L'Altra Parte

di wanderingheath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Il Vuoto ***
Capitolo 2: *** 1. Venerdì sera ***
Capitolo 3: *** 1. Venerdì sera (II) ***
Capitolo 4: *** 2. Atlantide ***
Capitolo 5: *** 2. Atlantide (II) ***
Capitolo 6: *** 3. Il mostro sotto il letto ***



Capitolo 1
*** 0. Il Vuoto ***


0. Il Vuoto




La spiaggia era deserta.
Fatta eccezione per le loro orme, non vi era alcuna traccia di presenza umana.
Sulla brochure che aveva trovato nella camera della pensione spiccava un’immagine lucida e dalle tonalità pastello, in una miscela di rose, fragole e violette.
In definitiva, tutto ciò che la costa non offriva.
Ai visitatori si presentava piuttosto un litorale piatto, calmo, compatto nella sua lingua di sabbia talmente umida da sembrare orzo coperto d’acqua.
Il sapore di salsedine si scioglieva in bocca, graffiava la gola, scorticava le narici di qualunque passante.
Non le piaceva il mare con quello strano, regolare, irritante sciabordio, quel battito che si armonizzava adesso con il suo polso.
Lo stesso promontorio che aveva notato dalla finestra della stanza centodieci, s’intravedeva sulla linea dell’orizzonte, spezzando un tramonto già cinereo. 
Alla pensione – che sul Web vantava ben tre stelle e una cascata di recensioni positive, nella realtà un agglomerato di camere prive di televisione e mini-freezer –  la proprietaria si stava lamentando proprio del tempo, riconoscendovi la causa di una stagione turistica piuttosto magra.
Forse per quello, nel vederli arrivare in gruppo, le si erano spalancati entrambi gli occhi, anche il destro, affaticato dalla cataratta.
Le aveva consegnato la chiave con una certa reticenza, facendola scivolare sul ripiano del bancone come se si trattasse di chissà quale miracoloso filtro.
“Ti ci vuole davvero una bella vacanza, ragazzì. Sei tutta sciupata”
Avrebbe potuto essere sua nonna – e in effetti, per la montatura grigia che ingolfava un volto già di per sé rigonfio, le ricordava un po’ nonna Ada – con la sola, banalissima differenza che sua nonna non si sarebbe mai permessa di notare arie sbattute, sciupate o simili.
Per quieto vivere e stanchezza, mordersi il labbro e abbozzare un pessimo sorriso le erano sembrati strumenti sufficienti a togliersi d’impaccio. La signora le aveva poi gridato dietro qualcos’altro, un dettaglio di poca importanza che stava quasi dimenticando.
“Ah! La centodieci è al terzo piano”.
Niente ascensore, solo una serie di scale a chiocciola dei primi anni Venti.
Una buona mezz’ora doveva averla passata a fissare il rubinetto aperto, seduta sul bordo della vasca in marmo rosa, mentre il getto d’acqua fredda si riversava nel lavandino. Si era sentita incapace di compiere qualunque movimento, anche il più banale, trascinandosi addosso una pesantezza che le appariva secolare.
La grande “F” blu che sbiadiva sulla manopola davanti a sé aveva calamitato il suo sguardo.
Chiaramente, aveva evitato con cura d’incrociare, anche per sbaglio, la propria immagine nello specchio. Sapeva già quale aspetto l’attendeva nel riflesso impietoso.
Adesso uno strano vento primaverile, che di leggero e piacevole non aveva proprio nulla, le scompigliava i residui di una capigliatura agli sgoccioli della decenza.
Clara si strinse nel maglioncino di ciniglia, rimpiangendo di aver scelto un capo così leggero per la serata.
Sarebbe voluta tornare indietro. Per quanto codarda, per quanto sbagliata potesse risultare una simile scelta, il suo istinto le suggeriva quella strada.
Il lungomare le sembrava un percorso costruito a regola d’arte, una serie di caseggiati, bar e locali vuoti da riempire con esseri imbalsamati; una fila di case per le bambole, in plastica.
Appariva tutto troppo spento, troppo strano, con quella cappa bigia a gravare sulle loro teste, ad inquinare ulteriormente un piano che non la convinceva affatto.
Il resto del gruppo non era toccato da altrettanta angoscia.
Poco distante dalla sua posizione, adesso le sembrava distante eoni, come smorzato o fuoricampo.
Gli altri erano immersi in una bolla aranciata, nell’unico spicchio di tramonto che filtrava tra le nubi, e in discussioni da complici, di chi si conosce da troppo tempo per non permettersi di scherzare.
Forse, rifletté Clara, quella fuoricampo era lei.
Fuoricampo, fuori dal mondo… sicuramente fuori da quell’istante di assurda serenità.
Ad osservarli dall’esterno, sarebbero potuti passare per turisti precoci, una comitiva d’amici che si ritagliava una vacanza fuoristagione. D’altronde, era stata la proprietaria dell’albergo ad augurare loro un “tranquillo soggiorno”. 
Clara sollevò lo sguardo sull’orizzonte, riprendendo una serie di calcoli mentali che aveva abbandonato per stupide elucubrazioni paesaggistiche. Come se avessero avuto tempo da dedicare al panorama.
Secondo le sue previsioni, sarebbero rientrati per un soffio nel conto di un’ora, un’ora e un quarto, se tutto fosse andato secondo i piani.
Il punto era quanto tempo sarebbe stata in grado di guadagnare Sienna, con i suoi modi generalmente spicci, perfino iperattivi, da lince.
Anche prima, nel tragitto verso la pensione e poi lungo le scale a chiocciola, l’aveva vista fresca, trotterellante, energetica e propositiva come al suo solito. Se non l’avesse conosciuta, avrebbe detto che l’intera situazione la rinvigorisse.
E più cresceva la sua lucida euforia, la soddisfatta elettricità, più si accartocciava nello stomaco di Clara un rivolo di bile, alimentandolo secondo dopo secondo.
«Niente male qui, vero?»
Clara si lasciò strappare un sussulto.
Non aveva sentito il rumore di passi sulla sabbia, che completavano il semicerchio impresso dalle sue scarpe.
«Enne, mi hai spaventata.»
L’altro le rivolse un sorriso per metà ironico. «Vedo che siamo un po’ tesi stasera.»
Calò un silenzio che nessuno dei due si curò di interrompere o sanare.
Il promontorio veniva lentamente inghiottito dal buio, spegnendosi all’accensione dei primi lampioni sulla strada che costeggiava il litorale.
Nicola le si era piazzato accanto, gambe divaricate, mani allacciate al petto, il solito, stoico, finto autocontrollo di sempre. Il vento colpiva anche lui, lambendogli una delle infinite camice a scacchi che teneva stipate nell’armadio. Non le stirava mai, gli piaceva indossarle stropicciate per mantenere il look trasandato.
Clara detestava doversi sbilanciare, recitare la parte dell’insicura. In genere era lei a dispensare consigli e rassicurazioni; l’idea di piegarsi al conforto dell’amico, come un animale da lisciare prima di essere ingabbiato o scorticato, la innervosiva.
Affondò le mani in tasca, dondolandosi sul posto. La battigia si squagliava sotto le sue scarpe, riassorbita dai flutti.
«Ci sono venuto una volta, da queste parti», disse infine Nicola.
Davanti allo sguardo perplesso dell’altra, annuì con decisione. «Da piccolo. Mi ci portò mio padre.»
Ricordava spiazzi enormi affollati dai viaggiatori, l’odore di brace, gli ossi della frutta abbandonata sulla spiaggia libera, il camper arrostito dal sole allo zenit.
Clara interruppe il suo monologo.
«Ni, pensi che sia un buon piano?»
Il ragazzo parve rimuginarci, prima di esibire un secondo sorriso amaro. «È un piano. Non buono, ma di certo il migliore che abbiamo al momento.»
 «Questo perché è l’unico», replicò lei secca.
«Appunto.»
Clara sentì le proprie corde vocali attorcigliarsi in un groviglio. Una nuova morsa le costringeva il petto.
Un compito banale come la deglutizione era diventato quasi impossibile. Non riusciva a capacitarsi del fatto che tutte le loro speranze convogliassero in una proposta così sciocca.
Ciò che la preoccupava era come non ci stessero nemmeno provando, ad afferrare, a trattenere un minimo di razionalità; scivolava via il tempo, scivolava via il controllo, scivolava via la speranza di avvicinarsi ad una soluzione concreta.
«Ci rimettiamo ad un visionario», fu l’unico commento che riuscì a sputare.
La replica di Nicola si esauriva in una semplice scrollata di spalle. «È un tentativo.»
Clara sospirò, rilasciando tutto il fiato che aveva compresso nei polmoni.
«Sei riuscita a riposare un po’?»
La ragazza annuì, gli occhi ancorati al bagnasciuga. «Penso di essere crollata. Di nuovo.»
Dormire, tuttavia, non sembrava esserle d’aiuto. Ogni volta che provava a chiudere gli occhi, le si accalcavano dietro alle palpebre una serie di immagini scompaginate che prendevano a roteare, a tormentarla. Se poi riusciva a superare la fase di limbo, la prova successiva risultava ancora più angosciosa.
«Ho fatto uno strano sogno», ammise.
Nicola tentò di incrociare il suo sguardo, ma l’amica non si smuoveva di un centimetro. Era una statua di cera incastrata fra granelli di sabbia. A giudicare dall’incarnato, dalle guance scavate e dalle mezzelune livide disegnate sotto alle iridi chiare, sarebbe potuta davvero finire al Madame Tussauds londinese.
«Che sogno?»
L’intenzione di raccontarglielo si era palesata solo davanti alla domanda. In qualunque altro contesto, avrebbe tenuto tutto per sé, specialmente perché si trattava solo di un sogno.
Ma prima Leandro, adesso questo… aveva bisogno di dividerlo con qualcuno.
Si decise a guardare Nicola per la prima volta dal suo arrivo, consapevole che da lui avrebbe ottenuto una reazione diversa da quella dei presenti, senza liquidare la questione.
«Mi trovavo… in una specie di teatro. Mi ci esibivo da piccola, o almeno ricordava lo stesso su cui salivamo.»
Clara si strinse ulteriormente nel maglioncino, sperando di congiungere il tessuto alla pelle, di schermare lo scheletro che percepiva esposto.
«Era notte. Fuori, insomma, non si vedeva niente. E questo palco era immerso in una… sorta di luna park precario, di quelli ambulanti. Hai presente?»
Nicola annuì piano. Il sogno si snodava su di un sentiero immerso nelle tenebre, al centro esatto del parco inselvatichito dalla sterpaglia, dai prati incolti, dalla macchia uniforme di profondo buio che mangiava il perimetro recintato.
«Io… o meglio, la ragazzina che ero io, ma che non mi assomigliava per niente,» riprese Clara con difficoltà, «lei credo che aspettasse qualcuno. Sì, forse i genitori o parenti che la riportassero a casa».
Riusciva a ricordare pochi fotogrammi, di passi accennati nell’ombra, in una coltre di nebbia spessa come una vera e propria porta. Soprattutto, le era rimasto attaccato addosso il senso di nudo terrore, di spaesamento che aveva provato il suo alter ego.
La bambina si dirigeva a caso da una parte all’altra della strada, percependo solo con la coda dell’occhio una matassa di corpi avvoltolati sul ciglio, in mezzo all’erba alta. Degli uomini che somigliavano a cadaveri, eppure si mantenevano vivi, parlavano con voce appena rauca, il viso sciolto in una maschera come di trucco sbavato. Si perforavano un punto, proprio sull’avambraccio, con una penna o qualcosa di simile.
«Hai sognato degli eroinomani?»
Clara scosse la testa, facendogli cenno di aspettare. «Non finisce qui.»
«Poi mi fermavo davanti a questa grande casa, in una parte del parco talmente risucchiata dalla nebbia da non permettere di vederne nemmeno la porta. Però…»
Un lieve singulto la scosse, rendendole difficile inghiottire pochi granuli di saliva.
«Io lo sapevo. Cioè, lei lo sapeva… insomma, sapevamo che quella era la casa della Morte, o qualcosa del genere. E ti prego, Enne, non scherzare su questa cosa perché ti giuro che ho ancora i brividi.»
L’altro se ne stava raccolto in un atteggiamento pensieroso. Di scherzi, non se ne leggeva nemmeno l’ombra.
Alla fine di una lunga pausa, Clara sentì di non riuscire a tollerare ancora il silenzio. Gli pose un’unica domanda.
«Pensi che c’entri qualcosa?»
«Tu…», Nicola la guardò intensamente. «Tu sei entrata, poi, in quella casa?»
Clara scosse il capo. Qualcuno l’aveva chiamata prima che potesse oltrepassarne la soglia, costringendola a voltarsi. Dopodiché, si era risvegliata nella stanza della pensione.
Gli ripropose la domanda, ottenendo solo un mugugno come risposta.
«Penso che tu sia molto stanca, Clara.»
La ragazza si pentì immediatamente di averlo coinvolto nella sua assurda speculazione. Al tempo stesso, però, non poteva evitare di difendere la propria teoria. «Ma è un sogno piuttosto strano, date le circostanze. Non può essere soltanto suggestione, Ni.»
«D’accordo,» concesse lui, «ma non deve necessariamente costituire una svolta. Giusto?»
Riaffiorò il sogno precedente, quello di Leandro. No, non doveva essere una svolta. Probabile che i suoi pensieri, turbati da tutto quel succedersi di eventi, stessero solo provando a… rielaborare.
Sì, quella era la spiegazione più logica.
Una corsa soffice, attutita, accompagnò l’arrivo di Sienna. «Siamo pronti all’azione», annunciò con malcelato entusiasmo. «Tommy ha detto che la strada fino alla chiesa prende un quarto d’ora, che con il passo della vecchia diventerà una mezz’ora buona. Quindi, dovremmo essere coperti per almeno due ore.»
Poi, come accorgendosi solo allora dei propri interlocutori, la ragazza aggiunse: «Clara, va tutto bene?»
Clara si riscosse. Lanciò un’ultima occhiata al promontorio, ormai sprofondato nel buio. 
Un pensiero, fugace e veloce come un treno merci lanciato su rotaia, le attraversò la mente: si stavano per mescolare all’oscurità, ma senza certezza di redenzione o ritorno.
«Sì.»
Una schiarita di voce.
«Sì, certo», riprese con maggiore convinzione. «Andiamo.»

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Capitolo 2
*** 1. Venerdì sera ***


1. Venerdì Sera
 

I Parte
 

Alcune settimane prima
 
 


Nella penombra non si stava poi così male.
Provava a convincersene, ripetendosi mentalmente quel mantra superfluo, nella speranza di arrivare infine ad un punto di saturazione; allora, per quanto scettica, l’avrebbe lasciato sedimentare tra le pieghe dei pensieri, presa per sfinimento.
L’ultima lampadina elettrica superstite nel salotto emetteva un ronzio poco incoraggiante e Clara sentiva che la propria pazienza veniva limata di secondo in secondo.
Alzò il volume della piccola radio sul bancone.
Inizialmente l’aveva messa lì quasi per scherzo, senza perdere occasione per schernirne la minuscola forma o gli altoparlanti arrugginiti, che dovevano avere un’acustica limitata; poi, quando aveva cominciato ad usarla seriamente, tenendola accesa anche diverse volte al giorno e constatandone la limpidezza nella trasmissione, apprezzare anche il tocco vintage che aggiungeva all’appartamento era divenuta un’abitudine.
Quella sera non c’era nulla d’interessante sulle solite stazioni e, dopo del sano zapping, fu costretta ad optare per un programma di stampo musicale con playlist di autori esclusivamente stranieri.
Non era mai stata una cima nelle lingue, con l’inglese aveva un rapporto di amore-odio che andava avanti da anni – probabilmente da quello stupido progetto scolastico alle elementari – e non si era mai risolto del tutto.
Al momento, però, le bastava un sottofondo di qualunque tipo, giusto per tenerle compagnia.
Si era adattata a diversi compromessi dal suo ultimo trasferimento, ma al silenzio agghiacciante di quella casa non avrebbe mai fatto l’abitudine.
Se non era la radio, provava con il televisore, con il pc, con la finestra spalancata sulla via principale con meno due gradi fuori: qualunque cosa pur di riempire. Riempire un ambiente che nella totale apatia risultava molto più spoglio, sterile e muto di quanto non fosse in realtà.
Uno sfrigolio la riportò ai fornelli, la radio abbandonata al proprio fato.
«Oh, no, no, no. Ti prego.»
Si affrettò ad abbassare la fiamma, a sfogliare convulsamente il ricettario che teneva sotto mano, ma ogni tentativo parve inutile a salvare la cena.
«Del vino? Un goccio di vino? Sì? Qua non c’è scritto niente…»
Riusciva già a vedere l’ennesima vaschetta di cibo precotto da infilare nel microonde.
Comodo, veloce, insapore. L’abitudine si attaccava con tutti i denti al braccio, un’impresa scrollarsela di dosso.
No. Quella sera non si sarebbe fatta scoraggiare.
Impugnata la bottiglia di rosso, Clara si decise a versarne una parte abbondante sul soffritto.
Per quanto non edibile potesse uscire fuori, quella sarebbe stata la sua cena.
Il trillo del telefono.
Doveva essere al terzo o quarto squillo e lei persisteva nell’ignorarlo.
Quel venerdì sera di riposo se l’era meritato. Non sarebbe stato di certo l’appiccicoso Robert a rovinarglielo.
Girò la manopola della radiolina, volume al massimo a sovrastare qualunque altro rumore.
Il conduttore stava facendo il nome di un solista americano a lei sconosciuto. Proveniente dal Michigan, veniva presentato come una moderna promessa degli USA.
Fu quando venne lanciato il brano che qualcosa scattò nella sua mente. Una scintilla, veloce connessione di cavi altrimenti staccati. Clara sentì il cuore contrarsi in uno spasmo.
La melodia era la stessa. Proprio quella.
Per qualche secondo non fu in grado di muoversi o fare altro se non spostare lo sguardo verso il divano, nel bel mezzo del salotto. La musica iniziava a spandersi per l’ambiente, a riempirlo, a prenderne possesso, come ad adempiere al ruolo d’intrattenitrice per il quale era stata evocata.
“And every night my mind is running around her, then it’s getting louder and louder.”
Si srotolava lungo pareti e mobili, l’avvolgeva in un telo di dimenticanza. Le calzava a pennello.
Era impossibile staccare gli occhi da quel divano beige, che ormai non era più solo un divano beige.
E lei non era più lì, ormai.
Davanti a sé non c’era l’anonimo pezzo d’arredamento con toni delicati e fodera macchiata dal cappuccino.
L’appartamento era l’altro. Quello con il televisore a schermo piatto su cui vedevano pellicole degli anni ’40; quello con degli spazi troppo vasti per due sagome che si tenevano sempre strette; quello degli spaghetti in salsa piccante, del frigo magicamente vuoto e dei plaid strascicati sul pavimento.
Quello con il divano a tre posti in cui s’incastrava perfettamente – anche con le gambe distese – con i braccioli durissimi e la copertura senape.
E adesso davanti a lei c’erano due figure. Uno strano crepuscolo lattiginoso fuori, un vaso di gerani vicino.
Il flusso di musica proveniva da uno stereo addossato al muro; le casse due macigni scuri.
“Baby, you’re like lightning in a bottle, I can’t let you go, now that I got it.”
Lei se ne stava in piedi, scalza, con solo una camicia smeraldo indosso; i capelli, ancora umidi, le ricadevano sulle spalle, abbracciandole il collo. Nonostante il filo del phon fosse corto, riusciva a muoversi in modo sciolto sul tappeto, ondeggiando a tempo. L’altra sagoma aveva depredato un portaoggetti e adesso, con due matite ben strette nel pugno, le andava incontro mimando le parole della canzone.
“And all I need is to be struck by your electric…”
Uno sguardo, un cenno d’intesa. L’avevano fatto tante altre volte.
Saltati entrambi sul divano, stavano improvvisando un piccolo concerto, gridando contro il getto del phon e agitando le mine come un microfono.
«…LOOOVE.»
Lui l’aveva afferrata per i fianchi, in un misto di volteggio e solletico, per poi stringerla con improvvisa tenerezza. Sulla maglietta scura profumo di neroli e sapone da bucato.
In un battito era svanito.
Clara si ritrovò stretta fra il lavello e il forno, il mestolo di legno ancora impugnato.
Dovette sbattere più volte le palpebre prima di rendersi conto che la canzone era sfumata, lasciando il posto ad una traccia del 2007.
Poi, un fischio stridulo.
Ricordava una pentola a pressione.
L’ultima lampadina perì con uno schiocco, lasciandola al buio.
Se lo sentiva, che prima o poi l’avrebbe tradita.
Clara si concesse un breve respiro prima di cercare a tentoni il cellulare. Alla radio, nello spazio pubblicitario veniva sponsorizzato un detersivo.
Il campanello d’ingresso la fece sobbalzare.
Un perfetto tempismo. Ma chi poteva essere alle nove di venerdì sera?
Dovevano aver sbagliato interno.
Lei non attendeva visite e Giovanna aveva rinunciato a coinvolgerla in una delle sue uscite senza freni, rivelato il progetto casalingo.
Di nuovo uno squillo, stavolta seguito da un colpetto sul legno.
«Arrivo!»
Magari qualche vicino in cerca di rifornimenti… ma con lei restavano sempre delusi: non prestava mai niente, conoscenti o sconosciuti che fossero.
Il pensiero che potesse trattarsi di Robert l’impavido la toccò solo nel momento in cui spalancava la porta.
Ad attenderla sul pianerottolo, trovò un volto familiare.
Immobile nel suo metro e sessanta scarso, era impossibile non riconoscerlo per la matassa di ricci che gli crescevano a mo’ di fungo sul capo.
«Stecca, e tu che ci fai qui?»
«Ciao Clara… ma sei al buio?»
La ragazza si voltò verso l’atrio immerso nell’ombra.
«Ah, sì. Si è appena fulminata la lampadina.»
Di nuovo catalizzò l’attenzione sul cappottino blu che le si parava davanti. Mentre l’idea si consolidava nella sua mente, si chiedeva se non stesse immaginando tutto. Magari un’altra allucinazione, un ricordo come quello di prima…
«Stecca», ripeté allibita. «Ma che diamine ci fai tu qui?»
«Posso entrare?»
«Non mi hai nemmeno avvertita! Avrei fatto un po’ di ordine. Sai che sei sempre il benvenuto.»
Arturo la interruppe scocciato: «Ho provato a chiamarti».
L’altra rimase di sasso. «Che cosa?»
«Circa trentaquattro volte», riprese. «Ma tu non hai mai risposto.»
«Non è possibile.»
Prima che Clara potesse proseguire, il ragazzo estrasse il cellulare, esibendo una lista di chiamate indirizzate a lei. Nessuna che avesse ricevuto risposta.
Clara osservava in silenzio. Quel numero l’aveva visto almeno una decina di volte apparire sullo schermo, prima di rifiutare o ignorare la telefonata.
«Ma allora... eri tu.»
«E chi altri?»
Il nome di Robert stava per lasciarle le labbra, ma lo riassorbì in tempo.
«Lascia stare. Cos’è successo di tanto urgente?»
Arturo le mostrò i palmi, in segno di resa. «Non per essere invadente, Clara, ma forse è meglio se mi lasci entrare.»
Lasciarlo entrare. Certo, se non si fosse trovata al buio, per metà in pigiama, con indumenti e scarti disseminati per l’appartamento, certamente l’avrebbe fatto entrare.
«È che… stasera non sono nelle condizioni adatte a ricevere gente, Stecca.»
Si divertì quasi a rimuginare, tra sé e sé, su quel “stasera”. Come se nell’ultimo periodo vi fosse stata un’occasione in cui volesse davvero ricevere gente.
«Si tratta di Irene.»
Clara si fece di marmo.
La porta, che per un terzo aveva già richiuso, rimase bloccata.
Saliva aspirata, parole prosciugate. Irene?
E il suo nome fu tutto ciò che riuscì a pronunciare sul momento.
«Irene?»
Arturo annuì gravemente. «Sì, Irene.»
«È scomparsa.»

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Capitolo 3
*** 1. Venerdì sera (II) ***



II Parte
 

 

 
«Decisamente meglio.»
Arturo annuì soddisfatto, osservando il coro di candele che Clara aveva disseminato nel salotto.
Si trattava di mozziconi di cera che teneva stipati nello sgabuzzino, ma offrivano una luce sufficiente a rischiarare l’ambiente e a permettere loro di guardarsi in volto.
La cena per metà bruciata era finita nel lavandino, sostituita dagli avanzi del giorno precedente, rigorosamente scaldati al microonde. Due calici di vino rosso campeggiavano al centro del basso tavolino sul tappeto.
Tutto lì dentro aveva tinte monocolori, bicolori al massimo. I toni neutri, tra un bianco panna e il beige, conferivano uno stile minimalista all’appartamento; unica nota stonante, i quadri astrattisti che riempivano la parete di fondo, quella accanto alla mastodontica libreria bianco latte.
«Carino qui», fu il commento di Arturo, mentre prendeva posto su di una poltrona troppo alta per lui.
Stava provando a sistemarsi meglio, magari con il supporto di qualche cuscino, quando Clara fece ritorno con la bottiglia di rosso e un pollo arrosto per lo più liquefatto.
L’ospite accettò solo un bicchiere d’acqua.
«Giusto,» Clara si era accomodata di fronte a lui, «dimentico sempre che sei astemio.»
Detto ciò, si scolò in un unico sorso il primo calice, per poi sprofondare nel divano.
Arturo la studiava con perplessità. «Come ti trovi nel nuovo appartamento?»
«Beh, “nuovo” …»
Erano passati diversi mesi dal suo trasferimento. Circa sei, per la precisione.
Quando aveva adocchiato l’offerta di un locale al centro della città, ad un prezzo ragionevole, non si era lasciata sfuggire l’occasione e, senza pensarci due volte, aveva accettato. Una di quelle scelte impulsive che stonavano terribilmente con un carattere altrimenti freddo, razionale fino al midollo.
L’iniziale eccitamento si era diradato dopo il primo mese, lasciando il posto a quello che la casa veramente era: un buco con un angolo cottura mal attrezzato, un letto cigolante in ferro e una colonia di formiche residente nello stanzino. Però affacciava sulla via principale.
Quella doveva essere la prima volta che Arturo metteva piede lì.
«Comunque, ci si fa l’abitudine,» rispose infine con un sospiro lieve, «almeno non dista molto dal negozio.»
«Ah giusto. Come va con il lavoro?»
Clara cominciava a spazientirsi.
Dov’era finita l’urgenza, l’allarmismo che aveva mostrato sulla soglia?
L’aveva fatta passare per una questione di vita o di morte e adesso si permetteva di discutere di fornelli a gas e lavoro?
«Bene. Va tutto bene, Stecca. Nella norma. Le clienti rimangono sempre le stesse, con i soliti pettegolezzi da provinciali. Non ci sono molte novità in questo posto dimenticato da Dio.»
Ghermì il secondo calice. «Adesso vogliamo continuare a discutere di queste sciocchezze o ci occupiamo di cose più serie? Tipo che fine ha fatto Irene
Aveva scandito le ultime parole con decisione, come se stesse trattando con una delle clienti più anziane che le capitavano sotto gli occhi ogni giorno. Si concesse un abbondante sorso di rosso, prima di tornare ad ascoltare.
Arturo, dal canto proprio, se ne stava immobile sulla poltrona, con le gambe penzoloni che oscillavano a qualche centimetro da terra. A terra, ben ancorati, teneva gli occhi, giocherellando con il bicchiere ormai vuoto. Gli sfuggì un risolino, una smorfia per metà amara che emergeva nelle situazioni più scomode.
«Eh…»
Una pausa sospirata.
«Vorrei davvero saperlo anch’io.»
Clara lo osservò a lungo, prima di sbottare: «Che cosa significa, Stecca?»
«Potresti… potresti smetterla di chiamarmi Stecca? Lo detesto.»
Se lo trascinava dietro da almeno quattro anni, quello sciocco nomignolo.
Gliel’avevano affibbiato i suoi compagni di corso e progressivamente era stato adottato da tutta la cerchia di amici. In parte riprendeva la sua passione per il biliardo, terminata ormai da tempo, in parte riguardava l’altezza. Quella storia lo perseguitava dai tempi dell’asilo e Arturo non riusciva a capacitarsi di quanto peso potesse rivestire la statura nell’ordine mondiale.
«D’accordo, d’accordo.»
Preso un profondo respiro, Clara provò ad allontanare il senso di frustrazione che si trascinava dietro dalla mattinata. Aveva appena notato il piccolo trolley di plastica che ingombrava il salotto. Non l’aveva visto prima, nella totale oscurità, ma era stata sciocca a credere che Arturo non intendesse fermarsi in città per più di un giorno. Dopo la traversata che aveva affrontato, era il minimo.
Eppure non trovava il coraggio di domandargli quali intenzioni avesse.
«Va bene, ricominciamo daccapo. Cosa è successo ad Irene?»
«È proprio questo il punto: non lo so nemmeno io. È sparita. Da una settimana è semplicemente scomparsa.»
Di nuovo il silenzio. Lungo, ingombrante, palpabile fra loro due.
Arturo aveva provato a chiamarla innumerevoli volte, sul fisso, sul cellulare, ma nessuna risposta. Almeno venti messaggi vocali, altrettanti in segreteria, perfino sms e una mail nel disperato tentativo di raggiungerla.
L’ultimo incontro risaliva al sabato precedente, quando avevano trascorso insieme una serata al solito bar del centro a cui si arenavano da anni. Solito posto, solito drink, solito giro di rinforzo, solita compagnia: i quattro amici che si erano uniti a loro, li avevano lasciati da soli, per esibirsi in strada in qualche sciocca acrobazia; uno di loro voleva rimorchiare un paio di straniere al tavolo vicino.
«Dopo quella sera, più nulla.»
«Hai provato all’appartamento?»
«Non ho le chiavi. Anche al citofono nessuna risposta. Credo che la coinquilina sia tornata in Sicilia per le vacanze.»
Clara stava scolando i residui della bottiglia nel proprio calice, constatando solo in quel momento quanto denso fosse il liquido. Scivolava nel vetro come al rallentatore e lei era ipnotizzata dall’alzarsi ed abbassarsi di livello.
«Beh,» commentò infine, «non hai pensato che magari ti stia semplicemente evitando?»
«Sapevo che l’avresti detto.»
«Scusa, Stecca.»
Ma Arturo non appariva ferito dalla sua considerazione, quanto indispettito. Gli stava facendo perdere del tempo prezioso con domande superflue, con obiezioni preconfezionate che lui aveva già scartato in precedenza. Dovevano arrivare al cuore della questione, non fermarsi sul bordo ad esaminarne il contenuto a debita distanza.
«Una settimana intera? Senza farsi sentire né vedere? Neanche gli altri hanno sue notizie.»
«Irene è fatta così, lo sai», fu la replica sbrigativa. Clara stava già pregustando l’abbraccio caldo delle coperte, il piacevole peso del buio sulle sue tempie pulsanti. «A volte ha questi atteggiamenti di chiusura.»
Gettò la testa all’indietro ed inghiottì fino all’ultima goccia di Merlot.
«Non dirmi che ti sei fatto sei ore di treno, perché Irene non risponde al telefono. Magari le si è rotto, l’ha perso, gliel’hanno rubato. Che ne sai?»
Un forte schiocco.
Arturo aveva puntato i piedi a terra. La sua espressione mutata, sugli occhi verdi era calata un’inusuale fermezza.
«E tu? Da quanto non la senti?»
Sentire.
Un termine talmente generico da aprire innumerevoli strade, da poter essere equivocato.
L’ultimo incontro, in un’atmosfera serena e festiva, risaliva allo scorso dicembre, quando Irene era andata a trascorrere le festività natalizie dalla madre e nell’occasione aveva fatto un salto anche lì, da lei.
Ovvio che poi fossero rimaste in contatto, ma ogni telefonata logorava un pezzetto in più della loro autenticità, fagocitando la naturalezza di un rapporto sbiadito alle estremità.
Alla lunga, tutta quella cerimoniosa finzione aveva finito per ferirle entrambe. 
«Da un po’», ammise Clara. «Ma cosa c’entra con tutto il resto?»
«Prova a chiamarla, allora.»
«Adesso? Ma sei impazzito? Sono quasi le undici. Se hai provato sempre a quest’ora, non mi stupisco…»
L’altro la interruppe, sospingendo il telefono abbandonato sul tavolino verso la propria interlocutrice.
Fu costretta a cedere. Una telefonata non le costava nulla e, se avesse funzionato, si sarebbe finalmente potuta concedere del sano riposo.
Clara cercò il numero in rubrica, scorrendo l’elenco avanti e indietro con il pollice. La stanchezza si stava impossessando delle gambe, sempre più pesanti, e altrettanto suggerivano le palpebre. I nomi di amici, familiari, colleghe e conoscenti si accavallavano gli uni sugli altri.
«Va bene, ti concedo un tentativo», ammonì Arturo. Lui assentì, concentrato nelle proprie riflessioni.
Rimasero in attesa. Due squilli, tre squilli, quattro, sei.
Poi, la voce di Irene.
In un misto di tenerezza e vivacità, ricordava quella di un’adolescente. E in effetti, la registrazione era stata effettuata alcuni anni prima, senza più subire variazioni.
“Lasciate un messaggio dopo il bip!”
Clara riagganciò.
Sentiva lo sguardo di Arturo incollato addosso, ma non osava incrociarlo. C’era sicuramente qualche spiegazione logica, che adesso nemmeno lei riusciva a delineare, ma che a mente fresca sarebbe apparsa evidente.
«Okay, senti. È stata una lunga giornata, io sono stanca morta e probabilmente Irene è soltanto impegnata al momento. Proveremo di nuovo domattina.»
Intanto si era alzata, rimuovendo gli scarti dal tavolo, diretta verso il lavabo.
«Dove ti sei sistemato? Al B&B di Maria?»
Fu costretta a chiudere la finestra. In meno di pochi istanti, fuori era scoppiato un acquazzone che si riversava prepotente sulla via principale. Clara buttò un occhio in strada, dove un gruppetto di adolescenti imprecava nel tentativo di ripararsi sotto al cappuccio delle felpe; la maggior parte dei passanti si era rifugiata temporaneamente sotto al grande porticato della galleria commerciale.
Le vetrine dei negozi vuoti offrivano le loro luci, lugubri carcasse di spettri.
La naturalezza con cui Arturo le comunicò le proprie intenzioni fu disarmante.
«In realtà, io speravo di potermi appoggiare qui.»
Un’occhiata cauta. «Temporaneamente», aggiunse subito.
A tal punto disarmante da non lasciare a Clara alcuna replica. Cercò invano nel repertorio una reazione adatta alla situazione. Si sentiva prosciugata di ogni energia vitale e di discutere non avrebbe trovato la forza.
Le appariva tutto assurdo, vorticoso, tanto da costringerla ad appoggiarsi allo stipite della camera da letto.
«Va bene. Puoi stare sul divano, Stecca.»
Si richiuse la porta alle spalle.
Al buio, nella tranquillità della propria stanza, trovò sostegno nel cassettone di legno duro.
Una pausa. Finalmente una pausa.
La giornata era trascorsa in pendenza, con la sensazione costante di scivolare su di una parete priva di appigli. Franca l’aveva strizzata per bene e anche la mattina seguente non si prospettava meno impegnativa: tutti gli appuntamenti di cui sarebbe dovuta occupare Lucia erano stati scaricati sulle sue spalle.
Nemmeno poteva prendersela con la collega; come aveva detto Franca, l’ondata di febbre stava girando.
Clara si gettò a peso morto sul letto, affondando nel materasso.
Uno scomodo punzecchio, all’altezza del ginocchio, la costrinse a voltarsi. Si ritrovò il cellulare fra le mani.
Doveva averlo portato con sé in un gesto meccanico; talmente meccanico da non accorgersene affatto.
Con gli occhi semichiusi compì l’ultimo sforzo della serata.
La cartella delle immagini. Aprì la raccolta, bypassando gli scatti più recenti.
Schiacciate tra quelle di capodanno e qualche selfie natalizio allo specchio, individuò le fotografie che stava cercando. La data riportata recitava: “12 novembre”.
Clara prese un piccolo respiro, poi trovò il coraggio di ingrandirne una.
Un semplice autoscatto. Due volti in primo piano, vicini, sorridenti.
I ricci scomposti di Irene ingombravano metà dell’obiettivo.
Le cingeva le spalle con un braccio, tenendola stretta a sé.
Clara riconobbe l’impermeabile che portava sempre in autunno. Quante volte l’aveva fatta penare, Irene, con la solita fissa di non poter uscire di casa senza abbinare vestiti ed accessori; e puntualmente, ogni autunno, finiva per perdere qualche ombrello. Passavano settimane prima che ne trovasse uno in pendant con lo sciocco soprabito.
In quella fotografia apparivano entrambe serene, spensierate, felici.
Felici, però, non erano. Si era già inquinato qualcosa e lei sapeva bene anche cosa
Clara bloccò fuori quei ricordi. Spense la schermata, gettando il cellulare lontano da sé.
Probabilmente era stato il vino a causarle quel retrogusto amaro, come anche il groppo che le annodava lo stomaco. Oppure era colpa di Arturo, che l’aveva suggestionata con le sue fantasie al limite della paranoia.
Davvero non riusciva a capirlo: pagarsi il biglietto e farsi tutta quella strada, senz’altra sicurezza se non l’indirizzo del suo appartamento, per cosa poi? Uno sciocco timore? Un dubbio?
Più ci rifletteva, più le appariva allucinante.
Sicuramente Irene stava bene, come sempre. Magari era un periodo concitato anche per lei.
Ad Arturo, invece, sarebbe servito qualche serio hobby che lo tenesse occupato.
Comunque stessero le cose, ci avrebbe pensato il giorno successivo. Lei si meritava il suo benedetto riposo.
Quella notte non chiuse occhio.                                 
 
 

 

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Capitolo 4
*** 2. Atlantide ***


2.  Atlantide


I Parte
 




«Guarda che tesoro, ha appena compiuto quattordici mesi.»
La cliente di turno le stava sventolando sotto al naso il proprio I-Phone di ultima generazione. Lo teneva con entrambe le mani, compresso fra i palmi come se si fosse trattato di un fragile reperto storico, una tavoletta sumera o qualcosa di simile.
Sullo schermo, in riproduzione scorreva un filmato di alcuni minuti, al centro il protagonista indiscusso: un bambino immerso in una piscina gonfiabile, imbottigliato in un salvagente a forma di ciambella.
Anche il costume, proporzionato e alla moda, esibiva dei motivi ricordanti dolci – forse zuccherini da guarnizione.
Ricordava di aver letto da qualche parte del rapporto tra pigiamini con stampe dolciarie e obesità infantile, ma quel pensiero l’aveva recluso in un angolo, considerato l’entusiasmo frizzante della signora Dal Zotto.
E la cliente aveva sempre ragione.
«Guardalo, guardalo come sguazza!»
Clara annuì, tirando un sorriso di circostanza.
La bacinella della pedicure, traballante ed ondeggiante, minacciava di esondare da un momento all’altro.
«Sì, ma faccia attenzione all’acqua.»
C’era una giovane donna, nel video, con i capelli biondi pinzati in una coda e un viso appuntito, volpino, che attendeva dall’altra parte della piscina gonfiabile l’approdo del figlio, incitandolo e sventolando le mani.
Quattordici mesi, aveva detto la signora. Quella frase le risuonava nel cervello con l’impeto costante di un gong.
Clara non era mai riuscita a spiegarsi il motivo di quella strana definizione: detestava i neogenitori con i loro ampi sorrisi, pronti a sventolare i bebè come trofei da primi classificati, ad erigersi a grandi maestri dell’età infantile – quando sciorinavano le poche, confusionarie informazioni, raccolte in giro, di cui si abbuffavano nel tempo libero – e dello sviluppo. Soprattutto, però, detestava quella scansione inutile. Quattordici mesi.
Il particolare che aveva attirato subito la sua attenzione era stato l’ampio cortile in cui si era svolta la scena.
La signora Dal Zotto le aveva spiegato che sua figlia se n’era andata da lì, da quel paesino sperduto, almeno dieci anni prima. Avevano all’incirca la stessa età, lei e sua figlia; a tratti gliela ricordava.
Clara sentì stringersi la gola.
«Il padre è Americano», aveva spiegato la signora Dal Zotto, come se quello spiegasse tutto.
«Hanno una bella casetta, lì in Florida. In genere sono io che vado a trovarli, ma per la prossima volta mi hanno promesso di venire loro. Sai, adesso che è cresciuto il piccolin, possono prendere l’aereo.»
La ragazza provava a concentrare tutta la propria attenzione sull’astuccio che teneva in mano.
«Bene, quale colore per lo smalto?»
Desiderava solo che quell’incubo terminasse il prima possibile.
Coetanee che facevano scelte di vita ardite, rivoluzionarie, trovavano stabilità, creavano famiglie, compravano abiti con stampe di animaletti o cibo per i propri neonati e li immergevano poi nelle piscine gonfiabili, sotto un sole da spellarsi. E lei?
Lei era tornata lì, anziché fuggire come avrebbe dovuto – e voluto – fare. Era di nuovo all’ombra degli edifici tra cui aveva visto cominciare la propria esistenza; un’infanzia priva di pigiamini stravaganti.
«Rosso. In genere Lucia me lo mette rosso scuro.»
Clara annuì, iniziando ad agitare la boccetta per metà vuota.
Dall’alto della sedia reclinabile, la signora Dal Zotto la osservava con curiosità.
«Tu ne hai?»
La ragazza sollevò il capo, confusa.
«Bambini, intendo. Mia figlia ha deciso di farli presto.»
Un cigolio alle spalle annunciò l’ingresso di Giovanna.
Per qualche strana ragione, Clara se la ritrovava puntualmente a ficcanasare nei suoi spazi, quando di turno.
«Clara è una single incallita,» commentò di passaggio, «altro che bambini.»
«Ti serve qualcosa, Gio?»
«Le pinzette, Clarina
Stava rovistando per la stanza, passando al setaccio banconi e cassetti, mugugnando qualcosa su come il suo paio fosse poco efficace. Intanto la signora Dal Zotto aveva ripreso a scalciare nella bacinella, spruzzando acqua tutt’intorno; il nipote, con i suoi quattordici mesi, sarebbe stato meno maldestro.
Con uno schiocco sonoro unì i palmi, come in preghiera: «Gesù bèlo, e perché? Non hai trovato un bel toso?»
Clara si schiarì la voce, ripassando velocemente la lavata di capo che le era toccata quella mattina. Franca l’aveva rimproverata per qualche risposta più acida del solito, intimandole di cambiare atteggiamento con il pubblico all’istante.
Fu Giovanna a rispondere al suo posto: «Un bel toso gliel’ho trovat, ma xè difficile.»
La signora Dal Zotto scosse il capo, profondamente addolorata da quella rivelazione. Se ne uscì con una massima da quattro soldi: «Chi no se contenta de l’onesto, perde ‘l manego e anca ‘l cesto».
 «Hai provato a cercare nella stanza di sotto, Gio?»
L’altra sollevò un paio di pinzette dal bancone con un sorriso radioso: «Trovate!»
Rimaste nuovamente da sole, il silenzio durò poco. Mentre lei provava a mantenere lo smalto all’interno della cornice, senza macchiarle la pelle, la cliente era decisa a non mollare la presa sul discorso.
«Pensaci. Avrai tanti rimpianti poi, per le occasioni mancate.»
Clara schizzò in piedi, quasi sbattendo il contenitore sul tavolino, accanto alle garze pulite e alle creme.
«Una decina di minuti e può andare. Aspetti che si asciughi del tutto.»
Tirò la porta scorrevole, chiudendo fuori ogni soffio di obiezione.
Libera. Finalmente era libera dall’interrogatorio.
Si trascinò fino al divanetto d’ingresso, per poi collassare su di un bracciolo.
Franca stava studiando ogni suo gesto, da dietro la cassa, fingendo soltanto di scrivere qualcosa sul computer, magari di sistemare qualche appuntamento residuo.
«Si sente proprio la mancanza di Lucia», commentò Giovanna con un occhiolino.
Non era ben chiaro a chi volesse indirizzarlo, così, non raccolto da nessuno, finì nel vuoto.
«La signora Dal Zotto è una sbetega,» proseguì abbassando prudentemente il tono, «deve dire la sua su tutto.»
Aveva già iniziato il proprio monologo su come le persone di una certa età non potessero fare a meno di esprimere un giudizio riguardo qualunque argomento, quando Franca la interruppe.
«Ah, Clara, ti ha cercata un tuo amico.»
Giovanna scattò all’istante. Il capo parve compiere una rotazione esorcistica nella sua direzione con la rapidità di un siluro. «Robert?» stridette, allungando eccessivamente la “o”.
L’altra rimase sul vago, continuando a spargere ed unificare fogli di carta sul bancone della reception in strani movimenti oscillatori che ricordavano rituali taumaturgici.
«Non so. Ti sta aspettando qui fuori.»
Una pausa, poi: «Puoi andare, se vuoi». Le indirizzò un’occhiata fugace attraverso la montatura a mezzaluna.
«Hai finito per oggi.»
 
 
 
 
*    *   *
 
 
 
Il negozio della Sweet Essence era incastrato fra edifici con tetti spioventi e dalle anonime facciate con mattoni color pergamena. La vetrina, decorata con pizzi fioriti e tendine linde, richiamava alla mente un’ambientazione fiabesca, una casa fatata.
Quando Clara uscì in strada un’aria prepotente si impossessò dei capelli sfatti, sollevandoli in una nube intrecciata. Trovò Arturo su di una panchina, seduto in un angolo e intento a dar da mangiare ai piccioni.
«Stecca,» lo chiamò avvicinandosi, «che stai facendo?»
L’altro sollevò il capo di scatto con un sorriso a trentadue denti. Stava sbriciolando parte del proprio panino imbottito, mentre una cerchia nutrita gli si accalcava attorno alle gambe.
«Condivido il pasto. Poverini, sono affamati…»
Clara lo interruppe con un gesto secco: «No, no. Cosa ci fai qui
Quella domanda parve sorprenderlo. Evidentemente, gli sembrava cristallino il motivo della sua venuta, come se il posto assegnatogli nell’universo fosse stato quello e nessun altro.
Sempre sorridendo, sollevò il cartoccio che teneva in mano: «Ti ho portato il pranzo!»
Le aveva portato il pranzo.
Clara impiegò qualche istante a metabolizzare il concetto.
In che senso le aveva portato il pranzo?
Per una frazione di secondo ipotizzò che si trattasse di un’allucinazione – magari si era appisolata sul lavoro e si trovava, stranamente cosciente, nel proprio sogno – oppure di una fantasia partorita dal suo cervello per puro scherno. Poi però, colpita dalla scia di fritto che emanava il sacchettino d’asporto, capì che era tutto vero. Terribilmente, orrendamente vero.
Tutto ciò che riuscì a dire fu: «Ma… perché?»
In risposta, una semplice scrollatina di spalle.
«Mi sono svegliato stamattina e non c’eri. Il frigo, vuoto. Ho preso qualcosa da mangiare al volo.»
L’intero discorso la metteva a disagio. Molto a disagio.
Per qualche strana ragione, le sembrava un discorso da… da animale domestico. Sì, si sentiva come se avesse appena adottato un cagnolino: festoso, ma incapace di tollerare la solitudine, a rigirarsi inquieto nell’appartamento vuoto in attesa del suo ritorno.
Provò a bofonchiare un “non dovevi”, mentre l’amico balzava in piedi e le rifilava la busta.
La stava osservando come in attesa di qualcosa.
“Una ricompensa”, non poté evitare di pensare Clara, strozzando una risatina in gola.
«Ehm, possiamo,» rifletteva ad alta voce, «possiamo andare qui vicino. Conosco un luogo tranquillo, un po’ lontano dal centro. In genere non ci passa nessuno».
«Perfetto!» Arturo mutò d’improvviso atteggiamento. «Ho provato a chiamare Irene. Di nuovo.»
«Stecca, la devi finire di assillarmi con questa storia…»
L’altro sollevò i palmi, in segno di resa: «Okay, okay. Hai ragione. Godiamoci il cibo adesso».
«Prego,» disse, «fai strada.»
 
 
Il posto selezionato da Clara era una semplice piazzetta esagonale, con uno spicchio coperto da un salice e una minuscola chiesa in stile romanico incastonata su un lato del perimetro.
In effetti non vi era anima viva in giro, a differenza del piccolo centro storico e della via principale, perennemente affollati di pedoni. Era un piccolo spazio di serenità in cui il tempo pareva essersi arrestato al sedicesimo secolo.
Si accomodarono sulle panche che abbracciavano il tronco del salice.
Arturo notò con divertita sorpresa l’assoluto silenzio, la calma piatta che regnava in quella zona.
I suoi occhi da turista non erano abituati all’assenza di traffico, ingorghi e smog. Con sguardo limpido, fresco, accoglieva ogni tessera della città, mano a mano che le incontrava, per ricomporne un quadro mentale organizzato e soddisfacente.
«È così diverso, qui», si lasciò sfuggire in tono pacato.
Gli sembrava davvero di disturbare i palazzi o la chiesetta deserta.
Clara, al contrario, manteneva la solita sonorità squillante. Frugava nel cartoccio in cerca di tovagliolini, scrollandosi dalle dita fili di olio. «Ma cos’hai preso? Baccalà?»
Sbuffò, assumendo una voce lagnosa, da ragazzina. «Che poi non lo posso neanche mangiare il fritto, sono a dieta.»
Arturo, però, non la stava ascoltando. Preso com’era dalla trafila di abitazioni tutt’intorno, continuò il proprio discorso. «È proprio vera la storia della vita più sana in provincia, eh?»
«Sì, certo», commentò l’altra con la bocca per metà piena. «L’aria fresca, gli spostamenti in bicicletta, il cibo più buono e la morte civile.»
Gli lanciò un’occhiata severa. «La vogliamo finire con questi luoghi comuni?»
Le era tornato in mente, in un getto acido, in una forma di reflusso di memoria, il proprio arrivo in stazione, la prima volta che aveva messo piede in città dal trasferimento. Il periodo era quello pre-autunnale, già smorto, in cui ancora si barcamenava fra diverse abitazioni, sentendo di non appartenere in fondo a nessuna.
Le ore che aveva trascorso, buttato, in treno, ancorata al finestrino con i piedi appoggiati al tavolo di metallo, con un tramonto che le fendeva lo stomaco e l’ansia perenne di arrivare, arrivare, arrivare.
Era sempre un continuo arrivo, un movimento perpetuo, uno spostamento che non si esauriva ad un punto fermo, ad una stazione di approdo, ma semplicemente invertiva la direzione e la riportava indietro.
Non si sentiva meglio ad alcuna partenza, non la sollevava alcun biglietto o tabellone orario. Viveva “in mezzo”, in una terra di mezzo desolata e transitoria, composta di scatoloni d’imballaggio, borse, borsoni da riempire e svuotare, riempire e svuotare; le pareva di attingere e rovesciare la stessa acqua nel fiume.
Quel particolare arrivo in stazione se lo ricordava ancora bene.
C’era un’afa spaventosa, inadatta alla stagione, affatto accogliente. La stazione, minuscola e affumicata dal calore, dall’odore stantio di spazzatura bruciata, le aveva tolto il respiro, l’aveva soffocata.
Quando si era riversata in strada, anziché provare una sorta di liberazione, di sentire i polmoni rilassarsi, per poco non era collassata. Tutto ciò che aveva visto, davanti a sé: un’unica strada che portava, dritta dritta, al centro. Ed era lì, tutta lì, la sua esistenza.
«Sai», osservò acciambellando le gambe. «C’era una bambina che ho tenuto per un pezzo, i primi tempi qui. Non avevo trovato ancora sistemazione alla Sweet Essence, ovviamente. Te l’ho mai raccontato, Stecca?»
Arturo scosse il capo, addentando il proprio pranzo.
«Ah, sì. Era la figlia di amici di amici di famiglia, o una cosa del genere. Piccola, avrà avuto nemmeno cinque anni.»
Le scappò un sorriso al ricordo.
Ci pensava di rado, a Matilde – o meglio “Tilde”, come la chiamavano i suoi.
Aveva una strana fissazione per i documentari di storia, per i programmi scientifici su scoperte archeologiche, e per alcune teorie cospiratorie. Clara non avrebbe saputo dire quanto effettivamente capisse le nozioni di cui si ingozzava – lei stessa rimaneva confusa da termini troppo specifici o finiva per addormentarsi – ma certo era che avesse una passione estrema, al limite dell’ossessività.
«Per me non era un problema. Finché la facevano stare buona e tranquilla, andavano bene.»
Poi, una mattina Matilde si era messa a saltellarle davanti, tirandola per un braccio ed esigendo tutta la sua attenzione per una scoperta dell’ultimo istante. Clara aveva buttato un’occhiata allo schermo della tv, riempito dal fermo immagine di una cattedrale sommersa d’acqua.
Ricordava di aver ridimensionato la questione, o almeno di averci provato, perché Matilde non gliel’aveva permesso. Continuava ad indicarle il televisore.
«Mi ha detto: “Questa è Atlantide”.»
Clara picchiettò l’unghia sul marmo. «E intendeva che questa, questa città, è Atlantide.»
Le era sembrato un capriccio sciocco, lì per lì, ma ripensandoci in seguito le aveva dato la pelle d’oca.
«Ed è così, Stecca», sussurrò. «Una piccola, all’apparenza idillica, isola nel mezzo del nulla. Morta, sepolta, immaginata. Non so come faccia la gente a trascorrerci una vita intera.»
Arturo si era fatto serissimo tutto d’un tratto.
«Wow», fischiò. «I ragazzini sono più svegli di noi.»
«Eh già.»
Intanto aveva terminato la sua crocchetta e si ripuliva con difficoltà le mani dall’unto.
Decise di affrontare la questione più spinosa, sicura di non poter rimandare oltre.
«Cosa mi dicevi di Irene?»
«Ho provato a telefonarle di nuovo, stamattina, sia sul fisso che sul cellulare. Niente di niente.»
Il ragazzo appariva mortificato, come se avesse deluso delle aspettative che nessuno gli aveva imposto, se non forse se stesso. Clara sentì il bisogno improvviso di consolarlo.
«Te l’ho detto: secondo me è un periodo storto. Non ti angosciare, Stecca.»
Quello sollevò lo sguardo, deciso, puntandolo nella facciata romanica di fronte a sé, come a volerla trapassare.  
«Quanto dista da qui l’A4?»
«L’autostrada?»
Clara calcolò mentalmente almeno una ventina di minuti, considerato il percorso impervio, una volta superata la cinta cittadina vera e propria. «Mezz’ora al massimo. Perché?»
«Il posto in cui dobbiamo andare è vicino all’A4.»
“Dobbiamo.”
Che diamine si era inventato adesso?
No. Anzi, non voleva proprio saperlo. Si rifiutava categoricamente di lasciarsi trascinare nella follia a spirale di Arturo. Le sue macchinazioni per intrattenersi durante il soggiorno non l’avrebbero toccata, stavolta.
«Non so cosa tu abbia intenzione di fare, Stecca, ma io me ne torno a casa. Stanotte non ho chiuso occhio.»
Doveva aver fatto scattare un campanello interno, perché Arturo si era avvicinato con aria inquisitoria.
«Ah, e come mai?»
Clara si morse un labbro. Si era tradita.
«Rumori, pensieri vari.»
«Non sarà forse stata quella telefonata a vuoto?»
L’altra sbuffò, lisciandosi i pantaloni in un colpo secco. «Figurati.»
Nel semplice gesto di gettare i rifiuti nella più vicina pattumiera parve concentrare il triplo del vigore necessario. Lei? Spaventata da una chiamata senza risposta?
Da Irene non si aspettava niente di diverso.
«Sembrava così», insinuò Arturo. «Comunque, vado a questo indirizzo.»
Rivoltate entrambe le tasche dei jeans, trovò finalmente il biglietto che cercava. Lesse a voce alta: «Via L. Imperiali, numero 14».
Sperava in una reazione, che però tardò ad arrivare.
«La conosco. È una stradina isolata che costeggia l’A4.» Clara si accigliò. «Cosa c’è lì?»
Arturo si concesse una pausa enigmatica, quasi teatrale, prima di risponderle: «La vecchia casa del padre di Irene».
 
 
 
 
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Come avesse fatto a convincerla a seguirlo fino a lì, ad inerpicarsi tra l’erba incolta dell’autostrada e il vialetto sconnesso del 14 di Via Imperiali, non avrebbe saputo dirlo. O quantomeno, non avrebbe saputo spiegarlo in maniera razionale.
Vi era una determinazione – o una cocciutaggine – in Arturo, da quando si era presentato alla sua porta d’ingresso, che non gli aveva mai visto in diversi anni di conoscenza; se da una parte ne era sorpresa, dall’altra la preoccupava incredibilmente l’idea di mandare allo sbando un tipo come lui.
Certo, se le avessero preannunciato che i suoi piani per il weekend consistevano nel fare da babysitter ad un coetaneo con l’improvviso piglio dell’avventuriero, si sarebbe volentieri barricata dentro la Sweet Essence.
«D’accordo, eccoci qui.»
Ad Arturo era venuto un lieve affanno, a furia di evitare sterpi, restare in bilico su rocce precarie e saltare marciapiedi dissestati. Tenere il passo di Clara si era dimostrata l’impresa più ardua.
Lei, al contrario, se ne stava ritta in piedi con le mani piantate sui fianchi. Gli ricordò una vecchia tata che lo aveva accudito da bambino, con la stessa identica posa e l’espressione di disappunto a fissarle le labbra in una linea sottile.
«Adesso cosa pensi di fare?»
«Citofoniamo.»
E, cercato il nome corrispondente in elenco, premette il bottone. L’etichetta s’illuminò all’istante, accompagnata da un suono irritante.
Che a suo parere fosse una pessima idea, Clara gliel’aveva ripetuto almeno una ventina di volte. Per tutto il tragitto lo aveva martellato di domande, di insistenti richieste su quale fosse il suo piano con esattezza, ma era stato un buco nell’acqua. Arturo agiva d’improvvisazione, quel giorno.
L’attesa durò un paio di minuti, ma al terzo tentativo dovettero gettare la spugna.
«Oh, beh, abbiamo provato», sospirò il ragazzo.
Era già pronto a rincasare, quando Clara lo acciuffò per una manica e lo tirò con sé, verso il portone sigillato.
L’aveva trascinata fino a quel punto e adesso voleva rinunciare con una simile rassegnazione?
«Ma hai sentito anche tu: non c’è nessuno in casa.»
«Stecca,» sembrava tentata di linciarlo. «Che cosa mi hai detto prima?»
Arturo s’impegnò a rifletterci. «Sui fiori, intendi. Le giunchiglie che crescono anche lungo le autostrade. C’era quel famoso poeta inglese che aveva scritto una…»
«No, Stecca» lo interruppe all’istante. «Sui tuoi presentimenti e sulla vicinanza emotiva.»
Aveva semplicemente fatto un’osservazione sul “terribile presentimento” che non gli permetteva di chiudere occhio da parecchie notti, dalla sparizione della ragazza.
«Io in queste premonizioni non credo,» proseguì lei, «però un tentativo non costa niente.»
Gli rivolse un abbozzo di sorriso. «Così ti tranquillizzi.»
Tutt’intorno, la stradina era non solo silente, ma avvolta in un telo mortuario: latteo, denso, allucinante.
L’unica presenza viva sembrava il mucchietto di foglie, per metà incastrato sotto alla staccionata del vialetto; il vento agitava l’altra metà, sparpagliandola in pochi metri di terriccio umido.
Arturo storceva il naso. «Non lo so, Clara. Forse dovremmo rincasare.»
Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«Io non ti capisco, Stecca. Cosa diamine ti passa per la testa?»
«Non sono più sicuro sia una buona idea.»
Clara spalancò le braccia, esasperata: «Infatti è una pessima idea! Te lo sto dicendo da ore, ma tu non ascolti!»
Un movimento, oltre il vetro del portone, agganciò lo sguardo di entrambi.
«C’è la portinaia. Possiamo domandare a lei.»
Ma Arturo era già arretrato di diversi passi, ritrattando sull’intera missione.
La signora in questione era una donna piuttosto avanti con l’età, robusta e rigida nelle articolazioni. Si muoveva a fatica e con estrema difficoltà spalancò i battenti.
Arrotolò il cognome di Irene sulla lingua, impastandolo con perplessità. «Zanetti?»
Clara annuì. «Siamo amici di famiglia.»
La risposta fu asciutta e chiarissima: «Fòra».
Viveva ormai da tempo fuori città, in un’altra zona, appoggiandosi lì, a casa della madre, solo occasionalmente. Da quel che ne sapeva, non si vedeva nel condominio da un mese o forse più.
Clara, però, aveva assorbito la determinazione di Arturo e, mentre quest’ultimo la tirava per la manica del cappottino, cercando di persuaderla a lasciar perdere, lei chiese se potessero salutare velocemente la signora Zanetti, la nonna.
«La vecia?»
Per quanto paradossale sentirle usare l’appellativo, Clara annuì di nuovo. Le sarebbe piaciuto sapere come si considerasse la portinaia, nei suoi novant’anni suonati. Ma avrebbe lasciato il dilemma ad un’altra occasione.
«Stecca, smettila. Mi rovini il cappotto.»
Con uno strattone, si liberò di Arturo, ridotto ad un bambino di cinque anni irrequieto e dispettoso.
«Ma è meglio non disturbarla. Senza il figlio in casa, magari a quest’ora riposa.»
La portinaia cantilenò una bestemmia. «Riposa, riposa. Xe morta!»
Clara sentì il cuore scivolarle più in basso di qualche centimetro.
«Morta?»
«Mese scorso.»
Un accesso di tosse la costrinse a ritirarsi, ma non prima di aver indicato Arturo e aver annuito.
Lo aveva riconosciuto.
 

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Capitolo 5
*** 2. Atlantide (II) ***


II Parte
 
 
 
 
Clara guardò incredula il proprio compagno.
Arturo aveva ormai abbandonato ogni tentativo di svignarsela. Adesso si rigirava i pollici a capo basso, simile ad un cane da compagnia rimproverato.
Il vento cresceva esponenzialmente, mentre i mulinelli di fogliame e terriccio venivano vomitati sulla gradinata di marmo. Alle spalle di Arturo, Clara vedeva il giorno sgretolarsi in un temporale latteo, un foglio bianco su cui scatenare la tempesta in arrivo. Era aria da ciclone, quella.
Sentì la rabbia montarle dentro.
«Tu… lo sapevi?»
«Ecco, io…» Il ragazzo cercò qualsiasi difesa a cui appigliarsi, una scappatoia in cui infilarsi e defilarsi.
«Stecca, come hai potuto tenermelo nascosto?»
C’era una venatura che incrinava le parole di Clara, come accadeva ogni volta che alzava la voce. In molti faticavano a rimanere seri davanti alle sue sfuriate. Il tono s’impennava, toccava un acuto, per poi schiantarsi e morire nel silenzio. Ma nell’aggressività che lampeggiava negli occhi torbidi, Arturo non trovò nulla di divertente.
«Piombi qui, in casa mia, a pretendere aiuto, a fare il paladino dei più deboli, e non mi dici che Irene ha perso sua nonna? Ma poi,» Clara si riassestò una ciocca fastidiosa, «con che faccia fai la ramanzina a me? Mi hai davvero delusa.»
Lui optò per uno schermo di affermazioni con cui confonderla.
«È successo da poco, non ne ha voluto parlare con nessuno – sai Irene quanto è riservata – e mi ha chiesto di non rivelare nulla. Io ne ero a conoscenza solo perché non è voluta partire da sola», sputò in fretta.
Clara stava avanzando minacciosamente verso il ragazzo, che a propria volta arretrava intimorito, ma si bloccò, rimasta di stucco.
«Partire da sola? Che intendi?»
La conversazione venne interrotta dall’apparizione della portinaia. Propose di farli salire, se erano stati incaricati di portare via qualcosa per conto della famiglia Zanetti.
Arturo fece segno di no con il capo, scusandosi per il disturbo. Dovevano rincasare.
«No.»
Clara lo fulminò all’istante. Con estrema lentezza, scandì: «Certo che vogliamo salire».
L’appartamento si trovava al primo piano, arrampicato su di una scala stretta e malconcia; l’intonaco delle pareti era sgretolato qui e lì, specialmente attorno al basamento. La signora, che aveva abolito qualunque tipo di presentazione, iniziò la propria scalata con ritmi distesi.
Gli altri due la seguivano lungo la spirale in silenzio, recependo qualche sospiro e sforzo strozzato, tra una bestemmia e l’altra.
Clara non riusciva a credere che Irene le avesse tenuta nascosta una notizia del genere.
Scalino dopo scalino, la sua perplessità aumentava, insieme al fragoroso rancore che le tuonava nella cassa toracica. E, in tutta quella faccenda, ciò che la innervosiva oltre ogni ragione era la presenza di Arturo.
Aveva chiesto ad Arturo di tenerle compagnia, quando lei abitava lì, in città, praticamente dietro l’angolo?
Arturo con cui passavano il sabato sera, quando non avevano progetti migliori; Arturo che s’infiltrava in ogni progetto pur di stare accanto alla sua adorata Irene; Arturo, Stecca insomma – Stecca e basta – che entrambe consideravano un fanalino di coda, nella sgangherata comitiva che avevano formato.
Ed eccolo, ora, il caro Arturo, concentrato a sorridere alla portinaia nel farsi aprire la serratura, nel rifilarle una bugia per poter accedere ad un appartamento in cui sarebbero stati due estranei.
Degli infiltrati, a tutti gli effetti.
Clara dovette mangiarsi le mani, per resistere all’urgenza di strozzarlo.
«La ringrazio, ci vorrà pochissimo.»
Pizzicò il ragazzo per un’orecchia, tirandolo oltre l’ingresso, mentre l’anziana socchiudeva l’uscio, rimanendo in attesa sul pianerottolo.
«Tu», sussurrò a denti stretti, «adesso mi spieghi tutto, per filo e per segno.»
Il giovane piagnucolava. «Sì, sì, adesso ti racconto tutto, ma lasciami. Mi fai male.»
L’altra a malincuore dovette ubbidire, approfittandone per guardarsi attorno.
Per quanto la signora Zanetti si potesse essere impegnata, in vita, nel tenere gli ambienti puliti ed ordinati, adesso vi regnava solo un immobilizzante silenzio, coperto da strati di polvere. Clara lasciò scorrere un dito sul bancone posto all’ingresso, disegnando una linea retta in mezzo ad un mare cinereo.
L’unico corridoio si diramava nelle stanze principali, prime fra tutte cucina e salotto, collegate da un’ampia arcata. Il pavimento del salotto era ingombrato da scatoloni, residuo forse di un trasloco. D’altronde, da quanto ricordavano entrambi, il padre di Irene trascorreva molto più tempo fuori casa che in famiglia.
Particolare stonante, rispetto alle condizioni di abbandono: le serrande per metà alzate.
Spostandosi nel salotto, Clara notò la quantità di pizzo che gettava ombre sui mobili. Una tendina in particolare catturò la sua attenzione: cadeva sulla finestra, intarsiata da ricami e chiaroscuri, simile ad una mano morta. Anche l’incerata gettata sul divano, quasi ad inglobarlo, a nasconderlo, le ricordava la scena di un crimine. O una stanza mortuaria.
«Allora?»
Arturo prese un respiro profondo. «È iniziata lo scorso mese», cominciò.
«La notizia della morte della nonna, l’ha presa abbastanza… bene. Almeno in apparenza.»
Clara, appoggiatasi ad uno sgabello, allacciò le braccia al petto. Stava lottando contro la volontà di interromperlo e aggredirlo nuovamente, per non averle partecipato il lutto. Dal momento che non poteva confrontare Iene direttamente, Stecca avrebbe costituito un ottimo capro espiatorio. Riuscì a trattenersi. 
«Gliel’ha detto il padre. Al funerale non avrebbe voluto neppure presenziare, ma sarebbe stata una mancanza di rispetto, immagino.»
L’altra annuì. Irene non era il tipo da grandi occasioni.
Le ripeteva di continuo quanto non tollerasse le cerimonie: non era in grado di fingere per il bene comune, per la reciproca convivenza; finiva sempre per sentirsi fuori luogo, qualunque fosse la circostanza.
«Avrebbe dovuto farsi un lungo tragitto fino a qua. Io non guido, lo sai, però volevo che non si sentisse sola, in pullman. Così, mi sono offerto di partire con lei.»
Si strinse nelle spalle, un velo di malinconia ad appesantirgli lo sguardo. «Era tutto ciò che potevo fare.»
Arturo intanto si era inginocchiato accanto ad uno degli scatoloni. Sopra di essi risaltavano etichette e nastro adesivo da imballaggio; alcuni recitavano “fragile” stampato in rosso.
«Specialmente, dopo la discussione con Sienna.»
Clara drizzò il capo, perplessa. «Con Sienna?»
«Mh-mh», mugugnò l’altro. Sfiorava la chiusura di un paio di box, più per distrarsi e raccogliere i pezzi del discorso che per reale interesse. Non si sarebbe mai permesso di aprirli, senza il consenso dei proprietari. La portinaia era stata incauta a lasciarli entrare e il giovane si chiedeva se l’avesse effettivamente riconosciuto, poco prima, o si fosse trattata di una coincidenza favorevole.
«Quale…»
La ragazza si schiarì la voce. «Quale discussione con Sienna?»
«Oh, non lo sai?»
Il tono di Arturo appariva semplicemente stupito. Nessun’ombra di rimprovero o derisione; puro e semplice stupore. Clara realizzò che il suo amico fosse l’ultima persona genuina che conosceva sulla faccia della terra. In Arturo niente era montato, artificioso; era incapace di nascondere un’emozione, di macchinare alle spalle altrui. Era se stesso, nudo e crudo, con il proprio mantello di difetti, imperfezioni che non temeva di nascondere davanti agli altri.
La ragazza scosse il capo, recisa.
«È successo prima del funerale, quando Sienna è tornata in Italia per un breve periodo.»
Irene gliel’aveva narrato in pullman, quell’episodio, parlando a bassa voce, in un tono sussurrato che di rado utilizzava. Ricordava le sbarre luminose che i lampioni proiettavano sul suo viso, rendendolo una strana grata di ombre e calore, mentre l’autostrada scorreva placida fuori dal finestrino, segmentando il paesaggio in una miriade di spezzoni.
L’aveva raccontato tutto d’un fiato, senza interrompersi, con i grandi occhi sperduti inchiodati oltre il vetro, richiamandogli alla mente l’immagine di un cerbiatto.
Bellissima, nel suo maglioncino scuro di lana, la cascata di ricci e ondulazioni sbilenche a gonfiare il volto affilato. Riferiva i fatti con la calma tipica di chi si è rassegnato ad un dolore ben conosciuto, ma impossibile da contraddire o sbaragliare del tutto. Pareva covarlo dentro di sé, tenendoselo legato al petto accanto al ciondolo che indossava spesso, oppure celato come una cicatrice: una parte indissolubile del suo essere.
Gli stava spiegando perché volesse tacere il funerale della nonna anche a Sienna, che aveva conosciuto l’anziana personalmente, molti anni prima, e nell’occasione era emerso un particolare rinvenimento.
Il conflitto era esploso per strada, in piena notte. Stavano tornando da una serata fuori città in compagnia di alcuni sconosciuti incontrati ad un pub. Erano da sole nell’auto di Sienna; una pioggiarellina tenue e rapida picchiettava sul parabrezza. La guidatrice aveva attivato i tergicristalli, alzando il volume di una canzone che entrambe cantavano fin da piccole.
Irene non gli aveva fornito ulteriori dettagli sull’accaduto. A suo dire, all’improvviso si era sentita attanagliare il petto da un senso di soffocamento, da un terribile spandersi d’aria bollente nei polmoni.
«Ferma. Ferma la macchina, Sienna.»
Ma l’altra l’aveva guardata come se fosse impazzita. «Che succede? Non ti senti bene?»
Non riusciva ad aggiungere altro, sotto le lacrime che le imbrattavano la camicia e i singulti incontrollati. Singhiozzava quelle uniche tre parole, sbattendo i pugni contro l’intelaiatura della macchina.
Ad Arturo l’aveva descritto come un moto incontenibile di agitazione, l’ebollizione di viscere, scheletro e sangue tutt’insieme; aveva sentito che, se non fosse scesa all’istante dal veicolo, i pensieri le sarebbero schizzati dalle orbite oculari.
Con le mani si era aggrappata ai propri vestiti, scorticandosi la pelle.
«Ferma. La. Macchina.»
«Non posso fermare qui, in mezzo al nulla, Ire.»
In sottofondo, il ticchettio proveniente dal quadro strumenti si miscelava alla voce melodica di Battisti.
«Ma ti ricordi le onde grandi e noi, gli spruzzi e le tue risa? Cos’è rimasto in fondo agli occhi tuoi?»
Aveva smesso di cantare, Irene.
Tutt’intorno a loro, si snodava il nulla della statale, poco prima dell’approdo in città.
Alla fine, Sienna aveva dovuto tagliare la strada ad un camion, rischiando di cozzare contro un motociclista, tra le proprie urla e quelle di Irene, che ad occhi chiusi si otturava le orecchie, pronta allo schianto finale.
«Ha accostato», gli aveva comunicato Irene, lasciandolo senza parole. «A quel punto, siamo scese entrambe dall’auto e lei ha preso ad urlarmi contro, a dirmi che ero impazzita.»
La pioggia, aumentata d’intensità, si era trasformata in un acquazzone.
«Allora l’ho odiata ancora di più.»
Con il mento piegato sul petto, Irene aveva ammesso: «Io volevo solo che non partisse di nuovo».
Da quel punto in poi, era degenerata.
Sienna l’aveva minacciata di mollarla lì, perché non aveva intenzione di proseguire il viaggio con lei in quelle condizioni, mentre l’amica si sbracciava e liberava dei capelli che il vento le incollava al viso.
«Vattene, allora! Vai via, come fanno tutti, come fai di continuo.»
Tra il pianto violento e gli accessi di tosse, Irene si era gettata in ginocchio sull’asfalto, macchiandosi i jeans di terriccio e chiazze verdastre. Gli sportelli della Panda erano rimasti aperti, rigurgitando il flusso di musica dello stereo ancora acceso.
Sienna le si era accostata come avrebbe fatto con un animale ferito, che avesse appena investito.
«Ire, ma che ti prende?»
«Sei appena tornata e già vuoi ripartire.»
Le aveva anticipato del biglietto di sola andata per il Tibet, acquistato alcuni mesi prima.
«Ma è una vita che sogno di andarci! E poi, non potrei neanche farmi rimborsare le spese.»
Lhasa era una delle mete del cuore, che coltivava nel proprio immaginario da quando aveva sette anni e ne aveva scoperto l’esistenza su di un libro di geografia.
Collocatala sul planisfero, si era messa in testa che un giorno avrebbe visitato quella città. Poi, crescendo, anche il progetto si era espanso con lei e aveva finito per abbracciare diverse sezioni del Tibet.
«Lo so» era stata la replica dell’amica, ancora incapace di rimettersi in piedi. «Ma non voglio che tutto questo finisca. La musica, i sabato sera fuori città, i tuoi ritorni… sono le ultime cose che ci rimangono, capisci?»
Sienna aveva annuito, senza capire un bel niente, ma cercando di aiutarla a rialzarsi. Irene era una piuma, eppure la resistenza opposta aveva minacciato di trascinare tutte e due sul cemento. Con uno sforzo notevole, erano infine tornate, fradice, nell’abitacolo riparato e con molta calma – forse nella maggiore prova di sangue freddo che la vita le avesse richiesto – Sienna aveva riportato entrambe a casa, sane e salve.
Il racconto era stato interrotto in quel punto.
Clara preservò l’atmosfera di quasi sacrale silenzio, che adesso saturava le pareti della stanza.
Non sapeva come sentirsi, né cosa pensare o aggiungere. Di certo, non si sarebbe aspettata una reazione simile da parte dell’ex coinquilina. Scoppi emotivi, a volte, ne aveva avuti, ma mai tali da mettere a repentaglio la propria, o l’altrui, incolumità.
Preso dal racconto, Arturo non si era accorto di aver aperto uno degli scatoloni. Un semplice moto istintivo, forse per canalizzare altrove il proprio disagio.
«Oh, accidenti», gli sfuggì. «Ho rotto lo scotch.»
Si stava già impegnando a rivoltare lo scatolone, in cerca di una rapida e indolore soluzione al problema, quando Clara si accosciò sul pavimento accanto a lui, bloccando ogni tentativo.
Lateralmente, sul cartone era stato annotato con un pennarello scuro: CD/cassette.
La ragazza fece scivolare una mano all’interno dell’imballaggio.
«Clara, aspetta. Che fai? Sono cose private.»
Una scrollata di spalle. «Rimarrà tra di noi.»
Arturo scattò in piedi, allontanandosi dallo scatolone, come scottato. Ribadiva ossessivamente che non gli piaceva affatto, tutta quella storia, che non voleva immischiarcisi.
«Stecca. Stecca, calmati», gli ripeté lei, con tranquillità. «Ci siamo già dentro, non so se te ne sei accorto.»
Con un cenno abbracciò l’intera stanza, il corridoio e le camere attigue, che restavano mute, placide. Morte.
«Bene», annuì lui. «Ma mi rifiuto di diventare complice di questa violazione della pri…»
«Stecca?»
Gli lanciò un’occhiata eloquente, che spegneva sul nascere qualsiasi replica. «Chiudi il becco e aiutami.»
C’era una quantità di videocassette, tra carta e polistirolo, impilate le une sulle altre e prive di involucri. Alcune apparivano smembrate, con i nastri sfilacciati in bella mostra o intrecciati in nodi saldi. Carcasse eviscerate: ecco cosa ricordavano.
I due amici si misero a frugare per un tempo indefinito, mentre dalla finestra si andavano spegnendo gli ultimi bagliori lattei e l’aria di tempesta si scontrava contro il vetro, facendo sbattere le imposte.
Chiunque avesse svolto quell’operazione di riciclo, doveva averlo fatto con una trascuratezza avvilente, ammassando insieme registrazioni, cd musicali, film e pellicole in VHS.
Se la signora Zanetti fosse stata presente, avrebbe diretto le operazioni in modo decisamente diverso, seguendo un razionale ordine interno; con la stessa cura con cui innaffiava i poveri fiori marciti in cucina.
D’improvviso, la voce di Clara fratturò la quiete. «Questo cos’è?»
Passò una minuscola videocassetta ad Arturo, che prese ad esaminarla a fronte aggrottata.
«Sembrerebbe,» tentava di leggere l’etichetta dall’inchiostro sfumato, «roba della Disney.»
Le mostrò il celebre logo con l’indice.
Un mangiacassette dell’86 dormiva in un angolo della libreria, che occupava una parete intera. Seppellito tra riviste di cucito, libroni sul giardinaggio ed enciclopedie risalenti ai primi anni novanta, manteneva il poco spazio residuo senza protestare.
Clara si trascinò fino al mobile, soffiando via uno sbuffo di polvere.
«Scopriamolo.»
Lo stereo fece le bizze, inizialmente, rifiutando i comandi d’accensione ricevuti e vomitando la cassetta per diversi tentativi. Al sesto o settimo, tuttavia, una parte della colonna sonora della Sirenetta venne snocciolata. Clara guardò il proprio amico, entusiasta. Le pareva di aver rimesso in funzione chissà quale reliquia. «E non si rischia di affogar. No, non c’è un amo in fondo al mar.»
Il tripudio di strumenti esplose in coro, mentre Arturo riassumeva l’atteggiamento diffidente di poco prima.
Che fine aveva fatto la portinaia?
Si era forse scordata degli ospiti inattesi oppure aveva capito che si trattava di intrusi ed era andata a chiamare rinforzi, bloccandoli lì dentro?
Preoccupazioni simili non sfioravano affatto la sua compagna, che al contrario era ipnotizzata dall’oggettistica con cui gli Zanetti avevano riempito i vuoti nella libreria.
Vi erano riproduzioni di elefantini, tartarughe e cani in gran quantità, appaiati ad un portagioie arrugginito, un orologio in miniatura tuttora funzionante e tante, troppe, cianfrusaglie.
La sua attenzione, però, fu catturata da una fotografia. All’interno di una cornice opaca, erano ritratte la signora Zanetti in persona – alleggerita di almeno una decade – assieme alla nipote.
Irene doveva aver avuto poco più di sette anni, al momento dello scatto.
L’effetto seppia omogenizzava i volti all’ambiente, unificandoli in un vortice color pesca.
«Clara, forse adesso è il caso di andare.»
Irene stava in braccio alla nonna, nel proprio costume natalizio, retaggio di una recita scolastica – o qualcosa di simile – di cui conservava un buffo cappellino da elfo, sul capo.
Un sorriso a trentadue denti, così puro e genuino, che Clara non le aveva mai visto in volto.
«Che c’è di bello, poi, lassù? La nostra banda vale di più.»
La risata di Ronny Grant fece traballare le mura.
«Clara, dico sul serio.» Arturo scrutava con preoccupazione il buio pesto che li attendeva, fuori dall’abitazione. Un improvviso senso di gelido terrore gli risalì la schiena, provocandogli un tremito.
«Andiamo. Non so perché, ma questo posto inizia a mettermi i brividi.»
C’era qualcosa, negli occhi della matrona Zanetti, di vagamente spettrale. Clara era sicura che non fosse legato esclusivamente alla notizia della sua recente scomparsa.
«Ogni lumaca si fa un balletto, in fondo al mar.»
La montatura di corno rifletteva il flash della macchina fotografica, immortalandola in una posa troppo… avvinghiata. Clara sentì pulsare le tempie. Non si spiegava cosa le stonasse, in quel quadretto familiare ed affettuoso, eppure c’era qualcosa che la turbava.
«E tutti quanti ci divertiamo…»
Le dita scheletriche della Zanetti trattenevano la stoffa del tutù di Irene, mentre la ragazzina sventolava una stella filante sotto al naso, trionfante. La defunta sorrideva a propria volta.
«…qui sotto l’acqua, in mezzo al fango…»
Ma quel sorriso celava frammenti di tirannia, di possessività.
«Ah, che fortuna, vivere insieme…»
Con quel sorriso, la signora Zanetti ringhiava all’obiettivo.

«…IN FONDO AL MAAAAAR.»
Come da copione, il brano si spense sulle note finali, nella chiusura sugellata dalle trombe.
Qualcuno aveva bussato alla porta.
La musica si era interrotta nello stesso istante.
Per un soffio, Clara non fece precipitare la cornice al suolo. Con una mano stretta al petto, riprese fiato.
Fu Arturo a biascicare uno stentatissimo: «S–sì?»
La portinaia urlò qualcosa sul troppo tempo trascorso. Ne avrebbero avuto ancora a lungo?
«No. Arriviamo.»
 
 
 
 
 
La stufa era accesa.
In via del tutto eccezionale e forse non per il freddo.
L’appartamento di Clara, infatti, a fronte di tante pecche, poteva contare su di un isolamento formidabile. Era sufficiente accendere qualche minuto il forno, per riscaldare le altre stanze.
Arturo se ne stava sdraiato sul divano, per metà riparato dal plaid rifilatogli per la notte.
Della valigia in salotto non si era dato pensiero; ne aveva estratto lo stretto necessario e lasciato il resto schiacciato nel borsone.
Clara fece capolino dall’angolo cottura.
Non avevano trovato espressioni adatte a spiegare quel che era avvenuto nell’abitazione della Zanetti.
Il semplice pensiero era stato messo all’indice, di comune accordo.
Prese posto accanto a Stecca, senza spiccicare parola.
Soltanto a seguito di una lunga pausa, ebbe il coraggio di ammettere: «Abbiamo sbagliato».
«Sì,» l’altro assentì vigorosamente, «decisamente sbagliato. Grosso errore, anche.»
«Invadere gli spazi della signora Zanetti, quelli del figlio e di Irene stessa. Non avremmo dovuto.»
«Te l’ho detto che detestavo l’idea.»
Clara recuperò il cordless dal tavolino. Un sospiro le sollevò e abbassò il petto scarno.
Poi, con decisione, decretò: «Chiamo la madre».
Arturo sgranò gli occhi, allibito. «Cosa?!»
«Non credere che sia stata una scelta facile,» lo ammonì lei, «ci ho riflettuto a lungo. Penso che sia la decisione migliore.»
«Forse per scatenare la terza guerra mondiale. Clara, ma che ti sei messa in testa?»
L’altra scattò, colpendo il ripiano di legno con il telefono. «Io? Sei tu a voler fare il Don Chisciotte della situazione, Stecca.»
Aveva iniziato a comporre il numero, quando l’amico si tuffò dal divano e la bloccò, avvinghiandole le gambe. Strusciando sul tappeto, avvoltolato nel bozzolo di plaid, la stava implorando di riflettere.
«Sei sempre tu quella razionale. Pensaci un attimo: la madre di Irene non è il massimo dell’affidabilità.»
«Ma magari lei sa dove si trova Irene. È la figlia, dopotutto.»
Con un calcio, tentò goffamente di liberarsi del proprio fardello. «E mollami, Stecca!»
Il ragazzo fu costretto a rinunciare. Rotolò accanto alla poltrona, sbattendo il capo contro uno dei braccioli.
La blanda giustificazione giunse come un decreto ufficiale: «Non ho soluzioni migliori».
«Io sì, però.»
Una frazione di secondo e il cordless rimase sospeso in aria.
Clara si voltò verso l’amico, guardinga. «Cioè?»
«Nicola.»
Lei misurò le parole con ulteriore prudenza. «E cosa può fare, per noi, Nicola?»
«Può darci una mano. E un alloggio transitorio.»
«A Padova?»
L’altro annuì, massaggiandosi la testa. Un piccolo bozzo stava indubbiamente già spuntando sul punto della colluttazione.
«Non credo che abbia voglia di ospitarci», fu la replica asciutta. Era tornata al monitor del telefono, riproducendo il codice a memoria. «E poi, io detesto richiedere favori.»
«Lo so.» Arturo lanciò la coperta lontana da sé, districatosi dalle frange.
«Per questo gliel’ho già chiesto io.»
 

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Capitolo 6
*** 3. Il mostro sotto il letto ***


3. Il mostro sotto al letto 
 
I Parte
 
 
 
 
Padova di prima mattina era uno scrigno di brina e perle d’acqua.
Lacrime di pioggia irrealizzata colavano lungo il finestrino, nei profili degli alberi e agli angoli delle strade, rendendo il paesaggio un acquarello, composto solo di grigi e sfumature sbiadite.
Le facciate vivacizzate degli edifici, rincorrentesi nel viaggio in automobile, erano sbavature dello sfondo.
Ogni volta che metteva piede a Padova, Clara sentiva resuscitare dentro di sé uno sciame di ricordi di cui avrebbe volentieri fatto a meno.
C’erano il sapore di latte rancido attaccato alla gola, le temperature che sfioravano lo zero e le corse infinite sul pulmino che, ogni mattina per almeno cinque anni, l’aveva trasportata dalla periferia della sua remota “Atlantide” fino a lì.
C’erano poi i tragitti di ritorno, in solitudine, con il libro di matematica incollato alle gambe e i sussulti continui del sedile; pomeriggi interi spesi nella cappa afosa che era l’aria viziata del veicolo, a sperare che il futuro le riservasse qualcosa di meglio di un semplice andirivieni di persone sconosciute, luoghi anonimi, ampi spazi che non simboleggiavano un bel niente nella sua esistenza. Allora si ripeteva mentalmente che un giorno avrebbe aspirato il mondo a pieni polmoni, e non attraverso un finestrino semi-bloccato; curioso scoprire come, poi, la sua vita fosse tornata ad un punto di partenza identico, come a voler chiudere un cerchio, che di sacro o rituale non possedeva nulla.
E, infine, c’erano i minuti contati sulle dita, a Padova. I minuti e le ore che scorrevano a rilento, dietro il banco scolastico del suo vecchio liceo, a sonnecchiare addossata al muro, lottando contro le lame di luce al neon che, dal soffitto, attaccavano gli studenti ignari.
Sebbene negli anni ci avesse ricamato molti altri ricordi, attorno a quella città – ricordi entusiasti, scoppiettanti, di notti trascorse in compagnia dei suoi amici più stretti – non era mai riuscita a scrollarsi di dosso quella sensazione di soffocamento; sensazione che si riproponeva tuttora, più intensa che mai.
Quell’agonizzante senso di apnea si era affacciato a metà strada, mentre al volante cercava di scorgere i primi segnali per l’uscita verso Padova, solidificandosi mano a mano che si riducevano i chilometri rimanenti. Una volta arrivati nella cupola di nebbia, era come se vi fossero rimasti invischiati, ingabbiati dentro, senza possibilità di salvezza.
Fortunatamente, la zona in cui risiedeva il loro amico costituiva una specie di microclima a parte.
Nicola condivideva da anni l’appartamento con un paio di coinquilini, che lentamente aveva imparato a tollerare. Prendere l’intero pacchetto – locale per tre persone, con aggiunta di due sconosciuti – era stato un alto rischio per la quiete a cui teneva tanto, ma aveva accettato l’offerta a scatola chiusa, pur di ritagliarsi uno spazio fuori dall’ambiente familiare.
Avrebbe potuto definire “amici” i due coetanei che occupavano le altre camere da letto e sparpagliavano involucri di cibo, insieme a spazzatura varia, per il salotto, ma Nic non possedeva un simile termine nel proprio vocabolario.
«Per me sono come delle presenze che si aggirano nella casa», aveva detto una volta con nonchalance.
Quando Irene gli aveva fatto notare che pareva stesse parlando di defunti, lui aveva liquidato la faccenda con una scrollata di spalle. «Finché pagano l’affitto, possono essere quel che vogliono. Anche il demonio in persona.»
In realtà, a Clara, le poche volte in cui li aveva incontrati, erano sembrati dei comunissimi ventenni – magari con qualche carenza a livello di capacità relazionali, ma abbastanza affini all’animo di Nic.
«Ci siamo», le aveva comunicato Arturo sul pianerottolo.
L’interno quindici non presentava alcuna targhetta identificativa, come se, oltre la soglia, avrebbero trovato ad attenderli una sorta di terra di nessuno.
Non era poi così lontano dalla realtà.
In risposta all’eco del campanello, propagatosi nell’appartamento in una serie di scatole cinesi, la voce di Nicola che li aveva raggiunti attraverso la porta: «Avanti. È aperto».
Clara ricordava vagamente una sottile mancanza di rispetto delle norme igieniche, da parte di Nic e dei suoi coinquilini, ma ciò che l’aveva accolta, all’interno, era un vero delirio.
La moquette era tappezzata da pozze multicolori di calzini spaiati, ammucchiati dove capitava assieme a pagine di giornale accartocciate; alcune scatole di fazzoletti vuote ingombravano banconi e tavolini, mentre il loro precedente contenuto abbelliva divano, televisione, lampade… tutto ciò che potesse essere contaminato. Gli scarti della cena cinese, ammucchiati nel salone, le avevano ricordato lapidi di carta.
Avevano trovato i loro ospiti davanti al televisore, intenti a concludere una partita di Mario Kart.
Bobo e Chiozza, sentinelle ai due lati di Nicola, urlavano e inveivano gli uni contro gli altri, srotolando un elenco di bestemmie lungo quanto la Bibbia ed aggiungendovi, di tanto in tanto, variazioni creative, secondo il loro gusto. Nicola si ergeva sulla pila di cuscini che avevano adagiato sul pavimento, sporgendosi verso lo schermo della tv come a volerci entrare dentro, mentre stringeva al petto il controller, divenuto ormai una protesi del suo corpo.
Clara si era trascinata dietro il proprio borsone, aiutando anche Stecca con i suoi bagagli.
«Ma no, prego, restate pure comodi.»
Per tutta risposta, Nicola l’aveva zittita, sventolando il joystick come sul punto di lanciarglielo addosso.
Tra le grida generali, era emerso un: «Guarda quel maledetto di Yoshi!»
A quel punto, anche Nicola era scattato in piedi, urlando: «Tiragli il guscio azzurro! IL GUSCIO AZZURRO!»
Lo schermo, diviso in più parti, catturava gli ultimi attimi della corsa sfrenata verso il traguardo – lo striscione della vittoria già visibile all’orizzonte – con l’alter-ego di Chiozza che eseguiva un sorpasso, cinguettando con voce trionfante. Un altro personaggio era stato tramortito da una buccia di banana, intrappolato ora in un loop di giravolte su se stesso.
Clara si era piazzata accanto al trio, a braccia conserte, rendendosi conto solo in quell’istante dell’insolito silenzio di Stecca. Da quando erano partiti, non aveva fiatato più del necessario, richiuso nel guscio del sedile accanto al suo, senza un commento, una battuta, un aneddoto che lei avrebbe eclissato come irrilevante. Perfino il notiziario della radio l’aveva sorpassato alla stregua di semafori e guardrail che sfrecciavano nel riflesso dello specchietto.
Divisa tra il tacere e l’interrogarlo sulla questione, Clara aveva trovato salvezza nell’urlo bestiale di Chiozza.
«Vi ho stracciati, cazzo! Vi ho stracciati», aveva esultato, saltando su di una sedia e battendosi il petto a mo’ di gorilla. «King Kiozza!»
E se Bobo non si era rassegnato alla sconfitta, mugugnando altre bestemmie sottovoce, Nicola invece aveva provveduto a spegnere l’apparecchiatura e ribadito che non era una vittoria meritata.
Finalmente, si era deciso a considerare i nuovi arrivati.
«Ragazzi,» aveva sorriso piazzando ad entrambi una mano sulla spalla, «come state?»
Il volto di Clara era rimasto per qualche secondo impassibile, salvo poi sgretolarsi in un’ondata di rabbia.
«Male! Questa città è uno schifo.» Poi, gettando un’occhiata in giro: «Questa casa è uno schifo».
«Anch’io sono contento di rivederti, Clara.»
 
 
 
Li aveva sistemati in camera propria.
Bobo e Chiozza avrebbero condiviso la stanza del primo, mentre Nicola si sarebbe adattato al divano-letto. La proposta, però, era stata bocciata da Stecca, impuntatosi sulla sua occupazione del divano. Dal momento che era un ospite, diceva, toccava a lui il posto più scomodo.
Nic l’aveva scrutato a metà fra il divertito e l’allibito: «Ma cos’è? Il Manuale delle Giovani Marmotte?»
Clara si era limitata a scrollare le spalle, invitandolo a glissare anche su quello. C’erano questioni più rilevanti di cui discutere.
Gli altri due inquilini erano usciti da poco, ma Stecca aveva insistito perché Nic chiudesse comunque la porta, isolandoli dal resto dell’appartamento. L’avevano accontentato.
Clara se ne stava in contemplazione del nuovo assetto conferito alla stanza.
Poster dei System of a Down avevano fatto la loro strada fin sulle pareti, ritagliandosi degli angoli accanto a quelli di film d’animazione, polaroids ingiallite che ritraevano fasi d’eclissi lunare, il disegno in bianco e nero di uno scheletrico fenicottero – poteva benissimo essere appena uscito da un film di Tim Burton – e trecce di luminarie spente.
«L’hai riarredata, eh?»
Nicola lanciò uno sguardo al manifesto degli Iron Maiden, quasi del tutto nascosto dai recenti acquisti.
«Eh, già», annuì, notando subito dopo gli indumenti rigurgitati dalla cassettiera, in corrispondenza del poster.
L’idea di richiudere i cassetti lo sfiorò e abbandonò in meno di un secondo.
Si accomodò piuttosto sulla trapunta, accanto a Clara, arrotolando alla bell’e meglio le lenzuola.
Nic non era cambiato di una virgola: sempre la solita aria sciatta, la barba un po’ incolta e le camicie scozzesi extralarge che avrebbero potuto fargli da vestito intero.
Si conoscevano dai tempi del liceo, quando con Irene, Sienna e Tommaso formavano il nucleo indivisibile della comitiva. Stecca, che era una new entry al confronto, ci aveva legato subito, trovando in lui un fan sfegatato di fumetti e videogiochi.
«Allora, a cosa devo la piacevole visita?»
«Stecca non ti ha detto?»
Nic aggrottò la fronte. «Mi ha parlato di un’emergenza.»
«Una specie», assentì l’altro, intento a scrutare gli oggetti che ingombravano la scrivania. Delle custodie di videogames, presumibilmente vuote, avevano attirato la sua attenzione. Sollevò la scatola plastificata raffigurante quello che sembrava un gladiatore romano, con la restrizione ai soli maggiorenni inquadrata in un angolo, al termine di una lancia.
«Siamo qui per Irene», spiegò Clara. «Tu l’hai più vista o sentita nell’ultimo periodo?»
Il ragazzo scosse il capo. «Non la sento dallo scorso mese, credo. Perché?»
«Secondo Stecca è irreperibile da circa una settimana. Si è preoccupato.»
«Ma no, Arturo», lo tranquillizzò Nicola. «Irene ha dei momenti di ritiro, come una cosa spirituale. Le serve per ricaricare le batterie.»
Clara, ascoltando quelle stesse parole dall’amico, si sentì rassicurata. Era l’identico pensiero che aveva espresso lei, la sera dell’arrivo di Stecca, eppure nelle ultime ventiquattr’ore qualcosa, nel suo animo, si era incrinato, lasciandola scivolare verso scenari più catastrofici.
L’inquietudine venne distesa insieme alle pieghe del letto.
«Quel che ho detto anch’io», confermò.
Stecca li guardava entrambi con un’espressione incomprensibile. Gli sembrava di trovarsi davanti a due ragazzini ingenui, oppure a dei perfetti idioti. Tenne quella riflessione per sé, consapevole che avrebbe solo innescato una sterile discussione.
Uno spiraglio di luce si era fatto spazio attraverso una crepa tra le nubi, colpendo in un bagliore la finestra.
Che fosse tutto inutile?
Il suo impegno, la sua partenza improvvisata, l’imbucata a casa di Clara, il viaggio in auto fino a lì, il proprio trolley che soggiornava nel salotto di Nicola, un carico di speranze che si era portato dietro nella disperazione di un tentativo, un unico tentativo. Voleva solo saperla sana e salva, al sicuro.
Ma in fondo, sapeva di essere un semplice codardo.
Avrebbe potuto optare per la scelta più ovvia, anziché montare un caso attorno al silenzio che Irene gli aveva opposto; prendere la strada più veloce, quella che lo avrebbe condotto sotto il palazzo di Irene, anziché a pregare, come un bastardo, alla porta di Clara. E invece no, si erano arenati lì, i suoi sforzi. Ad una dannatissima serata in centro.
Se solo Irene non gli avesse detto quelle cose, se solo lui non avesse…
«È sparita», rispose asciutto. «Voglio solo la certezza che stia bene, che non le sia accaduto nulla di orribile.»
«Perché mai dovrebbe esserle capitato qualcosa, Stecca?»
Clara aveva riacquistato il solito baluardo di razionalità. La storia della nonna, ora, iniziava a leggerla sotto un’altra luce, facendola incastrare perfettamente nella sua ricostruzione mentale: Irene portava ancora su di sé i segni del recente lutto, per quello voleva starsene da sola. L’ultima cosa di cui aveva bisogno erano le loro sciocche indagini.  Sarebbero risultati d’intralcio, un ingombro inutile e deleterio.
L’idea di telefonare alla madre, di coinvolgere il signor Zanetti, le apparvero assurdi.
Come avevano potuto anche solo pensare di introdursi nell’abitazione di un’anziana – oltretutto defunta – per immischiarsi in faccende familiari che non li riguardavano?
Si era lasciata trascinare dall’isteria di Arturo, perché era stanca, perché era stressata, perché ancora le bruciavano sulla pelle i postumi della serata trascorsa con Robert e avrebbe fatto di tutto pur di scacciare quei ricordi.
L’aveva trascinata fino a Padova, ma adesso Stecca doveva smetterla con quelle assurde teorie complottiste.
«Allora,» Nicola scrutò prima l’uno poi l’altro, prudente, «siete venuti solo per una gita?»
«Sì», annuì lei. «Anzi, non solo.»
Estrasse dalla borsa una busta bianca, che porse ai ragazzi.
Nic la rigirò sottosopra, controllando la scritta sul retro. Qualcuno vi aveva impresso, in una perfetta grafia in corsivo, il nome della destinataria, contornato da ghirigori e svolazzi eccessivamente pesanti.
Dalla busta spuntarono dei biglietti: erano due ingressi liberi per un concerto di musica classica, presso il Teatro Stabile di Padova con scadenza fissata al termine della stagione.
«Me li avevano regalati l’anno scorso, per il compleanno.» Un sospiro le sfuggì dalle labbra, rapido e incontenibile. «Sarei dovuta andare con…»
Clara si rialzò in piedi, scrollandosi dai jeans delle finte sporcizie invisibili.
Non c’era bisogno di specifiche ulteriori. L’immagine del presunto accompagnatore era vivida nelle menti di tutti i presenti.
«Era per non sprecare l’occasione.»
Nicola ci rifletté pochi istanti. «D’accordo.»
«D’accordo?»
Anche Stecca si unì alla perplessità generale, dal suo angolo di ritiro.
«Ci andiamo», ribadì Nic con calma. Passò in rassegna il contenuto del proprio guardaroba, considerando che non l’avrebbero mai ammesso in tenuta sportiva, pantaloni stracciati e magliette scure con fotografie di band impresse sopra. «Anche se penso di non avere un vestito adatto.»
Si diresse in cucina, a recuperare il portatile. «Vediamo cosa c’è in programma, stasera.»
Clara lo anticipò. Aveva controllato la scaletta già a casa, prima di mettersi alla guida.
La busta con i biglietti era rimasta per mesi incastrata in uno degli scomparti del comodino, dimenticata per la maggior parte del tempo, terribilmente presente nel rimanente.
Specialmente nelle serate in cui si gettava sotto alle coperte, distrutta, desiderando solo di rimanere al letto con il proprio portatile e una serie tv a distrarla dal caos del reale, quella dannata busta si ripresentava. Allungava una mano gelida, crudele, fino al suo petto, costringendole il miocardio in una morsa dolente. “Sola”, le ripeteva, “sei tutta sola, Clara”.
Per decidersi a portarla con sé, tra volere e disvolere, aveva impiegato una dozzina di minuti.
Prenderla avrebbe significato concederle potere, renderla più reale di quanto già non fosse; ma lasciarla lì, un’occasione sprecata, a ricordarle in futuro della propria debolezza sarebbe stato di gran lunga peggio.
Così l’aveva cacciata in fondo alla borsa, dando uno sguardo rapido al programma del Teatro Verdi, dal proprio cellulare.
«Mozart», disse. Un sorriso amareggiato le increspò le labbra. «Il suo preferito.»
 
 
 
 
 
*    *    *
 
 
 
 
«Io non vengo.»
Arturo era stato lapidario al riguardo. Inutili i tentativi di convincerlo, inutile l’offerta di comprare cumulativamente un terzo biglietto per non dividersi, inutile l’ironia di Nicola su quanto si prospettasse avvincente la serata che li aspettava. Inutile, tutto inutile. La cocciutaggine di Arturo si era incagliata su quelle tre parole e, come per la questione del divano-letto, non vi era modo di smuoverlo dalla sua posizione.
Li aveva accompagnati in cerca di un completo per Nicola, aveva consumato una spremuta insieme a loro ad un locale che i suoi amici frequentavano da adolescenti, aveva contribuito perfino alla spesa per l’affitto dell’abito, ma, alle otto in punto, si era dissociato dal trio.
«Va bene,» aveva concesso Nicola scherzosamente, «vuoi goderti Padova by night. Evita soltanto di perderti e di finire in qualche casino. Okay?»
L’altro aveva sorriso, lì per lì, ma nella battuta non trovava alcunché di divertente; men che meno ora, che se ne stava assorto davanti alla basilica di Sant’Antonio, con la facciata per metà obliata dalle impalcature per i lavori di ristrutturazione in corso.
Di arte ne aveva capito sempre poco, eppure la monumentalità dell’edificio, quel rosone a forma di margherita che sembrava un occhio ciclopico, fermo ad osservarlo – a condannarlo – lo lasciavano senza fiato. La statua del santo, incuneata nella nicchia sopra il portone principale, custodiva chissà quanti segreti.
Segreti di gente che giungeva in pellegrinaggio, di passanti transitori come quelli che anche ora tagliavano la piazza in sella alle loro bici; conosceva i segreti diurni e notturni della città, del mondo, perfino dell’ignoto.
Un gruppo di ragazzi stava costeggiando il perimetro dello spiazzo; incatenati gli uni agli altri, costituivano una montagna di cappotti scuri e capelli.
La risata di una delle sconosciute scoppiò nell’aria, esplodendo in una miriade di frammenti, alcuni dei quali sfiorarono il collo di Arturo, strappandogli un brivido. Era identica alla sua, a quella di Irene.
Si voltò di scatto, bruciato dalla rivelazione, convinto di trovarla lì, davanti a sé.
E in effetti, la ragazza non aveva preso in prestito solo la risata, ma anche la capigliatura sbarazzina di Irene, quella ingarbugliata matassa di capelli scuri, che profumava sempre di shampoo all’ibisco.
Avvertì una stretta al petto, una contrazione involontaria che risucchiò l’aria circostante.
I ricci confusionari di Irene, morbidi, serici, che si snodavano sul giubbotto che indossava quella sera… l’ultima volta che l’aveva vista. Ricordava il triangolo del maglioncino color lilla che spuntava da sotto la zip del cappotto in similpelle, il riflesso spezzato dell’insegna al neon del bar, restituito dall’unico orecchino che portava. Eppure, più di ogni cosa, ricordava quel profumo, quella semplicissima fragranza di fresco, di pulito, di fiori e libertà, che lo avvolgeva dalla sedia metallica su cui Irene era sprofondata.
Si era smarrito, poi, nel cercare sul viso della ragazza quella libertà, quell’ideale di intatta purezza e gioventù, che portava indosso, legato al polso insieme al suo braccialetto di perline.
No, non aveva trovato niente di puro, giovane, fresco, in quel volto. Non c’era niente di… sano.
Mentre annientava l’illusione con l’odore di nicotina, consumando l’ennesima sigaretta della serata, Irene espirava rumorosamente, incatenando anelli di fumo concentrici tra di loro.
Seguiva un proprio disegno mentale, sorridendo come una bambina davanti al risultato ottenuto.
Arturo ricordava che i suoi lineamenti, aggraziati e fanciulleschi, erano sfioriti: la mandibola risucchiava le guance, gli occhi colavano, in una pioggia di mascara, verso labbra avvizzite; le mani, avvinghiate al pacchetto di sigarette, tremavano, così come anche le gambe.
Quel gesto, quel movimento convulso della caviglia sotto al tavolino, che si protraeva finché i loro amici si divertivano a fare i buffoni in strada, lo aveva turbato.
Ne era rimasto inquietato, perché Irene rideva, si sganasciava dalle risate sopra al tavolino; portava in avanti la chioma avvenente – il suo punto forte, come lo definiva lei –  liberava una scarica di risa e poi, con uno scatto felino, gettava il capo all’indietro. Era estasiata dallo spettacolino che stavano inscenando.
Sotto al tavolo però, quella gamba traballava.
Il tremito, l’impazienza che scandiva il tempo, lo centellinava come se vi fosse qualcosa di più urgente di cui avrebbe dovuto interessarsi.
Anche il bicchiere di birra, con lo stampo del suo rossetto, agonizzava, per metà pieno; il mozzicone di sigaretta riluceva tra le dita, consumate da detersivo per piatti. Dal momento che al tavolo erano rimasti solo loro due, si era fatto coraggio.
«Ire,» una schiarita di voce, «forse è il caso di rallentare con quelle, eh?»
Con un cenno del mento aveva indicato le Malboro che stritolava in un pugno.
«Mh?»
Accortasi dell’involontario soffocamento, aveva allentato la presa e nascosto il pacchetto in tasca.
«Ne ho fumate un paio, tranquillo.»
Gliel’aveva detto con serenità, con il tono tinto dall’ilarità suscitata dal resto del gruppo. Le sapeva servire bene, Irene, le menzogne.
Lo sguardo di Arturo era scivolato sul bicchiere dorato. Involontariamente, quasi per caso.
Il movimento non era, tuttavia, sfuggito all’altra. La mano era slittata attorno al vetro appannato, comprimendolo con forza. «La finisco», gli aveva comunicato, più fredda.
«È che, forse, sarebbe meglio evitare. Che dici?»
«Non sono ubriaca.»
«Lo so, lo so», si era affrettato a chiarire. Il modo in cui gli si era rivolta, lo aveva mortificato. Uno schiaffo verbale. «Non intendevo dire che…»
«Cosa volevi dire allora?» Lo aveva interrotto.
Gelida, tagliente, lo sguardo inchiodato sempre nello stesso punto. Non stava più controllando il progresso dei loro amici. Li guardava, senza assegnare alle mosse delle sagome sullo sfondo alcun significato: erano divenuti fantocci contro la parete del bar, a strofinarsi sull’edera e a dispiegare un ventaglio di gesti senza senso. «Volevi insinuare che non sono padrona di me stessa. Non è vero, Stecca?»
«No. Assolutamente no.»
«Solo perché hai visto qualcosa che non avresti dovuto vedere», aveva proseguito Irene, assaporando ogni parola della propria invettiva, «non puoi pretendere di sapere tutto. Conosci qualcosa, non tutto
Sembrava angosciarla particolarmente quella distinzione. Doveva ribadirlo, sottolinearlo con una matita scura, fino a scavare nella pagina, fino a distruggere il lembo di carta, aprendovi un buco.
La parte e il tutto: non erano concetti che Arturo capiva alla perfezione? Lui e la sua sciocca laurea in Fisica.
Lo aveva ripetuto almeno tre o quattro volte, prima che l’altro riuscisse a sollevare un’obiezione.
«E quel che hai visto,» aveva ripreso con accanimento, «non significa niente.»
«Lo so, mi dispiace se ti ho in qualche modo offesa, ma…»
Si era voltata a guardarlo, a fronteggiarlo direttamente con uno sguardo ricolmo di odio. «Erano cose private.»
A quel punto, il cervello di Arturo aveva smesso di funzionare, nonostante la rabbia, la preoccupazione, il timore di averla ferita in maniera irreversibile. Non era stato in grado di produrre altri suoni.
Poi, si erano susseguite altre bevande, altre sigarette, qualche superalcolico, il solito tavolino di metallo, un bignè alla crema ordinato da Gigi, il numero di telefono di una sconosciuta lasciato ad un altro giovane della comitiva.
Quel silenzio aveva resistito fino alla conclusione della serata. Irene era tornata la stessa di sempre.
Il pacchetto di Malboro, l’aveva terminato e gettato in un bidone, lì vicino.
Ricordava ancora le ultime parole che si erano scambiati, prima che lei salutasse gli altri e si avviasse verso il proprio appartamento. L’aveva trovata bellissima, anche così. Anche inaridita da qualcosa che non riusciva a spiegarsi, qualcosa di più grande di tutti e due, che la divorava goccia dopo goccia, di sigaretta in sigaretta.
Rimaneva la stupenda ragazza che aveva conosciuto, attraverso dei conoscenti, in università, intrappolata in una ragnatela di riflessioni. Irene giocava su una scacchiera in bilico, mosse e contromosse continue, in una partita tra sé ed un’altra parte di sé.
Le si era avvicinato, per parlarle a bassa voce, così da non farsi udire dagli altri. Non avrebbero capito.
«Ire, vuoi fermarti da me, stanotte?»
«Perché?»
Irene lo aveva guardato con ingenuità. Le enormi iridi da bambina, imbrattati dal trucco sfatto, rilucevano sotto alla campana elettrica del lampione.
«La tua coinquilina è partita.»
«Stecca,» gli aveva lasciato una carezza sulla guancia, «smettila di preoccuparti per me.»
Lui aveva scosso la testa, deciso. «Sai che ci tengo… a te, intendo.»
«Sì. E sai come la penso, al riguardo.»
Riflessiva, il suo sguardo aveva indugiato sul brecciolino per qualche attimo, prima di incontrare il suo. «Per questo, ti prego, non dire qualcosa di cui potremmo entrambi pentirci.»
Aveva salutato tutti, un bacio frettoloso per ciascuno. Quando era toccato a lui, si era fermata a ripulirgli dal mento dell’inchiostro con cui si era sporcato nel pomeriggio, in biblioteca.
«Ci vediamo presto, Stecca.»
Ma non l’aveva più rivista.
 
 
 
 
 
 
*    *    *
   
 
 
 
 
«Che Mozart fosse il suo preferito non mi stupisce per niente.»
Clara sollevò un sopracciglio, ironica. «Ah, davvero?»
Nicola si sistemò meglio sulla poltrona accanto alla sua. «Certo. È così pretenzioso.» Dopo una piccola pausa, aggiunse: «Come lui, dopo tutto».
«È arrivato l’esperto musicale», lo provocò lei.
Nonostante dovesse concordare sull’indagine psicologica, era contraria all’etichetta utilizzata. Lei, un tempo, aveva condiviso quei gusti musicali e trovava irresistibile il modo in cui lui si dilettava a scegliere i dischi da farle ascoltare, nelle serate di pioggia trascorse in appartamento.
«Capisco poco di classica,» concordò Nicola, «ma conosco fin troppo bene i tipi umani. E il tuo ex era arrogante ogni oltre limite.»
«Va bene, va bene. Era un pochino presuntuoso.»
«Era uno stronzo: ecco cos’era.»
Clara assentì, concentrandosi sul presente.
Quando le sarebbe ricapitata l’occasione di sedere in un palco riservato del Teatro Verdi?
In verità, non aveva mai provato l’ebrezza di assistere da spettatrice ad un concerto di classica o di avere un palco tutto per sé. Era il genere di lusso di cui non sentiva un impellente bisogno.
Quanto le era piaciuto, però, mostrare il suo biglietto all’ingresso e farsi accompagnare fin davanti alla porticina che immetteva sul loro balconcino. Le sembrava di trovarsi nello scompartimento di un treno, con la riservatezza e l’intimità del luogo, ma giusto un paio di differenze: la scomodità di quelle poltroncine fiammeggianti e l’accecante brilluccichio del suo vestito. Non si metteva così in tiro da capodanno.
Lo shock più grande, al di là della bellezza del teatro, dell’atmosfera di seriosa sacralità che si respirava di arcata in arcata, era stato vedere Nicola in un completo blu scuro.
Avrebbe voluto affittare uno smoking, ma a lei era parsa una scelta eccessiva, considerata l’occasione. Sapeva bene con quanta e quale ironia avrebbe condito il proprio ingresso al teatro, se solo lei gliel’avesse permesso.
E forse, in un’altra occasione, l’avrebbe lasciato fare– se non altro come rivincita su alcune signore impellicciate, che credevano di trovarsi alla prima di chissà quale evento epocale -  ma stavolta desiderava fare le cose “per bene”, senza sprecare il regalo ricevuto.
Come se Leandro fosse qui, le aveva suggerito un pensiero intrusivo, scacciato subito dopo.
Ma non c’era un fondo di verità?
Tutta quella serie di rituali, quella serietà da adulti, da gente perbene, da persone colte e raffinate, così distanti dal loro abituale modo di essere – dai loro tipi umani, per citare Nic –  non era volta proprio a quello? Alla costruzione di un universo in cui tutto fosse rimasto intatto, perfetto.
La sua personale bolla di sapone, in cui ricreare il sogno di una vita, che invece era stato spezzato, martoriato, divorato, maciullato, spolpato, rosicchiato fino all’osso.  
Non era per lui? O per il ricordo di lui? Per onorare la memoria del suo sogno, infangato dalla realtà.
Sì, forse un po’ lo era.
Nicola si rigirava il programma della serata tra le mani, senza sapere come dove appoggiarlo. Ogni tanto gettava un’occhiata in giro per deridere un attempato gentleman o la sua consorte, una pomposa matrona di passaggio.
«Oh, guarda», commentò da una lettura della brochure, «sinfonia quaranta in G minore.»
Clara gli si accostò, seguendo il tracciato del suo indice.  «Allegro assai», recitò.
«Ti dice qualcosa?»
«Assolutamente no», ammise lui, strappandole una risatina. «Probabilmente ci saranno tanti archi.»
L’altra sghignazzò: «È il tuo pronostico?»
«Esatto. Bollettino della serata: si prevedono tanti archi sparsi.»
Nel pomeriggio, quando si erano aggiornati sugli eventi delle reciproche esistenze, e anche poco prima, in attesa di entrare nel teatro, Clara aveva descritto il suo ultimo periodo come una frana emotiva.
Adesso a Nic era tornata in mente quella definizione, incuriosendolo di nuovo.
«Questa serata tampona la tua frana emotiva?»
Lei ci rifletté per qualche istante. «Musica classica, teatro chic e settantenni che mi squadrano come se potessi contaminarli con la lebbra», ricapitolò. «Diciamo che si colloca in cima al crollo.»
«Ottimo.»
«Veramente, Ni?»
Il ragazzo annuì con vigore. «Certo. È un passo in avanti.»
«Beh, rispetto a Robert l’Impavido, qualunque cosa può esserlo.»
Lui stava per chiedere ulteriori approfondimenti, ma venne interrotto dalla voce registrata del teatro, pronta ad introdurre la serata e a raccomandarsi di silenziare o spegnere i cellulari.
Poco dopo, le luci in sala vennero smorzate con delicatezza e il sipario lasciò il posto a puntatori luminosi, aureole attorno al capo dei musicisti già in posizione.
Nicola le diede una piccola gomitata, mimando con le labbra: «Guarda il maestro».
Il direttore d’orchestra entrò a passo veloce, prendendo possesso della scena con la naturalezza di una prima attrice. La sua comparsa doveva portare l’età media dei presenti in sala sulla sessantina. Per quanto incravattato, stretto in un corpetto che lo imbalsamava in una posa innaturale, il maestro appariva sveglio e arzillo. Avrebbe potuto prenderlo sul serio, non fosse stato per quella specie di puzzola morta che calcava in testa.
Clara si portò una mano alla bocca, trattenendo un sorriso. Nicola stava insistendo a bisbigliare: «Sembra uno degli animali impagliati di Psycho».
In breve, le sue parole vennero sommerse dalla mareggiata di musica e Mozart si impadronì delle loro menti, trasportandoli in un’altra dimensione. Clara sentì che il buio del palchetto, intorno a sé, stava assorbendo gli spiacevoli ricordi di Robert e qualunque altro elemento d’intralcio alla sua serenità.
Per un’ora o due, poteva concederselo.
L’impalcatura costruita dal suo cervello e lo scudo musicale resistettero, tuttavia, per appena quarantacinque minuti. Quando la sinfonia numero quaranta in G minore, l’Allegro Assai, la colpì, tale e quale ad un pendolo di memoria, le sue difese traballarono.
Con la coda dell’occhio, notò che Nicola era stranamente attento a ciò che accadeva sul palco – forse per accertarsi che l’abbondanza di archi, da lui prevista, si realizzasse prima o poi. Tra la sua sedia e quella dell’amico si contavano pochi centimetri di distanza, ma in tutta quell’oscurità Clara ebbe la sensazione che si fosse aperta una voragine intera, a dividerli.
Il palco-scompartimento le appariva più stretto, impacchettato. Claustrofobico.
Vedeva le mani dei violinisti muoversi, rapide, simili a ragni, sugli strumenti; il profilo del direttore si stagliava contro la platea di ombre e respiri, che gli fasciavano le spalle.
Clara si chiese chi fosse seduto alla base del palco, davanti alla cassa toracica di legno che sosteneva i loro intrattenitori. Provò ad immaginarsi qualche volto incipriato, l’ennesimo spettatore snob, senza rendersi conto di aver perso la presa sulle note musicali.
La sinfonia cresceva nel teatro, lievitava di secondo in secondo, ma tutto ciò che la interessava rimaneva quel dannatissimo volto in prima fila, l’individuo costretto a sorbirsi la schiena del maestro d’orchestra – e la sua meravigliosa puzzola – per due ore.
E, d’improvviso, la sua memoria fece un doppio salto mortale all’indietro.
Indietro nel tempo, nei ricordi, nei mesi.
Si risvegliò nel proprio letto, nel vecchio appartamento che divideva con Irene, a Roma.
Un urlo l’aveva strappata al sonno, di per sé abbastanza leggero.
Per un minuto o due, rimase completamente immobile, in balia delle lenzuola e del sottile filo di sudore che le incorniciava la fronte. Con lentezza, scricchiolio dopo scricchiolio, stava riacquistando possesso dei propri arti indolenziti, intorpiditi dal materasso scomodo.
Se la prendeva comoda, stiracchiandosi, roteando il polso, controllando la cifra impressa sulla sveglia analogica. Le 3:05 del mattino.
Chi poteva urlare alle tre del mattino? Doveva esserselo sognato.
Come a leggerle nel pensiero, mentre si rigirava su di un fianco e abbassava le palpebre, un secondo urlo – ben più chiaro e acuto del precedente – trafisse la notte. Gli occhi si aprirono di scatto.
Clara si rovesciò dal letto, cuscini e coperte che ruzzolavano sul parquet e la inseguivano, per poi raggiungere la camera di fronte alla sua, a piedi scalzi.
L’aria fredda e il contatto con il pavimento le assestavano ghiacciate scariche elettriche, lungo la spina dorsale. Affrettò il passo. Spalancò la porta.
Irene era sveglia, raggomitolata contro la spalliera, per metà riparata dalle lenzuola. Aveva indosso la solita maglietta azzurra che d’estate utilizzava come pigiama; l’avevano comprata insieme ad una svendita e, non appena individuatala, si era elettrizzata per il motivo della t-shirt, che ricordava quella di una squadra di hockey americano.
Ampie chiazze la irrigavano, ora, completando un quadro di disperazione: il sudore le impregnava collo, fronte e capelli, attaccati alle guance come alghe.
«Ire, cos’è successo?»
La raggiunse con apprensione, spalmandole un palmo proprio sulla fronte, per verificarne la temperatura: marmo. Era più fredda del pavimento su cui aveva corso poco fa.
Dapprima, Irene non fu in grado di fornire una spiegazione logica.
Tremava e continuava a tremare, respingendo le sue mani, che cercavano di tranquillizzarla.
Semplicemente assecondava quel tremore, quasi fosse stato parte di sé, seguendo una musica che veniva riprodotta nella sua mente. Quando i singulti si ridussero, riuscì a parlare.
«I… i… il letto.»
«Cosa?»
Clara setacciò l’ambiente attorno. La camera era un acquario di blu, bianchi e violetti. L’armadio, gigante silente addossato alla parete frontale, respirava a fatica tra il termosifone e la specchiera di Irene.
Nel riflesso, due giovani adulte spettinate, con le gambe acciambellate sul letto.
«S-s-s-sotto il letto.»
Clara la guardò fissa negli occhi, cercando di comprendere. «Sotto il letto?»
L’altra aveva digrignato i denti, esasperata dalla stoltezza dell’interlocutrice. Le sembrava di affermare verità incontrovertibili, che si aspettava fossero note anche a Clara.
«È sotto il letto.»
«Chi?»
«Non lo so. È… qualcosa.»
Clara aveva aggrottato la fronte: «Hai sognato, Ire. È stato solo un incubo».
«No.»
Irene tirò un cuscino a sé, abbracciandolo con forza. Si dondolava sul posto, al tempo stesso paralizzata all’idea di poter compiere qualunque altro movimento, come accendere la luce o abbandonare il suo rifugio.
«Mi c-c-c-chiamano. Di continuo. La notte.»
«Chi ti chiama?»
La ragazza si strofinò il viso, asciugando via del muco con la manica. Seguiva con gli occhi un suo percorso, saettando da un punto all’altro dell’ambiente.
«Loro mi… mi… cercano.» Si assicurò con un’occhiata che l’amica le credesse, ma rimase delusa. «S-s-s-sono degli… Non so cosa sono, ma uno di loro è qui sotto. Proprio qui sotto al letto.»
«Ire, non c’è niente sotto al letto.»
Mentre recitava quelle parole, Clara si sentì una pessima attrice dentro un film dell’orrore. Chissà quante volte erano capitati a lei, da bambina, incubi simili; era scappata nel letto matrimoniale dei genitori, cercando rassicurazione da parte loro. Le ripetevano che si trattava di pura immaginazione, nulla di più; niente di reale, niente di minaccioso. Era al sicuro.
E andava subito meglio, nella coltre di coperte e calore, non più esposta alla fitta incertezza dei suoi incubi.
Probabilmente, per Irene era stato lo stesso. Un’indigestione, qualche preoccupazione eccessiva, niente di più.
«Ire, non c’è alcun pericolo. Era un incubo, ma è finito.»
Si avvicinò alla sponda del letto, sporgendovisi. Irene le bisbigliò di fare attenzione. 
Accostando il capo alle mattonelle, le fu sufficiente sollevare il lembo della trapunta di pochi centimetri e scrutare nell’ombra, per assicurarsi di avere ragione.
«Stai attenta», ribadì l’amica.
Clara frugò tra cianfrusaglie e polvere, spostando di lato un paio di box e recuperando delle matite che erano rotolate lì casualmente, chissà quanti mesi prima. Al termine della ricognizione, riemerse con un sorriso debole. «Visto? Non c’è niente là sotto.»
Cinse il viso della ragazza con entrambe le mani, sollevandolo appena. Fronte contro fronte, provò un’ultima volta a rassicurarla, cercando le frasi che aveva interiorizzato da piccola.
Stavolta in un sussurro: «Non c’è niente, Ire. Sei al sicuro».
L’altra appariva più calma – i tremori erano cessati, così come il mordicchiare unghie, labbra, mani - ma non per questo meno convinta della propria teoria. Non voleva dormire, né alzarsi.
Come compromesso, cedette il cuscino, riponendolo al proprio posto.
Clara fece per rimettersi in piedi. «Ti preparo un infuso. Valeriana? Melissa?»
Irene, però, le afferrò un braccio, bloccandola sul posto. La ghermiva come per non lasciarla scappare, nel timore che anche lei fosse solo frutto della sua fantasia e, una volta svanita, dovesse tornare a gestire i propri incubi da sola.
Durò pochi istanti.
Infine, lasciò la presa, sbadigliando: «Camomilla».
Mentre si occupava del bollitore, Clara ripensò quella stretta.
C’era un particolare che non le quadrava, qualcosa che le rallentava il flusso sanguigno nelle vene al solo pensiero.
Irene l’aveva guardata con occhi spenti, iridi fosche. Più che trattenerla e implorarla di rimanere al sicuro, nel fortino del letto, sembrava che volesse piuttosto verificarne la solidità, l’umanità. Come a testare il suo battito. La cosa, il suo mostro sotto al letto la teneva in ostaggio e lei non sembrava determinata a osteggiarlo. Lo temeva troppo, per poter credere di avere una possibilità di vittoria.
Desiderava che Clara rimanesse lì, sopra al materasso, così da ingabbiarla, ma non certo per combattere.
Per morire insieme.
 

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