I Sette Altari

di Vanclau
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Julius Klein ***
Capitolo 2: *** Dove finisce la scienza... ***
Capitolo 3: *** ...E inizia la magia ***
Capitolo 4: *** Il Sogno di Thea ***
Capitolo 5: *** Conseguenze ***
Capitolo 6: *** Alla ricerca di Durlindana ***
Capitolo 7: *** La Spirale del Terrore ***
Capitolo 8: *** Clovis e Beatriz ***



Capitolo 1
*** Julius Klein ***


La voce della guida continuava a risuonare tra le quattro mura del museo praticamente deserto, mantenendo la stessa tonalità per ogni frase, tanto da renderla probabilmente la cosa più noiosa che Julius avesse mai sentito. Il ragazzo neanche riusciva più ad ascoltarla, finendo spesso con il distrarsi mentre lo sguardo vagava senza meta tra i vari dipinti appesi alle pareti, e soffermandosi solo un po’ di più sulla spada arrugginita che giaceva quasi abbandonata nella propria teca.

La donna, il cui compito sarebbe stato quello di spiegare alla scolaresca tutto quel che potevano vedere all’interno della stanza dove si trovavano, non aveva sprecato una sola parola per quell’arma, come se non esistesse, ma più gli occhi di Julius finivano sul vetro che separavano la lama dai visitatori più ne sembrava attratto, e di certo la reputava più interessante di tutto il resto.

Il colpo arrivò così inaspettato che per poco non gli scappò un urlo per la sorpresa e il dolore al fianco, lì dove per un singolo istante gli si era impiantato il gomito della ragazza che gli stava di fianco e alla quale Julius riservò un’occhiataccia. «Guarda che mi hai fatto male!» disse in un sibilo sperando che nessuno a parte la diretta interessata lo sentisse.

«Se non stai più attento, il professore si arrabbierà di nuovo» fu la pronta risposta sussurrata di Victoria. «E se non ti interessa potevi anche rimanertene a casa.»

«Se avessi potuto lo avrei fatto» borbottò lui di rimando, tornando a guardare la guida che continuava imperterrita a parlare, ma senza che riuscisse veramente a capire cosa stesse dicendo. Ormai aveva completamente perso il filo del discorso.

«E conoscendoti te ne saresti rimasto a giocare con il computer, come tuo solito.»

Julius si limitò a sorridere, sapendo che in fin dei conti era la verità. Victoria lo conosceva fin troppo bene, e del resto era una cosa anche comprensibile siccome erano ormai fidanzati da due mesi. Julius ancora faticava a credere che fosse passato tanto tempo, quando per tutti i suoi diciassette anni di vita non aveva mai veramente suscitato l’interesse di nessuna ragazza, né si era mai impegnato per apparire più affascinante. Non che non si curasse del proprio aspetto, ma le relazioni non gli erano mai veramente interessate, almeno finché Victoria non era arrivata nella sua scuola appena tre mesi prima. Era stato un vero e proprio colpo di fulmine, tanto che neanche lui inizialmente aveva capito cosa realmente provasse nei confronti della ragazza dai lunghi capelli di un rosso talmente acceso che al vento potevano apparire come fiamme danzanti, e di certo non capiva cosa Victoria avesse trovato in lui per sceglierlo come proprio fidanzato. Non era né il più bello della scuola né il più intelligente, detestava lo sport e praticare praticamente ogni attività fisica, e gli unici veri campi in cui eccelleva erano i videogiochi e le leggende. Appassionato da sempre a entrambi, si poteva definire quasi il classico nerd che conosceva tutto su tutti i giochi per pc e console usciti, così come non c’era leggenda della quale non avesse appreso nulla. Sicuramente tali passioni non lo avevano reso il più popolare tra i ragazzi, eppure Victoria per prima, appena trasferitasi, gli si era avvicinata e dopo un mese stavano già insieme. La vita era davvero strana, aveva pensato Julius in quel momento.

Julius aprì la bocca per parlare, ma un colpo di tosse alle sue spalle lo bloccò. «Bene, se Klein e Morrison hanno finito la loro litigata da sposini, potremmo anche continuare la gita.» La voce del professor O’Brian risuonò ironica alle orecchie del ragazzo, che si passò quasi involontariamente la mano destra tra i corti capelli biondi prima di voltarsi verso l’uomo, sentendo su di sé gli sguardi divertiti dei suoi compagni di classe che decise di ignorare.

«Ci scusi professore, stavamo solo decidendo i dettagli del matrimonio» fu la risposta pronta, alla quale alcuni ragazzi non riuscirono più a trattenersi scoppiando a ridere. Non tutti, però, e la cosa dispiacque un po’ a Julius che rincarò la dose. «E dovevamo decidere a chi mandar l’invito, lei sarebbe interessato?» A quell’ultima domanda, anche i più seri non riuscirono a trattenersi dall’emettere diversi suoni divertiti. L’unico a non sembrare minimamente toccato dal sarcasmo del ragazzo era proprio O’Brian.

«Molto divertente Klein. Se non è di disturbo ai preparativi del matrimonio, che ne dici di vederci più tardi a scuola? Ovviamente solo se il grande giorno non è oggi.»

Julius Klein sospirò. «Dovrei controllare la mia agenda ma credo di essere libero.» Nel dire quelle parole si voltò verso Victoria che, durante tutto il proseguire della discussione era sempre più arrossita, tanto che le guance parevano aver assunto la medesima colorazione dei capelli. Julius trovò divertente quell’espressione imbarazzata, mentre la ragazza sembrava avere l’intenzione di volatilizzarsi nel nulla.

La visita al museo riprese normalmente, almeno per i compagni di classe di Julius, mentre quest’ultimo continuava a non prestare attenzione alla guida continuando a perdersi in diversi pensieri per la maggior parte sconnessi tra loro, finché finalmente non decisero di passare a un altro punto dell’edificio facendolo camminare di fianco alla teca che tanto aveva suscitato il suo interessa. L’iscrizione del cartello descriveva brevemente la spada limitandosi a dire che era un’arma risalente alla fine del quinto secolo e null’altro, sorvolando sull’identità del suo proprietario.

L’anno di appartenenza non sorprese più di tanto il giovane, che ovunque si voltasse poteva vedere dipinti che ritraevano particolari avvenimenti proprio di quel periodo, eppure l’anonimato della lama e la sua condizione gli davano da pensare, e per molti motivi diversi.

«A quanto pare sei nei guai questa volta» commentò con tono ironico Victoria quando furono fuori dal museo alla fine della gita, e dopo aver salutato gli altri ragazzi mentre ognuno prendeva la sua strada verso casa. «Non credo che riuscirai a cavartela solo con il tuo sarcasmo.»

Julius sospirò. «Non capisco come tu faccia sempre a cavartela in questo modo.» Incrociò le braccia e chiuse gli occhi come se stesse realmente tentando di trovare una risposta a quella domanda, al motivo per cui solo lui era stato convocato dal professore. Quando riprese a guardare la ragazza, sembrava avesse avuto una qualche sorta di illuminazione e le si avvicinò. «Non è che per caso mi tradisci con O’Brian?»

Victoria scoppiò a ridere. «Credi davvero che io possa tradirti?» disse cercando di tornare seria, senza troppi risultati positivi.

«Eppure sono sempre io quello che viene convocato dal professore, tu riesci sempre a evitarlo. Ci deve essere un motivo!»

«Forse è solo perché anziché mostrarti dispiaciuto non fai altro che rispondere con il tuo solito sarcasmo, non credi?»

«Dici che è solo per questo? Eppure tutti mi trovano divertente!»

«Non saprei dirti se ridono per le tue battute o se invece ridono semplicemente di te» commentò lei posandogli una mano sulla spalla. «Ora comunque ti conviene andare o il professore sarà ancora più arrabbiato.»

Julius alzò le spalle sconsolato, prima di salutarla e prendere la strada verso la scuola. Tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans, digitando rapidamente il numero di casa. «Nonno? Sono io, oggi farò un po’ tardi» comunicò rapidamente con l’unico familiare che gli era rimasto al mondo. Ormai viveva con suo nonno da circa cinque anni, da quando i suoi genitori erano morti in un incidente d’auto, e sin dai primi anni della sua adolescenza era stato un punto di riferimento per il ragazzo. La sua passione per le leggende gli era stata trasmessa proprio da quell’uomo e dai suoi innumerevoli racconti.

«A quanto pare il professor O’Brian vuole parlarmi a scuola, forse questa volta l’ho proprio fatto arrabbiare» continuò a spiegare. «Comunque torno per cena.» Finita la chiamata, ripose il cellulare e guardò davanti a sé con occhi risoluti. Sapeva già di cosa l’uomo gli voleva parlare, non era difficile da intuire, e già sapeva come rispondergli.

 

O’Brian sedeva comodamente su una poltroncina nera il cui colore stava sbiadendo, leggermente girata rispetto al tavolo ovale situato al centro della piccola aula dove gli insegnanti solitamente restavano quando non avevano lezioni da svolgere; sulle gambe il libro che era stato appena chiuso quando Julius era entrato dopo aver bussato un paio di volte sulla porta già aperta per annunciare la sua presenza. Non c’era nessun altro a parte loro due, seppur non bisognava stupirsene considerando l’orario delle lezioni già terminato, e il ragazzo era convinto che il professore già sapeva che si sarebbero trovati da soli per poter parlare di argomenti che non potevano e non dovevano essere ascoltati da altri.

«Allora?» fu la semplice domanda posta dall’uomo che, sebbene stesse raggiungendo solo la quarantina, sembrava più vecchio con i capelli già quasi completamente grigi se non per qualche striatura dell’originale color nero pece.

Julius non ebbe neanche bisogno di interrogarsi su quel che intendesse O’Brian con quella sola parola espressa con tono interrogativo. «Non saprei» iniziò a dire senza riuscire a trattenere una lieve indecisione. «Potrebbe essere, ma potrei anche sbagliarmi. I ricordi sono sempre più confusi e le sue condizioni non aiutavano certo nell’impresa.»

O’Brian sospirò. «Julius» disse con un tono di rimproverò misto a un qualcosa di simile alla rassegnazione. «Hai davvero prestato attenzione o hai solo perso tempo con Victoria?»

A quelle parole Julius si sentì colpito nell’orgoglio. «Non sottovalutare la mia serietà» disse guardando il suo interlocutore con occhi di sfida. «Credo ci siano buone possibilità che sia quella, ma senza aver avuto modo di vederla bene da vicino, o anche solo toccarla, non posso dirlo con assoluta certezza.»

«Capisco» commentò l’uomo. «Vorrei ringraziarti per il tuo aiuto, anche se la mia iniziale richiesta rimane valida, e spero tu voglia accoglierla.»

Julius infilò la mano destra nella tasca dei jeans e scrollò le spalle con fare disinvolto e veramente poco interessato. «E la mia risposta non è cambiata, non voglio immischiarmi in questa faccenda.»

«Non mi hai ancora dato una motivazione per il tuo rifiuto.»

«Non credo ci sia molto da motivare, vorrei semplicemente che la mia vita non venisse completamente stravolta da tutto questo.» Dopo aver finito di parlare si voltò per avviarsi verso l’uscita, fermandosi solo al sentire di nuovo la voce dell’uomo.

«Forse credi di non essere all’altezza di quanto ti si richiede?»

Julius non rispose, uscendo dall’aula senza più sentire la voce di O’Brian, sperando che tale gesto facesse capire all’uomo che non voleva più saperne nulla di quella storia. Aveva adempiuto alla promessa fatta, quel che poi sarebbe accaduto non gli interessava.

Raggiunse Victoria che lo attendeva fuori dall’edificio con due caschi in mano; Julius ne prese uno e tirò fuori le chiavi del motorino, togliendo la catena e infilandosi la protezione sulla testa, imitato dalla ragazza. «Ti ha di nuovo rimproverato, dunque?» chiese lei con un sorriso divertito.

«Ormai ci sono abituato.» Non gli piaceva mentire a Victoria, avrebbe voluto che tra loro in quella improvvisa relazione che si erano ritrovati ad avere non ci fossero segreti, ma non poteva e non voleva coinvolgerla. Sinceramente non sapeva neanche se gli avrebbe creduto, cosa di cui dubitava fortemente; persino lui faticava ancora a crederci, anche se la realtà gli era stata praticamente sbattuta in faccia all’inizio di quell’anno scolastico, quando O’Brian era arrivato come nuovo insegnante. Dopo aver messo in moto il mezzo e aver sentito le braccia di Victoria che gli avevano circondato i fianchi, accelerò immettendosi sulla strada per accompagnarla a casa.

Mentre sentiva il vento sferzargli il viso e il rumore del motore in parte attutito dal casco che gli copriva le orecchie fu quasi certo di aver sentito una voce giungere da un luogo remoto. Non apparteneva a Victoria e gli sembrò quasi di udirla non con le orecchie ma con la mente, come fosse un ricordo arrivato all’improvviso, dimenticato da molto tempo e riemerso solo in quell’istante. La voce, difficile stabilire se fosse maschile o femminile, diceva solo una parola: «Excalibur.»

 

L’editoria cartacea era un’industria che stava lentamente morendo, sempre più sostituita da e-book e altre nuove invenzioni nel campo elettronico che sembravano mirate al non costringere gli appassionati di lettura a portarsi dietro grossi volumi se volevano leggere qualcosa, ed Edgard comprendeva molto bene la continua ricerca del progresso che il genere umano da sempre perseguiva. Si trovavano nel venticinquesimo secolo, d’altronde, e sia in campo scientifico che in quello spaziale l’umanità aveva fatto passi da gigante arrivando a sviluppare tecnologie che poco più di un secolo prima sarebbero parse quasi da fantascienza; lui stesso aveva scelto di seguire un corso di laurea come quello dell’Ingegneria Aerospaziale e, un giorno magari, entrare nella NASA con la speranza di vedere da vicino tutto quel che per il momento poteva solo leggere in articoli di giornale e di diverse riviste scientifiche. Però, nonostante il continuo progresso che da oltre due secoli continuava per il genere umano, alcune vecchie abitudini erano rimaste invariate, o almeno così accadeva per il quasi ventenne parigino che comunque si ritrovava a preferire il cartaceo ai vari sistemi tecnologici per leggere un romanzo o sfogliare una rivista. Gli piaceva sentire la carta sotto i polpastrelli mentre sfogliava le pagine, la cui ruvidità fungeva per lui anche come una sorta di antistress quando era nervoso per un qualsiasi motivo.

Mentre rincasava dopo aver seguito alcune lezioni e visitato una libreria, con il suo nuovo acquisto sotto braccio già pregustando l’idea di isolarsi completamente nella lettura, si alzò improvvisamente un inusuale vento freddo per quel periodo di fine primavera, come se tutto il freddo che quell’inverno non c’era stato si fosse riversato in un unico luogo, costringendo il giovane a fermarsi e stringersi meglio nel leggero giacchetto di jeans che vestiva sopra a una t-shirt bianca con il simbolo di una band rock che aveva iniziato ad acquisire notorietà proprio in quegli ultimi mesi.

Guardò il display del cellulare, voltandosi verso la direzione da cui il vento sembrava soffiasse e sospirò. «Sembra che ormai il tempo stia per finire» fu la sua semplice affermazione. «Forse è il caso di accelerare i tempi» terminò quel breve monologo accelerando il passo fino a raggiungere il portone del condominio dove aveva preso un piccolo monolocale in affitto e che riusciva a pagarsi lavorando part-time con le consegne a domicilio di una pizzeria del quartiere. Appena entrò nell’appartamento la prima cosa che riuscì a notare fu la finestra aperta e le luci spente, inusuale per uno che era solito sia chiudere tutto sia dimenticarsi di spengere le luci, e come si aspettava una figura già si trovava seduta sull’unica sedia della stanza, un bicchiere vuoto dove prima poteva esserci stata della birra tenuto da una mano tremante, difficile stabilire se per l’età avanzata che dimostrava o per quanto rischiava di accadere.

«Mi chiedevo quando ti saresti ripresentato» lo salutò Edgard, aggiungendo a quelle parole un breve cenno della mano come se fosse nella normalità ritrovarsi qualcuno in casa pur vivendo da solo.

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Capitolo 2
*** Dove finisce la scienza... ***


C’era un silenzio carico di tensione tra ragazzo e vecchio, come se l’uno aspettasse che fosse l’altro a iniziare quel discorso da tempo rimandato. Alla fine a prendere la parola per primo fu proprio l’ospite inatteso di Edgard, portandosi con fare lento e tremante una mano in tasca da cui estrasse un pacchetto di sigarette. Fin troppe volte gli aveva detto che non gli piaceva si fumasse in casa sua, ma evidentemente non aveva proprio voglia di dargli ascolto.

«Ormai il tempo è giunto, penso che anche tu te ne sia accorto» esordì mentre si accendeva la sigaretta.

«Così pare» rispose il giovane universitario avanzando verso l’unica finestra del salotto che si affacciava in direzione della Torre Eiffel. Mai come in quel momento quello che era il simbolo di Parigi gli era parso tanto incombente sulla città, come un gigante di ferro pronto a calpestare le abitazioni circostanti. Ovviamente, in condizioni normali, sapeva fosse impossibile ma quella in cui si trovavano non poteva dirsi una situazione di “ordinaria amministrazione”. «Sembra tutto così tranquillo» disse quasi parlando a se stesso, osservando le poche macchine che a quell’ora passavano per le strade vicino al suo appartamento; di passanti sui marciapiedi non ce ne era neanche uno, e il tutto si poteva spiegare solo perché la maggior parte delle persone doveva star pranzando dopo essere tornata a casa o aver iniziato la propria pausa al lavoro. Anche Edgard avrebbe dovuto accingersi a preparare qualcosa da mettere sotto i denti, ma la sensazione che continuava a provare gli stava chiudendo lo stomaco.

«Purtroppo questa è una tranquillità fittizia, giovane eroe.» La voce del vecchio aveva un tono quasi sconsolato, come se lui stesso se ne rammaricasse pur essendo stato l’uomo che sei mesi prima si era presentato a casa di uno scettico Edgard apostrofandolo con lo stesso appellativo: “giovane eroe”. Inizialmente il ragazzo non era riuscito a prenderlo sul serio, etichettando il tutto come una storia interessante per un libro o un film, e dandogli del pazzo, ma dopo una semplice dimostrazione aveva dovuto in qualche modo ricredersi. E comunque una parte di lui già sapeva che si sarebbe arrivati al punto di dargli credito, poiché era dalla sua nascita che il destino aveva deciso di giocare con lui.

«Quanto tempo ci rimane?» chiese con semplicità tornando a guardare il vecchio, che continuava a fumare lasciando cadere la cenere in un bicchiere di plastica accuratamente riempito d’acqua. Al suo interno c’erano già quattro cicche spente, segno che lo stava aspettando da diverso tempo, o forse il vizio del fumo era peggiorato rispetto all’ultima volta, con quel precipitare degli eventi.

«Difficile da stabilire con accuratezza» fu la risposta mentre spengeva quella quinta sigaretta e si alzava dalla sedia, raggiungendolo e guardando anche lui la Parigi pomeridiana. «Ma potremmo non riuscire ad arrivare alla fine di questo mese.»

«Così poco tempo» sussurrò Edgard, ormai rassegnato. «Cosa posso fare?»

«Per impedirlo? Niente.» La risposta era stata lapidaria, senza lasciar spazio ad alcuna possibilità, come del resto Edgard si poteva aspettare. Già aveva compreso che ormai il destino, nel quale lui si era sempre rifiutato di credere, aveva decretato quel che sarebbe accaduto. «Però ciò non significa che il destino di questo mondo sia già segnato. L’unica cosa di cui sono sicuro è che saranno le nostre azioni a decretare il futuro che nascerà.»

«Questo già me lo hai detto ma sapere quel che potrebbe succedere e non poterlo impedire fa male.»

«Anche se non possiamo impedire il completo svolgersi degli eventi, potremmo poi sistemare tutto.» Il vecchio di poggiò una mano sulla spalla. «Dobbiamo accelerare i tempi.»

«Forse so dove cercare» rispose Edgard. «Ma da solo non credo di poter fare molto.»

«Sottovaluti le tue capacità, e comunque non sarai solo. Voi sette siete l’unica speranza di luce per questo mondo destinato a cadere nell’oscurità.»

«Ma al momento ci sono solo io» provò a ribattere il giovane. «Non sappiamo nulla degli altri sei, né se si trovano in Francia o in altri Paesi, se non addirittura fuori dall’Europa.»

«Penso di averne trovati altri due come te, e almeno uno sembra già essere a conoscenza di tutto. Partirò questa notte per portarli qua. Non ti preoccupare» aggiunse subito prima che Edgard potesse dire qualcosa in risposta. «Tornerò prima che sia troppo tardi per te e questa città.»

Edgard annuì, osservando la sagoma del vecchio dai lunghi capelli di un colore a metà tra il grigio e il bianco dirigersi verso l’uscita rivolgendogli solo un cenno con la mano per salutarlo. Sapeva che lui era fatto così, spesso spariva per settimane e una volta era arrivato a stare lontano per due mesi alla ricerca di chi era come Edgard, il quale pur conoscendo e avendo visto tutto ancora faticava a crederci in cosa si fosse ritrovato. Lui era improntato verso la scienza, la realtà dei fatti che poteva constatare con i sensi e i macchinari creati dalla tecnologia contemporanea, ma forse proprio per questo non poteva permettersi più il lusso di non credere. I suoi occhi erano stati testimoni di cose che non poteva altrimenti spiegarsi, al limite del surreale, sin da quando aveva incontrato quel vecchio che gli si era presentato con un nome a lui tanto familiare che la prima volta lo aveva lasciato basito per la serietà con cui era stato pronunciato, prima che lo stupore venisse sostituito da scherno e poi da incredulità. «Spero davvero che io possa fare qualcosa come sembra che tu creda» sussurrò dopo aver visto la figura sparire. Non aveva aperto la porta e si era incamminato per le scale del condominio, ma semplicemente dove prima c’era il vecchio era rimasta inizialmente una figura che pareva composta da semplice fumo nero prima di non lasciare alcuna traccia di sé. Era in quel modo che poteva entrare nel monolocale di Edgard pur senza averne le chiavi, e ormai il giovane si era abituato al vederlo usare quel teletrasporto, pur non riuscendo minimamente a concepirne la base scientifica. Il vecchio la chiamava magia, ma in un mondo improntato verso le scoperte scientifiche credere all’esistenza della magia non era semplice, e lo scetticismo di Edgard era stato messo a dura prova sin dalla prima volta che aveva visto di cosa si era capaci con la magia, una forza che poteva addirittura essere in grado di riscrivere le leggi stesse della natura e della scienza. Da dove scaturisse una simile capacità gli era ignoto e poteva quasi affermare che ormai si era giunti al punto dove finiva la scienza.

 

La spada riluceva tra le sue mani mentre l’ammirava in tutto il suo splendore. Finalmente l’aveva trovata, ancora faticava a crederci, ma il suo compito ancora non era concluso. Trovava alquanto incredibile come in un epoca dove le guerre si combattevano con le armi da fuoco, i mezzi corazzati e altri armamenti volti ad avere sempre più potenza distruttiva un’arma da taglio come quella potesse seriamente decretare il futuro del loro mondo. Eppure, nonostante il tutto sembrasse apparire impensabile, come il delirio di un folle, i sogni non mentivano. Quella che stringeva tra le mani in quel momento era realmente una delle Sette, come gli aveva detto il vecchio, e finalmente dopo tanto cercare era riuscita a trovarla. La lama sembrava nuova, come fosse appena uscita dalla forgia di un abile fabbro, eppure Jeanne sapeva che doveva avere almeno millecinquecento anni, e quando l’aveva trovata poteva dire li dimostrasse tutti. Era stato in quel momento che, dopo aver stretto l’elsa dell’arma che sembrava adattarsi perfettamente alla sua mano, la lama si era come ripristinata in maniera autonoma, facendo sparire ogni traccia di ruggine e dello scorrere del tempo che l’avevano resa un rudere da museo. Gioiosa era a quel punto apparsa in tutta la sua magnificenza, proprio come Jeanne se l’era sempre immaginata sin da quando aveva appreso della sua esistenza, e al solo guardarla un senso di nostalgia la attanagliava, facendole scendere alcune lacrime.

Scosse la testa, cercando di riprendersi. Quelli non erano i suoi ricordi, i suoi sentimenti, e doveva assolutamente iniziare a dividere quel che sentiva lei veramente da quel che era stato il passato di un completo estraneo. Inoltre non poteva restare in quel luogo a lungo o si sarebbe trovata davvero nei guai siccome si era ritrovata a fare qualcosa di non prettamente legale. Sapeva che rubare era sbagliato, e pur avendo vissuto gran parte della sua vita per strada aveva sempre cercato di arrangiarsi con quel che racimolava in giro e alle volte riuscendo anche a prendere qualcosa come elemosina, pur essendo per lei motivo di imbarazzo chiedere soldi agli sconosciuti. In tutti i suoi quindici anni di vita non aveva mai, prima di quel giorno, compiuto un furto e una parte di lei si sentiva “sporca” per quel gesto, sebbene venne subito ricacciata indietro sostituita dal pensiero che, se era per il bene collettivo e il futuro di quel mondo, gli avrebbero potuto anche perdonare il furto di una spada da un museo che pareva tenuta solo per completezza della collezione dell’Ottocento, senza realmente sapere il valore di quell’arma; e comunque, ora che era tornata al suo antico splendore, nessuno l’avrebbe riconosciuta.

Doveva però sbrigarsi ad andarsene o poteva essere scoperta. Dopo alcune indagini aveva scoperto che quel giorno il museo sarebbe rimasto chiuso al pubblico per far arrivare una nuova collezione, così approfittandone aveva usato uno di quei trucchetti, come gli piaceva chiamarli, che il vecchio gli aveva insegnato per riuscire a rendersi invisibile e a non far scattare l’allarme dopo aver forzato la teca nella quale era custodita l’arma, ma purtroppo non aveva l’addestramento per mantenere a lungo i suoi incantesimi e presto si sarebbe trovata completamente alla mercé di eventuali guardie o degli uomini che in quel momento stavano lavorando per portare i pezzi oggetto della prossima mostra.

Con passo rapido si diresse verso le finestre che illuminavano a giorno la stanza, facendola in parte sentire sia esposta sia una grande ladra in erba, avendo avuto l’ardire di compiere un furto in un museo in pieno giorno, anche se chiuso al pubblico. Sorrise a quel pensiero mentre con estrema accuratezza apriva il vetro cercando di fare il minimo rumore. Poteva rendersi temporaneamente invisibile agli occhi, mascherando anche tutto ciò che voleva, come stava in quel momento facendo con la sua spada o i suoi vestiti, ma il rumore della finestra che si apriva poteva comunque essere udito, e la stessa finestra poteva essere vista aprirsi da sola. «La prossima volta mi faccio insegnare quel teletrasporto» si ripromise mentre scivolava fuori e chiudeva la finestra con un altro di quei trucchetti, restando attaccata a una fessura del palazzo. Ringraziando il suo corpo atletico si lasciò cadere atterrando con una flessione delle gambe per attutire l’impatto. La vita per strada le aveva insegnato molto, forse anche troppo su come sopravvivere e trovare la soluzione migliore a ogni circostanza, e continuava a chiedersi se fosse un bene o un male; certo probabilmente senza aver imparato quel che ora sapeva sarebbe morta, ma se non avesse dovuto vivere per strada non ci sarebbe stato bisogno di migliorarsi in certi campi volti alla sua sopravvivenza, quindi il dibattito sulla sua condizione, la sua fortuna e la sua sfortuna, era tutt’altro che chiuso.

Dopo essersi assicurata che nessuno si fosse accorto di nulla si allontanò più velocemente che poté, raggiungendo quel che da qualche tempo era divento il suo rifugio in meno di una ventina di minuti e iniziando a cercare un posto dove nascondere l’arma. Non poteva renderla invisibile per sempre, il dispendio di energia sarebbe stato eccessivo, e non poteva rischiare che qualcuno gliela rubasse o, peggio, che venisse trovata in possesso di una spada da qualcuno che avrebbe potuto avvertire le forze dell’ordine; l’ultima cosa che poteva permettersi era di finire in un qualche orfanotrofio con tutto ciò che stava per accadere, vedendosi anche Gioiosa requisita.

Ormai di nuovo visibile, stava ancora cercando dove poterla lasciare quando un suono di passi la fece voltare allarmata, prima di rendersi conto che conosceva quel volto rugoso adornato con lunghi capelli grigi. «L’ho trovata!» esultò senza riuscire a celare una nota d’orgoglio nella voce.

«Sapevo che potevi farcela» rispose lui con un cenno d’assenso. «Ero però solo passato a salutarti, purtroppo non potremmo vederci per un po’ di tempo.»

La felicità per l’impresa appena compiuta scemò dagli occhi di Jeanne, che non riusciva a comprendere cosa l’uomo volesse dire. Per lei, cresciuta in mezzo alla strada, in quegli anni era stato quasi un secondo padre, aiutandola nei momenti di difficoltà, crescendola pur non avendo un tetto da darle sopra la testa e insegnandole tutto ciò che sapeva. «Non puoi abbandonarmi anche tu» disse in un sussurro.

«Non è mia intenzione, ma devo lasciare la Francia e fare ritorno in patria per qualche giorno, mi dispiace non essere riuscito a dirtelo prima.»

«Ma tornerai?» chiese lei speranzosa.

«Sì, te lo prometto, piccola Jeanne, e prima di quanto tu creda.»

Jeanne annuì, non riuscendo a dire nulla con gli occhi che si stavano fin troppo velocemente riempiendo di lacrime. Sebbene l’uomo le avesse promesso che sarebbe stato solo per qualche giorno non poteva far altro che avere paura di quella temporanea separazione, come se un oscuro presentimento iniziava a farsi strada tra i suoi pensieri.

Lo vide allontanarsi con fare lento e quel passo un po’ zoppicante che lo contraddistingueva, la schiena incurvata coperta dal leggero giacchetto nero sgualcito, come se un enorme peso invisibile gravasse sulle sue spalle e la verità non era poi tanto lontana da quella semplice fantasia.

«Merlino!» riuscì infine a chiamarlo; forse era la prima volta che usava il suo nome al posto di qualche appellativo come “vecchio” e “nonno”.

L’uomo si arrestò, voltandosi, e nei suoi profondi occhi azzurri Jeanne vide una stanchezza che non si capacitava come potesse appartenere a un uomo come Merlino, il quale gli aveva sempre mostrato una vivacità incredibile nonostante l’aspetto anziano. Non riuscì ad aggiungere altro di fronte a quello sguardo, e Merlino si limitò a un cenno di saluto con la mano prima di riprendere il suo cammino.

 

«Abbiamo così poco tempo?» chiese O’Brian al telefono, il tono di voce preoccupato, un’insolita novità per Julius che era solito disprezzare l’eccessiva sicurezza ostentata nella voce e nei gesti del professore.

Ancora non riusciva a capire per quale motivo l’uomo lo avesse chiamato con tanta urgenza, facendolo precipitare in quel bar sotto casa di O’Brian, per poi rivolgergli a malapena la parola prima di trascorrere tutto il tempo al telefono con un misterioso interlocutore, al quale si era rivolto inizialmente con il termine “maestro”.

Finalmente la telefonata finì e Julius ricevette le attenzioni di O’Brian che gli rivolse uno sguardo fin troppo serio per i gusti del giovane. «È tempo di prendere una decisione» disse con fare semplice e schietto. «Abbiamo bisogno di te.»

Julius non si scompose. «Già ti ho detto la mia decisione.»

«Tu non capisci o non vuoi capire quanto potresti essere importante, ragazzino.» Nessuno sembrava far caso a loro tra i pochi presenti nel locale.

Il barista arrivò al loro tavolo portando i due espressi che avevano ordinato e Julius si concesse un attimo per bere il suo. «Capisco benissimo invece» rispose fingendo una tranquillità che non aveva. Era quasi certo di aver scorto non solo delusione per la risposta ma anche un pizzico di rabbia negli occhi di O’Brian, sentimento innovativo per uno che era sempre stato composto di fronte ai continui rifiuti ricevuti. «Capisco che voglio rimanere fuori da questa storia.»

«Questa storia riguarda tutti noi, tutto il genere umano, e te specialmente, Julius.» O’Brian non sembrava voler cedere. «Senza il tuo aiuto finirà molto male, per chiunque!»

«Sette.» Quel semplice numero fu detto da Julius con un tono pensieroso. «Se noi siamo ben sette potreste non aver invece alcun bisogno di me, e lascio volentieri questo compito agli altri sei.»

O’Brian sospirò. «Posso capire sia il tuo scetticismo sia la tua volontà di restare fuori da una faccenda così pericolosa, ero preparato al tuo rifiuto e speravo di avere più tempo per convincerti.»

«Che intendi?» Julius non capiva dove O’Brian volesse arrivare.

«Sappiamo che ce ne sono almeno due in Francia, uno in Spagna e tu in Inghilterra» continuò il professore. «Ma al momento abbiamo trovato solo due armi, e di queste solo Gioiosa è in nostro possesso. Abbiamo bisogno di Excalibur o le conseguenze potrebbero essere peggiori di quanto previsto.» La voce di O’Brian era diventata quasi un sussurro, come per evitare di essere ascoltato da orecchie esterne, ma forse era una preoccupazione eccessiva; anche gli ultimi clienti del bar erano usciti e il barista, stava sistemando piatti e tazzine nella lavastoviglie mentre il suo collega alla cassa sembrava più intento a stare col cellulare piuttosto che a guardare cosa gli accadesse intorno.

«Allora dovreste raddoppiare o triplicare i vostri sforzi» commento Julius con una scrollata di spalle e fare disinteressato.

«È proprio quello che sto facendo con te! Potrebbero non essercene altri in tutta la Gran Bretagna ed è stata una vera fortuna che tu ed Excalibur vi trovaste entrambi a Londra!»

Il ragazzo sospirò. «Mi dispiace ma sono fuori da tutto questo. Ti ho aiutato a trovare Excalibur per evitare che finisse in mani sbagliate, questo era il patto.» Si alzò dal tavolo. «Ora cerca di trovare il modo di prendere quella maledetta spada e lasciami tornare alla mia vecchia vita. Confido che gli altri sei siano in grado di sopperire anche alla mia mancanza.» Dopo aver lasciato una manciata di monete per pagare il caffè, odiando che altri gli offrissero qualcosa, prese la direzione dell’uscita.

«Te ne pentirai, Julius!» Gli arrivò la voce di O’Brian alle orecchie. «Capirai che non puoi lasciare solo ad altri quel che è anche compito tuo!»

Fuori faceva freddo e il giovane infilò le mani nelle tasche della giacca; erano temperature insolite quelle per l’inizio di Giugno, quando doveva già iniziare a sentirsi il caldo dell’estate.

Si fermò in un edicola a comprare una rivista videoludica su cui figurava in prima pagina l’articolo per presentare la nuova console prevista in uscita quello stesso mese e sorrise nel vederne l’immagine. In tutti i campi la scienza faceva passi da giganti, e dopo il primo allunaggio del 1969 di Neil Armstrong si erano susseguite altre missioni volte a scoprire ogni segreto di quel vasto Universo, tra l’invio di sonde su altri pianeti del Sistema Solare fino a veri e propri viaggi spaziali di altri esseri umani nell’ultimo secolo, soprattutto su Marte sebbene ci fossero stati giri di ricognizione anche su pianeti come Venere e Giove per vedere dal vivo quel che prima di allora si era potuto ammirare solo con le immagini delle sonde. Risultava difficile credere alla magia e al soprannaturale in un periodo storico dove la scienza stava prendendo il sopravvento e persino religioni e pratiche non prettamente scientifiche venivano abbandonate e rivisitate in funzione delle nuove scoperte. In quell’ambito soprattutto le religioni monoteiste sembravano più avvezze a modificarsi e accettare l’evidenza scientifica anziché sparire e in quel frangente Julius, che non era mai stato veramente religioso, non dimenticava che lo stesso Einstein credesse nell’esistenza di un’entità superiore e che scienza e religione fossero complementari; però se non l’avesse visto con i suoi occhi e soprattutto nei suoi sogni non avrebbe mai creduto alla reale esistenza della magia.

«Se davvero accadesse quanto ha previsto O’Brian potrebbe essere la fine della scienza» si disse dirigendosi verso la fermata dell’autobus. Aveva lasciato a casa il motorino, preferendo non consumare benzina per una conversazione che già sapeva dove sarebbe andata a parare.

Fu proprio mentre attendeva l’arrivo del mezzo pubblico che percepì una sensazione inusuale, come se qualcuno lo stesso osservando pur non vedendo nessuno in particolare che pareva focalizzare il suo sguardo su di lui. Quella sensazione lo mise a disagio, portandolo a guardarsi spesso intorno finché non alzò istintivamente gli occhi al cielo, come se un qualcosa dentro di lui lo avesse avvisato da dove quello sguardo provenisse.

Rimase immobile, ogni possibile esclamazione che morì sul nascere mentre osservava il punto dove, ipoteticamente, doveva trovarsi il sole. In condizioni normali la luce avrebbe dovuto accecarlo, ma qualcosa sembrava essere in grado di affievolirla come ci fosse una nuvola invisibile ad oscurare l’astro giallo che in quel momento sembrava anche aver perso la sua consueta funzione di fonte di illuminazione. Intorno alla stella luminosa si era invece andata a disegnare la forma di un occhio, con il sole che ne era la pupilla incandescente. Quell’occhio fiammeggiante lo aveva già visto in passato, era una cosa ricorrente dei suoi sogni, e improvvisamente ne ebbe paura ricordando la immagini di distruzione che seguivano la sua apparizione, però c’era anche qualcosa di diverso. L’occhio era come incompleto, alcune linee di quel fumo nero che lo componevano erano irregolari pur andando a disegnarsi in maniera quasi costante, e soprattutto nessuno sembrava essersene accorto tra i passanti e coloro che attendevano con lui alla fermata dell’autobus.

Julius rievocò suo malgrado le immagini dei suoi sogni, come in seguito alla sua apparizione la distruzione pareva dilagare in tutta la città e come l’occhio in quel momento fosse visibile a chiunque.

Non aveva mai dubitato una singola volta della previsione di O’Brian, ma non credeva fosse rimasto così poco tempo e ogni volta che ripensava alle sue parole gli sembrava che parlasse di un futuro ben distante da quello in cui si trovavano.

Distolse lo sguardo solo quando si accorse che le altre persone alla fermata iniziavano a farsi più vicini al bordo del marciapiede, intuendo che l’autobus era arrivato come al solito senza emettere un singolo rumore.

Da quando si era scoperto come implementare tecnologie di levitazione ai mezzi di trasporto riuscendo anche ad abbassarne i costi ormai i mezzi a ruote erano sempre più in diminuzione e pochi come Julius continuavano a preferire un motorino di vecchia generazione al posto di quelli a levitazione, che oltre a costare in maniera eccessiva per le finanze del ragazzo gli sembravano troppo similari a delle moto d’acqua che andavano sull’asfalto ed esteticamente non gli piacevano.

Mentre saliva sul mezzo un boato lo fece voltare di scatto, mandandolo a urtare involontariamente l’uomo che gli stava davanti che si era arrestato e guardava nella sua stessa direzione, segnale che il rumore poteva non essere legato all’occhio o che comunque lui non era stato il solo a udirlo. Quel che vide gli gelò il sangue.

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Capitolo 3
*** ...E inizia la magia ***


L’occhio troneggiava sulla città ignara di quanto stava per accadere, invisibile a occhi comuni. Merlino osservava con sguardo preoccupato quello che era il preludio alla fine, seduto a terra sul ciglio della strada e vestito come di consueto con abiti stracciati. Poteva sembrare un comune senzatetto che chiedeva l’elemosina, e alcuni passanti impietositi avevano anche avuto il buon cuore di lasciargli alcune monete all’interno di uno sporco cappello rovesciato posto dinnanzi a sé. Sapeva che quella era solo una facciata, un modo per impedire di essere scoperto troppo presto, ma era comunque rimasto sorpreso dal gesto di alcuni.

Ormai portava avanti quella maschera di se stesso da molti anni, e non era la prima volta che si ritrovava a racimolare qualche moneta con quella finta elemosina, pur sapendo che la maggior parte di quei “buoni samaritani” pensavano che facendo così sarebbero semplicemente stati in pace con loro stessi e con la comunità, quasi fosse un modo per dire a chi invece passava oltre “guardatemi, io sono generoso”; ma, in mezzo a tanta superficialità, lui che con la sua magia poteva scrutare nel cuore delle persone aveva visto gente che davvero riteneva che fosse giusto aiutare chi era più sfortunato, che lasciava qualcosa non per farsi notare ma solo per un cuore troppo buono per una società come quella in cui vivevano. Era per loro che continuava a combattere e per loro che doveva trovare una via verso un futuro luminoso.

Quando fu certo di aver ricaricato la sua magia, che ultimamente aveva iniziato a indebolirsi troppo velocemente dopo pochi incantesimi, prese il cappello infilandosi le monete nella tasca dei pantaloni scuri e pensando a Jeanne. Tornato in Francia, come sua abitudine, avrebbe dato a lei quelle monete convinto che servissero più alla piccola erede di Gioiosa che a lui, che da diverso tempo non aveva più neanche bisogno di mangiare. Ormai era diventato poco più di uno spettro del passato, e sentiva il gelo della fine farsi vicino giorno dopo giorno. “Mio Re, se potessi vedermi ora cosa diresti?” chiese allo spettro di colui che un tempo aveva servito fedelmente fino al triste giorno della sua morte. “Quale consiglio daresti a colui che un tempo era il tuo più fidato consigliere?”

Iniziò a incamminarsi verso la sua destinazione, la mente persa in ricordi lontani, immagini di un passato le cui spoglie non erano quasi neanche più visibili nella società contemporanea della Gran Bretagna. Dopo la morte del sovrano aveva vagato per il mondo, condannato all’attesa perenne di un futuro del quale conosceva lo svolgersi fino all’arrivo dell’Era Oscura, aspettando pazientemente che il mondo avesse ancora bisogno del potere di Excalibur, ma qualcosa era andato fuori dalle sue previsioni. Differentemente da quanto immaginava, infatti, altre armi si erano risvegliate e da quel momento aveva iniziato il suo studio su tutto ciò che era leggenda, mitologia e storia, eppure mancavano ancora dei tasselli e le cose stavano precipitando più velocemente del previsto.

Dopo aver percepito la nascita di Edgard, Jeanne e di chi era come loro si era reso conto che nelle sue condizioni non sarebbe riuscito a raggiungerli tutti per tempo, e che probabilmente non avrebbe avuto modo di prepararli a dovere all’immane compito che li aspettava. Per questo aveva avuto bisogno di un aiuto esterno, di qualcuno che potesse dargli una mano a trovare quei ragazzi. Però almeno lui doveva incontrarlo.

Secondo il suo primo e unico allievo, James O’Brian, il ragazzo si chiamava Julius Klein ed era il legittimo proprietario di Excalibur, l’erede del suo Re. Ancora si interrogava con quale criterio il destino scegliesse gli eredi di eroi e condottieri del passato, ma reputava la nascita di Julius in Inghilterra come un segno diretto a sé. Lui si sentiva ancora parte di quel Paese, devoto al Re di Camelot e ai suoi Cavalieri, e forse il fato aveva voluto fargli quell’ultimo regalo, poter rivedere in patria Arthur.

Fu l’accorgersi che qualcuno lo seguisse a farlo fermare voltandosi allarmato. Non c’era alcun motivo evidente per cui bisognava seguirlo, aveva nascosto la propria presenza meglio che poteva e vestito di stracci non poteva neanche suscitare le brame di un qualche borseggiatore, però nello sguardo che incrociò nel misterioso individuo poté notare una luce che avrebbe riconosciuto in ogni circostanza.

«Merlino» disse semplicemente il suo pedinatore avanzando di qualche passo. «Quanti secoli sono passati?»

Merlino sbatté un paio di volte le palpebre, come a sperare che fosse un’allucinazione per quella stanchezza che da troppo tempo si portava appresso. L’aspetto era diverso da quel che ricordava, ma la voce rauca che sembrava provenire da un altro mondo e gli occhi che parevano stillare odio per ogni cosa erano inconfondibili per il vecchio stregone di Camelot. Era la prima volta che lo incontrava con sembianze umane, ma non poteva sbagliarsi e gli risultava difficile credere di esserselo ritrovato davanti, o semplicemente che fosse ancora vivo dopo essere stato presente alla sua caduta «Fafnir.» Un nome che rievocava tristi ricordi di un suo viaggio nelle terre del Nord dopo aver sentito racconti su un eroe che poteva essere possessore di una delle armi che stava cercando. Aveva conosciuto Fafnir e suo fratello proprio in quel periodo, assistendo impotente alla mutazione che aveva subito per colpa della propria avidità; colui che un tempo riteneva un amico ora gli stava davanti scrutandolo con sguardo assassino.

«È così che saluti un vecchio amico? Neanche un abbraccio?» Fafnir si fece più vicino, portando Merlino ad indietreggiare. Gran parte dei suoi poteri era andata perduta da tempo e non era certo di poter competere con l’essere che in quel momento si stava fingendo un semplice umano ben vestito con una giaccia sportiva blu sopra una camicia bianca, jeans e scarpe nere.

«Tu non sei l’amico che conoscevo» disse Merlino, voltandosi poi intorno e rendendosi conto che si trovavano completamente soli pur stando in una via principale che solitamente ospitava diversi passanti.

«Non verrà nessuno in tuo aiuto, Merlino, lo sai bene.»

E lo stregone capì. Fafnir non era mai stato realmente portato per la magia, nonostante avesse provato a insegnargliela come aveva fatto con Jeanne e James, ma anche uno come lui poteva lanciare un incantesimo tanto semplice. Si maledisse per non essersene accorto prima, tentando di spezzare il sortilegio che li aveva trasportati in quella dimensione parallela. Poiché non erano i passanti a essere scomparsi, ma loro a essere stati portati in una dimensione illusoria costruita dallo stesso Fafnir a immagine e somiglianza di quella reale. Merlino sapeva che non era possibile creare nuovi universi con la magia, ma tra le varie dimensioni già esistenti vi era uno “spazio vuoto” composto dal nulla più assoluto, dove con un incantesimo di illusione era possibile generare realtà fittizie con le sembianze che si desideravano. E loro si trovavano proprio in quel luogo, nel Vuoto.

«È inutile» sentenziò Fafnir con voce divertita dopo qualche istante. «La Sua influenza può raggiungere anche questo luogo, non te ne sei accorto?»

Merlino dovette dargli credito. Nonostante si fosse riposato a sufficienza poteva percepire la propria magia venire prosciugata costantemente, e la causa doveva essere l’occhio nel cielo. «Che cosa vuoi?»

«Volevo solo salutare un vecchio amico» rispose lui. «Ma non sembri molto felice di vedermi.»

«Come potrei esserlo dopo quello che hai fatto? Dopo quello che sei diventato?» Doveva trovare il modo di fuggire dal Vuoto o si sarebbe ritrovato completamente in balia di Fafnir che aveva il pieno controllo di quell’illusione. Sapeva che in fatto di magia avrebbe potuto batterlo anche con i poteri indeboliti, ma se l’essere avesse riacquisito le sue reali sembianze non avrebbe più avuto scampo.

All’improvviso un boato proveniente dal mondo reale raggiunse il Vuoto, sebbene il suono fosse attutito dal passaggio dimensionale in cui era stato trasportato. Se il rumore aveva addirittura raggiunto quell’illusione, però, doveva essere stato così forte da far tremare la terra stessa, e anche Merlino in quel momento tremava di paura.

Fafnir rise. «È iniziato» sentenziò.

«No, è troppo presto!» urlò disperato Merlino tornando a guardare il suo interlocutore e lasciandosi scappare un colpo di tosse, portandosi una mano alla bocca. Quando vi posò gli occhi notò del sangue sul palmo, il suo tempo stava per finire.

«Lo so.» Fafnir non sembrava averci dato peso. «Ma io non sono l’unico alleato che hanno. Noi siamo il preludio alla fine e gli annunciatori del Suo ritorno in questo mondo.»

Altri come Fafnir dunque avevano già iniziato l’opera di distruzione preannunciata dalle visioni, non c’era altra spiegazione. Quando Merlino lo comprese, lo sguardo che rivolse all’essere non era più carico di odio e rammarico per l’amicizia perduta, ma solo pieno di domande. «Quali sono i vostri veri obiettivi? Cosa sperate di ottenere dall’Era Oscura?» Merlino non riusciva neanche lontanamente a immaginare la risposta a quelle domande, al motivo che aveva spinto uno come Fafnir ad allearsi con gli Oscuri, i portatori della più pura distruzione. Un tempo egli era mosso dall’invidia, e i suoi obiettivi erano chiari quando poi venne sconfitto dalla lama di Sigurd, ma perché poi allearsi con simili esseri? Cosa ne avrebbe ricavato?

«Anche se ti rispondessi dubito che riusciresti a comprendere cosa ci muove.» Fafnir sembrava essersi quasi intristito. «Nessuno però mi aveva chiesto di venire a farti visita, è stata una mia scelta.» Gli tese una mano. «So che ormai sei al limite, e voglio offrirti una possibilità di sopravvivenza in nome della nostra vecchia amicizia. Unisciti a noi e vivi, o sarò io stesso a ucciderti; non voglio vederti morire per mano del crudele tempo limitato che ci è concesso in questo mondo.»

Merlino guardò quella mano che chiedeva di essere stretta, ma la scostò con uno schiaffo. «Quello che mi offri implica macchiarmi di tradimento nei confronti del mio Re» sibilò.

«È un vero peccato» fu il commento di Fafnir mentre indietreggiava. Accadde più rapidamente di quanto lo stregone potesse immaginare, il corpo umano dell’essere fu scosso da alcuni spasmi mentre la pelle si ricopriva di squame nere, i vestiti si strappavano e al posto del giovane uomo di cui aveva preso le sembianze apparve il suo vero aspetto, quello di un enorme linnormr, una creatura a metà tra una serpe e un drago, ma senza le ali tipiche di questi ultimi. La creatura si allungava per circa dieci metri, più robusta nella parte centrale del corpo dove le spuntavano gli unici due arti che possedeva, lunghe zampe artigliate. La coda, lunga circa un terzo dell’intero corpo e più sottile e affusolata, sbatté a terra con un fragore assordante mentre il collo si allungava verso merlino e la bocca si apriva in un ghigno mostrando una chiostra di zanne affilate. «Non volevo arrivare a questo, ma non mi hai lasciato scelta» disse.

Merlino era pronto alla più dura battaglia della sua vita.

 

Tra gli involontari spettatori qualcuno si portò le man alla bocca, gli occhi increduli; altri scesero dall’autobus per avvicinarsi e poter meglio osservare, di certo i più coraggiosi, mentre un terzo gruppo di persone iniziava ad allontanarsi il più velocemente possibile per evitare la possibilità di rimanere coinvolti. L’unico che poteva dire di non appartenere a nessuna delle tre categorie era Julius, che immobile sulla soglia del mezzo lasciò che la rivista ancora arrotolata nelle mano destra scivolasse a terra. Qualcuno gli diede una spinta facendolo spostare leggermente e il giovane vide l’autista stesso essere sceso per controllare cosa stesse accadendo, e come gli altri non poté far altro che rimanere sorpreso da quello spettacolo.

Un’enorme colonna di fumo nero aveva iniziato ad alzarsi in lontananza, approssimativamente dove sorgeva il Tower Bridge, uno dei simboli della città stessa, ma non era tanto quello a sorprendere quanto l’enorme alone di una tonalità tra il rosso e l’arancio che pareva annunciare la presenza di un incendio di vaste dimensioni.

Ripresosi dallo shock per quella inaspettata vista, Julius iniziò a muoversi istintivamente verso l’origine del boato, continuando ad accelerare il passo finché non si ritrovò a correre. Erano tanti i motivi che lo stavano spingendo ad affrettarsi, tra la curiosità di scoprire se l’esplosione fosse collegata all’occhio e, soprattutto, lei. Victoria abitava proprio nei pressi del Tower Bridge e la sola idea che potesse esserle capitato qualcosa lo stava facendo impazzire. Doveva sbrigarsi, raggiungerla prima che fosse troppo tardi.

Ormai con il fiato corto si fermò quando gli si parò davanti agli occhi la più terrificante delle visioni con l’intero quartiere di Southwark avvolto nelle fiamme, tra i suoni delle grida strazianti di chi cercava di fuggire, gli antifurti delle macchine che sembravano partiti tutti insieme e il pianto di un bambino. Fu proprio da quest’ultimo, l’unica persona che potesse vedere chiaramente in quella confusione, che si diresse con passo svelto cercando di allontanarlo dalle zone incendiate; il piccolo, però, si dibatteva urlando frasi sconnesse tra loro delle quali Julius poté comprendere solo le parole “mamma” e “sorella”.

Qualcuno doveva averlo visto alle prese con quel salvataggio, poiché un uomo gli si avvicinò aiutandolo e quando il bambino lo vide sembrò tranquillizzarsi permettendo che lo allontanassero di qualche metro, ancora in lacrime.

Julius ringraziò l’uomo, che però continuava ad abbracciare il piccolo lanciando solo fugaci occhiate all’incendio. Quando sembrò rendersi conto che Julius era rimasto vicino a loro, finalmente, gli parlò. «Sono io che ti ringrazio per aver salvato mio figlio!»

A quel punto per Julius fu semplice mettere assieme tutti i pezzi. «Il bambino ha parlato di sua madre e sua sorella» disse tutto d’un fiato, senza sapere cos’altro poter dire e con la mente ancora rivolta alla ricerca di Victoria.

«Mia moglie e mia figlia…» Gli occhi dell’uomo si arrossarono per il pianto. «Devono stare ancora…» Il padre del bambino non finì la frase, ma allungò una mano tremante verso le fiamme.

Julius chiuse gli occhi pensieroso. Dopotutto doveva ancora trovare Victoria, e quindi era anche nel suo interesse attraversare il borgo in fiamme; quando tornò a guardare padre e figlio aveva preso la sua decisione. «Cercherò di trovarle, voi restate qua al sicuro» disse ostentando una sicurezza che non aveva. Per tutto quel tempo aveva rifiutato di aiutare O’Brian proprio per non rimanere coinvolto in cose del genere, e pur non essendo certo che l’occhio e l’incendio avessero un qualche collegamento ora si ritrovava proprio in una di quelle situazioni che avrebbe volentieri evitato. Per un attimo pensò che avere con sé Excalibur avrebbe potuto fargli comodo, ma di certo non poteva perdere tempo ad andare al museo, rubare la spada e capire come poteva funzionare il suo potere e quale protezione avrebbe potuto offrirgli dal fuoco.

Sul luogo si stavano già radunando diversi pompieri e volontari nell’intento di domare l’incendio, così senza esitazione si diresse verso un uomo che stava riempiendo un secchio con dell’acqua, strappandoglielo dalle mani e inzuppandosi da capo a piedi nella speranza che ciò avrebbe tenuto le fiamme lontane abbastanza a lungo. Il volontario, incredulo, provò a dire qualcosa ma Julius non lo lasciò parlare e corse con gli occhi chiusi attraverso quello che sembrava a tutti gli effetti un muro di fuoco. L’ultima cosa che poté sentire prima di avere le orecchie piene del crepitio delle fiamme fu il tipico rumore metallico dei droni pompieri, forse gli unici che avrebbero potuto realmente domare quelle fiamme così estese, ma Julius non poteva attendere che droni e umani pompieri estinguessero l’incendio con la speranza di trovare Victoria e la famiglia del bambino tra i sopravvissuti.

 

Fafnir era davvero troppo forte per lui, ora ne aveva la conferma. Con l’occhio che gli prosciugava le energie magiche non riusciva a mantenere attivi i suoi incantesimi troppo a lungo e l’essere metà serpente e metà drago incombeva minaccioso sferzando l’aria con gli artigli e la possente coda, colpendolo a più riprese. Merlino non si stupì che era servita un’arma dai grandi poteri magici per riuscire a sconfiggerlo in passato, ma se almeno avesse avuto i suoi pieni poteri avrebbe potuto tentare una fuga per riorganizzarsi, poiché se non usciva dal Vuoto era praticamente in trappola. Inutile quanto tentasse di allontanarsi dall’essere, quello manipolava la propria illusione trasportandosi ogni volta a portata per poterlo colpire ripetutamente e ormai lo stregone sembrava rassegnarsi alla sua impotenza dinnanzi a una simile creatura. Aveva anche osato sperare che l’incantesimo illusorio non durasse a lungo, ricordando come Fafnir non fosse stato portato per apprendere tutti i segreti della magia, ma evidentemente traeva potere da qualcosa che amplificava la sua forza consentendogli imprese un tempo impossibili; l’unica risposta poteva essere l’occhio che prosciugava la sua magia e la donava ai propri alleati.

Provò nuovamente ad allontanarsi per riprendere fiato e provare un nuovo attacco magico, ma di nuovo si ritrovò la creatura alle proprie spalle che gli graffiò la schiena lacerando indumenti e carne e provocandogli un dolore lancinante che lo costrinse a terra boccheggiante. Non poteva morire in quel luogo, non dopo aver assicurato a Jeanne che sarebbe tornato da lei e non prima di aver incontrato di nuovo il suo Re, doveva trovare una soluzione.

Si rialzò per l’ennesima volta richiamando a sé tutta la forza fisica che il suo vecchio corpo gli stava concedendo, ma prima che potesse anche solo pensare a un attacco Fafnir gli era di nuovo addosso e Merlino si preparò a ricevere un altro colpo, che però non giunse mai. Il linnomrmr sembrava essersi arrestato di proposito, annusando l’aria con sguardo quasi sorpreso.

«Sembra che sia tempo di concludere questo triste spettacolo» annunciò con un ghigno, prima di tornare all’attacco. Questa volta Merlino ebbe l’assoluta certezza che Fafnir non si sarebbe limitato ad attaccare per divertirsi a farlo soffrire, ma puntava a ucciderlo con un unico colpo in cui stava riversando tutta la sua foga e la sua brama di sangue. Lo stregone si preparò a incassare e quando percepì il dolore degli artigli sulla sua pelle tutto si fece confuso e la sua coscienza scivolò nell’oblio.

 

«Ehi! Svegliati, ti prego!» La voce di Julius tentava disperatamente di superare in volume gli urli di terrore misti a dolore di chi non stava riuscendo a sfuggire alle fiamme, mentre osservava la piccola ragazzina di circa dodici anni che giaceva a terra, il respiro affannato, accanto al corpo di quella che doveva essere la madre, ormai senza vita.

Julius l’aveva trovata quasi subito dopo essere entrato in mezzo alle fiamme, accanto ai resti di quella che doveva essere il palazzo dove vivevano e sotto il corpo della donna, che presumibilmente le aveva fatto da scudo contro una vampata esplosa proprio dal portone d’ingresso mentre fuggivano. Julius non era giunto troppo tardi per salvarla, ma se solo fosse arrivato prima avrebbe potuto forse portare via anche la donna. Quella consapevolezza lo aveva demoralizzato, facendogli capire che immane follia aveva deciso di compiere. Per un attimo, dicendo quelle parole all’uomo e al bambino, si era creduto realmente l’eroe che tanto O’Brian aveva voluto fargli credere di essere, ma lui non era mai stato portato per quel ruolo. Come poteva essere un eroe se non era stato in grado neanche di salvare una donna?

Le lacrime che ormai avevano cominciato a sgorgare copiose, con i ricordi del giorno in cui era toccato proprio a lui perdere i propri genitori, provò ancora a scuotere la piccola con delicatezza. «Ti prego, non puoi farmi questo…» sussurrò mentre il respiro si stava affievolendo con allarmante velocità. Si diede un violento schiaffo per riprendersi, sollevando la bambina di peso e iniziando a trasportarla fuori da quell’inferno. Il passo era incerto per il peso che portava sulle spalle e le fiamme cominciavano con lentezza ad attecchire sui suoi vestiti, ormai quasi completamente asciutti, ma non si fermò mai finché finalmente non stava per riemergere dalle fiamme quando il suo sguardo si posò su un’altra figura distesa a terra dagli inconfondibili capelli quasi color cremisi che potevano sembrare tinti. «Victoria!» urlò senza sapere se doveva essere felice per averla trovata o triste per le sue condizioni. La ragazza non diede segni di averlo sentito, o di essere cosciente, così Julius diede fondo a tutte le proprie energie per portarsi accanto a lei, impaurito da ciò che poteva scoprire.

La giovane, per sua fortuna, ancora respirava ma l’aria stava lentamente diventando più pesante per l’anidride carbonica che ormai, pur trovandosi all’aperto, stava diventando insopportabile. Nessuna normale esplosione avrebbe potuto causare qualcosa del genere in così poco tempo, Julius lo aveva compreso subito pur cercando di non pensarci.

Victoria, che comunque doveva avere un fisico più resistente della bambina, aprì gli occhi dopo essere stata scossa un paio di volte. «Julius» disse con una voce flebile, quasi irriconoscibile per una che era sempre piena di vita come lei.

«Sono qui, Victoria» le rispose lui cercando di esibirsi nel più tranquillo e sereno sorriso, senza troppi successi.

La razza tossì. «E la piccola chi è?»

«Pensavo di adottarla e fare una sorpresa a O’Brian» cercò di scherzare lui, nonostante quella situazione.

Victoria sembrò iniziare a ridere, ma dovette interrompersi per un altro colpo di tosse. «Come fai a scherzare in un momento del genere…»

«Ti porterò fuori da questo inferno» disse lui tornando serio.

«Non ce la farai con anche la piccola, io non riesco neanche a camminare.» Victoria allungò una mano a sfiorare il volto di Julius. «Porta prima lei, io ti aspetterò.»

«Non posso farlo.» La risolutezza di quella risposta sorprese lo stesso Julius, oltre che Victoria, ora con gli occhi che lo guardavano interrogativi. «Non ho potuto fare niente per i miei genitori e ho già fallito nel salvare la madre di lei, non posso perdere anche te!»

Una forza che era certo non gli appartenesse stava iniziando a pervaderlo mentre prendeva Victoria sotto braccio aiutandola ad alzarsi e ritrovandosi a dover avere la bambina come peso morto sulle spalle e la ragazza che anziché camminare si limitava a lasciarsi trasportare strusciando le gambe inerti. Julius non aveva alcuna conoscenza in campo medico e sperò che non avesse riportato seri danni agli arti inferiori. Victoria non doveva essere coinvolta in tutto ciò, non si meritava di rimanere paralizzata per un qualcosa che riguardava solo lui.

L’uscita dal borgo, dove le fiamme non sembravano intenzionate a voler andare, altro segnale che non avevano nulla di realmente naturale, era proprio davanti a lui ma più avanzava più la stanchezza lo pervadeva, fino a quando non ebbe la sensazione di star perdendo conoscenza e tutto ciò che gli stava intorno iniziò a perdere di consistenza, finché non si ritrovò davanti l’immagine di un limpido lago. Pur essendo certo di non esserci mai stato personalmente, quella visione gli suscitò un immane senso di nostalgia, mentre sentiva sorprendentemente il peso di Victoria e della piccola senza nome sparire dal proprio corpo.

All’improvviso dal calmo specchio d’acqua emerse una figura eterea che aveva le sembianze di una giovane e avvenente donna, i piedi scalzi che appena sfioravano la superficie dell’erba di quella misteriosa radura. L’abito che indossava era quasi un semplice velo trasparente che però, anziché lasciare intravedere il corpo nudo di lei sotto di esso, permetteva letteralmente di scrutare attraverso la donna il paesaggio circostante, quasi come fosse un fantasma.

«Julius Klein» lo apostrofò lei con voce suadente che Julius si ritrovò a pensare non potesse appartenere al suo stesso mondo. «Vuoi davvero salvarle entrambe?»

Julius, che all’apparizione della donna sembrava aver perso l’uso della parola per lo stupore, deglutì. «Sì» rispose infine.

La donna sembrò sorridere mentre faceva un gesto con la mano, il palmo rivolto al cielo, come stesse sorreggendo qualcosa. Le acque del lago si incresparono, permettendo l’emergere di una roccia dalla forma di una mano sul quale si vedeva chiaramente la presenza di una spada. «Allora ti concederò tale potere.»

«Chi sei?» Julius non era riuscito a trattenersi dal chiederglielo, chiedendosi per un istante se non fosse morto tra le fiamme e si trovasse dunque nell’ipotetico aldilà di cui tanto si parlava, tra diverse credenze e scetticismo; ma se così fosse stato la domanda di lei non avrebbe avuto molto senso.

«I nomi non hanno importanza per me, e nel corso del tempo me ne hanno attribuiti tanti» fu la risposta che ricevette. «Ma ai tempi del Re mi conoscevano prevalentemente con l’appellativo di Dama del Lago.»

Julius la guardò sbalordito. «Allora quella spada…»

«È Excalibur» confermò la Dama. «Ma non posso dartela fisicamente, recuperarla è un compito che spetta solo a te, Julius Klein. Posso però concederti il potere che ti serve a salvare coloro che si stanno affidando alla tua forza.»

Julius, ora che aveva compreso cosa comportasse quella visione, distolse lo sguardo. «Mi sono stancato di ripeterlo, ma con tutta questa storia e con Excalibur non voglio essere coinvolto.»

A differenza di quanto accadeva con O’Brian, però, a quelle parole la Dama non mostrò né delusione né rabbia. Semplicemente sorrise con quel suo fare tranquillo. «Allora considera questo come un prestito e non un dono, Julius.» L’assenza del cognome dopo il suo nome aveva dato alla voce della Dama un tono meno solenne e più colloquiale, quasi amichevole. Per qualche ragione Julius sentiva di poter fidarsi di lei. «Dopotutto nulla è ancora scritto e tutto può succedere, indipendentemente da quel che il destino ci riserva alla nostra nascita. Sta agli umani decidere se seguire le trame del fato o nuotare controcorrente percorrendo la propria via.» In quelle parole il giovane notò una nuova nota nelle sfumature della sua voce, quasi un rammarico inespresso, un qualcosa di incompiuto.

Julius si limitò ad accettare con un cenno di assenso, mentre iniziava nuovamente a sentire la fatica derivata da quanto stava accadendo al suo corpo, segno che probabilmente la Dama lo stava riportando alla realtà. «Ho solo un favore da chiederti in cambio, ma starà a te decidere se accontentarmi o meno, io non potrò comunque costringerti nelle mie attuali condizioni.»

Julius si fece nuovamente attento, cercando di scacciare il senso di spossatezza. «Quando tornerai indietro sarete tutti e tre salvi, e quando l’Era Oscura giungerà ti chiedo di proteggere una ragazza, il suo nome è Jeanne.» Una breve pausa mentre il paesaggio intorno a loro sbiadiva e solo la figura della Dama manteneva una parte della sua nitidezza. «Ella avrà un ruolo fondamentale nei tempi che verranno, non dimenticarlo.» La figura della Dama anche infine scomparve, lasciando Julius nella più completa oscurità. «Difendi l’Altare di Lancillotto.» Quelle ultime parole lo raggiunsero poco prima che perdesse i sensi.

 

Quando riaprì gli occhi si trovava sotto un cielo limpido che non lasciava neanche intuire il paesaggio carico di distruzione che lo circondava. Dolorante e senza riuscire ancora ad alzarsi si portò il palmo della mano destra davanti agli occhi. Era certo di aver visto una figura femminile seguita da un urlo carico di rabbia e rancore mentre si preparava a una morte non cercata, una creatura che non aveva faticato a riconoscere.

«E così mi hai salvato, Nimue» disse Merlino senza riuscire trattenersi dal fare una risata che doveva aver suscitato curiosità nei presenti. Poté percepire diversi occhi puntati su di lui, ma non voleva prestare loro attenzione, e forse ci sarebbe riuscito se un ragazzo con i capelli biondi non gli si fosse parato davanti. Il volto era sporco di cenere e i vestiti in parte bruciati, ma non sembrava ferito e Merlino constatò che doveva avere all’incirca sedici anni. Con fatica riuscì a sollevarsi e a guardare meglio quel viso che parve per un attimo riconoscere, prima di scuotere la testa e pensare che fosse impossibile. Ma il giovane non sembrava intenzionato ad allontanarsi e pareva pure fin troppo incuriosito.

«Hai detto Nimue?»

Merlino sussultò. Non credeva che qualcuno potesse averlo sentito in quella piccola constatazione appena sussurrata, ma il giovane doveva essersi trovato proprio vicino. Merlino tentò di divagare guardandosi intorno e contemplando il quartiere quasi totalmente distrutto dalle fiamme. Pur non essendo stato presente al momento dell’esplosione i segni dell’incendio erano inconfondibili e percepiva nell’aria qualche residuo della magia utilizzata. «Ti sei sbagliato, ragazzo» disse lo stregone tornando a guardarlo.

«Invece credo di aver sentito bene uno dei nomi della Dama del Lago» rispose lui mettendoglisi seduto davanti e facendo un cenno a una ragazza come a chiederle di aspettare.

«È solo un personaggio mitologico e letterario» affermò Merlino tentando di finire la discussione.

Il giovane gli si avvicinò. «Io non credo che lo sia, così come penso che esista anche la leggendaria Excalibur.» Merlino non riuscì a trattenersi dallo stupore e deglutì, suscitando un sorriso divertito nel suo interlocutore. «Il mio nome è Julius Klein.»

Al sentire pronunciare quel nome per poco non gli prese un infarto, tornando a guardare gli occhi del giovane e perdendosi in quell’azzurro così simile al limpido cielo estivo. «Mio Re» lo chiamò con semplicità, senza riuscire ad aggiungere altro.

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Capitolo 4
*** Il Sogno di Thea ***


La giovane riaprì lentamente gli occhi e tornando ad ascoltare la voce dell’insegnante, pur sapendo che oramai aveva perso del tutto il filo del discorso. Ultimamente le capitava fin troppo spesso di addormentarsi in classe o sui mezzi pubblici, sentendosi addosso una stanchezza dovuta alle numerose notti insonne di quell’ultimo periodo.

Thea ci provava seriamente ad addormentarsi dopo cena, ma i continui incubi continuavano a farla risvegliare in maniera costante per tutta la notte, e quello era il risultato. Ancora non ne capiva l’origine, pur avendo cercato di informarsi su internet e dalla sua psicologa, apprendendo che un incubo poteva essere causato da qualche avvenimento traumatico, brutti ricordi o un film particolarmente pauroso e dipendendo anche dal suo carattere. Thea però non le sembrava di aver mai vissuto esperienze che le avevano causato un qualche trauma e i film horror tendeva a evitarli non essendo il suo genere preferito, quindi proprio non riusciva a spiegarsi le immagini di morte e distruzione che continuavano a popolare i suoi sogni. Alle volte, le era stato detto, non doveva per forza esserci un motivo come accadeva con qualsiasi altro sogno, ma il ritrovarsi costantemente nello stesso orribile scenario per diverse notti consecutive le aveva messo addosso una sensazione di inquietudine cui non era abituata.

Per un attimo le era sembrato che l’insegnante si fosse voltata a guardarla, come accorgendosi del suo pisolino, ma senza dire niente in proposito; intimamente Thea la ringraziò, sapendo che essere tra gli studenti con i voti più alti della classe le poteva portare quei piccoli privilegi. Non che fosse sua abitudine dormire in classe, e cercava sempre di prestare la massima attenzione ai professori, ma per quel che ogni notte si ritrovava a passare si convinse che un po’ se lo poteva permettere.

Quando anche l’ultima lezione della giornata finì, Thea si preparò per uscire dall’istituto e andare all’ennesima visita dalla psicologa, forse il momento di quelle giornate che più le produceva sentimenti contrastanti in fondo all’animo. Da una parte si ritrovava sempre in imbarazzo ad ammettere che fosse in cura da una psicologa, e cercava di tenerlo nascosto il più possibile, dall’altra la donna sulla cinquantina le stava simpatica con il suo carattere allegro e gioviale, e anche il modo in cui aveva predisposto lo studio le piaceva molto. Inoltre, per quello che era il suo sogno nel cassetto, anche dover andare dalla psicologa almeno tre volte a settimana le era fonte di grande ispirazione. Thea era fatta così, riteneva che ogni possibile esperienza, brutta o bella, imbarazzante o eccitante, potesse aiutarla a raggiungere l’obiettivo che ormai da un paio d’anni si era prefissata.

La prima cosa che notò quando uscì all’aria aperta fu il vento che doveva essersi alzato durante la mattinata e di cui non aveva potuto rendersene conto con le finestre dell’aula chiuse e nessun albero che potesse intravedersi; era un vento freddo, fin troppo per trovarsi quasi a metà Giugno anche per un Paese che l’anno precedente, e solo grazie al riscaldamento globale nel quale si ritrovava da diverso tempo l’intero pianeta, aveva sfiorato a malapena i venti gradi in Agosto. Guardò il display del cellulare, dove oltre all’ora locale figurava un’altra cifra che andava a indicare la temperatura di Copenaghen. Leggere quel “nove” espresso in gradi la lasciò sorpresa, non riuscendo a ricordare un anno dove a Giugno avesse mai fatto così freddo, ma cercò di non pensarci stringendosi meglio nel cappotto viola e infilando le mani, già guantate con spessi guanti di lana, nelle tasche. Faceva freddo, doveva ammetterlo, e non riusciva a spiegarsi per quale motivo quelle basse temperature la preoccupassero tanto.

La meteorologia non era mai interessata granché a Thea, che a malapena guardava le previsioni del tempo la mattina giusto per sapere se dovesse portarsi un ombrello, ma non era la prima volta che si sentiva in qualche modo preoccupata per eventi che solitamente non avrebbero dovuto suscitare in lei simili sensazioni, e ancor più inspiegabile era che fino a quel giorno non si fosse mai sbagliata a preoccuparsi, come avesse uno spiccato senso del pericolo, anche quando non la riguardava direttamente. Quando era piccola, ricordava benissimo, si era svegliata di notte infilandosi nel letto dei suoi genitori, le lacrime che non volevano fermarsi, impaurita da qualcosa che non sapeva cosa fosse. Sua madre aveva pensato a un incubo, cercando di rincuorarla, ma in cuor suo Thea sapeva che si tratta di qualcos’altro e la mattina dell’indomani aveva scoperto che il padre della sua migliore amica era morto per un infarto fulminante; due anni prima, invece, aveva avuto una strana sensazione mentre si trovava a scuola, sentendosi preoccupata per qualcosa di non ben definito e dopo essere tornata a casa aveva scoperto che quella mattina un aereo partito da meno di un’ora era scomparso nel nulla; dopo sei mesi, nuovamente, una percezione di profonda tristezza la portò a farle lacrimare gli occhi facendole scoprire che il mezzo era stato finalmente ritrovato sul fondale dell’oceano, completamente in pezzi e senza sopravvissuti. Anche per altri avvenimenti si era ritrovata ad avere strane percezioni, facendola giungere alla conclusione che non poteva trattarsi di una semplice coincidenza. Questo era quel che più la spaventava per quei sogni, temendo che in qualche modo fossero collegati a quella sua particolare “capacità”, come l’aveva definita. Non le era però mai capitato addirittura di vedere il futuro, e anche se credeva nell’esistenza del soprannaturale riteneva impossibile che la sua capacità la portasse a essere addirittura una veggente.

Arrivò davanti il portone del palazzo che ospitava lo studio senza neanche accorgersene, fermandosi prima di passare oltre ed esitando sulla soglia. Più volte si era chiesta se dovese parlarne con Birgit, la sua psicologa, scartando di continuo l’idea e limitandosi a dirle di avere dei semplici incubi. Già si era ritrovata a dover essere presa in cura per la sua bipolarità, che spesso le causava improvvisi scatti d’ira, e non voleva dare altre preoccupazioni ai suoi genitori sul suo stato mentale.

Fece un lungo respiro, varcando il portone e suonando al campanello dello studio. Come di consueto, a parte lei, Birgit e la sua assistente, la ragazza sulla ventina che le aveva aperto, non c’era nessun’altro. Thea stessa aveva chiesto alla psicologa di poter andarci in momenti dove ci sarebbe stata meno gente, senza riuscire a nascondere un pizzico di vergogna per dover andare a quelle sedute, però la donna si era dimostrata immediatamente disponibile ad accontentarla nei limiti del possibile.

«Ciao Thea!» la salutò in maniera allegra l’assistente, che pareva averla presa parecchio in simpatia, forse per via della passione per i libri che condividevano.

«Ciao Karen» rispose lei senza riuscire a celare un tono lievemente sorpreso nel tono della voce. Non per il carattere, che per Thea a volte era pure un po’ troppo eccentrico, della ragazza ma perché non si aspettava di trovarla da Birgit. «Non dovevi andare in vacanza con il tuo ragazzo?» le chiese infatti con una lieve curiosità nella voce.

Karen sorrise con fare tranquillo, un aspetto che invece Thea le invidiava. Riusciva sempre a mantenere il suo buon umore, anche di fronte a situazioni dove invece lei avrebbe pianto. Da quanto ricordava le aveva visto scendere alcune lacrime solo in un’occasione, quando qualcuno le aveva rubato una collanina che le era stata regalata da sua nonna. Fu solo grazie alle particolari percezioni di Thea che la ritrovarono insieme al fidanzato di Karen stesso, un giovane di ventidue anni del quale era difficile capire se fossero più ampie le sue spalle o la sua gentilezza; quella era stata la prima e unica volta che aveva dato seriamente retta alle sue percezioni, forse perché teneva davvero tanto a Karen e non poteva vederla piangere.

A Thea il ragazzo era stato subito simpatico e quando c’era anche lui nello studio, cosa rara purtroppo, già sapeva che in qualche modo avrebbe passato gran parte della seduta a ridere, facendo anche arrabbiare la povera Birgit che probabilmente si pentiva ogni giorno di aver permesso a Karen di poter ricevere di tanto in tanto una visita al lavoro dal ragazzo.

Birgit, Karen e Jan, il fidanzato di Karen, erano gli unici che avrebbe mai voluto incontrare in quello studio, anche se purtroppo ciò non era sempre possibile e alcune volte si era ritrovata altre persone che stavano lì per chiedere un rapido consiglio o la prescrizione di qualche farmaco, probabilmente tutti pazienti di Birgit stessa.

«Abbiamo dovuto rimandare di una settimana la partenza perché Jan ha ricevuto una proposta di lavoro e domani ha il colloquio» fu la risposta di Karen prima che la portasse verso la stanza dove Thea avrebbe trascorso l’ora successiva parlando di argomenti di quotidianità e rispondendo a delle semplici domande. Alla fine le loro sedute si erano ridotte a quello, quando non c’erano particolari eventi che potevano scatenare la sua bipolarità di cui parlare, anche se negli ultimi giorni anche i suoi incubi erano diventati fonte di discussioni, e la curiosità in merito espressa da Birgit aveva molto sorpreso Thea. Alla fine li aveva descritti come semplici brutti sogni di cui ricordava poco o nulla al risveglio, anche se in realtà le immagini che erano sempre le stesse e la loro nitidezza le facevano ricordare quasi tutto, e di conseguenza non si spiegava tanto interesse da parte della psicologa.

La donna dai corti capelli che avrebbero dovuto probabilmente essere castani con qualche striatura di grigio ma che invece erano stati completamente tinti di bianco sedeva dietro una scrivania scrivendo qualcosa al computer quando alzò lo sguardo e vide Karen e Thea sulla soglia della porta. Andando loro incontro dopo aver preso qualcosa dal cassetto allungò una mano davanti a Thea. «Ciao!» la salutò mostrandole il palmo dove erano poggiate tre caramelle incartate di gusti diversi. «Ne vuoi una?»

Thea respinse gentilmente l’offerta, ritrovandosi con lo stomaco chiuso al pensiero delle ultime notti insonne e suscitando uno sguardo preoccupato in Birgit, che sapeva quanto alla ragazza piacessero i dolci.

«Ancora un’altra notte in bianco?» chiese iniziando a guardarla con occhio clinico e quasi annuendo in risposta alla sua stessa domanda, forse notando lo sguardo vagamente stanco di lei.

Thea annuì andando a sedersi sulla poltrona dopo aver salutato Karen, la quale aggiunse che doveva dopo parlarle in merito al nuovo libro che stava leggendo e che forse poteva interessarle. Rimasta sola con Birgit, che intanto si era seduta su una sedia accanto alla poltrona, guardò la sua psicologa. «E mi sono di nuovo addormentata in classe» ammise con aria colpevole.

«Mi sembra naturale» fu la risposta. «Anche se i tuoi incubi non ti lasciando prendere sonno la notte alla fine il tuo fisico non regge durante la giornata successiva. Ricordi qualcosa questa volta?»

Thea mentì scuotendo la testa. «Però quando mi addormento in classe non ho incubi» aggiunse.

«Forse perché non ti addormenti profondamente, restando comunque abbastanza vigile da poterti risvegliare appena senti qualcosa di inconsueto, come qualcuno che ti tocca la spalla o una voce che ti chiama. In sostanza non entri nella fase REM del sonno, quella accompagnata dai sogni.»

Thea le diede credito, e infatti altre volte le era capitato di svegliarsi quando qualcuno la richiamava o quando l’autobus su cui s’era appisolata annunciava l’arrivo in una qualche fermata. «Non c’è un modo per cui io possa evitare questi incubi?» chiese infine. Iniziava a essere stanca di dover trascorrere intere notti sveglia, e quelle visioni le facevano troppa paura, considerando gli eventi passati.

«Potrei prescriverti qualche sonnifero, certo, ma ci sono diversi effetti collaterali da tenere a mente e per una ragazza di quindici anni non mi sembra il caso una soluzione tanto drastica.»

Thea annuì, rendendosi conto che quella doveva proprio essere l’ultima opzione possibile per evitare altre notti in bianco. «E cosa mi consigli per non avere più incubi?»

Birgit parve pensarci per un attimo. «Ci sono diversi modi per conciliare il sonno e i sogni, anche se la loro efficacia dipende anche dagli individui e potrebbero servire alcuni tentativi» iniziò a spiegare appoggiandosi allo schienale della sedia e accavallando le gambe. «Ascoltare della musica rilassante, leggere e provare alcune tisane calmanti come la camomilla potrebbe aiutare. Gli incubi possono derivare soprattutto da stati di ansia e stress, oltretutto, quindi potresti anche aver accumulato eccessivo stress in questi giorni.»

Thea ripensò agli ultimi avvenimenti e non le venne in mente nulla che poteva averla stressata in qualche modo, anche se doveva ammettere che si impegnava anche fin troppo per mantenere una media alta a scuola, motivo per cui tendeva a sentirsi dispiaciuta quando otteneva voti inferiori alle sue aspettative. Lo spiegò alla sua psicologa, che annuì. «Anche questo potrebbe spiegare gli incubi. Considerando la tua media scolastica potresti chiedere ai tuoi genitori di rimanere un paio di giorni a casa senza pensare allo studio e limitandoti ad attività per te rilassanti, come leggere o scrivere. Qualche tempo fa mi avevi detto che ti piaceva scrivere, no?»

«Sì» ammise Thea arrossendo leggermente. Non si vergognava ad ammetterlo, ma non osava neppure ancora definirsi una vera e propria scrittrice e credeva di dover migliorare molto. Fino a quel giorno le era capitato di pubblicare qualche breve storia online, ricevendo anche diversi commenti positivi e qualche critica costruttiva. Il suo sogno, però, era quello di riuscire a pubblicare qualcosa con qualche casa editrice, ma ancora non osava provare a inviare nulla non sentendosi pronta.

Continuarono a parlare per il resto dell’ora, passando per diversi argomenti fino alla domanda che oramai Thea si aspettava sempre quando andava nello studio. «Ci sono stati eventi che ti hanno provocato rabbia dall’ultima volta che ci siamo visti?»

«No, e non ho avuto altri scatti d’ira» rispose lei con una punta d’orgoglio, anche se pure questo le dava da pensare. La sua bipolarità era nettamente diminuita dall’inizio degli incubi, cosa cui non aveva ancora accennato a Birgit perché prima voleva esserne assolutamente certa, come il senso di angoscia provocato da quei sogni le impedissero anche di provare altre sensazioni come la sua inspiegabile rabbia. Era comunque convinta che prima o poi la psicologa se ne sarebbe accorta, o avrebbe pensato che le mentisse, quindi pensava di far trascorrere quella settimana prima di parlargliene.

Terminata la seduta, Thea ringraziò dirigendosi verso l’uscita e notando Karen alle prese con la lettura di un libro che riconobbe come un testo dell’università, ricordandosi che Karen diceva di saltarsi una sessione di esame per il viaggio imminente. «Alla fine dai un esame questa settimana?» le chiese avvicinandosi alla giovane.

«Ne approfitto per portarmi avanti» rispose lei quando si sentì il suono del campanello, che lasciò un attimo perplessa la ventenne. «Per almeno un’ora non c’erano altri appuntamenti» commentò lei andando ad aprire e cambiando espressione sulla soglia della porta. Thea corrucciò la fronte, per poi aprirsi in un ampio sorriso quando un giovane di bell’aspetto dai corti capelli neri e gli occhi verdi dietro un paio d’occhiali entro salutandola. Vestito in maniera casual, spiccava come unico ornamento un piccolo orecchino sull’orecchio sinistro.

«Jan!» Lo salutò lei andandogli incontro e abbracciandolo. Era forse l’unica persona con cui si slanciasse in quegli eccessi di affetto, che ormai a stento riservava anche ai suoi genitori. Thea era figlia unica e Jan per lei non era solo un amico, ma ormai rappresentava il fratello maggiore che non aveva mai avuto, e il rapporto con lui era ancora più stretto di quello che aveva con Karen.

«Ciao Thea!» disse lui in risposta, cingendola con le braccia. In seguito a quel gesto, Thea poté notare che il ragazzo stringeva un pacchetto tra le mani, portandola a guardarlo con occhi curiosi.

Jan non smise di sorridere, mostrandoglielo ancora incartato. «Non ho dimenticato chi compie gli anni la settimana prossima» esordì quando la ragazza lo prese. «Se fossimo partiti come avevamo previsto te lo avrei dato proprio al tuo compleanno, ma visto che non ci potremo vedere ho pensato di passare a consegnartelo oggi, ma tua madre ha detto che stavi da Birgit.» Sembrava piuttosto imbarazzato nel dirlo, forse perché sapeva quanto Thea si vergognasse quando la cercavano a casa e sua madre, a volte fin troppo sincera, non esitava a dire che sua figlia stava dalla psicologa. Thea comunque non gli stava dando troppo peso, essendosi trattato di Jan, e ringraziò mantenendo un ampio sorriso. «Penso di non aver mai corso così tanto in moto» aggiunse guardando Karen con aria colpevole.

«E con la fortuna che hai ti avranno fatto almeno tre multe» rispose lei battendogli un paio di volte la mano sulla spalla.

«Avevo paura di mancare Thea!» si giustificò lui.

Thea li guardò divertita, poi si concentrò sullo scartare il pacchetto che, dalla consistenza, pensava di aver già intuito di cosa si trattasse. Come si aspettava era un libro, ma quel che la colse di sorpresa fu il nome dell’autrice. Gli occhi che le si illuminarono per la felicità vennero portati in quelli verdi di Jan. «Come sapevi che mi sarebbe piaciuto?» chiese. Katrina Krogh era la sua scrittrice preferita, autrice di libri che passavano dal fantasy al fantascientifico, spesso con l’inserimento di diverse indagini degne del miglior giallo e la appassionavano ogni volta. Quel romanzo era l’ultimo che aveva pubblicato e da quanto ricordava non aveva mai neanche accennato alla sua scrittrice preferita con Jan o Karen.

Il ragazzo la guardò con sguardo colpevole. «Veramente ho chiesto consiglio a tuo padre» ammise con un piccolo tentennamento.

Karen e Jan conoscevano i suoi genitori, aveva stretto un così bel rapporto con loro che un paio di volte li aveva anche invitati a casa sua, forse gli unici amici con cui ci fosse mai riuscita a parte Ellen, la sua migliore amica e, fino all’incontro con i due fidanzati, probabilmente anche l’unica. Non che non andasse d’accordo con gli altri suoi coetanei, ma il rapporto a scuola tendeva a essere un po’ troppo distaccato e si limitava agli aiuti con lo studio che dispensava più qualche breve uscita dove finiva sempre con il mettersi in disparte, troppo timida anche solo per provare a inserirsi nelle discussioni altrui. Non sembrava che questo suo atteggiamento desse fastidio agli altri, così come a volte le era capitato anche di ricevere delle dichiarazioni, ma era Thea stessa a odiarsi per il suo carattere troppo chiuso in se stesso senza riuscire mai veramente ad aprirsi. Di recente aveva anche iniziato a declinare qualche invito a uscire con altre ragazze, mentendo sulla salute di sua madre che aveva bisogno d’aiuto a casa avendo l’influenza e implorando il genitore di coprirla fingendosi davvero malata se qualcuno avesse chiesto di lei. Sapeva che sua madre l’avrebbe accontentata, nella sua breve vita aveva sempre cercato di non farle mancare mai niente, anche se non si era risparmiata con le domande. E quello era stato il momento in cui le aveva confessato degli incubi, asserendo che si sentisse troppo stanca per uscire e preferiva rimanersene a casa, anche se si poteva definire una mezza verità.

Con il suo regalo ancora stretto tra le mani, Thea salutò animatamente i due ragazzi e Birgit, che nel frattempo si era affacciata probabilmente incuriosita dalle loro voci, uscendo e iniziando la sua camminata verso la stazione dell’autobus per poter tornare a casa. Non vedeva l’ora di mettersi a leggere e provare a scrivere qualcosa sulla nuova storia che aveva in programma, forse la più complessa cui avesse mai pensato, e della quale non aveva ancora bene in mente un reale svolgimento. Il fantasy era senz’ombra di dubbio il genere cui eccelleva nei suoi racconti, perdendosi nella creazione di mondi fantastici che la isolavano dalla realtà e immedesimandosi in quei personaggi incredibili che erano nati nella sua testa. Metteva sempre una parte di sé in quel che creava, che fossero paesaggi rispecchianti il suo stato d’animo mentre scriveva o personaggi che condividessero alcuni suoi lati caratteriali; in questo modo sentiva quelle storie più sue e personalizzate.

Non dovette attendere molto l’autobus, sul quale salì trovando un posto dove sedersi e già cominciare a sfogliare quel libro che teneva gelosamente come il più prezioso dei tesori. Non era molto abituata a ricevere regali di compleanno a differenza dei soliti libri che le regalavano Ellen e i suoi genitori e i vari vestiti che le compravano gli altri suoi parenti; ormai il suo compleanno neanche lo festeggiava più se non uscendo con l’amica per mangiare fuori, e sorbendosi costantemente le sue ramanzine sul doversi trovare prima o poi un fidanzato e altri amici con cui condividere quel giorno o rischiava seriamente di rimanere sola tutta la vita; Thea, come suo solito, le rispondeva che finché aveva lei non le interessava di avere altri amici, o fidanzarsi, anche se da qualche giorno aveva pensato di invitare Jan e Karen, rimanendoci un po’ male quando la ragazza le aveva annunciato la posticipazione della sua vacanza. Con quest’ultimo pensiero in testa chiuse un attimo gli occhi, il libro ancora appoggiato sulle ginocchia e aperto alla prima pagina, addormentandosi.

 

Morte. Distruzione. Fuoco. Fiamme che divampavano ovunque e avvolgevano l’intero quartiere di una città non riconosciuta, con gli sfortunati abitanti che cercavano una via d’uscita da quell’inferno, gridando di terrore. Un bambino piangeva dinnanzi al muro di fuoco, abbracciato a un uomo, invocando la madre e un nome che non riconosceva, mentre lei da semplice spettatrice se ne rimaneva impotente a guardare.

E poi lo vide.

Un giovane dai capelli biondi usciva dalle fiamme portandosi sulle spalle una bambina, mentre una ragazza si lasciava trascinare dal braccio di lui, incapace anche di camminare. Dietro, la misteriosa apparizione di una bella donna la cui chioma dorata sembrava aver imbrigliato la luce del sole stesso, riflettendola sul giovane e aprendo le fiamme al suo passaggio. Il ragazzo senza nome, infine, cadde a terra stremato e immediatamente soccorso da altre persone che constatarono come tutti e tre fossero sopravvissuti, ignorando completamente la presenza eterea che, invece e in un modo che le parve alquanto misterioso, sembrò notarla e sorriderle, arrivando anche a parlarle.

«Non rinnegare ciò che sei e ciò che potrai essere, giovane Thea.» La sua voce non pareva provenire dalla bocca che si muoveva a malapena, ma ridondava tutto intorno a Thea, come una lontana eco. «Fai tesoro di questo e ricorda come il coraggio può portare la luce anche dove c’è solo oscurità.» Nel pronunciare quelle ultime parole, la donna indicò il ragazzo che intanto pareva essersi ripreso e veniva praticamente trattato da eroe, sebbene il suo sguardo fosse quasi perso nel vuoto mentre parlava con l’uomo e il bambino, i quali si misero a piangere abbracciando la piccola appena salvata. A quel punto Thea ipotizzò che la bambina era la sorella del bambino, e che sua madre doveva essere morta invece nell’incendio.

Quando tornò a guardare la figura con la speranza di poterci parlare, essa era scomparsa e pian piano la visione seguì lo stesso destino dissolvendosi.

Svegliatasi quando l’autobus si fermò, Thea non si era neanche resa conto del suo essersi addormentata e per poco non perse la fermata, scendendo quando le porte si stavano richiudendo e andando verso casa. Salite le due rampe di scale, ancora preoccupata per quello strano sogno così diverso dai suoi soliti incubi, entrò salutando sua madre che si apprestava a preparare la cena con il televisore aperto su un canale dove stava andando in onda l’edizione speciale di un telegiornale, mostrando le immagini di una città che Thea riconobbe come Londra. Le scritte che andavano in sovrimpressione dove stava parlando il giornalista riportavano: “Misterioso incendio nel quartiere londinese di Southwark, da definire il numero di morti e dispersi, si pensa alla causa dolosa.”

Mentre scorrevano le immagini di chi era riuscito a scampare alla tragedia, il libro scivolò dalle mani della ragazza, incredula dinnanzi a quel che stava vedendo. A parte qualcuno più fortunato, quasi tutti gli edifici della zona erano ridotti a un cumulo di macerie e i danni si potevano vedere anche sul Tower Bridge, fin dove le fiamme erano divampate; a essere intervistata era una ragazza dai lunghi capelli rossi che viveva proprio in quel quartiere, stringendo la mano a un giovane biondo che Thea non faticò a riconoscere, lo stesso ragazzo del suo sogno. E anche lei, che era stata chiamata semplicemente Victoria M. non poteva che essere la ragazza salvata da lui.

Thea cadde in ginocchio, pietrificata da un terrore che non credeva potesse essere reale, mentre il giornalista passava al giovane che venne chiamato Julius, il fidanzato di Victoria, facendogli gli elogi per il coraggio mostrato nel salvare lei e la bambina più alcune domande sui motivi di quel rischio. Thea però non stava quasi più ascoltando, tenendosi le mani sulla testa e balbettando frasi sconnesse tra loro sull’impossibilità di quanto le stava accadendo. Prima di quel giorno una parte di lei aveva sempre voluto credere di avere un vera e propria capacità, un sentimento infantile maturato in quegli anni di continue percezioni e dalla sua passione per il fantasy che amava leggere, ma mai si era resa conto di quanto avrebbe potuto spaventarla se quella possibilità si fosse concretizzata, e forse pur non ammettendolo inconsciamente si stava dicendo che fossero solo coincidenze; prima di quel giorno, dopotutto, non aveva mai realmente visto nulla, ma solo percepito la morte del padre di Ellen o l’aereo disperso. Urlò tutta la sua paura in un unico e alto grido, evidentemente spaventando la madre che lasciò la cucina precipitandosi da lei con aria atterrita e abbracciandola, chiedendole cosa non andasse, ma Thea faticava anche solo a comprendere le sue parole, la testa piena di quelle visioni. Perché se l’incendio era stato reale, quanto dei suoi incubi si sarebbe verificato?

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Capitolo 5
*** Conseguenze ***


Julius rimase con calma ad ascoltare l’uomo che si era presentato come Merlino. Victoria era stata portata in ospedale per degli accertamenti ma a parte qualche lieve ustione ne era uscita miracolosamente illesa, anche se il giovane credeva che parte del merito andasse alla Dama del Lago, o Nimue come Merlino l’aveva chiamata. Stesso era accaduto per la bambina, anche se Julius continuava a rivedere i volti in lacrime del marito e del figlio della donna morta prima che potesse arrivarci e sapere che almeno la piccola s’era salvata non sembrava essergli di consolazione. Lui non era mai stato un eroe e non avrebbe dovuto fingersi tale con quelle parole mosse più da egoismo che da un verso senso d’altruismo. L’unica reale cosa a cui aveva pensato era stata che comunque sarebbe entrato a cercare Victoria e che quindi poteva anche provare a trovare madre e figlia, ma non era mai partito con la reale intenzione di salvarle, solo con l’idea che fosse un compito aggiuntivo al suo egoistico scopo personale. L’aveva forse presa per una missione secondaria di un videogioco?
«Ci penso io» mormorò, dando un violento pugno al muro carico di tutta la sua frustrazione, gli occhi arrossati dalle lacrime che fino a poco prima gli stavano scendendo a rigare le guance. «Come ho fatto a essere così arrogante ed egoista?» urlò infine tutta la sua rabbia.
O’Brian gli si avvicinò posandogli una mano sulla spalla. «Non è stata colpa tua» si limitò a dire.
«Ho detto che le avrei salvate entrambe» rispose Julius voltandosi verso il professore, gli occhi che di nuovo si stavano inumidendo. Forse l’ultima volta che aveva pianto così tanto risaliva alla morte dei suoi genitori.
«Hai salvato la bambina» provò a intervenire Merlino, che venne immediatamente fulminato con lo sguardo da Julius.
«Ma avrei dovuto salvarle entrambe!» sbottò il giovane.
«Non si può sempre salvare tutti, Julius, questa è la cruda realtà.» Julius si voltò verso il computer aperto sull’unico tavolo del salone nell’appartamento di O’Brian, da dove proveniva la voce. Sullo schermo appariva la finestra di un programma per fare videochiamate e il volto di un ragazzo che poteva avere due o tre anni in più, una rada barba scura e capelli corvini. Parlava un buon inglese, seppur con una cadenza che tradiva il suo essere francese.
«Tu non eri presente, non hai visto quel che ho visto io!» Julius non voleva saperne di essere consolato, non credeva di meritarselo. Aveva peccato di superbia e quello era il risultato.
«Forse hai ragione, non posso sapere quel che hai vissuto, ma pur continuando a struggerti per quell’unica vita che non sei riuscito a salvare continui a comportarti da egoista.» La voce di Edgard, così si era presentato, risultava molto accusatoria alle orecchie di Julius, che lo guardò interrogativo. «Pensaci per un attimo. Hai detto di non essere riuscito a salvare quella donna, ma è forse stata l’unica vittima dell’incendio? Quante famiglie credi che abbiano perso i loro cari? Il conteggio delle vittime sta diventando immenso, molti sono i dispersi che si spera di ritrovare in vita e tanti ancora che hanno riportato danni permanenti! Pensare a quell’unica donna morta non è forse da egoisti?»
Julius si asciugò le lacrime, cercando di calmarsi. L’avevano definito un vero eroe quel giorno, ma se davvero lo fosse stato avrebbe salvato anche la donna, o questo pensava prima di sentire la parole di Edgard che, pur non volendo ammetterlo, aveva ragione. Un vero eroe non avrebbe proprio permesso che ci fossero vittime. Lui non era mai stato un eroe, la sua stessa sopravvivenza, quella di Victoria e della bambina, le doveva a qualcun altro.
«Se sono vivo è solo grazie alla Dama del Lago, non sono e mai sarò un eroe» disse in un sussurrò. «E se poteva salvare me» aggiunse alzando il tono di voce. «Perché non ha salvato anche altri? Ci sono state tantissime vittime, è vero, ma noi tre siamo riusciti a sopravvivere. Io non ho praticamente veri e propri amici, e come parente ho solo mio nonno. In pochi avrebbero pianto la mia morte e invece molte famiglie sono state distrutte.»
«Ti ha salvato perché sa chi sei, e cosa sei destinato a compiere.» La voce di Merlino ebbe l’effetto del sale sulle ferite aperte per Julius.
«Quindi sono vivo solo grazie al destino che fu scelto per me ancor prima che nascessi?» La rabbia divampò nuovamente nel suo cuore. «Bene, se dunque per questo motivo altri sono dovuti morire ho una ragione in più per non prendere mai Excalibur! Da quando qualcun altro ha deciso la mia strada non ho mai veramente avuto alcuna felicità. Non credo la morte dei miei genitori sia collegata, ma l’essere tormentato da quei sogni per tutta la vita e da bambino sentirsi dire che erano solo incubi, anche se li avevo praticamente ogni notte… E ora quest’incendio e tutte queste morti…» Julius regolarizzò il respiro, rendendosi conto che aveva di nuovo iniziato a urlare. Quando finalmente fu calmo guardò i presenti uno a uno, poi spostò gli occhi sull’orologio digitale che aveva al polso. «Io vado a trovare Victoria e sentire come sta» disse incamminandosi verso l’uscita.
«E dopo che farai?» La voce di Edgard lo fece fermare sulla soglia della porta.
«Dopo non vorrò più sentire parlare di questa storia, di Excalibur, di Merlino, di Arthur Pendragon o Camelot.» Non era riuscito a dire loro quel che la Dama del Lago gli aveva chiesto, quel favore sul proteggere una certa Jeanne che non sapeva neanche chi fosse. Forse sperava davvero che non avrebbe più sentito parlare di tutto quello e che la sua vita sarebbe tornata alla normalità.
 
Merlino sospirò. Tante volte si era immaginato l’incontro con l’erede del suo Re, ma non aveva mai pensato a quanto il carattere potesse differire da quello del sovrano di Camelot e primo possessore di Excalibur. In parte comunque poteva capirlo e un po’ gli ricordava l’incredulità di Arthur quando fu lui a estrarre la spada di Uther, iniziando la propria leggenda. «E ora cosa facciamo?» chiese Edgard, strappando Merlino a quei pensieri.
«Dobbiamo accelerare i tempi. Trovare Durlindana prima che sia troppo tardi.» Lo sguardo di Merlino era piuttosto eloquente mentre guardava il volto del giovane attraverso lo schermo del computer.
«Ho letto più volte la storia dell’Orlando Furioso di Shakespeare e tutto ciò che fu teorizzato dai vari storici sulla sua ubicazione, però potrei aver bisogno di una mano con il tuo teletrasporto.» Anche con l’assenza di Julius, Edgard e Merlino avevano continuato a parlare inglese per far comprendere meglio a James O’Brian, che si limitava ad ascoltarli. «Si tratterebbe di cercare in due posti ben distanti tra loro e con la tua magia farei prima. Anche se mi preoccupa Fafnir.»
«In che senso?» Merlino era sempre stato curioso di sentire i pareri di Edgard, che tra i tre che aveva avuto modo di conoscere di persona e l’ultima, la spagnola, con cui non era ancora riuscito a prendere contatto, gli sembrava il più calmo e riflessivo. Forse ciò grazie anche all’età più matura rispetto ai sedici anni di Julius e i quindici di Jeanne.
«Fafnir compare nella mitologia nordica e in quella germanica, in entrambe viene sconfitto dalla spada Gramr, appartenuta all’eroe conosciuto come Sigurd per i norreni e Siegfried per i germanici» spiegò Edgard. «E ha detto chiaramente che incontrarti non era tra i suoi compiti, giusto?»
Merlino annuì. «Dove vuoi arrivare?»
«L’incendio a Southwark mi ha fatto pensare molto e sono giunto a una conclusione che poteva essere tanto scontata da non essere notata subito.» Edgard fece una breve pausa, poi fisso i suoi occhi in quelli di Merlino. «Chiunque sia colui che vuole portare l’oscurità in questo mondo… Sa di noi?»
Merlino fu improvvisamente colto da una consapevolezza, un fatto che come diceva Edgard non aveva mai attraversato la sua mente, forse proprio perché fin troppo scontato. «Intendi forse dire che l’obiettivo del piromane fosse Julius?»
«Sì, o il fatto che Victoria abitasse in quel quartiere sarebbe una strana coincidenza. Pensandoci bene il tutto assume un senso, Julius vive da solo con il nonno e non esce mai con i suoi amici» e nel dirlo mostrò il dito indice per formare un uno, come stesse per fare un elenco. «Victoria al contrario sembra avere diverse amiche, almeno da quanto afferma Julius, e quando non esce con lui si ritrova con loro.» Formò un due con l’indice e il medio. «I nostri nemici non sono onniscienti e hanno solo informazioni sommarie su di noi, senza conoscere le nostre abitudini o le nostre residenze nello specifico.» La mano formò un tre, aggiungendo l’anulare.
«Hanno scoperto dove abitava Morrison per attirare Klein e poterlo attaccare!» disse James inserendosi nella conversazione.
Edgard annuì. «È proprio quello che penso anche io, ma visto come stava andando la discussione non ho voluto renderlo partecipe delle mie supposizioni. Allo stato attuale dunque dovremmo fare più attenzione a quando ci muoviamo e radunare gli altri prima che sia troppo tardi, anche se non sarà facile né trovarli né reperire le spade, anche perché tre sono ancora sconosciuti.»
«Quindi Jeanne che ha già preso Gioiosa potrebbe essere in pericolo.» Merlino quasi non si rese conto di aver espresso quel pensiero involontario ad alta voce.
«Lei è l’ultimo dei miei pensieri al momento» rispose però Edgard suscitando altri sguardi curiosi che sembrarono farlo sorridere. «Mi duole ammetterlo ma la situazione di senzatetto di Jeanne potrebbe salvarle la vita, non avendo una fissa dimora e di conseguenza una routine quotidiana sarà più difficile trovarla. Fafnir invece poteva star cercando il possessore di Gramr per ucciderlo prima che prenda la spada, quindi forse era diretto nella penisola scandinava.»
«È difficile stabilirlo, non abbiamo prove che i possessori delle spade nascano nei paesi di origine delle stesse, o nel luogo dove esse si trovino, o dei loro predecessori.» Merlino osservò Edgard, notando che c’era altro che sembrava turbare il ragazzo e sollecitandolo a parlare.
«È solo una supposizione ma… Cosa sappiamo realmente di Jeanne?»
La domanda colse alla sprovvista Merlino. «È una ragazzina molto sveglia e capace, ottimista nonostante la non facile vita che ha avuto e praticamente negli ultimi anni l’ho cresciuta io.»
«Capisco.» La voce di Edgard non sembrava molto convinta in quella risposta ma non aggiunse altro in merito. «Ora devo andare, ma prima riusciamo a raggiungere Durlindana meglio sarà. Ho un brutto presentimento riguardo a questa storia.»
«Allora possiamo andare domani, oggi proverò ad andare a Barcellona entrando in contatto con la quarta.»
Chiusa la chiamata, gli occhi di Edgard si posarono sui fogli che aveva davanti, raffiguranti diverse pagine stampate da internet e prese da molteplici libri di mitologia e storia. A completare il tutto alcuni articoli di giornale sulle esposizioni al Louvre e sui tesori di Vienna, e gli argomenti erano gli stessi tre, la spada Gioiosa, Carlo Magno e il Cavaliere della Tavola Rotonda Lancillotto. In tutti si riportava praticamente la stessa notizia, che i tre luoghi dove si pensava la spada Gioiosa fosse conservata erano il Louvre, tra i tesori imperiali di Vienna o nella tomba di Carlo Magno, suo ultimo possessore. «Cosa può significare?» mormorò pensieroso.
 
«Quando potrò andare a casa?» la voce di Thea era appena un sussurro mentre guardava sua madre seduta accanto al letto della sua stanza d’ospedale.
«Vogliono tenerti in osservazione almeno fino a domani, poi ce ne andremo, te lo prometto» fu la risposta espressa con un sorriso in cui Thea scorse comunque un pizzico di tristezza.
Dopo essere quasi impazzita dinnanzi alle immagini del telegiornale avevano raccontato a Thea che era praticamente collassata a terra priva di sensi, in un sonno che per sua fortuna non aveva portato altri incubi, ma pur avendo dormito per circa quattro ore dallo svenimento non riusciva a sentirsi riposata. Le immagini di quell’incendio vissuto da spettatrice erano ancora vive nei suoi ricordi, così come lo era la prima cosa che aveva visto dal suo risveglio, attraverso la finestra della sua stanza. L’occhio incombeva sulla città, andando a delinearsi con il trascorrere del tempo, lo stesso occhio protagonista dei suoi incubi. Spaventata da quella visione aveva chiesto a sua madre di guardare in quella direzione, ma lei non sembrava in grado di vederlo e aveva detto che la stanchezza e il trauma ricevuto dovevano averle causato un’allucinazione, ipotesi condivisa dai medici. Inizialmente anche da lei stessa aveva pensato così, ma quella cosa cui non riusciva a dare un nome continuava a rimanere fissa nel cielo illuminato dai raggi del tramonto.
Nei suoi incubi esso circondava il sole, che prendeva il posto di una pupilla altrimenti assente, ma doveva essere solo una casualità e ora con l’arrivo del crepuscolo poteva vederlo per quel che realmente era, un ovale a tratti irregolare composto da puro fumo nero, anche se pareva in costante movimento, come se la sostanza che lo componeva continuasse a ruotare in maniera quasi impercettibile. Sospirò, chiudendo gli occhi e provando a riprendere sonno con la flebile speranza che l’indomani tutto potesse andare per il meglio, con l’ovale scomparso, gli incubi finiti e la sua vita tornata alla normalità.
Dovette essersi realmente addormentata perché quando riaprì gli occhi sua madre non c’era più e le luci rossastre del tramonto erano state sostituite dall’oscurità della notte, l’illuminazione dei lampioni e sul cielo campeggiava la falce della luna. Però l’ovale continuava a stare là, circondato dai puntini luminosi delle stesse, in uno scenario che ebbe l’effetto di causare ancor più inquietudine in Thea.
Provò a mettersi seduta, facendo dondolare i piedi scalzi dal bordo del letto e portandosi una mano alla tempia, sentendosi la testa esplodere per tutto ciò che era successo fino a quel momento. I capelli neri, normalmente tenuti legati in una coda di cavallo, erano sciolti e le ricadevano fino alla base della schiena coperta solo dal tessuto fin troppo leggero del pigiama e provocandole una sensazione simile a quella del solletico.
Thea digrignò i denti, percependo dentro di sé una rabbia che sapeva non le apparteneva, che non poteva essere di una ragazza tendenzialmente così mite e chiusa in se stessa come lei, eppure si sentiva arrabbiata per un motivo ignoto. Strinse i pugni dandosi alcuni lievi colpi sulle gambe nel tentativo di calmarsi, facendo anche profondi respiri per rallentare il battito cardiaco che aveva iniziato ad accelerare in maniera preoccupante. Nulla sembrava fare effetto, finché una musica non iniziò a riempire l’intera stanza, portandola a guardare il secondo letto dove una ragazza forse sua coetanea la fissava, il cellulare tra le mani che stava riproducendo quella canzone che Thea non riconobbe, ma che ebbe l’incredibile potere di rasserenarla.
Si alzò e con passo incerto si avvicinò al letto dell’altra paziente di quell’ospedale. «Eri arrabbiata per qualche motivo?» chiese lei con voce che lasciava traspare una pura e innocente curiosità, forse un po’ troppo acuta e più simile a quella di una bambina piuttosto che quella di una quindicenne, così come quasi infantili erano i suoi grandi occhi marroni e le due codine nelle quali erano legati i capelli castani. Thea si ritrovò a pensare che in quell’infantilità mostrata la ragazza fosse anche molto graziosa.
«Io… Penso di sì, ma non so cosa mi facesse così arrabbiare» ammise Thea, che non riuscì nemmeno a trovare un modo per mentire dinnanzi a lei.
«A volte capita anche a me, però da quanto sento questa canzone mi tranquillizzo» rispose lei esibendosi in un ampio sorriso innocente.
«Chi sono?» chiese Thea non riconoscendo il gruppo.
«Si chiamano Solar Eclipse» rispose lei. «Stanno diventando piuttosto famosi ultimamente e il chitarrista è bravissimo.» Nel presentarlo, la ragazza aveva indicato il volto di un ragazzo nell’immagine di copertina della canzone riprodotta dalla rubrica musicale del telefono. Thea dovette riconoscere che era un bel ragazzo, sebbene i capelli lunghi sui maschi non le fossero mai piaciuti molto, dalla pelle ambrata e uno sguardo penetrante dal quale ne rimase attratta.
«Si chiama Clovis Rocha» continuò la ragazza. «Anche se ha un nome inglese il gruppo è brasiliano, ma ho sentito che faranno un concerto a Barcellona alla fine di questo mese e mi piacerebbe molto andarci anche se…» La giovane si interruppe e per la prima volta sembrò essersi intristita. Thea non ebbe il coraggio di chiederle nulla e attese che fosse lei a riprendere il discorso. «Non penso potrò andarci» disse lei infine. «A breve dovranno operarmi e probabilmente prima di Luglio non potrò uscire dall’ospedale.»
«Mi dispiace» riuscì solo a dire Thea, senza sapere come si sarebbe dovuta comportare in una simile circostanza.
«Però tu potresti andarci! Sempre se puoi e ti va, ma se dovessi riuscirci prometti che mi dirai come è stato?»
Thea rimase sinceramente spiazzata da quella richiesta, anche perché avrebbe dovuto prima di tutto chiedere ai suoi genitori se potevano portarla a Barcellona per quel concerto e pur sapendo quanto cercassero di non farle mancare niente non aveva nessuna idea del prezzo di un biglietto aereo per la Spagna. Non ebbe però il coraggio di esprimere quei dubbi alla ragazza che sembrava davvero dispiaciuta di non poter andarci, così fece un cenno d’assenso. «Va bene» acconsentì. «Io mi chiamo Thea!»
La giovane strinse la mano che Thea le aveva allungato. «Io sono Katrina!»
In quel momento un’improvvisa consapevolezza si fece largo tra i pensieri di Thea.
 
«Un caffè per il signore al banco» disse Beatriz rivolgendosi alla collega, mentre Merlino non perdeva alcuna occasione per scrutare con occhio attento colei che doveva essere un'altra predestinata a far risplendere la luce nell’Era Oscura. Sembrava una ragazza come tante, che lavorava per potersi pagare gli studi all’Università, con un carattere vivace, piena di energia e pareva sinceramente divertirsi a chiacchierare con i clienti, i quali parevano apprezzarla molto. Non aveva nulla di particolare, non mostrando né le spiccate doti riflessive e intellettive di Edgard, il carattere forte e un po’ difficile di Julius o la vita non certo rosea di Jeanne; quel pensiero metteva ulteriori interrogativi su cosa realmente accomunasse i Sette, e perché personaggi tanto differenti tra loro potessero essere le luci guida di quel mondo, un quesito rimasto insoluto per secoli, sin dall’inizio della sua ricerca. Forse non c’era un vero e proprio motivo dietro quel destino che li accomunava, forse era stato semplicemente il caso a prendere sette persone tra i diversi miliardi che popolavano la Terra e a decidere per sempre il loro futuro, volenti o nolenti.
Beatriz gli porse il caffè, ricevendo un distratto ringraziamento da parte dello stregone che si era intanto voltato a guardare il televisore acceso sul telegiornale della sera, riportante la notizia straordinaria dell’incendio di Londra e suscitando diversi commenti contrastanti tra gli spettatori. C’era chi si lamentava dell’enorme sviluppo tecnologico, soprattutto tra i più anziani avventori del bar, che poteva portare a simili conseguenze con un semplice cortocircuito secondo loro; chi invece se la prendeva con i piromani, che dovevano essere rinchiusi tutti in un manicomio; infine chi accusava il terrorismo, un fenomeno che in quella società sembrava essere preso troppo poco sul serio.
Merlino, che conosceva la causa di quell’incendio, non si intromise nelle loro conversazioni continuando a pensare a cosa potesse realmente essere successo e chi fosse il fautore di quell’attacco. Fafnir era da escludere, aveva combattuto contro di lui e non poteva esserne l’artefice e quindi c’era un secondo nemico a Londra che stava mirando a Victoria per attirare Julius. Se solo non fosse intervenuta Nimue a salvare l’erede di Arthur… Merlino non osava pensare alle conseguenze di uno scontro tra lui e Julius, che era sprovvisto di Excalibur.
“Se Edgard ha ragione e Fafnir stava andando alla ricerca di Gramr, l’unica persona che poteva attaccare Julius è…” Già dalla conversazione con Edgard stava pensando ai possibili artefici di quell’incendio e primo fra tutti era un nome che a distanza di secoli non credeva avrebbe più pronunciato. Possibile che fosse proprio lei?
Continuò a guardare il notiziario per qualche istante bevendo il caffè e di tanto in tanto facendo attenzione ai clienti che giungevano nel bar, sperando di non veder sopraggiungere qualche altro nemico alla ricerca di Beatriz, anche se non sapeva chi dovesse aspettarsi. Negli ultimi tempi aveva fatto le sue ricerche, scoprendo Julius come erede di Excalibur, Edgard di Durlindana e Jeanne di Gioiosa, ma ancora ignorava la spada che apparteneva a Beatriz, dunque neanche i suoi possibili “nemici naturali”.
Finalmente il servizio su Londra terminò, con la promessa di ricevere ulteriori aggiornamenti qualora ce ne fossero stati e si passò a quello che negli ultimi giorni era l’argomento principale di molte riviste e servizi televisivi: i Solar Eclipse avrebbero fatto il primo tour fuori dal Brasile, con prima tappa a Barcellona. Merlino, al quale la musica non gli era mai interessata neanche ai tempi di Camelot e tendeva a non apprezzare troppo i bardi, aveva da subito trovato interessante il nome scelto dal gruppo fondato dal loro chitarrista e da quando aveva appreso che sarebbero giunti a Barcellona aveva iniziato ad avere alcuni dubbi, senza mai riuscire a confermarli. Le sue energie lo stavano lentamente abbandonando ed andare in Brasile con la sua magia gli sarebbe costato decisamente troppo, avendo anche passato forse un tempo eccessivo in quegli anni con la piccola Jeanne, la prima dei Sette che era riuscito a trovare, pur non pentendosene minimamente ed essendoci ormai molto affezionato.
Si toccò il mento con fare pensieroso, gesto che gli era rimasto abitudinario sin da quando portava la barba lunga fino al petto e che si era dovuto rasare per adeguarsi ai tempi moderni. “Forse dovrei andare anch’io al concerto” pensò tornando a guardare Beatriz, che sembrava vagamente incuriosita da lui, giudicando gli sguardi che ogni tanto gli lanciava e che non erano sfuggiti allo stregone.
«Desidera altro?» gli chiese con tono gentile e disponibile.
Merlino scosse la testa. «No, stavo soltanto approfittandone per guardare un po’ il notiziario serale.» Aveva parlato in uno spagnolo impeccabile, nella speranza di non far notare le sue origini druidiche e ringraziando intimamente la sua esperienza millenaria che gli aveva permesso di apprendere quasi tutte le lingue del mondo, morte o ancora in circolazione.
«Brutta cosa quell’incendio, vero?» chiese d’un tratto Beatriz. «Ancora non riesco a credere come sia possibile che un intero borgo di oltre trentamila abitanti sia finito in quel modo.»
Anche Merlino faticava a crederci, nonostante ne conoscesse le cause. «Ha ragione» si limitò a dire con fare vago.
Il locale nel frattempo si era quasi del tutto svuotato, così Beatriz si rivolse alla collega. «Esco a fumare una sigaretta» annunciò prendendo un pacchetto di sigarette da dietro il bancone e iniziando a uscire dopo aver ricevuto un cenno di assenso dall’altra ragazza. Merlino decise di approfittarne andando velocemente a pagare il caffè (grazie alla magia aveva cambiato delle sterline in euro secondo il cambio corrente) e seguendola fuori, curioso di scoprire la sua reazione alla vista dell’ovale nel cielo. Se aveva ragione, infatti, Beatriz non aveva ancora avuto modo di osservarlo dalla sua apparizione quel pomeriggio, e dunque poteva essere l’occasione ideale per farle comprendere quale fosse il suo destino.
Uscito al fresco della sera, vide la giovane che fumava tranquillamente seduta a un tavolino d’alluminio, quasi contemplando le poche stelle che l’illuminazione concedeva di vedere. Notandolo, la giovane si voltò verso di lui facendo ondeggiare la lunga chioma castana e sorridendogli. «Non c’è bisogno di dire nulla, già so tutto.»
Merlino fu colto di sorpresa da quell’affermazione, che non fu pronunciata in spagnolo ma in un inglese diverso da quello contemporaneo, una lingua che non pensava avrebbe mai più sentito parlare e che lo fece tornare indietro nel tempo. Lo stesso inglese che si parlava ai tempi di Camelot.
«Secondo la mitologia nordica» continuò Beatriz come se non si fosse accorta dello stupore di Merlino. «Sigurd, o Siegfrid, si nutrì del cuore di Fafnir imparando a parlare con gli animali e sempre secondo quelle leggende i draghi potevano parlare tutte le lingue del mondo per ingannare gli umani.» Beatriz si alzò andandogli vicino per poi indicare il cielo e l’ovale. «Immagino che quello abbia a che fare tanto con l’incendio quanto con Gramr, la spada di Sigurd, vero?»
«È così» confermò Merlino senza sapere cos’altro aggiungere. Era stato James a spiegare tutto a Julius, così come lui aveva dovuto spiegare ogni cosa a Jeanne ed Edgard; non sapeva proprio come comportarsi con chi invece pareva già essere a conoscenza di ogni cosa. «Chiunque sia stato, mirava all’erede di Re Arthur Pendragon, il possessore di Excalibur» aggiunse solamente.
«Quindi sei qui perché temi che Fafnir possa mirare a me, come ha detto lui.» Beatriz stava sorridendo. «Ammetto che inizialmente ne ero spaventata, ma tutto ciò che mi è successo in questi anni sta iniziando ad avere un senso.»
«Fino a ora non sapevo neanche quale fosse la tua spada e, quindi, i tuoi possibili nemici» ammise lui con un sorriso imbarazzato. «Ma con chi hai parlato?»
«Non mi ha mai rivelato il suo nome e inizio anche a dubitare che fosse un essere umano» rispose lei scrollando le spalle. «Normalmente non avrei dato peso a una simile storia che sembra uscita fuori da un romanzo o un film fantasy ma dopo tutto quello che è successo e quel che ho visto mi è difficile rimanere indifferente.» Buttò la sigaretta ormai finita a terra. «E così assumerebbe un senso anche la storia dei Sette Altari.»
Merlino, che nel frattempo a sua volta stava per accendersi una sigaretta, si immobilizzò guardando la giovane allibito, incapace anche solo di parlare per la sorpresa e l’interrogativo che Beatriz aveva appena impresso nei suoi occhi.
Lei rise. «Sembra che io sappia qualcosa che tu non sai.»

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Capitolo 6
*** Alla ricerca di Durlindana ***


Più guardava Merlino, più notava che c’era qualcosa di strano in lui, come se avesse pensieri per la testa che lo preoccupassero. «Cosa stai pensando?» si decise infine a chiedergli Edgard.
«Ho avuto una strana conversazione con Beatriz ieri, l’erede di Sigurd» spiegò lui. «A quanto pare era già a conoscenza di tutto, qualcun altro deve avermi preceduto e non saprei chi possa essere, se è da considerarsi un alleato o se invece dovremmo tenerlo in considerazione come nemico.»
Edgard era certo ci fosse dell’altro, ma preferì non indagare oltre per non forzare troppo la mano di Merlino. Se persino lo stregone di Camelot era preoccupato significava che c’era davvero qualcosa di cui poter avere paura e forse era meglio che innanzitutto se ne occupasse lui chiarendo tutti i suoi dubbi. Riponeva molta fiducia in quell’uomo, nonostante non apprezzasse alcuni suoi modi d’agire, ma soprattutto lo rispettava.
Senza più menzionare quell’argomento i due viaggiarono con il teletrasporto fino a Rocamadour, nella speranza di trovare la spada; quella era l’opzione più plausibile secondo Edgard, che comunque avrebbe voluto evitarsi lo scandagliare del fondale marino alla ricerca della lama. «Se davvero Orlando l’avesse scagliata nel mare» aveva anche affermato «possibile che con tutte le ricerche nei fondali marini fatte dai sommozzatori e dai radar per i più svariati motivi nessuno l’abbia mai trovata?»
Merlino si era trovato in accordo con quel ragionamento, optando per raggiungere uno dei pochi borghi rimasti sulla Terra che non avevano subito grosse modifiche inseguito al boom tecnologico degli ultimi secoli e rimaneva un pezzo di storia non indifferente, sebbene ormai praticamente disabitato; nemmeno le poche centinaia di abitanti che lo popolavano intorno al ventunesimo secolo ormai erano quasi più presenti e il tutto lasciava al comune un’aria da “città fantasma”.
I segni del decadimento erano più evidenti in quelle abitazioni rimaste disabitate per secoli, tra la muffa che si vedeva sui muri, la polvere accumulatasi addirittura per le strade e alcune case divenute dei veri e propri ruderi. Edgard trovava incredibile che quello posto, che continuava a reputare comunque molto pittoresco grazie anche alla stupenda vista del paesaggio naturale che lo circondava, fosse stato un tempo luogo di pellegrinaggio e con una rilevante importanza religiosa.
Rocamadour era stato eretto a ridosso di un roccione e, nonostante in passato fosse per la maggior parte in pendenza sul latro di quella che era una collina, ora era quasi tutta in piano per effetto degli agenti atmosferici che avevano portato notevoli cambiamenti ambientali negli anni; gli stessi fenomeni che dovevano aver causato il crollo di molte abitazioni mal curate e che non avevano resistito a secoli di piogge e forti venti.
«Un tempo questa strada la percorrevano i pellegrini in ginocchio» commentò Edgard mentre al fianco dello stregone continuava a camminare lungo l’unica via del borgo fiancheggiata dalle poche abitazioni rimaste in piedi. Per tutto il tragitto non incrociarono nessuno né videro alcun movimento all’interno delle case ancora intatte, pur se malmesse, segno che davvero ormai il conteggio degli abitanti poteva essere considerato pari a zero.
Merlino si limitò ad annuire, forse perché già conosceva la storia di quel posto, ma non aggiunse altro portando Edgard a chiedersi se lui ci fosse già stato nel corso della sua fin troppo lunga vita. Alla fine non sapeva nulla del passato del suo compagno di viaggio, se non quel che aveva appreso attraverso le leggende e il Ciclo Arturiano, ma spesso il tutto veniva reso diverso da quel che era la realtà; la stessa figura di Merlino gli appariva in qualche modo differente da quanto descritto nei libri e nelle tradizioni orali. Si diceva dopotutto che Merlino fosse stato l’artefice dell’inganno di Uther Pendragon per dargli l’aspetto del duca di Cornovaglia e far concepire a Igraine suo figlio, Arthur Pendragon, ma per come Edgard fino a quel momento l’aveva conosciuto non lo reputava capace di una simile azione.
Merlino parve capire in qualche modo i suoi pensieri, facendo ricordare a Edgard che lo stregone poteva leggere nel cuore delle persone, ma si limitò a sorridergli. «A volte bisogna macchiarsi di crimini orribili per perseguire il bene della collettività» disse scrollando le spalle. «Non vado fiero di quanto feci a quel tempo, né lo rifarei una terza volta, ma era necessario per preservare la luce e ritardare l’avvento dell’Era Oscura.»
Edgard strabuzzò gli occhi. «Ma allora ai tempi di Camelot…» Non riuscì a completare la frase, incredulo.
Merlino si fermò, posandogli delicatamente una mano sulla spalla. «Non avrei voluto parlarne né con te né con Jeanne o Julius fino al ritrovamento di tutte e sette le spade» spiegò. «Ma è anche vero che non avrei mai sospettato che tra di voi ci fosse qualcuno con la tua arguzia, la tua curiosità e la tua indole a porti le domande giuste per trovare diverse risposte a tutti i tuoi dubbi.» Spostò lo sguardo verso la rocca che si intravedeva praticamente sin dal loro arrivo nel borgo, il castello ormai in rovina dove doveva essere nascosta Durlindana. «Quella che chiamo Era Oscura fu già evitata una volta, quando ancora esisteva Camelot, ma a quel tempo il processo non era avanzato come lo è in quest’epoca.»
«Ma se hai già evitato l’Era Oscura perché hai permesso che arrivassimo fino a questo punto?» Edgard era stanco di tutte le cose che Merlino fino a quel momento gli aveva tenuto nascosto, come il nome di colui che c’era dietro l’Era Oscura o il motivo per cui qualcuno potesse desiderare un’oscurità perenne sul mondo. Ora che avevano recuperato Gioiosa, trovato Excalibur e forse Durlindana e preso contatti con quattro dei Sette credeva fosse giunto il momento delle risposte, così come presto sarebbe giunto il tempo di combattere per la propria e altrui sopravvivenza.
«Non si poteva far nulla né per evitarla né per distruggere i suoi fautori, ma solo per ritardarla. Questo fu il mio compito sin dai tempi in cui servivo re Uther, concretizzatosi poi quando prestai servizio a Camelot con suo figlio Re Arthur.» La voce si era fatta più bassa e gli occhi sembravano esprimere una tristezza da troppo tempo celata agli sguardi; Edgard non l’aveva mai visto con quell’espressione, quasi come se il semplice parlare di quel periodo gli riportasse a galla ricordi che avrebbe preferito evitare. Dovette ammettere di sentirsi in colpa per la sua domanda, ma se era suo destino combattere brandendo Durlindana credeva anche fosse suo diritto sapere tutta la verità o comunque una sua buona parte. Già immaginava che Merlino non avrebbe detto proprio tutto, limitandosi alle informazioni più adatte al momento e che il resto lo avrebbe reso noto quando si sarebbe sentito pronto.
«Abbiamo provato a cercare il modo di fermarla in maniera definitiva» continuò lo stregone. «Io e Nimue, prima ancora della nascita di Arthur, sapevamo di un antico male che si stava risvegliando pur non conoscendone nome e obiettivi. La profezia dei druidi che seguimmo a quel tempo era incompleta e speravamo che il figlio di Uther fosse l’eroe di cui il mondo avesse bisogno per andare incontro a un futuro luminoso. Quello fu il nostro più grande errore e quando riuscii a rimettere insieme tutti i pezzi di ciò che era stato profetizzato ce ne rendemmo conto troppo tardi per porvi rimedio. A essere sinceri,» aggiunse poi ridacchiando «è stato l’incontro con Beatriz a darmi la parte mancante che non avevamo.»
«E perché non è possibile ritardarla anche ora?» chiese quindi Edgard.
«Perché ormai il nostro nemico si è fatto troppo forte o come a quel tempo anche oggi sarebbe bastata la semplice Excalibur ad adempiere a questo compito; Re Arthur non dovette mai affrontare Fafnir, per esempio, che ora è un nostro nemico.»
«Quindi visto che possiamo fermare per sempre l’Era Oscura hai preferito arrivare al punto di non ritorno per far risvegliare quest’essere che ci minaccia e poterlo distruggere» commentò Edgard non riuscendo a nascondere un sincero stupore per quella scelta. Non c’era davvero altro modo?
«A volte è necessario distruggere per poter creare un nuovo mondo dalle sue ceneri.»
Edgar scosse la testa. «Se me ne avessi parlato prima avremmo potuto trovare un altro modo, riunire Julius, Jeanne, Beatriz e gli altri due prima, accelerare la ricerca delle spade! E forse siamo ancora in tempo se recuperiamo Durlindana, incontriamo Jeanne e facciamo ragionare Julius!» Il ragazzo si sentiva improvvisamente animato da una flebile luce di speranza. Ora voleva sapere ogni cosa sull’Era Oscura e trovare un modo per impedirla definitivamente, non avrebbe permesso la morte di persone innocenti per le scelte fatte da uno stregone del passato e da un’entità immortale e ambigua come la Dama del Lago. Però stranamente non provava rabbia nei confronti di Merlino, solo una profonda tristezza.
«Sai già che è impossibile» rispose Merlino.
«Non lo sapremo mai veramente finché non ci proviamo e se anche non possiamo impedirla potremmo ridurre drasticamente le vittime. Non sarebbe comunque una prima vittoria? E iniziare sin da ora a combatterla non ci aiuterebbe quando l’Era Oscura giungerà?»
Merlino sembrò pensare seriamente a quelle parole. «E va bene, hai ragione come sempre, però prima recuperiamo Durlindana; poi ne parleremo insieme tu, io, Jeanne e James. Spero anche di riuscire a contattare anche Beatriz e convincere Julius.»
Finito quel discorso, Edgard e Merlino ripresero a incamminarsi iniziando a salire la lunga scalinata composta da gradini ormai consumati dal tempo come tutto in quel borgo, spesso irregolari e che rallentarono di molto la loro andatura, soprattutto per Merlino che sembrava iniziare a sentire l’affaticamento dovuto ai suoi molti secoli e alla magia che pareva lo stesse abbandonando. Più volte aveva ripetuto a Edgard che aveva vissuto ben più a lungo di quanto gli fosse concesso.
«Quindi alla fine Fafnir non stava andando da Beatriz?» chiese all’improvviso Edgard mentre si trovavano all’incirca a metà strada.
«Non possiamo saperlo con certezza, quando ho scoperto di Beatriz non avevo idea di quale spada fosse legata a lei. Io credo tu potresti avere ragione, ma magari neanche Fafnir sa che il possessore di Gramr si trova in Spagna e dunque ancora non l’ha trovata» fu la risposta di Merlino. «Ho comunque messo in guardia Beatriz chiedendole di fare attenzione e di chiamarmi se fosse successo qualcosa.»
Lo sguardo di Edgard fu piuttosto eloquente.
«Anche io ho dovuto adeguarmi a quest’epoca» disse quindi Merlino tirando fuori dalla tasca dei pantaloni il vecchio modello di un piccolo cellulare. «Anche se è stato più difficile del previsto imparare a utilizzare questa stregoneria.»
Edgard rise. «Parli proprio tu di “stregoneria”, Merlino, stregone di Camelot?»
La tensione accumulatasi per la discussione di poco prima sembrava essersi affievolita, come sempre accadeva quando i due erano in disaccordo su qualcosa e si ritrovarono addirittura a ridere entrambi. Nonostante ritenesse che fosse pieno di difetti e avesse fatto scelte sbagliate in passato, Edgard si era ormai affezionato a Merlino che lo iniziava sempre più a vedere come un compagno d’avventura e, forse, anche un compagno d’armi pur non avendo mai avuto modo di combattere fianco a fianco; Edgard non aveva proprio mai combattuto, così come non era mai andato in palestra e di certo non era il tipo che si cimentava in sport quali il pugilato o una qualsiasi arte marziale o di combattimento. In effetti temeva sempre il momento in cui avrebbe impugnato Durlindana per ritrovarsi a combattere battaglie sconosciute dove c’erano in gioco la sua vita e il destino del mondo stesso, ma cercava di non pensarci andando avanti per la sua strada.
Giunti nei pressi del rudere che un tempo era stato probabilmente un bellissimo castello, Edgard si fermò alzando lo sguardo al cielo privo di nuvole e cercando di evitare l’ovale nero che ancora incombeva sulle loro teste, ma senza troppa fortuna. Esso era ancora là, invisibile a occhi normali ma non ai suoi o a quelli di Merlino. «La Terra gira intorno al sole, ma allora come mai lo spirale rimane fisso nel cielo e non segue una qualsiasi orbita essendo visibile sia qua che in Inghilterra o in Spagna nello stesso punto?» chiese d’un tratto guardando lo stregone.
Merlino si indicò gli occhi. «In realtà c’è una spiegazione logica, sebbene potrebbe sembrare un po’ incredibile» iniziò a rispondere. «Il motivo per cui solo voi potete vederlo risiede nella magia delle vostre spade, che pur non stando con voi continuano sempre a guidarvi, i loro poteri sigillati nel Vuoto. Anche quell’ovale si trova fisicamente nel Vuoto, e voi potete vederne solo l’ombra che va pian piano definendosi con l’avanzare dei giorni. Dimmi, dalla sua comparsa hai mai provato a guardare il cielo voltando lo sguardo?»
Edgard rispose negativamente, poiché aveva proprio evitato di alzare gli occhi sin dalla comparsa di quel fumo nero, ma esortato dallo stregone provò a fare come gli si richiedeva, rimanendo a bocca aperta per lo stupore. «È sempre nello stesso punto, indipendentemente dall’angolazione o dal punto del cielo che guardo.»
Merlino annuì soddisfatto. «Non si trova fisicamente in questo mondo, come dicevo, e la vostra magia vi permette di osservarlo nel punto dove supponete inconsciamente che esso esista, spesso questo è il centro esatto del campo visivo, come capita a me.»
«Ma allora, se è legato anche all’immaginazione individuale, come abbiamo fatto a vederlo non sapendo cosa avrebbe portato l’Era Oscura?»
Merlino si toccò la tempia con un dito, indicandosela. «Voi lo sapevate e lo ricordavate» rispose alzando le spalle.
«I nostri sogni, hai ragione. Compariva anche nei nostri sogni, visibile inoltre a chiunque.»
«Nessuno saprà cosa potrebbe accadere nell’Era Oscura, nemmeno io o Nimue, ma è possibile che la sua forza diventi tale da poter riflettere la propria ombra su qualsiasi essere vivente. Fino al tramonto di ieri neanche sapevo si trattasse di un ovale nel cielo, ma come te o Julius ho immaginato un enorme occhio che scrutava sotto di sé e solo con il tramonto e la consapevolezza di quel che fosse ho iniziato a vederlo fisso in un punto.»
«Ora sbrighiamoci a trovare Durlindana e andiamocene. Voglio subito mettermi all’opera per trovare una soluzione e ho meno di un mese.»
Secondo quanto riportava la storia, la spada era una meta turistica di Rocamadour, acclamata come l’originale arma di Orlando, rimasta infilata in una parete di roccia all’incirca in quel punto. Cominciò a vagare con lo sguardo alla sua ricerca, senza però riuscire a scorgere nulla che potesse anche solo assomigliare all’arma, sebbene rimase perplesso quando notò un anello di metallo corroso dal tempo da cui penzolava una catena. Facendolo notare a Merlino, quest’ultimo utilizzò la propria magia per portare se stesso ed Edgard sul tetto della casa più vicino all’anello, abitazione miracolosamente ancora intatta.
Merlino sembrava abituato a spostarsi in quel modo, ma Edgard che per ovvi motivi fino a quel giorno aveva volato solo a bordo dell’aereo per un attimo si senti cadere perdendo l’equilibrio e finendo sdraiato nell’aria mentre continuava a salire. Qual era la logica dietro cui due corpi potevano sollevarsi nel cielo senza aver bisogno di propulsione verso l’alto? Da quanto ricordava i sistemi antigravitazionali di alcuni mezzi neanche funzionavano correttamente se impiantati in alcuni indumenti, come si era provato a fare in passato.
Merlino non smise un attimo di sorridere. «Da quanto ho appreso i sistemi gravitazionali permettono ai vostri mezzi di sollevarsi da terra, anche se di poco, grazie a quello che chiamate campo gravitazionale, in grado di invertire la forza di gravità che inizia a spingere verso l’alto anziché verso il basso.»
Edgard annuì, sorpreso che oltre a essersi procurato un cellulare Merlino avesse appreso anche quella che doveva essere una grandissima innovazione per lo stregone.
«Posso già dire con sicurezza che una forza così dispersiva come quella del campo gravitazionale non funzionerà mai con gli esseri umani se ci si affida solo alla scienza, poiché non si tiene in considerazione lo spirito di ogni individuo.»
Ora Edgard era confuso.
«La vostra tecnologia ha fatto passi da gigante in molti ambiti, ma non avete considerato il punto di vista spirituale, nonostante ci siano ancora diverse religioni in questo mondo. Parlo del peso dell’anima.»
«Quindi le persone non possono volare perché la spinta è troppo debole, in quanto si tiene in considerazione solo il peso corporeo degli individui e non quello… dell’anima?»
«Esatto, anche se nemmeno la magia può misurare il peso di un’anima; questo dovrebbe essere il compito della scienza ma servirebbe il macchinario giusto e qualcuno in punto di morte che voglia sottoporsi al trattamento durante gli attimi finali della propria vita. Non credo sia possibile pesare un’anima prima della morte.»
Edgard non credeva alle proprie orecchie, ma per quanto leggera potesse essere un’anima se non si calcolava il suo peso doveva ammettere che Merlino poteva avere ragione, non si dava abbastanza spinta verso l’alto quando si invertiva la gravità. «Ma quando ci si mette sulla bilancia l’anima non si aggiunge al peso del corpo?» chiese senza nascondere la propria curiosità e chiedendosi come mai uno come Merlino, stregone e druido, fosse così interessato alla loro scienza.
«In teoria sì, ma il peso è così millesimale che non viene calcolato da molte delle vostre bilance. Ne servirebbe praticamente una in grado di calcolare pesi minuscoli, ancor più di quelli calcolati dalle bilance utilizzate per i grammi di marijuana, ma anche abbastanza grande da poter pesare una persona.» Merlino dovette aver scorto anche il dubbio di Edgard, poiché riprese a parlare. «Magia e scienza sono sempre avanzate di pari passo, almeno così era ai miei tempi, anche se la chiamavamo alchimia.»
Il volo durò pochissimo ma a Edgard sembrò più lungo grazie alle nuove sensazioni che poteva percepire, come l’assenza di un qualsiasi piano su cui poggiare i piedi, sentendosi di una leggerezza incredibile con il vento che gli scuoteva i capelli. Sorrise, rendendosi anche conto che non c’era alcuna forza a spingerlo verso l’alto ma semplicemente si stava sollevando come non avesse peso e comprendendo forse la natura di quella magia. «Non hai invertito la gravità, l’hai annullata!» disse mentre stavano toccando il tetto del pavimento. Merlino atterrò dolcemente, ma Edgard fu schiacciato dal peso del suo stesso corpo cadendo di schiena con un lamento per il dolore causato dalla botta.
Merlino lo aiutò a rialzarsi. «Corretto, ma non è possibile usarlo per volare come fa un uccello o uno dei vostri aerei. Potremmo chiamarlo, per usare vostri termini, un ascensore che serve a raggiungere luoghi troppo in alto. La magia può anche direzionare la forza di gravità, certo, ma servirebbe un’enorme concentrazione per mantenersi in aria e non ho mai conosciuto qualcuno che ci potesse riuscire, nemmeno tra i più grandi praticanti di magia dei miei tempi. Forse gli esseri umani non sono fatti per volare liberamente nel dominio degli uccelli e degli dei.»
«Sei religioso?»
«La religione non centra, chiunque in passato poteva essere considerato un dio o un semidio se aveva poteri che andavano contro i principi della scienza e della magia e ho potuto conoscerne qualcuno. Conosci il dio dell’inganno nordico, Loki?»
Edgard rise. «Ora mi stai prendendo in giro.»
Merlino scrollò le spalle. «Se ne sei tanto sicuro…»
«Aspetta, hai conosciuto il dio Loki?»
«Hai detto tu di non crederci e poi abbiamo affari più urgenti di cui occuparci.» Merlino si voltò a guardare l’anello e la catena spezzata, più una fenditura nella roccia. «Sono certo che siamo sulla strada giusta, altrimenti per quale motivo questa casa, quell’anello, quella catena e la fenditura non hanno riportato segni di corrosione dal tempo nonostante l’abbandono?»
«Pensi sia opera della magia di Durlindana?» chiese Edgard.
«Durlindana, dal latino durus, forte, resistente» spiegò Merlino. «Durlindana era considerata indistruttibile, lo stesso Orlando provò a spezzarla senza mai riuscirci e credo che la sua magia abbia permesso a ciò che la circondava di resistere alle intemperie. L’erede di Orlando, secondo la profezia, sarà la roccia dei Sette, colui che li sorreggerà nella loro più grande impresa e su cui maggiormente dovranno fare affidamento.»
«È una bella responsabilità per uno come me che è stato piuttosto scettico su tutta questa storia all’inizio» commentò sarcastico Edgard. «Però la spada non c’è» aggiunse poi con tono preoccupato.
«Dovresti essere in grado di percepirla o di seguire un residuo che ti possa guidare da lei.»
Edgard provò a concentrarsi chiudendo gli occhi e liberando la mente, come spesso aveva visto fare in molti anime e racconti di fantasia, senza sapere esattamente cosa dovesse cercare. Rivide per un attimo i suoi sogni, quelli da cui tutto era partito, convinto che anche là potesse esserci un qualche indizio e facendo leva su tutta la sua arguzia, finché un fascio luminoso non apparve dinnanzi all’oscurità che scorgeva tenendo gli occhi serrati, dirigendosi verso l’alto, verso il cielo. Alzò le palpebre, seguendo quella scia e poi lo vide. Ogni sua certezza in quel momento svanì, il battito cardiaco accelerò e per la prima volta dal suo coinvolgimento in quella storia così intricata ebbe paura, riconoscendo quanto superficiale fosse stato. Forse avevano sbagliato tutto.

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Capitolo 7
*** La Spirale del Terrore ***


«Non è un ovale» fu la prima cosa che gli venne in mente di dire indicando il cielo. Merlino, seguendo il suo sguardo, sembrò impallidire. «Non lo è mai stato, ma ne vedevamo solo l’inizio, ancora incompleto mentre si stava formando.»
«Una spirale» disse Merlino con fare pensieroso.
«Forse, anche se mi verrebbe da definirlo più un tornado sottosopra.» Edgard indietreggiò di un passo, ricordandosi qual era l’effetto principale di un tornado. «Dobbiamo andarcene» disse rivolto a Merlino, che lo guardò titubante.
«Ma Durlindana…» provò a controbattere lo stregone, zittito da un cenno di Edgard.
«Non è più qui ormai e siamo in pericolo» disse prendendo il suo cellulare e indicando la tasca dove si trovava quello di Merlino. «Se fosse successo qualcosa non so Julius ma O’Brian, Jeanne e Beatriz ci avrebbero chiamato, eppure non abbiamo ricevuto telefonate. Credo che solo noi stiamo vedendo questo tornado e potrebbe significare che ci abbiano trovati! Anzi, che fossero qui sin da prima del nostro arrivo!»
La consapevolezza parve farsi largo tra i pensieri di Merlino, che pareva essere finalmente giunto alla sua stessa conclusione. Durlindana si trovava davvero là, ma l’avevano presa e utilizzata come esca per attirarli in trappola.
Con un rapido cenno della mano, Merlino utilizzò nuovamente la magia gravitazionale sollevando se stesso e il ragazzo facendoli tornare sulla strada, con un migliore atterraggio da parte di Edgard rispetto al precedente. Senza esitazione, i due presero dunque ad allontanarsi mentre un forte vento cominciava a soffiare, gelido come si trovassero in inverno, carico di una forza che spaventò Edgard, riconoscendo la stessa sensazione provata tante volte nei suoi sogni e quando era divampato l’incendio di Southwark. Perché si era sentito tanto al sicuro dopo aver appreso che qualcuno mirava alla vita di Julius e Beatriz? Perché non aveva pensato che anche lui potesse essere un bersaglio? Era stato troppo arrogante, troppo sicuro di se stesso e delle sue capacità e quello era il risultato. Se solo Jeanne fosse stata con loro avrebbe potuto aiutarli con la sua Gioiosa, lei era l’unica che poteva realmente combattere e si maledisse per non aver convinto Merlino a farla andare a Rocamadour.
«Puoi usare quel teletrasporto?» chiese d’un tratto Edgard.
«Ci stavo provando, ma purtroppo qualcosa blocca la mia magia, come quando ho combattuto contro Fafnir.»
«E questa volta non ci sarò alcuna Dama del Lago a salvarci, vero?»
Merlino non rispose, continuando a correre lungo la via dietro Edgard che cercava disperatamente un riparo, ma ogni cosa sembrava un vero e proprio rudere e comunque non era certo che nascondersi in una casa potesse realmente salvarli dall’attacco.
Il colpo arrivò potente e inatteso, spedendo Edgard a terra senza che potesse far nulla per impedirlo. A colpirlo alla tempia, da dove aveva iniziato a uscire un rivolo di sangue, notò essere stata una pietra staccatasi da uno dei ruderi e per un attimo ebbe il sentore che non si fosse salvato per caso. Digrignò i denti, notando Merlino fermo con una mano protesa verso di lui, il fiato corto.
Mugugnò un ringraziamento toccandosi la parte ferita e cercando di rialzarsi, anche se si sentiva incredibilmente spossato, le gambe tremanti che non sembravano essere in grado di sorreggerlo. Lo stregone non sembrava averlo sentito, guardando un punto fisso dove aveva iniziato a radunarsi il vento in un piccolo tornado da cui ben presto uscì una figura prima indistinta poi sempre più simile a quella di una giovane donna dai capelli corvini e una bellezza ammaliante. La pelle diafana era avvolta in un abito leggero di un viola molto scuro e dalla lunga gonna si intravedevano un paio di stivali marroni, forse cuoio, mentre la chioma era acconciata in una crocchia fermata da un fermaglio a forma di farfalla. Lo sguardo sorridente era l’unica cosa di davvero diabolico che la donna possedeva.
«Non è possibile» borbottò Merlino, l’incredulità nella sua voce fece rabbrividire Edgard. In quell’ultimo periodo aveva visto molte nuove sfaccettature del leggendario personaggio ma mai un simile terrore nei suoi occhi. «Elaine…»
«Merlino, sembra che tu mi conosca» rispose lei con fare disinvolto e iniziando a camminare facendo strusciare un qualcosa di metallico sul terreno, anche se la vista di Edgard, ora annebbiata per la botta, non gli permise di scorgere cosa fosse. Però quel nome aveva imparato a conoscerlo da quando aveva incontrato Merlino e compariva nelle leggende di Arthur Pendragon. Elaine, figlia del duca di Cornovaglia, sorella della Fata Morgana e sorellastra del re eroe di Camelot. Qualcosa dentro di lui gli disse che era proprio lei, una consapevolezza che lo spaventò a morte. Se la magia di Merlino era indebolita e lui si ritrovava senza Durlindana come avrebbero combattuto qualcuno che probabilmente possedeva una magia molto simile a quella della principale antagonista del Ciclo Arturiano?
«Finalmente incontro colui a cui devo tutte le disgrazie della mia famiglia» continuò Elaine con un sorriso che metteva i brividi.
«Perché anche tu miri all’Era Oscura?»
«Fafnir non te l’ha detto?» chiese lei in risposta a quella domanda. «Beh, ciascuno di noi ha i suoi obiettivi personali, oltre al traguardo finale cui tutti ambiamo, ma se non ha ritenuto necessario mettertene a conoscenza non sarò io a farlo. Comunque un essere spregevole come te non riuscirebbe neanche a comprenderlo.»
«E io allora?» riuscì finalmente a dire Edgard provando di nuovo a rialzarsi. Questa volta ebbe più fortuna e pur con le gambe tremanti stette in piedi togliendosi il sangue che gli era colato davanti agli occhi. Aveva paura, un terrore che non reputava possibile provare e che poteva sperimentare solo trovandosi in una reale situazione di pericolo, un sentimento così diverso dalla paura che si poteva provare prima di un esame o dei risultati di un test. Era difficile anche solo provare a descrivere quel che sentiva, ma gli restavano ancora le sue convinzioni e ciò che quel giorno aveva appreso gli diede la forza per non distogliere lo sguardo quando Elaine si voltò, come a rendersi conto solo in quel momento della sua presenza. Doveva ammettere che era bellissima, senza alcuna imperfezione visibile sul suo aspetto, ma i suoi occhi verdi sembravano appartenere a un altro mondo. «Io non ho il diritto di sapere per quale motivo volete distruggere tutto quel che conosciamo?»
«Tu non dovresti nemmeno essere immischiato in questa storia, erede di Orlando.» Elaine aveva cambiato tono, passando da uno più mellifluo e quasi seducente a uno di rimprovero e vagamente infastidito. «Questa battaglia non dovrebbe nemmeno essere la vostra, cui è stato affidato un destino senza possibilità di scelta.»
Edgard iniziò a ritrovare lentamente tutto il coraggio che gli era scomparso con l’arrivo di Elaine. «Hai ragione, non abbiamo scelto noi di essere quel che siamo, ma non si può tornare indietro.» Gli occhi di sfida che le rivolse strapparono un sorriso alla maga. «Ed è per questo che ho deciso di combattere, di fare la mia scelta all’interno di questo destino immutabile.»
Il sorriso di Elaine si faceva sempre più inquietante. «Parli con saggezza, a dispetto della tua giovane età.» Avanzò di qualche passo, facendo ricominciare quel rumore metallico mentre finalmente i contorni del mondo intorno a Edgard prendevano di nuovo forma, facendo sparire l’intontimento che sentiva dal colpo ricevuto. Ora lo vedeva, l’oggetto che Elaine si trascinava dietro con fare noncurante. Sembrava un pezzo di metallo arrugginito e corroso dal tempo, ma si poteva anche intravedere quella che sembrava l’elsa di una spada, con la punta dell’arma che strusciava a terra.
«Quella è…»
Elaine annuì. «La tua cara Durlindana, erede di Orlando. Devo dire che tiene fede al suo nome. Ho provato a distruggerla, ma pure in queste condizioni neanche la mia magia più forte l’ha scalfita.» Tornò a guardare Merlino. «Quanto ai miei motivi personali, penso tu possa averli già intuiti. Il motivo che mi spinge verso l’Era Oscura e per cui voglio ucciderti, Merlino.»
«Vendetta» disse lo stregone in un sussurro. «È per vendicarti che porteresti questo mondo sull’orlo della distruzione?»
«Non reputo importante il motivo che ci spinge a fare quel che facciamo, ma credo sia importante agire seguendo una motivazione e non il semplice istinto, questo è ciò che ci differenzia come essere dotati di una qualche intelligenza. Non è stato il tuo stesso pensiero quando hai fatto in modo che Uther ingannasse mia madre dando alla luce quel bastardo di Arthur?» Mentre parlava aveva alzato il tono di voce, fino a esternare una rabbia che Edgard non credeva potesse appartenere a donna con quell’aspetto. Il volto per un attimo si era deformato fino a mostrare tutto l’odio che doveva provare nei confronti di Merlino, per poi tornare alla sua perfezione originale.
Con un gesto della mano, Elaine fece apparire una fila di tre sfere luminose davanti a se che fluttuavano emettendo bagliori sinistri, mentre il sole veniva inglobato dalla spirale, da quel tornado che sembrava in grado di risucchiare persino la luce emessa dall’astro. Quello che Edgard aveva ipotizzato si stava effettivamente verificando e una forza di attrazione superiore alla gravità stessa stava spingendo verso l’alto diverse macerie, aumentando costantemente di intensità. Presto anche loro sarebbero stati risucchiati e quella consapevolezza lo portò a scrutare nuovamente il cielo, con timore.
«Non temere, non vivrete abbastanza a lungo da poter vedere gli orrori che si celano al suo interno» disse Elaine come se gli avesse letto nel pensiero. «Sono contenta però che Fafnir non sia riuscito a ucciderti, almeno avrò la mia vendetta.»
A un altro cenno delle dita, le sfere scattarono in avanti disponendosi attorno al corpo di Merlino che ebbe solo il tempo di proteggersi con una qualche barriera prima che dei fasci di luce che parevano pura elettricità legassero le tre sfere tra di loro fino a formare un anello che andò a impattare contro le difese del druido, tentando di infrangerle e stringersi attorno a lui.
Merlino sembrava dover far ricorso a tutte le sue forze per non cedere, con la magia che veniva costantemente prosciugata dal tornado sopra di loro. «Questo è quel che succede ad andare oltre il tempo che ci è concesso, senza più possedere un corpo fisico» commentò la maga divertita, suscitando alcuni quesiti in Edgard sulla vera natura di Merlino, anche se ormai credeva di avere tutti i pezzi di quel puzzle.
Approfittando di quel momento di distrazione di Elaine, Edgard scattò in avanti mirando alla mano destra di lei ancora ben salda sull’elsa della spada, riuscendo quasi a prenderla quando lei si ritrasse con uno scatto. Il ragazzo non si arrese, puntando nuovamente alla maga e questa volta con l’intenzione di atterrarla e prendersi l’arma, quando un peso estraneo lo spinse verso il basso bloccandolo a terra. Sofferente, il corpo continuava a essere attratto verso il terreno da quella forza misteriosa mentre provava ad alzare gli occhi su Elaine che lo guardava sprezzante. «La gravità non può essere solo annullata dalla magia, ma anche intensificata» disse lei con una leggera malizia nella voce.
«Sei ancora in tempo per fermarti.» La voce affaticata di Merlino giunse da fuori il campo visivo di Edgard.
«Ma questo è quello che voglio, druido» affermò invece Elaine voltandosi verso di lui. «Finalmente avremo la nostra vendetta» continuò. «Per me e per le mie sorelle, Merlino, oggi morirai.»
«Merlino avrà anche sbagliato, hai ragione!» urlò di colpo Edgard. «Ma non puoi condannare l’intera umanità solo per perseguire la tua vendetta personale!»
«Ma infatti io voglio uccidere Merlino per vendicarmi e voglio far giungere l’Era Oscura per tutt’altro motivo.» Elaine gli si era di nuovo posizionata davanti, cosicché lui potesse vederla. «E ora taci e muori anche tu, ragazzo sfortunato.» A quelle parole seguì un gesto della mano con il quale Edgard venne letteralmente sollevato da terra e rivoltato, per poi sentire di nuovo quella spaventosa forza di attrazione spingerlo pericolosamente contro il terreno a testa in giù. Chiuse gli occhi, urlando d’istinto e preparandosi all’inevitabile impatto quando all’improvviso la discesa si arrestò facendolo invece atterrare dolcemente. Rialzatosi, senza più nessun impedimento, vide Elaine essere scaraventata a terra da un misterioso salvatore che ora stava impugnando due spade, una delle quali era Durlindana che gli venne subito lanciata contro. Edgard, preso alla sprovvista, quasi la lasciò cadere per poi riuscire a recuperarla al volo e osservando il nuovo arrivato. Indossava vestiti piuttosto particolari, con pesanti anfibi, pantaloni borchiati scuri e una pesante giacca di pelle nera. Era decisamente più alto di Edgard, forse sfiorava il metro e novanta e da quella posizione il giovane poteva vedere solo la lunga chioma corvina, intuendo dal colore delle mani che doveva avere la pelle ambrata.
«Scusate il ritardo» esordì lui voltandosi verso Edgard e Merlino, ora libero dall’incantesimo di Elaine, mostrandosi come un giovane che poteva avere poco più di vent’anni. Parlava un buon francese seppur con un forte accento straniero. «Beatriz mi ha detto che sareste venuti qui e ho fatto più in fretta che ho potuto.»
«Chi sei?» ruggì Elaine di nuovo in piedi e palesemente pronta al combattimento.
«Clovis Rocha» fu la risposta che spiazzò Edgard, un nome che aveva già sentito più volte in quell’ultimo periodo. «È questa è Caladbolg, la mia spada.» Dopo quella semplice risposta si lanciò contro Elaine che stava formulando un qualche incantesimo, riuscendo a interromperla e a farla indietreggiare. Si muoveva con una fluidità incredibile, come se la spada fosse un’estensione del suo braccio e tirasse di scherma quotidianamente, con uno stile impeccabile e che in parte stonava con il contesto storico nel quale vivevano, dove erano le armi da fuoco a fare la differenza il più delle volte. Pareva quasi uscito da uno di quei film fantasy ambientati in epoche o mondi con caratteristiche medievali, continuando a menare fendenti senza dare la possibilità ad Elaine di rispondere con la sua magia; forse sarebbe anche riuscito a sconfiggerla se non fosse stato per la forza d’attrazione del tornado nel cielo che, facendosi sempre più forte, costrinse Clovis a indietreggiare per non essere colpito da una roccia. Combattere in quelle condizioni dettate dal nemico non doveva essere troppo conveniente, si costrinse ad ammettere Edgard.
Fu Merlino a riscuoterlo da quei pensieri. «Edgard! Usa Durlindana!»
Il giovane si ricordò solo in quel momento di cosa stesse stringendo in mano, ma non sapeva come attivarne i poteri e la spada restava un rudere tra le sue mani. «Andiamo, Durlindana! Ho bisogno di te!»
Clovis ricevette in pieno un fulmine scagliato da Elaine, finendo a terra ma senza apparentemente riportare ferite gravi e potendo rialzarsi subito dopo aver rotolato di lato per evitare altre macerie che la maga gli stava scagliando contro.
«Pensi davvero che con quella mezza spada tu possa battermi?» Elaine sembrava aver riacquisito la sicurezza di prima. «Immagino tu conosca le leggende di Caladbolg.»
«Le conosco meglio di te, maga. Ma questa mezza spada, come l’hai chiamata tu, porta anche un altro nome.» Dopo averle risposto lasciando anche trasparire una lieve arroganza che in parte stonava con il suo aspetto, Clovis si rimise in guardia iniziando a evitare i colpi di Elaine che sembrava non intenzionata a farlo avvicinare. Edgard si chiese come potessero combattere un avversario che attaccava dalla distanza senza riuscire ad avvicinarsi a portata della lama, sembrava un’impresa impossibile, ma la calma di Clovis lo lasciava ancora più perplesso. Non aver riportato danni ingenti per un fulmine poteva solo significare che probabilmente era stato il primo tra loro trovare e prendere la sua arma, anticipando anche Jeanne; doveva quindi essersi impadronito dei suoi pieni poteri. Secondo quanto aveva appreso da Merlino, le spade non erano solo armi ma potevano anche aumentare la resistenza fisica e i poteri magici di chi le brandiva, unica spiegazione per la quale Clovis non era rimasto folgorato, ma rimaneva lo svantaggio del combattimento a distanza, al quale non riusciva a trovare una soluzione. E Durlindana sembrava non rispondergli. Jeanne era riuscita ad attivare subito Gioiosa, perché lui non ce la faceva? Cosa stava sbagliando?
Continuò impotente a osservare il combattimento, seguendo ogni rapido movimento di Clovis che appariva in attesa del momento adatto, forse di un’apertura, ma secondo Edgard non avrebbe mai fatto in tempo a raggiungere la maga prima che quest’ultima si spostasse per riprendere le dovute distanze. O forse si stava sbagliando.
Colse uno strano sorriso in Clovis e il giovane chitarrista dei Solar Eclipse scattò in avanti approfittando del tempo intercorso tra un attacco e l’altro, convincendo Edgard che fino a quel momento si era limitato a schivare per calcolare le tempistiche giuste per un attacco. Però, come aveva presupposto, la distanza da percorrere era notevole anche per qualcuno come lui le cui capacità fisiche erano incrementate da Caladbolg ed Elaine utilizzò la sua magia per spostarsi rapidamente indietro, quando l’impensabile accadde. La lama si illuminò di una luce abbagliante seguita da un urlo di dolore che quasi terrorizzò Edgard, un grido che non aveva davvero più nulla di umano per quanto fosse straziante. Alcuni schizzi di sangue macchiarono le macerie intorno ai due combattenti e quando la luce si affievolì lo stupore di Edgard si fece sempre più ampio. Davanti gli si parava la scena più incredibile che potesse immaginare, con Elaine che ancora stava tentando di allontanarsi quando era stata passata da parte a parta dalla punta della lancia che ora era apparsa nelle mani di Clovis, il quale stava ancora sorridendo. «Caladbolg, anche conosciuta come la lancia Gae Bulg» sentenziò tirando indietro l’arma e lasciando Elaine agonizzante a terra che si teneva il ventre.
Edgard era rimasto impietrito da quella scena, il rudere di Durlindana ancora stretta in mano mentre continuava a risuonare nelle sue orecchie l’eco di quel grido straziante.
«Non è possibile» mormorò tra un rantolo e l’altro Elaine. «Caladbolg e Gae Bulg sono legate linguisticamente ma…»
«Forse un tempo erano due armi diverse, ma ormai da diversi secoli sono diventate la stessa arma, fondendosi e rendendo completa quella che un tempo era solo una mezza spada.» La voce di Clovis era troppo calma per chi aveva appena trafitto a morte un’altra persona, anche se si trattava di una maga pericolosa come Elaine.
«Come fai a essere così calmo dopo aver appena ucciso…» Edgard sentiva ancora le gambe tremargli, non si era mai reso conto di cosa significasse dover combattere quella guerra.
Questa volta la voce di Elaine proruppe in una risata. «È così calmo perché sa di non avermi uccisa!» Edgard non riusciva a capire come la maga potesse sopravvivere a quella ferita. «Guardatevi» continuò lei con tono sempre più divertito. «Avete appena constatato la vostra impotenza contro qualcuno che non era nemmeno qui fisicamente, una semplice proiezione del mio potere, così come lo era anche Fafnir!»
Edgard finalmente pensò di capire. «Quindi voi…»
«Noi giungeremo con l’Era Oscura nel pieno del nostro potere e in quel momento dovrete seriamente avere paura!» Dopo un’altra risata la figura di Elaine si trasformò in pietra, crepandosi fino a dissolversi in un nugolo di polvere.
Clovis sospirò, con la lancia che tornava alla sua forma originaria, piegandosi su un ginocchio e apparendo visibilmente stanco. «Sfortunatamente posso mantenere la forma di Gae Bulg solo per pochi istanti» spiegò lui con un sorriso, come a volerli tranquillizzare.
Edgard si avvicinò di qualche passo, posando lo sguardo sul rudere che teneva in mano. «Se solo fossi riuscito ad attivare Durlindana non ti saresti affaticato tanto» disse lui, mentre il vento si indeboliva e la spirale tornava alla sua forma originale.
«In effetti per un attimo ho sperato tu ci riuscissi e che non fossi dovuto ricorrere alla mia arma segreta tanto presto, ma non fartene una colpa che non hai.» Il tono gentile di Clovis sorprese Edgard.
«Hai detto di aver parlato con Beatriz?» si intromise Merlino.
«Penso di dovervi dare delle spiegazioni, ma qui siamo troppo esposti» disse il chitarrista dei Solar Eclipse. «Possiamo trovare un posto migliore dove ritrovarci tutti?»
Merlino annuì, preparandosi a usare il suo teletrasporto.

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Capitolo 8
*** Clovis e Beatriz ***


Quelli che si erano riuniti erano davvero uno strano gruppo, considerando sia le loro nazionalità sia i loro caratteri e aspetti, facendo una strana impressione a Edgard. James O’Brian, Merlino e Clovis già aveva avuto modo di incontrarli, ma non sapeva cosa aspettarsi dalla piccola Jeanne che stringeva come fosse un tesoro prezioso la sua Gioiosa e la ragazza presentatasi come Beatriz, la quale portava Gramr al fianco con fare disinvolto, quasi come già si fosse abituata a quell’arma. L’unica arma a non essersi attivata, constatò Edgard a malincuore, era dunque la sua Durlindana; invece l’unico assente, del quale il ragazzo non si sorprese, era Julius. Grazie a Beatriz e ai poteri insiti in Gramr e nella leggenda di Sigurd, ciascuno avrebbe potuto parlare la propria lingua ed essere compreso dagli altri anche se non la conoscevano, cosa di non poco conto secondo Edgard che non sapeva nulla di portoghese o spagnolo, considerando anche Jeanne che probabilmente non aveva mai avuto l’occasione di imparare neanche l’inglese.
Fu Merlino a iniziare la discussione, spiegando del suo viaggio in Spagna e di quel che aveva appreso da Beatriz, come qualcun altro lo avesse preceduto di qualche anno dando tutte le informazioni sia a lei sia al chitarrista, che pur essendo nato in Brasile aveva trascorso gran parte della sua infanzia a Barcellona, dove aveva anche conosciuto Beatriz diventando suo amico.
Nemmeno loro due conoscevano il suo nome, però, eppure sembrava sapere cose che persino Merlino ignorava come la storia dei Sette Altari e di cosa simboleggiassero.
«I Sette Altari sarebbero dunque la chiave per portare la luce durante l’Era Oscura?» chiese quindi rivolgendosi ai due ragazzi.
Clovis annuì. «Corretto, ma pare che non possano prevenire il suo arrivo poiché dovrebbero attivarsi durante essa.»
«Attualmente» aggiunse Beatriz. «Sappiamo i nomi di cinque Altari, quelli di Fergus mac Roich, Sigurd, Carlo Magno, Orlando e Arthur Pendragon. E fino a oggi conoscevamo solo quello legato a Excalibur e ai nostri due.»
O’Brian sospirò. «Potrebbe essercene un sesto cui stavo pensando da qualche tempo.» Tutti gli occhi si puntarono su di lui, che parve a disagio. «È solo una supposizione, ma bene o male tutte le spade sembrano legate a loro da diverse leggende, basti pensare a Orlando che era uno dei Paladini di Carlo Magno o a Caladbolg che è legata a Excalibur.» Edgard lo guardò senza nascondere la sua curiosità. «Si dice che da Caladbolg fu forgiata la stessa Excalibur, o che esse siano addirittura la medesima spada, anche se ora sappiamo che non è così.»
«E quale sarebbe questo sesto Altare?» lo incalzò Clovis.
«Crocea Mors» fu la risposta detta con un mezzo sorriso. «La leggendaria spada appartenuta al condottiero romano più famoso, Giulio Cesare.»
«E il nesso con le altre leggende?» chiese quindi Beatriz.
Fu Edgard a rispondere, che forse aveva capito dove l’uomo volesse andare a parare. «Il nesso non è con la leggenda della spada, ma con Roma. Giulio Cesare non venne mai incoronato imperatore, ma nessuno può negare che nel suo più grande periodo egli era Roma in persona.» Guardò la sua Durlindana. «Si dice che Orlando andò a Roma dove cercò di distruggere la sua spada colpendo una roccia, ma fu la roccia stessa a spaccarsi.»
«Forse avete ragione, ma senza sapere chi dobbiamo cercare non sarà facile.» La voce riflessiva di Clovis alleviò l’eccitazione che si stava propagando nella stanza per la possibile scoperta della sesta spada. «Roma è fin troppo grande per cercare una singola persona e il tempo stringe. Inoltre sapere dove si trova l’arma o il suo possessore non ci aiuterebbe a scoprire l’ubicazione dell’Altare che potrebbe essere ovunque.»
«Parlando sinceramente» disse quindi Beatriz. «Al momento possiamo dire con certezza di conoscere un solo Altare, quello di Excalibur, che supponiamo essere la mano di roccia da cui Arthur Pendragon prese la sua spada quando gli venne data in dono dalla Dama del Lago Nimue.»
Tutti furono d’accordo con quella supposizione, anche se Edgard non se ne rallegrò come invece sembrava aver fatto Jeanne che batté una volta la mano dicendo: «Allora siamo già un passo avanti nell’opera!»
«Sapere dove si trova l’Altare non serve a niente se quell’idiota di Julius non vuole aiutarci!» sbottò quindi Edgard, accorgendosi troppo tardi che erano inutile urlare contro Jeanne, la quale fece un balzo indietro nascondendosi dietro Beatriz, forse intimorita. «Scusa, io… Non volevo alzare la voce» disse subito arrossendo lievemente. Era dall’incontro con Elaine e dall’aver ottenuto Durlindana che si sentiva frustrato senza saperne il motivo, ma forse poteva immaginare che l’inattività della spada fosse parte della sua rabbia.
«Siamo tutti stanchi» sentenziò O’Brian. «Meglio riposarci e continuare le nostre ricerche sulle altre due spade e sugli Altari da domani. Purtroppo il mio appartamento è troppo piccolo per ospitarvi tutti, ma se Jeanne è d’accordo può rimanere a dormire qua, non me la sento di lasciarla tornare per strada.»
Alla ragazzina le si illuminarono gli occhi per la felicità. «Davvero posso?»
Dopo aver visto il volto sorridente di lei, O’Brian rise. «Certo! Non c’è molto spazio ma una persona in più non cambia nulla. Sentiti come se fossi a casa tua!»
«Io comunque sarei dovuto tornare in Brasile per preparare il mio tour qua in Europa» disse Clovis, che suscitò sguardi preoccupati da tutti. «Non posso annullarlo e comunque se davvero il mondo deve cadere nell’oscurità sarà mia premura concedere un’ultima notte indimenticabile a tutto il mio pubblico.»
«Sono d’accorso con Clovis» concordò Beatriz. «Per quanto mi riguarda tornerò a Barcellona, finché ne ho l’occasione voglio lavorare e continuare i miei studi universitari.»
«Io invece tronerò a Parigi.» Edgard guardò forse con eccessiva serietà i presenti. «Devo scoprire cosa mi manca per far attivare Durlindana e, anche se non dovessi trovare il modo per impedire l’Era Oscura, giuro che riuscirò a evitare quante più morti innocenti possibili.» Quelle affermazioni gli attirarono su di se gli sguardi ammirati di tutti, soprattutto di Beatriz che gli si avvicino posandogli una mano sulla spalla e causandogli un lieve rossore sulle guance.
«Sono sicura che ci riuscirai, Merlino ha detto cose interessanti sul tuo conto nel nostro ultimo incontro.» Dopo quelle parole gli diede inaspettatamente un bacio sulla fronte, facendo aumentare il rossore di Edgard finché l’intera faccia non sembrava andargli a fuoco.
Il resto del gruppo, con Jeanne in testa, scoppiò a ridere di fronte all’imbarazzo mostrato dal ragazzo francese, che in quel momento voleva sinceramente sotterrarsi e uscire il giorno che sarebbe giunta l’Era Oscura.
«Non farci caso, Edgard» gli disse Clovis senza riuscire a smettere di ridere e asciugandosi le lacrime che avevano iniziato a colargli sul viso. «Beatriz è una ragazza molto… Spontanea!»
Beatriz lo fulminò con lo sguardo. «Così mi fai passare per una poco di buono!» lo rimproverò suscitando altra ilarità, anche in Edgard che si era intanto ripreso dall’imbarazzo iniziale.
Quando riuscirono a tornare seri, fu il turno di Merlino a spiegare i suoi piani per il futuro. «James, immagino tu voglia di nuovo provare a parlare con Julius.» O’Brian annuì. «Io invece credo che viaggerò e forse non riusciremo a vederci più fino al giorno stabilito per l’avvento dell’Era Oscura. Ho intenzione di mettermi a cercare gli Altari delle spade che abbiamo già reperito e se dovessi riuscirci proverò anche a entrare in contatto con i possessori di Crocea Mors e della settima spada. Inoltre dovrei discutere di un paio di cose con Nimue e avvalorare la tesi secondo la quale possa essere l’Altare di Arthur, anche se non ho quasi dubbi in merito all’ipotesi di Beatriz e Clovis.» Gli altri annuirono. «Inoltre state attenti, anche se abbiamo sconfitto Elaine c’è ancora Fafnir in circolazione e non sappiamo se ci attaccherà.»
«Io non credo sia possibile.» O’Brian attirò nuovamente l’attenzione. «Fino a oggi sono stati presi di mira Julius ed Edgard che non avevano le loro spade con loro, ma con la sconfitta di Elaine non credo sappiano che Durlindana ancora non si è attivata. Fafnir inoltre non si è presentato da Beatriz, forse percependo Gramr; è più probabile quindi che a essere presi di mira siano i due mancanti o di nuovo lo stesso Klein. Dobbiamo solo sperare che andrà tutto per il meglio, senza però metterci a cercarli per prevenirlo, non abbiamo neanche la certezza di riuscire a proteggerli e, cosa ben peggiore, potrebbero sfruttarci per arrivare a loro se ancora non sanno dove si trovino. Comunque sappiamo solo che forse uno di loro si trova a Roma e non è neanche sicuro considerando che potrebbe trovarsi solo Crocea Mors nella Città Eterna, dopotutto Beatriz e Clovis provengono da Paesi diversi rispetto alle loro spade. Dovremmo impiegare il tempo che ci rimane a cercare gli Altari.»
«In meno di un mese non è comunque possibile cercare due singole persone su tutto il pianeta, oltretutto senza sapere quale sia la settima spada e avere un punto dove iniziare le nostre ricerche» ragionò Edgard. «Però gli Altari dovrebbero avere legami con le leggende delle nostre spade, quindi è più fattibile come soluzione.»
«Abbiamo deciso i nostri piani per il futuro, dunque» concluse la discussione Clovis. «Per quanto riguarda me e Beatriz, anche senza essere forti come due veri stregoni, sappiamo usare un po’ di magia e possiamo tornare a casa senza problemi, ma se serve un passaggio ci offriremo di essere d’aiuto.» Guardò Merlino. «La tua magia si è indebolita troppo, meglio non rischiare.»
Il druido fu d’accordo e quell’incontro terminò così, con la promessa che si sarebbero rivisti tutti il giorno stabilito per l’inizio dell’Era Oscura, che Merlino affermò di non sapere quando sarebbe stato ma che tutti lo avrebbero percepito, anche Julius e i due misteriosi loro compagni.
Jeanne fu l’unica a rimanere con O’Brian, come stabilito, mentre Beatriz se ne tornò a Barcellona e Clovis aiutò Edgard con la sua magia portandolo fino a Parigi. Rimasti soli nel piccolo appartamento, il chitarrista non se ne andò subito come invece l’altro si aspettava, rimanendo a osservarlo per un po’. «Prima dello scontro con Elaine non mi ero mai ritrovato a combattere per la mia vita» gli confidò con un sorriso che sembrava trasmettere tristezza. «Ti chiedo solo di fare attenzione, Edgard, siccome non hai ancora del tutto padronanza della tua spada.»
Il giovane lo guardò senza capire.
«Non lo dico solo per il destino dell’umanità, ma per me e Beatriz. Lei è stata la mia prima vera amica, forse è la persona cui tengo di più a questo mondo e sembra averti preso molto in simpatia. E ti sbagli se pensi che io possa provare qualcosa di più profondo per lei, ma non ho problemi a dire che gli sono davvero molto affezionato e non vorrei mai vederla soffrire più di quanto non abbia già sofferto in passato. Non fare follie e vedi di esserci, quando tutto avrà inizio.»
Edgard annuì. «Non mancherò e ti prometto che Beatriz non avrà motivo di soffrire.» Gli allungò una mano che venne stretta dall’altro ragazzo. «Ci vediamo al tuo più grande concerto, Clovis.»

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