Il bosco d'inverno

di Lady Chryseiss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non parlare agli sconosciuti ***
Capitolo 2: *** Scarpe e cappotti ***
Capitolo 3: *** Riflessioni ad alta voce ***
Capitolo 4: *** Scambio di interazioni vocali ***
Capitolo 5: *** Amore materno ***
Capitolo 6: *** Il bosco d'inverno ***
Capitolo 7: *** Giovanna ***
Capitolo 8: *** Mura di carta ***
Capitolo 9: *** La ricerca ***
Capitolo 10: *** Senza lacrime ***
Capitolo 11: *** Invasione ***



Capitolo 1
*** Non parlare agli sconosciuti ***


1. Non parlare agli sconosciuti
 
Ho dato fuoco ad un’abitazione. Una villetta singola non troppo grande, non troppo bella, una come tante. Insignificante. La cosa rilevante è che era rivestita interamente in legno. Fu quello a darmi l’idea improvvisa del fuoco. Cosa sarebbe accaduto? Non lo sapevo. Non potevo saperlo, avevo dodici anni. Anche se forse avrei dovuto tener conto delle conseguenze dei miei gesti, e forse avrei dovuto prevedere che non sarebbero state rosee. Quello anche un preadolescente definito ottuso l’avrebbe dedotto. Ma io non ero stupido, tutt’altro. Solo che non sono mai stato bravo a riflettere e a ragionare sul mio comportamento. L’impulsività è sempre stata la mia principale caratteristica, e a proposito di questa, mia madre era solita lanciarsi in catastrofiche previsioni del mio futuro se non l’avessi tenuta a bada. Mio padre non sprecava troppe parole, si limitava a darmi del pazzo e sembrava rallegrarsi quando le conseguenze dei miei gesti avventati gli davano ragione.
 
Del giudizio dei miei genitori non mi è mai importato molto. Non mi è mai importato molto del giudizio di nessuno.
 
Seconda caratteristica per cui sono famoso: l’assenza di empatia.
Mi piacerebbe eliminarla del tutto; non c’è cosa più fastidiosa dell’empatia. Io sono io, qualcosa di ben definito e separato dal resto del caos che mi circonda, non comprendo perché il percepire le emozioni degli altri, il mettersi nei loro panni sia considerato positivo. Per me è qualcosa di repellente. L’umanità è repellente. In quell’incendio non è morto nessuno, la casa era vuota, e le fiamme sono state domate velocemente. Hanno avuto solamente fortuna. Solo perché la mia consueta impulsività non mi ha dato modo di sviluppare un piano un po’ più strutturato che mi avrebbe permesso di ferire qualcuno, o almeno di distruggere tutta la casa. Perché l’ho fatto? Perché l’umanità mi disgusta. Ero arrabbiato, sconvolto dall’idiozia di un uomo che aveva escogitato uno stratagemma per farsi dare dei soldi, ma non era stato abbastanza astuto da far sì che il suo gioco reggesse fino alla fine. Non era poi così importante, perché i soldi era riuscito a fregarmeli. Tutta colpa dell’empatia. Lo vidi una mattina seduto su una panchina lungo la strada che separava casa mia dalla scuola media che all’epoca frequentavo. Aveva l’aria abbattuta. Teneva i gomiti puntellati sulle ginocchia e la testa abbandonata tra le mani. Gli abiti erano logori e infangati, assolutamente inadatti al pungente freddo di inizio dicembre. Mi fermai a osservarlo. Notai che stava tremando. Dovette accorgersi del mio sguardo insistente, perché alzò il volto verso di me e i suoi occhi scuri incontrarono i miei.
-Che hai ragazzino?- chiese.
-Niente- risposi. Effettivamente il mio non era stato un comportamento educato. Decisi di andarmene. Mia madre mi ripeteva sempre di non parlare agli sconosciuti quando ero più piccolo, e ogni tanto me lo raccomandava ancora prima di uscire.
-Aspetta- mi fermò. -Ce li hai degli spiccioli?-
-Spiccioli?-
-Sì, spiccioli, monetine.-
Il buon senso mi disse di rispondere negativamente e continuare per la mia strada, ma la mia ingenuità di preadolescente definito ottuso mi portò a domandare il perché ne avesse bisogno.
-Non ho più una casa. Mia moglie mi ha lasciato e non posso più vedere i miei bambini. Ho bisogno di mangiare, sono quattro giorni che non mangio-
Rimasi in silenzio a fissarlo per qualche istante. Aveva un’espressione supplichevole. Quello che sentivo dentro lo stomaco mi spaventava. Una creatura grigia e tonda che saliva verso il centro del petto e sembrava volersi fare strada verso l’esterno, liberandosi coi denti. Decisi di credergli, quindi estrassi dalla tasca i soldi che i miei genitori mi avevano dato per il pranzo, una decina di euro, e glieli allungai. L’uomo li agguantò con una velocità che mi fece sussultare, stringendomi la mano.
-Grazie ragazzino. Buona giornata- si alzò e se ne andò deciso, come se sapesse esattamente dove andare. Pensai che quel modo di fare fosse dato dalla fretta di mangiare. Continuai per la mia strada, diretto a scuola, dove il resto della mattinata si svolse con la quotidiana tragica solitudine di un preadolescente definito ottuso e con una grave carenza di amici.
Ne uscii vivo, ma affaticato, devastato emotivamente. Io non volevo parlare, interagire, esistere, ma ero costretto a farlo. E quello che vidi sulla via del ritorno fu ciò che mi devastò ancora di più: l’uomo che avevo incontrato sei ore prima. Poco lontano da dove avevamo parlato, stava discorrendo fittamente con un ragazzo vestito di nero, con un berretto verde bosco. Ricordo di aver pensato che fosse un bel colore. Camminando tenni lo sguardo sui due, indeciso se salutare. “Non parlare agli sconosciuti”, ripeté la voce di mia madre nella testa. Prima di superarli, notai che l’uomo consegnava al ragazzo col berretto verde bosco dei soldi. I soldi che una volta erano stati miei. Il ragazzo non consegnò nulla in cambio; semplicemente se ne andò, così come l’altro. Non capii, ma sicuramente non aveva comprato del cibo. “Non aveva così bisogno di mangiare, allora”, pensai. La cosa mi fece infuriare.
 
Presi a camminare frettolosamente, immerso in pensieri che potessero giustificare quel comportamento, quello dell’uomo sconosciuto che avevo voluto aiutare e il mio. Perché ero così arrabbiato, così deluso? D’altronde io non sapevo niente, avrei anche potuto aver frainteso qualcosa. Superai casa mia senza nemmeno accorgermene, arrivando in una zona residenziale della cittadina di provincia in cui non ero mai stato. Mi resi conto di aver camminato troppo. Alla mia destra si trovava un vialetto lungo il quale si dipanavano numerose villette rivestite in legno, con un piccolo giardino, senza traccia di cancellata o recinzione, tutte uguali. Qualcuno le definirebbe carine. Per me erano assolutamente anonime. Da qualcuna di queste si vedeva del fumo uscire dal comignolo, il che mi fece dedurre che all’interno si trovava un accogliente fuoco acceso in un camino o in una stufa. Fuoco, legno, idea. Non ricordo dove recuperai i fiammiferi, probabilmente erano uno dei miei tesori sepolti sul fondo dello zaino. Percorsi il vialetto d’accesso alla casa più vicina, come se desiderassi suonare il campanello, accesi un fiammifero e lo infilai in una fessura del legno, insieme ad una manciata di foglie secche per far sì che il fuoco avesse la possibilità di attecchire. Me ne andai, senza voltarmi a guardare l’incendio divampare.
 

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Capitolo 2
*** Scarpe e cappotti ***


2. Scarpe e cappotti
Guardo numerose paia di scarpe scorrere sull’asfalto dietro al fumo della mia sigaretta. Scarpe tutte uguali, sotto a cappotti tutti uguali. Cappotti scuri appoggiati su spalle piegate dal peso di borse e zaini. Non vedo nient’altro dal tavolo del bar di fronte all’Università degli Studi di Milano. Gli studenti universitari mi incuriosiscono. Forse un po’mi piace osservarli. È un’occupazione quotidiana che cozza con la mia reputazione di misantropo, ma non sono mai stato un tipo coerente. L’incoerenza. La mia terza grande caratteristica.
 
Alcuni di loro mi colpiscono più di altri. Non c’è necessariamente un motivo. Semplicemente in loro vive qualcosa di più particolare, che li fa risaltare ai miei occhi. Qualcosa di interiore.
Ad ognuna di queste persone ho dato un nome. Suppongo che ne posseggano uno dalla nascita, ma non conoscendolo, ho deciso di trovarne uno di mia iniziativa che credo possa stargli bene.
Barbara e Francesco si scambiano un leggero bacio sulle labbra prima che lui faccia il suo ingresso nella struttura in vista di una lezione. A me piace pensare che Francesco, un ragazzo riccio e bruno, sulla ventina, frequenti la facoltà di filosofia. È stata la massa di capelli ricci e disordinati a colpirmi, e i suoi occhi luminosi che sembrano osservare il mondo in maniera critica ma gioiosa, serena. Barbara fisicamente non ha nulla di speciale, è simile a tutte le ragazze di vent’anni che come lei seguono inconsciamente i canoni dell’immagine femminile dettata dalla società milanese. Capelli castani, lunghi, occhi piccoli e marroni, leggermente truccati. Non faccio a tempo ad accorgermi del suo abbigliamento di oggi, perché viene investita da un gruppetto di amiche ridacchianti. Le amiche di Barbara non mi interessano. Ma lei sì. Ha un’aria intelligente, sveglia, acuta; mi fa pensare a qualcuno di dolce e attento al suo prossimo. La vedrei bene a studiare psicologia. Nella mia testa la relazione tra Barbara e Francesco ha avuto inizio durante il liceo che hanno frequentato insieme. Un amore sincero e innocente sbocciato tra i banchi e che perdurerà in eterno, nonostante le normali difficoltà e forse qualche tira e molla. Francesco non vede che Barbara, Barbara rifiuta numerosi pretendenti anche più belli e ricchi di Francesco. Lui è il solo che possa renderla felice. Disgustosamente romantico.
Giovanna cammina speditamente, con una meta ben precisa. Il suo percorso non prevede deviazioni, non prevede incontri, saluti o risate con gli amici. La testa, invasa da capelli ispidi raggruppati in una coda bassa dietro la nuca, è costantemente abbassata su un qualche libro universitario brulicante di noticine a margine, post-it e nervose  sottolineature a penna. Gli occhi vispi danzano velocissimi lungo le pagine nere di parole, protetti da un paio di lenti tondeggianti circondate da una montatura sottile e metallica, perfettamente intonati alla sua esile corporatura. Freddo. Questa è la prima parola che è nata in me quando ho notato Giovanna. Giovanna ha freddo. Fuori e dentro. Vuole cambiare il mondo, ma ha capito prima di cominciare che non ce la farà. Studia giurisprudenza. Lo so per certo, perché ho visto i titoli dei testi che studia. Lo fa per un senso di dovere, ma senza passione. Non crede più in niente. Io credo che in passato lei abbia conosciuto il dolore.
Laura è l’esatto opposto di Giovanna. È gioviale, loquace, con un sacco di amici. I capelli di una calda sfumatura d’oro e gli occhi grigi le regalano un’aura angelica. È bellissima. Per questo l’ho chiamata Laura. Per questo e per la corona d’alloro con cui le ho visto coronato il capo la prima volta. Laurea breve. Ora è tornata a frequentare l’università per conseguire la magistrale. Non saprei in cosa, ma sicuramente qualcosa che preveda uno scopo benefico e umanitario: nel mio mondo immaginario Laura è conosciuta per il suo altruismo incorniciato da fiori, erba giovane e acqua fresca.
Ma il mio preferito è Dario. Gli ho assegnato questo nome per l’eleganza che avverto rotolare sulla lingua quando lo pronuncio. Lui è eleganza pura, pulita, fatta di gesti netti e semplici, di mani affusolate e passi leggeri. Maglione e cintura. Capelli corti e occhi precisi. Scuri. Vorrei che si dichiarasse a Laura, sarebbero una coppia perfetta, come quelle dei film. Nell’arida realtà non li ho mai visti nemmeno parlare insieme, nemmeno salutarsi. Suppongo che non si conoscano. Forse non si sono mai notati. Nel mio regno fittizio invece Dario e Laura hanno appena fissato una data per il loro matrimonio. Febbraio sarebbe perfetto. Laura sarebbe una splendida sposa d’inverno, con la neve dello stesso colore del suo incarnato.
 
Potrei dilungarmi in una lista interminabile di persone con nomi finti e vite finte esistenti solo nella mia testa, ma la maggior parte le ho create solo per noia. Sono Francesco, Barbara, Giovanna, Laura e Dario di cui mi interesserebbe scoprire quanto di quello che ho costruito loro intorno sia reale.
 
Sono già alla terza sigaretta quando anche Dario viene inghiottito dal rosso ingresso della sede universitaria. Lascio la sigaretta accesa a consumarsi nel posacenere. Un giorno o l’altro mi deciderò ad entrare. Io non ho mai frequentato l’università. Non perché non mi ritenga all’altezza, semplicemente niente di ciò che veniva proposto rientrava nel mio interesse. E poi studiare non mi è mai piaciuto. Mi sono diplomato a fatica. Non vengo più definito un preadolescente ottuso, ma soltanto ottuso. Penso sia peggio, perché quando hai dodici anni riesci ancora a sperare che un giorno quell’odiosa etichetta ti verrà tolta; ma quando ne hai ventisei ormai ti rassegni. E impari a strappare le etichette. Un’altra etichetta odiosa mi è stata appiccicata in fronte dopo l’episodio del fiammifero nelle fessure del legno di quella villetta. Piromane. Scritto a caratteri cubitali. Anche se in realtà l’incendio a cui avrei voluto dare vita non è stato quasi per nulla dannoso: è stata una fiammata di pochi istanti, perché allora non avevo tenuto conto del fatto che un fiammifero non sarebbe bastato. Cosa ho imparato da allora? A detestare le vecchie vicine pettegole e spione, e a non fidarmi di chi ti dice di volerti solo aiutare. Altra lezione di misantropia all’università della vita: gli psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, educatori, e insegnanti di ogni tipo non vogliono solo aiutarti. Non tutti sono come Barbara. Serve munirsi di un’attenzione speciale quando si racconta di sé a qualcuno. Non l’ho più fatto da quando sono riuscito a convincere i miei genitori e il mio terapeuta che quello sarebbe stato un episodio isolato, che non si sarebbe ripetuto, che era stata una reazione di eccessiva sensibilità per l’essere stato truffato, se così si può dire. La reazione di un preadolescente definito ottuso. Ottuso e impulsivo. Ci sono voluti cinque anni.
 
Mi alzai, e dopo aver nuotato nella corrente gelida di scarpe e cappotti, tornai a rintanarmi nella riposante solitudine del mio appartamento.
 

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Capitolo 3
*** Riflessioni ad alta voce ***


3. Riflessioni ad alta voce
Il buio mi avvolge con le sue braccia calde. Non mi viene neanche in mente di alzare le persiane, di accendere le luci. Nel buio più assoluto mi sento protetto.
Silenzio.
Conosco a memoria ogni dettaglio dell’appartamento che ho comprato quasi due anni fa nel centro di Milano, a un chilometro da Piazza Duomo. Appendo il cappotto all’attaccapanni di legno posizionato accanto alla porta d’ingresso, poi inizio a sbottonarmi la camicia avanzando lentamente verso il bagno.
Proprio quando sto per entrare nella doccia un’improvvisa luce azzurrognola illumina le pareti. Il telefono.
-Pronto?-
-Ciao Michele, volevo ricordarti del nostro appuntamento di questa mattina. Non ti ho visto arrivare, volevo assicurarmi che andasse tutto bene- sento dire alla voce del mio terapeuta alterata dal telefono. Non è stata una mia idea, sia chiaro. Avrei benissimo potuto fare a meno di uno psichiatra. Ma i miei genitori me l’hanno praticamente imposto. Dopo mesi di faticosa resistenza ho ceduto per quieto vivere.
-Scusa Sam, possiamo rimandare?-
-Certamente, sposterò l’appuntamento ad oggi pomeriggio. Ci vediamo alle tre, d’accordo?-
-Immagino di non avere scelta-
-Hai sempre una scelta. Ma conosci la mia opinione: meglio non mollare proprio adesso che stai migliorando. I tuoi genitori ed io vogliamo solo aiutarti.-
 
Ovviamente. Vogliono solo aiutarmi.
 
-Lo so. Ti ringrazio, Sam-
-A più tardi, Michele- Sam chiude la telefonata, ed io sono libero di lavarmi via i residui di umanità che mi si sono impigliati fra i capelli.
Dopo il fatto del fiammifero nelle fessure della parete di quella casupola, i miei genitori e le autorità che erano intervenute mi hanno avviato ad una riabilitazione forzata. Quando credevo che fosse finita è spuntato Sam. I miei genitori mi hanno convinto sfruttando la loro paralizzante eloquenza e la mia incapacità di tramutare le mie sensazioni in pensieri definiti e i pensieri in parole dal senso compiuto.
Sam, mamma e papà sono gli unici esseri umani con cui parlo da almeno un anno. Le interazioni sociali non mi fanno impazzire, ricorro al contatto umano solo se necessario, e alla comunicazione verbale in rarissime occasioni. L’umanità è qualcosa di contemporaneamente interessante e disgustoso.
Il suo vero nome è Luigi Costante, ma io ho deciso di chiamarlo Samuele, abbreviato in Sam. Perché? Non lo so. Lui sembra accettarlo senza problemi.
 
Il succo del discorso con Sam di questo pomeriggio è che secondo lui avrei bisogno di stimoli nuovi, che mi diano una motivazione per continuare a progredire nel mio percorso di apertura alla vita e verso le interazioni sociali. Mi domando se è quello che voglio davvero. Interazioni sociali? E cosa me ne faccio? Riesco a sopravvivere grazie al potere degli acquisti on-line, così posso procurarmi i beni primari senza camminare in un supermercato affollato e rischiare di parlare con qualcuno. L’unico sforzo è aprire al corriere, o parlare col portinaio del palazzo. Così come faccio con tutto il resto, tranne rare eccezioni. Stare in mezzo alla gente mentre fumo e bevo caffè davanti alla sede universitaria di via Festa del Perdono è una di quelle. Ho iniziato con un consiglio di Sam: “osserva le persone e cerca di capire perché ti disgustano tanto”. Non mi sono mai chiesto il perché del mio odio verso la collettività.
-Forse ti ritieni superiore?- domanda Sam sfacciatamente. Ormai ha capito che apprezzo le domande e le osservazioni dirette. Chi cerca di celare ciò che pensa veramente mi risulta irritante.
-Sì, sicuramente.- O almeno è quello che propino a chi me lo chiede. -Osservando gli studenti e tutti coloro che transitano in quella zona, mi sono reso conto che non tutte le persone mi disgustano. Sono i loro comportamenti a infastidirmi. O la maggior parte di essi. Gli studenti mi incuriosiscono maggiormente perché sembrano più felici, più allegri. Hanno più fiducia nella vita. Mi piacerebbe chiedergli il perché, che cosa amano tanto della loro quotidianità, in cosa sperano.-
-Potresti provare a farlo-
-Ma sei pazzo?-
-Io no-
Non avrebbe dovuto rispondermi così. Lo sa, non è esattamente quella che si definirebbe una risposta professionale, ma io considero Sam abbastanza intelligente per decidere che la sua risposta mi piace. Ridacchio.
-Quindi secondo te, che stai lavorando per insegnarmi a comportarmi in modo civile, per citare mia madre, dovrei fermare uno studente e chiedergli “Ehi tu, sì proprio tu essere umano che non ho mai visto prima d’ora, cosa ami della tua vita e in cosa speri?” Perché questo è un comportamento normale?-
-Tu che idea hai della normalità, Michele?- Tipico di Sam. Anzi, tipico dei terapeuti porre domande su un dettaglio della frase che hai appena pronunciato. Non è del mio concetto di normalità di cui voglio discutere.
-Penso che sia qualcosa che faccia parte di ogni persona, ma di cui al contempo ogni persona desideri liberarsi. Tutti sono normali, ma tutti odiano esserlo, anche se non lo ammetterebbero mai.- Non sono soddisfatto della mia definizione: non è tutto quello che volevo dire, ma non saprei quali altre parole usare. Le parole sono limitanti. Ogni tipo di linguaggio umano lo è.
-Non hai risposto alla mia domanda, Sam- ribadisco.
-Quello che intendevo prima è che potresti cercare di parlare con qualcun altro oltre che con me e i tuoi genitori, così forse potresti scoprire da solo la risposta alle tue domande-
-Non è poi così importante-
-Allora cosa ritieni importante?-
-Bella domanda, Sam. Al momento penso che non esista qualcosa di veramente importante. Di solito ci si racconta che le cose importanti nella vita sono la salute, un tetto sulla testa, gli affetti… Per me sono cose indifferenti. Se non voglio interagire con nessuno, degli affetti posso fare tranquillamente a meno, così come della salute: a cosa mi serve essere in salute se non ho nessuno scopo per essere vivo? Per il tetto sulla testa è lo stesso principio. Altre cose come i soldi, il potere e lo status sono inutili, perché dipendono dalle persone che ti circondano. Cioè, se si è potenti ma non si ha nessuno su cui far valere il proprio potere, allora il potere stesso non ha senso. Io non me ne faccio niente, perché desidero soltanto che l’umanità intera non esistesse.-
-è molto forte quello che stai dicendo, Michele. Hai mai pensato a come vivresti se il resto dell’umanità non esistesse?-
-Molte volte.-
-E..?-
-Allora non esisterei nemmeno io e questo non sarebbe un problema, ma una benedizione. Perché sono vivo? A cosa serve vivere? E se vivere non ha uno scopo allora a cosa serve interagire con i propri simili? Inoltre io sono veramente simile agli altri esseri umani? In cosa, nell’aspetto o anche in tutto il resto?-
-Se pensi che sia una benedizione non essere al mondo, hai mai tentato… Insomma, hai mai cercato un modo per non fare più parte del mondo?-
So bene cosa intendeva domandarmi.
-In che senso?- chiedo. Amo mettere Sam a disagio. So che teme di essere lui a darmi l’idea di uccidermi, ma non sono un idiota, è un’opzione che ho già vagliato.
Sam mi guarda negli occhi, anche se sa benissimo che non lo sopporto. Sa che ho capito cosa mi sta chiedendo e sta attendendo una mia risposta. Decido di cedere, perché sono stanco e voglio andarmene. E Sam sa avere una pazienza snervante.
-No. Voglio solo capire perché sono vivo, non voglio morire.-
-Beh, Michele, questo direi che è importante, non trovi? Cercare di capire perché sei vivo. È un bellissimo scopo da conseguire-
Non posso crederci. È riuscito a girare la situazione a suo favore ancora una volta. Credo che Sam inizi a piacermi. Sarebbe la prima volta che capita.
Esco dallo studio di Sam convinto che proverò a parlare con qualcuno. Domani. Oggi ho parlato anche troppo.
 

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Capitolo 4
*** Scambio di interazioni vocali ***


4. Scambio di interazioni vocali
 
La mattina seguente decido di tornare alla mia abituale postazione di osservatore davanti all’Università. Mi sento come se fossi uno studioso del genere umano, più precisamente della categoria “studenti universitari”, chiedendomi se qualche antropologo o sociologo ha mai intrapreso studi simili ai miei.
Ieri Sam mi ha suggerito di provare a sostenere una conversazione, anche breve, con qualcuno con cui di solito non parlo, quindi faccio scorrere lo sguardo nel locale in cui mi trovo, indagando sulla fauna umana che lo popola in questo momento, per scegliere la mia cavia.
All’interno del piccolo bar si trovano soprattutto studenti, o persone giovani e chiassose, organizzate in gruppetti, che io suppongo si tratti di studenti. Se scegliessi uno di loro mi ritroverei ad attirare su di me l’attenzione di tutto il suo gruppo di amici; meglio cercare qualcuno senza compagnia. Una giovane barista, che nel frattempo si deve essere accorta del mio comportamento tentennante mentre dall’uscio mi incammino lentamente verso il bancone, mi saluta sorridente: sarà lei. Sarà lei con cui oggi intratterrò uno scambio di interazioni vocali. Cerco di sorridere tentando di formulare nella mia mente una frase di esordio che possa essere considerata socialmente normale e non scontrosa. Il mio bagaglio socio-culturale personale in questo ambito non è sufficientemente ampio, di conseguenza ricorro alla mia esperienza cine-letteraria, vagliando tutte le scene viste in televisione, lette in libri e simili.
Non mi sono preparato un discorso, non ci ho nemmeno pensato fino a questo momento. Io solitamente tendo a non pensare a ciò che mi preoccupa, a fingere che non esista nessun problema.
 
Immaturo. Questo è l’aggettivo che usa mia madre riferendosi a questa mia caratteristica. Irresponsabile. Quello che userebbe mio padre.
 
Sfoggiando il sorriso meno falso che riesco a riprodurre, rispondo al suo “ciao” con un “buongiorno”. Male, Michele, hai già sbagliato registro. Lo capisco dal raffreddarsi del sorriso della ragazza. Ora penserà che voglio mantenere le distanze, il che di solito è vero, ma questa volta mi sto sforzando. Impegnato ad assecondare le mie paranoie, mi dimentico che lei sta aspettando che le dica cosa desidero ordinare.
-Un caffè- dico. Lei si gira e me lo prepara. Lo sapevo, sono risultato sgarbato. Ma è già una gran cosa che mi sia ricordato di mettere l’articolo indeterminativo davanti alla parola caffè.
Pago, mi approprio della tazzina con piattino e me la porto all’unico tavolo libero vicino alla finestra, dal quale posso adempire al mio lavoro di studioso non retribuito, dopo essermi concesso il tempo di incassare il fallimento.
 
Passano due, tre, cinque minuti. Ho svuotato la tazzina dal suo caldo e liquido contenuto, senza staccare gli occhi dalla folla al di là del vetro e senza preoccuparmi di quella al di qua. Concentrarmi su qualcosa di lontano mi aiuta a isolarmi dalla situazione in cui mi trovo, la quale è abbastanza snervante: troppi rumori di sedie che strisciano sulla superficie del pavimento, troppi tintinnii di cucchiaini nelle tazze, troppe voci umane che si amalgamano l’una con l’altra non permettendo ad orecchio esterno di cogliere frasi distinte e dar loro un senso.
 
Dario.
 
Solo dopo qualche secondo lo riconosco: è entrato anche lui nel piccolo bar, da solo. Non gli sono mai stato così vicino, eppure è da circa un anno che lo conosco.
No, non è vero, non lo conosco. Non conosco nemmeno il suo vero nome, ma soltanto il personaggio della mia fantasia che ho costruito sull’immagine di questo ragazzo che si è appena seduto al tavolo accanto al mio, con un cappuccio, una brioche e un libro aperto al primo quarto, ma che non sta leggendo. Si sta guardando in giro, probabilmente in attesa di qualcuno che non arriva, ed io lo sto fissando. Lo sto fissando tanto intensamente che lui si volta e mi sorride. E adesso cosa faccio?
Le mani iniziano a tremarmi, così come il cucchiaino che stringo ancora nella sinistra. È per quello che mi accorgo del tremore: per l’innaturale prolungamento argenteo della mia mano che oscilla leggermente. È tremendamente brutto da vedere, così me ne libero lanciandolo via.
 
A quanto pare lanciare i cucchiaini in pubblico non è considerato un gesto carino.
Dario mi rivolge un’occhiata interrogativa, il feroce brusio che regnava fino a un istante prima è scomparso e la barista grida: -Ehi! Che fai?-
Ora l’agitazione di prima si sta trasformando in ansia, le mani mi tremano sempre di più, il respiro si accorcia e si fa più veloce e io devo uscire da qui altrimenti esploderò. Mi alzo e riesco ad avere la lucidità di centrare la porta mentre corro fuori.
 
Quando, trafelato, arrivo ad aprire la porta della mia tranquillità buia e solitaria, sono libero di accasciarmi a terra e lasciar scivolare le lacrime lungo le guance, senza alcuna restrizione. Non ho tolto il cappotto di dosso e nemmeno la sciarpa e i guanti. Non ho tolto nemmeno la paura che ho provato dallo stomaco, nemmeno gli sguardi di tutti coloro che mi hanno osservato dalla pelle, non ho tolto la voce della barista dalle orecchie, nemmeno Dario dagli occhi. Mi tengo tutto, tutti addosso e piango. Assaporo il mio dolore fino a stancarmi, godendomi la sofferenza apparentemente immotivata, alimentandola volontariamente. Autocommiserarmi ogni tanto mi piace, piace a tutti, anche se non lo direbbe mai nessuno ad alta voce.
Quando le lacrime finiscono mi accorgo di avere caldo, così inizio a levare strati di vestiti e di emozioni, senza fretta di tornare ad essere il cinico misantropo di sempre.
 
Non riesco ad analizzare fino in fondo quello che accade e perché accade. So soltanto che ci sono momenti, momenti che non posso prevedere, in cui gli esseri umani mi spaventano più del solito, in cui la vista si annebbia, il cuore accelera i battiti, ed io non sono più padrone del mio corpo e delle mie reazioni. Vorrei non esistere. Al contempo, però, in quei momenti mi aggrappo a tutti i frammenti di vita che mi trovo accanto e, in nome dell’umanità che ci dovrebbe rendere simili, desidero domandare loro di salvarmi. Ma salvarmi da cosa? Non posso chiedere a qualcuno di salvarmi da se stesso.
 
Mi accorgo anche di avere sonno. Il pianto mi ha sfiancato. Dopo la consueta doccia post contatti umani mi trascino verso il letto senza preoccuparmi di rivestirmi: nel mio mondo sicuro, caldo e chiuso a chiave non ho bisogno di mascherare l’involucro di carne in cui sono nato. Eppure una volta sdraiato mi rintano sotto le coperte come se avessi la necessità di nascondermi da occhi esterni, da occhi scuri che indagano dentro di me per valutare il potenziale di pericolo che si corre restando in mia presenza.
Sono blu. Gli occhi di Dario sono blu. Da quando ho iniziato a osservarlo un anno fa ho sempre dato per scontato che fossero neri, come i miei. Questo particolare cambia tutto. Dario non può più essere Dario.
 

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Capitolo 5
*** Amore materno ***


5. Amore materno
 
Da più di vent’anni lancio appelli silenziosi a mia madre, senza che lei li abbia mai colti. Nonostante le mie stranezze, lei ha sempre provato a dimostrarmi il suo amore. Non posso dirmi altrettanto sicuro dei sentimenti di mio padre, ma mamma mi ha spiegato che le dimostrazioni d’affetto non sono facili per gli uomini come lo sono per le donne: c’è sempre in agguato un misterioso giudice sovrumano che potrebbe condannarli severamente per questo. Potrebbe convincere il resto del mondo che non sono degni di essere considerati uomini, che sono deboli, perché amano.
-Non è una pena di cui mi importerebbe granché, se l’occhio del grande giudice si posasse su di me-  risposi una volta.
-Ma a te non importa mai nulla-
Niente di più vero. Da allora iniziai a pensare che non è una cosa poi così brutta il mio disinteresse per le interazioni sociali. Comunque sia, io questo giudice non l’ho mai visto, e credo che mia madre l’avesse inventato perché io non rimanessi ferito dall’atteggiamento di mio padre. In realtà non è qualcosa a cui tenessi tanto, nemmeno io sono portato alle manifestazioni volontarie delle mie sensazioni interiori. Mi limito a battere i denti quando ho freddo, a sudare quando ho caldo, a scagliare gli oggetti lontano da me quando per un qualsiasi motivo mi innervosiscono, e ad andarmene quando capita con le persone. Certamente vorrei che si potessero scagliar via anche le persone ma, prima di tutto sono troppo pesanti; in secondo luogo non sono un tipo violento.
 
Sono consapevole che si possa facilmente pensare che la violenza faccia parte della mia filosofia di vita, ma non è così. Il contatto fisico mi ripugna troppo per picchiare qualcuno, e non ho mai avuto un grande bisogno di difendermi tanto da procurarmi un’arma, che comunque nessuno mi permetterebbe di tenere, data la mia situazione di instabilità. Soprattutto, non ho mai attaccato qualcuno in maniera premeditata.
 
Ma cosa mi è saltato in mente! Perché l’ho fatto? Io sto bene, perché dovrei voler parlare con qualcuno? Quando parlo con Sam provo sensazioni contrastanti, e la maggior parte delle volte me ne torno a casa confuso e abbattuto pensando che forse dovrei pensare a qualcosa, ma non so da che parte cominciare. Invece quando parlo con mia madre mi sento semplicemente frustrato.
 
-Dovresti pensare di meno e parlare di più-
-Io non penso affatto. Per questo non parlo: non ho nulla da dire-
-Non è vero. So che non è vero. Hai sempre parlato poco, Michele, ma quando eri bambino per lo meno ti comportavi bene, non capisco cosa possa essere successo dopo.-
 
Detesto le visite di mia madre. Dopo pranzo lei ha deciso di entrare in casa mia con un preavviso di circa due minuti. Ora, dopo quasi due ore di frasi lasciate a metà, di discorsi iniziati senza alcuno scopo e troncati brutalmente dal mio silenzio, sta seduta di fronte a me con una tazza di tè in mano che mi ha obbligato a farle. Ha alzato le persiane e acceso qualsiasi cosa si possa illuminare, potendo così dar voce al solito giudizio sul mio appartamento: troppo disordinato, troppo polveroso, troppo poco accogliente.
-Il mio appartamento non ha intenzione di accogliere nessun altro che me-
-Va bene, tesoro. Mi dispiace.-
-Per cosa?- Non capisco cosa possa dispiacerle.
-Che tu sia così solo. Sarei più tranquilla se sapessi che hai qualcuno accanto che si prenda cura di te-
-Come una badante? Sono autonomo, mamma-
-No, Michele, qualcuno che ti voglia bene davvero, che ci tenga, che sia al tuo fianco in caso di bisogno-
-Non ho bisogno di nulla-
 
Mamma lascia cadere la conversazione, sa che con me è troppo difficile portarne avanti una. Non sono ancora riuscito a capire, da come mi guarda, se pensa che io sia stupido, se lo sono veramente, o se è lei a non aver mai capito niente. Comunque stiano le cose, lei è qui, dopo anni in cui ha sofferto a causa mia; non si arrende all’ingratitudine di questo suo strano figlio, continuando a fare saltuariamente la spesa al posto mio per reperire prodotti più sani, a detta sua, di quelli che sono solito consumare.
Forse è vero che non ha mai colto i miei muti appelli, ma non posso dire che non si stia sforzando di farlo. Costantemente. Non comprendo la sua inutile tenacia, anzi, mi dà quasi fastidio. Tutti si arrendono con me, dopo un po’: nessuno vorrebbe avere rapporti personali con qualcuno che detesta i rapporti personali e che non teme di farlo capire. Nessuno tranne mia madre.
 
-Perché lo fai?- le domando.
-Perché faccio cosa?-
-Perché sei qui, se sai che non voglio che nessuno venga qui?-
-Perché se non venissi da te non ti vedrei mai. Non pretendo di sentirti tutti i giorni, ma voglio sapere se stai bene e assicurarmi che tu viva in modo decente. Sai che mi preoccupo, non si può vivere da soli.-
-Tante persone vivono da sole- ribatto.
-Non in quel senso, Michele- alza leggermente il tono di voce. Mia madre è una di quelle persone che si spazientisce se invitata a spiegare quello che ha già detto, la infastidisce che gli altri non pensino attraverso lo stesso schema da lei seguito. –Tante persone vivono da sole, ma non sono sole nel verso senso della parola. Hanno delle amicizie, delle conoscenze, non hanno problemi a parlare con gli sconosciuti se dovessero averne bisogno. Tu invece…-
-Fosti tu a dirmi di non parlare agli sconosciuti quando ero piccolo. Avevo dodici anni quando decisi di ascoltare il tuo consiglio.-
Mamma non dice nulla. Ha capito a cosa mi riferivo, e ancora oggi la fa soffrire. L’ho sentita dire a mio padre che la colpa era solo sua se io sono così. Li ho sentiti accusarsi a vicenda, e poi autoaccusarsi.
 
-Forse è ora che vada. Chiama ogni tanto-
Si alza, raccoglie la borsa da terra e si dirige verso la porta. Mentre si infila il cappotto penso che forse dovrei dirle qualcosa, dirle quello che provo ogni giorno della mia vita, così da dare una voce agli appelli che le ho sempre rivolto solo con gli occhi.
Facendo fare un giro intorno al suo collo alla lunga sciarpa apre la porta, mi guarda, accenna un sorriso e la richiude dietro di sé. Come dicevo, detesto le visite di mia madre, perché quando se ne va mi lasciano sempre un vuoto incolmabile al petto.

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Capitolo 6
*** Il bosco d'inverno ***


6. Il bosco d’inverno
 
Milano è devastante.
L’ho scelta per la vita che non dà spazio alla vita. Volevo capire cosa spinga gli esseri umani ad intossicarsi in questo modo. Credo di essere arrivato alla conclusione che sia proprio la vita che non dà spazio alla vita ad essere l’attrazione: lo stress accumulato fornisce alle persone la motivazione perfetta per cadere nell’insoddisfazione, dando loro modo di lamentarsi e di accusare lo stress e la vita frenetica per ogni loro fallimento. Il continuo andare, fare, progettare, organizzare, creare impegni su impegni offre l’occasione di non pensare. Pensare potrebbe essere troppo pericoloso. Potrebbe portare qualcuno ad accorgersi di non aver realizzato ciò che aveva sognato da bambino, ad accorgersi che nel proprio mondo sociale manca qualcosa. Qualcosa come la felicità. Ovviamente non è mia intenzione generalizzare: esisterà certamente qualcuno felice di vivere nel caos, nello smog, circondato da cemento e piccioni; ma forse è felice così perché non ha mai potuto sentire sulla pelle la purezza del bosco d’inverno.
 
Il bosco è il luogo dove tutto diventa più chiaro, più semplice e più affrontabile. Nel paese dove sono cresciuto i boschi sono facilmente raggiungibili, e qualche volta sento il bisogno di tornarci, come quando da bambino litigavo con qualcuno e per far sbollire la rabbia o la delusione mi sdraiavo tra gli alberi. Restavo semplicemente immobile, con gli occhi che vagavano tra i mille dettagli di quel luogo, e mi ricaricavo. Esattamente come sto facendo ora, come faccio ogni volta che ne sento la necessità. Ci sono momenti in cui l’oscura sicurezza del mio appartamento in città non è più sufficiente e ho l’esigenza di sentirmi ancora più isolato del solito. È così che mi ritrovo a rischiare il congelamento, accoccolato sul sottile strato di neve e protetto da rovi e sterpaglie addormentate in attesa della primavera, desiderando ancora una volta di non far parte della categoria di esseri viventi definiti umani semplicemente per poter sopportare meglio il freddo. Resto immobile, cercando di non tremare, e sprofondo in un godibile stato di torpore che quasi mi permette di diventare parte integrante della vita assopita del bosco. Non sono ancora riuscito a chiarirne le motivazioni, ma qui, immobile e inattivo, sono felice.
 
 

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Capitolo 7
*** Giovanna ***


7. Giovanna
 
Stavo andando da Sam quando ho incontrato Giovanna in stazione. È strano, perché non l’ho mai vista da vicino. È più o meno come con Dario, quando mi sono accorto che il colore degli occhi che ho sempre pensato fosse il suo non era il suo, o forse era la persona che immaginavo essere Dario a non essere Dario. Giovanna è più bella di come appare vista da lontano mentre cammina con la sua tipica aria schiva.
È seduta su una delle fredde panchine di ferro della stazione, sola, come sempre. Sta piangendo. Lo fa silenziosamente, così come fa tutto, per non attirare l’attenzione di nessuno, ma sta piangendo.
 
Vorrei toccarla. Non mi è mai successo prima di voler toccare un altro essere umano, e immediatamente mi impongo di tornare in me, nella mia gelida indifferenza verso i miei simili, trionfando istantaneamente nel mio intento appena un aroma di caffè mi solletica le narici.
Pur di non vedere Giovanna cambiare l’immagine che ho di lei decido di optare per il caffè del bar piuttosto che per quello del distributore automatico. So bene che chiunque compirebbe questa scelta, tra le due possibilità; chiunque non sia infastidito dall’idea di parlare con il barista. Io preferisco sempre le macchine, meno brave a fare il caffè, ma più silenziose e comprensive. In questo caso, però, sono troppo vicine a Giovanna.
Percorro qualche metro in direzione del bancone, ma gli occhi dell’uomo brizzolato che ci sta dietro mi aggrediscono senza preavviso, ed io non ricordo più cosa volessi chiedere a questo sconosciuto dallo sguardo violento.
Dietro front.
Dovrei prendere il treno per non arrivare in ritardo all’appuntamento con Sam, ma mi sembra davvero crudele lasciare sola Giovanna quando avrebbe bisogno di compagnia. Mi siedo dietro di lei, esattamente dietro di lei in linea retta, nella fila di orrende panchine di ferro subito dopo la sua. Potrei toccarle una spalla se volessi, ma non credo sia una buona idea. Se fossi empatico e gentile le offrirei un caffè al distributore automatico che si trova alle nostre ore tre.
Caffè! Ecco cosa volevo chiedere a quel… non importa più. Sarebbe troppo stupido alzarsi di nuovo e rischiare che qualcun altro si impossessi del posto esattamente dietro Giovanna. Nel frattempo lei ha smesso di piangere, limitandosi a fissare un punto indefinito nel vuoto.
Dopo qualche secondo sento il suo telefono squillare dalla tasca della giacca. Lei lo tira fuori, permettendomi di leggere il nome sullo schermo: Michael. Solo Michael, senza nessun cognome; deduco si tratti di qualcuno con cui ha abbastanza confidenza. Giovanna rifiuta la chiamata. Il sospetto mi nasce spontaneo: Michael è il tizio che l’ha fatta piangere, che vorrebbe scusarsi, ma è troppo tardi.
 
Il treno, dannazione!
Corro verso il binario appena sento l’annuncio seguito dal tipico sferragliare. Per miracolo riesco a infilarmi nella carrozza più vicina senza sbattere contro nessuno. Odio i treni: sono sporchi e rumorosi. Ma ahimè non possiedo la patente di guida, e mi devo arrangiare con i mezzi pubblici. Fortunatamente sono solo un paio di fermate, e posso affrontare il breve viaggio compresso in un angolino e al sicuro da tocchi indesiderati, la maggior parte delle volte. Sam è molto attento a farmi evitare gli orari di punta. Quando arrivo nel suo studio sono sudato e un po’scosso: l’incontro con Giovanna mi ha turbato, anche se non quanto quello con Dario.
 
-Perché ti ha turbato, Michele?- domanda Sam. Lui sa delle storie che ho inventato su quei ragazzi.
-Non lo so, forse perché è strano averli avuti così vicino. Finché erano lontani erano innocui, ora sembrano più… reali. Non potevano toccarmi prima, ma adesso, se volessero, potrebbero. Dario mi ha addirittura sorriso-
-Ti ha visto durante un momento di debolezza- commenta Sam –Non ti turba di più quello, rispetto al sorriso?-
-Mi ha visto lanciare un cucchiaino, tutto qui-
-Già. È un comportamento inusuale-
-Forse per te. Per me no-
Sam annuisce e sorride. Ciò che Dario possa aver pensato del lancio del cucchiaino e della mia conseguente fuga non mi interessa, se ne dimenticherà e comunque non influenza né la mia vita né la sua.
-Il sorriso mi ha turbato perché significa che mi ha visto-
-Ti ha visto anche mentre lanciavi il cucchiaino- perché diavolo Sam sta insistendo su questo argomento?
-Sì, ma è diverso-
-Perché?-
-Perché mentre mi sorrideva era come se fosse normale. Sembrava così normale il fatto che io lo guardassi e che lui mi vedesse mentre lo osservavo. È stato come se il personaggio inventato da me fosse diventato di colpo reale- penso un attimo a come continuare la frase, per cercare di rendere l’idea di quello che mi ha provocato tutta quell’agitazione che poi mi ha portato a lanciare il cucchiaino –e anche come se fossi diventato un po’più reale anch’io-
Sam mi guarda senza commentare, probabilmente non ha ben capito cosa intendo dire, e da spiegare è piuttosto difficile.
-E la ragazza di prima, invece?- chiede.
-Giovanna? Lei non si è accorta di me, ma il fatto che fosse così vicina da poterla toccare mi ha fatto lo stesso effetto. Forse anche che piangesse, che possa provare sentimenti che non dipendono da ciò che io invento sulla sua vita. Loro non esistono per merito mio, ma io esisto per merito loro-
Questa volta Sam non può trattenersi dal chiedermi chiarimenti, ma io non so accontentarlo. È come se la vita che loro vivono nel mio mondo immaginario sia qualcosa che mantiene in vita anche me.

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Capitolo 8
*** Mura di carta ***


8. Mura di carta
 
Oggi non ho alcuna voglia di uscire e di affrontare il caos della selvaggia folla umana. Mi sforzo con tutto me stesso per restare calmo, per non pensare che dietro i muri protettivi di casa c’è tutto quel rumore, tutta quella pelle, tutti quei respiri.
Vorrei tornare nel bosco, ma non riesco a uscire dall’appartamento. La sola idea fa tornare in vita la creatura grigia che abita il mio stomaco. Per sfuggire alla sua ira non ho altra scelta se non quella di contrastarla con l’immobilità e il respiro lento come ho imparato a fare negli anni. Mi stendo nel posto che mi fa sentire più a mio agio dopo il bosco, ovvero il pavimento della biblioteca di casa mia. È troppo piccola per essere definita una vera biblioteca, ma è comunque una stanzetta piena di libri. Non c’è altro, perché i libri, una volta finiti gli scaffali alle pareti, hanno iniziato a colonizzare qualsiasi spazio disponibile, tra cui la poltrona, il tavolino e parte del pavimento. Io non sono un fan dell’ordine, nonostante Sam e mia madre mi ripetano che l’ordine fisico stimola l’ordine mentale. Non è il mio caso.
 
Il tappeto della biblioteca è uno degli oggetti che pulisco con maggiore cura, perché mi ci sdraio spesso. È caldo, soffice e circondato da inespugnabili mura di libri. Mura di carta viva, che costudisce mondi paralleli a quello di carne e aria che mi imprigiona.
 
Porto le ginocchia al petto e ci poggio la fronte sopra, con gli occhi serrati. Se resto così tutto ciò che percepisco è l’odore della carta stampata, che inconsciamente associo alla sicurezza e alla tranquillità di avventure e situazioni che non riguardano me. Non del tutto, almeno. A volte riesco a convincermi che leggendo vivo davvero, mi convinco di fare scorta di emozioni forti e di contatti umani piacevoli, che nella mia vita materiale non esistono. Mi convinco di essere felice. Ho sempre detto di essere contento così, da solo, di non desiderare nient’altro, che sopportare la piaga di esistere è già abbastanza faticoso senza relazionarmi con nessuno, figuriamoci se iniziassi a farlo. È così, è la mia scelta da sempre, e continuerà ad esserlo. Eppure ci sono giornate in cui vorrei che tutto fosse più semplice, più normale. È solo che le persone richiedono cose che io non sono in grado di dare. Parole. Parole, principalmente. A me le parole piacciono, pur che siano scritte oppure pronunciate lentamente, dolcemente, con coscienza e poche alla volta. Allora sono belle.
Poi le persone richiedono gli standard. Poi richiedono cose obbligatorie. La scuola, ad esempio, è piena zeppa di parole obbligatorie che devono soddisfare standard di cui nessuno sa spiegare la necessità. Un incubo finalmente accantonato, il periodo più brutto della mia vita. Ora sono più stabile e più vuoto; provo meno emozioni. O meglio, provo le stesse emozioni, ma meno intensamente, visto che non sono formalmente costretto a fare nulla grazie al senso del dovere dei miei genitori, che li spinge a continuare a sostenermi economicamente.
 
Ho sentito mio padre dire a mia madre di volere un altro figlio, quando ero piccolo. Sperava che gli desse soddisfazioni che compensassero le delusioni costanti provenienti da me. Suppongo sia quello il motivo della nascita di mia sorella, otto anni dopo la mia.
Mentre penso che lei è esattamente l’opposto mio, sia caratterialmente che fisicamente, gli occhi cominciano a farsi pesanti per il sonno: i farmaci che ho assunto dopo colazione stanno iniziando ad avere effetto. Ecco qual è stata la grande scoperta che ho fatto andando da Sam: gli antidepressivi.
 
Galleggio su una nuvola di ovatta dal sapore chimico, che rende piacevole il pensiero della mia bionda sorellina che a cena discute di politica con mio padre, propinandogli la visione del mondo della saggia diciottenne rappresentante del futuro. Com’è brava lei a soddisfare gli standard di adolescente socialmente attiva, che crede fermamente di essere anticonformista.
È fin troppo convinta delle sue idee, come se tutto fosse o bianco o nero. Dovrebbe leggere di più, per capire che nei torti subiti c’è sempre una ragione, e che nella giustizia c’è sempre un po’ di ingiustizia. Ma non posso spiegarglielo io, che son vivo senza vivere. Forse potrebbe farlo Giovanna; lei sì che è un’anticonformista vera. Lei non si nasconde dietro le parole e a un bel sorriso, lei lotta per un mondo migliore con la forza della sua rabbia e il coraggio di sbagliare. Giovanna non ha il timore di ritrovarsi a piangere da sola in una stazione.
 
È vero che nemmeno io ho il timore di restare solo, visto che lo sono già, e di rabbia ne ho da vendere. Rabbia verso il mondo, verso la mia famiglia, verso le vecchie vicine pettegole e gli psichiatri, verso la mia disgraziata natura e verso me stesso. Rabbia verso tutte quelle persone che conoscendomi mi evitano. Ma il coraggio di sbagliare mi manca. Mi manca eccome. È perché ho il terrore di commettere errori che me ne sto nascosto da tutto.
E mi odio ancora di più quando non riesco ad ammetterlo.
 

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Capitolo 9
*** La ricerca ***


9. La ricerca
 
I momenti di blackout come quello di ieri mi lasciano sempre un po’ intontito il giorno dopo. È dura staccarsi dalla nebbia calda dei farmaci, dal senso di protezione della mia minuscola biblioteca. Penso che non sono obbligato a farlo, ma dopo qualche ora mi convinco ad uscire ancora. Se rimango chiuso in casa, paradossalmente l’ansia aumenta. Stare in mezzo alle persone e cercare di evitarle mi dà la sensazione di avere qualcosa da fare, come cercare di capire perché sono vivo. Non che non lo sappia, certo, dal lato scientifico della cosa, o dal punto di vista dei novelli sposi che erano i miei genitori al momento del mio concepimento. Non sono spiegazioni sufficienti. Non lo sono mai, per nessuno. Tutti vogliono uno scopo nella vita, tutti vogliono sentirsi vivi, utili, soddisfatti; credere che la vita vada oltre al sopravvivere e al mandare avanti la specie. Incluso me, nonostante non mi piaccia confessarlo apertamente.
Perché sono vivo?
 
Osservo la gente camminare per strada con aria frettolosa, come se il luogo in cui sono diretti, per fare ciò che stanno andando a fare, fosse di un’ importanza fondamentale per restare in vita. Perché, alla fine di tutto, è questo che conta davvero: restare in vita. È il fine ultimo di ciascuno. Restare in vita e preservare la vita in generale, la nostra e quella delle persone importanti per noi. Tutta la fatica che facciamo per sopravvivere la condiamo di significati profondi o frivoli, aggiungendo dettagli come il divertimento, la vita sociale e mondana, l’arte, le relazioni e i sentimenti, numerose filosofie… Ma alla fine di tutto è sempre sopravvivere lo scopo, cercando di rendere il corso dell’esistenza che ci è toccata in sorte il meno noioso possibile; il meno faticoso e pericoloso possibile.
Gli uomini sono ciò che sono perché da sempre hanno avuto come obiettivo principale quello di preservare la propria vita. L’evoluzione di ogni specie vivente ne è la prova. E se qualcuno di più ambizioso degli altri sogna di lasciare il segno nella storia lo fa, consapevolmente o meno, per preservare la vita, la sua e quella dell’umanità intera. Ogni nostra più piccola mossa è stata fatta per il fine di sopravvivere, in linea generale.
Quindi siamo vivi solamente per vivere come meglio possiamo? Mi sembra un grandissimo spreco di fatica e di risorse.
 

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Capitolo 10
*** Senza lacrime ***


10. Senza lacrime
 
È come se ora il meccanismo si fosse invertito, improvvisamente, senza una ragione precisa. Da qualche giorno sto meglio in mezzo alla folla metropolitana che nella quiete delle mie quattro mura. È più facile sentirmi solo tra persone che non si curano della mia presenza che essere fisicamente solo.
La mia compagnia non mi è mai dispiaciuta prima, sono sempre stato bene con me stesso, l’unico con cui non devo giustificare il mio silenzio e la mia assenza di attrattiva nelle forme di scambio umane, di qualsiasi tipo esse siano.
Adesso invece faccio fatica a trovare un qualche tipo di stabilità nella mia testa; non mi piace più starci dentro e tento di uscirci  impegnandomi a sopravvivere, infilandomi volontariamente in situazioni di disagio.
 
Da quando ho rivisto mia sorella mi sto chiedendo com’è piangere per un’altra persona.
Mi è capitato di piangere. Da bambino piangevo quando mi facevo male o quando non ottenevo ciò che volevo, da adolescente piangevo durante gli attacchi di panico, o durante quelli isterici, urlando finché non giungeva puntuale lo schiaffo di mio padre e mi calmavo. Anche adesso piango più o meno per le stesse cose, ma comunque mai per una persona diversa da me.
Quel giorno Irene piangeva perché nostra madre è morta. È stata investita da un’auto mentre attraversava la strada a piedi, ed è morta nel tragitto in ambulanza.
Irene, mia sorella, è venuta di persona a dirmelo il giorno dopo. Ha pianto quando l’ho abbracciata. Non se l’aspettava da parte mia, ha detto. Mi sembrava la cosa giusta da fare in quel momento, ma non è che lo desiderassi.
Al funerale è stato mio padre ad abbracciare me. Anche lui piangeva. Io non ci sono ancora riuscito: piangere per qualcun altro non è nelle mie abitudini, nonostante so che tutti si aspettano che io lo faccia. Io vorrei, davvero, mi sembra rispettoso nei confronti dell’unica persona che si ricordava di riservare un po’del suo amore anche per me. Vorrei piangere e stare male, ma anche se mi sforzo non ci riesco.
 
Non riesco più a entrare nella mia testa come prima della visita di mia sorella. Adesso sta facendo lei quello che faceva nostra madre, cioè venire da me una volta a settimana a portarmi qualcosa di cucinato in casa da mangiare e cose difficilmente reperibili online. Le ho chiesto il perché.
-Non dovrei?- mi ha domandato di rimando.
-Non se non vuoi. Non ne ho davvero bisogno-
-Forse ne ho bisogno io- ha risposto. Ieri è rimasta quasi un’ora con me, entrambi senza parlare. Le ho fatto il tè, come facevo con mamma, ma lei non è come mamma. Non parla a ruota libera senza aspettarsi che io risponda o che dica frasi sconnesse al fine di provocarla. Lei sta in silenzio e mi guarda. Io sto in silenzio e la guardo. Ogni tanto scoppiamo a ridere, poi lei piange. A volte riesco a toccarla, non sempre ad abbracciarla. Non mi dispiace che venga, e non cerco di dissuaderla dal farlo come con mamma. È da un po’ che non vado da Sam. Non so se mio padre l’abbia avvisato di quello che è successo, ma il mio psichiatra non ha insistito tempestandomi di chiamate come fa di solito quando non mi vede ai nostri appuntamenti.
 

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Capitolo 11
*** Invasione ***


11. Invasione
 
Irene ed io non abbiamo mai parlato prima. Quando era piccola accadeva spesso che lei venisse da me a sprecare parole, ma io non le rispondevo mai. Alla fine se ne andava via, delusa dalla mia indifferenza. Ha smesso di fare tentativi verso la metà delle elementari, rassegnandosi a tollerare la mia presenza a tratti invisibile e a tratti ingombrante come io tolleravo la sua. Sapevo perché lei era lì, viva e allegra a godersi soddisfatta gli abbracci di mamma e papà: perché io non volevo farlo. Lei esiste perché io non ero abbastanza. Quando me ne sono andato da casa non l’ho più vista, quasi dimenticandomi di lei. Adesso invece è qui che invade ancora una volta i miei luoghi personali, costringendomi a condividere di nuovo l’aria che dovrei respirare soltanto io.
-Cosa fai quando esci da qui?- mi domanda all’improvviso, durante uno di quei pomeriggi in cui lei invade il mio spazio vitale.
La risposta viene naturale nella mia mente, attraverso le immagini rievocate dalla memoria: Barbara che ride con le amiche, Giovanna che cammina veloce, Dario che mi guarda e sorride prima che io fugga dopo aver lanciato un cucchiaino. Ma come faccio a spiegarlo a Irene? La osservo, seduto sul mio divano mentre lei si muove in giro per l’appartamento, sistemando le cose che mi ha portato per poi mettere a bollire l’acqua per il tè, che ormai sta diventando consuetudine.
-Osservo. Cammino e sto seduto.- Spero abbia senso, ma non ne sono sicuro.
-Ah- è evidente che per mia sorella non ce l’ha. –Un giorno potrei venire a osservare, camminare e stare seduta con te?- si ferma e mi guarda, con la speranza negli occhi. No. Assolutamente no. Non può rubarmi anche questo, non può invadere anche questo spazio della mia mente.
-Lo sapevo. Ci ho provato.- Sospira, senza che io abbia risposto nulla.
-Perché vorresti venire con me?- chiedo, una volta aver riordinato la struttura grammaticale nella mia testa più volte. Anche lei pare non sapere cosa dire; si guarda in giro, come se stesse cercando una via di fuga. Anche a me capita spesso di farlo, così capisco di averla messa in difficoltà.
-Mi sento sola da quando mamma… non c’è più. Papà è strano, mi parla a fatica, tutti si comportano in modo strano con me, è tutto diverso adesso. È come se adesso papà si aspetti che io diventi come la mamma, che faccia tutto quello che faceva lei. Mi sento addosso pesi che non voglio avere, non riesco a smettere di piangere quando penso a lei, vorrei che tutto tornasse normale anche se so che è impossibile. Vorrei solo scappare da tutto e da tutti e smettere di stare male.- Qualche lacrima le scivola lungo il viso mentre si avvicina per sedersi accanto a me sul divano. -È come se tu rappresentassi qualcosa di esterno alla vita, per me.-
-Purtroppo non lo posso essere davvero. Sono anni che ci provo senza successo-
Irene mi guarda e ride: -È la frase più lunga che ti abbia mai sentito dire.-
Io non capisco bene perché lei stia ridendo, ma preferisco questo a quando piange. Cerco di sorridere e lei ride più forte. A quanto pare non sono bravo nemmeno a fare finta di sorridere.
-D’accordo, puoi venire- dico. Lei sorride e so che vorrebbe dire qualcos’altro oltre a “grazie”, ma non lo fa.
Ultimamente non sto frequentando molto il solito posto davanti all’Università, perché è fine gennaio, e credo che in questo periodo le lezioni non ci siano: la gente è più rara lì in questo periodo, così come d’estate. Non posso portare Irene lì, anche se mi sarebbe piaciuto raccontarle le vite dei miei amici immaginari. Non so perché, ma sento che forse lei potrebbe anche non giudicarmi frettolosamente come i miei genitori, fosse anche soltanto perché ha bisogno di me. O meglio, ha bisogno di ciò che rappresento per lei, come ha detto. Mi chiede quando ci vedremo per fare quello che faccio di solito e io le chiedo un giorno di tempo per abituarmi all’idea, anche se lei vorrebbe uscire subito, o il giorno dopo. Io però non sono a mio agio con l’improvvisazione. L’unica cosa che non pianifico sono i discorsi con le persone, quando mi capita di dover parlare con qualcuno, perché in quel caso la premeditazione ingarbuglia le idee e basta. Me ne sono accorto a scuola, quando ho provato qualsiasi metodo per adattarmi e farmi accettare, quando ancora farmi accettare dai miei genitori mi interessava, almeno un po’.
 

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