In un'altra vita

di Ginevra1988
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alcune importanti premesse ***
Capitolo 2: *** I semi invisibili ***
Capitolo 3: *** E i sogni che osi fare ***
Capitolo 4: *** Anche le amebe partoriscono ***
Capitolo 5: *** Il balsamo lenitivo ***
Capitolo 6: *** La verità e l'errore ***



Capitolo 1
*** Alcune importanti premesse ***


Alcune doverose premesse


  Premetto che, chiaramente, i personaggi, così come il contesto, non sono miei, ma degli autori della serie “Riverdale”, a parte i personaggi che mi sono inventata di sana pianta.

  Premetto anche che mi sono dedicata a questo telefilm come puro svuotacervello, ma alla fine mi sono appassionata ad alcuni personaggi – ok, uno particolare – tanto che quando nel corso della seconda stagione la sua storia ha assunto pieghe fantasiose ho sentito il bisogno di costruirgli una mia storia alternativa, che fosse un po’ più aderente al personaggio così come lo avevo conosciuto all’inizio. Che gli rendesse un minimo di giustizia.
Ma parlare di giustizia o coerenza nella trama di Riverdale è abbastanza ridicolo, non me ne vogliano i fan più accaniti della serie, che pure io adoro proprio perché ti sorprende sempre. Basta solo non prenderla sul serio, ma con lo spirito giusto. In attesa della terza stagione, non ancora uscita su Netflix, mi sono volontariamente spoilerata il finale di stagione e vi dico solo che comprende una lobotomia in un fienile. Come si fa a non amare una serie del genere?!

  Ultima premessa, questa breve FF mi è saltata fuori dalla penna in un momento molto lungo di blocco della mia principale FF, del cui destino sto ancora decidendo, per cui visto che sono mesi che non riuscivo a scrivere una riga e mi sono uscite queste, di righe, ho pensato, perché no? Proviamo a buttare sul sito anche questa. Mi è servito anche, come sempre, per stare un po’ con me stessa e con una serie di emozioni.

  Insomma, tu che ti sei incuriosito e ti accingi a leggere, forse, la mia storia, prendila così: senza aspettarti fedeltà alla serie, con un po’ di Nutella di fianco perché forse qualche lacrimuccia può scappare, anche se spero di farti sorridere.
Buona lettura
 
Gin

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Capitolo 2
*** I semi invisibili ***


Ma i semi sono invisibili.
Dormono tutti nel segreto della terra finché a uno di loro non piglia il ghiribizzo di svegliarsi.
Allora si stiracchia e fa spuntare timidamente verso il sole uno splendido, innocuo germoglio.


Il piccolo principe, Antoine de Saint-Exupérie
 

 
Primo capitolo
I semi invisibili


 
  Lo stomaco di Jughead brontolò sonoramente e questa volta lui non fu così svelto da coprire il rumoraccio con un colpo di tosse. Se fosse stato ancora in una classe della Riverdale High si sarebbero voltati tutti i suoi compagni, forse persino l’insegnante, ma alla Southside nessuno faceva caso a nulla – e comunque non lo si dava a vedere. Tutti continuarono a fare quello che stavano facendo – il che includeva praticamente qualsiasi cosa salvo seguire la lezione del povero signor Tutcher, che si sforzava senza troppa convinzione di spiegare la matematica a una ventina di adolescenti disinteressati.
  Jughead si strofinò a disagio lo stomaco e controllò l’orologio: dieci minuti all’uscita da scuola. Non che questo cambiasse qualcosa, il suo frigo era desolatamente vuoto e lui non aveva la minima idea di come riempirlo; aveva ostinatamente rifiutato le buste assolutamente interessante che di quando in quando Toni cercava di infilargli in borsa, ma la tentazione di accettarle era sempre più forte. Ed era proporzionale al crescere dei suoi crampi allo stomaco. Il suo scudo di indipendenza, con il quale si era chiuso tutto solo dentro la roulotte di suo padre, cozzava contro il muro della semplice verità: non aveva uno straccio di entrata.
  Meditò di scroccare un invito a cena da Betty e si arrovellò su un modo elegante fino alla campanella, mentre aspettava che i suoi compagni uscissero chiassosamente dalla classe per non dover sgomitare con loro, e per tutta la strada verso la roulotte di suo padre, ma tutto quello che riuscì a mettere insieme fu un misero messaggio: “Ehi dolcezza, che fai stasera?”
  Lo avrebbe letto tardi, ne era sicuro. Erano giornate intense alla Riverdale High, i primi test del semestre incombevano e il “Blue and Gold” era prossimo alla stampa mensile. Per un tempo decisamente troppo lungo Jughead fissò comunque stupidamente lo schermo del proprio telefono aspettando che la doppia spunta diventasse blu, ma si ritrovò nella strada che portava alla roulotte senza che fosse cambiato assolutamente nulla.
  Avrebbe potuto chiamare Archie, che per Jughead avrebbe svaligiato il frigo senza pensarci due volte, ma sapeva che l’amico aveva tutt’altri problemi dopo che avevano sparato al signor Andrews. 
  Conosceva Archie da una vita e sapeva che l’amico era intimamente anche seppur inconsapevolmente convito che tutto dipendesse da lui, in bene o in male – e la cosa spesso e volentieri gli sfuggiva di mano. Decisamente Jughead non voleva aggiungere benzina al fuoco.
  E niente, i suoi amici erano finiti lì. Non c’era nessun altro. Esitò un ultimo momento con il dito sopra lo schermo in corrispondenza del nome di Archie, sospirò, e si rassegnò ad un'altra sera a ghiaccioli, l’unica cosa che il suo magro budget gli aveva consentito di comprare l’ultima volta che era stato al Market.
  Forse era la fame ad acuirgli i sensi, ma una zaffata di profumo gli colpì le narici: muffin. Muffin al cioccolato. E forse mirtilli. Jughead annusò l’aria con circospezione, cercando di individuare la direzione dalla quale proveniva quel profumo delizioso. Gironzolò con l’aria meno famelica che riuscì a dipingersi sul volto per il quartiere, quello di confine tra la zona nord e quella sud di Riverdale, modesto, non molto abitato ma ancora definibile tranquillo – a parte quell’inquietante roulotte parcheggiata sul fondo di Violet Road. L’ultima casa prima della campagna era tinteggiata di un verde allegro, il tetto spiovente e la veranda di legno chiaro la facevano sembrare appena uscita da un romanzo di fine Ottocento. E sul retro, appoggiato sul davanzale di quella che doveva essere la cucina, c’era un magnifico vassoio di muffin al cioccolato e mirtilli. Jughead rimase a debita distanza, fissando i dolcetti e mordendosi un labbro; il suo stomaco brontolò ancora più rumorosamente, e non si placò nemmeno quando lui ci mise una mano sopra.
  Ok, quello era rubare. Ma non era come accettare mazzette dai Serpents, no? Era meglio rubare un muffin, un piccolo, insignificante dolcetto. La proprietaria non si sarebbe nemmeno accorta che gliene mancava uno. Con una rapida occhiata controllò che non ci fosse nessuno in vista, corse verso la finestra e vi si acquattò sotto; allungò la mano e con un gesto furtivo prese un muffin. Esitò un momento, ne afferrò un altro e scappò via più veloce che riuscì verso la roulotte di suo padre.
  I muffin erano caldi e profumati, morbidi come un abbraccio. Il primo lo mangiò in fretta, preso dalla fame, seduto sul pavimento con la schiena appoggiata alla porta chiusa di scatto. Al secondo dedicò più cura, quasi affetto; si godette ogni boccone con calma, al piccolo tavolo nell’angolo cucina. La fame si era placata, lasciando un soffice ma trascurabile senso di colpa.
 
  Il giorno dopo il senso di colpa era svanito come un sogno al risveglio; passando davanti alla casa verde Jughead notò che sullo stesso davanzale del giorno prima era rimasto un muffin solitario. Era un vero peccato lasciarlo lì, tutto solo, specie considerando il sapore di cannella dosato sapientemente. Era una vera offesa alla cuoca. Jughead buttò l’occhio alla cucina, vuota come il giorno prima, allungò il passo e intascò anche quell’ultimo muffin. La colazione era assicurata.
 
  Incoraggiato dagli ultimi successi, Jughead sbirciò la finestra della casa verde anche al rientro da scuola. C’era un altro piatto, questa volta con una fetta di torta alle mele; si avvicinò per la terza volta e si accorse che oltre al dolce c’era un biglietto, ripiegato in due. Il ragazzo controllò che la cucina fosse vuota, poi allungò la mano e prese il foglietto.
 
Caro te,
sono contenta che tu apprezzi la mia cucina. Sarò felice di condividere con te altre leccornie – ma davvero tutto gratis?! Ho qualche lavoretto per te se vuoi pagarti un po’ di cibo.
Jay

 
  Lavoretti? La mente di Jughead scattò subito ai favori che erano soliti chiedere i Serpents; in cosa si era invischiato? Questa Jay avrebbe preteso che lui consegnasse droga, che minacciasse qualche ragazzino, che… che cosa? Perché diavolo aveva mangiato tre muffin?
  “Prima che tu ti faccia strane idee, mi riferisco al prato da tagliare.”
  Jughead fece un saltò talmente alto che rischiò di rovesciare il piatto sul davanzale; non si era minimamente accorto della ragazza che si era avvicinata tanto da appoggiarsi vicino alla torta con i gomiti. Nella fretta di scappare, il cuore che martellava contro le costole, inciampò e cadde sul proprio sedere, rimanendo sul prato bruciato dal sole con la bocca semi aperta. Jay – doveva essere lei l’autrice del biglietto – si mise a ridere, facendo ballare le ciocche di capelli castani che le sfuggivano dalla coda di cavallo; aveva grandi occhi nocciola e qualche lentiggine sulle guance e sul petto poco generoso. Sembrava giovane, ma non più in età da liceo, probabilmente intorno ai venticinque anni.
  “Come ti chiami?”
  Non sembrava essere arrabbiata e non sembrava nemmeno tipa da Serpents: la canottiera rossa lasciava scoperte le spalle, senza alcun tatuaggio.
  “Jughead” rispose lui in un soffio; lei inarcò le sopracciglia.
  “Solo… solo Jughead? Cos’è, un soprannome da banda di motociclisti?” il sorriso si era subito raffreddato.
  “No!” si affrettò a dire lui. “E’… è il mio nome” aggiunse vagamente imbarazzato. “Jughaed Jones.”
  Jay sembrò soppesare per un attimo quelle parole, come per capire se lui le stesse dicendo la verità.
  “Spalle” ordinò brusca.
  “Cosa?”
  “Fammi vedere le spalle.”
  Come aveva appena fatto Jughead, anche lei voleva controllare la presenza di tatuaggi. Il ragazzo si tolse la camicia e alzò le maniche della maglietta grigia e consunta. Jay annuì, quasi inconsciamente, per poi ritrovare il sorriso incoraggiante di prima.
  “Allora Jones? Me lo tagli questo prato?” inarcò le sopracciglia con fare incoraggiante. “Stasera faccio le costolette di maiale. Con il purè.”
  Quanto tempo era che non mangiava delle costolette fatte in casa? Il padre di Archie non era certo quello che poteva definirsi un ottimo cuoco. E il purè… adorava quando sua madre glielo preparava, nei giorni di pioggia.
  “Sì. Sì, d’accordo.”






Angolo di Gin
In realtà quello che dovevo dire per questo primo capitolo l'ho scritto nelle doverose premesse, quindi attendo eventuali recensioni!
La storia è praticamente tutta scritta - incredibile per i miei standard - quindi conto di pubblicare abbastanza spesso.
Smack
Gin

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Capitolo 3
*** E i sogni che osi fare ***


Da qualche parte al di là dell’arcobaleno
Lassù in alto
E i sogni che hai sognato
Una volta in una ninna nanna […]
E i sogni che osi fare
Perché, oh, perché non posso?

Over the rainbow – E. Harburg, H. Arlen
 

 
 
Secondo capitolo
E i sogni che osi fare

 
  Quella sera, la sera in cui un prato tagliato venne barattato con costolette di maiale e buon purè fatto in casa, Jughead cenò da Jacqueline Brennan, che non sopportava il proprio nome pomposo e si faceva chiamare solo Jay. E che lavorava in un ente gestito dal comune, l’Assistenza alle Fragilità, come lo aveva chiamato pomposamente il sindaco McCoy: in pratica faceva turni alla mensa dei senza tetto, contribuiva alla gestione di un piccolo centro per donne di strada, stava cercando finanziatori per un fondo a favore dei minori orfani o abbandonati. Insomma, faceva parte di quel piccolo numero di persone che cercavano ottimisticamente e scioccamente di rendere il mondo un posto migliore: in altre parole, come amava definirsi Jay, una crocerossina senza speranza.
  A quella cena ne seguirono altre, in cambio di un cancello aggiustato, di una stanza riverniciata, di imposte da ristrutturare. E a ogni arrosto Jughead rivelava a Jay un pezzetto della sua vita, più che altro un mucchio di nostalgici ricordi della Riverdale High; le raccontò di Archie, del suo migliore amico, no no, di suo fratello – in qualche modo Jay era riuscita a strappargli quella parola dalla bocca. E le raccontò di Betty, della sua bella e meravigliosa Betty Cooper, talmente perfetta da non sembrare reale.
  Jay non gli chiedeva mai dei suoi genitori o del perché abitasse da solo in una roulotte – ma forse lo sapeva già, tutti sapevano chi era FP Jones; rideva alle battute con cui lui schivava le domande personali, fingendo di non farci caso e continuando la conversazione come se nulla fosse. Lei chiamava il ragazzo Jones, perché Jughead proprio non le andava a genio; una sera lui aveva tentato una debole protesta.
  “Asciuga questo, Jones” aveva ordinato Jay con i suoi modi secchi, passando al ragazzo un piatto che lei aveva appena lavato.
  “Usi sempre il mio cognome” le aveva fatto notare lui dandosi da fare con lo strofinaccio.
  “Mm-mh.”
  “Tutti mi chiamano Jughead.”
  “Ma davvero? Tutti ti chiamano testa di zucca, non lo avevo notato” aveva risposto Jay mollandogli in mano un altro piatto. “Direi che allora sono già in un numero sufficiente. A me piace essere una voce fuori dal coro” aveva poi aggiunto abbassando la voce di un mezzo tono.
  Jay lo lasciava parlare e qualche volta aggiungeva controvoglia un’oncia di se stessa, come se si sentisse in debito e volesse ripagarlo giusto il minimo sindacale. Dopo un paio di mesi Jughead sapeva che Jay era figlia unica di madre single, ma che era stata cresciuta dagli zii, la sorella di sua madre e suo marito, trasferiti nella ridente Florida qualche anno prima; ora si vedevano solo a Natale e, a volte, durante le vacanze di primavera. Non c’era nessun signor Brennan; forse c’era stato, almeno così si era convinta Betty dai racconti che Jughead le riportava, ma Jay non accennava mai a nessun uomo.
  Alle cene si aggiunsero pranzi domenicali e una sera in cui Jay insistette per conoscere i famosi Betty e Archie, invitando tutti a casa sua, Veronica Lodge compresa. Fu proprio quella sera, non molto lontana da Natale, che Jughead aiutò la sua ospite a riordinare casa e alla fine si addormentò sul divano. Jay sapeva che la roulotte non era riscaldata, Jones non aveva il modo di pagarsi il riscaldamento; si limitò a sfilargli le scarpe e a coprirlo con un piumino, sorridendo nel buio: aveva appena deciso cosa fare di una vecchia, inutile stanza degli ospiti al primo piano.
 
  “Non è molto grande, ma sono riuscita a recuperare una scrivania e una libreria” disse Jay accedendo la luce e tenendo la porta aperta in modo che Jughead potesse entrare. Era vero, era una stanza piccola, tutta di legno chiaro, ammobiliata in modo semplice, con un’unica finestra che dava sulla campagna. Ma era sua. Era tutta sua, solo per lui. Jughead si fermò in mezzo alla camera, la bocca semi aperta in un’espressione che sapeva essere stupida.
  “Lo so, Jones, non è un granché…” mormorò Jay, scoraggiata dal silenzio del ragazzo.
  Jughead mollò lo zaino per terra e la abbracciò, senza pensarci; avrebbe voluto ringraziarla, invece quello che uscì fu: “Perché?”
  “Perché cosa, Jones?”
  Lui si staccò, improvvisamente in imbarazzo, e replicò: “Perché ti preoccupi per me?”
  Jay inclinò la testa e sorrise appena.
  “Perché così siamo un po’ meno soli in due.” Lei tossì, poi aggiunse: “Puoi… puoi rimanere qui quanto ti pare, per i mesi invernali, finché non ritorna tuo padre o finché non sposi Betty, insomma… fa conto che sia casa tua. Se ti fa piacere, sì. Ti lascio… ti lascio sistemare.”
  Scomparì lungo le scale in un batter d’occhio. Jughead avrebbe tanto voluto saper dire di no, rimanere fedele al padre e non pestare i piedi ai Serpents; Toni lo guardava un po’ peggio del solito ultimamente, e lui era sicuro che la banda fosse venuta a sapere che lui frequentava casa Brennan invece che lasciarsi aiutare da loro. Avrebbe voluto saper dire di no e proteggere Jay, ma santo cielo, pasti caldi, una camera, qualcuno che lo aspettava e si preoccupava… e non un sacco a pelo buttato sul pavimento di una stanza, non qualcuno che avvisava i servizi sociali appena ne aveva l’occasione. Jughead si nascose la faccia tra le mani, anche se non c’era nessuno che poteva vedere quanto si vergognava dei suoi pensieri; perché per la prima volta dopo molto tempo si sentiva a casa – a casa con qualcosa che somigliava pericolosamente ad una madre.
 
  Fu qualche giorno dopo che Jughead ebbe la certezza che i Serpents sapevano di Jay; il ragazzo era seduto in classe, da solo con il suo panino, durante la pausa pranzo – che era sempre meglio che rimanere in mensa a farsi guardare male da tutta la scuola – quando il telefono vibrò nella tasca interna della giacca. Una telefonata dal penitenziario; accettò l’addebito a suo carico e rispose.
  “Papà” disse Jughead ancora masticando.
  “Jughead, che diavolo fai?” la voce di FP raschiò il ricevitore.
  “Cosa… che vuoi dire?”
  “Perché non vuoi che i ragazzi ti aiutino? Ti ho mandato centinaia di dollari, ma Toni dice che non hai preso niente.”
  “Non è un aiuto, è un pagamento. Sai cosa vogliono in cambio.”
  Jughead non era certo di poter parlare di riciclaggio o ricettazione al telefono.
  “La famiglia ti aiuta come sa fare.”
  “Gran bella famiglia” ribatté il ragazzo staccando un altro pezzo di panino; Jay ci metteva anche un velo di senape, un tocco solo per lui, perché lei odiava la senape.
  “Meglio Red Mama, no Jughead?”
  “Chi diavolo è Red Mama?”
  “Tool Boy dice che stai da lei.”
  Jughead alzò un sopracciglio; Jay gli doveva una bella storia da raccontare.
  “E’ temporaneo” rispose senza crederci sul serio.
  “Torna subito a casa. Non puoi lasciare il nostro covo scoperto.”
  “Lei… mi tratta bene.”
  “Oooh, su questo non ho dubbi. Tu non sai chi sia veramente Red Mama. Ti usa come garanzia.” FP fece una pausa, poi aggiunse: “Torna a casa o ci saranno conseguenze. Non farmelo fare, Jughead.”
  Il ragazzo sentì una goccia di sudore freddo colargli lungo la schiena; soppesò velocemente le sue opzioni: da una parte Jay, di cui non sapeva praticamente nulla ma che lo aveva tenuto al caldo e nutrito negli ultimi mesi, dall’altra suo padre, ripulito da poco, che dal carcere gli intimava di tornare a casa e di guadagnarsi da vivere con il business di famiglia, diciamo così.
  “Torna a casa, Jug” ripeté FP con più dolcezza. Jughead chiuse gli occhi e sospirò.
  “No” rispose secco.
  “Cosa?”
  “La risposta è no. Io sono già a casa.”
  Jughead chiuse la chiamata e strinse i denti.

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Capitolo 4
*** Anche le amebe partoriscono ***


La missione delle madri non è la procreazione, quanto la preoccupazione.
Anche le amebe partoriscono, ma, per quanto ne so, se ne fregano.
Andrea G. Pinketts
 
 
Terzo capitolo
Anche le amebe partoriscono



  “Jones! Oddio, Jones!”
  Lo aveva riconosciuto solo dal cappello, quella stupida cuffia grigia con le punte, come una goffa corona. Solo da quello. Il viso era talmente gonfio e coperto di sangue che forse persino sua madre avrebbe stentato a capire chi fosse.
  Lo avevano buttato lì, davanti a casa di Jay, mollato come un sacco della spazzatura da una moto scura; la giacca di jeans completamente lacerata e le nocche spellate e sanguinanti indicavano che Jones aveva venduta cara la pelle. Jay si accucciò di fianco a lui, sull’asfalto, e gli prese delicatamente il volto tra le mani.
  “Riesci a sentirmi?”
  Jones aprì di qualche centimetro l’occhio sinistro e la guardò, annuendo con fatica.
  “Dobbiamo portarti in ospedale” non sapeva perché stava usando il plurale, c’era solo lei. Lui scosse la testa, con uno sforzo visibile. “Jones, se hai delle fratture…” ma lui scosse di nuovo la testa.
  “Assi… curazione” scandì faticosamente. Jay chiuse gli occhi, impotente; chiaramente Jones non aveva una dannata assicurazione sanitaria, figuriamoci se quella famiglia si preoccupava di una sciocchezza come quella. Si morse un labbro e rialzò la testa, cercando il tono più rassicurante del suo repertorio di crocerossina senza speranza.
  “Ok, Jonsey, tranquillo, a te ci penso io, d’accordo?”
  Fu un vero sforzo ricacciare indietro le lacrime mentre lui la guardava con l’unico occhio che si apriva ancora, disperato. Jay sorrise di nuovo, più incoraggiante. Si passò un suo braccio attorno al collo e cercò di sollevarlo di peso, ma sapeva già dall’inizio che non avrebbe funzionato.
  “Prova ad aiutarmi, o dovrò trascinarti su quelle natiche da asino che ti ritrovi fino alla tua stanza!”
  Jones increspò un angolo di un labbro, segno che aveva capito; puntellò una gamba e cercò di alzarsi come meglio poteva; un po’ zoppicando, un po’ facendosi trascinare, il ragazzo riuscì a raggiungere prima la veranda, poi le scale e finalmente la camera da letto singola di legno chiaro. Jones aveva gli occhi lucidi e una lacrima gli scavò un solco sulla guancia insanguinata; Jay sperò che non fosse solo il dolore a farlo piangere, ma che ci fosse anche un po’ di sollievo per essere di nuovo nella sua camera – con una persona che gli voleva bene.
  Jay gli tolse con delicatezza i vestiti e li buttò direttamente in lavatrice; con acqua calda e pazienza lavò via il sangue e il sudore, mentre Jones cercava di trattenere senza grande successo i gemiti di dolore. Con vestiti puliti e qualche antidolorifico finalmente il ragazzo si addormentò.
  Jay si sedette di fianco al letto, raggomitolata sul pavimento, gli occhi sbarrati che non riuscivano a staccarsi da Jones. Cos’era successo? Cosa diavolo gli era successo?
 
  Si accorse di essersi addormentata solo quando i gemiti di Jones la svegliarono; aveva la testa appoggiata al materasso del letto singolo e le gambe rattrappite sotto il proprio sedere. Il ragazzo si lamentava nel sonno; Jay si alzò carponi e allungò una mano sulla fronte di lui, sudata e… calda. Jones tremava. Aveva la febbre, alta.
  Jay si portò una mano alla bocca; certo non era una tragedia, non era davvero nulla di ché, ma lei era preoccupata, magari aveva trascurato qualcosa. E la preoccupazione si mescolò alla stanchezza e allo stress al punto che stava per mettersi a piangere. Chiuse gli occhi e si costrinse a fare un lungo sospiro; sapeva cosa doveva fare e non le piaceva per niente.
 
  Jay aprì la porta e un uomo alto, dai capelli molto corti e gli occhi assonnati, entrò con una valigetta di pelle marrone da medico.
  “Ciao John” disse lei in un soffio. “Scusami se ti ho buttato giù dal letto, ma non sapevo che altro fare.”
L’uomo la guardò per un attimo di troppo, un misto di tenerezza e dolore.
  “Nessun problema, Jackie, questo week end i bambini sono da Hannah” John fece una pausa, abbassando lo sguardo. “Dov’è?”
  Jay indicò il piano di sopra e si avviò lungo le scale, facendo strada al suo ospite; cercò di reprimere i brividi che essere chiamata di nuovo Jackie dopo cinque anni le avevano provocato lungo la schiena.
  “Ecco” sussurrò aprendo la porta della camera e lasciando passare John, che si chinò su Jones; il ragazzo tremava come una foglia.
  “Gli ho messo del ghiaccio” disse goffamente, stringendosi nel suo golf sformato. John aveva già scostato le coperte e stava palpando l’addome del ragazzo; tastò la sua testa e il naso, che fece un piccolo crick che anche una profana come Jay riconobbe come un segno negativo. John passò poi alle costole, con aria cupa; estrasse il fonendoscopio e lo posò ai lati del torace, con cautela ed esperienza.
  “Ha il naso rotto e una frattura costale” sentenziò togliendo il fonendoscopio dalle orecchie e riponendolo di nuovo nella borsa. “Niente di grave, non piacevole, ma non serve necessariamente un ospedale. Non sembra avere emorragie interne, non so per quale miracolo” aggiunse lanciando a Jay un’occhiata tagliente, come se fosse colpa sua.
  “E la febbre?”
  “Credo che sia solo una reazione a tutti calci che gli hanno dato, gli ci vuole energia e riposo per riparare tutti i tessuti danneggiati” John si alzò. “Non sembra niente di infettivo, i polmoni sono puliti, ma tienilo d’occhio, se comincia a tossire dagli questo due volte al giorno” frugò nella borsa, poi le allungò un flaconcino di antibiotici e ritrasse la mano velocemente, in modo da non toccare quella della ragazza.   “Hai antipiretici e antidolorifici in casa, vero?”
  Jay annuì.
  “Bene. Sai come usarli. Se non c’è altro…”
  “Mamma…” Jones aveva ricominciato a lamentarsi nel sonno agitato della febbre. A Jay si strinse il cuore; si accovacciò di fianco al letto, all’altezza della testa del ragazzo, e gli appoggiò delicata una mano sulla fronte.
  “Jones, sono io, Jay…”
  “Mamma!” gridò lui più forte. “Ho sete” biascicò.
  Jay deglutì e sentì distintamente il proprio cuore che si spezzava; Jones voleva solo la sua mamma, dannazione. Non è un sacrosanto diritto di tutti avere accanto la propria mamma quando si sta male?
  “Mamma, per favore…”
  Evitando insistentemente di guardare John, Jay si sedette di fianco al ragazzo e prese un bicchiere di acqua dal comodino poco distante; gli passò un braccio attorno alle spalle e lo alzò delicatamente, avvicinando il bicchiere alle labbra di Jones.
  “Eccomi, Jugghy” sussurrò. “Sono qui. Ecco l’acqua.”
 
  Jay fece strada lungo le scale buie a John; Jones si era riaddormentato quasi subito, ancora tremante, ma lei era riuscita a fargli prendere una pastiglia di paracetamolo, quindi presto la febbre avrebbe cominciato a calare. John si fermò sulla porta, indeciso se aggiungere qualcosa allo striminzito saluto che si erano appena scambiati.
  “Jackie…”
  Jay si bloccò a metà del gesto di chiudere la porta.
  “Mi ha fatto piacere rivederti, era molto tempo che…”
  “Già” Jay annuì; avrebbe voluto sorridere, ma proprio non ci riuscì. “Grazie per essere venuto.”
  “Certe cose non cambiano mai, eh?” disse John con una mezza risata, di quelle che gli illuminavano gli occhi. “Tu sei rimasta la mamma di tutti.”
  “E tu sei rimasto uno stronzo.”
  Jay chiuse la porta di scatto. Tra tutte le cose che avrebbe potuto dire proprio… proprio quella. Proprio da lui. Che testa di cazzo.
  Il vantaggio era che adesso era completamente sveglia.




Angolo di Gin
Tutti i personaggi hanno nomi che iniziano con J, mi è uscita così, non l'ho fatto apposta. Ho provato anche a chiamarli in un modo diverso ma accidenti proprio non ci stava.
Questo è il capitolo che più mi ha coinvolto, quindi spero vi piaccia (ma se fa schifo siete liberi di dirmelo, s'intende).
Come avevo premesso, è una storia breve e siamo già a metà. Nei prossimi capitoli tiriamo le somme di un paio di cosette, quindi stay tuned.
Un grazie di cuore a GattiP e daffodil, che hanno recensito gli scorsi capitoli!
Smack
Gin

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Capitolo 5
*** Il balsamo lenitivo ***


Non c’è balsamo più lenitivo della presenza
affettuosa, discreta, leale,
di persone non obbligate da ragioni di ufficio o di Stato.

Luigi Luisi
 

 
Quarto capitolo
Il balsamo lenitivo



 
 
  Archie sembrava non volersi staccare più da Jughead, che dovette implorarlo di sciogliere l’abbraccio.
  “Sto bene, Archie, davvero.”
  Il suo amico si allontanò, ma rimase comunque sulla sedia poco distante, i pugni serrati e gli occhi fissi su di lui. Fuori dalla finestra i fiocchi della prima neve scendevano allegri e Jay stava preparando dosi generose di cioccolata calda. Era la prima volta che Jughead riusciva ad alzarsi dal letto negli ultimi tre giorni; la febbre era passata, ma aveva ancora bisogno di diversi antidolorifici al giorno e non poteva starnutire senza che il fianco sinistro gli facesse vedere le stelle. Gli ematomi sul viso lo facevano assomigliare ad un panda e il naso era ancora parecchio gonfio, ma finalmente riusciva ad aprire tutte e due gli occhi.
  Betty era rimasta al suo capezzale in tutti i momenti in cui non era a scuola; Jay l’aveva avvertita la mattina dopo il pestaggio, non senza vive quanto inutili proteste da parte di Jughead. Betty in versione preoccupata era qualcosa di asfissiante, ma tirava fuori anche il suo lato più dolce.
  Da Betty ad Archie il passo era stato breve, anche se a lui era stato concesso di vedere Jughead solo quando il ragazzo si sarebbe rimesso in piedi.
  “Jug, cosa diavolo è successo?” chiese Archie.
  “Se riesci a farglielo dire ti preparerò una scorta decennale di biscotti allo zenzero” commentò acidamente Jay mentre metteva davanti ai ragazzi due tazze fumanti di cioccolata. “Sarà la centesima volta che glielo chiedo.”
  Jughead scambiò una breve occhiata con Archie, poi abbassò lo sguardo, concentrandosi sui marshmallow che Jay aveva aggiunto nella tazza davanti a lui.
  “Credimi, Jay, non lo vuoi sapere…”
  Lei ridacchiò, tra l’offeso e il divertito.
  “Sono stati i Serpents, vero?” Archie aveva messo il punto interrogativo alla fine della frase, ma quella somigliava molto di più ad un’affermazione; Jughead proprio non riuscì a mentire con scioltezza al suo amico. Il silenzio divenne una risposta eloquente.
  “I Serpents?” chiese sbalordita Jay. “Perché mai la banda di tuo padre dovrebbe farti una cosa del genere?”
  Jughead giocherellò distrattamente con il manico della propria tazza.
  “Jug…” lo incalzò Archie; in qualche modo la presenza dell’amico infuse nel ragazzo un po’ di coraggio, quel tanto che bastava per affrontare Jay. Alzò finalmente lo sguardo su di lei.
  “Perché ho scelto te” disse d’un fiato.
  “Cosa?” boccheggiò la donna. Jughead annuì e raccontò brevemente la telefonata con suo padre, poche ore prima che tre motociclisti adulti e muscolosi se la prendessero con lui. Jay ascoltava incredula, il volto bianco e teso, le mani abbandonate intorno alla propria tazza; quando lui terminò, lei abbassò lo sguardo e serrò le dita attorno alla ceramica. Jughead lasciò passare qualche istante di silenzio teso, poi la domanda che gli covava dentro da giorni gli sfuggì dalle labbra.
  “Perché ti chiamano Red Mama?”
  Jay chiuse gli occhi e le guance avvamparono, non di imbarazzo, piuttosto pensò Jughead, di rabbia. E non si sbagliava.
  “Al contrario di quanto ti vuol far credere FP, io non ho nulla da nascondere” sibilò Jay scostandosi di scatto una ciocca di capelli scivolata davanti al viso; si alzò quasi rovesciando la tazza di cioccolata e andò dalla cucina alla piccola sala, dalla quale ritornò con un annuario in mano; lo sfogliò e trovò in fretta la pagina che stava cercando. Voltò il libro verso i due ragazzi e mostrò loro una foto a tutta pagina: un ragazzo castano in smoking teneva per la vita una ragazza sorridente, dai capelli tinti di rosso fuoco e un vestito chiaro e morbido che cadeva su un evidente pancione. Jughead ci mise un po’ a riconoscere in quella ragazza una Jay al ballo del suo ultimo anno e qualcosa di ghiacciato strisciò sotto la sua pelle: dov’era finito quel bambino?
  “La storia ha inizio qualche anno prima, ma è in questo punto che Jaqueline Brennan è diventata Red Mama” cominciò asciutta Jay. “E non è difficile capire come mai” aggiunse tamburellando un dito a metà tra i capelli rossi e il pancione. Sospirò stizzita, ma riprese a parlare con tono calmo e misurato: “Mia madre mi ha avuta per sbaglio. La sua vita era un casino e non è mai riuscita a mettere insieme abbastanza forza di volontà per farmi adottare. Mia zia e suo marito si sono ritrovati in casa una bambina, senza che fosse loro reale intenzione avere figli, tanto meno quelli di qualcun altro, ma tant’è; mi hanno presa e fatta crescere proprio qui, dove abitiamo noi adesso.”
  Jay si fermò un attimo e sbatté più volte le palpebre.
  “Ho sviluppato un senso di… restituzione. Non posso dire che i miei zii mi abbiano fatto sentire voluta, ma a loro modo mi hanno voluto bene. Sono grata di quello che ho ricevuto, sono conscia di quello che mi manca, e so quello che sono in grado di dare. Più o meno quando avevo quindici anni ho cominciato a fare volontariato alla mensa dei poveri, poi in quello che è diventato il primo nucleo dell’Assistenza alle Fragilità. Volevo andare in mezzo alle persone sole, volevo toccare con mano la sofferenza e cercare di alleviarla, volevo sfamare chi non aveva da mangiare e regalare un sorriso e un abbraccio a chi non aveva nessuno al mondo. E’ così che sono finita in mezzo ai Serpents – ed è così che ho conosciuto John.”
  Jay passò il dito sul volto del ragazzo castano; Jughead cercò di ricordare dove avesse già visto quel viso ma quell’immagine continuava a scivolare ai lati della sua memoria senza che lui riuscisse a fissarla.
  “Era poco più grande di me, ma non andava a scuola da qualche anno, genitori inesistenti. Era un Serpent. Tra di noi, beh… è stato speciale” la voce di Jay si incrinò appena, ma lei diede un colpo di tosse e si ricompose immediatamente. “Incontrare me gli ha cambiato la vita. Senza che io facessi nulla di particolare, John è tornato a scuola, si è rivolto ai servizi sociali per un sostentamento e… ha lasciato i Serpents. Ho rubato un membro alla banda e mi sono guadagnata in tenera età un marchio indelebile.”
  Jay ridacchiò fra sé e sé, come se quello fosse un merito di cui vantarsi; Jughead cambiò posizione a disagio, mentre Archie rimase inchiodato ad ascoltare il racconto della ragazza.
  “E poi all’ultimo anno di liceo ho scoperto di essere incinta” gli occhi le si riempirono di lacrime, ma lei proseguì ignorandole. “John era al settimo cielo, disse che appena dopo il diploma si sarebbe trovato un lavoro e tutto sarebbe andato bene. Io ero scombussolata, ma ero felice: avevo la possibilità di creare quella famiglia che mi era tanto mancata. I miei zii diedero di matto, ma io fui irremovibile: quella bambina era l’unica nella mia vita ad essere sangue del mio sangue, e non me ne sarei separata per nulla al mondo.”
  Jay si portò una mano alla bocca e lo sforzo di continuare fu evidente; Jughead si sentì improvvisamente molto in colpa per quello che la stava costringendo a raccontare, ma non ebbe il coraggio di fermarla: voleva sapere. Lei trasse un nuovo lungo sospiro.
  “Una mattina, non molto dopo che era stata scattata questa foto, mi svegliai con crampi terribili e… non c’è stato nulla da fare. Ero di sei mesi e per la mia Emily… lei è sepolta qui a Riverdale.”
  “Jay, mi dispiace tanto” sussurrò Archie; lei sorrise e si asciugò le lacrime con gesti frettolosi.
  “Grazie Archie” tossì e riprese fiato. “Ci diplomammo poco dopo. John entrò in un buon college con una borsa di studio e se ne andò a studiare medicina dall’altra parte del paese; non ce la faceva a stare qui. E nemmeno i miei zii; volevano vendere la casa, ma alla fine li ho convinti a lasciarla a me. Nel giro di qualche mese ho perso la mia bambina, il mio ragazzo e la mia pseudo famiglia. Così mi sono buttata anima e corpo sull’Assistenza alle Fragilità. E sono diventata scomoda. Molto scomoda.”
  Una strana luce le brillò improvvisamente negli occhi.
  “Rivolgersi a Red Mama è una vera vergogna per un Serpent o per chiunque altro nel Southside, ma sono pochi quelli che non lo hanno fatto. Toni viene da me regolarmente per qualche vestito nuovo. Tool Boy si è ripulito grazie a me e sono riuscita a trovare i soldi per trattare il diabete del figlio più piccolo. Ho trovato io la madre di Sweet Pea quando è andata in overdose e ho chiamato i soccorsi. Ma ho anche aiutato tante ragazze in difficoltà a scappare da Riverdale e per questo c’è chi mi odia non poco. Ma nessuno mi torcerà un capello, tutti hanno ricevuto qualcosa da me. Non ho bisogno di tenere un ragazzo in ostaggio come garanzia.”
  Jay allungò lo sguardo su Jughead.
  “E prima che tu me lo chieda, sì, ho aiutato anche tua madre a scappare.”
  L’informazione scivolò lentamente dentro la coscienza del ragazzo, quasi fosse ricoperta di miele denso; fu solo dopo qualche lungo istante che riuscì a boccheggiare: “C-cosa?”
  Jay lo guardò a lungo poi aggiunse: “Mi dispiace. Quando… quando ho capito chi eri, quando mi hai detto il tuo nome… avrei dovuto dirtelo subito. Solo, non sapevo come fare.”
  Jughead si sentiva completamente svuotato, come un uovo crudo a cui qualcuno avesse succhiato via l’interno, lasciando solo il guscio. Archie gli mise una mano sulla spalla, delicatamente.
  “Stai… bene?”
  La risposta sincera sarebbe stata no, ma Jughead annuì: cominciava a sentire la testa pulsare di nuove domande. Ne scelse una a caso, decidendo di rimandare le altre a più tardi.
  “E’ davvero a Toledo?”
  Jay sbatté le palpebre un paio di volte, incuriosita dalla domanda.
  “Penso di no” disse alla fine. “Il mio contatto mi dà una base diversa di volta in volta, un indirizzo che io do alle ragazze, ma lì forniscono le nuove identità e le dritte per scegliere una nuova casa. Non credo che le ragazze rimangano mai nello stesso posto che conosco anch’io.”
  Nuove identità, posto sicuro… eppure sua madre non aveva cambiato numero di telefono, non aveva tagliato i ponti con lui, non in maniera categorica quanto meno. Era così difficile credere che lei gli avesse mentito. Eppure…
  “Non vuoi che io vada cercarla?” tentò, non senza una punta di cattiveria. Jay increspò un angolo della bocca.
  “Credi che io sia gelosa di tua madre, Jones? Se ho scelto di condividere una parte della mia casa e del mio cuore con te non è per giocare alla famiglia felice. Tu non sei mio figlio, tu sei libero. L’ho scelto perché so cosa vuol dire sentirsi soli, abbandonati e rifiutati. E penso che nessuno si meriti una cosa del genere. Se posso risparmiarlo anche ad una persona sola, beh, ne sarà valsa la pena.”

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Capitolo 6
*** La verità e l'errore ***


Una volta credevo che il contrario di una verità fosse l’errore
e il contrario di un errore fosse la verità.
Oggi una verità può avere per contrario un’altra verità altrettanto valida,
e l’errore un altro errore.
Ennio Flaiano



Quinto capitolo
La verità e l'errore
 
 


  Tre colpi delicati sulla porta accostata. Jughead alzò di scatto la testa e si rese conto di aver perso la cognizione del tempo: per quanto era rimasto rannicchiato in un angolo del suo letto, la schiena appoggiata al muro?
  “Posso?” chiese Jay aprendo di poco la porta; il ragazzo annuì e lei entrò in punta di piedi, come se il rumore potesse far scappare un animale spaventato. Non chiese invece permesso quando si sedette sul letto di fianco a lui, distante quel tanto che bastava per non toccarlo, ma abbastanza vicina perché Jughead sentisse il calore del suo corpo. Una parte di lui avrebbe voluto mettersi a piangere e nemmeno sapeva il motivo.
  Jay appoggiò schiena e testa al muro, stendendo le gambe sul letto, in attesa; il ragazzo strinse le proprie ginocchia al petto ancora più forte, la guancia appoggiata su di esse in modo da guardare fuori dalla finestra, oltre Jay.
  “Voglio fare un patto con te” disse lui, dando libero sfogo a quello che gli passava per la testa. Lei alzò le sopracciglia e sbatté le palpebre, perplessa.
  “Sentiamo.”
  “La verità sempre, tra di noi. Promettimi di non mentirmi mai, e io non lo farò mai con te.”
  Alzò la testa e la guardò dritta negli occhi; lei ricambiò lo sguardo per diversi, lunghissimi secondi, poi rispose con sicurezza.
  “Certo. Verità sempre. A ogni costo.”
  Jughead sorrise, e di nuovo non avrebbe saputo spiegare di preciso il perché.
  “Dovremmo… dovremmo stringerci la mano, o cosa?” chiese Jay lasciandosi scappare una risata nervosa che contagiò anche il ragazzo. Poi Jughead senza pensarci lasciò le proprie ginocchia e fece scivolare le braccia attorno alla vita di Jay, la testa sistemata sulla sua spalla come se non ci fosse nessuna posizione più naturale al mondo. Lei esitò solo un attimo poi lo strinse, la guancia sul capo di lui; il ragazzo percepì un senso di protezione e calore che non sentiva da molto, molto tempo, come se nulla in quell’abbraccio potesse raggiungerlo.
  “E adesso che abbiamo questo patto, cosa vorresti chiedermi Jones?”
  Non adesso, pensò una parte di lui, quella che sarebbe rimasta così per sempre; ma si trattava solo di rimandare l’inevitabile. Strinse un po’ di più le braccia attorno a Jay e sussurrò la sua domanda.
  “Perché ha preso con sé Jellybean e non me?”
  Sentì il corpo di Jay irrigidirsi appena, poi lei scostò la testa da quella di Jughead, sistemò i capelli di lui con una carezza e vi posò di nuovo la guancia.
  “Questa è una domanda con una risposta lunga e difficile. Ma ti ho promesso la verità e starò con te mentre la ascolti.”
  Jay trasse un lungo respiro, come se dovesse immergersi nell’acqua, e cominciò.
  “Ho conosciuto tua madre per la prima volta al Liceo: io ero al primo anno e lei all’ultimo, una delle studentesse peggiori ma in assoluto più popolari di tutta la scuola. Gladys era affascinante, bellissima ed estremamente sola, una delle tante vicende del Southside; era solo questione di tempo perché si infilasse nella storia sbagliata con qualcuno di più grande, ed è qui che entra in scena FP. Iniziarono una relazione burrascosa di cui si sarebbe accorto anche un sordo: lui veniva spesso a scuola a farle scenate di gelosia nei corridoi, per poi presentarsi il giorno dopo con mazzi di rose enormi che facevano immediatamente dimenticare a Gladys tutti gli insulti di poche ore prima. Rimase incinta qualche mese prima degli esami finali.”
  Jughead tremò appena, senza volerlo.
  “Con il senno del poi mi viene da ridere, ma all’epoca rimasi sbalordita dalla storia di Gladys, che, senza nessuno su cui contare o che le mettesse un po’ di sale in zucca, abbandonò la scuola e andò a vivere con FP. Nessuno la vide per anni. La gatta fuori controllo, spumeggiante e piena di fascino che tutti avevano conosciuto a Riverdale, era stata addomesticata e legata in casa, al suo posto. Posso solo immaginare che cosa sia successo in quel periodo: suppongo che il tuo arrivo abbia portato gioia e che Gladys e FP abbiano cercato di essere una vera famiglia per te, ma raramente le favole sono a lieto fine in questa parte della città.”
  Jay strinse Jughead un po’ di più a sé: non era lei a dovergli raccontare cosa era successo in quella roulotte, quanto il contrario. Se si fermava un attimo, il ragazzo poteva ancora sentire le urla di suo padre, i mugolii di sua madre e le percosse, Dio, i tonfi delle mani di lui sul viso di lei, sulla sua schiena, e Jughead raggomitolato in un angolo, con le mani sulle orecchie, per fingere di non essere lì.
  Jughead si accorse di stringere il maglione di Jay con troppa forza e si costrinse a rilasciare le dita; inspirò forte dal naso il profumo di lei per ritornare nel presente, al sicuro. Si concentrò sulle mani della ragazza che gli accarezzavano piano i capelli e sulla voce pacata, che proseguiva il racconto.
  “Le nostre strade si incrociarono di nuovo molti anni dopo, quando la fama di Red Mama era già ampiamente nota. Venne da me Andrew Sullivan, il fattorino che consegnava la spesa a casa.”
  Andrew Sullivan? Jughead se lo ricordava; veniva spesso, anche solo per prendere un caffè e vedere se avevano bisogno di qualcosa dal negozio. A volte sua mamma non aveva abbastanza soldi per pagare tutta la spesa consegnata e Andrew diceva che non importava, che avrebbe saldato la prossima volta, ma Jughead aveva la sensazione che la differenza l’avrebbe messa di tasca sua.
  “Mi raccontò una storia pazzesca, a cui non avrei mai creduto se poi non si fosse rivelata indubbiamente vera. Quell’uomo gracile e timido era l’amante di Gladys Jones, proprio sotto il naso del grande e grosso marito Serpent. Avevano bisogno di darsela a gambe, e in fretta, perché FP cominciava a capire qualcosa.”
  Amante? Jughead non aveva mai avuto questa sensazione. Oppure… non aveva mai voluto vedere. Sì, ricordava i sorrisi di sua madre, le risate sciocche alle battute di lui, i dolcetti che ogni tanto Andrew portava a lui e a Jellybean, ma da lì ad immaginare una relazione…
  “Quando Andrew mi portò Gladys e Jellybean la notte in cui li feci scappare rimasi perplessa; Non ce n’è un altro? Chiesi indicando la bambina. Tua madre la strinse a sé, imbarazzata, poi scosse la testa. Solo lei, rispose. Li guardai, tutti e tre, a lungo. E capii. Jellybean somigliava molto ad Andrew: stessi capelli biondi e sottili, stesso sorriso sbilenco, stesso naso affilato. Quella storia andava avanti da molto più tempo di quanto non mi aspettassi. Li lasciai andare.”
  Jughead aveva la sensazione che Jay volesse scusarsi di nuovo, ma non era lei a doverlo fare. A essere sincero, nemmeno lui sapeva con precisione chi avrebbe dovuto scusarsi con lui per quel vuoto doloroso che sentiva premere contro il suo petto. Non poteva biasimare sua madre: Jughead rappresentava fisicamente la relazione con FP, probabilmente gli anni più terribili della sua vita, pieni di dolore e brutture. Jellybean era l’angioletto biondo frutto dell’amore di una persona che si era presa cura di Gladys, l’aveva protetta e salvata da un matrimonio violento.
  Ora lo sapeva. Jughead era un errore. Chi vorrebbe vedere tutti i giorni lo sbaglio più grande della propria vita?





Angolo di Gin
Capitolo breve, ma intenso, nonché penultimo di questa breve storia. Sto lavorando al sesto, non sarò celere come con tutti gli altri capitoli perché, a differenza degli altri, questo non è ancora pronto.
Ringrazio ancora daffodil che segue con costanza! E a chiunque voglia leggere e - chissà - recensire.
Smack
Gin

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