Old Blood

di Nat_Matryoshka
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Capitolo 1
 



“Caro Finn,
ti scrivo queste righe sul treno, in viaggio verso Coruscant. Ho lasciato Jakku solo questa mattina, eppure mi sembrano passati secoli! Ho già visto tanti alberi coperti di foglie, di un rosso e giallo quasi irreale. Ce n’erano di simili in un quadro appeso in una casa dove ho lavorato anni fa, ma non mi era mai capitato di ammirarli dal vivo. Immagino che l’autunno sia arrivato, qui dove le stagioni cambiano davvero.
Tu come stai? Spero bene, e spero che Madam Holdo non ti faccia stancare troppo. Se tutto va bene, dovrei iniziare domani. Ancora non riesco a credere che abbiano scelto proprio me, ma ho l’indirizzo in tasca e i nuovi principali mi aspettano per questa sera, per cui è tutto vero.
Una parte di me era quasi dispiaciuta di lasciare Jakku, ma non posso continuare a vivere nel passato e inseguire fantasmi. L’orfanotrofio era un posto orrendo, lo sai benissimo anche tu. I miei genitori non sono mai tornati, e restare lì a vendere rottami non servirà a fare in modo che si ricordino di me. E chissà… forse questo nuovo lavoro riuscirà finalmente a dare una svolta alla mia vita. Lo spero. 

Ti lascio per ora, forse aggiungerò qualche riga una volta arrivata in città.”
 
 
La ragazza posò la penna, la asciugò appena con un fazzoletto che teneva in tasca e attese che anche l’inchiostro sul foglio si seccasse. Il treno correva per le campagne illuminate dalla luce autunnale, e ogni miglio era un passo in avanti verso l’ignoto, lontana dalla città in cui aveva vissuto da quando aveva memoria. Sempre che si potesse considerare “città” un agglomerato urbano strappato a fatica alla campagna arida, abitato da disperati che sceglievano di scappare dalla civiltà. Jakku era proprio quello: un covo di desolazione e solitudine, il posto peggiore in cui crescere… eppure, lo aveva chiamato “casa” per almeno quindici anni.

Rey scosse la testa, allontanando quei ricordi. Non doveva pensare al passato. Se lo era ripetuto come una preghiera, era l’unica motivazione che l’aveva spinta ad inviare la lettera di presentazione, pochi giorni dopo aver letto quell’annuncio sul giornale. I proprietari di un’antica villa alla periferia della Capitale cercavano personale di servizio che sbrigasse le faccende di casa; offrivano vitto e alloggio e non chiedevano nemmeno referenze, bastava che la persona in questione sapesse accendere il fuoco e cavarsela con le faccende domestiche. La paga mensile era buona, ma era stata la promessa di uno stipendio fisso e di un tetto sopra la testa ad attirarla: in una casa signorile, almeno, avrebbe potuto mangiare tutti i giorni.   

Gettò un’occhiata alla foto della villa sul giornale e chiuse gli occhi, appoggiando la testa sul sedile. La lettera le sfiorava una gamba, protetta dalla tasca del grembiule che aveva comprato con gli ultimi soldi guadagnati prima di andarsene. Aveva rinunciato a tre porzioni di cibo che le avrebbero riempito lo stomaco per tutta la giornata, pur di non presentarsi sul nuovo posto di lavoro con i vecchi vestiti consunti, e il resto era finito nel biglietto del treno che l’avrebbe condotta a Coruscant.

Nessuno avrebbe mai dato un centesimo ad una bambina cresciuta tra i rottami, certamente non Unkar Plutt, il suo ultimo, orribile datore di lavoro. Ma cosa diceva sempre il generale Kenobi? Hai un’anima bella, Rey. Non è una dote comune. Se qualcuno dovesse fermarsi al tuo aspetto, valutandolo prima della tua personalità, beh… spero possa immediatamente capire quanto sbaglia.
Il generale Kenobi le piaceva, e lui era affettuoso con lei, come un nonno con la propria nipotina preferita. Era stata la sua domestica qualche tempo, fino a che non era partito lasciandole un indirizzo: se avrai bisogno di me, cercami nella vecchia Tatooine, le aveva detto. I ricordi del passato devono tornare al loro posto… ma la mia porta sarà sempre aperta per te, bambina. Conservava quel pezzo di carta stropicciato nello scrigno di legno che lui le aveva regalato, un vecchio cimelio di famiglia intagliato. Rey non se ne separava mai, e ci aveva infilato i suoi due averi più preziosi: l’indirizzo, e l’unico ricordo dei suoi genitori, un ciondolo di cristallo azzurro rozzamente lavorato.

Non aveva molti bagagli con sé, a parte quel baule e un paio di cambi d’abito. In fondo, pensò tra sé e sé, per iniziare una nuova vita era necessario lasciarsi ogni cosa alle spalle.
 

 

*
 
 

Il cancello di ferro battuto era lì, davanti a lei. Rey alzò gli occhi verso la villa, e quel che vide la fece restare a bocca aperta.

Un grande edificio a due piani, più grande di qualunque abitazione avesse mai visto, si stagliava nella nebbia leggera della giornata piovosa, in fondo ad un ampio viale di ghiaia fiancheggiato da alberi. Da quella distanza riusciva solo a vedere una serie di finestre chiuse sui due piani superiori, ma bastò ad accendere la sua curiosità. Quasi non si accorse di toccare il cancello, sovrappensiero, e con suo grande stupore si accorse che era stato lasciato aperto. Probabilmente il suo nuovo principale la aspettava e non aveva voglia di perdere tempo, pensò mentre percorreva il viale, inspirando il profumo intenso del legno umido. Iniziava a piovere: il cielo azzurro era stato sostituito da una coperta di nuvole grigio metallo, che si addensavano in forme tormentate.

I suoi passi scricchiolavano sulla ghiaia bagnata. Una volta di fronte alla porta d’ingresso si fece coraggio e batté un paio di colpi sulla superficie di legno scuro, sistemandosi subito il grembiule in un impeto di nervosismo. Si chiese che razza di persona fosse l’uomo, o la donna, che aveva inviato l’annuncio al giornale: un anziano gentile e saggio come il Generale Kenobi, o magari un essere viscido come Unkar, sempre pronto a sfruttarla e a rifiutarsi di pagarle il dovuto? Il pensiero del suo ultimo incontro con quell’uomo la faceva ancora rabbrividire. Non aveva fatto altro che strattonarla per un braccio, ma ancora si sentiva addosso le sue dita, come se fosse accaduto solo qualche ora prima…

“Bene, vedo che sei arrivata puntuale.”

Si era talmente persa nei propri pensieri da trasalire. Sbatté le palpebre e fissò lo sguardo sul proprietario di quella voce imperiosa, un uomo alto con indosso un completo nero inamidato. Aveva i capelli rossi pettinati all’indietro e una fioritura di lentiggini sul naso arrossato dalla giornata inaspettatamente fredda.

“S-sì, sono la nuova domestica. Mi chiamo Rey” balbettò la ragazza, raddrizzando la schiena. L’uomo la squadrò rapidamente da capo a piedi con aria di leggera disapprovazione, poi si fece da parte per scortarla all’interno, senza nemmeno aspettare che si chiudesse la porta alle spalle. Rabbrividendo impercettibilmente, si affrettò a raggiungerlo.

L’interno appariva scarsamente illuminato: le finestre che davano sul cortile principale erano schermate da pesanti tende di velluto scuro, quasi del tutto tirate. L’unica fonte di luce, a parte gli spiragli grigiastri che filtravano dai vetri, erano le candele sistemate su un candelabro all’ingresso. Cercò di aguzzare lo sguardo per cogliere qualche dettaglio, ma riuscì solo a distinguere il motivo damascato della carta da parati e la sagoma della ringhiera, dello stesso legno marrone cupo di cui erano fatti la porta e i pilastri. Sul pavimento era disteso un tappeto piuttosto spesso, ma era impossibile capire di che colore fosse.

L’uomo dai capelli rossi si era fermato accanto alla scala, con in mano una bugia presa chissà dove. “Benvenuta a Brendol Hall” continuò. “Io sono Armitage Hux, proprietario ed erede della tenuta. Come avrai capito da sola, la villa è grande e non riusciamo ad occuparcene come vorremmo, per cui abbiamo pensato fosse il caso di assumere altro personale.” Indicò con gesto vago lo spazio avanti a sé, poi si girò e imboccò l’ampia scalinata di legno, in una muta richiesta di essere seguito. Rey si accodò a lui, assicurandosi prima di non avere le scarpe bagnate.

Le stanze del piano di sopra erano tutte chiuse. Il padrone la scortò lungo il corridoio, permettendole di dare una rapida occhiata ai quadri appesi alle pareti: antiche stampe che raffiguravano monumenti famosi, un fitto bosco illuminato da una falce pallida di luna, vedute di città che non conosceva, tutte immerse in un’atmosfera piuttosto tetra. In fondo al corridoio faceva bella mostra di sé il più grande, un ritratto a figura intera di un uomo dall’aria severa, con indosso quella che sembrava una divisa dell’Esercito piena di medaglie. Per un attimo, i suoi occhi color ghiaccio sembrarono osservarla.
La casa era immersa nel silenzio, tranne che per lo sfrigolio impercettibile delle candele che si consumavano. Rey si strinse nel suo scialle di lana, scossa da un nuovo brivido.

“Al piano terra si trovano le cucine, una vecchia stanza per gli ospiti non usata da anni e il salottino da ricevimento, oltre alla sala da pranzo. Qui sopra, invece, le stanze più importanti sono il mio studio e quello del dottor Snoke. La tua camera è lì in fondo, l’ultima porta a sinistra prima della fine del corridoio” spiegò Hux. “Al piano di sopra c’è la soffitta, ma è piena di cianfrusaglie e non agibile da qualche anno, quindi non devi preoccupartene.”

Rey annuì. Non avrebbe saputo bene come rispondere altrimenti: lo stava ancora studiando, incerta su come valutarlo. Hux si avviò nuovamente verso le scale, aspettandosi di essere seguito a breve distanza.

“I tuoi compiti riguardano principalmente la pulizia e il servizio: dovrai rassettare le stanze, spolverare e lavare, ritirare la posta, fare il bucato, servire i pasti e il tè” continuò elencando sulle dita, con il tono di chi sapeva di avere la situazione perfettamente sotto controllo. “Gli altri membri della servitù sono Mitaka, il nostro cocchiere che si occupa anche del giardino, e la cuoca, miss Netal.  In questo momento sono impegnati, ma confido che avrete modo di conoscervi questa sera, all’ora di cena.”

Scesero le scale in silenzio. La ragazza girò lo sguardo e intravide il proprio viso riflesso nello specchio appeso lì accanto: i capelli umidi iniziavano a sfuggire dall’acconciatura in cui li aveva legati, tre chignon morbidi dietro alla testa. Era stanca, non mangiava da giorni, e le occhiaie scure che circondavano gli occhi testimoniavano quanto fossero scomodi gli alloggi di fortuna in cui si era ridotta a dormire dopo essere stata mandata via dall’orfanotrofio. Un’ottima prima impressione, non c’è che dire, rifletté amaramente tra sé e sé.

Hux tornò nel punto in cui si era trovato poco prima, al centro dell’ingresso. La pioggia sottile di poco prima si era trasformata in un acquazzone che scrosciava con intensità ancora maggiore, si abbatteva sul tetto, sferzava i vetri.

“Pulirai ogni stanza non chiusa a chiave, anche i nostri studi. L’unico piano in cui non dovrai mai avventurarti” – fece una pausa, come ad assicurarsi che l’attenzione della ragazza fosse interamente rivolta a lui – “è il seminterrato. Lì dentro non c’è nulla che possa competerti, e ti assicuro che, se lo vedessi, saresti la prima a non voler avere nulla a che fare con le cantine.” (Stava… sorridendo?) “Tutto ciò che può servirti per la pulizia è raccolto in uno stanzino adiacente alla cucina, compresi gli abiti da lavoro che indosserai da ora in poi, per cui domattina potrai iniziare immediatamente a lavorare. È tutto chiaro?”

Non si aspettava una risposta negativa. Rey annuì. “Sì, signore.”

Hux apparve compiaciuto. “Molto bene. Ora ho delle faccende da sbrigare prima dell’ora di cena. Ti suggerisco di utilizzare il resto della giornata per ambientarti nella tua stanza, troverai la chiave già inserita nella serratura.” La congedò senza aggiungere altro, girò sui tacchi e sparì, diretto verso le stanze sul retro. Forse era andato ad avvisare del suo arrivo il resto del personale, pensò Rey. O forse doveva controllare che la porta del seminterrato fosse effettivamente chiusa, per evitare che l’ultima arrivata cedesse alla tentazione di andare a curiosare lì sotto…

Questo lavoro ti serve, si sgridò mentalmente. Non puoi rovinarlo così, solo perché sei abituata a fare sempre di testa tua.  Salì le scale trascinando il bagaglio e, una volta giunta davanti alla propria stanza, spinse la porta e lo trascinò all’interno. Vi trovò solo un letto molto spoglio, un armadio e un tavolino da toletta che sembrava essere stato infilato lì dentro per toglierlo dalla circolazione, ma era molto più di quanto si sarebbe aspettata. Posò la vecchia valigia accanto all’armadio, appese alla sbarra i pochi vestiti che possedeva e sistemò lo scrigno nella parte più bassa, dove nessuno avrebbe potuto trovarlo. Dopo aver acceso la candela posata sul tavolino, si distese sul letto: fuori dalla finestra la tempesta si era calmata, ma una pioggerellina sottile continuava a cadere imperterrita. Dalla sua posizione riusciva a vedere il giardino della villa estendersi per molti metri, gli alberi secolari che trattenevano l’acqua tra le foglie e si muovevano al vento in una danza malinconica.

Questo lavoro ti serve. Potrai mangiare. Potrai dormire. Ogni posto è migliore di quella discarica, e delle mani viscide di Unkar. Ogni posto…
 
 

*
 
 

Dopo cena, tirò fuori la lettera che aveva riposto nello scrigno per continuarla.

“Ho appena finito di mangiare assieme al resto del personale di servizio, in completo silenzio. Non penso di piacere molto a miss Netal, la cuoca (credo si chiami Bazine), mentre Mitaka – il giardiniere – è troppo silenzioso perché possa davvero capire quel che pensa. Ha servito lei il pasto a padron Hux, e dalla sua espressione ho capito quanto fosse sollevata di poter finalmente delegare a me il compito. Mitaka se n’è andato dopo cena, abita in un quartiere popolare poco distante da qui.
La villa è… non so nemmeno come descriverla. Enorme, e inquietante, ma qualcosa nel suo silenzio mi affascina, come se non potessi fare a meno di restare qui.  La mia stanza, invece, mi rassicura. È piccola e non sono nemmeno sicura che il caminetto sia stato pulito, ma non appena ho chiuso la porta mi sono sentita in pace, almeno per un po’. Spero che le cose restino così, e che mi aspetti una vita migliore di quella su Jakku.
Domani inizierò a lavorare. Augurami buona fortuna, e stammi bene.
 

 
Rey
 
 





________

All'inizio dell'anno non ero sicurissima di partecipare all'Anthology 2019, ma una volta scoperto il tema - il mistero, l'orrore, insomma tutto ciò che riguarda il romanzo gotico - le idee mi sono arrivate tutte insieme. Ho sempre adorato i romanzi gotici, e sperimentare sul tema giocando con la Reylo è stato un modo fantastico di partecipare a quest'edizione. 
Come sempre, ringrazio la mia beta/anima gemella Ailisea per aver curato l'edizione inglese (e aver letto e commentato quella italiana) e la famiglia della RFFA: sono ragazze straordinarie, che mi hanno fatta sentire a mio agio fin dal primo giorno e spronata in ogni modo possibile, anche se l'inglese non è la mia lingua madre e ho sempre qualcosa da imparare. Se avete Tumblr visitate il blog dedicato all'Anthology, merita assolutamente. 

Grazie per aver letto fin qui, prode lettore!
Rey 


 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo 2
 



Con il trascorrere dei giorni, Rey si abituò alla routine che governava Brendol Hall.

Si svegliava al mattino, al canto degli uccelli, e iniziava servendo la colazione ad Hux. Durante il resto della giornata puliva la casa, riordinava e – quando glielo chiedeva miss Netal – si spingeva fino al quartiere più vicino, ad acquistare ciò che serviva per preparare pranzo e cena. Alcune stanze venivano usate molto spesso e non necessitavano di grandi attenzioni, altre sembravano essere state trascurate per anni, per cui fu parecchio impegnata fin dal primo giorno di lavoro.

Armitage Hux trascorreva praticamente tutta la giornata nel proprio studio al secondo piano; all’ora di pranzo si faceva portare da mangiare su un vassoio, chiamava la ragazza per farglielo ritirare, poi lavorava fino a sera. Nessuno sapeva bene in quali compiti fosse impegnato, e i domestici non parevano interessati a fare domande al riguardo. Rey si era avventurata nello studio un paio di volte, per spolverare e lavare i vetri: era una stanza arredata con la stessa austerità del padrone di casa, con mobili alti e scuri dalle linee severe e una grande finestra che dava sullo stagno del giardino. Sul lungo schedario accanto alla porta torreggiava una serie di alti barattoli e campane di vetro, pieni di ossa e resti animali di vario genere su cui la ragazza aveva preferito non indagare. La scrivania era sempre coperta di carte, documenti di viaggio, pagine e pagine di resoconti scritti in una calligrafia pomposa. Il primo giorno in cui si era trovata lì dentro aveva subito distolto lo sguardo, cercando di frenare la curiosità e di non sollevare nessuno di quei fogli per dargli un’occhiata, ma alla visita successiva le carte erano rimaste lì in bella mostra. Probabilmente, aveva riflettuto Rey, Hux era convinto che la nuova cameriera fosse una ragazzina sì in grado di leggere, ma incapace di comprendere a fondo argomenti complessi.

Si parlava di medicina, in quei documenti. Di esperimenti, di dissezione dei cadaveri, di ipnosi. Parole che le riportavano alla mente libri che sembravano appartenere ad un’altra vita, che aveva sfogliato quando era in compagnia del Generale Kenobi. A Rey leggere piaceva moltissimo, ma non si era mai azzardata a chiedere di poter prendere in prestito uno dei volumi sistemati ordinatamente nella libreria: in qualche modo, sentiva che fosse meglio mantenere un basso profilo e non svelarsi del tutto.

Era abituata a non fidarsi fin da quando era bambina, e il suo carattere schivo e riservato l’aveva aiutata a cavarsela in parecchie situazioni. Non poteva fare a meno, però, di ridere sotto i baffi: il suo padrone non avrebbe mai potuto immaginare che una ragazzina dall’aria tanto umile avesse ricevuto un’educazione degna delle migliori famiglie della Capitale.

Ogni giorno, all’incirca verso le tre del pomeriggio, riceveva la visita di un uomo alto e incredibilmente magro dall’aria arcigna, a cui tutti si riferivano con il nome di professor Snoke. A differenza di Hux, indossava sempre stravaganti completi dorati e si rivolgeva al personale con un tono untuoso che le ricordava terribilmente quello di Unkar. Arrivava, saliva al piano di sopra e restava assieme al collega per ore, fino a che miss Netal non spediva Rey ad avvisarli che la cena era pronta. Cosa facesse dopo, però, era un mistero. Probabilmente tornava nello studio di Hux e poi a casa propria, perché lo rivedevano solo il giorno successivo.

Aveva un giorno libero alla settimana, e in quell’occasione amava esplorare il giardino della villa. Dietro la casa si estendeva un vasto prato punteggiato da alberi, che Mitaka curava e potava costantemente. Erano ovunque: ai lati del viale che l’aveva condotta verso l’ingresso, sparsi in piccoli gruppi al centro del giardino, accanto allo stagno circondato da sassi piatti, in cui nuotavano alcune coppie di pesci. La prima volta che l’aveva percorso si era meravigliata di come una città industrializzata come Coruscant potesse nascondere tanto verde e, inspirando l’aria fresca a pieni polmoni, si era diretta verso una piccola fontana di pietra non lontana dalla facciata della casa.

Un corvo beveva con le zampe immerse nell’acqua, le sue penne nere scintillavano sotto ai pigri raggi autunnali. Rey gli si era avvicinata piena di curiosità e lui era volato via gracchiando, lasciandosi dietro una piuma. Un alto muro di pietra separava la villa dal resto dei caseggiati vicini, e la sua parte ad ovest era coperta da una siepe di rose che il giardiniere curava con molta attenzione. Rose bianco rosate, delicate, che l’autunno non era riuscito a far appassire del tutto. L’aria sapeva di foglie morte, di muschio e del fumo dei comignoli accesi.

Aveva camminato a lungo, accompagnata solo dai propri pensieri. Dietro la casa, lontana rispetto al laghetto, si trovava una piccola radura di alberi e bassi arbusti, al centro della quale biancheggiavano delle forme di pietra che non era riuscita a distinguere. Si era avvicinata a piccoli passi cauti e, ad un esame più approfondito, aveva scoperto che si trattava di pietre tombali. “Qui giacciono le spoglie mortali di Brendol Hux, marito devoto e servitore della Patria, e di sua moglie Portia. Possano riposare in pace, uniti quanto lo erano in vita”, riportava la lapide più grande. Le più piccole sembravano decisamente più antiche, le scritte di alcune erano illeggibili, le ultime due in fondo erano addirittura spezzate, crollate di lato come se fossero stanche. Quella zona del giardino doveva essere la più trascurata, perché i licheni crescevano rigogliosi sulla pietra e le tombe erano circondate da erbacce e rami secchi. Rey era rimasta lì a guardarle per un lasso di tempo che le era parso interminabile, finché un fremito non l’aveva scossa da capo a piedi. Forse era colpa dell’umidità, - in fondo era novembre inoltrato – eppure nessuna altra zona del giardino le aveva trasmesso quel senso di inquietante oppressione… quasi ci fosse qualcosa di vivo, sotto a quel terreno. Qualcosa che covava una disperazione antica, pronta a venir fuori senza preavviso.

Da quel momento in poi, era rimasta sempre vicina alla casa. Le sue uniche escursioni in città si limitavano alla spesa, e durante una di quelle passeggiate aveva scoperto che l’emporio vendeva anche libri di ogni genere: l’idea di acquistarne uno con i soldi del primo stipendio, e di leggerlo seduta accanto al laghetto, bastava da sola a riempire di entusiasmo le sue giornate.
Non aveva mai dimenticato quello che Hux le aveva detto riguardo al seminterrato. La sé stessa di qualche anno prima non avrebbe esitato ad avventurarsi lì sotto, estasiata all’idea di vivere un’avventura proibita, ma la Rey più coscienziosa si rendeva conto di quanto fosse stupido rischiare tutto solo per curiosare. La stanza era comoda, il letto anche, e stava finalmente mangiando come si doveva. Avrebbe potuto trascorrere un inverno intero senza preoccuparsi del freddo. Valeva la pena rischiare tutto per un mucchio di cianfrusaglie nel migliore dei casi, e solo una porta chiusa a chiave nel peggiore? Aveva scacciato quel pensiero ed era andata avanti, anche se il seminterrato e i suoi segreti avevano continuato a punzecchiarla, nascosti nell’angolo più remoto della sua mente.

Un pomeriggio, non appena aveva udito la porta dello studio di Hux chiudersi di scatto, era sgattaiolata al piano di sotto in punta di piedi. Aveva già una scusa pronta in caso l’avessero intercettata - le era caduto il ciondolo dal collo ed era rotolato giù per le scale del seminterrato prima che potesse recuperarlo - ma né Bazine né Mitaka sembravano essere nei paraggi. Percorrendo i gradini con il cuore in gola, era scesa per un’altra rampa di scale fino ad un corridoio su cui si allineavano tre porte chiuse: la prima era bloccata sui cardini arrugginiti, l’ultima era solo socchiusa, ma quella di mezzo sembrava venire usata di frequente, perché la maniglia di ottone appariva lucida. Il cuore aveva continuato a batterle in gola. Cosa nascondeva quella porta? Perché Hux le aveva consigliato di non avventurarsi là sotto, se tutto quel che aveva da nascondere erano solo tre porte dall’aria assolutamente comune?
Una serie di colpi di tosse provenienti dal piano di sopra l’aveva spaventata, costringendola ad una ritirata silenziosa, prima che potesse anche solo appoggiare l’orecchio sulla porta di mezzo e cogliere un segno di vita qualsiasi.
 


*
 
Il giorno dopo, un urlo la svegliò nel bel mezzo della notte.

Aveva preso sonno da poco, dopo aver pulito la cucina e risposto alla lettera di Finn. Sulle prime, aveva creduto di sognare, ma dopo un istante di silenzio si era ripetuto ancora, lacerante, violento. Qualcuno gridava a pieni polmoni, un urlo così pieno di dolore che era possibile sentirlo anche a due piani di distanza.
Il cuore prese a martellarle nella cassa toracica, con tanta forza da toglierle il fiato. Tenendo la testa premuta sul materasso, l’orecchio che sprofondava nel tessuto ruvido del lenzuolo, pregò che quel suono cessasse. Le strade di Jakku di notte pullulavano di cani inselvatichiti, non era raro sentirli ululare nel bel mezzo della notte… ma quello non sembrava il grido di un animale. Era troppo umano, troppo rabbioso. L’aveva raggelata fin nelle ossa.

Rey prese un respiro profondo, stringendo un lembo della coperta di lana con le dita sudate. Al secondo grido era seguito un suono di passi lungo il corridoio, poi lo sbattere di una porta, quella dello studio di Hux, l’avrebbe riconosciuta tra mille. I passi si erano allontanati giù per le scale, concitati, finché il loro suono non si era affievolito. Alzandosi di scatto, la ragazza tese l’orecchio per tentare di captarne la posizione. Il suo principale, o chiunque si fosse alzato di corsa per controllare la situazione, doveva essersi diretto nel seminterrato senza fermarsi un attimo, e soprattutto senza chiamare miss Netal, che dormiva nella stanza all’altra estremità del corridoio.  Ma perché tutta quella fretta? E soprattutto, a chi apparteneva la voce che aveva gridato?
Armeggiò con il candelabro sopra al mobile da toletta, cercando di controllare il tremito delle mani. Riuscì ad accendere una candela e rimase immobile al centro della stanza, sperando ancora che la situazione tornasse alla normalità. Forse non era successo nulla. Magari si era davvero immaginata tutto, aveva fatto un sogno troppo vivido e la confusione del risveglio si era sommata ai movimenti di qualcuno uscito per una passeggiata notturna. Forse miss Netal aveva sete ed era andata in cucina a bere dell’acqua. La cosa migliore che avrebbe potuto fare era tornarsene a letto e dormire.

Eppure…

In piedi con i nervi tesi, le sembrò che ogni minimo suono si amplificasse, per diventare fragoroso. Uno sgocciolare ritmico proveniente dal bagno, lo scricchiolio impercettibile delle assi del pavimento sotto il suo peso. Un rumore non ben identificato sopra di lei, nella soffitta inagibile da anni, e un nuovo rumore di passi. La stessa persona che prima era scesa ora risaliva le scale, arrivava sull’ultimo gradino, si fermava, poi girava a sinistra. Ad un certo punto, poté quasi giurare che si fosse fermata esattamente davanti alla sua porta.

Chiunque altro avrebbe abbandonato di corsa il candelabro per rifugiarsi nel letto, ma l’adrenalina impedì a Rey di ritirarsi. Trattenne il respiro più che poteva, ferma come una statua, finché la misteriosa presenza non si ritirò nella direzione opposta, verso lo studio e le altre stanze, lasciandola libera di muoversi. Solo quando sentì la porta di Hux richiudersi, si permise di tirare un sospiro di sollievo.

Un attimo dopo si gettò lo scialle di lana sulla camicia da notte bianca e socchiuse piano la porta per uscire nel corridoio. Nemmeno lei sapeva perché stesse scendendo le scale in punta di piedi, scalza, l’orecchio teso verso la stanza di Hux: le urla l’avevano terrorizzata, vero, ma era come se l’istinto la spronasse a tornare verso il luogo della sua ultima esplorazione, e lei si fidava troppo del suo istinto per fare domande.

Continuò a scendere piano, un gradino per volta, nella casa immersa nell’oscurità. La luce fioca del candelabro illuminava la mobilia scura, dipingendo ombre inquietanti sul muro. Silenziosa come un piccolo fantasma, camminava con il passo felpato che aveva imparato a padroneggiare nel corso della sua esistenza da topolino di Jakku, attenta a non calpestare le assi più sconnesse del pavimento. Imboccò il corridoio che portava alle cucine, si fermò ad ascoltare se qualcuno l’avesse seguita. Il grido di un gufo ruppe il silenzio assordante, ma Rey non trasalì: non erano gli animali, le creature che avrebbe dovuto temere in quel momento. Si strinse con più forza nello scialle e scese piano le scale del seminterrato, trattenendo il respiro, pregando che ad Hux non venisse voglia di ripetere la perlustrazione di poco prima.

Una volta giunta di fronte alle tre porte, si accorse che quella centrale era stata lasciata aperta. Un piccolo spiraglio di cui il principale non doveva essersi accorto, impegnato com’era a far cessare la fonte del rumore. L’urlo era nato lì dentro, ne era più che certa. Se non altro perché riusciva chiaramente a udire qualcuno lamentarsi a bassa voce, una serie di gemiti spezzati intervallati a respiri affannosi. Una voce profonda, rauca. Qualcuno che si riprendeva dopo aver provato dolore fisico.

Per l’ennesima volta nel corso di quella nottata, Rey trattenne il respiro. Non tremava più, ma era nervosa, incapace di restare ferma. Una domestica per bene avrebbe dovuto dimenticare ogni cosa e tornarsene al piano di sopra, nel proprio letto, come se non avesse sentito nulla, non scendere nel seminterrato a curiosare. E se, tra le ombre della stanza, fosse nascosto qualcosa di pericoloso? Se Hux l’aveva avvisata, magari aveva solo a cuore il benessere della servitù. Eppure, la stessa voce dell’istinto che l’aveva guidata fin lì la incoraggiava ad aprire la porta. Quel respiro affannoso la attendeva. La attirava a sé, quasi fosse sotto l’effetto di un incantesimo.
La paura di poco prima era svanita, lasciando posto ad una curiosità inarrestabile.

Chiuse gli occhi e spinse la porta.

Quella che si trovò davanti era una stanza dai soffitti alti, molto simile allo studio di Hux, ma almeno due volte più grande, nonostante i due tavoli da lavoro e la mole di libri e strumenti che la occupavano. Era buia, dopotutto non c’erano finestre nel seminterrato, ma il suo candelabro non era comunque l’unica fonte di luce: dal fondo proveniva un baluginio verdastro, una luminosità innaturale e lattiginosa che sembrava impregnare il muro. Mosse un altro passo, l’orecchio sempre teso. Il respiro che aveva percepito poco prima si era fatto meno intenso, ma la creatura a cui appartenevano quei polmoni era nascosta da qualche parte, dietro ai tavoli ingombri di carte, e non sembrava esattamente piccola.

Non ci volle molto, prima di scoprire di cosa si trattasse.

Il pavimento di pietra umida era gelato, tanto che presto non riuscì a sentire più le dita. Proseguì piano, un passo dopo l’altro, il candelabro stretto tra le dita sudate, fino a giungere alla fonte di quella strana luce: un enorme contenitore di vetro, il più alto e ampio che le fosse mai capitato di vedere in vita sua, si stagliava nell’angolo più buio della stanza. Era quello a brillare di verde, un lucore tremulo che sembrava sul punto di spegnersi da un momento all’altro. Rey lo fissò a bocca aperta, affascinata e intimorita, finché il suo piede non incontrò qualcosa di bagnato: acqua. Il pavimento era coperto di acqua, mista ad una sostanza collosa che aveva tutta l’aria di essere gelatina, e che veniva fuori da un buco nella struttura di vetro.

Fu in quel momento che lo vide.

Chi aveva emesso quelle urla disperate era disteso poco lontano dal suo piede destro, raggomitolato a terra in posizione fetale, un groviglio di gambe e braccia pallide, innaturalmente lunghe. Se non l’aveva notato prima era perché, probabilmente, i suoi occhi erano rimasti talmente affascinati dallo strano marchingegno in vetro da non mostrarle nient’altro, ma era impossibile non accorgersi della sua presenza, ora che aveva ripreso a lamentarsi. Bloccata sul posto, Rey riuscì solamente a fissarlo mentre tentava di alzarsi, goffo e tremante, come se fosse rimasto per tanto tempo immerso in quel liquido da dimenticare come si camminava.

Era un ragazzo. Un umano dai capelli neri e il viso di un bambino cresciuto troppo in fretta. Era incredibilmente alto, eppure i suoi occhi sembravano tremendamente giovani, quasi indifesi. Il corpo era nudo, tranne che per uno straccio chiaro avvolto attorno ai fianchi, e le braccia presentavano una serie di segni rossi e ferite dall’aria recente.

Si scambiarono un’occhiata. Solo uno sguardo, in un attimo infinitesimale che le parve durare un’eternità. Il ragazzo la fissò, ancora accucciato a terra, troppo debole per chiedere aiuto. Rey lo osservava, in allerta, anche se non sembrava intenzionato a farle del male. Ma quando tese una mano verso di lei, indietreggiò e fuggì via.

Corse a perdifiato verso il piano di sopra, senza curarsi di essere scoperta, né dell’acqua che le inzuppava l’orlo della camicia da notte, rischiando di farla scivolare.
Corse fino a che non raggiunse la porta della sua stanza, le candele spente dalla foga della corsa. Una volta all’interno, chiuse la porta a chiave e si rannicchiò nel letto, senza fiato, tirandosi la coperta fin sopra la testa. L’immagine di quel ragazzo continuò a tormentarla per tutto il resto della notte, sia durante le scarse ore di sonno agitato che in quelle di veglia.

Se fosse stata più attenta, avrebbe evitato di calpestare il pavimento con i piedi bagnati per non lasciare tracce. Hux si sarebbe accorto di quelle macchie sulla guida rossa che copriva le scale e avrebbe iniziato a tenerla d’occhio, ma in quel momento la discrezione era l’ultimo dei suoi pensieri.

 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo 3
 



Durante i giorni a seguire, Rey non riuscì a smettere di pensare a quell’incontro.

Lo rievocava mentre lucidava l’argenteria del salotto, quando lavava e stendeva il bucato, persino mentre saliva le scale con il vassoio in mano, diretta allo studio di Hux. Pensava e ripensava al ragazzo, ai suoi occhi pieni di dolore ma anche fieri, alle braccia coperte di cicatrici, al grido che aveva lacerato il silenzio della notte. Chi era, e perché si trovava lì? Era stato lui a rompere quel macchinario di vetro, era davvero umano? Domande confuse, che non trovavano risposta, e che non poteva nemmeno lasciarsi sfuggire. Se Miss Netal le sembrava impassibile come al solito e Mitaka lavorava senza rivolgere la parola a nessuno, poteva significare che sapevano tutto ed evitavano di parlarne, oppure che non avevano scoperto nulla. In ogni caso, non si sarebbe mai confidata con loro riguardo quella storia, non era sicuro.

La mattina dopo, al momento di bussare allo studio del suo principale per la colazione, lo aveva trovato in piedi, appoggiato contro una delle grandi finestre che si affacciavano sul giardino. Stava leggendo, e quando si voltò per raggiungere la scrivania Rey non poté fare a meno di notare che zoppicava leggermente. Dovevano aver lottato, lui e quel ragazzo misterioso, doveva essere stato Hux a provocare le ferite che portava sulle braccia. E poi, c’erano quelle carte misteriose sulla scrivania, e lo strano viavai di persone: al Dottor Snoke si era aggiunta una donna altissima e bionda dall’aria algida, che indossava un cappello dalla veletta scura che non toglieva mai, nemmeno dopo aver lasciato il cappotto al piano di sotto… la mente della ragazza iniziò a vagare tra le varie congetture, tanto che non si accorse nemmeno di aver posato il vassoio sulla scrivania e di essere rimasta in piedi, immobile, a fissare il vuoto. Hux la richiamò con un colpetto di tosse e lei si inchinò di corsa per poi fuggire via, rimproverandosi per quell’ennesima distrazione.

Eppure, non riusciva a smettere di pensarci. Quando chiudeva gli occhi vedeva il viso del ragazzo, i capelli che gli ricadevano sul viso come alghe scure. Poteva non sapere nulla di lui, ma una cosa era certa: condividevano la stessa solitudine. E una piccola parte di sé, la più testarda e desiderosa di aiutare chiunque si trovasse davanti, la incalzava a non dimenticarlo.
 

*
 


Pioveva a dirotto: le gocce picchiettavano sui vetri e cadevano verso il basso in rivoli frettolosi, perdendosi oltre la cornice di legno della finestra. Ogni tanto, un lampo illuminava il cielo a giorno, seguito dal brontolio di un tuono in lontananza. Nel silenzio della notte, la pendola al piano di sotto batté la mezzanotte con il suo solito rintocco cupo.

Rey si alzò dal letto, indossò lo scialle di lana, prese con sé un paio di calzini e si chiuse la porta alle spalle senza far rumore. Percorse il pianerottolo lentamente, le orecchie tese per captare il minimo suono, ma tutta la casa sembrava dormire. Quando si trovò davanti allo studio di Hux, trattenne il respiro nel timore di essere udita, e sperò con tutto il cuore che il padrone fosse a letto. Quella sera era rimasto lì dentro più a lungo, tanto che Miss Netal aveva iniziato a sbuffare perché né lui né il Dottor Snoke sembravano avere l’intenzione di scendere per cena come avevano annunciato… ma le cose erano presto tornate alla normalità, e si era ritirato alla solita ora nella propria stanza. Aveva già una scusa pronta nel caso l’avesse trovata al piano di sotto, ma si augurava di non averne bisogno.

Prima di scendere la scala, si accucciò per indossare i calzini: erano spessi e pesanti e l’avrebbero aiutata ad attutire il suono dei passi, soprattutto sugli scalini scricchiolanti che portavano al seminterrato. Brendol Hall era ancora immersa nel silenzio più totale, tranne che per il ticchettio monotono della pendola, e quei suoni sommessi e misteriosi che si sentivano spesso nelle vecchie case. Una volta giunta al piano terra si aggirò nervosamente per l’ingresso, cercando di non soffermare lo sguardo su nessun punto in particolare. Quell’atmosfera opprimente le ricordava la vecchia casa del quartiere abbandonato di Jakku, un rudere che si diceva fosse infestato e che, per quel motivo, stuzzicava la fantasia di tutti i ragazzini dell’orfanotrofio. All’epoca aveva toccato la porta per scommessa ed aveva avuto paura, ma in quel momento non c’era posto per lo spavento: piuttosto, si sentiva risoluta. Il suo istinto aveva ripreso a chiamarla come aveva fatto qualche notte prima, e le diceva che quel ragazzo nel seminterrato non le avrebbe fatto alcun male. Ne aveva avuto l’occasione, ma si era limitato ad allungare le dita, a guardarla. Non c’era cattiveria nei suoi occhi, solo desolazione.

Si strinse nello scialle e scese piano le scale del seminterrato, un passo alla volta. Ancora nessuno in vista. Inspirò profondamente e spinse la porta, attenta a non farla scricchiolare. La accolse la stessa luminosità verdastra e lattiginosa della volta precedente, ma questa volta l’acqua non impregnava più le pietre fredde del pavimento. Una sedia era stata gettata di lato, un mucchio di carte in disordine giacevano ai suoi piedi, come se qualcuno le avesse afferrate e lanciate in giro. Rey le scansò, tentando di non calpestarle: non doveva lasciare tracce. Alzò la bugia per farsi luce attorno mentre raggiungeva il fondo della stanza. Quando la sua luce tremula illuminò la zona in cui si trovava il cilindro di vetro, fu scossa da sussulto tanto forte da farla quasi cadere.

Il ragazzo era lì, seduto a terra, e la guardava.

Questa volta indossava dei vestiti veri e propri, una camicia bianca di tessuto grezzo e un paio di pantaloni scuri, ed era scalzo. Se ne stava lì tranquillo, quasi la stesse aspettando: non aveva battuto ciglio nel sentirla entrare, e non sembrava nemmeno intenzionato a scacciarla. Rey rimase immobile, in attesa di un gesto qualunque che le facesse capire se fosse il caso di fidarsi di lui o meno. La luce della bugia tremava, ingigantiva le loro sagome, trasferendola sul muro.
Sentì che le mancavano le parole. Non sapeva cosa dire, come fare a spezzare l’incantesimo che la bloccava sul posto; riusciva solamente ad osservarlo in silenzio. I capelli non erano più bagnati, gli ricadevano sulla fronte in ciuffi soffici e gonfi. La camicia, leggermente aperta sul collo, mostrava una cicatrice rossastra dai bordi irregolari, simile ai tagli che aveva già visto sulle braccia. Poteva avere al massimo trent’anni, eppure qualcosa nel suo sguardo lo rendeva senza età, come se fosse tremendamente anziano e incredibilmente giovane al tempo stesso.

Stava per aprire bocca, quando lui la precedette.

“Non preoccuparti, lo sento anche io.”
“C-cosa?”

Aveva una voce profonda, leggermente roca, quasi non fosse abituato ad usarla. Le faceva pensare ad uno strumento musicale lasciato per anni in un vecchio armadio. Si accorse di aver balbettato nel rispondergli, ma lui non sembrava averci fatto caso.

“Quello che provi. Ti senti sola, e sei scesa qui a cercarmi perché pensi che lo sia anche io. Sei stata abbandonata, pensi ancora a chi ti ha lasciata indietro. Posso capirti.”
 “Come fai a saperlo?” Come faceva una persona che non aveva mai visto prima a leggere nel suo cuore meglio di Finn, meglio persino del Generale Kenobi? “Non ci siamo mai visti prima dell’altra notte. Come puoi conoscere la mia storia?”

Lui non rispose, si limitò a guardarla negli occhi. Senza rendersene conto Rey si era avvicinata sempre di più, fino a trovarsi a poca distanza dal ragazzo, fino a percepire il suo respiro sulla pelle, l’unica fonte di calore nella stanza gelata. Allungò una mano verso di lei, quasi sfiorandole la fronte: aveva dita lunghe, pallide e sottili.

Contro ogni logica, sentì di dover restare lì.

Chiuse gli occhi. Cosa altro avrebbe potuto fare? Lasciò che la toccasse, con una delicatezza che non si sarebbe mai aspettata da una creatura come lui. I polpastrelli del giovane erano gentili, le sondavano la pelle, la rendevano un libro aperto su cui era scritta la sua storia.

“La notte sogni, quando ti svegli vorresti che diventassero reali. Jakku non ti appartiene, e cos’è Tatooine? Sei come me, ma non sei un mostro…”
Si fermò per un attimo e forse stava per aggiungere altro, quando un rumore dal piano di sopra li fece trasalire entrambi, spezzando quell’atmosfera sospesa. Rey spalancò gli occhi e si alzò in piedi di scatto, afferrando di nuovo la bugia. Niente passi lungo le scale né porte che sbattevano, ma chiunque si fosse alzato avrebbe potuto decidere di raggiungere il seminterrato in un batter d’occhio. Gettò un’ultima occhiata al ragazzo mentre si allontanava velocemente, diretta verso la sicurezza della propria camera, e con sua grande sorpresa lui ricambiò il suo sguardo e annuì.

Tornerai, sembrava volerle dire, e Rey capì che aveva ragione.
 
 

*
 


Notte dopo notte, si era abituata alla freddezza del pavimento e al buio che avvolgeva la casa. Scendere dal letto, indossare lo scialle e raggiungere il ragazzo al piano di sotto erano diventate azioni istintive, che quasi non si accorgeva di compiere.

Era tornata da lui anche quella notte. Ma, al contrario delle precedenti, gli si era seduta accanto, dopo aver posato la bugia su uno dei tavoli da lavoro. Lui non aveva protestato.

“Hai ancora paura.”
“Non ho paura!” Il suo tono indignato lo fece sorridere. Non era facile abituarsi al suo modo di parlare, né alla sua espressione: sembrava conoscerla meglio di quanto lei conoscesse se stessa.
“Allora perché tieni le braccia strette intorno al corpo in quel modo, se non per proteggerti?”

Non poteva dirgli che era abituata a farlo fin da bambina, perché il mondo non era mai stato clemente con lei… probabilmente lo sapeva già. Era strano, quel ragazzo: non era ancora riuscita a togliersi di dosso l’idea che il suo sangue fosse vecchio di secoli. Da dove veniva?

“E tu, allora? Perché nascondi il viso con i capelli?”
Si voltò verso di lei e sorrise. Era incredibile come riuscisse a sostituire l’espressione corrucciata con una più distesa, quasi gentile, in un battito di ciglia. Sembrava un’altra persona, quando sorrideva.
“Sono un mostro, ricordi? Devo vivere nascosto. C’è un motivo, se non vivo alla luce del sole come te.”

Rey strinse le labbra: non era ancora riuscita ad ottenere una risposta che non fosse enigmatica. Cadde il silenzio, riempito solo da un gocciolio sommesso. I muri stillavano umidità, un’umidità che si attaccava alle ossa. La notte era serena, piena di stelle.

“Io sono Rey” sussurrò la ragazza all’improvviso, rompendo quella quiete. Non sapeva perché desiderasse presentarsi proprio in quel momento, ma le sembrava quello più adatto. “Rey e basta. Non sono nessuno” aggiunse poco dopo, quasi volesse scusarsi di non avere un cognome che indicasse una qualunque parentela. Lui scosse la testa, spostando di lato i ricci morbidi. Avrebbe voluto toccarli, ma non era certa che ne sarebbe stato felice.

“Se sei qui, significa che hai fatto una scelta. Potrai essere nessuno per gli altri, ma non per me.”

Era la cosa più vicina ad un complimento che le avesse rivolto durante i loro incontri e Rey strinse i lembi dello scialle tra le mani fredde. Le guance le bruciavano per l’imbarazzo. Percepiva il corpo del ragazzo rilassarsi accanto a lei, e un pensiero fulmineo le attraversò la mente: tra loro si stava stabilendo una connessione. Forse era nata da poco e quegli incontri non avevano fatto altro che rafforzarla, oppure esisteva da sempre, impossibile da spiegare. Altrimenti, perché la prima volta sarebbe scesa a cercarlo senza timore, guidata da un istinto più forte di lei che la rassicurava di star facendo la cosa giusta?

“Io sono Ben” aggiunse un attimo dopo, e le tese una mano. Rey appoggiò le dita contro le sue e si stupì di sentirle così calde e morbide, come se l’umidità della stanza non avesse effetto su di lui.

Aveva imparato a percepire le sue emozioni sfiorandogli la pelle, con gli occhi chiusi, timorosa che un respiro più forte degli altri li facesse scoprire: in quei momenti, era come se il mondo intero scomparisse, lasciandoli soli. Intorno a lui percepiva un’aura di tristezza che le ricordava tremendamente la se stessa di qualche anno prima, quando ancora credeva che la sua vita sarebbe iniziata e finita a Jakku, prima che il Generale Kenobi le insegnasse cosa fosse la speranza… ma c’era anche rabbia, un sentimento che tentava di imporsi sugli altri con violenza, e una fragilità seppellita nel profondo del suo cuore, nascosta perché non gliela portassero via.
Quando si separavano, un po’ del suo calore restava con lei.
 
 

*
 

“Oggi non preparate per me, Miss Netal: resterò fuori casa fino a sera, il Conte Dooku mi aspetta. Ci vediamo al mio ritorno.”

Stava spazzando le scale, quando intravide Hux indossare il cappotto e gettarsi nell’aria fredda di metà novembre. Non era la prima volta che il padrone usciva in mattinata per recarsi chissà dove, ma generalmente tornava in tempo per pranzare e attendere le sue solite visite pomeridiane. Il Conte Dooku non si era mai unito a quel viavai di strani individui, ma Rey aveva già sentito parlare di lui: faceva parte della piccola nobiltà di Serenno, una città sulla costa, e il suo nome saltava spesso all’occhio negli articoli di giornale dedicati agli eventi di gala. Si diceva fosse un uomo ricco e influente, appassionato di scienza. Proprio il genere di persona attorno a cui sembravano gravitare i colleghi di Armitage Hux.

Quella mattina il vento fischiava con forza, si infilava negli spifferi ululando e facendo sbattere le persiane. Mitaka era andato a raccogliere le foglie secche che ingombravano il viale d’ingresso e si era portato dietro il cappello, borbottando tra i denti quanto fosse insopportabile l’autunno a Coruscant. Il tempo perfetto per restarsene seduti nella propria stanza, a leggere qualcosa mentre la temperatura si abbassava sempre di più. Se solo…

Rey alzò la testa, rendendosi immediatamente conto dell’occasione che le si presentava. Un attimo dopo era già al piano di sopra, armata di stracci per pulire e intenzionata ad approfittare del tempo concessole dalla sorte: aveva un’intera giornata per cercare di scoprire cosa stesse macchinando Hux senza farsi scoprire. Con l’autista impegnato all’esterno e Bazine che sicuramente si godeva la mattinata libera, avrebbe potuto dare un’occhiata alle carte nello studio senza destare sospetti. Sempre che il padrone non avesse portato via le più importanti con sé, rifletté.

L’interno dello studio era ordinato come sempre, forse anche più dell’ultima volta in cui l’aveva pulito. Rey entrò, attenta a non urtare nulla, e si diresse immediatamente verso il grande cassettone sormontato dai contenitori di vetro, che aveva l’aria di ospitare molte carte. La ricerca nei primi cassetti, però, si rivelò infruttuosa: contenevano solo scatole piene di strani oggetti, biglietti e ritagli di giornale. Una fotografia ritraeva il militare dall’aria austera il cui ritratto dominava il corridoio, accanto ad una donna benvestita e con un elegante cappello sulla testa; dovevano essere i genitori di Hux, pensò la ragazza, riponendola dove si trovava. In un altro cassetto c’erano solo guanti di pelle e di lana, e un camice da lavoro pieno di macchie. Lo richiuse e si fermò a riflettere un attimo, lasciando vagare lo sguardo sui barattoli di vetro che tanto spesso aveva spolverato. Nel primo della fila facevano bella mostra di sé quelle che avevano tutta l’aria di essere mani umane, piccole ma ben formate, di uno spaventoso colore cereo. I primi tempi in cui lavorava lì si era rimproverata per quei voli di fantasia tanto macabri, ma ora che conosceva Ben nulla le sembrava più troppo irreale per essere vero.  Distolse a fatica lo sguardo e si diresse verso la libreria nel lato più lontano della stanza: lì, probabilmente, avrebbe avuto più fortuna.

C’erano libri di medicina, grandi volumi che sembravano scritti a mano e trattati sul corpo umano. Da dove avrebbe dovuto cominciare a cercare? In realtà, non aveva idea nemmeno di quale fosse il suo obiettivo. La scrivania di Hux era stata sgombrata e molte delle strane carte che aveva osservato tempo prima non c’erano più, ma non avrebbe saputo dire se l’uomo le avesse fatte sparire o portate via. Provò a dare un’occhiata ai ripiani, frugando piano per cercare eventuali annotazioni infilate tra i libri o appunti che potessero esserle sfuggiti, ma non trovò nulla, a parte la polvere. Sospirò, scoraggiata: come aveva anche solo potuto pensare che il padrone fosse così ingenuo da lasciare sempre in bella vista i suoi segreti più compromettenti?

Proprio mentre stava per abbandonare la stanza, rassegnata, urtò con il gomito un volume e dal ripiano cadde un taccuino. La copertina di cuoio era tutta consumata sui bordi, ed era talmente pieno di appunti infilati tra una pagina e l’altra che alcuni caddero spargendosi sul pavimento. Rey si inginocchiò a terra e lo aprì delicatamente su una delle pagine centrali, attenta a non piegarle. Per fortuna indossava sempre i guanti per fare le pulizie.
 
L’esperimento procede. Il soggetto sembra accettare gli innesti senza rigettarli, sicuramente più di quello precedente. Se tutto va bene, tra qualche settimana sarà in grado di passare alla seconda fase del progetto, quella del condizionamento mentale. Snoke è convinto che questa seconda generazione di cavie sia più forte della prima… e me lo auguro, i nostri finanziamenti non dureranno in eterno.
Ho parlato con Dooku. Ci garantisce il suo appoggio, ma chiede in cambio risultati concreti.

Alcune pagine erano state cancellate con dei tratti di inchiostro netti, quasi rabbiosi. Rey riuscì a leggere un ESPERIMENTO FALLITO ripetuto più volte, seguito da una serie di schizzi confusi di croci e simboli arrotondati di cui non capiva il significato. Didascalie come “fondi tagliati”, “tutto inutile” e frecce riempivano altre pagine, fino al punto in cui Hux doveva averne strappato un gruppo, a giudicare dallo stato della costina. La scrittura regolare riprendeva poco dopo, le macchie d’inchiostro sembravano sparite.

Snoke ha portato un nuovo soggetto, molto promettente. Ci sta lavorando da anni e ha deciso che continueremo insieme gli studi su di lui, perché diventi il simbolo del nostro successo. È forte e non sembra volersi piegare con tanta facilità, ma Dooku l’ha visto e ci ha assicurato nuovamente il suo appoggio. Ha bisogno di macchine da guerra obbedienti e abbiamo tutta l’intenzione di fornirgliele. Non falliremo di nuovo!
Il progetto Cavalieri di Ren ha ufficialmente inizio.
Primo innesto eseguito con successo. Il soggetto sembra dimenticare i dettagli della sua vita passata.

Un altro spazio vuoto. Da quanto tempo Ben era nelle loro mani? Rey cercò di riflettere, premendosi un dito sulla fronte sudata. Non c’erano date, era inutile sfogliare freneticamente le pagine per cercarne una…
Nella pagina successiva la scrittura ricominciava a farsi confusa, come se l’autore del diario stesse cercando di appuntare il maggior numero possibile di informazioni a velocità vertiginosa.

NO! Non è possibile, non può andare di nuovo male! Eravamo così vicini, così vicini… Gli innesti funzionano, ma qualcosa nel condizionamento mentale non è andato a buon fine. Kylo Ren sembra ricordare quello che aveva dimenticato e si è ribellato ancora, come ha già fatto. Dooku si è dimostrato paziente per troppo tempo, presto inizierà a pretendere dei risultati concreti. Snoke non è altro che un incapace… a cosa è servito il suo “lavoro sul soggetto”, se non risponde nemmeno agli ordini più semplici?
Non possiamo fallire ancora. Non dopo tutta la strada che abbiamo fatto. Non ora!

Gli strani segni visti in precedenza si allargavano per tutta la pagina. Rey raccolse uno dei foglietti caduti e, con il cuore in gola, si accorse che si trattava di una lista di nomi accompagnati da due date, separate da massimo vent’anni. Alcuni erano seguiti da una piccola croce. Il cuore prese a batterle con foga contro la cassa toracica, mentre il palmo delle mani si copriva di sudore. Continuò a leggere, e la riga successiva sul diario di Hux le causò un altro capogiro, tanto forte che dovette appoggiare una mano contro la libreria per sostenersi.  

Devo tenere d’occhio la domestica. Potrebbe aver scoperto qualcosa che non dovrebbe sapere.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo 4
 
 

“Qui va tutto bene. Scrivimi presto, aspetto tue notizie.”


Dopo la scoperta nello studio, Rey cercò il più possibile di mantenere intatta la propria routine, per non destare ulteriori sospetti: si svegliava, lavorava, usciva, una volta a settimana imbucava le sue lettere per Finn, serviva i pasti, andava a letto. Non si rivolgeva mai direttamente ad Hux, aspettava che fosse lui a farle domande, e in ogni caso evitava di farsi trovare dove non avrebbe dovuto essere… tranne che di notte. Le sue visite a Ben continuavano e, per quanto sapesse perfettamente di rischiare il posto di lavoro e forse anche di peggio, sentiva che quella era la cosa giusta da fare.  

Da quel che aveva capito leggendo il diario, il ragazzo era vittima di un piano più grande di lui, di cui Hux era solo una delle tante pedine: avevano intenzione di creare armi umane obbedienti o qualcosa di simile, e non si preoccupavano di farlo di nascosto, o il padrone non avrebbe mai assunto del personale di servizio. Il Conte Dooku forniva loro denaro e protezione, Snoke si procurava le cavie, e probabilmente anche la donna bionda che aveva visto in precedenza era coinvolta in quel progetto, chissà con quale ruolo. Non aveva idea di cosa significassero i calcoli che aveva trovato, né quelle strane formule, ma di una cosa era certa: Hux non si sarebbe fermato di fronte a nulla. Poteva anche aver fallito in passato, ma la sua determinazione era rimasta intatta, e andava di pari passo con la sua ambizione.

Quando scendeva lo faceva con estrema attenzione: strisciava giù dal letto, indossava i calzini prima di uscire dalla porta, scendeva per le scale senza nemmeno portare la candela. Ormai aveva imparato a memoria la pianta della casa e riusciva a farsi strada fino al seminterrato senza urtare contro gli ostacoli. Una volta arrivata alla porta, si sfilava una forcina dai capelli e la usava per forzare la serratura. Le porte erano antiche, bastava poco per far scattare il meccanismo e permetterle di entrare. Hux ormai la chiudeva a chiave, ma non aveva fatto i conti con il suo passato da rivenditrice di rottami abituata a cavarsela anche nelle situazioni più difficili.
 
 
*
 

“Usciamo” le aveva detto Ben una notte, senza aggiungere altro. La pioggia era caduta per giorni, ma finalmente il cielo aveva scacciato le nuvole e ora si godeva la prima notte serena dopo quelli che sembravano secoli. Dicembre era alle porte, lo dicevano gli alberi spogli e il profumo pungente d’inverno che impregnava le mattine.

“Usciamo.” Lo aveva ripetuto due volte, e tra tutte le risposte sensate che avrebbe potuto dargli – ci scopriranno, non dobbiamo dare nell’occhio, è troppo pericoloso – Rey scelse di annuire: non riusciva a dirgli di no. Gli occhi di Ben erano limpidi, pieni del luccichio brillante delle stelle. Non lo aveva mai visto così… felice? Si strinse addosso lo scialle e lo seguì, mentre percorreva la stanza con passo malfermo e usciva, diretto verso la terza porta del seminterrato e poi attraverso uno stretto cunicolo, che sembrava essere stato scavato direttamente nella terra e conduceva all’esterno. L’erba indurita dal freddo quasi scricchiolava sotto ai calzini.

“Quella porta è sempre aperta” le spiegò lui, una volta giunti sul retro della casa. Il giardino si apriva davanti a loro in tutta la sua bellezza notturna, immerso in una nebbiolina sottile e gelida.  Davanti a loro, in lontananza, si stagliava la fontana dei corvi e, più avanti ancora, il viale d’ingresso ghiaioso con i suoi alberi, ma Ben evitò quella direzione: costeggiando la villa senza esporsi alla vista delle finestre, la condusse verso il laghetto, nella zona più remota del parco. “La usano per uscire senza essere visti dalla servitù, in caso debbano nascondere qualcosa di compromettente. Da quando mi trovo qui, non è mai stata chiusa.”

Non erano molto distanti dalla distesa di pietre tombali. Rey le osservò, bagnate dai raggi di luna argentei, ma questa volta non la intimorirono: le trovò solo tristi, testimonianze malinconiche di qualcuno che non c’era più. Gli arbusti bassi attorno al laghetto si muovevano alla brezza fredda della notte, una danza privata a cui si erano trovati ad assistere per caso. All’improvviso, Ben la prese per mano perché lo seguisse più in fretta e lei lo seguì di corsa, mentre l’erba umida le accarezzava le caviglie nude e le ombre li inghiottivano, nascondendoli alla vista del mondo. Dovevano sembrare due fantasmi, pensò sorridendo, lei tutta vestita di bianco e lui alto e imponente, vestito solo di una camicia e dei soliti pantaloni neri… quel giorno indossava anche le scarpe, ma dal modo in cui scuoteva i piedi di tanto in tanto si capiva chiaramente quanto non fosse abituato a farlo.

Si fermarono poco dopo, accanto ad uno degli alberi della radura. Ben si sedette allungando le gambe e Rey lo imitò. Lontana dalla casa, immersa nella quiete della notte, le sembrò di respirare con più facilità. Faceva freddo, era buio e il rischio che Hux li trovasse era concreto, ma la presenza di Ben riusciva in qualche modo a darle forza. Lui sembrava perso nei suoi pensieri, lo sguardo che vagava dalle pietre tombali al laghetto, fino al muro che, in lontananza, recintava Brendol Hall.

“Non sei sempre stato così” tentò Rey, prendendo coraggio, e un attimo dopo si pentì di aver parlato. Ma Ben non sembrava affatto offeso: annuì piano e si voltò a guardarla. Forse era lieto che lo avesse capito anche lei.

“No, non sono sempre stato così. Mi chiamavo Ben… ed è ancora il mio nome, anche se loro hanno cercato di strapparmelo. Kylo Ren, così mi chiamano. I primi tempi rispondevo ai loro ordini come se la mia vita dipendesse da loro… ma non è più così. C’è altro, ci deve essere altro.”

I rami degli alberi frusciavano piano, producendo quella musica particolare che tanto la affascinava. Un giorno, l’uomo che gestiva l’orfanotrofio aveva deciso di portare i bambini in gita in un paese di nome Takodana: un luogo selvaggio, meraviglioso, che ospitava una foresta lussureggiante. Non avrebbe mai dimenticato la sensazione del vento sulla pelle, e la vista di quei giganti verdi che cantavano le loro canzoni al cielo. Mentre i suoi compagni correvano schiamazzando, lei si era seduta ad ascoltarli, gli occhi socchiusi e il cuore pieno di gioia. Dopo quel pomeriggio, tornare alla desolazione di Jakku era stato incredibilmente difficile.

“Avevi una famiglia?” chiese, spezzando nuovamente il silenzio.
“Non ricordo molto del passato. Solo… una donna. Capelli scuri, il viso segnato dagli eventi. ‘Principessa Leia’, così la chiamavano. E un uomo, sempre lontano. ‘Non puoi ignorare ancora tuo figlio’, ho sentito la donna urlargli contro, ma potrebbe essere solo ricordi che mi sono stati impiantati.” La voce di Ben, sempre profonda e sicura, si era incrinata appena. “Non so più dove inizi Ben, e dove finisca Kylo Ren.”

Rey si voltò per guardarlo negli occhi e gli appoggiò il palmo della mano sul viso, un gesto tremante ma deciso. “Tu sei Ben. Kylo Ren è solo la creatura che stanno cercando di plasmare, ma sei più forte di loro. Lo so.”

Lui sorrise. Le dita di Rey gli coprivano una parte delle labbra, il resto del viso veniva dipinto dalla luna. “Vorrei avere il tuo ottimismo. La verità è che siamo tutti mostri, Rey… io e tutti gli altri, i Cavalieri di Ren. Ci hanno strappato ogni affetto, tutto quel che ci rendeva umani. Ci hanno tagliato a pezzi… innestato pelle, organi, arti che non erano i nostri, tutto questo per trasformarci nelle loro macchine perfette. Anche loro sono mostri, i nostri creatori. Ma camminano per la strada tronfi, orgogliosi di poter contribuire alla grandezza della loro patria, mentre io vivo nascosto, e tanti altri sono morti. Li puoi vedere lì, sotto alle pietre.”

Indicò le lapidi. Ecco il perché di quelle croci accanto ai nomi, pensò Rey. Chissà chi erano i giovani sepolti lì, da dove venivano... le si strinse il cuore al pensiero.
 
“Hux e Snoke avevano una scelta” sussurrò Rey. “Voi no. È questa la differenza… quello che ti hanno costretto a fare non ti rende un mostro, Ben.” E in fondo, non era sempre così? Erano le scelte a definire le persone, non le loro origini. Unkar Plutt e i suoi genitori avrebbero potuto fare del bene, ma avevano scelto altrimenti. Anche lei e Ben avevano fatto la loro scelta, e le loro vite erano cambiate. In meglio.

Ben lasciò andare un lungo sospiro. “A volte qualche frammento sparso della mia infanzia torna a trovarmi. Una casa tra le montagne, persone che sorridono… ma subito dopo arrivano le urla, e il sangue. Grida di dolore, intense come nemmeno puoi immaginare. La mia pelle viene strappata e cucita, e poi il fuoco, il dolore… Snoke che opera, Hux che guarda. I miei compagni, quello che abbiamo fatto, quello che ancora abbiamo da fare. ‘Sei la nostra arma perfetta’, questo mi ripetono. E sapere che sono stato io a provocare la sofferenza, che la loro creatura gli ha obbedito…” si strinse la testa tra le mani, scuotendola piano, a destra e a sinistra. Sembrava così tanto un ragazzino spaventato, con le dita affondate nelle onde scure dei capelli e gli occhi chiusi, che Rey non riuscì a trattenersi: gli gettò le braccia al collo e lo strinse in un abbraccio goffo sulle prime, poi sempre più dolce e disperato, finché non lo sentì cedere tra le sue braccia e rilassarsi. La brezza aveva smesso di soffiare, le foglie restavano immobili e anche per loro il tempo sembrava essersi fermato.

Il respiro del ragazzo divenne così regolare che, per un attimo, Rey pensò si fosse addormentato. Era così vicina al suo viso da poterne percepire il profumo: non avrebbe saputo dire cosa le ricordasse con esattezza, ma la faceva sentire a casa. Nonostante il freddo dell’aria attorno a loro, la sua pelle era tiepida e morbida, i ricci neri le sfioravano la fronte, mantenevano una traccia di quel calore che le aveva regalato ogni notte. Era bello come lo erano i fiori che aspettavano in silenzio la primavera per sbocciare, nascosti tra le fessure delle pietre.

Quando alzò la testa, posò le labbra sulla sua guancia con gli occhi socchiusi, e gli diede un bacio.
Lui trattenne il respiro, e lo sguardo che le rivolse un attimo dopo era pieno di tutte le parole che non riusciva ad esprimere.

La notte restava silenziosa. L’acqua del laghetto era diventata d’argento.

Durante i giorni successivi, Rey si accorse di non ricordare molto di quanto era venuto in seguito: sapeva solo di aver appoggiato la testa sulla spalla di Ben e di essere rimasta seduta sull’erba fredda, cullata dalla musica degli alberi, fino a che non le si erano chiusi gli occhi per il sonno e aveva ceduto al suo abbraccio. Com’era rientrata, allora? Non sulle sue gambe, perché ricordava di aver visto il giardino muoversi attorno a lei, mentre il corpo restava dolcemente disteso in preda al torpore, tra due braccia forti che la sorreggevano. Piano piano, senza far rumore, si muovevano tra le ombre come se fossero nate per farlo.
Poi si era ritrovata nel suo letto e, quando si era sollevata a sedere, insonnolita, la figura di Ben era sparita attraverso la porta. Era accaduto davvero, o aveva sognato tutto? Non avrebbe mai potuto dirlo con sicurezza: il sonno l’aveva riafferrata di colpo, confondendo forme e colori in un dipinto indistinto.
 

*
 

“Anche io ho dei ricordi sparsi del mio passato. Voci, carezze. Eppure i miei genitori se ne sono andati quando ero solo una bambina, e non sono più tornati.”
Lui annuì. “Ogni tanto sento anche io delle voci. Ben, Ben, sussurrano il mio nome. Sono state loro a farmelo venire in mente. In qualche modo, penso abbiano voluto salvarmi.”

La camicia bianca era aperta sul petto: sulla pelle chiara appariva un intrico di cicatrici sbiadite intorno alla più grande, una rossastra dai bordi irregolari. Sembra recente, rifletté la ragazza. Intorno al braccio destro si intravedeva il segno di una cucitura, punti scuri che mordevano la pelle trattenendola a forza, come se potesse fuggire via.

Rey appoggiò il palmo della mano sul suo petto, sopra il cuore, e capì che Ben non si era mai esposto in quel modo prima di allora: le stava offrendo la sua parte più fragile senza esitare, sicuro che non l’avrebbe mai rifiutata.

Qualcosa dentro di lei si spezzò. Sentì che le tremavano le labbra, le parole si facevano strada correndo con forza e lei non poteva far altro che lasciarle uscire, affidargliele, come lui le stava affidando il proprio passato.

“Da bambina, sono sempre stata da sola. All’epoca non ci pensavo, mi sembrava normale: all’orfanotrofio si resta in gruppo per avere meno paura del buio, ma alla fine della giornata, l’unica cosa che resta con te è la solitudine. Anche se hai degli amici… una volta aperte le porte, ognuno vive per sé.” Pensò a Finn, a quanto fosse allegro, estroverso: lui non si sarebbe mai sentito solo. Un po’ lo invidiava. “Mi sono talmente abituata a vivere per me stessa da considerarlo un bene… meno preoccupazioni, meno sofferenza. Non puoi soffrire per qualcosa che non hai più da tempo, no? Notte dopo notte, sognavo solo di andarmene da Jakku e di ricominciare una nuova vita. Finché non è arrivato il Generale Kenobi, e mi ha insegnato cosa significasse sentirsi a casa. Mi ha fatto capire che anche io meritavo di essere trattata con gentilezza, e che mi avrebbe sempre accolta con quella stessa gentilezza, ovunque fosse andato. Poi è partito, ma mi ha lasciato un indirizzo. Mi ha teso una mano, ed era più di quanto potessi desiderare.”

Ben non rispose, ma dal suo sguardo capì che la stava ascoltando. Non riusciva a capire se si trattasse di uno scherzo della luce o meno, ma dalle sue ciglia sembravano stillare delle gocce. Lacrime.

“Non chiedevo molto. Solo… che non mi dimenticassero. Che non decidessero di andarsene di punto in bianco lasciandomi indietro, perché avrebbe significato che la mia esistenza non aveva alcun posto nelle loro vite.” Emise un sospiro e inghiottì la saliva, cercando di trattenere il pianto: si sentiva patetica, non poteva lasciare che la tristezza le impedisse di spiegarsi. “Ma se ne andavano comunque. Ogni volta che mi abituavo all’idea di non essere più sola, bastava che distogliessi lo sguardo perché sparissero di nuovo. Così ricominciavo a contare su me stessa, a vivere come se nulla fosse accaduto, cercando di dimenticare quel che avevamo vissuto insieme.”
Finché non ti ho incontrato, avrebbe voluto dire, ma le mancava il coraggio. “Alla fine, ‘casa’ ero solo io. Sono sempre stata solo io.”

Non aveva mai staccato la mano dal petto di Ben. Il peso che portava nel cuore restava lì, ma in qualche modo le sembrava di respirare con più facilità. Se non altro, non si sentiva più schiacciata dall’idea che nessuno potesse comprendere il suo dolore.

Le frasi successive le scapparono nuovamente dalle labbra, prima che potesse ripensarci.

“Andiamocene di qui, Ben. Fuggiamo via.”

Lui le sorrise con tristezza, spostandole dagli occhi una ciocca sfuggita agli chignon.
 
“No, Rey. Non c’è posto per quelli come me, là fuori… non saprei dove andare, né cosa fare. Ma tu meriti una vita migliore di questa. Meriti di essere felice.”

“Anche tu!” Non era tipo da arrendersi. Quando qualcuno subiva un’ingiustizia, anche quando Plutt minacciava di picchiarla se non fosse stata zitta, non era mai riuscita a tacere. Tieni a freno la lingua, ragazzina. E lei aveva sempre l’ultima parola, perché restare in silenzio significava consegnare la propria resa e non aveva alcuna intenzione di dargliela vinta con tanta facilità. Ben era lì davanti a lei, era come lei, e non lo avrebbe mai lasciato lì da solo, a distruggere se stesso.  “Pensi davvero di meritare di restare qui? Quale crimine avresti commesso, a parte -”

“Rey” sussurrò lui, e il suo tono somigliava così tanto ad una preghiera da bloccarle quel fiume di parole sul nascere. “Ascoltami. Tu sei buona, te lo leggo negli occhi. Da quando sei entrata in questa stanza, sei riuscita a portare nella mia esistenza qualcosa che non avevo mai provato. Sei coraggiosa, sei gentile… hai guardato oltre le apparenze, vedi del bello persino in me.” Sorrise tristemente. “Per questo dovresti andartene. Scappa via finché puoi, mentre Hux è impegnato con me, e lasciati Coruscant alle spalle. Non vale la pena che rischi tutto per me. Mi hai dato più di quanto meritassi… ora è giusto che sia io a fare qualcosa per te.”

Quando appoggiò le labbra sulle sue, per restituirle il bacio che gli aveva dato tempo prima, Rey non riuscì a trattenere le lacrime. Scivolavano sulle sue guance e cadevano a terra, offuscandole la vista e confondendole le idee, mentre Ben le appoggiava i palmi delle mani sul viso, ed erano caldi come sempre, morbidi nonostante le ferite che li coprivano. Poteva anche aver ucciso per Hux, ne portava ancora i segni addosso, ma non le avrebbe mai fatto del male di sua volontà.
Continuarono a scorrere anche mentre lo ricambiava, mentre cercava di trasmettergli cosa provava per lui, perché desiderasse portarlo via di lì. Pianse alzandosi in piedi, per tornare nella sua stanza come faceva al termine di ogni incontro, scavando affannosamente nei suoi pensieri per cercare parole che l’avrebbero convinto a cambiare idea.

Non aveva nessuna aveva intenzione di lasciarsi tutto alle spalle.
Non ora che aveva finalmente trovato la propria casa. 
 
 

*
 

Furono di nuovo le urla a svegliarla, qualche notte dopo. Urla non più sofferenti ma rabbiose, violente, il ruggito di un animale messo all’angolo che si ribellava con tutte le proprie forze.

Ben.

Non c’era tempo per la paura: Rey si alzò di scatto dal letto e corse verso la porta, i muscoli tesi. Qualcosa le diceva che fosse meglio restare ferma dove si trovava, per cui aprì solo un minuscolo spiraglio, trattenendo il respiro nel timore di venire udita. Il corridoio, solitamente buio e silenzioso, era illuminato da una luce fioca di cui non riusciva a capire l’origine, che danzava sul muro e sembrava sospesa in alto, sopra la sua testa. Un odore penetrante, dolciastro e disgustoso e le riempì immediatamente le narici: non le servì investigare ancora per capire che, fuori dalla sua porta, c’era Snoke in persona.

L’uomo pattugliava il corridoio e non sembrava essersi accorto della sua presenza, ma Rey richiuse l’uscio. Probabilmente Hux gli aveva chiesto manforte per assicurarsi che nessuno interrompesse qualunque attività in cui fosse impegnato… qualcosa che riguardava Ben, poco ma sicuro. Quanto avrebbe desiderato buttare giù la porta e lanciarsi di corsa verso il seminterrato! Eppure, se anche fosse riuscita a mettere al tappeto il Dottore, sapeva bene che non avrebbe potuto far nulla contro il padrone, probabilmente armato e determinato a portare avanti il proprio compito. Strinse i pugni. Se c’era una cosa che detestava, era sentirsi impotente in situazioni come quella.

Un forte schianto risuonò dal piano di sotto, come di qualcosa di pesante che venisse lanciato a terra. I passi strascicati di Snoke percorsero il corridoio e poi la scala, un gradino alla volta, finché il loro suono non si perse in lontananza.  Rey appoggiò l’orecchio contro la porta.

Silenzio. Le grida erano cessate, ma aguzzando l’orecchio le parve di udire delle voci che confabulavano, troppo distanti perché potesse distinguere le parole con chiarezza. Il cuore prese a batterle con violenza, così forte che temette davvero le schizzasse via dalla cassa toracica.

Poi, un nuovo schianto. Chiuse gli occhi e strinse ancora i pugni, sentendo le unghie premere nella carne. Una serie di immagini prese ad invadere la sua mente: Ben che respingeva i propri aguzzini con una furia cieca, fiero come il suo sguardo. Snoke a terra, Hux che cercava di bloccarlo, le braccia pallide del ragazzo tese, le vene come piccole strade blu in rilievo, impegnate nello sforzo di tenerlo lontano. Snoke che si rialzava e lo colpiva con qualcosa, una siringa piena di liquido forse, o magari un oggetto contundente. I due uomini che lo afferravano di nuovo, cercando di renderlo inerme, Ben che si stancava di combattere, come se, in fondo, pensasse davvero di essere Kylo Ren. Sono un mostro. Non c’è posto per quelli come me, là fuori.

Quando il silenzio avvolse di nuovo la casa, Rey trattenne il respiro, cercando di resistere alla tentazione prepotente di correre nel seminterrato. Si infilò nel letto con le orecchie piene dell’urlo di Ben e si cullò a lungo, avvolgendosi le spalle con le braccia, come faceva a Jakku quando non riusciva a prendere sonno. Inspirò, espirò. Si sfiorò le labbra, cercando di riportare indietro le sensazioni che il bacio di Ben le aveva lasciato, per trarre forza da quell’attimo.
 
Qualunque cosa fosse accaduta, promise a se stessa, lo avrebbe portato via da quella casa.
 
 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo V 



La strada era asciutta, non pioveva da giorni. Rey ringraziò mentalmente qualunque entità soprannaturale li stesse proteggendo: sarebbe stato impossibile nascondere le loro tracce sul terreno fangoso. Ben arrancava a fatica dietro di lei, la mano sinistra stretta nella sua, la destra premuta sul fianco. Il taglio aveva smesso di perdere sangue, ma la ferita restava fresca, e avrebbero dovuto occuparsene al meglio quanto prima.

Presto, pensò la ragazza, e si fermò un attimo per permettergli di riprendere fiato. La stazione era ancora lontana: avrebbero dovuto sfruttare ogni centesimo di secondo per distanziarsi il più possibile da Brendol Hall e da Hux, che presto li avrebbe cercati. Il ragazzo cercò di raddrizzarsi malgrado il dolore, prendendo un paio di respiri, poi lanciò uno sguardo a Rey e annuì. Andiamo, le stava dicendo senza parlare. Ormai avevano imparato a comunicare anche tramite il silenzio, solo con uno sguardo o un gesto.

Ripresero a correre, il quartiere che si allontanava in favore dei primi palazzi e negozi della città. Sarebbe stato più facile confondersi nella folla, tra le strade piene di carrozze e passanti indaffarati e i vicoli secondari. Con un po’ di fortuna, sarebbero potuti passare per una semplice coppia che girovagava, nonostante l’abbigliamento dimesso di Ben e il suo abito da lavoro fin troppo semplice e consumato… ma non le importava nulla. Desiderava solamente prendere il primo treno per Tatooine, guardare i tetti di Coruscant allontanarsi e sfumare nella distanza. Avrebbero comprato due biglietti alla stazione, e con l’aiuto di un giornale camuffare i loro visi sarebbe risultato ancora più semplice.  

Spero sia davvero facile, pensò Rey, la gola stretta in una morsa. Se non altro, erano fuori ed erano insieme: il resto sarebbe venuto da sé.
 

*
 

Nel vedere Ben accucciato a terra il cuore le era saltato dal petto fino in gola, ma il ragazzo si era rialzato non appena gli era corsa accanto.

“Sto bene, non preoccuparti per me. Non devi scendere fin qui di-“
“Shh” lo aveva zittito lei, cercando di sostenerlo per permettergli di sedersi. “Dobbiamo andarcene oggi, Ben. Aspetteremo che Hux vada a letto e poi scavalcheremo il muro del parco. Non è molto alto, ce la dovremmo fare. Non… non permetterò che tu resti qui.” Aveva parlato con tanta foga da restare senza fiato, per timore che lui potesse fermarla, dirle che era tutto inutile e che non aveva intenzione di seguirla. “Ce la faremo. Fidati di me.”

Con sua enorme sorpresa e sollievo, Ben aveva annuito. Rey notò un nuovo livido sulla spalla appena scoperta, una macchia violacea che doveva risalire allo scontro della sera prima, e sentì una determinazione fredda riempirle le vene.

“Fidati di me” aveva ripetuto, senza nemmeno aspettare la risposta. Si era alzata di corsa e aveva rifatto la strada all’indietro come una furia, senza curarsi di nulla, senza nemmeno controllare se Hux fosse davvero uscito come le era sembrato un’ora prima. Non si era nemmeno accorta che, mentre passava per il corridoio verso la sua stanza, la porta dello studio si era aperta con uno scatto leggero.
 

*
 

Giunsero alla stazione e Rey si diresse immediatamente verso lo sportello del bigliettaio, sperando ardentemente che ci fosse ancora posto sull’ultimo treno in partenza per Tatooine, quello della sera. La cittadina, sperduta tra le praterie, era raggiunta da pochissime corse, tanto che all’uomo riuscì difficile credere che la ragazza desiderasse davvero andare fin laggiù. Staccò comunque due biglietti per lei e Rey li pagò con uno dei primi stipendi ricevuti.

Per fortuna ho questi soldi, pensò tra sé. Per fortuna la stazione è sempre affollata. Per fortuna nessuno ci conosce. La loro vita era diventata una serie di occasioni fortunate afferrate con le unghie e con i denti, piccoli miracoli che avrebbero anche potuto non ripresentarsi. Passò i biglietti al ragazzo e lo osservò un attimo mentre li soppesava tra le dita, lo stupore di chi si approcciava a qualcosa di nuovo per la prima volta.

Il treno sarebbe partito alle sette della sera. Rey aveva fame, Ben sicuramente non toccava cibo da giorni, ma era rischioso entrare in uno dei ristoranti della stazione per un pasto caldo: se qualcuno li avesse rintracciati fin lì, fuggire sarebbe risultato più difficile. Finirono per comprare del pane e mangiarlo seduti sul bordo posteriore della grande fontana che occupava la piazza interna dell’edificio, nascosti allo sguardo dei passanti da due grandi piante verdi in vaso. Non erano maestose come gli alberi di Takodana, ma se le sarebbero fatte bastare.
 

*
 

Il baule toccò il fondo della valigia con un tonfo morbido. Lo aveva coperto con lo scialle e la camicia da notte, poi con i due romanzi che aveva acquistato. Frugò freneticamente nell’armadio e nei cassetti della toletta per non dimenticare nulla, ma non aveva nient’altro da portarsi dietro.

Ogni volta che entrava in camera chiudeva la porta e girava la chiave nella serratura, ma quella mattina se n’era dimenticata. Era abituata agli scricchiolii della casa, alle ombre che si allargavano sulla carta da parati, ed era troppo impegnata a riempire la valigia per prestare attenzione al rumore di passi nel corridoio. Non aveva visto la sagoma di Hux stagliarsi nella cornice della porta, ma quando una mano guantata l’aveva afferrata per il collo, girandola con forza, si era fatta scappare un grido di spavento.

“Credevi di poter scappare di qui come se niente fosse, ragazzina?”

Il suo principale le aveva affondato le dita nelle spalle, premendo con forza i pollici nella carne. Il suo sguardo, solitamente controllato e quasi annoiato, era così livido di rabbia da storpiare anche il resto dei lineamenti: la bocca, piegata nel ghigno di una belva che aveva appena catturato la preda, il viso paonazzo, gli occhi sbarrati. Rey non l’aveva mai visto in preda all’ira, e la sua espressione le fece scendere un brivido lungo la spina dorsale.

Era così scioccata da non riuscire nemmeno a ribellarsi. Lui lo aveva interpretato come un segnale di vittoria.

“Ti ho tenuta d’occhio, sai. Avrai sicuramente pensato che le tue avventure nel seminterrato fossero passate inosservate… e invece sapevo tutto.” La scosse come se avesse tra le mani un pupazzo, non un essere umano. “Ti ho seguita. Ti ho vista scendere di sotto e poi tornare di sopra, notte dopo notte, mentre ti intrattenevi con l’arma… avrei potuto coglierti con le mani nel sacco un’infinità di volte, eppure ho aspettato.” Aveva digrignato i denti, e gli occhi di Rey si erano chiusi d’istinto. In un attimo, era tornata ad essere la ragazzina che si copriva il viso mentre Unkar Plutt la colpiva con le mani flaccide e pesanti, intimandole di tacere e obbedirle. Se non era in grado di proteggere se stessa, come avrebbe fatto a salvare Ben?

“Snoke voleva che prendessi anche te. Ti considerava un soggetto perfetto: orfana, sola al mondo, senza nessuno che potesse reclamare la tua scomparsa... I nostri esperimenti precedenti rispecchiavano esattamente quelle caratteristiche, ne abbiamo presi molti negli orfanotrofi delle varie città. Ma sei troppo ribelle, troppo sfrontata. Non ci serviresti in alcun modo.  Avrei dovuto occuparmi di te molto tempo fa.”

Le sue unghie le bucavano la pelle, facendola fremere di dolore. Aveva alzato il braccio per colpirlo con un pugno, ma l’uomo si era scansato e le aveva afferrato con rabbia la mano, girandole il polso. Tentando di staccarselo di dosso con tutta la forza che aveva, gli aveva sputato in pieno viso. Aveva funzionato solo in parte: Hux le aveva lasciato il polso, ma subito dopo l’aveva gettata a terra con furia ancora maggiore.

Rey aveva colpito il pavimento con un tonfo, stordita dal momentaneo ribaltamento della situazione. Hux si era frizionato l’occhio con una manica, ma subito dopo l’aveva fissata e, con grande orrore della ragazza, sembrava perfettamente controllato. Sorrideva.

“Avrei davvero dovuto occuparmi di te molto tempo fa… ma si può sempre rimediare a quel che non è stato fatto.”

Quando aveva estratto un coltello dalla cintura, Rey non aveva chiuso gli occhi. Non si era coperta il viso con le mani tremando come una foglia, né aveva aspettato il colpo fatale a terra, rannicchiata e spaventata: aveva fissato la lama brillare per un secondo alla luce del sole e si era alzata in piedi di scatto, ogni fibra del suo corpo che le urlava di difendersi. Aveva stretto i pugni per affrontarlo, pronta a colpirlo in qualunque modo… e proprio mentre il padrone si avventava su di lei, il coltello pericolosamente vicino al suo stomaco, la porta aveva sbattuto contro il muro e Ben era entrato nel suo campo visivo.
 

*
 

“Sei stanca?” Doveva aver notato la sua espressione pensierosa, perché aveva smesso di spezzettare il pane per osservarla. Rey fissò la mollica che stringeva tra le dita, scacciando quelle immagini violente dalla mente. “Sì… un po’” ammise, lasciando andare un sospiro.

Lui non aggiunse altro. Rimase fermo, quasi volesse invitarla ad appoggiarsi a lui per riposare, e la ragazza lo accolse posandogli la testa sul braccio. Socchiuse gli occhi, e percepì una sensazione di sollievo invaderla dalla testa ai piedi, gentile come un bagno di acqua calda. Il cuore di Ben, poco distante dal suo, batteva ad un ritmo gentile e regolare. Sentì la domanda nascerle nella mente e uscirle dalle labbra con naturalezza.

“Come hai fatto a capire quello che stava per succedere?”
“Lo sapevo e basta.” Le sfiorò una mano, tracciando il contorno delle nocche con un dito sottile. “In qualche modo, ho sentito che avevi bisogno di me. Te la saresti cavata… ma non ti avrei mai lasciato rischiare la tua vita per me.”

Rey aprì gli occhi per osservare il movimento delle sue dita, poi li richiuse appena, godendosi il senso di protezione che le infondeva la sua vicinanza. Quel legame che sembrava averli uniti fin dal loro primo incontro era ancora forte, li portava l’uno verso l’altra senza che se ne rendessero conto. Le bastava stringergli la mano per percepire le sue emozioni, così come lui doveva aver sentito il suo grido d’aiuto silenzioso, qualche ora prima.
Si apprestava ad iniziare una nuova vita altrove e, di nuovo – pensò tra sé - non aveva portato nulla con cui iniziarla… a parte Ben.

Era sicuramente meglio così.

*
 

Hux e Ben avevano iniziato a lottare e, se sulle prime il padrone era riuscito a contrattaccare immobilizzando l’avversario, presto la stazza del giovane e la sua forza avevano avuto la meglio. Erano finiti entrambi a terra, e nella violenza della colluttazione la mano del padrone si era tesa per colpirlo più volte al ventre, prima che Rey potesse accorgersene e cercare di disarmarlo. Ci era riuscita, ma Hux non aveva smesso di riempirlo di pugni e graffi, sulla testa e sulle spalle, di stringergli le mani attorno al collo per soffocarlo.

Ricordava poco del momento in cui Ben si era rialzato a fatica, ferito e stordito, ma doveva aver assestato un pugno alla nuca dell’ormai ex datore di lavoro, perché un secondo dopo Armitage Hux si era afflosciato a terra privo di conoscenza. Dopodiché, non c’era stato tempo di pensare: erano fuggiti a tutta velocità prima che potesse rinvenire, correndo giù per le scale con la disperazione di due animali selvatici braccati, sperando ardentemente di non incontrare né gli altri membri del personale, né tantomeno Snoke.

Il sole d’inverno rendeva l’aria trasparente, fredda e splendente come un cristallo.  Non appena avevano varcato la soglia di Brendol Hall, Rey gli aveva afferrato la mano, quasi avesse paura di perderlo.
 

*
 

“Stai fermo, o rischi di riaprire la ferita.”
“Sono fermissimo.”
“Non direi, stai giocando con l’acqua.”

A Rey piaceva rimproverarlo, ma non era mai seria nel farlo. Adorava guardarlo abbassare il sopracciglio nell’imitazione di un’espressione corrucciata, mentre tirava fuori la mano destra dalla fontana e si lasciava controllare la ferita sul fianco. Fortunatamente Hux lo aveva solo colpito di striscio: se avesse indugiato un secondo in più, sarebbe stato difficile medicarlo senza ricucire i lembi di pelle. La ragazza premette un panno freddo sul fianco di Ben, attenta a non sfregare la crosta che stava iniziando a formarsi. Una volta a Tatooine, avrebbe preso l’indirizzo dal suo scrigno e avrebbero cercato il Generale Kenobi. Non aveva idea di dove si trovasse la sua casa, né di quanto tempo ci sarebbe voluto a raggiungerla, ma sentiva che, una volta allontanatisi da Coruscant e dalla sua atmosfera oppressiva, tutto si sarebbe fatto più semplice. Glielo diceva la sensazione di libertà che si allargava nel suo stomaco, quel misto di ansia e anticipazione che le mordicchiava le ossa e le gonfiava il cuore, facendole contare i minuti che mancavano alla partenza del treno. Sarebbe andato tutto bene. Doveva andare tutto bene.

Gettò uno sguardo a Ben, seduto lì accanto, e pensò che era più forte di quanto pensasse, come lei. Avevano iniziato insieme a scavare nella loro solitudine condivisa e avrebbero continuato a farlo nello stesso modo, uniti da quel legame invisibile ma forte. Avrebbe fatto di tutto per vederlo sorridere ancora mentre faceva passare le gocce d’acqua tra le dita, con l’innocenza del bambino che ancora viveva in lui.

Meritava una seconda possibilità.

Non aveva fatto domande su Tatooine: si fidava dei suoi piani, come si era fidato fino a quel momento delle decisioni che aveva preso anche per lui. Era stato il primo posto a venirle in mente, il primo che il suo istinto le avesse suggerito, e le era sembrato giusto seguirlo come aveva fatto fino a quel momento. Una città valeva l’altra, ma se non altro avrebbero potuto cercare l’aiuto dell’unica persona di cui si fidava, a parte Ben.

“Grazie, Rey” rispose lui, ricoprendo la fasciatura con il lembo della camicia, e la gentilezza contenuta in quelle sillabe le fece quasi scendere le lacrime lungo le guance.

Gli offrì il sorriso più bello che aveva e guardò in lontananza, verso l’orizzonte, dove i treni iniziavano a sparire per le campagne e un nuovo mondo si apriva ai loro occhi.
Si chiese cosa gli avrebbe riservato, che genere di destino avesse in serbo per due reietti come loro, con le ossa rotte ma pieni di speranza. Si chiese se avrebbe trovato il Generale Kenobi seduto sulla soglia di casa ad osservare il cielo, come faceva sempre durante le sere estive di Jakku, quando il sole smetteva di arroventare la terra e calava in lontananza come un grande disco di colore scarlatto.

Sorrise di nuovo, questa volta tra sé e sé: gli erano sempre piaciuti i tramonti.
 





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Tra le maggiori ispirazioni per l'atmosfera della storia, a parte i romanzi gotici più classici come Dracula e Carmilla, c'è La Forma dell'Acqua, uno dei miei film preferiti: è ambientato in un'epoca e un ambiente completamente diversi, è vero, ma il sentimento dolce e puro che lega i protagonisti e la dinamica "creatura maledetta/persona che se ne innamora e decide di proteggerla" sono esattamente i punti che desideravo trattare con Rey e Ben. Se qualcosa di quel mood è arrivato fino a voi lettori ed è riuscito a trasmettervi qualche emozione, allora sono riuscita nel mio intento :) 
Grazie per le recensioni, le letture, e per aver inserito la storia nei preferiti/seguiti. Spero davvero che vi sia piaciuta quanto ho amato scriverla!


Rey 
 

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