Demone

di Cossiopea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Otto anni dopo ***
Capitolo 3: *** Incubi e carcerieri ***
Capitolo 4: *** Niente scampo ***
Capitolo 5: *** Morta a malapena vivente ***
Capitolo 6: *** Quella cella chiamata vita ***
Capitolo 7: *** Demoni del passato ***
Capitolo 8: *** Un intruso dagli occhi d'argento ***
Capitolo 9: *** Il risveglio del Demone ***
Capitolo 10: *** Dopo l'omicidio ***
Capitolo 11: *** Tormenti notturni ***
Capitolo 12: *** Antichi nemici ***
Capitolo 13: *** Battibecchi ***
Capitolo 14: *** Nel cuore delle tenebre ***
Capitolo 15: *** Scelte ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Quando dissi a mio fratello di non essere umana non mi credette.

Scoppiò a ridere così forte che per un istante ebbi la sensazione che sarebbe soffocato sotto tutte quelle risa.

Rimase a ridere per un lungo, interminabile minuto mentre io lo stavo a guardare con i pugni serrati e la bocca ridotta a una sottile fessura, gli occhi che a stento riuscivano a trattenere le lacrime, più amare che salate.

Rimasi così, a fissarlo con quel mio sguardo di instabile freddezza mentre lui continuava a ridere senza sosta, quasi io avessi recitato la migliore barzelletta dell'ultimo secolo.

-Jill, tu non sei normale!- mi disse dopo aver smesso di sghignazzare, lasciando però un terribile ghigno a deformargli il viso mentre mi guardava con scherno -Sei una ragazzina con una fantasia incredibile ma non sei normale!

-Certo che non lo sono- ribattei, ricacciando indietro le lacrime e intimandomi di restare calma -Non sono neanche originaria di questo pianeta...

Zack alzò gli occhi al cielo e mi arruffò i capelli con una mano, un gesto che odiavo con tutta la mia anima.

-Sei molto più umana di tutti noi, Jill- mi fece annuendo fra sé e voltandomi le spalle, allontanandosi verso camera sua.

Restai lì, immobile, guardando la sua figura allontanarsi mentre un'inspiegabile e cieca rabbia mi ribolliva nel corpo.

-Io so di non essere normale...- sussurrai abbassando lo sguardo sui miei piedi, ma mio fratello non mi udì.

I miei occhi schizzarono su di lui, le iridi ora che risplendevano di sangue, la bozza contorta in una smorfia piena di denti affilati come rasoi.

-Io non sono normale- urlai e questa volta il ragazzo si voltò, allarmato.

Il suo sguardo fu venato di terrore, una paura che lo fece sbiancare come non mi avesse mai visto.

Mi guardò come non mi conoscesse e io avvertii un'energia innaturale scorrermi per la schiena. Risalì senza pietà la colonna vertebrale e fu come un fulmine fatto di dolore, un dolore che però conoscevo e non volevo cessasse; un dolore fatto di morte che accoltellò senza pietà il piccolo cuore umano che pulsava nel mio petto al ritmo della vita.

Avvertii quella scarica crudele continuare il suo viaggio e io lasciai che mi divorasse, gioendo nell'occhio di quel ciclone infernale. La paura di Zack mi irradiava con i suoi occhi fradici di terrore, mi avvolgeva come un abbraccio di semplice disperazione.

Il dolore, quel dolce e armonioso dolore, giunse finalmente ai miei occhi, accecandoli con un mare di tenebre per poi raggiungere la mente.

Giocò con i miei pensieri, lasciando che la mia coscienza delirasse in un piacevole ma al tempo stesso spietato equilibrio prima di lasciarla collassare.

L'ultima cosa che udii prima che la mia esistenza terrena crollasse sotto il peso delle ombre fu il grido di mio fratello che frantumava la quiete e il male che mi possedeva.

Un grido denso di morte che mi condusse lentamente verso l'oblio.

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Capitolo 2
*** Otto anni dopo ***


Chiusi gli occhi e mi morsi un labbro, lasciando che la musica mi inondasse l'anima e sperando che i miei denti non divenissero nuovamente affilati.

It's so cold out here in your wilderness
I want you to be my keeper
But not if you are so reckless...

Cantava Adele nella mia testa.

If you're gonna let me down, let me down gently
Don't pretend that you don't want me
Our love ain't water under the bridge...

Avvertii il mio corpo rilassarsi e i muscoli distendersi, assaporando come, una semplice melodia, potesse farmi tornare una semplice ragazza.

E la voce della donna continuava, continuava in un ritmo così denso di emozioni... Pieno di un amore fatto di desolazione e inezia, di un uomo che l'aveva tradita...

La musica era l'unico modo con cui io potessi reprimere ciò che ero, ciò che avevo fatto; il mio passato che, nel sonno, continuava ad assalirmi senza un motivo, lasciando solo miseria laddove una volta era il mio cuore.

What are you waiting for?
You never seem to make it through the door
And who are you hiding from?

Ma soprattutto quel giorno, l'anniversario del fatto, avevo bisogno di restare sola con quelle note... Dovevo evitare che la mia vera natura si manifestasse davanti al mondo, e l'unico modo per impedire che il Demone si risvegliasse era la musica.

Otto anni da quando mi avevano ritrovata con le mani macchiate di sangue a piangere sopra il cadavere di mio fratello.

Otto anni da quando era stato determinato che il ragazzo era stato ucciso da qualcosa di affilato che gli aveva reciso la gola.

Otto anni dagli sguardi terrorizzati dei miei genitori e di coloro che conoscevo...

Ricordavo ancora i loro occhi impregnati di paura mentre fissavano la bambina che un tempo era stata loro figlia, la bambina che adesso era solo un mostro senza neanche il diritto di essere considerata umana.

Non ricordavo niente di quel giorno.

Solo... rabbia.

Una rabbia travolgente e poi nient'altro. Le tenebre.

Quando il buio si era diradato le mie dita erano imbrattate di sangue e il corpo senza vita di Zack giaceva nel corridoio in un bagno macabro di liquido rosso. Il suo sguardo privato della scintilla che lo caratterizzava; le sue mani immobili e il cuore fermo, strappato alla propria esistenza nel fiore dell'età senza più modo di farlo riemergere dal baratro in cui lo avevo spinto.

Avvertii i denti farti aguzzi e conficcarsi nel labbro morbido ma sopportai il dolore e il sottile rivolo di sangue che ora mi discendeva il mento, imponendomi di ascoltare solo la musica.

Esisteva solo quella...

If you're gonna let me down, let me down gently
Don't pretend that you don't want me
Our love ain't water under the bridge...

Fin dalla mia prima notte gli incubi non facevano che tormentarmi.

Incubi che, lo sapevo, erano reali quanto il corpo e ciò che mi circondava; reali come le lacrime che mi solcavano le guance ad ogni mio risveglio; reali come gli artigli in cui le mie unghie si tramutavano senza che riuscissi a fermarle... reali come la paura.

Ero sempre stata stranamente cosciente di ogni cosa, dal mio primo istante di vita su questa terra. Non avevo avuto un'infanzia che si potesse ritenere tale, non giocavo come gli altri bambini nel timore di ferirli... sapendo che i miei denti potessero diventare taglienti in ogni secondo, sapendo che avrei potuto uccidere di nuovo qualcuno e che non avrei mai avuto il coraggio di perdonare a me stessa un altro errore.

Eppure, fino al fatto, nessuno aveva mai saputo delle mie trasformazioni involontarie. Era come se, anche da neonata, sapessi che nessuno doveva conoscere la mia vera natura...

Le mie crisi erano sempre affrontate in solitaria, nel silenzio della mia stanza, durante la notte o in un pomeriggio di nuvole...

Bastava che per la mente mi passasse un pensiero, un singolo pensiero che increspasse la piatta superficie della mia mente che il Demone spingesse per uscire.

Trattenerlo era come combattere contro sé stessi, sentendo al tempo stesso rabbia e paura, essere nei due fronti contemporaneamente... Ma non potevo mostrarmi. Non potevo...

Sentivo sempre quel dolore, quando succedeva, quel terribile dolore senza una vera origine che si diramava nel mio essere stringendomi il cuore in una morsa ghiacciata.

L'unico modo che avevo per bloccarlo era la musica.

In qualche modo, se mi concentravo solo su di essa, sulle note e le parole che fluivano nella mia mente, il Demone si addormentava mentre io mi premevo con foga le cuffie sulle orecchie e sentivo finalmente di essere libera dal male...

Ancora adesso nessuno aveva mai visto i miei denti assottigliarsi e trasformarsi in lame o i miei occhi tingersi di rosso... Nessuno conosceva il mostro che ero. L'unico a cui mi ero mai rivelata era stato Zack... Oh, Zack...

I miei genitori non mi parlarono per due mesi dopo il fatto... Quei sessanta giorni li passai in decine e decine di centri specializzati, dai dottori, dagli psicologi... Persone in camice bianco che nascondevano la loro crudeltà dietro ad un sorriso affettuoso.

Non avevo mai parlato di fronte a loro.

Neanche una parola mi era uscita dalle labbra mentre ero al cospetto di quegli spettri.

Sopportavo senza dire niente, lasciando che mi esponessero le loro domande inutili, lasciando che le loro frasi complicate e piene di termini scientifici si tramutassero in rimproveri o in disperata rassegnazione.

Nonostante numerose discussioni in seguito all'episodio, decisero che era meglio se io restassi comunque a casa dei miei genitori.

Ma loro non erano più i miei genitori...

Io ai loro occhi non ero che un mostro. Un orrendo e spregevole mostro che aveva strappato il loro primogenito senza nessuna pietà... la ragazzina che non era neanche ritenuta un essere vivente.

Mi evitavano in casa. Le nostre cene erano passate nel più completo silenzio.

Non mi parlavano, non mi abbracciavano né salutavano. Non ero più loro figlia, non lo sono mai stata...

Say it ain't so, say it ain't so
Say it ain't so, say it ain't so...

Non mi avevano mandata a scuola per paura; pura e semplice paura che potessi nuovamente far male a qualcuno.

I contatti con il mondo erano spariti e dopo la prima elementare il mio percorso scolastico con dei compagni reali era finito per sempre.

Mi avevano rinchiusa in casa, impedendomi di fare attività o corsi al di fuori del pianoforte, che suonavo in camera mia, in solitudine, senza nessuno...

Studiavo tramite internet e un'insegnante di quasi sessant'anni mi inviava a distanza le verifiche da fare; ma i contatti con il mondo si erano ridotti fino a quasi sparire. La mia camera era l'unico luogo su tutto questo squallido pianeta in cui potessi sentirmi davvero al sicuro... l'unico luogo in cui nessuno avrebbe mai osato entrare; la cella del mostro...

Say it ain't so, say it ain't so
Say it ain't so, say it ain't so...

A volte trovavo strano come i miei genitori mi temessero ma allo stesso tempo non sapessero perché.

Sentivo come se non fossero davvero gli altri a evitarmi, ma fossi in realtà io a evitare il resto del mondo, ergendo mura possenti intorno alla mia persona, impedendo ad anima viva di avvicinarsi a ciò che ero, a ciò che potevo fare.

Nessuno conosceva il mio segreto.

Nemmeno ciò che anagraficamente si potevano ritenere i miei genitori. Non avevano mai visto gli artigli, gli occhi farsi incandescenti, i denti trasformarsi in zanne.

Per loro non ero altro che il mostro che aveva ucciso Zack e che nessuno doveva toccare, la ragazza non più umana destinata a vivere senza in realtà farlo davvero...

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Capitolo 3
*** Incubi e carcerieri ***


Guerra, sangue, dolore...

Una coltre di fumo, fuoco che arde senza mai spegnersi, la certezza che tutto giace nelle mani del male; un fato più crudele della morte.

Sente questo mentre si leva in aria sbattendo le ali possenti, lasciando che il calore dell'inferno e la rabbia immacolata distruggano quel poco di cuore che le pulsa nel petto.

Gli occhi sono braci che scintillano nella nebbia della battaglia, i denti una schiera di lame affilate come rasoi pronte a uccidere, gli artigli che desiderano solo infrangere la carne e bagnarsi di sangue.

La sua risata si propaga per la landa desolata che è il campo di battaglia, un suono che scaccia la speranza, che soffoca anche i cuori più puri e si infiltra negli animi coraggiosi innestando la paura.

Jillkas, terrore dell'universo, portatrice di miseria e di orde di morti, Demone della paura con un buco al posto del cuore.

Troppo potente anche per essere considerata immortale, troppo potente per essere sconfitta...

 

Mi svegliai con un urlo.

Sentivo in bocca l'amaro sapore del sangue per essermi morsa la lingua con le zanne.

Le coperte del letto erano ridotte a brandelli per averle graffiate con gli artigli.

Il buio della notte era appena rischiarato dalla luce che emanavano i miei occhi fiammeggianti e una famigliare ma al tempo stesso orribile energia mi attraversava il corpo come volesse incenerirmi.

Sentivo prudere la schiena e le guance bagnarsi di lacrime mentre, lentamente, i denti e le unghie si arrotondavano e i miei occhi smettevano di brillare.

Quell'immonda sensazione di potere che mi divorava l'anima sbiadì dentro di me fino a sparire del tutto, lasciandomi nuovamente sola con le tenebre.

Continuai a piangere in silenzio, senza riuscire a bloccare lo scorrere inesorabile delle lacrime.

Sono un mostro... pensavo mentre immergevo il viso tra le mani per poi scuotere la testa con vigore Sono un essere ripugnante che non merita di vivere...

Per chissà quante volte avevo tentato il suicidio dopo il fatto. Quante volte, nella speranza di mettere fine agli incubi, a ciò che ero, avevo tentato di tutto per togliermi la vita e smettere di soffrire...

Ma ogni volta che ero pronta per gettarmi da un'altura, ogni volta che mi ritrovavo con un coltello stretto nel pugno pronta a finire ogni cosa, il Demone dentro di me urlava e i miei occhi fiammeggiavano mentre la solita e incomprensibile energia mi attraversava il corpo facendomi gettare la lama a terra o allontanare dalla finestra.

Era come se il mio essere fosse costantemente diviso in due, sempre la stessa storia, sempre e comunque io ma in due modi diversi, come il riflesso in uno specchio.

Ero io che volevo morire e far cessare il dolore ma ero io che ogni volta mi opponevo a me stessa e mi impedivo di andare fino in fondo... Ero io ad aver ucciso Zack... Ero io il Demone...

Un singhiozzo più forte degli altri mi scosse il corpo mentre le tenebre mi stringevano sempre più nel loro abbraccio di ombra.

Jillkas pensavo mentre quel nome mi faceva vibrare le viscere Jillkas...

Ero io, ciò che ero stata e che ora stavo tentando di cancellare dalla mia vita. Un Demone senza un'anima il cui unico scopo è uccidere e far soffrire coloro che non possono difendersi. Strappare l'amore a morsi dalle famiglie, percuotere la terra e dimezzare i cuori in un unico colpo, trangugiando vite senza essere mai sazia...

Ero io.

Il passato non si può cancellare, non potevo nascondere ciò che ero stata e ciò che ancora ero. Un mostro.

Sentii le zanne premere sulla lingua, ma ignorai il dolore e mi imposi si non pensare al sangue che mi riempiva la bocca; di non pensare al fatto che, in realtà, quel sapore mi piaceva.

 

La cucina era il posto peggiore della casa.

Troppi odori, troppi colori, troppe cose che portassero alla gioia e alla vita.

Era in quella stanza che il Demone spingeva di più e ogni volta io dovevo ingoiare il sangue procurato delle zanne e lottare contro me stessa per non mostrarmi all'uomo e alla donna che non ritenevo più genitori.

Mangiavo in silenzio, senza guardarli negli occhi per paura che cogliessero la sfumatura scarlatta e sopportando il dolore che mi costava reprimere gli artigli.

Il cibo era insapore mentre lo masticavo e ingoiavo. Semplice materia senza quella fragranza che dona piacere agli esseri umani... Io non ero umana.

-Jill?

Il fatto che Susan (la donna da cui ero nata ma che non era mia madre) avesse nominato il mio nome mi fece sussultare.

Un fiotto di sangue eruppe dalla lingua mentre me la infilzavo con le zanne e quel sapore ferroso si mischiava al cibo che avevo in bocca. Ignorai il dolore che adesso mi pulsava tra i denti e mi imposi di mantenere lo sguardo sul piatto e non alzarlo su Susan.

Percepii, come un leggero brivido lungo la schiena, gli sguardi che la donna si scambiava con il marito visto il mio silenzio, poi tornò a posare gli occhi su di me e posò la forchetta con un leggero tintinnio metallico.

-Jill, ci abbiamo pensato- disse quindi mentre io ingoiavo altro sangue e mi imponevo di non impazzire e saltarle addosso -non possiamo continuare a fare come se non fossimo una famiglia.

È sempre stato così... Non potei non pensare Voi non vi siete mai curati di me, mi avete abbandonata, rinchiusa come un animale...

-Non lo siamo infatti- mormorai inghiottendo l'ultimo boccone e stringendo con forza la forchetta quasi volessi spezzarla.

Nonostante non la stessi guardando seppi che Susan era impallidita.

-Jill, noi volevamo chiederti scusa- disse, quasi in un sussurro.

-Cosa?- il mio corpo ebbe un sussulto.

I miei occhi scattarono su di lei senza che riuscissi a fermarli e nel mio sguardo passò un lampo scarlatto mentre io trattenevo l'impulso di uccidere, che ora ribolliva dentro di me come un istinto represso.

Susan si irrigidì sotto quello sguardo.

-Ci dispiace per come ti abbiamo trattata- intervenne a quel punto suo marito, Paul.

Con uno scatto il mio collo ruotò verso di lui.

-Non vorrete dire sul serio?- la mia voce non sembrava neanche più mia, tanto era satura di rabbia -Volete chiedermi scusa?- feci. Il mio corpo ebbe un altro spasmo -Dopo anni di isolamento, dopo tutte le lacrime che ho versato, i tentativi di togliermi la vita... voi mi chiedete scusa?!- adesso stavo urlando.

-Avevamo paura- farfugliò Susan, intimorita dai miei occhi infuriati. Deglutì -Jill, tenta di capirci: ci hai tolto uno dei nostri figli, hai strappato Zack da questo mondo che avevi solo sette anni...- la sua voce si spense.

-Chiunque ti avrebbe temuto- fece Paul, abbassando lo sguardo -E noi... non sapevamo cosa fare.

Sentii i miei occhi riempirsi di lacrime. Un misto di rabbia, delusione, terrore...

La mia bocca si ridusse a una sottile linea.

-Siete solo dei traditori!- gridai -Mi avete isolata dal mondo, costringendomi a vivere solo della mia paura, lasciandomi in preda ai miei dubbi e impedendomi di vivere- sibilai -E ora, dopo otto anni di elusione, di pura sofferenza, in cui mi avete lasciata marcire nella mia cella buia, vi ritrovo qui, a chiedermi di perdonarvi per avermi abbandonata?! Per aver rinunciato a vostra figlia, una bambina che avete lasciato a sé stessa e ignorato, chiudendola a chiave in una prigione di disperazione?- scossi la testa mentre lacrime bollenti mi discendevano le guance -Certe cose non si possono perdonare...

La coppia rimase pietrificata mentre io abbassavo lo sguardo.

-Jill, noi...- tentò Susan dopo un istante di immobilità.

-Silenzio!- la interruppi, con una voce vibrante e potente, che non mi apparteneva -Silenzio...- ripetei poi, il tono ricolmo di tristezza -Non ho bisogno di una famiglia- aggiunsi dopo un secondo, alzandomi da tavola mentre i due sussultavano.

Sapevo che mi temevano.

Lo avevano sempre fatto e non avrebbero mai smesso.

Quella sera si erano azzardati a comunicare con la bestia, varcando territori inesplorati senza davvero conoscere ciò a cui andavano incontro... e ne erano inesorabilmente usciti sconfitti.

-Grazie per il pasto- mormorai prima di dirigermi a passo lento verso la mia camera, lasciando marito e moglie a fissarmi terrorizzati; lasciandoli a guardare il mostro allontanarsi con il cuore che ancora batteva nel timore di essere strappato via dal petto...

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Capitolo 4
*** Niente scampo ***


Ebbi un'altra crisi non appena misi piede in camera.

Chiusi la porta e tutta la rabbia, tutta la frustrazione, tutta la paura esplosero nel mio essere senza che riuscissi a fermarli.

Trattenni le urla mentre le zanne mi uscivano dalle gengive nel desiderio di assaggiare il sangue; gli artigli eruppero dalle mie dita che vennero scosse dai fremiti, bramando di strappare la carne; gli occhi si illuminarono di rosso e avvertii la pupilla divenire sottile.

Scariche di energia mi attraversarono il corpo mentre lacrime mi lasciavano scie lungo il viso e ogni oggetto che avevo a portata di mano veniva ricoperto da graffi o distrutto in un morso intriso di rabbia.

Un dolore terribile aleggiava nella mia mente febbricitante e il mondo per un secondo divenne come irreale. Fuochi esplosero e visioni di guerra mi annebbiarono la vista mentre la mia testa veniva assorbita da una sgradevole follia.

Le piastrelle del pavimento divennero pietra incandescente da cui eruttavano fiumi di lava, il cozzare delle spade mi pervase le orecchie, le grida dei guerrieri sostituì il ticchettio della pioggia sui vetri e ogni cosa fu assorbita dalla guerra.

Lampi di realtà interconnesse si confondevano con la mia paura e l'unica cosa che potevo fare era aspettare che tutto si placasse, che ogni cosa smettesse di irradiare morte e che il mio corpo smettesse di tremare al ritmo di un terremoto inesistente.

Non mi rimase che attendere.

Non più padrona del mio essere, con gli artigli che tranciavano ogni cosa incontrassero, mi rintanai, soccombendo al Demone che con sempre più vigore tentava di emergere...

 

Mi doleva tutto e sentivo ogni muscolo del corpo intorpidito e privato dell'energia necessaria per muoversi.

Il freddo delle piastrelle mi entrava nelle ossa e la schiena era scossa dai brividi, fuori dalla finestra lampi di luce illuminavano la notte mentre la tempesta scuoteva con violenza gli alberi e un ramo irto di artigli picchiettava furiosamente contro il vetro quasi volesse intimarmi a farlo entrare.

Mi misi a sedere con fatica, massaggiandomi la testa per poi scoprire che i miei capelli erano incrostati di sangue.

Gemetti all'idea di aver sbattuto la testa o, peggio, di essermi ferita da sola durante la crisi.

Avvicinai con dita tremanti le mani alla ferita, che adesso pulsava al lato del cranio, per scoprire due tagli inferti indubbiamente con un paio di artigli.

Sibilai mentre, con la testa che doleva, mi mettevo in piedi. Gli occhi si abituarono lentamente all'oscurità e solo allora il disastro che avevo causato mi apparve davanti con tutta la sua disperazione.

La scrivania era segnata e il legno graffiato senza pietà. I fogli che stavano sopra di essa giacevano sul pavimento stropicciati e calpestati. La libreria era ribaltata e i volumi privati delle pagine o scagliati con rabbia contro il muro. Il letto disfatto e le coperte tagliuzzate. Il lampadario era spaccato e i frammenti del vetro delle lampadine erano seminati in giro per la stanza...

La sola cosa rimasta intatta era la tastiera.

Gli occhi mi si riempirono di lacrime mentre, stando attenta a evitare i pezzi di vetro a terra, mi avviavo verso quello strumento senza graffi o segni di artigli.

Con il suono dei tuoni che rimbombava fuori dalla finestra, premetti il pulsante di accensione e posizionai le mani sui tasti, chiudendo gli occhi.

Iniziai a suonare e dalle mie dita non più munite di artigli si srotolò una melodia malinconica e pura.

Mi lasciai trasportare dalla musica, fondendo me stessa con quelle note e lasciando che il mondo intorno a me svanisse e mi lasciasse sola con quella melodia.

Le mie dita scorrevano senza tregua da un tasto all'altro mentre, lentamente, delle timide lacrime iniziavano a discendermi il volto... solo che queste erano di gioia.

Dimenticai la tempesta e quel dolce suono prodotto dalle mie mani sovrastò i tuoni e il vento, irradiando ogni cosa con il suo calore.

Poi, mentre il mio cuore batteva al ritmo della melodia, mentre ogni cellula del mio corpo danzava secondo quella musica e il Demone si nascondeva dentro sé stesso... qualcuno bussò alla porta della mia camera.

Non so come lo sentii, con il frastuono della tormenta e il volume della tastiera, ma quell'unico suono bastò per interrompere il piccolo incanto in cui ero immersa e farmi crollare nuovamente nella paura.

Il mio sguardo scattò all'ingresso della stanza e nei miei occhi passò un lampo rabbia scarlatta.

Era tardi.

Sapevo che doveva essere ormai passata la mezzanotte e fu proprio questo a mettermi in allarme contro chiunque fosse dall'altra parte della porta.

Lanciando un'ultima occhiata alla tastiera balzai tra i detriti del lampadario e i libri stropicciati per piazzarmi davanti all'uscio e tirare la maniglia.

Incontrare gli occhi di Susan nel buio mi fece correre un brivido lungo la schiena.

Per un istante ci fissammo attraverso la piccola fessura che avevo creato, in modo che lei non potesse vedere la devastazione che regnava nella mia camera. Era in pigiama e i capelli neri ora sciolti le ricadevano sulle spalle in morbide onde corvine.

-È tardi- dissi poi io, senza lasciar trapelare emozioni dalla voce.

-Lo so- fece Susan, senza abbassare lo sguardo dai miei occhi -Ma volevo parlarti. Ho sentito che suonavi e ho capito che eri sveglia.

Fu forse un bene che nella penombra non notasse il sangue che avevo sulle dita e tra i capelli.

-Parla- le dissi, fredda.

Lei batté le palpebre.

-Non posso entrare?

-No.

Susan sospirò.

-Jill, io... - sospirò di nuovo -In tutti questi anni sapevo di stare sbagliando con te, sapevo che eri una bambina sola, che aveva bisogno solo di affetto e di comprensione... Ma ho avuto paura, capisci? Avevo paura di mia figlia.

La fissai, impassibile.

-Te l'ho detto: è tardi per le scuse- le dissi, sapendo dove voleva andare a parere -Non puoi rimediare a ciò che hai fatto. Tu non sei più mia madre.

Quelle parole parvero colpirla.

-Oh, Jill...- allungò una mano verso il mio viso ma io mi ritrassi al tentativo di contatto.

-Non funziona così, Susan- le dissi e lei si irrigidì quando la chiamai per nome -Non puoi ignorare tua figlia per otto anni e poi pretendere che ti perdoni- il mio tono era più pacato rispetto al pasto, ma manteneva la sua durezza.

-Lo so. Però...- la donna abbassò lo sguardo per poi alzarlo nuovamente su di me -vorrei solo riuscire a ricucire.

-Non puoi farlo- tagliai corto -È finita- feci per chiudere la porta ma Susan mi fermò.

-Aspetta!- esclamò.

La fissai, in attesa.

-Pensavo solo...- disse -che avresti bisogno di stare con altri ragazzi della tua età.

-No.

Il suo sorriso traballò.

-Ci ho pensato, Jill: non è giusto che tu sia chiusa in una camera per ogni secondo della tua vita.

-Ho sempre vissuto così.

-E mi dispiace.

-Non è vero.

Mi guardò, quasi implorante.

-Non ti piacerebbe andare a scuola?

-No.

-Perché?

Non risposi.

-Comunque sia, non importa- tagliò corto Susan dopo aver capito che non avrei accennato a rispondere -Io e tuo padre ti abbiamo già iscritta alla scuola pubblica: a settembre potrai rientrare.

Un brivido gelato mi attraversò la schiena.

-No- dissi, secca -Non andrò a scuola.

-Ormai è deciso- declamò Susan, alzando il mento -Non puoi continuare a vivere così.

-Ho sempre vissuto così- ripetei, fredda -E il caso è chiuso.

La donna bloccò la porta prima che gliela chiudessi in faccia.

-Smettila di ribellarti.

Un fiotto di energia mi attraversò il corpo e sentii il Demone drizzare le orecchie.

-Dopo una vita nella quale mi avete lasciata a me stessa non potete pretendere che appena mi dite di fare una cosa io obbedisca senza ribattere- feci, gli occhi stretti.

-È quello di cui hai bisogno- disse Susan, alludendo alla scuola -Mi dispiace davvero per aver ignorato mia figlia tutti questi anni, ma adesso intendo rimediare al mio errore e fare ciò che è necessario per il suo bene: studiare tramite internet non va bene con te, è evidente. Hai bisogno di avere contatti con altri ragazzi.

I miei occhi lampeggiarono di rosso, ma Susan non parve accorgersene.

-Tu non sei mia madre- sibilai senza trattenere la rabbia che provavo per quella donna.

Chiusi la porta senza lasciarle il tempo di aggiungere altro e ci appoggiai la schiena per poi farmi scivolare sul pavimento, le ginocchia sotto al mento e le lacrime che mi appannavano gli occhi illuminati di sangue.

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Capitolo 5
*** Morta a malapena vivente ***


Quella notte ebbi altri incubi.

Il mio passato, il sangue, la guerra, la morte...

Ogni cosa mi opprimeva la mente senza accennare a lasciarmi in pace, il Demone urlava, strillava in una lingua che conoscevo ma al tempo stesso mi era estranea.

Per quanto mi impegnassi non riuscivo a scacciarlo, non riuscivo a dimenticarlo. I tentativi fatti si ritorcevano contro di me, assalendomi con una scarica di dolore che mi costringeva a mordermi la lingua per non urlare.

La mattina il mio corpo era scosso da brividi di rabbia e rancore.

Mi ero addormentata con la schiena contro la porta, al buio, con la tempesta che bussava alla finestra e con voce tenebrosa mi ordinava di farla entrare.

Avevo guardato la camera distrutta con gli occhi che lampeggiavano di collera e quindi ero rimasta lì, immobile, a fissare il disastro che io avevo causato senza sapere come risolvere... senza sapere che fare.

Non ero scesa a mangiare e, dopo quasi un'ora di staticità, mi ero messa a ripulire la stanza. Le visioni della guerra che premevano sui confini della mia coscienza.

Per prima cosa avevo aperto un cassetto della scrivania graffiato da artigli d'ebano e avevo preso con delicatezza l'Mp3 e le cuffie per poi posizionarmele sulle orecchie e far partire la musica.

Le note avevano allontanato il Demone per poi inondarmi la mente di piacere.

Avevo incollato le pagine dei libri con lo scotch meglio che potevo per poi rimettere in piedi la libreria e posizionarci dentro i volumi stropicciati.

Avevo pulito il pavimento dai frammenti di vetro e dai cocci del lampadario e cambiato le lenzuola del letto.

La scrivania e l'armadio erano ancora tristemente segnate dalle mie unghie, ma al momento non potevo fare niente se non tenerli così come erano, graffiati dalla furia del Demone...

Quel giorno uscii da camera mia solo una volta, per andare in bagno e, quindi, bere dell'acqua di cui il mio corpo umano necessitava ardentemente.

Stetti attenta a non incrociare Susan e Paul. Non li volevo vedere.

Sapevo che nel caso i miei occhi si fossero posati su quei traditori non avrei resistito e li avrei uccisi, mostrandomi per quello che ero... E per quanto li odiassi non desideravo far loro del male.

I nutrienti tipici del cibo mi mancavano, ma resistetti alla tentazione di scendere in cucina per saziare il mio appetito, sopportando i morsi della fame che mi avevano indebolita.

Passai il resto della giornata immersa nella mia musica.

Sdraiata sul letto con il volume che mi frantumava i timpani, ma non mi importava. Avrei preferito diventare sorda piuttosto che sopportare il dolore inflittomi dal Demone, assaporare nuovamente quelle scariche di potere che mi percorrevano il corpo, corrompendo il mio essere con la loro energia... Non avrei ceduto nuovamente al male...

Susan non venne a bussare alla mia porta. La tempesta era passata e nemmeno il ramo artigliato spingeva più per entrare. Ero sola.

 

Non uscii dalla mia camera il giorno successivo, né il seguente e quello dopo ancora.

La mia salute diminuiva, le forze mi abbandonavano sempre di più per assenza di cibo, visto che nemmeno di notte, quando mi azzardavo ad inoltrarmi nei corridoi deserti della casa per andare in bagno, non osavo mettere piede in cucina.

Il Demone urlava sempre di più e nemmeno la musica, a volte, riusciva a cacciarlo via.

Gli incubi peggiorarono e io non avevo l'energia per scacciarli.

Mi limitavo a stare sul mio letto, immobile, le cuffie premute sulle orecchie e il respiro che si faceva sempre più debole, quasi volesse spegnersi del tutto.

I giorni passavano ma non li contavo più. Il tempo, fuori dalla finestra, divenne sempre più nuvoloso e nero, come la mia mente infestata dagli incubi.

Lasciavo che i miei occhi si tingessero di rosso quando ne avevano voglia, lasciai che le zanne crescessero e si arrotondassero a loro piacimento e ignoravo il dolore che queste e gli artigli mi infliggevano mentre uscivano allo scoperto.

Non riuscivo più a combattere il Demone e la schiena prudeva sempre più frequentemente... Il mio essere umana scivolava sempre di più verso il sangue che il mio passato desiderava, annegandomi nel suo desiderio di vendetta, lasciandomi inerme.

Poi, irrimediabilmente, il giorno arrivò.

 

Un vento freddo si abbatteva contro la finestra, ma con la musica che mi percuoteva il corpo non potevo sentirlo, non volevo sentirlo.

La stanza era immobile come me, una landa grigia e senza segnali che portassero a pensare che di lì fosse passata la vita.

Il mio respiro era lento, regolare; chiunque fosse entrato avrebbe certamente pensato che stessi dormendo.

Eppure i miei occhi erano aperti e rossi come il più puro dei sangui, due soli ardenti che osservavano il soffitto senza neanche essere interrotti dallo sbattere ritmico delle palpebre.

Ero un cadavere vivente, un essere non del tutto umano che lentamente si arrende alla morte, la quale lentamente avanzava.

Avevo la gola arida e dal mio stomaco di levavano cupi richiami che non venivano ascoltati. Il Demone gioiva di quel dolore, anche se in silenzio, senza farsi notare.

Quando qualcuno bussò alla porta nemmeno me ne accorsi. Lo fece il Demone, ma lui rimase fermo ugualmente, non volendo interrompere la disperazione in cui ero immersa e che lui amava.

-Jill?

La voce di Susan mi giunse remota, oltre l'orizzonte della mia memoria e del mio essere.

Nonostante fosse solo un flebile sussurro attutito dalla porta che ci separava, io la sentii ugualmente e avvertii il Demone imprecare quando con fatica mi misi a sedere e i miei occhi si spensero in una scintilla rassegnata.

Il mio sguardo doveva essere quello di un morto.

Un pallido spettro che si rifiuta di vivere, un essere umano senza ragione che ha rinunciato alla fatica di mangiare e di preoccuparsi del proprio futuro.

Con una smorfia di dolore abbassai il volume dell'Mp3 e il Demone minacciò di prendere il sopravvento.

Lasciai delle deboli note sullo sfondo della mia vita mentre, con una voce carica di tristezza che non riuscii a riconoscere come mia rispondevo alla porta:

-Avanti.

Non avevo le forze per alzarmi, sebbene l'idea che Susan entrasse nella mia camera, che varcasse la soglia del mio piccolo regno, del mio angolo di mondo, mi disgustava e mi riempiva di ribrezzo.

La maniglia si abbassò lentamente e l'occhio scuro della donna sbirciò dentro.

Mi fissò per un istante con sguardo perso, come se non mi riconoscesse; poi spalancò ulteriormente la porta e sentii una freccia nell'animo quando il suo piede ricoperto da una ciabatta celeste si posò oltre il limitare della mia stanza.

La donna arricciò il naso mentre io la fissavo, immobile.

-Jill, qui dentro c'è odore di muffa- affermò scuotendo il capo -Come fai a vivere così?

Non risposi e mi morsi un labbro, trattenendo le zanne a fatica.

Non osai ammettere nemmeno a me stessa che, in realtà, quel tiepido profumo di putrefazione mi piaceva.

La donna mi guardò e il suo sguardo si velò di compassione.

-Jill, quant'è che non mangi?- mi domandò con un sorriso triste.

-Non lo so- risposi, senza emozione -Non lo voglio sapere.

Susan sospirò.

-Sai almeno che giorno è oggi?- chiese poi.

-No- dissi -Non lo voglio sapere. Ora vattene.

La donna non si mosse e continuò a sfidare il mio sguardo spiritato.

-Invece ti dovrebbe interessare, ragazza- mi fece, accigliandosi -Oggi per te inizia la scuola.

La notizia mi turbò, ma non lo diedi a vedere: ero troppo stanca anche solo per eseguire un'espressione sgomenta.

-No- ribattei -Non ci vado. Vattene.

Susan mi rivolse un'occhiataccia.

-Adesso tu scendi, mangi, ti fai una doccia e poi tuo padre ti accompagnerà a scuola- disse, autoritaria -Non sei tu che decidi in questa casa.

-Paul non è mio padre- feci, battendo per la prima volta le palpebre da quando era entrata -Io non ho bisogno di mangiare, non andrò a scuola.

La donna si infiammò.

A grandi passi raggiunse il letto e mi guardò negli occhi, ad una vicinanza che non avevamo da tempo immemore.

-È il prezzo da pagare per aver ucciso Zack- mi minacciò con un tono gelido.

Un brivido mi attraversò la schiena.

Zack...

-Mio fratello non ha niente a che fare con la scuola- dissi -Adesso esci immediatamente da questa stanza e lasciami in pace.

-No, Jill- mi afferrò le cuffie e me le strappò dalla testa con violenza.

Urlai, senza trattenermi, ma le energie mi mancavano e invano tentai di tendere le mani scheletriche verso Susan e riavere la mia musica.

La donna mi guardò, seria, impassibile davanti alla mia debolezza.

-Se le rivuoi scendi in cucina- detto questo, con le mie cuffie ed Mp3 ancora strette in pugno si avviò verso la porta e se la chiuse alle spalle, lasciandomi sola con una mano tesa verso il nulla.

Il Demone strillava, si dimenava nella mia mente, ma io non potevo resistergli, non potevo combattere me stessa come avevo sempre fatto...

Caddi dal letto e mi ritrovai a terra in ginocchio, il respiro affannoso e gli occhi lucidi di lacrime rabbiose.

Le dita fremevano nello sforzo di reprimere gli artigli, i denti grattavano l'uno contro l'altro come in un combattimento furioso in corso nella mia bocca.

Fu in quel momento, quando una lacrima bollente mi cadde sulla mano e la schiena iniziò a prudere con fervore, che mi resi conto di dover obbedire a quella donna.

Che mi resi conto con amarezza di dover andare a scuola...

Strinsi gli occhi, nel tentativo di impedire al pensiero successivo di uscire allo scoperto nella mia mente, ma il Demone in me era troppo forte.

Dovevo andare a scuola... e uccidere.

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Capitolo 6
*** Quella cella chiamata vita ***


Scendere le scale mi provocò una scarica di vertigini.

La testa girava e la paura di sbatterla contro qualcosa si faceva più vivida ad ogni scalino, ma alla fine, quando misi finalmente il piede sul pavimento del piano terra, mi concessi un secondo per recuperare le forze necessarie ad arrivare fino alla cucina e rinchiudere il Demone senza che mi desse fastidio.

Eppure il male si dibatteva e quando varcai la porta della cucina non osai guardare Paul e Susan negli occhi per timore che cogliessero il rosso che li aveva infettati.

Il mio sguardo, senza che riuscissi a fermarlo, scattò istintivamente sul cibo appoggiato sul tavolo e una nuova, terribile, scossa di energia mi attraversò il corpo mentre mi fiondavo verso la frutta e i biscotti messi lì in mia attesa.

Animata da una furia quasi animale trangugiai ogni cosa senza lasciare nulla, mentre la confusione di coloro che si affermavano i miei genitori si trasformava in sgomento.

Il mio corpo era scosso dai brividi quando ingurgitai, quasi senza masticare, l'ultima briciola di pasta frolla.

Mi asciugai il succo di frutta che era rimasto sulle labbra con un gesto rapido della mano e, mantenendo lo sguardo puntato a terra, dissi: -Vado in bagno- per poi dirigermi con nuova energia verso la seconda porta del corridoio.

Il bianco delle piastrelle mi accecò ma mi imposi di stare calma mentre mi spogliavo rapidamente per poi entrare nella doccia.

Non appena l'acqua bollente mi piovve addosso lanciai un selvaggio urlo di piacere misto a dolore e, con un sinistro sibilo, gli artigli emersero dalle mie mani, graffiando appena la cabina di vetro che mi circondava.

Il getto rovente continuò a scorrermi addosso mentre io me ne stavo immobile, il corpo scosso dagli spasmi e gli artigli sguainati, a soffrire quel calore innaturale con un sorriso folle stampato sul viso.

Era il Demone che rideva.

L'acqua lavò via il sangue che mi sporcava i capelli, lavò via il sudore freddo che mi aveva ricoperta, lavò via ogni cosa... tranne la rabbia.

Uscii dalla doccia dopo qualche minuto e mentre me ne stavo ferma davanti allo specchio, gocciolante, con i capelli scuri che coprivano metà del viso, gli occhi rossi desiderosi di morte, le zanne affilate messe in evidenza dal ghigno ritorto che mi infettava il viso... ebbi paura.

Nel mio sguardo corse un lampo di ragione e immediatamente il Demone si ritirò con un sibilo frustrato.

Eccomi lì: una ragazzina bagnata, magra dopo i giorni di digiuno, gli occhi vitrei come quelli di un morto; impaurita e afflitta da sé stessa.

Deglutii, ma avevo la gola arida.

Mi asciugai rapidamente e mi infilai i vestiti puliti che Susan mi aveva preparato (feci una smorfia rendendomi conto che non erano totalmente neri come mi piaceva).

Lanciai un'ultima occhiata intimorita alla mia immagina riflessa prima di chiudermi la porta del bagno alle spalle.

 

Il vento continuava a fischiare contro il vetro della macchina.

Lo percepivo sbattere contro il parabrezza e urlarmi di farlo entrare mentre l'auto avanzava per le strade trafficate del centro, diretta verso un luogo in cui non pensavo avrei mai rimesso piede; un posto pieno di ragazzi che non mi somigliavano a con cui non volevo avere niente a che fare.

Strinsi i pugni e abbassai lo sguardo.

Sapevo che Paul mi lanciava occhiate sospettose e furtive di tanto in tanto, ma aveva troppa paura della mia reazione per iniziare una conversazione razionale con la ragazza non più sua figlia.

Incassai la testa nelle spalle e mi concentrai sul movimento ritmico dell'auto, sentendo che il Demone stava spingendo per uscire.

Le dita mi formicolavano nello sforzo di trattenere gli artigli e fu in quel momento che il mio sguardo cadde sulla radio della macchina e un lampo mi passò negli occhi.

-Posso accenderla?- domandai indicando l'apparecchio, ma senza guardare l'uomo alla mia sinistra.

Quello sussultò, probabilmente non si aspettava che sarei stata io la prima a dire qualcosa dopo mezz'ora di silenzio.

-Ahm...- mormorò, lanciandomi l'ennesima occhiata che io feci finta di non notare -Certo.

Con un senso di liberazione nell'animo premetti il pulsante di accensione e una melodia dapprima gracchiante poi sempre più delicata e definita riempì l'abitacolo, scacciando il Demone.

Non riuscii a contenere un sorriso sollevato che Paul studiò con curiosità.

 

-Siamo arrivati- fece l'uomo accanto a me, facendomi sobbalzare, immersa com'ero nella canzone proveniente dalla radio.

Lo guardai per la prima volta da quando ero entrata in auto. Lui guardò me, in attesa. La musica mi aiutava a non mostrare gli occhi rossi e quindi sfidai lo sguardo di Paul, senza fretta.

-Non... non scendi?- mi domandò il mio non-padre abbozzando un sorriso teso.

Battei le palpebre, impassibile, e tesi una mano aperta verso di lui.

-Le mie cuffie- dissi mentre lui sussultava senza un motivo -I patti erano chiari.

-Oh... c-certo- balbettò Paul sbottonando una tasca della giacca e tirando fuori cuffie ed Mp3. Me le porse e io annuii quasi impercettibilmente.

-Grazie- dissi senza emozione prima di posizionarmele sulle orecchie e far partire una canzone a caso dalla playlist.

Aprii lo sportello sotto lo sguardo allibito di Paul.

-La cartella è nel bagagliaio!- mi avvisò un secondo prima che io chiudessi la portiera.

Gli lanciai un'occhiata, senza rispondere, e recuperai dal retro dell'auto lo zaino con i libri che Susan mi aveva preparato contro la mia volontà.

Mi infilai una bretella e mi incamminai verso il cortile della scuola superiore senza voltarmi verso l'uomo in macchina, che ancora mi teneva gli occhi puntati addosso.

Il vento mi fischiava tra i capelli mentre avanzavo verso l'entrata senza degnare i ragazzi che mi circondavano neanche di un'occhiata.

La musica mi pulsava nella mente e quella era l'unica ragione per cui continuavo a camminare, impassibile, cieca dei ragazzi chiassosi e pieni di vita che puntellavano il cortile e i corridoi della scuola, in attesa del suono della campanella.

A volte qualcuno mi lanciava un'occhiata per poi distoglierla immediatamente e dimenticarsi della mia presenza.

Non li biasimavo e non volevo che mi guardassero.

La rabbia che provavo per tutti loro, per Susan e Paul, per il mondo, sarebbe esplosa se non fosse stato per la musica, la sola cosa che mi impediva di impazzire.

L'unica cosa che mi aveva detto la donna che si fingeva mia madre prima che io mettessi piede fuori di casa era il nome della classe: 2D.

D come Demone... non avevo fatto a meno di pensare mentre chiudevo la porta di casa.

Non sapevo dove fosse quella classe, ma avevo ancora quindici minuti prima che iniziassero le lezioni e intanto che il tempo c'era, preferivo vagare senza meta per i corridoi che sedermi su una sedia dura, circondata da ragazzi che si sarebbero messi a giudicarmi senza ritegno, nutrendo il Demone di rabbia e rancore...

Mi spostai una ciocca di capelli dietro l'orecchio e mi morsi un labbro, continuando a camminare.

 

-Non ci vediamo da un po', eh, Jill?

Nonostante il volume della musica quella voce mi giunse chiara anche attraverso le cuffie. Era una voce che conoscevo, che non volevo sentire.

Un brivido mi percorse la schiena mentre mi voltavo di scatto verso l'origine.

Un ragazzo dai capelli rossi come una brace d'inverno, il viso allungato e due occhi di un azzurro così acceso da sfiorare il viola mi fissava appoggiato al muro del corridoio con le braccia incrociate.

Sul volto aveva un ghigno soddisfatto che il Demone adorò.

Lo studiai per un istante, lo zaino che mi pendeva dalla spalla e la musica che mi rimbombava nel cranio.

Lo conoscevo. Apparteneva al mio passato ma non volevo ammettere che mi avesse davvero raggiunto come aveva promesso.

-Credevo che fossero stati più clementi con te, Jillkas- continuò il ragazzo avvicinandosi lentamente alla mia figura mentre io lo guardavo senza muovermi -Questo corpo è orrendo anche solo per un essere umano.

Trattenni le zanne.

-Lasciami in pace, Cos- sibilai mentre sul suo viso il ghigno si allargava.

-Tu e la tua smania dei diminutivi- fece alzando gli occhi al cielo -Cosmath, mia signora, va benissimo- lanciò uno sguardo ai ragazzi che ci circondavano -Tutti qui immaginano sia un nome straniero- scoppiò in una risata quasi folle che fece voltare un paio di teste.

Mi accigliai.

-Tappati quella bocca, ignorante- lo minacciai -Non ti voglio vedere: vattene.

La sua espressione si indurì.

-Credevo fossi stata felice di vedermi.

-Perché dovrei?- le dita formicolarono -Mi hanno cacciata, ricordi? Non posso più tornare, e tu lo sai.

Cos sorrise.

-Sì, ma se volessi potresti liberarti.

Un brivido gelido mi attraversò la schiena.

Abbassai lo sguardo e il mio corpo fremette.

-Non... posso- chiusi gli occhi e strinsi i pugni, rifiutandomi di guardarlo negli occhi.

Un secondo di silenzio, riempito solo dalla musica che mi risuonava nelle orecchie attraverso le cuffie.

-Ti sei addolcita, Jillsak- lo disse con disprezzo -Non sei più quella di un tempo.

-Forse è un bene- riaprii gli occhi e lo sfidai con lo sguardo -Questo mondo non ha bisogno di altro male.

Scosse la testa, freddo.

-La rabbia che nutri è la prova che stai mentendo- disse Cos -Segui il mio consiglio, Jill: non combattere quello che sei.

-Non sono più quello che ero- ribattei -L'umanità mi ha corrotta: sto combattendo contro me stessa da troppo tempo.

-È questo che mi preoccupa- fece Cos -Se continui così ti ucciderai da sola. Lo sai questo, vero?

-Non mi ucciderò- dissi.

-No- Cos scosse la testa ed esitò -Peggio.

In quel momento suonò la campanella.

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Capitolo 7
*** Demoni del passato ***


Avevo dimenticato quanto la scuola potesse essere severa con i ritardatari.

Mi ero ripetuta di non uccidere la professoressa per avermi sgridato per essere entrata in classe cinque minuti dopo che lei aveva iniziato a parlare ed ero rimasta in silenzio.

Dopo meno di due minuti l'insegnante mi aveva squadrata con occhi di ghiaccio, urlandomi di togliere quelle inutili cuffie e di ascoltare le sue parole.

Avevo imprecato silenziosamente e, richiamando tutte le energie che avevo in corpo, avevo spento l'Mp3, intimando al Demone di restare calmo, ma senza troppi risultati.

Improvvisi sibili mi scappavano dalla bocca nel tentativo disperato di trattenere gli artigli, ed era in quei momenti che la professoressa mi guardava con disprezzo, come fossi solo una seccatura come le tante altre che si possono incrociare per le strade della vita.

Percepivo i miei compagni lanciarmi occhiate ironiche o confuse, a volte solo rabbiose. Sapevo che dentro le loro testoline arretrate il mio viso era stato classificato tra gli esemplari strani, incomprensibili, quelli da evitare. E forse era meglio così.

Dopo la prima professoressa ne venne un altro e dopo un altro ancora. Tutto per cinque ore consecutive passate a maledire quei bifolchi di Susan e Paul per avermi sbattuta in una cella peggiore della mia camera.

Quando uscii dalla classe, dopo l'ultima campanella, Cos era fuori dalla porta ad aspettarmi, appoggiato al muro con il tipico sorriso storto un tantino folle.

Alzai gli occhi al cielo e lo ignorai, dirigendomi a passo spedito verso l'uscita della scuola.

Lui quasi non ci fece caso e dopo che io ebbi svoltato senza degnarlo di un'occhiata staccò la schiena dal muro e mi corse dietro.

Mi affiancò e mi lanciò uno sguardo interrogativo.

-Jill, smettila di evitarmi.

Gli rivolsi un'occhiataccia.

-Posso evitarti quanto voglio- borbottai -In fondo sono ancora la tua padrona, no?

Cos si accigliò.

-Hai detto tu stessa di non essere più com'eri un tempo- mi fece -Quindi perché io dovrei ancora eseguire i tuoi ordini?

Lo fulminai con un'occhiata e i miei occhi per un istante si infiammarono di rosso.

-Tu non sai niente di me- sibilai tra i denti -Non più ormai. Perciò lasciami in pace- distolsi lo sguardo da lui.

Per un secondo lui si limitò fissarmi, gli occhi che fremevano di rabbia repressa.

-Credi che mi piaccia stare qui tra i mortali a farti da balia? Credi che lo farei se non volessi che tu ritorni alla tua gloria di un tempo?- mi fece, alzando appena la voce.

-Non ti ho chiesto io di tenermi d'occhio- sbottai bloccandomi di scatto in mezzo al corridoio. Lo guardai -Cos, smettila di...

-Cosmath, mia signora- precisò lui, interrompendomi -Mi chiamo Cosmath.

Alzai gli occhi al cielo.

-Cosmath- ripetei, poi mi morsi un labbro -Non ho bisogno della tua supervisione, chiaro?

-Questo lo credi tu- fece lui, incrociando le braccia, poi mi indicò -Guardati, Jillkas: hai l'aspetto di una stupida umana!

-È forse un problema?- gli feci, inarcando un sopracciglio -Ti ricordo che al momento tu sei nella mia stessa situazione.

Sbuffò.

-Sì, ma io non sono stato esiliato sulla Terra dagli Spiriti- esitò -All'unanimità...

Mi accigliai.

-Mi vuoi forse fare la predica?

-Lo sai che non oserei mai- si morse un labbro -Ma distruggere Althorm non è stata una bella mossa per assicurarsi la pace con gli Spiriti.

Sospirai.

-Era un pianeta inutile, e tu lo sai bene.

-Certo che lo so- annuì -Sono tuo figlio, ti capisco meglio di chiunque altro...- storse la bocca -Ma sapevi che gli Spiriti non avrebbero gradito.

-Ho fatto quello che andava fatto, Cos- dissi -math- aggiunsi un secondo dopo notando la sua espressione.

-Bene, ottimo lavoro- continuò il ragazzo, ironico -E adesso che sei su questa stupida zolla di terra sospesa nell'universo piena di bipedi privi d'intelligenza, che intendi fare?- mi squadrò -Jill, non puoi restare prigioniera per sempre.

Vedendo che non rispondevo continuò a parlare indisturbato senza che io mi degnassi di interromperlo.

-Perfino Zechra sa di non poter confinare la regina dei Demoni per sempre- arricciò il naso -Ma finché tu continui a intestardirti a non voler tornare alla tua gloria di un tempo e a combattere contro la tua natura, dubito che riuscirai a scappare da questa lurida prigione.

-Chi ti ha messo in testa che io voglia tornare a com'ero prima?- lo fulminai, furiosa -Dai per scontato che io sia ancora decisa a conquistare l'universo come quando ero giovane, ma non ti è mai passato per la mente che io possa anche stare bene qui?

Cos fece un sorriso amaro.

-Come potrebbe piacerti questa sistemazione?- sbottò -Essere una mortale che combatte ogni secondo contro la propria natura; essere una creatura piena di umanità- l'ultima parola gli uscì come un boccone amaro -Jill, nessuno può tenerti rinchiusa.

I miei occhi si illuminarono di rosso senza che riuscissi a impedirlo e le zanne cozzarono l'una contro l'altra mentre guardavo il mio primogenito con una rabbia degna di un Demone.

-Io non ho bisogno di essere salvata, Cos- ringhiai, ringraziando che il corridoio al momento fosse deserto -Adesso vattene e non tornare mai più.

L'espressione del ragazzo divenne rigida e severa.

-Questa è la peggiore condanna che gli Spiriti potessero farti, Jill- disse -Darti emozioni umane.

Lo guardai mentre mi voltava le spalle, incamminandosi verso il corridoio deserto con le mani in tasca.

I miei occhi si spensero e le zanne si ritrassero.

Per un secondo restai immobile, senza sapere chi in realtà io fossi; senza sapere da che parte guardare...

Il Mostro mi fissava da dentro il mio essere con occhi di fuoco mentre io, le emozioni umane che gli Spiriti avevano scaraventato sul Demone più potente dell'universo, guardavo la regina del male senza sapere che fare, senza conoscermi...

 

-Tutto... tutto bene a scuola?- mi domandò Paul abbozzando un sorriso teso mentre salivo in macchina.

Gli rivolsi un'occhiata spenta, tenendo le cuffie sulle orecchie e fingendo di non averlo sentito.

Non risposi e posai lo sguardo sulla strada mentre l'uomo sospirava e metteva in moto l'auto, senza più tentare di instaurare una conversazione con me.

Mentre la vettura si allontanava dalla scuola, dirigendosi verso casa, un baluginio arancione mi fece voltare lo sguardo al finestrino.

Cos, le mani nelle tasche della felpa e l'espressione delusa mi guardava andare via.

I nostri occhi si incrociarono per un istante e sentii i miei infiammarsi, ma fu per meno di un secondo. Distolsi lo sguardo e mi morsi un labbro.

Quel ragazzo non era più mio figlio, non era più mio amico... Non era nessuno...

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Capitolo 8
*** Un intruso dagli occhi d'argento ***


La scuola mi faceva schifo.

Ogni cosa, in quella ridicola gabbia di matti, mi invogliava a sbranare qualcuno, a lacerare carne umana con artigli demoniaci.

Avvertivo la rabbia crescere in me ogni volta che una lurida insegnante mi sgridava per lo stare guardando per terra senza ascoltarla; desideravo premermi la musica nelle orecchie al posto di ascoltare per ore quella tortura che tutti consideravano sacra.

Il mio corpo non rispondeva più, il Demone cresceva senza che io riuscissi a fermarlo e ogni giorno, ogni maledetto giorno in cui mi svegliavo in camera mia al suono di una dannatissima sveglia con il vetro ormai graffiato da artigli, sentivo che una parte della mia umanità scivolava via senza poterlo evitare.

Jillkas infestava i miei incubi; i Demoni sorvolavano il mio riposo senza smettere di urlare e in poco tempo mi ritrovai costretta a prendere dei farmaci potenti per riuscire a crollare in un sonno senza sogni... un riposo che, sebbene artificiale, avrebbe bloccato la paura.

I miei voti, a scuola, si abbassavano ogni secondo di più.

Studiare era escluso. Nessuno mi avrebbe costretta a subire una tale tortura umana... Ma per il resto del mondo questo fatto era sinonimo di rabbia, rancore, risentimento, stupidità... E nessuno mi guardava, nessuno mi parlava.

Perfino Susan e Paul, dopo aver tentato di comunicare con me ancora per qualche giorno, si erano arresi alla realtà che non volevo più rivolgere loro nemmeno una parola.

La sola persona che aveva ancora il coraggio di guardarmi negli occhi, che mi compariva accanto, scrutandomi con i suoi occhi ultraterreni, era Cos.

Sempre nella stessa posa con le braccia incrociate e la schiena appoggiata al muro; sempre con il ciuffo arancione a coprirgli la fronte e la bocca che, se glielo avessi permesso, avrebbe rigettato una serie di prediche che non volevo ascoltare.

Era in quei momenti che mi rammaricavo di aver avuto figli; di aver concepito Cos, Demone del fuoco e del buio.

Un tempo ero stata orgogliosa di lui: il mio primogenito, colui che era destinato ad accompagnarmi nella mia ascesa sul controllo dell'universo... e avevo riscontrato un appiglio saldo quando lui, poco prima che gli Spiriti mi esiliassero, mi aveva promesso che sarebbe venuto a cercarmi sulla Terra e mi avrebbe liberato dalla maledizione che Zechra e i suoi mi avevano inflitto... Ma ora in lui non vedevo altro che uno scocciatore venuto a sgridarmi su come stavo accettando la mia pena senza combattere.

Poi un giorno, quel lurido Demone che, nonostante tutto, non riuscivo a non ritenere figlio, superò il limite che silenziosamente gli avevo imposto.

Mentre me ne stavo in camera mia, le mie dita scivolavano con grazia sui tasti del pianoforte e una malinconica melodia mi accarezzava la mente, mettendo a cuccia il Demone... Qualcuno bussò alla finestra.

Per un attimo credetti di essermelo immaginato: era da tempo, ormai, che i miei sensi mi imbrogliavano, facendomi credere che la realtà fosse diversa da quello che era, buttandomi il buio sugli occhi come fosse cenere e inondando l'aria con suoni inesistenti...

Infine, però, dopo che quel maledetto tamburellare mi ebbe fatto sbagliare più di una nota e la concentrazione fosse ormai andata a farsi benedire, decisi di voltarmi.

A testa in giù, sospeso in aria per merito di una semplice magia, con i capelli che puntavano verso il terreno e gli occhi di ghiaccio che brillavano come stelle di zaffiro, stava Cos.

Bussava sorridendo, fissandomi con un'odiosa aria di scherno che per più di una settimana stavo tentando di ignorare a scuola con tutta me stessa... e adesso me lo ritrovavo qui, a soffio dal profanare il mio rifugio, l'unico luogo su questa immonda Terra dove potessi sentirmi al sicuro.

I miei occhi fiammeggiarono e il mio corpo si irrigidì per un istante, fremente di rabbia.

Sapevo che era questo ciò che voleva: voleva la mia ira, voleva che il Demone vincesse sulle emozioni che si erano impadronite del mio essere... ma non gli avrei dato questa vittoria.

Mi morsi un labbro e, deglutendo, mi avviai verso la finestra, i miei occhi fissi nei suoi, solo che io non sorridevo.

Aprii i vetri e mi appoggiai ai davanzale. I nostri visi stavano a un soffio l'uno dall'altro, lui a gambe incrociate, a testa in giù sul nulla; io con l'aria più seccata che riuscii a mostrargli.

Per un istante rimanemmo così, immobili. Cos che sorrideva e si burlava ancora una volta di me con il solo potere del suo sguardo, io che lo guardavo furiosa, ma senza mostrare apertamente la mia ira.

-Vedo che non hai perso la tua brutta abitudine di infastidire le persone che vogliono stare sole- gli dissi in fine, con una smorfia.

Lui allargò il sorriso, ma visto al contrario risultava più un broncio tetro e deforme.

-Ma tu non sei una persona- fece -Anche se adesso stai facendo di tutto per diventarlo.

-E tu faresti meglio a lasciarmi in pace, Cos.

-Mia signora, perdonami, ma non posso farlo.

-Ah, no?- inarcai un sopracciglio e tolsi le mani dal davanzale mentre lui girava appena la testa per guardarmi da un'angolazione di novanta gradi -Credevo di essere ancora tua madre- aggiunsi voltandogli le spalle e accomodandomi sul letto con espressione scocciata.

Lui ridacchiò.

Si capovolse in aria e in un fluido movimento atterrò nella stanza.

Sentii un brivido lungo la schiena mentre i suoi piedi si posavano sul pavimento della mia tana.

-Aggiustati quel ciuffo, per piacere- gli feci, schifata -Sembri uno che è appena uscito da una bufera di neve.

-Allora non ricordi mia sorella in forma umana, madre- ribatté lui iniziando a lisciarsi i capelli con un palmo -Sembrava che un ciclone le avesse arricciato i capelli...

Alzai gli occhi al cielo.

-Mi basti già tu: non c'è bisogno di mettere in atto Hiyv- puntualizzai con una smorfia.

-Ma anche lei è qui- fece Cos mentre un ghigno da Demone gli deformava il volto da ragazzo.

Sbiancai e un fremito mi attraversò. Jillsak, dentro di me, emise un basso ringhio.

-Esatto- Cosmath mi si avvicinò lentamente, con l'andamento seducente e delicato che da sempre usava anche con gli Spiriti con cui voleva vendicarsi -Le ho chiesto io di venire: è ovvio che solo io non basto per convincerti quanto sia orrenda questa palla di terra.

Deglutii.

Hiyv... La mia secondogenita, Demone dell'inganno e della persuasione...
Maledii Cos con tutta me stessa.

Sapeva ciò che stava facendo, questo glielo potevo concedere. Conosceva le mie debolezze... o meglio, le debolezze umane... sapeva che dopo un paio di parole da parte di mia figlia sarei ceduta. La mia mente era troppo instabile per resisterle e ogni giorno il Demone diventava più forte.

Sembrava che Cosmath stesse usando tutte le sue armi per indurmi a liberare Jillkas... Ancora un po' e sarebbe stato capace di mandarmi direttamente Astar...

Rabbrividii al pensiero, ma poi mi imposi di riflettere.

No, era impossibile che il secondo di Jillkas riuscisse a convincere il Creatore a raggiungermi sulla Terra, soprattutto perché era stato lui ad accettare la proposta di Zechra di lasciarmi marcire in una tale prigione. Evidentemente pensava che la mia autorità fosse diventata troppo influente sul suo “sacro equilibrio” e quindi il Bene e il Male non avessero più lo stesso peso sul piatto della “bilancia cosmica”, come adorava chiamarla.

Ma anche se Cos non fosse riuscito a mandarmi il Creatore, mio figlio aveva comunque al suo comando schiere di Demoni che per liberare la loro vecchia regina sarebbero anche stati disposti a volare sulla Terra nonostante questo pianeta facesse ribrezzo anche al più sciocco degli Spiriti.

Sua sorella era solo il primo pezzo del suo grande piano per liberarmi, e il fatto che stesse facendo tanto per indurmi a tornare e riprendere il controllo dei Demoni lo trovavo piuttosto snervante.

I miei occhi schizzarono su di lui. Adesso le mie iridi erano rosse come il sangue.

Lui sorrise al vedere quel colore.

-Tua sorella- sputai -Dov'è adesso?

Cos inizialmente non rispose, prendendo a studiare il pianoforte e premendo un paio di tasti che, insieme, risultarono una spiacevole fila di note stonate.

Poi tornò a guardarmi e la sua espressione, un misto di pazzia e desiderio, mi fece paura.

-Arriverà presto- rispose, gli occhi che brillavano irradiando una sfumatura d'argento per l'intera stanza -Non temere, madre: tra non molto sarai libera.

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Capitolo 9
*** Il risveglio del Demone ***


-Jill Reyes, togliti immediatamente quelle cuffie e alzati in piedi.

La voce della professoressa mi giunse indefinita, un pallido sfondo di ciò che erano i miei pensieri; una goccia di pioggia nella tempesta della mia mente.

Mantenni lo sguardo sul banco e fu come una percezione lontana e indistinta quella dei miei compagni che si voltavano verso di me, curiosi di conoscere come avrebbe reagito la ragazza più scema e svitata del paese.

Mi imposi di concentrarmi sulle note, sulla musica... esisteva solo quella.

Il Demone intanto fremeva.

-Reyes, non farmelo ripetere- tuonò la donna mentre gli ultimi sussurri vaganti per la classe si zittivano di botto -Posso farti espellere, se è questo che vuoi.

Non sai quanto io lo voglia, stupida megera... Le mie dita tremarono. Chiusi gli occhi per nascondere il bagliore scarlatto.

-Reyes, non lo ripeterò di nuovo: togliti immediatamente quelle cuffie!

Una scarica di energia, la mia mente che agitava le braccia nell'ancora tenue speranza di non precipitare nel baratro della follia.

I suoi passi accompagnati dal ticchettio persistente dei tacchi a spillo si intensificarono mentre quella figura alta e spinosa che era la professoressa di Geografia si avvicinava al mio banco con rabbia repressa e un'espressione rigida sul viso allungato.

Immersi la mano nella tasca con un gesto rapido e alzai mestamente il volume della canzone... Non dovevo esplodere, non potevo permetterlo...

Le note dentro la mia mente nascosero ogni cosa. La visuale, prima tinta di sangue, per un secondo tornò ai suoi tipici colori; il respiro si normalizzò; il mio cuore rallentò.

Poi il disastro.

Una mano munita di unghie tinte di viola mi afferrò le cuffie per poi strapparmele dalla testa senza pietà.

Fu peggio del gesto di Susan, fu peggio di ogni altra cosa.

Una ciocca di capelli, rimasta impigliata al filo collegato all'Mp3, mi provocò un dolore cocente mentre la donna tirava e quel ciuffo solitario minacciava di staccarsi dalla mia cute.

Tentai in ogni modo di pensare a quel dolore, solo a quel dolore fisico e a nient'altro... mentre i suoni, come i pensieri e le sensazioni, mi inondavano la mente.

Le zanne scattarono e infilai senza esitare le mani nelle tasche della felpa, per nascondere gli artigli e il sangue che ora mi bagnava i palmi.

Il mio corpo fremette, il Demone urlò.

-Mi ridia...- la mia voce era mozzata, mentre stringevo gli occhi, aggrappandomi a quegli ultimi secondi di autonomia che, lo sentivo, mi restavano prima della crisi. Deglutii, il sudore che adesso mi grondava dalla fronte, gli sguardi di ogni presente che mi perforavano e che io percepivo come lance affilate conficcate nella carne -Mi ridia... la musica...

-Come prego?- fece la professoressa, convinta che io stessi tentanto di sfidarla. Ma la sua voce mi giunse appena.

Un spasmo del braccio, in bocca il sapore del sangue.

-Ho detto- ringhiai -di ridarmi la musica...

Una risatina acuta e sarcastica proruppe dalla sottile bocca della donnina.

-Spero proprio tu stia scherzando, Reyes.

Lo sforzo immane che stavo facendo per reprimere il Demone non bastò più e, semplicemente, Jillkas sfuggì dal mio controllo.

Una rabbia inumana mi sovrastò e le emozioni del Demone si fusero con il mio corpo, sommergendo l'umanità che Zechra aveva tentato di innestarmi quindici anni prima.

Spalancai gli occhi luminosi di rosso e li alzai sulla professoressa mentre un ghigno animale mi deformava il volto.

L'espressione della donna mutò e la sua rabbia mutò in confusione, la confusione in paura.

-Cosa...?- farfugliò, iniziando a tremare.

-Le ho detto- dissi lentamente, la mia voce che adesso aveva preso una nota suadente e una sorta di riverbero, un'eco innaturale -di ridarmi la mia musica- sorrisi e le mie zanne scintillarono mentre ogni ragazzo nella classe sussultava.

Scoppiai a ridere. Una risata strana, venata di pazzia.

-Ma ormai quelle stupide note se le può anche tenere- scossi lentamente il capo e scostai la sedia, alzandomi in piedi -Ogni cosa tornerà come sarebbe sempre dovuta essere...

-Mostro!- urlò qualcuno mentre le mie mani emergevano dalle tasche e gli artigli sibilavano, strusciando l'uno contro l'altro.

-Cosa sei tu?- domandò la professoressa mentre faceva un passo indietro, il viso bianco come ossa.

Non sentii mai la risposta e la rabbia prese possesso del mio essere mentre la mia mano schizzava verso il viso della donna e gli artigli imprimevano un segno sulla sua pelle, bagnando la mia di rosso.

Poi la mia visuale sfumò in rosso, il rosso in buio... troppo buio...

 

Le mie palpebre sfarfallarono mentre i miei occhi stanchi mettevano lentamente a fuoco il mondo.

Un soffitto bianco leggermente macchiato di umidità.

Avvertivo in bocca un sapore amaro ma al tempo stesso piacevole, il mio corpo era sovrastato da una leggera coperta morbida e pulita... nelle narici avevo odore di disinfettante.

Una dolce melodia suonata al pianoforte aleggiava nell'ambiente e se non fosse stato per quella temo che sarei impazzita di nuovo.

Il ricordo di quanto era successo si affacciò nella mia mente e la prima emozione che provai fu... sollievo. Un sollievo tenero in cui crogiolarsi, la sensazione di aver finalmente dato uno scopo alla mia vita...

Poi, in netto contrasto con quella strana gioia, arrivò la rabbia... rabbia verso me stessa, verso il mondo... verso ogni cosa... e ancora una volta, come era già successo, mi ritrovai a desiderare di morire e smettere di soffrire.

E infine la disperazione.

Un tristezza così travolgente da tramutarsi in lacrime e tenui singhiozzi.

Mi mossi lentamente, la guancia premuta su un cuscino candido e ora umido di pianto. Mi misi a sedere e i capelli mi ricaddero davanti al viso in una cascata di tenebre.

-Sì, è molto triste.

Alzai la testa di scatto.

Ero in una stanza di ospedale che pareva essere stata avvolta in una nuvola di candeggina. Una flebo era accanto al mio letto e solo ora mi accorsi dell'ago che avevo dentro al braccio.

Era una camera singola. Nessun altro letto, solo una sedia solitaria là nell'angolo, dove una ragazza pallida dai capelli biondi che schizzavano verso l'alto come sfidassero la gravità e dei grandi occhi grigi suonava con grazia una piccola tastiera portatile che aveva appoggiata sulle ginocchia.

Era vestita leggera, con una camicia troppo larga per lei e un paio di calzoncini cortissimi che lasciavano ammirare le gambe snelle terminanti in paio di piccoli piedi delicati e totalmente scalzi.

Alzò lo sguardo su di me continuando a suonare.

-Dillo che ti aspettavi che fossi qui- mi disse mentre sul visino dotato di una finta gentilezza si dipingeva un sorriso che avrebbe fatto cadere qualunque uomo ai suoi piedi.

Mi morsi un labbro, maledicendomi per l'ennesima volta per essermi fatta venire l'idea geniale di avere figli.

-Hiyv- la salutai dopo aver deglutito -Non posso dire che sia un piacere.

Una risata cristallina eruppe dalle sue labbra rosate, in qualche modo la melodia proveniente dalla tastiera non si interruppe.

-Sei sempre così divertente, Jillkas- mi fece, sorridendo -E, beh, non posso dire di non essermi divertita quando hai ridotto a brandelli quella povera insegnante...- scosse la testa, continuando a sorridere, come se stesse rivivendo un sogno passato -Ah, è stata la cosa migliore a cui ho assistito negli ultimi cento anni. Giuro!

Un brivido mi attraversò la schiena al pensiero che avessi potuto uccidere di nuovo.

-Che cosa vuoi?- chiesi a mia figlia, senza staccarle gli occhi di dosso.

-Io?- parve sorpresa. Si alzò e appoggiò la tastiera sulla propria sedia, in qualche modo lo strumento continuò a suonare anche senza qualcuno che premesse i tasti.

Hiyv si accomodò sul letto, avvicinandosi a me con passi quasi fluttuanti.

-Sembri così stanca, Jill- mi fece avvicinando una mano al mio viso prima che io mi ritraessi di scatto. Sorrise -Vuoi davvero continuare a vivere in questo modo?- le sue parole echeggiarono nella mia mente per un istante -Desideri davvero continuare a combattere contro il tuo passato?

Battei le palpebre per cacciare via quella leggera ipnosi che quelle parole stavano facendo alla mia testa.

-Non puoi imbrogliare me, Hivy- le feci, accigliandomi -Sono molto più forte di quello che pensi- ma entrambe sapevamo che non era vero.

-Sei troppo umana, ormai- disse mia figlia sorridendo e facendo un breve sospiro -Eppure- e si voltò verso di me, trapassandomi con il suo sguardo sbiadito -continui a essere stranamente potente.

Abbassai lo sguardo e mi morsi un labbro. La musica della tastiera rallentò leggermente.

-Davvero ho ucciso quella donna?

Negli occhi di mia figlia passò un lampo.

-Beh, sì- rispose continuando a sorridere -Ma non è niente di cui vergognarsi- cercò il mio sguardo -Lo sai chi me l'ha detto questo?

Mi irrigidii.

-Io- dissi, secca.

Hiyv annuì.

-Tu.

Ci fu un istante di silenzio, accompagnato solo dalle note della tastiera fantasma.

-Non ti puoi nascondere, madre- mi disse il Demone che avevo davanti -So bene quanto ti abbia soddisfatto affondare gli artigli nella carne di quell'umana, so quanto brami tornare a ciò che eri un tempo. E lo sai anche tu.

La nebbia di cui erano intrisi i suoi occhi mi avvolse la mente mentre il mio sguardo si perdeva in quella distesa di nubi.

-Lo so?- le chiesi, ingenuamente.

Annuì.

-Ogni cosa può tornare quella che era un tempo, madre. Lo hai sempre saputo- sorrise e le nuvole continuarono a infittirsi, soffocando i pensieri, soffocando ogni cosa -Il dolore che provi è naturale, è ciò che proviamo tutti e tu puoi contrastarlo solo uccidendo, solo dando sfogo a ciò che sei... Ti farà solo bene, tu lo sai.

-Lo so...- mormorai, ma quasi non udii le mie stesse parole.

Avvertii come una presenza irrompere nella mia coscienza, rovistare tra le mie emozioni... Cercava qualcosa, qualcosa che, finché la musica andava, sarei riuscita a impedirle di trovare.

Sapevo cosa stava facendo, conoscevo quei trucchi meglio di chiunque altro: ero io ad averglieli insegnati, ero io che avevo plasmato la pericolosità di quel Demone... ero io che avevo creato quel mostro...

-Dove sei, madre?- domandò Hiyv -Zechra è stato troppo crudele con te, troppo spietato... ti ha rovinata... Ma se io riuscissi a trovarti in mezzo a queste emozioni...

La potenza di mia figlia si intensificò.

Prese a scavare con sempre più foga, graffiando le pareti della mia mente e ricoprendomi di rabbia, di dolore...

Fino a quel momento la flebile speranza di non farle trovare il Demone era stata vivida, materiale... ma adesso, mentre i suoi artigli abbattevano porte e la mia furia, nonostante la musica, cresceva, sapevo che era questione di poco prima che risvegliasse Jillkas...

Il solo modo per scacciarla era aggrapparmi io stessa al Demone, alla mia natura... Il solo modo per sconfiggerla era darle quello che voleva, liberare la rabbia con una potenza che l'avrebbe fatta ritrarre...

Per un istante fui di nuovo in quel letto d'ospedale, non più incastrata dentro la nebbia. Nei miei occhi passò una scintilla mentre fissavo Hiyv con l'ira che ogni giorno provavo verso me stessa.

Con un calcio sfondai la cella dove aveva rinchiuso il Demone e lasciai che esso irradiasse fuori e dentro di me, che sovrastasse senza esitazione ciò che rimaneva della mia umanità.

L'ultima cosa che sentii fu l'urlo di mia figlia.

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Capitolo 10
*** Dopo l'omicidio ***


Paul guidava in silenzio, un silenzio pieno di pensieri frammentati ed emozioni burrascose; di frasi non dette, di preoccupazione... di paura.

Io gli stavo accanto e avvertivo, come fossero miei, tutti i timori che gli attraversavano la mente. Aveva voglia di urlarmi contro, lo sapevo. Mi temeva ma al tempo stesso considerava ingiusto lasciarmi andare così dopo che avevo ucciso un'insegnante.

“Sono felice che tu sia riuscita a liberarti, finalmente” recitò la voce di Cos, nella mia mente, in ricordo di quando, durante la notte, era entrato nella mia stanza d'ospedale, gli occhi di ghiaccio che scintillavano “E, stai tranquilla, ho pensato io a tutti quei piccoli umani spaventati che hanno assistito alla scena”

“Cosa gli hai fatto?” avevo chiesto mentre un brivido mi attraversava la schiena.

Aveva sbuffato.

“Sei caduta in basso, Jill” aveva detto, il suo viso pallido illuminato dalla luna, che brillava tenue fuori dalla finestra, donandogli l'aspetto di un fantasma “Un tempo non ti sarebbe importato di quelle creaturine urlanti”

“Non farmi la predica, Cos” avevo ringhiato “Cosa gli hai fatto?”

“Gli ho cancellato la memoria, niente di troppo spietato” aveva risposto lui, annoiato “Avevo pensato di ucciderli tutti ma sapevo che questo ti avrebbe irritato”

“Da quando ti preoccupi di quello che penso?”

“Mi sono sempre preoccupato della tua opinione” aveva ribattuto lui “E anche se adesso sei accecata dall'umanità, conosco bene quanto sarebbe sgradevole farti arrabbiare”

“Strano” avevo commentato “Non mi era sembrato ti importasse molto di me quando sei entrato in camera mia senza un invito”

Cos aveva sbuffato.

“Non farmi la predica, Jill” aveva detto prima di svanire in una nuvola di fumo nero.

Una remota parte della mia anima era grata a mio figlio per quanto aveva fatto, per aver impedito che quei ragazzi ricordassero di come la loro compagna aveva sgozzato la professoressa di Geografia...

La sola cosa che sarebbe emersa nelle loro mente ripensando a quel momento sarebbe stato una nuvola grigia e immateriale avvolta intorno a quei ricordi, prima del panico di quando avevano visto la donna stesa tra i banchi e imbrattata di sangue e una loro compagna svenuta lì accanto con il viso bagnato dello stesso rosso.

Stranamente mio figlio non aveva ancora fatto una parola per come avevo trattato sua sorella.

Avevo percepito Hiyv sibilare nella notte, in un angolo della stanza, e lo scintillio dei suoi occhi mi era giunto dalle tenebre. Ma non le avevo dato peso.

Era ferita.

Ero stata io a graffiarla con i miei artigli e a scacciare la sua mente; era stato il Demone a imprimerle il segno rosso che adesso aveva sulla guancia... e se c'era una cosa che Hiyv non poteva sopportare era essere battuta da qualcuno che riteneva a lei inferiore, anche se si fosse trattato della propria madre.

Non mi aveva più dato fastidio da quel momento ed ero sicura che finché non avesse avuto la certezza di potermi battere, non avrebbe più interferito con la mia vita mortale... Era suo fratello a preoccuparmi.

-Cosa è successo là dentro?

Le parole di Paul mi giunsero nonostante la musica che avevo nelle orecchie. Trattenni la tentazione di voltarmi verso di lui e mi irrigidii all'istante.

L'uomo mi lanciò un'occhiata fugace per poi tornare alla guida.

Per un istante credetti che non mi avrebbe più interrogata e l'unico suono nella macchina continuò a essere il silenzio, accompagnato dalla musica che mi invadeva le orecchie attraverso le cuffie.

Con un po' di fortuna Paul avrebbe creduto che io non l'avessi sentito e avrebbe rinunciato a parlarmi.

-Allora?- riprese dopo almeno trenta secondi di immobilità. Questa volta, approfittando del semaforo rosso, si voltò verso di me e il suo sguardo, insieme alle sue emozioni, mi investirono.

Deglutii.

-No- dissi mantenendo lo sguardo abbassato, sperando che quell'unica parola potesse mettere fine alla discussione.

-No cosa, Jill?- esclamò lui, con una foga che mi sorprese -No cosa? Hai ucciso una persona, per la miseria! Un'altra persona...

Un brivido mi attraversò la schiena dopo che il viso di Zack mi fu passato per un istante davanti al viso.

Rimasi in silenzio, questa volta, intimandomi di concentrarmi solo sulla musica.

-E a quanto pare nessuno ricorda cosa sia successo in quella maledetta aula- batté le mani sul volante, mentre iniziava a tremare, poi si rivolse nuovamente a me -Per anni ti abbiamo lasciata a te stessa sperando che questo potesse in qualche modo farti guarire...- si morse un labbro -Ma con te non funziona mai niente.

Una chitarra elettrica vibrò nella mia testa.

-Guarire- ripetei, a voce talmente bassa che io stessa faticai a udirmi. Emisi una risata amara -Come se isolare una bambina per otto anni possa farla guarire- mi voltai di scatto verso di lui e un bagliore scarlatto mi attraversò gli occhi -Come se voi poteste guarire dalla paura che ora nutrite per quella creaturina che adesso non ha più nessuno se non la propria rabbia!

Il viso di Paul si fece freddo e distante.

-Non abbiamo chiesto noi un mostro come figlia.

Le lacrime mi salirono agli occhi. Abbassai lo sguardo, le zanne che spingevano e le dita che fremevano.

-Cosa succederà adesso?- domandai, abbassando il tono e tentando di recuperare la mia umanità.

-Starai agli arresti domiciliari per un anno- rispose l'uomo, senza staccarmi gli occhi di dosso.

Sussultai a quelle parole e mi voltai lentamente verso di lui.

-Ma ho solo quindici anni!

-I giudici hanno deciso così e tua madre ed io non volevamo intrometterci nelle loro decisioni.

Il mio corpo ebbe uno spasmo.

-No- sibilai stringendo i pugni e piantando gli artigli nella carne -Voi non siete i miei genitori.

Quelle parole non parvero però colpirlo, al contrario di come credevo.

-Comunque è verde- annunciai dopo qualche secondo in cui i suoi occhi non si staccavano da me e qualche clacson dietro di noi aveva iniziato a suonare.

Non rispose e rimise in moto la vettura.

-Non dovrò più andare a scuola?- domandai poi, lanciandogli un'occhiata fugace.

-No- fece lui -È troppo pericoloso.

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Capitolo 11
*** Tormenti notturni ***


Mi guardai le mani e gli artigli che vidi in qualche modo mi riempirono di energia, qualcosa che desideravo, un sogno che è tornato a vivere dopo anni di sonno...

Una landa bruciata, sotto di me, emanava odore di morte mentre miliardi di abitanti di Althorm perivano sotto le lame dei miei Demoni e le loro urla mi giungevano come un canto delizioso che avrei ascoltato in eterno, fino alla fine dell'universo.

Battei le ali e risi mentre mi lanciavo verso il cielo. I capelli di fuoco, l'amaro in bocca, le dita sporche di sangue.

-Mia signora?

Mi voltai e da una nube di fumo nero come la notte emerse una figura rossa con gli occhi d'argento. Batteva le ali possenti nella mia direzione e l'unica cosa che potei pensare in quel momento era quanto ero orgogliosa di ciò che Cosmath era diventato.

-Cos- gli feci mentre le mie zanne scintillavano nella luce del crepuscolo.

-Mi chiamo Cosmath- ribatté lui, in un sibilo rabbioso.

Scoppiai a ridere e senza volerlo mi morsi la lingua, gioendo del sangue e del suo dolce sapore.

-Figlio- con un paio di battiti lo affiancai in aria e gli sorrisi, trionfante -Althorm è nostro ormai, i loro eserciti si stanno ritirando e i Demoni li stanno massacrando. Odi anche tu queste melodiose grida che si levano dalla piana che abbiamo distrutto? Anche tu gioisci nel sapere che abbiamo distrutto questo mondo privo di significato nell'universo?

-Sì, mia signora- rispose lui, ma ancora non sorrideva.

-Cosa ti turba Cosmath?- gli domandai inalando il fumo che ci circondava e voltando gli occhi verso la luce morente del tramonto -Osserva la potenza delle stelle, l'energia di cui noi Demoni siamo impregnati e che ci concede il privilegio di uccidere, di sentire le vite sgretolarsi sotto i nostri artigli!

-Mia signora, Zechra ha chiesto di te- disse lui, mentre metteva in mostra le zanne con una smorfia.

Scoppiai a ridere e quel suono si propagò nella miseria che regnava sotto di me, distruggendo la speranza che ancora quegli esseri futili nutrivano, la speranza di poter sfuggire al loro fato ormai scritto con il loro sangue sulla storia del cosmo.

-Zechra!- urlai -Quello Spirito non vale la metà della nostra gloria, non ha potere sulle nostre azioni, figlio mio: gioisci di quanto abbiamo compiuto e smettila di crucciarti. Vai a tormentare gli eserciti e divertiti con tua sorella a spegnere le loro vite prima che questo mondo smetta di esistere.

-Mia signora, non hai compreso- mi interruppe il Demone. Abbassò il capo e i suoi artigli fremettero -È qui- deglutì -E con lui c'è Astar.

Per la prima da quando avevo iniziato la devastazione di Althorm, il mio sorriso si increspò.

-Il Creatore è alla rupe dei Demoni?

Cos annuì.

-Chiede di te, madre- fece una pausa -Non sembrava felice.

 

Sgranai gli occhi e nella foga di drizzarmi a sedere mi graffiai il braccio con gli artigli.

Il mio respiro era irregolare, la mia vista annebbiata da lacrime.

Le tenebre regnavano sulla camera e la luna, come un occhio d'argento puntato sulla Terra, mi scrutava attraverso i rami del vecchio albero che durante le tormente bussava alla mia finestra.

Gemetti in silenzio e la solitudine si fece strada nel mio cuore infettato di disperazione.

Avevo la bocca piena di sangue, le dita artigliate, gli occhi ardenti... Ero un mostro...

Per un attimo ritornai al momento in cui le mie unghie erano dentro la carne della professoressa e i suoi ultimi respiri mi giungevano mozzati e intrisi di sconforto, di confusione... con una sola domanda... “Perché?”.

Immersi il viso tra le mani e mi graffiai la guancia con volendo, ma non mi importava.

Le lacrime scendevano copiose mentre mi rendevo conto di aver spento una vita, gettato nell'oblio un'altra anima.

Il Demone gioì a quell'idea ma io avvertii che un altro frammento della mia umanità mi era sfuggito.

Dapprima lentamente poi sempre più intensa, una melodia suonata al pianoforte prese a riempire la camera e io alzai lo sguardo sulla pianola che, come suonata da un essere privo di materia, si esibiva in un concerto malinconico e carico di emozioni che pochi pianisti terrestri sarebbero riusciti a esprimere.

I tasti si premevano da soli e per un istante rimasi a fissarli danzare come ipnotizzata, ascoltando quella musica che, in un bizzarro scherzo del destino, era come il riflesso del mio animo e di ciò che provavo.

Gli artigli si ritrassero, le zanne li imitarono, gli occhi si spensero.

-Bella, vero?

La mia testa scattò all'angolo apposto della stanza, accanto alla libreria, dove una figura appoggiata al muro con le braccia incrociate mi fissava con uno sguardo argentato.

La mia espressione si indurì.

-Cos- sputai.

-math- aggiunse lui facendo un passo in avanti ed entrando nella luce lunare -Credevi non sarei più venuto, giusto? Oppure mi aspettavi da tutto il giorno, sapendo che avrei atteso la notte per sorprenderti?

-Nessuna delle due- feci, con disprezzo -Non ti aspettavo proprio.

Sorrise.

-Non avrai pensato che non dovessimo parlare prima o poi di come hai trattato mia sorella?- chiese.

-Prima di essere tua sorella è mia figlia- mi accigliai -E tu non puoi dirmi cosa devo fare con lei.

-Hai ragione- annuì lui, freddo -Tu hai sempre ragione...- un secondo di silenzio -Ma hai offeso uno dei più potenti Demoni dell'universo.

-Io sono il Demone più potente- ringhiai -Non osare contraddirmi, chiaro?

Un sorriso gli illuminò il volto.

-Jill, io lo so che ci sei tu lì sotto- disse guardandomi negli occhi -Perché per quanto Zechra possa farti credere il contrario, tu sarai sempre un Demone.

Scossi la testa e mi accigliai.

-Ti sbagli, Cos- gli feci -Non sarò mai più come mi ricordate, non voglio tornare quello che ricordate.

Alzò gli occhi al cielo.

-Stai illudendo anche te stessa con queste parole- mi intimò -Ma io ti prometto che Jillkas ritornerà alla gloria di un tempo, che ricomincerà a lottare per il male e per tutto ciò che a questo universo serve...

Emisi una risatina amara.

-Sei tu che ti stai illudendo, Cos... ma questo discorso non l'avevamo già fatto?

Lui annuì.

-Ma io non mi stuferò mai di ripetere quanto ti sbagli- mi fece -Sei riuscita a sconfiggere Hiyv, ma ci sarà poco da fare quando manderò tuo fratello.

Sorrisi.

-Litho non mi farà neanche il solletico.

Cos si accigliò.

-Tu stessa hai detto che è uno dei tuoi generali più efficienti. È il Demone della tortura: immaginavo potesse essere abbastanza eloquente con te.

-I miei ideali sono troppo robusti, Cos: nessuna tortura potrà persuadermi.

Scoppiò a ridere.

-Smettila di prendermi in giro: sappiamo entrambi che non sei in grado di resistere a Litho.

Inarcai un sopracciglio.

-Ho battuto Hiyv.

-Hiyv ha il difetto di arrendersi non appena trova una qualsiasi resistenza- Cos sospirò -Da quando te ne sei andata questo suo tratto non ha fatto altro che aumentare e trasformarsi in frustrazione, un emozione che i Demoni dovrebbero saper scacciare.

-Perché allora credi che Litho potrà essere migliore di tua sorella?

Il ragazzo ghignò.

-Perché lui, al contrario di tua figlia, riesce a rialzarsi anche dopo una sconfitta.

Mi accigliai.

-Quindi?

Ridacchiò.

-Niente...- sorrise -Però sa usare un coltello...

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Capitolo 12
*** Antichi nemici ***


Susan e Paul mi avevano rinchiusa in camera.

Se prima credevo di essere dentro una prigione, la situazione attuale era molto più simile ad una tetra cella di isolamento.

Le mie giornate erano passate chiuse in camera, ferma sul mio letto, a riflettere con la musica nelle orecchie, oppure a suonare il piano: qualcosa che riusciva sempre a scacciare ogni cosa; a eliminare il mondo e lasciarmi sola con le note.

Avevo gli orari per andare in bagno (tre volte al giorno, due durante la notte) e Susan mi portava i pasti, lasciandomeli davanti alla porta durante gli orari prestabiliti.

I contatti con esseri umani diminuirono sempre di più. Non che fino a quel momento avessi avuto qualche relazione con una quantità enorme di persone, ma mi resi conto che anche solo ascoltare il respiro dell'uomo e della donna che abitavano con me durante i pasti era un lontano conforto, la sicurezza di non essere del tutto sola malgrado la rabbia che provavo nei loro confronti.

Adesso però era tutto finito.

Ero sola. Sola con la mia ira, sola con il Demone che ogni giorno ringhiava dentro di me senza che potessi bloccarlo.

Mettevo la musica al massimo ma l'unico modo per scacciarlo del tutto rimaneva sempre e solo il pianoforte. Le mie dita che pattinavano sui tasti e il dolce suono che ne usciva rimaneva l'unica cura a me conoscente per scacciare la rabbia.

Fino a quel momento non avevo mai usato un computer se non per scaricare musica.

I Demoni non usavano la tecnologia, erano più per le armi medioevali, metodi rozzi, fatti per uccidere in modo cruento e sentire il caldo del sangue sulle dita... La tecnologia era roba da Spiriti, era questo che si diceva.

Ma il mio lato umano mi spinse ad aprire un link diverso da Spotify e fu lì, su ciò che i terrestri chiamano Internet, che iniziai a comprendere gli umani nelle varie forme che possono assumere. Tutti i loro tratti, le loro idee, cose che, noi Demoni, non immaginavamo neanche. Quelle piccole creaturine che per una vita avevo ritenuto idiote, delle futili rappresentazioni degli Spiriti in versione ridotta e stilizzata, si rivelarono una miniera di emozioni e colori; immagini e storie...

Ed è lì che mi resi conto, osservando la magnifica Notte Stellata di Van Gogh attraverso uno schermo, che sono i Demoni a essere stupidi.

 

Quella notte, mentre mi rigiravo nel letto nel tentativo di scacciare la rabbia e reprimere gli artigli, ferendomi involontariamente e macchiando le lenzuola di sangue, qualcuno bussò alla porta della mia camera.

Erano settimane che non succedeva, che nessuno, neanche Litho o semplicemente Cos, era venuto a trovarmi. Erano settimane che non parlavo con qualcuno che non fosse me stessa...

Mi voltai verso la porta e, con non poco dolore, mi intimai di ritrarre gli artigli, sentendomi d'un tratto debole, inerme, una bolla che sta per scoppiare sotto la furia di un Demone.

Calciai le coperte, felice che quella brusca novità mi desse una scusa per non soffrire dentro ad un bozzolo di coperte in cui mi sentivo soffocare.

Mi affiancai alla porta e la socchiusi lentamente, spiando appena chi ci fosse dietro alla soglia.

Non era Susan, né Paul, né Cos, come mi sarei aspettata.

Dei delicati occhi neri mi sorrisero e per un istante mi sentii mancare mentre le lacrime mi salivano agli occhi e le emozioni minacciavano di esplodere.

La mente si mescolò e per un attimo fui colta dall'incertezza, qualcosa di materiale, che prese il mondo per poi capovolgerlo intorno a me, lasciandomi la testa avvolta nel caos.

Credetti fosse un sogno.

-Zack...- sussurrai nel pianto mentre il ragazzo, esattamente come lo ricordavo, mi sorrideva con una gentilezza e una comprensione che invece non avrei mai attribuito al suo viso spavaldo.

-Io...- mormorai deglutendo, le parole che parevano bloccate in gola -Io...- ripetei, senza però aggiungere altro che un paio di mugugni sconnessi.

Lui si portò l'indice alle labbra e mi sorrise.

-Jill, adesso calmati e lasciami entrare. Ci sarà tempo per le domande- mi disse semplicemente allargando un po' il sorriso.

Non riuscii a fare altro che annuire come un'automa e farmi da parte, mentre il fantasma del mio passato, il viso che mi appariva in sogno insanguinato e putrefatto, varcava la soglia del mio rifugio vivo e sorridente come un qualsiasi essere umano nel fiore dell'età.

Mi lasciai ricadere sul letto mentre lui, senza dire niente, accese la lampada che avevo sulla scrivania.

Poi mi guardò.

-Come stai, Jill?- mi domandò, dolcemente.

Altre lacrime mi colarono dagli occhi.

Annuii, accennando un sorriso tremolante.

-Io... bene- feci una pausa, riflettendo su quanto, in realtà, fosse falsa quella quell'affermazione -Più o meno bene...- aggiunsi poi, inumidendomi le labbra aride.

Il suo sguardo si fece malinconico.

-Già- fece -Strano come tutto questo mondo ti sia ritorto contro senza lasciarti riflettere nemmeno un istante- pausa -Il tuo passato è tornato prima che tu potessi rendertene conto, il tuo presente ti ha accoltellato alle spalle per mano di questi due umani che fingono di accudirti...

Mi sentivo svuotata. Lo ascoltavo ma al tempo stesso ero in un altro luogo, un universo parallelo.

Lui mi sorrise e continuò:

-E perdonami se vengo qui durante il tuo riposo, sotto questa forma- scosse la testa e sospirò -Non avevo il tempo di ingegnarmi e crearne una nuova: ho assunto quella che immaginavo fosse più cara per te, l'unica che mi avrebbe concesso di parlarti senza che tu nutrissi sospetti.

-Cosa...?- altre lacrime -Chi... chi sei tu?

Il suo sorriso si increspò.

-Sono qualcuno che tu detesti con ogni fibra del tuo essere, colui che Jillkas ha sempre combattuto con ogni arma possibile... e che ha dannato mentre veniva trasferita sulla Terra, nel ventre di una madre che aspettava una figlia...

Sospirò.

Io non riuscivo a parlare.

Nonostante non lo volessi, ricordavo il momento del mio esilio, le figure degli Spiriti intorno a me, la possente sagoma del Creatore e i suoi tre occhi che mi studiavano venati di una calma stonata con il dolore che provavo, mentre il mio essere sprofondava nel buio, fondendosi senza poter opporre resistenza a ciò che per millenni avevo tentato di scacciare: l'umanità, l'essere inerme sotto il peso della vita.

Nell'ultimo istante in cui ero ancora Jillkas avevo tentato di scacciare quel fato, conoscendo quanto, successivamente, sarei stata diversa, ma non potendo impedirlo.

Poi le emozioni mi avevano sommersa e una pace che non conoscevo aveva popolato il buio.

Ero umana.

Altre lacrime mi rigarono il volto. Tentavo di fermarle ma non ci riuscivo e il mio viso continuò a essere bagnato dal pianto; le guance scarlatte, gli occhi gonfi.

-Zechra...- sussurrai tra i singhiozzi, puntando un dito, ora artigliato, verso la figura che aveva assunto la forma dell'unica persona che mi aveva mai davvero voluto bene, la sola persona che, lo sapeva, non avrei mai potuto ferire -Tu!- urlai -Tu mi hai esiliata, mi hai lasciata in questa prigione di terra senza lasciarmi neanche un'occasione di scelta! Mi hai distrutta!

Lo Spirito si limitò a guardarmi, impassibile.

-Avevi superato il limite, Jill- mi disse -Avevi distrutto un pianeta intero senza un motivo, senza che gli abitanti potessero avere modo di difendersi dalla furia dei tuoi battaglioni. Ti rendi conto di quanto sia sbagliato quello che hai fatto?

Dentro la mia mente una battaglia infuriava.

Il Demone e l'umanità si scagliavano l'uno contro l'altro in bagliori infuocati mentre la mia identità mi sfuggiva via.

-Tu!- gridai ancora, alzandomi a stento in piedi e facendo un passo in avanti, sapendo però che mai sarei stata in grado di fare del male a mio fratello, il mio unico vero fratello...

-Jill, adesso calmati- Zechra alzò le mani e fece un passo indietro mentre la mia vista lampeggiava di rosso e fiumi di energia mista a furia si mischiavano ai sentimenti che quel dannato Spirito mi aveva fatto ingoiare.

I suoi occhi rimasero l'unica cosa reale, il resto era solo un incubo.

Mi accasciai a terra, continuando a piangere.

-Non so più chi sono- mormorai, disperata -Chi sono, Zechra?- domandai alzando gli occhi ardenti verso di lui -Hai distrutto la mia identità senza darmi un'altra ragione per vivere, impedendomi però di morire... Lasciandomi in un mondo che non conoscevo preda del mio passato e del mio presente... Hai lasciato che odiassi me stessa per quindici maledetti anni senza potermi ribellare a questo destino incerto- singhiozzai forte -Chi sono?

Lui mi fissò, imperturbabile come solo gli Spiriti possono essere.

-Io ti ho dato il modo di ricominciare, Jill- mi disse -Sapevo che rimanendo te stessa non saresti potuta cambiare, sapevo che l'unico modo per farti comprendere quanto stessi sbagliando era darti ciò che più detestavi, ciò che ti stavi ostinando a rinnegare.

-Ma perché dovevo cambiare?!- strillai -Perché non uccidermi? Perché non chiedere al Creatore di mettere fine alla mia esistenza in questo universo? Perché lasciarmi così?

Sospirò.

-Se ti può consolare non sarebbe dovuta andare così- disse mentre io continuavo a piangere -Avresti avuto una vita normale, qui sulla Terra. Non potevo cancellare il Demone che è in te ma potevo farti comprendere e fondere il tuo male con qualcosa più simile alla vita...- fece una pausa -Ciò che non avevo compreso è che gli ideali di Jillkas sono troppo potenti per una semplice umana e non ho fatto altro che farti soffrire, per troppo tempo... Mi dispiace, Jill.

-Non c'è modo che io possa perdonarti- mormorai -Ho passato troppo tempo a odiarti, a combatterti, per anche solo prendere in considerazione l'idea di indulgerti... e questa- feci una smorfia -Questa è la punizione più terribile che tu potessi escogitare. Mi congratulo, Zechra: sei riuscito a mettere in ginocchio la tua più temuta nemica.

Lui fece un sorriso amaro al notare come, in effetti, io fossi accasciata a neanche un metro dai suoi piedi.

-Non volevo questo- disse poi, abbassando lo sguardo.

I miei occhi di sangue schizzarono su di lui.

-E che cosa volevi?- sibilai, distrutta -Che cosa desideravi se non sconfiggere il Demone che più hai odiato durante tutta la tua vita in questo universo? Cosa desideravi se non sentire dalla sua bocca recitare le parole “Hai vinto” dopo millenni di lotte continue?- fremetti -Hai avuto quello che desideravi e anche di più, ma non vuoi, non puoi, ammettere che sia così; perché sei un lurido Spirito, Zechra, e io, nonostante tutto, non smetterò di odiarti.

-No- strinse i pugni e nuovamente mi guardò. Ancora una volta sentii qualcosa spezzarsi dentro di me ritrovandomi a guardare gli occhi di Zack -Io non volevo sconfiggerti, Jill, al contrario di quanto hai sempre creduto: io desideravo che tu ed io fossimo alleati, che, un giorno, tu saresti passata dalla parte giusta.

Proruppe una risata amara dalla mia bocca.

-Pensi ancora che la tua parte sia quella giusta e quella dei Demoni la sbagliata? Credi ancora, nonostante tutto, che la linea che separa il bene e il male sia definita?- feci una smorfia -Non è così ora e mai lo è stato, Zechra: ci hanno sempre rifilato la storiella che i Demoni combattono per il male e gli Spiriti sono il bene, ma è solo una bugia- con non poco sforzo abbassai lo sguardo dagli occhi di Zack -Fino al mio esilio mi era chiaro da che parte stare, sapevo che finché avrei avuto vita avrei portato l'universo sotto la strada giusta: sotto la mia guida, sotto il comando dei Demoni, lasciando così una pace che mai era stata...- scossi la testa e risi tra me -Ma ora, con questa umanità che tu mi hai rifilato, so che tutto ciò che il Creatore voleva era la guerra. Guerra tra due schieramenti che, in un modo o nell'altro, dovevano essere sempre in equilibrio, sempre con lo stesso numero di forze in modo da garantire a lui il divertimento maggiore...- feci una pausa -Siete solo pedine tra le sue mani. Credete di essere tanto immortali ma Astar sarà sempre il padrone dell'universo, il suo trono perennemente occupato.

Per un attimo ci fu silenzio.

-Stai delirando, Jill- disse poi Zechra, dopo qualche istante.

-Lo so.

Sospirò.

-Mi dispiace davvero.

Chiusi gli occhi e li strinsi.

-Lo so.

-Cosa vuoi fare adesso?

Alzai le palpebre e lo studiai. L'aspetto di Zack mi fece rabbrividire ancora una volta.

Abbassai lo sguardo.

-In che senso?

-Non posso farti tornare quella di prima, ma posso chiedere ad Astar di... ucciderti.

Feci una risatina nervosa.

-È molto dolce da parte tua.

-Devi solo scegliere, Jill- mi disse poi, dopo un sospiro -So che Cosmath ti da fastidio, so che sta tentando di liberarti ma...

-Non sa che non sarei mai del tutto uguale, sì... e nemmeno voglio esserlo- aggiunsi io, terminando la sua frase. Sospirai -Desidero solo... la pace.

-Io posso dartela.

Lo guardai.

-Posso pensarci?

Lui annuì, serio.

-Sai come trovarmi- disse facendo qualche passo indietro e afferrando la maniglia della porta. La aprì.

-Ah, Zechra?- tesi una mano verso di lui, ormai gli artigli si erano ritratti insieme a tutto il resto.

Lui mi guardò.

Io sorrisi.

-Grazie.

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Capitolo 13
*** Battibecchi ***


-È venuto Zechra, vero?

Non alzai neanche gli occhi dal libro che tenevo in mano e mi limitai a sospirare.

-Cosa vuoi, Cos?

-Che tu mi dica la verità.

Gli lanciai un'occhiata in tralice mentre se ne stava lì, in mezzo alla mia camera con uno sguardo scocciato stampato sul visino umano.

-Quale verità?

Lui sbuffò.

-Lui è venuto? Ha tentato di persuaderti in qualche modo? Ti ha fatto male?- domandò mentre il suo sguardo argentato scintillava appena.

Feci un sorriso storto, abbassando appena il volume della musica che avevo nelle orecchie.

-Certo che ti preoccupi davvero tanto per la tua anziana madre- feci, sarcastica.

-Non sto scherzando, Jill- si accigliò -Che cosa ti ha fatto?

Alzai le sopracciglia e chiusi il libro con uno scatto per poi appoggiarlo sul cuscino del letto.

-Niente, Cos- risposi -Non sei riuscito a fare qualcosa tu e secondo te Zechra è riuscito a combinare qualcosa?

-Ti ha fatto una proposta, vero?

Alzai gli occhi al cielo.

-E cosa avrebbe potuto propormi, sentiamo?

-Lui è il cocco di Astar, e tu lo sai! Può farsi fare qualsiasi cosa da lui!- esclamò mio figlio per poi prendere a fare avanti e indietro per la stanza, nervosamente.

-Che cosa stai facendo?

-Rifletto.

-Facendo chilometri in uno spazio chiuso?

Mi fulminò con il suo sguardo di ghiaccio.

-Smettila.

-Di fare cosa?

-Di tentare di mentirmi, di rispondermi in modo vago, di evitarmi!- alzò le braccia al cielo per poi farle ricadere lungo i fianchi.

Sospirai.

-Che fine ha fatto Litho?- gli domandai, senza ribattere alle sue parole.

Si accigliò.

-Verrà, tranquilla che verrà.

-Lo aspetto- dissi, come a lanciare una sfida.

Per un secondo ci fu una pausa. Cos si appoggiò al muro e incrociò le braccia, nella sua posa abituale.

-Sai cosa succederà se tu scompari?- mi chiese mio figlio dopo un attimo -Se tu ti arrendi e smetti di voler essere un Demone?

-Già adesso non voglio più essere un Demone.

-Non interrompermi!- sospirò -Sai cosa potrebbe accadere a tutti i nostri battaglioni se riferisco che la loro regina è andata? Che non tornerà mai più?

Inarcai un sopracciglio.

-Tu diventerai il re dei Demoni e sarà un fantastico lieto fine- gli feci.

Ringhiò e le sue zanne scattarono per un istante.

-Smettila, Jill!

-Di fare cosa?- raccolsi le gambe e appoggiai il mento sopra le ginocchia -Per quanto tu possa insistere io non tornerò più come prima... anche se mi liberassi, anche se volessi...- sospirai -Questa esperienza mi ha segnato e non potrò più uccidere con la spensieratezza di un tempo. Anche se lo volessi non potrei essere la vostra regina.

Lui non disse niente e abbassò lo sguardo, corrucciato.

-Giuro che ucciderò Zechra con le mie mani per vendicare quanto ti ha fatto- sibilò Cos dopo qualche istante, quando mi ero già convinta che non avrebbe più parlato.

I miei occhi scintillarono di rosso.

Il Demone approvava.

-Vattene, Cos- gli dissi, stendendo le gambe -Vattene e lasciami in pace.

Mi lanciò un'occhiataccia ma non fiatò, scomparendo in una nuvola di fumo.

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Capitolo 14
*** Nel cuore delle tenebre ***


Chissà perché tutte le cose importanti avvengono sempre di notte, con il favore delle tenebre.

Forse perché i Demoni adorano il buio, perché è loro prediletto e continueranno ad amarlo finché avranno vita... Perché ogni storia racconta di mostri annidati nel nero, con gli occhi scintillanti e le zanne che scattano, mentre c'è una ragazza ingenua dorme nel proprio letto, nella propria prigione, circondata da incubi a cui non riesce a trovare un senso...

Nel mio sonno si mischiavano gli universi.

Le vite divenivano una sola, i colori mutavano tra loro in una tavolozza di fragranze che in fine tornavano tenebra... Perché ogni cosa gira intorno alle tenebre, alle promesse, alle parole dette nel buio di uno sguardo...

Il mio passato mi azzannava, mi tormentava, mi distruggeva pezzo per pezzo senza che io potessi svegliarmi.

Fu in quel momento che qualcosa, freddo come la morte, mi premette sulla bocca per impedirmi di urlare.

I miei occhi scattarono. Erano già rossi.

Iniziai a dimenarmi mentre una figura arcigna, un uomo con i capelli grigio cenere e gli occhi di un giallo malato mi fissava come fossi una preda, come se volesse mangiarmi.

Lo riconobbi, e in lui rividi le parole di Cos, la promessa che avrebbe mandato mio fratello, un Demone a cui non potevo resistere.

Fuori dalla finestra, come doveva essere, infuriava il vento. Il ticchettio del solito ramo sul vetro era un tetro sottofondo a quella scena già di per sé macabra e innaturale.

La voce di Litho era amara, un misto di orrore e malignità. L'odore di putrefazione che mi investì mentre lui parlava mi fece venir voglia di svenire, morire, abbandonare ogni cosa e rifugiarmi nel caldo rifugio di un'ombra.

-Come andiamo, sorellina, eh?- rise mentre io mi contorcevo e lui mi bloccava gli arti con mani che non vedevo, troppe per un essere umano -Tuo figlio mi ha detto che stai facendo la cattiva in questo periodo... Oh, mi correggo: stai facendo la buona- scoppiò a ridere e in quel momento un fulmine saettò nelle tenebre.

I miei occhi lampeggiarono rabbiosi.

-Ci penserò io a correggerti, piccola- ghignò in un modo orrendo, il viso contorto che si deformava ulteriormente -Non c'è problema... In fondo se sempre la mia sorellina, no?

Tentai di urlare ma la sua mano mi bloccava le parole. I suoi artigli mi sfioravano il viso.

-Non avrei mai pensato di avere l'onore di torturare una celebrità come te, ma la vita è fatta di sorprese!- con braccia che non vedevo mi trascinò fuori dal letto e tenne il suo volto disgustoso a pochi centimetri dal mio. Sorrise ancora in quel modo orribile. Una delle sue tante mani venne alzata e un lampo illuminò una lama lunga quanto la mia coscia.

Non ne avevo paura, mi faceva ribrezzo.

La rabbia minacciava di esplodere, ma la tenni a bada, gli artigli che fremevano.

Quando la spada venne a contatto con il mio braccio mi venne da strillare. Un taglio profondo nella carne fece emergere sangue denso e scuro.

-Ah! Che bella sensazione, piccola!- canticchiò Litho -Sei ancora convinta di voler rimanere su questa Terra?

Continuai a guardarlo, lo sguardo determinato.

-Bene, allora procediamo!

La lama puntò alla mia gamba e sentii un dolore cocente mentre mi lacerava la carne.

Non so quanto passò.

Litho continuò a ferirmi, i tagli sulla pelle si moltiplicavano e più perdevo sangue più il mio corpo minacciava di cedere. Sentivo il bisogno di energia, sentivo il bisogno di liberarmi e lasciare andare ogni cosa... lasciare che Jillkas si librasse nuovamente sopra la rupe dei Demoni a fianco di suo figlio, ma non osai abbandonare la Terra, non osai abbandonare me stessa.

Neanche un istante Litho mi tolse quella lurida mano dalla bocca. Non potei urlare, insultarlo, o anche solo pregare...

Iniziai a piangere, un pianto che mischiava rabbia e disperazione, sollievo e ossessione...

I miei arti pulsavano, il ventre era lacerato, le guance erano distrutte... Sentivo di sembrare morta, un essere tinto di rosso del proprio sangue, senza poter sfuggire, senza poter urlare.

-Ancora non molli?- domandò Litho, arcigno.

Battei le palpebre e gli lanciai un'occhiata con una determinazione che non sapevo di avere ancora.

-Ah! Ammirevole, piccola... davvero ammirevole...

Il taglio successivo fu inferto ai polsi.

Svenni per qualche istante, assaporando il buio per quei pochi, magnifici secondi... Poi rinvenni, scoprendo di voler morire.

La rabbia crebbe sempre di più e dentro di me osservai il Demone ringhiare, spingere per uscire, per smettere di soffrire per mano di un suo simile, sangue del suo sangue...

Sorrisi sotto quella mano massiccia e, conscia che la mia umanità minacciava di spegnersi, decisi di lasciarmi andare... Mi abbandonai perché non avevo più le forze per combattere, perché il mondo ormai non aveva un senso, perché io ormai ero destinata a sparire...

Nel buio di quell'ultimo secondo vidi solo il viso di Zack... Poi gli artigli scattarono, le zanne si affilarono, gli occhi lampeggiarono.

Sentii il corpo gemere ma il dolore venne coperto dall'energia che ora mi percorreva.

La schiena prese a prudere mentre la vista mi si annebbiava e Jillkas emergeva dalla mia forma umana.

Insieme, in unico scatto, un paio di enormi ali paragonabili a quelle degli antichi draghi eruppero dalla mia schiena.

Percepii la sorpresa di Litho mentre, con una forza sovrumana mi liberavo dalla sua stretta e la rabbia mi possedeva.

Con un'ala lo sbalzai all'indietro e afferrai la lama imbrattata del mio sangue.

Ghignai verso di lui.

I vestiti lacerati e luridi di rosso, il mio corpo che ormai non si riconosceva più sotto lo strato di sangue... Ero un Demone, ma non lo volevo essere...

Mi scagliai contro mio fratello con tutta la forza che avevo e gli conficcai la lama nell'occhio, assaporando quanto quella sensazione mi rendesse viva, quanto tutto di quel gesto mi riportasse alla mia antica gloria.

Lo sentii urlare e gioii della sofferenza che gli avevo inferto, gioii di avere il potere, gioii di poter ristabilire l'equilibrio...

Ringhiai e gridai, le ali che sbattevano contro i muri della camera e io che dimenavo la lama sotto la luce dei fulmini che saettavano nella notte.

L'energia delle stelle che mi fluiva nell'animo... un'ancora remota traccia di umanità che gemeva all'interno del mio cuore nero...

Non seppi cosa era successo, non capii mai come mi ritrovai con la lama alzata verso Susan in camicia da notte che urlava, spaventata da me, terrorizzata dai miei occhi, da quella che era un tempo sua figlia.

Ringhiai mentre la lama si abbassava e le mie dita venivano imbrattate di sangue. Piansi lacrime di disperazione mentre osservavo i suoi occhi vacui fissarmi come accusatori.

Lo sguardo di Paul era sgomento.

Milioni di domande gli correvano per la mente mentre i suoi occhi schizzavano da me al cadavere di sua moglie stesa al suolo, il pavimento imbrattato di rosso e il suo volto pallido che pareva quasi una perla lucente alla luce dei fulmini...

Scrutai in fondo al suo animo, osservandolo per un secondo con occhi che irradiavano male e miseria... Fu in quel momento, mentre l'uomo mi guardava e il suo sguardo mi scrutava, osservando per la prima volta il mostro che ero in realtà... che mi accorsi di non poter continuare.

Non volevo questo. Per quanto il mondo, il mio passato, potesse farmi credere il contrario io non l'avevo mai voluto...

Ma il Demone avanzava.

La lama scintillò mentre veniva levata verso l'alto, in direzione di quell'essere umano smarrito, quella creatura che ha perso ogni speranza, che guarda in faccia la morte e riconosce sua figlia...

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Capitolo 15
*** Scelte ***


Sei sicura di volerlo?

Sì, non voglio altro. Fallo, per piacere, prima che sia troppo tardi.

Soffrirai molto, Jill, questo lo sai?

Non mi importa! Non posso vivere così, non posso continuare... non posso esistere.

Tuo figlio non sarà contento.

Non mi interessa, non mi interessa niente! Metti fine a tutto, Zechra; metti fine alla mia esistenza perché tutto ciò che sono è instabile anche per me stessa. Finché sarò presente in questo universo ci sarà sempre un motivo per scappare, per piangere, per soffrire...

Ciò che dici è molto nobile.

Fallo. Non voglio altro.

 

Una lacrima mi percorse la guancia e si mischiò con il sangue.

La lama spinta nel petto di Paul senza che potessi fermarla, il mio stesso animo che mi disgustava, che osservava ciò che avevo fatto, le vite che avevo spento, senza poter rimediare, senza poter tornare indietro...

Le ali sbatterono e il mio corpo, un ammasso di sangue e brandelli di carne viva, si accasciò accanto ai cadaveri delle persone a cui avevo tolto la vita.

Ero un mostro... Non volevo esserlo.

 

Questa sei tu. E lo sai.

Io non so niente. Non voglio più sapere niente.

Non puoi escludere chi sei, Jill: non potrai mai e immagino che in tutta la storia dell'universo Astar sia il solo a poterti mai fare del male: adesso che sei finalmente libera calpesteremo gli Spiriti, distruggeremo ogni cosa e il controllo del cosmo cadrà in mano ai Demoni... Porteremo il giusto equilibrio.

No, Cos... Non posso...

Che cosa significa?

Non voglio...

Ogni tua parola mi pare distante, madre.

Addio, figlio.

Cosa?

Addio... ci vedremo in un altro universo.

 

La pioggia lavava il sangue, scivolandomi addosso mentre urlavo, piangevo, mentre le ali sbattevano al ritmo dei tuoni che scuotevano la terra... Era finita.

 

Jill?

Sì?

Sei tu?

Sì, Creatore.

Mi ha mandato Zechra.

Lo so.

Lo vuoi davvero?

Ti ringrazio per avermi concesso clemenza, Creatore, ma non voglio più vivere in questo modo... Basta.

Lo comprendo.

Allora cosa aspetti?

Niente... Però è un peccato, Jill. Il cosmo sarà meno divertente senza di te che ti ribelli alla ragione.

Lo so.

Addio, Jillkas. Con te muore la regina dei Demoni, con te muore la leggenda del male.

 

Lentamente i lampi divennero opachi, i tuoni sconnessi, la realtà si fuse con la notte e con le stelle.

La percezione del mio corpo non esisteva più... non esisteva più niente.

Mi ritrovai a guardare le stelle... una galassia lontana, il cuore di un Buco Nero che mi attraeva con la sua forza, una potenza a cui nemmeno Astar potrebbe resistere...

Sorrisi con il corpo che non avevo, lasciai che la mia coscienza scivolasse oltre l'orizzonte degli eventi per crollare in ciò che un tempo avrei ripudiato...

Domandai scusa a chiunque fosse in ascolto, qualunque dio che avesse scelto di ascoltarmi, di osservare gli ultimi istanti di un Demone morente...

Prendendo per mano le tenebre scivolai nell'oblio.




Angolino di Black:

Eh, beh... Fine.
Non so con certezza cosa dovrei dirvi: questo è stato un racconto scritto di getto che, in realtà, non doveva andare a parare da nessuna parte. Poi, senza che me ne fossi resa conto, è saltato fuori tutto questo.
Il piano che Jill morisse era ciò che avevo in testa dall'origine... e non so se sono riuscita a rendere il momento così come speravo fosse.
Non è il racconto migliore che io abbia mai scritto e non ho idea da che angolo della mia mente sia saltata fuori una cosa del genere, ma ringrazio quei pochi lettori che giungeranno fino a questo punto. Vi ringrazio davvero.
Anche se non commentate, anche se io non vi conosco, grazie.
Un abbraccio,

Black Flower

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