Luca e Camilla

di Samita
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le Botte ***
Capitolo 2: *** La Gloria ***
Capitolo 3: *** Abitudine ***
Capitolo 4: *** Missione ***
Capitolo 5: *** Prima Reazione ***
Capitolo 6: *** Vestiti ***



Capitolo 1
*** Le Botte ***


1. Le Botte


La prima volta in cui Luca aveva alzato le mani era stato un disastro.
Da quel giorno divenne un ferreo sostenitore della non-violenza.
A dirla tutta, lo era anche prima. Ma poi Cami aveva passato il limite, e lui, che in fondo a sei anni e mezzo poteva permettersi d'essere ingenuo, aveva fatto la cosa sbagliata.
Al momento sbagliato.
Sulla persona sbagliata.

Così accadde che la prima (e ultima) esperienza di botte della vita di Luca si concluse con una doppia umiliazione: anzi tutto perché finì lui, a prenderle – e da una femmina –; secondariamente, perché la ramanzina l'avevano fatta a lui. Solo a lui. Unicamente a lui.
Piegato in due per il calcio rotante da poco ricevuto al fianco sinistro, si era pure preso la strigliata dalla maestra.
Va bene, Cami sanguinava dal naso.
Ma era il doppio di lui.
In altezza e in furia.
La bambina si puliva il sangue dal volto con la tranquillità di un pugile professionista, che di fronte a un'epistassi più che sorprendersi si scoccia perché gli si macchia di nuovo la maglietta.
"Ma è vero!" urlava Camilla, adirata, contro la maestra.
Quella la ignorava, continuando la predica a Luca: "Allora? Cosa ti è saltato in mente?"
Luca taceva.
Lo aveva già detto, lui, che aveva iniziato Cami a tirargli i capelli.
"Ma è vero!"
Camilla era onesta. Troppo onesta.
Continuava a insistere, senza ottenere granché.
"Le bambine non si toccano nemmeno con un fiore!" ribadì la donna, rivolta a Luca.
"Ma non mi ha fatto niente!" insisteva Camilla, tirando su col naso quel poco di sangue che ancora le colava di dosso.
"Mettiti il fazzoletto sul naso, tu!" la rimproverò l'altra maestra.
"Ma non sanguina più! E poi gli ho fatto più male io! Punite me!"
... Punite me.
"Punite me!"
Camilla era sempre stata così: guardate me, prendetevela con me, punite me.
"Piantala."
"Gli ho tirato un calcio!"
"La smetti?"
"Gli ho fatto più male io! Ho vinto io!"
"Camilla!"
"Punite me!"
"Vai a sederti, immediatamente!"
Luca non disse una parola per i tre giorni successivi. Gli fecero riempire un quaderno di sillabe: da ba a zu, tutte, e poi le ch e le gh e le gn. Le pagine avanzate (tre o quattro) avrebbe dovuto colmarle con Scusa Camilla.
Scusa Camilla.
Scusa Camilla.
Le maestre non avevano ancora chiaro cosa frullava nella testa della bambina: due giorni dopo la consegna del quaderno di Luca, lei si presentò alla cattedra, a sua volta, con un quaderno apparentemente nuovo di zecca, ma le cui pagine erano ben separate dall'uso.
Era pieno di ba, be, bi... fino a zi zo e zu; mancavano le gh e le gn e le ch varie: se ne era dimenticata. Le ultime pagine, a tratto pesante e pressoché incise, recitavano con insistente insolenza: Ho vinto io. Punite me. O vinto io punte me. Ho vinto io Puniteme.
Quando le maestre lo fecero vedere ai genitori di Cami, chiedendo se era stata una loro idea, quelli osservarono straniti l'operato della figlia.
"Pensavo che quel quaderno le servisse per disegnare."

Ecco com'era andata: Luca aveva una gomma da cancellare bellissima, bianca rossa e blu. Camilla non credeva nelle gomme da cancellare: in fondo c'era la gommina in testa alla matita, perché mai possederne una in più? Senonché, un giorno, le gommine in testa alle matite di Cami erano finite. E Cami aveva iniziato a prendere la gomma di Luca.
Prima l'aveva chiesta, con cortesia.
Luca gliela aveva data senza scomporsi.
Poi la richiesta aveva iniziato a diventare sempre meno cortese:
"Luca, mi dai la gomma?"
"Luca, la gomma?"
"La gomma?"
"Gomma?"
"Luca!"
E così per giorni, finché un giorno Pietro non tornò più indietro.
"Dov'è la mia gomma?"
"Non lo so."
"Ma è la mia gomma."
"E se è tua, sai tu dov'è, no?"
"No, me l'hai rubata."
"No!"
Luca era paziente. Mentre Cami alzava la voce, lui insisteva calmo e metodico: "Me l'hai rubata."
"Ho detto di no!"
"Sì, invece."
"NO!"
"Cami, mi hai rubato la gomma."
"Non è vero!!!"
"Sì, invece."
Cami era arrivata ad un tono di voce da far indispettire la maestra, che si stava avvicinando per calmarla.
"Non l'ho rubata!"
Ecco. Adesso.
Camilla aveva il sangue agli occhi, non tanto perché accusata di un falso misfatto, ma perché Luca non sembrava capace di agitarsi in alcun modo. E questo la mandava ai matti.
Per questo afferrò la testa del bambino per i capelli.
Ma Luca non si mosse.
"Bambini, buoni! È solo una gomma!"
"Mi hai rubato la gomma." continuava a mugugnare Luca, sofferente per la presa di Camilla.
"Non l'ho rubata! L'ho persa!"
Cami tirò come una disgraziata.
Nel tentativo di divincolarsi, Luca agitò malamente le mani davanti a sé.
Colpì il naso di Camilla.
Camilla colpì il fianco di Luca.
La maestra vide solo il sangue che sgorgava a fiotti dal naso di Camilla.
"Luca! Cosa hai fatto!?"

 

 

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Capitolo 2
*** La Gloria ***


2. La Gloria

 

Luca aveva capito molto prima dell'"incidente della gomma" quanto Camilla potesse essere pericolosa: al secondo anno di asilo l'aveva vista prendersela con uno dei bambini più grandi, per motivi a lui ignoti, e vincere.
Beh, questo lo sapevano lui, Camilla e il malcapitato.
Le maestre, anche allora, sembravano aver ignorato deliberatamente la dinamica dell'accaduto, e avevano passato la mezz'ora successiva a spiegare all'altro (Marco? Michele?) che aveva sbagliato ben due volte: Camilla era non solo femmina, ma anche più piccola di lui. Male, Michele – male, Marco!
Poco importava se la piccola Camilla non era poi così piccola: a ben guardare, forse un centimetro in meno dell'altro. Sull'esser femmina - beh, quello Luca non poteva certificarlo, ma si fidava abbastanza del fatto che la bambina indossasse il grembiule rosa. Giallo, a volte.
Mica blu e verde, come il suo.

Camilla si fece valere, fiduciosa e spavalda, per tutte le elementari.
Prima a esser scelta quando si facevano le squadre di basket a ginnastica. Seconda solo a Simone nella rocambolesca corsa lungo le scale al suonare della campanella – sia in entrata che in uscita da scuola.
Prima in matematica.
Prima anche nel conteggio delle note sul diario: Camilla non ascolta; Camilla legge Topolino; Camilla ascolta musica con le cuffiette mentre i compagni svolgono gli esercizi alla lavagna.
Luca la osservava come un mostro sacro, cercando moderare la distanza fra di loro di modo che la cosa gli fosse conveniente il giusto. A starle troppo vicini, aveva imparato, si finiva come Alessandro – che s'era fatto beccare insieme a Cami a far scoppiare i tetrapak dei succhi di frutta in corridoio, e come sempre capitava in quelle situazioni, aveva pagato lo scotto per entrambi.
Perché se Camilla, da sola, faceva casino, era colpa sua.
Se Camilla, insieme a un'altra bambina, faceva casino, era sempre colpa sua.
Se però il fattaccio avveniva assieme a un maschio – ah! La storia cambiava radicalmente.
Prima si pagava la pena della maestra, che ancora sembrava preferire l'idea che in fondo fossero i maschi quelli propensi alla confusione, e quindi addossava a loro tutte le colpe.
Poi arrivava l'ira di Cami.
In terza elementare Luca aveva imparato una parola perfetta per descrivere lo stato emotivo di Camilla dopo che una delle sue prodezze non le era stata riconosciuta – anzi, le era stata rubata, attribuendola in toto al compagno che si trovava con lei.
Incazzata.
Luca sapeva benissimo di non dover dire quella parola, ma sapeva anche che non gli si poteva leggere nel pensiero: quindi, decise un giorno, poteva pensarla. E la pensava, spesso e intensamente.
Incazzata.
Camilla si incazzava a morte quando le maestre le rubavano la gloria e l'assegnavano ad un altro bambino. A quel punto bisognava stare molto attenti a non continuare a perpetrare l'idea che, per esempio, il buco sul soffitto della palestra che era valso la sospensione delle lezioni per una meravigliosa settimana lo avesse fatto Emanuele: era stata Cami. Lo sapeva lei, lo sapeva Luca, lo sapevano gli altri. E se non lo sapevano, lo imparavano prestissimo.
Il solo nominare Emanuele la faceva teletrasportare da te, urlante: "Sono stata io, cretino!"
Cami era pure sboccata.
"L'ho fatto io il buco! Con la fionda! La fionda di Emanuele, ma l'ho fatto io!"
Poco importava se la conversazione non aveva nulla a che vedere con quel benedetto buco: l'importante, per Camilla, era che tutti sapessero. Da lì in poi, per Cami ogni occasione era buona per prendersela con Emanuele: era suo nemico giurato.
Emanuele per il buco nel soffitto della palestra.
Alessandro per i botti con i tetrapak dei succhi di frutta.
Michele per il gavettone dell'ultimo giorno di quarta elementare.
Conclusione: esisteva, secondo Luca, una distanza minima oltre la quale non ci si doveva avvicinare a Camilla, o sarebbe finita male. Molto male.
A ripensarci era strano che la bambina non se la fosse presa a morte anche con lui, dopo l'"incidente della gomma".
Ma forse era l'asilo.
Alle elementari le cose erano diverse, rispetto all'asilo.
Così come alle medie.

Alle medie Luca non poté più mantenere la sua distanza di sicurezza.
Non poté più essere osservatore delle imprese di Camilla, non poté starne fuori né evitare di farsi coinvolgere: la Rossi li mise in banco insieme.
Subito, il primo giorno.
Furono l'unico banco che rimase intoccato nei tre anni successivi.

Luca sudava freddo.
Era talmente inquietato dalla figura mitologica di Camilla da non essersi reso conto che, durante l'estate, l'aveva superata in altezza.

 

 

 

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Capitolo 3
*** Abitudine ***


3. Abitudine

Luca poteva sentire una per una le sbarre metalliche della panchina sotto il sedere. Gelide.
Rollò un po' sulle natiche, cercando di distribuire equamente il freddo sul fondoschiena, mentre osservava torvo il campo davanti a lui.
Aveva iniziato a piovere dalla metà del secondo tempo: mancavano meno di dieci minuti alla fine, ma se nessuno in campo si decideva a fare un altro gol sarebbero andati ai supplementari. Il che significava passare dal semplice avere freddo alla conclamata ipotermia, secondo Luca.
Fate questo maledetto gol, per la miseria. Possibile che su ventidue ragazzini in campo nessuno fosse capace di fare quell'ultimo maledetto gol?
Normalmente, Luca resisteva per tutta la partita senza scomporsi troppo: nel primo tempo faceva i compiti, all'inizio del secondo faceva un finto riscaldamento e, una volta appurato che non c'era bisogno di lui, tornava a sedere in panchina e iniziava a leggere il Kindle.
Grande invenzione, il Kindle.
Soprattutto con la pioggia.
Quella domenica, però, Luca era particolarmente agitato – per i suoi standard, almeno. Continuava a spostare il peso da una natica all'altra, e guardava fisso verso il campo.
Mario, l'allenatore, gli lanciava ogni tanto qualche occhiata perplessa, per poi tornare a dare direttive agli altri a gran voce e ampi gesti.
A cinque minuti dalla fine, Mario osò fargli la fatidica domanda: "Luca, ma vuoi entrare?"
Il ragazzino lo fissò, stranito. 
"... no, eh?" si rispose da solo l'allenatore.
Luca tornò a guardare il campo, dove i suoi compagni di squadra correvano fradici e infangati.
"È un torneo a eliminazione diretta." disse, come se questo spiegasse tutto.
"Sì." fece Mario, per poi urlare al campo: "Nico! E sveglia – dài!"
"Non credo che entrerò in campo a cinque minuti dalla fine di una partita in un torneo a eliminazione diretta." Tacque, pensoso. "Però così niente supplementari. E potrei andare a casa."
"Se continui così ti ci mando a calci, in campo."
Luca tornò a fissare Mario, indispettito.
"Sei tu l'allenatore."
Mario sbuffò, tornando a guardare i ragazzini in campo.

Ci vollero altri venti minuti: vinsero loro.
Il che significava un'altra domenica buttata su una panchina. Luca sbuffò, andandosene lemme lemme verso gli spogliatoi.
Mario le aveva provate tutte, con lui: lo allenava da sette anni, il che significava che Luca aveva letteralmente imparato a correre facendolo dietro a un pallone. Aveva passato domeniche e domeniche ai campetti, in tutti ruoli, finché non si era acclimatato a quello che più gli si confaceva: la riserva.
Seduto in panchina per il primo tempo, riscaldamento a metà partita, dentro per dieci o quindici minuti, fino a riportarlo al bordo campo.
Come si stava dicendo, Mario le aveva provate tutte: accomodante, assertivo, minaccioso; lo aveva incoraggiato, sostenuto, accompagnato; lo aveva preso in giro, gli aveva dato della femminuccia, gli aveva detto di andare a giocare a Bridge; gli aveva fatto fare cinque giri di campo, da solo, alla fine di ogni partita; gli aveva fatto allenamento in privato; lo aveva fatto allenare coi più grandi, coi più piccoli, con la squadra mista che allenava suo cugino Andrea – niente.
Niente di niente.
Luca era inerte.
Non incapace – non puoi essere incapace se sei cresciuto passando metà della tua giornata a praticate uno sport – ma semplicemente non funzionava.
Ecco.
Non funzionava.
Luca non funzionava.
Se non altro, fino a quel giorno. Quel giorno, per la prima volta, Luca sembrò stare provando qualcosa, lì seduto. Non se ne stava fermo e pacifico come aveva fatto negli anni precedenti: no, quel giorno Luca era irrequieto.
Mario aveva osato sperare gli fosse venuta voglia di giocare: sbagliato. Niente da fare. Del campo, come sempre, Luca non ne volle sapere. Però era irrequieto.
Che si stesse finalmente rendendo conto che il calcio gli faceva schifo?
Anche quello sarebbe stato un enorme passo avanti.

"Ti sei divertito?"
"Sì..."
"Avete vinto?"
"Sì..."
"Vai anche domenica prossima?"
"Sì..."
"Hai fatto i compiti?"
"Sì.."
"Vuoi un po' di latte?"
"Sì..."
"Ci metto il sale, nel latte?"
Luca grugnì.
"No..."
Era successo, una volta.
Quella era diventata la domanda standard che faceva sua madre per capire se Luca la stava ascoltando o continuava a dire  a raffica.
Il sale nel latte. Gli aveva fatto talmente tanto schifo da non potersene scordare mai più. Una volta sua madre aveva provato con una variante: la marmellata sulla pasta. Gli era piaciuta. Non ne parlarono mai più.
Da qualche mese  la madre di Luca usava queste domande trabocchetto per valutare il livello di attenzione del figlio. Funzionavano: tanto che ultimamente la donna si chiedeva se non avesse dovuto adottare quella strategia molto tempo prima. Chissà, forse così Luca avrebbe iniziato a fare attenzione alle cose e forse – forse – avrebbe potuto evitarsi le torture calcistiche domenicali. Invece di dire sempre sì, sì.
Sì.
Ti piace il calcio, Luca?
E cosa mai avrebbe dovuto rispondere un bambino di quattro anni?
Sì.
Ti va di giocare?
Sì.
Facciamo una partita?
Sì.
Vuoi giocare con questi altri bambini?
Sì.
Vieni domenica?
Sì.
Fregato.
Ormai il calcio era diventato una parte scontata della sua vita: erano più gli anni che aveva passato come vero-finto-calciatore che quelli senza. Non sapeva nemmeno cosa volesse dire non essere in grado di maneggiare un pallone con i piedi. Nè che potesse decidere di smettere di farlo.

 

 

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Capitolo 4
*** Missione ***


4. Missione


Cami lo guardava fisso da cinque minuti.
Cinque noiosissimi minuti, in cui Luca si ostinava a mantenere gli occhi fissi sulla prof, sbarrati, quasi alle lacrime. 
"E allora?" chiese, insistente, la ragazzina.
Non rispondere - si disse Luca. Non darle corda.
Tieni gli occhi fissi sulla Rumi, non staccarti dalla Rumi, ammira la Rumi e la Rumi saprà che stai ascoltando lei - e non Camilla.

Camilla, dal canto suo, sapeva bene come ottenere le attenzioni delle persone, e non era nemmeno arrivata alla metà di tutte le strategia e lei note - sino ad allora. 
Solitamente bastava parlare, e i compagni di banco subito rispondevano: i compagni, sì - i maschi erano quelli più facili con cui farsi una bella chiacchierata fra un esercizio e l'altro. Sino alle elementari, aveva funzionato.
Ma Luca, quel maledetto... sembrava Marianna, la lecchina della classe. Non rispondeva al chiacchiericcio, non rispondeva alle scritte, non rispondeva alle domande mirate.
Non rispondeva alle lunghe occhiatacce.
Non rispondeva.
E svegliati, porca miseria!
Era giunto il momento di passare alla fase successiva: se Luca era come Marianna, bisognava iniziare ad attuare le strategia per i Marianna-tipi. Cami sbuffò, distogliendo lo sguardo, tornando apparentemente a farsi gli affaracci suoi. Giusto il tempo per far abbassare la guardia a Luca, lasciarlo rilassare, consentirgli di immaginare che si fosse arresa, e... 
Allungò, lentamente, la mano verso il libro del ragazzino, abbandonato sulla cima del banco mentre quello era intento a riportare meticolosamente quanto scritto alla lavagna sul quaderno. Non se ne accorse.
Non in tempo per evitare che il ritratto in mezzo alla pagina di un tizio molto poco piacente vincesse un meraviglioso paio di baffetti nazisti. Marianna, all'epoca, era saltata sulla sedia quando il suo libro aveva subito una sorte del genere: precisina com'era, s'era messa a urlare all'impazzata per l'onta subita.
Luca no.
Se ne accorse, eh. Ma non reagì in maniera plateale.
Pose solo la mano sopra al ritratto, scostando la penna di Cami, e impedendole di completare l'opera (che prevedeva un articolato insieme di occhiali, sopracciglia e peli nelle orecchie).
Allora Camilla cercò un altro obbiettivo da deturpare: si spostò sull'angolo in alto a destra della pagina, dove soggiornava un cerchietto pronto a tramutarsi in un bel fiorellino - ma la mano di Luca la rincorse, impedendole di scrivere sul libro. Scrisse, in cambio, sul dorso della mano del ragazzino.
Quello se la guardò scostando rapidamente gli occhi dal quaderno, e con la sua eterna flemma iniziò a recuperare il libro, trascinandolo verso la sua metà di banco, ignorando i segni neri sulla sua mano.
Camilla pensò a lungo, chiedendosi se valesse la pena insistere. Ci mise ben due secondi.
Insistette. Rincorse il libro con la penna, ormai intenzionata a lasciarci un ulteriore segno, di qualsiasi tipo, in un qualsiasi punto, anche a costo di renderlo illeggibile: ci riuscì - ma la Rumi, a quel punto, si accorse di quanto stava succedendo.

La Rumi parlava con gli occhi. Un po' come Cami.
Per questo Luca le temeva entrambe.
La professoressa smise di parlare, osservando i due: dapprima, inespressiva. Poi, iniziando a flettere leggermente un sopracciglio. Uno solo.
Lentamente seguì l'altro.
La Rumi parlava con gli occhi, e in quel preciso istante diceva: Certo che siete veramente due idioti
Guardò un attimo fuori dalla finestra, poi tornò su di loro: Forse non dovrei lasciarvi in banco insieme? 
Corrugò la fronte, poi la stese, gli occhi - e solo gli occhi - al soffitto: La verità è che non ho alternative.

"Camilla. Esci."

Camilla era viola.
All'occhio poco attento poteva sembrare perché, oh sciagura, oh catastrofe, era stata richiamata - cosa a cui formalmente era poco avvezza.
Luca, di contro, sapeva benissimo cosa fosse quella: emozione. 
Finalmente.
Finalmente le venivano riconosciuti i meriti dei suoi sforzi.
E al ragazzino parve quasi di vedere Cami trottare fuori dalla porta.

Camilla si appiattì contro il muro premendosi le mani contro le guance incandescenti. Nella sua mente, una sola sillaba: Woooooooo.
A oltranza.
Wooooooooooooo!
Woooooo!
Wowowowoooo!
Non aveva ancora chiaro se e quali potessero essere le ripercussioni di quanto accaduto – ma: Woooo
Fece in tempo a godersi la sua vittoria per una manciata di minuti, quando il suo cervello iniziò – senza esser stato interpellato – a ricapitolare gli eventi dell'ultima mezzora, come preso dalla frenesia di volerli rivivere e rielaborare.
Fu una pessima scelta.
Ci mise poco, troppo poco per ritornare con i piedi saldamente ancorati a terra.
No, no.
Nononono.
Ma porca miseria.
No, non era lei che aveva vinto.
Era stato Lui.

"Vaffanculo!"
Il bidello scattò in piedi dalla postazione in fondo al corridoio, e si avventò su Camilla a lunghi passi. "Ohi, signorinella! Ti sembra modo di parlare? Non ti è bastato farti buttar fuori dall'aula?"
La ragazzina strinse i pugni e soffocò un urlo in gola.
"Allora?"
"Ma lasciami in pace!"
"Allora vado dalla prof  – così può aggiungere ulteriori dettagli alla nota chilometrica che avrai già!"
"Ma fai come ti pare!"
Il bidello non si fece pregare due volte. Aprì la porta giusto il tanto da farci passar la testa e poter guardare verso la professoressa: "L'ha sentita?"
"Certo, Antonio." rispose la Rumi, sfiatando.
"E che facciamo?"
"Io vorrei far lezione. L'ho mandata fuori apposta."
"Sì, ma questa impreca."
"E che imprechi, Antonio. Lasciami finire."
Il bidello scosse il capo, arreso al totale disinteresse della Rumi sul problema imprecazioni.
Cami rise sonoramente, convinta che l'uomo avesse appena dimostrato di non valere granché.
"Camilla." la richiamò la Rumi.
"Posso rientrare?" osò chiedere quella, pensando che oramai il grosso fosse passato
"No. Ma vedi di dar fastidio anche dall'esterno e credo che dovrai iniziare a metter via soldi per il prossimo libretto, dato che a spanne questo finirà in meno di un mese. Hai capito?"
Cami sbuffò.
Antonio chiuse la porta, guardò la ragazzina truce, e fece per allontanarsi.
Poi, deciso, si girò.
"Però queste parole da scaricatore di porto non le puoi usare, tu."
"E perché?" lo provocò lei – conosceva molto bene quel discorsetto.
Sapeva anche bene come rispondere.
"Perché sei una bambina, non uno scaricatore di porto."
"Ma io da grande quello voglio fare. Mi alleno."
Avrebbe voluto aggiungere 'stupido', ma era in grado di distinguere fra un'imprecazione ed un insulto. Le era costato quattro dita di suo padre stampate in faccia, ma lo aveva imparato molto tempo prima.

La lezione proseguiva, e dal corridoio Camilla riusciva a stento a distinguere la voce della Rumi ovattata dai muri e dalla porta che la separavano dal resto della classe. Si sedette per terra, allacciandosi e slacciandosi i nodi delle scarpe per vincere la noia.
La sua mente continuava a elaborare il pensiero che le era giunto in testa poco prima della diatriba con il bidello, ma lei sembrava volerlo scacciare. Cercò di non prestare attenzione all'idea che stava prendendo forma nella sua testa, sino al punto da trovarsela là, bell'e pronta, senza aver chiarissimo da dove fosse uscita.
Più la studiava, più le sembrava un'idea giusta, sana e razionale.
Un'idea adatta a lei.
Una bellissima idea.
No, non era più un'idea – ora era diventata una missione.

Ma certo!
Camilla si alzò in piedi, sbigottita.
Il problema era Luca.
Il motivo per cui era stata buttata fuori era Luca.
Luca, Luca, stupido Luca.
Se Luca non fosse stato così ... se Luca fosse stata una persona normale, una persona che reagiva alle cose – allora, forse...
Perché era chiaro che se Luca era così molle e apatico e incapace di far alcunché al di fuori delle regole, la colpa sarebbe ricaduta sempre su di lei, qualsiasi cosa fosse successa su quel banco. Le professoresse delle medie non erano sceme come le maestre delle elementari e dell'asilo, avevano capito benissimo che Luca non era un maschio qualsiasi.
E quindi chiaro, ovvio, scontato che se la prendessero con l'altra metà del banco, cioè lei. 
E quindi no, un cavolo: il fatto che Cami fosse stata richiamata non aveva nulla a che vedere con lei. Ma con Lui.
Se fosse successo con qualsiasi altro ragazzino, avrebbero ancora dato "ragione" a Camilla.
Forse anche con una ragazzina.
Ecco, ecco.
Ora la missione era cristallina nella sua mente: avrebbe dovuto far incazzare Luca.
Ma sul serio.
Non avrebbe mai potuto giocare ad armi pari se lui si continuava a dimostrare incapace di... incapace di... incapace di qualsiasi cosa, insomma.
Ma cos'era, un'ameba?
No.
Camilla, la cosa, la prese sul serio: Camilla lo avrebbe svegliato.
Croce sul cuore.
 

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Capitolo 5
*** Prima Reazione ***


 

5. Prima reazione

 

Luca si teneva la testa fra le mani, i gomiti puntellati sulla scrivania. Nella sua cameretta solo la lucina del tavolo era accesa, puntata sul quaderno aperto sotto il suo naso. Immacolato.
Luisa, sua madre, lo spiava dalla fessura della porta.
Erano cinque minuti che stavano fermi così. Lui fissava immobile il quaderno, respirando lentamente, senza nessun altro gesto. Lei fissava lui.
Al sesto minuti Luisa si stufò.
"Luca, com'è?" chiese, facendo irruzione nella camera con fare molto indaffarato "Hai finito? Tra poco si cena." 
Luca non si mosse. Sapeva benissimo che lei stava là, alla porta, a fissarlo. Luca sapeva sempre esattamente in che posto della casa si trovavano i suoi: aveva imparato molti anni prima a mappare le loro posizioni e a capire le loro intenzioni,  il tutto solo dai loro passi. Così era riuscito a finire tutto Pokémon Diamante in meno di cinque giorni, notti incluse, senza farsi sequestrare il Nintendo DS.
"Ho finito. Sì."
"Allora vieni ad aiutare."
"... poi vengo."
"Non è un invito, Luca, è un ordine. Che fai, stai qui a far finta di fare i compiti per non venire a fare la tavola? Almeno gioca a qualcosa invece di fissare il foglio. Così è tempo sprecato."
"Sto pensando." rispose il ragazzino.
"Puoi pensare mettendo i piatti in tavola?"
"... no."
Luisa allargò le narici nel tentativo di non sbraitargli addosso.
"Allora sparecchierai." Concluse, andandosene.
Luca ascoltò il passi rapidi e scocciati della madre allontanarsi, verso la cucina. Fece un respiro profondo, e ricominciò a contemplare la quadrettatura del quaderno aperto sulla scrivania.

Tre minuti dopo Luca entrò mogio in cucina. Diede una rapida occhiata alla tavola, constatò che mancavano ancora le posate e si diresse verso il cassetto per prenderle.
Sua sorella lo accolse con un infastidissimo "Con calma, eh!". In risposta, Luca mormorò qualcosa tipo "tantosparecchioiodopononrompere", ma solo lui sapeva veramente cosa aveva detto, visto che nessuno degli altri tre nella stanza - madre, padre e sorella – riuscì a distinguere mezza sillaba. 
"Dai, mollalo, Maria." intervenne il padre. "Domani ha la partita, sono i quarti, sarà agitato. Sei agitato?"
"Agitato cosa, se sta sempre con le chiappe sulla panchina?"
"Maria." la richiamò la madre.
"Magari posso parlare con Mario. " disse il padre, rivolto a Luca  "Insomma, questa volta ti farà entrare in campo, no? Son due mesi che va avanti il torneo senza di te. Agli allenamenti di ieri eri in forma. Sei migliorato. Secondo me ti ci manda se glielo chiediamo per favore."
C'era un tacito accordo fra Luca e il suo allenatore: nessuno dei due provava più a spiegare a Massimo (il padre di Luca) che la presenza del figlio in campo dipendeva  proprio dal ragazzino, e non da Mario. Da un lato, Luca non chiariva mai al padre che in effetti non entrava perché non chiedeva mai di entrare; dall'altro Mario non spiegava più a Massimo che aveva rinunciato anni prima a far giocare Luca se quello non aveva voglia: si ottenevano solo disastri.  
Quindi alle parole del padre Luca non rispose, limitandosi a disporre forchette e coltelli in tavola, per poi sedersi accanto a Maria.
"E diglielo." grugnì la ragazza verso il fratello.
"Cosa?" chiese Luca, sinceramente perplesso.
"Cretino."
"Ma cretino cosa?" insistette il ragazzino.
"Che sei cretino, e basta."
"Basta." li interruppe la madre "Se ci tenete tanto a litigare non fatelo a tavola."
Maria sbuffò, prendendo in mano lo smartphone.
"No." la bloccò subito Luisa "Metti via il telefonino."
"Ma sto solo guardando il meteo per domani!"
"Lo vediamo alla tv."
Maria grugnì. Bloccò il telefono e lo passò a Luca, che lo mise nella scatola dei cellulari, insieme a quelli dei genitori. 
"Buon appetito!" proclamò allegramente Massimo.

 

La campanella delle 7 e 50 suonò con la sua solita violenza.
Va bene, si disse Luca. Andiamo.
Salì le scale a due a due, cercando di staccarsi dal gruppetto degli altri mattinieri. Aveva esattamente 10 minuti a disposizione prima dell'inizio delle lezioni: a grandi passi superò il primo e il secondo piano, poi il terzo - dove si trovava la sua aula - e proseguì dritto verso il quarto. Ansimante e sudaticcio, si affacciò alla sala insegnanti: come previsto, la Rumi era là.
Tipico della Rumi. Mica come quella di musica, che non metteva piede a scuola prima delle 8 e 10. La Rumi era sempre in aula insegnanti, prima delle lezioni, forse già dalle sette e mezza. Non c'erano molti altri prof con lei. Poteva farcela.
"Prof."  la chiamò, quasi sotto voce.
La Rumi si girò verso la porta: intravide a stento la figura del ragazzino nascosto dietro lo stipite, e iniziò a fissarlo, mentre levava lentamente un sopracciglio. Uno solo.
"... Professoressa." corresse Luca.
"Dimmi, Luca."
"Scusi, volevo... chiederle..."
"Non ti sento mica, Luca."
Il ragazzino si zittì. "... posso entrare?"
"Sì. Vieni."
Quello entrò, e per poco non abbatté l'attaccapanni con lo zaino.
"Avanti, dimmi."
"Prof, scusi, io... Professoressa. Scusi. Allora, io volevo chiederle se per favore poteva cambiarmi di posto."
La Rumi levò un sopracciglio. L'altro. Adesso erano tutti e due alzati.
"Ma anche no."
Luca sbarrò gli occhi. "Ma Prof!..essoressa!"
Sul volto della Rumi si aprì un vago sorriso: era la prima volta che sentiva la voce di Luca così forte - dal petto. Accidenti, ci doveva essere rimasto veramente male, per fargli alzare il tono di voce così tanto. Cioè, ai livelli di un ragazzino normale. Ma per Luca... era come urlare.
"Perché me lo chiedi?" domandò allora la professoressa.
"Camilla mi infastidisce sempre! Lo ha visto anche lei, no? Lunedì scorso, che l'ha buttata fuori dalla classe... ma poi Cami è andata avanti il resto della settimana, eh, che lei non c'era, e Mussardo non le ha detto niente, ma le giuro, ha fatto peggio di lunedì!"
Mussardo non avrebbe mai cacciato nessuno dalla classe, si disse la Rumi. Non avrebbe messo mai nessuna nota, non avrebbe mai richiamato nessuno. In effetti Luca e Camilla erano in prima media da pochi mesi, piccolini, forse non lo avevano ancora inquadrato. Tempo altri due mesi e durante le ore di Mussardo Camilla avrebbe potuto buttare i banchi giù dalle finestre senza che questo le dicesse alcunché. Ahi. Ahi.
"Beh, Luca." Sospirò la Rumi "Dille di smettere."
Il ragazzino si zittì. Strinse le labbra, e le sopracciglia parvero quasi aggrottarsi. Poi, di colpo, scesero tutte dall'altro lato: il volto della disperazione. "Ma mica mi ascolta!"
"Questo lo credi tu."
Luca tacque di nuovo. Era muto, ma Rossella Rumi poteva facilmente capire cosa aveva in testa. È lei la prof, mica io. Non è mica compito mio dire a Camilla di stare zitta. Ma che storia è questa? Certo che non mi ascolta. Oh, ma l'ha vista, prof? Quella è una furia. Mi fa paura. Terrore. Col cavolo che le dico qualcosa, poi quella mi ammazza.
Dopo una decina di secondi di silenzio, il ragazzino la salutò e se ne andò con la coda fra le gambe.

Sconfitto, Luca si sedette mogio al suo posto. Aver passato il fine settimana a meditare e meditare sul da farsi non lo aveva aiutato: la missione era fallita. Sarebbe rimasto in banco con Camilla, forse per sempre.
Non ci si poteva proprio fidare dei Prof. Nemmeno della Rumi, che sembrava una tosta.
Che fregatura.
La prossima volta avrebbe rinunciato ancor prima di provare. Lentamente, il sangue gli saliva al viso, insieme  una profonda vergogna: come gli era saltato in mente di fare una richiesta del genere? Che stupido, Luca. Non ci riprovare mai più, a fare qualcosa di così stupido.





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Un sentito ringraziamento a EnNancy Guerrierainfernale che mi hanno ridato la carica! :D
Cercherò di aggiornare con un po' di metodo da adesso in poi, anche grazie al corso di scrittura che sto facendo e mi ha dato una mano a strutturare la storia.
Ciao!
Malgari

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Vestiti ***


6. Vestiti

"No."
Luca, sulla soglia di casa, si girò verso la sorella: "No?"
"No." ripeté lei, lapidaria. "Togliti quei pantaloni."
"Ma perdo l'autobus!"
"Vuoi venire massacrato? Eh? E' questo che vuoi?"
Luca scosse la testa, richiuse la porta, e togliendosi le scarpe mugugnò qualcosa. Maria lo conosceva da dodici anni, ormai: anche senza volerlo era in grado di tradurre dal Luchese all'Italiano. Gli rispose: "Non puoi mettere i pantaloni kaki sul cappotto kaki. Sembri un caco!"
Sempre mugugnando, Luca le fece notare che i cachi non erano veramente color kaki.
"Beh, allora sembri la merdina di un cane con la diarrea. Cambiati. E poi bruciali. Dove li hai trovati, quei pantaloni?!"
"... in un cassetto."
"Bruciali." Rimarcò Maria. "Devo dire a mamma di fare ordine nei tuoi cassetti, non sei capace."
Luca sospirò.
Che palle, le medie.
Quando mai si era preoccupato di cosa indossare, prima? Sì, certo, l'anno in cui tutti avevano le Bull Boys, le scarpe con le lucine lampeggianti, le aveva volute anche lui. Era stata la prima e ultima richiesta di abbigliamento che aveva fatto ai suoi genitori, nonché la prima e ultima volta in cui si era preoccupato di cosa indossava, per tutte le elementari.
Il 6 settembre, due giorni prima di iniziare la prima media, sua sorella Maria aveva bussato alla porta della sua camera. Bussato. Già questo era strano. Poi si era seduta sul suo letto e gli aveva fatto un discorsetto. Maria. Che praticamente non gli rivolgeva la parola se non per farsi passare il sale a tavola. Aveva esordito così, Maria: "Senti, adesso sei grande."
Lo aveva detto senza urlargli addosso. Serissima.
"La prima media è un inferno. Fidati."
Luca era stato lì lì per sbiancare, in ansia.
"Ma - " aveva continuato la sorella, sottolineando con forza quel ma "- c'è almeno un modo per ridurre i danni."
 Lui l'aveva guardata interrogativo.
"Devi vestirti decentemente. Che ti piaccia o no. Devi mimetizzarti, come le zebre. Vestiti decentemente e l'inferno sarà meno infernale. Fidati."
"... decentemente in che senso?"
"Decentemente che non puoi metterti la felpa dei Power Rangers."
"... ma ai miei amici piace."
"Sì, ma fra due mesi vedrai che non gli piacerà più. Fidati. Tu non sai cosa abbiamo fatto alle medie a quello che veniva a scuola con lo zaino dei Pokémon. I Pokémon, capisci? Che io ci gioco ancora, ai Pokémon."
Luca aveva evitato di farle notare che sì, lei ci giocava, ai Pokémon, ma con il suo Nintendo DS. Si era invece indispettito all'idea che sua sorella potesse essere stata una bulla.
"Non è così semplice, alle medie. Non ci sono sempre i bulli cattivi e le povere vittime. Diventa tutto molto più complicato. Fidati."
Luca si era fidato. Era la prima volta in cui Maria gli si era rivolta a quel modo, con il tono di chi è sinceramente preoccupato. Era una novità assoluta.
Il giorno dopo erano andati a comprare un po' di vestiti nuovi, adatti alle medie.
Aveva fatto bene.
Il primo giorno di scuola i suoi compagni erano vestiti un po' a caso: felpe dei cartoni animati, vestitini infantili, tute da ginnastica, jeans e maglietta. Nel giro di due settimane i vestitini delle femmine sparirono. Nel giro di un mese sparirono anche le stampe dei cartoni animati. A dicembre avevano tutti lo zaino di marca o sottomarca, senza alcun disegno riconducibile a personaggi televisivi, cantanti, animali e via dicendo: solo fantasie generiche. L'ultimo a cambiarlo era stato Samuele, che era un fan sfegatato di Naruto. Eppure, Samuele sembrava molto più allegro dopo aver cambiato zaino. E dire che l'altro era sicuramente nuovo: Luca lo aveva visto in vendita in cartoleria quell'estate. Per poco non lo aveva comprato anche lui.
Insomma, Luca sapeva di dovere molto a Maria: per questo accettava di perdere l'autobus per cambiarsi i pantaloni - se lo diceva Maria, di cambiarsi, Luca si cambiava.
Mugugnava, perché non aveva ancora capito bene le regole dei vestiti da grandi, ma poi si cambiava. 
In effetti i suoi primi mesi a scuola erano stati abbastanza tranquilli (a parte Camilla): si trovava abbastanza bene con i compagni, e nessuno lo aveva preso di mira in alcun modo (beh, di nuovo: a parte Camilla). 
Se l'erano presa con Michele.
Michele era venuto a scuola più e più volte con dei mocassini di pelle. Da quel che ne sapeva Luca, la pelle era un materiale costoso, e anche quei mocassini dovevano essere costosi. Il problema era che quegli stessi mocassini li indossava il nonno di Dennis. E anche il nonno di Samuele. E altri. Mentre non aveva ancora capito perché non andasse bene la felpa dei Power Rangers, a Luca il problema dei mocassini era chiarissimo: erano vestiti da vecchi.
Ci volle poco, e Michele diventò Il Vecchio.
Fu Dennis a coniare il termine. All'inizio, Michele rideva e incassava. Luca, zitto, osservava, insieme a Samuele  - che ancora aveva lo zaino di Naruto. Ed  era il compagno di banco di Michele. Sembravano andare d'accordo, Samuele e Michele, finché Dennis e Alessio iniziarono a pungolare anche Samuele, dicendogli apertamente che Naruto è uno sfigato. Che i cartoni su Italia 1 fanno schifo. Che chi li guarda più.
"Sì beh, almeno io non sono un vecchio di merda." si era difeso Samuele, ridendo. Michele, quel giorno, non c'era. Luca osservava.
"Ma se siete culo e camicia?" aveva ribattuto Alessio, ridendo a sua volta.
"Sì, vabbè." aveva continuato a ridere Samuele: "Lui è il culo, io la camicia."
Quel giorno Samuele si salvò.
Michele divenne il culo.
Il giorno successivo Samuele si presentò a scuola con lo zaino nuovo.
Luca osservava.
Ringraziava Maria. 
E continuava ad osservare.
Certo, era bello non doversi preoccupare dei vestiti, anche se poteva farlo solo grazie a sua sorella: per quanto osservasse, sentiva di non aver ancora capito le regole.
Quella che non si preoccupava affatto dei vestiti, invece, era Camilla.
La invidiava un po', con la sua tuta da ginnastica. A lui Maria non lasciava indossarla.
Sarebbe stato bello fregarsene dei vestiti come faceva Cami.
Ma all'inferno, avrebbe scoperto in seguito, c'erano tutti. Pure lei.

 

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Scusate la latitanza. Purtroppo tendo ad andare a singhiozzo.
Al momento ho altri 2-3 capitoli pronti, che cercherò di dosare per evitare l'effetto stop and go :D

Ciao a tutti e grazie per essere passati di qua!

 

 

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