Chronicles of the Umbrella Academy

di Smaug The Great
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I: Il Vasto Mondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo II: Cuori in Rovina ***
Capitolo 4: *** Capitolo III: Interessi di Guerra ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV: Mezze verità ***
Capitolo 6: *** Capitolo V: Il prezzo delle occasioni perdute ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI: Un po' di dolore in meno ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII: Prove di Coraggio ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 

12 Dicembre 2020, San Mungo (UK)
Il San Mungo, quella notte, puzzava di tensione e brutte notizie.
Non che fosse una novità. Il miglior istituto di cura magica di tutta Europa era forse nato con quell’odore e se l’era cucito addosso come una condanna e un fiore all’occhiello allo stesso tempo. La sera del dodici dicembre duemilaventi, però, aveva qualcosa di particolare. Sotto i ferri da ore, in un’aula del reparto di terapia intensiva, c’era uno dei maghi più conosciuti al mondo. Per Octavius Cleremont –imprenditore magico, miliardario filantropo, capo nella lotta contro l’uso improprio della magia, membro del Ministero Internazionale, stregone ad honorem del Wizengamot e tante, tante altre cose– si stavano muovendo l’Inferno e gli Oceani. Ma non c’era molto da fare. Vittima di un male senza nome e senza cura, pareva proprio esser giunto alla fine della sua vita.
E doveva pur significare qualcosa l’assenza totale di visitatori al suo capezzale.
Beh, quasi totale. Perché qualcuno, alla fin fine, era pur arrivato.
«Signore, le ripeto che deve accomodarsi in sala d’attesa»
«Accomodarmi?» l’uomo dagli occhi grigi soffocò una risata amara e fulminò l’infermiera con lo sguardo.
Era appena arrivato al San Mungo, dopo ore alla ricerca di una passaporta lastminute dall’Ungheria fino a Londra, e aveva tutt’altro che una bella cera. Gli era stata recapitata una missiva in quanto unico parente ancora in contatto con il vecchio Signor Cleremont e, non appena lette le poche righe sbrigative della lettera, aveva lasciato tutto per correre da lui. Non aveva neanche avuto il tempo di asciugare con un incanto la giacca nera di pelle di drago, che nascondeva a stento la maglia fradicia di pioggia, né il paio di vecchi jeans infilati dentro grossi stivali; alcune ciocche di capelli, scuri e lunghi e bagnati, erano incollate al suo volto squadrato e pallido. Ma non sembrava importargli. Litigava da quelle che sembravano ore con l’infermiera di turno, che a sua volta faticava a respingere i suoi tentativi di entrare in sala operatoria e di incuterle timore.  Ed era il suo sguardo, uno sguardo di occhi grigi e di tempesta, a dargli quell’aria febbrile che lo aveva fatto arrivare, indisturbato, a qualche passo dalla sala operatoria.
«Le pare che io voglia accomodarmi?» parlava in una lingua di sibili e denti stretti, in un tono di minaccia e impazienza «Voglio vedere mio padre e non le conviene bloccarmi la strada perché, come vede, oggi non sono in vena di rifiuti»
«Le ripeto che il Signor Cleremont è in sala operatoria con i nostri migliori medimagi» replicò, evidentemente a disagio, l’infermiera «Stiamo facendo il possibile per salvarlo, ma non possiamo consentirle di entrare. Se continua a insistere» aggiunse frettolosamente «sarò costretta a chiamare la sicurezza e farla scortare fuori dall’ospedale»
«Ma tu lo sai con chi stai parlando?»
E a giudicare dall’espressione spaventata della ragazza, doveva essere perfettamente consapevole di aver difronte uno degli stregoni più potenti del nuovo secolo. D’altra parte, però, non sembrava intenzionata a dargliela vinta e Rigel –così si chiamava l’uomo in nero– non dubitava che avrebbe chiamato la sicurezza al primo segno di pericolo. Per questo, suo malgrado, si costrinse a rilassare i muscoli delle spalle e del viso e a trarre un profondo sospiro calmante. «Perdoni la mia insistenza, non volevo spaventarla. Farò come dice. Vorrei solo sapere–» abbassò gli occhi sul pavimento lucido della corsia «c’è qualcun altro qui per il Signor Cleremont?»
La donna piegò le labbra piene in una smorfia dispiaciuta «Mi dispiace, signore. Al momento c’è solo lei e l’elfa domestica, che ha portato il paziente qui quasi cinque ore fa»
Rigel serrò la mascella e trasse un respiro profondo «Capisco» disse «Mi faccia sapere non appena si arriva a una svolta»
 
 
 
13 dicembre 2020, San Mungo (UK)
Lo capì dal volto del medimago, prima di tutto. Da quello sguardo di pietà artificiosa con cui lo avvicinò, come se fosse un deja vu noioso a cui ormai si fosse abituato. Tutto, nell’ambasciatore di sciagure che era il Dottor Carrow, trasudava professionalità e dispiacere spiccio.
Spese appena due parole per descrivere lo sforzo ammirevole da parte del San Mungo per vincere una partita persa in partenza. Accennò al costo dell’operazione e del trattamento che il Signor Cleremont aveva affrontato nelle settimane precedenti e gli porse la cartella clinica. Rigel non si sforzò neanche di rispondergli o di mostrarsi dispiaciuto. Non lo era. Come poteva essere dispiaciuto della morte di suo padre, quando sapeva che i suoi assassini respiravano ancora e camminavano sulla sua stessa terra, dormivano sotto il suo medesimo cielo. Perché Rigel non aveva dubbi. Suo padre era vittima di un incanto, una maledizione, un sigillo oscuro che lo aveva trascinato, ancora scalpitante, nella tomba. Glielo aveva confessato lui stesso e per quel motivo, per mesi, aveva girato l’Europa e l’Asia, alla disperata ricerca di un alchimista, uno studioso, un pozionista capace di spiegare e curare il male del Signor Cleremont. Quando quel pomeriggio era arrivata la lettera, si trovava in Bulgaria in cerca di un certo Jasofov. Chiaramente, la ricerca era stata vana.
Per l’ennesima volta quella sera, trasse un sospiro profondo e si sedette su una poltrona della sala d’attesa. L’elfa domestica lo raggiunse, zampettando rumorosamente per la stanza, e lo avvicinò con cautela. Sul suo volto scarno e spaurito si leggevano le tracce di un dolore senza fondo. Bizzie era stata al servizio dei Cleremont per ben quattro generazioni: aveva seguito Octavius sin dalla più tenera infanzia e ora, dopo aver assistito alla sua conquista del mondo, ne testimoniava anche la caduta. Era chiaro che tra i due ci fosse un rapporto confidenziale che superava di gran lunga quello standard tra elfo domestico e padrone perché, nonostante l’emancipazione elfica dei decenni precedenti, Bizzie si era rifiutata di percepire un qualsiasi salario e di rinunciare alle etichette sociali. Il Signor Cleremont era stato, per lei, “il padrone” e i suoi figli erano poi diventati “i padroncini”. L’unica concessione che si era fatta, con l’approvazione di Octavius e l’entusiasmo dei bambini, era stato il vestiario. Rigel lo ricordava bene perché era il Natale dei suoi otto anni e lui e i suoi fratelli le regalarono esclusivamente vestiti, con il risultato di trascorrere il pomeriggio nell’organizzazione di una sfilata di moda e di concludere in un dibattito senza fondo su cosa le stesse meglio. Bizzie aveva messo tutti d’accordo con la promessa di indossare soltanto i loro vestiti.
Si ritrovò a pensare con amarezza e con calda tranquillità che l’elfa domestica dei Cleremont era a tutti gli effetti la sua famiglia. Madre e padre e sorella e figlia tutto insieme. Da quando i suoi fratelli erano partiti per il mondo ed Octavius si era barricato nel suo studio, non gli rimaneva che lei. Sempre premurosa, mai disattenta o insensibile, aveva la pazienza di raccogliere di volta in volta i cocci della sua coscienza e rimetterlo in piedi. Anche ora, nel momento in cui il suo Padrone chiudeva gli occhi per sempre e la vita assumeva un altro colore, pensava agli altri. Pensava a lui.
Gli venne automatico alzare il volto dalla cartella clinica e rivolgerle il miglior sorriso di cui fosse capace, con la speranza di poterla rassicurare almeno un po’.
Bizzie si avvicinò fino a toccare le sue ginocchia, gli prese una mano tra le sue, fredde e piccine, e lo guardò con occhi grandi e verdi e tremendamente spaventati.
«E ora che facciamo, padrone?» chiese, con una vocina tremula.
«Ora» rispose Numero Uno, lo sguardo fisso su di lei e bruciante di certezza, la mascella serrata «scopriamo chi ha ucciso mio padre e lo facciamo a pezzi»

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autore ed Esplicazioni
Salve! Innanzitutto grazie per essere arrivato in fondo a questo prologo, scritto in fretta e furia e probabilmente scorretto sotto innumerevoli punti di vista. Grazie. Davvero. Confesso che avrei potuto fare di meglio, ma oggi pomeriggio mi è scattata quest’idea in testa mentre traducevo e non sono riuscito a togliermela dalla testa. Quindi eccomi qui.
Per riassumere, questa storia è pesantemente ispirata a The Umbrella Academy, la serie tv. Octavius Cleremont ha adottato questi nove bambini miracolosi e ha cercato di renderli supereroi nell’Umbrella Academy, ottenendo i risultati più vari con un unico comune: tutti se ne sono andati. Tutti tranne Rigel, il mio OC, di cui vi spiegherò meglio nei prossimi capitoli. Quanto alla morte di Octavius, posso rivelarvi al momento solo due cose: è stata brutta–lento e atroce, l’ha reso delirante in più modi– e non è stata un incidente. Questo significa che potete propormi DUE TIPI DI PERSONAGGIO: un ragazzo o una ragazza dell’Umbrella Academy, con un potere a vostro piacimento, oppure un ragazzo o una ragazza dei “cattivi”. Nel secondo caso, vi darò indicazioni più precise su chi sono queste persone, perché hanno ucciso Octavius Cleremont e quale sarà il loro ruolo nella storia.
Detto ciò, vi lascio alle regole e alla scheda
 
 
 
Regole
  • Potete inviare un massimo due schede in messaggio privato con oggetto Nome dell’OC -Chronicles of The Umbrella Academy;
  • Potete dare ai vostri personaggi un potere qualsiasi. Cercate però di bilanciarlo e di non rendere nessuno invulnerabile;
  • Gary Stu e Mary Sue non sono ben accetti, né mezzi veela, metamorphomagi, animagi, maledicti, lupi mannari, vampiri e creature del genere. Quanto al carattere, sbizzarritevi. Questi ragazzi hanno vissuto in una famiglia più che disfunzionale per più di metà della loro vita, quindi posso giustificare qualsiasi cosa;
  • Recensite almeno ogni tre capitoli, più che altro perché avrò bisogno di pareri e a fine capitolo spesso porrò delle domande riguardo i vostri OC;
 
 
 
Scheda
 
OC dell’Umbrella Academy
Nome: (il cognome sarà automaticamente Cleremont, così come il loro stato di sangue sarà automaticamente purosangue in quanto adottati da un mago purosangue)
Paese di nascita: (hanno tutti venticinque anni e sono nati tutti il 7 Ottobre del 1995, dunque hanno tutti venticinque anni)
Ex Casa:
Aspetto:
Prestavolto:
Potere:
Descrizione psicologica:
Percorso scolastico:
Materie che amava&odiava:
Percorso post-scolastico: (cosa fa ora? Lavora? Studia? Dov’è? Quando di preciso è andato via di casa?)
Paure&Debolezze:
Passioni&Talenti:
Patronus:
Molliccio:
Amortentia:
Bacchetta:
Orientamento Sessuale:
Rapporto con Octavius:
Rapporto con Rigel:
Ama&Odia:
Amicizie&Inamicizie: (con chi va d’accordo? Cosa non sopporta nelle persone?)
Relazione: (da che tipo di persona sarebbe attratto? Cosa cerca in un partner? Ha al momento qualche relazione? In che modo vorreste che fosse sviluppato questo aspetto nel corso della storia?)
Cosa pensa della riunione organizzata da Rigel? (è contento/a di tornare a casa? Conta di andarsene subito? Cosa spere di ottenere dal testamento di Octavius?)
Canzone che lo rappresenta:
Altro:
 
 
 
 
OC dell’Ordine dei Cavalieri del Vetro
Nome&Cognome:
Nome in codice:
Età: (dai venti ai trentacinque anni)
Nazionalità:
Scuola frequentata: (ex Casa, se necessario)
Aspetto:
Prestavolto:
Abilità:
Descrizione psicologica:
Percorso scolastico:
Materie che amava&odiava:
Percorso post-scolastico: (com’è stato reclutato dall’Ordine?)
Paure&Debolezze:
Passioni&Talenti:
Patronus:
Molliccio:
Amortentia:
Bacchetta:
Orientamento sessuale:
Cosa pensa dell’Umbrella Academy:
Cosa pensa di Octavius Cleremont:
Ama&Odia:
Amicizie&Inamicizie: (con chi va d’accordo? Cosa non sopporta nelle persone?)
Relazione: (da che tipo di persona sarebbe attratto? Cosa cerca in un partner? Ha al momento qualche relazione? In che modo vorreste che fosse sviluppato questo aspetto nel corso della storia?)
Canzone che lo rappresenta:
Altro:
 
 
 
 
 
OC Presentati
 
Octavius Cleremont, deceduto
Una delle personalità più in vista del mondo magico. È stato un imprenditore senza scrupoli e ha investito per anni nei campi più svariati, senza mai porsi problemi etici, con il risultato di farsi più nemici che amici. Quando ha saputo dell’anomalia astronomica che ha permesso la nascita dei bambini straordinari in tutto il globo, ha fatto di tutto per averne il più possibile per impartire loro un’educazione rigidissima e formare l’Umbrella Academy, un’accademia di “supereroi”. È stato un padre severo e distaccato, per niente affettuoso e attaccato ad alcuni saldi principi. Quando i ragazzi hanno cominciato ad abbandonarlo, ha continuato imperterrito nella sua missione.
 
  source
 
 
 
 
Rigel Cleremont, Numero Uno
Ex Serpeverde|Bisessuale|Umbrakinesis.
Seven Nation Army –The White Stripes
Rigel è il primo bambino a esser stato trovato, direttamente da Mosca. Nonostante suo padre lo abbia cresciuto per essere il leader della squadra, ha da sempre un carattere piuttosto schivo e prono alla solitudine; pur non essendo il più tagliato per tale ruolo, è dovuto divenire il capo ed è stato per gli altri un capitano dispotico, gelido e calcolatore quasi quanto Octavius. Anche quando i suoi fratelli se ne sono andati, è rimasto a casa per l’inconscia paura di non riuscire a integrarsi nella società dei normali.

 
Numero-1

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Capitolo 2
*** Capitolo I: Il Vasto Mondo ***


Note prelettura: intanto grazie per essere tornati su questa storia che, onestamente, non so se sono davvero pronto a pubblicare. Ma in fondo devo. Ho ritardato la pubblicazione di questo capitolo di più di una settimana per alcuni problemi che ora ho bisogno, per il benessere della mia coscienza e della vostra, di elencarvi. Alla stesura difficoltosa e a impegni vari si è aggiunta la scelta degli original characters.
Mi so sono ritrovato, mio malgrado ben tre volte, a dover scegliere tra due o più personaggi molto diversi tra loro ma con il potere in comune. In alcuni casi è stato possibile risolvere questa omodinamia –vi prego di ignorare i miei neologismi–, in altri no. Alcuni personaggi si sarebbero inseriti nella storyline meglio di altri, mentre qualcuno era costruito con più accuratezza, addirittura mi sono arrivati personaggi coscritti. Insomma, un’apocalisse nella mia povera casella di posta.
Detto ciò, vi ringrazio moltissimo e vi prego di non prendervela troppo per le scelte che ho fatto.
Ci leggiamo a fine capitolo.

 
 


 Smaug the Great

 
 
 
The Umbrella Academy
 
Octavius Cleremont
Deceduto
 
 
                                                             Octavius-Cleremont  

Rigel Cleremont, Numero Uno
 Russo. Ex Serpeverde. Bisessuale. Umbrakinesis
Seven Nation Army -White Stripes

Numero-1-Rigel-Cleremont


Ezra Cleremont, Numero Due
Neozelandese. Ex Serpeverde. Eterosessuale. Specchio.
Brother -Matt Corby
  
Numero-2-Ezra-Cleremont  


Caesar Cleremont, Numero Tre
Italiano. Ex Grifondoro. Eterosessuale. Pain Vocation.
Riot -Three Days Grace 
 
Numero-3-Caesar-Cleremont  


Hillevi "Levi" Cleremont, Numero Quattro
Svedese. Ex Tassorosso. Eterosessuale. Psicocinesi.
Bury a friend -Billie Eilish
 
Numero-4-Hillevi-Cleremont


Antoine "Tony" Cleremont, Numero Cinque
Francese. Ex Tassorosso. Omosessuale. Possessione sensoriale.
Heavy -Linkin Park 
 
Numero-5-Antoine-Tony-Cleremont  


Oliver Cleremont, Numero Sei
Giapponese. Ex Tassorosso. Eterosessuale. Pain Absorption.
Good Time -Owl City 
 
Numero-6-Oliver-Cleremont  


Artemis Cleremont, Numero Sette
Canadese. Ex Corvonero. Eterosessuale. Biomanipolazione.
Into the Unknown -Idina Menzel
 
Numero-7-Artemis-Cleremont
 

Esmeralda Cleremont, Numero Otto
Cubana. Ex Corvonero. Bisessuale. Rigenerazione e guarigione.
 Heaven -Solence
 
      Numero-8-Esmeralda-Cleremont  


Alexis Cleremont, Numero Nove
Finlandese. Ex Grifondoro. Omosessuale. Psicometria.
 False Confidence -Noah Kahan
 
                                                               Numero-9-Alexis-Cleremont-gif  
 
 

 
Il Decimo Reggimento
 
Elijah Stone, Zar
32 anni. Tedesco. Bisessuale.
 If I had a heart -Fever Ray
 
source  

Kasumi Ishikawa, Kitsune
24 anni. Giapponese. Eterosessuale.
 Natural -Imagine Dragons
 
Kitsune-Kasumi-Ishikawa

 
Nasheeta Ayed, Sfinge
22 anni. Egiziana. Eterosessuale.
 We are young -Fun
 
Sfinge-Nasheeta-Ayed
 

Gideon Reed, Apollo
27 anni. Scozzese. Bisessuale.
Welcome to the jungle -Guns n Roses

 
 
                                                                RQqcTx  
 
 
 
 
 
Capitolo I
Il Vasto Mondo
 
 
“«E oltre il Bosco Selvaggio?» chiese Talpa.
«C’è il Vasto Mondo» disse Topo «ma quello non ci riguarda»”
Il Vento tra i Salici
 
 
 
 
 
14 Settembre 2001, Londra, Umbrella Academy
 
«Concentrati, Numero Sette» la voce di Octavius era pietra, una manciata di sillabe che filtravano tra denti dritti.
La sua freddezza stonava con il clima ancora tiepido dell’estate britannica che, a settembre inoltrato, ancora non voleva saperne di cedere il passo all’autunno; assomigliava, più che altro, alle nubi plumbee che da un paio d’ore incombevano da est e che non avrebbero risparmiato neanche loro. L’Umbrella Academy –che per i nove bambini che ne facevano parte era semplicemente casa– era uno splendido palazzo di epoca vittoriana, di pietra brunastra e in più punti baciata dall’edera, che si trovava a Rosewood, il quartiere più altolocato –“più nobile” soleva dire Octavius, con il mento alzato– di tutta la Londra Magica.
Nella quiete del tardo pomeriggio, i raggi di sole accarezzavano in giardino due figure: una flessuosa e rigida ed elegante, l’altra più piccina ed esile. La prima era in piedi e guardava dall’alto dei suoi centottanta centimetri la seconda, che invece era inginocchiata sul prato e puntava invano le manine tesissime verso l’erba bruciacchiata dal caldo. La scena andava avanti da almeno un’ora e Numero Sette era stremata. Se a inizio pomeriggio si era ripromessa di metterci tutta se stessa, di ottenere con le buone o con le cattive dei risultati e di risvegliare la sua magia, ora –ora che i lunghi capelli cinerei erano spettinati dal vento, ora che aveva la fronte imperlata di sudore, ora che la gonnellina blu dell’uniforme era sporca di verde e la camicetta spiegazzata– ne aveva abbastanza.
Fosse stato per lei, avrebbe già mollato. Sarebbe tornata volentieri in casa a giocare con i suoi fratelli. Ma papà –perché l’uomo di pietra ed ossa che le stava accanto era e per sempre sarebbe stato “papà”, con la voce fradicia d’amore e di fiducia– era di tutt’altra opinione.
«Non ce la faccio! Proprio non ce la faccio!» piagnucolò la bambina all’improvviso, incrociando le braccia al petto con aria afflitta.
«Bazzecole» l’uomo mise da parte il taccuino su cui stava prendendo appunti e le rivolse la sua attenzione. I poteri di Numero Sette erano tra gli enigmi più grandi dell’accademia: tardi nel manifestarsi, mutevoli e senz’altro legati alla natura, affliggevano da una settimana la piccola Numero Sette e lo stesso Signor Cleremont. Questi, stanco ma per niente spazientito, serrò le labbra in una linea sottile e schiarì la voce. Dopo sei anni, ancora non gli era facile rapportarsi ai suoi piccoli soldati. Si inginocchiò cautamente all’altezza di sua figlia, incurante dell’erba bagnata che avrebbe macchiato i pantaloni «Numero Sette» le disse, nel tono più morbido che potesse permettersi «Dimmi, Numero Sette, cosa ne pensi dei tuoi poteri?»
La bambina bionda alzò su di lui i grandi occhi azzurri e tirò su con il naso «Sento dei bisbigli, ma non riesco mai a capire. E mi piacciono tanto i fiori che ho fatto crescere ieri, anche se sono morti e… e mi piace anche quando gli uccellini mi parlano, però vorrei saper rispondere. Papà, come farò a sconfiggere il male se non so neanche come? I miei fratelli–»
«I tuoi fratelli» la interruppe l’uomo «si allenano proprio come te. E hanno le tue stesse difficoltà, Numero Sette. Non sottovalutarti»
«E se non miglioro mai?» replicò prontamente lei, la voce incrinata dal pianto incombente «E se sento voci e faccio crescere fiorellini per sempre? Papà, che succede se non sono speciale anch’io?»
«Non accadrà, Numero Sette» fu la risposta «So che c’è qualcosa di speciale in te. E io, devi sapere, non sbaglio mai»
A questo, Numero Sette non ebbe di ché rispondere. Quando suo padre parlava, sapeva che doveva relegare ogni pensiero al silenzio. E, quando parlava con lei direttamente era un privilegio, un onore indicibile da cui doveva trarre il massimo perché papà non parlava mai a sproposito. Tante volte, prima, le aveva rivolto la sua attenzione per le più svariate ragioni. Ma mai così. Mai con quell’intensità. Numero Sette non sapeva se sentirsi lusingata, impaurita o confusa. Le aveva detto “c’è qualcosa di speciale in te” e non le venne in mente neanche per un istante di dubitare di quelle parole; i suoi fratelli, certo, glielo avevano detto tante volte, ma con papà era tutt’un’altra storia. Era vero. Doveva essere vero. E allora perché non crederci?
Annuì con convinzione e tentò un sorriso rincuorato.

«Brava, Numero Sette» disse l’uomo -e lei si sentì inondata d’orgoglio- «Ora rimettiamoci a lavoro»
                                                      




 
 20 Dicembre 2020, Londra, Umbrella Academy
 
Fu la prima ad arrivare. Di notte, come una ladra, come un’estranea. Come se quella non fosse casa sua. Come se non le si stracciasse l’anima a vederla così cambiata. La grande cancellata dorata si chiuse dietro di lei con un cigolio sinistro, mostrando il sentiero di ciottoli ed erbacce, illuminato a stento dalla luce della luna. Artemis alzò la bacchetta e mormorò a mezza voce: «Lumos».
Il giardino della magione Cleremont aveva un profumo diverso da quello che aveva lasciato. Foglie morte e pioggia. Le bastò darsi un’occhiata attorno per capire il perché. I cespugli di rose di Octavius, quelli che insieme si erano premurati di far crescere, non c’erano più; o almeno, non come li ricordava. Puzzavano di decomposizione e le loro foglie erano grosse e gonfie, come fossero di piante grasse, con spine più massicce del normale e fiori di un rosso vinaccia che faceva paura. Anche gli oleandri erano in uno stato simile. E la lavanda. E la belladonna. E l’alloro. E tutte le piante del giardino.
Annaspò, al pensiero che era colpa sua. Lei, che se n’era andata dall’unica famiglia che aveva, dalle uniche persone che sarebbero mai state capaci di amarla. Lei che non era tornata a casa per anni, troppo vergognosa del proprio peccato. Lei che, per paura di deludere suo padre, si era negata la possibilità di riabbracciarlo.
L’ultima ad andarsene, rifletté con amarezza, e la prima a tornare strisciando.
Si accorse troppo tardi di star piangendo. Si avviò allora, singhiozzando piano, verso casa.
 
Si richiuse la porta di casa alle spalle con delicatezza, quasi intimorita di far piangere il vecchio legno pregiato. Portava con sé solo un bagaglio, lo stesso con cui se n’era andata tre anni prima.
Appese il cappotto umido all’appendiabiti, volgendo in automatico lo sguardo verso il grande salone d’ingresso con la scala, attendendo qualcuno. Quando si rese conto che non ci sarebbe stato nessun comitato d’accoglienza, decise di andare lei stessa a caccia di esseri umani in quel labirinto di legno e pietra.
Il piano terra –il soggiorno, la cucina, la sala da pranzo e quella da ballo, la dispensa e la libreria– era completamente vuoto. E anche la palestra al piano di sopra lo era. Non osò andare nello studio di Octavius, né le venne in mente la malsana idea di controllare se ci fosse qualcuno in soffitta o, Merlino la salvasse, nei sotterranei. Tutto era avvolto in un’atmosfera irreale, così calma da apparire fuori dal tempo, intoccabile. Non c’era una sola cosa fuori posto, segno che Bizzie doveva essere ancora al servizio dei Cleremont, e non si sentiva un solo rumore eccetto quello dei suoi passi.
Per un attimo, mentre saliva le scale silenziosa, diretta verso la sua camera, le sembrò di essere ancora una sedicenne spaventata, che sgattaiolava in casa a notte fonda dopo un’uscita non autorizzata. Immaginò qualcuno –forse Ezra, o magari Esme– affacciarsi da una delle nove camere sistemate in linee parallele e rivolgerle un’occhiata scandalizzata, prima di fare dietrofront per evitare problemi. Levi l’avrebbe sicuramente coperta, come faceva ogni volta, e la mattina dopo –nella sicurezza di una privacy malferma– Rigel l’avrebbe rimproverata per aver trasgredito le regole e Caesar avrebbe preteso tutti i dettagli della sua serata.
Lo spettro di un sorriso le apparve fantomatico sul volto. Durò solo un attimo. In quella casa non c’era più nessuno: né Ezra, né Esmeralda, né Hillevi, né Caesar. Quando se n’era andata, ben sei anni prima, gran parte dei suoi fratelli era già dispersa, fuori contatto per ognuno dei membri rimanenti dell’Umbrella Academy. E tornare ora, dopo così tanto, non avrebbe cambiato nulla. Meglio non farsi illusioni. Lei stessa, per tutta una vita, si era nutrita di sogni, di speranze utopiche che l’avevano portata alla miseria. Era andata via di casa con la consapevolezza pesante di chi sa cosa sta perdendo, ma anche con la convinzione luminosa di avviarsi verso un futuro roseo, di avere il mondo ai propri piedi.
Aveva fatto una scommessa con il destino.
E nessuno poteva capire quanto davvero avesse perso.
Entrare in camera sua fu come perdere dieci anni di vita, come tornare indietro in un nanosecondo e sentirsi annegare nella nostalgia. Profumava ancora di vaniglia. Dal soffitto pendevano le farfalline di carta incantata che un tempo vagavano per tutta la stanza, senza però allontanarsi troppo dai muri color panna. Il letto era pazientemente ordinato, con la trapunta rosa e il cuscino in piume d’oca e il vecchio peluche di un labrador dagli occhi grandi e gentili, che indossava la sua sciarpa di Corvonero. Sulla scrivania c’erano i suoi libri di botanica, uno specchio con le conchiglie, il suo scrigno di gioielli e persino il block notes con tutti gli appunti che aveva raccolto sui suoi poteri.
Aggrottò la fronte. Effettivamente, c’era qualcosa che mancava.
«Caro Diario,» Artemis sussultò, allarmata «non ne posso più di vivere tra queste mura bellissime. Là fuori mi attende l’ignoto, il Vasto Mondo. E io invece me ne sto qui con la mia famiglia, a difendere un mondo che posso solo guardare dal vetro della mia finestra. Ma io ti dico, è finito il tempo di stare in panchina. Metà dei miei fratelli sono già andati via e i restanti muoiono dalla voglia di seguire il loro esempio; sono tutti stanchi di rimanere qui con le mani in mano, di giocare a fare i supereroi. Beh, quasi tutti» la voce, tinta di amarezza, si fermò per un attimo e lei alzò il mento per impedirsi di scoppiare a piangere lì dov’era «Rigel non ha intenzione di andarsene e io so che dice la verità. Eppure non posso permettergli di incatenarmi a sé e a questa prigione dorata. È tempo per me di andare via e scoprire chi sono. So che, lasciando la mia famiglia senza un motivo plausibile, rischio di perderla per sempre; ma non succederà. Andrà tutto bene. Il Vasto Mondo mi aspetta»
Finalmente, suo fratello si tolse di dosso il velo di oscurità di cu si era rivestito –un trucchetto che il suo potere sapeva fare parecchio bene– e avanzò verso di lei. Reggeva tra le mani il suo diario di tela verde e la traforava con uno sguardo divertito e deluso insieme. Anche lui era esattamente come se lo ricordava: i capelli lunghi e spettinati, una t-shirt nera semicoperta dalla giacca verde, i jeans scuri infilati negli anfibi e un sorriso che era ben lontano dall’essere felice. Non era cambiato di una virgola.
Le andò in contro con il suo passo cadenzato da militare e Artemis non riuscì a percepirlo come una minaccia.
«Allora, sorellina» la voce roca e familiare di Rigel graffiava le pareti della sua anima «ti è piaciuto il Vasto Mondo?»
E per lei non ci fu nulla da fare se non scoppiare a piangere, stretta nel desiderio di rifugiarsi tra le sue braccia.
 
 


 
 
21 Dicembre 2020, Londra, Diagon Alley
 
«Era proprio necessario incontrarci qui
Quando, la sera prima, era giunto nel suo appartamentino di periferia il patronus dello Zar –una magnifica tigre siberiana– era giunto a riferirle che si sarebbero incontrati al più presto, di certo non aveva immaginato quello. Perché, beh, Kasumi non era la maestra del travestimento, certo, però anche lei si rendeva conto che la gelateria di Florian Fortebraccio non fosse il massimo della discrezione.
E invece eccola lì, a mangiare sovrappensiero il suo gelato cioccolato e cocco, in attesa che almeno uno dei suoi compagni di Reggimento la raggiungesse. E infatti, proprio quando iniziava a perdere le speranze, arrivò Gideon. I capelli rossi in disordine, gli occhiali da sole –totalmente inutili nella cupa Londra dicembrina– e la smorfia da divo del cinema stressato lo rendevano tremendamente Apollo.
Lo osservò, silenziosa, accasciarsi su una delle sedie e trarre un profondo sospiro di stanchezza. Ordinò distrattamente un caffè americano e allora, ma solo allora, si concesse di togliere gli occhiali da sole come un giovane Horatio Caine e rivolgerle uno sguardo annoiato.
«Buongiorno» lo salutò Kasumi, con una forte nota di sarcasmo.
«Buongiorno anche a te» replicò «Dormito bene?»
Lei lo guardò come a dire: “che razza di domanda è?”, poi si portò due dita alle tempie e trasse un profondo sospiro «Dopo il messaggio di ieri notte, non sarei riuscita a dormire neanche con una pozione sonnolenta»
«Sei sempre la solita, Kitsune» Gideon piegò le labbra in un sorrisetto pericoloso «Proprio non ce la fai a vedere che le cose stanno andando benissimo, eh? Invece, per quanto tu ti ostini a guardare tutto dalla prospettiva peggiore, abbiamo fatto un lavoro superbo» aveva un’aria stranamente soddisfatta «Nell’Ordine non si parla d’altro»
«Questa potrebbe non essere necessariamente una buona cosa» fece lei «Tu la fai troppo facile. Rimane ancora una seconda parte dell’incarico e vorrei anche ricordarti che il lupo di Cleremont ha trascorso gli ultimi mesi in giro per l’Europa a cercare alchimisti e pozionisti e guaritori. Sai cosa significa?» c’era una certa gravezza nella sua voce «Lui sa»
«E con questo?» ribatté, sfacciato.
«Quanto pensi ci metterà» replicò Kasumi, a voce bassissima «a convincere gli altri membri della brigata mutante che il loro paparino è stato ucciso? Quanto prima che scoprano del sigillo? Guardami negli occhi, Apollo, e ascolta il mio consiglio» gli occhi castani di lei andarono a fissarsi su quelli blu di lui «Non appena finiamo questo incarico, accetta ogni galeone che ti danno, raccogli tutti i tuoi risparmi e non ti farti più vedere. Cambia nome. Cambia faccia. Cambia identità. Reinventati, fa’ come vuoi. Ma sparisci. Perché quando il branco ti verrà a cercare, ti converrà non esistere già da un pezzo»
Gideon faticò a reggere lo sguardo gelido e pesante della sua compagna di Reggimento, che per così tanto aveva conosciuto e mai aveva visto più seria. Quando si erano imbarcati, insieme, in quella missione, nell’assassinio del mago più influente e controverso del loro secolo, entrambi sapevano a cosa andavano in contro: una montagna di galeoni e valanghe di ripercussioni future. Fino a quel momento, però, –e se ne rendeva conto solo ora– aveva visualizzato, più di tutto, il premio alla loro impresa mirabile e la fama imperitura che avrebbe dato loro nell’Ordine. La Kitsune si era, invece, presa sulle spalle le preoccupazioni di tutto il gruppo.
Avrebbe voluto rassicurarla e prometterle che ogni tanto le avrebbe mandato una cartolina dal Canada Francese, per strapparle un sorriso. Purtroppo, non ebbe tempo di risponderle che un’altra voce scavalcò la sua.
«Avete letto i giornali?»
Nasheeta la Sfinge, quel giorno, era stretta in un delizioso cappotto color cammello e stivali con il tacco, i capelli rosa raccolti in uno chignon di fortuna e una faccia divertita e preoccupata al contempo. Sebbene stesse sorridendo, i suoi occhi scuri esprimevano una certa ansia e i suoi compagni non potevano biasimarla; la notte prima, era entrata per la prima volta davvero in azione. Era la più giovane nel loro gruppo e quella –quell’impresa forsennata e miracolosa– era il suo trampolino di lancio nell’Ordine; certo la sua abilità si era rivelata infinitamente utile, ma lei era visibilmente scossa. Tipico dei novellini.
«Eccoti, finalmente»
«Prendi un gelato, festeggia con noi» Gideon la accolse con un sorriso sornione «In fondo ieri abbiamo fatto un lavoro superbo in ospedale. Meriti un premio al modico prezzo di tre galeoni»
«Tre galeoni?» ripeté lei, con la fronte corrucciata «L’Inghilterra è così cara… in Egitto un gelato non costa neanche tre quarti di un galeone. E in Egitto non fa neanche così freddo a Dicembre»
«Cos’è quel muso lungo, Sfinge? Dovresti essere orgogliosa di te stessa; come ti dicevo, ieri è stato un successo»
«Beh, sì» approvò la ragazza, prendendo finalmente posto al loro tavolino «grazie a me»
A Gideon quasi cadde il gelato di mano. Sollevò su di lei uno sguardo incredulo e inarcò le sopracciglia «A te? Grazie a te
«Ragazzi, potreste darvi un po’ di contegno?» si lagnò Kasumi, con gli occhi al cielo. L’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era un altro dei loro litigi; soprattutto visto che lo Zar non era lì per fulminarli con le sue occhiatacce.
«Sono stato io» continuava lui, indignatissimo, ma sempre con discrezione «a infiltrarmi nella sala operatoria, a confondere tutti i magichirurghi e a far sì che la vecchia aquila stramazzasse in pace. Io ad imporre l’Imperio all’infermiere e ad assicurarmi che portasse la cartella clinica che io avevo ritoccato quel pomeriggio stesso! In che modo questo è accaduto grazie a te
«Muffliato» mormorò Kasumi, ormai rassegnata.
«Peccato» lo rimbrottò Nasheeta «che nulla di tutto ciò sarebbe servito a qualcosa se io non avessi sviato Cleremont Jr dalla malsana idea di entrare in sala operatoria»
«La stai davvero mettendo così? Per una sera giochi alla crocerossina spaventata e improvvisamente diventi l’eroe del Decimo Reggimento?»
«Non ho detto niente di tutto questo! Dico solo che, senza di me, sarebbe stato una catastrofe e di conseguenza mi merito un po’ di riposo. Una settimana, almeno. Tra l’altro, come volevo dire quando sono arrivata» aggiunse, tirando fuori dal cappotto una copia di La Gazzetta del Profeta «siamo su tutti i giornali»
«Siamo
«Scusa Kits» piegò velocemente il giornale su stesso, così da poterlo mostrare ai suoi interlocutori, e prese a recitare: «“Lutto nel mondo magico: Octavius Cleremont, a sessantaquattro anni, soccombe a una lunga malattia”. Prima pagina» scandì, contenta «E questo è solo la testata più importante d’Inghilterra. Capite che significa?»
«Che faremmo meglio a completare anche la seconda parte del lavoro, prima di commettere qualche colossale errore e finire nell’occhio nel ciclone» rispose Kasumi «E che se lo Zar non arriva entro i prossimi quattro minuti» soggiunse, lanciando un’occhiata al suo orologio da polso «sarò molto, molto irritata»

Gideon inforcò gli occhiali da sole e alzò le spalle «Allora non ci resta che aspettare»
 
 



 
21 Dicembre 2020, Londra, Umbrella Academy
 
«E quindi ora cosa stai facendo?» indagò Artemis, con quel suo tipico sguardo da sorella apprensiva.
Da quando Oliver era arrivato con un corteo di due grandi cani, tanto docili quanto casinisti, era preda delle attenzioni intenerite di Artemis –che, tra parentesi, non aveva smesso un attimo di accarezzare i suoi due nuovi amici pelosi–. Da parte sua, Oliver sembrava sereno, nonostante tutto, e accettava con chiaro sollievo la dolcezza di quella che era stata, in fin dei conti, la sua sorella preferita.
Quando se n’era andato otto anni prima, non appena raggiunta la maggior età, gli era costato molto dirle addio, spiegarle che non sarebbe stato per sempre, che si sarebbero tenuti in contatto. Lei non ci aveva creduto neanche per un attimo, ma ci aveva provato. Ed erano restati vicini per i primi tempi, per anni addirittura. Con il passare del tempo e l’avanzare in vie diverse delle loro vite, però, aveva iniziato a far male quella corrispondenza penosa di nostalgie soffocate e voglia di andare avanti e avevano deciso, in un tacito accordo, di smettere. Ancora pungeva il senso di colpa di non aver mantenuto quelle promesse, eppure… eppure non riusciva a dare interamente la colpa a se stesso.
Era destino che, con la casualità con cui si erano uniti, si sarebbero separati.
Vedersi riuniti ora, invece, quello sì che era strano. Non proprio tutti, a dir la verità, ma in gran parte. Nella splendida cucina dell’Umbrella Academy, disseminati come conchiglie su una spiaggia, i bambini prodigio del Signor Cleremont si guardavano l’un l’altro cercando di riconoscersi. Artemis si era sistemata, aggraziata come una piuma, su uno degli sgabelli del bancone, volta completamente verso Oliver, che sedeva accanto a lei. Esmeralda, invece, sul bancone ci si era seduta direttamente e pescava di tanto in tanto uno dei biscotti appena sfornati che Bizzie aveva lasciato lì. Squadrava con occhio critico quegli adulti che portavano il nome dei suoi fratelli e non somigliavano affatto ai ragazzini pieni di speranze e sogni che avevano lasciato casa anni prima. Esmeralda era stata l’ultima dei Cleremont ad abbandonare il nido per darsi alla vita solitaria, quindi aveva avuto tempo per studiare i motivi dello scioglimento dell’Accademia e tastarne con mano propria le conseguenze. Ora cercava di far coincidere le nuove figure dei suoi fratelli con quelle che ricordava, contandone le differenze e ipotizzando somiglianze. Ezra, per esempio, aveva i capelli più lunghi; Oliver li aveva tinti un po’ di verde, come sognava da ragazzino e come il defunto Signor Cleremont aveva proibito in assoluto di fare. Tony, appoggiato al muro in silenzio, non sembrava per niente contento di essere lì e probabilmente sperava di levare le tende il più presto possibile. Come biasimarlo? Nessuno di loro –eccetto forse Artemis, che si informava allegramente sugli scorsi sette anni di tutti i presenti e passava in giro biscotti allo zenzero– voleva essere lì e nulla escludeva che Rigel stesso aspettasse il momento buono per cacciarli di casa e ritornare alla sua normalità. Hillevi ed Ezra, che in passato erano stati l’uno l’ombra dell’altra, non avevano neanche il coraggio di guardarsi in faccia e continuavano da una buona mezz’ora a spiarsi di sottecchi. E lei, illusa, aveva anche sperato di ritrovare un po’ di pace a casa.
«Al momento lavoro in un cinema» disse Oliver, addentando distrattamente un biscotto a forma di albero di natale «Mi occupo di proiettare i film e mi assicuro che tutti fili liscio»
«E dove… dove hai detto che vivi?» Artemis si portò una ciocca di capelli cinerei dietro l’orecchio e prese un sorso di tè nero.
«Un po’ fuori Londra, in una cittadina nell’entroterra che si chiama Beaconsfield. È un posto tranquillo, abitato da brava gente» Oliver la osservò affogare graziosamente un biscotto nel tè, come faceva anche da piccola –a dispetto delle buone maniere di Octavius– e non riuscì a trattenersi dal sorridere «Ti piacerebbe»
«A me piacerebbe di sicuro» si intromise Esme «Le grandi città mi fanno venire il mal di testa, ormai. Non capisco come ho fatto a vivere a Chicago per gli scorsi quattro anni della mia vita»
«Fidati» Ezra tirò fuori un sorrisetto amareggiato «C’è di peggio»
«Dici?» replicò lei «Se non fosse per il mio potere, a Chicago sarei già morta quattro volte negli ultimi tre anni»
«Esme, ti pare il momento?» la ammonì Artemis, per poi rivolgersi a Numero Due «Quindi tu viaggi molto?»
«Per lavoro» rispose seccamente «Faccio il turnista per magiartisti e magiband in generale, quindi ne ho viste di grandi città e posso assicurarvi che Chicago è solo una delle più famose. Il mondo babbano, in particolare, è pieno di centri di criminalità organizzata che i governi fingono di non vedere»
«Sì, ma ci sono anche posti tranquilli» obiettò Oliver «Nella mia città la polizia è una convenzione. Non ci sono pericoli reali a cui far fronte con le milizie armate babbane… anche se, onestamente, non ho mai capito fino in fondo il loro sistema di vigilanza»
«Tony, tu invece che mi dici della–» Artemis si bloccò non appena i suoi occhi indugiarono un po’ di più sulla figura sottile di Numero Cinque «Tony, hai ricominciato a saltare i pasti? Sei ancora più magro di quanto ricordassi»
«No, è solo…» Antoine maledisse cento volte l’apprensione di sua sorella e pregò di non star arrossendo come un idiota «Mi sono trasferito da poco, ho iniziato un nuovo lavoro, nuovi ritmi di vita e mi sto ancora abituando alla nuova routine» piegò le labbra in quello che sperava fosse un sorriso rassicurante «Sono soltanto un po’ stressato»
Levi, a qualche passo di distanza, non mascherò la sua espressione preoccupata «Dove hai detto di esserti trasferito?»
«Arles, Francia» rispose «Sto cercando di inserirmi nel settore dell’arte babbana»
«Sembra splendido» commentò Numero Quattro, deliziata.
«Già, ma ho anche molto da fare» spiegò Tony «Per questo progetto di tornare in Francia il prima possibile, dopo la lettura del testamento e la divisione dei beni. Spero non la prendiate male, è questione di necessità»
Ezra si schiarì la voce, evitando di incontrare gli sguardi degli altri «Anch’io ho intenzione di andarmene quanto prima possibile»
«Ma come?» Artemis tirò fuori la sua miglior faccia di bronzo «Pensavo che saremmo stati insieme almeno per Natale. Ragazzi, non capite? Questa potrebbe essere la nostra seconda occasione! Non capita a tutti e noi siamo abbastanza fortunati da ritrovarci qui dopo tanti anni. Ne ho parlato con Rigel. Stavamo pensando che almeno per questo periodo potremmo rimanere tutti qui, per non lasciare Bizzie da sola»
Alla menzione dell’elfa domestica di casa Cleremont, nessuno osò obiettare. Un conto era dire di non voler passare il Natale in quel clima un po’ forzato di vecchi rancori ed imbarazzo, un altro era mettersi la mano sulla coscienza e rifiutarsi di tener compagnia a Bizzie, che era stata una madre per tutti loro e che avevano già abbandonato una volta.
«Io resto volentieri per tutto il tempo necessario» annunciò Esmeralda «In fondo questa è anche casa mia e non ci tengo a morire anche a Natale»
«A dir la verità, io avevo già portato le mie valigie» ammise Oliver, con un sorrisetto imbarazzato «Beaconsfield d’inverno diventa piuttosto noiosa e comunque non ho nessun altro con cui passare il Natale. Inoltre Bizzie–» s’interruppe di scatto «Un attimo, qualcuno ha visto Bizzie da quando siamo tornati? Prima ho provato a invocarla, ma non ho avuto fortuna»
«Strano» osservò Esmeralda «Quand’eravamo piccoli, accorreva non appena la chiamavamo, dovunque fossimo»
«Magari lei e Rigel sono occupati» ipotizzò Hillevi «Quando Bizzie e papà avevano da fare, lei non si presentava per ore, anche. Può darsi che stiano facendo qualcosa di importante e non vogliano essere disturbati»
«Oppure non ci riconosce più come suoi padroni» la voce di Ezra cadde pesante come un macigno e tutti si girarono, confusi, verso di lui «Pensateci» insistette «Ce ne siamo andati di casa anni fa e non abbiamo mantenuto i contatti con papà, che era il suo legittimo padrone. Lui non ci ha mai cercati. Non sappiamo neanche se siamo davvero nel suo testamento. Sarebbe logico se ora Bizzie fosse vincolata dal contratto magico soltanto a Numero Uno, che invece è rimasto qui e morirà qui»
«Bizzie non lo farebbe mai» replicò Artemis «Lei ci ama allo stesso modo»
«Sono d’accordo con Ezra» disse Tony «Non è una questione affettiva o di volontà. I vecchi contratti magici degli elfi domestici sono molto obliqui; è anche per questo che, con l’emancipazione elfica del secolo scorso, sono stati creati contratti più chiari. Non vediamo Bizzie da anni. Nessuno di noi si è premurato di venirla a trovare. Rigel invece è rimasto qui e si è preso cura di lei e dell’accademia mentre noi facevamo di tutto per dimenticarcela. Magari è anche giusto che Bizzie non ci riconosca più come parte della famiglia»
«Ma noi…» la voce di Oliver suonò più sottile di quanto non fosse già «noi siamo ancora una famiglia»
Nessuno ebbe il coraggio di rispondere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autore
E rieccomi qua, in colossale ritardo. Prima di tutto vi ringrazio per la pazienza di aver aspettato e poi per la forza divina che vi ha portati fino a fine capitolo.
Penso di aver già spiegato abbastanza bene le ragioni del mio ritardo nelle note pre-lettura, quindi lascerò cadere l’argomento e passerò alle cose davvero interessanti. Primo capitolo. Che dire? Sono positivo. È stato un po’ duro da scrivere e non ho neanche presentato tutti i personaggi, ma ora ho le idee molto più chiare su come proseguire le vicende e spero di non aver lasciato troppe questioni in sospeso. Perché lo Zar è in ritardo? Qual è la seconda parte del piano? Dove diamine sono Rigel e Bizzie? E perché ho lasciato fuori gli elementi caotici dell’Umbrella Academy?
Vi assicuro, mano sul cuore, che il prossimo capitolo arriverà a breve e darà uno sguardo un po’ più approfondito alle dinamiche familiari dei Cleremont, ai poteri singoli e a tutta l’istituzione dei Cavalieri di Vetro. Nel tanto, spero di aver accontentato le vostre aspettative.
 
 
 
 
Smaug the Great

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Capitolo 3
*** Capitolo II: Cuori in Rovina ***


Capitolo II
Cuori in rovina



«L'amore è come un albero: spunta da sé, getta profondamente le radici in tutto il nostro essere,
e continua a verdeggiare anche sopra un cuore in rovina
»
Notre-Dame de Paris





8 Giugno 2009, Londra, Umbrella Academy
«Non se ne parla, Numero Otto» il tono di Octavius Cleremont, autoritario e rigido, non ammetteva repliche.
E, d'altra parte, nessuno dei suoi figli avrebbe osato replicare difronte a quel modo di fare, alla mascella serrata e allo sguardo severo del loro padre e addestratore. Beh, quasi nessuno. Esmeralda era sempre stata un'eccezione.
«Ma papà!
» la ragazzina dall'altra parte della scrivania, con i lunghi capelli mossi e gli occhi neri da gatta, avrebbe potuto essere una bambolina deliziosa, se solo avesse imparato a ubbidire 
«Posso fare molto di più!»
«Ti ho già detto» replicò ancora Octavius, con un'infinita pazienza che in realtà stava giusto per finire «che il tuo posto è dietro le quinte e che lì rimarrà. Se i tuoi compagni saranno feriti alla fine della missione, sarà tuo onore e dovere guarirli e, se ci saranno feriti, potrai decidere se aiutare i medimagi o no. Ma non ti è concesso» soggiunse, con un'autorità che avrebbe spaventato chiunque «di entrare in azione»
«Tu mi stai limitando!» fu la viva protesta di sua figlia «Il professor Vitious dice che ho un grande talento con la magia e che potrei fare grandi cose, se ne avessi la possibilità!»
«Il professor Vitious non è il tuo responsabile e vorrei ricordarti che quelli che i tuoi fratelli affrontano sono avversari già dotati di magia, Numero Otto. Il meglio che puoi fare» stabilì «è usare i tuoi poteri di cura, piuttosto che quelli di autoguarigione. Lo dico per il tuo bene» aggiunse poi, in un tono più morbido «Non sappiamo con precisione come funziona la tua capacità rigeneratrice e non sei ancora pronta per testarla»
«Certo che lo sono!» Esmeralda strinse le mani in pugni e aggrottò la fronte, evidentemente contrariata «Solo perché tu non credi che sia forte come gli altri, non significa che io non lo sia! Rigel» incespicò per un momento nelle sue stesse parole, incerta se tirare in ballo o meno suo fratello.
«Cos'ha detto Numero Uno?»
«Rigel dice che sono pronta, papà» rispose lei «E dice anche che potrei essere un grande aiuto per la squadra! Pensi che lo direbbe senza cognizione di causa, a rischio di farmi rovinare la missione?»
«Sono certo che Numero Uno abbia le migliori intenzioni» le accreditò Octavius «ma anche lui è un ragazzino e anche lui, come te, non è in grado di giudicare la gravità delle possibili ripercussioni»
«Non mi importa!» Esmeralda scattò in piedi. La sedia si rovesciò dietro di lei, le sue belle onde nere le ricaddero sul volto «Tu non capisci cosa significa per me, restare sempre in panchina mentre i miei fratelli si prendono tutta la gloria, stare a guardare quando muoio dalla voglia di mettermi in gioco! E non lo capirai mai» urlò, esasperata «perché nessuno ti ha mai dato ordini!»
«Numero Otto» Cleremont Senior le rivolse uno sguardo incredibilmente calmo, per uno che cerca di ragionare con un'adolescente avventata «Numero Otto, siediti e datti un contegno. Non accetterò un comportamento tanto infantile da parte tua, perché so che sei la più matura di tutti nell'accademia. Fammi il favore di ricomporti e parliamone civilmente»
A Esmeralda prudevano ancora le mani, ma per qualche ragione fece come le era stato detto. E nel momento stesso in cui risollevò la sedia e vi si sedette, seppe anche di aver fatto un passo indietro e di star per perdere; d'altronde con suo padre era sempre così. Cercava di imporsi con la forza. Poi, se la tattica falliva, ricorreva alla diplomazia. La coglieva in quel nervo scoperto che era il suo orgoglio. E come poteva lei comportarsi come una ragazzina, battere i piedi a terra e fare i capricci, quando suo padre le aveva appena fatto un complimento? Quando suo padre, dall'altro del suo trono di gloria ed esperienza, l'aveva chiamata "matura"?
«Fin'ora il tuo addestramento si è concentrato prettamente sul tuo innato potere di guarigione» le spiegò «con il quale abbiamo fatto grandi progressi nello scorso anno. So anche, come mi ha accennato Numero Uno, che possiedi capacità di rigenerazione iperbolica»
«Stavo dicendo esattamente questo» si permise di dire, a occhi bassi ma in tono di accusa.
«E io ti sto rispondendo» continuò Octavius, con calma «che ne sono a conoscenza e che trovo questa tua ulteriore abilità straordinaria. Al contempo, però, non posso permetterti di prendere parte alle missioni di questa stagione perché, come tu ben sai» cercò il suo sguardo e lo trovò non più aggressivo ma coscienzioso «ci vuole tempo per studiare una capacità oltre-magica e non si può assolutamente svilupparla sul campo»
Esmeralda si mosse, a disagio, sulla sedia «Ma io-»
«Lasciami finire, Numero Otto» la interruppe subito suo padre «Se questo è ciò che desideri, quest'estate inizierai un addestramento mirato all'incremento dei tuoi tempi di rigenerazione e allo sviluppo di abilità di combattimento non-magico, cosicché per stagione autunnale sarai in grado di scendere in missione e rendermi orgoglioso» si abbandonò a un sospiro stanco «Devi pensare razionalmente, Numero Otto. L'Umbrella Academy non può permettersi di far scendere in campo mezzi combattenti, soprattutto se si tratta di soldati forti come te, che in futuro sapranno dare un notevole contributo alla squadra. Capisci?»
«Sì» concesse lei «Capisco, papà»
«Eccola qui» Octavius si rilassò e le rivolse un sorriso «la mia Esmeralda»
A Numero Otto balzò il cuore nel petto, sgranò gli occhi e guardò suo padre come si guarda uno spettacolo apocalittico, un fenomeno millenario. Si potevano contare sulle dita di una mano le volte il cui l'aveva chiamata con quel nome che lei stessa si era scelta e ancor di meno erano quelle in cui si era rivolto direttamente a lei con quel nome.
Es-me-ràl-da. Un fonema semplicissimo, dolce nella sua emme ed elle, forte tra la erre e la di. Neanche ricordava perché l'avesse scelto, o forse sì. Ma certo che lo ricordava. Era in uno dei libri di suo padre, di quelli vecchi, scritti in un lessico complicato e pieno di termini strani che l'avevano subito affascinata. Una volta, quand'era piccola, aveva trovato a notte fonda papà seduto in poltrona a leggere, accompagnato dal bagliore del camino. Gli aveva chiesto cosa fosse -già da bambina, Esme aveva amato perdersi nella lettura e sapere che anche a papà piacevano i libri la rendeva orgogliosa- e lui le aveva risposto semplicemente che quella era la storia di una ragazza coraggiosa, un bagliore di luce in un mondo che si era rivelato tanto buio. Le era piaciuto il suono. E quando, qualche anno dopo, le avevano chiesto come si volesse chiamare, non aveva avuto dubbi sulla scelta.
Numero Otto. Esmeralda Cleremont. A suo padre apparteneva il cognome che aveva, suo era l'appellativo che aveva in squadra e naturalmente sarebbe stato suo anche il nome da lei scelto.
Le venne naturale sorridere «Scusami, se sono stata impulsiva»
«E' naturale che tu lo sia» fu la risposta «Ora va', i tuoi compagni ti staranno aspettando»
Lei annuì, si alzò e corse a raggiungere i suoi fratelli nell'ora di tempo libero pre addestramento serale.
Le parve stupida tutta quella lite che aveva tirato su in un momento di avventatezza e ancora più sciocca la rabbia che aveva provato verso Octavius, quando le aveva negato il permesso di andare in missione. Si preoccupava per lei, era giusto che non volesse che si facesse male per sbaglio. E lei stessa, d'altra parte, aveva già dimenticato i preamboli di quella discussione, l'ingiustizia sociale di cui le pareva di essere vittima, la gelosia verso i suoi fratelli, la voglia di mettersi in gioco. Aveva in testa tutt'altro.
Papà l'aveva chiamata "la mia Esmeralda".

 


 
21 Dicembre 2020, mattina, Londra, periferie
«Prima di cominciare» Elijah si schiarì la voce con fare imperioso «Vorrei chiarire alcune cose»
Alla fine, era arrivato. Con ventidue minuti di ritardo, come aveva precisato seccamente Kasumi, però era arrivato. E, grazie al cielo, non aveva perso tempo. Li aveva condotti, tramite una passaporta, in quello che sembrava uno scantinato: un luogo buio e soffocante, illuminato forse dalla luce balbuziente del led, con pareti alte e incrostate di ruggine e muffa. Al confronto, la gelateria dei Fortebraccio sembrava il giardino dell'Eden. Si erano seduti, in rigoroso silenzio, a un vecchio tavolo di legno e per i seguenti cinque minuti lo Zar li aveva scrutati con interesse, come se solo guardandoli potesse saggiarne la lealtà. Loro naturalmente non avevano aperto bocca, nonostante quello fosse uno dei tanti comportamenti ambigui del loro leader.
Quando la situazione aveva iniziato a farsi imbarazzante, finalmente Kasumi -perché i suoi compagni non avrebbero mai avuto l'ardire di farlo- aveva tossicchiato con una certa eloquenza ed Elijah aveva iniziato a parlare.
Nasheeta, tra tutti, era forse quella più entusiasta. D'altronde l'assassinio di Octavius Cleremont era il suo primo grande incarico e nella prima parte della missione aveva fatto ben poco, oltre che interpretare il misero ruolo di un'infermiera di mezz'età. Il resto lo avevano fatto tutto i suoi compagni, essendo loro immensamente più esperti di lei. Lo Zar era praticamente una leggenda nell'Ordine, una storia di fantasmi con le ossa, e ancora la metteva in soggezione avercelo attorno, parlarci; di lui si diceva fosse un membro storico dei cavalieri e che fosse dietro a importantissimi eventi storici, come la rapina della sede Gringott in Turchia, il suicidio dell'ex primo ministro magico francese e la cupa sparizione di alcuni membri del Wizengamot.
Kasumi, d'altra parte, era decisamente più discreta, seppur estremamente abile nel suo lavoro. Come aveva avuto modo di capire nei mesi precedenti, la Kitsune era un mastino, un segugio, maestra nell'arte del nascondersi e del rintracciare, scassinatrice di lega ben superiore a un comune Bilbo Beggins. Era stata lei ad aprire gli archivi blindati del governo inglese che riguardavano le attività illecite di Cleremont Senior e suo era il merito dell'infiltramento a notte fonda nella villa di Rosewood. Più la conosceva, più sperava un giorno di arrivare dov'era lei: temuta e stimata. E anche Gideon Reed, che a prima impressione era solo un pallone gonfiato, era uno dei giovani membri più promettenti dell'intero Ordine, con valanghe di lavori portati eccellentemente a termine. Di solito, più che altro grazie alle sue straordinarie abilità, lavorava da solo e si occupava di incarichi variamente difficoltosi che poi finivano regolarmente in prima pagina. Insomma, di tutto il Reggimento, Nasheeta era sicuramente la più inesperta e la più nuova in quel mondo così oscuro. Per questo motivo, pur confidente delle proprie capacità di metamorphomaga, si sentiva sempre un po' inferiore rispetto ai suoi compagni e, di conseguenza, pendeva costantemente dalle loro labbra, sperando di apprendere il più possibile.
Quanto alla seconda parte della missione, non dubitava che sarebbe stata tremendamente difficile e che avrebbero dovuto affrontare ostacoli non indifferenti. Ma questo non la rendeva meno entusiasta all'idea di mettersi alla prova e di mostrare quanto valesse. Anche ora, mentre tutti parevano essere pronti per un funerale, lei a stento riusciva a soffocare un sorrisetto.
«Eviterò di congratularmi per il lavoro che abbiamo svolto fin'ora» stava dicendo Elijah, con il solito tono neutro «A quello ci penserà l'Ordine. Io mi limiterò a riconoscere che abbiamo compiuto la prima parte dell'incarico egregiamente e soprattutto con discrezione. E pretendo la stessa cosa per quello che stiamo per fare. Ebbene» si schiarì la voce e rivolse ai suoi compagni un'occhiata di sfuggita «mi sembra di aver capito che nessuno vi ha spiegato qual è il fine dell'assassinio di Cleremont»
«Ha qualcosa a che fare con gli affari interni dell'Ordine con il Ministero, se non sbaglio» osservò Gideon.
«Ma... perché?» Nasheeta proprio non riuscì a impedirsi di parlare «Non era un omicidio fine a se stesso? Insomma Cleremont ha fatto un sacco di cose che... insomma-»
«Sfinge» Kasumi le scoccò un'occhiata di silenzioso rimprovero «L'Ordine non fa mai niente di fine a se stesso. C'è sempre una ragione dietro gli incarichi che accettiamo e quelli che rifiutiamo. No, Zar» aggiunse, rivolgendosi all'uomo difronte a lei «non ci sono stati rivelati i dettagli di questa missione»
«Bene, allora cercherò di essere breve» Elijah si lisciò con una mano le pieghe della camicia e si sistemò meglio sulla sedia di metallo vecchio «Diciamo solo che il Signor Cleremont aveva le mani in pasta ovunque. Si adoperava per rendere il mondo magico un posto più sicuro e collaborava regolarmente con il Dipartimento Auror per quanto riguardava gli artefatti magici illegali. Ecco, durante una di queste indagini, nel '93, è venuto a contatto per la prima volta con l'Ordine. Ricordate lo scandalo del furto fallito della bacchetta di Merlino?» tutti annuirono «Il ladro era uno dei nostri. Gli trovarono addosso alcuni filtri illegali per l'invisibilità e chiamarono Cleremont per capire come se li fosse procurati; l'interrogatorio fu più fruttuoso di quanto si aspettassero e l'idiota fece il nome dell'Ordine, portando sciagura e vergogna sul Settimo Reggimento, oltre che costringendoci a istituire la tradizione del voto infrangibile per ogni cavaliere. Naturalmente erano anni bui, quelli, e con il Ministero corrotto e l'Inghilterra in bilico Cleremont non ebbe tempo di pensare ai deliri di un ladro sotto tortura. Negli anni successivi, però, specialmente dopo la battaglia di Hogwarts e la restaurazione del Ministero, Cleremont ha iniziato a scavare e ha scoperto cose che non avrebbe dovuto scoprire» trasse un profondo sospiro e si schiarì ancora una volta la voce «Una spia dal Terzo Reggimento ci ha fatto sapere che il vecchio teneva numerosi quaderni di appunti, uno tra i quali riguardava proprio l'Ordine. Nel 2016 ha provato a denunciarci al Ministero, ma aveva troppe poche prove e un'altra talpa dal Terzo Reggimento ha riferito al Generale che progettava di tornare, con le prove necessarie, in tribunale»
«Quindi è per questo che siamo intervenuti» osservò Kasumi.
«Se Cleremont avesse mostrato a qualcuno le prove» la voce di Elijah si fece ruvida come pietra «per noi sarebbe la fine»
«Quindi l'omicidio di Octav- cioè di Cleremont» intervenne Nasheeta «era soltanto un diversivo per allontanarlo dai documenti?»
«Esatto, Sfinge» rispose Elijah «Come sapete, l'Ordine si sforza di versare meno sangue possibile. Il problema era che Cleremont non si sarebbe mai allontanato da casa, con l'Umbrella Academy incustodita. Quando era costretto ad andar via, lasciava sempre il suo cane da guardia. Numero Uno era solo, ma nessuno ha la piantina dell'accademia e, senza esserci mai stati, non saremmo riusciti a recuperare i documenti e metterlo fuori gioco in modo discreto»
«E ora che differenza ci sarebbe?» protestò Gideon, sopracciglia inarcate e sguardo scettico «Ora non ci sono altri otto fenomeni da baraccone a infestare l'accademia? Non so voi, ma da ché ricordo io quei ragazzini erano macchine da guerra»
«Pazienta, Apollo, e lasciami parlare» lo Zar sospirò ancora e rivolse ai suoi compagni uno sguardo spazientito «Ti ricordo che anche le macchine da guerra fanno la ruggine. Abbiamo degli archivi aggiornati sulle loro vite e sulle loro attuali occupazioni» con un movimento distratto di bacchetta, fece comparire per ciascuno un fascicolo fitto di tutte le informazioni necessarie «e vi posso assicurare che nessuno di loro sarà un problema, se ci giochiamo bene le nostre carte»


 
 
 
21 Dicembre 2020, tardo pomeriggio, Rosewood, Umbrella Academy
Per la gioia immensa (o forse no) dell'intero branco Cleremont, il pomeriggio di quella deprimente domenica dicembrina portò sulla soglia di casa non uno, ma ben due randagi. Gli ultimi rimasti, in verità. E se da una parte furono senz'altro visite inaspettate (dato che, in ritardo e senza aver avvisato, nessuno li attendeva più), dall'altra entrambi sapevano che era doveroso almeno presentarsi per la lettura dell'eredità e la sepoltura del corpo. In ogni caso, il primo fu Numero Tre. Ma, conoscendo Caesar Cleremont, non si sarebbe potuto limitare ad aprire la porta come tutti gli altri; non era mai stato un tipo discreto. Impossibilitato com'era a un'entrata scenografica, si accontentò di sfondare il portone d'ingresso con un calcio e gridare: «Amore! Sono a casa!». A detta sua, una battuta topica e intramontabile. Gli altri l'avrebbero definita "l'ennesimo delirio". Quanto poi al legittimissimo interrogativo su chi fosse amore, più tardi Numero Tre avrebbe risposto che si riferiva chiaramente a Bizzie, l'elfa domestica.
Ben lontano dal concetto di discrezione, richiuse il portone dietro di sé con un altro calcio e iniziò a vagabondare ciecamente per il piano terra, in cerca prima della cucina, poi di una qualsiasi forma di vita. Con la valigia in mano e un'espressione più che spaesata, attraversò l'ampia sala d'ingresso fino a trovarsi in quella che doveva essere la living room dell'accademia e che, paradossalmente, era il posto meno vissuto di tutti. Almeno per quanto ricordasse. Quando vi arrivò, invece, già intenzionato a gettarsi su uno dei divani e rimanere lì fino a sera, trovò il camino acceso e il mormorio lento del pianoforte, sovrastato dalle voci dei suoi fratelli.
Artemis aveva gli occhi puntati su uno spartito polveroso e le mani erranti sui tasti del pianoforte a coda che era appartenuto a loro padre, tanto concentrata che neanche si accorse di lui. Oliver era seduto sulla poltrona accanto al camino e Hillevi era acciambellata sul tappeto, intenta a raccontare una qualche storia che, a giudicare dal lucore negli occhi del fratello, doveva essere parecchio avvincente. Caesar non si sforzò neanche di ascoltare, perso com'era nel guardare. Si appoggiò con una spalla allo stipite della porta e concesse alla sua povera anima qualche altro secondo di pura contemplazione, di quella gioia allo stato brado che non provava da anni e che temeva non fosse più in grado di percepire. Dovette, però, fare qualche rumore, perché all'improvviso Levi alzò lo sguardo su di lui e smise immediatamente di parlare; agli altri due non ci volle molto per rendersi conto della sua presenza.
«Chase!» esclamò Artemis, lasciando perdere completamente la musica.
«Oh, ti prego» la implorò Numero Tre, mentre abbandonava a sé stessa la valigia e avanzava verso il camino «Speravo ci fossimo lasciati alle spalle quel soprannome sei anni fa»
«Si può sapere dov'eri finito?» Oliver lo osservò con un sorriso istintivo buttarsi a peso morto sul divano più grande.
«Non lo vuoi sapere» Caesar si sforzò a malapena di girare la testa per rispondere «Ma è stato stancante»
«Lungi da noi dubitare della tua parola» neanche Hillevi riuscì a impedirsi di sorridere «Non mettiamo in dubbio che il tragitto via bus sia stato sfiancante, ma mi sembra di non vederti da una vita»
«E che vita è stata» le fece eco Oliver «senza il tuo pessimo umorismo e quella musica punk babbana alle tre del mattino»
Artemis si sedette a gambe incrociate accanto a lui «A sua discolpa, lo faceva solo quando papà partiva per lavoro»
«Numero Sette!» Caesar le rivolse uno sguardo scandalizzato «Mi stai forse difendendo contro le accuse infondate di questi lestofanti? Tra l'altro avevo tutte le ragioni per ascoltare i gli Antiflag a quell'ora della notte. Vi siete forse dimenticati che voi vi gettavate nella movida londinese mentre io ero costretto a restare di guardia con Rigel? Dov'è finito il debito eterno nei miei confronti, ingrati?»
«Oh beh, io» gli rispose prontamente Oliver «pensavo di averlo scontato tutte le volte in cui ti ho tirato fuori dai guai»
«E io ricordo che era un debito di gratitudine» soggiunse Levi «Non lo ricordi anche tu, Artemis?»
Sua sorella mise su un'espressione meditabonda e annuì piano «Sì, sì. Direi proprio che era un debito di gratitudine»
Caesar soffocò nel cuscino un urlo esasperato e rimase in quello stato semi-mummificato per qualche secondo «Ma ora parliamo di cose serie» si ricompose velocemente, sedendosi sul divano e sporgendosi verso i suoi fratelli, e rivolse loro lo sguardo più serio che potesse permettersi in quel momento «Come ci smezziamo la casa?»
Numero Sei scosse la testa, ridendo «Sei tremendo»
«Sai, fratellino?» lui sorrise tra sé e sé «Mi è mancato sentirmelo dire»
Oliver si limitò a ricambiare il sorriso, sperando che il suo sguardo parlasse al posto suo. Tra loro due era sempre stato così, d'altronde; non c'era bisogno di belle parole e discorsi strappalacrime, il loro rapporto non ne necessitava affatto. Erano i piccoli gesti -un sorriso di sfuggita, una pacca sulla spalla, una stretta di mano- a dire ciò che nessuno dei due sapeva esprimere.
«Ragazzi» si lagnò Artemis «Così mi fate commuovere!»
«Numero Sette, sono qui da cinque minuti» replicò Caesar «e non vi vedo da sei anni. Mi sembra normale che sia un po' più affettuoso del solito, ma se vuoi posso tornare a prendervi in giro e saltare i convenevoli»
«Io propongo altri cinque minuti di affetto» intervenne Levi, con un sorriso furbesco «e poi ricominci con i nomignoli e le battutacce»
«Beh, se ho solo altri cinque minuti di tempo, mi conviene darmi una mossa. Avanti» si alzò pigramente dal divano e spalancò le braccia «a chi va un po' di sano affetto fraterno?»
Artemis fu la prima ad andargli incontro, borbottando un «mi sei mancato» contro la sua spalla, ma venne seguita a ruota dagli altri due. Caesar, da parte sua, fece con calma. Quando se n'era andato dall'Umbrella Academy, a diciannove anni, l'aveva fatto per assecondare una situazione molto particolare e, soprattutto, senza aspettarsi di dover stare via così tanto tempo. A dir la verità, la sua "missione" non era neppure realmente finita. Si era semplicemente ritirato, non appena saputo della morte di Octavius. Numero Uno lo aveva aggiornato, durante tutti quegli anni, della diaspora dell'accademia e, lontano com'era dalla loro realtà, lui non se l'era mai davvero spiegata. In ogni caso, non aveva serbato rancore per nessuno -o almeno ci aveva provato- e si era limitato a stringere i denti e continuare con il suo incarico, senza guardarsi mai indietro né dubitare di ciò che stava facendo.
Ora, però, ritrovarsi assieme ai suoi fratelli per la prima volta dopo quelli che parevano secoli gli sembrava un sogno.
Una volta riacquisita una distanza dignitosa, disse: «Ma che fine hanno fatto gli altri? Dove sono i festoni, i palloncini, lo champagne? Dov'è la musica? E soprattutto» si guardò intorno con aria confusa «dov'è Bizzie?»
«Diciamo che non sei arrivato proprio nell'happy hour» rispose Levi.
«Ezra ha detto di volere un po' di aria fresca» iniziò a elencare Artemis «Tony è di su in camera sua, Esme è in palestra a fare a pezzi i manichini da...» diede una veloce occhiata all'orologio da polso «quasi due ore, ora che ci faccio caso. Forse sarebbe meglio andare a chiamarla. E, beh, Alexis non è qui e a questo punto non credo che verrà più»
Caesar annuì con gravità «E dov'è Rigel?»
«Io onestamente non l'ho ancora visto» confessò Oliver, con un'espressione preoccupata sul viso «e sono qui da almeno un giorno»
«Se dovessi tirare a indovinare» Levi stese le labbra in un sorriso triste «direi che è nello stesso posto in cui è stato per gli scorsi dieci anni»
«Allora dovrò interrompere le sue meditazioni» Numero Tre si fece scuro in volto «Ho affari urgenti da discutere»
Detto ciò, si tirò su con un sospiro e, senza salutare nessuno o accennare ad altro, uscì di casa e per dirigersi verso il posto che meno aveva sperato di rivedere dell'Umbrella Academy: le cripte.
 
 


 
Quanto a quello che successe nel cimitero di famiglia dei Cleremont, nella cripta buia di cui Rigel aveva fatto il suo tempio e in cui Caesar andò a cercarlo, ne parleremo dopo. Al momento, ci sono affari ancora più urgenti da attendere. Perché mentre Numero Tre avanzava a lunghe falcate verso il giardino, Numero Nove incantava le sue scarpe perché non facessero alcun rumore mentre entrava in casa sua con una cautela che non avrebbe sospettato di possedere.
Perché cercasse di non farsi vedere da nessuno, era tanto misterioso quanto ovvio. Non voleva vedere nessuno.
Alexis Cleremont aveva pregato chiunque lo osservasse dall'alto dei Cieli di non tornare mai più a Rosewood e di non vedere mai più neanche uno dei suoi otto fratelli per così tanto tempo che ora tradire i suoi propositi gli sembrava un crimine contro se stesso. E allora cercava di non fare rumore ed evitava il gradino cigolante delle scale nella silenziosa preghiera che nessuno si accorgesse della sua entrata in scena.
Forse aveva bisogno di stare un po' per conto suo, forse si sarebbe smaterializzato fuori di casa nei successivi quattro secondi o forse no. In realtà non aveva chiaro il perché fosse tornato, né il motivo per cui aveva portato uno zaino con gran parte della sua roba. D'altronde aveva intenzione di andarsene il prima possibile, quindi non ce n'era ragione. Da parte sua, Alexis incolpava la lettera. Quando un paio di giorni prima un gufo reale aveva picchiato indiscretamente il becco contro la finestra della sua camera, nell'appartamento di Helsinki che condivideva con una ragazza babbana, aveva avuto la forte tentazione di ignorarlo e andare avanti con la sua vita. Cosa che, in effetti, aveva provato a fare. Peccato che il gufo avesse in mente ben altro. Alexis era stato costretto a farlo entrare e lasciargli recapitare la sua lettera, prima che il suo insolito postino crepasse il vetro della finestra con il suo beccaccio. E così, si era ritrovato sul letto una busta di un bianco antico e polveroso, con un vistoso stampo in ceralacca rossa e un'elegante "C" intrecciata. Il marchio dei Cleremont, impossibile da dimenticare. E quella, purtroppo, non era neanche la parte peggiore della storia. Il vero problema era giunto non appena l'aveva presa in mano.
Ora, quando Alexis Cleremont a diciassette anni era andato via di casa, aveva anche deciso di abbandonare il mondo magico e inserirsi a tempo pieno in quello babbano. La sua bella bacchetta in legno di carpino e nucleo di crine di unicorno era presto finita sul fondo dello zaino che aveva adibito a valigia e, con il tempo, era riuscito anche a far zittire il pressante mormorio che era il suo potere. Sebbene le sue capacità magiche non si potessero mettere da parte come la bacchetta, con determinazione e olio di gomito -ma poi anche con alcol, droghe più o meno leggere e antidepressivi- aveva imparato a controllarle. C'erano ancora volte in cui gli si parava davanti agli occhi una particolare visione, ma erano casi limitati e comunque non aveva mai preteso di liberarsi in modo permanente della magia.
Di certo, però, non si sarebbe neanche aspettato che il suo dono -come Octavius insisteva nel chiamarlo- prendesse il sopravvento al contatto con la lettera. Eppure non aveva fatto in tempo ad aprire la busta che gli era caduto il velo sugli occhi e per un momento era stato di nuovo a Rosewood, nell'accademia, in quello che era lo studio lucido di cera di Octavius. Ma non aveva visto il suo patrigno scrivere. Era Rigel. Rigel che si portava i capelli indietro con una gesto malfermo, l'inchiostro colante dal calamaio rovesciato. Rigel con una bestemmia tra i denti e occhi grandi e blu e impauriti. Rigel che ricordava forte e gelido e inflessibile, ora alzava il mento per impedirsi di piangere. Rigel che si asciugava stizzosamente le lacrime con il dorso della mano e riprendeva a scrivere. Rigel che fissava per un paio di secondi il foglio, per poi lanciar via la penna con rabbia e abbandonarsi a un pianto silenzioso. Rigel che un tempo gli era sembrato un titano e all'improvviso singhiozzava come un ragazzino.
Se all'inizio Alexis non aveva capito ed era meramente rimasto senza parole, gli era bastato leggere la lettera in sé per spiegarsi con chiarezza il comportamento di suo fratello. Octavius era morto. Numero Uno era solo, nel modo più assoluto, nel luogo che era stato l'emblema della loro unità e che mai avrebbero immaginato potesse diventare così vuoto, a piangere quell'uomo che l'aveva sfruttato fino all'osso per tutta la sua vita e che, al contempo, era stato l'unico punto fermo e l'unico amore che avesse mai conosciuto. Forse era stata la pietà a convincerlo, forse solo la dignità morale. Che ne sapesse lui, poi, di dignità morale, rimaneva un mistero.
Mentre saliva le scale che portavano al secondo piano, nella muta preghiera che nessuno si accorgesse di lui, Alexis stabilì tra sé e sé che era stato quel pensiero a trascinarlo lì, la consapevolezza di non essere l'unico a portare le ferite dell'Umbrella Academy. E chissà cosa ne sarebbe venuto fuori, dalla riunione improvvisata di tutto il branco. Per il momento, però, poteva benissimo fare a meno della compagnia.
«Alex?»
Come non detto. Alexis sospirò pesantemente e si voltò verso la voce incredula che l'aveva chiamato. Tony, che scendeva in quel momento dal secondo piano, lo guardava con occhi sottili e sospettosi, come se si stesse (giustamente) chiedendo perché suo fratello sembrasse un ladro. Si schiarì la voce e tirò fuori un sorriso che doveva essere tutto meno che felice «Che tu ci creda o no, mi fa piacere vederti»
Tony ricambiò debolmente il sorriso e inarcò le sopracciglia «Dev'essere per questo che hai l'aria di uno che baratterebbe la sua anima per un mantello dell'invisibilità»
«Vuoi davvero biasimarmi?» replicò Numero Nove «Con otto fratelli che non vedo da quasi dieci anni, l'unica cosa di cui non ho bisogno è un'entrata trionfale e una miriade di domande indiscrete su dove e con chi sono stato, cos'ho fatto e perché non ho mandato cartoline di compleanno»
Numero Cinque lo guardò come se cercasse di scavargli dentro «E allora perché sei qui?» 
«Per lo stesso motivo per cui lo sei tu» Alexis strinse la presa sullo zaino e gli rivolse un'occhiata cupa «So che devo»
 



 
21 Dicembre 2020, mattina, Londra, periferie
«Quindi il piano sarebbe introdurci nell'accademia e rubare i documenti di Cleremont sotto il naso dei suoi figli?» Kasumi scosse delicatamente il capo e pressò le labbra in una linea sottile. Erano lì da almeno un'ora e lei continuava a non capire come un uomo così razionale e giudizioso come Elijah potesse optare per un piano così incerto «Non funzionerà. Nel momento in cui metteremo piede in casa sua, Numero Uno saprà cosa vogliamo. Suo padre gli avrà pur detto qualcosa delle sue indagini sull'Ordine, no? E, anche se non fosse così, non è un idiota: saprebbe che il primo posto da proteggere è lo studio di suo padre»
«Ci ho già pensato anch'io» replicò prontamente lo Zar, come se avesse già preso in considerazione quell'obiezione «ma permettimi di spiegarti» tirò fuori con un colpo di bacchetta un pezzo di carta e una penna stilografica e iniziò a scarabocchiarci sopra «Attualmente ci sono sette ragazzi nell'accademia, per quanto ne sappiamo, e tutti possiedono abilità straordinarie. Uno di loro, però, non possiede abilità di attacco e altri tre non praticano le loro abilità da anni. Una ha vissuto in isolamento volontario per gli scorsi quindici mesi e usa il suo potere esclusivamente per fini non violenti. Questo ci lascia con due combattenti attivi» si fermò un attimo per poi riprendere a scrivere e borbottare «Considerando che Kasumi sarà impegnata a cercare i documenti e che gli altri cinque ragazzi saranno facilmente sottomessi, restiamo tre contro due e, se ognuno seguirà il protocollo, ce la faremo»
«E se tornassero anche gli ultimi due?» ipotizzò Nasheeta.
Gideon lanciò un'occhiata alla pagina aperta del suo fascicolo e scoppiò a ridere «Numero Nove è un comico depresso con la psicometria, cosa vuoi che faccia? Ci stende con un monologo auto ironico? Ci conquista con il potere della risata?»
Kasumi gli scoccò un'occhiataccia «Non sottovalutiamo nessuno. Se possiede la psicocinesi, gli basterebbe toccarci per sapere più di quanto possiamo permetterci che sappia. E vorrei ricordarti che non c'è per niente da scherzare con Numero Tre»
«Sì, lui sarebbe un problema» ammise Elijah «ma solo se entrassimo in diretto contatto con lui, il ché non è del tutto certo. Ricordate che l'Umbrella Accademy è un complesso molto grande e, se facciamo tutto con discrezione, non ci troveremo nella posizione scomoda di affrontarli tutti insieme. Domande?»
«Io» rispose prontamente Gideon, facendo cenno al suo fascicolo «Come facciamo con Numero Quattro? Se entrassimo in collisione con lei, saremmo parzialmente in svantaggio. Voglio dire, io potrei provare a... sapete cosa» si schiarì la voce e tirò fuori un sorrisetto di circostanza «ma immagino farebbe comodo un piano B. Certo è vero che affrontarli separatamente sarebbe facile, ma se ce ne trovassimo d'avanti più di uno, sarebbe più difficile tenere a bada elementi come Numero Quattro o, Dio ce ne scampi, Numero Cinque»
«Sai, Apollo?» Elijah inarcò le sopracciglia «A volte mi piace pensare che non tutto il mio tempo lavorativo sia sprecato. Tu invece trovi sempre il modo di smentirmi. Se andassi oltre il primo paragrafo della documentazione che ho raccolto» aggiunse, con un'occhiata che avrebbe potuto fulminarlo sul momento «eviteresti di fare domande talmente stupide» Gideon aggrottò la fronte in un broncio infantile, ma non rispose «Pare che Numero Quattro si sia stabilita nel mondo musicale cinque anni fa e che da allora non ha più fatto manifestazioni pubbliche del suo potere. Inoltre, durante la mia ricerca per la catalogazione specifica della abilità dei ragazzi Cleremont, mi è parso di capire che non tutti sono completamente in grado di controllare i propri poteri»
«Sai che l'ho pensato anch'io?» Nasheeta sorrise con entusiasmo, sporgendosi istintivamente verso di lui «L'ho notato studiando le loro apparizioni pubbliche! Erano incidenti abbastanza comuni, almeno agli inizi, come quando nel 2009 Numero Sette creò una palude nella banca e alcune piante presero vita propria e iniziarono ad aggredire gli ostaggi, ricordate? Oppure l'anno dopo Numero Uno rese perennemente cieco un contrabbandiere di artefatti magici a Manchester e poi nel 2012 Numero Tre fece impazzire una rapinatrice e la stampa insabbiò tutto»
Kasumi annuì, senza però staccare gli occhi scuri dal suo fascicolo «Sì, ricordo anch'io che ogni tanto i giornali parlavano di questi scandali»
«C'è di più. Se andate a pagina sedici» disse Elijah «vedrete che ho riportato alcuni grafici riguardanti questi incidenti. Nelle mie ricerche è uscito fuori che per alcuni dei Cleremont sono casi isolati o si diradano con il tempo, mentre per altri hanno un'andatura costante. Significa che alcuni di loro non hanno mai imparato a controllare i propri poteri e che questa condizione si sarà sicuramente aggravata, una volta interrotto l'addestramento per anni. Questo non fa che aumentare il nostro vantaggio»
«Dei documenti da rubare, due Cleremont da mettere fuori combattimento e altri cinque più abbordabili. Mi sembra meraviglioso» Gideon batté le mani sul tavolo e rivolse loro un sorriso tutto denti «Quando iniziamo?»
«Faremo tutto stanotte» fu la risposta «E voglio essere sicuro che sappiate qual è il vostro compito e quanto sia importante che ognuno faccia in modo adeguato la sua parte»
Tutti annuirono. Improvvisamente aleggiava tra loro la consapevolezza di star entrando nelle dinamiche più delicate della missione e di dover fare ognuno del proprio meglio per far sì che tutto filasse liscio. Non solo il loro onore e il resto delle loro vite, ma l'intera esistenza dell'Ordine era a repentaglio in quell'incarico. Cleremont aveva tra le mani informazioni preziosissime su tutti loro e al Decimo Reggimento era stato affidato l'onere di scovarle e bruciarle, a qualunque costo e contro qualunque ostacolo. Per i suoi quattro membri, quella era l'occasione di una vita, dopo la quale si sarebbero potuti congedare dignitosamente dall'Ordine o farvi carriera con uno schiocco di dita. Laddove il giovane cuore di Apollo bramava, più di tutto, la gloria del successo, lo Zar cercava da anni un lasciapassare per il quieto vivere e, mentre la Kitsune lavorava più per dovere morale che per altro, la Sfinge non vedeva l'ora di mettersi alla prova. Il loro Reggimento -creato all'ultimo momento per prendersi cura di un affare delicatissimo- non era certo il più omogeneo o quello che andava più d'accordo, ma aveva la potenzialità di essere il migliore di tutto l'Ordine.
Elijah li guardò e seppe, inspiegabilmente, di potersi fidare quegli estranei. 
«Inforcate gli occhialini protettivi» per la prima volta quel mattino, un sorriso gli serpeggiò sul volto «Stanotte pioverà sangue»
 

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Capitolo 4
*** Capitolo III: Interessi di Guerra ***


 

Capitolo III
Interessi di Guerra




«Tu magari non hai alcun interesse verso la Guerra
ma la Guerra ha sempre interesse per te»

Leon Trotskij

 





17:31, 15 Dicembre 2011, Scozia, Castello di Hogwarts 

«Che vuol dire "non torno a casa"?» 

Alexis –le guance arrossate dal freddo e le dita affusolate strette alla lana morbida della sua sciarpa di Grifondoro– alzò platealmente gli occhi al cielo e rivolse a suo fratello uno sguardo annoiato «Esattamente quello che ho detto. Passo il Natale a Hogwarts» 
Rigel aggrottò la fronte, le labbra serrate in una linea sottile, e poi scosse la testa in un movimento secco che gli portò i capelli sul volto «Te lo puoi scordare. Papà ci vuole tutti a casa per le vacanze invernali» 
Numero Nove voltò il capo dall'altra parte per non doverlo guardare in faccia. Ogni anno era la stessa storia. E ogni anno era più difficile sfuggire alle grinfie dell'Umbrella Academy, anche per quella manciata di settimane che era il periodo natalizio. Sapeva che ad Octavius non sarebbe sfuggita la sua assenza e che, naturalmente, non ne sarebbe stato felice. Ma ad Alexis Cleremont della felicità di suo padre, a quel punto, importava poco e niente. Era al suo sesto anno accademico a Hogwarts. Mancava un anno alla maggior età. Non era forse libero di scegliere dove e con chi passare il Natale? 
Le vacanze in famiglia non erano mai state particolarmente piacevoli. Octavius li avrebbe costretti a mettere quella ridicola uniforme dell'Umbrella Academy per mostrarli ai suoi colleghi ed amici, nelle feste –anzi no, nelle soirées di gala– a Rosewood, come trofei e li avrebbe fatti allenare come bestie da soma per il resto del tempo. E se quando era un bambino lo aveva convinto la prospettiva di passare del tempo con i suoi compagni di squadra, ora neanche quell'idea lo allettava. I suoi fratelli iniziavano a diventare degli sconosciuti. Sapeva benissimo, ormai, che Ezra e Levi sarebbero spariti alla prima occasione, Artemis non si sarebbe mossa dal fianco di loro padre e Tony si sarebbe rinchiuso in camera sua, isolandosi dal resto del mondo. Certo avrebbe potuto unirsi alle eventuali e varie marachelle –che ormai erano mere infrazioni del coprifuoco di Octavius– di Caesar ed Esmeralda, che puntualmente trascinavano con loro il povero Oliver, ma Alexis non condivideva il loro profondo legame di fratellanza e si sarebbe probabilmente sentito a disagio. Per non parlare del fatto che a un certo punto, come da copione, Numero Tre avrebbe proposto di coinvolgere anche Rigel e là sì che la situazione sarebbe diventata tremenda. 
Ed ecco qui il cuore pulsante del problema, che ora gli stava davanti con uno sguardo gelido e furioso. Perché Numero Uno insistesse tanto per farlo tornare a casa con loro, poi, era tutto un altro dilemma di cui non gli interessava conoscere la risposta. Come se quella scena non fosse già imbarazzante da sé, temeva che suo fratello stesse per fare una scenata nel cortile di Hogwarts. 
In fondo, però, era anche colpa sua. Alexis sapeva che avrebbero cercato di trascinarlo a casa di forza. Lo sapeva. Succedeva tutti gli anni. Eppure si era ostinato a voler prendere una boccata d'aria in cortile, vedere la neve e incontrare gente fintanto che ce ne fosse stata. Suo fratello lo aveva visto appena entrato nello spiazzo interno del castello e si era congedato rapidamente da un gruppo di amici per braccarlo senza pietà davanti alla panchina su cui era seduto.  
«E cosa vuoi fare?» Alexis soffocò a stento una risata «Buttar giù la porta della Torre di Grifondoro, fare la mia valigia e caricarmi di peso sull'Hogwarts Express?» 
«Non hai idea di quello che potrei fare» fu la risposta denti stretti di Rigel «Ti consiglio caldamente di collaborare» 
«E questa sarebbe la tua idea di caldamente?» gli occhi verdi di Numero Nove si fecero sottili e provocatori «Minacciarmi di chissà quale tremenda punizione nel caso in cui non ti seguo? Mi chiedo da chi mai potresti aver ereditato questo atteggiamento. Magari è la stessa persona da cui hai preso la convinzione di poter risolvere ogni problema con la forza!» 
«Non dovresti parlare così di nostro padre» suo fratello alzò il mento e si lisciò alcune pieghe del mantello, mostrando nel movimento la spilla verde smeraldo da prefetto «e non dovresti neanche rivolgerti a me in questo modo. Sono il tuo capitano, tu devi obbedirmi» 
Alexis neanche si curò di rispondergli. Raccolse dalla panchina il manuale di Astronomia e fece per andarsene. Non riuscì a compiere un solo passo che Rigel lo aveva afferrato per un braccio e tirato malamente indietro. Fu impossibile evitare il contatto visivo. Gli altri studenti già iniziavano a fermarsi e indicarli, bisbigliando rumorosamente tra loro, ma a nessuno dei due importava, troppo impegnati a guardarsi in cagnesco. 
La voce di Numero Uno era talmente bassa da poter essere udita solo da suo fratello «Dove credi di andare?» 
«Ovunque» sul viso spigoloso di Alexis si tratteggiò un sorriso crudele «purché sia lontano da te» 
Rigel incassò il colpo. Per qualche secondo sembrò sul punto di dire qualcosa, di fare qualcosa. Invece allentò la presa e lasciò che Numero Nove se ne liberasse. Anche il suo sguardo si fece in qualche modo più cupo, come se quelle parole l'avessero davvero toccato. Alexis, da parte sua, si rifiutò di abbassare gli occhi, nella speranza che un gesto di sfida potesse conquistare le sue beneamate vacanze in solitario, e rimasero, così, a guardarsi negli occhi per qualche minuto, pronti a saltarsi addosso al primo segno di debolezza. 
«Ragazzi, ma che state facendo?» 
Entrambi si voltarono di scatto verso Hillevi, che –infagottata nel suo mantello nero e nella sua enorme sciarpa di Tassorosso, i capelli neri a coprirle parzialmente il volto– li guardava con occhi preoccupati e confusi. Accanto a lei, muto e impassibile, c'era Ezra. 
Alexis pensò che non avrebbe potuto andargli peggio. 
«Grazie al cielo» borbottò Rigel «Qualcuno» e il suo sguardo cadde su Levi «dica a Numero Nove che è impensabile trascorrere questo Natale a Hogwarts» 
La ragazza gli scoccò un'occhiata supplice e Alexis non poté far a meno di sentirsi in colpa. Sapeva quanto Levi odiasse dover prendere posizione. Specialmente nelle liti. Specialmente in liti del genere, in cui non c'era alcun modo di accontentare tutti. Quando capì che non poteva tirarsi fuori, lei sospirò. «Papà tiene molto alla presenza di tutti noi quest'anno» disse, a bassa voce «Gli scorsi anni non è stato molto insistente, ma proprio questa volta...» 
La frase rimase in sospeso. La conclusione ovvia. 
«In effetti è dalla fine dell'estate che ci ha avvisato» la supportò immediatamente Ezra «Quest'anno niente diserzioni» 
Rigel si voltò verso suo fratello, un insolito mezzo sorriso stampato in faccia come a dire: "vedi? Non sono io il cattivo. Il problema sei tu". Alexis pensò, mentre si tratteneva dal tirargli un pugno, che fosse assurdo come quel mero incurvarsi di labbra illuminasse totalmente il volto di Numero Uno. Decise, miracolosamente, che non valeva la pena iniziare una rissa. Girò i tacchi e, senza salutare nessuno né conferma nulla, se ne andò. 
Quella partita l'aveva persa, non c'era altro da fare, ma si consolò al pensiero che alla fine avrebbe vinto lui. Non Octavius. Lui. Appena compiuti diciassette anni, sarebbe andato via di casa e nessuno di loro l'avrebbe mai più rivisto, se non sui giornali. 
Un Natale in prigione lo poteva passare, in cambio della promessa di una vita intera in libertà.  

 

 

 

 

 

 

22:06, 21 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 

Il tardo pomeriggio era sfumato in sera più velocemente di quanto i ragazzi sperassero, ma l’atmosfera, a dispetto delle loro paure, non si era tesa né sbiadita. Anzi, sarebbe opportuno dire che si era rilassata, distesa, ammorbidita. I silenzi erano ora colmi di complicità e la conversazione scorreva placidamente, passando di argomento in argomento con invidiabile semplicità. La luce tiepida del sole invernale era stata presto sostituita dalle fiamme magiche di alcuni candelabri e il salone di casa si era finalmente popolato. Insomma, la riunione dei Cleremont ancora sani di mente (come Caesar aveva insistito nel chiamarla) era in pieno svolgimento ed era addirittura stata graziata dall’aggiunta compagnia di Tony ed Esmeralda –il primo più che altro trascinato dalla sorella–. 
Era stato facile, scivolare nella vecchia routine. Il gossip, le lamentele, i progetti, le false promesse e i processi truccati. E così, accampati scompostamente difronte al camino, finalmente si aggiornavano a tutti gli effetti sugli ultimi anni delle loro vite indipendenti. Dopo i primi imbarazzi, era stato più facile aprirsi l’uno all’altro e confessare fallimenti e disillusioni, interrompere tutte le farse e mostrare mestamente le proprie brutte verità. 
«Vi giuro» stava dicendo Esmeralda, sporgendosi ulteriormente verso il focolare «Era uno stronzo totale» 
«E perché non l'hai mollato su due piedi?» non c'era alcuna cattiveria nella voce di Artemis, che aveva progressivamente occupato tutto un divano e guardava sua sorella con curiosità «Voglio dire, io probabilmente non l'avrei fatto, ma tu... insomma, tu non sei me. Tu sei... beh, tu» 
Tutti gli occhi caddero di nuovo su Esmeralda, in attesa. 
«Era una situazione complicata» fu la risposta, veloce e brusca «In fondo lui era l’unico amico che avevo, l’unica persona di cui potessi fidarmi. Vedete, quando...» si schiarì la voce «quando sono arrivata a Chicago, non conoscevo nulla del mondo babbano. Avevo pochi soldi, nessuna idea di cosa fare e tantissima nostalgia di casa... praticamente tutte le sere pensavo di tornare a Rosewood e rientrare nell’Umbrella Academy. Poi però ho conosciuto Kai e la mia nuova vita ha iniziato ad avere un ordine. Lui era così gentile e tanto, tanto paziente, all’inizio. Credevo che–» esitò un attimo, occhi e voce bassi «credevo che mi amasse» 
«Esme» Levi, che le era seduta accanto, le prese una mano tra le sue «Non devi parlarne, se non te la senti» 
«No, è giusto che sappiate perché sono così felice di essere tornata» replicò Esmeralda «Kai era un manipolatore e uno stronzo e io sono rimasta in una relazione tossica per quattro anni perché non avevo nessun altro. Lo amavo perché non c’era nessun altro da amare. Ma è un capitolo chiuso» si affrettò ad aggiungere «Ora sono tornata a casa e ho intenzione di dare una svolta alla mia vita» distolse lo sguardo dal fuoco e lo rivolse ai suoi fratelli, un sorriso soffocato all’angolo delle labbra e la voce ricolma di entusiasmo «Non l’ho ancora detto a Rigel, ma voglio rimanere qui. Non per Natale. Per sempre. Voglio ricominciare da dove ho lasciato» 
«Esme, questa è..» la voce di Artemis inciampò tra i suoi pensieri. La peggior idea che ti sia mai venuta in mente? Una futura disgrazia? La fine della tua identità? Un disastro in divenire? «un’idea grandiosa!» 
Oliver le rivolse uno sguardo obliquo, come se avesse fiutato la sua bugia. Anche Caesar le scoccò un’occhiata confusa e Tony tenne chiusa la bocca per amor del quieto vivere –come al solito–. La verità è che Artemis era tremenda con le bugie e i suoi fratelli lo sapevano bene. Esmeralda, però, non ci fece granché caso e ci pensò Levi a darle corda. 
«Sono contenta che tu abbia preso una decisione» le strinse più forte la mano e piegò le labbra in un sorriso luminoso «Credo che questa potrebbe essere la scelta migliore per te, quindi non ascoltare nessun altro. Pensa soltanto a cosa tu vuoi per te stessa. Lo sai... odio vederti indecisa, non è vero?» E Dio solo sapeva quante volte Esmeralda aveva bussato, disperata, alla porta di sua sorella, riversandole addosso tutti i suoi problemi. Era una routine assodata tra loro due. Hillevi era stata, nella giungla infame dell’Umbrella Academy, porto sicuro e terra di nessuno, ghiozzo paciere per scelta e dovere. Probabilmente, assieme a Caesar, era quella che conosceva meglio Esmeralda e sapere quanto avesse sofferto negli ultimi anni la faceva sentire in colpa. 
Caesar non ci mise molto a supportarla e rivolse loro un sorriso luminoso, dal basso del tappeto su cui si era appollaiato «All’accademia farà bene una presenza femminile. Soprattutto ora,» aggiunse «con me e Rigel che ci occupiamo di casa senza Bizzie» 
«Te e Rigel?» si lasciò sfuggire Tony «Senza Bizzie?». Nessuno lo biasimò per la tinta di orrore nella voce, al pensiero di Numero Uno e Numero Tre soli in casa senza la supervisione dell’elfo domestico. Visioni terrificanti di cucine saltate in aria, ombre che facevano le pulizie e postini agonizzanti gli comparvero davanti agli occhi. 
«Beh, mi pare ovvio» Caesar alzò le spalle «La mia missione è finita e, ora che posso finalmente tornare dalla mia famiglia, non ho intenzione di andar via. State sicuri che io, Esme e Rigel ce la spasseremo. Vi manderemo cartoline ogni mese. Faremo un calendario con i photoshoot della nostra vita felice, magari anche un album delle figurine del Trio Brio» 
Esmeralda e Oliver scoppiarono a ridere e Tony si coprì il volto con una mano. 
«Chase» una ruga di preoccupazione solcò la fronte di Artemis «Tu vuoi rimanere qui?» 
«C’è qualche problema a riguardo?» replicò lui bruscamente. 
«No, no... è solo che–»  
«Risparmiati la predica, Artemis» la interruppe il ragazzo «So già cosa stai per dire e non ne voglio sapere niente» 
Artemis diede una gomitata a Tony, che le scoccò, di rimando, un’occhiata supplice. L’ultima cosa che voleva in quel momento –o in qualunque momento, a essere onesti– era mettersi in mezzo ai bisticci dei suoi fratelli; d’altra parte, però, doveva a Numero Sette ancora un paio di favori. 
«Quello che Artemis cerca di dire» fece Numero Cinque «è che siamo tutti molto sorpresi da questa decisione e–» si fermò per un istante, incerto su cosa dire. Già, cos’è che intendeva Artemis? «e pensavamo che tu saresti stato il primo a volersene andare» 
«Qualunque cosa tu voglia fare» intervenne prontamente Levi «noi ti appoggeremo» 
«Se rimani qui» Oliver sfoggiò un sorriso a trentadue denti «saremo molto vicini! Potremo rimanere in contatto, magari fare delle serate film e andare insieme al cinema!» 
«Non so cosa sia un film» Caesar alzò le spalle «ma ci sto» 
«Io lo so» le belle labbra di Esmeralda si piegarono in un sogghigno «E sta’ sicuro che ci divertiremo un casino. Scommetto che riusciremo a convincere Rigel a fare un cosplay di gruppo con noi!» 
Caesar scoppiò a ridere «Non esageriamo con le chimere, ora» 
Il sorriso di Oliver, se possibile, si allargò ulteriormente «Ce lo vedete Rigel al cinema? O a una convention, vestito da personaggio di un qualche show televisivo?» 
Di fronte a quell’immagine, anche Tony –che fino ad allora aveva tantato di rimanere impassibile– riuscì a trattenersi dal ridere. Nella sicurezza dei suoi pensieri, poteva ammettere che riunirsi non era stata poi una così cattiva idea. Certo l’imbarazzo iniziale era stato palpabile. Per non parlare della lettura del testamento, che non era ancora avvenuta. D’altra parte, però, riconosceva la piacevolezza di quell’intimità familiare e polverosa. Il modo in cui tornavano spontaneamente a incastrarsi nel vecchio meccanismo dell’Umbrella Academy: Levi calma e paziente, Esmeralda un tornado di entusiasmo, Oliver strapieno di idee folli e lui... lui in silenzio, ad ascoltare quietamente i suoi fratelli, pronto a intervenire qualora fosse necessario. 
Fu colto alla sprovvista da una fitta di nostalgia. Non rimpiangeva l’Umbrella Academy, con le sue regole e convenzioni e i suoi ingranaggi perversi di manipolazione. Ma loro? La sua famiglia? Tony era stato un po’ troppo solo in quegli anni per rimanere insensibile davanti a quel tipo di calore. In un moto di sentimentalismo, pensò che a Vittorio sarebbero piaciuti i suoi fratelli. 
«Non so voi» fece all’improvviso Oliver, strappando tutti dai propri pensieri «ma io sto morendo di fame, che ore sono?» 
«Ora di cena» Caesar diede un'occhiata sbrigativa all'orologio a pendolo che si ergeva all'angolo della stanza «E ancora nessuna traccia di Bizzie; prima ho dimenticato di chiedere a Rigel che fine abbia fatto, dannazione» 
«Possiamo sempre ordinare d'asporto» propose Esmeralda «Vi ricordate TacoJoe?» 
«Intendi il diner messicano che chiudeva quasi ogni mese per infrazione al codice igienico?» il sorriso di Levi si piegò in una smorfia un po’ schifata «Passo» 
«Io e Caesar ci andavamo ogni volta che papà era via per lavoro» protestò Numero Otto, con una voce trasognata «Joe era un brav'uomo» 
«Nessuno lo mette in dubbio, ma ho un’idea migliore» Tony si stiracchiò pigramente sulla poltrona «Perché non ordiniamo delle pizze dalla Londra babbana, senza attentare alla salute di nessuno?» 
«Mi sembra un'ottima idea» approvò immediatamente Artemis «Così non avremo nessun animale sulla coscienza» 
«Oh, non ti azzardare a riprendere quella strada!» Caesar le rivolse uno sguardo tradito «Avevi promesso che non avresti più tentato di convertirci alla tua religione blasfema!» 
«Non sto tentando di convertire nessuno!» replicò lei «E comunque essere vegetariani non è una religione ma un corretto stile di vita» 
«Ed ecco che ci risiamo» commentò cupamente Esmeralda. 
«Il tuo stile di vita te lo puoi tenere per te» sbottò Caesar «In Cina mangiavo cavallette ogni venerdì. E le adoravo!» 
Artemis sgranò gli occhi, inorridita, e gli lanciò un cuscino addosso «Mostro!» 
«Mostro? Io?» Numero Tre prese a gesticolare come un matto «Almeno la mia dieta non ha mai fatto piangere Bizzie!» 
«Non di proposito!» ribatté prontamente Artemis «Non è mica colpa mia se il pezzo forte del suo ricettario è una zuppa di cadaveri di animali!» 
«Ragazzi!» Hillevi alzò la voce, richiamando su di sé l'attenzione «Ragazzi, per piacere. Sono le dieci. Prima di morire tutti di fame, smettiamo di litigare e qualcuno abbia la decenza di ordinare delle pizze» 
«Ci penso io» fece subito Caesar, sfilando via il cellulare dalla tasca dei jeans «Vanno bene margherite per tutti?» 
«Scordatelo» rispose seccamente Esmeralda «Io ho proprio voglia di far schifo. Pensavo, prima di tutto, a una base diavola. Formaggio affumicato, salame piccante, magari delle patatine? Tu che dici Tony? Patatine o salsa? O magari entrambi?» 
Antoine alzò gli occhi al cielo «Tutto quello che ti rende felice, sorellina» 
Caesar non aveva ancora digitato il numero che già si stava pentendo di essersi offerto. Alzò gli occhi al cielo, ignorando bellamente tutti gli altri, e iniziò a indagare la rubrica del suo cellulare. 
Nello stesso momento, sulla soglia della porta del salone apparve la figura alta e allampanata di Numero Due. Ezra avanzò, cauto, verso la zona focolare, attento a non fare troppo rumore o attirare eccessivamente l’attenzione dei suoi fratelli. 
Sapeva che, da quando la sera precedente si era rinchiuso in camera, nessuno si aspettava di vederlo prender parte alla vita familiare. Eppure non era riuscito a isolarsi completamente. Poco prima era sceso per una passeggiata in giardino e le risate dei suoi fratelli, le loro voci chiare in salone, gli erano sembrate un canto di sirena. Impossibile resistere. In fondo, si era detto, io non sono Rigel
La prima ad accorgersi di lui fu Artemis, che gli rivolse un sorriso smagliante e gli fece cenno di avvicinarsi «Ezra, giusto in tempo! Stavamo ordinando da mangiare. Perché non ti unisci a noi?» 
Lui a stento colse le sue parole. Si accorse, però, del fatto che Hillevi evitava il suo sguardo «Volentieri, prendetemi quello che preferite»
«Numero Due, ricordami di inserirti nel mio testamento. A quanto pare qui in giro sei l’unico che si adatta» borbottò Caesar tra sé e sé, scoccandogli un’occhiata di gratitudine, per poi rivolgersi a Esmeralda, che nel tanto aveva continuato a parlare «Tu, piuttosto, hai finito o ci vuoi anche del bezoar sulla tua pizza?» 
«Oh, scusami se non sono banale come te» lo stuzzicò lei «Comprendo che non tutti possono essere sofisticati e unici come me» 
«Levi» la voce di Ezra tradiva un certo nervosismo. 
Hillevi gli rivolse uno sguardo indecifrabile. Cos’era a scurirle gli occhi? Rancore? Imbarazzo? 
«Avrei bisogno di parlarti» continuò Ezra «in privato» 
«Io non mi muovo da qua» si intromise Oliver, aggrovigliato con Artemis sul divano in pelle «Quindi vi suggerisco di andare da qualche altra parte, se volete privacy» 
Levi gli rivolse un sorriso imbarazzato «Oh, io non penso che–» 
Ezra non la fece neanche finire di parlare «Per favore» 
«Va bene» Levi si alzò dalla sua postazione a bordo camino e si portò una ciocca di capelli blu dietro le orecchie. Doveva soltanto parlare con Ezra. Cosa sarebbe mai potuto accadere di male? Avrebbero chiarito, si sarebbero abbracciati magari e poi sarebbero subito tornati in sala, vaneggiando sui tempi andati e raccontandosi tutto i dettagli degli scorsi anni. 
Quasi si convinse di non poter spiegare il nervosismo che le serrava lo stomaco solo a vederlo. Ezra ricambiò timidamente il suo sguardo, ma lei lo distolse subito. Ebbe la netta impressione che se l’avesse guardato per più di un secondo non sarebbe stata in grado di lasciarlo andare. 
«Ti va di andare in giardino?» propose Ezra. 
«Forse fa un po’ freddo di fuori» replicò lei «Meglio il piano di sopra» 
«Certo, il piano di sopra» ripeté Numero Due «Meglio il piano di sopra» 
Mentre i due si dirigevano verso le scale, i loro fratelli finsero di non percepire per niente l’imbarazzo palpabile tra i due e si sforzarono –da non-impiccioni quali erano– di non mettere in mezzo l’argomento. 
«Io credo che andrò in bagno» fece Tony, alzandosi dalla poltrona. 
«E io vado a cercare un po’ di linea per chiamare la pizzeria» aggiunse Caesar. 
«Se qualcuno va di sopra» Esmeralda si stropicciò lentamente gli occhi «per piacere dica ad Alexis che è ora di cena e che non può fingere di non esistere e sperare che ci dimentichiamo di lui» 
«Alexis è qui?» domandò Oliver, con le sopracciglia inarcate. 
Esmeralda rise «Proprio quello che intendevo» 
«Non vi scomodate» li rassicurò Caesar, imboccando l’uscita del salone «Ci penso io a richiamare il resto della crew» 

 

 

 

22:10, 21 Dicembre 2020 Londra (UK), Rosewood 

Quando in futuro avrebbero ripensato a quella sera di metà dicembre, tutti si sarebbero ricordati del vento gelido e graffiante che strisciava sotto i cappotti e della tensione che faceva l'aria a fette e dell'adrenalina che scorreva tra loro come corrente. Soprattutto, non avrebbero potuto fare a meno di ricordare quanto graziosa fosse Rosewood nelle sere d'inverno, la sua tranquillità in delizioso contrasto con quello che stavano per fare. Si erano trovati, puntualissimi, a mezzo kilometro dalla cancellata dell’Umbrella Academy, tutti avvolti in tensione e caldi cappotti scuri. Era una nottata brulla. Il cielo completamente coperto, il vento che raschiava il terreno. Nessuno si sarebbe accorto di loro. 
Elijah, come al solito, aveva parlato per primo. «Voglio sperare che tutti sappiate esattamente quello che stiamo per fare» aveva detto «e che è di fondamentale importanza che tutti svolgano alla perfezione il loro compito. Stanotte scriviamo la storia. Ma voglio assicurarmi che non ci siano falle nel piano» aggiunse, scoccando un’occhiata eloquente a Gideon «Sfinge, cosa devi fare?» 
Nasheeta gli rivolse uno sguardo smarrito «Chi? Io?» 
Lo Zar aggrottò la fronte, le labbra serrate di nervosismo e la voce irritata «Conosci un’altra Sfinge, per caso?» 
Lei arrossì visibilmente e abbassò gli occhi «Giusto, scusa. Volevo dire, io devo perlustrare i piani superiori e togliere di mezzo tutti quelli che trovo. Poi devo raggiungerti e starti vicino fino alla fine della missione» 
«Bene» sentenziò lo Zar «Apollo?» 
«Io sarò la tua ombra» rispose prontamente Gideon, sorridente come al solito «E ti aiuterò a tenere tutti i ragazzi occupati fino a quando sarà necessario. Terrò aperto il contatto con la Kitsune, così da poterti riferire in tempo reale come procede il suo lavoro» 
«Kitsune?» 
«Io mi recherò all’ultimo piano, nello studio di Octavius, e trafugherò i documenti che ci servono, a costo di rivoltare la stanza e infrangere ogni blocco magico. Quando avrò preso ciò di cui abbiamo bisogno e sarò uscita dalla proprietà, lo farò sapere ad Apollo» 
«Il mio compito» disse lo Zar «sarà fare in modo che vada tutto alla perfezione e risolvere qualsiasi intoppo si presenti sul momento. Kitsune, il tuo obiettivo è non farti vedere da nessuno. Evita a tutti i costi lo scontro e non attirare attenzione su di te. Se qualcuno ti vedesse, le cose si complicherebbero e potrebbero prendere pieghe sconvenienti. Quanto a te» spostò la sua attenzione su Nasheeta «Non cercare lo scontro diretto con nessuno. Non sei pronta. Io e Apollo cercheremo di radunare quanti più possibili nello stesso posto e li terremo a bada. Se si dovesse presentare Numero Uno,» aggiunse «cosa di cui sono abbastanza sicuro, lasciatelo a me. Non tentate piani suicidi dell’ultimo minuto. Mi riferisco a voi due» rivolse un’occhiata d’intesa a Gideon e Nasheeta «Ho fatto in modo che, se uno di voi due dovesse essere ferito e impossibilitato a combattere, io stesso sarei in grado di sostuirlo senza problemi. Inutile dire che preferirei evitare complicazioni» 
«Non preoccuparti, Zar» lo rassicurò Kasumi «per quanto possibile, eviteremo» 
«Perfetto. Ora muoviamoci» stabilì lui «Dobbiamo fare in fretta. E, naturalmente, mi sembra assurdo anche dirlo» la sua voce si fece acciaio «non voglio morti. Apollo, vacci piano con i ragazzi. Non tollererò cadaveri sulla nostra strada, neanche se attaccano per uccidere. Il nostro scopo è trattenerli ed essere discreti. L’Ordine non vuole sangue versato inutilmente» 
Apollo annuì «Mi sforzerò di avere la mano leggera» 
Non ci fu altro da dire. Si avviarono in tutta fretta verso l’entrata della proprietà dei Cleremont, ognuno immerso nei propri pensieri. Gideon non poteva fare a meno di chiedersi come sarebbe andata quella nottata e se davvero sarebbe tutto finito immediatamente dopo. Per quanto i suoi compagni lo ritenessero immaturo, non era uno sciocco. Impulsivo, forse. Ma non stupido. Si era reso conto di come la missione si allungasse alla fine di ogni fase, di come l’obiettivo cambiasse di momento in momento. Ed era abbastanza convinto che anche lo Zar ci avesse fatto caso. 
Ad ogni modo, meglio star zitti. Se quella sera fosse andato tutto per il verso giusto –come sperava–, avrebbe ricevuto la sua dannata promozione e si sarebbe finalmente spostato dall’Inghilterra. Se invece qualcosa fosse andato storto o l’Ordine avesse deciso –come sospettava– di prolungare ulteriormente la missione con qualche altro incarico, perlomeno avrebbe confermato i suoi sospetti. 
«Siamo arrivati» annunciò lo Zar, distogliendo tutti dalle proprie riflessioni «Kitsune?» 
Kasumi squadrò con occhio critico la cancellata dorata in stile vittoriano che avevano difronte e fece schioccare la lingua «C’è un incanto di protezione, ma non è troppo complesso. Ci penso io» concluse «Voi preparatevi» 
Gli altri non se lo fecero ripetere. Lo Zar si scrollò di dosso il cappotto nero e lo fece sparire con un gesto fluido della bacchetta e un «evanesco» appena mormorato. Indossava stivali alti per camminare nel terreno incolto dell’Umbrella Academy e una camicia bianca infilata in un paio di pantaloni di pelle di drago. Non esattamente il tuo tipico outfit di guerra, ma di sicuro degno dell’Ordine. D’altronde, lo Zar era conosciuto per essere sempre indecentemente elegante, anche e soprattutto in missione. Non c’era da meravigliarsi se l’Ordine lo aveva eletto suo araldo di morte. 
Terrore e bellezza, in fondo, sono due facce della stessa medaglia. 
Apollo lo imitò in quella che era, ormai, una convenzione pre-missione: evanescere ogni effetto personale che fosse inutile all’operazione –giubbotti, sciarpe, occhiali, biglietti, borse e contenitori di qualsiasi tipo– e poi indossare la maschera. Perché, beh, i Cavalieri di Vetro non avevano quel nome per niente. Requisito necessario prima di ogni missione era una maschera di vetro, dalle eleganti fattezze veneziane, fatta per coprire gli occhi e la parte superiore del volto, composta interamente di vetro colorato e, soprattutto, incantato. La maschera serviva a proteggere la mente dei cavalieri dagli incantesimi destabilizzatori e dalle maledizioni di controllo. 
Ogni cavaliere ne riceveva una all’investitura, con la promessa di proteggerla e renderle onore. Quella di Apollo era uno splendido mosaico di rosso vivo e giallo caldo; allo Zar, invece, era toccato un intrico di porpora e blu notte. Al momento, la Sfinge non aveva esattamente bisogno di una maschera –l'avrebbe indossata dopo, se fosse stato il caso– e, quanto alla Kitsune, giravano strane voci sulla sua. Alcuni, nell’Ordine, affermavano con convinzione che l’avesse persa e l’avesse sostituita con una che richiamava le sue origini orientali. Altri ribattevano, certi, che l’aveva rifiutata in prima battuta e c’era, addirittura, chi sosteneva che non gliene fosse stata data una in primo luogo perché la Kitsune non aveva intenzione di restare a lungo nell’Ordine. Qualunque fosse la verità, Kasumi non indossava una maschera veneziana in vetro magico. La sua era più semplice, bianca, con le fattezze rosse e sottili di una volpe, in perfetta concordanza con il suo alias. 
«Ho fatto» esclamò d’un tratto Kasumi, con un sorriso vittorioso. 
«Tutti pronti?» lo Zar portò la sua maschera al volto, lasciando che aderisse spontaneamente, e Apollo lo imitò subito dopo.  
Nasheeta, dal canto suo, aveva appena finito di imporsi un incantesimo di auto riscaldamento, dato che il suo travestimento esigeva un certo codice di abbigliamento.
«Sfinge» si sentì afferrare per il braccio da Gideon in una stretta esitante e morbida «Sta' attenta» 
Lei annuì in un gesto secco e un mezzo sorriso. Nel giro di qualche secondo, i suoi lunghi capelli rosa si accorciarono e inspessirono per diventare bruni e accarezzarle le spalle, i suoi begli occhi scuri si schiarirono in un grigio cupo e impallidì fino a perdere ogni traccia di colore sulla pelle. Si irrobustì e alzò tanto da, finalmente, riempire gli abiti che indossava –le ossa che scrocchiavano nell'allungarsi e nel restringersi–. 
La voce di Elijah, nel freddo invernale, risuonò più fredda e roca del solito «Facciamo in fretta» 

 

 

 

 

22:20, Londra (UK), Umbrella Academy 

«Allora» Levi si issò sul vecchio tavolo in mogano al centro della biblioteca e volse lo sguardo su Numero Due «di cos'è che vuoi parlare?» 
Ezra si schiarì la voce e si costrinse a non fissare troppo Hillevi. A essere sinceri, aveva impiegato così tanto tempo a capire come convincerla a parlare con lui che non aveva più un'idea precisa su cosa dovessero parlare. Anzi, di idee ne aveva anche troppe. Ma quella era una questione delicata. Sospirò. "Delicata" era il termine giusto. Anni prima, a Numero Due non sarebbe mai venuto in mente di definire in quel modo il suo rapporto con Levi. Tutto il contrario. Parlare con Levi era la cosa più semplice che potesse fare. Non esistevano forzature nelle loro parole, crepe nei loro intenti, imbarazzo nei loro gesti. Ora sembravano due sconosciuti. 
«Di questo» Ezra si passò una mano tra i capelli «So che andare ognuno per la propria strada è stata la cosa giusta, ma sono passati cinque anni, Levi. Vuoi che ci ignoriamo per questi giorni e poi torniamo a fingere di non esserci mai conosciuti?» 
Hillevi non provò neanche a sostenere il suo sguardo. 
«Non hai davvero niente da dirmi?» 
«E cosa ci sarebbe da dire?» la sua voce era poco più che un sussurro «È andata com'è andata, Ezra. Pensi che tu non mi sia mancato per tutti questi anni? Credi che sia stato facile ricominciare daccapo sapendo di aver ferito l'unica persona da cui non potevo sopportare di allontanarmi? Non è stato facile» Levi si prese la testa tra le mani «e se ora dovessimo anche solo ricominciare a parlarci, so che poi mi sarebbe impossibile voltarti le spalle una seconda volta. Capisci perché non possiamo?» 
«Capisco perché tu hai paura» replicò Ezra «e non ti biasimo, ma sono passati anni dall'incidente e penso che a questo punto siamo abbastanza maturi da riconoscere che è stata colpa mia e che-» 
«Ezra!» lo ammonì lei «Avevi promesso che non ne avremmo parlato mai più» 
«Sì, l'ho promesso» Numero Due le si avvicinò cautamente «E ti ho anche lasciata andare. Ammetto che ho fatto non poche cazzate cinque anni fa e se sono qui ora non è per l'eredità di Octavius, né per mettermi alla ricerca dei suoi fantomatici assassini. Se sono qui, è per rivedere te» 
Numero Quattro puntò ostinatamente lo sguardo per terra «Ezra, io-» 
«Cos'è stato quel tonfo?» la interruppe lui. 
Levi aggrottò la fronte e si voltò istintivamente verso la porta. Era stato solo un suono ovattato, apparentemente figlio di una fonte innocua, ma lei aveva passato venti lunghi anni in quella casa e aveva imparato a conoscerla, imprimendo nella propria memoria tutti i suoi cigolii e stridori. L'aveva sentito anche lei, quel tonfo. E, anche lei, l'aveva percepito come estraneo ai suoi ricordi, artificiale. Probabilmente era stato qualcuno tra i loro fratelli. Oliver ed Artemis erano sempre stati un po' imbranati, per non parlare poi degli istinti distruttivi di Caesar. Levi ricordava ancora di come ogni mercoledì alle otto di sera, con precisione svizzera, Numero Tre facesse a pezzi la sua stanza con una mazza da baseball; un'abitudine a dir poco terrificante, soprattutto per lei che dimorava nella camera accanto alla sua, e allo stesso modo ingiustificata, a cui però tutti si erano adeguati. 
Insomma, l'accademia non era mai stata un posto silenzioso e, ora più che mai, c'erano migliaia di spiegazioni plausibili per quel rumore estraneo. Ezra, d'altra parte, non era il tipo che crede alle coincidenze e sapeva bene che, al centro del primo piano, l'unico rumore che poteva arrivare così chiaro e sordo doveva provenire dal portone in ebano all'ingresso. 
«Qualcuno è entrato in casa» osservò. 
«Sarà stato uno dei ragazzi,» replicò Hillevi «ma forse è meglio evitare sorprese». Balzò giù dalla scrivania senza neanche aspettare una risposta e si precipitò verso la porta, certa che Numero Due l'avrebbe seguita. Percorsero in silenzio i corridoi del primo piano, le orecchie tese per catturare qualsiasi altro rumore sospetto; per quanto sperassero si trattasse di un falso allarme, erano stati addestrati per le peggiori evenienze e nessuno dei due poteva impedirsi di pensare al peggio. Sgattaiolavano furtivamente nella villa, ombre tra le ombre, seguendo quell'addestramento che tanto avevano odiato e disperatamente avevano cercato di dimenticare.  
Ma non fecero in tempo a scendere le prime scale che incontrarono qualcuno. 
«Rigel!» mormorò Levi, alzando il passo per andargli in contro «Rigel, pensiamo ci sia qualcuno al piano di sotto. Abbiamo sentito un tonfo, come della barriera centrale abbattuta, e stavamo giusto andando a controllare cosa sia successo e-» 
«Seguitemi» Numero Uno indossava una camicia grigia che non gli aveva mai visto addosso e un paio di scarpe basse da tennista che stonavano con il suo solito abbigliamento. Le mise una mano sulla spalla, mentre con l'altra si scostava i capelli dal volto spigoloso, e la spinse delicatamente verso il corridoio a destra. Lei si ritrasse istintivamente dal contatto, come scottata. Ma suo fratello non le diede modo di obiettare e riprese a camminare «Non c'è tempo; vi spiegherò tutto quando saremo al sicuro» 
Hillevi ed Ezra si scambiarono un'occhiata confusa, senza però osare contraddirlo, e lo seguirono. 
«Al sicuro da cosa?» 
Neanche a questo Rigel rispose; si limitò, piuttosto, a portarsi i capelli indietro con un gesto nervoso della mano e continuare a camminare. 
Erano già nel fitto dedalo del primo piano, diretti verso una meta ignota –in quella direzione, le uniche possibili erano il salotto orientale e il laboratorio pozionistico–, quando Ezra decise di fermarsi e fece segno a Levi di fare lo stesso. Pur avendo vissuto lì per gran parte della loro vita, nessuno dei due ricordava con precisione la pianta dell'Umbrella Academy –non con tutti i suoi corridoi e passaggi segreti, in quel labirinto che non aveva nulla da invidiare a Hogwarts– ed era possibile che si fossero dimenticati di una terza stanza da quelle parti –forse la dispensa? Oppure la lavanderia?– ma entrambi sapevano ancora benissimo il protocollo di sicurezza e le sue collocazioni: tutte le camere magicamente blindate, tutti i nascondigli a prova di disastro magico e aggressioni si trovavano tra il secondo piano e la soffitta. Qualunque cosa Rigel avesse in mente, dunque, non aveva niente a che fare con la loro sicurezza. 
«Che fate?» chiese, infatti, con lo stesso allarmismo di prima «Dobbiamo andare, prima che ci trovino» 
«Prima che ci trovi chi?» insistette Levi. 
«Loro» rispose di getto, gettando un'occhiata nella direzione da cui erano venuti, come se temesse di esser stato seguito «Gli assassini di nostro padre. Sono qui. Dobbiamo nasconderci» 
Ezra aggrottò la fronte e arretrò di qualche passo. C'era qualcosa, in quella scena, di tremendamente sbagliato; scrutò l'espressione preoccupata sul volto di Numero Uno, l'esitazione nei suoi gesti, l'apprensione nel suo sguardo e seppe, nelle proprie ossa, che qualcosa non andava. Eppure quello era proprio Rigel. Lo stesso Rigel che non gli aveva mai chiesto scusa, che non gli aveva mai dato ragione né gli aveva mai fatto un complimento o aveva mostrato alcunché interesse nei suoi confronti. Quel medesimo Rigel che, quando anni prima se n'era andato di casa, non si era curato di salutarlo; si era limitato a dire: «Sappiamo entrambi che tornerai strisciando». 
Ecco, proprio quel Rigel ora era davanti a lui, a pregarlo di seguirlo per la sua stessa sicurezza. 
«Abbiamo i minuti contati» si sporse in avanti, porgendogli una mano con delicatezza «Sii ragionevole, fratello» 
A quel punto, Ezra non ebbe più dubbi. Chiunque avesse davanti era ben lontano dall'essere suo fratello e, ancora peggio, non aveva idea di chi stesse impersonando. Con una vena pesante di amarezza, si rese conto che Rigel non si era mai rivolto a lui se non con il gelido appellativo di Numero Due. 
«Levi, allontanati da qui» disse tra i denti «E tu» soggiunse, facendo cenno a suo fratello «non fare un altro passo» 
Hillevi gli rivolse uno sguardo di occhi grandi e tanto blu quanto confusi, scoccando poi un'occhiata curiosa verso l'altro «Non... non capisco. Rigel ha detto-» 
«Ho detto allontanati, Levi» ripeté, senza staccare gli occhi dall'uomo d'avanti a sé «Questo non è Rigel» 
Levi non ebbe neanche il tempo di assimilare la notizia, che Rigel 2.0 –come lo avrebbero nominato in seguito– le puntò contro una bacchetta di legno bianco e un lampo azzurro la fece cadere a terra, incosciente. Né tanto meno Ezra ebbe la possibilità di prendere la sua, di bacchetta. 
Rigel trascinò i loro corpi nella prima stanza disponibile e ne sigillò la porta con la magia. 
Mentre si appuntava stizzosamente i capelli dietro le orecchie, la Sfinge si chiese come diavolo facesse Numero Uno a non volerseli strappare dalla testa. Trasse un profondo sospiro e riprese a camminare, stavolta verso il secondo piano, verso l'aria notturna. Fuori due.  

 

 

22:24, 21 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 

Al piano terra, l'inferno. 
Erano spuntati dal nulla. Tony passava di lì per caso; più che altro stava tornando dal bagno di servizio, quando aveva visto il portone d'ingresso cadere in avanti e stanziarsi sulla soglia tre delle persone più strane che avesse mai incontrato. E, diciamocelo, Antoine Cleremont ne aveva incontrata di gente eccentrica nei suoi anni di servizio all'Umbrella Academy. Octavius aveva l'abitudine di ospitare all'accademia eventi di ogni tipo: dai salotti intellettuali alle serate di beneficenza, passando per nottate di gala e conferenze politiche. Le maschere veneziane, però, era nuove. 
A Tony era bastato uno sguardo per capire che non erano lì per fare conversazione. Era arretrato lentamente e, prima che i tre loschi figuri davanti a lui potessero iniziare a lanciare incantesimo, era corso in salone. Esmeralda era in piedi, le spalle al camino e lo sguardo fisso verso la porta; aveva già impugnato la bacchetta e lo accolse con uno sguardo di aspettativa. Oliver e Artemis si alzarono appena entrò, scambiandosi occhiate preoccupate. 
Tony era avanzato a grandi falcate verso di loro «Protocollo 12. C'è gente in casa e ho la netta impressione che non abbiano buone intenzioni» 
A Esmeralda servì un secondo per decidersi «Vai a chiamare Rigel. Corri. Noi li tratterremo finché possiamo» 
Numero Cinque aveva annuito seccamente e si era fiondato oltre la porta che dava sul giardino; direzione cripte. 
A quel punto, i tre Cleremont –bacchette in mano e in posizione di difesa– avevano atteso l'arrivo degli ospiti inaspettati. Ne erano giunti due. Uno aveva una selva di ricci ramati e un sorriso tutto denti, l'altro labbra sottili e il passo discreto ma sicuro di chi sa cosa sta facendo. Entrarono nel salone come se fossero i padroni di casa e li squadrarono con sguardi da predatori dietro alle eleganti maschere di vetro. Esmeralda gli si parò d'avanti con il mento alto e occhi neri e tempestosi. 
«Chi siete?» 
«Puoi chiamarmi Zar. Il mio compagno, invece» un cenno distratto oltre la spalla «è Apollo. Noi siamo la Giustizia, venuta a chiedere il conto delle vostre azioni» 
«Dammi retta, Zar» Esmeralda rise, una risata amara e senza alcuna gioia «Abbiamo già pagato il conto, con tutti gli interessi. Andatevene ora e fingeremo che non sia successo nulla. Restate» sul suo volto sparì anche l'ombra del sorriso «e il prezzo che pagherete sarà in sangue» 
«Parole audaci» aveva commentato l'altro, Apollo «per un morto che cammina» 
La prima maledizione colpì il pavimento e crepò il marmo. 
Da quel momento, non ci fu più spazio per le parole. 

 

 

 

 

22:17, 21 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 

«E tu chi diavolo sei?» 
Kasumi si girò di scatto, per ritrovarsi difronte a quello che –a giudicare dal metro e ottanta e dal sorriso beffardo– doveva essere Numero Tre. Si bloccò, pietrificata, e iniziò a pensare a cosa potesse inventarsi. Era appena arrivata al secondo piano, attentissima a non farsi vedere da nessuno, e si stava dirigendo con più discrezione possibile verso la porta in fondo al corridoio. Lo studio di Octavius Cleremont. Scrigno di immensa conoscenza e di segreti impronunciabili che solo lei poteva aprire. Aveva anche tolto la maschera per prendere riprendere fiato nell'ambiente polveroso e chiuso dell'accademia. E ora, a distanza di un paio di passi e di un potente incantesimo di infrazione, veniva scoperta. Si prese un paio di secondi per ragionare. Mettersi a combattere era fuori discussione. Il punto fondamentale del suo compito nella missione era la discrezione e un combattimento non solo l'avrebbe rallentata, ma avrebbe anche attirato più attenzione di quanto potesse permettersene. D'altra parte, però, se l'avesse schiantato in quel momento, avrebbe avuto dalla sua il fattore sorpresa. Ma quanto l'avrebbe aiutata? Caesar Cleremont era al pari di suo fratello Rigel, se non forse più micidiale. Uno schiantesimo non l'avrebbe tenuto a freno a lungo e, una volta ripresosi, gli sarebbe bastato uno straccio di pensiero per ridurla a una salsiccia agonizzante. E lei proprio non ci teneva. In tutto ciò, stava passando troppo tempo senza che lei parlasse. Si sarebbe insospettito. Kasumi non era mai stata una tipa da improvvisazione. L'imprevedibilità le metteva ansia e le cose che non riusciva a controllare la facevano innervosire. Caesar Cleremont avrebbe dovuto essere nel suo letto, a dormire dopo quel viaggio sfiancante che aveva fatto dalla Cina centrale fino a Londra senza magia. Eppure era lì, cosciente e in piena forma a squadrarla come se fosse un pasticcino durante il tè del pomeriggio. 
«Non c'è bisogno che tu risponda» disse lui all'improvviso, un'espressione cupa ed enigmatica sul volto «Io so chi sei» 
La Kitsune si sforzò di rimanere impassibile lì dov'era, senza irrigidirsi troppo. In realtà era pronta a tirar fuori la bacchetta al primo segno di pericolo, magari lanciargli addosso quel delizioso vaso di terracotta che sedeva sul mobile accanto a lei. «Ah sì?» ebbe il coraggio di mormorare, guardandolo dritto negli occhi. 
«Mi pare ovvio» rispose Numero Tre, avvicinandosi pericolosamente a lei e mantenendo il contatto visivo «che tu sia la nuova domestica» 
Kasumi rimase di sasso. La nuova cosa? Secondo quale logica una persona vestita completamente in nero che si aggira furtivamente per i quartieri privati di una casa potrebbe essere una domestica? Le ci volle tutto l'autocontrollo del mondo per non tradire il suo nuovo alibi, appena gentilmente fornito da monsieur Caesar Cleremont. Distese le labbra in un sorriso cordiale e annuì, immaginando che le domestiche facessero così. Di come si comportasse una domestica, in realtà, la Kitsune non aveva la più pallida idea. Ma –hey– Caesar –maledetto lui– sembrava piuttosto convinto dalla sua performance. 
Improvise. AdaptOvercomepensò tra sé e sé. 
«Questo spiegherebbe perché Bizzie è praticamente sparita e la casa è ancora in piedi» Numero Tre sorrise di rimando e si rilassò visibilmente, prendendosi del tempo per squadrarla ancora un po' da capo a piedi «In ogni caso, questo piano al momento è off limits e l'ora è abbastanza tarda, non trovi? Non che non apprezzi la tua dedizione» si affrettò a continuare, con imbarazzo «ma forse è ora di tornare a casa. Voglio dire... non intendo in alcun modo denigrare la tua professione e, anzi, te ne sono estremamente grato e, proprio per questo, credo che tu debba amarti e rispettarti abbastanza da andare a riposare. Nel senso di rispettarti!» aggiunse subito dopo «Non che io pensi che tu non possa essere amata, semplicemente non credo che siamo arrivati a quel punto della nostra relazione. Non che noi- insomma, hai capito» 
La Kitsune non lo ascoltava già da un pezzo. L'ansia continuava a crescerle in petto. E ora che diavolo gli diceva? Se solo ci fosse stato Gideon, al posto suo, avrebbe già trovato una comoda scappatoia da quella situazione. Ma Gideon non era lì. E lei doveva liberarsi alla svelta di Numero Tre. «Il fatto è» balbettò, dandosi mentalmente dell'idiota «che mi sono persa. E dovrei finire di pulire lo studio del Signor Cleremont. C'è una nascente infestazione di doxy e io non posso permettere, sul mio onore, che si arrivi al punto di chiamare i disinfestatori» 
«Ah, ma potevi dirlo subito!» esclamò Caesar, deliziato, passandole un braccio attorno alle spalle e sospingendola nella direzione opposta a quella sperata «Lo studio lo puoi ripulire dopo il funerale, ma ti accompagno volentieri alla porta d'ingresso. Anzi!» le rivolse un sorriso a trentadue denti «Questa casa è tremendamente cupa da quando la nostra elfa domestica è... beh, non so dove sia di preciso, ma fatto sta che questa casa è un mortorio. Quindi perché non mi fai compagnia e ti fermi a mangiare... come hai detto di chiamarti?» 
«Joanna» sputò fuori lei, facendo un ennesimo sorriso di circostanza che più che un sorriso sembrava la smorfia di un barbone epilettico «E non è proprio il caso di fermarsi a mangiare. Anzi, forse dovrei andarmene subito» aggiunse, slegandosi dalla stretta. 
«Ma come, Joanna?» insistette lui, invadendo nuovamente lo spazio personale della sua "domestica" «Ci conosciamo così poco! Potremmo conoscerci meglio, parlare delle nostre vite difronte a una tazza di tè caldo o a una cena d'asporto. Penso che sarebbe molto edificante per la famiglia Cleremont andare oltre i rapporti professionali e conoscere la persona che c'è dietro. Per esempio... per esempio tu sembri molto giovane, perché fai la domestica?» 
«Un lavoretto part-time» lo liquidò la Kitsune, ancora miracolosamente nella parte «per mettere qualcosina da parte mentre studio» 
«Una donna onesta, vedo!» Caesar, osservò la ragazza, doveva avere un vero talento nel non accorgersi delle cose ovvie. Ma lei non era proprio nella posizione di lamentarsene «E cos'è che studi?» 
«Magizoologia» rispose lei, tutto d'un fiato, senza smettere di sorridere come un'idiota «Nella scuola specializzata di Londra» 
«Sembra stupendo. Sai? Non sapevo neanche che ci fosse una scuola specializzata di magizoologia qui a Londra!» lui sorrise ancora, poi però aggrottò la fronte e la ragazza maledisse qualunque cosa stesse per dire «Ma cos'è che hai in mano?» 
«Oh, questa dici?» replicò Kasumi, con la voce molto più acuta di quanto avrebbe voluto, alzando la sua maschera e pregando di non sembrare troppo sospetta «Una sciocchezzuola!» esclamò «Tipica della...» esitò un attimo «tradizione delle domestiche giapponesi, naturalmente. La volpe è... simbolo delle... pulizie intelligenti. Sai? Risparmio, scelta di prodotti efficienti, roba da domestiche» 
Numero Tre annuiva con grande interesse e un'espressione trasognata che quasi la fece sentire in colpa «Affascinante. Sai? Ho trascorso tanto tempo in Asia, negli scorsi anni» commentò in tono più cupo, come se all'improvviso qualcosa lo avesse reso infinitamente triste e stanco «ma non avevo mai sentito dell'associazione tra l'antico spirito della volpe e le pulizie domestiche. Queste piccolezze mi fanno davvero rendere conto di quanto avrei potuto imparare se non fossi stato alla finestra ad aspettare un gufo, con la testa ancora Inghilterra. Ma la vita è breve, Joanna» sospirò, con lo sguardo fisso nel vuoto «Carpe diem, Joanna, quam minimum credula postero» 
Più tardi, quella sera, Kasumi si sarebbe complimentata con se stessa per quel suo talento nascosto che era la recitazione e si sarebbe chiesta, pungolata dal senso di colpa, quanto solo si dovesse sentire qualcuno per attaccare bottone con la domestica e iniziare una conversazione filosofica. Per il momento continuò ad annuire con insospetta solennità. Tristemente, le passò per la testa, ne so qualcosa di vivere nel presente e non pensare al futuro. 
«Cosa diavolo è questo rumore che viene da giù?» borbottò improvvisamente Caesar, aggrottando la fronte. Entrambi si voltarono verso la parte est del corridoio, dove iniziavano le scale ed echeggiavano strani rumori, e per un attimo rimasero in silenzio. Poi Caesar piegò le labbra in una smorfia indecisa «Saranno arrivate le pizze. Scendi con me, Joanna? Se non mi sbrigo, quei barbari dei miei fratelli si prenderanno la mia diavola» 
«No, io...» rispose Kasumi, incerta. La sua capacità di mentire si indeboliva a ogni sguardo speranzoso «vado a prendere le mie cose ed esco dal retro. Ma grazie per l'offerta, sarà per un'altra volta» 
Numero Tre alzò le spalle, le rivolse un ultimo stralcio di sorriso e imboccò le scale, senza neanche immaginarsi cosa stesse succedendo al piano terra. Kasumi lo guardò andar via con una certa aspettativa e un po' di rimorso. Se per aver mentito così spudoratamente a una persona che non le aveva fatto nulla o per aver indirizzato una macchina da guerra ai suoi compagni di reggimento, che sicuramente erano già parecchio impegnati, non seppe dirlo. D'altra parte, però, non aveva avuto scelta in entrambi i casi. Non era in grado di misurarsi con Numero Tre come un nemico (al contrario di altri) e, anche se lo fosse stata, aveva un altro compito. E aveva già perso troppo tempo. 
Solo quando lui ebbe voltato l'angolo, si permise di tirare un sospiro di sollievo. Tempo di darsi da fare, pensò. 
Mentre si dirigeva a grandi falcate verso lo studio, si rese conto di avere la faccia atrofizzata dal troppo sorridere e, per la milionesima volta da quando lo aveva conosciuto, maledisse Caesar Cleremont. 

 

 

 

22:37, 21 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 

«Ma quanto ci mette Tony?!» 
La voce di Esmeralda traboccava di impazienza. Da quelle che sembravano ore –e che in realtà erano più o meno quindici minuti– continuava a parare gli attacchi dello Zar, retrocedendo suo malgrado verso il camino. E più indietreggiava, più si infuriava e cercava disperatamente di contrattaccare in qualsiasi modo. In realtà si rendeva conto di essere in netto svantaggio rispetto al suo avversario; a malapena era in grado di bloccare un colpo che già ne arrivava un altro e aiutava ancora meno la consapevolezza di star affrontando uno dei due nemici e che nessun altro in quella stanza era propriamente in grado di combattere. 
Dall'altro lato del salone, infatti, il secondo aguzzino stava conducendo un duello tremendamente impari con Artemis. Numero Sette non prendeva in mano una bacchetta da anni. E si vedeva. I suoi attacchi erano imprecisi e lenti e il suo avversario sembrava sapere esattamente cosa stesse per fare. Se era ancora in piedi era perché assieme a lei duellava Oliver, che sembrava ricordare un po' di più dei loro tempi a Hogwarts. E Tony ancora non tornava. Dannazione. Esmeralda guardò la maschera elaborata del suo avversario, la facilità con cui avanzava, costringendola lentamente in un angolo, i movimenti fluidi della sua bacchetta, sentì i suoi incantesimi non verbali abbattersi sui suoi scudi e seppe, nelle ossa, che non c'era via d'uscita. 
A giudicare dal mezzo sorriso di lui, non era l'unica a rendersene conto. 
«Artemis!» un colpo più potente degli altri la costrinse a un repentino cambiamento di direzione. Lo scudo magico sempre alzato, Numero Otto saltò agilmente sul divano, pregando quel Dio in cui non credeva più di tanto che i suoi stivali col tacco non la tradissero proprio nel momento del bisogno «Artemis, dannazione! Usa i tuoi poteri!» 
«Non... non posso!» balbettò Artemis, rivolgendole uno sguardo a dir poco disperato «Distruggerei la stanza!» 
«Stupeficium» 
Oliver cadde rovinosamente a terra e fece appena in tempo a prendere la sua bacchetta per evitare un altro schiantesimo e contrattaccare. Artemis era al centro della sala, ignorata momentaneamente dai due avversari, e si guardava intorno con un'espressione disperata. Certo che ricordava cos'era successo l'ultima volta che aveva usato i suoi poteri. Come faceva a dimenticarsene? Non era forse per quello che aveva abbandonato l'Umbrella Academy, la sua famiglia e l'intero mondo magico? 
Esmeralda balzò giù del divano e le rivolse un'occhiata esasperata «Preferisci che distruggano me?» 
«Onestamente non mi darebbe fastidio un aiutino, Missie» la incoraggiò Oliver, che ora esibiva un vistoso taglio sul braccio sinistro. 
Fu un attimo. Il tempo di lanciare un'occhiata speranzosa alla porta che dava sul retro. Ad Esmeralda volò via la bacchetta. Si guardò le mani per qualche istante, inorridita, e sentì su di sé lo sguardo impietoso del suo avversario, che già rivolgeva l'attenzione ai suoi fratelli. Le mancò il respiro. Le bastò uno sguardo di traverso ad Artemis –a occhi chiusi al centro della stanza, immersa nel tentativo di richiamare i suoi poteri– e a Oliver –che giocava una partita persa in partenza contro Apollo– per capire che non poteva permettersi di farsi sconfiggere. E Rigel ancora non arrivava. Contro ogni aspettativa, Esmeralda brandì una spranga di ferro rovente da dentro il camino e si lanciò, urlando, contro il suo avversario. 
Questo, finalmente, sembrò prenderlo alla sprovvista. 
Lo Zar indietreggiò verso il centro della sala, un sorriso divertito a incurvargli le labbra. Esmeralda tentava affondi con tutta la creatività di cui era capace, passandosi l'arma improvvisata da una mano all'altra, puntando alle gambe, alle spalle, al petto, senza mai alcun risultato. E, anche quando riusciva a colpirlo, il suo nemico non dava segno di provare alcun dolore; tanto che, all'ennesimo affondo, afferrò la punta rovente della spranga con due mani, incurante del calore, e la tirò con violenza verso di sé. Numero Otto perse l'equilibrio e finì per cadergli addosso. Nella foga del momento perse la presa della spranga e cercò di recuperarla alla cieca. Era del tutto consapevole che senza bacchetta e a mani nude, contro un uomo come quello che le stava davanti, non sarebbe rimasta in piedi per un minuto. Per questo, cercò di riappropriarsi della spranga o, perlomeno, di non cadere. Tese una mano verso l'alto, tentando di ricordare i rudimenti della magia senza bacchetta, e pensò "Accio". 
L'arma non tornò mai nelle sue mani, ma Numero Otto strappò qualcosa di ben più prezioso allo Zar. La maschera viola e blu non fece in tempo ad arrivare a lei che si infranse sul pavimento. Esmeralda ebbe appena un momento per guardarlo in faccia, per fissarlo senza pudore e memorizzare i dettagli del suo volto, prima che lui la atterrasse del tutto con un calcio rabbioso, negandole qualsiasi senso di trionfo avesse sentito. 

 

 

 

22:44, 21 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 

«Cosa diavolo sta succedendo qui?» la voce di Caesar li fece voltare d'improvviso tutti verso la porta d'accesso al salone. 
Oliver si concesse un sorriso -più che altro un angolo alzato delle labbra- e approfittò della momentanea distrazione del suo avversario, che osservava Numero Tre con una ruga di preoccupazione sulla fronte, per recuperare la bacchetta e ritornare in posizione d'attacco. La situazione non poteva andare peggio di così: Esmeralda non faceva in tempo a rialzarsi da terra e curarsi appropriatamente che il suo avversario ricominciava a infierire su di lei, con quelli che potevano essere solo incantesimi non verbali. Numero Otto gli aveva strappato via la maschera, certo, ma per il resto quella rimaneva una partita persa in partenza. Lui e Artemis, invece, combattevano contro il tizio che si faceva chiamare Apollo, il quale non faceva alcuna fatica nel tenerli a bada entrambi e, per qualche ragione, non si decideva a schiantarli. Se non fosse stato così tremendamente impegnato a non farsi uccidere, Numero Sei avrebbe pensato che c'era qualcosa di strano in quella scena. 
Caesar arrivava come un miracolo. 
Non appena lo videro, Apollo e lo Zar si scambiarono un'occhiata di intesa e, mentre il primo schiantava Artemis e disarmava Oliver, il secondo rallentava nei suoi attacchi ad Esmeralda e le permetteva di controbattere ai suoi incantesimi o, perlomeno, di rialzarsi e guarire parzialmente. Da parte sua, Caesar Cleremont tentò di mettere da parte lo sgomento e zittire ogni pensiero nella sua testa, di prepararsi a quello che sembrava uno scontro inevitabile di cui non sapeva ragioni né propositi. E pensare che era tornato a casa con la speranza di trovare un po' di pace. 
«Tu» tutti i buoni propositi di Numero Tre si stracciarono non appena gli occhi gli caddero sul ragazzo difronte a lui «Io ti conosco!» 
«Mio vecchio amico» Apollo allargò le braccia e il sorriso, come a invitarlo ad avvicinarsi «Da quanto tempo non ci si vede! Almeno un paio d'anni, se ricordo bene, e come sei cresciuto mentre ero via... confesso che sono commosso da questo riconoscimento topico! Ammettilo, ti sono mancato» 
«Stammi a sentire» Caesar occhieggiò sua sorella, incosciente sul pavimento, e poi il suo nemico «Non ho idea di come tu abbia fatto due anni fa in Siberia e non voglio neanche saperlo, ma ti assicuro che sono migliorato e ora non hai nessuna possibilità» 
«Ti ricordi di quanto ci siamo conosciuti!» esclamò Apollo, deliziato «Non è una meraviglia, questo Caesar Cleremont? Tu che ne dici, Zar? Non trovi sia un tale bravo ragazzo?» 
Lo Zar gli scoccò un'occhiataccia, ma non rispose. Sapeva che per il suo stimato collega quella non era che la normale dinamica di un combattimento. Questa teatralità esasperata era il suo marchio di fabbrica, il suo segno distintivo e, fintanto che portasse a termine il suo lavoro, non gli interessava quanto parlasse e quanto combattesse. 
«Certo che mi ricordo di quanto ti ho preso a calci per la prima volta, Apollo» replicò Numero Tre «Ma stanotte andrà diversamente» il suo sguardo si fissò sulla figura di Apollo, andandone a tracciare il profilo morbido della maschera e poi quello netto delle spalle rilassate e della vita «Dole» 
Era qui che accadeva quella che Octavius aveva definito magia e Artemis –in un giudizio muto e sacro, impronunciabile– un abominio. Caesar si aspettò di vedere il suo avversario crollare a terra urlando, prendersi la testa tra le mani e poi darsi al furor doloris –come gli piaceva chiamarlo–: iniziare a pregare, piangere, staccarsi una mano a morsi, cercare di cavarsi gli occhi, contorcersi a terra, distrarsi in qualche modo dal dolore. 
Apollo, invece, si mise a ridere, di gusto, pienamente. Gettò la testa all'indietro e sulle sue guance si scavarono un paio di fossette. 
«Dovresti vedere la faccia che stai facendo in questo momento» riuscì a dire tra le risate «È impagabile» 
Caesar non seppe far altro che stringere i pugni fino a far sbiancare le nocche. E sì che aveva passato gli scorsi due anni a studiare il suo potere, imparare a controllarlo e declinarlo nelle varie gradazioni di dolore, a intrappolarlo in una sola parola. Un imperativo, il verbo del comando. In latino, la lingua dei suoi avi. Un idioma con un significato, con una storia. Dole. Soffri. Tutta la rabbia presuntuosa che il suo animo potesse contenere traboccava in quelle due sillabe. Eppure, Apollo rideva e sembrava del tutto indifferente alla sua furia. «Dole!» ripeté, a voce piena. 
«Andiamo, non dirmi che è l'unico coniglio nel tuo cappello» 
«L'unico coniglio!?» sbraitò Caesar «Qualunque sia il tuo trucco, svelalo e combatti da uomo!» 
Apollo gli rivolse un sorrisetto condiscendente «E che gusto ci sarebbe in questo?» 
Numero Tre non ebbe modo di replicare, che sulla porta della sala comparve un'altra figura. Una ragazza che doveva avere pressappoco la sua età. Aveva lunghi capelli rosa pastello e la pelle di un piacevole color caramello; sul volto, la stessa maschera del suo compare, solo nei toni del verde e del rosa. Non appena la vide, Apollo dissimulò un'espressione preoccupata e tirò fuori la bacchetta per cominciare ad attaccare Numero Tre. La Sfinge non si fece pregare e si unì immediatamente a lui. 
La sala si fece fitta di maledizioni che volevano da una parte all'altra, di imprecazioni soffocate e respiri affannati. 
Esmeralda sembrava aver riguadagnato terreno contro lo Zar, ma comunque non riusciva a disarmarlo o procurargli un qualunque danno effettivo; sorgeva in lei, a ogni colpo perfettamente parato, il sospetto che la stesse indulgendo. Oltre i divani, Apollo e la Sfinge tenevano a bada Caesar, senza tuttavia mai in effetti mandarlo a terra o ferirlo abbastanza da metterlo fuori gioco. Tutto sembrava andare secondo il piano ed Elijah ebbe l'impressione che sarebbero potuti andare avanti con quella scenetta per molto altro tempo. 
Ovviamente non fu così. Numero Tre, prima ancora di vederlo, lo percepì. L'ambiente divenne d'improvviso più cupo, come se ci fosse una tenda a filtrare la luce del fuoco nel camino e quella della luna oltre la finestra. Gli calò sugli occhi un'oscurità opaca ma non fredda, non ruvida. Quelle erano tenebre che conosceva e che amava, il buio di suo fratello. Dovette accorgersene anche Esmeralda. Numero Otto non aveva mai provato quel tipo di debolezza. Forse da piccola. Forse quando era la più innocua dei suoi fratelli, incapace di far altro che guarire graffi e lividi dopo una missione. Lo Zar aveva chiaramente capito il ritmo della sua rigenerazione e ci giocava attorno, dandole appena il tempo di riprendersi, di trovare la forza per non collassare a terra, prima di colpirla di nuovo. Lo stesso parevano fare Apollo e l'ultima arrivata con Caesar. Stavano prendendo tempo, non c'era altra spiegazione. Li stavano attirando in salone, tenendoli sulle spine, senza muovere un dito di troppo. Quanto al motivo, non le era dato saperlo ed era sicura che l'avrebbe tenuta sveglia tutta la notte.  
L'entrata in scena di Rigel –perché quel buio innaturale non poteva significare altro– andava a sconvolgere gli equilibri di forza. Se solo avesse avuto un paio di secondi in più, il tempo di guarire del tutto e ristorare le sue forze, avrebbe potuto rendersi utile. Si guardò intorno –gli occhi sgranati per vedere meglio– alla ricerca di una qualche via di fuga. Lo Zar, tuttavia, dovette capire le sue intenzioni e l'arrivo di un altro, inaspettato ospite, perché le rivolse uno sguardo di sufficienza e agitò la bacchetta in una maledizione silenziosa che fece cadere Esmeralda a terra.  
«Numero Uno» lo Zar non si curò neanche di accertarsi che non si rialzasse «È scortese rimanere nascosti a guardare. Rivelati» 
Per qualche secondo, la stanza si fece del tutto nera, un turbinio di buio indistinguibile, poi l'ambiente si andò a rischiarare e la sagoma di Rigel Cleremont si delineò proprio davanti al pianoforte. Accanto a lui, le ombre. Erano in tre. Figure completamente nere ma diverse tra loro: l'una più alta, l'altra più robusta, una invece bassa e sottile come un giunco; tutte, però, avevano denti bianchissimi da esibire in ghigni animali e occhi che erano punti di luce. Parevano creature profane che aleggiavano immateriali sopra il pavimento senza toccarlo davvero. Rigel quasi si confondeva tra loro, tenebra tra le tenebre. Quando si fece avanti, Caesar si liberò rapidamente di Apollo e spinse via la Sfinge per affiancarlo, incurante delle ombre che gli orbitavano attorno. 
«Perdonate il ritardo» gli occhi di Numero Uno correvano incessanti tra i suoi avversari «Il mio invito dev'essersi perso nella posta. Ma mi sembra che la festa stia andando comunque alla grande. Non lo pensi anche tu, Caesar?» 
Caesar gli scoccò un'occhiata impaziente «Dove diavolo sei stato finora?» gli chiese in un mormorio nervoso «Sono neutralizzato» 
Apollo e la Sfinge non osavano muovere un muscolo. Lo Zar osservava. 
«Non dire sciocchezze» lo liquidò Rigel «Non sei neutralizzabile, Che. Avrai scelto il nemico sbagliato, come al solito» 
«Allora? Qual è il tuo piano geniale?» lo incalzò. 
Rigel fissò il suo sguardo sulla Sfinge «Ti ricordi i nostri addestramenti?» non ebbe bisogno di una risposta «Protocollo di combattimento sette» 
Tutto si mosse con precisione meccanica. Due delle ombre corsero a bloccare Nasheeta, la loro presa gelida e ferrea sulle sue braccia, e Caesar le rivolse un sorriso da predatore. «Dole». Questa volta non ci fu alcuna delusione. La Sfinge crollò a terra, contorcendosi nella stretta delle ombre, e iniziò a tremare incontrollabilmente, gli occhi lucidi e sgranati sotto la maschera. Le maledizioni di Apollo andarono a infrangersi contro lo scudo alzato di Rigel e Numero Tre ne approfittò per alzare una mano verso di lui, sulle labbra la promessa di un orrore senza nome. «Dole!». Apollo si bloccò del tutto, ma non cadde. La presa sulla bacchetta si fece spasmodica e le labbra si pressarono in una linea di sforzo. 
«Hai finito di giocare, Numero Uno?» lo Zar scoppiò in una risata scolorita «Quando ti riterrai soddisfatto, sono qui per una partita alla pari» 
Numero Uno mise su un'espressione annoiata «Non lusingarti troppo, Zar. Tu non sei mai stato alla mia altezza. So cosa credi di star facendo, ma questo è il mio gioco e tu stai ballando al ritmo della mia musica» 
«Ma davvero?» la voce di Apollo era roca e vibrante di un sarcasmo velenoso, mentre lui resisteva con sempre più fatica al dolos di Numero Tre «Vi conoscete?» 
Elijah si mise in posizione d'attacco «Non ha importanza. Dopo stanotte non ci rivedremo mai più» 
«Lo hai detto anche la scorsa primavera, non è così?» Rigel estrasse la bacchetta e si avvicinò ulteriormente. Le ombre lasciarono la Sfinge, in lacrime sul pavimento, per riaffiancarlo e Caesar tornò a occuparsi di Apollo «E tuttavia ci siamo rincontrati e neanche quella volta eri da solo. Non ti ricordi cos'è successo alla tua amica Medusa, l'ultima volta che ci siamo visti?» 
«Certo che lo ricordo» lo Zar parò con un gesto della bacchetta una maledizione silenziosa e materializzò nella sua mano un grosso pugnale ricco di fregi; sulla lingua, il peso della menzogna che stava per dire «Ma tuo padre è morto da solo in un letto d'ospedale e Medusa si è battuta fino all'ultimo per la causa in cui credeva. Chi pensi abbia avuto la fine migliore?» 
«Mio padre giace dignitosamente nella tomba di famiglia» il buio attorno a Rigel si fece più fitto nel tanto che lui si avvicinava senza mancare un colpo, la sua voce rimaneva ferma e gelida «La testa della tua Medusa è nella mia sala trofei, la sua ombra al mio servizio. Sei ancora sicuro su chi abbia ricevuto la sorte più clemente?» 
Questo dettaglio parve coglierlo di sorpresa. Lo Zar si fermò per un secondo, come paralizzato, per guardarlo con occhi scuri e assenti. I suoi precedenti scontri con Numero Uno erano sempre stati accidentali, dato che l'Ordine preferiva non entrare in collisione con la gente che circondava i suoi bersagli, ed erano avvenuti più che altro nel periodo delle ricerche, prima di dar inizio alla missione. Lo Zar li ricordava come sfocati e lontani. Schegge di un'altra vita, incastratesi nel cuoio dei suoi stivali mentre se la lasciava alle spalle. Tra di esse c'era il nome di Medusa, che era stata sua partner fuori e dentro l'Ordine per dieci anni e la cui morte era stata liquidata dal Generale come una tragedia eroica. Ad Elijah Stone si spezzò il cuore quando la sua Anastasia morì, in quella missione che avrebbe dovuto garantirle la libertà, ma allo Zar non fu concesso alcun lutto. Per i Cavalieri non esisteva riposo dalla guerra. 
«Ah, questo non lo sapevi» Numero Uno approfittò della momentanea debolezza del suo avversario per aizzargli contro le sue ombre «Non te l'hanno detto cos'è successo a tutti i fantocci che mi hanno mandato contro?» 
Lui incassò in colpo, ma riprese subito a difendersi. Con gli scudi alzati, il volto una maschera impassibile di pietra, cominciò a tracciare nell'aria ampi fendenti del suo pugnale, di un acciaio chiaro e luccicante nelle tenebre. Rigel sembrò capire subito di cosa si trattava, perché indietreggiò rapidamente, curandosi di non urtare nella traiettoria il piede di un divano rovesciato e lo spigolo del tavolino in legno bianco. In ogni caso, non fece in tempo a scostarsi. Né la barriera magica servì a qualcosa. La lama del pugnale affondò nella carne con una lentezza esasperante. Furono le ombre a spingere indietro lo Zar, mentre Numero Uno si portava le mani all'addome e cercava di impedirsi di gridare o piangere o cedere all'attacco di panico che minacciava di rovesciare la sua calma mentale. 
Si decise, infine, a stringere i denti e ricominciare a combattere. 

 

 

 

22:57, 21 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 

«Ma che-»  
Alexis si concesse un paio di secondi per contemplare lo spettacolo insolito –e parecchio inquietante– di due dei suoi fratelli incoscienti, legati malamente a due sedie nello sgabuzzino del primo piano. Pochi minuti prima aveva deciso che fissare il soffitto della sua vecchia camera per il resto della permanenza all'accademia non era poi una grande strategia. I suoi fratelli, in fondo, non gli avevano fatto nulla. Si sentiva bizzarramente in colpa all'idea di ignorarli anche quando dormivano sotto lo stesso tetto. Ezra non dimenticava mai di mandargli una cartolina nelle occasioni speciali e Caesar, per i primi quattro anni dopo la sua fuga da casa, lo aveva sommerso di missive via gufo; per non parlare dell'anno in cui Esmeralda aveva in qualche modo rintracciato il suo numero di telefono, con la vana speranza di poterlo rincontrare. Da parte sua, Alexis riconosceva di essere un pessimo fratello. Non solo non aveva ricambiato in alcun modo i tentativi di contatto della sua famiglia negli ultimi otto anni, ma ora si rifiutava anche di scendere in salone e discutere civilmente con loro. La lunga meditazione in solitario e il senso di colpa lo avevano, infine, convinto a tentare un approccio pacifico nei confronti della sua famiglia. Il giorno dopo, ovviamente. Piombare in salone nel mezzo della serata avrebbe accentuato la sua precedente assenza, mentre, se si fosse presentato a colazione la mattina dopo, la sua apparizione sarebbe sembrata più naturale. Si rasserenò al pensiero che, con ogni probabilità, Rigel non si era ancora fatto vivo e, di conseguenza, lui sarebbe stato solo il penultimo fratello ad aggiungersi alla riunione di famiglia.  
Quanto alla questione dello sgabuzzino, era stata una mera coincidenza. Spinto da un'insolita voglia notturna, cercava il bagno del primo piano, quello con la vasca in pietra che, a detta di Esmeralda, faceva invidia al bagno dei prefetti di Hogwarts e che, casualmente, Octavius aveva proibito ai suoi figli per i loro primi quindici anni di vita. Per (s)fortuna, non ricordava bene dove si trovasse e aveva iniziato ad aprire tutte le porte in cui si imbatteva, con il risultato di trovarsi difronte a uno spettacolo a dir poco bizzarro.  
Suo malgrado, tirò fuori la bacchetta e recitò una formula blanda di guarigione.  
Ezra aprì gli occhi di scatto e trasse un respiro profondo. Quando si accorse della sua presenza, lo guardò come se volesse farlo a pezzi «Liberaci, mostro»  
«Rigel...» Levi sbatté le palpebre un paio di volte «Dio, la mia testa...»  
«Che avete voi due?» Alexis iniziò a sciogliere i nodi delle vecchie corde sfilacciate «Ezra, cos'è successo?»  
Numero Due gli rivolse un'occhiata sospetta, come se stesse valutando se atterrarlo appena la corda fosse allentata o no. Poi si decise «Quando avevo sei anni, tu e uno dei nostri fratelli mi prendevate in giro senza sosta. Perché?» 
Alexis aggrottò la fronte, cercando di far mente locale e non pensare che suo fratello stesse dando di matto. Quando avevano sei anni. A quel punto, gli sembrava di star parlando di un'altra vita, di una dimensione diversa. Com'era Ezra a sei anni? Magrolino, pallido, imbronciato e... un sorriso gli increspò le labbra. «Ezra» a stentò riuscì a soffocare una risata «a sei anni, io e Caesar ti prendevamo in giro perché tu credevi che Bizzie fosse tua madre»  
«Vedo che hai una buona memoria, Alexis» commentò cupamente Numero Due, liberandosi dalle corde allentate.   
«Lo so e ne vado fiero» rispose lui «ma non posso fare a meno di chiedermi se ti manchino i bei vecchi tempi o ci sia una ragione sensata dietro questo quiz a sorpresa sulla nostra infanzia»  
Hillevi si alzò rapidamente dalla sedia e gli rivolse uno sguardo tutto occhioni blu e sopracciglia arcuate «Alexis... da quanto sei qui?»  
«Sono arrivato questo pomeriggio» Numero Nove evitò accuratamente il contatto visivo con sua sorella «Ma al momento non penso che abbia importanza. Stavi dicendo qualcosa su Rigel?»  
Levi arricciò il naso «Sì, Rigel è-»  
«Quello non era Rigel» la interruppe Ezra «C'è un mutaforma qua in giro. Potrebbe essere un metamorphomagus o semplicemente un idiota capace di produrre pozione polisucco. Si è presentato a noi come Rigel e ci ha convinti a seguirlo fino a qui. Quando mi sono accorto che era un inganno era troppo tardi. Ci ha schiantati e legati. Onestamente sono sorpreso che tu non l'abbia incontrato»  
«Non ho visto nessuno» confermò Alexis «né al secondo piano, né qui. Anche se ho sentito dei rumori provenienti dal piano di sotto»  
«Questo significherebbe che c'è qualcuno in casa» rifletté Hillevi «e se tutti sono al piano di sotto, potrebbe esserci qualcuno al piano di sopra?»  
Tre paia d'occhi corsero al soffitto. «L'ufficio di Octavius» 

 

 

 

 

23:04, 21 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 

Apollo si voltò all'improvviso verso i suoi compari «È fatta!» 
«Perfetto» commentò lo Zar «Avete dieci secondi» 
Il resto avvenne così velocemente, ben meno di dieci secondi, che i ragazzi a stento si resero conto di quello che stava succedendo. La Sfinge, miracolosamente in piedi, atterrò Caesar con un calcio all'addome e Gideon lo schiantò con un colpo secco di bacchetta. Rigel non ebbe neanche il tempo di richiamare le ombre o lanciare uno schiantesimo che i tre cavalieri erano al centro del salone, le braccia tese in avanti verso quello che sembrava un calice da vino. Sparirono in un vortice nero e di loro non rimase neanche una traccia. 
Numero Uno fissò per qualche secondo il punto in cui erano svaniti, attonito, cercando di metabolizzare quello che era appena successo, la rapidità con cui tutto era accaduto, come se il tempo si fosse ripiegato su se stesso. Poi si portò i capelli sudati indietro con una mano e rivolse la sua attenzione ad altro. La sala era un disastro: tavoli rovesciati, divani lacerati da maledizioni mancate e cocci di vasi sul pavimento. Solo il fuoco nel camino scoppiettava ancora. Oliver si tirò su a fatica e arrancò verso Caesar, per assicurarsi che stesse bene. C'era un silenzio irreale. Artemis era ancora incosciente e Tony, seduto per terra accanto a lei, osservava quel buffo deja vu vivente che erano i suoi fratelli. Esmeralda si era appena rialzata. Le sue ferite si stavano lentamente rimarginando, ma era evidente quanto quel combattimento l'avesse stancata. Una ad una le ombre di Rigel tornarono da lui, sgusciando da sotto le porte e attraversando i vetri delle finestre, e gli si fusero addosso, finché l'ambiente non tornò a essere rischiarato dal focolare. 
Quando Ezra, Levi e Alexis arrivarono in sala, trovarono i loro fratelli a crogiolarsi in quel silenzio pieno di accuse. 
«Mio Dio» Hillevi si portò una mano alle labbra, contemplando il disastro che le stava davanti «Cos'è successo qui?» 
«Già» commentò Alexis «Chi c'era in casa e perché sembra che sia passato un uragano al piano terra?» 
«Nemici» sentenziò Rigel, rigido come una statua, appoggiato alle grosse pietre del camino «Ma non mi è chiaro perché ora, perché qui» 
«C'era qualcuno al piano di sopra» disse Ezra «nell'ufficio di Octavius» 
Caesar, supportato nei limiti del possibile da Oliver, si era appena alzato e si dirigeva verso l'unico divano ancora in piedi «Avete idea di cosa abbiano preso?» 
«No» Levi scosse la testa, sconsolata «C'era un casino tremendo. Non aiuta il fatto che papà fosse estremamente geloso delle sue cose e noi non sappiamo cosa custodisse il suo ufficio» 
«E voi dove siete stati, mentre noi affrontavamo il nemico?» l'occhiata inquisitoria di Rigel non ammetteva repliche. 
«Ci hanno teso un'imboscata» si affrettò a rispondere Levi «Un mutaforma, un metamorphomagus ci ha teso una trappola; non avevamo modo di capire che era un inganno. Se non fosse stato per Alexis saremmo ancora rinchiusi nello sgabuzzino del primo piano» 
«Numero Tre» Rigel si avviò verso le scale con un'espressione a dir poco cupa. 
Caesar alzò il capo. 
«Qual è la situazione al piano terra?» 
«Numero Cinque e Numero Sei sono feriti, ma non gravemente» iniziò a elencare lui, meccanicamente «Numero Sette è incosciente, Numero Otto si sta ancora riprendendo e io sono un po' acciaccato a dir la verità. A occhio e croce» aggiunse «Numero Due, Numero Quattro e Numero Nove non riportano danni» 
«Perfetto» commentò, con la faccia di uno che non ci trovava proprio nulla di "perfetto" in quella situazione «Quindi è questo che avete fatto, abbandonando l'Accademia?» Rigel era appoggiato al corrimano delle scale, il respiro irregolare e una rigidità che lo stringeva totalmente. Soprattutto, li guardava con un disprezzo senza nome né volto e sembrava ferito, in ogni senso possibile «Avete barattato anni di addestramento e disciplina per la vostra sciocca serenità? Per questo avete lasciato morire nostro padre, voi che gli dovete tutto ciò che siete, voi che avevate giurato di proteggere l'accademia da qualsiasi male?!» 
Oliver azzardò un paio di passi verso di lui «Rigel-» 
«No» all'improvviso sembrava un animale ferito, la voce un rantolo rabbioso e gli occhi grigi che correvano da una parte all’altra della stanza con circospezione «Nessuno di voi ha diritto di chiamarmi con quel nome. Per voi io sono Numero Uno»
«Ma cosa stai dicendo, Rigel?» Esmeralda lo guardò come fosse impazzito, un'accusa mesta velata nello sguardo «Per chi credi che sia tornata, dopo tutto questo tempo? Non per la salma di un morto, ma per te. Io sono qui» disse «per la mia famiglia, per tutta la mia famiglia. E voglio restare qui, con te e con Caesar, con le persone che amo, con i miei fratelli. Tu sei Numero Uno per me, ma anche tante altre cose. Rigel» già totalmente guarita, gli si avvicinò fino a stargli difronte «io sono qui per te e non ho intenzione di abbandonare l'accademia, ma tu devi collaborare. Siamo una squadra, no?» gli parlava come si fa con i bambini, con parole quiete e un sorriso a tentoni «Dicci quello che sai e, insieme, sbroglieremo questo impiccio, come facevamo prima» 

«È complicato» 
«Andiamo al punto. Tu sai chi sono quelle persone» Ezra iniziava a perdere la pazienza «e sai cosa hanno preso dall'ufficio di Octavius. Diccelo e noi resteremo per aiutarti a risolvere questo casino» 
«Non ho bisogno del vostro aiuto» Rigel si voltò verso di lui «Hai visto cos'è successo prima, no? Vi hanno usati come fantocci, mere esche per attirare la mia attenzione e distrarmi da ciò che ho giurato di proteggere. Se non ci foste stati, non si sarebbe neanche presentato questo problema di cui tanto parlate. Ho tutto sotto controllo. La vostra presenza mi è stata solo d'intralcio» 
«Rigel,» lo ammonì Caesar «stai esagerando»
«Sto dicendo la verità e lo sai anche tu» Rigel sembrava tornato calmo come al solito. Si accarezzò il mento con le punte delle dita «Ora potete ritirarvi nelle vostre stanze. Stanotte penserò a un nuovo incantesimo di protezione, uno che i loro segugi non possano spezzare, e domani mattina ci occuperemo alla faccenda dell'eredità. Al resto penserò io» 
«Questa serata è durata anche troppo» disse Oliver «Forse è davvero meglio se ne riparliamo domani. Questo non è il momento giusto»
Per la stanza si alzò un mormorio di assenso. Era tardi, il piano terra semi distrutto e i loro propositi per la serata ormai caduti. 
Improvvisamente, lo squillo allegro del citofono. 
Tutti si voltarono verso la porta abbattuta dell'ingresso, come se da un momento all'altro potessero spuntarvi altri nemici. 
Caesar si fece avanti ed afferrò la cornetta del citofono, chiedendo uno sterno: "chi è?". Una risposta indistinta. «Arrivo» borbottò poi. Infilò il cappotto e fece per uscire, quando si accorse che gli altri continuavano a guardarlo con aspettativa. Si schiarì la voce e tentò un sorriso imbarazzato «Sono arrivate le pizze» 
«Meraviglioso» commentò Esmeralda «Sto morendo di fame» 
«Dio, pensavo di essere l'unico» le fece eco Oliver. 
«Okay, io vado a prendere le pizze con Caesar» decise Numero Otto «Qualcuno abbia la decenza di svegliare Artemis e di trovare da bere. Appena torno, io e Oliver» soggiunse subito dopo «ci occuperemo di qualsiasi danno riportiate. Questa notte è ancora salvabile» 
Senza aggiungere altro, Numero Tre e Numero Otto uscirono di casa, Tony prese la direzione della cucina e gli altri iniziarono una macabra sfilata verso la sala, le bacchette in pugno per riparare i danni più gravi. Non parlarono di quello che era appena successo. La sospensione della realtà, d'altronde, era una tradizione ben radicata tra i giovani Cleremont. Ogni qual volta una missione andava male, si impegnavano, almeno tra loro, a fingere che non fosse accaduto nulla. Era compito di Octavius riportarli alla realtà, punendoli nei modi che più riteneva adeguati. In quella bolla comoda che era il loro tempo insieme, preferivano lasciar fuori l'Umbrella Academy, loro padre, le aspettative altissime del futuro. 
Levi si voltò verso Ezra, che già pensava di avviarsi al piano di sopra, e gli tese una mano «Vieni con noi?» 
Entrambi sapevano che quel gesto così innocuo significava in realtà miliardi di cose e che aveva il potenziale di creare danni impossibili da riparare. Ma quella era la notte dei Cleremont. Avevano il diritto, per quello straccio di tempo, di fingere che fosse tutto come prima. Allora Ezra non ebbe esitazioni. Annuì e ricambiò la stretta. Per quel momento, non esistette più nulla. Solo Levi. Le sue dita affusolate contro il palmo della mano, il sorriso appena alzato agli angoli della bocca, i capelli blu a incorniciarle il viso e la certezza che quello era il suo posto nel mondo.   
«Alexis» chiamò Hillevi «tu che fai?» 
Numero Nove lanciò uno sguardo alla scalinata in mogano, all'angolo buio in cui Rigel si era dileguato, all'occasione inestimabile che lo aspettava al piano di sopra. «È stata una lunga giornata. Credo che andrò a dormire e ci rivedremo domani a colazione» 
Lei annuì con poca convinzione e lo lasciò andare. Era troppo stanca per insospettirsi degli atteggiamenti di Alexis e la prospettiva di riprendere la serata tranquilla che avevano iniziato ore prima suonava ben più allettante alle sue orecchie. La mano di Ezra stringeva ancora la sua. Mentre entravano in sala sul sottofondo delle voci dei suoi fratelli –Artemis lamentava il peggior mal di testa della storia dei mal di testa, Oliver si offriva di aiutarla e Tony, appena tornato dalla cucina, li prendeva benevolmente in giro– ebbe la sensazione che si sarebbe aggiustato tutto. 

 

 

 

23:17, 21 Dicembre 2020, Londra (UK), perfierie 

«Allora? I documenti?» 
Gideon aveva il fiatone, un sorriso da lupo stampato sul volto e le mani che tremavano nell'entusiasmo del momento. La missione non era andata bene quanto avrebbe dovuto. Lui stesso era ferito in più punti e si sentiva la testa scoppiare. Per non parlare del fatto che lo Zar avesse perso la sua maschera di vetro –una questione epocale, a detta sua, addirittura apocalittica– e che la Sfinge aveva quasi perso la testa. E tuttavia, il Decimo Reggimento aveva compiuto l'impossibile. Era uscito vivo da Rosewood, con i documenti di Octavius Cleremont. 
«Abbassa la voce, idiota» a giudicare dal suo sguardo omicida, lo Zar doveva pensarla diversamente sull'esito della missione «Se avessi fatto quello che ti era stato chiesto, non mi sentirei così male» 
Erano tornati nello scantinato buio di quella mattinata, illuminato scarsamente da un paio di fiaccole alle pareti. Sul tavolo c'era una vecchia bottiglia di whisky incendiario che Apollo aveva lasciato lì per le celebrazioni notturne, una volta portata a termine la missione. Nessuno di loro, però, era in vena di festeggiamenti. 
«Voglio un report pulito della missione» declamò Elijah «e le vostre oneste opinioni» 
«Non lo so, Zar, è stato strano» la Kitsune si scostò i capelli dal viso pallido e si sistemò meglio sulla sua sedia «Ho come l'impressione che ci sia sfuggito qualcosa» 
Nasheeta, seduta a gambe incrociate sul tavolo, le scoccò un'occhiata curiosa «Cosa intendi dire?» 
«Gli incantesimi di protezione dello studio di Cleremont erano...» esitò per qualche secondo nella ricerca della parola giusta «spezzabili. Mi aspettavo che fossero meno alla mia portata, meno semplici da decodificare ed annullare» 
«Mia cara Kitsune» commentò lo Zar, con un ampio sorriso freddo «Non dovresti sottovalutarti così tanto. Sei il miglior segugio dell'Ordine, mentre Octavius Cleremont non era un intenditore di magia difensiva, o mi sbaglio? I tuoi dubbi confermano le tue capacità, non sminuirle in cambio di sospetti artificiali» 
«Non cerco complimenti, Zar» replicò lei «e ti ripeto che qualcosa non quadra. Il Terzo Reggimento era sicurissimo che tutti i documenti di valore del vecchio Cleremont si trovassero nel suo ufficio, che in effetti era protetto, ma non ti pare strano che nessuno dei ragazzi, appena siete arrivati, si sia preoccupato di difenderlo?» 
Elijah distese le labbra in un altro, artificiale sorriso «Io non credo che-» 
«Credo che la Kitsune abbia ragione» ebbe l'ardire di interromperlo Gideon «Numero Tre e Numero Otto se la stavano cavando bene, prima che Numero Uno arrivasse. Perché allora lui è corso a dar loro una mano, invece di pensare ai vecchi possedimenti di suo padre? Quando l'intera stanza è diventata buia» continuò, con foga «ho visto delle cose. C'erano ombre tutto intorno a noi, gli orbitavano attorno come impazzite, e poi in gran parte se ne sono andate dalla stessa porta da cui è entrato Numero Uno. Non verso le scale che portavano all'ufficio di Cleremont Senior. In giardino» 
«C'erano ombre anche quando l'ambiente si è rischiarato» provò a controbattere Nasheeta. 
«Erano di meno, ti dico. Tre a malapena, quando sappiamo che può fare di peggio» replicò prontamente Apollo «Seguite il mio ragionamento. C'erano intrusi in casa, a combattere in salotto contro i suoi fratelli. Numero Uno poteva scegliere se salvare la famiglia che non vedeva da anni e che l'aveva abbandonato o l'inestimabile eredità di suo padre, l'uomo che gli è stato accanto tutta la vita. Lui ha scelto la sua famiglia, no?» tacque per un attimo, per assicurarsi di avere l’attenzione di tutti «No. Dai reportage che abbiamo delle sue precedenti missioni si evince che è uno dei più potenti tra i suoi fratelli e stasera a malapena è riuscito a tener testa allo Zar. So che vi sembrerà assurdo, ma io credo che abbia diviso le forze, che abbia mandato le sue ombre a proteggere ciò che andava protetto e sia rimasto con noi per farci pensare di star vincendo» 
«Avrebbe senso» Kasumi contemplò a lungo il libro in pelle di drago che aveva tra le mani «Non mi sembra possibile di non aver trovato alcuna resistenza, a parte Numero Tre, ma quella è un'altra storia. Zar, se Apollo avesse ragione, se il Terzo Reggimento avesse fallito nella locazione dei documenti, se l'ufficio di Cleremont non fosse il posto giusto...» 
«Dammi i documenti» si limitò a dire Elijah, afferrando bruscamente il bottino e aprendolo senza alcuna cura. Le pagine traboccavano d'inchiostro, fitte di date e appunti, la calligrafia in un corsivo elegante ma calcato, le lettere accatastate le une sulle altre per sfruttare al meglio lo spazio, ma nel complesso il tutto era ordinato, quasi simmetrico. Su ogni pagina c'erano almeno una dozzina di date appuntate. Sul volto dello Zar si andava già disegnando un sorriso, ma bastò iniziare a leggere per rendersi conto di non aver in mano il registro di attività illegali in cui tanto sperava. Gli altri, attorno a lui, lo guardavano con aria preoccupata e curiosa. Quando parlò, la sua voce era tremante di rabbia «Dodici aprile duemilasette» lesse «Inviati fiori e lettera di congratulazioni a Numero Quattro per l'ammissione al Coro delle Rane» andò avanti con le pagine in un gesto impaziente «Ventiquattro settembre duemilaotto: spedita liberatoria firmata per le uscite a Hogmsmeade. Quindici ottobre duemilaotto: ricambiata la corrispondenza con Numero Due e Numero Tre con complimenti per l'entrata nella squadra di Quidditch» saltò un altro pugno di pagine, arrivando a oltre metà quaderno «Sedici marzo duemilaundici. Inviata lettera di felicitazioni per la riconfermazione di Numero Otto come campionessa del club dei duellanti con cesto di muffin da parte di Bizzie. Ventisette marzo duemilaundici. Mandata sollecitazione a Numero Cinque, Numero Sei, Numero Sette e Numero Nove alla partecipazione ai corsi scolastici. Io non...» trasse un profondo sospiro per calmarsi e affondò la testa tra le mani. Quando rialzò il capo aveva addosso quella che, più tardi, al sicuro nella loro camera condivisa, Apollo e la Sfinge avrebbero definito un'espressione da isteria sociopatica «Qualcuno sa dirmi cos'è questo?» quando nessuno rispose, alzò la voce «Vi ho fatto una domanda, dannazione!» 
«A occhio e croce» Gideon si portò alle labbra una sigaretta e la accese con uno schiocco di dita «direi che è un'agenda di appuntamenti di Octavius, riguardante i suoi figli» 
«Arguto, da parte tua» commentò lo Zar, inviperito «Kitsune, ti va di dirci cosa dovevi prendere dallo studio di Cleremont?» 
Kasumi gli rivolse uno sguardo gelido «Mi stai forse dando la colpa? No, non rispondere» aggiunse subito dopo «Stanotte mi sento magnanima e non alzerò un dito. Mi limiterò a dirti cosa dovevo fare e ho fatto nello studio di Cleremont. Ho buttato giù l'intero ufficio di Octavius Cleremont» iniziò a elencare «ho trovato un fottutissimo scompartimento nascosto nella libreria. Custodiva questo libro. Era pieno di date che coprivano più di dieci anni di attività, la calligrafia era la sua. Poi ho sentito dei passi. Almeno due persone stavano per entrare nello studio e vedermi. Ho preso il libro, sigillato lo scompartimento e sono sparita prima che potessero vedermi. Ora, chi è che non ha fatto il suo lavoro?» nessuno osò interromperla «Io, che ho infranto tutti gli incantesimi di difesa di quella dannata stanza e ho trovato l'unico oggetto che Cleremont si è degnato di nascondere decentemente? O forse il Terzo Reggimento, che ha sbagliato nell'unico compito che gli era stato affidato, individuare l'ubicazione dei documenti che volevamo? O magari tu, Zar, che ti sei fatto togliere la maschera da una ragazzina e sei stato guardato in faccia da non meno di sette persone? Pensavi davvero che non me ne sarei accorta?!» Gideon, che non l'aveva mai vista perdere le staffe, nascose un sorriso nella sua sigaretta «Qua dentro io sono la sola ad aver svolto efficientemente il suo lavoro e non tollero che mi sia addossata la colpa di un malinteso che non ho creato io!» 
«Forse dovremmo prendere tutti un bel respiro profondo e una tazza di camomilla» propose Nasheeta, in un tono sottile e riverente. 
Per tutta risposta, lo Zar afferrò la bottiglia di whisky incendiario e se la portò alle labbra. 
«Apollo, Sfinge» Kasumi si schiarì la voce ed assunse un'aria diplomatica e calma «Andate pure a guarirvi e riposare. Stanotte stessa io e lo Zar invieremo un gufo all'Ordine e spiegheremo tutta la situazione, che non è assolutamente colpa di nessuno nella nostra squadra. Nei prossimi giorni attenderemo ulteriori istruzioni e procederemo in base alla situazione» 
Apollo annuì e fece per alzarsi, già pronto a smaterializzarsi nella camera d'hotel che condivideva con la sua collega. 
«Kitsune» Nasheeta tentò un sorriso «sarebbe possibile, per me, prendere il libro che hai rubato oggi? Penso che potrebbe essere una fonte inestimabile di informazioni sull'Umbrella Academy. Potrei studiarlo e trarre delle informazioni utili» 
Kasumi considerò l'idea per qualche momento. Avrebbe svolto volentieri lei quel compito, ma non ne avrebbe avuto l'occasione. Non al momento. Non con lo Zar che tentava di affogare i suoi problemi (o se stesso, direttamente) nell'alcol e l'Ordine che attendeva la notizia del loro successo. «Fanne tesoro» si limitò a dire. 
«E se Apollo avesse ragione?» le domandò ancora Nasheeta «Se i documenti che cerchiamo fossero da qualche altra parte a Rosewood?» 
«Significherebbe che è stato tutto vano» la Kitsune storse le labbra in una smorfia seccata «e che la nostra missione è tutt'altro che finita» 

 

 

 

23:34, 21 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 

Numero Uno era accasciato penosamente ai piedi del suo letto, una mano a tenere la maglia alzata e l'altra stretta in una coltre di lenzuola sanguinolente, pressate invano sul basso addome. Invano perché, chiaramente, qualunque fosse l'obiettivo, non stava funzionando. Grumi di sangue si incrostavano ai bordi di cotone, sul polso e sui jeans, mentre sul pavimento si era creata una pozza di un sinistro color vinaccia. Numero Uno stringeva i denti e non staccava lo sguardo dalla ferita, incurante delle ciocche brune che gli ricadevano sugli occhi. Alexis aveva capito che suo fratello era ferito nel momento in cui l'aveva visto sulla scala. Dal modo in cui la gamba destra si irrigidiva ogni volta che la piegava, dalla tensione nelle spalle e i respiri un po' troppo profondi, si era accorto che qualcosa non andava. E la fretta con cui si era congedato, mentre tutti si riunivano in sala, era più che sospetta. 
Ora, Alexis non era esattamente Sherlock Holmes, né un impiccione. Ma l'attenzione ai dettagli e la sottile arte della deduzione erano stati punti fondamentali dei suoi dodici anni di addestramento. Per non parlare del fatto che era un uomo di teatro e suo fratello era un pessimo attore. Quanto al perché avesse seguito furtivamente Numero Uno in camera sua, senza alcun riguardo per cose come la privacy personale che stava invadendo e l'intimità necessaria per un gesto simile, aveva le sue buone ragioni. 
Combinazione perfetta, insomma. 
«Dovresti dirlo a Esme» 
Rigel si voltò bruscamente verso la fonte del rumore, per trovare Numero Nove appoggiato allo stipite della porta della sua camera da letto. Si tirò giù la maglia in tutta fretta, come se potesse nascondere quel buco nero di viscere pulsanti che stava vomitando sangue e pus ininterrottamente da quasi dieci minuti. Per sicurezza, gli rivolse uno sguardo storto e sperò di farla finita il più presto possibile. Non era mai stato un tipo particolarmente espansivo e, anche a capo della squadra dell'Umbrella Academy, le persone avevano continuato a metterlo in soggezione. Soprattutto in situazioni del genere. Soprattutto se era Alexis a guardarlo, con le sopracciglia inarcate e un'aria beffarda. Era stato colto con le mani nel sacco, o meglio nella ferita che minacciava di dissanguarlo se non curata, eppure, come ci si aspettava da lui, Numero Uno non considerò neanche la carta della diplomazia. 
Si limitò a sputar fuori un: «Non sono affari tuoi» 
Scelta sbagliata. Un altro giorno, un giorno qualunque, avrebbe funzionato. La scortesia cruda che usava per allontanare chiunque, in una serata qualsiasi, avrebbe respinto ogni approccio da parte di suo fratello. Ma quella non era una serata qualsiasi. Quella notte, la commovente e temporanea rimpatriata di famiglia che li avrebbe visti un'ultima volta insieme a seppellire il caro patrigno era diventata qualcosa di molto più complesso. Dei sicari magici erano entrati in casa loro, avevano rubato chissà cosa dallo studio del defunto Octavius e avevano danneggiato proprietà e abitanti dell'accademia. In tutto ciò, Rigel aveva detto che se ne sarebbe occupato da solo e poi si era dileguato su per le scale. Come ai bei vecchi tempi. Ma non erano nel duemiladieci, non avevano più quindici anni e, soprattutto, Alexis era stanco di ingoiare bugie. 
«Tecnicamente no» acconsentì, staccandosi dalla porta «Ma qualcosa mi dice che questa tua discrezione sospetta e i tizi che per poco non ci hanno fatto a pezzi poco fa siano legati in qualche modo. Non è per questo che non vuoi farti curare?» 
Rigel strinse in una mano le lenzuola sanguinolente del suo letto sfatto «Non so di cosa tu stia parlando» 
«Io invece penso che tu sappia più di quanto voglia ammettere» Alexis iniziò ad avanzare lentamente verso di lui «E se non vuoi dirmelo, sarò felice di sollevare il problema di fronte agli altri. Ho come l'impressione che troverebbero il tuo un comportamento curioso» 
Numero Uno lo osservò, con malcelato orrore, avvicinarsi ancora di più, invadere un territorio sacro che non aveva mai conosciuto la pressione del piede straniero. Anche quando erano bambini, i suoi fratelli raramente erano stati benedetti dal libero accesso in camera del loro leader, per il semplice fatto che quelle quattro pareti blu polvere erano il massimo della privacy concessa. E il fatto che ora Numero Nove le violasse liberamente aveva più valore di quanto entrambi avrebbero voluto. Ma quella era una partita impari. Lui non poteva ritrarsi. Con la circospezione rabbiosa di un animale in gabbia, Rigel appoggiò la schiena allo scheletro del letto e alzò il mento con quella che lui avrebbe definito grande dignità e che, in realtà, era il contegno degli straccioni ai lati delle strade. La presa morbida sulle lenzuola divenne una morsa di nocche sbiancate e unghie affondate nel palmo della mano. Rigel abbassò lo sguardo, furioso come potevano esserlo un vecchio dio o un mare in tempesta. «Qualunque gioco tu stia giocando» disse «Non ti porterà da nessuna parte» 
Alexis continuò a guardarlo con la stessa espressione indecifrabile. Si era appena riscoperto, insospettabilmente, del tutto indifferente alle velate minacce di Numero Uno. Le trovò, anzi, divertenti. Anche così, costretto a terra da una qualche ferita magica che lo rendeva incapace persino di alzarsi, Rigel non demordeva. Credeva di potersi imporre su suo fratello con un'occhiataccia e un paio di parole vuote. Gli venne da ridere. Magari Numero Uno credeva che non fosse cambiato nulla dai giorni dell'Umbrella Academy, che avrebbe potuto isolarsi nelle sue cripte e parlare a tutti loro come se fossero i suoi soldati, i suoi fratelli minori. Forse credeva addirittura di poter salire sul trono di menzogne e paure artificiali di Octavius. O forse no. Fatto sta che erano tutti cresciuti. E Alexis aveva imparato a conoscere quella lingua di denti digrignati e ringhi animaleschi che suo fratello invece parlava da una vita. E, ora che la conosceva, non ne aveva più paura. 
«Ma davvero?» tirò un altro passo in avanti e inclinò la testa di lato, sfoggiando un sorriso divertito «Perché a me sembra stia già dando risultati» 
«Cosa diavolo-» uno spasmo gli spezzò in due le parole e lo costrinse a piegarsi in avanti, la mano già pressata sulla ferita, le labbra schiuse per inspirare più profondamente. Non appena il respiro fu più regolare, alzò cautamente il volto fino a incontrare lo sguardo di Numero Nove. Era la prima volta che si guardavano negli occhi dopo quelli che parevano secoli. In un'altra vita erano stati fratelli. In questa, sembravano solo bramosi di scannarsi. «Come posso convincerti a tenere la bocca chiusa?» 
«Beh, per prima cosa» Alexis si piegò all'altezza di suo fratello, con espressione pensosa «potresti dirmi chi ci ha attaccato e perché. E poi vorrei che mi spiegassi, di grazia, perché non vuoi farti curare da Esmeralda» 
Rigel rise, di una risata roca e amareggiata «Ti conviene metterti comodo, Lexi» suo fratello si irrigidì visibilmente, ma Numero Uno non ci fece caso «C'è gente che è morta, cercando risposta a queste domande» 
Alexis gli si sedette difronte, a gambe incrociate, e sorrise «Non ti preoccupare. La notte è giovane e io non ho più paura del buio» 










Angolo Autore
Ed eccomi qua. Potete procedere con la lapidazione, questa volta me la merito tutta. Ogni pietra.

D'altra parte, vi confesso che questa quarantena è stata molto meno libera dagli obblighi di quanto sperassi e ho avuto ben poco tempo da dedicare alla scrittura di questa storia. Ero pronto per pubblicare, a dir la verità, a metà aprile, ma mi sono reso conto che ero già un bel po' in ritardo e mi sono detto che, a quel punto, valeva la pena scrivere un capitolo un po' più pieno, così da fare ammenda per il ritardo.
In tutto ciò ho anche avuto problemi con il mio amato pc, che a una certa si è sovraccaricato di file e si è bloccato.
Ad ogni modo, tra università, computer che si blocca e il tentativo sempre presente di tenermi in forma senza uscire di casa, ho rimandato fin troppo la scrittura e la pubblicazione di questo capitolo e ne sono davvero dispiaciuto.
A questo proposito, mi sembra il caso di farvi una domanda: preferireste capitoli lunghi e non puntuali come questo o capitoli più corti ma frequenti?
In fondo siete voi i lettori e siete voi a dover sopportare le mie assenze, quindi mi pare giusto lasciare a voi questa scelta.

In ogni caso, ci rileggiamo nelle recensioni e grazie per essere arrivati fin qui :)



Smaug

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Capitolo 5
*** Capitolo IV: Mezze verità ***


Capitolo IV
Mezze verità
 

 
“«Abbi caro chi cerca la verità
ma sta’ in guardia da coloro che la trovano»”
Voltaire
 
 




 12 giugno 2011, Rosewood (UK), Umbrella Academy 
«Padre, volevi vedermi?» 
La figura alta e ben piazzata di Rigel, che a sedici anni sembrava averne almeno tre in più, si stagliava sulla porta, i capelli tirati indietro e la giacca verde infilata di fretta, una spalla scoperta e la cerniera chiusa solo a metà. A giudicare dalla pelle scolorita e dalle profonde ombre nere sotto gli occhi, doveva aver avuto difficoltà a dormire. Octavius pensò, squadrandolo con occhio critico, che si stava lasciando andare.
Quella mattina aveva trovato in casa, di ritorno da un viaggio di lavoro, una situazione a dir poco bizzarra e nel pomeriggio aveva interrogato tutti i suoi figli circa gli avvenimenti della notte precedente. Tutti meno Rigel. Quanto a lui, nessuno ne sapeva nulla. Anche meglio. Nessuno voleva saperne nulla. Tutti i ragazzi concordavano nel pensare che, certe volte, Numero Uno era meglio lasciarlo stare.
«Numero Otto mi ha spiegato cos'è successo nella scorsa missione» disse, sollevando lo sguardo dalla lettera che stava scrivendo al capo del Dipartimento Auror.,
Rigel incassò la testa nelle spalle e gli puntò addosso un paio d'occhi grigi e lucidi «Padre, io… non volevo che accadesse. Non so cosa mi sia preso, lo giuro»
Octavius non si fece impressionare «Ripetimi con calma cos'è accaduto, Numero Uno. Io sono dalla tua parte, no?» 
Lui annuì e si schiarì la voce tremante «Siamo usciti ieri notte per intervenire in una rapina alla Gringott. C'erano ostaggi, morti e gli Auror stavano facendo un pessimo lavoro. Erano più di quanti pensassi» restò in silenzio per qualche secondo «e quando Numero Otto è stata attaccata, io...» cercò a lungo le parole giuste, abiti bianchi e su misura per un concetto informe e nerissimo «ho perso la testa» 
«Hai avuto uno dei tuoi black out?» indagò Octavius, intingendo appena la penna nel calamaio. 
Numero Uno scosse la testa «Sapevo quello che stavo facendo, ma non lo sapevo» 
Octavius riprese a osservarlo, ora con estrema curiosità, come se d'avanti gli stesse un animale esotico in cattività e non suo figlio in preda a una crisi morale «Puoi dirlo, sai? Non mi spavento mica» 
«Ho...» gli occhi di Rigel erano grandi e spaventati «io ho ucciso un uomo» 
«Ecco, iniziavo a pensare che il gatto ti avesse mangiato la lingua. Ma permettimi di dissentire, ciò che tu hai fatto è stato proteggere tua sorella» lo corresse suo padre.
«Ma questo non cambia niente» mormorò Rigel «Se solo... se avessi avuto la mano più leggera...» 
«Numero Otto sarebbe morta» replicò prontamente Octavius «Numero Uno, alla gente come noi, agli uomini di potere, non è permesso guardarsi indietro. Noi non abbiamo il lusso di filosofeggiare sui "ma" e sui "forse". Capisco i tuoi dubbi» assicurò «e tuttavia non tollero che tu ti metta in discussione» il suo tono si fece severo «Hai quasi sedici anni, non sei più un bambino. Io sono orgoglioso dell'uomo che stai diventando, ma voglio che lo sia anche tu. A volte la violenza è l'unica risposta possibile. Non rifiutare questa verità. Abbracciala e vivi in pace con te stesso» 
Octavius abbandonò la sua postazione dietro la scrivania. Conosceva i suoi soldati. E tuttavia, non si sentiva in vena di rischiare. Non in un momento delicato come quello. Più crescevano, più aumentavano le possibilità che lo disertassero. Questo non poteva permetterlo. Erano situazioni del genere –quando il delicato equilibrio mentale dei suoi ragazzi rischiava di spezzarsi– che determinavano l'allentamento o la stretta della sua presa sulle loro coscienze. Ad Octavius era bastata un'occhiata al suo primogenito per capire che, se quella sera si fosse giocato bene le proprie carte, non avrebbe mai più dovuto temere che Rigel lo tradisse. 
Lo aveva raggiunto in poche falcate, invitandolo ad alzarsi, e gli aveva poggiato una mano sulla spalla nella presa morbida che significava conforto e sicurezza «Gli altri hanno paura ed è bene che ti temano e rispettino, è bene che tremino al pensiero di cosa puoi fare. Ma io e te siamo un'altra cosa» c'era una curva soffice, nel tono della sua voce, a smussare gli spigoli taglienti della coscienza di Rigel «Tu sei mio figlio, la mia eredità su questa terra. Niente potrà mai cambiarlo. E, d’altronde, nessun mostro è degno di tale nome, se amato anche da una sola persona» 
Rigel guardava suo padre come se tutto il suo universo iniziasse e finisse con lui. 
«Sarà il tuo marchio di fabbrica» declamò Octavius, come se fosse una scelta del destino e non sua «La giustizia in fondo dev'essere inflessibile. E tu come lei. Non c’è più motivo di trattenersi, ora che tutti hanno visto chi sei davvero. Da oggi sarai a tutti gli effetti il mio Numero Uno il mio secondo in comando» 
Rigel annuì di nuovo, gli angoli della bocca sollevati nell'ombra di un sorriso, e si concesse qualche altro istante per riscaldarsi di tutto l'affetto e la fiducia che sentiva provenire da Octavius.
Seppe, nelle ossa, che non c'era nessun altro al mondo di cui si fidasse così. Ciecamente. Senza dubbi. Senza discussioni. Senza starci a pensare troppo. Era un assassino, certo, ma importava davvero? Octavius era fiero di ciò che stava diventando e forse, nel profondo della sua anima, nutriva per lui anche una briciola di amore. Forse: l'ipotesi miserabile di un affetto fantomatico. A Rigel bastava. 
Come per paura che suo padre indovinasse il suo flusso di pensieri, si ritrasse e fece per andarsene. 
«Un'ultima cosa, ragazzo» lo fermò Octavius quando era ormai sulla porta «Esmeralda mi ha parlato di uno spettro in giardino»
«Non è uno spettro» la voce di Rigel era ormai alta e sicura «Ieri sera mi seguiva, ma mi ha obbedito quando le ho detto di lasciarmi in pace. È un’ombra familiare, come di qualcuno che ho già visto e non riesco a riconoscere. Non so come spiegarlo» 
«Un'ombra, dici?» Octavius assunse un'espressione meditabonda «Domala. Sarà il primo soldato del tuo esercito» 
Rigel annuì ed uscì dallo studio di suo padre. 
Mentre scendeva le scale, diretto verso il giardino, non lo sfiorò neanche l'idea di raggiungere i suoi fratelli in palestra e spiegare loro la situazione.  Aveva un'ombra a cui dare la caccia e, in ogni caso, non avrebbero capito. 
La crepa che lo separava da loro era all'improvviso un burrone. 
 
 
 
 
 
00:12, 22 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 
«Sì, conosco le persone che ci hanno attaccato»  
Erano entrambi seduti per terra, Rigel appoggiato allo scheletro legnoso del letto e Alexis difronte a lui a gambe incrociate. L'emorragia sembrava essersi fermata e il respiro di Numero Uno si era fatto più regolare. 
«Fanno parte di un'antichissima congrega di sicari magici, al servizio degli uomini più influenti del nostro mondo» stava spiegando Rigel, la voce e lo sguardo bassi «So che alla base c'è un codice che seguono alla lettera, un manuale medievale del giusto e dello sbagliato. Credono nella superiorità del sangue magico e supportarono Grindelwald» 
«Fammi indovinare» Alexis inarcò le sopracciglia «Octavius è riuscito a farli arrabbiare» 
«Ha attirato la sua attenzione» l'espressione sul volto di Rigel si fece ancora più cupa «Dopo che te ne sei andato, l'Umbrella Academy si è... evoluta. Eravamo maggiorenni, era giunto il tempo di dare all'accademia un posto nel mondo. Nel giro di un'estate è cambiato tutto. Abbiamo iniziato a promuovere certe cause» gli scappò una risata bassa e amareggiata «A qualcuno non è piaciuto. Dopo l'estate del diploma, papà iniziò a ricevere minacce di morte. Lo disse soltanto a me. Lui non voleva dare agli altri ragioni per andarsene» 
«E tu naturalmente non ti sei sottratto» commentò Numero Nove, impassibile. 
«Ero il suo secondo in comando» replicò l'altro «Si fidava ciecamente di me. Più di un anno dopo siamo riusciti a trovare qualcosa. A oriente. Bisognava mandare qualcuno a indagare. Papà propose Ezra, ma io non mi fidavo» ammise, con una smorfia irritata a incurvargli le labbra «Sapevo che non si sarebbe separato da Levi per la nostra famiglia. Artemis ce l'avrebbero rimandata indietro a pezzi ed Esmeralda era troppo impulsiva. Avevamo diciotto anni» meditò «Nessuno di noi era pronto per ciò che stava per succedere» 
«Se tu non potevi allontanarti, Ezra si rifiutava e le ragazze non ne erano in grado, allora rimaneva...» Alexis aggrottò la fronte «Caesar?» 
«Era l'opzione migliore» sentenziò Rigel «Numero Tre non amava l'accademia ed poteva difendersi da solo. La missione...» per qualche momento le parole gli si congelarono in bocca «sarebbe dovuta durare un paio di anni al massimo, io pensavo che» ancora una volta, la voce di Rigel si incrinò pericolosamente «sarebbe tornato per le vacanze. Ma ci furono delle complicazioni. Caesar partì in autunno, un paio di giorni dopo il nostro diciannovesimo compleanno. L'ho rivisto per la prima volta ieri pomeriggio» 
Numero Nove sentì lo stomaco annodarsi. Lui, di tutto questo dramma familiare, non aveva mai saputo nulla. Gli venne in mente che se non fosse stato troppo impegnato a dimenticare il mondo magico, se avesse risposto a una di tutte le lettere che Numero Tre gli aveva inviato nel corso degli anni, ora non cadrebbe dalle nuvole. «Che genere di complicazioni?» 
«Tante» rispose Rigel «Il primo anno, speravamo di farlo rientrare per Natale. Ma gli aguzzini di nostro padre tornarono a farsi sentire e Numero Tre rimase in Cina. Quella stessa primavera ci fu un incidente. Era il duemilasedici, vent'anni appena compiuti» si concesse un sospiro profondo «Numero Due rischiò di morire, ma nostro padre riuscì a salvarlo. Dopodiché Hillevi andò via dall'accademia e Numero Due la seguì» 
«E Octavius?» indagò Alexis. Già se lo immaginava suo padre, impassibile nel suo completo formale e nei suoi occhi scuri, troppo impegnato nella gestione del suo impero affaristico per dare importanza alla partenza di altri due figli. 
«Andò avanti» rispose seccamente Rigel «Se si fosse fermato a rimuginare, non sapremmo molte cose. Per esempio che si tratta dell'Ordine dei Cavalieri di Vetro, che chiamano il loro capo Generale, che» Numero Uno serrò le labbra in una linea sottile, come a cercare di far mente lo cale «le loro maschere sono scudi. Li rendono a molti incantesimi mentali. È fondamentale tenerlo a mente quando li combatti» 
«Quindi ho ragione» fece Alexis «Li hai già affrontati» 
«Sì, ma di quelli di stanotte ne conosco solo uno. Lo Zar è stato il primo a tentare di uccidere nostro padre» Rigel si schiarì la voce. «Nell'inverno del duemilasedici, io e papà tornavamo da una conferenza del Winzengamot. Ci hanno attaccati lo Zar e una donna. Non è una bella storia» 
«Se avessi voluto una bella storia, l'avrei chiesta ad Artemis» Alexis gli rivolse uno sguardo spazientito «Voglio la verità» 
«Va bene, la verità» ripeté Numero Uno, più a se stesso che a suo fratello «Quella sera è cambiato tutto. l'Ordine divenne una minaccia concreta. Lo Zar e la Medusa erano lì per ucciderci, senza minacce e mezzi termini. Io credevo di essere all'altezza di entrambi. Per me era un gioco» con le dita della mano destra prese a seguire i contorni delle rune tatuate sul polso sinistro «Per nostro padre no. Quando mi accorsi della situazione, agii in fretta. Loro combattevano con armi bianche incantate, lui aveva dei pugnali e lei una spada, ma non avevo ancora idea di come funzionassero. Al tempo avevo al mio seguito solo tre ombre; tennero fermo lo Zar mentre mi pensavo alla Medusa. Papà era stato ferito, lei gli aveva spezzato un paio di costole ed era sul punto di fare di più e io ero... io ero spaventato. E furioso» alzò gli occhi dal polso fino a quelli di Alexis «Riuscii a disarmarla prima che potesse ferirmi. Lo Zar era ancora nella stretta delle ombre. Avevo vinto. Nell'estasi del momento pensai che dovevo lanciare un messaggio, qualcosa che lasciasse il segno. Mi venne in mente il mito di Perseo e Medusa» Rigel scoppiò in una risata roca e vuota «Lei si distrasse solo un attimo per guardare il suo compagno. Non ho mai capito perché. Si voltò verso di lui con tutto il corpo. Forse voleva... forse voleva raggiungerlo. Fu la sua condanna. Ne approfittai per lanciarle un immobulus, impugnai la sua spada e le tagliai la testa. Poi mi smaterializzai con papà fuori dalla porta di casa. Quella notte» aggiunse «tornarono da me quattro ombre e una di loro aveva in mano la testa di Medusa. Papà ne fu deliziato. Disse che era il pegno della mia lealtà e fece in modo che potesse rimanere appesa in sala trofei fino alla fine del mondo, ma io non so se considerarlo un trofeo, sai? Da quella notte, Artemis non mi guarda più negli occhi e ancora non riesco a capire se sia per disgusto o per paura. Allora» il suo sguardo cercò quello di Alexis, il mento alto ma le labbra pressate in una linea sottile «ti piace la verità?» 
Numero Nove si concesse qualche momento per studiare attentamente suo fratello. Il suo corpo parlava chiaro. Le spalle dritte, gli occhi alzati e la postura rilassata non indicavano alcun segno di vergogna o rimpianto. Anche nel raccontare quella storia così macabra, Rigel traspirava una certa aura che era difficile da definire. Chiamarla "apatia" sarebbe stato riduttivo, eppure sembrava esattamente quello. Non c'era altro modo di spiegare la totale assenza di sentimento nella vicenda che aveva appena narrato, la freddezza contemplativa con cui ne aveva descritto i dettagli più agghiaccianti, il suo perenne sguardo annoiato. Tuttavia, sentiva che c'era di più. In quello strato di gelo, ci si poteva scavare fino a trovare acqua. E Alexis –nella magnanimità della sua immensa empatia, o forse solo attenzione ai particolari– non poté fare a meno di pensare che Rigel doveva aver rivissuto quella sera nei suoi ricordi per anni, che doveva aver avuto davvero tanto tempo per vergognarsi e rimpiangere e maledire, che quel tono assente e quell'atteggiamento apatico erano solo l'ultimo stadio di un percorso sicuramente più lungo e tortuoso di quanto a suo fratello andasse di ammettere. 
Fatte queste considerazioni, si decise a rispondere «Sono stato io a chiederla. Direi che, a prescindere dalla generale idea di bello e brutto, è mio dovere farmela piacere» 
Rigel sembrò contento della risposta. O, perlomeno, non ne sembrò scontento. 
Da lì il racconto procedette più speditamente. Con il tempo i contatti con l'Ordine si erano fatti più frequenti e, soprattutto dopo la dipartita contemporanea di Artemis ed Esmeralda, la situazione era degenerata. Quando, a metà estate di quell'anno, Cleremont Senior si era ammalato, non avevano avuto dubbi. Rigel aveva lasciato suo padre alla cura dei medimagi del San Mungo e si era imbarcato nell'estenuante ricerca di una cura. 
«Non riesco a capire» lo interruppe Alexis, a metà racconto «Se Octavius è morto, come mi sembra che volessero da tempo, perché attaccare di nuovo? Questa casa è stata vuota per anni, perché ora che si ripopola?» 
«Perché nostro padre è chiaramente il primo tassello di un mosaico che loro vogliono far crollare, no?» gli occhi di Rigel si fecero spiritati, il suo tono delirante «Sapevo che sarebbero tornati» attese qualche istante «ma non credevo così presto. Non per cercare dei documenti. A cosa servono, poi, i documenti? Ascoltami, Alexis» lo sguardo febbricitante di Rigel si appoggiò sulla figura di suo fratello «Il loro obiettivo è l'Umbrella Academy. Non nostro padre. Non dei documenti. Tutti noi. Io, te, i nostri fratelli, tutto ciò che è stato Umbrella Academy. Finché uno solo di noi respira ancora, non si fermeranno. Vi ho portati qui» la sua voce si ridusse a un sussurro «perché vi avrebbero dato la caccia. Uno per uno» 
«E perché dovrebbero prendersela con noi?» Alexis aggrottò la fronte, confuso «Non facciamo più parte dell'Umbrella Academy» 
«Te l'ho detto» rispose l'altro in un tono stizzito «Finché avete il suo cognome e ricordate il suo addestramento, siete nell'accademia. Questa è la verità, Numero Nove. Siete tutti in bilico tra questo mondo e l'altro» 
«Stupendo» nella voce di Alexis si fece forte una vena di acidità, il corpo in tensione e la mente in feroce movimento «E quand'è che progetti di dirlo agli altri?» 
«Chi deve sapere, già sa» lo liquidò Rigel «Io e Caesar ci occuperemo di tutta questa storia, ma non voglio coinvolgere nessun altro. Li terrò qui per la sepoltura di papà e per il periodo natalizio. Per gli inizi di gennaio dovrei aver sistemato tutto» 
Le labbra di Numero Nove si piegarono in un sorriso sghembo, una gioia che neanche raggiungeva i suoi occhi e si spegneva nelle sopracciglia inarcate «Conti di fare il lavoro che non hai portato a termine negli scorsi otto anni in tre settimane?» 
Rigel appoggiò la testa al materasso dietro di lui, una mano a stringere le lenzuola e gli occhi chiusi, lunghe ciglia distese sulla pelle. «Questa volta è diverso. L’Umbrella Academy è un’istituzione morente, con già tutti e due i piedi nella fossa. Ciò che è stato non sarà mai più. E se per vendicare mio padre dovrò raggiungerlo dall’altra parte, così sia» per un attimo, sembrò in pace con se stesso «Prima, però, farò sorgere gli Inferi» 
 
 
 
 
1:53, 22 Dicembre 2020, Londra (UK), The Ned 
A casa. Finalmente.  
Nasheeta si concesse di trarre un profondo sospiro di sollievo, nonostante fosse consapevole che la sua bella camera d’hotel –gentilmente condivisa con Apollo– era ben lontana dal poter essere definita in tal modo. Casa sua, in realtà, era molto lontana. Giù a Sud, presso i deserti e le Piramidi, in un borghetto nell'entroterra di cui stava lentamente perdendo le memorie, c’era quella che Nasheeta aveva chiamato casa per decadi. Erano passati soltanto un paio d’anni dall'ultima volta che era stata lì, eppure già le scivolavano via dalla mente i dettagli più blandi. Qual era il nome della signora che viveva nella casetta di fronte alla sua, quella che preferiva le piante grasse alle persone? E il commerciante che ci provava sempre con lei vendeva spezie asiatiche o pesce importato? Chi era stato l’ultimo sindaco? Di che parlava quella macabra leggenda locale che le piaceva tanto? 
Da quando era nell'Ordine, aveva dovuto rinunciare a certe cose. La quotidianità era, per Nasheeta Ayed, l’eco lontana di un mondo dimenticato. E in certi momenti –quando la stanchezza le intorpidiva le membra e le offuscava la mente– provava nei suoi confronti un angoscioso moto di nostalgia. 
«Sfinge!» la raggiunse la voce calda e divertita di Apollo «Sapevo di trovarti accasciata sul letto a rivivere ogni brutto momento della tua vita. Direi che ormai non puoi più sorprendermi» 
Nasheeta si diede il tempo di alzarsi a metà, facendo leva sui gomiti per poter guardare in faccia il suo collega. Staccare gli occhi dal soffitto le sembrò un’impresa titanica. Apollo, invece, pareva del tutto estraneo ai suoi dilemmi. A giudicare dai capelli umidi e dall'accappatoio, doveva essere appena uscito dalla doccia o, molto più probabilmente, dalla vasca da bagno. Per un momento, lo odiò profondamente. Perché mentre lei aveva passato tutta la scorsa ora gettata su un letto a guardare il soffitto con un’aria da miserabile che avrebbe fatto invidia a Jean Valjean, Fantine e tutti les amis de l’ABC messi insieme, Apollo si era concesso una nottata libera da stress e pensieri molesti e ora le sbatteva in faccia la sua serenità mentale in ogni gesto. Chiaramente non gli bastava essere a posto con la sua coscienza. Eh no. Apollo aveva l’impellente bisogno di mettere ogni volta in scena uno spettacolo per comunicare anche il più blando dei suoi sentimenti. 
«Ti è piaciuto il bagno?» gli chiese, in un tono insolitamente acre. 
«Da morire» il sorriso da Stregatto sul volto di Apollo si fece più ampio «Ho acceso un paio di candele profumate alla vaniglia e alla lavanda, mi sono fatto una maschera rinfrescante alla menta e ho usato quello strano sapone che sapeva di peonie. Amo la vita negli hotel di lusso» dopodiché, trasse un sospiro di pura contentezza che fece prudere le mani alla sua amica e si schiarì la voce. 
«Vedo che sei in forma, allora» commentò lei. 
«Mi pare proprio di sì» approvò Apollo «Ma tu, a essere onesti, mi sembri uno schifo. Posso fare qualcosa per renderti felice, Nasheeta cara?» 
«Gideon!» lo riprese la Sfinge, con un’aria oltraggiata «Sai che non dovremmo chiamarci per nome. L’Ordine non approva» 
«L’Ordine non approva tante cose, Nash» replicò lui «Eppure questo non mi ha mai fermato. Oltretutto, chi vuoi che ci senta qui?» 
«Dovremmo comunque essere cauti» continuò lei «Sai bene che al Generale non piace che i Cavalieri stringano rapporti e si conoscano. Ne va della sicurezza della nostra identità privata» 
«Stai proprio diventando pesante» replicò Gideon «Secondo me passi un po’ troppo tempo con lo Zar» 
«Ma cosa dici?» Nasheeta arrossì fino alle punte delle orecchie e distolse lo sguardo «In ogni caso, dubito che dopo stasera avrà granché voglia di starmi attorno» 
Apollo si diresse verso il suo armadio con il volto corrucciato «E perché mai?» 
«Perché questa missione è stata un disastro!» rispose lei, alzandosi definitivamente «E magari se mi fossi impegnata di più, se fossi rimasta al primo piano e avessi messo fuori gioco qualcun altro…» 
«Sciocchezze» la liquidò Apollo, che ora rovistava, indaffaratissimo, tra la sua biancheria «Tentare un approccio con Numero Tre sarebbe stato troppo pericoloso per te e, anche se avessi messo KO qualcun altro, questo non avrebbe impedito la riunione finale di Numero Uno e Numero Tre, né avrebbe aiutato la Kitsune a capire che quei documenti non erano quelli giusti» 
«Lo so» ammise la Sfinge «ma se io-» 
«Nasheeta» la interruppe Gideon, con fare autoritario «Smettila di addossarti colpe che non sono tue. Questa missione era destinata a essere un fallimento, non ti pare? Eppure, tu sei riuscita a liberarti di due dei Cleremont peggiori. Hai idea di quale casino ci sarebbe stato se Numero Quattro fosse stata giù con noi? E, anche senza di lei, a Numero Due sarebbero serviti un paio di minuti per metterci alle spalle, se associato a Numero Tre o Numero Uno. Tu sei stata fantastica» si voltò verso di lei con aria pensierosa «Non lasciare che gli altri ti convincano del contrario» 
A questo, la Sfinge non seppe proprio cosa rispondere. Gideon aveva ragione. La sua tendenza a vivere nella Civiltà della Colpa e il suo ruolo di novellina del gruppo formavano un mix che portava solo disastro. Quando aveva intrapreso quella missione, era ben consapevole che le sue azioni sarebbero state esaminate al telescopio e che ogni suo errore sarebbe stato ingigantito e imbruttito proprio perché era alle prime armi. D’altra parte, però, aveva pensato che con una squadra come quella che il Generale aveva messo insieme, sarebbe stato pressappoco impossibile commettere errori. 
«Grazie» mormorò, infine «per tutto» 
Gideon le rivolse un sorriso che, sotto la luce artificiale del lampadario babbano, le sembrò quasi affezionato. Nasheeta lo osservò gettare a terra l’accappatoio in un paio di movimenti fluidi e indossare i capi che aveva scrupolosamente pescato dall'armadio. Niente di troppo elaborato, chiariamoci; jeans attillati, un maglione bianco a collo alto e scarpe basse. La Sfinge, che da parte sua stava già pensando al suo pigiama di flanella, gli scoccò un’occhiata stranita: «Dove vuoi andare a quest’ora della notte?» 
«Rilassati, Nash» replicò lui, senza neanche voltarsi «Non sono neanche le due, la notte è ancora giovane. E, comunque, faresti meglio a parlare al plurale; non esiste che tu rimanga qui a lagnarti della tua vita mentre io sono fuori a divertirmi» 
«A divertirti dove?» Nasheeta inarcò le sopracciglia «È troppo tardi per andare a cena fuori e dubito che i parchi siano aperti» 
«Il tuo concetto di divertimento mi deprime» Gideon trasse un profondo sospiro e piegò le labbra in una smorfia insoddisfatta «Hai passato davvero troppo tempo con lo Zar, ma conto di rimediare. Ora fammi il favore di metterti qualcosa di socialmente accettabile e poi usciamo» 
«Non lo so, Apollo» 
«Sì che lo sai, Sfinge» ribatté immediatamente il ragazzo «Stanotte ti inizierò allo splendido mondo dei pub babbani di Londra e tu dimenticherai per un po’ tutti i tuoi problemi. Lo sai» la sua voce si fece più quieta, il tono più morbido, mentre le si avvicinava ancora e ancora, fino a starle proprio d’avanti, il volto inclinato verso il basso per guardarla meglio negli occhi «che non posso sopportare di vederti infelice» 
Nasheeta non riuscì a impedirsi di sorridere. «E va bene» concesse «Stanotte ci diamo ai pub» 
Apollo le prese il viso tra le mani e le scoccò un bacio sulla fronte «Ti prometto che non te ne pentirai» 
 
 
 
 
00:17, 22 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 
«Bene» Rigel si raddrizzò dalla sua posizione precaria sul pavimento «Ora puoi ricucirmi» 
Alexis, a gambe incrociate difronte a lui, ebbe il buon senso di apparire confuso «Come, prego?» 
«La ferita» rispose Numero Uno «può essere guarita solo con la medicina babbana» 
«Questo spiega perché hai evitato Esmeralda» 
«Di solito ci pensa Bizzie, però» esitò per qualche momento «lei non è qui. Ma tu sì. Quindi fammi il favore di prendere ago e filo dal secondo cassetto del comodino e di cucirmi» 
«Non lo potrebbe fare una delle tue magiche ombre?» insistette suo fratello. Ora, Alexis Cleremont non era mai stato un amante delle antiche arti manuali babbane, soprattutto considerando che aveva soddisfatto con un colpo di bacchetta gran parte delle piccole necessità quotidiane della sua vita. E, diciamocelo, se si era rifiutato di ricucire un calzino, non c'era neanche una chance che ora, alla veneranda età di venticinque anni, si mettesse a ricucire persone. 
«Nel caso in cui non te ne sia accorto» replicò Rigel «le mie ombre non hanno le mani delicate» 
Alexis assunse un'espressione pericolosamente simile a un broncio «E cosa ti fa pensare che io abbia le mani delicate?» 
«Prendilo come un complimento e non farti pregare» lo liquidò l'altro, alzando gli occhi al cielo «Ago e filo, secondo cassetto del comodino. Ti dico io cosa fare» 
Numero Nove si alzò di malavoglia dal pavimento e ne approfittò per darsi un'occhiata intorno. La camera di Rigel era simile alla sua: stessa grandezza, stessa mobilia in legno scuro, stesso marmo nero sul pavimento, stessa ampia finestra e specchio intarsiato nell'angolo. C'era una sola differenza. Il carattere. Quando era andato via di casa, Alexis aveva portato tutti i suoi effetti personali, lasciando la sua camera da letto spoglia. Non che prima fosse diversa. C'era sempre stata, a bloccarlo dal rendere suo lo spazio che gli era concesso, la paura che Octavius invadesse la sua privacy e vedesse –e disapprovasse– ciò che amava. Rigel non doveva aver conosciuto quel timore. 
Quella stanza diceva più di suo fratello di tutti i suoi ricordi. Gli scaffali della piccola libreria traboccavano di volumi. Sulla scrivania c'erano una dozzina di libri aperti, tra spartiti musicali e alfabeti sconosciuti. Un'intera parete, sulla spalla del letto, era ricoperta di foto magiche. Rigel e Caesar che sfrecciano sulle loro nimbus, i colori contrastanti delle loro Case hogwartsiane in primo piano. Rigel e Artemis che danzano nella sala da ballo dell'accademia, lei in un ampio abito da principessa e lui in smoking, l'uno perso negli occhi dell'altra. Rigel con i capelli corti e un broncio infantile a serrargli le labbra. Rigel, Esmeralda, Caesar e Oliver sorridenti sotto l'insegna di TacoJoe. Rigel che stringe la mano a un uomo dai tratti orientali e un vistoso turbante in testa. Rigel con il braccio affondato in una brocca di biscotti, Esmeralda che gli intreccia i capelli. Rigel nell'ultimo modello, nero e attillato, dell'uniforme dell'Umbrella Academy, accanto a Octavius. Rigel sul porticato di casa, tutto impegnato a pizzicare le corde di una chitarra. E poi Rigel che ride con Caesar, Rigel che legge il giornale, Rigel che duella, Rigel composto ed elegante accanto a uomini in smoking, Rigel che si lascia baciare sulla guancia da Levi, Rigel che prende il sole in giardino con Oliver, Rigel e Artemis con corone di fiori in testa. Rigel. Rigel. Rigel. Rigel. Un mosaico della vita di suo fratello. Un ritratto che Alexis quasi non riconosceva e che mal si sovrapponeva alla sua personale visione. 
«Stai aspettando che muoia dissanguato?» 
Numero Nove si avviò verso il comodino. «Accidenti» commentò, in un sarcasmo passivo «Hai scoperto il mio piano malvagio» 
«Secondo cassetto» lo ignorò Rigel «non confonderti» 
«Perché?» Alexis neanche si sforzò di trattenere una risata «Cosa c’è nel primo, il tuo diario segreto?» 
 Suo fratello si limitò a guardarlo male.
Quando, ago e filo in mano, Numero Nove tornò a sedersi di fronte a lui, si rese conto di non avere idea di cosa fare. Rigel era già steso sul letto e lo guardava con aspettativa. Quell'intera situazione, invece, riportava Alexis ai giorni dell'infanzia, al Protocollo 21. Alla tenera età di dodici anni, i bambini-soldato di Monsieur Cleremont venivano addestrati a reagire alla possibile "caduta in missione", un modo elegante per il concetto terribile di morte, di un compagno. 
Raccapricciante, a dir poco. Perlomeno, però, il Protocollo 21 non comprendeva la cucitura.  
I primi punti furono un disastro. Tra il fiume di imprecazioni che Rigel neanche si sforzava di trattenere e l’evidente nervosismo di Alexis, non poteva accadere altrimenti. Solo a metà dell’impresa, dopo un paio di consigli a denti stretti e il miracolo di una presa più stabile, l’operazione migliorò e si diresse verso la chiusura totale della ferita. 
«Quando lo faceva Bizzie era un po’ più preciso» meditò Rigel, mentre entrambi contemplavano il lavoro finito, per poi aggiungere: «Ma non morirò dissanguato o di infezioni e questo è un traguardo, visto che era la tua prima volta» 
«E da oggi ci impegneremo affinché sia anche l’ultima» lo interruppe Alexis, con un’ironia un po’ affilata «Quanto alle infezioni, vedremo domani mattina» 
«Certo» ripeté «Vedremo domani mattina. Numero Nove,» soggiunse, un angolo di bocca alzato e una strana luce negli occhi «papà sarebbe fiero di come ti sei comportato» 
«Ed ecco che mi hai appena rovinato la serata» ad Alexis sfuggì una risata amareggiata «Andiamo, non fare quella faccia» commentò «Sai che avevamo un rapporto complicato, mentre tu… tu sei sempre stato il suo fedele soldatino di piombo» Numero Nove gli rivolse un’occhiata obliqua e indecifrabile «Proprio non capisco perché tu sia rimasto» 
«Lui era tutta la mia famiglia» fu la risposta infinitamente triste e orgogliosa e quieta «L’avrei seguito anche all'inferno» 
«Ancora non te ne accorgi, Rigel?» questa volta non c’era alcuna derisione negli occhi verdi di Alexis «È esattamente quello che hai fatto» 
Detto ciò, si alzò in piedi e, mormorato un «buonanotte», uscì dalla camera.
Solo allora, Rigel poté chiudere gli occhi e scivolare in un sonno nero quanto la realtà. 
 
 
 
 
10:32, 22 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 
«Ben svegliato!» 
Tony ebbe appena il tempo di aggrottare la fronte, prima che sua sorella gli rivolgesse un sorriso ancora più grande e luminoso di quello precedente. 
«Pancakes o biscotti zenzero e cioccolato?» 
Ora, Antoine era sveglio da meno di sette minuti. 
La scorsa notte aveva dormito bene. Da quella mattina, ragionevolmente, si era aspettato solo calma e tranquillità. Non appena sveglio, infatti, aveva deciso di scendere per una tazza di tè caldo e una passeggiata in giardino. Allontanarsi dall’Umbrella Academy era categorico. Forse un po’ di tempo nel centro della Londra babbana, lontano dagli sguardi indiscreti della comunità magica, lo avrebbe aiutato a superare –o perlomeno dimenticare– la sera precedente. Un bel piano, insomma. Inutile dire che non si era neanche avvicinato alla sua realizzazione. Antoine aveva fatto appena in tempo a mettere due passi in cucina che era stato travolto da quell'insolito uragano di capelli cinerei e grandi occhi turchesi che era sua sorella Artemis. Nel suo abitino svasato bianco anni ‘50 –che proprio faceva a pugni con i pochi gradi dell’ambiente esterno– e tacchi alti, aveva un’aria splendidamente domestica e, suo malgrado, Tony non riuscì a odiarla. Quante mattine, quando erano piccoli, Numero Sette l’aveva accolto in cucina con quello stesso sorriso? 
«Che ne dici se iniziamo da una tazza di tè?» propose, con la voce roca e impastata di sonno di chi si è appena svegliato. 
«Tè, ma certo» approvò Artemis. 
Tony la osservò muoversi ai fornelli con una grazia che la faceva sembrare una veela o la fata di una qualche fiaba babbana, agitare la bacchetta in un movimento leggiadro per mettere l’acqua sul fuoco e poi voltarsi verso di lui nello svolazzare sempre più irritante e grazioso del suo vestito. Sua sorella pareva la visione di una scorsa vita. Quasi aveva dimenticato quanto il mattino la mettesse di buon umore. O come le stesse bene l’apron celeste con i fiorellini bianchi. O il modo in cui la sua voce ricordava un cinguettio gentile. O tutto. Sì, probabilmente aveva dimenticato tutto. 
«Da quant'è che sei in piedi?» le domandò, con un sopracciglio alzato. 
«Ore» rispose lei in un sospiro melodrammatico «Ma sei arrivato giusto in tempo. Caesar dovrebbe rientrare a momenti dalla sua corsa mattutina, Esme ha promesso di scendere dopo la doccia e Oliver implora altri cinque minuti da almeno un’ora, ma Ezra lo butterà giù per le scale, se necessario» 
La situazione si faceva sempre più scomoda «Facciamo tutti colazione insieme?» 
«Ovvio» rispose Artemis. 
«Io in realtà avevo altri piani, sai?» azzardò, con fare vago «Quindi se per te va bene comunque, faccio colazione al volo e…» 
«Ma Tony!» 
Eh sì. Quello proprio l’aveva dimenticato. Quello sguardo da cane bastonato –tutto occhioni grandi e tristi e lunghe ciglia sfarfallanti e angoli abbassati delle labbra– se l’era proprio scordato. 
«È una colazione tutti insieme!» continuava Artemis «Non avrebbe senso se tu non ci fossi!» 
«Non ci saremmo tutti a prescindere» provò a ribattere lui «Non hai proprio menzionato Alexis, no?» 
«Alexis si è chiuso a chiave in camera» fu la risposta di Numero Sette «Per ora ho preferito dargli un po’ di privacy, ma nulla mi fermerà dal bussare finché non si alza» 
«E Rigel?» tentò ancora Tony «Minaccerai di molestie anche Rigel?» 
«Non essere sciocco» lo liquidò lei, versando un po’ di tè caldo in una tazza «Rigel non ha mai saputo resistere ai miei biscotti zenzero e cioccolato; scenderà. Vedi, Tony, in fondo non è cambiato poi molto dai tempi in accademia» concluse con un sorriso di miele, mentre gli si avvicinava «Vi ho ancora tutti in pugno» 
Numero Cinque accettò la tazza di malavoglia e mise su un’espressione ben poco felice, per uno che sta per partecipare a un’allegra colazione in famiglia. D’altra parte, come biasimarlo? Non era stupido. Sapeva che la colazione era un mezzo per un fine ben preciso. Come ogni cosa all’Umbrella Academy, tra l’altro. Quale fosse il fine in questione non gli era dato saperlo, ma era più che sicuro che l’avrebbe scoperto molto presto. 
Proprio in quel momento, faceva capolino dalla porta della cucina Numero Tre. Caesar alle dieci di mattina pareva appena uscito da un catalogo babbano di sport, con quello sguardo un po’ troppo felice e quella tuta firmata che lo facevano sembrare un personal trainer alle prese con clienti difficili. 
«Allora, dov’è il resto della brigata?» chiese, senza salutare nessuno «Che ci crediate o no, ho una fame da matti» 
«E quando mai…» fu il macabro commento di Tony che, difronte allo sguardo tradito di Numero Tre, si affrettò a correggersi: «Volevo dire, quale insolita occasione, fratello mio!» 
«Invece di perdere tempo, datemi una mano» li interruppe Artemis «Chase, va’ a svegliare gli altri. Oliver e Alexis stanno ancora dormendo, ma anche qualcun altro è in ritardo. Tony, tu invece mi aiuti a portare la colazione in sala da pranzo» 
«Sarò un lampo» promise Caesar con un sorriso, per poi fermarsi un attimo e rivolgerle un’espressione confusa «Quale sala da pranzo?» 
«Quella dell’ala est. A quest’ora ci sarà più sole» 
Senza chiedere ulteriori spiegazioni, Numero Tre sparì e Artemis colse l’occasione per deporre tra le braccia di suo fratello un vassoio di brownies, prendere tra le sue i pancakes e incantare il resto delle portate della colazione –un corteo pressappoco infinito di bicchieri, biscotti, piatti, posate, coppe di porridge, muffin salati e uova– perché la seguissero. Tony pensò che quella domesticità la vestiva bene. A quanto aveva capito la sera prima, gli scorsi cinque anni erano stati solitari per lei e non poté fare a meno di sentirsi un po’ in colpa. D’altra parte, sapere che anche quello era uno spettacolino lo innervosiva. 
«Allora» resistette fino al loro arrivo in sala da pranzo, prima di aprir bocca «fingerai di non avere doppi fini per un altro po’?» 
Il sorriso di Artemis vacillò per un attimo soltanto «Non so di cosa parli» 
«Invece sì» insistette Tony «E se devo recitare bene la mia parte, voglio sapere la fine della storia» 
«E va bene» cedette lei, iniziando a sistemare le varie portate sul tavolo «Ieri notte, quando tu eri già andato a dormire, Esmeralda mi ha detto che lei e Caesar volevano riferire subito a Rigel la loro decisione di tornare ufficialmente nell’Umbrella Academy. E tu sai com'è Numero Uno…» 
«No, non lo so» Tony, ormai libero dal suo carico di dolci, le rivolse uno sguardo severo «Dimmelo tu, Mr. Freud. Com'è Numero Uno?» 
«Beh, lo sai… lui è un tipo un po’ difficile quando si parla di rapporti interpersonali e affari di famiglia» 
«E quindi cosa?» la incalzò Numero Cinque «Avete deciso di corromperlo con il cibo? È questo il tuo piano geniale per… cosa, poi? Salvare Numero Uno dal suo auto-isolamento forzato? Proteggere il mondo esterno da quella catastrofe di Caesar?» 
«Sai che la situazione è più complicata» Artemis ancora si rifiutava di guardarlo negli occhi e preferiva sistemare tovaglioli e tazze di tè «Rigel ha vissuto in modo traumatico la fine dell’Umbrella Academy e potrebbe reagire male all'idea di due ritorni così improvvisi, quindi abbiamo pensato che una bella colazione in famiglia gli avrebbe ricordato i vecchi tempi e l’avrebbe reso più incline all’idea, capisci? E poi» concluse «Caesar approva» 
«E da quando l’approvazione di Caesar è una cosa positiva?» replicò Tony in un sarcasmo incredulo. 
Solo a quel punto, lei alzò lo sguardo dalla tavola per rivolgergli un’occhiataccia «Il piano è in porto. Sii carino e mangia tutto quello che ti metto nel piatto, okay?» 
Difronte a quel tono imperioso e quello sguardo inflessibile, Antoine si sentì di nuovo un ragazzino nell’Umbrella Academy, alla disperata ricerca di comprensione e riparo dal costante dramma familiare. Una sensazione, inutile anche dirlo, del tutto sgradita. Si decise, comunque, a non protestare e prese posto a tavola. 
Di lì a poco, arrivarono tutti. Per prima Hillevi, odiosamente allegra per la mattina. Poco dopo Ezra e Alexis, paradossalmente a proprio agio nel silenzio tra loro. Subito dopo Esmeralda e Oliver, entrambi più che pronti a fiondarsi sulla colazione e messi in riga da un’occhiata di Numero Sette. Infine, l’uno raggiante e l’altro tranquillo in un modo quasi spaventoso, arrivarono in sala Caesar e Rigel. Artemis rivolse loro un sorriso radioso e finalmente concesse agli altri di sedersi e iniziare a mangiare. 
Tony non mancò di notare che, nella decadente ironia familiare, tutti avevano preso i vecchi posti dei tempi dell’Umbrella Academy. Quasi tutti, in realtà. La fila di destra era completamente scalata. Gli ci volle un momento per capire cosa fosse successo. La sedia di Octavius –quella a capotavola, con lo schienale più alto e più intarsiato– era occupata. Da Rigel. Se quella fosse una mossa di potere o di insicurezza, non seppe dirlo. Eppure era ovvio, no? Sarebbe successo, prima o poi. Comunque, tra lo scalo della fila di destra e la prima sedia a sinistra del capotavola –che era appartenuta e ancora apparteneva a Bizzie– tristemente vuota, quella colazione in famiglia aveva tutti i presupposti per un disastro. 
«Dio» la voce di Esmeralda lo riportò alla situazione presente «Mi è mancata la colazione a tema internazionale» 
«Lo dici a me?» Caesar non aveva perso a riempirsi il piatto di qualunque cosa avesse attorno, talvolta sfruttando i suoi fratelli per avviare una catena di trasporto che attraversasse l’intero tavolo «Ho mangiato noodles, ravioli e creme di riso a tutti i pasti per gli scorsi sei anni della mia vita. È stato il ricordo di queste colazioni a mantenermi sano di mente» 
«Allora ha fatto un pessimo lavoro» commentò Alexis, nascondendo un mezzo sorriso nella sua tazza di tè. 
«Quoto» lo assecondò immediatamente Oliver «Avete notato che da quando è tornato ogni tanto fissa il vuoto con degli occhi da pazzo?» 
Hillevi si voltò subito verso di lui «Pensavo di essere l’unica ad essersene accorta» 
«In Siberia le donne lo trovano molto attraente» replicò Caesar «Che ci crediate o no» 
Esmeralda scoppiò a ridere «A me sembra una pessima scusa per la tua nascente psicosi, fratellino» 
«E va bene. È un complotto» Numero Tre si guardò attorno con un’espressione contrariata «Per ora annegherò la mia profonda delusione nei vostri confronti nel mio caffè macchiato, ma non dimenticherò» 
«E noi non ci aspettiamo che tu lo faccia» borbottò Alexis, memore di tutte le volte in cui Caesar aveva rinvangato eventi imbarazzanti della loro infanzia, spesso e volentieri d’avanti a un pubblico. 
«Parliamo di qualcos'altro!» propose Artemis, versandosi una generosa quantità di tè verde nella sua graziosa tazzina di porcellana «Per esempio, non sarebbe carino se ci fermassimo tutti per il periodo natalizio?» 
Pessima mossa. Sulla sala scese immediatamente un silenzio scomodo. Artemis vide, con la coda dell’occhio, Rigel irrigidirsi e rivolgerle un’occhiata circospetta, mentre Tony si sistemava, a disagio, sulla sedia ed Alexis si riempiva la bocca di nova e bacon nella speranza di non essere interpellato. Gli altri rimanevano zitti. Per un momento li odiò tutti. Poi si ricordò che era stata lei a parlare e che forse si aspettavano che perseguisse da sola nella sua crociata. 
«Voglio dire, non mi pare una brutta idea» continuò, a voce più alta e sicura «Soprattutto considerando quello che è successo la scorsa notte, la lettura del testamento di papà, Bizzie che ancora non si vede, penso che ci farebbe bene stare un po’ insieme e sciogliere tutti i nodi della nostra famiglia» 
«A me sembra una grande idea» approvò Caesar «In fondo questi giorni, se chiudiamo gli occhi e prendiamo un respiro profondo e fingiamo che ieri notte non abbiano cercato di ucciderci tutti, sono stati piacevoli. Insomma, io…» gli parve il momento adatto per giocarsi l’invincibile carta del senso di colpa «io non vi vedo da sei anni, qualcuno anche da più tempo, e mi renderebbe infinitamente triste trascorrere così poco tempo insieme, ora che possiamo» 
«Mi sembra assurdo anche dirlo» Oliver si passò una mano tra i capelli verdi «ma Caesar ha ragione. Quando ci capiterà di nuovo di stare tutti a casa? Potrebbe essere l’occasione giusta, dopo tutti questi anni» 
«Sapete che odio essere sentimentale» Esmeralda si portò una ciocca di ricci neri dietro l’orecchio e stese le labbra in una smorfia tesa «e che di solito non dico queste cose, però mi siete mancati. So che avete tutti delle nuove vite e che l’Umbrella Academy non tornerà mai quella che era prima, ma sarebbe davvero così atroce passare il periodo natalizio insieme? Poi ci separeremo e tornerete tutti ai vostri lavori e alle vostre vite, ovviamente» il suo sorriso si fece un po’ più dolce «Natale è sempre stato un periodo magico a Rosewood» 
«Vi ricordate il ballo di gala di Capodanno?» chiese Artemis, in quel suo caratteristico tono sognante. 
«Io mi ricordo soirèes di gala tutte le sere, in realtà» replicò Alexis «Ma solo dopo aver passato il pomeriggio a sgobbare in palestra» 
Numero Sette non parve neanche sentirlo «Era così bello sistemarsi e passare la serata a ballare il waltz e-» 
«Vedi di parlare per te» la interruppe Tony «Ci sono davvero poche cose in vita mia che ho odiato più del waltz» 
«Beh, sì» approvò Oliver «Diciamo che, se dovessimo restare, non lo faremmo per le serate di gala» 
«In effetti il waltz aveva i suoi pro e contro» Caesar si schiarì la voce «ma dovete ammettere che lo smoking mi stava una favola» 
Alexis scoppiò a ridere e gli rivolse uno sguardo scettico, tutto sopracciglia inarcate e occhi sottili «Dici così solo perché non ricordi come stava a me» 
«Vi ricordate quell'abito da principessa che papà mi regalò quando avevamo sedici anni?» domandò Artemis, a nessuno in particolare. 
«Ti stava benissimo» Hillevi, che fino ad allora si era tenuta dignitosamente in silenzio, non riuscì a trattenere un sorriso affettuoso «E dobbiamo ammettere che papà aveva buon gusto, quando si parlava delle sue serate di gala» 
«Io ricordo solo che Bizzie ci metteva una vita a sistemare i capelli di Rigel» si lagnò Oliver «e non faceva mai in tempo ad aiutarmi con la cravatta, quindi doveva pensarci Levi» 
«Non è colpa mia» borbottò Numero Uno «Papà diceva che erano troppo disordinati» 
«Beh, se te li fossi tagliati» suggerì Caesar, a mezza voce «avremmo evitato un sacco di problemi negli ultimi cinque anni dell’Umbrella Academy» 
Rigel, per tutta risposta, gli scoccò un’occhiata omicida. 
«In ogni caso, giacché siamo sull'argomento» Ezra si schiarì la voce «qualcuno sa dov'è Bizzie?» 
Tutti gli occhi tornarono su Numero Uno, che, da parte sua, ebbe la decenza di lasciar stare i biscotti allo zenzero e darsi un contegno. Sicuramente doveva essersi aspettato una domanda del genere, perché la sua risposta fu automatica e atona, come quella di un copione recitato male. «Al momento Bizzie è impegnata con una commissione che riguarda strettamente l’Umbrella Academy. Quindi, per quanto mi dispiaccia» aggiunse, con la faccia di uno che non è per niente dispiaciuto «sono questioni riservate» 
«Ma sta bene, vero?» insistette Levi, con aria apprensiva. 
Rigel sembrò quasi offeso da quell'insinuazione «Non manderei mai Bizzie in missione senza una scorta adeguata» 
«Quindi non sai se stia effettivamente bene» Ezra aggrottò la fronte. 
«E cosa diavolo intendi con “una scorta adeguata”?» continuò Alexis. 
«Intendo che non sono affari vostri» li liquidò Rigel «e che non dovete preoccuparvi. Se non fossi del tutto sicuro che nessuno possa anche toccarla, non starei qui a chiacchierare con voi» 
Gli altri sembrarono in qualche modo soddisfatti di quella risposta e, per qualche momento, la situazione parve tornare normale, tra chi si versava da bere e chi si riempiva nuovamente il piatto. Artemis, per quei dodici secondi di gloria, pensò che si stesse venendo a creare l’atmosfera giusta per l’effettiva messa in atto del suo piano e che, tra i biscotti zenzero e cioccolato e una dose abbondante di caffè nero, Rigel sarebbe stato dell’umore adatto. 
Poi arrivò la domanda. 
«Giusto per intenderci, Numero Uno» ancora una volta, a parlare fu Ezra «hai intenzione di dirci chi erano i tizi che ieri hanno imbavagliato me e Levi, distrutto il salotto e quasi sterminato l’intera famiglia mentre tu facevi yoga nelle cripte?» 
Rigel parve pensarci per qualche secondo, mentre contemplava con aria pensierosa il brownie che aveva in mano, prima di guardare suo fratello dritto negli occhi, scoccare un «No» secco e tornare a mangiare. 
Esmeralda inarcò le sopracciglia «Come, prego?» 
«Mi sembra di essere stato chiaro» rispose con nonchalance Numero Uno «Non ve lo dirò» 
«Rigel» lo ammonì Caesar, con uno sguardo che non ammetteva repliche «Devi loro una spiegazione» 
«Tu sai?» esclamò Esmeralda, scandalizzata «E non me l’hai detto?» 
«È una situazione complicata» si giustificò Numero Tre «e comunque non spettava a me dirlo» 
«Rigel, so che deve essere difficile per te e che ti sembrerà assurdo vederci piombare tutti a casa e pretendere di essere messi al corrente di tutti gli affari dell’accademia» disse Hillevi, voce pacata e sguardo gentile «ma è giusto che noi sappiamo, almeno in parte, cosa sta succedendo» 
«Non c’è bisogno di dire tutta la storia o di rivelare ogni dettaglio» la appoggiò Oliver «ma sarebbe bello sapere se torneranno e cosa volevano da noi» 
«Sono nemici dell’Umbrella Academy» rispose Numero Uno «Ieri hanno fatto irruzione in casa per cercare dei documenti di nostro padre. Capisco che possa essere stato traumatico, per qualcuno di voi, e mi assumo tutta la responsabilità per non averli intercettati subito, ma…» esitò per qualche istante, in cerca delle parole adatte «hanno fallito su tutta la linea. I documenti sono ancora in mio possesso e voi siete tutti vivi e, comunque» aggiunse in fretta, d’avanti all'espressione allibita di Artemis e quella ben poco convinta di Tony «non c’è pericolo. Sono venuti qui perché savevano l’effetto sorpresa e, ora che sanno che io so, non torneranno.  Quindi se volete…» si schiarì la voce e abbassò lo sguardo «se volete rimanere, potete. Non vi accadrà nulla di male. Vi proteggerò io» 
«A me» Oliver gli rivolse un sorriso a trentadue denti «questo sembrava proprio un invito» 
«Direi che per ora può andare, la spiegazione» decretò Ezra, scrutando suo fratello con uno sguardo sospettoso «anche se devo ammettere che è più vaga di quanto sperassi» 
«Confidiamo che, quando la situazione si evolverà» aggiunse Levi, sorseggiando il suo tè nero con una grazia che faceva invidia alle buone maniere di Artemis «ci terrai informati» 
«Mi dispiace, per non posso dirvi altro» sentenziò Numero Uno «E comunque non ci sarà bisogno di ulteriori aggiornamenti. Me ne occuperò io» 
«Noi» lo corresse Caesar «Non ho intenzione di abbandonarti. Abbiamo iniziato questa cosa insieme e la finiremo insieme. Io e te, Rigel. Ce ne occuperemo noi» 
«Non posso chiederti questo» c'era una certa esitazione nel tono di Numero Uno «Sei stato anche troppo tempo nell’Umbrella Academy. Va’, vivi la tua vita fuori da queste mura e dimenticati di aver mai avuto una famiglia. Questo è ciò che hanno fatto gli altri ed è giusto che ne abbia il diritto anche tu» 
«Ho passato sei anni a fare avanti e indietro tra la Siberia e la Cina, Rigel» la voce di Caesar si fece d’un tratto pesante e triste «In tutto quel tempo, non ho mai pensato, neanche una volta, di andarmene. Era la mia missione. L’Umbrella Academy necessitava dei miei servigi. La mia famiglia aveva bisogno di me. Per tutto quel tempo, tu sei stato l’unico contatto che avessi con il mondo e il mio solo pensiero era quello di resistere e di impegnarmi affinché l’operazione finisse presto perché soltanto così sarei potuto tornare a casa. E ora mi stai dicendo che dovrei andarmene?» 
«Non ho detto questo» rispose Rigel, con una pazienza insolita «Dico solo che non devi sentirti obbligato a restare, per me o per qualsiasi altra ragione. Là fuori c’è un mondo di possibilità che-» 
«Che posso tranquillamente avere anche qui» lo interruppe Caesar «A meno che tu non decida di mettere un coprifuoco e di impedirmi di andare da Starbucks» 
«Star-cosa?» Numero Uno parve ancora più confuso di prima. 
«Come immaginavo» per tutta risposta, Caesar alzò gli occhi al cielo «Là fuori ci sono tante cose che amo. C’è la cucina cinese e la nuova scena hardcore punk e le macchine e le discoteche e i frappuccini al caramello e i lounge bar e le ragazze in bikini e– no, non fare quella faccia» si interruppe, difronte all'espressione per niente convinta di Numero Uno «si vede che non hai visto abbastanza ragazze in bikini. Ragazzi» aggiunse, rivolto agli altri «Appoggiatemi» 
Ezra scoccò un’occhiata a Levi e finse di bere il suo ormai inesistente caffè. Tony inarcò le sopracciglia e si risparmiò un commento acido un po’ per amor del quieto vivere e un po’ perché erano ancora a colazione: la giornata era appena iniziata e ci sarebbe stato tanto tempo per battute sarcastiche. 
«Non guardare me, Caesar» Alexis aveva addosso quel sorriso beffardo ed enigmatico –un angolo alzato delle labbra, occhi verdi e assottigliati dal divertimento, come a una battuta che capisse solo lui– che, a distanza di anni, continuava a vestirlo splendidamente «Nel caso in cui il freddo ti avesse danneggiato la memoria, io sono gay. Le ragazze in bikini non hanno potere su di me» 
«Oliver?» 
«Non lo so, Che» Oliver si accarezzò il mento con una mano, in quella che lui avrebbe definito un’espressione meditabonda «Mi conosci, io sono un tipo romantico» 
«Oliver!» la voce di Numero Tre si faceva man mano più esasperata. 
«E va bene!» si arrese Numero Sei «Le ragazze in bikini hanno il loro fascino, ma io non le metterei in competizione con i frappuccini» 
«In qualità di ragazza in bikini» si intromise Esmeralda, sfoggiando il suo sorriso più radioso «mi sento di dissentire. Noi ragazze in bikini siamo uno spettacolo» 
«Grazie» Caesar trasse un sospiro di sollievo «Stasera cambierò il mio testamento: tutti i miei coupon e le mie promozioni da Starbucks saranno tue alla mia morte. Ciò che però volevo dire prima» soggiunse, tornando a rivolgersi a Numero Uno, che lo guardava come se fosse un barbone delirante ai lati della strada «è che là fuori ci sono tante cose che amo e che, tuttavia, non mi saranno precluse se rimango qui con te. Ma se vado via, se ricomincio da capo e mi lascio l’Umbrella Academy alle spalle, so che dovrò rinunciare all'unica cosa di cui non posso fare a meno: la mia famiglia» 
Levi gli poggiò una mano sulla spalla e si risparmiò qualsiasi altra parola. 
Quello era un momento che non le apparteneva. E lo sapeva bene. Tutti lo sapevano. Nei vent’anni che aveva trascorso all’interno dell’Umbrella Academy, poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui Caesar si era mostrato così vulnerabile e d’avanti a così tante persone. A dir la verità era anche piuttosto sorpresa del fatto che Rigel non avesse spostato la conversazione altrove. Inutile dirlo, neanche lui era un amante del sentimentalismo. Le sembrò di star assistendo a un evento epocale. E quello, in fondo, lo era. 
«Avrei voluto dirtelo appena sono arrivato» stava continuando Numero Tre «Ma non mi sembrava il momento adatto. E poi ho parlato con Esme e ho capito che era una decisione importante che meritava la sua dose di riflettori» 
Rigel rivolse ad Esmeralda un’occhiata circospetta, ma non parlò. 
«È un’intenzione che ci accomuna» spiegò lei, nel tono cauto che si usa con i bambini e con gli animali diffidenti «Ho trascorso gli ultimi tre anni in giro per il mondo. Ho visto quello che volevo vedere, provato un nuovo stile di vita e cercato di inserirmi in una comunità che trovavo adatta alle mie esigenze. Ma sono arrivata alla stessa conclusione di Caesar. Te l’ho detto ieri ed ero seria a riguardo; voglio rimanere qui» 
«E io voglio ricordarti» la voce di Rigel era ancora più cauta della sua «che sei stata tu a scegliere di andartene. Nessuno ti ha obbligata» 
«Ma devi ammettere che era una situazione particolare» si intromise Artemis «e che nel suo caso si parla di una decisione un po’ influenzata» 
«Se n’è andata» ripeté Rigel «È l’unico dato che conta» 
«Sì, lo so» cercò di dire Numero Otto «ma-» 
«Perché dovrei volerti di nuovo in accademia?» la interruppe Rigel. 
«”Volerti”?» Hillevi non riuscì a trattenersi dal parlare, più confusa che mai «Da quando c’è bisogno della tua autorizzazione?» 
«Da quando nostro padre è stato ucciso e il controllo degli affari di famiglia è passato a me» rispose lui, più secco del solito «Vi siete già dimenticati chi è Numero Uno?» 
«Come se fosse possibile» commentò acidamente Ezra, impassibile difronte alle occhiatacce di suo fratello. 
«Siamo davvero tornati alla gerarchia dell’Umbrella Academy?» nella voce di Alexis si sentiva forte una nota di impazienza «Pensavo che a questo punto avessi capito che il mondo non è diviso in bianco e nero» 
«E a te cosa importa della nostra famiglia?» replicò Rigel, gelido «Conoscendoti, sei qui solo per il testamento» 
«Rigel, sii ragionevole» provò a fermarlo Caesar «E concentrati sulla questione principale» 
«“Conoscendoti”?» il tono di Numero Nove si fece pericolosamente sarcastico «Se pensi che io sia qui per la mia parte di eredità, allora non mi conosci poi così bene come credi» 
«Ragazzi, calmiamoci!» Hillevi prese un profondo sospiro esasperato «Esme non si è ancora spiegata e penso che dovrebbe avere almeno questo diritto» 
«Grazie, Levi» Esmeralda si sforzò di sorriderle, ma la sua era una gioia artificiale «Ciò che volevo dire è che mi prendo la completa responsabilità di quello che ho fatto cinque anni fa. È vero che mi trovavo in una situazione difficile e che avrebbe potuto essere risolta in altri modi, ma mi sono trovata con le spalle al muro e ho dovuto scegliere tra lealtà cieca e indipendenza. Non mi pento della scelta che ho preso» esitò per qualche secondo «Se fossi rimasta nell’Umbrella Academy, all'oscuro di quello che accadeva e del tutto impotente, me ne sarei pentita per sempre. Invece ho avuto il tempo di crescere e di capire cosa voglio dalla mia vita. Non ti biasimo se non ti fidi di me e se ti chiedi se sia giusto farmi tornare, ma voglio che tu sappia che questa che faccio ora è una scelta consapevole» 
«Andiamo, Rigel» insistette Caesar «Immagina come sarebbe se fossimo in tre all’accademia! Potremmo essere il trio brio, i tre moschettieri, i tre Cleremont! Nelle lettere» soggiunse in un tono più serio «mi dici delle cose» 
«Quelle lettere dovevano rimanere tra me e te, non è così?» Numero Uno serrò le labbra in una linea sottile di nervosismo. 
«Sì, lo so» rispose Numero Tre «ma rimarrei molto deluso se non prestassi fede a quello che mi dicevi. Esme merita una seconda chance. Come l’Umbrella Academy» 
«Se torni» Rigel si rivolse direttamente a Esmeralda, come se potesse capire, solo guardandola, se fosse degna dell’accademia «voglio essere sicuro che non te ne andrai mai più» 
«Certo che no» si affrettò ad assicurare Numero Otto «Non te ne parlerei, se non fossi sicura di questa decisione» 
«Caesar?» 
Numero Tre si schiarì la voce «Garantisco per lei» 
«Allora ci conviene darci una mossa» concluse in un sospiro, alzandosi da tavola «Abbiamo molto di cui parlare» 
Esmeralda e Caesar lo imitarono, scambiandosi un’occhiata complice, la prima prendendo un ultimo sorso di tè e il secondo portando con sé il vassoio -ormai quasi vuoto- di biscotti. Rigel, da parte sua, non sprecò altro fiato e si diresse verso una meta ignota, certo di essere seguito e, in qualche modo, sollevato dalla presenza dei suoi fratelli dietro di sé. 
Non appena se ne furono andati, Ezra si schiarì la voce e si alzò anche lui da tavola «Penso che per oggi abbia abbastanza vissuto abbastanza dramma familiare. Andrò a cercare un po’ di pace in giardino» 
«Vengo con te» Levi sistemò distrattamente la sua disordinata crocchia blu e ripose a posto la sua sedia «Avrei proprio bisogno di un po’ d’aria fresca» 
«Io invece ho bisogno di nicotina» esclamò Alexis, una volta che i due se ne furono andati. Stava già pescando dalla tasca dei jeans un pacchetto di sigarette, quando si accorse dello sguardo scandalizzato di Artemis e di quello divertito di Oliver «Avete ragione, si deve essere sempre aperti alle alternative…» disse, rivolgendo loro un sorriso tutto denti «quindi se qualcuno ha della tequila o del rum, sappiate che non mi dispiacerebbe un po’ di caffè corretto» 
«Non giudicherò le tue scelte di vita» replicò Artemis, chiaramente in imbarazzo «ma ti vorrei pregare di non fumare in casa. Non sopporto l’odore di quei veleni babbani e trovo ingiusto condannare noi persone sane al fumo passivo» 
Numero Nove, che aveva già una sigaretta tra le labbra, si limitò ad alzare le spalle e imboccare l’uscita della sala. 
Solo quando fu sparito anche lui, Oliver diede un’occhiata al tavolo semi-deserto e sospirò «E rimasero in tre» 
«Tre» ripeté Artemis, con un sorriso che prometteva disgrazie «Il numero perfetto per sparecchiare, non trovate?» 
Per qualche istante ci fu silenzio, poi Tony borbottò: «Dannazione». 
Insomma: colazione da Buckingham Palace, dramma familiare e fuga tattica. 
Classica mattina all’Umbrella Academy.
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autore
Okay, ammetto di star diventando prevedibile. Già vi immagino mentre mi deridete. Ma guarda te, dirai tu -lettore comune-, quel tontolone di Smaug ha il blocco dello scrittore una settimana e il computer rotto l’altra, e poi se ne esce con capitoli lunghi che a nessuno va di recensire!. Sì, lo so. Dovrei aggiornare più regolarmente. Lo dico ogni volta e ogni volta fallisco miseramente nei miei intenti. Fossi in voi farei una colletta per mandarmi dal terapista perché qualche problema ce l’ho di sicuro.
La cattiva notizia è che sono lento a imparare. Quella buona è che ho già pronto il prossimo capitolo e lo pubblicherò la prossima settimana! La verità è che mi sono fatto un esame di coscienza e ho capito che sono troppo vecchio per non riuscire a seguire una tabella di marcia nella scrittura, quindi speranzosamente vi trovate difronte a uno Smaug nuovo di zecca, con ottimi propositi e un buon approccio alla vita.
In tutto ciò, Gideon e Nasheeta si godono la gioia dei liberi assembramenti in discoteca in un mondo senza covid, la Kitsune e lo Zar si prendono una giornata di meritatissime ferie pagate e la vita in casa Cleremont diventa il terrificante incrocio tra una partita di Monopoly con i parenti e la terza stagione di Game of Thrones. Uno spasso, insomma, da scrivere e spero anche da leggere.
Sempre a proposito della scrittura -e giuro che dopo questa cosa non vi piago più- mi rendo conto di aver scritto un altro capitolo piuttosto lungo, ma vi giuro che ho cercato di limitarmi e di mantenere il mio standard di quattro scene con il maggior numero di personaggi possibile.
Detto ciò, mi auguro che vi stiate godendo quest’estate e vi prometto sullo Stige che ci sentiremo molto prossimamente :)
 
 
 
 
 
il vostro drago della montagna accanto
Smaug

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Capitolo 6
*** Capitolo V: Il prezzo delle occasioni perdute ***


Capitolo V 
Il prezzo delle occasioni perdute 
  
  
“«Come possiamo perdonarci per tutte le cose 
che non siamo diventati?»” 
Doc Luben 
  


  
 
11:49, 24 Agosto 2010, Londra (UK), Umbrella Academy 
«Non ci siamo ancora» fu il solenne giudizio di Artemis. 
Ezra non poté far altro che sbuffare. Non solo avevano trascorso l’intera mattinata da soli in giardino a meditare e tendere le mani verso la terra nuda, ma non avevano neanche concluso nulla. Stupendo. Octavius ne sarebbe stato contentissimo. Se per contentissimo si intende “deluso”, “spazientito” e “seccato”. 
Il sole ormai allo zenit di quell’impietoso mattino di fine estate rischiarava l’intera zona e faceva sembrare l’accademia un posto quasi gradevole. Se non fosse stato impegnato negli allenamenti, avrebbe pensato che quella fosse una giornata stupenda. E invece eccolo lì. Alla veneranda età di quindici-anni-tra-due-mesi, Ezra Cleremont sapeva benissimo in che modo svolgere il suo addestramento senza l’esigente e pressante e per niente piacevole supervisione di suo padre. Il suo potere ormai lo conosceva. Il problema erano quelli dei suoi fratelli. Se inizialmente rendersi conto della potenzialità della sua magia era stato entusiasmante, con il tempo la questione si era complicata fino a farsi insopportabile. Specchio, l’aveva chiamata Octavius. Un nome un po’ banale per circoscrivere la prodigiosa capacità di prendere in prestito le capacità altrui e usarle contro altri opponenti per un discreto lasso di tempo.
Uno spasso, in teoria. In pratica, un po’ meno… 
«Devi concentrarti meglio, Ezra» Artemis, per avere quattordici anni, era una maestra sorprendentemente capace. Era il suo potere a dare problemi «La natura canta in una lingua tutta sua, devi imparare ad ascoltarla e a capirla» 
«Beh, potremmo iniziare con un po’ di fonetica» dopo quasi cinque ore di allenamento, Numero Due non si risparmiò un po’ di sarcasmo «o un alfabeto, che ne dici?» 
«Dico che non sei simpatico» rispose lei, nascondendo malamente un sorriso «e che non voglio essere poetica. So che è difficile, ci sono passata anch’io, ma se ti arrendi ora avremo solo sprecato un sacco di tempo. E il tuo problema inizia e finisce con il tempo. Ce ne vuole tanto per queste cose» 
Con “queste cose” Ezra sapeva che si riferiva a tutta una branchia dell’Umbrella Academy. 
Fosse stata solo Numero Sette a dargli rogne, Ezra non si sarebbe fatto problemi a impegnarsi e assumere un atteggiamento più o meno ottimista. La questione, però, era molto più complessa di così. 
«Ci vuole tempo per tutto» Numero Due le scoppiò a ridere in faccia, di una risata amara e priva di qualsiasi gioia «Ci vuole tempo per imparare ad ascoltare la natura, ci vuole tempo per controllare la possessione sensoriale, ci vuole tempo per distinguere le influenze psicometriche, ci vuole tempo per catalizzare le ombre… qualunque cosa significhi! E mentre io cerco di imparare a padroneggiare otto poteri tutti in una volta, nostro padre mi sta con il fiato sul collo per monitorare i miei progressi!» 
Artemis tacque per qualche momento. Sotto il suo sguardo inquisitorio, Ezra si sentì quasi a disagio. Sapeva cosa stava per dire. Lo sapeva. “Papà vuole solo il meglio per noi” e “È il suo modo di dimostrare che ci ama” o, ancora peggio, “Chiaramente non ti impegni abbastanza”. Questo discorso lo avevano già fatto miliardi di volte, più che altro in presenza del resto della squadra, e ogni volta era peggio. Numero Sette, però, non disse nulla di tutto ciò. Slacciò le gambe dalla comodità della posizione da meditazione avanzata e gli si avvicinò goffamente fino a stargli difronte, appena oltre la loro normale distanza di sicurezza, e gli rivolse l’ombra di un sorriso, un leggerissimo incurvarsi di labbra. 
Ezra ebbe quasi paura di quello che stava per accadere. 
«Va bene così» 
Questa proprio non se l’aspettava. 
«Voglio dire che» continuò Numero Sette «non sei tu il problema. Ognuno di noi fa fatica, a modo suo, a controllare il suo potere ed è impensabile pretendere che tu sia in grado di padroneggiarli tutti senza problemi. Papà sbaglia a essere così esigente nei tuoi confronti e anche…» si morse le labbra «anche Rigel sbaglia a dargli retta e dirti tutte quelle cose. La verità è che tutti facciamo fatica e non c’è assolutamente nulla di assurdo in te. Ezra» lui quasi saltò via quando Artemis gli prese, delicatamente, una mano tra le sue «tu hai difficoltà a gestire il tuo potere. E va benissimo così» 
Numero Due si rilassò visibilmente. 
A volte dimenticava che non erano tutti contro di lui, che Artemis non era la versione maschile di Rigel, che c’erano anche cose belle nell’Umbrella Academy. Grazie al cielo, qualcuno -Hillevi, Oliver, Bizzie, ora anche Artemis- glielo ricordava sempre. 
«Forza, dammi le mani» lo incalzò lei con un sorriso. 
Ezra alzò gli occhi al cielo «Non possiamo fare sempre la stessa cosa, Artemis» 
«Almeno potremo dire di aver fatto qualcosa!» replicò la ragazzina. 
Lui si rassegnò alla sua insistenza e obbedì. A gambe incrociate l’uno d’avanti all’altra, con le mani unite e gli occhi chiusi, sembravano davvero usciti da una pellicola di urban fantasy di serie d. Eppure, solo in quel modo, con sua sorella a fare da ponte, Ezra si sentiva davvero connesso con la natura. La sua mente si svuotò in automatico di tutti i pensieri. Rimaneva solo la luce. Il bianco più puro. E da quel candore spirituale, una positività totale e disdicevole, scaturiva la magia. 
Tutto attorno a loro iniziarono a nascere steli sottili che si evolvevano in boccioli e poi fiorivano in colori soffici sotto la delicatezza dei raggi del sole. Dieci, venti, cinquanta, cento. Ezra li sentiva accarezzargli le gambe e i fianchi. Il solo suono che emettevano era quello morbido della terra che si scostava per farli passare. Quando aprì gli occhi per potersi guardare attorno, si trovò addosso quelli di Artemis. Brillavano. L’azzurro limpido delle sue iridi era completamente corrotto da un verde vividissimo che, in un momento, inghiottì anche le pupille. Se sul suo viso non ci fosse stato un sorriso di miele e rose, gli avrebbe fatto paura. A nulla valeva pensare che, con ogni probabilità, anche il suo aspetto era cambiato. 
Lentamente, la stretta tra le loro mani arrivò a sciogliersi e i fiori smisero di crescere, anche se il loro piccolo angolo di giardino ne era del tutto occupato. Gli occhi di Artemis cessarono di brillare. Il suo sorriso rimase. Aveva un ché di familiare e rassicurante, come a dire: “vedi? Va tutto bene, sei stato bravissimo”. 
Facendo attenzione a dove mettevano i piedi, si incamminarono verso l’accademia. 
L’allenamento mattutino in singolare era terminato. Ora c’era il tempo libero, poi il pranzo tutti insieme e l’addestramento in comune pomeridiano, ovvero la parte peggiore. Si costrinse a non pensare ai duelli che lo attendevano quel pomeriggio. 
«Artemis» disse Ezra, prima che entrassero effettivamente in casa e perdessero ogni straccio di privacy «se papà dovesse chiedertelo, potresti dirgli che… che sto facendo progressi?» 
«Intendi, mentire?» Numero Sette sgranò gli occhi, scandalizzata «A papà?» 
La voce di lui era insolitamente cupa, tesa in un tono di implicita preghiera «Sai cosa mi farà, se viene a sapere che non siamo arrivati da nessuna parte in oltre due mesi» 
«Ma forse è così che-» Artemis non si permise neanche di finire la frase che già scuoteva la testa «No, hai ragione. Non è in quel modo barbaro che imparerai a comunicare con gli spiriti. Non temere» gli mise una mano sulla spalla e stese le labbra in un sorriso «Ci penso io» 
Se era Artemis a garantire per lui, né Rigel né suo padre gli avrebbero torto un capello. 
In uno sguardo, Ezra seppe di potersi fidare di lei. 

  
  
  

 
16:13, 22 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 
«Puoi ripetermi ancora una volta che stiamo facendo?» 
A chiunque, la voce di Ezra sarebbe sembrata irritata. Ma Hillevi non era chiunque e allora, invece che ribattere in modo piccato, si limitò a sorridergli «Stiamo facendo la cosa giusta» 
«Ovvero quello che a nessuno va di fare?» 
«Ovvero quello che è giusto fare» lo corresse lei «E comunque mettere a posto lo studio di papà non è un compito così atroce» 
«Per niente» la assecondò Ezra in un tono traboccante di sarcasmo «Tutti gli altri si sono rifiutati di farlo perché non si sentivano all’altezza di tutto questo puro, incontaminato divertimento» 
Levi continuò a sorridere. Erano nello studio di Octavius da un paio d’ore, a sistemare con pazienza e magia tutto quello che era stato distrutto nell’attacco della notte prima. Inutile dire che a entrambi era sembrata inizialmente un’impresa titanica e aveva superato, nella pratica, tutte le aspettative teoriche. Non solo la mobilia e tutte le cartelle dei documenti erano state fatte a pezzi, ma addirittura la stessa stanza aveva riportato danni non indifferenti: crepe nell’intonaco e nella pietra, assi staccate del pavimento, infissi spezzati e finestre in frantumi. Come nessuno si fosse reso conto dell’intrusione nello studio rimaneva un mistero. 
Ad ogni modo, i due malcapitati si erano rimboccati le maniche –Ezra prevedibilmente più svogliato rispetto a Levi– e avevano iniziato a rimettere a posto. La parte più facile, neanche a dirlo, era stata riassestare i danni fisici della scrivania e degli scaffali. Un po’ meno semplice era stato individuare e sistemare i documenti. 
Octavius era sempre stato, tra le altre cose, un uomo molto riservato con i suoi figli. Non c’erano album strapieni di foto a testimoniare i primi mesi di vita dei bambini, né tantomeno erano mai state organizzate feste di compleanno e gite al lago di mezza estate. Si era addirittura rifiutato di dar loro qualsiasi notizia circa le loro famiglie biologiche, trovando già generosa la rivelazione dei Paesi d’origine di ognuno e la libera scelta, ai dieci anni, del nome. Lo studio di Octavius, per i ragazzi dell’Umbrella Academy, era sempre stato, assieme a molti altri posti in casa, del tutto off-limits. Era lì che venivano convocati singolarmente quando si discuteva dei progressi annuali a fine Agosto o, ancora peggio, nel caso in cui fosse stata infranta una qualsiasi delle regole di casa. Di conseguenza, Hillevi ed Ezra erano stati del tutto spiazzati, oltre che confusi, durante quelle ore di pulizia. E pensare che tutto il marcio lo avrebbero trovato solo più tardi. 
«Levi» la voce di Numero Due era più bassa del normale «Hey, Levi, vieni a vedere» 
Hillevi lo trovò seduto per terra, tra pile di scartoffie, con una grossa cartellina di cuoio aperta in grembo. Si sedette accanto a lui e gli rivolse uno sguardo interrogativo. 
«Sono le registrazioni di tutti i nostri spostamenti» Ezra non staccava gli occhi da alcuni fogli che teneva tra le mani «Qui ci sono tutti i posti in cui sono stato negli ultimi cinque anni, i lavori che ho fatto, i soldi che ho guadagnato e che ho perso…» esitò un attimo «C’è davvero tutto» 
«Fa’ vedere» non aspettò una conferma per prendere la cartellina e cercare, tra i documenti, qualcosa che la riguardasse personalmente. Non faticò a trovare ciò che voleva. Nomi. Luoghi. Date dei suoi concerti come Nummer Fyra –la traduzione svedese di Numero Quattro, il suo nome – d’arte Addirittura, un paio di foto: una di lei nella strada di una grande città, con i capelli più corti, verdi, risalente al duemila sedici, e l’altra datata al duemila diciannove, lei su un palco con un’aria spaesata che non avrebbe pensato di avere. 
La cartellina era ancora piena, un forziere di informazioni rubate alla loro famiglia. 
«Dici che dovremmo…» 
Non ci fu bisogno che Numero Due finisse la frase, lei scosse la testa con fermezza: «Non sono fatti nostri» 
«Non erano neanche fatti di Octavius» obiettò Ezra. 
«Allora è una vera fortuna che noi non siamo lui, non trovi?» Levi stava già raccogliendo i fogli vicini per rimetterli nella cartella «Forse è meglio se la lasciamo stare, okay?» 
Numero Due la guardò, indeciso, per qualche momento. Poi annuì e sigillò il tutto con un colpo di bacchetta «Octavius ha dovuto pagare qualcuno per sapere delle nostre vite, ma noi non ci abbasseremo al suo livello. Se gli altri vorranno parlarci, lo faranno di loro spontanea volontà. Senza» soggiunse «violazioni di privacy di qualsiasi sorta. Lo stesso vale per qualunque altra cosa troviamo qui» 
«Mi sembra un’ottima idea» Levi gli rivolse uno sguardo incerto «Almeno, però, questo è il peggio che troveremo qua dentro» 
«Le ultime parole famose» borbottò Ezra tra sé e sé. 
  
  


  
17:12, 22 Dicembre 2020, Berlino (Germania), Schloss Pfaueninsel  
«Mi stai facendo venire mal di testa» 
Kasumi si arrestò di colpo e rivolse al suo compare la più gelida delle occhiate. Okay, era vero. Era vero che stava facendo avanti e indietro difronte allo Zar da quelli che dovevano essere almeno venti minuti. Ed era anche vero che il rumore della gomma delle sue scarpe sul pavimento di pietra poteva essere, a lungo andare, irritante. Ma, a sua difesa, quella non era per niente una situazione facile. 
Quella mattina, la Kitsune e lo Zar avevano preso una passaporta illegale per Berlino in attesa di ricevere ordini dall’alto che non erano arrivati. Lui aveva insistito per aspettare, ma, dopo aver pranzato in un ristorante di lusso babbano che si confacesse al palato finissimo dello Zar, Kasumi non aveva più resistito. L’attesa della punizione era sfiancante. Nella sua carriera nell’Ordine, la Kitsune aveva fallito ben poche missioni e, comunque, cose di scarsa rilevanza. Quella, però, non era una cosa da niente. L’intenzione iniziale di fare un lavoro pulito e veloce era svanita e, nel tanto, non avevano solo perso l’occasione perfetta di recuperare i documenti ma avevano anche allertato il nemico. Kasumi non osava immaginare quale sarebbe stata la punizione. Dopo ore di agonia, infine, lo Zar aveva preso in mano la situazione e ora eccoli lì. 
In una delle ricche sale di Schloss Pfaueninsel. Da tre ore. Ad aspettare di essere ricevuti dal Generale. 
Se non fosse stata così ansiosa di ciò che sarebbe successo da lì a breve, Kasumi probabilmente si sarebbe concessa del tempo per andare a esplorare il bel palazzo che era la sede principale dell’Ordine e avrebbe fatto un giro nei quartieri verdi di Berlino. Ma quella non era proprio la situazione ideale. 
«Hai di meglio da proporre?» sbottò, rivolgendo –anche lei lo riconosceva– un po’ troppa rabbia sul suo tutto sommato leale e capace compagno di reggimento. 
«Sì» rispose lo Zar, impassibile «Siediti e non farmi saltare i nervi» 
«Va bene. Sediamoci» Kasumi si passò una mano sugli occhi e poi tra i capelli, nel tentativo fallimentare di rimettersi un po’ in ordine e sembrare quantomeno nel pieno della lucidità mentale «Sediamoci e aspettiamo che il Generale decida in che modo vuole farci a pezzi» 
«Non esagerare, ora» Elijah alzò platealmente gli occhi al cielo e le rivolse una smorfia annoiata «Per una volta che ci siamo scollati Nasheeta, non mi sembra il caso che tu inizi a fare la paranoica e l’isterica per cose talmente stupide»  
«Stupide?» ripeté lei, aggrottando la fronte «Non so di quale droga tu stia facendo uso, ma colgo l’occasione per ricordarti che abbiamo fallito una missione importante, una missione che il Generale ci ha affidato con grandi aspettative, una missione che sarebbe dovuta andare benissimo. La missione» continuò, imperterrita «per cui l’intero Decimo Reggimento è stato creato. Abbiamo fallito proprio quella missione. Dovevamo semplicemente rubare dei documenti da una casa semi deserta e non ne siamo stati in grado, nonostante tutto ciò che c’era in ballo. Come fai, come fai» si sforzò di trattenersi e non mettersi a urlare nel mezzo di tutto quel silenzio innaturale «a dire che sono cose stupide!?» 
«In primis» fu la risposta, anche questa volta sussurrata, dello Zar «la nostra missione iniziava con l’assassinio di Octavius Cleremont, uno dei più grandi e potenti maghi del nostro secolo, membro del Wizengamot e capo di un’accademia di supereroi magici. Non era per nulla una cosa semplice, eppure ce l’abbiamo fatta. Abbiamo commesso l’assassinio del secolo» si fermò per qualche secondo «Il Generale lo terrà in conto. Solo noi saremmo riusciti a compiere un’impresa del genere. So che sei preoccupata perché la seconda parte della missione non è andata come speravamo, ma ci sono delle ottime ragioni che spiegano il nostro fallimento e sono in gran parte fattori esterni. Il Generale capirà» 
«Il Generale non è conosciuto per la sua misericordia» ribatté la Kitsune «e c’era una cosa che mi aveva promesso, se avessi portato a termine questa missione» 
«Che tu ci creda o no» la voce dello Zar si affossò «anch’io ho molto da perdere» 
A questo, lei non rispose. 
Rimasero così –l’uno seduto accanto all’altra in una stanza troppo grande, a sentire l’eco dei propri respiri– per quelli che parvero anni e furono minuti. Poi arrivò qualcuno. 
Entrò nella sala un ragazzino, un apprendista. Era vestito completamente di nero, aveva i capelli scuri e corti e occhi sottili, occhi che osservano con lo sguardo affilato. Non ci fu bisogno di parole per nessuno di loro. I due del Decimo Reggimento si scambiarono appena un’occhiata prima di alzarsi e seguirlo per corridoi dai soffitti d’oro, su pavimenti ricoperti di tappeti sulla via per il destino. Al contrario del ragazzo, né la Kitsune né lo Zar indossavano un’uniforme. I Cavalieri dell’Ordine non avevano un codice di vestiario da seguire, oltre la maschera e il nero quando erano in missione. Elijah e Kasumi, in quel momento, sembravano più turisti vestiti male che sicari di una centenaria associazione a delinquere: lui in jeans, maglione e cappotto, lei in leggins, stivali e parka, erano parecchio lontani dall’immagine classica dell’assassino. 
Si fermarono d’avanti a una porta in legno pesante e scuro. L’apprendista fece loro cenno di entrare e tornò indietro, diretto verso chissà quale miserabile tappa della sua vita. Lo Zar esitò soltanto un momento, un istante di battiti accelerati e sguardi tesi, prima di rimettersi la sua maschera di gelo e impassibilità, girare la maniglia ed entrare. 
Come ogni altra stanza del castello, quella sembrava essere uscita da una serie tv ambientata nel medioevo. Gli arazzi alle pareti le davano un’aria regale e le ampie finestre di stampo gotico la facevano sembra più grande di quanto non fosse davvero. Due file di colonne la dividevano in tre navate e sul fondo della stanza c’era un’enorme sedia foderata che poteva essere definita soltanto come trono. Su di essa, il Generale. 
Dire che il Generale era un uomo imponente era mentire. Dire che trasmetteva un senso di potere e grandezza, una menzogna spudorata. Era un uomo. Una figura piuttosto insulsa, per quel titolo altisonante che portava. Longilineo, pallido, dal volto squadrato e la testa pelata, il Generale non sembrava diverso da tanti altri megalomani che se ne andavano in giro credendo di essere l’Anticristo. Al contrario di molti altri, però, lui aveva al suo comando un esercito di sicari, fin troppe conoscenze nel settore e uno sguardo che avrebbe fatto paura al peggiore dei suoi sottoposti. 
Elijah e Kasumi percorsero la navata centrale a passo cadenzato, quasi con timore. 
Quando arrivarono a un metro dal trono, entrambi caddero a terra in un inchino profondo e rimasero lì finché una voce ruvida li raggiunse. «Potete alzarvi, Cavalieri». 
Elijah fu il primo a rimettersi in piedi e fronteggiare, a sguardo alto e schiena dritta, l’uomo che aveva in mano il suo futuro. Kasumi non si fece attendere troppo. 
«Avete chiesto di vedermi» disse il Generale, in un tono apparentemente non ostile «eppure nessuno di voi due mi sembra in vena di parlare. Non lo trovate buffo, almeno?» 
«Siamo qui per spiegare» rispose lo Zar «per quali motivi la seconda parte della missione si è risolta in un fallimento» 
«Per quali… ragioni, dici?» il Generale si lisciò le pieghe della sua camicia nera e rivolse a entrambi uno sguardo di perplessa malizia «E perché dovrebbero interessarmi le vostre ragioni?» 
I due Cavalieri ebbero il buonsenso di non rispondere. 
«Avete reso nota all’interezza dell’Umbrella Academy i nostri interessi, distrutto un’abitazione del distretto magico londinese di Rosewood, rivelato una delle vostre identità al nemico» i suoi occhi neri caddero, pesantissimi, su Elijah «e ora avete la faccia tosta di volermi parlare delle vostre ragioni?» 
«Mi permetto di dissentire» lo Zar, sotto la testimonianza incredula di Kasumi e quella curiosa dell’uomo difronte, fece un passo in avanti «Generale, i tuoi fedelissimi Cavalieri sono qui per ricordarti la grandezza dell’impresa appena compiuta e rimediare agli errori fatti. L’assassinio di Octavius Cleremont è stato portato a termine nella più totale discrezione e abilità. Quanto al fallimento successivo, mi prendo la responsabilità di ciò che è successo» si schiarì la voce, ma il suo mento rimase alto e il suo sguardo fermo «Ho progettato il piano sulla base di informazioni scorrette e di possibilità. Il mio Reggimento si è comportato benissimo, ma ci sono stati irrimediabili imprevisti tecnici, come la locazione errata dei documenti e la presenza non prevista dell’Umbrella Academy al completo. La seconda parte della missione era destinata al fallimento prima ancora di cominciare» 
Il Generale tacque a lungo, prima di trarre un sospiro profondo. 
«Una situazione un po’ scomoda, devo ammetterlo. Vi confesso che stamattina ero deciso a cancellare dalla storia il Decimo Reggimento» disse «e tuttavia, mi trovo costretto a ritrattare questa intenzione. Le vostre ragioni rimangono insulti alla mia intelligenza, ma il vostro talento va riconosciuto. In sua virtù, vi sarà data una possibilità di rimediare allo scempio che avete fatto la scorsa notte, ma sarà l’ultima occasione che avrete. L’Umbrella Academy sa troppo di noi e, ora che vi siete scoperti, vorrà sapere altro. Il lupo di Cleremont trascinerà nella faida i suoi fratelli e nessuno può assicurarci che non chiederà aiuto al Ministero Britannico. Mi dolgo di dover adottare misure talmente drastiche, ma non c’è altra soluzione. L’Umbrella Academy dovrà essere sterminata» sentenziò «Tutti i suoi membri, vecchi e nuovi, innocenti o colpevoli, dal primo all’ultimo, dovranno morire per mano vostra. È questo il prezzo della vostra redenzione. In caso vi rifiutaste o falliste, saranno tuo fratello» aggiunse, rivolgendosi a Kasumi «e tua figlia» il suo sguardo si appoggiò su Elijah «a pagare» 
La Kitsune e lo Zar, compagni al patibolo, non poterono fare a meno di guardarsi con occhi grandi e colmi di un sentimento indefinito. Forse compassione. Forse paura. 
«Questa è la mia volontà» 
Il Generale sorrideva. 
 
  


  
18:34, 22 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 
«Più veloce» 
Esmeralda annuì in un gesto secco della testa prima di lanciarsi un’altra volta all’attacco. 
Come ci fosse finita –in palestra alle sei e mezza di pomeriggio, a lottare non solo contro la pigrizia post pranzo ma anche contro Numero Tre– era una storia ben poco felice. Quella mattina, Rigel si era convinto pienamente della sua rinnovata dedizione all’accademia. Una cosa bella, no? In parte. Se da un lato, infatti, le avevano dato immenso piacere l’abbraccio caldo di Numero Uno e il suo sorriso fiducioso, dall’altro non si era aspettata di riprendere gli allenamenti così presto. Né di essere una tale frana. 
Erano ormai in palestra da quattro ore e, sebbene i suoi poteri tenessero a freno la stanchezza che invece rendeva Caesar ansimante e sudaticcio, non c’era modo di placare il mal di testa che aveva iniziato a strisciare verso le tempie ore prima. 
Eppure, Rigel aveva detto di voler iniziare con un allenamento leggero. Giusto per ripetere le basi del combattimento corpo a corpo. Le era sembrata un’ottima idea, alle due e mezzo di pomeriggio mentre, fresca e riposata, saliva le scale per andare in palestra. Ora, dopo quelli che sembravano anni di ordini impietosi e colpi inaspettati, voleva solo chiudere gli occhi e abbandonarsi a uno stato comatoso. 
Anche Caesar aveva tutta l’aria di essere stremato ma, a differenza sua, non se ne lamentava troppo e continuava a esercitarsi in qualcosa che, alla fin fine, gli sarebbe servito ben poco. Ogni tanto, quando incrociavano gli sguardi, trovava in lui il suo stesso desiderio di riposo. 
Inutile dire che Numero Uno avesse altri piani. 
«I tuoi scarti laterali mi fanno piangere, Numero Otto» ed eccolo che tornava alla carica con il supporto morale, in piedi ad osservarla dal lato opposto della piccola arena «Ti voglio più recettiva» 
Esmeralda bloccò con prontezza l’ennesimo colpo del suo avversario e approfittò della momentanea distanza tra loro per assestargli un calcio nello stomaco. A giudicare dal grugnito indistinto di Caesar, doveva essere stata una buona scelta. 
«Brava, Numero Otto» fu il commento apprezzativo di Rigel «ma non startene lì impalata mentre lui si mette in posizione di difesa. È più grosso di te, devi essere veloce se vuoi sperare che non si rialzi più. Ha la guardia abbassata ora, Numero Otto. Colpisci. Colpiscilo ora!» 
Esmeralda, l’adrenalina a mille alla sola idea di poter finire quel combattimento, obbedì. Approfittò della fortunata confusione di Numero Tre per girargli attorno e afferrargli il polso destro prima che potesse tentare un nuovo attacco. Poi, in uno scatto fulmineo anche per lei, gli bloccò la mano dietro la schiena e lo spinse malamente verso il muro più vicino, assicurandosi di impiegare abbastanza forza da non lasciargli vie di fuga ma non tanta da irrigidirsi e rendere possibile una ritorsione. Caesar provò per qualche secondo a liberarsi della presa, ma alla fine smise di agitarsi e appoggiò la fronte alla parete in segno di resa. 
«Allora?» fece lei, con un sorrisetto vittorioso «Abbastanza veloce, fratellone?» 
«Per oggi andrà bene» concesse lui, facendole cenno di lasciar andare Caesar «Ma ce n’è di strada da fare prima di farti tornare in campo» 
L’espressione compiaciuta scivolò via dal volto di Esmeralda «Ma come?» 
«Hai sentito bene» rispose, implacabile, Rigel «Ora come ora non sei in grado di affrontare i Cavalieri» 
«Ma io non sono tornata in accademia per ricominciare l’addestramento e restar chiusa in casa!» protestò lei «Lascia che mi renda utile» 
«Lo dico per il tuo bene, Numero Otto» insistette Numero Uno. 
«E non chiamarmi Numero Otto!» replicò di scatto Esmeralda «Neanche papà mi chiamava così. Ora che la squadra è andata, non c’è più ragione di usare quei soprannomi!» 
Rigel esitò a lungo, prima di avvicinarsi. Le mise una mano sulla spalla e la guardò negli occhi «Perdonami, Esmeralda. Sai che non sono abituato a certe confidenze e so di non essere bravo con i rapporti interpersonali, ma voglio impegnarmi a rendere l’Umbrella Academy un posto più piacevole di quello che è stato. Se è quello che vuoi, aboliremo gli alias e ci chiameremo per nome» 
Lei sembrò rilassarsi nella sua stretta e gli scoccò un’occhiata di pura aspettativa. 
«Quanto alla tua prima richiesta, temo che al momento sia fuori discussione» continuò lui «Non dico che non tornerai a combattere, ma devi capire che sei fuori allenamento da anni e gli avversari che stiamo affrontando sono sicari di professione. Per Caesar» accennò con il capo a Numero Tre «questo non è un problema, perché i suoi poteri hanno un potenziale offensivo che va ben oltre qualsiasi sua capacità fisica. Ma per te è un altro conto» 
«Oggi però sono stata brava» ribatté Esmeralda a mezza voce «Non valgono niente i miei progressi qui?» 
«Certo che sì» la rassicurò Rigel «però non tanto da convincermi. La tua resilienza è ovviamente sopra la media e tuttavia la tua capacità di guarigione non è comparabile a quella che avevi tre anni fa. Non hai notato anche tu che ci metti il doppio del tempo a guarire? È perché il tuo corpo si è abituato a una vita a riposo e ora non reagisce più come faceva una volta allo stress da combattimento. Devi darti un po’ di tempo per rimetterti in carreggiata, Esmeralda, e non devi avere fretta. Hai visto anche tu di cosa sono capaci i nostri nemici. Io non vorrei…» si fermò un attimo, stringendo involontariamente la presa sulla spalla della ragazza, e una mano corse al suo viso in una carezza ruvida e incerta «Non sopporterei che ti facessero del male» 
«Va bene» Numero Otto si beò di quel contatto, sporgendosi spudoratamente nella mano di suo fratello, e si abbandonò a un sospiro di contenta rassegnazione «Allora dimmi: come posso essere utile senza scendere in campo?» 
«Inizia» Caesar, arrancato fino a loro per miracolo, si schiarì la voce con qualche colpo di tosse e le diede una pacca un po’ violenta sulla spalla «rimediando a tutti i lividi che mi hai fatto oggi pomeriggio» 
Lei mise su per qualche momento un’espressione pensosa e poi sorrise «Mi sembra giusto» 
  
  


  
22:58, 22 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy 
Quella sera si ritrovarono in salotto. Più per pura casualità che per altro. 
Il cielo notturno, fuori dalle ampie finestre del salotto orientale –la splendida sala nell’ala est dell’accademia in cui Octavius era solito ricevere gli amici più stretti–, era illuminato fiocamente da una falce di luna e il giardino era immerso in un’atmosfera spettrale. 
Caesar aveva insistito per trascorrere lì la serata, dopo la fatica dell’allenamento pomeridiano, e Rigel ed Esmeralda –più che contenti di far visita alla vetrina di alcolici di Monsieur Cleremont– non avevano fatto troppe storie. Oliver si era imbattuto in loro per caso fortuito, ma nessuno aveva neanche pensato di cacciarlo, e poco più tardi si erano aggiunti anche Tony, appena rientrato da un pomeriggio in giro per la Londra babbana, e Artemis, che fino ad allora era rimasta in giardino. Alexis non aveva tardato ad arrivare, attirato tanto dalla voglia di compagnia quanto da quella di buon whiskey incendiario. Infine, con espressioni piuttosto inquiete e tante parole sulla punta della lingua, erano arrivati Ezra e Hillevi, reduci di un pomeriggio trascorso a sistemare scartoffie. 
Trovarono l’intera accademia assiepata nel salotto orientale, immersi in alcol di classe aristocratica e conversazioni quiete. Caesar, Oliver ed Esmeralda avevano occupato un intero divano, incastrandosi l’uno nell’altro in un intrico di gambe e braccia –di leggins, tute da ginnastica e magliette sgualcite– che faceva invidia al Guernica di Picasso. Tony, nella poltrona accanto a loro, sembrava scampato per miracolo a quella sciagura. Era chiaramente felice di star vivendo una serata tranquilla, almeno per il momento. Interveniva nella conversazione, ogni tanto lisciava le pieghe della sua camicia e teneva in mano lo stesso bicchiere dall’inizio della serata, sorseggiandolo elegantemente all’evenienza. Alexis, nemmeno a dirlo, pareva del tutto immune agli scrupoli morali di suo fratello e non si faceva problemi a ingurgitare whiskey incendiario in quantità preoccupanti. Inutile anche cercare di capire quanto e se fosse lucido: Numero Nove –forse per via recitativa, forse solo per una certa abitudine all’alcol– rimaneva lo stesso di sempre. A un certo punto della serata aveva anche accennato a prendere una sigaretta, ma un’occhiata truce di Artemis lo aveva fermato. Numero Sette, anche a tarda sera, non perdeva una briciola della sua compostezza. Conduceva la conversazione come la migliore delle matrone aristocratiche ed era a suo agio anche in un contesto in cui lei –con le sue trecce elaborate e boccoli albini e il suo abito in seta lilla e il calice di vino rosso che ogni tanto portava alle labbra– non centrava apparentemente nulla. Forse era una confidenza riflessa. Forse era Rigel che, seduto accanto a lei –con un braccio disteso sulla spalla del divano e ciocche brune ad accarezzare un volto rilassato ma imperscrutabile– nel suo vecchio paio di jeans e maglione nero, la avvolgeva nella propria aura di totale calma. Se fossero i frequentissimi shot di vodka a smussare la sua cupezza e renderlo più docile e socievole, rimase un mistero e, comunque, nessuno ebbe voglia di farlo presente. 
Ezra e Levi li trovarono a parlottare della stagione invernale, degli allenamenti e dell’ultima uscita del Settimanale delle Streghe. Artemis stava giusto spiegando quanto sfiancante fosse per lei essere riconosciuta per strada dalle persone che l’avevano vista, magari più di una volta, sulla copertina di qualche rivista magica, quando Numero Due e Numero Quattro occuparono i posti vuoti accanto ad Alexis e si inserirono nella conversazione. 
Narrarono ai loro fratelli, tra sguardi complici e parole misurate, ogni cosa che avevano scoperto. 
Gli altri li ascoltarono confusi e inquietati. Nessuno fece commenti. O, più che altro, nessuno parlò mentre Ezra e Levi raccontavano di tutto ciò che avevano trovato nell’ufficio di Octavius. Cosa si poteva dire a riguardo? Non era un mistero che loro padre li tenesse all’oscuro di moltissime cose e ancora meno assurda era l’idea che li avesse tenuti sotto controllo anche una volta usciti dall’Umbrella Academy. Quello che forse fece più scalpore fu il progetto sulla seconda generazione dell’accademia. 
«Oh mio Dio» fu il commento disgustato di Esmeralda «E quando pensava di dirci certe cose?» 
«Beh, dovrai ammettere» replicò Tony «che non è poi così sorprendente che avesse un piano del genere» 
«Diciamo che spiegherebbe molte cose» lo appoggiò Oliver, per poi fermarsi un attimo e ripetere: «Molte, molte cose, a pensarci bene» 
«Eh sì» meditò Caesar «ora che me lo fate notare, papà ci teneva un sacco a farmi passare del tempo con Esmeralda. Io pensavo fosse per una questione di allenamento, sai?» aggiunse, rivolgendosi alla diretta interessata «Per tutta quella storia della tue resistenza al dolore psichico, ricordi?» 
Lei annuì «Ma certo! L’estate dopo il diploma l’abbiamo passata praticamente in due, eppure mi sembra strano…» 
«Non capisco perché siate così sorpresi» Alexis si concesse un altro sorso di whiskey incendiario «Era palese che spingesse su alcune accoppiate più che su altre. Ricordate il galà di Capodanno dei nostri sedici anni? Proibì alle ragazze di accettare gli inviti a ballare di chiunque non approvasse e il risultato furono esattamente i binomi in cui sperava lui. Per non parlare del fatto» proprio non riuscì a trattenere un sorriso sghembo e derisorio «che ai tempi di Hogwarts tutto il castello sapeva di Artemis e Rigel» 
«Sapere?» Artemis si voltò di scatto verso di lui «Non c’era– non c’era proprio niente da sapere…» 
Per tutta risposta, Numero Nove inarcò le sopracciglia in uno sguardo dubbioso. 
Certo che c’era qualcosa da sapere. Cosa, di preciso, era un mistero, ma l’intero corpo studentesco hogwartsiano non vedeva l’ora di mettere le mani su una qualsiasi notizia circa la sua coppia preferita di paladini della giustizia. In effetti, non c’era molto da sapere. Che lui sapesse, non c’era mai stato niente tra Artemis e Rigel. Ma questo non aveva importanza. Non per il pubblico. Oggettivamente non erano tanto le interazioni tra i due a suscitare la curiosità altrui, quanto la loro presunta compatibilità. 
Come si poteva immaginare un binomio migliore? Lui freddo come l’inverno e lei dolce come la primavera. Lui con un potere macabro e distruttivo e lei con il miracolo della vita nelle mani. Lui tutto spigoli e lei morbida. Entrambi brillanti e capaci, popolari e, ovviamente, belli da star male. Inutile dire che chiunque seguisse le vicende dell’Umbrella Academy aveva fatto il tifo per loro. Tutti sapevano, tra le mura di Hogwarts, che erano fatti per stare insieme e che non c’era coppia più perfetta e complementare di loro. Beh, tutti tranne uno. Mentre era ovvio che Artemis provasse qualcosa per il suo capitano, Rigel sembrava esserle del tutto indifferente e, laddove Numero Sette rifiutava qualsiasi corteggiamento, ogni tanto voci di corridoio mormoravano riguardo le tresche clandestine di Numero Uno. 
Insomma, il classico gossip familiare. Uno spasso. Soprattutto per Alexis, che, essendo Grifondoro, doveva sorbirsi mensilmente gli estenuanti monologhi di Caesar riguardo una sospettata mancanza di fiducia di Rigel nei suoi confronti. Altra assurdità. Se c’era qualcuno di cui Numero Uno sembrava in grado di fidarsi e con il quale aveva un rapporto sano e spontaneo –privo di manipolazioni e smanie di lealtà–, quello era Caesar. 
«Non potrai negare che ne circolavano di voci nel castello» la voce pacata di Oliver lo risvegliò dalle sue meditazioni. 
Artemis arrossì. Ma, chiariamoci, era stupenda anche così. Perché, a differenza di gran parte della comune plebaglia che la circondava, Artemis Cleremont aveva grazia anche nell’arrossire. Il suo era un rossore tenue che le accarezzava le gote e non andava oltre. Semmai, dava colore alla sua pelle, già di suo rosea, e metteva in risalto la delicatezza dei suoi tratti. Alexis soffocò l’insofferenza di quell’osservazione in un sorso generoso di whiskey incendiario e si costrinse a non commentare ulteriormente. 
Rigel, da parte sua, si limitò ad alzare le spalle «Alla gente piace chiacchierare» 
«A me continua a sembrare assurdo» Esmeralda scosse la testa «E poi come pretendeva di mettere in atto questo piano geniale? Io e Caesar ci saremmo dovuti sposare? Avremmo dovuto avere dei figli?» 
Numero Tre tirò via il braccio che aveva attorno alle sue spalle con un’espressione offesa «Ti faccio davvero così schifo?» 
«Non ho detto questo» lei alzò gli occhi al cielo «ma devi ammettere che sarebbe strano fare… cose, noi due. Ed è ancora più strano che papà volesse questo per noi» 
«Non per rovinare i sogni a qualcuno» si intromise Oliver «ma dubito che abbia ideato le coppie pensando al risvolto emotivo. Credo che pensasse più alla vostra ipotetica prole. Deve aver pensato che vostro figlio, nel più roseo dei casi, sarebbe invulnerabile a qualsiasi tipo di dolore e capace di infliggerne senza limiti. Così come i figli di Levi ed Ezra potrebbero essere in grado di manipolare liberamente la psiche e le abilità altrui; mentre quelli di Rigel e Artemis magari entrerebbero in pieno contatto con il mondo degli spiriti e della natura» 
«Di certo non ha fatto progetti in base alle nostre preferenze relazionali» commentò Caesar «ma un ragionamento così freddo mi sembra eccessivo. Rigel, tu che dici?» 
«Che, come al solito» Numero Uno svuotò il suo bicchiere di vodka in un sorso «Oliver ha ragione. A papà interessava che l’Umbrella Academy crescesse di potere e, incrociando le nostre capacità, avrebbe ottenuto risultati strabilianti. Per non parlare del fatto che l’assenza di legami di sangue tra di noi apriva strada anche a incroci tra la prima e la seconda generazione» 
«Cosa?» Levi arricciò il naso e rivolse un’occhiata incredula a Numero Uno. 
«Questo non c’era scritto nei documenti che abbiamo trovato noi» neanche Ezra riuscì a dissimulare il vago disgusto sul suo volto. 
«Non fate quella faccia» Rigel li liquidò alzando gli occhi al cielo e assumendo un’espressione insolitamente diplomatica «In fondo è un ragionamento sensato, come qualunque altra macchinazione di papà. Mettiamo che il DNA di vostra figlia si incroci con quello di Alexis o, meglio ancora, di Tony: l’esito sarebbe di sicuro interessante» 
«Non pensavo l’avrei mai detto» Antoine rivolse agli altri uno sguardo di mesta contentezza «ma grazie al cielo sono gay» 
«Rigel, è un’idea assurda!» protestò Levi «Dimmi che non fai sul serio!» 
«Ma ti pare che sposerei Artemis?» troppo impegnato a versarsi ancora da bere, non si accorse del modo in cui Numero Sette, accanto a lui, si irrigidiva e allontanava impercettibilmente «Magari l’avrei anche fatto, se avesse insistito. Ma per fortuna ha accantonato il progetto prima di poter iniziare a organizzare matrimoni» 
«Già» ripeté, atona, Artemis «Che fortuna. Mi chiedo come avrei fatto a sopportarti finché morte non ci separi» 
Numero Uno le rivolse uno sguardo confuso e nessuno ebbe il coraggio di intervenire. Lei incrociò le braccia e assunse un’espressione di distaccata severità che faceva un delizioso contrasto con tratti morbidi del suo viso. 
«Non era mia intenzione offenderti; lo sai. Chiunque ti sposerà dovrà essere un uomo fortunato, oltre che straordinario» la voce di Numero Uno si fece accondiscendente «E comunque noi due saremmo tremendi come marito e moglie» 
«Non è vero» Artemis mise tra loro il giusto spazio per poterlo guardare negli occhi «Saremmo una coppia stupenda, se solo ti tagliassi quei capelli» 
A quell’insinuazione, neanche Rigel riuscì a trattenere un sorriso. Con un sospiro rassegnato, fece scivolare il suo braccio dalla spalla del divano a quella di sua sorella e le scostò una ciocca di capelli dalla spalla per poterci appoggiare la mano «Allora ci accontenteremo di condividere il cognome da falsi fratello e sorella» 
«A proposito,» si intromise Esmeralda «come pensava di risolvere la questione dei cognomi? Non sarebbe stato… strano?» 
«Non guardare me» Ezra alzò le spalle con un’espressione di pura indifferenza «Il documento che ha trovato Levi era più che altro un foglio di appunti scoordinati circa matrimoni e seconde generazioni dell’Umbrella Academy» 
«E inoltre papà era un uomo potente» aggiunse Levi «Dubito che certe postille burocratiche l’avrebbero fermato dai suoi progetti di gloria per l’accademia» 
«Già» commentò Caesar «Non so davvero come avrei reagito se mi avesse chiesto di sposare Esmeralda e avere dei figli con lei per il bene dell’accademia» 
«Onestamente neanch’io lo so» confessò Numero Otto. 
«Sapete che papà era più testardo di un mulo quando si fissava con qualcosa» Artemis lanciò un’occhiata di sfuggita a Rigel e gli sorrise «Se fosse stato necessario, mi sarei sposata volentieri per amor della nostra famiglia» 
Rigel evitò accuratamente il suo sguardo e disse: «Ho già detto come la penso. Ci sono mali peggiori del matrimonio e nostro padre non ci avrebbe mai spinti in quella direzione, se non fosse stato indispensabile per l’accademia» 
«E voi?» Numero Tre riservò ad Ezra e Levi la migliore delle sue occhiate inquisitorie «Voi vi sareste sposati?» 
Hillevi, con tutti gli occhi curiosi dei suoi fratelli addosso, arrossì fino alla punta delle orecchie e balbettò qualcosa che doveva somigliare a un «non lo so». 
A Ezra non servì altro per decidere di prendere in mano la situazione e placare la curiosità altrui con uno sguardo omicida, non convenzionale ma sempre efficiente «Non sono domande a cui si può rispondere su due piedi» 
«Beh, ma voi avete avuto almeno un paio d’ore per rifletterci su» Esmeralda non riuscì a trattenere un sorrisetto machiavellico «Mi sembra un ottimo vantaggio rispetto a noi altri» 
«Ma certo» replicò prontamente Numero Due, più sarcastico del solito «perché è ovvio che io e Levi abbiamo trascorso il tardo pomeriggio a riflettere sui progetti psicotici di Octavius. In fondo non avevamo altre cose da fare tipo, che ne so, sistemare il casino nel suo ufficio» 
«E va bene» concesse lei «ma fossi in voi ci penserei. Non sarebbe una cattiva idea, se voleste tornare anche voi nell’Umbrella Academy» 
«Per il rogo di Merlino» imprecò a mezza voce Alexis «ma fai sul serio? Voi sareste davvero disposti a sposare qualcuno per gli affari dell’accademia? Per dare carne fresca all’Umbrella Academy?» 
«Non per fare il guastafeste» aggiunse Oliver «ma il Medioevo è passato da un pezzo» 
Tony storse le labbra in una smorfia disgustata «È vero che si facevano contratti matrimoniali fino a trent’anni fa, ma si trattava pur sempre di pratiche bigotte per la conservazione di una linea pura di sangue» 
Esmeralda scoppiò a ridere «Infatti vi stavo prendendo in giro» 
«Menomale» Oliver, accanto a lei, trasse un sospiro di sollievo «Non sono pronto per diventare zio! E poi, diciamocelo, sono l’unico normale in famiglia… questi bambini prenderebbero me come esempio da imitare e seguire e io non sono sicuro di essere pronto per plasmare tutte quelle piccole menti nel mio ovvio ruolo di babysitter» 
«Ma saresti un babysitter fantastico» obiettò Levi con un sorriso. 
«E in ogni caso sono contento che questo progetto sia finito nel dimenticatoio» soggiunse, ancora, Oliver. 
«Il problema è che nostro padre faceva sul serio» replicò Alexis «e il fatto che ne avesse anche parlato con Rigel la dice lunga su quanto tenesse al progetto» 
«Già» mormorò Levi, tra sé e sé «Non dubito che ci avrebbe costretti volentieri in questi matrimoni» 
Alexis si versò un’altra generosa porzione di whiskey incendiario «Octavius era matto da legare, perché vi sembra tanto assurdo che programmasse le vostre vite?»  
«Una ragione in più per esser grato di essermene andato subito dopo il diploma» annuì Tony. 
«Non capisco di cosa vi lamentiate» Caesar, fronte aggrottata e una smorfia poco convinta sul volto, non poté fare a meno di ribattere «Per voi non aveva programmato un bel niente» 
«Non gliene hanno dato il tempo» rispose Ezra «Questa bozza risale a quando avevamo diciotto anni e loro se n’erano già andati. E Octavius non era matto, Alexis,» soggiunse, in un tono più macabro «era un manipolatore e un bastardo» 
«Non si può negare che avesse le sue colpe» concesse Oliver. 
«E che alcuni di questi progetti sarebbero bastati a farlo rinchiudere in un centro per malati mentali» continuò a bassa voce Tony. 
«Solo alcuni?» fu la veloce replica di Alexis. 
«Ma come passa il tempo, quando si sparla dei morti» li interruppe seccamente Numero Uno, mentre si scopriva il polso per dare un’occhiata all’orologio «È giunta l’ora di andare» 
«Andare dove?» Artemis si impedì a stento di seguirlo, quando lui si alzò dal divano e si diresse verso l’appendiabiti, e optò per serrare i pugni e fissarlo senza ritegno. 
«Mi sembra naturale» Rigel trovò il tempo, mentre infilava la giacca di pelle, di rivolgerle un sorriso tutto labbra pressate e occhi assottigliati «Vado a prendere Bizzie» 
  
  
 
 
  
  
Dal prossimo capitolo: 
«Eh, sì» il sorriso di Caesar si fece un po’ più idiota del solito «Menomale che c’era Joanna, no?» 
Nessuno fece, come invece si aspettava, eco alle sue risate o replicò alla battuta, anzi. Rigel aggrottò la fronte. Esmeralda inarcò le sue belle sopracciglia arcuate. Persino Bizzie –infagottata nella copertina a fiori da cui spuntavano solo i suoi occhioni verdi, il musetto e le grandi orecchie– sembrò alquanto confusa. 
«Menomale che c’era… chi?» ripeté Numero Uno. 
«Jo…anna?» fu la risposta incerta di suo fratello «La domestica asiatica che si veste solo di nero e si porta dietro la maschera delle pulizie intelligenti e ha un’evidente cotta per me» 
L’espressione di Esme si evolveva man mano dal divertito al preoccupato, mentre Rigel lo fissava. 
«Andiamo, te la sei già scordata? È molto carina e ha un accento giapponese, se la mia gioventù bruciata in giro per l’Asia è stata utile in qualche modo» insistette Caesar «Oh, Rigel, com’è possibile che assumi personale e poi non ti ricordi neanche di come si chiama? Sei anni senza di me ti hanno reso un manichino!» 
Numero Uno continuava a fissarlo con una crescente aria da sociopatico. 
In un istante, Oliver seppe che non sarebbe finita bene. 
  
  
  
  
  

  
Angolo autore 
Ed eccomi qua! Nuovo capitolo, nuove crisi mistiche per i nostri adorati protagonisti! 
Mi sembra di non aver fatto ritardi troppo colossali, stavolta. Considerando che avevo il capitolo già pronto, probabilmente sì, ma non mi sono mai ritenuto un tipo puntiglioso, quindi sorvoleremo. 
Colgo l’occasione per ringraziarvi davvero per tutto il supporto che mi mostrate e per l’infinita pazienza che avete con me e, per ringraziarvi concretamente, ho deciso di aggiungere a fine di ogni capitolo un estratto dal prossimo! Spero l’idea non vi sembri troppo stupida. Sono dispostissimo a ritrattare se non vi piace :) 
Ad ogni modo, questa volta ho una richiesta da farvi
Ecco, cercherò di essere breve. L’altro giorno mi sono reso conto di una cosa che avrei potuto benissimo aggiungere alla scheda di partecipazione dei personaggi e che, per un motivo o per un altro, ho dovuto trascurare. Sto parlando, ovviamente, del test di personalità Myers-Briggs, detto anche MBTI. Si tratta di uno studio approfondito della personalità umana, che io personalmente adoro, e che ho scoperto essere tremendamente utile nella costruzione di personaggi. Ora, potrei fare benissimo a meno di rompervi le scatole e farlo da solo, ma non conosco i vostri personaggi come voi. Di conseguenza, la mia valutazione circa i vostri OC sarebbe a dir poco approssimativa. 
Riassumendo? Mi piacerebbe che voi faceste, dal punto di vista del vostro personaggio, il test delle sedici personalità Myers-Briggs e che condivideste con me, tramite messaggio privato, il risultato del/dei vostri personaggi. Per quale motivo? Un po’ per utilità tecnica, un po’ per mera curiosità. 
Vi lascio il link qui sotto e spero che vogliate condividere con me i risultati :) 
  
https://www.16personalities.com/it/test-della-personalita-gratis  
   
Vi ringrazio ancora per l’attenzione, per la pazienza e per l’attesa. 
Fatemi sapere che ne pensate del capitolo e ci vediamo prima di fine agosto! 
  
  
  
  
Il drago della montagna accanto 
Smaug 

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Capitolo 7
*** Capitolo VI: Un po' di dolore in meno ***


Capitolo VI
Un po’ di dolore in meno
 
 
“«Noi non chiediamo mica la felicità,
solo un po’ di dolore in meno»”
Charles Bukowski
 
 
 
 
23:41, 13 Agosto 2010, Londra (UK), Umbrella Academy
«Più forte»
Le parole di Rigel, filtrate appena da un mormorio roco, echeggiarono per la grande sala sotterranea.
A Caesar le cripte non erano mai piaciute. Enormi, buie, umide e maleodoranti, le trovava a dir poco odiose e le evitava sempre con accuratezza. Quanto più poteva. Era evidente, invece, che il forte odore di muffa e chiuso, l’ambiente claustrofobico, i cigolii sinistri e gli spifferi d’aria gelida mettessero a suo agio Numero Uno. Né Numero Tre, né Octavius, dunque, si erano stupiti più di tanto quando aveva insistito per farlo proprio lì. Nelle viscere tenebrose di Rosewood.
Certo ora –a terra, ansimante, con la divisa attaccata alla pelle e fradicia di sudore freddo– non sembrava granché in forma, ma non c’era dubbio che quell’ambiente gli infondesse una certa tranquillità. Caesar, da parte sua, avrebbe dato qualunque cosa per essere in casa. Tra la corrente fresca, la fame e l’inquietudine, si sentiva tutto meno che a suo agio. Lo stesso non si poteva dire per Octavius. Papà, accanto a lui, era troppo intento a guardare Numero Uno e far prendere appunti a una penna stregata nel suo quadernetto in pelle di drago per far caso a cose come il mondo sensibile.
Seppur crepata dalla fatica, la voce si fece più alta «Più forte, ho detto».
Caesar si voltò verso suo padre con uno sguardo dubbioso. Nel suo sguardo era chiarissima la paura. Come poteva non averne? Quello d’avanti a lui –nocche sbiancate, volto pallido e occhi selvaggi– non era un nemico, un delinquente o un avversario. Quello era suo fratello. Fino a dove era lecito spingersi, in quell’impresa folle che stavano compiendo sotto lo sguardo impassibile di loro padre? Quanto male ancora gli avrebbe fatto, prima di cadere a terra lui stesso e lasciarsi divorare dall’orrore?
Papà non conosceva nessuno di questi tormenti. Gli poggiò una mano sulla spalla in segno di muto conforto e lo invitò a procedere. Nei suoi occhi riconobbe, però, una compassione familiare e ruvida determinazione. Quel gesto diceva: “dobbiamo continuare”. Numero Tre continuò. Tese il braccio destro ancora di più verso suo fratello e si concentrò più di quanto avesse fatto fino ad allora. Pensò al museo di torture medievali babbane che la scorsa settimana aveva visitato con papà. Pensò al libro di storia con le documentazioni dell’olocausto nazista che stava leggendo. Pensò alla ricerca sui crimini di guerra della Seconda Rivolta dei Folletti. Pensò alla segregazione degli elfi domestici. Pensò agli ospedali di guerra. Pensò alla peste nera. Pensò al dolore. Pensò: “soffri”. E Rigel soffrì.
Se avesse dovuto spiegare a qualcuno come funzionava il suo dolos –già allora lo chiamava così– Numero Tre avrebbe detto che era come guardare il mondo da dietro una vetrina. Caesar era lì, ma non era lì affatto. Oltre i sottili occhi castani aperti e assenti, la sua testa traboccava di orrore. Certo che percepiva ciò che accadeva intorno. Forse troppo bene. Riusciva a vedere suo fratello battere un pugno sulla pietra nuda e poi prendersi la testa tra le mani nel giro di qualche secondo. Lo sentiva gemere e gridare e poi mordere la pezza che stringeva in una mano per soffocare ogni rumore. Inutile. Le urla di Numero Uno rimbombavano nelle cripte e nella sua mente. Ma Caesar continuava. Poteva vedere anche Octavius. Al lato del suo campo visivo. Lui era lì. Fissava, impassibile, quella scenetta dell’orrore. Eppure, all’occhio ormai allenato di Numero Tre, non sfuggiva un dettaglio essenziale: papà era tutto meno che impassibile. C’era una tensione aguzza ai bordi della sua figura. Dal modo in cui pressava le labbra in una linea sottile e sgranava leggermente gli occhi, dalla rigidità eccessiva nella sua postura e il respiro che stava trattenendo, Numero Tre seppe che provava qualcosa. Anzi, meglio. Provava ansia. Caesar lo capiva perché il nervosismo che annebbiava la mente sempre gelida di suo padre era lo stesso che a lui faceva tremare il braccio, come a bloccarlo dal fare qualcosa di contro natura.
Ma questi erano solo pensieri di sbieco. Rigel stesso era una figura sfocata di fronte alle immagini di uomini e donne in catene o nudi e sanguinanti su tavole da tortura, le eco delle sue urla oscurate da spari, pianti e colpi di cannone. Succedeva sempre, d’altronde. Era una diretta conseguenza del suo potere, quando ne abusava. La trance ipnotica in cui cadeva, il progressivo aumento del suo controllo mentale sulla vittima e il profondo piacere fisico che ne traeva erano sintomi già assestati negli anni precedenti.
Fu una stretta forte sulla spalla a trascinarlo via dal fiume in piena dei suoi pensieri. E una voce.
«Numero Tre» era papà a parlare «Fermati. Adesso»
Caesar chiuse gli occhi di scatto e si portò bruscamente il braccio destro al petto. Si prese qualche secondo per respirare a pieno l’aria pregna d’umidità delle cripte, per tornare del tutto alla realtà e rendersi consapevole di se stesso. Poi, mentre Octavius rivedeva gli appunti nel quaderno, si mosse. Riuscì a tirare un paio di passi tremuli in avanti, prima di inginocchiarsi accanto a Rigel e cingergli le spalle con un braccio. Numero Uno ricambiò di slancio quell’abbraccio improvvisato. Caddero a terra, l’uno sopra l’altro, stretti tra loro per tutto il tempo del mondo, a respirare forte l’uno il profumo dell’altro.
Solo quando papà si avvicinò, si separarono.
«Numero Uno,» la voce di Octavius era poco più di un sussurro «riposo. Va’ a dormire o a calmarti nel modo che più ti aggrada. Domani ripeteremo l’addestramento; fino ad allora, solo meditazione» nei suoi occhi c’era qualcosa di morbido e delicato, ma Rigel –occhi e labbra socchiusi– non era già più lì «Niente sforzi fisici o mentali, mi raccomando. Numero Tre» lo sguardo che gli rivolse era quasi colpevole «complimenti, stai migliorando molto. Aiuta il tuo capitano a rimettersi in piedi e poi sei congedato»
«Papà» gemette Caesar, stringendo il corpo incosciente di suo fratello «è davvero necessario continuare?»
«Per quanto sia sgradevole per tutti,» sulla sua fronte si disegnò una ruga di indecisione «è la soluzione ideale. Solo così tu puoi sviluppare il tuo potere e Numero Uno ha la preziosa opportunità di aumentare a dismisura la sua resistenza mentale»
«Ma Rigel–» tentò ancora Caesar, occhieggiando il profilo pallido tra le sue braccia.
«Numero Uno» lo interruppe Octavius, con una voce tutta schegge di metallo «si è offerto volontario per la sperimentazione e riconosce che è un’occasione d’oro per allontanare la sua soglia del dolore»
«Papà» il tono di Numero Tre era quello accorato delle preghiere sottovoce «Non vedi come si riduce ogni volta? So che stiamo migliorando, ma ne vale davvero la pena? Io–» soggiunse, scuotendo la testa «io non ce la faccio, io non posso più…»
«Certo che puoi» replicò prontamente suo padre «Puoi e devi. Questo addestramento è necessario e, per quanto non ci piaccia, la sofferenza di Numero Uno è il prezzo dell’accrescimento del tuo potere»
«E allora rinnego il mio potere!» le urla di Caesar –la voce sottile e crepata, grondante di angoscia– echeggiarono per le ampie sale sotterranee «Rinnego il mio cognome! Rinnego l’Umbrella Academy, se devo! Non voglio più far male alle persone che amo!»
«Stammi bene a sentire, Numero Tre» Octavius trasse un respiro profondo e si abbassò per poter essere al suo livello, puntellandosi appena sui talloni «Le persone che ami si faranno male a prescindere. Là fuori il mondo è buio e selvaggio e l’unico modo per contrastarlo è essere ancora più bui e selvaggi di esso. Vuoi che i tuoi fratelli non stiano male? Addestrati,» il suo tono non ammetteva repliche «controllati, sii spietato. Non fuggire dal combattimento e non reprimere il tuo potenziale in virtù di sciocchi ideali moralisti. Il tuo potere ti rende forte. Alimentalo. Curalo. Accrescilo a qualunque costo. I tuoi fratelli faranno lo stesso e arriverà il giorno, Numero Tre, in cui non ci sarà nulla in grado di farvi del male. Fino ad allora,» soggiunse, senza smettere di guardarlo negli occhi «questo è l’unico modo in cui puoi aiutarli»
«Promettimi» fu la risposta di Caesar, dopo qualche istante di riflessione «che non farai mai niente che vada contro il loro interesse»
Papà sembrò preso alla sprovvista per un momento, ma quando parlò lo fece con una voce morbida «Ti prometto che non ho mai agito né ho intenzione di agire contro l’interesse dell’Umbrella Academy»
E se quella non era la risposta a cui Numero Tre ambiva, non ne fece parola. Suo padre aveva ragione. Solo abbracciando interamente il suo potere sarebbe stato in grado di proteggere la sua famiglia dai pericoli del mondo esterno e dell’accademia. Checché ne dicessero gli altri, Caesar non era stupido. Impulsivo? Certo. Ingenuo? Spesso. Incosciente e irrazionale? A volte. Sciocco, mai. Numero Tre era lento nell’imparare, ma non dimenticava facilmente e già da tempo era sorto alla sua attenzione un dettaglio che agli altri pareva sfuggire. Il più grande pericolo per l’Umbrella Academy era il suo stesso patrono. Nulla, più di Octavius, aveva il potenziale di distruggere la sua famiglia.
I passi di papà riecheggiavano per le cripte, ma Caesar neanche li sentiva. L’unico suono che si concedeva di captare era il battito lento e stabile del cuore di Rigel, suo fratello, la sua famiglia. Nient’altro importava.
 
 
 
 
 
23:12, 22 Dicembre 2020, Londra (UK), The Ned
«I piani sono cambiati»
Nasheeta saltò giù dal letto prima ancora di registrare consciamente cosa fosse successo. Non c’era bisogno di pensare. Non serviva ragionarci su. La voce dello Zar –liscia come velluto e calda come il tramonto ma profonda e scura come un abisso– lei l’avrebbe riconosciuta tra mille.
Non ricordava di avergli dato una copia delle chiavi, quindi doveva essersi smaterializzato nella camera d’albergo che lei condivideva con Gideon. Tipico di lui. Lo Zar non era mai stato –negli anni in cui si erano conosciuti– il tipo che chiede il permesso. Era abituato a essere al comando, in pieno controllo della situazione. Era lui a decidere. Se magari a Nasheeta fosse stata a cuore la propria privacy, non aveva alcun rilievo. Un’altra persona sarebbe stata oltraggiata dalla sua mancanza di buone maniere, ma alla Sfinge non importava. Anzi. In una sua qualche perversa percezione delle cose, le faceva piacere. Eccola lì, la prova. Lo Zar si era smaterializzato nella sua camera d’albergo senza dare uno straccio di preavviso o senza la benché minima aria di vergognarsene e lei –invece che indignarsi e pretendere rispetto– si pettinava i capelli con le dita in tutta fretta, tirava su l’elastico dei pantaloni del pigiama e arrossiva come un’adolescente al primo appuntamento. Se Gideon non fosse stato in bagno a farsi un altro trattamento di bellezza –il terzo quella settimana–, si sarebbe rotolato dal ridere e poi le avrebbe fatto un discorsetto sulla dignità personale.
Grazie al cielo, lui non era lì.
Lo Zar marciò nella suite dei suoi colleghi come un carro armato sul campo di battaglia. Sul suo volto era dipinta quell’espressione rigida e tesa che aveva ogni qual volta le cose non andavano secondo i suoi organizzatissimi piani. Oltre alla tensione, però, quella sera sembrava anche furioso. La Kitsune sfilava dietro di lui con un’aria più afflitta che arrabbiata.
Nessuno dei due fece particolarmente caso al pigiama di pile rosa pastello di Nasheeta, né alle trecce spettinate che cercava di districare con una nonchalance venata di ansia. Il ché era già di suo un problema. Lo Zar non mancava mai di farle notare le sue eventuali inadeguatezze fisiche con un sopracciglio alzato o, se di buon umore, un sorrisetto ironico. Era ormai una scena topica nel Decimo Reggimento. Nasheeta si presentava a riunione con qualcosa fuori posto –che fossero scarpe slacciate, trucco sbavato o un cappotto abbottonato male– e poi diventava tutta rossa quando Elijah glielo faceva notare.
«C-cosa?» ebbe il coraggio di balbettare.
Elijah si sedette sul letto di Gideon, d’avanti a lei, e sembrò del tutto indifferente allo stato in cui versava la sua collega. Nasheeta, invece, si chinò, con tutta la discrezione di cui era capace, a raccogliere il grosso libro in pelle di drago che stava leggendo prima dell’arrivo dei suoi compari. Kasumi si sedette accanto allo Zar, senza dire una parola. E di parole ce n’erano tante che dovevano esser dette. Ma non in quel momento perché, appena in tempo per l’entrata in scena dello Zar e della Kitsune, si spalancò la porta del bagno della suite e da lì giunse un’ondata di vapore, un’umidità profumata che, per chiunque in quella stanza, oramai significava soltanto una cosa. Apollo, bello come un dio greco e se possibile anche più arrogante, emerse dalla sua nebbia artificiale. Nudo. Totalmente nudo.
Non avanzò di un solo passo per qualche secondo, come se fosse un modello di brand fashion babbani o l’attrazione principale di una mostra d’arte moderna. Kasumi lo guardò senza vederlo neanche, già abituata da un pezzo a quel fare da megalomane. Nasheeta si diede una manata in fronte e si impose di non guardare. Lo Zar, da parte sua, lo squadrò per un momento da capo a piedi e poi gli rivolse un’occhiataccia: «Hai intenzione di vestirti o vuoi illuminarci con le tue grazie per un altro po’?»
«Dio solo sa da quanto voialtri non vi concedete ai piaceri della carne» il sorriso di Gideon riluceva di una malizia sfacciata «Vedetelo come uno sfoggio della mia generosità»
«Considerati fortunato» replicò lo Zar «Attualmente abbiamo problemi più grandi delle tue manie di nudismo. Ed è per questo che io e la Kitsune siamo qui senza preavviso, non» soggiunse, a mezza voce «per gli show a luci rosse di Apollo»
«Problemi?» Nasheeta incrociò le gambe sul letto e strinse il libro al petto «Non avete… non siete riusciti a parlare con il Generale?»
Kasumi ed Elijah si scambiarono un’occhiata traboccante di sottintesi. Nessuno dei due sapeva cosa rispondere. Gideon –le ante di ben due armadi spalancate– era troppo preso dalla scelta dell’outfit serale per ascoltare davvero i suoi colleghi. Non che Apollo fosse un uomo superficiale. Era in una situazione difficile, ecco. Il pezzo forte della sua collezione inverno –un maglione blu cupo a collo alto che faceva pendant con i suoi occhi ed esaltava il rosso dei suoi capelli– era andato perduto in quell’infernale marchingegno babbano che lo staff dell’hotel chiamava lavatrice e quella notte non si sentiva molto in vena di camicie. Il ché restringeva le sue opzioni a una fascia molto limitata di indumenti. Una vera emergenza, insomma.
«Tutto il contrario» la voce dello Zar era insolitamente vacillante «Abbiamo parlato con il Generale, di persona»
«E che ha detto?» insistette Nasheeta.
«Che siamo nella più scomoda delle situazioni» lo sguardo di Elijah era perso tra le venature del legno del parquet «Il Generale non ha gradito il nostro fallimento a Rosewood, ma è stato abbastanza caritatevole da non farci fuori sul momento e garantirci una seconda chance per completare la missione e proseguire con i nostri progetti individuali»
«E questa non è una buona cosa?» la Sfinge era sempre più confusa «Il Generale ha capito, non ci dà la colpa e ci dà la possibilità di correggere i nostri errori. Magari la missione sarà un po’ diversa da com’era all’inizio, ma è un passo verso di noi che lui sta facendo. Alla fine, avevo ragione io, no?»
«No» Gideon, che aveva optato per un paio di jeans e un lungo cardigan di lana rossa, si accasciò elegantemente sul pouf lì vicino «Avevo ragione io. Il Generale ci ha affidato questa missione pur sapendo che era un suicidio e alza progressivamente il livello di difficoltà per vedere fin dove arriviamo. Scommetto che ha detto che il rinnovamento della missione è un gesto di misericordia» quando nessuno gli rispose, il suo sorriso si fece più largo e predatorio «E sono anche pronto a scommettere che ha minacciato di ucciderci tutti se non la portiamo a termine questa volta»
«Non possiamo far altro che proseguire» disse lo Zar «C’è troppo da perdere»
«Zar,» Kasumi si voltò verso di lui, il volto illeggibile come al solito. Quella sera era più silenziosa del solito, ma il tono grave della sua voce la diceva lunga sul perché; qualcosa non andava. Anzi, qualcosa era andato tremendamente storto durante il colloquio con il Generale. E l’espressione della Kitsune valeva più di tutte le parole dello Zar. «non vorrai seriamente prendere in considerazione questa missione».
«Con quello che c’è in gioco?» ribatté prontamente lui.
«Perché? Cosa c’è in gioco?» la domanda suonò stupida persino alla Sfinge stessa.
«Vite» fu la risposta sibillina dello Zar.
«Invece che pensare alla posta in gioco» li interruppe Gideon «perché non parliamo dell’evoluzione effettiva della missione? Cosa dovremmo fare? Rapire l’elfo domestico e chiedere un riscatto?»
Kasumi –sguardo vagabondo e labbra serrate– non era mai sembrata più tormentata di così. Disse: «Vuole che li uccidiamo tutti».
Sulla stanza calò un silenzio di occhiate complici e pensieri orridi e parole non dette. Lo Zar si passò una mano tra i capelli e storse le labbra in una smorfia di impazienza. Se era arrivato al punto di non tentare neanche di nascondere la sua frustrazione, qualcosa doveva pur significare. Cosa era un dilemma da lasciare ai tempi morti della vita di Gideon. In fondo, lui era lì per osservare, per imparare, per emulare. Lo Zar, nel suo ferreo controllo delle cose, non era in grado di trattenere le sue emozioni ed era incapace di comprendere quelle altrui. Era comprensibile, dunque, che quella situazione gli fosse a dir poco scomoda. Il fallimento non lo concepiva affatto. Apollo, da parte sua, era tutt’altro che una new entry dell’Ordine e, nei suoi quasi-dieci-anni (come amava lui stesso dire) di servizio, non gli era mai giunta voce di un incarico che lo Zar avesse fallito. Uno, in effetti, c’era stato. Ma quella era più una sconfitta morale che oggettiva. D’altronde, anche la missione in cui la sua partner aveva perso la vita si era rivelata un successo. Questo era un fallimento su tutti i fronti.
Gideon invece era uno dei bassifondi, abituato a perdere e, anzi, abituato a trarre il meglio da ogni sconfitta. Era uno scommettitore, anche. Ciò che non andava a buon fine al primo colpo, poteva essere riottenuto a un secondo o un terzo. Nella sua personale visione, la sconfitta esisteva. Relativa, ovviamente. E sempre utile, a suo modo. Ma esisteva. E nel grande schema delle cose, ogni fallimento era al contempo una lezione e un mezzo per l’unico, grande fine. Vincere.
Quando fu chiaro che nessuno aveva intenzione di prendere la parola, fu proprio Apollo a raddrizzarsi dal suo pouf puntellandosi sui gomiti e intervenire.
«E noi» voce bassa e mento alto, quel suo bel sorriso felino a incurvargli le labbra «cosa vogliamo fare?»
 
 
 
 
 
23:14, 22 Dicembre 2020, periferie di Londra (UK)
«L'ultima volta che l'ho vista, abbiamo deciso che ci saremmo incontrati qui questa sera» il respiro di Rigel si condensava man mano che procedevano sulla strada sterrata dove si erano smaterializzati poco prima. Si trovavano ben lontani dal centro, in uno dei quartieri più esterni. Dove, di preciso, era un mistero. Inutile dire, infatti, che Numero Uno non si era scomodato nel dargli neanche uno straccio di informazione. Neanche il perché era chiaro. C'era la bellezza di altre sette persone tra cui scegliere. Qualcuno sarebbe stato anche felice di assaporare il freddo londinese. Oliver, per esempio, era troppo entusiasta per percepire i meno sette gradi del periodo natalizio e Artemis avrebbe seguito Rigel anche all'inferno. Caesar, con qualche lamentela, avrebbe accettato. Invece, sorpresa delle sorprese, l'onore di accompagnare Numero Uno nell'impresa non era toccato a nessuno degli allegri volontari ed era ricaduto su quello che forse più di tutti voleva starsene in pace a bere in salotto. I criteri di scelta rimanevano ignoti. D'altro canto, però, Alexis era sicuro che l'audace capitano dell'Umbrella Academy provasse una certa soddisfazione nell'infastidirlo in qualunque modo. Che fosse ordinargli di tornare a casa per le vacanze di Natale o trascinarlo via dalla poltrona per un'avventura dicembrina, Rigel sembrava trarre un qualche perverso piacere nell'imporgli la propria volontà e vederlo, anche se con malagrazia, sottomettersi ad essa. Tanto valeva rassegnarsene. Tra una settimana al massimo, si sarebbero detti addio in definitivo. «Considerato che noi siamo in ritardo» stava continuando, per l'appunto «lei dovrebbe essere qui a momenti».
«E dov'è andata, di grazia?» il tono di Numero Nove –infreddolito nel suo leggero cappotto blu e jeans attillati– si faceva suo malgrado sempre più irritato. Come biasimarlo? Per un capriccio irrazionale di Rigel, era stato sottratto al tepore del salotto orientale e al suo whiskey incendiario; e la calda contentezza all'idea di rivedere Bizzie veniva meno a ogni nuovo dettaglio sul perché se ne fosse andata in prima battuta. Per non parlare poi dell'atmosfera pesante in quel vicolo buio della Londra periferica, baciato da un vento gelido e pungente, che Numero Uno neanche si sforzava di alleggerire. «L'hai spedita fuori città?».
«Nelle campagne oltre Londra» rispose l'altro, accelerando e volgendo lo sguardo sull'asfalto rovinato. Pochi bui edifici –casermoni senza finestre o palazzine inanimate di appena un paio di piani– incorniciavano la via; delle vecchie auto si addossavano a marciapiedi malandati, ma non avevano ancora incrociato alcun passante. L'unica forma di vita era rappresentata dallo sporadico abbaiare lontano dei cani randagi. In quello scenario da film horror, eccezion fatta per i passi sicuri di Rigel e la sua voce ferma, non c'era proprio nulla di rassicurante. «Doveva fare delle commissioni per conto mio. Dopo la morte di papà, io non potevo muovermi da casa perché il Ministero mi aveva imposto una traccia temporanea e c'era bisogno di liberarsi di alcune... cose, nel modo più discreto possibile. Quindi senza magia» si curò di puntualizzare «visto che ormai anche la magia elfica è rintracciabile. Bizzie ha capito che era una questione importante e si è offerta di farla per me»
«Fammi capire» Alexis alzò il passo per stargli dietro, la fronte aggrottata e una smorfia sulle labbra «Hai mandato Bizzie nelle campagne inglesi a "liberarsi di alcune cose" senza magia, tutta sola?»
«Non era sola» nel tanto, Numero Uno si rifiutava ancora di guardarlo negli occhi e finalmente si fermava, la sua voce colorata di irritazione riflessa ma comunque solida e paziente. La strada giungeva a un bivio: da una parte, grossi lampioni illuminavano una via asfaltata e alcuni cartelli indicavano la prossimità della città di Maidstone, dall'altra un sentiero sterrato e buio si snodava tra i campi. Rigel guardava il secondo. «Sarebbe potuto accadere di tutto. Qualche babbano malintenzionato, un animale feroce, una tempesta... non l'avrei mai mandata da sola. Ci sono le mie ombre con lei»
«Le tue ombre, ovvio!» esclamò Alexis, con la voce che bruciava di sarcasmo «Questa sì che è una risposta rassicurante! E dimmi, è via da quanto, in compagnia delle tue amabili ombre?»
«Le ho dato dieci giorni per inoltrarsi nelle campagne e trovare un posto abbastanza remoto da non essere trovato almeno nel giro dei prossimi quattro anni. Le mie ombre si sarebbero occupate di portare i pesi eccessivi e proteggerla, ma lei avrebbe dovuto svolgere il compito più importante: scavare» si bloccò un attimo, forse chiedendosi se non stesse rivelando troppo o forse per riprendere fiato. Gli rivolse un'occhiata di sfuggita, prima di continuare: «Avevo bisogno che occultasse i cadaveri dei cavalieri che–»
«Occultare cadaveri!?» Numero Nove lo afferrò bruscamente per un braccio, costringendolo a voltarsi verso di lui, a incontrare il suo sguardo incredulo e oltraggiato «Rigel» ad Alexis prudevano le mani «guardami in faccia e dimmi che non hai ordinato alla creatura che ci ha cresciuto ed amato di seppellire le tue vittime nelle campagne londinesi senza magia»
«Io non potevo abbandonare casa» replicò Numero Uno, a denti stretti «e Bizzie è l'unica di cui possa fidarmi per certe cose»
«Ti rendi almeno conto di cosa l'hai costretta a fare?» la sua voce traboccava di orrore «Lei è parte della famiglia!»
«E tu sì che sei un esperto di famiglia!» ribatté Rigel di scatto, senza però accennare a muoversi e calando nel tono di almeno un'ottava. Ciò che stava per dire, gli alberi e l’asfalto e i pipistrelli non potevano sentirlo.  Era un segreto. Una frana inaspettata. Quasi che lui stesso non potesse mangiarsi quelle parole e fosse costretto a sputarle via. «Te ne sei andato di casa appena preso il diploma e da allora non ti sei più fatto vedere né sentire. L'ultimo ricordo» disse, con estenuante lentezza «che nostro padre ha di te sono le tue urla, prima che tu abbandonassi tutti noi senza un saluto. Non hai idea di quanto sia stato in pena per te, di quante volte abbia pensato...» la frase si perse nel silenzio, prima che Rigel si sottraesse alla sua presa e lo guardasse con occhi sottili e minacciosi «Per com'è andata la storia, tu non sei nella posizione di farmi ramanzine su come si tratta una famiglia o sull'amore in generale. Non ho ordinato niente a Bizzie» ripeté, con una convinzione spaventosa «Lei sapeva che era la cosa giusta da fare, che era per proteggere la nostra famiglia e non ha esitato a farla. Questo è amore: non porre domande, non nutrire dubbi, avere fede. Ma che ne puoi sapere» gli scappò dalle labbra una risata amara «tu dell'amore?»
«Almeno io» fu la risposta pronta di Alexis, rovente laddove l'altro era gelido «non mi illudo di essere stato amato da nostro padre»
Rigel era sul punto di controbattere ancora, quando qualcosa costrinse entrambi a voltarsi. Dal buio del sentiero sterrato si andò delineando una figura bassa e sottile, con grosse orecchie animalesche e giganteschi occhi verdi. Si accorsero del suo arrivo dal rumore dei suoi passetti sul selciato, dal suo respiro pesante. Lei era a due metri di distanza. Sotto il vestitino color menta lacero e sporco, la sua pelle era così tesa da sembrare carta e i suoi movimenti erano impacciati da un tremare insistente. Attorno a lei, decadenti nel loro fascino oscuro, fluttuavano le ombre.
Bizzie.
«Padrone» mormorò, una mano tesa verso di Numero Uno «Sono tornata, padrone»
Rigel non aspettò che dicesse altro. Dimenticò del tutto Alexis e ciò che stava per dire. Le andò incontro a grandi falcate e la sollevò senza fatica, stringendola tra le braccia come si fa con i bambini, con una delicatezza ferma che sa di protezione. L'elfa aspettò di affondare il musetto nell'incavo del suo collo per scoppiare in lacrime. Ad Alexis si spezzò il cuore. Nei suoi ricordi, Bizzie era sorridente ed infinitamente dolce, adorabile nei suoi abitini pastello e lunghe calze colorate e sempre pronta a curare qualsiasi male dei suoi bambini con tè caldo e biscotti appena sfornati. Vederla piangere di tristezza e di terrore era uno spettacolo del tutto nuovo. Sentì l'impulso di unirsi a quella riunione, di abbracciarla e farsi carico, in parte, del bagaglio di dolore che si portava addosso. Ma, in fondo, quale diritto aveva lui, lui che se n'era andato otto anni prima e non si era mai preso la briga di spedire una lettera o una foto? Quale bene poteva farle la sua presenza? La tenerezza con cui Rigel la stringeva tra le braccia e le sussurrava parole dolci all'orecchio, ecco, Alexis non era sicuro di poterle dare un conforto del genere. D'altronde suo fratello aveva ragione. Lui non aveva mai conosciuto quel tipo di amore. La dolcezza cauta con cui ora la poggiava a terra e si sfilava la giacca di pelle per metterla sulle spalle gracili e tremanti dell'elfa domestica, Numero Nove non la conosceva. Da una vita, si limitava a guardarla, a cercare invano di afferrarla.
«Padrone, padrone» continuava a mormorare Bizzie, tra i singhiozzi «Faceva così freddo, padrone, e com'era buio, com'era buio...»
«Ci sono io, non aver paura. Sono qui» le rispondeva paziente Rigel, ora inginocchiato alla sua altezza per poterle accarezzare le gote con dita gentili «Anzi, ti ho portato qualcuno. Niente ombre, stavolta» le assicurò, quando l'elfa scosse la testa con veemenza «Ti ho portato qualcuno di carne e sangue, con un cuore che batte. Va tutto bene, Bizzie, ci sono io» le prese il volto tra le mani e le rivolse un sorriso d'incoraggiamento «Te lo ricordi Alexis? Era uno dei tuoi bambini, tanto tempo fa. Quando cantava sotto la doccia, lo si sentiva per tutto il primo piano e profumava sempre di quel suo shampoo alla cannella. Non smettevi mai di dire a me e papà che era un angelo, non un soldato» all'annuire timido dell'elfa, il suo sorriso si allargò «Alle feste di famiglia, si slegava la cravatta e metteva la matita intorno agli occhi e tu gli dicevi che sembrava una rock star, ti ricordi?» non disse che Octavius lo guardava con disapprovazione e si risparmiava una scenata per amor della sua immagine pubblica, ma lei sembrò tranquillizzarsi a quel ricordo «E a Natale i suoi regali erano quelli che ti piacevano di più, anche se fingevi di non avere favoritismi. Quando avevamo quindici anni» continuava a raccontare «ti regalò un vestitino di paillettes e tu promettesti che l'avresti messo nelle occasioni più importanti. Allora, te lo ricordi Alexis?»
Bizzie –il volto affondato nelle mani di Rigel e gli occhi verdissimi fissi nei suoi– annuì con più sicurezza.
Numero Uno non si risparmiò un altro sorriso e, mentre la mano destra scendeva sulle spalle dell'elfa, con la sinistra le accarezzava gli zigomi alti. Scoccò ad Alexis un'occhiata di traverso e lui colse il sottinteso. Si avvicinò a loro con l'incertezza di chi crede di essere in un sogno, perché quella scena traboccava d'assurdo. Fino alla settimana precedente, Numero Nove era convinto che non avrebbe mai più visto nessuno dei suoi fratelli; ora invece assisteva a un momento epocale, nel quale la sua presenza era al contempo scomoda e calzante. Numero Uno, che per anni era stato piatto e grigio, si faceva sempre più sfaccettato e sfumato. E Bizzie, rovina sacra di una scorsa vita, era lì d'avanti a lui. Inginocchiarsi accanto a lei fu un'esperienza irreale.
All'immagine delle sue memorie, si sovrappose la realtà dei fatti. Bizzie era la stessa di sempre, sì, ma anche dieci anni fa aveva quelle occhiaie? E già le sporgevano così tanto, prima che andasse via, le clavicole? Quei pensieri gli passarono per la mente soltanto per qualche secondo, perché subito l'elfa –sottilissima nell'abitino lacero e nella pesante giacca di Rigel– gli rivolse tutte le proprie attenzioni, puntandogli addosso uno sguardo ineludibile, di quelli che scavano dentro. Alzò una manina fino a toccargli la guancia, sfiorandogliela appena con i polpastrelli. Quando gli sorrise, Alexis ricambiò di riflesso. Impossibile non farlo. E quando gli occhi di Bizzie iniziarono a riempirsi di lacrime e lei prese a tirare su con il naso, Numero Nove si sporse verso l'elfa e si lasciò abbracciare del tutto, mentre lei ricominciava a piangere. Si concesse di stringerla a sua volta, almeno per un po'. Di affetto, negli ultimi anni, non ne aveva ricevuto granché.
«Alexis» la voce di Numero Uno era bassa e accorata «Si sta facendo tardi e Bizzie è già stata troppo tempo fuori casa; è meglio se andiamo»
Alexis rinsaldò la presa sotto le braccia dell'elfa e si alzò, stringendola forte contro il petto. Bizzie era anche più leggera di quanto ricordasse. Rigel gli rivolse per qualche secondo uno sguardo di cauta misurazione, come se si chiedesse fino a che punto fosse opportuno fidarsi, prima di sospirare. Se aveva freddo, non lo disse. Attese, senza fiatare, che l'altro sistemasse meglio l'elfa tra le braccia e, anzi, si avvicinò anche per sistemarle meglio la giacca sulle spalle. Una volta finito, gli porse il braccio. Alexis vi si aggrappò, sentendo sotto il palmo la morbidezza della lana grezza del maglione, ancora calda per miracolo. In un attimo, si smaterializzarono.
 
 
 
 
 
23:41, 22 Dicembre 2020, Londra (UK), The Ned
«Non se ne parla» fu la risposta netta e inflessibile dello Zar «Tradire il Generale è un suicidio»
«Questa missione lo è» replicò Apollo. La sua voce non ammetteva contradizioni.
«E cosa intendi fare?» il tono di Elijah era apertamente derisorio «Obliviarlo? Mandargli una lettera di scuse e un cestino di muffin per il disturbo?» il suo sguardo trovò gli occhi prima di Nasheeta e poi di Kasumi «Ci farebbe a pezzi»
«Beh, con questo atteggiamento» considerò Apollo a sopracciglia inarcate «non vedo altro esito. Kitsune, ti va di sostenermi un po’?»
«Ribellarsi è la peggiore idea che ti sia venuta da quando ti conosco,» Kasumi accavallò le gambe con eleganza «ma è un’alternativa migliore al progetto del Generale, almeno. E no, no Zar» aggiunse, rivolta al suo collega «Non ci pensare neanche. Se riuscissimo nel nostro intento, cosa improbabile ma non impossibile, sarebbe comunque un massacro. Non ho intenzione di aiutarti ad ammazzare nove persone. È fuori discussione»
«Lo è anche una ribellione» insistette lo Zar «L’Ordine conta novantaquattro Cavalieri e tutti e novanta ci starebbero addosso. I Cleremont invece sono dei ragazzini. Pensateci bene» il suo tono si fece basso e cospiratorio, il suo sorriso obliquo «Presi singolarmente, sono bersagli mediamente semplici; per non parlare del fatto che li abbiamo già combattuti, quindi sappiamo i loro punti deboli»
«Punti deboli?» nessuno si aspettava un’obiezione proprio da Nasheeta «Perdonami, forse ero troppo impegnata a farmi torturare mentalmente per accorgermi di questi suddetti punti deboli»
«Questa fa male» mormorò Apollo in un sorriso.
Lo Zar gli scoccò un’occhiataccia di sfuggita, prima di iniziare a elencare: «Numero Quattro, Numero Cinque e Numero Sette non usano più i loro poteri. Numero Sei e Numero Nove, anche volendo, hanno capacità inoffensive. Numero Due è un pericolo solo se associato a uno dei suoi fratelli. La rigenerazione di Numero Otto non è più veloce come un tempo. Numero Tre ha la guardia abbassata e manca di iniziativa, mentre Numero Uno non può affrontare quattro avversari alla volta»
«Ma ti senti mentre parli?» Kasumi aggrottò la fronte «Stai progettando una serie di assassinii a sangue freddo, di persone che non hanno fatto nulla di male. Sono innocenti»
«E io» ribatté Elijah «sono un sicario. È il mio lavoro. Mi pagano per questo. E dalle mie prestazioni» ignorò volutamente la mezza risata di Gideon «dipendono l’istruzione di mia figlia, le mie vacanze al lago e attualmente anche la mia pelle. È un impiego come un altro, una professione salariata al pari di qualsiasi. Se il mio capo mi impone di eseguire un certo compito, io lo porto a termine e non progetto una ribellione armata per evitarlo»
La Kitsune scosse la testa «Non è così semplice. L’Ordine ha sempre seguito un codice morale»
«E invece ha ragione lo Zar» intervenne Gideon, scoccando un sorriso al suo collega «Tu magari non ti occupi degli assassinii di per sé, ma sono parte integrante degli affari dell’Ordine e il codice morale del Generale è stato messo in discussione ben più di una volta. Il problema» soggiunse, sbuffando «non è questo. Far fuori l’intera Umbrella Academy non sarebbe una passeggiata. Fattibile? Sì. Facile e veloce? Affatto. Non abbiamo abbastanza tempo per portare a termine una missione del genere con la cura necessaria e uscirne tutti interi. E il Generale lo sa. Ci ha attirati in una trappola»
«Il Generale non lo farebbe mai» Nasheeta mise su un’espressione ostinata «Siamo i suoi Cavalieri, Apollo! È contro il suo stesso interesse farci del male o spingerci ad andar via. Sono sicura che ci sia stato un malinteso, che non abbia compreso fino in fondo la situazione»
«E invece sei tu che non capisci» Elijah le rivolse uno sguardo severo «Il Generale ha capito anche troppo. Si è accorto che abbiamo iniziato a farci domande e che non avremmo accettato l’incarico per come lui lo intendeva sin dall’inizio. Credi che gli servissero davvero i documenti di Cleremont?» quella che gli scappò dalle labbra fu una risata roca e amareggiata «Povera sciocca»
«Siete tutti fuori di testa!» la Sfinge li guardava come se i suoi compari fossero ammattiti all’improvviso «Dalle mani ci si può lavar via tutto, ma non il sangue innocente» recitò, con una certa meccanicità nel tono «Sono del Generale queste parole, prima ancora che mie, e dovrebbero essere anche vostre! Questa discussione… ecco, questa discussione non ha alcun senso. Il Generale non vorrebbe che versassimo sangue invano e se credete il contrario, allora state sbagliando tutto!»
«Sfinge, sii ragionevole» la voce di Gideon era accorata, il suo sguardo morbido. Fece leva sui gomiti per alzarsi dal pouf, con l’ombra di un’intenzione sul volto, ma lo bloccarono i movimenti nervosi di Nasheeta, il percorso sconnesso che i suoi occhi tracciavano per la stanza. Si arrestò. In quel momento, più che una spia internazionale, pareva un cervo spaventato in mezzo alla strada, passi felpati nel cuore della notte e sguardo folle tra l’asfalto e il selciato. Spalle rigide e labbra serrate, Gideon tornò a stendersi sul pouf.
«Hanno ragione loro, Sfinge» soggiunse Kasumi, con un’aria rassegnata che non le si addiceva «Il Generale deve mantenere certe apparenze. Non poteva chiederci di uccidere nove innocenti per un suo personale capriccio, per una vendetta che desidera contro Octavius Cleremont. I documenti erano un pretesto plausibile e ora vuole spacciare questa evoluzione della missione come una diretta conseguenza del nostro fallimento»
«Devi ammettere che era ben architettato» la supportò Apollo, con una cautela che non gli si addiceva.
«Io non…» la presa di Nasheeta sul libro si fece spasmodica, la sua espressione a metà tra l’incredulità e la disperazione «il Generale non lo farebbe mai. Voi non sapete– lui non sa, ma se solo sapesse…» i suoi occhi color cioccolato corsero a cercare quelli dei suoi colleghi «Artemis e Oliver Cleremont hanno fatto, nel tempo all’Umbrella Academy, seimila ore di volontariato in rifugi per animali. Esmeralda Cleremont passava i suoi finesettimana estivi ad aiutare i magichirurghi in operazioni che duravano anche intere nottate. Caesar Cleremont–»
«Nulla di tutto ciò ha importanza» l’interruzione dello Zar arrivò di scatto, inaspettata e dolorosa come un colpo di frusta «E tu non avresti mai dovuto leggere quel libro»
«Questo libro» ricalcò lei a voce bassa «mi ha aperto gli occhi su quello che tu vuoi fare». Non guardava più nessuno in particolare e a chi si stesse rivolgendo divenne un mistero «Loro non meritano di morire. Sono… sono soltanto dei ragazzi»
«Sono carne da macello» sentenziò lo Zar, occhi freddi quanto la sua pelle, schegge di vetro per parole «Non dovresti sapere neanche i loro nomi. Figurarsi le loro attività estive. Il nostro lavoro richiede una lucidità mentale che non stai dimostrando, Sfinge. Ti pagano per uccidere. Profumatamente» soggiunse, in un sorriso tutto denti e sarcasmo ugualmente affilati «se posso dire la mia. Il minimo che puoi fare per la tua sanità mentale e per l’integrità dell’Ordine è essere professionale. Io ti ho proposta al Generale» e la Sfinge incassò la testa nelle spalle «perché mi fidavo del tuo giudizio e credevo avessi ciò che serve, ma ora non ti riconosco più. Sto iniziando seriamente a pentirmi di averti messa in mezzo e sai anche tu qual è il motivo» si fermò per qualche momento, quasi a incoccare altri dardi; cos’era quella, d’altronde, se non una battaglia? «Ormai non puoi tirarti indietro, certo, però è ovvio che tu sia ancora troppo giovane per prendere una decisione del genere»
«E questo–» Nasheeta cercò in sé la forza di guardarlo negli occhi, di apparire sicura «questo cosa vorrebbe significare?»
«Significa esattamente quello che ho detto» rispose lo Zar, inflessibile «Sei troppo giovane ed è stato un mio errore affidarti il fardello di questa decisione. È ovvio che il tuo concetto di giusto e di sbagliato è ancora troppo netto. Io e la Kitsune» si voltò verso di lei «ci occuperemo di trovare una scappatoia a questa faccenda» la discussione era chiusa «Vi contatteremo quando lo riterremo opportuno».
«Io non sono troppo giovane!» la Sfinge, contro l’aspettativa di tutti, scattò in piedi. Il pesante volume di cuoio cadde a terra con un tonfo, ma nessuno ci fece caso. Stringeva il pugno della mano destra spasmodicamente, quello sinistro si apriva e chiudeva in movimenti secchi e impazienti. La chiamava l’istinto di impugnare la bacchetta. «E sono perfettamente capace di dare giudizi assennati! Ho preso parte a questa missione perché io me la sono meritata, perché io ho dimostrato il giusto talento, perché io ero la persona giusta. Questo merito che ti accaparri da quando lavoriamo insieme è una bugia. E lo sai! Io ho tanto diritto quanto te di decidere!»
«Tu» allo Zar bastò alzarsi per sovrastarla con il suo metro e novanta di altezza e le sue spalle larghe e il suo sguardo di seccata sufficienza, ennesima mossa di un gioco troppo sporco. Di veleno ce n’era ancora in abbondanza. «non hai esperienza dell’Ordine. Tre anni di tirocinio sotto la mia ala evidentemente non sono stati abbastanza per insegnarti gli attributi essenziali di ogni Cavaliere»
«Obbedire ciecamente–» provò a ribattere lei.
Lo Zar non la fece neanche finire «È parte fondamentale dell’Ordine. Non hai studiato a scuola il rapporto tra feudatario e cavalieri? Devi imparare a rispettare i tuoi superiori e seguire gli ordini che ti vengono dati. Al momento» questa volta prese bene la mira «sono io il tuo superiore e ti dico che questa decisione non ti riguarda»
Nasheeta riuscì a reggere il suo sguardo per qualche secondo, prima che –a mascella e pugni serrati, labbra pressate e occhi lucidi– lo abbassasse e girasse i tacchi. Per poco, mentre si rintanava in bagno, non inciampò nelle gambe distese di Gideon. Sbatté la pesante porta di legno dietro di sé e con ogni probabilità applicò rapidamente un incantesimo di privacy perché non se ne sentì provenire alcun rumore. Non era difficile indovinare che stesse piangendo.
«Direi che era inevitabile» commentò Gideon, quando fu chiaro che non sarebbe tornata.
«E io direi che siete due bastardi» Kasumi si lasciò cadere all’indietro sul materasso con un lungo sospiro «e che questa situazione non potrebbe andare peggio»
«Meglio non dirlo ad alta voce» la ammonì Elijah, passandosi una mano tra i capelli «Non c’è mai fine al peggio. Ma è anche vero che ora non possiamo fare molto. La cosa più ragionevole è andare a dormire e lasciare che la notte– no, che l’insonnia ci porti consiglio. Domani io e te» accennò alla Kitsune «inizieremo a fare ricerche. Voglio sapere come il Generale è salito al potere, chi c’era prima di lui e quanti uomini sono al suo diretto comando»
Alla Kitsune, stesa sul letto di Apollo a guardare il soffitto con un’espressione pensosa, bastarono un paio di secondi per decidere di sorprendere tutti e rispondere con un secco: «Scordatelo».
Elijah aggrottò la fronte «Come, prego?»
«Hai sentito la signora» Apollo non cercò neanche di nascondere il suo stupore.
«Il viaggio in Germania mi ha spossato psico-fisicamente» spiegò Kasumi, con il tono più serio che potesse permettersi a quell’ora di notte e in quella situazione. Non che non fosse a pezzi. È solo che si era resa conto, a differenza della Sfinge, che ai suoi egregi colleghi le minacce esplicite non piacevano granché. Specialmente allo Zar. «Ho bisogno di un po’ di tempo per riposarmi in un hotel di lusso babbano e caso vuole che abbiate appena reso la Sfinge molto, molto irritata. Fossi in voi» nella sua voce si fece forte una vena di divertimento «non vorrei essere qui quando uscirà da quel bagno».
«E io che centro?» obiettò Gideon «È colpa mia se lo Zar è delicato come un platano picchiatore?»
«Ti prego, Apollo, non esagerare con questi complimenti» fu il commento a mezza voce di Elijah.
Per tutta risposta, Gideon gli ammiccò, sfoggiando il suo sorriso più obliquo.
«Apollo,» Kasumi non si sforzò neanche di alzarsi dal letto e, anzi, si tolse gli stivali con un movimento preciso della bacchetta e si mise ancora più comoda «tu sei suo amico e sei rimasto lì a guardare mentre lo Zar, che in teoria dovrebbe essere il suo mentore e guida nell’Ordine, la umiliava. Quindi sì, ora vi odia entrambi» concluse, mentre si prendeva il giusto tempo per sprimacciare adeguatamente il cuscino «e vi odierò anch’io se proverete a scollarmi da questo letto per i prossimi tre giorni»
«Kitsune» il tono di Elijah era passato dal sorpreso al disperato nel giro di una parola «vuoi davvero farmi lavorare con Apollo?»
«Te lo meriti» rispose la Kitsune «Vi meritate entrambi di lavorare insieme. E ora, sparite dalla mia suite prima che sia io a cacciarvi».
Lo Zar pensò di obiettare un’altra volta, ma si rese conto, ancor prima di aprire bocca, che era una pessima idea. Conosceva relativamente da poco la Kitsune, ma nell’Ordine aveva una reputazione pressappoco spaventosa e chiunque la conoscesse gli aveva consigliato con calore di non provocarla più di tanto. Ognuno aveva un’impressione diversa di lei, è vero. Alcuni dicevano fosse fredda come il ghiaccio, altri insistevano dicendo che sapeva essere dolce a modo suo e in generale era molto rispettata. Ciò su cui tutti concordavano, però, era che la Kitsune prestava sempre fede alle sue minacce e lo Zar sapeva riconoscere una partita persa in partenza.
Dunque, tra i sospiri e i borbottii scontenti, i due uomini uscirono dalla suite.
L’uno in jeans scuri, piedi nudi e cardigan e l’altro in pantaloni stretti, stivali e camicia nera, rimasero per qualche minuto in silenzio fuori dalla porta.
Poi, come risvegliato da un’ipnosi, Apollo si girò verso il suo compagno e gli si rivolse con quell’aria smaliziata a cui non si sarebbe mai abituato «Scommetto» disse, a voce bassa e labbra appena sollevate «che non vedevi l’ora che rimanessimo soli»
Per tutta risposta, lo Zar alzò gli occhi al cielo e si smaterializzò.
 
 
 
 
 
23:47, 23 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy
Il ritorno a casa fu un delirio.
Quando si smaterializzarono in salotto –Alexis con Bizzie tra le braccia e Rigel con un’espressione quasi felice–, ci furono dieci minuti di caos generale, di esclamazioni sorprese e di gioia liquida, occhi che cercano occhi e braccia che si incastrano. Nessuno, tra chi sapeva, fece cenno alla ragione dell’assenza dell’elfa ed esso venne presto dimenticato in favore della contentezza ignorante del ritrovarsi. Quella, d’altronde, non era che un’altra lezione di casa Cleremont. Una delle prime. Mai fare domande di cui non si vuole sapere la risposta. Tutti, nel salotto orientale, percepivano che c’era qualcosa di losco sotto la lunga assenza di Bizzie, ma nessuno di loro voleva davvero conoscerne le dinamiche. A Rosewood, la gioia era da sempre un bene prezioso. Perché metterla in dubbio e rischiare di contaminarla?
D’altra parte, era difficile guardare il visetto a punta di Bizzie e non sentirsi coinvolti dalla sua allegria. L’elfa zampettava di qua e di là per la stanza, lasciandosi stringere da tutti i suoi bambini, uno per volta, troppo scossa per dire qualcosa che poi non si sciogliesse in un pianto. Nessuno, comunque, pretese di più da lei. Il salotto orientale –che era stato da sempre un luogo di conversazioni fitte e cospiratorie, di affari loschi e contrattazioni– conobbe finalmente qualcos’altro. Risate. Voci alte e chiare. La morbidezza di un’atmosfera familiare. Artemis era corsa a prendere una delle sue coperte ricamate, testimonianze di quel periodo in cui aveva deciso di imparare le arti casalinghe, nella quale aveva avvolto Bizzie, ora su uno dei divani tra Levi ed Ezra. Così, riprese le proprie postazioni in giro per la stanza, la serata aveva ritrovato il suo ritmo lento.
«Di certo questa casa è tutta un’altra senza Bizzie» commentò, a un certo punto, Esmeralda.
Accanto a lei sul divano, come a separare miracolosamente Numero Otto da Numero Tre, Oliver annuì «Sono sorpreso che la casa fosse ancora in piedi quando sono arrivato, l’altro giorno»
«Andiamo, è mancata per… quanto? Una settimana?» replicò Artemis, di nuovo appostata accanto a Numero Uno, con un sorrisetto affettuoso «Rigel se la caverebbe benissimo anche per un mese»
Alexis inarcò le sopracciglia in un modo così apertamente derisorio che Numero Sette si imbronciò ancor prima che aprisse bocca «Sei sicura che parliamo della stessa persona?».
«Se pensi che Rigel non sia capace di dar fuoco a tutta Rosewood in mezza settimana,» corse in suo supporto Tony «significa che ti sei dimenticata che è stato proprio Rigel ad appiccare l’incendio del 2008»
«Non di nuovo questa storia» li implorò Levi «Avevamo promesso di lasciarcela alle spalle»
«Soprattutto perché io non ho avuto niente a che fare con quell’incendio» grugnì Numero Uno, a voce talmente bassa che solo Artemis lo sentì.
«Io ho sempre pensato che in realtà il colpevole fosse Ezra» commentò Esmeralda, scoccando un’occhiata diffidente a Numero Due «Caso vuole che sia stato lui ad accorgersi del fuoco in prima battuta e nell’Umbrella Academy le coincidenze non esistono»
«Io? Di nuovo?» Ezra tirò un profondo sospiro «Non so quale sia il tuo problema, Esme, ma in qualche modo sono sempre coinvolto nelle tue teorie complottistiche. Io non ero neanche in palestra quando è scoppiato l’incendio!»
«Beh, sì» annuì lei, con fare accondiscendente e un sorriso furbo «Questo è quello che vorresti farci credere, non è così? Ma se c’è qualcosa che ho imparato da Agatha Christie è che–»
«Tutti in favore che Esmeralda non apra mai più un libro giallo babbano in vita sua?» la interruppe Oliver. Per i tre divani si diffuse un mormorio di approvazione e Numero Sei sorrise, soddisfatto «Allora possiamo andare avanti».
«Infatti, ci siamo già distratti dalla discussione principale» lo appoggiò Alexis «Ovvero il fatto che è un miracolo che Rigel non abbia fatto scoppiare la casa negli scorsi dieci giorni e che ci conviene sperare che Bizzie non se ne vada mai più»
«Eh, sì» il sorriso di Caesar si fece un po’ più idiota del solito «Menomale che c’era Joanna, no?»
Nessuno fece, come invece si aspettava, eco alle sue risate o replicò alla battuta, anzi. Rigel aggrottò la fronte. Esmeralda inarcò le sue belle sopracciglia arcuate. Persino Bizzie –infagottata nella copertina a fiori da cui spuntavano solo i suoi occhioni verdi, il musetto e le grandi orecchie– sembrò alquanto confusa.
«Menomale che c’era… chi?» ripeté Numero Uno.
«Jo…anna?» fu la risposta incerta di suo fratello «La domestica asiatica che si veste solo di nero e si porta dietro la maschera delle pulizie intelligenti e ha un’evidente cotta per me»
L’espressione di Esme si evolveva man mano dal divertito al preoccupato, mentre Rigel lo fissava.
«Andiamo, te la sei già scordata? È molto carina e ha un accento giapponese, se la mia gioventù bruciata in giro per l’Asia è stata utile in qualche modo» insistette Caesar «Oh, Rigel, com’è possibile che assumi personale e poi non ti ricordi neanche di come si chiama? Sei anni senza di me ti hanno reso un manichino!»
Numero Uno continuava a fissarlo con una crescente aria da sociopatico.
In un istante, Oliver seppe che non sarebbe finita bene.
«Aspettate un attimo» intervenne Artemis, poggiando una mano sul braccio di Rigel con il solo risultato di farlo irrigidire ulteriormente «Caesar, per favore, puoi ripeterci un attimo dove e come hai conosciuto questa donna?»
«“Donna” è un po’ un’esagerazione; non poteva essere più vecchia di noi» rifletté lui «Ma comunque l’ho conosciuta la scorsa sera, poco prima dell’attacco. Dev’esserne stata terrorizzata o doveva avere un paio di giorni liberi, perché non l’ho più vista da allora»
«E siamo davvero sicuri che non fosse un’allucinazione?» indagò Tony, con il solito scetticismo.
«Ma certo che no, non sono mica così fantasioso» replicò Caesar «Anche perché non avevo idea che la volpe fosse simbolo delle pulizie intelligenti o che ci fosse un’accademia di magizoologia qui a Londra»
«Mi sembra ovvio che non lo sapessi» Esmeralda era sempre più seria «Non c’è un’accademia di magizoologia qui a Londra; non ricordate» soggiunse, rivolta anche agli altri «che Elizabeth Wood, di Serpeverde, è dovuta andare a studiare magizoologia all’estero perché non c’era un’accademia nel Regno Unito? Mentre per quanto riguarda le “pulizie intelligenti” sono sicura che–»
«Concentriamoci sulle cose importanti» la interruppe Ezra «Dove hai visto questa donna e cosa le hai detto? Mi sembra di aver capito che non c’è una domestica incaricata di pulire casa al posto di Bizzie e con ogni probabilità sei entrato a contatto con uno degli aggressori»
«Aggressori?» Caesar mise su un’espressione di stupore devastato «Joanna non farebbe male a una mosca! È una magizoologa»
«Caesar, caro» il tono di Artemis era, ancora una volta, tutto zenzero e miele «non sono sicura che il suo nome sia Joanna, né che studi davvero magizoologia. Per quanto ne sappiamo, potrebbe averti mentito per evitare uno scontro frontale e continuare la sua missione. Abbiamo stabilito che c’era un mutaforma in giro, no?»
«Joanna ha detto che lei stava…» Numero Tre si fermò per qualche secondo, come se si fosse appena ricordato un dettaglio cruciale della storia, e poi il suo stupore sfumò in una fredda neutralità «Era diretta verso lo studio di papà. Dev’essere stata lei a metterlo del tutto a soqquadro e dio solo sa cos’abbia preso. Cazzo!» si prese la testa tra le mani e borbottò tra sé qualche altra imprecazione «Sono un tale deficiente»
«Andiamo, Che» Oliver gli diede una compassionevole pacca sulla spalla «Le belle ragazze sono sempre state il tuo punto debole»
«E, in fondo» soggiunse Esmeralda, cercando di rassicurare più Numero Uno che Numero Tre «in fondo non hai rivelato nessuna informazione segreta, no? L’hai solo… lasciata andare. Poteva andare molto, molto peggio. E, considerando che non ha neanche trovato ciò che cercava nello studio di papà, non è neanche una perdita immensa, no?»
Tutti gli occhi erano, ancora una volta, puntati su Rigel. Tutti tranne quelli di Caesar. Numero Uno, invece, guardava Bizzie; e fu proprio senza staccarle gli occhi di dosso, tenendo bene a mente la situazione in cui si trovava, che scelse le sue parole. «Comunque stiano le cose, ciò che è stato è stato. Esmeralda ha ragione» a tutti era chiaro che quanto quella pacatezza gli stesse costando «Da ora in poi, però, è meglio che nessuno trascuri questi dettagli. In casa non c’è nessuno eccetto noi e non siete autorizzati a invitare gente a Rosewood senza prima avvisare tutti gli altri. Chiaro?»
«Non penso che qualcuno avesse in programma dei party a tua insaputa,» commentò Ezra «ma lo terremo a mente»
«Andiamo» tentò Oliver, stampandosi in faccia quel sorriso allegro che stonava con le espressioni meditabonde dei suoi fratelli «Poteva andare decisamente peggio! E poi venticinque anni non è la peggiore delle età per imparare a non fidarsi degli sconosciuti. Abbiamo poco tempo insieme, tra le vacanze di Natale e i sicari che a quanto pare ci danno la caccia; proviamo a godercelo»
Hillevi fu la prima a raccogliere, seppur a tentoni, il tentativo di rallegrare la situazione «Oliver ha ragione. Da ora avremo più accortezza, ma non vale la pena rimuginare. Tra l’altro, Bizzie è qui da mezz’ora e già la stiamo trascurando: questo dimostra che non sappiamo goderci le belle cose neanche quando le abbiamo d’avanti agli occhi»
«Magari» propose Artemis, occhieggiando vagamente Bizzie –al momento addormentata sulla spalla di Ezra– «è ora di andare a dormire, sia per Bizzie che per noialtri» suggerì «Anche perché domani affronteremo la questione del testamento, visto che siamo al completo.»
«Mi sembra un’ottima idea» borbottò Rigel, mentre si tirava su dal divano con un sospiro «Bizzie ha bisogno di riposo. E anche noi»
«Io ho bisogno di tre o quattro sigarette» Esmeralda ignorò volutamente l’occhiataccia di Numero Sette «quindi penso che rimarrò qui per un altro po’. Sentitevi liberi di trattenervi per il mio salotto immorale»
Artemis pressò le labbra in una linea sottile di impazienza «Esme–»
«Vi prego, non ricominciamo» le implorò Levi. In quanto terza donna della famiglia, era l’unica ad avere il diritto di mettersi in mezzo ai litigi delle sue sorelle senza rischiare di essere fatta a pezzi da entrambe «Artemis, nessuno ti costringe a fare niente. Esme, non essere sarcastica»
«E poi sono io quello che avrebbe appiccato l’incendio» borbottò Numero Uno tra sé e sé, prima di schiarirsi la voce e chinarsi per sollevare l’elfa dalla sua comoda postazione «Porto Bizzie a letto. Voi siete liberi di fare quello che volete, fintanto che non fate rumore»
«Credo che siamo più che stanchi a questo punto» intervenne Artemis, con un sorriso tutto labbra e parole non dette «Sarà meglio se andiamo tutti a dormire»
«Allora magari noi ci incamminiamo» Caesar si districò da quell’intricato disegno di gambe e braccia che erano Numero Sei e Numero Otto per rivolgersi ad Artemis, porgendole una mano con cavalleria «Ti va se ti accompagno?»
Lei appoggiò appena la mano su quella di Numero Tre e si alzò in un frusciare di seta e boccoli biondi. Mentre si faceva scortare da Caesar attraverso la stanza, diretta con ogni probabilità verso la sua camera da letto, Ezra pensò a come certe cose non cambiassero mai. Artemis era sempre stata così. Bellissima e cordiale ma inarrivabile, persino per i suoi stessi fratelli –anzi, compagni di squadra–. I suoi rari slanci di generosità filantropa –dimostrazioni non tanto di umana solidarietà quanto di pietà divina– mitigavano appena quel solito atteggiamento di eterea superiorità, quegli sguardi indignati che lanciava loro quando si parlava di infrangere le regole, pur che fossero mere convenzioni sociali. Negli scorsi anni, passati per conto suo, Numero Due si era spesso chiesto come stessero i suoi fratelli. Più di una volta, aveva provato a immaginarseli. Più grandi. Più maturi. Cambiati, in qualche modo. E invece tornare a casa era stato come perdere otto anni, un salto nel tempo fino alle vacanze di Natale del loro settimo anno accademico. Rigel era forse più cupo e freddo di quanto ricordasse. Artemis si faceva ancora distrarre dal primo complimento, dalla prima galanteria che le si rivolgeva. Persino Caesar ed Esmeralda non sembravano granché diversi, entrambi audaci e sprezzanti delle regole fin dove l’approvazione di Numero Uno permetteva. Forse valeva così per tutti. Magari anche lui era lo stesso Ezra di sempre agli occhi della decaduta Umbrella Academy.
«E rimasero in quattro» la voce gioviale di Esmeralda lo ripescò dalle sue meditazioni.
In effetti, il salotto orientale si era svuotato. Rigel, Caesar, Hillevi, Oliver e Artemis dovevano essersi congedati in tutta fretta. Non che Ezra li biasimasse. Se c’era una cosa meno di tutto il resto gli era mancata dopo aver abbandonato la sua famiglia, quella era il perpetuo, ineludibile dramma dell’Umbrella Academy. Ritagliarsi del tempo per stare da soli, lontano da liti mondane ed etiche, era il premio più ambito della guerra familiare.
Alexis abbandonò il capo sullo schienale del divano e si concesse una risata liberatoria «Sono un mostro se dico che non vedevo l’ora che se ne andasse?»
«Artemis?» indovinò Tony, combattendo il sorriso che cercava di incurvargli le labbra.
«Chi altro?» fu la risposta stanca di Esmeralda, più che sollevata di versarsi una generosa porzione di whiskey incendiario senza giudizi esterni «Mi ero dimenticata di quanto fosse borghese. Non fraintendetemi, lei è mia sorella e la adoro, davvero, ma certe volte…»
«Certe volte ti chiedi se non si comporti un po’ troppo come una dama vittoriana» completò per lei Tony.
«Io avrei usato un’espressione un po’ meno delicata,» considerò Alexis, mentre sfilava finalmente –finalmente– dalla tasca il pacchetto di Marlboro che lo chiamava da inizio serata «ma il concetto è quello. Volete favorire?» soggiunse, certo di sapere già la risposta di tutti.
La distribuzione delle sigarette, il cenno di lieve dissenso di Tony, il passaggio dell’accendino, anche quello non era che un altro rituale dell’Umbrella Academy, nato tra Rigel ed Esmeralda una decade prima e poi evolutosi nel tempo, restando sempre uguale in tutto meno che nei suoi partecipanti. Quando Numero Uno aveva iniziato a fumare da solo –o, anche meglio, con Octavius–, a lui si era sostituito Ezra. Dopo ancora, per un breve periodo, Caesar. Numero Otto non era poi tanto sorpresa che Alexis avesse raccolto il vizio, da qualche parte lungo la strada. D’altra parte, era difficile che non accadesse durante l’immersione nel mondo babbano, o anche solo nella transizione dall’universo dell’Umbrella Academy –plasmato dalle regole rigidissime e spesso ipocrite di loro padre– alla dimensione libera dell’indipendenza adulta. Ezra rifletté che probabilmente tutti loro, che lo ammettessero o meno, si erano dati alla pazza vita mondana nello stesso secondo in cui erano andati via di casa e, mentre al completo erano costretti a mantenere la facciata e fingere di essere gli stessi di sempre, era piacevole poter abbandonare le ipocrisie per un po’, pur che si trattasse di un quarto d’ora nel salotto orientale a notte fonda. E quel silenzio tra loro –non assenza di rumore, ma suoni morbidi di fiato caldo e cenere che cade– non aveva nulla di ostile. Incredibile a dirsi. Nell’Umbrella Academy, di silenzi morbidi ce n’erano ben pochi. In genere urlavano, si tendevano fino a stracciarsi oppure erano duri come diamante e quando finalmente si rompevano rischiavi di ferirti sulle schegge. In quel momento, invece, il silenzio aveva un ché di confortevole. Se fosse per la mancanza di Octavius o perché erano cresciuti, non importava poi tanto.
«Se penso che ho promesso di rimanere qui fino alla fine delle vacanze natalizie» Alexis fissava, meditabondo, il fumo che iniziava ad annebbiare vagamente la stanza «all’improvviso ho bisogno di qualcosa di più forte del tabacco»
«Dimentichi che domani c’è la lettura del testamento» soggiunse Ezra a mezza voce. Per quanto tutti fossero in teoria tornati a casa proprio per quello, per la fantomatica eredità del loro carissimo patrigno, la questione era sfuggita alle loro menti per parecchio tempo. Non che ci fosse da sorprendersi. Numero Due avrebbe scommesso l’interezza del suo conto in banca sul fatto che nessuno di loro era lì per amor del loro patrigno. A eccezione, forse, di Artemis.
«Conoscendo Octavius,» replicò Numero Nove «mi ha tagliato fuori anche prima che andassi via di casa»
«Di sicuro» intervenne Tony, pensoso come al solito «non ci dobbiamo aspettare lettere strappalacrime di amore e pentimento»
«Come se Octavius» fu il commento amareggiato di Ezra «fosse capace di amore e pentimento»
«Forse sì» Esmeralda si spense distrattamente la cicca della sigaretta sul palmo della mano, senza neanche degnare di un’occhiata la bruciatura che si riparava all’istante «ma non con tutti, non facilmente. Papà era un uomo difficile, ma se ha amato qualcuno, quelli siamo stati noi»
«Ah beh» Antoine le rivolse un sorriso triste «Se siamo noi il suo metro di amore, allora direi che il suo concetto di amore in genere era piuttosto distorto. Esme,» la sua voce si fece bassa e sottile «Octavius non ha battuto ciglio quando me ne sono andato, né ha mai più chiesto di me. E sono sicuro che non abbia versato alcuna lacrima solitaria pensando al suo soldato disertore»
«Forse…» incominciò lei, prima di fermarsi e scuotere la testa «No, direi di no»
«Ed ecco che abbiamo rovinato l’atmosfera» Alexis sbuffò, lasciando cadere il cadavere della sua Marlboro sul pavimento mentre si versava da bere «Possiamo tornare a sparlare dei nostri compagni di squadra
Ezra si lasciò scappare un sorriso divertito «Stai facendo la caricatura al caro patrigno o al nostro audace capitano?»
«Al nostro adorato caposquadra, ovviamente» fu la risposta, egualmente ironica.
«Andiamo, Rigel non è così noioso» obiettò Esmeralda «È solo molto preso dalle sue responsabilità. Sapete, non è facile essere il fratello divertente quando nostro padre si aspetta che tu sia al contempo il principe di Machiavelli e un carro armato con le gambe. Lui ha fatto quel che poteva. Credo che a un certo punto si sia scordato di essere Rigel, prima di Numero Uno»
«Non usare questa scusa, Esme» ribatté Ezra, con un po’ troppi spigoli nel tono di voce «Ricorda che stai parlando con Numero Due. La vita nell’Umbrella Academy non è stata facile per nessuno e Rigel è tanto innocente quanto colpevole»
«Io penso che–» Esmeralda si bloccò ancor prima di iniziare. Trasse un sospiro profondo e scosse la testa «Rispariamoci questa discussione, okay? Parliamo di cose su cui andiamo d’accordo. Per esempio…» le ci volle un secondo per trovare l’argomento adatto «Per esempio quanto sappia essere irritante Artemis»
Tony alzò gli occhi al cielo per mascherare un’espressione divertita «Allora resteremo a parlare fino a domani mattina»
«Ma l’avete vista» Alexis stava accendendo in quel momento un’altra sigaretta «come faceva gli occhi dolci a Rigel stasera? Se si fossero avvicinati di un altro solo centimetro, penso che si sarebbero fusi»
«Solo stasera?» Ezra gli porse l’accendino con un mezzo sorriso «È da quando siamo arrivati che non fa altro che stargli intorno e rimarci male quando lui la allontana. Vorrei dire di essere sorpreso, ma è esattamente come tanti anni fa»
«Se non sapessi per certo che se n’è andata con me,» meditò Numero Otto «direi che non ha mai abbandonato Rosewood. E invece, se non sbaglio, per qualche tempo l’ho anche vista su delle riviste a fare la modella per delle case di moda magica»
«In fondo Artemis ha sempre amato i begli abiti e stare al centro dell’attenzione» rifletté Tony.
«Io spero solo di trovarmi in compagnia del suo galateo vittoriano il meno possibile» replicò Alexis «Octavius fumava sempre e ovunque quei suoi maledetti sigari cubani. Eppure a lui non ha mai detto nulla, quindi che problema c’è se io voglio fumare?»
«Scommetto» Numero Otto tirò fuori, di nuovo, quel suo sorriso scaltro «che se fosse stato Rigel al posto tuo, non avrebbe battuto ciglio»
«Io dico» soggiunse Ezra, con lo stesso sorriso come di riflesso «che si sarebbe messa a fumare»
«Ma poi come avrebbe fatto a giudicare tutti noi plebei?» ribatté Numero Nove, con un tono e un’espressione di tale shock teatrale da far ridere persino Antoine «Non c’è niente da ridere, ragazzi. Quello è chiaramente il suo unico obiettivo di vita: farci sentire inferiori e indegni della sua divina presenza»
Ad Esmeralda cadde via tutto il divertimento dal viso, sostituito da un’amarezza rassegnata «Lasciatemi dire che, dannazione, ci riesce»
«Parla per te» il tono di Ezra era, tutto sommato, rincuorante «L’ultima cosa che voglio essere è l’incrocio tra la borghesia del primo Novecento e il perbenismo ambientalista»
«Brinderò a questo» borbottò Alexis, portandosi il bicchiere alle labbra.
«Io invece direi che abbiamo fatto la nostra parte di polemica familiare per oggi. Magari è il momento di andare a dormire,» propose Tony, ormai gettato scompostamente sulla poltrona «sempre a patto che riusciamo a trascinarci fino al secondo piano»
Ezra, a sua volta disteso del tutto su uno dei divani, diede per tutta risposta un mugugno poco convinto e non fece segno di volersi alzare. Alexis preferì continuare a bere piuttosto che rispondere.
«Immaginate la faccia di Artemis» meditò Esmeralda, trattenendo a stento un sorriso cospiratorio ma a voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti i suoi compagni di brigata «quando domani mattina si alzerà alle cinque e ci troverà qui, addormentati e sbronzi»
Alla sola idea, nessuno ebbe da obiettare e decisero, più in un tacito patto che esplicitamente, di restare lì dov’erano.
La mattina dopo, li svegliarono le urla di Numero Sette.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autore
Eh no, non sono morto.
Ciao lettori e grazie di essere arrivati a fine capitolo o di ricordarvi ancora di questa storia! Credo che a questo punto le scuse non siano tanto doverose quanto, perlomeno, le spiegazioni. Ammetto che questo è il ritardo più clamoroso che abbia mai fatto fino ad ora e onestamente me ne dispiaccio moltissimo, ma in questo caso era necessario. Dovete sapere che il vostro Smaug è quel tipo di studente universitario che rifà gli esami finché non ottiene il risultato che voleva e questo mi ha rallentato un po’ nella stesura del capitolo, ma la motivazione più grande di questo ritardo della storia è che, oggettivamente, avevo bisogno di un po’ di tempo per capire come strutturarla e continuarla, darmi almeno un filo rosso di trama da seguire ed evitare di inventare tutto lungo la via. Questo ha comportato un bel po’ di ulteriore studio dei personaggi e di una narrativa che mi soddisfacesse.
Detto ciò, per questo 2021 posso promettervi nient’altro che almeno due stabili aggiornamenti mensili e tanta disponibilità. Mi piacerebbe sapere che ne pensate della storia fino a questo punto e se c’è qualcosa che non vi soddisfa per quanto riguarda i vostri personaggi.

Inoltre, ho una domanda per quanto riguarda i ragazzi dell'Umbrella Academy. Ho aspettato il più possibile per affrontare questo argomento affinché poteste farvi un'idea precisa sui componenti dell'accademia e ora la questione non è più rimandabile; dunque, avendo conosciuto più o meno bene tutti i Cleremont, sapreste darmi una breve descrizione sul rapporto del vostro OC con ciascuno di loro? Di certo non mi aspetto risposte molto specifiche, però vorrei la vostra opinione, magari anche solo di conferma, sui compagni con i quali il vostro OC va d'accordo e su quelli dai quali si tiene alla larga.

Aspetto i vostri commenti sul capitolo ed eventuali risposte per messaggio privato.
Tra le altre cose, buon anno e speriamo di evitare invasioni aliene o disastri nucleari.
 
 
 
il drago della montagna accanto
Smaug

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Capitolo 8
*** Capitolo VII: Prove di Coraggio ***


Capitolo VII 
Prove di Coraggio
 

 

“«Quasi tutti possono sopportare le avversità,
ma se vuoi mettere alla prova il carattere di un uomo
dagli il potere»”
Abraham Lincoln
 
 
 
 
 
27 Dicembre 2009, Londra (UK), Umbrella Academy
Più avanti, una volta cresciuta e diventata grande, Hillevi avrebbe ripensato al Natale dei suoi quattordici anni come all’ultimo periodo veramente tranquillo dell’Umbrella Academy, prima che iniziassero i tumulti, le crepe, i tradimenti. Per la Levi Cleremont quattordicenne, però, quella era mera normalità.
Gli allenamenti pomeridiani erano finiti da poco. La squadra si era spostata nel salone al pianoterra. Lamentele, propositi, rimpianti, storie. All’ombra dell’enorme albero di Natale al centro della stanza, tutto appariva lieto. Se Octavius li avesse visti –sporchi e sudati nelle loro divise invernali, a insudiciare i suoi divani–, sarebbe andato su tutte le furie e li avrebbe rispediti in palestra per una sessione extra di combattimento. Ma papà aveva altro per le mani. Lo provava il fatto che non era lì con loro. Perso da giorni nelle trattative con un qualche socio in affari, li stava trascurando; e i ragazzi erano ben più che felici di sfuggire alle attenzioni critiche e spietate di papà per qualche giorno.
Proprio per questo, quando Bizzie era giunta a riferirle che Octavius la stava cercando, ne era stata sorpresa. Anche più della sorpresa, era stata la preoccupazione a travolgere la stanza. Tony le aveva scoccato un’occhiata di eloquente apprensione ed Ezra aveva serrato la mascella senza dire niente; Caesar era talmente preso nel raccontare ad un indifferente Alexis le dinamiche del suo ultimo allenamento di quidditch che non si era accorto di nulla. Rigel aveva domandato a Bizzie se ne conoscesse la ragione, con quel cipiglio inquisitorio che iniziava ad appiccicarglisi addosso; era stato Oliver a scollarglielo con una battuta. Il solito, dunque. Solo Artemis aveva aperto bocca per consigliarle, con un sorriso, di fare in fretta così da poter tornare da loro il prima possibile. La stessa Levi non era preoccupata. Certo, era insolito che suo padre la volesse vedere a quell’ora e, per giunta, nel suo studio, in un ambiente formale. Ma in fondo era papà. Qualunque cosa intendesse dirle, non c’era ragione di impensierirsi.
La strada dal salone all’ufficio di Octavius si colmò, dunque, di possibili progetti per la serata che arrivava e di una certa aspettativa per quelle a venire, per il galà di fine anno e le cene con gli amici di famiglia. Giunta a destinazione, bussò alla porta semichiusa e attese, prima di entrare, la voce calda di suo padre. Eccola lì.
«Numero Quattro» anche da seduto, Octavius pareva torreggiare sulla stanza «Accomodati pure»
Levi non se lo fece ripetere due volte. Numero Quattro, già minuta di per sé, diventava una bambolina, seduta com’era su quella sedia un po’ troppo alta e circondata dalla mobilia massiccia e dagli alti scaffali. Nonostante tutto, la sua tranquillità non vacillava. Senza problemi, attese che suo padre firmasse la missiva che aveva d’avanti.
«Ti starai chiedendo perché ti ho convocato proprio ora» esordì Octavius «Ebbene, mio malgrado, sono venuto recentemente a conoscenza di una gravissima e ripetuta infrazione del codice dell’Umbrella Academy; un’infrazione di cui tu sei responsabile» colto il sorgere di un’espressione corrucciata, si affrettò ad aggiungere: «Nulla di cui preoccuparsi Hillevi» giunse addirittura a sorridere, di quel suo sorriso appena accennato eppure rassicurante «Ciò che è successo è frutto di una mia mancanza. Avremmo dovuto affrontare questa conversazione tempo addietro. Tu, così come Numero Uno, non hai colpa»
All’ultima menzione, Levi non poté impedirsi di aggrottare la fronte in una ruga di pensiero. Le corsero alla mente tutte le sue attuali attività da sola con Rigel. Che Octavius si riferisse ai loro recenti incontri di notte fonda in biblioteca, per guardare le stelle con il suo telescopio incantato? Forse era venuto a conoscenza, per vie oblique, delle conversazioni che tenevano a bassa voce in giardino, quando immaginavano come sarebbe stato essere una famiglia normale e non un’accademia. O magari aveva ricevuto una soffiata sui pasticci che lei e Rigel combinavano in cucina, sotto l’attenta supervisione di Bizzie, mentre lui era in viaggio. Nulla di tutto ciò, ad ogni modo, le parve un problema. Ma poteva sbagliarsi. A quell’età, Levi iniziava a essere confusa dalle regole dell’Umbrella Academy.
«Numero Tre» continuò suo padre, piano «mi ha riferito, ti assicuro senza alcuna malizia, che nella pausa tra le sessioni di addestramento corpo a corpo tu “aiuti” Numero Uno con i tuoi poteri. Mi ha detto, e cito testualmente» si inclinò fino ad appoggiarsi del tutto allo schienale della sedia e a guardarla dall’alto in basso «che lo fai “per alleviare i sintomi da post-addestramento”. È corretto?»
Hillevi aveva, nel corso della spiegazione, tirato un sospiro di sollievo. Ecco cos’era, tutta quella situazione. Un fraintendimento. Suo padre non aveva capito bene le dinamiche della cosa; motivo per cui, in primo piano, lei e Numero Uno si erano accordati di mantenerla segreta. Chissà come l’aveva saputo Caesar, allora.
Per istinto, si sporse in avanti e si portò dietro l’orecchio una grossa ciocca di capelli biondi, di un color miele che s’incupiva d’inverno. «È corretto,» disse, a voce chiara e alta ma gentile «però non è tutto. Stiamo usando una tecnica molto popolare nella terapia babbana; l’ha scoperta Esmeralda a scuola proprio lo scorso ottobre e ha fatto alcune ricerche. In teoria sembra una sciocchezza, ma non lo è affatto» sperò, tra una parola e l’altra, di suonare convincente; il volto stoico di suo padre, tuttavia, non lasciava trapelare nulla «Si immagina un posto felice e ci si rilassa. In questo modo ci si distacca per un po’ dal dolore fisico, così da ritornare in sé quando si è alleviato almeno un po’. Non so quanto sia efficace per i babbani, ma con il mio potere stiamo procedendo benissimo. Pensavo che…» per un attimo, la tentò l’idea di scollare i suoi occhi da quelli di Octavius «Beh, io e Rigel pensavamo che, tra un po’, potremmo anche estendere questa cosa al resto del gruppo, no? Proprio perché stiamo ottenendo ottimi risultati»
Suo padre non le rispose subito, anzi. Per un paio di secondi, che a Levi parvero ore, si limitò a guardarla con un fare indecifrabile, di occhi cupi e braccia incrociate e spalle dritte e una piega severa di labbra –un’espressione che tanto le ricordava Rigel–. Poi, finalmente, si mosse. Si sporse anche lui in avanti, poggiandosi con gli avambracci sulla scrivania, e le parlò con una voce roca e morbida: «Ottimi risultati verso quale obiettivo?»
Levi aggrottò la fronte. Era forse una domanda a trabocchetto? Si costrinse, ingoiata la sgradevole impressione di non star capendo, a rispondere. «Attenuare il più possibile i sintomi tra uno scontro e l’altro» disse, piano «Limitare la sensazione di dolore per chi, tra noi, si addestra corpo a corpo»
«E perché mai vorresti farlo?» suo padre sembrò più confuso di lei.
«Perché mai non vorrei farlo?» replicò, di getto «Gli allenamenti sono tremendi, papà, e non puoi immaginare quanto sia penoso guardarli fermarsi per qualche minuto e poi ricominciare a combattersi mentre a stento riescono a camminare!»
«Numero Quattro,» Octavius prese un sospiro profondo «mi rendo conto delle tue buone intenzioni, ma quello che stai facendo è minare l’intera educazione dell’Umbrella Academy. Se avessi voluto “limitare la sensazione di dolore”» una smorfia gli storse le labbra «avrei fatto intervenire Numero Sei e Numero Otto già da tempo, non trovi? Ma quello che stiamo facendo è andare nella direzione esattamente opposta»
«Quindi noi vogliamo… aumentare il dolore?» domandò Levi, con una voce sottile come un ago.
«Quasi» le rispose subito suo padre «Gli addestramenti corpo a corpo replicano una situazione realistica: per questo ce ne sono più sessioni ravvicinate con pause rapide. È ciò cui andate incontro durante le missioni. Numerosi scontri, intensi e ravvicinati, distaccati da tempi brevi in cui non si riesce a “limitare la sensazione di dolore”» Octavius tacque per qualche secondo «Quello che sto cercando di fare è abituare i tuoi compagni a muoversi, pensare lucidamente e combattere al meglio delle proprie capacità in qualunque condizione. Feriti, storditi, sanguinanti, non importa in che stato, devono saper andare avanti. È per il loro bene, Hillevi. Capisci» c’era, questa volta, una nota di grezza gentilezza nel suo volto «perché non posso lasciarti continuare?»
Numero Quattro abbassò il capo, gli occhi ostinatamente fissi sul pavimento. Di conversazioni come quella, ne aveva sempre di più con suo padre: sorgeva un qualche problema, ne parlavano, si scoprivano in disaccordo e poi a lei toccava fare un passo indietro e rinunciare. Octavius rimaneva sempre uguale. Mai l’aveva visto piegarsi alle suppliche di uno qualsiasi di loro. Lei, di contro, si riscopriva, di volta in volta, sempre meno convinta dalle argomentazioni di papà. Soprattutto quando si parlava dei suoi compagni di squadra e delle innumerevoli crudeltà gratuite a cui erano di continuo sottoposti; atrocità nascoste dietro quell’immensa e sempre più fragile scusa che era l’addestramento, il controllo dei loro poteri. «Capisco» rispose, in un tono assente che stava usando troppo di frequente.
«E mi puoi promettere» soggiunse suo padre «che non lo farai mai più?»
Gli occhi di Hillevi –blu, sgranati, traditi– corsero verso quelli scuri di suo padre. Le promesse, Octavius lo sapeva bene, avevano un valore particolare a quell’età. Speciale, forse. Per un momento, un attimo fugace e tuttavia reale, sentì di odiare con tutta se stessa il sorriso sghembo e bonario che le stava rivolgendo, quello scaltro incurvarsi di labbra con cui riduceva l’intera discussione a un capriccio adolescenziale. Le tremarono le mani dalla voglia di scattare in piedi e rispondere che non era d’accordo. Che era stanca. Che si trattava dei suoi poteri. E dei suoi fratelli. Che quella situazione coinvolgeva anche lei e che non sarebbe rimasta a guardare. D’altra parte, non era certa che ne valesse la pena. Suo padre, da ché ne aveva memoria, aveva sempre vinto. E da un po’, oramai, ben nascosto dietro tutto l’ottimismo che di solito la animava, Levi aveva iniziato a covare lo sgradevole sospetto di non essere altro che una delle tante proprietà di monsieur Cleremont.
«Prometto» mormorò, allora, senza sforzarsi di ricambiare il sorriso.
Octavius ne parve comunque tranquillizzato e, dopo un breve cenno di assenso, tornò a rivolgere le sue attenzioni alla pila di documenti che ingolfava la scrivania. A Numero Quattro, in ogni caso, non interessava. L’unica cosa che poteva trovare in quello studio ombroso erano dubbi. Giù, invece, a una rampa di scale e un paio di corridoi di distanza, la attendevano i suoi compagni di squadra –i suoi fratelli–, e, assieme a loro, tutte le certezze di cui aveva bisogno.
 

 
 
 
 
8:02, 23 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy
Rosewood di primo mattino era un trionfo di quiete, luce che scivola sul marmo e mormorii echeggianti per le scale. Nella gloria della tormenta invernale che infuriava dalla scorsa notte, l’antica dimora dei Cleremont si delineava nobilmente attraverso la nebbia e appariva, in lontananza, come il miraggio di un’epoca lontana. Tra le sue mura, invece, regnava il silenzio. Serenità domestica. Pace artificiale. Attesa. Tutto, a eccezione di un paio di figure grigie, era immobile e i pochi rumori –il fruscio di una vestaglia, il tintinnio di una tazza di ceramica, il fischio del bollitore– erano distanti e ovattati.
Delle mattine della sua tarda adolescenza, Hillevi non ricordava molto. L’intero periodo nella casa paterna era, talvolta, una nebbia vorticosa di incubi ad occhi aperti e memorie affilate; per questo motivo, quando il ventitré dicembre si svegliò –la tenuta di famiglia immersa nel silenzio e circondata dalla neve– le parve di essere in un sogno lucido.
Nello specchio da terra accanto all’armadio, il suo riflesso era una cosa estranea, un incastrarsi di linee e colori che non le apparteneva, di un’astrazione spaventosa. Osservò, in un’occhiata, che le radici dei suoi capelli blu iniziavano a tornare bionde e che presto avrebbe dovuto tingerli di nuovo o, magari, cambiare colore. Neanche questo pensiero attecchì. Dietro la finestra, le tende azzurre scostate appena a rivelare uno spicchio di paesaggio. Oltre la porta, il silenzio. Levi indossò la vestaglia blu appoggiata sul comodino, soffermandosi solo un attimo nel chiedersi chi la ripiegasse ogni giorno se Bizzie era assente. Subito il dubbio le scivolò via dalla mente.
Per il corridoio, quiete anomala. Trovò buffa e amara al contempo quell’immagine, soprattutto se sovrapposta a quella dei suoi ricordi, quella di appena otto anni prima: un viavai di passi barcollanti da sonno e urti accidentali, saluti bofonchiati e grugniti impazienti nel realizzare che il bagno più vicino era già occupato. Le parve di udire rumori soffici da dietro alcune porte –quella di Oliver, ad esempio–, ma, incurante, procedette per la sua strada. Per il momento, anzi, sperò di non incontrarli. Nessuno di loro. Nessuno in assoluto. Il suo riflesso le era bastato. Quel pomeriggio, con ogni probabilità, sarebbe giunto il notaio di fiducia di Octavius per parlare del suo testamento e la situazione –già immaginava– sarebbe stata incandescente o gelida. Impossibile dirlo. D’altra parte, avevano atteso fin troppo. Con l’arrivo di Bizzie la sera prima, la situazione si era sbloccata del tutto: non c’era più motivo, pensò con amarezza, di fingere di essere tutti riuniti per nostalgia o affetto.
Sotto la lana delle sue calze, i gradini di legno gemettero. Levi si strinse un po’ di più nel velluto morbido della vestaglia e continuò il suo percorso fino alla cucina. Sperava in una tazza di tè caldo per combattere il freddo e l’inquietudine. Da sola, preferibilmente. Dopo gli innumerevoli rimarchi passivo aggressivi degli scorsi giorni, una mattina tranquilla le era più che dovuta. Ciò che trovò in cucina fu poco meno di ciò che sperava.
Nell’ala ovest, all’interno dell’ampia sala che un tempo doveva aver visto l’indaffararsi di almeno una dozzina di elfi domestici, c’era Numero Uno. Di spalle, con i capelli spettinati, tutto intento a sistemare delle tazze su un vassoio, Levi avrebbe potuto scambiarlo per un ragazzo qualsiasi, una forma anonima alla stregua del suo riflesso nello specchio. Lo tradiva la divisa. Lei la riconobbe perché da qualche parte nell’armadio, nel cottage sul lago Mälaren in cui viveva, c’era anche la sua. A dispetto delle voci che giravano su di lui e dell’immagine accuratamente costruita nel tempo, Octavius aveva sempre tenuto molto alle apparenze e, in particolare, all’estetica dell’Umbrella Academy. Dei suoi figli. Levi ricordava il suo sguardo glaciale e la linea inflessibile delle sue labbra quando, per i loro quindici anni, Oliver avanzò la timida proposta di tingere di verde qualche ciocca di capelli. Numero Sei non chiese più, da allora. E quella non era che la punta dell’iceberg. C’era una divisa per tutto, a casa. Pigiami, vesti da giorno o da allenamento, abiti da sera, da cocktail e missione. Gran parte dell’abbigliamento che entrava a Rosewood era opera di magi-sartorie, su misura specifica di ognuno, uguale in tutto se non per il numero di riconoscimento ricamato. Quella che indossava Rigel era fatta per gli addestramenti, un modello domestico e poco elegante ma funzionale, che negli anni Octavius aveva soltanto adattato nelle misure: pantaloni cargo, stivali alti, maglia termica e una grossa cintura a cui assicurare armi magiche e non. Completamente in nero, a eccezione del 1 dorato sulla schiena. Il tutto farcito da un poderoso sistema di ammortizzamento nelle suole e da tutori per gomiti, ginocchia e spalle; uno spicchio sottilissimo sull’orrore che erano le sessioni di allenamento. Nonostante l’elaborato sistema di omologazione che suo padre aveva creato, Hillevi comunque notò –la centesima volta come la prima– che tuttavia le divise non potevano essere più diverse. La sua era quasi del tutto intatta; solo un paio di graffi e il colore sbiadito da alcuni schiantesimi indicavano che un tempo era stata usata. Quella di Rigel, invece, mostrava più chiaramente i segni del tempo e dell’usura. I tutori, ad esempio, avevano le crepe tipiche di un oggetto riparato più volte con la magia, il nero degli stivali era macchiato in alcune parti e sfumato in grigio in altre, le tasche dei pantaloni erano sfilacciate e numerose ricuciture testimoniavano tutte le maledizioni che nel tempo non era riuscito a parare. A confronto nella mente di Levi, le due divise raccontavano storie diverse. Non che ci fosse da stupirsi. Con la sua abilità magica, Hillevi non era mai dovuta entrare in contatto diretto con i nemici e gli scontri corpo a corpo le erano estranei. Octavius era sempre stato chiaro a riguardo. L’addestramento di autodifesa, per Numero Quattro, era pura formalità. Tra tutti i suoi compagni, lei era forse quella con il potere più indirettamente micidiale. Per altri, invece, essere in grado di unire combattimento magico e non magico era questione di vita o di morte. Rigel, Ezra, Caesar ed Esmeralda erano quelli che, più di tutti, si buttavano nella mischia e sulla loro sicurezza era improntato il design delle divise da allenamento. Numero Quattro ricordava sempre con un certo senso di nausea i pomeriggi in cui era costretta a guardare i suoi compagni battersi tra loro, sotto lo sguardo e le indicazioni di Octavius.
Nell’atmosfera lugubre della cucina, le parve che non fosse passato un giorno da quei tempi. Suo padre sarebbe entrato di lì a poco e li avrebbe rimproverati entrambi per non essersi ancora resi presentabili a quell’ora della mattina; poi avrebbe dato un’occhiata al vassoio che Rigel stava preparando e avrebbe attaccato la solita ramanzina sull’importanza di una buona colazione. A quel punto Rigel gli avrebbe ricordato la propria incapacità ai fornelli e allora, ma solo allora, loro padre, in un sospiro falsamente seccato, avrebbe iniziato a preparare le sue tradizionali uova à la coque e si sarebbe trattenuto a colazione con qualche scusa. Le fece uno strano effetto pensare che quel mondo era finito. Rendersi conto che no, papà non avrebbe fatto proprio nulla perché il suo cadavere senza vita si stava già decomponendo nella cripta di famiglia e tutto ciò che davvero rimaneva di lui erano loro, i suoi figli.
La voce di Numero Uno la colse di sorpresa «Non dovrei essere io quello appostato nell’ombra a spiare la gente?»
«Sì,» rispose Levi «ma a me riesce meglio. Tu puoi continuare a preparare tè nero come una casalinga britannica»
Lui si limitò a pescare dallo scaffale un’altra tazza e a farle spazio sul vassoio. «Non ti ci abituare, lo faccio per pietà» disse poi, a bassa voce «Artemis è sul punto di fare una strage nel salotto orientale e il sangue non se ne verrebbe mai dai tappeti. Potresti unirti a me e venire a goderti la scenata»
Hillevi bofonchiò un «okay» a mezza voce, spostando il peso da un piede all’altro. Le cose tra lei e Rigel erano difficili. Lo erano sempre state, in un certo senso, ma mai come ora. Da quando era andata via di casa cinque anni prima, suo fratello non si era fatto sentire, né aveva mosso un solo dito per mantenere i rapporti. E, anche una volta ritrovatisi per la morte di loro padre, pareva evitarla. Evitarli, in realtà. Rigel non era sembrato particolarmente in vena di chiacchierate con nessuno, ma, dopo tutto quello che avevano vissuto insieme, Levi aveva sperato fosse lui a fare il primo passo. E invece a stento si erano rivolti la parola.
Versato il caffè in quattro tazze diverse e il tè in altre tre, Rigel incantò il vassoio con un colpo di bacchetta ed esso prese a fluttuare, tremando appena. Quando si voltò e iniziò a camminare, la mente di Levi scorse una paurosa assonanza tra l’immagine di Numero Uno e il proprio riflesso nello specchio. Gli stessi capelli spettinati e occhiaie scure, lo stesso sguardo assente e malinconico.
«Sembri un fantasma» fu l’osservazione di lui, fronte aggrottata e una smorfia acre sulle labbra.
Levi non seppe impedirsi di sorridere «È proprio vero che siamo fratelli, allora»
Rigel rise, di un suono roco e mattutino «Hai mai avuto dubbi a riguardo?»
Lei alzò le spalle e lo seguì attraverso i corridoi e le ampie sale ariose –e fredde– dell’ala est dell’accademia. A qualche metro dal salotto orientale, finalmente ebbe un’idea più chiara sulla strage che Artemis era sul punto di compiere. Delle sue urla, però, non capiva molto. Mentre lei e Rigel facevano il loro ingresso furtivo –l’uno accanto all’altra, separati solo dal vassoio fluttuante–, Levi si strinse un po’ di più nella vestaglia, come a ripararsi dalla cascata inarrestabile della ramanzina di Numero Sette. Sua sorella, per l’appunto, era accanto alla poltrona su cui giaceva, insonnolito ma sveglio, Antoine. I ricci di Esmeralda, quella mattina, erano un caotico groviglio di nodi con cui competeva soltanto il nido di cuculi che aveva in testa Tony e la matita nera del giorno prima era ovunque tranne che attorno agli occhi gonfi di sonno. Anche così, Levi la trovò stupenda. Di una bellezza calda e morbida che spiccava particolarmente accanto alla pelle diafana e ai tratti affusolati di Alexis, con il quale aveva condiviso lo spazio notturno. Di fronte a loro, ancora steso e spudoratamente incurante della situazione, c’era Ezra, troppo alto persino per il lungo divano del salotto orientale, non che –con un piede poggiato a terra e l’altra gamba a scavalcare il bracciolo– ne sembrasse infastidito. Tutti e quattro facevano un bel quadretto. Eppure, non c’era modo di ignorare il vero protagonista della scena. Hillevi non avrebbe mai smesso di stupirsi dell’incredibile presenza scenica di Artemis: tra gli eleganti tappeti verdi e le vetrine scintillanti di alcolici, sotto il lampadario di cristallo e di fianco ai divani in pelle, tra il mogano e l’oro, era la sua figura a catalizzare l’attenzione dei presenti. Fu lei che trovarono, prima di tutto, gli occhi di Levi: trecce albine, occhi chiari e assottigliati, una piega scontenta di labbra, la stoffa bianca di un abito ad abbracciare le curve morbide del suo corpo. Tutti gli sguardi le erano incollati addosso. Rigel solo la oltrepassava per cercare, nella penombra, un’altra figura.
Artemis, da parte sua, continuava a parlare.
«Potevo aspettarmelo dagli altri, ma tu» nonostante tutto, Levi fu grata di non essere il bersaglio del sospiro deluso di Numero Sette «Tony» Antoine, nella grossa poltrona scura, si fece piccolo piccolo «da te proprio non mi sarei immaginata un atteggiamento del genere, una tale irresponsabilità. Ma cosa stavate pensando, poi? All’età di venticinque anni vi comportate come se ne aveste quindici! Non so davvero cosa dirvi!» nessuno ebbe il coraggio di farle notare come, nonostante non sapesse che dire, era lì a parlare da quasi dieci minuti «E se pensate che sarà Bizzie a ripulire tutto questo schifo, vi sbagliate di grosso; voglio vedere questo posto brillare prima di mezzogiorno. Sono stata chiara?» il suo sguardo vagò di divano in divano, impassibile alle espressioni scontente degli altri «Perfetto. Avendo detto ciò–» a quel punto dovette accorgersi dei due nuovi arrivati, perché il suo voltò si trasfigurò del tutto e «Oh, ci siete anche voi» la smorfia sulle sue labbra si allargò fino a farsi sorriso «e con la colazione! Siete la mia salvezza»
Anche gli altri sembrarono piuttosto sollevati della loro apparizione. Inutile dire che nessuno dei due –a dispetto del sorriso contagioso di Artemis e delle chiacchiere leggere degli altri– si sentiva all’altezza di quella definizione.
 
 
 
 
 
16:00, 23 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy
Il notaio arrivò nel primo pomeriggio, anche se fuori sembrava già notte. I Cleremont erano assiepati nella sala principale del pianoterra –seduti composti sui divani, lanciandosi ogni tanto sguardi colmi d’ansia– e fingevano di non ritrovarsi in uno strano incubo ad occhi aperti. Unica nota di serenità era Bizzie. Il solo incurvarsi tiepido delle sue labbra riusciva ad alleggerire l’atmosfera di gran parte di quella negativa aspettativa che si percepiva. Se da una parte il testamento di Octavius era il motivo per cui si erano riuniti, dall’altra nessuno aveva un’idea precisa di cosa potesse aver lasciato loro. In pochi avevano mantenuto i contatti con l’accademia. Ancora di meno erano quelli che avevano sentito loro padre nei suoi ultimi mesi di vita.
Una delle poche certezze era, per l’appunto, il notaio. Mister Noyers era stato una presenza fissa, e anche piuttosto attiva, durante tutta la loro infanzia e adolescenza; sua premura erano i regolari regali di Natale e figlia della sua insistenza era la settimana di ferie di Luglio. Sul come e sul quando Octavius e Steven si fossero conosciuti c’era un velo di mistero. Che Levi ricordasse, suo padre era solito definirlo “il mio più caro compagno” e liquidare l’intera questione dell’inizio della loro amicizia con un criptico: «Ci sarebbe troppo da raccontare». A lungo le cronache del gossip giornalistico avevano tentato di portare luce sull’intera questione, ma l’enigma aveva mantenuto il suo fascino solo fuori dalle mura di Rosewood. I ragazzi dell’Umbrella Academy impararono in fretta ad abituarsi ai trabocchetti e alle mezze verità del loro amato genitore; con il tempo, dunque, mister Noyers era diventato semplicemente Steve e il dilemma del suo passato aveva perso appeal. A sostituirlo era giunto quello del suo presente. Dargli un ruolo specifico in casa era impossibile, in effetti. Ciò che c’era di chiaro era la sua presenza. Frequente. Benvoluta. Rassicurante, talvolta. Steven Noyers era a Rosewood più di chiunque altro che non fosse parte dell’accademia. Sempre il primo ad arrivare alle soirées e a festeggiare i successi dell’Umbrella Academy, ma anche all’evenienza in prima fila, assieme a Bizzie, nel difendere i ragazzi. Un unico mistero, su di lui, persisteva nella mente dei ragazzi. Il motivo dell’immensa influenza che Noyers esercitava su loro padre; quello soltanto, di volta in volta, tornava a stuzzicare la loro immaginazione, nei momenti troppo tesi per pensare a cose meno leggere. Esmeralda, ad esempio, insisteva da tempo immemore con la teoria che Steve fosse l’amante di Octavius, per la delizia di Artemis e l’orrore di Caesar. Altre ipotesi sostenevano che mister Noyers era il suo compagno di cella ad Azkaban (Oliver), sotto maledizione imperius (Alexis) o in qualche modo debitore (Tony). Qualunque fosse la verità, era sempre piacevole, da ragazzi, inventare storie sul passato di loro padre, immaginarlo giovane e diverso, impelagato in qualche mirabolante avventura assieme al buon vecchio Steven Noyers, magiavvocato di fiducia. Rivederlo a distanza di così tanto aveva un ché di fiabesco e di inquietante assieme.
Arrivò alle quattro. Alto e asciutto, di un pallore tutto anglosassone, catalizzò l’attenzione generale non appena mise piede nella sala grande, una mano guantata sulla spalla di Rigel e la fronte corrugata in un cipiglio pensieroso. Stava scambiando con Numero Uno parole quiete e strascicate, che a stento giungevano fino al camino. La loro conversazione, tuttavia, terminò in un colpo di tosse. Non appena si voltò verso di loro, Levi ebbe un tuffo al cuore. Mister Noyers –Steve, si costrinse a pensare– era l’ennesimo pezzo su quella scacchiera polverosa, un ulteriore, inconfondibile campanello d’allarme. Tutto, in quella stanza, apparteneva al passato. O a un sogno, le suggerì una voce malevola nelle orecchie. Ma quello non era un sogno. Quell’uomo che si avvicinava a passo cadenzato, affaticato appena dal bastone da passeggio che sorreggeva la gamba sinistra, era una persona vera. Di carne e sangue. E tanto reale quanto dolorosi erano i suoi occhi scavati, i tratti scarni del suo volto allungato, i fiocchi di neve posati sul completo troppo largo e vecchio che indossava. In qualche angolo della sua mente, Numero Quattro conservava il ricordo delle sue risate contagiose e la curva morbida dei suoi sorrisi sghembi, quando le diceva qualcosa senza che Octavius sapesse. Il tempo, osservò, era stato gentile con Steven. A eccezione del grigio che si annidava alle radici dei capelli castani e dell’incedere più lento e di un paio d’ombre in più attorno agli occhi, poco o niente in lui era cambiato. Aveva ancora i baffi, un taglio curato ed elegante. Anche il suo sguardo pareva lo stesso, pensoso e indagatore tra iridi azzurre e sopracciglia arcuate. Sebbene più alto solo di un paio di centimetri, sembrava un gigante accanto a Numero Uno. Rigel stesso lo guardava con una certa ansiosa apprensione che proprio non gli apparteneva. Lo scortò fino alla poltrona accanto al camino, per poi farsi da parte e accomodarsi vicino a Esmeralda. Ci furono un paio di saluti da parte dei ragazzi, cenni del capo e delle mani ricambiati a stento. Anche così, l’aria si tagliava a fette.
«Prima di cominciare,» mister Noyers si schiarì la voce, chiara e flautata ma formale «vorrei offrirvi le mie più sentite condoglianze per la perdita che ha afflitto tutti quanti noi. Non spetta a me dirlo, ma Octavius teneva molto alla sua accademia e avrebbe voluto vederci riuniti in circostanze più piacevoli, avrebbe voluto–» il suo sguardo colse quello di Bizzie «essere qui con noi». Estrasse dalla tasca interna della giacca la grossa busta bruna di una lettera; per qualche momento, si limitò a guardarla, rigirandola tra l’una e l’altra mano. Poi alzò gli occhi sul resto della stanza «Questo è il testamento di vostro padre, redatto alla presenza mia e di Parkinson. Sto già lavorando sulle carte burocratiche per la transizione legale dei beni, ma non vi nascondo che il lavoro procede a rilento. Entro qualche settimana saranno pronte e, in base ai vostri desideri, dovranno essere firmate. Fino ad allora,» soggiunse, mentre pescava da un’altra tasca la sua lunga bacchetta di cedro «questo è tutto ciò che avete di vostro padre»
Gli sguardi dei suoi compagni, notò Levi, erano incastrati in una precisa geometria che ne sventava la collisione. Caesar stringeva forte la mano di Bizzie, per confortare più se stesso che lei, e gli occhi di Artemis non si scollavano dalla lettera, mentre quelli di Alexis la fuggivano senza sosta. Persino Tony, seduto di fianco a lei, non riusciva a stare fermo, colto anche lui da chissà quali pensieri. Levi, invece, guardava Ezra. Cercava nella fermezza della sua mascella squadrata e nella linea rilassata delle sue spalle qualche sorta di consolazione, un appiglio o forse solo la speranza che si accorgesse di lei. Ma quando Ezra si voltò a guardarla, quando le posò addosso occhi grandi e castani e chiari e così onesti, quando accennò al più lieve, commiserante incresparsi di labbra, Levi non riuscì a sopportarlo. Si girò di scatto verso mister Noyers. Il pensiero del testamento le ricadde addosso come un masso.
«Credo sia il momento, Steve» era stata Artemis a parlare «Abbiamo aspettato fin troppo»
Steven le rivolse un’occhiata criptica, ma non rispose. Puntò la bacchetta contro la lettera e, dopo un gesto secco del polso, essa prese a fluttuare; l’involucro si aprì e deformò fino ad assumere la vaga forma di una strana stella di origami. Solo allora, si mise a parlare.
«Nove dicembre duemila venti, Londra» la voce era, inequivocabilmente, quella del defunto Octavius Cleremont, un piacevole baritono dall’impeccabile accento britannico. Levi pensò che le sarebbe bastato chiudere gli occhi per illudersi che suo padre fosse lì con loro, in carne ed ossa. Di lui, tuttavia, la carta aveva solo il suono «Nel pieno delle mie facoltà mentali, io, Octavius Cleremont, detto le mie ultime volontà ai posteri e a quel che rimane della mia famiglia» c’era una distinta nota di stanchezza nel modo in cui parlava, nei profondi respiri che prendeva ogni tanto per poter darsi il solito tono «A Bizzie, che è stata molto più di quello che il suo contratto richiedeva, affido tutto il contenuto della camera blindata 693 presso la Gringott londinese, attualmente in mio possesso. Spero sceglierai di continuare a vigilare sui miei eredi. Che tu sia per loro, mia cara, l’ancora che sei stata per me»
Gli sguardi di tutti erano spudoratamente accatastati sull’espressione miserabile dell’elfa domestica, ma lei tirò su a fatica con il naso e non distolse il suo dalla lettera.
Dopo una breve pausa, monsieur Cleremont aveva ripreso a parlare: «A Numero Sette, dispersa nel Vasto Mondo,» Artemis, seduta di fianco a Ezra, era evanescente; sopracciglia arcuate in un cipiglio angosciato, occhi grandi e malinconici «lascio una seconda possibilità. Io ben so e tu altrettanto bene sai, che sei infelice. Se vorrai, ti sarà concessa la damnatio memoriae di ogni peccato e sarai riaccolta in casa e in accademia, nel posto a cui appartieni, come se nulla mai fosse accaduto. Torna a casa, bambina mia, finché sei ancora in tempo».
Un paio di lacrime minacciarono di scivolar via dalle ciglia lunghe di Artemis, ma Numero Sette non era mai stata altro che efficiente; le raccolse con le punte delle dita e rialzò lo sguardo come se nulla fosse accaduto.
La voce di Octavius riprese subito a parlare, in un tono marcatamente più leggero, quasi sollevato. «A Numero Tre, il più leale dei miei soldati, va l’eterna gratitudine per aver compiuto il più doloroso dei sacrifici. Ancora una volta, ti affido quel compito a cui per troppo tempo ti ha sottratto la necessità: veglia sul tuo capitano e rimanigli accanto nella nuova direzione dell’Umbrella Academy. È ora, anche per te, di tornare alle sponde patrie e ricongiungerti a quella strada della quale mi hai tanto parlato nelle nostre lettere. Sii libero di seguirla, ora che non ti tengo più indietro, e perdonami, se puoi. Di te, Caesar, non ho di ché preoccuparmi: tu sei, e so che sempre sarai, il custode di tuo fratello»
La presa di Numero Tre sulla mano di Bizzie si era allentata fino a diventare una carezza. Anche la ruga di tensione sulla sua fronte si era distesa in un’espressione marcatamente amorevole; tra tutti, era forse lui il più sereno. Levi seppe, guardandolo, che tutti, tra quelli riuniti, avrebbero dato qualunque cosa per una fetta della sua evidente tranquillità.
«A Numero Uno, io lascio in carica l’Umbrella Academy,» ed ecco che il tono del defunto monsieur Cleremont tornò a farsi pesante e solenne, ruvido di una qualche emozione che Hillevi non seppe definire a primo orecchio «assieme a tutti i suoi segreti e ogni mio bene personale. Questa morte, Rigel, la accolgo in pace e sono contento di andarmene io prima che possa farlo tu. Ti confesso, ahimè» la voce s’acquietò di colpo e perse in un attimo tutta la sua gravità per diventare lieve e densa d’amore, non di un grande signore ma di un vecchio morente «che non so più immaginare una vita che non sia nostra e sono tanto certo in questa follia che non esito a pronunciarla ad alta voce. A te, ragazzo mio, un ultimo monito:» un’esitazione, un sospiro, un attimo d’ansia rappresa e aspettativa «sta’ in guardia dal tempo fuggevole» con un colpo di tosse, la voce tornò a essere chiara e calda «Ai miei soldati disertori, ai figli che non ho saputo crescere, va il mio più recondito rimpianto, ognuna delle mie notti insonni. A chiunque tra voi ne sente l’antico richiamo, io lascio un posto nell’Umbrella Academy. Che la tenuta di Rosewood sia spartita tra i suoi protettori e possa il tempo riparare quel che mani mortali hanno distrutto. Tali sono le mie volontà.»
La voce di Octavius si sciolse nel silenzio pesante della sala. Le pieghe della lettera si aprirono e distesero finché la pergamena non riprese il suo stato originale e tornò nella sua busta marrone. Invano. Nessuno si godette lo spettacolo. La voce del loro defunto padre aveva trasformato i giovani adulti emancipati in tristi bambini-soldato, con gli occhi fissi e la mente smarrita. E il più triste di loro era Rigel. Nella periferia del campo visivo di Levi, appariva una copia pallida e vuota della sua solita persona: ogni colore drenato via dal suo viso, labbra schiuse e curvate all’ingiù, occhi vitrei e lucidi puntati sul pavimento, il suo volto una maschera appuntita di bianco totale, di assenza di tutto. La mano di Esmeralda, ancora poggiata sulla sua spalla, non gli impedì di alzarsi. Di scatto. All’improvviso. Come spinto da una qualche molla. Si mosse come in automatico –come se non stesse pensando affatto o stesse pensando troppe cose allo stesso tempo– e tenne lo sguardo fisso in alto, su qualche punto imprecisato che non toccava essere vivente ma piuttosto, forse, uno spettro invisibile. Numero Uno biascicò qualcosa, parole confuse attaccate a un filo di voce, ma Levi non capì. Lo vide –e magari non lo vide affatto– attraversare la sala a passi rigidi e respiro irregolare. Scansò il pensiero che stesse piangendo. La sola idea –l’idea di suo fratello che le crollava accanto e di lei immobile, incapace di far altro che esistere– faceva troppo male.
Caesar balzò in piedi qualche secondo dopo e gli corse dietro. Prima di andare, aveva detto: «Ci penso io». Oppure: «Non seguitemi». Numero Quattro, anche più tardi a mente fresca, non avrebbe saputo dirlo. La verità è che non ascoltava. Già non era più lì; nelle orecchie le ronzava, eco di un’eco, la voce di suo padre.
 
 
 
 
 
17:58, 23 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy
Quel tardo pomeriggio, quando la tormenta fuori casa si stava appena placando, Hillevi era in biblioteca. In realtà era lì da quando Steven si era congedato e la squadra si era sparpagliata per casa, inventando scuse che nessuno, nel disagio generale, si era curato di ascoltare. Tanto meglio così. Lei si sentiva anche più vuota di quella mattina. E se inizialmente l’aveva sfiorata il pensiero di seguire Rigel e logorarsi nel comune dolore, aveva spinto il pensiero in qualche angolo recondito della sua mente perché non la disturbasse più. La sola idea era ridicola. Come avrebbe potuto sorreggere suo fratello se a stento riusciva a non cadere a pezzi sotto il minimo soffio di vento? Andarsene era stata la scelta giusta. Tra i vecchi scaffali polverosi dell’immensa libreria di Rosewood, perlomeno, lo spettro di suo padre diventava una presenza quieta e benevola che aleggiava, morbida, nell’aria e la rassicurava.
«Ehi» Levi alzò gli occhi dal libro che stava leggendo –un vecchio bestiario di creature magiche che sfogliava distrattamente da ore–. Smarrita com’era nelle sue contemplazioni, neanche si era accorta dell’incursione di qualcun altro nel suo rifugio. Invece, Artemis le era proprio di fronte e poi, nel giro di qualche secondo, seduta nella nicchia vicino a lei «Ti sto cercando da un po’» il tono di Numero Sette era incerto, come se lei stessa sapesse di non aver controllo su ciò che diceva «Ecco, ti ho vista un po’ scossa prima e volevo assicurarmi che stessi bene»
Numero Quattro esitò un attimo, ma proprio non seppe impedirsi di sollevare le labbra in un debole sorriso d’avanti all’incerta gentilezza di sua sorella. Sin da quando erano bambine, Artemis dimostrava un’impetuosa tendenza a preoccuparsi di tutto e a farsi carico dei problemi altrui; anche quando non li conosceva, anche quando non li comprendeva, anche quando non conveniva. Soprattutto, avrebbe detto Octavius, quando non conveniva.
«Non credo di essere la priorità al momento» Hillevi si appuntò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e cercò di mettere in piedi quello che doveva essere un sorriso mesto, stanco «E poi non so dirti se sto bene» soggiunse, più in fretta «Certe volte mi sembra che qui il tempo sia bloccato, che in questa casa tutto sia immobile e che lo sia anch’io e che in questa stasi ci si possa perdere. O magari mi sono già persa e–» si interruppe di scatto e si voltò verso sua sorella «Pensi che sia matta?»
«Per niente» Artemis la guardava con occhi grandi e tristi «Sai? A volte ripenso a com’era prima e immagino…» le scappò dalle labbra una risata leggera –un suono tanto delicato da ricordare lo scrosciare di un torrente– e subito scosse la testa, con lo sguardo volto a terra «è una sciocchezza, davvero, e so che non è più un’opzione da prendere in considerazione, però a volte… a volte immagino come sarebbe se tornassimo a vivere qui a Rosewood. Tutti noi. Insieme, come ai bei vecchi tempi» non per caso evitò lo sguardo di Numero Quattro «Lo so, una sciocchezza»
«Non è una sciocchezza, Artemis. Ci abbiamo pensato tutti, a un certo punto, ma io non credo che questo» accennò vagamente con la mano tutto ciò che le circondava «sia la soluzione ai nostri problemi. Erano davvero belli i vecchi tempi? Nostro padre non era un uomo facile e i nostri poteri hanno solo complicato le cose. Tutti quegli addestramenti, tutte quelle missioni, la tensione continua verso un pericolo di cui era incerta persino l’esistenza» le altre parole le morirono sulla lingua e Levi trasse un profondo sospiro. Degli ultimi affari dell’Umbrella Academy –precedenti di poco alla diserzione di Numero Due e Numero Quattro– non si parlava mai. L’unica cosa che entrambe sapevano era che c’erano nemici sulle tracce di Octavius e che, per diretta conseguenza, Rigel era diventato l’ombra di loro padre ogni volta che metteva un piede fuori Rosewood. I dettagli erano pura leggenda. Quando riprese a parlare, quasi un minuto era passato «I bei vecchi tempi ci hanno ridotto in questo modo, Artemis. Forse è tempo di metterli da parte e andare avanti»
«Avanti dove?» quella risposta la colpì come un pugno allo stomaco.
Le rivolse una occhiata indagatrice e tacque per qualche secondo. Le tornarono in mente le parole che Octavius aveva riservato a Numero Sette nel testamento. «Pensavo» tentò «che tu fossi la più felice, ora che sei fuori dall’accademia e libera di seguire le “incerte vie del mondo”». Le ultime parole le disse con un sorriso appena accennato, riprendendo un’espressione usata da Numero Sette anni addietro.
Artemis colse il riferimento e ricambiò il sorriso, ma il suo tono si fece scricchiolante «Curioso che sia tu a dirlo. A questo punto, dovresti sapere che i sogni ad occhi aperti non hanno niente a che fare con la realtà. La realtà, poi… quale sarebbe la realtà?» la voce di Numero Sette si era alzata di almeno tre toni e al contempo si era ridotta a un sussurro rapido e fradicio di sconforto «Io non ho niente se non l’Umbrella Academy. Papà aveva ragione. Non c’è posto per me là fuori. Non c’è niente se non solitudine e desolazione!»
«E che ne è» Levi le rivolse un’occhiata cauta «del Vasto Mondo?»
«Il Vasto Mondo era una bugia» fu la risposta più spontanea, detta d’impulso, quasi senza pensarci «e le sue promesse false. Guardami ora» Levi, suo malgrado, non vide nulla di marcio e annerito negli occhi arrossati e nell’infelice piega delle labbra di sua sorella –non, almeno, come lo vedeva nel proprio riflesso–. Ciò che vide era un’angosciosa solitudine. «Guarda cosa mi ha fatto la ricerca della felicità. Ho trascorso gli scorsi due anni scappando da tutto e da tutti, nascosta nelle foreste a occidente, dove sono nata. Ed è stato bello, è stato… speciale» lo sguardo di Artemis correva dalle sue mani al volto di Hillevi e poi in punti fissi oltre le mura di Rosewood, oltre l’oceano, chissà dove «Credevo di essere felice lì. Credevo di voler essere libera e che la libertà fosse isolamento, allora sono andata in un posto dove nessuno avrebbe potuto seguirmi. E, indovina?» le sfuggì una risata, o un singhiozzo; impossibile dirlo «Quando sono diventata del tutto irraggiungibile, ho scoperto di non essere libera affatto. Non c’è posto, per quelli come noi, nel mondo reale»
«Io un posto ce l’ho, nel mondo reale» replicò di getto Hillevi, come spinta da una qualche molla istintuale «Ho un lavoro che mi piace fare. C’è un sacco di gente che mi stima per come sono, che apprezza la mia arte, la mia musica. Ho anche» continuò, voce chiara e bassa, con una tenacia che non si aspettava di avere «una casa, che ho comprato con i miei soldi, in un posto meraviglioso che sono sicura ti piacerebbe. E come c’è posto per me, ce n’è anche per te e per tutti gli altri. Nostro padre sbagliava» non seppe dire chi tentava di convincere, se sua sorella o se stessa o il fantasma aleggiante di Octavius «Io ho una vita nel mondo reale, una vita che ho costruito da sola. Quello che ho fuori da Rosewood non me lo ha regalato nessuno, non l’ho ereditato come diritto di nascita né me l’ha procurato il mio potere» le pareva di esserne più certa a ogni parola «È mio perché l’ho creato io»
«E sei felice?» domandò Artemis, in un bisbiglio.
Levi tentennò, ma si costrinse a rispondere «Ci sto lavorando»
Neanche quella era una bugia. La felicità, per quelli come lei, era ben lontana dalla mirabolante stella cadente in cui per anni aveva sperato. Ci voleva del tempo, per costruire la felicità. E Levi, nonostante tutto e nonostante tutti, ci stava lavorando. Con calma. Un giorno, magari, ce l’avrebbe fatta.
Quando parlò di nuovo, la voce di Numero Sette era sottile e incerta, così distante da lei che Hillevi fece inizialmente fatica ad associarla a sua sorella. «Se ti chiedo una cosa, prometti di rispondere onestamente?»
«Prometto»
«Tu pensi che abbia ancora valore tutto questo, che valga la pena chiamarci ancora famiglia e condividere lo stesso cognome? Insomma…» un sospiro «credi che questa sia la fine dei Cleremont?»
«Abbiamo troppo in comune per lasciarci andare davvero» Levi non esitò un attimo a rispondere; su questo, almeno, non aveva alcun dubbio «Non c’è nessuno come noi al mondo. Qualunque cosa accada, non so spiegarti perché, ma– ci sono cose che neanche il tempo può rovinare. Qualunque cosa accada, noi non smetteremo mai di volerci bene»
«Ricorda solo questo, sorellina» Artemis le rivolse una smorfia ben lontana dal sorriso di quella mattina «L’amore è organico. Marcisce»
Senza dire un’altra sola parola, sua sorella si alzò e sfilò via, il rumore dei suoi passi inghiottito dal pavimento.
Hillevi, guardandola andare, contemplava la tragedia di Antigone.
 
 
 
 
 
19:34, 23 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy
«Caesar» la voce gli scappò via dalle labbra senza che se ne accorgesse, quasi fosse impossibile non associare quel nome alla figura alta e slanciata sulle scale «Caesar!» ripeté, poi più forte «Che?».
Solo a quel punto, Numero Tre si girò verso di lui e alzò una mano in segno di saluto. Per un attimo –occhi sottili e sospettosi, pieghe di inquietudine sulla fronte alta– sembrò che potesse voltarsi e andarsene, ma invece scese di una rampa e si sedette su uno degli ultimi gradini. Oliver lo imitò.
«Oli» le labbra di Caesar erano sollevate, ma suo fratello non mancò di notare una certa tensione nelle spalle, malcelata rigidità nella mascella serrata «Dimmi tutto»
«Non ho esattamente qualcosa da dirti, non… non nello specifico» Numero Sei gli rivolse un’occhiata obliqua, esaminando con attenzione scientifica l’atteggiamento di quello che era stato il suo migliore amico e che ora era quasi uno sconosciuto «È che ho l’impressione che da quando ci siamo rivisti tu stia cercando di non rimanere da solo con me»
La tensione nelle spalle di Caesar si fece più visibile e il suo sorriso più ampio. Arrivò persino a ridere, di un suono basso e carezzevole ma vuoto. Di guardarlo negli occhi, neanche un tentativo «È solo un’impressione. Perché dovrei non voler rimanere solo con te? Siamo amici io e te, no? Siamo fratelli»
«Certo che lo siamo» lo rassicurò l’altro «Ma forse stai cercando di evitare un certo discorso che sai che voglio fare; un discorso circa… che ne so?» c’era una nota di benevolo rimprovero nella sua voce «I tuoi poteri fuori controllo, magari?»
«Non so a cosa ti riferisci» il sorriso era ancora in piedi.
«E io non so come fai a evitare un problema di questo calibro, Che! Insomma, otto anni fa…» per un attimo esitò «beh, otto anni fa sappiamo entrambi com’eri messo, e poi papà ti ha addirittura spedito ai confini del mondo da solo, nonostante sapeste tutti quanti che era una pessima idea! Io non ero lì, certo, ma che ne è degli altri?» una volta iniziato, gli fu impossibile arginare il fiume in piena di tutte le riflessioni in solitario degli scorsi sei anni «Dov’erano Rigel ed Esme ed Ezra mentre papà prendeva decisioni assurde? Voglio sapere come si è evoluta la situazione, se hai trovato un modo, e…» si passò una mano tra i capelli, indugiando appena tra le folte ciocche verdi; sembrò buttar fuori, in un sospiro, tutta la severità del suo tono «Ci tengo a te, Caesar. Voglio sapere se stai bene. In tutti questi anni, mi sono sempre chiesto… insomma, non ho mai smesso di preoccuparmi per te»
In qualche modo, anche la tensione si era sciolta in Numero Tre: il suo sorriso era diventato una smorfia e le spalle si erano abbassate in una curva di sconforto. «Diciamo che sei anni da solo in Asia sulle tracce dei nostri nemici non mi hanno aiutato, Oli. Però–» si affrettò ad aggiungere, difronte all’espressione sconsolata di suo fratello «però sono fiducioso. Voglio dire, ora sono a casa, no? Si sistemerà tutto»
«Che» tentò Oliver «non c’è più nostro padre a risolvere questi problemi. E se è vero come dici, se non solo il tuo autocontrollo non è cresciuto ma è addirittura peggiorato …» la frase rimase in sospeso. Oliver alzò gli occhi per cercare quelli di suo fratello.
«Come sei drammatico!» fu la calda rassicurazione di Caesar «Oli, non è così male come lo faccio sembrare. Hai visto anche tu, no? Tutta quella storia della parola di cui parlava papà si è rivelata un successo. Ora so incanalare il mio potere in modo stabile! Non devo più concentrarmi e non c’è neanche il minimo rischio di perdere la coscienza o di avere qualsiasi effetto collaterale successivo. Questo è… beh, questo– non lo trovi strabiliante?»
«Tutt’altro, Che. Lo trovo…» era chiaro che Numero Sei stesse cercando le parole adatte a quella conversazione in apparenza delicata e in verità delicatissima «preoccupante. Ciò che ho visto è che ora ti è molto più semplice usare il tuo potere senza ripercussioni personali. Non credi» per l’ennesima volta, suo malgrado, gli si spezzò la voce «che questo complichi le cose?»
«Beh, sì» concesse Caesar, avendoci riflettuto un po’ «ma è comunque un passo avanti. Un grande passo avanti. Ed è una cosa che ho fatto da solo, senza l’aiuto e la supervisione di nessuno. Immagina quanti progressi potrei fare qui, a casa, in un ambiente protetto dove–»
«Dove nostro padre non c’è più» insistette lui. Per quanto non gli piacesse essere crudo e scortese, sapeva anche che era necessario battere il ferro finché fosse stato ancora caldo. Caesar –e suo fratello lo sapeva benissimo– non era solito prendere con filosofia questo tipo di critica costruttiva; in fondo quel potere era unico nel suo orrore e Oliver in particolare –Oliver con la mente sgombra d’ombre e il cuore leggero, con il dono della grazia nelle mani e l’osannato ruolo di martire sulle spalle– sapeva di essere l’ultimo in diritto di fargli la predica. Ciononostante, proprio perché le loro capacità erano complementari, era a Numero Sei, più che a chiunque altro, che Caesar dava retta per certe questioni. Fino a un certo punto, ovviamente; un punto che Oliver temeva suo fratello avesse già superato. «Odio doverti dire una cosa del genere, ma ho paura che tu stia sottovalutando la faccenda. Sì che questa è ancora casa nostra, non lo metto in dubbio, ma non c’è più nostro padre a farsi carico dei nostri problemi e proporre soluzioni discutibili e, anche se ci fosse…» per la seconda volta in quella conversazione, non faceva più caso a ciò che diceva, ogni censura e cauzione travolte da tutte le cose che si era tenuto dentro «anche se ci fosse» ripeté «credi davvero che sarebbe una buona cosa? Guarda come ci hanno ridotto, le sue soluzioni! Guarda come hanno ridotto te e Rigel e Artemis e Tony!»
Caesar restò in silenzio per quasi un minuto, spostando regolarmente lo sguardo dai suoi piedi agli occhi del fratello. Quando parlò, la sua voce era quieta e accorata «Hai ragione» disse «Nostro padre non c’è più e questo non è del tutto un male. Ora che lui non può più ferirci e abbindolarci con la promessa del suo rispetto, ora che non può più tenere coltelli nelle nostre piaghe, ora avremo finalmente l’occasione di guarire. Rosewood non ha mai smesso di essere casa mia e so che questo non basterà a risolvere i miei problemi, ma sono a casa» dopo qualche secondo, aggiunse anche: «e qui c’è Rigel»
«Ed è stupendo, però non basterà a–»
Numero Tre neanche lo fece finire «E invece sì. Ora devo andare, ho allenamento con Esme. Ci vediamo a cena, sì?»
«Sì» rispose mestamente Oliver. Neanche vide suo fratello rivolgergli un ultimo cenno di saluto e a stento lo sentì salire le scale due gradini alla volta. Per la testa, Numero Sei aveva lasciato liberi tutti i rimorsi a cui aveva imparato a non pensare; tutti i se e i forse e i magari che ancora faticava a mettere da parte. Rimase ai piedi delle scale, a tormentarsi, per quella che gli sembrò una vita, prima che delle voci dal piano di sopra gli ricordassero che c’era un mondo al di là della sua mente.
Fuori dalla finestra, la tormenta era cessata.
 
 
 
 
 
1:13, 24 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy
Rosewood di notte era un mosaico di roccia grigia, legno scuro e candelabri, scorcio incantevole di una fiaba mai raccontata, di un fascino tale da stregare anche l’occhio più scettico. Belli erano gli arazzi colorati nella sala dei trofei. Belli i dorsi ricurvi dei libri in biblioteca. Bella la cascata d’edera sulle mura del cortile. Bello il mantello di neve in giardino. Belli i fiori in corridoio. Belli persino i suoi abitanti; tra le labbra morbide di Esmeralda e i denti bianchissimi di Oliver e le ciocche albine di Artemis o gli occhi grandi e cangianti di Alexis. Bella Rosewood, d’una bellezza che non poteva non essere un incanto. Così bella, che l’unica in grado di spezzarne il sortilegio era l’abitudine.
Quel Dicembre del duemila venti, Levi guardava il giardino alle spalle di casa sua dalla finestra della grande biblioteca, come mille altre volte aveva fatto, e ne spiava, indifferente, la vita notturna, l’anima intima e segreta.
Sulla coltre di neve, s’indovinavano quattro diverse piste. Le orme dei passi pesanti e delle falcate lunghe di Rigel segnavano una traiettoria dritta e singola verso le cripte; se chiudeva gli occhi, Hillevi riusciva a vederlo –gambe incrociate e occhi chiusi– al centro dell’ampia sala sotterranea, circondato dalle colonne in pietra, tanto immobile da confondersi con le statue assiepate nelle nicchie laterali. Accanto alle sue, la coltre di neve era violata dagli stivali di Alexis, che aveva sfidato il gelo in cerca del punto più buio del giardino: oltre il gazebo, alle spalle delle cripte ma prima della grossa cancellata che delimitava l’inizio delle proprietà boschive. Levi conosceva quella strada perché anche lei, anni prima, l’aveva fatta cento volte per aver la miglior vista possibile delle costellazioni invernali. Indietro, orme più leggere tracciavano un percorso incerto che culminava al centro del labirinto delle rose. Artemis, che di solito risaltava nella folla, ora quasi spariva nel candore del giardino innevato; in ginocchio, a terra in un cerchio di pietre, vestita solo di un abito bianco e leggero nel freddo invernale –probabilmente protetta da un incantesimo di riscaldamento corporeo–, pregava. La quarta pista delineava l’ultimo percorso; quello di Ezra, della sua irrequietezza, dello spaventoso disordine che dalla sua mente strabordava nel mondo reale, giù per il vialetto che conduceva alle cripte e poi indietro verso il cortile, attraverso tutto il porticato fino alla fontana con l’acqua gelata, infine nel giardino delle statue.
Impossibile afferrare, nel vento pungente notturno, i pensieri dei sonnambuli di Rosewood.
La luna, gibbosa e curva, avrebbe mantenuto i loro segreti e assieme a lei, candida e buia e sfuggevole, anche Hillevi.

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