conosco di persona."
"Ah, sì, certamente." Gli occhi dell'Elfo Scuro sorrisero, ma non il suo viso. "Perché continui a mentire? C'entrate qualcosa con il dissanguamento della giovane donna? L'hai trovata tu, dopotutto. Oppure il Conte Hassildor sta nascondendo i colpevoli? O..." L'Elfo Scuro pregustò la prossima frase. "O il Conte Hassildor è un vampiro, in realtà?"
"Sono accuse pesanti da fare a un Conte." Tagliò corto Netrom Morten. "Per queste tue parole, potresti finire impiccato o peggio ancora."
"Oh, ma io non ho paura." Disse l'Elfo Scuro. "Ho le spalle coperte. Anzi, ben coperte."
L'Elfo Scuro fece per andare via. "Aspettate!" Disse Netrom Morten. "Se non mi credi, allora lasci che ti aiuti. Non sono qui per metterti i bastoni tra le ruote, e nemmeno per depistarti. Voglio aiutarti a trovare i colpevoli."
L'Elfo Scuro non rispose fin da subito, ma lo guardò cercando di capire se stesse mentendo o meno. "Davvero un nobile gesto il tuo, Negromante. Ma non lavoro con gente del tuo credo, e non amo essere aiutato da estranei."
"Non sono un Negromante." Sottolineò Netrom Morten. "Forse in passato lo ero, ma ora non più. Sono solo..."
"...Un vecchio con un bastone." Lo canzonò l'Elfo Scuro, i suoi occhi sorridevano. "Un Negromante, resta e resterà sempre tale. E poi, se posso essere franco, non mi piace l'idea di averti tra i piedi." Lo salutò con un accenno del capo, e andò via, scendendo le scale per il piano terra. 
"Il piano ha funzionato." Pensò fra sé Netrom Morten.

 
*****
 
Nel corridoio freddo e umido del Castello, una guardia si affrettò a raggiungere la camera da letto del Conte Hassildor, tra il rumore dei suoi stivali d'acciaio che echeggia attorno a lui. Non fece in tempo a bussare, che la porta si aprì un istante, e se lo ritrovò proprio di fronte a sé.
La guardia deglutì dallo spavento. "M-mio signore. V-volevate essere avvisato d-di..."
"E' arrivato?" Gli occhi rosso fuoco del Conte Hassildor, penetrarono in quelli della guardia.
"S-sì, mio signore." Alla guardia gli tremavano le mani.
"Lo riceverò immediatamente. Fallo attendere nella sala principale." Il Conte Hassildor fece per andare, ma tornò di nuovo indietro. "Ah, quasi dimenticavo. Offritegli del buon vino, non quella schifezza dell'altra volta. E toglietegli l'Idromele se ce l'ha con sé, anche con le cattive se serve. Non voglio che si ubriachi."
"Sì, m-mio signore." La guardia abbassò il capo, e andò via, tirando un sospiro di sollievo per la forte tensione che gli incuteva il Conte, scordandosi cosa gli aveva detto il Conte.
Il Conte Hassildor lo guardò allontanarsi, e quando svoltò l'angolo, chiuse la porta.

La camera da letto del Conte, era un posto molto lugubre e con pochissima luce. Sporadiche candele appese a pali di ferro illuminavano gli angoli della stanza, degli scaffali e un tavolo con varie pietanze. Al centro della stanza vi era un letto matrimoniale con lenzuola di seta rosso chiaro con disegni elaborati di un grigio spento, accanto a un candeliere. Ai piedi del letto, un grande tappeto rosso con stessi colori ed elaborazioni delle lenzuola. Dietro il letto vi era appeso un vessillo a mo' di tappeto, e anche qui con stessi colori, ma con elaborazioni più complesse.

"Quanto durerà questa farsa?" Chiese Hal-Liurz, un Argoniana femmina. Era l'amministratrice del Conte Hassildor, e si occupava di ricevere gli ospiti, annotare le voci che giravano in città, supervisionare i cuochi, i commensali, la servitù e i colloqui con le nuove guardie del Castello. Sedeva su una sedia, vicino a un piccolo tavolino rotondo con sopra un libro e un candela. Indossava un farsetto di broccato verde, indumenti di seta verdi per le gambe e delle scarpe di velluto verde. Il suo viso era di un verde chiaro, con sfumature di marrone chiaro sulla fronte e sotto il collo. L'iride degli occhi era di un arancione spento. 
"Quanto basta per sistemare i Cacciatori di Vampiri." Rispose il Conte Hassildor, dirigendosi verso l'argoniana.
"L'Elfo Scuro è un soggetto molto sveglio." Sottolineò Hal-Liurz con timbro di voce rauco e viscido, come ogni qualsiasi Argoniano. "Netrom Morten deve giocare bene le sue carte. Basta un passo falso e..."
"Non dovrà avvicinarsi a loro." Il Conte Hassildor prese una bottiglia di vino Surille, e lo versò in un bicchiere d'argento. Aveva le mani coperta da guanti di velluto nero, che annullavano il contatto con l'argento che gli avrebbe ustionato la mano. "Dovrà pedinarlo. Nient'altro."
"E se l'Elfo Scuro accetterà l'aiuto di Netrom Morten? La situazione potrebbe... Cambiare." Hal-Liurz si schiarì la voce.
Il Conte Hassildor fece un assaggio del vino Surille. "Rifiuterà. L'Elfo Scuro è molto orgoglioso." Fece un altro sorso. "E' trova ripugnante Netrom Morten, almeno stando alle sue parole. E poi non gli piacciono i Negromanti." Sorrise a Hal-Liurz.
"Netrom Morten ti ha detto tutto questo?" Domandò l'Argoniana, schiarendosi più volte la voce.
"E chi sennò?" Il Conte fece una altro sorso. "Conosco Netrom Morten da una vita. Non sbaglia mai quando si tratta di capire le persone."
"Senza ricorre alla persuasione di Vampiro." Sottolineò Hal-Liurz.
"Seduzione di Vampiro. Non persuasione di Vampiro." Sorrise il Conte Hassildor. "I Divini lo hanno graziato con questo dono" Il Conte Hassildor bevve l'ultimo sorso di vino e appoggiò la tazza d'argento sul tavolo.

 
*****
 
 
Nella sala principale, scrutato da due guardie alla porta, un possente e muscoloso Nords di nome Brangor Hantur, sedeva vicino a un tavolo. Tracannava Idromele come fosse acqua, ignorando il Vino Surille che gli aveva servito una serva, che era a pochi passi da lui. Dalla folta barba bionda, cadevano giù rivoli di idromele, che finivano sui pantaloni di pelle animale; tutto il suo vestiario era dello stesso tessuto. Di tanto in tanto mordeva pezzi di pagnotta e montone che erano sul suo piatto, facendo cadere briciole sul pavimento. Vi era un ascia lunga da battaglia d'acciaio adagiata sulla sedia accanto a lui. Con le mani unte di grasso, si grattò la testa rasata. Aveva due minacciosi Minotauri tatuati ai lati della testa. 

La serva, un esile e minuta donna dai capelli neri raccolti in una coda e un indumento azzurro spento, guardò il capo dei servi, che gli fece segno con sguardo severo di pulire. Con occhi fissi sul pavimento, la serva si affrettò a lasciare la sala principale per andare e prendere la scopa. Brangor Hantur la osservò andare via, sorridendo tra i denti, la barba unta di grasso, mentre divorava la coscia di montone. La serva tornò poco dopo, dando le spalle al Nords. Si mise a pulire il pavimento, ma Brangor la cinse dai fianchi con la sua possente mano unta di grasso e la tirò a sé, ferma sulle sue ginocchia. La serva cercò di divincolarsi, ma Brangor la trattenne senza sforzo con un mano, mentre con l'altra tracannò una bottiglia di Idromele. Il capo dei servi fu come colpito in pieno da una folgore, e si guardò attorno spaventato. Era compito suo che gli ospiti si comportassero civilmente sia con i servi, che con le guardie.

Con le mani e le gambe che gli tremarono, andò verso il Nords. "Gentile o-ospite" balbettò dalla paura. "P-per favore. L-asciate la d-donna."
Brangor Hantur smise di mangiare, voltandosi di scatto verso il capo dei servi, un imperiale sulla cinquantina, calvo e con occhi infossati. "Hai detto qualcosa?" I suoi occhi blu ghiaccio, fissarono quelli neri, ravvicinati e piccoli del capo dei servi. La mano del Nords si fece largo tra le parti intime della donna, che cercò di divincolarsi con più foga, ma senza successo. 
Alla porta, le due guardie si fissarono, ma rimasero sul posto per non incorrere nell'ira del Conte Hassildor, qualora l'ordine fosse stato di non fare nulla, come l'ultima volta. Ma non avendo ricevuto ordini particolari, non fecero nulla.
"Le s-serve non..." Balbettò ancora il capo dei servi.
"Quanto vuoi per questa donna?" Chiese il Nords tornando a divorare la coscia di montone, mentre allontanò la mano dalle parti intime della donna. "Dieci Septim? Venti? Quanto?"

"Non è una donna dai facili costumi." Disse una voce pacata da sopra le scale. Era il Conte Hassildor, che discese lentamente la scalinata di pietra.
Il capo dei servi tornò velocemente al suo posto, gli occhi fissi sul pavimento.
"Conte Hassildor." Disse Brangor Hantur. "Davvero non si può... Affittarla?"
"Sono i miei umili servi, Brangor" Il Conte Hassildor s'incamminò verso il Nords. "Ma forse in città troverai quello che cerchi." Sorrise, mentre i suoi occhi rimasero seri e penetranti.
Brangor Hantur sbuffò, mentre guardava gli occhi del Conte, e allentò la presa dai fianchi della serva, che colse l'occasione per fuggire e ritornare al suo posto.
Conte Hassildor si girò verso la serva. "Puoi andare. Hai la giornata libera." 
Con gli occhi arrossati, la serve annuì e lasciò la sala principale, cercando di asciugare le lacrime che aveva trattenuto a stento, e nascondendo il singhiozzo con della finta tosse.
Poi per un istante, il Conte lanciò un occhiata penetrante in direzione del capo dei servi, ma non disse nulla.
"Avevo voglia di..." Disse Brangor Hantur, asciugandosi le mani unte di grasso sui suoi pantaloni di pelle d'animale.
"Non importa." Lo interruppe il Conte Hassildor, guardandogli le mani sporche e callose. "Questo è un castello, non un bordello." I suoi occhi s'infiammarono.
Brangor Hantur se ne accorse, ma cercò di non darlo a vedere. "Troppo Idromele..." Disse come per scusarsi.
"Per questo ti ho fatto portare dell'ottimo vino Surille." Sorrise il Conte Hassildor. "Molta gente ucciderebbe per un bicchiere. E poi, non ti offusca la mente come l'Idromele." 
"L'ultima volta ho creato davvero un grande casino..." Aggiunse Brangor Hantur, guardandosi attorno come per sfuggire allo sguardo penetrante e suggestivo del Conte.
"Non reggi l'Idromele." Sottolineò il Conte Hassildor, con un lieve sorriso. "Ma, ti pregherei, di non trattare le mie serve come... Credo tu abbia capito. Ho molta pazienza, ma a tutto c'è un limite." Il suo viso si fece serio.
Brangor Hantur non rispose, lo sguardo fisso sul pavimento.
"Lasciateci da soli." Ordinò il Conte Hassildor alle due guardie e al capo dei servi, che lasciarono la Salone principale.

 
*****
 
Netrom Morten si mise seduto sullo sgabello di legno, appoggiando i gomiti sul bancone. Erano le tre di pomeriggio. Nella locanda vi era gente che parlava a mangiava, altri che bevevano da soli o in compagnia. Non vi era molta gente, ma nemmeno poca. Erina, tenendo in mano un vassoio con due bottiglie di Birra, raggiunse un tavolo e servì i due clienti, che mangiavano un anguria. Loro dissero qualcosa, che Netrom Morten non capì. Erina sorrise, andando al bancone con il vassoio vuoto.

"Oh eccoti qui." Disse Erina un poco stizzita, ma lo nascose bene dietro un finto sorriso. "Hai smesso di fare qualsiasicosatustessi facendo?"
Netrom Morten lo guardò stranito. "A cosa ti riferisci?"
"Niente. Lascia perdere." Erina gli voltò le spalle, chinandosi per prendere dei boccali da un cassetto in basso.
"Ma ce l'hai con me?" Chiese il Bretone, confuso.
Erina si alzò, fulminandolo con gli occhi, ma non rispose. Si limitò a posare i boccali sul bancone, facendo un poco di rumore e versando della Birra da una bottiglia.
Netrom Morten la osservò senza dire nulla. Erina gli lanciò qualche sguardo sfuggente, prima di andare a servire un altro tavolo. 

Poi qualcuno entrò nella taverna. Era Brangor Hantur, che si guardò attorno, l'ascia lunga da battaglia legata dietro la schiena. I clienti si girarono per guardarlo, ma vedevano spesso avventurieri o rozzi barbari Nords proveniente dai confini di Skyrim. Si voltarono e tornarono alle loro faccende. Brangor Hantur camminò tra i tavoli, la lama della sua ascia lunga da battaglia colpì una bottiglia di Vino, che rotolò giù, schiantandosi sul pavimento di pietra. Il Nords continuò come se nulla fosse, mentre il Khajiit che aveva comprato il vino rimase in silenzio, lo fissò allontanarsi. 

"Oh per i Divini! Che disastro!" Urlò Erina, correndo verso la scopa che aveva dietro il Bancone. 
Nel frattanto Bargor Hantur raggiunse il bancone, e si sedette sullo sgabello, appoggiando i gomiti sul bancone.
Erina, scopa in mano, spazzò via dal pavimento i vetri della bottiglia. Il Khajiit si offrì di aiutarla, ma lei glielo proibì, fulminandolo con lo sguardo. Il Khajiit tornò a sedersi, mangiando una fettina di cervo.

Bargor Hantur si guardò in giro, poi i suoi occhi si posarono su Netrom Morten. "Tu sei..." Non ricordava il nome, perciò serrò gli occhi e guardo in alto per ricordarlo. "Il Negromantequalcosa."
"Sono Netrom Morten." Rispose il Bretone. "Ci conosciamo?"
"Sono il tizio del tizio del tizio, capito?" 
"Ah." Aggiunse Netrom Morten, sorpreso. "Quindi sei tu... Pensavo... Vabbeh, non importa."

Erina volò letteralmente dietro il bancone, dopo aver tolto i vetri dal pavimento, gettandoli in un cesto. "Salve, sono Erina. La proprietaria della locanda. Le servo da bere?" Disse con un sorriso a Brangor Hantur.
"Sì, ottima idea." Rispose Brangor Hantur "Una bottiglia di Idromele."
"Certamente. Le porto qualcosa da mettere sotto i denti?" Domandò Erina, mentre guardava di sfuggita Netrom Morten.
"Sono già sazio. Forse stasera."
Erina prese una bottiglia di Idromele da un cassetto sotto il bancone, e glielo porse al Nords. "Si paga in anticipo. Tre Septim." Aggiunse con un grazioso e irresistibile sorriso.
Brangor Hantur cercò la sua borsa di danari, ma non trovò nulla. Incredulo, si tastò attentamente tutto il corpo. "Che i Divini siano maledetti! Mi hanno derubato!" Si alzò di scatto dalla sedia, facendo cadere lo sgabello a terra.
Erina si spaventò, e tutti i clienti guardarono confusi il Nords.
"Chi ha osato derubarmi?" Tuonò Brangor Hantur, afferrando l'elsa dell'ascia lunga da battaglia con una mano, e guardandosi attorno.
Dietro i visi confusi e spaventati dei clienti, un sorriso si fece largo sulla faccia felina del Khajiit.
"Stai calmo." Disse Netrom Morten quasi in un sussurro, per non farsi udire dagli altri. "Il tizio che sai tu, si arrabbierebbe moltissimo se qualcuno versasse del sangue in questa locanda. Sai quanto ci tieni a mantenere la città in ordine. Ci penserà lui a trovare il ladro, non preoccuparti."
Brangor Hantur guardò per un attimo il Bretone, e lentamente tolse la mano dall'impugnatore dell'ascia lunga da battaglia. Poi raccolse lo sgabello da terra, diede un ultimo sguardo in giro e si sedette sullo sgabello.
Erina lo fissò un po' spaventata, ma cercò di non darlo a vedere. Tutti tornarono alle loro cose.
"So chi è stato." Disse Netrom Morten.
Bangor Hantur si voltò di scatto verso di lui, gli occhi rossi di furia, che tratteneva con tutte le sue forze.
"Calma. Stai calmo." Il Bretone gli sorrise. "Il ladro sarà morto entro un ora, e dopo riavrai indietro il tuo oro."
Bangor Hantur sbuffò di rabbia, stringendo le mano a mo' di pugno.
"Ora pensiamo al perché sei qui." Sussurrò Netrom Morten, avvicinandosi un po'.
Erina aggrottò la fronte stranita, ma tornò al suo lavoro.
"Sono il diversivo." Tagliò corto il Nords. "Devi convincere l'Elfo Scuro a seguirmi, mentre mi dirigo ad Est."
"Cosa c'è lì?" Chiese il Bretone.
"Sai già cosa c'è." Brangor Hantur si stranì, e lentamente la rabbia un poco svanì.
"Stiamo ripassando il piano." Mentì Netrom Morten; il vero motivo era per far sbollire il Nords, così da evitare un eventuali spargimenti di sangue.
"OK. Ascolta, tu non devi fare altro che convincere l'Elfo Scuro a pedinarmi, e questo te l'ho gia detto. Poi quando mi vedrà entrare nella caverna, tu uscirai e gli darai che mi seguivi da un pezzo." Prese la bottiglia di Idromele e ne bevette un po'.
"Non l'hai pagata!" Sottolineò Erina accigliata, puntandogli il dito e facendosi passare tutte le paure sul Nords.
Brangor Hantur rimase con la bottiglia a mezz'aria, le labbra appoggiate ad esso.
"Offro io, Erina." Netrom Morten, in una delle tante tasche nascoste nella tunica, prese una borsa di denari e afferrò tre Septim, porgendoli a Erina, che li prese senza discutere. Poi mise la borsa di danari nella tasca, che sembrò dissolversi nel nulla.
Brangor Hantur rimase stupefatto da quanto aveva veduto.
Netrom Morten glielo lesse in faccia. "Trucchi da mago." Sorrise. "Continua. Cosa stai dicendo?"
Prima di parlare, Brangor Hantur tracannò dell'idromele. "Come dicevo, a questo punto lui ti crederà oppure penserà che sei dalla mia parte, in questo caso dovrai attirarlo dentro la caverna e il piano sarà fallito. In entrambi i casi va fatto fuori lui e la sua compagnia."
"Sono sicuro che mi crederà." Rispose Netrom Morten.
"Se fossi in lui, ti crederei." Fece un sorso di Idromele, prima di ruttare a bocca chiusa, gonfiando le guance. "Ma io non sono un Mer Altezzoso. Sono un figlio di Skyrim!"
"Abbassa la voce." Sussurò Netrom Morten, mentre sorrise a Erina accigliata che si era girata verso di lui, per via di Brangor Hantur. Il Nords si era persino dimenticato che gli avevano rubato la borsa di danari. 


 

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Capitolo 4
*** Fallimento o successo? ***


"Vi prego, pietà."
"Lo hai sentito? Mi sta implorando di non ucciderlo."
"Datti una mossa, Brangor." Netrom Morten, che era seduto vicino a un piccolo tavolo rotondo malandato, accarezzò con le dita il bastone magico paralizzante. Le fogne di Skingrad puzzavano di escrementi umane, amalgamate con quelle di ratto. Un mix che avrebbe fatto vomitare qualsiasi persona dalla nausea, ma non Netrom Morten, abituato all'odore di corpi in putrefazione.
Brangor, che aveva un bavaglio marrone sulla bocca per non respirare il penetrante odore, sfoderò l'ascia lunga da battaglia dalla schiena.
Il Khajiit, che aveva gli occhi rossi dal pianto, si mise in ginocchio, le mani a mo' di supplica. "Risparmiami!" La voce squillante, dal timbro ingannevole. "Vi ho ridato i vostri Septim. Vi ho ripagato con tutto l'oro che possiedo. Non toglietemi la vita." Il Khajiit singhiozzò.
"Sentito, Mago?" Disse Brangor a Netrom Morten.
"Non sono un mago."
"Certo, come in me non scorre il sangue di un guerriero." Rispose Brangor in modo sarcastico.
"Facciamola finita, uccidilo."
"No, no, no," Implorò il Khajiit strisciando con le ginocchia verso Brangor, la lunga coda pelosa arancione chiaro, puntellata da macchie nere si muoveva in aria. "Non fatel..."
L'ascia lunga da battaglia sfiorò l'aria, un flebile sibilo, la testa del Khajiit finì nel canale insieme agli escrementi, imbrattando le mura di sangue. Il corpo fremeva e il sangue zampillava dal collo. Fuori, il caos della vita quotidiana, aveva attutito le grida di tortura del Khajiit prima di essere decapitato.
"Se mi è dato esprimere una mia opinione," Disse Netrom Morten alzandosi dalla sedia e afferrando con entrambi le mani il suo bastone magico paralizzante. "l'avrei torchiato un po', ma non l'avrei ucciso."
"Come?" Rispose Brangor confuso. "Mi hai detto di ucciderlo. Mi hai incalzato a farlo fuori."
"Niente affatto. Quando sono arrivato qui ti ho detto chiaro e tondo di prendere i Septim che ti ha rubato, magari spezzargli qualche osso per ricordo, e di lasciarlo andare. Okay, ti avrò detto alla taverna che il ladrò sarebbe morto entro un ora, ma quello era puro... Beh era per dire."
"Ma... Ma tu poi mi hai detto di ucciderlo. L'hai detto poco fa"
"Ah, per i Divini." Il Bretone sbuffò, alzando una mano. "Cocciuto come un Nord. D'altronde sei un Nord."
"No, aspetta. Tu mi hai detto di ucciderlo. Di sbrigarmi a farlo."
Netrom Morten lasciò la piccola camera fognaria, mentre Brangor lo seguiva alle spalle, continuando a sostenere quanto detto prima. La testa del Khajiit finì nel canale di scolo, che si gettava direttamente nel fiume. I ratti avrebbe banchettato con il cadavere del ladro, e che banchetto sarebbe stato per i loro palati.

 
*****



Il Conte Hassildor sedeva su una sedia di legno dallo schienale elaborato, intento a fingere di mangiare qualcosa, la lunga tavola imbandita di carne di montone, cervo, lattughe, carote, cipolle e Vino Surrile. Gli ospiti, due nobili più influenti della regione, discutevano dei fatti avvenuti a Cyrodill e di alcune creature mostruose, gustando senza remore le pietanze a tavola.
"Troll? Vuoi rovinarmi l'appetito, tesoro?" Disse una giovane donna, più brutta di una scrofa. Le guance butterate, sopracciglia quasi del tutto inesistenti, un grosso mento all'insù che deformava la mandibola, seguito da un ampio doppio mento che non aveva motivo d'esistere sul corpo sensuale e formoso della donna. Indossava un abito di velluto giallo pallido e scarpe con finiture d'oro marrone scuro.
"No, mia cara." Rispose Clavis Bauteus, un robusto uomo, totalmente stempiato e con una pancia enorme che faceva intuire come fosse una buona forchetta. Inoltre, era il marito della donna. Indossava un farsetto di seta blu scuro a pressione contro la pancia prominente, sotto, pantaloni di seta neri, dentro scarpe di camoscio nero ebano. "Però devi ammettere che puzzano più di un Minotauro."
"Mi si è chiuso lo stomaco!" Disse la giovane donna schifata, alzandosi dalla sedia. Poi rivolgendosi verso il Conte Hassildor, assunse un atteggiamento da fanciulla "Con permesso Conte Hassildor." Fece un lieve inchino, chinando leggermente la testa, e sollevando la lunga gonna dell'abito con le dita lunghe e ossute.
Il Conte Vampiro annuì, senza aggiungere altro. La donna lasciò la stanza.
"Mi scuso per mia moglie." Disse Clavis Bauteus, masticando la carne di cervo tra i denti. "Viene da una famiglia.... Beh, sapete che sono rinomati per la loro maleducazione."
"Lo è anche parlare mentre si mastica." Il Conte Hassildor si lasciò scappare un vago sorriso, inquietando il nobile robusto, che serrò la bocca, deglutì la carne non del tutto masticata e rischiò di strozzarsi.
Un servo, nella mano una bottiglia di Vino Surrile, si affiancò all'uomo e gli verso del vino nella coppa. Poi fece altrettanto con il Conte Hassildor, che fissava senza battere ciglia il Nobile robusto. L'uomo cercò di fuggire con lo sguardo.
Quando il servo si allontanò, il Conte Hassildor disse: "Credo voi sappiate già cosa è accaduto di recente a Skingrad, non è vero?"
"Oh sì, certamente." Rispose il Nobile Clavis con tono vago. "Brutta storia. Davvero una brutta storia. I Vampiri sono il male di Cyrodiil. Ne uccidi uno, e ne spuntano altri tre come ratti delle campagne." Il Nobile Clavis guardò con occhi grandi e neri, il piatto ancora intatto del Conte Vampiro, aggrottando confuso il folto monociglio.
Il Conte Hassildor smise di guardarlo, dando un morso alla carne di montone. Ma egli non mangiava mai, se non quando era costretto. Il cibo ingerito gli creava un mal di stomaco lancinante. Spesso, quando era in compagnia di nobili o onorati ospiti, fingeva di dover fare qualcosa e andava via, vomitando tutto ciò che aveva mangiato. Nessuno doveva capire o sapere che il Conte in realtà era un vampiro. Nelle cene galanti il Conte Vampiro si sforzava fino al limite per sembrare "umano". Ovviamente il potere "Seduzione del Vampiro" lo aiutava a persuadere la gente, distogliere l'attenzione dal fatto che mangiava poco o niente, che non sorrideva quasi mai, che rifiutava ogni invito a caccia nelle prime luci dell'alba e tanto altro. Era una lista infinita, e bastava solo una nota fuori posto per far crollare tutta la facciata che si era costruito faticosamente in questi anni.
"Siete qui per affari o..." Disse il Conte Hassildor, venendo interrotto dal Nobile Clavis.
"Ma no, nessun affare." Rispose frettolosamente Clavis Bauteus. "Siamo in viaggio per High Rock. Dobbiamo andare a trovare alcuni parenti di mia moglie." Sorrise in modo impacciato, forzato.
Il Conte Hassildor non rispose, preferendo osservalo. Sapeva che il Nobile Clavis mentiva, e voleva sapere perché. Il tempo gli avrebbe dato certamente delle risposte "Meglio non fare troppe domande, potrebbe... Insospettirsi." Pensò il Conte Hassildor.

 
*****



L'Elfo Scuro era sotto un albero di pino, i cespugli nascondevano lui e suoi compagni. Erano le dieci di sera, e le stelle puntellavano il cielo sulla volta della boscaglia. L'Orco grugniva, borbottava sottovoce. L'Elfo Scuro lo fulminò con lo sguardo. Poi fece cenno all'imperiale di scendere dalla roccia, che era rimasto sdraiato lì per più di due ore. L'imperiale si alzò, scese lentamente l'ammasso roccioso, e si nascose dietro a una grande quercia, il cui vento scuoteva le fronde. Silenzio. Totale silenzio.
Chinatosi, l'elfo scuro si mosse lentamente, scendendo l'avvallamento. I suoi compagni lo seguirono con lo sguardo, ma non dissero o fecero nulla. Poi il Mer si avvicinò a quella che a prima vista, da Est, doveva sembrare un enorme roccia, mentre da Ovest, una strana collina irregolare. Quando raggiunse l'entrata scavata nella roccia, vide delle gocce di sangue sulla porta di legno sfasciata in più parti, ma che si manteneva ancora in piedi. Si voltò verso gli altri, e sollevò un mano. L'Orco, l'Imperiale, l'Argoniano e il Bretone lo raggiunsero rapidamente.
"Vedete?" Disse l'Elfo Scuro indicando il sangue con il dito.
"Abbiamo trovato i Vampiri!" Rispose l'orco. "Entriamo, e spacchiamo i loro crani!" Grugnì furioso.
"Certo che se qualcuno vuole farti finire in trappola." Disse l'Imperiale. "Tu ci vai spedito come un ratto con lo stomaco vuoto. Anzi, il ratto è più furbo di te."
"Maledetto Imperiale!" L'orco serrò gli occhi. "Io ti..." L'orco si paralizzò, cadendo a terra come una statua, gli occhi che si muovevano freneticamente.
L'Elfo Scuro estrasse velocemente lo spadone d'argento dalla schiena. Gli altri fecero lo stesso. L''imperiale una spada d'argento, il Bretone due asce d'argento, l'Argoniano una spada lunga d'argento e uno scudo di quercia rinforzato in ferro.
"Silenzio!" Disse l'Elfo Scuro in un sussurro.
Tutti si guardarono intorno, mentre l'Orco, immobile, giaceva a terra. Poteva sentire e vedere, ma non muoversi. Il vento accarezzava le loro lame che luccicavano al bagliore delle due lune che illuminavano parzialmente l'entrata della caverna. Poi l'Argoniano cadde a terra paralizzato. Tutti si voltarono verso di lui.
L'imperiale lo raggiunse, e chinatosi, toccò la pelle squamata dell'Argoniano, gli occhi pieni di terrore. "La pelle è dura come roccia. Come può essere..." Disse l'Imperiale rivolgendosi all'Elfo Scuro.
L'Elfo Scuro rimase in silenzio, gli occhi che frugavano in ogni zona d'ombra, le mani stretta all'impugnatura dello spadone d'argento. "Ritiriamoci! Ritiriamoci!" Andò verso l'orco, e facendosi aiutare dal Bretone, lo trascinò via da dove erano venuti. L'imperiale fece lo stesso con l'Argoniano, che per sua fortuna, pesava quasi quanto otto galline ingrassate messe insieme.

D'un tratto i Grilli si misero a cantare. Il silenzio era cessato.
Quando L'Elfo Scuro smise di trascinare l'orco, si guardò attorno. L'imperiale lo raggiunse poco dopo trascinandosi a presso l'Argoniano. Ero tornati al loro campo, anche se non avevano allestito nessuna tenda o portato provviste. Non avevano nemmeno accesso un fuocherello per riscaldarsi le mani in quella fresca notte di fine autunno.
"Ma cos'è successo?" Chise il Bretone all'Elfo Scuro.
"Li senti i Grilli?" Il Mer si mise in ascolto, ma quello che percepiva era solo vento e grilli cantautori.
"Sì, ma... Non capisco."
"Qualcuno ci ha seguiti.
"Seguiti?" L'imperiale si aggiunse alla discussione, lasciando l'Argoniano accanto all'Orco.
"E' meglio tornare a Skingrad finché non capiamo cosa è successo?" Domandò il Bretone.
"Sei sordo?" Disse l'Elfo Scuro. "Qualcuno ci ha seguiti. Pensavo che questa regione fosse... silenziosa."
"Nessun territorio di Cyrodiil lo è." Disse L'Imperiale. "Qui ci sono nato. Conosco la mia terra come nessun'altro, senza offesa capitano."
"No, hai detto il giusto."
"Sì, ma non ho ancora capito cosa è successo?" Insistette il Bretone, lanciando una fugace occhiata all'Argoniano e all'Orco immobilizzati.
"Sono stati paralizzati." Rispose L'Elfo Scuro. "Ho conosciuto un Bretone di nome Netrom Morten che ha un bastone magico paralizzante..."
"Pensi che sia stato lui?"
"E chi altri sennò?" Disse L'imperiale, prima che l'Elfo Scuro potesse rispondere.
"No, niente giudizi affrettati." Aggiunse L'Elfo Scuro. "Potrebbe essere qualcun'altro. Magari qualcuno che desidera... Che mi metta contro il Negromante, o..."
"Vampiri?" Disse l'orco, alzandosi lentamente da terra. Scrollò braccia e gambe per via l'intorpidimento dei muscoli.
"La magia è potente, molto potente." Pensò l'Elfo Scuro, guardando l'Orco che si manteneva a stento in piedi, inciampando e rialzandosi di continuo. L'Argoniano era ancora paralizzato, e forse sarebbe rimasto così per un altra mezz'ora. L'orco aveva la fortuna di avere una forte costituzione, e di essere stato un ottima cavia per le magie di un mago di Corte a Anvil. Era resistente alla Magicka rispetto agli altri orchi.
"I Vampiri prima attaccano," rispose l'Imperiale "e forse dopo lanciano qualche incantesimo, sempre se non sono troppo assetati."
"Hai mai visto un Vampiro?" Chiese il Bretone. "I Vampiri sono ottimi maghi. Quello che dici non ha senso, e non corrisponde al vero."
"Sei tu che non sai cos'è un vampiro!"
"Lo so meglio di te."
Il Bretone e l'Imperiale si avvicinarono faccia a faccia, le mani sull'elsa delle armi, gli sguardi come folgori invisibili pronti a incendiare qualsiasi cosa.
L'Elfo Scuro li divise. "Siete professionisti? O due ragazzini in preda agli ormoni?"
Entrambi si allontanarono, guardando altrove.
L'orco alla fine si mise seduto a terra, non riusciva a stare in piedi. "Ma quanto durerà ancora?"
"Cosa?" Chiese l'Imperiale.
"L'intorpidimento. Mi sento strano, davvero strano." Grugnì, soffiando aria dalle narici. "Se riesco a mettere le mani su chi è stato, giuro che gli fracasso il cranio con le mie mani."
"No, tu non farai niente." Rispose L'Elfo Scuro. "Come non ci muoveremo da qui finché non spunteranno i primi raggi del sole."
Il Bretone serrò gli occhi confuso. "Perché?"
"Siamo osservati."

 
*****



Netrom Morten tornò nella sua camera, appoggiò il Bastone Magico paralizzante e si lascio cadere nel letto. Era esausto, anche se non aveva fatto nulla di particolare. Gli occhi si chiusero, mentre intorno la stanza iniziava a vorticare. Prima lenta, poi veloce. Poi perse il ritmo dell'andatura, e si ritrovò a cadere nel nulla. Gridò, ma dalla sua voce uscirono vaghi sussurri anziché urla. Poi atterrò di schiena su quello che poteva essere un pagliericcio. Non vedeva nulla, ma al tatto sembrava proprio così. Una flebile luce bianca come neve comparve alla sue spalle, lontana e inarrivabile, bellissima e nauseabonda. Si voltò. Corse verso di essa, il passo incerto. La luce scomparve. Si fermò. Il fiato corto, i polmoni che bruciavano. "Perché ho l'affanno? Ho corso solo per poco." Pensò fra sé. Poi fu risucchiato nel vuoto e sputato fuori da chissà chi su una pianura punteggiata di alberi morti, i cui rami cercavano il cielo azzurro. "Ma dove sono? Che succede?"
Una figura semitrasparente si materializzo a cento passi da lui. Alta, possente, era un ombra nera che sembrava un fumo fuoriuscito da un grande incendio. Gli occhi violacei che ardevano come fiamme.
"Chi sei tu?" Sibilò la voce.
Netrom Morten capì che era la stessa voce che aveva sentito nei dintorni di Skingrad. Una voce profonda, pesante, intimidatoria. Il Bretone non rispose.
"Perché ti nascondi da me? Perché cerchi di sfuggirmi? Io sono te, ma tu chi sei?" La voce tuonò, la terra tremò, gli alberi morti caddero o sprofondarono nel terreno. Grossi nuvoloni rossastri si ammassarono in cielo come se un vulcano avesse appena eruttato in modo violento, dipingendo il cielo come l'Oblivion sceso in terra.
La figura si teletrasportò davanti al suo viso, gli occhi violacei ardevano di malignità, scrutando dentro la sua anima. "Chi sei tu?"
Netrom Morten si svegliò di soprassalto, ansimando, sudando. Si mise seduto sul letto e cercò di ricordare il sogno. Niente. Non ricordava nulla. Cercò di spremere le meningi, si sforzò così tanto, che quando la porta si aprì alle sue spalle, lanciò dal suo Bastone Magico una saetta paralizzante verso Erina, mancandola per poco. La donna alzò le mani in difesa del corpo, lasciando cadere il vassoio a terra. Due carote e una pagnotta rotolarono sul freddo pavimento di pietra. Erina fissò spaventata Netrom Morten, che gettò subito l'asta magica sul letto e corse da lei, ma Erina gli chiuse la porta in faccia. Il Bretone imprecò tra i denti. Raccolse la colazione da terra, la pulì per bene sulla sua tunica e mangiò da solo.

 
*****



"Com'è andata?"
"Liscio come l'olio."
"Hanno cercato di attaccarti?"
"No, però mi sarebbe piaciuto."
Il Conte Hassildor fulminò con gli occhi Brangor, che distolse subito lo sguardo. Gli occhi rosso fuoco del Conte Vampiro si posarono sull'asta magica che il Nords aveva in mano. Allungò una mano verso di lui, Brangor senza dire nulla gliela diede.
Il Conte Hassildor osservò l'asta magica, passando a rassegna ogni piccola parte del bastone. Sembrava in buone condizioni. Poi guardò nuovamente il Nords. "Ottimo lavoro. Il Maestro Hawel ha fatto un buon lavoro con te. Ti ha addestrato come si deve nel lanciare incantesimi al primo colpo."
"Quel verm..." Brongor si mozzò la lingua. "Sì, è un Elfo Alto davvero talentuoso. Non mi piace la sua razza, ma lui è apposto." Serrò i denti per il disprezzo.
Conte Hassildor sapeva che mentiva, ma rimase in silenzio. Smorzò persino un lieve sorriso, poiché Brangor aveva ragione; Il Maestro Hawel era un essere odioso e arrogante ai limiti dell'immaginabile e della sopportazione.
Erano seduti nella cantina dei vini, l'odore dell'uva impregnava ogni angolo della sala. Il Conte Vampiro aveva dato la giornata libera al suo vinaio, poiché doveva incontrare Brangor in un posto che sarebbe stato sicuro e lontano da occhi indiscreti. E la cantina dei vini è il miglior luogo per incontrare gente che il Conte Vampiro non incontrerebbe di persona davanti alle guardie o i suoi servi. Nelle botti, vi era il miglior vino di Cyrodiil. Tutta la cantina, se derubata, valeva almeno tremila Septim. Se poi si vendeva il vino fuori da Cyrodiil, il prezzo impennava a dismisura. Ovviamente nessuno aveva provato a rubare il vino dalle cantina personale del Conte Hassildor, sopratutto perché il castello metteva soggezione solo a guardarlo.
"Quanti nei hai colpiti?" Chiese il Conte Hassildor.
"Due." Confermò Brangor.
"Due? Come mai? Sono fuggiti? Hai sbagliato a mirare?"
"Beh, non mi sembrava di..." Brangor non sapeva come dirlo. "..Di usare l'incantesimo contro gli altri."
"Ti avevo espressamente ordinato di paralizzarli tutti." Il Conte Vampiro serrò gli occhi. "Sopratutto L'Elfo Scuro. Dovevi lanciargli addosso tre volte l'incantesimo, così avrebbe smesso di respirare. Quanto agli altri, sarebbero stati dissanguati dai Vampiri o divorati dagli animali selvaggi."
"Ma..." Il Nord si passò la lingua sulle labbra, incerto su cosa dire. "Pensavo che dovevo spaventarli, non ucciderli. Voglio dire, dovevamo ucciderli dopo, non..."
"Ma che cosa stai farfugliando?"
"Pensavo che..."
"Dimmi una cosa." Il Conte Hassildor lo zittì. "Cosa hai fatto mentre aspettavi che si avvicinassero alla caverna?"
"Beh..." Brangor si guardò intorno, cercando di sfuggire allo sguardo penetrante e ipnotico del Conte Vampiro, ma senza successo. "Ho bevuto dell'Idromele. Sette bottiglie. L'ho prese alla taverna." Disse velocemente e meccanicamente, come se la sua bocca parlasse da sola, mentre lui desiderava tacere.
"Oh, ecco perché hai combinato un disastro." Sottolineò il Conte Hassildor. "Ti avevo avvertito di non bere più Idromele, sopratutto quando si è alle prese con un lavoro molto delicato, come quello che ti avevo affidato."
Brangor non rispose, il ché stranì non poco il Conte Vampiro, abituato ai continui lamenti, giustifiche e scuse del Nords.
"Vuoi aggiungere qualcos'altro?" Chiese il Conte Hassildor, gli occhi rossi che scrutavano dentro quelli di Brangor.
"Quando... Quando sono arrivato, ho visto un Imperiale sdraiato pancia in giù su una roccia. Lui non mi ha visto."
"E questo "Imperiale" fa parte della compagnia dei Cacciatori di Vampiri?"
"Sì."
"Allora il piano è stato sia un disastro che un completo successo." Pensieroso, il Conte Hassildor diede le spalle al Nord.
"Che vuoi dire?"
"Che l'Elfo Scuro sapeva dove cercare. Non è entrato solo perché lo hai spaventato o..." Si voltò di nuovo, corrugando la fronte. "No, non si è spaventato. Sapeva di essere osservato. Forse non voleva rischiare i suoi uomini, oppure... Devo scoprire chi lo paga. E' lì che risiedono le risposte, e forse so chi è."
"Chi?" Chiese Brangor perplesso.
"Riguardo alle bottiglie vuote di Idroemele." Il conte Vampiro ignorò del tutto la domanda del Nord. "Le hai lasciate lì?."
"No, le ho messe nella mia borsa."
"Per una volta hai fatto qualcosa di intelligente."
Brangor abbassò lo sguardo. "Se mi avessi detto di ucciderli con la mia asca, lo avrei fatto con piacere. E lo farò se me lo ordinerai."
"Questo è inconfutabile" Rispose con aria autorevole il Conte Hassildor, lasciando il vinaio. "Non provare a rubare le bottiglie di vino. So perfettamente quante sono. Puoi prendere quella aperta sul tavolo, sperando che ti aiuti a toglierti il vizio dell'Idromele." La voce giunse opaca, lontana, mentre il Conte Vampiro sparì nella penombra del corridoio che saliva alle cucine del castello.
Brangor si guardò in giro, prese la bottiglia aperta, annusò il bordo e la lasciò con disgusto sul tavolo. "Questa è roba da ricchi, e fa pure schifo. Meglio l'Idromele." Barbottando, lasciò il vinaio.

 
*****



Netrom Morten, ricurvo sul bastone magico paralizzante come appoggiò, affrettò il passo. Salì le scale dell'entrata del castello, percorse la balconata e svoltò a destra, aprendo una porta di legno rinforzato in ferro che portava in un spazioso corridoio. Le guardie lo guardarono di sottecchi, ma quando si accorsero che quel vecchio era Netrom Morten, l'amico del Conte Hassildor, distolsero lo sguardo e lo salutarono cortesemente. Il Bretone annuì, senza degnarli di uno sguardo. Raggiunse il largo studio del Conte Hassildor, che sedeva su una panca di pietra, egregiamente lavorata. Leggeva un libro intitolato "Storia di Tamriel". Era a metà libro, quando da sopra le pagine, lanciò una fugace occhiata verso Netrom Morten, che da gobbo, si drizzò in piedi non appena ebbe la certezza che non ci fosse nessuno.
"Non dire niente." Il Conte Hassildor zittì il Bretone ancor prima che parlasse. Poi alzandosi, lentamente, posò il libro con estrema cura nello scaffale. Vi erano quaranta libri, tutti diversi sia come genere che come autori. I tomi più rari, più a cuore, se un cuore l'aveva il Conte Hassildor, erano riposti in una vetrina. La serratura, protetta da un forte incantesimo, si annullava solo attraverso una chiave, anch'essa magica. Se uno spavaldo o intrepido ladro avesse provato a scassinare la serratura, una folgore l'avrebbe colpito in pieno, lasciando cenere e una macchia nera al suolo. (Questo incantesimo non esiste in Oblivion. Volevo aggiungere qualcosa di mio.)
Quando il Conte Vampiro si voltò, vide il volto irato di Netrom Morten. "Sei qui per via di Brangor, non è vero? No, non interrompermi. Il piano era diverso, lo so, ma era sicuro che l'Elfo Scuro avrebbe cambiato i suoi piani all'ultimo minuto. Ed è quello che è successo."
"Ah, sì. Su quale base?" Netrom Morten serrò gli occhi.
"Non ti pare di essertela presa un po' troppo?" Il Conte Vampiro ignorò la domanda del Bretone.
"Su quale base?" Ripete Netrom Morten, immobile.
Il Conte Hassildor non rispose fin da subito, preferendo aspettare una qualche reazione da parte di Netrom Morten, che non avvenne. "L'Elfo Scuro sapeva. Qualcuno gli ha detto dove sono i Vampiri."
"E con ciò? Anche noi sappiamo dove si trovano, e come ti ho ripetuto spesso, e meglio che siano i Vampiri a ucciderli, e poi noi a uccidere loro." Sollevò in alto il Bastone magico paralizzante. "Con questo sarà una passeggiata. Li paralizzeremo, li taglieremo la gola e moriranno affogati nel loro stesso sangue."
"Una visione macabra, ma molto piacevole." Disse il Conte Hassildor con uno dei suoi sorrisi inquietanti, che a Netrom Morten non trasmettevano nulla. "Peccato che l'Elfo Scuro si aspetti questo da chi lo vuole morto. E poi ho usato un incantesimo di Hawel. Quell'Elfo Alto rende la pelle di chi è paralizzato dura quasi quanto l'acciaio. No, non chiedermi come fa perché non ho risposte da darti. Ma credo che sia inutile se si vuol paralizzare qualcuno per poi ucciderlo, a meno che non si ripeta la magia sul soggetto per ben tre volte. Gli si fermerà il cuore e morirà per mancanza d'aria, ma questo già lo sai. Comunque, lo so, il tuo incantesimo paralizzante non ha eguali a Cyrodiil e forse in tutta Tamriel, ma non era quello il momento adatto per sfoggiare le tue abilità." Il Conte Vampiro andò sedersi dietro la robusta scrivania di quercia, dai disegni elaborati sui fianchi. "Ti racconto come è andata."
"Non serve. Mi ha detto tutto Brangor."
"La sua versione, quella ritoccata e magari pompata dove lui ne esce da eroe."
"Ha ucciso tutti, tranne l'Elfo Scuro che è fuggito, no?" Netrom Morten andò a sedersi in una delle due sedie poste di fronte alla scrivania.
"Come non detto. Non ha ucciso nessuno. Ora ascolta..."
Il Conte Vampiro raccontò com'erano andate veramente le cose.
"Allora perché l'hai assunto?" Disse Netrom Morten appena ebbe finito di ascoltarlo. "Non è un genio, va bene, ma nemmeno sveglio. E' una montagna di muscoli, buono solo a versare sangue quando si deve versare."
"Nella mia città non si versa sangue!" Tuonò il Conte Hassildor, l'espressione facciale rimase fredda, apatica. La luce delle candele, poste su un candelabro in piedi, si spensero e si accesero per un secondo, come se un fruscio di vento si fosse magicamente scatenato nella sala e dissolto nello stesso istante.
Pensieroso, il Bretone tirò indietro la testa.
"L'ho assunto come diversivo." Aggiunse il Conte Hassildor. "Ma il piano è cambiato. Ora dobbiamo fare le cose nei minimi dettagli."
"Continuo a non capire perché complichi le cose." Netrom Morten appoggiò il bastone magico paralizzante sulla sedia accanto.
"Perché devono sparire senza lasciare dubbi nella gente di Skingrad. Non m'importa cosa penseranno gli altri Conti, perché in un modo o nell'altro avranno sempre da ridire. Screditeranno il mio nome come hanno sempre fatto, ma la mia gente deve continuare a supportarmi. Quello che conta è il loro benessere. Nient'altro."
"Ottime parole, peccato che sono immune alla tua persuasione, ricordi?" Sorrise Netrom Morten. "Quello che conta per te, Conte Hassildor, è che il popolino non ti si rivolti contro, che continui pure a nuotare nella beata ignoranza, purché il Conte Hassildor, il loro benefattore, si prenda cura di Skingrad"
Il Conte Hassildor sorrise in modo inquietante, mentre la sua faccia rimase una maschera di freddo acciaio, solido, impenetrabile. "Ecco perché sei mio amico, anche se la parola stessa "amico" mi suona strano nella mia bocca. Un po' come l'acqua che non bevo da... Non importa."
"Quest'oggi sei molto più eloquente del solito."
"E' il potere dei libri." Fece cenno con il capo ai libri posti sullo scaffale.

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Capitolo 5
*** Il Mostro e l'abisso. ***


"Il Conte Hassildor sa."
"Forse sospetta."
"E' la stessa cosa."
"Tu gli hai parlato. Devi aver scoperto qualcosa."
"Scoperto? L'unica cosa che ho scoperto è che non mangia molto."
L'Elfo Scuro aggrottò le sopracciglia.
"Perché sospetti che sia un vampiro? A me non hai mai dato questa impressione." Disse Clavis Bauteus, sorseggiando del vino Surille da un boccale d'argento. "Spero tu non l'abbia spifferato ai quattro venti, sennò..."
"Mi offendi, Conte Bauteus."
Il Nobile Clavis lo guardò per un po', poi sorseggiò li vino. Non rispose. 
Erano seduti nel soggiorno di una grande villa che il Conte Clavis Bauteus usava spesso per trascorrere qualche settimana lontano dal trambusto di corte. Arredata con ricchi tappeti variegati, mobilio ricercato e costoso, e una catina nascosta dove si poteva entrare solo da una botola nascosta sotto una cassa. Era qui sotto che Clavis immagazzinava il vino che poi rivendeva in tutta Tamriel, aumentando il suo già abnorme patrimonio. Una recinzione di ferro circondava l'edificio, protetto giorno e notte da mercenari di diverse razze armati fino ai denti. Anche quando il Nobile era assente o faceva ritorno alla corte nella Città Imperiale, i suoi mercenari restavano di guardia alla villa. Giardini ben curati, diversi viali, fontane e boschetti, ed era distante da Skingrad circa 2 miglia. Il sole filtrava dalle alte finestre del soggiorno, sfiorando le scarpe del Nobile Clavis, che spostò i piedi nella zona d'ombra. 
L'Elfo Scuro si alzò dalla sedia, che sembrava quasi una poltrona dallo schienale riccamente elaborato. Raggiunse la caraffa di vino sulla credenza, prese un boccale d'argento e si versò da bere.
Il Conte Clavis taceva e beveva, finché non si alzò anche lui dalla sedia, raggiungendo la finestra. "Se ti aspetti delle scuse, beh, aspetti invano."
"Mi hai ingaggiato per scoprire la verità sul Conte Hassildor." L'Elfo Scuro si voltò verso di lui, il vino che ballava nel boccale. "Ti dico che è un Vampiro. Lo sento, lo percepisco, non dirmi come, ma lo so." Mentì l'Elfo Scuro che sapeva ormai con certezza l'identità del Conte Hassildor.
"E dovrei crederti sulla parola? Senza uno straccio di prova. E poi oltre a questo, il tuo compito era anche far fuori i Vampiri" Il Nobile sorseggiò il vino. "Scoprire l'identità del Conte era secondario, non primario."
L'Elfo Scuro sorrise compiaciuto, ma ignorò l'ultima frase del Nobile. "Non ho mai incontrato di persone il Conte Hassildor, ma c'è qualcuno che afferma che lui sia un Vampiro."
"E chi? Un plebeo straccione che hai corrotto per fargli dire quello che vuoi?"
"Sei troppo agitato." L'Elfo Scuro bevve, guardandolo da sopra il boccale. Gli piaceva far irritare il Nobile Clavis Bauteus.
"Io agitato? Io? Sei tu quello agitato, qui." Il Conte Clavis gettò uno sguardo irato fuori dalla finestra, vedendo un giardiniere al lavoro sulle siepi, che di tanto in tanto buttava occhiate fugaci attraverso la finestra di fronte, dove la moglie del Conte Clavis andava spesso per leggere e rilassarsi. Serrò gli occhi.
"Se ti dicessi che ho per le mani un Vampiro?" Rispose l'Elfo Scuro
Il Conte Clavis, il vino che scendeva nella gola, si strozzò, si voltò e sputò il liquido sul lungo tappeto blu, macchiandolo in vari punti. "Vampiro? Tu hai..."
"Catturato un vampiro." Nel viso dell'Elfo Scuro si disegnò un lieve sorriso, mentre i suoi occhi rimasero inespressivi. "E' stato piuttosto facile con le tue dritte. Il Vampiro era di guardia alla caverna, almeno così pareva."
"Ti ho solo detto dove "forse" erano rintanati." Sottolineò Clavis.
"Ed è stata un ottima informazione. Se posso, come sapevi che il covo era lì?"
"Covo? Oh per i divini." Il Nobile Clavis gettò un rapido sguardo preoccupato in alto, verso il soffitto a cupola della camera. Posò il bicchiere sul tavolo, toccandosi la prominente pancia. "Ho la nausea. Saranno a centinaia la sotto... Progetteranno di invadere Tamriel, di ucciderci tutti..."
L'Elfo Scuro lo scrutò perplesso, ignorando la sua agitazione, anche se gli piaceva farlo agitare. "Dove hai ottenuto le informazioni?"
"Ottenuto, dici?" Il Conte Clavis lo fissò irritato, i denti serrati. "Sono decenni o più che i Vampiri fanno i loro affari in quella merdosa caverna vicino a Skingrad. Appena le voci girano, la minaccia viene sventata. Eppure, in città non c'è nessun cacciatore di taglie o di Vampiri. Solo guardie cittadine ben addestrate e zelanti, forse anche troppo." Sbuffando, si lasciò cadere sul divano posto davanti alla larga finestra che dava sulla balconata. "Sai cosa penso? Anzi, cosa ho sempre pensato o... Dannazione! Non mi viene la parola. Comunque, che il Conte Hassildor andava lì, con al seguito la guardia cittadina, e faceva a pezzi quei mostri. Ma quello che mi chiedo, e perché i Vampiri si recano sempre nello stesso identico posto? In quello abisso di caverna? Perché proprio Skingrad e non altre città..."
"I vampiri lo sanno e lo hanno sempre saputo." Disse L'Elfo Scuro, sorseggiando il vino. "E non lo dico io, ma un Vampiro in carne ed ossa. Te lo dirà lui" Fece un sorriso inquietante. "Avanti, vieni con me. Te lo presento."

*****

Erano le tre di notte. La gente dormiva nelle loro case, i clienti erano andati via da un pezzo, le strade, misteriosamente desolate. Nessuna guardia di puttaglia, nemmeno agli angoli o nelle zone buie. Erina, straccio in mano, puliva i tavoli impregnati di alcol e pezzi di cibo, quando Netrom Morten entrò dalla porta. Aveva un aria tetra, quasi persa nei suoi oscuri pensieri, perché oscuri, erano diventati pure i suoi pensieri oltre i suoi sogni. Erina preoccupata, buttò lo straccio sul tavolo e andò da lui, quasi correndo. Netrom Morten, le pupille dilatate, completamente nere come l'ebano, non gli prestò attenzione. Erina sbiancò, non riconoscendo né l'uomo, né il suo sguardo. "I suoi occhi sono... diversi." Pensò Erina.
Il bretone si sedette al bancone, lo sguardo fissò nel vuoto. Erina le corse dietro come una ragazzina infatuata, piazzandosi dietro il bancone, di fronte, a un passo da lui.
Netrom Morten iniziò a borbottare, fissando il nulla.
"Cosa ti è successo?" Erina allungò una mano verso la sua.
Il Bretone la ritrasse istintivamente, mentre i suoi occhi sbatterono e fissarono quelli di Erina, come se l'avesse vista solo ora. La donna indietreggiò, sbattendo la spalla contro lo scaffale. Alcune bottiglie caddero, rompendosi al suolo. Erina, le mani e la spalla contro lo scaffale, si allontanò lentamente da lui. 
Netron Morten la seguì con lo sguardo, continuando a borbottare qualcosa sotto voce. In quelle frasi sconnesse, la donna udì la parola scusa, ma non ne era certa. Di scatto, Netrom Morten si alzò dalla sedia, rovesciandola per terra. Lentamente si avvicinò a Erina, che tentò una rapida fuga, ma invano. Lui l'afferrò da dietro i capelli, la strattonò, facendola inginocchiare. La donna gridò aiuto, le unghie che graffiavano le mani ossute, raggrinzite di lui, ridotte a pelle scorticata e sanguinante. D'un tratto, la porta dell'entrata si spalancò. Sulla soglia, comparve il Conte Hassildor, una fiale giallastra in mano. Camminò verso Netrom Morten, mentre due guardie cittadine richiusero in tutta fretta la porta alle sue spalle. Il Bretone inclinò lievemente la testa, come un predatore che osserva la sua preda. Lasciando la presa dai capelli di Erina, si avvicinò al Conte Vampiro. Terrorizzata, Erina corse dietro il bancone, i capelli scompigliati, gli occhi rossi dal pianto, ciocche di capelli sparsi sul pavimento di pietra. Strane ombre si proiettarono sulle pareti, strisciando confuse in varie direzioni. Le luci delle candele si affievolirono, ma non si spensero.
"Conte Hassildor..." Rugì una voce, echeggiando distorta, profonda, quasi demoniaca dalle labbra del Bretone.
"Cosa ne hai fatto di Netrom Morten?" Il Conte Hassildor serrò gli occhi.
"Lui osserva..." Sorrise qualunque cosa ci fosse all'interno del Bretone. Un sorriso inquietante, malefico.
Il Conte Hassildor osservò che il Bretone non aveva il suo inseparabile bastone magico paralizzante.
"Ha cercato di paralizzarsi ancora, non è vero? Non voleva che tu prendessi il controllo..."
"Maledette parole... Conte Hassildor... Non mi piace parlare..."
Il Conte Hassildor tolse velocemente il tappo dalla fiala, ma la mano ossuta del Bretone lo afferrò, lo strinse forte come un Minotauro che fracassa un cranio con un mano. CRACK! Il Conte Hassildor lasciò cadere la fiala a terra, riversando il liquido giallastro sul pavimento di pietra della locanda. Non sentiva più le dita.
Netrom Morten mise l'altra mano attorno al collo del Conte Vampiro, stringendo un poco. "Ti piace il fuoco... Voi dovet..."
Qualcosa di pesante lo colpì dietro la testa. Netrom Morten cadde sulle ginocchia, gli occhi che tornavano bianchi o neri in una frazione di secondi, mischiandosi, scambiandosi, senza mai prendere un unica forma. Poi un'altro colpo alla testa. Cadde di faccia a terra, il sangue che sgorgava dalla ferita.
"No! Cosa hai fatto!" Tuonò il Conte Hassildor, incendiandola con gli occhi rossi, i lunghi canini sporgenti come zanne.
Erina, la robusta clava insanguinata in mano, indietreggiò di qualche passo. Scoprì in quell'istante che il Conte che aveva sempre amato e supportato era in realtà un Vampiro. 
"Non dovevi farlo! Non dovevi!" Il Conte Hassildor toccò la testa calva del Bretone, e venne percorso da una strana sensazione piacevole. "Odore di sangue. Solo un assaggio..." Pensò il Conte Vampiro, cacciando subito quelle parole dalla sua testa, ma non ci riuscì del tutto. Fissò i rivoli di sangue scendere dalla ferita, cadere sul pavimento. Restò ipnotizzato.
Erina se ne accorse e fece per colpire il Conte Hassildor, ma lui bloccò la robusta clava con una mano. 
Il Conte Hassildor confuso, la fissò negli occhi per un istante. Poi scrutò le vene del collo della donna pulsare sotto la pelle. "Sangue caldo..." Pensò il Conte Vampiro fra sé, ma cercò di mandar via quel pensiero. Lasciò la presa dalla clava. "Prendi uno straccio pulito e un bottiglia di Idromele! Subito" Tuonò, scuotendo la testa come se gli avessero buttato addosso dell'acqua ghiacciata.
Erina, il fiato corto, il cuore che batteva impazzito, fece come ordinato, ma non mollò la presa dalla clava. Tornò dal Conte Hassildor con gli stracci, ma lo trovò immobile che fissava il sangue fuoriuscire dalla testa di Netrom Morten. "Gli stracci, C-Conte..." Glieli porse, mentre con l'altra mano, serrava la presa attorno al manico della clava, pronta a colpire.
Il Conte Hassildor si destò come da un sogno ad occhi aperti, prendendo gli stracci senza guardarla. "Dov'è la bottiglia di Idromele?" Si voltò verso la donna.
Irrigidita, la donna corse a prenderla e tornò in un lampo.
"Versala sulla ferita!" Ordinò il Conte Hassildor senza guardarla.
Erina fece come ordinata, ma non distolse lo sguardo nemmeno per un istante dal Conte Vampiro.
"Basta!" Disse il Conte Hassildor. "Allontanati!"
Erina terrorizzata e confusa, tornò direttamente dietro il bancone, come se il bancone potesse aiutarla a fungere da scudo qualora il Conte Hassildor l'avesse assalita per bere il suo sangue.
Il Conte Vampiro congiunse entrambi le mani, borbottò delle frasi e una sfera di luce rossastra comparve dalle sue dita. La testa di Netrom Morten venne attorniata dalla presa di quella sfera magica, e dopo un minuto il sangue smise di sgorgare. Per il Conte Hassildor era stato difficile non cedere alle sue tentazioni, a non farsi trascinare dagli abissi, a non venir inghiottito da quel male che sapeva ormai controllare da anni e anni. Poi la sfera scomparve e il Conte Hassildor si accasciò al suolo. Tentò di rialzarsi, ma senza successo. Le mani scivolarono inconsapevolmente sul pavimento insanguinato. Il Conte Vampiro fissò le dita, "Solo un assaggio...", e lentamente si diressero verso le sue labbra come fossero estranei al suo corpo. Qualcosa lo colpì dietro la testa.

*****


Il Conte Clavis seguì l'Elfo Scuro lungo un corridoio, scesero alcune scale e si ritrovarono in una piccola stanza piena di casse, barili e scaffali vuoti. Storse il naso, e lo guardò. Si aspettava da un momento all'altro che l'Elfo Scuro trascinasse via la cassa che era sopra la botola, ma non fu così. In una zona inghiottita dall'oscurità, due occhi rossi si accessero come un focolare in una buia notte. Clavis indietreggiò spaventato.
"Non aver paura." Disse l'Elfo Scuro. "E' ben legato." Prese una torcia spenta su una cassa e mise la parte superiore vicino a una accesa sul muro. Poi si diresse verso la zona buia; un angolo in realtà.
I due occhi rossi si chiusero, e la luce della torcia illuminò un viso pallido, ossuto, con gli occhi infossati. Indossava un vestito di velluto inzuppato d'acqua, sporco di fango e bucherellato in più parti. Era scalzo sulla fredda pietra bagnata.
Alla sua presenza, il Nobile Clavis trasalì, mettendosi una mano davanti alle labbra carnose.
Il Vampiro cercò di proteggersi il viso con le braccia, ma le catene legate ai polsi glielo impedirono. Così strisciò con le spalle al muro, contorcendosi, chiudendosi a guscio, pur di non guardare la luce della torcia.
"Alzati!" L'Elfo Scuro gli toccò la schiena con la punta dei suoi stivali neri, macchiati di fango.
Il Vampiro non si mosse.
Il Mer gli mollò un calcio nelle costole. Il Vampiro si mise seduto, mettendo le mani sulla parte dolorante, lo sguardo sul pavimento.
"Ti ho detto di alzarti!" L'Elfo Scuro avvicinò la torcia alla pelle pallida del Vampiro, fumo biancastro uscì dalla sua pelle.
Nauseato, il Conte Clavis prese un fazzoletto da una tasca e se lo portò al naso. Stava quasi per vomitare.
Il Vampiro indietreggiò, serrando i denti dal dolore. Mise le mani sul muro, e facendo pressione, si alzò lentamente.
L'Elfo Scurò gli afferrò il mento, stringendolo un poco. "Fai vedere il viso."
Il Vampiro fece come ordinato, socchiudendo gli occhi e cercando di tenersi lontano dal fuoco della torcia. 
Con un pollice, l'Elfo Scuro gli alzò il labbro superiore, facendo intravedere i lunghi canini appuntiti. Poi tenendo le dita sul mento, spinse via il Vampiro, facendolo urtare di schiena contro il muro.
"E' davvero un Vampiro." Aggiunse il Conte Clavis, sorpreso e schifato nello stesso tempo.
"Digli quello che hai detto a me." Disse L'Elfo Scuro al Vampiro.
Il Vampiro borbottò qualcosa sottovoce, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento. Il Conte Clavis si avvicinò per sentire, ma il Vampiro gli si lanciò contro con estrema violenza e rapidità, cercando di affondare i denti nel collo del Nobile. L'Elfo Scuro gli sferrò un colpo con la punta della torcia, ustionando la scapola destra del Vampiro che si ritirò istintivamente indietro. Con le punta delle dita, si toccò la parte ferita, serrando i denti dal dolore.
Il Conte Clavis indietreggiò fino all'entrata, tremando dalla paura.
"Non rifarlo mai più! Urlò l'Elfo Scuro, muovendo la torcia davanti ai suoi occhi. 
Il Vampiro abbassò gli occhi, appoggiando la testa contro la parete.
"Non farmelo ripetere un altra volta!" Disse l'Elfo Scuro. "Digli quello che hai detto a me!"
"Conte Hassildor è un Vampiro." Rispose il Vampiro.
"E poi?"
Il Conte Clavis tornò accanto all'Elfo Scuro, incuriosito.
"E poi..." Il Vampiro tornò ad ammutolirsi.
"Vuoi che ti colpisca?" Gridò l'Elfo Scuro, agitando la torcia davanti a lui.
Il Vampiro distolse lo sguardo, cercando invano di proteggersi il viso con le braccia. "Ero lì per entrare a Skingrad... Fare un covo sotto la città, nelle fogne."
Il Conte Clavis non capì. "Perché nelle fogne? Le caverna ti puzza più degli escrementi di Troll o qualsiasi bestia ci viva dentro?"
"No." Il vampiro alzò lo sguardo, incrociandolo con quello di Clavis. "Lì risiede il mio padrone. Altri prenderanno il mio posto."


 
*****
 
Hal-Liurz aprì la porta della camera da letto del Conte Hassildor, chiudendola alle sue spalle. Il Conte Vampiro giaceva sul suo letto, le mani unite sul ventre. Le luci delle candele illuminavano debolmente il letto, una tavolo e una sedia. Il resto della camera era inghiottità dall'oscurità. Hal-Liurz andò da lui, posò due dita da rettile sulla sua fronte e le ritrasse. Sbuffando dalle narici, si sedette al suo fianco. "E' venuto qualcuno?"
"Nessuno, oltre te." Rispose una voce nell'oscurità. 
"Non c'è bisogno che resti nell'ombra."
Il viso di Brongor emerse dall'oscurità. Andò a sedersi vicino all'Argoniana. "Le voci dicono che..."
"Le voci non sono vere!" Lo zittì Hal-Liurz. 
"Ma Erina..."
"Erina si trovava nel posto sbagliato, nel momento sbagliato."
"Ma lei..."
"Smetti di parlare." Dalla voce dell'Argoniana provenne un leggero fruscio; era la lingua che sbatteva sul suo palato.
"Io devo sapere." Disse Brangor, guardando il viso del Conte Hassildor.
Hal-Liurz se ne accorse, ma non disse nulla.
Ci fu un momento di silenzio, interrotto da Brangor. "Pensi che verrà qualcuno? Me lo hai detto cinque volte di avvertirti se veniva qualcuno. Perché?"
"Sei pesante." Tagliò corto l'Argoniana.
Brangor si alzò, cercando con lo sguardo una caraffa. Qualsiasi Alcolico gli sarebbe andato bene, pure lo schifoso vino Surille.
Hal-Liurz capì con uno solo sguardo le sue intenzioni. "Non qui. Non davanti al Conte Hassildor. Vai giù, nelle cucine."
Brangor annuì, abbassando gli occhi. Poi andò verso la porta.
"Un altra cosa," Disse l'Argoniana. "Tieni le mani lontano dalle serve o te le taglio." Serrò gli occhi da rettile. "E questa volta dico sul serio!"
Brangor, che gli dava le spalle, uscì dalla camera da letto. Non aveva più sete.
Il Conte Hassildor mosse un dito, ma l'Argoniana non se ne accorse.

*****

"Dov'è la stanza?"
"Chi cercate?"
"Un Bretone, non ricordo il nome." Disse il Guaritore confuso.
"Perché siete qui?" Chiese la guardia.
"Per guarirlo, che altro sennò. Voi stupidi giovani..."
"Ah, da questa parte." Indicò la guardia, ignorando quello che il Guaritore stava dicendo.
Il Guaritore diede una fugace occhiata al corridoio, rimanendo confuso. "Ci sono dieci stanze in questo corridoio. Accompagnami" Sbuffò il Guaritore.
La guardia, una spada d'acciaio sul fianco sinistro, si fece seguire dal Guaritore. Superarono sette porte, aprendo l'ottava. Il Guaritore entrò, spingendo la guardia con il gomito, che non disse nulla.
La piccola camera era arredata in modo scarno; un letto, una sedia e una candela accesa sul comodino scassato.
Il Guaritore si voltò verso la guardia. "Sei ancora qui? Lasciami da solo!"
La guardia non si mosse, anzi, divaricò le gambe, mise le mani dietro la schiena con fare autoritario.
Il Guaritore intuì che la guardia non se ne sarebbe andata. "Va bene, va bene, rimani, allora. Ma sono sicuro che sei qui per osservami." Alzò una mano in aria, imprecando sotto i denti. "Nessuno si fida di noi Bretoni. Tutti a puntare il dito 'Siete negromanti! Voi fate morire la gente per usarla per oscuri esperimenti o come non-morti!. Voi Bretoni..."
"Piantala! E fai il tuo lavoro." Disse la guardia seccato.
Il Guaritore si ammutolì, sbuffando.
Netrom Morten, steso sul letto, la bocca leggermente aperta, indossava una tunica bianca, macchiata di chissà cosa.
"Vediamo un po'." Il Guaritore mise le mani dietro la testa di Netrom Morten. Tastò il cranio. "Nella norma." Con una mano, gli girò il viso. Notò una ferita semi guarita. Il Guaritore aggrottò le folte sopracciglia grigie. "Un lavoro... scarso, ma del tutto privo di talento. Guaritori da quattro soldi, scommetto." Mentì il Guaritore, facendosi udire dalla guardia. In realtà la ferità era stata ben curata dal Conte Hassildor prima che le forze lo abbandonassero. Congiungendo le mani, un intensa sfera rossastra comparve tra le dita del Guaritore. La sfera di energia volteggiò in aria fino alla ferita di Netrom Morten. Poi lentamente perse d'intensità fino a scomparire. La ferita scomparve.
La guardia seguì ogni dettaglio di quello che aveva fatto il Guaritore.
"Hai visto?" Disse il Guaritore. "Io non uccido la gente, la curo. Se tutti i guaritori fossero come me il mondo..."
"Fai il tuo lavoro!" Tuonò la guardia.
"Ho finito." Il Guaritore si alzò dalla sedia.
"Di già?"
"Sono un professionità. Solo i dilettanti passano ore a curare un ferito."
"Chi mi dice che non stai mentendo."
Il Guaritore sbuffò. "Alloggio nella Gilda dei Maghi di Skingrad. Se entrò un ora questo..."
"Il suo nome è Netrom Morten." Aggiunse la guardia.
"Se 'Nerotem qualcosa' non si sveglia entro un ora, allora verrai a cercarmi e ti ridarò indietro l'oro pattuito."
"Ancora non ti ho dato il tuo oro."
Il Guaritore allungò una mano verso di lui, senza dire nulla.
La guardia lo fissò per un momento, decidendo se dargli o meno il compenso.
"Allora?" Chiese il Guaritore.
La guardia prese la borsa di monete legata attorno alla cintura e gliela diede.
Con un mano, il Guaritore fece tintinnare i septim all'interno della borsa. Poi la fissò per un momento, come se stesse scrutando al suo interno, senza aprirla. "Sì, settanta Septim come pattuito. Il mio lavoro è finito. Se avete bisogno di me, sapete dove alloggio."
"Contaci." la guardia lo osservò lasciare la stanza.
Il Guaritore percorse il corridoio arrivando alla fine, poi si fermò di colpo. Confuso, si guardò attorno. "Guardia! Dov'è l'uscita?"
La guardia sbuffò, irritata.

*****

"Davvero io non lo so cosa gli è preso..."
"Non è mai successo prima d'ora?"
"No..."
"Sei sicura?"
"Ti ho detto di no." Erina, le catene alle mani, sedeva attorno a un piccolo tavolo rotondo, piangendo e singhiozzando.
Era nella sala degli interrogatori. Le guardie cittadine la portarono qui dopo che videro il Conte Hassildor steso per terra e Erina con un clava insanguinata in mano. La presero e la buttarono nelle segrete senza pensarci due volte. La sala interrogatori era un luogo buio e freddo. Una candela adagiata su un piattino di argento illuminava solamente il tavolo. I muri della stanza sembravano inesistenti per la fitta oscurità. Ma dietro di essa, c'era il carceriere, braccia conserte, spalle adagiata al muro, che non toglieva gli occhi di dosso da Erina. La donna indossava una lunga tunica marrone al di sopra delle ginocchia, mangiucchiata in più parti dalle terme.
"Quindi perché li hai colpiti?" Disse Brangor, misteriosamente sobrio e serio.
"Non potevo fare altrimenti."
"Perché?" Ripeté Brangor.
"Il Conte..." Erina lo guardò per un istante, poi si girò alla sua destra, dove c'era la guardia ferma nell'ombra come un assassino pronto a saltare alla gola del bersaglio.
Brangor intuì che Erina aveva paura di parlare. "Puoi dirmelo. Io sono un socio del Conte... Beh, non proprio, ma sono un suo uomo fidato... Una cosa del genere." Non riuscì a trovare le parole adatte.
Erina si accigliò, non avendo capito niente.
"Ascolta, puoi dirmelo. Nessuno ti farà del male, te lo prometto."
Erina abbassò gli occhi sul tavolo, poi sulla fiammella della candela "Ho colpito il Conte perché lui..." Smise di parlare per un po'. Poi guardò Brangor. "...Perché lui stava per assaggiare il sangue di Netrom Morten con le dita."
Brangor spalancò gli occhi, sopreso. "Intendi che l'aveva morso o..."
"No, no, il sangue era sul pavimento. Le sue mani erano... sporche di sangue. Lui lo stava per assaggiare quando l'ho colpito... Avevo paura che mi uccidesse..." Erina scoppiò nuovamente a piangere, abbassando la testa.
Brangor non rispose.
Il Carceriere uscì dall'oscurità. Era un Imperiale alto, calvo, spalle massicce, il mento squadrato e la fronte larga. Indossava un armatura logora della guardia cittadina che puzzava di sudore. Una mazza chiodata era appesa al fianco destro. Si mise dietro a Brongor, braccia conserte. Non disse nulla. Guardò in modo minaccioso Erina, che distolse subito lo sguardo intimidita.
"Riguardo a Netrom Morten..." Disse Brangor, non facendo caso al carceriere alle sue spalle.
"Non era lui..." Rispose frettolosamente Erina. "Aveva il suo viso, il suo corpo, ma... Non era lui. Sembrava un'altro..."
"Un'altro?" Disse Brangor perplesso.
"Era come posseduto, non so... Non so spiegarlo... Non me ne intendo di Negromanzia... Lui voleva... uccidermi!" Singhiozzò, nascondendo il viso dietro le mani per non farsi vedere che piangeva.
"Pensi che..." Brangor si ammutolì. Non poteva parlare di Netrom Morten davanti al carceriere. Non del suo oscuro passato. Non sapeva se il carceriere era un uomo leale verso il Conte Hassildor.
"Io non so cosa pensare." Rispose Erina, credendo che fosse una domanda.
Brangor non rispose. "Forse ho sbagliato a parlare davanti al carceriere." pensò.

*****

Nella villa del Conte Clavis Bauteus, la sua giovane moglie sedeva su una lussuosa poltrona dai tessuti riccamente decorati. Indossava un lungo farsetto grigio scuro, decorato con rose rosse dal ventre in giù. I seni prosperosi, a pressione sotto il vestito, sembravano intenti ad esplodere da un momento all'altro. Leggeva un libro; Storia dell'impero Vol.1. In realtà, faceva finta di leggere. Sapeva di essere osservata e le piaceva. Posando il libro sul tavolino, si alzò. Con le dita, si sistemò le pieghe del vestito dai fianchi e dal sedere. Un grosso sedere sodo a pressione contro il vestito. Qualunque cosa indossasse, risultava sempre provocante, anche se non era nelle sue intenzioni esserlo. Riprese il libro, e facendo finta di leggere, si diresse verso la lunga finestra. Con la coda del l'occhio, intravide una sagoma nascosta dietro il tendaggio tirato verso l'angolo. La giovane donna si voltò, chiuse di scatto il libro facendo rumore, e fissò la tenda. 
L'uomo uscì fuori lentamente, sollevando un lembo di tenda. "Mi avete trovato." Alzò le mani in segno di arresa.
"Non sapete nascondervi, questo è certo." Sorrise la giovane donna.
L'uomo si avvicinò al suo viso, la presa da fianchi e la tirò a sè. La guardò negli occhi per qualche istante, e la baciò. La giovane donna fece cadere il libro sul pavimento, affondando le dita nella schiena di lui. Baciandola intensamente, l'uomo la trascinò verso la scrivania piena di pergamene e libri. L'afferrò vigorosamente da sotto i glutei, strizzandoli un poco, e la face sedere sul tavolo. Con le dita, la giovane donna abbassò frettolosamente i pantaloni dell'uomo, mentre lui fece scivolare le mani nei suoi seni, accarezzandoli, palpandoli e facendoli uscire dal vestito come due pere morbide, ma sode.
Poi un sibilo, susseguito da un rumore sordo. L'uomo indietreggiò, guardandosi il petto. Vide la freccia a punta larga sbucare da sotto l'addome. Poi un altro sibilo. L'uomo gemette. La giovane donna, immobile dal terrore, vide l'uomo voltarsi lentamente indietro. Un altro sibilo. L'uomo cadde a terra con una freccia conficcata nel petto, spezzando quella dietro la sua schiena. Tentò di alzarsi, sollevò una mano in direzione della giovane donna, ma lei nascondendo l'apatia per quella scena, non le sfiorò. Rantolando, si mise su un lato e morì, gli occhi aperti e privi di vita in una pozza di sangue che si andava formando.
La giovane donna guardò dritto davanti a sè.
"Questo è il nono." Disse l'Elfo Scuro, sulla soglia della porta.
"T-Tu!" La giovane donna si passò la lingua sulle labbra eccitate per ciò che era accaduto, si era bagnata persino le mutandine. "I-io l'amavo!"
"Come gli altri amanti che ho ucciso?"
"Lui era s-speciale." La giovane donna scoppiò a piangere.
"Lacrime di coccodrillo. Smettila! Non ti è mai fregato niente di lui. Era solo il tuo giocattolo sessuale."
"Ti farò tagliare l-la testa!" Urlò lei, allontanandosi dal corpo senza vita dell'uomo. "Mio m-marito..."
"Il Conte Clavis mi ha ordinato di ucciderlo. Magari se amassi tuo marito invece di fare la puttana con..."
"Come osi chiamarmi puttana!" Gridò la giovane donna, scivolando quasi sulla pozza di sangue. Si mantenne con le mani sullo schienale della poltrona. "Sono la moglie di un C-Conte! Esigo rispetto e delle s-scuse!"
L'Elfo Scuro sorrise, il suo viso rimase di pietra. "Sai quanto è difficile per il Conte Clavis trovare altri lavoratori? Hai fatto uccidere due giardinieri, un cuoco, due armaioli, tre mercenari e questo qui, che non so nemmeno chi è e cosa faceva."
"Era un..."
"Un idiota attratto dalle tue gambe perennemente spalancate." La interruppe l'Elfo Scuro.
La giovane donna, rossa in viso, prese un libro dalla scrivania e lo lanciò contro l'Elfo Scuro, che deviò il colpo spostandosi di lato in modo del tutto naturale.
"La solita storia." Aggiunse L'Elfo Scuro. "Ti è difficile tenere le gambe chiuse? Lo sai che tutti quelli che ti scopi mirano alla tua borsa, ai tuoi danari. Ti è difficile capirlo o intuirlo? Ah, dimenticavo. Tu usi loro, non loro te. Ma sono spinti solo per la tua ricchezza, non certo per la tua faccia da... da Troll!" Provò gusto a dirlo.
La giovane donna divorata dalla rabbia, cercò di raggiungerlo, ma scivolò sul sangue, imbrattandosi il vestito.
L'Elfo Scuro rise, mentre i suoi occhi rimasero freddi come il ghiaccio.
"Ti odio!" Urlò la donna. "Ti farò uccidere! T-Ti darò in pasto ai miei m-mastini!" mentre imprecava, si bagnava e si eccitava sempre più.
L'Elfo Scuro lasciò la stanza ridacchiando tra i denti. I servi entrarono per ripulire lo studio.

*****

Conte Hassildor aprì gli occhi di colpo. Si mise seduto sul letto in un lampo. Hal-Liurz dormiva e non si accorse di niente. Il Conte Vampiro la guardò per un secondo, poi alzandosi, si toccò il retro della testa. Le dita sfiorarono i capelli, ma non c'era nessuna traccia della ferita. Non ricordava molto di quello che era successo. Tutti i suoi ricordi si fermavano fino al polso rotto da Netrom Morten. Poi l'oscurità. 
Senza svegliare Hal-Liurz, lasciò la camera da letto. Proseguì per il corridoio, lo studio e infine beccò la prima guardia posta davanti alla porta della sala del trono. 
La guardia trasalì alla sua presenza, cercando di deglutire senza farsi notare. "Conte Hassildor."
"Dov'è Netrom Morten?" Rispose il Conte Vampiro fissandolo negli occhi.
"E'..." Balbettò la guardia. "E' in u-una delle stanze d-dei servi. Abbiamo..."
"Rimani qui." Lo interruppe il Conte Hassildor. "Se Hal-Liurz chiede di me, digli che sono al capezzale di Netrom Morten."
La guardia annuì. "Certamente, m-mio signore." aprendo la porta per la sala del trono, fece passare il Conte Vampiro. Poi la richiuse alle sue spalle.
Il Conte Hassildor, nel suo tragitto, incontrò altre guardie, ma disse loro di rimanere dov'erano e di non dire nulla a nessuno che si era ripreso. Per sua fortuna, Hal-Liurz aveva scelto come corpo di guardia del castello uomini leati e devoti al Conte, quindi non c'era il rischio che le voci raggiungessero Skingrad. 
Mentre s'incamminava verso le stanze dei servi, incontrò Brangor che rimase sorpreso di vederlo in piedi.
"Ma..." Disse Brangor stupefatto. "Ma... Conte Hassildor!"
"Sto bene, ma non ho tempo di scambiare due chiacchiere." Tagliò corto il Conte Vampiro, incamminandosi.
"Dove siete diretti? Alla cella di Erina?"
Il Conte Hassildor si fermò di colpo. Si voltò verso Brangor. "Erina è nelle segrete? Perché?"
"Vi ha colpito con un clava. Non ricordate?" Brangor indicò il retro della sua stessa testa. "Proprio qui dietro."
"Lei ha salvato me e Netrom Morten." Pensò il Conte Vampiro, ma non lo disse a Brangor.
 

*****

L'oscurità lo avvolgeva. Netrom Morten non sentiva nulla. Qualcosa però, si muoveva attorno a lui. Camminava, volava, strisciava. Percepiva qualcuno o qualcosa, ma non vedeva nulla. Flebili suoni provenivano da tutte le direzioni, suoni che non aveva mai udito. Provò a toccare il suo corpo, ma non trovò nulla di solido. "Sono morto?" pensò. 
Poi sentì dei passi, un rumore pesante e sordo. Il terricciò che scricchiolava sotto pesanti stivali. Lontano, poi vicino. Alle sue spalle, poi dritto davanti a sè. Spariva e ricompariva. Infine, silenzio. Un silenzio assordante che lo costrinse a gridare, ma non aveva voce. I passi ritornarono. I tacchi degli stivali che battevano sul pavimento di marmo. Netrom Morten lo intuì, lo sapeva con assoluta certezza. Poi il suono lentamente si allontanò, lasciando un leggero eco indistinguibile. 
"Netrom Morten..." L'oscura voce profonda, pensante lo fece trasalire.
Il Bretone non vide nessuno. Voleva parlare, ma non aveva voce. Si sforzò così intensamente, che gli sembrò che una piccola luce bianca uscì da quella che doveva essere la sua bocca. Era piccola come una stella in cielo. 
"Non puoi sfuggirmi..." La stessa voce lo raggiunse all'orecchio, come in un sussurro.
Netrom Morten sobbalzò spaventato. 
"L'oscurità che hai sempre desiderato... Ora sei nel piano che più si avvicina al tuo misero... cuore... Ricordo i tuoi battiti... ricordo il tuo sangue... Ti ho offerto l'immortalità... Il potere assoluto su tutto e tutti..."
Lentamente l'oscurità si dissolse, come se una fioca luce remota e proveniente da chissà dove, stesse lentamente illuminando il luogo dove si trovava. 
Qualcosa strisciò alle sue spalle. "Luce... Hai sempre odiato la luce... Tu eri fatto per l'oscurità... Lo rammenti?"
Netrom Morten, gli occhi sgranati, cominciò a vedere. Si portò le mani davanti agli occhi come se il sole l'avesse accecato dopo aver passati molti giorni nel sottosuolo. Ma lì non c'era il sole. Solo un cielo plumbeo, rosso all'orizzonte. Qualunque direzione guardasse, l'orizzonte era sempre il medesimo. 
Finalmente vide il suo corpo, la terra arida, le colline irregolari, gli alberi morti e un villaggio in preda alle fiamme. Corse verso le casupole di legno, il fuoco che divorava ogni cosa, persino la terra arida sotto di esso. Alzò lo sguardo verso il fumo che si elevava in cielo. Il fumo iniziò a vorticare, curvarsi, fino a prendere direzioni diverse. Poi scomparve. Netrom Morten rimase immobile, guardandosi attorno. 
D'un tratto, il fumo nero si materializzò davanti ai suoi occhi, due fessure violaceo ardevano al suo interno. "Netrom Morten..." Sibilò la voce in tono cupo. "Questa è la terra che ti aspetta... la tua terra... Quella che tu hai forgiato nel tuo passato... L'eredità distruttiva che hai donato alla gente..."
Netrom Morten non riuscì a distogliere lo sguardo da quelle due fessure violacei.
"Ricordi questo villaggio..? Il villaggio che tu stesso hai dato alle fiamme... Che visione magnifica... Grida, morte, distruzione... Corpi carbonizzati... Mi hai donato i bambini come dono... Perché li hai sgozzati..? Perché non hai lasciato che io prendessi le loro anime..? Perché mi hai voltato le spalle..?"
Netrom Morten sentì una rabbia intensa e incontrollabile scorrergli lungo tutto il corpo. Cercò di distogliere lo sguardo, di chiudere gli occhi, di muovere mani e piedi, ma non poteva sfuggire. Solo assistere, osservare, ascoltare e ricordare.
Gli occhi violacei si fecero vicini, il fumo svaniva, compariva, come se stesse perdendo forza, potere, intensità. Poi una voce raggiunse le orecchie di Netrom Morten, una voce dolce, rassicurante, che conosceva, ma col volto annebbiato, oscurato, "Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l'abisso ti guarda."
Ci fu il vuoto, l'oscurità, la quiete.

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Capitolo 6
*** Le scuse ***


Conte Hassildor raggiunse le segrete del castello. Il carceriere lo salutò con la testa china. Il Conte Vampiro non lo degnò di uno sguardo. Svoltò a destra, accostandosi alle sbarre. Il luogo puzzava di muffa e di un odore così acre che il Conte Hassildor non seppe dirsi con certezza cosa fosse.
Erina era rannicchiata a terra, la schiena contro il muro, la testa piegata sulla ginocchia esili, le mani tra i capelli sporchi e gonfi.
Il Conte Hassildor la udì singhiozzare. "Piange... E' tutta colpa mia." pensò.
Lei non si accorse della presenza del Conte Vampiro, finché per caso non gettò lo sguardo oltre la porta della cella. Si pietrificò. Vide il Conte Hassildor nella penombra, mentre la torcia appesa al muro alle sue spalle illuminava vagamente i suoi raffinati vestiti. Gli occhi rossi spiccavano vivaci e inquietanti dal suo viso. Erina distolse lo sguardo, cercando rifugio nelle sue ginocchia. Piegò la testa più che poté per allontanarsi mentalmente dall'inquietante visione, mentre le sue spalle premevano contro il freddo muro di pietra. Lungo le pareti, rivoli d'acqua scendevano dal soffitto inghiottito dall'oscurità.
Il Conte Hassildor notò il comportamento di Erina, ma rimase fermo. Non fece nulla per spaventarla. "Sicuramente sa che sono un Vampiro. I suoi occhi parlano..." pensò.


*****


Brangor sedeva a terra davanti a un focolare fuori dal castello di Skingrad. Il suo sauro brucava l'erba più in là. Sapeva che non si sarebbe allontanato, perciò lo lasciava libero di pascolare nei dintorni. Gli bastava un fischio e il cavallo sarebbe giunto di gran carriera verso di lui. Gli piaceva quel cavallo. Quella sera, il cielo era oscurato da nuvoloni carichi di pioggia, ma era stato così fin dal mattino. Brangor era partito lo stesso, anche perché aveva perso le tracce dell'Elfo Scuro e non voleva che il Conte Hassildor sapesse del suo fallimento qualora si fosse svegliato. In effetti non sapeva nemmeno del risveglio del Conte Vampiro. Brangor si alzò, si levò la polvere dai pantaloni e si diresse verso il suo giaciglio, fatto di indumenti consumati che non gli servivano più. Si coricò, cercando di addormentarsi, ma non ci riuscì. Il vento scuoteva le fronde degli alberi, quando lentamente cadde nel sonno. Poi un secco rumore lo svegliò. Qualcuno o qualcosa aveva calpestato un rametto. Si levò in piedi guardandosi intorno. Nella penombra, vide il cavallo brucare indisturbato. Ma questo non lo rassicurò. Estrasse l'ascia da battaglia da dietro la schiena, e andò verso l'origine del rumore che l'aveva svegliato. Non era nemmeno sicuro che fosse da quella parte, ma istintivamente ci andò. Si fermò, si guardò attorno e cadde.
Con la faccia a terra, cercò di aprire gli occhi, la vista annebbiata, i suoni distorti venivano e andavano da una parte e l'altra. Vide una sagoma spuntare dietro l'ombra di un albero. S'incammino verso di lui, il rumore degli stivali neri arrivavano distorti alle orecchie di Brangor. Era vestito completamente di nero, ma distingueva appena i suoi indumenti. Era calvo e portava un straccio rosso legato alla bocca. Si piegò sulle ginocchia, lo osservò per qualche momento e si alzò. Tornando indietro, si fermò di colpo, girò la testa verso Brangor, abbassò lo sguardo a terra per qualche secondo e infine si diresse da dove era arrivato. Il cavallo sauro di Brangor lanciò un forte nitrito di dolore. Brangor roteò gli occhi verso l'animale, ma vide solo sangue. Tanto sangue. Una seconda sagoma spuntò accanto al cavallo e s'incamminò verso la direzione del primo uomo. Un terza sagoma, sopraggiunse dietro Brangor, che gli passò di sopra e andò sempre nella direzione del primo uomo. I rumori dei loro stivali sulla terra arrivavano alle sue orecchie come echi distorti. Brangor cercò di alzarsi, ma in preda ad una forte rabbia perse conoscenza. Piovve a dirotto.


*****


"Mentire?"
"Tu menti! Sei il signore delle menzogne!"
L'Elfo Scurò lo fissò negli occhi, ma non rispose.
Erano nella cantina, accostati vicino a dei barili di birra e casse. Gli scaffali vuoti erano frapposti tra loro e il Vampiro rannicchiato nell'angolo più buio.
"Mi è giunta voce che tu e tuoi 'amici' ve la siete data a gambe davanti alla caverna." Disse il Conte Clavis irritato e furioso. "E' chiaro che questo tuo 'Vampiro', non proviene da quella..."
"Ora basta!" Lo interruppe l'Elfo Scuro. "E' vero. Ci siamo ritirati quando qualcosa stava paralizzando i miei uomini. Non sapevo chi o cosa fosse, perciò ho optato per la ritirata."
"Quindi ammetti che questo Vampiro non proviene da quella caverna?"
"No." L'Elfo Scuro prese una caraffa, che un servitore aveva portato poco prima, e si versò del vino. Poi si voltò verso il Conte Clavis Bauteus. "Siamo tornati nel pomeriggio. Ho ordinato ai miei uomini di perlustrare i dintorni della caverna, ma non abbiamo scoperto nessuno." Fece un sorso. "Ci siamo nascosti tra la folta vegetazione e abbiamo aspettato il crepuscolo. La mia intenzione era quella di catturare chi ci ha paralizzati, finché non abbiamo visto un Vampiro uscire dalla caverna. Si era appoggiato sul fianco della parete rocciosa e..."
"L'avete catturato?" Disse il Conte Clavis.
"Esatto!" Rispose L'Eflo Scuro. "E' stato piuttosto facile a dir la verità. Mi aspettava molta più resistenza o almeno qualche perdita tra i miei uomini, ma..."
"Non è successo." Concluse il Conte Clavis Bauteus. "Storia al quanto strana. Sia nelle parole che..."
"Ti ho portato un vampiro!" L'Elfo Scuro posò incurante il boccale d'argento facendo un poco di rumore. "Ed è quello che volevi giusto? Oppure vuoi che ti affascini con la retorica? Non sono un bardo!"
"Retorica?" Sottolineò Conte Clavis. "Avvolte mi stupisco di come tu tiri fuori parole che non hanno un senso logico nel contesto. Io dicevo..."
"Tu dici, dici, dici!" L'Elfo Scuro fece finta di arrabbiarsi, anche se la sua faccia rimase immutata. "Ho svolto il mio lavoro. Ti ho portato quel succhia sangue, ed ora..."
"C'è ancora del lavoro da fare." Lo interruppe Calvis Bauteus. "E sai di cosa parlo." Guardò il Vampiro rannicchiato nell'oscurità. "Comincia."
L'Elfo Scuro si voltò verso il vampiro, un lieve sorriso malefico si fece largo nel suo viso privo di emozioni.


*****


Il carceriere aprì la porta della cella e cercò di entrare, ma il Conte Vampiro lo fermò con un braccio. Il Carceriere traslì.
"Puoi andare." Disse il Conte Hassildor. Con la testa china, l'uomo fece come ordinato.
Erina volse la testa verso la parete, nascondendo il collo nelle spalle. Si rannicchiò fino a diventare quasi una palla. Cominciò a piangere e singhiozzare.
Il Conte Hassildor entrò nella cella e si fermò a guardarla. "Mi dispiace."
Erina lo guardò per un attimo, poi distolse lo sguardo quando incrociò gli occhi rossi del Conte.
"Vi starete chiedendo del perché io non vi abbia liberata, non è vero?" Il Conte Vampiro incrociò le mani dietro la schiena. "Non posso lasciarvi andare, poiché sapete..."
"Siete un vampiro..." Sussurrò Erina, come se non fosse stata lei a dire quella frase.
Il Conte Hassildor si zittì per un po'. "Questo vi disturba?"
Erina non rispose.
"Cosa sapete su Netrom Morten?" Il Conte Vampiro cercò qualcosa in comune per farla parlare. Sapeva che Erina era intima con Netrom Morten, e lui stesso glielo aveva vagamente accennato, ma senza soffermarsi molto. E poi il Conte Hassildor sapevo tutto di tutti, il ché lo tranquillizzava.
Erina si voltò completamente verso di lui: "Lui sta bene?" Poi accorgendosi come in un lampo che stava parlando con un Vampiro, si rannicchiò contro la fredda parete, mettendo le mani a protezione del collo.
Il Conte Hassildor lo vide. "Non sono qui per..." Non voleva dire 'bere il tuo sangue'. "Facciamo così; io rispondo alle vostre domande, e voi alla mie. Che ne dite?" Cercò di modulare la voce quanto più amichevolmente possibile. 
Erina, i capelli sporchi e scompigliati sul viso, lo guardò con un occhio da sotto un ciuffo di capelli. Non rispose.
"Allora comincio io, come segno di buona fede." Disse il Conte Vampiro. "Netrom Morten è in un lungo sogno. Non so come i guaritori chiamino questa... questa sorta di 'lungo sonno', ma fisicamente sta bene."
Erina sospirò, smorzando un sorriso.
Il Conte Hassildor rimase fermo nella sua posizione come una minacciosa statua Gargoyle. E questo inquietò non poco Erina. "Forse è solo la mia mente" Pensò lei. "Il Conte non è qui. Forse non è nemmeno un Vampiro. E' tutto nella mia testa. Se lo fosse mi avrebbe già morsa... mi avrebbe uccisa."
Il Conte Vampiro la scrutò, serrando un poco gli occhi. "Ora tocca a me farvi una domanda."
Erina sobbalzò, destata dai suoi pensieri. Non aveva il coraggio di guardarlo in viso.
"Vi disturba che io sia un Vampiro?" Disse il Conte Hassildor come se la domanda fosse del tutto normale.
Impaurita, Erina affondò le dita nella pelle delle ginocchia. Non rispose.
"In questo gioco voi dovreste rispondere alle mie domande." Sottolineò il Conte Vampiro.
La donna non aveva il coraggio né di rispondere né di guardarlo.
Il Conte Hassildor si era aspettato una simile reazione, ma i suoi sensi di colpa lo avevano spinto a provarci. Senza aggiungere nient'altro, si diresse verso l'uscita della cella.
"Non saprei..." Rispose Erina come in un sussurro, cercando di raccogliere quel poco di coraggio che aveva in corpo. Era per Netrom Morten che aveva risposto. Voleva sapere come stava e raggiungerlo se fosse stato possibile. 
Il Conte Vampiro si fermò, si voltò lentamente e la guardò per un momento "Ora tocca a voi farmi una domanda."


*****


Quando Brangor aprì gli occhi, era steso supino sulla paglia. Il forte odore di letame nell'aria lo spinse a vomitare, ma non rigettò nulla. Rimase sul fianco, tossì più volte e si lasciò cadere sulla paglia. Si trovava in un fienile o in un posto simile. Il tetto bucherellato, era rattoppato con vari assi di legno, mentre la luce del sole filtrava attraverso le due finestra poste una di fronte all'altra. Un cavallo nitrì, poi un'altro e un'altro ancora. Roteò gli occhi verso destra e vide cinque cavalli pezzati limitati in piccole zone recintate. Immediatamente i suoi pensieri furono invasi dal suo cavallo sauro morto sgozzato per mani di uno dei tre uomini in nero. E ancora una volta in preda alla rabbia, cercò di alzarsi, ma una forte fitta all'addome lo costrinse a stendersi. 
"Sei fortunato." Disse una voce rauca e strascicata che non seppe dirsi da dove provenisse. "Il tuo fisico ti ha salvato da morte certa, dico... Sì, sì..."
Brangor serrò gli occhi, si guardò intorno. Cercò di parlare, ma dalla sua bocca uscirono solo rantoli d'aria.
Da dietro a delle numerose casse e mucchi di fieno, un uomo sbucò fuori; gli occhi grandi, barba folta e sporca, lunghi capelli grigi oleosi, il labbro superiore spaccato e il naso storto verso destra. Portava una zappa in mano. Indossava indumenti di cotone luridi e sporchi di terra. Andò verso Brangor, esaminò la sua ferita all'addome e annuì. "Sì, sì... Ho fatto tutto bene... La mia Brema sarebbe stata orgogliosa di me..." Poi scosse la testa come se si era accorto solo in quel momento di Brangor. "Ah sì, tu sei fortunato, dico... Sì, sì... Molto, molto..." Poi confuso, guardò in alto. "Ma fortunato o sfortunato..? Beh se qualcuno è vivo..." Stava parlando da solo. "Forse è solo sfortuna... No, no, è fortuna, dico. Sì, sì... Fortuna, dico... Sì, sì"
Brangor alzò un sopracciglio e cercò di parlare, ma senza successo. Allora alzò un mano.
L'uomo lo vide e gli sorrise. "Io mi chiamo Fredor Vilus. Sono un Imperiale... Mia moglie diceva che puzzo come un orco, che ho l'aspetto di un orco, ma penso come un ratto..." Fredor abbassò gli occhi rattristito, e sospirò. "Quanto mi manca mia moglie, dico... Sì, sì..."
Brangor era dispiaciuto, ma non aveva voce né per ringraziarlo di avergli salvato la vita né di dirgli che gli dispiaceva per sua moglie.
Fredor si accorse che Brangor cercava di parlare. "Io non so cosa tu abbia, dico... No, no... Ho curato la tua ferita all'addome... E ne avevi un altra anche dietro la schiena, dico... Sì, sì." Fredor andò via, dimenticandosi della presenza di Brangor. Poi si fermò di colpo, si voltò verso di lui e gli sorrise, gli mancavano tutti i denti. "Ti ho detto quanto sei fortunato?" quando chiuse la bocca, il mento sfiorò quasi la punta del suo naso.


*****
 

Il vampiro lo guardò di sottecchi, mentre l'Elfo Scuro, torcia in mano, gli illuminava il viso. Il vampiro si ritrasse infastidito, ma l'orco e l'imperiale lo tennero fermo dalle braccia. 
"Urla quanto vuoi." Disse l'Elfo Scuro. "Nessuno può sentirti urlare qua sotto."
Il vampirò serrò gli occhi, mostrando i denti affilati, come un lupo che mostra le zanne quando è intrappola.
"Sei già morto, solo che non lo sai." L'Elfo Scuro passò la torcia all'Orco, che con una mano teneva fermo il Vampiro senza alcuna fatica. Poi L'Elfo Scuro sfoderò un pugnale d'argento, mise la punta sul petto del Vampiro e si lasciò scappare un flebile sorriso. 
Il Vampiro gemette un poco da dolore e strinse i denti.
La lama del pugnale si fece largo nella sua carne, mentre il Vampiro urlò da dolore. Sottili fumi biancastri si levarono dalla sua pelle pallida.
L'Elfo Scuro sorrise, seguito dal grugnire dell'orco. L'Imperiale storse il naso, schifato.
D'un tratto il vampiro fissò gli occhi dell'Elfo Scuro, uno sguardo minaccioso e compiaciuto. "State facendo il gioco del mio padrone!" cominciò a ridere a squarcia gola. "Siete solo degli idioti!"
l'Elfo scuro arrabbiato, serrò gli occhi e spinse il pugnale sempre più in profondità.
Il Vampiro rideva e urlava. "Il mio padrone vi sta usando!"
La lama raggiunse il cuore, la testa del Vampiro si afflosciò sul petto.
L'Orco e l'imperiale lo guardarono. Poi diressero il loro occhi sull'Elfo Scuro che estrasse la lama dal petto e la pulì sui luridi vestiti del Vampiro.
"Lasciatelo." Disse l'Elfo Scuro.
I due fecero come ordinato. Il Vampiro cadde di faccia a terra con un suono secco.
L'Elfo Scuro mise il pugnale nel fodero. 
"Cosa voleva dire?" Chiese l'Orco all'Elfo Scuro.
"Era pazzo." Rispose l'imperiale come se la domanda fosse stata posta a lui.
"Mai quanto te, pezzente Imperiale." Lo derise l'Orco.
"Tua madre se la fa con i Troll!" Rispose l'Imperiale accigliato.
L'Elfo Scuro sospirò e andò via, lasciandoli litigare. "Devo capire se quel Vampiro diceva sul serio oppure voleva spaventarci..." Pensò.


*****


"Ai miei tempi era tutto diverso, dico... Sì, sì." Fredor si sedette di fronte al giaciglio di paglia in cui era steso Brangor. "Mia moglie Brema, dico... Lei sapeva tutto... Sì, sì... Quando una banda di malfattori veniva qui per derubarci, la mia Brema li cacciava via, dico... Sì, sì." Fredor alzò le mani per far vedere cosa faceva lei. "La mia Brema agitava le mani in questo modo, dico... Sì, sì... La mia Brema faceva uscire una sfera magica blu e i malfattori fuggivano a gambe levate, dico... Sì, sì." Fredor sospirò "Quanto mi manca la mia Brema, dico... Sì, sì."
Brangor lo ascoltava, non potendo fare altrimenti poiché la voce non gli era ritornata e il dolore all'addome gli impediva di alzarsi.
"La mia Brema era amica di tutti, dico... Sì, sì... Ma gli altri non volevano essergli amici." Fredor abbassò lo sguardo. "Dicevano che era una sporca Megera... Io dicevo; 'Brema è mia moglie ed è una brava donna, dico... Sì, sì', ma loro mi prendevano per pazzo. Io non sono pazzo, dico... No, no..." Fredor si alzò, sorrise senza denti e andò verso un cavallo dalla criniera biondo cenere. 
Brangor lo seguì con gli occhi.
"La mia Brema non ha mai ucciso nessuno, dico... Sì, sì..." Fredor accarrezzò la criniera del cavallo pezzato. "Le persone la odiavano e si tenevano lontane dalla mia Brema, dico... Sì, sì. Quando io ero solo, ed ero stato congedato dall'Impero perché dicevano che non ero normale, la mia Brema si prese cura di me, dico... Sì, sì. Ho solo ricevuto un colpo in testa da un martello di guerra, nulla di preoccupante, ed ero ancora in grado di impugnare le armi, dico... Sì, sì..." Mostrò a Brangor la zappa che aveva in mano. "Questa è una spada, dico... Sì, sì... Io so impugnare una spada, la mia Brema mi dava ragione."
Brangor lo ascoltava e provava sempre più pietà per l'uomo.
"Ho servito l'Impero per vent'anni, dico... Sì, sì." Fredor si sedette nuovamente di fronte a Brangor. "La mia Brema diceva; 'Hai sprecato il tuo tempo dietro a interessi di nobili che trattano come giocattoli i propri soldati'. Io non capivo, dico... Sì, sì. L'unica cosa che sapevo fare era uccidere e seguire gli ordini, dico... Sì, sì... Era semplice, ma ora non li so seguire più... Non so come si fa... Ora coltivo il mio pezzo di terra in compagnia degli alberi, dico... Sì, sì. Sono bravo, ma è stato tutto merito della mia Brema. Lei mi ha insegnato tutto, dico... Sì, sì. E poi la mia Brema rideva sempre quando gli dicevo; 'Se le persone fossero come gli alberi, non ci sarebbero più guerra e nessuno ti darebbe della Megera mia dolce moglie.' Quanto mi manca la mia Brema, dico... Sì, sì." Chinò la testa, gli occhi tristi.
"Chissà come ha fatto a sopravvivere per tutto questo tempo da solo..." Pensò Brangor.


*****


Con la mano serrata sull'avambraccio della giovane moglie, il Conte Clavis percorse in tutta fretta il lungo corridoio arredato da vari arazzi appesi alle pareti che raffiguravano strani e cupi paesaggi lontani o inesistenti. La giovane moglie cercava di dimenarsi e divincolarsi dalla sua presa, ma lui la teneva ben stretta a sé. Poi giunsero davanti a una porta socchiusa. Con la punta della scarpa, Il Conte Clavis spinse via la porta e gettò la donna all'interno della camera, che cadde a terra urtando quasi la testa sul pavimento.
"Dirò a mio fratello quello che mi stai facendo!" Ringhò lei, alzandosi e lanciandosi verso l'uomo.
Il Conte Clavis chiuse la porta di scatto, e la giovane moglie ci finì contro, gemendo dal dolore e cominciando a piangere e battere pugni sulla porta.
Il Conte Clavis girò la chiave nella serratura e la mise nella tasca. Quando si voltò, vide l'Elfo Scuro di fronte a sé, come se si fosse materializzato in quell'istante. Trasalì.
"Oh, dannazione! Mi hai fatto prendere un colpo!" Imprecò il Conte, buttando l'aria dai polmoni.
"Chiedo venia." Rispose l'Elfo Scuro, dal viso di pietra e con un vago e leggero sorriso compiaciuto sulle labbra.
"Com'è andata?"
"Bene. Ma devo dirti una cosa."
"Parla."
"Prima di morire, il Vampiro ha parlato di un certo 'Padrone'. Sai qualcosa al riguardo?" L'Elfo Scuro socchiuse leggermente gli occhi.
"Padrone? Che vuoi dire?" Il Conte Clavis aggrottò la fronte.
"Per questo te lo domandato."
"Non conosco nessun uomo con un sopranome simile, a meno che..."
"Non sia un uomo." Lo interruppe l'Elfo Scuro. "E naturalmente è così. I Vampiri servono solo altri Vampiri più antichi, più potenti, ma..."
"...Ma solo un potente Vampiro."
"E' quello che ho detto." L'Elfo Scuro si accigliò irritato.
"Credi che serviva un Vampiro Patriarca?" Chiese il Conte Clavis cercando di nascondere la sua paura.
"O potrebbe anche essere una donna; Un Vampiro Matriarca."
"Oh per i divini" Sbuffò il Conte Clavis, guardandosi ansiosamente intorno.


*****


"Che ne dici di parlare fuori da questo luogo?"
Erina non rispose, ma si alzò in piedi.
"Carceriere!" Gridò il Conte Hassildor. Con la testa china, l'uomo si affrettò a raggiungerlo. "Levagli le catene."
Il carceriere si avvicinò a Erina, che lo guardò da sotto un ciuffo di capelli arruffato. L'uomo girò la chiave nella grossa catena legate ai polsi della donna, la tolse, la prese e si voltò verso il Conte Hassildor, tenendo lo sguardo a terra.
"Informate le mie serve di preparare un bagno caldo per la mia ospite." Disse il Conte Hassildor al carceriere senza guardarlo in faccia. "E' assicurati personalmente che capiscono che l'acqua dev'essere calda, non tiepida."
Il Carcieriere annuì e lasciò con tutta fretta le segrete.
"Non sapete quanto io sia dispiaciuto di questo spiacevole inconveniente." Disse il Conte Vampiro.
Erina non rispose, gli occhi puntati sui suoi piedi scalzi e sporchi.
"Se le mie guardie avessero più giudizio di un granchio del fango, forse non sareste qui."
"Io vi ho colpito..." Rispose Erina, sorpresa di aver risposto di getto.
"Per una buona ragione. Ora vi prego di seguirmi." Il Conte Hassildor indicò l'uscita della cella con un ampio gesto della mano, come se Erina fosse una nobildonna in visita al castello.

Due ore dopo, verso il crepuscolo, due timide lune varcarono il cielo stellato. Erina era nella vasca, immersa nell'acqua calda. Gli occhi chiusi, il corpo completamente immerso eccetto per il viso. In quelle due ore si era scordata di tutto quello che aveva passato. Poi una serva fece capolinea nella stanza, portando sull'avambraccio un vestito di seta rosso con ricami dorati sulle spalle. Erina si destò subito da quel piacevole bagno, che oltre a lavare via lo sporco dalla sua pelle, gli aveva acquietata la mente. Guardò la serva, ma non disse nulla.
"Il Conte Hassildor desidera che indossiate questo vestito." Disse la serva, tenendo lo sguardo basso sul tappeto marrone.
"Grazie." Rispose Erina. "Faccio da sola."
"Il Conte Hassildor ha insistito che io vi aiutassi con..."
"Faccio da sola, grazie. Ora vai o puoi andare, insomma, hai capito."
La serva fece un leggero inchino e andò via, lanciando un occhio alle sue spalle.
Erina uscì dalla vasca, prese un asciugamano e si asciugò. Poi guardando il vestito di seta rosso steso sul letto, lo sfiorò con il dito, accarezzando ogni dettaglio e ricamo. "Nemmeno lavorando per tutta la vita potrei permettermi un vestito simile." Pensò con una nota di tristezza.

"Siete incantevole" Disse il Conte Hassildor quando Erina fece il suo ingresso nel suo studio. "Il bagno è stato di vostro gradimento?"
Erina annuì. I suoi capelli sciolti e un po' gonfi ricadevano quasi sulle sue spalle. La sala era illuminata fioche torce appese ai muri. 
"Vorrei che questa faccenda restasse tra noi." Aggiunse il Conte Vampiro. "La gente non deve sapere della mia... Vera identità. Confido nel vostro silenzio e nella vostra lealtà." si sedette lentamente dietro la scrivania. "E' una situazione al quanto strana, lo so, ma so che Netrom Morten tiene particolarmente a te."
"Lui sta bene?" Chiese Erina in un impeto di preoccupazione, sollevando la testa per essere sicura di essere udita. Poi abbassò lo sguardo e incrociò le mani davanti all'addome.
"Nessuna buona nuova. Sta esattamente come stava oggi."
"Quindi... Lui è qui? Gli hai fatto visita? Posso andarci anch'io?" Erina si avvicinò al Conte Vampiro, ma non si sedette.
"Sedetevi." Il Conte Hassildor indicò la sedia oltre la scrivania. "Ora va meglio. Ammetto che la mia idea originaria era quella di fargli visita. Poi ho scoperto della vostra presenza nelle segrete. Allora ho optato per incontravi e farvi uscire da quel luogo che non vi apparteneva. Inoltre, vi porgo le mie più umili scuse." L'espressione del Conte Vampiro rimase del tutto immutata, anche se quello che diceva lo pensava per davvero. 
"Non dovete scusarvi, C-Conte." Rispose Erina con un velo di disagio.
"Ma certo che vi devo delle scuse. Le mie guardie vi hanno gettata nelle segrete. Le mie prigioni non sono..." Il Conte Hassildor accennò un sorriso. "Non è importante. Ora vorrei sapere..."
"Non dirò niente a nessuno." Rispose Erina irrequieta. "Io starò in silenzio. Non dirò..."
"Non agitatevi." Rispose il Conte Hassildor. "Qui siete la benvenuta. Io non vi farò del male, come potrei d'altronde? Siete..." Il Conte Vampiro corrugò la fronte, non sicuro di quello che stava per dire. "Siete la donna di Netrom Morten, dopotutto."
"Sì... Cioè, noi..." Erina si incespicò con le parole. "Noi.. Non stiamo insieme."
"Allora vi chiedo venia. Sono stato... Informato male."
Erina non rispose, ma abbassò lo sguardo ai piedi della scrivania.
"Bene. Ora che ci siamo chiariti, dovrei far visita al mio buon amico Netrom Morten." Il Conte Hassildor guardò Erina, aspettandosi una risposta che aveva già intuito.
"Posso... Posso venire anch'io, C-Conte?" Rispose Erina con gli occhi spalancati dalla felicità, mista al terrore.


*****


"E' tutto pronto?" Chiese l'Elfo Scuro, uscendo nel portico fuori dalla villa del Conte Clavis.
"Sì. Aspettiamo i tuoi ordini." Rispose l'Imperiale, appoggiato di fianco su un pino, a dieci passi da lui.
"Andate, e non fatevi beccare dalla guardia cittadina."
"Non potrei andarci con l'Argoniano? L'orco è..." L'Imperiale distolse lo sguardo dal Mer.
"Niente storie! Ne ho abbastanza di voi due. Imparate a lavorare insieme, sennò..."
L'Imperiale abbassò lo sguardo. In quello stesso istante l'Orco li raggiunse, sbucando da dietro l'angolo della villa.
"Sono pronto, capo." Grugnì l'Orco. "Chi è il mio compagno?"
L'Elfo Scuro sbuffò e roteò gli occhi in aria "L'avete ricevuto il mio messaggio? L'avete letto?"
"Beh..." Disse incerto l'Orco, guardandosi attorno. "Penso che il servo... Insomma, uhm..."
L'Imperiale non rispose, ma dal suo viso non trasparì nulla.
"Voi due andate insieme. E questa volta non ammetterò errori. Inoltre, sarà l'ultima volta che vi lamenterete l'uno dell'altro, intesi?" L'Elfo Scuro li fulminò con gli occhi.
I due annuirono, intimoriti.

Quando l'Orco e l'Imperiale si diressero verso il carro su cui giaceva il vampiro avvolto da un telo di lana, nascosto sotto casse di vino economico, lattughe, carote, patate, mele, pere e pomodori, il Conte Clavis si accostò all'Elfo Scuro. Il Mer l'aveva visto arrivare, ma non si era girato, preferendo seguire con lo sguardo minaccioso i due che si allontanavano.
"Credi sia una decisione giusta mandare quei due a Skingrad?" Chiese il Conte, incrociando le mani dietro la schiena e tirando la testa indietro, assumendo un aria altezzosa.
"Che vuoi dire?" L'Elfo Scuro fece finta di non capire.
"Da quando sono arrivati qui, non fanno altro che litigare e azzuffarsi tra loro. Non hanno disciplina."
"E' solo una facciata."
"Una facciata?" Il Conte Clavis smorzò una lieve risata. "Quei due si faranno scoprire, e manderanno in malora il nostro piano."
"Da quando ti intendi di strategie?" L'Elfo Scuro si volse verso di lui.
"Cosa c'entra con quello che ti ho detto?" Rispose il Conte Clavis confuso.
"Risponditi da solo, Conte." L'Elfo Scuro andò verso il carro in partenza, mentre il Conte accigliato, lo guardò allontanarsi.


 
*****


Netrom Morten vagava nel vuoto. I suoi piedi spiccavano il volo, atterravano, cadevano, e s'immobilizzavano. L'oscurità l'aveva avvolto per l'ennesima volta, ma la voce di quella dolce donna all'orecchio non era svanita. Sussurrava melodie e parole che non capiva, ma che gli affrancavano l'anima. Poi si ritrovò catapultato in un luogo assai lontano, nel suo passato. La terra arida sotto i suoi piedi nudi sbuffava aria calda come un pentolone che stava per implodere. Non percepiva il calore, ma solo un vento gelido sulla sua pelle. "Dove mi trovo?" Pensò. "Perché sento soltanto freddo?"
Davanti a lui, un albero di betulla cadde da un precipizio, schiantandosi al suolo. Le foglie volteggiarono in aria, i rametti schizzarono lontani. Netrom Morten si avvicinò, scruto l'albero, ma non capì. D'un tratto udì lo scalpitio di un cavallo, poi di un altro e una altro ancora. Una dozzina di cavalieri armati di tutto punto si fermarono davanti a lui. Gli occhi verdi dei cavalli corazzati sembravano fissare quelli di Netrom Morten. Il cavaliere in testa alla colonna, scese dal cavallo, sfoderò la spada dal fianco e puntò la lama contro il Bretone. Indossavano armature d'ebano sporche di sangue coagulato e sbiadite. Portavano un elmo a maschera che celava i loro visi.
"Negromante!" La voce del cavaliere risuonò distorta, metallica e malefica. Poi senza dire una parola puntò la lama verso Est. 
Netrom Morten guardò in quella direzione. Scorse grossi fumi neri levarsi al cielo dietro una collina punteggiata da alberi e cespugli. Quando il Bretone tornò a guardare il Cavaliere, lui e il suo seguito erano svaniti, tranne il suo cavallo nero. Netrom Morten gli si avvicinò e cercò di accarezzargli il muso, ma il cavallo tentò di morderlo con i suoi denti affilati. Non era un comune cavallo. Il cavallo gli faceva segnò di salire in groppa con la testa. Quando fu salito, il vuoto lo risucchiò per pochi istanti e lo sputò fuori vicino a un villaggio. Netrom Morten era terra, il cavallo affianco a lui che lo fissava immobile. Il Bretone si alzò e scorse un villaggio in fiamme. Alcuni esseri, che sembravano più fumi neri umanoidi, armati di spade, asce e mazze correvano da tutte le parti, afferrando le donne dai capelli e sgozzandole. I Bambini in vita venivano gettati in pasto alle fiamme dentro le casupole, dove lingue di fuoco si innalzavano al cielo con sussurri e risate malefiche. Gli uomini squartati e mutilati, venivano impalati tutt'attorno al villaggio. Oltre il caos, le fiamme, il sangue, la morte, circondato da quelli che sembravano scheletri in armatura d'ebano, Netrom Morten intravide una sagoma curvata su un bastone. Era lui che sorrideva compiaciuto.

 

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Capitolo 7
*** La donna e il vecchio ***


L'Imperiale spinse il palafreno che trainava il carretto lungo la stradina mentre l'Orco si guardava attorno. Il carretto aveva un carico prevalentemente leggero, fatta eccezioni per il Vampiro morto. La vegetazione inghiottiva i bordi rialzati della stradina. Le fronde degli alberi coprivano quasi interamente la volta del cielo sulla pista, e di tanto in tanto alcuni lunghi rami sfioravano i loro visi. I due sobbalzavano di continuo sul carretto per via della strada accidentata.
"Potevi prendere la strada secondaria." Grugnì l'Orco infastidito, mentre con una mano spostava un rametto dalla suo viso.
"Quale strade?" Rispose l'Imperiale, abbassando il viso per non farsi toccare dalle foglie.
"Mi prendi in giro?"
"Se conosci questo bosco perché non guidi tu il carro?" L'Imperiale fece per dargli le redini del cavallo, ma l'Orco grugnì. L'imperiale smorzò un sorriso.
"Questi boschi sono tutti uguali." Disse l'Orco corrugando la fronte. "Forse nemmeno esiste una strada secondaria."
"Allora perché mi hai detto di prendere la strada secondaria?"
"Perché c'è sempre una strada secondaria." 
"Ma ora hai detto che non esiste."
"Ho detto che 'forse' non esiste." Sottolineò l'Orco irritato.
"Beh, allora perché ti contraddici?" L'Imperiale voleva farlo arrabbiare.
L'Orco si voltò, serrò gli occhi. "Ora ti frantumerei quel tuo fottuto cranio del cazzo con le mie mani, ma..." 
"..Ma non puoi." Sorrise beffardo l'Imperiale.
L'Orco grugnì, serrando i denti. "Fottuto Imperiale!"
"Tieni in mente le parole del capo." Sorrise nuovamente, guardando la strada davanti a sé, anziché l'Orco.

Il carretto procedeva lento, sobbalzando di tanto in tanto sul terreno accidentato. La boscaglia lentamente si aprì verso una piatta radura erbosa in cui gli alberi lasciavano spazio a rocce e ceppi disseminati un po' ovunque. Poco lontano da loro, una decina di persone erano a ridosso su uno dei tre carri fermi sul ciglio della stradina sterrata. L'Imperiale tirò le redini. Il cavallo sbuffò. L'orco portò una mano sul manico del martello da guerra d'argento legato dietro la schiena.
"Fermo." Disse l'Imperiale. "Andiamo a vedere."
"Può essere una trappola." Rispose l'Orco.
"Oppure no. Ti ricordi che dobbiamo incontrare qualcuno?"
"Sì, ma non intendo lasciare il carretto incustodito." L'Orco incrociò le braccia.
L'Imperiale lo guardò per un momento. "Va bene. Aspettami qua. Vado a controllare." Scese dal carretto. 
L'Orco fece altrettanto. Impugnò il martello da guerra d'argento e si guardò attorno.
L'Imperiale s'incamminò verso i carrettieri. Erano sette in tutto. Quattro Khajiit erano ricurvi sul fianco del carro cui mancava una ruota, mentre gli altri tre, due Imperiali e un Nord, erano alle loro spalle. 
L'Imperiale rimase a guardarli finché un Khajiit dal pelo giallastro si girò. "Ehi tu! Chi sei?" Tutti si voltarono all'unisono, tranne un Khajiit dal pelo ramato, vestito con abiti di lino che restò ricurvo sulla ruota. 
"Siete in difficoltà?" Chiese l'Imperiale.
"A te cosa importa?" Chiese il Khajiit dal pelo giallastro con chiazze nere sul corpo, che stranamente non parlava di sé in terza persona. Indossava una camicia verdastra e un pantalone marrone sporchi di fango.
"Volevo solo essere d'aiuto."
"Tornatene da dove sei venuto. Non vogliamo impiccioni, qui." Tutti annuirono e borbottarono qualcosa tra loro.
L'Imperiale fece un sorriso forzato e fece per andare via.
"Va'rlen dice Aspetta!" Disse una voce; era il Khajiit ricurvo sulla ruota.
L'imperiale si voltò. Tutti gli altri si guardarono tra loro confusi.
"Va'rlen dice avvicinati." Disse il Khajiit dal pelo ramato. 
L'imperiale lo raggiunse, mentre gli altri lo guardarono in malo modo.
"Var'len dice la zuppa è ancora calda?" Sussurrò il Khajiit voltando il viso felino verso di lui.
"Molto calda." Rispose l'Imperiale.
"Va'rlen dice sono compiaciuto." Sussurrò il Khajiit in un lungo flebile respiro. Poi si alzò. "Na'mar! Va'rlen dice prendi il mio posto."
Il Khajiit dal pelo giallastro si affrettò a raggiungerlo e lo guardò.
"Va'rlen dice cambia la ruota. Mi sbagliavo. Il carro non è danneggiato."
Na'mar annuì. Gli altri, ancora confusi, guardarono Va'rlen in attesa di spiegazioni.
"Va'rlen dice questo è un mio vecchio amico." Disse, indicando l'Imperiale "Il suo nome è Filandus Bark. Non abbiate paura. E' un uomo dal cuore semplice." Mentì.
Tutti si guardarono tra loro e annuirono lievemente.
"Va'rlen dice ora se vogliate scusarci, vorrei scambiare due chiacchiere con lui. Sapete, è da anni che non lo incontro."

"Va'rlen" Disse l'Imperiale, mentre raggiungevano il suo carretto. L'orco li guardò arrivare, ma fece finta di non vederli.
"Va'rlen dice vedo che rimembri ancora il mio nome, Imperiale." Rispose il Khajiit in un sibilo compiaciuto. "Va'rlen dice sono qui da due ore. Vi siete persi durante il tragitto?"
"Chiedo venia per l'attesa, ma a quanto pare siamo partiti in ritardo."
"Va'rlen dice l'Elfo Scuro mi ha ordinato di essere qui quando il sole sarebbe stato alto sulle nostre teste."
"Noi siamo partiti oltre mezzogiorno."
"Va'rlen dice dovevo aspettarmelo. Mi ha fatto partire prima..." Allungò la parola con un leggero suono malizioso. "Va'rlen dice a quanto pare non si fida di me."
"E tu di lui, immagino."
Va'rlen sorrise facendo uscire le zanne. "Va'rlen dice mi ha promesso 600 Septim solo per farvi entrare a Skingrad, il ché mi ha fatto dimenticare del perché non mi fido di lui."
L'Imperiale sorrise, non capendo il suo ragionamento; come poteva la promessa di monete mutare la sua fiducia verso l'Elfo Scuro.
Arrivarono di fronte al carro. L'Orco gettò un fugace sguardo al Khajiit, poi in un grugnito, gli diede le spalle.
"Va'rlen dice ce l'ha ancora con me?" Chiese il Khajiit all'Imperiale.
"E chi lo sa." Rispose l'uomo. "La mente di un Orco è come una bufera di neve a Skyrim. Non sai mai quanto inizia e sopratutto quando e come finisce."
Va'rlen sorrise, scoprendo le zanne. "Va'rlen dice fammi vedere il Vampiro."
L'Imperiale sollevò il telo di lana. Il Vampiro giaceva immobile, gli occhi vitrei fissi al cielo.
"Va'rlen dice dovresti coprirlo con delle altre casse. Potrebbero notarlo con un carico così leggero." Disse il Khajiit. "Le guardie di Skingrad sono incorruttibili, quindi se scoprissero il cadavere..."
"Va'rlen!" Lo interruppe l'Orco, che si era deciso a rivolgergli la parola. "Mi devi 250 Septim!" Serrò le dita sul manico del martello da guerra d'argento pronto a spaccargli la testa felina.
Il Khajiit sorrise falsamente, lanciando un occhiata alle sue mani. "Va'rlen dice oh ma che piacevole sorpresa. Non ti avevo proprio visto, sai. E poi, rimembri ancora il mio nome." Sorrise mostrando le zanne.
l'Orco grugnì irritato e sbuffò dalle narici.


 
*****


Un corvo gracchiava fuori dal fienile. Brangor si alzò lentamente, si mise seduto sul giaciglio di paglia e si guardò intorno. Non vide nessun cavallo, e nemmeno Fredor. "Che io sia dannato! Mi sono immaginato tutto?" Pensò. Poi mettendo le mani su un sostegno di legno, si issò in piedi. Strascicò i piedi fino all'entrata, passando da un sostegno di legno all'altro. Non sentiva nemmeno odore di letame.
Quando raggiunse l'arco della porta scorrevole, che era già spalancata, vide due uomini e un vecchio. 
"260 Septim. Non di più, vecchio." Disse l'uomo con una grossa cicatrice sulla guancia. Dall'aspetto doveva essere un tagliagole. Indossava un armatura di cuoio e una spada lunga al fianco. 
"300 Septim, dico... Sì, sì." Rispose il vecchio, mentre accarezzava il muso del cavallo pezzato.
"Vuoi derubarci, forse?" Sottolineò il secondo uomo grasso, dall'aspetto poco raccomandabile. Era vestito con una giacca di cuoio marrone, una camicia grigiastra e un pantalone nero sporchi di terra. Al fianco, una mazza ferrata dalla testa in ferro arrugginita.
"Tu e io l'avevamo pattuito, dico... Sì, sì. 300 Septim, tu hai detto... Sì, sì." Fredor sorrise senza denti.
"Sai che ti dico, vecchio?" Disse l'uomo con la cicatrice. "Ti taglio la gola e mi prendo i tuoi cavalli."
"Sì, ammazziamolo!" Concordò l'uomo grasso, accarezzando l'elsa della mazza ferrata con le dita.
Brangor mosse un piede per aiutare Fredor, ma qualcuno sbucò da dietro un grosso abete. 
"Torcetegli un capello, e io vi stacco le palle e ve le faccio ingoiare!" La donna, due stiletti d'acciaio nelle mani, si avvicinò loro. Indossava una lunga e bucherellata camicia di cotone marrone chiaro che lasciavano intravedere le sue gambe snelle. Grandi occhi verde smeraldo, scompigliati capelli neri tagliati fino all'esile mento e un naso adunco, né troppo grande né troppo piccolo.
L'uomo grasso deglutì, mentre l'uomo con la cicatrice distolse lo sguardo da lei.
"Fuori i Septim! Subito!" Disse la donna.
Evitando il suo sguardo, l'uomo grasso slacciò dal fianco la borsa di monete e fece per darglielo.
"Non a me!" Disse la donna.
L'uomo grasso lo posò nelle mani ossute e raggrinzite di Fredor.
"300 Septim, dico... Sì, sì." Disse il vecchio. "I cavalli sono tuoi, dico... Sì, sì."
L'uomo con la cicatrice fece per toccare il cavallo pezzato, ma la donna lo fermò."Non toccarlo! Prima deve contare l'oro."
Fredor non capì e guardò la donna. Poi abbassò lo sguardo sulla borsa di monete nelle sue mani. "300 Septim devo contare, dice... Sì, sì." Li buttò tutti per terra.
L'uomo grasso rise, seguito dall'uomo con la cicatrice.
"Allora volete proprio morire!" Li minacciò la donna.
"No, non volevo..." L'uomo grasso abbassò lo sguardo, e altrettanto fece l'uomo con la cicatrice.
"Cinque, sei, otto, dico... No, no." Disse Fredor seduto sui talloni, mentre contava con le dita i septim sparsi nella terra come un bambino. "Prima viene il sette, o il sei dopo il sette, dico... No, no." Poi alzò lo sguardo verso la donna in cerca di aiuto.
La donna sbuffò e andò da lui, lanciando occhiate minacciose verso i due uomini che se ne stavano fermi.
"Non devi buttarli per terra per contarli." Disse la donna, curvandosi verso Fredor.
L'uomo grasso fece per indietreggiare, ma la donna se ne accorse. "Ti ho detto di andare?" Gli puntò lo stiletto contro.
L'uomo grasso non rispose.
"Recupera le monete. Lo conterò per te."
Fredor gli sorrise senza denti. Fece come ordinato.

Poco dopo la donna finì di contare le monete. "Ci sono tutti! Prendete i cavalli e sparite dalla mia vista!"
L'uomo grasso si affrettò a prendere le redini del cavallo pezzato, mentre l'uomo con la cicatrice cercò di avvicinarsi a lei.
"Non un altro passo!" Gli intimò lei.
"Voglio parlare di affari."Rispose lui accennando un lieve sorriso terrorizzato.
"Non siete più degni di fare affari con me." 
"Riguardo a prima... E' stato solo un malinteso."
"Prendervi gioco di un vecchio?" La donna si avvicinò all'uomo con la cicatrice, ma lui indietreggio. "Lo chiami malinteso?"
"Io... Ehm..." L'uomo con la cicatrice guardò i due stiletti e deglutì.
"Dite al vostro capo che la prossima volta dovrà venire di persona a trattare con me." La donna puntò lo stiletto contro di lui. "Se rivedo un altra volta le vostre facce schifose..."
"Ho capito, ho capito." L'uomo con la cicatrice camminò all'indietro, senza mai voltare le spalle alla donna per paura di ritrovarsi una pugnalata dietro la schiena o la gola tagliata.
Fredor si avvicinò alla donna. "La mia Brema avrebbe capito, dico... Sì, sì."
"Che cosa?" Chiese lei perplessa.
"Che non è colpa loro se sono così, dico... Sì, sì."
"E di chi allora?"
"Della gente cattiva che fa infetta gli altri come la peste, dico... Sì, sì. La gente diventa cattiva perché altra gente cattiva la fa diventare cattiva, dico... Sì, sì."
La donna gli fece un sorriso dolce, ma subito tornò seria poiché i due uomini vicino ai cavalli la stavano guardando.
"Che avete da guardare? Sparite!" Urlò lei.
I due uomini si affrettarono legare i cavalli in fila indiana e sparirono dietro gli abeti dal folto fogliame.
"Gli ho prestato le corde, dico... Sì, sì." Disse Fredor a lei. "Mi hanno detto che l'avevano perse, dicevano... Sì, sì."
"Così come hanno perso il cervello strada facendo." Concluse lei, voltandosi verso il fienile. Incrociò lo sguardo di Brangor che con un braccio si manteneva sull'asse della porta del fienile


 
*****


Il capo della guardia cittadina si diresse verso la gilda dei maghi, spalancò la porta, entrò e si guardò attorno. Gli apprendisti e i maghi, affaccendanti sulle loro pozioni e libri, alzarono lo sguardo confusi. 
"Dov'è il guaritore?" Gridò il capo della guardia cittadina per essere certo di farsi udire da tutti.
"Di chi parlate?" Disse irritata Adrienne Berene, scendendo dalle scale; il viso dall'aspetto austero e severo, i capelli biondi legati con uno spago. Indossava un lungo farsetto blu fino a piedi con ricami dorati. La gilda dei Maghi di Skingrad era un luogo silenzioso dove raramente si sentiva la gente chiacchierare. Gli apprendisti erano perennemente con la testa sui libri, e i maghi che insegnavano le varie discipline della Magicka, si accertavano che studiassero, eccetto per chi praticava dubbi esperimenti. La gente di Cyrodiil pensava che i maghi delle gilde fossero persone subdole e violente, ma non era così. Ovviamente le mele marce erano ovunque.
"Dov'è il guaritore?." Ripeté l'uomo. Una dozzina di guardie entrarono dentro la sala d'ingresso della Gilda dei Maghi, mentre gli apprendisti e i maghi indietreggiarono un poco spaventati.
Adrienne Berene li scrutò per un momento. "E' necessario tutto questo trambusto?" Nascondeva a fatica il volto irritato. Odiava quando veniva disturbata.
"Non ve lo ripeterò un altra volta! Dov'è il guaritore?"
"Qui non vive nessun guaritore!" Adrienne cercò di mantenere la calma.
"Mentite!"
"Ora ne ho abbastanza!" Urlò lei; il capo dei maghi. "Lasciate subito questa sede, prima che..."
Le guardie cittadine sguainarono le spade e le mazze ferrate. "Fermi!" Tuonò il capo della guardia cittadina alzando un mano.
"Questa è la Gilda dei Maghi di Skigrand!" Adrienne si avvicinò al capo della guardia cittadina. "Come osate entrare qui..."
"Dov'è il guaritore?" Ripeté un'altra volta il capo della guardia cittadina a qualche pollice dal viso della donna.
Adrienne serrò gli occhi rabbiosi. Appena mosse le mani, lui gli bloccò i polsi, onde evitare che usasse qualche magia. "Trovatelo!" Ordinò l'uomo alle guardie cittadine.
Gli apprendisti e maghi si misero di spalle al muro, cercando confusi lo sguardo di Adrienne. Le guardie cittadine si affrettarono a setacciare le varie camere.
"Non volevo arrivare a questo punto." Disse il Capo della guardia cittadina. "Mi avete costretto."
"Informerò il Conte Hassildor di quanto è accaduto. Vi farò uccidere!" Rispose Adrienne arrabbiata, cercando inutilmente di divincolarsi dalla sua presa.
"E il Conte che mi manda."
Adrienne smise di dimenarsi.


 
*****


"Oh Netrom..." Erina accarezzò la lunga e folta barba del Bretone. Poi posò due dita sulla fronte. "Scotta!" Si voltò verso il Conte Hassildor che era in piedi alle sue spalle come un ombra.
"Qualcuno gli ha fatto un incantesimo." Rispose il Conte Vampiro.
"Chi può essere stato?"
"Alla locanda era già messo male... Ma il Guaritore potrebbe aver fatto qualcosa."
"Ma..." Erina guardò il viso sudato di Netrom Morten, mentre i suoi occhi si muovevano freneticamente sotto le palpebre. "...Forse è solo colpa mia."
"No!" Il Conte Hassildor si sedette vicino a lei, la metà del suo viso illuminata da una candela adagiata sul comodino. "E' sotto un incantesimo potente. Ed era così ancor prima che tu..."
"Mi dispiace tanto." Erina cercò di non piangere. "Io non volevo farlo..."
Il Conte Hassildor vide la vena del suo collo pulsare sotto la pelle "Solo un assaggio..." Bisbigliò una contorta e maligna voce nella sua testa. Distolse subito lo sguardo. "E' meglio che vi lasci da sola." Si alzò in piedi. "Magari vorreste..." In realtà sapeva cosa dire, ma non ricordava le parole.
Erina lo guardò, gli occhi rossi dalle lacrime che cercava di trattenere.
Il Conte Vampiro fissò nuovamente le vene del suo collo. "Nessuno lo saprà mai..." Echeggiò la voce maligna nella sua testa. 
Erina trasalì, nascondendo il collo nelle spalle. "Oh no, di nuovo quello sguardo." Pensò.
Il Conte Hassildor scosse la testa, distolse lo sguardo e senza dire una parola lasciò la camera.
Erina fissò a lungo la porta. Non si fidava a dargli le spalle. "Non posso voltarmi." Pensò. "Alla prima occasione mi salterà alle spalle. Arriverà quando meno me l'aspetto. Sono sua prigioniera, non sua ospite. Mi ucciderà."
D'un tratto entrò una guardia. Erina sobbalzò dalla sedia spaventata. "Oh mi scusi, signora."
"Signorina, prego." Disse Erina in un impeto di arroganza, sorprendendosi della sua stessa voce e reazione, quando poco prima stava crollando dal terrore. 
La guardia annuì. "Sono di guardia alla camera. Se vi serve qualcosa, qualunque cosa, non esitate a chiedere."
"Va bene." Rispose Erina, non sapendo che gergo usare in questo contesto. "Allora... Siete congedato."
"Non posso congedarmi dall'ordine che mi ha affidato il Conte Hassildor."
Erina sforzò un sorriso, non sapendo che parole usare. "Allora fai quello che vuoi."
La guardia annuì confusa, uscì dalla camera. 
Erina spostò la sedia in modo che potesse vedere sia la porta, sorvegliata dalla guardia, che Netrom Morten. "Magari quella guardia è un Vampiro." Pensò Erina. "Il Conte Hassildor non vuole che lasci la stanza. Vuole bere il mio sangue. Quella guardia mi ucciderà se gli volto le spalle. Magari tutto il castello è un covo di Vampiri." Iniziarono a tremargli le mani per l'ansia.


 
*****


"Stai lontano da mio padre!" Urlò la donna, che si avvicinò minacciosa verso Brangor, le lame degli stiletti puntati contro il Nord.
"No, no, lui non è cattivo, dico... Sì, sì." Fredor zoppicò verso Brangor. Poi fermò la donna frapponendosi tra loro. "Lui era morto, dico... No, no... Lui era morto ma non era morto, dico... Sì, sì."
La donna alzò un sopracciglio. "E' un non-morto?"
Fredor si curvò verso l'addome di Brangor e indicò la fasciatura con le dita ossute e raggrinzite come un bambino curioso. "Lui è così, dico... Sì, sì."
"Hai curato questo... caprone." La donna lo guardò dall'alto in basso.
"Ehi!" Disse Brangor con un filo di voce che gli morì in gola per un lieve bruciore.
"Oh lui ora parla, dico... Sì, sì." Disse Fredor con gli occhi sprizzanti di felicità. "Lui prima non parlava, dico... Sì, sì. Voleva, ma..."
"Va bene, va bene." Disse la donna. "Ma non devi curare o salvare chiunque ti capiti a tiro, padre. La maggior parte di loro è solo lurida feccia, e lui non è da meno. Basta guardarlo per capirlo."
Brangor serrò gli occhi dalla rabbia. La donna se ne accorse. "Hai visto? Sono tutti uguali."
"No, no, lui non è cattivo, dico... Sì, sì." Fredor palpò la faccia di Brangor, strinse le guance e tirò la barba. "Visto? Lui è come noi, dico... Sì, sì." Poi si toccò la faccia per farlo comprendere meglio alla donna.
"Se ne avesse la possibilità, ti pugnalerebbe senza remore." Sottolineò la donna. "Come quei due farabutti di prima..."
"Io non..." Brangor si portò le mani alla gola, come se qualcosa stesse prendendo fuoco al suo interno. Poi frettolosamente, cominciò a respirare a pieni polmoni come se questo potesse alleviargli il dolore.
"Respira con calma, dico... Sì, sì." Fredor, le dita che gli tremavano un poco, prese le mani di Brangor e gliele tolse dal collo. "E' colpa mia, dico... Sì, sì. Invece di farti bere l'acqua, ti ho dato della birra fatta in casa, dico... Sì, sì. Avevi le labbra secche e screpolate, dico... Sì, sì. Ho confuso le bottiglie, dico... Sì, sì. E' colpa ma, dico... Sì, sì. Anche me capita di bere birra invece dell'acqua, dico... Sì, sì." Fece un vago sorriso senza denti, come un bambino che sa di aver fatto una marachella
La donna smorzò un sorriso tra i denti.


 
*****


"Va'rlen dice ai dadi si perde e si vince. Dovresti saperlo. E tu hai perso."
"Hai barato, sporco Khajiit!"
"Va'rlen dice la prossima volta ti darò la rivincita."
"Voglio il mio oro!"
L'Imperiale si avvicinò all'Orco. "Non è il momento di litigare."
L'Orco grugnì furioso. 
"Va'rlen ci aiuterà a entrare a Skingrad."
"Non ci serve il suo aiuto."
"Va'rlen dice oh sì che vi servo." Il Khajiit sogghignò. "Le guardie cittadine sembrano zombie senza cervello, ma gli uomini di guardia al cancello la sanno lunga. Il Conte Hassildor sceglie con cura dove posizionarli. I meno capaci vengono messi ai cancelli e sulle mura."
"I meno capaci?" Sottolineò l'Orco. "Allora sono stupidi come Troll, e tu non ci servi, perché sei più stupido di loro!"
"Va'rlen dice niente affatto." Sibilò il Khajiit mellifluo. "Meno capaci vuole dire meno leali o di dubbia lealtà. Non vi lasceranno passare. Non con quel carico così leggero. E poi..."
"Ho capito. Il vampiro morto è un problema." Disse l'Imperiale. "Ma ci penserai tu a farci passare."
"Va'rlen dice per questo sono qui." Mostrò le zanne in un sorriso.
"Allora noi a cosa serviamo?" Disse l'Orco all'Imperiale. "Se tocca a questo schifoso Khajiit farci entrare in città, allora perché non si occupa pure del succhiasangue?"
"Va'rlen dice da quando gli orchi si pongono domande?" Sorrise beffardo Va'rlen.
Con una grossa manata, l'Orco scaraventò via l'Imperiale e si lanciò contro il Khajiit, sollevando il pesante martello da guerra d'argento. Va'rlen gli sgattagliolò alle spalle, sfoderò il pugnale di ferro e premette la lama sulla gola dell'Orco, che rimase sorpreso dalla velocità del Khajiit.
"Va'rlen dice potrei ucciderti o..." Sibilò compiaciuto il Khajiit.
"Fermati!" Disse l'Imperiale alzandosi da terra e pulendosi la polvere di dosso.
Lentamente, l'Orco fece scivolare la possente mano sinistra sopra la testa del Khajiit, che si era voltato verso l'Imperiale. CRACK! Il cranio di Va'rlen gli implose nella mano come un uovo, il sangue schizzò ovunque assieme a brandelli di cervella e ossa. Va'rlen si afflosciò sulle spalle dell'Orco, macchiandolo di sangue e cervella. Della faccia del Khajiit rimaneva solo mezza mascella distrutta da cui zampillava il sangue e un bulbo oculare dall'iride nero incastrato nell'esofago.
"Cosa cazzo hai fatto!" Urlò l'Imperiale, incredulo. 
L'Orco buttò a terra il Khajiit, la testa ridotta a una poltiglia.
"Hai..." L'Imperiale non riuscì a completare la frase, quando giunsero i compagni di Va'rlen. Questi dapprima guardarono il corpo senza vita del felino, poi sguainarono spade e coltelli. Non vollero sapere cosa fosse successo. Vedere la mano dell'Orco sporca di sangue era già una risposta. I tre Khajiit si lanciarono contro l'Orco, mentre i due Imperiale e il Nord, si lanciarono contro l'Imperiale. 
L'Orco mulinò in aria il suo martello da guerra d'argento, frantumando con la sua estremità il braccio sinistro del Khajiit dal pelo grigiastro che urlò dal dolore e cadde a terra, la spada volò lontano. 
I Due Imperiali accerchiarono l'Imperiale, mentre il Nord, che era di fianco, gli sferrò un lento fendente con la spada di ferro. Era chiaro che non sapeva usare la spada. L'Imperiale deviò il colpo spostandosi di lato. Poi gli sferrò un calcio dietro il ginocchio, la gamba si piegò in avanti. Senza aspettare che si rialzasse, l'Imperiale gli piantò rapidamente la lama sotto l'ascella. L'uomo cadde in avanti, ansimando.
Nel frattanto, l'Orco colpì con un potente calcio la mascella del Khajjit dal pelo grigiastro che era terra. Il felino sbatté la testa sul terreno, il braccio sinistro che gli penzolava. Poi, mulinando in aria il martello da guerra d'argento, allontanò i due Khajiit che tentavano di aggirarlo e colpirlo, mise il grosso stivale sulla testa del Khajiit dal pelo grigiastro e lo schiacciò usando tutto il suo peso. Brandelli di cervella schizzarono addosso ai due Khajiit, che si paralizzarono disgustati. L'Orco grugnì e rise. 
L'Imperiale sfruttò questa opportunità per indietreggiare velocemente e infilzare un Khajiit alle spalle, all'altezza dello sterno. Quello cadde a terra come un sacco di patate. L'altro Khajiit dal pelo giallastro, Na'mar, si voltò e saltò di lato. Finì inconsapevolmente contro il martello da guerra d'argento dell'Orco, che gli frantumò parzialmente la testa, gli occhi fuoriuscirono dalle orbite, i denti saltarono via.
I due Imperiali assistettero alla scena senza muovere un muscolo. L'implosione del cranio del Khajiit dal pelo grigiastro li aveva quasi fatto vomitare. Ed erano rimasti fermi a guardare il resto del massacro. Non erano abituati a tale violenza, essendo solo dei carrettieri.
L'Orco si mosse verso loro. Quelli fuggirono via a gambe levate, lanciando in aria i due coltelli.
"Non possiamo farli scappare!" Urlò l'Orco. "Inseguili! Non sono veloce quanto te!"
L'Imperiale corrugò la fronte e si mise a inseguirli, afferrando i due coltelli per terra lasciati dai due uomini.
Mentre correvano, i due Imperiali, uno con corti capelli neri e l'altro stempiato, erano attenti a non perdersi di vista. Dopo aver scalato un piccolo avvallamento erboso, l'Imperiale raggiunse l'uomo con i corti capelli neri. Lo infilzò in corsa, dietro la schiena. L'uomo cadde dapprima a carponi, poi di faccia a terra. Il secondo uomo stempiato, accorgendosi che il compagno era morto, aumentò la velocità. L'Imperiale lo segui per un po', attraverso la radura, saltando gli ammassi rocciosi e deviando i ceppi che sbucavano dall'erba come funghi. Ma era troppo veloce per lui. Si fermò, prese la mira e lanciò un coltello. L'uomo stempiato cadde a terra, il coltello piantato nella coscia. L'aveva centrato solo per pura fortuna o sfortuna dell'uomo. 
Poi lo raggiunse rapidamente. 
L'uomo stempiato alzò le mani. "Pietà! Vi prego! Abbiate pietà." Si trascinò con i gomiti verso un ceppo.
L'Imperiale si piegò verso di lui.
"Ho moglie e..." D'un tratto l'uomo stempiato vide il sangue sgorgare dalla sua gola. Non si era accorto della lama della spada dell'Imperiale. Si mise le mani alla gola, cercando di fermare il sangue. Rantolò per un po', gemette, parlò mentre soffocava nel suo stesso sangue. L'Imperiale lo guardò morire senza fiatare. 


 
*****


Il Conte Hassildor camminava lungo il corridoio che portava alla sue camere. Aprì la porta del suo studio e la chiuse alle spalle. Hal-Liurz sedeva su una panca intenta a leggere un libro intitolato; La vogliosa cameriera Argoniana: Volume II. Appena udì la porta chiudersi, sollevò gli occhi da sopra le pagine.
Il Conte Hassildor la raggiunse. "C'è troppa luce." Socchiuse gli occhi rossi infastidito.
"Chiedo venia, Conte." Hal-Liurz chiuse il libro, lo posò sulla panca e si alzò. "Stavo leggendo."
Il Conte Hassildor annuì freddamente.
"Spengo qualche candela." L'Argoniana fece per andare.
"Non serve. Tornate pure al vostro libro." Disse Conte Hassildor con tono gelido. "Non intendo restare nel mio studio. Mi ritirò nella mia camera."
Hal-Liurz guizzò gli occhi dall'iride arancione scuro. "Vi sentite bene, Conte?"
Il Conte Vampiro lo guardò per un istante. "Non voglio essere disturbato."
L'Argoniana annuì, chinando leggermente la testa squamosa. "Gli è successo qualcosa." Pensò. "Sono al suo servizio da troppi anni da notare ciò che altri non vedono. Sarà meglio non disturbarlo."
Quando il Conte Hassildor ebbe chiuso dietro di sé la porta della camera da letto, rimase per un po' fermo, la mano pallida sulla maniglia. Poi andò a sedersi sul letto, gli occhi fissi sul freddo pavimento, la mente persa chissà dove. "Solo un assaggiò..." Echeggiò la voce maligna nella sua testa. "Una goccia... Un sorso..." La faccia del Conte Hassildor rimase impassibile al suo tormento.


 
*****


"...Non puoi sfuggire al tuo passato..." Una voce metallica, maligna fece eco nella cella vuota in cui si trovava Netrom Morten. Indossava luridi stracci che puzzavano di escrementi di ratto, i piedi sporchi sulla fredda pietra.
"...Perché ti ostini a combattermi..?" La voce maligna lo raggiunse alle spalle. "...Tu ed io eravamo una solo essere..." Sibilò in entrambe le orecchie del Bretone.
Netrom Morten si tappò le orecchie con le mani, le spalle ricoperte da morsi.
Una sagoma nera si materializzò davanti alla sua faccia, gli occhi violacei. Il suo corpo vibrava e sprigionava sottili fumi neri che si dissolvevano nell'aria. "...Non mi lasci altra scelta..." Tuonò l'essere. Il pavimento e le pareti tremarono, la polvere venne giù dal soffitto avvolto nell'oscurità.
D'un tratto l'essere scomparve. La cella era cambiata. Non era più vuota.
Vide le mura tappezzate dal muschio, i fasci della luna filtrare attraverso una finestrella con delle sbarre di ferro, il giaciglio di paglia sporco di piscio e merda, uno sgabello a terra, un secchio pieno fino all'orlo di feci. L'acre odore gli invase le narici, i polmoni. Vomitò qualcosa. Qualcosa che non riconobbe. Poi udì dei pesanti stivali d'acciaio echeggiare lontani nel corridoio fuori dalla cella. Guardò davanti a sé la porta arcuata con le sbarre di ferro arrugginito. "Ricordo questo..." Pensò, quando qualcuno trapassò il suo corpo, distogliendolo dai sui pensieri. Si accorse solo in quel momento che stava rivivendo un suo vago e lontano ricordo. L'uomo era lui, vestito con gli stessi stracci che portava addosso. Un po' più giovane, meno rughe, barba incolta e sporca, capelli neri scompigliati. Da giovane aveva sempre curato il suo aspetto. Ma ora, quella sagoma che gli assomigliava sembrava tale e quale a lui da anziano in quelle condizioni. Vide se stesso, Netrom Morten da giovane, avvicinarsi alla porta della cella, mentre l'eco degli stivali si fecero sempre più vicino. Strinse le dita sulle sbarre arrugginite, guardò fuori. Due ombre si proiettarono sullo sfondo, allungandosi e restringendosi. La debole luce della candela che illuminava il corridoio si spense improvvisamente.
Netrom Morten da giovane si voltò a sinistra. C'era un'altro uomo nell'ombra. Netrom Morten non l'aveva visto. Portava solo un panno lacerato nelle parti intime, la pelle sporca, squarciata da molteplici frustate, barba e capelli lunghi e arruffati. 
L'uomo si alzò in piedi, raggiunse Netrom Morten giovane. "Non lasciare che mi prendano..." Disse con un filo di voce, il viso nascosto sotto la barba e i capelli increspati e sporchi. 
Netrom Morten giovane lo guardò per un momento, finché la serratura stridette. Un uomo con una tunica nera fece il suo ingresso, il viso ombrato dal cappuccio, seguito alle spalle da una guardia armata con una bastone rinforzato. L'uomo con i capelli arruffati indietreggiò velocemente indietro. Sbatté la schiena contro la parete, gli occhi spalancanti dal terrore. La guardia fece per raggiungerlo, ma Netrom Morten giovane si piazzò davanti, fermandolo. La guardia si voltò, guardò l'uomo con la tunica. Quello fece un leggero cenno con la mano. Il Bretone non vide arrivare il colpo. Cadde a terra, la vista sgranata, i suoni contorti. La guardia strinse il bastone rinforzato, fece per colpire l'uomo con i capelli arruffati, ma questo si rannicchiò in un angolo, le mani a protezione della testa. "Vengo! Vengo!" Implorò quasi piangendo. Sul panno comparve una grossa macchia. Del liquido giallastro scese lungo le sue gambe scheletriche. L'uomo con i capelli arruffati si alzò, lanciò uno sguardo a Netrom Morten giovane frastornato a terra. La guardia lo afferrò per un braccio e lo spintonò fuori. L'uomo con la tunica nera scrutò per un attimo Netrom Morten giovane. Poi lasciò la cella. La serratura stridette nuovamente.
La cella mutò ancora aspetto. 
Netrom Morten venne risucchiato nel vuoto. L'oscurità lo avvolse in una morsa gelida. Tremava, il corpo pervaso da lunghi brividi. Poi venne sputato fuori, e prima di poter capire dove fosse finito, qualcosa lo sollevò violentemente in alto. Vide la cella dall'alto, come lo vedrebbe una cornacchia.
Netrom Morten giovane sedeva a terra, le spalle contro il muro. La luce del sole illuminava il secchio pieno di feci dalla finestrella. La serratura stridette.
La guardia entrò, tenendo sotto braccio l'uomo con i capelli arruffati. Lo gettò a terra, chiuse la porta. 
L'uomo con i capelli arruffati aveva petto e schiena insanguinati. Non si mosse, la faccia a terra, immersa nelle feci di ratto. 
Netrom Morten giovane si avvicinò, lo scrutò un poco. Sulla pelle, morsi umani, alcuni molto profondi. Il Bretone indietreggiò confuso. 
"Non..." Bisbigliò l'uomo con i capelli arruffati con un rantolo di voce, senza guardarlo. "Non lasciare che... Mi prendano..." Perse i sensi.
Ogni cosa nella stanza scomparve. Netrom Morten cascò sul pavimento, le pareti iniziarono a vorticare velocemente. Il pavimento scomparve sotto i suoi piedi, Il Bretone venne inghiottito nel vuoto. Un freddo abbracciò l'avvolse. Silenzio.


 
*****


La donna prese nelle mani l'ascia da battaglia di Brangor. L'esaminò a fatica per qualche momento poiché pesava. Poi la lasciò cadere a terra, come un oggetto rotto o di poco valore.
Brangor, che sedeva sul giaciglio di paglia, serrò gli occhi dalla rabbia. Cercò di parlare, ma la fiammata di bruciore alla gola che continuava a persistere lo costrinse al silenzio.
"In un combattimento..." Disse la donna. "In un vero combattimento, ti sarebbe solo d'intralcio. Molto meglio le armi leggere, sono più veloci."
Fredor sorrise senza denti, raccolse l'ascia di battaglia di Brangor e la posò su una balla di fieno.
"La mia Brema diceva; se non puoi colpirlo, persuadilo, diceva... Sì, sì." Disse il vecchio con una nota di tristezza.
"Persuadilo?" Sottolineò la donna. "Mia madre diceva così?" Sollevò un sopracciglio.
"Sì, la mia Brema, tua madre, diceva... Sì, sì." Fredor gli sorrise come un bambino. "La mia Brema, tua madre, era intelligente, dico... Sì, sì."
"Cosa intendeva dire con 'persuadilo?'" 
"Quando un nemico è più forte di te, diceva la mia Brema, tua madre, devi costringerlo a fare la prima mossa, ad attaccare per primo. Devi studiarlo, incassare, e primo o poi si sbilancerà, si affaticherà e tu lo persuaderai, diceva... Sì, sì."
La donna non capì il senso della frase, così come Brangor. 
"Mmmh..." La donna corrugò la fronte pensierosa. "Ora che ricordo. La frase era diversa."
"La mia Brema, tua madre, lo diceva... Sì, sì."
"No, padre. La frase era; Se non puoi colpirlo, sfiancalo."
Fredor corrugò la fronte. "La mia Brema..." Il vecchio ebbe un mancamento e cadde col sedere a terra.
La donna si precipitò da lui. "Non devi sforzarti, padre. Lo sai che quando cerchi di pensare troppo..."
"La mia Brema lo diceva... Sì, sì." Il vecchio la interruppe e si ammutolì di colpo, la sua faccia divenne fredda, cupa.
"No, no, non chiuderti in te stesso." La donna gli posò le mani sulle guance barbute. "Guardami! Sì, bravo, così. Ti ricordi cosa hai fatto oggi? Riconosci quel farabutto laggiù?"
Fredor voltò la testa verso Brangor e sorrise. "L'ho curato, dico... Sì, sì. La mia Brema, tua madre, sarebbe fiera di me, dico... Sì, sì."
"Sì, bravo. Ora alzati sù. Vieni. Sediamoci laggiù."
Mentre la donna lo aiutava a raggiungere una piccola balla di fieno, Fredor continuò a sorridere a Brangor.
"Siediti. Così, bravo." Disse la donna. "Tieni, prendi la zappa. Fai i tuoi allenamenti speciali e super segreti."
Fredor gli sorrise, mentre impugnò fiero la zappa.
"Ricordati che sei stato il miglior guerriero di tutta Tamriel. Tutti i criminali tremavano al tuo cospetto, e la gente onesta acclamava il tuo nome."
Fredor annuì come un bambino e iniziò a far sibilare la zappa in aria senza un minimo di coordinazione.
In quell'istante, Brangor capì che Fredor non aveva mai usato una spada. Non c'era nessun giusto movimento nei suoi colpi da far intuire che fosse stato un grande combattente o che avesse avuto esperienza militari come lui aveva sostenuto.
"Ora allenati." Disse la donna. "Io devo conoscere meglio il tuo..."
"Lui è mio amico, dico... Sì, sì." La zappa si conficcò nella staccionata dove il giorno prima c'erano i stati cavalli.
La donna gli sorrise e raggiunse Brangor. "Cosa ti ha detto mio padre?" Disse con tono serio.
Brangor indicò la sua gola con il dito.
"Ah giusto. Non puoi parlare." La donna distese le dita. Aveva piccole mani screpolate e della terra sotto le unghie. "Allunga il collo. Sì, così. Un altro po'. Perfetto. Ti farò passare il dolore." La donna gli cinse il collo con le sue mani. Una lampo rosa balenò intermittente tra le sue dita.
Brangor rimase fermo, gli occhi puntati su di lei. "Da quando mi fido ciecamente di una donna?" Pensò. "Le uso solo per fotterle. Dannazione, sono proprio messo male."
La donna evitò il suo sguardo, rimanendo concentrata sulle sue mani. Poi quel lampo sparì e ritrasse le mani.
Brangor tossì forte.
"Continua a tossire." Disse la donna improvvisamente un poco irritata. "Tra un po' passerà."
Nel frattempo, Fredor fece roteare la zappa in aria finché non gli sfuggì di mano e si schiantò contro il muro di legno che resse l'urto. 
La donna, allertata dal rumore, si voltò di scatto. Vide Fredor sorridergli, mentre si affrettò a riprendere la zappa.
"F-Forse... la v-voce..." Disse Brangor massaggiandosi la gola, mentre tossiva sempre meno. "Dev'essere una cazzo di strega." Pensò.
"Bene." Rispose la donna, gli occhi come ghiaccio.
Rimasero entrambi in lungo silenzio. 
"Non sei incline ai ringraziamenti?" Disse d'un tratto la donna con tono minaccioso.
"Beh..." Si limitò a dire il Nord. Brangor voleva farlo, ma tra il dire e il fare c'era un abisso profondo. "Grazie." Pensò. "Ma un uomo non ringrazia con le parole. Lo fanno solo le donne. E' una cosa da femmine, da deboli. E io che pensavo che le donne fossero buone solo a scopare e cucinare." Ma non lo disse. 
La donna serrò gli occhi, inclinò leggermente la testa di lato come se gli stesse scrutando la mente. "Hai oro per pagarmi?" Disse infine in tono grave, quasi con fare offeso.
"Pagarti?" Rispose Brangor perplesso.
"Diversamente da mio padre," La donna lo indicò con la testa. "non curò la gente per bontà d'animo, specialmente i tipi come te."
"Fottuta puttana strega!" pensò Brangor. Poi disse: "Ho l-lasciato le mie monete dove m-mi hanno..."
"Le monete del mio amico l'ho prese io, dico... Sì, sì." Disse Fredor, la zappa nelle mani.
Brangor si accigliò.
"Stavi origliando, padre?" Chiese stizzita la donna.
"Io ascolto silente come ascoltano gli alberi, dico... Sì, sì." Il Vecchio andò dietro a una pila di fieno. Rimase lì per qualche secondo, mentre Brangor e la donna si lanciavano occhiatacce. Poi uscì fuori con un borsa di monete. Li raggiunse. "Non ho rubato niente, dico... Sì, sì. La mia Brema, tua madre, non rubava, dico... Sì, sì." Lo diede a Brangor, che si fidava della parola del vecchio.
"Ora hai le monete." Disse la donna guardando con occhi cattivi il Nord. "50 Septim." Allungo una mano, il palmo rivolto in alto.
Brangor sbuffò. Aprì il borsa di monete e lentamente si mise a contare i danari. "Accidenti a te!" Disse poco dopo. "Tieniti tutto!" Lo gettò ai piedi della donna. 
La donna gli fece un sorriso mellifluo, prese il sacchetto, estrasse 3 septim e li posò sul giaciglio di paglia. "Questi tre sono di troppo."
"Per caso ti puzza l'oro?" Disse Brangor in un impeto di rabbia perché si sentiva ingannato.
"A differenza tua, io sono onesta." Rispose la donna. "Ti si legge in faccia che sei un mercenario prezzolato. 50 Septim sono briciole per te, anzi, che dico, non sono niente."
"Stupida puttana!" Pensò Brangor. "E' una fottuta strega! Una megera! Forse mi legge pure nella mente!"
"Non sono né una puttana né una megera!" Disse la donna, sprizzando fuoco dagli occhi e confermando i sospetti del Nord. 
Brangor spalancò gli occhi ammutolito, sorpreso, oltre che vagamente spaventato.
"La mia Brema, tua madre, non era una Megera, dico... Sì, sì." Aggiunse Fredor alla parola 'megera'. Poi tornò ai suoi allenamenti.
"Fosse dipeso da me," Disse la donna a Brangor. "ti avrei lasciato agonizzare lì finché non saresti morto!" Lo fulminò con lo sguardo. "Per tua fortuna hai incontrato mio padre. E sì, ti leggo la mente. So tutto di te e della tua sporca missione."
"Missione, dici... Sì, sì." Fredor si voltò, smettendo di allenarsi. "Una missione per me, dici... Sì, sì."
La donna fece un lungo respiro, si calmò. "Devi annaffiare le piante dei pomodori, padre." Gli disse con un sorriso dolce. "E' una missione di importanza vitale. L'intero mondo è nelle tue mani. Devi annaffiarli, altrimenti i cattivi bruceranno la terra."
Fredor, felice come un bambino, lasciò cadere la zappa sulla paglia e corse zoppicando fuori dal fienile.
La donna si voltò verso Brangor. "Tu non mi piaci! E il tuo passato ancor meno!" Disse. "Avrei tante cose da dirti sul tuo conto, ma perderei solo tempo." Si alzò in piedi, fece qualche passo davanti a sé e si fermò, dando le spalle al Nord. "Partirai alle prime luci dell'alba."  
Per la prima volta in vita sua, Brangor non si era fatto trascinare dalla rabbia. Le parole della donna gli erano arrivato come dardi letali fino dentro l'anima, lasciando spazio a una domanda che non avrebbe posto in altre circostanze. "Perché fai tutto questo per tuo padre?"
La donna corrugò la fronte. Non sapeva se rispondergli o meno. "Al mio posto avrebbe fatto la stessa cosa." Lasciò il fienile.



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Capitolo 8
*** Vuoto esistenziale ***


Tre uomini in nero sedevano su un tronco cavo a ridosso di un focolare. Era una notte oscura, senza nuvole, sebbene il cielo fosse tempestato di stelle. Nella boscaglia, si udiva il frinire di alcune cicale. Lo scoppiettio del fuoco smorzava di tanto in tanto quel canto monotono. I tre uomini in nero fissavano il ratto arrostire sul treppiede di legno già da una decina di minuti. L'aria era pregna dell'odore di carne bruciacchiata. 
D'un tratto udirono qualcosa dietro le fronde dei pini. Nessuno si voltò. Rimasero tutti a guardare il ratto. Poi lentamente, un uomo con la faccia sporca di terra si fece largo tra i rami. Era piuttosto grasso per essere un contadino o un avventuriero. Sembrava più qualcuno abituato a pedinare la gente.
Sbucò al loro lato e allargò le braccia con un sorriso. "Scusate buon signori. I due che cercavate stanno per arrivare a Skingrad. Ho dovuto abbandonare la mia copertura con i carovanieri diretti..." un coltello gli si piantò in gola. Cadde in ginocchio, soffocando, le mani che cercavano di tirar fuori il coltello dalla gola. Il sangue schizzò sul terreno. Cadde dapprima sul fianco, poi si distese sulla schiena, il sangue usciva a fiotti. Quando l'uomo smise di contorcersi, un uomo si alzò e lo raggiunse. Lo guardò per un attimo, poi si chinò, estrasse il coltello dalla gola con un suono secco e lo leccò. Gli altri due uomini lo raggiunsero, trascinando l'uomo vicino al bivacco. Tolsero il ratto arrostito dal treppiede di legno e lo gettarono oltre l'erba alta come fosse spazzatura. Il primo uomo prese l'ascia adagiata dentro il tronco cavo, mentre il secondo uomo legò ben stretto con una corda la gamba della spia, sopra il ginocchio. L'ascia colpì la gamba sotto la corda. Si aprì uno squarcio sulla pelle e sui pantaloni di velluto, il sangue riempì lentamente l'indumento. Un altro colpo. CRACK! Il secondo uomo strappò via la gamba dal resto del corpo. Tolse la scarpa e il pezzo di pantalone inzuppato di sangue, gettandoli oltre l'erba alta. Poi diede al terzo uomo la gamba, mentre ritornò a ridosso del cadavere. Il terzo uomo sfoderò un coltello d'acciaio e iniziò ad affettare la carne della grassoccia gamba, buttandola in una specie di pentolina. 


 
*****


La cantina del Conte Hassildor era provvista di un centinaio di botti di vino in fila lungo il muro. Dietro di essi, in una zona ombrata e celata alla vista, c'era un enorme botte. Un tempo, all'interno, c'era del sangue umano, ma ora quei giorni sembravano così lontani per il Conte Vampiro.
Per molti e molti anni aveva sopportato la sete ma ora, ora cominciava a vacillare. Sperava che quella botte fosse piena fino a implodere. Voleva nuotare nel sangue, berlo fino a morire, sebbene un Vampiro non potesse affogare nel sangue. 
Sedeva su uno sgabello il Conte Hassildor, gli occhi rossi fissi sul rubinetto della botte corroso in parte dalla ruggine. 
Hal-Liurz sbucò da un angolo, dietro un apertura arcuata. "Conte Hassildor."
Il Conte Vampiro fu come destato da un sogno. "Sì?"
"E' arrivato il tempo di riempirlo di..." Hal-Liurz indicò la botte vuota.
"No!" Si alzò in piedi in una posa autoritaria. "Non sono qui per questo. E poi, se non erro..."
"In quella botte non c'è più sangue umano da 8 anni."
Il Conte Hassildor si avvicinò al suo muso da rettile. "Non interrompermi mai più quanto ti parlo, intesi?" Gli occhi minacciosi del Conte balenarono di luce propria.
Hal-Liurz ci vide l'Oblivion in quell'iride e arretrò un poco spaventata.
Il Conte Vampiro gli diede le spalle. "Perdona i miei modi scortesi." Fece qualche passo in avanti. "Questi giorni sono stati... Ardui."
Hal-Liurz non rispose e abbassò lo sguardo sul pavimento.
Il Conte Hassildor si voltò. La scrutò un poco. "Forse sono stato troppo duro con lei." Pensò.
L'Argoniana continuava a tenere bassa la testa.
"Distruggi quella botte. Dagli fuoco. Voglio vedere il fumo levarsi in cielo dalla mia camera da letto." Il Conte Hassildor sparì nelle ombre del corridoio da dove era giunta l'Argoniana.
Tesa, Hal-Liurz si lasciò scappare un sospiro. Le gambe cedettero e si ritrovò a terra. "Non ho mai avuto paura del Conte Hassildor, perché... Perché ora lo temo... Forse è giunto il tempo che beva..." Pensò.


 
*****


Il capo della guardia cittadina salì le scale del secondo piano della Gilda dei maghi, la mano serrata sull'avambraccio di Adrienne Berene. Di sotto gli apprendisti e i maghi mormoravano tra loro, mentre alcune guardie cittadine, a venti piedi di distanza, li tenevano sott'occhio, le spade e le mazze ferrate ben in vista. Solo due guardie cittadine seguirono il capo della guardia cittadina come da prassi in queste situazioni tese. S'incamminarono in quella che sembrava una biblioteca e una sala ristoratrice, finché salirono per un altro piano. Raggiunsero le stanze dei maghi; un lungo corridoio con varie porte su ogni lato. Una guarda cittadina si staccò da loro, bussò con un pugno sulla porta di legno rinforzata in ferro. 
"Sparite o vi friggo tutti!" Urlò qualcuno dietro la porta. Era una voce anziana, dura e sofferente. Poi tossì fino a quasi soffocare.
"In nome di Conte Hassildor, protettore e governatore della contea di Skingrad, vi ordinò di aprire la porta!" Urlò il capo della guardia cittadina, senza levare la mano dall'avambraccio di Adrienne Berene. La guardia cittadina accanto alla porta lo guardò in attesa di nuovi ordini.
"Governatore un corno..." La voce dietro la porta tossì. "Un mostro come Conte..." Tossì di nuovo fino a soffocarsi per davvero. Non si udì più nulla per una dozzina di secondi. La guardia cittadina accanto alla porta non distolse gli occhi dal capo della guardia cittadina.
Il capo della guardia cittadina strattonò per l'avambraccio Adrienne Berene che urtò col fianco alla porta. "Aprila!" Si portò le dita sull'elsa della spada, pronto a sguainarla al minimo segnale di pericolo.
Adrienne Berene, lo sguardo basso, mise le mani accanto al pomo della maniglia. Dilatò e ritrasse le dita per qualche istante, finché la serratura con un rumore secco si staccò e cadde sul pavimento. 
La guardia cittadina spintonò col gomito Adrienne Barene che stava quasi per cadere, quando il capo della guardia cittadina l'afferrò in tempo.
Quando la guardia cittadina entrò nella stanza, vide la faccia bluastra del Guaritore, gli occhi gonfi e rossi quasi fuori dalle orbite, la lingua fuori dalla bocca spalancata. Sedeva su una sedia in una posa quasi innaturale; la schiena inclinata indietro sullo schienale, poco sul lato.
"Il Conte Hassildor non né sarà contento." Pensò il capo della guardia cittadina una volta entrato nella camera.

Dopo una decina di minuti, si spostarono nella sala ristoro che fungeva anche da biblioteca. Il capo della guardia cittadina e Adriene Berene erano seduti attorno a un tavolo rotondo. Poco distanti da loro, cinque guardie cittadine formavano quasi un cerchio attorno loro. La luce del sole filtrava attraverso la vetrata colorata ed elaborata da varie figure, illuminando le spalle del capo della guardia cittadina.
Adrienne Berene era nervosa, le dita che battevano sul tavolo. Il rumore era sommerso solo dal vociferare continuo di apprendisti e maghi al piano terra.
"Parlate o sarà peggio per voi." Disse lentamente il capo della guardia cittadina.
Adrienne Berene alzò lo sguardo, ma non riuscì a guardarlo negli occhi. "Era un bravo mago..."
"...Un brav'uomo e stronzate varie." La canzonò il capo della guardia cittadina. "Nella stanza non abbiamo trovato niente. Sapeva del nostro arrivo. Forse glielo hai detto tu? Oppure sei stata tu a ripulire la stanza?"
"Io sono all'oscuro di questa faccenda."
"Quale faccenda?" Chiese l'uomo un poco sorpreso.
"Quello che voi insinuate."
"Io non sto insinuando nulla."
"Sì, invece. M'incolpate di qualcosa che non ho mai fatto e..."
"Allora sapete. Eri in combutta con quel Guaritore."
"No, no." Adrienne Berene trovò il coraggio di guardarlo negli occhi. "Io non so nulla, lo giurò. Che i nove mi maledicano se sto mentendo."
"Ah certo, certo." L'uomo fece segno con una mano a una guardia cittadina di avvicinarsi. Quando giunse al fianco della maga, posò la mano sull'elsa della spada.
Adrienne Berene spalancò gli occhi spaventata e lentamente congiunse le mani. Cercava di nascondere la paura dietro una maschera altezzosa e di pura arroganza.
"Se fossi in voi non lo farei." Disse il capo della guardia cittadina. "In questi casi la spada è più veloce di una formula magica."
Il capo dei maghi separò le mani, lanciando un occhiata fugace alla mano della guardia cittadina adagiata sull'elsa della spada.
"Avete detto che sapete." Riprese il capo della guardia cittadina dopo un po' di teso silenzio.
"Non l'ho detto."
"Hai detto: Sono all'oscuro di questa faccenda. Mi sembra chiaro che voi sapete. Dunque, parlate."
"Sono una donna rispettabile." Disse la maga cercando di darsi un aria superba. "Non c'entro nulla con quel guaritore e i suoi dannati esperimenti sui Goblin!" Tuonò quasi isterica Adrienne Berene balzando dalla sedia, le mani sprizzanti di piccole e quasi invisibile saette.
La guardia cittadina, la mano rivestita da un guanto d'arme, gli assestò un pugno dietro la testa. La maga cadde violentemente sul tavolo, col busto. Poi scivolò a terra, sul fianco, priva di sensi. L'aveva colpita in quel punto per non deturpare il viso di Adrienne Berene, molto nota in città per la cura quasi maniacale del suo aspetto.
Il capo della guardia cittadina annuì al proprio soldato per aver fatto la cosa giusta, oltre ad averla colpita nel giusto modo.


 
*****


Seduto nel portico della sua lussuosa villa, il Conte Clavis era intento a degustare un bicchiere di vino Surille. L'Elfo Scuro era in piedi, di fronte a lui, appoggiato su un'asse di legno bianco del portico. Era una giornata grigia, con qualche chiazza azzurra in cielo. Il giorno prima, erano giunti tre giardinieri dalla Città Imperiale che già potavano le betulle e si prendevano cura del lussureggiante giardino che il Conte Clavis tanto amava contemplare, ma non osava camminarci all'interno. Non gli piaceva il contatto diretto con la terra, perché lo faceva sentire zotico, sopratutto nei giardini dove gli insetti erano ovunque.
"C'è un vero caos al porto della Città Imperiale" Disse il Conte Clavis. "I marinai che dovevano prendersi cura del mio carico di vino sono spariti."
"Non sono obbligato ad ascoltarti." Rispose l'Elfo Scuro seccato.
"Come osi? Io ti pago per fare quello che più desidero. E se voglio essere ascoltato..."
"Tu mi paghi per tagliare teste ai Vampiri." L'Elfo Scuro si avvicinò al Conte. "E non mi pare che io sia operativo. Preferisco tagliare 1000 teste di succhia-sangue che sentirti lagnare da mattina a sera."
Il Conte Clavis fece un espressione oltraggiosa. "Ringrazia i Divini che tu mi sia amico. In altre circostanze ti avrei fatto impiccare."
"Amico?" Sottolineò l'Elfo Scuro. "Siamo legati da una borsa di danari. Non c'è alcuna amicizia tra noi."
"La tua maleducazione e arroganza non ha limiti. Sei tale e quale agli altri Elfi Scuri di Morrowind." Il Conte bevve un sorso di vino, nascondendo il suo nervosismo.
"Certo, come dici tu." Rispose l'Elfo Scuro dirigendosi verso l'uscita del portico. "Ho degli affari da sistemare."
"Quali affari?" Il Conte Clavis si alzò dalla sedia, il vino ondeggiò all'interno del bicchiere d'argento. "Esigo una risposta."
L'Elfo Scuro si fermò. "Poi mi toccherà tagliarti la gola." Disse con tono freddo.
Il Conte Clavis impallidì. Non rispose. L'Elfo Scuro s'incammino verso il cancello.


 
*****


Il Conte Hassildor osservava il viso dormiente di Adriene Berene, evitando di guardargli il lungo e delicato collo. Essendo un Vampiro, il Conte Hassildor doveva prima o poi bere del sangue umano, ma solo quando non riusciva più a controllarsi, quando il mondo attorno a lui diventava un campo di caccia, quando persino le guardie o Hal-Liurz diventavano un pasto troppo succulento da poter rifiutare. Solo allora cedeva. Beveva un bicchiere di sangue umano. Solo uno. Poi più nulla per molti e molti anni. E in quell'istante il suo enorme potere veniva meno. Perdeva la maggior parte delle forze, le doti di un Vampiro. Le guardie non era più intimorite dal suo aspetto, ma lo guardavano quasi a volerlo sfidare. Ed erano in quei momenti che poteva nuovamente sentire e provare le emozioni umane assopite dal Vampirismo. Ma era tutto passeggero. Passato un mese tornava più o meno come prima. Ogni qual volta che riusciva a resistere, si allungava la sua soglia di sopportazione. Ora riusciva a non bere sangue per almeno 8 anni, dopodiché il mostro che si annidava dentro di lui strisciava fuori con prepotenza, lo assillava, gli faceva venire le allucinazioni e cercava di governarlo.
Ricordava ancora il dolce viso di sua moglie in agonia nel letto. Lei si rifiutava di bere sangue umano, ed era caduto in un lungo sonno senza sogni. Non si svegliava mai. Dormiva. Ed era l'unica cosa che poteva fare per non cedere davanti al mostro dormiente dentro se stessa. Era più forte di suo marito, lei sapeva resistere alla mostruosa creatura, ma non c'è la faceva più. Il Conte Vampiro aveva provato di tutto per salvarla, ma nulla era servito. Solo nei sogni sua moglie, la contessa, poteva essere libera e felice da quel mostro che la torturava. Poi arrivò quel fatidico giorno. Il Conte Hassildor si era sentito impotente nel guardare per l'ultima volta il viso sorridente di sua moglie che lo ringraziava per averla lasciata andare. In quell'ultimo respiro, c'era tutto il suo mondo.
"Dove sono..." Disse Adrienne Berene svegliandosi su di un letto. Si trovava nell'ala servitù del Castello, poco distante da dove giaceva dormiente Netrom Morten.
Il Conte Hassildor sedeva accanto a lei. "Sono il Conte Janus Hassildor. Vi chiedo venia per rozzi modi delle mie guardie."
Adrienne Berene si stropicciò gli occhi frastornata. La testa gli doleva da ogni parte. "Non vi ho mai tradito, Conte." Disse con un filo di voce.
Il Conte Vampiro serrò gli occhi. Non rispose. Si alzò dalla sedia e quando raggiunse la porta, si voltò verso la maga. "Riposate. Ne discuteremo in serata."

Fuori nel corridoio, a qualche passo di distanza dalla camera della maga, lo attendeva Hal-Liurz.
"Se vuole muoversi nel Castello, può farlo. Ma non oltre le mura esterne."
Hal-Liurz annuì. 
Una guardia sbucò dietro un angolo, s'incammino verso la stanza della maga, chinò la testa per salutare il Conte e si piazzò davanti alla porta. 
"E se cerca di fuggire?" Chiese d'un tratto Hal-Liurz.
Il Conte stava per andare, quindi si fermò. "Vorrà dire che è colpevole." Si diresse alla stanza di Netrom Morten.

Erina sedeva con la testa appoggiata alla parete. Si era addormentata da poco, ma in realtà era crollata per la stanchezza. Gli occhi del Conte si posarono sul suo collo. "...Nessuno lo saprà mai..." Tuonò come un eco la voce maligna nella sua testa. Distolse lo sguardo e lo rivolse a Netrom Morten, che per una strana ragione, non gli aveva mai fatto effetto. Lui era l'unica persona cui l'istinto di Vampiro non si destava.
Si chinò verso di lui. Osservò il suo volto sudato, gli occhi muoversi freneticamente sotto le palpebre. "Finché si muovono, lui combatte." Pensò. Poi si rizzò in piedi, guardò Erina che proprio in quel momento aprì gli occhi. Sussultò e smorzò un grido nel vedere la figura rigida del Conte fissarla in modo inquietante.
"Mi scusi. Non volevo svegliarla." Disse il Conte Hassildor. "Sono venuto a fargli una visita." Indicò con la testa Netrom Morten
Erina non rispose, il cuore che gli esplodeva quasi dal petto.
"Perché non riposate nella vostra camera? Posso accompagnarla, se non ricordate la strada?" 
Erina spalancò gli occhi terrorizzata. "Vuole uccidermi. Bere il mio sangue." Pensò.
Il Conte Hassildor capì che era spaventata. "Se cambiate idea, la guardia qui fuori vi condurrà alla vostra camera. Ora con il vostro permesso, mi congedo."
Erina non rispose, anche se voleva farlo. Era troppo spaventata per riuscire ad aprir bocca. Il Conte Vampiro attese per un po' una risposta, poi chinando il capo in segno di saluto, lasciò la stanza.
Nella mente di Erina balenò la figura rigida del Conte che la osservava. Era un immagine che ormai si era impressa come inchiostro su una pergamena nel suoi pensieri. 

Ore dopo, verso le otto di sera, il Conte Hassildor fece capolinea davanti alla porta della camera di Adrienne Berene. La maga non si era mossa da lì, poiché era intimorita dal Conte e dalle sue guardie che la guardavano in malo modo. Quindi non aveva nemmeno osato di pensare di girovagare nel Castello.
La donna udì bussare. Andò ad aprire. Il mal di testa non gli era passato. "Conte Hassildor. Prego, entrate."
Il Conte Hassildor entrò, e solo allora la maga si rese conto che gli occhi del Conte Hassildor avevano un aspetto inquietante e non-umano. Sul momento non seppe darsi una risposta, finché non associò gli occhi del Conte a un immagine di un Vampiro stampata su uno dei suoi tanti libri alla Gilda dei Maghi. Trasalì e indietreggiò un poco.
Il Conte Vampiro capì quello che stava pensando. "Sì. Sono un Vampiro."
Adrienne Berene continuò a indietreggiare finché non sbatté il sedere su una cassettiera.
"Voglio delle risposte." Disse il Conte Hassildor. "Il capo della guardia cittadina mi ha riferito tutto. Eri a conoscenza degli esperimenti del Guaritore sui Goblin, dico bene?"
La maga annuì, le dita serrata sul piano del cassetto.
"Praticava la negromanzia?" Il Conte Vampiro serrò gli occhi.
"N-non lo so, Conte."
Il Conte Hassildor rimase un po' in silenzio, guardandola dritta negli occhi. "Fareste bene a parlare."
"Non so nulla su suoi esperimenti, Conte. Ma..." Adrienne Berene smise di parlare.
"Ma?" 
"Quando è venuto al Castello, io mi sono messa a curiosare nella sua stanza. Gli apprendisti erano spaventati da lui e i maghi si lamentavano delle continue grida che provenivano di notte dalla sua camera. Così quando lui è venuto al vostro Castello, ho colto l'occasione di curiosare nella sua stanza." Adrienne Berene si zittì per un po'. "Ho trovato una gemma dell'anima nera."
"Una gemma dell'anima nera?" Il Conte Hassildor gli si avvicinò lentamente. "Ho l'impressione che tu non abbia trovato solo questo." Ora era di fronte alla maga.
Adrienne Berene abbassò lo sguardo. "Ho trovato anche un diario sotto il letto."
"Parla."
"Uccideva i Goblin e li rianimava." Disse Adrienne Berene quasi in un sibilo come se avesse paura che da un momento all'altro il Conte Hassildor l'avrebbe uccisa, solo perché era a conoscenza di qualcuno che praticava la negromanzia dentro le mura di Skingrad.
"Non è stata colpa tua se quel infido verme era un Negromante." Il Conte Hassildor gli voltò le spalle. "Ma essendo il capo della gilda dei maghi di Skingrad, era tuo dovere accertarti che non ci fossero soggetti pericolosi che praticavano la negromanzia. Inoltre, una gemma dell'anima nera vuole dire solo una cosa; che ha intrappolato un anima di una persona o di un essere potente. Ma voglio vegliare anche l'ipotesi che la gemma non sia sua, che l'abbia acquistata o rubata da qualcuno. Non voglio lasciare nulla al caso."
"Chiedo perdono, Conte. Non succederà mai più. Lo giuro sui nove divini!" Adrienne Berene era visibilmente spaventata e la sua voce tremava ad ogni frase.
"E' quello che dicono tutti." Il Conte Vampiro andò verso la finestra. Guardò fuori, verso l'oscurità che inghiottiva la volta del bosco. "Il consiglio dei maghi è a conoscenza di questi fatti?"
"No, non sa nulla."
"Come immaginavo." Disse il Conte Hassildor con tono freddo.
"Se lo vengono a sapere indagheranno su di me. Faranno un processo." 
"Come giusto che sia. Leggi e regole esistono per un motivo." Il Conte Hassildor si voltò verso di lei. "E sai perché esistono?"
Adrienne Berene non rispose.
Il Conte Vampiro la guardò con fare grave. "Per evitare che l'oscurità dilaghi e corroda quel poco di bene che c'è nel mondo."
La maga rimase in silenzio.
"Molta gente non sa vivere senza regole, ed altri, la feccia di Tamriel, chiede apertamente di essere uccisa. Applica le proprie leggi a discapito di chi non sa o non può difendersi. Il male non aspetta altro che questa opportunità. E tu hai permesso al male di entrare a Skingrad!" La voce del Conte tuonò minacciosa e demoniaca nella camera. D'un tratto le luci delle candele si spensero.
Adrienne Berene sussultò.


 
*****


Alle prime luci dell'alba, Brangor era andato via senza salutare Fredor. La donna lo aveva aspettato appoggiata con la schiena contro il muro esterno del fienile, e non gli aveva rivolto nemmeno un occhiata. Ormai era da un ora che vagava nella prateria, l'ascia da battaglia legata dietro la schiena, l'addome un poco dolorante, ma era sopportabile. Camminò a lungo, mentre tutt'attorno iniziarono a comparire sempre più spesso grosse rocce. Non c'era stata traccia di alberi da quando aveva lasciato il fienile. Aveva camminata in un campo vuoto, disseminato di erba alta e sporadici sassi. Poi, quasi dal nulla, cominciarono a spuntar fuori ceppi da ogni dove. Poco distante, vide un accampamento di boscaioli sopra una verdeggiante altura frastagliata. Dietro le tende, s'innalzavano lunghi pini vicini l'un l'altro, quasi volessero impedire a chiunque di entrarci.
C'erano Orchi, Imperiali, Bretoni e Nord a lavoro, le loro asce che battevano sui tronchi. Un Elfo Alto sedeva su uno sgabello intento riordinare alcune fogli sparsi sul piccolo tavolo di legno. Indossava una camicia blu di lino con colletto e ricami neri che cadevano dalle spalle fino ai fianchi, oltre a delle scarpe nere. Aveva un viso delicato, nobile, quasi fuori luogo nel posto in cui si trovava. La sua tenda era la più grande ed aveva un Nord come guardaspalle. Un uomo calvo, dall'aspetto burbero, gli occhi infossati e una mascella imponente. Indossava un armatura di pelle e uno spadone lungo d'acciaio dietro la schiena.
L'Elfo Alto alzò gli occhi dall'iride verde scuro all'arrivo di Brangor, mentre i boscaioli rallentarono l'andatura del lavoro per osservarlo di sottecchi.
Il Nord si fece avanti, gli bloccò la strada. Paragonato al possente Nord, Brangor sembrava un nano.
"Tranquillo, Volk." Disse l'Elfo Alto alzandosi dalla sedia. Volk grugnì, tornando alle spalle dell'Altmer.
"Sono Ermil Voltum." L'Elfo Alto gli porse la mano. Brangor la strinse poco sorpreso. "Siete qui per controllare la produzione di legname? O venite qui per conto di qualcuno?"
Brangor non sapeva cosa rispondere. "In realtà mi sono perso. Non conosco bene questi luoghi."
Ermil Voltum tornò a sedersi dietro quella che sembrava la sua scrivania. "Prego." Indicò con la mano lo sgabello davanti al tavolo.
Brangor si sedette lentamente.
"Da dove venite?" Chiese l'Altmer.
"Non posso parlargli di Fredor e di sua figlia." Pensò Brangor, mentre udiva il martellare delle asce sui tronchi.
"Dall'aspetto sembrate un Nord." Continuò Ermil Voltum senza dar tempo a Brangor di rispondere. "Sono una persona che s'intende di razze. Modestamente, sono un ottimo osservatore. E tu hai tutto l'aspetto di un Nord." Poi spostò la testa di lato, lanciando un occhiata all'ascia di battaglia di Brangor. "E come un Nord ti piacciono le asce e le armi ingombranti." Si girò verso il suo guardaspalle. "Senza offesa, Volk." Sorrise. Il Nord grugnì.
"Beh sì, ma..." Disse Brangor.
"Le mie attenti analisi non sbagliano mai." Lo interruppe Ermil Voltum con aria vanitosa. "Sono qui grazie alle mie doti. Sapete, questo è un lavoro che la maggior parte delle gente non è in grado di fare. Io supervisiono i miei lavoratori, mi preoccupo che ricevano la giusta paga e che lavorino senza interferenza da minacce esterne..."
"Minacce esterne?" Sottolineò Brangor.
"Sono un Elfo Alto dotato." Ermil Voltum ignorò del tutto la domanda, come se Brangor non l'avesse nemmeno posta. Era così tanto preso dal vantarsi che sembrava parlasse da solo. "Le mie qualità sono uniche. Eccello in ogni campo. Non voglio essere arrogante, ma credo di essere il migliore. Voi direste; migliori in cosa? E io vi rispondo; in ogni cosa!" Ermil Voltum sghignazzò mettendosi una mano sulla bocca. "Oh perdonatemi. Sono stato molto scortese e maleducato. Voi come vi chiamate?"
"Il mio nome è..."
"Che poi a pensarci bene..." Ermil Voltum si alzò dalla sedia, ignorando quello che stava dicendo Brangor. Il suo guardaspalle guardava i boscaioli lavorare. Era chiaro che quando l'Elfo Alto parlava lui emigrava altrove con la testa. "Mi hanno detto; Abbiamo una licenzia per abbattere alberi nella Contea di Skingrad. Voglio che sia tu, Ermil Voltum, soltanto tu a supervisionare l'operazione. Sei il migliore in queste faccende." L'Elfo Alto sogghignò compiaciuto. "E avevano ragione. Sono il migliore, come puoi ben notare." Allargò le braccia in un gesto vanitoso e arrogante. "Tutto questo è opera mia. Nessuno arriva al mio livello. 237 Pini tagliati in due mesi. Nessuno avrebbe fatto di meglio."
Brangor sorrise confuso. "Che io sia dannato!" Pensò. "Perché non ho proseguito per conto mio? Questo non la smette più di parlare."


 
*****


Avevano saccheggiato quel che avevano potuto dai tre carri di Va'rlen. L'imperiale aveva subito cercato l'oro, mentre l'Orco aveva sperato di trovare un martello da guerra migliore del suo, ma non trovò nulla. I carri erano pieno di cibo; mele, pere, pomodori, porri, patate, uva e aglio. L'Imperiale, seguendo il consiglio datogli dal Khajiit, aveva messo alcune casse sul proprio carretto in modo tale da nascondere meglio il Vampiro. Poi trasportarono il resto della merce sotto un grande masso roccioso, nascosti tra arbusti e l'erba alta. L'Imperiale sapeva che la merce non sarebbe durato a lungo, perciò si era ripromesso di tornare lì entro tre giorni. Per l'Orco invece, tutto quello che aveva fatto l'Imperiale, era solo una perdita di tempo, ma non aveva obiettato, il ché stranì non poco l'Imperiale.

Due giorno dopo l'uccisione di Va'rlen, in una fredda e ventosa giornata dal cielo limpido, avvistarono in lontananza le imponenti cinta murarie di Skingrad. Il palafreno proseguiva lento nella sua andatura, mentre i due traballavano sul carretto. Lungo la strada accidentata che si allargava sempre più verso la porta maestra di Skingrad, c'erano carri di poveri contadini che facevano capolinea davanti al cancello. Tra loro, c'erano anche carri di agiati mercanti carichi di ricche mercanzie esotiche protetti da guardie private, per lo più mercenari e criminali sottopagati. I mercanti viaggiavano in carovane numerose partite da tutte le regioni di Tamriel. Solitamente la carovana che faceva spesso tappa a Skingrad, era quella partita da Elsweyr. I Khajiit facevano ottimo affari vendendo le proprie merci nella città più sicura di tutta Cyrodiil, barattandoli con carichi del famoso vino Surille o ricevendo oro. Ovviamente ai confini tra Elsweyr e Cyrodiil c'erano bande di predoni che si aggiravano furtivi in attesa di qualche carovana mal protetta. Infatti non era difficile vedere due bande di predoni scontrarsi a morte per avere più territorio da coprire, aumentando così la probabilità di rapinare una carovana. In quelle pianure secche, le bande di predoni nascevano e morivano quasi nello stesso istante. Ed era difficile per i carovanieri essere rapinati due volte dagli stessi predoni, mentre era più facile imbattersi nelle loro teste impalate dagli avversari. I Khajiit erano a conoscenza di questa guerra, e la usavano a loro vantaggio elargendo a due o più informatori di bande diverse il percorso che doveva fare la carovana per raggiungere Cyrodill. Così quando la carovana raggiungeva il punto stabilito, magari ritardando sulla marcia, trovavano spesso i cadaveri dei predoni sugli aspri calanchi. I più furbi non cadevano nel tranello, ed erano questi a dare seri grattacapi ai Khajiit.

"Ci impiegheremo una giornata, dannazione!" Imprecò l'Orco, indicando la fila di carri davanti a loro.
"Va'rlen ci aveva avvisati." L'Imperiale tirò le redini. Il cavallo si fermò dietro un carro di una famiglia di contadini. Due bambini vestiti di stracci, duellavano stringendo nelle piccole mani dei rami. Fingevano di essere due cavalieri. La loro madre li supervisionava con molta attenzione. "Se tu non l'avessi ucciso, forse avremmo superato la fila."
"Che la sua anima sia maledetta!" Grugnì l'Orco. "Quel schifoso Khajiit ci avrebbe venduti alla guardia cittadina. Sai bene come quelli della sua razza siano fedeli soltanto all'oro. Ho fatto un favore a questo mondo del cazzo frantumandogli il suo fottuto cranio! E poi mi doveva del danaro quel fottuto gatto!"
"Non ci avrebbe venduti."
"Sì, invece."
"No!"
"Sei un figlio di puttana ottuso!" L'Orco serrò la mano a mo' di pugno che sembrava la testa di un martello da fabbro.
"Non è il momento di perdersi in litigi." Rispose l'Imperiale con un strana calma. "Non fare niente di avventato o ci ritroveremo la guardia cittadina addosso ancor prima di estrarre le armi. Non fare niente. Stai calmo."
L'orco grugnì, scese dal carretto e s'inoltrò nella boscaglia.
"Dove cazzo vai?" Chiese l'Imperiale, ma non ebbe nessuna risposta. L'orco sparì tra gli alberi nodosi.

Quando l'Imperiale giunse finalmente davanti alla porta maestra di Skingrad, il cielo notturno era chiazzato da qualche nuvola nera dai bordi illuminati dalle due lune. Erano le otto di sera e il suo carro era l'ultimo nella strada deserta. 
Una guardia cittadina con la barba incolta si accostò al carro, Alzò una mano per intimargli di fermarsi. Altre due guardie cittadine, dagli occhi stanchi, quasi assonnati, girarono attorno al carro, scrutandone ogni dettaglio. Non sembravano molto attenti a quel che vedevano.
"Identificatevi." Disse la guardia cittadina con la barba incolta.
D'un tratto l'Orco sbucò dalla penombra della vegetazione, dirigendosi con passo goffo verso il carro.
Una guardia cittadina gli sbarrò la strada. "Alt!"
L'Orco grugnì. Si fermò. "Sto con lui."
La guardia cittadina guardò l'Imperiale che annuì. Si fece da parte.
"Dove cazzo sei stato?" Sussurrò l'Imperiale all'Orco.
"Identificatevi." Disse nuovamente la guardia cittadina con la barba incolta.
E furono di nuovo interrotti. Delle frecce con punta d'acciaio sibilarono nell'aria. La guardia con la barba incolta venne colpito alla gola, la seconda guardia in un occhio, la terza dietro la nuca. Sui parapetti sopra il cancello non c'era nessuno, come sempre. Sui camminamenti raramente le guardie ci rimanevano per più di dieci minuti, se non per ubriacarsi nel momento in cui non avevano niente da fare. Quando la città si riempiva di forestieri, mercanti e contadini in attesa di vendere le proprie merci, le guardie cittadine invadevano le strade, pattugliando e pedinando i soggetti più sospetti. Quest'ultimo su ordine del Conte Hassildor che voleva essere sicuro della loro vera identità. Spesso tra le carovane si celavano agenti con l'ordine di spiare le mosse del Conte, spargere calunnie, creare disturbi in città o sabotare edifici. E quando venivano individuati, il Conte Hassildor risolveva il problema facendoli sparire per sempre. Tanto nessun Conte avrebbe reclamato gli agenti dispersi in talune missioni.
Chi aveva scoccato le frecce lo sapeva o lo aveva saputo, che sui camminamenti non c'era anima viva.
L'Imperiale saltò giù dal carro, sfoderano la spada. L'orco fece altrettanto con il suo martello da guerra.
D'un tratto tre uomini in nero uscirono dalla vegetazione, gli occhi dall'iride completamente nera, la bocca coperta da una specie di fazzoletto rosso. Buttarono a terra gli archi, impugnando coltelli e stiletti. Si misero di fronte a loro. Poi uno di loro si fece avanti, guardò sia l'Orco che l'Imperiale. Rimase immobile, come se stesse aspettando che uno dei due facesse la prima mossa. Da un momento all'altro, potevano affacciarsi delle guardie sopra le mura di Skingrad. 

"Chi siete?" Disse l'Imperiale, il petto che faceva su e giù, le labbra improvvisamente secche.
"Tre bastardi a cui farò esplodere quelle teste di cazzo!" Grugnì l'Orco rispondendo all'Imperiale.
L'uomo in nero fece cinque passi avanti, silenzioso come un gatto.
L'Orco partì alla carica. 
"Fermo!" Urlò l'Imperiale, ma non servì a niente.
L'Orco cercò di colpire la testa dell'uomo in nero, ma quello semplicemente si spostò di lato, leggero come una foglia. L'Orco continuò a sferrare colpi alla cieca, finché sferrò un colpo dall'alto con tutta la sua forza. Il martello colpì la strada, facendo un bucò nel terreno, la polvere si levò in aria. L'uomo in nero gli ronzava intorno come una mosca, ma senza mai colpirlo o toccarlo. 
"E' più veloce di te!" Urlò l'Imperiale. "Non lo colpirai mai usando la forza bruta!"
L'Orco cercò di afferrarlo, ma l'uomo in nero si muoveva troppo rapidamente.
Poi uno dei due uomini in nero, rimasti fermi a guardare il combattimento, alzò una mano.
L'uomo in nero, che ronzava a passo felpato attorno all'Orco, balzò improvvisamente alle sue spalle. Lo stiletto si conficcò dietro la costola sinistra. L'Orco urlò dal dolore, si girò di scatto e cercò di colpirlo, invano. Poi la lama lo trafisse velocemente dietro la coscia e subito dopo gli squarcio un tendine. L'orco cadde con un ginocchio a terra, sostenendosi con un mano sul manico del martello di guerra. Il sangue riempiva la terra.
L'Imperiale avanzò per dargli man forte, ma l'uomo in nero, che aveva trafitto l'orco, gli lanciò uno degli stiletti a un passo dai suoi piedi. Si fermò. Guardò il volto irato dell'Orco. All'improvviso nell'aria si espanse una sottile nebbiolina rosa, la gola dell'Orco squarciata da un orecchio all'altro. L'Orco razzolò a terra, strisciò verso i piedi dell'uomo in nero che rimase immobile. Le grassocce dita si allungarono verso la sua caviglia, ma non ci arrivarono mai. L'Orco morì con l'espressione irata nel volto.

L'Imperiale si mise in posizione di combattimento. "Sono il prossimo!" Pensò "Arkay! Sostieni la mia mano!"
L'uomo in nero, che aveva ucciso l'Orco, ritornò accanto ai suoi compagni. Quando li raggiunse, un altro si staccò da loro, dirigendosi a passo deciso verso l'Imperiale, gli occhi freddi, privi di qualsiasi umanità. In mano un pugnale, molto più piccolo dello stiletto. Sembrava più una lama per scuoiare le pelle di animali.
L'imperiale abbassò leggermente la posizione della spada, preferendo affrontarlo in difesa. 
L'uomo in nero aumentò il passo, quasi correndo, si fece sempre più vicino, l'Imperiale era pronto a deviare o parare il colpo per poi infliggergli un contraccolpo. L'uomo in nero svanì. D'un tratto, in basso, sentì qualcosa dietro la schiena, come una specie di puntura. Il dolore si espanse in verticale fino alla nuca. Cadde di faccia a terra, la schiena squarciata, la colonna vertebrale in vista, il sangue sgorgava come una fontana. Gli occhi dell'Imperiale erano spalancati, increduli, come se non avesse realizzato che era morto.
L'uomo in nero, che si era reso invisibile grazie a un incantesimo, ritornò visibile e andò dietro il carro. Gli altri due lo raggiunsero. Buttarono a terra le casse che fecero un gran rumore, le mele rotolarono nel sangue. Sollevarono il lenzuolo di lana. Videro il viso pallido del Vampiro morto, le due lune riflesse nei suoi occhi vitrei. Uno di loro lo prese sulle spalle, e andarono via. La porta maestra di Skingrad rimase in un bagno di sangue per altri venti minuti, finché una guardia, con espressione annoiata, si affacciò dal parapetto. Come aveva sempre fatto negli anni, diede solo un fugace occhiata alla strada e andò via. Poi d'un tratto, realizzò meglio quello che aveva visto. Guardò nuovamente. Il volto diventò paonazzo, deglutì. La pacchia era finita.


 
*****


Il Conte Hassildor sedeva nella penombra della camera da letto, avvolto in un tetro silenzio. Sembrava che fuori dalle mura non ci fosse nessuno. Tutto taceva. Poi udì qualcuno bussare alla porta.
"Conte Hassildor." Sussurrò Hal-Liurz con voce rauca dietro la porta.
Il Conte Vampiro scattò piedi, andò ad aprire.
Hal-Liurz vide il viso grave del Conte emergere dietro la porta. "E' successo qualcosa di orribile davanti porta maestra della città."
Il Conte Hassildor serrò gli occhi.

Quando il Conte Hassildor arrivò sul luogo del massacro, seguito da Hal-Liurz, scrutò ogni particolare della scena. Il sangue si era ormai coagulato, e nessuno delle guardie cittadine aveva spostato una singola cosa da lì. Le guardie erano allineate, le teste chine.
Il Conte Vampiro si diresse verso la prima guardia cittadina, morta vicino l'arco del cancello. Le sue narici furono pervasi un dolce odore di sangue umano. "Una goccia..." La voce metallica e maligna ritornò a martellare la sua mente. La ignorò e cercò di concentrarsi sulla freccia che la guardia aveva conficcata in gola. Poi si alzò, camminò tra l'Orco e l'Imperiale. Notò subito il martello da guerra d'argento e la spada d'argento. Si voltò verso Hal-Liurz.
"Prendete quelle due armi." Disse l'Argoniana indicandole alle due guardie cittadine. "Portateli al castello come prova." Quelli fecero come ordinato, tenendo la testa bassa. Poi sparirono tra i camminamenti, poiché le strade si erano riempite via via di curiosi fermati prontamente dalle guardie cittadine. Erano lì per vedere il Conte Hassildor, non tanto il massacro. Il Conte Vampiro non scendeva mai in città, e molta gente non sapeva nemmeno com'era fatto dal vivo. Volevano dare un volto a quel Conte che se ne stava arroccato in cima al suo Castello.
Il Conte Hassildor si chinò sull'Orco. Vide le ferite da taglio, gli occhi vitrei in un espressione furiosa. "Forse è opera sua..." Pensò. "...No, impossibile... E' sicuramente opera di qualcun'altro..."
Poi spostò lo sguardo in direzione dell'Imperiale. Notò la colonna vertebrale esposta. "E' tutto così strano..." Pensò. "Le guardie sono morte per via delle frecce, mentre questi due sono stati uccisi da una piccola lama... Che abbiano affrontato gli assassini con le spade? Forse sono arrivati dopo? No, qualcosa non torna..."
Il Conte Hassildor si alzò, dirigendosi verso Hal-Liurz. "Ordina di portare l'Orco e quelli lì," Indicò l'Imperiale morto. "alle segrete del mio castello. Assicurati che le guardie li trasportino fuori dalle mura cittadine. Non voglio che qualcuno li veda. Poi chiama il sacerdote per quelle tre guardie. Un'ultima cosa; inventa una storia credibile per questo massacro. Fai in modo che le guardie morte risultino degli eroi e che la questione è risolta. La gente vuole subito risposte. Accontentali."
Hal-Liurz annuì. 
Il Conte Vampiro fece per andare, poi si fermò. "Licenzia le guardie che erano di turno sulle mura."
"Perché?"
Il Conte Hassildor si voltò, accigliato. "Incompetenza o corruzione."
"Non abbiamo prove."
"Fai come ho detto. Quello che è successo è colpa loro. Se fossero stati di guardia al loro posto, le cose sarebbero andate diversamente. Forse questa spiacevole situazione non sarebbe accaduta." Il Conte Hassildor salì i gradini che portavano sulle mura e proseguì lungo i camminamenti, lontano dallo sguardo della gente.
Hal-Liurz guardò il cibo riverso per terra. "Spero che il licenziamento non consiste nel tagliar loro le teste."


 
*****


Era mattina. Il sole splendeva tra le nuvole. La donna appoggiò i gomiti sulla staccionata. Fredor lavorava la terra. Non rivolgeva più la parola a sua figlia da quando Brangor era partito.
"Padre!" Disse la donna.
Fredor non rispose.
"Quel tipo non era qui per farti da scudiero. Te l'ho ripetuto almeno dieci volte."
"Tu menti, dico... Sì, sì." Smise di lavorare e si diresse al barilotto d'acqua, sotto una tettoia di paglia.
La donna lo segui. "Quell'uomo non era una brava persona."
"Sì invece, dico... Sì, sì." Fredor prese una tazza di pietra da sopra una cassa e si versò da bere.
"Perché non mi credi?"
"Perché io ero un grande guerriero, dico... Sì, sì. E' un grande guerriero ha sempre un fidato scudiero, dico... Sì, sì." Bevve l'acqua quasi tutta d'un sorso.
La donna rimase in silenzio.
Fredor appoggiò la tazza sulla cassa e ritornò al lavoro.
"Perlomeno il suo pezzo di terra lo tiene impegnato." Pensò la donna. "Quando lavora sembra una persona normale. Quel padre che tanto mi manca."

Verso mezzogiorno, quando il sole caldo batteva senza pietà, Fredor smise di lavorare. Si diresse al fienile, posò la zappa contro la parete di legno ed entrò. Nel fienile, nascosta dietro a delle casse, si trovava una grande stanza dove Fredor e la donna dormivano e mangiavano. Fredor corse felice come un bambino quando sentì nell'aria un buon odore. 
"Stufato di cervo, dico... Sì, sì." Disse Fredor ad alta voce mentre sbucò dietro l'uscio della stanza.
La donna si voltò e sorrise, mentre lui si sedette sullo sgabello attorno a un tavolino rotondo, il viso in trepida attesa. La figlia prese il mestolo di legno e due ciotole da una credenza mezza distrutta vicino al focolare. Su un treppiede era appesa una pentola nera cui bolliva lo stufato di cervo. Con il mestolo di legno, mise la pietanza in entrambi i piatti, posò il mestolo sulla credenza e si diresse alla tavola.
Fredor divorò letteralmente lo stufato di cervo in pochi secondi, mentre la donna mangiò con più calma, ma non lo finì tutto. Fuori dal fienile qualcuno urlava. 

La donna si alzò dalla sedie e corse fuori dal fienile, seguito da un Fredor zoppicante.
C'era un uomo dalla carnagione mulatta con addosso una armatura di pelle, i capelli neri intrecciati e una barba rada. Aveva lo sguardo profondo, sicuro, dall'iride azzurro chiaro. Una sciabola attaccata al fianco destro. Dietro di lui c'erano altri due uomini, un Bretone e un Imperiale, in armatura di pelle, armati di spada e ascia. Tenevano per le redini un cavallo ciascuno. Sopra di essi, c'erano due uomini legati e imbavagliati. 
La donna riconobbe sia i cavalli che gli uomini legati. Erano i farabutti cui aveva venduto i cavalli. L'uomo con la carnagione mulatta era un Redguard, il capo di una sorta di banda di predoni che compiva razzie e rapine ai confini di Elsweyr.
"Mariliel" Disse il Redgurad facendo cinque passi davanti a sé. Attorno si udiva il frenetico frinire di cicale e il canto di qualche uccello. "Sei una benedizione per i miei occhi."
"Finiscila di adularmi, Ramstan." Disse la donna, il cui nome era Mariliel. "Perché quei due sono legati?"
"Sono qui per essere giudicati." Sorrise Ramstan con un inchino.
"Perché ti ostini a inchinarti ogni volta che mi vedi? Non sono una principessa e nemmeno una regina" Mariliel incrociò le braccia.
"Per me lo sei. La mia regina." Disse il Redguard con voce suadente.
"Perché devono essere giudicati da te? Dice... Sì, sì?" Chiese Fredor a sua figlia.
Ramstan aveva sentito il vecchio. "Questi due vi hanno mancato di rispetto, giusto?"
"Tu come fai a saperlo?" Domandò Mariliel. 
"Semplice. Hanno detto che se volevo continuare a fare affari con te, dovevo venire di persone. E quindi, ho subito pensato che questi due bastardi..."
Mariliel corrugò la fronte. "Volevano uccidere mio padre."
"Nessuno può uccidermi. Sono un guerriero, dico... Sì, sì." Rispose Fredor realizzando in quel momento che non aveva la zappa tra le mani, così andò a prenderla.
Ramstan sorrise. "Ammetto di non aver pensato a questa motivazione."
"Perché sei anche in grado di pensare?" Lo canzonò Mariliel.
"Adoro la tua lingua tagliente." Ramstan cercò di avvicinarsi, ma Mariliel lo intimò di fermarsi con lo sguardo.
"Sono un guerriero, dico... Sì, sì." Fredor tornò di gran carriera con la zappa in mano. "Ho la mia spada. Sono un guerriero, dico... Sì, sì." Mostrò a tutti la sua zappa con fierezza.

Mariliel e Ramstan rimasero da soli sotto la volta del bosco, poco distanti dal fienile. Fredor era ritornato a lavorare la sua terra, non prima di essersi messo a parlare della sua Brema con gli uomini di Ramstan che l'avevano ascoltato annoiati sotto ordine del Redguard.
Tra la folta vegetazione di pini e arbusti, le cicale continuava a frinire rumorosamente, mentre di tanto in tanto, da lontano, si udiva qualche uccello cantare. La luce del sole filtrava attraverso i folti rami, creando chiazze illuminate sul terreno. 
"Come vuoi che li uccida?" Disse Ramstan in piedi a due passi dalla donna.
"Non devi." Rispose Mariliel. "Sono solo due idioti. Non meritano la morte."
"Hai detto che volevano uccidere tuo padre."
"Sì. Ma posso occuparmene da sola, se ci proveranno di nuovo."
"Non credo che lo faranno. Quando sono arrivati al campo erano piuttosto spaventati." Sorrise Ramstan.
"Campo?" Sottolineò Mariliel. "Ti sei accampato a Cyrodiil? Perché?"
"Le carovane in arrivo da Elsweyr scarseggiano. E' inutile rimanere lì se non posso concludere affari."
"Rapinare carovane lo chiami affare?" Mariliel alzò un sopracciglio.
"Mi frutta soldi. Quindi è un affare." Sorrise Ramstan.
"Quanto odio quel sorriso." Pensò Mariliel.
Ramstan si avvicinò a lei. Allungo una mano verso le sue braccia, ma lei gli tirò uno schiaffo. "Azzardati a toccarmi e ti stacco quella testa sorridente dal tuo corpo!" 
"Non posso farci niente se mi piaci." Si mosse dolcemente verso di lei.
"A me non piaci."
"Certo, certo." Ramstan si ritrovò la lama dello stiletto sui genitali. La donna era stata veloce e furtiva a sfoderarla.
"Fai un altro passo. Che aspetti?" Lo incitò Mariliel.
Il Redguard fece per avvicinarsi, pensando a una farsa, ma sentì la lama premere più in profondità. "Va bene, mi arrendo. Sarà per la prossima volta." Indietreggiò con un sorriso malizioso.
"Puoi essere anche un principe ripudiato, ma questo non mi fermerà nell'ucciderti se ti azzardi a toccarmi di nuovo." Era molto seria la donna.
"A mio padre non interessa se io viva o muoia." Disse Ramstan, voltandosi. "Come a me non interessa di lui e della sua stupida terra." Posò una mano sull'elsa della sciabola. "Se solo volessi potrei prendere ciò che è suo. Nessuno direbbe niente. Penseranno che sia solo una delle tante scaramucce per il possesso di un pezzo di deserto, che non vale un cazzo per giunta." La sua voce era calata drasticamente. Non sembrava più il Redguard tutto sorrisi.
Mariliel non aveva mai visto Ramstan parlare in quel modo, quasi come se si stesse confidando. Rimase in silenzio. Non gli sembrava il caso di fare domande, né di dire qualcosa.
Il Redguard si voltò verso di lei. Sorrise nuovamente. "Ma parliamo del nostro avvenire."
"Non esiste nessun noi." Mariliel andò via, lasciandolo sul posto con un sorriso sulle labbra.


 
*****


Netrom Morten fluttuava in alto nella prigione. Vedeva sé stesso da giovane e l'uomo dai capelli arruffati rannicchiati in un angolo. Dietro le mura esterne di quel tugurio, c'era solo oscurità. Il vuoto circondava la stanza dall'esterno come se da un momento all'altro la dovesse inghiottire. Oltre la porta con le sbarre di ferro, il nulla. Il corridoio sembrava essersi dissolto, sparito. 
Poi Netrom Morten da giovane si alzò. Cominciò a fare avanti e indietro, guardando di tanto in tanto in alto la finestrella con le sbarre di ferro che dava all'esterno. Lui ci vedeva qualcosa, ma Netrom Morten che fluttuava in aria no. Solo oscurità. 
D'un tratto, oltre la porta con le sbarre di ferro, si materializzò il corridoio. Una debole luce di una candela illuminò lentamente l'ombra di una sagoma che si avvicinava senza far rumore alla cella. 
Netrom Morten da giovane si fermò. Guardò l'ombra farsi sembra più distorta, quasi enorme. L'uomo dai capelli arruffati si mise contro la parete, premette la schiena sulla fredda roccia, come se volesse trapassarla e nascondervisi dietro. Cominciò a singhiozzare, a borbottare, le mani sulla testa, le ginocchia scheletriche piene di morsi quasi a toccare la faccia sporca.
Netrom Morten da giovane attese.
Un uomo con la tunica si fermò davanti alla porta della cella, il viso ombrato dal cappuccio. Rimase anche lui fermo. D' un tratto la porta si spalancò da sola. 
"No! No! No!" Sibilò in un pianto smorzato l'uomo dai capelli arruffati.
L'uomo con la tunica puntò il dito contro Netrom Morten da giovane, che sussultò al gesto. Poi gli fece segnò di venire di farsi avanti. Il giovane Bretone si avvicinò lentamente, soppesando quasi ogni passo. L'uomo con la tunica gli voltò le spalle, uscì nel corridoio e si voltò di nuovo, rimanendo fermò, le mani chiuse nelle larghe maniche.
Netrom Morten da giovane si fermò sotto l'asse della porta. Aveva la sensazione che da un momento all'altro sarebbe stato aggredito dall'uomo con la tunica o da qualcun'altro.
L'uomo con la tunica fece un ampio gesto con la mano, indicando la direzione in cui il Bretone da giovane doveva dirigersi. L'uomo con la tunica rimase fermo come una statua, finché Netrom Morten da giovane non si decise a uscire dalla cella e incamminarsi nel corridoio. Si accorse che la sua celle era l'ultima nel fondo del corridoio.
Mentre il Bretone da giovane camminava, dietro di lui percepiva la presenza dell'uomo con la tunica, ma non udiva nessuno dei suoi passi, come se in realtà non ci fosse nessuno alle sue spalle.
Su tavoli dal legno marcio e privi di oggetti, sporadiche candele erano adagiate su piattini di legno, illuminando lievemente il corridoio. Sembrava che i tavoli fossero lì solo per sostenere le candele. Ai lati delle mura, percorse da molteplici crepe di diverse profondità, c'erano varie alcove usate come celle. La luce delle candele non arrivava a squarciare l'oscurità che vi si annidava, perciò Netrom Morten da giovane non seppe dirsi con certezza se ci fossero altri prigionieri. Il muschio proliferava nelle fessura dei pavimenti e mura.
Netrom Morten da giovane arrivò alla fine del corridoio. Vide una scala dai gradini mezzi distrutti salire verso l'oscurità. Si guardò alle spalle. L'uomo con la tunica rimase fermo a due passi da lui, le mani sempre nelle grandi maniche.
Incerto, posò un piede sullo scalino. Rimase così per un istante. Poi lentamente salì le scale mentre l'oscurità l'avvolgeva totalmente. Inciampò. Cadde. Si rialzò. Continuò a salire alla cieca. Non vedeva niente davanti a sé. 

D'un tratto senti una mano sulla spalla. Si pietrificò. Un leggera ventata lo colpì al viso. Poi l'oscurità fu lacerato da una forte luce. Istintivamente si coprì gli occhi con le mani. Non riusciva ad aprire gli occhi per quanto si era abituato all'essenza di luce giù nella cella. 
Quando iniziò a dare forma a ciò che vedeva; vide di fronte a sé l'uomo con la tunica. Era sempre nella sua solita posizione. 
Netrom Morten da giovane si guardò attorno, serrando ogni tanto gli occhi per proteggersi dalla forte luce. Si trovava in un ampio corridoio arcuato. Alla sua destra, c'erano delle piccole e snelle colonne che correvano su muretti, limitando il corridoio da un piccolo giardino. In realtà, si rese conto poco dopo, si trovava in un ampio porticato con al centro un giardino, da cui vedeva solo un accenno di siepi appena sopra il muretto.
Il pavimento di marmo era immacolato, e nell'aria c'era un forte odore di fiori che Netrom Morten da giovane non seppe distinguere. Il suo udito fu allietato dal canto degli fringuelli. Quel canto lo fece sentire di nuovo vivo, felice. Ma la felicità durò poco.
L'uomo con la tunica gli fece segnò con la mano di proseguire. Il Bretone da giovane s'incamminò. Anche sul pavimento di marmo non riusciva a sentire i passi dell'uomo alle sue spalle.
Proseguì lungo l'ampio porticato, osservando il giardino ben curato nel mezzo. Vide piante di belladonna, lavanda ed altre nascoste tra i rametti di piccoli alberelli.
D'un tratto la mano si posò nuovamente dietro la sua spalla. Si voltò.
L'uomo con la tunica aprì un portone di legno riccamente elaborato da strani segni. Si fermò sulla soglia e fece segnò a Netrom Morten da giovane di entrare.
In quella enorme sala illuminato da grandi candelieri attaccati al soffitto, si trovava una lunga tavola imbandita da piccole botti e bicchieri di pietra. Le pareti erano arricchite con strani dipinti e vari arazzi di colore rosso sangue. Una dozzina di persone con raffinati vestiti, dall'aspetto nobile e affascinante, sedevano in silenzio, le loro teste che si muovevano come se stessero parlando tra loro. 
D'un tratto qualcuno batté due volte le mani. Tutti si ammutolirono, voltandosi verso di lui.
L'uomo dai corti capelli bianchi tirati indietro, la pelle smorta, invecchiata e un aspetto lugubre, si alzò dalla sedia dal lungo schienale. Gli occhi rossi passarono su ogni commensale, finendo infine su Netrom Morten da giovane. 
L'uomo con la tunica uscì dalla sala, chiudendo rumorosamente la porta alle spalle del Bretone da giovane.
"Carissimi consanguinei." Disse l'uomo dai capelli bianchi alzando le sopracciglia e socchiudendo leggermente gli occhi. "In questo lasso di tempo infinitamente lungo e arcaico, abbiamo cercato un nuovo figlio, un nuovo nipote. Secoli sono passati dall'ultima unione. Ed oggi, carissimi consanguinei. Ho il privilegio di presentarvi il nostro nuovo figlio-nipote."
Tutti si voltarono verso Netrom Morten da giovane, gli sguardi che andavano al di là di una semplice occhiata. Lo analizzavano. Cercavano di capire se fosse meritevole dell'unione.
"Vieni avanti." Disse l'uomo dai capelli bianchi.
Netrom Morten da giovane, non capendo cosa diavolo stava succedendo, avanzò con cautela, fermandosi vicino alla tavola. Alla sua sinistra, c'era un Altmer dal viso scavato, mentre alla sua destra; un Imperiale dal viso cagionevole, maligno. Lo guardarono fisso negli occhi. Tutti loro lo guardarono in quel modo.
"Netrom Morten." Disse l'uomo dai capelli bianchi dal fondo della tavola.
Il Bretone da giovane sussultò alla sua parola, chiedendosi come mai sapeva il suo nome.
"Sei rimasto fedele alla tua linea di principio, ma sappiamo entrambi che una parte di te vorrebbe far parte della nostra progenie, della nostra famiglia."
Netrom Morten da giovane non capiva.
"Sai perché sei qui?"
Il Bretone da giovane non rispose.
"Devi rispondere quando il Patriarca ti pone una domanda!" Tuonò l'Altmer al suo fianco, serrando gli occhi rossi.
"No." Rispose quasi in un sussurro Netrom Morten da giovane.
"Hai praticato la negromanzia. Ti abbiamo tenuto d'occhio per anni, e abbiamo veduto in te, un potere che sembrava essere svanito da Tamriel. All'inizio eravamo scettici. Pensavamo che fossi come tutti gli altri Negromanti, ma invece ci hai sorpreso."
Netrom Morten da giovane continuava a non capire.
"Quanti cadaveri hai rianimato?"
"Più di duecento."
Nella sala si udì un vociferare sommesso.
"Quanti Dremora, Deadroth, Clannfear, Wraith, Atronach, Daedra Ragno, Lord Dremora hai evocato? Ovviamente è solo una ristretta lista delle creature da te evocate."
I Commensali borbottavano sorpresi.
"Non ricordo." Rispose Netrom Morten da giovane.
L'imperiale dall'aspetto cagionevole si alzò in piedi. "Chiedo perdono, patriarca. Ma ho una domanda da porvi, con vostro permesso."
L'uomo dai capelli bianchi, il Patriarca, annuì.
"Se questo 'nuovo figlio' è un potente negromante, perché è rimasto rinchiuso nelle nostre segrete per cinque mesi? Perché non ha usato i suoi poteri per fuggire o ucciderci? Perché non ha evocato nulla di tutto ciò che avete detto?" 
Tutti gli invitati sembravano interessati alla replica del Patriarca.
Il Patriarca fece un sorriso lugubre. "Anche se è un potente Negromante, egli ha un punto debole. La sua umanità. Come già sapete, condivideva la cella con un uomo. Era l'uomo a tenere a bada i suoi poteri. Ma voi direste; come? Semplice. Egli non si è mai esposto perché sapeva che le sue azioni avrebbero portato alla morte dell'uomo. Un uomo che è lì solo grazie alla sua ingenuità e stupidità. E' rimasto nelle segrete perché non ero sicuro che lui fosse il Negromante che cammina tra la vita e la morte. Un uomo in grado di provare sensibilità, compassione, empatia e nel contempo stesso odio, rabbia e disprezzo. Una dote rara in grado di spazzare via con un solo soffio l'intera Tamriel. Egli ha sopportato i soprusi che abbiamo inferto al suo compagno di cella. Ha governato e canalizzato la sua rabbia. Non si è fatto prendere dall'ira quando veniva colpito dal carceriere. Solo un uomo che cammina tra la vita e la morte è in grado di fare ciò."
L'Imperiale si accigliò. "Un negromante venera solo la morte, e disprezza la vita. Non prova né pietà, né compassione. Non prova nulla verso gli essere viventi."
"Ottima deduzione elementare. E a voi tutti dico, consanguinei, che Netrom Morten è speciale. Riesce a trovare l'equilibro anche nel caos. Egli cammina tra la vita e la morte. Acquisisce forza, alimenta il suo potere, ma senza soccombere come gli altri Negromanti. Quanti ne abbiamo visti morire divorati internamente dai loro oscuri poteri? Quanti?"
Tutti si guardarono tra loro.
"Centinaia. Migliaia. Sono innumerevoli i Negromanti che perdono la ragione, soccombono ai loro istinti, inghiottiti per sempre dall'oscurità. Ma egli." Indicò Netrom Morten con un dito "Egli non è come gli altri. Il suo è un dono. E' nato per essere un potente Negromante. Egli sarà il nostro nuovo figlio. L'unione tra la luce e l'oscurità."
"Non capisco." Rispose l'Imperiale.
"La tua mente è lungi dal conoscere l'inesplicabile. Solo chi osserva il mondo così com'è, è in grado di comprendere le arcane sfumature di ogni essere vivente. Le molteplici maschere che noi tutti indossiamo per ogni evenienza. Captare le azioni di una persona, anticiparle, sfogliarle la mente come un libro aperto. E lì che risiede l'uomo che cammina tra la vita e la morte. Colui che silente risiede in disparte, conoscendo il mondo per quello che è; una bolgia di essere viventi che cerca di colmare un vuoto esistenziale. Un vuoto che non sarà mai riempito, poiché essi divorano tutto quello che afferrano senza dargli un valore. Non sono mai sazi. E quel vuoto si espanderà, arriverà al limite, finché un giorno si ripiegherà verso l'interno, divorando pezzo per pezzo chi l'ha mal nutrito. Ora capite il potere del nostro nuovo figlio-nipote, Consanguinei?"

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Capitolo 9
*** Evento nefasto ***


Il Conte Hassildor osservava i corpi pallidi dell'Orco e dell'Imperiale sui tavoli di legno. Erano nudi, le ferite in vista. La camera si trovava vicino alle segrete, solo che era molto più fredda ed esposta alle intemperie. Ogni tanto il vento fischiava tra le fessure aperte nella pietra come lamenti o tormenti di un fantasma. Per il Conte Hassildor quel rumore era piacevole. Zittiva il caos che gli assillava la mente. Sul soffitto, appese tramite catene mezze arrugginite, piccole lanterne nere con all'interno una robusta candela, illuminavano metà volto dei cadaveri, e quasi tutta la stanza. Il Conte Vampiro spostò lo sguardo dall'Orco, all'Imperiale, e così in un continuo ciclo senza fine. "Sono cacciatori di vampiri?" Pensò. "Avevano della armi d'argento. Magari sono gli stessi che erano venuti in città assieme a quell'Elfo Scuro... O forse no... Ora che ci penso sono spariti senza lasciare tracce. Ma se sono loro perché sono morti? Chi li ha uccisi? Perché erano alla porta della città con una carretto di cibo."
D'un tratto la porta di legno rinforzata in ferro si spalancò con un forte cigolio metallico. I cardini della porta erano corrosi dalla ruggine e mancava poco che si staccassero del tutto. Il Conte Hassildor rimase impassibile al suono; una qualunque persona sarebbe saltata dallo spavento.
Il capo della guardia cittadina rimase sulla soglia, la testa bassa.
Il Conte Hassildor si voltò. "Che avete scoperto?"
"In città non c'è traccia di cacciatori di Vampiri." Il capo della guardia cittadina chiuse lentamente la porta, facendo meno rumore possibile. Il cigolio metallico echeggiò sia nel corridoio da cui era venuto, che nella stanza. Gli procurò un gran fastidio ai timpani, mentre Il Conte Hassildor non sembrò poi tanto disturbato.
"Hai controllato ogni angolo della città? Pure i condotti fognari?"
"Ovunque, Conte. Tranne... Nelle fogne... I miei uomini..."
"Si rifiutano?" Lo interruppe il Conte Hassildor. "Di' loro che verranno ricompensati."
"Intendi se trovano qualcosa?"
"Cosa non hai capito della mia frase?" Il Conte Vampiro serrò gli occhi rossi.
Il Capo della guardia cittadina rimase in silenzio. Sapeva che rispondere avrebbe solo irritato o fatto arrabbiare il Conte Vampiro.
Il Conte Hassildor lo fissò negli occhi per un po'. "Porta i tuoi uomini nelle fogne. Saranno ricompensati anche se non troveranno nulla, ma sappi una cosa..." Il Conte Hassildor si avvicinò a lui. "La responsabilità del loro operato cadrà unicamente sulla tua testa."
Il Capo della Guardia Cittadina sbiancò e annuì.


 
*****


"E se ti portassi a visitare High Rock?"
"High Rock?" Mariliel alzò un sopracciglio. "Stai scherzando, spero."
Ramstan sorrise. "Non mi avevi detto che ti sarebbe piaciuto visitare High Rock?"
"Inventi parole che non ho mai detto."
Erano seduti su una roccia. Davanti a loro, la radura si estendeva per una lega di distanza. Il sole splendeva alto nel cielo limpido, e una leggera brezza sfiorava i loro volti, facendo ondeggiare al vento i capelli di Mariliel.
"Ricordo bene quello che mi hai detto."
"Allora ricordi male." Tagliò corto la donna.
Ramstan allungò un braccio attorno alle sue spalle. Mariliel lo guardò negli occhi. Ramstan chiuse gli occhi, si avvicinò per baciarla. La donna lo schiaffeggiò in piena faccia. 
Mariliel si alzò infuriata. "Lo vuoi capire che mi fai schifo!" Urlò la donna. Poi se ne andò a passo veloce.
Ramstan si toccò la guancia rossa e rise, prima piano, poi a crepapelle. Non riusciva più a smettere di ridere. Si accasciò sulla roccia con le lacrime agli occhi. Iniziarono fargli male anche le costole per quanto rideva.


 
*****


L'Elfo Scuro proseguiva al trotto sul cavallo baio. Teneva ben strette le redini e si guardava attentamente attorno. La stradina sterrata, ombrata dalla volta di alcune betulle, non era una delle più sicure. Qui infatti, sul ciglio della strada, era possibile vedere i resti dei carretti, casse, barili o carovane assaltate dai banditi o predoni. Qualche scheletro giaceva silente tra l'erba alta, altri cadaveri in decomposizione oltre i pini. Quelli erano i più fortunati, poiché gli assalitori non uccidevano mai se non erano costretti. I prigionieri valevano più da vivi che da morti. Il Mer lo sapeva, e sapeva anche che fine facevano quei prigionieri; serviti come banchetto sulle tavole dei Vampiri per poche monete. Per un malvivente era sempre meglio di niente. Una vita vissuta in catene, chiuse in una piccola cella di due metri se si era fortunati, o tutti ammucchiati come polli in una gabbia pronti al macello. Le malattie che corrompevano il corpo umano non aveva nessuno effetto sui Vampiri. A loro importava solo del loro sangue. Nient'altro. Quei prigionieri erano divorati da ogni sorta di malattia per via della malnutrizione o della scarsa igiene; celle impregnate di merda e piscio su un terreno roccioso.
L'Elfo Scuro sapeva dove finivano i cadaveri, meglio dire, che fine facevano. I corpi venivano dati in pasto alle fiamme, gettati in mare, nei fiumi, nei laghi e alcuni volte divorati dai maiali, se si aveva l'amicizia di qualche fattore Vampiro. Se qualche maiale moriva, lo si macellava e si vendeva la carne in città, nei quartieri malfamati, dove le persone mangiavano anche i loro stessi bambini pur di non morire di fame. Se qualcuno di loro moriva, la guardia cittadina non apriva nessun indagine. Ma nel caso di personalità di spicco, era tutta un altra questione.
Il Mer tirò le redini, il cavallo baio si fermò. Si guardò attorno. Aveva la sensazione di essere osservato. Folate di vento scuotevano le fronde degli alberi, un piacevole fruscio tra le foglie lo accompagnava nel suo fare sospettoso.
Tutto sembrava così tranquillo, che per un momento pensò di essersi sbagliato. Poi un uomo vestito di nero uscì dietro una betulla come un ombra, seguiti da altri due che sbucarono ai lati della stradina. 
L'Elfo Scuro rimase immobile, li osservò. Il cavallo baio s'imbizzarrì un poco. Il Mer gli accarezzò il muso, calmandolo.
Quelli se ne stavano fermi a 20 piedi da lui, gli occhi neri che balenavano di malignità. Poi entrambi gli voltarono le spalle e s'incamminarono sulla stradina. 
L'Elfo Scuro schioccò le labbra. Il cavallo baio si mosse a passo. Cauto, li seguì a distanza.


 
*****


La giovane moglie del Conte Clavis piangeva sul suo letto matrimoniale dalle lenzuola blu riccamente elaborate. Era lì da giorni, da quando il marito l'aveva rinchiusa. Aveva cercato di scappare, di abbattere la porta, di urlare a squarciagola fino a perdere la voce, ma non era servito a niente. Ora se ne restava lì, tutta sola, a contemplare la sua vendetta, perdendosi sempre in giustificazioni inutili. Lo amava e lo voleva uccidere nello stesso tempo.
Si alzò in preda alla rabbia, gli occhi rossi dal pianto, il viso una maschera di disperazione. Afferrò un portafiori e lo lanciò contro la parete. Pezzi di ceramiche volarono ovunque. Poi prese tutto quello che gli poteva capitare sottomano e lo lanciò contro i muri e la porta; piatti, calamo, libri, gioielli e persino le tre sedie nella stanza. Poi si accasciò a terra. Pianse. Tirò pugni sul pavimento, sradicò il tappetto viola con impresse delle rose nere. La rabbia la lacerava, ma non poteva fare altro che piangere, lanciare oggetti e piangere di nuovo. La stanza da letto era sotto sopra, fatta eccezioni per il letto matrimoniale. Corse e si buttò sul letto. Pianse a lungo, finché non venne sopraffatta dal sonno.

Verso le due del mattino, la giovane moglie si svegliò. Aveva sentito un rumore. La stanza era immersa nell'oscurità e solo una debole luce lunare filtrava attraverso le vetrate. 
"Chi c'è?" Disse con una flebile voce.
Nessuno risposte. Il silenzio regnava sovrano nella camera da letto.
La giovane moglie si alzò lentamente, sussultò quando i piedi si posarono sul freddo pavimento. Cercò una candela, e in quell'istante si ricordò di aver lanciato anche quelli contro le pareti. Ritornò sul letto, si mise sotto le coperte, si avvolse completamente. Aveva paura. Avvertiva qualcosa celata nell'oscurità, ma non era sicura. "E' solo la mia immaginazione..." Pensò. "Ho sempre avuto paura del buio... Sono stupida come una bambina... Ecco perché mio marito mi rinchiude..."
Poi di nuovo quel rumore, ma questa volta capì cos'era; era l'imposta aperta della finestra che sbatteva contro il muro esterno per via del vento. Tirò un sospiro di sollievo, ma fu lì che le lenzuola gli vennero strappati di mano. Qualcosa di freddo gli afferrò le gambe, qualcosa che al tatto ricordava una mano. Tentò di urlare, ma un altra mano gli tappò la bocca. Il gridò gli morì in gola. Cercò di scappare alla presa, agitò le gambe, tirò pugni all'aria. Altre mani fredde gli bloccarono i polsi. Non vedeva nessuno. Tutto era buio. Poi, illuminata brevemente dalla luce lunare, vide un ombra vagamente umanoide strisciare veloce sul pavimento. Pianse, cercò di gridare inutilmente. D'un tratto, percepì qualcosa nelle pelle della gamba. Poi nelle braccia, nelle cosce, nel collo. Si sentì debole. Venne girata di pancia in giù. Non aveva più forze per gridare, emanava solo rantoli. Sentì qualcosa nei glutei, nel fondo schiena, dietro le cosce, nei polpacci. Erano morsi. Denti umani. Non riusciva più a tenere gli occhi aperti. Si sentiva stanca, prosciugata. Poi gli occhi si chiusero.


 
*****


Hal-Liurz sedeva sulla sua solita panca nello studio del Conte Hassildor. Questa volta leggeva; Il disastro di Ionith. Era immersa totalmente nella sua lettura serale, anche se erano le due mezza del mattino. Ma lei dormiva poco e male. Preferiva stare sveglia e dormire qualora la vista si annebbiava o gli mancavano le forze. Era già a metà libro quando alzò da sopra le pagine i suoi occhi da rettile. L'uomo in armatura aveva appena aperto la porta. Non era una guardia, né qualcuno che lei conosceva. Hal-Liurz scattò subito in piedi, il libro gli cadde di mano e si schiantò sul pavimento. Il suono secco emesso dal tomo, riecheggiò per un istante da una parete all'altra della camera. 
"Non puoi stare qui!" Gridò Hal-Liurz avvicinandosi minacciosa all'uomo.
L'uomo non rispose. Rimase fermo sulla soglia della porta, la mano sul pomo della maniglia. Indossava un armatura strana, che l'Argoniana non seppe riconoscere sul momento. Poi d'un tratto, davanti ai suoi occhi s'impresse un immagine; un armatura Daedrica. Hal-Liurz si fermò di colpo. L'uomo vestiva in egual modo, un armatura completa, fatta eccezione per l'elmo Daedrico che portava sotto braccio. Aveva un viso ovale, una barba di qualche giorno, un sopracciglio spaccato, corti capelli marroni tendenti al grigio e l'iride blu a sinistra e verde a destra. Era piuttosto muscoloso con ampie spalle. Un grossa cicatrice gli partiva dalla guancia sinistra fino al labbro inferiore destro come se un animale l'avesse azzannato in faccia. Inoltre, portava una spadone Daedrico legato dietro la schiena. L'uomo in armatura Daedrica chiuse la porta.
"Non fare un altro passo!" Tuonò l'Argoniana serrando gli occhi, anche se la sua voce non era per niente intimidatoria.
L'uomo in armatura Daedrica andò da lei. I suoi passi era silenzio, nemmeno l'armatura tintinnava quando si muoveva. 
Hal-Liurz rimase immobile. Era intimidita dal passo sicuro dell'uomo che le veniva incontro.
L'uomo in armatura Daedrica si fermò a tre passi da lei. La guardò dritta negli occhi. "Dov'è il Conte Hassildor?" Disse con voce dura, profonda.
"Come hai fatto a superare le guardie con quella armatura?" Gli domandò Hal-Liurz come se la domanda gli fosse uscita di bocca da sola.
L'uomo in armatura Daedrica la guardò severo, senza espressioni. Non rispose. Attese.
L'Argoniana si sentì schiacciare sotto quello sguardo."Ora chiamo le guardie!" Andò a passò svelto verso la porta, lanciando una fugace occhiate dietro di lei. Aprì la porta e chiamò le guardie nel corridoio, che accorsero in un secondo. Quando si voltò per indicare l'uomo con l'armatura Daedrica, vide che era sparito. Non c'era più. Le due guardie si lanciarono delle occhiate perplesse. Hal-Liurz era più confusa di loro.
"Era... Era qui." Disse tra sé Hal-Liurz.
Una guardia capì quello che aveva detto. "Sicura? Io non vedo nessuno. Forse dormite troppo poco e la mente..."
"No!" Rispose l'Argoniana. "Sono lucida. L'ho visto. Era esattamente lì." Indicò un punto con il lungo dito da rettile. "Non me lo sono immaginata."
Le guardie si guardarono nuovamente tra loro.


 
*****


Il Capo della guardia cittadina radunò cinque uomini vicino l'entrata delle fogne. Erano le tre e venti di mattina, e le strade erano completamente deserte, a parte i soldati di ronda. Le luci delle due lune si riflettevano sugli elmi senza celata d'acciaio delle guardie.
Il Capo della guardia cittadina aveva scelto l'entrata più nascosta, meno in vista, poiché quando ore dopo sarebbe usciti dalle fogne, nessuno li avrebbe visti. E nessuno degli uomini che aveva radunato voleva essere visto sporco di merda o di qualsiasi altra cosa c'era nel fondo delle fogne. Il quartiere residenziale era ottimo, perché la mattina tutti andavano al distretto del mercato, e in quelle strade rimanevano solo guardie. In più, la torre di guardia più vicina distava 60 piedi.
"Ascoltate." Il capo della guardia cittadina sfoderò la spada d'acciaio. "Come sapete il Conte Hassildor vuole che perlustriamo i condotti fognari per trovare i cacciatori di vampiri. Quindi fate..."
"E' una cosa che proprio non capisco." Disse la guardia dai capelli neri. "Perché dobbiamo dare la caccia a chi caccia i Vampiri? Loro cacciano i Vampiri, no? Perché noi dobbiamo cacciare loro? Non ha senso. Quelli tengono lontani quei succhiasangue. Dobbiamo lasciarli fare, secondo me."
"Hai ripetuto quattro volte la parola cacciare." Rispose un uomo calvo. "Il tuo cervello si è inceppato come il tuo cazzo quando eri a letto con Lysma?" Tutti le guardie risero, eccetto il capo della guardia cittadina.
La guardia dai capelli neri si irritò.
"Silenzio!" Gridò il capo della guardia cittadina, facendo attenzione a non alzare troppo la voce per non svegliare il vicinato. "Siete pagati per fare quello che vi dice il Conte, non per pensare."
Le due guardie si guardarono tra loro, gli occhi che sprizzavano fiamme. Volevano azzuffarsi l'un l'altro ma non lo fecero.
"Volete finire come quegli idioti che non hanno rispetto gli ordini del Conte?" Domandò il capo della guardia cittadina.
"Quelli sono sempre stati dei coglioni!" Rise la guardia calva, assieme alle altre quattro guardie. La guardia dai capelli neri smorzò una risata. Non voleva che l'uomo calvo lo vedesse ridere a una delle sue battute.
"Se non la smetti faccio ti rapporto per insubordinazione!" Il capo della guardia cittadina si mise a un palmo dalla faccia della guardia calva.
Intimorito, la guardia calva abbassò gli occhi.
"Entra tu per primo." Disse poco dopo il capo della guardia cittadina all'uomo calvo. "Facci l'onore di sguazzare nella merda per primo."

La rete di canali in mattoni dove erano entrati, emanavano un puzzo di escrementi pazzesco. Quando gli stivali sguazzarono nella melma, tutti loro vennero percossi da conati di vomito. Il rumore che sentivano, le cose che schiacciavano, il tanfo insopportabile, li faceva venir voglia di vomitare pure l'anima. Le cinque guardie si coprirono il viso con il bracciale dell'armatura d'acciaio. L'odore penetrava ugualmente, ma era meno intenso rispetto al dover respirare a pieni polmoni.
L'uomo calvo seguiva in testa, la torcia nella mano sinistra, una spada d'acciaio nella destra. L'uomo dai capelli neri chiudeva la fila, sempre con una torcia e una spada. Il capo della guardia cittadina si muoveva quasi affianco all'uomo calvo, ma leggermente più indietro, senza torcia.
L'oscurità avvolgeva ogni cunicolo delle fogne. Per loro fortuna non erano immensi come quelli della Città Imperiale, dove si annidavano Negromanti, Banditi, Ratti e ogni genere di feccia sulla terra.
"Ma chi cazzo vorrebbe vivere qui sotto?" Disse l'uomo calvo.
"Mica ci vivono." Rispose l'uomo dai capelli neri. "Si stanno rifugiando."
"Non mi rivolgere la parola, coglione!"
"Ehi!"
"Basta!" Tuonò il Capo della guardia cittadina. "Se vi sento ancora litigare giuro sui Nove Divini che vi lasciò morire quaggiù!"
I due si ammutolirono.
"Fate silenzio! Nessuno di voi deve parlare se non lo dico io!" Continuò il capo della guardia cittadina.
Proseguirono per 80 piedi e svoltarono a destra. I condotti sembravano tutti uguali. Ogni tanto saltava fuori qualche Ratto che, davanti alla luce della torcia, fuggiva via rintanandosi nei piccoli buchi scavati nelle mura.
"I ratti non sono poi così grandi, qua sotto." Disse l'uomo Calvo.
"Che ti ho detto prima?" Lo intimorì il capo della guardia cittadina.
Camminarono a lungo. Alla fine alcuni di loro vomitarono bile, altri la cena. Dei cacciatori di Vampiri non c'era nessuna traccia. A un certo punto girarono per tre volte lo stesso condotto. Poi s'inoltrarono in altri canali, ma ovunque andassero, sembrava di girare a zonzo. 

"Non ne posso più. Da quanto siamo qua sotto? Tre ore? Tre giorni? Tre anni? Una vita?" Si lamentò l'uomo calvo.
"Silenzio!" Rispose il capo della guardia cittadina.
"Camminiamo nella melma da così tanto tempo che ho l'armatura tutta imbrattata di merda, cazzo!" Disse la guardia dai capelli rasati.
"Basta!" Gridò il capo della guardia cittadina.
"A me viene di vomitare pure le interiora!" Aggiunse l'uomo dai capelli neri.
"Che lo faccia un altro questo lavoro di merda!" Imprecò la guardia dalla barba nera.
Il capo della guardia cittadina non sapeva più che fare. Tutti e cinque gli uomini si lamentavano e non eseguivano più gli ordini. Cercò di minacciarli, ma non servì a niente. Tutti loro fecero gruppo contro di lui. 
"Perlustralo tu questa fogna del cazzo!" Urlò l'uomo calvo.
Tutti e cinque si misero a urlare contro il capo della guardia cittadina. Un caos di parole tutte accavallate.
"Sì, fallo da solo!"
"Io me ne vado!"
"Noi siamo pagati per sguazzare nella merda!"
"Non me ne frega un cazzo. Io non faccio un altro passo!"
Il Capo della guardia cittadina puntò la lama contro di loro. "Voi non andrete da nessuna parte! Volete essere impiccati per diserzione? Volete disonorare il corpo della guardia cittadina?"
"Non mi frega un cazzo della guardia cittadina!" Gridò l'uomo calvo puntando la lama contro il suo superiore. Tutti seguirono il suo esempio.
Il Capo della guardia cittadina indietreggiò. "Abbassa l'arma, soldato!" Guardò tutti loro negli occhi. Non sapeva chi si sarebbe scagliato per primo.
Poi qualcosa di molto freddo affondò nel dorso, quasi sotto l'ascella. Il sangue schizzò nella melma. La punta della lama uscì dall'altra parte, imperlata di sangue. La sua spada gli cadde dalle mani, nel pattume.
L'uomo dai capelli neri ritirò indietro la spada insanguinata. "Questa è la fine che meriti! Sguazza nella merda, coglione!" 
Il Capo della guardia cittadina cadde sulle ginocchia, le mani sulla ferita che pulsava sangue. Con lo stivale sporco, la guardia dai capelli neri lo spinse per la schiena nel pattume. Si mise a ridere, seguito da tutti loro.
"Andiamocene via." Disse l'uomo calvo.
"Non è meglio ucciderlo?" Domandò la guardia dai capelli rasati. "Potrebbe sopravvivere. Dire al Conte..."
"Morirà, starne certo. Se non lo divoreranno i Ratti da vivo, ci penserà qualche malattia a farlo fuori." Rise l'uomo calvo. "Ormai è ricoperto di merda. Sai quante malattie ci sono là dentro? Me l'ha detto un Guaritore."
"Capisco." Rispose incerto la guardia dai capelli rasati.
I cinque uomini andarono via. Man mano che le luci delle torce si facevano sempre più flebile e lontane, l'oscurità inghiottì lentamente il Capo della guardia cittadina.
Tossì più volte. Poi l'oscurità l'avvolse completamente. Rimase per qualche minuto nel silenzio, interrotto dal lontano gocciolio dell'acqua.

D'un tratto, udì le zampe dei Ratti strisciargli attorno. Erano due o tre, ma nessuno di loro si avvicinava. Squittivano rumorosamente. Poi gli squittì diventarono intensi, vicini e molto numerosi. I loro passi sguazzavano nella melma facendo un gran chiasso. "Devono essere una dozzina di Ratti." Pensò. "Forse qualche dozzina, dannazione."
Poi, quasi come un miraggio, vide una piccola luce infondo al canale. Non proveniva dalla direzione da dove i cinque uomini erano andati via. E in quell'istante le sue supposizioni diventarono reali. Una quarantina di Ratti erano tutt'attorno, i loro musi fiutavano l'aria. "Fiutano la morte. La mia morte." Pensò. "Vogliono mangiarmi da morto o hanno paura... Almeno mi danno il tempo di crepare, forse." Tossì sangue. Un ratto si ritrasse spaventato.
La luce infondo al canale diventava sempre più vicina. I Ratti infondo al cerchio si voltarono, guardarono, annusarono l'aria e fuggirono via nelle fessure scavate nelle mura. 
I ratti nella prima fila di sinistra, cercarono di azzannargli frettolosamente una gamba. I loro denti cozzarono contro i gambali dell'armatura. Il capo della guardia cittadina sussultò spaventato. Con un mano, cercò la spada nel fondo della melma, ma i ratti di destra addentarono le dita protette da un guanto d'acciaio. L'uomo ritrasse istintivamente la mano. "Lasciatemi crepare prima di mangiarmi." Urlò a loro. I ratti annusarono l'aria, squittivano.
La luce si faceva via via più intensa, più vicina.
Altri ratti infondo alla fila del cerchio fuggirono via tra le pareti del canale. Erano rimasti solo 2 dozzine di Ratti. Quelli si strinsero attorno al Capo della guardia cittadina. Erano assai irrequieti. Squittivano ancor più rumorosamente. Poi quando l'uomo tossì sangue, tutti loro si scagliarono contro di lui. Azzannarono ogni parte del corpo. Cercarono di spaccare con i denti l'armatura d'acciaio, di levarla. Alcuni Ratti con le zampe e i loro musi, riuscirono a togliergli l'elmo senza celata. Gli strapparono in tutta fretta brandelli di pelle dalla faccia. L'uomo gridava aiuto ai Divini, si dimenò per toglierseli di dosso. Gli divorarono il naso, gli staccarono l'occhio sinistro che penzolò fuori dall'orbita. Mentre l'uomo urlava, un ratto gli infilò il muso nella bocca, gli lacerò la lingua. Della guancia sinistra s'intravedono i denti sotto i tessuti squarciati. 
Poi d'un tratto, tutti i Ratti fuggirono via con pezzi di carne in bocca. La luce gli arrivò violento nell'unico occhio rimasto. Il Capo della guardia cittadina si coprì istintivamente la vista con un mano. La sua faccia era una maschera di orrore, irriconoscibile, la carne esposta. In alcuni punti s'intravedeva l'osso della mascella e dello zigomo.
"Aiutami..." Disse quasi senza voce il capo della guardia cittadina alla fonte di luce. Era debole, molto debole.
Lentamente riuscì a mettere a fuoco la sagoma umanoide di fronte.
"Sono il capo della guardia cittadina..." L'uomo tossì sangue. "Il Conte Hassildor..." Si zittì di colpo, spalancò gli occhi dal terrore. "Goblin!" sibilò l'uomo ad alta voce.
Al suono della sua voce, la creatura inclinò la testa incuriosito. Poi gli conficcò l'accetta rudimentale nel cranio. Il sangue gli schizzò in faccia.


 
*****


Il Conte Clavis si svegliò e si stropicciò gli occhi. Si mise seduto, facendo uno sbadiglio. Poi si alzò, dirigendosi alla finestra. Erano le otto e quaranta del mattino. "Ho dormito troppo." Pensò. Era nuovamente una giornata ventosa e serena da quelle parti. Poi lasciò la stanza per dirigersi verso la sala da pranzo con la vesta da notte.  Dopo la colazione, si faceva sempre un bagno; ed era così da almeno 17 anni. Quando chiuse la porta della camera da letto, si voltò. Vide del sangue sul pavimento. Meglio dire, una scia di sangue come se qualcuno fosse stato trascinato dietro l'angolo del corridoio.
Il Conte Clavis trasalì, gli venne un conato di vomito. "Guardie!" Chiamò. Attese. Ma nessuno venne alla chiamata. Grido ancora, e ancora, e ancora, ma nulla. La sua voce rimbombava nel corridoio, perdendosi in echi spettrali e lontani. Si voltò a sinistra; un altra chiazza di sangue. "Le mie due guardie..." Pensò. "Sono morte..? Oh per i divini!" Dei loro corpi non c'era traccia.
Si decise a camminare. Andò verso la sua sinistra, diretto alla sala principale. La fame gli era passata. Quando svoltò l'angolo, vide la guardia con la gola dilaniata. Era uno dei due uomini di guardia alla sua camera da letto. Il Conte Clavis si chinò, osservò il corpo, coprendosi la bocca e il naso con una mano. Notò dei morsi sul collo, quattro per l'esattezza, oltre la gola tagliata con una lama. Si alzò, si guardò attorno. Era paranoico, molto paranoico. Si aspettava che da un momento all'altro sbucassero dalle mura degli assassini o qualunque cosa avesse ridotto la guardia in quelle condizioni. Le sue gambe iniziarono a tremare, quasi cedevano sotto il suo peso. Mise una mano sul muro per sostenersi.
"Guardie!" Urlò con un timbro di voce simile a quello di un bambino spaventato. Nessuna risposta.
Poi continuò lungo il corridoio. In alcuni punti le pareti erano macchiati di sangue. "Perché non ho sentito nulla?" Pensò. "Perché sono ancora vivo?" Si toccò il collo, rabbrividì.
Strisciò con la schiena lungo la parete, facendo attenzione a non mettere i piedi nel sangue. Sorpassò l'arco del corridoio ed entrò nella sala principale.
"E'... Un vero massacro..." Disse fra i denti. Ribaltati al centro della sala, tre divani beige ricamati con vari simboli. Tavoli, sedie, scaffali e tavolini erano distrutti o capovolti. Sangue ovunque; sulle pareti, sulle vetrate, sul pavimento. Nove corpi senza vita giacevano sparsi nella sala.
Il Conte Clavis vomitò bile. Poi guardò di nuovo quel tetro panorama. Il suo stomaco si contrasse più volte. Distolse lo sguardo, si piegò in avanti, la mano appoggiata sull'arco dell'entrata.
Sei guardie erano tra i cadaveri. Alcuni di loro avevano impugno delle spade, ed altri avevano le lame nel fodero. Gli altri tre corpi erano suoi servitori, la pelle bianca come la neve. 
"Come ho fatto a non sentire niente?" Pensò. "E' impossibile..."
D'un tratto udì chiudere una porta. Guardò a destra, verso l'entrata comunicante con l'altra sala. Da lì entrò un uomo pallido, capelli bianchi tirati indietro, gli occhi dall'iride rosso sangue. Era vestito con abiti ricchi ed elaborati; una giacca di seta color borgogna, un foulard nero al collo, un pantalone nero con ai piedi scarpe nere con finiture in oro. Sembrava un uomo molto ricco, ma dall'aspetto inquietante.
Il Conte Clavis rimase fermò, lo guardò. 
L'uomo pallido camminava lento, calmo, i suoi passi riecheggiavano nella stanza. Si voltò verso il Conte Clavis che sussultò. "Conte Clavis." Disse. "Il buongiorno si vede dal mattino."
Il Conte Clavis non rispose.
"Non ti ricordi di me?" L'uomo pallido sorrise. "Sono colui che vuoi eliminare. Com'è che hai detto; 'Quell'essere schifoso e ripugnate è in vita solo perché nessuno ha il coraggio di ucciderlo. Farò vedere a tutti quanto è facile uccidere un succhiasangue.' Ti ricordi di queste parole Conte Clavis?" L'uomo pallido gli diede le spalle, guardando fuori dalla vetrata insanguinata.
Il Conte Clavis ricordava e come. Per lui era diventata una priorità ammazzare tutti i Vampiri di Cyrodiil. Aveva perso sua figlia di 4 anni per mano di un servitore che in realtà era un Vampiro. L'aveva dissanguata per giorni, finché il corpo della bambina non cedette. Fu ritrovata solo per caso, nella cantina abbandonata della villa. Un passaggio nascosto che conosceva solo il Conte Clavis. Erano passate tre settimane dalla sua scomparsa. Per tutto quel tempo, il servitore Vampiro aveva lavorato accanto al Conte Clavis offrendogli parole di conforto, dandosi da fare per trovarla, ma in realtà lui si divertiva solo a vederlo soffrire. Ogni notte scendeva giù nella cantina e beveva il sangue della bambina che piangeva e gridava aiuto a suo papà, ma lì sotto nessuno poteva udirla. Prima si era accontento di poco, qualche goccia. Poi ha preteso di più, poiché il sangue di un bambino crea dipendenza al Vampiro. Così la bambina cadde in un lungo sogno senza sogni e morì. Due giorni dopo, per puro caso, il Conte Clavis trovò il cadavere di sua figlia. La bambina non aveva più una goccia di sangue in corpo. Il servitore Vampiro l'aveva prosciugata fino all'ultima goccia. E fu quel giorno che si promise di ammazzare tutti i Vampiri di Cyrodiil, ma aveva un difetto; la codardia. Quel sentimento ostacolava la sua vendetta. Così aveva usato il suo enorme patrimonio per ingaggiare gruppi di cacciatori di Vampiri per stanare e uccidere i succhiasangue. Non seppe mai che era stato il servitore Vampiro a uccidere sua figlia, ma sospettò di lui quando si dileguò nel nulla. E da allora aveva speso molti danari per cercarlo, e promesso vendetta contro qualsiasi vampiro.
"Conte Clavis." Disse l'uomo pallido. "Mi sono permesso di invitare un tuo vecchio amico." Si voltò verso il Conte. "Non è un mio consanguineo, anche perché scelgo bene i miei figli. Ma credo che lo riconoscerai." L'uomo pallido roteò il viso verso la sala comunicante.
L'uomo dai lunghi capelli neri, pelle pallida, occhi rossi e senza sopracciglia venne portato di forza da due uomini sottobraccio. Più che portato, venne trascinato con la forza. I due uomini erano un Argoniano e un Altmer, vestiti con tuniche nere. Sul petto, la stemma di un ramo rosso avvolte nelle fiamme. Si fermarono di fronte all'uomo pallido, gettando sul pavimento l'uomo dai lunghi capelli.
Il Conte Clavis spalancò gli occhi. "E' il servo. Lui..." Fece per andare verso di lui, ma di colpo si fermò. Ebbe paura, tremò. La codardia lo stava assalendo.
L'uomo pallido gli sorrise, sfoderò un piccolo pugnale d'argento col manico in acciaio dorato. "Lui mi ha parlato del tuo difetto."
"Lui? Chi?" Pensò il Conte Clavis. 
"Mi deludi." Disse l'uomo pallido. "Credevo che rivendendo il tuo vecchio amico..."
"...Ha ucciso mia figlia..." Sibilò il Conte Clavis. 
L'uomo pallido fece un sorriso inquietante.
Il Conte Clavis camminò lentamente verso il Vampiro, cercando di non calpestare le pozze di sangue. Tremava. Tutto il corpo tremava. Ma qualcosa lo spinse a muoversi verso l'uomo pallido. La sua codardia si stava pian piano assopendo, e né era felice, oltre che spaventato. Poi d'un tratto, come una saetta, davanti ai suoi occhi gli comparve il viso sorridente di sua figlia. Quel viso che negli anni aveva quasi scordato, così come la sua voce. Ora vedeva ogni angolatura del suo viso. Riusciva finalmente a ricordarla. Erano passati 14 anni da quando era morta, ma per lui era come se tutto fosse successo ieri. Si fermò.
L'uomo pallido gli allungò il pugnale dalla parte del manico. 
Il Conte Clavis guardò dapprima il pugnale, poi gli occhi rossi sangue dell'uomo pallido. Quello gli sorrise, per meglio dire, alzò vagamente una parte delle labbra bluastre. Il Conte Clavis distolse lo sguardo. Provava una strana sensazione di impotenza davanti a quell'uomo. Poi i suoi occhi si posarono sui lunghi capelli neri dell'uomo in ginocchio, le catene arrugginite ai polsi. Vide ogni parte del suo corpo, la pelle bianca e i piedi sporchi di fango, gli stracci usati come vestiti. Puzzava di sterco animale. Aveva lo sguardo fisso sul pavimento, i capelli davanti agli occhi.
L'uomo pallido mosse il manico del pugnale per incitare il Conte Clavis ad afferrarlo.
Il Conte guardò nuovamente il pugnale, lo prese.
"Sai, noi Vampiri non siamo tutti uguali." Disse l'uomo pallido incrociando le mani dietro la schiena. 
Alla parola 'Vampiro', il Conte Clavis sentì un forte formicolio in testa.
"Ti ho portato la tua nemesi." Continuò l'uomo pallido. "L'assassino di tua figlia."
Il Conte Clavis serrò con forza le dita attorno al manico del coltello, quasi a volerlo frantumare. "Come fa a sapere di mia figlia?" Pensò. "Come sa tutte queste cose su di me?"
"Avanti." Lo incitò l'uomo pallido. "Uccidilo. Aspettavi questo momento da 14 anni. Ora è davanti a te."
Il Conte Clavis si voltò verso l'uomo pallido. "...Come sai tutte queste cose su di me..?"
"La vera domanda è; perché sto facendo tutto questo per te." 


 
*****


Brangor osservava i boscaioli tagliare gli alberi di pino, le loro asce che battevano senza sosta sul legno. Inoltre, in mattinata, erano arrivati altri taglialegna su carretti trainati da robusti cavalli. Alcuni di loro lavoravano sui tronchi abbattuti, altri caricavano il legname sui carri che partivano subito dopo. Qualche uomo fischiettava una melodia che Brangor non conosceva. C'era un grande vociferare nel campo, superato solo dal chiasso delle scure contro le cortecce.
"Dormito bene?" Disse Ermil Voltum arrivando alle sue spalle. Stava mangiando una fetta di formaggio. Folk gli era dietro come un ombra con la faccia frastornata dalla sbornia.
"Abbastanza."
"Conosci il Conte di Skingrad?"
Brangor corrugò le sopracciglia. "Perché?"
"Non vuole che tocchi i suoi alberi. Che insolente." Diede un morso alla fetta di formaggio. "Rifiutare me? La mia proposta? Io che sono il numero uno in questo settore?" Sbuffò.
"E' pur sempre un Conte."
"Come se essere Conte vuole dire..."
"Ascolta." Disse Brangor. Non voleva che l'Altmer ricominciasse il logorroico discorso di come lui era superiore agli altri. "Ti ringrazio per la tua ospitalità, davvero. Ma ora devo mettermi in viaggio."
Ermil Voltum serrò gli occhi sospettoso, mutò completamente faccia, diventò quasi un altro. "Per dove?"
"Ho degli affari da sbrigare oltre alla Contea di Skingrad."
"Un po' vaga come risposta. Sicuro di non essere venuto qui a controllare la produzione?" L'espressione goliardica che l'Altmer aveva avuto fin da ieri era sparita, lasciando spazio a un viso grave, rigido.
"No, mi ero solo perso."
Folk si fece avanti. "Se ti sei perso, come farai a metterti in viaggio? Come sai quale direzione prendere?"
"Si, ottima domanda, Folk." Disse Ermil Voltum ancora più sospettoso di prima. "Come farai?"
Brangor non rispose subito. Non sapeva cosa dire. "Ho continuato sempre dritto, verso Nord." Indicò con il dito la montagna all'orizzonte. "E credo che quello sia il Nord."
"Quello è l'Ovest." Disse Folk con voce rauca. "Mentre quello è il Nord." Indicò con il dito tozzo e grosso l'orizzonte pieno di quercie.
"Sei venuto a spiarmi?" Disse Ermil Voltum.


 
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Fredor vagava nel bosco confuso, disorientato, la zappa tra le mani e lo sguardo perso. Si guardava attorno. Cercava sua figlia. Vedeva solo innumerevoli betulle, arbusti e rocce. Inciampò su un ramo e cadde carponi. Si sbucciò un ginocchio, si ferì una mano, ma non lasciò la presa dalla zappa.
"Meriliel!" Urlò il vecchio spaventato. "Meriliel!" 
Nessuna risposta.
Le cicale frinivano, gli uccelli cinguettavano. Sporadiche nuvoloni si ammassava in cielo.
"Meriliel! Meriliel! Meriliel!" La sua voce venne inghiottita dal caos della fauna. 
Camminò per un po', mentre il sole venne lentamente oscurato dalle nuvole. Guardò il cielo coperto dal folto fogliame dei rami. Poi aumentò il passo. Sentiva la ferita bruciare sul ginocchio, qualche goccia di sangue macchiava i suoi pantaloni logori. Inoltre, aveva un piccolo taglio nella mano sinistra. 
Iniziò a correre, a zoppicare. La pelle del ginocchio ferito sfregava contro il tessuto logoro del pantalone, facendogli un poco male. Il fiato gli venne meno dopo qualche minuto, rallentò l'andatura. Dal cielo plumbeo rimbombò un tuono. Fredor sussultò spaventato. Allora si decise a correre di nuovo. Non andò molto lontano. Il cuore palpitava senza sosta, non riusciva più a respirare. Cadde a carponi. Sentì un fortissimo dolore sul ginocchio sinistro. Alzò la testa, cercò di respirare, di gonfiare i polmoni d'aria. Poi la vista si annebbiò, il verdeggiante paesaggio sembrò ondeggiare, sdoppiarsi. Stramazzò a terra, sul fianco. "...Meriliel..."


 
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"Perché..?" Domandò Conte Clavis, il pugnale stretto in mano.
"Sono i gesti a rendere grande un uomo." L'uomo pallido sorrise.
"Tu non sei un uomo." Pensò il Conte. "Sei un lurido Vampiro."
"Io faccio un favore a te, e tu lo fai a me." L'uomo pallido afferrò per una ciocca di capelli il servitore Vampiro. "Che aspetti?"
"Quale favore..?" Il Conte Clavis serrò gli occhi. Sentiva il cuore in gola, ma si costrinse a non far vedere che il Vampiro che aveva di fronte lo intimoriva. Pensava a sua figlia. Era il suo ricordo a dargli forza.
"Tu ne fai tanti di favori." Disse l'uomo pallido, tirando per i capelli il servitore Vampiro. Quello mostrò il suo volto malaticcio.
"Favori?" Pensò il Conte. "Dove vuole arrivare? Cosa vuole da me? E' troppo vago." Poi i suoi occhi incrociarono quelli rossi del servitore Vampiro. Venne travolto da un in impetuosa ondata di rabbia. Vide il viso di sua figlia, il suo cadavere sul tavolo. La mano partì da sola. La lama si conficcò nella tiroide con un suono secco. 
Il servitore Vampiro cercò di portarsi le mani sulla gola, ma i due uomini glielo impedirono. 
Il Conte Clavis, la mano sul manico del pugnale, lo guardò negli occhi. Quello rantolava, lo fissava. 
Poi il Servitore Vampiro mutò espressione in un sorriso divertito. "...La tua..." sibilò quasi senza voce, mentre affogava nel suo stesso sangue. "Dolce bambina... Gridava aiuto... Il suo sangue era... Irresistibile..."
Il Conte Clavis staccò la lama dalla sua gola, il sangue schizzò a terra, sui suoi vestiti. Lo pugnalò al petto, ancora, ancora e ancora. Il servitore Vampiro morì con il sorriso sulle labbra, mentre fumi biancastri si levavano in aria dalla sua pelle. Il Conte pianse dalla rabbia, gli occhi arrossati. Per la prima volta in vita sua sentiva il pieno controllo delle sue emozioni, delle sue paure, di tutto. Una sensazione piacevole, mistica, che non sapeva spiegarsi.
L'uomo pallido fece un sorriso inquietante. "Ora farai un favore a me."
Il Conte Clavis smise di pugnalare il Servitore Vampiro, la mano e il pugnale inzuppati di sangue. Si alzò lentamente, la lama scivolò dalla mano, cadde sul pavimento.
L'uomo pallido guardò il cadavere a terra.
"Io non sono come te!" Ruggì il Conte Clavis, gli occhi arsi da un fuoco primitivo, arcaico. 
L'uomo pallido incrociò le mani dietro la schiena. "E' straordinario come un evento nefasto può cambiare una persona. Guardati: eri una persona intimorita, vigliacca..."
Il Conte Clavis ribollì dalla rabbia, strinse i pugni.
"...Una persona che si nascondeva dietro i suoi danari, ed ora, sei un uomo nuovo. Anzi, che dico: tu sei sempre stato così. Avevi solo bisogno di un aiuto. Ora sei completo. Non sei felice?"
Il Conte Clavis serrò gli occhi. "Sarò felice quando ti ammazzerò!"
"Questo non è il modo giusto di trattare chi ti aiuta." Sorrise l'uomo pallido.
Il Conte prese rapidamente il pugnale da terra e si lanciò contro di lui. L'uomo pallido si sposto di lato, con leggerezza. Il Conte Clavis scivolò sul sangue, razzolò sul pavimento e batté la testa. Perse i sensi. I due uomini si mossero verso il Conte con gli stiletti in mano.
"No!" Tuonò l'uomo pallido. I due uomini rinfoderarono le armi. "Ho dimenticato quanto siano intense le emozioni umane in certe contesti. Troppi secoli da Vampiro mi hanno del tutto estirpato l'umanità." Si avvicinò al Conte, gli osservò il viso. "Dolore e sofferenza, queste è la vita, queste sono le emozioni umane. Avvolte provo pena per loro, e i loro stupidi istinti primitivi. Lasciatelo dov'è. Quando si sveglierà, vedrà il mondo con un altra tonalità di colore. La mia." L'uomo pallido andò via, seguito dai due uomini.


 
*****


Quella notte Adrienne Berene non aveva chiuso occhio. Tutto il castello era in subbuglio. Inoltre, la maga temeva che il Conte Hassildor poteva cambiare idea sul fatto di lasciarla in vita. "Mi avrebbe uccisa, lo so." Pensò. "Perché mi ha lasciato vivere?" Camminò lungo la strada lastricata in mattoni di pietra del distretto del mercato.  Le vie di Skingrad erano affollate di gente. Il massacro alla porta maestra aveva scosso gli animi del popolino. Alcuni vociferavano che era la punizione dei Divini, altri che le porte dell'Oblivion si stavano riaprendo di nuovo, altri ancora che era opera di una setta di Vampiri che dimorava nelle fogne della città. Un caos che la guardia cittadina faceva fatica a domare.
Erano aumentati i crimini; omicidi, rapine, furti, incendi e risse. Nei quartieri più poveri, i malviventi si univano in bande cercando di prendere il controllo della situazione e di guadagnarci su. Alcune casupole vennero date alle fiamme, chi doveva molte monete agli usurai venne trovato morto, i ricchi rapinati in pieno giorno, altri picchiati in casa mentre i ladri gli derubavano oro e gioielli. La città più sicura di Cyrodiil, era diventata la peggiore. Un solo massacro aveva distrutto tutti gli anni di ordine e quiete in città. L'illusione di vivere a Skingrad, dove la violenza era qualcosa di molto lontano, aveva crogiolato parecchia gente. Ed ora, quasi tutti erano nel panico.
Adrienne Berene raggiunse l'entrata della Gilda dei Maghi. Gli apprendisti e i maghi la salutarono; chiesero se stesse bene, cosa gli era capitato con il Conte, ma la donna non rispose e andò direttamente nella sua stanza. Fece scivolare una grande baule da sotto il letto e lo aprì. Si guardò attorno per un momento. Poi cominciò a mettere dentro freneticamente tutto quello che gli poteva servire; Pozioni, pergamene, libri, vestiti, profumi. Il Baule era per metà pieno solo di abiti e fialette di profumo. Chiuse il baule con un forte rumore sordo, lo trascinò alla porta e mentre mise la mano sulla maniglia, qualcuno bussò. La maga si fermò, lasciò la presa dal baule. "Chi è?"
Nessuna risposta. Dall'altra parte, qualcuno forzò la maniglia.
"Chi sei? Cosa vuoi?" Disse Adrienne Berene in falso tono autoritario. "Fa che non sia la guardia cittadina." Pensò. "Proteggimi, Julianos. Ti supplico."
La maga sentì qualcosa muoversi nella serratura. Spalancò gli occhi spaventata. Indietreggiò un poco. Alzò le mani, pronta a scagliare saette di fulmini contro chiunque sarebbe entrato. "Il Conte Hassildor ha cambiato idea." Pensò impaurita. "No, no, maledizione. Io non c'entro nulla. Non mi farò prendere senza combattere." 
La porta si spalancò. Dalle mani della donna partirono delle saette che illuminarono la camera di un blu chiaro. Colpirono l'armatura Daedrica dell'uomo sulla soglia. Quello non si mosse come se non avesse nemmeno sentito il colpo. Adrienne Berene sentì il cuore quasi implodergli. Fece per lanciare le saette nuovamente, quando l'uomo alzò una mano, serrando le dita in un pugno. La sua armatura venne pervasa da una luce bianca, quasi invisibile.
"Oh no. L'incantesimo protezione."" Pensò Adrienne Berene. "Se scaglio un altra volta le saette mi torneranno indietro. Accuserò il colpo per lui."
L'uomo in armatura Daedrica si avvicinò a lei. La donna indietreggiò fino a urtare la base della finestra. Guardò dietro di sé, oltre la vetrata aperta. Vide un pozzo in lontananza. Quando voltò di nuovo la testa, l'uomo in armatura Daedrica gli era di fronte. La donna sobbalzò.
Quello si tolse l'elmo, lo mise sotto un braccio. "Il Conte Hassildor..." Disse con voce grave, profonda.
Adrienne Berene chiuse gli occhi. "E' arrivata la mia ora." Pensò. "Julianos, accoglimi nelle tue calde braccia." Fece per lasciarsi cadere di spalle giù dalla finestra, ma l'uomo in armatura Deadrica l'afferrò per il bavero. La spinse verso di sé, facendola cadere carponi sul pavimento.
La donna lo guardò, si sentiva impotente. "Lasciami morire come voglio!" Urlò. 
"Non sono qui per ucciderti." Disse l'uomo in armatura Daedrica. "Il Conte Hassildor... Dov'è?"
Adrienne Berene sospirò. Non capiva, ma era felice; felice di non dover morire. "Io... Non lo so."
"Ti ho vista uscire dal suo castello."
"Ero sua prigioniera." La maga si alzò in piedi, lanciò uno sguardo alla porta dietro di sé. 
"Un prigioniero non fugge tranquillo dalle segrete." L'uomo in armatura Daedrica andò verso di lei. "Non con quei vestiti addosso."
Ad ogni suo passo, Adrienne Berene indietreggiava.
"Smettila di muoverti! Voglio sapere dov'è il Conte Hassildor."
"Io non lo so, te l'ho detto."
"Dov'è?" Tuonò lui.
"Non lo so!" Urlò la maga.
L'uomo in armatura Daedrica la fissò per un momento. Poi svanì davanti ai suoi occhi.


 
*****


Netrom Morten fluttuava sul tetto di quell'immensa sala da pranzo dalle pareti inghiottite dall'oscurità. Vedeva il banchetto, i commensali, il Vampiro Patriarca, e infine lui stesso, Netrom Morten da giovane.
"Hai due scelte." Disse l'uomo pallido, il Vampiro Patriarca. "Essere un nostro consanguineo, figlio-nipote, o morire."
Netrom Morten da giovane non rispose.
L'Altmer dagli occhi rossi lo guardò grave. "Rispondi al Patriarca!"
Proprio in quell'istante, con un forte rumore metallico, la grande porta si spalancò. Due uomini con le tuniche nere reggevano sotto le braccia l'uomo dai capelli arruffati. Lo trascinarono dinanzi a Netrom Morten da giovane che serrò gli occhi. 
Il Vampiro Patriarca sfoderò il pugnale d'argento, il manico dorato in acciaio. Si diresse lentamente verso Netrom Morten da giovane, mentre i suoi commensali lo seguirono con lo sguardo. Raggiunse la fine della tavola. Guardò negli occhi Netrom Morten da giovane. I due uomini con la tunica gettarono sul pavimento di marmo l'uomo dai capelli arruffati. Quello piangeva e singhiozzava, rannicchiato su sé stesso. Lungo tutto il corpo si vedevano tracce di morsi.
Il Vampiro Patriarca gli allungò il pugnale dalla parte del manico. "E' ora di scegliere." Fece un sorriso inquietante.
Netrom Morten da giovane fissò l'uomo dai capelli arruffati, poi guardò l'uomo pallido. Corrugò la fronte.
Tutti gli occhi dei commensali erano posati sul Bretone da giovane.
Prese il pugnale d'argento, guardò il suo riflesso sulla lama, il suo viso. L'uomo dai capelli arruffati se ne stava sul pavimento a singhiozzare. Non osava alzare lo sguardo per vedere cosa stava succedendo.
L'uomo pallido indietreggiò di tre passi, sorrise, le labbra bluastre.
Netrom Morten da giovane si avvicinò all'uomo gettato sul pavimento. Lo osservò per un po'. Nella sala il silenzio era totale. Il Bretone da giovane poteva udire il battito del suo cuore. Fece un lungo respiro. Si voltò.
Lanciò la lama contro il Vampiro Patriarca. Quello lo deviò, spostandosi di lato, gli occhi rosso sangue ribollivano d'ira. Il pugnale sbatté contro un muro, la lama scintillò e cadde a terra. Tutti i commensali si alzarono di scatto dalle sedie, sfoderano stiletti, coltelli e spade corte nascoste bene sotto gli indumenti. I due uomini con la tunica nera fecero per andare contro Netrom Morten da giovane, ma quello evocò tre Dremora, che si lanciarono subito sui commensali con voci diaboliche e metalliche. Tutti loro rimasero sorpresi dalla velocità con cui li aveva evocati, tranne l'uomo pallido.
Il Vampiro Patriarca andò verso l'uomo dai capelli arruffati, ma Netrom Morten si mise in mezzo. I tre Dremora ingaggiarono il combattimento contro i commensali. Il cozzare delle lame echeggiava tutt'attorno. I due uomini con la tunica, mazze ferrate in mano, attaccarono alle spalle Netrom Morten da giovane, ma costui scomparve. Quelli si guardarono attorno confusi. Il Vampiro Patriarca colse l'occasione per rendersi invisibile anche lui. Netrom Morten da giovane prese per un braccio l'uomo dai capelli arruffati, ma lui si dimenò con tutte le sue forza. Il pover'uomo non sapeva chi voleva trascinarlo, e il Bretone da giovane lo capì troppo tardi. Il Vampiro Patriarca affondò il pugnale invisibile nella costola dell'uomo dai capelli arruffati che urlò a squarciagola dal dolore. Netrom Morten da giovane si buttò addosso senza pensarci due volte, e fu il suo più grande sbaglio.
La lotta nella sala era quasi cessata. I Dremora erano stato uccisi. I Commensali si erano rivelati molto più letali dei Dremora.
Netrom Morten da giovane cadde a terra, paralizzato. L'uomo pallido l'aveva immobilizzato con un incantesimo. Nessuna parte del corpo rispondeva ai suoi comandi, e in più, era tornato visibile. Tutti i commensali lo accerchiarono. Attesero silenti. 
Il vampiro Patriarca si fece largo tra loro e si chinò verso Netrom Morten da giovane. Fece un sorriso inquietante come al solito. "Potevi diventare un Negromante molto potente, un consanguineo figlio-nipote." si sedette sui talloni. "Ma ahimè, la tua umanità... E' sempre stato quello il tuo problema. L'ho intuito da quando ti ho messo gli occhi addosso per la prima volta." Si alzò e guardò i commensali. "Servitevi!"
Tutti si lanciarono assetati contro Netrom Morten da giovane, strappandogli la logora tunica che portava da settimane. Affondarono i denti nella sua carne, gustarono ogni sorsata del suo sangue. Netrom Morten da giovane non riusciva a muoversi. Sentiva soltanto un intenso dolore lungo tutto il corpo. Non aveva mai provato un dolore così forte. Dalla sua bocca uscivano solo rantoli, anche se voleva urlare a squarciagola. La vista si stava offuscando, quando i commensali si ritirarono e tornarono ad accerchiarlo silenziosi, le labbra sporche di sangue. Il Vampiro Patriarca gli si avvicinò, guardò il collo del Bretone da giovane. Vide la sua pelle diventare bianca come la neve. Aprì la bocca e affondò i denti nel suo collo.

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Capitolo 10
*** Ricordi ***


Nella sfarzosa sala da pranzo del Conte Hassildor, Erina mangiava del cinghiale arrosto, condito con cipolle e pomodori. Lungo la tavola non vi era nessuno a parte lei. Una guardia era vicino l'entrata, lo sguardo fisso davanti a sé. Erina continuò a divorare il cibo. Non mangiava da tre giorni, e aveva bevuto a stento un po' d'acqua.
Buttò un occhiata al resto alla bottiglia di vino surrille, ma non si versò da bere. "Chissà che diavolo c'è la dentro. Non vorrei bere sangue, invece del vino..." La sua mente la portava sempre a diffidare, a guardare di sottecchi le guardie, la servitù e persino il cuoco che le aveva sfornato una coscia di cinghiale chissà da dove. "Ho ceduto, ma avevo fame. Non potevo..." Mentre era persa nei suoi pensieri, il Conte Hassildor si sedette a capotavola come se si fosse volatilizzato dal nulla.
Erina sussultò dallo spavento.
Il Conte Hassildor le sorrise freddamente. I suoi occhi rossi si posarono per un attimo sul suo collo, poi sulla bottiglia di surille accanto al piatto d'argento di Erina.
La donna deglutì l'ultimo boccone di carne. "Conte." Per un istante i suoi occhi incrociarono quelli rosso sangue del Conte, e sviò subito lo sguardo sul suo piatto.
"Il cinghiale è di vostro gradimento?" Le domandò il Conte Hassildor.
"Sì." Erina mise la forchetta nel piatto.
"Mi fa piacere. Hareen è il miglior cuoco di Cyrodiil." Con le dita guantate di velluto, il Conte accarezzò la base della tazza d'argento che era accanto al suo piatto vuoto.
Erina seguì la mano con gli occhi. "Voi non mangiate?"
"Io mi nutro solo di sangue." Pensò. "
Non sono una buona forchetta." Le disse.
"Beh, nemmeno io, ma onestamente non mi capita mai di pranzare con del cinghiale."
"Da oggi in poi lo farete. Potete venire nel mio castello a pranzare e cenare come vogliate."
"Non dovete..."
"Mi offendete se non accettate." Il Conte Hassildor sfiorò il bordo della tazza d'argento con un dito. "Gli amici di Netrom Morten, sono miei amici."
"Amici?" Pensò Erina. "Io lo amo." Abbassò lo sguardo sulla forchetta messa nel piatto.
"State bene?" Domandò il Conte Hassildor ritirando la mano dalla tazza d'argento.
"Sì, Conte." Erina alzò lo sguardo. "Sto bene."


 
*****


Brangor si ritrovò con le mani legate, buttato in una tenda e sorvegliato a vista da un uomo stempiato e grassoccio. Aveva le mani sporche di terra, i denti marci e una tunica di lana grezza e sporca.
"Muoviti e ti spacco le ossa una ad una." Lo minacciò l'uomo stempiato, alzando in aria un bastone robusto, che un tempo doveva essere un tronco.
"Non sono un cazzo di bandito!" Gridò Brangor. Sedeva a terra, le spalle adagiate sul palo di legno su cui erano legate dietro le mani.
L'uomo stempiato rise, mostrando i denti cariati e spaccati. "Io non sono un bandito." Lo canzonò muovendosi su un piede e l'altro.
Folk entrò d'impeto nella tenda. "Levati dai coglioni, Tavok!"
L'uomo grassoccio abbassò gli occhi e filò via come un cane bastonato.
"Perché mi hai legato? Hai idea di chi sia io?"
"Un'altro bandito." Rispose Folk, sedendosi su uno sgabello accanto a un tavolino su cui vi era un pugnale di ferro.
"Lavoro per il Conte Hassildor."
"E io per l'Imperatore... Com'è che si chiama? Ah giusto, non me ne frega un cazzo. E poi è morto e sepolto."
Brangor non sapeva se stava scherzando o meno.
"Ti sembro un uomo che lavorava per l'Imperatore?" Domandò Folk. "Guardami bene."
"No."
"E neanche tu sembri lavorare per il Conte Hassildor." Folk sbuffò. "Almeno potevi scegliere un Conte che non sia anonimo come Hassildor."
"Anonimo?"
"Tutta Cyrodiil sa che quel Conte cadaverico non si fa mai vedere in giro. Tu non l'hai mai incontrato. Il Conte non incontra mai nessuno, a meno che..." Folk si interruppe. "Lasciamo perdere."
"A meno che?"
"Tu non fai parte della Gilda dei Maghi. Si vocifera che sia disponibile solo con loro, perciò è impossibile che ti abbia dato udenza."
"Udienza vorrai dire?"
Folk balzò dallo sgabello, gli occhi infiammati. "Che fai sfotti?"
"Ti ho solo corretto." Brangor fece un sorriso mellifluo che non riuscì a reprimere viste le circostanze.
Folk si chinò e lo guardò fisso negli occhi. Poi con un grugnito, gli mollò un pugno all'altezza dello zigomo.
Brangor non subì bene il colpo; la stanza iniziò a vorticare, la testa gli doleva. "Merda. Picchia peggio di un Minotauro..." Gli arrivò un altro pugnò sullo zigomo sinistro; perse i sensi.


 
*****


Adrianne era fuori dalla Gilda dei Maghi di Skingrad. Aveva una borsa piena di vestiti accanto alle gambe. "Ma quando arriva la carrozza?" Si guardò in giro, mentre la gente camminava per la strada lastricata di pietrisco. La guardia cittadina percorreva quella strada di rado, perlustrando perlopiù i vicoli o le locande. Erano lì che i sabotatori si incontravano e pianificavano i loro piani. Era una bella giornata soleggiata, e Adrianne aveva in mente di arrivare alla Città Imperiale prima del crepuscolo. 
Passò mezz'ora, ma nessuna carrozza fece capolinea davanti alla Gilda dei Maghi. Sospirò, sbuffò e incrociò finalmente le facce dei due cavalli, uno bianco e un altro pezzato, che trainavano una piccola carrozza grigia. 
Il cocchiere, un uomo sulla cinquantina dalla faccia rugosa, capelli grigi scompigliati con addosso un farsetto nero, fermò la carrozza davanti alla donna. "Chiedo venia per il ritardo, signora, ho dovuto sostituire la ruota della carrozza."
Adrienne si avvicinò quasi furtiva all'orecchio del cocchiere, come se aveva paura che qualcuno potesse sentirla. "Hai sistemato tutto?"
"Ho fatto come mi avete chiesto."
"Quindi ci scorterà lui?"
"Non mi fido dei banditi, ma faccio come dite." 
"Se ha avuto il suo oro, ci scorterà fino alle porte della Città Imperiale."
"Voi lo conoscete meglio di me." Il cocchiere scese dalla postazione di guida e afferrò la borsa di Adrienne. Poi aprì la portiera della carrozza e la mise sullo schienale del sedile. "Accomodatevi, signora." Abbassò leggermente la testa.
Adrienne si sistemò sul sedile a divanetto. Il Cocchiere tornò alla sua postazione, prese le redini dei due cavalli e fece schioccare le labbra. La carrozza partì.
La gente si spostò sul lato della strada, osservando la carrozza allontanarsi. Quando arrivò alla porta maestra della città, una guardia cittadina gli intimò di fermarsi e si avvicinò al cocchiere. 
Adrienne sentì i due discutere, prima in modo pacato poi più acceso, finché la portiera della carrozza si aprì. Vide un elmo e una faccia butterata sotto di esso. "Scendete."
Adrienne corrugò la fronte. "Cosa succede?"
"Scendete. Non ve lo ripeterò un'altra volta." Gli occhi della guardia cittadina si strinsero fino a diventare due fessure.
Adrienne scese con calma, guardandosi attorno. "Mi volete spiegare cosa succede?"
"Nessuna può lasciare la città. Ordine del Conte Hassildor."
In quell'istante, gli occhi rosso sangue del Conte le balenarono in mente, mentre tutto il suo corpo venne pervaso da un lungo brivido.
"Allora perché mi avete fatto entrare?" Domandò il Cocchiere alla guardia cittadina, ma quello non gli rispose.
Adrienne non parlò più. Il Conte Hassildor la intimoriva a tal punto da privarla della sua dote naturale; lamentarsi. Ma ella voleva lasciare Skingrad, e avrebbe persino parlato nuovamente con il Conte per riuscire nel suo intento.


 
*****


"Sono entrati e non sono più usciti."
Il Conte Hassildor osservò il viso del secondo in comando della guardia cittadina, che tempo a dietro il Conte aveva declassato; Servin Ondus, l'uomo che aveva gettato Netrom Morten nelle segrete. "Prenderai tu il comando della guardia cittadina, almeno finché non verrà ritrovato..."
Una guardia cittadina spalancò la porta dell'ufficio del Conte Vampiro. "Conte!" Urlò quasi senza fiato.
Il Conte Hassildor si voltò.
"I due cadaveri sono spariti!" L'uomo ansimava sotto la pesante armatura d'acciaio.
"Ti riferisci all'Imperiale e all'Orco?" Chiese il Conte Hassildor, il viso freddo e apatico.
"Si, mio signore."
Servin Ondus guardò il Conte, ma subito dopo abbassò gli occhi.
"L'uomo di guardia?" Chiese il Conte, alzandosi dalla sedia dallo schienale elaborato.
"Morto."
Il Conte Hassildor corrugò la fronte.

Quando il Conte arrivò nella camera, dove un tempo giacevano i due cadaveri dei cacciatori di Vampiri, si accorse effettivamente che erano spariti. Si voltò verso la guardia che aveva dato l'allarme. "Dov'è la guardia morta?"
"Nella stanza affianco, Conte."
Prima di lasciare l'attuale camera, diede un altra occhiata veloce. Tutto sembrava come l'aveva lasciato il giorno precedente, fatta eccezioni per i due cadaveri scomparsi. La fuori, nel piccolo e angusto corridoio, vi era uno schizzo di sangue sul muro e una pozza di sangue sul pavimento di pietra, vicino a una sedia. Il Conte Hassildor entrò nella stanza adiacente. Sul tavolo di legno era disteso il corpo della guardia; un volto anziano dalla fronte rugosa, una folta barba e un naso adunco. Teneva addosso ancora la sua armatura da guardia cittadina, ma non l'elmo, che era vicino al suo guanto d'arme. Il Conte Vampiro vide un grossa ferita all'altezza della testa imperlata di sangue coagulato. 
"E' stato colpito da un ascia." La guardia cittadina indicò lo squarcio nell'elmo.
"Nessun assassino utilizza un ascia per uccidere nell'ombra." Pensò il Conte Hassildor. Andò dall'altra parte del tavolo, vicino a Servin Ondus, che non riusciva a guardarlo in viso. Scrutò la ferita mortale della guardia. "Sì... Solo un colpo d'ascia può aprire una simile ferita." Pensò.
"Radunate otto uomini." Disse al nuovo capo della guardia cittadina. "Setacciate ogni pietra di questo posto. Devono esserci dei passaggi segreti nelle mura o nel pavimento, passaggi di cui io stesso sono all'oscuro."
Servin Ondus annuì prontamente e lasciò la stanza, felice di stare alla larga dalla presenza del Conte.


 
*****


Mariliel cavalcava lungo una radura con il sole alle spalle, mentre Ramstan procedeva un poco più avanti sul suo cavallo sauro. 
Il Redguard si guardò alle spalle, sorridendo. "Sbrigati!" 
Mariliel serrò gli occhi irritata, ma non rispose.
Cavalcarono per altri 300 iarde, poi la radura lasciò spazio a una prateria, puntellata di tanto in tanto da abeti. A oriente, la prateria si perdeva in campi di grano pronti per la raccolta, mentre a occidente, vi erano solo colline frastagliate e piccoli altopiani. 
"Lassù!" Indicò Ramstan con un dito guantato in pelle.
Cavalcarono per un po', finché un uomo in armatura di pelle comparve sulla sommità di una collina, la più alta. Mosse un braccio per farsi individuare da Ramstan.
"Sono arrivati." Disse Ramstan appena Mariliel si accostò al suo fianco con il cavallo.
"Sei sicuro che andrà bene?"
Le sorrise. "Sicuro."

Salendo la ripida collina, intravidero un accampamento tra la folta vegetazioni di arbusti, con piccole tende singole sparpagliate ovunque. Ve ne erano 30 in tutto. Gli uomini, per lo più Nord, Imperiali e Bretoni passeggiavano per il campo o erano chini attorno ai focolari. Quando Ramstan entrò nell'accampamento, superando un enorme roccia, tutti gli uomini si fermarono, guardando nella sua direzione. Ma non osservavano lui, ma la donna; Mariliel. Tutti loro iniziarono a sussurrare e a ridere, ma Ramstan li fulminò con lo sguardo. Poi fermò il suo cavallo sauro, mentre due stallieri gli andarono incontro. Mariliel scese da cavallo. Gli uomini la svestirono con gli occhi, poiché non vi erano donne nell'accampamento. Ramstan scese dalla sella poco dopo, mentre i due stallieri presero le redini dei due cavalli e li portarono alla stalla; una piccola parte dell'accampamento dove sotto un pendio scosceso, erano raggruppati otto cavalli.
"Che cazzo avete da guardare!" Urlò Ramstan ai suoi uomini. "Lavatevi dalle palle!"
La folla di uomini si dileguò.
"Non hanno mai visto una donna?" Chiese Meriliel irritata, seguendo Ramstan nella sua tenda, la più grande dell'accampamento.
"Non una bella quanto te." Sorrise malizioso Ramstan.
"Parole ripetute milioni di volte alle contadine."
"Sei gelosa?" 
"Te l'ho detto; mi fai schifo."
Ramstan sorrise nuovamente. 

L'interno della tenda era spaziosa, arredata con un tavolo rotondo, quattro sedie e tre candele in piattini di pietra poste su piccole casse. Il Redguard si avvicinò al tavolo, afferrò una bottiglia di vino e bevve un sorso. Poi si lasciò cadere sulla sedia, indicando una caraffa di vino al centro della tavola.
"No, grazie." Disse Mariliel. "Non ho sete."
"Questo vino lo tengo solo per te." "Rispose Ramstan, facendo un altro sorso. "Versati da bere."
"Anche no." Mariliel andò a sedersi di fronte a lui. "Allora, quando faremo il colpo?"
"Domani, all'alba."
"Perché non di notte, quando tutti dormono?"
"Perché i miei uomini di notte preferiscono ubriacarsi."
"Ah." Disse la donna in tono secco, alzandosi dalla sedia.
Il Redguard si accigliò.
"Dov'è finita la disciplina?" Chiese Mariliel irritata.
"Disciplina?" Sottolineò Ramstan quasi ridendo. "Questi sono banditi, tagliagole, la feccia di Cyrodill, insomma. Non un esercito."
Mariliel scosse la testa e uscì dalla tenda.
Il Redguard fece un altro sorso.


 
*****


L'Elfo Scuro si svegliò nel suo giaciglio scavato nella terra, mentre il suo cavallo brucava l'erba. Era mezzogiorno, ed aveva dormito per ore. Tre uomini sedevano a ridosso di un focolare, divorando della carne. Nell'aria vi era un profumo strano, come di pelle bruciata. Il Mer si alzò, e guardandosi attorno, li raggiunse. Uno degli uomini in nero gli lanciò un occhiata veloce, mentre il secondo lo guardò torvo. Il terzo non si girò nemmeno. L'Elfo Scuro diede un altro occhiata intorno; il vento ululava e scuoteva le fronde degli alberi. Alla sua sinistra, vi era una porta di legno mezza distrutta incassata sotto un pendio, e un uomo vestito con una tunica di lana, la schiena appoggiata alla parete rocciosa e le braccia conserte. Se non erano per i due occhi rosso sangue, era quasi invisibile nella penombra.
Il Mer si diresse da lui. "Credo sia giunta l'ora." Pensò. E quando fece per aprire la porta, una mano si serrò attorno al suo avambraccio. Gli occhi rossi lo guardarono minaccioso e l'Elfo Scuro fece un passo indietro. "Dannazione. Quando potrò incontrarlo? Sono passate 10 ore, ormai." Pensò.
Qualche tempo dopo, i tre uomini in nero si alzarono, e uno di loro buttò a terra quella che doveva essere un piede mangiucchiato. Il Mer realizzò in quel momento che la strana puzza che impregnava l'aria era quella di carne umana. "Per i Nove! Ho pure dormito con loro." Pensò. I tre uomini in nero sparirono sotto la caverna.
Passarono altre tre ore, mentre l'Elfo Scuro sedeva a terra, le spalle su un tronco. Guardò la porta mezza distrutta, aspettandosi che da un momento all'altro uscissero i tre uomini in nero. L'uomo con la tunica di lana se ne stava immobile nella solita posizione, tenendo d'occhio il Mer. In realtà, lo fissava da quando era arrivato, e anche mentre l'Elfo Scuro dormiva, quello lo guardava. 
Poi la porta mezza distrutta si aprì e uscirono i tre uomini in nero. Non dissero nulla all'Elfo Scuro, come sempre del resto, e sparirono nella vegetazione. Il Mer si alzò di scatto, e in quel momento l'uomo con la tunica di lana gli fece segnò con una mano di entrare. L'Elfo Scuro resse lo sguardo del Vampiro finché non entrò nella caverna che scendeva in profondità.


 
*****


"La mia reggia è perduta, ormai." Disse il Conte Clavis, sedendosi a un lungo tavolo addobbato con coppe di pietra e botti. Nella tavola vi erano altre sette persone, e a capotavola sedeva l'uomo pallido. La maggior parte della sala rocciosa era inghiottita dall'oscurità, e solo qualche candela sorretta su pali di ferro illuminava tremula la tavola.
"Abbiamo molte cose in comune." Rispose l'uomo pallido, vestito con un farsetto di seta scarlatto. "La mia dimora è andata persa quasi mezzo secolo fa. Ma ahimè, quelle mura erano tutto per me e la mia progenie. Un luogo di culto, di potere, di superiorità."
"Patriarca." Disse un Vampiro Elfo Alto. "Quest'uomo potrebbe..."
L'uomo pallido alzò una mano, e l'Altmer vampiro si zittì. "Chiedo venia per la maleducazione dei mie figli, ma lo fanno perché... Mi idolatrano."
Il Conte Clavis pensò a sua figlia e abbassò gli occhi rattristito.
L'uomo pallido prese una coppa di pietra, l'alzò in aria. "Brindiamo al nostro nuovo amico e alleato!" Tutti e sette figli lo seguirono.
Il Conte Clavis guardò perplesso le loro facce pallide, poi prese il boccale di pietra davanti a sé e l'alzò in aria.
L'uomo pallido si voltò verso il Conte. "Non è sangue. E' vino Surille." Sorrise freddamente.
Il Conte Clavis tirò un sospiro di sollievo dentro di sé.
"Che le nostre due razze possono convivere fianco a fianco in una lunga ed eterna amicizia."
Tutti bevvero dai loro boccali.

Il Conte Clavis e l'uomo pallido camminarono in un lungo corridoio della caverna, illuminato da torce accese lungo la parete rocciosa e distanti 70 piedi una dall'altra.
"So bene che Cyrodiil non è pronta a convivere con i Vampiri," disse l'uomo pallido "ma non voglio deludere i miei figli. Presto o tardi la gente si adeguerà e..."
"I Vampiri terrorizzano la gente." Lo interruppe il Conte Clavis. "So per certo che ci sono molti vampiri che vivono tra gli uomini, ma non hanno mai detto chi sono veramente."
"Vivono indossando una maschera. Non è quello che voglio per la mia progenie." L'uomo pallido si fermò, così fece anche il Conte. "Noi sappiamo adattarci, adeguarci e convivere con altre razze se è necessario."
"Ma sai meglio di me che ci sono Vampiri che..." Il Conte Clavis si interruppe, cercando la parola giusta.
"Folli?" Disse l'uomo pallido, capendo a cosa si riferiva. "Sì, ci sono Vampiri che perdono la ragione, che non sanno controllarsi e quella è una macchia indelebile per la nostra razza."
"Ho sentito guaritori dire che..."
"Non ti mentirò." Gli occhi rossi dell'uomo pallido penetrarono freddamente quelli del Conte. "Hanno ragione. Noi Vampiri siamo in parte maledetti. Abbiamo un oscura presenza che si annida nei meandri della nostra mente, ma molti di noi lottano per scacciarla via. Io stesso ho lottato duramente, e tutt'ora lotto con questa presenza malefica."
"Siete sincero a dirmi tutto questo." Il Conte Clavis non si sarebbe mai aspettato tanta sincerità dal Patriarca.
"La sincerità è alla base di un forte rapporto." L'uomo pallido e il Conte Clavis si incamminarono nuovamente. 

Raggiunsero la piccola camera da letto del Patriarca, che fungeva anche da studio. Sulle pareti rocciose erano appesi degli arazzi vermigli con vari simboli, e sul pavimento erano adagiati molte assi di legno come pavimentazione e all'entrata, un lunga tappetto marrone privo di ornamento. Vi era un letto matrimoniale e tre sedie, una scrivania e due cassapanche, due scaffali pieni di libri e un baule chiuso con un lucchetto arrugginito, oltre a due poltrone.
L'uomo pallido andò a sedersi su quest'ultima, e fece un cenno con la mano a Conte Clavis di sedersi di fronte a sé.
Quando il Conte si sedette, entrò un uomo con una tunica di lana che non disse nulla e guardò il Patriarca.
Il Conte Clavis non capì perché i due si fissavano in silenzio, finché l'uomo con la tunica di lana uscì dalla stanza.
"Continuando il nostro discorso." Disse l'uomo pallido con un sorriso freddo, come se non fosse successo nulla. "E' facile per un Vampiro cedere alle proprie pulsioni. L'oscurità ha il fascino di una mamma protettiva, una volta che ti avvolge nel suo caldo abbraccio, non è semplice riemergere. Perciò quei vampiri non riescono più a uscire dal quel circolo vizioso."
Il Conte Clavis lo ascoltava di rado, domandosi il motivo dell'entrata del vampiro con la tunica di lana, e cosa si erano detti con gli sguardi silenti e glaciali.
L'uomo pallido inclinò leggermente il viso, serrando gli occhi rossi.
Il Conte Clavis percepì addosso il suo sguardo. "Ma so che basta un po' di sangue per placare la follia di un Vampiro. Molti guaritori curano così la malattia del vampirismo che affligge molto spesso gli avventurieri."
"Curano?" L'uomo pallido fece un sorriso glaciale. "Sono impostori. Il vero vampirismo non è facile da curare. La malattia nello stadio iniziale non è altro che una banale influenza. Non è grave se viene debellata in tempo. La vera cura comincia dopo, molto dopo. Un vampiro come me, non ha speranze di cura. Non può essere curato. Solo un intervento divino può cancellare via la malattia come il vento spazza via le foglie. Ma devo ammettere, che ci sono potenti negromanti che sanno come estirparla, persino al più potente vampiro."
"Ma so che i vampiri folli ritornano in sé bevendo del sangue."
"Per quanto? Un giorno?" L'uomo pallido si alzò dalla sedia e andò verso una cassapanca, afferrando una caraffa e versandosi del sangue nella coppa di peltro. Fece un sorso, mentre il Conte lo guardava. "Quei vampiri non torneranno mai sani. Una volta che plachi la follia con del sangue, rinforzi solo la tua parte oscura." Poi guardò la sua coppa. "Ora ti starai chiedendo come faccia a rimanere calmo? A non impazzire. La risposta è semplice: decido io come e quando bere. Seguendo questa linea, è molto raro che vengo colpito da... Avete capito, insomma." Fece un'altro sorso.
"Da dove prendi il sangue?" Il Conte Clavis si lasciò sfuggire la domanda, che aveva in testa da tempo.
"Anche se te lo dico, non mi crederesti." Rispose l'uomo pallido tornando a sedersi, e bevendo un'altro sorso.


 
*****


Quando Folk gli gettò dell'acqua fredda addosso, Brangor si svegliò di colpo, tentando di alzarsi di scatto, ma le mani legate dietro al palo di legno glielo impedì. Ermil Voltum sedeva su uno sgabello di fronte, mentre Folk ritornò alle spalle dell'Altmer. 
"Allora, vuoi dirmi chi ti manda?" Disse Ermil Voltum accigliato. Indossava una giacca verde, sotto una tunica bianca.
"Non mi manda nessuno!" Urlò Brangor. "Sono in missione per il Conte Hassildor." Il Nord si rese conto di essere rimasto privo di sensi tutto il giorno, poiché una fioca luce di candela illuminava la tenda. Inoltre, non sentiva più il martellare delle asce sui tronchi. Folk l'aveva steso per bene.
"Di nuovo questa farsa." Sbuffò Ermil Voltum alzandosi dallo sgabello. "Se non mi dirai chi ti manda..."
"Te l'ho detto!" Urlò Brangor.
"Non sarei mai arrivato a tanto..." Disse l'Altmer. "Ma ti farò vedere come sia il migliore anche nella tortura. Dopo tutto, sono il migliore in ogni cosa."
Folk roteò gli occhi sdegnato.
Ermil Voltum afferrò il coltello di ferro sul tavolino, puntò la lama verso l'occhio di Brangor e...


 
*****


"Che stiamo aspettando?" Chiese Mariliel nascosta nei cespugli.
Ramstan alzò una mano per dirgli di stare in silenzio. Poi con gli occhi seguì quattro uomini che si sistemarono dietro una tende. L'accampamento era completamente accerchiato, mentre i taglialegna dormivano incuranti di quanto stava per accadere.
"ORA!" Urlò il Redguard, alzando in aria la sciabola. 
Una trentina di uomini sbucarono fuori dagli alberi di pino, dall'erba alta e dagli arbusti.


 
*****


"Cosa è stato?" Ermil Voltum abbassò il pugnale confuso, voltandosi verso Folk. "Vai a controllare!"
Fuori dalla tenda cominciarono a levarsi delle urla. Folk sfoderò lo spadone lungo da dietro la schiena e li lasciò soli.
"TU!" Gridò l'Altmer contro Brangor. "Hai portato degli amici! Sei un bandito!"
Brangor non capiva. 
Quando Ermil Voltum fece per tagliare la gola a Brangor, un Imperiale entrò dentro la tenda armato di spada, seguito da un Bretone con una mazza ferrata. Entrambi indossavano un armatura di pelle.
L'Altmer si voltò di scatto, il pugnale puntato sulla gola di Brangor. "Un'altro passo e ammazzo il vostro amico!"
Perplessi, i due uomini si guardarono tra loro, e l'Imperiale fece spallucce.
Ermil Voltum spalancò gli occhi confuso e guardò Brangor. "Non è davvero un bandito." Pensò..
"Te l'ho detto che non sono un bandito, stupido coglione!" Urlò Brangor, mentre i due uomini risero.
L'Altmer digrignò i denti, pronto a tagliare la gola del Nord, ma il Bretone con la mazza ferrata lo colpì rapido alla schiena. Cadde a terra, il pugnale volò ai piedi dell'Imperiale che puntò rapidamente la lama verso Brangor.
"EHI! NO!" Urlò Brangor. "Non uccidetemi! Non sono uno di loro!" Si contorse, cercando inutilmente di alzarsi.
"Sei mio prigioniero!" Ghignò il Bretone. 
"L'ho trovato prima io!" Disse l'Imperiale, guardandolo minaccioso.
"Prenditi l'Elfo Alto!"
"Prendilo tu!" L'imperiale si avvicinò a un palmo dalla faccia del Bretone.
"Non vale un cazzo quel mingherlino!"
"E vuoi darmelo a me?" L'imperiale urtò leggermente la fronte del Bretone con la testa.
I due uomini si toccarono, si spinsero con la testa, gli sguardi sprizzavano fiamme da tutti le parti.
Brangor assisteva incredulo alla scena. Sembrava così irreale. Poi il suo sguardo si posò sul pugnale. "Devo prenderlo!" Allungò un piede per avvicinarlo, ma entrambi gli uomini lo videro e si girarono carichi di rabbia verso di lui.
"Merda!" Disse fra i denti.


 
*****


"Mi dispiace che non siete più partita." Disse il Conte Hassildor appena vide entrare nel suo ufficio Adrienne Berene. "Onestamente mi sorprende che sia qui" Pensò.
La donna si fermò davanti alla scrivania del Conte Vampiro.
"Accomodatevi."
Intimorita, Adrienne roteò gli occhi intorno e si sedette. La stanza era illuminata appena da qualche candela. "Può essere chiunque dietro quell'oscurità." Pensò.
Il Conte Hassildor percepì in modo quasi palpabile la tensione della donna. "Siete tesa?"
"No, sto bene." Mentì Adrienne, cercando di assumere un aspetto più duro possibile, ma quando incrociò gli occhi rosso sangue del Conte, ella abbassò lo sguardo.
"Nessuno può lasciare la città." Disse il Conte Hassildor afferrando la caraffa d'argento sulla sua scrivania. "Corrono tempi bui a Skingrad." Si versò da bere. Poi fece per versare del vino nel bicchiere di Adrienne, ma ella tappò il bordo della coppa con le dita. Il Conte Vampiro sorrise freddamente, posando la caraffa d'argento sul tavolo. Fece un sorso.
"Ho delle commissioni da sbrigare alla Città Imperiale." Aggiunse la donna. "Non potete chiudere un'occhio?"
Il Conte Hassildor non rispose. La guardò per un po', sorseggiando il vino. 
Adrienne era così tesa da sentire il suo cuore martellargli nel petto. Quando il Conte Vampiro posò la coppa sul tavolo, la donna sussultò appena dallo spavento.
Il Conte Vampiro se ne accorse, ma fece finta di nulla. "Purtroppo, devo declinare questo favore. Se acconsento a farvi lasciare la città, altra gente accorrerà qui per il tuo stesso scopo."
Adrienne abbassò lo sguardo rassegnata. "Se gli faccio pressione mi farà sparire nelle sue segrete o peggio..." Pensò.
"Se non c'è altro," Il Conte Hassildor si alzò dalla sedia, seguita da Adrienne. "vi accompagno alla porta."

Una volta nel corridoio, una guardia la scortò fin fuori dal castello.
"Devo trovare un modo di lasciare la città." Pensò, mentre percorreva il lungo ponte affiancato da torce accese con due guardie poste all'inizio e alla fine del ponte. La donna discese la collina frastagliata che era puntellata di arbusti, alberi e macigni; in cima invece, si ergeva solitario il Castello del Conte. Una guardia le passò accanto con fare guardingo. Lei abbassò lo sguardo. 


 
*****


Le fiamme divoravano le tende dei taglialegna in quella notte senza luna, levando al cielo fumi neri. Il fuoco crepitava sui pali di legno sui cui erano montate le tende. I prigionieri, nove in tutto, erano inginocchiato nei pressi della piccola collina dove un tempo vi era la tenda dell'Altmer. La maggior parte dei boscaioli aveva fatto resistenza, ed ora i loro corpi se ne stavano sul terreno in un lago di sangue.
Un Nord armato con un ascia teneva sott'occhio i prigionieri, mentre un Imperiale con una corda li legava mani e piedi.
Brangor, la faccia tumefatta, era l'ultimo della fila a partire da destra. Il Bretone e l'Imperiale avevano sfogato su di lui la rabbia di chi doveva prenderlo prigioniero, ma a Ermil Voltum era andato peggio. L'avevano lasciato quasi morente a terra, anche se era già privo di senso. Ora era l'unico in mezzo alla fila con la faccia nel fango in una maschera deforme per via dei pugni.
"Capo." Disse il Nord mettendo nella fodera l'ascia. "Ci sono tre uomini che chiedono una sfida ad elmi e bastoni."
"Così tanti." Rispose Ramstan, passando a rassegna i volti dei prigionieri che avevano gli occhi puntati sul terreno. Si girò verso il Nord. "Lo faranno all'accampamento. Ora mettiamoci in marcia."

Un timido sole si intravedeva all'orizzonte, lanciando fasci dorati al cielo. L'attacco era venuto quando il firmamento ad Est era biancastro, annunciando l'imminente alba. Un attacco rapido, spietato, che aveva lasciato parecchi morti tra i taglialegna. Ramstan aveva perso solo un uomo con un ascia piantata nel cranio. Il Redguard salì sul suo cavallo e si guardò intorno, ma non vide Mariliel. I prigionieri gli passarono affianco, scortati ai lati dai suoi uomini. 
"Dov'è la donna?" Chiese a un Imperiale che gli passava affianco. 
"Non lo so, capo." Rispose quello.
Spronando il cavallo, Ramstan cavalcò davanti alla fila. "Non è fatta per le battaglie." Pensò, mentre conduceva in testa la fila di prigionieri con un aspetto austero. "Non è posto per una dolce donna come lei."


 
*****


"Cercate ovunque!" Urlò Servin Ondus con l'elmo sotto un braccio. 
La guardia cittadina, otto in tutto, stavano rivoltando tutte le stanze adiacenti alla camera in cui erano scomparsi i cadaveri dell'Imperiale e del Nord. L'edificio era staccato dal resto del castello, e si poteva raggiungere solo tramite un corridoio dal pavimento e tetto di legno, che passava attraverso un piccolo giardino lasciato a sé stesso.
Setacciarono tutte le sette stanzette, ma non trovarono nulla.
Servin Ondus e i suoi uomini lasciarono l'edificio, iniziando le ricerche in quel giardino dagli arbusti secchi, erba alta e piante arrampicatrici sui muri. Vi erano delle panche in pietra ai lati dei sentieri inghiottiti dall'erbaccia. Servin Ondus si allontanò di poco dai suoi uomini, incuriosito da una specie di pozzo mezzo distrutto. Era poco distante dall'entrata secondaria del castello. Del pozzo rimaneva soltanto una palo e mezzo tetto di legno. "Non ricordavo un pozzo da queste parti."
Guardandosi intorno, si avvicinò con cautela, la mano sull'elsa della spada. Allungò la testa oltre le pietre. Non vi era nulla, oltre a delle sbarre di ferro arrugginito che sigillavano il pozzo, con sopra due pietre che un tempo appartenevano alla base della struttura. Si ritrasse indietro e si voltò. La guardia cittadina batteva le mani sui muri, controllava dietro quelle che un tempo erano siepi e persino sotto le mattonelle di pietra scheggiate e inghiottite dall'erbaccia.
Servin Ondus andò a sedersi su una panca di pietra, appoggiando l'elmo su di essa. Quando si voltò nuovamente verso i suoi uomini, l'elmo, adagiato malamente, cadde a terra e rotolò dietro i cespugli dai rami secchi. Servin Ondus si alzò, e mentre raccolse l'elmo notò qualcosa nascosta tra i cespugli. Un impronta di una mano ossuta di colore rosso scarlatto. Prendendo la pietra, guardò il segno, avvicinò il naso, annusò; era sangue. Allora si chinò e vide una specie di maniglia ad anello. Spazzò via la terra con una mano, scoprendo una botola di legno. Mise la mano sulla maniglia, ma si fermò. Non l'aprì. "Forse il Conte Hassildor vorrà prima essere informato" Pensò. Così si alzò e si voltò verso i suoi uomini. "Ho trovato qualcosa! Fate venire il Conte Hassildor!"


 
*****


Erina ritornò nella stanza in cui giaceva Netrom Morten imperlato di sudore. Si sedette accanto, prese un stoffa di lana da sopra il comodino e gli asciugò la fronte. Gli occhi del Bretone si muovevano freneticamente sotto le sue palpebre. Erina sospirò. "Chissà cosa starà sognando. Forse lotta, forse sogna me.."
Gli prese una mano e la mise nella sua sua. Era fredda, molto fredda. Erina non capì. "Il suo volto sembra uscito dagli inferi dell'Oblivion, eppure le sue mani..."
"Avevo intuito che saresti ritornata."
Erina balzò quasi dalla sedia, e si voltò di scatto.
Il Conte Hassildor era sulla soglia, le mani incrociate dietro la schiena. I suoi occhi rosso sangue sprizzavano voluminosi dal suo pallido e apatico viso.
"Resterò al suo capezzale finché non si riprenderà." Disse Erina, tornando a guardare il viso arrossato e sudato di Netrom Morten.
Per un attimo, come se le parole di Erina avessero riportato alla luce qualcosa che egli aveva dimenticato, il Conte Hassildor vide proiettata davanti ai suoi occhi la sua amata, sua moglie. Era da tempo che non ricordava più il suo viso. Il suo olfatto fu pervaso da un incantevole aroma di pesca che sua moglie tanto amava. Poi ella svanì. Il Conte Vampiro abbassò gli occhi. "Rona..." e in quell'istante, la sua mente lo riportò indietro.

Rona era distesa sul letto dalle rosse lenzuola riccamente elaborate. Indossava un camicetta di velluto rosso e una lunga gonna dello stesso colore e tessuto. Al collo una collana d'oro. Il Conte Hassildor le sedeva accanto, le dita intrecciate nella sue. Era una scena che aveva rivissuto solo una volta, e da allora, qualcosa dentro di lui l'aveva sepolto, nascosto, così da fargli dimenticare quel dolore che lo tormentava e nello stesso tempo lo allietava.
Vicino al letto, su un piccolo comodino, vi era un ampolla con all'interno un liquido rosa. Il Conte Vampiro sapeva che era arrivato il momento di lasciar andare Rona, ma qualcosa dentro di lui gli diceva il contrario. Il suo egoismo, il suo egocentrismo gli diceva che senza Rona sarebbe stato perso. Lottò contro la morsa invisibile che gli serrava la mente come un serpente che stritola la sua preda. E alla fine, vinse.
Prese l'ampolla, levò il tappo e un odore acre di putrefazione si levò in aria. Distolse il viso dall'ampolla, coprendosi il naso con la manica della giacca di seta bordeaux. 
Melisande, una strega che aveva preparato la pozione per il Conte, lo guardò per un secondo, poi muovendo le mani in gesti che il Conte Vampiro in un altro momento avrebbe ritenuto folli o strani, risvegliò Rona dal profondo abisso di sogni in cui era caduta. La strega andò via, lasciando da soli i due amati.
Il Conte Hassildor si alzò in piedi, con il corpo leggermente chino verso la sua amata e una mano sulla sua. "Rona, mia amata. E' ora di svegliarsi."
"Cosa..? Janus... Per favore, no." Bisbigliò lei con un voce debolissima; una voce non più abituata a parlare. "Fammi dormire." Gli occhi dall'iride rossi mezzi chiusi, il viso pallido, le labbra screpolate. "
Per favore, fammi dormire."
"Va tutto bene... Va tutto bene." Il Conte Hassildor sorrise; un sorriso caloroso, vero, che non riuscì mai più a replicare. "Sono venuto per darti pace."
"Posso... Riposare? Davvero?" Nel volto di Rona si dipinse un sorriso, una speranza, un lieto fine. 
"Sì, mia amata." Il Conte Hassildor avvicinò l'ampolla alle sue labbra screpolate. L'aria era ormai satura dell'odore di putrefazione proveniente dal liquido rosa, ma Rona non sembrò averla percepita. "Bevi. Andrà tutto per il meglio." Il Conte Hassildor mise una mano dietro la nuca di Rona, alzandole leggermente la testa, mentre le sue labbra screpolate toccarono il freddo bordo dell'ampolla. Ella non sentì nemmeno allora l'acre odore. Il Conte inclinò leggermente l'ampolla, e con difficoltà, Rona bevette debolmente un piccolo sorso.
Fece quattro sorsi, dopodiché guardò il Conte Hassildor che le sorrise. Rona fissò intensamente i suoi occhi rossi, con un leggero sorriso pacifico sulle labbra. Con tutta la forza che aveva in corpo, gli strinse le mani per ringraziarlo, per dirgli che lo amava e lo amerà per sempre. Poi le sue dita si rilassarono, scivolarono di lato, sul letto. Rona esalò l'ultimo respiro, guardando per l'ultima volta il volto del suo amato. Il Conte Hassildor rimase a guardarla immobile, confuso, poi posò la testa sul suo grembo, e rimase così, mentre il suo mondo crollava su sé stesso per non riaffiorare mai più.

Il Conte Vampiro si riprese da quel lampo che fu il ricordo più straziante della sua vita. Osservò Erina asciugare con una stoffa di lana il sudore dalla fronte di Netrom Morten. E fu proprio lì, che sentì una fitta al cuore e lasciò la stanza come un ombra inghiottita dall'oscurità.
Netrom Morten aprì gli occhi.






ANGOLO AUTORE

Mi scuso se posto questo capitolo dopo quasi un mese, ma per via del tempo non ho potuto fare altrimenti. Vi ringrazio per il vostro tempo che dedicate alla lettura dei mie capitoli, e un grande ringraziamento a chi recensisce i mie capitoli! Grazie!

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Capitolo 11
*** Il risveglio ***


Nella camera da letto del Conte Vampiro, l'uomo in armatura Daedrica aspettava nella penombra da un ora, e non aveva intenzioni di muoversi.
La porta della stanza si aprì, e il Conte Hassildor andò a sedersi sul letto, lo sguardo perso sul pavimento. Non udì l'uomo in armatura Daedrica avvicinarsi alle spalle, finché non gli fu quasi addosso. Balzò dal letto, sguainando il pugnale d'ebano che aveva attaccato al fianco.
"Ho un messaggio dal Consiglio dei Maghi." Disse l'uomo in armatura Daedrica guardandolo dritto nei suoi occhi rosso sangue.
Il Conte Vampiro si accigliò, squadrandolo per un po'. "Tu sei..."
"...L'Eroe di Kvatch." Rispose lui con voce grave e cupa. "Un nome che disprezzo." Allungò una mano che conteneva un pergamena chiusa con la ceralacca rossa. 
Il Conte Hassildor mise nel fodero il pugnale. Conosceva l'uomo in armatura Daedrica. Aveva vissuto diversi episodi tragici con quest'uomo; uno di essi era la morte di Rona. E' stato grazie ad egli che il Conte Vampiro aveva posto fine alle sofferenza di Rona. L'uomo in armatura Daedrica aveva accettato l'incarico senza pensarci due volte e l'aveva completato con la stessa rapidità. Il Conte Hassildor gli era molto grato di ciò che aveva fatto, ma l'uomo era più freddo del Conte e non esternava mai un sorriso o un emozione, irritandosi persino se veniva adulato o ringraziato.
Il Conte prese la lettera, ruppe il sigillo e la lesse.
L'uomo in armatura Daedrica se ne stava in piedi fissando imperturbabile il viso del Conte.
"Ancora lui..." Disse il Conte Hassildor quando ebbe finito di leggere la lettera. "Pensavo fosse morto... Immagino tu sia stato già informato..."
"Il Patriarca è vivo" Lo interruppe l'uomo in armatura Daedrica. "Egli si trova qui, da qualche parte. Forse in una delle tante caverne della ragione di Skingrad. Il Consiglio dei Maghi mi ha incaricato di occuparmi di questo vampiro. Credono che stia complottando per rovesciarti e prendere il controllo della città. Inoltre, degli apprendisti in viaggio per la gilda dei Maghi di Skingrad sono spariti. Uno di loro, una donna, è stato ritrovato dissanguato lungo la strada d'oro. Sospettano che siano stati i vampiri capeggiati dal Patriarca. La lettera dice tutto, ma il Consiglio dei Maghi ha bisogno di altre informazioni. 'Informazioni che troverò da solo.'"
"Non c'è bisogno di specificarlo. So che sei un solitario." Il Conte Hassildor andò verso la credenza, pensando alla donna dissanguata che era stata trovata da Netrom Morten. L'uomo in armatura Daedrica si riferiva a ella. "Vuoi un po' di vino?"
"Non bevo."
Il Conte si versò da bere in una coppa d'argento. "Perché mi hai aspettavi qui? Potevi chiedere a Hal-Liurz di incontrarmi." Sapeva che alcune guardie avevano avvistato un uomo in armatura Daedrica, stando alle parole dell'Argoniana.
"Lascia le tue domande retoriche agli stupidi. Qual è la tua risposta al Consiglio dei Maghi?"
Il Conte Vampiro fece un sorso, oltre che un freddo sorriso smorto. "Io e il Consiglio abbiamo una lunga e duratura relazioni di affari o... di amicizia. Riferisci che parteciperò personalmente alle ricerche, e informerò il consiglio su ulteriori sviluppi." Poi si avvicinò con fare serio all'uomo con l'armatura Daedrica, guardandolo dritto negli occhi con fare torvo. "Il Patriarca è mio! Non ho bisogno di specificarti il motivo, poiché sai già come ha ridotto Rona."
Senza dargli nemmeno una risposta, l'uomo in armatura Daedrica svanì davanti ai suoi occhi. 
Il Conte fece un altro sorso. "Se la mia guardia cittadina avesse solo un goccia di dote di quell'uomo, il Patriarca sarebbe già morto da un pezzo." Borbottò fra sé, mentre gli tornarono in mente i ricordi della sua amata.


 
*****


"Dove sei andata?"
"Fatti miei."
Ramstan era in piedi a un palmo dalla faccia di Mariliel.
"Vuoi assistere ad elmi e bastoni?"
"Che pagliacciata."
Il Redguard tentò di baciarla, ma ella scostò la testa, tirandogli un forte schiaffo. Il Redguard sorrise.
"Sono qui solo per affari. Non farti venire strane idee." Gli disse.
"Certo." Ramstan le prese un mano, e Mariliel gli tirò un altro schiaffo che egli intercettò serrandogli il polso in un sorriso. Gli cinse l'altro polso, cercando di baciarla nuovamente. Ella gli tirò una testata sul naso. Udì lo scricchiolio dell'osso, vide il sangue riversarsi sul labbro del Reguard.
"Ti è andata bene." Disse Mariliel lasciando la tenda.

Mentre Mariliel camminava irritata tra sguardi eccitati dei banditi, intravide Brangor in un recinto assieme ad altri uomini. Era in piedi con addosso indumenti laceri e sporchi di fango, le mani legate, la fronte appoggiata sullo steccato appuntito sorvegliato a vista da due uomini. Mariliel gli si avvicinò, mentre una guardia dal ventre prominente le sbarrò la strada. "Dove credi di andare?"
"Togliti di mezzo o ti taglio le palle!" Mariliel serrò gli occhi.
La guardia rise: "Perché non pulisci la mia ascia?"
Mariliel gli diede una ginocchiata sui genitali, e quando l'uomo si piegò per il dolore, gli sferrò un altra ginocchiata in faccia. La guardia cadde all'indietro con le mani sui genitali doloranti e il sangue che usciva dal labbro spaccato. Tutti i banditi si voltarono verso di loro e andarono ad assistere, formando quasi un cerchio.
Brangor vide tutto. "Mariliel..."
La seconda guardia, un uomo dai capelli bianchi stempiati, un viso solcato da mille rughe e palpebre calanti si affaticò a sbarrare la strada alla donna. Ci mise un eternità a percorrere goffamente undici piedi. Aveva un viso talmente anziano che forse doveva avere come minimo 200 anni. Quando fu vicino alla donna, gli puntò tremante una piccola e leggera lancia dalla punta bruciacchiata. Le mani gli tremavano per lo sforzo, non tanto per la paura, ma per il peso dell'asta. Quell'anziano aveva coraggio da vendere, e Mariliel lo capì all'istante, ma gli faceva anche tanta pena. Gli ricordava suo padre, Fredor.
"Non metterti in mezzo." Disse Mariliel. "Voglio solo parlare con quest'uomo." Fece cenno con la testa a Brangor.
L'anziana guardia lo guardò, sforzandosi di mettere a fuoco il viso di Brangor. Poi con la lancia tremante come una foglia smossa dal vento le disse con voce tremula e secca. "Nessuno può parlare con i prigionieri. Ordini di Ramstan." 
Mariliel sbuffò, roteando gli occhi in aria. "Vuoi davvero..."
"Lasciala fare, Hurm." Disse Ramstan facendosi largo tra i suoi uomini. 
L'anziana guardia chinò leggermente la testa, abbassando la lancia.
Mariliel sentiva addosso tutti gli occhi dei banditi. "Che cazzo avete da guardare?" Urlò.
"Tornate alle vostre faccende!" Tuonò Ramstan puntando torvo diverse facce.
Tutti si dileguarono, borbottando tra loro.
La guardia dal ventre prominente si alzò lentamente da terra, la faccia del tutto avvolta dal sangue.
"Vai a darti una pulita." Disse Ramstan. "Ti sei fatto battere da una donna."
"Quella non è una donna..." Grugnì la guardia dal ventre prominente, strascicando i piedi lontani da loro.
Ramstan rise. Poi si voltò verso Hurm. "Quanto a te, vecchio mio. Hai più palle di tutti loro messi insieme."
L'anziana guardia chinò la testa per ringraziarlo con un vago sorriso compiaciuto tra le labbra.
"Allora, mia dolce Mariliel." Disse Ramstan guardando negli occhi i prigionieri in segno di sfida, mentre i suoi gli diventarono rossi per la gelosia. "Con chi vuoi parlare?"


 
*****


Adrienne Berene si svegliò nel suo caldo letto dalle lenzuola di velluto. Un fascio di luce filtrava attraverso la finestra, illuminando la polvere che vorticava in aria. Si alzò frastornata dal letto e sbadigliò diverse volte, fissando il vuoto davanti a sé. Poi andò ad aprire la finestra. Una fallata di vento gelido le travolse il viso e i capelli, che volarono per un attimo in aria prima di ricadere sulle sue spalle esili. Sporadiche nuvolette sparse all'orizzonte, puntellavano il cielo sopra la cinta muraria della città. Poi guardando per un istante l'altezza del sole, che era quasi allo zenit, si rese conto di aver dormito troppo.
La sua borsa dei vestiti giaceva sul pavimento ai piedi del tavolino. Si vestì, si spruzzò dell'abbondante profumo sul abito di velluto blu e prese la borsa. Poi lasciò la stanza, chiudendola a chiave. Nel corridoio si guardò intorno e scese le scale. I maghi e gli apprendisti la salutarono, ma ella parve con la testa da tutt'altra parte. Il Cocchiere l'aspettava seduto su un muretto, fuori dalla Gilda dei Maghi. La notte precedente, aveva lasciato la carrozza e i due cavalli alla stalla di Skingrad. Adrienne gli aveva detto chiaramente che l'indomani dovevano andare in un luogo dove la carrozza sarebbe risultata troppo vistosa.
Adrienne raggiunse il cocchiere, gettandogli ai piedi la borsa di vestiti. "Prendila tu." Si guardò nervosa intorno. "Ti sei fatto seguire?"
"Non che io sappia, signora." Il cocchiere fece spallucce.
Adrienne si accigliò. "Se qualcuno ci vede lì, saremmo in grossi guai. Non possiamo rischiare. Fai un altro giro. Io ti aspetto qui."
"Non direte sul serio, signora." 
"Fallo!"
Il Cocchiere fece per posare la borsa a terra, quando Adrienne gli disse di muoversi. L'uomo andò via con la borsa, mentre di tanto in tanto si guardava indietro verso di lei. 
Dopo qualche tempo, ricomparve dall'altra parte della strada. Adrienne lo guardò arrivare, mentre cercava di capire se ci fosse qualcuno che alle sue calcagna. Ma non vide nessuno.
"Sono seguito, mia signora?" Disse il cocchiere gettando un occhiata veloce alle sue spalle.
"Non girarti. Non dare nell'occhio. Comportati normalmente."
Il cocchiere annuì.
"Andiamo." Disse Adrienne. 

Proseguirono per la strada, costeggiata da botteghe e case in pietra dai tetti spioventi. La gente affollava la via, ma la maggior parte di essi era diretta al mercato. Adrienne proseguì tesa come un arco, lanciando sguardi indagatori a tutti quelli che incontrava. Il cocchiere le era accanto con la faccia sorridente e per nulla preoccupato. Svoltarono a destra, e proseguirono giù per il distretto popolare; un tempo un quartiere benestante, ma che dopo la piccola rivolta era diventato il ritrovo di criminali e prostitute. La gente iniziò ad essere meno numerosa, mentre la strada di ciottoli lasciò spazio al fango amalgamato con feci umane e di ratto. Le case in legno erano decadenti e alcuni di esse erano state divorate dalle fiamme. Lungo gli stretti vicoli, vi erano prostitute che scopavano criminali, criminali che picchiavano prostitute e prostitute che rapinavano criminali, ma di guardie cittadine nessuna traccia. I bambini sguazzavano nel fango, luridi e puzzolenti, strillavano e correvano per la strada imbrattando muri e persone. Adrienne non aveva mai visto questo distretto ridotto come il porto della città Imperiale, anzi, era pure peggio. Un miriade di odori insopportabili che Adrienne non seppe riconoscere impregnavano l'aria. I nuovi residenti vi erano abituati, ma non Adrienne che si tappò il naso con una mano. Continuando lungo il tragitto, le scarpe rifinite in oro si erano lordate di terra e merda, così come la base della lunga gonna. Cercava di percorrere il terreno più asciutto, per poi scoprire che non serviva a niente. Il Cocchiere non aveva di questi problemi, anche perché l'uomo un tempo viveva in un posto come questo, ma in altra città. Adrienne l'aveva scelto solo perché era parente di qualche mago o apprendista di cui ora non ricordava sia il nome che la faccia.
L'abito di velluto blu di Adrienne aveva fin da subito rapito gli sguardi delle donne dai facili costumi e degli uomini impregnati di alcool e piscio. Alcuni di loro barbottavano, sogghignavano o le lanciavano sguardi arrapati. Adrienne cercò di non guardarli, mantenendo lo sguardo davanti a sé. Alcune donne iniziarono a strillarle contro degli insulti, dicendole di sparire se non voleva finire faccia in giù nel fango. Adrienne non ci fece caso, e continuò per la via. 
Poi un possente Nord con metà volto bruciato le sbarrò la strada. "Dove vai tutta sola, bella signora?" Sorrise con i denti marci e spaccati.
Il cocchiere si fece avanti, ma prima che potesse dire una parola il possente Nord gli staccò un pugno in faccia. Quello cadde a terra privo di senso.
Adrienne rabbrividì, guardandosi attorno. L'alito acre del possente Nord le arrivò dritto in faccia. 
"Quanto vuoi per una bella scopata?" Disse il Nord, palpandogli il sedere. Poi con l'altra mano le cinse il fondo schiena, stringendola forte a sé.
Adrienne si sentì stretta in una morsa da cui non poteva fuggire. Il possente Nord aveva una presa vigorosa, ed ella sentì il suo pene ingrossarsi all'altezza dal suo ventre. Poi gli toccò il seno, lo circondò con la sue grassocce dita callose. Adrienne era come paralizzata dalla paura. Non riusciva a muovere un muscolo. Sentiva solo l'alito acre del Nord riempirle i polmoni, e un insolito formicolio lungo tutto il corpo. Poi senza rendersene conto, l'uomo cadde a terra col viso annerito, la pelle bruciata da cui si levava un flebile fumo. La gente si accalcò a vedere. Piccoli scosse elettriche percorrevano la mano tremante di Adrienne. Una donna le puntò contro il dito, le diede della Megera e fuggi via. Tutti gli altri scapparono terrorizzati. Nell'aria l'odore di pelle bruciata scacciò gli altri odori. Il possente Nord era morto con gli spalancati e la bocca aperta da cui fuoriusciva del fumo. Poi Adrienne si guardò le dita e capì. 


 
*****


Qualcuno bussò alla porta della camera da letto del Conte Hassildor. Senza nemmeno aspettare una risposta, la porta si aprì. Sulla soglia comparve una guardia cittadina. Cercò con lo sguardo il Conte nella stanza illuminata debolmente da alcune candeliere, ma non lo trovò. Poi il Conte Vampiro uscì dalla penombra come un antico fantasma. 
"Conte." Sbiancò la guardia cittadina, chinando il capo. "Servin Ondus ha trovato qualcosa. Richiede la vostra presenza."
"Cosa ha trovato?" Con calma, il Conte Hassildor si avvicinò al soldato con le mani intrecciate dietro la schiena.
"Una botola nel giardino abbandonato, Conte."
"Fai strada."

Lungo il corridoio che portava fuori al giardino abbandonato, incontrarono un altra guardia cittadina che fermò il Conte.
"Conte, ho buone notizie." Esordì la guardia cittadina.
"So già della botola." Rispose il Conte.
La guardia cittadina non capì. "Netrom Morten si è svegliato."
"Siete..." Si stupì il Conte Hassildor. "...Siete sicuro?"
"Sì, Conte. Seguitemi."
L'altra guardia cittadina cercò di dire qualcosa al Conte, ma egli rispose per primo. "Riferite a Servin Ondus di bloccare il passaggio se qualcuno o qualcosa dovesse uscire da la. Lo incontrerò appena possibile."
La guardia cittadina annuì e andò via.

Tempo dopo, assieme alla guardia cittadina, raggiunse il capezzale di Netrom Morten. Vide Erina con gli occhi arrossati e in lacrime dalla felicità, china su Netrom Morten dalla faccia molto pallida, quasi come il Conte Vampiro. Il Conte Hassildor si avvicino al Bretone, mentre Erina si rimise seduta sulla sedia con le mani tremanti dalla contentezza. 
Netrom Morten guardò il volto freddo e apatico del Conte, ma nessuno dei due parlò. Erina li fissò confusa, ma non aggiunse nulla. Gli sguardi erano pesanti, silenti e quasi glaciali, ma parlavano una lingua sconosciuta alla donna.
Poi il Conte Hassildor prese la parola. "Vecchio mio. Sono felice che tu ti sia ripreso."
"Dov'è il mio bastone paralizzante?"
"Al sicuro."
"Dove?"
"Devi riposare." Disse Erina, asciugandogli la fronte sudata con una pezza.
"Mi riposerò da morto." Fece per alzarsi, ma rovinò di schiena sul letto.
"Ascolta il consiglio di Erina." Disse il Conte. "Recupera le forze."
"Ho abbastanza forze in corpo." Grugnì il Bretone.
"Sei testardo!" Aggiunse Erina, fulminandolo con lo sguardo. "Stai a letto Devi riposare"
Netrom Morten corrugò la fronte rugosa. 
"Riposa, vecchio mio." Disse il Conte Vampiro. "Appena ti riprenderai, parleremo."
"Perché non ora?"
"Una faccenda che richiede la mia presenza."
Erina si voltò di scatto verso il Conte. "Forse avrà dissanguato qualcuno..." Pensò intimorita.
"Quale faccenda?" Chiese Netrom Morten. "L'ombra che mi ha assalito?"
Il Conte Vampiro si accigliò, ma decise di non prolungare il discorso. "Di cosa parla?" Pensò.
"Parleremo a tempo debito." Rispose il Conte. "Ora se vogliate scusarmi." E lasciò la cameretta, prima che i due potessero dire qualcosa.

Una volta arrivato al giardino abbandonato, vide otto guardie cittadine vicino a Servin Ondus. Il sole era allo zenit, ed era una giornata abbastanza gelida. Nell'aria vi era odore di foglie secche, di autunno. Quando li raggiunse, Servin Ondus gli indicò la botola.
"L'avete aperta?" Gli chiese il Conte
"No, Conte. Aspettavo voi."
"Apritela." Ordinò.
Le guardie cittadine sguainarono le spade d'acciaio, i loro occhi fissi sulla botola. Uno di loro l'aprì lentamente, con cautela, mentre il Conte Hassildor rimase impassibile, freddo e gelido come gli inverni impervi di Skyrim.


 
*****


Quando Fredor si svegliò, sentì qualcosa di umido e ruvido leccargli la faccia. Mosse la mano per far finire quella cosa, ma appena ci riuscì, vide un grosso lupo marrone mettersi seduto sulle gambe posteriori. Impaurito, Fredor si pulì via la saliva del lupo. "Perché non mi ha divorato, dico..." Pensò. Poi qualcuno rispose alle sue domande.
"Huck, vieni qui." Disse una voce pesante alle spalle dell'anziano. 
Fredor si voltò, incrociando il suo sguardo. Era un Imperiale dai corti capelli castani e un barba rasata, un occhio bianco e il viso sporco di terra. Indossava una pelliccia d'orso sotto indumenti laceri di lana, un paio di sandali ai piedi e una corta spada appesa al fianco destro. L'uomo aveva un aspetto poco raccomandabile.
"Cosa hai trovato, Huck?" L'uomo realizzò in quel momento che quello ai suoi piedi non era una carcassa umana, ma un vecchio che respirava a fatica.
"Meriliel..." Disse Fredor, cercando di alzarsi su un ginocchio.
"Chi?" Rispose l'Imperiale mettendo una mano sull'elsa della spada.
"Merliel, dico... Mi figlia, dico... Brema, dico... Mia moglie Brema, dico..."
L'uomo si accigliò confuso, non capendo a chi si riferiva. "Quella zappa è tua?" La indicò con un dito.
Fredor si girò verso l'oggetto, l'osservò, poi si voltò verso l'uomo. "E' la mia spada., dico..."
L'Imperiale scoppiò in una grassa risata, mentre il suo lupo inclinò leggermente la testa non capendo perché il suo padrone ridesse.
"Mariliel, lei, dico..."
"Tu sei suonato, vecchio." 
"Io non so suonare, dico..."
L'imperiale rise nuovamente e si piegò per la risata fino a quasi strozzarsi con gli occhi che lacrimavano. "Tu, vecchio..." Mosse un dito su e giù. "...Devo ammettere che sai fare le battute... Dai alzati. Vieni con me." Era da un sacco di tempo che l'Imperiale non rideva tanto, e quel vecchio gli faceva pena.
Appena Fredor fece per alzarsi, il lupo gli abbaiò contro.
"Stai buono, Huck." L'Imperiale gli accarezzò sotto il muso. Poi vedendo che Fredor faticava ad alzarsi, lo aiutò alzandolo da sotto le braccia.
Fredor si pulì la crosta secca di terra dagli abiti. 
"Sei un contadino?" Chiese l'Imperiale.
"Sono un grande guerriero, dico..."
L'Imperiale smorzò una risata. "Va bene, ora niente battute. Rispondi alla mia domanda."
"Ho risposto, dico..."
"Quindi sei veramente suonato?" Lo canzonò l'Imperiale pensando che stesse scherzando.
"Non so suonare, dico..."
L'Imperiale capì in quell'istante che Fredor non scherzava. Tutto quello che aveva detto non erano battute.
"Sei da solo?"
"Non so perché sono qui, dico..."
"Va bene. Seguimi."
Prima di seguirlo, Fredor si piegò per prendere la zappa.

S'incamminarono nel bosco, mentre Huck andava avanti in perlustrazione. "Non allontanarti troppo, Huck!" Urlò l'Imperiale, ma ormai il lupo era sparito tra gli alberi. Proseguirono in silenzio, allietati dal canto dei fringuelli ed evitando le pozze d'acqua creatasi dall'abbondante pioggia del giorno precedente. Ma Fredor, ci cadeva spesso dentro, sia con il piede che quasi con tutto corpo. E toccava sempre all'Imperiale alzarlo sù. Fu in una di quelle volte che capì che la pelle di Fredor scottava parecchio. Gli toccò la fronte, ed anche lì era caldo.
"Perché mi tocchi? Dico..."
"Hai la febbre." Rispose l'Imperiale.
"Io sono sano, dico..."
"Certo." L'Imperiale scosse la testa.
Tempo dopo, raggiunsero una piccola capanna in legno coperta parzialmente da grosse e nodose querce, oltre che da cespugli. La capanna era quasi invisibile da fuori o da un occhio non attento, e tutt'attorno il terreno era cosparso di foglie secche, rami e tronchi cavi. Il muschio prolificava sulle pareti del capanno, mentre le piccole finestre erano simili a merlature. La volta di due querce che incrociavano i loro rami come fossero impegnati in una lotta eterna ricopriva il tetto.
Il lupo corse silente alle loro spalle, e Fredor sussultò quando se lo vide sbucare accanto.
"Vieni qua, Huck." L'Imperiale aprì la robusta porta della capanna, e il lupo scodinzolò dentro.

"Siediti." Disse l'Imperiale a Fredor.
Il vecchio si sedette su un rustico sgabello in legno a ridosso di un piccolo tavolino rotondo. La stanza era arredata in modo scarno. Vi erano molte casse di varie dimensioni, scaffali vuoti o pieni di bicchieri e piatti di legno, sacchi di farina e libri polverosi di cui la maggior parte divorate dalle tarme. Un lacero tappeto era posto ai piedi di un focolare. Su piattini di legno, tre candele di sego illuminavano debolmente la camera.
L'Impieriale ravvivò il fuoco, mentre il Huck si accucciò lì.
"Fa freddo qui, dico..." Fredor si mise le mani sotto le ascelle.
L'Imperiale non rispose. Poi le fiamme zampillarono da sotto i ceppi mezzi carbonizzati, allungandosi in lingue di fuoco.
"Ancora non mi hai detto il tuo nome?" L'Imperiale si alzò in piedi.
"Fredor, dico..."
"Il mio nome è Tulvus."
"Nome Imperiale, dico..."
"Già... Ti va della zuppa di pollo?"
Fredor si leccò le labbra. "Io ho sempre fame, dico..."


 
*****


Quando il Conte Hassildor scese giù nella botola, si accorse che l'angusto cunicolo era stato scavato a mano. Lungo le pareti rocciose, intervallate da arcate di legno marcio, l'oscurità inghiottiva i volti delle otto guardie cittadine alle spalle di Servin Ondus. Non vi era nessuna fonte di luce che illuminava la galleria, oltre i fasci di luce proveniente dalla botola aperta sopra alle loro teste.
Il Conte Hassildor fece segno di muoversi.
Una guardia cittadina accese una torcia e proseguì alla testa del gruppo, con una spada nell'altra mano. Proseguirono in fila, chinando il corpo a metà per non urtare o grattare la testa contra il soffitto. Nell'aria prese a levarsi un odore di carne putrefatta, mischiandosi con feci ratto, di pietra spaccata, di terra bagnata e muschio. Una accozzaglia di odori che andava e veniva. 
Sbucarono in un ampio corridoio roccioso. Alla loro sinistra s'intravedeva una piccola luce, mentre a destra il tetto era crollato. 
"Rientra nel cunicolo e allontanati un po', o vedranno la luce dalla torcia." Sussurrò Servin Ondus alla guardia cittadina che ubbidì subito dopo. Poi si girò verso il Conte, almeno dove l'aveva visto l'ultima volta prima che l'oscurità calasse sulle loro teste. "Conte. Cosa facciamo?"
"Non possiamo avvicinarci senza far rumore." Indicò le armatura d'acciaio delle guardie cittadine, ma poi si rese conto che gli uomini non potevano vedere nelle tenebre. "Le armature fanno rumore. Devo andarci da solo."
"E' troppo pericoloso, Conte. Non sappiamo chi abbia acceso quella luce." Servin Ondus girò la testa a sinistra e a destra, cercando di capire dove fosse il Conte.
"E' un bivacco. Non senti l'odore di carne e legno bruciato?"
Perplessi, tutte le guardie si guardarono intorno, cercando con gli occhi i compagni.
Servin Ondus rimase immobile. "Non... C'è un miscuglio di odori qua sotto."
"Aspettate qui." Il Conte sgattaiolò lontano dal gruppo ancora prima che Servin Ondus potesse replicare o accorgersi che era sparito.
Con passo felino, il Conte Hassildor raggiunse l'entrata che portava alla fonte di luce. Poi si voltò indietro. Le guardie cittadine erano nascosti nell'oscurità, anche se egli poteva vederli al buio. Notò che gli uomini lo stavo cercando con lo sguardo, e fu allora che bisbigliò delle parole e si rese invisibile. Non poteva usare quella magia davanti ai soldati. Nessuno doveva sapere delle sue arti magiche. 
Quando entrò dentro la piccola sala rocciosa, vide due Goblin seduti sui talloni e ricurvi sul focolare. Divoravano della carne ridotta a carbone dandogli le spalle. Due asce dalle lame arrugginite erano ai loro piedi, mentre poco distante, il cadavere dell'Orco giaceva con gli arti inferiori squarciati o fatti a pezzi. Dell'Imperiale non vi era nessuna traccia. L'aria era pregna di un forte odore di legno bruciato. Il Conte li sorpassò alle spalle, infilandosi in una altro stretto cunicolo. Procedette carponi per quattordici piedi, finché sbucò in un altra camera. 
Alla base delle pareti, piccoli fuochi ardevano sui resti di alcune casse distrutte, illuminando quella che doveva essere una specie di magazzino. Il Conte si mise dietro una colonna rocciosa, guardandosi intorno. Non vi erano Goblin, ma solo spade, asce e mazze arrugginite sparpagliate ovunque. Degli scudi dal legno marcio erano accatastati in un angolo. Il Conte Vampiro vide il cadavere dell'Imperiale senza gambe e braccia vicino a una grossa pietra. Poi un verdognolo Goblin ingobbito entrò con passo goffo e incerto. Impugnava un piccolo coltello dalla lama seghettata. Si chinò a ridosso dell'Imperiale e gli mozzò la testa. Infine, tra le dita lunghe e ossuta, se lo portò via.
Il Conte Vampiro seguì a distanza il Goblin che s'inoltrò in un altro corridoio angusto e umido con qualche fungo lungo le mura. Tutto era immerso nell'oscurità. Il Goblin ingobbito procedeva sicuro nella sua andatura ondeggiante. Poco dopo, il Conte sbucò in un sala più ampia, illuminata da fuochi che ardevano su pezzi in legno. Delle candeliere erano posti agli angoli, ma non erano accese. Un altare rettangolare in pietra bianca si ergeva al centro della sala, con il muschio che cresceva nelle sue fenditure. Sopra di esso, diverse ampolle di varie tonalità. Vi erano scaffali di legno, casse, barili e sacchi di farina sparsi un po' ovunque. Vari ingredienti di piante erano poste su un tavolo. Dietro l'altare, un incantatore arcano con sopra un teschio di Troll e della farina di ossa.
Il Goblin posò la testa sull'altare e si diresse in altro cunicolo a destra, divorato nell'oscurità. Il Conte Vampiro attese. Sperava di vedere qualcuno arrivare da la; uno sciamano Goblin, un Negromante, qualcuno che desse delle risposte. Ma non arrivò nessuno. "Può essere che questo laboratorio appartenesse a quel falso guaritore della Gilda dei Maghi?" Pensò. Poi udì qualcosa. Urla lontane si schiantavano come echi sulle fredde pareti rocciose. Aggrottò la fronte, ascoltò e capì. "I Goblin hanno scoperto la guardia cittadina." Pensò.


 
*****


"Allora... Brangor. E' così che ti chiami, giusto?"
"Sì." Rispose il Nord con i polsi rossastri e doloranti per via della corda ben stretta.
Mariliel si alzò dalla sedia, gettando una rapida occhiata a Brangor. Poi guardò Ramstan. "Perché sei ancora qui? Ti ho detto di andartene."
"Io resto qui." Rispose Ramstan. "Non ti lascio da solo con... con... con questo qui." Indicò Brangor con fare disgustato.
"Di cosa hai paura?"
"Di nulla."
"Allora vattene!"
Ramstan scosse la testa e si sedette. Vi era un gran vociferare fuori dalla tenda. Gli sfidanti erano impazienti di potersi sfidare a elmi e bastoni per i prigionieri rivendicati, ma Ramstan aveva detto loro di aspettare.
"Tu sei geloso." Disse Mariliel.
"Io? Di quel... pezzo di fango?"
Irritato, Brangor corrugò la fronte, ma sapeva di non poter far nulla, quindi rimase calmo. "Fottuto bastardo!" Pensò.
"Allora perché non mi lasci da sola con lui?"
"E' pericoloso." Ramstan si mise comodo sulla sedia, allargando le gambe.
"Dici sul serio? Non vedi che è legato come un ceppo? Cosa credi possa fare in quelle condizioni?"
Ramstan sbuffò. "Non me ne vado. Se vuoi parlargli, fai pure. Fai finta che non ci sia."
Marliel serrò le mani a pugno, prese per un braccio Brangor e cercò di spingerlo fuori dalla tenda.
"Ehi!" Ramstan balzò in piedi, bloccando l'uscita con il corpo. "Voi non andate da nessuna parte."
"Quindi sono anche io una tua prigioniera?"
"Non ho detto questo."
"Allora fatti da parte!"
Ramstan deviò lo sguardo della donna. "Va bene, lo ammetto. Sono geloso. Contenta?"
Brangor guardava entrambi con aria confusa. "Sono il terzo incomodo in una storia d'amore travagliata? O Divini, perché siete così crudeli con me?" Pensò.
"Tu vuoi controllarmi." Disse Mariliel. "Ed io non sono tua! Quindi lasciami andare."
Ramstan, gli occhi rossi dalla rabbia, digrignò i denti e si spostò di lato, facendo uscire i due.

Tutti gli uomini, che si erano radunati a ridosso della tenda, si ammutolirono quando videro Mariliel tenere per un braccio Brangor. La donna se lo portò in una piccola tenda, sotto gli occhi eccitati e confusi dei banditi.
Tempo dopo, Ramstan fece il suo ingresso con petto gonfio e sguardo torvo, le mani sui fianchi. Voleva dare l'impressione di essere un uomo forte, indistruttibile, ma dentro il suo cuore covava un odio indefinibile per quel Nord, anche se non sapeva perché. Tutti gli uomini lo guardarono in silenzio. "Che la sfida abbia inizio!" Tuonò.
Tutti i banditi urlarono a squarciagola, bestemmiando e saltando per la gioia.

I banditi formarono un cerchio, mentre Ramstan prese posto sul suo scranno in legno di quercia. La vena sulla sua tempia pulsava per il nervoso. Lanciò un occhiata alla tenda in cui Mariliel e Brangor erano entrati. Poi mise un gomito sul bracciolo del scranno, portandosi la mano sul mento. Due Nord, si posizionarono nel mezzo. Avevano in testa un elmo con celata mezzo arrugginito con in mano un robusto bastone.
"Quest'oggi," Esordi un uomo anziano dalla lunga barba bianca, il viso solcato da ragnatele di rughe e fronte sporgente, forse anche troppo. "due fratelli si contendono un prigioniero." Puntò il dito tremulo e raggrinzito verso un uomo alto, spalle larghe e braccia poderose. Indossava una tunica lordo di fango. Vederlo in ginocchio sembrava al quanto strano, poiché poteva benissimo sopraffare almeno metà dei banditi con la propria forza. Ma quelli avevano le armi, e lui no. "Le regole sono queste..."
"Sappiamo già le regole, vecchio scemo!" Urlò un uomo cercando l'approvazione della folla. Tutti loro approvarono in coro tramite bestemmie e insulti.
L'anziano lo ignorò, e proseguì "Niente colpi sul corpo, niente atterramenti, niente prese, niente calci nelle palle. Potete colpire solo l'elmo del vostro avversario finché egli cadrà tramortito a terra. Chi si fa prendere la mano dopo che l'avversario sarà privo di sensi, verrà espulso!" Sottolineò l'ultimo frase gridando più che poté, ma il frastuono delle voci dei banditi  che gli dicevano di andarsi a farsi fottere da gruppo di Minotauri avevano inghiottito ogni sua frase. L'anziano arbitro si voltò verso Ramstan. "Ora aspettiamo il consenso del nostro amato capo, Ramstan, per aprire le danze."
Tutti si ammutolirono di colpo, guardando il loro capo.
Il Redguard annuì, alzando una mano come per scacciare una mosca, mentre con l'altra strinse il bracciolo dello scranno per la rabbia. La folla esplose in visibilio. Poi gettò un altro occhiata alla tenda, riuscendo a stento a mantenere i nervi. 
I due fratelli batterono i bastoni sui propri elmi per dar inizio al combattimento.


 
*****


L'accozzaglia di urla della folla si udiva persino dentro la tenda dove Mariliel aveva portato Brangor. La donna sguainò uno stiletto dal fianco e tagliò le corde nodose ai polsi di Brangor che caddero a terra sollevando un poco di polvere. Poi rimettendo lo stiletto nella fodera, si sedette su uno sgabello vicino a un tavolino rotondo in legno. 
"I piedi?" Brangor indicò un nodo un po' largo che gli consentiva di camminare, ma non di correre.
"Siediti." Rispose Mariliel accavallando le gambe.
Quando Brangor si sedette, fuori dalla tenda ci fu uno esplosione di grida eccitate. Qualcuno aveva vinto la lotta.
"Come ci sei finito qui?" Chiese Mariliel. "Voglio dire..."
"L'hai visto l'Altmer?" La interruppe Brangor. "Quello riverso con la faccia nel fango?" Vedendo che Mariliel non rispondeva o non capiva, continuò. "Quello con la faccia tumefatta? Quel coglione..."
"Ho capito" Disse Mariliel quasi in un grido. "E' l'unico Altmer nella gabbia."
"Se avevi capito, perché..."
"Sono io a fare domande, non tu! Tu limitati a rispondere." Disse la donna con tono pacato.
Dopo qualche istante di silenzio, in cui Mariliel lo fissava dritto negli occhi mettendolo in soggezione e aspettandosi delle risposte, Brangor disse. "Posso bere?"
"Prima rispondi alle mia domanda."
"Quale domanda? Mi stavi guardando e basta."
"Ti ho detto come ci sei finito qui!" Mariliel serrò gli occhi irritata.
"Quel coglione di un Altmer pensava che fossi un bandito, che ero lì per spiarlo o stronzate simili. Il suo nome è Ermil Voltum. Dice di lavorare per qualcuno della Città Imperiale e..."
"Stai raggirando la mia domanda." Disse Mariliel. "Non te lo ripeterò più: come ci sei finito qui?"
Brangor fece per massaggiarsi un polso arrossato e scorticato, ma il lancinante dolore che provò lo costrinse a ritirare istintivamente la mano. Mariliel se ne accorse, ma fece finta di nulla.
"Per caso..." Disse il Nord, percependo la mano appena toccato pulsare dal dolore. "Ero diretto a Skingrad, ma... mi sono perso. Non sono di Cyrodiil. Conosco poco queste terre."
"Queste terra civilizzano pure un caprone Nord delle montagne, e tu sei la conferma."
Brangor s'irrito, ma Mariliel aveva ragione. "Da quando sono andato via dal Castello del Conte Hassildor il mio burbero e grezzo caratteraccio ha avuto una strana... metamorfosi. Ero meno impulsivo, bestemmiavo di meno ed ero sopratutto meno scontroso. Ma forse è stata tutta opera di quei tre uomini in nero che mi hanno quasi ucciso... E poi perché mi hanno lasciato in vita? Sapevano che non ero morto, e non mi sembrava gente che lascia in vita i feriti..." Pensò. Ma le rispose con una domanda: "Cosa ti fa pensare questo? Tu non mi conosci."
"Conosco quelli come te." Marliel accennò appena la tenda con la mano. "Le grida che senti, sono grida di uomini rozzi, brutali, arroganti, egoisti e senza onore e rispetto. Ma i più anziani tra loro cambiano con l'età, con l'esperienza, con i traumi. Il vecchio aguzzino di oggi, quello era uno di loro, uno come te. Ma il tempo, i traumi e l'esperienza l'hanno piegato, così come hanno piegato te."
"Io non mi faccio piegare da nessuno!" Brangor balzò dalla sedia.
"Siediti!" Urlò Mariliel mantenendo un espressione tranquilla.
Brangor si sedette.
"Se non ti fossi piegato, a quest'ora saresti cibo per lupi e cornacchie. E se non mi credi, soffermati sul vecchio aguzzino e capirai di cosa parlo."


 
*****


Rimasto immobile nella stessa posizione da un bel po', Ramstan si massaggiava il mento con fare nervoso. Erano al terzo ed ultimo combattimento. Un Bretone e un Imperiale che rivendicavano un altro prigioniero. La folla era in visibilio e incitava i due lottatori a colpirsi. Altri bestemmiavano senza alcun senso, altri ancora li insultavano. 
Il Bretone parò il colpo dell'Imperiale e contrattaccò con un fendente, ma l'altro deviò il colpo indietreggiando. L'Imperiale era più agile, mentre il Bretone era poco più lento. Quest'ultimo andò all'attacco sferrando vari fendenti alla cieca, ma senza mai colpire il suo avversario. L'imperiale gli ronzò intorno, insultandolo e prendendosi gioco di lui insieme alla folla. Il Bretone irato e quasi esausto, cercò di colpirlo con un roverso ridoppio ai piedi, ma cadde sulle ginocchia, dando per un attimo le spalle all'avversario. Quello però, non aveva intenzioni di colpirlo, anzi, voleva umiliarlo prima di vincere. L'imperiale alzò le mani in aria e danzò attorno al Bretone, mentre la folla rideva fino a contorcersi dalle risate. Quando l'avversario gli fu alle spalle, il Bretone si girò di scatto cercando di colpirlo con un roverso tondo al petto, ma colpì l'aria. L'Imperiale rise e si colpì leggermente l'elmo per deriderlo. Il Bretone accecato dalla rabbia, gli tirò il bastone con tutta la forza che aveva in corpo, centrandolo in piena celata. Stordito, l'Imperiale indietreggiò, cercando di mantenersi in equilibrio. Il bastone gli scivolò dalla mano, e prima che il Bretone potesse riprendere la sua mazza, l'Imperiale si schiantò a terra, di schiena, sollevando un nugolo di polvere. Il Bretone, ormai fuori controllo, si scagliò contro l'Imperiale e lo tartassò di colpi all'elmo, ormai ridotto a pezzi. La folla si precipitò a fermarlo, mentre Ramstan guardava la tenda, incurante del fatto che aveva appena perso un uomo.


 
*****


"Scappate! Quella donna è un negromante!" Urlò una prostituta a tutti quelli che incontrava mentre fuggiva. La gente si affrettò dietro di lei, lanciando fugaci occhiate alle loro spalle. La strada di terra diventò ben presto fanghiglia sotto le moltitudini di piedi che correvano via da Adrienne. La maga rimase in piedi, fissando gli esili fumi che si levavano in aria dal corpo dell'uomo. In strada era sceso uno strano silenzio. Il cocchiere con la faccia frastornata, riprese i sensi proprio in quel momento. Si issò lentamente in piedi, guardandosi intorno. Poi quando incrociò la faccia bruciata del cadavere trasalì e vomitò dall'altra parte; pezzi di mela, carote e formaggio.
Quando Adrienne udì la bile di vomito schiantarsi a terra, ritornò in sé. Percepì l'ansia avvinghiargli il cuore, il panico impadronirsi delle gambe. Guardò il Nord morto, poi il Cocchiere piegato dai coniati di vomito, infine gettò occhiate in tutte le direzioni. Cercò di scacciare via l'ansia, afferrò per un braccio il Cocchiere e se lo trascinò dietro, mentre quello cercava di tapparsi la bocca. S'infilarono nella penombra di un vicolo cieco, e un impenetrabile odore di feci umani la costrinse a coprirsi il naso. 
"Mia signora..." Disse il Cocchiere con le guance gonfie come se dovesse vomitare da un momento all'altro. 
"Silenzio!" Rispose Adrienne, spiando dal vicolo sulla strada deserta.
"Mia signora, guarda." Il Cocchiere gli indicò una bambina pelle e ossa sporca di terra. Aveva lunghi capelli impigliati e appiccicosi, e se ne stava seduta tremante in un angolo con le braccia strette attorno alle ginocchia. Singhiozzava, e con un occhio marrone spiava da sotto un ciuffo di capelli neri. Era nuda e non doveva avere più di cinque anni.
Adrienne la guardò per un momento.
"Cosa facciamo?" Chiese il Cocchiere mentre il lezzo di feci gli arrivò naso e lo fece quasi vomitare. Sapeva che cosa orribile fosse la povertà. "Io stesso ho provato sulla mia pelle la fame, il dolore e l'essere lasciato a marcire nelle strade tra l'indifferenza della gente che mi camminava accanto. Ma i più crudeli erano quelli che mi picchiavano, mi tormentavano e mi torturavano per puro divertimento." Pensò guardando le sporche unghia rotte della bambina.
"Non è un nostro problema." Adrienne trascinò per un braccio il Cocchiere per andare via, poi si fermò assalita dai sensi di colpa. "Prendila. La porteremo al tempio."
Il Cocchiere si apprestò ad afferrarla, ma la bambina si arricciò al suolo sporcandosi ancora di più. L'uomo si voltò, guardando Adrienne.
"Prendila con la forza." Gli disse.
Dopo varie tentativi, il Cocchiere prese in braccio la bambina che non cercò nemmeno di dimenarsi, ma scoppiò a piangere. 
"Falla stare zitta!" Disse Adrienne mentre guardava circospetta i due lati dalla strada.
"...Non ti faremo del male..." Bisbigliò il Cocchiere alla bambina che continuò a piangere.
Poi udirono il frastuono di molte armature in lontananza. Adrienne e il Cocchiere si fermarono, non sapendo dove andare. Ma prima che Adrienne si rendesse conto di quello che stava per succedere, le guardie cittadine li accerchiarono con mazze e spade in pugno, mentre i curiosi sbucavano alle loro spalle come talpe.


 
*****


"Ho avuto così tanto paura di perderti..." Disse Erina incrociando le mani tra le ginocchia.
"Io..." Netrom Morten conosceva già la risposta alla domanda che voleva porle. "Ti ho fatto del male?"
Erina abbassò gli occhi per un istante. "...Non mi va di parlarne."
"Devo sapere, Erina."
"Ero solo spaventata."
"Dimmi la verità."
Erina guardò gli occhi bianchi di Netrom Morten. "Ho avuto solo molta paura."
Il Bretone le allungò una mano raggrinzita e ossuta, ed ella gliela strinse forte quasi a volerla spezzare. "Puoi dirmelo."
"Hai..." Erina ebbe un nodo in gola.
"Non avere paura."
"Hai cercato di uccidermi."
Netrom Morten chiuse gli occhi e sospirò.
Erina si chinò, e quando gli baciò la mano, quasi trasalì per la fredda pelle del Bretone.
Netrom Morten non capì. "Cosa significa?"
Erina arrossì. "Io ti..." D'un tratto entrò una servetta con due piatti fumanti di carne di cinghiale su un vassoio.
Netrom Morten levò rapidamente la mano da quelle di Erina, ed ella sentì una fitta al cuore "Che stupida che sono stata... Gli stavo per dire ti amo..." Pensò ricomponendosi sulla sedia, e fingendo che non gli importava. 
"Il Conte Hassildor mi ha ordinato di portarvi questa pietanza" Disse la servetta, posando i due piatti sul comodino. "Il cuoco del castello è a vostra disposizione." Fece un leggero inchino di commiato e andò via con il vassoio in grembo.
Netrom Morten cercò di mettersi a sedere sul letto, ma i dolori lungo la schiena lo immobilizzarono a metà strada.
"Lascia che ti aiuti." Disse Erina mettendogli le mani sotto le ascelle per tirarlo sù.
"Faccio da solo!" Tuonò il Bretone, scacciando le mani della donna.
Erina si voltò quasi con le lacrime agli occhi e fece per prendere il suo piatto. "Che stupida, che stupida, che stupida." Pensò.
"Aspetta." Netrom Morten la prese per un polso, mentre ella gettò un occhio dietro alle sue spalle. "Mi dispiace, Erina. Mi dispiace per tutto quello che ti ho fatto. Non meriti di essere tratta così. Tu..." 
Erina si girò, gli prese le mani raggrinzite e si chinò per guardarlo negli occhi con un sorriso. "Non devi scusarti di nulla." Una lacrima le solcò il viso, e il Bretone gliela cancellò con una carezza.

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Capitolo 12
*** Minotauri ***


Il Conte Hassildor tornò indietro. Uscì nella sala in cui tempo prima vi erano stati i due Goblin intenti a mangiare pezzi di carne bruciata. Non vide nessuno di loro. Così si precipitò verso il punto dove aveva detto a Servin Ondus di aspettare. Superato l'arco roccioso, grazie alla sua vista da Vampiro, vide i resti della piccola schermaglia; sei Goblin e cinque guardie cittadine morte. Ma tra loro, non vi era Servin Ondus.
Schizzi di sangue tappezzavano i muri, mentre il pavimento roccioso era un lago di sangue. Il Conte Hassildor lo percepì, sentì l'odore dolce del sangue umano, e quello acre dei Goblin. 
"Solo un assaggio... Non lo saprà nessuno..." Bisbigliò una voce gutturale nella mente del Conte. 
Scosse la testa, s'infilò nel cunicolo. Quando arrivò davanti alla botola, vide un Goblin con la faccia a terra. Aveva una spada piantata all'altezza della nuca.
Poi un guanto d'acciaio sbucò sotto la botola. "Prendi la mia mano, Conte." Disse una voce che conosceva, la voce di Servin Ondus.
"Non mi serve." Il Conte Hassildor si arrampicò sulla nuda pietra veloce come un gatto, ritrovandosi nel giardino abbandonato. Era circondato da venti guardie cittadine che impugnavano spade e mazze d'acciaio. Sui loro visi accigliati e duri, il Conte Vampiro percepì l'odore della paura.
"Conte." Disse Servin Ondus. "Mi sono permesso di chiamare rinforzi per cercarla. Quando i Goblin ci hanno attaccato nell'oscurità, non sapevo se..."
"...Fossi morto?" Rispose il Conte Hassildor. "Non mi hanno visto."
"Pensavo che..."
"Non ha importanza." Nei glaciali occhi rosso sangue del Conte Vampiro vi era rabbia. "Ma ditemi, come hanno fatto a scoprirvi?" 
Servin Ondus abbassò gli occhi per la vergogna. "Siete sparito per un bel po', Conte. Sospettavo che... Pensavo che qualcuno vi avesse preso... Pensavo a comuni banditi, non a..."
"Goblin?" Lo interruppe il Conte. "Vi ho ordinato di mantenere la posizione, e voi mi avete disubbidito. In più, qualcosa mi dice che siete scappati a gambe levate, lasciando i vostri uomini a morire."
"Ma..." Servin Ondus rimase esterrefatto e intimorito dalle parole veritiere del Conte Hassildor. "Come fa a saperlo? Ha assistito alla battaglia?" Pensò.
"Guardie!" Tuonò il Conte Hassildor.
Due uomini alti e possenti si fecero avanti, accostandosi lateralmente a Servin Ondus che li guardò confuso.
"Avete disubbidito a un mio ordine. Avete lasciato morire i vostri uomini mentre voi vi siete messi in salvo come un codardo. Perciò, vi confino nelle segrete. Così avrete modo di pensare al vostro comportamento."
I due uomini afferrarono per l'avambraccio il loro capitano, mentre egli guardò il Conte Hassildor senza dire una parola.


 
*****


L'uomo pallido si mise seduto sul suo alto scranno di pietra, che era su una piattaforma scavata nella roccia. Un tempo, dietro lo schienale, vi era intagliata la Dea Mephala con le braccia aperte in un abbraccio, quattro zampe di ragno che uscivano da dietro la schiena e una corona a mo' di ragnatela spiccava alta sulla sua testa ovale, dagli occhi severi e malefici. Ora di quella potente e contorta figura, rimaneva solo la testa, un braccio e due zampe da ragno. Lo scranno non apparteneva a quel luogo miserabile, ma a un lussuosa e tenebrosa villa che si ergeva su una ripida roccia costiera, avvolta tutto l'anno da una fitta nebbia.
"Conte Clavis." Disse l'uomo pallido voltandosi verso l'uomo. "Siedi accanto a me."
Un figlio della progenie si precipitò a portare una sgabello vicino all'alto scranno. Il Conte Clavis si sedette, rivolgendo la parola al Patriarca. "Riguardo alla mia villa... Non ricordo cosa sia successo... Voglio dire, ricordo di aver ucciso l'assassino di mia figlia. Ma..." Il Conte Clavis si sforzò di ricordare. "Non ricordo altro..."
"Non è il momento." Tagliò corto l'uomo pallido. Poi rivolgendosi a una delle sue progenie disse: "Fatelo entrare."
Il figlio delle progenie svanì silente nella penombra della sala. Poi comparve subito dopo alle spalle dell'Elfo Scuro. Il figlio della progenie chinò leggermente la testa, e scomparve nuovamente nella penombra, mentre i suoi occhi rossi rimasero vigili sull'Elfo Scuro.
Quando il Mer vide il Conte Clavis seduto accanto al Patriarca, corrugò la fronte perplesso. 
"Un eccellente lavoro!" Esordì il Patriarca. "I miei tre figli adottivi mi hanno detto tutto. Avete rispettato il patto, e avete sacrificato i vostri uomini per un bene più grande." L'Elfo Scuro non tolse gli occhi di dosso dal Conte Clavis, mentre il Patriarca parlava. "So quanto eri legato ai vostri uomini. Eravate un'allegra combriccola di ammazza-vampiri, ma spesso il denaro unisce e divide la gente. I Divini lo sanno, Mephala più di tutti."
Confuso dalle sue parole, il Conte Clavis lanciò un occhiata veloce al Patriarca.
Un secondo figlio della progenie comparve dalla penombra. In una mano aveva un sacchetto di monete e nell'altra un sacchetto pieno di gemme preziose. Le posò ai piedi del Mer, poi tornò quasi strisciando nella penombra. Altri due occhi rossi si accesero nelle tenebre, vigilando sull'Elfo Scuro.
Il Patriarca indicò con un dito pallido i due sacchetti. "La tua ricompensa."
"Hai ucciso i tuoi uomini?" Domandò il Conte Clavis all'Elfo Scuro.
Il Mer si accigliò, mentre il Patriarca rimase impassibile, apatico, ma in ascolto.
"Non è affar tuo." Rispose l'Elfo Scuro serrando la mascella.
"Avevamo un patto."
L'uomo pallido smorzò un mezzo sorriso.
"Infatti. Avevamo. Pensavi davvero che due uomini potessero far rivoltare Skingrad dal nulla?" Domandò l'Elfo Scuro cercando di restare tranquillo. "Io sono leale solo al denaro e al miglior offerente."
"Dovevi avvicinarti al Conte Hassildor." Rispose il Conte Clavis sforzandosi più che poté per ricordare il motivo, anche se i suoi pensieri erano come avvolti da una nebbia. "La rivolta doveva essere un diversivo per avvicinarlo."
Quando l'uomo pallido udì quel nome, il suo corpo si mosse a disagio sull'alto scranno come se fosse improvvisamente troppo scomodo. "Skingrad è in tumulto." Disse ai due. Poi voltò la testa verso il Conte Clavis. "Non ha ucciso i suoi uomini, non di suo pugno. I miei tre figli adottivi se ne sono occupati. Una morte violenta, mi hanno riferito. Era quello che serviva per scuotere Skingrad. Ora la città è preda di criminali, usurai e trafficanti. Qualcosa che i cittadini di Skingrad pensavano non esistesse, almeno non nella loro città." Girò la testa sul Mer. "Prendi la tua ricompensa, ma lascia un dono di sangue alla mia progenie."
L'Elfo Scuro serrò gli occhi. "Dono di sangue?"
"Tagliati un polso, e lascia fluire il tuo sangue nell'ampolla."
Un figlio della progenie scattò in avanti come un fantasma consegnando un ampolla nella mano del Mer.
Alzandosi dallo scranno, il Patriarca sfoderò un pugnale Daedrico, scese la piattaforma e arrivò davanti all'Elfo Scuro con il pugnale proteso dalla parte del manico.
L'Elfo Scuro l'afferrò e fissò per un attimo il pugnale. Poi guardò il Patriarca dal volto apatico e infossato, e si tagliò un polso, facendo gocciolare il sangue nell'ampolla. 
L'uomo pallido lo guardò dritto in faccia, senza mai distogliere lo sguardo, nemmeno davanti al sangue scarlatto che andava lentamente riempendo la fiala. 
Il Conte Clavis rimase intimorito e affascinato da quello che stava accadendo.
"Può bastare." Disse l'uomo pallido, appoggiando una mano fredda sul polso insanguinato. 
L'Elfo Scuro ritrasse improvvisamente il polso dalle dita fredde del Patriarca, mettendosi sulla difensiva e guardandosi intorno.
"Rilassati." Aggiunse l'uomo pallido. "Dammi il polso, o continuerai a sanguinare."
"So medicarmi."
"Le comuni cure non hanno effetto sulla ferita inferte dalla mia lama."
Il Mer corrugò la fronte.
"Su, dammi la mano."
La ferita sul polso adesso, grondava sangue come un arteria lacerata. Dalle sue dita cadevano fiumi di sangue che si riversavano sul pavimento roccioso, il cui riverbero s'infrangeva sui muri avvolti dall'oscurità. L'Elfo Scuro allungò il polso. L'uomo pallido glielo avvolse. Dalla sua mano una luce violacea si espanse per un attimo come un lampo. Poi svanì. Della ferita, non vi era nessuna traccia, nemmeno una cicatrice. 
Incredulo, il Mer si guardò dapprima il punto dove vi era stata la ferita, poi l'uomo pallido.
"Il patto è stato rispettato" concluse l'uomo pallido prendendo l'ampolla di sangue dalla mano del Mer.
"Ma..." Disse il Conte Clavis alzandosi dallo sgabello.  Si sentiva la testa sempre più pesante e non capiva perché. "Serve a..."
"No." Lo interruppe l'uomo pallido. "Questo sangue non è per me o per la mia progenie. E' per Mephala."


 
 
*****


Tulvus ravvivò il fuoco che andava lentamente morendo. Huck dormiva, russando non poco. Fredor andò a sedersi a ridosso del focolare, guardando Tulvus spostare con un bastone i ciocchi mezzi carbonizzati. 
"Marliel, dico..." Disse Fredor. "Lei sa farlo, dico..."
"Cosa?" Rispose Tulvus continuando a muovere i ceppi.
"Quello che fai tu, dico..."
"Va bene."
"Sei un guerriero, dico..?"
"No. Un cacciatore."
"Hmm..." Fredor lanciò un rapida occhiata alla sua zappa che era contro il muro di legno dell'entrata. "Anche io, dico..."
Tulvus rise per un attimo.
"Perché ridi, dico..?"
"Non ridevo."
"Si, dico..."
Tulvus si alzò, appoggiò il bastone dalla punta annerita dal fuoco contro la parete del focolare e si sedette su uno sgabello rustico accanto a Fredor. "Chi è Mariliel?"
"Mia figlia, dico..."
"E dov'è?" Tulvus guardò Fredor. "E' morta?"
"No, dico..." Fredor abbassò gli occhi sulle fiamme. "Non lo so, dico..."
"Be', allora dovresti tornare da dove sei venuto."
Fredor si alzò dallo sgabello, mentre Tulvus lo guardò confuso. 
"Cosa fai?" Domandò Tulvus.
Fredor si voltò. "Torno da dove sono venuto, dico..."
"Dai, siediti. Non dicevo sul serio."
"Devo andare da Mariliel, dico..."
"La cercheremo. Te lo prometto."
Fredor si sedette.

Tulvus non capiva perché stava aiutando un vecchio decrepito. Per compassione? Bontà d'animo? Non lo sapeva. Allora pensò a suo padre, al vecchio ubriacone che picchiava la madre senza motivo. Veniva ubriaco dalla locanda e la picchiava, ancora, ancora e ancora, finché un giorno, avendo alzato il gomito più del solito, non la uccise. Non ricordò mai di averlo fatto, o forse mentiva per aver salva la vita. Disse alle guardie di averla trovata così, e che aveva dormito fuori, ma non ricordava dove. Disse loro che aveva un amante, che in realtà non esisteva. Incolpò quest'ultimo per la morte di sua moglie. Ma Fredor aveva assistito alla scena, nascosto sotto un tavolo, tremante per la paura e con il viso fradicio dalle lacrime. Sapeva che era stato suo padre ad aver massacrato di botte la madre, ma non disse nulla alla guardia cittadine per non fare la stessa fine. Il padre non fu mai arrestato, e poiché le guardie erano suoi compagni di bevute, non lo misero tra i sospettati. Sospettati che non esistevano, così come l'amante.

Fredor fu lasciato a sé, e il padre non se ne curò. Non avendo una casa e un luogo in cui vivere, iniziò a vivere nei vicoli, mangiando insetti, topi morti e ciò che la gente lasciava nei piatti della locanda del porto. Il proprietario, un uomo anziano che a malapena vedeva a un palmo dal suo naso, lasciava che si nutrisse degli scarti dei clienti. In verità era sua figlia a dirigere la locanda, ma l'uomo anziano era un uomo di buon cuore, forse anche troppo, poiché era rinominato nella città per offrire pasti ai clienti che non avevano soldi per pagarlo. In verità si prendevano gioco di lui, e la figlia lo sapeva. Tulvus crebbe tra la locanda e i vicoli della città, imparando a cacciare i piccioni con la fionda, a catturare i topi con le esche e iniziando persino a compiere piccoli furti. Quando la figlia dell'uomo anziano lo scoprì, sgridò Tulvus e gli offrì un lavoro nella locanda.

Fu questo a salvare Tulvus da una vita criminalità o da tagliaborse, ma non dimenticò mai com'era vivere in mezzo alla merda, al piscio, ignorato da tutti e tutto e sopratutto, a non aver più una madre. Fu anche questo che lo portò ad abbandonare la città, a vivere in mezzo ai boschi, più lontano possibile dalla gente e da suo padre. Inoltre, era un eccellente cacciatore, una dote che l'avrebbe aiutato a sopravvivere in quei infimi boschi tra branchi di lupi, Troll e scorrerie di piccoli Goblin intenti a guerreggiare con altri Clan della zona o a rapinare i carri di vettovaglie di poveri contadini pelle ossa. Si teneva sempre lontano da quei mostriciattoli, poiché erano assai vendicativi. Lo capì quando diedero fuoco alla sua casa sull'albero mentre dormiva. Lo svegliarono le grida di un Goblin avvolto dalle fiamme. Quell'infame creature per dare fuoco alla casa sull'albero, si era cosparso anche lui di pece, credendo che il fuoco non lo prendesse.
Non erano di certo creature intelligenti, ma sapevano essere più astuti di altre razze. Tutto questo solo per un capra che Tulvus aveva rubato loro. Non immaginava di cosa fossero capaci se avesse ucciso uno del loro Clan, cosa che poteva capitare spesso quando si girovagava lontano dalle strade. Non erano abili con le armi, ma avevano un furia e una tenacia che alla lunga sopraffaceva quasi chiunque, eccetto i Minotauri che potevano distruggere un intero covo di Goblin, sopratutto se erano irati. 

Tulvus si salvò e fuggi via il più lontano possibile, finché non arrivò in un fitto bosco. Qui iniziò ha costruire l'attuale casa, dormendo dapprima sopra a un robusto ramo di quercia nascosto tra il fogliame. Era un eccellente rifugio, sopratutto dai leoni di montagna che schizzavano fuori come fantasmi. Ed ora era qui, accanto a Fredor, pensando al perché lo aiutava.


 
*****


Ramstan sollevò il lembo di tenda ed entrò dentro. Mariliel e Brangor lo guardavano seduti attorno a un tavolino.
"Hai fatto?" Disse il Redguard.
"Non è più un prigioniero." Rispose Mariliel.
"Cosa? Mi prendi per il culo?" Ramstan si avvicinò a loro due.
Mariliel si alzò dalla sedia. Guardò dritto negli occhi il Redguard. "Non c'entra niente con i taglialegna." Poi si piegò a liberare dalle catene le caviglie di Brangor.
Ramstan si lisciò il mento con fare nervoso. "Libero, eh? Mi dici di liberarlo..."
"Cosa non hai capito della frase?" Mariliel si alzò in piedi.
Il Redguard iniziò a fare avanti e indietro, lanciando sguardi torvi a Brangor.
"Smettila di muoverti."
Ramstan sguainò la sciabola. "Lo ami?" Gli occhi si impregnarono di lacrime e di un rossore che non presagiva nulla di buono.
Brangor balzò in piedi, facendo cadere la sedia a terra. Era pronto a fuggire via se il Redguard lo avesse aggredito.
"Calmati, va bene?"
"Sono calmo!"
"Rinfodera l'arma."
"Rispondimi! Lo ami?" Ramstan strinse l'elsa della sciabola per il nervoso.
"Prima rinfodera la sciabola."
Ramstan abbassò la lama, ma i suoi occhi iniettati di puro odio non si staccavano di Brangor.
"Nella fodera." Mariliel si avvicinò a lui con aria di sfida.
Ramstan serrò la mascella e ubbidì.
"Perché pensi che amo quel..." Mariliel si voltò verso Brangor. "...Quel caprone?"
"Dimmelo tu."
"Io non amo ne te, ne lui." La faccia di Mariliel era un palmo dal naso del Redguard. "Se sei così disperato d'amore, perché non ti monti uno dei tuoi cavalli o uno dei tuoi uomini?"
Ramstan sorrise per un attimo, ma il suo volto rimase immutato dalla gelosia e dalla rabbia, ma non rispose.
"Lui non è tuo prigioniero." Disse Mariliel indicando con un dito Brangor. "Non fa parte dei boscaioli."
"Ma era lì." Tagliò corto Ramstan, che invece di farlo prigioniero, lo avrebbe ucciso seduta stante solo perché era rimasto da solo nella tenda con la donna che amava.
"Sei testardo."
"Già."
Brangor era rimasto in piedi, osservando i due che discutevano. Poi disse: "Mariliel ha ragione. Non sono uno di loro."
"Chi ti ha dato il permesso di parlare?" Ramstan mise una mano sull'elsa della sciabola, accarezzando il pensiero di mozzargli la testa. "E poi come sai il suo nome?" Guardò Mariliel. "Glielo hai detto tu?"
"Mio padre, suppongo." Si girò verso Brangor. 
"Quindi già lo conoscevi?" Ramstan corrugò la fronte.
"Una lunga storia."
Ramstan sfoderò la sciabola. "E' un tuo amante, lo sapevo!" Fece per andare contro Brangor che si precipitò dietro il tavolino, ma Mariliel gli sferrò una ginocchiata sui genitali. Ramstan cadde a terra, curvato dal dolore. La sciabola finì a un passo dal Nord.
"Sei un fottuto idiota!" Gli urlò Mariliel completamente avvolta dalla rabbia. "Mi hai preso per una puttana?" Gli sferrò un calcio in faccia con la pianta dello stivale di cuoio, mentre Brangor assisteva alla scena confuso più che mai. "Se vuoi una puttana vai a un bordello!" Gli diede un altro calcio, mentre Ramstan si protesse il viso con un braccio, e con l'altro i genitali. Sapeva che Mariliel mirava sempre a uno dei due punti, e non era la prima volta che veniva picchiato dalla donna. D'altronde le sue scenata non facevano altro che irritare o arrabbiare Mariliel, che primo o poi esplodeva.
Gli occhi di Brangor si posarono casualmente sulla sciabola di Ramstan. Nello stesso istante, qualcuno gridò fuori dalla tenda. "Tutto bene, capo?"
Mariliel si calmò, si allontanò da Ramstan che rispose alla voce: "Levati dalle palle!"
Poco dopo l'ombra dell'uomo proiettata sulla tenda scomparve.
"Cazzo!" Imprecò Ramstan cercando di alzarsi da terra con il volto insanguinato e dai genitali doloranti. Avrebbe potuto reagire, ma non lo faceva mai. Non contro Mariliel. L'amava, anche se la donna non ricambiava.
"Non lamentarti." Disse Mariliel sedendosi su uno sgabello come se non fosse successo nulla. "Non sei un bambino." Poi si guardò la punta dello stivale sporco di sangue.
Brangor rimase immobile tra il tavolino e Ramstan, che si pulì il viso con la manica. Poi il Redguard toccò la fodera dell'arma e la trovò vuota. Si guardò attorno e vide la sciabola a un passo da Brangor. Corrugò la fronte, grugnì e andò a riprendere la lama. Brangor indietreggiò dal Redguard che lo guardò torvo.
Mariliel accavallò le gambe. Guardò Ramstan che raccolse la sciabola e la ripose nella fodera.
"Libera pure il tuo cane." Disse Ramstan uscendo dalla tenda con fare rabbioso.
Mariliel guardò Brangor.


 
*****


Netrom Morten lasciò il suo letto tra le parole disperate di Erina. Non poteva rimanere con le mani in mano. Non dopo quello che gli era successo. Indossò la tunica blu notte da negromante e fece per lasciare la stanza, quando Erina lo fermò posandogli una mano sulla spalla. "Non andare. Potrebbe succedere di nuovo."
"Voglio solo fare un bagno." Mentì Netrom Morten senza voltarsi.
"Dirò a un serva di riscaldare dell'acqua. Ti..." Erina si zittì, il suo viso diventò rosso dalla timidezza. "Ti laverò io. E poi ti sei già vestito. Indossi la tunica che..."
Netrom Morten si voltò stizzito. "Non sei mia moglie, e nemmeno la mia donna."
Erina lasciò scivolare la mano giù dalla sua spalla e indietreggiò come se fosse stata colpita al cuore da una freccia. Le parole del Bretone le martellavano in testa come un pesante martello contro l'incudine.
Il Bretone notò l'espressione pietrificata di Erina, ma non sapeva che quelle parole le avevano distrutto il cuore. "E' solo uno stupido bagno." Le disse.
Erina abbassò gli occhi, incrociando le mani sul suo grembo.
"Tornerò presto." Le sorrise, ma la donna parve da tutt'altra parte.

Quando lasciò la stanza, accennò un saluto alla sentinella che non ricambiò. Netrom Morten lanciò un occhiata alle sue spalle. La sentinella lo stava seguendo. "Perché mi segue?" Pensò. Ma lasciò perdere subito dopo. Uscì dal corridoio, discese una scalinata avvolta per metà dalle tenebre e lasciò il quartiere della servitù. Quando arrivò nel cortile dove vi era l'entrata del castello, vide un uomo, una donna dal viso famigliare e una bambina scalza con addosso un mantello sporco di terra. Erano scortati da quattro guardie cittadine. Due li affiancavano, l'altro era di retroguardia e in testa, vi era l'ex capitano della guardia Danus Artellian, che era stato degradato dal Conte Hassildor per motivi che il Bretone ignorava. Ma sapeva bene che il Conte Hassildor cambiava spesso i capitani come una nobil donna che cambiava spesso i suoi abiti.
"Netrom" disse Danus Artellian fermando la scorta.
"Danus" rispose Netrom Morten.
Danus Artellian era vestito con la stessa armatura delle guardie, fatta eccezione per il suo elmo con la celata aperta. "Vi siete ripreso, vedo."
"Cosa hanno fatto?" Netrom Morten indicò con il mento i tre prigionieri.
"Una lunga storia."
"Sono sempre così le storie più interessanti." Sorrise Netrom Morten. "Allora vi lascio al vostro lavoro." Il Bretone fece per andare, ma Danus Artellian gli sbarrò la strada.
"Dove state andando?" Gli disse.
"Ho delle commissioni da sbrigare in città."
"Nessuno può uscire dal castello. Ordini del Conte."
Netrom Morten si acciglio. "Perché?"
"Non so, ma credo sia una faccenda seria."


 
*****


Il Conte Hassildor sedeva sul suo trono, il gomito su un bracciale e la mano appoggiata sotto il mento. Non sedeva mai sul trono. Quella sala era del tutto inutilizzata da anni. Accoglieva tutti nella sala principale, ma se era gente importante, li conduceva nel suo studio o nella sala da pranzo. Ma quel tardo pomeriggio egli si sedette lì. Guardava il pavimento di pietra, le ombre tremule proiettate dalla luce, ascoltava il crepitio del fuoco delle torce sulle pareti. Era un luogo di meditazione per il Conte. Lì poteva stare per ore senza venire disturbato, tolte l'emergenze. Poi udì degli stivali percorrere il corridoio che sbucava ad est nella sala del trono. Era una guardia. Chinò la testa per salutare il Conte Vampiro, e dietro di esso, comparve Netrom Morten.
Il Conte Hassildor balzò in piedi, la faccia una maschera di fredda pietra. 
Netrom Morten sorpassò la guardia, scese gli scalini e si avvicinò al Conte. "Perché nessuno può uscire dal Castello? Cosa è successo?" 
Il Conte Hassildor fece un cenno alla guardia di congedarsi, e quando se ne fu andato, il Conte disse: "Come vi sentite?" Si sedette sul suo trono.
"Non cambiare discorso."
Il Conte Hassildor smorzò un mezzo sorriso. "Abbiamo avuto dei problemi. Nulla di grave."
"Racconta."
Il Conte riassunse quello che era successo dopo che Netrom Morten aveva perso i sensi per via di quella cosa che il Bretone chiamava un ombra oscura. Parlò del guaritore che aveva prolungato il suo sogno senza sogni, cosa che Netrom Morten smentì, poiché tutto ciò che aveva sognato, almeno in parte, era il suo passato. Poi il Conte continuò parlandogli della morte del guaritore, del capitano disperso o morto nelle fogne, della codardia e dell'arresto del nuovo capitano, e infine, l'aver appreso che sotto il castello vi era una caverna abitata dai Goblin, e che forse, il Guaritore era in grado di controllarli tramite qualche stregoneria, ma il Conte Vampiro disse di non saperne molto, così come la morte improvvisa del Guaritore come se fosse stato avvelenato. Nel suo corpo il Conte Hassildor non aveva trovato presenza di veleni, ma sospettava che fosse stato un incantesimo potente a ridurre così il Guaritore.
Poi disse: "...Infine, non meno importante, vi è stata la comparsa di un nostro vecchio amico."
Netrom Morten corrugò la fronte e provò a indovinare. "L'eroe di Kvatch?"
"Non gli piace essere chiamato così." Rispose il Conte.
"Perché è qui? La sua presenza significa sventura."
"E' solo un uomo un po'..."
"...Strano. Quello non è più un uomo. Non ha mai avuto nulla di umano dentro quel corpo da Imperiale."
"Vorrei pensarla come te, ma solo i Vampiri non hanno..." Il Conte Hassildor si interruppe per un attimo. "...cuore."
"C'è sempre un eccezione alla regola. Quell'uomo è più inespressivo di te, oltre che freddo, e non puoi negarlo."
Il Conte Vampiro sorrise freddamente.
"Perché è qui? Chi lo manda? Il Consiglio dei Maghi? Qualche nobile? Una delle Gilde dei maghi?"
"Hai indovinato al primo colpo: Il Consiglio dei Maghi."
"Non è la prima volta che utilizzano le sue... Beh, hai capito."
"Abilità?" Domandò il Conte Hassildor certo di aver capito a cosa alludeva. "Quindi non neghi le sue qualità?"
"Non le ho mai negate. Ma non mi piace come persona."
"Spero non sia per quel fatto capitato alla dimora del Patriarca?" Il Conte Hassildor socchiuse gli occhi, cercando di captare sul suo volto qualunque reazione a quelle parole. "Ricordi?"
"Faceva il suo lavoro." Gli occhi di Netrom Morten vagarono nella sala, come anche i suoi pensieri. "Non mi piace, tutto qui." Poi piantò gli occhi addosso al Conte. "Ora spiegami perché è qui. E non farmi altre domande."
Il Conte Hassildor sorrise. "Non hai perso il tuo stampo, vecchio mio. Ma tornando a noi. Il Consiglio dei Maghi ha mandato qui l'eroe di Kvatch per stanarlo e ucciderlo. Nella Città Imperiale si vocifera che alcuni nobili stanno sostenendo un uomo dalla carnagione pallida. Nessuno sa il suo nome. Vogliono schierarsi dalla sua parte. Togliermi il governo di Skingrad. Per ora non ha sparso la voce che sono un Vampiro. Poteva farlo. Costringermi a incontrare gli altri Conti che avrebbero certamente confermato le sue parole. Mi domando perché non l'abbia fatto..? Comunque, questi sospetti mi sono giunti da un seconda lettera mandata dal Consiglio dei Maghi tramite staffetta. Inoltre, credono che il Patriarca sia nei paraggi di Skingrad e..."
"E' qui!" Confermò Netrom Morten. "Chi credi mi abbia ridotto in quello stato?"
"Parlavi di un ombra oscura o nera, se non erro."
"Sì, e mi ha indotto a fare quello che ho fatto. Ho vaghi ricordi, ma ricordo alcune delle cose... E ti ringrazio per avermi fermato. Avrei potuto uccidere Erina o te, o qualcun'altro. E' opera del Patriarca. Ho sempre avuto il presentimento che dietro il ritrovamento della donna dissanguata c'era il Patriarca."
"Perché non me ne hai parlato fin da subito?" Disse il Conte Hassildor con tono grave.
"Perché non né ero sicuro. Sai meglio di me che la Contea di Skingrad è rinomata per la presenza di vampiri. Poteva essere stato qualche vampiro impazzito. E poi c'erano quei cacciatori di vampiri..."
"A proposito di quel gruppo" Disse il Conte Vampiro che si era ricordato solo in quel momento del fatto successo alla porta maestra della città. "Sono spariti dalla circolazione dopo che tu sei caduto vittima di quel sortilegio. Comunque, giorni dopo, due di quel gruppo sono ricomparsi davanti alla porta maestra della città. Sono stati uccisi, ma non so da chi. Anche due mie guardie hanno perso la vita. Da allora il caos è dilagato in città. Un caos che non aveva mai veduto."
"Il Patriarca." Tagliò corto Netrom Morten per nulla stupito dalle parole del Conte Vampiro. "E' opera sua. Sta tramando qualcosa. Presto o tardi, lo vedremo reclamare ciò che ha sempre voluto."
"Skingrad?" Concluse il Conte Hassildor. "Impossibile. La popolazione si ribellerà."
"La gente non sa chi sei. Non conosce il tuo volto. Ricordati che il Patriarca è un grande stregone. Può assumere le tue sembianze. Lanciare un sortilegio illusorio sulla popolazione per sottometterla. Molti nobili sono caduti nelle sue mani proprio per il sue capacità magiche. Non mi sorprenderei nel vedere qualche nobile assoggettato schierarsi ciecamente dalla sua parte. Non sottovalutare il Patriarca. Anche se è stato sconfitto una volta, non è detto che ripeterà i suoi stessi errori."
"Ricordo bene quel giorno." Disse il Conte Hassildor guardando il Bretone dritto nei suoi occhi bianchi. "Io e l'eroe di Kvatch trovammo il Patriarca chinò sul tuo corpo, attorniati da una schiera di sudditi dalle labbra imbrattate del tuo sangue. Eri a un passo dalla morte."


 
*****


Tulvus aprì la porta del capanno. Gettò un occhiata al terreno fangoso. La pioggia del giorno prima aveva cancellato le tracce del vecchio, ma Tulvus era intenzionato a trovare la figlia di Fredor. "Prendi quel... Quella cosa." Indicò a Fredor la zappa. "Torniamo nel punto in cui ti ho trovato."
"A fare cosa, dico..." Fredor imbracciò la zappa.
"Ti porto da tua figlia."
"Ma Mariliel non è lì, dico..."
"La troveremo. Forza ora usciamo." Fece un fischiò ad Huck che alzò il muso dal pavimento e si precipitò fuori scodizollando.

Quando Tulvus e Fredor uscirono, Huck era già sparito nella vegetazione. I due si allontanarono dal capanno, tra i canti dei fringuelli. Fasci solari penetravano la volta degli alberi, illuminando a chiazze il terreno. 
Tulvus, la mano piantata sull'elsa della spada, guardava circospetto ogni direzione. Fredor invece, lo seguiva incurante dei pericoli che potevano celarsi dietro i folti cespugli. Huck fungeva da avanscoperta, per questo Tulvus non era in pensiero per il lupo. Se vi erano problemi, Huck abbaiava e tornava da Tulvus che si preparava al peggio o attendeva che il peggio passasse. 
"Da cosa scappavi?" Disse Tulvus a Fredor, continuando a guardare cespugli, alberi, rocce ed erba alta da cui poteva sbucare qualsiasi cosa.
"Non ricordo, dico..."
"Sforzati."
Fredor rimase in silenzio per un momento, ma non ricordò nulla.
"Allora?"
"Niente, non ricordo, dico..."
"Qualcosa è successo. Ti aiuto a ricordare. Dimmi se queste parole ti ricordano qualcosa." Fece un pausa. "Goblin."
"Dove sono, dico..?" Fredor alzò la zappa pronto a combatterli.
"Tranquillo, non ci sono. Era per aiutarti a ricordare. Ti è tornato niente in mente?"
"I Goblin attaccavano spesso la mia fattoria. Ora non più, dico..."
"Quindi sei fuggito da un attacco di Goblin?"
"Non lo so, dico..." Fredor alzò gli occhi in cielo per ricordare. "Ma i Goblin sono stati tutti uccisi da Marliel e dal suo amico dalla palle come terra, dico..."
"Un Redguard?"
"Cos'è un Redguard, dico..?"
Tulvus si fermò, si girò verso l'anziano: "Non sai cos'è un Redguard?"
"E' un animale come il Goblin, dico..?"
"No. E' una delle razze umanoidi di Tamriel. Provengono da Hammerfell."
"Per me sono tutti uguali, tranne Gatti e Lucertole, dico..."
"Intendi Khajiit e Argoniani?"
"E io che ho detto, Gatti e Lucertole, dico..."
Tulvus scosse la testa, fece per girarsi quando si ricordò che il giorno prima Fredor scottava per un principio di febbre. Così si voltò di nuovo, andò dall'anziano che lo guardò confuso e gli mise due dita in fronte. Scottava.
"Ti gira la testa?" Gli disse levandogli le dita dalla fronte.
"Sì, so girarla la testa, dico..." Fredor iniziò a voltare la testa da destra a sinistra.
"No, fermo. Intendo se ti senti male o fiacco? O se provi vertigini."
"Pulsare, vertigini, dico...?" Fredor si toccò la fronte. "Che cosa sono, dico..?"
"Ah, lasciamo stare." Tulvus sbuffò, lanciando in aria una mano. "Stammi dietro."

Il canto dei fringuelli svanì lentamente alle loro spalle. Soffiò un leggero venticello da est, smuovendo le fronde degli alberi. Tulvus guardò in cielo oscurato dalla volta degli alberi. Solo l'Imperiala sapeva cosa vedeva. "Sento odore di pioggia." 
Fredor guardò in alto, mettendosi una mano davanti agli occhi socchiusi. "Io vedo solo foglie, dico..."
Tulvus non fece caso al suo commento. "Aumentiamo il passo."
Poi da dietro un grosso tronco cavo caduto a terra, comparve Huck.
"Ehi Huck!" Disse Tulvus. "Hai trovato qualcosa?"
Il lupo gli si avvicinò e gli leccò una mano.
Tulvus lo grattò sotto il mento, mentre Huck gli leccò di nuovo la mano.
"Quel cane sa parlare, dico..?" Domandò Fredor entusiasta dall'idea di vedere un animale parlare.
"Non è un cane, ma un lupo. Comunque no."
Il volto entusiasta di Fredor, lasciò spazio alla tristezza.
Huck abbagliò eccitato.
"Va bene, vai pure." Disse Tulvus. "Ma non allontanarti troppo." Ma non finì la frase, che Huck si era già catapultato nella fitta boscaglia.
Scesero un avvallamento e s'inerpicarono sulla sporgenza opposta. Fredor faticava ad arrampicarsi e Tulvus dovette aiutarlo. "Dammi la zappa!" Disse a Fredor.
"Non ho una zappa, dico..."
Tulvus sbuffò e roteò gli occhi in aria. "Dammi la tua spada!"
Fredor gli passò la zappa, poi Tulvus lo aiutò a salire.
Quando lo superarono, camminarono per un bel po' finché si ritrovarono in una piccola radura puntellata da alberi spogli e massi rocciosi. Tutt'attorno la fitta boscaglia cingeva la radura.
"Stai qui." Disse Tulvus sfoderando la spada corta. 
S'incamminò nella radura, guardandosi intorno. "Stando alla direzione percorsa da Fredor," Pensò. "Deve per forza essere passato da qui, a meno che non abbia proseguito a zig zag o cambiato direzione di continuo, cosa poco probabile." Non cercava un traccia del passaggio di Fredor, anche perché con la forte pioggia del giorno precedente tutte le tracce erano sparite. Ma continuò a camminare per capire se ci fosse qualcuno nel limitare del bosco. Non era la prima volta che lo faceva. Sapeva che poteva esserci chiunque in agguato dietro agli alberi o agli arbusti. Si fermò al centro della radura, gettò un occhiata alle sue spalle e scalò l'alta roccia che gli era affianco. Quando raggiunse l'altura, si guardò in giro. Sentì un venticello gelido sfiorargli il viso. Aguzzò la vista, ma video solo Fredor accanto a un albero che lo guardava divertito. Poi udì un sibilo nell'aria. 


 
*****


"Ermil Voltum per servirvi, signore." Disse l'Altmer in ginocchio. Aveva le mani legate da una corda e gli occhi fissi sul terriccio.
"Per servirmi?" Ridacchiò Ramstan, guardando i quattro uomini nella sua tenda che risero perché il loro capo rideva. "Non sono un lord, anche se in realtà lo sono, ma non qui. Comunque non sono cazzi tuoi." Sentiva fitte di dolore ai genitali dove Mariliel l'aveva colpito, si lasciò sfuggire un sorriso che smorzò subito. Per Ramstan l'azione di Mariliel equivaleva a una dichiarazione d'amore, dichiarazione che esisteva solo nella sua subdola mente.
"Sono un ottimo ascoltatore, signore. Sapete io..."
"Taci!" Ramstan si alzò dalla sedia, sistemandosi le brache. In realtà stare seduto era una sofferenza per i suoi genitali. "I prigionieri non fanno altro che lamentarsi di te. Dicono che da quando ti sei ripreso, non fai altro che blaterare di continuo. Non voglio ascoltarti, e non cercare di renderti servile. Gente così mi fa schifo." Sputò a terra.
"Loro mentono, perché..." Ermil Voltum alzò lo sguardo, ma ricevette un pugno da Ramstan che lo spedì al suolo, sul fianco.
"Ti ho detto di tacere!" Si diede un altra strizzata ai genitali. Persino camminare era doloroso, sopratutto se non spalancava le gambe, e non poteva farlo davanti ai suoi uomini senza suscitare risate.
Ermil Voltum si rimise in ginocchio, il labbro superiore spaccato. Tutta la sua faccia era irriconoscibile dopo il pestaggio ricevuto durante la cattura, quindi un labbro spaccato non faceva tanta differenza.
"Per chi lavorate?" Domandò Ramstan sedendosi appena sul bordo del tavolo.
"Per un nobile della Città Imperiale; Pitvus Matea." L'Altmer lo guardò con l'unico occhio non gonfio.
"E' un commerciante? Fa parte di qualche carovana?"
"No, signore."
Per un momento Ramstan aveva accarezzato l'idea di poter depredare una ricca carovana Imperiale. Recentemente le carovane si erano infoltite di mercenari Nord al soldo di chi pagava di più per avere la loro protezione. Molti gruppi di predoni, una volta attaccate queste carovane, venivano spazzati via senza pietà. Erano mercenari veterani e con molta esperienza alle spalle. Le carovane Khajiit erano inclini a servirsene, ed erano anche le più ricche. Ramstan era stato costretto a spostare le sue operazioni in un altro settore; rapine e rapimenti. Non a caso aveva scelto Ermil Voltum per questo, anche se era stato più un azzardo che un colpo sicuro.
Ramstan si massaggiò il naso che gli doleva. "Quindi tu saresti un nobile?"
"No, signore. Sono alle dipendenze del nobile Pitvus Matea."
Ramstan si voltò verso uno dei quattro uomini vicino all'entrata della tenda. "Hai detto che questo Altmer era un nobile."
L'uomo dal volto grassoccio e dai capelli neri stempiati deglutì: "Mi hanno detto così. Il mio informatore 
raramente sbaglia."
"Questa volta ha sbagliato." Ramstan corrugò la fronte e sentì una fitta dolorosa al naso.
"Ma capo..."
L'Altmer si lasciò sfuggire un sorriso che smorzò subito.
Ramstan lo vide e lo guardò dritto nei suoi occhi tumefatti: "Cos'hai da ridere? Parla!"
"Non ridevo, signore, io..."
Ramstan gli sferrò un pugno in faccia. Ermil Voltum cadde all'indietro.
"Abbiamo a che fare con un bugiardo. Interrogatelo e scoprite chi è veramente. Sono sicuro che uscirà fuori che è figlio di qualche ricco mercante e via dicendo."
"No, signore, ti giuro..."
Ramstan gli diede un calcio in faccia facendogli perdere i sensi. "Fate come ho detto!"
I quattro uomini si precipitarono sull'Altmer.


 
*****


Mariliel e Brangor erano fuori dalla tenda, vicino alla stalla. Nel recinto, i prigionieri guardavano silenti il Nord. Brangor faceva finta di non vederli e cercava di non incrociare i loro sguardi. "Perché sei con questa feccia?"
Mariliel inclinò la testa guardandolo serio: "Perché tu cosa sei?"
Brangor non rispose.
"Aiutami a sistemare i cavalli."
Presero due cavalli. Entrambi appartenevano a Mariliel. Fissarono le selle in groppa ai cavalli, poi Brangor prese la borsa della donna che pesava un poco. "Cos'hai dentro? Sassi?" Gli disse facendo una battuta.
Mariliel non rise. "Oro."
"Oro?" Brangor era confuso.
"Cosa c'è di strano?"
"Niente... E solo che..."
"Cosa?"
"Rischi di essere derubata."
"E da chi?" rise Mariliel. "Da questi idioti?"
"No. Ma le strade sono..."
"Pensi che sia stupida?" Mariliel serrò gli occhi.
"No, non dicevo questo."
"Bene." Mariliel montò sul cavallo.
Brangor pensò a come si era ridotto caratterialmente. Un tempo l'avrebbe picchiata senza pensarci su due volte. Per lui le donne non servivano ad altro che a cucinare e a scopare. Ed ora, si era talmente ammorbidito da quando era stato ferito quasi a morte da tre sconosciuti, che non riusciva nemmeno a reggere una discussione con una donna.
Mariliel si voltò verso il Nord: "Ora hai un cavallo, ma sei in debito con me, sia per il cavallo che per Ramstan. Un debito che dovrai saldare. Inoltre, non c'è bisogno di ricordarti che sei libero. Quindi farai meglio a sparire da qui, se non vuoi che Ramstan cambi idea. E sappi che cambia idea molto spesso." Fece schioccare le labbra e partì al galoppo. Gli uomini si scostarono per non essere travolti, lanciandole insulti e imprecazioni. 
Ma Brangor non poteva partire senza la sua ascia da battaglia, così decise di chiedere in giro dove tenevano le armi sottratte ai prigionieri.
"E io che ne so." Rispose un Nord alto.
"Levati dal cazzo!" Rispose un Imperiale grasso.
"Sparisci prima che ti taglio le palle!" Rispose un Bretone cieco da un occhio.
Ma il quarto uomo gli indicò l'armeria. Quando Brangor vi arrivò, vide un Imperiale seduto su una pietra intento ad affilare una spada d'acciaio sotto una sporgenza rocciosa. L'uomo si accorse di Brangor solo quando egli gli fu vicino: "Che vuoi?" Poi capì chi aveva di fronte: "Ah, tu sei il tizio che Ramstan ha liberato. Hai qualche tresca con Mariliel, non è vero? Tutti vorremmo fotterla, ma non dirlo a Ramstan. L'ultimo che l'ha fatto ci ha rimesso le palle, e Ramstan gliela fatte mangiare prima di farlo morire dissanguato." Rise per un attimo. Poi tornò subito serio. "Allora?"
"Vorrei indietro la mia ascia da battaglia."
"E quale sarebbe? Sai quanto asce ci sono qua dentro?" L'imperiale indicò la porta di legno che conduceva dentro una piccola caverna; assomiglia più a un ampia fessura scavata nella roccia che a una caverna vera e propria.
"Allora fammi dare un occhiata."
"Hai il lascia passare di Ramstan?"
"No."
"Allora non puoi passare." Grugnì l'Imperiale. "Sparisci!" Tornò ad affilare la sua lama, ignorando del tutto il Nord.
Brangor si accigliò, ma non rispose. Aveva un altra idea in mente. L'armeria era in un posto isolato e nascosto rispetto all'accampamento, il che era insolito, poiché le armerie erano sempre piazzate al centro del campo per evitare furti. 
Si diresse verso est, costeggiando le pareti rocciose che limitavano l'accampamento. La sua idea era quella di scalare il muro roccioso puntellato da larghi arbusti, prendere un grosso sasso e lanciarlo sulla testa della sentinella. Poi sarebbe entrato a riprendersi l'ascia da battaglia, anche se non era sicuro che vi fosse lì. Ma il piano andò in fumo quando incrociò per sbaglio Ramstan che stava pisciando dietro un folto arbusto. 
"Ehi!" Gridò Ramstan. "Parlo a te!" Mise il pene nelle brache e andò incontro a Brangor. "Dov'è Mariliel?"
"E' partita."
"Per dove?"
"Non lo so?"
Ramstan lo guardò negli occhi per capire se mentiva: "E ti ha lasciato qui?"
Brangor aveva notato fin da subito lo sguardo pieno di odio del Redguard: "Io sono diretto altrove."
"Quindi primo o poi vi incontrerete?"
"Non ho detto questo." Brangor si rese conto che era stato meglio ascoltare il consiglio di Mariliel e sparire dal campo.
"Ma non l'hai nemmeno negato." Ramstan serrò gli occhi minacciosi.
"Volevo solo riprendere la mia ascia." Disse Brangor cercando di cambiare discorso.
"E chi ti dice che qui c'è la tua ascia?"
"Pensavo che..."
"Pensavi male. Abbiamo armi a quantità. Cosa ce ne facevamo delle asce arrugginite dei taglialegna?"
Brangor non rispose.
"Ti incontrerai con Mariliel?" Riprese Ramstan battendo sul suo unico pensiero ossessivo.
"No. Non la conosco bene come credi."
"Pensi di sapere cosa credo?"
"Non ho detto questo."
"Tu non dici parecchie cose." Ramstan accarezzò con le dita l'elsa della sua sciabola.
Brangor lo vide, ma subito dopo si udì un urlo di dolore levarsi dall'accampamento.
Ramstan spinse via Brangor che cadde col sedere a terra e si precipitò verso le urla. Altri uomini accorrevano verso il suono con le armi in pugno. 
Brangor vide un uomo volare in alto come lanciato da qualcosa per poi ricadere sulla massa di gente accalcata la vicino. Un forte muggito si levò sulle teste dei fuorilegge. Brangor si alzò da terra e corse a vedere. Gli uomini circondavano due Minotauri. Molti di essi cercarono di colpirli con le loro armi, ma quelli venivano scaraventati via come foglie al vento. Alcuni vennero cornificati o schiacciati dal pesante martello da guerra.
"Indietreggiate!" Tuonò Ramstan. "Non attaccate!"
Brangor salì sopra un masso per assistere alla scena dall'alto. Ai piedi dei due Minotauri, vi era sangue dappertutto. Pezzi di braccia, gambe, busti e teste schiacciate, mozzate o frantumate. I prigionieri erano stati i primi a venir fatti a pezzi senza possibilità di fuga. Le due imponenti creature che sovrastavano i tagliagole si trovavano in mezzo alle tende, tra focolari, casse, carri e sacchi. Negli occhi sbarrati dei fuorilegge vi albergava il terrore, la paura di essere schiacciati dalla potenza disumana di quelle creature.
Un Minotauro muggì irato, volteggiò in aria il martello e colpì un uomo che cercava di deviare il colpo. Quello volò via schiantandosi come un pesante dardo lanciato da una balista contro quattro fuorilegge che caddero a terra. I due Minotauri si mossero, fendettero l'aria con i loro martelli da guerra, ma gli uomini erano arretrati di molto. 
Ramstan sapeva di poter far ben poco contro due Minotauri. Già uno bastava per seminare caos e distruzione ovunque nel campo, ma due, due erano decisamente troppi. I fuorilegge erano del tutto inesperti contro un simile nemico. Non avevano a che fare con mercanti o mercenari dal ego smisurato, ma con due enormi bestie dotati di pelle dura come acciaio e una forza sovrumana. Ramstan doveva ritirarsi, far fuggire i suoi uomini. Tutti prigionieri erano morti, e solo Ermil Voltum era stato fortunato, legato a un palo in una delle tende.
Un Minotauro incornò un uomo, nel ventre. L'uomo rimase incastrato in uno dei due corni, gridando dal dolore. Il Minotauro lo prese con entrambi le mani e lo spezzò in due. Un esplosione di sangue e viscere si riversò sul terreno. Il Minotauro lanciò quel che rimaneva dell'uomo contro alcuni fuorilegge che vomitavano. A quel punto, disperati, tutti fuggirono a gambe levate da ogni parte, tranne Ramstan.
Egli rimase fermò, gli occhi puntati sui due Minotauri. Avevano distrutto il suo accampamento, ucciso i prigionieri che dovevano essere riscattati o venduti e disperso i suoi uomini. Era diventato un fatto personale. Ma sapeva che non poteva batterli. Sarebbe morto ancor prima di sferrare un fendente.
Brangor era ancora sopra il masso. Guardava Ramstan. Non capiva perché se ne stava fermo a voler sfidare le due enormi creature. Sapeva quale sarebbe stato l'esito dello scontro, così scese dal masso e andò alla stalla. La trovò vuota; il cavallo che aveva sellato era sparito, assieme agli altri cavalli. Gli toccava affrettare il passo per raggiungere il campo dei taglialegna, dove sperava di trovare la sua ascia da battaglia.


 
*****


Servin Ondus udì il cigolio della serratura. La porta della cella si aprì lentamente. Il carceriere, una torcia in una mano e nell'altra una ciotola di peltro con dentro del porridge, entrò nella cella. Era una cena sostanziosa per un prigioniero. Chi aveva soggiornato nelle segrete del castello, raramente aveva cenato con altro che non fosse pane indurito e acqua. 
"Capitano, ehm..." Il carceriere si ricordò che non doveva chiamarlo così. "Prigioniero, la tua cena."
Servin Ondus, seduto a terra contro la parete, non lo degnò di uno sguardo.
Il carceriere posò la ciotola sul pavimento e andò via, facendo stridere la serratura della porta.
Servin Ondus guardò il fumo levarsi dalla ciotola, l'odore del porridge impregnargli le narici, ma rimase fermo con le ginocchia all'altezza della faccia.


 
*****


"Ho incontrato Danus Artellian prima di venire da te." Disse Netrom Morten a Hal-Liurz. "Scortava tre prigionieri. Sapete qualcosa al riguardo?"
"Nulla." Disse Hal-Liurz. "Dovreste chiedere al Conte Hassildor."
"Non so dove sia."
"Domandate alle guardie."
"L'ho già fatto." Disse il Bretone. "Nessuno sa dov'è il Conte."
Hal-Liurz chiuse il libro e si alzò dalla sedia: "Allora cercatelo. Andate dove non siete andato."
"Sono andato ovunque."
"Anche nelle segrete?"
Netrom Morten si accigliò e lasciò la stanza.
Hal-Liurz posò il libro sullo scaffale, posizionandolo con cura in mezzo agli altri. Poi uscì dallo studio. Percorse il corridoio, sorvegliato da guardie e sbucò nella sala principale. Il messo del Consiglio dei Maghi era arrivato con una lettera. Guardò giù dalla balconata. Vide il messo seduto a un tavolo. Più che un messo sembrava un cavaliere. Scese gli scalini e lo raggiunse. "Sono l'amministratore del Conte Hassildor. Il mio nome è Hal-Liurz."
Il cavaliere la guardò, ma non disse nulla. Nemmeno si presentò.
"Mi hanno riferito che portate una lettera per il Conte." Proseguì l'Argoniana che indossava una lunga veste marrone con ricami in oro sul seno e sulle spalle.
"Dal Consiglio dei Maghi." Disse il cavaliere con voce grave. Poi si levò l'elmo, scuotendo i suoi riccioli castani con qualche striatura di bianco. Aveva un viso giovane, ovale, dalla mascella dura e penetranti occhi verde smeraldo. Un uomo certamente affascinante che colpì anche l'Argoniana.
"Vorrei vedere il sigillo." Disse l'Argoniana.
"Non vi fidate?"
"E' la prassi."
"Bene." Il cavaliere buttò con strafottenza la lettera sul tavolo.
L'Argoniana serrò gli occhi infastidita dal gesto, prese la lettera e controllò il sigillò scarlatto. Era intatto. Apparteneva al Consiglio dei Maghi; Un cerchio con dentro una stella a otto punte con al centro un occhio. "Porterò la lettera al Conte."
"No." Rispose il Cavaliere dal volto duro. "Il Consiglio dei Maghi mi ha ordinato di farlo di persona."
"Non potete." 
"Allora ridatemi la lettera e fatemi avere udienza con il Conte."
"Non è possibile. Il Conte Hassildor è impegnato."
"Aspetterò." Il Cavaliere si sedette, scostandosi una ciocca di riccioli dalla fronte.
Hal-Liurz si voltò e salì le scalinata. Quando raggiunse la balconata, vide che il Cavaliere la seguiva con sguardo torvo. Poi continuò a camminare, lasciando la sala principale.


 
*****


Netrom Morten scese i gradini che portavano alle segrete. Percorse un piccolo corridoio illuminato da laterne agganciate al soffitto e raggiunse la porta di quercia rinforzata. Bussò tre volte. Non udì nessuno dall'altra parte. Bussò altre tre volte. Attese. Solo silenzio. Stava per andarsene, quando udì stridere la serratura. La testa del carceriere sbucò appena dalla porta. Scrutò Netrom Morten, realizzando in quel momento chi fosse.
"Il Conte Hassildor è lì?" Domandò Netrom Morten.
"Sì."
"Allora fammi entrare."
Quando Netrom Morten fu entrato, il Carceriere richiuse la porta a chiave:" Seguitemi."

Lungo il corridoio parzialmente illuminato dalle torce, si sentiva un forte odore di escrementi di ratto. Vi erano sette celle in tutto lungo il corridoio. Sul soffitto correvano delle crepe in cui il muschio prolificava. Il suono degli stivali di cuoio del carceriere faceva eco sui muri, ed era l'unico suono udibile. 
Netrom Morten gettò un occhiata alle celle mentre seguiva il carceriere. Tutte erano inghiottite dall'oscurità. Solo verso la fine del corridoio, vide della luci dentro le ultime due celle.
Il carceriere si fermò vicino alla penultima cella e la indicò con il mento. Quando Netrom Morten entrò, vide il Conte. Poco distanti, vicino al muro, un uomo, una donna che le sembrava di aver visto da qualche parte e una bambina scalza che indossava una corta tunica di lana e non più un mantello. Fissò Netrom Morten intimorita dall'aspetto da stregone. Poi si strinse ai fianchi della donna che gli mise una mano sulla spalla.
Il Conte si voltò verso il Bretone, lo guardò per un attimo, poi si voltò nuovamente: "Perché avete ucciso quell'uomo?" Disse a Adrienne Berene.
"Mi ha aggredita."
"E' tutto vero, Conte." Aggiunse il Cocchiere.
"Non parlavo con te."
Il cocchiere abbassò lo sguardo.
"Dicono che avete usato la magia. Credo sia palese visto lo stato della vittima."
"E' solo legittima difesa." Disse il Cocchiere in difesa di Adrienne.
"Carceriere." Tuonò Conte Hassildor. "Confinante quest'uomo nella cella accanto."
Il Carceriere afferrò per un braccio il Cocchiere e lo condusse fuori dalla cella.
La bambina continuava a guardare il Bretone, stringendosi con tutta la forza ai fianchi di Adrienne Berene.
"Allora?" Disse il Conte Vampiro. "Perché non parlate?"
"Qualunque cosa dirò, non avrà importanza." Rispose la donna evitando lo sguardo glaciale del Conte.
"Questo non è un buon motivo per non parlare."
"La gente ha paura di me. Gridava la mia morte quando la guardia cittadina mi ha portato qui."
"Se è legittima difesa, non verrete messa alla forca. Pagherete una multa salata sia a me, che al Consiglio dei Maghi per aver infranto le regole. La magia è vietata al di fuori dalle mura della Gilda dei Maghi. Voi siete a capo della succursale di Skingrad e dovreste..."
"Conosco le regole."
"Allora perché l'avete infrante?"
"Legittima difesa." Disse Adrienne quasi in un sussurrò.
"Bene. Legittima difesa." Il Conte Hassildor la guardò per un po'. "Ora ditemi cosa facevate nei bassifondi di Skingrad?
Adrienne Berene sentì il cuore in gola. Non rispose.
"Vi ho fatto una domanda." Il Conte Hassildor serrò gli occhi rosso sangue.
La bambina si nascose dietro Adrienne Berene che rimase in silenzio. Il Conte Vampiro non aveva guardato la bambina nemmeno una volta.
"Se non volete dirmelo, me lo farò dire dal tuo servo."
"Non è il mio servo."
"Allora chi è?"
Adrienne Berene non rispose.
Il volto del Conte rimase inespressivo, ma dentro di sé cresceva il sospetto che la maga nascondesse qualcosa. "Chi bazzica nei bassifondi lo fa solo per concludere loschi affari o perché ci vive." Pensò il Conte Hassildor. Senza dire nient'altro, si girò e fece per uscire dalla cella.
"Cosa intendi fare?" Domandò Netrom Morten al Conte che si fermò sulla soglia.
La bambina si spaventò e affondò la faccia nel fianco della donna.
"Quello che dovevo fare fin dall'inizio." Rispose il Conte Vampiro senza voltarsi. "L'uccisione dei due cacciatori di vampiri, non ha fatto altro che moltiplicare la criminalità o farla uscire allo scoperto." Si girò verso Netrom Morten. "Ora conosco ogni volto, ogni storia, ogni minima parte di questi farabutti. Hanno vessato i più deboli. Ucciso e distrutto. Ricattato e sfruttato. E' ora di agire. E' ora di mettere ordine al caos." Poi si girò verso Adrienne Berene. "Dovrò informare il Consiglio dei Maghi del vostro operato."
"No..." Rispose scioccata Adrienne. "Mi solleveranno dall'incarico. Mi espelleranno dall'ordine. Ti supplico, Conte" gli occhi si riempirono di lacrime. "Farò tutto quello che mi chiedi. Non informare il Consiglio dei Maghi."
"Allora dimmi cosa facevi nei bassifondi?" 
La maga non rispose.
Il Conte Hassildor uscì dalla cella, lasciando Adrienne Berene in lacrime.


 
*****


"Mephala?" Domandò il Conte Clavis.
L'uomo pallido posò la fiala sul tavolo: "Ogni patto richiede sangue."
"Ma..." Il Conte Clavis lo raggiunse. "Servi Mephala?"
"Tutti serviamo qualcuno" rispose l'uomo pallido voltandosi verso il Conte. "Anche tu."
"Non... Non servo nessuno."
"Sei nella mia dimora. Mangi al mio tavolo. Ascolti le mie parole. Hai ucciso... per me."
"Ucciso?" Il Conte si accigliò. "Non ho..." Poi si ricordò del fatto avvenuto nella sua dimora. Tutti i ricordi gli tornarono in mente, e sentì la testa girargli. Barcollò, si mantenne al tavolo con una mano. La vista si annebbiò, gli oggetti si sgranarono, la stanza girò. Vide il Patriarca fissarlo con i suoi occhi rosso sangue. Una fredda maschera di fredda pietra. Non vide nessun'espressione nei suoi occhi, mentre il Conte si accasciava sul tavolo.
"Che mi succede..." Poi ricordò il volto di sua moglie. Che fine aveva fatto? Non aveva mai più pensato ad ella da quando aveva ucciso il Vampiro che aveva dissanguato sua figlia. Non aveva pensato a nient'altro. Ora ricordava. Ora era padrone dei suoi pensieri.
"Sembra che l'incantesimo stia per finire." Disse il Patriarca. 
Il Conte Clavis capì. Voltò la testa, cercò di allontanarsi dal tavolo, ma cadde carponi. L'uomo pallido si avvicinò lentamente, il Conte strisciò lontano.
"E' inutile fuggire. Anche tu servi qualcuno. Servi me. Accettalo."
Il Conte continuò a strisciare finché sbatté la testa contro qualcosa. Era una caviglia. Il Conte Clavis alzò lo sguardo. Vide il volto sciupato di una delle tante progenie dell'uomo pallido che il Conte faticava a distinguere, poiché avevano quasi tutti lo stesso volto scarnificato, secco, smorto.
Il patriarca si chinò, gli prese la testa fra le mani: "Guardarmi." Disse.
Il Conte Clavis percepì un tocco glaciale sul suo viso e chiuse gli occhi come se non volesse riaprirli mai più. Sentì i freddi polpastrelli del Patriarca sollevargli le palpebre. Vide l'iride rosso sangue dell'uomo pallido. Uno sguardo magnetico, un abisso profondo che inghiottiva ogni pensiero o forza di volontà. Poi il dolore alla testa scomparve, così come i suoi pensieri spazzati via come un uragano. 
L'uomo pallido si alzò in piedi e tornò al tavolo.
Frastornato, il Conte Clavis si mise seduto sul pavimento e si guardò attorno confuso. Poi si issò in piedi. Non capiva perché era a terra. Cercava di ricordare, ma nella mente non vi era alcunché. Solo il volto sorridente di sua figlia, la morte del suo carnefice e un enorme gratitudine che provava per il Patriarca.
L'uomo pallido si voltò, lo guardò, ma non disse nulla. Aspettava che fosse il Conte a parlare.
"Che..." Il Conte Clavis corrugò la fronte. "Cosa..."
"Si?" Rispose l'uomo pallido come se fosse all'oscuro di quello che era successo.
"Perché io..."
"Argomenta."
Il Conte Clavis indicò il pavimento. "Ero a terra, io..."
"Sarai caduto." Il Patriarca sapeva bene che un uomo sotto l'effetto del suo incantesimo poteva credere a qualsiasi cosa; anche a una risposta vaga o senza significato come questa.
Il Conte aggrottò le sopracciglia perplesso.
L'uomo pallido alzò la fiala per farla vedere al Conte. "Ero impegnato. Non ho sentito e visto nulla. Sicuro di stare bene?"
"Credo di sì... Però non capisco perché ero a terra. Ma se dici che sono caduto, vi credo."
Il patriarca accennò un mezzo sorriso freddo.

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