Con cura ancora maggiore del consueto

di Spoocky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Disclaimer: i personaggi di questo racconto sono di proprietà di Patrick O'Brian e degli aventi diritto. Non scrivo a scopo di lucro e non guadagno nulla da questa storia.
Ringrazio in anticipo chiunque vorrà fermarsi a leggerla e, magari, commentarla ^^

Buona Lettura ^^


Il capitano Aubrey ruggì il segnale d’attacco e Tom Pullings gridò all’unisono con lui, prima di lanciarsi sul ponte della Torgud balzando sul suo ponte di coperta dalla paratia della Surprise con la spada sguainata. La sua altezza gli consentiva un vantaggio notevole sugli avversari e i lunghi anni di combattimento sotto Jack il Fortunato lo avevano temprato al punto che si muoveva con maggior disinvoltura sul ponte di quella nave nemica che nel salotto di casa sua.

Un turco alto quanto lui e grosso come un armadio gli si parò di fronte, solo per finire sgozzato dalla sua lama, accasciandosi con un grido strozzato mentre un getto vermiglio gli imbrattava l’uniforme.
Non ebbe tempo di riprendersi che ne accorse un altro e dovette schivare un tondo che, se fosse andato a segno, gli avrebbe tranciato la testa di netto. Sfruttò il movimento del nemico per abbassarsi sotto il suo braccio e sparare sul suo fianco scoperto, abbattendolo.
Raddrizzandosi si trovò a sorridere: non per il miraggio di un’ ipotetica promozione ma per la pura esaltazione di trovarsi in mezzo allo scontro. Spalla a spalla con il suo capitano, il suo mentore, il cui codino biondo guizzava instancabile al margine del suo campo visivo, dandogli un riferimento sicuro. 
Una cacofonia di urla, lamenti e spari lo avvolgeva, l’odore salmastro del mare soffocato da quello acre della polvere da sparo e del sangue, che si mescolavano ai suoi piedi, impregnando le travi del ponte.
In momenti come quelli non si rimugina sul passato, né si fantastica sul futuro: ogni battaglia ha uno spazio ed un tempo a sé e regole proprie, che trascendono la realtà circostante. Un minuto può durare ore, un’ ora può durare un anno, un secondo può decidere la vita o la morte di un uomo.

Tom era ancora chinato in avanti quando un ottomano piccolo e magrissimo lo assalì con un pugnale, tentando un affondo. Con una torsione del busto, il tenente riuscì ad evitare di essere colpito in punti vitali ma la lama affilata lacerò panciotto, camicia e pelle sul suo costato, causandogli una ferita che percepì solo per via di un lieve bruciore mentre la sua seconda pistola sparava il suo unico proiettile.
La pallottola colpì il ragazzo in pieno petto e per esperienza Pullings capì di averlo ucciso ancora prima che toccasse terra.
Gettata l’arma ormai inutile, scaricò un altro fendente alla sua destra, lacerando l’addome di un uomo prima che questi potesse afferrarlo per scaraventarlo in mare.
Con la coda dell’occhio intravide un turco mastodontico caricare Aubrey con una scimitarra, pronto a falciarlo. Senza riflettere si lanciò nello spazio vuoto alla destra del capitano, in un tentativo disperato di proteggerlo che si rivelò un errore fatale.

Se un giorno qualcuno gli avesse raccontato un episodio simile Pullings lo avrebbe liquidato con una risata: non avrebbe mai pensato di trovarsi egli stesso in quella situazione.
Nella foga della mischia non aveva visto un golfare situato proprio davanti a sé e quando fece per accorrere al fianco del capitano, ricacciando il suo avversario con una spallata,  la punta del suo stivale vi rimase incastrata, facendolo precipitare a terra con un tonfo sordo.
Sopraffatto dallo sgomento, senza ancora aver realizzato cosa fosse accaduto, Tom alzò lo sguardo verso Aubrey come per chiedergli aiuto, gli occhi spalancati come quelli di una lepre intrappolata da un segugio.
Il volto del capitano impallidì e lo vide tendere una mano nella sua direzione, poi venne accecato da un lampo di luce e cadde prostrato in avanti, completamente cieco e con la bocca piena di sangue.
Sentì qualcuno gridare, ma non ebbe la forza di reagire. Tutto era diventato buio, freddo, ed il suo volto pulsava di un dolore sordo, indefinibile, mentre sentiva qualcosa di caldo ed appiccicoso riversarglisi addosso.  

Qualcosa, o qualcuno, avvolse il suo torace in una presa salda e lo trasportò lontano da tutto quel rumore, appoggiandogli la testa contro una paratia di legno.
Per qualche motivo il suo naso non sembrava funzionare come doveva, e ne fu grato nel momento in cui riconobbe la voce di Goffo Davis mentre questi gli alitava in un orecchio: “E’ bello che morto, questo qui.”
Allora Tom ebbe paura e tentò di sollevare una mano per trattenere il marinaio: se davvero stava morendo non voleva rimanere solo ed anche quella sottospecie di scimunito ubriacone sarebbe stato meglio di nulla. Ma era troppo debole quasi solo per respirare e poco dopo non percepì più la presenza massiccia del marinaio al suo fianco.
Rimase in quel limbo per un tempo indefinito, con la testa che gli pulsava, piegata su una spalla perché non aveva la forza di tenerla dritta, freddo e nausea sempre più forti, peggiorati dall’ incessante rollio, finché il fragore della battaglia non si acquietò.

Una voce famigliare lo riscosse dal suo torpore: “Oh Gesù benedetto! Tom? Tom, per l’amor di Dio, dimmi che puoi sentirmi.”
“William?” sussurrò, la sua voce talmente flebile che lui stesso faticò a sentila, ed impedita come se la sua mascella non articolasse bene i suoni.
“Sono qui, Tom.” Una mano calda gli avvolse un polso, stringendolo appena, e pur senza vederlo Tom avvertì il sorriso sul volto di Mowett, chino su di lui: “Abbiamo vinto, amico mio. Abbiamo vinto! Il capitano li ha ricacciati indietro e li ha decimati praticamente da solo. Una furia scatenata, ti dico! Dovevi vederlo: Achille nel pieno della sua ira non avrebbe fatto un danno simile.”
Nonostante delle fitte profonde gli trafiggessero il viso ad ogni movimento, Tom riuscì a sorridere: “Abbiamo vinto! Sarò capitano, finalmente.” Emise anche una sorta di risata ansante mentre l’amico gli accarezzava una spalla.
Lo sentì chiamare qualcuno che venisse a soccorrerlo, poi sprofondò  nel buio.
 


Scemata l’eccitazione del combattimento, Jack venne sopraffatto dalla preoccupazione per le sorti di Tom Pullings. Interrogato a riguardo, Mowett gli aveva assicurato che stesse bene ma stentava a credergli dopo aver visto il colpo che lo aveva abbattuto ed averlo protetto con la sua persona, mentre giaceva bocconi in un lago di sangue. Sapeva però che il suo tenente, ebbro di gioia per la vittoria, non gli avrebbe dato informazioni più dettagliate e si diresse egli stesso verso la scala sotto cui aveva ordinato a Davis di trasportare il corpo, per verificare di persona.
Lo spettro di James Dillon gravava ancora pesante sul suo cuore.

Le sue preoccupazioni vennero sedate un poco quando intravide il torace del suo secondo sussultare e ritrarsi, e l’udì emettere un debole lamento mentre il nefasto Davis s’ingegnava per sollevarlo da terra.
Jack lo spinse brutalmente di lato, facendolo cadere ed atterrare malamente sul fondoschiena.

Per un istante desiderò non averlo fatto: la scimitarra del turco aveva squarciato il viso del tenente, riducendolo ad una maschera di sangue a malapena riconoscibile. Le palpebre dell’occhio sinistro erano sigillate dal sangue, la fronte, il naso, e lo zigomo destro erano devastati. Dovette reprimere un conato quando riconobbe il biancore delle ossa nel rosso pulsante della carne viva.
Con un singhiozzo soffocato, Aubrey s’inginocchio accanto al ferito e, con una delicatezza impensabile per mani poderose come le sue, scostò alcuni capelli dall’orrenda ferita, avendo cura di non provocare al poveretto altro dolore: “Ce l’abbiamo fatta, Tom. Abbiamo vinto.” Non riuscì a dire altro perché la voce gli si ruppe in gola.
Se avesse potuto gli avrebbe accarezzato una guancia ma dovette risolversi a raccogliere una delle sue mani nella propria per stabilire un contatto.
Quella che stringeva era una mano salda, fortificata dalle intemperie e dalla guerra, una mano in cui avrebbe riposto la propria vita senza pensarci due volte, ma ora la sentiva fredda, sudata e debole. Represse a fatica le lacrime quando, cercando di ricambiare la stretta, Tom riuscì a prendergli solo due dita, come un bambino che non riuscisse ad avvolgere la mano intorno a quella del padre, troppo grande per lui.

Uno scricchiolio sinistro lo fece sobbalzare ed istintivamente strinse a sé il corpo del ferito.
Ricordò improvvisamente che quell’imbarcazione maledetta stava affondando e quella consapevolezza gli diede la forza di raccogliere Pullings dal cantuccio in cui giaceva. Stringendoselo al petto, lo protesse con il proprio corpo nel salto verso il ponte sicuro della Surprise.

Lo accolse una schiera di volti con diverse sfumature di contrizione ma si costrinse ad ignorarli mentre trasportava il suo inestimabile primo tenente in infermeria, quasi cullandolo come avrebbe fatto con il piccolo George prima di adagiarlo nel suo lettino.
Forse un angolo remoto della sua mente si rese conto che, qualche ora più tardi, Preservato Killick avrebbe bestemmiato tutti i Santi del calendario in ordine alfabetico inverso nel trovare la sua giacca completamente rovinata dal sangue ma ricacciò quel pensiero prima ancora che si formasse.
Avevano vinto lo scontro ma ancora non poteva permettersi di perdere un minuto, o Pullings sarebbe spirato tra le sue braccia.
 
     †


Nel buio dell’ infermeria, Stephen lavorava febbrilmente da ore.
Dall’inizio dello scontro si era trovato a dover amputare già tre gambe e quattro braccia, tra cui quello di un povero allievo, reciso all’altezza del gomito, oltre che ricucire un incalcolabile numero di ferite.
I lamenti dei suoi pazienti, fatti distendere o sedere dove possibile, risuonavano tutto intorno a loro ma nulla poteva distrarlo. Le sue mani abili guizzavano rapide sui corpi straziati che gli giacevano dinnanzi, salde e precise grazie ad anni di esercizio sul mare.
Agiva quasi senza pensare, con un orecchio sempre teso verso l’entrata della cala perché anche nel suo antro sacro era giunta una voce che pregava con tutto il cuore non essere vera: tra i marinai correva la diceria che il tenente Pullings fosse stato ucciso in combattimento, o per lo meno ferito gravemente.

L’esperienza gli aveva insegnato che i feriti più gravi spesso erano i più silenziosi, e tendevano ad arrivare per ultimi sul suo tavolo.
Sperò che quello non fosse il caso di Tom: a quanto gli era dato di capire aveva preso una brutta botta in testa nel mezzo della battaglia ed era rimasto tramortito. Nel migliore dei mondi possibili lo avrebbe rinvenuto per conto proprio sul ponte di coperta intento a dare ordini, o nella cabina del capitano a decidere il da farsi, con un bendaggio di fortuna sul capo.  
Il buon vecchio Leibniz dimostrò per l’ennesima volta di avere torto quando Jack piombò a capofitto nella cala, pallidissimo e terrorizzato, con un fagotto insanguinato in braccio. Non lo aveva mai visto tanto spaventato.

Non appena il tenente gli venne deposto davanti, Maturin si attivò per valutare le  sue lesioni.
Lo riconobbe dall’uniforme e dal colore dei capelli, dove non erano intrisi di sangue, perché il volto era sfigurato da una ferita spaventosa. Raramente ne aveva viste di tanto brutte.
Il naso era stato quasi reciso e la fronte squarciata. La lacerazione era profonda ed esisteva la possibilità concreta che Tom avesse perso l’occhio sinistro. Sollevandogli le palpebre, però, trovò il bulbo oculare intatto e la pupilla si contrasse normalmente quando avvicinò una lanterna.
Tastò le ossa del volto, strappandogli un lamento soffocato.
 Il cranio presentava una lieve frattura, che gli avrebbe causato nausea ed emicranie per qualche mese, ma il danno peggiore lo aveva ricevuto lo zigomo: per il contraccolpo la mandibola si era lussata tanto gravemente che la delicatissima articolazione non sarebbe mai guarita del tutto. Stephen la ricompose come poteva.

Ripulì con maggior delicatezza del consueto quel che restava del viso di Pullings mentre un suo assistente gli lavava i capelli con una spugna.
Sigillò i pochi punti fondamentali per restituire al tenente i suoi lineamenti e lo avvolse con garze e bende, lasciando scoperti la bocca, le narici, e l’occhio destro. La luce era troppo debole per poterlo ricucire con la precisione necessaria in un’area tanto delicata: la cicatrice sarebbe stata visibile e permanente, bisognava ridurla quanto più possibile. Se l’emorragia non lo avesse portato via durante la notte, lo avrebbe suturato con calma alla luce del giorno.
Il viso del giovane avrebbe perso gran parte della connaturata dolcezza che aveva spinto i locali a soprannominarlo “la verginella” ma Stephen era convinto di poter ottenere un risultato più che dignitoso.  Avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per restituirgli un aspetto quanto più gradevole possibile.
Terminato il bendaggio, gli depose la testa su uno straccio piegato prima di passare al resto del corpo.

Gli assistenti lo avevano spogliato, mettendo a nudo il suo fisico magro: la pelle era bianca, fredda, e sudata. La piaga vermiglia sul fianco apparve subito evidente, insieme ad altre più superficiali.
Stephen le ricucì rapidamente, approfittando del prolungato stato d’incoscienza del tenente. Dagli ematomi sul petto diagnosticò che avesse delle costole incrinate, che fasciò strette per aiutarne la guarigione.
La caviglia destra ed il piede, inoltre, si presentavano gonfi e lividi, sintomo di una brutta slogatura.
Ridusse la lussazione e la immobilizzò con un bendaggio rigido.

Fu un debole gemito ad attirare la sua attenzione: ”Dove sono?”
L’occhio sano di Pullings era semiaperto e fisso verso il soffitto. Stephen si chinò su di lui e gli appoggiò una mano sui capelli: “Tom, siete nell’infermeria della Surprise, caro ragazzo mio. Come vi sentite?”
“Male… fa… male.” Ansò il tenente, impossibilitato a muovere la mandibola dal bendaggio.
Alzò debolmente una mano ed il dottore la raccolse, sentendo il polso rapido e sottile: “State tranquillo: adesso vi diamo qualcosa per il dolore, poi potrete riposare.”
“E’ molto grave?”
Pullings non aveva che un filo di voce e la sua debolezza commosse profondamente il dottor Maturin, che gli accarezzò la mano e la strinse, cercando di offrirgli un po’ di conforto: “Avete preso una bella botta in testa, mio caro, non c’è che dire. Ma adesso è tutto a posto: guarirete presto.”
“Dottore.” Gemette il poveretto, aggrappandosi alla sua mano più forte che poteva, sopraffatto da una fitta.
“Shh, va tutto bene. Sono qui. Sono qui.”

Una volta cessato lo spasmo Stephen fece diluire cinquanta gocce di laudano, il massimo per un corpo così debilitato, in mezzo bicchiere d’acqua. Il suo assistente sollevò con estrema cura la nuca del ferito ed il medico lo aiutò a sorbire la soluzione, controllando che aprisse la bocca solo il minimo indispensabile.
Gli restò accanto, carezzandogli la mano con le proprie, finché non ebbe la certezza che si fosse addormentato.
Accompagnò gli infermieri mentre lo mettevano a letto e provvide personalmente a stendergli addosso una coperta, accertandosi che fosse quanto più confortevole possibile.




La storia partecipa alla Summer Bingo Challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart [https://www.facebook.com/groups/534054389951425/]

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Scusate per l'attesa, prometto che mi farò perdonare ^^

Disclaimer: Non guadagno nulla da questo scritto, i personaggi appartengono agli aventi diritto.

Buona lettura ^^


Chiuso nella sua cabina, Jack era chino sul diario di bordo.
Aveva appena congedato il commissario, che gli aveva fatto rapporto sui danni, e Mowett, che faceva le veci dell’invalido Pullings. Il suo umore, già di solito inverso dopo una battaglia, era anche più nero del solito perché Stephen non gli aveva ancora presentato il conto del macellaio e nemmeno aveva più saputo nulla del suo primo tenente, dopo averlo affidato alle sue cure.
L’ ora di cena era arrivata e passata senza che lui dicesse nulla, ma Killick gli aveva portato comunque un bricco di caffè ed un piatto di formaggio grigliato. Li aveva appoggiati sul tavolo, alla sua portata ma in disparte, e si era ritirato senza dire una parola. 
Se il famiglio aveva notato lo stato della giacca indossata in battaglia, per una volta aveva tenuto le proprie considerazioni per sé, e per il bene della sua incolumità era stato meglio così.

Stephen bussò alla porta e, non ricevendo risposta, mise discretamente dentro la testa per valutare la situazione. 
Poiché l’amico non gli apparve ostile, fece qualche cauto passo in avanti. Dato che persisteva nel suo silenzio, entrò una volta per tutte e si chiuse la porta alle spalle facendo il minor rumore possibile.
Il tavolo era ingombro di carte, fogli accartocciati e macchiati d’inchiostro, penne spezzate, e strumenti di navigazione. Un bricco di caffè ancora quasi pieno faceva compagnia ad un intonso piatto di formaggio grigliato, in una composizione involontaria, quasi fosse una natura morta manierista.
Il volto tirato di Aubrey era illuminato dalla lanterna, ed il pallore della cute faceva risaltare il sangue incrostato di una ferita sulla fronte. Avvicinandosi, Maturin vide anche due macchie cremisi sul panciotto color crema, una per fianco, e ringraziò di aver portato con sé gli strumenti.
Sapeva però di dover avvicinare l’amico con cautela perché la sua quiete apparente celava una profonda tensione, che traspariva dalla rigidità della postura e dalla contrazione dei muscoli facciali. Persino i suoi occhi, di solito vivaci, erano spenti e fissi sul libro che stava compilando.
Era come un serpente a sonagli, arricciato su sé stesso, pronto a scattare al minimo pretesto. 

Stephen si limitò ad accomodarsi al suo solito posto, quasi senza far rumore, attendendo che fosse lui a prendere la parola.
Non lo fece attendere a lungo. Terminò la frase che stava scrivendo e, senza staccare gli occhi dal foglio, gli pose la fatidica domanda: “Come sta?”
Il medico dovette prendere un respiro profondo e valutare con attenzione come affrontare la questione. Decise di prenderla alla larga, per dare all’amico il tempo di digerire con calma le informazioni: “Dorme, che Dio lo benedica. Ora c’è Graham con lui. Mi manderanno a chiamare se dovesse succedere qualcosa.”
Jack annuì leggermente, ma la sua postura non si sciolse di un millimetro: “Quanto è grave?”
“E’ una brutta ferita, ne ho viste poche tanto impressionanti. Oltre all’aspetto, ha perso anche molto sangue, almeno tre pinte . Però l’occhio non corre alcun pericolo e sono certo di potergli rimettere naso e fronte al posto giusto, ma bisogna aspettare domani per dargli il tempo di riposare un poco e per disporre di tutta la luce necessaria perché sarà un lavoro di una precisione minuziosa.  Se andrà tutto come deve andare lo squarcio si richiuderà completamente e, una volta cicatrizzato, non sarà poi così terribile a vedersi.”
“Sono felice di sentirlo, davvero mi togli un peso dal cuore!” Aubrey ripose la penna e si stese contro lo schienale della sedia, sfregandosi il volto con le mani prima di rivolgere lo sguardo al dottore “Dimmi la verità, fratello: ce la farà?”
“Come ti ho già detto, è una brutta ferita: Tom è giovane e molto forte ma l’emorragia lo ha provato notevolmente. Bisogna pregare che non sopravvenga un’ infezione perché, in questo stato, il suo corpo non ha le forze per combatterla e soccomberebbe di certo. Purtroppo esiste anche la possibilità che il trauma cranico sia più grave di quanto sembri e che non riprenda più conoscenza. Sto facendo tutto il possibile, il resto è nelle mani di Dio.”
Jack non rispose ma gli rivolse un sorriso mesto, come se non fosse del tutto convinto da quell’ultima frase ma ne prendesse comunque atto. Poi si allungò sul tavolo per avvicinarsi il piatto ma una delle sue tante ferite gli diede una fitta, strappandogli un grugnito che mise in allarme Stephen: “Lasciami dare un’occhiata a quelle ferite, fratello, vuoi?”
“Se anche mi rifiutassi aspetteresti che dorma e lo faresti comunque. Quindi prego: accomodati.”
“Giusta osservazione.” Mormorò il medico, inforcando gli occhiali e chinandosi su di lui per esaminarlo. 

Iniziò dalla ferita di pistola sul fianco destro, slabbrata ma superficiale. Doveva essersi riaperta quando Jack aveva allungato il braccio perché stava sanguinando leggermente, ma forse non avrebbe avuto bisogno di punti: “Hai avuto anche tu la tua dose di mali oggi, fratello.”
Con un sorriso tirato, Aubrey appoggiò il mento sulle braccia incrociate ed allungò le gambe, per consentire all’altro maggior accesso alla sua ferita: “Non mi posso lamentare. E’ stato un inferno, là in mezzo, ancora non so come abbiamo fatto a… Tira via quel dito, per l’amor di Dio!” 
Le sue grida misero allarme Killick, che fuoriuscì dal suo pertugio, sporgendo la testa nella stanza come una murena che esca circospetta dalla tana. Diede una rapida occhiata, mugugnò qualcosa tra i denti e si ritrasse nel suo antro come se nulla fosse.
Una volta finito di sondare e palpare la ferita a suo piacimento, Stephen ritrasse finalmente la falangetta incriminata: “Scusa, mio caro, ma in quel punto mi sembrava leggermente più profonda e dovevo controllare che non ci fosse rimasto dentro nulla.” Si pulì il dito in un lembo della camicia e procedette ad esaminare il colpo di spada sull’altro fianco “Anche questa è un morso di pulce. Non credo ci sia nemmeno bisogno di suturarle. Sfilati la camicia che devo bendarti.”
Una volta terminata la medicazione, controllò anche la ferita sulla fronte: “E questa? Come te la sei fatta?”
“Bisogna ringraziare quello scimmione di Davis: per poco non mi ammazzava con quella sua dannata mannaia! Avevo anche pensato ad un gioco di parole sul fuoco amico ma poi mi è passato di mente. Date le circostanze, forse è meglio così.” 
La sua espressione si fece di nuovo cupa e non parlò più, se non quando l’amico ebbe riposto i propri strumenti: “Dici che sarebbe un problema se scendessi un momento da Tom? Avrei piacere a…” avrebbe voluto dire ‘a salutarlo’ ma in quel momento anche un’espressione così innocente assumeva una connotazione di fatalità quindi all’ultimo la corresse in “a vederlo di persona. Insomma, per vedere se sta meglio, capisci?”
“Certo, capisco. Ma dovrai essere molto delicato. Ha assolutamente bisogno di riposare, per recuperare le forze, ma non solo: il dolore della ferita è molto intenso e almeno finché dorme sente poco o nulla. “
“Ti prometto che farò del mio meglio per non disturbarlo. Dammi solo il tempo di rivestirmi e possiamo andare.”
Non aveva ancora finito di parlare che una voce arcigna invase la cabina, gracidando stridula da dietro una porta: “Sarebbe cosa buona e giusta che qualcheduno lasciasse la camicia sporca sulla sedia, perché qualchedun altro possa sprecare la nottata a cercare di farla venire pulita. Sarebbe proprio cosa buona e giusta, sarebbe!” 
 


Il professor Graham sentì un rumore sommesso di passi e si alzò dal capezzale del tenente Pullings per permettere al dottor Maturin ed al capitano Aubrey di avvicinarsi.
Aubrey lo salutò con un cenno del capo e si chinò sul comandante in seconda, osservandolo in silenzio.

Stephen invece prese lo scozzese da parte: “E’ andato tutto bene?”
“Sì, dottore. Quel povero giovane dev’essere molto provato: da che ve ne siete andato non ha fatto che dormire. Ha ripreso i sensi quel poco che bastava per chiedere dell’acqua. Gliene ho dato mezzo bicchiere, somministrandola con un cucchiaino da tè, come mi avevate ordinato.”
“Avete fatto bene. E come vi è sembrato, in quel momento?”
“Non saprei dire. E’ rimasto cosciente, se così si può definire, per pochissimo. Non credo nemmeno mi abbia riconosciuto: ha solo chiesto da bere con un filo di voce e ha ringraziato dopo averne avuto, tutto qui.” Rivolse uno sguardo mesto alla branda del ferito ed alla schiena di Jack “Ora ho capito perché quegli uomini ridevano e scherzavano poco prima della battaglia: per non dover pensare a questo.”
Stephen rimase molto colpito da quell’interpretazione: quel pensiero lo aveva già sfiorato altre volte ma non aveva mai assunto una consistenza tanto concreta. Sia Jack che Pullings avevano grande esperienza di battaglie navali: entrambi conoscevano alla perfezione i rischi a cui andavano incontro e sapevano che ogni volta sarebbe potuta essere l’ultima. Risa e scherzi potevano essere un modo per allontanare la paura che, nel profondo del loro cuore, non si rendevano conto di provare.

Un’ inquietudine profonda si era fatta strada nell’animo del capitano Aubrey anche in quel momento, mentre osservava il suo inestimabile comandante in seconda, il giovane che aveva cresciuto e che nel proprio cuore sentiva come un figlio. 
Il suo viso tanto famigliare era nascosto da bende macchiate di sangue lungo la linea della ferita, mentre altre gli sostenevano la mandibola slogata. L’unico occhio scoperto era inesorabilmente chiuso, velato dalle palpebre livide e gonfie. Il corpo nudo era avvolto dalle coperte ma il collo e le spalle erano di un pallore mortale. Per via dei danni subiti alla cartilagine del naso, ora respirava con la bocca semiaperta e con evidente fatica.
Nonostante Stephen gli avesse assicurato ripetutamente che Pullings stesse solo dormendo, esausto per la perdita di sangue e sedato dal laudano, non riusciva a non pensare che fosse ormai in agonia e che da un momento all’altro avrebbe smesso di respirare davanti ai suoi occhi, addormentandosi per sempre.
‘Nemmeno trent’anni e ridotto in questo stato.’ Pensò  ‘Potrebbe andarsene qui ed ora, in una misera branda da infermeria come un terrazzano qualunque. Non può succedere! Non così!’
Un moto profondo dell’animo lo spinse ad allungare una mano per sfiorare la testa del giovane con una carezza, ma all’ultimo desistette e per non provocargli dolore gliela posò sulla spalla, sentendo la pelle fredda e sudata, il palpito del sangue rapido sotto le sue dita. Avvolse la testa dell’omero con il palmo e la strinse appena, carezzando il trapezio con il pollice.
Il petto di Pullings sussultò leggermente nello sforzo di trarre un respiro profondo ma il giovane non emise un suono, né diede cenno di aver percepito la presenza del capitano al suo capezzale.

“Com’è potuto succedere?”  si ritrovò a chiedere Jack, quasi senza rendersene conto, sentendo gli occhi iniziare a bruciare.
“Dillo tu a me, fratello.” Gli rispose Stephen, compartecipando del suo dolore da una discreta distanza per non metterlo in imbarazzo, mentre Graham si ritirava rispettosamente.
“Io… non lo so. E’ successo tutto così in fretta!”Ammise il capitano, sconsolato come lo aveva visto ben di rado “Stavamo lottando fianco a fianco, poi all’improvviso si è aperta una breccia, lui ci si è lanciato ed è caduto. Dio, Stephen! Il suo sguardo! Non lo avevo mai visto così: non capiva cosa fosse successo. Era così smarrito! Così perso! E quella lama! E’ calata all’improvviso ed un momento dopo era steso lì, faccia in giù in una pozza di sangue.”
Stephen sentì la voce dell’amico rompersi e gli si avvicinò fino a posargli una mano sul braccio, unendosi alla sua veglia silenziosa.

 


Faceva freddo, tanto freddo, e il peso delle coperte che Tom si sentiva addosso non contribuiva a mitigare quella sensazione. Era tutto buio, ed i suoni gli giungevano cupi ed ovattati, come se l’onnipresente sciabordio delle onde provenisse da distanze siderali e non stesse invece avvolgendo il guscio di legno che accoglieva la sua branda. 
La tela del suo giaciglio lo aveva accolto come un abbraccio famigliare ed oscillava dolcemente, sospinta dal rollio della Surprise. Di solito quel movimento lo rilassava ed era abituato ad associarlo al meritato riposo dopo una giornata di duro lavoro, ma in quel momento peggiorava solo il senso di nausea causato dal dolore pulsante che sembrava diramarsi dalla sua testa, accanendosi sul suo volto al punto da farglielo percepire come se premuto su una brace ardente. Piccoli focolai di sofferenza erano sparsi in tutto il suo corpo ma erano futili in confronto al male che provava alla testa e che gli pareva a tratti immanente e a tratti lontano, alleviato da momenti di vuoto totale.
Voci soffuse accompagnarono il posarsi sulla sua spalla di un qualche arnese caldo e ruvido, una mano capì dopo un po’, che sostò in quel punto e non diede segno di volersi staccare presto. Il suo tocco aveva qualcosa di famigliare e, con uno sforzo immane, riuscì a socchiudere l’occhio destro. Dal sinistro provenne solo una stilettata di dolore, accompagnata da una sorta di lampo, che gli strappò un gemito. 

Di nuovo quelle voci, più concitate.
Qualcuno gli prese una mano e la strinse forte, dandogli un appiglio.
Socchiuse l’occhio sano e attraverso una fitta nebbia gli apparve una macchia dorata, circonfusa di luce. Pensò che fosse un angelo, venuto ad accompagnarlo nel Regno dei Cieli. 

Ebbe paura: non voleva morire, non ancora. 
Non era pronto! Il suo capitano contava su di lui e la sua Patria rischiava di essere invasa da un pazzo generale francese! C’erano tante cose da fare, sulla Surprise, e non poteva abbandonare il capitano ed il dottore da soli: chi li avrebbe aiutati altrimenti? William non poteva sobbarcarsi tutta la responsabilità da solo o ne sarebbe rimasto distrutto. 
Cercò di spiegare tutto questo all’angelo ma dalle sue labbra non uscì che un sospiro, prima che il dolore prendesse il sopravvento. Poi un liquido amaro gli bruciò la bocca ed il buio lo reclamò di nuovo.


Sotto lo sguardo impotente di Jack, Pullings socchiuse l’occhio sano, e subito il suo corpo si contrasse in un violento spasmo che spinse il capitano ad afferrargli istintivamente una mano. Il povero giovane diede un gemito per il forte dolore e Stephen si affrettò a premerlo sul cuscino, ripetendogli di stare tranquillo, che andava tutto bene.
Pochi minuti dopo Tom riaprì le palpebre ed il suo sguardo appannato si fissò sul volto di Aubrey, illuminato da una lanterna. Aprì la bocca come per dire qualcosa ma emise solo un flebile singulto; ormai tutto il suo corpo tremava per l’agitazione e la fatica.
Jack si chinò su di lui e cercò di tranquillizzarlo come poteva, ma ormai il giovane era sopraffatto dal dolore al punto da non rendersi conto di non essere solo.  Stephen riempì un cucchiaino con del laudano e lo versò tra le labbra esangui del suo paziente, assicurandosi che lo deglutisse.
In breve Pullings si rilassò con un sospiro nella branda e quel poco del suo viso che era ancora visibile si distese mentre sprofondava nel sonno profondo ed indolore dell’oppio.

Stephen gli rimboccò amorevolmente le coperte e lo osservò con attenzione, cercando sul suo corpo il benché minimo segno di sofferenza. Non trovandone alcuno, poggiò una mano sul gomito dell’amico e lo sospinse con dolce fermezza verso l’uscita: “Vieni, fratello: lasciamolo riposare.”

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Disclaimer: i personaggi non mi appartengono e non guadagno nulla da questa pubblicazione.

Mi scuso con i miei lettori ma, essendo ancora in corso, purtroppo questa storia ha dei tempi di aggiornamento lunghi. Tranquilli, però: non ho assolutamente intenzione di abbandonarla, anzi!

Buona Lettura ^^

Il mattino seguente fu il dolore a destare Pullings dal suo torpore.
Sembrò generarsi nel profondo del suo cervello, per risalire fino alla fronte ed al naso, tanto forte da mozzargli il respiro. Tentò di aprire gli occhi ma le palpebre sembravano pesare immensamente e quando mosse le labbra per chiamare aiuto la mandibola gli scattò all’improvviso, generando una fitta tanto forte da suscitargli un grido.
Dalle sue labbra non uscì che un lamento, quasi il guaito di un cucciolo, ma sufficiente a catturare l’attenzione di Stephen, che aveva trascorso la notte al suo capezzale, allontanandosi solo per accudire gli altri feriti e per assistere ai funerali dei caduti, tenutisi alle prime luci dell’alba.

Subito la mano esile del medico si posò sul suo petto e lo premette dolcemente contro la branda: “Non vi muovete, Thomas, e non cercate di parlare: non ne avete le forze. Non sforzatevi di aprire gli occhi. Vi garantisco che li avete ancora entrambi e che sono sani, ma le palpebre sono ancora gonfie e vi fareste male. State giù e respirate piano. Così. Il dolore si quieterà un poco.”
Rimase a strofinargli il petto finché le fitte non si fecero più sopportabili, poi gli prese una mano: “Gioia, riuscite a sentire la mia mano nella vostra?”
Come risposta, Pullings strinse debolmente la presa sulle sue dita.
“Molto bene, bravo ragazzo. Ora vi farò delle domande e, per rispondere, dovrete stringermi la mano: una volta per dire ‘sì’, due per dire ‘no’. Intesi?”
Una stretta.
“Bene. Il dolore che sentite è molto forte?”
Due strette.
Il medico sbuffò: “Dovete essere sincero con me, ne va della vostra salute!  Siete sicuro che sia sopportabile, almeno per ora?”
Una stretta.
“Contento voi. Appena il sole sarà più alto, diciamo intorno ai cinque colpi di questa guardia[1],  vi farò portare in coperta per suturare la ferita, ma per allora vorrei che foste un poco più in forze. Ho chiesto a Killick di far scaldare una tazza di latte e ci ho versato un cucchiaio del mio miele: non è molto ma vi tirerà un po’ su. Ve la sentite?”
Due strette.
“Capisco. Avete nausea, non è vero?”
Una stretta.
“Avere qualcosa nello stomaco aiuterà anche con quella, però. Se non doveste farcela potete alzare una mano in qualunque momento e non ve ne darò più, ma vi conviene berne il più possibile: avete perso molto sangue e dovete ricreare i liquidi persi. Immagino siate anche molto assetato, non è vero?”
Un’ ultima stretta, più incerta delle altre, e Stephen coprì la mano tremante del giovane con la propria, carezzandone piano il dorso:  “Coraggio, Tom: siete forte. Passati i primi giorni vi sentirete meglio e tutto questo sarà solo un brutto ricordo.” Un improvviso moto d’affetto per quel sofferente lo portò a sbilanciarsi più del solito “Il capitano mi ha raccontato come vi siete comportato sulla Torgud: siete stato molto coraggioso e non potranno che concordarvi la promozione. Sarete presto comandante, mio caro.”
Le labbra smorte di Pullings si contrassero leggermente in una sorta di sorriso, lasciando il medico più tranquillo nel sollevargli la testa con un guanciale, per poterlo imboccare senza che rischiasse di soffocare.

Dato che Tom non poteva aprire del tutto la bocca, Stephen si servì di un cucchiaino da tè, versandogli poco a poco la bevanda tiepida tra le labbra ed aspettando con pazienza che deglutisse prima di porgergliene altra.  
Da ragazzo gli era capitato di imboccare allo stesso modo un gattino abbandonato che aveva raccolto in mezzo alla strada e compiere quel gesto per Pullings gli provocò un misto di tenerezza e dispiacere: era sempre doloroso vedere un giovane uomo forte e coraggioso, nonché un carissimo amico, stremato dal dolore ed in pericolo di vita. Si sentiva al contempo grato di poter fare qualcosa per alleviare le sue sofferenze e furioso verso le circostanze che lo avevano portato a doverlo fare.

Pur con esasperante lentezza, il giovane riuscì a finire il suo latte.
Stephen gli terse le labbra con una pezzuola umida ed estrasse l’orologio: “Le nove e un quarto. Avete un’oretta abbondante per cercare di riposare ancora un poco, nessuno vi disturberà.” Sfiorò appena la sua guancia scoperta con il pollice “Quando sarà il momento manderò qualcuno a prendervi. Non preoccupatevi: andrà tutto bene.”

Il giovane mosse appena il capo in una sorta di cenno d’assenso e si abbandonò sui cuscini: il volto e la testa gli pulsavano di un dolore atroce, impedendogli di trovare una posizione comoda.
Come il dottore aveva predetto, il latte aveva smorzato notevolmente il senso di nausea ed il suo calore aveva mitigato la sensazione di freddo che sentiva di provare. Eppure si sentiva ancora debole, tanto che solo sollevare una mano gli sembrava impossibile. Avvertiva anche un malessere generalizzato, che per esperienza sapeva essere preludio della febbre, e venne sopraffatto dallo sconforto alla prospettiva di un ulteriore disagio.
 Il dottore però continuava a ripetere che sarebbe andato tutto bene e si abbandonò con fiducia alle sue cure. Pur non vedendolo, si accorse di quando gli rimboccò addosso le coperte e sentì lo scricchiolio che produsse la sua sedia mentre si alzava.
Poi sprofondò di nuovo nel buio, troppo stanco per resistere oltre.
 


Sentì delle voci intorno a sé ed avvertì degli scossoni che gli strapparono un gemito.
Le mani smisero di torturarlo e qualcuno disse qualcosa che non capì. Poi sentì qualcosa afferrargli le ginocchia e qualcos’altro di duro e rigido gli scivolò sotto le spalle: “Piano, ora. Piano.”
Prima che potesse protestare, quegli aggeggi, qualunque cosa fossero, lo sollevarono in sincrono e lo depositarono da qualche parte con tanto di coperta, incuranti delle sue grida.  
Lo stavano maneggiando con la stessa inconsueta delicatezza che usavano con il dottore quando doveva essere trasferito da un’imbarcazione all’altra, eppure il dolore che gli provocava anche il minimo spostamento era intollerabile.
Dopo averlo disteso sul lettuccio, gli concessero qualche minuto per riprendersi prima di portarlo via.
Non appena lo sollevarono da terra capì di essere in una delle lettighe di fortuna, realizzata con scampoli di tela da vele ed aste di riserva, che usavano per trasportare gli invalidi ma non capiva perché ce ne fosse bisogno.

Fu una voce incorporea ma dall’inflessione famigliare a fare breccia nelle sue angosce: “Fate piano, ragazzi, mi raccomando. Bene così.”
“William?” sussurrò, riconoscendo la voce dell’amico ma non capendo perché fosse lì.
“Sono qui, Tom.” Una mano calda gli si posò su un braccio, stringendolo appena “Va tutto bene, tranquillo: ti portiamo dal dottore.”
Pullings era troppo debole e confuso per rispondere e fu grato di sentirsi addosso la mano dell’amico, che gli permetteva di mantenere un legame con la realtà. Il suo tocco lo rassicurava e lo consolava, in qualche modo gli confermava il significato delle sue parole: Mowett diceva che stava andando bene e volle credergli con tutto sé stesso, nonostante l’evidente preoccupazione che traspariva dal suo tono.
Lo sentì avvisare Bonden e Marshall di un qualche tipo di scala e pochi secondi dopo il sole penetrò attraverso le sue palpebre chiuse, tanto forte sulla sua pupilla da strappargli un lamento.

“Shh, tranquillo. Tranquillo.” Di nuovo la voce di William, e la sua mano gli si posò lieve sul viso, attenta a non toccare la ferita, schermando il suo occhio troppo sensibile dalla luce “Va tutto bene. Non preoccuparti.”
Mowett rimase al suo fianco mentre lo sollevavano dalla lettiga e gli resse la testa per deporla con cura su un qualcosa di morbido ad un capo delle casse da marinaio, rigorosamente coperte di tela da vele numero otto, che fungevano da tavolo operatorio. Chino su di lui, lo protesse dalla luce e gli parlò piano, spiegandogli cosa stava succedendo.
Solo una minima parte delle sue parole giunse alle orecchie di Pullings, al quale pareva di avere la testa piena di bambagia perché non percepiva altro che dolore. Tentò comunque di divincolarsi quando sentì qualcuno afferrargli polsi e caviglie, ma il movimento gli procurò solo altra sofferenza.
“Non ti agitare, amico mio, ti farai del male.” Will prese ad accarezzargli il volto e le spalle, attento a non provocargli dolore “Lascia lavorare gli uomini: stanno solo cercando di aiutarti. Va tutto bene, sei al sicuro. Nessuno ti farà del male.”
I marinai finirono di assicurare le sue membra tremanti con le catene imbottite di cuoio che lo avrebbero trattenuto sul tavolo e si ritirarono. Qualcuno gli stese addosso una coperta.

“Grazie per il vostro aiuto, signor Mowett. Potete andare, ora.”
“Va bene, dottore. Buona fortuna, Tom. Fatti coraggio: finirà presto.”
La mano di William diede un’ultima stretta alla sua spalla e scivolò via, per essere rimpiazzata da una più pesante qualche istante dopo: “Sono a tua disposizione, fratello: dimmi pure cosa devo fare.”

Riconoscendo la voce del capitano, Tom riuscì a socchiudere l’occhio quel poco che bastava per distinguere una macchia dorata alla sua sinistra e trasse un sospiro di sollievo: era tanto confuso da non capire cosa gli stesse accadendo, ma sapere di avere accanto il proprio superiore lo confortava. Con lui vicino, poteva essere certo che sarebbe andato tutto bene.
Una mano sottile gli raccolse una guancia e gli socchiuse la bocca, attenta a non forzare la sua mandibola danneggiata: “Se potessi avere la vostra attenzione, signor Pullings, gradirei beveste questo.”
Gli venne introdotto un cucchiaino tra le labbra e lui si ritrasse avvertendo il gusto amaro del laudano.
“Gesù, Giuseppe e Maria! Cercate di collaborare, Thomas: potrei impiegare ore a ricucire quella ferita. Non voglio causarvi del dolore inutile se posso evitarlo!”
Fu la voce ferma del capitano a far breccia nella coltre di confuso terrore che aveva avvolto il tenente: “Prendete la medicina, Tom. Per il vostro bene ve lo ordino.”
Con un brivido il ferito si rassegnò allora ad accettare il farmaco, troppo debole per sputare nonostante il sapore disgustoso.
 


Date le ultime disposizioni agli assistenti perché trattenessero il paziente sul tavolo operatorio senza fare danni, Stephen si preparò ad iniziare l’operazione.
Rimboccate le maniche della camicia fin sopra ai gomiti, inforcò gli occhiali e cominciò a sciogliere lentamente le bende che avvolgevano il volto di Pullings. Durante la notte la ferita aveva spurgato dell’essudato sanguinolento che aveva fatto aderire le garze. Toglierle, dunque, fu un vero travaglio.
All’inizio era stato restio nell’offrire al tenente un pezzo di cuoio da mordere per resistere al dolore, ma nel giro di qualche minuto non ebbe più il cuore di ascoltare i suoi singulti addolorati e gli fece scivolare il morsetto tra i denti, badando che non si lussasse di nuovo la mascella per errore.
Pullings fu anche più silenzioso del previsto e sopportò senza ulteriori lamenti la rimozione delle fasciature, ma quando il medico mise da parte l’ultima garza insanguinata, il suo volto era rigato di lacrime. Nessuno fece commenti a riguardo, poiché furono attribuite alla sofferenza di quel momento e non alla debolezza d’animo dell’ufficiale. Jack, che era stato incaricato di tamponare la ferita e tenere pulita l’area di lavoro, si limitò ad asciugarle con un panno senza dire nulla.

Ad un attento esame, la ferita si presentava anche meglio di quanto Stephen avesse sperato: i labbri erano lividi e tumefatti ma non arrossati e non vi erano ancora segni di lodevole pus od altro spurgo. I punti sigillati la sera precedente avevano retto, consentendo un principio di rivascolarizzazione nelle aree colpite. Ciò nonostante, il lavoro da fare era ancora lungo ed estremamente delicato.
Fece scorrere il filo da sutura nella cruna dell’ago e si chinò sul volto devastato del suo paziente, posandogli una mano sulla guancia illesa per catturare la sua attenzione: “Quello che sto per fare sarà terribilmente doloroso, mio caro, ma ho bisogno che restiate il più possibile immobile. So che non sarà facile ma cercate di fare dei respiri profondi e tenete duro. Cercherò di fare in fretta. Jack, per favore, stai pronto con quello straccio e, se si agita, preparati a reggergli la fronte: non possiamo rischiare di sbagliare.”

Da quel momento in poi fu un incubo ad occhi aperti.
Stephen si dedicò alle suture con una cura anche maggiore del solito: il suo ago scivolava fluido nella ferita, sigillando una serie di punti finissimi. Il naso era stato reciso quasi del tutto e ricucirlo portò via più di un’ora. In più occasioni tornò sui propri passi, allentando e richiudendo alcuni punti fino a quando non fosse stato soddisfatto del risultato, e Jack ebbe parecchio da fare per tamponare la ferita perché nel corso dell’intervento il tenente perse almeno un’altra pinta[2] di sangue.
Nonostante si sforzasse di contenersi, era evidente che Pullings stesse soffrendo molto: i suoi denti scoperti erano conficcati nel cuoio, le mani si aggrappavano spasmodicamente alla coperta, le sue gambe tremavano tanto che Williams dovette afferrargli i fianchi e pesarsi sopra per tenerlo fermo. Di quando in quando un lamento strozzato o un grido si facevano strada tra le sue mascelle serrate.

La mandibola uscì di nuovo dalla sua sede ed il dolore giunse al parossismo.
Tutto il suo corpo fu travolto da un violento spasmo e si accasciò sul tavolo, pallidissimo e madido di sudore, con l’occhio sano semiaperto e le membra scosse dai brividi. Nessuno capì se stesse tremando di freddo, dolore, o fatica ma in quel momento fu chiaro a tutti che fosse stato coperto non solo per preservare la sua dignità davanti agli uomini sul ponte di coperta, ma soprattutto in previsione dei suoi sintomi.
Jack fece scivolare la mano libera sotto la coperta, stringendo quella gelida di Tom e permettendogli di aggrapparsi a qualcosa di solido in quel dolore indescrivibile, cercando di farlo sentire meno solo e spaventato, come facevano gli uomini per i compagni che passavano sotto i ferri del chirurgo. Sapeva fin troppo bene come ci si sentisse in quelle condizioni.

Le dita del tenente si contrassero sul palmo del capitano e più di una volta strinsero la presa, secondo l’andamento delle fitte: “Coraggio, Tom.” disse Jack, stringendogli forte la mano “Cercate di resistere, è quasi finita.”
Persino Bonden, che aveva il compito di tenere le spalle del paziente premute contro il tavolo, sembrava preoccupato. Si azzardò addirittura a prendere la parola: “Tenete duro, signore, e non preoccupatevi: il dottore vi rimetterà a nuovo. Sta andando tutto a posto, signore. Tutto a posto.”

Dopo due ore d’intervento, il pur robusto fisico di Pullings cedette e perse i sensi.
Ci volle ancora un’altra ora per terminare le suture e ricollocare la mandibola. Poi Stephen stese sulla ferita delle garze imbevute di aceto mentre lavava il resto del volto con uno straccio bagnato.
Una volta asciutto avvolse la ferita con garze e bende, approfittando del suo stato d’incoscienza per cambiare anche le altre medicazioni senza farlo soffrire troppo.
Bonden e Marshall lo avvolsero nella coperta e lo riadagiarono sulla lettiga, con un fazzoletto sul volto per ripararlo dal sole. Lo sollevarono con una delicatezza maggiore del solito e lo riportarono di sotto.
Aubrey sentì un peso enorme sciogliersi dal petto quando vide la barella scomparire sottocoperta senza un lamento da parte del paziente: una parte di lui non riusciva a smettere di sentirsi in colpa per l’accaduto.

Si approcciò con apprensione a Stephen, mentre quest’ultimo si stava lavando le mani in una bacinella: “Come pensi sia andata, fratello?”
“Ti dirò, gioia, molto meglio di quanto avrei sperato: lo squarcio si è richiuso bene e l’emorragia non è stata copiosa come temevo. Ha comunque perso sulle quattro pinte[3] di sangue in tutto ma dovrebbe riprendersi nel giro di qualche settimana.”
“Non sai quanto mi renda felice sentirlo! Quindi pensi sia già fuori pericolo?”
“Non ho detto questo. Anzi, credo sia fortunato ad essere sopravvissuto fino ad ora. I prossimi giorni saranno critici e anche dopo rimarrà costretto a letto per un bel pezzo. Il riposo assoluto è la cosa migliore, e sarebbe buona cosa che per qualche giorno si evitasse di produrre forti rumori a poppa dell’albero di maestra. L’ho fatto portare nella sua cabina, perché riposare con più tranquillità. Se poi chiedessi a Killick una brocca di acqua e succo di limone mi faresti un’enorme cortesia.”
“A proposito di Killick, vuoi che gli chieda di preparare anche qualcosa da mangiare per Tom?”
Maturin esitò un momento. Mentre si asciugava le mani in uno strofinaccio i suoi occhi quasi incolori corsero verso il cassero, verso le spartane cabine degli ufficiali, dove si posarono mentre le labbra si arricciavano, evidente sintomo di concentrazione.
Rimase sovrappensiero per qualche minuto, ponderando le diverse opzioni prima di rispondere: “Ti ringrazio per averlo chiesto. Se non fosse troppo disturbo penso che un piatto di brodo caldo sia l’ideale: con la mandibola così danneggiata per ora non può ingerire altro che liquidi perché deve aprire la bocca il meno possibile.” Di nuovo contrasse le labbra, pensieroso “E credo sarà già un miracolo fargli tenere giù quelli. Hai sentito com’era caldo? Gli sta salendo la febbre.”

Note:
[1] Le 10:30 del mattino
[2] Circa 0,56 litri di sangue.
[3] Circa due litri.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Disclaimer: contesto e personaggi appartengono agli aventi diritto, non guadagno nulla da questa pubblicazione se non gli ortaggi che mi lanciano i lettori e che costituiscono il mio unico sostentamento dato che, ripeto, non guadagno nulla da questa pubblicazione.

Buona Lettura ^^


Pullings non riprese conoscenza per diverse ore: rimase disteso nella sua branda, senza muovere un muscolo e respirando a malapena. Il torace gli si alzava ed abbassava con discreta costanza, ma i movimenti erano erratici e superficiali.
Inchiodato al suo capezzale, Stephen sorvegliava le sue condizioni con ansia crescente: le pulsazioni erano ancora deboli e troppo rapide, tanto che sempre più spesso si trovava ad afferrare la mano pallida del suo paziente per tastarne il polso. La cute, prima gelida e sudata, andava scaldandosi con una costanza inquietante, finché il termometro si settò sui 102° Fahrenheit[1].
L’esperienza gli diceva che il giovane aveva appena subito un duro colpo e che aveva bisogno di tempo per riprendersi, che gli avrebbe fatto solo bene riposare qualche ora. D’altro canto temeva che il coma si prolungasse fino a sfociare nell’agonia, quindi osservava con inalterata concentrazione ogni movimento del giovane, prestando attenzione ad ogni cambiamento.

Ai quattro colpi della guardia del pomeriggio[2] , finalmente Pullings riaprì l’occhio e chiese un sorso d’acqua con voce flebile. Per non sforzare la sua mascella danneggiata e non provocargli il vomito, gli bagnò le labbra con una garza prima di introdurvi il cucchiaino.
Debole com’era, il ferito accolse quel misero sollievo senza un fiato: rimase disteso immobile, le palpebre semichiuse, lasciandosi imboccare come un bambino. Quando Stephen ripose il cucchiaio nella tazza schiuse le labbra con l’intenzione apparente di dire qualcosa, ma venne travolto da un brivido e sprofondò con la testa nel guanciale.
In un impeto di pietà, Stephen gli rimboccò addosso le coperte e posò la mano appena sopra il bendaggio per accomodargli il capo sul cuscino, che non dovesse poi avere a soffrire per aver tenuto troppo a lungo il collo in una posizione scomoda. Stava per ritornare all’immoto silenzio della sua veglia quando un bussare nervoso scosse la porta.

Era talmente teso che sobbalzò sulla sedia ma si ricompose in un batter d’occhio e riuscì a dissimulare del tutto la propria inquietudine nell’invitare l’ospite inatteso ad entrare.
Il cipiglio perennemente imbronciato di Preservato Killick gli parve anche più corrucciato del solito quando fece capolino oltre la porta reggendo un vassoio.
Mugugnando un saluto, il famiglio s’introdusse nell’angusta cabina e depose una fondina ancora fumante sul minuscolo stipo che faceva da comodino prima di borbottare: “Ecco qui, Eccellenza: un bel piatto di minestra. E sarebbe che non è mica la solita minestra secca. Nossignore: questo qui è proprio un bel piatto di minestra fatto come si deve, con anche i pezzettini di gallina bollita dentro. Proprio quello che ci vuole quando si è malati, sissignore! Un bel piatto di minestra con tutti i crismi, bello caldo e saporito.”  Impossibile stabilire se stesse parlando a Stephen o se si fosse convinto che il tenente Pullings, dal profondo del suo torpore febbrile, potesse in qualche modo sentirlo. I suoi occhi però non abbandonarono mai il volto bendato dell’ufficiale e, nella penombra della stanzetta, le sue rughe parvero accentuarsi. 
Quali che fossero le sue speranze, tuttavia, fu un medico di bordo particolarmente spazientito a rispondergli: “Sono sicuro che il tenente Pullings sarebbe grato di tanta premura. Adesso fare dietrofront e levare gli ormeggi, se non è di troppo disturbo.”
“’gnorsì.” Brontolò il famiglio, ed uscì dalla cabina camminando all’indietro come un gambero.


Ai sei colpi della guardia del pomeriggio[3] la febbre di Pullings era salita a 103°[4] e Preservato Killick indisse una riunione straordinaria sulla coffa di maestra, ritrovo abituale suo e dell’amico Barrett Bonden. Entrambi erano compagni di navigazione dell’ufficiale ferito da lungo tempo ed entrambi avevano sufficiente esperienza di ferite per rendersi conto di quanto la situazione fosse grave.

Rimasero per tanto qualche minuto a fissarsi in silenzio fino a quando il famiglio si decise a sbottare: “Certo che non ha proprio un bell’aspetto!”
“E’ una brutta ferita.” Convenne Bonden, sopprimendo un brivido forse per la prima volta in vita sua.
“Bah, quella nemmeno l’ho vista.” Brontolò Killick “E’ solo che se ne sta lì, immobile, bianco come uno stoccafisso e tutto sudato. Ha la faccia tutta coperta dalle fasce, con qualche spruzzo di sangue qui e là. Se non sapevo che era lui non l’avrei manco riconosciuto!”
Il timoniere annuì comprensivo, poi un pensiero gli attraversò la mente, troppo pressante per non darvi ascolto: “Ma, dimmi: come sta? Soffre molto?”
“Per ora non si lamenta. E’ solo fermo lì, a sudare e ansimare come una balena spiaggiata. Non si muove e non parla. A vederlo così, uno potrebbe anche dire che…” s’interruppe bruscamente per battere le nocche sul legno della coffa, subito imitato dal timoniere “Beh. Hai capito, no?”
“Sì. Ma c’è il dottore con lui, no? Vedrai che quello lo rimette a nuovo.”
“Ah! Se è per quello il dottore gli sta appiccicato come una cozza, giorno e notte. Non lo perde d’occhio un attimo, non lo perde! Però anche lui dice che la situazione è brutta come la fame e che peggiorerà ancora.”

Se anche i due avessero avuto altro da dirsi non poterono farlo perché la voce poderosa del capitano li raggiunse dal cassero anche nel loro ventoso rifugio: “Killick! Un bricco di caffè per il dottore! Muoversi: dev’essere pronto prima di subito!”
 


Erano appena scoccati i due colpi della prima comandata quando Jack scivolò silenziosamente nel quadrato deserto per accostarsi alla porta della cabina di Pullings.
Stava per bussare quando dalla stanza provenne il rumore inconfondibile di un conato, subito seguito dal  brusio di Stephen. Il suo udito non era abbastanza fine da permettergli di capire cosa dicesse ma intuì che stesse cercando di tranquillizzare il suo paziente. Le sue parole furono interrotte dal suono di altri e più violenti conati e Aubrey si ritrasse dalla cabina con il cuore pesante: sapeva che Tom non avrebbe sopportato di essere visto in quello stato, non da lui almeno.
Questo, e la distanza tra i loro due gradi gli impedivano di stargli vicino come avrebbe voluto.
Se però era carente di Fede verso l’Eterno, non lo era in fiducia nelle abilità di Stephen e fu particolarmente grato in quel momento di averlo a bordo. Poteva lasciare il suo comandante in seconda nelle sue mani di medico con la stessa serenità con cui gli avrebbe affidato la propria vita.
Nell’uscire dal vuoto antro del quadrato gli sovvenne di avere in Pullings la stessa fiducia cieca che aveva in Stephen, sebbene in ambiti del tutto diversi. Gli fece male, quel pensiero, e di nuovo tornò ad incupirsi pensando alle gravi condizioni in cui versava il tenente.

Con fatica si trascinò nella sua cabina mentre le ferite del giorno precedente si facevano sentire nella buia umidità della notte, e si gettò sulla branda in camicia, dopo aver sparso vestiti ovunque.
Era destino però che quella dovesse essere una delle pochissime notti della sua vita in cui non gli riuscisse di prendere sonno perché, proprio nel momento in cui posò il capo sul cuscino, alle sue orecchie giunse un gemito che non aveva nulla a che fare con i consueti cigolii della nave.
L’esperienza gli permise di riconoscere il lamento di un uomo sofferente e gli si strinse il cuore nel petto pensando a Tom Pullings che languiva nella sua branda poche braccia sotto di lui.

Mai come in quelle occasioni gli capitava di sentirsi inutile e fuori luogo: se non aveva avuto problemi a proteggere il corpo del tenente sul ponte insanguinato della Torgud ora non era in grado nemmeno di offrirgli una parola di conforto o una stretta di mano per dargli almeno un poco di sollievo durante quel calvario. Quella mattina si era sentito fuori luogo ed impotente, come non gli capitava dalla nascita delle bambine.
Immobile accanto al tavolo operatorio non aveva potuto far nulla per alleviare il dolore atroce del suo secondo e anche in quel momento cosa avrebbe potuto dirgli? Cos’avrebbe potuto fare per aiutarlo?
Bastava Stephen a reggergli la fronte e sicuramente lui aveva già tutto quello che poteva servirgli.

Dopo quasi due ore trascorse a rimuginare riuscì finalmente ad addormentarsi ma il suo sonno venne tormentato da visoni di corpi straziati da orrende ferite, alcuni immobili e pesanti tra le sue braccia, altri tormentati e agitati nelle loro brande, alcuni piccoli quasi come bambini, altri alti e magrissimi. Non riconobbe in loro i suoi compagni di navigazione. Prima Dillon, poi Stephen ed infine Pullings.
Quegli incubi lo accompagnarono fino al mattino, quasi fosse anche lui in preda ad un delirio febbrile.
 


Qualche braccio sotto la branda di Jack, nemmeno Stephen e Pullings stavano trascorrendo una nottata tranquilla. Confinato nella sua branda sospesa, il tenente ansimava e tremava come una foglia. Il dolore alla testa gli impediva di muoverla sul cuscino ma le sue mani pallide vagavano senza sosta sulle coperte, come in cerca di un appiglio introvabile, e le sue gambe si agitavano sotto le coltri.
Quando la campana aveva chiamato sul ponte la prima comandata aveva pensato di dover essere di guardia e aveva tentato di alzarsi. Stephen aveva temuto seriamente di doverlo legare ma il dolore si era rivelato un deterrente sufficiente a farlo ricadere stremato sui cuscini. Non riusciva nemmeno a stare seduto.
La febbre gli si era alzata ancora e, quando il medico estrasse il termometro dalle sue labbra esangui vi lesse un orrendo 104°[5].
Provvide a somministrare subito un cucchiaio di corteccia di china e a posargli degli impacchi freddi sul collo e sul petto, ma nemmeno quelli gli diedero sollievo.

La temperatura alta aveva esacerbato il dolore e la nausea causate dall’orribile ferita, ma il gusto amaro della medicina fu il colpo di grazia. Stephen ringraziò la Provvidenza per avergli suscitato il pensiero di stendere un asciugamano sul cuscino del suo paziente quando questi fu travolto dal primo conato e, troppo debole per sporgersi dalla branda, voltò la testa di lato. Sebbene la differenza di peso tra i due fosse notevole, il medico riuscì a metterlo seduto e a porgli un catino in grembo.
Nel reggergli la fronte mentre sussultava per effetto dei conati, Maturin alzò gli occhi al cielo: ‘Santa Vergine!’ pensò in un parossismo di preoccupazione ‘Fate che non gli si strappino i punti, non sopporterebbe un altro intervento.’
Se per intercessione della Vergine o per la terrena abilità del chirurgo sarebbe stato impossibile stabilirlo, ma i punti ressero a quella prova estrema e pochi minuti dopo Stephen poté riadagiare il capo bendato del suo paziente sul cuscino. Gli somministrò due cucchiai d’acqua ed un terzo di china, raccomandandogli di cercare di tenerli giù il più possibile.

Vedendo quanto la febbre lo faceva soffrire, si risolse infine a sciogliere il bendaggio.
La ferita aveva spurgato ancora e le garze che componevano l’ultimo strato dell’accurata medicazione erano incollate alle suture. Stephen adoperò tutta la delicatezza in suo possesso per rimuoverle ma l’operazione causò comunque molta sofferenza al suo paziente, che emise un lamento straziante.
“Va tutto bene, Tom.” Gli sussurrò il medico, scostandogli piano i capelli dal viso “So che fa male ma adesso vi darò qualcosa che vi farà stare meglio.”
L’unica risposta che ricevette fu un altro gemito inarticolato, ma non c’era da sorprendersi: Pullings stava bruciando di febbre.

Stephen prese delle garze pulite e le imbevve di spirito di vino, per poi posarle con cautela sulla ferita e tamponarne i labbri con grande cura.
 Poco a poco, i lineamenti contratti del tenente si distesero grazie alla sensazione di fresco apportata dall’alcool ed emise un sospiro di sollievo: “Dottore, siete un angelo!” un ansito appena udibile. Con la mandibola malridotta e bloccata dalle bende le sue parole erano a malapena comprensibili anche per l’orecchio allenato del dottore, che però si sforzava di interpretarle.
Un angolo della bocca di Maturin dunque si sollevò appena quando comprese il senso di quella esclamazione: “Vi sentite meglio?”
“Fa ancora male ma… meno.” Tese la mano nella sua direzione approssimativa “Non andate… per favore.”
“Shh. Sono qui.” Gli prese la mano e se la strinse al petto “Cercate di riposare, ora: siete esausto e avete bisogno di dormire.”
Il tenente contrasse le dita sulla mano di Stephen e si abbandonò sul cuscino con un sospiro.
Senza lasciargli la mano, il medico si chinò su di lui per scostargli di nuovo i capelli dal volto: “Sono qui.” Ripeté “Non vi lascio, state tranquillo.”
E tenne fede alla sua promessa.

La prima comandata fece il suo corso e venne seguita dalla seconda, ma medico di bordo della Surprise non si mosse dalla sua sedia al capezzale del comandante in seconda. Teneva una mano avvolta intorno a quella del giovane, tastandogli costantemente il polso con due dita. Con l’altra faceva scorrere in silenzio i grani di un rosario, affidando il suo paziente alla Grazia divina.
Quando, con il passare delle ore, battito e respiro acquisirono la regolarità di un sonno profondo parve evidente che il ferito avrebbe superato la notte. Solo allora Stephen si abbandonò sulla sedia, sprofondando in un sonno senza sogni dettato dallo sfinimento.

Note:
[1] 38,9° Celsius
[2] Le 14:00
[3] Le 15:00
[4] 39,4°C
[5] 40°C

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Disclaimer: i personaggi appartengono agli aventi diritto.

Nota dell'autrice: se c'è ancora qualcuno disposto a veleggiare in queste acque, non sono scomparsa e non ho dimenticato questa storia.
Purtroppo, ho dovuto lasciarla da parte per mancanza di tempo, ma intanto ho del materiale nuovo da inserire.
Vi ringrazio per la pazienza. 


Buona Lettura ^^

Quella mattina Jack si alzò anche più anchilosato del suo solito ed ebbe la pessima idea di stirarsi le membra appena sceso dalla branda.
Il movimento gli fece stirare le ferite ancora in via di guarigione, che gli provocarono delle fitte atroci. Decise che per quel giorno avrebbe rinunciato alla sua nuotata mattutina.
Forse già prevedendo il suo stato d’animo, Killick aveva già imbandito la tavola per la colazione e aveva avuto la cura d’imbastire i suoi piatti preferiti: pane tostato, marmellata, aringhe grigliate, uova e pancetta croccante, con l’immancabile brocca di caffè ancora fumante.
Avere tutto quel ben di Dio a sua disposizione ebbe tuttavia l’effetto di aumentare la sua malinconia. Perché oltre alla distesa di piatti, ciotole e tazze, vedeva le sedie vuote che in un’altra mattina qualsiasi avrebbero potuto essere occupate dal dottore e da Pullings.
Si sforzò comunque di mangiare qualcosa e ben presto ritrovò l’appetito.

Finito di mangiare scese in quadrato e bussò con discrezione alla porta di Pullings.
Quando nessuno gli rispose mise dentro la testa e non si sorprese di trovare Stephen accasciato sulla sedia che dormiva con il capo a penzoloni, la barba non fatta e il viso tirato di chi era rimasto alzato tutta notte. Tom invece sembrava riposare tranquillo nella sua branda. Poiché il suo viso era quasi del tutto nascosto dalle bende, risultava difficile stabilire le sue condizioni ma dal secchio posato sotto la branda proveniva un vago sentore di vomito che fece rivoltare lo stomaco ad Aubrey, per le sue implicazioni più che per il contenuto in quanto tale.
Jack pertanto si limitò a dare una energica scrollata alla spalla del dottor Maturin, fino a farlo ritornare sulla sua.
Svegliato di soprassalto, Stephen sobbalzò sulla sedia ed emise un gridolino. Jack riuscì a zittirlo premendogli una mano sulle labbra e lo sospinse con dolce fermezza verso la porta, sbarrandogli la strada verso la branda con la sua mole.

Maturin sapeva che quella sarebbe stata una battaglia persa in partenza e si limitò a domandare: “C’è bisogno di te sul ponte, fratello?”
“No, almeno per ora no. Mowett ha tutto sotto controllo.”
“Bene. Allora fammi una carità, vuoi?”
“Certamente. Sono tutt’orecchi.”
“Resta qui con Tom mentre vado a fare il mio giro di visite, te la senti?”
“Ma certo, fratello. Lo faccio ben volentieri.”
“Te ne sono grato con tutto il cuore, anche da parte di Tom. Gli farà piacere vederti, se si sveglia mentre sei ancora qui.”
“Notte difficile?”
“Terribile. Tra la febbre e il dolore non ha avuto un attimo di pace, poveretto. Per questo, mi raccomando, non devi assolutamente affaticarlo se dovesse svegliarsi. Hai capito? Bene. Povero ragazzo, non un attimo di pace… Ma via! E’ ora che io vada. Di nuovo, grazie infinite mio caro.”
“Passa dalla cabina grande, se hai un momento. Killick ti darà l’occorrente per renderti presentabile e ti ho lasciato in caldo un bricco di caffè.”
“Ti ringrazio, fratello. Davvero sei una gioia per questo povero medico esausto.”
“Sì, sì. Ma adesso va’ che ti si fredda.”
Stephen si chiuse con delicatezza la porta alle spalle e lentamente Jack compì il passo che lo separava dalla branda di Pullings.

Quel poco del suo volto che poteva vedere era pallido e contratto dalla sofferenza, e il dottore gli aveva raccolto le mani, giungendogliele sul petto. Al capitano ricordò vagamente la decorazione di una lapide. Solo i movimenti erratici del suo magro torace mostravano che fosse ancora tra i vivi.
Vincendo la propria esitazione, Jack si chinò sul ferito e gli coprì le mani con le proprie: erano gelate. Gliele strofinò piano per scaldarle ma anche quella piccola attenzione fu sufficiente per svegliarlo.
Tom socchiuse l’occhio sano e sbatté appena le palpebre, ma il suo sguardo era annebbiato e confuso.
Aprì le labbra per mormorare qualcosa che Jack comprese solo per aver letto il labiale: “Chi c’è?”
Memore delle parole accorate di Stephen, Aubrey rispose scandendo bene le parole ma con il tono sommesso che considerava adatto alla stanza di un malato: “Sono io, Tom. Va tutto bene, non vi agitate.”
‘Povero ragazzo’ si trovò invece a pensare ‘Tanta fatica per la speranza di essere promosso e adesso è in fin di vita. Ah! Se non me lo fanno comandante questa volta! Perdio, con quello che sta soffrendo direi che se l’è guadagnata la promozione.’ Niente di tutto questo però venne alla luce e si limitò a chiedere: “C’è qualcosa che posso fare per voi, Tom?”
Ancora una volta dovette leggergli le labbra per capire: “Acqua…”
“Ma certo. Ma certo. Eccola. Mi raccomando, fate piano. Piano. Ecco. Così. Bravo.” Per aiutarlo a bere gli raccolse la nuca con una mano e gli inclinò appena la testa facendo attenzione a non farlo soffocare.
Quando Pullings gli sfiorò il braccio con una mano, come per allontanarlo, capì che ne aveva avuta a sufficienza e lo riadagiò sul guanciale.
“C’è altro che possa fare per voi?”
“Come?”
“No, dico, vi serve altro?” L’ansia che aveva accompagnato Jack fin dai primi momenti si sciolse come neve al sole e la sua mente innocente interpretò come positivo il fatto che, bene o male, Pullings gli stesse rispondendo, lasciando in secondo piano il fatto che le sue risposte fossero a malapena comprensibili.
Per tanto volle cogliere l’occasione per fare dello spirito, sperando di risollevare il morale del ferito: “Non avrete mica bisogno… di usare il vaso, vero?”
Se fosse stato lucido, e avesse avuto in corpo sangue a sufficienza, Tom sarebbe arrossito ed avrebbe balbettato qualcosa ma in quello stato non poté far altro che sbattere lentamente le palpebre.
Disgraziatamente Aubrey lo interpretò come un segno d’imbarazzo e scoppiò a ridere di tutto cuore, come sempre quando trovava uno dei suoi motti di spirito particolarmente divertente, del tutto incurante del fatto che spesso facessero ridere solo lui.

Le sue risa attirarono le ire del dottor Maturin come le mosche sul miele e non passò molto tempo prima che piombasse nella cabina, adirato come un’Erinni e quasi altrettanto scarmigliato: “Jack! Vergogna e disonore! Dovevo immaginare che avresti combinato un pasticcio.”
“Beh, Stephen, tu mi hai detto di non affaticarlo ed è quel che ho fatto. O, meglio, che non ho fatto. L’hai capita?” E di nuovo giù a ridere.
“Al diavolo la tua animaccia! Con quella tua finezza da pachiderma stai disturbando il mio paziente. I tuoi muggiti si sentivano fino al… al… al maschione di prua, ecco!”
“Il maschione! Il maschione di prua! Perdio, Stephen, questa è proprio bella!”
L’errore nel nominare il mascone costò caro a Stephen perché sfondò la paratia già lesa dalla parola “pachiderma”, di cui Jack non conosceva appieno il significato ma che suscitava sempre in lui grande ilarità. Riconobbe però le ragioni dell’amico e, sospinto dalle sue imprecazioni, si avviò verso la porta.
Se la chiuse alle spalle con un sorriso: era convinto che le cose stessero finalmente volgendo al meglio.

Malgrado le speranze di Jack, le cose non stavano volgendo al meglio proprio per niente.
Nel corso della sua breve visita la febbre di Pullings era rimasta stabile sui 102° ma nel giro di un’ora si era già alzata a 103° .

Venne poi il fatidico momento di cambiare le medicazioni.
Le bende vennero via abbastanza facilmente ma durante la notte l’essudato delle ferite era di nuovo trapelato nelle garze, incollandole alle suture. Dal colore Stephen lo riconobbe come lodevole pus e tirò un sospiro di sollievo momentaneo. Sapeva tuttavia che non sarebbe stato semplice toglierle, e lo sapeva anche il suo paziente, che in quel momento si stava aggrappando con tutte le sue misere forze alla coperta e tremava come una foglia.
Nel tentativo di rassicurarlo Stephen prese ad accarezzargli i capelli, consigliandogli di respirare a fondo e lentamente, rassicurandolo sul fatto che il dolore sarebbe passato presto.
Quando gli parve ragionevolmente tranquillo iniziò a staccare le prime garze. Adoperò la massima delicatezza possibile per non rovinare le suture ma questa volta tutta la buona volontà di Pullings non bastò ad impedirgli di gridare per il male che gli stava procurando.
Le sue urla si propagarono fino al cassero, facendo gelare il sangue a chiunque le sentisse.
La ferita sul costato era altrettanto infiammata e fu necessario anche in quel caso asportare con cautela la medicazione. Dopo aver terso i labbri delle ferite con aceto e spirito di vino il dottor Maturin mandò a chiamare il suo assistente perché lo aiutasse con le spugnature ed il cambio di posizione, che andava effettuato diverse volte al giorno onde evitare la formazione di piaghe o altre lesioni da decubito.
Al termine di tutti quei movimenti Pullings era pallido come un cencio e del tutto sfinito.
Quando lo avvolsero nelle coperte pulite si abbandonò al sonno con un brivido, aveva persino pianto per quanto forte era il dolore che sentiva.
Stephen congedò l’assistente e prima di rinnovare le medicazioni sulla testa del ferito gli deterse il viso con una pezzuola umida. Badò che fosse ben coperto e quanto più comodo possibile prima di ritornare alla sua veglia silenziosa.

Stephen aveva requisito uno dei manuali ordinatamente riposti su uno scaffale da Tom Pullings e aveva perso il senso del tempo oramai da qualche ora quando un bussare leggero lo distrasse dalla sua lettura.
“Avanti!” rispose d’istinto, senza neppure alzare gli occhi dal libro.
Gli fece eco l’inaspettata voce di William Mowett: “Buongiorno, dottore. Il pranzo è in tavola, se volete accomodarvi. Ho portato anche il brodo per Tom… per il signor Pullings, cioè.”
“Vi ringrazio, William. Datelo pure a me.”
“Andate a pranzo, Dottore.” Il tenente si concesse un sorriso tirato “Ordini del capitano.”
“Oh! Beh, in tal caso...” Si alzò dalla sedia stirandosi le membra e depose il volume sulla cassa da marinaio di Pullings, poi piantò i suoi occhi grigi in quelli di Mowett “Abbiate cura di lui, mi raccomando. E non esitate a chiamarmi se doveste aver bisogno di qualcosa. Ordini del capitano o no i miei pazienti hanno sempre la precedenza. A tra poco, William.”
“Arrivederci, Dottore.”

Non appena la porta si fu chiusa, sbarrando la strada ai bisbigli del quadrato che salutava il dottor Maturin, Mowett depose il piatto su uno stipo e si chinò sull’amico per svegliarlo.
In quel momento Pullings era stato fatto stendere su un fianco quindi bastò prenderlo per una spalla e scuoterlo leggermente. Subito riprese i sensi con un gemito.
“Scusami, Tom, ti prego scusami. Ma il dottore ha detto che devi mangiare e allora…”
“Chi c’è?” ansimò Pullings, un sussurro a malapena comprensibile e poco articolato che trafisse il cuore dell’amico.
“Non mi riconosci?” più che una domanda suonò come un’affranta constatazione “Sono io. Sono Will.” Sussurrò il tenente, piegandosi ancora di più verso il ferito e mostrandosi alla luce, perché potesse vederlo con l’unico occhio scoperto.
“Will?” Gemette allora Pullings.
“Sì, Tom. Sono io.”
“Will!” le labbra esangui del ferito si distesero in un sorriso, la cui sincerità era solo in parte deturpata dall’orrenda ferita.
“Sì, sono proprio io. No, non cercare di alzarti. Non ti muovere: ti faresti male. Ecco, lascia che ti aiuti io. Così. Piano. Piano.”
Con pochi e ridotti movimenti Pullings si ritrovò disteso con un cuscino sotto le scapole e uno dietro la nuca, perché lo sorreggessero mentre Mowett cercava d’imboccarlo.
Nausea e dolore erano ancora molto forti nonostante le assidue cure del dottor Maturin e un senso di malessere generale, abbinato a forti brividi, lo informavano che la febbre era salita ancora.
Dopo aver ingerito pochi cucchiai di brodo scosse lentamente il capo, indicando di non poterne assumere altro.

Subito Mowett si allarmò: “Cosa succede? Non ti senti bene?”
“Febbre…” riuscì ad articolare Pullings, con voce roca e flebile.
Il tenente gli pose le nocche su una tempia per saggiarne il calore ma le ritrasse quasi subito: “Mio Dio! Come scotti!”
Un brivido violento sopraffece il ferito, che si accasciò sui guanciali con un lamento: non sopportava più tutto quel dolore, e non poter articolare le parole gli causava una frustrazione quasi peggiore.
Per fortuna, il suo amico era disposto a tutto fuorché abbandonarsi alla disperazione, anche se in cuor suo sapeva di non poter fare nulla per alleviare la sua sofferenza.
Mowett prese a sfiorare con delicatezza una guancia dell’amico, rasata dal dottore quella mattina per impedire ai peli di infettare la ferita, e gli parlò piano: “Non arrenderti, amico mio, tieni duro. Lo so che fa male, lo so che è difficile ma non sei da solo. Sono qui, mi senti? Sono qui.”
“Will…”
“Shh, non parlare. Va tutto bene, va tutto bene. Riposa, Tom, dormi tranquillo. Guarirai presto, te lo prometto.”

Continuò a carezzare il viso ed i capelli dell’amico finché non fu certo che si fosse addormentato, solo allora permise alle proprie spalle di crollare sotto il peso della preoccupazione.

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